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RIVISTA
DI FILOLOGIA
D' ISTRUZIONE^ CLASSICA
NUOVA SERIE
DIRETTA DA
DOMENICO COMPARETTI - FELICE RAMORINO
GIROLAMO VITELLI
Volume I. (XXIII della Serie intera).
V
1895
ERMANNO LOESCHER
TORINO
Corso Vitt. Bm., 16
ROMA
Yia del Coreo, 307
Torino — Vincenzo Bona, Tip. di S. M. e RR. Principi.
PA
K55
V.Q.3
INDICE GENERALE
DELLE MATERIE CONTENUTE NEL VOLUME L
(XXIII della Serie intera).
1. Enciclopedia Filologica e Filologia classica.
C. 0. ZuRETTi, Studi italiani di Filologia classica . pag. 242
A proposito del « ManualegStorico Bibliografico di Filo-
logia classica » di L. Valmaggi — Lettera aperta di
F. KamorinoJ all' Autore » 365
Necrologia di Giuseppe Miiller .... » 445
2. Filologia Greca.
a) Monografìe e Appunti critici.
Lionello Levi, Sui frammenti del « Eomanzo di Nino »
recentemente scoperti » 1
L. A. Michelangeli, Il canto Simonideo commentato nel
« Protagora » » 152
G. Vitelli, Eurip. Andromach., 194 sq. . . . » 181
Sophocl. Antig., 41-43 » 331
Gennaro Bruschi, Il Partenio di Alcmano . . » 504
b) Recensioni.
G. Vitelli, Arthuri Ludwich De codicibus Batrachoma-
chiae dissertatio » 247
— — Scholia in Aeschyli Persas recensuit, apparatu cri-
tico instruxit, cum praefatione de archetypo codicum
Aeschyli scripta edidit Oscarus Daehnhardt . » 247
Sophokles erklart von F. W. Schneidewin. Elektra » 253
e. 0. ZuKETTi, Gli Uccelli d'Aristofane tradotti in versi
italiani da Augusto Franchetti con introduzione e
note di Domenico Comi^aretti .... pay. 254
Aristotelis I^olitica. Tertium edidit Franclscus Su-
SEMIHL " 258
Achille Cosattini, Georg Kaibel, Stil und Text der 'AGti-
valujv TToXiTeia » 258
G. Vitelli, Claudii Galeni Protreptici quae supersunt
edidit Georgius Kaibei » 263
DoMiNicus Bassi, De Pediasimi libello Tiepì tlùv òujòeKa
àeXujv ToO 'HpaKXéouq qui legitur in codice Valli-
cellano C 46 » 361
G. Vitelli, Ausgewahlte Tragodien des Euripidea Zweites
Bdndchen. Iphigenie auf Tauris erklart von F. G.
ScuOne und H. KocHLy(Neue Bearbeit. von E. Bruhn) » 372
Lionello Levi, Hyperidis orationes sex eum ceterarum
fragraentis edidit Fridericus Blass ...» 387
Achille Cosattini, Philodemi volumina rhetorica, ed. Sieg-
fried Sudhaus * 394
G. Loria, lamblichi in Nicomachi Arithmeticam intro-
ductionem liber. Ad fìdem codicis Fiorentini edidit
Hermenegildus Pistelli » 398
G. Vitelli, La Guerra Gotica di Procopio di Cesarea,
testo greco emendato sui manoscritti con traduzione
italiana, a cura di Domenico Comparetti . » 401
3. Filologia Latina,
a) 'Monografie e Appunti critici.
Getulio Moroncini, Sull'autenticità delle Favole di Fedro » 23
Carlo Giussani, « Clinamen » e « Voluntas » . » 93
Eleuterio Menozzi, Sui frammenti della « Erotopaegnia »
di Laevius » 182
Cesare Cristofolini, Nota critico-ermeneutica ad Orazio
(Carmi, IV, 2) » 197
NiccoLA Festa, A proposito della nuova edizione delle
Epistole di Cicerone . . . * . 133 e 199
Alfredo Manetti, Appunti intorno a Coraelio Nepote » 341
F. Ramorino, Cic. prò Mil. 33 ... . pag. 349
Pietro Rasi, Di una data nel « Chronicon Eusebi » di
S. Girolamo » 350
Alfredo Manetti, Hengevinius .... » 360
F. Ramorino, Cicerone, De imp. Cn. Pompei, § 18 » 364
b) Becensioni.
Luigi Valmaggi, Acta Martyris Anastasii Persae ab Her-
MANNO Usenero edita » 266
— — L. Jeep, Zur Geschichte der Lehre von der Rede-
theilen bei den Lateinischen Grammatikern . » 267
— — P. Rasi, De elegiae Latinae compositione et forma » 269
Arturo Pasdera, Titi Livi, Ab Urbe condita liber XXTl,
con note italiane del prof. G. Graziami . . » 271
Augusto Corradi, I. Ausgewàhlte Briefe des jiingeren Pli-
nius. Fiir den Schulgebrauch erklàrt von Anton
Kreuser. — IL Die Briefsammhmg des jiingeren
Plinius als Schullekttire. Von D'' Anton Kreuser » 273
NiccoLA Festa, Beitràge zur Ciris von D^ Carl Gangen-
MULLER » 286
F. R., B. Maurenbrecher, Carminum Saliarium reliqulae
Commentatio ex Supplemento uno et vicesimo anna-
lium philologicorum seorsum expressa . . » 409
F. Ramorino, C. lulii Caesaris Commentarli cum A. Hirtii
aliorumque Supplementis ex recensione Bernardi Ku-
bleri. Voi. I: Comm. de bello Gallico. — Id. Id.
Voi. II: Comm. de Bello civili. — C. lulii Caesaris
Belli Gallici libri VII A. Hirtii liber Vili. Recen-
suit apparatu critico instruxit Henricus Meusel. —
Caesar. Beitràge zur Kritik des B. G. von H. Meusel » 412
F. R., Anthologia latina, sive Poèsis Latinae Supple-
mentum ediderunt Frano. Buegheler et Alex. Riese,
Pars Prior: Carmina in codicibus scripta, ree. A.
Riese. Fasciculus I: Libri Salmasiani aliorumque
Carmina, editio altera denuo recognita. — Id. Id.
Pars Posterior : Carmina Epigrapbica conlegit Fé. Bù-
CHELER. Fasciculus 1 » 418
Pietro Rasi, Salomone Piazza, Horatiana. Quibus tem-
poribus Horatium tres priores carminum libros et
priorem epistularum confecisse atque edidisse verisi-
minimum sit pa/j. 421
Niccola Festa, Qua ratione traditum sit M. Tullium Ci-
ceronem Lucretii Carrainis Eraondatorem fuisse, dis-
putavit Georgius Castellani .... » 425
Carlo Giussani, T. Lucreti Cari, De lierum Natura libri
VI. Edidit Adolphus Brieoer .... » 427
Pietro Rasi, Isipor Hilberg, Die Gesetze der Wortstel-
lung in Pentameter des Ovid .... » 563
L. S. FiGHiERA, C. Sallusti Crispi, De coniuratione'Cati-
linae et 'De Bello lugurthino' libri, ex Historiarum
libris quinque deperditis orationes et epistulae. Er-
kliirt von Rudolf ^Jacobs .... » 574
4. Storia Antica.
a) Monografìe.
Vincenzo Costanzi, Contributo alla questione Licurgea » 167
Vittorio Pittaluga, La battaglia del Metauro . » 288
Gaetano De Sanctis, Agatocle .... » 289
Ettore Ciccotti , Nota cronologica sulla questura di
C. Verre » 332
b) Recensioni.
Vincenzo Costanzi, Julius Beloch, Griechische Geschichte » 232
5. Mitologia classica.
Domenico Bassi, Apollo MoipaTéiTiq ...» 145
6. Metrica - Lessicografia.
Domenico Bassi, Luciani Muelleri, De re metrica poétarum
latinorum praeter Plautum et Terentium libri septem.
Accedunt ejusdem auctoris opuscula IV . . » 229
Adolfo Cinquini, Zur Griechischen und Lateinischen Lexico-
graphie aus Jùdischen Quellen von Samuel Kraus pag. 280
7. Paleografia.
Adolfo Cinquini, Handbook of Greek and Latin Palaeo-
graphy by E. M. Thompson .... » 284
8. Epigrafia.
Domenico Bassi, I. I nuovi frammenti d'epigrafi greche
relative ai ludi augustali di Napoli . . » 229
9. Glottologia italica^
a) Monografie.
Elia Lattes, I giudizi dello Stolz e del Thurneysen contro
l'italianità dell'etrusco in relazione colle fasce della
Mummia, colla pietra di Lenno e specialmente coi
novissimi fittili di Narce » 429
b) Recensioni.
Elia Lattes, F. Cordenons, Un po' più di luce sulle ori-
gini, idioma e sistema di scrittura degli Euganei-
Veneti » 227
ELEisroo
DEI COLLABORATORI NEL 1894-95.
Sig. Prof. Domenico Bassi del R. Liceo di Milano.
» » Gennaro Bruschi di Napoli.
» » Ettore Ciccotti della R. Accademia Scientifico-Lette-
raria di Milano.
» >• Adolfo Cinquini del R. Liceo Dante in Firenze.
» " Augusto Corradi, preside del R. Liceo di Correggio.
» » Achille Cosattini.
» » Vincenzo Costanzi del R. Liceo di Trani.
» » Cesare Cristofolini di Trieste.
» » NiccoLA Festa del R. Istituto di Studi Superiori in
Firenze.
» Dott. L. S. Fighiera, già alunno di perfezionamento presso
il R. Istituto di Studi Superiori in Firenze.
» Prof. Carlo Giussani della R. Accademia Scientifico-Lette-
raria di Milano.
» » Elia Lattes di Milano.
» » Lionello Levi.
» » Achille Loria della R. Università di Genova.
» Dott. Alfredo Manetti, già alunno di perfezionamento presso
il R. Istituto di Studi Superiori, Firenze.
» Prof. Eleuterio Menozzi.
» Dott. L. A. Michelangeli, libero docente nella R. Università
di Bologna.
» » Getulio Moroncini.
Sig. Prof. Arturo Pasdera del R. Ginnasio di Bari.
» » Vittorio Pittaluga.
» » Felice Ramorino del R. Istituto di Studi Superiori in
Firenze.
» » Pietro Rasi della R. Università di Pavia.
» » Luigi Valmaggi del R. Ginnasio Umberto I in Torino.
» » Girolamo Vitelli del R. Istituto di Studi Superiori in
Firenze.
» » C. 0. Zuretti del R. Liceo Cavour di Torino.
SUI FRAMMENTI DEL « ROMANZO DI NINO »
RECENTEMENTE SCOPERTI
Invitato dal prof. PiccolomÌDÌ a portare il mio contributo agli
studi fatti da lui stesso e da altri egregi sul papiro 6926 del
Museo di Berlino (1), ho accettato volentieri, tanto più che la
dimora in questa città mi dava occasione di vedere e d'esaminare
coi miei occhi l'originale.
I. — Prima di tutto ho cercato se fosse possibile stabilire
un qualche rapporto fra i due frammenti di cui consiste il pa-
piro, 0 se si dovesse considerarli come contenenti due episodi stac-
cati e lontani del romanzo, rinunziando a collegarli in alcun
modo fra di loro.
Dico subito che quest'ultima ipotesi mi sembra essere molto
meno probabile. In primo luogo il fatto stesso che i due fram-
menti si sono ritrovati insieme fa supporre piuttosto che essi oc-
(1) Primo a dare notizia del papiro e a pubblicarne la parte letteraria
fu il Wilcken {Ein neuer griecìiiscJier Roman in Hermes XXVIII, 161),
che riempì egli stesso molte lacune e riportò anche alcune congetture del
Kaibel. Dopo di questi il Piccolomini pubblicò due articoli sul romanzo : in
uno {Supplementi ed osservazioni ai framm,enti del Romanzo di Nino,
nota inserita nei Rendiconti della R. Acca lem ia dei Lincei, seduta del
21 maggio 1893) propone un gran numero di supplementi, la maggior parte
suoi, alcuni suggeritigli dal Diels; nell'altro (Siti frammenti del Romanzo
di Nino e della Hekale di Callimaco, Nuova Antologia, 1° agosto 1893)
dopo una breve descrizione del papiro, di\ un'esauriente relazione del con-
tenuto di esso.
Rivista di filologia, ecc., 1. 1
— 2 —
cupassero nel papiro intero due luoghi non molto discosti uno
dall'altro. Inoltre la semplicità della tela del racconto, che appare
dai due frammenti, e il pìccolo numero dei personaggi, che sono
quattro nel frammento A (1), tre e precisamente gli stessi meno
uno nel framm. B (2), c'induce a credere che quello che ci sta
innanzi non rappresenti le scarse reliquie d'una narrazione lunga
ed intricata, ma sia un avanzo abbastanza considerevole d'una specie
di novella (3), o, se piace meglio, d'un romanzo brevissimo e di
argomento molto semplice. Ma su ciò ritorneremo in seguito.
Ora prima di esporre quale sia la relazione che ho immaginato
esistere fra i due brani superstiti, credo giovi riportare in suc-
cinto il contenuto di essi, quel tanto almeno a cui non tolgono
certezza le numerose lacune.
Framm. A. — 1 due protagonisti si rivolgono ciascuno alla pro-
pria zia, Nino a Derceia, madre della fanciulla, questa a Tambe,
madre di quello, cercando di ottenere da esse di poter affrettare
le desiate nozze. Nino parla disinvolto e quasi audace e tiene alla
zia un discorsetto in tutte le regole con esordio, argomentazione,
(1) Chiamo i due frammenti A e B, conservando le denominazioni usate
prima dal Wilcken.
(2) Nel framm. A agiscono Nino, la cugina di lui e le due sorelle, Tambe
madre del giovane e Derceia madre della fanciulla; nel framm. B ritro-
viamo i due amanti e una delle due madri, Derceia secondo ogni probabilità.
Appaiono, a dir vero, nello sfondo anche i padri dei due protagonisti : il
padre di Nino è nominato due volte, framm. A, col. II, lin. 11 : èGvuiv f\
òopiKTì'iTUJV f\ TiaTpibLu KpÓTei eeparreuóvTWv jue, e più apertamente fram-
mento B, col. 11, lin. 3: òokoOv hi\ koI tu) Traxpi, al padre della fan-
ciulla pare accenni vagamente Nino colle parole che rivolge alla zia: vOv
òè Tfj(; ù)iieTépa(; Guyarpòc; ktX. (fr. A, col. 11, lin. 27-28). Ma né l'uno né
l'altro hanno direttamente parte nell'azione.
(3) Con la parola novella intendo qui indicare semplicemente un breve
racconto d'argomento inventato e non vi annetto alcun significato accessorio
di prodotto della fantasia popolare. Non entro quindi affatto nella que-
stione se il romanzo greco si debba ritenere derivato dalla novella popolare,
come ritengono alcuni dotti, fra altri il De Gubernatis {Storia generale
della Letteratura, Milano, 1882-87, voi. IX, pag. 35 e segg.), o se l'uno non
abbia nulla a che fare con l'altra, come sostiene con buoni argomenti il
Rohde (Der griechische Roman und seme Yorldufer. pag. 5 e seg.).
- 3-
confutazione e perorazione. Tra le ragioni ch'egli adduce a giu-
stificare la sua fretta, principalissima è la possibilità della morte,
che può sorprendere improvvisa ognuno, ma più facilmente lui
principe e duce, cui attendono viaggi di mare e guerre l'una
dopo l'altra (III, 13 e seg.) (1): Gvr|TÒ(; òè àvfip 0vr|Tf)v fipiuo-
(5Ò.\xx\\i Trapeévov Kai oùòè toT? KOivoiq tgùtoi^ uTreuGuvó»; eìjni
ILióvov, vócTok; XéTt-u Kai Tuxi.l TToXXdKi^ Kaì Toùq èm tx\c, oÌKtia(;
écTTiai; ripeiuoOvTaq àvaipoucTi] • dtWà vauTi\iar)a'éKÒéxovTai
Kai ÈK TToXéjiiuJv TTÓ\e)uoi ktX. Derceia, che non voleva altro
che quello che voleva il nipote, e che avrebbe forse parlato lei
per la prima se il giovane indugiava ancora^ promette di pro-
curare ch'egli sia soddisfatto (IV, 19: auvriYopricreiv ÙTTiaxveTTo).
Con esito non meno felice, benché naturalmente con minore di-
sinvoltura, disimpegna la sua parte la giovinetta: non appena ella
si presenta alla madre dell'amato per farle manifesto il suo de-
siderio, scoppia in lacrime che le impediscono di profferir parola;
ma la buona donna intende ciò che ella non dice e la conforta
a sperar bene, spendendo molte parole in un'apologia non richiesta
né necessaria del proprio figliuolo. Ha luogo quindi fra le due so-
relle un convegno che è evidentemente destinato ad un accordo
sulla questione delle nozze ; ma alle prime parole di Derceia, che
esordisce dicendo a Tambe di doverla intrattenere di gravi cose
(Trepì aTTOuòaiiJUv), il frammento s'interrompe.
Framm. B. — Questo é in uno stato di conservazione molto
piti deplorevole, anzi la prima colonna è lacunosa in modo che
poco di certo può dirsi del contenuto. Vi ritroviamo tre dei per-
sonaggi noti dal framm. A, ossia i due giovani e una delle due
madri, e li ritroviamo tutti e tre in uno stato di grande agita-
zione ; vediamo poi Nino rivolgere alla fanciulla parole d'incorag-
giamento e di conforto, che, a quanto pare, ottengono il loro ef-
fetto, perchè alla fine della colonna i due giovani ci appaiono
molto più tranquilli. Le due ultime linee di questa colonna man-
cano interamente, il resto del frammento contiene una descrizione
(1) Il numero romano indica la colonna, l'arabico la linea.
— 4 —
abbastanza particolareggiata di un'impresa di Nino contro gli
Armeni.
E qui si presenta naturale la domanda : quale dei due brani
veniva ])rima nel romanzo e quale poi ? Nulla fu stabilito finora
in questo liguardo. Pure a me sembra che esaminando attenta-
mente il contenuto dei due brani si possa trovare un argomento
di grande valore, se anche non decisivo, per la precedenza del
framm. A. Nella spedizione guerresca descritta nel frammento B
Nino ci appare tutt'allro die un novizio dell'arte militare. Spe-
cialmente quando si consideri la sapiente maniera con cui egli
dispone l'esercito, bisogna assolutamente ritenere ch'egli abbia
fatto le prime prove nelle armi in una spedizione antecedente. E
ad anteriori imprese sembra alludere anche Nino stesso colle pa-
role ch'egli rivolge ai soldati (B, III, 82 e seg.): Tò GeiaéXiov
T[a T€ Kpi]ai|aa tujv èjiujv èXTT[iòiJuv xdbe è](JTÌv ktX.(1). Chia-
mando quella giornata campale fondamentale e decisiva per le
sue speranze egli ci fa pensare a fatti d'armi anteriori e di
minore importanza. Secondo me questi sono quegli stessi a cui si
accenna più volte espressamente nel framm. A (II, 8 e seg.:
òieXGibv TÒp ToaauTriv y^v ktX. e V, 17-18: dirò tlùv KaTopGuj-
laaTUJV Kttì TpoTTaiouv èTraveXGujv ktX.). D'altra parte poi nel fram-
mento A Nino parla di guerre che l'attendono una dopo l'altra
(HI, 20 e seg.: vautiXiai ^i' èKbéxoviai Kaì ck TTcXéirnuv nó-
X eia ci) e tutto induce a credere che la prima di queste guerre
fosse quella contro gli Armeni, di cui è descritto il principio
appunto nel framm. B. Eiguardando invece il framm. A come
posteriore al framm. B bisognerebbe supporre, se è vero quello
che io ho argomentato del framm. B, ossia che in esso Nino non
ci appare assolutamente novizio dell'arte strategica, bisognerebbe,
dico, supporre almeno un'altra campagna precedente, in modo che
quella del framm. B fosse almeno la seconda. Si ponga mente ora
all'assurdo che ne risulterebbe. Nel framm. A Nino dice d'essere
nel diciasettesimo anno d'età (lì, 20 e seg.: éTrtaKaibéKaTOv eio^
(1) 1 supplementi sono del Wilcken.
- 5 -
ctTuj) e d'essere uscito di tra i fanciulli da un anno appena (II,
21 e seg.: èveKpiBriv de, àvòpa<; rrpò èviauToO). Egli avrebbe
dunque condotto la campagna del framm. B, in cui ci si mostra
provetto capitano, a non più di sedici anni, e quella anteriore, a
cui, come abbiamo osservato, ci sono accenni non dubbi nello
stesso framm. B, a non più di quindici anni, fanciullo di nome
e di fatto ! (1). E non mi sembra che a far passar buona una
simile incongruenza basti il dire che abbiamo innanzi a noi un
romanzo e non una storia. Tutto certamente si potrebbe spiegare
coll'ammettere una completa mancanza di criterio nel nostro au-
tore, ma questa mancanza di criterio noi non abbiamo il diritto
di presupporla, quando ogni difficoltà si può togliere colla pre-
cedenza del framm. A, a cui nulla è che si opponga.
Ancora: la maniera solenne con cui nel framm. A Nino parla
alla zia, assicurandola della buona condotta da lui serbata du-
rante la sua assenza (II, 1 e seg.: eùopKricra? àqpTYM«0) ci conduce
a ritenere quasi con certezza che il giovane allora per la prima
volta si fosse allontanato dai vigili occhi dei parenti (2), e in tal
caso è di nuovo impossibile che il framm. A fosse preceduto dal
framm. B (3), il quale, come abbiam già detto più volte, pre-
(1) Non mi par possibile supporre che Nino facesse due campagne in un
anno, tanto più che fra una campagna e l'altra lo troviamo sempre in
mezzo ai suoi cari.
(2) Se si bada anche qui all'espressa dichiarazione che Nino fa di essere
stato annoverato fra gli àvhp^c, da un anno soltanto, si troverà naturale
che la sua prima partenza per la guerra coincidesse coll'aminissione nella
classe degli adulti e che perciò quell'anno fosse stato il primo trascorso
lontano da casa.
(3) Se non m'inganno, la precedenza del framm. A è confortata pure da
alcuni vaghi indizi esterni, che si possono trarre dall'esame del lato poste-
riore del papiro. Dall'intestazione del verso del framm. A risulta che in
esso sono state registrate le spese fatte dal 1 Payni del 3° anno di Traiano
sino al 1 Payni del 4°. D'altro canto nel oerso del framm. B è parola del
2» e del 4" anno di Traiano, il che fa supporre che la scrittura di esso dati
dal 4" anno, perchè è più probabile che in un simile registro di spese
nell'anno /* si rimandi al 2° di quello che nel 2" si rimandi al I". Cos'i
il Wilcken (op. cit., pag. 164 e 165). Da ciò, secondo il Wilcken stesso,
non si può trarre alcuna conclusione per la precedenza dell'uno o dell'altro
frammento. Non si può certamente, se attribuiamo la scrittura del verso
— e —
suppone un'anteriore campagna e perciò un'anteriore assenza di
Nino. Ma basta di ciò.
11. — Ecco ora in qual modo io collegllerei i due frammenti
e ricostruirei la scena d'agitazione con cui incomincia il secondo
di essi :
Tambe e Derceia stabiliscono nel convegno di appagare i voti
dei loro figli. Cbe questo dovesse essere il risultato finale del-
l'abboccamento delle due madri non mi par dubbio. Infatti di
Derceia l'autore ci dice che non voleva altro da quello che vo-
leva Nino, e che, se questi indugiava un altro po', avrebbe parlato
lei ]jer la prima, e Tambe non mostra disposizioni men buone
della sorella. S'opponeva, è vero, ai comuni desideri una legge
che voleva che le fanciulle non si maritassero prima dei quindici
anni, mentre la cugina di Nino non ne aveva che quattordici (1),
ma non era una legge scritta questa, era anzi piuttosto, come
dice Nino, un'usanza seguita per lo piti (non sempre dunque)
quasi per tacito accordo (A, II, 3G — A, 111,3: ì^ó^xoc, òè pXdTTrei
|Lie où fefpaixnévoq, aXXa)(; òè e0ei cpXudpuj irXripouiaevoq,
èTieiòfì Tiap' fiiaìv rrevieKaibeKa ibq èTTi tò TrXeTaTov èiuDv
xaiaoOvTai napOévoi), dalla quale si poteva quindi decampare,
del framm. A al principio del quarto anno di Traiano, come fa il Wilcken.
j\Ia, salvo il rispetto dovuto all'opinione dell'illustre professore di Breslavia,
dacché quel registro contiene le spese fatte durante il terzo anno di Tra-
iano, non è più ovvio il supporre che fosse anche scritto nel terzo ? Se-
condo me quella scrittura consiste di note buttate li volta per volta, a mano
a mano che le spese venivano fatte.
(1) Il "Wilcken (op. cit., pag. 178) darebbe alla fanciulla soltanto 13 anni;
ma dalle parole di Nino: TerpoKaibeKa ètùjv KuocpopoOaiv YuvaìKe<; Kai
Tiv€(; vf] Afa Kaì tiktouoiv i^ òè of] GuTÓTrip oòòè "i aiJLY\oeTai (A,
111, 7-10), risulta mi pare in modo non dubbio ch'essa ne aveva 14. È vero
che Nino attribuisce a Derceia il proposito di differir le nozze di due anni
e non d'uno (A, III, 11: Au' èxri 7Tepi|ue(vuj|iev, eìtroi^ ctv), ma questa dila-
zione più lunga di quella imposta dalla legge sarebbe poi stata probabil-
mente resa necessaria dall'assenza del giovine, quando lo si fosse lasciato
partire senza celebrare il matrimonio. Egli sa infatti e dice che non una
ma più campagne l'attendono tina dopo l'altra., ossia senza interruzione (A,
III, 20 e seg.: àXXà vauTiXiai ,u' èKbéxovToi xaì €k TroXé|nujv TTÓXe|uoi).
quando vi fossero gravi ragioni per farlo. E queste ragioni c'erano :
la più potente doveva sembrare il pericolo che Nino soccombesse
in guerra senza lasciare un successore del regno, pericolo che il
giovane principe mette specialmente in vista nel suo colloquio
colla zia (A, III, 31 e seg.: irpoXapéTuj ti Kaì cpBriTuu Kaì tò
)LiovoYevè(; fnuujv àjuqpoTépujv, iva koìv àWuuq fi Tuxil KttKÓv ti
3ou\€ur|Tai Ttepì fi)LiuL)v, KaTa\ei7Tuu)aev ùiuTv èvéx^pa). Ora
siccome d'altra parte il desiderio d'offendere meno la costumanza
del paese consigliava a ritardare le nozze quanto fosse possibile
fare senza esporsi al rischio di più gravi mali, io suppongo che
si stabilisse di celebrare gli sponsali pochi dì innanzi alla par-
tenza di Nino per la guerra, forse il dì stesso precedente alla
partenza. Nel tratto mancante fra i due frammenti, che sarebbe
secondo me di quattro o cinque colonne circa, era compresa pure
la descrizione della cerimonia nuziale. Quando poi dopo una breve
convivenza l'eroe vuole abbandonare di buon mattino la giovane
sposa e partire per il campo, accade quello che doveva accadere:
la sposa atterrita dall'idea dei pericoli a cui si esporrebbe la vita
dell'amato ed anche, e forse più, da quella delle prove alle quali
sarebbe posta la fedeltà di lui in tanti viaggi, in tante gloriose
imprese, non appena egli varca la soglia del talamo nuziale per
uscire, scoppia in pianti e in grida angosciose, A ciò Derceia spa-
ventata dai gemiti della figliuola, accorre per trattenerlo, lo segue
e riesce a farlo tornare. Quasi tutto ciò sarebbe contenuto nelle
linee 1-8 della I col. del fiamm. B, solo le ragioni dei timori
della sposa erano esposte ancora alla fine della parte mancante.
Le linee seguenti fino alla 25 conterrebbero le parole con cui
Nino, turbato e commosso estremamente egli stesso, cerca di con-
fortare la sposa : nulla potendo obbiettare ai timori ch'ella ha
per la vita di lui (egli stesso ha insistito poco innanzi, per af-
frettare le nozze, sui pericoli a cui doveva esporsi), ei tenta di
rassicurarla almeno su quelli meno giusti ch'ella nutre per la sua
fedeltà, rammentandole come s'era serbato casto nella precedente
assenza, pure avendo anche allora molte occasioni di peccare, e
che non era supponibile che l'uomo ammogliato volesse fare
quello che non aveva fatto il giovane scapolo (v. specialm. 1. 18-20).
- 8 -
Con questi conforti e col ritardare di un giorno la partenza Nino
riesce a tranquillare la principessa. Segue una breve descrizione
dell'ultima giornata che i due coniugi passano insieme (1. 25-33).
La mattina seguente all'alba l'eroe parte per la guerra (1. 33-35).
Occorre appena notare che la separazione forzata di due sposi
novelli poco dopo le nozze è un motivo abbastanza frequente nelle
tradizioni popolari e nei romanzi di tutte le letterature. Per non
parlar d'altro lo troviamo in due dei romanzi greci che ci sono
stati conservati, in quello di Senofonte Efesio e in quello di Ca-
ritene d'Afrodisia; solo che questi due autori inventano, perdivi
dere i loro eroi l'uno dall'altro, ragioni strane e artificiali, mentre
nel nostro romanzo la separazione avverrebbe naturalmente per la
forza stessa delle cose, e questo basterebbe già a dargli una certa
superiorità sugli altri.
La mia congettura servirebbe anche, come abbiara visto, a gettar
un po' di luce sul contenuto tanto incerto della I col. del fram-
mento B: avremmo in essa una scena patetica di separazione e
insieme di gelosia che contribuirebbe non poco all'interesse e alla
varietà del racconto. Una scena simile a questa non si trova, a
dir vero, in alcuno degli altri romanzi greci superstiti, ma ciò
non deve far difficoltà, e perchè in generale l'uniformità che si
riscontra in questi prodotti tardivi del genio greco non esclude
interamente che alcuno di essi possa offrire un episodio originale,
e perchè in particolare il romanzo di Nino si staccava in più di
un punto dallo schema degli altri romanzi greci, come vedremo
in seguito (1).
Finora il solo Piccolomini aveva tentato di ricostruire la scena
in questione, e la sua congettura ha certo molta apparenza di ve-
rità. Egli cita (2) due scene di romanzi (3), le quali sembrano
(1) L'illustre prof. Diels mi fa qui osservare che questo episodio del nostro
romanzo somiglierebbe perfettamente alla partenza di Tolomeo Evergete per
la guerra contro gli Assiri e alla sua separazione da Berenice sua sposa
tosto dopo la prima notte delle nozze, partenza e separazione celebrate dalla
poesia alessandrina, specialmente da Callimaco nella « Chioma di Berenice »
imitata da Catullo (Cfr. Catullo, LXVI, 19 e segg.)-
(2) Supplem. ed osserv. ai framm. del Rom. di Nino, pag. 18 e 21.
(3) Eliod., VI, 8 e Eust., V, 15-20.
— 9 -
offrire una situazione assai somigliante a quella che gli avanzi
della I col. del framm. B lasciano intravedere, e ne congettura (1)
per il nostro luogo quanto segue: La fanciulla si trova soletta
entro una stanza^ in uno stato di grande agitazione e turbamento,
non sappiamo da che prodotto. Sopraggiunge Nino, al quale ella
temendo che le sue intenzioni sieno meno che oneste, tenta di
sfuggire. Il giovane la trattiene confortandola e rassicurandola.
Ecco le ragioni che mi costringono a dissentire in questo punto
dal mio dotto maestro. Prima fra tutte è l'opinione ch'io ho che
nel framm. B i due principali attori del romanzo sieno oramai con-
giunti dal vincolo matrimoniale, opinione che viene anche con-
fortata dalle parole del nostro luogo stesso: ladWov ri TTpó[Tepov]
(1. 19-20), che mi sembrano proprio accennare ad un cambiamento
avvenuto da poco nei rapporti vicendevoli dei due amanti. Inoltre nella
scena d'Eustazio, che è fra le due citate la più simile in appa-
renza al nostro luogo (2), l'amante, come egli stesso confessa (3),
aveva infatti intenzioni disoneste, mentre la condotta di Nino
quale ci viene descritta nel primo frammento (cf. specialm. A,
V, 15-21) — e gli avanzi del discorso del giovane principe nel
passo guasto che studiamo ci fanno certi ch'essa non era mutata
mai in peggio — esclude quanto a lui un simile sospetto. Fi-
nalmente nel nostro luogo la presenza della madre, che appare
quasi certa specialmente dalle prime linee, doveva bastare a ras-
sicurar la fanciulla.
111. — Ricostruire appuntino il testo della col. I del secondo
frammento è impresa delle più malagevoli. Io riporterò qui la
ricostruzione già fatta da altri, specialmente dal Piccolomini, mo-
dificandola soltanto dov'è necessario per adattarla al senso ch'io
(1) Sui framm. del Rom. di Nino, ecc., pag. iO e 11.
(2) La scena del VI libro d'Eliodoro ii<ni offre di somigliante altro che
l'agitazione in cui si trova la fanciulla.
(3) Cfr. il capo 16, specialmente la conclusione : Mero foOv bi] auxvàq
TtepmXoKàc; koì qpiXrmara xal ràXX' óiróoa iraiZeiv bibdfTKOuaiv 'Epoirec;.
òXov ètrexeipouv kot appoqpfioai tòv ^puixa, koI |Lir|KéTi irniZeiv
dXXà ouGubd^eiv épu^TiKiù<;.
— lo-
bo congetturato (1) o alle esigenze delle lacune, quali mi appar-
vero da un accurato esame che io stesso feci del papiro (2).
B, I.
où fàp ÓTTeXeiqpGri
ovb' ùnò ijnq MnTpòq év to-
aoÙTiy, àW rÌKo|\ou0r|aev ÙKa-
TdaxeTO^J Kttì TTcpieppriTiaé-
5 vr) Kai oùbjapujq iepoTrpeTTr|(;,
è'(JT' àvfj \0]€ òaKpuuuv Kai ko-
pupavTiuJv, è]K ToO axiipaxo?
èEjeipxOeì? aie pe-
firivux;* àva|TTribricraaav òè aù-
10 ifiv èK KXi|vTiq Kttì PouXopé-
vriv èpiToòiaJai TàOia, méoaq
eie, ifiv KXivriv xj^pcrlv ó Nivoq
è'Xeyev apa iiv ti]<; eìnuuv aoi pe
cp9opéa TTapjGévuuv ; è'aiuu Kai
15 toOto" èpe xjnq priipò^ Ka\ fi
J ouTUjq ÓYÓpe-
K]aì, idxa TTOu Kàfòj
]?• où òri poùXopai
TapÉTri? vOvJ ùùv paXXov n irpó-
20 lepov TTopjveùeaGai • oliò' au
tòt' èTTeipa]adp[rivJ. ÙTTOvori-
crai ò'av icrox;! ti^* èaToi (3) toO-
TO. àXXà pfiv Ttt] òpoaBévTa tò-
te Kttì òixa ÒpjKOU TT€TTiaTeLI-
25
aGo) poi vOv. OuTOij òè navripe-
(1) Certo il processo più naturale sarebbe stato di ricostruire prima il
testo della colonna lacunosa e da esso dedurre il senso generale, ma sic-
come questo processo offrirebbe difficoltà insormontabili, almeno per me, ho
scelto quello inverso.
(2) I supplementi nuovi da me introdotti sono scritti con carattere spa-
zieggiato. Alcuni di questi mi furono gentilmente suggeriti dal prof. Diels.
(3) 11 Wilcken segna dopo ^otuj un'interpunzione come esistente nel pa-
piro, ma a me veramente non sembra che il manoscritto la porti.
- 11 —
poi Cvvr\aav] à\\r\\o\q òffa \xr\
Nivo<; ÙTTÒ aTpaTiuJT]iKu)V àqpeiX-
K€TO, oùb' èXjXiTTuJq ó "Epuuq àvcp-
piTTiCev aÙTOii<g], KÓpuj ixkv TÓ-
SO Te Tri? èpujTiKfìq] òiaiTriaeoj^ à)a-
pXuvuuv, èTdpaT]Te ò' e\<; jàq èm-
aiàaeic, Tfì(; èv xl^pcTi bmlevH-
[jjq àcpriYOÙ]|uevoi;" oùttuj
^è ToO òpGpou àK]|LidZ;ovTO(;
35 (JTpaTTijTÒ*; 'Apiiieviuuv
Soggetto di aTTeXeiqpGri è la sposa, di nKoXou9r|aev la madre di
questa, di dvfiXGev Nino. Che il cambiamento frequente del sog-
getto non sia indicato più chiaramente si spiega col fatto che nel
contesto intiero il senso doveva apparir chiarissimo anche così:
(la sposa) non fu lasciata senz'aiuto (aTreXeicpGri) dalla madre in
questo frangente {èv ToaouTUj), ma {la madre) (lo) segui ecc.
finché (egli) tornò indietro ecc. 'ATToXeiTTUj è usato frequentemente
nel senso in cui noi diciamo lasciare in asso (1). Nella linea 11 ho
sostituito è|UTTOÒicT]ai ad àrcépxecrGjai (Piccolomini) e nella seguente
eìq Triv kXìvtiv xj^pcfiv a raxq aÙToO x]epffìv (Piccolomini), suppo-
nendo che la sposa fosse balzata dal letto per trattenere Nino e che
questi con dolce violenza la obbligasse a ritornarvi. Nella linea 13
ad f\v Ti]? ho premesso la particella interrogativa àpa special-
mente per riempire a dovere la lacuna, che conteneva certo più
di dieci lettere. Le linee 18-25 sono da interpretare così: Non
voglio certo fornicare ora che sono marito più di quello ch'io
abbia fatto prima; né d'altra parte allora (ossia prima) tentai
mai di farlo. Vero è che alcuno potrebbe sospettare il contrario,
ma quello che allora ho giurato, mi sia creduto ora senza giu-
ramento (2). L'aggettivo iravruLiepocg o TTavri^epiO(; (1. 20) è ado-
(1) Peres. Erod., V, 103; IsocK., Aeg., 389, 13; Senok., Occo/i., 1,22, ecc.
(2) L'ottima ricostruzione delle linee 22-25 è opera principalmente del
— 12 -
perato tanto nel significato di durante tutto un giorno che in
quello (li ripetentesi ogni giorno^ quotidiano, anzi forse più fre
quentemente in quel senso che in questo, come appare dai lessici.
Nella linea seguente, all'uTTÒ tujv aTpaTiujTjiKujv del Wilcken
mi par meglio sostituire Nivoi; òtto cTTpaTiuuTliKÙiJv, e ciò perchè
nel periodo come fu ricostruito il verbo acpei'XKeTO per il passaggio
dal plurale al singolare desidera il soggetto espresso, mentre l'ar-
ticolo innanzi a arpanuuTiKoiv non è indispensabile, e la lacuna
contiene benissimo le due lettere di più che sono nella parola
Nivot; in confronto alla parola tujv. Finalmente la frase òpGpou
dK|aà2ovTOq, che ho sostituito airfipo(; àK)LidZ:ovTO<; del Wilcken
(1. 34) nel significato di essendo mattino fatto, non parrà strana,
se si trova in greco àK^iàlovaa vùE, àK)udZ;oucra r\iiépa ed in Pla-
tone stesso òpepoq paeù(; (Crii., 1).
IV. — Riuniti così i due frammenti in un solo, che presenta
un senso abbastanza compiuto, possiamo ora dall'attento esame di
questo conchiudere qualche cosa, almeno con approssimazione, sul-
l'andamento generale del racconto? Tale questione dipende essen-
zialmente da quest'altra alla quale abbiamo accennato più sopra :
quello che ci resta è un misero avanzo di una narrazione lunga
ed avviluppata, o una parte considerevole e magari essenziale di
un semplice e breve racconto? E qui, come ognun vede, non si
può parlare di argomenti decisivi ne di prove per l'una o per
l'altra ipotesi, si tratta soltanto di vedere quale delle due sembri
la più verisimile. Come ho detto dianzi, una cert'aria di sempli-
Diels , la cui congettura io ho accettato modificandola alquanto. 11 Diels
proponeva (presso Piccolomini, Suppl. ed Osserv. ecc., pag. 11),
22 aai biKaióJc; Tiq éarw toO-
23 To YÒp Karà tò] òjuoaGevTa tó-
24 T6 òixa 6p]Kou TreTTiffTeu-
25 o9uj vOv.
Del resto in queste linee Nino allude evidentemente ad un giuramento di
fedeltà fatto all'amata in occasione dell'anteriore separazione, giuramento
al quale egli ha accennato anche nel suo discorso a Bercela, vantandosi
d'averlo mantenuto lealmente (A, 1, 38 — A, 11, i: ùj |unTep, elnev, eòopKnaac;
àcpìTiuai).
- 13 —
cita che spira dai due frammenti (1) e il piccolo numero dei perso-
naggi che agiscono in essi m'inducono a creder piuttosto vera la
seconda. Aggiungo ora che un altro argomento a favore della mia
tesi si trova nell'età relativamente remota a cui bisogna attribuire
la composizione della nostra storia, che, come il Wilcken prova
con ragioni d'indiscutibile valore, (2) non può esser portata più
in qua del principio del I sec. dell'era volg., ma verosimilmente
appartiene al I sec. avanti Cristo. Considerando che tutti i ro-
manzi greci che possediamo furono scritti in epoca posteriore, i
più fra il 3° e il 6" secolo dell'era volgare, si deve concludere che
quello di cui ci occupiamo in queste pagine fosse molto probabil-
mente uno dei primi modelli del genere per ordine di tempo (3).
Ora se ogni altra specie di componimento letterario ci si mostra
semplice e breve alle sue origini, perchè dovremo noi credere che
i racconti erotici fossero da bel principio lunghi e complicati? (4).
(1) 11 Wilcken (op. cit., pag. 192) dichiara il punto di contrasto del nostro
romanzo, consistente tutto nella troppo tenera età della sposa, il più scipito
che si possa immaginare. Tale esso è soltanto se vogliamo supporre che
intorno ad esso si svolgesse una storia di parecchi volumi. Oltre a ciò, se
è vero quello che abbiamo argomentato nelle pagine precedenti, esso non
continuava per tutta l'opera, ma veniva appianato a metà di essa colle
nozze dei due eroi, e veniva poi sostituito dall'altro della forzata assenza di
Nino, che deve combattere per mantenere ed ampliare il regno paterno.
(2) Op. cit., pag. 164 e 189-190.
(3) Gfr., sull'epoca probabile dell'origine del romanzo, Rohde, op. cit.,
pag. 245.
(4) A ciò alcuno potrebbe oppormi che il romanzo d'Antonio Diogene, il
quale è attribuito dal Rohde (pag. 252 e segg.) al I sec. d. Cr. ed è quindi
pure uno dei più antichi rappresentanti di questo genere letterario, era
nello stesso tempo uno dei più voluminosi, giacché pare contenesse non
meno di 24 libri. Rispondo che l'opera di Antonio Diogene, da quel che si
può giudicare leggendo il Breviarium che ce n'ha lasciato Fozio, non era
un vero romanzo della specie di quelli rimastici. In esso l'amore aveva una
parte del tutto secondaria. 11 Rohde (op. cit., pag. 250) spiega questa circo-
.stanza col fatto che in quest'opera quelli che sono per lui gli elementi co-
stitutivi del romanzo, ossia l'amoroso e l'avventuroso, avevano appena in
cominciato a trovarsi insieme e non erano peranco ben fusi fra di loro. Ne
.segue anche, secondo me, che l'opei'a d'Antonio Diogene s'ha a considerare
a preferenza come uno dei tanti prodotti della favolistica, del desiderio del
meraviglioso, e come tale era tutt'altro che uno dei primi rappresentanti
della sua specie.
- 14 —
Ciò posto, il tentativo di rappresentarci innanzi alla mente cosi
all'ingrosso l'andamento generale del racconto non è temerario. Io
suppongo che l'autore incominciasse col narrare la nascita e l'in
fanzia dei due protagonisti, figli di due sorelle, venuti quindi
probabilmente alla luce nella stessa casa, certo allevati e cresciuti
insieme. Parlava dell'inclinazione che i due fanciulli dimostravano
l'uno per l'altro fino dagli anni più teneri e mostrava come questa
mutua inclinazione si cangiasse col crescere dell'età in ardentissimo
amore. Una mutua inclinazione fra due fanciulli di sesso diverso,
che ingigantisce coU'avanzar degli anni fino a diventar una passione
irresistibile, era argomento troppo attraente perchè il nostro au-
tore, a cui esso si offriva in modo così naturale, non lo sfrut-
tasse, come ha fatto l'autore degli Amori pastorali di Dafni e
Cloe e ai tempi moderni il St.-Pierre (1). Seguiva una prima sepa-
razione dei due amanti (2). Nino ancor giovanetto viene chiamato
dal suo grado a fare le prime prove nelle armi e si stacca dalla
sua diletta giurandole eterna fede, giuramento a cui non manca
mai durante tutta la sua assenza, pure avendo molti incentivi a
violarlo (A, li, 1-15: iJu fifÌTep, eùopKriaa<; àcpixiuai ktX. e B, I,
18-25, se è giusto il modo in cui ho tentato di ricostruire e spie-
gare quel luogo del papiro). Ma egli non si dimostra in questa
circostanza soltanto amante fedele, bensì anche valoroso guerriero,
compie illustri imprese e ritorna coperto di gloria (v. specialm.
A, V, 17-18: àixò tluv KaTOpGujjudTiiJV Kal TporraiuDV èTraveXGióv).
Ritrova la fanciulla già fatta giovinetta ed arde vieppiù d'amore
e di desiderio di possederla; non però che egli, profittando del-
l'ascendente che potrebbe dargli sull'animo dell'amata l'aureola di
gloria che lo circonda, si permetta con lei maniere licenziose o
le tenga propositi meno che onesti, anzi continua a mostrarsi ri
(1) Paul et Virginie.
(2) Che la passione fosse nata innanzi alla prima partenza di Nino non
può esser dubbio : basterebbero a dimostrarcelo le parole di Nino alla zia
(A, li, 1 e seg., specialmente: àqpiyiaai eie; xàq irepiPoXàq t7ì<; è|aoì Tepirvo-
TÓtric; àveijJiàt;). Il vOv bè ùttò tou 9eo0 viKijùfiai non è da interpretarsi nel
senso che l'amore di Nino nascesse soltanto allora, ma che allora diventava
irresistibile.
- 15 —
spettoso e irreprensibile (A, III, 38 — A, IV, 5 e A V, 15-21) (1).
Ma non erano finite le fatiche del giovane eroe: altri nemici re-
stavano da combattere, altre difficili imprese e rischiosi viaggi in
lontane regioni da compiere (A, III, 20 e seg. : àX\à vauTiXiai
ln'èKÒe'xovTai Kal èK TTo\é|nuJV TTÓ\e|uoi ktX.). Il pensiero che s'avvi-
cinava il momento di una nuova separazione affliggeva oltremodo
i due amanti, i quali avrebbero voluto almeno vedere spuntar
prima il giorno desiderato delle loro nozze. E per vero le due
sorelle Tambe e Bercela non contrastavano alle inclinazioni dei figli,
anzi da lungo tempo, forse già dalla loro nascita avevano deciso
di unirli in matrimonio (A, II, 29-30: uilìoiv èQeXricrdvTuuv
atx^óXuuTo*; e A, IV, 8: àTtaiTUJV a è'òujKaq); e non esse sole,
ma tutta la famiglia, tutto il regno invocavano quell'unione (A,
IV, 9-11: tàq Koivà^ "vric, olKia<; Kal Tfi<; Paai\eia(; ànàar\<; evxàc,):
unico ostacolo era una legge, anzi piuttosto un'usanza del paese,
la quale non voleva che le fanciulle passassero a marito prima
dei quindici anni (A, II, 36 — A, III, 3), mentre la cugina di Nino
non giungeva ancora a questa età. I due amanti decidono allora di
chiedere che per una volta si decampasse da questa consuetudine,
tenendo conto delle ragioni che consigliavano a lasciare gli indugi,
e a tale scopo si rivolgono ciascuno non già alla propria madre,
ma alla rispettiva zia, colla quale pare usassero più liberamente
(A, I, 34-36). A questo punto incomincia la parte del racconto
che ci rimane nei due frammenti con una piccola interruzione, e
non giova qui ripeterne il contenuto esposto piti sopra.
Separatosi dalla moglie Nino si copre di nuovi allori: nella
battaglia contro gli Armeni egli si dimostra, per l'ordine sapiente
con cui distribuisce l'esercito, esperto capitano non meno che va-
loroso soldato (B, III). Debellati gli Armeni egli muove contro
(1) Il testo di A, V è per le linee 20-21 molto incerto. 11 papiro dà :
xdxa he K
lUTTOc; TOICUTOU Y^vo.u
Io proporrei di leggere: xdxa ^è Kai óp^<; (oppure eibei;) xàq tiirài; toioutou
Yevojuévou. 'AXXà ktX. Già probabilmente vedi (o vedesti) tu stessa che
faccia abbia un simile eroe ossia quanto si serbi modesto Nino^ che è di-
venuto un sì famoso eroe.
- 16 -
l'Egitto e contro altre regioni e tutte sottomette al suo impero (1).
Ma queste ultime imprese, ch'egli aveva supposte di facile com-
pimento, (2) si dimostrano in fatto irte di difficoltà e di rischi:
la vita stessa di Nino è posta più di una volta a grave pericolo,
ma infine l'eroe trionfa di tutto. Anche la sua fedeltà di marito
è messa a serie prove, ma egli le supera tutte, come aveva pro-
messo alla sposa di fare (B, I, 18-25 secondo la ricostruzione che
ho tentata di quel luogo). La sposa intanto è in angosce per la
prolungata assenza del marito, di cui non ha più notizia. Anche
la fedeltà di lei è tentata più volte, ma sempre invano (3). Il ritorno
dell'eroe trionfante colla descrizione della gioia dei due coniugi nel
ritrovarsi sani e salvi e delle due madri nel vederli felici chiu-
deva il romanzo (4).
V. — Qualunque conto si voglia fare del sommario ch'io ho
cercato di ricostruire, questo, secondo me, risulta in modo non dubbio
(1) Che la spedizione contro gli Armeni dovesse essere seguita da altre
lo si rileva dalle parole di Nino a Bercela : àXkÒL vauTiX(ai ix' ÌKbé\ovTai Kal
ÉK TToXéiuuuv 7TÓX€)Lioi (A, 111, 20-22), che abbiamo più volte citato. Che poi
una di queste altre spedizioni dovesse essere contro l'Egitto lo deduco dalle
due ultime linee del papiro, che io leggerei così : TuJv Yòp ètt' AIyutttìo[u(;
KOÌ KOJTÒ Tfiq ótXXr)(; ■iToXeju[ia^ èTnx€ipr||uc(TUJv , imaginando che ad èm-
Xeipruudxujv seguisse un'espressione come où Ttóvu èiTi|LieXr|T^ov, o qualche
cosa di simile che significasse non bisogna darsi troppo pensiero. Tale è,
mi pare, il senso richiesto dalle linee precedenti, dove Nino vuol persua-
dere l'esercito che la sua potenza e la sua gloria dipendono specialmente
dall'esito di questa battaglia contro gli Armeni.
(2) V. la nota precedente, in fine.
(3) Questo tratto della narrazione dalla battaglia di Nino cogli Armeni
al suo ritorno al focolare domestico è quello che naturalmente ci rimane
più oscuro e per il contenuto e per l'estensione. Ma la parte conservataci
nei frammenti ci fa certi almeno di questo, che in esso doveano venir de-
scritte imprese pericolose e difiìcili di Nino e sue finali vittorie e mutue
prove di fedeltà che si davano i due amanti, e l'estensione non doveva esser
grande, se è giusto il ragionamento che abbiam posto a base della ricostru-
zione del sommario Quanto alla probabile portata ed estensione dell'ele-
mento avventuroso nel nostro romanzo cfr. anche quello che diciamo più
avanti.
(4) Un discioglimento lieto è nei romanzi antichi obbligatorio (Cfr. Rohde,
op. cit., pag. 284).
— il —
dai frammenti ritrovati e li rende anche più importanti per noi,
che la narrazione a cui appartenevano si discosta in alcuni punti
essenziali da quello schema fisso su cui tutti i romanzi rimastici,
eccettuato quello di Longo, sono condotti (1). Due di questi punti
sono stati già notati del Wilcken (1. e. pag. 190-191),e sono in primo
luogo la scelta dell'argomento, che non è qui inventato di sana
pianta, ma appoggiato in parte almeno alla tradizione, in secondo
luogo il fine alto che vien dato agli errori del protagonista. Negli
altri romanzi i due amanti vagano qua e là spinti dalla cieca
fortuna, ne il loro vagare ha altro scopo evidente, come ben nota
il Rohde, che quello di prolungare il racconto fino a che piace
all'autore, nel nostro l'eroe si stacca dalla sua donna per combat-
tere i nemici della patria e per estendere i confini del regno pa-
terno. Fine più nobile di questo non si potrebbe immaginare (2).
E qui giova anche far osservare, a conforto dell'opinione che ho
espressa più sopra sull'estensione del nostro romanzo, che un prin-
cipe, il quale esce a capo di un esercito e con uno scopo ben de-
terminato, è molto meno esposto a casi straordinarii ed imprevisti
(1) Le molte somiglianze e di lingua e di stile e talvolta persino di situa-
zione, che i nostri frammenti hanno cogli altri romanzi e che sono state
notate dal Wilcken e dal Piccolomini, non contrastano punto a quello che
noi diciamo; esse sono conseguenza del linguaggio e dello stile sofistico
proprio non solo dei romanzi, ma anzi di quasi tutti i prodotti letterari del
tempo. E che sia vero lo prova il romanzo di Longo, del quale nessuno
può negare che non si scosti dallo schema fisso degli altri romanzi greci,
e il quale pure va tutt'altro che immune da queste che si potrebbero chia-
mare frasi ed espressioìii fatte (V. a questo proposito specialmente i raf-
fronti del Wilcken, pag. 179-182). Ai raffronti fatti già da altri io stesso
potrei aggiungerne alcuni. Cosi la principale obbiezione che Nino fa al ri-
tardo delle nozze, ossia l'incertezza del domani specialmente per un soldato
(A, III, 11 e seg.), trova pieno riscontro in tre luoghi di Achille Tazio (A
7, 3; E. 15, 4; H, 18, 2). Ma le parole che si leggono nell' ultimo dei tre
luoghi citati (TroXé|uoi(; ó|ui\iùv, èv ole; oùòeì(; àvapdXXexai Tà<; i\bo-
vàc) stanno appunto a dimostrare che quell'obbiezione era una frase fatta,
anzi una massima a dirittura. E lo stesso secondo me si può dire della
maggior parte delle espressioni uguali che si trovano nei romanzi greci.
(2) Non so come il Wilcken, il quale pure nota questa differenza a fa-
vore del nostro romanzo, possa poi dire alla pagina .seguente che Nino, a
quanto pare, gira per ammazzare il tempo {urn die Zcit todtzuschlugen).
llmald di fdolo'ii't, ccr,, 1 2
- 18 —
di un avventuriero, il quale lascia la patria in compagnia di una
donna e si mette a girare il mondo.
Altre due differenze ho notate io stesso. Negli altri romanzi il caso
strappa tutti e due gli amanti lontano dalla patria e dai parenti,
avviluppandoli in mille strane avventure, in questo con molta
maggior verosimiglianza la donna resta fra le domestiche pareti (1).
Ma il punto più importante, in cui il nostro autore si discosta
da quello che abbiamo chiamato lo schema fisso del romanzo greco,
è il modo come egli ha fatto nascere la passione amorosa fra i
suoi due eroi. Negli altri romanzi, eccettuato sempre quello di
Longo, i due protagonisti, giunti all'età dell'amore, si vedono per
caso e si accendono tosto l'uno per l'altro di quella passione che
non li abbandona più : da quello che ci resta del romanzo di Nino
si può dedurre con certezza che in esso l'inclinazione vicendevole
dei due giovani si sviluppava a poco a poco, aiutata dalla coa-
bitazione e dall'allevamento in comune, e cresceva col crescere
dell'età. Quanto questa via sia più atta dell'altra a condurre ad
un sentimento profondo e duraturo, ognuno lo vede e lo sa e non
mi tratterrò più che tanto a dimostrarlo.
Voglio invece far notare che questa particolarità accosta inne-
gabilmente la storia di cui ci occupiamo a quella degli amori di
Dafni e Cloe di tanto, di quanto la discosta dalle altre. E non è
questa una somiglianza esterna e superficiale, ma intima ed ira-
portantissima, secondo noi. Gli amori pastorali di Dafni e Cloe
formano un genere di romanzo tutto a sé e per il carattere idil-
lico di cui sono improntati, e perchè in esso dei due elementi di
cui, come il Kohde ha dimostrato, consta il romanzo greco, l'e-
lemento erotico e l'elemento, chiamiamolo così, avventuroso, questo
ultimo non ha parte, o ha parte piccolissima (2), e finalmente per
il modo in cui nasce la passione amorosa fra i due protagonisti.
Nel romanzo di Nino abbiamo trovata tale e quale l'ultima di
(1) Almeno si hanno tutte le ragioni per supporre che così fosse.
(2) 11 rapimento di Cloe da parte di quei di Metimna e la sua meravi-
gliosa liberazione (B, 20-30) potrebbero in certo qual modo rappresentare in
questo romanzo lelemento avventuroso o favolistico che si voglia chiamare.
— 19 -
queste tre caratteristiche, e l'elemento avventuroso, se era rap-
presentato meglio che nell'opera di Longo, aveva però, come ho
cercato di dimostrare più sopra, parte minore che negli altri ro-
manzi di cui abbiamo memoria (1); vi mancava invece la prima
caratteristica, quella dell'idillio, giacché il fatto, nonché avvenire
fra pastori, si svolgeva in mezzo ad una corte reale, per quanto
ritratta patriarcalmente (2).
Il Romanzo di Nino dunque rappresenta per me un genere in-
termedio e direi quasi di passaggio fra quello di Longo e gli altri.
Che poi Longo, nel descrivere il nascere e lo svilupparsi di una
passione amorosa fra due fanciulli, s'inspirasse poco o tanto alla
nostra storia, sarebbe troppo ardito affermare, ma sarebbe anche
più fuor di luogo l'escluderlo assolutamente.
VL — Ho voluto anche cercare se fra gli autori erotici, di cui
ci è rimasto soltanto il nome, ci fosse alcuno a cui si potesse
per ipotesi attribuire la composizione della nostra storia. M'ha
fermato il nome di Senofonte d'Antiochia, di cui abbiamo solo
questa notìzia presso Snida: Eevoqpuùv AvTioxeù(;, iaTopiKÓ<;. Ba-
PuXuuvittKd" è'an ò' épuuTiKd. Questo Senofonte scrisse dunque una
storia d'amore intitolata BapuXujviaKÓt. Il titolo calzerebbe proprio
a capello a quello che più modernamente fu chiamato « il romanzo
di Nino », ma prove per questa identificazione difficilmente si po-
tranno trovare. Certo é che se non a questo, a nessun altro degli
autori erotici di cui abbiamo memoria si può attribuire il rac-
conto di cui ci occupiamo, sicché bisognerebbe supporre che anche
il nome del narratore fosse andato perduto, il che del resto non
è affatto impossibile.
(1) Il fatto stosso che dei due protagonisti uno solo s'allontanava dalla
patria e dai parenti, lasciava, come ognun vede, molto minor cam[)0 alle
avventure e agli scherzi della perfida Tùxti.
(2) Non sarà tuttavia qui inutile ricordare che anche Dafni e Cloe, benché
allevati fra pastori e come pastori, sono figli di due cospicui e ricchi cit-
tadini di Mitilene.
— 20-
Vll. — Finisco coll'esporre alcune altre congetture ed osser-
vazioni che m'accadde di fare esaminando il testo del papiro e i
supplementi proposti dai dotti che se ne sono finora occupati.
A, I, 6-7.
Leggerei : ÓTxoXaiapdvujv
TÒv yiéfav Kivjbuvov èv iL
elvai ^)ii€X\€]v ktX.
In questa colonna dovevano essere esposte le cagioni che muo-
vevano i due amanti ad affrettare le nozze, e fra queste princi-
palissima era per Nino, come abbiamo più volte osservato, il pe-
ricolo di soccombere in guerra (v. A, III, 20-22: àXXà vauiiXiai
IX èKÒéxovTai ktX.).
A, I, 27.
Il papiro dà laev oùòè tò(v) e non laev oìiòèv tò(v) come
lesse il Wilcken.
A, I, 87-38.
Supplirei: Nivo<; bàKpuai irjpòq iriv Aep-
Keiav TpaTTÓjueJvoq, ^Q MnTep ktX.
A, IV, 37. - A, V, 7.
A, IV, 37: èH \j[ttotùou]
òè TtdXiv àpxo|uév[ri]q [pouXe-]
a9ai Xéyeiv ÙJXpaivo[vTO, Ka\|
A, V, 1 : TÒ òéoq )ueTaEù [qv (pópou]
Kttì èTTiGuiaiaq, Kaì [ÒKVOuariq |Lièv]
alòouq, 0paauvo|ué[vou bè Kaì]
ToO Tràecuc;, àTTOÒe[ouari<; bè]
■xr\<; YV(ju|Liri(;, èKu[|uaiv€ acpóòpa]
Kttì )Li6[Tà ttJgXXoO K[Xdvou* fi bè 0d|u-]
Pti ktX.
— 21 —
I supplementi per la col. IV sono del Wilcken, quelli per la
col. V del Diels. Io preferirei di leggere questo luogo così (1) :
A, IV, 37: èi \j[ttotùouJ
òè ndXiv àpxo|Liév[r|](; [poùXe-]
aGai Kéyeiv ujxpaivo[vTO òià]
TÒ òéog(') )U€TaEù [xàp r\v ófnoO]
Kal èTneu|uia(; Kaì [ira pGeviaq]
aìòoOtg, epaauvo)aé[vo u \xev ouv]
Tou -nàQouq, aTTOÒ€[ou{Jr|(; bè]
iY\q Tvó)|uri<; ktX.
Così si eviterebbe anzitutto l'espressione tò béoq laeraHù r\v
qpópou Ktti èmGu)aia<;, non molto propria per l'equipollenza dei due
termini òéo^ e qpópoq, in modo che si avrebbe con essa : il timore
era in mezzo fra la paura e il desiderio. Inoltre se si supplisce
a V, 2 [ÒKVOijan<; m^v] aiboO(;, 1' àTTobe[ou(yri(; bè] th^ Yva)|ari(;
che segue non è piìi che una ripetizione di concetto già espresso
con altre parole (ossia con [ÒKvoùari(; laèvj aìboi)<; appunto), e
scema di molto la forza dell'antitesi. Invece coi supplementi che
io propongo c'è perfetta corrispondenza di termini : la fanciulla è
jLietaHù èTTiGujuiaq Kaì aìboOg, il concetto dell' èmGuiLiia viene poi
sviluppato maggiormente coll'espressione Gpa(Juvo|Liévou toO nd-
Gou<;, e il concetto dell' aibai^ è svolto più ampiamente nella
frase àTTobeouari(; irìq Yva)|Lirì<S- Finalmente coi supplementi del
Diels ci sarebbe troppa differenza di lunghezza fra le linee 1 e 2.
A, V, 10.
ujq bè oùbèv [rivucTev]
Così il Wilcken. Io ad rivuffev preferirei un imperfetto come
è'KpaiTev, èTToiei o nvuiev stesso.
(1) Le modificazioni da me introdotte sono anche qui segnate dal carattere
spazieggiato.
— 22
A, V, 23-24.
11 Wilcken supplisce:
aireùbei ò[ri Ta/aelv
ó èjÀÒc, v\òc, ktX.
Secondo me il YO^tiv non c'era nel papiro: la lacuna non lo
comporta e il contesto non lo richiede.
B, III, l-;3.
Il Piccolomini supplisce :
ujq èK[eT0ev ópai]
laexà TToXXujv ó[p|atX)VTa<; )Liupi-J
àòujv ktX.
riferendo 1' èKeT9ev allo aipaiÓTrebov di cui è parola a B, II, 35.
Io preferirei nella prima linea :
ujq èK[eivou(; ópdij ktX.
riferendo 1' èKcivoug agli 'Apiueviouc; menzionati a B, II, 31.
B, III, 22-23.
11 Piccolomini sostituì ottimamente ÓTTÓT[e xpevjv d\r\ all' ó-
7TÓT[e PouXeu9ei]ri del Wilcken, la quale espressione lascia pen-
sare che quel movimento potesse esser fatto a capriccio. Si po-
trebbe anche supplire ÒTTÓT[e KeXeuaOei]ri.
Berlino, gennaio 1894.
Lionello Levl
24. 9. 94.
23
SULL'AUTENTICITÀ
DELLE FAVOLE DI FEDRO
La questione dell'autenticità delle favole di Fedro racchiude
nella singolarità della sua natura un'importanza maggiore delle
ricerche filologiche affini.
Primamente in esse, il più delle volte, la critica, presupposta
l'antichità del documento letterario in esame, discute soltanto la
paternità di esso (1). Ovvero, il che però accade con minor fre-
quenza, pur accettandosi l'esistenza storica dello scrittore antico
voluto dalla tradizione, è compromessa la vetustà dell'opera a noi
pervenuta sotto il nome di lui (2). Nella presente discussione, al con-
trario, non solo è infirmata l'antichità del documento, ma è re-
vocata in dubbio la stessa personalità dello scrittore antico; così
che il risultato dell'indagine rispetto alla critica è doppio, biso-
gnando anzi tutto accertare la realtà storica del favolista e riven-
dicare quindi a lui la paternità dell'opera disputatagli (3).
Vero è che da un lato le testimonianze dell'antichità relative
al favolista e insieme all'opera di lui, e dall'altro la peculiare
natura delle favole fedriane, le quali sono ad un tempo un docu-
mento letterario ed autobiografico, ci obbligano ad avvicendare
(1) Di tal genere sono le questioni sulla paternità della Retorica ad
Erennio, dei poemetti pseudo -virgiliani, delle tragedie e àeW Apokolohyn-
tosis riferite a Seneca, del Dialogo degli oratori, ecc. ecc.
(2) Tale è la questione sollevata, non è molto, da un filologo francese
circa gli Annali di Tacito.
(3) Neanche la questione esopica può dunque considerarsi simile alla nostra,
essendo che in quella, se vacilla la realtà di persona del favolista, l'opora
a lui aggiudicata dalla tradizione s'aggira pur sempre neirambito della pro-
duzione letteraria antica.
- 24 —
fra loro la ricerca dell'antichità dello scrittore e quella dell'au-
tenticità dell'opera. Tuttavia quest'esigenza accidentale di proce-
dimento critico, se, da una parte, accresce, per la sua natura vin-
colata e complessa, le difficoltà della nostra dimostrazione, comu-
nica, dall'altra, ai due risultati finali del nostro studio quel
carattere così prezioso di mutua dipendenza e di indissolubilità,
per cui possiamo sempre ritrovare nell'uno di essi la riprova in-
fallibile della verità dell'altro.
Un secondo divario corre fra la nostra ricerca e le altre affini :
ed è che gli argomenti diretti — quelli cioè desunti dal contenuto
e dalle qualità letterarie dell'opera in esame — perdono nella nostra
dimostrazione quel valore comparativo che ad essi deriva negli
altri casi dal ravvicinamento dell'opera controversa dello scrittore
antico alle opere autentiche del medesimo. Di scritti che vadano
sotto il nome di Fedro non possediamo che la sola raccolta di
favole, la quale forma l'oggetto del nostro studio, ed in essa sol-
tanto ci è dato rintracciare le prove dirette della sua autenti-
cità (1).
Ma ciò che fa annettere alla nostra indagine un'importanza
superiore a qualsiasi ricerca consimile rispetto alla storia lette-
raria antica risiede nello scopo particolare ch'essa si propone di
ristabilire nella letteratura latina un posto, non fra i meno cospicui,
alla prima e più considerevole produzione di favole esopiche. Spetta
infatti a Fedro il merito di avere introdotto in Koma, trapiantan-
dolo dalla cultura greca, quel componimento letterario; perchè,
sebbene altri poeti prima di lui avessero ricorso sporadicamente
e fuggevolmente all'artifizio poetico dell'apologo (2), egli fu il
(1) Si badi però che quest'affermazione, se ha valore assoluto per le fa-
vole dei primi cinque libri, non la si può estendere a quelle dell'Appen-
dice, la cui autenticità — come mostreremo nell'ultima parte del nostro
studio — è in buona parte dimostrata dall'esame comparativo colle favole
precedenti.
(2) Plauto (Siich., IV, 1, 71; Aul., Il, 2, 51 e 58), Ennio (Gellio, Noct.
att., 11, 19) Terenzio (Adel, IV, 1, 21), Lucilio (Nonio Marcello, alle voci
Lassum. e Ferre, IV, p. 198, ediz. del Gerlach), Orazio (Epist., I. 1, 73; I,
3, 9; I, 7, 29; I, 10, 5; I, 10, 34; Ad Pis., 139; Sat., II, 3, 298; II, 6. 79),
Catullo (Carm., XXII, 21) e Ovidio (Fast., IV, 703-710).
— Es-
primo a coltivare di proposito fra i Romani un tal genere, il quale
acquistò, mercè l'ingegno inventivo e fecondo di lui, politezza ed
eleganza di veste, ricchezza e varietà di forme e originalità non
ispregevole di contenuto.
Finalmente il nostro studio insieme all'interesse critico-storico-
letterario ne presenta uno specialissimo rispetto alla storia della
filologia, essendo che di tutte le opere letterarie trasmesseci dal-
l'antichità non ve ne ha forse una sola la quale abbia suscitato,
come le favole di Fedro, controversie sì tenaci e passionate circa
l'autenticità, attirando nella discussione le maggiori menti critiche
di un lungo periodo di tempo per esercitare il loro acume mera-
viglioso nei più diversi e spaziosi campi di sapere filologico.
La questione ebbe origine nel 1596. Quando nel settembre di
quell'anno venne alla luce per opera di Pietro Pithou la prima
edizione delle favole di Fedro (1), esse erano totalmente scono-
sciute. Durante il M. E. se ne erano bensì avuti dei rifacimenti
in prosa e in distici elegiaci ; ma mentre quelle imitazioni più o
meno grossolane erano sopravvissute, l'originale era caduto in una
completa e vergognosa dimenticanza.
Il vanto di tornarlo in onore era riserbato al Pithou. Suo fra-
tello Francesco gli aveva regalato nel 1595 a Troyes un antico
codice delle favole di Fedro, salvato nel 1562 insieme a parecchi
altri mss. antichi dal superiore dell'i^bbadia di san Benedetto
sulla Loira, quando quel monastero fu messo a sacco e a fuoco
da alcuni protestanti della Francia.
Pietro Pithou, trascritte da quel codice le favole, consegnò il
ms. al suo editore Patisson perchè ne curasse la pubblicazione;
se non che, costretto da una pestilenza ad abbandonare Parigi e
a riparare colla famiglia a Troyes, ritirò dal Patisson il suo ms.
(1) Questa edizione, rarissima, forma un volumetto di 70 pagine dal ti-
tolo: Phaedri Aug. liberti fabularum aesopiarum libri V, nunc primxon
in lucem editi. Augustobonae Tricassium excudebat Jo. Odotius typogra-
phus regius, anno cio.io.xcvi. Cum privilegio. — Alla pag. 7 comincia il
testo di Fedro, preceduto dal titolo: Phaedri Aug. liberti fabularum ae-
sopiarum liber 1 ecc. ecc.
— 26 -
per farlo stampare sotto i propri occhi a Troyes. Finita l'edizione
il 31 agosto 1596, il Pithou l'aveva inviata a Roma perchè gli
eruditi di quella città la esaminassero. Questi sulle prime resta-
rono sorpresi dalla inaspettata pubblicazione e inclinarono a ere
dere una dotta impostura ((uella produzione letteraria, venuta alla
luce dopo sì lungo volgere di tempo; ma, a lettura finita del libro,
si ravvidero della loro fallace opinione, e nessuno dubitò più che
quelle favole appartenessero all'epoca di Augusto.
A raffermare cotesta fede venne nel 1608 la scoperta di un se-
condo ms. di Fedro fatta a Reims nella biblioteca dell'abadia di
S. Remi dal padre Sirmond, il quale, collazionato il nuovo codice
coll'edizione del Pithou, lo trovò ad essa somigliantissimo.
Così l'uno che l'altro codice erano stati giudicati dai loro rispet-
tivi scopritori, paleografi competentissimi, come appartenenti al
decimo secolo.
Accertata l'antichità del documento, ogni sospetto di mistifica-
zione erudita avrebbe dovuto essere dileguato; eppure un triennio
dopo la pubblicazione pregevolissima del Rigault (1), a cui il
coscenzioso Sirmond avea mandate le poche varianti che il ms.
di Reims presentava rispetto alla lezione del Pithou, si fece udire
per bocca di uno dei dotti più autorevoli del tempo il primo
grido di protesta contro l'autenticità. Pietro Schryver (1620) (2),
poggiandosi unicamente sopra una dichiarazione del quattrocentista
mons. Perotti, il quale in una nota del suo copioso Commentario
a Marziale (3) si era attribuita la paternità della favola 17-'' del
1. Ili di Fedro, ne inferì che il dotto prelato avea dovuto egual-
mente comporre tutte le altre della raccolta del Pithou, e che
perciò avean dato prova d'ingenuità quelli eruditi, i quali avean
1) È un'edizione in-4o stampata nel 1617 da R. Etienne sotto il titolo :
Phaedri Aug. liberti fabularuni aesopiarwn libri F, nova ediùo.
(2) P. Scrivani animadversiones in Martialent,. Opus iì.ivenile et mene
primum ex intervallo quindecim annorum repetitum.. Lugdiini Batavorum,
apud Joannem Maire, anno cio.iD.c.xviii, in-12o (p. 88).
(3) Cornu copiae sive linguae latinae commentarii diligentissime reco-
gniti, atque ex archetypo emendati. Thusculani, apud Benacutn in aedibus
Alexandri Paganini. Mense Aprili M.DCCXXXI (p.
— 21 —
riconosciuto nella pubblicazione del filologo francese l'opera di uno
scrittore latino contemporaneo di Augusto.
L'autorità che si annetteva al nome dello Schryver trasse seco
il consenso di alcuni filologi del tempo. 11 Farnaby in Inghil-
terra (1), lo Schrevelio in Olanda accettarono il nuovo doraraa
senza discuterlo. Gli altri invece, saldi nella vecchia credenza,
impugnarono la tesi dello Schryver, non coU'esame dei mss., i
quali, vista la grande difficoltà del viaggiare d'allora, non valeva
la pena di rintracciare ; sibbene con un'antica iscrizione lapidaria,
scoperta dallo Zamoyski a Wissenborg nella Transilvania, nella
quale leggevasi l'ultimo verso di quella stessa favola di cui il
Perotti avea attribuito a se la composizione (2). Perciò il Barth (3),
l'Hoogstraten (4), il Baillet (5) ed altri dotti non esitarono di ac-
cusare il prelato quattrocentista di plagio.
A dare maggiore apparenza di vero a quell'accusa s'aggiunse
nel 1727 la scoperta di un ms. del Perotti, fatta nella Farnesiana
di Parma da un giovane filologo olandese, Giacomo Filippo d'Or-
ville, il quale, copiato il codice, ne inviò nell'aprile del medesimo
anno la trascrizione al suo vecchio professore di Leida, il Bur-
manno. Orbene quest'ultimo, nella prefazione alla sua edizione di
(1) M. Valerli Martialis epigrammata cum notis Farnabii et variorum,
accurante Cornelio Schrevelio. Lugduni Batavorum, apud Franciscum
Eackium, anno 1656, in-8« (p. 77).
(2) Analecta lapidum vetiistorura et aliarum in Dacia antiquitatum,
collegit et edidit Stephanus Zamoyski. Patavii, 1593 (Francoforte, 1598).
(3) Casp. Barthi Adversariorum commentarioriioi libri LX quibus ex
universa antiquitatis serie., omnis generis, ad vicies octies centum au-
ctorum, plus centum quinquaginta millibits , loci ... illustrantur.... | Fran-
cofurti, typis Wechelianis, apial Danielem et Davidem Ambrios, et Cle-
mentem Scìdeichium. M.DC.XXIV, in fol. (\. XXXVI, e. XXI, col. 1669
e 1670).
(4) Phaedri Aug. Liberti Fabularum aesopiarum libri V. Notis illu-
stravit... David Hoogstratanus.... Amstelaedami, ex typograpliia Frnncisci
Halmae. ci:i rj cci, in-4'^ (V. la nota preliminare sulla favola XVII liol
1. III).
(5) Jugemens des savans sur les principaux ouvrages des aufeers, par
Adrien Baillet. Revus, corrigcs et nugmentès par M. de la Monnoye, de
VAcadcmie Franqaise. A Paris, chez Charles Morite.... M.DCCXX[l,inA*
fp. 147-150).
- 28 -
Fedro del 1727 (1), dichiarava di aver trovato nel ms. scoperto
dal suo discepolo la prova manifesta che il Perotti avea fatto
opera di plagio.
La controversia continuò ad agitarsi per molti anni, e solo nel
174G parvero calmati gli animi: quando cioè Giovanni Federico
Christ, rilevando il silenzio di Seneca circa l'opera di Fedro e
insinuando che lo scrittore rammentato da Marziale e da Aviano
dovesse identificarsi col filosofo epicureo, familiare di Attico e
di Cicerone, ripigliò l'asserto dello Schryver (2).
Ma anche questa volta Fedro non rimase privo di difensori. In
Germania il Funck (3), a cui il Christ rispose con una voluminosa
replica (4), in Olanda il d'Orville (5), e Boulanger de Kivery in
Francia (6) respinsero, ciascuno alla sua volta, strenuamente, gli
assalti del loro avversario comune.
E benché l'audace tedesco avesse trovato proseliti alla sua causa
nel Gesner (1749) (7) prima, nel Marcheselli (1772) (8) e nello
(1) Phaedri Augusti Liberti fabularum aesopiarura libri Y. Cum novo
commentario Petri Burmanni. Leidae, apiid Sam,uelem Liichtmans, i7'27^
in-4'' (V. la prefazione non paginata).
(2) Jo. Frid. Christii de Phaedro eiusque fabulis Prolusio. Lips., 1746,
in-4o.
(3) Joh. Nicolai Funccii Marburgensis prò Phaedro eiusque fabulis Apo-
logia. Lipsiae et Rintelii, apud Nicolaum, Striederum, M.DCCXXXXVII.
(4) JoJi. Frider. Christii ad eruditos quosdam de Moribus simul de
Phaedro eiusque fabulis uberior expositio. Accessit auctarium fabularum
quarundam, Phaedri nec Phaedri. Lipsiae, apud viduam, B. Casp. Fritschii.,
A. C. N. CIO IO ccxxxxvii, in-8°.
(5) Jacobi PJUlippi d'Orville Animadversiones in Charitonis Aphrodi-
siensis de Chaerea et Callirrhoé narrationum amatoriarum, libros VIIL
Amstelodami, apud Petrum Mortier, MDCCL, in-4° (p. 173).
(6) Boulanger de Rivery-Fables et Contes, a Paris, chez Duchesne li-
braire, rue Saint-Jacques, au Tempie du Goit, M.DCC.LIV.
(7) Novus linguae et eruditionis Romanae Thesaurus digestus, Iocì'-
pletatus, emendatus... a Jo. Matthia Gesnero... Lipsiae... M.DCCXLIX,
2 voi. in folio (tomo II, col. 861).
(8) Nuova raccolta d'opuscoli scient. e filolog. In Venezia, M.DCCLXXH.
Presso Simone Occhi, in- 12. (V. nel voi. XXIII la Continuazione deW esame
del p. Stefano Marcheselli d. C. d. G. sopra la raccolta Pesarese di tutti
gli antichi poeti latini — libro IV).
— 29 —
Ziegler (1788) (1) poi, i difensori di Fedro furono in maggioranza.
Basterà fare i nomi del padre Brotier (1783) (2), del padre Desbil-
lons (1786) (3), dell'Eschenburg (4), del Jacobs (5) e dello Schwabe
(1806) (6).
Quest'ultimo sopra tutti, riassumendo in favore di Fedro gli
argomenti che gli apologisti anteriori aveano ricavato vuoi dalla
età dei mss., vuoi dal monumento epigrafico dello Zamoyski, spie-
gando il silenzio di Seneca e rivendicando alle testimonianze di
Marziale e di Aviano il loro valore positivo, avea definito così
egregiamente la lunghissima controversia da non lasciare agli
avversari il pretesto d'insorgere ulteriormente.
Ma ecco aprirsi un nuovo capitolo nella storia delle vicende
fedriane.
Erano appena decorsi due anni dalla pubblicazione vittoriosa
dello Schwabe, e l'abate Andrès, conservatore della Beai Biblioteca
di Napoli, si accorgeva dell'esistenza di quel ms. Perottino il quale
era stato scoperto la prima volta in Parma dal fortunato d'Orville,
Quel ms., secondo ne attesta il Ginguenè (7), era stato portato a
Napoli insieme a molti altri codici antichi dalla Farnesiana di
Parma. Conservato, al pari dei suoi compagni di ventura, per
(1) De Mimis Romanorum commeniatio quani amplissimi philosophorum
ordinis auctoritate ad conseqitendos summos in philosophia honores. D.
Maii A. MDCCLXXXVIII publice defendet Yerner. Carol. Ludov. Zie-
gler. Gottingae, typis Joann. Christ. Dieterich, in-8° (p. 75).
(2) Phaedri Augusti Liberti Fabularum Libri V cum notis Gabrielis
Brotier. Parisiis, MDCCLXXXIII, in-12°.
(3) Phaedri Augusti Liberti Fabularum Aesopiarum libri V cum notis
et emendatione Frane. Josephi Desbillons. Manhemii, M.DCCLXXXVI,
in-8».
(4) Manuel de Littérature classique ancienne, traduit de l'allemand de
M. Eschenburg, avec des additions,par C.-F. Cramer, iniprimeur libraire
...A Paris, de l'imprimerie du traducteur an X, 2 voi. in-S" (t. I, p. 463).
(5) Phaedri Augusti Liberti Fabularum Aesopiarum libri V... Schwabe.
Brunsvigae, MDCCCVl, in-8° (t. I, p. 229 e sgg.).
(6) V. op. preced. (la nota alla testimonianza di Seneca).
(7) Nouvelles Fables de Phèdre, traduites en vers italiens par M. Pe-
tronj et en prose franqaise par M. Biagioli avec les notes latines de Vedi-
tion originale et prècédée d'une preface fran^aise par M. Ginguenè,
membre de l'Institut imperiai de France. A Paris, de l'imprimerie de
P. Didot Vaine, MDCCCXIl, in-B" (V. prcfaz., p. xv).
- 30 -
lungo tempo sotto chiave, esso si era sottratto sino allora alle avide
e ripetute ricerche degli studiosi di Fedro.
Si trovava presente alla scoperta dell'Andrès, insieme agli altri
impiegati ordinarli della Biblioteca, Giovanni Antonio Cassitto, il
quale, tolto in mano il codice Perottino, richiamò l'attenzione del-
l'Andrès e degli altri che erano con lui, sopra alcune favole del
ms., le quali, sfuggite a tutti i dotti che avevano esaminato il
codice sino allora, a cominciare dal d'Orville, tradivano manife-
stamente nella forma e nel contenuto la penna di Fedro. Entu-
siasmato dalla sua scoperta, il Cassitto, il 1° dicembre del 1808,
pubblicava le nuove favole in numero di 32 e le iscriveva espli-
citamente e solennemente al nostro Fedro.
Avanti che uscisse alla luce l'edizione del Cassitto (Ij, TAndrès,
nulla sapendo che si stava apparecchiando la medesima, avea con-
sigliato a Cataldo Jannelli, il quale era stato fatto testé aggiunto-
bibliotecario, di pubblicare il ms. Perottino colle favole nuove. Il
Jannelli, essendo entrato in ufficio solo nel giugno dell'anno in
corso (1808), ignorava che il Cassitto avea già estratto dal codice
una prima copia delle favole nuove. Si mise quindi al lavoro; e
l'opera sua era già, in virtù di un decreto da lui stesso solleci-
tato ed ottenuto, nelle mani dei tipografi regii, quando comparve
inaspettata l'edizione del Cassitto. Il Jannelli, vedendosi prevenuto,
sulle prime se ne dispiacque; ma poi, stimolato da quello stesso
contrattempo, poiché il Cassitto l'avea superato in sollecitudine,
si propose di vincerlo nel valore intrinseco della pubblicazione. E
difatti, tre anni dopo (1811), egli dava alla luce le 32 favole
nuove (2), accompagnandole con tre dissertazioni molto erudite (3)
(1) È un'edizione in-8° di 23 pagine, senza l'indice. Sul frontespizio si
legge : Jul. (sic) Phaedri Fabidarum liber novns e M. S. cod. Perottino
regiae bibliothecae nunc primum editJ.A. Cassittus. Neapoli do locccviil.
Excudebat Dominicus Sangiacomo Praesidum venia.
(2) Codex Perottinns ms. regiae bibliothecae Neapolitanae... digestvs et
editus a Cataldo Jannellio eiusdem regiae bibliothecae scriptore. Neapoli,
1811, ex regia typographia, in-S".
(3) In Peroitinum codicem MS. regiae Bibliothecae Neapolitanae... Ca-
taldi Jannellii... Dissertationes tres. Neapoli, 1811. Ex regia typographia.
— al-
ia cui rie provava l'autenticità contro i possibili dubbi che avrebbe
fatto sorgere fra i dotti la sua pubblicazione.
La preveggenza del dotto bibliotecario non valse ad acquietare
lo scetticismo di alcuni eruditi, i quali vollero rompere nel torneo
della critica fedriana una nuova lancia contro l'autenticità. Circa
un anno dopo (1812) l'Adry pubblicava in Parigi un opuscolo (1)
dove, rinnovando i dubbi che Chr. Gotti. Heyne avea manifestato
al Cassitto circa la genuinità delle favole nuove (2), riconosceva
nella composizione di esse due mani diverse e conchiudeva che la
mano di Fedro non ci entrava per nulla.
L'opinione dell'Adry, la quale fin dal suo primo apparire avea
gettato forti dubbi in tutte le coscienze filologiche, continuò ad
imporsi per ben quindici anni.
Ma già nell'edizione stessa del Gail s'era cominciata a manife-
stare fra i dotti una corrente favorevole all'autenticità. Nella sua
prefazione alle favole nuove (3), il Gail, sebbene non osasse at-
tribuire a Fedro la paternità di esse, era però assai lontano dalla
negazione dell'Adry. — Anche il Robert (1825) (4), benché avesse
parole di encomio per il metodo critico dell'Adry, non esitava a
respingere le conclusioni finali di lui. — Si aggiunse il Mai, il
quale, pubblicando nel 1831 il ms. vaticano del Perotti da lui
scoperto l'anno precedente, non manifestava il menomo dubbio
sulla genuinità delle favole nuove (5). — Né questa parve meno
certa all'Orelli, il quale nel supplemento alla sua prima edizione
stampata a Zurigo nel 1831 : supplemento fatto sulla scorta del
(I) Examen des nouvelles fables de Phèdre-Doutes sur leur authenti-
cité. Paris, M.DCCC.XH, in-18».
(2; Ji'li (sic) Phaedri Aug. Lib. Fabidae ineditne xxxil Quas in codice
Perottino Biblioth. Rcgiae Neap. Primus invenit descripait edidit Joannes
Antonins Cassittxs. Xeajìoli, ciò idcccxI ex officina Monitoris utr. Siciline
(V., p. 79, l'epistola di risposta del Cassitto all'Heyne).
(3) V. p. 407 del t. II dell'edizione di Fedro pubblicata dal Gail sotto la
direzione del Lemaire.
(4) Fables inédiies du nioyen àge... Paris, 1H'J5, 2 voi. in-S' (V. V Essai
sur les auteurs doni les fables ont précède celles de La Fontaine. — v. 1.
p. Lxxni).
(5) Classicorum auctorum e Vaiicanis rodicibxs editornm (odws III,
curante Angelo Mai. Romae. ISSI, in-S" (p. 285).
— 32-
ms. del Mai, attribuì gli errori di sintassi e di metrica che pre-
sentava il testo delle favole nuove, in parte al ms. difettoso di cui
si era servito il Perotti, in parte alle emendazioni erronee che il
prelato quattrocentista vi aveva introdotto (1).
Così in Francia, in Italia e in Svizzera l'autenticità, era stata
accettata. Ma in Germania dove le favole antiche erano state og-
getto di una critica sì rude e pertinace, le nuove avevano ispirato
una fiducia anclie minore. Difatti, nel 1832, il Jacobs, il quale
avea pur riconosciuto l'autenticità delle prime, attribuiva le se-
conde a qualche verseggiatore moderno, il quale avrebbe tolto a
suo modello il favolista latino (2). — Se non che dobbiamo ag-
giungere che la Germania non si mostrò unanime nel suo scetti-
cismo. Il Dressler prima, il Diibner poi, si schierarono fra i di-
fensori dell'autenticità. 11 primo, pubblicando a Bautzen, nel 1838,
l'intera opera di Fedro, fece delle favole nuove un sesto libro (3) :
il secondo, nella prefazione alla sua edizioncina classica del 1847,
proclamò esplicitamente la genuinità delle favole nuove (4).
Ma torniamo alle antiche. Dopo la pubblicazione del facsimile
della scrittura del Codex Pithoeanus, accuratamente fatta dopo
istanza dell'Hase da Berger de Xivrey (Parigi, 1830) ; e del fac-
simile della scrittura del Codex Remensis esattamente riprodotto
nell'edizione Panckoucke (1839) (5), nessuno si sognava più di
sollevar dubbi circa l'autenticità delle favole in essi due codici
contenute; ed i filologi non ricordavano la discussione se non per
mostrare il valore degli argomenti ai quali era toccata la vit-
toria finale. Quand'ecco che nel 1854 il dotto Edélestand du
(1) Phaedri Aug. liberti fabulae Aesopiae Turici, MDCCCXXXl,
in-8" (V. prefaz., p. 21).
(2) AUgemeine Schulzeitung, Juni, 1832, li Abth., n°^ 66-67.
(3) Phaedri Augusti liberti Fabulae Aesopiae cum veteres tum novae
atque restitittae... Christianus Timotheus Dressler... Budissae in libraria
Welleriana, MDCCCXXXVIII, in-8° (p. iii).
(4) V. la notizia messa in testa dal Diibner alla sua edizione scolastica
di Fedro e alle ristampe successive della medesima.
(5) Fables de Phèdre. Trad. nouvelle par M. Ernest Panckoucke. Paris,
C.-L.-F. Panckoucke, èditeur, rue des Poitevins, n" 14,MDCCCXXXIX,
in-8°.
- 33-
Méril, nella sua Storia della favola esopica (1), pur conseDtendo
circa l'antichità di Fedro e delie sue favole, presumeva mostrare
che il favolista, come greco di nascita, avea dovuto scrivere nella
sua lingua nazionale; e che perciò l'opera di lui ci era pervenuta,
in seguito alle traduzioni che i Romani ne avrebbero fatto nelle
scuole, sotto forma di versione latina. Anche nella composizione
delle favole nuove il filologo francese credeva riconoscere parecchie
mani anteriori alla Rinascenza.
Se non che la fede nell'autenticità erasi omai radicata profon-
damente nella coscienza collettiva dei dotti; e la ingegnosa, seducente,
conciliativa ipotesi del du Méril, la quale avrebbe potuto assai
meglio che le vecchie esagerazioni dello Schryver e del Christ,
trovar seguaci fra gli studiosi di Fedro, fu ben presto rilegata
fra le chimere degli avversarli anteriori del Favolista. Oggi poi,
dopo l'eccellente opuscolo riassuntivo di Luciano Mùller (2), in
cui una sobria quanto efficace apologia ha suggellato definitiva
mente il volume della critica fedriana, un trionfo pieno e incon-
trastabile è assicurato ai difensori dell'autenticità.
L'Hervieux, nella sua recente e poderosa pubblicazione sui fa-
volisti latini (3), asserisce che la questione sull'autenticità delle
favole di Fedro non presenta oggi che un interesse puramente sto-
rico. Noi, per contrario, opiniamo che, anche dopo la prodigiosa
ricchezza di studi critici pubblicati fino ad oggi sull'argomento, un
lavoro ricostruttivo dell'interessante questione su nuovo schema
metodico può riuscire giovevole agli studiosi del favolista.
Difatti, delle due maggiori opere che sono state scritte finora
sull'autenticità, quella cioè del Jannelli e l'altra dello stesso
Hervieux, la prima converge tutta nell'assodare la genuinità delle
(1) Poésies inédites du moyen dge précédées d'une histoire de la fablc
èsopiqìie par M. Edèlestand du Méril. Paris, librairie Franck, rue Ri-
chelieu, 67; i854, in-8".
(2) Luciani Muelleri de Phaedri et Aviani fabulis libellus. Lipsiae, in
aedibus B. G. Teubneri. A. MDCCCLXXV, in-8o.
(3) Les fabulistes latins depuis le siede d'Auguste jusqu'à la fin du
moyen dge par Léopold Hervieux. Paris, librairie de Firmin-Didot et C,
56, 1881 (v. I, p. 138). È uscita or ora la 2» edizione dei voi. I e li.
Hivitita di filologia, ecc., 1. S
— 34 —
favole nuove, e solo incidentalmente si occupa delle antiche; la
seconda poi, benché abbondi di materiale critico cosi rispetto alla
questione dei primi cinque libri come rispetto a quella dell'-^j)-
pendice, non è riuscita a connettere l'esame diretto dell'opera di
Fedro alla dimostrazione dell'autenticità. L'Hervieux infatti, in
quel capitolo del suo studio che concerne la complicata questione,
pone a profitto della sua tesi i soli arf^omenti esterni della me-
desima: quelli cioè desunti dalle testimonianze dell'antichità re-
lative a Fedro e dalle dichiarazioni Perottine. Egli colloca in tal
guisa fuori discussione quegli argomenti interni così capitali per
la dimostrazione perentoria vuoi della personalità storica del Fa-
volista, vuoi dell'antichità delle favole di lui, quali sono appunto
da un lato l'autobiografia di Fedro che si raccoglie dai prologhi
e dagli epiloghi delle favole, e dall'altro il contenuto antico e la
forma classica dell'opera stessa. Egli è vero che il dotto e labo-
rioso francese, al pari del Jannelli, non ha trascurato, nel primo
capitolo del suo studio generale su Fedro, l'esame biografico-
letterario del Favolista; ma è vero altresì che quell'esame, man-
dato innanzi alla questione pregiudiziale dell'autenticità trattata
dall'Hervieux nell'ultima parte della sua critica fedriana, appa-
risce quale errore di metodo vero e proprio in quanto presuppone
il valore positivo delle testimonianze dell'antichità, le quali costi-
tuiscono Vanteprova così della personalità storica di Fedro come
dell'autenticità dell'opera di lui. Aggiungi che l'Hervieux nella
coscienza anticipata della vittoria finale della sua tesi svolge la
questione come una rassegna storica di opinioni filologiche, direi
quasi come una rivista bibliografica di studi critici fedriani. Il
suo lavoro, in altre parole, è ben lungi dall'essere una ricostru-
zione organica delle prove addotte anteriormente in sostegno del-
l'autenticità od una confutazione sistematica degli argomenti con-
trarii, indipendentemente cioè da ogni criterio estraneo di successione
storica di polemiche filologiche: successione, le cui capricciose e
screziate vicende, insieme agli elementi personali dei critici, noc-
ciono il più delle volte alla compattezza severa che deve governare
lo svolgimento di una tesi scientifica.
Non intendiamo scemare colle nostre osservazioni il merito in-
— 35 —
discutibilmente grande dell'opera dell'Hervieux, il quale, avendo
informato il suo studio generale sui favolisti latini a intendimenti
storico-letterarii piuttosto che critici nello stretto senso del voca-
bolo, si è visto nella necessità di estendere il metodo storico-espo-
sitivo al suo studio particolare su Fedro e sull'autenticità del-
l'opera di lui. Notiamo soltanto a giustificazione del presente
scritto, che anche dopo il lavoro compilativo del filologo francese,
la bibliografia fedriana poteva arricchirsi di uno studio critico ul-
teriore non senza interesse per gli odierni studiosi del Favolista.
I quali, se finora sono stati soliti di considerare la vita e l'opera
di Fedro come documenti biografici e letterarii, potranno in av-
venire, studiandole sotto un terzo e più importante aspetto, inten-
derle come riprova critica della loro medesima antichità. Non
nascondiamo che a questo terzo aspetto delle favole fedriane ab-
biano accennato i critici anteriori: lo Schwabe prima, il Jannelli
poi, ed ultimo L. Mùller; solo diciamo che l'esame da cotesti
dotti istituito può essere avvalorato da un'analisi, non dirò più
felice od accurata, ma più direttamente connessa alla questione
fondamentale.
Noi dunque ci proponiamo di riarticolare, come membra di un
solo organismo vivente, le singole fasi attraversate dalla critica
fedriana nella sua storica evoluzione, industriandoci, quanto n"è
dato, di attrarre nell'orbita della discussione quegli elementi che
sono sfuggiti in tutta la loro importanza ai moderni studiosi di
Fedro, quali sono appunto la cronologia delle favole connessa al-
l'interpretazione della testimonianza di Seneca e le allusioni sto-
riche del Favolista a fatti e persone contemporanee.
Esordiremo col rivendicare sulla scorta delle testimonianze clas-
siche la personalità storica di Fedro. Esamineremo quindi atten-
tamente le dichiarazioni Perottine allo scopo di eliminare il sospetto
non sia l'opera da noi posseduta una mistificazione letteraria del
prelato quattrocentista. Esaurito così l'esame dei fatti esterni,
scenderemo all'analisi diretta del contenuto allegorico e storico
delle favole antiche e dei pregi linguistici, stilistici, metrici delle
medesime, ricavando da questi fatti interni le prove più luminose
della loro autenticità. Ci riuscirà in tal modo più agevole il re-
— 36 —
spingere la congettura del du Méril il quale presume di derivare
dai caratteri letterari delle favole la prova contraria alla loro di-
retta genuinità. — Delle favole nuove ci occuperemo in tre capi-
toli distinti. Esclusa nel primo di essi l'ipotesi di quelli eruditi,
i quali fanno autore di esse favole uno scrittore antico diverso da
Fedro; e combattuta nel secondo la paternità Perottina delle me-
desime; nel terzo, esaminandole in se stesse e ravvicinandole poscia
alle antiche, ne mostreremo l'origine comune, vuoi rispetto alla
forma, vuoi rispetto al contenuto.
I. — La prima testimonianza dell'antichità relativa a Fedro
si desume da un famoso passo della Consolatio ad Polyhitini di
Seneca (e. XXVII) dove il filosofo, esortando l'amico a coltivare
la favola esopica, definisce quest'ultima « intentaium romanis in-
(jeniis opus ». Questa dichiarazione apparentemente contradittoria
alla personalità di Fedro, perchè fatta da un contemporaneo di
lui, fu pervicacemente accampata contro l'autenticità, provocando
fra i difensori della medesima una colluvie di spiegazioni cosi
cervellotiche e ripugnanti fra loro, che uno studio della cronologia
fedriana è bastevole a respingerle tutte nel regno delle fantasie.
Fedro, congetturò il Cannegieter (1), diede mano la prima volta
alle sue favole verso l'ottavo anno del regno di Claudio, posterior-
mente cioè alla Consolatio di Seneca scritta sugli inizi del me-
desimo regno (2). — 11 prologo del 1. Ili delle favole scopre tutta
l'assurdità di cotesta ipotesi. Fedro si dorrebbe, dopo circa quin-
dici anni (3), della vendetta di Sciano come di sciagura recente-
(1) Flavii Aviani Fabulae cum commentariis selectis... quibus unimad-
versiones siias adiecit Henricus Cannegieter... Amstelodami apud Mar-
Unum Schagen, M.DCCXXXI (p. 9).
(2) In essa si accenna infatti alla Britannia aperta (e. XXXII): avveni-
mento che gli storici collocano al 43 d. Cr., cioè al 3" anno dell'impero di
Claudio.
(3) Tanti, infatti, ne corrono fra il processo intentato al Nostro da Seiano
verso il 33 d. Cr. — come si desume, in appresso, dal tempo da noi asse-
gnato alla composizione e divulgazione del 1. Ili — , e T 8° anno del regno
di Claudio, corrispondente al 48 d. Cr.
— 37 —
niente patita e chiamerebbe le sue favole farmaco di un dolore
sofferto tanto tempo prima (vv. 41-44) (1)! Che dire poi delle
lodi argute dispensate a Tiberio nella favola 5* del libro II (vv. 19
e 23), le quali, verisimili sulla bocca dello scaltro favolista solo
durante la vita del tiranno, dopo la costui morte accompagnata
dall'universale esecrazione (2) sarebbero state il linguaggio di un
mentecatto ?
Ripiego meschino è quello del Desbillons (3) secondo il quale
le favole del Nostro sarebbero state bensì composte anteriormente
alla Consolatio, ma divulgate posteriormente. Un'occhiata ai pro-
loghi di esse ne chiarisce che Fedro le pubblicava in forma di
libri a mano a mano che le componeva (4). Ora, poiché lo stesso
Desbillons riconosce che le favole 2^ e 6* del 1. I dovettero essere
divulgate prima della caduta di Seiano, accorda implicitamente
che almeno il 1. I fu pubblicato prima della Consolaiio, non po-
tendosi ammettere, giusta l'esame anzidetto dei prologhi, che le
favole uscissero alla luce singulatim.
Memore forse della sorte toccata sotto Seiano agli scritti co-
raggiosi di Cremuzio Cordo (5), il Vavasseur (6) sospettò che il
ministro di Tiberio, provocato nella sua bestiale ferocia dai frizzi
celati nelle favole del Nostro, avesse decretato la distruzione delle
medesime, le quali perciò sarebbero state dimenticate al tempo
(1) Per ovviare ad un sì mostruoso anacronismo il Gannegieter si è visto
costretto a trasformare il Seiano di Fedro in Narcisso favorito di Claudio I
Superfluo il dire che a furia di simili metamorfosi si sovverte tutta intera
la storia.
(2) Gfr. SvET., riè., 75; Tac, Ann., VI, 50.
(3) V. op. cit., p. XI e sg. della prefazione.
(4) Si rileva, infatti, dal prol. del 1. II che il 1. 1 era stato già abbando-
nato al giudizio del pubblico ; dal prol. del 1. Ili (vv. 1 e 29) si ricava che
avevan vista la luce i due libri precedenti ; altrettanto risulta rispetto ai
primi tre libri del prol. del 1. IV (v. 14), come dal prol. del 1. V si raccoglie
che tutto il resto dell'opera avea avuto una larga diffusione.
(5) Gfr. SvET., Tib., 61 ; Calig., 16 ; Tac, Ann., IV, 35 ; Sen., Ad Marc.
Consol., I, 3; XXII, 4; XXVI, 5.
(6) Francisci Vavassoris societ. Jesu De ludicra dictione Liber in quo
tota iocandi ratio ex veterum scriptis aestimatur. Lutetiae Parisiorunu
apud Sebastianum Cramosium, architypographum regima. M.DC.LVIII.
Cum privilegio regis christianissimi, ìnA" (p. 208-209).
— 38 -
di Seneca. — Amminicolo buono soltanto pei primi due libri,
accennandosi nel prologo del terzo al processo intentato a Fedro
da Sciano come a fatto compiuto. Ora, chi non direbbe insensato
il Nostro qualora, colpito gravemente dal tiranno per le allusioni
pungenti dei primi due libri, avesse nel libro seguente, stimma-
tizzato quel processo odioso in una forma si aperta ed irritante,
durante ancora il regime del suo oppressore? — Però le favole
del 1. Ili, sollievo a quella sventura, dovettero essere composte
a breve intervallo dalla medesima e affidate al pubblico non molto
dopo la caduta di Sei ano, essendo stati tolti di mezzo, alla costui
morte, il parentado e i partigiani di lui (1). Ora da cotesti av-
venimenti alla Consolatio di Seneca decorse la bellezza di un
decennio circa: tempo bastevole perchè il filosofo avesse acquistato
conoscenza, quando scriveva, del 1. Ili di Fedro scampato alla
soppressione sognata dal Yavasseur.
Cade COSI il cavillo dello Schwabe(2), secondo il quale Seneca
avrebbe considerato l'apologo come estraneo sino allora ai Romani
in quanto prima della Gonsolatio non si conoscevano che i primi
due libri di Fedro composti di favole imitate nella maggior
parte da Esopo. — L'Hervieux (3), pur convenendo con noi che
il 1. IH dovè comparire alla luce sotto Tiberio, giudica egual-
mente valido il sofisma dello Schwabe per essere le favole di quel
libro, a parer suo, allo stesso modo delle precedenti, derivate in
gran numero dal favolista frigio. Eppure Fedro, presentando al
pubblico il libro in questione, dichiara di aver composto, oltre le
esopìche, molte altre favole a cui il suo modello greco non aveva
badato (III, proL, 38-40)! Esagerazione! grida qui incredulo il
filologo francese; ma lo smentisce il galantomismo letterario di
Fedro, il quale si confessa seguace di Esopo dove lo è realmente
(I, prol., 1; II, prol., 1). Concediamo tuttavia, un istante solo, allo
Hervieux che il 1. III non sia originale. La dichiarazione nega-
tiva di Seneca non verrebbe punto giustificata dal contenuto in
(1) Tac, Ann., V, 8-9.
(2) Op. cit., 1. 1, p. 195.238.
(3) Op. cit., 1. 1, p. 29 e sg^
-39 -
gran parte nuovo dei due ultimi libri (IV, prol., 11-13; V, prol.) (1)
pubblicati prima della Consolatio. Difatti, se, con ogni verisimi-
glianza, l'anno dopo la caduta di Seiano, cioè il 35 d. Cr., fu di-
vulgato il 1. Ili, scritto dall'autore sulla settantina (2); accordando
circa tre anni alla composizione e pubblicazione di ciascuno dei
due ultimi libri, si può comodamente fissare la divulgazione del
1. V, composto appunto da Fedro quando era ornai ottuagenario,
al 41 0 42 d. Cr.: cioè un biennio avanti la Gonsolatio scritta
il 43 0 44 d. Cr.
Scartate le ipotesi conciliative, eccoci al rimedio radicale del
Jannelli (3) il quale ci susurra all' orecchio che Seneca, attesa
la modesta personalità di Fedro e lo scarso numero di esemplari
che per Roma, città allora vastissima, sarebbero circolati delle
favole di lui, difficilmente potè avere sentore delle medesime. La
oscurità di cui il dotto napoletano ha circondato il Nostro perchè
liberto, vien diradata pensando al Polibio della Consolatio in que-
stione, il quale, liberto pur egli, non era affatto sconosciuto a Se-
neca che pregiava ed encomiava assaissimo gli scritti di lui (4).
D'altronde, come si sarebbe sottratta alla conoscenza dello stoico
cordovese l'opera di un moralista della medesima setta filosofica,
quale appunto il Nostro? Né immagini il Jannelli che all'opera
di Fedro democratica ne' suoi scopi fosse disagevole l'accesso al
ceto aristocratico cui Seneca apparteneva. I ripetuti accenni del
Nostro ad ostilità mossegli da personaggi pericolosi (III, epil., 28-
35; li, 6; I, 1; ecc. ecc.) sono lì a contraddirlo; come sono lì a
(1) L'Hervieux, dinanzi alle dichiarazioni fatte dal Nostro sull'origirialith
dei due ultimi libri, torna a chiudersi nel suo scetticismo. E un sistema che
può essere dimostrato ingiusto da un esame anche superficiale delle favole
dei libri in questione.
(2) Diciamo sulla settantina e, più sotto, ornai ottuagenario., determinando
i dati fornitici dal Nostro mediante i calcoli di Gensorino. Fedro nel 1. Ili
(epil. 8, 16-19) dicesi vecchio, cioè settantenne, secondo Gensorino {De Die
Natal., e. XIV); nel 1. V si chiama quasi decrepito, cioè prossimo al limite
ordinario della vita, la quale estendevasi, per Gensorino (ibid.), fino all'SO"
anno.
(3) V. Top. cit., De Phaedri vita Cataldi Jannellii Dissertatio, t. IH,
p. 37-3H.
(4) Sen., Cons. ad Polyb., XXVI e XXX.
- 40 —
sraagfare le difficoltà create dalla sua fantasia alla diffusione delle
favole le frequenti allusioni di Fedro alle diverse classi di lettori
dell'opera sua, a quella dei dotti in ispecie (il, epil., 10-19; IV,
prol., 17-20; I, prol., 5-7; ecc. ecc.), fra i quali Seneca primeg-
giava (1).
Altrettanto vaporosa ed arbitraria è l'altra sottigliezza del Jan-
nelli, colla quale si supporrebbe Seneca dimentico del Nostro,
quando scriveva (2). 11 filosofo — così il critico napoletano — con-
fessava egli stesso all'amico Polibio avergli lo squallore selvaggio
dell'esilio talmente affievolita la memoria che a stento gli soccor-
revano nello scrivere le parole della lingua di Koma. È un pun-
tello assai debole alla fiacca trovata del Jannelli cotesto passo
del filosofo! Studiandolo un po' da vicino, scorgiamo subito non
esser già dell'indebolimento della facoltà ritentiva che Seneca si
accorava, sibbene della forma mal sicura in cui i suoi argomenti
persuasivi erano formulati (3). Non si dimentica, del resto, così di
leggieri uno scrittore contemporaneo unico a coltivare il genere
letterario di cui si sta espressamente ragionando!
Dopo le stravaganze e gli eccessi la sana interpretazione. È
(1) Lo stesso Du Méril (op. cit., p. 55), esaminando i versi: « Mihi parta
laus est, quod tu, quod similes tui, Yestras in chartas verba transfertis
mea Digmimque longa iudicatis memoria » (IV, prol., 17-19), conchiude
che durante la vita dell'autore stesso, le favole di lui dovevano aver acqui-
stata una certa notorietà e che perciò, appartenendo esse ad uno scrittore
non oscuro, non sarebbero potute sfuggire all'attenzione di Seneca. Soprat-
tutto, aggiungiamo noi, in quanto erano un tentativo letterario addirittura
nuovo pei Romani.
(2) V. op. cit., t. Ili, De Phaedri vita Cataldi Jannellii dissertatio, p. 38.
(3) Il luogo dice: <iB.aec ittcwmque potui,longo iam situ obsoleto et he-
betato animo composui. Quae si aut parum respondere ingenio tuo, aut
parum mederi dolori videbuntur, cogita quam, non facile latina ei verba
succurrant qiiem, barbaroriim inconditus gravisque fremitus circum.sonat v>.
— Evidentemente queìVhebetato non si addice alla memoria, la quale non
è né acuta né ottusa; come l'inciso: « non facile latina, ei verba succì'.r-
rant », invece che ad una dimenticanza materiale della lingua, accenna
alla perdita della latinità nello scrivere, derivata al filosofo dal continuo
ronzargli all'orecchio la barbara favella dei Córsi : latinità che costituiva
secondo Io stesso Seneca (Cons. ad Polyb., e. XXX), il maggior pregio
degli scritti di Polibio e che, a giudizio concorde dei critici, manca affatto
alla Consolatio in questione.
— 41 —
quella prodotta primamente dal Pithoii (1), accolta in seguito da
altri dotti e rimessa finalmente a nuovo dal Jannelli (2) il quale
ha mostrato prediligerla, e a buon dritto, alle altre due testé ri-
pudiate. Con essa nessun appiglio disperato, nessuna stiracchiatura
irragionevole al testo di Seneca, il quale, rispettato nel suo valor
letterale, fornisce un senso soddisfacentissimo. Le parole : opus in-
tentatum Romanis ingeniis circoscrivono il pensiero del filosofo
entro limiti geografici dai quali era esclusa la patria di Fedro.
Senza dubbio, Seneca desiderava contrapporre, nella favola esopica,
a Fedro, ingegno greco un ingegno romano nel suo amico Polibio.
Ci si oppone: menando buona cotesta spiegazione geografica. Te
renzio perchè Africano, Ausonio perchè Franco e lo stesso Seneca
perchè di Cordova non sarebbero scrittori romani. Latius patet
conclusio: non discorriamo noi di scrittori, ma ài' ingegni romani.
Questi nascono e crescono in Roma o nel Lazio ; quelli, stranieri
di patria e di educazione, non usano che accidentalmente l'idioma
latino. Properzio, cittadino di Roma per diritto acquisito, non si
stimava ingegno romano perchè Umbro di nascita (3). Xè Terenzio,
né Ausonio, né Seneca, né alcun altro scrittore latino nato fuori
di Roma fu detto mai, che si sappia, ingegno romano. Fedro poi,
il quale tanto si gloriava del suo nascimento in Pieria (III, prol. 17) (4),
non solo non si è chiamato mai in veruna guisa romano, masi é chia-
ramente distinto dagl'ingegni di Roma e si è ad essi in qualche
modo contrapposto. Che altro dice, infatti, quel « si labori faverit
(1) V. p. 3 dell'ediz. cit.
(2j V. loc. cit., p. 39-40.
(3) Egli, difatti, cantava; « Tunc ego Romanis praeferar ingeniis »
(L. 1, el. 7^ V. 21).
(4) 11 Du Méril (op. cit., p. 74) con i natali stranieri di Fedro presume
spiegare la frase negativa di Seneca, sostenendo che il Nostro dovè scrivere
nella sua lingua nazionale. E un assurdo che si distrugge col semplice buon
senso. Fedro, il quale scriveva stando in Roma e ai Romani dedicava le
sue favole, non potca sognarsi di scrivere le medesime in una lingua che
non fosse la latina. D'altra parte, i versi: « Quod si labori faverit Latium
meo Plures habebit quos opponat Graeciae » (li, epil., 8-9) e gli altri :
« Particelo, chartis nomen victi<rum meis, Latinis duni inancbit pretium
litteris » (IV, epil., 5-6) qual significato avrebbero essi mai, qualora Fedro
non avesse adoperato il latino ?
- 42 -
Latium meo » del 1, II (epil., 8) se non che il Nostro stiraavasi
uno scrittore straniero al Lazio? Viceversa, Polibio ci appare ro-
mano di patria e di nazionalità. Seneca fa menzione ora dei fra-
telli, ora dell'illustre e forse antico casato di lui (1). Gli esempi
addotti dal filosofo a consolare Polibio sono presi tutti dagli an-
nali e dalle storie di Roma (2); né alcuno è attinto, se ben ci
ricorda, dalla storia greca: il che avrebbe fatto indubbiamente
Seneca qualora il suo amico fosse stato greco o straniero. Che
anzi, biasimando il filosofo il corrotto dei Romani per la morte di
Caligola, volgesi a Polibio dicendo : « Frocul illud exemplum ah
omni Romano viro » (3). Né fa ostacoli la forma greca del nome,
essendo soliti i liberti romani d'allora, come attestano innumere-
voli iscrizioni antiche, di ribattezzarsi alla greca per vezzo (4).
Dopo ciò, come potè arguire il Cassitto (5) l'origine greca di
Polibio dal nome di lui per costruire poi, sopra una simile base,
mediante un cumulo chimerico di paragoni, l'identità di persona
fra l'amico di Seneca ed il Nostro? Certo, se Fedro non fosse che
Polibio, egli potrebbe avere atteso a scriver favole sol dopo l'esorta-
zione di Seneca, il quale perciò, nella Consolatio, avrebbe definito
giustamente l'apologo: « opus Romanis intentatum ». Ma nella cri-
tica non basta la buona volontà di spiegare; è duopo potere e
sapere spiegare. Il Cassitto voleva, ma non ha potuto ne saputo.
Non ha saputo spiegare la sovrapposizione del nome Fedro a quello
di Polibio, giacche nell'epigrafia antica il nome proprio della per-
sona non resta assorbito mai dal soprannome (G), quale sarebbe
appunto Fedro (7) nel caso del Cassitto. Molto meno poi ha po-
(1) Gfr. Sen., Cons. ad Polyb., XXX-XXXI.
(2) Gfr. loc. cit., XXXI-XXXVI.
(3) Cfr. loc. cit., XXXVI.
(4) Secondo il Lipsius, l'amico di Seneca si nomò Polibio dai suoi studi
e dalla sua molteplice coltura.
(5) Juli (sic) Phaedri Aug. Lib. Fabulae ineditae xxxil Quas in codice
Perottino Biblioth. Regine Neap. Primus invenit descripsit edidit Jo. Ant.
Cassittus. Neapoli cioiocccxl, ex officina Monitoris t<tr. Siciliae (V. p. 16,
il capitolo intitolato : Coniecturae de Polybio qui et Phaedrus).
(6) Tra i due termini s'erge costantemente, qual muraglia chinese, la re-
lativa qui vocatur ovvero qui et.
(7) Fedro sonerebbe pel Cassitto lepido, faceto, favolista ( ! ). Polibio
- 43 -
tuto sanare la contraddizione in cui si è impigliato egli stesso
quando, collocata la pubblicazione dei primi due libri del Nostro
sotto Tiberio e quella dei due libri seguenti sotto Caligola, ha
tolto ogni significato ragionevole all'esortazione di Seneca. Preci-
pitano quindi nel vuoto gli sforzi immani a cui si è condannato
nel fabbricare l'identità fra Polibio e Fedro. Le qualità morali
da lui riscontrate nell'uno e nell'altro personaggio: la frugalità,
per es., l'astensione dalle ricchezze, l'amor sincero alle lettere, la
rettitudine di coscienza, più che caratteristiche individuali, sono
note comuni ad ogni seguace dell'etica stoica di quel tempo, ad
ogni cittadino romano dell'epoca di Tiberio, quando cioè il pos-
sesso di beni era un pericolo di vita, e finalmente ad ogni let-
terato d'allora, il quale si fosse tutto consacrato all'acquisto del
sapere e della virtù. Se non che il Cassitto ha traveduto una se-
conda identità fra Seneca e il Particulone di Fedro. Particulone —
così il critico napoletano — è ringraziato nel 1. IV (proL, 17-18) da
Fedro per avere trascritto le sentenze morali di lui nelle opere
sue; orbene, raffrontando il e. XV del De tranquillìtate animi
colla fav. 15« del 1. Ili, si trovano somiglianti tra loro come due
gocce d'acqua. — Quella che al Cassitto è parsa derivazione non
è che mera coincidenza. Se Seneca avesse realmente imitato il
luogo di Fedro, non avrebbe omesso di riferire accanto all'esempio
di Socrate che si balocca con i bambini l'altro somigliantissimo,
che è nella favola fedriana in questione, del vecchio Esopo che
bamboleggia giocando alle noci con i ragazzi. Ad ogni modo, il
Be tranquillìtate non uscì alla luce che sotto Nerone, essendo
esso indirizzato ad Anneo Sereno prefetto dei vigili di quell'im-
peratore; laddove il 1. IV dedicato a Particulone sarebbe stato
divulgato, secondo il Cassitto, sotto Caligola. Fedro pertanto
avrebbe potuto ricevere, secondo il critico napoletano, tal soprannome dagli
amici 0 anche dallo stesso Augusto. — Dagli amici? ma nessuna riprova
di ciò nella Consolatio diretta a Polibio da un amico, e letterato per giunta.
Da Augusto? ma Polibio sarebbe stato chiamato Fedro, cioè favolista (se-
secondo il Cassitto), molto tempo prima di esser tale; giacché egli non
avrebbe atteso a scriver favole se non dopo il consiglio di Seneca, vale a
dire, sotto Claudio !
— 44 —
avrebbe ringraziato Seneca di aver riportato la morale di una sua
favola, prima che il filosofo l'avesse realmente riportata! — E cosi,
Seneca non essendo restato che Seneca, Polibio non altri che Po-
libio e Fedro non altra cosa che Fedro, resta altresì chiarito che
lo stoico cordovese intendeva contrapporre nel genere letterario del-
l'apologo a Fedro, ingegno greco^ Polibio, ingegno romano, non
avendo Roma prodotto sino a quel tempo favolisti di sorta, e
avendo perciò Seneca, pur dopo l'esempio di Fedro, ogni ragion
di asserire: fahellas et Aesopios logos intentatum Romanis in-
geniis opus.
Nell'epigr. 20** del 1. Ili Marziale, interrogando la sua Musa
circa le occupazioni letterarie del poeta Canio Rufo suo amico e
concittadino, se ne esce a un certo punto in questa supposizione:
An aemulatur improbi iocos Phaedri? — Una base storica così
salda alla personalità di Fedro, quale è appunto cotesta testimo-
nianza di Marziale vissuto a breve distanza dal Favolista, non ha
potuto essere scalzata dai colpi energici e successivi che ad essa
hanno avventato i nemici dell'autenticità.
Il Farnabio (1), anzi tutti, pigliando Vimprohus dell'epigramma
nell'accezione ordinaria d'immorale, stimava disdicevole cotesta
nota di biasimo ad un favolista, scrittore morale di professione ;
identificava quindi il Fedro di Marziale con qualche mimografo
di quel nome. — Marziale dunque, dopo aver supposto Canio Rufo
occupato in istudi storici e nella composizione di elegie e poemi
epici (2), avrebbe spronato l'amico a rivaleggiare con un iocula-
rius (è la parola del Farnabio), il quale sarebbe stato, per giunta,
moralmente spregevole ! — Che se l'antichità ci ha trasmessi i
nomi di alcuni mimcgrafi latini, i quali, per aver nobilitato, mercè
(1) Op. cit., loc. cit. — L'opinione del Farnabio fu condivisa dallo Ziegler
(V. op. cit., loc. cit.).
(2) « Utrum, ne chartis tradtt ille victuris
« Legenda temporum acta Claudianorum ?
« An quae Neroni falsus adstruit scriptor ?
« Lascivus elegis, an severus herois ? (vv. 2-6).
— 45 —
il loro ingegno, l'umil natura de' loro coniponimenti, avrebbe? po-
tuto eccitare emulazione negli uomini colti ; del Fedro raimografo
del Parnabio, se n'eccettui il sospetto del filologo inglese, non si
trova fatta menzione da alcuno scrittore latino. — Aggiungi che
qualora Marziale avesse davvero accennato all'immoralità del pre-
sunto mimografo, la sua vena epigrammatica gli avrebbe suggerito
un epiteto ben più arguto di qneWimprobus cosi povero di umo-
rismo nella sua accezione letterale di malvagio.
Alla stranezza del Farnabio seguì la speciosa argomentazione
del Christ (1). Che Marziale, diceva il critico tedesco, abbia inteso
designare Fedro il filosofo epicureo, lo si deduce dal fatto che
Canio Rufo apparteneva alla medesima scuola filosofica e aveva
perciò dovuto applicarsi allo stesso genere di studi, emulando in
talento e in dottrina i suoi predecessori, — Ignoriamo da qual
testimonianza il Christ abbia desunto il carattere della filosofia
di Canio Rufo o, meglio, abbia attinto che l'amico di Marziale era
cultore di studi filosofici. La dipintura fattane nell'epigramma in
esame cel ritrae, più che come pensatore, qual dilettante infa-
tuato di poesia (2). — Ne dica il Christ che l'agg. improbus, se
si attaglia ad uno scrittore robusto e laborioso, non si addice in
niun modo a un favolista il quale scriva cose volgari in uno stile
barbaro ed oscuro. Non sono infatti volgari gli alti ammaestra-
menti delle favole fedriane; non è oscuro, né barbaro uno stile,
il quale è stato riconosciuto dai maggiori stilisti di ogni tempo
come degnissimo del periodo aureo della lingua latina. — 11 critico
tedesco per poter supporre che Marziale parli di quelle disserta-
zioni satiriche, colle quali Fedro il filosofo avea ribattute le teorie
degli avversarli, è costretto a riferire il genitivo improhi all'ac-
cusativo iocos. Ma qui è il punto. Bisogna rispettare anzitutto il
testo, secondo i canoni più elementari dell'ermeneutica. — Che se
(1) Op. cit.
(2) Nò altra conclusione ricavasi da altri tre luoghi di Marziale relativi
a Canio Rufo, il quale ora (1. 1, epigr. 70) è rassomigliato alla statua sor-
ridente di Pane; ora (1. 1, epigr. 62) allieta colla sua presenza i Gaditani:
ora (1. Ili, epigr. 64), finalmente, esercita su coloro che l'ascoltano un fascino
maggioro delle Sirene.
- 46 —
il Christ obbietta non potersi colla parola iocos indicare la favola,
in quanto questa non riesce generalmente ad eccitare il riso, si
può sempre rispondergli col giudizio stesso di Fedro, il quale ri-
pone nell'umorismo il pregio precipuo dei suoi componimenti (1,
prol., 3) e definisce costantemente iocus la favola (11, proL, 5; 111,
proL, 37). — Ed ora non si spiega addirittura il valore dato dal
Christ a quella parola, di dissertazione filosofica. 11 dotto tedesco
adduce qui il motteggio di cui Fedro il filosofo aveva dovuto
spruzzare la sua polemica contro lo Stoicismo; ma per quanto vi-
vace possa essere uno scritto filosofico, la voce iocos ne è sempre
una poco degna espressione lessicale. Ben più gravi ed austeri
che la morale spicciola del Nostro erano gli argomenti maneg-
giati da Fedro il filosofo; essi, quantunque avvivati dal calore
della polemica, serbavano sempre la severità della loro natura
speculativa, senza mai discendere al grado di scherzo e di riso,
come pur si verifica, il più delle volte, della favola esopica.
Sfatati i tentativi d'interpretazione ostile all'autenticità, si af-
follano le spiegazioni dei sostenitori della medesima. Primo il
Teuffel (1), scoprendo in Fedro non so qual rozzezza di stile e
quali pedestri locuzioni, volle con esse giustificare l'enimmatico
improòus; ma non fece fortuna. Marziale infatti, che, giusta i
ravvicinamenti stilistici di alcuni dotti, avea tolto in prestito da
Fedro espressioni efficacissime (2), non poteva chiamare rozzo uno
stile modellato sulla finezza aristocratica di Terenzio, come non
poteva condannare sommariamente un'opera in cui il difetto della
rozzezza sarebbe solo sporadico e insignificante. Molto meno poi
poteva addebitare al Nostro i modi di dire popolari. Fedro, com-
ponendo, oltre che pei letterati, per la massa del popolo, dovea
mutuare da esso, tutte le volte che ne abbisognasse, quel lin-
guaggio vivo e giornaliero che è così confacente al carattere de-
(1) V. nella sua storia della letteratura latina (traduz. frane, Parigi, 1881)
il capitolo che riguarda la vita di Fedro.
(2) Fedro (I, 21, 5): « Aper fulmineis ad eum venit dentibus »,• Marziale
(XI, 69, 9): « Fulmineo spumantis apri suni dente perempta ». — Fedro
(IV, epil., 5): « Particulo, chartis nomen victurwn meis »; Marziale (VII,
44, 7): « Si victura meis ìnandantur nomina chartis ».
- 47 -
motico della favola. Noi poi non dobbiamo dimenticare i numerosi
guasti ed interpolazioni, dalle quali ci è giunto malconcio il testo
delle favole attraverso le mani imperite degli amanuensi. Qualora
pertanto si sorprenda in Fedro — dice Luciano Mùller (1) — qualche
menda di lingua o di stile, la quale possa essere espurgata senza
grave violazione del testo, ninno dovrà dubitare ch'essa provenga
dagli editori. — Un'ultima nota. Marziale non avrebbe proposto
mai all'emulazione di Canio Eufo uno scrittore rozzo e volgare, e
perchè fa vista di nominare Fedro a titolo di onore p«r l'amico
poeta, e perchè questi, non alieno, giusta l'epigramma in esame,
dalla squisitezza letteraria attica, era immeritevole di quella sup-
posizione offensiva che Marziale avrebbe espresso sulla discutibilità
dei modelli poetici di lui.
Non più accettevole della spiegazione arbitraria del Teuffel cre-
diamo la goffa versione del Eigault (2), il quale, rilevati in Fedro
alcuni tratti licenziosi e fattine oggetto di censura sulla bocca di
Marziale, traduce Vimprohus con immorale. Da qual pulpito mai
sarebbe venuta la predica ! Marziale avrebbe dato addosso a Fedro
sol perchè questi avrebbe sfiorato alcune lubricità assai più con-
donabili delle stomacaggini marzialesche ! V'ha di più. Immorale
dicesi quel poeta, gli scritti del quale siano licenziosi nella mag-
gior parte ; viceversa, di Fedro non si leggono che sole due o tre
favole superficialmente oscene. E pur aggiungendone altre tre o
quattro, e magari anche dieci, nell'ipotesi siano andate perdute,
che cosa mai rappresenterebbe una cifra sì scarsa a paragone di
tutto il resto dell'opera ? D'altronde, è immorale quello scrittore,
il quale si patulla nel brago delle laidezze ed abbellisce le me-
desime ai lettori per procurare ad essi un vergognoso compiaci-
mento ; Fedro, all'opposto, non intendeva comunicare altrui che
un salutare ribrezzo per quelle turpitudini cotanto in voga al suo
tempo.
Ha rasentato, ma non imbroccato, la soluzione dell'enimma l'a-
cume ermeneutico del Gronovio (3), il quale, pensando alla favella
(1) Op. cit., p. 4.
(2) V. la prefazione alla sua edizione di Fedro.
(3) Joatmis Friderici Gronooii in P. Papinii Statii Sijloarn.m librus V
- 48-
accordata nelle favole ai bruti, e alle frecciate dirette dal Nostro
contro i potenti, ha sostituito aWimprohus un audacidus. Ora è
bensì un ardimento letterario il tramutare in uomini le bestie ;
ma cotesta finzione poetica, escogitata già, la prima volta, dallo
stesso inventore dell'apologo, non si afferma qual caratteristica
individuale della favola fedriana: caratteristica clie Marziale in-
tendeva certamente significare. Del pari, non si dee chiamare ar-
dito quello scrittore che si cela colla maschera dell'allegoria per
colpire i potenti. 11 favolista non è lo storico coraggioso, il quale
espone i fatti nella loro nuda realtà e ne biasima apertamente
gli autori, ove faccia bisogno; e non è neppure il poeta satirico
od epigrammatico, il quale appunta i suoi strali in pieno me-
riggio. — Fedro per giungere impunemente al suo scopo doveva
avvolgersi in tortuosi meandri.
Astuto dunque, non ardito dovè qualificarlo Marziale con quel-
l'agg. improbus, il quale presso i latini riceve frequentemente
tale accezione (1). Fedro, infatti, aveva manifestato nelle favole
i suoi sentimenti con tale accortezza da eludere la calunnia degli
invidi avversarii, lasciandosi intender soltanto da lettori egual-
mente perspicaci. Cel fa sapere egli stesso : « Non semper ea
quae sunt videntur ; decipit Frons prima multos ; rara tnens in-
telligit Quod interiore condidit cura angulo » (IV, 2, 16-18).
Molti dunque erano coloro, i quali non penetravano nelle inten-
zioni riposte dello scaltro Fedro: tanto vero che egli scrisse ap-
positamente per loro una favoletta (III, 9, 8). Ecco pertanto —
esclama qui il Jannelli (2) — come Marziale, sapientissimamente,
non disse già: improhos iocos Phaedri, ma iocos improbi Phaedri:
giacché le favole apparivano bensì semplici ed aperte, ma l'au-
tore di esse era un maliziosaccio, il quale spesso illudeva con
tali parvenze i lettori ; e Iacea mestieri un non volgare intuito
a capire gl'intendimenti occulti di quel tristanzuolo.
diatribe ad Th. Granswinckelium equitem et jc. Bagae Comitis, ex offi-
cina Theodori Maire, ciò io cxxxvii, in-12° (1. IH, e. XXIX, p. 185 e sg,).
(1) Tale è anche Topinione del Desbillons (Op. cit., Disputatio I, p. xtiii)
e del Jannelli (Op. cit., t. Ili, De Phaedri vita, p. 53-55).
(2) Op. cit., loc. cit.
— 49 —
Ben più importante deiraccenno di Marziale è la dichiarazione
di Flavio Aviano : « Quas (Aesopi fabellas) — così egli scriveva
nella prefazione alle sue favole — graecis ianibis Bahrius repetens
in duo volumina coartavit: Fliaedrus etiam partem aliquam
quinque in lihellos resolvit ».
Dinanzi ad un'attestazione così irrefragabile non è venuta meno
l'audacia del Christ (1). Egli, infatti, ha cominciato dal conte-
stare la latinità dell'opera del Fedro nominato da Aviano, trince-
randosi dietro la forma greca del nome di lui. Quasiché un greco
di nascita, come il Nostro, non avesse potuto conservare in Koma,
nella sua condizione di liberto, la forma nazionale del suo nome,
in un tempo soprattutto in cui gli stessi liberti romani si ribat-
tezzavano alla greca ! — Il secondo argomento del Christ non ha
maggiore consistenza del primo. Il resolvit di Aviano, ha obbiet-
tato l'implacabile tedesco, racchiude l'idea di parafrasi^ laddove
le favole del presunto Fedro appariscono rispetto a quelle della
raccolta esopica di una concisione maggiore. — Qui è sceso in
campo lo Schwabe (2), il quale ha creduto di poter correggere
l'erroneo significato attribuito dal Christ al verbo resolvere, pro-
ducendo il luogo seguente della Cons. ad Folyh. di Seneca :
« Agedum illa quae multo ingenii tui labore celebrata sunt, in
manus sume utriuslibet auctoris carmina: quae tu ita resolvisti,
ut quamvis structura illorum recesserit, permaneat tamen gratia.
Sic enim illa ex alia lingua in aliam transtulisti, ut, quod dif-
ficillinmm erat, omnes virtutes in alienam te orationem secutae
sint » (3). È chiaro, ha detto lo Schwabe, che quel resolvisti, il
quale si riferisce alle due traduzioni in prosa che Polibio aveva
fatto di Virgilio e di Omero (4), vuol significare tradurre. —
Parecchi appunti a questa risorsa. Nulla autorizza a desumere il
valore fondamentale di una parola dall'uso particolare che può
averne fatto uno scrittore. La concisione delle favole fedriane, giu-
stamente notata dal Christ, esclude per sé stessa l'idea della sem-
(1) Op. cit.
(2) Hervieux, op. cit., V. I, p. 163.
(3) Sen., Cons. ad Polyb., XXX.
(4) Sen., Cons. ad Polyb., XXVI.
Rivista di Jilologia, ecc., I.
— 50 -
plice traduzione. Nel luogo citato della Consolatio il tradurre
non è dato dal resolvisti, ma dalla frase: ex alia lingua in aliam
transtulisti. Il veio valore ideologico del resolvisti è precisato dal-
l'inciso che S(!gue : structura illorum (carminum) recesserit. Vale
a dire : Polibio, recando in prosa Virgilio ed Omero, avea sciolto
quei poemi dalla loro compagine metrica (structura). Ora il caso
di Fedro era perfettamente opposto a quello di Polibio, sciogliendo
questi in prosa i versi dei due poeti epici, quegli vincolando in
senarii Voratio soluta degli apologhi esopici. — Come si deve
dunque intendere il reso^y^Y di Aviano ? Salus ex inimicis! Quel
resolvit, dice il Du Méril (1), è un antiteto al coartavit che precede.
Fedro ha composto un numero di favole più cospicuo di quello
di Babrio : ecco tutto. — Ma \\partem aliquam di Aviano, op-
pugna il Christ, contrasta apertamente con cotesta cifra conside-
revole delle favole fedriane. Perchè mai ? Chi ci vieta di supporre
che la produzione letteraria di Esopo fosse stata così ricca al cui
paragone quella di Fedro non rappresentasse che una cerna di
essa ? Eppoi le favole di Fedro sono bensì numerose, ma non sono
tutte originate da Esopo. D'altronde, presso Babrio occorrono non
poche favole che, derivate indubbiamente dal favolista frigio, non
offrono alcun riscontro colle favole del Nostro. Altrettanto dicasi
delle quarantadue favole di Aviano tolte pur esse dalla raccolta
esopica e tutte diversissime dalle fedriane. — Fedro, dunque,
aveva scelto solo una parte del contenuto ideale di Esopo e Tavea
poscia ampliata con elementi nuovi in cinque libri; a differenza
di Babrio che, astenendosi da quella libertà di sviluppo, aveva
racchiuso in soli due libri le sue fedeli imitazioni. — Abbiam
detto: con elementi nuovi. Estraneo infatti ad Esopo era stato
l'espediente, adoperato da Fedro in talune favole disgraziatamente
perdute, di accordar la favella alle piante (I, prol., 6); come
notevoli doveano essere state le innovazioni che il Nostro di-
chiara ripetutamente di avere arrecato alla materia originaria
dell'apologo esopico (2). — Anche l'ultimo argomento del Christ
(1) Op. cit., p. 80.
(2) « La mia materia inventiva, dice Fedro nel prol. del I. Ili (v. 39), è
molto più varia di quella escogitata da Esopo ». E al prologo del 1. IV
— 51 —
poggia su di un'errata interpretazione del testo di Aviano. Il cri-
tico tedesco ritiene che Aviano non poteva riferirsi alle favole fe-
driane da noi possedute, perchè fra le quarantadue da lui composte
non ve ne ha alcuna somigliante a quelle del Nostro. Aviano
dunque, a sentire il Christ, avrebbe dovuto derivar le sue favole
da Fedro. Ora le parole : « De his ergo usque ad quadraginta
et diias in unum redactas fahulas dedi » non si connettono già
alle favole di Babrio e di Fedro, sibbene a quelle di Esopo. Basta
leggere le righe precedenti per persuadersene. In esse Aviano con-
fessa di aver tenuto Esopo a sua guida ; e se egli in seguito fa
1 nomi di Orazio, di Babrio e di Fedro, è per indicar solamente
che egli imitando Esopo, non fa che seguire il loro esempio. —
Conchiudendo, domandiamo : come va che il Christ, dopo aver in-
travveduto nel personaggio di Marziale un filosofo, non si è pe-
ritato di attribuire al medesimo i cinque libri di favole di cui
parla Aviano ? Non avrebbe egli forse dovuto trovar assai strana
la divisione identica in cinque libri adottata dal filosofo e dal
Nostro ?
Alla temerità del filologo tedesco successe l'attacco serio del
Du Méril (1). Appoggiandosi all'edizione di Berger de Xivrey,
nella quale il testo di Fedro è diviso in quattro libri, egli ob-
biettava che se nel ms. del Pithou, sulla cui scorta era stata
condotta quell'edizione, si trovasse realmente racchiusa l'opera ori-
ginale di Fedro, la divisione sarebbe in cinque libri, conforme
all'attestazione di Aviano, e non in quattro. — Come distruggere
tale ostacolo ? Vediamo un po'. Berger de Xivrey si era arbitrato
quella divisione in quattro libri per facilitare l'interpretazione del
(w. 12-14): « Chiamo le mie favole esopicamente foggiate e non le dico di
Esopo, perchè mi sono bensì giovato della maniera antica di lui, ma ho
adombrato con essa argomenti nuovi ». — La ripiova di coteste asserzioni
è data dalle favole nelle quali il nostro mette in azione lo stesso Esopo
(III, 3; 15; 19; ecc.); dagli aneddoti storici di Augusto e di Tiberio (III, 9 ;
II, 5); dalla storiella del flautista (V, 7); dalle favole di argomento personale
(111, 10; IV, 7; 21); dagli argomenti mitologici, i quali (cfr. L. MOllkr, op.
cit., p. 4) hanno a dirittura diversificato l'apologo fedriano dall'esopico ; e da
tanti altri elementi intrinseci che qui non è il luogo di rilevare.
(1) Op. cit., p. 57-59.
- 52 -
verso del prol. del 1. IV : « Quartum libellum, dum Variae stas,
perleges », il quale si sarebbe spiegato attribuendo al 1. IV le
favole successive. La poesia : « Poeta ad Particulonem » sarebbe
divenuta un nuovo prologo col quale Fedro, dopo aver interrotto
il 1. IV, avrebbe ricominciato per completarlo una seconda serie
di favole. Ora, ha osservato egregiamente l'Hervieux (1), il pro-
cedimento è giusto ; ma ò duopo forse inferirne che tutto il resto
del ms. appartiene al 1. IV ? Certo, nulla attesta nel ms. l'esi-
stenza di un quinto libro ; sol però che la s'indaghi e rintracci,
non si stenta molto a scoprirla. Serbando l'ordine del ms., il 1. IV
si divide in due parti nettamente distinte. Dopo avere scritta la
prima e indirizzatala a Particulone, Fedro, in una poesia che co-
mincia : « Supersunt mihi quae scribam, sed parco sciens » di-
chiara, malgrado l'abbondanza della materia, di non voler scriver
più oltre per tema d'importunare i lettori ; poi (i giuramenti dei
poeti sono in certi casi giuramenti da marinaio) ripiglia la penna
e aggiunge alla prima una seconda parte dedicandola pure a Par-
ticulone. La fine di questa seconda parte è chiaramente indicata
dall'epilogo: « Adirne supersunt multa quae possim loqui ». A
partire da questo epilogo i due mss. del Pithou e di Reims non
contengono più di cinque favole. Ne risulta nel numero delle fa-
vole di ciascun libro una sproporzione grandissima, la quale è
stata, molto probabilmente, la causa unica delle divisioni più
eguali immaginate dal Pithou e accettate dagli editori che lo
hanno seguito. Berger de Xivrey avea ben riconosciuto arbitrario
cotesto loro spostamento, sostituito all'ordine dei mss.; ma non
avea scorta la vera divisione che pure era facilmente visibile.
Un indizio ulteriore che Fedro avea realmente diviso le sue fa-
vole in cinque libri, indizio che è sfuggito in tutta la sua im-
portanza allo stesso Hervieux, lo si trova nell'ultima favola della
raccolta: « Canis et sus et venator» nell'epimitio della quale il
poeta rivolge la parola a un certo Fileto: cosa punto verisimile
qualora questa favola, insieme alle altre quattro precedenti, avesse
fatto parte del 1. IV dedicato, come si è visto, a Particulone. —
(1) Op. cit., p. 61-62 (voi. I).
- 53 —
Abbattuta così la sola obbiezione seria del Du Méril, l'opera di
Fedro da noi posseduta si concilia a perfezione colla testimonianza
di Aviano.
IL — Nel suo voluminoso commentario a Marziale, in una
nota all'epigr. 77° del 1. I, il Perotti, riferendo i versi del poeta
latino alla favola: « Arbores in tutela deorum », 17* del 1. Ili
di Fedro, dichiara di aver traslatato la medesima in senarii
giambici da Avieno (sic) nella sua raccolta giovanile. — Doppia
inesattezza. Non avea derivata da Aviano, ma da Fedro, la favola
in questione; non l'aveva recata in versi giambici, per essere scritto
in questo metro l'originale di essa.
Non avvertì ciò lo Scriverlo. Egli abboccò a chiusi occhi la
contraddizione del prelato e a lui attribuì la composizione di tutte
le favole fedriane. Agiva, del resto, a fil di logica; giacché la
fav. « Arbores in tutela deorum » mostra evidentemente un'ori-
gine comune a tutte le altre della raccolta del Nostro. — Sol
però che il dotto tedesco avesse conosciuta la collezione poetica
del Perotti, non avrebbe stentato ad accorgersi della irragionevo-
lezza di quella sua attribuzione. Nel mscr. napoletano la favola
« Apes et fuci, vespa iudice », segnata col N. 27, è ripetuta, al
seguito del N. 46, integralmente. Ciò potè fare soltanto il Pe-
rotti copista; il Perotti traduttore non mai. Può bensì un tra-
duttore, dimenticando la prima composizione, ritentarne una se-
conda; ma questa non sarà mai la copia letterale di quella. —
Lo Scriverlo avrebbe compreso ciò perfettamente; avrebbe quindi
negato al Perotti la paternità della favola citata e di tutte le
altre favole fedriane con essa.
Un altro sospetto sull'attendibilità della dichiarazione Perottina
sarebbe derivato al critico tedesco dalla conoscenza diOiVEpitome
del Prelato. Nella dedica della sua raccolta poetica al nipote Pirro
il Perotti tradisce un'ignoranza vorrei dire assoluta circa la com-
posizione dei versi giambici. Quella dedica consta, infatti, per tre
quarti, di versi razzolati da Fedro ed è scritta in senarii solo per
unità di ritmo colle favole fedriane contenute nella raccolta. Anche
i primi quindici versi della fav. « Muli et latrones » (11, 7) sono
— 54 -
scritti nel medesimo metro per l'identica ragione. Si scandiscano
soprattutto questi ultimi e poi si dica pure il Perotti, se basta
l'animo, autore delle favole fedriane ! Ma non è tutto. Nel com-
mento all'inno X° di Prudenzio, indirizzato a Pomponio Leto, il
Perotti, per dare al suo scritto l'apparenza di un tutto armonico
fatto specialmente per l'amico, si è visto obbligato a modificare i
primi due versi dell'inno stesso. Ma, inesperto conoscitore del
metro, egli ha sostituito al secondo verso dell'originale « Perpensa
vitae qitos guhernat regulu » quest'altro: « Pomponio vitae quos
guhernat regula » nel quale, contro le norme costantemente se-
guite dall'innografo cristiano, ha rimpiazzato con uno spondeo il
giambo puro del secondo piede.
Eppure il Perotti, a quanto risulta dal suo trattato didattico
De generibus tnetrorum, aveva della struttura dei versi giambici
una conoscenza teorica quale nessun altro erudito del suo tempo.
Come spiegare la contraddizione? Il dotto quattrocentista deve
essersi iniziato molto tardi alla ritmica complicata della poesia
latina, e solo nell'età matura deve aver composto i suoi trattati
di metrica. Alcuni scritti, che costano molta pazienza, raramente
si debbono alla penna impetuosa di un giovane. Viceversa, è d'or-
dinario nella giovinezza che si attende ad una raccolta di com-
ponimenti poetici. Il Perotti pertanto dovè comporre le sue poesie
in un'età in cui, già versatissimo nel metro elegiaco (in questo
metro sono scritti nella maggior parte i carmi Perottini) non pos-
sedeva ancora una conoscenza sicura del verso giambico. E difatti
VEpitotne, a quanto si desume da un'epistola gratulatoria del Fi-
lelfo (1), fu ultimato verso il 1463 ; laddove il trattato De ge-
neribus metrorum^ come si ricava dalla dedica fattane dal prelato
all'amico Jacob (2), non fu composto che un decennio più tardi.
(1) In essa epistola, la quale porta la data del 15 decembre 1463, il Fi-
lelfo si congratula col Perotti di una traduzione, in distici latini, di un ora-
colo di Apollo, che è una delle ultime composizioni della raccolta Perottina.
(2) In quella dedica il Perotti si compiace dell'invito fattogli dal Jacob di
applicarsi ad uno studio che lo riportava più di dieci anni addietro, ri-
cordandogli, insieme alle sue prime produzioni letterarie, l'età più bella
della sua vita.
— 55 -■
Però cotesto trattato non era affatto l'applicazione delle teorie
acquistate nella giovinezza, perocché l'Autore dichiara di avere
incontrato nella compilazione del suo lavoro infinite difficoltà, le
quali non poteva allora facilniente superare perchè al principio
dell'opera avea quasi tutto da apprendere.
Del resto, a voler prescindere dal sin qui detto, è mai suppo-
nibile che il Perotti, il quale rivendicò con acredine a sé stesso
la paternità di alcuni scritti mediocrissimi, avesse poi rinunziato
a quella delle favole fedriane con questa dichiarazione cosi espli-
cita: « Non sunt hi mei, quos putas, versicuU: Sed Aesopi sunt
et Avieni et Phaedrì » mandata innanzi alla sua raccolta poetica?
Questa confessione, come avrebbe dovuto sconsigliare il Christ
dalla sua ostinatezza, avrebbe dovuto far tacere le accuse acerbe
di plagio che il Barth prima, l'Hoogstraten, il Baillet poi, ed ul-
timo il Burmanno, non dubitarono di muovere contro l'onesto
prelato. Tanto più che la dichiarazione della Cornucopia, causa
prima così delle negazioni dello Schryver e del Christ come delle
accuse mosse al Perotti, qualora si esamini spregiudicatamente,
fornisce una prova ulteriore, vuoi dell'insussistenza delle prime,
vuoi dell'irragionevolezza delle seconde.
La dichiarazione é la seguente: « Allusit (Martialis) ad fa-
hulam quam nos ex Avieno in fahellas nostras adolescentes iam-
bico Carmine transtidimus ». 11 Perotti, dunque, non ascrive già
a sé stesso il merito inventivo della favola, sibbene ad Aviano
invece che a Fedro. C'è soltanto errore, non plagio: errore spie-
gabilissimo col difetto di memoria in un'età soprattutto nella
quale la suppellettile letteraria era tutta depositata in una con-
gerie di msscr. e di pergamene dove si trovavano spesso alla rin-
fusa cose differentissime fra loro. Aggiungi che il transtulimus
Perottino non equivale ad « abbiamo tradotto da un genere in
un altro genere di poesia » (non potendosi dire a nessun patto:
« abbiamo tradotto da Aviano nelle nostre favole »); ma vuol
solamente significare « abbiamo traslatato la favola dall'opera di
Aviano nella nostra raccolta ». Né fa ostacolo a cotesta inter-
pretazione l'inciso « iambico Carmine », aggiunto dal Perotti sol
per indicare il metro speciale della favola in questione, non es-
- 5fi —
sendosi ancora in quo! tempo divulgate o conosciute favole in
versi giambici.
Un'ultima osservazione. Come scorgere la mala fede nella di-
chiarazione della Cornucopia, quando il Perotti pubblica la scia-
gurata favola nOiW Epitome sotto il nome di Fedro? Non è certo
a questo modo che si vuol mistificare il mondo letterario.
Conchiudendo, ricordiamo l'antichità incontestabile del Codex
Pithoeanus e del Eemensis riconosciuti entrambi dai più autore-
voli paleografi (Pithou, Sirmond, Kigault e Gude) come appar-
tenenti al decimo secolo (1). Dal Perotti al Pithou, al Sirmond,
al Eigault decorse appena un secolo; e poiché l'ortografia, e la
scrittura in generale, in quel lasso di tempo si conservò quasi la
stessa, se i due codici fossero usciti realmente dalla mano del
Perotti 0 di un contemporaneo di lui, ognuno vi avrebbe tosto
fiutata una mano recente.
III. — Contro lo scetticismo esagerato di quei critici, i quali
hanno disconosciuto alle favole fedriane qualsiasi valore di docu-
mento storico, sta il concetto stesso dell'Autore circa gl'intendimenti
politici dell'apologo (III, prol. 33-37) (2).
Ed è appunto in base a cotesto concetto che gl'interpreti subo-
dorarono nella fav. « Ranae petenies regem » una calzante allu-
sione al vergognoso torpore di Tiberio in Capri e al dispotizzare
di Seiano in Roma durante l'assenza prolungata di lui : allusione
condotta con sì felice avvedutezza che il sospettoso Tiberio non
avrebbe potuto menomamente adombrarsene o incollerirsene. Ad-
(1) L'abate Pluche, che pubblicò un facsimile di quella scrittura, Pele-
tier de Rozambo, il p. Brotier, il p. Desbillons, eruditi coscienziosissimi,
giudicaron, Tun dopo l'altro, in maniera esplicita che entrambi i codici non
poteano essere stati scritti dopo il nono secolo, vale a dire cinquecento anni
prima della nascita del Perotti. Perciò il Rigault non dubitò di chiamarli
codices vetustissimos.
(2) Non neghiamo che nell'opera di Fedro si asconda una moralità appli-
cabile a fatti umani comuni ad ogni tempo. Bisogna tuttavia riconoscere
che certe massime, appunto perchè vere in ogni età e per tutti gli individui,
poterono ricevere al tempo di Fedro un'applicazione concreta e personale a
uomini e cose contemporanee.
— 57 —
debitato, fin dai primi versi della favola (1-9), il contenuto della
medesima ad Esopo, Fedro, se ha parole favorevoli pel regime
democratico di Atene (v. 1), stimmatizza, subito dopo, gli effetti
deplorevoli della libertà malintesa (vv. 2-3); se poi ricorda le do-
glianze degli Ateniesi sotto la tirannide di Pisitrato (v. 6), si
affretta a spiegarle non colla crudeltà del tiranno, ma colla forma
di governo insolita pei cittadini di Atene (vv. 7-8). — Nessuna
traccia, adunque, di lesa maestà imperiale o di politica sovverti-
trice; che anzi (vv. 30-31) si esortano i Eomani malcontenti di
Tiberio a morderne rassegnati il freno, facendosi loro intravvedere
mali maggiori nel caso di una ribellione (1).
Anche nella fav. « Banae ad solem» (I, 6) i critici vogliono che
nel sole, il quale dissecca gli stagni costringendo a morte le rane,
sia raffigurato Sciano, il quale colle spogliazioni rovina tutte le
famiglie di Roma simboleggiate nelle abitatrici delle paludi. Nelle
nozze che il sole voleva contrarre, sarebbero adombrate quelle a
cui Sciano stesso aspirava con Livia di casa imperialo; Giove, a
cui hanno ricorso le ranocchie contro le temute nozze, sarebbe
Tiberio, il quale, difatti, in appresso, ricusando il suo assenso alle
nozze di Sciano con Livia, fu causa della rovina del favorito mi-
nistro (2).
(1) Del resto, ciò che preme soprattutto di rilevare si è la perfetta corri-
spondenza dei particolari della favola alFavvenimento storico da noi indicato.
Il travicello burlato dalle ranocchie ritrae felicemente Tiberio che, ritiran-
dosi a Capri e abbandonando la somma del potere al capriccio del suo mi-
nistro, provoca i motteggi degli amici e dei nemici. L'idra che azzanna le
rane sarebbe Caligola di cui l'imperatore proponevasi di fare contro i Ro-
mani un vero .serpente. — Secondo il Vannucci, invece (Fedro, ediz. Prato,
p. 29), la biscia personificherebbe lo stesso Tiberio che, tornato da Capri,
si .sbizzarrisce in ogni specie di crudeltà contro i Romani.
(2) ScHWABE, Vita Phaedri ex Phaedro, p. 13 (Poi uba, Torino, 1834).
Cfr. Tacito, Ann., IV, 3, 8, 11, 39, 40. — Né si dee credere che in quella
favola siasi voluto ferire un prepotente qualunque ; mancherebbero in tal
caso le proporzioni fra causa ed effetto. Soltanto Sciano era capace, nel suo
sconfinato potere e nella sua insaziabile ingordigia, di gettar lo sgomento
su tutte le famiglie facolto.se della capitale. Quell'uomo, così estremamente
avido di denaro, il quale, secondo ne riferiscono gli storici, sottoponeva a
processi arbitrarli i più ricchi cittadini di Roma per appropriarsene i beni.
— 58 —
Parimenti, nella gatta che, volendo nel suo interesse la rovina
dell'aquila e della scrofa, semina discordia fra esse (II, 4), dovea
celarsi, nel pensiero dell'Autore, il medesimo Sciano, il quale a
sbarazzarsi di Tiberio e di Druso facea sospettare il primo che
il secondo tentasse di avvelenarlo (1), e d'altra parte metteva ad -
dosso ad Agrippina il timore del medesimo pericolo da parte di
Tiberio (2).
Queste favole arrivate a conoscenza di Sciano dovettero pur in-
sospettirlo in qualche modo; e benché la forma circospetta ed in-
colpabile usata dal Nostro non presentasse non dirò materia di
pena capitale, ma neppure motivo di processo giuridico; Seiano,
anche nel solo dubbio di essere stato offeso da Fedro, dovea pi-
gliare di lui terribile vendetta (3). Il tempo era opportuno. Ti-
berio, lo si arguisce dalla cronologia delle favole esaminate, era
a Capri ; Seiano dispotizzava in Roma. Bisognava tuttavia proce-
dere riguardosi : l'affare era delicato. Seiano voleva avvolgere nel
silenzio quella specie di protesta anticipata contro il suo ambizioso
disegno di torre Livia in isposa. Una sentenza capitale emanata
contro il Favolista avrebbe svegliato forti sospetti. Viceversa, una
punizione piuttosto sensibile sarebbe valsa al Nostro come monito
per l'avvenire. Così dovette essere. Il giudizio sommario (III,
prol., 40-44), in cui Seiano l'avea fatta da teste, da accusatore e
da giudice, e dal quale Fedro era potuto uscire colla testa salva,
ne è una conferma plausibilissima (4).
non avrebbe tollerato concorrenti nella sua professione di spoliatore delle
pubbliche ricchezze.
(1) Cfr. Tacito, Ann., IV, 10.
(2) Cfr. Tacito, Ann., IV, 54.
(3) Circa il governo inquisitorio di Seiano, vero regno del terrore, si veg-
gano le testimonianze di Tacito e di Svetonio. 11 primo {Ann., IV, 69) :
« ...anxia, dice, et pavens Civitas... congressus, colloquia, notae ignotaeque
aures vitari; etiam muta atque inanima, tectwn et parietes circumspe-
ctari ». E il secondo (Tib., 61): « Omne crimen prò capitali receptum,
etiam paucorum, simpliciumque verborum. Obiectum est Poè'tae quod in
Tragoedia Agam,em,nonem, probris lacessisset ; obiectum est historico quod
Brutum Cassium,que ultim,os Romanorum, dixisset. Anim,adversum statini
in auctores, scriptaque abolita... ».
(4) 11 Jannelli insieme ad altri critici non ha voluto vedere nelle fa-
- 59 -
Si è detto che il desiderare ricchezze ai tempi di- Fedro era
cosa molto pericolosa, perocché spesso Seiano opprimeva con varii
pretesti i possessori e poi gettava avido le sue mani rapaci sui
loro beni. Pure e delatori e ribaldi d'ogni maniera erano tutti
intesi ad arricchire a spese altrui ; sovente però finivano col per-
derci la testa. — A ciò allude manifestamente la fav. « Asinus et
porcellus » (V, 4) dove è detto che avendo un tale sacrificato ad
Ercole un porco, pose davanti all'asino gli avanzi dell'orzo con
cui quello era stato ingrassato. L'asino, disprezzando quell'orzo, si
fece a dire al padrone: Di buon grado mangerei questo cibo se
quello che ne fa nutrito non fosse poscia stato ammazzato. Da
vole da noi citate la causa di quel processo. Alcuni hanno obbiettato che
l'apologo del sole e delle ranocchie per esser derivato da Esopo non potea
contenere allusione ad un contemporaneo di Fedro. Eppure i particolari di
quella favola rispondono così mirabilmente al fatto di Seiano che non si può
non conchiuderne aver voluto Fedro applicare ad esso l'apologo di Esopo.
11 Jannelli poi (voi. Ili, e. II, § 9, p. 34-35), esaminando il passo del pro-
logo del 1. Ili relativo al processo, spiega il v.: « In calamilatem deligens
qteaedam meam » (v. 40) nel senso di : « scegliendo alcune favole a sol-
lievo della mia sciagura »; non già nel senso che furono le favole la causa
di quella disgrazia, come pure ha interpretato la maggior parte dei dotti.
— Accettando la versione del critico napoletano, si farebbe commettere a
Fedro una vana anticipazione di un pensiero espresso poco dopo (« Nec his
(fabulis) dolorem delenirem remediis ») ed un'offesa sensibilissima alla
chiarezza. Si richiede, infatti, un bello sforzo stilistico per racchiudere in
quell'acc. in calamitatem la perifrasi: « quae meam lenirent cnlamitatem »:
viceversa, esso accusativo riesce chiarissimo qualora si traduca, come inten-
diamo noi alla lettera : « per mia disgrazia ». — Del resto, se il processo
di Seiano contro il Nostro non ha il suo motivo nelle favole da noi indi-
cate, in quale altra cosa mai potrebbe averlo ? nella ricchezza di Fedro, di
cui Seiano avrebbe voluto impadronirsi ? ma se egli confessa (111, prol., 21)
di aver scacciato ogni voglia di ammassare ricchezze e di essere rimasto
alla fine della sua carriera letteraria cosi povero come al principio di essa
(IV, 5, 2» parte} ! In un delitto di lesa maestà, come sospetta il Jannelli ?
ma Seiano si sarebbe sbarazzato di Fedro in una maniera assai spiccia :
colla pena capitale ; né avrebbe atteso la propria caduta per affidare la pro-
secuzione del giudizio a qualche suo successore, come poco verisimilmente
ha insinuato il Jannelli, malamente poggiandosi sui vv. 20-25 dell'epil. del
1. IV. — Nell'attaccamento di Fedro ai superstiti della famiglia di Augusto?
non ne abbiamo nelle favolo alcun attestato. — Solo a furia d'ipotesi cam-
pate in aria si può dunque tentare della disgrazia di Fedro una spiegazione
diversa dalla nostra.
- 60 —
questo racconto condì iude il Poeta che evitò sempre il pericoloso
guadaj^no, perchè, quantunque alcuni rapitori di beni altrui fossero
felici, molti più erano coloro che furono vittima delle ricchezze.
La fav. « Canis per fluvium carìiem ferens » (I, 4) ne •'; una
riprova non dubbia. La morale dice che perde il proprio chi ap-
petisce l'altrui. — Parimenti, nella fav. 27* del medesimo libro
sono simboleggiati nel cane tutti quei cont(;mporanei dell'Autore
i quali, avendo messo gli occhi sulle ricchezze imperiali, furono
per ciò causa della propria rovina. Perciò nella fav. « De Simonide »
(IV, 22) Fedro si chiama contento della sua povertà, essendoché
le grandi fortune, com'egli dimostra nella fav. « Muli et latrones »
(II, 6), vanno per lo più soggette a pericoli; laddove gli uomini
di povera condizione vanno immuni da ogni attentato.
Ora tutte queste favole, sebbene non possano singolarmente ri-
ferirsi a personaggi distinti del tempo di Fedro, ritraggono però,
senza dubbio, le condizioni dei ricchi o degli arricchiti con male
arti di allora; né Fedro avrebbe insistito così spesso nel consigliare
ai Romani l'astensione dal furto, dalle appropriazioni illecite, dal
possesso delle ricchezze in generale, qualora la società contempo-
ranea non gliene avesse suggerita l'idea o fornita la materia.
Come poi non ravvisare nella cornacchia, consiliator maleficus,
della fav. 6* del 1. Il l'odioso Sciano, il quale ritorceva con i suoi
perfidi consigli la potenza di Tiberio (aquila) contro i deboli e
gl'innocenti (testuggine)? Non era forse vero a quel tempo che la
forza iniqua non risparmiava nulla di buono, se potenza d'ingegno,
santità di costumi e qualunque altra qualità onorata costituivano
sotto la tirannide di Tiberio veri e propri delitti?
A ragione pertanto i critici hanno intravveduto nella fav, « De-
metrius et Menanóter » un accenno eloquente alla sorte infelice
del popolo romano che obbediva a quel crudelissimo impero; come
nella fav. « Lupus et agnus » (I, 1) taluni han visto adombrata
la procedura arbitraria di Seiano, il quale opprimeva, come si è
detto, per futilissimi pretesti i migliori cittadini di Roma. —
Anche il racconto del leone che arroga a se tutta la preda alle-
gando a sostegno della sua prepotenza quelle belle ragioni che
tutti sanno (I, 5), è stato considerato come uno sfogo contro il
— 61 —
violento ministro di Tiberio, il quale non curando leggi, ne san-
tità di diritti, dava di piglio negli averi e nel sangue di tutti.
Del resto, senza stillarsi troppo il cervello nell'indagare perso-
nalità singole nelle favole (1), basta confrontare le allusioni ge-
neriche di Fedro alla società di quel tenapo, colla dipintura che
delle condizioni morali di essa ci han lasciato gli storici dell'an-
tichità, per convincersi di leggieri che il contenuto allegorico del-
l'opera fedriana si riferisce indiscutibilmente all'epoca in cui è
vissuto l'Autore.
Assai meglio che dal contenuto allegorico, l'antichità delle fa-
vole è attestata dal contenuto storico di esse. L'aneddoto di Ti-
berio e del portinaio (II, 5) ne è una riprova convincentissima.
Esordisce il P. abbozzando il ritratto di quei servi faccendieri e
ciaccioni che pullulavano a Roma in quel tempo, e dei quali
Seneca ci ha lasciato una dipintura somigliantissima a quella del
Nostro (2). Descritti quei disutilacci, Fedro vuol correggerli con
un esempio recentissimo. — Ogni tratto della novella riveste un
carattere storico; ogni frase racchiude una notizia della vita an-
(1) 11 Cassitto (op. cit., p. 67) ha voluto darci, mercè inauditi sforzi d'im-
maginazione, la chiave simbolica delle singole favole, facendo i nomi di
parecchi personaggi contemporanei di Fedro, i quali si occulterebbero, sotto
spoglie diverse di animali, in un numero considerevole di apologhi ; ma non
è riuscito, il più delle volte, che a un giuoco puerile di fantasmagoria :
come quando ci ha presentato Tiberio nella nottola della fav. 16 del 1. Ili
per lo sguardo di lui scuro come la notte, e nel pavone delia fav. 3 del 1. 1
e della fav. 18 del 1. Ili perchè figlio della Giunone Livia ! Sciano poi, si
asconderebbe nella gatta della fav. 4 del 1. II per l'affinità del suo nome
Aelius col nome felis o aelos (1); nella rana della fav. 24 del 1. I per es-
sere lui nato presso il lago Volsiniense donde Cicerone chiamò Ulubrenses
le ranocchie (!!); e finalmente, cosa mostruosa !, si trasfortnerebbe nella bella
giovane della fav. 2 del 1. II. Giulia, la figlia di Augusto, e Livia si cele-
rebbero, entrambe, nella cagna gravida della fav. 19 del 1. I !!!
(2) Sen., De tranquill. animi, 12: « Alienis se negotiis offerimt aliquid
agentibus similes : horum si aliquern exeuntem domo inlerrogaveris: quo
tu'f' quid cogitasi Respondebit tibi: non mehercule scio, sed aliqitos vi-
debo ; aliquid agam. Sine proposito vagantur quaerentes negotia : nec quae
destinaverunt agunt, sed quae incurrunt ». Ed ora si ravvicini questo
luogo alla descrizione fedriana (vv. 1-4), e poi si neghi che il Nostro do-
vette essere il contemporaneo di Seneca !
— 02 -
tica ; ogni epiteto, un particolare prezioso. La villa di Miseno,
luogo dell'azione, è rappresentata nella sua postura con maggiore
precisione e compiutezza di dati topografici che non in Tacito (1)
e Svetonio (2). Le circostanze di tempo, poi, sono convalidate dal
riscontro dei biografi di Tiberio. Si era nella state, dice il Nostro
(v. 16). Orbene, fu proprio in detta stagione che Tiberio dovè
soffermarsi alla sua villa di Miseno nel suo primo viaggio per la
Campania, e fu solo in quel primo viaggio che potè aver luogo
l'aneddoto in esame. Difatti, nella sua seconda gita al Miseno
Tiberio era malato sì gravemente che dopo pochi giorni morì.
Non sarebbe dunque bastato il tempo al fatto riferito dal Nostro,
il quale perciò trovasi in piena regola colla storia in quanto questa
pone la morte di Tiberio sullo scorcio dell'inverno (16 marzo), lad-
dove Fedro accenna alla pulverulentn state. Viceversa, essendo
partito Tiberio per il suo primo viaggio al Miseno sul principio
del suo consolato, cioè verso i primi di marzo; al suo arrivo nella
Campania il caldo dovea essere imminente (3). — Continuando
l'esame del racconto fedriano, troviamo riprodotta la foggia di
vestire degli Atriensi d'allora con una ricchezza meravigliosa di
particolari (vv. 11-13), spiegabile soltanto in uno scrittore contem-
poraneo di quei costumi. Anche quell'inaffiare i viali del giardino,
che fa il portinaio al passaggio di Tiberio, risponde ad una te-
stimonianza dello storico Svetonio (4) ; presso cui avvi altresì la
riprova di quella ripugnanza di Tiberio a manomettere gli schiavi (5),
colla quale Fedro, dopo averci rivelato l'animo astuto del tiranno
(1) Ann., VI, 50.
(2) Tib., 7.
(3) Si potrebbe qui obbiettare da alcuni che gli storici antichi, sol quando
narrano la morte di Tiberio, fanno espressa menzione della villa di Miseno ;
ma ciò non toglie che Tiberio siasi colà recato nel suo primo viaggio per
la Campania. Tacito, parlando di Druso che allora trovavasi col padre,
dice: « litora ac lacus Campaniae peragrantem » {Ann.., 111,59): frase che
non esclude certamente quel luogo così caratteristico del litorale Campano
qual era la deliziosa villa di Miseno, sopra ogni altra acconcia a guarire
Tiberio di quella tale infermità con cui egli aveva cercato di coonestare la
sua dipartita da Roma.
(4) Calig., 43.
(5) Tib., 47.
— 63 —
(v. 24), compie suggestivamente il ritratto morale di lui (v. 25).
— Osserviamo da ultimo che solo un liberto imperiale, qual era
il Nostro, potea riferire un episodio così sconosciuto a tutti i bio-
grafi di Tiberio ; e che solo un contemporaneo di quegli ardelioni
di Roma antica poteva scrivere : « Est ardelionum quaedam Romae
natio (v. 1); Hanc emendare, si tamen possimi, volo » (v. 5).
Come la testé esaminata, anche la novella del flautista (V, 2)
è narrata in una forma sì viva e sì piena d'impressioni e ricordi
personali, che i critici hanno fatto dell'Autore un testimone oculare
del fatto. La cronologia fedriana non può che sussidiare una si-
mile ipotesi. — Principe (v. 5) accompagnava col flauto il famoso
Batillo. Or questi alla morte di Augusto (14 d. Gr.) era più che
sessantenne (1): contava cioè più di due lustri sul Nostro allora
cinquantenne (2) ; e poiché si sarà ritirato dalle scene un ven-
tennio prima, quando cioè Fedro era sulla trentina, questi, il
quale dovè condursi la prima volta in Roma verso l'età di venti
anni (3), potè assistere per circa dieci anni ai trionfi teatrali del
celebre mimo. — Anche restringendoci al fatto particolare contato
da Fedro, ci è lecito accordarci colla cronologia delle favole. Di-
fatti il tempo passato che l'Autore usa in prevalenza nel racconto
1 ascia credere che egli scrivesse parecchi anni dopo l'avvenimento.
Ora il 1. V fu da lui composto, lo si è mostrato altrove, quando
aveva settantacinque anni: vale a dire, parecchie decine di anni
dopo il periodo più glorioso di Batillo, durante il quale dovè essere
avvenuto il fatto da noi considerato (4). — Agli argomenti cro-
nologici si aggiunga la copia prodigiosa di particolari con cui
l'aneddoto è riferito e soprattutto l'interesse e la partecipazione
diretta che in taluni punti vi piglia l'Autore stesso.
Qualche breve dilucidazione sulla novella « Poeta de credere »
(III, 10), e finiamo questa parte della discussione. 11 Poeta espone
un fatto avvenuto memoria sua: lo dichiara esplicitamente egli
(1) Cfr. Jannelli, Dissertano de vita Phaedri, e. II, § 4, p. 27.
(2) Ibid., e. II, § 3, pag. cit.
(3) Ibid., e. Ili, § 6.
(4) Difatti il « saltantis (Batylli) vigor » del v. 15 della novella può ac-
cennare plausibilmente alla piena vigoria delle forze fisiche di Batillo.
- 64 -
stesso (v. 8). E inerita fede, e perchè nell'avvenimento narrato è
coinvolto lo stesso Augusto di cui Fedro era liberto, e perchè il
fatto doveva essere sconosciuto per la sua delicata natura alla
maggior parte dei lettori. Difatti, noi diciamo accaduto a metnoria
nostra un fatto, il quale non concerna l'età e la memoria di un
buon numero di coloro, i quali ci ascoltino o ci leggano: il che
si concilia a perfezione colla cronologia del Nostro, la quale sta-
bilisce la composizione del 1. Ili, a cui la novella appartiene al
settantesimo primo o secondo anno del Favolista : età rispettabile
e insieme necessaria al Narratore per poter esporre in una forma
riservata che salvasse persone e convenienze, la storia di un pro-
cesso giudiziario nel quale era compromesso l'onore di una famiglia
ragguardevolissima. — Significativo è il modo onde l'Autore fa
disimpegnare ad Augusto l'ufficio di giudice in quel processo:
ci si fiuta il liberto devoto, il quale si compiace di raffigurare
il suo signore qual interprete illuminato della giustizia, non senza
contrapporlo tacitamente all'iniquo e dispotico successore di lui.
Della lingua e dello stile di Fedro ha trattato una fittissima
schiera di valorosi filologi concordi nel predicare la purezza del-
l'una, la concisione dell'altro, e nel riconoscere questo e quella
come caratteristiche di uno scrittore augusteo ; non senza però che
in mezzo al coro solenne delle loro lodi siansì fatte sentire, ad
intervalli, le note stridule e chiocce dei denigratori.
Il Christ, infatti, nell'interesse della sua tesi, aveva definito le
favole fedriane sgraziate, fiacche e punto latine (1): giudizio co-
testo condiviso dal Valch (2) e dal Du Méril (3), avendo il primo
scoperto nello stile fedriano non so quale sciattezza pedestre, il
secondo una certa decrepitezza nel materiale della lingua.
Come rispondere a costoro? Forse dicendo che per muovere
qualche appunto linguistico ad uno scrittore classico è duopo an-
zitutto accertare le lezioni genuine dei codici, o che è indispen-
(1) De Phaedro eiusque fabulis uberior expositio, p.
(2) In Hist. Critic. Latin. Linguae, e. IX, § 2.
(3) Op. cit., p. 62 e sgg.
_ 65 —
sabile una conoscenza piena delle peculiarità sintattiche del latino
non rispetto ad una data epoca soltanto, ma a tutta intera la
letteratura romana? Ora chi può arrossarsi la padronanza di tutto
intero il patrimonio della lingua latina, se gli scrittori di cui ci
sono pervenute le opere non rappresentano rispetto alla cifra com-
plessiva dei medesimi che una scarsissima minoranza ?
Troppo infelice, del resto, sarebbe il destino delle opere lette-
rarie se il loro pregio dovesse misurarsi dal giudizio isolato di
questo 0 di quel critico! Cicerone fu fatto segno alle censure ba-
nali ed insulse di Asinio Pollione e di Asinio Gallo, riuscì indi-
gesto a Largio Licinio e a parecchi altri criticonzoli schifiltosi
di quel tempo; ma che cosa potè il gracchiar disgustoso di quei
corvi in mezzo al concento sonoro di ammiratori sui quali vo-
lava, aquila maestosa, il sommo scrittore latino? A taluni Virgilio
parve sgrammaticato, sembrò barbaro Livio; qual meraviglia che
Fedro non sia piaciuto ai nemici della sua autenticità, al Christ
in ispecie, il cui dente non ha lasciati immuni Cicerone, gli ele-
giaci ed i satirici latini, Tacito e Gelilo? Come, del resto, poteva
piacergli il Nostro, se, a sua stessa confessione (1), soltanto di
volo l'avea sfiorato e letto ? (2).
(1) « Nam ne quidem inde, così il Christ, ynemoriter me tenere multa ut
imprudenti se ingererent puto : posteaquam olini me non modo non cepit.
sed ne morata quidem est aliqua specie illius facundia scriptoris. Solent
autem iucitndissima lectu, quae mireris impense, obhaerere animo, qiiae
levi studio tetir/eris, non itetn ».
(2) Il Jannelli (Dissert. II, e. I, § 13) a mostrare quale affronto il Christ
abbia arrecato alle lettere latine e quanto male abbia provveduto alla sua
fama di filologo, adduce l'impudenza fenomenale da lui spiegata nel pro-
clamar superiori alle favole di Fedro alcuni apologhi composti da lui stesso.
Quindi, a provare qunm plumbeus in latinis fuerit Christius et qunntutìi
Apollo, cioè Fedro, distet a Hfarsya, pone accanto alla favola fedriana del
lupo e delTagnello (I, 1) la corrispondente composta dal critico tedesco : e
conchiude, benché il paragone di per sé non abbisogni di commento, che in
quest'ultima infìceta et barbara sunt omnia, plnra etiam barbara atque
ab omni latinitate aliena. — Conveniamone pure : se il Jannelli si è la-
sciato trasportare dalia sua indole vivace ad una maniera di critica non
pienamente conforme alla serciiith di una discussione filologica; ninno può
rimproverargli, certo, la leggerezza di giudizio e il difetto assoluto di prove
portato dal suo avversario in una materia scientifica cosi grave.
Rivista di filologia, ecc., I. ■"'
- 66 -
Quanto a<(li appunti singoli del Valch, essi risultano frivoli o
insussistenti. — La voce laniger (1, 1,0) nel senso di agnello non è af-
fatto disforrae a sana latinità, ricorrendo in Accio {J)e divinai. I, 22)
la frase: lanigerum peciis, e lanigeri grcges in Virgilio {Georg.,
Ili, 287). Che anzi Ovidio {Metani., VII, 312) e Manilio {Astronom.,
I, 672; 11, 34, 178, 210, 228, 405, 424, 550, 556, 610, 619, ecc.)
hanno usato il laniger nel significato di ariete, cioè a dire di
agnello maggiore.
La forma vulturius per vultur (1, 27,8) trovasi anche presso
Plauto {Trucul, II, 3, 16), Lucrezio (IV, 680), Catullo (LXVll, 124)
e Cicerone {In Pison., 16). — Anche l'espressione: imputare he-
7ieficiu)ìi nel valore di rinfacciare un benefizio è giustificata dagli
esenapi di Seneca {De tranquill. animi, 6), Tacito {Germ., 21),
Plinio Cecilie {Paneg., Vili, 21, 39); allo stesso modo che il co-
strutto dare leto (111, 16, 18), si può difendere coli' autorità di
Cicerone (li, Epist. Her.), Virgilio {Aen., 1, 806) ed Ovidio
{Mei., VII, 312). — Del pari, il v. vescór coll'acc. (I, 31, 11)
ha dalla sua Accio {Nonius, IV, 478), Giustino (II, 6; XLIV, 4),
Tacito {Agric, 28), Plinio {Risi, VIII, 50), Tibullo (li, 5, 63),
Virgilio {Aen., Ili, 339); come la voce onus per foetum (1, 20, 5)
è giustificabile con un luogo di Cicerone {De divin., 11, 70).
Al Valch dà fastidio la frase: fauce improba (1, 1, 3) perchè
usata, dice egli, nell'accezione di urli spaventosi. Ma qui è l'er-
rore: Fedro ha adoperato quella locuzione nel valore istesso che
Svetonio {In Vitell., 13) le parole gula profunda, cioè di fame
rabbiosa (1).
Un'ultima nota. 11 critico tedesco arriccia il naso alla voce
(1) Difatti, che cosa hanno a vedere le fauci cogli urli, che cosa rap-
presenta quell'agg. improbus, che cosa c'entrano nella favola gli zirli spa-
ventosi ? forse perchè accorressero i pastori a strappare allo sciocco lupo la
comoda preda e gli dessero il resto del carlino coH'ammazzarlo ? Che cosa
c'entra finalmente quel part. incitatus ? — Lo stesso Christ, stillatosi lun-
gamente il cervello per non dare alla parola fauce il valore di fame, si è
visto, da ultimo, costretto a riconoscerne la proprietà ; né ha dubitato di
scrivere nella medesima accezione : fauce scelesta, non intendendo tuttavia
egli stesso il sapore e l'eleganza dell'agg. improbus di Fedro.
- 67 —
strigare (III, 6, 9). Ora essa non è avvalorata né dai codici ne
dagli interpreti medioevali di Fedro (1).
Venianio ora agli esempi del Du Méril, decisamente contrarli,
secondo lui, all'uso augusteo e riportabili quindi all'epoca della
decadenza. Il dotto francese trova impropria l'espressione : « Quem
tenebat ore dimisit cihum » (I, 4, 6) perchè riferita ad un cane;
eppure non si dissimula che Cicerone (De nat. deor., II, 3) ha
detto: « cibo, potione, spiritu, ad haec omnia percipienda est
aptissimum os animantium ».
Non è poi vero che la frase: impune ahire (I, 8, 3) abbia va-
lore transitivo; essa significa levarsela pulita. 11 v. ahire, del resto,
trovasi usato transitivamente anche da Vergilio (Aen., VI, 375).
Atticus per Ateniese (I, 2, 6; III, 14, 1) ricorre fin presso Plauto
{Mero., 5, 1, 8).
Anche l'agg. liberis riferito Sipaludihus nel senso di libere da
ogni signoria (I, 2, 10) può legittimarsi coll'autorità di Cicerone,
(1) Tricandum, infatti, e non strigandum, lessero il Pithou ed il Rigault
nel codice Pithoeano e il Gude nel Remense ; tricandum scrissero altresì
nelle loro edizioni di Fedro il Gastalio, il Neveleto, il Lorenzi. Primi a leg-
gere per via congetturale strigandum, il Grutero e il Salmasio ; e benché
alcuni abbiano accolta la loro congettura, la lezione dei codici è rimasta
sempre in onore. 11 Du Méril poi (op. cit., p. 64, nota 11), legge anch'egli
tricandum nei due mss. del Pithou e di Reims, e tardandiim in quello di
Napoli. Ora, dato e non concesso che il tricandum dei due codici più an-
tichi non sia genuino e che genuino sia per contrario strigandum, il quale
non si legge in alcun ms. o edizione corretta, a qual patto potrà dirsi in-
terpolato anche il tardandumàeX codice napoletano? Che anzi quest'ultima
ci pare la lezione più vera, o almeno la più verisimile. Strigare, infatti,
dicesi dei somieri quando sostano o per riposo o per bisogni naturali ; di-
cesi invece tardare quando procedono a passo lento e tranquillo. Ora in
Fedro la mosca rampogna la mula non perchè questa si arresta, ma perchè
sen va troppo adagio ; e la stimola, non a rimettersi al corso, ma ad af-
frettare semplicemente il passo. La mula, quindi, avrebbe risposto sciocca-
mente dicendo di sapere dove dovesse fermarsi; come, per contrario, avrebbe
dato una saggia risposta .secondo la nostra interpretazione. Aggiungi che se il
tardandum risponde a meraviglia al currendum che segue, nessun'antitesi
corre tra lo strigare ed il currere, essendoché fra il riposarsi od il correre
sta .sempre l'idea intermedia dell' andar naturale. È cosa frequente, da ul-
timo, che nei diverbii stizzosi si ritorcano con efficacia contro l'avversario
le stesse parole di lui per ferirlo colle .stesse sue armi ; ora il tardandum
della mula ril)atte egregiamente il quam tarda es (v. 2) della mosca.
— 68-
il quale ha scritto: agri immunes et liberi (In Verr., Il, 9) nel
medesimo significato; come si può difendere sull'esempio di Ovidio
(Fasti, V, 484) il valore di significato dato alla parola sensus
nell'espressione: testamenti sensus (III, 6, 9).
Parimenti, il laborare (I, 24, 6) nell'accezione (V industriarsi
ricorre, nella latinità aurea, presso Orazio {Epodi, V, 00) e presso
Properzio (IV, 3, 33); allo stesso modo che l'agg. clarus adope-
rato nell'idea di sonoro in clarum tintinnahulum (II, 7, 5) può
giustificarsi con quel luogo di Cicerone (Pro Cluentio, § 48):
« Clara voce, ut omnes audire possent, dixit », e col l'altro di
Lucrezio (IV, 5G9): « Ohsignans forniam verbis clarumque so-
nore)) t ».
Dicasi altrettanto della voce laurea (III, 17, 3) usata nel me-
desimo significato di lauro da Orazio (II, 15, 9) e da Livio (XXXII, 1 :
« Laurea i)i puppi navis longae oiata ») ; e del sost. studiwn
(II, epil., 12; III, epil., 9) adoperato nella significazione di s^Mf?20
anche da Orazio {Epist, I, 2, 36; II, 2, 82) e da Cicerone (Caio
maior, § 14: « Si habet aliquod ta))iqua)n pabulwn siudii »; e De
Orai, I, 1, 1; 3; 2, 8; 3, 10; 4, 13; ecc. ecc.).
Circa il significato di scrittore dato al sost. auctor (lì, prol., 7)
citeremo gli esempi di Cicerone {Ad Atticum, XII, 18; « Lecti-
tare auctores »), di Ovidio (V, 1, 68) e di Seneca {Ad Folyb.,
30: « in manus sunie utriuslibet auctoris carmina»).
Ne dica il Du Méril che la voce exemplum ha nel Nostro (I,
3, 3; II, 1, 11) la significazione medioevale di ììtoralità. Basta
dare a quel vocabolo il suo significato classico di esempio perchè
il senso torni egregiamente (1).
Molto meno poi si meravigli il dotto francese che uno scrittore
contemporaneo di Tiberio chiami quest'imperatore Caesar (II, 6,
7 e 17) e non Tiberius Augustus, essendo Tiberio conosciuto sol
col primo nome presso tutti gli storici dell'antichità per aver egli
(1) « Aesopus nobis hoc exemplum prodidit » = « Esopo ci ha fatto
conoscere quest'esempio » || « Exemplum egregium prorsus et laudabile »
= « Esempio veramente insigne e commendevole ». — Si sostituisca ora
ad esempio la parola moralità e si vegga se il senso riesce egualmente
chiaro e naturale !
- 69-
ricusato il nome aggiunto di Augusto, pago del solo nome di
Cesare (1). Dicasi il medesimo del sost. Bux adoperato, nella
stessa favola (v. 23), nel senso d'Imperatore, giacché Tiberio neque
Imperatorem nisi a militihus vocari patiehatur (2) ; allo stesso
modo che il Dominus (v. 14) riferito a Tiberio per rispetto al
servus della villa è pienamente conforme alla testimonianza di
Dione Cassio : « ( Tiberius) saepius dicens Dominum se servorum » (3 ).
Quel Dominus di Fedro pertanto non vale già Imperatore, come
pur sostiene il Du Méril, ma semplicemente signore.
Il critico francese spara l'ultima cartuccia contro la pretesa
decrepitezza della lingua fedriana, biasimando la significazione di
genere letterario attribuita alla voce genus (II, prol., 1) (4). L'e-
li) Cfr. Tacito, Ann., IV, 67; Svetoxio, Tib., 26; Dione Cassio, LVII,
§ 607.
(2) Dione Cassio, ibid.
(3) Ibid.
(4) Veramente quell'espressione « Aesopi genus » ò stata tartassata parec-
chio; e benché i più dei critici abbiano riconosciuto potei'si la parola ^e«M5
adoperare nel significato di genere letterario, il Bentley ha nullameno sug-
gerito l'emendazione del verso citato: « Exemplis continetu.r Aesopi genus»
in « Exemplis continetur humanuni genus », dove il continetiir equivar-
rebbe a coercelur, regitur. Certo, simile congettura nel mentre riuscirebbe
ad un significato plausibile, salverebbe la latinità dell'espressione; essa urta
tuttavia contro l'inverisimiglianza o l'arbitrarietà della sostituzione che gli
editori avrebbero fatto della parola Aesopi alla parola hunianum. — Né più
accettabile è la congettura dell'Haupt, il quale, nella supposizione che la
parola Aesopi sia venuta a far parte del verso in esame perché inserita in
un glossema scritto al disopra del verso stesso, ha proposto la lezione :
« Exemplis continetur apologi genus ». Ora nei codici fedriani, benché
alterati e scorretti, non ricorre interpolazione alcuna simile a quella esco-
gitata dall'Haupt. In secondo luogo, quantunque non manchino nell'opera di
Fedro vocaboli greci, le favole non vi sono chiamate che col nome latino
di fabula o fahella. Si peccherebbe infine contro le norme metriche osser-
vate costantemente dal Nostro, il quale non ha tollerato mai alla 5* sede
un vocabolo uscente in giambo ; nel che egli è d'accordo con parecchi altri
poeti latini. — L. Miiller (op. cit., p. 26-27) avea pensato sulle prime mu-
tando la lettera iniziale della parola genus, di leggere : «^ Aesopi penus * :
ma poi, accortosi egli stesso che la voce penus non riceve mai l'accezione
di materia letteraria, ha finito per conservare la parola genus della tradi-
zione, cui ha trovato rispettabilissima sul riscontro di parecchi altri scrittori.
- 70 -
sempio di Ovidio {Ibis, 57-58), poeta contemporaneo del Nostro,
dà a cotesto appunto finale un'eloquente risposta.
Conchiudendo col Miiller, la lingua e lo stile di Fedro sono tali
qiiales expectes a tempore cultissimo quo vixit Fhaedrus (1): eco
meravigliosa di quel giudizio che fin dal Cinquecento gli eruditi
romani emisero concordi dopo la lettura completa dell'edizione
del Pithou (2), e che è stato successivamente diviso dagli stilisti
più autorevoli fino ai giorni nostri (3).
Trovando spesso, nei senarii del Nostro, uno spondeo od un ana-
pesto nelle sedi pari, ad eccezione dell'ultima, il Christ, nel pregiu-
dizio che l'apologo si fosse dovuto scrivere in quel genere più
perfetto di versi giambici, nel quale è conservato costantemente il
giambo puro in dette sedi, ne inferì burbanzoso che la metrica
fedriana non poteva esser propria di un poeta latino dell'antichità.
Senza dubbio, il Christ non avea riflettuto che essendo state
(1) Op. cit., p. 4.
(2) « Memini quidem, scriveva il p. Vavasseur (op. cit., p. 205), Jacobum
Sirmondium narrare mihi solitum, quum Petrus Pithoeus hos Phaedri
Aesopiarmn fahularum quinque libros edidisset primumque Romam prò
veteri amicitia mimeri misisset, percussos illieo Romanos novitate volu-
minis, atque, ut gens est emunctae naris, suspicari coepisse num qtiidnam
partus iste recens ac supposititius, qui tanto intervallo appareret tanique
delituisset diu. Verumtamen perlecto toto neminem dubitasse quin aetatem
redoleret Angusti et summam, Ulani facilitateni stili et scripturae et beatam
copiam repraesentaret ».
(3) Gfr. Morhof (De patavinitate Liviana, e. XII, p. 158); Ynnck {De im-
minenti latinae linguae senectute, p. 92); Barth (op. cit., 1. XXXVI, e. 21,
col. 1671, ed. del 1648); Bàhr (Geschichte der rómischen Literatur, p. 311);
Dussault {Annales littéraires, t. Ili, p. 360-361); Lipsius (In Senecae Cons.
ad Polyb., e. XXVll); Baillet (op. cit, t. IV, p. 147); Gallois (Journal des
Savants, février, 1665); Fahev {Praefatio in Phaedruni s!<mwi) ; Brouckhaus
(In Tibullum, l, 5, 13); Schwabe (Dissertatio de eo quod pulchrum est in
Phaedro); Bayle (Diction. voc. Phèdre): ed altri moltissimi. — Giova qui
avvertire gli studiosi che per apprezzare convenientemente la lingua e lo
stile di Fedro è bene giovarsi delle edizioni accuratissime del Bentley, del
Mùller e del Ramorino (Torino, Loescher, 1884) per la ragione che tutti
gli altri editori, vuoi per ignoranza, vuoi per poca cura dei codici fedriani,
non solo non hanno espurgato, ma hanno moltiplicato considerevolmente gli
errori.
— lì —
composte in quel sistema giambico cui egli disapprovava tutte le
commedie antiche, i mimi e le sentenze morali di Laberio e di
Publilio Siro, il Canone dei comici latini di Volcazio Sedigito,
gli epigrammi di Apuleio; si sarebbe potuta scrivere nel mede-
simo sistema anche la favola, componimento così affine a quelli
or ora enumerati. Il critico tedesco non aveva neppure posto mente
che nelle stesse tragedie così vicine per la loro gravità ai poemi
epici è dato imbattersi in quelli stessi tipi di versi che non sono a
lui accetti; e che perciò non si sarebbero dovute escludere, a nessun
patto, da quella specie di tolleranza così generale le sole favole,
quelle del Nostro in ispecie, i giambi delle quali e per il ritmo
e per la finitezza e per la loro peculiare struttura sono senza fallo
pili castigati dei giambi dei comici e dei tragici.
Che se Orazio (1) e Terenziano Mauro (2) consigliavano il
giambo puro nelle sedi pari, il primo si volgeva soprattutto ai li-
rici ed ai tragici, chiamando, del resto, egualmente nobili i tri-
metri di Accio e di Ennio nei quali è rarissimo il giambo puro
nelle dette sedi ; il secondo poi, perdonava cotesta licenza ai co-
mici, ai quali i favolisti si possono sotto parecchi rispetti acco-
munare, in grazia di quel parlare sciolto che contraddistingue il
loro genere letterario.
Finalmente, se le favole esopiche, quante se ne raccolgono dagli
scrittori greci (Aristotele, Senofonte, Diodoro Siculo, Dione Cri-
sostomo, Plutarco, Massimo di Tiro, Aftonio ed altri), appaiono
scritte in prosa quasi tutte-, perchè sarebbe stato sconvenevole a
quelle del Nostro quel genere particolare di giambi i quali, giusta
Terenziano ManiYO, pauUum a soluta oratione differunt? {^).
Ma il Christ non depone le armi. Egli sorprende fra i senarii
liberi del Nostro altri senarii perfetti, i quali gli rivelano una
seconda mano. E perche allora non dire altrettanto dei giambi
puri dei tragici e dei comici da noi citati? Non convalidano essi
piuttosto in favore di Fedro quello stesso che Terenziano adduceva
(1) Ars poet., 257.
(2) De lambic. Carniin.
(3) Loc. cit.
— 72 -
a discolpa dei comici, che cioè la frequenza dei giambi liberi non
si deve f(iù all'imperizia del poeta, come dimostra la presenza dei
versi puri , sibbene alle esi^^enze peculiari del genere letterario r*
Heurelca!, grida qui il filologo tedesco: i giambi puri del vostro
Fedro furono sottratti all'Anonimo antico ed al Romolo di Nilant.
Quanti sono i senarii perfetti di costoro? Non più di cinque o
sei. Evidentemente, son troppo pochi perchè da essi siano potuti
derivare i seicento del Nostro. Nessuna meraviglia, del resto,
che in più di cento favole, quante sono appunto quelle dell'Ano
nimo e del Romolo, recate in prosa da versi giambici, sopra circa
seicento versi, se ne siano salvati cinque o sei, i quali, d'altra
parte, non sono neppure intatti completamente. E pur nel caso
che di essi non apparisce traccia anteriore nelle favole di Fedro,
non perciò apparterrebbero di necessità ad un altro poeta giambico
diverso dal Nostro. Essi sarebbero potuti sfuggire alla penna in-
cauta degli stessi rifacitori medioevali di Fedro, una volta soprat-
tutto che alla poesia giambica è così vicina la prosa che, come
diceva Cicerone, cum magnam partem ex iamhis nostra constet
oratio, senarios vix effìigere possumus (1). Dalle epistole di Se-
neca, infatti, per passarmi delle prose di altri scrittori latini, si
possono mettere insieme, conservando le istessissime parole del
filosofo 0 leggermente modificandole, moltissimi giambi di quella
stessa fattura che il Christ giudica perfetta. Dicasi altrettanto
delle Metamorfosi di Apuleio. Se ne dovrà forse dedurre che
quelle due opere fossero scritte in giambi, ovvero se ne potrà ca-
vare una buona ragione per ridurre in quel sistema metrico le
medesime? In una simile enormezza non si sarebbe soffermato
neppure lo stesso Christ.
Arrivati a questo punto, il critico tedesco ci obbietta che qua-
lora il Nostro fosse realmente anteriore all'Anonimo ed al Romolo,
costoro, attingendo da lui, avrebbero rispettato nelle loro raccolte
l'ordine delle sue favole. — È questa un'obbiezione estranea alla
presente discussione; non possiamo tuttavia esimerci dal confutarla,
almeno incidentalmente. — Diciamo dunque al Christ: se fu le-
(1) Orai., 56.
— 73 —
cito al Perotti, o a chi altri mai voi supponete autore delle fa-
vole fedriane, invertire l'ordine dei due favolisti medio-evali ; non
avrebbero potuto costoro fare altrettanto rispetto al Nostro? Al
postutto, chi vi assicura che l'ordine dato alle favole fedriane dai
msscr. sia quello stesso che diede loro l'Autore? Nulla di più fa-
cile in una raccolta di favole che uno spostamento di ordine (1).
Ed eccoci all'argomento finale. Mentre, secondo Romolo, dice il
Christ, la prima favola della raccolta a cui egli attingeva, inti-
tolavasi « Pullus ad margaritam », essa non occupa nella col-
lezione del Vostro che il N. 13 del 1. III. — Sia pure, ribattiamo
noi. Romolo potè avere sott'occhi un codice di Fedro in cui la
detta favola occupasse effettivamente il primo posto. Ancora. Se
il Perotti ha collocato al N. 1 del suo Epitome la fav. 21* del
1. IV e al N. 2 la fav. 10* del 1. Ili, non avrebbero potuto fare
altrettanto i compilatori di Fedro anteriori a Romolo? Questi,
del resto, dovè servirsi per la sua raccolta di un mscr. di Fedro
mutilato, chiamando egli autore delle favole da lui parafrasate
non già Fedro, il che avrebbe fatto indubbiamente qualora ne
avesse potuto leggere il nome vuoi dall'intestatura vuoi anche dal
prol. del 1. Ili (v. 1), sibbene Esopo. È dunque probabile che in
quella erronea persuasione il compilatore abbia disposto le favole
di Fedro secondo l'ordine di qualche raccolta greca (2).
Ed ora, chiudendo la parentesi, forse troppo allungata, circa i
rapporti di Fedro con i suoi interpreti medioevali, chiudiamo al-
tresì la nostra metrica disquisizione col giudizio riassuntivo di
Luciano Miiller: « Fatendum est {Phaedrum) ad modum diìi-
genteni et elegantem fuisse in componendis versibus. Qua quidem
re vel sola refelluntur qui crediderunt Phaedri carmina aut uì-
(1) È questo un fatto cosi comune ai codici che le stesse epistole di Ci-
cerone, le stesse poesie di Catullo, Tibullo, Properzio e di altri poeti sono
diversamente distribuite nei loro singoli mss.
(2) D'altronde, come aggiustar fede ad esso Romolo, il quale, mentre lia
parafrasate in prosa, in modo manifesto, le favole del Nostro, dichiara, tra
le alcre assurdità, di averle tradotte dal greco ? Che so, come è più proba-
bile, la sua dichiarazione si riferisce ad un'altra e diversa raccolta di favole
esopiche, non se ne può trarre conclusione favorevole o contraria né alla
nostra tesi, né a quella già per sé contradittoria del critico tedesco.
— 74 —
timis antiqiiilatis temporibus aut medio aeuo aique adeo saeculo
XV a Perotto esse composita, cum nemo aut hac aetate aut Uhi
extiterit qui eadem metri arte quam in Phaedro observamus,
conscribere posset Carmen vel unum » (1).
IV. — A mostrare die le favole da noi possedute fossero una
traduzione latina, dai Komani fatta nelle scuole, di un originale
greco, il filologo francese avea accampata una testimonianza im-
portantissima di Quintiliano, dalla (piale avea creduto desumere
essere stata in Roma, a quel teinpo, un'esercitazione scolastica
prediletta la traduzione di favole greche.
Mal s'era apposto il Du Méril. Il grammatico latino non con-
sigliava già ai maestri di esercitare gli alunni in traduzioni pro-
priamente dette, ma in quelle parafrasi in prosa di un qualche
favolista poeta che avrebbe potuto essere anche il Nostro (2).
Molto meno poi gli scolari avrebbero potuto cimentarsi nella ver-
sificazione giambica così insolita, secondo lo stesso Du Méril (3),
nella letteratura romana.
Del resto, pur non escludendosi i favolisti greci, il fatto che i
Romani circa lo stile studiavano molto più indefessamente i Latini
che i Greci, ci autorizza ad estendere i precetti stilistici di Quin-
tiliano a qualche favolista latino (4). Ora nessun altro meglio del
(1) Op. cit., p. 6.
(2) Il passo di Quintiliano è il seguente: « {fabularum aesopiaritm)
versus primo solvere, mox mutatis verbis interpretavi ; tiim paraphrasi
atidacius vertere permittitur » {De instit. orai., 1. I, e. IX). — Dap-
prima, dunque, gli scolari doveano addestrarsi a sciogliere in prosa i versi
del testo e a sostituirvi, di poi, vocaboli loro propri ; dopo di che veniva
agevolato il lavoro della parafrasi, la quale dovea esser fatta, naturalmente,
nella medesima lingua dell'originale, non potendosi passare metodicamente
dalla semplice e materiale sostituzione di parole fatta nella lingua propria
all'arduo compito della parafrasi in una lingua diversa. Si farebbe un
atroce torto a Quintiliano sospettandolo autore di un principio didattico così
irrazionale !
(3) Op. cit., p. 74-75.
(4) Né fa intoppo il dire generico di Fabio. Egli non avrebbe di certo
parlato così vagamente, se non avesse esteso i suoi precetti a entrambe le
lingue, né avesse trattato di cose patrie conosciutissime.
-75 —
Nostro, per lucidezza, spontaneità, ed eleganza di stile, per purezza
e proprietà di lingua, per piacevolezza ed amenità di forma, per
castigatezza di contenuto, per semplicità di struttura metrica,
poteva rispondere così egregiamente agli scopi didattici del grande
grammatico.
Anche la testimonianza di Seneca (1) è addotta male a propo-
sito dal Du Méril. Il filosofo consigliava bensì a Polibio la tra-
duzione di favole esopiche, ma come a traduttore già esperto di
altre opere letterarie, come sollievo alle sofferenze morali di lui;
non già come esercizio educativo in quella stilistica nella quale
l'amico era provetto. Aggiungi che Seneca ragionava di traduzioni
prosastiche e non poetiche, contro il presupposto del critico fran-
cese (2).
Come i fatti esterni, le prove materiali, ricavate dal Du Méril
dalle favole stesse, non sono affatto concludenti. — La forma greca
del nome PJiaedrus non è necessariamente estranea all'onomastica
latina. Il medesimo si dica di Eutychus (III, prol., 2) e Philetus
(V, 5, 10). — Al prol. del 1. Ili (vv. 54-55) il poeta non desi-
derava già illustrare la Grecia, la quale contava anche allora le
sue glorie letterarie, ma solo la Macedonia, suo paese natio (3); della
quale non essendo il greco, giusta Strabene (4), la lingua, nessun
vincolo nazionale egli aveva di scrivere in quell'idioma vivendo
in Koma e, cosa più notevole, ai Komani indirizzando le sue
favole.
(1) <,< Fabellas et aesopios logos solita libi venustate connectas ^(Cons.
ad Polyb., e. 27).
(2) Il « connectas » del passo di Seneca, infatti, non include già l'idea
di struttura metrica, essendo esso sempre accompagnato in tale accezione
dal sostantivo specifico ver bis o Carmine.^ e null'altro significando, per sé
preso, che l'idea generica di connessione o continuità. — Seneca, d'altronde,
non potea consigliare a Polibio, il quale avea solamente recato in prosa
Vergilio ed Omero, una versione poetica per lui nuova e faticosa.
(3) « A quel modo istesso, dice Fedro, che Esopo ha illustrata la Frigia,
Anacarsi la Scizia, Lino ed Orfeo la Tracia, io non lascierò sonnecchiare
la gloria della patria mia » (vv. 55-57). Ora patria del Nostro non era già
la Grecia, sibbene la Macedonia, da cui quella, benché geograficamente vi-
cina (v. 54), era nazionalmente divisa.
(4) L. VI, § 687.
- 7f5 —
11 V. « J*alam muttirc jìleheio piaculumst » fili, epil., 34)
non (! un prestito grossolano, insolito in uno scrittore geloso della
propria dignità; non venendo questa sminuita dal citare un poeta
accreditato qual era Ennio, la cui sentenza, famosa fra il popolo,
rispecchiava così egregiamente l'animo di Fedro.
Né sono strane le analogie stilistiche fra Terenzio e il Nostro,
benché al tempo di quest'ultimo il comico non si studiasse che
nelle scuole. Fedro, educato apj)unto, da fanciullo (III, epil., 33),
nelle scuole di Koma, avea dovuto meno che i Komani stessi
adottare le forme del nuovo parlare. D'altronde, perchè non sareb-
besi egli modellato sulla finezza aristocratica di Terenzio in os-
sequio a quell'alta società di letterati cui apparteneva (111, prol,, 23)
e pei quali dichiarava (IV, prol., 17-20) solennemente di scrivere?
Quantunque vecchio di due secoli, il suo esemplare era pur vivo
in quelle scuole nelle quali si stava educando la nuova generazione
dei letterati (1).
Quando il critico francese nega che il nome di Fedro appa-
risca presso gli scrittori latini, i quali hanno fatto espressa men-
zione dei favolisti, dimentica di avere riferito al Nostro la testi-
monianza di Aviano. D'altronde, che cosa dire del silenzio assoluto
che gli scrittori greci avrebbero serbato sulla presunta opera ori-
ginale di Fedro? (2). Il Du Méril tenta spiegarlo colle abitudini
(1) Non è sempre l'epoca letteraria che faccia antichi o moderni gli scrit-
tori ; è lo stile che li rende modelli preziosi in ogni tempo. I periodi storici
della letteratura sono bene spesso cancelli convenzionali, potendosi far opera
moderna dagli stessi scrittori dei primi secoli, arcaica dagli autori di oggi
per un culto male inteso del passato.
(2) Senza discutere sulla maggiore o minore verisimiglianza della sua
scomparsa, osserviamo soltanto che Plutarco e Nicostrato, le cui favole greche
sono andate interamente perdute, sarebbero, a differenza di Fedro, ricordati
dai filologi greci. Anche di Babrio, venuto anch'esso a scomparire, Suida
ed un altro filologo greco, entrambi posteriori di molti secoli, ci hanno la-
sciato alcuni ricordi. Al solo Fedro, dunque, sarebbe toccata la sorte poco
lusinghiera di essere ricordato da due scrittori di altro paese ! Eppure la
Grecia, di cui Fedro, secondo il Du Méril, zelava la gloria, non avrebbe do-
vuto, a nessun patto, ricoprire di silenzio il nome di lui, lasciando che lo
collocasse nella luce degli studi quella Roma a cui essa consideravasi let-
terariamente superiore !
— 77 —
di latinismo che il Nostro avrebbe contratto durante il suo lungo
soggiorno in Koma e che, depreziando lo stile di lui, non gli
avrebbero lasciato alcuna autorità presso i suoi antichi connazio-
nali. Ma sarebbe stato appunto cotesto romanizzare dello stile
fedrìano che avrebbe dovuto richiamare, fenomeno insolito nella
greca letteratura, l'attenzione dei filologi di quel paese.
Qual colpo di grazia all'ipotesi del Du Méril, citiamo i versi :
« Quod si labori faverit Latium meo, Plures hahehit quos opponat
Graeciae » (II, epil., 8-9) e gli altri: « Particulo, chartis nomen
victurum meis Latinis dum manehit pretimn litteris » (IV, epil.,
5-6), inesplicabili sulla bocca di uno scrittore non latino (1).
Christ. Gotti. Heyne, pur accettando l'antichità ()ìQ\V Appendice,
inclinava ad ascriverne la composizione ad un favolista emulo del
Nostro (2), al quale Fedro stesso avrebbe, secondo alcuni critici,
accennato (II, epil., 5-6) e che in base ad una testimonianza di
Svetonio (3) avrebbe potuto identificarsi con Cilnio Melisso comico
augusteo.
11 passo di Svetonio non sorregge affatto simile supposizione. Lo
storico, piuttosto che a favole esopiche, allude colla parola ioci
[\) Circa poi gli argomenti che si potrebbero addurre contro la parte po-
sitiva dell'ipotesi del Du Méril, ci staremo paghi a due soli. Primamente le
lacune dei mss. fedriani, le quali proverrebbero, secondo il critico francese,
dalle traduzioni degli scolari romani giudicate indegne del quaderno di
onore, lasciano sussistere frammenti di favole: cosa inverisimile nel caso del
Du Méril, non avendo potuto i maestri mettere insieme alle traduzioni buone
i frammenti di quelle mal riuscite. In secondo luogo, le imperfezioni che
s'incontrano nelle favole non sarebbero punto esistite nelle correzioni sco-
lastiche che dovevano essere immuni da errori, e non si spiegano che col-
Tincuria o coH'ignoranza degli amanuensi medioevali.
(2) Così egli infatti esprimevasi in una .sua lettera al Cassitto in data del
1* maggio 1811: « De ipso autem fortunae nuotere (h. e. de fnbulis novis)
ita statuo profectum illud esse ah aliquo viro docto superioris aetatis,
Phaedri quidem aemulo, ingenio tnmen et sertnonis castitate, proprietate
et elegantia multuni inferiore ».
(3) Dice Svetonio : « Lihellos ineptiaritm, qui nunc iocorum inscribuntur,
(Melissus) componere instituil, nbsolvitque centum et qidìiqiiafjinta » (De
illustrib. Grammatic, e. XXXI).
-78 -
ai motti spiritosi disseminati da Melisso nelle sue traheatae (1).
Egli, del resto, meglio che iocos^ definisce i componimenti di Cilnio
ineptias, le quali i»er altro, furono, al tempo di Svetonio, dette
anche ioci per riabilitare con un nome più dignitoso la volgarità
di quel genere letterario. D'altronde, come avrebbe Svetonio chia-
mato ineptias quelle favole tanto pregiate dagli antichi da esser
loro attribuita un'origine divina?
Anche l'allusione che Fedro avrebbe fatto ad un favolista la-
tino suo rivale manca di fondamento. Dal contesto di tutto il
luogo citato si argomenta con certezza che Fedro parlava soltanto
di se e di Esopo. Se dunque Esopo, e non altri, occupavit, per
valermi delle parole di Fedro, ne Phaedrus prinius foret; né Me-
lisso, né alcun altro scrittore latino dovè comporre favole prima
di Fedro. E poiché fu proprio in seguito alla divulgazione delle
opere di Melisso che il Nostro si studiò ne Aesopus solus esset
e Seneca definì l'apologo: intentatum lìomanis ingeniis opus (2), è
duopo conchiudere che Melisso non abbia realmente composto fa-
vole e non debba conseguentemente considerarsi autore di<ò\V Ap-
pendice.
Se non che le parole dell'Heyne : « viro dodo superioris aetatis,
Phaedri aemido » non limitano l'ipotesi ai soli contemporanei di
Fedro, ma la estendono agli scrittori antichi in generale. Vediamo
dunque se nell'antichità ci soccorra il nome di qualche favolista
da cui la detta ipotesi possa venire plausibilmente suffragata.
(1) La voce t'oci, difatti, nel suo valor genuino equivale semplicemente
ad arguzia, ed è perciò ben lontana dal designare in maniera sacramentale
la favola esopica da nessuno in tal modo denominata se non da Fedro (li,
prol., 5; III, prol., 37) per un sentimento di modestia, e da Marziale (III.
20, 5) con intenzione di scherzo.
(2) S. Girolamo {In Chronic. Eusebian.) attesta che Melisso fiori nella
194' olimpiade, cioè a dire venti anni prima della morte di Augusto. Allora
infatti Ovidio, il quale fu esiliato TS" anno prima di quella morte, ricorda
Melisso come scrittore e poeta comico famoso già fin da quando egli, Na-
sone, se ne stava a Roma tranquillo e prosperavano le sue cose (De Pont..
VI, 16, 30). Perciò si può ritenere che tutte le opere di Melisso siano state
pubblicate sotto Augusto. Per contrario, il Nostro non divulgò, come si è
visto, le sue favole che verso la fine del regno di Tiberio, e tuttavia affer-
mava di scrivere in un genere letterario sinallora sconosciuto dai Romani.
- 79 —
Al principio del terzo secolo c'imbattiamo in quel Giulio Ti-
ziano Padre di cui Ausonio ricorda una versione di una trimetria
esopica, definendola opus pedestre, cioè prosastica (1), non occor-
rendo mai l'agg. pedestris presso i Greci e i Latini nel significato
di metrico o poetico. Ne dicano alcuni critici che in Ausonio
voglia dire rimesso e non escluda perciò l'idea di forma metrica:
essi farebbero commettere ad Ausonio un'insulsa ripetizione di
pensiero, avendo egli detto nel verso precedente : ( Titianus) vertit
exili stilo. Ausonio, del resto, non dice: trimetriam Titiani, ma
trimetriam Aesopiam qiiam vertit Titianus; Tiziano dunque tra-
dusse i trimetri, non li fece. Ad ogni modo, l'opera di lui constava
esclusivamente di apologhi di poco o nessun interesse, destinati,
secondo lo stesso Ausonio (2), ai bambini non ancora slattati, e
tradotti da un originale greco; laddove V Appendice contiene anche
aneddoti storici di non spregevole importanza che rivelano uno
scrittore maturo e sono da lui medesimo inventati.
Succede Aviano. Se non che egli stesso dichiara di aver composte
sole quarantadue favole, e queste ci sono pervenute nel loro nu-
mero integrale non in senarii, come le nuove, ma in distici ele-
giaci. Che se alcuni han confuso Aviano con Festo Avieno per
essere stato autore quest'ultimo di favole poetiche, queste altro
non erano che quei miti dei quali Virgilio giovossi nei suoi
poemi. Né da altro è dato argomentare che Avieno abbia composto
favole esopiche; che anzi lo stile e la peculiare struttura dei
giambi di lui lo differenziano in tutto dall'autore delle favole
nuove.
Vi fu tuttavia un certo Leonzio mitografo, il quale avrebbe
scritto, secondo alcuni, un libro di apologhi; ma la costui opera,
ch'era pervenuta nelle mani di Giovanni Brassicano, dal quale
sarebbe stata pubblicata se la sorte l'avesse voluto, andò inte-
(1) Sono questi i versi con i quali Ausonio inviava a Probo prefetto del
Pretorio la versione della trimetria esopica di Tiziano: « Apologos en misit
Ubi I Ab usque Rheni limite \ Ausonius, nomen Italum, \ Praeceptor At(-
gusti ini : \ Aesopiam trimetriam \ Quam vertit exili stilo, \ Pedestre con-
cinnans opus \ Pandi Titianus artifex » {Epist., XVI, vv. 74-81).
(2) Loc. cit., vv. 90-91.
— HO —
ramente perduta insieme a molti altri libri ntjUa j^uerra di Sraal-
calda ; ii(! di essa rimase traccia o frammento alcuno, dal quale
potesse argomentarsi lo stile e la natura di queffli apologhi. D'al-
tronde, non avendo alcuno scrittore latino chiamato miiofjrafi che
i soli autori di favole poetiche, convien credere che il genere let-
terario coltivato da Leonzio sia stato quello stesso in cui si eser-
citarono Ovidio, libino, Fulgenzio, Lattanzio ed Alhrico filosofo.
Questi, e non altri, i favolisti latini dell'antichità. (Jlie se Se-
neca parve esortare Polibio a comporre apologhi, il suo consiglio
non rimase che un pio desiderio; nò Marziale potrebbe far sospet-
tare che Canio Rufo avesse scritto favole sull'esempio di Fedro,
avendo egli scherzato, secondo il suo solito, sulla leggerezza del-
l'amico che nulla di buono e di serio era capace di mettere in-
sieme (1).
Restano i favolisti medioevali. — Primo in ordine di tempo ci
si fa innanzi Salone Parmigiano, le cui favole, se non per la ma-
teria, la quale è somigliantissima, differiscono immensamente dalle
nuove, a giudizio unanime dei dotti, per la lingua e per lo stile.
Altrettanto dicasi delle tavole di Alanus ah Insulis, di Adolpìms
0 Adelphonsus, di DoUganus, àeWAnonymus del sec. XIV e di
altri, scrittori tutti barbari e disadorni. Giovanni di Salisburi si
provò, è vero, a comporre favole; ma non ne scrisse che una in
versi elegiaci, la quale, del resto, non può paragonarsi alle nuove
uè per purezza di lingua né per eleganza di stile.
Estendendo ora la nostra rivista storica a tutto il secolo del
(1) Del resto, la favola non potea trovare nell'antichità presso i Romani
numerosi seguaci una volta che la si stimava un'occupazione letteraria di
meschina importanza, se non addirittura disdicevole ad uno scrittore latino.
Aviano, lo confessa egli stesso, erasi dato alla favola perchè incapace di
comporre orazioni e poemi. Fedro poi, oltre a scusarsi, tratto tratto, della
pochezza dell'opera sua, dovea altresì difendere la medesima contro i de-
trattori e i malevoli. E difatti, Io scriver favole era a quei tempi 'una pro-
fessione pericolosissima, come risulta dall'esempio del Nostro ; né pareva
dovesse retribuire fama condegna a coloro che la esercitavano. Appena può
credersi come di Fedro abbian fatta menzione due scrittori dell'antichità ed
un solo di Tiziano, laddove di Aviano non trovasi parola presso alcuno scrit-
tore latino; e corno inoltre l'opera di Tiziano sia andata mteramente perduta
e quella di Fedro sia ricomparsa alla luce così tardi e cosi mutilata.
— 81 —
Perotti, ci contenteremo di osservare che ne le favole del Corrado,
né quelle dell'Alberti, dello Scala, del Grazzini, del Salutato, del
Dati e del Cantalupo sono neppur lontanamente paragonabili alle
nuove per invenzione, per metro e per ogni altra qualità letteraria(l).
Anche dei favolisti della metà del sec. XV deve ripetersi non
esser solo lo stile che li differenzia dall'autore àeW Appendice e
li rende a questo inferiori, ma altresì la struttura e la materia
stessa dell'apologo. Aggiungi che di tutti i letterati quattrocentisti
nessuno ebbe meritato il nome di poeta giambico o almeno dilet-
tossi a scrivere in quel genere di versi (2). — Da ultimo, se la
Appendice fosse uscita dalla penna di un contemporaneo del Pe-
rotti, l'onesto prelato non ne avrebbe ingiuriato così palesemente
l'autore, iscrivendola ai favolisti dell'antichità. Molto meno si
spiegherebbe in mezzo a versi così ben torniti la presenza di tanti
altri versi slogati, se non si supponessero trascritti da un codice
antico e non da un ms. recentissimo.
Risulta evidente da quanto si è detto teste sugli eruditi del
Quattrocento, che nemmeno il Perotti può supporsi autore àoi-
V Appendice. Egli difatti, sebbene dottissimo pei tempi suoi, resta
tuttavia inferiore o almeno non superiore nell' arte dello scriver
latino ai poeti quattrocentisti da noi ricordati. Aggiungi la sua
ignoranza in materia di giambi ed il fatto che qualora le avesse
realmente composte, non avrebbe iscritto favole così eleganti e per-
fette a Fedro, sibbene a se stesso (3).
(1) Il Bembo definì gli apologhi del Corrado mediocri, privi di grazia e
affatto meritevoli di encomio. Eppure il Corrado eccelse fra gl'ingegni più
robusti e raffinati del suo tempo ! Le favole di Filelfo poi, delfantesignano
dei letterati d'allora, appaiono inverisimili, senza garbo e barbarizzanti nella
forma. Altrettanto dicasi degli altri favolisti di quel tempo.
(2) Che se taluno fece opera di commedia o tragedia in giambi, adottò
un tipo metrico diverso da quello àeW Appendice. Meraviglia, ad ogni modo,
il fatto che fra tante migliaia di poesie ed epigrammi allora pubblicatisi
non ricorra alcun giambo del medesimo stampo di quelli delle favole nuove.
('3) « Perotlus, così il Gassitto nella sua lettera di risposta all'Heyne, fe-
cisse non potuit has fabulas nuper inventas, metricae artis nescius, ut ex
eius patet senariis : qui si libellwn tantae elegantiae composnisset, non
RMsta di filoìofiia, fcc, I. 6
— 82 —
A questi (lue argomenti validissimi il Mai aggiunse le lacune
deW Ap2)encJice nel ras. Perottino, le quali non si spiegano se non
colla trascrizione che il Perotti dovè aver fatto delle favole nuove
da un codice antico (1).
Collazionando inoltre il codice napoletano con quello vaticano,
non si trova ragione alcuna di assegnare alle favole nuove una
provenienza diversa dalle antiche, essendo queste mescolate a quelle
in entrambi i codici. Difatti, dopo la dedica a Pirro la prima
favola che s'incontra è quella intitolata: « Simius et vulpes />,la
quale è la prima delle favole nuove; viene quindi il frammento
dal titolo «De his qui legunt libeUum»,àì cui gli editori hanno
fatto l'epilogo di una specie di sesto libro; poi segue un poemetto:
« De virtute ad Lentulum » composto dal Perotti. — La mede-
sima confusione continua sino alla fine.
V'ha di più. Le favole tolte da Fedro sono state trattate dal
Perotti allo stesso modo. Così alle antiche come alle nuove egli
ha levato via il titolo che, non significando per se stesso alcuna
idea morale, non rispondeva punto allo scopo educativo della com-
pilazione del Prelato, il quale perciò, separando dal testo stesso
di ciascuna favola Yepimythion e traducendolo in prosa, ne ha
formato \m titolo nuovo destinato a sostituire quello da lui sop-
presso. Anche nel corpo delle favole egli si è permesso di mutare
qualche volta l'espressione del testo collo scopo evidente di armo-
nizzare colle sue idee cristiane il contenuto pagano dell'apologo.
Così, ad es., nella fav. 10^ del 1. Ili egli ha sostituito al verso
genuino : « A divo Augusto tane petiere iudices » l'altro di sua
fattura: « Pontifìcem maximum rogarunt iudices ».
Ed ora, da questo stato identico in cui si trovano per una serie
di operazioni uniformi in un medesimo ms. così le favole antiche
iscripsisset mehercules Phaedri nomine ut operarti oleumque perderei,
sed se professus auctorem debita sibi laudis praemia captasset ».
(1) <.< Hoc esse epimythion desideratae fabidae nemo non putabit. Quod
si Perottus, ut nonnulli rentur, has fabulas (novas) marte proprio com-
ponebat, cur hanc lacunam fecisset ? Videtur igitur, ex antiquo codice,
ut res erat, descripsisse ». (V. Classic. auctor. e Va tic. codic. edit., t. III.
curante A. Mai, Romae, 1831, in-8o, pag. 285).
-83 -
come le nuove, non sarà lecito conchìudere alla comunanza di ori-
gine delle une e delle altre ? Che se i mss. fedriani non fossero
stati trovati e si conoscesse solo il codice Perottino, gli scettici
per la somiglianza perfetta testé rilevata dovrebbero contestare a
Fedro così le favole antiche come le nuove; ma le prime gli ap-
partengono indiscutibilmente; resta dunque impossibile negargli la
paternità delle seconde.
Queste prove che colpiscono a tutta prima sono ben lungi dal-
l'essere sole. Il Perotti non si è limitato a derivare le sue favole
da Fedro, ma ha fatto altrettanto rispetto ad Aviano. Ora, poiché
le favole di questo scrittore sono scritte in versi elegiaci, se a lato
delle antiche^ le quali sono incontrastabilmente di Fedro, e a lato
di quelle di Aviano, si fa delle nuove un terzo gruppo e lo si
attribuisce al Perotti, questi, dopo aver avuto sott'occhio due ritmi
di natura diversa, avrebbe poi dato sempre, con un esclusivismo
singolare, la preferenza al verso giambico. Basta esaminar le poesie
che sono indubbiamente del Perotti perchè ciò risulti inammissi-
bile. Quasi tutte sono scritte col ritmo elegiaco che egli predili-
geva e maneggiava da maestro; poche sono in versi falecii, po-
chissime in versi giambici.
V'ha inoltre yìqìV Epitome Perottino un documento, il quale ci
assicura che il Prelato, qualora in seguito alle favole che copiava
avesse voluto comporne egli stesso, sarebbe ricorso al ritmo ele-
giaco: ed è una favola della sua raccolta, che sola gli appartiene
e che è un'imitazione di quella di Fedro intitolata: « Socrates
ad amicos ». Essa porta nel ms. napoletano il n. 70 insieme alla
rubrica: « Quanta sii verorum amicorum penuria », ed è certa-
mente del Perotti. Ora essa è scritta nel ritmo elegiaco pel quale
il dotto Prelato avea tutta la sua predilezione e nel quale avrebbe
indubbiamente continuato a scrivere qualora avesse voluto imitare
altre favole dell'originale di Fedro.
Del resto, a negare al Perotti la composizione dell' Appendice
sta la immensa disparità di stile fra gli epigrammi e le poesie
giambiche del Prelato e le favole nuove (1^: disparità non avver-
(1) « Equidem fateor , cosi il Jannelli ( Dissert. /" in cod. Perott.,
§ XVIII, p. 47), neque inventionis solertia ac gravitate renon, nequc stili
- K4 -
tita dal Burmann quando, citata come esempio una favola miova,
l'ebbe attribuita esplicitamente al Perotti. Disgraziatamente, lo
stato infelice degli Excerpta del codice Perottino inviatogli dal
D'Orville, non gli avea permesso una lettura piena ed accurata
del ms., molto meno poi un raffronto fra le poesie Perotti ne e le
favole (ÌqW Appendice (1). Egli pertanto, più che alla propria
esperienza, erasi affidato al giudizio del D'Orville, il quale, nella
convinzione die il Perotti fosse un pregevole ed elegante scrittore,
ed in ciò era d'accordo con la maggior parte dei dotti, e non soc-
correndogli d'altro lato alcuna ragione per attribuire a Fedro le
favole nuove, le avea aggiudicate, senz'altro, al Prelato quattro-
centista.
Si può fare una colpa al giovane filologo olandese di cotesta
attribuzione che ad alcuni è parsa leggiera ed affrettata? Non
crediamo. 11 D'Orville si trattenne soli cinque giorni in Parma per
estrarre dalla Farnesiana la sua copia del codice Perottino. Ap-
pena bastandogli il tempo per ravvisare nel ms. e quindi trascri-
vere nella sua copia tuttociò che nel codice gli riusciva familiare
in grazia alla conoscenza del testo già divulgato di Fedro, molto
elegantia et metrorum prudentia Perotti curmina se magnopere com-
mendare ». E più sotto (p. 48): « Etenim cum nonnulli inventi sint qui,
editis fabellis novis, Perotto eas temere inscriberent, pretium operae prorsus
erat, ut evidentissitno et facillimo ner/otio graois errar refellerctur. Neque
dubitari nequit eos (eruditos) numquam in ea paradoxa lapsuros fuisse,
si quid in poeticis vaUnsset Perottiis novissent ».
(1) L'estratto del D'Orville, come assicura il Burmann nella prefazione
alla sua edizione di Fedro del 1727, rivelava un ms. non sulo .sciupato dal
tempo, ma mutilato in una maniera spaventosa ; e il Burmann rimase for-
temente addolorato alla vista di quella scrittura, la quale era pur stata fatta
con meravigliosa assennatezza e con scrupolosa attenzione. Il Perotti avea
adoperato una specie d'inchiostro che non avea punto resistito alle ingiurie
del tempo, e le lettere in parte erano rimaste distinte e in parte svanite al
segno ch'era impossibile il decifrarle. Si aggiunga che il ms., poco attenta-
mente custodito, vuoi per l'acqua che filtrava per le fessure del soffitto, vuoi
anche per l'umidità in generale, s'era alterato sì che nel mezzo del quaderno
le lettere o erano totalmente distrutte o quasi interamente cancellate. —
Eppure il Burmann avrebbe potuto, meglio di qualunque altro, ristabilire con
sagge congetture i luoghi perduti; nullameno egli, il quale aveva già data
l'ultima mano all'opera sua, si contentò di rilevare le varianti che oflfrivano
nel ms. Perottino le favole antiche, trascurando in tutto le nuove.
- 85 —
probabilmente diede l'incarico al suo copista di trascrivere le fa-
vole fedriane già note, e potè, per conseguenza, leggere il resto
della raccolta Perottina, comprese le stesse poesie del Perotti. Ora
nessuna meraviglia che dopo la lettura di quest'ultime siagli ve-
nuta l'idea di attribuire al Perotti le favole nuove, una volta che
i codici fedriani anteriormente scoperti non recavano traccia alcuna
di esse e il Perotti era considerato dagli eruditi quale scrittore
egregio e commendevole. Qualora però al giovane filologo fosse nato
in seguito il sospetto sulla giustezza di quella sua attribuzione
ed egli avesse istituito un coscienzioso raffronto fra le poesie Pe-
rottine e le favole nuove, non avrebbe certo indugiato a venire
nella nostra persuasione.
Suggelliamo il capitolo domandandoci, come per le favole an-
tiche : È mai presumibile che i contemporanei del Perotti, i quali
gareggiarono nel levare a cielo i meriti letterari! di lui, avessero
poi taciuto il massimo fra tutti , la composizione dell'Appendice ?
Analizzando il contenuto delV Appendice, c'imbattiamo in co-
stumi, istituzioni civili e religiose, le quali riferisconsi tutte al-
l'età di Fedro. Tuttociò, infatti, riguarda Giove, Mercurio, Giunone,
Venere, Castore e Polluce, Prometeo ; tuttociò concerne gli oracoli,
le pene del Tartaro, i ludi ginnici, gli spettacoli del circo, i riti
nuziali, la schiavitù, i supplizi, i banchetti, le cene ed altre si-
mili costumanze: tuttociò si riporta all'epoca del Nostro. E ciò
in conformità degl'intendimenti civili e morali della favola fe-
driana, la quale proponevasi di rappresentare nel loro aspetto fe-
dele la vita e i costumi della società contemporanea.
Che se le usanze e la religione, di cui è parola nelV Appendice,
non furono proprie esclusivamente dell'età di Fedro, osserveremo
che accennando l'Autore al supplizio della croce (fav. 13) come a
punizione che si praticava al suo tempo, ed essendo perciò egli do-
vuto vivere almeno prima di Costantino il Grande, nessun altro
favolista può mettersi innanzi attraverso i secoli precedenti, al
quale si possano ragionevolmente attribuir favole di quel conte-
nuto storico, se non il solo Fedro.
Ciò è anche meglio dimostrato dalla fav. « De oraculo Apol-
- 86 —
Unis »; giacché, se è falso, contro l'asserzione di molti storici,
che tutti gli oracoli del Paganesimo siansi illanguiditi e spenti
alla venuta di Cristo, è d'altronde vero che lo stesso santuario
di Delfo dopo l'età di Nerone decadde talmente dalla sua pristina
celebrità, che appena udivasene il nome in qualche parte (1;. Non
essendo ora verisimile che un e^^regio favolista abbia preso occa-
sione da un santuario trascurato o spento per insegnare cosi sante
ed egregie cose, deve credersi abbia fatto piuttosto ciò quando
l'Oracolo godeva ancora la sua celebrità: il che fu appunto prima
di Nerone, quando cioè scriveva favole il solo Fedro (2). — Lo
stesso Adry non ha osato contestare l'antichità della favola in
esame: l'ha giudicata anzi bellissima. Ha osservato solo che il
V. * Delieta vindicate, castigate impios » non si regge sui piedi.
Giusto: esso porta un amfibraco al posto del terzo giambo (3) ;
(1) Giovenale, vissuto sotto Domiziano e Traiano, cantava : « Quoniam
Delphis oracida cessant » (Satì/r., VI, 555); Porfirio, sotto Severo : « Ablata
est Pythii vox haud revocabilis uUi Temporibus longis, etenim iam cessit
Apollo. Clavibus occlusus silet ». {Ap. Eus. Praep. Evang., V, 8). Altret-
tanto facevano notare S. Clemente Alessandrino ai suoi connazionali (Cohort.
ad Gentes, cap. II) e Minucio Felice ai gentili di Roma (In Octavio). Che
se Elio Spartano, vissuto sotto Domiziano, riporta nella sua vita di Pescennio
Negro alcuni responsi della cortina delfica, questi sono di tale natura che
non se ne può a nessun patto sospettare autrice la Pitonessa o i sacerdoti
del tempio (V. Jannelli, Dissertatio II, e. II, p. 95).
(2) Non neghiamo che l'Oracolo di Delfo fosse molto decaduto dalla sua
pristina fama negli ultimi due o tre secoli av. Cr.; tuttavia esso rimase ab-
bastanza accreditato fino all'età di Nerone perchè un favolista ne potesse
desumere un esempio cospicuo al suo proposito. Cicerone stesso (Plutarco,
in vita) non avrebbe sdegnato di consultarlo ; l'avrebbe consultato anche
Appio nella guerra farsalica (Lue, Phars., V, 68); Apollonio di Tiana (Fi-
LOSTR., in vita, VI, 10); Dione Crisostomo (Orat., XIII, XV, XX) e sopra
tutti lo stesso Nerone (Svet., in vita, 40; Sifilino, In Ner.). Strabone poi,
coevo del Nostro, lo ricorda come ancor celebre alla sua età (1. IX, p. 42i).
(3) Sebbene tale sostituzione non trovi esempio presso alcun poeta giam-
bico castigato, stimiamo debba rispettarsi nella sua integrità la lezione del
testo, e perchè i comici si son talora permessi nei loro senarii la medesima
licenza (Plauto, Amph., prol., 92; Ter., Andria, I, 1, 17) e perchè il verso
censurato è posto in bocca alla Pizia, la quale (V. Plutarco, Cur Pithia
non reddat Orac. carm., e S. Giustino, Cohortatio ad Graecos, p. 34,
ediz. Colonia) « gravitar in meira peccantes versiculos effundebat ». — La
licenza del Nostro è dunque giustificata dal tò irpéirov : il che appare anche
- 87 -
ma il critico francese, fatta questa sua osservazione metrica, è
ben lungi dallo sconfessare il suo primo giudizio sull'eccellenza
della favola cui si duole soltanto di non trovare in miglior com-
pagnia.
Egli infatti contrasta l'antichità della fav. « Pompeius Ma-
gnus et eius miles » (n. 8), definendola una turlupinata. Certo :
la novella non si addice alla dignità del personaggio storico rap-
presentato ; ma appunto perchè, rivestita, com'è, di carattere aned-
dotico, dovette essere conservata unicamente dalla tradizione orale,
non potè esser messa in iscritto, specie in una raccolta di favole,
a grande distanza dal tempo di Pompeo. Ora Fedro fu contem-
poraneo di Augusto, il quale, molto probabilmente, dovè conoscere,
almeno di vista, il rivale del suo prozio.
L'Adry trova assolutamente ridicola la fav. « Mercurius et
muìieres » e paragonabile soltanto alla fiaba del Perrault così
conosciuta dai bambini. Rispondiamo che il Perotti — autore àe\-
V Appendice, secondo l'Adry — non avrebbe mai introdotto, nella
sua qualità di vescovo, in un racconto inventato da lui stesso una
divinità pagana, avendo egli altrove (ILI, 10, 39) modificato in
senso cristiano l'espressione : A divo Augusto benché consacrata
dall'uso classico. — Il Perrault poi, non ha fatto punto interve-
nire nella sua storiella la persona di Mercurio.
Secondo l'Adry, la fav. « luno, Venus et Gallina » contrad-
dice agl'intendimenti morali della favola fedriana ; laddove l'Au-
tore col mostrar le donne incorreggibili non fa che dare agli uo-
mini un salutare avviso.
Il critico francese trascura a bello studio la fav. 12", giacché
essa trovasi riprodotta, sebbene in forma più prolissa, sulla fal-
sariga del Nostro, nel 1. III (n. 11) del Romolo di Rimicio, e ri-
corre altresì presso Salone Parmigiano, dove, tolte le differenze
di stile e di locuzione, non v'ha dubbio sia stata condotta sul-
l'esempio di Fedro.
più accettabile quando si badi che tutta la dicitura dell'oracoli» (vv. 8-15)
differisce notevolmente per correttezza metrica dai versi che la precedono
(vv. 1-7).
- 88 •-
La fav. « Aesopus et domina » è per l'Adry oscurissiraa e pessi-
mamente raccontata; mentre il senso si capisca' bene e la lezione
ch'essa offre non si lascia dimenticare tanto facilmente.
Anche della fav. 18* il critico francese dice che è poco intelli-
gibile e che in tutti i casi l'ultimo verso « Discerpsit dominum
et fecit partes fachioris » è bizzarramente concepito. Eppure si
comprende di leggieri che la famij^lia dei gatti « fa a brani il
suo padrone e si divide il frutto del suo delitto ».
Pur riconoscendo alla fav. 19^ un'eccellente morale, l'Adry le
nega qualsiasi eleganza e ne assomiglia il verso <' Ilas propter
caussas et quas est longum promere » al dispositivo di un ar-
resto che finisce sempre colle parole: « per queste ragioni e per
altre che ci obbligano a procedere, ecc. ». Se non che simile frase
non avrebbe potuto essere suggerita al Perotti dal formulario della
procedura del suo tempo.
Quando poi l'Adry definisce la fav. 22* «un trattato puro e sem-
plice di storia naturale senza interesse di sorta », non bada che
la morale di essa (« Ergo etiam stulto acuii ingenium fames »)
non è affatto priva di buon senso.
Il v. 8 della fav. « Viator et corvus », che all'Adry sembra
un po' singolare, è irreprensibile. Il corvo nel dare il buon di al
viandante non gli aveva fatto perdere, forse, tutto quel tempo che
nel detto verso è significato (« Et perdidisset temjjus aliquot mil-
lium »); ma un poeta non è tenuto ad un'esattezza matematica
di espressione.
Giustamente l'Adry trova inintelligibile la fav. 27*; essa è però
una delle più illegibili nel ms. napoletano, tantoché il Jannelli
dovè supplire con ipotesi tutte sue al testo distrutto. Sol però che
l'Adry avesse conosciuto la vera lezione ritrovatasi nel ms. vati-
cano, non vi avrebbe trovato né oscurità né disaccordo del conte-
nuto col titolo morale.
' La fav. 28% dice il critico francese, è bellissima. Non è una
gran concessione: sarebbe impossibile sostenere il contrario.
Della fav. 29* l'Adry non fa parola. Con molta accortezza :
giacché essa leggesi in ambedue le raccolte di Komolo in una
forma così vicina a quella del Nostro che le lacune dei codici
- 89 -
fedriani possono plausibilmente colmarsi colla doppia dizione delle
due raccolte medievali.
Circa la 32^ ed ultima favola cui l'Adry giudica degna di Li-
cofrone, basta leggerne la traduzione del Biagioli per non trovarla
oscura come vorrebbe il critico francese.
Ben più insussistenti che i singoli appunti ora confutati sono
i giudizi generali cui l'Adry porta sullo stile àeìV Appendice af-
fidandosi, più che al proprio convincimento, alle affermazioni del-
l'Heyne. Questi, del resto, riconosceva fin dal principio che autore
delle favole nuove era un emulo di Fedro; e se non era andato
più oltre, lo si doveva al Cassitto, il quale, colmate in fretta nella
sua prima edizione le lacune del ms., aveva inviato all'Heyne un
testo profondamente alterato. La lezione era bensì impressa in let-
tere italiane; ma nella precipitazione che avea accompagnato il
lavoro dei tipografi, l'edizione lasciava assaissimo a desiderare.
Qualora pertanto l'Heyne avesse lette le favole nuove nella pre-
gevolissima edizione del Jannelli, non avrebbe menomamente tar-
dato a ravvisarvi l'opera di Fedro.
E difatti il Jannelli prima (1), L. Mùller (2) poi, hanno rilevato
neìV Appendice la medesima purità, eleganza e concisione delle
favole antiche, insieme ad alcune peculiarità stilistiche della forma
fedriana (3): affinità coteste non disconosciute dallo stesso Adry,
(1) Dissert. II.
(2) Op. cit., p. 12.
(3) Una caratteristica molto spiccata dello stile fedriano è la frequente
sostituzione dell'astratto al concreto. Ora neW Appendice ricorrono le mede-
sime locuzioni, come può vedersi dai seguenti esempi ; « Gulae credens
colli longitudinem » (I, 8, 8) = Traxit ad terram nasi longitudinem •»
(3, 16); « Repente vocem sancta misit Religio (IV, 10, 4) » = « Mugit adytis
Religio » (7, 4) ; « Dulces perfidi Aeqiialitatis inter plausus nttptias >>
(15, 29); « Sic turpitudo Inudis obsedit locum » (14, 31); ed altri molti di
simil genere. — Si aggiungano alcune espressioni dell'Appendice proprie
esclusivamente di Fedro: p. es. simius per simia (I, 10) 6 e 1, 1); Religio
per numen (IV, 10, 4 e 7, 4) ; lurpi stupro (IH, 10, 17 o 0, 14); validius
{l\\ opil., 9 e 3, 13); 8, 13 castroruni dedecus (1,21, 11 naturae dedecus);
quaeque per utraque (I, 24, 8 quis per uter)\ talora anche interi emistichi
come: 15, 3 vestem, uniones (IV, 5, 36); 23, ^ praedam dimisit (V, 10,6);
30, 3 forte occiicurrit (IH, 7, 3). E altresì frequente noli' Appendice come
nelle favole antiche l'uso di vocaboli greci o di diminutivi.
— 90 —
il (juale anzi ha preteso trarne profitto alla sua tesi osservando
che Fedro non poteva essere il i)la^nario di sé stesso. Se è per la
somiglianza delle favole nuovo allo antiche che esse non possono
essere del medesimo autore, l'Adry avrebbe dovuto, fin dal jtrin-
cipio, basare i suoi dubbi sulle loro dissomiglianze.
Quanto alla metrica basterà riferire il giudizio autorevolissimo
del Miiller. « Metrica ars Appendicis, cosi l'illustre filologo, fahur
larum tam similis est Phiedri quam lac lactis, quamquam haud
raro fuit turbata et eius culpa qui scripserai codicem, unde Pe-
rottus sua excerpsit, et magis ipsius Perotti hotninis tneiricae
Phaedri ignarissimi » (1).
Passando ora dall'esame comparativo della forma a quello del
contenuto, ricorderemo che le favole nuove si riferiscono ai me-
desimi costumi e istituzioni delle antiche; aggiungeremo anzi che
neìV Appetidice c'imbattiamo in alcune particolari opinioni intorno
a Giove, a Prometeo, alla Fortuna, al Fato, alla Povertà e alla
Ricchezza che sono le istessissime dichiarate nelle favole antiche.
Di piti, allo stesso modo che in queste, trovansi interpolati, anche
nelle nuove, aneddoti storici o verisimiglianti; e si nelle une che
nelle altre non mancano apologhi in cui agisca o parli lo stesso
Esopo: singolarità cotesta propria soltanto di Fedro, non avendo
seguito nessun altro favolista un simile procedimento letterario,
e ciò ch'è più notevole, essendosi astenuti gli stessi parafrasatori
di Fedro dal rimaneggiar quelle favole nelle quali appariva Esopo,
0 avendo soppresso nei loro rimpasti il nome di quest'ultimo.
Riassumendo, non c'è favola deW Appendice che non abbia giu-
stificata la sua natura nel raffronto colle favole antiche. Così che
quando l'Adry oppone che la fav. Auctor, la 3* delle nuove, benché
non indegna di Fedro, non è affatto un apologo ; che la fav. 9^ ha
piuttosto il carattere di epigramma, e che la 13* racchiude sol-
tanto una riflessione giudiziosissima, mostra di ignorare che il
medesimo può dirsi anche di molte favole antiche. Parimenti,
quando giudica ridicolo l'argomento della fav. « 3Iercurius et
mulieres », non bada che altrettale dovrebbe dirsi pur quello
(1) Op. cit., p. 12-13.
— 91 —
della favola antica « Canum legati ad Jovem ». Anche la fa-
vola 5^, che per l'Adry finisce malissimo, ricorda perfettamente
per la composizione la favola « Idem Prometheus » del 1. IV ;
allo stesso modo che la fav. 15*, la quale all'Adry sembra, e giu-
stamente, un racconto più che una favola, non fa che narrare un
avvenimento contemporaneo simile a quello della fav. 10* del 1. IH.
La morale poi della fav. 22*, cui l'Adry trova arida e sciapita, è
il complemento di quella della favola antica « Vidpes et corvits^>.
Ne dica l'Adry che la riflessione morale della fav. 14* non dovrebbe
esser fatta dall'asino stesso : è questo un procedimento così fami-
liare a Fedro che trovasi applicato nelle due favole antiche
« Gallus ad margaritam » e « Vulpes ad personam tragicam ».
Finalmente, 1' ultimo verso della fav. 31* « Non qui fuerimus,
sed qui nunc simus, vide » ricorda così da vicino l'altro della fa-
vola 5* del 1. V « Quod fuimus laudasti , iam damnas quod
sumus », che non può essere evidentemente che del medesimo
autore.
Un'ultima osservazione, ed avremo finito. In base all'edizione
del Dressler, nella quale le favole nuove formano un sesto libro,
si è obbiettata da alcuni critici la contraddizione di tal fatto alla
testimonianza di Aviano, secondo il quale Fedro non avrebbe com-
posto che cinque libri di favole. Vero ; ma l'errore del Dressler
è più nella forma della pubblicazione che nel pensiero dell'edi-
tore. Obbligato a distribuire in gruppi le favole, egli ha fatto
delle nuove un sesto libro ; ma è probabile ch'egli non abbia cre-
duto mai la propria distribuzione corrispondente alla divisione ge-
nuina dell'Autore.
E vero che il ms. del Pithou, al quale non manca alcun fo-
glietto, non contiene che cinque libri ; ma è anche assodato che
se esso non è la copia del ms. di Eeims, ha dovuto però, come
quest'ultimo, essere stato copiato su di un terzo ms. più antico,
del quale disgraziatamente molti foglietti erano scomparsi.
Mentre infatti il 1. I contiene più di trenta favole ed il IV
più di venticinque, non si può credere che il li ne contenesse
sole otto e il V appena dieci. E valga il vero. La fav. 5" del 1. Il
è intitolata « Item Caesar ad Atriensem ». La parola Itcm ci
- 92 —
dice che nella favola precedente dovea trattarsi del medesimo im-
peratore. Ora questa favola manca. Manca essa sola? No. Qual'è
l'estensione della lacuna? È impossibile saperlo, ma la brevità
del libro ci permette di 8ui)porla considerevolissima. Il proloj^o
del 1. Ili ne fornisce una prova evidente. Perchè Fedro potesse
scrivere: « Cogitavi plura quam (Aesopus) reliquerai » (v. 89),
conviene ammettere che i primi due libri fossero stati abbastanza
lunghi.
Nella prima parte del 1. IV, i primi otto versi della favola
« Leo regnans » tradiscono anch'essi visibilmente, nel ms. del
Pithou, un'altra lacuna, di cui soltanto le proporzioni non si co-
noscono. La seconda parte del medesimo libro è anche più in-
completa. Di essa non possediamo, oltre il prologo (« Poeta ad
Particulonem » , il quale comincia, come altrove si è detto :
« Quum destinassem termimim ojìeri statuere »), che il preambolo
di una favola scomparsa intitolata: « Idem Poeta », una parte
della favola « Venatores et latro », le tre che seguono quest'ul-
tima e l'epilogo. Vi è nel ms. del Pithou, e vi era in quello di
Keims, fra le due favole incomplete prive l'una della fine, l'altra
del principio, una nuova lacuna che è impossibile conoscere esat-
tamente; ma siccome la seconda parte del 1. IV doveva essere in
origine per le sue dimensioni in rapporto colla prima, così è certo
che la lacuna doveva essere abbastanza grande.
Quanto al 1. V, poiché esso si riduce alle cinque ultime favole
dei due mss. del Pithou e di lieims, è evidente che anche se noi
lo supponiamo più corto degli altri, non ne possediamo oggi che
una meschinissima parte.
La conclusione si è che per attribuire a Fedro le trentadue
favole nuove non è necessario supporre contro l'asserzione di Aviano
che egli ne avesse fatto un sesto libro. L'obbiezione, tratta dalla
necessità di supporre un sesto libro che non è mai esistito, è così
completamente distrutta, e gli argomenti forniti dall'esame dei
mss. conservano tutto il loro valore.
Napoli, luglio 1894. Getulio Moroncini.
8. 10. 94.
- 93
« CLINAMEN » E « VOLUNTAS »
(A Lucrezio II 216 sgg., 251 sgg.; IV 877 sgg.)
I. — Uno dei punti della filosofia di Epicuro che più par-
vero strani e attirarono lo scherno di antichi e moderni è quello
della declinazione degli atomi. Si sa che cosa è. Nell'infinito spazio
son diffusi gl'infiniti atomi. Gli atomi sono dotati di peso; quindi,
anzitutto, cadono. Ma se altro non fosse, poiché cadono nel vuoto
e cadono quindi tutti colla medesima velocità, malgrado differenze
di peso, cadrebbero eternamente a modo di pioggia senza incon-
trarsi mai, quindi senza possibilità di intrecci e combinazioni; e
non ci sarebbe quindi nessuna cosa creata. Per spiegare adunque
l'esistenza delle cose e dei mondi, Epicuro dice che talvolta, a mo-
menti e posti indeterminati, gli atomi deviano nella loro caduta
dalla diritta linea verticale. Questa deviazione è la minima pos-
sibile : appena quel tanto che basti perchè la linea di caduta non
sia più la assoluta linea verticale. E la deviazione avviene affatto
spontaneamente, senza causa alcuna (e, ben s'intende, non per
alcun atto di volontà degli atomi stessi, che son materia bruta,
affatto priva di coscienza e di senso). Questa lievissima declina-
zione basta, dato l'infinito spazio e tempo, a produrre gli incontri
e urti di atomi contro atomi, e quindi i rimbalzi obliqui, e nuovi
incontri e urti (le plagae); sì che l'universale moto atomico non
è già un moto di caduta, ma una infinitamente varia agitazione
degli atomi in tutte le direzioni, mutando queste continuamente,
pe' sempre rinnovantisi cozzi e rimbalzi ; per effetto dei quali, e
per eventuale opportunità di forme atomiche incontrantisi, si de-
terminano sporadicamente degli addensamenti, dei sciami atomici,
che, attraverso una infinita varietà di combinazioni possibili, pos-
— 94 —
sono anche dar luogo, e danno luogo, alla nascita di mondi; dei
quali infinito ò il numero, come infinita è la serie di loro crea-
zioni e distruzioni. E così è ab aeterno, perchè ab aeterno sono la
gravità e il clinamen. Quella condizione di universale j»ioggia ato-
mica non h stata mai, perchè in tutta l'eternità hanno esistito
operanti le cause che la trasformano nella condizione che s'è de-
scritta. Come si vede, in questa costruzione tutta meccanica degli
esseri, il punto debole, che urta contro le esigenze della ragione
(anche in un campo, anzi specialmente in un campo adatto ma-
terialistico), è quella declinazione atomica spontanea e senza causa ;
è una infrazione dei (cederà fati, ossia della ferrea catena di
cause meccaniche, che è pure il carattere fondamentale della qpu-
(TioXotìci di Epicuro -, ed è ben naturale che facesse scandalo.
Ma un'altra notevolissima infrazione della rigida, inesorabile
successione di cause meccaniche abbiamo nel sistema di Epicuro.
È la dottrina del libero arbitrio. Si sa quanta importanza desse
Epicuro alla difesa della libertà del nostro volere. Credeva Epi-
curo che questa libertà, e la sicura convinzione di essa, fossero
condizione sine qua non perchè l'uomo diriga la sua condotta
come vuole la sapienza, e ottenga lo scopo della vita, la felicità.
A tal segno gli era odiosa la ei|uap)aévri — che Democrito più
coerente al suo meccanismo atomico insegnava — da giudicare un
male minore la servitù dello spirito sotto la superstiziosa credenza
che la natura e gli umani destini sieno governati dal volere e dal
capriccio degli dei. Secondo Epicuro, adunque, l'uomo agisce bensì
dietro motivi (questi sono anzi condizione indispensabile), ma la
presenza di questi non ha per necessario effetto la deliberazione
di agire. Ossia, considerando il fatto nella sua essenza fisica : i
motivi, vale a dire idea (immagine sentita) dell'oggetto e conse-
guente desiderio (di conseguirlo o fuggirlo, un TidGoq), si riducono
in sostanza a de' moti atomici interni, e l'atto volitivo consta esso
pure di interni moti atomici; ma il passaggio dai primi ai secondi
non è una comunicazione o trasformazione meccanica dei primi
nei secondi (in che regnerebbe necessità), ma questi secondi si de-
terminano (o non si determinano) spontaneamente, come è spon-
tanea la declinazione atomica.
- 95-
Su queste due infrazioni della rigida legge di causalità nel si-
stema di Epicuro, declinazione degli atomi e libertà del volere,
non cade dubbio o discussione. Non indiscusso è invece un altro
strano punto: che Epicuro mettesse in intima connessione queste
due infrazioni, trovando nella prima il fondamento della seconda ;
ossia, in sostanza, considerando la libertà del volere come un caso
dello spontaneo clinamen atomico. Lucrezio afferma e conferma la
dipendenza del libero arbitrio dalla declinazione atomica nei nostri
versi li 251 sgg.; e vi mette tanto calore da non lasciar dubbio
ch'egli, per lo meno, credesse di esporre una schietta dottrina di
Epicuro — egli che, come ci assicura nel proemio del 111, omnia
depascitur ex Epicuri chartis; e per verità, più si studia Lucrezio,
e più sfumano le pretese divergenze della dottrina ch'egli insegna
(o intende insegnare) da quella del maestro. S'aggiunge la con-
corde testimonianza di Cicerone e di Plutarco. Cic. Nat deor. I,
69 : Epicurus cum videret si atomi ferrentur in locum inferiorem
suopte pondere, nihil fore in nostra potestate, quod esset earum
motus certus et necessarius, invenit quo modo necessitatem effu-
geret, quod videlicet Democritum fugerat: ait atomuìn cumpon-
dere et gravitate directo deorsus feratur, declinare paululum.
De fato 23: liane rationem (la declinaz. atom.) Epicurus induxit
oh eam rem quod veritus est ne, si semper atomus gravitate fer-
retur naturali ac necessaria, nihil liherum nohis esset, cum ita
moveretur animus, ut atomorum motu cogeretur. Plut. De soli,
anim. 7 : oùòè yàp aùioì (Stoici e Peripatetici) tuj 'Ettikoùplu
biòóaaiv \jTTèp TUÌ)v iLieYiCTTUJV (J|LiiKpòv ouTU) TTpcÌYlua Kaì qpaOXov,
oi|uai, àToiaov TTapeTKXtvai |uiav èTiì TOÙXdxiCTTOv, 6ttuj<; àatpa
Kai Suja Kttl TÙxri TrapeicJéXer] Km tÒ èq)' ii|uiv \xr\ diTTÓXriTai « non
concedono sì minima cosa com'è il minimo declinar d'un atomo,
neppur per ottenere sì grandi effetti come i corpi celesti, e gli
animali, e l'aver sua parte anche la fortuna nelle cose di questo
mondo, e la salvezza del nostro libero volere » ; sicché non è
dubbio che così s'abbia a intendere anche Plut. De repug. stoic.
34: tìì^ àiòiou Kivncreiuq )LirixavuO|uevoq èXeuOepuùcrai Kai àiTO-
XOdai TÒ éKOuCTiov, ìiTrèp toO }xy\ KaTaXmeìv àvéYKXriTov tvjv ku-
Kiav « Ep. tentò di liberar la volontà dalla necessità del moto
- 9fi —
eterno [del moto eternamente concatenato] per non lasciare irre-
sponsabile la raalva{(ità ». — In faccia a queste testimonianze,
tenuto conto quanto sia improbabile che e i due filosofi greci, dai
quali son tradotti i due passi ciceroniani, e Plutarco ignorassero
la vera dottrina di Epicuro, o ignorassero che questa dottrina era,
se era, una innovazione importata da successori di Epicuro; tenuto
conto, anzi, della improbabilità, in genere, che se un punto di
dottrina così singolare e ardito fu una novità introdotta da epicurei
posteriori (1), non ci arrivasse di ciò alcuna notizia — tanto più,
che del sistema epicureo in particolare, ci è riferito che si tra-
mandasse, intangibile, a guisa di domma religioso, nella scuola
di età in età: e le poche modificazioni indagate dall'Hirzel non
infirmano sostanzialmente questa notizia, né son paragonabili a
una così notevole come sarebbe questa della connessione tra li-
bertà e declinazione : tenuto conto di tutto ciò, è naturale che da
quasi tutti e si sia sempre creduto e si creda questa connes-
sione esser dottrina di Epicuro stesso.
Ma è insorto ripetutamente il Brieger ( Urhewegung der Atotne,etc.
Halle, 1884; De atomorum motu principali^ nelle Philologische
Abhandlungen, in onore di Hertz, Berlino, 1888) (2), negando
che a Epicuro potesse venire in mente una tale « stoltezza ». Lo
stolto, secondo il Brieger, è stato un epicureo posteriore; solo che
Epicuro deve aver dato occasione di attribuirgli erroneamente
questa dottrina, coll'aver detto in qualche luogo, per semplice ar-
tificio avvocatesco, che se la declinazione atomica non fosse ne-
cessaria per spiegare l'origine delle cose, sarebbe necessaria per
spiegare il libero arbitrio. Ma tutto quello che noi sappiamo del
carattere di Epicuro non ci autorizza a credere che improvvisasse
artifici avvocateschi, e tanto meno in un argomento di tanta im-
(1) Ad ogni modo non posteriori all'età di Cameade, perchè Cameade
(v. Cic, de Fato, 23) docebat posse Epicureos suam causam (la libertà del
volere) defendere sine hac commenticia declinatione.
(2) E TEichner nella sua dissertazione dottorale Annotationes ad Lucretii
Epicuri interpretis de animae natura doctrinam, p. 26 sgg. jNIa è così fuor
di strada nei concetti fondamentali che s'è fatti della psicologia epicurea,
che non è il caso di entrare in una discussione particolareggiata.
— 91-
portanza ; e io persisto nel credere che l'intimo rapporto tra de-
clinazione e libero arbitrio sia dottrina professata con tutta serietà
da Epicuro stesso. Gli argomenti del Brieger sono in parte molto
acuti e penetranti; esaminarli e combatterli conduce, parmi, a
un più coordinato e interiore concetto della mente di Epicuro ri-
spetto a queste questioni, e fa svanire quella parvenza di teme-
raria capricciosità che offusca alcune dottrine del sistema epicureo.
Altro è che un sistema sia intrinsecamente assurdo o insostenibile
(e come non lo sarebbe un sistema metafìsico?), altro è ch'esso
sia infetto di ipotesi arbitrariamente escogitate per rattoppare alla
bell'e meglio gli strappi della filosofica tela. Di queste rattoppa-
ture il sistema di Epicuro ne ha, ma non tante quante si crede.
TI. — All'autorità di Lucrezio, Cicerone e Plutarco il Brieger
oppone un argomento che si potrebbe dir pregiudiziale : è impos-
sibile attribuire a Epicuro, come fanno quei tre, lo sciocco ragio-
namento che, senza cUnamen, in questo mondo non ci sarebbe
libertà, perchè senza cUnamen, secondo Epicuro, neppure ci sa-
rebbe il mondo. Ma come ? Io provo che B non potrebbe esistere
se non ci fosse A; dopo, a ulterior conferma, trovo che B con-
tiene C, che alla sua volta, considerato da sé solo, non potrebbe
esistere senza A ; non è un ragionamento lecito ? Vero è che Ci-
cerone dice, che Epicuro stabilì la declinazione, perchè altrimenti
la volontà non sarebbe libera, e Lucrezio dice che senza la decli-
nazione i moti, onde risulta il mondo e la sua vita, sarebbero
tutti inesorabilmente concatenati e non sarebbe possibile un libero
volere; e, presi alla lettera, è giusto obiettare: ma senza decli-
nazione non ci sarebbe codesta inesorabile concatenazione di moti
onde il mondo risulta, perchè codesti stessi moti e cose e mondi
non esisterebbero; né l'uomo sarebbe privo di libertà, perchè
l'uomo stesso non esisterebbe. Ma, appunto, non vanno presi così
alla lettera; quell'inciso concessivo « dato che fosse ancor possi-
bile l'esistenza delle cose » che il Brieger attribuisce ipotetica-
mente alla trovata avvocatesca di Epicuro, non è (ìifficile sotto -
intenderlo anche per Cicerone (cioè pei suoi fonti) e per Lucrezio.
Il pensiero: « senza declinazione niente libertà » non è inscindi-
lìivisUi di filologia, ecc., I 1
- 9S —
Ijilmente legato al presupposto epicureo del moto iniziale per gra-
vità, ma si oppone in genere a una assoluta necessità dei natu
rales motus degli atomi. Epicuro deve aver detto: « Se non si
ammette una possibile deviazione spontanea dei motus naturales
(cioè di necessità iniziale o di necessità secondaria meccanica,
plagaé), come non l' ammette Democrito, addio libero volere ; e
Democrito appunto è obbligato a negarlo ». Ed era naturale che
Epicuro e i suoi relatori omettessero quell'inciso « dato anche che
un mondo fosse ancor possibile », perchè nel trattar questo punto
si riferivano al generale movimento atomico democriteo ed epi-
cureo come fosse tutt'uno (sì che l'inciso era rappresentato da
Democrito); ed era naturale che vi si riferissero come fosse tutto
uno, perchè in effetto era tutt'uno, come s'è già detto, e come è
merito del Brieger d'aver ben chiarito. Epicuro non concepiva
diversamente da Democrito l'eterna ridda atomica nell'infinito
spazio e (salvo qualche secondario particolare) la conseguente spo-
radica formazione di mondi. Ah aeterno gli atomi hanno la ten-
denza a cadere, ma ah aeterno declinano, e quindi ah aeterno il
moto di caduta è trasformato nel democriteo moto m^MZs?om's(l).
La differenza sta qui : Democrito s'era creduto esonerato dal tro-
vare una àpxn {principio e causa ; v. Brieg. Urhewegung, etc.
p. 11) di questo moto, perchè appunto non aveva avuto àpxn
(principio). Aristotele non gli mena buona la scusa; e a ragione,
perchè si tratterebbe di una eterna catena di cause esteriori, di
cause seconde, ciò che è assurdo. Epicuro, così avvertito, cerca
questa causa prima, e pone un moto fondamentale degli atomi
che sia in essi immanente e coessenziale e quindi non soggetto
alla richiesta di una dtpxn, sia nel senso di principio, sia nel senso
(1) Non esclusi eventuali e momentanei ritorni al moto di caduta per
gravità. V. mia Nota : Cinetica Epicurea, nei Eend. Ist. Lomb., 1894,
p. 437. E qui aggiungo: Quale necessità teorica o razionale aveva Epicuro
che lo costringesse ad ammettere che un atomo volante obliquamente per
plaga, supposto che non incontri altra piaga, debba continuare indefinita-
mente la sua corsa nella medesima direzione? Aveva invece la comune espe-
rienza — quell'esperienza che è per lui il fondamento del moto di caduta
degli atomi — che gli diceva come i corpi lanciati in alto o obliquamente,
continuano per un certo tratto quella corsa, poi ricadono.
— 99 —
di causa ; e poiché è questo moto che, intermediaria la declina-
zione [la quale anche più apertamente della impidsio di Denao-
crito urta contro l'obiezione di Aristotele ! Dia vedremo più avanti
come ciò si spieghi], è questo moto che ab aeterno si trasforma
nei moti impulsionis, questi non restano soggetti alla richiesta di
una dpxn « principio », ed hanno la loro àpxn « causa » (1).
(1) Quésta diversità tra Dem. ed Epic. nel concetto fondamentale del moto
atomico è brevemente, ma esattamente, espressa in Gic, de Fato, 46: de-
clinai, inquit, atonius. Primum cur ì aliam enim quandam vim motus
habebant, a Democrito impulsionis, quam plagam ille appellai, a te, Epi-
cure, gravitatis et ponderis. Badiamo pel momento alla sola motivazione.
Essa dice: « Per Dem. la forza motrice iniziale è la impulsio (plagae), per
Epicuro è la gravitas o pondus ». — Ma giacché il passo ci è occorso, esa-
miniamolo anche sotto altro aspetto. 1 dotti tedeschi sono accaniti contro
il povero Cicerone, espositore di filosofia greca ; ma l'accanimento, come
suole, passa i confini della giustizia (l'Hirzel è un po' più misurato ed equo).
Nel nostro passo il Brieger (C/r&eio., p. 9) trova due prove della Gedanken-
losigkeit di Cicerone : 1° Che ci ha che fare la domanda, cur, colla moti-
vazione ? Che è quanto dire : il passo non contiene alcuna argomentazione.
A me pare invece che ci sia. In che consista la iniziale forza motrice ato-
mica, r hanno detto tanto Dem. che Epicuro ; per 1' uno è l' impulsio, per
l'altro è la gravitas. Ora qualunque delle due per voi atomisti sia la vera,
come è possibile aggiungere un'altra iniziale forza motrice atomica ? quale
appunto è anche la declinazione, poiché essa pure è assolutamente iniziale
e prima, per nulla dipendente dall'altra. Una siffatta duplicità di prima
forza motrice è ripugnante alla ragione. L' argomento, di chiunque esso
sia — di Cicerone non credo — è acuto e fondamentale ; esso obblighe-
rebbe Epicuro a rispondere : « Ma io non importo nessuna nuova forza mo-
trice, perchè la mia declinazione avviene senza forza motrice ; anzi essa non
è neppure un nuovo moto, ma è il moto stesso di caduta che da se cambia
un tantino direzione »; e con quel da sé va incontro all'altra grande obie-
zione : sine causa — obiezione che, come vedremo, per Epicuro non è una
obiezione. — 2° Gli atomi di Democrito (dice il Br.), secondo quello che
Cicerone dice qui, son mossi fino ab origine dalla impulsio, non per gravità;
pochi capitoli avanti (§ 23) invece gli atomi di Democrito si muovono ori-
ginariamente per gravità, perchè è detto : id Democritus, auctor atomorum,
accipere maluit, necessitate omnia ferri, quam a corporibus individuis
naturalis motus avellere ; e che qui naturalis motus sia il moto per gravità
risulta, dice il Br., da ciò che precede ; a così breve distanza una cos'i gros-
solana contraddizione ! — Ma io non trovo la contraddizione, perchè da ciò
che precede non risulta necessariamente che i naturales motus sieno il moto
per gravità. Precede il passo (già citato): Hanc Epicurus rationem induxit
ob eam, rem. quod veritus est ne, si semper atomus gravitate feìvetur na-
turali ac necessaria , nihil liberum nobis esset, cum ita moveretur animus
- 100 -
Codesta prima vis motus coessenziale all'atomo, Epicuro la trova
naturalmente nella gravità. Dico : naturalmente, e perchè Demo-
crito già aveva ammessa la gravità negli atomi, pur lasciandola
inattiva come forza motrice, e pel fatto di esperienza che tutti i
corpi son gravi e per gravità cadono — né altro è la loro gravità
che la somma delle gravità degli atomi onde constano (1).
ut atomorum motu cogeretnr. Poi Gic. aggiunge : Dern. preferì ammettere
omnia necessitate fieri anziché togliere agli atomi i loro naturales motus.
Nulla costringe a intendere che naturales motus si riferisca esclusivamente
al naturalis motus come l'intende Epicuro, anziché ai naturales motus,
come li intende Democrito ; non esprime altro che la necessità dei moti (ato-
mici) in generale. Anzi il plurale naturales m,otus, cos'i appropriato pei
variati moti per itnpulsio, mentre prima il moto necessario all'epicurea è
espresso tutto in singolare (come è ben naturale dell'uniforme moto di ca-
duta), è segno che il pensiero, restando, come vuoisi, nel genere : moto ne-
cessario, è passato però dallo specifico moto necessario epicureo al de-
mocriteo. — Anche in De nat. d., I, 69: Epicurus cum videret si atomi
ferrentur in locum inferiorem suopte pondere nihil fore in nostra potestate,
quod esset earum m,otus certus et necessarius, invenit, quo m,odo neces-
sitatem effugeret, quod videlicet Democritum fugerat ; ait atomum de-
clinare paululum, pare al Brieger, come allo Zeller, che sia attribuito a
Dem. il moto degli atomi per gravità. Ma anche qui l'ironico inciso quod
Dem. fugerat (sia esso di Gic. o suggeritogli dal suo fonte) non implica
necessariamente che sia identico il moto fondamentale per Democrito e per
Epicuro. Lo scopo considerato qui é il libero volere ; e Gic. dice semplice-
mente : Democrito non ha pensato a una così bella cavatina, per salvare il
libero volere, che gli atomi abbiano talora da modificare arbitrariamente il
proprio moto. — La mia impressione é che Gic. nei passi, dirò così, tecnici,
si studia di star attaccato al suo testo e si guarda dal mescolarvi un pen-
siero 0 ricordo suo, una obiezione sua. La sua interpretazione non é sempre
felice e sicura, o per amor di brevità o per fretta ; e quando Gic. non ca-
pisce bene riesce oscuro, perchè sta attaccato alle parole del testo come uno
scolaro di ginnasio (come gli deve essere accaduto nel famoso passo degli
dei. De Nat. d., I, n. 9); e ciò indica il genere di cautela che occorre in
questi casi.
(1) Veramente Aristotele aveva, diremo così, anticipata l'oljiezione che un
cadere da luogo superiore in luogo inferiore non è possibile in uno spazio
infinito, nel quale un su e un giù non esistono. Epicuro risponde in un pa-
ragrafo (di mal sicura lezione) della sua lettera a Erodoto (§ 61), e la sua
risposta, quale par che sia, la riferisco nel lucido e preciso latino del Brieger
(De atom. motu princ): « Contendisse Epicurum apparet, etiara si neque
summum neque imum esset, tamen eum motum qui a capite ad pedes ferret
et ultra pedes recta regione produci posset, deorsum ferre, et eum qui ei
oppositus esset, sursum : itaque in infinitate relinqui illud deorsum et sur-
— 101 —
Del resto, Epicuro stesso deve aver ripetuto contro Democrito
la obiezione di Aristotele; deve aver detto cioè che la prinia vis
motus bisogna che sia interiore, essenziale agli atomi (epperò il
peso), non esteriore ad essi (come sono le plagae), poiché ciò ap-
punto dice Lucrezio II, 288 :
pondus enim prohibet ne plagis omnia fiant
externa quasi vi
parole che danno occasione al Brieger di accusare ancora Lucrezio
di sbadataggine : « quasi vero » dice « si pondus atomorura non
sit, ulla possit esse externa vis, et si pondere quid fiat, non fiat
atomi in atomum cadentis impetu (i. e. externa vi) ». Ma quello
che dice Lucrezio, o meglio Epicuro nel passo che Lucrezio ha
qui davanti agli occhi, è che col peso si ha una causa prima del
moto intrinseca e non estrinseca ; externa quasi vi son parole
aggiunte per esprimere la ragione per la quale l'ammettere le
sole plagae non soddisfa la ragione. Omnia fiunt plagis, sicuro !
ma le plagae non sono l'unica e sopratutto non la prima causa.
— In un certo senso Epicuro non tanto combatteva quanto espli-
sum ». E il Brieger aggiunge : « quae quam inepte excogitata sint nemo
estquin videat ». 11 qual giudizio a me, come al Lange (Storia del mate-
rialismo) non pare affatto giusto. Dato che si ammetta il moto di un corpo
in uno spazio infinito, si ammette che esso corpo si muova in una direzione
determinata tra le infinite possibili, cioè per una serie di punti successiva-
mente occupati; e il rapporto tra questi punti, se la direzione è quella dal
nostro capo ai nostri piedi, posso ben dir che è quello di più su o più giù,
e la linea posso dire che si prolunga in su o in giù all'infinito. Per toglier
valore alla risposta di Epicuro, bisogna dire anche che in uno spazio infi-
nito non esiste una direzione determinata, come non esiste un posto deter-
minato, cioè distinto dagli infiniti altri, perchè nell'infinito tutti i posti sono
eguali ; quindi nell'infinito è impossibile il moto. Ma se Epicuro si fosse
messo per questa via della intrinseca contraddizione dei concetti stessi di
tempo, spazio e moto, sarebbe andato a braccetto cogli Eleati, dichiarando
pura illusione il mondo dei fenomeni. Dire che la risposta di Epicuro non
ha valore, è come dire — ciò che già si sapeva — che il suo sistema, come
qualunque altro che creda render ragione del mondo fenomenale, dando
obiettiva esistenza alle condizioni fondamentali dei fenomeni , non riesce
nell'intento.
- 102 -
cava la dottrina di Democrito, il quale, dando gravità agli atomi (i),
non so che altro potesse intendere se non una insita necessità di
caduta, laddove altre forzo non facciano ostacolo (2). Ma Demo-
crito non aveva trovato il ponte tra la caduta e le plagae, o,
meglio, aveva creduto che non fosse da cercare, dacché queste
stesse plagae erano ah aeterno: opperò trascurando la gravità si
era fondato senz'altro ^u]\e plagae. Epicuro si trovò nella assoluta
necessità (come s'è visto) di gettar questo ponte; e nel gettarlo
fu ossequente al precetto della minima causa necessaria. Perchè
il mondo sia, è necessario che la linea di caduta degli atomi non
sia assolutamente verticale; ma nulla prova che quella linea sia
assolutamente verticale, e il mondo c'è; dunque quella linea non
è assolutamente verticale.
III. — L'esame della obiezione pregiudiziale del Brieger ci
ha condotti in una digressione, e in un confronto tra Democrito
ed Epicuro, che non è inutile aver premesso; ci ha condotti, in-
fine, davanti a questa questione: poiché Epicuro ha riconosciuto,
con Aristotele, che a torto Democrito non s'era creduto in obbligo
di dare tò òià ti del òiveTaGai degli atomi, perchè a torto in
questo caso toO dei ouk àEioi àpxnv Zriieiv, e appunto perciò,
vale a dire ne omnia plagis fìerent, externa quasi vi, ha aggiunto
il pondus, ossia ha stabilito il moto fondamentale pondere ; come
va ch'egli stesso si esponesse col suo clinamen alla stessa accusa:
« sine CAUSA » (v. Cic, De fato, 20; N. D., I, 25; cfr. anche
Steinhart neWEnciclop. di Ersch e Gruber) ? Giacché dice bensì
il Gassendi in sua difesa : « de ipsis principiis dicere nihil aliud
(1) Non sto a citare testimonianze citate e ricitate, per cose fuori di di-
scussione, come questa, che Dem. attribuiva Pdpoc; agli atomi. Considero del
pari come fuor di discussione oggi (dopo Brieger, Urhewegitng, ecc. Liep-
MANN, Mechanih der Leucipp-Democritischen Atome, Berlino, 1885. ecc.)
ch'era una falsa opinione quella che attribuiva a Democrito una iniziale
caduta verticale degli atomi con maggiore velocità degli atomi più pesanti,
i quali raggiungendo dei più leggeri, ne nascevan cosi le plagae e la ridda
atomica e i vortici e nuclei mondani.
(2) Epperò erra, o non si esprime esattamente Simplic, Phys., fol. 9 b :
AriiuÓKpiTOi; qpùaei ÓKivrixa Xéfujv rà fixojuft irXriYiiì KiveioGai qprjOiv.
- 103 —
licei nisi quod haec isto, illa ilio modo se habeant ex suae na-
turae necessitate, cura ignoremus germanam causam, immo ciim
ea frustra quaeratur nisi sit eundum in infinitum » {Animadv.,
p. 214) ; ma la scusa non vale, vale ancor meno per Epicuro che
per Democrito ; che in Democrito la mancanza di causa è per lo
meno, come s'è visto, relegata nell'infinito sfondo dell'eternità,
tutto il resto avvenendo per non interrotta catena causale, mentre
per Epicuro è bensì ah aeterno che atomi declinino, ma non sono
ah aeterno le singole declinazioni, passate, presenti, future, e non
sono attaccate con nulla alla catena causale.
Per rispondere a questa questione convien tornare all'altra del
rapporto tra clinamen e voluntas. Riprendiamo l'esame delle obie-
zioni del Brieger.
Una obiezione che mi pare abbia carattere più verbale che so-
stanziale è questa: Se Epicuro avesse derivata la libertà del vo-
lere dal clinamen avrebbe necessariamente derivata la volontà
stessa dal clinamen; e che ciò abbia detto Epicuro o un epicureo
qualunque, non c'è l'ombra di un vestigio. Rispondo: di Epicuro
non abbiamo nessuna parola intorno a ciò, questo si sa; ma l'epi-
cureo Lucrezio dice proprio così, 257 sg., se, come io credo, è da
leggere :
unde est haec, inquam, fatis avolsa voluntas
per quani progrediraur quo ducit quemque voluptas
— ed anche se si sta colla lezione più comunemente ricevuta (1).
(1) I mss. hanno : fatis avolsa voluptas ducit quemque voluntas.
È il Lambino che ha proposto lo scambio, ed è l'emendazione più semplice
e prudente, e che dà un senso netto e preciso. 11 Lachmann, seguito dal
Bernays e dal Munro, legge: fatis avolsa potestas ducit q. voluntas,
appoggiandosi a 286 : est nobis innata potestas. Ma potestas di 286
avrebbe un certo valore, per analogia, se alla fine di 257 i mss. avessero
lacuna, o se si trattasse di evidente dittografia. Ma ciò non è, e quindi po-
testas qui resta una violentissima mutazione. Si noti anche la consonanza
avolsa voi Per voluptas nel secondo verso sta anche l'imitazione virgiliana
(Ed. 11,65) trahit sua quemque voluptas. E anche stando colla lez. del Lach.
che è altro potestas se non la stessa voluutasì Non si dica che è la libertà
di essa voluntas, giacché la libertà è già espressa in fatis avolsa. E a in-
— 104 ~
E s'anche un momento può nascer ()ui la parvenza che Lucrezio
distingua tra libertà e volontà, tutto il resto (in ispecie 261 sg.)
mostra chiaro ch'egli intende indicare l' origine della volontà ;
che per lui volontà e libera volontà, o anche volontà e libertà
sono sinonimi, come sono l'opposto volontà e necessità. Né può
essere altrimenti nel pensiero di Ei)icuro. Nel sistema materiali-
stico di Epicuro non si può parlare di volontà come di un (jualche
cosa in sé, come di una entità di cui sia attributo la libertà. Tutto
ciò che avviene è moto atomico ; moto atomico è anche l'atto volitivo;
è la prima mossa (atomica) all'azione ; è bensì stata preceduta da
un moto atomico intellettivo, e, mettiamo anche, da un moto
atomico desiderativo; ma la caratteristica sua (dell'atto volitivo)
è ch'esso non è l'efifetto meccanico di meccanico impulso di co-
desti antecedenti moti atomici, ma s'inizia spontaneamente da sé,
tanto che potrebbe anche non avvenire, pur dati quei moti ato-
mici precedenti. È tanto radicato il pensiero che volontà é una
mossa, che Lucrezio ogniqualvolta ce ne dà qualche esempio (come
qui 258, come IV, 877 sgg. che vedremo poi) non sa staccarsi
dal caso materiale del nostro camminare o muover comunque le
membra. Dunque clinamen = moto spontaneo ; volontà = moto
spontaneo o spontaneità di moto ; è l'uno che rende possibile l'altra.
Ma veniamo a un punto più sostanziale. Il Brieger osserva che
la declinazione atomica, onde nascono gli urti atomici, non rompe
le leggi del fato, i foedera fati; e dice giusto, se, anziché /befferà
fati, diremo foedera naturai; infatti, nonché non romperli, è essa
stessa la declinazione che li crea, creando la natura. Che se anche
li rompesse (aggiunge il Br.) — vale a dire data una ulteriore
ingerenza della declinazione, un suo rinnovarsi nella natura creata
tendere in potestas q. e. di diverso da voluntas, che senso ha il dire : una
potestà, che è libera e per cui mezzo noi possiamo seguire la volontà ?
Libertà -{- x -\- volontà ; chi trova il valore di a; ? Insomma Lucrezio dice
molto chiaramente : « Se non si ammette col clinamen un principio di pos-
sibile interruzione della fatale catena delle cause meccaniche, d'onde nasce
questa nostra volontà, il cui carattere essenziale consiste appunto nell'esser
fuori di questa catena fatale, vale a dire nel poterci noi muovere come ci
pare e piace? ». — L'omoteleuto voluntas, voluptas è, naturalmente, inten-
zionale.
- 105 -
— non ne verrebbe già la libertà del volere, ma una completa
casualità delle nostre decisioni, una completa insensatezza del
nostro agire.
Qui giova distinguere. La proposizione, che se si lascia pene-
trare la spontaneità, aifatto cieca e tempore et loco aifatto inde-
terminata, della declinazione anche nella natura creata, si importa
in questa un principio di casualità e di cieco arbitrio che mina
alla base la fissità delle leggi naturali da Lucrezio tanto decantata,
è verissima. Né varrebbe la difesa che la efficienza di questo ele-
mento perturbatore sia limitatissima ; giacche nulla assolutamente
c'è che vi possa mettere un limite. Anzi, coerentemente a questo
ordine di idee, è acutissimo il principio del Brieger, e da lui in
più occasioni affermato, che nel sistema epicureo ogni atomo deve
declinare una volta sola: semel atomum declinare. Infatti questa
unica declinazione dei singoli atomi è quella che crea la natura
e le sue leggi ; una ripetizione, vale a dire eventuale declinazione
dalle linee meccanicamente imposte, entro la natura in formazione
e formata, mette in forse la consequenza meccanica dei moti ato-
mici, che è la base di tutta quanta la fissità delle leggi. Ma
tutto questo che prova ? Prova che Epicuro non doveva introdurre
nella natura un elemento perturbatore della rigida legge di cau-
salità, una eccezione qualunque a questa legge ; non prova che
non abbia ciò fatto. E che abbia ciò fatto basta ad attestarlo il
suo principio del libero volere, il quale — dipenda o non dipenda
dal primitivo clinamen — è una evidente interruzione della ca-
tena di cause meccaniche. Infatti, comunque si voglia illustrare o
preparare la volontà epicurea, l'inizio voluto di un'azione sarà
moto di atomi ; il quale se è libero vuol dire che è moto spon-
taneo, ossia non avviene come necessario e immutabile effetto di
impulsi ricevuti. Anzi, poiché gli atomi sono sempre in moto, e
sempre soggetti all'effetto di ricevuti impulsi, è chiaro che moto
spontaneo, in questo caso, non potrà esser altro che spontanea de-
viazione da quella linea o da quelle linee che sarebbero state le
meccanicamente imposte. Dunque l'atto volitivo, considerato in sé
stesso, cioè sotto il semplice aspetto materiale motorio, è un nuovo
caso di declinazione atomica. Dun([ue il Brieger se la prenda con
— lOTj _
Epicuro d'aver lasciata aperta la porta al caso nella sua costru-
zione della natura, e d'aver permesso ai suoi atomi di declinare
più di una volta (1), non se la prenda con quelli che ci hanno
riferito il grave errore di Epicuro.
Ma veniamo al secondo punto. Dato anche tutto ciò, dice in
sostanza il Brieger, l'effetto non potrebbe essere il libero volere,
ma la assoluta casualità e irrazionalità delle nostre azioni. Infatti
che è libero volere? È questo: che (juando un desiderio ci stimola,
è in nostro arbitrio di ubbidire o no a quello stimolo. Ma cosa
vuol dir noi? Noi sono i semina della (juarta essenza dell'anima,
i quali sono sensu carentia, e quindi, se non sono mossi da ne-
cessità, non possono che moveri temere casu forte fortuna; e allora
addio libertà; sarà puro caso se uno che ha fame mangi, ecc. (2).
(1) Dice il Brieger (De aiom. motu princ, p. 224 del volume a Hertz)
che gli atomi non possono declinare più di una volta, perchè una volta de-
clinati sono bell'e fuori dalla linea di caduta verticale, e non possono quindi
più uscirne. Ma : 1" Abbiamo visto non essere punto escluso che eventual-
mente ritornino anche nella linea di caduta verticale. — 2° Gli scarsi do-
cumenti, quando ci parlano espressamente di clinamen, ne parlano solo in
relazione colla origine delle plagae, per conseguenza parlan solo del cli-
namen dalla linea di caduta ; ma una espressa esclusione d'un clinamen
anche da altre direzioni noi non l'abbiamo. Risulterà anzi necessario di am-
metterlo, se risulterà epicurea la dottrina della volontà che Lucr., Cic, Plut.
attribuiscono a Epicuro.
(2) Io veramente ho foggiato un po' l'argomentazione del Brieger a uso della
discussione. Le sue parole sono : Haec autem si voluntatis origo est [di ciò toc-
chiamo più avanti], quaeritur, siine in ea libertati locus an non sii. Dicere
quidem possis esse in nostra potestate utrum dolori illi sive cupiditati
pareamus an non pareamus. Sed hoc « in nostra potestate ^nihil aliud valet,
nisi in potestate quartae illius naturae, qiiae minimis et niobilissimis eie-
mentis constans Epicuro mens aniniusque videtur esse [v. intorno a ciò la
mia Lettura : Psicologia Epicurea^ Ist. Lombardo ; vedi pure la Dissertazione
del Brieger, Epikurs Seelenlehre, e il mio cenno intorno a quest'ultima nel
1" numero del Bollettino di Filologìa classica]. Buie igitur turbae levis-
sim,arum et m.obilissimarum atomorum non soluni inter se sed etiam, inter
cetera animi et anim,ae corpuscula intercursantium arbitrium. tribuendum
est ita, si non necessitate moveatur ? Sed si semina illa senstc carentia
non necessitate m.oventur, quid relinquitur, nisi ut moveantur temere casu
forte fortuna ? Itaque libertatis illa species, tanquam spectrum aliquod, ubi
tangere velis evanescit. Nam, quid sequatur quis non videt ? Ex casu atque
fortunae temeritate pendebit utrum, qui esuriet, edot, qui sitiet, bibat,qui
- 107 —
Qui la risposta non manca, e giova anzi a completare il con-
cetto dell'atto volitivo, che finora abbiam considerato nella sua
generica essenza di moto atomico spontaneo, senza ulteriore deter-
minazione. 1 singoli atomi della quarta essenza sono sensu carentia,
ma non per questo è sensu carens il loro complesso, quando
compie l'atto volitivo con quell'intreccio e con quella forma di
scambievoli e interni suoi moti che costituiscono appunto l'atto
volitivo. Mi spiego. L'atto volitivo è un atto psichico, come un
atto sensitivo, affettivo, ragionativo. Ora, si sa che un atto psi-
chico qualunque — per es. l'atto con cui la mente afferra il nesso
logico tra una premessa e una conseguenza — secondo Epicuro,
come già secondo Democrito, è costituito da una certa forma di
reciproci moti degli atomi psichici ; l'atto volitivo esso pure non
è il moto di un atomo o una somma di moti indipendenti di singoli
atomi, ma è un moto atomico complesso di tal forma che implica
coscienza. Ne si dica che questa è un'affermazione arbitraria, non
fondata su alcuna testimonianza. È una conseguenza immediata e
necessaria dell'essere l'atto volitivo — come nessun vorrà negare
che per Epicuro fosse — un atto psichico. 11 concetto completo
della volontà epicurea abbraccia due elementi : un complesso mo-
vimento atomico che ha il carattere della spontaneità, ossia è sot-
tratto alia necessità delle cause meccaniche {e per questo rispetto
la volontà è un fatto analogo al semplice clinamen, e si distingue
invece dagli altri fatti psichici); piti il sensus, ossia la coscienza
di sé, in forza di che, essa (volontà), illuminata dai precursori
momenti sensitivi, intellettivi, affettivi, profitta della propria li-
bertà, 0 spontaneità dei moti atomici, per dirigere .o non dirigere
questi in una direzione vista e scelta (e per questo rispetto essa
in aquam inciderit inde effngere conetur, an id fiat, quod Jtis cantra-
rium est. Ma che se ne conchiude ? che Epicuro non ammettesse la libertà del
volere — cuius acerrimum scimus Epicurum fuisse defensorem, come
dice il Br. stesso poche pagine prima? 0 che, data quella origine della vo-
lontà che il Brieger attribuisce a Epicuro (e or or vedremo), non era pos-
sibile attribuire ad essa la libertà ? Allora Epicuro avrebbe aflermata questa
libertà affatto arbitrariamente, senza alcun tentativo di connetterla colla sua
teoria fisica. E ciò credibile ?
— 108 —
è della famiglia degli atti psichici, e si distingue dal cieco cli-
namen primitivo) (Ij.
Si dirà: ma come mai dei moti atomici, spontanei o no, e co-
munque combinati, possono trasformarsi in cosciente volontà? Ma
questa è tutt'altra faccenda. Questo è l'identico mistero: come mai
dei moti atomici possono diventar sensiferi^ possono produrre il
fatto di coscienza d'una sensazione, d'un affetto, d'una apprensione
di un rapporto logico. Epicuro non ci dà ne ci può dare la solu-
zione di <|uesta difficoltà pel moto volitivo, più di quel che ce la
possa dare pel moto sensitivo, affettivo o logico ; più di (juello
che ce la possa dare qualunque altro sistema materialista an-
tico 0 moderno. Si tratta in fondo del grande e insolubile pro-
blema fondamentale della doppia faccia, fisica e subiettiva, della
medesima x. È dunque una questione che non riguarda noi filologi.
Mi sia lecito tutt'al più di osservare, che per la molto più pro-
fonda conoscenza che noi abbiamo dei d\ie termini inconciliabili
e della loro distinzione, la imperscrutabilità e la fondamentalità
del mistero è assai più vivamente e nettamente sentita dal pen-
siero filosofico moderno che non dall'antico.
IV. — Ma come spiega il Brieger la volontà in Epicuro ?
Comincia dal citare lo Zeller, che, esponendo questo punto della
filosofia di Epicuro, dice : « Dalla rappresentazione nasce anche il
volere e l'agire, perchè l'aninia vien messa in moto dalle rappre-
(1) Non ho bisogno di spendere parole per confutare quella opinione che
spiega il cUnamen facendone un atto volontario, ossia attribuendo volontà
agli atomi stessi. Epicuro non concepiva la volontà disgiunta dalla vita e
dal senso. Quella opinione parrebbe adombrata nella espressione « willkùr-
liche Selbstbestimmung » dello Zeller, ed è sopratutto esposta in Masson,
The atomic theory of Lucr., un libro che si legge con piacere e non manca
di osservazioni interessanti, ma nel quale fa difetto il rigore scientifico. Gli
atomi di Epicuro si potranno tutt'al più chiamar liberi, quando s'intenda
con ciò la semplice eventuale possibilità d'una indipendenza dalla rigorosa
causalità meccanica ; e liberi li chiama appunto un Epicureo del II-III se-
colo dopo Cristo, Diogene di Enoanda, in un suo trattato di filosofia fatto
scolpire in pietra, di cui de' frammenti, più curiosi che preziosi, sono stati
recentemente scoperti ; v. Rhein. Mus., anno 1892, p. 414 ?gg. Ivi, p. 454,
si legge : èXeu9épov tì)v èv toìi; ótóiuoi^ xivrirnv.
- 109 -
sentazioni e il moto dell'anima si trasmette al corpo ». Trova natu-
ralmente questa spiegazione molto insufficiente, e, cercando di com-
pletarla, ricorda come per parecchie dottrine speciali Epicuro abbia
attinto ad Aristotele. Ora Aristotele « hanc fere voluit esse vo-
luntatis originem. In quo sensus sit in eo esse etiam voluptatem
et dolorem ; ea porro ubi sint ibi fieri necesse aliarum rerum cu-
piditatem, aliarum fugam. Quos motus excitari in ea animi parte,
cuius sit appetitus, specie (q)avTa(Tia^ dicit) boni sub actionem
cadentis ; quo facto eam animi partem corporis efficere motum
(quod quomodo fiat libello Be mot. animai., 9, 70P, 1 exponitur).
Dici autem animi aut appetentis aut fugientis motum, si rationem
sibi moderari patiatur, voluntatem ». Presso a poco tale, continua
il Brieger, deve essere l'origine della volontà in Epicuro, come
risulta da Lucr., IV, 853 sgg. e 788 sgg., che in certo modo si
completano. Infatti nel primo passo si spiega come gli animali
ipsa natura cercano il cibo, e si dice che la perdita di molti cor-
puscula, indebolendo il corpo, dà un senso di dolore, sì che l'ani-
male corre al riparo cercando il cibo : e qui è facile sottintendere
il termine intermedio, che quel dolore fa accidere all'animo simu-
lacra ecìendi; nel secondo passo si spiega come l'uomo cammini, ed
è detto che prima è necessario gli si presenti simulacrum emidi:
e qui è facile sottintendere che il presentarsi di questo è provocato
da un qualche bisogno o desiderio. Sicché, conchiude il Brieger,
voluntas fit, quasi Gonfiata communi cupiditatis, quam non esse
puto nisi aut instigante aut Gomitante aliquo dolore, et simula-
crorum opera.
Egregiamente ; e dobbiamo essere grati al Brieger di questo
ravvicinamento con Aristotele. Ma il punto delicato sta nel pas-
saggio dal momento contemplativo al momento e moto volitivo.
Come l'intenda Aristotele non ci riguarda; per Epicuro, che spie-
gava il mondo e la vita come meccanica concatenazione di moti,
c'era tra i due momenti un abisso (poiché facendo libero l'atto
volitivo non lo faceva nascere come necessaria conseguenza del
moto contemplativo), una vera soluzione di continuità nella pro-
pagazione dei moti.
- 110 -
V. — La quale soluzione di continuità per I]picuro non era
una semplice illazione dalla affermata liberta del volere, ma
un fatto di osservazione diretta. Non dimentichiamo il primo ca-
none epicureo, che criterio fondamentale e certissimo del vero è
il senso, esterno ed interno. Oggi ancora i difensori del libero ar-
bitrio s'appellano alla t-estimonianza dell'intima coscienza. Infatti
esaminando dentro di noi l'atto volitivo nel momento preciso ed
esclusivo in cui l'animo si decide e dà la prima mossa all'azione,
esso ci appare irreducibile e primario; noi sentiamo — ossia ci
appare come fatto di intuizione immediata, quando ci limitiamo
alla osservazione introspettiva — che i motivi che ci conducono
all'atto volitivo sono antecedenti necessari, ma non sono la causa
diretta di quell'atto, il quale (ci pare) anche con quegli antece-
denti potrebbe non avvenire, e ci si presenta quindi coi caratteri
di una decisione spontanea, di un moto ex novo, sine causa. Cosi
sentiva Epicuro, e l'interno senso doveva avere per lui una tanto
più acuta certezza, in quanto egli attaccava inestimabile valore
alla libertà del volere; che in questa spontaneità, non necessità,
trovava il carattere essenziale dell'atto volitivo. Questa è l'origine
della voluntas epicurea ; quegli altri elementi che ha comuni con
Aristotele non sono che accessorii e concomitanti. E poiché per
Epicuro ogni atto psichico era movimento di atomi, egli doveva
dirsi: qui c'è un moto atomico che non è necessariamente e mec-
canicamente prodotto da plagae di altri atomi (ne, s'intende, dalla
gravità); è moto atomico spontaneo; dunque c'è la possibilità di
moto spontaneo negli atomi (1). Ora, se il suo sistema de' moti
atomici fosse stato in tutto eguale a quello di Democrito, non so
come né se avrebbe tentato di conciliare con esso codesta coscienza
di un moto ex novo; ma il suo sistema gli oftriva, alla base stessa,
(1) Anche la forza di resistenza descritta da Lucr., Il, 276 sgg., che è
forza della voluntas, a che si riduce, come fatto meccanico ? a questo : ci
sono degli atomi, più o meno ammassati e conciliati, che non subiscono
passivamente, e quanto vorrebbe la necessità meccanica, l' impulso di altre
potenti masse di atomi, ma vi resistono con una forza, la quale non mette
radice in forze meccaniche anteriori ad essi comunicate, ma da essi si inizia,
in essi sorge come per generazione spontanea. Anche qui volontà e moto
atomico spontaneo sono un fatto solo.
— Ili —
UQ fatto analogo, anzi si può dire il medesimo fatto, e non li
avrebbe messi in relazione, non avrebbe trovato nell'uno la ragione
dell'altro ?
E necessariamente il moto spontaneo volitivo deve metter radice
e trovar la sua causa, la sua materia prima, nella possibilità del
moto spontaneo atomico, cioè degli atomi in sé stessi isolati. Per
brevità abbiam chiamato moto atomico il moto volitivo ; ma an-
zitutto esso è moto spontaneo di un concilium, di un concilium
di atomi della quarta natura (ed è spontaneo perchè indipendente,
anzitutto, non da plagae atomiche, ma da precedenti moti pari-
menti conciliari). Se non che qualunque moto di un concilium è
il risultato de' moti degli atomi suoi componenti, e in essi si ri-
solve (1), come il concilium stesso risulta dagli atomi che li com-
pongono. Epperò Lucrezio, II, 284 :
quare in seminibus quoque idem fateare necessest,
esse aliam praeter plagas et pondera causam
motibus, unde haec est nobis innata potestas,
de nilo quoniam fieri nil posse videmus (2).
(1) Se un concilio è irannobile, vuol dire che l'interna vibrazione atomica,
l'interna àvTiKOTtri, si fa equilibrio in tutte le direzioni; se si mette in mo-
vimento, vuol dire che una forza esteriore ha determinato una prevalenza
dei moti atomici verso una determinata direzione, ha diminuita 1" àvTiKOTrri
da quella parte; se si mette in movimento e quella forza esteriore non c'è
stata, vuol dire che da sé gli atomi hanno cresciuta la tendenza del moto
verso quella direzione, violando, per dir cos'i, la valenza meccanica delle forze
e controforze; e allora il moto spontaneo del concilio è effetto di moto spon-
taneo atomico. Vedi la mia Lettura : Cinetica epicurea, passim. — Nella qual
Lettura (avverto per incidenza) un curioso abbaglio m'ha fatto dire a p. 447,
che Lucr. confronta dapprima col pulviscolo solare l'agitazione atomica nelle
mixturae, mentre dovevo dire: coi liberi atomi agitantisi nell'infinito spazio
(= Dem.). L'equivoco del resto non ha nessun effetto sul ragionamento.
(2) Il Tohte (Jahrb. di Fleck., 1878) vuol cancellare l'ultimo di questi
ver.si come interpolato, perchè nil ex nilo in Lucrezio significa che ogni
cosa è fatta di materia preesistente, mentre qui si tratta non di una cosa,
ma di una facoltà. Ma ha torto (v. anche Brieger, Ja/iresb. di Bursian,
1879, p. 195). A prima giunta può colpire qui l'applicazione del principio
nil ex nilo, perchè, sebbene Lucrezio parli di vohmtas e clinamen come di
forze positive, la spontaneità in fondo si risolve in un concetto negativo :
mancanza di causa. Ma si badi: colore o senso sono nelle cose e non sono
— 112 -
Ond'ò che gli Epicurei non avrebbero potuto accettare il consiglio
che dà loro Cameade (Cic, De fato, capo 23) di far getto del-
l'antipatico clinamen, pur difendendo l'umana libertà contro il
fatalismo stoico. Secondo Cameade avrebbero dovuto dinaostrare,
che sebbene nulla avvenga senza causa, non per questo ogni causa
ha da essere antecedente ed esterna; (juindi, come la gravità è
causa interna della caduta degli atomi ed è nella loro stessa na-
tura, così non doversi ricercare una causa esterna dei moti volontari,
essendo nella natura stessa del moto volontario ut sii in nostra
potestate nohisque pareat; nec id sine causa, eius enim rei causa
ipsa natura est. Ma il moto volontario non h una cosa, è un atto
dell'anima; ò dunque come dire: è nella natura dell'anima la
facoltà di un moto spontaneo ; ma l'anima non è che un com-
plesso di atomi, e un moto suo non è che moto dei suoi atomi ;
negli atomi, perchè senso e colore non sono costituiti che da certe forme e
disposizioni e reciprocità di moti degli atomi ; non sono dunque che rap-
porti, e date quindi le cose suscettibili di quei rapporti, anche i rapporti,
come cosa nuova, diventano possibili. Ma per una eventuale assenza di causa
il caso è diverso. Se l'atomo di sua natura, e quindi eternamente e in ogni
caso non può aver moto che per foedera — forza di gravità e urti — il
moto spontaneo che é nell'atto volitivo sarebbe impossibile.
Ma giacché abbiamo citati questi, fermiamoci un momento anche sui versi
che seguono immediatamente, 283-293.
Epicuro colle modificazioni portate alla teoria atomica di Democrito, ca-
duta per gravità e clinamen, aveva eliminato i due massimi errori ch'egli
vedeva in Democrito : la insufficienza di causa prima, e la fatalità nel mondo
e nella vita. E questo appunto è ciò che dicono i vv. 288-293 :
pondus enim prohibet ne plagis omnia fiant
externa quasi vi ; sed ne mens ipsa necessum
intestinum habeat cunctis in rebus agendis
et devicta quasei cogatur ferre patique,
id facit exiguum clinamen principiorum
nec regione loci certa nec tempore certo.
Questi versi infatti sono la conclusione della seconda parte della trattazione
del moto in questo li libro (184-293), nella quale per l'appunto Lucrezio
espone i due punti aggiunti da Epicuro, caduta per gravità 184-215, e cli-
namen 216-287, e dice il perchè o, se vogliamo, l'effetto, il valore di questi
due elementi. Circa al pondus abbiamo già detto sopra; circa al clinamen
si noti che, in sostanza, qui Lucr. non dice più soltanto che il libero volere
— 113 —
dunque è nella natura degli atomi la facoltà di un moto spon-
taneo — ed ecco il clinamen.
VI. — Ancora una obiezione del Brieger. In IV, 874 sgg.
egli trova un chiaro segno che Epicuro non faceva la declinazione
causa del libero volere, e tanto meno aveva inventato quella per
amor di questo. Lucrezio dice :
Nunc qui fiat uti passus proferre queamus,
cum volumus, varieque datum sit membra movere,
et quae res tantum hoc oneris protrudere nostri
corporis insuerit, dicam: tu percipe dieta,
dico animo nostro primum simulacra meandi
accidere atque animum pulsare, ut diximus ante,
inde voluntas fit: neque enim facere incipit ullam
è una prova del clinamen, ma fa sentire, in accordo con Cicerone e Plu-
tarco, che Epicuro ha escogitato il clinamen per amore del libero volere.
Come conclusione, per altro, questi versi non s'attaccano bene ai prece-
denti, e Venim salta fuori un po' strano. Se non si vuol arrivare fino al
sospetto d'una breve lacuna tra 287 e 288, bisogna per lo meno intendere
l'espressione come ellittica ; e nella lacuna o nel sottinteso ci avrebbe a stare
un pensiero presso a poco come: « E dunque provato che oltre alle phif/ne
c'è pondus e clinamen ; e ciò richiede la recta naturai ratio »: pondiis
enim, ecc.
Queste considerazioni, del resto, giovano a meglio comprendere la dispo-
sizione lucreziana di tutta questa trattazione sul moto atomico, che a prima
giunta pare disordinata. Lucrezio pone anzitutto il principio fondamentale e
generale, e insieme la universale condizione di fatto che gli atomi sono in
perpetuo moto (80 sgg. . E cosi che si è trovato nella necessità e di anti-
cipare un cenno sulla gravità (84) e di parlar delle plagae (che son l'effetto
del clinamen) e di addentrarsi subito nella spinosa questione dei motus
intestini, fino a 141 — e qui, dopo 141, sono, a mio avviso, da trasportare
308-3.32, che rispondono unicamente ad una eventuale obiezione a 80-141 ;
son capitati fuor di posto forse perchè aggiunti posteriormente dal poeta
(come sospetto anche di 294-307 che affermano il doppio principio della
conservazione della materia e della conservazione dell'energia) — quindi,
con 142-164 il poeta tratta della velocità atomica. Questa, ripeto, è la parte
generale che Epicuro, almeno in quanto si tratta tli plagae e moìiilitns,
ha comune con Democrito. Viene poi (non calcolato il passo lacunoso che
precede 167, e la riconosciuta aggiunta posteriore, ed episodica, 167-183) la
parte complementare epicurea intorno al pondus e al clinamen.
Rivista di filologia, ecc., l. 8
- 114 —
rem quisquaiii, (luam mens providit (juid velit ante,
id (juod providet, illius rei constai imago,
ergo animus cum sese ita commovet ut velit ire
inque gredi, ferii extemplo quae in corpore ioto
per membra atque arius animai dissiia vis est:
et facilest faciu, quoniam coniuncta tenetur.
inde ea proporro corpus ferii, at(|ue ita tota
paulaiim nioles proiruditur aicjue movetur.
Ora osserva il Brieger, che Lucrezio doveva aver qui davanti
un testo di Epicuro (indubbiamente !), e jJ^ecisamente il luogo
dove Epicuro spiegava come avviene il fatto del Ubero volere :
dove quindi per fermo Epicuro avrebbe esposta la dipendenza del
libero volere dalla declinazione, se questa era la dottrina sua ;
ma in tal caso è cerio che Lucrezio avrebbe parlato di codesta
declinazione, madre della volontà, in questo luogo, e non già nel
Il libro, 0 per lo meno anche in questo luogo. Invece neppure il
più lontano accenno o richiamo.
Questo ragionamento, a mio credere, pecca nelle parole che
abbiamo messo in corsivo. Non è questo il luogo dove Epicuro
avrà espressamente spiegata la voluntas (e così pensa anche il
Lohmann, Quaest. Lucr., p. 51); qui siamo nella trattazione dei
simulacra; e parlando delle loro funzioni il poeta (e così certo il
suo fonie epicureo) viene a dire ch'essi sono indispensabili perchè
l'anima si decida all'azione. Per es., dice, perchè noi ci decidiamo
a camminare convien che prima V animus sia colpito da simulacra
del camminare; inde voluntas fit; l'inde ha senso temporale (come
osserva il Br.) o per lo meno non rigorosamente causale, « in
seguito a ciò » non « in causa di ciò » (erra il "U'oltjer, Lucr.
phil. cum font, comparata, p. 99, intendendo « in causa di ciò »
e trovando quindi Lucrezio in contraddizione con sé stesso come
negante qui la libertà del volere); poi : voluntas fìt — oppure
non fbt; ma non era il caso di parlar di non fit qui, poiché si
tratta come l'azione avviene ; ad ogni modo il come voluntas fìat
è fuor di questione. Pure, come ad ahundantiam, v' accenna : il
moto volitivo avviene così che l'animo muove sé stesso {commovet
- 115 -
se ipsum)', cioè non è la pulsatio dei simulacra che gli imprimono
la mossa volitiva ; muove sé stesso di quel moto che è volontà
di andare, ut velit ire; e Yut qui non è consecutivo, ma dichia-
rativo 0 qualificativo: si muove per tal modo che sia la volontà
di andare. Questo iniziai moto &Q\Vanimus dà la spinta aWanima
tutta, e questa al corpo, il quale, una volta preso l'aire, è aiutato
anche da aria che in esso penetra (versi seguenti ai citati). Come
si vede la voluntas è un anello necessario della catena, ma non
essa è l'argomento del discorso ; la tesi non è : come sia possibile
e avvenga il libero atto volitivo del camminare. Piuttosto si os-
servi come alla tesi primaria, che era la necessaria condizione
(i simulacra) perchè avvenga la volontà del camminare e quindi
il camminare stesso, nella mente del poeta (e probabilmente di
Epicuro) s'è aggiunta, anzi s'è imposta, la tesi secondaria: cone
mai un così sottil moto come è il moto volitivo (ioiVanimus può
protrudere una così grossa massa come è il corpo ; s'è imposta
per quel che di mirabile ha il fatto, e s' è imposta tanto, che
già nei primi versi s'è sovrapposta all'altra (qui fìat ut passus
proferre queamus cum volumus — cum volumus ! tanto il velie
per sé stesso è fuor di questione !). E questa tesi seconda ma
prevalente è risolta con quella stessa teoria della propagazione
del moto da minora a maiora, che altrove (v. mia Lettura : Ci-
netica epicurea) abbiamo studiata a proposito dei pulviscoli dan-
zanti nella lista solare (Lucr., II, 125 sgg.). E nulla vieta di
applicare anche qui la spiegazione ivi data del diminuire della
velocità col crescere delle masse, col crescere della àviiKOTTii. Solo
che qui il caso presentandosi un po' più arduo, Epicuro è ricorso
anche all'aiuto dell'aria che penetra nel corpo.
Vii. — Ho detto sopra come fosse naturale che Epicuro per
spiegare il libero volere facesse ricorso al clinamen, sottintendendo
quasi che la teoria psichica è venuta dopo la teoria fisica. Ma ora
mi correggo. Io credo che le due dottrine del libero volere e del
clinamen sono nate ad un parto (1). La cosa è anzitutto attestata
(1) Dissento quindi dal Oredaro, che, nella disserta/.. // problema del li-
bero volere nella filosofia dei Greci (letta all'Istit. Lonili. in aprile 1S92),
— 116 —
da Cic. due volte: I)e fato, 23: hanc rationem Ep. induocii oh
eam rem quod veritus est... ne nihil liherum nohis esset. De nat.
deor., I, 09: Ep. cum videret si atomi ferrentur in locum infe-
riorem suoptc pondere nihil [ore in nostra potestate, etc.,(i Plu-
tarco due volte: De soli, anim., 7: ...àrofiov napeTKXTvai... òttuj^
fiaipa Ka\ TÒ écp* rwxiv \x\\ àTTÓXr|Tai. De repugn. stoic, 34: ir\q
àiòiou Kivri(T€iJU? )anxavaj|a€voq èXeuBepujcrai tò éKOucTiov, etc. (v.
i quattro passi più sopra); sostanzialmente, come s'è visto, anche
da Lucrezio, 289: ne mens ipsa necessum intestinum haheat
id facit exiguum clinamen principiorum. E una volta escluso che
questi autori errassero nell'attribuire a Epicuro la dottrina fon-
damentale della dipendenza del libero volere dalla declinazione,
non può non aver gran peso anche la loro ripetuta e concorde
attestazione, che appunto il libero volere ha dato origine alla teoria
del clinamen nec regione loci certa nec tempore certo. Ma le te-
stimonianze sono anche confermate da questa semplice considera-
zione : se Epicuro non mirava ad altro, quando pensò il clinamen,
che a render possibili gli incontri atomici, poteva arrivare all'ef-
fetto desiderato con un clinamen altrettanto semplice e discreto,
e che non avrebbe urtato contro la terribile obiezione : sine causa ;
avrebbe potuto lasciare assolutamente dritte e seguite le linee di
caduta degli atomi, solo ammettendo che non fossero assoluta-
mente parallele, ammettendo minimissime divergenze e conver-
genze. Ognun vede che l'effetto è il medesimo, come col clinamen
nel senso di eventuale lievissima rottura della linea retta. E che
cosa mai gli impediva di adottare questa spiegazione dell'origine
delle cose ? L'argomento fisico che abbiamo in Lucrezio per la
declinazione passa a capello, anzi si direbbe fatto apposta per co-
desta inclinazione costante.
crede la trovata del clinamen anteriore e indipendente dal concetto del libero
volere fondato sul clinamen, e dice che in Lucrezio stesso « ha più forza
la deduzione fisica che non l'induzione psicologica, la quale è piuttosto un
cenno che una teoria ». Veramente leggendo il poeta si ha piuttosto l'im-
pressione ch'egli dia molto maggior peso all'argomento fondato sul libero
volere. Lo tratta con un'enfasi che par dire : qui sta la vera importanza
della teoria del clinamen. Che poi le due prove non sieno coordinate fra
loro, non vedo che importanza abbia nella questione di precedenza.
- 117 -
namque hoc in promptu manifestumque esse videmus
pondera, quantunci in se est, non posse obliqua meare,
ex supero cura praecipitant, quod cernere possis :
sed nil omnino nulla regione viai
declinare quis est qui possit cernere sensu ?
(II, 246-250).
{sensu è mia congettura incerta ; ma il senso dei versi è chiaris-
simo). Questo argomento non c'è da sospettare che sia pensato da
Lucrezio; ha nella sua stessa fiacchezza lo schietto stampo epi-
cureo, poiché appartiene a quella categoria d'argomenti consistenti
unicamente nella mancanza di prove in contrario, oubèv àvTi)iiap-
TupeTv, che sono una specialità di Epicuro (nella lettera ad Erodoto,
p. es., l'unica prova che Epicuro dà dell'esistenza degli eiòuuXa è
di questo genere). Ora quest'argomento dice : perchè dobbiamo noi
credere alla caduta verticale degli atomi ? perchè noi vediamo che
tutti i corpi, quando non ci sieno forze svianti, cadono vertical-
mente. Ma possiamo noi garantire che i corpi cadenti, senza forze
svianti, cadano sempre in linea assolutamente verticale? no;
dunque anche per gli atomi nulla prova la assoluta verticalità
della caduta. Non andrebbe benissimo questo argomento anche per
una caduta non assolutamente parallela degli atomi? Or dunque,
come mai Epicuro non ha preferito un clinamen costante, tanto
facile ed efficace e sostenibile come l'altro, e non soggetto alla
esigenza di una dpxri più di quello che sia la direzione stessa
verticale del moto di caduta ? Gli è che così avrebbe anche con-
servata la assoluta fatalità democritea. Ha voluto il clinamen in-
certo loci spatio et tempore, il clinamen sine causa per amore
appunto di questo sine causa, perchè alla radice stessa delle cose
ci fosse il fondamento per qualche cosa che, accanto alla generale
fissità delle leggi di natura, egli pur trovava nelle cose.
Vili, — E se noi finora non abbiamo parlato che del libero
volere, non è però in esso soltanto che Epicuro trovava un caso
di indipendenza dalla rigida legge di causalità. Plutarco, nel passo
citato, diceva che il clinamen doveva render possibile, per Epicuro,
— H8 —
àCTpa Ktti ^uJa Kai TÙxnv Kai tò écp' nM>v. Uegli daipa non saprei
dir nulla ch'abbia qualche sicurezza (ne per questo è da credere
un errore di Plutarco); Kba vuol dire la spontaneità e libertà dei
moti degli animali, in genere quella certa spontaneità che carat-
terizza la vita animale, e va insieme col nostro libero volere, tò
ècp' fmiv, che di (|uella non è che un ulteriore sviluppo ; resta
l'importante tùxn- <-!he anche qui Plutarco non affermi di sua
testa; che realmente Epicuro ammettesse anche una fortuna, un
fortuito fuor della catena della causalità (non il fortuito o il caso
in senso puramente relativo, come l'intendiamo noi, cioè fuor del
voluto 0 previsto o calcolabile), ce lo conferma la notizia di Stobeo
e di Sesto Empirico che Epicuro distingueva tre specie di fatti, i
necessari, i fortuiti e i volontari (rà laèv tujv Tivo)aévujv Kai' ù-
vdTKriv Tiveiai, rà òè Katà Tuxnv, tu òè Kaià irpoaipecfiv. Sext.
Emp., p. 848; cfr. Stob., Ed phys., 1, 200; nell'ediz. di Wachsm.
voi. I, p. 89) (1).
Né deve far meraviglia quest'altra infedeltà di Epicuro alla
rigorosa meccanica fatalità della cosmogonia democritea. Era an-
cora fedeltà al suo canone, che fonte della verità è l'esperienza.
Ricordiamo quanto gran posto aveva nel pensiero e nel sentimento
antico la Fortuna, concepita talora come una divinità, più gene-
ralmente, forse, come una forza misteriosa, indefinibile, aflTatto
vaga, che esercita i suoi capricciosi influssi sulle umane vicende;
il cui carattere essenziale sta nel non rispondere a ragioni di giu-
stizia, 0 a ragioni d'alcuna sorta ; che neppure è pensata come
l'incontro relativamente casuale di varie e distinte successioni na-
turali di fatti, ma anzi come qualche cosa di estraneo a queste,
che fra queste si intromette e le svia e loro si sovrappone. A
darci un'idea quanto questo sentimento o idea fosse profondo e
universale e onnipresente, basta il pensare come oggi, dopo tanti
secoli di cristianesimo e con un tanto cresciuto sentimento della
causalità nelle cose, pure la vaga credenza nella fortuna, che fa
a pugni colla credenza nel volere e nella provvidenza divina e
(1) A torto il Masson intende Tuxri del fortuito incontro degli atomi in
seguito al clinnmen; questi incontri sono kot' àvàyKTiv. Anche la posizione
di TUXT1 nel passo di Plutarco Cdopo ZOùa) sta contro questa interpretazione.
— 119 -
colla causalità, è ancora nel fondo non solamente del nostro lin-
guaggio ma del sentire, e del sentire non solamente della gente
volgare ma anche universalmente delle persone colte o pie (1).
Qual meraviglia dunque che Epicuro ammettesse la realtà di un
tal fortuito violante la legge di causalità, e che anche per esso
ammettesse un elemento di non causalità negli atomi ? 11 caso è
perfettamente analogo a quello della credenza negli dei, propu-
gnata da Epicuro — e non per riguardi di prudenza; che Epicuro
fu sincerissimo pensatore. La credenza negli dei e in certi loro
caratteri fondamentali (un'altra dottrina di Epicuro che è sempre
parsa fare a pugni colla sua teoria atomica e meccanica) è uni-
versale ; dunque, ragiona Epicuro, questa è una irpóXrivpi? che è
entrata e resta insita in tutti gli uomini (come vi sia entrata, ora
non ci riguarda); dunque essa ha per origine una corrispondente
realtà. Anche la luxri è una TtpóXriM^i? siffatta ; anche ad essa
dunque corrisponde una realtà (2).
Ohe del resto Epicuro ammettesse, anche all'infuori del libero
volere, qualche spontaneità nella natura creata, n'abbiamo, parmi,
un altro indizio. È il già citato argomento che Lucrezio, cioè Epi-
curo, adduce a sostegno del clinamen. Dice Lucrezio: « è fuor
di questione che i corpi cadenti, se nulla li svii, cadono verti-
(1) Osservate i giocatori; non dico i giocatori viziosi, ma i più onesti gio-
catori di tarocco o tresette, preti, medici, ingegneri, letterati, ecc.: al tavolino
verde nessun discorso più comune e convinto di questo: che si è, o abitual-
mente 0 in quella data sera, favoriti o perseguitati dalla fortuna ; e se ba-
date, e anche se indagate un poco, vedrete che non intendono già, colla pa-
rola fortuna, di indicare il fatto materiale che la serie di combinazioni di
carte è stata loro più o men costantemente favorevole o sfavorevole, ma
piuttosto che la fortuna è stata la causa di quelle combinazioni favorevoli o
sfavorevoli. E se vi ostinate a mostrar loro che una tal fortuna non è che
una astrazione, una parvenza, una illusione, non mancherà chi vi dia dello
sciocco, perchè negale l'evidenza. — Ognuno pensa subito anche alla For-
tuna in Dante.
(2) Ond'è che non sarà da intendere come semplice astrazione la fiaraTOc;
TÙxTi di Epicuro nella sua lettera morale a Meneceo (§ 13S): riva voiaileic
clvai Kp6ÌTT0va ToO Tì'iv ÙTTÓ Tiviuv hcaiTÓTiv elottycuévriv -rravTiuv h\a-
YeXOùvTOc; (ei|uap|uévr|v kqì laaXXov h |uèv kot' àvayKriv Yi'TveoOai XéYOVTOc;.)
a he. dirò TÙxri<;. ?ì ^è irap' Viuàc; òià tò tìV iiièv àv<ÌYKiìv àvuTreOeuvov
€lvai, i^v ^é Tux^iv fiOTarov òpcìv. tò ^è irap' i^iiufic; (ibiavoTOv kt.X.
- 120 —
calmente ; ma che pur talora non sviino spontaneamente dalla
perfetta verticale, in misura impercettibile ai nostri sensi, chi può
asserirlo? quindi neppur defili atomi si potrà asserire ». Ora,
((uesto ar{?omento non avrebbe alcun valore, alcun senso, se non
v'è implicito che, secondo Epicuro, dei corpi, anche dei sassi,
cadenti e da nulla sviati, possono sviare e talora sviino spontanea-
mente. È chiaro : la caduta verticale dei corpi sensibili jirova la
caduta verticale degli atomi ; la possibile eventuale declinazione
dei corpi sensibili prova la possibile eventuale declinazione depili
atomi. Vj qui (sia detto per incidenza) è un nuovo arf^omento
contro il principio: non plus semel utomum declinare; giacche il
declinare d'un sasso non può che risultare dal declinare dei o di
atomi suoi. Abbiamo qui una declinazione in piena natura creata,
che sta di mezzo tra la primitiva declinazione di atomi isolati e
la declinazione volontaria ; abbiamo quindi una gradazione corri-
spondente alla gradazione de' fatti (rispetto alle loro cause) rife-
riteci da Sesto Emp. (v. qui sopra) e alla gradazione di Epicuro
stesso nel passo citato nella nota precedente (1).
(1) Quest'ordine di considerazioni non è nato sotto l'influsso delle idee del
Guyau nel cap. Il del suo bellissimo libro : La morale d'Épicure, ma in
effetto ha con quelle idee molti punti di contatto. Una differenza essenziale
va però avvertita. Secondo il Guj'au, Epicuro avrebbe introdotta la sponta-
neità nella natura, dietro un teorico principio ontologico, per teorica avver-
sione al principio democriteo della assoluta necessità nelle cose tutte e
per un teorico amore della spontaneità, come efficace e necessaria collabo-
ratrice della necessità nell'opera della natura in tutti i suoi stadi e in ogni
sua attività ; come quella per cui la natura diventa « capable du mieux ».
Posto davanti al dilemma « nell'universo o necessità o libertà », Epicuro
avrebbe detto: ma che dilemma? armonica conciliazione dei due principi,
ecco la razionale spiegazione dell'universo. Né l'un principio « entrave »
l'opera dell'altro, perchè ciascuno ha il suo definito campo d'azione: la forza
della spontaneità crea mosse iniziali; ma l'opera sua non va più in là, perchè
subito le forme degli atomi e i rapporti matematici de' loro vicendevoli moti
assicurano l'impero ai foedera naturai. Si direbbe anzi che il Guyau sia
innamorato anche per conto proprio d'un siffatto connubio di determinismo
e indeterminismo nella umana natura e nella natura tutta. Ma a me pare che
questa interpi-etazione del pensiero di Epicuro passi il segno, e faccia dire ai
testi più di quello che veramente dicono. Per me Epicuro ha messo nella na-
tura accanto ai foedera naturai — che soli teoricamente discendono dal con-
cetto fondamentale atomico meccanico, e sono i soli strumenti della regolare
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IX. — Epicuro, dunque, ponendo il suo clinamen, non sola-
mente volle render possibile la trasformazione dell'iniziale moto
di caduta degli atomi nel moto turbinoso democriteo, condizione
fondamentale per la creazione dei mondi, ma ebbe pure in vista
di porre negli atomi stessi una spontaneità di moti, fuori d'ogni
necessità causale, che fosse il fondamento di certi fatti nella na-
tura, che gli parvero esser sottratti, almeno nel lor momento ini-
ziale, alla ferrea legge di causalità onde la natura è governata.
E non s'arretrò davanti alla ripugnanza della ragione ad ammet-
tere codeste infrazioni della legge di causalità, perchè gli parvero
imposte dalla suprema indiscutibile autorità, l'autorità dell'espe-
rienza, dei sensi. Su quest'ultimo punto giova ora fare qualche
breve considerazione.
Gli storici della filosofia, anche i più recenti, fanno coro nel rim-
proverare a Epicuro d'aver posto come criterio della verità il senso ;
e qui trovano il maggior segno della sua superficialità e incapacità
dialettica, del suo philosophari crassa Minerva ; e gli contrap-
pongono Democrito, che, pure materialista e atomista, non s'è
impaludato in un grossolano sensismo, ma ha negata la veracità
dei sensi e ha detto che la verità sta nel pozzo. Per verità il
Natorp {Forschungen zur Gescìiicìite des Erkenntnissprohlems, eie,
209 sgg.) ha fatto giustizia di queste accuse, e ha mostrato che
la coerenza sta piuttosto dalla parte di Epicuro. Quale scopo si
proponeva la filosofia ? Spiegare razionalmente il mondo, conciliare
i fatti coi principi della ragione. A ciò non erano arrivate le
scuole ioniche, che spiegando l'unità dell'essere con un elemento
primo trasformantesi per tutte guise disconoscevano il principio
razionale dell'immutabilità dell'essere; gli Eleati, inversamente,
ossequenti alle esigenze della ragione negarono il mondo fenome-
attività (Iella natura — ha mosso, dico, qua e là un pizzico di spontaneità,
seniplicemeiite perchè ce l'ha trovata (e nel caso speciale del libero volere ci
teneva particolarmente a conservarla); e trovatala nella natura, l'ha posta
di necessità anche negli atomi, dappoiché tutto ciò che avviene è moto ato-
mico. Ha francamente accettata l'intrinseca incoerenza teorica tra sponta-
neità e necessità meccanica, perchè per lui il fatto d'esperienza stava al di
sopra d'ogni teorica coerenza.
— 122 —
nico: ma negare non è spiegare; sicché anch'essi venivano meno
all'intento della filosofia; che il fatto innegabile, non fosse altro,
della parvenza fenomenica andava spiegato. È merito degli ato-
misti d'aver trovata la conciliazione dei due termini, d'aver tro-
vato — finché si resti sopra il terreno materialistico, e sulla base
dell'eguaglianza essere = materia; né alcun'altra era fino allora
comparsa sull'orizzonte dello spirito umano — la vera soluzione
del problema: tanto che essa regge ancora oggi, entro i ricono-
sciuti suoi limiti. Atomi, vuoto e moto danno la materia, la eterna
e immutabile materia da una parte, e tutta la varietà e muta-
bilità del mondo fenomenico dall'altra. Sennonché Democrito ve-
niva meno esso pure all'assunto della filosofia, quando negava fede
ai sensi, e quindi al mondo fenomenico, che pei sensi soltanto ci
é noto. Aveva seminato, ma non raccoglieva. Raccolse invece Epi-
curo, e fu coi'rente, affermando che non si può essere materialista
senza esser sensista. Dato di fatto non é che il mondo sensibile;
e la materia, l'essere non può arrivare a nostra conoscenza che
per via del senso. Questa dunque è l'unica porta del conoscere.
1 principi di ragione, dunque, non possono avere autorità, se non
in quanto derivino dal senso e sieno una elaborazione di esso, e
contro di esso non hanno quindi autorità.
Presso a poco così il Natorp difende il sensismo di Epicuro.
Ma si può considerarlo anche sotto un altro aspetto. Il canone
tanto deriso che fa il senso criterio fondamentale della verità è
per contrario (a mio avviso) la parte piti geniale e originale del
pensiero di Epicuro; è il concetto cardine sul quale s'impernia
saldamente la forte unità del sistema. Si osservi infatti. All'età
di Epicuro, come si sa, la filosofia greca aveva mutato indirizzo,
in quanto al problema cosmogonico s'era sostituito il problema
morale. Intento supremo della filosofia non era piìi quello di spie-
gare razionalmente il mondo fenomenico, ma di determinare, sul
fondamento di quella spiegazione, in che consista il vero bene, e
quindi quale sia il criterio della umana condotta, intesa al rag-
giungimento della vera felicità. E ciò stesso si proponeva Epicuro.
Ma egli ebbe chiarissimo il concetto, che per una sicura deter-
minazione del criterio morale era anzitutto indispensabile che si-
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curissima e certissima fosse la base ontologica ; mentre invece,
guardandosi indietro e intorno, vedeva i diversi sistemi di mo-
rale, insegnati dalle diverse scuole, mancanti di solido fondamento ;
giacche l'uno era attaccato a una fantastica speculazione, dove
era attribuita la realtà a cose puramente pensate, a supposte entità
incorporee e negata alle cose materiali; un altro era accozzato al
fuoco eracliteo senza alcun vincolo essenziale; un terzo s'accon-
tentava d'una base verisimile, od anche, per disperato, voleva
trovar una base nel dubbio universale. Tutti sistemi maestri di
virtù e di forza d'animo, ma dai piedi di creta. Epicuro, dunque,
si disse che unico fondamento saldissimo era la realtà della na-
tura; questa sola poterci dire che cosa l'uomo è, quali i suoi veri
bisogni e quali i mezzi per soddisfarli. Ora, quale altra realtà
possiamo noi affermare all'infuori di quella che la nostra espe-
rienza — direttamente o indirettamente — ci fa conoscere? Ecco
dunque la fondamentale importanza, per la risoluzione del pro-
blema morale, di ben chiarire e mettere al sicuro da ogni dub-
biezza l'autorità unica della esperienza, ossia del senso; di mostrare
che gli elementi razionali (i concetti generali e collegamenti logici)
della nostra facoltà conoscitiva — elementi la cui autorità nel
nostro giudicare già per questo s'impone, che sono un fatto ge-
nerale di tutti gli uomini — non sono né possono essere in reale
contraddizione colla esperienza sensibile, poiché non sono né pos-
sono essere altro che esperienza sensibile accumulata e condensata;
di mostrare da una parte la inanità delle costruzioni idealistiche
e dei complicati edifici dialettici, nel comporre i quali e le quali
e si trattano come cosa salda i fantasmi individuali della mente,
e arbitrariamente si tiran le parole del comun linguaggio a si-
gnificazioni diverse da quelle comunemente intese : dall'altra la
inanità delle obiezioni scettiche contro il senso e la ragione, figlia
del senso, spiegando come i pretesi errori del senso si risolvessero
in arbitrari opinamenti personali, e mostrando l'intrinseca contra-
dizione che è nell'obiettare al senso in sé stesso.
Né accettare la suprema autorità del senso significa per p]picnro
adagiarsi e riposare nel puro mondo fenomenale, quasi ultima
realtà, come fa il comune degli uomini. Non si potevano negli-
— 1:^1 —
gere le esigenze insoffocabili «Iella ragione, non solo per la legit-
tima origine della ragione stessa, ma anche perchè sarebbe stato
un cadere in pieno scetticismo! chi; accettare o non accettare una
data dottrina è atto di ragione. Val (juanto dire die anche a Epi-
curo, anzi il lui più che mai, era indispensabile una base onto-
logica razionale del sistema morale, una ontologia che non fosse
in contraddizione col mondo fenomenico, anzi lo spiegasse, e fosse
anche in pieno accordo col principio gnoseologico sensista. Per
questa parte del sistema Epicuro non ebbe bisogno di cercare una
soluzione, perchè c'era già : l'atomismo. Ed è a ragion veduta che
Epicuro adottò la dottrina di Leucippo e Democrito, non già, come
s'ha l'aria di intendere generalmente, per avere un sistema cosmo-
gonico purchessia, che servisse da sottocoppa al sistema morale:
possa 0 non possa aver influito sulla scelta di Epicuro l'aver egli
avuto per maestro uno scolaro di Democrito, ciò non infirma punto
il fatto, che l'atomismo — come il vero e solo sistema, che senza
ricorrere, come a realtà, a semplici concezioni del pensiero, anzi
procedendo anche per deduzione da fatti d'esperienza, conciliava i
due termini : mondo fenomenico e condizioni razionali dell'essere
— è il solo sistema che intimamente si collega, anzi si fonde, col
canone sensista ; e che dal connubio dei due il sistema morale di
Epicuro nasce per logica necessità. Pure, questa adozione del si-
stema di Democrito è il fondamento per la ripetuta accusa che
Epicuro non fu pensatore originale : quasiché l'originalità consista
nel ripudiare le verità acquisite.
Cosicché tra Epicuro, che, come è noto, si vantava della ori-
ginalità e indipendenza del suo pensiero filosofico, e i derisori di
questo suo vanto, la ragione starà piuttosto dalla parte di Epicuro.
La sua canonica, la sua fisica, la sua morale costituiscono una
vera unità organica; e il cuore di questo organismo é la sua teoria
della conoscenza, il suo sensismo, che in lui è realmente un pen-
siero originale, perché é in lui per primo che appare non solo
concepito con tutta la coerenza, ma anche inteso in tutta la sua
fondamentale importanza. Epicuro é il filosofo positivista dell'an-
tichità. Un punto lo divide dal nostro positivismo moderno. Egli
non è relativista; egli crede che la sua realtà è la realtà asso-
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luta; e relativista non poteva essere Epicuro; soggettivisnno per
lui non poteva significare che radicale scetticismo. A quello stadio
di sviluppo, lo spirito umano non poteva ancora assurgere al con-
cetto che mondo fenomenico e scienza delle sue leggi sono realtà
e scienza, anche se non siano che un simbolo di una realtà ul-
tima. Ma Epicuro è all'unisono col positivismo moderno nella de-
terminazione della materia (e implicitamente dei limiti) del cono-
scibile, e nel collegamento della scienza della natura e della mo-
rale con questo principio. E non per nulla, infatti, Epicuro è stato
il primo che ha fondato la morale sull'esperienza, è stato il crea-
tore dell'utilitarismo. L'edonismo di Epicuro si stacca profonda-
mente dall'edonismo di altri per questo, che, non campato in aria
e fondato semplicemente sopra una teoria egoistica angusta e di
corta vista, deriva invece rigorosamente da una chiara concezione
della natura delle cose e del principio gnoseologico: si distingrue
ancora, perchè, posando appunto su questa solida base, si evolve
in forma di morale utilitaria e quindi di morale sociale, e può
logicamente assurgere a quella severità di precetti morali, pei
quali, come ognuno sa, la morale di Epicuro ben di poco sta in-
dietro ad altri sistemi morali per severità famosi ; o per dir meglio
li vince, in quanto ripudia ciò che questi hanno di esagerato, di
artificioso, di innaturale. Giacché è errato il concetto di coloro
che nella severità della morale di Epicuro non vedon quasi che
una amabile contraddizione coi principi, un frutto della virtù per-
sonale del filosofo; è logica evoluzione del principio (vedi Guyau,
Morale d'Èpicure) ; e le gravi imperfezioni e lacune che rendono
il sistema morale di Epicuro così inferiore per valore scientifico,
anzi quasi fanciullesco, in confronto dei più moderni sistemi di
morale evolutiva, nascono dalla ignoranza di certe leggi che solo
la scienza dei giorni nostri ha saputo trovare ; in particolar modo
intendo la legge della eredità accumulata. È questo un punto
importantissimo, sul quale non voglio qui insistere, perchè richie-
derebbe troppo lungo discorso, e dovrebbe anche estendersi a con-
siderare fino a qual segno e sotto quale aspetto, non solo Epicuro,
ma gli antichi in genere avessero quel concetto, che è a noi cos'i
famigliare, della « coscienza morale ».
- 126 -
Ma son <,nà troppe (|ueste divagazioni non filologiche. Delle
quali però è filologico lo scopo; che quanto più è messa in luce
la importanza capitale del canone gnoseologico nella costruzione
del sistema epicureo, tanto più appare evidente la necessità in
che Epicuro si trovava di allermarc una fisica libertà del volere,
e di trovarne la ragione fisica fondamentale; ciò vai quanto dire
che è vera dottrina di Epicuro quella che troviamo in Lucrezio,
della dipendenza del libero arbitrio dalla declinazione atomica.
X. — Discorrere del problema della volontà in Epicuro, senza
dire una parola dfgli interessantissimi frammenti dei libri nepl
(pùaeiuq, di Epicuro, che vi si riferiscono, sarebbe strano. Questi
frammenti sono stati pubblicati dal Gomperz nei Sitzungsher. der
k. Ahad. der Wissensch. zu Wien, 1876, p. 92-5. 11 Gomperz ri-
cava da quei frammenti che Epicuro non era un indeterminista ;
che era nemico del fatalismo, non del determinismo, e non cre-
deva che gli atti umani sieno senza causa; e credeva moralmente
libero (come era per Voltaire e altri) colui le cui azioni sono
determinate dalle sue convinzioni, òóEai; e come i migliori pen-
satori dei nostri tempi (St. Mill, Grote, Bain) evitava nel parlare
di volontà la parola « necessità » come conducente fuor di strada,
e come questi filosofi teneva per sconveniente esprimere colla stessa
parola l'effetto di una causa irresistibile e l'effetto di qualunque
causa in genere.
11 Gomperz scopre ancora in quei frammenti, che la teoria del
volere di Epicuro riceveva un particolar colorito dalla unione colla
sua e democritea dottrina della conoscenza, 11 problema della vo-
lontà s'appuntava, cioè, per Epicuro nella questione : come può
un atto di volontà essere eccitato dal sopraggiungere d'un eiòiuXov,
e insieme essere determinato dal complesso delle nostre convin-
zioni, cioè (nel suo senso) dal complesso della nostra personalità?
Ora, circa a quest'ultimo punto il Gomperz fa dire al 1" fram.
più di quello ch'esso dice. V'è detto infatti (se ben intendiamo^,
che gli eiòoiXa irruenti dall'esterno sono subordinati, nella deter-
minazione della volontà, al soggetto, alle sue credenze, alla sua
natura (?) ; ma non già che i moventi interni (credenza, carattere)
— 127 —
sommati cogli esterni, costituiscano tutta la determinazione all'a-
zione, il che implicherebbe appunto la dottrina determinista. Epi-
curo non era, come vuole il Gomperz, un determinista. Qual'è il
punto essenziale della dottrina determinista ? Che un'azione è la
esatta risultante di tutte le forze, impellenti o contrastanti, in-
terne ed esterne, che in quel momento furono attive a determinare
la volontà ; la qual volontà, pertanto, non poteva in quel momento
esser determinata altrimenti ; e ogni nostra azione, in sostanza,
nel momento che si compie è fatale che si compia. Che cosa di-
cono invece i difensori del libero arbitrio? Essi non negano la
grande importanza, anzi il necessario concorso di tutti codesti mo-
venti, di codeste forze impellenti o contrastanti; ma sostengono
che oltre al complesso di tutti i moventi, c'è un altro momento
fuori conto, il libero decidersi della volontà, che può da solo far
contrasto anche alla resultante di qualunque complesso di forze ;
sicché ogni azione volontaria (umana) nel momento in cui si compie,
potrebbe anche non compirsi. E questo è anche ciò che pensava
Epicuro, come è confermato anche da questi frammenti gomper-
ziani, prudentemente intesi. In essi si vede bensì che Epicuro con-
trappone la àvàTKri dei motivi penetranti dall'esterno agli elementi
subiettivi, come le òóEai e l'assenso dato a un altrui o proprio
ragionamento; ma gli è che egli considera questi elementi come
formanti parte del libero io decidente, come prova anzi di questo
libero decidersi dell'animo ; che anche l'assentire ad una òóHa per
Epicuro è un libero atto dell'animo (come dai frammenti stessi
risulta) non già un necessario effetto del grado di forza persuasiva
di una ragione combinata colla antecedente disposizione e prepa-
razione dell'animo ; si noti anzi, come espressamente Epicuro re-
spinga il concetto di necessità, già pel fatto clie le medesime
ragioni hanno su diversi diverso eftetto.
Ecco i frammenti :
Pap. 1050, 20 : — xfiq àpxfi(; rà laèv eiq Ta(bei) rà b' eie,
T(a)bei là b' dq à)iiqp(ÓTep)d (è)aTiv àe\ (Kaì) TTpd(£)eujv (Kai)
biavori(j(e)ujv Kal bia9^(cre)ijuv (ha-re Tiap' fì)na((;) tó(t€) ànXuj<;
TÒ àTTOYeTevvri(Mév)ov f)(|LiT)v è'aTa(i).... rà) èK to(0) TTepi€xov(T)oq
- 12S -
K(a)T' àv(aTKri)v bià Toùq rrófpouq eìcfp éovTja irap' fijiàq (lójte
T€(iv)ecr0ai koì Ttapà T(à(;) fm6(Tépa)? (Ka\) n)i(u))v aù(Tujv; bóE-
(aq TT)apà rfiv (p(u)a\v —
In questi brani àpxn si riferisce alla prima causa o movente
d'un'azione, ossia all'idolo che vien d;il di fuori (cfr. tram, seg.:
év Tri èE ópxn<; crudidaei). Qui dunque xnq àpxn? è indizio che
Ttt M^v, TÒ ò^ significano codesti impellenti esteriori. Dei quali,
dunque, dice che « noi ne riceviamo (insieme) di quelli che ci
spingono verso certe azioni o pensamenti o disposizioni d'animo,
e di quelli che ci spingono verso altre azioni, ecc.; talora anche
ci spingono in due sensi contrari. È chiaro dunque che il risultato
(l'azione o opinione, ecc. per cui ci decidiamo) sarà fatto nostro,
sarà in nostro arbitrio gli impellenti che dall'ambiente, pei
pori, penetrano per necessità meccanica dentro di noi, diventano
subordinati a noi, alle nostre personali convinzioni alla nostra
natura (?) ».
Id., 21. — où(òè àTT)oXeiTTei xà TidGri toO yivefaGai vouGe-
(T)eìv Te àXXìiXouq Kai (la)dx(ecrjGai kqì )ueTapuG)aiZ;eiv (sk) ùjq
exovTaq Kai èv éa(u)ToT? Triv aì(T)iav Kaì oùxi év xrì il àpxnq
luióvov cTuaTdaei Kai èv Tfj toO TtepiéxovToq Kai èneKJióvTO? kotò
TÒ auTÓ|uaTOV àvàYKri(i). €Ì Tdp tk; Kaì tuj vouGeTeTv Kaì tuj
vou6eT6T(J0ai Trjv KaTà tò au(TÓ;)aa(T)ov dvdyKriv 7Tp(oajv(é|aoi) —
« Continuamente in noi sorgono passioni ed affetti (diversi negli
uni e negli altri), e gli uomini continuamente si ammoniscono,
si combattono a vicenda, e avviene anche che gli uni riescano a
persuadere e convertire gli altri. Tutto ciò suppone che noi ab-
biamo una causa delle nostre deliberazioni (siano deliberazioni
pratiche, siano deliberazioni teoriche, ossia l'accettazione di cre-
denze) anche in noi stessi, e non solamente nell'iniziale afflusso
di elementi (principalmente idoli) esteriori, e nella automatica
necessità di ciò che ci sta intorno e ci penetra. Che se alcuno voglia
attribuire anche al persuadere ed esser persuasi (certamente
erra) ».
— 129 —
Alla conclusione che manca potrebbe appartenere ir\<; rrXdvri";
del brano seguente. Queste ultime parole, del resto, stanno pro-
prio contro ogni parificazione del pensiero di Epicuro col moderno
determinismo.
Id., 22. — (T)fi(; TT\dvri(;. TT6piKd(Tuu) Tà(p) ó (to)ioOto(; Xóto?
TpéTTe(Tai) Kttì GÙÒeTTOTe òuvaiai PePaiujaai. wc, éOTÌ Toiauia
TtàvTa eia rà kot óvdYKtiv KaXoOjaev, dXXà ladxetai rivi TTe(p\)
aÙT(o)u TOÙTOu ujq ò(i' é)auTÒv d(TT)a(Yo)peuo)Liéviu, Kdv eie, omei-
(pov) fi(i), TiàXiv Kttt' dvdyKriv toOto TrpdTxeiv òkò Xótujv dei.
oÙK (è)Tri\oYÌ2eTai è(v) tlù eiq éautòv triv ahiav àvd(TTT)eiv to(0)
Ka(Tà T)pÓTrov X€\oTÌ(y(9ai, eìq) òè (t)òv (d|Li)qpiapriToOvTa xoO
\iY] (K)aTà xpÓTTOV, €Ì òè ixx] àTTo\ri(Y)oi (ei)q éa(u)TÒ(v, d(\\' eìq
Trjv —
Riproduco, come sempre, lezioni, integrazioni e interpunzione
del Gomperz; qui però preferisco una forte interpunzione dopo
àTraYopeuo|uévuj, e semplice virgola dopo dei. Intendo (facendo se-
guito a ciò che precede): « Giacché è un discorso che va a gambe
all'aria (contradditorio in sé stesso) e che non può in nessun modo
far fede, quello che vorrebbe persuadere che tutti siffatti effetti (cioè
della persuasione indotta in altri) sono come quelli che noi chia-
miamo di necessità, che chi ciò sostiene, tentando di persuadere ad
uno appunto ciò stesso, è nella naturale presunzione che quest'altro
sia per sé stesso, per un'intima sua ragione, indotto a pensar di-
versamente. Che se poi vuol spinger la cosa all'infinito, dicendo
che quest'altro é stato per necessità indotto in errore da ragiona-
menti (di un altro; e questo altro alla sua volta, ecc.); con che
diritto può egli sostenere che a lui stesso è sempre capitata la
causa (necessaria, esteriore) del concluder giusto, al dissenziente
del non concluder giusto? ». Dalle ultime parole el bè lari diró-
XrJYOi, ecc. non so cavare alcun costrutto. Forse introducono quella
ipotesi, che, se fosse vera, darebbe diritto di dire ciò che è detto
in principio del brano seguente.
Id., 23. — fevécQax.... (toO)to òi' dvdYKriv KaX(ujq) nà{c,) dv
q)a(ì)r|. dv bè m^tk; toOto dTTobeiE(ri), \xr\b' e(H)€i fiiiiuJv ti au-
Kmiita di filologia, ecc., I. 9
— 1:50 —
vepTÒv |Ll^^' òpiLiriM" àTTofrjpéTTeiv iLv KaXouvie^ òi* j'mujv aÙTUJV
jfiv aÌTiav auvTe\oO)aev. à(X\)à (najvG' 6o(u) vOv bi' fmuùv ùtto-
boKi|aaZ!ovTeq iriv airiav (ttuj^ |V| Trpo6u)i)où)ae9a [?] TTpaiTefiv.
TaOia Kai') àvuYKiiv TTpo(JaYopeù(uj)v òvo)aa |ióvov d)aé(\)ei epfov
fò') où6èv f))aujv )ieTa(K)o(J)una(ei), ójcrnep én' éviuuv ó auvo(p)ujv
TÙ TTOÌa Kai' àvàyKriv éaiiv, (ì(TT)oTpéTTeiv eiujee ioi)<i 7Tpo(6ju)iou-
névoug TTap(à) Piav ti Tr(p)d(T)Teiv. lr]Tr\ae\ ò' x] òidvoia eùpeiv
TÒ TTOT(OV) (0)UV TI bei vo)LiifZ;€)iv tò èE (fiibijujv aÙTuùfv TTp(aT-
TÓ)aevov iì TTpo8u(|Lioù)Lievov TTpdTT)eiv. où yùp t'xei —
Intendo le prime parole : « (allora) ognuno a giusta ragione
direbbe ciò avvenire per necessità ». Quale è l'ipotesi fatta? —
Le righe che seguono, così come sono, mi riescono incerte ; però
il senso generale dovrebbe essere: « ma chi potrebbe provar ciò?
e chi il potesse, rinuncerebbe con ciò a quell'elemento cooperatore
dentro di noi, a quella nostra mossa interna, che è pur neces-
saria per (ed è presupposta nel tentativo stesso di) distoglierci da
quelle azioni che noi compiamo, chiamando noi stessi in causa.
Ma in verità, chi di tutte quelle azioni di cui ci facciamo rim-
provero attribuendo la causa a noi (? quasi domandandoci come
c'è venuto il desiderio di farle ?); chi, dunque, di queste ci grida:
««avvengono per necessità»», cambia il nome, ma, in effetto, non
cambia per nulla l'opera nostra ; come infatti talora chi ben in-
tende quali sono le cose secondo necessità, suol distogliere persone
bramose di commettere qualche violenza. L'intelletto cercherà di
trovare quale sia quel genere d'azione che è da giudicare come
il fatto da noi stessi, e da noi stessi desiderato di fare ».
Id., 24. — b' aiTio(\o)Til(JavTe<5 èH àpx?\q iKavOùq Km où |u(óvov
t)uìjv •n:po(Té)puj(v) ttgXù bievéxKavTcq àWà Kal tujv uaTepov
Tro\\aTT\(a)ai(aiq) è\a9(o)v éauToùq, Kamep èv d\\oi<; laeTaXa
(1. laeYÓt^oO? KOuqpicJavTeq (è)v to (1. tlù) T(ri)v àvdYKrjv Kal toù-
TÓ)Li(aTo)v TidvTa bùvaa6ai. ó bri Xóyo^ amòq ó touto bibdaKUJV
KttTedYVUTO Ktti èXd)Lipave tòv dvbpa ToTq è'pYoiq npòq Tfjv bó(H)av
auvKpou(o)vTa, Kal eì (|Li)r) Xri9ri tic, èm t(uj)v è'pYuuv ir\q bóEì-]q
èveYeiveio, cruvexoj^ dv é(a)uTÒv Tapà(T)T0VTa, v| b' èKpdTei tò
- 131 —
Tfiq b(ó)Hn<;, xav TOi<; èaxdTOii; (TTe)pnTe(ÌTT)TOVTa, fi(i òè }x)r[
6Kpdj€i) Tà(Jeuu(; (o (JTdaeuuq?) è|a(7Ti)Tr\a)aevov ò(ià) T(f])v ùire-
vavTiÓTr)Ta tlùv —
Epicuro allude qui per fermo a Leucippo e Democrito, di cui
loda i principi fisici, ma condanna la ei|Liap|iévr|. « Ci furono dei
filosofi che rettamente spiegarono le cause nei principi fonda-
mentali, e non solamente di molto superarono i loro predecessori,
ma per piti rispetti anche quelli che vennero dopo ; ma pure, per
quanto grandi in altre parti, non s'accorsero d'errare con grande
leggerezza nel porre che la necessità automatica (meccanica) possa
fare ogni cosa. Era questo un concetto che si frangeva (già per
questo che), rendeva l'uomo coi suoi fatti cozzante contro la sua
credenza, e — se non fosse un certo oblio della credenza nei mo-
menti dell'agire — lo metteva in una condizione di continuo tur-
bamento e confusione ; (che infatti) laddove prevalesse la credenza
(se l'uomo rimanesse fedele alla credenza) esso dovrebbe andar
incontro anche agli estremi pericoli (senza nulla fare per evitarli);
laddove non prevalesse la credenza, egli si troverebbe pieno di
contraddizione, per il contrasto (tra il suo pensiero e il suo modo
di condursi) ».
Id., 25. — à)ucpÓTepa KéKiriT^ai Tri)v altiav Kai \àÌ] auvem
(5na6[xéva rà è'repa uttò tujv ètépuuv |i(Ti)bè (JuveTT(i(5)TTa))aeva Kai
Pia(Z:)ó)aeva rrapa te xpóvou<; TToWà tuùv toioùtuuv auv(TT)iTTTeiv
Kttì fi\iKÌa(; Kai aWa^ aiiia^, Ò9ev aÙToO èmXóyou Kai f\
dpxn Triv aì(TÌav)
« (dimodoché e l'uno e l'altro ordine di fatti) hanno ambedue
la loro causa speciale, e non sono già stati avvinti e trascinati
gli uni (fatti) dagli altri, e neppure avvinti forzati » (?). (Ed
è pur da credere che) « secondo i tempi intervengono molti sif-
fatti elementi, come le diverse età e altre cause ».
<4ui c'è poco da concludere. Si potrebbe vedere nel secondo
pensiero un Epicuro determinista; ma a torto. 11 determinista
distingue bensì tra cause esteriori e interiori, ma per poi calco-
- 132 -
larle insieme, e, fatte le debite somme e sottrazioni, riuscire al
risultato matematicamente necessario; Epicuro al contrario vuole
soprattutto far rilevare la mancanza di collegamento tra le cause
esteriori e le interiori, nel che, in fondo, gli par di vedere la im-
possibilità di un calcolo complessivo delle une e delle altre.
Dell'ultimo di codesti frammenti non si vede neppure che abbia
relazione colla questione del volere, ma forse, perle prime parole,
si collega con quella libertà dell'interno giudizio, che abbiam
visto risultarci qui come dottrina epicurea, ed è forse il più in-
teressante frutto che da questi frammenti possiam ricavare. 11
resto pare una esortazione finale. — (li)éariv òè tò èH nia'JV, ènai-
a9ri(Ji<; toO ei |ari \rmjó)ue0a, tì<; ó Kavùjv Kai To(ù)TTiKpe'ìv(o)v
ndvTtt xà bla Ta)(v) òoEujv TTepalVÓ(^e)va, àX\' àKoXou0riao)a€v
(Ò!)\ÓYUU<; TaT(g t(uj)v ttoXXuùv qpopai(^), oìx^creT(a)i iravra, (K)a9'a...
TÌ Kaì ÙTTepoxri —
« se non comprenderemo qual è il canone e il discernente
tutto ciò che affermano le opinioni, ma seguiremo ciecamente i
pregiudizi della moltitudine, tutto se n'andrà »
Milano, luglio 1894.
Carlo Giussaxi.
28. 10. 94.
— 133 -
A PROPOSITO DELLA NUOVA EDIZIONE
DELLE EPISTOLE DI CICERONE
(M. Tulli Ciceronis Epistularum libri sedecim edidit Lcdovicus Men-
DELSSOHN. Lips., Teubner, MDGCGXGIII).
I. — Dei servigi che rende agli studiosi la nuova edizione
delle epistole tulliane ha parlato con grande entusiasmo un giu-
dice competentissimo (1), dal cui parere è difficile scostarsi. Il
Mendelssohn ha indubbiamente ben meritato non solo dei filologi,
ma di quanti s'interessano della vita e degli scritti del grande
oratore. La nuova edizione, oltre ad essere di gran lunga migliore
di tutte le precedenti, ha il vantaggio di presentare in modo
chiaro e preciso le molteplici quistioni che offre il testo non
sempre facile ; sicché apre la via allo studio più accurato dei
luoghi dubbi e corrotti. Un piccolo saggio di tale studio sarà dato
nelle pagine seguenti, messe insieme durante la lettura delle epi-
stole e dell'apparato critico del Mendelssohn. Ma prima darò al-
cune note sulla scrittura di iW e di P , i quali codici non volli
trascurare di esaminare nuovamente qua e là. Le inesattezze del-
l'apparato del Mendelssohn in questa parte sono abbastanza scu-
sate dal non avere egli avuto a sua disposizione questi codici, e
specialmente iHf, durante la stampa. Questa circostanza appunto mi
parve che imponesse uno speciale dovere a uno studioso di Cice-
rone, che ha la fortuna di poter consultare tutti i giorni il pre-
zioso manoscritto. Ecco per ora le aggiunte e correzioni da fare
all'apparato del primo libro :
(1) L. GuRLiTT, Deutsche Lileraturzeitung XIV, p. 1037-1039. Vedi anche
l'uRSER, Class. Review, 1894, pag. 115-117, A. Kornitzer, Zeitschrift f. d.
Oesterr. Gijmn. 1894, p, 409-415 ecc.
- 134 -
p, 2, 8 La lezione di Jf non è 'cesset', ma *césset'(=censset) e
il segno sul primo e è indubbiamente di 1* mano; sicché l'errore
starebbe solo nella ripetizione dell' s e sarebbe trascurabile, quan-
tunque abbia indotto anche P a scrivere 'cesset' (censet P-).
ih. 9 'legatos' è per correzione di M} da 'legatus'; e co>i pure
nel rigo precedente.
ih. 16 sq. 'opinionera' corresse da 'opinione' M^ o ilf<=.
ib. 20 Dalla nota si dovrebbe conchiudere che la scrittura di
M fosse diversa da quella di GIR , mentre vi si legge precisa-
mente 'extinguit' allo stesso modo (non 'exstinguit').
3, 23 Veramente J/* aveva scritto Mnvitiis' e ilf'^ ponendo un
punto sull'ultimo i indicò la correzione-, un caso simile vedremo
a p. 5, 13 ('invitis' è qui la lezione di P).
4, 4 Sembra che ilf avesse 'liber' soltanto, cosa facile trattan-
dosi dell'omissione di uno dei due o consecutivi in 'libero omni'.
La correzione non è molto chiara, e sembra di iHf' piuttosto che
di M''. Nello stesso rigo 'familiaris* fu corretto in 'familiares'
da M^ 0 da M".
ib. 7 Alla nota del Mendelssohn bisogna aggiungere che la la-
cuna dipende da ciò: le parole 'haec -senatus' erano state scritte
in rosso e in lettere onciali, come se con esse incominciasse una
nuova epistola ; indi furono cancellate e riscritte in nero in lettere
minuscole in modo da occupare molto meno spazio.
ib. 19 Non solo è trascurata l'intestazione, ma non vi è posto
neppure alcun segno di interpunzione.
ib. 20 'provintia' ]\P\ ma il t sembra poi corretto da il/c.
ib. 24 sq. 'confiditis' ha M\ ma le lettere is furono notate
sopra con punti da ilfc, che in tal modo volle uniformarsi alla
lezione di GB.
ib. 27 Dalla nota del Mendelssohn non si vede in che cosa dif-
ferisca la lezione di M da quella di R, fuorché nel congiungere
0 nel separare 'tam' e 'pius'. Ora M ha precisamente 'quaetam
pius'; sicché non vi sarebbe neppure quella differenza esterna.
5,3 IZ" ha propriamente KL FEB e poco dopo PULCHER-
RIMAE ; r A del dittongo fu poi notata col solito punto da 21".
ib. 11 Sulla parola 'haberi' una mano recente scrisse in M:
'congregari'. Il codice dà per intero qui 'kalendas februarias' e
nel rigo seguente 'februario'.
ib. 13 ' invidiis' corretto da M'^ col porre un punto sull'ultimo ?'.
— 135 —
7, 3 Contrariamente a quanto afferma il Mendelssohn la lezione
di M era 'maiore', e la lineetta suU'e finale fu posta da M'^ (per
uniformarsi a GPi ?).
8, 5 Anche qui dalla nota si dovrebbe argomentare che M
avesse una lezione diversa da quella di GR ; ma invece ha pre-
cisamente 'cupio' anch'esso, e così P (capio P-).
9, 21 Sembra certo che prima della correzione fosse scritto
'opinionum'.
te
ib. 22 'tuae ab seabalienatum' si legge in M\ il 'te' sembra
aggiunto da M\
11, 15 sq. Volendo rimettersi interamente all'autorità di M
nelle piccole minuzie ortografiche bisognerà scrivere Mnminuatur'.
12, 28 Non appare che V ae di 'plaetorio' sia stato corretto,
ib. 29 'cognoscaes' : sembra cioè che prima fosse scritto 'co-
gnoscas' e poi si sia voluto (da ilic?) nautare 1' a in e.
13, 2 Prima della rasura era scritto 'qua aequales'.
ib. 22 Bisogna aggiungere chel' a finale in 'capassenda' è cor-
retto da e.
14, 23 'una' è corretto da 'unae'.
ib. 25 sq. Era scritto 'sentaentiis', poi 1' a è stato eraso.
16, 4 La lezione vera di M non differiva da quella di G' ; le
differenze che ora vi si notano dipendono tutte da M\
ib. 21 Con un punto sotto 1' e di 'haec' fu indicata la corre-
zione 'hac'; ma poi M" vi pose sopra un i forse per indicare la
lezione 'hic'.
ib. 31 Prima di 'quaestus' era scritto 'quaesitus'; però da ilf ^
era già stato eliminato 1' a con un frego trasversale; così in P
troviamo 'ques*tus' con l' i eraso.
18, 3 Da scrivere 'conpulsus', come è in Jlf (cfi'. sopra la nota
ap. 11,15).
ib. 11 sq. Era scritto 'inconstantia' da JSi^ ; la correzione sembra
dovuta a M\
ib. 12 La nota relativa al 'paullum' va soppressa, perchè anche
M ha 'paulum*; e questa forma è da lasciar nel testo, seguendo il
criterio esposto dal Mendelssohn a p. xxx.
ib. 27 'kalendis' sembra correzione di iJf f ; vi era scritto 'ka-
lendas'.
20, 19 'omnis' anche qui in M, come per lo più altrove.
— i:ìo —
u
22, 25 Veramente in M è scritto 'quam' con 1' u sulla riffa
di mano di i^/^
23, 12 Anche qui è da scrivere 'omnis' seguendo M.
28, 7 'neclegentiae' è la scrittura di M.
1 precedenti esempi sono tolti tutti, tranne l'ultimo, dal I libro,
e bastano credo a mostrare che una nuova collazione completa del
codice non è resa superflua dalla nuova edizione. 11 numero di tali
esempi del resto si può agevolmente aumentare, se si vogliono esa-
minare con cura i rapporti esistenti fra M\ M'^ e 3/^ a cui il
Mendelssohn dà, non senza ragione, molta importanza. Più numerose
di quel che risulta dal suo apparato critico sono le correzioni di
prima mano; sicché scema il numero delle discrepanze tra GB
e M. Tale è il caso a p. 2, 18 ('causam' con Y m cancellato),
2, 26 ('laboremus' in 'laboraremus'), 3, 11 ('secundum' in 'se-
t
cunda'), 3, 16 ('lentulus' in 'lentulo'), 3, 26 ('postuum'), 4,24
a
('inmemorem'), 5, 13 ('romano' in 'romani'), 6, 5 (lo stesso caso
che a 3, 26), 23, 1 ('catatum' in 'cantatum'), le quali mutazioni
tutte il Mendelssohn attribuisce falsamente a Jf'=. Probabilmente
deve dirsi lo stesso anche dei luoghi 3, 13 ('sentia' in 'sententia'),
3, 20 ('consummi' in 'consumi'; la cosa divien certa, se si con-
fronta l'espunzione di 'ui' avanti a 'uolcacio' due righe dopo),
4, 14 ('quam' in 'cum', ecc., e in generale quando le lettere da
espungere sono tagliate da lineette trasversali, l'emendazione è di
prima mano, mentre M'^ si contenta di porre dei punti sotto le
lettere da sopprimere. Più raro è che vengano confuse correzioni
di M'^ con correzioni di M}\ e pure a p. 23, 30 sembra che 1' e
finale di ' molestiae ' sia stato espunto da Jf ^ piuttosto che da Jf%
come indica il Mendelssohn; e a p. 13, 4 la correzione indicata
deve intendersi eseguita in questo modo, che il t di 'esset' fu
prima tagliato colla solita lineetta da ilf^ e poi eraso da Mj".
Anche a p. 19, 4 la correzione era già stata accennata da W-,
perchè prima aveva scritto 'apud' (come G) e poi mutò il d in
t; M'-' non fece che premettere il e.
A p. 24, 13 si rimane in dubbio se la mutazione di 'conversis'
in 'conversi' sia dovuta a Jf° oppure a M\
Potrà esservi, specialmente in Italia, chi dubiti dell'utilità di
notare tutte le minuzie siffatte; ma dacché si prende a farne
- 137 -
menzione nell'apparato critico, e dacché sembra che sia questa
l'unica via per arrivare a stabilire le relazioni tra M e GB o
tra M e BR, non si può far a meno di desiderare la maggior
possibile esattezza in indicazioni di questo genere. Molte correzioni
di prima mano sono state interamente trascurate nell'apparato
1 t
critico, p. e. 7, 24 'lucuhim' (caso non diverso dal 'postuum'
3, 26), 7, 26 'fracto' con 1' o corretto da «< , 8, 5 'consolatur' da
'consulatur', 8, 6 'tuorum' da 'tuarum', 8, 10 'violatur' da "vio-
lantur', 19, 20 'libenter' da 'libertas', 20, 8 'rationem' da'ra-
tionum' e 'voluissent' da 'voluist./, 20, 14 'viro' da 'vero', ecc. (1).
Kiservandomi di dare fra breve una collazione completa di 31
e di notare tutte le lezioni importanti di P, aggiungo per ora
alcune note saltuarie su luoghi degli altri libri, secondo che ho
avuto occasione di riscontrarli per liberarmi dai dubbi sorti du-
rante la lettura. Naturalmente non si tratta di luoghi scelti con
criterio determinato, e perciò la loro importanza varia molto dal-
l'uno all'altro. Seguirò dunque l'ordine delle pagine della nuova
edizione, come ho fatto per i luoghi del primo libro.
A p. 30, 5 'sentiam' con una lineetta trasversale, il cui colore
sbiadito sembra indicare piuttosto Jf' che 31'^; ad ogni modo im-
porta notare che il correttore aveva sott'occhio la lezione di G (2).
(1) 22, 1 'esse' è corretto (da 'est' ?) sembra di 1^ mano È invece di M^ ìi\
correzione a p. 10, 12 'dicituros ' in 'dicturos' e 14, 9 'gississe' in 'gessisse',
che il Mendelssohn attribuisce a iW' la prima e a M' la seconda; forse anche
11, 3 'de devertere' in 'de vetere* che secondo il Mend. sarebbe di MK Inoltre
10, 31 la lezione di M' era ' levitatem imbecillitatem', e la correzione è di
M» ; e un caso simile è 24, 25, dove 1' e di 'ea' è in rasura e sembra di
M*^ (iTf ' dunque coincideva con R ?). Una correzione che non meritava di
essere lasciata da parte è quella di M'^ a p. 13, 5, dove il secondo e di
'medietas' è mutato in ^ e vi è soprapposto un i coll'intenzione evidente
d'indicare la lezione 'me dignitas". A Af"", invece che a 3/<-, sono da attri-
buire le correzioni 11, 7. e 23, 13. forse anche 16, 18. 18, 1. 14. La corre-
zione 17, 27 deve intendersi nel senso che M"' cancellò anche il t dopo 1' /
per fare 'osculabantur'. 'Velanim' era scritto 18, 28 da M^ e 1" / fu ag-
giunto in rosso, sembra da M% ecc.
(2) Non esiterei a porre nel testo 'equidem sententiam ' come ha G e
come avrebbero probal)ilmente anche MR, se i copisti avessero tenuto conto
della lineetta traversale, che dovette essere nell'archetipo sul 'sentiam '.
Che una tale lezione sia soddisfacente per il senso, non è dubbio per me o
— 138 —
31, 2 'In huius generis sententias litteras' ('sententias' ripetuto
anche in marf^ine) M'.
33, 29 'quantopere' è scritto così anclie in 31 (e P), quindi
va messo nel testo, sopprimendo la nota; cfr. 'magnopere' 31, 5.
34, 27 'di' ha 31 e 'dii' corretto in 'di' P.
ib. 30 Sta bene quello che nota il Mendelssohn ; dunque vuol
dire che bisognava scrivere 'iuare', come egli stesso ha giusta-
mente stampato in varii luoghi sulla fede di 31.
37, 12 È vero che 3P ha 'pertineret', ma vi è accanto 'poe-
niteret' di 31', e la correzione si trova anche in P (cioè P-).
ib. 18 'gratulationis' è la vera lezione di 3I\ e l'ultimo i fu
mutato in e, da 31'^ a quanto sembra.
42, 19 Non è che 31' abbia cambiato in 'seruntur' il 'secuntur'
di 31 ; ma tagliando il e con una lineetta verticale e ponendovi
sopra il segno ^ volle piuttosto indicare la lezione 'sequuntur'.
Ciò è confermato da P che ha 'sequutur'. Anche il prossimo
ad que
'ad quae' in ilf è corretto da 'atque', e P ha 'atque'.
45, 21 'Dolabella quod scripsit' si legge in P. ma il t finale
sembra aggiunto da P^.
id. 25 Essendovi solamente un punto sull' m di 'nostram' è da
credere che la correzione sia di 31". Anche P ha 'nostrum' con
r m cancellato da mano recente.
46, 17 Da aggiungere : *erat' If \ corr. 31'^ ('erat' P ; e sembra
che il segno superiore sia di P-).
51, 9 nOAAAA 31, ma P ha 'pallada'.
53, 12 La nota marginale è piuttosto di 3P che di Jf', come
non credo possa essere per altri. Già il pronome 'eam' nel rigo seguente
non avrebbe a che riferirsi, se non ci fosse sopra la parola ' sententiam " :
e se fosse anche da preferire F ' ea ' di R, non farebbe ostacolo al ' senten-
tiam' più che al 'quid sentiam' cfr. p. 36, 6 sg. 'complures dies nullis in
aliis nisi de republica sermonibus versatus sum : guae nec possunt scribi
nec scribenda sunt '. Ma, quel che più importa, Cicerone poco più giù (16 sg.),
si richiama egli stesso a queste parole dicendo : ' Sed aliter atque osten-
deram facio, qui ingrediar ad explicandam rationem sententiae meae'. La
mancanza del pronome possessivo dopo 1' equidem non è così grave da farci
pensare ad una corruzione del testo (più che la emendazione di S potrebbe
raccomandarsi 'sententi(am me)am'); tanto più che lo scrittore ha in mente
la frase ' sententiam dicere '.
- 139 —
provano le forme dell' a e del ^ e il colore dell'inchiostro (quello
di illi' è molto sbiadito).
63, 27 Nel margine di M è scritto ' limitare ' in rosso da una
mano non diversa, a quanto pare, da quella che il Mendelssohn
indica altrove con le parole maniis saec. XIV; 'limitabit' è cor-
retto nel testo di P^, ed in margine è indicata la lezione 'li-
mavit'.
91, 20 sq. Benché abbia l'aria di una congettura semplice-
mente, merita di essere conosciuta la lezione di P : 'Servius Ci-
ceroni salutem. Pluribus verbis etsi scio',
f
122, 15 'admeminisses' ha M: benché 1' f sul rigo sia quasi
interamente cancellato, pure sembra essere stato di 3P. 'ad me/
venisses
minisses' P.
123, 7 'consolatas' 31 'et consolatas' P ('et' aggiunto da P-).
124, 17 sq. Trascrivo per intero la lezione di 31 e quella di
P, giacché dalla nota del Mendelssohn è difficile farsene un'idea
esatta :
Sed si quid est quo (quomodo P, e in mg. 'quom') de logaeo
a
(logeo P) parum grausum (la forma dell' a é diversa da quelle
che si trovano più frequentemente in ilf ; ma è la stessa che
si trova, per es., in 'quadam' 138, 2 e in 'cetera' 151, 30,
dove P trascrisse 'cetere': qui si legge 'gavisum' in P e
sopra 'al. grosu' cancellato) est.
-r
128, 9 È vero che 31 ha 'cogunt ' e P 'coguntur'; ma dubito
che il segno dell' ur sia di prima mano in 31.
146, 18 La vera lezione di iHf é 'quid si mihi per me effi-
ciundum fuisset'? (1) col punto interrogativo segnato sul rigo non
altrimenti che dopo 'ignoret' 140, 10 e altrove. In P è stato cor-
retto posteriormente il 'quid' in 'quod', mentre 'efficiendum' vi
è scritto così di prima mano.
186, 8 È falso che in 31 sia scritto 'repraesentante*; questa è
lezione di P^, mentre P^ e 31 hanno 'repraesentare'.
(1) Mi pare inutile fermarmi a dimostrare che questa è la vera lezione
da adottare nel testo.
— 140 —
253, 2 'contemn*e'; avanti all'è finale fu eraso un a, se non erro.
Nei casi in cui il Mendelssohn non ha potuto seguire nel testo
le lezioni di Q (o V) ha indicato in generale di dove è attinta
la lezione adottata; ma in un buon numero di luoghi questa in-
dicazione manca, sicché il lettore non sa se si tratta d'una lezione
di r 0 no. Tali incertezze si sarebbero tolte di leggieri, infor-
mando un po' meno raramente il lettore di quel che si trova nel
codice P. Già negli esempi notati sopra si è potuto vedere qua
e là quanto ci possa giovare questo codice anche a meglio ap-
prezzare le lezioni di Jf ; e l'importanza di P è specialmente
grande in quei luoghi in cui la lezione che ivi si trova di prima
mano è giusta, mentre quella di M è errata. Raccogliere tutti
questi luoghi e giudicarli non è di questo momento ; ma piuttosto
ecco alcune notizie spigolate qua e là a complemento di (juelle
che si trovano nell'apparato critico del Mendelssohn :
Sono correzioni che già si trovano in P (da indicarsi quindi
con P2): 'a me' 9, 14 'apud me' 24,4. 'infestissimam' 38, 12.
'patent' 61, 18. 'patuit' 63, 26. 'C. Trebatius' 75, 3. 'abiectus'
93,14 (1). 'coniunctiores tecum' 150, 22. 'tribunatum' 178, 22.
'aliquod' 188, 5. 'hac repulsa' 198,15. 'fugacia' 253, 2. 'splen-
dore ' 332, 13.
P2 coincide con R nella lezione 'clarissimi' 83, 10; ma quello
che più importa è vedere che coincidono piuttosto con E che con
M alcune lezioni del testo di P ; il che farebbe supporre che
l'amanuense potesse consultare un altro codice all'infuori di 31 ,
0 almeno ci fa credere ch'egli correggesse immediatamente du-
rante la copia. Esempi di questo genere sono in P: 'requiem'
(requirem M) 116, 1. 'quonam' (quodam M) 167, 10 e 'cum'
(quam M) ib. 14 ; come pure a p. 258, 10 P dà la lezione 'tran-
situs' mentre M ha 'transitu' e 300, 21 'advolaris' (avolaris ili ).
IL — Un merito insigne del Mendelssohn è quello di aver
curato il testo con principi! di critica piuttosto conservatrice, con-
(1) Tanto più necessario ad indicarsi, in quanto che dall'apparato del
Mendelssohn non si può arguire quando P o P^ è compreso in S" e quando
no. Per esempio a p. 91, 26 'die cum' è lezione di P- e di r e cos"i 104,
21 'quantam' 134, 9 'rniserrimum' 147, 7 'quafe' 162. 30 'sumus' 203, 22
'quid ergo est?'.
— 141 —
dannando per sempre all'obblio una gran quantità di congetture
inutili. Il metodo può essere applicato anche con maggior rigore,
come cercherò di provare con qualche esempio :
I, 2, 3 (p. 3, 24) 'hac controversia usque ad noctem ducta se-
natus dimissus est' ha stampato anche il Mendelssohn seg-uendo
la lezione di r e scostandosi da quella di Q, in cui si legge
'haec '(hec PGR). Non dubito che qui, come altrove, la correzione
sia stata suggerita dal non avere inteso l'asindeto, e credo quindi
che si debba leggere: 'haec controversia usque ad noctem ducta,
senatus dimissus est'. In lettere di ragguaglio come questa non
solo i periodi fra loro, ma anche i varii membri dei periodi sono
uniti fra loro asindeticamente molto spesso. Si può confrontare
nella stessa pagina v. 13 ' quatenus de — ', 14 'de tribus — ',
15 'proxima erat — ', 18 'eius orationi — ', 19 'consules neque — ',
20 'diem consumi — ', 22 'multi rogabantur — ', 25 'ego eo die — '.
Non credo si possa obiettare che, posta la virgola dopo 'ducta' e
adottata la lezione di Q, le parole seguenti divengano inutili o
non abbiano spiegazione sufficiente. Basta ricordare che i consoli
appunto non desideravano altro che di sciogliere la seduta senza
aver conchiuso nulla: ' diem consumi volebant' (v. 20).
Ili, 7, 4 (p. 59, 1) 'mandavi utrique eorum ut ante ad me
excurrerent ut tibi obviam prodire possem'. 11 Mendelssohn pro-
pone dubbiosamente 'a te' invece di ' ante', intendendo 'postquam
te alter uter eorum vidisset meisque verbis salutasset'. Ciò perchè
egli crede (v. Jahrb. f. PMl. 1891, p. 70) che, avendo Cicerone
mandato Varrone e Lepta incontro ad Appio per salutarlo, 1" ante'
si dovrebbe intendere ' ante salutationem ' ; il che sarebbe assurdo.
In realtà Cicerone aveva intenzione di andare egli stesso a salu-
tare il collega, e se mandava avanti quei due, era solo perchè
'incertum utra via, cum essent duae' (p. 58, 30). 0 Varrone o
Lepta doveva dunque, appena scorto Appio, tornare indietro pron-
tamente ad avvertire Cicerone in tempo per potergli andare in-
contro. Sicché ' ante ' ^: ' ante te' o 'ante quam tu pervenires', e
non offre difficoltà; a meno che non si preferisca supporre che la
vera lezione fosse 'ante(a)'; la quale del resto non muterebbe il
senso (1).
(1) Per lo scambio di 'ante' con 'antea' nei nis!=. vedi Hand, Terseli..
I, 377 sg. e 390 e la letteratura ivi citata.
- 142 —
V, 11, 2 (p. 109, 23) 'ut ei meis verbis diceret' si legge anche
nell'edizione del Mendelssohn in confornoità della lezione di li.
Ma già l'accordo di MGI h abbastanza eloquente, e non è forse
senza importanza neppure il fatto che P non dà, né di prima ne
di seconda mano, la lezione di 7^, mentre in altri luoghi coincide
con questo codice, almeno nelle emendazioni del testo. Oltre a ciò
non sembra improbabile che l"ei* sia realmente dovuto ad emen-
dazione, mancando il complemento del 'diceret' ; e poi l'emenda-
tore può non avere inteso 1' 'et' clie qui avrebbe valore di anche.
Vatinio aveva scritto alla moglie di rivolgersi a Cicerone per ogni
occorrenza, e con altra lettera informava Cicerone di ciò, racco-
mandandogli Pompeia. Cicerone raccomanda a Sura di dire anche
da parte sua a Pompeia che si rivolga a lui, ecc.: 'quod mihi
feminam primariam, Pompeiam, uxorem tuam commendas, cum
Sura nostro statira tuis litteris lectis locutus sum, ut et meis
verbis diceret, ut, quicquid opus esset, mihi denuntiaret'.
V, 13, 3 (p. 114, 23) 'itaque hoc etiam fortiorem me puto
quara te ipsum, praeceptorem fortitudinis, quod tu mihi videre
spem nonnullam habere haec aliquando futura meliora; casus
enim gladiatorii similitudinesque eae, tum rationes in ea dispu-
tatione a te collectae vetabuxt me reìp. penitus diffiderò '. Questa
lezione di Q è indubbiamente la vera. Il vetàbant accettato anche
dal Mendelssohn toglie a questo luogo la sua grazia particolare
e lo mette anche in contradizione con ciò che segue. Tutti gli
esempi e gli argomenti addotti da Lucceio nella sua lettera con-
solatoria non erano valsi ad infondere nell'animo di Cicerone spe-
ranze migliori sulle sorti della repubblica. Con dolce ironia gli
risponde Cicerone : ' Io credo di essere in questo più forte di te,
maestro di fortezza (1), in quanto che tu sembri ('videre' non
(1) La stessa punta d'ironia poco prima : ' ad consolandum valent, quae
eleganter copioseque collegisti' e più giù 'quamquam tuis monitis praecep-
tisque omnia est abiciendus dolor', 'idem et hortaris et praecipis', 'ut
mones' ecc. Non è improbabile che alcune parole della lettera di Lucceio
siano anche ripetute scherzosamente da Cicerone, specialmente nella chiusa :
'me ab omnibus molestiis et angoribus abducam, transferamque animum ad
ea, quihus secundae res ornantur, adversae adiuvantur, eie.': Confrontando
questo luogo col celebre dell'orazione prò Archia, 16 extr., si può anche
supporre che Lucceio avesse voluto consolare l'amico con le sue stesse pa-
role, come certamente l'aveva consolato col rammentargli i suoi meriti verso
la repubblica.
i
— 143 —
' videbare ') avere qualche speranza che le cose un giorno debbano
andar meglio; infatti quelle vicende che han luogo nelle lotte dei
gladiatori e quegli altri paragoni e inoltre quegli argomenti da
te raccolti in quella tua dissertazione non mi permetteranno (se-
condo te) di disperare del tutto delle sorti dello stato '. 11 veta-
hant preso alla lettera, dovrebbe essere un imperfetto epistolare,
ma e prima e dopo Cicerone adopera qui il presente (v. 21 'valent'.
25 'videre'. 115, 2 'vides'. 4 'est abiciendus' ecc.) alludendo alla
lettera di Lucceio e ai suoi consigli, o il futuro parlando di quello
ch'egli stesso farà e sentirà in seguito (115, 4 'feremus', 6 'erimus',
15 'abducam transferamque' ecc.).
VII, 30, 2 (p. 181, 6 sqq.) ' Atticum nostrum; cuius quoniam
proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et
fructu, contentus isto sum ; id enim est cuiusque proprium, quo
quisque fruitur atque utitur\ Invece di 'meum' si legge 'meo'
in £ÌP. Non si può negare che il 'meum' risponderebbe meglio
alle parole usate nella lettera dì Curio (VII, 29, p. 180, 1): 'sum
enim XP^cf^i |uèv tuus, Kiriaei bè Attici nostri'. Ma in se il 'meo
usu' non presenta maggiore difficoltà del 'maxime meo beneficio'
che si legge più giù nella stessa pagina (1. 11), del 'quanto dolore'
a p. 134, 14 (VI 4, 4) e del ' malore periculo' a p. 186, 17 (Vili
2, 1). Per lo scherzo anzi, che qui fa Cicerone, si presta più il
'meo': 'sei proprietà di Attico, ma di mio usufrutto; ora una
cosa si possiede veramente quando se ne gode il frutto ; dumjue
sei più mio che d'Attico. Con meum si troverebbe già nella pre-
messa minore ciò che appartiene alla conclusione.
Probabilmente non hanno bisogno di mutazione neppure i luoghi
seguenti :
I 3, 1 (p. 4, 23) 'gratissimus in provincia fuit'. Si è supplito
'gratiosissimus' dai codici r (P non differisce da M)\ ma chi po-
trebbe tenere per sicura questa lezione, specialmente leggendosi
un 'gratiosum' due righe dopo?
I 8, 5 (p. 14, 3) 'Cui iucundum erit etiam propter te ipsum
quom me esse gratum videbit '. Si è scritto col Graevius ' propter
se ipsum', sembrami a torto: poco prima Cicerone aveva scritto
' Pompeium tibi valdc amicum esse cognovi et eo tu consule,
t|uantum ego pcrspicio, omnia quae voles optinebis'. Aggiunge poi
- 144 -
ch'egli stesso starà sempre alle costole di Pompeo per far ottenere
a Lentulo quel che desidera, e in ciò non avrà da temere di riu-
scire noioso; anzi queste premure faranno piacere a Pompeo anche
per amore dello stesso Lentulo, vedendo che Cicerone si adopera
per gratitudine verso di lui. Con la correzione del Graevius si
attrihuirehhc a Pompeo un sentimento molto meno delicato: 'f^gli
mi renderà volentieri questi servigi, vedendo che io non sono sco-
noscente '.
VI 4, 4 (p. 134, 15) 'prima illa consolatio est, vidisse me prius
quam ceteros, cum cupiebam' ecc. Si è preferito al 'prius' dei
codici la lezione 'plus'. Ora 'prius vidisse ' = 'magis providisse*
probabilmente ; ma anche se non si vuol ricorrere a questo, sic-
come Cicerone tiene a far vedere la sua 'divinatio', tutta la dif-
colta starebbe forse nel 'vidisse' usato assolutamente?
ib. (p. 134, 21) 'adiuat etiam aetas et acta iam vita quae cum
cursu [suo] (1) bene confecto delectatur, tum vetat' ecc. Si è pre-
ferita la correzione del Wesenberg 'delectat', che a cagione del-
l' 'adiuat' precedente e del 'vetat' seguente può sembrare più
logico. Ma chi ci assicura che in questi casi non emendiamo l'au-
tore stesso ? In realtà non potremmo trovare assolutamente strana
un'espressione come questa: 'Mi consola anche la mia età e la
mia vita passata che ha la soddisfazione di sentire compiuto bene
il suo cammino e non mi permette di temere' ecc. E così pure
nel caso seguente :
V 12, 4 (p. 147, 18) 'non solum ut Victor beatus sed etiam
ut, si ita accidisset, victus ut sapiens esses' — , si è soppresso 1' 'ut'
avanti a 'sapiens' per- desiderio di avere un'esatta corrispondenza
fra 'Victor beatus' e 'victus sapiens', mentre probabilmente il con-
cetto guadagna un tanto con la lezione dei codici: 'non intrapren-
desti la guerra solo per essere vincitore fortunato, ma anche per
essere, nel caso, vinto come può esserlo un sapiente' (che secondo
il precetto stoico rimane sempre libero e re). {Continua).
Firenze, febbraio 1894.
2. 11. 94.
NiccoLA Festa.
(1) Elimino senz'altro il 'suo', perchè siccome GR non l'hanno e sic-
come M aveva 'cur suo', mi pare evidente che il 'suo' è nato da falsa let-
tura e non è mai esistito nell'archetipo.
Pietro Ussello gerente responsabile.
— 145 —
APOLLO MOIPArerHC
L'epiteto che Apollo ha in comune con Zeus (1) merita una spie-
gazione. Giacche è o può sembrare strano che il dio della luce e
del sole, elementi essenziali e fattori principalissimi di vita e delle
pure gioie della vita invocati in ogni tempo a testimoni, sia di-
venuto guida e duce delle Moire (MoTpai), le divinità della morte,
il supremo e desiderato riposo di tutti i dolori umani. Ma giova
avvertire subito che l'epiteto laoipaYéTri? riferito ad Apollo, e for-
mato come gli altri suoi dpxaYtTaq (2) e juouaaféTriq (3), |uoi-
aaféjac; (4), non lo designa solamente quale condottiero delle
Moire, bensì esprime in largo senso le moltiplici relazioni che il
nume ha con esse. Questo ci dice la storia del culto in Grecia e
nell'Italia antica; e comunque è certo che la concezione di Apollo
posto in rapporto colle Moire è insieme greca e italica, e l'at-
tributo significato dal nostro epiteto, almeno come io avviso si
debba interpretare tale epiteto, era inerente a speciali caratteri e
funzioni del dio, anche all'infuori dell'affinità di lui con Zeus
MoipaYéTriq, Già fu notato dal Preller (5) che Apollo è fioipaYéiTig
in quanto egli è « der Prophet des Zeus und seiner Ordnungen ».
Ora ciò riguarda esclusivamente le relazioni di Apollo colle Moire,
divinità del fato; e senza dubbio laoipaYéTri? era per questo ri-
(1) Pausania, 10, 24, 4. 5, 15,5. 8, 37, 1.
(2) Bruchmann, Epitlieta deorum quae apud poétas graecos leguntur.
Leipz., 1893. p. 22, 1; v. la forma àpxnT^Tn"; ia C.l.G. 3905,3906 b.
(3) Gfr. Bruchmann, op. cit., p. 28, l;e per la forma |uouar|YéTri<; anche
C.l.G. 2342.
(4) Bergk, P.L.G., V p. 416, framm. 116 (Pindaro). Gfr. Bruchmann,
op. cit., p. 27, 2.
(5) Griech. Mytholog., I* p. 533; per Zeus |LioipaYéTr|<; v. nota l ivi.
Rivista di filologia, ecc., I. 10
— 146 —
spetto l'Apollo, denominato a punto cos'i, di cui Pau8ania(l) vide
la statua nell'interno del santuario apollineo di Delfo vicina a
quelle delle Moire e di Zeus pure laotpaYéTriq.
Senonchè le Moire erano ad un tempo dee della morte; e i rap-
porti del nostro nume con loro sono assai più stretti qui che non
in qualsivoglia altro campo. Né la cosa deve recar meraviglia.
Per uno di quei contrasti onde abbondano gli esempi nella mi-
tologia greca (2), Apollo dispensatore di salute (3) manda pesti-
lenze micidiali ed è quindi anche dio della distruzione e della
morte ; per ciò ben si potè dire di lui che fosse capo delle Moire.
Bisogna tuttavia osservare che altra da quella alla quale presie-
devano le tre fatali sorelle era la morte ascritta all'opera di Apollo.
Pronta e facile la apportano i suoi dardi infallibili, talché i Greci
la consideravano come un vero benefizio (4), e i dardi stessi omicidi
sono da Omero (5) chiamati benigni; dove la morte su cui si
esplica l'azione malefica delle Moire è un avvenimento lugubre (6).
Così nel concetto degli antichi mentre le Stimfalidi rappresentano
la morte in tutta la sua austerità e tristezza, le Sirene simbo-
leggiano lo spegnersi della vita umana in modo blando fra il lieto
sorriso delle gioie più dolci (7). Ad Ecuba che paragona il fresco
e rugiadoso cadavere del suo Ettore ad un uomo cui Apollo uc-
cise ole, àxavoi^ peXéeaaiv (8) fa riscontro Elena, la quale dispe-
rata supplica le Sirene che le addolciscano esse, deità inferne
(XBovò^ KÓpai), l'estremo passo (9). Delle Stimfalidi e delle Si-
rene erano collocati i simulacri nel tempio di Artemide Stimfalia
(1) 10, 24, 4.
(2) Gfr. Ed. Mever , Gesc/iichte des Alterthums. Stuttgart, 1893. II,
pp. 101-3.
(3) Gli epiteti relativi furono tutti raccolti dal Roscher in Ausfv.hrl.
Lexicon d. griech, u. róm. Mythologie I, p. 433. Cfr. la monografia di
Lersch, Apollon der Heilspender. Bonn, 1848.
(4) Preller(-Robert), op. cit., p. 274.
(5) Od., 3, 279-80. 15, 410-11.
(6) Gfr. Preller-R., op. cit., p. 531.
(7) Vedi E. Keil, Bassorilievo Lansdown, in Annali d. Inst. di corrisp.
arch., 1846, 18, p. 161.
(8) Iliad., 24, 757-59.
(9) Euripid., Helen., 167-73.
- 147 —
a Stimfalo, in Arcadia (1), e le figure delle une e delle altre
compariscono insieme sul bassorilievo Lansdown (2). Non altri-
menti Apollo fu concepito in unione colle Moire: l'altare in onore
di queste innalzato, giusta la saga argonautica, da Medea a Cor-
eira era presso il santuario del nume (3). Del resto anche nella
leggenda egli è in relazione colla morte: il mitico re tessalico
Admeto fu un dio de' morti e Apollo ci si presenta quale suo
servo (4). — A rendere più stretta l'unione del figlio di Zeus e di
Leto colle Moire contribuirono in parte talune divinità minori,
specialmente le Ore e le Chàriti. Nella Teogonia esiodea (5) le
Moire sono le sorelle delle Ore, e con esse furono rappresentate
non di rado su monumenti dell'arte figurativa ; fra i quali, a ta-
cere di quelli ricordati da Pausania, il vaso Fran90is (6) e la
cosidetta ara Borghese (7). Medesimamente Apollo, che in una
iscrizione di Tenos è appellato 'Qpoiuéòuuv, non una volta sola
appare, pur su monumenti figurativi, in compagnia delle Ore (8).
Quanto alle Chàriti, anche di esse, come figlie e le une e^^le altre
di Zeus (9), sono sorelle le Moire. Con loro intervengono alle
nozze di Peleo e Tetide (10) e le troviamo sul citato rilievo del-
(1) Paus., 8, 22, 7.
(2) Monumenti ined. pubbl. d. List, di corrisp. ardi., IV, tav. 29.
(3) Apollon. Rod., Argon., 4, 1217-19 e Io Scoliaste (che a 'Drepane'
del poeta sostituisce, sulla fede di Timeo, v. 1153, 'Gorcira') al v. 1217.
(4) Meyer, op. cit., p. 102.
(5) 901-6. Cfr. Preller-R., op. cit., p. 532: ivi in nota (5) si accenna,
oltre all'ara Borghese del Louvre, anche alle opere d'arte figurativa ora
perdute, di cui parla Pausania, sulle quali erano rappresentate insieme le
Moire e le Ore.
(6) Moniim. citt., IV, tav. 54-57 (Sposalizio di Peleo e Tetide — v. Q.
Smirneo, 4, 135). Cfr. E. Braun, in Annali citt., 1848, 20, pp. 310, 316.
(7) Bau.meister, Denkmuler des klassischen Altertums, III, fig. 2395 e
2396, e p. 2138.
(8) RoscHER, in: op. cit., p. 424; l'iscrizione di Tenos è in C.I.G. 2342.
Nella figura femminile rappresentata sulla gemma che il Roscher cita da :
(MuLLER-)WiESEi.ER , Benkmdler der alten Kunst\ 2, 129, il Mùi.lkr*,
p. 13, aveva veduto o creduto di vedere non un' Ora, ma una Moira.
(9) EsioD., Theog., 904 e 907-9.
(10) Q. Smirn., 4, 140. Catullo, c. 64, 307-84.
— 148 —
l'ara Borghese (1 ) ; inoltre Pausania (2) parla di sacrifizi offerti
in comune alle Chàriti e alle Eumenidi , la cui affinità colle
Moire è ammessa da Omero e da Eschilo (3). Delle relazioni fra
Apollo e le Chàriti è inutile dire (4) ; mi limito ad accennare
alla nota statua, riprodotta sur una moneta ateniese (5), di Apollo
delio che teneva nella mano destra, allineate sopra una specie di
mensola, le tre Chàriti (G), e al bassorilievo arcaico di Thasos (7),
ove il dio ha al suo seguito anche le Chàriti; le quali gli sta-
vano presso nel tempio di Delfo (8).
Ma prescindendo da questi ravvicinamenti, che pure hanno il
loro valore, importa rammentare che le Moire erano divinità cto-
niche (9) e, come dee della morte, necessariamente inferne: ca-
ratteri entrambi propri di Apollo. Perchè se è soltanto probabile
che Apollo KapveToq fosse un dio ctonico (10), è cosa su cui non
può cader dubbio che tale era Apollo (y)aiv6io<;: il topo suo attri-
buto simbolico aveva determinatamente un significato ctonico (11).
Per ciò poi che spetta alla natura di deità infera di Apollo, essa
ci è attestata sulla fede di Porfirio da Servio (12); eccone le parole
testuali: « ...constai secundum Forphyrii librum^ quem Solem
appelìavit., triplicem esse ApolUnis potestatem: et eundem esse
Solem apiid Siiperos, Liberum patrem in terris, Apollinem apud
In f eros. TJnde etiam tria insignia circa eius sinmìacrum vi-
demus : lyram quae nobis caelestis harmoniae imaginem mon-
(1) Baumeister, op. cit., Ili, fig. 2394 e 2396, e p. 2138.
(2) 8, 34, 3.
(3) II., 19, 87. Prom., 518; cfr. Eumen., 940-1. Vedi S. Wide, Lahonische
KuUe. Leipz., 1893. p. 208.
(4) Gfr. P. Decharme, Mythologie de la Grece antique'^. Paris, 1886. p. 218.
(5) Beulé, Les monnaies d'Athènes. Paris, 1858. p. 364.
(6) Paus., 9, 35, 3. Gfr. 2, 32, 5 e H. Brunn, Geschichte d. griech.
Kùnstler^ Stuttgart, 1889. I, p. 38.
(7) Baumeister, op. cit., I, fig. 362, 363, 364 e p. 342.
(8) Pindaro, 01., 14, 15-6 e lo Scoliaste ivi (16).
(9) Wide, loc. cit.
(10) Wide, op. cit., p. 112.
(11) Wide, op. cit., p. 119.
(12) Virgilio, Ed., 5, 66.
- 149-
strat, gryphen quae eum etiam ierrenum numen ostendit, sa-
gittas quibus infernalis deus et noxins indicatur » (1).
Divinità infernale, come si rileva alla sua stretta unione coi
Bii Manes (2), era anche l'italico Bis Soranus, a cui Etruschi
e Falisci prestarono culto sul nionte Sor a et e, consacrato ad essi
Bii (8). Questo Bis Soranus fu in processo di tempo identificato
coll'ApoUo ellenico (4). Sebbene sia lecito supporre che si tratti
di semplici coincidenze fortuite di concetti o di riti, tuttavia mi
pare evidente che la identificazione fu possibile solo in quanto il
dio italico aveva attributi o simboli analoghi a quelli del dio
greco. Ciò posto, dipenda la cosa da una mera paronomasia ('AaóX-
Xujv XÙKioq, XuKeio^ e XÙKoq) (5), o s'abbia a che fare, come forse
per Zeus XuKaToc;, con uno strascico dell'antichissimo culto reso
agli animali presso i Greci (6), uno degli attributi simbolici più
comuni dell'Apollo ellenico era il lupo (7); e il lupo fu medesi-
mamente il simbolo di Bis Soranus, il dio dell'oltretomba, della
morte, il quale colle pesti, al pari di Apollo, rapisce gli uomini
allo stesso modo che il lupo, di quelle imagine animata, rapisce
le pecore (8). Bis-Apollo Soranus, «sancii ciisios Soractis » (9),
la cui testa vediamo effigiata su monete della gens Valeria, aveva
per emblema a punto un lupo (10). Né stimo inopportuno aggiun-
(1) Gfr. Mytiiograph. Vatic. Ili, tract. Vili, 16, in Mai, Class, aticf.,
t. Ili, pp. 227-8.
(2) Deecke, Die Falisker. Strassburg, 1888. p. 92. Per Apollo Soranus
in generale v. Preller-Jordan, Róm. Mytholog?, I, pp. 268-70.
(3) Lattes, Saggi e appunti intorno alla iscrizione etnisca della Mummia.
Milano, 1894. pp. 213 (217). Gfr. dello stesso Di due nuove iscrizioni pre-
romane trovate presso Pesaro. Roma, 1894. p. 199 in n.
(4) Deecke, op. cit,, p. 93.
(5) Gfr. RoscHER, in op. cit. p. 423.
(6) V. Ed. Meyer, Forschungen zur alten Geschichte. Halle a. S., 1892.
I, p. 61 e per il culto prestato agli animali, oltre ib., pp. 69-70, anche: op.
cit., II, pp. 98-9.
(7) RoscHER, in op. cit., p. 443, 1.
(8) Gfr. Deecke, op. cit., pp. 96-7.
(9) Viro., Aen., 11, 785.
(10) Vedi BxHKLo:^, Description historique et chronologique des monnaies
de la républ. romaine. Paris, 1886. II, p. 516; cfr. per le saghe relative
- 15^) -
gere, con speciale riguardo all'affinità grande, dirò meglio, alla
quasi perfetta corrispondenza fra il Marte italico e l'Apollo
greco (1), che a Mars era sacro il lupo, e Mars è anche una
deità infera (2). Ma v'ha di piìi. Colla voce « lupu », come con-
ghiettura il Lattes (3), tenendo conto eziandio della leggenda italica
degli Hirpini Sorani devoti, non altrimenti che a Roma i
Luperci, alle deità infernali, gli Etruschi designarono il 'morto'.
Se cosi è, e le prove addotte dal chiaro etruscologo sono tutte
molto convincenti, ognuno vede che Dis-Apollo Soranus o in altre
parole l'Apollo etrusco-falisco immedesimato coll'Apollo greco fu,
anche come ctonica e infera, per eccellenza una deità della morte.
E l'arte etrusca essa pure illustra le relazioni fra Apollo e le
Moire: invero su uno specchio etrusco (4) con Aplu, accompagnato
dalla madre Letim (Leto, Latona) e dalla sorella Thalne (Arte-
mide, Diana) comparisce una figura femminile indicata col nome
di Muira, molto probabilmente la Moira greca.
Dall'Etruria passiamo a Roma. — Noto senza più il fatto che
ivi nei ludi secolari Augustei, celebrati segnatamente in onore di
Apollo, i sacrifizi alle Moerae, come son chiamate nei commentari
ai ludi stessi le Parcae latine, le MoTpai greche, ebbero il luogo
principale (5), e che la presidenza delle tre sorelle era attribuita,
non v'ha dubbio, secondo una tradizione popolare, ad Apollo (6).
alla ^'ews Valeria e a Valeria Luperca , pp. 515-17 e per le monete
pp. 518-19, dove ne è data la riproduzione.
(1) RoscHER, Apollon und Mars. Leipz., 1873; per il lupo emblema co-
mune alle due divinità v. pp. 88-9, e cfr. anche Preller-Jordan, op. cit.,
I, pp. 336-37.
(2) L.\TTES, Saggi..., p. 62, nota 90.
(3) Loc. cit. e pp. 212-13. Gfr. dello stesso: L'ultima colonna della iscriz.
etrusca d. Mummia. Torino, 1894. p. 40. Intorno agli Eirpi o Birpini v.
anche Deecke, op. cit., pp. 93-5.
(4) Gerhard, Etruskische Spiegel, tav. 77. V. del testo part. 3*, pp. 80-1.
(5) MoMMSEN, Com,mentariiim, ludorum saecularium quintorum , in
Monum. antichi pubbl. p. cura della R. Acc. d. Lincei, I, pp. 650-51 (=
Ephemeris epigraphica. Vili, p. 258).
(6) Pascal, Osservazioni sui commentarii dei ludi secolari Augustei, in
Bullettino d. commiss, archeol. comunale di Roma, 1893, 21, s. 4% pp. (203-)
204. Cfr. dello stesso: U culto di Apollo in Roma nel sec. di Augusto, in
Bull, cit., 1894, 22, s. 4% p. 79.
— 151 —
È cotesta una nuova prova dei rapporti che intercedevano fra lui
e le Moire; nia non ha per noi se non un valore secondario, perchè
le Moerae invocate nei ludi secolari Augustei erano tenute quali
divinità benefiche e in Apollo loro capo si vide unicamente il nume
che presiede al destino (1). Sono invece importantissimi, come
quelli che confortano, almeno credo io, le mie ipotesi, i seguenti
fatti: 1°) eziandio i Romani conobbero un Apollo malefico, Ultor,
Tortor, da loro identificato con Veiovis, antica divinità italica
pure malefica (2); 2°) i ludi secolari erano in origine dedicati
soltanto agli dei inferi (3); S*») per l'Apollo romano era rituale il
sacrifizio del toro, anzi i Eomani consideravano il toro come la
vittima più gradita ad Apollo (4): nei ludi ricordati gli si im-
molavano a punto tori bianchi (5). Ora io sbaglio o c'è ragione
di ritenere che il toro sia stato consacrato ad Apollo specialmente
0 anche quale dio della morte. Poiché, come suppone ancora il
Lattes (6), Qaure Qaurus etrusco, a cui corrisponde taurus latino,
designa, al pari di lupu, il 'morto', il 'defunto', ed è «quasi
connesso coi ludi Taurii, sacri agli dei inferi e istituiti, preten-
devasi, da Tarquinio il superbo ». Si pensi col Lattes (7) ai tori
epitafiali della Spagna latina, emblemi della morte, e forse potrà
sembrare non affatto priva di fondamento la mia congettura. A
ogni modo da tutti i fatti arrecati risulta, se non m'inganno, che
all'Apollo greco |aoipaTéTri(;, preso questo epiteto in largo senso,
corrispondono, come ho premesso, identiche concezioni italiche.
Milano, ottobre '94.
Domenico Bassi.
(1) Pascal, Osservazioni..., p. 204.
(2) Pascal, Il culto..., p. 60. Cfr. Babelon, op. cit. (1885), 1, pp. 505-8,
e per Veiovis in generale Preller-Jordan, op. cit., 1, pp. 262-67.
(3) Preller-Jordan, op. cit., I, pp. 151 e 310.
(4) Pascal, Il culto..., pp. 71-2. L'A. accenna al sacrifizio del toro ad
Apollo, tenendo conto esclusivamente delle relazioni fra Augusto e il dio.
(5) Vedi Marquaudt, Le cttlte chez les Romains, trad. par M. Brissaud-
Paris, 1889-90. 11, p. 98 ; cfr. 1, p. 208.
(6) Saggi..., p. 62, nota 90.
(7) Ih., pp. 213-14. Cfr. L'ultima colonna... cit., p. 39.
21. 1. '95.
152
IL CANTO 81M0N1DE0
COMMENTATO NEL « TROTAGORA y>.
Dal 17(34 ad oggi parecchi dotti s'adoperarono a sceverare le
parole o i concetti di Sinionide dal rimanente del dialogo pla-
tonico, a riordinare gli elementi raccolti e ricostruire il canto.
G. C.Heyne (Opusc, I, p. lGO)nel 17G4, lo Schleiermacher (PZa/ons
WerJce, I, 1, p. 414) nel 1804, G. Hermann (in Fiat, citai, sei.
dell'Heindorf, p. 597) nel 1810, il Boeckh (Pind. op., I, p. 337)
nel 1811, lo Schneidewin {Sim. Cei carni, rei.) nel 1835, -il Bergk
nelle sue varie edd, dei lirici greci dal 1843 al 1882, l'Hartung
{Die gr. Lyr., VI) nel 1857, il Blass {Rh. Mus., N. F., XXVII)
nel 1872, il Bonghi {Dial. di Fiat, trad., voi. Ili, app. I) nel
1882, il Pomtow (Poet. lyr.gr. mm.) nel 1885, l'Aars {Das Ge-
dicJit des Simonides in Platons Protagoras, Christiania) nel 1888,
l'Hiller {D. Litt.-Ztg, X Jahrg.: Jaìiresb. iiher die Fortschr. der
ci. Alt, XVI Jahrg.: Anth. lyr. eie. post Th. BergJcium quartum
ed.) tra il 1889 e il 1890, lo Schwenk {Dos Simonideische Gè-
dicht in Platons Protagoras u. s. w.-Progr. Graz.) nel 1889, il
Peppmùller (Beri. pMlol. Woch., X Jahrg.) nel 1891 e il Sitzler
(Jahresb. fther die Fortschr. der ci. Alt.) nel 1894 espressero
opinioni più o meno diverse e più o meno utilmente cooperarono
a restaurare il carme. Non nomino tanti altri che semplicemente
favorirono questa o quella ricostruzione. Base unica d'ogni discus-
sione fu ed è quella parte del Protagora, in cui si discorre del
canto simonideo. Le questioni si aggirarono in sostanza sopra
quattro argomenti, il metro, l'ordine dei concetti, la quantità del
citato, la specie del carme.
Circa al primo soggetto i pareri possono ridursi a due, quello
di coloro che riconobbero nel canto la composizione epodica e
- 153 -
quello di coloro che vi ravvisarono la monostrofica. Al primo si-
stema s'attenne l'Hermann e dietro a lui il Boeckh, che, diver-
samente descrivendo la strofa, per altro non si occupò dell'epodo,
e lo Schneidewin, che lo modificò. La strofa, già divisa dall'Her-
mann in undici versi, fu dal Boeckh distribuita in sette e così
riprodotta dallo Schneidewin. L'epodo fu ripartito dall'Hermann
in otto 0 nove versi, dallo Schneidewin in sette. All'altro si volse
il Bergk nella seconda ediz. dei Lirici (1853), seguendo nella
forma della strofa il Boeckh, tranne che portò al secondo verso
l'ultime tre sillabe del primo; e dietro gli andò l'Hartung, seb-
bene con notevole divergenza, poiché ripartì la strofa nuovamente
in undici versi, non però tutti eguali a quelli dell'Hermann. La
composizione monostrofica secondo lo schema del Boeckh fu accolta
dal Blass, dall'Aars, dall'Hiller, dallo Schwenk (unendo in uno i
vv. 5-6), dal Peppmùller e dal Sitzler. Il Pomtow tenne la di-
stribuzione dell'Hartung, se non che riunì in uno i vv. 2-3 di lui.
Quanto all'ordine dei concetti, la controversia si aggirò special-
mente sulla collocazione da darsi alle parole è'iuoiYe èSapKei bq
av luf) KaKÒq f| }xr\ |aé|uiKTai (346 C). Lo Schleiermacher le
pose tra ove, oi 0eoi qpiXujaiv e TouveKcv: lo stesso ordine tenne
l'Hermann, che di quelle parole costituì l'epodo, e altrettanto fe-
cero il Boeckh e lo Schneidewin. 11 Bergk, non avendo in niun
conto r è)LioiYe èSapKei, portò 1' b<; av ktX. dopo 1' àveu ipÓYOu
TeTUTjuévov e ne integrò la strofa "Avòp' òtYaGòv kt\., dichiarando
perduta una strofa iniziale, dove il poeta volgeva la sua parola
al Tessalo. L'Hartung per contrario, reputando che i passi del
canto simonideo siano citati nel dialogo platonico der BeiJie und
Ordnung nach, trasferiva le dette parole dopo oùòè 0eoi ludxoviai
e ne formava l'ultima strofa. Il Blass accoglieva l'ordine proposto
dal Bergk; ma, escludendo la perdita d'una strofa esordiale, am-
metteva quella dei vv. 3-7 della prima strofa e dei vv. 1-2 della
susseguente. Inoltre pensava che nei vv. 8-7 della strofa prima
si trovasse l'apostrofe a Scopa, vedeva nell' ^jlìoiyc éEapKei l'equi-
valente del concetto che doveva essere espresso nei detti primi
due versi della seconda (di cui i vv. 3-7 egli costituiva con bc,
àv ktX.), e teneva per sicuro che la strofa TouveKev ktX. fosse la
— 154 —
chiusa del carme. 11 Pomtovv poi ammetteva pienamente l'ordine
del Bergk, la costituzione del frammento in tre strofe integre e
la mancanza della strofa esordiale. Ma il l'onghi, da filosofo acuto
analizzata tutta quella parte; del dialogo platonico, per entro alla
quale si fanno le citazioni simonidee, conchiudeva consentendo
coU'Hartung nella disposizione del carme. E l'ordine intuito dal-
l'Hartung e propugnato dal IJonghi ebbe poi il favore dell'Aars,
dell'Hiller, dello Schwenk, del Peppmiiller e del Sitzler.
Veniamo alla quantità del citato e notiamo le principali opi-
nioni. L'Hermann, il Boeckh, lo Schneidevvin e l'Hartung segna-
rono lacuna nella prima strofa da TCTUTiiévov alla fine (quasi otto
versi per l'Hermann, sette per l'Hartung, cinque per gli altri due);
ma non pronunziarono, ch'io mi sappia, altro giudizio. Il Bergk,
seguito dal Pomtow, reputò il carme « fere integrum servatum :
nam, soggiungeva, deesse nihil videtur, nisi carminis exordium
sive prima stropha, in qua poeta haud dubie professus erat, se
hoc Carmen ad Scopam Thessalum mittere etc. ». Anche pel Blass
il carme era quasi integro, non mancando d'altro che dei sette
versi sopra indicati. Il Bonghi vede nell' "Avbp' à-fa9òv ktX. il
principio della prima strofa del carme, alla quale manca il se-
guito, ma crede che al concetto espresso nei versi mancanti debba
riferirsi 1' oióv le laévTOi èTri ye xpóvov riva (344 C) : giudica
integre le strofe seconda e terza (Oùòé )aoi qpiXujaiv. — Toù-
veKcv juàxovtai), senza principio la quarta ( èVoi t' èHapKei
InémKTai), che termina con una sentenza, la quale egli reputa
logica conchiusione di tutto il carme. L'Aars, oltre alla detta la-
cuna della prima strofa e all'altra minore in principio della quarta
( ouK eì|n' ÈYÙJ (piXó)nuj)Lio<g • èEapKci j è)aoi ] 6^ dv ri ktX.), so-
spetta mancante anche una strofa esordiale con apostrofe a Scopa
e dichiarazione o accenno del motivo della poesia. L'Hiller invece
ammette la possibilità d'una strofa di chiusa, ove fosse nominato
0 indicato colui che il poeta aveva in mente; poiché THiller
opina che Simonide in quest'ode, diretta, con qualche parola di
lode, a Scopa, non alludesse già a falli di costui, ma cercasse di
scusare un qualche cortigiano caduto in disgrazia del signore. 11
Peppmiiller riconosce assolutamente nell' "Avòp' ÓTaGòv ktX. Te-
— 155 —
sordio del carme e crede che la dedica a Scopa fosse nella parte
mancante della prima strofa o in una strofa di chiusa, la quale
poteva anche significare il motivo del carme. Tiene poi coll'Aars
per simonideo, non solo l' èpLOif éEapKei, ma anche 1' ou tap eÌM^
(piXÓM'jufioq. Lo Schwenk parimenti crede che nulla manchi nel
principio. Pensa egli inoltre che la lacuna dopo i primi due versi
contenesse un'esplicazione della sentenza iniziale con esempio e
forse accenno a Scopa; ma reputa anche possibile che tal men-
zione si trovasse invece nel mezzo o su la fine del carme, proba-
bilmente nella lacuna ch'egli pure ammette nel principio dell'ul-
tima strofa, cioè davanti ad èHapKei ò' e)LioiT(e) 1 ó |ifi ujv KaKÓ<g,
com'egli legge. Nega poi che siano simonidee le parole où yàp
€Ì|ui q)i\ó|aiJU)uo(;. Da ultimo il Sitzler riconfermò l'opinione che
nulla manchi nel principio del carme. Egli non riconosce possibile
la dedica a Scopa in una strofa di chiusa, ma tiene per certo
che tal menzione, piuttosto copiosa, fosse nella lacuna dopo il
V. 2. Crede poi verisimile che manchi qualcosa, non nel principio
della strofa ultima, bensì nel mezzo di essa; ond'egli con grande
libertà, ma nessuna probabilità, la ricostruisce così : {il dp' èVoiYe
Ktti àpKeì,) 6a(Ti(;) àv ^x] KaKÒ? ri | lariò' (iLv) àrav àTTdXa)ivoq,
eìòuOq Y òvaamoXiv biKav , ÙTin? àvnp. | (tòv èfùj cuti mjujad-
(JO|uiai q)iXó)Liuu|uoq ujv ei bé tì<; ke x^pi] M^éxujv, j KcpécTaaGai
omoc, (ppévaq òùvaxai | Kaì /ié|ui|iiO(; •) xuùv yàp dXiGiiuv 1 àTreipiuv
T€vé9Xa. I Travia toi KaXd ktX.
Anche intorno alla specie del carme i pareri divergono assai.
Lo Schneidewin lo disse un epinicio. Il Bergk (ed. IV) negò che
fosse un epinicio (poiché quel che si legge in contrario nella sua
Gr. Literaturg.., lì, 359, fu scritto senza dubbio anteriormente)
e lo reputò un carme parenetico, rassegnandolo tuttavia tra i fram-
menti degli epinici. « Quod (carmen), scrive egli, non fuit epi-
nicium, sed quemadmodum veteres grammatici Pindari epiniciis
etiam paraenetica carmina aliaque id genus inseruerunt, ita Si-
monideum quoque poema hunc locum commode obtinebit, quod
veteres quoque verisimile est non separavisse a reliquis carminibus
in Scopae honorem conditis ». Comos lo chiamò l'Hartung : il
Blass e dietro lui l'Aars, l'Hiller e il Peppmiiller lo giudicano
- 100 —
uno scolio. 11 Bonghi tiene per assai probabile che il carme fosse
un encomio^ cioè un'ode, dic'egli, da cantare a tavola in lode del
padron di casa: ma ammette ancora che potesse essere uno scolio.
Encomio lo vogliono senz'altro il Pomtow, lo Schwenk e il Sitzler.
Ciò premesso, esporrò, il più brevemente e chiaramente che mi
sarà possibile, la mia convinzione, diversa nel complesso da quella
d'ogni altro critico, convinzione che mi sono formato sopra cia-
scuno de' suddetti punti dopo una minuta e diligente analisi dei
singoli frammenti di questo carme, di quella parte del Protagora
che li contiene, e di quanto fin qui si scrisse sopra tale argo-
mento. In questa o quella cosa consento con uno o con altro cri-
tico, ma non istarò sempre a notarlo. Chi vuol vedere, confronti.
A priori non può nulla affermarsi quanto al metro, perchè, se
è certo che Simonide usò largamente la composizione epodica (cfr.
Efesi, 122), nulla ci autorizza a negare ch'egli in qualche ode
non abbia potuto tenere la raonostrofica. E che anzi possa avere
adoperata anche questa, si rileva, mi pare, dal citato luogo d'Efe-
stione, dacché per addurre esempi di composizione monostrofica vi
si dice senza riserva KaGdrrep tu 'A\Kaiou Kaì Tà laTTcpoOg Kaì
èri TÒ 'AvaKpéovToq, ma per dare esempi dell'epodica vi si dice
più ristrettamente \h<; tà ye TTXeTara TTivòapou Kai Zi)aujviòou
TTeTToiriTai. 11 Flacli {Gesch. d. gr. Lyr., p. 641 -042) ammette
senz'altro che Simonide in alcuni canti minori siasi accostato alla
composizione eolica. Lascio stare, che troppo lungo discorso richie-
derebbe, la questione sullo scolio 8 Bgk^, per la quale si ve-
dano Schneidewin (Sim. Gei carm. rei, 54-55), Engelbrecht {Be
scoliormn poesi, 100 sgg.), Bergk (1. e. e Sim., 190 A) e Flach
(1. e, p. 637-638). Considerando le citazioni simonidee contenute
nel Protagora, appare evidente nel tratto TouveKev indxovTai
(345 CD) l'unità ritmica, la strofa; sebbene resti un po' dubbia
la ripartizione di essa in versi. E poiché tutte le altre citazioni,
piti 0 meno fedeli, sono pur rientrate senza gravi mutamenti nel
medesimo schema, è lecito inferire che il carme fu mouostrofico.
A me poi, come si vedrà in appresso, è riuscito di far rientrare
nello stesso schema anche due altre citazioni, assai parafrastiche.
Quanto alla distribuzione della strofa in versi, credo molto prò-
— 157 -
babile quella del Boeckh, lievissimamente, come tlissi, modificata
dal Bergk : circa alla qual divergenza mi sembra che la ragione
del periodo grammaticale favorisca la partizione del Boeckh, la
ragione del periodo ritmico quella del Bergk. Dovendomi risolvere
0 per l'una o per l'altra, ho accolta quella del Bergk.
Passiamo all'ordinamento da darsi ai frammenti. Protagora,
dopo aver detto (339 AB): \éfei ^àp ttgu Iijatju vibri <; irpòq iKÓrrav,
TÒv KpéovTO(; uiòv toO GeTiaXoO, òxi "Avòp' ÓTaGòv xeiu-f-
ILiévov, soggiunge: ToOto èiricfTaaai xò acr]ua, fi ttcìv croi òi-
eHéXGuj; Da queste parole sembra a primo aspetto si possa con
certezza dedurre che la sentenza "Avòp' dYa0òv kt\. era l'esordio
del carme: imperocché, incominciando a citare dalla seconda o
terza strofa d'una poesia, non sarebbe naturale il chieder poi su-
bito: Conosci questo canto o te lo recito tutto ? La locuzione toOto
TÒ a(5\xa dovrebbe quindi significare il canto che incomincia con
tale sentenza. Ma, riflettendo ancora, si vede che la suddetta lo-
cuzione potrebbe anche valere il canto TTpò<s ZKÓTiav, indicato
prima coll'avverbio ttgu {Dice m un luogo Simonide a Scopa ecc
Conosci questo canto ecc. ?). Onde si esita a conchiudere che
r "Avòp' àxaGòv kt\. fosse il principio del carme. Se non che a
questa conchiusione ci spingono poi sicuramente le parole (343 CD)
Eii0ij(; Y«P TÒ TTpuÙTOv ToO aC^aroc, laaviKÒv av qpaveiri, eì Pou-
Xóiaevoq XéY€iv ori avbpa ÓYaGòv ktX.
I versi Oùòé jaoi è|a)LieXéuj(; è'aXov è'iajuevai susseguivano a
qualche distanza (TrpoióvToq toO a(y|uaTO(; Xe'Yei ttgu, 339 C), ma
non grande (òXiygv òè toO TT0ir|)uaT0(; eie; tò TtpóaGev rrpGeXGuuv,
339 D). Per ragione metrica questa distanza non può esser mi-
nore di cinque versi, cioè del rimanente della strofa, ma con pro-
babilità fu di dodici, cioè d'un 'altra strofa ancora; diversamente
non si vedrebbe troppo chiaro perchè Socrate dovesse fare sul }xé\
l'avvertenza che fa in 343 C — 344 A. L'asserzione di lui (non po-
tersi cioè intendere quel |uév senza contrapporre i primi due versi
dell'ode alla sentenza di Pittaco) « stànde, come bene osservava il
Blass, auf schwachen Fiissen, wenn unmittelbar darauf der ent-
gegengesetzte Gedanke gefolgt wiire (cioè subito in principio della
seconda strofa); denn wenn das òè mangelte, so musste man sagen:
- 158 —
Xernei tò be ». Onde anche il Blass ammetteva una distanza di
dodici versi tra la sentenza iniziale e la strofa Oubé laoi ktX.,
sebbene egli, interponendovi 1' oq av r| KaKÒ(; ktX., segnasse una
lacuna di soli sette versi.
Alla sentenza di Pittaco susseguivano prossimamente, ma non
immediatamente, le parole 6£Ò(; av laóvo? toOt' ^xo' T^pa? (tò
laeià toOto ^niua, 341 E). Quanto veniva di poi era tutto diretto
a confutare la sentenza di Pittaco (Kaì là èmóvia Tióvra toùtijj
laapTupei kt\., 344 AB) e conteneva molte cose egregiamente
dette, le quali sarebbe riuscito lungo l'analizzare così minuta-
mente (laaKpòv cxv ein auto outiu òieX9€iv ktX., 344 B), come si
era fatto per le sentenze di Simonide e di Pittaco.
11 dialogo prosegue (344 BC) : Aèrei yàp )i€Tà toOt' òXiTa
òieX0ùjv (omettendo dunque qualche verso dopo la sentenza di
Pittaco, non già dopo quella di Simonide, come credettero finora
i critici, i quali non videro in questo laerà toOt òXito òieXeùjv
altro che una semplice ripetizione del concetto espresso in 339 CD:
ÒTi KpoióvTO(; ktX òXiTOV òè toO TT0ir||iaT0(5 ktX.) uj^ av eì
Xéfoi XÓTOV, ÒTi yevéaGai \xky àvòp' àraGòv x^Xenòv àXaeéuj(g,
oióv Te inévToi èiTi ye xpóvov Tivd* Yevó)aevov òè òiaiuéveiv èv
TauTri xf) eSei Kai eivai àvbpa draGóv, nìc, aù Xé^eK;, u) fliTTaKé,
àbuvaTOv Kal oùk àv9puuTTeiov, àXXà 6eòq av luóvoq toOto è'xoi
TÒ Tépa(j, àvbpa b* oùk ecJti \xr\ oìi kokòv e)JMevai, ov av à^ri-
Xavoc; aujicpopà KaeéXr). Da questo luogo, ben ponderato, risulta,
a parer mio, 1° che 1' €Ù6ù<; (341 E) non va inteso nel senso di
subito, immediatamente, ma in quello di direttamente, appunto ;
2° che dopo 1' e|Li|itevai della terza strofa devesi notar lacuna ;
3° che la quarta strofa cominciava con un ripiglio della sentenza
simonidea, cui tenevan dietro (con forma, in parte, più o meno
diversa) i concetti oTóv Te jue'vTOi ktX., -fevójuevGv bè ktX., 0€Ò(;
av \xo\oc, ktX., àvbpa b' oìik è'aTi ktX. fino a Ka8éXri, formandosi
così i vv. 1-4 di detta strofa.
11 susseguente brano del dialogo (344 E) — aù bè cpri?, iL
TTiTTaKÉ, xtt^enòv èa9Xòv è'iLiMevar tò b' èarì Teve'(J6ai jnèv \a-
XeiTÓv, buvttTÒv be, è'|UMevai bè dbùvaTov — mirabilmente com-
pendia, oltre alla sentenza di Pittaco, il contenuto dei primi due
- 159 -
versi della quarta strofa e così conferma appieno la mia conget-
tura. Esso compendio non abbraccia anche gli altri due versi Qeòc,
av luóvoq KaGéXri (forse perchè già bene indicati poco prima e
qui sottintesi come séguito), ma si congiunge alla citazione diretta
del quinto e sesto verso TrpótHag |uèv y^P eu "nàq àvfip àyaQóc,,
KaK'òc, b' el KaKujq. Dopo avere affermato che solo il buono può
divenir cattivo, il dialogo conchiude (345 BC): ùjate Kai toGto
ToO aaiuaio^ T^pòc, toOto xeivei, òri eivui ixev àvòpa àfaGòv oùx
oióv Te òiaxeXoOvTa àYaGóv, YevéoGai òè àfaGòv oióv le, Kai
KOKÓv T€ TÒv aÙTÒv TOUTOV, Ic quali parole rapidamente assom-
mano tutta la contenenza di questa prima parte dell'ode e con-
fermano una volta ancora l'ordine dei pensieri da me congetturato.
Segue poi: èm TrXeTaTov òè Kai àpicfTOÌ eìaiv olk; av oi 9eoì
(piXuùaiv, sentenza che a parer di tutti i critici costituiva la
chiusa della strofa, come penso anch'io.
La strofa quinta ci fu trasmessa con lezione quasi del tutto
sicura in 345 CD. Essa non potrebbe mai anteporsi alla sentenza
di Pittaco (strofa terza frammentaria) né a quanto costituisce la
mia strofa quarta, perchè ciò che vi si dice era diretto contro
Pittaco e susseguiva a tutti i brani precedentemente riferiti
(tauTà Te ouv ndvxa -npòq tòv TTiTTaKÒv eiprixai, Kai Tà èirióvTa
fé ToO acspiaioc, eTi |ua\Xov òr|XoT. cpr|a\ y«P' TOuveKev ktX.). E
contro Pittaco era vòlto anche tutto il rimanente del canto (outuj
(Jqpóòpa Kttì òi' òXou toO aa^aToq èrreHépxeTai tuj toO TTiTTaKoO
pniuaTi). Queste parole sono interposte nel dialogo fra la citazione
dei vv. 1-4 e quella dei vv. 5-7 di questa strofa; onde alcuni
credettero che il canto finisse con ludxovTai. Ma esse riguardano,
come vedremo, un'altra strofa ancora. Per contrario ai detti vv. 5-7
si riferiscono le parole susseguenti Kai toOt' èaTl rcpòc, tò aÙTÒ
TOUTO elpriiuévov, il che non sarebbe di certo stato scritto, se
r ouTuu (Jqpóòpa ktX. concernesse quei tre versi soltanto. In 346 C
leggiamo poi: TaOxa br\ Kai tuj TTixTaKuj XéYei, oti èY^, tu TTit-
xaKé, où olà TauTd Gè ipéYui, oti eijui qpiXóipoYO?, enei è')uoiY' et-
apKei og dv |ufi KaKÒ^ ij) lurjò' ctYav dTrdXaiavoq, eìòuuq T'òvriai-
TToXiv òiKav, uYiri<; dvrip. cu |uiv èYÙJ |auu|uriao|aai. où Ydp eìfii
cpiXó|LHju)ao<; • TUJv Ydp tìXiGioiv àrreipiuv YCvéGXa, tucTT' ei' tic, xaipei
— 160 _
y\)é-f<jjv, inn'Kr\aQe{r] av éKcivouq M^MCpÓMevoq. Travia toi KaXd,
ToTai t' aìaxpà iiy] ja^iaiKtai. In questo brano sono inclusi con
qualche variazione di forma e qualche commento i vv. 2-7 del-
l'ultima strofa, come si vedrà in appresso. Intanto osservo che
queste cose diconsi contro Pittaco e perciò di qui non si può as-
solutamente trar materia ad integrare la prima strofa siccome
fece, con errore per me evidentissimo, il Bergk, e che questo
brano dell'ode non può collocarsi neppure, come fece lo Schleier-
macher e con lui l'Hermann, il Boeckh e lo Schneidewin, dinanzi
alla strofa toùveKev lidxovTai: poiché il rouveKev ktX. teneva
dietro all' èm riXeicTiov òè ktX. (tò éTiióvra fé toO aaiaaioq,
345 C). Oltre di che nel dialogo, dopo essersi affermato che tutto
il rimanente del carme è contro Pittaco (345 D) e che i versi
TTdvTa(; Mdxoviai hanno lo stesso intento (ivi), si soggiunge
(346 C) che anche quest'altre cose rivolgonsi contro Pittaco.
L' ouTuu (Jqpóòpa ktX. è dunque affermazione generale, di cui il
Ktti toOt' ìCti Txpòc, TÒ ttÙTÒ ktX. 6 il laOia òri ^aì tuj TTiTiaKUj
XéY€i ktX. sono riconferme parziali, accennanti a passi dell'ode
consecutivi (tranne l'ommissione d'un verso tra mezzo), riconferme
che nel dialogo sono disgiunte dalla breve discussione sul valore
dell' éKiLv, ma che si debbono ravvicinare per la ricostituzione
del carme.
Il susseguente passo del dialogo (346 DE — 347 A) vuoisi consi-
derare attentissimamente. Oò toOto \éyei, ujaTiep av eì eXere
Travia loi XeuKd, oi^ jnéXava pii] |U€|uu<Tar YeXoTov Yàp av eiri
TToXXaxvì' dXX' òii aùiòq Kaì là juéffa àTTobe'xeiai ùjaie ^xx] \\)éfe\y/
(fin qui semplice commento al verso, ultimamente citato, Travia loi
KaXd KiX.), Kai où lr]xw, Icpr], TTavd)iUj|aov dvOpiuTTov, eùpueòoOc;
òcToi KapTTÒv aivujieOa x^ovóq, è'TteiG' u|uiv eùpibv èTraYTeXeiu
(riassunto dei vv. 1-4 della strofa quinta)- ujcTie toutou y' é'veKa
oùòéva errai vécro)aai, àXXd |uoi èEapKei, av rj \Aeaoc, Kaì \ir\hkv
KaKÒv rroirì, \hq èYÙJ Trdvia(g qpiXéuj Kai èiraivruni rrdviaq òè
èrraivriiui Kai qpiXéuj éKuuv òcTiiq epòri [ir\bìv aìcjxpóv (commento
e riassunto dei vv. 5-7 di detta strofa, dal quale si rileva che
r ejaciY* èHapKei oc, av kiX. era logicamente congiunto col Travia?
ò' èrraivriMi kiX. e non poteva mai trovarsi avanti alla sentenza
- 161 —
di Pittaco, come pretesero il Bergk ed il Blass) ai oùv, xal
€Ì laécfuj^ è'\eT€^ èirieiKiì Kaì a\Ti9fi, iL TTiTraKé, ouk àv ttotc
IqjeYOv (parafrasi, a parer mio, del primo verso della sesta strofa:
quanto all'idea espressa dall' eì piéaux; eXeye^, sì noti che è re-
plicatamente preannunziata e commentata dal tu piéoa. àrrGÒé-
Xexai e dall' av ri }xé(Joq, la quale insistenza mi fa vedervi un
concetto simonideo, come parve anche all'Hartung). vOv òè, (Jcpóòpa
YÒp Kaì Tiepì Tujv |U6TÌ(Jtujv vj;euòó)ievo<; ÒOKeTq dXriGfì XÉTeiv^ òià
TaOxa (Te èyw qjéyuj (ritorno al passo citato in 346 C con ripiglio
affermativo della locuzione negativa ifdj où òià TaOia Gè vpéTiw,
locuzione che anche di qui appare dovesse susseguire al iravTaq
ò' èTTaiVTiiui ktX.; alla quale induzione non può contrastare il tro-
varsi poco prima in 346 D 1' àXXd |uoi èHapKci tra 1' v^\v eùpùjv
èTraYT^Xéuu ktX. e 1' \hq èy^J rravraq cpiXéoi ktX., perchè ivi si ha
una semplice inversione dialettica invece di àXXd, ójq èfOj 7TdvTa(;
cpiXe'uj ktX., old toOto è|aoì èSapKei ktX., e poi perchè 1' è|aoì
èHapKei ktX. non poteva trovarsi per entro alla strofa xouveKev
iLidxovtai, strofa di sicura costituzione per me, come per tutti i
critici). Ond'io congetturo che nelle parole (346 C) è^o), d) TTit-
TaK€, cu old raurd ere hjéyuj òti eìjui qpiXóipoYO?, ÈTreì 6|uoiy' èE-
apKei sia la materia del secondo verso della strofa sesta, la quale
proseguiva coli' oc, dv }xr\ KaKÒq ri ktX. fino a |Lié|aiKTai, soppri-
mendosi (come han fatto anche il Bergk ed altri) 1' cu fàp eì|ui
(piXó|Liuj|Lioq, evidente ripetizione (cfr. Hiller, Ja/ires6.) e parafrasi
negativa della proposizione òti eì|Lil q)iXóv|;oYO<; (la quale invece è
da raccogliersi come espressione simonidea, rispondente anche al
vicino verbo ijjéYw, e fu sin qui mal rifiutata da tutti, per fino
dall'Hartung che pur ricostruiva i primi versi di questa strofa e
dall'Aars che ricostruiva il secondo, accogliendo entrambi, sebbene
l'Aars un po' dubbioso, come simonideo 1' où Ydp eìm qpiXó|LiiJU|iO(j,
tenuto per tale anche dal PepprauUer), e 1' &ai' eì tk; x«ips» ktX.
fino a |U€)Li(pó)iievo<g, commento manifesto per me e per tutti i cri-
tici, tranne il Sitzler, che ne trasse materia a rifar liberamente
quest'ultima strofa. E si noti che secondo la mia costituzione della
strofa avendosi il punto alla fine del v. 1, la citazione di 340 C
potè ben cominciare dal v. 2 e il riassunto e commento di 346 DE
Rivista di filologia, ecc., L H
— 162 —
— 347 A finire col v. 1 richiamando appena con una frase il 2
e sgg. Il che non sarebbe potuto accadere, se il testo avesse avuta
la forma congetturata dall'Hartung — Oùb' av i^w^e, ^éamq \é
YOVt' à\a0éq , | bià lauT* où- | ttok;, uù TTdTaKe, & eiperov | elfiì
b' où qpiXó|iuu)aoq" éEapKcT be' )lioi | òq av r| KORÒq kt\. — rifaci-
mento capriccioso e per giunta metricamente errato.
Quanto poi all'inconsulta soppressione fatta dal Bergk per sal-
dare i vv. 3-7 di questa strofa coi vv. 1-2 della prima, alla sop-
pressione cioè del concetto ?|ìoit' éHapKcT, ripetuto nel dialogo non
senza buona ragione, il Blass, dopo avere approvate anch'egli le
altre due soppressioni suddette, bene osservava: « so ist es
doch eine andere Frage, ob das è'iaoiY' éEapKei auch so schlechtweg
v?egfallen kann, ohne dass etwas anderes daftir an die Stelle triti
Bei Bergk ist uTir)? «vrip Prildicat, bei Platon Apposi tion, und
was noch bedenklicher, das òq av fi KaKÒq u. s. w. schliesst sich
nun, bei der Auslassung des bè, in einer solchen Weise unmit-
telbar an das Vorhergehende an, dass jeder es zuniichst als weitere
Ausfùhrung des TeTpdYujvov, dveu qjÓYOU xeruY^évov fassen
muss ». E più innanzi: « Der Anfang von Str. 2 (la mia sesta)
aber mòchte dem wesentlichen Sinne nach auf das c'ilioiy' èEapKei.
vfelches Sokrates an die Stelle setzt, hinausgekoramen sein ».
La discussione sul canto simonideo termina con queste parole
(347 A): TauTÓ laoi boK€i, u) TTpóbiKe koì TTpuuTaYÓpa, r\v b'èYuJ,
Xi|LiuJvibr|(; biavooù|uevo(5 7T€TT0iriKévai toOto tò àa^xa. koì ó 'Itt-
mac,, Eu |uiév )aoi boKeTq, è'cpri, w ZuuKpareq, Kaì aù Kepi toO
aaixa-xoq bie\ri\u8évai. Dal qual luogo, più che da 339 B, 341 E,
342 A, 343 0, 344 AB, 345 D, mi sembra ragionevole inferire :
1° che il carme nella conversazione socratica fu percorso da cima
a fondo, omettendo tuttavia qualche parte che non interessava al
proposito di essa ; 2'' che perciò incominciava con la sentenza
"Avbp' à-faQòv ktX. e finiva con l'altra iróvia tei KaXd, ktX.;
3<' che non era poi tanto breve quanto parve a qualcuno (cfr. il
toOto èmaiaaai tò ào\ia, r\ nàv (Joi bieHe'XGuj ; 339 B, e più an-
cora il laaKpòv dv el'ri auto outui bieX6eTv, 344 B).
Conchiudendo affermo che l'ordine vero, a parer mio, è quello
intuito prima dall'Hartuug, propugnato poi dal Bonghi (il quale
- 163 —
seppe ravvisare un altro concetto simonideo nell' oióv te jaévToi
èm Ye XPÓvov Tivd, 344 B, quantunque egli lo riferisse non bene,
io credo, alla lacuna della prima strofa) e accolto di recente da
parecchi egregi critici tedeschi : ma affermo inoltre che v'erano
tuttavia altri elementi da raccogliere ancora e il tutto dovevasi
distribuire, non in tre né in quattro, sibbene in cinque strofe,
I, III- VI del canto integro, se pur dopo la prima ne manca una
sola, come giudico molto probabile. Di più io ho tentata la ri-
costruzione dei vv. 1-2 della strofa quarta e della sesta, ricostru-
zione che pubblico, non già perchè creda d'aver con essa divinato
quel che fu il testo, ma perchè l'aver potuto far rientrare con
discrezione i riferimenti platonici, ravvolti di commenti e para-
frasi, nella forma metrica del carme (1) mi par concorra a con-
fermare la composizione monostrofica di esso e a confortare la
disposizione dei concetti da me indagata e proposta.
Ecco ora l'ode secondo la mia recensione. Avverto che di altre
piccole questioni circa la lezione di questo o quel verso tratterò
nelle note alla parte V della mia Melica greca.
Str. I.
"Avòp' aYaGòv \xhj àXaGéuu? Y^véaGai
XaXerròv x^pc^iv xe Kai Ttoaì Kaì vóuj TeipdYUJVGV, aveu qjó-
YOU T6TUY|HéV0V.
(Mancano cinque versi).
Str. IL
(Manca).
(1) L'ultima sillaba di xaXeiTÓv nel v. 6 può computarsi lunga per virtù
dell'arsi e della pausa grammaticale, e parimenti lunga può mantenersi l'ul-
tima di vjjéyuj nel v. 20 per virtù dell'arsi e delle pause grammaticale e
ritmica. Vedi Zambaldi, Metr., p. 150, 173, 186 e sgg.: pel primo caso cfr.
Pindaro, PytJi., Ili, 6, in Bgk'' e quivi leggi la nota: pel secondo cfr. II.,
XVI, 35, e XXI, 411. Volendo poi seguire la partizione del Boeckh, all'al-
lungamento dell'ultima di xctXeTTÓv si aggiungerebbe la pausa finale del
verso, e l'allungamento diverrebbe regolare. In questo caso nel v. 19 si do-
vrebbe leggere : XéYovxa inéaoujc; invece di |aéauj<; XéYovra.
- ir,4 -
Str. III.
Oùbé ^01 è^^€\euJ(; tò ÌTiTTaKeiov
venerai , Kairoi aocpoO Tiapà cpiuxòq eìprmevov ' xa^CTiòv
qpur' éaXov ^p^€val.
(Mancano cin(|ue versi).
Str. IV.
5 ["Avbp' àraGòv nèv dXaGéuu^ Y^véaGai
XaXcTTÓv, oìóv Te liévroi èm xpóvov t' ' é|iMéveiv refaujTa
ò' OÙK àv9pUJ7TlVOV.]
Geo? av uòvo? toOt' è'xoi yépaq • dvòpa ò' oùk Ioti \xr] où
KOKÒv é'mievai,
6v à^àxavoq auiicpopà KoGéXr).
TipàEac, fàp eù nàc, àvr\p àyaQóc,,
10 KaKÒ(; b\ ei KOKiIx; |ti] •
KàTriTTXeiaTOV àpiaioi, tovq Ke 0eoi qpiXéujvri.
Str. V.
TouveK€v outtot' èxùj tò \xr] Yevé(T6ai
òuvttTÒv òiZ^riiaevoq, Keveàv éc, dixpaKTOv èXiiiòa fjoìpav aì-
uJvo(; paXéuj,
TTavà|auj)aov dvepuuTTOv, eupuéòouq oaoi Kapiròv aìvvj|ueea
XQovóq-
15 ÈTTI t' u)ii|l11v eùpùjv àTraYT^Xéoi.
TTttVTaq ò' èTtaivriim Kaì q)iXéuu,
eKÙJV ooixq epòri
larjòèv aìcTxpóv, dvÓYKa ò' oùòè 6eol ladxovTai.
Str. VI.
[OuTTOTé a' è'vjjeYov dv ^éauu^ XéYOVTa.
20 old TauT' où vOv ere, TTÌTTaK\ eYÙJ MjéYuu, uj<; cpiXóijJOYoq
ujv ■ è)noiY' èEdpKecJevJ
ò<; ^f) KaKÒq |ir|ò' dYov dTTdXa^voi;, eìbaiq y' òvacriiroXiv
òiKav,
iJYifi(g dvrip • oùòè lar) viv iyix}
— 165 —
|HUJ)aacro|Liai ■ tujv y^P àXiGiuuv
àireipiuv jevéQ\a.
25 Travia toi KaXd, toTcJì t' aìcTXpà ixx] |Lié)LiiKTai.
Non ispenderò parole a dimostrare come secondo questa reda-
zione, la quale risulta da una rigorosa disamina del Protagora,
l'ordine logico dei concetti corra più naturale e ragionevole che
secondo qualsiasi altra (1), né quanto maggior lume se ne riverberi
sull'intelligenza di quella parte del dialogo platonico che si rife-
risce all'ode simonidea. Così il carme dice in sostanza : Str. I. È
difficile veramente all'uomo il divenir buono. — Str. II —
Str. III. Ha torto Pittaco che afferma difficile l'esser buono. —
Str. IV. Difficile è il divenire, ma pur possibile: V essere, ossia
perdurare, è cosa, non umana, ma divina. — Str. V. Ond'io
non perderò il tempo cercando Vuomo senza macchia. — Str. VI.
Io mi sto contento al mediocre. Chi leggerà il carme in tal guisa
riordinato, chi, tenendolo sempre a risguardo, rileggerà la con-
versazione socratica, facilmente, spero, verrà nella mia opinione.
A me qui si conceda d'esprimere un voto onesto, cioè che d'ora
innanzi nessuno riproduca, senza giustificare la preferenza con
buone ragioni, l'ordinamento dello Schleiermacher e de' suoi se-
guaci, come ultimamente fecero lo Schanz iPlat. op. etc, 1880)
e il Ferrai {Il Protagora, ecc., 1891: nell'Appendice, ove inoltre
è assai errato ciò che si espone dell'Hartung), tanto meno poi
quello del Bergk, come pur troppo fecero il Pomtow (1. e.) e il
Parnell {Greek lyric poetry , eie, London, Longmaus, 1891).
Mi resta a dire il parer mio su gli ultimi due punti. Del carme
simonideo a Scopa, figlio di Creonte tessalo, noi possediamo, se le
mie argomentazioni sono giuste, i primi due versi della prima
(1) Pare a me, p. e., che in modo ben più logico e chiaro si passi al Beòc;
àv juóvoc; dopo i vv. 5-6 di quello che immediatamente dopo la sentenza di
Pittaco ; dietro la quale del resto per la ragione suddetta è a notarsi lacuna.
K merita inoltre d'esser particolarmente considerato il fatto che nella vec-
chia comune redazione della strofa si contrappongono prima èaexó<; e KaKÓq,
poi ò.^a.%òc, e KOKÓ^, dovechè nella mia ambedue le volte l'antitesi è tra
àyaeóq e KaKÓe;, con quanto maggior proprietà di lingua ed efficacia di stile
ognuno il vede.
- 160 -
strofa e della terza e le ultime tre integre, integre, s'intende
bene, pel concetto, elio quanto alla forma sono a farsi le debite
riserve, non solo pei quattro versi da me ricostruiti, ma anche
per parecchi altri più o meno racconciati da' miei predecessori.
Sono dunque perduti diciassette versi almeno. In una delle due
lacune, probabilmente nella prima (di dodici versi), trovavasi
l'apostrofe a Scopa e fors'anche un accenno al fallo o ai falli che
il poeta voleva scusare. Escludo ([uindi assolutamente «|ualsiasi la-
cuna così in princijiio davanti alla sentenza simonidea, come in
fine dopo rravTa toi KaXà kt\.
Per quanto poi sappiamo, questo carme non potè essere un
epinicio^ perchè non vi si parlava di vittorie; tanto meno poi
quell'epinicio, dove per lunga digressione celebravansi i Dioscuri
e al quale si riferisce la nota leggenda su la fine di Scopa e la
miracolosa salvazione di Simonide. Questo carme era quasi tutto
occupato nel confutare la sentenza di Pittaco (343 C, 344 B,
347 A). E non può quindi neppur dirsi propriamente un encomio,
perchè non è elogio, ma scusa di colpe o debolezze. Per conse-
guenza non è neppure un comos, come piacque chiamarlo alFHar-
tung, perchè tal vocabolo non potrebbe indicare, mi sembra, altro
che un epinicio in particolare o un encomio in generale. Il carme
ha per me, come pel Blass e per altri, tutta l'aria d'uno scolio,
a cagione anche della forma mouostrofica e del fatto che in ogni
strofa (per quanto appare dalle integre) si esplica tutto un con-
cetto, terminante con una spiccata sentenza. Cfr. quel che dice degli
scoli Ateneo (XV, 49) ed in ispecie le parole: KaXfiv bè laùtriv
(ujòfiv) èvófii^ov, tfiv TTapaiveaiv xé xiva Kal Yvuu|ur|v è'xeiv òo-
KoOaav, xP^c^iM^iv te de, xòv piov. Se la tradizione non ci ricorda
scoli di Simonide (tralascio, dissi, la questione dello scolio 8 Bgk*),
forse ciò avvenne perchè gli antichi grammatici nelle collezioni
non li distinsero dagli' epinici.
Bologna, agosto 1894.
L. A. Michelangeli.
21. 1. '95.
- 167 -
CONTRIBUTO ALLA QUESTIONE LICURGEA
La legislazione spartana e le tradizioni intorno alla persona del
presunto legislatore hanno esercitato in questi ultimi tempi l'in-
gegno di critici illustri e accresciuto di lavori veramente insigni
il patrimonio letterario sull'antichissima storia spartana. Ma le
conclusioni non ci sembrano in tutto sicure; specialmente quelle
del Wilamowitz e del Meyer (1), autori dei lavori più ponderosi
relativi a questo argomento. Ci dispenseremmo volentieri da una
disamina delle fonti e da una, sia pure sommaria, analisi della
costituzione, se fosse possibile trattare la questione concernente la
personalità del legislatore senza riguardo all'opera legislativa che
gli si attribuisce.
Plutarco {Ltjc.^ 1) ci attesta che intorno alla persona di Licurgo
e intorno al tempo in cui ha vissuto, niente si può dire di certo.
I più antichi autori che parlino di Licurgo sono Erodoto (I, 65)
e Simonide {Pluf., I), incerto se il poeta, come attesta esplicita-
mente Plutarco (Wilamowitz, p. 271), o il genealogo contempo-
raneo d'Erodoto {FHQ., II, 42), come sospetta Edoardo Meyer
(p. 276, n. 1). L'uno lo fa figlio di Agide e tutore del nipote La-
bota, l'altro lo dice figlio di Pritani, secondo re dopo Euriponte.
Senofonte lo pone nel tempo del preteso ritorno degli Eraclidi
(Lacedaem. Bespuhl, X, 8), Eforo (Strab., X, 481) fa di Li-
(1) Con la semplice indicazione Wilamowitz intendiamo riferirci all'ha;-
cursus delle Homerische Untersuchungen intitolato Lycurgos (p. 266-285);
coll'altra Meyer alla memoria Lycurgos von Sparta che si trova nelle
Forschurujen zur alien Geschic/de, p. 213-286.
— 168 —
curgo un Eiiripontida, sesto discendente da Prode e quindi tutore
di Carilao. Aristotele (Plut., I) dal trovarsi il nome di Licurgo
insieme con quello di Ifito in un disco rinvenuto in Olimpia, po-
neva il tempo di Licurgo al principio delle Olimpiadi (770 a. C.j,
con divergenza profondissima dai dati già discordi degli autori
sopra citati, poiché secondo la testimonianza di Senofonte, il
tempo di Licurgo cadrebbe almeno intorno al 1069, in cui Eforo
(Clem. a., Strom., I, r{37) poneva la migrazione dorica, come il
suo maestro Isocrate {Arcìiid.^ 4; De Pace^ 32); e secondo Eforo
(DiOD., VII, 14, 7) la legislazione di Licurgo cadrebbe neir869
(Meyer, p. 221 ; Busolt, Grieclmche Geschichte, P, p. 573, n. 8).
Sicché per risolvere queste difficoltà, Timeo di Tauromenio sup-
pose due Licurghi (Plut., I; Cicer., Z)e liepubl, li, 10), asserendo
che all'ultimo fosse stata attribuita l'opera non solo sua, ma anche
del più antico.
Queste sono le fonti principali per ciò che riguarda il presunto
legislatore, e, come si vede, nessuna di esse risale al di là del
quinto secolo, in cui non si può certo dire che la sua fama di
autore delle istituzioni laconiche godesse universale riconosci-
mento, se Ellanico di Mitilene, contemporaneo d'Erodoto, non fa
alcuna menzione di Licurgo (Strab., p. 366) e attribuisce a
Prode ed Euristene la legislazione spartana. Il silenzio di Ellanico
di Mitilene ha molto peso, anche ammesso che Erodoto gli sia al-
quanto anteriore; e invero nello stesso racconto erodoteo si scorgono
tracce d'incertezza sul significato della tradizione. In ogni modo
questa non era ancora sanzionata da un imiversale consenso, poiché
lo stesso Erodoto attesta che correvano due versioni differenti sul-
l'origine della legislazione spartana, l'una che la faceva risalire
all'oracolo delfico, da cui Licurgo l'avrebbe appresa, l'altra pro-
fessata dagli stessi Spartani, che Licurgo l'avesse importata da
Creta; nessuna meraviglia che ce ne fosse un'altra, secondo cui i
pretesi conquistatori Prode ed Euristene ne fossero gli autori, la
quale avrebbe seguito Ellanico.
Quale delle due tradizioni, quella dell'origine delfica o quella
dell'origine cretese delle istituzioni laconiche, può pretendere al
vanto d'una maggiore antichità? Secondo Erodoto sembrerebbero
— 169 —
due tradizioni l'una dall'altra indipendenti, essendo la seconda
accettata dagli Spartani, la prima da altri popoli, tra i quali sa-
ranno stati di sicuro i Delfi. Certo l'una e l'altra deve risalire a
un tempo più remoto del quinto secolo, avendo avuta probabil-
mente la sua origine nel periodo in cui erano incominciate le re-
lazioni tra Sparta e Creta da una parte, tra Sparta e Delfo dal-
l'altra. Plutarco {Lyc, VI) ci ha conservati due documenti che
ci permetterebbero di determinare in modo approssimativo, l'an-
tichità della tradizione delfica, se giustamente non si fossero
sollevati dei sospetti sull'autenticità di siffatti documenti, l'uno
la così detta retra, l'altro un frammento attribuito a Tirteo. 11
testo della retra conservatoci da Plutarco è il seguente : Aiò<s
CuXXaviou Kal 'A6riva(; CuXXaviaq lepòv ibpuaàinevov cpuXàq qpu-
XdHavxa Kaì \h^àc, LÙpdgavxa, xpiaKovia Yspouaiav aùv dpxaYe-
TttK; KaTacrTri(yavTa, ujpa<; èH wpa^ àTieXXd^eiv laexaHù BapùKaq
Kal KvttKiuJvoq, ouTuug eiaqpépeiv le Km dcpicnaaGar òdnip òè
làv Kupiav f)|uev Kai KpdToq. — al' òè (JkoXiòv ó ha.\xoc, eXoiTO, toùq
irpeapuTevéaq Kal àpxaYéiaq dTuoaTaTfipa? ^M^v. L'ultimo periodo,
secondo Plutarco, sarebbe un'aggiunta di Polidoro e Teopompo. 1
versi che Plutarco cita come di Tirteo, sono i seguenti :
0oiPou àKouaavxe^ TTuGotvóGev oiKaò' eveiKav
Mavreia? le 9eo0 Kal TeXéevx' enea •
"Apxeiv |uèv pouXfì^ GeoTiiuriTGu^ PacfiXnaq
Oi(Ji |uéXei CTTdpracj ijuepóeacfa ttóXk;
TTpeapuia? Te YépovTa<;, eireiTa òè òrmóia^ dvòpaq
CùGeiaiq prixpaiq dvTaTTa|ueipo|Liévou(;,
i quali sono riprodotti per avvalorar l'asserzione che Polidoro e
Teopompo avrebbero persuaso il popolo ad accogliere l'ultima
parte della retra, invocando l'autorità del Dio Apollo : onde pro-
prio i due re sarebbero stati gli ascoltatori dell'oracolo apollineo.
Gli stessi versi sì leggono in un frammento di Diodoro (VII,
14, 5), con la diiferenza che invece di essere attribuiti a Tirteo,
sono considerati come un responso della Pizia a Licurgo: onde i
primi due versi sono cambiati e sostituiti da questo distico:
- 170 -
Ari T«P «PfupÓToEo^ civaE éKdep'foq 'AttóXXujv
XpuaoKÓfin? f'XPn ttìovo? éE dbihou,
nej^li altri vi (■ (|nalche lezione diversa, e finalmente invece di
terminare col terzo distico, si prolunj^a la poesia ancora dei due
sef(uenti :
MuOeìaGai be tu KaXù kui epòeiv Travia biKaia
Mrjbe TI PouXeùeiv rribe ttóXei ((JkoXióv) (1).
Aninou Te 7TXri9ei vÌKr|v Kai KdpTOc tTrecrBai •
OoTpoq "fòp Ttepi Tuùv iLbe àveqpnve nóXei.
In che relazione stanno i due documenti ? È stata la retra l'e-
semplare 0 la parafrasi dei versi attribuiti a Tirteo ? Quale ac-
cezione deve darsi alla parola prjTpa che per Plutarco significa
addirittura responso ? 11 Gilbert {Studien zur altspartanischen
Geschichte, p. 121 sq.) e il Wilamowitz (p. 281) stanno per l'au-
tenticità della retra, attribuendo a questa parola il significato di
compromesso (Vertrag) che il primo vuol stabilire esservi stato
tra Agiadi, Euripontidi, Egidi ; il secondo tra re e popolo. Il
Meyer (op. cit., p. 265) contesta il senso dai prelodati critici at-
tribuito alla parola retra, la quale dagli stessi passi citati dal
Wilamowitz si potrebbe argomentare legittimamente che avesse il
significato di legge o decreto ; tuttavia, continua il Meyer, Plu-
tarco ha ragione nell'intenderla nel senso di responso, perchè
sempre questo significato le venne attribuito, non essendo essa di
origine laconica, ma delfica, come si scorge dal dialetto che è
quello delfico più recente (ibid., p. 267) (2). Resta a vedere se ai
(1) L'opinione del Wilamowitz (p. 282, n. 18) che nella vulgata nr\bé ti
èmPouXeùeiv rriòe iróXei vi sia una parafrasi in prosa, non mi sembra ac-
cettabile.
(2) Altre considerazioni sconsiglierebbero di accogliere l'interpretazione
del Wilamowitz. Primieramente è sempre un controsenso, che essendo i re
gli àpxayéxax, di uno di essi potesse dirsi che convocasse l'adunanza avendo
stabilita la gerusia con gli àpxayéTai ; non è già vero che « die erwàhnung
der àpxayéTai daneben kann in der alten urkunde nicht befremden » (Wi-
LAM., p. 281). In secondo luogo ammesso che il significato del verbo Ka0-
- 171 -
versi sopra ricordati si può continuare a riconoscere la paternità
di Tirteo. Innanzi tutto difficilmente si può mettere in dubbio che
la citazione di Plutarco sia la riproduzione più fedele e genuina,
mentre quella di Diodoro è un travisamento fatto meno per
esercitazione letteraria che per fine politico (Meter, op. cii,
p. 228 sq.). Il Meyer li ritiene apocrifi (op. cit., p. 229), ma, a
parer mio, solo per effetto di ipercritica e di rigore sistematico.
Innanzi tutto lo stesso fatto che a Polidoro e Teopompo è attri-
buito l'accorgimento di far ratificare dall'oracolo la costituzione
spartana, mostra almeno l'ignoranza delle relazioni di Licurgo con
l'oracolo delfico, difficilmente concepibile in uno scrittore poste-
riore ad Erodoto: ciò vide bene l'autore da cui ha attinto Dio-
doro, il quale ravvisando nel contenuto dei noti versi la materia
del responso che Licurgo poteva avere avuto dalla Pizia, fece le
alterazioni di cui abbiamo sopra fatta menzione. I versi che vanno
sotto il nome di Tirteo sono in ogni modo anteriori ad Erodoto ;
perchè allora negarne a Tirteo la paternità? Essi attesterebbero
adunque una tradizione vigente nella stessa Sparta di una dipen-
denza della legislazione spartana dell'oracolo delfico ; senonchè gli
Spartani credevano che le loro leggi fossero d'origine cretese. Ma
laxdvai non possa essere altro che quello di instaurare, facendo soggetto
non Licurgo, ma il re, le difficoltà rimangono sempre. Infatti, dice il Wila-
mowitz: « wer aber ist vorher subject in cpuXàq fpuXaSavxa Kxé.^ Lyciirg
meint Plutarch und wol Aristoteles, aber konnte der Oùpaq èì a)pa<; die
executive haben ? denn diese, gebunden an die vorher gestellten bedin-
gungen, darunter die einsetzung des rates, ist in den worten, was sie
auch im einzelnen bedeuten, unverkennbar. was hier bestimmt icird, ist
nicht die massregel eines tages, sondern die grundlage fùr alle zeit ».
Ma il principio della retra (Aiòq CuXXaviou koì 'AGrivaq CuXXavia<; iepòv
lòpuaà|aevov) mostra che l'autore voleva precisamente riferirsi a un singolo
momento. L'indicazione oipaq èS oipat; esprime un cambiamento nell'ordine
dei pensieri, o, ciò che è più probabile, contiene non un'incongruenza, ma
una brachilogia di questo pensiero espresso così nel suo giro naturale:
« Avendo fondato il tempio di Giove Sillanio e di Atena Sillania e diviso
il popolo in tribù e in obe, nonché costituita la gerusia, la quale con gli
archageti deve constare di trenta persone, convocò il popolo in adunanza.
Quest'adunanza si faccia in tempi determinati nella località tra Habice'e
Gnacione, etc. ».
- 172 —
la testimonianza d'Erodoto concerne le circostanze del quinto se-
colo, in cui una tradizione d'orif,Mne renoota poteva essere stata
sopraftatta ed oblitterata, nella città in cui era sorta, mentre era
nella possibilità di durare presso altri popoli della Grecia, fatto
tanto frequente nella storia, che ogni dimostrazione è superflua.
Vero è che un'altra diffinolfà j)otrehbe sorgere nella considerazione
che non vi si fa alcuna menzione dell'eforato, mentre è accertato
che nelle colonie di Sjiarta, mandate molto tempo prima della se-
conda guerra messenica, come Tera ed Eraclea, colonia di Ta-
ranto, l'eforato vi era come nella madre-patria (Busolt, Griech.
GeschicJite, P, 557). Ma la potenza degli efori non è stata sempre
identica in tutti i tempi, e perfino in principio del quinto secolo
constatiamo una forza preponderante nel potere regio (Hkkod.,V, 51):
sicché nel noto frammento attribuito a Tirteo si può non far
menzione dell'eforato per due ragioni : o perchè questo risen-
tisse ancora dell'umiltà dei suoi principi o perchè tentasse di so-
verchiare il potere regio, del quale Tirteo sarebbe stato fnutore.
La seconda ipotesi è più probabile, poiché la diuturnità delle
guerre messeniche costringendo i re a stare molto tempo lontano
dalla patria, gli Efori potevano nell'assenza di essi esercitare delle
prerogative sovrane, alle quali difficilmente s'inducevano a ri-
nunciare quando le cose tornavano allo stato normale. Per queste
considerazioni mi sembra sufficientemente dimostrata l'autenticità
della Ka\ou|uévri eòvojuia, come la designa Plutarco ; se la retra
è redatta nel dialetto delfico più recente, è chiaro che è una fal-
sificazione condotta sulla falsariga dei versi di Tirteo. Cade quindi
da se stessa l'ipotesi del Wilamowitz (p. 282) che siano i versi
di Tirteo un' « Umschreibung der priipa ». Ammettendo l'auten-
ticità dell' eìivo|airi, consegue che almeno nella metà del VII secolo
l'origine della legislazione spartana era stata già in qualche modo
connessa coll'oracolo delfico. Con ciò non si vuol recisamente af-
fermare che la leggenda della derivazione delle leggi spartane da
Creta sia posteriore, poiché la relazione tra Sparta e Creta è an-
tichissima, non potendo venire negata la realtà storica del tra-
sferimento di Taleta Gortinese a Sparta, a un dipresso al tempo
della seconda guerra messenica. Ma é questa una questione secon-
- 173 —
darìa, poiché la tradizione dell'origine delfica è un aspetto parti-
colare d'un'altra tradizione di più grave significato.
L'esame del carattere intrinseco dell'una e dell'altra tradizione
ci mette in grado di apprezzare il loro valore e determinare come
si sono formate. Kivolgiamo l'attenzione alla leggenda dell'origine
cretese. L'idea che l'istituzioni d'un paese possano senz'altro venir
trapiantate in un altro e quivi immediatamente adattarvisi, se
aveva presso gli antichi dei patrocinatori, non troverà più al giorno
d'oggi chi l'accolga senza diffidenza : la somiglianza va la mag-
gior parte delle volte spiegata o come effetto dell'identità di cir-
costanze avveratesi presso i due popoli o della comunanza di
stirpe.
Il congegno politico dello stato lacedemone, consistente nella
contemperanza di poteri tra i re, la gerusia, l'apella, come ognun
vede, ha il suo antecedente nelle consuetudini dell'epoca omerica,
in cui il potere regio era fino a un certo segno limitato dal con-
siglio degli anziani (pouXn) e dall'assemblea popolare (dxopà) ;
l'eforato era sul principio, come abbiamo visto, una magistratura
secondaria e probabilmente, come ci fa sospettare l'etimologia,
fornita solo di attribuzioni poliziesche. Quanto all'organamento
sociale, esso, più che le stesse istituzioni politiche, è necessaria-
mente il frutto del processo storico e delle tendenze inerenti alle
peculiari qualità del popolo in cui si riscontra: onde l'ipotesi della
importazione è ancor meno verisimile. A Creta come a Sparta
troviamo la PouXrj e il òn|uoq {CIG.^ 2558 eòoHe idi PouXai Kaì
TUJi bd)Liuji) corrispondenti alla gerusia e all'apella spartana, e molto
probabilmente anche in Creta doveva esserci una volta il potere
regio (Her., IV, 154; Arist., Poi, li, 7, 3, p. 1272 a, 8 PaaiXeia
TTpóxepov |ièv fjv, eira KaxéXuaav oi Kpnieq): ma nessuno di questi
organi della vita politica ha qualche carattere spiccatamente pro-
prio d'una determinata comunanza civile. Inoltre gli efori sono a
torto da Aristotele (Po^i7., II, 7, 3)paragonati ai KÓaiiioi di Creta
(Hermann-Thumser, Lehrhuch d. griech. Staatsalterthumer, p. 138),
se anche queste due magistrature in tempi più recenti tra di loro
si somigliano per la natura delle loro attribuzioni. Infatti quelli tra
i cosmi che avevano irreprensibilmente esercitato il loro ufficio,
— 171 —
entravano a far parte della pouXn, a quel modo che in Atene
gli arconti scaduti d'ufficio entravano a far parte del tribunale
dell'Areopago; gli Efori invece furono sempre una magistratura
caratterizzata da un certo isolamento dalle altre. In Creta v'erano
le eterie simili alle sissitie di Sparta; ma la doricità dell'uno e
dell'altro popolo basta a spiegare la somiglianza delle istituzioni.
Lo stesso dicasi dell'impronta militare del sistema d'educazione
della gioventù, vigente a Creta e a Sparta, che più d'ogni altra
cosa presenta significanti analogie tra le abitudini d'un jiopolo e
quelle dell'altro. Esclusa la probabilità d'una propaggine da Sparta
a Creta, come volevano alcuni storici (Stkah., p. 481), o viceversa,
come era comune tradizione presso gli Spartani, difesa da Eforo
(Sthab., ibid.) e da Aristotele (PoZ?7., II, 7), dobbiamo ammettere
che la leggenda dell'origine cretese delle istituzioni spartane sor-
gesse quando gli Spartani, notate le somiglianze sopra accennate,
vollero assegnarne le ragioni. Essa è quindi d'origine erudita, non
è il prodotto della fantasia popolare. Ammessa l'indipendenza nello
svolgimento degli ordinamenti politici e sociali laconici e cretesi,
viene anche esclusa l'opera consapevole d'un singolo individuo. E
infatti di tutte le istituzioni attribuite a Licurgo non ve n'è una
sola che possa pretendere proprio al nome di legge come quelle pei
delitti di sangue di Bracone o quelle d'indole economica di Solone.
E delle leggi di Dracene e di Solone si aveva notizia, e anche al
tempo storico i testi si conservavano ; di Licurgo si sapeva che
non aveva scritta alcuna legge (Plut., Lycurg., Xlll), né a Sparta
vi era nel governo altra norma che quella della consuetudine (Wi-
LAMOWITZ, p. 275 seq.). Inoltre, come attesta Plutarco, riguardo alla
persona di Licurgo tutto era incerto. Non di rado avviene nella
storia che certi personaggi ci si presentino con tale incertezza di
contorni e con tale indeterminatezza di circostanze che si dispera
poterne ricostruire la figura: purtuttavia non si può negare la loro
realtà, come è il caso di Pitagora, di Epimenide e di altri anche in
tempi meno antichi. Ma di tutti, più o meno, autori contemporanei
0 di poco posteriori attestano l'esistenza. Quanto a Licurgo invece, noi
non abbiamo alcun autore più antico di Erodoto, o, se nel Simonide
citato da Plutarco si vuol riconoscere il poeta, di Simonide. La
- 175 -
stessa elasticità di computi cronologici e di induzioni genealogiche
è una prova troppo evidente, che se Erodoto e Simonide non sono
gli autori più antichi che di Licurgo abbiano fatto menzione, non
debbono avere avuti molti precursori. Abbiamo già visto che Tirteo
mette in bocca ai due re il responso della Pizia ; se l'Eunomia
di Tirteo aveva scopo polemico, quale piìi bella opportunità che
appellarsi all'autorità del grande legislatore ? Ellanico, come già
abbiamo visto, non nomina Licurgo; il responso dell'oracolo rife-
rito da Erodoto (1, 65), in cui il Dio dubita se debba designare
Licurgo come Dio o come uomo (Ai^^iu fi ere 6eòv |LiavT€Ù(Jo|aai
fi dv0pujTTOV — ÓW è'xi fidWov Geòv eXiioiiiai, iL AuKÓopYe) con-
tiene più una questione da risolvere che un aiuto per distrigare le
difficoltà della ricerca. Secondo il mio avviso, questo responso è
stato solo più tardi connesso — e abbastanza meccanicamente —
colla leggenda che Licurgo si recò a Delfo per avere la rivelazione
0, come si credè più tardi (Xenoph., Besp. Lacedaem., Vili, 5),
la sanzione del cosmos; una volta doveva non avere con esso al-
cuna relazione: altrimenti, per quanto il linguaggio cresmologico
potesse essere oscuro o involuto, un accenno alla ragione per cui
Licurgo si era portato al tempio d'Apollo non sarebbe potuto es-
sere risparmiato. Se l'oracolo esisteva una volta indipendentemente
dalla tradizione della visita di Licurgo al santuario collo scopo
di interrogare il Dio sulla costituzione da darsi a Sparta (èm xò
XPTi<JTripiov), si può inferire che al tempo in cui fu coniato il
responso, regnasse veramente incertezza, se Licurgo fosse un Dio
0 un uomo. Nel quinto secolo adunque si cominciò a riguardarlo
come un personaggio storico e il fondatore delle istituzioni spartane.
Licurgo è pertanto un eroe come Teseo, Bellerofonte, Achille :
l'opinione che sia un personaggio storico è purtroppo con critico
anacronismo professata ancora da qualche dotto (Hermann-Thumser,
op, cit., p. 148), quasi sopravvivenza della vecchia ermeneutica
dei miti nella critica storica moderna (1). Il Licurgo, il cui nome
(1) Non abbiamo lette tutte le memorie speciali che si riferiscono alla persona
e all'opera di Licurgo, ma da quello che ci è riuscito di apprendere di seconda
mano, sembra che gli argomenti non siano gran fatto né nuovi né gravi. Gre-
— 176 —
Aristotele attesta che si leggeva insieme con quello d'Ifito nello
scudo trovato ad Olimpia, non v'è ragione di supporlo identico al
legislatore spartano (Wilamowitz , op. cit., p. 284); inoltre né
rifito nò il Licurgo menzionati nell'iscrizione del disco d'Olimpia
si possono ritenere personaggi storici.
Se Licurgo è un eroe, deve essere un tempo stato riguardato
come un Dio(l): e da qualche Dio si solevano derivare le legis-
diamo opportuno toccare di volo l'opinione dell'Holm (Griechische Geschichte,
1, p. 225), il quale insiste sull'intrinseca probabilità dell'esistenza di un legisla-
tore che avesse dato un assetto alla costituzione spartana. Ma non va dimen-
ticato che nelle questioni storiche, raccertamcnto delle fonti e la valutazione
della loro credibilità, è la prima condizione per pronunciare un giudizio fondato.
Pertanto se si può ammettere o congetturare che un autore recente abbia
attinto a una fonte antica, la sua aflermazione può avere sempre qualche
peso; ma quando si può dimostrare che le fonti più antiche sono sempre
troppo recenti rispetto all'avvenimento che narrano per potere ritenere che
se ne sia potuta conservare inalterata la memoria, bisogna concedere al-
meno che dei gravi travisamenti abbiano snaturato i veri lineamenti della
più vetusta tradizione. Quando poi si può dimostrare che .questa antica tra-
dizione nemmeno esisteva, non veggo come si possa salvare l'autorità della
tradizione recente. Nel corso del nostro ragionamento abbiamo rilevato che
Tirteo non conosceva Licurgo e che Ellanico, se ne ha avuta notizia, non
lo ha certo considerato come legislatore di Sparta : abbiamo notate le diver-
genze cronologiche profondissime tra gli scrittori dell'antichità, che imba-
razzarono anche Timeo. Di quale personaggio storico, di cui la figura è an-
nebbiata dalla leggenda, come Pitagora, Epimenide, e altri si può dire
altrettanto? Io non vedo perchè se si ritiene come storica la persona di
Licurgo, non si debba per ragioni di coerenza pensare lo stesso di quella
di Minosse : a questa conseguenza i critici conservatori sfuggirebbero di
certo perchè il carattere mitico della figura di Minosse è troppo evidente ;
ma errore gravissimo di metodo nella critica è quello di discernere l'ele-
mento mitico dallo storico col criterio della verisimiglianza teorica delle cose
narrate.
(1) Affinchè non paia soverchiamente recisa quest'affermazione, mi sembra
opportuno esaminare l'ipotesi del Gelzer, che dà una spiegazione tutta sua
del mito di Licurgo, esposta con molto rigore di critica e copia di argo-
menti tratti dalla storia. Egli nella sua memoria Lycurgos und die del-
phische Priesterschaft (Rheinisches Museum, XXVIIl, 1 sq.) ritiene che
AuKoOpyoi; non sia altro che un titolo ieratico, una designazione del capo
d'un 'associazione sacerdotale chiamata dei AuK0upYÌÒe<;, il quale sarebbe stato
considerato come un'incarnazione {Menschwerdung) d'Apollo. Egli si ap-
poggia al fatto che nell'antichità si credeva all'incarnazione degli dei in
-^ 177 —
lazioni in varii paesi, come a Creta da Zeus, rappresentando l'o-
pera di Minosse un aspetto diverso della stessa concezione. Licurgo
era appunto in origine una divinità, né è solo fortuita l'omoniniia
con altri eroi che conosciamo dai poeti e mitografi antichi. Licurgo
in Omero {Z, 130 sg.) è fatto figlio di Driante, che, secondo alcuni,
(Preller, Griech. Mythol.,1^, p. 688) rappresenta il Dio delle selve,
certi uomini, come Epimenide (Jamblich., Yita Pythag., \'.^\ Porphyr., Vita
Pythag., 29; Diog. Laert., 1, 114; Hermipp., Frgm. 18 = FHG., Ili, 40; lY,
p. 162; Diog. Laert., 1, 109, 11.5; Strab., X, p. 472), ed Aristea chiamato da
Erodoto (IV, 13-15) qpoipóXaiuiTTOc;. Per quest'incarnazione, secondo il concetto
degli antichi, era adatta soprattutto la persona dei sacerdoti, i quali dive-
nivano cosi veri intermediari della divinità^ dall'idea di intermediarietà, si
svolse quella di rappresentanza, come lo prova il fatto che i sacerdoti in-
dossavano abiti che alle loro divinità si addicevano. I sacerdoti d'Apollo
chiamati AuKoupTì^ec; sarebbero stati anch'essi incarnazioni successive di
queste divinità; al loro eponimo AuKoOpYoq si sarebbe in seguito attribuita
l'azione secolare del consorzio. « AuKoOpYO^ ist nicbt der historische Name
einer einzelnen Persònlichkeit, sQndern ein hieratischer Ti tei. Auf dieseu
Namen erscheint gehàuft, was das Werk einer priesterlichen, mehrere Men-
schenalter hindurch wirkenden Genossenschaft war. Ihr Vorsteher hiess Ly-
kurgosd. h. einebestiramte Reihenfolge von Oberpriestern betrachteten sich
als Mense hwerdungen ApoUos und kraft dieser halbgòttlichen Stellung, welche
Delphis Autoritàt ihnen gewàhrte, gelang es ihnen, das spartanische Gemein-
wesen volkommen umzugestalten und aus einem rohen Kriegerstaat mit Faust-
recht ein geordnetes Staatswesen, eine TToXiTeia mit geheiligten Satzungen
zu schaffen ». La natura sacerdotale di Licurgo il Gelzer la scorge anche
nella leggenda di Alcandro che dopo avere cavato un occhio a Licurgo fu
posto al suo servizio : la servitù è un tratto spiccato dei miti solari come
Apollo ed Ercole : onde Alcandro simboleggerebbe la divinità. Inoltre il
Gelzer vede nella collaborazione di Artmiada insieme con altri compagni
adombrato il sodalizio sacerdotale, e un sodalizio vede significato nelle pa-
role di Plutarco {Lyc, XXXI;: oi ò'éTaìpoi Kaì oìkéIoi òiaòoxnv riva
Kol auvobov ètri -rroXXoùc; xPÓvou<; bianeivaaav KaxéoTriaav xaì toc; J^^epac;
èv 01^ auvfipxovTO AuKOupTibciq iTpoar|YÓp€uaav. La parola òiaòoxn, egli
osserva, designa la successione dei re e sacerdoti, in Sparta il sacerdozio
era ereditario come le altre professioni (Herod., VI, 60; Athen., II, 39; IV,
173). Licurgo finalmente è rappresentato come fratello del re : circostanza
che secondo il Gelzer si spiega con l'anacronismo commesso riferendo a
tempi preistorici le circostanze di tempi storici, poiché l'uso di investirò
della dignità sacerdotale il più prossimo "parente del re vigeva in molte
città greche e non greche (Plutarch., De fraterno amore, 21, p. 596;
Quaestion. jRowan., 113, p. 359; Movers; Phonizier, 11,553-545; Apollod.,
Ili, 15, 1). Questi sono i principali argomenti del Gelzer. Ora per dimostrare
che nella persona di Licurgo si debba ravvisare un'incaniaziune del dio
RivitUt di jilologia, ecc., 1. 12
— 178 —
ricovero dei lupi. Altrove Omero (H, 142 sg.) parla di un Licurgo,
re arcadico, al quale sembra convenire la qualità di Xùkou òpTn :
il Meyer (op. cit,, p. 28) e il Wilamowitz (op. cit. p. 285) ne fanno
un sdoppiamento di Giovo Liceo, nel quale per ragioni eziologiche
si sarebbe visto originariamiìnte Giove che prende la figura del
lupo. Ma se a ragione il Meyer (1) condanna l'opinione del Robert
Apollo nel suo sacerdote, gli esempi di l^pirnenide, di F^itagora, di Aristea
possono venir prodotti come una prova sussidiaria, per segnalare la possi-
bilità della credenza in tali incarnazioni. L'incarnazione di Apollo nel suo
sacerdote poteva venir creduta più che quella in qualunque altro indi-
viduo, è vero: ma lo stesso fatto che esisteva un tempio proprio per Licurgo
(Herod., I, 66: Ei'HOr. apud Strabon., Vili, '.Wì; Nicr>L. Damasc, FHG.,
Ili, ;590; Aristot. apud Plutarch., Lycurg., \iì ; Pau.s., IH, 16, 6; Epictet.,
Fragni. 44 ; C/G., 1341, 1256, l!i46) prova che Licurgo era concepito, ab
antiquo, come una divinità, e che i sacerdoti erano addetti proprio al suo
culto. Confesso di comprendere difficilmente che possa esistere un sodalizio
sacerdotale per un culto scaturito proprio dalla natura di questo sodalizio.
Inoltre la leggenda d'Alcandro ha un fondamento razionalistico per spiegare
la monoftalmia del legislatore, e si prestava inoltre a spiegare l'uso presso
gli Spartani di presentarsi nell'assemblea senza bastone ; essa ha natura
etiologica, poiché in origine si credette che Licurgo avesse perduto l'occhio
per una violenza (à\Kr)); quindi la servitù d'Alcandro, .se pure non ha un
riscontro solo fortuito con quella di Ercole e di Apollo, difficilmente appar-
tiene allo stadio primitivo del mito. La personificazione d'Artniiada è mito
etimologico, che data da un tempo non anteriore alla credenza in Licurgo
legislatore : quasi certamente è uno sdoppiamento dello stesso Licurgo, come
Eunomo ed Eucosmo. Se Licurgo è stato rappresentato come fratello del re,
la spiegazione più ovvia si deve ricercare nell'origine recente del mito. Di
Minosse si credeva che èvveojpòt; paaiXeue Alò; luc-faXou òapiaTn<;. perchè
nessuna tradizione genealogica di famiglie regnanti impediva che fosse con-
siderato come re; ma al tempo in cui avvenne l'incarnazione di Licurgo,
la lista dei re era già formata, e non si trovò quindi altro espediente per
attribuirgli l'azione riformatrice che considerarlo come iTrirpoiro^.
(l) Gfr. § 61, n. 3: « \uKa-io<;, XuKd-ujv. XuKri-T€vn<;i XuKà-3a<; sind Ab-
leitungen von dem verschoUenen Namen XOko (X\}Kr\) « Licht » (Tag ?) und
haben mit Xuko-<; (von dem z. B. XuKÓ-opYo<; stanimt) nichts zu thun. Mit
Unrecht meint Robert bei Preller, P. 127, 2, Lykaion kònne « Wolfs-
berg » bedeuten. — Aukó-ujv wie Móxó-ujv ». Gfr. Geschichte des Alter-
thums, II, § 92: « Auch den Griechen ist er zunàchst der Himmelsherr,
der auf jedem Berggipfel thront, zugleich der Gott des ewigen Lichtes, in
dessen Bezirke auf dem « Lichtberg » Lykaion in Arkadien kein Schatten
fàllt, und der Wolkenkònig, der den Regen spendet, die Mutter Erde um-
armt und befruchtet, im Gewitter einherschreitet, die Blitze schleudert, das
furchtbare Wolkenfell, die zottige Aegis, den Feinden entgegenschùttelt ».
— 179 -
(Preller, Griech. Mythoì.^l^^ p. 127, n. 2), secondo il quale AuKduuv
deve essere derivato proprio da AuKoq, difficilmente si potrà con-
sentire con lui quando crede che la formazione AuKÓopTO<s presup-
ponga già la falsa etimologia Aukóiuv da Auko^ ; l'etimologia di
Omero non prova nulla, o solo l'autenticità della falsa interpreta-
zione. Nel nome AuRÓopyo? è originaria la nozione di « Dio della
luce », come ci è dato scorgere da uno spiraglio, il quale attra-
verso le successive stratificazioni lascia intravedere il carattere ori-
ginario della concezione mitologica. Licurgo è rappresentato come
monoftalmo ; della leggenda dell'aggressione di Alcandro (Plut.,
Lycurg., XI), che gli avrebbe cavato un occhio, ne abbiamo già
visto pili sopra il significato. La monoftalmia è uno dei tratti
più significanti delle divinità solari, p. e. dei Ciclopi; se dunque
fosse una neoformazione sul mito di Aukóujv alterato per la falsa
interpretazione etimologica, non potrebbe assolutamente avere
questa nota propria delle divinità solari, poiché certi caratteri
si spiegano solo ammettendo l'immediata traduzione del feno-
meno cosmico in concezione antropomorfica, come notiamo nella
tradizione della discesa di Ulisse all'inferno, nella dimora presso
la ninfa Calipso e presso il re dei Feaci. V'ha ancora di più: nella
morte d'inedia che si attribuisce a Licurgo mi sembra di scorgere
il riflesso del fenomeno del tramonto del sole. Lo stesso genere
di morte si narra che facesse Zaleuco di Locri che è anch'esso
certamente una figura mitologica (Beloch, Griechische Gescìdchte,
I, p. 306, n. 3); se anche a Caronda e a Diocle venne attribuita,
non s'ha da vedere altro in questi doppioni che un'applicazione
estensiva. In una parola Licurgo non dovea essere altro originaria-
mente che un epiteto del Sole, e forse la forma originaria era
AuKÓepToq. L'identificazione con Apollo era facile (1), perchè
suggerita dal significato trasparente dell'uno e dell'altro mito.
(1) Le denominazioni di 0oìPo<;, AuKri'fevrit;, AoEiat; non erano in origine
attributi di 'AttóWujv; rispetto alla natura originaria del quale — benché in
tutti i particolari non si possa consentire senza riserva — cfr. Meyer, Ge-
schichte des Alterthums, II, § 64, 69. Pertanto ritengo che Licurgo fosse
originariamente una divinità solare per sé stesso, non designasse gih un
semplice attributo di qualche dio della luce.
— ÌHO —
Bencliè Apollo uoii fosse dio particolare della stirpe dorica come
da Ottofredo Muller (Die Dorier, I, p. 250 sg.) è stato sostenuto, il
culto d'Apollo, panellenico da tempi remotissimi, ebbe in paesi
dorici notevole incremento; in l^ìndaro (Pi/th., V, 80j troviamo ac-
cennato ad un'opinioiK' (litlìisa che Apollo l'osse rapxa"féTa<; della
colonia di Cirene. 1 Dori dell'esapoli nell'Asia Minore (Herod., 1,
444) avevano un santuario comune di Apollo come protettore della
loro confederazione sul promontorio Triopio. Lo stesso culto tro-
viamo a Uodi (FoucAitT, Inscript. ff. l'ile de Jihodes, Oó) e in Ali-
carnasso (67 (?., 2655). Si può quindi ritenere molto probabile che
un 'AttóXXujv AuKÓopTO^ fosse venerato a Sparta e, assimilato ad
'AttóWujv AÙKeio<;, da esso si ripetessero le istituzioni spartane.
Infatti nell'oscuramento della più vetusta tradizione e nel generale
travolgimento dei concetli mitologici, non sono scomparse tutte le
tracce delle jiiù antiche concezioni. L'antica tradizione nella sua
forma più genuina attesta che Apollo stesso fu l'ispiratore, anzi il
rivelatore del cosmos, poiché nella versione senofontea si deve ve-
dere solo un adulteramente suggerito dalla necessità di conciliare
notizie tra loro ripugnanti. Licurgo che apprende le leggi da
Apollo fa troppo significante riscontro con Minosse che le apprende
da Giove, perchè si possa negare l'analogia nel processo di for-
mazione delle due leggende. La connessione coll'oracolo delfico è
secondaria e dovuta al tempo dell'incremento e del prestigio del
santuario più riputato del Dio: ma essa fu occasionata dalla per-
suasione che Apollo fosse il fondatore delle istituzioni spartane.
Ma il Licurgo spartano non ha alcuna relazione col Licurgo
arcadico (Pausan., Vili, 4; V, 5) e col Licurgo di Nemea {Argum.
Pindar. Nem.; Pausan., II, 15, 3 ; Apollod., I, 9, 14; 111, 6, 4),
ambedue connessi col culto di Giove (Wilamow., p. 285) ? La
stirpe dei Butadi in Atene, in cui era frequente il nome di Li-
curgo, era legata al culto di Giove (Wilamow., ibid.). Le stesse
ragioni geografiche persuaderebbero l'identità della persona del
legislatore spartano con quella dell'eroe arcadico e nemeo. Non
oserei negare recisamente ogni parentela ; chi ritiene come mitica
la migrazione dorica, si trova nel caso di ricorrere all'espediente
di supporre nella leggenda di Licurgo un innesto indigeno nelle
— 181 —
tradizioni della stirpe invaditrice (Meyer, p. 282). Una parentela
quasi di sicuro vi è tra questi eroi omonimi, anzi sono origina-
riamente identici. Ma né il Licurgo arcadico né il Licurgo nemeo
possono ritenersi veri e propri sdoppiamenti di Giove Liceo, come
il Licurgo spartano non é un vero e proprio sdoppiamento di
Apollo (vedi sopra) bensì, come abbiamo già visto, solo un'assi-
milazione a questa divinità. E poiché le vicende dei miti variano
secondo i paesi in cui si svolgono, essendo subordinate alla for-
tuna che vi trovano altri miti indigeni o esotici, a Sparta Licurgo
fu identificato con Apollo ; in Arcadia, nell'Elide, in Nemea, dove
era diffuso il culto di Giove Licaone, la connessione dell'eroe col
dio venerato nel Peloponneso fu agevolata dal fatto che le due
denominazioni Aukóuuv e AuKÓopTo? si prestavano alla falsa in-
terpretazione etimologica, per la quale si vide nel primo elemento
dell'una e dell'altra parola non già la radice \uk indicante splen-
dore, bensì il sostantivo Xuko(;.
Kieti, agosto 1894. Vincenzo Costanzi.
4. 2. "95.
EURIP. ANDROMACH., 194 sq.
ójq r\ AaKaiva tuùv Opuyujv jneiaiv ttóXk;,
Tuxri G' \jTrep6eT Kai /a' éXeuGepav ópaq;
Chi abbia vaghezza di conoscere i molti tentativi fatti per emen-
dare il secondo verso (il primo non ha bisogno di emendazione),
potrà vederli nel Lentig, nel Koerner, nel Matthine, etc. e nel
libro recentissimo, e pieno di buone osservazioni, dell'Holzner (Stu-
dien 2u Eur., Wien-Prag [Tempsky] 1895, p. 14). Una incerta
glossa di Esichio non mi tratterrà certo dal mutare 0YTTEP0GI
in CYnopeei, cioè
Tuxi] Ov rropBrì Kà)Li' èXeuGepav òpac, ;
Che TTopGoO)Liai possa essere così adoperato, anche senza un ùx;
eìrreiv èTTO(; ^cfr. Aesch., Pers., 716Weck.), mi basta che resulti
da Eur., Phoen., 505 e Iph. Taur., 302.
G. VlTKLL[.
- 182
SUI FRAMMENTI
DEGLI « KKOTOPAEGNIA » DI LAEVIUS
1. — L'età in cui fiorì il poeta Laevius (incerta come ogni altra
cosa che riguarda questo dimenticato poeta) fu già dal Weichert,
in uno di quei suoi diligenti ed eruditi lavori sui poeti latini
frammentarli (1), determinata con grande probabilità e con buoni
argomenti, ai quali poco o nulla aggiunsero quelli che vennero
dopo. Laevius sarebbe cosi da collocarsi nel periodo che corre tra
l'età di Lucilio e quella di Cicerone.
Delle sue poesie noi non possediamo che pochi frammenti
monchi od inintelligibili, che i grammatici latini ebbero la bontà
di conservarci per qualche parola oscura o rara che vi si trova,
e di cui dovevano essere ben fornite, a quanto pare, le sue poesie.
Incontriamo anche talvolta presso di loro il titolo di una sua
opera (l'unica ?) « Erotopaegnion » che constava per lo meno di
sei libri (Chakis., 204, K.). — Che sorta di lavoro fosse questo
bisogna sforzarsi di indovinarlo più che altro dal titolo stesso,
poca, pochissima luce fornendoci in proposito gli scarsi frammenti
riferiti ad esso.
Questo titolo è greco: il porre in fronte ad un'opera latina un
titolo greco è un vezzo di cui si piacquero poi altri poeti latini
di grido (v. Gell. praef., 6-10). È un titolo che suona un po'
strano e fa con ragione subodorare l'imitazione alessandrina. Tra
gli alessandrini infatti era di moda il dare dei titoli nuovi, in-
gegnosi-alle raccolte di poesie, e TraiTvia ricorre più di una volta
presso di loro ad indicare delle poesie leggiere, giocose. Di Fileta
p. e. si citano dei FTairvia (fr. 1, 2, 3, 9, 10 Bach). Il cinico Cka-
(1) Poètarum latinoì'um vitae et carminum reliquiae, scripsit collegit et
edidit AuG. Weichert. Lipsiae, !MDCCCXXX. p. 19-88.
— 183 —
TETE di Tebe (Laert. Diog., VI, 85) scrisse dei TraiTVia di contenuto
morale e satirico in vario metro (saiurae le chiama Apul. Flor.,
20, Kkììger). — Dello stesso genere sembrano anche i TraiYvia
di MoNiMO di Siracusa, filosofo della stessa scuola (cfr. Susemihl,
I, p. 30,31). In un epigramma di Hedylos conservatoci da Ath.,
IV, 176, fZson chiamate |LiejLie6ua|uéva rraiTVia le poesie di Glauco
di Ohio. (Si ricordi che Catullo chiamava le sue poesie nugae (I, 4
Schulze), inepiiae (14, 24).
Erotopaegnion ('EpuuTOTTaiTviujv) verrebbe dunque a significare
scìiersi amorosi o poesie scherzose e d'amore. I critici son con-
cordi nel ritenere che si tratti per l'appunto di brevi poesie d'ar-
gomento leggiero e scherzoso, in cui ci doveva essere un po' di
tutto, precisamente come negli epigrammi alessandrini.
Si sa che nell'età ellenistica l'epigramma era diventato press'a
poco quel che è presso di noi il sonetto: una sorta di passatempo
letterario, in cui tutti i pensieri e i sentimenti, che si prestavano
ad esser rinchiusi nel breve giro di pochi versi, trovavano la loro
veste più adatta. Le allusioni a persone e ad avvenimenti del
giorno vi ricorrevano (li frequente. — Predominavano però, si ca-
pisce, gli argomenti amorosi — l'amore è l'anima della poesia
alessandrina — e in essi spesso la lubricità dei concetti andava
di pari passo colla licenziosità della forma. Traccie di allusioni a
cose e persone dei suoi tempi si scorgono di fatti qua e là in qualche
frammento degli Erotopaegnia di Laevius (1); per es. nel fr. 23
(Baehrens), dove ci è un motto sulla lex Licinia del 651/103, e nel
fr. 3, dove il Varrò può essere benissimo il celebre erudito. —
Che le poesie amorose dovessero poi avervi una parte cospicua, lo
dice chiaro, oltre il titolo, un passo di Gellio (19, 9, 7) e un altro
dì Ausonio {Cento nupt., 146, 11, Sch.). E della licenziosità di
queste poesie è buon testimonio lo stesso Ausonio, che, 1. e, per
scusare l'oscenità del suo centone ricorda tra gli altri poeti punto
scrupolosi in fatto di morale anche Laevius co' suoi Eroto-
paegnia (2).
(1) I frammenti di Laevius si possono trovare, oltreché nel "Weichert,
op. cit., in MÙLLER, Cat. Tib. Prop. carmma, Teubner, 1885, p. 77 sgg., e
in Baehrens, Fraymentu poctarum Romanoriim, Teubner, 1886, p. 287 sgg.;
— noi citiamo sempre secondo quest'ultimo.
(2) Non so veramente perchè nel notissimo luogo d'Ovidio (Trist., 11,
427 sgg.), in cui egli pure cerca difendere i suoi versi dalla taccia di m-
- 184 -
Infine nei framm. non mancano nejìpure vestigia di cartni fi-
gurati alla maniera alessandrina. Tale il pterygion phoenicis
(novissimae odcs Erotopacfjnion, (Juaiìis., 288 K., sorta di perdi-
tempo poetico certamente novissimo a Roma;, in cui versi di dif-
ferente lunghezza dovevano rappresentare qualcosa come le ali del
famoso uccello mitico: tal quale come le ali d'amore (nrépyjfeq
"EpujToq) di SiMMiA, Anth. Fai., XV, 2t — (altri esempi ales-
sandrini di questo genere li puoi vedere in HAEbEKLiN, De carni,
fig., 1887). Per quel che riguarda poi la varietà dei metri {!) che
a{)pare qua e là dai frammenti, questa polimetria più che alla
polimetria luciliana e varroniana fa pensare jmittosto a quella che
adoperarono poi trattando lo stesso genere di jìoesia Catullo e i
suoi amici.
Ne solo perchè sono scritte in varii metri, è da escludere così
senz'altro che queste poesie appartengano al genere vero e proprio
dell'epigramma. Non neghiamo che gli alessandrini adoperarono
per l'epigramma quasi esclusivamente il metro da loro prediletto,
V elegiaco. Ma a Roma non fu così. Forse che, per dirne una, le
moralità, si volle introdotta da alcuni (primo l'Heinsius) contro la concorde
testimonianza dei mss. la lezione Laevi per Servi ('pav questo poeta v.Teuffel^,
242, 3); — sostituzione che non senza meraviglia veggo adottata anche
dallo ScHWABE, Quaest. Catull., 1, 271.
(1) Che i polymetri [versus), i quali son citati una volta sola da Prisc, I,
258 H., siano da ritenersi una cosa sola cogli Erotopaegnia parve già con ra-
gione al Bernhardy, Grundriss d. Róm. Litt., p. 507, ed è pure l'opinione
del Baehrens, F.P.R., fr. 31, n. — Il grammatico evidentemente qui (e non
sarebbe il primo caso) citò l'opera di Laevius non per il suo vero titolo, ma
avendo riguardo alla sua forma metrica. (E chiaro poi che l'omnes si rife-
risce solamente a tutti i versi della poesia donde è presa quella citazione,
e ingiustificati sono i dubbi del Weichert in proposito (op. cit., p. 62). —
11 Mùller considera invece i polymetri come un'opera a sé {De r. w., 75 e
fr. 27), ma afl'erma senza provare e su di un fondamento troppo debole,
quale è l'unica testimonianza di Prisciano. — Il Bùcheler (Rh. M., 41, 11)
per confermare la sua ipotesi della identità del nostro con quel Laevius
Melissus, di cui parla Suet. gram., 3 (supposizione che del resto in sé non
ha nulla d'inverosimile), arrischia delle asserzioni che non mi paiono troppo
felici , p. e. che queste poesie odorino di scuola e di cattedra (?) e che il
fr. dei polymetri possa ritenersi come resto di una poesia d'un maestio che
vuol inculcare con un esempio pratico una regola di prosodia ai suoi alunni.
(La citaz. dell'epigr. di Phil. di Thess., Anth. Pai., XIII, 1, non mi pare
faccia interamente al caso).
— 185 -
poesie di Catullo scritte in falecii e in giambi non sono degli
epigrammi veri e propri quanto gli altri scritti in distici ? —
Ingiustificata quindi parmi l'omissione del nome di Laevius nel-
l'elenco degli epigrammisti in Teuffel^, 31.
Riassumendo: questi Erotopaegnia adunque, per quel che si
può intravedere, industriandoci un po' a sollevare il fitto velo che
li ricopre da tanti secoli e forse per sempre, hanno tutta l'aria
di una raccolta di epigrammi e di poesie leggere alla foggia ales-
sandrina.
IL — Dicemmo già che i frammenti poco o nulla ci aiutano
a porre in chiaro il carattere dell'opera, perchè scarsi, monchi,
quasi inintelligibili. — Qui aggiungeremo che per qualcuno ci
è anche da dubitare con fondamento se sia o no appartenente a
Laevius.
Non mi par inutile intanto classificare i frammenti leviani —
una trentina circa — in tre categorie ben distinte :
a) 8 framm. {F.P.R., fr. 1-5; 22-24), sono dai grammatici
espressamente attribuiti a Laevius ed agli Erotopaegnia, e su questi
quindi non può cader dubbio.
6) 7 framm. (op. cit., fr. 25-31), non portano alcuna indica-
zione dell'opere da cui son tolti, e si ascrivono a Laevius piìi per
una induzione dei critici, che per le testimonianze esplicite dei
mss. che portano a questi luoghi invece di Laevius, i nomi Li-
vius, Laelius, Naevius, Laevinus^ Lepidus. Questi frammenti si
considerano pure come facenti parte degli Erotopaegnia, e in ve-
rità non discorda di molto il loro carattere da quello dei framm.
della prima specie.
e) I rimanenti 16 framm. (op. cit., fr. (3-21) non solo non son
riferiti dai grammatici agli Erotopaegnia, ma son citati invece
sotto altri titoli, p. e. Adone, Helena, Protesilaudamia ecc. Lo
scambio del nome Laevius con Livius e Naevius è ammesso qualche
volta anche qui. Ma questi frammenti sono di contenuto mitolo-
gico e di indole affatto diversa da quelli della prima serie.
Come si vede adunque, qualche fondamento per sospettare dei
frammenti della seconda serie, soprattutto di qualcuno di essi, non
manca: — ma se anche possiamo ammettere volentieri che lo scambio
dei nomi sia una cosa tutt' altro che rara nei mss., e tale da non
recare alcuno stupore, che cosa dobbiamo dire per i frammenti
— IHO -
(lell'ultiina sorie, clie cogli altri non hanno relazione alcuna né per
il loro contenuto, nò per il loro carattere ? Questi frammenti sono
un vero enigma per più di una ragione, ed è di essi appunto che
noi vogliamo occuparci [)iìi particolarmente qui.
Come già abbiamo accennato, per nessuno dei frammenti della
terza serie abbiamo una testimonianza esplicita della loro appar-
tenenza agli l'Jrofopaeijnia. 1 grammatici li citano sotto altri titoli a
codesto modo: Laevius in Adone, Lacvius in Sirenocirca, Laevius
in Centauris, ecc. Ora parve già a qualche erudito della rina-
scenza, che pel primo scoperse e pubblicò questi frammenti, di in-
travedere in essi delle reliquie di tragedie, e per tali li diede fuori
scandendoli in versi tragici. Cosi fece p. e. lo Scalioeko seguito
più tardi dal Bothi-:, Poet. scaen. lut., voi. II, e da altri. Ma già
rOsANN in Anal. crii.. 54, per le Proiesilaudamia, poi il Voss in
una nota in margine al suo ms, di Prisciano per V Adone comin-
ciarono a metter fuori l'opinione che si trattasse invece di carmina,
e che questi appartenessero agli Erotopaegnia: (di nessun valore
l'argomento su cui si fondavano : essere cioè il metro in cui a
loro era parso fossero scritti questi frammenti identico a quello
degli altri frammenti che appartenevano senza dubbio agli Ero-
topaegnia). Poi venne il Weichert nella prima metà di questo
secolo, che fece sua questa ipotesi e la estese a tutti i frammenti
della terza serie, e cercò di appoggiarla con diversi argomenti
(non troppo solidi a dir il vero), e colla sua autorità le diede
credito. Egli ecandette questi frammenti in versi lirici (per lo più
dimetri giambici). Secondo lui, essi son frammenti di canti stac-
cati, diversi tra loro di argomento e talvolta anche di metro, cia-
scuno dei quali aveva un proprio titolo a parte. Anzi egli giunse
persino a supporre che qualcuna di quelle leggende mitologiche
a cui accennano cotesti frammenti fosse trattata in parecchi
canti (1), che assieme riuniti avrebbero formato un libro degli
(1) Il Weichert (p. 60 sgg.) fu tratto in inganno da un passo di Aristotele,
Poet., e. I, § 12, dove si parla di un Kévraupov ,uiKTriv ^ai^jujòiav èE ÓTTÓvriuv
Tiùv |U€Tpu}v, e da un altro di Ath, XIII, 608 dove si ricorda pure un Kev-
Taupo<;... òpSjua TToXu)U€Tpov: luoghi che egli mise in relazione coi Centauri
e coi polymetri, coi quali nulla proprio hanno che vedere (v. nota antec). Così
egli immaginò che i Centauri, di cui non ci rimangono che queste quattro pa-
role: « ubi echo saepe (saep<a Scalig.) petris », fossero scritti in polimetri ; e
sciolte le briglie alla fantasia ci fabbricò su tutto un castello di carta, p. 62 :
- 187 -
ErotojKiegnia, cui l'autore avrebbe dato pure un titolo speciale.
I grammatici poi, invece del titolo generale dell'opera avrebbero
citato i singoli titoli speciali dei carmi o dei gruppi di carmi
assieme riuniti in un sol libro. — Questa in sostanza l'ipotesi
weichertiana (ognun vede quanto laboriosa), su cui egli ritorna
molte volte nel corso del suo lavoro, insistendoci su con quella
prolissità che gli è propria.
Tale ipotesi fu accettata integralmente dal Mùller (in De re
metrica, 1861, p. 75 sgg., poi nella sua ed. dei framm., p. 80 sgg.).
Senz'alcuna discussione l'ammise pure il Bàhrens, ed oggi è quella
che tiene il campo (Teuffel^ 150, 4).
Ma questa ipotesi va ad urtare prima di tutto contro uno scoglio
insormontabile, che è curioso non sia stato avvertito sinora da
alcuno. Accettandola infatti noi ci troveremmo dinanzi ad un fe-
nomeno letterario ben strano, quale è quello dell'esistenza di poe-
metti epico-Urici (in hac ode epyllii instar etc, Mùller, fr. 19)
scritti in polimetri. Che cosa son essi ? Epillii ? ma i metri son
lirici. Odi ? ma son di contenuto mitologico narrativo o dialogico.
C'è esempio in tutta l'antichità di carmi di questo genere? Credo
che senza esitare si possa subito rispondere di no.
Dell'unità primordiale dell'epica e della lirica non vi è certo
oggi pili nessuno che dubiti. Quasi tutti i popoli ebbero alle loro
origini una poesia unica nella sostanza : anzi poesia e musica si
accoppiavano. I Traci ballano l'avventura di Ares cantata da Demo-
doco {Odyss., Vili, 264). — Ma questa unità anche presto si scinde
— si stacca prima la lirica religiosa dall'epica propriamente detta;
però una stessa specie di verso — Vesametro — continua a servire
nella Grecia ad entrambi i generi. I canti religiosi conservano
essi pure per un perto tempo un carattere semi-epico. La poesia
soggettiva ha ancor troppo bisogno" dell'oggettiva per staccarsene
tutt' ad un tratto recisamente. (Cfr. Ka.jna, Origini dell'epopea
frane, p. 22 sgg.). Ma poi tra i due generi si apre un abisso pel
contenuto, per la forma, pel metro. — Una spiccatissima dift'e-
« quorum nomine (Centauri) inscriptum fuisse opinor aliquem Erotopaegnion
librum (?) in quo variis (??) poematis descripserat celebratissimam illarn
pugnam, etc. ». — Non so del resto come egli facesse a conciliare la sua
supposizione della divisione deìV Alcestis in parecchi canti (p. 57) colle espli-
cite parole di Gellio, 19, 7, 2: « in Laeviano ilio Carmine ».
— 18« —
renza tra i due generi si conserva durante tutto il periodo della
maturità della letteratura {(reca, per essere poi obliata di bel
nuovo nell'età alessandrina, in cui i due generi tornano, ma in parte
solamente però, a toccarsi da vicino. Cosi spesso si assomigliano
in certe particolarità il princijìio e la fine di una letteratura. —
(Jallimaco mentre rimproverava a" suoi contemporanei di fare dei
canti bastardi (vóGoi b' »ivBnf^av aoiòai, ir. 279 SciiN.) cadeva
poi egli stesso in questo dilutto. 1 suoi inni, dove spesso si può
notare un movimento ej)ico-lirico rappresentano in ciò un ritorno
all'antico. Anche l'elegia subì in questa età una notevole trasfor-
mazione : le elegie degli alessandrini sono tanto vicine all'epopea,
quanto le loro epopee si accostano all'elegia (cfr. Codat, La poesie
alex., p. 192 e 258). — Se da un lato quei poeti decadenti ab-
bassarono l'epopea a descrivere sentimenti ed alTetti amorosi, ma-
teria riservata in allora propriamente all'elegia, d'altro canto ado-
perarono il metro elegiaco nelle narrazioni di tragiche sventure
e di amori sfortunati.
L'elegia aveva sin allora servito a tutti le varie specie di lirica ;
gli alessandrini l'adattarono anche alla poesia narrativa (prima la
Aùòri di Antimaco, poi il AeóvTiov di Ermesianatte, gli ''Epa)T6(; fi
KttXoi di Fanocle, gli Aiiia di Callimaco) (1).
Con tutto questo si ingannerebbe a partito però chi credesse che
tale fusione dell'epica colla lirica nell'età alessandrina andasse
oltre la superficie. In fondo il metro elegiaco, per quanto rimasto
sin allora proprio esclusivamente della lirica, aveva però in sé suf-
ficiente duttilità per esser adattato anche alla poesia narrativa,
alla quale, per la sua prima parte almeno, apparteneva già di
diritto. Ma né alle origini della letteratura greca, né nell'età della
decadenza ci è lecito di sospettare neanche per ombra l'esistenza
di canti o poemetti epici in metri lirici corti e varii (2). La Grecia
(1) Così nella poesia italiana il sonetto, forma lirica che servì e serve a
tutto, fu piegato anche a rappresentare un breve quadretto epico dal Fru-
goni (Scipione), dal Cassiani {Ratto di Proserpina), dallo Zappi (Giuditta),
dal Monti (Morte di Giuda), ecc. Ultimamente il più grande dei nostri
poeti viventi, il Carducci, in una collana di sonetti di questo genere ritrasse
potentemente con tocchi michelangioleschi i principali momenti della rivo-
luzione francese (Ca ira).
(2) Dei miti pindarici naturalmente non è a parlare in questo caso : fatto
isolato nella letteratura greca prodottosi in seguito a speciali condizioni di
tempi e di costumi e con uno scopo ben determinato. — L'Atlis di Catullo
- 189 —
non ha mai avuto nulla di somigliante nella forma esterna alle
ballate o romanze bretoni o spagnuole, ai lais, alle chansons de
geste, e molto meno poi ai poemetti polimetri alla foggia, che so ?
deirOssian-Cesarotti, del Monti o del Berchet. E quel che diciamo
della letteratura greca si dica pure anche e con maggior ragione
della letteratura romana.
Ora questi pretesi poemetti leviani di contenuto mitologico
epico 0 narrativo sarebbero stati per l'appunto scritti in metri
lirici, anzi in quelli più brevi e piìi svelti, mai in esametri. Come
questo è possibile ? Come mai nessun grammatico ne ha parlato
se non altro per mettere in evidenza la novità e la stranezza del
tentativo ?
Ma poi ci sono altre difficoltà. L'argomento principale su cui
si fonda il Weichert per sostenere la sua tesi dell'appartenenza
di questi carmi agli Erotopaegnia, è il seguente: — noi non
dobbiamo meravigliarci se i grammatici non citano mai il titolo
generale della raccolta cui appartengono i frammenti di questi
poemetti; essi si accontentano di citare i titoli speciali dei sin-
goli canti. — Ma confessiamolo pure: non si può a meno di tro-
vare molto, molto strano questo fatto. Come mai neppure una
volta è capitato loro di ricordare accanto al titolo speciale dei
carmina anche quello generale dell'opera di cui facevano parte,
come era naturale e com'era giusto l'aspettarsi ? Ne vale appi-
gliarsi al solito argomento, cui si ricorre volontieri quando si è
a corto di altri: della negligenza cioè dei grammatici nel citare
le loro fonti. Certo che non avevano i nostri scrupoli ; — ma pure
come va che per gli epigrammi veri e proprii, cioè per tutti i
frammenti della prima serie, che indiscutibilmente appartengono
a Laevius, è citato con ogni cura non solo il titolo dell'opera,
ma anche il libro cui appartenevano ? (p. e. Erotopaegnion, 1. II:
Laevius in V Erotopaegnion ; Laevii èpuuTOTraiYViuuv VI). — E
anche ammesso che i frammenti della seconda serie sien tutti di
Laevius avremmo in ogni modo per lo meno in 8 casi su 15 la
citazione precisa. Curiosa che invece per i 16 frammenti che ri-
mangono di questi così detti canti mitologici i grammatici non
abbiano mai sentito neppure una volta il bisogno di accennare
(e. 63), certamente traduzione o imitazione da un poeta alessandrino, è
scritto SI in un metio lirico {gallianibo), ma è un metro largo e sonoro
quanto l'esametro e adatto quasi quanto questo alla narrazione.
- 190 —
allii loro provenienza dagli Erotopaegnia ! E ancor più strana
deve parere la cosa, se si pensa al modo con cui Gellio cita VAÌ-
cestis. Ecco le sue parole (19, 7, 2): — « cum apud eum ce-
nassemus, audissemusque legi Laevi Akestin, redi rem usq ne in
urbem sole iam fere occiduo, figuras habitusque verborum nove
aut insigniter dictorum in Laeviano ilio Carmine ruminabaraur ».
Era (jui 0 non era ovvio raH])ettarsi che (Jellio aggiungesse che
YAlcestis faceva parte di un'opera maggiore intitolata Eroto-
paegnia? Gellio riguardo a ciò è molto preciso, e difficilmente,
se la cosa stesse proprio cosi, avrebbe trascurato di dircelo.
Nò servirebbe l'obbiettare: si comprende come i grammatici
per le poesie più brevi, che non avevano un titolo speciale, citas-
sero il titolo generale dell'opera e il libro — ma per questi carmi
invece che avevano un proprio titolo a paiie si stavan paghi a
citar questo, senz'altra giunta. Eppure noi possediamo anche un
frammento di un epigramma che aveva anch'esso un titolo suo
proprio, a quel che pare : il pterygion phoenicis : ma il gram-
matico che lo cita, ha cura di aggiungere dopo il titolo particolare
della poesia il titolo generale dell'opera (Chakis., 288 K., In pie-
rygio phoenicis Laevii novissimae odes erotopaegnion). E che male
c'era se anche per questi misteriosi poemetti i grammatici avessero
citato al medesimo modo, almeno una volta, p. e. « Laevius in
Adone, lib. Ili Erotopaegnion » o qualcosa di simile?
Al Muller non è sfuggita questa difficoltà, e si è ingegnato di
dimostrare {De re metr., 75) che almeno in due casi anche per questi
epilUi abbiamo la citazione precisa, ossia un cenno della loro ap-
partenenza all'opera maggiore. Se non che dei due esempi che
porta, l'uno è precisamente quello del pterygion che, come si è
visto, non è niente affatto un carme mitologico, ma un epigramma
sulle ali della fenice: (l'errore in cui è caduto qui il Muller lo
faceva notare già egregiamente il Bucheler, Uh. 31., 41, 11} ;
— quanto al secondo, solo a chi guardi superficialmente la cosa
potrà sembrare che appartenga ad uno di questi carmi mitologici.
Eccolo, secondo la lezione del Bàhrens (F.P.R., fr. 4):
tu, Andromacha, per ludum manu
lascivola ac tenellula
capiti meo, trepidans, libens,
insolita plexti munera.
- 191 —
E qui il Miiller s'affretta a notare (fr. 4): « — suDt autem Hectoris
verba » — come già in B. r. m., 75 aveva scritto : — « quibus
(versibus) Hectoris et Andromachae amores describuntur ». Questo
secondo noi si chiama tirare a indovinare. L'Ettore non c'è in-
tanto e forse forse neppur l'Andromaca altro che di nome. Perchè
infatti in questo luogo Laevius non potrebbe parlare di se stesso
e di qualche buona amica ? Dico il vero : queìV Andromacìia mi
ha tutta l'aria di una meretricula graeca, e per me il frammento
appartiene piuttosto ad una breve poesia amorosa, non già in ogni
modo ad un carme mitologico, nel quale Laevius, a sentire il
Mùller (fr. 4) avrebbe nientemeno cangiato colorito all'antica saga
troiana: — « antiquas fabulas in luxum atque lasciviam deflecten-
tem » (!) su così tenue indizio fondandosi, come si vede, per una
affermazione tanto seria e recisa. — E non si chiama fantasticare
questo? (1).
Ora, se noi invece di lasciarci Pegaseo ferri volatu, preferi-
remo star sul sicuro e non arrischiare delle affermazioni gratuite,
dovremo concludere che proprio nessuna buona ragione abbiamo
per ritenere che questi frammenti siano delle reliquie di poemetti
mitologici scritti in versi lirici e appartenenti agli Erotopaegnia.
in. — Ma vediamo un poco : era poi davvero cosi strana
l'opinione dei primi editori che questi frammenti appartenessero
a delle tragedie, da escluderla così a priori senza riputarla degna
neppure dell'onore di un po' di discussione ? Per me, se ho da
dire la verità, non mi pare poi del tutto infondata. — Intanto il
modo con cui i grammatici citano questi benedetti frammenti
{Laevius in Adone... Laevius in Sirenocirca, ecc.) fa pensare su-
bito alla loro maniera di citare i titoli delle tragedie (il nome
dell'autore accompagnato dal titolo della tragedia senz'altro) {2).
(1) Gorre un po' troppo anche il Teuffel\ 150, 4, là dove parlando di
questi supposti poemetti dice di trovarvi una « scherzhafte Behandlung der
griechischen Sage ». — Questo ad ogni modo sarebbe l'unico passo di dove
apparirebbe. Ma la sua dev'essere più che altro un'induzione tirata dal ti-
tolo dell'opera (Erotopaegnion), di cui crede facciano parte questi carmi.
(2) Scelgo un esempio solo tra mille (vedine quanti ne vuoi nel Ribbkck,
Trag. Rom. Fragm., 1871), il quale per la vicinanza della citazione di un
tragico con una di Laevius fa molto a proposito. Prisc, 1, 269 H: « humus,
humi — hoc etiam neutrum in um desincns invenitur apud veteres... Lae-
vius in Adone 'humum, etc' Gracchus in Thyesle 'mersit, etc...*».
- 192 —
E invero chi non vof^lia dietro al Weichert andar fantasticando
di poemetti polinrietri e di canti mitologici, si accorgerà subito
che questi titoli potrebbero adattarsi benissimo a delle tragedie.
Anzi il Weichert mostra di dubitarne talvolta anche lui; ma più
tenero, pare, della propria opinione che della verità, ogni volta che
gli sorge questo dubbio egli lo scaccia subito da se con indignazione
(op. cit., 50, 58, 74, 84). Se nella storia di Ino è costretto a ri-
conoscere (gran mercè !) un soggetto tragico (p. 72. ■ <i Inonis fata
cothurno fiiisse aptissima et a tragicis utriusque antiquitatis
pojmli poiitis celebrata •») jter Y Alcestis invece, che non lo ('•
meno (basti ricordare Euripide ed Accio) si industria a cercare il
pel nell'ovo per provare che non può essere una tragedia ; e rife-
rendosi a ciò che proprio gratuitamente asserisce il Laxge, Vind.
Trag. rotn., p. 9 seg.: « illud Carmen a tragica severitate alienis-
simum (?) fuisse » rincalza a p. 56 sg.: « quae enim verba Gellius
ex Laevii Alcestide profert sicut aetatera qua eum vixisse puto
satis (?) declarant, ita cothurno minime sunt digna (??), sed poe-
matis et nugis amatoriis, cuiusmodi Laevii Erotopaegnia fuisse
arbitror, apprime conveniuut ».
Lasciamo stare la petizione di principio, in cui cade nelle ul-
time righe ; ma dove mai trova egli che le poche espressioni ri-
portate da Gellio debbano essere sconvenienti ad una tragedia e
adatte invece a poernatis et nugis amatoriis '^ Forsechè la tragedia
sulla via per cui l'aveva messa Euripide non aveva fatto dell'amore
il suo principale soggetto? Ma poi si può sul serio, domandiamo noi,
discutere di degno e d'indegno su pochi frammenti quasi inintel-
ligibili e che constano per giunta quasi tutti di una sola parola ?
Né deve dar ombra il titolo di Carmen che Gellio, 19, 7, 2, dà
dXY Alcestis. Che la parola Carmen nell'età d'argento della lingua
(e più ancora nella bassa latinità) assumesse talora il significato
di fabula, lo nota molto bene il f orcellini De Vit, Prato, 1861,
che cita in proposito un passo di Tacito, Ann., 11, 13 e uno di
Plinio, Ep., 7, 17, 11. — Dei primordi della letteratura romana
abbiamo un carmoi Nelei d'ignoto autore (Chaeis., 84 K), che
venne considerato con ragione per una tragedia dal Ribbeck, il
quale diede ospitalità ai 5 frammenti di esso nei suoi Trag. Rom.
Fragni., 1871. p. 233 (1).
(1) È vero che lo stesso Ribbeck dopo aver dimostrato in Quaest. scen..
- 193 —
Veniamo ad altri titoli. Protesilaudamia e Sirenocirca mostrano
un doppio titolo 0 meglio un titolo composto di due nomi propri
uniti assieme: (errava certamente il Bothe, op. cit., sostenendo
la scrittura divisa Protesilaus seu Laudamia, alla foggia di altri
titoli di tragedie). Un titolo consimile troviamo tra quelli delle
tragedie di Pacuvio, JDuloreste (certo = Oreste schiavo ; cfr. il
fr. 1 ed EuRiP. Iph. Taur., 355 ; assurde sono le altre congetture
in proposito, che il Ribbeck riferisce op. cit., XLIII). Anche nelle
Satire di Varrone si trovano dei titoli composti a codesta ma-
niera.
La storiella sentimentale di Protesilao e Laudamia fu trattata
sul teatro anche da Euripide, e di una tragedia Protesilaus di
Pacuvio ci dà notizia il Vulscus nell'argomento della Xlll ep.
(Heroides) d'Ovidio, ed. 1497; e dallo stesso è pure attribuito un
Protesilaus anche a Titinius o Titius (1). — Ma siffatte notizie
furono, e forse non a torto, ritenute come sospette dal Ribbeck,
Bóm. Trag., 326.
L'altro titolo Sirenocirca adombra, si capisce, i due episodi
omerici di Circe e delle Sirene tra di loro strettamente consfiunti
(Odi/ss., X e Xll) (« Sirenum voces et Circes pocula », Hor.,
^ij., 1,2,23).
p. 347, che carmen si può interpretare benissimo per tragedia, ritornando
poi sui proprii passi confessò che la cosa parevagli admodum dubia (in
nota all'edizione dei Fragni. Trag. róm., p. 233). — Ma si faccia atten-
zione che i framm. sono in giambi, e tre su sei in 1^ persona — non par
quindi tanto facile Tammettere che si tratti di una narratio, come vorrebbe
il Baehrens, F.P.R., p. 53.
(1) Parve errato al Dilthey, De Cali. Cydippa, p. 59, il nome Titinius
parlandosi di tragedie e propose in sua vece Titius (Teuffel^, 141, 7), cor-
rezione accettata dal Ribbeck, Fragni. Trag. Rom., 116, nota. — Ma, dato
che la notizia del Vulscus sia attendibile, di questa correzione non mi pare
ci sia proprio bisogno. Perchè Titinius autore di togate non potrebbe aver
scritto una tragicomoedia con questo titolo ? (traccie di tragicomedie nel
teatro romano nei titoli Agamemno suppositiis, Atalante, Sisyplnis di Pom-
ponio, Phoenissae di Nevio). Tanto più che ci è stato conservato un fram-
mento di una Protesilaudamia senza nome d'autore (Schol. Veron. in Aen.,
IV, 146) di pretto colorito comico come parve anche a ragione al Dilthey.
Non potrebbe esser questo un frammento della tragicomoedia di Titinius?
— Ad ogni modo esso non è certo da mettersi tra gli altri della Protesi-
laudamia di Laevius, come fa il Bahrens, tanto meno poi da considerarlo,
com'egli fa, per una invettiva di L. contro i suoi critici.
Rivista di filologia, ecc., I. 13
— 194 —
Per gli altri titoli Adone, Centauri nulla vieta di crederli ti-
toli di tragedie. Il primo si comprende facilmente a che mito si
riferisca; il secondo forse alia — « centaurea cum Lapithia rixa
super mero debellata » (Hoii., Od., 1, 18,8-9), di cui Ovidio, ilfe<.,
12,211 sgg.
Sicché in conclusione questi titoli^ sia pel modo con cui sono
citati dai grammatici, sia per gli argomenti mitologici cui accen-
nano, possono far pensare benissimo a delle tragedie. Quanto al
contenuto dei frammenti stessi, la forma di discorso diretto che
hanno la maggior parte di essi (e di cui anche un lettore distratto
non può non essere colpito) ])are indichi pur essa piuttosto il
dramma. Né il Mùller, acutissimo come sempre, si è potuto dis-
simulare anche quest'altra difficoltà (D. r. w., 75: « epyllia... in-
tertexta equidem plerumquc diverbiis »). Il suo imbarazzo lo dice
abbastanza c{\\q\V equidem poco corretto, ma molto significativo.
Infine dal lato della lingua a tragedie può anche accennare la
frequenza dei composti in modo inusitato e strano con due o tre
sostantivi: — una delle caratteristiche predilezioni dei vecchi
poeti tragici romani. — Né la difficoltà, che ancora qualcuno po-
trebbe accampare, che non si riesce a scandere questi frammenti
in versi tragici, se non con trasposizioni forzate e scostandosi in
qualche punto dalla tradizione diplomatica, è ad ogni modo tale
da distruggere di per se sola il sospetto che si tratti di tragedie.
È curioso insomma che mentre tutti gli indizi ci portano a ne-
gare che i frammenti in parola appartengono a carmi degli Ero-
topaegnia, nessuna obbiezione di peso possa farsi invece a que-
st'altra ipotesi.
Non neghiamo che i primi editori in una cosa certamente esa-
geraroiio : nell'attrihuire costantemente tutti questi frammenti a
Livio 0 a Nevio, anche là dove i codici portavano chiaramente
scritto Laevius. Meglio sarà, crediamo, dare a Cesare quel che è
di Cesare. E per far questo sarà opportuno l'attenerci alla lezione
fissata dai moderni editori (Hertz, Keil, Mtiller, Bahrens) per il
testo dei grammatici, il che ci porta al seguente risultato:
Adone (Bahrens, fr. 6) Laevius
Alcestis 7, 8, 9 Laevius
Centauri 10 Laevius
Helena 11 Livius
— 195 —
Ino
(Bàhrens, fr. 11^} Livius
id.
12 Laevius
Pro tesilaudamia
14, 15, 17 Naeviìis
id.
16, 18, 19 Laevius
Sirenocirca
20 Laevius
id.
21 Naevius.
Da questo specchietto si ricava dunque che i migliori mss. at-
tribuiscono esplicitamente a Livius il fr. 11 (Helena). 11 Eibbeck
glie lo nega, senza dire per quali ragioni, e congettura in sua
vece Laevius (accettato dal Mùller e dal Bàhrens); ma per parte
mia dichiaro che non riesco proprio a capire perchè non si possa
considerarlo come un frammento di tragedia di Andronico.
Una vera battaglia si è combattuta dai critici intorno al primo
frammento delT/wo. Accanto ad una corrente favorevole ad An-
dronico che va dallo Stephanus al Eibbek, se ne determinò presto
una contraria sino dai tempi dello Scaligero, che negò che Livio
possa aver scritto degli esametri (miuri). Al Peerlkamp parvero
questi versi troppo eleganti (e in verità sono fatti bene) e lonta-
nissimi dalla rozzezza di Livio e de' suoi tempi. 11 Weichert ap-
profitando di questi dubbi, mise senz'altro questo frammento tra
gli altri di Laevius. Ma qui non si può pensare al solito scambio
di Livius con Laevius fatto da copisti ignoranti. La testimonianza
di Terenziano, 1931 è precisa. Egli dice chiaro : Livius ille veius
e se non bastasse, aggiunge : graio cognomine (Andronico). Inoltre
le parole: quando hymnum cìiorus canit accennano troppo ma-
festamente al dramma. Che Terenziano sia lui caduto in errore
par difficile, e inverosimile poi è che l'errore risalga fino a Caesio
Basso come dubita il Ribbeck, Róm. Trag., 34, n. 30, e dietro
lui il Bàhrens. — Sicché, a mio modo di vedere, fece saggia-
mente il Mùller ad escluderlo affatto dai frammenti Leviani.
Il secondo frammento dell' Jwo (i codici qui hanno Inoe, pochi
loe. Il Teuffel, loc. cit., pare voglia leggere Jone, ma il contenuto
del frammento è tale che si presta piuttosto ad una Ino che ad
una Io) ò attribuito dai mss. a Laevius. Forse ci è qui una con-
fusione di nomi in senso inverso ; ma potrebbe anche darsi be-
nissimo che Laevius stesso abbia scritto una Ino.
Incerti tra Laevius e Naevius si resta per la Protesilaudamia
e la Sirenocirca, schierandosi le testimonianze antiche, metà per
l'uno e metà per l'altro.
- 19C —
Infine sono esplicitamente attribuiti a Laevius: Adone, Alcestis,
Centauri.
Dunque Laevius avrebbe scritto delle tragedie ? e che male ci
sarebbe V perchè dovremmo fare il viso dell'arme solo al sentire
che Laevius può esser stato un autore tragico? Egli verrebbe ad
essere contemporaneo degli ultimi tragici della repubblica lulius
Caesar Straho e Tiiius (ved. per essi Kiiìheck, liom. Trag., OlOsgg.)
in parte anche di Accius, che scrisse sicuramente sino al G50/104
(Cic, Phil, 1, 36). Né mi dà punto noia ciò che dice il Wei-
chert, p. 84 : Se Laevius avesse scritto tanti drammi (sarebbero
poi 5 al più) qualcuno ne avrebbe parlato. Ma si tratta infine di
un poeta meno che mediocre, di poco o niuno interesse; qual
meraviglia se i grammatici (non parliamo d'altri) han trascurato
di darci la preziosa notizia, che d'altronde possiamo ben intra-
vedere nel loro modo di citare ? Quanto invece non è più difficile
l'ammettere che di un fatto cosi importante, perchè unico nella
antichità, qual è l'esistenza di poemetti epico-lirici, nessuno, pro-
prio nessuno abbia mai fatto cenno ! Dei due argomenti ex si-
lentio ognun vede facilmente a quale va dato, se mai, valore pre-
ponderante.
Con tutto questo, s'intende, non vogliamo sostenere che gli in-
dizi che abbiamo raccolti siano tali da indurci ad affermare re-
cisamente che si tratti proprio di tragedie. Affermarlo con sicu-
rezza, allo stato della quistione, non è possibile : — sospettarlo
però non ci par cosa del tutto assurda.
Come dicevamo più sopra, questi frammenti sono un enigma :
certo è più facile il dire quel che non sono, che quel clie sorto
queste poche reliquie mal conservate e per lo più insignificanti.
Su tale fondamento è scabroso il ricostruire e quasi sempre ar-
bitrario. Non son neppure delle rovine : è la polvere delle rovine ;
come indovinare l'edifizio ? — Con così scarsa suppellettile di fatti
è meglio non lasciarsi trascinare dalla tentazione, troppo naturale
in simili casi, di supplire al silenzio dell'autore con congetture,
ipotesi alla prima seducenti, ma che non reggono ai colpi della
critica. — Noi saremmo paghi quindi se fossimo riusciti a di-
mostrare che si può per lo meno dubitare con fondamento della
solidità dell'ipotesi weichertiana, ammessa così facilmente sinora
— 197 -
da tutti. Per lo meno non sarà male andar più cauti nel parlare
di questi pretesi poemetti ed epilli mitologici che forse non son
mai esistiti se non nella mente del loro scopritore.
Trani, dicembre 1894. Eleuterio Menozzi.
4. 2. '95.
NOTA OEITICO-ERMENEUTICA AD ORAZIO
(Carmi, IV, 2)
Nella strofe prima dà luogo a gravi dubbi 'lule'. Anzi tutto
d'un Antonio Giulo non è menzione presso altro scrittore; ed il
poeta ' malore plectro' (v. 33), al quale il carme s'avrebbe a cre-
dere indirizzato, se pur non fosse, come dottamente ha divinato
il Peerlkamp, quell'Antonio Rufo, che anche da Ovidio è salutato
('ex Ponto' IV, 16, 13) 'Pindaricae fìdicen lyrae', dovrebbe chia-
marsi C. Giulio Antonio, figlio del triumviro ed autore d'una
Diomedia. Poi 'lulus' è costantemente trisillabo presso i poeti
latini; poi contrasta colla norma osservata sempre nei Carmi gìk
la ripetuta allocuzione della stessa persona: tanto più adunque
dovrebbe qui sorprenderci il trovar prima il nome e più innanzi
(v. 26) il cognome di colui, al quale il carme dirigesi (1). Oggi,
infatti, gli editori accolgono generalmente la congettura dell'acuto
olandese 'ille'; ne stimano con ciò di far violenza al senso, che
pur richiederebbe conservato il valore universale della relativa
' quisquis Pindarum studet aemulari ' (2).
A me sembra che la restituzione del testo debba qui, come in
altri casi non pochi, muovere dalla variante serbataci nei mano-
scritti della terza classe 'lulle', la quale con ben poca verosimi-
glianza supporrebbesi derivata da corruzione del troppo noto'Iule'.
E, poiché l'intrusione d'un i sul principio d'un verso non manca
(1) Keller, Epileg., 297.
(2) In prova della proprietà di questo ipotetico ille citasi Carni., II, 13
init. (ille... quicumque primum); ma lì il poeta impreca evidentemente a
persona certa, sebbene ad esso ignota, mentre qui la sentenza per meritar
questo nome non deve essere affatto venerale.
- 198 -
d'esempi ne' codici del Venosino (1), io propendo a pensare che
IVLLE fosse scritto per VLLE, forse in grazia della prossimità
di AEMVLAKl(VLLE), ed VLLE congetturo debbasi a svista di
amanuense distratto, die intendeva scrivere VELLE.
La correttezza della locuzione risultante da questo emenda-
mento, paleograficamente non improbabile, ci è confermata da varie
analogie. Vircìilio, Gè., IV, 448, lia 'desine vt-lle (fallerej'; Ti-
bullo, I, 2, 94 'et manibus canas tìngere velie comas', ili, 4, 4
'desinite in votis quaerere velie fidem' ed Ovidio, Fast., II,
261 sq. 'et audes fatidicum verbis fallere velie deum?*. In tutti
questi passi l'apparente pleonasmo 'velie' ha sua ragione logica
nelV insufficienza del soggetto a conseguire quello citei vorrebbe ;
onde meglio appare illustrata l'aggiustatezza della proposta le-
zione, che, temperando saviamente la sentenza, toglie il pericolo,
che essa sia ampliata fino a comprendere Antonio medesimo. Di-
rebbe insomma Orazio : « Chiunque, senza avere il genio di Pin-
daro, presuma di misurarsi con esso, va incontro ad inevitabile
naufragio »; alla voglia non potendo in tal caso risjìonder V ef-
fetto, egli si guarda persino dallo scrivere 'studet aemulari', anzi
con più verità e finezza, pone:
'Pindarum quisquis studet aemulari
velie, ceratis ope Daedalea
nititur pennis vitreo daturus
nomina ponto'.
Altro passo vivamente impugnato occorre in quest'ode , il quale,
a mio avviso, non richiede altra medicina se non di una più con-
veniente interpunzione :
V. 45. Tum meae, si quid loquav audiendum,
vocis accedet bona pars et, '0 Sol
pulcher, o laudande', canam, 'recepto
Caesare felix
teque dum procedis, io Triumphe !
non semel dicemus, io Triumphe !
civitas omnis dabimusque divis
tura benignis'.
{i) I ha Carm., II, 8, 1: 'lulla' per 'Ulta'; cfr. Keller, loc. cit.
— 199 -
L'odicina trionfale del nostro si compendia in un saluto eucari-
stico al Sole, simile in certa guisa alla prima parte della parodo
néìV Antigone Sofoclea : '0 Sol pulcher, o laudando, dum Caesare
atque adeo te ipso recepto felix procedis, triumphum ovantes con-
celebrabimus civitas omnis deisque propitiis grates agemus'. Non
si opponga, col principe della critica oraziana, che tutti sarebbero
divenuti rauchi a furia di gridare 'io Triumphe!'. In sostanza, il
poeta non dice qui ne più né meno di quel che leggesi, senza
ombra di censura o di sopetto, in chiusa della 5* ode del IV :
Longas o utinam, dux bone, ferias
praestes Hesperiae! dicimus integro
sicci mane die, dicimus uvidi,
cum Sol Oceano subest.
E circa l'iperbole, non meno magnifica che adulatoria, inerente alla
frase 'recepto Caesare teque felix', dalla quale si ritrarrebbe, che
durante l'assenza del Sire il sole stesso parea venuto meno, si pa-
ragoni la strofe seconda della citata ode quinta, e non s'esiterà
a dichiarare ozioso qualsivoglia tentativo di mutare la lezione mano-
scritta:
Lucem redde tuae, dux bone, patriae:
instar veris enim voltus ubi tuus
afifulsit populo, gratior it dies
et soles melius nitent.
Trieste, 25 aprile 1894. Cesare Cristofolini.
4. 2. '95.
A PROPOSITO DELLA NUOVA EDIZIONE
DELLE EPISTOLE DI CICERONE
(M. Tulli Ciceronis Epistularum libri sedecim edidit Ludovicus Men-
DELSSOHN. Lips., Teubner, MDCCCXCIIl).
(Continuazione e fine).
VI 18, 5 (p. 151, 24) 'et mercule non tam sum peregrinator
iam quam solebam : aedificia mea me delectabant et otiura : domus
est quae nulli mearum villarum cedat, otium omni desertissima
— 200 -
rej^ioiK; maius . Preferendo la lezione di R 'delectant\ che forse
è soltaiiio un'antica emendazione, si toglie tutta la forza del di
scorso. Cicerone vuol dire presso a poco: 'il motivo per cui solevo
una volta andare fuori di lloma era il desiderio di godermi le
mie ville, e un po' di traiKiuilliia: ho qui (non c'è bisogno del
'nunc* proposto da alcuni, cui dovette sembrare troppo forte l'asin-
deto) una casa, che non ha meno comodità di qualsivoglia delle
mie ville, ed ho tanta pace, quanta j)otrei averne nella terra piii
deserta del mondo, dunque non mi muovo'.
X 8, 0 (p. 218, 18) *ipse, ita sum animo paratus, vel provin-
ciam tueri, vel ire quo resp. vocet, vel tradere exercitum, auxilia
provinciamque, vel omnem impetum belli in me convertere non
recusem, si modo meo casu aut confi rniare jìatriae salutem aut
periculura possim morari'. Non ho fatto altro che porre fra due
virgole le parole 'ita - paratus', e mi sembra che in tal modo
la lezione di M sia chiara di per se stessa e non richieda un
'ut' né davanti all'ultimo 'vel' come è stato posto dagli editori,
ne davanti al primo come fu inserito nei codici HD allo scopo
evidente di dare ali" ita' il suo correlativo (1).
Similmente credo che in HD sia stato corretto per malinteso
'sciam' in 'sciat' nel luogo seguente: X 17, 2 (p. 256, 20) ' quod
si qui vestrum non probabit, mihi prudentiam in Consilio defuisse
sciam, non illi erga patriam fidelitatem' (2). Fianco vuol dire:
'se incontrerò la disapprovazione di alcuno di voi, riconoscerò di
avere sbagliato io nel dare gli ordini, ma non che mio fratello
abbia mancato ai suoi doveri verso la patria'.
Anche più chiaro è il caso X 18, 3 (p. 257, 22) 'periclitari
volui si posset mea presentia et Lepidum tueri' ecc., dove, pren-
dendo 'mea praesentia' per un ablativo, il codice B"dà la lezione
'possem'. È chiaro che 'mea praesentia' non offre maggiore diffi-
(1) M. Gitlbauer (Wiener Studien, I, p. 82) crede che si possa rimediare
alla difficoltà del luogo (un 'ut' gli par indispensabile a cagione del 're-
cusem') scrivendo 'vel omnem impetum belli ut in me con vertere non re-
cusem'. Mi pare evidente che 'non recusem ' = oOk fiv ÒKvoiriv: e ' ita —
paratus' vuol dire 'tale è la mia disposizione d'animo'.
(2) M. Gitlbauer (1. e, p. 90) 'si qui vestrum non proLahunt.... sciant';
il che è più improbabile che il leggere 'si cui vestrum non probabitur', con-
gettura da proporsi, se ci fosse bisogno veramente di eliminai'e il singolare
qui, come credeva il Gitlbauer.
- 201 -
colta di ' adventus meus* che ricorre e in questa (p. 258, 5) e in
un'altra lettera di Fianco (15, p. 254, 25) (1).
Non mi parrebbe neppure inopportuno conservare la lezione dei
codici in X 32, 4 (p. 274, 19) 'quorum quis ullam fidem aut modum
futurum putavit?'. Si è preferito 'putabit', ma Pollione vuol dire:
' chi ha mai pensato che i soldati di Antonio debbano avere qualche
ritegno o moderazione?'. Quanto alla parola finem non credo che
si faccia bene ad accettarla senza discussione in luogo di fidem,
che per l'accordo ài M e dì H dì fronte ad M^ e Dr ha per lo
meno la stessa autorità.
Minore sicurezza certamente, ma non piena sfiducia meritano
le lezioni dei codici nei luoghi seguenti, per i quali gli editori
hanno escogitato quasi sempre qualche cosa di più specioso, ma
chi potrebbe dire di più vero ?
XI 27, 5 (p. 300, 24 sqq.) ' In maximis rebus quonam modo
gererera me adversus Caesarem usus tuo Consilio sum. in reliquis
officiis cui tu tribuisti excepto Caesare praeter me, ut domum
ventitares horasque multas saepe suavissimo sermone consumeres?'.
L'emendazione del Madvig *usus tuo Consilio sum, in reliquis of-
ficio: cui — 'è così semplice e ingegnosa, che si è veramente
tentati di accettarla senz'altro. Ma temo che si possa leggermente
tradire il pensiero di Cicerone. Innanzi tutto non v'è ragione di
supporre che il 'consiliura' sia qualche cosa di opposto alVoffi-
cium', che anzi certamente il dare consigli in quelle circostanze
si poteva considerare come il primo atto di premura e di cortesia
d'un amico verso l'altro (2). Né credo che cosi possa dirsi 'officio
alicuius uti\ come si dice 'Consilio uti\ Ma, a parte tutto questo,
che difficoltà presenta qui la tradizione? 'In reliquis officiis' è da
intendere come se ci fosse un 'persol vendi s' o 'tribuendis' o sim. (3)
con la stessa ellissi che troviamo p. e. nell'orazione De domo sua 18:
'num igitur in hoc officio, quod fuit praecipue meum, sententia
(1) Con ciò non voglio sostenere che abbia ragione il Baiter a volere
' praesentia mei exercitus posset' (p. 255, 2), dove MD hanno ' possem ' e H
'posse'; tanto più che avanti c'è già un 'possem'. Non mi persuade neanche
il Giltbauer (1. e, 87) che vuol mutato questo primo ' possem ' in 'possenuis'.
(2) Si può confrontare ad esempio il principio della lettera a Mario. VII,
3, 1 e quella ad Oppio, XI, 29, 1.
(3) Hand Tursell. Ili 270. Cosi intende questo luogo il Georges alla
voce ' in ', II, e. 1 del piccolo dizionario (il grande non è a mia disposizione).
- 202 -
mea reprelieiiditui*:'' li nella stessa raccolta deW Epistole XV 20, 2
(p. 423, 14) 'frequentior in isto officio esse debeas'. Nelle cose
più importanti dunque Cicerone aveva ricorso al consiglio dell'a-
mico; nel compimento poi degli altri doveri di amicizia, era stato
da lui trattato meglio degli altri.
XII 2, 3 (p. 307, 14) 'reliquos exceptis designatis — ignosce
mihi — sed non numero consularis'. Qui il sed dei codici è stato
cangiato in 'si'; e con ciò la vivacità del discorso scapita non
poco. A mio parere questo 'sed' non diflerisce molto dal 'sed'
epanaleptico, di cui raccolse varii esempi il Du Alesnil al De Le-
gihus II 1, 2. Vedi ciò che dirò in seguito sul luogo (Ì^WKpist.
I 9, 23 (p. 26, 8); cfr. III, 11, 3 (p. 71, 7) e la nota dell'Hoffmann.
XII 28, 3 (p. 333, T)) 'res ncque nunc difficili loco mihi videtur
esse et fuisset facillima, si culpa a quibusdam afuisset'. Un so-
verchio amore di concinnità ha suggerita l'emendazione facilUmo,
a cui si poteva pur concedere un posto nell'apparato critico senza
introdurla nel testo a dispetto dei codici. E chiaro infatti che il
dire 'difficili loco' in questo caso è quanto dire 'difficilis*, e ne-
anche noi potremmo trovare da ridire sopra un'espressione come
questa: 'la cosa non mi pare neanche adesso in condizioni difficili,
e sarebbe stata agevolissima, se' ecc.
XIII 55, 2 (p. 372, 16) 'in tuo toto imperio atque provincia
nihil est quod mihi gratius facere possis ; iam apud ipsum, gra-
tissimum hominem atque optimum virum, quam bene positurus
sis studium tuum atque officium, dubitare te non existimo'. Il
Mendelssohn avrebbe dovuto segnare in nota l'emendazione pro-
posta da C. W. Miiller 'nam' invece di 'iam', per la stessa ra-
gione per cui ha posto in nota e non nel testo l'emendazione
identica del Wesenberg a p. 98, 29 (II 2, 2). Cfr. Hand, Turs.
Ili, 147 sq.
XIII 63, 1 (p. 375, 26) ' Non putavi fieri posse, ut mihi verba
dessent, sed tamen in M. Laenio commendando desunt ; itaque rem
tibi exponam paucis verbis'. La correzione proposta dal Kleyn
'deerunt' (meglio Mendelssohn 'derunt') si raccomanda per l'ac-
cenno che più giù nella stessa lettera è fatto a queste parole
(p. 376, 4) 'sed vereor ne iara superesse mihi verba putes quae
dixeram defutura'. Con tutto questo non mi pare necessario in-
trodurla nel testo. Cicerone può aver detto prima semplicemente:
' mi mancano le parole, perciò ti scriverò brevemente ' ; più giù
— 203 —
può aver considerata come espressa al futuro l'idea espressa al
presente, anche per la vicinanza dell" exponam', e quindi: 'avevo
detto che mi sarebbero mancate '. Del resto è chiaro per sé che
un presente di quel genere a principio di una lettera o di un di-
scorso ha già in sé un'idea di futuro ; ma come è naturale il dire:
'Non pensavo che mi potessero mancare le parole, eppure mi man-
cano', così mi pare strano il dire: 'Non pensavo eppure mi
mancheranno per raccomandare M. Lenio\
Data la preferenza che con molta ragione il Mendelssohn ac-
corda al codice M di fronte ai codici HD, non v'era forse motivo
di seguire la lezione di questi ultimi in luoghi come i seguenti:
X 15, 3 (p. 254, 25) 'Adventus meus qui profecturus esset vidi'.
Non credo che in questa frase 'qui' = 'quomodo' sia così strano
da farci preferire il 'quid' di HI), che sa di correzione, tanto
più che il 'proficere' senza oggetto è adoperato dallo stesso Fianco
e in questa lettera (2, lin. 17) e nella 24, 7 (p. 265, 29). Un
po' diverso è il caso nella lettera 24, 4 (p. 265, 10) 'si quid forte
proficere posset'.
X 18,4 (p.258, 7) 'pontem tamen, quem in Isara feceram, castellis
duobus ad capita positis reliqui praesidiaque ibi firma posui, ut
venienti Bruto exercituique eius sine mora transitu esset paratus'.
Si può giungere anche a spiegare questa lezione di 31, riferendo
'paratus' al ponte, e prendendo 'transitu' = 'ad transitum', co-
struzione che in Fianco forse ci farà meno meraviglia che in Ci-
cerone. Si trattava di tenere il ponte pronto al passaggio. 'Tran-
situs ' di DH sembra più naturale, ma appunto per questo si può
sospettare un'antica emendazione (1).
XI 27, 4 (p. 300, 20) ' oblitumne me putas qua celeritate, ut
primum audieris, ad me Tarento avolaris...?'. La lezione di 31 è
qui confermata anche da H; non c'era dunque motivo sufficiente
di scrivere advolaris perchè in D si legge 'advolaveris*. Se manca
in Cicerone un altro esempio di 'avolare' con 'ad', ne abbiamo
però in Livio, e ad ogni modo non può essere strana la costru-
zione, se è vero che 'avolare aliquo' è tulliano {De clivin. II 37 'cor
(1) Mi duole di non poter consultare la monografìa di A. Ruooius De
Syntaxi Planciana-Osterprogr., Bautzen 1894.
- :^04 —
subito non potuisse nescio quo avolare *). Si può anzi pensare che
nei casi in cui sembra possibile tanto 'ad-' quanto 'a-volare', sia
preferito l'uno o l'altro comjiosto a seconda che si vuol dare im-
portanza al punto di partenza o a <|uello di arrivo. Ora nel caso
presente 'Tarento' può esser detto con enfasi: 'lasciasti perfino
le delizie di Taranto ))er volare da me'.
Xll 30, ;{ (p. ;}o4, 28) 'Non dubitabam equidem, verumtamen
multo mihi notiorem amorem tuum efficit Chaerippus, o hominem
semper illuni (juidem mihi ajìtum, nunc vero etiam suavem!' Qui
la lezione di 31 concorda con quella di IJ, e il solo 7/ dà 'effecit'
correzione forse suggerita da ciò che segue: 'vultus mercule tuos
mihi expressit omnis' ecc. Lascerei 'efficit' anche per un riguardo
al 'nunc vero' immediato; che, se Cherippo aveva già compiuta
la sua missione, il buon effetto prodotto dalle sue parole durava
in Cicerone nel momento in cui scriveva egli stesso a Cornificio.
C'è inoltre un certo numero di luoghi segnati dal Mendelssohn
con una croce come sospetti o non soddisfacenti; ed anche fra
questi si può intenderne alcuno e giustificarlo abbastanza, se non
erro, senza ricorrere alle emendazioni proposte in nota. P. e.:
I 9, 28 (p. 26, 5) 'Scripsi etiam versibus tres libros 'de tem-
poribus meis' quos iam pridem ad te misissem, si esse edendos
putassem — sunt enim testes et erunt sempiterni meritorum erga
me tuorum meaeque pietatis ^- fsed quia verebar non eos qui se
laesos arbitrarentur — etenim id feci parce et molliter — sed
eos, quos erat infinitura bene de (me) meritos omnis nominare ;
quos tamen ipsos libros, si quem cui recte committam invenero,
curabo ad te perferendos'. Il 'sed' preceduto dalla croce non è
inutìile, ma racchiude l'intera proposizione 'sed non putavi (eden-
dos)' (1), con una di quelle reticenze così proprie dello stile fami-
liare. Sicché non occorre ne sopprimere il 'qua' né indicare una
lacuna dopo 'nominare' né porre in dubbio la sincerità di tutto
il passo (2).
(1) Nel Draeger (Hist. Synt.^ § 119, li 3 A, p. 217 sgg.) non trovo esempi
di ellissi di questo genere; ma in quel classico libro quella parte della trat-
tazione è tutt'altro che completa. Gfr. Nagelsbach-Muller, Lat. Stil.^ § 183
e 184.
(2) Ammettendo la stessa ellissi, può venire in mente di cambiare l'in-
terpunzione : — 'sed quia? verebar', ecc.
— 205 —
II 19, 1 (p. 49, 11) 'postea quam raihi nihil neque a te ipso,
neqiie ab ullo alio de adventu tuo scribeietur, verebar -|-ne ita
caderet — quod etiam nunc vereor — ne ante quam tu in pro-
vinciam venisses, ego de provincia decederem'. Non è assurdo, conae
crede il Mendelssohn, il doppio 'ne\ giacche il secondo serve
unicamente a richiamare il primo dopo la parentesi, allo stesso
modo che noi diremmo: 'temevo che così sarebbe andata a finire
— cosa che temo anche adesso — che cioè sarei partito dalla
provincia prima del tuo arrivo'. Con l'emendazione proposta dal
Mendelssohn (Jahrb. f. Pini. u. Paed. 1891, p. 70) 'nei taederet
(aut)' si va incontro a parecchie difficoltà: proprio qui doveva
trovarsi la forma 'nei', mentre subito dopo ci sarebbe un 'ne'?
Tanto in Q che in S^ e quindi nel loro archetipo la caduta del-
l' aut che motivo avrebbe avuto ? Ammessa anche una disgiunzione
dipendente da 'verebar', questa sarebbe indicata dall' 'aut' solo,
non dall' 'aut ne', e finalmente chi intenderebbe 'ne taederet' ^=
'ne te promissi paeniteret'? ed anche ammessa questa interpre-
tazione, farebbe al caso di uno che doveva recarsi nella provincia
non di sua sola volontà, ma per dovere del suo ufficio?
Vili 5, 3 (p. 191, 10) 'quam facile nunc sit omnia impedire et
quam hoc Caesari,qui sua causa rem p. non curent, -|- superet, non
te fallit'. Nel modo non molto elegante in cui Celio suole esprimersi
queste parole vengono a dire: 'Tu non ignori quanto sia facile
fare opposizione a tutto, e come sia Cesare -ben fornito di questo,
cioè di persone che per l'interesse di lui trascurino la rep. '.
L'ellissi del dimostrativo si spiega come nella lettera 4, 2 (p. 189, 6)
'ratione et insidiis usus videretur in evitandis consiliis, qui se in-
tenderant adversarios in eius tribunatum'. Con la correzione ' sup-
peditent' proposta dal Mendelssohn, come con quella dell'Orelli
'sperent' 1' 'hoc' sarebbe da riferire ad 'omnia impedire'; lasciando
invece le cose come stanno, 'hoc' racchiude in genere (quasi 'hoc
genus hominum') il concetto spiegato poi da 'qui — curent'.
IX 26, 3 (p. 239, 23) 'an tu id melius qui etiam philosophum
inriseris : cum ille 'si quis quid quaereret' dixisset, 'cenam te
quaerere a mane' dixeris ? ille baro te putabat quaesiturum unum
caelum esset an innumerabilia. 'quid ad te? at hercule cena non
quid ad te? — tibi praesertim'. Tutte le difficoltà trovate dai
dotti in questo luogo dipendono e dall'indole familiare e scherzosa
del discorso e dal falso supposto che con le parole 'at hercule,..'
— 2m —
si rivolga di nuovo Cicerone a Peto, lasciato oramai da parte l'aned-
doto del filosofo. Ma in tal modo non sarebbe già un po' troppo
lungo lo scherzo sulla presenza dell'etera al convito? Non bisogna
dimenticare che qui come altrove Cicerone scherza per nascondere
le lagrime, e come dice egli stesso: 'gemitum in risus maximos
transfero '. Così dopo aver raccontato con una certa vivacità lo
scherzo fatto da Peto al filosofo, la lettera prende un tono quasi
melanconico con le parole: 'sic igitur vivitur', e pare che lo scrit^
tore voglia dire: 'se pure questa si può chiamar vita', come poco
dopo: 'si ulla nunc lex est*; ed anche lo scherzo finale non riesce
che ad accentuare sempre più l'effetto prodotto da questo riso con-
vulso nato dal pianto; basta fermarsi un momento sul contra.sto
espresso dalle parole: 'non multi cibi hospitem accipies, multi
ioci'. La burla di Peto al filosofo è chiara fino ad 'innumerabilia';
possiamo anche immaginare che le parole 'ille — innumerabilia'
siano il sunto del dialoghetto seguito all'inaspettata risposta di
Peto: — 'Che discorso! — 0 che credevi che avrei chiesto? —
Qualche cosa di più alto — Per esempio ? — Se c'è un solo cielo
0 infiniti'. Qui la risposta ultima di Peto: — 'Che t'importa?
Ma la cena no(=non si può dire) (1) che f importa? special-
mente per un tuo pari'.
In mancanza di congetture più soddisfacenti, si potrà conten-
tarsi della lezione dei codici anche in luoghi come i seguenti :
VI 13, 2 (p. 148, 12) '...de te etiam audio ex familiarissimis eius
(Caesaris), quibus ego ex eo tempore, quo primum ex Africa nun-
tius venit, supplicare una cura fratribus tuis non destiti, -|- quorum
quidem et virtute et pietate et amor in te singularis et assidua
et perpetua cura salutis tuae tantum proficit, ut nihil sit quod
non ipsum Caesarem tributurum existimem'. Il trovare nella lettera
seguente 'singularis pietas amorque fraternus' riferito ai fratelli
di Ligario non ci deve indurre a riferire anche qui il 'quorum'
a ' fratribus ' ; ma piuttosto, considerando come in parentesi le
parole 'quibus — destiti', intenderemo 'virtute et pietate' dei
(1) Un'ellissi di questo genere non sarebbe inaudita nel nostro linguaggio
familiare moderno ; ad ogni modo nelle lettere di Cicerone si trovano degli
esempi molto più strani (V. Draeger Hist. Synt} § 116, specialmente pa-
gina 201 sg.).
— 207 —
familiari di Cesare (ablativo indicante lo strumento di cui si serve
r 'amor singularis' ecc. di Cicerone: cfr. 14, 1 'me scito omnem
meum laborem, omnem operam, curam studium in tua salute con-
sumere'). Certo sarebbe molto più chiaro il passo, se 'amor' fosse
accompagnato da un 'meus' o da un 'noster' ; ma anche così credo
che si possa risparmiare il segno j.
X 23, 5 (p. 263, 12) '...quod legatos fide Lepidi missos ad me
in conspectum venire vetueram, quod Caium Catium Vestinum,
tr, mil., missum ab Antonio ad me cum litteris exceperam nu-
meroque hostis habueram...'. 11 Mendelssohn non è soddisfatto di
quanto scrisse il Giltbauer in difesa della lezione dei codici, e pro-
pone 'exegeram' invece di 'exceperam'. Non vedo che difficoltà
abbia in se il verbo 'excipere' che, come si adopera quale termine
di caccia e di pesca, così può indicare l'impadronirsi d'un uomo
e il tenerlo in arresto. È questo appunto che Fianco doveva fare,
trattandosi di un tribuno militare di Antonio ; con un altro messo
qualsiasi forse sarebbe stato il caso di non riceverlo soltanto ?
Allora perchè si richiedeva la sicurtà di Lepido per i legati ?
XIII 18, 1 (p. 352, 16) 'Non concedam ut Attico nostro... iu-
cundiores tuae... litterae fuerint quam mihi ; -{-nam etsi utrique
nostrum prope aeque gratae erant, tamen ego admirabar magis te,
qui, si rogatus aut certe admonitus liberaliter Attico respondisses
— quod tamen dubium nobis quin ita futurum fuerit non erat — ,
ultro ad eum scripsisse eique nec opinanti voluntatem tuam tantam
per litteras detulisse'. Ponendo il segno della corruttela davanti
al 'nam' pare che il Mendelssohn supponga il testo molto più
guasto di quel che parve al Lehmann e al Baiter, pei quali si
tratta solo di supplire un 'nobis gratum fecisses' o un 'nobis satis
fecisses' dopo 'respondisses' o dopo 'erat'. In realtà un supple-
mento di tal genere non può soddisfare completamente, perchè Ci-
cerone qui vuol parlare non di quello che gli ha fatto piacere,
ma di quello che gli pare degno di ammirazione nella condotta
di Servio. Il concetto è dunque presso a poco il seguente : ' se tu
fossi stato richiesto o almeno avvisato di ciò che occorre ad Attico,
già saresti stato molto cortese a rispondergli direttamente — quan-
tunque non potevamo dubitare che l'avresti fatto — ; ma (luel che
destava la mia ammirazione era che tu per primo scrivesti ad
Attico' ecc. Ora questo concetto si può ricavare dalle parole dei
codici, purché le parole 'si — respondisses' s'intendano in modo
— 208 -
diverso dal consueto, Jn primo luogo ciò».* bisogna supplire un
'esses* ai due participii (1) e porre una virgola dopo 'admonitus',
in secondo luoi,'o bisogna intendere 'liberaliter... respondisses' =
'liberalis fuisses in respondendo' (d'r. Sclimalz, Stilisti/c 77. Nà-
gelsbach-Miiller i^ 185,5).
111. — Vi sono al contrario dei luoghi, in cui gli scrupoli
del Mendelssohn nel seguire la lezione di Q sembrano eccessivi.
Esaminiamone alcuni.
11 G, 5 (p. 33, 28) 'Ego ni te videre scirem -}- quam in te baec
scriberera, quantum officii sustinerem, quantopere mihi esset in
hac petitione Milonis non modo contentione, sed etiam dimicatione
elaborandum, plura scriberem'. L'emendazione di M^ 'quora ad
te' ò certamente preferibile a quella del Boot, alla quale sembra
che il Mendelssohn darebbe volentieri la preferenza. Qui si tratta
specialmente del gran da fare che Cicerone aveva per sostenere
la candidatura di Milone: 'Scriverei più a lungo', egli dice, 'se
non sapessi che tu vedi in mezzo a quante occupazioni mi trovo
mentre scrivo' (2). Questa determinazione temporale fa molto più
al senso, che il 'qua mente' pro])Osto dal Boot. Del resto il 'quom'
si trova anche nel margine di P, che nel testo ha 'cum', e lo
scambio di 'quam' con 'quom' ha luogo spesso in M, p. e. 4, 14.
28, 9. 37, 8. 47, 8. 112, 17 (3). Resta la difficoltà dell' 'in te',
che secondo iJf^ dovrebbe correggersi in 'ad te'; ma non è im-
probabile che l'errore sia dovuto alla vicinanza quasi immediata
del 'ni te' precedente, e forse è da espungere senz'altro.
II 13, 2 (p, 41, 9) 'haec eo pluribus scripsi, quod f nihil si-
gnificabant tuae litterae subdubitare, qua essem erga illum vo-
luntate'. Siccome Cicerone risponde alla lettera di Celio Vili 6,
non possiamo essere in dubbio sul significato di queste parole :
(1) Poco diverso è il caso in luoghi come De or., 2, 42, 180 'non, her-
cule, mihi, nisi admonito, venisset in mentem' e Caes. De B. G. I 44 med.
' nisi rogatus non venerit '.
(2) Poco prima: 'ego omnia mea studia, omnem operam curam, industriam
cogitationem, mentem denique omnem in Milonis consulatu fixi et locavi': ecc.
(3) I numeri, cerne sempre, si riferiscono all'edizione del Mendelssohn,
dal cui apparato critico si può vedere che nei tre ultimi luoghi citati anche
GR hanno lo stesso errore di M ; sicché confusioni di tal genere erano già
avvenute nell'archetipo.
- 20y -
'La tua lettera av^eva l'aria di sollevare qualche dubbio sulle mie
disposizioni d'animo verso di lui (Appio)'. Ora per ottenere questo
senso non c'è nulla di meglio che seguire l'antica emendazione di
Pier Vettori '(non) nibil'.
II 16, 5 (p. 45, 4) 'an dubitas, -|-quin scias quanti cum illum,
tum vero Tulliam meam faciam, quin ea me cura vehementissime
sollicitet...?'. Siccome è chiaro che 'quin scias' non soddisfa al
senso, e siccome l'errore si presentava facilmente e per il 'quin'
seguente e per il 'dubitas' che precede, si può relegare il 'quin'
nell'apparato critico, e scrivere 'quom'. La correzione di 3P in
questo luogo è poco chiara; ma sembra che sia piuttosto 'quum'
che 'qui'.
V 12, 3 (p. Ili, 12) 'a qua te -|-effecti non magis potuisse
demonstras, quam Herculem Xenophontiura illum a Voluptate '.
L'emendazione del Vettori 'flecti' è lodata in nota dallo stesso
Mendelssohn, ed è tale da spiegare anche la corruzione con la
semplice dittografia dell' e di 'te'; e il 'deflecti' di G (in parte
di R) prova che l'errore esisteva già nell'archetipo, e si sentì il
bisogno di una emendazione, che ora non si potrebbe preferire a
quella del Vettori (1).
V 17, le2 (p.ll9, 11 e 19). Se la forma del nome proprio 'P. Sitti'
è conservata bene nel corpo della lettera dal codice M, non c'è
motivo di lasciare nell'intestazione 'P. -pSistio', e se si deve re-
stare in dubbio fra il 'Sittio' di iHf e il 'Sestio' di GÈ, allora
questo dubbio deve apparire anche per 'Sitti' e 'Sesti'.
VI 21, 1 (p. 153,28) ...'mihi sim consciiis me, quoad licuerit,
dignitati reip. consuluisse et f hac missa salutem retinere vo-
luisse'. Credo che 'hac amissa' si possa introdurre nel testo senza
scrupolo, se giustamente a p. 154, 29 si è accettato 1' 'amisisti' di
M"" a preferenza del 'misisti' di Q, e se anche a p. 145, 27 la
lezione di ili"^ è 'misisti' mentre si richiede 'amisisti', come fu
corretto da M<^.
IX 1, 2 (p. 212, 3) ...'videor sperare debere, si te viderim, et
ea quae premant et ea quae inpedeant, me facile f turura '. Tro-
vandosi in M un 'fransi' di mano antica, se non di prima mano,
sul 'turum' e in j£f 'sciturum' e in Z) 'laturum', è giusto venire
(1) Nell'uso Ciceroniano si può dire che generalmente 'deflectere' =' de-
viare' e 'flcctere' = 'far deviare'.
Rivista di filologia, ecc., 1. 14
— 210 —
alla conclusione del Mendelssohn, che nell'archetipo doveva esser
perduta la prinna parte della parola. Nonostante mi sembra che
la lezione di T) abbia molta verisimiglianza anche come semplice
congettura. Niigelsbach-Miiller'' p. .'^00 preferisce 'transiturum'.
X 3, 2 (p. 242, 20) ...'rairabiliter faveo dij^nitati tuae, quaiii
raihi tecum statuo -{-habere esse communem'.
Il Mendelssohn si contenta di approvare in nota tanto il sem-
plice 'habere' di r quanto il 'debere esse' del Vittori; ma forse
questa seconda lezione pare a lui preferibile, poiché la segue nel
citare questo luogo in nota a p. 245, 4. Le lezioni di Q risalgono
esse habere
evidentemente ad un 'habere' o ad un 'esse' scritto per emendar»'
0 per spiegare. Può sembrare verosimile che 'habere' sia stato
scritto per spiegare 'mihi... esse*; ma riflettendo, si trova molto
più probabile il caso contrario. 11 'mihi' appartiene a 'statuo'
come Pro Murena 14, 32 'cum ille esset, ut ego mihi statuo
(secondo ch'io mi figuro), talis qualem te esse video ' e Pro Sulla
18, 50 'te enim existimo tibi statuisse (che tu abbia fatto i tuoi
conti) quid faciendum putares'; sicché Cicerone direbbe: 'la tua
dignità mi figuro di averla in comune con te '. Non intendendo
questo rapporto del 'mihi' a 'statuo' e non potendo spiegare
'mihi habere' un antico lettore scrisse forse quell' 'esse' che poi
passò nel testo.
X 12, 5 (p. 253, 1) ...'haec omnia quae habent speciem gloriae,
conlecta inanissimis splendoris insignibus, eontemne, brevia fucata
caduca existima'.
Sembra che nell'archetipo di Q ci fosse incertezza tra 'fucata'
e 'fugata'. Da quest'ultima lezione procede quella di Jf"" P-'fu-
gatia' 0 'fugacia'. Ora due cose sono possibili: o che in M sia
stato commesso un errore scrivendo 'fugat(a)' (1) invece di 'fu-
cata', e questa sia la vera lezione; o che nei codici HD sia stato
scritto 'fucata' per emendare il 'fugata' dell'archetipo, in cui era
una svista invece di 'fugacia'. A prima giunta sembra più pro-
babile la prima cosa, e il 'fucata' si presenta come più specioso;
ma considerando bene, tra 'brevia' e 'caduca' sta molto meglio
un 'fugacia' che un 'fucata' ; si ha infatti una vera gradazione,
come se si dicesse: 'poco durano, fuggono, periscono'. D'altra
(1) La desinenza è incerta, quantunque l'amanuense di P* ci vedesse un o-
- 211 —
parte l'idea del 'fucata' è già racchiusa nelle parole precedenti:
'quae habent speciem inanissinais splendoris insignibus' ecc.
IV. — Che molti luoghi siano ancora da emendare non può
essere dubbio a chi legga con qualche attenzione il testo e l'ap-
parato critico ; ma enumerarli e discuterli sarà ufficio di chi vorrà
preparare la nuova edizione. Qui mi contenterò di esaminarne
alcuni :
I 7, 3 (p. 9, 12) 'praeterea quidem de consularibus nemini
possum aut studii erga te aut officii aut amici animi esse testis:
etenim Porapeium, qui mecum saepissime non solum (a) me pro-
vocatus, sed etiam sua sponte de te communicare solet, scis tem-
poribus illis non saepe in senatu fuisse; cui quidem litterae tuae,
quas proxime miseras — quod facile intellexerim — periucundae
fuerunt. mihi quidem humanitas tua vel summa potius sapientia
non iucunda solum, sed etiam admirabilis visa est:' ecc.
In primo luogo bisogna non dimenticare che i codici Q, pur
differendo leggermente nella scrittura delle parole 'periucundae f.'
(per iocum def., per iocunda fuerit, ecc.), sono però concordi nel
darci una forma di congiuntivo; e possiamo dire che fuerint è
sicuro, anche se G ha 'fuerit'. In secondo luogo con le parole
'in senatu fuisse' Cicerone ha finito di trattare delle disposizioni
degli animi verso Lentulo fra i Padri Coscritti ; e il nome di
Pompeo gli ha offerto il destro di passare ad un altro argomento,
a lodare cioè l'abilità di Lentulo nel cattivarsi l'animo di una
persona così autorevole. Inoltre un punto dopo 'fuerunt' sembra
staccare l'una dall'altra due parti inseparabili del discorso ; perchè
certamente le parole 'non iucunda solum, sed etiam admirabilis'
sono in relazione molto stretta col 'periucundae' che precede. Se
a ciò si aggiunge che nelle poche righe trascritte la parola ' quidem '
è ripetuta tre volte, e specialmente 'cui quidem' e 'mihi quidem'
a così piccola distanza possono appena sembrare tollerabili, non
sarà forse arrischiato il mutare 'cui quidem' in 'cui quom' e con
una leggiera correzione nell'interpunzione leggere: ...'in senatu
fuisse. cui quom litterae — periucundae fuerint, mihi quidem' ecc.
I 9, 23 (p. 25, 26) 'scripsi etiam — nam -|- etiara ab oratio-
nibus dilungo fere referoque ad mansuetiores Musas, quae me
- 212 -
maxime sicut iam a prima adulescentia delectarunt — scripsi
igitur' ecc.
Dobbiamo essere grati al Mendelssohn di avere indicata la vera
via di correggere il 'nara etiam*; ma l'emendazione 'animum'
proposta dallo Schmalz, per quanto speciosa, non è da introdurre
nel testo. Vide bene l'Orelli, che se 1' 'etiam' è incompatibile in
questo luogo, un 'iam* al contrario è quasi necessario, facendovisi
un rapido confronto col tempo passato fra le 'acerrimae conten-
tiones' del foro, come dice chiaro l'espressione 'mansuetiores
Musas*. Perciò credo che qui fosse scritto 'nam mentem iam',
ricordandomi dell'Oraziano (Ep. 1 1, 4) 'non eademst aetas, non
mens'. Si può supporre come origine dell'errore la scrittura 'nà-
metéiam' nell'archetipo dei nostri codici.
II 7, 4 (p. 35, 8) 'praesens tecum egi, cum te tr. pi. isto anno
fore non putarem, itemque petivi saepe per litteras, sed tura quasi
a -}-senatuore, nobilissimo tamen adulescente et gratiosissirao, nunc
a tr. pi. et a Curione tribuno' ecc.
11 Mendelssohn ha condotta a buon punto l'investigazione sul-
l'origine di quel mostruoso 'senatuore', indicando quello che il
senso richiede e la possibilità che sia stato fuso insieme il geni-
tivo 'senati' con un altro vocabolo significante la condizione di
Curione rispetto al senato prima di essere tribuno. L'espressione
usata nella lettera XV 4, 6 (p. 406, 9) poteva suggerire anche
qui 'a senatu te auctore' ('allora era come se io chiedessi al se-
nato servendomi della tua autorità'); ma non s'intenderebbe l'ag-
giunta ' nobilissimo tamen ' ecc. Troppo sarebbe supporre una la-
cuna maggiore, per es. 'a senatu, te tantum auctore'. Ma forse
Cicerone scrisse soltanto 'a senati auctore' nel senso di 'ab eo qui
senatui auctor esset', e per mitigare l'espressione ci mise avanti
un 'quasi': 'allora mi rivolgevo per così dire a un consigliere
del senato, per quanto giovine di gran nobiltà e di molta in-
fluenza, ora' ecc.
IV 5, 1 (p. 81, 24 sqq.): ...'si istic adfuissem, neque tibi de-
fuissem coramque meum dolorem tibi declarassem ; etsi genus hoc
consolationis miserum atque acerbum est, propterea quia, per quos
ea confieri debet propinquos ac familiaris, ei ipsi pari molestia
adficiuntur neque sine lacrimis multis id conari possunt, uti raagis
ipsi videantur aliorum consolatione indigere quam aliis posse suum
officium praestare. tamen quae in praesentia in mentem mihi ve-
— 213 —
nerunt, decrevi brevi ad te perscribere, non quo ea te fugere exi-
stimem, sed quod forsitan dolore impeditus minus ea perspicias'.
Credo fermamente che questa sia la retta interpunzione di questo
brano, nel quale, secondo l'interpunzione comune, le parole 'etsi
— praestare ' sarebbero da unire al periodo seguente. A questo
errore hanno condotto le parole 'etsi — tamen', che si sono cre-
dute in corrispondenza fra loro, mentre T'etsi' risponde al concetto
'dolorem... declarassem' e il 'taraen' a tutto ciò che precede 'sane
...graviter molesteque tuli communemque eam calamitatem existi-
raavi ('della tua disgrazia ho provato dolore al pari di te...; ma
nonostante ho pensato di scriverti' ecc.). È evidente che 'hoc genus
consolati onis' si riferisce molto più naturalmente a ciò che precede
(mostrare il proprio dolore) che a ciò che segue (scrivere, ecc.) ;
e l'asindeto 'declarassem. etsi — tamen' non può avere una spie-
gazione sufficiente.
IV 13, 1 (p. 93, 14) 'quod pollicerer non erat ; ipse enim pari
fortuna ^ adiectus aliorum opibus casus meos sustentaham' ecc.
Se r 'adiectus' di Jf non è soddisfacente, 1' 'adfectus' di GR
ha tutta l'aria di una emendazione di ripiego. Tanto il 'casus'
che il 'sustentaham' ci fanno pensare alla condizione di chi si
trova per terra e vorrebbe sollevarsi ; sicché ci si aspetterebbe un
participio che significasse piuttosto 'abbattuto, buttato giti', che
'colpito'. Si presenta quindi come abbastanza probabile l'emen-
dazione 'deiectus'.
Y 6, 2 (p. 104, 5) ...'me scito tantum habere aeris alieni, ut
cupiara coniurare, si quisquam recipiat, sed partim odio inducti
me excludunt et aperte vindicem coniurationis oderunt, partim
non credunt et a me insidias metuunt, nec putant ei nummos
desse posse, qui ex obsidione feneratores exemerit. -j-omni semis-
sibus magna copia est, ego autem meis rebus gestis hoc sum ad-
secutus ut bonum nomen existimer'.
La difficoltà dell' 'omni' non si toglie né con l'antica emenda-
zione 'omnino' né con 'bonis', né col 'sumendi' ora proposto dal
Mendelssohn. Si tratta per me di un semplice errore d'interpun-
zione, e si deve correggere così : ...'obsidione feneratores exemerit
omni: semissibus magna' ecc. Infatti non si tratta dell' 'obsidio'
che tutta Koma, e non i soli usurai, potevano aspettarsi dalla
congiura di Catilina, ma delle molteplici seccature che i congiurati
dovevano recare alle persone fornite di danaro. Così lo scherzo è
— 214 —
anche più fine: 'non ci credono e temono un tranello da parte
mia, e non possono persuadersi che manchino quattrini a colui
che ha liberati f^li usurai da ogni seccatura; tanto più che al
50 °/o si trova finché si vuole, ed io per le mie opere ho acqui-
stato credito'.
VI 6, 3 (p. 136, 28) 'si te ratio quaedam Etruscae disciplinae,
quam a Patre nobilissimo atque optimo viro, acceperas non fe-
fellit, ne nos quidem nostra divinati© fallet*.
Invece di 'quaedam P^truscae', che è solo lezione di r (1), in
M si legge 'iratuscae' e in jR 'mira tusce' onde sembrerebbe che
nell'archetipo ci dovesse essere 'quaedam mira tuscae' ('mira'
manca in G forse perchè il copista non intendeva la parola). Che
'tuscae' aggettivo presenti difficoltà, come crede il Mendelssohn,
a me non sembra, prima perchè 'in inferum hoc Tuscum et bar-
barum scopulosum atque infestum (mare)' si legge de Or. 3 19,
69, e poi perchè i Tusci son nominati parlandosi dì auspicii de
Nat. Deor. II 4, 11 e de Div. Il 51, 100. Sono invece d'accordo
col Mendelssohn nel riconoscere che 'mira' qui sarebbe fuor di luogo.
Ma non per questo si deve sopprimere e ricorrere all'emendazione
di r, che non ci spiega l'origine dell'errore. Per me credo che
debba leggersi 'mera (genuina, schietta, perchè ricevuta diretta-
mente dal padre) tuscae'. Un caso simile è occorso nel De nat.
Deor. III 40, 94, dove ora si preferisce la lezione 'in eara stoi-
corura rationem ' all'altra 'in meram', credo a torto.
VI 17, 2 (p. 150, 21) ...'sic habeto, beneficiorum magnitudine
eos, qui temporibus valuerunt -|-ut valeant, coniunctiores tecum
esse quam me, necessitudine neminem'.
11 Mendelssohn inclina ad accettare l'antica correzione ' aut va-
lent', la quale, se anche fa al caso, non ci spiega però come sia
nato l'errore. È invece molto probabile che Cicerone avesse scritto
'ut valent', e che, ingannato sul valore dell" ut', un copista abbia
sostituito il congiuntivo all'indicativo. Cicerone direbbe: 'quelli
che per forza di circostanze sono stati potenti come ora lo sono
(l'axuaav ib^ ìaxùouai)ti sono più legati per grandezza di benefici,
ma per aftetto nessuno è più di me'. Può darsi anche che 1' 'ut'
(1) Così pure nel margine di P che nel contesto ha 'vetustae' in rasura.
Ecco uno dei casi in cui importerebbe avere un'idea chiara dei rapporti di
P con r.
— 215 —
sia nato da un 'ver malinteso e poi abbia prodotta l'alterazione
del verbo.
Vili 10, 3 (p. 201, 3) ../sin faut sit aut non erit istic bellum,
aut tantum erit' ecc.
Il Mendelssohn ha ragione di non accontentarsi ne del 'sin
autem aut' di r, ne del semplice 'sin aut' del Baiter. In quel-
F'aut sit' si nasconde probabilmente un 'a(utem), ut fit', che,
come per la parte paleografica non sarebbe difficile a spiegare,
così per il senso presenterebbe appunto quello che il lettore qui
si deve aspettare: 'che se poi, come suol accadere, o non ci sarà
guerra costà, o ve ne sarà soltanto' ecc. Nelle predizioni di Celio
l'ipotesi della guerra ('si Parthicum bellum erit') è considerata
appunto come la meno probabile.
IX 1, 2 (p. 211, 9) ....'scito enim me, postea quam in urbem
venerim, redisse cum veteribus amicis, id est cum libris nostris,
in gratiam ; etsi non idcirco eorum usum dimiseram, quod eis su-
scenserem, sed quod eorum me subpudebat; -j-videbam enim mihi
cum me in res turbulentissimas infidelissimis sociis demissum
praeceptis illorum non satis paruisse'.
Anche l'emendazione del Mendelssohn 'nimirum ' per ' enim
mihi cura' non può essere considerata che come un ripiego; ma
tanto questa quanto quella dell'Usener ('enim iiivitum') si accor-
dano nel considerare come corrotto il 'cum', a voler conservare il
quale bisognerebbe accettare il 'demisissem' dei codici r. Ora la
cosa più probabile sembra che il 'cum' sia nato per falsa scrit-
tura da un 'tum' che qui sarebbe molto adatto al senso; questo
sarebbe quindi soddisfacente, se 'videbam mihi, potesse equivalere
a un cruvr]òeiv è|nauTuJ (1). Ciò sarebbe molto più probabile con
la lezione 'videbar' di s- quantunque la costruzione di 'videor'
con l'accusativo e l'infinito sia molto rara. Tale è l'interpretazione
di 0. E. Schmidt che traduce {Ber Briefweclisel des M. T. Ci-
cero, Leipzig, 1893, p. 34): 'denn es kam mir vor, als hàtte ich,
als ich mich sehr unzuverlàssigen Bundesgenossen zu Sturm und
Drang uberliess, den Lehren meiner Bucher nicht gehòrig gefolgt ',
(1) Non credo con lo Schmalz (Krebs, Antibarbarus^ 671) che ' videre sibi
locum ' Tusc. IV 17, 38 sia 'nach einem Platze unisehen'; ma in quei
luogo 'videre' ha il suo significato normale e il 'siili' va unito a 'locum':
un luogo per se (adatto a sé, fatto per sé).
- 216 -
ma forse egli si attiene intieramente alla vulgata foggiatasi .sui
codici apografi. Bisogna invece considerare che difficilmente un
'videbar' in questo caso si sarebbe trasformato in ' videbara ' o
'videbant' ; e di queste due lezioni aj)punto quella che è data
(lai codici HJ) sembra questa volta preferibile a quella data da M.
1 libri .sono ])ersonificati e considerati quali veri e propri amici,
come si vede anche da ciò che segue: 'ignoscunt... revocant...
dicunt'. Se il 'videbant' è giusto, il 'mihi' è nato probabilmente
dalla dittografia dell' m finale di 'enim' e da una scrittura erronea
di 'un ii '(spesso scritto 'hii ' anche altrove) o' illi*; ne si troverà,
credo, una difficoltà nel seguente 'illorum' (vedi p. e. Schmalz,
Lai. StilistiJc 15, an. 2). Sicché si potrebbe considerare come molto
verosimile la lezione 'videbant enim ii tum me' ecc.
XI 20 (p. 299, 3) 'Maximo deo dolore hoc solacio utor quod
intellegunt homines'ecc.
Così ha lasciato il Mendelssohn nella sua edizione seguendo i
codici; ma in nota avverte che altri leggono '{in) maximo* e ag-
giunge aegreque ìi. quidem l. praepositione caremus. Probabil-
mente Bruto scrisse 'maxime meo dolori': ' ho questo conforto al
(per il) mio dolore, che' ecc.
XIII 24, 2 (p. 356, 11) ...'primum, ut debeo, tibi maximas
gratias ago, cum tantum litterae meae potuerunt ut eis lectis
omnem oflfensionem suspicionis, quam habueras de Lysone depo-
neres'...
Così hanno i manoscritti per un antico errore derivato, io credo,
dall'aver accordato 'omnem' con la parola più vicina. Ma da ciò
che precede nella lettera è facile intendere, che Servio aveva avuto
sul conto di Lisone qualche sospetto di offesa, e d'altra parte si
sa che 'suspicio' è quasi sempre accompagnato da un genitivo, il
che per 'offensio ' non è ugualmente probabile. Non dubito quindi
che sia da leggere 'omnem offensionis suspicionem'.
XIII 72, 3 (p. 384, 2) 'is (Dionysius) est in provincia tua :
eum et M. Bolanus familiaris et multi alii- Naronae viderunt \
Non sembrando soddisfacente questa lezione di Y, si è intro-
dotto un (meus) o prima o dopo di 'familiaris'. Ora a me pare
strano che Cicerone dovesse sentire il bisogno di aggiungere questo
attributo al nome di Bolano, dopo aver parlato estesamente di lui
poco innanzi (n. 2) e averlo chiamato 'veterem amicum'. Credo
invece che 'familiaris' sia un'antica glossa entrata nel testo come
— 217 —
'nomen proprium' in E I 5=*, 3 (p. 6, IP), dove M presenta la
glossa in margine.
V. — I luoghi seguenti infine offrono difficoltà di vario ge-
nere, e vanno esaminati più particolarmente.
I 9, 20 (p. 24, 2) 'Crassus, ut quasi testata populo Eomano
esset nostra gratia, paene a meis laribus in provinciam est pro-
fectus — nam, cum mihi condixisset, cenavit fapud in mei ge-
neri Crassipedis hortis — '.
L'emendazione proposta dal Mendelssohn 'paludatus' invece di
' apud', per quanto sottile, non ha molta probabilità, sia perchè
è difficile intendere lo scambio di due vocaboli così diversi, sia
perchè è arbitrario ammettere che Crasso portasse già al pranzo
il paludamento col quale doveva partire per la provincia. Altro
è il caso XIII 6, 1 (p. 341, 28) * cum te prosequerer paludatum'.
La lezione di P- 'apud me in' non è forse così strana come sembra
al Mendelssohn, anche se è una congettura; perchè non c'è oppo-
sizione fra 'apud me' e 'in — hortis', qualora si prescinda dal-
l' uso consueto 'cenare apud aliquem' = 'pranzare in casa di uno'.
Nel caso speciale il senso è chiarito dalle parole 'paene a meis
laribus' : 'fu a pranzo accanto a me (1) nei giardini di Crassipede '.
Difficilmente possiamo rinunziare a quell' 'accanto a me' per il
senso. Tutt'al piìi si può pensare che 'apud' qui sia adoperato
quasi avverbialmente col pronome sottinteso (T ebbi accanto a
cena').
II 7, 2 (p. 34, 27) 'di immortales! f cur ego apsum vel spe-
ctator laudum tuarum vel particeps vel socius vel minister con-
siliorum ? tametsi hoc minime tibi deest ; sed tamen efficeret ma-
gnitudo et vis amoris mei Consilio te ut possem iuare'.
Difficilmente si pujò contentarsi o della mutazione di r ' cur
ego (non) adsum' o della congettura del Purser 'cur ego absum
(et non potius adsum)' che rende troppo fiacco il discorso. Ad
evitare questo difetto il Mendelssohn propone dubbiosamente 'cur
ego apsum? (cur non adsum)' ecc. È chiaro da queste stesse prò
(1) La preposi/., avrebbe cioè il senso proprio (notato sotto il nuni. 1 in
Hand Tkì-s. I 407, (love è citato De or. Il 3, 12 eco. L' Hand stesso in-
vece, ih. 408, intende il nostro passo 'incoena a me parata').
— 21H —
poste di emendazioni che nessuna difficoltà vi sarebbe se si potesse
intendere 'apsum' = 'non adsura' ; perchè sembra naturale 'adesse
spectator', ma non 'abesse spectator*. Può darsi però che, ragionando
;i questo modo, noi diamo troppo peso ad una nostra impressione sog-
gettiva; perchè logicamente 'absum spectator' =: 'non mi trovo costì
come spettatore* si può spiegare. Se non clie forse un cambiamento
di interpunzione ci apre una via migliore: 'cur ego apsum ? vel
spectator laudum tuarum vel particeps vel socius vel minister
consiliorum — tametsi hoc minime tibi deest — , sed tamen efficeret
magnitudo et vis amoris mei Consilio te ut possem iuare' ('perchè
non son io costà ? o come spettatore, ecc. — quantunque non hai
certo bisogno di questo — ma pure la grandezza e la forza del-
l'amor mio farebbe ch'io potessi esserti utile). Resta un anacoluto
certamente, ma non dei più gravi, poiché si riduce all' anticipa-
zione degli attribuiti di 'tu' soggetto sottinteso di 'possem' (Ij,
ed anche in italiano possiamo renderlo esattamente.
HI 4, 2 (p. 53, 23) 'mea in te omnia summa necessitudinis of-
ficia constabunt'.
Credo che la lezione di jR 'summae' sia da preferire, perchè
'omnia officia' dice già più che 'omnia summa officia' e perchè
'surama necessitudo' è una formola prediletta di Cicerone, p. e.
Pro Cluentio 42, 117. Fro r. Deiot 14, 39. Ep. XIII, 27, 2 ecc.
(cfr. 'magnas necessitudines' Fro Piane. 16, 39. ad Att. XVI,
16, 3).
Ili 5, 4 (p. 55, 13) 'simul ac progredì coepero, quam jceler-
rimis poterò et quam creberrimis litteris faciam ut tibi nota sit
omnis ratio dierum atque itinerum meorum'.
Probabilmente la lezione è giusta e non vi è corruzione di sorta.
11 'celerrimus* di R non può esser prodotto che da una svista;
mentre il 'celerrime' degli apografi è una congettura manifesta
(P conserva la lezione di 3IG). È chiaro anche per l'emendazione
proposta dal Klotz che nessuna difficoltà vi sarebbe, se invece di
'litteris' ci fosse la parola 'nuntiis', ma è facile intendere come
i due concetti possano fondersi in uno e possa attribuirsi alle
lettere la qualità di chi le porta. 0 se vogliamo, 'celerrimis' =
'celerrime missis', e possiamo confrontare Ad Att. XV 27, 2:
(1) Lo stesso caso presso a poco in Orazio 5. II 1, 59: 'dives, inops,
Romae, seu fors ita iusserit, exsul, quisquis erit vitae, scribara, color '.
— 219 -
'librum tibi celeriter mittam « de gloria » '. Aggiungerò Tac. Ani/.
1, 5 'properis matris litteris accitur',
III 7, 2 (p. 58, 10) 'peracute querebare quod eos (legatos
Appianos) tributa esigere vetarem priusquam ego re cognita per-
misissem ; genus enim quoddam fuisse impediendi, cum ego co-
gnoscere non (possera) nisi cum ad hiemem me ex Cilicia rece-
pissem'.
Può darsi che il 'possem' sia da supplire dopo 'recepissem',
dove l'omissione poteva piìi facilmente avvenire per la vicinanza
di parecchie lettere simili. Ma può anche darsi che sia vera la
lezione di R ' cognoscerem ' e non occorra alcun supplemento.
Sembra infatti che Cicerone abbia sott'occhio la lettera di Appio
e cerchi di riprodurne le frasi. Ora possiamo immaginare che
Appio avesse scritto : ...'non enim cognoscis nisi cura te... rece-
peris' ('il dire che i legati riscuoteranno, quando tu lo permetterai
loro dopo avere accertata la cosa, è una maniera d'impedire addi-
rittura la riscossione, perchè l'accertamento tu non lo fai se non
quando sarai tornato dalla Cilicia'). 11 'non* andrebbe trasposto.
Ili 10, 5 (p. 67, 19) 'illud vero raihi permirum accidit, tantara
temeritatem fuisse in eo adulescente, cuius ego salutera duobus
capitis iudiciis summa contentione defendi, ut tuis inimicitiis su-
scipiendis oblivisceretur -{-pro omnium fortunarum ac rationum
suarum, praesertim cum tu omnibus vel ornamentis vel praesidiis
redundares, (ipsi,) ut levissime dicam, multa dessent'.
Che dopo 'redundares' mancasse qualche parola era stato già
notato, a quanto sembra, da ]\P con un segno (A) sotto il rigo
ed un altro a margine; e così P- suppliva un 'illi' sul rigo :
sicché la nota del Mendelssohn 'ipsi add. OrelW è per lo meno
difettosa. Quanto al 'prò' può darsi che sia l'avanzo di 'prosus'
come suppone dubbiosamente lo stesso Mendelssohn ; ma può darsi
anche che sia da completare 'prope' (cfr. 1. 17 nella stessa pa-
gina), e non rimane escluso che ci possa essere una corruttela
più grave connessa con l'omissione del pronome avanti all' 'ut
levissime '.
Ili 10, 8 (p. G8, 32 — 69, 2) 'quid mihi mandasti, cum te
Puteolis prosequerer, in quo non expectationem tuam diligentia
mea vicerim?'.
Il Mendelssohn ha conservato ragionevolmente nel testo la lezione
dei codici; ma all'apparato critico ha notato: 'Puteolos OrelU,
- 220 —
hene. Ora, j)uò darsi che realmente Pozzuoli sia da considerare
jdiittosto come il termine di arrivo che come quello di partenza;
ma non è improbabile che in questo caso il' prosequerer' si possa
considerare come spogliato della sua idea di moto; o almeno 'Pu-
teolis' sia detto più in rapporto al 'mandasti' che alla gita di
(Jicerone per accompagnare Appio ((juesto caso sarebbe ad Att. VI
:{, 0: 'Apameam prosecutus est' =:' mi accompagnò fino ad Ap.';
ma il Boote il Wesenberg ivi leggono 'Aparaea', che si riferisce
al 'proficiscentem'); sicché si può intendere: 'trovandomi a Poz-
zuoli per accompagnarti'.
IV 1, 1 (p. 75, 14) 'nunc, quoniam nihil iam videmur opitulari
posse reipublicae'...
Il Mendelssohn ha preferita la lezione degli apografi a quella di
ilf (3^ 'videbimur' che è confermata anche dal 'videbamur' di B, in
cui qui, come altrove, apparisce una tendenza ad emendare. Non
credo che il futuro presenti difficoltà, anzi introduce nel concetto
una sfumatura che non è disprezzabile. Lo scrittore non vuole
semplicemente constatare un dato di fatto ; ma vuol manifestare
una sua profonda convinzione circa lo stato presente e futuro delle
cose (1).
IV 5, -4 (p. 83, 7). Dopo aver esposte le riflessioni da lui fatte
nel viaggio da Egina a Megara sulla caducità delle cose umane,
Servio continua: 'crede mihi, cogitatione ea non mediocriter sum
confirmatus. hoc idem, si tibi videtur, fac ante oculos tibi pro-
ponas '.
Il Mendelssohn ha cambiata l'interpunzione così : ' hoc, idem
si tibi videtur, fac' ecc. Considerando insieme al Lehraann (che
propone 'hoc item, si') quell' 'hoc' riferito a ciò che segue. Ma
prima di tutto la frase 'si tibi videtur' (='se credi, se ti pare',
poco diversa da un 'sodes' o sim.) s'intende come formola di ri-
guardo e di cortesia nel dare un consiglio o un suggerimento ;
mentre 'si idem tibi videtur' vorrebbe dire eì Kaì aoì Taùià boKei,
(1) Osserva giustamente il Du Mesnil (ad Cic. de leg. I 15, 43) che l'uso
del futuro meriterebbe di essere studiato meglio. Sono preziose per questo
le due noterelle del Teuffel in Fleck. Jahrb. 1872, p. 668 e 832. Vedi
inoltre Fritsche ad Hor. Serm. II 2, 59 e Brix ad Plaut. Trin. 606 e 923.
Quest'ultimo luogo (' istic erit' := 'sarà cotesto') mostra chiaramente che il
latino coincide con l'italiano nell'uso del futuro di probabilità e del futuro di
certezza. Vedi ora G. B. BoiNino, Sint. Lat. Torino 1895, § 215 (p. 290).
— 221 —
e allora sarebbe difficile il dire quale giudizio dovrebbe essere
indicato dal 'videtur'; perchè sopra non si tratta di giudicare,
ma di sentire e di riflettere ('cogitare' e ' cogitatio *). Oltre a questo
Servio ha già espressa la speranza che all'amico possa giovare il
rappresentarsi quello ch'egli stesso aveva veduto e pensato (p. 82,
23): 'quae res mihi non raediocrem consolationem attulit, volo
tibi commemorare, si forte eadem res tibi dolorem minuere possit.' ;
è naturale quindi che termini col dire: 'procura di porti dinanzi
agli occhi questa medesima cosa' ('hoc idem' come prima 'eadem
res'). Dopo 'proponas' si potrebbe anche mettere un punto ; perchè
le considerazioni seguenti sono di altro genere, e non occorre ri-
ferirle all' 'hoc': 'modo uno tempore tot viri carissimi ('claris-
simi' 2t!P2) interi erunt... in unius mulierculae animula si iactura
facta est, tanto opere commoveris?'.
V 6, 1 (p. 103, 25) 'Cum ad me Decius librarius venisset egis-
setque mecum, ut operam darem, ne tibi hoc tempore succederetur,
quamquam illum hominem frugi et tibi amicum existimabam ,
tamen quod memoria tenebam, cuiusmodi ad me litteras antea
misisses, non satis credidi homini prudenti, tam valde esse mu-
tatam voluntatem tuam'.
Nessuna delle emendazioni proposte per il 'prudenti' è tale da
soddisfare; ma non per questo è da considerare scevro di corru
zione tutto il passo, come pare che faccia il Mendelssohn. Dopo
l'inciso 'quamquam — existimabam' ogni altra parola riferita a
Decio è per lo meno oziosa; e il 'non satis credidi ' (='non riuscii
a persuadermi'; cfr. Hor. Ep. 1 7, 61 : 'non sane credere Maena')
non ha bisogno del dativo, che volendo si può facilmente supplire
col pensiero da ciò che precede. Ma la meraviglia di Cicerone
dipendeva evidentemente dal sapere che Sestio non era uomo facile
a mutare di voglie, anzi era buon conoscitore dell'opportunità e
della convenienza, era cioè un uomo saggio, o se vogliamo, pru-
dente. Sicché si presenta da sé la lezione giusta : 'non satis credidi,
homini prudenti tam valde esse mutatam voluntatem [tuam] '. La
vicinanza di un dativo al 'credidi' fece interpolare il 'tuam* che
poi rese sempre più difficile trovare la lezione genuina.
V 7, 3 (p. 105, 8) ...'quae, cum veneris, tanto Consilio tantaque
animi magnitudine a me gesta esse cognosces, ut tibi multo ma-
iore quam Africanus fuit fa me non multo minore quara Laeliura
facile et in republica et in amicitia adiunctum esse patiave'.
- 222 -
Questa ò la lezione di M , e potrebbe dirsi di Q, se in GIR
non mancassero le parole ' malore — multo', che son quelle che più
danno da pensare. I^er il Mendelssohn, a quanto sembra, la cor-
ruttela si limita a quell' 'a me* che ha dato luo<(0 alle varie con
vetture 'me', 'iam me*, 'tamen'. Nessuna di queste emendazioni
riesce a soddisfare completamente l'editore, il quale preferisce di
lasciare nel testo il sej^iio della corruttela ; ma egli non dubita
invece di cambiare il 'raaiore' in 'raaiorei' (accostandosi alla le-
zione degli apografi 'malori*) e il 'minore' in 'minorem'. Ora a me
sembra difficile ammettere questo doppio errore nella tradizione e
sembra molto più naturale supporre che Va' davanti al 'me' sia
l'avanzo di un sostantivo, a cui si riferiva tanto il 'raaiore' quanto il
'minore'. Scriverei quindi ' a(nimo)', intendendo 'multo — animo'
come ablativo di qualità ('a te di molto maggiore animo che
l'Africano... io di non molto minore che Lelio'). Naturalmente
l'errore non sarebbe forse nato se al 'tibi' fosse stato aggiunto
'homini' o 'viro'.
VI 5, 2 sq. (p. 135, 22) 'ea natura rerum est et is temporum
cursus, ut non possit ista aut tibi aut ceteris fortuna esse diu-
turna neque haerere in tam bona causa et in tam bonis civibus
tam acerba iniuria. -J-qua re ad eam spem quam extra ordinem
de te ipso haberaus, non solum propter dignitatem et virtutem
tuam — haec enim ornamenta sunt tibi etiam cum aliis com-
munia — : accedunt tua praecipua propter eximiura ingenium sum-
mamque virtutem cui mehercules hic, cuius in potestate sumus,
multum tribuit'.
Nel trascrivere mi sono allontanato dall'edizione del Mendelssohn
solo scrivendo 'qua re' invece di 'quare' e ponendo due punti in-
vece di una virgola prima di 'accedunt'. Questa seconda modifi-
cazione mi parve necessaria per evitare una stranezza poco dissimile
da quella di chi dicesse: 'alla speranza che ho di te in particolare
si aggiungono i tuoi meriti particolari'. Quanto più facilmente a
prima vista vien fatto di riferire 'ad eam' ad 'accedunt', tanto
più mi par necessario di oppormi a questa interpretazione. 11 pen-
siero di Cicerone non può essere stato che questo: 'dal considerare
le condizioni generali dei proscrìtti viene accresciuta quella spe-
ranza che noi abbiamo di te in particolare anche senza tener conto
della dignità e virtù tua (giacché questi son pregi comuni anche
ad altri): aggiuugonsi infatti altri tuoi meriti personali' ecc. Ora
— 223 —
ad intendere in questo modo non c'è difficoltà fuori che nell' 'ad
eam', dove al posto della preposizione si aspetterebbe un verbo.
Pensando alle parole dell'oraz. contro Catilina 1, 12, 30 proporrei
'alo eam\ tanto più che Cic. parla delle proprie previsioni (v. sopra,
lin. 15-22 e 136, 2) e speranze, come se le cose di Cecina fos-
sero sue.
VII 2, 2 (p. 158, 24) 'credas mihi velini magis me iudicio hoc
quam morte inimici laetatum : primum enim iudicio malo quam
gladio, deinde gloria potius amici quam calamitate'.
Tanto le emendazioni proposte dal Pluygers (Mnemos. 1, 1873,
p. 62 e IX, 1881, p. 116) quanto quella del Boot (Ohs. crit.p. 13}
lasciano la difficoltà d'intendere la parola 'amici'. Non so quale
spiegazione dia di questo luogo il Mendelssohn, che non mostra
di considerarlo corrotto. Per me non è dubbio che 'amici' qui ci
nasconde un verbo, da cui dovevano dipendere gli ablativi 'iudicio'
— 'gladio ' — ' gloria' — 'calamitate'. 11 pensiero procede a questo
modo: 'alla spada preferisco il giudizio, al giudizio che reca sven-
tura all'accusato preferisco il giudizio che reca gloria all'accusa-
tore' ; se non che la spada, il giudizio, ecc. sono presentati come
strumenti di una azione, che potrebbe essere quella di vendicarsi,
0 di combattere, o di difendersi o sim. Ora il luogo in cui Tacito
{Dial. 5) parla della difesa di Eprio Marcello (1) contro l'accusa
di Elvidio mi fa venire in mente il verbo 'accingi' = armarsi.
La voce sarebbe, è vero, un poco poetica; ma non lo è forse tutto
quanto il passo ?
Vili 12, 1 (p. 203, 20). Celio dopo aver parlato dei molti segni
di mal animo che Appio mostrava contro di lui, passa a descrivere
la propria condotta: ...'ipsum reprenderem et ab eo deprecarer
iniuriam, quem vitam mihi debere putaram, impetrare a me non
potui. quid ergo? -J-st tamen quasi aliquod amicis, qui testes
erant meorum in illum raeritorum, locutus sum: postea quam
illum ne quoi satisfaceret quidera me dignum habere sensi, malui
collegae eius, homini alienissimo mihi et propter amicitiam tuam
non aequissimo, me obligare quam illius simiae vultum subire'.
11 Mendelssohn (Ja/<r&. f. Phil 1886, p. 67) ha ragione di opporsi
(1) 'qua accinctus et minax'. — È vero che il Peter nella sua odizioiio
sostituisce al 'qua' il 'qui' dei mss.; ma vedi la nota nitica dell'edizione
del Bahrens (Lips. 1881, p. 5).
- 221 —
allii lezione defili apof(rafi 'quid ergo est?*; ma non di considerare
come corrotto il 'lamen', che secondo lui ahsolut nicht passi. Celio
non aveva potuto indursi a fare da sé delle rimostranze ad Appio:
ina nonostanfe (cioè mal((rado tutta la rii)Uj,nianza che aveva) in-
terpose l'opera di amici. 11 'tamen*, quando s'intenda in questo
modo, non ò più strano del 'tamen'che si le^f^e in fine alla let-
tera VIJ ;>1, 2 (p. IR], 29): 'veni igitur, quaeso, ne tamen semen
urbanitatis una cum re p. intereat', dove il Meudelssohn ha fatto
bene a non accettare l'emendazione del Kleyn. Ridotta in tal modo
la corruttela, dopo il 'quid ergo?* sentiamo il bisogno di un verbo
che si opponga all' 'impetrare a me non potui'; e mutando leg-
germente le parole della tradizione ci vien fatto di proporre '(i)st{a>
tamen suasi'; dove il senso dell' 'ista* sarebbe da ricavare dalle
parole 'ipsum reprenderem et ab eo deprecarer* ecc. Ma che fare
allora del 'locutus sum*?. La cosa più probabile mi sembra il
l'itenere che si tratti di una glossa introdotta nel testo dopo la
corruttela del verbo, non sapendo a chi riferire il dativo 'aliquod
amicis*. Ma non rimane escluso che lo stesso Celio abbia aofcriunto
quelle parole asindeticamente e con ellissi del complemento ('cum
illis'), con quest'ordine d'idee: 'A muovere dei rimproveri e delle
preghiere ad Appio non mi fu possibile piegare l'animo mio; non-
ostante indussi a far ciò alcuni (1) amici, testimoni dei miei
benefici verso di lui; ne parlai (con loro); quando poi seppi* ecc.
Vili 12, 4 (p. 204, 14) 'quid tibi scribam nescio: jscis Domitio
diem tumorae est expecto valde et quam primum videre cupio *.
Se non mi sbaglio, la luce per questo passo intricato è da cer-
care in questi luoghi dell' epistola 14 scritta pochi giorni dopo :
1 (p. 205, 9) 'Tanti non fuit Arsacen capere et Seleuceam expu-
gnare, ut earum rerum quae hic gesta sunt spectaculo careres :
numquam tibi oculi doluissent, si in repulsa Domitii vultum vi-
disses* e 4 (p. 206, 23) 'curre, per deos atque homines ! et quam
primum haec risum veni... crede mihi, est properandum*. Sup-
pongo che nella lettera 12 Celio esprimesse la sua aspettazione
(1) 'aliquod' = 'aliquot'. Lo noto soltanto per uno scrupolo e per riguardo
a quel lettore che non avesse sotfocchio il Mendelssohn. Mi rincresce di
non aver potuto attingere direttamente agli studi del Burg e del Becher
sull'uso della lingua di Celio.
— 225 —
per il fiasco di Domizio e il rammarico di non poter avere con
sé Cicerone per ridere insieme. Dopo 'diem' c'è indubbiamente
una lacuna e 'tumorae' non può essere una corruzione di 'timori'.
La cosa più probabile che ora mi si presenta è di scrivere: 'scis
Domitio diem "*** tu morae es; te expecto' ecc., intendendo ' morae
es' = 'in mora es': 'sei tu che mi ritardi il piacere di ridere
insieme di queste cose ; ti aspetto con ansia e bramo di vederti
al più presto'.
IX 10, 2 (p. 220, 11). Dopo aver accennato scherzosamente alla
discordia esistente fra Nicia e Vidio e alla sua parte di giudice
fra loro, Cicerone continua : 'puto nunc dicere: oblitusne es igitur
fungorum illorum quos apud Niciam, et ingentium ^cularum
cum sophia septimae?'.
In primo luogo, siccome il 'nunc dicere' non è soddisfacente,
è stato supplito un (te) avanti al 'nunc', supponendo che Cice-
rone attribuisca a Dolabella le parole 'oblitus — septimae?'. Ma
forse il 'nunc' si può correggere semplicemente in ' hunc' riferito
al ToO TTOiriToO che precede, cioè a Vidio. Questi poteva dubitare
dell'imparzialità del giudice, sapendo che il grammatico se l'era
fatto amico offrendogli delle ghiottonerie. A lui risponde Cicerone
con le parole : 'quid ergo? tu adeo mihi excussam severitatem
veterem putas, ut ne in foro quidem reliquiae pristinae frontis
appareant?'. Poi ritorna a Dolabella: 'sed tamen suavissiraum cTufi-
PiujTriv nostrum praestabo integellum' ecc., finche accortosi di aver
troppo scherzato, si riprende con un 'sed quid ago?' ecc.
Delle varie emendazioni proposte per le parole 'cuhirum —
septimae' il Mendelssohn a ragione trova che nessuna è soddisfa-
cente, ed egli stesso ha inutilmente cercato in Apicio. Quello che
a me sembra meno improbabile è che le ultime parole della tra-
dizione attuale dipendano da una falsa trascrizione di una parola
greca. Supponiamo che Cicerone avesse scritto 'òvpoTroiia(^ optumae ';
trascritta male la parola greca, 1' s finale fu attaccato alla parola
seguente che così divenne 'septumae'. Quanto al 'cularum' è pos-
sibile che si tratti di una parola a cui manchi il principio p. e.
'cauliculorum' (forse scritto anche 'coliculorum' ; e 1' 'ingentium'
non farebbe difficoltà, perchè l'idea del diminutivo pare sia sparita
per tempo in questa parola, pur rimanendovi la desinenza. Ma
può darsi anche sia da scrivere 'ingentium squillarum' col Gro-
novio.
Rivisùt di filologia, ecc., I 15
— 226 -
XII 7, 1 (p. 310, 29) 'sed me haec non movebant, alia jina-
lebarn'.
Il Mondelssolin inclina a tener buona la congettura del Krauss
'valebant' die certo e preferibile a quella delTOrelli 'movebant*.
Ma se il 'malebam' è insostenibile, l'emendazione più prossima è
forse 'moliebar', clic sarebbe spiegato dal seguente 'favebam' ecc.:
'altre erano le mie intenzioni ' ecc. Cfr. Tusc. I 8, 10: 'iam istuc
(luidem nihil negotii est, sed malora molior'.
XIV 3, 3 (p. 389, 1) 'ut tuto sim, quod laboras, id mihi nunc
lacillimum est, quem etiam inimici volunt vivere in tantis mi-
seriis*.
Scrivendo 'in tantis' il Mendelssohn ha seguita l'autorità di
FHI)\ ma la lezione di ilf' instantis' fa supporre che l'archetipo
avesse 'bis tantis'. Il bisogno di una preposizione davanti all'abla-
tivo determinò presto la mutazione 'in tantis', come in seguito il
bisogno del pronome dimostrativo diede origine alla lezione di r
'in bis tantis'.
XVI 12, 4 (p. 434, 19) ...'T. Labienus socius sceleris esse no-
luit: reliquit illum et nobiscum (est), multiqae idem facturi esse
dicuntur'.
Piuttosto che inserire dopo 'nobiscum' o con altri dopo 'et' un
'est' che manca in Y-F, tendo a credere che T'et' stesso abbia
sostituito l"est' primitivo per il solito processo dell'asindeto non
inteso. Scriverei quindi 'reliquit illum, est nobiscum' ecc.
Firenze, febbraio 1894.
NiccoLA Festa.
— 227 —
BIBI^iOaRA.FI^
F. CoRDENONS, Un po' più di luce sulle origini, idioma e sistema
di scrittura degli Euganei- Veneti. Venezia, 1894, F. Ongania,
p. 212, 8°.
Appena uscito questo libro, ehhì occasìoiìe (Due iscr.prer. ISS:
Rendic. R. Acc. de' Lincei, 1894, p. 129, n. 82) di accennare col-
l'esempio di Reìitiiah, ivi letto Rene Tiiane, come poggiasse sul-
l'aberrazione del valore sillabico ne da assegnarsi al segno che
tutti leggiamo li \ aberrazione, cui s'accompagna l'analoga del m
di me\o omesso in .e.^o e delle vocali spesso taciute e rappresen-
tate, come quello, da punti premessi o frapposti. Seguirono poi,
insieme ad altri piìi o meno favorevoli di critici nuovi a questi
studi, i giudizi schiaccianti di G. Meyer {Beri. Philol. Wochen-
scJi., 1894 col. 1206 sg.) e dello Stolz {Ling. hist. Beitr. zur
Paluo-EtJinol. von Tirol, p. 12, n.), anche quanto ai tentativi eti-
mologici ed ermeneutici. Perciò, essendo io stato ora cortesemente
invitato a riscriverne dai direttori di questo periodico, credo op-
portuno insistere sul fatto sin da principio documentato, che cioè
il libro del Oordenons riesce pur sempre di qualche utilità, perchè
comprende sette iscrizioni (p. 120, 121, 122, 140, 154, 163) che
al Pauli mancano, cinque delle quali (p. 120, 122, 3 e 4, 140.
163) affatto inedite (cfr. 154, 6 con Iscr. pai., 72, n. 98). Sgra-
ziatamente il confronto fra le trascrizioni del Cordenons e le tavole
del Pauli torna sì poco favorevole al primo, che l'uso de' suoi
nuovi testi non può raccomandarsi agli studiosi, senza molta cau-
tela, sinché non se ne posseda tale disegno, che sia dovuto alla
autopsia di persona competente e spregiudicata. Vuoisi quindi
aspettar questo, prima di trarre con sicurezza dal vo^o- iniziale
della sua sesta, quasi inedita (p. 154), la prova che talvolta ve-
ramente \0 col punto mediano vale 0; il che non si negherebbe
pili da alcuno, se veramente in quel luogo si osserva tale figura
chiusa fra due uguali, ma prive del punto. 11 C. che stranamente
non profitta di quel testo — il solo, senza più, decisivo a favore
dell'esistenza dell' 6 nell'alfabeto veneto — male argomenta per
contro (p. 55) in prò di q\iesta, da ciò che « anzitutto per qualche
motivo ci devono aver messo il punto in mezzo, e questo non può
essere che per distinguerlo dal vero 0 » : gli ò invero cosa risa-
puta che nelle iscrizioni paleogreche, non solamente esprimono il 0
— 228 —
entrambe le fipfiire, ma sì ancora che nella stessa epigrafe ed anzi
nella stessa parola concorrono, come ]). e. in Anpovoq di T/iera,
dove il primo 0 ha il punto, il secondo ne manca (Kikciihoki \
()3; Fai{|{i;tti, Oss. paleogr., § 89, p. 19:>, cfr. J\\ui-i, Alfii.
Forsch., 1, 54; 111, KVl); si di\ persino il caso testt- oflerto da
un'arcaica epifjrafe di Seliniinte (Salinas, Nat. degli scavi, 1894,
]). 209), che quattro <>, tutti col punto concorrono a rajiprexMi-
tarvi il 6 di ùvéetKe e i due O e insieme il 0 di MaXocpópo| v).
Egli è quindi aiìatto conforme all'esperienza della palecj^ratìa clas-
sica, che in Pa., 2=C. p. 127, si h-jr^^a: e\o VoUixenei Vesos
e ego Volti^eni Vesii '), come finora sempre, secondochè l'evidenza
etimologica im])one, senza distinzione fra VO punteggiato di VnUi-
Xenei e le 0 schietto delle due altre parole; laddove atlatto fan-
tasticamente il C. ne fa {Mi)esso V B.Ui Ssnei vesos' (« io sono
di Vethilto Seneo la tomba [?) »). Io per me continuo a credere,
che l'avvenire accerterà avere anche i Veneti posseduto la dentale
aspirata, e adoperato ad indicarla le stesse figure elementari che
per lo 0 e pel O, essendo — per la scarsità di cultura di coloro che
in que' rozzi tempi scrivevano e per la saldezza e frequenza delle
stesse formole e la locale certezza dei nomi propri — tornata fra
essi, come in Grecia, bastevole la discriminazione intrinseca, per
effetto della quale a nessuno, tanto dotto da saper leggere o scri-
vere, sarebbe venuto in mente di mutare p. es. in eyjd o in ex9
il solito eyjo^ solo perchè ornato del punto o dell'asticina. Come le
varie forme siano sorte, e quali ragioni, ora di materia, ora di sim-
metria e dissimmetria grafica, abbiano indotto gli artefici ad usarne
promiscuamente, prima che divulgatasi la scrittura si assegnasse
a ciascuna forma l'ufficio suo proprio, non mette qui conto inda-
gare ; profitterò piuttosto dell'occasione per tor di mezzo, appli-
cando, il mostruoso elmpeoaris di Pa., 259 (con 0) e 261 (con O,
che il C. 140 sg. dà in ambo i casi), con ridurlo ad eku-peQaris,
e ravvisarvi nuovo documento di parentela fra il veneto, o l'eu-
ganeo che sia, e l'etrusco : perchè eku (cfr. eqti ecu) sta in prin-
cipio d'epigrajfe sulla tazza di Fojauo-Bettolle (/scr.^jaZ., p. 42); e
peQaris — se, come da due contesti pare, il gruppo accennato deve
in alcun modo riferirsi al 'sepolcro' (Pauli, Few., 263) — potrà man-
darsi con etv. peQ-er-en-i (ch\ Acleni con Acìani, capetii con caperi
e capi cape^ cereni, jRaneni, spureni con spurana) e con penQna
0 petna, vocaboli eminentemente sepolcrali {Saggi e App. intorno
alViscr. etr. della M., p. 69, 77, 79, 84, 155). — Chiudo questa
notizietta osservando, che il Cordenons, come fa dire a me circa
l'interpunzione delle iscrizioni venete proprio il contrario di ciò
che scrissi ; come cioè {Bue iscr.prer., 188, n. 82) da me fa attri-
buire a' Veneti « un sistema d'interpunzione tutto al rovescio di
quello adottato da tutti gli altri popoli », laddove io sempre mi
studiai di provare e riprovare che dell'interpunzione congiuntiva
abbondano gli esempi e le traccio in tutta quanta l'epigrafia pa-
— 229 —
leoitalica (p. es. etr. -.Ma-am:, lat. 3Iaanium, pren. •.vhe'.vhaJced: ,
lat. dedit.] Novios, ose. Mamerkies:! Saipins, ecc. ecc.); così egli,
a vantaggio del suo we in luogo del solito /;, scrive (p. 44) in
caratteri ingrossati « che pel Pauli riesce un'anomalia inesplica-
bile » il -n di Rehtiia.n. rimpetto al consueto -h di tanti Reh-
tiiah : laddove il P. nota all'opposto ( Ven., 274) che « la cosa
in realtà non sorprende affatto » ('gar nicht auffàllig'), giacché
anche lat. donare può acconapagnarsi coll'accusativo di persona.
La deduzione poi del 0. che il confronto fra le due forme dimostri
all'evidenza doversi leggere in ambo i casi Renetiiane (e direbbe
'alla scorrente Diana'), tanto vale, quanto l'altra sua (p. 3.3), che
avendosi più volte tne\o e più volte .e.xo, ne risulti evidente che
pur questo sia da leggere mexo (per lui m.essó) e che il m sia
rappresentato da' due punti; dove in ogni caso non s'intende-
relDbe, perchè poi il medesimo .e. sia (p. 92) in .e.yietore- letto dal
0. e .ssetore-, che per lui sarebbe alì'incirca ini con auuiripia.
Analogamente viexo- ch'egli legge m.esso, perchè « la grafia (p. 60)
eminentemente asiana delle nostre iscrizioni, ecc. ci autorizzano a
priori ad ammettere che questo segno V vi abbia il suo valore
originario di se o ss», direbbe 'io sono', come il venez. mi ssò ;
giacché « anzitutto (p. 89) quel "^o, anche se si dovesse leggere
xo, ci deve dessere stato posto per qualche cosa, ed il saltarlo via
a pie pari », come si fa da noi con interpretarlo 'io* soltanto,
« sarà comodo, se vogliamo, ma non in armonia colle regole della
filologia »: or si noti, che il Pauli l'p. 247) paragona me\o e\o
a ted. niich ich, e noi vorremmo aggiungere per es. lat. memet
(etr. mi ma o ma mi) e mihipte, circa per me mihi.
Milano, novembre 1894. Elia Lattes.
I. — G. CiviTELLi, I nuovi frammenti d'epigrafi greche relative ai
ludi augustali di Napoli. Napoli, tip. d. K. Univ., 1894; pp. 82
(E. dal voi. XVI 1 degli Aiti dell'Accademia di Archeologia,
Lettere ed Arti di Napoli).
La Memoria è divisa in tre parti. — Nella prima: 'AIATTAN-
TQN' (pp. l-:)2) l'A. ricostruisce e interpreta con dottrina pari
all'acume un'epigrafe, trovata a Napoli negli scavi del 1890 in
via Selleria, contenente un catalogo di vincitori nei ludi agonistici,
coi singoli certami in cui fu riportata ciascuna vittoria. Egli ri-
volge sopratutto le sue indagini alla formola òià ttóvtujv, comune
in iscrizioni dello stesso genere e non infrequente in epigrafi la-
— 230 -
fine, dove essa ricorre come una parola sola, quale è da leggere
anche nelle greche. La forinola fu i)rima d'ora variamente sj»i»i-
gata; ma in maniera che i dubbi sul suo vero significato ikhi
tarano né pochi nò infondati. 11 Civitelli, tenuto conto che si tratta
di feste agonistiche onde faceva ])arte l'orchestica nei suoi tre ge-
neri, il comico, il tragico e il satirico, fusi insieme per opera di
Pilade e Batillo, e che nei cataloghi non si trova mai .scritto òp-
XricTtriq, espressione troppo generica, ma òiaTraviuov, ellitticamente
per òpxr|<7Tfìq bià rtavTUJV |ai|aou)aevoq, crede poter stabilire che
òianavTUJV (-(luiviibì apjiunto ad ópxr[Cir]q. Cosi la [larola incrimi-
nata, in questa e nelle epigrafi affini, designa senz'altro l'orchestica
alla moda dei due famosi pantomimi.
Nella parte seconda: 'L'agone equestre a Napoli ; 1' aGXoq Kpi-
ceiuc,' (pp. 33-54) è messo in sodo, col sussidio di parecchie epi-
grafi, che r aeXoq Kpiaeuuq era la lotta suprema e definitiva,
l'ultima riprova tra' due atleti riusciti primi nei giuochi, ordinata
dagli pjlhinodici allo scopo di averne elementi sicuri per il loro
giudizio e per la conseguente assegnazione del premio. Vi si di-
mostra inoltre che nelle Augustali di Napoli veniva anche cele-
brato l'agone equestre, come del resto si deduce pure da testimo-
nianze sincrone.
La parte terza (pp. 55-82) riguarda 'il ginnasio di Napoli e i
ludi augustali'. Ivi l'A. valendosi, con giusto criterio, specialmente
delle notizie fornite da altre epigrafi afferma che i ludi quin-
quennali di Napoli ebbero origine dalla battaglia di Azio, e si
trattiene dopo di ciò a discorrere con una certa larghezza delle
formalità e della storia dei ludi stessi. Chiudono il dotto e dili-
gentissimo studio alcuni cenni intorno all'architettura e alla to-
pografia degli edifizi costituenti il ginnasio, che esisteva fin dai
tempi più remoti, perchè Napoli era città greca.
Mi dicono che il Civitelli sia molto giovane. Me ne rallegro
vivamente con lui: questa sua Memoria è assai più che una sem-
plice promessa.
Milano, agosto '94.
IL Luciani Muelleri, De re metrica poetariim latinorum praeter
Plautum et Terentium libri septem. Accedunt ejusdem auctoris
opuscida IV. Editio altera. Petropoli et Lipsiae, impensis
C. Kickeri, a. MDCCCLXXXXIV, in-8^ pp. xii 651.
A nessuno certo cadrà in mente che io abbia la pretesa di scri-
vere una recensione del classico libro del Mùller. Intendo limi-
tarmi a notare in che differisca questa seconda dalla prima edi-
- 231 -
zione, accolta, come ognuno sa, già fin dal suo apparire nel '61 con
tanto plauso, quale forse non ottenne alcuna delle opere congeneri,
di non minor valore, di altri autori.
Negli ultimi trent'anni la produzione letteraria dell'illustre
professore di Pietroburgo fu addirittura prodigiosa: edizioni critiche
eccellenti di poeti latini, studi di letteratura romana, scritti pe-
dagogici, pubblicazioni di metrica e di prosodia, fra cui meritano
un cenno speciale due che si connettono al suo libro più famoso :
Bei metricae poetarum latinorum praeter Plautum et Terentium
summariimi (1878) e 3Ietri]c der Griechen und Bòmer (1880),
tradotta anche in italiano (Milano, Hoepli, 1883). E di mezzo a
tutto questo lavoro, al quale parrebbe non possa bastare la vita
di un uomo, ecco ora venir fuori la seconda edizione dell'opera
maggiore, che senza dubbio costò al Miìller non poca fatica. È
quasi inutile avvertire che l'esperienza acquistata nella scuola, le
nuove edizioni germaniche de' classici latini, fra cui le sue, gli
scritti numerosissimi, usciti dal '61 in qua, specialmente di me-
trici tedesclii. tutto ciò gli forni materiali preziosi, onde egli si
valse per migliorare il suo libro ; in modo che esso corrispondesse
in ogni parte allo stato attuale degli studi di metrica.
Le modificazioni rispetto alla prima edizione sono molte e im-
portanti, e com'è naturale consistono per lo più in aggiunte. Andrei
troppo per le lunghe se volessi render conto di tutte, quante mi
venne fatto di trovarne confrontando minutamente fra loro le due
edizioni. Mi accontenterò di richiamare l'attenzione del lettore su
alcune fra le principali aggiunte dei primi tre libri. Nel primo,
ora col titolo: De studiis poetarum latinorum metricis, ciò che
riguarda il saturnio, pp. 50-51 ; la metrica e la prosodia di Ennio,
p. 55, e il posto che egli occupa nella storia della poesia latina,
pp. 58-59; Accio e Sueius, pp. 62-63; i poeti scenici dell'età di
Cicerone, pp. 76-77; i metri giambici e lirici di Orazio, pp. 80-83;
e più oltre i vari sistemi lirici dello stesso, pp. 122-23. Nel se-
condo lo scioglimento dell'arsi del dattilo in Ennio, pp. 146-47 ;
gli asinarteti degli epodi oraziani, p. 184, ecc. Nel terzo l'uso
della cesura in Ennio, p. 221 ; l'accenno alle teorie del Corssen e
di Gugl. Meyer relative alla ritmica, pp. 237-38; i versi colla
sola cesura trocaica, pp. 246-47 ; la fine del pentametro nel IV libro
di Properzio, p. 259; Qua e là in questi e nei rimanenti
quattro libri ora sono stati soppressi, ora rifatti intieri periodi:
molte anche le citazioni nuove ; più ricca la esemplificazione. Ri-
fatto in gran parte fu il proemio. Degli opuscoli che chiudono il
volume, il primo: De versihus dactylicorum italids, ha subito
modificazioni maggiori di tutto il resto dell'opera; e di ciò ne av-
verte in principio dell'opuscolo stesso l'autore. 11 quale si è dato
cura, e merita lode, di migliorare il suo libro eziandio nella
forma, dirò così, esterna, con una minuta e jirecisa indicazione del
contenuto, con indici copiosissimi e con tale disposizione della
— 2:« —
stumiiii da renderlo ]iiìi facile all'uso e molto più pratico che non
fosse nella prima edizione.
11 Miiller scrive in fine del proemio : non dubito fare ut nova
lihrorum de re metrica poiitarum ìatinorwn editione et veteres
firmeìitur amici et concilicntur novi (p. 40). E molto [)robabile
clie ciò avvenga; e a ogni modo nell'interesse degli studi dob-
ì)iamo augurarcelo vivamente.
Milano, gennaio '0.'». Domenico Bassi.
Juj.ius Beluch, Griechiscìie Geschiclde. Erster Band. Bis aufdie
sophistiscbe Bewegung und den peloponnesischen Krieg (Strass-
burg, Karl Trubner, 1893, p. xii-G37, 8°) (1).
Quest'opera non ha il carattere nò di un manuale in cui l'e-
rudito possa trovare una bibliografia di tutti i lavori relativi al
soggetto clie prende a trattare, come la dottissima Storia del
Busolt, ne una esclusiva descrizione del corso degli avvenimenti
e l'indagine sulle loro ragioni, come la classica storia del Mommsen;
ma somigliando a questa nel metodo di esposizione, offre al lettore
man mano che l'argomento lo richiede, una notizia delle opere,
dalle quali l'autore ha attinto ciò clie più gli è sembrato sicuro
0 probabile. Noi ci proponiamo di farne un esame particolareg-
giato, dal quale emerga l'importanza speciale dell'opera, ferman-
doci di preferenza su quei punti che più si distinguono per ori-
ginalità e novità di conclusioni. Nel nostro ragionamento seguiremo
di regola la stessa via tenuta dall'autore ; onde incominceremo a
parlare intorno alla relazione della civiltà micenea coll'omerica.
Ambedue queste civiltà sono pel B. contemporanee; ciò è pro-
vato dall'identità di ornamentazione di molti oggetti descritti nel-
Vepos (A, 632; I, 562; p. 79-80) con quelli venuti alla luce negli
scavi fatti in quei paesi dove più ha fiorito la civiltà micenea, e dal
comune uso del bronzo nelle armature e in altri lavori, pei quali
in tempi più recenti fu adoperato il ferro; anzi tanto poco è giusti-
ficata l'ipotesi dell'anteriorità della civiltà micenea, che i poemi
omerici fanno in qualche passo fede di una maggiore arcaicità di
tipo nel sistema di armatura (p, 80-82). La civiltà micenea giunge
sino all'ottavo secolo o alquanto più giù (p. 83), come si ricava
dalle parti più recenti dei poemi omerici; né di certo può essere
]>iù antica del secolo Xll, poiché se qualche monumento ricorda
Amenofi IH della XVIII dinastia, da questo fatto è lecito solo dedurre
(1) L'autore aveva pubblicata nel 1891 la prima parte di questo volume
in lina:iia italiana : Storia Greca, parte prima, La Grecia antichissiraa.
Roma"; Pasanisi, 1891; p. 146, 8".
- 233 —
la perennità della memoria di questo re, non la contemporaneità
del suo regno col periodo al quale risalgono i monumenti che lo
ricordano (p. 84, n. 3). Se nella tecnica delle costruzioni si ri-
scontra minore magnificenza, ciò non indica un decadimento, come
si vuole comunemente, e che si è soliti attribuire a un ristagno
prodotto dall'invasioni barbariche: vi si deve riconoscere al con-
trario una trasformazione connessa con le mutate condizioni sociali
e politiche, avveratesi colTindebolimento del principio monarchico
e il sorgere rigoglioso della vita repubblicana. Dimostrata così la
continuità della civiltà micenea colla susseguente, l'autore ricerca
l'origine delle tradizioni sugli spostamenti dei popoli.
In esse non si deve ravvisare il prodotto della fantasia popo-
lare, ma il lavoro erudito dei primi compilatori di memorie (p. 147-
148). Al primo sorgere della storiografia in Grecia, non fu messo
in discussione la veracità del contenuto de\Ve2)os omerico : onde
se in essi le regioni della Grecia venivano designate con nomi
diversi da quelli in uso nei tempi storici, queste divergenze crea-
vano una difficoltà, le quali avevano bisogno d'una soluzione. 11
rigore nell'indagine e la cautela nelle conclusioni sono qualità
estranee a una critica rudimentale, che preferisce colmare i vuoti
nella conoscenza con deduzioni frettolose e combinazioni arbitrarie,
al confessare l'impossibilità di giungere a un risultato probabile.
Pertanto l'omonimia di regioni tra loro lontane, spiegabile colla
identità della lingua dei popoli che le abitavano, erano per i primi
autori un indizio sicuro di antichi contatti: quindi l'efflorescenza
di una quantità di leggende sulle migrazioni.
Questi argomenti di critica interna sono avvalorati da gravis-
sime considerazioni intorno alla struttura della società in alcuni
paesi, nella quale suole vedersi per lo più una conferma della
tradizione. Se in Tessaglia vi era una classe di servi (TTevéaTai),
non si deve necessariamente scorgere nella loro condizione l'ef-
fetto della conquista, ma vi si può riconoscere quello d'un fatto
economico, come nel colonato dell'impero romano e nella servitìi
della gleba del popolo germanico (1). Kiguardo poi alle cosi dette
tribù doriche, osserva l'autore, esse non sono altro che tribù ar-
goliche; riguardo alle istituzioni così dette doriche, invano si cer-
cano all'infuori di Sparta e di Creta (p. 154-156). Finalmente un
])aese angusto come la Doride non poteva contenere una popola-
zione tale da soverchiare quella d'una regione abbastanza estesa
come il Peloponneso, né un popolo in cui era in uso un sistema
d'armatura molto imperfetto (vedi sotto), poteva trionfare di eserciti
lorniti di panoplia (2).
(1) Chi potiebbo diro quale sarebbe! stata nel quarto e ter/,0 secolo la
condizione sociale in Atene senza il violento rimedio soloniano della aeia-
dxOeia ?
(2) J. Helocu, Die doriscfte Wanderutiy [Rfieiniadi. Mits., XL\ , p. 555-598).
— 2J4 -
(Queste osserva/ioni cruno state f?i:\ svolte nella citata mono<^ratia
sulla niigra'/ioii(3 dorica, e nell'eilizione italiana: onde non sono ri-
maste né jìotevano rimanere indillerenti alla critica. Tanto il Busolt
{Qriechische Geschichte, 1-, li-<08)che il Meyer (GeschicliU: des Al-
teriJnoHs, 11,1803) ])on<foi\o i confini superiori doU'eiioca micenea
in un tempo molto piìi lemoto di (jiiollo assej^nato dal Beloch.
11 |)rimo (op. cit., p. 123) stabilisce come termine inferiore della
civiltà micenea la metà del secolo XII, tem])0 che, secondo lui,
coinciderebbe mirabilmente col dato cronoloijico 1149 assej^nato
pel ritorno de^li Eraclidi. Ma se in Omero Micene è costante-
mente chiamata TToXùxpucroq, se, come abbiamo visto, le descri-
zioni di Of(<]fetti presentateci dai poemi omerici hanno una sin^'olare
somiglianza con la forma e l'ornamentazione di quelli trovati nej(li
scavi, non possiamo spie<?are questi mirabili riscontri come effetto
di reminiscenze conservatesi tenacemente nei poeti (hWepofi d'una
civiltà tramontata. Perfino in tempi recenti nella Grecia manca
ai poeti il senso storico o la cura di astrarre dall'ambiente in cui
vivono, per rappresentare fedelmente; altre età e altre consuetudini;
se un Euripide, poeta dotto, può far rispondere da Teseo {Su2)plic.,
v. 404-405) al messo dei Tebani che erra nel credere Atene go-
vernata da un tiranno,
DÒ YÒp dpxexai
ivòc, Tipòq àvòpòc, dX\' èXeuBépa TTÓXiq,
è concepibile che gli autori delle rapsodie omeriche tenessero lo
sguardo fisso solo nel passato? Cade così l'ipotesi del Busolt
(p. 113), che a costoro la civiltà micenea non fosse altro che un
ricordo storico. A più forte ragione non si può credere col Busolt
(p. 204), che nell'eunomia di Tirteo (fm. 2) vi sia come un'eco
lontana degli avvenimenti svoltisi al tempo della migrazione, poiché
si sarebbe dovuta conservare la memoria di essi nientemeno che
alla distanza di cinque secoli dal tempo in cui la migrazione sarebbe
avvenuta. L'ignoranza della vera patria degli Joni dell'Asia Minore
è un'eloquente conferma di questa congettura. La Doride, osserva
il Busolt (p. 204, n. 4), poteva essere, nel periodo anteriore alle
migrazioni, di un'estensione territoriale molto maggiore che in tempi
storici; sia pure: ma questa presunzione potrebbe avere un valore
soltanto quando avesse la conferma di argomenti più significanti
che non siano quelli da noi passati in rassegna. Contro il Beloch,
il quale rileva che i Locresi, vicini ai Dori, anche in tempi sto-
rici, erano sforniti di una armatura completa e resistente, osserva
il Busolt che nulla sappiamo della tattica dei Dori ; anzi ritiene
probabile che fossero forniti d'armi di ferro e combattessero a ca-
vallo, avendo così un doppio vantaggio sui guerrieri micenei,
provveduti d'armatura di bronzo e combattenti dai cocchi. Ma si
può ammettere che la diffìcile lavorazione del ferro fosse comune
alla stirpe dorica, quando nemmeno ai principi del secolo VI la
— 235 —
siderurgia apparirebbe molto progredita in Sparta (Hekod., I, 68),
la città della più schietta impronta dorica ? La supposizione del
Busolt (p. 206, n. 3) sull'itinerario tenuto dai Dori manca di
fondamento storico, ogni altra induzione sulle circostanze del mo-
vimento (p. 232, n. 3) non ha altra autorità che le combinazioni
arbitrarie degli antichi, mercè le quali sarebbe possibile non una,
ma un numero infinito di costruzioni critiche.
La leggenda delle migrazioni si deve dunque considerare come
l'effetto di induzioni tratte dalle circostanze del tempo storico,
cosa che il Mover (op. cit., p. IX, p. 72, § 147) volentieri rico-
nosce. Egli inoltre non solo in questo punto di massima impor-
tanza, si trova d'accordo col Beloch, ma anche nell'ammettere la
permanenza della civiltà micenea nel periodo susseguente all'in-
vasione dei Dori, i quali si sarebbero adattati alle consuetudini
del popolo soggiogato. La leggenda dell'invasione dorica è per il
Meyer un'induzione ricavata dalle circostanze del tempo storico,
ma confermata pienamente dai risultati di un'accurata indagine
sulle condizioni etnografiche della Grecia. In primo luogo — nota
il Meyer — la parentela tra il dialetto ciprio e l'arcadico prova che
questo dovea esser parlato anche dalle popolazioni che abitavano
alle coste della Laconia (ib., § 48): inoltre il nome « Achei » ri-
corre anch'esso in Cipro (§ 50), circostanza che accresce credibilità
all'ipotesi che questo nome fosse una volta designazione generica
di tutte le nazioni del Peloponneso. Ma anche ammettendo l'in-
sussistenza dell'ipotesi del Beloch (p. 62), che della diversità tra il
dialetto arcadico e i dialetti argolico e laconico vada ricercata la
causa nella diversità di circostanze in cui si svolse la civiltà dei
popoli che li parlarono in tempi storici, le condizioni d'isolamento
dell'Arcadia avrebbero mantenuto il tipo dialettale arcaico — , la pa-
rentela del dialetto ciprio con l'arcadico prova meno di quel che
sembra. Infatti da essa si può ricavare che il dialetto arcadico
era parlato fino alle coste: che in nessun'altra regione si adope-
rasse un dialetto diverso, non è in alcun modo dimostrabile.
Sparta ed Argo possono avere avuto sempre il loro dialetto, e in
seguito alla conquista, averlo imposto ai popoli vinti. Inoltre dif-
ficilmente si può ammettere che il nome « Achei » fosse una de-
signazione generica, quando si osservi che i pretesi superstiti della
popolazione predorica, non si chiamavano tutti Achei, ma la mag-
gior parte Arcadi, il Meyer (p. 267) vede in A, 52 sg. un'allu-
sione alle conquiste dei Dori; a me pare clie difficilmente nelle
parole del poeta si possa vedere altro che l'espressione delhi vo-
lontà di Giunone a rassegnarsi ai voleri di Giove, se mai si pre-
figesse di distruggere Argo, Tirinto e Micene. Finalmente con quali
mezzi d'assedio si sarebbero potute espugnerò tali città? La du-
rata di dieci anni attribuita dalla tradizione all'assedio di Troia,
è una prova troppo significante delle difficoltà di un sistema di
guerra che non fosse quello in campo aporto, in tempi di mezzi
- 2m —
scarsi e imperfetti per l'agf^ressione di mura solide e consistenti.
(Jone) udendo, il loiidaineiiio della teoria del Beloch sulle minora-
zioni, riteniamo che non sia stato scosso dagli argomenti prodotti
dai due insigni storici, anche concesso che in qualche raodalitn
qu(!sta teoria possa venire maggiormente perfezionata e corretta,
e crediamo superfluo l'insistere sulla mancanza di valore storico
delle leggende relative alle immigrazioni dall'Oriente (Mki.och,
]). l()(i-l()H;, (|uella di Pelope dalla Lidia (1), di l^anao dali'P^gitto,
di Cadmo dalla Fenicia, miti dei (juali molte cause vanno ricer-
cate nella falsa interpretazione etimologica.
Venendo all'analisi di quella parte che concerne lo svolgimento
dei miti e delle idee religiose, notiamo con soddisfazione clie l'au-
tore è lontano dalle esagerazioni di. molti indianisti, pei quali è
quasi incomprensibile la mitologia e la religione greca senza l'au-
silio della comparazione. Già il Gruppe {Culle und Mytìien, spe-
cialmente p. 151) aveva abbastanza reagito contro questa ten-
denza; il JJeloch, nella misura e nell'ordine richiesto dal suo libro,
dimostra coU'esposizione più lucida ed efficace l'autoctonia della
religione greca. Infatti se gli elementi dei concetti religiosi vanno
ricercati nel periodo proetnico della stirpe ariana, la trasforma-
zione del fenomeno cosmico in essere divino, è quasi sempre po-
steriore alla separazione delle singole stirpi (Beloch, p. 102). L'in-
fluenza esterna non si può escludere, ma va limitata alle circostanze
esteriori del culto; difficilmente tocca l'intima natura di esso
(p. 103) (2).
Le idee religiose hanno pel Beloch la stessa origine che le con-
cezioni mitologiche : la credenza in un'anima separata dal corpo
fu immaginata in seguito alle visioni nei sogni, che colla morte
non hanno differenza apparente (p. 96-97). L'identità dei fenomeni
che accompagnano la morte degli animali con quelli che accomi>a-
gnano la morte dell'uomo, generò la persuasione che anche gli
animali avessero un'anima, la quale poscia fu attribuita anche
alle piante e a qualunque altro oggetto inanimato (p. 97-98). Cosi
la fantasia popolare creò un mondo immaginario accanto al reale
e l'eflettuarsi di fenomeni cosmici fu spiegato come un processo di
fatti psicologici (p. 97-98) ; onde l'efflorescenza di tante divinità,
(1) Pelope era connesso genealogicamente con Xanto, denominazione che
tradisce il contenuto solare del mito. Ma oscuratosi il senso del primitivo
significato, si vide, probabilmente nell'omonimia col noto fiume della Lidia
una testimonianza della patria asiatica di Pelope.
(2) Credo col Beloch che rj]nmann nella sua memoria Kypros und der
AphrodÀteskultus (Mèmoires de V Académie de Saint- Peter sbourg , VII sèrie,
voi. XXXVl, 1886) abbia dimostrata l'origine ellenica del culto di Afrodite.
11 Meyer (op. cit., p. 226-227) ne patrocina l'origine semitica : ma siccome
non tutti possono avere la sua profonda conoscenza delle lingue e delle reli-
gioni semitiche, avrebbe dovuto assegnare le ragioni in una forma meno sbri-
gativa di questa : Scine (= Enìiiann's) Ausfuhrungen erscheinen mir fast
alle verfehlt.
— 237 -
alle quali si riconobbe la possanza di beneficare e danneggiare
gli esseri viventi, e il concetto antropomorfico di esse (p. 100-101)
che si rivela anche nei mezzi adoperati per propiziarsele e vene-
rarle.
Non tutte queste affermazioni mi paiono egualmente sicure :
dubito forte che la cremazione delle vesti e degli oggetti appar-
tenuti al morto, abbia la sua origine e la sua ragione nella cre-
denza che questi oggetti fossero pure essi forniti di un'anima, la
quale sopravvivendo al disfacimento della materia, continuasse a
servire all'anima del defunto. Invece mi par più naturale il ve-
dere in questa cerimonia la sopravvivenza d'una consuetudine che
aveva anteriormente ragione d'esistere pel diverso trattamento dei
cadaveri, l'inumazione, che si può storicamente dimostrare anteriore
alla cremazione. La difficoltà di concepire un'anima assolutamente
incorporea (Cicer., Tuscid., 1, 16), favoriva la persuasione che la
vita del cadavere si prolungasse nel sepolcro tal quale come sulla
terra: quindi si potè supporre che il morto continuasse a com-
piacersi delle cose che vivendo avea predilette. Si può obbiettare
che difficilmente questa spiegazione si concilia colla credenza di
un eiòuuXov libero d'abbandonare la compagine del corpo: ma sa-
rebbe troppo esigere dall'uomo primitivo una piena coerenza di
idee e negare ogni fiuttuanza o incertezza di concepimenti. Simil-
mente è troppo esclusiva la teoria animistica della formazione dei
miti cosmici e atmosferici (p. 98-99), poiché se non tutti, molti
di essi sono probabilmente frutto dell'azione del linguaggio sul
pensiero.
Per amore di brevità sorvoliamo su quanto l'autore afferma ri-
guardo alla credenza nelle divinità ctoniche che trae la sua origine
dalla contemplazione del tramonto del sole (p. 110); riguardo alla
deificazione di concetti astratti, frutto d'una civiltà più progre-
dita (p. Ili); riguardo al culto degli animali e delle cose inani-
mate (p. 112, 123), conseguenza necessaria della credenza che la
natura fosse animata; riguardo al culto dei morti (p. 113) stret-
tamente connesso colla credenza dell'essere l'anima separabile
dal corpo e quindi dell'efficacia di quest'ultima sulle sorti dei
viventi; riguardo alle credenze negli eroi (p. 118 sg.), i quali non
sarebbero stati che dèi degradati per la minore importanza ed
estensione del loro culto rispetto a quello dei loro fratelli più for-
tunati; riguardo allo sdoppiamento dei miti /Oòuaaeùq - Tì-|Xé-
laaxo?, 'HéXioq - cpaéGuuv, Aiaq - eùpuaÓKriq, 'Opéaxjiq - Tiad)ae
vo(; Kié). Tutto il capitolo è una magistrale descrizione dello svol-
gimento delle idee religiose in Grecia nel suo più remoto periodo
della vita storica, il cui più antico monumento — sempre assai
recente per sé stesso — è Yepos omerico.
Nella questione omerica il Beloch si può chiamare un applica-
tore largo e libero della teoria del Grote. Riconosciuti come an-
tecedente storico del canto epico gli inni alle divinità e i canti
- 238 -
delle fjesta dei^li eroi, ammette che (juesti venissero assumendo
sempre map^^iori proporzioni per successivo amalgama di nuovi
elementi col nucleo della saj^a primitiva; (|uesto continuo lavoro
d'int(ì<i;razione avrebbe dato orij^ine a componimenti molto piìj com-
plessi con unità d'azione e simmetrica coordinazione di parti
(p. 130-1.31). Oltre gli ap^j^rega menti lenti e f,'raduali, avrebbero
avuto luo^ifo giustaposizioni meccaniche di vari canti come si scor-
gono nei documenti superstiti, VJliadc e VOdissea (p. 137-138),
senza però che possa determinarsi con molta precisione la struttura
dei singoli componimenti. Tra il nono e il settimo secolo (p. 145)
cade la ibrmazionc (ìaWJI/ddrc (hAV Odissea, quali a noi sono perve-
nute, e che insieme colla jìroduzione ciclica furono attribuite, quando
si volle assegnare un autore a questa poesia anonima e imperso-
nale, a un unico poeta. Omero, e poniamo della famiglia di Cantori
chiamata Omeridi a Chio (p. 142'.
Venendo a qualche particolare, io credo col Meyer (op. cit.,
p. 104), che il lungo soggiorno d'Ulisse presso la ninfa Calipso sia
un atteggiamento del mito solare, ne più ne meno che la discesa
all'inferno e la dimora presso i Feaci, ma questa ipotesi si può
conciliare con quella del Wilamowitz, accettata dal Beloch (p. 138-
140), che il canto della dimora d'Ulisse presso la ninfa Calipso sia
stato introdotto nella nostra redazione dell" Or7mea per prolungare
il tempo dei viaggi dell'eroe. 11 Meyer (op. cit., p, 143) vuole che
gli Omeridi di Chio nulla abbiano a fare con gli autori dell'epopea:
ma l'origine ionica dell'epopea come forma di poesia artisticamente
perfetta (Wilamowitz, Heracles, I, 66) accresce fede alla testimo-
nianza di Acusilao e di Ellanico: inoltre i cantori dei poemi omerici
spesso sì esprimono in modo da lasciar intendere che il mare era
posto alla parte orientale della loro patria (ùireip a\a aKiòvaiai
i^ujq), di guisa che anche senza altra testimonianza si sarebbe in-
dotti a ritenere quella un'isola; finalmente non si può negare va-
lore all'espressione esiodea óiuripeiv qpuuvrì nel senso di poetare.
Venendo a tempi meno oscuri, l'autore osserva che nemmeno di
essi si può raggiungere una conoscenza piena ed intera in tutti
i particolari. Specialmente nella cronologia vi è molta incertezza
e le cifre degli antichi si possono nel caso più favorevole ritenere
come approssimative (p. 172-173); non di rado sono anche effetto
di una superficiale critica combinatrice. Coerente al suo sistema
di scrutare e intendere il significato delle leggende, il Beloch nega
ogni fede alle tradizioni concernenti gli spostamenti di popoli nelle
regioni dove si stanziarono i coloni ellenici (p. 1 78, n. 4). La de-
nominazione di Graeci non si deve all'essersi esteso il nome dei
rpaiKeq, i quali, abitanti sul lido dirimpetto all'Eubea, si sareb-
bero uniti ai Calcidesi, ma all'estensione del nome TpaiKoi, desi-
gnazione del popolo epirotico, che fu la stirpe ellenica colla quale
le popolazioni italiche si trovarono la prima volta in contatto.
Una questione molto rilevante è quella che riguarda i popoli
- 239 -
della Sicilia, nella quale il B. (p. 178, n. 4) propugna felicemente
la identità etnografica dei Siculi e Sicani, negata non è molto dal
Freemann {History of Sicily, I, 109 sg.; 474 sg.), il quale ha
cercato di difendere la tradizione tucididea (VI, 2) dell'origine
iberica dei Sicani. All'incontro non si potrebbero accogliere senza
riserve le conclusioni del Beloch sulla nazionalità degli Elimi,
nei quali egli vede la popolazione indigena della Sicilia ridotta
dal movimento migrativo dei Siculi-Sicani ad abitare l'estremità
occidentale dell'isola. Io che in un mio scritto (De Siciliae gentihus
antiquissimis, p. xxviii, Napoli, 1893) mi ero accostato all'opinione
del Beloch, meditando meglio la monografia del Kinch {Zeitschrift
fnr iVwm2>ma^?A;, XIV, 187-207), e quella del M.<òhÌQX {Philologus,
N. F., Ili, 607-612), sono entrato nella persuasione che gli Elimi
fossero effettivamente coloni greci.
Il Beloch (p. 186, n. 2) limita considerevolmente l'influsso fe-
nicio sulle coste dell'Egeo e del Mediterraneo, mostrando che gli
stabilimenti fenici non possono aver preceduta l'occupazione greca;
ciò è attestato dalla mancanza di parole fenicie nel linguaggio
nautico (Vedi a questo proposito piìi particolarmente Beloch, Èie
PJtoeniker am aegeischen Meer, Rheinisches Museimi, XLIX,
p. Ili sg.), dalla mancanza di ogni tradizione sicura sull'esistenza
di stazioni fenicie in Sicilia prima dell'arrivo di coloni greci, dal-
l'uso del nome lavan come designazione di tutti i Greci ; dal si-
lenzio sui Fenici nei luoghi più antichi dell'epos (Griech. Gesch.,
p. 262). L'influsso fenicio sulla civiltà micenea notato dal Meyer
nell'op. cit., p. 129-130, 178, può essere effetto di relazioni pura-
mente commerciali, non essendo nemmeno esclusa l'ipotesi dell'im-
portazione indiretta (p. 116).
La più sicura conoscenza dei fatti economici governa la tratta-
zione della parte in cui si discorre delle vicende dell'industria e
del commercio in Grecia, quando l'agricoltura — pur rimanendo
per un pezzo l'elemento più importante della ricchezza nazionale
— ha cessato di esserne l'esclusivo fattore (p. 222); e molto op-
portunamente è rilevata la connessione tra le condizioni sociali e
i rivolgimenti politici (p. 224). Quanto al progresso morale della
Grecia dall'epoca omerica alle guerre persiane, l'autore con la
solita illuminata libertà di giudizio, ha preso a combattere di
fronte l'opinione che in Grecia fosse stata fatta in ogni tempo
una condizione umiliante alla donna (p. 282), opinione dovuta in
gran parte a un concetto esagerato che si annette comimemente
all'azione del Cristianesimo pel trionfo di certi principi d'ugua-
glianza nella società moderna.
Nel descrivere il processo d'unificazione e d'accentramento
(p. 270-273), è fatta la dovuta parte all'azione delle credenze re-
ligiose e alle esigenze politiche. Quanto l'autore osserva riguardo
alle conquiste operate dalle città più potenti sui territori circo-
stanti (p. 273), molto opportunamente rischiara e conferma le
— 240 —
ipotesi affacciate per spiegare la diversità di condizione fatta agli
abitanti della stessa terra, in cui si vedo comunemente l'effetto
delle invasioni. L'assoggettamento piìi o meno limitato è una ne-
cessaria e logica conseguenza della conquista, e quindi è propor-
zionato nelle sue conseguenze alla resistenza dei popoli vinti :
quando nessun centro è abbastanza forte per sottomettere gli altri,
si ha allora la forma federativa (p. 270 .sg.).
Tralasciando di considerare molti particolari relativi alle tra-
dizioni delle lotte combattute nelle varie regioni della Grecia
(p. 28G sg.), veniamo ad esaminare l'ipotesi dell'autore sul pas-
saggio dalla forma monarchica alla forma aristocratica. Farei
qualche riserva sull'asserzione del Belocb che in questo pas.saggio
si ha da vedere in ogni caso un lento processo di trasforma-
zione piuttosto che l'opera di rivoluzioni violente. (Jiò può essere
vero anche generalmente, ma non è improbabile che talvolta la
renitenza dell'autorità regia a riconoscere e rassegnarsi alle usur-
pazioni della nobiltà, abbia provocato un conflitto terminatosi col-
l'insuccesso e quindi colla soppressione della monarchia. La testi-
monianza d'Aristotele (ATT., 3) non ha molto valore perchè è piìi
il risultato di speculazioni che una deduzione basata su testimo-
nianze sicure, di cui lo Stagirita non disponeva ne poteva disporre
(Meyer, op. cit., p. 348). Lo stesso fatto che in Sparta i due re
integravano il numero dei gerenti in modo da ottenere il numero
di trenta corrispondente a quello delle ohe, prova che la diarchia
spartana non era un'alterazione della prisca monarchia omerica,
ma una forma di autorità rifiorita sul nuovo tronco del sistema
oligarchico.
Venendo alla storia d'Atene, notiamo che giustamente è stata
rivendicato a Pisistrato il vanto di aver fondata la grandezza mili-
tare ateniese (p. 327, n.); ma il risultato più importante intorno alla
storia della tirannide, sta nell'aver discoperto nella leggenda delle
due cacciate una vera e propria dittografia, dovuta all'interpreta-
zione goffa della leggenda secondo la quale Pisistrato sarebbe stato
ricondotto in Atene da Pallade stessa (p. 328, FJiein. Mus., XLVII,
p, 469; Meyek, op. cit., p. 772).
La riconquista dell' ATT. d'Aristotile al patrimonio della lette-
ratura classica, non poteva essere indifferente per la retta intelli-
genza di molti punti della storia ateniese. Pertanto il Beloch ac-
coglie le testimonianze più credibili e conciliabili colle notizie
più certe intorno all'antica storia di Atene, ripudiando qualche
affermazione soggettiva e priva di fondamento critico, come quella
riguardante l'esistenza del collegio dei dieci strateghi nei tempi
anteriori alla riforma di distene (p. 336). Nondimeno forse non
molto giustamente condanna l'autorità d'Aristotele che chiamava
l'arconte polemarco xx\c, aTTdar|<; aipatmc; fiYeMÓJv. Una vera con-
traddizione con Erodoto (VI, 109) non c'è, poiché il comando
supremo indicato da Aristotele può essere stato solo nominale e
— 241 -
limitato a im semplice contegno ossequioso da parte degli effettivi
capi dell'esercito. Inoltre è molto problematico se in un partico-
lare della storia ateniese, nella quale Erodoto si dimostra così
poco esperto da chiamare Callimaco ò tuj Kuaiaqj Xaxùjv iroXe-
liapxeTv, questi meriti più fede di un'indagatore delle istituzioni
ateniesi come Aristotile. All'incontro difende giustamente l'esat-
tezza della data 487/6 in cui l'autore dell'ATT. attesta che si fosse
instaurato il sorteggio per la creazione degli arconti: dimostrando
l'insussistenza di un arcontato di Temistocle poco prima della
battaglia di Salamina.
Venendo alla trattazione del periodo delle guerre d'indipen-
denza, il segreto delle vittorie dei piccoli eserciti della Grecia
contro le ingenti moltitudini barbariche, è ricercato ed esposto
con quella consueta sobrietà d'analisi, per la quale anche le cose
note guadagnano sempre più chiarezza e consistenza nella mente
del lettore. Noi siamo pienamente d'accordo con l'autore sulla
questione delle fonti seguite da Erodoto nel narrare le guerre
persiane, non parendoci per nulla convincenti le prove addotte da
molti critici, tra i quali il Trautwein {Hermes^ XXV, 4, p. 13,
n. 2), per dimostrare che Erodoto avesse avuto a disposizione do-
cumenti letterari ; ma avremmo da fare qualche riserva sulla
causa della poca attendibilità di Erodoto nella notizia taciuta da
Carene Lampsaceno {FHG., 1, 33, 2), che Ateniesi e Ioni furono al
principio della loro marcia contro Sardi sconfitti presso Efeso (He-
rodots ErzUlilimg iles gmìzen Atifstands ist uherhaupi gegen die
lonier voli Missgunsf). Non si può certo parlare di malafede in Ero-
doto, il quale quasi sicuramente ha riferita la tradizione quale la
ha appresa, tradizione coniata forse più in odio agli Ateniesi che ai
Ioni. All'incontro col rilevare l'esistenza delle tribù clisteniche in
Lemno, ha demolita una congettura seducente (p. 351, n.), peri-
colosa per l'autorità del suo propugnatore (Meter, Forscìmngen,
p. 14 sg.), che la cleruchia ateniese di quest'isola risalga a un
tempo anteriore alla rivoluzione ionica e che ne fosse probabil-
mente il fondatore non Milziade il Maratonomaco , ma Milziade
Cipselide.
L'autore procede nella sua esposizione delle guerre persiane,
avendo sopratutto riguardo ai loro effetti nelle condizioni della
società greca, specialmente ateniese, e negli ordinamenti politici.
Noi non lo seguiremo in tutto lo svolgimento del racconto e delle sue
riflessioni, ma passiamo ad esaminare qualclie particolare degno di
speciale attenzione. Il giudizio sulla condotta di Pericle come uomo
di stato, già manifestato iìqW Atiiscìie Politik{^. 19 sg.) viene nel-
l'opera presente integralmente mantenuto. Si può forse dire che
sia severo: difficilmente si può affermare che sia ingiusto, poiché
non si riesce a giustificare Pericle con la considerazione che se
egli non profittava del dissidio corinzio-corcirese, non avrebbe più
potuto nell'eventualità d'una guerra solo differita, non scongiurata.
Rivista di filologia, ecc., I. 16
— 212 —
fare assegnamento suH'aiuto dei (Jorciresi. Infatti un uomo di stato
corno Pericle dovea ben vedere che non gli aiuti di forze marit-
time, delle quali Atene dis|ioneva olire il bisogno per una guerra
con Spiirta, ma quelli di un esercito terrestre, qualti avrebbe po-
tuto aimaie Argo al termine della tregua trentennale, erano i più
atti a mettere la sua patria in condizione vantaggiosa nella lotta
contro una potenza militare come Sparta.
Negli ultimi due capitoli consacrati alla trattazione della storia
dell'arte e del |)rogresso del pensiero scientifico, si contiene una
ordinata sintesi dell'evoluzione del jtensiero greco, con larghe e
profonde considerazioni sui caratteri più salienti delle creazioni ar-
tistiche di questo popolo geniale. Su (jualche veduta j)articolare si
potrà dissentire, p. e. nel ritenere (p. 505) Euripide superiore agli
altri due grandi tragici e nell'attribuire la superiorità morale dei
Greci del IV secolo rispetto ai contemporanei di Pericle all'influsso
benefico del pensiero scientifico (p. 525), poiché la scienza è sempre
patrimonio di pochi e nell'educazione è più gagliarda e attiva la
forza degli istinti e del sentimento che quella della riflessione.
Altre osservazioni si potrebbero fare, ma sarebbe cosa tanto fa-
cile quanto inconcludente, e terminiamo questa nostra disamina
col rilevare il pregio di una perfetta economia del lavoro, in cui
tutte le parti sono svolte nella misura che si conveniva ad un'o-
pera che non intende descrivere lo sviluppo di singoli rami della
attività del popolo greco, ma offrire una compiuta rappresenta-
zione della sua vita quale ci è dato studiarla nelle sue tradizioni
letterarie e nei suoi monumenti. Auguriamoci che vegga presto
la luce il secondo volume, col quale avremo una completa storia
del popolo greco sino all'epoca ellenistica, e che non tardi la riso-
luzione d'un editore sollecito della cultura nazionale, ad assumersi
l'impresa di pubblicare una traduzione italiana d'un'opera tanto
importante.
Cosenza, 25 gennaio 1894. Vincenzo Costanzi.
Studi italiani di Filologia classica. Volume secondo. Firenze,
Sansoni, 1894.
11 volume si apre con un bello e profondo studio di R. Sabba-
dini, « Il commento di Donato a Terenzio », dove l'A. « si pro-
pone due scopi : l'uno di orientare sul materiale manoscritto e
stampato, l'altro di dare un nuovo impulso alla questione dona-
tiana ». Premessa una chiara introduzione sull'origine e natura
del commento, il S. procede a trattare della diifusione di esso ed a
- 243 -
descrivere i codici di Donato, aggiungendo notizie coniplete sulle
edizioni di questo autore e concludendo con saggi del testo.
Il Sabbadini, colla profonda e mirabile conoscenza che possiede
sull'umanesimo, potè agevolmente trasportare la discussione sul ter-
reno dei fatti, sgombrarla di errori e ridurre le cose al loro as-
setto reale. Esposti i giudizi ammirativi del Guarino, di Calfurnio,
ed il dubitativo di P. C. Decembrio e di Giano Parrasio, che ebbe
molto seguito nel secolo XVII e XVIII, fa conoscere come il secolo
nostro abbia giudicato il commento donatiano nei lavori dello
Schopen, dello Stallbaum, del Reinhold, del Klotz, del Kònighoff,
dell' Umpfenbach, dell'Usener, del Diatzscko, del Reiflferscheid, del
Hahn, del Teuber, del Leo, dello Scheidemantel, del Gerstenberg,
del Weiiiberger, che tentarono in vario senso risolvere la que-
stione. L'A. si mostra contrario airimi)ortanza da taluni assegnata
ad Evanzio, e giunge a desiderare il postulato di un solo com-
mento originario, sunteggiato pel trasporto ai margini del testo
terenziano e ampliato con elementi occasionali.
Venendo a trattare di Donato ne' codici, nega che Evanzio com-
ponesse un commento a Terenzio, e rintraccia le citazioni da Donato
in Girolamo, in Rufino, in Prisciano — nel sec. IX « incontriamo
una testimonianza diretta dell'esistenza di un codice di Donato in
Servato Lupo». Ampia è l'esposizione di quanto concerne Donato
negli umanisti: l'Aurispa ne trovò un codice a Magonza, e ne fece
trascrivere un altro a Chartres, e si adoperò a diiÉfonderlo. Altri
codici furono scoperti nel secolo XV, non meno di dieci esemplari
indipendenti; parecchi altri si trovarono più tardi : in tutto quin-
dici. Ciò dimostra che nel medio evo Donato era molto diffuso,
se pure al Petrarca rimase ignoto. — Ma oltre che in mss. ap-
positi del solo commento, esso fu conservato anche sui margini di
mss. terenziani — tra essi i più famosi sono il Bembino, il Vit-
toriano, il Vaticano, il Riccardiano, che il Sabbadini descrive ac-
curatamente. Ma Donato ha relazione altresì colle due biografie
terenziane (donde quella del Petrarca) ed il Polentone: il S. sta-
bilisce che la biografia anonima è estranea a Donato e si collega
a biografia esistente al tempo di Augusto. Inoltre Donato compare
anche in altri commenti Terenziani, nel Brunsiano e nella Expo-
sitio — ed i glossari attingono a Donato; di più esiste un brevis-
simo glossario donatiano — pubblicato dal Vulcanio.
A questo punto il S. descrive i mss. di Donato: Paris, lat. 7920,
Vatic.-Regin. lat. 1595 e 1496, Canon, lat. 95 (Oxford), Vatic. lat.
2905, Riccard. 6(39, Laur. 53, 9, Cod. Lincoln di Oxford 45, Laur.
53, 31, Vatic.-Palat. lat. 1630, Vatic. lat. 1513, Malatest. XXII,
11, V., Cod. Fiesolano 175 (nella Laurenziana), Lauren. XXII,
sin. 6, Paris, lat. 7921, Vossian. Leidens. Q. 24, Neapol. V. B.
17, Vatic.-Ottob. lat. 2023, Ambros. A 144 sup., Ambr. D. 70 sup.
Non meritano che se ne riporti la collazione Dresdens 1) 132,
Vatic.-Regin. 1673, Ambros. T, 114 sup. Vatic.-Urb. 254, Laur.
— 241 —
53, 8, Vatic.-Ott. 2070. Non potè esaminare il codice Escuria-
lense E III 3, e nel Museo Britannico Bum. 171 e 267; Addit.
11 900 e 21083. Esisteva un nis. nel Museo Niccolò Trevisan in
Padova, un iiltro riellii lilireria di Gasjtare Trivulzin, un altro
presso i Carmelitani di Mantova.
Il Sahbadini divide i rnss. in 1 classi, colle (piali tenta ricostruire
approssimativamente l'archeti))©; e ne deduce (p. 75) i segmenti
risultati pratici per l'editore di Donato: « 1 codici della Pelasse
(Paris, lat. 7920, Canon. 1. 95, Kiccard. 009, Vat. lat. 2905, Vatic.
reg. 1. 1490, Vat. reg. 1. 1595) vanno adoperati tutti: parimenti b
(Laur. 53, 31) della 3" classe; della 2* basta un individuo, per es. a
(Laur. 53, 9); della 4" bastano due, p. es. e (Laur. XXI 1, sin. 0),
t (Vat. ottob. 1. 2023) — di M (Malet. XXII, 11, V) va tenuto
conto soltanto per i passi greci ».
Dopo la descrizione delle edizioni, vengono i saggi del testo —
Andr. 11, 4; Eun. I, 2, 85-88, 11, 2, 11-20; Hecur. IV, 1, 1-21;
Phorm. I, 2, 48-56; Phorm. II, 3 — Seguono i passi greci.
11 lavoro per la sua importanza meriterebbe più lungo e più
minuto esame: ma la semplice esposizione sommaria dell'argo-
mento ci rivela la dottrina e la chiarezza che in altre opere del S.
si ammirano e che qui ci fanno desiderare, che il S. non sia sol-
tanto giudice competentissimo di una possibile edizione di Donato
per opera del Wissowa, ma editore egli stesso.
Segue del Rostagno un'accurata collazione del Laurenziano PI. 68,
8 per il hellum Hispaniense ; il ms. del secolo XI, tìnora trascurato
dai dotti è confrontato in alcuni passi coli' ed. Dinteriana. —
Una breve indicazione di G. Vitelli ai mss. che il Krumbacher
{Sitzungh. d. b. AL 1892, p. 343; cfr. Bp0. Zeitschr., I, 631)
menziona per il trattato rrepì ^evéaewq àv6puuTT0u, aggiunge il
Barocciano 173 e lo Hierosoloraitano 281 (indicato dal Krumba-
cher), e fa conoscere un altro ms. della vita di S. Teodosio.
Intorno alla forma del Kothon disputa ampiamente ed accura-
tamente Pio Franchi dei Cavalieri, che lontano dal credere « di
aver tolto ogni dubbio, spera aver dimostrato che il kuuGujv deve
con qualche maggiore probabilità riporsi fra i vasi in forma di
ampolla o di fiasco, contro l'opinione del Panofka ». L'A. è molto
accurato e diligente e mostra erudizione ed acume.
A p. 154 il Rostagno richiama l'attenzione su codici greci lau-
renziani meno noti.
Ettore Romagnoli discute sull'azione scenica durante la Pa-
rodos degli Uccelli di Aristofane. Gli uccelli non vedono Pitetero
ed Euelpide: questi, secondo il R. si nascondono dietro cespugli
0 roccie — il coro li vede, quand'essi impauriti si danno alla
fuga. Così intesa la scena risulta ben chiara e sono tolte le dif-
ficoltà: tale interpretazione ebbe l'ambito elogio del Comparetti e
del Franchetti.
A pag. 160 il Vitelli ritorna sul v. 458 della Medea e propone
pel V. 893 la lezione :
— 245 —
àW à|ueivov luetapePoùXeuiaai ròbe.
Il Bancalari ci dà l'Index codicum graecoruni hihliothecae Ca-
sanatensis, in numero di 64. Quanto l'opera sia utile, ciascuno
comprende, tanto ^ìiù che il lavoro è diligente ed accurato e con-
dotto coi medesimi criteri di altri consimili catalo^rhi pubblicati
in questi Studi.
A p. 208 il Vitelli interpreta Philostr. Mai. Imag. II, 26, 1
(p. 280, 13 K) correggendo òià in bi'xa.
Il Fuochi ha fatto utile e bel lavoro trattando — De titulorum
ionicorum dialecto. — La trattazione è fatta con metodo rigoroso,
colla conoscenza sicura delle fonti e degli studi moderni, ed è tanto
più opportuna perchè il patrimonio epigrafico si era arricchito e
meglio conosciuto, e da lungo tempo il loro dialetto non era stato
sistematicamente esposto (1). La fonologia e la morfologia sono
esposte nell'ordine consueto in tali lavori. Forse non era inopportuno
aggiungere alcunché intorno alla sintassi. Utilissimo V Index voca-
hulorum qui iti titulis ionicis a Becìitelio collectis exstant.
A pag. 297 il Vitelli parla dello iato nel Romando di Nino,
proponendo alcune congetture: e nella pag. seguente al fr. 82 di
Sofocle (Nauck-), v. 3 propone
f| boOXov au Beujv òvia tiìjv TuéXaq KXùeiv
11 Cocchia nel suo Nuovo ientaiioo di emendazione a Plauto
Mil. Glor., 1, vv. 21-4, esaminati codici ed edizioni, propone :
nisi unum: epityra ut apud illa estur insanum bene.
donde risulta una buona interpretazione, adottata dall'A. nella sua
ediz. del Miles.
Di Plauto si occupa con larga e geniale dottrina di glottologo
e filologo anche il D'Ovidio. La sua Noferella Plautina-Stich.,
v. 639, esaminate le varie interpretazioni, anche di recenti tra-
duttori, e discussa finamente la lezione vincea e iuucea, conclude
che il potione indica una vera pozione medicinale, e che iuncea
è preferibile.
11 Kostagno ci dà la collazione esattissiiua del libro De hello
Africo nel cod. Laurenziano-Ashb. n" 33: l'avevano consultato il
Woltflin ed il Miodoiìski, ma parecchio trascurarono — il R. ri-
torna sul ras. con particolare cura alla parte ortografica, per la quale
il ms. ha valore speciale. 11 R. assegna il codice al secolo IX
col Paoli, contro il Delisle.
A pp. 337-8 il Vitelli dà una collazione delle lettere di Dione
Crisostomo sul ms. Marciano ci. IX 22, e pubblica dal cod. Laur.
(1) Noto, ohe ora possediamo un lavoro molto più completo sul me<lesimo
argomento, cioè il libro di Hkrbe«t Weui Smyth, The souniis und injìec-
tions of the rjreek Dialects. I. Jonic, Oxford, 189-1.
— 2À(; —
Acq. 30 una lettera o modello di lettera bizantina d'un Dione ad
un Eusebio.
L'Albini nelle sue Fraecipuae rjuaestiones in Sutiris A. Pcrsii
Flacci interpreta parecchi punti diffìcili dell'oscuro satirico ro-
mano: se non in tutto può essere seguito, il che succede in sif-
fatti lavori, il suo è un buon contributo all'ermeneutica di J'ersio.
A p. 374 il Vitelli dà notizia e collazione di un ms. f(enove^e
contenente la vita di S. Teodosio ; è il ms. Sauliano n" 33 nella
biblioteca delle Missioni Urbane, membranaceo, sec. X : aggiunge
che il Laur. 11,0 della vita di S. Teodosio è datato (anno 1021).
Il Nencini ha uno studio acuto ed accurato sul proverbio
Ò.U òvou (arcò xoóq, dnò tuuPou) KaiaTreaeiv. Per quanto con-
cerne le Nuli (1272-3) mi accontenterei del giuoco di parole pro-
veniente dal contrapposto di cavalli ed asini, col rirliiamo all'u-
suale proverbio, che l'asino, il quadrupede, ha dato origine a molti
proverbi, ed il XripeTv non è solo degli ebbri. Il vantaggio che
le varie forme del proverbio vengano ad avere tutte una sola e
medesima spiegazione (dacché oltre il senso più comune i vocaboli
indicherebbero anche appositi recipienti), è forse meno importante
che non sembri. Certo l'interpretazione del Nencini, oltre che assai
diligente, è molto arguta; non credo però che sieno tolti tutti gli
argomenti a dissentire su qualche punto, per es. nei versi ora
citati delle Nubi. Ma di tali studi e di tale acume è forte desi-
derio trovare saggi in chi si accinge a ricerche erudite.
Lavoro molto importante è quello del Tocco: Bel Parmenide, del
Sofista e del Fileho, che riprende a trattare idee coerenti a quelle
già svolte in uno studio anteriore: idee contrarie a quelle dianzi
pervalenti, e dapprima non accettate, ma poi man mano condivise
da più studiosi, che per altre vie giunsero a conclusioni non dis-
simili da quelle cui il Tocco era già da tempo pervenuto. Per
sostenere la sua opinione circa il posto che tali dialoghi occupano
cronologicamente nel corpo de' dialoghi platonici, non si vale,
come altri ricercatori, di argomenti stilistici e grammaticali, ma
filosofici; e con mirabile conoscenza del sommo filosofo greco, con
sicura notizia degli studi moderni, procede genialmente alla di-
mostrazione, nella quale si vede sicurezza di indagine e finezza
di giudizio. Sicché il lavoro, se non è de' più estesi, è certo tra
i più felici del Tocco.
A pag. 470 il Vitelli dà notizie di codici fiorentini dello storico
Erodiano, ed accerta che il più antico ms. di esso era nella bi-
blioteca di Badia.
Del medesimo Vitelli segue un indice de' codici greci Eiccar-
diani, Magliabechiani e Marucelliani. Speriamo che altri cataloghi
ne' medesimi studi proseguano questo lavoro tanto utile e che i
tesori delle biblioteche italiane siano così man mano resi noti
da cataloghi, non raffazzonati da persone incompetenti, nla dovuti
a giudici sicuri dell'antichità.
— 247 —
Il volume si chiude con uno scritto del Piccolomini « osserva-
zioni critiche ed esegetiche sopra i Cavalieri di Aristofane». Di
parecchi luoghi della comedia il P. espone congetture ed inter-
pretazioni, con quella correttezza che è ben nota nell'insigne cul-
tore di Aristofane. Se non tutti in ogni punto col P. potranno
accordarsi, l'opinione sua ha certo sempre grande verisimiglianza
e merita il più attento esame, come di erudito assai benemerito
degli studi greci in generale e più specialmente del sommo co-
mico Ateniese.
Questi brevissimi cenni intorno al secondo volume degli Studi
italiani di Filologia classica^ anche se non si addentrano in un
esame de' singoli argomenti, bastano, spero, a far comprendere
l'importanza della pubblicazione. Conforta vedere maestri insigni
associati a scolari diligenti e valenti nello studio dell'antichità ; con-
forta il sapere che in Italia esiste una coorte di valorosi, che
questa si accrescerà, e condurrà l'Italia a tenere negli studi quel
posto che le compete. Non unica pubblicazione nel suo genere,
cooperano questi Studi colla Rivista di Filol.^ cogli Atti delle
più importanti Accademie a conservare per l'antichità quell'amore
che sembra a taluni sì debole ormai e tanto minacciato. Atten-
diamo dai successivi volumi un'opera parimente felice e feconda.
Torino. C. 0. Zuretti.
Arthuri Ludwich De codicihus Batrachomachiae dissertatio \m
Index lectionum in R. Acad. Albertina per hiemem a. 1894-95
a die XV m. octobris habendarum, Konigsberg, 1894).
Nella dissertazione annessa 2i\V Index lectionum dell'estate 1894
aveva il Ludwich pubblicato il testo della Batracomachia secondo
i quattro codici più antichi che si conoscano (Z =^ Barrocc. 50
s. X-XI, n = Paris, suppl. gr. 690 s. XI, L = Laur. XXXII, 3
s. XI, Q = Escorialens. Q 1 12 s. XI), restituendone per quanto
era possibile l'archetipo, e presentando insieme una probabile emen-
dazione congetturale dell'archetipo stesso. Aveva inoltre promesso
uno studio delle relazioni di questi codici antichi con la serie
interminabile de' codici recenti, e questa promessa egli mantiene
nella presente dissertazione. Comincia col darei una lista di tutti
i godici della Batracomachia a lui noti (1), e ne enumera 77 (cioè,
(1) Si può aggiungere un codice della Bibl. comunale di Siena (del quale
si darà notizia altrove), e due codici Parmensi indirati dal Martini {C<ital.
dei mss. etc. 1 1, p. 166 e 170).
— 2J.^ -
oltre i quattro {,'ià indicati, due del s. XII, fiuattro del XIII, e
tutti gli altri del s. XIV-XVII). Di ciascuno di questi codici egli
possiede collazioni intere o parziali, sufficienti nel maggior nu-
mero de' casi per farli distribuire in quattro classi, delle quali
non ò possibile indicare qui i caratteri senza eccedere lo spazio
concesso ad un breve annunzio. (Ji basti dire cbe ora per la prima
volta è resa possibile una edizione critica della Batracoraachia
clie meriti in tutta la estensione del significato deUe parole questo
nome; ed è inutile aggiungere che nessuno potrà l'aria meglio del
Ludwich, die non solo ha cosi amj)io materiale critico raccolto e
vagliato, ma ha di più tale competenza in fatto di poesia epica,
quale nessuno de' filologi viventi.
In fine della dissertazione pubblica il Ludwich (dal cod. Ca-
sanat. G IV 16, per cui si veda ora il catalogo del Bancalari nel
2" volume degli Studi italiani di filologia classica) 30 orribili
esametri in un curioso dialetto dorico. Sono in onore della Ver-
gine Maria e ne è autore un Rliakendytes. Il Ludwich ricorda in
proposito il Giuseppe Rhakendytes, autore della S>/nopsis retorica
(Walz 111). Certo costui non ha nulla a fare con questi esametri ;
profittiamo però ancbe di questa occasione per ricordare che fa-
rebbe opera molto utile chi studiasse accuratamente la composi-
zione e le fonti di tutta la Synopsis variarum disciplinarum com-
pilata da Giuseppe Khakendytes; qualche cosa, ma non ancora
abbastanza, offre la descrizione del codice Riccard. 31 nel volume
efià citato deeli Studi italiani.
Scholia in Aeschyli Persas recensuit, apparatu critico instruxit,
cum praefatione de archetipo codicum Aeschyli scripta edidit
OscARUS Daehnhardt, Lipsiae, Teubner, 1894, pp. lxvi-275.
Kirchhoff e Wecklein nelle loro edizioni di Escbilo hanno ac-
colto solo gli scolii Medicei, persuasi come sono che M sia l'ar-
chetipo di tutti i mss. eschilei oggi esistenti. Invece credono altri
che i 'codices recentiores' delle tre prime tragedie derivino da un
archetipo molto simile ad M, ma da esso indipendente. Ora seb-
bene non sia lecito equiparare senz'altro la condizione degli scolii
a quella del testo, purè è naturale che chi non crede M unico
fonte del testo, desideri si tenga conto de' codd. recc. anche per
gli scolii e si determini, per quanto è possibile, quello che deriva
in essi dall'antico archetipo indipendente da M e quello che ha
aggiunto di suo la erudizione bizantina, Wilamowitz {Hermes,
25, 170) aveva indicato gli scolii ai Persiani, siccome quelli in
cui più comodamente si poteva distinguere il genuino dal non
— 249 -
genuino ; e il Dàhnhardt ci dà ora una edizione, dove in colonne a
fronte troviamo gli scolii Medicei, i così detti scolii A, e i glos-
serai interlineari de' codici V(indobon. 197) H(eidelb. Palai 18)
G(uelferbyt. 88) L(ipsiens. rep. I, 4, 43) B(ritann. Cantabrigiens. 1).
Per VHGL l'editore adopera sue collazioni, per M riproduce l'edi-
zione del Wecklein, per gli altri codici le indicazioni del Vettori,
del Pauw e del Dindorf.
11 lavoro, che richiedeva non poca abnegazione, sembra condotto
con grande accuratezza. Sieno dunque rese gi'azie all'editore per
quello che ha fatto, e sia espresso il voto che egli prepari di tutti
gli scolii eschilei una edizione definitiva, dove compaia diligente-
mente raccolto e vagliato quello che offrono i migliori rappresen-
tanti de' codici recenti. Il Diihnhardt non si nasconde che biso-
gnerà collazionare ancora molti mss.; auguriamoci che non lo
distolga dall'improbo lavoro la considerazione della utilità relati-
vamente troppo piccola che ne risentirà il testo di Bschilo. Anche
i Bizantini, oggi più che mai, interessano il filologo; e il presentare
in forma chiara e distinta quello che essi seppero produrre in
fatto di critica e di interpretazione eschilea, contribuirà all'equo
apprezzamento di quella erudizione certo arruff"ata e superficiale,
ma neppur sempre tanto nulla quanto si usa di credere.
Del resto, quanto al valore diplomatico de' codici recenti, per
la tradizione così del testo come degli scolii antichi, credo si possa
avere ancora il diritto di esitare fra le due opinioni clie tengono
il campo. Non ignoro che a far questa confessione corro il rischio
di essere annoverato tra i qpopTiKuuTepoi, ma sarebbe anche deplo-
revole che trattando di Eschilo non seguissi il suo nobile consiglio
e volessi òokcìv àpiaxoc, senza esserlo. Dirò soltanto che per il
testo la mia esitazione è molto minore clic non per gli scolii. Le
non poche buone lezioni de' codici recenti, anche prescindendo dal
verso Toiauià xav YuvaiSl auvvaiuuv è'xoiq (Sept. 177*), per il
quale starei col Wecklein contro il Weil, mi par difficile sieno
tutte dovute a congettura; ma non per questo ammetterei senz'altro
una fonte di scolii antichi diversa dal Mediceo, tanto rari sono
gli scolii che veramente costringano ad una siffatta ipolesi. Certo
a sentire Heirasoeth, Wilamowitz e Dithnhardt, sono invece mol-
tissimi ; ma qui bisogna pur rassegnarsi a far la debita parte alle
impressioni subbiettive di ciascun critico. E però sarebbe somma-
mente desiderabile che i futuri editori di questi scolii non met-
tessero subito in pratica i resultati delle loro teorie: importa
soprattutto che il lettore abbia ricco e sicuro materiale a sua
disposizione, al resto penserà da sé, se lo crederà opportuno. Sarei
quindi molto cauto, né senza ineluttabile necessità interpolerei gli
scolii m per mezzo degli scolii A, 11 Diihnhardt intanto non ha
resistito senipie a questsi tentazione; e sarà utile notarlo.
Al V. 243 m spiega è'Yxi (Ttabaia con èK toO (Juaidòriv laa-
XÓ|ieva, e soggiunge oiov au(5Tttbriv MOtXovrai • xovc, YÒp éK bia-
— 2.7) —
atrmaToiv MaXOMÉVOU(; KairiuTéXi^ov. Che ragione vi può essere
per mutare oiov (Schol. Sept. 207. 270 etc. etc.) in b\' uiv ov-
vero in o\q ? Il solo fatto che gli scolii recenti hanno bi' iLv (éE
jLv). 8i considt'ra dunque come assioma che di due lezioni possibili
sia la vera qu(3]la dt;' codici recenti; e allora è anche l)en naturale
che non si tolleri per es. 1' r\ éEiXeuJcnq e\q dyaBòv dncpaiTì (sch.
Pers. 231) e s'interpoli dai reco, (eìee) eì<; (i-f«Bòv eie.
Al V. 'i72 m d;"l TTuaiv riTieiXei ToTq laxBelaiv auToTq 9u-
XdEai jy\q KeqpaXfiq cTrepriBrivaj, A invece tt. ì]. t. raxB. nap' aÙToO
qpuX. Toùq "EXXrjvaq aiepiaKecrBai jx\c, KCcpaXfìq. L'errore di m è
de' più semplici: il dativo ia\Qi\aiv ha portata con sé l'assimi-
lazione del seguente aÙToùq (come kokiLv ed époi sono analoga-
mente diventati KQKrì ed è^iè negli scolii ai vv. 440 e 1020). Lo
scoliasta A non vide quello che il Paloy (e non solo il Paley,
perchè trovo di avere annotato anche io aùioùq senza sapere del
Paley) ha visto, e congetturò invece nap' aÙToO supjdendo in se-
guito Toùq "EXXrivaq. Ed ecco ora il Diihnhardt che muove dalla
congettura di A (dove del resto non è necessario scrivere Tiap' aù-
ToO) e sostituisce in m aÙTUj ad aÙToT(;. Nello stesso scolio poi
Wecklein e Wilamowitz si trovano d'accordo a correggere in m
péXTiov ouv KpdToq àvTi ToO KpaTOu<; etc. secondo gli scolii A
(Wilamowitz anzi non vuol rinunziare neppure al xatà àvTiTCTUj-
cTiv), mentre io non so vedere la necessità della correzione. La
congettura dello scoliasta (Kpato^ per Kpàtòq) è una stupidaggine;
ma perchè vogliamo impedirgli di formulare la sua stolta anno-
tazione così come ce la dà m: 'meglio dunque si leggerà KpdTO<g,
esser privato etc, in modo che l'accus. Kpaioq stia invece del
genitivo Kparou?'? Forse la formula l'v' i^ è limitata alle para-
frasi, e non ha luogo anche per introdurre qualunque osservazione
esegetica ?
Speciale importanza attribuiscono Wilamowitz o Diihnhardt
(p. XXXI sq.) alle correzioni che per mezzo degli scolii A si pos-
sono e in parte si debbono introdurre nello scolio m al v. 379.
Eppure cerchiamo di immaginare che cosa dovesse pensare un
bizantino mediocremente dotto, quando in margine al verso eschileo
(tpottoOto KuuTTriv CTKttXpòv àjLicp' eùriperpov) trovava in M lo scolio
KUJTTriv eùripeipov ducpì aKaXpóv. èbéapeue TpoTTuuTfìpoAuj (lacuna)
òeapeuujv ix\v Ktònriv Trpòg tìù aKaXpuj. Anche supponendo che
egli ignorasse la parola TpoTruutrip, ogni lessico gliela spiegava
(Hesvch. s. v. xpoTToi e TpoTtuJcfaaGai, Phot.. Suid., Et. M. 769,
19; Schol. Lucian. D. M. 4, 1 [IV p. 166 Jacobitz], Schol. ò 782,
0 53 etc; cfr. Kock ad Eubul. fr. .52). In questi luoghi TpoiTUJTrip
è spiegato suppergiù con \\x.àc, ó cruvòéijuv ir\\ Kiunriv tuj (jKaXjaui ;
e quello che i più antichi dicevano \\xàq era Xajpo^ nel linguaggio
volgare (Hesych. ipd? • Xaipoq; Et. M. 110, 37. *470, 250 [cfr.
177, 40. 432, 17] ipdq 8 aripaivei tòv Xujpov etc). Ci voleva
dunque straordinario acume e straordinaria dottrina per ricono-
— 251 -
scere nella corruttela un xpoTxujTfip ó Xùijpo? ó òea^euujv etc. ?
Anche prima della Commentatio palaeograpJiica del Bast mi fi-
guro si sarà saputo che un A era facile corruzione di un A e
viceversa. Al solito poi lo scolio aforistico di m è stato ridotto a
parafrasi continua negli scolii A (xpoirujTfip <òè) ó \.), ma nulla,
io credo, ci autorizza ad interpolare la congiunzione òè in m. Anzi
poiché la lacuna di m non è abbastanza colmata con ó Xu)(po? ó)
(c'è spazio per ó Xujpóq •/' [= èciiv] ó ovvero ó Xiùpo(; X/e [=
XÉYexai] ó), potrebbe esser questo un indizio che chi restituiva il
senso e non le precise parole non aveva a disposizione fonte di-
versa (1).
Tanto meno mi varrei di luoghi ove occorrono anche minori
corruttele. Per es. nello scolio m al v. 226 è impossibile il Kaià
xà crxeOévxa, mentre nel Vindobonensis troviamo correttamente
KaKÒ-KaxaaxeOévxa, come il Weil ha restituito in m per conget-
tura. Concedo ben volentieri clie non si possa né debba attribuire
il talento critico del "Weil ad un bizantino qualsivoglia; ma in
questo caso speciale non c'era bisogno davvero di molto acume, e
KaKÒ Kaxacrxe6evxa avevo facilmente ricavato anche io, senza sa-
pere del "Weil, dal Kdxoxa eschileo.
Ben più notevole è l'osservazione del Wilamowitz a proposito
della glossa di m f) auvexri al v. 117 (cfr. Diihnhardt, p. xxxvii),
glossa che ha ingannato me (il che vuol dir poco) e Kirchhoff
(il che vuol dir molto), ed è stata invece intesa bene dallo sco-
iiasta bizantino. Ma anclie in questo e simili casi convien ri-
cordare che ai dotti bizantini era spesso molto più familiare che
non a noi quella parte della antica erudizione esegetica che era
passata negli scolii ai varii scrittori e ne' lessici. La parola à|Li-
(pi)uéXaiva (con cui anche m spiega il lueXayxiTUJv eschileo) risve-
gliava molto più facilmente in essi che non in noi quella erudi-
zione semasiologica a proposito delle (ppéveq d|ucpijuéXaivai, di cui
gli odierni lessici possono a buon diritto non conservare traccia
alcuna; né dovrebbe far troppa meraviglia che riescissero ad in-
tendere e ad amplificare convenientemente quello che noi, meno
educati a quella per verità strana semasiologia, credevamo certa-
mente corrotto. Confesso nonostante che luoghi siffatti possano e
debbano indebolire la fede nella dipendenza degli scolii bizantini
dai Medicei; voglio solo dire che mi sembra errore rappresentarsi
tutti gli scoliasti bizantini, dal secolo XI in poi, così inetti come
ama rappresentarseli il Wilamowitz. Questi conviene che certe
notizie lo scoliasta bizantino di Eschilo avrebbe potuto procurarsele
(1) Dàhnhardt crede necessario supplire anclie èbéaiueue (TpomuTnpi). rpo-
TTUJTiPip etc. lo ritengo che 1" év tùj TpoTTLUTfipi 'li A sia una dolio solite
amplificazioni, in questo caso nen del tutto inopportuna. Ma so anche si do-
vesse supplire in /u, bisognerà convenire che il supplemento poteva venire
in mente a chiunque (si noti anche l'accentuazione della parola in m).
— 252 —
riscontrando Erodoto, Euripide etc. ; "aher' so{?^iunf(e (p. lt)9),
'wo ist der Scliatten eines Beweises duKir, diiss er es t^etlian
hai?'. Ora non si potrebbe con altrettanto diritto ricbiedere la
prova che non l'abbia latto? Fra i commentatori di tutti i tempi
e di tutte le nazioni ce ne sono stati per lo meno alcuni che
hanno studiato e letto prima di commentare: tutti i commentatori
bizantini, quando commentavano, dovevano dimenticare quello che
avevano letto o che potevano comodamente rilef^j^ere ? «Jontempo-
ranei o di poco posteriori allo Psello, che pur le^j^evano tanta
parte della letteratura antica, dovevano necessariamente ij^'norare
tutto ciò che non trovavano ne' conmienti anteriori? E se per es.
dagli scolii omerici (A 115) avevano impiirato che Omero distingue
per significato bé\Jiaq e (Jaj)aa, commentando Es(-hilo era loro vietato
di notare òri tò bé^xac, étti toO àipuxou XaMPàvei oìjto? ó rroi-
riTng (DiND., SchoL Aesch.. p. 214, 11) ?
Comunque sia, se anche ebbero gli scoliasti bizantini una fonte
a noi ignota, essa non era gran fatto diversa dal nostro M. Dove
le corruttele di m sono veramente gravi, gli scolii recenti o in-
terpretano per conto loro, o rij)roducono letteralmente, o tacciono.
Agli esempii evidenti che ciascuno ha in pronto, ne aggiungo uno
non improbabile. Cosa vuol dire lo scolio m (a Pers., 105) éTré-
(jKnM^e òè: dvTÌ toO juaBeiv èTToiriaev? Glossatori e scoliasti re-
centi spiegano per conto loro éiréaKriipe con iné^aXev e sim., ma
non si servono dell' eìòévai éTToiriaev. A ragione, io credo ; perchè
nello scolio m sarà da scrivere: '105 èTréaKriv|je òè (,^^^, 110 è'iua-
0ov:) àvTÌ ToO eìòévai éTtoiricrav' ci. sch. 110 xivèt; òè tò i}xaQóv
cpaaiv àvTi ToO jLia9eiv èTToirioav. Cfr. sch. 381 e le note del
Wecklein.
Noterò in fine che nello scolio m a Pers. va scritto senza esi-
tazione (cfr. sch. ree.) xopò? repóvTUJV TTpoXoTiZiei; in M non c'è
affatto olà, bensì si vede ancora, in parte reciso, il x della sisrla x-
La glossa m^ a Sept. 6138 (non 66^») non è certo è'KXeivjJK; (Wila-
mowitz, p. 1(34, n. 1), ed ora riesco a leggerla anche meno di
dieci anni fa. Suppongo si riferisca all' di ò' aÙTOKTÓvo? ; forse
éKoucriuuq ? Nella stessa tragedia in mg. al v. 513 l'annotazione
di m^ è e' ó TTap96voTraTo(; ; manca l'articolo nella edizione. Sch.
T
m Pers. 170 sarà da scrivere ttcìv tò oQévoq (il nav del codice
o
dovrà la sua origine ad un navT inteso come TTavTÒ(;; cfr. Nauck,
Porphyr. Opusc.^, p. 282, 9 e praef., p. xvii). E similmente nello
scolio al V. 127 dTTUovToq, per me inintelligibile, sarà derivato
T 0
dalla scrittura ànuiuvo confusa con drcuuuvT; dunque dirùoiv: òti
Tipòt; TÒ ' àvriÒGUTTov ècreTtti' etc.
Firenze, gennaio 1895. G. Vitelli.
253
Sophokles erklàrt von F. W. Schneidewin. Funftes Bàndchen.
EleJdra. Neunte Aiiflage besorgt von August Nauck. Berlin
Weiclmannsche Buchhandlung) 1893; pp. 191.
Quaranta anni intercedono fra la prima edizione deWElettra
dello Schneidewin e quest'ultima del Nauck. Né è esagerazione
dire che di quanti oggi conoscono Sofocle filologicamente, i più
l'hanno studinto in queste edizioni, eccellenti per finezza di gusto
ermeneutico non meno che acume di critica. Farne l'elogio è inu-
tile. Ma non inutile è, ai tempi che corrono, esprimere il voto
che la morte del Nauck non importi radicali mutazioni di metodo
nelle edizioni successive. Anche di qui a qualche decennio varrà
la pena, io credo, di sapere che cosa egli pensasse in fatto di cri-
tica e di ermeneutica Sofoclea. Vi aggiunga la scienza del nuovo
editore quello che vorrà e saprà aggiungervi : ma non si tolga a
questi libri il 'carattere Nauckiano', che ha fatto finora tanto
bene persino a coloro che, non sempre ingiustamente, hanno de-
plorata l'audacia c'-iovanile della sua critica.
L'edizione presente il Nauck aveva finito di prepararla poche
settimane prima che la morte lo rapisse alla scienza ed ai molti
amici che aveva in ogni parte di Europa. Finiva anche allora il
suo Dictioms tragicae index, lavoro mirabile per accuratezza e
bontà di metodo, e preparava una edizione dei Canoni giambici
del Damasceno, che credo sia poi stata anche essa pubblicata dal
suo degno discepolo ed amico P. Nikitin. Un altro amico, Vittorio
Jernstedt, noto favorevolmente a tutti gli studiosi degli oratori e
della commedia attica, curò l'edizione AeW'EIetira in modo che
essa riescisse conforme alle intenzioni dell'autore e degna del
molto favore onde goderono le edizioni precedenti. In fatti, salvo
leggerissime mende che sarebbe pedanteria notare, anche tipogra-
ficamente il libro è molto corretto.
Per Nauck V Elettra di Sofocle è cronologicamente anteriore a
quella di Euripide ; nulla almeno egli annota alla affermazione
che leggiamo, anche in questa ristampa, a p. 35 : 'Geraume Zeit
nach Sophokles versuchte sich auch Euripides' etc. Non credo
che sarebbe mancata una nota sulle controversie agitate recente-
mente in proposito, se l'autore stesso avesse curata la stampa ;
ma è probabile però che egli non avesse mutato opinione, poiché
altrimenti sarebbe stato modificato il testo stesso della profazione
nel luogo or ora citato. Sarà dunque, speriamo, permesso anche
ad altri di considerare la questione come non definitivamente
chiusa. — Non pochi nuovi tentativi di emendazione abbiamo notati:
- 254 —
ricordiamo v. 47 &TTC^^e b' etcfuj auvxiHe'K;, li> ^£Xalvd l'óarpiuv
éKXéXoiTTe vùE ipocpóq, 820 euboucTiv ÉKnXoi, 10;{7 roTq aoì bo-
KoOtTiv etc. Qua o là occorrono aL''f,'iuiit(; in confennu di congetture
aininesse o ricordate nelle edizioni |»recedenti (non l'elice ci senribra
la spiegazione per cui 775 vnbùoq fefùjq èianq sarebbe diventato
Tfì(; é^\]q ^IJUxnq ■fi.fÓJC,; data l'ijtotesi della coniittela é^f\<; vnbùoq
YCTW?, il correttore metrico avrebbe scritto se mai riì^ ènne; fu-
atpò? [cfr. Nauck a Soph., fr. 139-J non l'assurdo u^uxn^y; al-
trove è detto con maggior sicurezza cjuello che prima era espresso
in forma dubitativa; altre volte infine è addirittura cancellato
quello che non sembrava più abbastanza soddisfacente (per es. 46
fibicJTO<; per laéTiCTroq).
G. VlTKIJ.I.
Gli Uccelli d'Aristofane tradotti in versi italiani da Augusto
Franchetti con introduzione e note di Domenico Comparetti.
Città di Castello, S. Lapi tipografo editore, 1894.
In grazioso volume, elegantemente rilegato in tela, e colla di-
ligenza tipografica già usata dal medesimo editore per le Rane,
pubblicate nella traduzione del F ranchetti il 188G, compaiono ora
gli Uccelli: di questa comedia di Aristofene il Franchetti è il quarto
traduttore italiano, ma certo il più felice e più valente e più pa-
ziente. La sua accuratezza si appalesa anche esternamente : il testo,
che serve di base alla traduzione, fu dato dall'ottima edizione di
Th. Kock2 (Berlin, Weidmann, 1876) con raffronti però con quella
del Blaydes {Aristopìianis J.yes, Halis Saxonum, 1882) e con le
sagaci congetture del Piccolomini, che di questa comedia a più
riprese si occupò. Si aggiunga che l'egregio traduttore compulsò
monografie speciali riguardanti la distribuzione delle parti e l'a-
zione de' personaggi, e ricorse al prof. Cavanna « per l'accerta-
mento, talvolta disperato, del nome degli uccelli ». Ed ancora il
Franchetti non solo cercò che i vari metri dramatici e lirici della
comedia greca avessero i più esatti riscontri nella metrica italiana,
ma tradusse il capolavoro aristofaneo in modo che il testo greco
e la versione hanno il medesimo numero di versi. Quanto fosse
difficile il compito del Franchetti, che tali limiti lodevolmente si
impose, è palese a chi sappia che cosa sia anche il tentare sem-
plicemente versioni; tuttavia gli ostacoli furono bene superati e
la forma italiana ed il verso corrono sciolti, spediti e variati.
Or ecco un breve raffronto fra la versione letterale, che oso
unicamente per tale scopo, e la traduzione del Franchetti :
— 255
(Trad. del Francheiti).
V. 1 Euelpide. Evelpide.
La diritta (via) comandi, dove l'albero appare ? Vuoi tu che vada diritto ov'è quell'albero ?
Pitetero. Piterteo.
Scoppiassi tu ! e questa a sua volta gracchia in- Schianta! {volgendosi alla cornacchia). Or ci
[dietro. [gracchia di tornare addietro.
Euelpide.
Perchè, sciagurato, su, giù erriamo?
Periamo, indarno la via facendo e rifacendo.
Pitetero.
Per me, ad una cornacchia obbedendo, misero
Di via aver fatto stadi più di mille!
Evelpide.
Ma, 0 disgraziato, a che vagar su e giù?
Gira e rigira, ci ammazziam per nulla!
Pitetero.
E ho fatto, per dar retta a una cornacchia
Io, poveraccio, più di mille stadi I
10 Euelpide. Evelpide.
Per me, ad un'alzavola obbedendo, infelice E così, per dar retta ad una alzavola.
Aver logorate le unghie delle dita! lo, disgraziato, ho l'ugne guaste ai piedi.
Pitetero. Pitetero.
Ma neppure in che parte del mondo siamo, io Non so mica in che parte siam del mondo.
[non so più.
Euelpide. Evelpide.
Di qui la patria potresti trovarla in qualche 0 la patria di qui la rinverresti?
[lue
lOgO!
Pitereo.
Di qui, per Zeus, neppure Esece-stide.
Oimè!
Euelpide.
Pitereo.
Tu 0 tu, per questa via va.
Euelpide.
Terribili cose ci ha fatto quel degli uccelli
il venditor di frasche Filocrate pazzo,
che diceva queste due a noi direb])ero Tereo
l'upupa, che uccello divenne tra gli uccelli,
e diede, figlia di Tarralide questa
alzavola per un obolo, e questa per un triobolo.
E queste non sapevano nuH'altro fuorché mor-
[dere.
Ed ora perchè hai aperto il becco? dove giù per
20 [le rupi
ancor ci conduca ? perchè non c'è qui alcuna
strada.
Pitetero.
Di qui, affé noi potria manco Esecestide.
Oimè!
Evelpide.
Pitereo.
Pigliala tu la via d'oiniè !
Eoelpide.
Che brutto tiro ci ha fatto il mercante
Quel matto di Filocrate, alT'ermandoci
Ch'essi n'avrian guidati a Terrò, l'upupa,
Uccel, qual ei divenne, fra gli uccelli.
E ha dato per un oboi quest'alzavola.
Figliuola di Tarralide e per tre
La cornacchia, e non fanno altro che mordere.
{volgendosi nlV alzavola).
Che fai l'i a becco aperto? Or vuoi menarci
Anche giù per lo roccic ? Li non c'è
Strada.
- 25^ -
Dal confronto, per (jiianto breve, risulta clic la tradu/ioiie non
è punto .servile, ma intende e rij)roducc' lo spirito e la lettera del
testo greco, cui traslata efficacemente in italiano spiegandolo,
pur contenendosi nello spazio del verso greco. Sicché l'intelligenza
della coniedia e del senso di ogni singolo punto è agevolata dalla
traduzione, non soltanto per clii, non potendo adiiiire il testo,
può ricorrere unicamente a versioni, ma anche })er coloro che pos-
sano leggere il greco di Aristofane. E se in qualche luogo non
tutti potraimo o vorranno accettare la traduzione del Franchetti,
ciò si dovrà non alla errata interpretazione del Franchetti mede-
simo, ma alla difficoltà ed oscurità di qualche luogo del testo,
sull'interpretazione del quale non si ]tuò essere ovunque d'accordo,
dove anzi, non ostante indagini accurate e critiche sottili, invece
della certezza rimane il dubbio e nella lezione e sull'interpjreta-
zione.
La traduzione degli Uccelli, come già quelle delle Nuli e delle
Eane, è preceduta da un'introduzione ed accompagnata da note
dovute l'una e le altre al Comparetti. Nelle note succose, brevi,
opportune, chiare, il Comparetti riprodusse le notizie più impor-
tanti che si deducono dagli scolii ad Aristofane, e concernenti
persone e fatti menzionati nella comedia; se già gli antichi (e ciò
Plutarco rimprovera ad Aristofane nel parallelo che esso i>tituì
fra Aristofane e Menandro) nel leggere i capolavori del sommo
comico ateniese avevano bisogno di ricorrere a spiegazioni, tanto
più queste sono necessarie ai moderni. Il Comparetti in queste
note dà il meglio di quanto si trova negli scolii e vi aggiunge
altre spiegazioni desunte dal tesoro della sua erudizione e del suo
acume.
L'introduzione, pari d'importanza alle altre due premesse alle
Nubi ed alle Rane, è stupendo saggio di sintesi, che spiega le
ragioni artistiche e politiche della comedia — l'economia, l'in-
treccio, i personaggi, l'ambiente storico vi sono chiaramente lu-
meggiati. Preziosa per quello che si chiama gran puhhlico è non
meno preziosa per gli eruditi; riassumerla sarebbe riassumere e
spiegare gli Uccelli, sesta, in ordine cronologico, fra le comedie
di Aristofane giunte fino a noi, ed ottava nel numero complessivo
delle comedie aristofanee. Rappresentata alle grandi Dionisie del
marzo 414 a. C, quando Aristofane aveva all'incirca 30 anni, ebbe
il secondo premio. « Il concetto fondamentale del drama è la città
degli Uccelli in contrapposto alla città umana e sopratutto ad
Atene ». Gli ateniesi Euelpide (bene sperante) e Pitetero (convinci
altrui) stanchi dei processi di Atene, prese a guida una cornacchia
ed una alzavola, giungono a Tereo, cambiato in upupa, e per-
suadono lui e gli altri uccelli che sono più antichi degli dei e
che prima erano essi i sovrani del mondo — perciò dovevano riac-
quistare il loro posto. All'uopo si fonda una città Nubicuculia,
cui si proibisce l'accesso agli dei ed agli uomini tristi. Le mura
- 257 —
sono rapidamente costruite dagli uccelli, a' quali gli dei sono ob-
bligati di chiedere grazia; Pitetero, per consiglio di Prometeo,
sapendo gli dei affamati, chiede lo scettro divino di Zeus e Ba-
silia in moglie ; la comedia si chiude colle feste per l'imeneo.
— Si noti che anche recentemente si tentò di rappresentare la
costituzione di una città ideale di fronte alle imperfezioni della
nostra società. Era questo un problema e un ideale che agitava
anche gli antichi, e ne fanno fede eziandio i dialoghi platonici ed
altre comedie aristofanee; ma negli ?7cce?Z^ non c'è, come altrove,
la parodia delle ricerche e delle soluzioni altrui, ma soltanto una
costruzione irreale, dal cui confronto scapitano il governo di Atene e
gli Ateniesi. Perciò negli Uccelli abbiamo una comedia ideale, meno
acre, meno personale di altre di Aristofane: non sono attori per-
sone veramente in Atene esistenti, ma, diremmo, tipi di persone,
per quanto nel corso della comedia le allusioni personali non
manchino. Queste e molte altre cose il Comparetti ha spiegato nella
splendida introduzione, sicché il lettore, anche non profondo cono-
scitore dell'antichità greche e non erudito delle vicende e dell'am-
biente del teatro greco, può comprendere senza difficoltà tutta la
comedia (1) e scorgere qual posto occupi nell'attività poetica di
Aristofane e nella dramatica dell'Eliade. E se il lettore conoscesse
anche le introduzioni alle Nubi ed alle Rane, ne avrebbe nozioni
più sicure, più sintetiche, più copiose e più geniali di quanto
potrebbe trarne anche dalle più ampie 'Storie della Letteratura
greca': perchè il Comparetti non bada soltanto al fatto letterario,
ma lo lumeggia nell'ambiente storico e politico di Atene e del
mondo greco.
1 pregi grandi della traduzione, dell'introduzione, delle note ci
fanno veramente desiderare che presto vedano la luce anche i Ca-
valieri, il Fiuto, le Donne alle Tesmoforie, le Donne in assem-
blea e man mano le altre, che ci faranno gustare sempre più la
valentia e l'arte del traduttore unita alla geniale dottrina del
Comparetti. E il desiderio è accresciuto dai saggi che il Franchetti
ha in varii luoghi pubblicati. Ed invero degli Uccelli aveva già
pubblicato un saggio di versione (2) : confrontandolo col lavoro at-
tuale appare lodevolissima la crescente diligenza del poeta tra-
duttore.
C. 0. ZURETTI.
(1) A p. XXIX i lettori, che non conoscano altre comedie di Aristofane
desidererebbero sapere che Agoracrito ò rimpudeute salcicciaio, che noi
Cavalieri dì Aristofane vince e sopraffa Gleone.
(2) Nozze Milani-Comparetti, 1884 (v. 1706-1765).
HmiUi di Jilolof/ia, ecc., I.
— 25^ —
Aristotelis FoUtica. Tertiuin edidit FitANCiscus Susemihf,. Nova
impressio correctior. Lipsiae in afd. H. G. 'reiibneri, MlJlJtJCXCl W
\)\). xi,iii-;5()8.
Come indica il titolo, non si tratta di una nuova edizione,
bensì di una ristamiia corretta della edizione stereotipa dell'anno
1882. l!]videntemente il felice ritrovamento della 'AO^vaiiuv TTo-
XiTcia lia invitato molti a leggere o rileggere la Politica : ralle-
griamoci anche di questo !
('hi conosce la dotta abnegazione del Susemihl, saprà antecipa-
tamente che anche in una ristampa di edizione stereotipa egli
avrà trovato modo di non rendersi leggiero l'ufficio di editore.
Dovunque ha potuto, ha corretto ed emendato; si veggano spe-
cialmente i luoghi pili trattati in questi ultimi anni per causa
dell' 'ABrivaiujv noXiTeia. Ma anche i Prolegomcna hanno un
epimetro di tredici pagine, in cui l'autore sostiene suppergiù in-
tegralmente le sue opinioni sulla costituzione del testo e sul valore
de' codici, contro Heylbut, Newman, Wilarnowitz ecc. E per
quanto possiamo giudicare, avrebbe torto a trascurare questa ri-
stampa chi dovesse servirsi ampiamente della Politica, sebbene,
come fu detto, essa non è *nè vuol essere una nuova recensione.
Farne di meno senza danno potrà forse soltanto chi possegga, oltre
la editio maior dell'anno 1872, anche il libro del Susemihl stesso:
De politicis Aristoteleis quaestiones criticae, estr. dal voi. XV
de' Supplementi ai Jahrbucher del Fleckeisen.
Georg Kaibel, Stil und Text der 'A6r|vaiujv TTo\iTeia. Berlin,
Weidmann, 1893.
I due valenti filologi che hanno curato l'edizione berlinese della
TT. *AG. continuano a fare la ffoXiTeia oggetto dei loro studi ;
quasi contemporaneamente sono usciti due loro lavori importan-
tissimi per l'intelligenza dell'opera d'Ar. sotto il rispetto storico
e sotto quello letterario e stilistico. 11 primo è del Wilamowitz-
MòUendorff; Aristoteles und Atlien. 2 voi. editi pure dal Weid-
mann; il secondo è questo del Kaibel sullo stile e sul testo della
TT. 'A9.; esso anzi, come apprendiamo dalla prefazione doveva es-
sere una appendice del primo, ma è poi cresciuto ed è venuto a
formare un volume da sé.
II lavoro del K. consta di due parti: la prima tratta della
- 259 -
lingua e dello stile della TT. 'A9.,e la seconda è un commentario
critico del testo riferentesi all'ediz.- curata dal W.-M. e dal K.
stesso (Berlino, Weidman)i, 1891); tra le due parti sono inserite due
aggiunte : l'una a proposito del passo TTepì oùpavoO I, p. 270 h
4 segg. (nel quale il K. crede di scorgere il frammento d'un dia-
logo aristotelico, e sarebbe quindi da aggiungersi ai frammenti
raccolti dal Bernaj'S), la seconda sui giudizi degli antichi sopra
Aristotele.
1° — Scopo del K. è, com'egli dice, l'esaminare il libro d'Ar. quale
opera d'arte (p. 2). La narrazione e l'esposizione nella TToX. 'AB.
è perfettamente obbiettiva, almeno nella forma ; che lo spirito che
l'anima è di critica all'ordinamento democratico di Atene (p. 3),
come possiamo argomentare specialmente dai passi 54, 3 e 42, 2.
Ar. è democratico convinto, ma moderato; loda la TipaÓTriq (16,
9; 22, 4), la CTujcppGCTÙvri (40, 3) e la òiKaiocruvri (28, -3) del po-
polo, ma è alieno dall'adulazione di Isocrate, pur riconoscendo
ed apprezzando la sua pertinacia, che, dopo una lotta secolare, lo
fece signore della città, e signore assoluto. Ar. non ha voluto
scrivere un libro che contenga le sue ricerche scientifiche sulla
costituzione d'Atene, ma un'operetta destinata alle persone colte
in generale. Questa sua intenzione è dimostrata dalla compiacenza
con cui egli si intrattiene a parlare delle più spiccate personalità
della storia ateniese, e dal modo in cui si serve delle sue fonti,
senza citarle direttamente (eccezione 14, 4). Prova principalissima
è la lingua e lo stile del libro. Pel K. la TToX. 'AO. fu certa-
mente destinata da Ar. al pubblico; egli dubita però che tutte le
parti di essa abbiano ricevuto dallo scrittore la loro forma defi-
nitiva. Ciò gli dà occasione d'imprenderne l'esame sotto il rispetto
della lingua e dello stile per vedere se in essa si incontrano i
contrassegni della finitezza. E prima di tutto esamina quell'indice
esteriore e visibile di essa, che abbiamo per le opere stilistica-
mente elaborate appartenenti al periodo post-isocratico, cioè lo
scansamento dello iato (p. 9-15). La TToX. concorda in ciò con i
Dialoghi aristotelici, a giudicare almeno dai frammenti di essi
che possediamo, e, specialmente nella prima parte (storica), lo
iato è evitato nei casi gravi quasi sempre, naturalmente senza la
scrupolosità minuziosa d'Isocrate, ma, com'è evidente, colla chiara
intenzione di scansarlo nei limiti del possibile. — Alcuni passi
della TToX. paiono al K. non finiti e si distinguono dall'essere,
per le loro particolarità di lingua e di stile, come separati e divisi
dalla narrazione in cui si trovano. Da questi vanno distinte le
note, che l'antico scrittore non può, come il moderno, relegare a
pie di pagina, ma deve inserire nel testo (p. 1(3-21). Esse sono
una cosa ben diversa dalle parentesi, e si riconoscono da ciò che
interrompono per un tratto il corso della narrazione, la quale poi
è ripresa là dove fu interrotta, senza accenno alcuno al contenuto
della nota: cosi nei capp. 9, 3; 8, 5; 20, 4; 28; 41, 3; 3; 7,4;
— 260 —
17, 2, I due passi che veramente il K. ritiene non finiti sono i
capp. 22 e 20, nei (|iiali la narrazione annalistica dei fatti àk
l'impressiono ohe non siano stati siifticientemcnte elaborati. —
Maf(^Mori dubbi fa nascere la secondii jiarte (sistematica) d<.'lla
TToXiTeia (jì. 24-27) che mostra ))ales(!mente indizi della sua non
compiutezza. Il K. conclude: « a me pan^ iniiejrabile che Ar.
abbia destinato al pubblico la TToX. 'AB. ed anche realmente pre-
parato per la pubblicazione di gran lun<(a la raagffior parte di
essa, ma che poi, sia per la grave malattia che lo colse negli ul-
timi anni di sua vita, sia per la morte stessa, non abbia potuto
dare ad essa gli ultimi ritocchi ».
Segue l'esame dello stile della TToXiTeia (p. 27-36). Qui è im-
possibile seguire il Iv. nelle sue acute osservazioni, nelle quali è
felicissimo, scoprendo e mettendo in luce i più reconditi intendi-
menti dell'autore e le più tenui gradazioni del suo pensiero. Queste
pagine si leggeranno con un vero godimento artistico, ciò che,
bisogna confessarlo, non è molto frequente in lavori d'erudizione.
Della purezza della lingua trattano le pagine seguenti (3G-40).
11 risultato è che Ar. ha scritto la TToXiTeia e l'ha voluta scri-
vere nel dialetto attico (cfr. Hermes, XXIX, 1, p. 103), e che in
essa l'influenza della Koivr] è debole e puramente esteriore. La
cura che Ar. pone nella scelta delle parole meglio che in qua-
lunque altro passo si riconosce dove egli ha per modello ed esempio
nella narrazione Erodoto (14, 1-15, 3; 19, 1-6). Di metafore vere
e proprie egli si è servito parcamente e cautamente (p. 47-49),
mostrandosi, conseguentemente ai suoi insegnamenti, diligente os-
servatore della proprietà sia nell'uso dei sinonimi che in quello
delle ripetizioni (p. 49-63). 11 periodo è di rado retoricamente
studiato, alcune volte anzi semplicissimo. Ar. si è promiscuamente
servito della XéHig eipo|uévii e della \il\c, KatecTTpaiaiuevri, contem-
perando sapientemente l'una coll'altra, secondo i luoghi e secondo
gli avvenimenti e i sentimenti che egli deve esprimere (p. 64-73).
Ciò è dimostrato dall'uso delle congiunzioni paratattiche ed ipo-
tattiche (p. 74-80). Nell'arce del periodare Ar. indubbiamente ha
molto imparato da Isocrate, la costruzione dei suoi periodi è molto
varia, egli però non sacrifica mai la chiarezza e la brevità al
desiderio di fare un periodo tornito (p. 81-86).
Movendo di qui il K. esamina la teoria ritmica del Blass (praef.,
p. xvi), negando che Aristotele abbia composto alcuna parte della
TToXiTeia ritmicamente, e riducendo nei giusti limiti l'influenza e
l'importanza del ritmo in essa. Così nella collocazione delle parole,
più che dal desiderio di dare al discorso un colorito ritmico, Ar.
è mosso da quello di dar rilievo al proprio pensiero, e si serve
spesso per ciò della grande libertà che in questo campo la sua
lingua gli concede (p. 96- 100). Conseguentemente alla ì0xvÓTri<;
del suo stile Ar. assai parcamente s'è valso degli ornamenti este-
riori e retorici di cui è sì carico Isocrate, ed assai scarso è il
— 261 —
numero dei chiasmi (p, 100) e delle anafore (p. 101-2) da esso
adoperate.
Le qualità che caratterizzano la TToX. sono quelle dei migliori
oratori (p. 102-105), cioè quelle specificamente attiche; la aaqpr|-
veia, la auvroiiiia e l' ìaxvóiriq. Non mancano però luoghi dove
Ar. innalza il suo stile semplice, però essi non sono mai artifi-
ciosi: « così noi possediamo un libro del terz'ultimo decennio del
iV sec, scritto in Atene e per Ateniesi, fornito di qualità pret-
tamente attiche, e privo di qualunque carattere rettorico ». E ciò
è tanto più degno di nota perchè, secondo il K.. questo carattere
semplice e piano della TToX. è da Ar. voluto, in contrasto alla
moda di scrivere la storia retoricamente a guisa dei seguaci di
Isocrate, e fanno fede di questo contrasto i frammenti di Eforo e
di Teopompo, che possediamo (p. 106-110).
2° — Nel commentario il K. prende in esame i passi della
fTcX. che presentano difficoltà, sia per lacuna, sia per tradizione,
a quanto pare, corrotta, e le emendazioni e i supplementi pro-
posti ; ne propone pure egli stesso alcuni diversi da quelli del-
l'ediz.'- '\^".-K. Le correzioni dell'edizione stessa sono qui discusse
e giustificate, e ciò veramente non è inopportuno, avendo molti
critici riconosciute che gli emendamenti proposti erano molto spesso
assai arditi. Quando il K. non può mettere innanzi una probabile
correzione, suo scopo lodevolissin.o è di aprire la strada sicura
alle possibili congetture, escludendo quelle che sono certamente
fallaci, e indicando dove stia propriamente la difficoltà che cercasi
correggere. — E questa una parte utilissima del lavoro, che può
risparmiare lavori ed ipotesi inutili, e che deve essere bene ac-
colta e con gratitudine da quanti, occupandosi della preziosa ope-
retta di Ar. senza avere grandi mezzi a loro disposizione, trovano
qui raccolto e vagliato il meglio di quello che s'è fatto per la
critica e la ricostruzione del testo.
Per comodità di coloro che possiedono la edizione- W.-K. diamo
qui le lezioni e le correzioni dei capp. I-LXllI che, piìi o meno
decisamente, il K. accetta o crede probabili.
e. Il 2 fjv YÒp aÙT(uJv) n TcoXiTeia Blass- (1); ibid. Kal o[i]
ba[veia]|u[oi Tijaaiv èm -xoxq (Jaj|uacJiv ficfav Blass; e. Ili 2 auiri
jàp Km TT[dT]pioq r\v Bhiss-; ibid. 66[ev] K(aì) tòv "lujva Blass^
ivenyon, ibid. 3 yevéaQax [paaiXéox;] Bl. ; ibid. òxi ci èvvéa
àpxovieq ò|avuou|aiv ùjalnep èirl 'AKdaxGu (là] òpKia TTfoui]-
creiv Wesscly, Bl., Ken. ; ibid. uj<; è-rrì toù|tou ir\q\ pacTiXeiaq
irapaxoipriadvTUJV tuùv Koò[piòa)vJ dvTi nuv Ò09eiauijv Tip dp-
XovTi ÒLupeujv v. Leeuwen Ken.'^; ibid. mKpòv dv TrapaXXdtTOi
ToTc; xpóvoK; Bl.-; ibid. dXXà TT[dvT' è'xeiv] ènOeTa Kaibel, Diels;
(1) Con Blass semplicemente è indicata l'edizione di lui (Lipsia, 1892);
con Blass2 la sua revisiono del manoscritto {Fleheis. Jahrb. 1892, p. 571 e
segg.).
- 262 -
ibid. 4 nXeiuuv iviavCxaq Bl.-; ibid. |t]uj ^èv ouv xpóvuj Bl.; e, IV 2
■xàq b' àXXaq àpxàq (TÙq) eXaiTOuq ìk tùljv rà òirXa Trapexonévoiv
devo considtjrursi iMi'ii(,'<,niiiit;i da cspuri<(ersi ; ibid. bifcffuàv Toùq
TTpuTÓtvtic; F. Scliultess; ibid. .'} | éjEeXHelv W.-K.'; ibid. .'» f^aav
01 òaveiOjaoi 1^1.; V 2 Kapcpovievriv Kail)., Diel.s; e. VI 2 [K(a\)
|nelT*où TToXu Wl'ss., Bl-; e. VII 2 KaiCKXriaev bè tou? vó/iouq
J31.'-; ibid. ;3 K(a'i] làq |aèv àpxàq Kaib., Bl.-'; e. Vili 2 nepi —
àpxóvTUJv non va esjìunto; ibid. e. :> TToXXax[oO| We.ss., Ken.;
ibid. 4 ( Kttì Ir| IfjioOv Bl.; ibid. TTpócpaai{v toO éjKT|iv|eaeai Bl.-
opp. eOéùveaBai Kaib.; ibid. 5 BiÌTai rà ònXa v. Leeinven ; e. IX 1
t[oOt|ov eixe; ibid. ''• ÒTiuuq r| inq Kpi(Jeuj|q ó bfi)ioq K|ùpi05
Ken.; e. X 1 aùEricTiv. Ken.; ibid. 2 u-fouaa : e XI I ( eÌTTÙj'|v
d)q où|x nE lei BL, We-ss., v. Leeuwen; ibid. 2 auaTd|vT|a Bl.-';
e. Xll .'5 (nepì) tuùv bouXeuóvTUJV Kaib.; e. XIV 1 auT|KaTri|-
Taye ixei' aÙToO Kaib.; e. XV 2 óvaauuaaaGai ; ibid. 4 àveXóvie^
— TÙ ÒTrXa [kui KaiaK iXrjaavieq Bl.; e. XVI (5 per ti [TTfepn]
YiYveTai non c'è spazio sufficiente; ibid. 7 bia[beEa)Liévujv| tu)v
uieuov Bruns; ibid. 10 'Aer|vai|oiq] Kontos; e. XVll 4 éiréTri-
pie.v yàp TTeiaicfTpaTOi; Kaib.; e. XVIII 2 laeTtxóvTuuv ttoXXujv BL:
e. XX 4 Kaì 0Taaid^ovTe<; {npòq aÙTOvq) (jennadios; e. XXlll 2
aÙTTÌq TUJ àSiLU|uaTi Bl. Kutherford; ibid. Kai Kaià TOÙTOuq colla
tradiz.; XXIV 2 la lacuna da colmarsi pel senso: Kaì iróXeiq oùk
òXifaq àvOiaiafiévaq pia KaTaaTpev|jd)aevoi KXripouxioti<; KureXaia-
Pavov; ibid. 3 xoùq cppoupoùc; BL, KOhler; e. XXV 1 boKujv Kaì
Kaib.; e. XXVI 1 Ki)nuuva — vuj6pÓTepov òvxa Kaib. (vaiGpóq
BL); XXVIII 5 non va ag^^iunto eivai ; XXIX 1 ITuBobuOpou to[0
'Ava(pX]u[(j]TÌou BL-; ibid. 5 éXéaGai b' èK nìq cpuXfì(; éKaaTri<;
Herwerden; XXX 4 Ka9' éKdairiv (tìiv) fi)Liepav BL: XXXIl H
ÙTTaKouóvTuuv BL; XXXV 1 tuùv TrpoKpiTuuv tujv TTeviaKiaxiXiuuv
Kaib.; XXXVIII 1 è'TTe[|a]TTo[v] b' eìq A. Bl.^; e. XXXIX 1 'AGn-
vaiujv forse non va espunto; e. XL 4 [KatoijKnaavTaq BL; XLI 1
dal senso è richiesta un'aggiunta come: lovq irpouTOuq bue lanvaq,
Toù^ b' èTTiXoÌTTOU(; bcKtt jniìvac; EÙKXeiòou .ueià t^v tuùv qpuYdbuuv
KdGobov, KaTOCTTdvToq de, dpxnv (biò koì òtto toùtou KaXoucJiv
TÒv èviauTÓv, TTuGobiupou b' òvo)ua oùk dvaTpdcpoucJiv) — ; ibid.
XapeTv Tfiv TT[o]XiT[i|av BL'-; ibid. 2 KaTdcTTaaiq [r]\ tujv éE dpxnq
Kaib.; e. XLU ;> Kaì bibacfKdXou^, loiJTivec; ÓTTXojaaxeìv — koì
KOTaTiéXTriv dqpiévai bibdEouaiv. Ken. il fnt. pel pres. va corretto
col liutherford e lo Herwerden: ibid. 5 iva laf) tipócpaoic, ^ toù
diTiévai irXfiv Tiepi KXripou ktX. Bl. XLIll 5 Ka[v ti](; Kaib.;
XLIV 1 ECijuriXeibriq ; XLV 1 èv biKacJTripiuu senz'articolo; XLVII 2
Kaì TUÙV dXXuuv Kaib., Papageorgios, Bl.-; XLVII l 4 KaTÒ tòv
èTruuvu)nov; ibid. 5 ToTq Gea|LioG€Ta[i<; àjvarpdqpei Ken., BL- ;
XLIX 1 |ur] buva|a[évoiq àKoXjouGeiv r\ ixr\ GéXouaiv Wvse; ibid.
èyxapótTTei oppure èYKOiei (sogg. /) PouXi'i) Tpoxòv ènì thv yvd-
G[o]v [Kaì ó tJoOto naeùjv ì'tttto? Kaib., l'ultimo supplemento
secondo il Ken.: ibid.; toùi; irpobpóiLiouq, edv Tiveq aÙTi] boKuùaiv
- 263 —
Kaib. e subito dopo TTpaxeipoiovricrri ; ibid. 3 Km rà eìq tòv
TTéTiXov BL; L 2 CTTrouòd^aiai BL; LI 1 Kai ÙKipòriXa TTuuXiiaeTai
Kaib.; ibid. 3 bisogna attenersi alla tradizione del manoscritto ;
Lli 1 KXripuj Toù(; éTTi|LieXricro)aévou(; Kaib. ; ibid. 2 oi èmuri-
vouq eìoàfovOi xàq òiKaq buoiv cpuXaiv «aatoq j | .eìal ò' è')i-
IUTìvoi]], npoxKÓc, Kaib.; LUI 2 tfiv [YvOùaJiv toO bmiiriToO Ken.;
ibid. 5 òiaÌTa(; non va cancellato, Kaib.; LìY 2 émòeiSaiaiv ;
ibid. 7 eì[ai bè] rrevTriTepibeq |uia (a[èv fi eì](; AfiXov — xe-
rapin bè 'EX[euaivia, e'] bè Havatìrivaia Kaì tgùtoiv — fi-
v[£Tai . vùv] bé TTpócfKeiTai [Kai 'H](paia[T]ia — e' (:^ TréiunTri)
bè n. Wyse, rultiraa proposizione Bl.-: LV 1 tojv eì[pri])Liévujv
TT[pa£e]ujv eìaiv Kaib.; ibid. [Kpoe]ipriTa[i • vOv] bè KXripoOaiv
BL; LVl 3 èdv xi^ f\ XeXriTOupYri[Ké]v[ai] qpi] TT[p]ÓTepov raùiriv
xfiv Xr]xoupT[iav fi àJxeXfiq eivai, XeXr]x[oupfriKdj5 é|xépav Xt]-
xoupYiav Ktti xuJv xpóvuuv aùxuj [Tf\q dxeXjeiaq laf) éEeXri[Xu]9ó-
[xuuv, r\ xà] èxr) }xr\ Y^TOvévai. Ken.'^ (per errore di stampa manca
la parentesi dopo aùxuj nel volume); ibid. 5 tòv d-fujva xuj[v
Aiovjuaiujv KOI xOùv GapTriXiLuv Kaib.; ibid., 6 xà [oÌKeia àJnoX-
Xuvai Kaib.; ibid., p. G4, da ritenersi la tradizione del ms.; ibid. 7
èTnKX[r)pujv ewc, dv xk; xexxap]aKaib[eKé]xi^ TèvrjTai BL; LVII 1
a)]v ó biì|u[oq xJ^ipoToveT BL-, ibid. xaOxa bé éaxi noiaTrri xe
Kai ày\bv Kaib.; ibid. koì può conservarsi ; ibid. 3 l'antico cor-
rettore ha emendato aibeai(; in dpeaiq: ibid. 4 biKdlouaifv] èv
lepuj Bl. ; ibid. oùò' eìq xfiv d^opàv v[ó)ao(g è||aPaXeiv aùxuJ
BL'-; ibid. non occorre ammettere lacune; LVIll 2 Kaì (al) xoi<;
TTpoHévoi^ Kaib.; ibid. niente costringe a cancellare iiiepo^; LIX 3
forse dopo d-fpaqpiou (koi u^peaiq); ibid. 3 dv xiq — Seviav non
si possono considerare come una glossa; ibid. 5 xd x' ì'bia Kai
br||uóaia, le parole Kaì — br||uóaia non vanno espunte; LX 2 xpi'
fiiaiKoxùXia; ibid. e'i [xoju KaxaTvoir) Herw. e v. Leeuwen ; LXL 1
oc, fixeixai xujv ó[TrXi]xujv dv è5iuu(Ti(v) Leeuwen; ibid. 7 K(al)
v[Ov| T?\c, [xoO "AJ|U)LUJUvoq BL-; LXIi 1 eìq xouq bri)Li[ou |q dTTO-
bibóaaiv Bì.^; LXlll 2 KiPuuxi[a béKa, eie, dj éjapdXXexai — xà
KivdKia BL; ibid. yéTPWTTxai b' év raic, PaXdvoi<; xuùv (Jxoixeiujv
]]!.; ibid. 5 xd Ypdu|aaxa d bei KapaTi0e(JOai Bl.
Bobbio, gennaio '95, Achille Cosattini.
Glaudii Galeni Proirepiici quae supersunt edidit Georgius Kai-
BEL. Berolini ap. Weidmannos MDCCCXCIV; pp. ix-ȓ2.
Del Protreptico avevamo un'edizione recente del .Marquardt nel
l)rimo volume degli Scripia minora di Galeno (Lips.. Teubner,
1884); ma era stato già da più parti deplorato (cìV. A. Nauck in
- 264 —
M('ì. f/r.-rom., V, 253 sf,^t(.) che l'iipiiurato critico fosse composto
ili modo da obblif^are il lettore a tener coiitinuamerite presente le
vecchie edizioni. Ora il Kaibel non solo ci fornisce un apparato
accurato e completo, ma a^;,nunf^e tanto di suo e per la critica
e i)er l'interpretazione del testo, da rendere inutile la edizione
precedente. Ciò non toglie che dobbiamo una buona jiarte di gra-
titudine al precedente editore, Giovanni Marquardt, sia perchè
primo ha reso ac(;essibilc in forma tolleral>ile (juesto importante
oi»uscolo, sia perchè anche lui aveva contribuito non poco alla
emendazione del testo spesso eccezio)ial mente corrotto e difficile.
Di emendazioni sicure dovute al Kaibel servano come esempio
quelle a p. 1, 17 aùrnv te. 2, 5 Kav (eì) (per es. Thrasyl)ul. e. 24,
p. 62, 21 Helmr. nel cod. Laur. 1' ei è stato eraso dopo kóev).
3, 7 eùpeinv. 4, 22 |ièv ouv (era da introdurre nel testo). H, 17
'AvTiaeévri<; per AriiioaBévriq. 7, 21 [àiaaGeT?] (o si potrebbe forse
tentare ùqpavelq ?). 8, 21 jèv tal? xéxvaiqj. 10, 29 eappriaavTa(;
(cfr. le eccellenti osservazioni, p. 37 sq., sul valore di ivap-fwq
qpaiverai sim.). 11, 2.") éKÒibdEriTai (che nessuno mai avrebbe
emendato usando l'ediz. del Man|uardt, dove non è fatto cenno
dell' èbiòdEriTai (sic) dell'Aldina). 12, 5 [T6Ti)ir|MevovJ. 14, 27
Kayà) TOÙTOuq. 18, 3 (f) àirò xcO d6\iou) tujv deXriTuùv. 19, 16
(OauiLialeaGai). 22 xò papuxaxov xoOxo. 24 MiXuuv, ri ^e. 20, 14
(nepì xòv xaOpov|. 21, 11 lan^' èv \6xm etc. In altri moltissimi
luoghi le emendazioni del K. hanno quasi sempre un alto grado
di probabilità; e se improbabili (per es. 1, 11 év òXiToiq) sono,
fanno però senza eccezione testimonianza dell'acume e della dot-
trina squisita dell'autore. Addirittura 'palmaria' nella sua sem-
plicità ò l'emendazione (p. 32 n.) a Uiog. Laert., VI, 2, 47 xoùq
prixopaq Kttì nàvxaq xoù? évòoHoXoToOvxaq xpicràvouq (vulg.
xpiaav9puOTrou(; cioè xpiaavou^) dTteKàXei dvxi xoO xpKJaeXiouq.
Può darsi il caso che anche fra le osservazioni che mi è accaduto
di fare in una rapida lettura, gli studiosi di Galeno trovino
qualcosa non affatto inutile : e però le comunico qui senza ombra
di pretesa.
Pag. 1, 13 forse diueXéxrixoq [dXXà KaiJ xfjv ucpavxiKriv — oiv,
àXXà Kttì etc. 2, 6 profittando delle osservazioni del K. a p. 24
scriverei Km [ó dv6piuTToq| juóvoq. Basta leggere di seguito i pe-
riodi precedenti per persuadersi che delle parole cancellate non
c'è bisogno. 2, 9 non c'è dubbio che starebbe benissimo è0TTOu-
bttKévai quando fosse dato dalla tradizione ; così non essendo, si
vegga (ci. K., p. 25) se non convenga correggere anche qui piut-
tosto èaTTeuKÉvai ò' ètt i xi xujv dXXuuv (cfr. anche Thrasyb., p. 64, 9
Helmr. èqp' i^v (se. uYeiav) èTreiYOVxai |ièv dTTavxe(; kxX.). 3, 1
auxfjvj aÒTovc, ? (ma cfr, e. IV init.). 3, 4 scriverei Kaì èrKa-
Xouvxujv [aìixfiv] ox' kxX.; cfr. [Bar.] Rhes. 878; Thuc, 1, 72, 1.
3, 46, 3 etc. L'inserzione di aùxiìv divenne necessaria in seguito
alla corruttela di koi èTKaXoùvxuuv (forse era scritto KATKa-
- 265 -
XoùvTujv originariamente) in Kai KaXouvxuuv; né dovrebbe fare
ostacolo il \ìio:^o corrispondente del e. Ili (p. 3, 17), perchè ivi
dopo )ie)Li(po|uévouq era indispensabile il complemento aùtóv. 3, 9
forse KeKO(J)ariKaaiv [TraXaioi YP^^cpoviéq te Kai TiXdTTOVTe*;] ci. 2,
12 PouXri9évTe<; oi TtaXaioi etc. 3, 11 non dovrebbe essere piut-
tosto àW ujai' eùGùq? 4, 23 mi era venuto in mente (ci. 5, 24)
TidvTec; òè iravra TTpò<; kt\. 4, 25 xeràpTriv òn K, ma potrebbe
aver piti ragione il Marquardt che cancella il òé (nato, mi figuro,
da ò' = TetdpTriv). 5, 6 K. scrive (Kai) tlùv ò' dWuuv dTrdvTuuv,
ma non dovrebbe essere piuttosto Kai xuòv dWmv ò' dir. ? Forse
TuJv ò' dXXuuv dTTÓVTuuv oÙK ecTTiv ocTTiq iTneXriBri TtoTè upòq
aÙToO [• où )uóvov Tdp tuùv irapóvroiv TTecppóviiKev], dXXd Ka\
TrXeouai aujunXouc; ècTiì ktX. 6, 2 poiché l'Aldina ha Kaitoi tòv
OÙK aìaxpòv okéinv, avevo pensato a Kaiioi Truùq oùi< alcTxpòv
oÌK. 7, 11 sqq. anche lo scoliasta di Giamblico {Frotrept., p. 130,
7 Pist.), a proposito dello stesso luogo del Menesseno, si era ri-
cordato del medesimo verso omerico. 7, 25 Kai luriv [ye] Kai Nauck,
p. 275, né importa collocare altrove il re 0^-, P- 34); ma importa
sapere cosa hanno i mss. ne' luoghi citati dal Marquardt, CI. Ga-
leni l. de parvae pilae exercitio (Gustrow, 1879), p. 10. 8, 19
év òóHri con fi-^vo}xévovc, mi è sospetto (altra cosa sarebbe con
òviaq); andava dunque per lo meno ricordata la congettura del
Nauck ivbólovc, (1). 8, 25 XeTTTÓfeuui; ydp sembra anche a me,
come al Marquardt, reminiscenza tucididea non di Galeno, ma di
un lettore. 9, 6 eivai può benissimo aver origine da uno scambio di
compendio (si sarà voluto interpolare èari); più strano sarebbe,
poiché anche il K. ritiene euripideo 1' où fàp, che questo où xdp
nascesse per casuale errore di copisti. 11, 3 male il Nauck vor-
rebbe mutato r ihq in Kai ; piuttosto xP^l^iH'diaevoq [ójc, TTiùaujvJ
ci. Diog., Epist., 38, 5 ap. Nauck, p. 277 n. È vero però che
tutta questa narrazione pecca di prolissità, e però non oserei nep-
pure espungere le inutili parole eiGiatai — àTToirTÙeiv (lin. 13-15).
All'autore ad ogni modo non sembrava prolissa, né divido i dubbi
del Kaibel (p. 38) sulla parola èiriubóv. 11, 10 forse òi' aùroiv
(se. TuJv vpnqpujv); i libri del Cobet offriranno, a chi li desideri,
numerosi esempii di scambio fra òi' ed èE. 20, 10 luèv oùv diffi-
cilmente, credo, é corrotto in yoOv. D'altra parte toOv è quello
che ci vuole, purché si scriva irdvu youv (oùk) a)vr|0"ev. 20, 28
(1) Se fonte dell'Aldina era un codice di scrittura simile a (inolia del
Laur. 74, 3, gli errori nella trascrizione delie desinenze erano inevitabili
(cfr. Marquardt, praef., p. xii sq). Così nel luogo estremamente dubbio
TT/
p. 15,7 il codice avrfi certamente avuto ójlioio (a me pare ottimo 1" óuoio-
Tdxat; del Jainot, e ad ogni modo preferibile all' ó.uoiÓTaTa del K., por cui
occorrebbo anche xà irpóaujTTa: e per qual motivo mai, anche avvenuta la
corruttela ó,uoiÓTr|Ta, sarebbe stato sostituito il singolare tò irpóoujTTOv ?).
- 266 -
di talo uso di uv col futuro non pare si possa dubitare (clr. Mar-
quardt, p. Xi.vi).
Anche Wilaiuowitz ha contribuito alcune buone emendazioni :
per es. TtpoaóvTniv p. 15, 12. Non mi i»ers\iade j)erò il suo (éKtIvóv)
re a p. 9, 20. 8e capisco bene, Euripide qui non ci ha più nulla a
vedere. Ma neppur supplementi come Mi^veppóv oppure Geofviv
(se. vv. 1017 s(|q.) possono itiacere. Che sia da leggere énaivelv
TI Kai TTìv Aeapiav ktX. V
Di molto interesse sono le osservazioni del Kaibel sul poemetto
parodico, di cui usa (ialeno, p. 20, 10 sq(j.; chiunque adoperi il
primo fascicolo del Corpusciilum porsis epicac (jraecae ìuriihundac
(p. 108 sqq.), farà bene a ricordarsene. La emendazione aùiòq
(p. 21, G) è evidente; e riconosciutane l'evidenza si capisce quello
che suppergiù nascondono le parole XàE òxi ei pouXerai etc. Ma
già tutta la Mantissa (p. 23-58) è un modello di elegante eru-
dizione. Nò se ne avvantaggia soltanto la critica verbale e l'in-
terpretazione: ci guadagna qualcosa la critica delle fonti non del
solo Galeno, ma anche di Quintiliano (v. p. 39 sqq.). 11 Kaibel
lascia ai lettori il giudizio se questa sua Mantissa sia 'insto am-
plior an tonuior'; noi diremo che è 'tenuior', perchè giunti alla
fine avremmo desiderato che continuasse ancora un pezzo.
G. Vitelli.
Ada martyris Anastasii Persae ab Herm.4NN0 Usenero edita
(pubblicazione dell'Università di Bonn, per la commemorazione
di Fed. Guglielmo Ili; 3 agosto 1894); pp. viii-30.
Come è noto, dobbiamo alla maravigliosa attività e non meno
raaravigliosa dottrina dell' Usener la prima pubblicazione critica
di parecchie vite e leggende di santi, spesso con prolegomeni e
commentarii di grande importanza. Questi antichi documenti del
martirio di S. Anastasio sono ora per la prima volta pubblicati
da due codici Berlinesi A e B(=: Phillips. 1458 e 1623 = Meer-
raann. 108 e 373), e cioè l'antico Bioc^ koì ^apiupiov (a) da tutti e
due i codici, T'Erravcòcq toO Xeiipavou toO ótiou póprupoq ktX. {b)
e i Gaùfiara èv luepiKrì òiTìTn<7ei (e) dal solo A, un'altra redazione
di Qav^xaia (d) dai solo B. Nella prefazione è indicato ancora un
codice Vaticano (866), del quale l'editore ha creduto di poter far
senza; ed è data notizia di una redazione latina contenuta in un
codice Vallicelliano, donde resultano confermate non poche emen-
dazioni deirUsener. Inoltre è determinata con grande sagacia la
cronologia delle singole narrazioni. Cosi, ad esempio, è dimostrato
che la prima parte (a) fu composta e divulgata prima dell'anno 630.
- 267
Un accurato 'Index nominum et rerum' chiude la pubblicazione,
che fornisce nuovo ed importante materiale per la storia della
lingua greca del secolo VII.
L. Jeep, Zur Geschichte der Lehre von der Redetheilen bei den
Laieiniscìien GrammatiJcern. Leipzig, B. G. Teubner, 1893;
pp. xvii-316.
Che le dottrine costituenti lo schema sostanziale della gram-
matica antica siansi trasmesse tradizionalmente e quasi sempre
anche invariabilmente di compilatore in compilatore, è cosa nota,
né è da meravigliarsene troppo, chi pensi che il medesimo eziandio
è seguito, e tuttavia segue, della più parte delle grammatiche mo-
derne, almeno scolastiche, il disegno e l'ordine delle quali non
sarebbe difficile ricondurre, di mano in mano, sino ai loro remoti
progenitori della latinità imperiale. Ma questi stessi trattati, soli
superstiti in quel gran naufragio di testi antichi , né immuni
sempre da interpolazioni e riduzioni e mutazioni molteplici di piìi
recente età, alla lor volta procedono, come s'è detto, da testi an-
teriori, che ancora non sono se non rifacimenti o compendi o pa-
rafrasi di altri più antichi, sicché se ne origina un'assai complessa
rete di derivazioni e figliazioni intricatissime, a traverso le quali,
pure aggrappandosi al debole filo delle citazioni per lo più monche,
indeterminate, inesatte e spesso di seconda o di terza mano, e fa-
cendo tesoro di ogni pur vago riscontro e concordanza di dati,
riesce difficilissimo distinguere l'una dall'altra le successive stra-
tificazioni, e per mille rivoli e detriti di provenienza diversissima
risalire alle prime fonti e per cosi dire ai capisaldi comuni di
tutta la teoria grammaticale.
Questo a punto s'è proposto di fare in parte Ludovico Jeep col
presente notevole contributo alla storia della dottrina delle parti del
discorso presso i grammatici latini. L'indagine è condotta sulla nota
e fondamentale raccolta del Keil, e ordinata così. Dopo un'Intro-
duzione (pp. 1-101), in cui vien discorsa succintamente l'opera
dei singoli grammatici, che trovan luogo nel Corpus del Keil,
l'A. raggruppa a mano a mano le varie definizioni e formule e
regole intorno ai punti fondamentali della grammatica tradizio-
nale, ciò è dire i preliminari o generalità {de arte, de voce, de
Utteris, ecc. (pp. 103-124) e le otto parti del discorso: nome
(pp. 124-173), pronome (pp. 173-185), verbo (pp. l.'^5-2r>9), par-
ticipio (pp. 259-268), avverbio (pp. 2»)8-282), congiunzione (pp. 283-
288), preposizione (pp. 288-292), interiezione (pp. 292-294). Por
ciascun punto è addotta, vagliata, discussa la trattazione corri-
- 268 —
sj)Oii(l(!iite di Of^iii f^ramrnatico e di oj^ni serie o {(riippo di gram-
niatici, sono sviluppati e messi in chiaro i princi])ali elennenti
ondo si compone l'ossatura delle loro dottrine, sono avvertite le
[teculiarità proprie di op^iiuno, e additate le attinenze e discrepanze
reciproclie tra l'uno e l'altro tipo di trattazione e tra l'uno e l'altro
trattatista. Compiono il volume due buoni indici, delle cose e dei
luo<,'lii de' (grammatici citati nel testo.
Dire che l'A. abbia pienamente consef^uito il suo intento e di-
panata in 0[,Mii sua parte l'ingarbu^^liata matassa sarebbe ecces-
sivo; ma sarebbe eccessivo del pari negare che dal lavoro del Jeep
non sier.o rischiarati molti punti dell'oscuro argomento, e, chi
sappia valersene con le necessarie cautele, abbia agevolata non poco
la via a una ricostruzione definitiva della storia delle teorie gram-
maticali romane. 11 difetto più grave di questo libro, che si rac-
comanda in ogni modo per più d'un pregio, è un difetto essen-
zialmente di metodo, e sta nell'aver trascurato, o forse piuttosto
non avvertito convenientemente, l'importanza storica di quelle due
opposte scuole grammaticali, le cui dottrine, venutesi svolgendo
con varia fortuna tra l'età di Varrone e il secolo dei Frontoniaui,
si sono poi frammischiate e confuse nella posterior tradizione
grammaticale. Nelle compilazioni infatti tra il IV e il VI secolo,
che, come quelle di Donato di Carisio di Prisciano, sono le più
complete e importanti delle superstiti, non può non recar mera-
viglia la strana miscela che vi si osserva assai spesso di autorità
vecchie e nuove, di teorie e precetti disparatissimi e non di rado
addirittura contrari tra loro, per forma che in molti punti (sui
quali il Jeep sorvola, com'è il caso ad esempio della quistion ca-
pitale dell'analogia, da lui appena sfiorata a p. 153), in molti
punti, dico, non è possibile né pur fermare una regola che non
sia immediatamente contraddetta da altre regole opposte. Qui
dunque ci troviamo dinanzi una tradizione manifestamente barcol-
lante ed incerta fra diverse tendenze e disparati indirizzi; e l'in-
certezza diviene anche maggiore quando ci s'imbatte in vaghe e
scolorite allusioni a controversie e quistioui, che un tempo erano
state vigorosamente dibattute tra i grammatici, come (cito tra
mille il primo esempio che mi sovviene alla memoria) questa di
Carisio (p. 23 K.) « ea nomina secundo ordini attribuuntur quae
apud Graecos genetivo casu TrXeovoaùWapa sunt, velut, 'AxiX-
\evq 'AxiXXéuoq, 'Oòuacfeùi; 'Oòucraéuj*;, velut Achilles Achilli,
Ulixes Ùlixi. 8ed quidam dicunt hic Achilleus huius Achillei,
hic Ulixeus huius Ulixei. Alii vero tertii ordinis dicunt esse, velut
hic Achilles huius Achillis, hic Ulixes huius Ulixis ». In siffatte
parole è toccata una delle più importanti controversie che nei se-
coli innanzi avevan diviso prima gli analogisti e gli anomalisti,
e poi i grammatici nuovi e i veterum amatores, secondo li chiama
Quintiliano (I, 5, 58): or chi sono per Carisio i « quidam » e gli
« alii »? e qual'è fra così dissimili opinioni l'opinione sua prò-
— 26y —
pria? Verosimilmente nessuna, perchè in questo caso e in infiniti
altri somiglianti non c'è più se non il riflesso incosciente e irri-
gidito di dottrine e discussioni che avevano trovato luogo nelle
fonti alle quali quei compilatori attingevano, o più probabilmente
forse nelle fonti delle lor fonti, di cui a noi non rimangono altre
traceie che codesti fuggevolissimi accenni della più tarda e gros-
solana produzione grammaticale. Ma a quelli pure bisogna appi-
gliarsi risolutamente, chi voglia rifare la storia della grammatica
romana tradizionale: alla quale storia il libro del Jeep, per quanto
dottamente e diligentemente composto, non è che un semplice
avviamento.
Ottobre 1894. Luigi Valmaggi.
P. Basi, De elegiae Latinae compositione et forma. Patavii,
typis Seminarii, MDCCCXCIV; 8° pp. vii-195.
In questo volume, scritto con la eleganza e purità di dettato
latino che gli è solita, il Rasi compie definitivamente quella storia
dell'elegia latina, ch'egli aveva già iniziato a dietro con l'impor-
tante e lodatissimo studio I)e Carmine Homanorum elegiaco (Pa-
dova, 1890). E dico che siffatta storia è or compiuta definitiva-
mente non rispetto a quest'altra pubblicazione di prima, ma perchè
l'intricato e difficile tema è svolto dal Rasi con pari dottrina e
diligenza in ogni suo aspetto e parte; ne v'ha quistione anche
accessoria, né particolare pur secondario dell'argomento che non
sia più che sufficientemente considerato e trattato nel suo libro.
Esposta anzitutto in un primo capitolo la natura del distico
elegiaco, e mostrata la perfetta omogeneità di questo metro con
l'indole del contenuto poetico suo proprio, essendo che, secondo
scrive Aristotile nella Poetica, aùrfi r\ qpucTK; tò oÌKeTov laérpov
€ijp€v; esposto, dico, e mostrato tutto ciò, il Rasi prende a esa-
minare nel secondo capitolo l'origine del distico nella letteratura
latina, riassumendo le varie dottrine trasmesseci dagli antichi
tanto sul distico in generale quanto particolarmente sul penta-
metro, il quale tiene, secondo è ovvio, il primissimo luogo nella
presente quistione. Il terzo capitolo tocca di alcune proprietà del
pentametro segnalate dai trattatisti antichi di metrica, che paion
disformi dalla norma dei migliori poeti, poi di taluni usi viziosi
e * decadenti » di questo verso così latini come greci, quali ad
esempio le serie di soli pentametri e altre somiglianti deviazioni
dalla struttura regolare del distico, e in ultimo degli epiteti e delle
perifrasi adoperate dagli antichi a indicare i versi elegiaci. Nel
capitolo seguente son raccolti e illustrati i più vetusti documenti
- 270 -
superstiti di distici dall'età di Ennio sino al tempo di Catullo.
Al (|uale è dedicato tutto il capitolo quinto, cercando principal-
mente l'A. di mettere in chiaro le differenze che passano tra la
struttura metrica delle ele^ne Catulliane e quella delle elegie dei
poeti Augustei, che del genere furono, com'è noto, gli artefici più
raffinat!. E dei poeti Augiist(!Ì a [»unto si comincia a discorrere
nel sesto capitolo, cioè di Tibullo, Properzio e Ovidio: di Pro-
perzio il Rasi piglia in esame tutte le elegie; di Tibullo i primi
due libri, e del quarto le elegit* cosi dette di Sulpicia e Cerinto,
la Xiil e la XIV, lasciando da parte quelle, l'autenticità delle
quali è più dubbia; di Ovidio infine soltanto gli Amori, poiché,
come avverte il Rasi stesso a p. 109 sg., « et ex hac tantum-
modo parie eum, si carminis genus intueris, cum Tibullo et Pro-
pertio conferendum esse dicas, et Amorum elegiae versuum ex-
cellentia praestautiaque instar omnium Ovidianorum carminum
elegiacorum haberi possunt ». Di tutti e tre questi ^' poetarum
elegiacorum principum » egli considera partitamente i vari e ca-
pitalissimi perfezionamenti recati nella struttura del distico, anche
notando di nuovo le principali affinità e discrepanze che rispet-
tivamente sono tra l'uno e l'altro, e le particolarità proprie di
ciascuno. Perfezionamenti comuni a tutti sono l'aver ridotto il
distico a unità di strofi, « quae, sive metrum spectas sive senten-
tias, per se ipsae perfectae absolutaeque sint » (p. 113), pur evi-
tando la monotonia che ne sarebbe potuta derivare con acconci
temperamenti e aggruppamenti euritmici di distici e serie di di-
stici dall'A. studiati più innanzi (p. 169 sgg.); poi, la prevalenza
data alle parole bisillabe nella chiusa del pentametro e l'abbon-
danza e l'accorta distribuzione dei dattili a rendere « facilem expe-
ditamque ac paene dixi alatam stropham elegiacam » (p. 116).
Altri caratteri invece si trovano essere assai variamente rappre-
sentati nei poeti del periodo aureo, quali il rapporto tra il nu-
mero dei dattili e degli spondei nell'esametro e nel pentametro
(dove Ovidio eccelle per maggior frequenza di dattili, Tibullo
tiene il giusto mezzo e Properzio è il più copioso di spondei), e
nella prima sede di entrambi i versi (eh 'è più frequentemente
dattilica in Tibullo e in Ovidio, e meno in Properzio), e nei primi
quattro piedi dell'esametro e nei due primi del pentametro; quali
ancora le chiuse del pentametro bisillabe e in consonante o in
vocale lunga, la distribuzione e collocazione dei sostantivi ed ag-
gettivi, l'aggruppamento dei distici in serie simmetriche, le eli-
sioni e talune altre particolarità accessorie della struttura metrica
del distico. Di tutto ciò è discorso distesamente nel capitolo sesto
e nei due successivi con larga copia di osservazioni nuove ed
acute, con rilievi e riscontri e ragguagli preziosissimi, con dati
e tabelle statistiche molto accurate e di utilità grande a mettere
sott'occhi al lettore le deduzioni e i risultamenti complessivi di
queste indagini non men pazienti che importanti.
— 271 —
L'entrare in magcriori particolari, e l'accennare partitamente a
una a una le conchiusioni dell'A. non c'è concesso dalla tirannìa
dello spazio. Basterà per tutte ricordare queste due, notevolissime
l'una e l'altra rispetto alla storia letteraria ; che dei tre pur per-
fettissimi elegiaci Augustei il più perfetto tuttavia è riuscito
Ovidio; e che in genere i Komani, « quos in omnibus fere poesis
generibus a Graecis pendere dicendum est, et in satira, carmino iis
intacto totoque Latino, suos piane esse et in elegia, idque maxime
in eius forma et compositione, non solum Graecos provocasse, sed
etiam victores discessisse » (pag. 191 sg.). Di rettificazioni o ag-
giunte a qualche punto speciale, per quanto sottilmente e sin me-
ticolosamente si consideri in ogni sua parte il lavoro del Rasi,
non c'è luogo a farne, perchè la diligenza sua in comporlo è stata,
come ho detto già dianzi, pari alla dottrina. Solo a p. 36, poi
che egli cita a proposito della biografia antica di Virgilio tra altri
scritti registrati dal Teuffel quello ultimo del Beck {Jahrbb. f.
Ph., CXXXIII, 502 sgg.), ragion voleva che fosse ricordata anche
la mia dissertazione sul medesimo argomento inserita nel voi. XIV
di questa Rivista, giacché vi son venuto su per giìi alle stesse
conchiusioni cui il Beck è giunto solo un paio d'anni dopo. E per
notare ancora una cosa, non sarebbe stato male se il Rasi avesse
compiuto il suo volume con un indice analitico dei nomi e delle
cose, che in opera così ricca e varia di materia pare non solo
opportuno, ma addirittura indispensabile.
Luigi Valmaggi.
TiTi Livi, Ah Urbe condita liher XXII, con note ital. del prof.
F. Graziani. Verona, Tedeschi e E. 1894, in-8^ di pagg. 132.
II testo della 3* deca di Livio, e segnatamente quello dei due
primi libri, ha occupato, dal Gronovio in poi, parecchi tra i più
sagaci critici della Germania ; ma le dotte dispute e le congetture
infinite, se valsero a risarcire in parte i guasti dell'avariata tra-
dizione diplomatica, ne accrebbero però l'incertezza; e solo un nuovo
rigido esame del codice principale, l'antico Puteaueus (Paris. 5730,
del sec. V, o, secondo il Ohatelain, del VI), poteva riconsolidarne
la genuina verità. Quest'esame, cora e noto, fu opera del prof Aug.
Luchs di Erlangen (vedi i risultati nel Hermes del 1880, voi. XIV,
pag. 471 seg.); il quale però, non pago di ciò, tolse a collazio-
nare di bel nuovo con questo vecciiio e difficile manoscritto gli
apografi Blediceus Laur. 63, 20 e Paris. Colberiinus 5731, tutt'e
due delI'XI sec, e solo dopo pubblicò l'intiera edizione (1888,
Beri. Weidin., voi. Ili); lavoro eccellente e pel tosto e per l'ap-
— 272 —
parato critico, indispensabile a chiunque si dia a studiare di pro-
posito questo autore.
Che il Graziani, nel richiamare a disamina le varie stampe che
precedettero la sua, non abbia negletto le egregie fatiche del Luchs,
lo dimostrano alcune lielle e prudenti emendazioni, che non ha
l'edizione woelffliniana da lui presa ad esempio. Noto, tra le prin-
cipali, cap. l'i, H: « Allifanum Caiatinumque », proposto già dal
Kiehl contro l'autorità del P. prima della nuova collazione. Tale
avrebbe dovuto essere, a mio avviso, anche della proposta del
Madvig al cap. 32, B: « coque inopia est redactus Hannibal ».
ingiustamente trascurata dal Luchs. Cap. 15, 7: « ad castra prope
ipsa eum », laddove malamente leggevasi « ad castra prope ijisum
cum ». Cap. 38, 8: la variante « ab urbe »; se non che la nota in
calce della pagina trovasi in contraddizione. Cap. 44, 2: * Aufidus
amnis ». Cap. 54, 8: « itaque succumbam oneri »; e qualche altra
Ma, ce n'ha parecchie ancora, che meritavano ugualmente l'at
tenzione dell'egregio editore: tanto più che il Woelfflin medesimo
nella 3'' ristampa del suo libro, curata dal Luterbacher (18*.»1)
non dubitò di preferirle alle proprie. Così: cap. 6, (\: « umerisque »
per « umerisve »: 13, 3: « ut Campaniam »; 14, 8: « saepius
nostram quam deorum invocantium opem »; 25, 6: il « provincia »,
che già H. I. Miiller giudicò interpolazione, e il Luterbacher pose
tra parentesi, rimane espunto. Per la stessa ragione s'ha a espun-
gere il « huDc » poco più sotto, e cambiare, conforme a quanto
è scritto nel cap. 9, 7, 1' « inscientiam » in « inscitiam » (cfr.
pure Liv. VI, 30, 6; XXVI, 2, 7): cap. 31, 10 deve dirsi « eo
decursum esse »; 38, 3 « iussu consulum », come sopra è detto
« consules »; 51, 9: la lezione « subtractus » riferita nella nota
è a ogni modo migliore che quella del testo. 11 medesimo vale
della correzione del Vaasen nello « scriba pontifici us » del cap. 57,3,
difesa dal Luchs contro la lez. del P.: 54, 8: « itaque, ne suc-
cumbam oneri », il ne è di soverchio, come al cap. 10, 2, dove
ora si legge, secondo la vecchia proposta del Lipsius, « iubeatis ».
Del resto, l'elegante volumetto si legge assai bene: la stampa
è riveduta diligentemente ; e anche l'ortografia n'è riformata con
norme più larghe e più acconce alla scuola, che non sia nel libro
del Woelfflin, sebbene scolastico ancor esso.
Nei commenti il Graziani è breve e oggettivo : mira al vero
bisogno della scuola, e (cosa non sempre facile) sa mantenersi nei
confini del suo proposito, e resistere alle molteplici occasioni, che
la perfetta conoscenza della letteratura liviana e delle questioni
storiche dei fatti, gli porgerebbe a varcarli. Epperò anche in questo
riguardo l'opera sua s'avvantaggia di molto su quella del Woelf-
flin; che pure nell'ultima ristampa, ancorché semplificata, è sempre
più acconcia a studi superiori che all'uso di giovani che per la
prima volta hanno a leggere Livio (ved. la recensione di E. Wolfl
nella Wocliensclmft f. Klass. Philol, 1892, 48, pag. 1312). No-
- 273 —
tevole, in particolare, è l'osservazione del Graziani sulla eruptio
impigre facta del cap. 6, 8, ponendo Vex salta verso Tuoro, lad
dove il Cocchia lo suppone verso Gualandro, e il Woelfflin vicino
a Passignano. Anche al cap, 43, 10, lo studio della posizione dei
luoghi gli suggerisce una nuova e giusta nota circa l'etimologia
del Volturnus ventus. Quanto al pariier del cap. 15, 1, s'io non
erro, il hatid miniis è anzi pleonasmo aggiunto apposta, perchè
ne risalti meglio il concetto modale.
Bari, maggio 1894. Arturo Pasdera.
I. Ausgewtihlte Briefe des jmigeren Plinius. Fiir den Schulge-
brauch erklàrt von Anton Kreuser. Leipzig, Teubner, 1894,
pp. iv-144 (mit einer Tafel: Grundriss einer Eomischen Villa).
IL Die Briefsammlung des jungeren Plinius als ScJmllektfire.
Von D"" Anton Kreuser {Jahreshericht des Progynmasiums zu
Primi, Schuljahr, 1890-91).
La Collezione del Teubner ha di recente accresciuto il numero
de' suoi volumetti commentati per le scuole con una scelta di
Lettere Pliniane opportunamente curata dal dottor Antonio Kreuser,
insegnante nell'istituto classico di Priìm (nella Prussia Renana,
presso Treviri).
Già le scuole francesi e le inglesi avevano accolto il minor
Plinio fra gli scrittori meritevoli d'esser proposti alla gioventù,
ed eransi delle sue epistole procurate numerose scelte così in
Francia (1) come, ma un po' men bene, in Inghilterra (2).
In Germania s'erano avute solamente, dopo la Crestomazia con
note del Gesner (3) e gli eccitamenti del l)oering(4), la scelta com-
(1) Oltre quelle del Bétoland (1880), del Lafforgue (1882j, del Robert (1885),
del Lalleniand (1890), sono particolaimente notevoli le seguenti : Demogeot,
Lettres choisies de Pline le jeune, Paris, 1883 : Coi.i.igngn, Choix de lettres,
Paris, 18H6; Lebaiguk, Pline lejeune; leltres c/toisies, Paris, 1887; Waltz,
Pline lejeune; choix de lettres. 111 ed. Paris, 1890.
(2) Prichard and Bernard, Selected letters of Pliny. Oxford, 1887, with
notes {un po' scarse e non sempre esatte); Gowan, Plim/s letters, Boolc I
and II, with introd., notes (un po' diffuse, ma utili) antl plans. London, ISS9;
Mayor, Pliny's letters, Book 111. London, 1>'89 ; Heatly, Plimjs Letters.
A Selection witb notes (utili), maps and plans. London, 1890; Hardy, C. PI.
Case. Sec. epistolae ad Traianum, oim eiusd. ìx-sponsis, with notes {un
pò" diffuse) and introd. (non completamente svolta).
(3) C/irestoniat/iia Pliniana oder auscrles. Stellen des Plinius erklàrt
von M. GeSiNEK. Leipzig, 1753, ripubblicata von L. I'rlich.'^. Horl.. 1757.
(4) M. \V. Doerin(t, De Plinii epistolis privatae lectioni iuoenum coni'
ni-end'indis disput. Progr. Drcsdae, 1835.
RivinUi di Jiluloyiu, ecc., I. 18
— 274 —
rai'iitatii deirHerb.st(l), il fiore di sentenze raccolto dal Weiclist.'l-
maiin (2) e le traduzioni annotate dal Fischer (3).
In Italia dolio scrittore comense [tarecclii s'orano occupati (4),
non solanionto por dirne male, come l'Alfieri, oppure dichiarando
0 discutendo i)unti controversi de^^li scritti di lui, ma eziandio
celebrando le sin<fole virtù di quell'uomo illustre, o trattando dol
pregio grandissimo che le sue lettere hanno come documenti per
la storia della Komana coltura nel primo secolo dopo Cristo (5).
Ninno per altro stimò di introdurre nelle scuole le epistole Pli-
niane; nò fece luogo ad esse il Marchesi, che pure, togliendosi
dalla via comune, compilò sugli scrittori d'jlla raen classica latinità
un'antologia, nella quale più si doveva badare alla importanza o
singolarità delle cose raccoltevi, che non alla eleganza del det-
tato (6).
Invece ben quindici lettore Pliniane trovarono posto nella re-
cente Crestomazia dell'età argentea di Opitz e Weinhold (7) ;
finché il Kreuser, pubblicando la scelta di epistole, che qui an-
nunziamo, non ha se non recato in atto il proposito ed il sugge-
rimento da lui stesso propugnato in una diligente sua scrittura
pubblicata col titolo : Die Briefsammlung des jnngeren Pliaius
als ScJiuUekture.
Della quale diamo qui notizia, animati dal medesimo proposito
di lui, desiderando che qualche lettera di Plinio venga saggiata
nelle scuole liceali come introduzione alla lettura di Tacito e
come avviamento pei giovinetti a studiare su un ritratto pieno e
sicuro la fisonomia d'una età importante non meno per la storia
civile che per la letteraria. Era entrato in questo concetto anche
il Komizi , il quale nella sua Storia della Letteratura La-
(1) Plinius minor, Epistularum delectus m. Anmerk. v. Herbst. Halle,
1839.
(2) Adolf Weichselmann, C. Plinius Caecilius Secundus: 1. Leben und
Charakter desselben aus seinen Briefen zusammengestellt. II. Auswahl von
Sentenzen aus den Briefen und die Lobrede desselben. Gymn. Progr., 4°.
1853, 19 S.
(3) G. A. Fischer, Mehrere Briefe des C. Plinius Caecilius Secundus
ùbersetzt und niìt Antnerkimgen versehen. Pr., 1854.
(4) Vedi la bibliografia che, in appendice a quella data dal Preuss, io ho
soggiunto alla mia dissertazione : In C. Plinium Caecilium Secundum ob-
servationes ad orationem verboricmque constructionem, et usum pertinentes.
Bergamo, GafFuri e Gatti, 1889.
(5) Gentile, Vannetti, Mercatanti, Micheli, Testa (V. nella suddetta biblio-
grafia).
(6) Crestomazia latina ad uso de' Licei in Italia , compilata per cura e
studio di R. Marchesi. Prato, Aldina, 1866 (Contiene brani riferentisi alle
scienze mediche ed alle giuridiche, tratti, non che da Plinio e da Celso,
anche dal Fracastoro, dall'Alciato, dal Gravina, dal Vico).
(7) Chrestoìnathie aus Schriftstellern der sogenannten silbernen Lati-
nitdt fùr den Schulgebrauch zusammengestellt von Theodor Opitz und
Alfred Weinhold. "Leipzig, Teubner, 1893, xvi-480.
— 275 —
Una (1), pur facendo sullo stile e sulla lingua di Plinio le neces-
sarie osservazioni, affermava ben potersi alcune delle epistole di lui
metter a confronto, senza che ne avessero scapito, con le lettere del
gran Tullio (2).
Che se l'istruzione classica si propone d'educare il carattere e
di coltivare la mente, ci pare si debba allargarne la scelta anche
al di là di quegli autori, il pregio dei quali sta massimamente
nella bellezza della forma, e fermarsi pure sopra gli scritti che
sono ripieni di notizie e di riflessioni. Di qui la opportunità che
nel formare, novello cànone, l'elenco degli autori da introdurre nelle
scuole, la cerna venga estesa anche a molti piti scrittori dell'età
argentea, quando pure la forma loro non sia perfetta, solo che vi
abbia buona sostanza di cose esposte.
E per vero le lettere Pliniane destano interesse così per le no-
tizie ch'esse contengono intorno alla storia della coltura come pei
nobili umani ammaestramenti che in se racchiudono.
Era egli alieno dai frivoli passatempi (3), uomo operoso anche
nella tranquillità della campagna (4), la quale preferiva allo
splendore delle sue ville (5), alla città (6); ricco e pur modesto nel
tenore della vita (7); possessore di terreni (8), ma senza ricavarne
molto vantaggio (9), l'amministrazione e le affittanze di quelli dan-
(1) Augusto Romizi, Compendio storico delhx Letteratura Latina ad uso
dei Licei, HI edizione interamente rifatta. Torino, Bocca (18B7).
(2) «Egli {Plinio) è oggi conosciuto e pregiato specialmente per le Epistolae,
nelle quali non confidava d'appressarsi a Cicerone tanto quanto ora sicuro
di esserglisi avvicinato colle sue orazioni. Eppure l'orazione in rendimento
di grazie all'imperatore Traiano per il consolato (100 d. C), che sola ci è
rimasta, non è tale da sostenere sotto nessun rapporto il confronto colla
Marcellina di Cicerone, mentre fra le lettere quella a Massimo sui doveri
di un governatore di provincia può piacere assai anche dopo che si sia
scorsa la lettera di M. T. Cicerone al fratello, la lettera a Tacito per otte-
nere una lode nelle Storie è più modesta e più dignitosa della lettera di
Cicerone a Lucceio, e le tre letterine alla moglie Galpurnia offrono tal de-
licata gentilezza di sentire che invano si ricercherebbe nelle lettere di Ci-
cerone a Tcrenzia. E chi vorrebbe dire, che in una raccolta di epistole
latine per le scuole non potrebbero degnamente aver posto accanto alle Cice-
roniane non solo certe lettere brevi e graziose, ma altres'i le lettere sulla
eruzione del Vesuvio, sulla morte di Silio Italico e di Marziale, suU'innon-
dazione del Tevere e dell'Aniene, in lode di Virginio Rufo, sui libri dolio
zio, sui processi dei Cristiani ed altro non poche ? » (Compendio sudd. p. 255).
(3) e quo genere spectaculi ne levissime quidem teneor » IX, 6.
(4) V. la lettera 36 del libro IX.
(5) V. per esse le lettere li. 17; V, 6, Molti ne trattarono, e recentemente
AiTCHixso.N, Roman Architecture, II e IV. T/ie Builder. Londra, 1800.
N-> 2453 e 2455.
(6) I. 9.
(7) I, 15; III, 12.
(8) III, 19.
(9) II, 15; Vili, 2: « .Vlii in praedia sua proficisouiitnr, ut lucuplotiores
rcvcrtantur; ego, ut pauperior ».
— 270 -
do^Hi molto da fare ])0Ì(;1r' d'anno in anno cresceva il debito d«^gli
aftilluiuoli (1). Pietoso con tutti e facile al i erdono CI), benevolo
verso ff\i schiavi (Mj, degli amici f(iiidice indulgentissimo (4), a
disposizione di questi volentieri metteva l'opera sua ed il suo de-
naro (5), del quale faceva uso savio e generoso fondando scuole
ed istituendo biblioteclie (0). Marito delicatamente aflettuoso lo
dimostrano le lettere scritte alla consorte (7). Amantissimo degli
studi, ci'edette jtotcre nel campo di (juesti ottenere per se maggior
fama di (juella clie realmente gli avvenne di conseguire; si cora-
piac(iue di se stesso (8), fu vano e si raccomandò a Tacito affinchè
il pro[)rio nome venisse ricordato nelle Storie di lui fl>); ma seguì
pur in queste debolezze il tipo cli'ei volle emulare, (Jicerone (10).
Furono peraltro gli ainici suoi che aH'Arjiinate, per indulgente
giudizio 0 per piaggeria lo paragonarono (11); non egli, il (juale
sempre si protestò di gran lunga da meno del modello ch'ei s'era
posto dinanzi: « Neque enim eadem nostra conditio quae M. Tulli,
ad cuius exemplum nos vocas. llli enim et copiosissimum inge-
nium, et ingenio qua varietas rerum, qua magnitudo largissime
suppetebat. Nos quam angustis termi nis claudamur, etiam tacente
me, perspicis » (12. Egli ebbe insomma la ìaudiim immensa cu-
pido, sentimento comune nel mondo Komano ; me, dic'egli, nulla
più muove che l'amore e il desiderio della immortalità, aspira-
zione degnissima dell'uomo, che, scevra la coscienza di colpe, non
teme il giudizio dei posteri (13). Ma fu la sua una vanità senza
conseguenze (14), la quale in ogni modo non raggiunse l'alto grado
cui quel sentimento era pervenuto in Cicerone; e d'altra parte la
(1) IX, 37.
(2) Vili, 22.
(3) V, 19; Vili, 1; Vili, 16: « Permitto servis quoque quasi testamenta
facere eaque ut legitima ciistodio. Mandant rogantque quod visura ; pareo
ut iussus. Dividunt, donant, relinquant, dumtaxat intra domum. Nam servis
res publica quaedani et quasi civitas domus est ».
(4) VII, 28.
(5) I, 24 ; II, 9. 3: VIII, 9, 2.
(6) 1, 8; IV, 13; V, 13.
(7) VI. 4: VI, 7; VII, 5.
(8) IX, 23, 5: « Verum fatebor, capio magnum laboris mei fructum ».
(9) VII, 20.
(10) « est mihi cum Cicerone aemulatio » I, 5, 12.
(11) III, 15, 1; IV, 8, 4.
(12) V. su questo argomento, oltre l'antica dissertazione del MùUer (De eo
quod interest inter dicendi gen>'s epistidare Ciceronis et Plini secondi,
disp. Hafniae, 1790), il recente lavoro di Guido Suster, De Plinio Cice-
ronis imitatore^ pubblicato in questa medesima Rivista nel fase, luglio-
settembre, 1889.
(13) V, 8, 2.
(14) Vedi fra i molti più scritti che trattano di questo punto del nostro ar-
gomento, W J. Brodribb Pliny the Younger. (The Far tnig Itti y Review)
1870, voi. I. Bender, Der jungere Plinitis nach seinen Briefen. Progr.,
Tiibingen, 1873.
- 277 -
modestia, ne in letteratuura soltanto, era sentimento ignoto agli
antichi (1).
E non pure intorno alla vita sua ci danno ragguaglio le lettere
di Plinio, tanto che si pubblicò una vita di lui compilata (come
fece il Bindi per Orazio) col solo sussidio delle lettere medesime (2);
ma, lo ripetiamo, esse recano lume grandissimo intorno al movi-
mento della coltura (3), all'andamento dei pubblici affari (4) e
ad altri punti di curiosa erudizione.
Della coltura, e particolarmente delle conferenze (recitationes)
poetiche per lo più, le quali erano la mania letteraria d'allora,
ci danno amplissime notizie molte lettere (5) e soprattutto alcune,
delle quali ben si valsero il Valmaggi (6) e Mons. Carini (7) nei
pregevoli scritti loro su tale materia. Oltre di che ci si conservano
nell'epistolario notizie preziose su Svetonio (8), su Marziale ,9),
su Silio Italico (10), sul maggior Plinio (11), sul poeta Vestricio
Spurinna (12). E qual pregio singolare non hanno le lettere a Ta-
cito ed a Luperco sulla eloquenza ? (13).
Alla triste età passata sotto il regno di Domiziano Plinio con-
trappone il tempo felice cui ha dato principio il governo di
Traiano, e (quel che le condizioni politiche non avevano prima
(1) Lasciò scritto il Thomas con non poca verità, sebbene con qualche
esagerazione che non accogliamo : « Fra gli antichi la libertà repubblicana
concedeva maggior energia ai sentimenti, e più libera franchezza al discorso;
quest'infiacchimento del carattere, che si chiama gentilezza, e che tanto
teme di ledere l'amor proprio, cioè la debolezza incerta e vana, era allora
men comune; si aspirava piuttosto ad esser modesti che grandi. La debo-
lezza conceda pure qualche volta alia forza di conoscere sé stessa ; e se ci è
possibile, consentiamo ad avere uomini grandi anche a questo prezzo ». (An-
tonio Leonardo Thomas, letterato francese, 1732-1785, nell' Essai sur les
éloffes, parlando di Cicerone).
(2) H. ScHo.NTAG, De C. FI. moribus scriptisque ex ipsius epistolis com-
posita brevis commentatio. Rothenburg a. d. T., 1863. Herm. Bender, Der
ji'cnffere Plinius nach seinen Brifen. Gymn. Progr. Tiibingen. 1873. Ved.
anche Giesen, Zur Charakteristik des jiingeren Plinius. Progr. Bonn, 1885.
(3) A. Raueski, Qualenus ex epistulis Plinianis litterarum Roìnanarum
status lam senescentium cognosci possit quaeritur. Pr. 1892.
(4) ScHÒNT. KG, Plinitfs der J tingere, ein Charakterhild aus der romisrfien
Koiserzeit. Proqr. Hof, 1876.
(5) Particolarmente: 1, 5, 13; U, 10; IH, 1; V, 3, 10: VI, 5, 6, 17.
(6) Ll'KtI Valmaggi, Le letture pubbliche a Roma nel primo secolo dei-
Véra volgare. (Rivista di Filologia e d'Istruzione classica). Torino, 1888
(anno XVl)
(7) Mons. Isidoro Carini, La pubblicazione dei libri nell'antichità romana:
1. IJ papiro — II. Le recite — III. Il commercio librario. Roma, 1888-89.
(8) V, 10.
(9) III. 21.
(10; III, 7.
(11) III, 5; VI, 10.
(12) III. 1 ; IX, 36.
(13) 1, 20; IX, 26.
- 278 -
consentito (li lare) nota con singolare compiacenza di jn.i.-i alla
fine parlare dello stato, cuius ìnatcriae nobis quanto rarior ijwnn
veterihus occasio tanto nimus omittenda est (1).
Notizie di molta importanza ci sono conservate dal nostro autore
intorno all'andainento dei }»rocessi e alla giurisprudenza seguita
dai liomani (2).
Del valore che ha il lihro decimo, l'autenticità del quale, tanto
discussa (.'5), noi ammettiamo seguitando lo Schanz (4j, occorre
appena far cenno, troppo nota essendo rimjiortanza soprattutto delle
due tanto commentate lettere: novantesima sesta e seguente. Nella
prima delle (|uali Tlinio informa sulla inchiesta e sui processi da
lui iniziati a carico dei Cristiani, nell'altra rimjieratore approva
il di lui operato, riassumendo cosi la norma da tenere; non si
molestino; arrestandone alcuno, ove sia concesso, lo si punisca;
ma lo lasci lihero, se rinnega (5).
Né qui si ferma l'interesse dell'Epistolario. 11 ricercatore di
forti esempi vi trova descritte le coraggiose figure nobilissime di
Virginio Rufo, pulso qui Vindice quondam imperium adseruit
non sihi, sed patriae (H), di Arria che al marito è di conforto e
d'esempio al morii e (7), della coraggiosa ed austera Fannia (8).
Sin dal secolo scorso un cultore delle scienze mediche aveva spi-
ci) III, 20, 10.
(2) V. particolarmente A. Bollici. La f/iurisprudenza e la cita di Plinio
il Giovane. Roma, 1873.
(3) Trattarono recentemente di questo soggetto : C. Guil. Ign. Wilde,
De C. Plinii Caecilii Secundi et imperatoris Trajani episttilis mtituis dis-
putatio. Diss. inaug. Leyden, van Leeuwen, 18^<9, S» pag. 123: Van M.\ne.n,
De briefwesseling vati Pliniiis en TrajanKs, nella Riv. olandese De Gids.
1890. Nega (discutendo il libro del Wilde) Tautenticità del carteggio, e ne
stabilisce la falsificazione al sec. II. Esso è tuttavia importante per la storia
del nascente Cristianesimo. È pur notevole la dissertazione di L. Schaedel,
Plinius der ji'mgere und Cassiodoì'us Senator. Krit. Beitrcige zum X Buch
der Briefe und zu den Varien. Progr. Darmstadt, 1887.
(4) Geschichte der Rómischen Litteratur bis zum Gesetzgebungswerk
des Kaisers Justinian. Munchen, Beck, 1892. Il Theil, pag. 393 (è il vo-
lume Vili deWffandbuch der klass. Altertumsvoiss. di Iw.a.n von Mììller).
(5) Conqìtirendi non sunt: si deferantur et argnantnr, pimiendi sitnt,
ita tamen ut qui negaverit se Christiaìium esse ex paenitentia veniam
impetret. — « Strana rivelazione, osserva il Gantù, del contrasto fra la le-
galità e la giustizia ! Il proconsole, uomo onesto, non trova rei questi settari,
se non del nome, pure non domanda che siano immuni, sibbene con quale
misura deva castigarli; e li mette al tormento per iscoprirne delitti, di cui
non sono accusati. L'imperatore, uno dei migliori, anch'egli tentenna fra il
proprio sentimento e la ferrea rigidezza delle leggi » (Storia della ìetterat.
latina, Firenze, Le Mounier, 1864 , pag. 385). Gfr. pure : G.aston Boi.ssier,
De Vai'thentirAté de la lettre de Pline [ad Traj., 96) au sujet des Chré-
tiens., in : Revue archéol., XXX (1876). p. 114-125.
(6) II, 1; VI, 10.
(7) III, 16.
(8) VII, 19.
— 279 —
golato in quell'epistolario discreta messe di curiosità idrologiche (1);
interessano lo studio delle cose naturali la descrizione (2) della
fonte Comasca che cala e cresce senza che Plinio riesca a tro-
varne la spiegazione (3), e del lago Vadimone, ora di Bassanello,
in quel di Perugia colle sue isolette natanti (4); e per la cono-
scenza delle credenze e superstizioni popolari hanno valore le storie
che l'epistolario contiene di spettri e fantasmi (5).
Dev'essere finalmente notato che un nostro pedagogista, il Ge-
rini (6), ha rivendicato a Plinio il merito che gli spetta fra' La-
tini nella scienza dell'educare ed ha ricavate dalle lettere di lui
alcuni concetti pedagogici de' quali mette conto di recar qui i prin-
cipali.
Voleva che l'istruzione fosse il più possibile diffusa: e però,
quantunque affermi « nullum librum tam malum esse ut non
aliqua parte prodesset » (7), raccomanda multum legendum esse,
non multa ; leggere, cioè, pochi libri, ma buoni, e dopo lettili,
rileggerli e meditarli. Ma più ancora che leggere libri, quando
pure questi siano buoni, procurisi (consiglia Plinio) ascoltare buoni
parlatori, perchè multo magis, ut vulgo dicitur, viva vox adficit.
Natii licei acriora sint quae legas, altius tamen in animo sedènt
quae pronuntiatio, vtdtus, hahitus, gestiis etiam dicentis adfìgit (8).
Siasi molto cauti nello scegliere il maestro pei propri figliuoli,
procurando che a tale siano essi affidati . cuius scìiolae severitas,
pudor, in primis castitas constet (9). ?] nella educazione dei fan-
ciulli s'ha da sfuggire, sì, la mollezza che riesce a tristi risultati,
ma non si deve meno evitare la severità eccessiva. « Pensa » dic'egli,
ad un amico suo, padre troppo rigido ; pensa ci illum piierum esse
et te fuisse, atque ita hoc quod es pater utere ut memineris et
hominem esse te et hominis 2^citrem (ÌO).
Queste massime sensate trovano conferma nei precetti svolti da
(1) .Io. Christ Messerschmidt, Antiquitates balneares ex C. Plinti Caec.
Sec. epistolis, etc. Vittembergae, cio.io.cc.lxii. — Più recentemente una let-
tera di Plinio (ma questa curiosità s'intende bene che non la serberemo per
la scuola), la lettera 24» del 1. VI ha, con raffronti d'altri luoghi d'altri au-
tori, servito ad un medico nostro per provare l'esistenza della sifilide presso
i Romani (A. Ossani, Dell'origine della Sifìlide. Studi storici- scientifici.
Viterbo, Pompei, 1870, pag. 9).
(2) IV, 30.
(3) Ma la trovò, proliabile, l'abate Caulo Amoretti, valente naturalista,
nel suo Viaggio da Milano ai tre laghi. Milano, 1817, png. 271.
(4) Vili, 20.
(5) 111, 14 ; V, 5; VII, 27.
(6) G. B. Gkrint, Le dottrine pedagogiche di M. T. Cicerone, L. A. Se-
neca, M. F. Quintiliano e Plinio il Giovine, precedute da uno Studio
sulla Educazione presso i Romani. Torino, Paravia, iS94.
(7) 111, 1,5.
(8) li, 3, 9.
(9) 111, 3, 3.
(10) IX, 12, 2.
— 2«0 -
Quintiliano o negli insegnamenti esposti, soprattutto nel suo Epi-
stoìario, da Senoca. Gia<;chè ne[)pur questo autore io vorrei del
tutto trascurato; ma alcune delle sue lettere giudico utili da leg-
gere a compimento di morale educazione (1). Kd infatti, osserva
il gi.'l lodato Komizi (2), sopra la vera nobiltà, la grandezza del-
l'uomo savio e virtuoso, i riguardi da usare agli schiavi, Tami-
cizia e l'uso del tempo Seneca cnunziò alti concetti (Ti); si scagliò
con forza contro la inutile crudeltà degli spettacoli dei gladia-
tori (i) e più volte saviamente raccoinandù lo studio e la pratica
della vera filosofìa. Ond'è che a ragione anche di lui vennero fatte
scelte scolastiche opportunissime (5).
Correggio, settembre 1894. Adou-sto Corradi,
Ziir Griechiscìieii und Lafeinischen Lexicograplne aus Jiidischen
Quellen von Samuel Kraus (Leipzig, Teubner, 1893).
11 soggetto di questo lavoro è lo studio delle parole che, pur
trovandosi nella letteratura rabbinica, specie nel Talmud e nei
Midraschim — scritti in ebraico o in aramaico — , non apparten-
gono alla famiglia delle lingue semitiche, ma bensì al greco e
talvolta anche al latino, e che per penetrare nella lingua degli
Ebrei dovettero subire profonde alterazioni. Con ciò non si nega
punto il fatto generale che poco o nulla fu l'influenza che il greco
ebbe sulla lingua ebraica parlata nella Palestina, giacché, se in
altre parti dell'Oriente fu fecondissima, nella Mesopotamia invece
la lingua aramaica durò sola e sovrana come lingua del paese, e
r antipatia per 1' Ellenismo divenne sempre più grande, specie
dopo la catastrofe che mise fine all' esistenza della Sinagoga di
Gerusalemme (Cfr. Ernesti, De Judaeorum odio adversus literas
graecas, Lipsiae, 1758\ Così veniva pronunciato l'anatema contro
chi avesse insegnato ai propri figli le lettere greche, lo studio
delle quali era tutt'al più lasciato alle donne, a guisa di ornamento
femminile (cfr. Talmud di Gerusalemme, Peah^ 3, 1). Malgrado
(1) Cfr. F. BoHM, Seneca und sein Wert auch fùr iinsere Zeit. Beri.,
1856; A. FiEGL, De Seneca paedagofjo. Pr. s. a. (1886).
(2; Compendio, etc., p. 254.
(3) Epist., 1, 3, 6, 9, 35, 41. 44, 47, 62.
(4) EpisL, 7, 3-5.
(5) Emmanuel Ghauvet, Scnèque, Lettre? à Lucilius (elioix oflBciel). Tra-
duction fraiiQaise avec le texte eri regard, une iutroduction, des analyses et
des nobles. Paris, Tandon, 1865. C. Kigkh, Gott Mensch Tod u. Unsterb-
lichkeit. Blùtenlese aus d. Schrifien des L. A. Seneca. Pr. s. 1. (1874).
— 281 —
questo stato di cose, i dottori del Talmud, poco pratici del greco,
anzi acerrimi nemici, dovevano a malincuore servirsene, perchè lo
esigevano i tempi e le circostanze: cosi nelle loro dispute fram-
mischiavano vocaboli greci, non per far conoscere le sottili dot
trine del genio greco, ma per recare aiuto al loro linguaggio, che
non era in grado d'indicare cose nuove, idee nuove: dimodoché
la lingua greca era per loro solo un mezzo per farsi capire meglio;
— scopo, che certamente non avrebbero raggiunto, ove si fossero
limitati al loro idioma. Pertanto nella lingua ebraica non dob-
biamo cercare sviluppi ulteriori ed indipendenti della parola greca
per opera dei dottori del Talmud — sviluppi o derivazioni che
potessero innestarsi sul corpo dell' Ellenismo, come avvenne nel
linguaggio latino — , ma solo parole vere e proprie del vocabo-
lario generale greco, che talvolta le perdette o ne alterò il si-
gnificato nel corso dei secoli, e che ora le ricupera mediante pro-
fonde ricerche istituite in altri linguaggi. E questo che ora diciamo
pel greco, il Kraus applica in egual misura al latino, i cui vocaboli
però sono pochi in confronto a quelli greci, e anche questi pochi
furono introdotti nell'ebraico per la mediazione del greco, cioè in
forma greca. Se non che questa regola enunciata con tanto rigore
non solo dal Kraus, ma anche dal Renan {Hist. des Langues
Sémit., lib. Ili), se non coiitradetta, deve per lo meno essere assai
mitigata da alcune parole latine, che tradiscono la forma popolare
e che dovettero introdursi nell'ebraico in causa dei presidi romani,
che occupavano la Giudea. E in questa opinione mi ratforza un
convincente articolo del Darraesteter Romania, 187 2 (« Sur des
mots Latins qiton renconire dans ìes textes Talmudiques), il quale
oltre l'esempio anpilia {Talmud, Ghittin, fol. 25*) dal lat. im-
pitia (Plim., Hist. Nat.. 19, 2, 10) e non dal greco èurriXia, oltre
la voce ictadia dal lat. stadia considerata come fem. sing. piut-
tosto che dal greco atabiov, cita ila un midrasch sul Cantico dei
Cantici (e. Vili, v. 6) la voce capocìator, che ci riconduce a
capo e a calaior, dove riconosciamo non più la declinazione clas-
sica caput, capitis, ma il substrato delle forme romanze, capum
0 capus, genit. capi, donde le voci neolatine cabo , chef, capo,
cap. Comunque sia, il Kraus tiene nelle sue ricerche un metodo
scientilicamente rigoroso, e divido la sua abbondante messe di pa-
role ri(;uperate al vocabolario greco in ben cinque categorie, di
ciascuna delle quali credo far opera utile ai lettori della Rivista,
riprodurre i relativi vocaboli.
La prima categoria abbraccia i nomi latini e greci malamente
noti, cioè quelli che, sebbene si possano ritrovare nella letteratura
classica, pure, o mancano ancora nei lessici, o non sono considerati
nella dovuta maniera: ed ora mediante la fonte ebraica si può resti-
tuire a tali voci il loro esatto significato ; tali voci sono: ppiKcXoi
« maschere », che nel Thcs. dello Stefano è d'incerta signi licazione,
e negli altri dizionari manca at^.'itto; òeixavov «effigie* che nel
— 282 —
Thes. è spiegato arbitrariamente <' larva 7>\ òittXoI « duumviri »
dei Romani, ed •• voce importante, <^iaccli<', se si eccettua un so-
litario buóavbpeq di una moneta di Lipara, fino ad ora, al dire
<lel Marquiirdt {limnisclien Staafsverir., \, 521) non si aveva in
greco nessun ttjimine sjìeciale e, secondo i casi, si denominavano
dpXovTeq 0 OrpaiTTfoi ; del pari laiXiov " caldaia, stoviglia », già
nota pel composto óp9o)aiXiov e trovata sola in una iscrizione ori-
ginaria di Namara in liataniia, manca nei lessici ed è fraintesa
dal AVaddington nelle Insmptions (jrecques et latmes de la Syrie,
p. 50H ì)\ olearius cioè qui oleum in halncis supportai, ed è cu-
rioso — e solo si spiega coll'aiuto della lingua ebraica, — come
sia venuta a questo significato una voce, la cui base etimologica
è oleum. Qui però il Kraus è inesatto, poiché scrive « das Felilen
des Wortes {olearius) in den lat. Lexicis ist noch kein Beweis dass
die Lateiner *olearius niclit gebildet liaben » ora olearius è voce
ciceroniana ed ò per conseguenza registrata nel Forcellini ! TTép-
xeiq « piccolo uccello selvatico » conservato anche nelle glosse di
Esichio, ma la cui lezione si ritiene errata, giacche è scritta TTép-
Youv ; òéo|ioq « vincolo, legame », manca pure nei lessici, seb-
bene si trovi nelle glosse di Snida.
Alla seconda categoria appartengono nomi che nel testo ebraico
presentano una forma sconosciuta ai nostri lessici, ma che poteva
senza difficoltà alcuna vivere accanto a quella che ci »■ tramandata
dai documenti letterari : tali sono pei nomi propri €ùtoko<;, che
come nome proprio non è registrato dal vocabolario Pape-Benseler;
GÙToX|uo<;, accanto a €i»tóX|liio(;; e pei suffissi in -kov, -Kr) i nomi
aixapiKÓv « natura di ladro », voTapiKÓv « segno di scrittura »,
PupcTiKn « mestiere di conciapelle », e pupcriKÓq « il conciapelle »
stesso; )aaXaxvÌKr| « malva » che si deve ricordare assieme al lat.
molochimia] laatTaviKÓv « opera d'arte » a cui riconduciamo Tital.
« mangano, manganello ». Per le forme in -apio? si hanno le
seguenti voci: èvToXiKdpioq « impresario di fabbriche », èvToXd-
pio<; « mandatario », Xouòàpioq « confector », (yripiKdpiO(; « tes-
sitore di seta » e per le forme, nuove solo in quanto differen-
ziano nella finale, aaXiaKoi « caldaia », Kripivri « cero », Tévòa|<;],
« tenda », qpoOpa « forno », TroòaYpiTTiq « paralitico », Kéapvoc;
« martello ». — A questi nomi il Kraus fa seguire la discus-
sione intorno ad alcune forme che appartengono solo alla grecità
di Palestina, come pùpiov « casa, fortezza», auvrjfiup «difensore»,
àvòpoXniaipia « ratto d'uomini », piccola variante del solito àv-
bpo\r\\\i\a.
Alla terza categoria appartengono i nomi composti, che nel
Nuovo Testamento sono assai numerosi e formati con grande li-
bertà : ora lo stesso fenomeno si riscontra pure nell'ebraico. Così
abbiamo àvTiKaiaap « qui regis locum obtinet », TraTpoPoùXri
« consiglio della patria », èiuTruXeuuv « la sala interna ^>, àireK-
TTiuaiq « frattura », bpóiaauXoc; « lizza », luoKpo éXaoppoq « sot-
— 283 —
tile, svelto », TTpuuTOTaiaeTa « festa preparatoria delle nozze », e
pel latino apimidia = apum ììioliium, che il K. crede fatto sul-
l'analogia di lumenndia (cfr. Paul., JFest., 120, 15 genus herbae
vel potius spinae), e archi judex « il giudice principale ». Oltre
a questi si hanno ancora HuXocpavó(; « lampas ignea », òittXócttgov
« doppio colonnato », bmXoTTOxripiGv « doppia tazza», auvàbeXcpoq
« confratello », óXo|napYapiTri(; « fatto di perle », olvó)ariXov
« vino di miele », oìvo|auppivov « vino di mirto », T6Tpd|aouXov
« quattro coppie ».
Alla quarta categoria appartengono vocaboli, il cui significato
ha sofferto profonde modificazioni. Così con KpàTricri? s'indica il
temuto iniperhmi dei Romani, voce adoperata in senso politico,
quale però manca affatto ai Lessici. Lo stesso si dica per Tevéaia
[rà] « il giorno della nascita », irapéKTri « pubertà », donde il
latino parectatus, a, imi, paaiXeiov « trono » calamisier, « espres-
sione del volto », cognitmn « tachigrafia », auÙTpov « giornata
di lavoro », Òid9e|ua « testamento » equivalente a òiaGriKriv. tap-
Tii|uopov « peso ».
Alla quinta ed ultima categoria sono assegnati i vocaboli nuovi
usati nel loro proprio e vero significato, come Xd)ao(; « cane »,
beiTMavTTipiov « imagine », TTpouTaxo? « il primo », auvTnpn?
« ispettore », àtaRxia « disordine », póaxpa « calzari », aTtóòoq
« spiedo », è')Licpuj)na « finestra » , Krivauuiaa « censo » , nriXuJina
« palude ».
Sono in tutto 64 vocaboli discussi ampiamente e in tal modo
restituiti ai lessici greci, e formano la prima parte di un vasto
lavoro, che concorse al premio stabilito nel 1887, in memoria del
D"" Mosè Lattes, dal fratello Elia Lattes, di Milano. Il tema fu
proposto con queste parole: « Kritisches Verzeichniss der in Talmud
und Midrasch vorkommenden griechischen und lateinischen Lehu-
worter und Erforschung jener phonologischen und morphologischen
Gesetze, welche bei ihrer Annahme massgebend waren », e la com-
missione esaminatrice venne composta di proff. della scuola di Buda-
pest, e tale scelta dipese da ciò, che oltre all'essere Buda-Pest uno
dei pili fecondi centri di siffatti studi, il fondatore del premio volle
mostrarsi grato ad uno dei piìi illustri docenti di quella, il Kauf-
mann, per la squisita amicizia da lui dimostrata al defunto fra-
tello in vita e in morte. Del resto dal 1889 in poi il concorso per
liberale decisione del corpo insegnante, fu, consenziente il fonda-
tore, esteso agli studiosi d'ogni paese, e la notizia ne venne in
giornali scientifici di diffusione mondiale. Ora il D"' Samuele Kraus
fu il premiato, e un lusinghiero giudizio della Commissione si
pubblicò noìV Jahreshericht der Latides-Rahbiner-ScJnde in Bu-
dapest (anno scolastico 1892-93), donde appare che il saggio del
lavoro del Kraus è condotto con metodo assai felice, e che i ri-
sultati furono nuovi e sicuri non solo pel vocabolario delle fonti
studiate, ma anche pel vocabolario greco, che venne per tal guisa
— 284 —
arricchito di forme e di significati sconosciuti o poco noti. Noi
pertanto possiamo unirci colla Commissione non solo per conj^ra-
tularci col Kraus pel difficile j)remio riportato, ma anche dire con
lei, che al K. può « das Verdienst zugesprochen werden, ein iJe-
« sideratum der Wissenschaft in walirhaft befriedigender VVeis
« gelost zu haben ».
Firenze, 1894. Adolfo Cinquini.
Handhoolc of Greek and Latin Palaeographif by E. M. Thompson,
London, Triibuer, 1893.
Nelle International Scientific Series, accanto alle opere di socio-
logia dello Spencer, alla «vita e lo sviluppo del linguaggio del Whit-
ney, alle traduzioni inglesi del Suicidio del Morselli, e del 3Iito e
scicìiza del Vignoli, troviamo, come LXXIII voi. della collezione,
il Manuale di paleografìa greco-latina del Thompson, prefetto del
« British Museum » ed editore della Falaeogra placai Society, la
più splendida raccolta di facsimiles diesi cono.-ca. In questa ono-
revole compagnia nessuno dubiterà di non essere alla presenza di
un'opera coscienziosa, sia per la serietà delle indagini che pel
rigore del metodo, come anche per la conoscenza dei progressi
fatti dal giorno, in cui il benedettino Montfaucon inventò, per così
dire, la paleografia. In effetto l'A. ha fatto tesoro di quanto ha
veduto la luce in questo secolo, così in Germania come in Francia,
ed è difficile potergli ascrivere una dimenticanza sia nelle note a
pie di pagina, che nella List of Palaegraphical tvorks, che chiude
il volume ; si può forse lamentare che al e. VI, consacrato alla
Sticliometry , accanto alla citazione del Mommsen {Hermes, XXI,
142, zur Lateinischen Stichometrie) non sia ricordato l'articolo
del povero Graux nella Revue de Philologie, 1878, voi. ll,p. 97,
e che a proposito della storia dell'alfabeto non si citi anche lo
stupendo articolo del LenormSiTìt s\i\Val2)habetuìu couipreso pp. 188-
218 del Dictionnaire des antiquités ecc. del Daremberg e Saglio.
Di ciò che si è scritto in Italia, non gli è sfuggito nulla, e non
a torto, giacché non poco gli giovarono i lavori del Milani, del
Paoli, del Petrettini, del Ceriani, del De Rossi, del Gloria, del
Marini, del Monaci — autori tutti di cui troviamo parecchie volte
menzione nel Manuale thompsoniano.
Questo lavoro ha per iscopo, secondo le modeste parole dell'A.,
di tracciare solo le linee generali di un vastissimo argomento, come
è quello della paleografia greco-latina ; per cui si deve considerarlo
come una semplice introduzione allo studio del soggetto, colle indi-
cazioni dei diversi rami in cui è diviso e del metodo che si pò-
— 285 —
irebbe adottare per una trattazione generale. Ma l'A. mantenne più
di quello che aveva promesso, e non è difficile a capirlo anche
dal semplice piano del lavoro. Infatti, dopo un'affettuosa dedica
al suo amico francese Leopoldo Delisle, prefetto della Nazionale
di Parigi, e una breve prefazione, consacra una prima parte gene-
rale alla storia degli alfabeti classici, agli strumenti diversi ado-
perati per scrivere, alle materie sulle quali, secondo i tempi, si
tracciò la scrittura, alle forme dei mss., alla punteggiatura, ?gli
accenti, alla sticometria, alla tachigrafìa, alle contrazioni, e ai
numerali: tutto questo in sette capp., dalla pag. 1 alla pag. 106,
che sono, non solo una continua prova della copiosa e solida eru-
dizione dell'A., ma anche del criterio, per cui non scrive se non
ciò che è strettamente necessario. Dal cap. VIII-XII (pp. 107-
158) si tratta della paleografìa greca, cioè dell'antichità della
scrittura greca, e delle sue speciali divisioni, del carattere maiu-
scolo e minuscolo, e delle varietà che la scrittura assume nei
papiri. I rimanenti capitoli, cioè fino al cap. XIX, descrivono i
caratteri della paleografìa latina, seguendola nelle diverse nazioni,
e nelle differenze che contribuirono a differenziare del tutto o a
unificare le varietà di stile, fino a tanto che per l'invenzione della
stampa decadde a secondaria importanza. 1 capp. XVII-XIX sono
dedicati sopratutto alla scrittura irlandese ed inglese. Chiudono il
volume alcuni addenda, fra cui ve n'è uno importante, di quattro
pagine, consacrato ai differenti sistemi di datare i mss., un elenco
delle opere consultate e un copioso indice.
Ora. in mezzo a così grande quantità di notizie non si lamen-
tano ne inesattezze, né dimenticanze: si potrà forse qualche volta
dissentire dall' A. sulla quantità dei mss. citati a riprova della
teoria oppure sull'età assegnata a certi tipi di scrittura; così, ad
esempio, laddove a p. 189 scrive « among the remaining older
Mss. of this style the raost important is the codex Bembinus of
Terence in the Vatican library » era forse ragionevole aggiungere
anche l'antico palimpsesto di Plauto, le orazioni di Cicerone con-
servate nella biblioteca Ambrosiana e in quella di Torino; a p. 182,
nel cap. intitolato « Greek Writing in Western Europe », ai codici
misti citati si poteva ricordare anche l'Evangelio della Lauren-
ziana. A pag. 64, dove si tratta dell' « arrangement of the iext»
e si dice che il Codex Vaiicanus ha tre colonne per pagina nella
sezione che contiene il Vecchio Testamento, la notizia sarebbe
stata più completa coli 'aggiungere anche il Nuovo Testamento,
meno i cosidetti « libri didattici », dove le colonne sono due. Un
bel esempio di « minuscolo vetustissimo » è pure l' Aristotile
dell'Ambrosiana, riprodotto anche fra i facsimiles della Paleogra-
phical Society, e meritava menzione nel manuale di cui si parla. A
pag. 99, nelle sigle, se ne richiedeva un maggior numero, e sa-
rebbe stato forse più opportuno raccoglierle in un elenco alfiibetico.
Nell'assegnare le date ai mss. il Thompson è piuttosto timido, e
- 286 —
come il Gardthausen ed altri tedeschi tende a ringiovanirle: cosi
all'Aristotile ambrosiano, di cui sopra ho parlato, la Pai. Society
assegna il X secolo, mentre gli starelihe benissimo anche il IX;
i frammenti di Plauto conservati a Milano sono riportati fra il
IV 0 il V secolo, e il testo biblico che vi h annesso, al IX secolo:
eppure niente impedirebbe di assegnare ai primi il iV secolo e
al secondo il VII, o l'Vlll secolo: ma di questa tendenza a ren-
dere giovani i mss. già si era lamentato il Graux nel Journal
lìes Savanis, 1881, senza essere per questo ascoltato. L'opera, a
mio parere, poteva essere fornita anche di qualche capitolo intorno
ai copisti, alle suhscriptiones e di un elenco delle principali bi-
blioteche europee.
11 manuale del T. si avvantaggia su quello del Gardthausen
pel fatto che accompagna il testo di numerosi facsindles, gene-
ralmente lucidi, per quanto lo può permettere la foto-zincografia,
e solo insufficienti quando si debbono riprodurre linee assai sottili.
Col Gardthausen si poteva dire di aver letto una voluminosa opera
di paleografia senza aver visto una pagina di un ms., oppure si
era costretti a ricorrere agli Exempla e alle Schrifttafeln del
Wattenbach, i quali però non posseggono i principali tratti della
minuscula, specie di quella abbreviata. Comunque sia, il manuale
del Thompson è un'opera completa, e al corrente di tutti i pro-
gressi della paleografia. Ancora qualche maggiore estensione in
alcuni capitoli, e poi avremo la seconda opera che, al dire del
Graux (op. cit.), forse alludendo a sé stesso, doveva sostituire de-
finitivamente la Paleografia del Montfaucon: il Graux scriveva
queste parole nel 1881, e assegnava al compimento del suo voto
ben vent'anni: or bene il Thompson ha stotfa e mezzi per realizzare
il vaticinio.
Adolfo Cinquini.
Beitriige zur Ciris von D' Carl Gangexmuller (Estratto dal
voi. XX dei Suppl. ai Jalirh. f. Class. Pliil., 553-657). Leipzig,
1894.
In una breve prefazione il G. c'informa come da molti anni,
seguendo un corso di esercitazioni dirette dallo Schwabe prese in-
teresse al Ciris, e in seguito, leggendo ai suoi scolari Ovidio andò
notando delle somiglianze fra quel poemetto e il genere ovidiano.
tanto che si sentì tratto a investigare piìi a fondo le relazioni
che potevano essere fra l'uno e l'altro, e riuscì a convincersi che
nel Ciris abbiamo l'opera d'un imitatore di Ovidio.
Questa ricerca, avverte il G., procedette indipendentemente da
quella dello Zingerle che nelle sue Kleine philologische Ahhand-
- 287 -
lungen (III Heft, Innsbruck, 1882, pag. 23-31) aveva notato già
somiglianze fra Ovidio e il Ciris. Il G. ignorava il lavoro dello
Zingerle, e i punti di contatto che ha con lui derivano dalla co-
munanza dell'argomento, mentre il G. è più completo ed affronta
anche la quistione dell'età del poemetto, che l'altro lasciava da
parte.
Nel I cap. del suo studio il G. esamina brevemente le opinioni
dei dotti intorno all'autore del Ciris e al suo tempo, e si propone
di dimostrare che l'opinione prevalente deve modificarsi, se si ri-
conosce l'imitazione ovidiana, ch'egli crede di poter provare.
A questo scopo riprende in esame tutto il poemetto, e a ciascun
verso indica i luoghi di altri poeti presi a imitare, riproducendo
e completando l' Index imitationum in Ciri dato dal Baehrens.
Questa parte ha per me un grave difetto di metodo. Per lo scopo
che il G. si proponeva, non solo bisognava lasciare da parte i luoghi
di Virgilio, di Lucrezio, di Catullo e simili; ma gli stessi passi di
Ovidio andavano disposti per ordine di importanza o, se vogliamo,
secondo il più e il meno di forza dimostrativa che è in ciascuno,
piuttosto che nell'ordine dei versi del Ciris. Ora accade d'incon-
trare una quantità di paralleli, che non provano nulla, o che non
sono paralleli affatto, p. e. Cir. 3 con Prop. IV 21, 2G ; Cir. 5
con Lucr. Ili 420; Cir. 181 con Ov. Fast. VI 763 e via dicendo.
Che due poeti uniscano summa con arce o diano a Minerva lo
stesso epiteto di casta, non è un fatto da cui si possa argomentare
una relazione qualsiasi tra essi (1). Tanto più che molti casi, anche
in apparenza molto più significativi di quelli ora addotti, si riducono
ad una imitazione comune di una data frase o d'un dato motivo
esistente in un modello greco. Così è, credo, del giganteis... tropaeis
che troviamo in Cir. 30 e Ov. Fast. V 555. Il G. osserva che
la parola giganteus manca in Virgilio, Catullo e Tibullo; ma non
avrebbe dovuto dimenticare il giganteo triumpJio di Hor. Carm.
III 1, 7; e del resto anche i monumenti antichi attestano che
qui abbiamo da fare con un luogo comune dell'arte pagana. In
compenso il G, si giova di questo esame del Ciris per trattare
alcune quistioni relative al testo, che spesso è irrimediabilmente
guasto, ma spesso anche è stato senza necessità ritoccato da critici
e interpreti. Quello che in questa parte il G. dice in difesa del
viserit proposto dal Baehrens (invece di viderit) al v. 50, si ri-
duce ad una petizione di principio ; perchè non è provata l'imi-
tazione di Catullo 64, 407. Del resto, anche se fosse provata, chi
ci darebbe il diritto di figurarci l'autore del Ciris così sciocca
mente pedante, da non vedere la differenza che corre fra una visita
degli dei agli uomini, e l'elevarsi di un essere umano alle regioni
(1) Chi vorrebbe a mo' d'esempio considerare come una piova d'in\itazione
oraziana in Ovidio il fatto, che un esametro comincia con le parole Posterà
lux tanto in Hor. S. I 5, 39, quanto in Ov. Fast. 1 459 .^
— 283 -■
degli uccelli ? Quanto al v. 88, non sarà facile accettare Tenien-
da/ione j)roposta dui G.: ciocia pulam PapJn'ae tcstatur voce pa-
pyrus, specialmente ora che abbiamo l'autorità del Diels (in
.SCFIKADEK, Palacphatea, Berlin, 1891, p. Vò) (1) in difesa della
tradizione. E<fli lia cercalo di riiuediare a una sola parte della
vul<(ata che risale al Parrasio; (; non lia o.-:servato che papyrus
mutato in Pacìiynus è mollo meno spiegabile che Palacphatia
sostituito da Pulacpapìda.
Una terza parte della disseriazione del G. contiene una serie
di osservazioni sulle particolarità metriche del poemetto in con-
fronto con le consuetudini degli altri poeti ; e finalmente la quarta
parte raccoglie i passi che dal Ciris avrebbero imitato poeti po-
steriori, specialmente Lucano, Valerio Fiacco, Silio Italico e Stazio.
In complesso si deve esser grati al G. per aver raccolto un ma-
teriale abbondante, di cui non potrà tare a meno chi vorrà occu-
parsi del poemetto ; ma quanto sarebbe stato meglio che si fosse
contentato di presentare solo ciò che è veramente utile e signi-
ficante, separandolo da quello che può solo servire a sostituire un
dubbio con un altro dubbio ! Anche rispetto alla tesi principale
dell'imitazione ovidiana, possiamo domandarci, se è proprio inne-
gabile che il poemetto è stato ispirato direttamente dalla lettura
di Ovidio, e non piuttosto da quella di altri imitatori. Né è qui-
stione da risolvere con le sole cifre addotte dal Ganzenmiiller.
NiccoLA Festa.
Vittorio Pittaluga. La battaglia del Metauro, Koma, Voghera,
1894 (Estratto dalla Rivista militare italiana).
La battaglia combattuta nella seconda guerra punica al Me-
tauro è già stata trattata prima dal Tarducci nella Rivista mi-
litare italiana, ma la dissertazione che qui annunziamo ha ciò di
particolare, che è dovuta ad una penna militare, che il suo autore
è capitano di fanteria nell'esercito italiano, e per conseguenza di
speciale competenza in quistioni di guerra. La conclusione del suo
studio è che il fiume, al quale era accampato Asdr ubale di contro
ai Komani, non può essere che il Cesano, e dimostra che il Me-
tauro al tempo della battaglia era gonfiato. L'esercito d'Asdrubale si
ritira in parte per i monti, in parte lungo il mare verso il Metauro,
e la battaglia ha luogo vicino al colle, su cui è posta la cappella
di Sant'Angelo, occupato dai Cartaginesi. Livio e Polibio gli
danno ragione. A. Oehler, ufficiale tedesco, come crediamo, dis-
sente da lui per motivi del tempo e di scoperte archeologiche, come
spera di dimostrare in uno studio topografico di prossima pubbli-
cazione (v. Beri. Phil. Wochenschrift, 1895, n» 9, col. 2G9 e seg.).
(1) V. anche P. Lejay in Rev. Crii., 1895, n" 4, p. 70, n. 1.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
— 289 —
AGATOCLE (1).
I. Il colpo di stato ed i suoi precedenti. — Negli ultimi
anni d'Alessandro Magno, a Siracusa doniinava un governo oli-
garchico ; l'autorità stava in mano d'un consiglio di seicento
membri, presi , non sappiamo in qual modo, nella classe sociale
più elevata della cittadinanza. Assai probabilmente le altre città
greche di Sicilia, che subivano almeno di nome l'egemonia sira-
cusana, si governavano in modo analogo (2). Questo regime s'era
formato, come è da credere, col semplice accentuarsi di quell'ele-
mento oligarchico che, secondo ogni verisimiglianza, era rappre-
sentato abbastanza largamente nella costituzione di Timoleonte (3).
(1) La presente memoria non è né una storia d'Agatocle, né molto meno
una storia della Sicilia sotto Agatocle. Mi sono limitato a studiare la politica
di Agatocle e le lotte dei partiti siciliani al suo tempo per fornire un con-
tributo al problema in qual modo egli abbia potuto fondare e consolidare
la sua tirannide. Come si vede, l'economia del lavoro mi vietava d'entrare
nei minuti particolari ; e non ho potuto che lumeggiarne qualcuno nelle
note.
(2) DioD., XIX, 5, 6: oi TTpoéxovTe<; y«P tùjv ZupoKoaiiuv Kaì xalq bóEaic;
Koi TCixc, oùaiau; èv toùtok; ÙTriipxov KaraXeXcfiLiévoi. Che anche nelle altre
città dominasse l'oligarchia si desume, oltreché da ragioni di verisimiglianza,
dal contegno che tennero in varie occasioni coi fuorusciti oligarchici di Si-
racusa. Per l'egemonia siracusana v. innanzi.
(3) E difficile che Timoleonte e i due legislatori corinzi Dionisio e Cefalo
che lavoravano con lui alla nuova costituzione di Siracusa (Plut., Timol.,
24) abbiano dato alla città un ordinamento molto diverso da quello vigente
allora in Corinto, che era una oligarchia probabilmente assai temperata
(Gilbert, Griech. Staatsalterthùmer, II, 90). Perciò, se davvero la costitu-
zione di Timoleonte si può chiamare democrazia (cfr. Diod., XVI, 70), sarà
stata una democrazia molto moderata. E del resto, se l'oligarchia che tro-
viamo poi dominante in Siracusa avesse avuto origine da una rivoluzione e
non da una pacifica evoluzione dell'ordinamento timoleonteo, è da credere
che ne avremmo qualche notizia.
Rmxtn di JiUiloiiia, ecc., L 19
— 290-
Ed è naturale: la classe possidente chiamata da lui al potere,
aveva voluto assicurarselo stabilmente profittando dell'impotenza
degli avversari. Non mancava certo un partito che rimpiangeva
le istituzioni democratiche e lo splendore dell'impero di Dionisio;
ma questo partito acquistò audacia ed importanza solo quando la
generazione che aveva preso parte alle imprese di Dione e di Ti-
moleonte cominciò a cedere il campo ad una generazione più gio-
vane. Il nuovo regime doveva pesare specialmente al proletariato,
non avvezzo da lungo tempo in Siracusa al governo di classe e
sempre disposto ad appoggiare chi gli facesse intravedere la pos-
sibilità, se non d'una distribuzione di terre, almeno di vivere a
spese dello stato. Ma prescindendo dagl'interessi dei proletari, c'era
un punto in cui il confronto tra l'antico e il nuovo regime riu-
sciva particolarmente sfavorevole al nuovo. Quanto più le imprese
di Alessandro Magno, che in tutto il mondo ellenico dovettero
fare una impressione profonda, esaltavano l'orgoglio patriottico dei
Greci e li confermavano nel loro concetto della grande superiorità
del Greco sul Barbaro, tanto più i Sicelioti dovevano sentire pe-
nosamente l'impotenza in cui la nuova condizione di cose creata
da Timoleonte li metteva di fronte ai Cartaginesi. Questi del resto
sembra che anche dopo la morte di Timoleonte usufruissero con
prudenza dei vantaggi che loro guarentiva la situazione ; ma non
era men vero che nella Sicilia greca priva di forte organamento
centralizzatore essi erano gli arbitri di fatto. E s'agitavano anche
altri malcontenti. La popolazione sicula, ormai completamente gre-
cizzata, di Morganzia e degli altri luoghi là presso, stava di fronte
a Siracusa in una condizione poco diversa da quella in cui di
fronte a Sparta trovavansi i perieci; e desiderava naturalmente
parità di diritto (1). Chiunque voleva ribellarsi all'oligarchia do-
minante poteva contare sull'appoggio di costoro.
Questi elementi avversi al governo aspettavano un uomo che
(1) DiOD., XIX, 6, 3: irpòc; òè Toùq rfif èv ZupaKOuoaic òXiyapxiaq kc-
KoivrjKÓTac; éEaKoaioui; dei noXeiuiujc; eTxov Kal koGóXou tòv òfì^ov èjuiaouv
àvaYKaZójaevoi iioieìv tò upoaroTTÓiuevov. Gfr. Belocb, L'impero siciliano
di Dionisio negli Atti della R. Acc. dei Lincei, Gì. di scienze morali, ecc.,
ser. Ili, voi. VII (1881), p. 218.
— 291 —
sapesse valersene: lo trovarono in un ufficiale di nome Agatocle,
figlio di Carcino. La sua famiglia era oriunda da Keggio, donde
il padre essendo stato bandito si era rifugiato a Terme. Carcino
dirigeva una fabbrica di ceramiche e per quanto, a quel che
sembra, non menasse allora una vita molto agiata, potè dare ai
figli una educazione liberale (1). Quando poi nel 343 Timoleonte
oiferse a chi voleva la cittadinanza siracusana, Carcino si stabilì
a Siracusa (2) e la sua famiglia divenne col tempo una tra le
più ragguardevoli della città (3). Il giovane Agatocle cominciò a
distinguersi come ufficiale, e ad acquistarsi popolarità come oratore
democratico. In una campagna che l'oligarchia siracusana, ripi-
gliando la politica di Dionisio il vecchio, intraprese in Italia per
difendere Crotone dai Bruzì, una buona parte del successo fu dovuta
al bravo ufficiale democratico, il quale credette di profittarne per
cominciare contro l'oligarchia una lotta più efficace (4), Ed ac-
cusò d'aspirare alla tirannide i due comandanti in capo delle forze
siracusane, Eraclide e Sosistrato, che erano al tempo stesso gli uo-
mini più eminenti del partito oligarchico. Ma ancora il momento
per rovesciare l'oligarchia non era venuto. Ci voleva che le capi-
tasse qualche insuccesso nella sua politica estera o che, come una
volta dall'Oriente erano partiti Dione e Timoleonte, così ora ne
partisse il segno d'un risveglio democratico; ma non era il caso
d'aspettare che il radicalismo greco trionfasse nella madre patria,
finché esso era frenato dalla mano di ferro d'Alessandro Magno.
Così l'accusa cadde, e si disse che Agatocle assaliva Eraclide e
(1) Ciò è presupposto da tutto quel che sappiamo della vita ulteriore di
Agatocle e del fratello Antandro. D'altra parte con la supposizione fatta nel
testo si spiega bene come un nemico d'Agatocle qual era Timeo potesse
dire (fr. 146): K€pa|aeù< ù-rrdpxwv Kal KOTaXindiv tòv xpoxóv, tòv nn^òv koI
TÒv KaiTVÒv i^KC véo<; lùv elq TÒq ZupaKOU0a<;.
(2) Sappiamo da Dico., XXI, 16, 5 che Agatocle è morto a 72 anni, dopo
28 anni di regno. La sua tirannide data dal 317 ; dunque sarebbe nato nel
361. Venne a Siracusa, secondo Timeo, fr. 145 (= Polvb., XII, 15, 6), in
età di circa 18 anni, dunque appunto intorno al 343.
(3) La nostra tradizione ci spiega ciò con la grande fortuna che ebl)e Aga-
tocle sposando una ricca vedova. Ma anche Antandro suo fratello potè ot-
tenere una posizione ragguardevole sotto l'oligarchia. Diod., XIX, 3, 3.
(4) Diod., XIX, 3, 4 seg.
— 292 -
Sosistrato non per amor di patria, ma per piccoli risentimenti
jiersonali. La i)rova da es.si vinta ebbe l'efFetto naturale di rin-
forzarne la posizione (1). Dopo ciò Siracusa non era più pel mo-
mento una dimora adatta per Agatocle. In Italia, ove s'era acqui-
stato un certo nome come soldato, mise la sua spada al servigio,
prima degli esuli democratici di Crotone, poi dei Tarentini, da
ultimo dei Regini, assaliti dall'oligarcbia di Siracusa: il che
mostra com'egli era infine venuto ad aperta rottura co' suoi con-
cittadini.
Nell'estate del 323 Alessandro Magno mori a Babilonia. Im-
mediatamente il radicalismo greco rialzò la testa e sotto la guida
degli Ateniesi intraprese contro la Macedonia una lotta disperata.
Il contraccolpo di questa riscossa radicale doveva farsi sentire
anche in Occidente. Così tutto c'induce a metterlo in rapporto con
la rivoluzione che circa questo tempo (2) scoppiò in Siracusa contro
gli oligarchici e di cui la nostra tradizione non c'indica le cause.
Si è supposto recentemente che convenga cercarle in qualche
scacco inflitto da Agatocle alle truppe dell'oligarchia presso Reg-
gio (3). Questo difficilmente può credersi, sia perchè Diodoro, che
qui si ferma appunto nel suo racconto delle imprese di Agatocle,
ce ne avrebbe dato notizia, sia perchè la posizione d'Agatocle al
suo ritorno in Siracusa sarebbe stata in tal caso un po' diversa.
Ad ogni modo, restaurata la democrazia, Agatocle venne ri-
chiamato. Ma gli oligarchici fuorusciti non intendevano di cedere
sì facilmente il campo. E trovarono degli alleati nei Cartaginesi :
cosa naturale, giacche ai Cartaginesi molto più che la stretta cen-
(1) DioD., XIX, 3, 5: oi fièv Ttepi ZuuaiaxpaTov èbuvdaxeuaav Tf\c, tto-
Tpiboc, luéTÒ T>^v èK KpóTuuvo; èTTÓvobov. Cfr. NiESE, Geschichte der grie-
chischen und makedonischen Staaten seit der Schlacht bei Chaeronea, 1,
p. 431.
(2) Infatti la guerra iniziata dai democratici darò almeno due o tre anni,
forse più, se Agatocle vi prese parte -rroxè |uèv lòiiIiTrii; oiv, iroxè bè icp'f)-
xeiLioviaq xerayiiiévo^ (Diod., XIX, 4, 3). Poi fu fatto stratego Acestoride, e
Agatocle, andato in esiglio, combattè contro i Sii'acusani riducendoli a mal
partito, finché nel 317 si concluse la pace. Dunque la rivoluzione di cui
parliamo non può essere molto posteriore al 323 o 22; è ovvio che non
può essere neanche molto anteriore.
(3) Come fa Schubert, Geschichte des Agathokles (Breslau, 1887), p. 38.
— 293 —
tralìzzazione propria d'un governo democratico e la minaccia con-
tinua d'una monarchia militare, piaceva la debolezza dell'oligarchia
che li guarentiva da ogni assalto, anzi dava loro facoltà d'esercitare
larga influenza sull'andamento generale delle cose in Sicilia. Ne
ebbero alleati i soli Cartaginesi, ma anche i Greci insofferenti di
una egemonia siracusana meno platonica di quella che avevano
subito sotto il governo oligarchico, certo Gela (1), e con ogni
probabilità anche altre città siceliote. Del corso di questa guerra
noi non sappiamo quasi nulla (2). Ci vien detto soltanto che Aga-
tocle vi diede grande prova de' suoi talenti militari. In ogni caso
è da credere che se avesse avuto risultati decisivi, ne saremmo
informati da Diodoro. E così piuttosto che dall'andamento della
guerra, il rivolgimento che accadde in Siracusa ebbe origine da
altri motivi. Già se realmente la riscossa democratica in Siracusa
si connette allo scoppio della guerra lamiaca, la vittoria della
Macedonia e il conseguente trionfo dell'oligarchia nella madre
patria dovevano avere anch'essi un contraccolpo in Sicilia e raf-
freddare le speranze democratiche dei primi momenti. Poi Agatocle
continuava a segnalarsi come generale ed a crescere in popolarità
come uomo politico. Ma ora si cominciava a temere nel bravo
soldato di oggi il tiranno di domani ; e si faceva strada in molti
la convinzione che era tempo di troncare i suoi piani ambiziosi.
Non tutti i democratici erano pronti a pagare con la perdita della
libertà il consolidamento delle forme democratiche.
Così i democratici moderati riuscirono a portare alla strategìa
Acestoride da Corinto che fu investito, sembra, di poteri straor-
(1) DiOD., XIX, 4, 4 segg.
(2) Meno l'insignificante scaramuccia di Gela (Diod., loc. cit.), che non
può essere tenuta davvero per la causa della nomina di Acestoride come
pretenderebbe Waltzer, Geschichte der Kartager, 1 (1879), p. 353. Giu-
dica invece rettamente Schubert,!. e, p. 43. Qui, come altrove, è inesatto pel
troppo restringere Tr. Pomp., Prol., 21: Sosistratus, iterum facta seditione,
arcessitique nh ilio Carthaginienses obsederunt Syracnsas. Si noti il silenzio
di Diodoro su questo punto: e poi la fuga di Agatocle da Siracusa com'è
narrata (e non importa se la narrazione sia esatta o no) suppone ohe la
citth non fosse assediata per terra; è possibile, non probabile però, che i
Cartaginesi avessero mandato una squavira davanti a Siracusa.
— 294 -
dinari (1). Chi fosse costui le nostre fonti non lo dicono. Proba-
bilmente era stato mandato da Corinto con l'incarico di farsi me-
diatore tra i partiti: ed al suo invio non sarà stato estraneo il
i^'overno macedonico che, uscito vincitore dalla guerra di Lamia,
aveva raffermato in Corinto come nelle altre città insorte la sua
autorità e dapertutto s'era sforzato di farla finita coi democratici
e di dare o restituire il potere alla classe possidente. Acestoride
si propose di fare tra gli oligarchici e i democratici moderati una
pace a base di concessioni reciproche ; a tal uopo era necessario
ridurre all'impotenza il radicalismo e, innanzi tutto, privarlo del
suo capo. Tentò dapprima di farlo per via legale accusando Aga-
tocle di pirateria (2). L'accusa poteva avere una base vera : non
sarebbe impossibile che Agatocle nella vita d'avventuriere che
aveva menato anni prima nella Magna Grecia, a capo di malcon-
tenti e di mercenari, si fosse tenuto in relazione coi pirati che
infestavano le acque del Jonio. Tuttavia Acestoride non riuscì a
perderlo in questo modo, sia che non si potessero raccogliere indizi
bastanti a carico suo, sia che Agatocle godesse troppo il favore
del popolo per esserne condannato. E allora il Corinzio tentò per
liberarsi d' Agatocle la via dell'assassinio, ma il generale demo-
cratico potè schivare il pericolo e fuggendo si ridusse nell'interno
dell'isola (3). Cacciato Agatocle, intimoriti i radicali, non fu dif-
ficile ad Acestoride, il quale per di più aveva probabilmente tutto
l'appoggio morale di Antipatro, di far rientrare i fuorusciti. Co-
storo, appena di ritorno, profittando della divisione che la cacciata
(1) Ricordiamo a questo proposito la legge menzionata da Plut., Timol.,
38: TToXXuJv 6è koì )jeT(iXiuv GÌ; i^v èK€ivou (TinoXéovTO^) Tip^v ypccpO"
jLiévuuv Kol -rrpaTToiuévuiv oùbevòi; fÌTTOv fiv tò vpj-jqpiaaaGai tòv tOùv Zupa-
Kouaiuuv òniuov óoókk; ou|UTTéaoi iróXeiuoc; aÙToì^ TTpòq óXXoqpùXouq (?) Ko-
piveiu) xP'ìcfSai atpaTriYuj.
(2) Almeno questo è il luogo migliore per collocare l'accusa di cui parla
luSTiN., I, 22, 13 seg. Gfr. Schubert, p. 39, il quale però erra certamente
mettendola proprio nel momento del rimpatrio di Agatocle.
(3) DioD., XIX, 5, 1, dice che Acestoride ordinò ad Agatocle di lasciare
la città; descrive però la partenza di Agatocle come una fuga segreta. Pro-
babilmente Agatocle sotto la minaccia di nuovi processi o temendo il pu-
gnale degli assassini, stimò egli stesso opportuno di allontanarsi dalla città.
— 295 —
di Agatocle aveva seminato tra la frazione più moderata e la fra-
zione più radicale del partito democratico, riuscirono a riafferrare
il potere. Che le istituzioni fossero modificate in senso oligarchico
non sembra (1); l'alleanza dei democratici moderati era per gli
oligarchici troppo importante nella lotta che stava sul punto di
scoppiare. Ma la somma delle cose venne nuovamente in mano di
Sosistrato (2). E la prima conseguenza del ritorno degli oligar-
chici fu che si fece pace ed alleanza con Cartagine.
Ma presto Agatocle si rese di nuovo terribile. Seppe guadagnarsi
l'appoggio dei malcontenti siculi di Morganzia e de' suoi dintorni (3).
E poi conducendo la guerra a sua posta, non più frenato da riguardi
ad un governo sospettoso, potè far valere i suoi grandi talenti militari
nella lotta che sostenne contemporaneamente con l'oligarchia e coi
Cartaginesi. Ora in Sicilia la guerra coi Cartaginesi era popolare.
Tanto tempo i Sicelioti avevano combattuto coi Fenici per salvare
la propria nazionalità dalla rovina, che l'odio ai Cartaginesi aveva
messo saldissime radici (4). E così l'alleanza cartaginese non ser-
viva davvero per conciliare maggiormente l'opinione pubblica col
predominio degli oligarchici. Sosistrato si difese con grande energia;
non esitò né a fare strage dei partigiani che Agatocle aveva in
Siracusa e neppure ad armare gli schiavi che lavoravano nelle
latomie (5). Se egli ricorreva a queste misure, vuol dire che la
situazione era grave. Infatti Agatocle riuscì ad impadronirsi di
(1) Gfr. DiOD., XIX, 5, 4, dove è detto che Agatof-le per rientrare in Si-
racusa dovette giurare inriòèv èvavTiibaeaSai Tri òrmoKpaTic^i.
(2) Gfr. PoLYAEN., V, 37, che Niese, I, p. 431, 0 riferisce a torto al ri-
torno di Sosistrato da Crotone.
(3) DiOD. XIX, 5, 4, 6, 2. V. sopra.
(4) Che il sentimento nazionale fosse tutt'altro che estinto lo mostra in
primo luogo il forte movimento nazionale che tenne dietro alla sconfìtta dei
Cartaginesi nel i^09 sotto Siracusa (v. capo 111). Si ricordi poi in qual modo
fu ricevuto Pirro quando venne a liberare l'isola dai Cartaginesi. E si con-
fronti anche l'idillio XVI di Teocrito. Cos'i è inaccettabile, a mio avviso, il
giudizio di HoLM, Geschicfite Siciliens, li, p. 229 seg. che Agatocle fu «ausser
Stande sich auch nur zum Schein auf ideale Interessen zu stutzen, weil sie
fast gànzlich seinen Landsleutcn fehlten ».
(5) PoLYAEN., loc. cit.
- 290 _
Leontiiii, e ci vieii detto perfino che mise l'assedio a Siracusa (1).
Sosistrato fondava le sue principali speranze nell'aiuto cartag'inese.
Ora è indubitato che l'interesse dei Cartaginesi era d'impedire
ad ogni costo che Agatocle ricostituisse la monarchia militare di
Dionisio. Eppure per mediazione del generale cartaginese Amil-
care, Agatocle ottenne di rientrare in città, dove fu investito della
dignità di stratego con poteri straordinari (2). È vero che al tempo
stesso egli doveva giurare il mantenimento della vigente costitu-
zione democratica e la pace coi Cartaginesi lasciati tranquilli nella
loro èTTiKpotTeia al di là dell'Alice (3). Ma conveniva addirittura
esser ciechi per non vedere che questo era aprire ad Agatocle la
via della tirannide. E se può intendersi come gli oligarchici mal-
sicuri nella città dove c'era un forte partito favorevole ad Aga-
tocle, inferiori a lui militarmente, poco sostenuti dai Cartaginesi,
abbiano fatto di necessità virtìi accettando la mediazione armata
di Amilcare, la politica di Amilcare ci appare a prima giunta di
una corta vista sorprendente. 11 momentaneo vantaggio del ri-
sparmio di denaro che sarebbe convenuto impiegare per condurre
la guerra con maggior energia doveva essere pagato a caro prezzo
nell'avvenire ; né si dica che sarà parso ad Amilcare nell'interesse
del prestigio cartaginese l'imporre alle due parti la sua media-
zione; in realtà le concessioni che Agatocle faceva erano di pura
forma, e riceveva in cambio Siracusa nelle sue mani. Timeo, per
cui Amilcare era responsabile della tirannide d'Agatocle, ne spiega
la condotta supponendo che tra i due generali corresse un accordo
per imporre la propria autorità alla patria rispettiva (4). Questa
spiegazione è a dir vero alquanto dubbia. Via alla tirannide non
era per Amilcare cedere davanti ad Agatocle, ma raccogliere
grandi truppe e riportare delle vittorie su di lui. Per renderci
(1) luSTIN., ICXII, 2, 2.
(2) DiOD., XIX, 5, 5: (jTpaxriYÒq KaTeffróBn Kaì q)uXat xfic; eipì'iviCr M^xpic
àv ■fvr]a\w(; ójuovoriauuffiv oi auveXrjXuBÓTet; eie; ti^ ttóXiv.
(3) Non altro può significare Iustin., 22, 2, 8 : in obsequia Poenorum
iurat.
(4) lusTiN., 22, 2, 6. Sulla sua fonte ved. Ermanx, Untersuchungen ùber
die Quellen des Pompeius Trogus, p. 181 sgg.
- 297 —
ragione della politica seguita dai Cartaginesi conviene tener conto
delle circostanze in cui si trovava allora l'Oriente. Nell'Oriente
era sorta in seguito alle conquiste d'Alessandro la maggior po-
tenza che si fosse vista allora. E i Cartaginesi, i quali avevano
veduto soggiacere ad Alessandro la loro metropoli Tiro, dovevano
spiare ansiosamente le intenzioni e i preparativi di coloro che di-
rigevano le sorti dell'impero macedonico. Probabilmente la notizia
che Alessandro mirasse alla conquista dell'Africa cartaginese è in-
fondata (1). Ma se l'impero macedonico non si spezzava, era inevi-
tabile che cercasse di utilizzare per una ulteriore espansione la sua
schiacciante superiorità su tutte le altre potenze del mondo civile
d'allora. In questo stato di cose, s'imponeva ai Cartaginesi una
cauta politica di raccoglimento. Solo quando si furono accertati
che l'impero d'Alessandro si era sfasciato definitivamente e che
dai governatori in lotta continua tra loro non c'era più nulla a
temere, solo allora i Cartaginesi poterono intervenire con energia
nelle cose siciliane.
Agatocle non aveva alcuna intenzione di fermarsi al punto dove
lo aveva condotto la pace di Amilcare. Ed ora egli disponeva di
quello che è il mezzo indispensabile per acquistare la tirannide :
aveva le truppe da lui solo condotte tante volte alla vittoria nella
guerra precedente, in cui poteva riporre piena fiducia. Queste
truppe aveva dovuto allontanarle o licenziarle quando rientrò in
Siracusa: ma nelle condizioni poco ordinate della Sicilia d'allora
era facile trovare un pretesto per armarle di nuovo. 11 quale
fu che alcuni fuorusciti si raccoglievano in armi presso Erbita,
la qual cosa può anche esser stata vera. Con l'aiuto de' suoi fedeli
soldati egli operò il colpo di stato. Si dovette spargere molto
sangue perchè gli oligarchici non sgombravano il terreno se non
dopo aver combattuto per le strade della città (2): i prigionieri
(1) NiESE, op. cit.. I, p. 186.
(2) È naturale che la fonte di Diodoro, cosi avversa ad Agatocle, rappre-
senti il colpo di stato come una orrenda strage d'inermi che non fanno re-
sistenza; che meraviglia se anche oggi, in condizioni molto diverse, ogni
conflitto fra la truppa e la folla è rappresentato cosi dai giornali dell'oppo-
sizione ? Però se non vogliamo riguardare Agatocle come un pazzo furioso,
— 208 —
furono da Agatocle parte messi a morte senza nessun giudizio
re^^olare, parte cacciati in esiglio. Anche prescindendo da ogni
esagerazione di storici avversi al tiranno, il colpo di stato fu ese-
guito con una crudeltà che fa ribrezzo al sentimento moderno -,
eppure Agatocle non era nò per natura crudele, nò uomo di sen-
timenti volgari : neanclie poteva dirsi un giovane ardente che si
lasciasse trasportare dall'odio o dalla sete di vendetta: era allora
sui quarantaquattro anni (1). L'unico motivo delle sue crudeltà
fu la ragione di stato.
Una monarchia militare era, è vero, molto più d'ogni altro go-
verno adatta alle condizioni della Sicilia d'allora : perchè essa sola
permetteva di tenere in scacco il Fenicio e di provvedere effica-
cemente alla protezione dell'elemento greco d'Italia. E le poteva
dare gran forza il tener conto degl'interessi democratici e il sod-
disfare opportunamente le aspirazioni dei Siculi grecizzati del ^le-
crÓY€iov. Ciò che mancò ad Agatocle fu una opportunità come
quella che ebbe Dionisio il vecchio. Una lotta mortale contro lo
straniero, in cui la responsabilità degl'insuccessi patiti cadeva sul
governo e in cui tutto un popolo vedeva la sua unica via di sal-
vezza in un cambiamento radicale dell'indirizzo governativo diede
allora sin dal principio solidità al nuovo ordine di cose. Alla man-
possiamo spiegarci questi fatti solo nella ipotesi, anche in sé molto verisi-
mile, d'una resistenza armata da parte degli oligarchici. Che resistenza ci
fosse lo dice esplicitamente Polyaen., V, 3, 8, in un articolo abbastanza im-
portante perchè è uno de' pochi resti a noi pervenuti dalla tradizione sto-
rica favorevole al tiranno. Qui si dice ancora che i capi dell'opposizione
cospiravano contro Agatocle, il quale non fece che prevenirli. Ciò è possir
bile. Ma a questo punto è la versione governativa che alla sua volta è so-
spetta.
(1) Punto di partenza di ogni giudizio su Agatocle dev'essere Polyb. IX,
23, 2: Ti<; Y^p 'AYa6oKX.6a tòv ZiKeXiaq xupavvov oòx ìOTÓpriKe, òióri bótac,
ùj|aÓTaTO<; eTvm kotò toc; -npdJTac, èTTipoXàt; koì tiì^v KoraoKeuT^v tj^i; òu-
vaaT€ia(;, luexà xaOxa, voiuiaac; Pepaiuj; èvòebéaBai tì^v ZikeXiujtujv àpxnv,
-rrdvTUJv i^iuepUjTaTOi; òok6ì elvai koì irpaÓTaroc; ; Gfr. anche il giudizio di
Scipione Africano presso Polyb., XV, 35, 6: biò koI TTóttXiov Zkittiujvcì qpaai
TÒV TrpuùTOv KaxaTToXciuriaavTa Kapxri&oviouc; èpuirriBévra xivai; òiToXa)i-
Pdvei TrpaYiLiaTiKUJTdToue; dvbpac, Kai ToX|uripOTdÌTOU(;, eÌTtelv tovc, irepl 'Aycx-
BoKXéa Kai Aiovùaiov roùq ZiKeXiujTai;.
- 299 -
canza di questa opportunità Agatocle dovette sostituire un governo
del terrore che sgominasse i suoi nemici, ed una larga distribu-
zione di terre confiscate che acquistasse al tiranno gran numero
di partigiani fedeli a tutta prova; perchè naturalmente chi pos-
sedeva beni dei proscritti poteva conservarli soltanto finché Aga-
tocle si manteneva al potere. Per questa via pertanto si mise egli
senza scrupoli : tutto stava nel profittare del vantaggio momen-
taneo che queste violenze abilmente usate gli davano sopra i suoi
nemici per mostrare che la monarchia militare, ch'egli veniva fon-
dando, era all'altezza del suo compito, e per farne risentire i be-
nefici.
Frattanto, compiuto il colpo di stato, parve ad Agatocle di rien-
trare formalmente nelle vie legali e prima di tutto dare una base
legale al suo potere. Un'assemblea popolare fu convocata. Com'è
naturale, i soli ad intervenire furono gli anaici di Agatocle -, gli
altri avevano ormai imparato cosa poteva costare una opposizione
importuna, sicché opposizione non ci poteva essere neanche di
forma. Qui Agatocle, giustificando il suo operato con l'interesse
della democrazia, dichiarò di deporre ogni potere nelle mani del
popolo; e l'assemblea lo nominò arpairiTÒq aÙTOKpdTuup (1). Non
mancò un po' di commedia. Agatocle volle farsi pregare per ac-
cettare il potere che già aveva in mano e che era risoluto a con-
servare ad ogni costo; c'è appena bisogno di dire che questa com-
media aveva il solo scopo di far apparire la nomina come la vera
espressione del suffragio popolare.
IL La guerra in Sicilia. — Prima cura di Agatocle fu
riempire il tesoro e gli arsenali ed apparecchiare truppe e navi :
preparare in somma ciò ch'era necessario per riprendere i grandi
piani di Dionisio il vecchio (2). Le confische a danno dei pro-
(1) Agatocle ha, come Dionisio, deposto dopo un certo tempo la ditta-
tura? In questo caso con quale veste legale ha governato prima di assu-
mere il titolo regio ? Non si può rispondere a queste domande con sicurezza;
è però da ritenere che rinunciasse presto ai pieni poteri e che anno per anno
si facesse eleggere regolarmente stratego.
(2) Dico., XIX, 9, 7.
- 300 -
scritti furono certo in queste circostanze un cespite d'entrata non
dispregevole. Le città dell'interno che avevano sostenuto Agatocle
esule riconobbero naturalmente il suo colpo di stato. Prima che
le città greche minacciate, sopite le piccole rivalità, si fossero
unite per un'azione comune seria contro di lui, già questa azione
non aveva più probabilità di successo senza soccorsi esterni. In-
fatti con l'aiuto del partito democratico, de' suoi denari, della sua
energia e delle sue violenze, nel 314 egli già dominava oltre la
metà della Sicilia greca. Si conservavano avverse a lui Messana,
Agrigento, Gela e un certo numero di città dell'antico territorio
dei Siculi. Delle imprese di questi tre anni noi non conosciamo
quasi nulla: abbiamo solo qualche particolare sullo scacco della
sorpresa che Agatocle tentò su Messana (315/4) (1), e sulla guerra
che ne seguì, composta dagli ambasciatori cartaginesi, i quali rim-
proverarono Agatocle di violare per questa via i patti, evidente-
mente quelli dell'antico trattato con Timoleonte, che guarentiva
l'autonomia delle città greche che Agatocle avrà dovuto anche
per questo capo confermare nel 315 prima di rientrare in Siracusa.
A questo punto le città ancora indipendenti, in specie Messana,
Agrigento e Gela, capirono che una stretta unione e una guerra
energica erano il solo modo di salvare la propria autonomia, se
pure era ancora il tempo di salvarla. La sorpresa tentata a Mes-
sana aveva mostrato i pericoli che anche le città maggiori cor-
revano da parte d' Agatocle. Per quella volta Messana era stata
salvata dalla diplomazia cartaginese; ma i Cartaginesi non mo-
stravano nessuna intenzione d'intervenire militarmente : il loro in-
tervento diplomatico poteva arrivare troppo tardi, perchè mentre
essi discutevano, Agatocle agiva, e già aveva occupato tante città
prima ch'essi si ricordassero del trattato che guarentiva l'auto-
nomia delle città greche di Sicilia. I fuorusciti di Siracusa e delle
altre città cadute in mano di Agatocle soffiavano nel fuoco. Si
preparò dunque la guerra, e, consci della propria debolezza, i nemici
di Agatocle, poiché non potevano avere aiuti dai Cartaginesi, li cer-
carono nella madrepatria. Un'ambasceria fu spedita nel Peloponneso.
(1) DiOD., XIX, 65.
— 301 —
Disgraziatamente era quello il momento meno opportuno per
aver soccorsi dalla Grecia. Cassandro al quale in circostanze più
propizie, non sarebbe parso vero di atteggiarsi a protettore degli
oligarchici siciliani, aveva abbastanza a fare in Grecia. Nel Pe-
loponneso infuriava la guerra tra i suoi partigiani e quelli di
Antigono; e neppure era il caso di rivolgersi a Corinto per averne
degli aiuti ed un duce come era stato Timoleonte. In quel mo-
mento Corinto era trascinata nel vortice della lotta e si trovava
sotto il dominio di una donna, Cratesipoli, la vedova di Ales-
sandro, figlio di Polisperconte. Sola fuori della contesa era Sparta,
e a Sparta si rivolsero gli ambasciatori. Naturalmente anche a
Sparta nessuno aveva intenzione di intraprendere una guerra con
Siracusa, mentre da un momento all'altro le cose potevano pren-
dere nel Peloponneso una piega tale da costringerla a lottare per
la propria difesa. Ma a Sparta trovarono un principe della casa
reale degli Agiadi, Acrotato, figlio di Cleomene II, al quale non
era discaro di porsi a capo della lotta contro Agatocle mettendo
a disposizione degli oligarchici siciliani il prestigio del sangue
reale di Sparta. Dalla madrepatria non condusse che poche navi
(314/3) (1); ma quel prestigio fece sì che Taranto, come colonia
spartana, si decidesse ad entrare nella lotta. Ora Acrotato voleva
che i Sicelioti lasciassero in mano sua la direzione assoluta del-
l'impresa; ed egli che era parso custode troppo severo della disci-
plina agli Spartani, molto più doveva parerlo ai collegati, i quali
intendevano sì di rovesciare la tirannia di Agatocle, ma non vo-
levano menomamente sottoporsi a tal uopo ad un governo monar
chico. Si aggiunga che l'aspettazione di grandi successi del nuovo
duce veniva delusa. Noi non possiamo giudicare la sua condotta dal
punto di vista militare; ma dal punto di vista politico è certo che
soltanto un pronto successo avrebbe potuto consolidare la sua posi-
zione. La nostra tradizione fa inoltre a carico di Acrotato una quan-
tità di accuse che noi non siamo in grado di controllare. 11 rivale
(l) DiOD., XIX, 70 seg. La fonte di Diodoro ò qui partigiana di Sosistrato
e quindi nemica di Acrotato. Sosistrato è giudicato diversamente, vedi Uiod.,
XIX, 3, 3.
— 302 —
più terribile di Acrotato era Sosistrato, il capo dei fuorusciti si-
racusani ; stanco della sua opposizione, Acrotato lo fece trucidare.
Tale naisura, che forse dopo una vittoria si sarebbe lasciata pas-
sare, prima era certamente fuori di tempo. Questo assassinio fu
il segnale della ribellione. Acrotato dovette prendere la fuga. —
Ma con lui naufragò quella impresa. Partirono le poche sue navi,
partirono i Tarantini che solo per riguardo a lui avevano aderito
alla causa oligarchica. Speranza che accorressero da ogni parte
del mondo greco avventurieri spinti dal prestigio del capitano
ad arruolarsi non c'era piti. Nella provincia cartaginese Amilcare
rimaneva fermo nella sua politica di non intervento. E dopo ciò
i collegati trovarono opportuno di far la pace con Siracusa ;
la fecero per mediazione appunto di Amilcare, o per dir meglio
rinnovarono la pace già conclusa tra i Cartaginesi e Timoleonte
che guarentiva alle città siciliane l'autonomia sotto l'egemonia di
Siracusa (1). Naturalmente questa autonomia per le città già oc-
cupate pacificamente od a forza da Agatocle, conservata nella
forma, era nella sostanza lettera morta ; ed egli profittò della pace
per occuparne delle altre; non c'era più nessuno in Sicilia che
potesse impedirlo (2).
In breve anche Messana venne in sua mano (3). Gela con una
apparente sottomissione cercava di salvare la propria autonomia (4).
Solo Agrigento e i fuorusciti non erano disposti a cedere. Ma
anche per essi la resa era questione di tempo. Come potevano re-
sistere da soli alle forze di Agatocle ? Quando il tiranno mosse
su Agrigento (312/1), come qualche anno prima per Messana, i
Cartaginesi si scossero dalla loro inazione e mandarono nel porto
sessanta navi (5). Agatocle dovette ritirarsi senza aver concluso
(1) È impossibile che i Cartaginesi facessero senza guerra ad Agatocle
una concessione così importante, quale era il riconoscimento della egemonia
siracusana sulle città siceliote, se ciò non era già contenuto nel trattato
concluso con Timoleonte.
(2) DiOD., XIX, 72.
(3) DiOD., XIX, 102, dice che nella pace stretta precedentemente, erano
stati esclusi i Messami. Ma ciò è inesatto; cfr. Dico., XIX, 71, 6.
(4) Ciò è da ricavare da Diod., XIX, 107.
(5) Diod., XIX, 102, 8.
— 303 —
nulla. Anche ora il tiranno poteva benissimo evitare la guerra
con Cartagine, se guarentiva ai Cartaginesi che avrebbe lasciato
Agrigento nel tranquillo possesso della sua autonomia e se la-
sciava intatta la provincia cartaginese. Anni prima era accaduto
così con Messana. Agatocle non aveva esitato allora a lasciare in
pace Messana alla richiesta dei Cartaginesi. L'impresa differita
era stata ricominciata a tempo opportuno, e la città si trovava
ora in sua mano. Se Agatocle questa volta non fece così e rispose
all'intervento cartaginese invadendo e devastando la èTTiKpdteia,
la ragione era una sola, che egli voleva la guerra con Cartagine.
Agatocle aveva riunito con la violenza quasi tutta la Sicilia
greca sotto il suo scettro: conveniva ora legittimare l'opera com-
piuta intraprendendo la guerra con lo straniero. Così avrebbe
acquistato le simpatie di tutti i patrioti e corrisposto all'aspet-
tativa di quelli che avevano già collocato in lui la loro fiducia,
cementando, com'egli sperava, l'opera sua col successo, il che do-
veva dispensarlo da ogni ulteriore crudeltà per mantenersi al po-
tere. Ma la guerra con Cartagine nelle condizioni in cui egli si
trovava era abbastanza pericolosa. Una sola grande battaglia per-
duta, — e l'impero che non aveva avuto il tempo di conso-
lidarsi, sarebbe andato in frantumi ed egli doveva aspettarsi di
venire assediato in Siracusa per terra e per mare ; vincitore Aga-
tocle non avrebbe mai potuto cacciare i Cartaginesi dall'isola finché
non costruiva una flotta capace di contrastare ad essi il mare.
Fin qui egli ne mancava, probabilmente perchè il suo denaro lo
aveva dovuto spendere nella guerra, nel comprarsi degli amici e
nel tenere sotto le armi tanti mercenari. Se in tali condizioni
Agatocle ha aperto senza esitare la lotta, ciò vuol dire che lo
stato della opinione pubblica non gli ha permesso di tardare di
più e che egli ha capito meglio de' suoi storici che un governo
basato principalmente sulla violenza non dura mai a lungo. Egli
doveva fondare le sue speranze sul proprio genio militare, sulla
vigoria del sentimento nazionale greco e sulla possibilità che i
Cartaginesi conducessero la guerra con quella mancanza d'energia
e quella ripugnanza a grandi sacrifici, di cui molte volte ave-
vano dato prova ; il che , almeno da principio , non si avverò.
r
— :-{04 —
I Cartaginesi avevano capito la «pravità della lotta che si prepa
rava. Ora che l'unità dell'impero d'Alessandro pareva di fatt
definitivamente distrutta e nessun pericolo serio sovrastava d
parte dei governatori rivali, i Cartaginesi videro che era venut
il momento di agire; e quando i fuorusciti siracusani e i lor
alleati si decisero a mandare un'ambasciata a Cartagine, mostrand
la condizione grave delle cose ed accusando Amilcare al govern
centrale, i Cartaginesi si prepararono seriamente alla guerra, e
un altro Amilcare, figlio di Gisgone, fu destinato generale in S
cilia (1).
Non è mio compito narrare come il tiranno fu sconfitto da
Cartaginesi nella battaglia decisiva d'Ecnomo presso il fium
Imera (310) (1). Dopo questo disastro egli si chiuse in Gela spe
rando che i Cartaginesi avrebbero perduto tempo ad assediarle
Ma Amilcare dopo aver tentato inutilmente di prender d'assalt
Gela, si occupò di acquistare le altre città che gli aprivano
gara le porte. Dopo ciò la posizione di Gela era insostenibile pe
Agatocle, e non gli restò che chiudersi in Siracusa.
III. L'impresa d'Africa. — 1 Cartaginesi si avanzavano senz
contrasto stringendo Siracusa in un cerchio di ferro. Bloccata eh
fosse la città per mare e per terra, la sottomissione ai Cartaginej
pareva quistione di tempo. Soccorsi dall'Oriente ellenico non s
(1) DioD., XIX, 103. lusTiN., XXII, 3.
(2) Si discute tra i moderni sulla data della battaglia dell'lmera. Diodoro, eh
la narra all'anno 311/10 e al 310/9, parìa della successiva partenza d'Agatocl
per l'Africa. Ora la data di questa si determina dalla eclissi solare del 1
agosto 310, che accadde mentre Agatocle navigava alla volta dell'Afric
(DiOD., XX, 5, 5). La battaglia dell'lmera poi ebbe luogo mentre il raccolt
del grano, che in Sicilia si fa in giugno, non era fatto o almeno non er
compiuto, tantoché Agatocle tornato a Siracusa un certo tempo dopo la ba(
taglia TÒv ÒTTO Ttìq X'J^P»'^ oItov àTreKÓ,uiZe (XIX, HO, 5: cfr. 110, 2), e v
d'accordo con ciò che Diodoro, XIX, 109, 5, dice: ùttò KÙva fàp ovai]
Tf\c, iìjpaq, ktX. Il rapido compiersi dei preparativi nell'intervallo da giugn
ad agosto non offre a me nessuna difficoltà. Grandi difficoltà ci sono invec
a supporre che i Cartaginesi, dopo che tante città si erano date in lor
mano, lasciassero passare più di un anno prima d'agire seriamente contr
Siracusa.
- 305 —
potevano sperare. Il trattato del 311 non era stato evidentemente
che una tregua nella lotta che Lisimaco, Seleuco, Tolemeo e Cas-
sandre avevano intrapreso contro Antigono. Quindi nessuno dei
governatori poteva desiderare d'impegnarsi in una guerra lontana
e difficile contro i Cartaginesi. Dalle potenze greche di secondo
ordine, stanche e stremate dalle guerre dei Diadochi, in cui si
erano trovate implicate di buona o mala voglia, evidentemente
non era nulla da sperare.
E allora Agatocle cercò un'altra via di salvezza: tentare uno
sbarco in Africa. Ad una impresa di questo genere i Greci di
Sicilia non avevano pensato mai; ma la generazione che aveva
passato la giovinezza sotto l'impressione della caduta dell'impero
persiano davanti alle armi greche e delle conquiste d'Alessandro
Magno nel lontano Oriente era, se altra mai, adatta ad imprese
ardite. Prendere Cartagine e distruggere la potenza cartaginese,
questo era assurdo sperarlo finche non si costruiva una flotta ca-
pace di contrastare ai Cartaginesi il dominio del mare, flotta che
Agatocle non aveva e che adesso gli era materialmente impossibile
di creare in queste condizioni, neanche si poteva sperare di fondare
per Siracusa un impero africano. L'impresa dunque non mirava
a metter piede stabilmente in Africa, ma ad operare una diver-
sione (1). Ed era possibile che fruttasse grandi vantaggi. Si po-
teva sperare con ragione una ribellione generale tra i sudditi e
gli alleati cartaginesi, malcontenti gli uni e gli altri del dominio
della città. I Cartaginesi erano anzitutto un popolo commerciante :
già s'era veduto che molte volte avevano preferito ad una guerra
necessaria i momentanei vantaggi economici della pace. Privi dei
prodotti del loro ricco territorio e dei tributi dei loro sudditi,
dunque d'una delle fonti principali della loro ricchezza, potevano
forse fare ad Agatocle buone condizioni in Sicilia, se consentiva a
sgombrare l'Africa. Se poi, invece di far pace, per la guerra di
(1) F'er questo, come per molte altre ragioni non posso accettare meno-
mamente il giudizio che di Agatocle porta lo Hoi,m, li, p. 230: <.< Er zielit
es vor in Syrakus zu lierrsclien, wcil Syrakus die milclUigste Stadt des \Ve-
stens ist, aber er hiingt so wenig an Syrakus, dass wir ilm buld s-ogar Sicilien
verlassen sehen, um sich ein Rcich in Afrika za grùnden ».
Rivista di Jilolof/ia, ecc., 1. -0
- 306 -
Africa, richiamavano dalla Sicilia una part« delle forze di Amil-
care e forse lo stesso ^'enerale, (juesto avrebbe senza dubbio faci-
litato in Sicilia la resistenza. A dir vero nell'interesse dei Carta-
ginesi non era né concludere la pace né richiamare di Sicilia le
truppe. Tanto Carta'^ine non era punto in pericolo di cadere nelle
mani del nemico. I3isot,mava continuare enert^'icamente la guerra
di Sicilia e allora, tolto il caso di gravi errori militari, la resa
di Siracusa sembrava inevitabile. Uopo la caduta di Siracusa con-
centrando in Africa tutte le forze e facendo grandi leve di mer-
cenari, non sarebbe stato difficile venire a capo della sollevazione.
Ma anche se il governo cartaginese sosteneva la guerra con quella
saviezza ed energia di cui forse non lia dato molte prove, c'era
uifultima probabilità favorevole al tiranno: che i grandi successi
che Agatocle poteva contare di conseguire in Africa rialzassero
nei Greci di Sicilia il sentimento patriottico e facessero insorgere
le città greche contro il Fenicio, a pochi infatti poteva sfuggire
che se i Cartaginesi vincevano questa guerra, la Sicilia sarebbe
divenuta una provincia cartaginese.
L'impresa però offriva anche grandi difficoltà. La prima era la
difficoltà finanziaria, perchè conveniva armare e tenere in piedi
per anni un esercito il cui nucleo principale era costituito di mer-
cenari, mentre non c'era altra risorsa regolare che le rendite della
sola città di Siracusa — il resto dell'impero d' Agatocle era già
in mano dei Cartaginesi — e ciò nel momento stesso in cui il
territorio era occupato dal nemico e col blocco marittimo della
città, Siracusa era privata dei vantaggi del suo commercio. Si
avevano due mezzi per vincere questa difficoltà; e, sfortunatamente
per lui, Agatocle ebbe a ricorrere all'uno ed all'altro. Il primo
erano le uccisioni e le confische a scopo finanziario : un mezzo a
cui non si vergognarono di ricorrere in tempi di strettezze, ne la
democrazia ateniese ne gl'imperatori romani. A dir vero, anche se
prescindiamo da quanto la misura aveva di equivoco dal punto di
vista morale e umanitario, essa non poteva contribuire davvero a
consolidare la popolarità d'Agatocle e a fare si che i Greci delle altre
città dell'isola si rivolgessero fiduciosi a lui e l'aiutassero contro
il nemico della nazione. C'era poi l'altro espediente di far pagare
— 307 —
le spese militari ai Libifenicì ed ai Libi che si andavano a li-
berare dal dominio cartaginese: ma questo era il modo di raifred-
darne la fiducia e lo zelo, mentre nella lotta contro Cartagine essi
erano i strumenti tanto necessari. Ciò era del resto inevitabile,
perchè bisognava pagare lautamente i mercenari se si voleva con-
tare sulla loro fedeltà, mentre Cartagine senza dubbio avrebbe
fatto ogni sorta di offerte per guadagnarli. Ma ad ogni modo
questa è la ragione per cui Agatocle non ha avuto dai Libi che
un aiuto molto malfido.
In tali circostanze Agatocle fece con rapidità e segretezza me-
ravigliosa i preparativi della sua spedizione. Il denaro se lo pro-
curò con prendere a prestito i beni dei templi e quelli dei pupilli,
con requisire gli ornamenti in metalli preziosi e finalmente, se-
condo la nostra tradizione, facendo assassinare da' suoi mercenari
fuori di Siracusa un certo numero di cittadini ricchi che avevano
profittato del suo permesso di lasciare la città (1).
Se i Cartaginesi avessero preveduto uno sbarco in Africa, avreb-
bero certo preso a tempo le precauzioni necessarie per impedirlo;
ma non possiamo far loro gran colpa se non credettero possibile che
i Siracusani, in una condizione di cose tanto disperata, facessero
una intrapresa cui non avevano mai pensato in condizioni molto
più prospere. Così ingannando la sorveglianza della squadra car-
taginese che era comparsa davanti a Siracusa, la flottiglia di
Agatocle pervenne ad approdare al capo Bon. Era l'agosto del
310 (2). I Cartaginesi raccolsero immediatamente quante truppe
poterono e le spedirono contro Agatocle. Erano superiori di nu-
mero, ma inferiori di qualità. La vittoria fu del tiranno. Secondo
le nostre fonti vi contribuì grandemente il fatto che, morto uno
dei generali cartaginesi, l'altro generale, Bomilcare, aspirando
alla tirannide e credendo che fosse nel suo interesse la presenza
(1) DiOD., XX, 4. lusTiN., XXIl, 4; cfr. Polyaen., V, 3, &. Quanto all'oì-
timo assassinio, un delitto quasi identico ci è narrato di Sosistrato, Po-
lyaen., V, 37. Questo basta per dubitare della esattezza del racconto; per
quanto del fatto che un certo numero di uomini ricchi avversi ad Ajiatocle
sono stati messi a morte principalmente per far denaro, ò ditlicilo dubitare.
(2) Vedi quanto è detto prima.
- 308 -
di Agatocle in Africa, ordinò senz'altro la ritirata (1). La cosa
ajtparirà molto incerta quando si rifletta che anzi Bomilcare avrebbe
fatto un passo gigantesco verso la tirannide se con una sola bat-
taglia liberava Cartagine dal suo pericoloso e audace nemico.
Questa vittoria fu il segnale di una grande defezione tra gli al-
leati cartaginesi. I Cartaginesi furono atterriti: pericolo per la
città stessa non c'era, ma non volevano rassegnarsi a vedere il
loro territorio in mano d'Agatocle e i loro alleati spinti a ribel-
lione. E richiamarono una parte — naturalmente la parte migliore
delle truppe di Sicilia (2). Fu grave errore, perchè la decisione
doveva avvenire non in Africa, ma presso alle mura di Siracusa.
Ora la condizione delle cose in Africa cambiò. Non posso discutere
qui i particolari del racconto di Diodoro. Questo però è certo, che
Agatocle non solo non potè fare nuovi acquisti, ma perdette in
parte gli antichi; che i Cartaginesi tennero sempre il campo di
fronte a lui e per quanto, secondo la nostra fonte, venissero più
d'una volta sconfitti, tali sconfitte non possono aver avuto grande
importanza, perchè essi non ismisero di fronteggiarlo e non pen-
sarono menomamente a chiedere pace. In tale stato di cose Aga-
tocle non poteva insistere troppo presso gli alleati per averne tri-
buti, e la paga ai soldati non correva regolarmente. Così tenere
assieme i turbolenti mercenari che costituivano gran parte del suo
esercito diveniva difficile, e per poco una sommossa non mandò
ogni suo piano in rovina (3). A questo modo le cose non potevano
durare. Agatocle aveva bisogno di grandi successi se voleva co-
stringere i Cartaginesi alla pace e se non voleva che da un mo-
mento all'altro lo abbandonassero i suoi mercenari ed i suoi al-
leati. E si decise ad un passo molto grave.
Nella Cirenaica il governatore Ofela, dopo aver vinto una sol-
levazione con l'aiuto di Tolomeo Sotere (4), aveva consolidato la
sua autorità e raccolto una ragguardevole forza militare. A lui si
(1) DioD., XX, 10, 13; cfr. Iustin., XXII, 6, 5 seg.
(2) DioD., XX, 15, 1, 16, 9.
(3) DiOD., XX, 33 seg.
(4) DiOD., XIX, 79. E singolare che a proposito di questa sollevazione
Ofela non è neppure menzionato.
- 309 —
rivolse Agatocle per aiuto. Certamente Agatocle avrà esitato assai
prima di decidersi a ciò. Ofela veniva nel territorio cartaginese
provveduto anche meglio che Agatocle di denari e di uomini ; e
naturalmente doveva pretendere un'autorità proporzionata all'aiuto
che conduceva. Ciò non piaceva menomamente ad Agatocle. Il
tiranno voleva la libera direzione della guerra, perchè sentiva
bene che il successo dipendeva appunto dalla sua direzione. Poi
le ricchezze di Ofela avrebbero forse permesso di cambiare il piano
della guerra e di costruire una flotta e di assalire Cartagine anche
per mare, insomma di riportare dei successi insperati. Ma se riu-
sciva di schiacciare i Fenici in Africa, ciò doveva essere a pro-
fitto dei Greci di Sicilia che da tanto tempo li combattevano
con tutte le forze. Senza dire che se Ofela si fosse costituito un
impero nel territorio cartaginese, sarebbe stato pei Greci di Sicilia
un vicino forse più pericoloso degli stessi Cartaginesi. Infine ac-
cettando in buona fede il soccorso d'Ofela, Agatocle si esponeva
allo stesso pericolo a cui si espose Ofela accettando in buona
fede l'invito d'Agatocle. Dietro tutte queste considerazioni, Aga-
tocle quando chiamò Ofela in suo soccorso, era fermamente deciso
a valersi delle sue truppe e de' suoi denari, ma sbarazzarsi senza
altro di lui. Certo Agatocle non fu trattenuto nel suo assassinio
dal minimo scrupolo morale. Vide bene però che dopo un simile
atto di perfidia non bisognava sperar più che un alleato avesse
fiducia in lui. E del resto i^gatocle non aveva bisogno di elemo-
sinare degli alleati, se il tesoro e i soldati di Ofela uniti co' suoi
gli davano la vittoria definitiva sui Cartaginesi. Ofela governava
Cirene sotto l'alta sovranità di Tolemeo, perchè la sua pretesa
dichiarazione d'indipendenza non è che una favola moderna (1).
Ma non c'era da temere che Tolomeo per ora prendesse le armi
per vendicarlo. Già le complicazioni orientali gli davano anche
troppo da fare. Poi Ofela era molto potente e forse a Tolemeo
non dispiaceva di vederlo levato di mezzo per comandare anche
più liberamente nella Cirenaica.
Ofela d'altra parte accettò volentieri l'invito. Cosa poteva de-
(1) Ved. Gerckk, Rheinisches Museum, 42 (1887), p. 2G5.
- 310 -
siderare di meglio che formarsi a spese dei Cartaj^inesi un grosso
impero africano ? È vero che la promessa fatta da Agatocle di
lasciare a lui le comuni conquiste non aveva per sé un gran va-
lore; ma se anche Agatocle non voleva mantenere la sua promessa,
era facile ad Ofela, con le sue truppe, co' suoi denari di farlo
stare ai patti per forza. Che Ofela contasse realmente di formarsi
un impero cartaginese lo mostra il fatto che si fece accompagnare
da una turba di gente che andava per jìrender parte alla coloniz-
zazione. È noto come Agatocle si sbarazzò rapidamente d'Ofela e
come rimandò via la turba inutile che ne seguiva l'esercito (1).
Non faccia meraviglia del resto che Agatocle riuscisse senz'altro
ad assicurarsi la fedeltà dei più che diecimila soldati dell'ucciso
governatore. Egli s'impadronì con le sue truppe del campo e del
tesoro d'Ofela cogliendo il momento in cui la maggior parte delle
forze di esso erano disperse : quando si riunirono, potevano sì ten-
tare un assalto, ma evidentemente in condizioni assai sfavorevoli.
E del resto erano mercenari ; che il generale fosse Ofela od Agatocle
poco importava. Importava solo riscuotere la paga e fare grosso
bottino ; anzi la direzione d'un generale ardito e sagace come Aga-
tocle costituiva un'arra di vittoria (2). Mentre Agatocle univa alle
sue le truppe d'Ofela, le forze cartaginesi furono un momento pa-
ralizzate dal tentativo che fece il generale Bomilcare per assumere
la tirannide ; questo tentativo andò a vuoto e terminò con la cro-
cifissione del generale. Le nostre fonti ci dicono che Bomilcare
tradiva la sua patria tenendosi in relazioni segrete con Agatocle.
Non sarebbe impossibile che anche qui, rispecchiando la versione
ufficiale cartaginese, le nostre fonti avessero alterato il vero nesso
dei fatti. Quando Agatocle fu informato del colpo di stato di Bo-
milcare, esso era già terminato con uno scacco; e d'altra parte
se sulle truppe si appoggiò Bomilcare nel suo tentativo, può essere
(1) DioD., XX, 40-42.
(2) Secondo Dico., XX, 70, 3, la uccisione d'Ofela e quella dei figli di
Agatocle accaddero nello stesso mese e nello stesso giorno. Naturalmente la
coincidenza non sarà stata così precisa, ma siccome l'ultima ebbe luogo nel-
l'autunno 307 (v. sotto , cosi si ritiene giustamente che la prima abbia avuto
luogo nell'autunno del 308. Al 309 è evidente che non si può risalire.
— 311 -
che il partito della guerra vedesse in una monarchia militare una
guarentigia di successo e che Bomilcare avesse tentato a Cartagine
quello stesso che un secolo prima tentò Dionisio a Siracusa (1).
Dopo la riunione delle truppe d'Ofela con quelle d'Agatocle la
situazione militare era interamente cambiata. I Cartaginesi non
potevano più tenere la campagna. Le città della costa cadevano
ad una ad una in mano del tiranno, persino Utica, la seconda
città dell'impero cartaginese (2) ; i Libi in parte riconfermavano
l'alleanza stretta con lui, in parte la stringevano allora ; anche i
Numidi erano in parte suoi alleati, E sembra che Agatocle pen-
sasse persino a crearsi una flotta e a rendere definitive le sue
conquiste africane (3), Ma stabilita incontrastabilmente la propria
superiorità in Africa, credette fosse tempo di tornare in Sicilia,
dove le cose erano ridotte in una condizione pressoché disperata,
È vero che il richiamo d'una parte delle forze d'Amilcare era
stato rovinoso per gl'interessi cartaginesi nell'isola. Nel 309 Amil-
care dopo stretta Siracusa d'assedio dovette mandare in Africa
cinquemila de' suoi migliori soldati, il che lo costrinse a rallentare
l'assedio. Nel 308 disponendo di truppe numerose, ma a quanto
sembra di qualità scadente, tentò con una sorpresa notturna d'impa-
dronirsi del colle Eurialo. Era rinnovare il tentativo fatto nel 413
dagli Ateniesi sotto Nicla e Demostene, E il risultato fu lo stesso,
una sconfitta completa degli assalitori ; ma inoltre il generale car-
taginese restò prigioniero dei Siracusani e fu messo a morte. Si
capisce facilmente come l'impressione di questo fatto fosse enorme
nella Sicilia, I Cartasfinesi erano stati solennemente battuti sia
(1) DiOD., XX, 43 seg. Iustin., XXII, 7.
(2) DiOD., XX, 54 seg. Egli dice che Utica aveva defezionato ad Agatocle
e fu adesso ricuperata. C'è probabilmente un malinteso. Polibio, I, 82, 8,
vanta la fedeltà d'Utica ai Cartaginesi in questa guerra. Poco prima della
presa d'Utica Diodoro riferisce che Agatocle assunse il titolo regio. Su ciò
V. capo V. Qui basti notare che la data precisa assegnata al fatto non è
troppo sicura, benché naturalmente non possa neanche esserci un errore
molto grande; cfr. Schubert, p. 156.
(3) Cfr. App., Lyb., 110: y\ ('ItTTrdTpeTa) lueYÓXri re fjv koI xeixeoi koì
àKpoTTÓXei Kol \\\xia\ Kai veujpioi^ ùrr' 'AYa9oKXéou<; toO IiKeXiuixOùv tu-
pàvvou KaT€aK€ÙaaTo KaXiùq.
— 312 —
in Sicilia sia in Africa. L'ora di scuotere il loro fjnminio pareva
finalmente venuta: adesso o mai più si sarebbe libc'rata la Sicilia
dal Fenicio. 11 movimento nazionale fu tanto forte che gli stessi
olif(arcbici credettero necessario di staccarsi d'ora in avanti dallo
straniero, perchè la loro causa non perdesse in Sicilia ogni sim-
patia (1). Forse se i Siracusani avessero spedito tutte le truppe
disponibili per chiamare a libertà le città dov'erano presidi car-
taginesi avrebbero potuto essi restare a capo del movimento; ma
Antandro fratello di Agatocle e suo luogotenente a Siracusa non
ora, a quanto pare, uomo di grandi iniziative; poi Siracusa era
troppo stanca della guerra, troppo rovinata economicamente per
poter profittare immediatamente della vittoria. I Siracusani ave-
vano bisogno d'un momento di respiro. E così furono gli Agri-
gentini che si misero adesso a capo della lotta. Si staccarono
dall' alleanza dei Cartaginesi e degli esuli oligarchici, riforma-
rono probabilmente la loro costituzione in senso democratico (2),
chiamarono a libertà le città greche e riportarono splendidi suc-
cessi. Gela, Enna, Erbesso, Echetla, Noto, Camarina ed altre città
entrarono nell'alleanza agrigentina e riebbero autonomia e demo-
crazia (3). Anche una parte della èiriRpaTeia fu strappata ai Car-
taginesi; Eraclea liberata si unì agli Agrigentini (4). Era così
avvenuta una grande conflagrazione a danno del nemico nazionale,
ma sventuratamente per Agatocle, egli non era là per profittarne.
E poi se le sue crudeltà operate a tempo opportuno gli erano state
sul momento molto utili, certo non avevano giovato alla sua po-
polarità; e finalmente la sete d'autonomia municipale, insita ai
Greci di Sicilia come a tutti i Greci, faceva preferire l'alleanza
della meno potente Agrigento a quella di Siracusa, che era un rico-
noscere la signoria d'Agatocle. Così la vittoria dell'Eurialo invece
di profittare a quelli che l'avevano riportata profittò agli Agri-
gentini, e la situazione di Siracusa era sempre gravissima, quando
(1) Gfr. DioD., XX, 31, 2. 57, 1.
(2) Gfr. DiOD., XX, 32, 2, dove è detto che gli Agrigentini restituirono
la democrazia ad Echetla.
(3) DiOD., XX, 31 seg. Per Neto v. Niese, I, 454, 2.
(4) Ciò risulta da Dico., XX, 56, 8.
— 313 —
Agatocle si decise a partire per la Sicilia. Ma non era tanto facile
per una confederazione i cui vincoli dovevano essere abbastanza
rilasciati e per di più formatasi così di recente, mettere in campo
un esercito capace di resistere alle forze ao'guerrite di Siracusa.
Così quando i Siracusani si decisero ad affrontare gli Agrigentini,
inflissero al loro duce Xenodico una grossa sconfitta (1). Ma anche
questa sconfitta profittò non tanto ad Agatocle quanto ad altri
suoi nemici. Quando egli sbarcò in Sicilia, gli oligarchici rifatti
di forze tenevano minacciosi la campagna. Questo si spiega sol-
tanto ammettendo che da quando l'impotenza degli Agrigentini
fu dimostrata dalla sconfitta, le città che avevano sperato in loro
cominciarono per salvarsi da Agatocle, a stringersi a Dinocrate e
agli oligarchici, i quali s'erano sciolti a tempo dall'alleanza car-
taginese e guarentivano anch'essi alle città siciliane l'autonomia (2).
Agatocle partito dall'Africa sbarcò nella provincia cartaginese,
che trovò sprovveduta di difesa, e impadronitosi di qualche piazza di
questa provincia (3), toltane qualche altra agli Agrigentini, si recò a
Siracusa senza accettare la battaglia offertagli dall'esercito degli
oligarchici. Appena giuntovi, dovette subito pensare a ripartirne, così
cattive erano le notizie che gli giungevano dall'Africa, Si procacciò
denari stendendo liste di proscrizione (4): e partì senza difficoltà,
giacche con l'aiuto di diciotto triremi etrusche ebbe la fortuna di
rompere momentaneamente il blocco che i Cartaginesi mantenevano
davanti a Siracusa (5). Poco prima della sua partenza, il generale
siracusano Leptine mandato contro gli Agrigentini aveva riportato su
di loro una vittoria decisiva. In Agrigento gli animi erano assai
divisi dopo la prima sconfitta. Il prestigio di Xenodico era molto
diminuito. Al contrario doveva aver fatto grande impressione il
risorgere della potenza degli oligarchici e il ritirarsi d'Agatocle
(1) DioD., XX, 56.
(2) Vedi più sopra.
(3) Solo in questa occasione può aver stretto lega con lui Segesta che in
seguito troveremo sua alleata. Diod., XX, 71.
(4) 1 particolari dati su ciò da Diod., XX, fi3, 6 .seg. (cfr. Poi,y.\en., V,
3, 3), sono senza valore, come tutta la raccolta d'aneddoti contenuta in
questo capo.
(5) Sui rapporti d'Agatocle con gli EU-uschi, v. sotto, e. N'.
- 314 -
davanti a loro. Molti dovevano pensare che resistere ai Cartaginesi
e mantenere al tempo stesso l'autonomia di fronte ad Agatocle si
sarebbe potuto soltanto stringendo un'alleanza con Dinocrate che
avesse unito tutti gli avversari d'Agatocle nella lotta contro il ne-
mico comune. Questa contesa intestina fu decisa dalla sorte della
battaglia che si combattè tra Xenodico e Leptine, Xenodico per vero
dire avrebbe voluto evitare uno scontro. Ancora l'esercito non
poteva essere stato riorganizzato dojìO la sconfitta già subita ; e
dalla sconfitta e dalle lotte dei partiti doveva essere stata scossa
la disciplina. Ma la posizione di Xenodico non era più tanto forte
da poter resistere ai clamori del popolo che non voleva si per-
mettesse ai Siracusani di devastare impunemente il territorio.
Xenodico dovette dare battaglia ai Siracusani ; e il risultato fu
quello stesso ch'egli temeva, una completa sconfitta. Dopo ciò il
partito a lui avverso prese immediatamente il disopra in Agri-
gento. Xenodico fuggì a Gela (1). La cru)a|naxia agrigentina si
sciolse. Qualche città cadde subito in mano dei Siracusani, qualche
altra, come probabilmente Gela, vi cadde poco dopo (2); dobbiamo
ritenere, sebbene non ne abbiamo esplicita notizia, che altre, e
probabilmente Agrigento stessa, si stringessero in lega con gli
oligarchici.
In Africa Agatocle aveva lasciato il comando al figlio Arcaguto,
il quale mostrò di non essere all'altezza del suo compito ; ma un
posto così rilevante Agatocle non poteva darlo che ad un uomo
sulla cui fedeltà potesse contare ciecamente. I Cartaginesi capi-
rono che era il momento di fare uno sforzo disperato mentre era
assente il grande capitano che li aveva fatti tremare (3). Risul-
tato della loro energia e degli errori d' Arcaguto fu che, quando
Agatocle tornò in Africa, Imilcone ed Aderbale bloccarono in Tu-
nisi le sue truppe sconfitte e demoralizzate, mentre defezionavano
(i) DioD., XX, 62.
(2) Queste sono le città che Pasifilo generale di Agatocle consegnò in
seguito agli oligarchici. Dico., XX, 77, 2. Si ricordi che quando Dinocrate
tradì alla sua volta Pasifilo, lo sorprese in Gela. Diod., XX, 90, 2.
(3) Di questa campagna, interessantissima dal punto di vista militare,
tratterò forse in uno studio speciale.
— 315 -
da lui, uno dopo l'altro, gli alleati. La campagna era perduta.
Agatocle dopo aver fatto un tentativo inutile per rompere le linee
del nemico riconobbe che la situazione era disperata. Non si poteva
pensare a ricondurre l'esercito in Sicilia, sia perchè la flotta car-
taginese dominava il mare, sia perchè non si dovevano avere a
Tunisi imbarcazioni sufficienti per trasportarlo. Trattare coi Car-
taginesi era inutile, perchè si poteva prevedere che i Cartaginesi
avrebbero messo come prima condizione di pace la consegna di
Agatocle nelle loro mani. Restare in Africa era in queste condi-
zioni per Agatocle sacrificare inutilmente la sua vita. Non si trat-
tava neppure di morire sul campo in mezzo a truppe fedeli ; si
trattava di aspettare, senza far nulla, il giorno in cui i mercenari,
stanchi dell'assedio lo avrebbero preso e consegnato al nemico.
Così Agatocle deliberò di partire per la Sicilia. Naturalmente egli
dovette effettuare in segreto questa sua partenza; e se riuscì a
fuggire, non fa senza qualche peripezia, giacche i soldati non in-
tendevano di lasciarlo partire vedendo in lui l'unico generale che
forse poteva ancora condurli alla vittoria e al tempo stesso un pegno
prezioso da tenersi ben custodito per assicurarsi una buona pace coi
Cartaginesi. Le nostre fonti ci dicono che i due figli di Agatocle,
Arcaguto ed Eraclide, non poterono seguire il padre nella fuga, ma
son discordi riguardo alla causa che impedì ad essi di partire (1).
(1) Secondo Diod., XX, 68 seg., Agatocle non avrebbe voluto Arcaguto a
compagno della fuga per sospetto che ne aveva e sapendolo ouvibv xr) |Lir|-
Tpuict. Arcaguto è però a conoscenza della fuga del padre, la rivela e lo fa
arrestare. Liberato dalla pietà dell'esercito, il tiranno fugge una seconda
volta, senza più pensare neppure all'altro figlio che aveva avuto la prima
volta a compagno di fuga, e subito dopo i due figli vengono trucidati. Il
racconto è molto romanzesco, ma altrettanto pieno d'inverisimiglianze. Se
Agatocle sospettava di Arcaguto non gli avrebbe dato quando parti per la
Sicilia un posto di tanta fiducia quale era il comando supremo delle truppe
d'Africa. Se Arcaguto aveva tanta smania di fuggire da non esitare a tra-
dire il padre perchè non l'aveva voluto portare con sé, come non è fuggito
per conto proprio ? Non c'è questione che a lui la fuga sarebhe stata mono
difficile che al padre. Poi per quale ragione l'altro figlio non ha accompa-
gnato il padre nella fuga ? Del resto è sospetta la somiglianza die la scena
della liberazione d' Agatocle ha con l'altra della sollevazione da lui domata
(XX, 33 seg.). Cfr. Schubert, 1. e, p. 181. Giustino invece dice che Agatocle
fuggì solo col figlio Aicaguto, ed aggiunge: Cum persequi regem velleìit
— -MC —
È però anclie possibile che siano restati liberamente e in pieno
accordo col padre. A mio avviso Agatocle stimava ancora di poter
ristabilire la sua fortuna con qualche grande vittoria in Sicilia o
di potervi raccogliere nuove truppe e sbarcare con queste un'altra
volta in Africa. Checché ne sia, le truppe chiuse a Tunisi non
vollero attendere queste eventualità. La partenza d'Agatocle fu il
segnale della ribellione. Non pareva ch'egli stesso abbandonando
i suoi soldati avesse dato il segno del « si salvi chi può »? I
generali furono messi a morte e sostituiti da altri che vennero
facilmente ad un accordo coi (Cartaginesi. L'impresa d'Africa era
terminata per Agatocle con uno scacco completo (1).
IV. La fine della grande guerra. — Agatocle tornò dal-
l'Africa senza truppe e senza denari. Conservava in Sicilia ad
oriente Siracusa e qualche città vicina, ad occidente alcune piazze
sul confine della provincia cartaginese; in mezzo spadroneggiavano
gli oligarchici; i Cartaginesi dominavano il mare. Comunicazioni
regolari tra lui, ch'era sbarcato nella Sicilia occidentale, e Siracusa
erano impossibili. Lo stato delle cose era grave, ma non disperato.
Le ultime notizie d'Africa avevano dovuto rinforzare i suoi ne-
mici; ma il disastro finale non era noto neppure allo stesso ti-
ranno. Agatocle si preparò di nuovo alacremente alla lotta. La
prima condizione per poterla continuare, sia ch'egli pensasse a
combattere in Sicilia, sia a tornare in Africa, era una grande leva
di mercenari ; a tal uopo occorreva subito raccogliere denari. Aga-
tocle si presentò davanti ad Egesta città alleata (2), ed impose
a Xumidis excepti in castra reoertuntur comprehenso tamen reductoque
Arcagutho qui a patre noctis errore discesserat (XX 11, 8, 10). Qui fa dif-
ficoltà l'assenza nella fuga di Eraclide, che pure, secondo lo stesso Giustino,
fu ucciso poco dopo (ibid., 8, 13); anche l'inseguimento per terra può dare
origine a qualche dubbio. Per me le versioni di Diodoro e di Giustino rap-
presentano solo due diverse ipotesi fatte per spiegare come il padre non fu
accompagnato dai figli in Sicilia.
(1) Era il quart'anno della guerra (Diod., XX, 69, 5), intorno al tramonto
delle Pleiadi (69, 3), dunque l'ottobre 306. Weltzer, Jahrbb. f. Phtl., IH
(1875), p. 751 seg.
(2) Vedi più sopra.
— 317 —
una forte contribuzione di guerra. Gli Egestani si rifiutarono di
pagare. Era un sintomo della demoralizzazione che s'era diffusa tra
gli alleati in seguito alle sconfitte d'Africa. Agatocle giudicò ne-
cessario un esempio : egli trattò la città con una severità tre-
menda. E per quanto la nostra tradizione esageri senza dubbio
nei particolari, il fatto stesso che ad Egesta Agatocle cambiò il
nome in quello di Diceopoli mostra che la città dovette essere
colonizzata di nuovo e che il tiranno stimò d'avervi compito un
grande atto di giustizia, alla sua maniera s'intende. Dopo ciò da una
parte tutto l'oro d'Egesta venne confiscato a profitto della guerra,
dall'altra era tolta ai sudditi che gli restavano ogni velleità di
negargli le contribuzioni richieste. E mercè i nuovi coloni che vi
trasferì, egli si assicurò incondizionatamente questa piazza impor-
tante (1).
Anche Antandro a Siracusa si procurò denaro in modo analogo.
Appena s'ebbe notizia della catastrofe di Tunisi, un certo numero
di parenti dei soldati che s'erano ribellati in Africa furono con-
dotti a morte e se ne confiscarono i beni (2). Ciò costituiva al
tempo stesso una minaccia terribile per chiunque avesse l'ardire
di pensare ad una ribellione: ed eliminava il pericolo che tra i
membri d'una famiglia restati a Siracusa e quelli passati nel
campo cartaginese si stabilissero rapporti pericolosi. Questi fatti
sanguinosi provavano una volta di più che il tiranno, pur di riu-
scire vittorioso nella lotta per l'esistenza, non si faceva scrupolo
di nulla. I bisogni finanziari e il tentativo fallito fin qui di dare
per base alla sua autorità il trionfo sul nemico della nazione lo
avevano ricondotto sulla via della violenza; il terrore infuriava
nuovamente. Ma se la condizione delle cose non era parsa dispe-
rata a lui nemmeno dopo la ribellione delle truppe d'Africa, era
però parsa tale a Pasifilo, generale di Agatocle, che aveva in
custodia un certo numero di piazze nella Sicilia orientale. Egli
stimò bene di fare la pace con gli oligarchici finche si poteva a
buoni patti, e passò a loro con tutte le truppe di cui disponeva,
(1) DioD., XX, 71.
(2) DioD., XX, 72, dove non mancano esagerazioni.
- 318 -
consegnando le piaz'/e che aveva nelle mani (1). Quest'ultimo
colpo ridusse Agatocle alla disperazione. Quattro anni di lotta
mortale, sostenuta con tutto le risorse del suo genio, non avevano
valso a nulla. La situazione era anche più grave che nella state
del 310. Siracusa era bloccata per mare dai Cartaginesi e proba-
bilmente per terra dagli oligarchici. Restavano sì ad Agatocle
poche piazze ad occidente dell'isola, ma egli era privo di comu-
nicazioni con la capitale; e prima che avesse potuto raccogliere le
truppe necessarie per marciare al soccorso, Siracusa poteva cadere
in mano al nemico, perchè, coi Cartaginesi padroni del mare e
con ciò che si sapeva della sua situazione disperata, raccogliere
mercenari era tutt'altro che facile. A una diversione, come era
stata l'impresa d'Africa, non era più neanche da pensare. Ed Aga-
tocle offerse pace: avrebbe deposto la tirannide e concesso ai Si-
racusani l'autonomia e fatto richiamare Dinocrate — in altri termini
data Siracusa in mano degli oligarchici ; chiedeva soltanto di con-
servare per se due delle fortezze rimastegli fedeli, Terme e Ce-
faledio. Sembra evidente che Agatocle metteva per condizione della
pace con Dinocrate la continuazione della lotta con Cartagine a
cui voleva prender parte egli stesso. Infatti una delle due piazze
ch'egli si riservava, Terme, si trovava proprio sul confine del ter-
ritorio rimasto ai Cartaginesi, anzi aveva fatto parte fino a poco
tempo prima della provincia fenicia : ed era da attendere che i
Cartaginesi non si sarebbero rassegnati a lasciarla in mano ai
Greci. Così il tiranno, pur cedendo, voleva imporre la continua-
zione della sua politica nazionale e le piazze che avrebbe ritenuto
in suo potere, dovevan essergli pegno che questa politica sarebbe
continuata.
Dinocrate esitava (2). Per questa sua titubanza è stato severa-
mente biasimato. Ma egli credeva venuto il tempo di liberarsi di
Agatocle. Finche Agatocle restava in Sicilia con qualche possedi-
mento in mano, egli temeva sempre la sua energia, il suo genio
e la sua perfidia. A quale scopo Agatocle metteva per condizione
assoluta della pace di conservare Terme e Cefaledio, se non perchè
(1) DroD., XX, 77. (2) Diod., XX, 79.
- 319 —
restava sempre in lui la speranza di accrescere, partendo di qui,
il suo potere? E se nella continuazione della guerra con Cartagine
fosse dato al tiranno di contribuire efficacemente al successo, come
impedirgli di annettervi un'altra parte della èTTiKpaieia cartaginese?
Senza dire che così poteva risorgere l'antica popolarità d'Agatocle.
Ora è certo che nello stabilire la loro autorità a Siracusa, gli
oligarchici andavano incontro a serie difficoltà, specialmente pel
fatto dei grandi cambiamenti nella distribuzione della proprietà
fondiaria, prodotti della tirannide. Conveniva che non ci fosse là
Agatocle pronto a pescare nel torbido. Forse da Cefaledio a Si-
racusa si poteva andar più presto che dall'isola d'Elba a Parigi.
Se si voleva un accordo che desse pace durevole alla Sicilia con-
veniva che Agatocle ne partisse. Queste considerazioni che Dino-
crate doveva fare erano senza dubbio abbastanza ragionevoli. Ma
egli non teneva conto d'un'altra eventualità : che Agatocle se la
intendesse coi Cartaginesi a danno suo. È vero che questa even-
tualità doveva parergli lontana. Possibile che essi si accordassero
con un nemico mortale, con uno che li aveva spinti sull'orlo della
rovina?
Eppure il tiranno respinto dagli oligarchici fece il tentativo
supremo di rivolgersi a Cartagine. Dovette essere un passo molto
doloroso per lui. Fin qui egli aveva lottato coi Cartaginesi con tutte
le sue forze: la guerra allo straniero era la bandiera sotto cui,
cercando di dare una base solida alla sua tirannide, giustificandola
davanti agli altri e fors'anche davanti a se, s'era coperto di gloria.
Piuttosto che trattare con lo straniero aveva preferito di rimettere
Siracusa a Dinocrate. Chiusagli ogni altra via di salvezza si ri-
volse ai Cartaginesi e implorò la pace. I Cartaginesi vedevano
molto chiaro che, se essi continuavano la guerra bloccando Sira-
cusa, la caduta di essa in mano degli oligarchici che la stringe-
vano per terra poteva poco tardare. E neanche poteva farsi atten-
dere a lungo la resa a Dinocrate delle poche piazze che Agatocle
ancora conservava. Ma le cose erano molto cambiate dal principio
della guerra, quando gli oligarchici erano gli umilissimi servitori
dei Cartaginesi: essi non avevano potuto assistere inditVerenti al
risveglio della coscienza nazionale; agivano per conto proprio e
— 320 —
davano cliiarameute a divedere che non intendevano punto che la
Sicilia avesse a scambiare la si<,'noria d'Agatocle con quella di
Cartagine. Ora se Uinocrate riuniva in mano tutta la Sicilia greca
era tutt'altro che un gran guadagno pei Cartaginesi. Si temeva
che Dinocrate costituisse anch'egli una monarchia a base conser-
vatrice, sul tipo di quella di Cassandre. E certo può essere che
questa idea gli balenasse nella mente, benché sia una questione
molto diversa se poteva effettuarsi in Sicilia. Ad ogni modo se Ui-
nocrate schiacciava Agatocle, poteva rendersi pericoloso ai Cartagi-
nesi, i quali in quattro anni di lotta in Africa avevano dovuto
accorgersi di clie fossero capaci i Sicelioti. Così è che ai Carta-
ginesi parve sana politica non quella di aiutare Dinocrate a ri-
portare una vittoria definitiva sui nemici, ma quella di dar agio
ai Sicelioti di dilaniarsi a vicenda in lotte fratricide. A ciò poi
aggiungevasi che i Cartaginesi desideravano ardentemente di re-
spirare dopo una guerra che aveva inflitto tante piaghe al loro
impero; e che era facile ottenere da Agatocle condizioni vantag-
giose e riacquistare, come di fatto accadde, senza colpo ferire tutte
le piazze da essi prima possedute nella loro provincia siciliana.
Infine se anche Agatocle riusciva a ricuperare d'un tratto l'antico
territorio — il che probabilmente non era nelle loro previsioni —
sarebbero corsi lunghi anni prima ch'egli osasse riprendere quella
guerra coi Cartaginesi, in cui per poco non aveva perduto ogni cosa.
Così fu conclusa la pace tra il tiranno e i Cartaginesi. Egli
restituiva quel che possedeva della loro antica provincia e riceveva
in cambio come contribuzione di guerra 150 talenti euboici e
200 mila medimni di frumento (1). Questa pace cambiava faccia
(1) DioD., XX, 79, 5: (juvéOeTO xi'iv elpnvnv èqp' oi^ TÒq iróXeic; KO\xiaaaQai
TOÙ<; (t)oiviKa(; Ttàaac, TÒt; -rrpóxepov iin avToòq ■^efevr\}.ié\ac,- àvxl òè toO-
Tuuv è'XaPe Trapà Kapxriboviuuv xpucfiov jiièv eie; àpYupiou Xóyov TpiaKoaiuuv
TaXdvTuuv, ibq òè Ti|uaió(; qprjaiv. éKaròv -nevTriKOVTa, airov bè ,ueòi|avijuv
eiKOOi iLiupidòa^. Hultsch, Griech. und Róm. Metrologie, p. 480, dice che
i Cartaginesi adoperavano un talento eguale alla metà dell'euboico e che
Timeo ha trascritto in moneta siciliana la cifra data nel trattato in moneta
cartaginese, io credo la divergenza di cifra dovuta a questo, che i Carta-
ginesi hanno dato 300 talenti (euboici), 150 in denaro e 150 in frumento.
Siccome si tratta di 200.000 medimni il prezzo per med. sarebbe di dr. 4 V-j-
— 321 —
alla situazione. Tolto il blocco a Siracusa, la città non poteva più
cadere in mano degli oligarchici. Agatocle aveva ogni agio di recar-
visi e di raccogliere truppe mercenarie. Il denaro non gli mancava :
la sua energia e le sue capacità militari dovevano fare il resto.
Gli oligarchici invece si vedevano tolto di mano il frutto di tante
lotte. Non avevano più speranza di ritornare con la forza delle
armi a Siracusa; la divisione si poteva facilmente insinuare tra
loro, tanto più ora che accanto al loro antico capo Dinocrate era
venuto Pasifilo, con l'autorità che gli davano le truppe da lui
unite agli oligarchici. Il prestigio di Dinocrate era stato scosso
anche dall'aver egli respinto la pace con Agatocle : lo si accusava
di aver rovinato la causa oligarchica gettando Agatocle nelle
braccia dei Cartaginesi. Se a ciò si aggiunge che i talenti militari
di Dinocrate erano forse piuttosto mediocri (1) e che i Sicelioti
erano stanchi della guerra e convinti ormai della impossibilità di
una vittoria finale degli oligarchici, si comprenderà di leggieri
come le sorti della guerra fossero decise anche prima che il genio
militare di Agatocle avesse fruttato al tiranno la splendida vit-
toria di Torgio (305/4), in cui egli distrusse un esercito di gran
lunga più numeroso del suo (2). Dopo ciò Dinocrate vide chiaro
che la resistenza si poteva prolungare, ma senz'altro eftetto che
un ulteriore spargimento di sangue. E cedette alla forza delle
cose. Naturalmente Pasifilo non pensava così. Per lui che aveva
disertato dalle bandiere d'Agatocle non ci poteva essere più pace
col tiranno: o guerra o morte. Come lui dovevano pensare i com-
pagni di diserzione, coi quali naturalmente si schieravano gli oli-
garchici intransigenti. Dinocrate appena ebbe veduto che la sola
linea ragionevole di condotta era la sottomissione, senza por tempo
(1) Non si comprende infatti com'egli abbia perduto tempo in trattative
invece di profittare dell'impressione prodotta dallo scacco d'Africa e dal-
l'isolamento di Agatocle da Siracusa per tentare di terminar la guerra con
un assalto vigoroso. Agatocle al suo posto non avrebbe certamente fatto così.
(2) DiOD., XX, 89. Il racconto di Diodoro offre qui qualche ditKcolth per
la strage di 4 o fin 7 mila soldati che si erano resi ad Agatocle a patto
(li aver salva la vita, mentre agli altri fuorusciti fu concesso il libero ri-
torno. Questa difficoltà hanno tentato di risolverla in vario senso Schubert,
p. 192 seg. e Niese, 1, p. 171, n. 5.
Rivisla di filologia, ecc., I. 21
— a22 -
in mezzo occupò con un colpo di mano Gela, dove prohabilnaente
Pusifìlo aveva il suo quartiere generale, lo mise a morte e si diede
co' suoi nelle mani del tiranno aprendogli tutte le piazze di cui
disponeva. Agatocle lo accolse a braccia aperte, lo fece generale
d'una parte delle iruppe e si valse di lui, che era in strette re-
lazioni coi capi oligarchici, per ricondurre le città siceliote alla
obbedienza. In uno o due anni la Sicilia greca era nuovamente
riunita sotto lo scettro del tiranno (1).
Non senza meraviglia noi vediamo spegnersi quu.si d'un tratto quel
fuoco d'opposizione contro Agatocle che s'era manifestato già prima
del colpo di stato del 317 e che aveva divampato con tanta energia
finché durò la impresa d'Africa; e non si dica che la fiamma (•
stata solo coperta momentaneamente di cenere; Agatocle ha con-
servato fino alla morte il tranquillo possesso della Sicilia greca.
Ora è vero che egli non era riuscito nell'intento di porre a base
del suo potere la vittoria sul Fenicio; ma la lotta contro di lui
aveva gettato la Sicilia in un'anarchia spaventevole. I Cartaginesi,
gli Agrigentini, gli oligarchici, Agatocle s'erano a vicenda dila-
niati con furore: e i Sicelioti erano stanchi di queste lotte e
sentivano il bisogno d'ordine e di pace, e fu questa la causa per
cui tutti cedettero davanti ad Agatocle, che solo tra i contendenti
era ormai in grado di soddisfarlo. Ed Agatocle, simile in questo
ad Ottaviano, seppe a tempo debito chiudere le liste di proscrizione
ed inaugurare un regime temperato e clemente (2) : egli attese a
(1) Il terminus ante quem pare debba essere la spedizione alle isole Li-
pari. DioD., XX, 101 (a. 304/3).
(2) Il paragone con Augusto è di G. Meyer, in una recensione dell'A^ra-
tìiokles di ScHUBERT, pubblicata nelle Góttinger gelehrte Anzeigen, a. 1888,
p. 858 segg. Qui il Meyer ha dato di Agatocle la miglior caratteristica che
fino ad ora se ne abbia. In un punto però io credo di dovermi allontanare
dal Meyer: nella grande stima ch'egli fa di Duride Samio. Uno storico, il
quale mette tanto in alto la i'jÒovì^ èv tu) qppdaai, come a propria confes-
sione Duride (fr. 1), è degno, a priori, di poca fede quando fa dei racconti
di grande effetto. In linea generale, come è stato detto giustamente, belle
storie non sono storie vere. Certamente anche questi racconti sono impor-
tanti a studiare per conoscere l'indole del tempo; come per conoscere l'in-
dole del tempo nostro non è senza interesse l'opera di qualche scrittore
amico, per partito preso, della chronique scandaleuse, ma non conviene pren-
— 323 —
risanare le piaghe della Sicilia, assicurando così alla sua tirannide
la piti solida delle basi e preparando la rivincita sul Fenicio. I
patriotti guardavano ansiosi a lui, aspettandone il segnale; ma il
soldato brillante ed avventuroso della campagna d'Africa attendeva
che i preparativi fossero compiuti in modo tale da guarentire con
piena sicurezza la vittoria per cominciare la lotta suprema ; e finche
giungesse quel momento si contentava, mantenendosi coi Carta-
ginesi in buone relazioni, di scagliare in faccia a' suoi nemici lo
splendore dei successi della sua politica italiana ed orientale. Fa-
cilitava intanto il suo compito la corrente d'idee che si diffondeva
dall'Oriente, dove il principio monarchico prendeva vigore dal fio-
rire delle grandi monarchie dei Diadochi.
V. La politica italiana ed orientale di Agaiocle. — Mentre
i Cartaginesi chiudevano vittoriosamente la guerra d'Africa, i Ro-
mani terminavano anch'essi vittoriosamente la così detta seconda
guerra sannitica. Dopo il grande incremento che aveva avuto la
loro potenza, il problema quale condotta avrebbero tenuto verso
gl'Italici che tante volte avevano assalito le città greche del Ionio
andava divenendo per queste città un problema assai grave. Ora
a quel tempo l'alleanza p. e. dei Lucani era ancora pei Romani
di tale importanza nel caso d'ulteriori guerre col Sannio che Roma
non poteva se non procedere di pieno accordo con essi nelle que-
stioni riguardanti le città greche. Così Taranto ebbe a lottare coi
Lucani e coi Romani (1); l'intervento di Cleonirao, fratello di quel-
l'Acrotato che abbiamo veduto chiamato dagli oligarchici in Si-
cilia, procurò ai Tarentini la pace; perchè i Lucani non erano
capaci di resistere da soli alle truppe raccolte da Cleonimo ; e
dere tutto quel che vi può esser contenuto per verità storica. Aderisco in
sostanza al giudizio che su Duride dà Schubert, Geschichle des Pyrrlius
(1894), p. 11 segg. — Sulla clemenza dell'ulteriore governo di Agatocle vedi
i passi di Polibio citati più sopra ; cfr. Diod., XX, 90. Anche il silenzio
quasi completo di Diodoro sul ricupero delle città siciliane è abbastanza
eloquente. Contro qualche città però, per ragioni a noi ignote, si sono usati
procedimenti molto crudeli anche ora; v. Polvaen., V, 3, 2, dove però ci
sono esagerazioni enormi.
(1) Diod., XX, 104.
- 324 —
f|nanto ai Romani, essi non avevano punto intenzione d'impieii^are
errami i forze nell'estremo mezzofrjorno della penisola, mentre c'e-
rano (la temere o<;ni momento nuove complicazioni in ])unti più
vicini; tanto piìi flie data la condizione delle cose d'allora, chi
avrebbe ritratto ((uadaf,'no dalla ^ni -rra sarebbe stita non Roma,
sì bene i Lucani.
Dopo ciò per circa ((uindici anni i Lucani lasciarono in pace
le città ,£ri-eche, anche perchè presto ebbero altre cose cui atten-
dere, quando scoppiò la terza jruerra sannitica. Ma non cosi api-
vano i Bruzì, i quali non erano allora lejjati da alcun trattato
con Roma e poco temevano di Taranto, che difficilmente avrebbe
osato in quel tempo spingere le sue tendenze protettrici dell'el-
lenismo al di là di Turio e di Metaponto. I Greci dell'estrema
Calabria trovarono un protettore in Agatocle. Questi aveva risot-
toraesso l'intera Sicilia greca, si era rese tributarie le isole Lipari
e lavorava a riorganizzare l'impero di Dionisio. Ora credette ve-
nuto il tempo di riprendere in Italia la grande politica di Dio-
nisio il vecchio: sostenere l'elemento greco contro l'elemento in-
digeno e far predominare nell'Adriatico l'influenza siracusana (1).
(1) Riguardo alle relazioni anteriori di Agatocle con gli Etruschi noto
che egli ebbe nel suo esercito mercenari etruschi e che una volta, nel 307,
una squadra navale è venuta dall'Etruria a soccorrere Siracusa contro i
Cartaginesi, Diod., XX, 61, 6. Sulla città etrusca che può aver mandato questa
squadra, v. le osservazioni del Pais, Studi storici, li (1803), p. 343, n. 4.
Sono però d'accordo col Niese, p. 484, n. 2, nel ritenere che non c"è ra-
gione di mettere in rapporto la cosa con la guerra tra Romani ed Etruschi.
Notiamo che nel 308, secondo la nostra tradizione, gli Etruschi avrebbero
già deposto le armi ; che del resto è assai incerto se questa volt.i alla guerra
con Roma abbiano preso parte tutti gli Etruschi o solo poche loro città
(Ihne, Romische Geschichte, ^^ 394, n. 1). Osserviamo ancora che merce-
nari etruschi (Diod., XIX, 106, 2) hanno servito anche negli eserciti carta-
ginesi e che il soccorso etrusco isolato del 307 non è prova di un'alleanza
vera e propria. Io lo paragonerei col soccorso inviato da Agrone re degli
miri -rT€io6ei(; xpi1M«<Ji (Polyb., Il, 2, 5) a Medeone assediata dagli Etoli.
Egualmente il fatto che mercenari sanniti hanno militato sotto Agatocle
non prova punto che egli fosse in lega coi Sanniti. YA è vero che gli ob-
biettivi della politica d'Agatocle erano affatto in contraddizione con gli ob-
biettivi della politica romana; ma se durante la terza guerra sannitica .\ga-
tocle fosse stato in lega coi Sanniti, qualche cosa senza dubbio ne sapremmo.
Oltreché sarebbe stata una politica assai poco oculata da parte d'.Agatocle
— 325 —
Di qui la sua guerra coi Bruzì e in parte anche la collisione che
si produsse tra lui e la Macedonia.
Delle guerre d'Agatocle nel Bruzio noi abbiamo notizie troppo
scarse per formarci un giusto concetto sia dell'andamento, sia dei
risultati di esse. Sappiamo p. e. che un pronunciamento (a quel
che pare) di 2000 mercenari, i quali s'erano messi in relazione
coi Bruzì, fu da lui domato col passarli tutti a fil di spada (1);
che assediò ed occupò Crotone (2) ; che prese Ipponio. Quest'ul-
tima città stava da tempo in mano dei Bruzì, i quali gliela
ritolsero poco dopo ; ma Agatocle deve averla ripresa ancora una
volta, giacché ebbe il tempo di fondarvi un porto, che Straboue
menziona come ancora esistente (3). E con le forze preponde-
lanti di cui poteva disporre si deve credere che il tiranno abbia
riportato colà grandi successi. Agatocle trasse anche alla sua al-
leanza un certo numero di popolazioni apuliche. Questi alleati gli
servivano per far valere l'influenza siracusana nell'Adriatico (4).
L'influenza romana in quel mare era ancora limitatissima ; le
prime colonie marittime dei Romani nell'Adriatico furono fondate
solo dopo la morte di Agatocle (5).
tirarsi addosso un nemico cosi potente come i Romani contro cui non .poteva
fare, come non ha fatto, nulla di serio, mentre già ne aveva tanti altri.
Tutto questo ci esorta ad astenerci da troppo vaste combinazioni sulle re-
lazioni d'Agatocle con l'Italia.
(1) DiOD., XXI, 3. Bisogna ricordare che la fonte di Diodoro è quasi sempre
assai avversa ad Agatocle; è molto probabile che dopo la ricliiesta della
paga ci fosse un pronunciamento "aperto.
(2) DioD., XXI, 4.
(3) DiOD., XXI, 8. Strah., VI. 256.
(4) DiOD., XXI, i-.-npòc, he toù<; ó|uópou<; ^ap^àpovc, 'Id-rruYat; xai TTeu-
Kexiouc; au^iaaxiav èiroufiffaTo koì vavx; Xì^arpwiàc, xopnYUJV aùroìq tò |uépn
Tùjv Xeidiv t\(i|uiPave. Sarà vero che Agatocle ha donato ad essi delle navi
e che essi gli lianno rimesso dei tributi o dei donativi. Sarà anclie vero che
non si sono astenuti dal pirateggiare. Diodoro ci dà questi falli tradotti noi
gergo dei nemici d'Agatocle.
(5) Per quanto non è punto certo che Sena sia stata dedotta subito dopo,
nel 289 come si è voluto ricavare da Liv., ^pi7., 11. Secondo Poi.yb., II, 19,
12, essa sarebbe stata fondata nel 283. Gastrum Novum è qui fuoii di que-
stione, perchè si tratta piobabilmente di G. N. Etruriae. Hadrin non è co-
lonia iiiai'itlima, ma colonia latina.
— 326 —
Nfil sistema degli stati ellenistici, l'impero d'Agatocle era una
delle grandi Potenze. Quando, dietro l'esempio d'Antigono e De-
metrio, i governatori dell'Oriente assunsero titolo di re, lo prese
anche Agatocle. Se egli non esitò a compiere un atto che doveva
urtare alquanto i suoi amici democratici, non fu certo per me-
schina vanità — ci viene rappresentato come alieno da ogni pompa
esteriore — , ma perchè non prenderlo sarebbe stato riconoscere
l'inferiorità dell'impero siracusano di fronte alle grandi monarchie
dei Diadoclii, mentre Agatocle intendeva di trattare con essi a
testa alta, da pari a pari.
La Macedonia dopo la battaglia d'Ipso aveva riacquistato la
preponderanza nella penisola ellenica. Anche prima, fin dal 302
probabilmente, l'Epiro erale tornato tributario (1). Ma il giovine
re Pirro che n'era stato espulso aveva dei partigiani nel paese, i
quali non volevano subire così la supremazia macedonica. E non
è difficile che essi avessero cercato un rifugio a Corcira e che di
là costituissero una minaccia permanente all'Epiro, Fu questa pro-
babilmente la ragione per cui Cassandre assalì Corcira e assediò
strettamente la città per terra e per mare. Agatocle che stava
con le sue truppe nel Bruzio, mosse al soccorso, distrusse in una
battaglia navale la flotta macedonica e si annesse Corcira (2).
Quale fu la ragione di questo intervento? Non era certamente il
desiderio di servirsi di Corcira come base d'operazioni per inter-
venire in Epiro o in genere nella penisola greca. Non solo Aga-
tocle non ha mai pensato ad un tale intervento — e nelle con-
dizioni in cui egli si trovava, coi Cartaginesi alle porte, sarebbe
stato un assurdo; ma ha mostrato altresì di non annettere grande
importanza al possesso di Corcira cedendola prima a Pirro, poi a
Demetrio Poliorcete. Bisogna in realtà cercare un'altra spiega-
zione. Cassandre continuava in Grecia la politica del padre: pro-
teggeva la classe possidente e favoriva le tendenze oligarchiche.
Agatocle s'era aperta la via al trono lottando contro gli oligar-
chici ed assicurandosi con distribuzioni di terre il favore dei pro-
letari. I fuorusciti democratici della penisola greca dovevano trovar
(1) ScHUBERT, Geschichte des Pyrrhus (1894), p. 119 seg.
(2) DioD., XXI, 2.
— 327 -
favore alla corte di Siracusa, come i fuorusciti oligarchici di Si-
cilia alla corte di Fella. Così le relazioni tra i due monarchi non
potevano essere che tese. E non è difficile che gli oligarchici si-
ciliani nella guerra contro Agatocle avessero goduto, se non del-
l'aiuto materiale, almeno dell'appoggio morale di Cassandro, come
probabilmente non era mancato ad essi in misura anche maggiore
quello di Antipatro (1). Non è difficile neppure che nella grande
lotta dei re confederati contro Antigono il vecchio e Demetrio
Poliorcete, Agatocle, senza prender parte alla guerra, si fosse mo-
strato apertamente amico ai due ultimi, come abbiamo notizia
sicura che si mostrò amico del Poliorcete negli ultimi anni della
sua vita. La ragione sarà stata in primo luogo, che gl'interessi
commerciali avranno consigliato di tenersi in buoni rapporti con
la prima potenza marittima del mondo greco; poiché mentre questa
non era, almeno per ora, pericolosa all'impero siciliano, qualche
nave della flotta di Demetrio avrebbe potuto essere d'un grande
aiuto in caso d'una nuova guerra con Cartagine, eventualità che
il tiranno aveva sempre davanti agli occhi. Non bisogna poi di-
menticare che Demetrio s'atteggiava a protettore delle forme de-
mocratiche nel mondo greco, al modo stesso come Cassandro si
atteggiava a protettore dell'oligarchia. Posto ciò Agatocle aveva
assai a temere nel caso che Cassandro acquistasse Corcira. Da
quest'isola che stava all'ingresso dell'Adriatico egli poteva danneg-
giare il commercio siracusano in quel mare e la possibile espan-
sione coloniale sulle sue sponde; o peggio ancora poteva aprirvi
un rifugio ai suoi avversari oligarchici, ai quali non sarebbe parso
vero di mettersi sotto la bandiera di Cassandro come i loro con-
fratelli di Grecia. E poi Agatocle non avrà mancato di calcolare
quanto una vittoria sul re di Macedonia avrebbe aumentato il suo
prestigio all'interno ed all'estero.
Del resto le condizioni dell'Epiro cambiarono faccia molto rapi-
damente. Ke Tolemeo d'Egitto osservava con un certo timore come
crescessero di potenza i suoi antichi collegati. Dapprima, ve-
dendo Seleuco estendere in modo pericoloso il suo dominio nella
(1) V. sopra, cap. I.
— :ì28 —
.Siria, si accostò a Lisimaco (Ij e probabilmente a Cassandre,
mentre Seleuco, minacciato d'isolamento, aveva cr<,'duto oppor-
tuno stringersi in lega con Demetrio Poliorcete; in seguito forse
intimorito dai progressi di Cassandre in Grecia, Tolemeo cambiò
di politica e si unì con Seleuco e con Demetrio (2). Uno degli
effetti di quest'alleanza, anch'essa del resto poco durevole, fu
l'invio di Pirro come pretendente al trono in Epiro, dove re-
gnava Neottolemo sotto l'alto dominio di Cassandre (3). Non è
necessario di narrare come Pirro ottenne d'essere riconosciuto re
insieme a Neottolemo e poi si sbarazzò del collega. Ora Pino
doveva desiderare vivamente il possesso di Corcira: gli sarà parso
di non poter essere sicuro del suo regno finché quell'isola non fosse
in mano sua. Agatocle la cedette volentieri ad un nemico della
casa d'Antipatro: tanto più che doveva stargli a cuore di tenersi
in buone relazioni con Demetrio Poliorcete e Tolemeo, ossia con
le due principali potenze marittime del mondo greco. Egli diede
Corcira in dote alla figlia Lanassa che andò sposa a Pirro (4).
Fu in questa occasione probabilmente che si stabilirono rapporti
d'amicizia tra Agatocle e Tolemeo, e che il tiranno sposò una
principessa della casa reale d'Egitto, Teossena, da cui ebbe poi
due figli (5).
I buoni rapporti tra Pirro, Demetrio e Tolemeo durarono assai
poco. Quando, morto Cassandre, Demetrio volle intervenire nuo-
vamente nella penisola greca, Tolemeo cercò risolutamente d'im-
pedirglielo (296). Pirro alla sua volta, quando il Poliorcete salì
sul trono di Macedonia prese a combatterle. Allora Agatocle si
staccò dall'amicizia di Pirro per riprendere gli antichi rapporti
con Demetrio. Lanassa lasciò Pirro e si ritrasse a Corcira, che
rimise nelle mani di Demetrio Poliorcete, unendosi con lui in
matrimonio (6). Intanto i preparativi di Agatocle per una nuova
(1) Plut., Demet., 31.
(2) Plut., Demet., 32.
(3) Plut., Pyrrh., 5. Gfr. Schubert, Pyrr/ius, p. 121 seg.
(4) Plut., Pyrrh., 9. Diod., XXI, 4.
(5) lusTiN., XXIII, 2, 6.
(6) Plut., Pyrrh., 10. Schubert, Pyrrhus, p. 127.
— 329 -
grande spedizione contro i Cartaginesi si avvicinavano al compi-
mento, ed egli era sul punto di riaprire la guerra. Ciò prova, tra
parentesi, che le cose d'Italia erano condotte a tal termine, che
doveva essere tranquillo sul loro conto (1). Naturalmente egli non
aveva mancato di apparecchiare una flotta considerevole, giacche
non poteva sfuggirgli che per vincere i Cartaginesi bisognava
avere il dominio del mare. Ma già aveva dovuto vedere nella
prima guerra con Cartagine quanto fosse pericoloso mancare di
qualunque alleanza fuori della Sicilia che potesse costituire per
lui come un punto d'appoggio in caso di pericolo; e al tempo
stesso, siccome, essendo più che settantenne, voleva regolare la
successione al trono, importava che Agatocle iuniore destinato dal
padre alla successione fosse da qualche Potenza riconosciuto come
principe ereditario. Per questi motivi Agatocle iuniore fu inviato
alla corte di Demetrio Poliorcete. Agatocle tra i possibili alleati
che avrebbe potuto scegliere preferì Demetrio, perchè probabil-
mente amico d'antica data, vicino e potentissimo sul mare. Peri-
coloso per Agatocle, almeno pel momento, non era: con troppi
nemici aveva da combattere. La guerra quadriennale era allora
in sullo scorcio o fors'anche s'era già chiusa; ma anche la pace
che vi pose termine non era che una tregua nella lotta di De-
metrio per l'esistenza, e chi si faceva meno illusioni su ciò era
lo s'esso Poliorcete. In queste condizioni egli accolse a braccia
aperte l'inviato del potente re di Sicilia che gli offriva la conclu-
sione d'un trattato d'amicizia e d'alleanza, e non esitò a ricono-
scere Agatocle iuniore, secondo si desiderava alla corte di Siracusa,
come il futuro successore del padre (2).
V'erano infatti due pretendenti al trono di Siracusa: Agatocle
terzogenito del re e il suo nepote Arcaguto, tìglio di quell'Arca-
guto che era stato ucciso in Africa. Arcaguto aveva già fatto le
sue prove al comando delle truppe (B). 11 re si decise pel i^rojM-io
(1) Nulla si può ricavare in contrario da Iustin., XXllI, 1, il quale ha
confuso tanto le cose da narrare, che Agatocle fece in Italia una spedizione
sola di pochi giorni.
(2) DioD., XXI, 15.
(3) Dioi)., XXI, 3. 10. 3.
- 330 -
firmilo. Per quali ragioni fosse escluso Arcaguto dalla successione
noi l'ignoriamo, ed egualmente non ci riesce d'intendere come gli
fosse lasciato il comando delle truppe e della flotta proprio fino
al momento in cui Agatocle fece riconoscere come successore il
figlio nell'assemblea popolare di Siracusa. Arcaguto invece di cedere
il comando delle truppe ad Agatocle iuniore lo assassinò in un
banchetto. Allora il delitto commesso da Arcaguto non era di
quelli che rendevano impossibile un principe oppure potevano es-
sere commessi soltanto da uno scellerato volgare. Non è onorevole
certo per le condizioni morali di quel tempo; ma alcuni dei principi
che per molti riguardi van collocati tra i migliori dell'età elle-
nistica sono saliti al trono o vi si sono consolidati con assassini
come quello di Arcaguto : basti citare Pirro che ha assassinato
Neottolemo, e Demetrio Poliorcete che ha assassinato un figlio di
Cassandre. Ed Agatocle stesso, sebbene non si sia trovato nell'oc-
casione d'uccidere propri parenti, era ben lontano dall'avere la
coscienza netta in fatto d'assassini. Se voleva salvare l'opera di
tutta la sua vita, egli doveva riconoscere l'assassino come erede
e aprirgli le porte di Siracusa. Umanamente però noi compren-
diamo bene che non perdonando ad Arcaguto l'uccisione del figlio,
preferisse, poiché non c'era altro erede, ristabilire in Siracusa la
democrazia. Lasciare il trono ai due fanciulli avuti da Teossena
con una reggenza sarebbe stato possibile solo a condizione di po-
tersi assicurare dell'esercito che stava tuttora agli ordini d' Arca-
guto. Se fosse stato in forze, il re non avrebbe mancato di pre-
sentarsi tra i suoi veterani e di ridurli al dovere. Ma una malattia
violenta lo aveva condotto in poc'ora sull'orlo del sepolcro. E con
l'ultima disposizione che prese segnava la rovina dell'impero da
lui costituito ; e ciò in un momento in cui questo impero sarebbe
stato chiamato a una missione d'importanza gravissima — la lotta
di rivincita col Fenicio per liberarne la Sicilia; la lotta contro
Roma per l'indipendenza dei Greci d'Italia. Questo non poteva
sfuggire alla mente calcolatrice d' Agatocle; e con questo pensiero
egli scese nella tomba (289) (1).
(1) Agatocle è morto non per avvelenamento, come dice Diod., XX, 16,
- 331 —
La storia della tirannia di Agatocle mostra quanta forza viva
ci fosse nei Sicelioti pochi decenni prima dell'intervento romano.
Ma questa si perdeva in lotte intestine, se non c'era chi la disci-
plinava, spegnendo quelle lotte con la diplomazia o col sangue.
Senonchè appunto la storia d' Agatocle ci mostra quanto un tal
compito richiedeva d'energia senza riguardi, di coraggio a tutta
prova e di genio politico. E in tali condizioni la monarchia mi-
litare, l'unico governo capace di salvare i Sicelioti, non poteva
essere durevole. Così i Greci di Sicilia dovevano sembrare ad ogni
osservatore intelligente in grave pericolo di soggiacere ai Fenici.
Nella lotta tra i Semiti e gli Arii per la supremazia del Medi-
terraneo occidentale, gli Arii erano minacciati di una sconfitta.
Ma s'appressava il momento in cui nella storia di Sicilia doveva
introdursi un fattore, il cui valore nessuno a quel tempo poteva
apprezzare: i Romani.
Roma, decembre 1894.
Gaetano De Sanctis.
28. 3. "95.
SOPHOCL. ANTIG., 41-43.
Forse si guadagna qualcosa trasportando le parole aKÓirei e
Xepi:
ANT. ei HuiLiTTOvnaeiq Kai EuvepTÓcTi] x e p i
IZM. TToTóv TI Kivòùveu^a; ttoT Yva))uri(; TTOT'ei;
ANT. el TÒv veKpòv Eùv Tfjòe Kouqpieiq a k ó tt e i.
Il primo eì è allora, come spesso e negli altri drammatici e in
Sofocle (cf. Ellendt-Genthe, p. lOS'"^ sq.), grammaticalmente col-
legato con la interrogazione di Ismene ne' versi precedenti.
G. V.
Mia probabilmente per un cancro alla bocca, come ha mostrato Schihert,
Agathokles, p. 204 seg. Per la data v. cap. I.
— :^32 —
NOTA CRONOLOGICA
SULLA qup:stl'ka di C. VEIJHE
Cicerone nella sua accusa contro Verre, dichiarando di voler
prendere in esame la vita pubblica dell'accusato ed assumendo,
come punto di partenza, la questura di lui, dice: — « Quaesfor
Cu. Papirio consule fuisti abhivc annos quutiuordecim » (1).
Quando che siano state scritte queste orazioni, le quali, come
è noto, non furono pronunziate in giudizio; della seconda parte
dell'accusa, occorre in ogni modo, a chi voglia fissare l'anno pre-
ciso della questura di Verre, riportarsi all'agosto dell'anno 70 av.
C, in cui il giudizio ebbe luogo, e, di là, risalire per quattordici
anni continui.
Se Cn. Papirio fosse stato console una volta soltanto, o Cicerone
avesse curato meglio, indicando l'iterazione o il collega, di deter-
minare con esattezza l'anno, non vi sarebbe stato, ne vi sarebbe
luogo a controversia; ma, de' due consolati di Cn. Papirio Car-
bone (2), Cicerone non dice a quale intenda riferirsi, ed a nome
di collega non accenna punto. Occorre dunque rifarne il computo,
servendosi del dato de'' quattordici anni ; ma, anche così facendo,
donde occorre proprio prendere le mosse ? e bisogna comprendere,
od escludere l'anno 70, in cui si finge che Cicerone abbia parlato?
Come il Savignj' (3) ha dimostrato anche più particolarmente,
con una ricerca, fatta sulla base de' numeri ordinali, ma che trova
la sua applicazione anche pe' numeri cardinali (4), presso i Ro-
mani mancava una regola fissa nel computo del tempo: e, fin
(1) Cic. in Verr. AS. I 12, 34.
(2) CIL. P pp. 27, 154.
(3) Savigny, F. C. System des heutigen ròmischen Rechts. Berlin 1841,
IV 361-2, 602 sgg.
(4) Op. cit. 607-8.
- 333 -
presso lo stesso scrittore , indiflFerentemente , accade di vedere
escluso, 0 compreso, uno de' termini del computo. Perciò, anche
senza ritenerlo errato, come fa lo Zumpt (1), si può, col computo di
quattordici anni, giungere tanto all'anno 84 che all'anno 83 av. C.
11 Savigny vorrebbe attribuire un carattere di maggiore anti-
chità al calcolo, che include, nel computo degli anni, quello, da
cui si prendono le mosse; all'altro invece un carattere di maggiore
esattezza ed eleganza ; e vuole che per questo secondo sistema pro-
penda Cicerone, benché non vi si attenga in maniera assoluta (2).
La particolare espressione, adottata da Cicerone {abhinc annos
quattuordeeim), assicura anche meglio, in questo caso, che abbia
inteso riferirsi all'anno 84. E. in verità, era questa l'opinione, ge-
neralmente adottata, e seguita dal Fighi (3) e dallo Zumpt (4).
11 Fighi, senza pur dirlo, faceva una concessione all'altra opinione,
portando Verre come pro-questore nell'anno seguente (5).
La questura di Verre corrisponderebbe così al secondo consolato
di Cn. Fapirio Carbone (6), da lui esercitato nell'anno 84; e Cice-
rone potè credere di avere indicato abbastanza esattamente l'anno
col solo nome di Carbone, anche perchè una particolarità di quel-
l'anno era appunto che, avvenuta la morte di L. Cinna, il suo posto
non era stato coverto, e Carbone era rimasto unico console in
carica.
Il Drumann (7), intanto, rivolgendo la sua attenzione alla presa
di Ariminum, ed alla sconfitta di Carbone, fatti da Cicerone messi
in relazione con la questura di Verre e che si riferiscono al-
l'anno 82, assegnava a quest'anno la questura, ed attribuiva l'e-
quivoco all'uso di Cicerone, d'essere inesatto ed oscuro nel deter-
minare le date.
(1) M. TuUii Cicerunis Yerrmaruni lib. VII ree. et expl. C. T. Zumpt.,
Berolini 1831, p. 115.
(2) Op. cit. p. 715.
(3) Annales Romanorum, Antverpiae 1G15, III 240.
(4) Op. cit. 1. e.
(5) Annales Roman. Ili 252.
(6) CIL. V pp. 27, 154.
(7) Geschicltte lioms in scinein Ucberyanye von der repul>li>i"''i<'-/ -'n
zur monarchischen Yerfassung, Koenigsberg 1841, V 2(i0.
— 334 ~
IJalla questione, com'era ridotta in questi termini, lo Storten-
bekkor (1) credeva di uscire, attribuendo all'anno 83 la (|uestura
di Verre e rivendicando, in questo semplice punto almeno, l'esat-
tezza cronologica di Cicerone.
Ma l'argomentazione dello Stortenbekker poggia tutta sopra pre-
supposti ed induzioni inesatte.
Sono falsi presupposti infatti che la maniera comune di com-
putare il tempo fosse quella, che lo Stortenbekker vuole; che la
Gallia Cisalpina fosse, sin d'allora, una provincia, e che Cn. Pa-
pirio Carbone vi stesse in qualità di proconsole.
È noto come incerto sia il tempo, in cui la Gallia Cisalpina
divenne provincia (2) e quanta autorità sia da parte di chi so-
(1) De conditione Siciliae provinciae romanae C. Verre praetore, Hagae
1861, p. 13, n. 3: « Verr. 1. 1. (I 12, 34) adhuc legitur » Obtigit libi con-
sularis ut cum consule Cn. Carbone esscs, eamque provinciam obtineres r>;
eamque provinciam nil significant, nam obtinere provinciam ut cum consule
esses, queni sensum Zumpt {Studia romana, p. 44) iis tiibuit, non dicitur.
Obtinere provinciam (regionem), latine dicitur et quum hoc loco Gallia pro-
vincia, sit quam Verres obtineret, propone nostro loco legendum « Obtigit
tibi consularis — Galliamque provinciam » obtineres. In eodem loco (34)
legitur « Quaestor Cn. Papirio consule fuisti abbine annos qiiatxordecim •» ;
ad haec Drumann, V 266 dixit : « Die Aufgabe, er sei vierzehn Jahre vor
dem Processe unter dem Gonsulat dea Cn. Papirius Garbo Quaestor ge-
wesen, ist mit der Geschichte nicht zu vereinigen. Vide et seqq. Quamquam
Drumanno do Giceronem non semper accurate scripsisse quod ad rem chro-
nologicam, nostro loco tamen non male de temporis termino dixit, unde Verris
crimina repetiturus est. Drumann Verris quaesturam vel ad secundum (a. 84)
Carbonis, vel ad tertium (a. 82) consulatum retulit, sed omnino referenda
videtur ad annum 83. Verres quaestor creatus est, Gn. Papirio Garbone
iterum consule (a. 84), qui annus ab uno consule appellatur, cum Ginna a
suis militibus interfectus, et Garbo, nullo suflfecto collega, consul fuit (Veli.
Patere, li 24; Liv. Epit. LXXXIII ; App. B. G. 73 in fine : koì )uóvo<; fjpxev
ó KdpPuuv), ex senatusconsulto provinciam (Galliam) vide Zumpt, Studia
rom. 1. 1.) sortitus (Verr. 1. 1.) a. 84 ; et sequenti anno (83) ad Carbonem
proconsulem profectus est (Verr. 1. 1. 35). Fuit enim eo anno (inter secundum
et tertium consulatum) Garbo proconsul in Gallia (App. B. G. I 82: Pseudo-
Asc. ad Verr. Ad. I, p. 129 Orell.; Zumpt, 1. 1.; Suringar. Cic. de vita sua,
559-60 ; Massée, op. 1. p. 2. — Fuit igitur Verres quaestor a. 83; causa acta
est a. 70, et recto Gicero dixit annos qiiatuordecim, servata communi Ro-
manorum numerandi ratio ne ».
(2) Marquardt, L" administration romaine , trad. frane,*. Paris 1892, II,
p. 6 sg.
— 335 -
stiene che almeno sino all'anno 81, se non sino ad un tempo
posteriore, essa non potè ritenersi come provincia (1 ).
La nuova lettura del testo di Cicerone, che lo Stortenbekker,
come è riferito in nota, vorrebbe adottare, è affatto arbitraria, e
la parola provincia è qui adoperata da Cicerone, come già da
altri in altri luoghi, per indicare, non una regione, ma tutta una
sfera di attribuzioni, che questa volta erano quelle del console.
Niente poi dà facoltà di ritenere, che nell'anno 83, Carbone si
trovasse nella Gallia Cisalpina con vere e proprie funzioni di go-
vernatore di provincia ; mentre si sa soltanto che, con imperio
prorogato, seguitava a rimanere, per tener testa a Siila ed a' suoi
legati, al comando del suo esercito (2). Cicerone riferisce chiara-
mente al consolato di Cn. Papirio Carbone, e non a questo periodo
di prorogazione, la questura di Verre; e, ritenuta la lezione con-
sule, riesce evidente che Cicerone avrebbe mentovato i consoli
Scipione e Norbano per denotare l'anno 83. Inoltre, se nell'anno 83,
Cn. Carbone restava, con imperio prorogato, alla testa dell'esercito,
è molto agevole ritenere che prorogati fossero parimenti i poteri
del questore, già dall'anno precedente a lui addetto ; e l'entrata
in carica di Verre rimonterebbe anche così al precedente anno 84.
Che Verre fosse stato designato, soltanto, in questo anno e che nel
successivo entrasse in carica, non trova conforto in alcun dato.
Cicerone l'avrebbe detto espressamente designato; mentre invece
adopera una parola meglio adatta ad indicare l'esercizio effettivo
dell'ufficio {Quaestor... ftiisti). D'altra parte, se Cicerone dichia-
rava di voler considerare solo la vita pubblica di Verre ed esa-
minare come avea esercitate le sue cariche, era naturale che par-
tisse dal principio della loro reale gestione e non già dalla desi-
gnazione.
In verità, mi sembra assai ardua cosa il sostenere che Cicerone
non abbia voluto collocare nell'anno 84 la questura di Verre. La
dissensio civiiim, a cui Cicerone allude, e la necessità di seguire,
deliberatamente, le sorti di una parte, o di un'altra si riferisce
(1) Zumpt A. W. Studia romana : De Gallia Romanonon provincia,
Berol. 1859, p. 4 sg.; Mommaen, Róm. Gesch. IP p. 355.
(2) App. B. G. 1 82.
— 3:56 —
assai meglio all'anno 84, che non all'anno 82, in cui la guerra
civile stava giù, per avere il suo compimento. Ma, a porre nel-
l'unno 84 la questura di Verre, non occorre questo od altro ar-
gomento indiretto; giacché Cicerone designa appresso l'anno assai
chiaramente. Per contrapporre alla tergiversazione ed alla volu
bilità di Verre un esempio di carattere fermo e deciso, Cicerone
cita l'esempio di M. Pisoiie, che, creato questore, non volle an-
dare a raggiungere il console L. Scipione, cui era stato assegnato.
Ora Cicerone dice espressamente, che ciò avvenne nell'anno se-
guente a quello in cui Verre tenne la questura (1); e L. Scipione
fu precisamente console nell'anno 83 (2).
D'altra parte è difficile del pari mettere in dubbio che Verre
fosse questore anche nell'anno 82. Secondo Cicerone (3), Verre
avrebbe al)baiidonata la sua parte e il suo console, mentre era
ancora in funzione, per passare a Siila, che, alla sua volta,
l'avrebbe internato nel Beneventano, tra i suoi più fidi amici ; e
Siila non tornò in Italia che sotto il consolato di L. Scipione e
C. Nerbano, nell'anno 83(4). Inoltre è in Ariminum, che Verre
avrebbe tenuta la cassa ed i conti, se nel sacco di quella città
poteva asserire di avere perduta l'una cosa e l'altra. Ora, ciò con-
viene precisamente all'anno 82, che piglia nome da C. Mario C. f.
e da Cn. Papirio Carbone, console per la terza volta (5). È in
questo anno che Ariminum diventa il luogo di rifugio e il centro
di azione di Cn. Carbone e della parte mariana; e, con la sua ca-
duta, si chiude il vero periodo della guerra in Italia, ed a Cn.
Carbone non resta che a cercare scampo in Africa (6). Finalmente
(1) In C Yerr. AS. 1 14, 37: « Nam si tibi antea displicuisset (Crt.Car&o),
idem fecisses, quod anno post M. Piso. Quaestor cum L. Scipioni consuli ob-
tigisset, non attigit pecuniam, non ad exercitum profectus est; quod de re
publica sensit, ita sensit, ut nec fidem suam, nec morena maiorum, nec ne-
cessitudinem sortis laederet »; Drumann, op. cit. II, pp. 84-5.
(2) CIL. ¥ pp. 27, 154.
(3) AS. I 15, 38.
(4) Appian. B. C. 82-4; Liv. Epit. LXXXV: Plut. Syll. 27; Oros. Hist.
V 20, 2.
(5) CIL. l« pp. 27. 154.
(6) Appian. B. C. I 87, 90, 91.
4
ì
- 337 —
i questori, a cui Verre deve fare la resa de' conti, sono P. Lentulo
Sura e L. Triario (1), e questi sono i questori dell'anno 81 (2). Non
si saprebbe quindi intendere perchè a costoro dovesse rendere i
conti Verre, se avesse tenuta la sua questura, non già nell'anno 82,
ma nell'anno 84, e sia pure uell'S-S. In tal caso egli si sarebbe
già trovato d'aver reso conti e cassa a chi gli succedeva, e non
avrebbe potuto essere chiamato ancora a renderne conto; né avrebbe
potuto invocare a sua scusa il sacco d'Ariminum, avvenuto dopo
che già egli era uscito di carica ed era stato surrogato dal suc-
cessore.
Se, dunque, dati ugualmente sicuri si hanno dallo stesso Cice-
rone per attribuire la questura di Verre all'anno 84 ed all'anno 82,
bisogna proprio ritenere che sia indispensabile conciliarli e venire
ad altra conclusione, che non sia una delle due, fatte prevalere sin
qui con intento esclusivo.
Per chi pensi che Verre , ottenuta la questura, per la prima
volta, nell'anno 84, abbia avuti prorogati i suoi poteri sino al-
l'anno 82, od abbia almeno in quest'anno iterata la carica; quei
dati, in apparenza contraddittori, si conciliano nella maniera più
facile e più naturale.
La questura, sorta probabilmente col consolato, di cui verosi-
milmente era un'emanazione (3), avea fatto sì che, anche quando
il modo d'elezione potè mutarsi, i questori rimasero sempre inti-
mamente legati a' consoli, anche da un complesso di rapporti mo-
rali (4), e ne restarono gli uomini di fiducia. Vedendo dunque Cn.
Carbone, console neir84, rimasto neir83 alla testa dell'esercito e
poi ancora console, per la terza volta, nell'anno 82; non ci può
sorprendere che Verre sia rimasto per tutto questo tempo con lui,
od almeno che neir82 abbia riassunto il suo ufficio.
L'iterazione in verità non trova frequentemente luogo nelle ca-
riche inferiori, oltre che per le ragioni d'ordine generale, anche per
(1) Gic. in Verr. AS. 1 14, 37.
(2) Plut. Cic. 17; Fighi, op. cit. Ili, pp. 266-7; Drumann, op. cit. II,
p. 529.
(3) Mommsen, Róm. Staatsrecht, IP 525, 528, 532.
(4) Cic. Divin. in Q. Caecil. 19,61-2
Rivista di filologia, ecc., I. 22
— 33H -
gli scarsi vantaggi materiali e le tenui soddisfazioni morali, che
queste potevano procacciare e pel naturale desiderio di salire a
maggiori onori. Tuttavia, esempi non mancano assolutamente, e la
cosa non può essere esclusa. È vero che (J. Sallustio, lo storico,
riassunse la questura, come un mezzo per rientrare nel senato,
donde i censori nel 701 l'aveano escluso; ma resta il caso della
reiterazione (1).
Un'altro caso l'abbiamo nel cursus ìwnorum di Q. Fabio Mas-
simo (2), ed un altro, benché analogo a quello di Sallustio, l'a-
vremmo ancora in quella di Q. Servilio, se, come qualcuno vor-
rebbe (3), sono la medesima persona il Q. Servilio, console nel
107 (4), e il Q. Servilio, questore nel 101.
Sia come si voglia rara questa reiterazione della questura —
a noi del resto men nota, anche per l'ordine inferiore della carica —
nel caso di Verre, la reiterazione si presenterebbe tanto più spie-
gabile, a cagione dello stato di guerra, in cui l'Italia si trovava
avvolta, e della particolare opportunità, che un console poteva scor-
gere nell'avere presso di sé, come questore, un uomo di sperimentata
fiducia.
Le stesse ragioni eccezionali che inducono a ritenere l'iterazione,
possono anche menare ad ammettere la continuazione dell'ufficio.
Lo stato di guerra potea qualche volta sconsigliare, talvolta im-
pedire, la sostituzione de' magistrati ; e, non potendo questi la-
sciare l'ufficio senz'essere surrogati, rimanevano, con o senza la
autorizzazione del senato, per necessità di cose, o per volere di
popolo, nell'esercizio delle proprie attribuzioni (5).
Guardando a tutte queste cose ed all'esempio di Cn. Carbone,
diventa anche più verosimile quello che i dati di Cicerone ci at-
testano, che cioè Verre rimanesse in carica neir84 e neir82, e
fors'anche, a dirittura, dall'Sé airS2.
Nell'esaminare e risolvere questa controversia occorre poi, sopra-
(1) Dio. Gass. 40, 63; 42, 52; Mommsen, Ròm. Staatsrecht, 13 522, A. 3.
(2) CIL. I, p. 288,
(3) Fighi, op. cit. IH, p. 176.
(4) CIL. F p. 152.
(5) Mommsen, Rom. Staatsr. P 637, A. 1; 640, A. 4.
— 339 —
tutto, non distogliere l'occhio e la mente dalla particolare indole
e fìsonomia del tempo a cui i fatti si riferiscono.
Nell'infuriare della guerra civile le buone e rigorose norme
costituzionali venivano messe da canto e non si prendeva norma
che dalla opportunità del momento e dall'interesse di parte. 11
plebiscito del 412 o 424, che avea cercato di mettere ostacoli al-
l'iterazione della stessa carica, permettendo la rielezione con l'in-
tervallo di un decennio, andava a rotoli dopo che C. Mario,
L. Cinna, Cn. Carbone reiteravano a loro talento, il consolato (1).
Il figliuolo di C. Mario, fattosi erede della gloria e delle vendette
paterne, assumeva il consolato nell'età di soli venti (2), o venti-
sette anni (3). Mario e Cinna, vindici della parte democratica, si
dispensavano dal convocare i comizi, e si attribuivano, da sé stessi,
la carica consolare (4); e l'esempio fruttificava, perchè, due anni
dopo, Cinna e Carbone ripetevano per proprio conto lo stesso
giuoco (5).
Considerando dunque una tale serie di eventi e di esempì e la
condizione generale del tempo, non sono le consuetudini e le re-
gole de' tempi ordinari, che possono induiTe ad interpretare, con-
trariamente al loro significato letterale e logico, i dati riferiti da
Cicerone. Tanto più il fatto s'intende, in quanto si trattava della
questura, che, poco ambita e sollecitata, obbligava talvolta, per
i bisogni stessi dell'amministrazione, a ricorrere a straordinari
provvedimenti e ad espedienti (6).
Ma se, con una siffatta interpretazione. Cicerone n'esce riabili-
tato di fronte alla cronologia; le deduzioni, ch'egli ne cava, e
tutto il giudizio sulla questura di Verre, come mi accade di mo-
strare in un piti generale e piìi ampio lavoro sul processo di
Verre (7), vengono a perdere fede.
(1) Mommsen, Rom. Staatsrecht, P 518, 519, 637.
(2) Liv. Epit. LXXXV.
(3) Veli. Pat. II 26; App. B. C. I 87.
(4) Liv. Epit. LXXX.
(5) Liv. Epit. LXXXIII; Appian. B. C. 1 77.
(6) Momiiìsen, lióm. Staatsr. P p. 475, n. 3.
(7) Il processo di Verre. Un capitolo di storia romana. Mil.itid 1895.
— 340 —
Se Verre fu per due anni, o per tre, questore di Cri. Carbone,
difficilmente potrà credersi a Cicerone che Cn. Carbone lo accet-
tasse assai a malincuore (1). Se rimase ancora con Carbone e con
la parte mariana sino air82, sino a' suoi ultimi rovesci, sino alla
caduta di Ariminum, quando già dopo la venuta di Siila in Italia
le deserzioni e i tradimenti aveano cominciato a spesseggiare ; il
giudizio di Cicerone sul suo passaggio alla parte opposta, è per
lo meno imi)rontato a soverchia severità.
E forse è lo stesso carattere tendenzioso dello scritto di Cice-
rone, che l'ha fatto piuttosto confuso in questo punto. L'orazione,
in cui più diffusamente si tratta della questura di Verre, non
venne pronunziata in giudizio, e non era perciò esposta al peri-
colo di una confutazione immediata e calzante. Si poteva quindi
tentare impunemente di alterare lo stato vero delle cose. Nondi-
meno occorre rammentare che Cicerone scriveva a breve distanza
da' fatti che rammentava; e non poteva far le viste di averli di-
menticati, né poteva pensare che mancassero persone in grado di
rettificarli. Perciò, confondere assolutamente le date non potea , e
l'esporle esattamente ed in tutte le particolarità loro, usciva fuori
de' confini del suo scritto e sopra tutto avrebbe smentito il com-
mento, ch'egli ne faceva, a discapito di Verre.
Da' fatti quindi, accennati semplicemente e non esposti ordina-
tamente e sistematicamente, si limitò a trarre conclusioni e ve-
dute, le quali rispondevano assai più all'interesse della causa e
della sua parte, che non all'esattezza della cronologia ed alla ve-
rità della storia. E chi oggi riordina i fatti, non solo ne rista-
bilisce il sèguito cronologico, ma, mettendoli in relazione con gli
altri avvesimenti del tempo, deduce da questo punto, come da
altri, il valore storico da attribuire alle Verrine.
Milano, aprile 1895. Ettore Ciccotti.
(1) AS. I 13, 34.
30. 5. '95.
- 34i -
APPUNTI INTORNO A CORNELIO NEPOTE
I. — È noto che le 23 biograjBe degli « eccellenti capitani »,
le quali nelle moderne edizioni vanno sotto il nome di Cornelio
Nepote, sono in tutti i mss. (eccezion fatta di pochissimi e di
nessun valore, perchè recenti) (1) attribuite ad un Emilio Probo,
di cui non abbiamo nessuna notizia. Inoltre, in alcuni di questi
codd., in fine alla vita di Annibale, si trova il seguente epi-
gramma :
Vade, liber, nostri fato meliore memento.
Cum leget haec dominus, te sciat esse meura.
Nec metuas fulvo strictos diademate crines,
Ridentes blandum vel pietate oculos.
Communis cunctis hominem sed regna tenere
Se meminit : vincit hinc magis ille homines.
Ornentur steriles fragili tectura libelli:
Theodosio et doctis carmina nuda placent.
Si rogat auctorem, paulatim detege nostrum
Tunc domino nomen: me sciat esse Probum.
Corpore in hoc manus est genitoris avique meaque
Felices, dominum, quae meruere manus — (2)
Fra tutte le ipotesi che sono state fatte, la piìi verosimile mi
sembra quella di Teodoro Bergk (3), generalmente accettata, se-
condo la quale il nome Aemilius Probus sarebbe nato dall'essere
state malamente interpretate da un copista le parole Em. Probus,
le quali non significavano se non Emendavi Probus. Non credo
(1) V. neirediz. di C. L. Roth (Aemilius Probus, De eocc. due. exter.
gent. et Corn. Nepoiis quae supersunt. Basiliae 1811) l'Appendice a p. 207-
257: « De librorum numero et aucloritate Dissertatio ».
(2) V. ediz. di Halm, p. 101.
(3) Philoloaus. 1857, p. 5R0.
- 342 -
però di poter se^uin; il critico suddetto nel ritenere che l'epi-
gramma sia la dedica del libro. Infatti, ammesso che in fine alle
Vite l'amanuense avesse posto il proprio nome {£m. Probità), non
so capire per quale ragione egli, nella dedica all'imperatore Teo-
dosio, avrebbe detto :
Si rogat auctorem, paulatim detege nostrum
Tunc domino nomen : me sciat esse Probum.
Questo distico, a parer mio, fa supporre che nel libro inviato
a Teodosio non vi era soscrizione di sorta ; e questa è una ra-
gione di più, per ritenere col Lachmann (1) che l'epicrramma non
stia in relazione alcuna colle Vite.
Quanto poi alla circostanza in cui l'epigramma è stato scritto,
trovo molto attendibile la congettura del Peck (2), il quale ap-
poggiandosi sulle parole « nostri fato meliore memento » del verso
primo, poste da lui a riscontro col proemio dei Tristi d'Ovidio
(v. 97-98):
dominoque tuo felicior ipse.
Pervenias illuc et mala nostra leves,
suppone che l'autore dei versi sopra citati, caduto in disgrazia
dell'imperatore, volesse rientrare nelle grazie di lui per la stessa
via seguita dal poeta Sulmonese. In questa opinione mi conferma
(cosa non avvertita dal Peck) il v. 9:
Si rogat auctorem paulatim detege nostrum, etc.
Per qual ragione infatti il libro non deve svelar subito, ma
« a poco a poco » il nome dello scrittore, se non perchè forse
questo nome poteva tornare non gradito all'orecchio di Teodosio?
IL — Dal terzo distico dell'epigramma:
Communis cunctis hominem sed regna tenere
Se meminit: vincit bine magis ille homines,
(1) Rheinisches Mus. II, 1843, p. 144 e anche nei Kleinere Scliriften
del medesimo, pubblicati da J. Vahlen. Berlin. 1876, p. 188, § X del vo-
lume secondo.
(2) Neue Beitrnge zur Lòsung der Frage nach deni voahren Yerfasser
der Vitae excellentium iniperatorum. Jahns Archiv. 1844, p. 73-98.
— 343 —
il Rinck crede di potere inferire che il Teodosio, a cui è indi-
rizzato l'epigramma, sia Teodosio I, « perciò che » — egli os-
serva — « di Teodosio II nemmeno un adulatore poteva adoperare
la parola vincita mentre egli diede l'impero in balìa ai barbari,
comprò a vii prezzo una mal sicura pace, ne seppe del proprio
regno essere reggitore egli stesso ^> (1). — Dello stesso parere è
il Peck (2): « nur ihm (dem Theodosius d. Grossen) und nicht
dem Jungeren konnen die Pràdikate des dritten Distichon zu-
kommen ».
A me sembra che costoro fraintendano in modo strano il senso
di quel distico. Non si tratta già di vittorie militari, nemmeno
per ombra ! Chi ha scritto quelle parole ha voluto dire che « l'af-
fabilità ed umiltà dell'imperatore {communis cunctis), per la quale
egli si riconosce, benché sovrano, uomo al pari dei suoi sudditi
(hominem sed regna tenere Se meminit), fanno sì che egli sia
superiore a tutti quanti gli uomini {vincit hinc magis ille ho-
mines). Nessun indizio adunque abbiamo in questi versi, che si
parli di Teodosio I piuttosto che del IL — Al v. 7 :
Ornentur steriles fragili tectura libelli, etc,
tutti gli antichi commentatori hanno inteso tectura come un abla-
tivo. 11 Peck invece sostiene che è nominativo e legge con alcuni
codd. (3):
Ornetur sterilis fragili tectura libelli,
perchè, secondo lui, non si può ammettere che un poeta, sia pure
della decadenza, abbia abbreviato 1' a finale dell'ablativo. Consi-
derando quindi tectura come nominativo e dando ad essa non già
il significato di tegimentum, ornamenta libelli, come avevano fatto
gli altri, bensì quello di « superficie bianca » cioè « non scritta »
della pergamena e precisamente « lo spazio, che dopo la trascri-
zione è rimasto vuoto », interpreta: « lo spazio vuoto (non scritto)
(1) Rinck G. F. Saggio di un esame critico per restituire ad Emilio
Probo il libro « De Vita excell. imperati. » creduto comunemente di Cor^
nelio Nepote (Venezia 181H), p. 22.
(2) Op. cit. p. 75.
(3) V. ediz. di Halni, p. 101.
- 344 —
del libro deve essere adorno di qualche cosa insignificante (fra-
gili), cioò del mio carme dedicatx)rio ». Non credo però che tale
interpretazione sia accettabile, in quanto che mi sembra strano
che tectura debba indicare ciò che vorrebbe il Peck,e che inoltre
« fragili » sia da considerarsi come neutro, liitengo quindi cogli
antichi commentatori che iecturd sia ablativo: nell'epoca della
decadenza non è rara l'abbreviatura dell' a finale di questo caso
(Cf. L. Mueller, De re metrica poetariim latinorum, ed. altera,
p. 421. Ramorino, La pron. pojìolare dei versi quantitativi, ecc.
p. 24 e segg.).
È curioso quello che dice rispetto a questo verso il prof. G. Cor-
tese nella sua seconda ^ediz. scolastica (1889) (1) a pag. ix: « a
(1) Giacché mi è capitato di citare questa edizione del Cortese, non so
trattenermi dai far notare alcune inesattezze sfuggite al suddetto professore.
Senza tener conto che, a p. ix, all'edizione del Lambino è assegnato l'anno
1509 invece del 1569 (poiché questo è senza dubbio un errore di stampa ;
cfr. voi. 1 dei Saggi Latini testé pubblicati, pag. 91) osserverò che a p. x,
parlando dello Heerwagen, rimanda, in nota, al Collectaneorum ad Aem.
Probum specimen (Bayreuth 1849) e al Philologus del 1862 (p. 186-187),
come se in questi due scritti fosse discussa la questione intorno alla au-
tenticità delle Vite di Cornelio: invece in essi della questione non è fatto
il minimo cenno. Di tale argomento lo Heerwagen si è occupato in un
articolo della Rivista Filologica di Monaco, intitolato Mi'mchener geleìirte
Anzeigen, articolo che non é citato nella Bibliotheca Scriptt. Classico, del-
l'Engelmann. Il Cortese è stato probabilmente tratto in errore da tale omis-
sione. Alla stessa pag. x trovo scritto : « Dettero origine alla opinione che
Emilio Probo fosse il vero autore delle Vite di Cornelio i... versi, ornai
famosi, che si leggono in parecchi codici, sulla fine della vita di Anni-
bale ». Ciò non è esatto, perché anche prima della scoperta dell'epi-
gramma, si riteneva da tutti che Probo fosse l'autore delle Vite e ciò in
virtù del titolo che si trovava nei mss.: i versi dettero solamente origine
alla opinione che Emilio Probo fosse del secolo di Teodosio, mentre per
l'innanzi era creduto coetaneo di Cicerone e di Attico. Del resto, fatta astra-
zione da queste piccole mende, il prof. Cortese é molto benemerito degli
studi Corneliani in Italia, ove della questione che si-é agitata e .si agita
tuttora intorno alle biografie degli eccellenti capitani non se ne ha una
ben chiara idea. Se, per esempio, si apre la Storia della letteratura latina
deirOccioni, troviamo detto: « per i difetti dello storico (solo per questi?)
sorsero certi dubbi s^dV autenticità dell'opera, e ne derivò una questione,
sopra la quale alcuni (?) critici spesero molta fatica, che però fu fatica
gittata (?) ». Anche un recente commentatore, il Faverzani [Le Vite di
Corn. Nep. Merate 1888), lo chiama « dubbio, che, per uno il quale si
- 345 -
chi ben legge, e senza preconcezioni, questi versi (l'epigramma)
si parrà chiaro trattarsi non di un autore nel senso vero e pro-
prio della parola, sibbene d'uno scriba, come, del resto, risulta
con evidenza incontestabile dal verso:
« Ornentur steriles fragili tectura libelli — ».
Ora, se non m'inganno, da questo verso non risulta affatto che
Probo abbia trascritto l'opera di Cornelio: lo scrittore non ha vo-
luto dire nient' altro che questo: « il mio libro non deve essere
abbellito di nessun ornamento, perchè a Teodosio e ai dotti piac-
ciono carmina nuda ».
111. — Giorgio Federigo Unger (1) nega assolutamente che
Nepote abbia composto, come ha certamente fatto l'autore del De
exceìlentihns ducihtis exterarum gentium (2), una collana di bio-
grafie parallele di Greci e di Komani, perchè dei frammenti che
possediamo nessuno si riferisce ad un personaggio straniero e Plu-
tarco non lo cita mai nelle Vite dei Greci. Il Rosenhauer (3)
invece fa osservare che un valido argomento per sostenere che le
biografie Corneliane fossero parallele si trova nel frammento del
cod. Gudiano di Wolfenbiittel, ove è detto: « Non ignorare debes
unum hoc genus Latinarum litterarum adhuc non modo non
respondere Graeciae, sed omnino rude atque inchoatum morte Ci-
ceronis ». Da queste parole infatti, secondo il critico suddetto,
risulterebbe chiaramente che nel De Historicis di Nepote gli scrit-
tori romani erano paragonati a quelli greci, lo però, a voler dire
il vero, non credo che questo ragionamento del Kosenhauer sia
conosca un poco di eleganze latine, non può in nessun modo sussistere ».
Come se si trattasse soltanto della questione della lingua! Del resto il Fa-
verzani è molto facile a sentenziare: parlando infatti nella introduz.(p. xni)
dei Cìironica di Nepote, li dice « opera mirabile per eleganza e per eru-
dizione ». Donde egli abbia ricavato la notizia che erano un'opera mirabile
per eleganza, né noi sappiamo né egli sarà in grado di indicare.
(1) Der sogennante Cornelius Nepos (Abhandhtngen der k. bayer. Akad.
der Wiss. I ci. XVI Bd. t abt. Miinchen 1881), p. 13-20.
(2) Gf. Hnnn. 13, 4: « Sed nos tempus est huius libri facere fineui et Ro-
manorum explican; imperatores, quo facilius collatis utrorumquc factis, qui
viri praefcrendi sint, possit iudicari ».
(3) Philologischer Anzeiger, 1883, p. Tò'.i e segg.
- 346 —
giusto; perchè anche mio, il quale nella sua opera tratti esclu-
sivamente la storio<(rafia romana, può nella introduzione osservare
che essa si trova molto al di sotto di quella ^reca. Più valido
argomento l> certamente l'addurre il nuovo frammento (Jorneliano,
scoperto dal Dessau (1), nel quale si narra un aneddoto del fi-
losofo Crates tebano ; giacché è molto verosimile che questo brano
biografico appartenga ad un libro, in cui si parlava di filosofi
greci ; e quindi, ammessa l'esistenza di un tale libro, possiamo,
per induzione, ritenere che l'intera opera di Cornelio constasse di
vite parallele di uomini illustri, romani e stranieri, specialmente
greci.
Ma poiché si potrebbe sofisticare anche intorno a questo fram-
mento e dire, magari, che potrebbe riferirsi ai Chronica, in cui,
come apparisce dalle scarse reliquie a noi pervenute, non facevano
difetto racconti aneddotici, credo utile il far notare che, per di-
struggere la argomentazione dell'Unger, può aver qualche valore
una semplice considerazione.
Se si esaminano i frammenti, nei quali è citata l'opera biogra-
fica di Nepote, la troviamo in tutti quanti designata col titolo di
« uomini illustri ». Cf. Halm, fram. 22: « Subinde Nepos de in-
lustribus viris secundo »; 27: « Scriptum hoc est in libro Cornelii
Nepotis de inlustribus viris XIII»; 31: « Nepos inlustrilum]»\
32: « Cornelius Nepos inlustrnim XV »-, S3: « Cornelius Nepos
inlustrium virorum libro XVI » ; 39 : « Cornelius Nepos in eo
libro, qui Vita inlustrium inscribitur ». Questo titolo non è forse
sufficiente a dimostrarci che Cornelio ha scritto una serie di bio-
grafie di uomini illustri non solo romani ma anche stranieri ?
Se infatti fosse vero ciò che afferma l'Unger, non dovremmo
trovare semplicemente de viris inlustribus o vita inlustrium, ma
sibbene, a parer mio, de viris inlustribus Eomanis oppure vita
inlustrium Romanorum ».
IV. — L'Unger, nel settimo capitolo della sua dissertazione,
già da noi citata, trova diversità di convinzioni politiche fra Cor-
nelio Nepote e l'autore del De excellentibus ducibus exterarum
(1) Hermes, 1890, p. 471-472.
— 347 —
gentium: il primo, secondo lui, è aristocratico, l'altro repubblicano.
Il Lupus invece osserva (1) primieramente che negli ultimi tempi
della repubblica romana le due distinzioni fatte dall'Unger non
reggono; in secondo luogo poi, queste sottili sfumature nel modo di
pensare fra Cornelio e l'autore delle Vite degli eccellenti capitani
provengono massimamente dalla differente materia delle biografie
stesse. Difatti, mentre in quelle dei capitani lo scrittore ha fre-
quentemente occasione di glorificare la forza, il valore militare
ed il senno politico dei suoi eroi, nella vita d'Attico invece siamo
in un campo del tutto diverso, non avendo egli mai preso parte
agli affari politici. Di più bisogna notare, continua il Lupus, che
nella prima chi scrive non sembra esser coerente ad un determi-
nato principio politico; ma in Milziade loda il tiranno, in Tra-
sibulo il propugnatore della libertà popolare, in Epaminonda e
Pelopida il partito aristocratico, in Cimone e Focione quello de-
mocratico. Quindi, conclude, non c'è ragione alcuna di trovare in
quel libro l'espressione di un partito politico ben definito, come
vorrebbe l'Unger.
Tali osservazioni sono molto giuste e sensate : però non posso
fare a meno di riconoscere che una certa differenza esiste real-
mente. Soltanto io non credo che questa sia fra le vite dei duci
e quella di Catone e di Attico , perchè in quella di Catone, che
anche l'Unger ritiene scritta da Nepote, trovo una frase (« quod
tum non potentia sed iure res publica administrabatur ») (2)
perfettamente cònsona a quelle sparse qua e là nelle precedenti
biografie. Por me è chiaro che il contrasto è in Cornelio stesso,
il quale nplla vita di Catone ha i medesimi sentimenti repub-
blicani che nelle prime ventitre vite, mentre in quella di Attico
si mostra moderatissimo e si astiene più che può dal far consi-
derazioni di carattere politico.
Io sono d'avviso che, per spiegar tutto, basti addurre una ra-
gione semplicissima. La vita d'Attico nella sua seconda redazione,
che è quella a noi pervenuta, è stata certamente pubblicata (3)
(1) Neue Jahrbncher f. k. Philol. 1882, p. 400.
(2) Gato, 2, 2.
(3) V. Nipperdey (2" ediz. curata d? B. Lupus), p. xxi (Einloitung).
— :m —
poco dopo la battaglia d'Azio (72.'3/;n): il JM excellentibus du-
cihus exterarum gentium è stato invece composto (Ij circa il
719/35. Ora nel periodo che intercede fra il 719 ed il 723, così
pieno di vicende; in un caiiibianiento cosi profondo dello stato di
Konna erano andate modificandosi in molti le proprie convinzioni
politiche. Si era ormai stanchi delle lotte civili, che avevano ar-
recato stragi, orrori, confische, esilii e disinganni; ormai chi aveva
fior di senno vedeva bene che col regime repubblicano Roma non
avrebbe potuto ottenere quella pace e quella tranquillità, che
ognuno desiderava, ^"in^i ^^ maggior parte dei Romani nutriva
grande fiducia nel giovine Ottaviano, che dopo la vittoria d'Azio
si era dato con grandissima cura a riordinare lo stato, a tutelare
i diritti di tutti i cittadini.
Qual meraviglia potrebbe esserci, se anche Nepote sperasse in
lui e lo considerasse allora non già come l'oppressore della li-
bertà, ma come il tutore della comune salute ? Quale assurdità
c'è nel supporre che nel tempo, in cui pubblicava la seconda edi-
zione della Vita cVAUico, fosse avvenuto nell'animo suo questo
cambiamento d'idee? Io non ci trovo nulla di strano e quindi,
anche per questo lato, non vedo alcuna difficoltà a ritenere che
Nepote possa avere scritto il De excellentibus ducibus exterarum
gentium.
V. — Nelle storie della letteratura latina ed anche nei la-
vori speciali su Cornelio (fatta eccezione dei Prolegomena del
Rinck) (2) è detto erroneamente che il primo ad attribuire le
Vite a Nepote fu il Gifanio (van Giffen) nel suo Commento a
Lucrezio del 1566 (3). Invece fino dal 1563 Carlo Langio (van
Langhe) nella prima edizione di alcune opere Ciceroniane, al lib. I
degli Officia (44, 155, fol. 145 h) così commentava: « Lysis
Tarentinus, Pythagorae auditor, Thebas confugit, et Epaminondae
ibi praeceptor factus est. Diogenes, Pausan. et Plutarch. de Mu-
sica. Nepos quoque Cornelius in Epaminonda, etc. ». E nell'anno
(1) Y. Rosenhauer, op. cit.
(2) Prolegomena ad Aemilium Probum. De vero oMctore vitt. excell.
due. ec. Basiliae 1841.
(3) Il Doehiie poi nella sua Bisputatio de vitis exc. ìmperr. Corn. Nepoti
-, 349 -
seguente Pietro Pitéo (Pithou) nella sua opera Advers. subseciv.
(1564 Basilea) al libro I, cap. 10 così si esprime : « Aemilius
Probus, sive is Cornelius Nepos sii, in Alcibiade, etc. ». Sarebbe
quindi bene che di ciò si tenesse conto nelle storie letterarie
future.
Firenze, Febbraio 1895. Alfredo Manetti.
30. 5. '95.
non Aeniilio Probo attribuendis (Gizae 1827) a pag. 3 cosi dice: « Primus
eas (vitas) Gorn. Nepoti vindicavit Lambinus » ed in nota : « Post Lam-
binum Gifanius quoque, ecc. », mentre l'edizione di Lucrezio fatta dal Gi-
fanio è del 1566 e quella di Cornelio curata dal Lambino è del 1569.
Cic. prò Mil. 33.
Sono convintissimo con A. Peyron che dopo le parole « deferre
posses » e prima di « Et aspexit » vi sia una lacuna, e ciò
contro l'opinione del Gaumitz seguita dai più recenti editori (cfr.
l'edizione curata da Vit. Menghini, Tor. Loescher 1889, p. 32 e
91). M'induce a questa persuasione la necessità che si faccia in
qualche luogo del discorso menzione esplicita della legge ricordata
poi, in via di riassunto , ai §§ 87 e 89, e l'improbabilità che
Quintiliano citando (IX, 2, 54) un esempio di àTToaiuurrricri? da
un'orazione prò Milane non l'abbia attinto al tanto ammirato
capolavoro scritto di Cicerone. Ma il modo come Amedeo Peyron
ha tentato di colmare la lacuna non regge alla critica, come ha
già fatto vedere l'Orelli, alle cui osservazioni molte altre si po-
trebbero aggiungere. Tenterei questo supplemento:
Exhibe quaeso, Sexte Clodi, exhibe librarium illud legum ve-
strarum, quod te aiunt eripuisse e domo et ex mediis armis tur-
baque nocturna tamquam Palladium extulisse, ut praeclaruni vi-
delicet munus atque instrumentum tribunatus ad aliquem. Si nactus
esses, qui tuo arbitrio tribunatum gereret, deferre posses. Exhibe,
inquam, istas leges Clodianas; atque prae caeteris eam potis-
simum perlegas velini quae tamquam fundamentum dominaiionis
vestrae excogitata est; constitiierat enim, iudices, ut servis qui
DOMINORUM VOLUNTATE IN LIBERIATE MORARENTUR lUSTA LIBERTAS
AC CIVITAS ROMANA CUM SUFFRAGIO IN RUSTICIS TRIBUBUS IPSO IURE
DARETUR. Qua de re quid putatis, iudices ? An huius ille legis,
quam Clodius a se invcntam gloriatur, mentionem faccrc ausus
esset vivo 31ilone, non dicam conside ? De nostrum enim omnium...
Non audco totiim dicere. Videte quid exitii Icx habiiura sit cuius
periculosa etiam reprehensio est... Et aspexit me illis quidem
oculis
Firenze, maggio '95. F. Kamorino.
- 350 —
Di UNA DATA
NEL « CHRONICON EUSEBI >^ DI S. GIROLAMO
S. Girolamo, il quale, come è noto e come egli stesso dichiara
nella lettera di prefazione diretta ad Vincentium et GalUenum,
tradusse e continuò la Cronaca (più propriamente i xpoviKoi Ka-
vóve<;) di Eusebio, aggiungendo anche notizie, che toglieva da
Svetonio Tranquillo (1), relative alla storia letteraria romana,
parla, siccome universalmente si crede, del poeta satirico Lucilio in
due luoghi, cioè, all'anno di Abramo 1870 (2) (Olymp. CLVIII, 2,
corrisp. agli anni 607 di R./147 a. C), dove così è indicato il suo
anno natale: Lucilius {?>) poeta nascitur, e all'anno di Abramo
1914 (4) (Olymp. CLXVlIll, 2, corrisp. agli anni 651 di R./103 a.
C), dove a questo modo si discorre della sua morte: C. Lucilius (5)
(1) E da altri storici ('de Tranquillo et ceteris inlustribus in historicis'
Hieron. praef., pag. 3, 7, ed. A. Schòne. Eusebi Chronicorum libri duo.
Vói. II. Eus. Chronicorum Canonum quae supersunt. Berol. 1866), come
Eutropio, ecc. Sul quale proposito cfr. Fr. W. Ritschl, Parergon Plaut. et
Terent. voi. I. Lips. 1845. Appendix. Suet. de viris illustr., p. 609 sgg.,
K. W. A. ReiSérscheid, C. Suet. Tranq. praeter Caes. libò. reti. Lips.
1860, p. 363 sgg.; Th. Monimsen, nelle Abhandl. der sùchs. Ges. der Wiss.,
I, 669 sgg., ed altri, come A. Luebeck, Hieronymus quos noverit scriptores
et ex quibus hauserit. Lips. 1872. L'intenzione dello Schòne manifestata
nella Praefatio al li voi. di disputare nei Prolegoraena del I voi. (pubbli-
cato nel 1875. Eus. Chronicorum liber prior) 'de Eusebi Hieronymique
fontibus quibus in condendo opere usi sint ' (e. Ili, p. xl), non ebbe effetto.
(2) Così tutti i codd., tranne YAmandinus ed il Freherianus, che pon-
gono invece la virgula all'anno 1869.
(3) Soltanto il cod. Freherianus dà la lezione palesemente sbagliata lu-
cullus.
(4) La virgula del cod. Amandinus è invece all'anno seguente 1915.
(5) La lezione volgata dei mss. è veramente C. o Gaius Lucius, ma ol-
treché essa fu facilmente corretta da molto tempo (tutte le veti. edd. e le
più recenti, meno una, danno C. o Gaius Lucilius), la lezione vera è ora
confermata dall'ottimo e antichissimo (sec. Vili) codice Middlehillensis della
bibliot. di Gheltenham (collazionato da Frane. Ruehl per conto dello Schòne
— 351 —
satyrarum (1) scribtor Neapoli moritur ac publico funere ef-
fertur anno aetatis XLVl. Di questa seconda data, che cioè
Lucilio sia morto nel 103 (o 102) a. C, non c'è ragione alcuna
di dubitare, ne generalmente si dubita, perchè ne testimonianze
antiche ne gli accenni storici ricavati dai frammenti stessi di Lu-
cilio vi contraddicono in verun modo (2), laddove si ritiene oramai
da tutti erronea la prima indicazione per le seguenti ragioni prin-
cipali, ch'io brevemente riassumo. Se Lucilio fosse nato nel 147
(o 148) a. C, non si potrebbe spiegare il fatto della sua intima
e abbastanza lunga famigliarità, oltreché con Lelio, coli' Africano
Minore, nato nel 185 a. C. (morto nel 129, in età dunque d'anni
circa 56, mentre Lucilio allora ne avrebbe avuti circa 18), fami-
gliarità che evidentemente accenna a rapporti fra coetanei, come
si rileva e dai frammenti delle sue satire (3) e da passi di autori
(Horat. Sai. II, 1, 71 sgg. ed Acr. ad h. 1. v. 72, che racconta
l'innocente e grazioso aneddoto del triclinio (4) ; cfr. Cic. de Orai.
e da questo descritto, o. e, voi. I, praef. p. xiv), il quale, come in altri
luoghi conservò la lezione genuina, così in questo dà Gaius Lucilius. (La
citazione dello Schòne fatta dallo Schwabe nella 5** ediz. della Geschichte
der róm. Liter. del Teuffel, Leipz. 1890, 1, p. 235, § 143, 1, è sbagliata).
Lo Schòne però, o. e, voi. II (pubblicato prima del voi. I;, p. 133, quando
ancora non era a cognizione di quel codice, mantenne la lezione volgata,
cosi anche scrivendo in nota : ' Quem ob codicum consensum lucilius emen-
dationem recipere dubitavi ', e ciò quantunque, pur prescindendo dalla sco-
perta 0 cognizione del cod. M, riconoscesse come 'veram scripturam" (1. e,
p. xiv) Gaius Lucilius: onde a ragione esclama Luciano Miiller (C. Lucili
Satt. Rell. ecc. Lips. 1872): ' et ita (Lucius) quod vix credent nisi
qui oculis viderint Schoenius' (p. 170).
(1) La retta grafìa della parola satirarum è solo nel codice F.
(2) Cfr. Teuffel, Geschichte ecc., 1. e; L. Mùller nell'ediz. cit., al cap. Testi-
monia de Lucilio, pp. 288-289, e in Leben und Werke des Gaius Lucilius.
Ein litteraerhistorische Skizze. Leipz. 1876, pp. 3-4 ; C. Giussani, Quaest.
Lucilianae. Mediol. 1885, p. 5.
(3) Molto a proposito il Mùller, o. e, Leben ecc., p. 4, osserva, che non
è punto verosimile che un uomo d'età già matura, com'era Scipione, si la-
sciasse dare lezioni di retta pronuncia latina da uno sbarbatello, diremmo
noi: come si ricava, p. es., dal frammento GXXXIII (vv. 168 sg. ex libr.
ine, p. 156 ed. M.) e dalle parole di Pesto, che lo conservò.
(4) Notisi anche che Acrone dice, che Scipione fu caro a Lucilio, e
non che Lucilio fu caro a Scipione, onde, anche se si voglia ammettere
una grande diflferenza di età fra loro, dal passo dello sooliasta risulta chia-
ramente, che non si può in alcun modo affermare che Lucilio fosse di
-.352 —
II, 6, 22j. Poi, essendo storicamente provato che Lucilio fu, in
qualità di cavaliere, con Scipione all'assedio di Numanzia (1) (di-
strutta nel 233 a. (J. dopo un assedio di quindici mesi), non
sembra affatto verosimile, che Scipione avesse voluto condur seco,
pur come volontario (2), un giovinetto di 13 o 14 anni al mas-
simo, tanto più che si trattava allora di ristabilire la disciplina
e infondere corajjgio nell 'avvilito esercito romano. Né, non essen-
dovi motivo alcuno, come sopra si disse, di dubitare della data
ascritta nel Ohronicon aìVannus fatalis di Lucilio (103 o 102 a. C;
quanto all'ap^^fiunta anno aetatis XLVI vedremo più sotto che
cosa bisojrna pensarne), puossi ammettere l'anno 147 (o 148) come
quello della sua nascita, perchè vi osta la esplicita testimonianza
di Orazio, Sat., II, 1, 30-34, dove, se pur non si vuole far vio-
lenza al senso delle parole considerate in se e nel loro contesto,
l'aggettivo sostantivato senex null'altro può significare se non
vecchio di età.
Altre ragioni si potrebbero addurre, e furono anche addotte da
quelli che si occuparono della questione, per provare ad esube-
ranza che la data assegnata dal Chronicon alla nascita di Lucilio
è del tutto insostenibile: ond'è che oramai generalmente si am-
mette, dopo l'acuta congettura del Haupt (3), che Girolamo, il
quale attingeva, come sopra è detto, per le aggiunte al Chronicon,
tanto più giovane dell'Africano; ma bensì bisogna conchiudere oche erano
coetanei, come doveva essere in fatto, o, se mai, che Scipione era più
giovane di Lucilio.
(1) Veli. Patere, Hist. Rom., II, 9, 3: ' celebre et Lucili nomen fuit,
qui sub Publio Africano Numantino bello eques militaverat '.
(2) Molto probabilmente Lucilio era nel nuniero di quei qpiXoi irevraKÓ-
aioi, di cui parla Appiano (Iber., e. 84 = p. 620), oO; (ó Zkikìujv) è? \k\\\
KaTaXéEa<; èKÓXei qpiXujv \kr\v.
(3) La congettura di Moriz Haupt (che ne aveva accettata una di consi-
mile da G. Lachmann a proposito dell'anno di nascita assegnato nel Chro-
nicon a Catullo; V. Quaest. CatiiU. Lips. 1337, p. 15) fu comunicata oral-
mente da Arnold Schaefer ('Arnoldus Opilio') a Luciano Mùller [ed. di Lue.
cit., p. 289; cfr. Neue Jahrb. fùr Pìiilolog. und Paedag. 1873, voi. GVII,
p. 72), il quale l'accolse, indicandone Fautore soltanto con le parole 'homo
doctus nescio quis ' ; a pag. 365 di quel volume il Mùller però dichiara, che
in una seconda edizione di Lucilio non mancherebbe d'indicare il nome di
Moriz Haupt come quello delF'urheber der sinnreichen vermutung ùber
den ursprung der falschen angaben, die hinsichtlich der lebenszeit des Lu-
cilius bei Hieronymus zu lesen sind'.
- 353 —
dalle opere degli storici romani e specialmente dal De viris il-
lustribus, ora nella maggior parte perduto, di Svetonio, dove na-
turalmente le date erano indicate coi nomi dei consoli, abbia fatta
confusione, abbia, cioè, scambiati i nomi dei consoli A. Postumio
Albino e C. Calpurnio Pisone (consoli nel 180 a. C.) con Sp. Po-
stumio Albino e L. Calpurnio Pisone (consoli nel 147), i quali,
come apparisce, si differenziano dai primi solo per le sigle dei
prenomi, ed abbia per tal modo fatto nascere Lucilio più di una
trentina d'anni più tardi (1).
Così, dico, si ammette ora quasi universalmente, né credo an-
ch'io si possa trovare una migliore soluzione, per quanto fondata
sopra di una semplice ipotesi, di questa questione imbrogliata,
ove sul passo di Girolamo, così come ci è tramandato, non si voglia
sollevare alcun dubbio. Ma anzitutto mi domando: È egli per lo
meno facilmente ammissibile che Girolamo, il quale pure dichiara
di aver adoperata la massima cura ('curiosissime excerpsi'jjrae/..
(1) Il Giussani, 1. e, p. 10, 'mediam quandam sententiam Inter duas illas
amplexus ' pone l'anno natale di Lucilio al 590 di Roma. (Vedine le inge-
gnose argomentazioni a pp. 9 sg.). 11 Munro invece {Journal of Philology,
Vili, 16), citato dal Giussani a pag. 11, n. 1, pensa ad un errore di tra-
scrizione nel passaggio della notizia dal de viris illustribus di Svetonio
nel Chronicon di Girolamo, così che l'anno di età 'XLVI' del Chronicon
sarebbe una corruzione di 'LXIV (vel LXVI)' che sarebbe stato nell'opera
di Svetonio. Contro la quale congettura osserva il Giussani : 'Sed existima-
musne Svetonium annum quo natus est Lucilius per consulum nomina non
significasse?' All'opposto il Yarges, Specim. quaest. Lucilian. in Rhein. Mus.
fìir Philoloffie, 1835, 111, pp. 15 sgg. e specialmente al cap. II : Lucilius quo
anno natus quoque mortuus sit, pp. 34-46, e I. A. G. Van Heusde, Studia
critica in C. Lucilium poetani. Trai, ad Rh. 1842, pp. 10-21, tentarono,
anni addietro, inutilmente di difendere la data del Chronicon relativa al-
l'anno di nascita di Lucilio : errore cronologico che già molto tempo innanzi
era stato rilevato da Pietro Bayle nel suo Dictionnaire ìiistor. et crit. alla
voce Lucilius. Inoltre cfr. Fr. Dor. Gerlach nella sua edizione di Lucilio
(C. Lue. Satt. Rell. ecc. Turici, 1846), Prolegg. § 1 : De C. Lucilii vita,
p. I sgg. Noto qui per incidenza che a torto il Giussani attribuisce (I. e,
p. 8) a Lue. Mùller la congettura dello scambio dei nomi dei consoli, la
quale spetta invece al Haupt, come ho indicato sopra : il merito del Mùller
è solo quello di averla meglio spiegata e resa nota. Fa meraviglia poi che il
Van Heusde, il quale (o. e, p. 21 sgg.) mette in dubbio la data del Chronicon
sulla morte di Lucilio ed obiettando al Varges sul valore della parola senex
fa morire il poeta più che ottuagenario (p. 33), salti a pie pari la difficoltà
dell'aggiunta nella seconda noti/.ia del Chronicon AeWaetatis anno XLVL
Rivista di filologia, ecc., ]■ 23
— 354 -
p. ;{, 8, ed. Scli.) nel riferire le notizie pertinenti alla storia let-
teraria latina, abbia connmesso un errore così {grossolano da con-
fondere fra loro consoli, die avevano esercitato il loro ufficio alla
distanza di più di trent'anni f]^li uni dagli altri, durante il quale
lasso di tempo tanti altri fatti avvennero e tante altre notizie ri-
guardanti scrittori romani sono pur ricordate da Girolamo, come
all'anno di Àbramo 1838 (= 575/170) la fama, la morte ed altro
di Stazio Cecilio, al 1849 (= 580/168) la morte e la sepoltura
di Ennio, al 1859 (= 590/158) la emancipazione, la morte ed
altro di Terenzio, al 18(33 (=600/154) la fama, la morte ed altro
di Pacuvio? Anche concesso per un momento lo scambio dei nomi
dei consoli, non sembra egli inammissibile, che il nostro autore,
dopo aver parlato cosi minutamente di persone o coetanee o di
non molto anteriori a Lucilio, non si accorgesse del grave ana-
cronismo che commetteva ponendo la data della nascita di lui
più di 30 anni e precisamente 33 anni dopo? Per quanto Giro-
lamo stesso nella prefazione chiami il suo un opus tumuUuarium
(p. 1, 14), tuttavia, ripeto, non possiamo ne dobbiamo, senza più,
attribuire uno sbaglio tanto madornale al ' gelehrtesten Vertreter
des Christentums* (Teuff., op. cit., 11, § 434, p. 1111), osservando
inoltre che questa locuzione di opus tumultuariimi si deve prin-
cipalmente riferire alla versione, che Girolamo faceva dell'opera
eusebiana, come chiaro risulta da ciò che segue e da ciò che pre-
cede a quelle parole, dove il traduttore ricorre all'artificio di una
certa captatio henevolentiae in causa del genere e della difficoltà
del lavoro (cfr. p. 2, 8 sgg.), ma non può ugualmente e ragionevol-
mente applicarsi alle aggiunte, che andava man mano facendo
all'originale tradotto, le quali egli 'libabat de aliis probatis-
simis uiris' (cfr. p. 3, 1) e 'curiosissime excerpebat' (cfr.
p. 3, 8), Molti errori certo si possono trovare, e furono già notati
da altri, nel Chronicon eusebiano di Girolamo (1), ma non è egli
lecito sospettare che, in causa appunto dell'indole stessa del lavoro,
così vario, esteso, scabroso ed irto di numeri e nomi, essi sieno in
(1) Vedi, p. es., Van Heusde, Epist. ad Cor. Frid. Hermann de Lucilio.
Trai, ad Rh. 1844, p. 7 sgg.; Ritschl, 1. e, p. 620 sgg.; Haupt, 1. e, p. 13 sgg.
A difendere invece, per quanto era possibile, le date del Chronicon sorse
G. Fr. Hermann colla sua Disputatio de scriptoribus illustribus., quorum
tempora Hieronymus ad Eusebii Chronica annotavit. Gotting. 1848.
- 355 -
buona parte da imputare piuttosto ai lihrarii che non dXVauctor ?
Si vede anzi ch'egli stesso ha presagita la sorte che sarebbe toccata
alla sua opera scrivendo nella prefazione: 'Nec ignoro multos fore
qui solita libidine omnibus detrahendi buie uolumini genuinum
infigant, quod uitare non potest, nisi qui omnino nil seri bit. Ca-
lumniabuntur in tempora, conuertent ordinem, redarguent syllabas,
euentilabunt litieras, et quod accidere plerumque solet
neglegentiam librariorum ad auctorem referent' (p. 2,
31 sgg.).
Ora io sospetto appunto, per conchiudere, che nel caso nostro
trattisi di un errore del librarins. Prima di tutto osservo che
deve sembrare assai strano che Girolamo quando parla della na-
scita di Lucilio si contenti di dive: Lucilius poeta naseitur, e poi
quando poco piti sotto (infatti fra le due indicazioni vi sono sol-
tanto quattro notizie letterarie latine) viene a discorrere della sua
morte, si diffonda molto di più, determinando, fra altro, meglio
il nome di Lucilio coll'aggiunta non solo del prenome, ma anche
della qualificazione speciale di satirarum scriptor. Perchè, do-
mando io, tale maggiore specificazione a proposito deWannus fa-
talis di Lucilio ? Questa non sarebbe stata al suo posto là, dove
si parlerebhe della sua nascita? E trovandosi invece qui, dove è
parola della sua morte, non è per lo meno ammissibile il dubbio
che non là, ma qui appunto si tratti per la prima volta di lui?
Io congetturo adunque (1) che nel Chronicon all'anno di Abramo
1870 il nome di Lucilius sia corruzione di un altro, che io adesso
ne vorrei ne potrei restituire, e tanto più propendo verso questo
dubbio in quanto che è risaputo che non soltanto è oscillante
la grafia del nome Lucilius, ma che anche non c'è forse in tutta
la latinità un nome, il quale più di questo sia stato confuso
con quello di altri nei codici: vedine alcuni esempi a pag. 193
dell'edizione di Lue. Miiller. Nel caso nostro, per es., il codice
Freherianus dà LucuUus. Né si obietti col dire essere inverosi-
mile, che Girolamo parli soltanto dell'anno della morte e non
anche dell'anno della nascita di un poeta così famoso a' suoi tempi
e per qualche secolo dopo (2), giacché si risponderebbe in primo
(1) Questa ipotesi ora gih stata da me proposta e brevissimamente dichia-
rata nell'opuscolo intitolato Satirae Lucilianae ratio quae sit.^&i&wì i%%l .
p. 22, n. 10.
(2) Cfr. Quintil., X, 1, 93; Tac, dinl. de Orati., 23.
— 356 —
luogo, che l'antio di nascita poteva benissimo essere ignorato da
Girolamo, perchè, puta caso, non ne facessero cenno le fonti, a
cui egli ricorreva, e poi, che esempi analoghi di omissione degli
anni natali, e di scrittori celebri, se ne trovano molti nel (Jhro-
nicon, come, per restringermi ai Unmani, quando si parla di Nevio
(ad a. Ahr. 1810 = 553/201), di Plauto (ad a. Ahr. 1817 =
554/200), di Stazio Cecilie (ad a. Ahr. 1838 = 575/179), di Te-
renzio {ad a. Air. 1859=: 590/158), di Pacuvio [ad a. Abr.
1803=000/154: dove però l'anno di nascita si determina indi-
rettamente e approssimativamente dall'aggiunta prupe nonage-
narius), ecc. Anzi non c'è esempio di una indicazione così arida
e, direi quasi, nuda, come al supposto anno di nascita di Lucilio.
Infatti all'anuo di Abramo 1777 (= 514 /240), dove per la prima
volta, quando si parla degli scrittori romani, ricorre il verbo
nascitur, la notizia su Ennio, specificato, oltreché coli 'epiteto di
poeta, col prenome e col luogo di nascita, è abbastanza estesa. E
del pari, quando, per es., si parla di Lucrezio, di Catullo, di Sal-
lustio, di Virgilio e di altri, dei quali, allorché per la prima volta
si tratta di loro, non solo sono indicati di ciascuno i varii nomina^
ma anche altre circostanze, come il luogo natale, mentre poi quando
se ne riparla per la seconda o più volte sotto, essi vengono men-
zionati soltanto col semplice nome più comune (1). Una eccezione
sarebbe la virgula all'anno di Abr. 1990 (= 127 127): M. Tcren-
tius Varrò filoso fus (2) prope nonagenarius moritur, mentre con
(1) Che Girolamo si ricordasse degli autori da lui nominati avanti, è pro-
vato, oltreché dal fatto che gli indica semplicemente col nomen quando
prima gli abbia maggiormente determinati, e da altro, anche dalla virgula
relativa all'anno di Abramo 1990 (=727/27): Cornelius Gallus Fnrniuliensis
poeta, a quo primum Aegyptum rectarn supra diximus ecc.: infatti prima
ad a. Abr. 1985 (= 722/32), alla notizia, che dà Eusebio su Cleopatra ed
Antonio, Girolamo aveva aggiunto: quain (cioè Aegyptum Romanam prò-
vinciam factatn) primus tenuit C. Cornelius Gallus de quo Vergilius
scribit in Bucolicis. Che se Girolamo, quando parla la seconda volta di Cor-
nelio Gallo, determina di più la sua persona con l'aggiunta della patria e
dell'epiteto di poeta, lo fa perchè qui soltanto tratta espressamente e pro-
priamente di lui, mentre prima ne parlava solo per incidenza a proposito
di altre notizie. Del resto anche qui, cioè nel secondo luogo, è omesso il
praenomen che si legge invece nel primo.
(2) Nelle citazioni del Chronicon seguo sempre la grafia adottata nell'e-
dizione dello Schòne.
— 357 —
gli stessi nomi, più con l'aggiunta di poeta a filosofus, era pure
stato designato innanzi, dove parlasi della sua nascita, ad a. Ah:
1901 (= 638/116); ma notisi in prinio luogo, che della morte di
Varrone si discorre molto ma molto dopo che si parlò dell'anno
suo di nascita, e poi, che una maggiore determinazione era ne-
cessaria per non confondere questo con l'altro Varrone (P. Te-
renzio Varrone Atacino), del quale pur si discorre {ad a. Ahr.
1935 = 672/82) fra le due notizie sul polistore.
Una più grave obiezione si potrebbe fare osservandosi, che al-
l'anno di morte di Lucilio c'è l'aggiunta anno aetaiis XLVI.
Ma, a dirla com'io la penso, quest'aggiunta, buttata là in fine
della notizia, mi sa di glossa le cento miglia lontano: aggiunta
fatta molto probabilmente da qualche ozioso grammatico poste-
riore, che, letto già il nome di Lucilio all'anno 1870 (o 1869) e
poi di nuovo al 1915 (o 1914), avrà fatto il computo e notato
che il poeta morì in età d'anni 45 (= quadrag. sext.). Infatti che
bisogno c'era di quella indicazione se, com'era segnata la data
della morte di Lucilio, poco prima fosse stato fissato l'anno della
sua nascita ? Girolamo dei singoli autori o parla una sola volta,
indicandone, accanto ad altre circostanze di vita, o l'anno di na-
scita 0 l'anno di morte o insieme e l'anno di nascita e l'anno di
morte, oppure quando dell'anno di morte discorre in luogo diverso,
qui per solito non v'è l'aggiunta, come affatto oziosa, àeWaetatis
anno ecc. (così quando si tratta della morte di Sallustio, di Vir-
gilio, di Livio, di Ovidio); se poi l'aggiunta di aetatis anno ecc.
0 di un aggettivo equivalente a questa dizione vi si trova ,
allora essa ha per lo più un'importanza speciale, come, per es.,
a mettere in evidenza l'età breve di Catullo {ad a. Ahr. 1960 =
697/57 0 1959 = 696/58; cfr. Teuffel, 1. e, I, pag. 444, § 214, 2) o
l'età grave di M. Terenzio Varrone {ad a. Ahr. 1990 = 727/27);
negli altri passi o trattasi di scrittori, di cui non due, ma più
volte Girolamo si è occupato nel Chronicon, come è il caso di
Cicerone (di cui parla direttamente per ben cinque volte in luoghi
differenti), sicché non poteva sembrare, dove parla dell'anno di
morte, fuori di luogo il rinfrescare la memoria dei due punti
estremi del curriculum vitae, oppure la collocazione stessa delle
parole (com'è nei passi citati e in altri, per es., là dove si di-
scorre della morte di Ennio, di Cornelio Gallo, di Orazio) esclude
ogni sospetto che si possa trattare di glossa. Nel caso nostro al
- 358 -
contrario è il modo stesso con cui sono disposte le parole quello
che ollende. Taccio che l'aj^giunta antio aetatis ecc., che vediamo
messa così in fondo alla notizia, poteva facilmente farsi da altri,
considerando specialmente la maniera con cui sono registrate nel
Chronicon le varie viryulae, ma non sembra egli strano che, do[iO
esser detto che Lucilio morì a Napoli, si aggiunga, che fu sep-
pellito a spese dello sUito in età (Vanni quarantacinque '^ Giro-
lamo, il quale era pure 'ein gewandter Stilist' (Teuff., 1. e, p. 1 1 11 ),
si sarebbe piuttosto espresso così: C. Lucilius... Neapoli moritur
anno aetatis... ac puhlico funere effertur : come nel caso quasi
esattamente analogo a questo: ad a. Abr. 2035 (772/19 d.C):
Fenestella historiarum scrihtor et carminum septuagenarius (così
Scalig.; al. sepiuagesimo anno; cfr. Herm., ). e, p. 30) moritur
sepeliturque Cumis , e per converso ad a. Abr. 1973 (710/44j :
Sergius Sulpicius iuris consultus et P. Servilius Isauricus publico
funere elati, senz'altra aggiunta.
Ritenuto poi che veramente all'anno di Abramo 1870 (o 1869)
Girolamo parli di Lucilio, gli si farebbe commettere una svista
ancor meno perdonabile: poiché accennando, un po' più sotto, alla
distruzione di Numanzia per opera di Scipione (ad a. Abr. 187.5
= 612/142: Scipio Numantinos subuertit: errore cronologico, es-
sendo stata quella città distrutta circa una diecina d'anni più
tardi, già rilevato da altri e facilmente spiegato ; cfr. Van Heusde,
1. e, Epistola ecc., p. 8), egli avrebbe fatto intervenire a quel-
l'assedio Lucilio non già in età di 13 o 14 anni (poiché l'assedio
finito nel 133 aveva durato 15 mesi), il che è pure inverosimile,
come si é detto sopra, ma bensì di 4o5, giacché egli doveva ben
sapere, che Velleio Patercolo, dal quale pure attingeva, esplicita-
mente dichiara, 1, e, che a quell'assedio Lucilio 'eques railitaverat'.
Che se la mia congettura, che. cioè, Girolamo parli di Lucilio
per la prima ed unica volta là dove ci indica il suo anno di
morte, sembri ardita (ed io pure la propongo con una certa titu-
banza, perché vi osta il consenso, si può dire, unanime, non te-
nendosi conto della variante lucuUus, dei codici, e poi anche perchè
é difficile poter sostituire nel passo Lucilius poeta nascitur un
altro nome di poeta a Lucilius (1), quantunque, per converso, lo
(1) Si potrebbe anche supporre, giacché siamo nel campo delle congetture,
che tutto il passo Lucilius poeta nascitur sia una glossa posteriore fatta
- 359 —
Schone non si periti di darci un C. Lucius satyrarwn scribtor
là dove evidentemente si deve leggere Lucilius), se, adunque, la
mia congettura sembri troppo ardita, io credo che il meglio sia
rimettere in onore una vecchia ipotesi, non suffragata di prove,
ma accennata quasi di sfuggita da Domenico Vallarsi (1), cioè,
leggere agnoscitur (o noscUur) in luogo della volgata nascitur.
E questo affermo per le seguenti ragioni principalmente : Prima,
perchè Terrore paleograficamente si spiegherebbe con somma fa-
cilità, poi, perchè, nel caso nostro speciale, siccome Girolamo
dettava in grande fretta il suo lavoro ('cum et notarlo... uelocis-
sime dictauerim', praef., pag. 1, 15), agevolmente può pensarsi
anche ad un errore, dirò così, auricolare dello scrivano ; ancora,
perchè quella formula ricorre spessissimo nel Chronicon^ peres.:
Isocrates rhetor agnoscitur, Demosthenes orator agnoscitur, He-
rinna poetria agnoscitur, Aristarchus grammaticus agnoscitur, ecc.,
e, fra i Koraani, M. Porcius Caio stoicus filoso fus agnoscitur,
Alhucius Silo Nouariensis clarus rhetor agnoscitur, Melissus
Spolitimis grammaticus agnoscitur, ecc. (anche, con una permu-
tatio di parole: clarus habetur, inlustres habentur, insignissimus
habetur,QCc.). Anzi mentre lo, Ìv3Lse Lucilius poeta agnoscitur cor-
risponderebbe esattamente a quella di tanti altri passi analoghi,
all'opposto la locuzione nuda Lucilius poeta nascitur non trova
riscontro, come dissi, in nessun altro luogo del CAromcow, essendo
negli altri casi sempre indicato, fra altro, anche il praenomen o
V agnomen, ecc., il luogo di nascita, ecc. A proposito del luogo di
nascita, perchè mai Girolamo non l'avrebbe notato parlando spe-
da uno che, letto più sotto il luogo intero ad a. Ahr. 1914: C. Lucilius sa-
tirarum scriptor ecc., abbia, fatto il calcolo, aggiunta l'indicazione dell'anno
di nascita all'anno di Abramo 1870, e allora si spiegherebbe facilmente l'o-
missione del prenome e della qualificazione di satirariim scriptor. Che il
Clironicon sia molto interpolato, è cosa notoria: p. es., lo Scihòne notò e
provò una lunga interpolazione perfino nella /(rae/ci^to dell'autore (p. 2, 12-25).
Vedi pp. xxxii sgg. e cfr. p. ix e p. xxxvii.
(1) Sanati Eus. Hieronymi Strid. Presb. Opp. T. octavus continens
Chronicon Eusebii Pamphili ecc. Veronae, 1740. A p. 577, nota b, il Val-
larsi alle parole Lucilius poeta nascitur scrive : ' Rescribendum fortasse est
nascitur, sive ar/noscitur \ Di questa congettura non vedo che altri abbia
fatta menzione fuori del Van Housde, o. e. Studia ecc., p. 10, il quale però
l'accenna di passaggio dicendola insostenibile per causa écW'aetatis anno
XL VI: né è da dargli torto, ove si consideri genuina questa aggiunta.
— :b60 -
cialraento ilell'anuo natale di Lucilio? E sì che doveva ben co-
noscerlo, almeno dal notissimo passo di Giovenale, I, 19 sgg.:
Cur tamen hoc potius libeat decurrere campo,
Per quem magnus eqiios Auruncae flexit alumnus,
Si vacat ac placidi rationfm admittitis, edam.
hiiiì intoso elle, accettata la coi raziona aynoscitur {o noscitur) [l)
bisogna sempre ammettere come glossa Vcmno aetatis XLF/del
secondo luogo e ammettere pure la stranezza del fatto che Giro-
lamo parli la prima volta di Lucilio come se si trattasse d'un
poeta KOT* éEoxnv, e poi, un po' più sotto, venendo a dire della
sua molte, creda necessario di determinarne meglio la persona
coll'aggiunta del prenome e della qualificazione di mtiraruni
scriptor, come se si trattasse di uno scrittore non menzionato in-
nanzi.
Pavia, 10 febbraio 1895. Pietro Kasi.
30. 5. '95.
(1) È noto che una congettura consimile fu proposta da altri all'indica-
zione del Cltronicon relativa a Plauto ad a. Abr. 1817 (^= .554/200): Plautus
ex Yrtxhria 'Sarsinas Romae moritur ecc., dove M. Hertz vuol leggere mo-
ratur e dove altri pensano ad uno scambio con clariis habetur ; cfr. Teuffel,
0. e, 1, § 96, 2, p. 149.
HENGEVINiUS
Nei Prolefiomena del Marx alla Retorica ad Erennio (Lips. 1894) sono
riferite (p. 11) dal cod. Herbipolitanus le seguenti parole: 'quem terra , pondus
nunc dimittis servum tuum domine servum secundum verbum domine tuum
in pace i Ex more docti mistico servamus hengevinium'. Aggiunge il
Marx l'he l'ultima parola può essere anche he m/eni ninni, ma egli preferisce
l'altra lezione; e dopo aver notata nell'ultimo verso la somiglianza col ritmo
di inni ecclesiastici, propone d'interpretare: Hengevinium cuius corporis
pondus domine nunc in pace dimittis e terra (cf. Lucas, II 29), eius animum
nos clerici arcana sacramenti institutione servamus'. Invece le parole Quem
terra' ctc. sono il principio di un inno attribuito a Fortunato Venanzio (Man.
Gemi. Hist., Auct. nnt. IV 1, p. '385; 'Quem teri'a, pontus, aethera [sidera
nel Breviario Rom.~\ \ Golunt, adorant, praedicaut' etc): ciò che segue è il
principio del cantico di Simeone (Lue. II 29), come ha notato lo stesso Marx:
e finalmente l'ultima linea è anche essa il principio dell'inno quaresimale,
di autore incerto:
Ex more docti mystico
Servemus hoc ieiiinium
Dono dierum circulo
Ducto quater notissimo.
Dunque Hengeoinius non solo non è morto, né morendo ha ricevuto i sa-
cramenti, come piamente crede il Marx, ma non è addirittura mai esistito.
Firenze, marzo 1895. Alfredo Manetti.
— 361 —
Be Fediasimi libello
Trepì Tijùv òuuòeKtt ctGXuuv toO 'HpaKXéou(;
qui legitur in codice Vallicellano C 46.
Ioannis diaconi Pediasimi (1) libellum de duodecim Herculis
laboribus edidit nuper, post Leonem Allatium (Romae a. 1641)
et Westerraanuum (Brunswigae a. 1843), Richardus Wagner (2)
adhibitis sex codicibus : Vratislaviensi-Rhedigerano 30 [R], Vin-
dobonensi IV 195 [S], Marciano 514 [T], Palatino-Vaticano 223 [P],
Vaticano 1386 [V], Marciano catal. suppl. IX 6 [M], quorum
tertius saeculo XIV exaratus est, reliqui vero saeculo XV, nec non
prioribuseditionibus. Exstat autem codex Vallicellanus(C 46) quod
ad Pediasimum attinet nondum inspectus, qui cum multa diversi
generis variorum scriptorum opuscula tum continet eius tractatum
in foliis 25 v-29 r (3). Quamvis Pediasimi libellus, si excipias
cognationem, ut recte monet "Wagner, quam habet artissimam
cum ApoUodori bibliotheca (II, 72-126), pauci vel nuUius pretii
sit, tamen non piane inutile opus mihi visum est varias lectiones
inde colligere: eo magis quod Vallicellanus compluribus locis a
reliquis codicibus differt. Hunc igitur codicem cbartaceum formae
octavae minoris (era. 22 X 14, 5) saeculi XV exenntis sat negle-
genter scriptum ineptissimisque corruptelis scatentem contuli cum
editione a Wagner carata uncisque rectis inclusas, ut codicum
consensus pateat, ad singulas lectiones apposui litteras quibus ille
singulos libros a se adbibitos significavit.
(1) De Pediasimo cfr. K. Krumbacher, Geschichte der byzantinischen
Litteratur von Justinian bis zuìn Ende des ostrómìschen Reiches. Mùiichen
1894, pag. 258-59 [Handhuch d. klass. Altertunis-Wissenachaft
hrgb. V. hvan von ]Mùller. IX 1].
(2) Mythographi graeci. Voi. I — ApoUodori bibliotheca. Pediasimi
libellus de duodecim Herculis laboribus. Lipsiae in aodib. B. G. Teubneri
MDCCGXGIV, pag. 247-59. — Quod pertinet ad duas editiones supra me-
moratas et ad codices quibus Wagner usus est vide ibi pag. ixl-xu.
(3) Hunc codicem inspiciendi copiam mihi fecit comitor, ut solet, v. ci.
Emygdius Martini bibliothecae mediolanensi Biaydensi piaefectus, cui quam
muximas gratias ago.
— 362 —
Praecedit piena inscriptio atramente rubro, fol. jr^v: -}- toO
^ouXfapiov xapTOcpuXaKoq Kaì imctTou tujv cpiXoaócpujv Kupiou
lujdvvou AiaKÓvou (ubi alteruin biaKÓvou suprascr. man. 2 atram.
subnij^^ro) toO TT€biacri)iou (1) [ST]. — Desunt sin<(ulorum ca-
pitum inscriptiones et in quinque prioribus capitibus littera ini-
tialis. — Iota mutum saepe omissnm.
Pag. 249, 1. 2 qpiXóiriq uQXovc,. 5 OpaKiKoùq [8]. 7 post iane-
pibuuv om. te [KS|. 8 om. ó. — Pag. 250, 1. :i veiaéou (cfr.
Apollod. 11, 74; Wagn. pag. 72). 6 et 11 véiaeav [codd.]. 12 tò
TipoiTOv [reliqui codd. praeter PJ. 15 tò Gripiov [P]; ubi su-
u
prascr. tuu 6ripiuj. 17 i^aKpòv prò veKpòv. 18-19 |iriKr|va<; (cfr.
Wagn. adnot. crii in Apollod. pag. 67). 20-21 àvbpiat; |RPV].
22 add. éc, ante lauKrivaq. — Pag. 251, 1. 3 Kapivov prò Ka-
privov. — b* [RTJ. — è'xujv. 4 rrpoiùjv. 5 tò rrebiov |TP].
11 Trpocfepoì'ieei. 12 post bè add. Kaì. 14 àvaTOnà<; prò àvajoXàq.
16 KttTuupùEaq [K]. — rréTpov [PVM|. 19 ciYujai prò tòv dfOùva.
19-20 évÉTaEev eùpuaeeuq. 20 ìóXeiuq [codd.J. 22 àeeXov [codd.].
— Pag. 252, 1. 8 om. è'KTeive. 14 qpuuKiba [codd.]. 18 d)Tim [VM].
20 et 23 T o) V KevTaupuuv et o i KévTttupoi (2). 22 rréTTUJKe. —
Pag. 253, 1. 1 Tpéipaq. 2 om. toO [R]. 3 \ófxiiin<S (u'^i M add.
man. 2; cfr. Wagn. adnot. crii in Apollod. p. 77). 9 èTriioOTo
prò èmaTouTo. 17 toutuj |codd.]. 19 qpuXXe'a [M]. 21 tò (Geiaé-
Xiov) [R]. 23 bè |uàeoi [codd.J. 24 àeeXov [R]. — om. ò Au-
T€ia<; [R]. — Pag. 254, 1. 1 èSiipvnTO [VM]. 2 eti te [codd.]. 4 et
6 cpuXXeùq [VM]. 6 cpuXXéa [VM?]. 8 |nvri(Ti)Lidxnv tòv ujXévou.
13 f)paKXri(; (ubi tamen compendii signum post — kX dub. inter-
pretai). 21 toTc; [VM]. 23 TrepieTévovTO. — Pag. 255, 1. 2 ò)Liai-
^oc, [VM]. 8 TTavTi Tiu TÒ [V]. — àTTpócfriTOV prò àirpóaiTov.
(1) Paulo pleniorem inscriptionem perhibet codex Ambrosiaaus miscella-
neus (B 35 sup.) qui in foliis fìl r-71 r continet Pediasimi scholia in Scu-
tum Herculis: ToO PouXYopiai; xapToqpùXoKoe; iróBou, toO koì ùttótou
tOjv qpiXoaócpujv KupoO iuuavvou òtoKÓvou toO ireòiacjiiuou (TexvoXoyla et<;...)-
Cfr. Hesiodi carmina ree. et comm. instr. G. Goettlingius. Edilio tertia
quam curavit Joannes Flach. Lipsiae in aedib. B. G. Teubneri MDCCCLXXVin.
pag. LX-LXl.
(2) Tuùv et ci, ut monet Wagner in adnot. crii. pag. 252, ex Apollodoro
propos. Westerm.: cfr. Apollod. II, 84 : Wagn. pag. 75.
- 363 —
10 TÒv [codd.]. 14 TÙ èKei prò là feiTOveùovTa. 17 Gripiov. —
àTTiGacraÓTepov. 18 ó [codd.]. 19 om. ^èv. 20 om. ò' [R]. — òè
òia))aÓTriTa [VM — R]. 22 KatéTTerfe. — oùkoOv TrXeùaai; eìq
epÓKTiv. — Pag. 256, 1. 1 et 4 aubripoi [codd.J. 4 t a i ^ (cfr.
Apollod. II, 97 ; Wagn. pag. 79 et 80). 's auòripav [VM]. 7 à-
TTuuXXovTO [R]. 9 òuùpov ò' fiv [R]. 11 Tujv à)Lia2óvuuv ò'r\v
mTroXÙTti paaiXeia. 16 auju^epriKÓTUjq. 17 tri? 'AòiiinTri?. 21 n
ripa. 22-23 lueG' òttXouv, tòv fìpuua, \xe^' òrrXajv r|pé0i2^ov. 24 ora. ó
[VM]. — Pag. 257, 1. 4 èpucrato [codd.]. 6 KaXXippóri(; |uèv t o 0
ujKcavoO. 9 et 17 èpiGeiav [codd.]. 10 opQpoc, (cfr. Wagn. adnot.
crii in Apollod., pag. 83; sed infra 1. 18 òpGo<;). 11 biKécpaXov.
13 dcpiKoiTo. 13-14 TeK|uripiov. 20 TeTovùjq. 22 Taptricfòv [VM].
23 àirébijuKev. — Pag. 258, 1. 10 om. tòv. 13-14 rropaivavii
prò TTopaùvavTi. 26 Kaivóv [R]. — irXouTOva.
Ex quibus facile intellegi potest Vallicellanum cum aliquot
lectiones exhibeat, quae alibi non reperiuntur, qiiodam adfinitatis
vincalo cum Apollodori textu (1) et paulo melioris notae codicibiis
coniunctum esse. Quamquam enim insunt librarli socordia nimiae
corruptelae, ex. gr. inaKpóv, è'xuuv, TtepieTévovro , au)iPePriKÓTuj(g,
òiKÉqpdXov (ut praetermittam ujitià, èErjpvTiTO... quae ex codd.
VM originem ducere potuerint), hic illic optimae lectiones occur-
runt, quarum satis habeo panca exempla proferre eaque magni
momenti: Xarpeueiv (pag. 249, 1. 12), TeXelv (pag. 250, 1. 2),
èvTCìvaiuevot; (— 1. 13), è£ (pag. 253, 1. 16), -npòc, GàXaaaav
(p. 255, 1. 24). Quapropter Vallicellanus priori codicum familiae
a Wagner constitutae (RSTP) adscribendus est.
Scr. Mediolani Vi Kal. Febr. MDCCCXCV.
DoMiNicus Bassi.
(1) Lectionibus qdas supra enumeravimus hae praesertiin addendae :
pag. 251, 1. 17 èTTé9riK€v, ubi v, ut videtur, add. man. 2 (cfr. Apollod. Il,
80: Wagn. pag. 74); — 1. 22 olvónq (efr. Apollod. II, 81; Wagn. pag. 75);
— pag. 255, 1. 3 èK eaXdaaric; (cfr. Apollod. 11,94; Wagn. pag. 79); pag. 257,
1. 7 ouvriYM^vov (cfr. Apollod. II, 106; Wagn. pag. 83).
30. 5. -95.
— 364 —
Cicerone, De inip. (Jn. Pompei, § 1^.
Il passo della Maniliana, § 18 : etenim... illud parvi refert nos
■[puhlicanis amissis vcctigalia postea Victoria recuperare ha dato
luofjo a molte controversie. Vedi in (jiiesta stessa Rivista^ a. X,
p. 390; XII, p. 53G e XVI, p. 421. Vedi anche l'edizione del
Tincani, Torino, Loesch., 1889 in Append. critica, p. 82. Dopo
aver esaminate e vagliate le varie congetture escogitate a sanar
questo luogo, io mi son convinto che la lezione de' codici è sempre
la migliore. Si badi al nesso delle idee. Si vuol dimostrare la
necessità d'intraprendere la guerra Mitridatica, tra l'altro perchè
sono in gioco gli interessi di molti cittadini romani, parte appal-
tatori diretti delle imposte d'Asia, parte negozianti, parte sem-
plici azionisti delle società d'appalto. L'oratore sostiene che bisogna
provvedere agli interessi di tutta questa gente sia per ragion di
umanità sia anche perchè il fallimento di molti cittadini porta
con sé inevitabilmente un disastro economico di tutto il paese. E
difatti, soggiunge, sta bene che se anche gli appaltatori falli-
scono, lo Stato può ricuperare colla vittoria le imposte, ma ciò
non giova perchè non si troverebbe più appaltatori da affidar loro
le imposte ricuperate, non i vecchi perchè falliti e senza mezzi,
non dei nuovi perchè questi non avrebbero voglia di arrischiare
i loro capitali in impresa così mal sicura. Questo pensiero che è
chiarissimo e in istretta connessione logica con quel che precede
e quel che segue nel discorso Ciceroniano è appunto espresso assai
bene dalla lezione dei codici. Secondo la quale, il passo va in-
terpretato così: «E difatti... importa poco che noi, anche lasciati
fallire gli appaltatori {piiblicanis amissis), ricuperiamo di poi
colla vittoria le imposte ». La frase amittere puhlicanos « lasciar
fallire gli appaltatori » non ha nulla di strano o disforme dal-
l'uso latino. Amittere aliquem trovasi non di rado in Terenzio
[Heaut 3, 1, 71 e 4, 8, 17; Pliórm. 1, 3, 24; 5, 8, 27 ecc.), in
Accio (pr. Non. 75, 32) nel senso di « lasciar andare, perdere uno;
cfr. Cic. Milon. 105; era dunque frase d'uso nel latino dell'età
repubblicana. Gli emendamenti proposti a questo luogo, tutti
senza eccezione, son tali che non reggono alla critica. La lezione
tradizionale invece è quella che unicamente risponde alle esigenze
del contesto.
F. Ramorino.
— 365 —
A proposito del « Manuale Storico Bibliografico di Filologia
classica » di L. Valmaggi (Torino, Clausen 1894). — Let-
tera aperta di F. Ramorino all'Autore.
Chiar.^° Professore,
So ch'Ella all'amor vivo per la scienza e all'operosità vera-
mente notevole che ha dispiegato nel campo della Filologia latina
congiunge un animo franco, amico della discussione e aperto a
ogni luce di vero da qualunque parte apparisca. Perciò mi prendo
la libertà di dirigerle la presente lettera aperta, desiderando ra-
gionare con Lei intorno al concetto fondamentale della Filologia
classica, a proposito del suo recente Manuale storico-hibliografìco
edito dal Clausen, lavoro ch'io riconosco utilissimo agli studiosi
di Filologia, e, dati i criteri da Lei seguiti, ben compilato.
Ella, prendendo a chiarire nel bel principio dell'opera qual sia
l'oggetto proprio della filologia classica, mette in rilievo e con-
trappone fra loro i concetti che se ne son formati il Wolf e il
Boeckh da una parte, Gotofredo Hermann seguito da alcuni dei
più recenti filologi dall'altra ; e dichiara di accostarsi all'opinione
di coloro i quali vorrebbero limitato l'ambito della filologia a
quelle discipline che movendo dallo studio della lingua e della
grammatica porgono con la critica e V interpretazione degli Au-
tori i principali elementi della Storia Letteraria. Quanto al con-
cetto enciclopedico del Wolf e seguaci. Ella esprime il parere che
una vera scienza comprensiva di tutti gli elementi dell'antichità
classica non esiste, e che Vaver voluto trovarla esistere è stato
effetto dello spirito tradizionale umanistico da cui il Wolf non
seppe totalmente liberarsi; del resto. Ella dice, il concetto Wol-
fiano non si trova ornai più corrispondere né all'idea essenziale
dell'evoluzione storica né a quella divisione del lavoro che domina
sovrano nel sapere moderno. Conseguentemente a questa esclu-
sione dell'enciclopedia Woltìana e all'adozione del concetto Her-
raanniano. Ella ha diviso il suo Manuale in due parti, riserbando
la prima alle discipline essenziali della Filologia che sarebbero la
Glottologia, la Paleografia, l'Epigrafia, la Critica e l'Ermeneutica,
la Storia Letteraria; relegando nella seconda le discipline ausiliari
— 366 —
che sarebbero la Storia, le Antichità, la Numismatica e Metrolof^ia
e l'Arclieologia dell'Arte.
Or tutto ciò, che forma come il nocciolo del suo lavoro, merita
una seria discussione, perchè l'opinione sua seguita ogi^i^riorno da
alcuni dei più autorevoli Filologi, come ad es. il Bonnet, quando
non sia ben chiarita, può dar luogo ad equivoci ed errori. Per-
metta a me di esporre intorno a quest'argomento quel ch'io ne
penso; chi sa che la discussione riesca anche qui, come sempre,
a dissi]»ar qualche nebbia e mettere in miglior luce il vero.
Anzi tutto, se si domanda quali siano le principali, le più si-
gnificative manifestazioni della vita d'un popolo già appartenente
alla storia, non v'ha dubbio che son tali le sue opere letterarie.
In esse si rispecchiano tutti i lati della vita, e vi trovano espres-
sione tanto le cognizioni scientifiche quanto le ispirazioni estetiche,
tanto le agitazioni della pubblica convivenza quanto le costu-
manze della vita privata; ivi gli slanci della poesia e dell'elo-
quenza e insieme le narrazioni della Storia e le dispute della
Filosofia. A tanto non arriva di certo nessun'altra delle manifesta-
zioni della vita, poniamo le arti belle, per quanto anche queste
siano interpreti fedeli dello spirito di un popolo. Adunque quando
si parla dei Greci e dei Romani, niun dubbio che di tutte le te-
stimonianze ancor superstiti di loro vita, le letterature, sebbene
in tante parti lacunose e ridotte a brandelli, sono le più parlanti,
le più ricche di contenuto, le più importanti fra tutte. E di qui
verrebbe la conseguenza che chi prenda a studiare l'antichità clas-
sica non può non rivolgere le sue cure precipue agli scrittori greci
e latini, la cui lettura suppone, oltre la conoscenza delle lingue,
determinate cognizioni di paleografia e abilità di critica e di er-
meneutica. Ciò ci porterebbe al concetto della Filologia patroci-
nato da lei. Ed è verissimo che in certo senso può chiamarsi
Filologo colui che studia con metodo razionale la lingua e la let-
teratura d'un popolo ; e filologo classico chi questo studio fa ri-
spetto ai popoli classici dell'antichità. Al filologo classico in questo
senso si contrappongono lo storico, l'archeologo, il glottologo, cia-
scun dei quali non rinunzia già alla conoscenza degli scrittori,
ma non ne fa oggetto speciale de' suoi studi e delle sue ricerche.
Ma si può anche guardar la cosa sotto un altro aspetto, e chie-
dere: le lettere son esse l'unico monumento al quale deva volgere
la sua attenzione chi vuol formarsi un'idea compiuta di quel che
— 367 —
è stato e ha fatto un popolo storico? Non dovrà egli a tal fine
riguardare con eguale attenzione tutti i monumenti superstiti, gli
artistici non meno che i letterarii, i monumenti figurati non meno
che gli scritti, e i figurati e scritti ad un tempo, quali le monete?
E dovrà trascurare la storia della coltura popolare colle sue cre-
denze e superstizioni, colle sue massime e proverbi, co' suoi stor-
nelli e colle sue fiabe ? E la storia della lingua che riflette così
bene le mutazioni successive del pensiero e del sentimento nazio-
nale rimarrà estranea ad un tale studio ? La risposta da darsi a
queste domande non è dubbia; e così siamo condotti a una con-
siderazione più larga, ad una visione più comprensiva della vita
interiore di un popolo, la quale può dar luogo ad un sistema di
cognizioni che può ancora denominarsi in largo senso Filologia, ed
eccoci al concetto Wolfiano e Boeckhiano che non ha meno ra-
gion d'essere del concetto Hermanniano.
Il Bonnet, avvertendo che i tentativi fatti sinora per classificare
le discipline filologiche non sono riusciti a nulla di positivo, e
che la così detta scienza dell'antichità risulta formata d'un fascio
di branche assai diverse della scienza universale, è venuto alla
conclusione che somigliante scienza non esiste se non in qualità
di scienza applicata, e che l'unità sua non è per così dire che un
miraggio dell'unità didattica delle facoltà filologiche universitarie.
Ella facendo un passo più là, afferma risolutamente che una
scienza dell'antichità classica tutta quanta non esiste affatto. Ma
dunque dalla difficoltà di ordinare razionalmente una serie com-
plessa di cognizioni (v. Append.) s'inferisce che tal serie non
esiste? Come si può dir che non esista un gruppo di notizie, quale
fu ideato dal Wolf, intorno a un momento storico qualsiasi ? Sup-
poniamo si voglia studiare l'interessante periodo dei due ultimi
decennii della repubblica romana, e lo si studi sotto tutti gli
aspetti, nelle letterature, nei monumenti, nella lingua, nella storia
politica e nelle antichità pubbliche e private, il quadro che verrà
disegnandosi nella nostra mente non riprodurrà im'immagine viva
ed eloquente della morente repubblica ? E chi oserà dire che un
tal gruppo di linee, di figure, di chiari scuri non esiste ? Non solo
esiste, ma niuno può negare che la scienza che viene così ad
aversi di quel momento storico è più larga, più comprensiva, più
perfetta di quella che si avrebbe riguardando solo il movimento
letterario.
— 3fi8 —
Ella crede cIh; nulla mente del Wolf, quando venne sistemando
quel suo concetto enciclopedico dominasse uno spirito umanistico
e antiscientifico. A me questa asserzione sembra contrariissima al
vero; un tal rai^gruppainento di osservazioni che suppone si tent^a
conto delle novellette popolari non meno che dei poemi epici, dei
proverbi non meno che dei sistemi filosofici, delle voci voi^^ari non
meno che del trase[,'^nare elej^^ante, di un ofi^gettuccio qualsiasi di
vii terra non meno che dei marmi splendidamente lavorati, un tal
rapfpfruppamento di osservazioni e cognizioni non ha nulla di uma-
nistico, anzi ò precisamente il rovescio dell'umanismo. Tendenza
umanistica potrebbe invece altri riscontrare nel limitato concetto
dell'Hermann e del Bonnet, il quale fissa per oggetto esclusivo
delle ricerche filologiche (luel medesimo che già diede ispirazione
e vita agli studi degli Umanisti.
E con qual ragione sostiene Ella che il concetto Wolfiano non
corrisponde più all'idea essenziale dell'evoluzione storica? Con
questa che il momento greco-romano non è se non un particolare
momento dell'evoluzione storica generale, epperò la considerazione
di esso costituisce una sezione particolare di ogni singola disci-
plina storica, anziché una scienza a sé. Confesso di non vedere
chiaro il rapporto della motivazione colla tesi che si vuol dimo-
strare. Che il momento greco-romano sia oggetto d'attenzione per
chi studia la storia universale o anche certe storie parziali come
la storia delle Letterature, quella della Legislazione, quella del-
l'Arte e va dicendo, da questo non deriva punto che quel periodo
non possa esser considerato da sé secondo l'idea Wolfiana. E uno
studio comprensivo e largo sia del mondo orientale antico, sia del
mondo classico, sia delle nazioni moderne, che sarebbe appunto
la filologia nel più largo senso della parola, come può dirsi che
non corrisponda alla evoluzione storica? Anzi é un portato di
questa evoluzione l'allargarsi delle vedute, il rilevare le più ri-
poste attinenze fra i varii elementi del vivere civile, l'indagare
le correnti d'idee e di sentimento trasmesse da popolo a popolo,
da tempo a tempo.
Infine non regge l'obbiezione che la filologia Wolfiana non ri-
sponda a quella division del lavoro che domina sovrana nel sapere
moderno. Dalla impossibilità che un sol uomo acquisti tutto lo
scibile, s'ha egli a inferire che non ha ragion d'essere una clas-
sificazione delle scienze ? o le scienze della natura non formeranno
- 369 -
un tutto organico solo perchè non è possibile ad un uomo nato
l'esser fisico insieme e zoologo, botanico, mineralogo, ecc.? Se l'ar-
gomento suo valesse, neanche la filologia nel senso herraanniano
sarebbe possibile, perchè niuno può per viver che faccia acqui-
starsi di tutti gli autori greci e latini una conoscenza adeguata
e compiuta.
La conclusione di tutto il ragionamento sia questa, che hanno
la loro ragion d'essere tanto la filologia classica in largo senso
secondo il concetto Wolfiano, quanto la filologia in istretto senso
alla maniera dell'Hermann. Nel largo ambito dell'enciclopedia
Wolfiana, può ciascun studioso formarsi il proprio raggruppamento
di studi e di cognizioni, ad es. chi attende a interpretar gli au-
tori farà suo prò, nella misura che gli occorre, delle notizie sto-
riche ed archeologiche, chi studia la storia si varrà dove con-
viene della critica ed ermeneutica degli scrittori e dell'altre
parti del saper filologico, l'archeologo infine oltre al riguardare
l'oggetto suo proprio farà tesoro delle discipline affini ; e così pur
serbandosi nella scienza applicata il principio della division del
lavoro, rimarrà intera nella sua idealità la scienza teorica enci-
clopedica.
In conseguenza di tutto ciò pare a me che un manuale storico-
bibliografico di Filologia classica, che è libro d'orientamento, deva
piuttosto avei- per base il concetto largo che il ristretto della
scienza. Seguendo il metodo ch'Ella ha tenuto, chi si dedica, po-
niamo alla Storia Antica del mondo classico, non potrà giovarsi
del suo Manuale perchè troppo scarso di indicazioni per la parte
che lo riguarda; mentre un'opera come quella del Eeinach o del
Muller serve per tutti quelli che entrano nella provincia filologica,
qualunque sia il punto al quale intendono far convergere le loro
ricerche e i loro studi.
Ma la question del Manuale è question di apprezzamento per-
sonale, e io non ci vo' insistere. Sarei lieto invece se Ella ricono-
scesse con me che non è stata opera vana il movimento intellet-
tuale iniziato da P. A. Wolf, il quale è intimamente connesso col
progresso moderno degli studi storici, e non è picciola gloria del
nostro secolo.
Rimila di filologia, ecc., I 24
- :ì70 —
APPKN DICE
Nonostante il discredito in cui sono caduti i tentativi sinora
tatti di classificare le discipline filologiche, mi sia concesso render
qui di pubblica rafrione un raggruppanoento di esse che mi venne
fatto or sono molti anni in servigio della scuola, e che a me par
buono.
Dico che la Filologia classica comprende due categorie di di-
scipline, le une studiano i monumenti superstiti della vita antica,
e questi sono o scritti, autori ed iscrizioni, o figurati, lavori
d'arte, o scritti e figurati insieme come le monete; le altre rap-
presentano i risultati dello studio dei fonti, e questi risultati co-
stituiscono la storia della vita antica o intellettuale o pratica. La
prima categoria di discipline filologiche, cioè lo studio de' fonti,
suppone la conoscenza delle lingue classiche e l'esercizio dell'arte
critica ed ermeneutica. Ordinando quindi s'ha lo schema che trovasi
nella pagina seguente. Nel quale si osservi come certe discipline
trovano il loro vero posto, ad es. l'epigrafia e la numismatica, le
quali per se non son che descrizione di monumenti superstiti, più
che vere scienze, ma servono poi alle discipline della seconda ca-
tegoria, quali la storia politica, la storia della lingua e quella
dell'arte. — Si noti in secondo luogo che se vi sono ripetizioni
nello schema proposto, non sono che apparenti e riflettono diverse
maniere di studiare un identico oggetto; ad es. altro è la cono-
scenza pratica delle lingue richiesta per interpretare i monumenti,
altro la storia della lingua considerata nella sua origine e nel suo
sviluppo; altro è la storia esterna della letteratura, altro l'interna,
altro la descrizione dei monumenti di architettura, di scultura ecc.
ancora superstiti, altro la storia interna dell'arte classica. Questo
schema offre il doppio vantaggio, se io non mi inganno, 1° di
disporre le discipline filologiche secondo il giusto luogo che loro
spetta nell'enciclopedia della scienza, 2" di far vedere l'ordine che
tiene la mente nell'apprendere questo gruppo di cognizioni, essendo
naturale che si faccia precedere lo studio delle fonti e da questo
si venga alla storia che ne è il prodotto.
— 371 —
Classificazione delle discipline filologiche.
Conoscenza pratica Snella grammatica
i delle lingue classiche (nel dizionario
Discipline I i Paleografica
propedeutiche! Arte critica JEmendativa
j (Alta critica
\ Ermeneutica
Studio dei fonti^ l Autori - Storia esterna delle lette-
I Scritti I rature classiche
l (Iscrizioni - Epigrafia
I , .1 i d'architettura
<; I \^°°^"''®"" .Figurati )di pittura e scultura
O I 1 'di arti minori
CG 1 I
^ I [Scritti e figurati o monete - Numismatica
i-J I
La coltura popolare
3 I [ lArti: Storia interna del-
Q 1 l l'arte
O j Ir ,. • j- • \Lettere: Storia interna
J / iLa coltura indivi- ^j^jj^ letteratura
fe I I Vita Intel- ì duale i
lettuale \ ì i Filosofia
'Sctenze/ Scienze giuridiche
\ Storia della'
(Scienze minori
lo. • 1 li r Snella sua origine
istoria della lingua j^^^j ^^^ sviluppo
r» ui-i- \ Storia politica
rP"^b'^^^l Antichità pubbliche
iVita pratica ]
(Privata - Antichità private
Firenze, febbraio 1895.
Felice Kamorino.
30. 5. '95.
- a72 -
BIBLIOGRAFIA
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genie auf Tauris erkliirt von F. G. ScnòXK und H. Kochly.
Vierte Aufla[,'e. Neiie Bearbeitiuig von Ewam) Iìkuiin'. Berlin
(Weidiiuuirisclie Biiclihaiidliiiig), 1894; pj). vi-192.
Di Ewald Brulin conoscevamo un fascicolo di 'Lucubrationes
Euripideae' ed una ncue Bearheitung della edizione Schoeniana
delle Baccanti. Tutti e due questi lavori attestavano ottima pre-
parazione, e non volgari attitudini di critico e di interprete. La
nuova edizione della Ifigenia Taurica conferma l'impressione la-
sciataci da que' primi lavori, e ci dà diritto a sperare non poco
di bene per l'avvenire.
Vlfigenia l'aurica h delle più belle tragedie Euripidee, ma ò
anche delle più difficili ad emendare ed interpretare. 1 critici, da più
di un secolo in qua, hanno certamente fatto molto ; ma è vano aspet-
tarsi dalla critica congetturale troppo più di quello che essa può
dare. Mekler per esempio è, se non erro, uno di quelli che se ne
aspetta troppo; egli crede, a quanto sembra, facilmente superabili
le difficoltà che questo testo presenta, ma la sua edizione dimostra
soltanto quanto poco di veramente sicuro può apportarvi anche un
uomo di talento critico incontestabile. Abbiamo un testo con ab-
bondanti interpolazioni, lacune e corruttele di ogni specie ; né
senza ammirazione (ed anche, se si vuole, invidia) vediamo come
testi siffatti possano in Germania essere utilmente introdotti nelle
scuole. Almeno è un fatto che abbondano colà le edizioni scola-
stiche di questa tragedia il), il che vuol dire che, per lo meno,
è letta da molti. Vi contribuirà forse il desiderio di paragonarla
con Y Ifigenia di Goethe. Comunque sia, da noi sarebbe oggi follia
sperare altrettanto.
Ma l'edizione del Bruhn, come in generale molte altre della
medesima collezione, non è propriamente fatta per la scuola, e
tanto meno per gli scolari. Molto più utilmente la adopereranno
giovani filologi per addentrarsi nello studio di Euripide (2), e
(1) Mi duole di non conoscere né l'edizione Bauer-Weckiein, né la seconda
Teubneriana del Wecklein stesso.
(2) A volte parrebbe che il commento s'indirizzasse esclusivamente a stu-
diosi de' tragici ex professo. Per es., neppure un rigo di annotazione tro-
viamo alle clausole de' trimetri 5'^0 outu) YiYvexai e 678 itoXXoì -fàp kokoi',
come se tutti i lettori della edizione dovessero conoscere le ricerche specia-
lissime dell'Elrnsley {Ecfinb. Review, 1811) e del Wecklein {Stud. z. Aesch.).
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molto ne profitteranno anche e critici ed interpreti del poeta,
poiché vi abbondano osservazioni originali, e fra le originali non
sono rare le buone.
Al posto della lunga introduzione del Kochly, ne troviamo una
pili breve del B., della quale poi alcune pagine riguardano 'Eu-
ripide e Goethe'. Per noi ha maggiore interesse quella parte in
cui si cerca di determinare la cronologia àeWIfigenia Taurica
rispetto dlVElena. Che le due tragedie sieno da riferire suppergiù
allo stesso tempo, non credo possa esservi dubbio; dubito invece
molto che si possa determinare la priorità dell'una rispetto al-
l'altra. Finora non sono stati addotti che argomenti di carattere
puramente subbiettivo, ed io almeno, anche dopo lette le buone
pagine del B., non vedo come potrei seriamente contraddire e a
lui che pone Vlfìg. Taur. prima deWEletta, e a chi per contrario
ponga questa prima dell'altra.
Una bella emendazione è KoivoupYqj iicpei al v. 1173, mentre
finora nessuno, che io sappia, aveva subodorato corruttela nel
Koivuuvuj della tradizione. D'ora innanzi si potrà forse avere scru-
polo ad accettare la parola escogitata dal B., ma non si dubiterà
della corruttela. Correzioni semplici e sodisfacenti sembrano anche
852 èyiljò' a \xe\eoq, 1143 ò' éarairiv, 1479 ti y^P; ^rpòq — Kevóv;
e non poche altre. Giustamente, crediamo, ammette il B. una lacuna
dopo 477 (anche lo (Jkottóv del Mekler è insufficiente), dubita
della integrità delle parole npò vaiuv 1215 (che sieno derivate da
una glossa di aùioO ?), difende Trérpivov òxòov 290 etc. Anche in
molti altri luoghi è difesa con sano giudizio l'integrità della tra-
dizione, e in altri non meno opportunamente è confessata i'insuf
Chi conosce solo la 2^raefatio in Becubam celeberriiua, penserà che quei
due versi non possano esser tollerati. Sembra del resto che il B. conceda in
questo al poeta maggiore libertà che non concederemmo noi. Almeno la sua
nota a v. 914 è redatta in modo da far credere che egli ritenga egualmente
possibile cpiXa òè t (i |li à ttóvt' è|uo{ e qpiXa bè t à k e ì irdvx' èpLoi, mentre
con TÓKeì bisognerebbe introdurre molto maggiori mutazioni (pei' es. iravTa
YÒp TÓKeT qpiXa). È questo un verso fatto apposta perchè i filologi non inor-
gogliscano della loro scienza. Il senso che deve esserci lo indovinerebbe un
bambino, le parole nessuno riesce a restituirle definitivamente. Vedano un
po' se la corruttela non consista per caso soltanto in un èorai per èaré. e
che Ifigenia voglia dire ad Oreste : è naturale che io voglia sapere di Eletira,
perchè voi (tu eil Elettra) costituite Tintera mia famiglia, non iio altri cari
oltre di voi (qp(\a yàp èate ttòivt' è|uoi oppure è|ud). Mi par di poter con-
frontare in qualclio modo Or., 1192 it5v yóp ^v cpiXov TÓ^e. — A\ v. 5(ì6
(KaKf](^ Y^vaiKÒt; xàpw tìxopiv (ìiTiijXeTo) non sarebbe stato fuor di luogo an-
notare che il ritmo non è propriamente eux^pi*;'- sta almeno il fatto r he non
occorre altrove in Euripide (come credo al)bia osservato già l'ElinsIey), dopo
un dattilo nel terzo piede, un triliraco risultante da una sola parola nel
(quarto. Viceversa con la correzione metrica Xrmjó|uea6a (v. 9SP>) di p evi-
tiamo un tribraco non bello, ma si guadagna in compenso una sinizesi di
BeQt; nel quinto piede, un unicum anche questo. Scriverei (con Haier, se
non erro) Xii^joiuai.
— 374 —
ficienza de' nostri mezzi critici. In somma il libro si legge con
piacere, e lettolo si riconosce di avere imparato qualcosa.
Nonostante non deve far meraviglia se francamente dichiariamo
che non sempre è facile andar d'accordo col B., sebbene egli
spesso si pronunzii molto recisamente. E poiché ho detto del libro
quel bene che, a mio giudizio, esso merita, posso ora senza in-
giustizia trattenermi a dare esempii di ciò che in es.so non mi
sodisfa.
Cominciamo dalla critica diplomatica. Un editore della Ifigenia
Taurica, la cui recensione si fonda sui codici LP (1), ha a sua
disposizione, oltre il Matthiae e il Kirchhoff, gli Analecta del
Wilamowitz e l'edizione dello /iegler (Freiburg i. B. u. Tiibingen
1884). Non potendo ricollazionare da sé i mss., l'editore ha il
dovere di credere al Wilamowitz quando le sue indicazioni con-
traddicono a quelle del Kirchholf, allo Ziegler quando questi non
si accorda col "Wilamowitz. Ora il B. ci dice nella prefazione che
il signor Graeven ha riscontrato per lui ne' codici una serie di
luoghi, per i quali trovava indicazioni discordi. Ma questa serie
di luoghi deve essere stata molto piccola, poiché in realtà dal-
l'apparato del B. resulta che per lui l'edizione dello Ziegler non
esiste. Eppure egli senza dubbio la conosce: trovo infatti nelle
'Lucubrationes' a p. 279 un 'si modo Ziegleri curis tertiis fìdes
habenda'. Dunque non l'ha voluta adoperare. Non qualifico questo
modo di procedere: mi dolgo delle conseguenze. Errate indicazioni
del Wilamowitz o del Del Furia sono ripetute nell'apparato del B,,
mentre in parte almeno non vi sarebbero se si fosse usato lo Zie-
gler, Ho riscontrato accuratamente L, ed ecco qui tutte le corre-
zioni da fare, per ciò che riguarda questo codice, alle indicazioni
del Bruhn :
18 àqpopiLiiaii (non -\Gr\) L (2) | 35 roTcfi^ L: toTctiv L'^; dunque
la tradizione è xoTaiò' I 58 iba (non ouq) L | 65 eCTja'L: èq l\x L^l
75 TÓRpoGivia (non x' àKp.)L | 91 irépav (non Tiépai;) compend. L;
i copisti degli apografi parigini (cf, Hermann e Fix a q, 1.) non
hanno confusi i compendii, come hanno fatto i collazionatori mo-
derni I 98 TTUjq (av soprascr, L'^) oijv ladGciiaev av L, e nello
stesso verso pr, ^^Priaó|uea6a (corr. èK^.) | 176 vìì\ìo.c, (non Kè)aà(;) L
177 (aqpaxOeTaa in L è scritto in modo che un copista poco ac-
(1) Dindorf e Wilamowitz ebbero la buona idea di sostituire un P al 5 del
Kirchhoff, per indicare il codice Palatino. Per indicare il codice Lauren-
ziano ebbe un'idea altrettanto buona il Prinz, che sostituì L a C. Wilamo-
witz e Bruhn continuano nonostante ad usare la sigla C, ed io sostituisco
costantemente L al loro C: la nostra è una notazione per sé stessa più co-
moda, ed oltracciò già adottata da molti.
(2) Del resto hanno àcpopnior) tutte le vecchie edizioni (Aid., Brubach.,
Hervag. 1551 etc); sicché, anche ignorando la grafia di L, il B. avrebbe
dovuto dire non 'nescio quis ', ma 'Musurus'. Anche in altri luoghi dell'ap-
parato fa capolino questo ingiustificato 'nescio quis*.
375 —
corto vi potè leggere aqpaYXQeiaa) | 181 òéaTroivd t' (non òecTnoiva
t' ne òeaTToiva t') L ; scriverei con Weil e Flagg òécnroiv', àvT-
eHaubàcro) | 203 èE àpxàc, corr. L- piuttosto che l \ 253 ÓKiaTaiv
compend. L | 254 Koivuuvia (non altrimenti^ (1) L | 292 tauià L
(Heath congetturava taOra per xaÙTà, non viceversa) | 306 (aaKpuj
w
(i ree. sopra a) L | 357 inevéXaóv 0' (non x') L ] 374 KaaiYvriTri L\
399 àpa L: apa L^ | 406 vaùùv l \ 414 Tirnuam (non -aiv) L I
447 fjòicrT'av, trivò' àyfeXxav L | 538 àW^q be (si vede ancora l'ac-
cento del bè) pr. L | 556 (rraiq, scritto in modo da leggervi facilmente
TTÓùq, L) I 568 èffTiv L: ear L''^\ 570-571 (non 570-575) ad Ifi-
VI
genia L | 590 tivóct (cioè jivóc, e rivi) L | 607 ffeanjarai (non
CécToiiai; si confrontip.es. come è scritto lauBeOerai lon. 196) LI
636 t' èk l (non L'^) | 655 àjacpiqpXoYa (non diucpicpXÓTa) L !
vai vai
742 ^^eiauu L: Treìduu l (allo stesso modo Hel. 99 lavriaitip, ma
ivi fortunatamente la glossa non ha incontrato quell'immeritato
favore che molti editori dell' Iph. Taiir. le hanno accordato) |
o' ac,
795 èKTTeTiXriTii/ L (2) | 811 rjXéKipa (cioè a espunto, e a(; in
compend.-, tutto,, credo, di pr. m.) L | 834 TÓÒétiL | 845 e 846 iùj
L: d) l \ 854 òépa L | 859 Xev^ L: XeKip corr. ,L- ?) | ib. boXiav
(non boXidv) | 930 outt^ L : outt L^ : r\ ttou mg. / | 951 èreKTr)-
vavt' L I 955 kótuOt' L | 1025 è'Huu GeT|uev L | 1064 ('te P'
Bruhn : sarà errore di stampa, Wilamowitz e Ziegler d'accordo
TI) I 1107 éq^àq pr. L | 1021 tò.,,^ L: tò fàp corr. L ovvero L^
(Ziegler annota espressamente tò bè da P ; Bruhn avrà scam-
biate le sigle) I 1146 |aaTépo(; L: juaTpòe; l \ 1163 riTPeOaacTG'
(senza correzioni) L (3) | 1239 qpépei viv L (e P, v. Ziegler) |
1257 urrep (non ùrcèp) L ; e così anche P ap. Ziegler | 1268 àrre-
vdaaTo L I 1263 q>à6\jLar à^^, pr. L : (pàGjJLai òveipuuv (dopo
ripetuta ispezione mi sono convinto che veipniv è proprio in ra-
sura, ed ò è corretto) L-; sicché la causa di òveipiuv è da rive-
dere (cf. Wilam., p. 85) | 1276 èrrei b' è'aeKJe L | 1285 rn?
jf\abe tr. /, non L^ | 1334 xep^^ L : xepai L^ ] 1358 TTOpSeueTe
(1) L' a non è tutto netto, ma escludo che si tratti di una correzione.
(2) Poiché il Bruhn non suole citare congetture oltre quelle ammesse nel
suo testo, non si può dire che egli per semplice svista abbia scritto èKiT€-
TtXriYiaévoe; Musurus: èKTreirXeYMévri' invece di ' èKireTrXiTf M^voc; LP: éKire-
TiXriYMévri Musurus'. L'indicazione esatta del resto è anche nelTapparato del
Kirchhofì.
(3) Wilamowitz (p. 31) annota invece: 'riYpeOaa. L: t^Ypeuoao©" «''• Q^'«"to
alle correzioni di P, Wilamowitz e Ziegler si accordano.
- :nfì —
senza correzioni (1) L | 1388 euEeivov L | 1390 bè (dopo rnv)
L: òri ^'^ I 1401 éKpaXóvreq (con accento eraso sopra a (2 ) L
1458 vóiiov TÌ9ea6e pr. L: vó|iov te QéaQ^ coir. | 1486 ad
Athena l.
E poicliè ho cominciato a comunicarf lir/ioni di L, agi^iun^erò
anche i sefTuenti luoj^hi in cui alcune altre poche indicazioni del
Wilamowitz sono lievemente inesatte o incomplete, oltre quelli
compresi nel precedente elenco :
[An. Eur. p. 29] 5!> dq L (e P; cf. Zie^'ler). lOG àrraWax-
0^VT6 L I 111 TÒ L^ piuttosto che l; siccome poi l'accento sembra
di pr. m., dubito che fosse toi in orij^ine | 115 oùòèv certamente /
193 éEébpaa' L | 200 €Ì(; oiKOuq L | [p. 30 1 327 in L ora è auTi?,
ma aO è corretto da ou, e la carta è un po' sciupata (che W.
abbia scambiate le sigle?) | [p. 31] 701 dvaTfeìXav l \ fp. 32 1
30 ùjKiaev l (non L'^) | [p. 34J 719 biécpOopév L | 1137" mTTÓ-
bpoMOV / 1 1233 0ea L: Ged L^ | [p. 35J 13u8 ipócpov anche P
(Zieoler) \ 44 C dopo è'òoE' év è errore di stampa per P | argum.
7TapaYÉVÓ|Lievo? L | 430 anche Ziegler non annota il xai da P: ma
Bruhn attesta il Kai per tutti e due i codici. Sarà uno de' luoghi
che egli ha fatto riscontrare.
Da nessuno poi ho visto annotata varietà di lezione al v. 15,
dove il B. scrive col Wilaniowitz (Herm. 18, 220 a. 1883) òeivnq
b' ÓTrXoiaq TTveu|idTUJV re [où] tuyxóviuv (cosi contemporanea-
mente anche England). Il verso è stato finora una vera croce per
gli editori, e questo semplice emendamento (Wilamowitz confronta
Thuc. 2, 85) sembra una vera 'liberazione'. Così mi pare elimi-
nata anche l'obbiezione del Badham ('beivfi^ parum aptum videtur
epitheton TÌìq dTiXoia?'; cf. id. praef. lon. p. xi), ma si vorrebbe
nonostante non esser costretti a riferire il beivfiq anche a rrveu-
ladiuuv. Può quindi essere di qualche interesse il sapere che L
aveva originariamente bei^^, e beiv)ì<; fu corretto da L- o da /.
Ma anche in origine c'era, a quanto sembra, una sillaba con cir-
conflesso ; né da beivujq o beivujv io saprei cavar nulla di buono.
Dal Wilamowitz (p. 30) riproduce il B (p. 66) anche lo scolio
di L al V. 303, già pubblicato su copia del Del Furia dal Mat-
(1) Wilamowitz dice che l ha aggiunto un |a : Ziegler dice invece 0 e u
di 'm. sec.?'. Ma ael codice c'è TTop0€ÙeTe senz'altro: e proprio non so spie-
gare come due persone indipendentemente l'una dall'altra abbiano visto cor-
rezioni, dove di correzione non v'è traccia.
(2) Ho esaminato ripetutamente questo luogo, e 1' iK^akóvrec, mi è sem-
brato sempre tutto di prima mano, e neppure supplemento di spazio in ori-
gine lasciato vuoto (Wilamowitz, p. 32 1. Anche nel v. 1380 dell' (ùare u>i
è in rasura 1' uja, non il resto che però appare in scrittura più serrata. Che
in questo verso tutto debba ridursi al timore di Ifigenia di bagnarsi i piedi,
0 al timore degli altri che Ifigenia non se li bagnasse 'irapGéviu Badham,
Ì€piav Kòchly etc), mi è sempre parso un po' ridicolo, e cos'i è parso anche
ad altri. Nel v. 1404 poi sarà Ik iréTrXujv il vero, ma èKPoXóvTeq può essere
benissimo una corruttela, prodotta magari da glossemi, non un supplemento.
— 377 -
thiae (V 596) e dal Dindorf (Schol. IV 216). Al Wilamowitz si
deve, io credo, la buona emendazione aìrróXoi fcod. Xomoì): ma dove
il codice ha giustamente toutok; òè tò Képa(g kóxXou f\v òatpa-
Kov, e il Del Furia aveva letto bene, nella copia del "Wilamowitz
occorre per errore toOto, né si può dar colpa questa volta al B.
di aver creduto a chi ultimo aveva riprodotto lo scolio. Profìtto
però dell'occasione per esprimere il dubbio che Euripide in questo
V. 303 faccia chiamare a raccolta i pastori per mezzo di un kó-
xXo(g piuttosto che di una tromba o di altra qualità di corno, non
per indicare uno stadio primitivo di cultura (v. per es. la nota
del Weil), ma perchè realmente potè essere adoperato ancora a
suo tempo, in qualche regione dell'Eliade, il primitivo KÓxXoq.
L'autore dello scolio ci dice, è vero, che i pastori adoperavano un
Képac, e non un KÓxXoq (egli annota infatti tò Képac, Xérei etc,
TOÙToi? bè TÒ Képac, etc), ma posso garentire che il kóxXo<; è
ancora in uso in alcune parti dell'Italia meridionale (segnatamente
nella Campania e nel Sannio), dove lo chiamano tufa e lo ado-
perano per dare i segnali del principio e della fine del lavoro
ad operai che lavoiano a notevoli distanze, per es. alla costruzione
di strade.
Ma torniamo ai manoscritti. Il B. crede col Wilamowitz che
P ed L sieno copie indipendenti dello stesso archetipo. Ora di due
copie indipendenti di un codice, sia pure accuratissima l'una e
trascuratissima l'altra, anche la meno accurata ha per solito
qualclie importanza nella restituzione dell'archetipo ; qui invece
avremmo in P una copia indipendente sì, ma perfettamente inutile.
Ecco infatti gli unici (1) luoghi in cui P avrebbe valore rispetto
ad L: 44 èòoS' èv (eòoHev L), 51 bó|uujv (òuuiuujv), 209 6d\oq
(eótW*'), 966 òir|piB|niZ:e iòir|pi0)Lir|ae), 1006 y^vaiKÒ? (xuvaiKUJv),
1220 èrrei axoXfi (èm cfxoXfi), 1358 TTop9|ueueTe (rrop9€ÙeTej ,
1442 manca in P. Potrei risparmiarmi un esame di questi miseri
otto luoghi, ma non è male abbondare in questioni di tal natura.
Nessuno può far merito a P della omissione del v. 1442. Sia esso
spurio quanto si voglia, certamente era nell'archetipo (né diver-
samente giudica Wilamowitz p. 35 sq.): dunque l'archetipo anche
qui ci è rappresentato da L che conserva il verso, non da P che
lo omette. E se non si vuole indurre in errore i lettori dell'ap-
parato critico, converrà formulare l'annotazione presso a poco cosi :
'1442 casu omissum in P eiecit Kirchhoff (cf. Badham piaef. loii.
p. XIV sq.)'. Corretto è senza dubbio è'òoE' év nel v. 44; ma ogni
copista non del tutto ignorante avrebbe saputo correggerlo, perchè
uTTaXXaxSelaa indicava il soggetto di prima persona e perchè anche
i Bizantini dicevano, in casi analoghi, év uttviu e non uttvuj. Del
resto la stessa correzione è avvenuta in apografi riconosciuti di L
(1) Le discrepaiizo, del resto insignificanti, no' vv. 399 e 414 abbiamo già
visto die in roalti'i non vi sono.
— 378 —
(per es. nel paris. H ap. Fix). Nel v. 1220 il Brulin scrive ènei
(TxoXri!, e in questo caso si potrebbe pensare clie solo P avesse
conservaLo il ditton<(0 dell'arclietifìo ; ma aneliti prescindendo dal
nessun valore di una discrepanza itacistica, credo di poter essere
sicuro die non sarò solo a jireferire 1' ém crxoXfiq dello .Scliaefer.
Similmente potrebbe voler dir qualcosa il biripiB|iiZ[€ nel v. 966,
se fosse vero il bieppùGm^e del Seidler (ap. Hermann), e allora
il binpiSMn^Jt sarebbe una correzione del copista Laurenziano, cbe,
come pensa il Wilamowitz, 'paulo doctior erat quam qui sensu
cassa semper fideliti'r repeteret'. Ma se P non avesse per (|ualciie
tempo imnieritamente t(oduto della reputazione di codice iiiù au-
torevole rispetto ad L, credo che neppure il bieppuBiiiZie avrebbe
trovato tanto favore. In realtà l'attivo bir\p'\0^r]ae, come forma, non
è impossibile (Bruhn non ha creduto addirittura impossibile nep-
pure il biapi9pu)v dell'Heatb, Beiceli. 209); e per il senso mi
piire che molto convenientemente Oreste faccia solo costatare da
Atliena la parità de' sutfragii, mentre bieppùOiaiZiev meno conve-
nientemente accennerebbe ad una manipolazione di voti. Monk,
Dindorf e Weil del resto la pensano come me; sicché in ogni caso
sopra una discrepanza così variamente giudicata non c'è da fare
assegnamento. Nulla poi significa il TTopeiaeùeTe del v. lo58, poiché
non c'era bisogno di acume critico per correggere TTopGeùeTe che
non è parola greca, specialmente quando forme corrette di iropS-
ILieueiv occorrono almeno altre cinque volte nella medesima tra-
gedia (206. 371. 735. 1436. 1445). Resta 'unus ex gravissimis
erroribus librarli L' (Wilamowitz), il YuvaiKuòv del v. 1006. Ma
un bizantino poteva correggerlo anche ignorando, come è certo,
la legge del quinto piede del trimetro: il singolare YuvaiKÒ? gli
parve a ragione che meglio rispondesse all' àvfip pèv precedente.
Stando così le cose, non vedo ragione di allontanarmi da quello
che altrove ho cercato di stabilire per la Medea : P deriva da
una copia di L, copia che nella Medea potè essere e fu interpo-
lata con codici dell'altra famiglia, neW Ifigenia Taurica invece ci
dà solo quanto sa darci un mediocrissimo Bizantino, meno anzi
di quello che ci danno (e più forse darebbero, se collazionati ac-
curatissimamente) gli altri apografi riconosciuti di L, de' quali
per es. non ci maravigliamo davvero che abbiano saputo restituire
la serie de' personaggi ne' vv. 1207 sqq.
Dispiace poi nel commento del Bruhn l'abitudine di confutare
le opinioni di altri critici od interpreti (1), senza nominarli. So
(1) Per es. v. 337 B. scrive Kai — 5v óvaXiaKrii; révouc | roioùffòe — xòv
aòv ktX., e dice che sarebbe falso àvoXaiar);. Chi non sa che àvaXujffqc; era
stato proposto dal Mekler (Beitr., p. fi), crederà inutile la nota. Chi invece
lo sa, sa anche che il Mekler lo aveva fatto perchè ne' tragici non occor-
rono forme del presente àvaXioKUJ (àvaXoì Aesch. Sept. 798 W ; àvaXoìt;,
Eurip. Med. 325), e desidera sapere che cosa ne pensa il B. — 11 B. dice
anche la ragione per cui non ha scritto kSv : supponiamo che sia Ijuoaa,
— 379 -
benissimo che i nomi non contano, e contano le cose ; e per conto
mio darei ben volentieri il voto, se ci si potesse una buona volta
accordare a sopprimere tutti i nomi. Ma è vano sperarlo, che la
vanità umana noi consente. Usiamo dunque lo stesso criterio e la
stessa misura per tutti. E non dico altro.
Viceversa ha voluto qua e là il B. sceverare persino nelle note
esegetiche quello che egli apporta di nuovo dal materiale accu-
mulato da ciascuno de' precedenti editori. Impresa difficile, e anche
inutile. Ora l'averlo fatto qualche volta il B., può far credere
che egli l'abbia fatto sempre, mentre in realtà anche alcune volte
che sono espressamente citati de' nomi, la citazione è inesatta.
Parrebbe ad es. dalla nota al v. 646 che Wecklein per primo
avesse addotto quel tal luogo parallelo di Aristofane {Rnn. 663);
ma io lo trovo già addotto dal Klotz, e non ho né tempo ne voglia
di riscontrare se occorra anche in edizioni piìi anticlie. Per con-
trario, tenuto conto delle abitudini del B., dal modo come è re-
datta la nota a v. 52 alcuno crederà originale l'osservazione sul
qpGéYina-XaPeTv, mentre (se non m'inganno) il primo a farla è
stato il Bauer (Zu Eur. Iph. Taur. [Miinchen 1872], p. 6).
Pili facile, ma non facilissimo, era il smim cuique trihuere in
fatto di critica; e qui invece il B. procede con non lodevole dis-
degno. Una volta almeno dimentica persino di annotare di aver
mutato il testo per congettura (120 ToOòé Weil, Bev. crii. 1872,
II, 325; Wilamowitz, An. Eur., p. 145; Wecklein, Jnhrhh. fur
Pini., 113, 85: toO GeoO codd.). A v. 1271 troviamo un Zrivòq
per Aiò<; attribuito al Mekler, mentre il Mekler stesso cita l'Her-
mann. Similmente 200 èK^aivei Troivà TaviaXiòdv (Monk e Wec-
klein), 845 ìùj KuK\ujiTiq éaxia (Hermann), 1463 Trjòe KXriòouxeìv
Ged (Markland, cf Wecklein, l. e, p. 104) etc. compaiono come
nuove emendazioni del Wilamowitz, dopo di che non ci maravi-
glieremo neppure che per es. 105 te sia attribuito ancora al
Kirchhoff piuttosto che al Lenting(afZ ilferZ., p. 96). o non si ac-
cenni che 1246 KaxdqpapKToq è congettura dell'Hartung. Il Monk
andava ricordato magari anche per V oc, al v. 574 (non capisco
del resto i versi precedenti neppure nella edizione del B.; e in
ogni caso non sarà necessaria l'aggiunta del ò' nel v. 572 ; e
quando si voleva, sia pur dubitativamente, accennare alla ipotesi
che 588-90 non fossero di FJuripide, bisognava non dimenticare il
Monk che que' versi aveva espunti senza esitazione. 0 vogliam dire
che sia vero anche oggi quello di cui venti anni fa si doleva il
Wilamowitz (An., p. 144): *apud nostrates parum notus Mon-
kius'? Io son sicuro invece che il B. avrà studiato, come era
ma allora o bisognava scrivere koi — f^v, o almeno avremmo avuto il di-
ritto di veder giustificato un tale dv in Euripide. Ma forse si tratta qui di
una distrazione, corno ò certamente il caso nella nota al v. 1264, dove per
TÓ Te irpùjxa si propone 'wolil xd t* ióvta' (in un poeta attico '.V
- 380 -
SUO tlovere, accuratiiinHiite le edizioni e del Markland e del Morik
e dell'Hermann e del Weil e del Weckleiii e definii altri principali
editori ; ma emendazioni che non gli sembravano buone quando
erano presentate da ((uesti critici e delle quali non aveva creduto
necessario ncjipure preiidt-re a]»purito, presentate invece «lai Wila-
mowitz gli j)arvoro eccellenti, tanto eccellenti da essere senz'altro
introdotte nel suo testo. Sicché se il Wilamowitz con la sua mi-
rabile attività non avesse trovato tempo per riguardare il ms. del
nuovo editore, non solo non avremmo avute le nuove eccellenti
emendazioni del AVilamoAvitz stesso, ma saremmo stati defraudati
di altre emendazioni altrettanto buone, che il B. per conto suo
aveva condannate all'oblio (1).
Mi resta poco spazio per osservazioni speciali sopra singoli
luoghi. Non voglio intanto nascondere il mio compiacimento per
la buona prova di indijtendenza di giudizio che dà il B. nella
nota al v. 1379. Giustamente egli non si entusiasma per la scena
di pugilato descritta, del resto, con molta evidenza, ne' vv. 1306-76
(inintelligibile è soltanto v. 1371). Da più tempo avevo sospettato
anche io interpolazione, suppergiìi per le stesse considerazioni che
fa il B.; solo però io credevo, e credo tuttora, certamente genuino
il V. 1366. Di esso, con quel così plastico tà beivà TrXriYMaTa,
non vorrei in nessun caso far di meno ; esso anzi mi spiega come
poi un attoie, non destituito di facoltà poetica e hoxista appas-
sionato, abbia avuta la tentazione di aggiungere quella particola
reggiata descrizione, che proviamo ritegno di attribuire ad un così
implacabile avversario di esercizii atletici com'è Euripide. Del
resto alle osservazioni del B. forse converrà aggiungere che nel
testo tradizionale mal s'intende come durante il pugilato i to-
(1) So bene che di peccati di questa specie tutti ne abbiamo sulle spalle.
Vi insisto perchè la disinvoltura de' giovani filologi di oggi mi sembra ec-
cessiva, G. von Armin ci dà ora la prima edizione veramente critica di Dione
Crisostomo, e non potrei mai lodare abbastanza il tatto critico, la classifi-
cazione de' mss., i criterii della recensione. Ma prescindendo da' troppo fre-
quenti errori di stampa, mi rincresce che le edizioni stesse dell'Emperius e
specialmente del Dindorf non sieno state sempre collazionate con molta cura.
Nel primo volume a p. 183, 14 troviamo un 'buvr^acoBe scripsi' cioè un'e-
mendazione del Reiske citata dall'Emperius. A p. 181, 22 è stampato tò
ia\(XTQv e nella nota: fCxaTov Cobetus, tò ùaTaxov MPY' etc, donde al-
cuno potrebbe trarre la conseguenza che i codici avessero tò tò uototov
ovvero tò tòv uOTaTOv. Di più Cobet ( Coli, crii., p. 63) vuole TouaxaTov,
né so perchè ripugni al nuovo editore questa crasi a cui il tò ùototov dei
mss. evidentemente riporta ; e prima del Cobet aveva emendato TGi'axaTov
il Dindorf (praef., p. xvii). 'Similmente a p. 182, 20 il ÒUvd)ueva, espunto
dal Cobet (negli Addenda dell'Emperius), secondo il Dindorf (p. xix; era
stato già eliminato dal .Morel. E se il Wilamowitz non avesse corretto sulle
bozze di stampa àpTraaGeìoav (p. 130, 21), l'editore avrebbe probabilmente
lasciato intatto 1' àvaipsGeloav de' mss.. mentre la stessa correzione era già
nel Dindorf (p. xxv). Che la critica guadagni qualcosa a trattare con dis-
degno i critici, siano pure niinorum gentium (e Ludovico Dindorf non era
davvero tale), non me ne persuaderò facilmente.
- 381 -
Eórai se ne stieno inerti, e compaiano solo (v. 1377) quando a
furia di pugni e di calci i ministri di Toante hanno dovuto al-
lontanarsi. Capisco che non si può trar d'arco combattendo corpo
a corpo (TTÓppuuGev -fàp tò tóEov ìaxuei Schol. Thuc. Ili 32, 4),
ma i ToEÓTai sono sulla prora, ed è assurdo, mi pare, supporre
che essi assistano inerti al combattimento sulla spiaggia.
Eccessiva forse è la propensione del B. ad ammettere lacune.
Così, ad esempio, pe' vv. 96 sqq. egli mantiene l'opinione esposta
con molto garbo ed acume nelle Lucubrationes, p. 276-80, ed
indica un'ampia lacuna (di almeno tre versi) dopo v. 97. Si tratta
di uno di quei luoghi dove, co' mezzi che abbiamo, è difficile si
riesca ad imporre definitivamente una correzione. Dirò nonostante
quello che ne penso. 1 due incisi ttiL^ av ouv )Lià9oi|uev àv e
luv oùòèv ìa^xev separati non danno senso, uniti danno un senso
tollerabile (1): perchè dovremmo provar ripugnanza a riunirli?
Invece non esitano a correggere e l'uno e l'altro (ouv Xd0oiM€v
oppure eìaé\6oi)uev oppure òé viv Xdpoiiuev, e in oùòòv eaxjxev
0 come in quanti altri mai modi si è tentato dal Sallier in poi)!
Di più, poiché Oreste dice 'vedi come sono alte le mura del
tempio' (ad un muro di cinta, che per sua natura non sarebbe
mai molto alto, è vano pensare), come supporre che egli continui
immediatamente con un 'wollen wir den Zugang zu clem Hause
ganz zu Ende gehen ' (nÓTepa òuuiadTuuv TTpo(Ja)apdaei(; èK^riaó-
|necr0a;), senza altrimenti insistere sulla difficoltà da prima accen-
nata? 0 forse la vista delle alte mura gli fa passar senz'altro la
voglia di compiere la missione impostagli da Apollo? E poi,
mentre sono di plastica evidenza espressioni come Kéòpou itaXaiàv
KXi|iiaK' èKTiépa rroòi {Pìioen.^ 100), bisognerà convenire che è per
lo meno strano questo òuu^dxuuv TTpo(Ja)Lipdaei(; èK^aiveiv. Ha ri-
mediato il KirchhofiF con l'ottima correzione KXiiudKUJV. Ma bisogna
ricordarsi inoltre che la tradizione ha irpò^ àn^àoeic, (jTpoaain-
pdcTei? è del Barnes), solita corruttela, che qui doveva far sentire
vivo il bisogno di un verbo di moto donde queste })arole potessero
ragionevolmente dipendere. Abbiamo poi annotato più sopra che
nel Laurenziano l' ék di èK^ricfóiueaGa è resultato di correzione :
sarà stato originariamente eiapriaójaecrBa, come aveva proposto il
Marldand (èap.), piuttosto che é)uPricró|Lieaea, come voleva il Blora-
field (3Ius. Crit. Canfabr., 11, 190). E quando anche nessuna
traccia di correzione vi fosse, chi muta ìk in eìq o viceversa, in
realtà non muta nulla, poiché non è possibile immaginare un testo
che non sia passato per codici dove €IC valesse tanto l'una ([uanto
l'altra sillaba. Ciò posto, se rimettendo in onore la vecchia tra-
(1) Vedo con piacere (da' Jahresberichte) che anche il Weckloiii non so-
stiene più l'opinione espressa no' Jaltvbùcher f. P/iil., IÌ3, 84; pare anzi
che ora, per riunire i due incisi, condanni (col Dindorf) il v. 09. Mix questo
verso magniloquente non è certo opera del primo venuto ; e un versificatore
intelligente lo avrebbe interpolato a controsenso?
- 382 —
sposizione del Seidler (sej,aiito dal Moiik ; cf. anche Hartung e
Dindori'j, scrivessimo a mo' d'esempio:
TI b))uj)iev ; àiiqpipXriCTTpa yàf) toìxujv òpàc,
\}^fr\\u.. TTÓTepa (1) KXipdKoiv TTpoaafapaaeiq ;
f) xakKÒjevKja KXrì6pa Xùaavreq laoxXoI^
eìapr|(Jó|ieatìa ; irujq av oùv )arieoi)iev dv
iLv oùbèv ia)Li€v; fiv h' dvoifovreq ktX.
quali paravi difficoltà non sarebbero cliiiiinate ? 'Che dobbiain
faie ? Vedi come sono alte le mura. Abliiaiiio forse scale ?0 riu-
sciremo a togliere il paletto e ad entrare per la porta? Ma noi
non ne conosciamo né punto nò poco il segreto. E se ci sorpren-
dono mentre cerchiamo di aprir la porta, la nostra vita è fi-
nita' etc. Le parole ttuj^ — lajaev non vanno riferite all'ignoranza
del luogo dove nel tempio è collocata l'immagine della dea : se
l'eroico figliuolo di Agamennone aveva bisogno non solo di chi
tranquillamente gli ajirisse la porta del tempio e lo garentisse da
ogni sorpresa, ma voleva rinunziare all'impresa persino perchè non
credeva di poter trovare, senza l'aiuto di compiacenti indicatori,
l'immagine della dea nell'interno del tempio (e non sarà stato
poi un tempio smisurato), non valeva davvero la pena che egli
imprendesse così incomodo viaggio. Oreste vuol dire che la porta
è chiusa accuratamente e che rimuoverne il )lioxXÓ(; o i jioxXoi
(repagula) sarà ben difficile ad essi sforniti di chiave ed ignari
deìVingegno (come diciamo noi meridionali) della serratura : do-
vranno in ogni caso spendervi molto tempo, e tanto maggiore sarà
il pericolo di esser sorpresi (2).
Senza confronto anche meno giustificata è la lacuna che il B.
suppone dopo il v, 259. Anche se la tradizione ci desse appunto
quel verso che il B. vorrebbe supplire (èS ou fé toOò' eatriKev
èviauToO KUKXoq), molti, se non tutti, sentiremmo la mancanza
di un Cloe nel v. 258. ' Einen verstàndigen Sinn durch eine ir-
gendwie wahrscheinliche Aenderung in die Verse hineinzubringen
(1) Non sarebbe strano che l'interrogativo f\ avesse portato con sé la
glossa TTÓTepa, né io intendo di difendere ad ogni costo questa parola : si
Potrebbe scrivere iràpa òè, e meglio ancora -rroù bè. In questo ultimo caso
ellissi di eloi certamente non farebbe difficolth a nessuno.
(2) Che si tratti di repagula e non di vectes, lo sostiene con copiosa dot-
trina il Kòchly nel suo commento (cf. anche Opusc, I, 507), e lo avevano
già sostenuto l'Hand e l'Hermann ; se non che Hermann forse esagerava
dicendo che se i jiioxXoi fossero qui ' leva ', troveremmo ^nEovreq e non Xù-
aavT€<;. Il B., con la maggior parte degli interpreti, sta per la 'leva': perchè
altrimenti, egli dice, avrebbero avuto bisogno di un grmialdello, che è dif-
fìcile credere che essi avessero. Mi onoro di non aver molta esperienza in
siffatta tecnica, ma nelle nostre campagne usano ancora serrature a sbarra di
quelle che usavano nell'antica Grecia, e con un po' di tempo e pazienza si
riesce ad aprirle per mezzo di un qualsivoglia pezzo di ferro o di legno.
Del resto anche secondo l'altra interpretazione, ci sarebbe voluta una pode-
rosa leva ; è detto forse che l'avevano portata con sé ?
— 383 —
ist bis jetzt nicht gelungen', dice egli tranquillamente. È vero,
sono congetture poco o punto verosimili èE òtou (Heath) oppure
oi'ò' àqp' cu (Kvicala, Beitr., p. 234 e Madvig, Advers., L 260)
per oùòé ttuj, ne possiamo contentarci di un Qa\xà per Qe&q
(0. Hense, Exerc. crii., p. 50 sq.). Ma se neppure 1' oiV èTiel
Puujuòq 0ed(; dell'Erfurdt e del Seidler, che con due lettere mutate
restituisce un più che 'verstandiger Sinn', ci salva dalla ipotesi
di lacune, non sarà esagerazione temere che fra non molto di
cinque in cinque versi di qualsivoglia tragedia Euripidea saranno
indispensabili i terribili asterischi. Per qual mai ragione una emen-
dazione così facile e felice non è stata dal B. neppur rammentata?
Porse per il solito scrupolo 'èireì non sic dicitur de temporis in-
tervallo'? Anche dopo la lunga serie di esempi schierati in fila
dall'Heimsoeth {Ind. scìiol. aeat., Bonn., 1872, p. xxiv sq.)?
Molte corruttele deturpano la commovente descrizione della
follia di Oreste (vv. 281 sqq.); ad una ho cercato recentemente
altrove {Studi ital. di fìl. class., ili, 530) di rimediare, propo-
nendo pel V. 288: rj ò' cìyxi vuutuuv, irOp Tivéouaa Kai cpóvov,
TrT€poT(; épéaaei ktX., e non ho avuto ancora tempo di pentirmene.
Pel V. 290 mi accordo interamente col Bruhn, ma provo ripu-
gnanza ad ammettere con lui una lacuna dopo il v. 292. Ciò che
egli obbietta contro la lezione où tauia (erroneamente del resto
egli dà questa come lezione de' mss.), non mi pare abbia valore.
Dopo tutte le apostrofi di Oreste alle Erinni ci saremmo aspettati,
dice il pastore, di vedere anche noi questi esseri terribili che lo
minacciavano; invece rrapnv ópav niente affatto esseri tali
quali egli se li rappresentava, bensì evidentemente egli aveva
preso per voci di Erinni i muggiti de' buoi ed i latrati de' cani.
Se avesse detto où Ttapfìv ópav taOia, chi non vede quanto
avrebbe perduto la vivacità della narrazione? Ammessa come buona
la ragione addotta dal B., bisognerebbe per es. correggere anche
il V. 646 oTkto(; yàp où raOra e sim. Per contrario ha certo ra-
gione il B. a negare che àWacro'eaBai possa significare 'confon-
dere', 'prendere una cosa per un'altra', nel senso voluto qui dal
contesto (1). Ma d'altra parte l'interpretazione che dell'intero luogo
dava il Seidler, esteticamente è di gran lunga preferibile a quella
che risulterebbe dalla ipotesi di una lacuna. 'Man sah an ihm
nicht dieselben (raÙTà), gleichbleibenden, Stellungen des Korpers,
sondern er veriinderte sicli (indem er bald diese, bald jene 8tel-
lung einnahm) ' etc. Si converrà, spero, che dopo oi'iaoi, Kteveì }xe
e tutto quello che precede, molto meno interessa sapere quali
movimenti facesse Oreste, che non apprendere se queste Erinni in
realtà c'erano o non c'erano. Di più il confronto con lon. 992
(1) Lo aveva gih osservato il Matthiae (VII 439»: ' at ubi tandem dXXdo-
0€oÓai est res Inter se confundere?', né le sottigliezze dell'Hermann valgono
ad eliminare l'obbiezione.
— 384 —
(ttoIóv ti fiopqpnc; ax>V ÉX^uaav àfp'xac,; ilei la Gorgone), se tutto
non m'inganna, ci vieta di intendere uopqpf)? (TxnMCiTa come il B.
intende. J'eiciò non dispero si possa sostituire una struttura che
non obblighi ad abbjindonare la interpretazione del Seidler. Forse
nel V. 2!)l pijaniauTa ha subito soltanto rinliuenza della termina-
zione ùXu-fPWTa, e non conviene eliminare col nuKrmuia del \auck
anche la sillaba radicale ; proponei allora, nella speranza che altri
trovi di meglio,
TTapfjv ò' ópàv
où TaOxa Mopqpnq axrnaax', àW é£r\T[àruj\
qp9oTTCii cfqpe |aó(Tx'i'V, Kaì kuvuùv \}\à{\xaju,
uc, qpaa' 'Epivuq iévai )ii)aou)aevui.
S'intende che èEnTTotTUJv c'è solo exempli gratia. Potrebbe essere
invece iljcJTpnXdTouv (i lessicografi provano che solo casualmente
ne' testi poetici che possediamo il verbo oiarpriXaTeìv non com-
pare); potrebbe essere altra parola meno dissimile dall' iiWciacfero
della tradizione. In ogni caso non vorrei rinunziare al (paai (cpàa*
mss.), che mi sembra troppo caratteristicamente Euripideo per essere
abbandonato. Nel verso seguente (295) non credo neppure io al 6a-
vouiuevoi (1), come non crederei al 9a)aPou|aevoi anche se fosse
formalmente corretto, ne mi seducono emendazioni come Gea'Mevoi,
bovoù|uevoi, 9oXoù|uevoi, aìbou|uevoi, (Juctt. éKqpoPoùfievoi e sim.;
ma anche peggio è il 0avou|U€vou del Wilamowitz che il B. am-
mette nel testo. Capirei che i pastori impauriti se ne stessero si-
lenziosi e tranquilli aspettando che l'accesso di follia passasse, ma
non so restituire con probabilità questo senso (dj<; dvrì luévoq op-
pure éìc, juévouq àvij non sodisfa). Comunque sia, il B. non è
coerente a se stesso quando accetta qui senza esitazione 9avou-
ILievoi, mentre per es. a v. 901 ci dà koù KXuoua' àTraTTeXuj (' cui
tandem ille nunciet quae modo audivit?' Hermann), cioè la tra-
dizione con la pura e semplice emendazione di Lud, Dindorf del
Kttl in KOÙ; poiché se anche è sogoretto a cauzione 1' dir' dYTt^ujv
dell'Hermann (koù kXuuj rrap' dfTéXujv England), è sempre però
senza confronto qualche cosa di meglio del 9avou|ievou nel v. 295.
Per la via in cui mi sono messo, abuserei troppo dello spazio
concessomi. Mi contento di accennare ancora a pochissimi luoghi.
Vorrei per esempio poter contribuire alla interpretazione ed emen-
dazione de' versi oltremodo diffìcili 35 sqq., ma è un desiderio
probabilmente condannato a rimaner tale. Col B. credo interpolati
soltanto i vv. 40-41 (Stedefeldt, Usener etc), ma non so poi come
(1) Weil : 'A la vue d'un homme furieux qui s'élance de leur coté, l'épée
nue à la main, les bergers s'accroupissent d'abord et s'attendent à mou-
rir* etc. Ma ó hk xepi Jiróaa^ Eiqpoc; viene appunto nel verso seguente. —
Perchè nessuno sia tratto in inganno dal Badham, noterò che il uP sopra-
scritto dal correttore Laurenziano significa proprio 6a|uPoùjievoi e non |iéX-
Xiuv òeÙTcpo^.
— 385 —
dopo il là ò* aWa aiyo) del v. 37 possano seguire 38-39 Guai
YÒp — àvrip: evidentemente 37 era l'ultimo verso che riguardava
i vójiioi nefandi della religione di quella dea. Così deve aver
pensato anche il Wecklein in questi ultimi anni, se non fran tendo
le indicazioni contenute ne' Jahreshericlite. Ma se preponiamo
38-39 a 37 non sorgono altre difficoltà ? E come spiegare l'inter-
polazione de' vv. 35-36 òGev — |uóvov? Chi avrebbe interpolato
versi che anche presi isolatamente presentano tante difficoltà ? Mi
contenterò di dire che se non si vuol rinunziare ad ogni procedi-
mento metodico in fatto di critica o d'interpretazione, bisognerà
fissare come capi saldi di ogni futuro tentativo : 1" che nel v. 35
la tradizione è ToTaiò' (cioè toictìò*) e non conviene prendere la
correzione toTciv di L^ come punto di partenza (1); 2° che nel
V. 36 r\c, non può essere in nessun modo riferito alla dea; 3'' che
nel v. 38 la tradizione è 0uai, ed ogni alterazione di questa pa-
rola condurrà fuori di strada.
Finirò col meravigliarmi della nota apposta dal Bruhn al v. 208,
che egli colloca col Badham dopo v. 209: 'Euripides nannte also
die Gattin des Agamemnon KXuTaijuvriaxpa, nicht KXutaiiuriaTpa'.
Non voglio qui investigare se il verso sia in realtà da collocare dove
il Badham lo colloca, o se non valga meglio collocarlo dopo v. 220
con lo Scaligero, o anche se non sia da ammettere una lacuna (p. es.
col Mekler). Si riferiscano pure alla figliuola di Leda le parole
a invaCTeuBeTcr' èE 'EXXàvaiv (2) : che cosa se ne può dedurre ?
Se Clitennestra si fosse chiamata x, il poeta non avrebbe potuto
(1) La mia collazione àeìV Ifigenia in Aulide dimostra che anche nel v. 435
di quella tragedia il Laurenziano aveva originariamente Totaiò'. Ricordia-
moci poi che dovunque in trimetri Euripidei occorrano forme dell'articolo,
incipienti da t, con valore di relativo, il metro non ammetterebbe le forme
volgari del relativo: Androni., 810. Bacch., 712. El., 279. Fr., 501, 2. 853,
1 Nk* ; ai quali luoghi si potrebbe aggiungere Androni., 231, se piacesse
di scrivere con Bergk (ap. Hense, Exerc. cr., p. dò) réKva, toìs ^veaxi
voQc, (così ora anche E. Holzner, Stiid. zu Eur., p. 19). Il v. 2.52 dell' He-
rahles che ancora l'Hand {Ann. in Eur., Iph. Taur., I [Jena, 1832], p. 6)
si compiaceva di citare, era già stato emendato come con sicurezza luag-
giore non si potreblje. Gf. Hahn, De articuli ap. Trag. gr. loco pronom.
relativi usti, Salzwedel, 1846.
(2) Aggiungo una sola osservazione. Che Ifigenia, in terra barbara, dopo
aver detto di sé (v. 220) àyaixoc, (!<t6kvo<; óttoXi^ tìqpiXoc;, aggiunga à iLivaareu-
Bela' èH 'EXXdvujv, si capisce senza troppa ditìicoltà ; ma detto di Clitenne-
stra r èE EXXdvuiv è molto goffo, se non è accompagnato da un TrpdjTiuv o
qualcosa di simile (cf. Iph. Ani., 51 iaÙTr\c, oi xà irpuÙT' ujX|?ia|uévoi juvri-
OTfipec; fjXOov 'EXXctboc; veaviai, e il luogo sopra citato àeìV Elettra). F'er una
donna Ellenica noìV Eliade si aspetterebbe, se non altro, juvaareutìeìa' èE
'EXXóvujv (re Kal Pappdptuv) ! 11 metro avrà imiiedito ad Euripide una cosi
bella aggiunta. [Nel riguardare lo stampe mi sono del resto avvisto ohe già
il Dindorf (ad Oxon. IH 2, p. 508) aveva annotato: "Languide dictum èE
'EXXdvujv, nisi addatur a multis virginem esso cxpctitam veì primariis viris'.
Ma egli non tien conto che Ifigenia è ora in terra barbara. Mi sono poi
anche avvisto che l'allusione al nome KXuTaijuvnoxpa ve l'aveva trovata
anche il Badham a p. 33 degli Addenda alla sua edizione.]
Rmsta di filologia, ecc., I. 25
- 386 —
diro (li lei |ivaaTeu9eI(J* èE 'E\X(ivojv V Lascio da parte Elena,
KoXuiavóaTn per eccellenza; ma di Elettra, la cui bellezza non è
mai, cìuì io sappia, particolarmente decantata (non fa (;erto ecce-
zione il complimento che le rivolj^e il fratello ap. Eur. Or. 12<)5 ,
non dice Euripide stesso (El., 20 sq.) laurnv |avriaTfìpe(; f^Touv
'EXXaboq TTpuÒToi x^ovóq? E sono mai mancati proci alle antiche
eroine, a cominciare da i*ero (X 288) inv Travreq iìvujovto ttc-
piKTiTai? Non ne mancano neppure alle donne oiai vOv elai,
anche quando non brillano per virtù e bellezza ! Si dica dunque
che si vuol scrivere in Euripide KXuTai|avr|CTT(ja finch?; la tradi-
zione Euripidea (per ora non più antica del XII secolo!) non
abbia insegnato di mef^lio, e questa sarà sempre una ragione, come
lo è per il Ludwich (cf. Ind. schol. hihern., Hegimont., a. 189:-{-94,
p. 5 sqq.) che non accoglie nel suo Omero se non quello che la
tradizione gli attesta espressamente. Mi contenterò di questa ra-
gione, e non opporrò che allora non bisognerebbe neppure scrivere
in Euripide oÌKTÌpa(;, àTTOTeiaei e sim. E quando il B. si farà,
come mi auguro, editore di Eschilo e di Sofocle, e stamperà KXu-
xai^ncTTpa per ossequio alla tradizione, non opporrò l'inverosimi-
glianza che sullo stesso teatro di Atene la moglie di Agamen-
none fosse chiamata da Eschilo e Sofocle in un modo, da Euripide
in un altro. Solo lo pregherei di non trarre deduzioni dalla in-
nocente parola luvacTTeuBeiaa : lasci siffatte deduzioni all'acume
dell'antico ignoto possessore del mio esemplare del Matthiae, dove
trovo annotato al verso in quistione: 'alludit ad nomen KXuiai-
laviiaipa; v. ad Iphig. Aul., 952', né vai la pena di riferire quello
che poi annota al luogo citato deìVIfìgenia in Aulide (v. 903
Barn.). Vedo che anche il Wilamowitz scrive ora Khjtaimestra
(per es. Aristoteles u. Athen., II, 330, n. 3); il Bruhn avrebbe
fatto bene a seguirlo anche in questo. Cfr. P. Kretschmer, Die
griech. Vaseninschriften, p. V, 166 sq. 235 sq. fed ora S. Reiter
in Zeitschr. fiir die oesterr. Gyninas. XLVI, 289 sqq.].
Firenze, marzo 1895.
Gr. Vitelli.
- 387 -
Hyperidis orationes sex cimi ceterarum fragmentis edidit Fri-
DERicus Blass. Editio tertia insignite!" aucta, Lipsiae in aed.
B. G. Teubneri, MDCCCLXXXXIV.
Questa terza edizione teubneriana d'Iperide, curata come le due
precedenti dal Blass, comprende per la prima volta, dopo le re-
centi scoperte, riunite in un sol volume tutte le reliquie ormai
non irrilevanti del celebre difensore di Trine. Pochi si sono dedi-
cati allo studio degli oratori attici coU'assiduità e coll'attività del
Blass, né Iperide ha avuto la minor parte delle sue cure. Esa-
minare minutamente a Londra e a Parigi i papiri originali, scru-
tare frammenti piccolissimi consistenti spesso di poclie lettere e
collocarli al luogo opportuno, riempire lacune estesissime, rico-
struire con approssimazione, se non sempre con certezza, colonne
intere, dove non rimanevano che poche lettere iniziali di ciascuna
linea, tutto ciò richiede, oltre alla conoscenza perfetta della ma-
teria, intelligenza ed acume non comuni e insieme rara pazienza
e forza di volontà, requisiti che non facilmente si trovano raccolti
in una sola persona. Eppure tutto questo ha fatto ripetute volte
per lo spazio già di quasi trent'anni il chiarissimo professore di
Halle, pur attendendo contemporaneamente a molte altre cose.
Frutto di questi studi Iperidei furono già una serie d'articoli pre-
gevolissimi pubblicati in diverse riviste (iV. Jahrb. f. Phil. a. 1870,
p. 741 ; a. 1892, p. 97, p. 575, p. 577; a. 1893, p. 145. Bevue de
2)hiMogie, N. S. Vili, a. 1884, p. 167 e seg. e p. 190 e seg.) e due
edizioni (a. 1869 e 1881) delle quattro orazioni d'Iperide scoperte
negli anni 1847-1856 ( 1) Katà Ai-nnoaGévouq, 2) àrroXo-fia ÙTièp
AuKÓqppovo<^, 3) ÙTxèp EùHeviTtTTOu eiaaYYC^iaq aTToXoYia rrpò^ llo-
XueuKTOv, 4) èniTdqpioq) coi frammenti delle altre conservatici dagli
antichi scrittori.
Il libro di cui ci accingiamo a parlare contiene, insieme alla
terza edizione delle quattro orazioni citate, una prima edizione
delle due scoperte recentemente (Kaià OiXittttìòou e xatà 'AGiivo-
Yévou<s), ma non è questo il solo vantaggio ch'esso ha sulle edi-
zioni precedenti. Così abbiamo ora il testo, meno che per l'ora-
zione contro Demostene e per la prima parte di quella in difesa
di Licofrone che sono frammentarie, non piti disposto in colonne
a somiglianza del ))apiro, ma svolto tutto per disteso, come s'usa
per gli altri testi. A ciò il Blass non s'è indotto di moto proprio,
ma, com'egli dice, suadeniibus midiis, e noi sa]»piamo grado a
quelli che ve l'hanno consigliato e desidereremmo anzi ch'egli
avesse adottato questo sistema anche per la parte frammentaria.
La disposizione in colonne olire infatti più incomodità che van-
taggi: essa è utile solo ai dotti, i quali, ([uando vogliano adden-
— 388 -
trarsi nello studio d'Iperide e non abbiano modo di vedere il ma-
noscritto ori<,nnale, possono servirsi di fac simili quali esistono j(ià
per quasi tutti i papiri iperidei; è invece non solo inutile, ma
incomodissima per la generalità dei lettori, cui è destinata la col-
lezione teubneriana.
Questa edizione è anche arricchita di un indice quasi completo
ed esattissimo della grecità Iperidea, compilato da uno scolaro del
Blass.
Meno opportune sono forse alcune innovazioni introdotte nell'or-
tografia, come quella di scrivere è'YbocrKj, èfbibóvai in luogo di
^KÒocyiq, èKÒiòóvai, e persino èTXeiTTUJ per èKXeiTxu) e oùeei(; per
oùbei(g, (|uando il papiro porta le prime forme. Fino a ciie non
avremo a nostra disposizione un criterio ben fisso per le questioni
ortografiche, mi pare sia meglio attenersi al modo di scrivere tra-
dizionale. Certo i papiri non meritano in ciò molta maggior fede
dei codici.
Non ci tratterremo ora a parlare della dottissima prefazione,
dove è esposto ampiamente tutto quanto si riferisce ai quattro
papiri iperidei, il tempo, il luogo e l'occasione in cui fu trovato
ciascuno di essi, l'età a cui probabilmente ciascuno appartiene, lo
stato di conservazione in cui si trovano presentemente, la fede che
meritano, gli errori d'ortografia e d'altro genere che vi si riscon-
trano, ecc. , e passeremo senz'altro a parlare del testo.
Per le quattro orazioni scoperte anteriormente, quest'edizione non
è sempre una semplice riproduzione delle precedenti. Anzitutto
sono venuti ad aggiungersi ad esse alcuni nuovi frammenti, di non
grande entità, è vero, scoperti in questi ultimi anni. Poi in pa-
recchi luoghi l'editore s'è scostato dalla lezione prima adottata o
ha congetturato altri supplementi per le lacune. Notiamo le piti
importanti di queste novità.
1) Kaià Ari)ioa0évouq, colonna VIII,lin. 18 — col. IX, lin. 1
leggevasi prima: Ar||uJoa6évr|<; [èòr||UìiYÓpei] laaKpòv [Xótov bia-
TrXjÉKUJV cure [^àp ci Ttapjà 0iXoEé[vou Xéyojuai KaXujq [ék-
òoOvai TÒv] "ApTTttXov [àHioOvTet; T]f)v ttóXiv, [naì rrdXiv] aÌTiav
où [iniKpàv TJuj òi'-iiuuj [òi' èkeivojv Txap' 'A[X€Edvbpo]u KaiaXei-
[TTO)aévriv ópujj, ora, coll'aiuto di un nuovo frammento contenente
le quattro prime linee della col. IX, si è potuto riscostruir meglio
questo passo come segue: AriMJoaeévri<S [bieEfiXGev] iiiaKpòv [Xóyov,
qpjacTKtjuv ouie [roig irapjà 0iXoHé[vou èXGoJOai KoXOùg [è'xeiv
TÒv] "ApTTaXov [éy^ouvai xjriv ttóXiv, [out€ beiv] ahiav où[be-
laiav t]lD bì'nuai \h\ èKeivoJv trap' 'A[Xe2dvbpo]u KataXeiTreaGai. Il
principio della col. IX, prima mancante, suona : óacpaXéO'TaTOV
b' eivai T[rì TTÓXei] xd re xP^M^Ta [naì tòv] dvbpa q3uXdT[Teiv].
Il frammento collocato prima alla col. XXVII è trasportato ora
alla col. XV. Nuova del tutto è pure la colonna numerata XXVIII.
2) Nell'orazione ìiirèp AuKÓcppovo? uno dei frammenti scoperti
recentemente aiuta a riscostruire approssimativamente l'esordio, che
— 38y —
prima mancava del tutto : il Blass, seguendo il Kenj'on, legge :
[Kal lòia] eKacJTog Kal Koivrì, èireiTa tlù vó[)auj]i Kal tuj òpKUj,
oc, K6[Xeu€i] viJiàc, biioivjc, [ÒKOÙeiv] tùùv t€ KaTri[TopoùvTUJV Kaì
Tuùjv d7To[XoYou)Li6vujv] Koì , supponcndo che innanzi al tratto
ricostruito sieno andate perdute parole simili a queste : è-fùj òè
TteTTiaTeuKÙjq tikuj irpCÙTOV |uèv toT? GeoTq, oT^Trep elujGaie Kaì
\jjueT? mcTTeueiv Kal ìòia Kxé. Ottimamente; soltanto alle parole
eliLGate Kal ùiueig sostituirei elouBaiuev -nàvreq. Nuova è pure nella
stessa orazione la prima metà della col. XLVII. Più sotto nella
stessa orazione leggiamo: TtapeKeXeuójuriv aìirrì òttuj^ |Lifi TrXr]-
a làax} XapiTTTTLjj àWà òiaqpuXdHei aùrfiv. Questa è la lezione
del papiro, ma il' Blass nelle antecedenti edizioni aveva corretto
il T:\r\am6Y} in TtXricridcrei collo Schneidewin e col Kayser, ora
invece mantiene il congiuntivo. Dubito, a dir vero, che quest'ul-
tima sia la miglior lezione. In tutto quello che ci avanza d'Ipe-
ride non abbiamo altro esempio di ònwc, senz' av costruito col
congiuntivo, e qui l'uso di questo modo sarebbe tanto più strano
che subito dopo segue un futuro (òiacpuXàHei) retto dallo stesso
ònvjq che regge il verbo di cui parliamo.
3) Nella Euxenippea notiamo con piacere che l'egregio editore
desiste dal mutamento di YP«<Poti in ypaM^ai (col. XXI, lin. 22)
ch'egli faceva nella 2* ediz. seguendo una congettura del Sauppe.
Osservammo altra volta la poca convenienza di quel mutamento
e l'opportunità di conservare la lezione del papiro (1). Abbiamo
invece cercata invano qualche altra innovazione, che sarebbe stata
secondo noi opportuna nel testo di quest'orazione: così ad esempio
le parole iLv oùòeiuia òrirrou tuùv aÌTiOùv toùtluv oùòèv KOivujveT
TUJ eìaaYYeXTiKUJ vómw mi par difficile che uscissero tali e quali
dalla penna d'Iperide (2).
4) Nell'epitafìo ci sembrano notevoli le seguenti novità. Col. Ili,
lin. 14-15 in luogo di [loùq] òè òiKaio(u)(; p[uo)aévri] leggesi
ora [xoTq] òè òiKaio(i)(; p[oTi6o0cra] (congettura del Piccolomini).
Col. Ili, lin. 23-24 invece di ujairep [ttpoeittov] KaiaXeiipoi, le-
zione insostenibile, perchè presupponeva che la prima lettera dopo
la lacuna nella linea 23 fosse un k, contro l'evidenza, abbiamo
ora ujcTTTep [TTpoemov qppajaai (TTap)aXeiipuj. Col. IIJ, lin. 30 in
luogo di ToO Yévou(g aÙTUJV é k d a t o u, tou Yévou(; aÙTUJV é k d-
cr T lu V (congettura anche questa del Piccolomini: il papiro dà
éKdaiuj (sic)). Col. Vili, lin. 12-16, dove la lezione del papiro
(1) U Euxenippea d'Iperide con introd. e note — Annali della R. Scxola
Norm. Sttp. di Pisa, a. 1889, pag. 212.
(2) Nella sopra citata monografia i^nW Euxenippea ho proposto di espun-
gere come una glossa le parole oùòeiuia ònTrou tujv oItiOùv toutuuv, ma il
Hlass non vuole indursi ad anuuettcro che il papiro sia interpolato (praef.,
pag. XXIX : At interpolatiis interpretationis causa codex omìiino non est),
mentre interpolalo lo ritengono il Gobet e il Gomparotti.
— 390 —
(lu(JT6 )nr|Te yuvaiKujv lariie Ttaptìévujv la^^è naibuuv uppeiq dvcK-
XeÌTTTOU(; éKaaroiq KaBeaióvai) non dà senso e dimostra cliiara-
mcntp ossero andata perduta (|ualclie parola, l'omissione è ima-
ginata come esistente invece die dopo uppei<s, prima di questa
parola, secondo la proposta dello scrivente, il quale con^'etturava(l):
uj0Te iLUiTe YuvaiKuiv lante TrapGevujv. fir]bè Ttaibujv (éKeivou? av
cpeibeaGai àXX") uppei(; ktX. Col. X, lin. 0 invece di a i ai v i a v
idHiv (2" ediz.) legf:^esi ora più rettamente a i w v i o v xaSiv, es-
sendo raf)ff,^ottivo alujvio*; presso gli Attici sempre di due termi-
nazioni (2). Col. XII 1, lin. 22-21, dove la lezione del papiro è
guasta (ouTuu<; aÙTOi<; oÌKeiOT^pouq ù)aTv eivai voiaiZieiv) in luogo
di ouTiucs aÙToiq oÌKeioucg ti TTicTTOTépou? ùjiTv eivai voniZieiv ab-
biamo ora ouTuuc; auToTq oiKeiouq eivai vo|ii2eiv , lezione ugual-
mente proposta da chi scrive (3).
Questi cambiamenti ed altri di minor conto rendono senza dubbio
il testo miglioro che non era nelle due prime edizioni. Non era
invece necessario, secondo noi, correggere in toutov il toutujv
dato dal papiro alla col. IV, lin. 5 (toutujv pikv bei kot' àvbpa
KaTaXoYeTv eKaaTOv) e mantenuto nelle edizioni precedenti, né
ripetere a col. VII, lin. 41 (Tf]v b' eùboEiav òtto tujv TTpctSeaiv ktX.)
l'articolo Tfiv innanzi ad óttò tujv TTpdEeuuv.
Avremmo invece desiderato di veder modificata la lezione pri-
mitiva in qualche altro luogo e massimamente in quel passo tanto
discusso a col. Vili, lin. 16-17. Il papiro dà cpavepovbeETUJvavaYi
Ka2;o|U6(y0aKaivuv..., distinguendosi ancora dopo l'ultimo v due
segni, il primo dei quali dal facsimile annesso all'edizione del
Comparetti mi pare assolutamente un e, e il secondo può essere
l'avanzo di un q, di un a, di un b e di qualche altra lettera
ancora. Di tutte le lezioni proposte a me sembra migliore quella
del Comparetti: cpavepòv b' èE ujv àvaYKaZ;ó|ue0a koì vùv èa|Ti]KTX.,
congiungendosi 1' ecTTi nel significato di si jjì^ò all'infinito seguente
ècpopdv. Invece il Blass persiste a leggere cpavepòv b' il ujv
rìvaYKaZ;ó)a€9a Kaì vOv f\ b ii. Ma, ammesso pure che il segno che
segue al secondo v della linea 17 fosse l'avanzo di un r\, la qual
cosa abbiamo esclusa poco sopra, sembra all'insigne critico sop-
portabile il costrutto che si avrebbe colla sua lezione: lìvaYKa-
lò^eQa — èqpopdv — riMct'; àvaYKaZioiaévou^ (lin. 24) ?
In un altro luogo ancora più imbrogliato e discusso di questo
il Blass non ci pare cogliere nel segno questa volta, come non
aveva colto nel segno prima. A col. XII, lin. 32-44, dove si parla
delle accoglienze oneste e liete che avrebbero dovuto fare nell'Orco
(1) Osservazioni sul testo dell" Epita fio d'Iperide — Annali della R.
Scuola Nonn. Slip, di Pisa, a. 1892, pag. 50.
(2) Il papiro darebbe aìuj[vi]ujv xdEiv, che non offre un senso sodisfa-
cente. V. le Osservazioni citate, pag. 58.
(3) Osservazioni ecc., pag. 65.
— 391 —
a Leostene e ai suoi le ombre dei Greci che avevano contribuito
alla grandezza della patria nei secoli passati, il manoscritto porta:
obeira
. ouvTuuveXXrivibujv
. aqeTTicpepo)aeva(;
. ppeiqeKuuXudeviue
. . Tuuvcfuv6aTTT0)ae
. uuvvuvauTuuiavòpujv
. aiv|aeTeK€ivou<;|uev
. €Yevvrì|uevuJvaHia
. eiri^eKeivuuvape
. ri<;òiaTTeTTpaTja€Vuuv
. eTuuòriTOu<;TTepi)ai\
. laòriVKttiGeiuiq
. OKXeaKaiTOù^aX
Xovq
ktX.
La lezione migliore e più ovvia è, secondo me, quella del Kayser
e del Sauppe, per ottenere la quale basta supporre che sia andato
perduto un be' dopo le tre prime lettere della linea 38: ó òè
TcacTujv Tuùv 'EXXtivìòuuv làq éTTiq)epo.uéva<; uPpei? èKuuXucJev laeià
Tujv (JuvOarrToiuevujv vOv aÙTuj àvòpujv. tujv (òè) .uet' eKeivouc;
jLièv T£Tevr|)Liévuuv, àHia òè -x^c, èKeivuuv àpexfìq òiaTreTTpafiuévuuv
XéYuu òr) Toù^ nepì MiXiiaòriv Kal OeiuicTTOKXéa Kal tovc, àXXou(;
ktX. I auv9aTTTÓ|uevoi vOv aÙTUJ àvòpeq non possono essere che i
compagni di Leostene, per i laex' èKeivouq (ossia dopo gli eroi della
guerra di Troia, nominati poc'anzi) |uèv TeT£vr|)uévujv, ctSia òè
Tn<; èKCivoiv àpeifì^ òiaTTenpaTinévajv non si possono intendere che
gli eroi vissuti fra la guerra di Troia e la spedizione di Leostene.
11 Blass invece mette l'interpunzione dopo òiaTreTrpaYMévuuv (1. 41),
e, mentre prima intendeva tutte le parole da laexà tojv ovvQajx-
TOjaévujv (lin. 35-3(3) a òiaTTeirpaTMéviuv come dette dei compagni
di Leostene e perquesto aggiungeva un Kai dopo il Xéyuj òri della
linea 42 (1), ora riferisce, secondo l'idea del Comparetti, tutte
quelle parole a Milziade, Temistocle e i loro compagni, e per ciò
fare muta il juexà xujv auv0aTTxo|Liévujv vOv aùxuj óvòpuùv in un
|uexà T* ujv cruvBuTTXoiaev vOv aùxòv àvòpajv, dove |uexà t wv var-
rebbe, secondo lui, jLiexà xovjxuuv |ue6' wv, ^)«r/^e)' atqiie ei cum
quihus. Ma anzitutto di laexd in significato di parimenti che non
ci sono, ch'io sappia, esempi, importando questa preposizione la coe-
(1) Quanto alla poca attcn<lil)ilit;\ di quelita lezione cfr. lo mie Osserva-
zioni^ pag. 64.
- 392 —
sistenza dei due concetti ch'essa unisce (1); in secondo luogo,
amnnesso che la frase ineià toùtujv potesse avere un simile signi-
fif-ato, essa non potrebbe di certo venir tralasciata innanzi al
|ie6' d)v, dove il fiera avrebbe un significato tanto difleiente.
Ma è tempo di passar a discorrere delle due orazioni che il
Blass aggiunge ora per la prima volta alle altre quattro.
Per l'orazione Kaià OiXiTinibou, di cui del resto non ci è per-
venuta che la parte finale, la presente edizione non offre molte
varianti da quella del Kenyon (2); vero è che il Kenyon stesso
si è servito non di rado di proposte e congetture anteriori del
Blass, Anzi due soltanto fra queste varianti ci sembrano degne
di nota, e in esse l'egregio editore non ha avuto, secondo noi, la
mano felice. A col. IV, lin. 2G — col. V, lin. 3 il van Herwerden,
il Diels, il Koehler e il Kenyon leggono: TroXXoO ye ò[ er où T]àp
àTréGou cfauTOi euvoiav napà tlù bruuLu, àX\' éiépiuBi, ktX., il Blass
supplirebbe invece ttoXXgO 'fé b[eiv T]àp àTTé6ou, ktX. Ora noi
dubitiamo molto che in greco si possa adoperare ttoXXoO beiv
assolutamente in luogo della semplice negazione où, facendolo
seguire dall'avversativa àXXd. L'esempio di Demostene a cui il
Blass rimanda (XXllI, 7: raOt' av l'ibri Xé-feiv npò^ òpiàc, ène-
Xeipouv, iv' eìòiTte ttoXXoO beiv àEiov òvia xuxeTv toO vijriqpia-
|naTO(; aÙTÒv totoui) non ha molto a che fare col caso nostro,
perchè in esso non è al ttoXXgu beiv contrapposto un àXXd avver-
sativo; inoltre nel nostro luogo 1' oùbé che segue introducendo
una proposizione parallela (oùbè toùc^ crujcJai ere buva)aévou(; qjou
beiv KoXaKeùeiv, àXXà tovc, tlD briiuuj cpopepoù^ òvrac,), presup-
pone evidentemente un où detto prima.
Poco più avanti (col. V, 1. 26 — col. VI, lin. 4) si legge nel
papiro: eira irepi Kaipujv aìiTiKa bi] ToX)aiiaeTe XéYeiv xoùq Kaià
lììc, TTÓXeuu^ Kaipoùt; o ù TTapaqpuXdEavie^ ; dove 1' oìi è stato
evidentemente scritto per errore (oserete parlare delle occasioni
voi che non avete spiato le occasioni di recar danno alla città?).
Le tre emendazioni proposte fin qui, quella di mutare où in oi
(Weil), quella di premettere ib? ad où (Kenyon) e quella di espun-
gere senz'altro la negazione (Koehler), ci sembrano tutte attuabili,
benché l'ultima sia forse preferibile. 11 Blass crede invece la le-
zione del manoscritto conservabile, se oltre al punto interrogativo
dopo TrapaqpuXdEavie^ se ne pone un altro dopo XeYeiv, dividendo
così il periodo in due : eira Kepi Kaipuùv aùiiKa hx\ ToX)aricreTe
(1) Kriiger, § 68, 13 A 1. L'uso di luerd nella frase luerò TTXótujvoc;,
laex' 'ApiOToréXoiK;, seguendo il parere di Platone, di Aristotele, non s'op-
pone a quello che diciamo, perchè gli autori, le cui opere ci sono rimaste,
si considerano come sempre esistenti, tanto che si dice TTXdTUiv XéTGi, 'Api-
OTOTéXriq XéT€i, ktX.
(2) The oraiions against Athenogenes and Philippides, London 1893.
— 393 —
XéTÉiv; Toù<; Kaià tiìg TTÓXeuuq Kaipoù? où TTapacpu\aEavTe(; ;
Credo che pochi saranno in questo d'accordo con lui.
Nell'orazione contro Atenogene, come in quella contro Demo-
stene s'è potuta in ispecial modo esercitare l'abilità veramente
straordinaria che il Blass ha di ricostruire quasi perfettamente
testi lacunosi, abilità a cui abbiamo accennato in principio di
queste pagine. Vero è ch'egli ha avuto qui cooperatori altri dotti,
come il Diels, il Kenyon e il Eevillout. Non può essere nostro
proposito l'esaminare a parte a parte i supplementi da lui conget-
turati 0 accettati, cosa che ci porterebbe troppo in lungo e ci con-
durrebbe ad abusare dello spazio concessoci. Ci limiteremo quindi
a dire in generale ch'essi sono quasi tutti ottimi e faremo solo
qualche osservazione qua e là.
Alla fine della col. IX (lin. 26-28) leggiamo: vjq br\ dYVooOvTo]?
Kttì oÙK eìò[ÓTO(; I Tiq TI eiuxev KaxaOéiueJvG? xai tuj[v xpeuJv...|
eKucTTov, aKOTTUJ|U€V tJgutovì tòv T[pÓTrov]. I tre puntolini alla
fine della linea 27 stanno a provare che all'editore sembravano
essere necessarie ancora tre lettere, oltre a quelle da lui supplite,
per riempire perfettamente la lacuna. Ora non sarebbe questo il
luogo adatto per il soggetto del genitivo assoluto aou, che non
mi par conveniente sottintendere ? Io leggerei quindi : ójc, òr) àj-
voouvTo[c; Kttì OÙK eìò[ÓTo<; I Tic, TI è'TUxev KaTa6é|iie]vo? xaì Ta)[v
XpeuJv a 0 u I eKaaTov ktX.].
A col. X, lin. 19-20 troviamo: aù bè tòv] vómov óqpeìq Tiepl
(JuvG[tikujv èm pePouXeuJiiievujv òiaXérnCO- ^luvBfiKai émpePou-
Xeuinévai non ci appaga molto. Proporrei irepl cruv9[iiKUJv j ùj)ao-
Xorn iMévuuv òiaXéTr)[i]- Cfr. quanto al senso col. V, lin. 15-18 e
col. VI, lin. 5-8. Inoltre farei questa proposizione, come pure l'altra
parallela a questa, che segue poco appresso {av bè oiei l'jàc, àòi-
Kovc, auv0[r|Kaq beiv KpaJTeTv TràvTuuv t]ujv vó|auuv) interrogative.
A col. XV, lin. 18-21 leggesi: oìó|^ev]oi | beiv] toìk; èv toT^
KivbuvoK; u)aTv x[p]r|C^iMOuq | Yevofiévou(;, TOUTofu]<; dTuxoO| vTa<;]
..qp. t uqj' ù|aujv. Propongo senz'esitare: [uj]q)[e XeTaGaiJ ùqp'ùiuujv.
Sono sfuggiti alla diligenza del correttore alcuni errori di stampa.
Noi abbiamo notati i seguenti: prefaz. pag. lv, lin. 6 leggesi 430
per :)30, KaTà Aiiiaoae. col. XIII, lin. 12 a per a. ùnèp AuKÓcpp.
col. VI, lin. 17 TTapaKeX€U|H6vo[u] per TrapaKeX6uo)aévo[uJ, ùrrèp
EÒE. col. XXXllI, lin. 14 Tà auro UTTpdTTOvTa per Tà aÓToO
TTpàTTOVTa, KaTà 'AGrivoT. col. X, lin. 9 èTTiPouXeùovTvq per èm-
PouXeuovT€(g. h' Ryperidea oratio in luogo di Hyperidcam ora-
tionem (pref. pag. viii, lin. 6) potrebbe anche attribuirsi ad una
svista dello scrittore.
Del resto le lievi mende che abbiamo qua e là notate in questo
libro tolgono ben poco al suo pregio complessivo, e noi siamo lieti
di poter concludere dicendo ch'esso segna un nuovo rilevante prò-
- :394 -
gresso degli studi su Iperide e rende il Blass sempre più bene-
merito degli studiosi del geniale oratore.
E qui sia permesso a chi scrive di aggiungere prima di finire
una piccola rettifica prò domo sua. 11 Blass m'ha fatto l'onore di
citarmi talvolta nel suo volume e di seguire persino in alcuni
luoghi l'opinione da me espressa. Egli ha però errato nel regi-
strare in princijiio del libro (pref. pag. xxxvi) il mio nome, che
non è Lionardo Levi, ma
Roma, febbraio 1895. Lionello Levi.
Philodemi volumina rlietorica, ed. Siegfried Sddh.a.us. Lipsiae (in
aed. B. G. Teubneri) MDCCCXCII, pag. lii-385.
La biblioteca ercolanese non fu mai oggetto di studi accurati
e pazienti quanto negli ultimi cinquant'anni : quando cioè, sbolliti
i primi entusiasmi destati dalla scoperta d'un'intera biblioteca
greca, come si diceva, si cominciò diligentemente a esaminare,
confrontare e interpretare quei pochi resti decifrabili, clie, meno
incuria d'uomini che circostanze sfortunate, ancora ci lasciavano.
Non è il caso di rifare qui, neppure di volo, la storia della sco-
perta di questa biblioteca e dei lavori che su di essa si fecero (1) ;
ma non è inopportuno riandarla brevissimamente.
Appena fatta la scoperta della biblioteca, che conteneva poco
meno di duemila rotoli (1752), i papiri furono cominciati a leg-
gere per conto del governo napoletano: dal 1754 al 1800 se ne
svolsero 18, e si fecero di tutti i facsimili. In questo tempo essi
s'andarono pubblicando nei primi volumi di quella che rimase
poi col nome di Collectio Prior (2), la quale contiene, oltre che
i facsimili dei papiri svolti, una ricostruzione del testo con note
e commento. Nel 1800 il principe di Wales, che fu poi Gregorio IV,
offrì d'assumersi a spese proprie lo svolgimento dei papiri, al che
s'acconsentì; a Napoli fu mandato il Rev. John Hayter, che fu per
(1) Vedasi: D. Gomparetti e G. De Petra, La villa Ercolanese dei Pisani,
i sì'.oi ■momtmenti e la sua biblioteca. Torino, Loescher, 1883: — e spe-
cialmente: D. Gomparetti, Relazione sui papiri ercolanesi, letta nella R. Ac-
cademia dei Lincei, Roma 1880, pubblicata anche nel volume ora citato.
Gfr. ancora la Nota storica che è nell'annuncio della pubblicazione della
Oxford Philological Society, di cui si fa cenno più avanti. Gfr. anche Gom-
paretti, Frammenti inediti dell'etica di Epicuro (Kupmi bótoi.i Riv. di
FU. VII (1879), pag. 401 e seg. (Nuova ediz. rifatta nel Museo italiano, 1,
p. 69-88.
(2) Herculanensium voluminum quae supersunt. Tom. I-Xl. Neapoli, ex
regìa typographia, 1793-1855.
— 395 -
quattro anni a capo dell'officina (1802-1806), nel qual tempo si
svolsero circa 200 rotoli, facendone i facsimili di quasi 100.
In causa della guerra i lavori furono interrotti nel 1806: nel
1809 l'Hayter fu richiamato in InghilteiTa, e portò seco, insieme
coi facsimili da lui fatti eseguire, anche quelli disegnati prima
del 1800. In appresso, nel 1810, il principe di Wales regalò al-
l'Università di Oxford questi disegni e per di più quattro papiri
non ancora svolti. Mentre in Italia si continuava la pubblicazione
dei papiri secondo l'antico sistema, sette dei rotoli, i cui disegni
erano a Oxford erano fatti conoscere in litografia dalla Clarendon
Press (1). La collezione napoletana, cominciata nel 1793, arrivava
nel 1855 al suo undecimo volume (manca il settimo), e cessava
le sue pubblicazioni. Il modo di pubblicare i volumi ercolanesi
adottato dall'Accademia napoletana fu riconosciuto troppo lungo
e lasciato, e la collezione intrapresa e condotta a termine dal
Governo Italiano détte la pura e sola riproduzione dei facsimili
eseguiti man mano che si svolgevano i papiri. Questa, che fu chia-
mata CoUectio Altera, consta di 11 volumi e va dal 1862 al 1876 (2).
I facsimili bodleiani di Oxford rimanevano intanto inediti e nes-
suno se ne valeva per l'edizione di testi ercolanesi. Nell'anno 1863
il prof. Gomperz fu ad Oxford, e degli apografi oxoniensi si fece
fare una copia per suo uso e comodità: per lungo tempo tutto
quello che si conosceva delle copie fatte fare dall'Hayter, che
spesso sono più complete e più corrette delle napoletane, si limi-
tava alle notizie che ne dava il dotto professore di Vienna.
Codesti apografi oxoniensi, rimasti inediti, furono ripresi a stu-
diare dal prof. Walter Scott del Merton College di Oxford, che,
nel 1885, ne pubblicò un catalogo (3). La Società filologica di Oxford
imprendeva, nel 1889, la pubblicazione fotografica di 82 papiri
(838 fotografie), inediti ancora o fatti conoscere solo in parte dal
Gomperz.
Tutti i papiri ercolanesi, tranne alcuni pochi latini, contengono
scritti di filosofia epicurea, e naturalmente appartengono alla bi-
blioteca di un epicureo (cfr. Cic. Tusc. II 3, 8). È singolare an-
cora che eccetto una quindicina di papiri, che contengono fram-
menti del TTepì cpuaeujq di Epicuro, e alcuni altri di contenuto
più storico che filosofico, gli altri ci offrono tutti scritti epicurei
di importanza assai relativa e d'autori, diremo così, secondari. Un
(1) Hercrdanensium voluminum^ pars prima (Oxonii 1824) ; — pars se-
cunda (Oxonii 1825); sumptibus typographei Clarendoniani, lithographice
excudcbat N. Whittoclc.
(2) Herculanensiuni voluminum quae supersiint. CoUectio altera. Tom. I-XI,
Neapoli, e Museo Publico, 1862- 1S76.
(3) Frar/menta Hevculanensia. A descriptive catalogne of tlie Oxford
copies of the Herculmicnn Rolls, together with lite text of several p'ipt/ri,
accompanied by facsirniles. Edited wi'h intioduotion and notes by Walter
Scott M. A. Oxford, at the Clarendon Press, 1885.
— ;m6 —
grande numero dei volunni svolti spetta a Filodemo, il verboso
epicureo originario di Gadara, che verso il 50 a. C. visse in Roma
ed ebbe la sua celebrità. 11 Sudbaus anzi, basandosi sul fatto
clie risulta esserci stati nella biblioteca ercolanese due o anche
più esemplari d'opere rettoriche di Filodemo, crede poter affermare
che (juella doveva essere la sua biblioteca; poiché, dice (p. xvi):
« (|uis tot exemplaria Fliilodemi in sua bibliotheca passus sit nisi
Philodemus? ». Veramente il fatto notato non dimostra molto. Del
TTepì (pùaeuui; di Epicuro, lo si può dimostrare per qualche libro,
dovevano esserci nella biblioteca almeno tre copie : supponendole
comi)lete, si avrebbe per i 37 libri dell'opera epicurea il ragguar-
devole numero di 111 papiri almeno, e probabilmente di parecchi
di più. Dal che si vede che il fatto dell'esistenza di più copie di
un'opera nella biblioteca non può essere di grande importanza per
farci conoscere il proprietario di essa; sulla quale questione ve-
dasi l'opera del Comparetti più su citata.
Molte sono le edizioni degli scritti di Filoderao, i quali si tro-
vano unicamente nei volumi ercolanesi a cominciare dal De ino-
rihus del Petersen (1833) a questo volume del Sudhaus (18P2).
Basti ricordare il De piotate pubblicato dal Petersen stesso (1833),
il quale lo credeva il De diis dell'epicureo Fedro, e poi ripub-
blicato dal Sauppe (1864), dal Bùcheler (1865), dal Gomperz
(Teubner 1866), e in parte dal Diels (Doxogr. 529 seg.) — Il
Sauppe pubblicò nel 1853 il De vitiis, lib. X, e il Gomperz
(1864), De vitiis et virtutihus oppositis\ De ira, di cui si ha una
nuova edizione del Cobet nel 1878. Una delle più interessanti
opere di Filodemo è quella pubblicata nel 1865 dal Gomperz, e
poi da più altri, la quale porta il titolo di TTepì (Truaeiuiv Kaì
ariiaeiOuaeujv, come quella che illumina di nuova luce una delle
parti più oscure della filosofìa epicurea, ossia della logica. Il
Mekler {Sitzungsh. der K. Akad. di Wiss. in Vienna) pubblicò
il De morte e il Comparetti, nel 1875, i frammenti della auv-
TaHi(; tììv qpiXoaóqpuuv (V, Papiro ercolanense inedito) nella Miv.
di Filol. IH, p. 449 e seg., il Kemke il De musica (Teubner 1884).
Venendo più particolarmente agli scritti retorici, dopo le pubblica-
zioni della Collectio Prior c'è quella dello Spengel, in Ahhandl.
der Mandi. Acad. Phil.-hist. Classe, III, l,p. 207-303 (1837),
del Gros, OiXobrmou n. pr)TopiKfi<;... restituita latine vertit etc.
(Paris 1840), dell'Hausrath OiXoòniiiou tt. 7T0iri|LiaTuuv lihri secundi
quae videntur fragmenta (Teubner 1889), del Gomperz, Philodem
und die aesthetischen Schriften der Hercuìanischen Bihliotheh,
nei Sitzungshericlite der K. Akad. d. Wiss. in Wien (1891), ed
ora quest'ultima del Sudhaus.
Dobbiamo essere grati per questo volume al Sudhaus e a quella
scuola di Bonn, ^ dove la biblioteca ercolanese ha studiosi coscien-
ziosi ed acuti. È questa la prima volta che gli scritti, o meglio
i frammenti di scritti retorici di Filodemo, sono tutti raccolti in
- 397 —
un volume, tanto che possiamo formarci un'idea del piano generale
ed anche dell'esecuzione dell'intera opera di lui. L'Editore nella
prefazione, in un latino elegante e facile, espone succintamente, ma
seguendo da vicino l'originale, il contenuto di ciascun libro, e ciò
che si riferisce ai sussidii di cui s'è valso ed alla condizione del
testo che pubblica. L'opera di Filodemo non è una retorica, ma
una trattazione polemico-storica delle principali opinioni degli an-
tichi su di essa, e principalmente della questione se sia da consi-
derarsi un'arte o no; per questo ha curiosi punti di confronto col
ciceroniano De oratore.
11 Sudhaus stabilisce subito nella prefazione (p. vi) il criterio
che l'ha guidato nella sua edizione, quello di dare un testo coe-
rente che si possa leggere senza tanta fatica, anche se perciò
qualche volta l'editore dovesse peccare d'audacia: « temeritatis sub-
inde quam passim obscuritatis vitium deprehendi maini » (p. vi).
E a dire il vero supplementi e ricostruzioni come quella, p. es.,
a pag. 17, 20 sgg. sembreranno assai arditi a piti d'uno. Il Rif.
si permette di dubitare che il compito d'un editore dei volumi
Ercolanesi sia precisamente quello che il S. si è proposto. Data
la condizione per lo piti frammentaria dei resti di quella biblio-
teca e la tradizione sempre, per necessità, scorretta, ricostruire un
testo leggibile dal principio alla fine sarebbe impresa disperata,
e, secondo il mio parere, l'editore d'uno di siffatti testi non deve
fare altro che stabilire ciò che può essere positivamente stabilito,
rinunciando alle ricostruzioni troppo ardite e quindi non pili che
verosimili, e di solo senso, le quali saranno lavoro da lasciarsi
piuttosto ad un commentatore e illustratore. Non facendo così suc-
cede, è vero, che, quando i volumi Ercolanesi trovano un editore
acuto e circospetto, abbiamo oltre che una semplice edizione un
libro ben fatto di più, ma avviene anche cbe, quando essi ne tro-
vano un altro che si lascia prendere la mano dalla fantasia piìi
che guidare dalla critica ragionata, si hanno libri come molti
della Collectio Prior, che, se i loro autori leggessero ora, guarde-
rebbero con meraviglia non molto dissimile da quella dell'albero
virgiliano, il quale stupisce miraiurque novas fromles et non
sua poma.
Conseguentemente al suo proposito l'Ed., benché cauto, circo-
spetto e acuto, ha quindi voluto darci, e non poteva altrimenti,
il probabile, e non quello che doveva esserci nel testo originale,
e qua e là, dopo aver dato una lezione nel contesto, nelle note
scrive: « vel... vel sescenta alia (n. a 300.20); ita fere loco me-
dendum est; quamquam scio illa genuina non esse (n. a 299. 17);
rectum non inveni » (n. a 301. 5).
In un lavoro come questo, dove tante sono le congetture, ogni
lettore, che abbia qualche pratica di papiri e di sitVatti studi,
potrà in molti luoglii trovare qualche varia lezione più o meno
felice, più 0 meno accettabile; è facile che alla semplice lettura
- 398 —
qìialcuiia so ih; [Hcsonti , percliè, come dice e,i(rei(iameiite il S.,
« voniin in hoc frenare emendandi ipso sacpe obtutu et felicitate
qiuidam ociili non miiius quam scrutando invenitur » fp. viii). È
mof,'Iio quindi non mettere il piede in un terreno cosi lubrico e
ingannevole, dove anche le autorità in si (latto «genere di studi (cfr.
Usener, Ejncurea, p. ni) riconoscono l'estrema facilità d'errare,
anche nel supplemento di poche lettere (1).
Noto che a p. 210. 2 è stampato TrXfeivo]? per ttX[6iovo](; ; a
p. 240. 32 fipxn<7Tov per àxpn<JTOV. A p. 217. 1-2 trovo corretto
il testo K\uTai|ariaTpav in KXuTai)i(v)n(jTpav. ciò che mi pare
abbastanza strano. La forma senza v è probabilmente la più cor-
retta (ved. Vitelli, Studi italiani di Filologia classica, Cbjtae-
tnestra, 1, p. 2.'39-10); ma se ci furono le due grafie, perchè non
conservare quella che il testo ci dà ? La tradizione va rispettata,
e la rispetta fedelmente anche il S., che più avanti a òiaKfpiPJuu-
luévou (p. 289. 18) nota: « òiriK. Gadareno restituere nolui ».
In complesso, concludendo, il Sudhaus è riuscito a darci una
edizione di Filodenio leggibile spesso per una lunga serie di pa-
gine, e la sua opera è stata diligente e accurata ; chi per poco o
per molto ha avuto in mano un papiro ercolanese, non jiotrà di-
sconoscere l'arduo lavoro che l'Editore avrà dovuto fare, e che in
questo genere di studi è sempre maggiore di quello che apparisce.
Bobbio, gennaio '95.
Achille Cosattinl
lamhUcIn in Nicomachi Arithmeticam introductionem liher. Ad
fidem codicis Fiorentini edidit Hermenegildus Pistelli (Lipsiae,
in aedibus B. G. Teubner, MDCOCXOIV), p. ix-195.
Le varie fasi di sviluppo della geometria greca presentano fra
di loro quella salda concatenazione che lega causa ad effetto, ante-
cedente a conseguente; essa non viene turbata dai cambiamenti
nella sede de' cultori suoi e nella razza a cui appartengono : as-
surta dopo Talete, per merito specialmente di Pitagora, alla di-
gnità di scienza essa assunse subito quei lineamenti rigorosamente
scientifici che dovevano accentuarsi durante quello che a noi piace
designar col nome di periodo aureo della geometria greca e che
{\) A p. 2, 15, per esempio, leggere èmJaTa.uévuuv in luogo di èvijara-
fiévuuv: cfr. ibid., 19: xaì ek toÙ(; àveTT[i]aTri^iova<;, e a pag. 36, 14: ótto-
[òeito])uev in luogo di ÙTTo[ò€Ìao]faev.
— 399 —
non dovevano scomparire nell' èra dei comnientatori, nell'epoca di
decadenza, in quello che noi chiamianao periodo argenteo della
geometria greca (1).
Per converso nella storia dell'aritmetica dei Greci si possono
notare due indirizzi schiettamente distinti. L'uno di essi ha il suo
fondamento essenziale nella rappresentazione dei numeri mediante
segmenti di retta e dei loro prodotti mediante aree rettangolari,
ha la propria ragione di essere nella spiccata vocazione del po-
polo elleno per lo studio dei fenomeni plastici, ha il proprio rap-
presentante più cospicuo nei quattro libri aritmetici (VII-X) degli
Elementi di Euclide-, chi voglia formarsi un concetto della ma-
teria e dell'indole di questa aritmetica geometrica {2) deve rivol-
gersi al grande alessandrino ora citato, giacche tutte le opere
degli altri matematici seguaci del cennato indirizzo non si sot-
trassero all'ingiuria del tempo. L'altra direzione informa quelle
esposizioni che non contengono alcun elemento estraneo alla scienza
del numero; le scaturigini di esse si trovano (da chi non voglia
addentrarsi nel ginepraio che formano le indagini sulle vie per
le quali gli abitatori dell'Eliade possono essere venuti a contatto
con civiltà più vetuste) nella scuola del grande filosofo di Samo.
L'aritmetica così concepita, uscita più tardi dai conciliaboli dei
pitagorici, esce alla libera luce in Atene grazie all'insegnamento
di Platone, poi per lungo tempo si occulta, eclissata forse dall'altra
direzione imperante per l'autorità di Euclide, ma finisce per ri-
prendere il sopravvento all'epoca dei Neo-Platonici e dei Neo-
Pitagorici, quasi a preparare il sorgere di una stella di prima
grandezza del cielo matematico dei Greci, cioè l'apparizione del
precursore degli algebristi e dei moderni teorici dei numeri, Dio-
fanto.
Questo indirizzo puramente aritmetico dell'aritmetica dei Greci
è rappresentato dalle opere superstiti di Nicomaco di Gerasa,
Teone Smirneo e Gìamblico. Ora, mentre Diofanto trovò ai nostri
tempi in P. Tannery un editore degno di lui, Nicomaco ebbe la
stessa ventura nell'Hoche, Teone in J. Dupuis, Giamblico in parte
del Festa ed ora (per la seconda volta e per quanto concerne il
commento a Nicomaco) in E. Pistelli (3). Ed è con vera gioia che
noi segnaliamo la comparsa di questa edizione di Giamblico, la
quale viene a soddisfare un desiderio che la notoria imperfezione
dell'edizione del Tennulio (4) risvegliava ed acuiva, edizione che.
(1) Per la giustificazione di quanto qui si asserisce rimando alla mia opera
sopra Le scienze esatte nell'antica Grecia, di cui già furono pubblicati i
primi due libri (Modena 1893 e 1895).
(2) È la denominazione proposta da H. G. Zeuthen {Forelaesninrj over
Matemntihens Historie, Kjiihchavn 1893).
(3) Questi, nel 1888, publtlicò nella stessa Biblioteca Teubneriana il Pro-
trepticus.
(-1) Gfr. Nesselmann, Die Algebra der Griechen (Berlin 1842), cap. V.
- A()() —
se verni sef^uitii fla altre congeneri, esaudirà il voto, che chi scrive
puhhlicamonte rnanir(!Kt<j di vedere « tolti dagli archivi, decifrati
e puhhlicati quei preziosi manoscritti a cui è nostro costume tri-
butare un culto simile a quello degli Egiziani per le mummie
schierate nei sotterranei; quei manoscritti che gli stranieri c'in-
vidiano e, ciò che è l)en peggio, ci fanno carico di non porre in
circolazione a profitto di tutti » (1).
La ricordata edizione di Gianiblico fatta dal Tennulio (Arn-
heim 1(1(>8)(3 accompagnata da una versione latina che, malgrado
manifesti ad evidenza come il traduttore trojtpo spesso non capisse
l'originale, pure prestò preziosi servigi ai molti matematici pei
quali un libro scritto in greco è un libro destinato a rimanere
perennemente chiuso. Una analoga traduzione in qualche lingua
meno sconosciuta della greca è ancora più necessaria oggi che nel
sec. XVll (2), oggi che la venerazione di cui in passato venivano
circondate le opere dell'antichità classica diminuisce di giorno in
giorno e accenna a scomparire, oggi che le scienze esatte reclutano
molti (i più forse) dei loro cultori fra giovani educati negli isti-
tuti tecnici. Noi quindi non riusciamo a renderci ragione del
perchè il signor Pistelli non abbia creduto prezzo dell'opera as-
soggettarsi a tale lavoro di traduzione come fecero i moderni che
meritano di essere presi per modelli in tal genere di lavori, quali
l'Heiberg e l'Hultsch, il Tannery e il Dupuis; da lui si sarebbe
potuto avere, non soltanto una volgare traduzione letterale, ma
ben anco una raccolta di interpretazioni dei passi controversi, la
quale sarebbe certamente stata consultata da tutti con profitto e
sarebbe stata circondata da quella stima che è costume tributare
alle ricerche fatte con intelletto d'amore quali sono quelle che il
sig. Pistelli ha compiute sul testo del commento a Nicomaco. E
ciò diciamo non spinti dal meschino desiderio di additare una
menda nel nuovo volume della Bihlioiheca scriptonmi graecorum
et romanorum Teubneriana, ma sibbene dal rammarico che pro-
viamo nel constatare come il lavoro del signor Pistelli, nello stato
attuale, riuscirà assai meno utile di quello che avrebbe potuto
divenire, nonché dall'aspirazione, che non riusciamo a soffocare in
noi, di spingere l'erudito di cui ci occupiamo a sobbarcarsi ad
una non grave fatica complementare ; meglio che l'autorità nostra,
la prospettiva di veder almeno raddoppiato il numero di quelli
che potranno godere dei frutti delle coscienziose sue indagini non
(1) Atti del Quinto congresso storico italiano (Genova 1893), p. 103.
(2) Essa non è resa superflua dalla Theoretic Arithmetic by Thomas
Taylor (London 1816), quantunque questo caldo ammiratore delle fantasti-
cherie sui numeri di Pitagora e Platone, abbia radunato nella sua opera
tutto ciò che seppero trovare o sognare i Neoplatonici ed i Neopitagorici.
401
sarà stimolo sufficiente ad accingersi a questo nuovo lavoro? Per
l'interesse della matematica e della sua storia lo speriamo ed augu-
riamo (1).
Genova, febbraio 1895. G. Loria.
La Guerra Gotica di Procopio di Cesarea, testo greco emendato
sui manoscritti con traduzione italiana, a cura di Domenico
CoMPARETTi. Voi. primo, Koma (nella sede dell'Istituto Storico
Italiano) 1895, pp. xxxiv-213.
L'Istituto Storico Italiano avendo compreso, come era naturale,
fra le sue pubblicazioni di Tonti per la Storia d'Italia, la Guerra
Gotica di Procopio, ne affidò al prof. Comparetti l'edizione, di cui
abbiamo ora il primo volume. All'Istituto Storico facciamo l'augurio
che tutte le sue pubblicazioni riescano, per competenza, dottrina
ed accuratezza degli editori, non di troppo inferiori a questa che
dobbiamo alla abnegazione del nostro maggiore Ellenista. Ci ral-
legriamo inoltre, senza invidia, che per gli studi storici sieno pos-
sibili in Italia così splendide edizioni, quali l'Istituto Storico pro-
cura ; e con Procopio ci congratuliamo che la sua qualità di storico
italiano gli abbia in Italia dato il diritto di presentarsi al pubblico
in così ricca veste, mentre i suoi modelli, Erodoto e Tucidide,
quando un editore trovassero, non dovrebbero sdegnare di vedersi
stampati su carta em por etica.
In una dotta e chiara prefazione il Comparetti ci dà esatta no-
tizia delle edizioni e traduzioni (2) anteriori, de' codici da lui
adoperati, del criterio seguito nell 'adoperarli. De' dieci mss. col-
lazionati per questa edizione, con somma accuratezza e perizia, dal
Dr. Enrico Rostagno, i Vaticani hanno dato modo al C. di tra-
sformare addirittura il testo vulgato. Nessuno dubitava che le
edizioni, dalla Hoescheliana alla Dindorfiana, lasciassero molto a
desiderare e per la recensione e per la emendazione, ma nessuno
(1) Dopo di aver scritte queste linee mi avvidi che un'osservazione ana-
loga a ciuella da me fatta suU'ed. del Pistelli era stata scritta dal Treutlein
su quella del Festa {Jnhrbuch ùber die Forschritte der Mathematih,
t. XX 111, p. 6); il che prova essere il desiderio da me espresso condiviso
dalla generalità dei matematici.
(2) Un manosciitto AmLrosiano ed imo Estense (in parte anche uno Bo-
lognese della Biblioteca dell'Università) ci hanno conservata la traduzione
italiana della Guerra Gotica, fatta da Niccolò Leoniceno. Tolgo la notizia
da D. Vitaliani, 'Della vita e delle opere di Nicolò Leoniceno Vicentino'
(Verona 1892) p. 219 sqq.
Rivista di filologia, ecc., I, 26
- 402 -
forse sperava che tanta e cosi larga luce potesse venire da mano-
scritti non ancora (lilip[enteiuent^! esaminati. Frequenti lacune di
tutti gii altri codici sono ora colmate, lezioni assurde eliminate,
restituito il senso dove nessuna divinazione critica sarebbe riescita
a restituirlo: in somma, il primo libro della Guerra Gotica (e
speriamo di non dovere asjìcttar molto per dir lo stesso degli altri)
oggi può esser letto utilment<j, cosi per ricerche storiche come
per minute indagini filologiche, soltanto nella edizione del Com-
parelti. Ritengo inutile addurre esempi. Basta guardare a caso
in (jualsivoglia pagina jìer assicurarsi della straordinaria impor-
tanza delle correzioni derivate dai rass., e della non comune pe-
rizia di cui dà continuamente prova l'editore nel valersene.
Anche la traduzione ci è sembrata egregiamente fatta. E le
difficoltà in alcuni luoghi (per es. nella descrizione dell'ariete e
della paXiatpa )•. 15;') scpj.) non erano davvero lievi. Pur aste-
nendosi dalle afl'ettazioni della maggior parte de' nostri storici
classici, il (J. ha saputo trovare una forma molto conveniente alla
elocuzione di Procopio, il quale oscilla fra l'imitazione classica e
la grecità impura del suo tempo. Molti brani ho letti attenta-
mente, e non solo (ne era da dubitarne) vi ho trovata fedeltà per-
fetta, ma anche come prosa storica italiana mi sono sembrati per
ogni rispetto commendevoli (1).
Cosi sarebbe finito il mio compito. Poiché nessuno, io spero,
vorrà dimostrate queste mie aifermazioni, quando, come dicevo,
ciascuna pagina del libro, da chiunque letta, può darne amplis-
sima dimostrazione. Piuttosto sento il dovere di indicare al mio
venerato maestro in che cosa mi sembra di non potermi accordare
con lui : tacendolo, ne avrei certamente rimprovero da lui stesso,
che mi ha educato a manifestare in argomenti scientifici sempre
e francamente il mio qualsivoglia giudizio.
Fra i codici che compaiono nell'apparato critico troviamo Reg.
(zz= Paris, gr. 1699) e L (= apografo Leidense del medesimo Pa-
rigino): unici mss. de' quali il nuovo editore non abbia nuove
collazioni. Riferisce la lezione del primo dal Maltreto, del secondo
dal Dindorf. Ora anche lasciando da parte gli errori ed omissioni
Sfravi, che certo non mancheranno nelle indicazioni del Maltreto
(1) Tanto per dar la prova che ho letto con interesse anche buona parte
della traduzione, esprimerò qui alcuni desiderii. Tradurrei la frase ic, óXkììv
fiKiara I^Xe-rrov (p. 169, 10) 'non pensavano a resistere', ed analogamente
p. 209, 9 sq. (cf. Krùger ad Herod. 2, 45, 1. ad Thuc. 2, 84, 2). A p. 163,
lo tradurrei kotò Kopuqpriv (singolare espressione Tucididea 2, 99, 1 ; cf.
Procop. De b. Pers. p. 36, 11. 188, 4 [nello stesso senso àqp' ùtyriX.oO ib.
227, 3 etc.]) non diversamente da come è tradotta a p. 38, 9 : la tradu-
zione 'sul capo' si presta ad equivoci. E nel medesimo luogo (163. 10) direi
piuttosto 'pietre in gran quantità' che 'grossissime pietre'. L'etimologia di
PaXioTpa è secondo Procopio da pdXXeiv e ixàXiara (156, 7), mentre dalla
traduzione potrebbe sembrare che egli avesse rettamente etimologizzato da
pdiXXeiv senz'altro.
- 403 —
e del Dindorf, per tutte le minute varianti di poca o nessuna
importanza critica le collazioni di quei due codici evidentemente
non furono fatte con la stessa acribia con cui dal Rostagno sono
stati collazionati gli altri. Sono perciò soggette a cauzione tutte le
deduzioni ex silentio. Quando ad esempio troviamo annotato che in-
vece di i^XGe (p. 55, 6) hanno i^ABev M C D Wv m /", crederemo fa-
cilmente che abbiano fi\0e Vr ; ma chi ci garantisce che lo abbiano
anche Reg. L? Nella stessa pagina (55, 3 e 9) troviamo: ' Tiàai]
Ttaiaì rLf{marg.), H (id.) B' e 'x^Piou re cpucTei èxupa] W
V V: x"'piou T6 éxupoO MCDrmfL'. Bisognerà dedurre che
Beg. abbia Tram e x^^piou re qpucrei èxupa, mentre il suo apo-
grafo L ha TxaxCi e x^J^ipiou re èxupoO? Stentiamo a crederlo. E
se anche abbiamo torto di dubitare in questi luoghi, non è vero-
simile che non ce ne siano infiniti altri dove il dubbio sarebbe
giustificato. Volendo dunque dare un così ampio apparato critico,
era indispensabile la collazione de' due codici, o nella peggiore
ipotesi dichiarare che per Beg. L s'intendeva di attestare solo le
lezioni espressamente citate.
Abbiamo visto inoltre che L è copia di Beg. Eppure nella nuova
edizione si è stati costretti a riportare le varianti dell'uno e del-
l'altro, perchè (sebbene pochissime sieno le indicazioni da Beg.)
vi sono de' luoghi in cui discordano le testimonianze. Da una
nuova collazione di Beg. avremmo anche avuto il vantaggio di
liberare l' apparato critico dall' ingombro inutile di L. Ma a
siffatti vantaggi non si è pensato neppure, quando senza scrupolo
di sorta si poteva. Il cod. W è copia di v, come naturalmente
non poteva sfuggire ne al Rostagno ne al Comparetti ; v alla sua
volta è copia di F, come ognuno concederà al C. per poco che
ne abbia esaminate le discrepanze: e nonostante figurano costan-
temente nell'apparato W o V, cioè tutti e tre, e per di piìi in
ordine inverso a quello che, tenuto conto del loro rispettivo va-
lore, ci aspetteremmo. Invece v era da adoperare solo per le la-
cune di 7, e per qualche congettura che anche una cattiva copia
talvolta può offrire; PF soltanto in quest'ultimo caso. Si voleva
dare la prova completa della inutilità di quei codici? Un'appen-
dice critica alla fine del volume o gli Atti di qualche Accademia
sarebbero stati luogo ben più opportuno dell'apparato critico.
Dai codici Vaticani, o per dir meglio da V (e rispettivamente
V, dove oggi V è lacunoso), derivano quasi sempre le lezioni che
danno al nuovo testo del C. l'altissimo valore che tutti dovranno
riconoscergli. Ma l'eccellenza dei codici Vaticani non ha fatto velo
al buon senso eminente del C, e già nella prefazione (p.xvii sq.)
egli ci avverte che 'in molti luoghi la lezione da essi fornita non
è buona e quella degli altri è da preferire ; talché dare il testo
intieramente quale risulta da questi codici, non si potrebbe'. Un
prudente eclettismo s'impone oggi alla critica di tutti gli scrit-
tori, i cui codici non si riducano a copie di un solo ras. ancora
— 104 —
esistente ; e il C. avrebbe sciuiiata la sua recensione, .se avesse
fatto diversamente da quello clic ha fatto. Ma la disperazione di
un editore non sono già le varietà di lezione, delle quali le une
0 le altre per senso o per grammatica resultino meno o più ac-
conce, bensì le discrepanze indillerenti. Quando nessun criterio
grammaticale, stilistico o di senso ci porta a scrivere laOia navra
piuttosto che TTuvTu laura (1), non ci resta che seguire la lezione di
que' codici, che piìi spesso ne' casi di discrepanze non indidV-renti
ci hanno aiutato a restituire la mano dell'autore. Senza dubbio,
sbaglieremo qualche volta anche così; ma in genere sembra ve-
rosimile che chi ci dà il buono (juando per caso possiamo con-
trollarlo, ci dia altrettanto di buono quando dobbiamo rimetterci
alla sola sua fede. Invece il C. ci dice (p. xix): 'abbiamo lasciata
la lezione vulgata tal quale là dove ne' mss. si avverte un uso
promiscuo che può essere anche dell'autore, o sia incerto se e
quale uso fosse da lui stabilmente seguito' etc. Così è accaduto
che per es. a pag. 84, 3, dove lia lì'ióva l'edizione del ]\Ialtreto,
nova (con i soprascritto) l'apografo Hoescheliano, ed rióva tutti
i codici e tutte le edizioni, il nuovo testo ci dà iVióva, cioè quella
forma che in quel luogo non ha alcuna autorità diplomatica. Sicché
0 l'editore credeva, come era nel suo diritto, di stabilire che in
questo luogo, tenuto conto dell'uso Procopiano, r|ióva era la forma
giusta (2), e allora ci sembra abbandonato il criterio stabilito
nella prefazione; o per pura deferenza alla ediz. del Maltreto
abbiamo nel nuovo testo appunto quella forma, che per ragioni
diplomatiche, indipendentemente da ogni considerazione morfologica,
doveva essere espunta. Similmente, sarà ben possibile in Procopio
tanto èH ùttotuìou quanto èS ÙTTOfuou; ma perchè una edizione
critica debba mantenere nel testo (174, 7) appunto quella delle
due forme che nessun codice offre, non mi par giusto. Come
vedesi, sopra tal via era difficile evitare contraddizioni (3).
(1) Naturalmente bisognerà tener conto in casi siffatti anche delle osser-
vazioni di Guglielmo Meyer {Der accentuirte Satzschluss in der griech.
Prosa etc, Gòttingen 1891).
(2) Certamente è questa la sua opinione, perchè troviamo costantemente
la stessa grafia, l'abbiano o non abbiano i codici.
(3) P. 38, 1 GapaoOvxec; con W v: eappoOvxec; gli altri codici e le ediz.
(invece 22, 8 Gappeìv con gli altri codici ed ediz.: Gapaeìv \V v) | 11, 1 r\p-
ÒOKijuriKÓTUJv con Wv Snida Dind.: eùÒ0Ki,ur)KÓTUJv gli altri codd. ed ediz.
(invece 35, 1 eùboKi|urìKévai, mentre W v dìinno riùboKipr)Kévai) | 90, 4 guy-
Ke(|Lieva con Wv: a\)-^K^\\xeva gli altri codd. ed edizioni (e, senza dubbio a
ragione, 54, 8 Suvéypaij/e, mentre VvW danno auv^Ypccv^je) | 89, 6 r\aaov
con WvY: fÌTXov gli altri codd. e le ediz. (invece 205, 1 ì^ttov con vulg.:
Y\oaa.v Wv{'VÌ)) \ 10, 3 ti^v x<d}pav àacpaXA<; Wv Suida : àa(paXuj(; x^v
XtOpav gli altri codd. ed ediz. etc. Così io non so se Procopio sia Aristar-
cheo 0 no per quel che riguarda l'accentuazione di òtto nel significato di
'lontano da'. Essendovi dubbio, è consentaneo al criterio fissato sostituire a
a p. 11, 2 r à-TTÒ de' mss. all' fiiro del Dindorf; ma a p. 203, 9 troviamo nel
testo ÒTTO contro tutti i codici e tutte le edizioni (per quest'ultimo luogo,
derivato da Thuc. 1, 76, 2, si vedano i codici Tucididei).
— 405 -
E lo stesso avverrebbe a chiunque credesse, come pare abbia
creduto il C, di poter decidere volta per volta, secondo le im-
pressioni del momento, queste minuscole questioncelle di grafia e
di grammatica. A p. 13, 2 leggiamo ic, xoùq ÙTrriKÓou(; toìk; aù-
ToO; 12, 9 è<; KOitriv xfiv auioO; 120, 9 tujv aÙToO uTtacTTTiaTujv;
212, 7 Xó'fov aÙToO etc: e le note c'insegnano che 1' aùioO è del
Dindorf, mentre tutti i codici e tutte le altre edizioni danno aùioO.
Non c'è dubbio che il Dindorf abbia fatto qui il suo dovere, per
quanto sia vero che spesso gli editori abbiano obbligato gli autori
ad usare il riflessivo anche se non ne avevano avuto voglia. Il C.
stesso ha giustamente corretto 100, 6 in aÙTLÙ 1' aùtuj di Wv\
ma è difficile veder la ragione per cui non ha corretto 10, 1 Kai-
rjKÓuJv TiLv aÙToO ; 10, 8 toic, cfTacriuuTaK; roic, aÙToO ; 80, 2
rovq (yTpaTiu)Ta(S loxx; aÙTou; 132, 5 tujv aOioO òopuqpópuuv ;
150, 9 Toùg aÙToO Kair\\ióovc;; 174, 6 urrèp aùiujv etc.
E lasciando ora da parte queste e simili minuzie ortografiche,
poiché non debbo abusare dello spazio concesso ad un annunzio,
ecco alcuni dei luoghi che vorrei diversamente restituiti da quello
che trovo nella nuova edizione.
La vulgata aveva a p. 64, 5 oi^ òf] àpeTY\(; ti lueTaiToieiaGai
Suvépaivev, dove V ha ovq òi' àpeTfiq. Se non m'inganno. Pro-
copio usa in tali strutture piti frequentemente il dativo che non
l'accusativo, e però forse con ragione non è accolto nella nuova
edizione 1' ove, del Vaticano. Ma ne è accolto il òi' àpeT\](;. Ora
è difficile trovare un altro scrittore che più di Procopio usi ed
abusi del òri dopo i relativi (pronomi e particelle): ogni pagina
di qualsivoglia delle sue opere è tempestata (1) di oc, òn, o òri,
òaa òri, cu òri, l'^ot òri etc. Sicché nel nostro luogo il òiì è per-
fettamente Procopiano, mentre òi' dpeTfìq darebbe una struttura
per lo meno insolita. Di piìi Procopio stesso ci dice di nuovo
(132, 1) 6(Jol àpeTnq ti jueTeTTOioOvTO, per non dir poi che in
tutti e due i luoghi l'espressione è un flosculus Tucidideo (v. Kriiger
ad 2, 51, 3: Kaì \xak\(5Ta oi dpeTfic; ti )aeTaTTOioO|uevoi). Cf. De h.
Vandal. p. 315, 12. 321, 3 Dind. — Viceversa avrei seguito
senza esitazione Wv ap. 21, 6 (émiLivrifyOricroiLiai), perchè Procopio
avrà avuto in mente Herod. 2, 3 Tà \xk.\i ouv Beia tuùv àTiriYriiuaTUJV
ola TiKouov oìiK €Ì|u\ TTpó6u|U0(; éErìT€i(J9ai ....Tà ò' av èTTi|iv)i-
(J0éuj aÙTUJV, ÒTTO ToO XÓTOu àvaYKaZ;ó|uevo(; ènifiviiaGncfoiLiai.
Leggevamo nella vulgata a p. 172, 7 sqq. rà xàp tujv TTpccf-
laÓTUJV viKUJVTtt THv qpuaiv oùk av eÌKÓTLuc; ic, àvòpuJv àpernv,
ÓW é<; TÒ KpeTacTov dvacpépeaGai 7tp6ttoi, mentre nella nuova edi-
zione è scritto irpéTTei con D Wv V L. Non credo che in una
(1) A p. 105, 7 il G. scrive con Wv oO? (oOc; òìì cett.), probabilmente
perchè anche il periodo precedente comincia con biò h-^: ma v. per es. 117,
5-11 évGa h-}\ — iva h>\ — oO b^ etc. Anche 202, 1 era forse da conservare
hi h^.
— 406 —
quistione di itacismo, la sola autorità de' mss. abbia indotto l'edi-
tore ad introdurre appiinto uno di que' solecismi da cui Procopio
sembra alieno (1); avrà avuto altre ragioni. Ma ci atterremo alla
vulfjata, finché queste ra{(ioni non ci sieno addotte.
Una lezione sospetta ci ofì'riva la vulgata a p. .30, 5 sq. 'fK\xa-
XaaoOvea -npóc, le YViJU)Lir|q {t^c; W v) oÌK€iaq Kaì tu» Oeubaruj
ò|aoaa)aévn àTTaTri86T(Ja, ineiitre il senso suppergiù richiede ' in-
gannata da' giuramenti di 'J'eodato '. I codici Vaticani ci hanno
dato infatti ku\ tujv 0. òiiujcr^evujv (opjMire ó)aujq pe'vujv). Ora il
C. contaminando la vulgata con la lezione de' Vaticani scrive Kal
TUJV OeubàiLu ó)Lio(TaM£VUJV ('illusa da quanto Teodato giurò'),
come se ò|Lioaa)aévujv potesse essere passivo. In più luoghi della
Historia arcana, il codice Parigino, analogo a questi Vaticani
(Comparetti, p. xvii), olire corruttele simili: per es. pag. 40, 17
Dind. (òjauja^iéva) , 57, 8 (òjaujaiaévoiv) etc. e si confronti del
resto ib. 29, 10. 35, 14 sqq. De h. Fers. 157,17. 192, 23. 196,
12. JDe h. Vandal. 353, 1 etc. Nessun dubbio dunque che si
debba scrivere òfiuj(|uo)(T^évujv (2).
A p. 52, 11 sqq. la nuova edizione giustamente accoglie, invece
dell' ó TUJV vulgato, 1' ÒTe de' Vaticani, sicché leggiamo: iLiaXicria
bè aÙTÒv 2uv€Tdpa(Jaev 6 tè ZaXuuvujv TTepipoXoc, èirei aùioO Tà
TToXXà ri^r) KaxaTTeTTTUJKei Kal xuJv Taùiri iJJKrmévujv tò io, fói-
Gouc; KO|aibfl uTTonrov i^v. Ma allora il re rimane senza correla-
zione, anche se, come in ogni caso si deve, aggiungiamo una virgola
dopo KaTaiTeTTTuuKei. Ora dall'apparato critico apprendiamo che fjv
manca in tutti i codici (in f eà L h congettura di moderni eru-
diti): eliminato questo nv importuno (3), abbiamo subito l'indi-
(1) La mia conoscenza dell'uso Procopiano è quasi nulla. Dirò ad ogni
modo che mi è parso sempre corretto nell'uso dell' dv con ottativo. E nessun
esempio di fiv col presente dell'indicativo è segnalato nell'indice, del resto
imperfettissimo, del Dindorf (III 582), dove sono addotti altri minori sole-
cismi, che probabilmente scompariranno nelle nuove edizioni. Esempii poi di
ottativo potenziale senza fiv offrono non rarissimamente codici ed edizioni
?ersino de" classici : nonostante correggerei in Procopio (Guerra Got. p. 61,
1) oùòeic; (fiv) àvTeiTTOi. Cf. Be b. Pers. p. 69. 9. 93, 20.
(2) A principio della stessa pagina (30, i) è scritto ora con Wv oòk
fXaooov r^ wc, tò npórepov, mentre gli altri codici omettono ùx; (cf. 125, 5).
Non mi è occorsa altrove in Procopio siffatta confusione di due strutture:
impossibile addirittura non sarebbe. Invece a p. 88, 10 è scritto con WvV
ÒTTujc; luévToi luri^év ti (ti om. vulg.) EujuPnoefai toioOtov, ed è proposta la
correzione lariòé ti. Non sembra necessaria: un contemporaneo di Procopio,
Filopono, usa frequentemente siff'atto luribeii; Tiq sim.(v. la mia nota ad Phys.
p. 151, 26).
(3) L' fjv fra le altre cose obbliga a separare dall' ììtcoutov il tó (e siamo
allora costretti ad interpretare tujv TOuTr) KOTUJKriiaévujv tò ic, fÓTBouq ' i
sentimenti di questi abitanti verso i Goti'), mentre certamente abbiamo il
solito tò ùttotitov (= f\ ÒKOijjia) Tueidideo. Anche a p. 36, 5 sq. la nuova
edizione mantiene nel testo una parola (aÙToO) che non è in nessun codice,
e non è né necessaria né utile : eiTTexo òè aÙTUj koì Ouutio^, ó ttì^ y^voikò?
[aÙToO] 'AvTUjvivric vxbc, 6k ydiuujv irpoTépujv. (Mi pare poi che anche a
p. 49, 5 YuvaiKÌ voglia dire 'la moglie'; cf. 103, 11 etc).
— 407 —
spensabile correlazione (1) 6 te ZaXojvuuv Tr6piPoXo<; — koì... tò...
UTTOTTTOV ('lo preoccupava la cinta già in gran parte rovinata di
Salona e la cattiva disposizione d'animo di quegli abitanti verso
i Goti'; cf. Comparetti a p. 88).
La forma KaTaTteiTTLUKei or ora citata mi fa ricordare di due
luoghi, dove sembra che il nuovo editore abbia avuto scrupolo di
mantenere una analoga forma di piuccheperfetto senza aumento,
mentre un piuccheperfetto parrebbe necessario. A p. 39, 4 troviamo
infatti con Wv TreTToiriTai, dove la vulgata ha ireTToiriTO ; e a p.l68,
3 con la vulgata ireTToirivTai dove Wv F hanno TreTroirivTO. Non
è possibile decidere senza edizioni accurate dell'intero Procopio e
senza spogli completi delle singole forme (2).
Non so poi spiegarmi la locuzione OTrXa èm 'Puu|uaioi(S àvinpav
(p. 5, 7 sq.), mentre i codici hanno 'Pujiaaiou^ (e si potrebbe forse
allora confrontare Hist. «re. p. 43, 11 Dind. oirXa in aÙTÒv àpa-
jLiévou<; e sim.). La struttura solita del resto è orrXa àviaipeiv
Tivi (58, 10. De h. Pers. 39, 20. 95, 22. 173, 8 etc); èiri rivi
non avrebbe senso. Ma sarebbe pericoloso per me, che non co-
nosco abbastanza Procopio e gli studi finora fatti sull'uso anor-
male delle preposizioni che in esso occorre (ved. Comparetti,
p. xix), indicare altri miei dubbi di questa specie. Confesso ad
ogni modo di non capire l'espressione Kal dir' aÙToO èXTTiòa où-
òeinìav in aÙToTg è'xovTe^(p. 76, 14: C. traduce 'e portai ragione
essendo sprovvisti di ogni speranza per se stessi '). Anche se leg-
gessimo, come può sembrare che voglia il C, èqp' aÙTOiq, potrebbe
al più essere 'speranza in sé stessi'. Ora i codici (non però i Va-
ticani, che danno anzi aÙTOùig) generalmente hanno èXiTiòa où-
òe|iiav èrr' oijtgTc^ iJucfiv è'xovTe<;, ed il senso richiesto dal contesto
è che gli Ebrei di Napoli, i quali avevano spinto i Napoletani a
sostenere l'assedio e avevano poi impedito che i Greci s'imposses-
sassero della città senza colpo ferire, non potevano sperare clemenza
se i Greci li avessero soggetti. Non vedo perciò come si possa fare
a meno della congettura del Grozio (f|v) èTx' aùtoT^, congettura
(1) Un altro re senza giusta correlazione occorre a p. 9, 11; dove dispiace
anche l'imperfetto òiepiou in mezzo agli aoristi r]^iujaev e iTpovì(JTr|- K du-
bito poi molto che i copisti abbiano corrotto òiepiou in òiepiiu; per solito
avviene il contrario.
(2) èjefóvei ed èiT€9ÙKei mi sono sempre occorsi in questa forma. Senza
aumento, oltre KaTa-rreTTTdjKei (che il G. mantiene giustamente anche 54, 2,
dove KaTeTreTTTiijKei r Wv VL: cf. De b. Pers. 293, 4.295,9. Thuc. 4, 90,
3 e Stahl, Qunest. gramm. nd Thuc. pert. p. 59) ed àiroXibXei, mi ò accaduto
di notare àvaPepfiKeiaav 75, 11; nella Historia arcana àTToXeXoiirei (3i\ 11
Dind.; ma èTreXeXoiirei Guerra Got. 14fi, H), Kextupnxei (34, S), yeTéviiTO (40,
12) etc. Si veda anclie De b. Pers., 246, 1. 294, 23. 323, 13. 325, 2. De b.
Vandal. 331, 10. 334, 4. 346, 10. 360, 10. Dindorf non ha esitato a scrivere
Tre-rroirivTo per TreiromvTai De b. Pers. 61, 21: ma ha tollerato TreiroinvTai
ib. 227, 17.
- 408 —
clie diventerebbe anche più semplice se potessimo scrivere è\TTiba
oùbeiaiav, (av) in aùroTc; uùcTiv, exovreq.
Certamente considerazioni stilistiche hanno indotto il C. a scri-
vere p. 41, 12 èqpr). ó bè aÙTiKa ÙTToXapdiv... efire, mentre nella
vuljrata mancano le parole ó bè aÙTiKa. Ma i Vaticani ci danno
veramente è'cpri- ó bè aÙTiKa è'fpri' ^' ^^ capisce allora come nel-
l'archetipo d('<rli altri codici si sia aberrato dal primo al secondo
^cpr). 'Se (|uindi sojiprimiaino rpiesto secondo Irpr), hisof^na far conto
che so))priiiiiamo una parola dell'archetipo di tutte e due le fa-
mi<,dio di codici; e forse correg<ifiamo Procopio piuttosto che i suoi
copisti.
Servano questi pochi esempi a dimostrare l'interesse con cui ho
letto il libro. Che se volessi indicare gl'infiniti luoghi, che senza
la guida del Comparetti avrei frantesi e mal restituiti, certa-
mente non finirei così presto.
La stampa è molto accurata. Segnerò qui le lievi inesattezze
che mi è accaduto di notare, per comodo d(A\' Errata-corrige.
p. 4, 1 l.r\v 01 I 6, 3 à^xàlaxc, (se non è da correggere invece
à^à^ac, 188, 4) | 8, 10 àW | 12, 4 bé oi | 14, 7 toùq | 17, 12
01 I 24, 12-13 n. dv9puuTTuuv | 25, 12 (TrpoaxeTv non è errore di
stampa, bensì solita grafia inv. di Trpoacrxeiv) | 37, 4 ov | 38, 6
vr|uijv I 9 laTuùv | 42, 3 è'cpri | 43, 9 Te9pàqp9ai (anche questo del
resto non è errore di stampa, ma grafia non rara) | 95, 11 éKa-
Tcpoi I aTToXeXeipiuévujv | 100, G io\j<; \ 103, 1 fjpxev | 148, 5 tto-
XiopKia I 154, 8 e 12 xfiv | 167, 9 eùpdiv | 189, 3 èvGévbe le (al-
meno non vedo ragione di mantenere qui l'accentuazione èv9évbé
Te, quando nel resto si segue la accentuazione che usiamo comu-
nemente oggi) I 193,5 Tovc, I 194, 11 oti Troie | 12 ujate | 202, 4
èpYàaaa9ai etc.
Nella interpunzione spesso sono seguiti criterii diversi da quelli
che in generale sogliamo seguire. Ecco, ad esempio, come è inter-
punto il principio della lettera di Teodato all'imperatore (p. 43,
7): Où f^TOva )Lièv PacTiXiKnq auXfiq èrrriXuTrii;. TeTÙxrjKe yàp |uoi
TeTéx9ai re èv paaiXéaiq 9eiou Kai T€6pdcp9ai toO Y£vouq àHiuu^'
TToXéiaoiv bè Kal toiv èv toùtok; 9opùpujv eìpà où TravTeXuj^ eji-
ireipog. Questa interpunzione impedisce di unire appunto quello che
è in relazione grammaticale e di senso (oò yéTova )nèv — TToXéinujv
bè); si direbbe nata qui da errore di stampa, se non occorresse
interpunzione analoga frequenti altre volte (65, 1-2. 96, 8-10. 99,
3-6 etc.).=^
Firenze, marzo 1895. G. Vitelli.
* [Nel licenziare le stampe ricevo, per cortesia dell'autore, lo studio di
J. Haury, Ueber Prokophandsdiriften [Sitzungsber. der hayr. Akad. 1895,
pp. 125-176), dove è accuratamente determinato il valore de' singoli mano-
scritti. Mi duole di non essere più in tempo per giovarmene. Firenze 1. 6. 95.
— G. V.]
— 409 —
B. Maurenbrecher , Carminum Saliarium reliquiae Commen-
tano ex Supplemento uno et vicesimo annalimn philologico-
rum seorsum expressa. Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri,
MDCCCXCIY.
Ancora un altro tentativo di spiegare quei pochi frammenti di
antichissima preghiera perduta ? Non bastano gli esperimenti con
più 0 meno di fortuna tentati da tanti, cominciando dal Gutber-
leth (1704), e venendo allo Zander (1888)? È certo indizio di
vigoria intellettuale il non lasciarsi scoraggire dalle prove fallite
prima di noi e il tentar sempre nuove soluzioni dei problemi
scientifici ; e fortunato quel paese dove gli studi fioriscono così
che anche le questioni secondarie eccitano la curiosità e l'operosità
di più persone, e se ne tentano sempre nuove soluzioni. Laonde
salutiamo con plauso anche il lavoro del Maurenbrecher, sebbene
poca fiducia si possa avere sul risultato sostanziale de' suoi studi
intorno al carme saliare. E giova renderne conto qui a vantaggio
di tutti quelli che hanno interesse agli studi di antico latino.
La trattazione del Maurenbrecher è in due parti : I prolegomena,
II fragmenta. Nella prima si discorrono i seguenti argomenti :
1° 11 sacerdozio de' Salii ; 2° testimonianze che si hanno intorno
ai carmi Saliari, e relative all'autore loro, alla lingua arcaica in
cui erano composti, come erano essi carmi denominati, e come si
cantavano; 3° indole, argomento e storia dei carmi saliari; 4'^ lingua
e metro; 5° gli Dei de' Salii. Intorno ai Salii romani, è noto che
secondo la tradizione se ne devono distinguere due categorie, i
salii palatini e i salii collini o quirinali; si parlava anche d'una
terza, dei salii Favorii e Pallorii che Varrone (L. l. 6, 14) diceva
istituiti da Tulio Ostilio, quel medesimo che secondo Livio (I, 27)
edificò templi a queste nuove divinità Favor et Paìlor. Ma il
Maurenbrecher congettura che questi Salii, amministratori dei
templi dedicati al Favor et Fallor, fossero gli stessi Salii palatini,
per l'affinità che gli Dei Favor et Fallor avevano col Dio della
guerra, di cui i Salii erano sacerdoti; sicché egli vorrebbe si di-
stinguessero solo i Salii palatini e i quirinali, detti anche agonali,
reliquia delle tribù latine e sabine fusesi nel popolo romano del-
l'età dei Ke. — Quanto alle preghiere de' Salii, prima di tutto
il M. sostiene che si devono denominare Carmina al plur. anziché
Carmen al sing., per la ragione che se qualche volta Varrone e
Festo citano Carmen Saliorum, nella massima parte dei casi essi
e altri (Quintiliano, Nonio, Servio, Macrobio) citano al plurale
Carmina Saliaria. Dunque erano più gli inni de' Salii; e le ci-
tazioni fatte al sing. le spiega il M. supponendo che Varrone e
Festo Carminum Saliarium cditionem legerinf uno libro con-
— 410 -
teniani et quasi uno contextu coinpositaìn, non sinyula carmina
a sacerdoiibus vai e librix sacris petivcrini. A me pare, ammessa
la pluralità def,'li Irmi Saliari, che molto più semplif-e sia la sjiie-
gazione delle citazioni latti; al siii<,'olare. Q'i'"i'i" Varrone ad es.
(7, 27 non Vili, 27 <;ome jier errore il xM., p. :'.;;2) dice: in multis
verbis in (pio antiqui dicebant S, ])Ostea dicunt J{, ut in cannine
Salioruni sunt Itaec, si può bene intendere: « in un carme dei
Salii » ossia: « in uno (ìe<r\\ inni Saliari ». Anche si può pensare
che il Saliare Carmen ricordato più volte da Festo sia da inten-
dere in senso collettivo, senza ricorrere alla supposizione di una
edizione degli inni saliari in un sol volume. — Fra le divinità,
a cui son rivolte le preghiere dei Salii, il M. vuole s'annoveri
anche Mamurio Veturio che non sarebbe altrimenti l'artefice degli
scudi, ma lo stesso che Mars, propriamente 3Iars vetus, il aio
dell'anno precedente, secondo un'ipotesi già illustrata dal Preller
e dairUsener. Dà poi un'interpretazione nuova del dio Certts,
creator, mettendolo in relazione con Saturno, e facendone il ma-
schio di Cerere, in analogia «Ielle Coppie Cerfus Cerfia degli
Umbri, e Kerris Kerria degli Osci. E infine la Lucia Volumina
menzionata da Varrone {L. l. 9, 61) vuole il M. collo Zander che
s'abbia a identificare con luno Lucina, indottovi da un passo di
Agostino {Civ. D. 4, 21),
Venendo ai frammenti, si avverta anzi tutto che nel ricosti-
tuirli il M. ha fatto astrazione dal metro in cui si suppone siano
stati composti, prudente riserva che lo salva da avventate conget-
ture quali sono state messe fuori da molti predecessori suoi per
ragion di metro; come se la forma del saturnio, così incerta, po-
tesse esser buon criterio di emendazione congetturale in frammenti
di latino, così incerto esso pure nella sua significazione. Ha poi
raggruppato i frammenti secondo le divinità a cui pare si rife-
riscano, cominciando dai versus lamdi, poi venendo ai lunonii,
ai Minerva, all'inno a Giove, quello a Marte, a Saturno e Cero, e
facendo seguire i frammenti relativi alle cerimonie del sacrifizio
e ai luoghi sacri, e chiudendo coi frammenti di argomento incerto
0 dei quali non si sa se appartenessero agli inni o ai libri di
commento dei Salii.
L'inno a Giano e l'inno a Giove son quelli dei quali si hanno
i frammenti maggiori. Riproduciamo qui la ricostruzione del Mau-
renbrecher.
I. Dall'inno a Giano, framm. l'':
Divom patretn cante, divom deo supplicate.
L'empta del codice laurenziano di Varrone (L. l. 7, 27), mutato
in empete ossia impetu dal Grotefend, in tempia dal Bergk, in
em pa= eum patreni dall'Havet, in [^Diov^em. potem dallo Zander,
in parentem dal Baehrens, è diventato patrem sotto le mani del
Maurenbrecher. Che a Giano si volgessero preghiere come a padre
— 411 —
e creatore può essere, e lo dice espressamente un passo di Paolo
da Feste (p. 36); ma che proprio Vempta dei codici sia sorto da
corrompimento della parola patrem? Qual parola più facile e
ovvia, e meno soggetta a corruzione nella copiatura libraria? Vada
per una congettura di piti, ma non si creda sanato con essa il
luogo varroniano. — Framm. 2° :
0 Zol, adoriso omnia — verod Patuìci cosmis;
Es Sancus lanis duonus — Cerus es duonus lanus.
Tronca qui il M. l'enigma celebre del cod. laur. riservando ad un
altro framm. le parole che là seguono: ve vet j)omelios eum recum;
colla supposizione che quel ve vet nasconda un vel e introduca un
nuovo esempio addotto da Varroce togliendolo dallo stesso inno
saliare. Ecco la traduzione che il M. dà del prec. framm.: 0 Sol,
(qui) ad omnia vadis [surgis), re vera comis Pahdci; es bonus
Sancus lanius, es bonus Cerus, (es) lanus; ossia: « 0 Sole che
tutto invadi (adoriso = adoriris o adoreris) effettivamente com-
pagno del largo Cielo, tu sei il buon Sanco figlio di Giano (Sancus
= dius Fidius, numen sanciorum pactorumque), tu sei il buon
Cero (dio delle biade), tu sei Giano ». Lo Zander aveva ricostruito
così : 0 Zaul adoriese omnia veroni ad inaila coemis es ianeus
ianes duonus Cerus es duonus lanus ossia: 0 Sol adoriens
omnia, ad portarum patentes aditus comes es, lanitor lane es,
bonus creator es, bonus lanus Nella mente dello Zander le
porte dovevano aver gran parte in un inno a Giano, il Mauren-
brecher ha di questo Dio un concetto più elevato e crede che il
ragguaglio di Giano colle porte sia un tatto molto posteriore, sorto
da un'etimologia popolare, mentre il prisco Giano era il Dio su-
premo, il dio del cielo e della luce, quello che in seguito fu Giove.
Certo il concetto del Maurenbrecher e la sua ricostruzione del fram-
mento saliare è più verosimile che quella dello Zander; ma chi
può tenersene sicuro ?
IL All'inno in onor di Giove secondo il M. appartenevano le
parole citate dal grammatico Terenzio Scauro (Vi K, p. 28), che
egli presenta in questa forma:
Quomne tonas, Loucesie,
Trae ted tr emoni i quotque — virei dei.
« Quando tu toni, o Giove Lucerio, di te paventa ognuno, e uo-
mini e dei ». Nuova è qui la correzione quomne, sostituita al
cuine dei codici, a qune del Jordan, quome del Baehrens, quOme
dello Zander ; e al quotque-virci dei riducesi il quoi ibet etinei
de is (o de his) cum tonarem dei codici. Questi saggi possono ba-
stare a dare un'idea del lavoro di'l Maurehrecher; v'è ingegno
senza dubbio e iibilità nel trattare il suo soggetto, ma le rico-
struzioni sono molto arbitrarie e non possono valere che come uu
- 412 —
tentativo di più per dicifrare quella sfinj^e che già era impene-
trabile ai coetanei di Orazio, e vien proprio da ripetere:
« Saliare Numae carnnen qui laudat et illud
Quod mecum ignorat solus vult scire videri
Ingeniis non ille favet plauditque sepultis.
Firenze, aprile '95. F. K.
C. Jidii Gaesaris Commentarli cum A. llirtii aliorunique Sup-
plementis ex recensione Bkiinahdi Kììbleki. Voi. I: Comm. de
hello Gallico. Ed. Maior. Lipsiae, Teubner, MDCCCXCIII.
Id. Id. Voi. II: Comm. de Bello civili. Ed. Maior. Lipsiae, Teubner,
MDCCCXCIV.
C. lulii Caesaris Belli Gallici libri VII A. Hiriii liher Vili.
lìecensuit ajìjjaraiu critico instruxit Henricus Meusel. Bero-
lini, Weber, MDCCCXCIV.
Caesar. Beitriige zur Kritik des B. G. von H. Meusel (in :
Jaliresherichte des philolog. Vereins zu Berlin, XX Jahrgang.
Berlin, Weidmann, 1894, pp. 214-398).
Cominciando a considerare i Commentari della Guerra Gallica,
l'edizione di Enrico Meusel era vivamente aspettata. Gli egregi
lavori di questo dotto filologo, specialmente il monumentale Les-
sico Cesariano, più volte menzionato in questa Rivista, lessico a
cui è unita una tavola delle principali emendazioni congetturali
proposte al testo di Cesare da studiosi di tutti i tempi e di tutte
le nazioni, e le discussioni critiche fatte a più riprese nei Jah-
resberichte della Società Filologica di Berlino, lo additavano come
il più capace di preparare una nuova recensione delle opere Ce-
sariane. Pure non ha dubitato di entrare nello stesso arringo,
prima del Meusel il giovane dott. Kubler di Berlino, pubblicando
coi tipi del Teubner sia il De Bell. Gali, sia il Z). B. Civili.
Circa il valore relativo di queste due recensioni, diciamo subito,
che per chi usa solitamente le edizioni Teubneriane, il lavoro del
Kubler non ha nulla da invidiare agli altri di questa celebre col-
lezione, e segna un vero progresso in confronto della precedente
edizione del Dinter; ma chi vuol proprio avere del testo di Ce-
sare le informazioni più esatte, farà bene a ricorrere alla recen-
sione del Meusel che, allo stato attuale degli studi Cesariani, è
— 413 —
senza dubbio la migliore di tutte, ed è un lavoro, per ora, insu-
perabile.
I codici che hanno servito di fondamento al testo per entrambi
gli editori, sono i medesimi; distribuiti, com'è noto già ai nostri
lettori, in due famiglie, a e p, differenti fra loro in un numero
grandissimo di luoghi, ma ninna in condizione tale da meritare
una decisiva preferenza sull'altra, avendo ciascuna i loro lati buoni
e i loro manifesti errori. Circa l'origine di questa doppia famiglia
di codici, è difficile dir nulla di preciso. Dal fatto che Orosio
cita un passo secondo la lezione p e Prisciano un altro secondo
il testo a, e dall'esservi nei codici a sottoscritti due emendatori,
Celso Costantino e Flavio Licerlo Firmino Lupicino (solo il primo
è sottoscritto in alcuni luoghi dei codici p), il Kiibler congettura
(Prefaz. al B. G. p. vii) che il testo p rappresenti la volgata
risalente all'età Cesariana, e che il testo a sia dovuto a un la-
vorìo d'emendamento fatto dai due sopra nominati durante il
quarto o quinto secolo. Questa congettura non ha per se nulla di
sicuro; il fatto che Celso Costantino è sottoscritto anche in alcuni
dei codici p le toglie molto di probabilità, e la doppia tradizione
del testo può benissimo risalire a tempi più vicini all'Autore, chi
consideri la maniera di diffusione dei libri nell'antichità, o per
copia di copie, o per dettatura alla presenza di più scrivani. Il
Meusel a pag. 225 del voi. XX de' citati Jahresherichie accenna
appunto a quest'ultima maniera come la più probabile. — Co-
munque sia di ciò, il fondamento critico delle due edizioni del
Kùbler e del Meusel è il medesimo. Entrambi dunque hanno se-
guito il criterio di scegliere fra le lezioni a e p quelle che ap-
parivan loro migliori. Ma come sonsi eglino regolati in quei mol-
tissimi casi in cui non si ha nessun motivo di dar la preferenza
piuttosto all'una che all'altra lezione, perchè son tuttedue buone ?
Il Kiibler che dalla sua congettura sull'origine delle due famiglie
di codici, era portato a dare una decisa preferenza alle lezioni p
perchè più antiche ed autentiche, nonostante questo, ha nei casi
dubbi seguito quasi sempre il testo a, e ciò per due ragioni (prefaz.
p. ix), prima perchè ha supposto che gli emendatori Costantino e
Lupicino possano pure aver attinto a fonte antica (supposizione
che fa a pugni colla congettura di prima), poi per non variar
troppo dal testo che da qualche decennio è in uso nelle scuole
(Nipperdej-Dinter). Queste due ragioni non valgono molto; il
Kùbler per esser coerente avrebbe dovuto proprio riprodurre il
De Bello Gallico secondo il testo p ; ma avrebbe fatto male e
avrebbe guastato l'opera del suo predecessore Dinter anzicliè mi-
gliorarla; tutto ciò lascia capire sempre meglio l'insostenibilità
della sua congettura intorno all'origino della tradizione emenda-
trice. — Il Meusel è penetrato più addentro nello studio di questo
problema dei rapporti fra a e p, preparandovisi con accuratissime
osservazioni sulla grammatica Cesariana. Son quelle ajipunto che
— 414 —
il (lotto Berlinese ha raccolto nell'opera: Beiirage zur Kritik
des li. G. Dove cominciando da ulcnni appunti ortof^rafici, relativi
specialmente a nomi jiroprii di po])Oli e di individui fa seguire
preziose noterelle sulla morfbloffia (Jesariana, e per ultimo studia
parecchie questioni di sintassi; riservandosi in altra occasione di
render di puhhlica ragione le osservazioni da lui fatte sul Lessico
e sui passi interjìolati o lacunosi del testo di Cesare. Con questa
preparazione il Meusel è riuscito a fissare alcuni criterii per dar
la preferenza ora alla lezione a ora alla p, e qualche volta anche
per scostarsi in via congetturale e dall'una e dall'altra. In tutto
questo ha egli sem])re dato nel segno? Forse no; per es. io non
so se tutti faranno huon viso all'idea clie per essere stato Cesare
un seguace convinto dell'analogia, la sua grammatica si deva sup-
porre regolata da sì costante uniformità che gli si deva sempre
attribuire, poniamo, l'accus. plur, omnes o sempre omnis, ma non
ora l'una ora l'altra forma com'è nei codici ; e che non sia lecito
pensare come uscite dalla sua penna le forme consuerant consue-
verant mentr'egli n'avrebbe seguita costantemente una sola. Questi
doppioni morfologici non erano forse nell'uso di que' tempi, e la
scelta tra le due forme non era essa spesso suggerita da ragioni
di stile? Io per me inclino a credere che quando l'accordo dei
codici attesta indiscutibilmente una forma, questa deva ritenersi
genuina anche se nella maggior parte de' casi ne è adoperata
un'altra (1). Ma lasciando star ciò, egli è indubitato che le os-
servazioni dei Beitrage segnano un vero progresso rispetto a scio-
gliere il problema della preferenza da darsi alla tradizione a o p.
Son rimasti ancora non pochi luoghi incerti ; ma il Meusel spera
{Praef. p. ix) di poterli in seguito chiarire, e intanto dichiara di
avere in questi casi seguito la lezione a. In conseguenza di ciò, il
testo Meuseliano è regolato da criterii più sicuri e da norme più
costanti che quello del Kubler; e ne differisce poi ancora per aver
dato ospitalità a un molto maggior numero di emendamenti con-
getturali.
A dar un'idea delle differenze che vi sono fra il testo Meusel
e il testo Kubler porremo qui a riscontro i luoghi del 2° libro.
(1) 11 soverchio amore dell' unifoririità analogica ha tratto qua là il
Meusel a proposte certamente non buone. A pag. 343 dei Jahresberichte,
trattando il passo V, 48, 8 (per errore ivi è stampato V, 49, 8) : « Gallus...
ut erat praecepium, tragulam mittit. Haec casu ad turrim adìiaesit neque
ah nostris hiduo animadversa tertio die a quodam milite conspicitur,
dempta ad Ciceronem defertur », il Meusel esprime l'idea che in luogo di
adhaesit si deva leggere adhaerescit, per via di tutti quei presenti che si
seguono nel racconto cesariano. Or qui il presente adhaerescit non può stare
in nessun modo, e ci vuole proprio il perfetto adhaesit come nei codici.
Basta tradurre per avvedersene: « il Gallo, come gli era stata ordinata,
lancia Tasta. Questa per caso restò confitta (non: si configge) nella torre e
per due giorni rimasta inosservata dai nostri, solo al terzo dì vien veduta
dai nostri soldati, presa e portata a Cicerone ».
— 415 —
dov'essi divergono, con cenno della fonte a cui la lezion di cia-
scuno è attinta :
B. G. Lib. II. Meusel.
2, 6 provi sa p
3, 1 Andebrogium B^nh'"
» 2 Cum reliquis Belgis p
» » coniurasse a
4, 1 iis {ed. princ.)
» 4 sit cognoverint a
» 7 Diviciacum (P Divit.)
» 9 Atuatucos B^ p f^
» 10 Caerosos p, Orosio
» » Caemanos B^ p, Orosio
5, 4 venire [vidit], Vascosano
» fin. rauniri A
6, 2 [portas] succedunt, Kra-
ner.
» 4 praeerat, D E R
» » nuntios, ed. Aid.
7, 2 potiundi, ap
» 3 potuerant, a
8, 3 lateris, aP
10, 4 Concilio, E f^
» 5 Diviciacum atque, a
11, 3 bis, a
> 6 occasum, Meusel
13, 1 accipit, Vascosano
2 fin. neque a
14, 5 sua clementia, a
15, 4 esse adituin, p
> » iis rebus, p
17, 1 locum castris id., p
19, 5 porrecta [ac] loca a., aP
» 6 ut, a
» 7 [etiam in manibus no-
stri s], del. Paul
20, 1 [quod erat insigne... opor-
tere] signum tuba dan-
duEfi, del Aid. nep.
21, 1 quam [inj partem , del
Krauer
22, 1 diversae legiones. Ciac-
conio
23, 3 congressae, Meusel
24, 4 missi ad Caesarem, p
Kubler
comparata a
Andecombrogium (Holder)
Cum Belgis rei. a
omnino con. p
bis codd.
esset cognovissent (cognoverant P)
Devitiacum a^
Aduatucos tt
Caeroesos a
Paemanos a
venire vidit, codd.
munire, codd.
portas succendunt, codd.
praefuerat, a P
nuntiura. codd.
potiendi, Kubler
poterant p
aperti lateris, add. Kubler
Consilio, aP
Divit. quoque atque, P
ei (eique p)
occasumque, a
accepit, a p
nec, p
om. sua, p
aditum esse, a
bis r., a
locum id. castris, a
prospectus ac loca a., Scblee.
ita ut, p
senisa uncini, a p
[quod erat dandumj del. Aid.
nep.
quam in p., ap
diversis legionibus, aP
congressi, aP
ad C. missi, a
- 416 —
24
25,
4 castra | nostra] compier!, S
» (lispcrsos, Krafìert
1 ab novissimis deserto loco
proelio excedere, adicc.
Klussniaiiii
> 2 [uni] militi, del. Viellia-
ber
27, 2 piiffnando , Weissenborn
(piignant quo, a)
» 5 deberet (B^ Aid.) ausos
esse, a
3 fin. conlocabant, a
4 fin. reliquerant, ed. princ.
» fin. delerjerant, Stepb.
29,
30,
1 milium, ap
32,
3 ad silos quae, a
33,
2 partim cum (Vascos.) iis
(bis, cofld.)
34,
1 Esuvios, Wisse
35,
1 legati ad C raitterentur, p
»
3 iis locis, ed. princ.
castra coujilt.-ri nostra, p
diversos, a p
ab n. desortores proelio excedere,
Herzog
uni militi, aP
pugnae, p
debereiit (a p) ausi quod essent, f
conlocaverunt, p
reliquerunt, ap
delegerunt, a p
milium pas.suum, Kiibler
ad suos illi se quae, p
partim sumptis, Hug
Esubios, ap
mitterentur leg. ad C, a
bis locis, a p
Si vede che il Kiibler s'è attenuto ad a nell'ordine delle parole
(cfr. la sua prefaz. p. ix in calce) e nell'ortografia di certi nomi
proprii; ma rispetto a quest'ultimo punto il Meusel ha fatto ve-
dere nei Beitrcige che la tradizione p è migliore. Della preferenza
data qua e là dal Meusel alla lezione a si posson pure veder le
ragioni nei Beiirage, dove pure il Meusel confessa che in certi
passi come 27, 2 e 32, 3 egli inclinerebbe ora ad accettare la le-
zione p. Non mi ha persuaso ciò ch'egli dice relativamejite a 4, 4:
sit cognoverint ; dove la lezione buona o è esset cognoverant come
in p, 0 esset cognovissent. Invece ha certo avuto ragione adottando
la lezione ausos esse a 27, 5 ; forse starebbe anche bene : iudicari
deherent ausi esse. — La tendenza del Meusel ad ospitar con-
getture, mentre il Kiibler è piìi conservatore, si vede anche ma-
nifesta nei luoghi citati ; ma bisogna riconoscere che il M. procede
in ciò con grande avvedutezza e prudenza. Non mi persuade il
congressae di 23, 3 in luogo del congressi dei codd. che per co-
structio Kaxà auveaiv può ben spiegarsi, nonostante quel che il M.
scrive nei Beitrcige (p. 266), e a 25, 1 persisto a credere non ne-
cessaria l'aggiunta loco del Klussmann, ricordando di Liv. 21, 4:
ultimus conserto proelio excedehat. In conclusione le edizioni del
Kiibler e del Meusel son tuttedue buone, ma quella del Meusel
ispirata da criterii più precisi. S'aggiunga ancor questo che l'ap-
parato critico apposto a pie di pagina dal Meusel informa a colpo
d'occhio il lettore sulle varie lezioni dei codici, e delle congetture
ammesse indica il primo autore. Qualcosa d'analogo raccolse il
— 417 —
Kùbler da pag. xi a cxix della prefazione, ma la cosa è meno
completa.
Veniamo alla Guerra Civile del Kiibler. I codici di cui si è
servito sono quei medesimi che per il Bel. Gali, costituiscono la
famiglia p, più il noto Ashburnhamiano 33 (S) e i laurenziani
68, 8 e 68, 6 (W e V). Di S il Kiibler aveva a disposizione sua
la collazione del Meusel, di W usò una collazione, non compiuta
né in tutto diligente, dell'Helm, infine V trascurò come copia di W
(tale riconosciuta dal Meusel). Il Kiibler crede che tutti questi
codici appartengano alla famiglia p, vale a dire che tutti dipen-
dano da un solo archetipo per aver tutti le stesse lacune e gli
stessi difetti. Può esser vero quest'ultimo punto, ma non segue
che l'archetipo comune del Bellum civile sia lo stesso p del Bellum
Gallicum. Dal momento che per il Bell. Gali, i codd. S e W
appartengono alla fam. a (1), sorge da se l'idea che S e W rap-
presentino per il Bellum civ. la tradizione che troverebbesi con-
secrata nei codd. a se contenessero anche il Bell. civ. Dunque ci
sarà un archetipo comune di tutti i codici del Bellum Civ.., ma
questo, a scanso d'equivoci non si deve denominar p. Fuori di
questo particolare lo schema del Kiibler rende bene i rapporti tra
i codici esistenti ; è certa una affinità maggiore di W colla fam. p
e una cotale indipendenza di W stesso da tutto il gruppo p tt
(cfr. la mia 2* ediz. del Bel. Civ. Torino, 1894, Prefazione); come
è pur certo che S a motivo de' suoi spostamenti deriva da una
cotal guasta fonte che non è quella di tt p. Il testo del Kiibler
si attiene dunque alla miglior tradizione manoscritta, ma dovette,
naturalmente, perchè si tratta di un testo molto corrotto, acco-
gliere molte congetture. Di esse rende ragione VAdnotatio critica
da pag. XV a l. Congetture nuove propose il Kiibler stesso ed ac-
colse in una ventina di luoghi. Non sempre accettabili. A lui pare
ottima (praef. p. xiii) la variante introdotta 3, 24, 2: nostri ut
erat imperatum refugiehant, in luogo della lezione tradizionale :
nostri veterani in portum refugiehant. Certo la parola veterani
dà sospetto ; trattasi qui di due triremi poste da Antonio per
mostra all'imboccatura del porto di Brindisi. Queste triremi ag-
gredite da alcune quadriremi di Libone si ritiravano adescando
quell'altre all'inseguimento ; infatti queste quadriremi si lascia-
rono tirare in trappola e furono aggirate da molte più navi An-
toniane che le attendevano al varco. Da questo racconto si rileva
che le triremi dell'imboccatura nella loro finta ritirata non pre-
sero il largo, ma si ritirarono verso il porto. Ecco che le parole
(1) Cfr. Meusel, Praef. all'ediz. della Guerra Gallica, p. v e vi. Per il
"W cfr. anche P. Rasi, Codicis Laur. 68, 8 lectionum exemplum (in Studi
Ital. di Filol. class., voi. Ili, p. 497-509), il quale ha dimostrato, collazio-
nando il 4" libro de B. G., Tappartenen/.a di \V alla fam. a, ma non è riu-
scito, come voleva, a dimostrare che W non sia copia di B, che è ropinione
del Meusel.
Rivista di filologia, ecc., 1. 27
- 418 —
in portum refugiehani non devono essere mutate per nulla. Ki-
mane il veterani; die, se mai, potrebbe essere mutato wWut erant
lussi, proposto dal Nitzsclie (v. la tabula coniecturarum del
Meusolj; ma forse può rimanere ancbe cosi, perchè è detto a prin-
cipio del capitolo, che Antonio su quelle navi milites delectos
imposuit; or questi milites delecti potevano essere appunto vete-
rani. La variante dunque con^^^etturale del Kfibler non ha ragion
d'essere. Analogamente non mi i)ar accettabile la variante legiti-
morum 22, 1 adottata per et temporum; né 74, 2 receptis per
relictis e più altro. Ma in un lesto così difficile chi vorrà con-
dannare i tentativi di emendamento, anche se riescono a nulla?
Questo Bellum Civile del Kiibler è sempre un buon lavoro, anche
paragonato col Dinter ; e prepara l'edizione Meuseliana che ci
auguriamo non tardi a uscire alla luce.
Firenze, febbraio '95. F. Ramorino.
Aniìwlogia latina, sive Poesia Latinae Supplementum ediderunt
Frano. Buecheler et Alex. Riese. Pars Prior: Carmina in
codicihus scripta ^ ree. A. Kiese. Fasciculus I: Libri Sahna-
siani aliorumque Carmina, editio altera denuo r ecognita. Li-
psia, Teubner, 1894.
Id. id. Pars Posterior: Carmina EpigrapJiica conlegit Fr. Bù-
cheler. Fasciculus I. Lipsia, Teubner, 1895.
Dopoché Giuseppe Scaligero pubblicò primo come appendice a
Virgilio una raccolta di poesie antiche, in parte adespote, da lui
trovate in varii codici (Lugduni 1573, ripet. 1595 e 1617) e lo
seguì Pietro Piteo raccogliendo da codici e da lapidi un bel nu-
mero di epigrammi e di poemetti (Paris 1590, Lugd. 1596, Gen.
1619), è invalso l'uso di parlare di un'Antologia poetica latina
come se già in antico fosse stata messa insieme questa Silloge,
analoga all'Antologia Greca. Con questo titolo di Antologia latina
pubblicarono le stesse poesie e altre Pietro Burmanno Secondo
(Amsterdam, 1759 e 1773) e Enrico Meyer di Zurigo (Lips. 1835),
ordinandole per lo più secondo gli argomenti in esse trattati. Il
Riese e il Biicheler presero a rivedere tutto il materiale, propo-
nendosi il primo di ripubblicare le poesie dei codici, il secondo
di mettere insieme un florilegio poetico dalle iscrizioni lapidarie.
11 lavoro del Riese fu pubblicato la prima volta dal Teubner
negli anni 1869 e '70 in due volumi ; ed ora è uscito della se-
conda edizione il primo volume. 11 lavoro del Biicheler invece
- 419 -
vede ora la luce per la prima volta, e n'è uscito il primo fa-
scicolo.
Diamo un cenno dei due volumi teste usciti, cominciando da
quello del Kiese. 11 quale come siasi preparato a curare la ri-
stampa dell'opera sua si può arguire dagli articoli che pubblicò
man mano nel Jahreshericht di Biirsian, prendendo ad esame
tutte le pubblicazioni concernenti l'Antologia latina. Il volume
pubblicato ora contiene, come il volume corrispondente della prima
edizione, le poesie che trovansi nei codici più antichi, specialmente
il Salmasiano (Parisin. 10318, sec. VII o Vili in.), ma ha di
più: 1" il frammento del carme de hello Actiaco trovato in un
papiro d'Ercolano, che nell'edizione precedente per isbaglio era
stato messo nel secondo volume ; 2° un breve carme acrostico e
telestico, da un evangeliario del sec. VI-VIl che è nella biblio-
teca di Maihingen dei principi di Oettingen-Wallerstein. (Cfr.
Wattenback, Anzeige f. d. Kunde d. deutscJien Vorseit , 1869,
pag. 292); questo carme ha il numero 6 a nell'enumerazione del
Riese; 3° un inno di gioia per la cessazione della tempesta (n.388a)
da un codice di Berlino Diez. B ^C:>, sec. VIII-IX; cfr. Baehrens
in Anal. Catull. p. 77). Gli altri carmi della raccolta son qui
ripubblicati così com'erano nella prima edizione salvochè il testo
è qua e là migliorato per nuova collazione dei vecchi codici e
d'altri prima non riscontrati; e l'apparato delle varianti è stato
di molto arricchito, tenendovisi conto di parecchi lavori recenti. —
Specialmente merita esser segnalata la prefazione, la quale ripro-
duce l'antica ma con parecchie aggiunte che mettono in rilievo
lo stato attuale delle questioni relative all'Antologia latina, e spie-
gano le ragioni dell'opera. Rispetto all'ordine da assegnarsi alle
poesie dell'Antologia, il Riese fa cenno del tentativo del Baehrens
che preparando l'edizione sua dei Poctae latini minores (in G voli.,
Teubner 1879-86) e facendo suo molto del materiale dell'Anto-
logia, ne volle distribuire le poesie in ordine cronologico; tentativo
che fallì completamente perchè mancano dati sufficienti a risolvere
il problema, e il Baehrens bene spesso ha lavorato di fantasia
credendo conchiudere di raziocinio. 11 Riese ben fece ad attenersi
anche in questa 2-'' ediz. all'ordine d'età dei codici che è l'unico
criterio ragionevole. — Importantissima pure è l'analisi che il
Riese fa dell'antologia Salmasiana ; della quale, dopo un accurato
studio del codice, è riuscito a distinguere i libri in cui era di-
stribuita, molti degli autori le cui opere furono in quella accolte,
il tempo e il luogo in cui essa venne compilata che è l'età dei
Vandali in Africa, la parte perduta e la parte conservata. Anche
qui ebbe egli a confutare opinioni avventate del Baehrens e del
Peiper. 11 primo s'era indotto a credere che chi mise insieme la
Antologia fosse certo Ottaviano, giovanetto di 16 anni, autore del
carme 20, e che costui dopo aver raccolto carmi di antichi pooti,
Ovidio, Seneca, Petronio, Marziale, che sarebbe la parte perduta,
— 420 —
avrebbe fatto seguire una raccolta di poesie de' suoi contempo-
ranei; tutte supposizioni affatto gratuite. Il Peiper pure {Museo
Menano, 31, 18:}) h;i fatto la sua ipotesi circa il contenuto della
parte perduta, ma non lia potuto addur ragioni cbe la rendano
verosimile. 11 Kiese fa giustizia di tutti questi cercatori di fumo
e d'ombre e si contenta di dire intorno all'antologia Salmasiana
quello che proprio risulta verisimile dalle condizioni attuali del
testo. — In conclusione il lavoro del Kiese risponde a tutte le
esigenze della critica, ed ò quale doveva attendersi da un uomo
che ha già dato tante prove di vero valore filologico.
11 volume del Biicheler, dedicato a Kenardo Kekulé, riproduce
delle note fonti epigrafiche 840 componimenti metrici, più o meno
lunghi, a cui in appendice si aggiungono altri tredici, in tutto
dunque 859 epigrafi poetiche. Le 846 prime sono distribuite se-
condo i metri, e ripartite così: 17 in metro saturnio, 194 in senari
giambici, 5 in coliambi, 10 in dimetri giambici, 21 in settenari
trocaici, 599 in esametri dattilici. Le 13 aggiunte sono: 2 in se-
nari, 1 in dimetri giambici e 10 in esametri. Ogni epigrafe è
seguita prima dall'indicazione della fonte da cui è ricavata, e del
luogo ov'essa è stata trovata, poi da un breve commento critico
ed esegetico. Questa raccolta sarà certo accolta con plauso dagli
studiosi, perchè offre in brevi pagine e in testo accuratissimo un
materiale prezioso specialmente per la storia della grammatica,
della metrica, della poesia popolare, materiale che finora doveva
faticosamente raccogliersi da molti volumi in foglio. 11 secondo
volume conterrà certo una praefatio, nella quale il Biicheler darà
cenno dei criteri che ha seguito nella composizione di questa An-
tologia epigrafica, e così ci sarà dato modo di apprezzar meglio
l'opera sua. Per intanto basti notare che ottimo è in genere il
commento buecheleriano perchè contiene proprio quel tanto che
occorre per la dichiarazione e illustrazione di ogni epigrafe. Però
spiace allo scrivente che nel riprodurre e illustrare le epigrafi
saturnie il Biicheler non abbia tenuto nessun conto della teoria
che riconosce nel verso saturnio un antico verso ad accenti, anziché
un verso quantitativo. Volere non volere, questa teoria s'acquista
ogni dì più le simpatie dei filologi, e dopo i lavori del Lindsay,
anche lo Stolz {Hist. Gramm. d. lai. Spr. I, p. 32) l'ha accolta
con pieno assentimento come probabilissima. Affettare d'ignorarla
non è più lecito neanche al Biicheler. 11 quale se alla detta spie-
gazion del Saturnio avesse dato qualche peso, si sarebbe astenuto
dallo stampare la celebre iscrizione di L. Scipione figlio di Bar-
bato (v. p. 5) con supplementi immaginari, come quello del v. 6:
dedet tempestatehus aide mereto[d votam,
e avrebbe anche risparmiato nel commento del 2° verso:
duonoro optumo fuise viro
— 421 -
di ricordare ancora una volta la strana ipotesi del Grotefend e del
Ritschl che vollero emendare questo verso, creduto metricamente
manchevole aggiungendo la parola: viroro, e infine nel commento
del 5° verso:
Jiec cepit Corsica Aleriaque urie
non si sarebbe data la pena di ricordare il supplemento altra
volta tentato da lui stesso, coll'aggiunta impossibile della parola
clasid. Queste ricostruzioni ipotetiche di epigrafi saturnie, basate
su una teoria più che ipotetica del verso stesso, hanno fatto il
loro tempo, e il Biicheler avrebbe fatto bene a neanche farne
cenno nel suo commento.
Firenze, aprile 1895. F. R.
Salomone Piazza. Horatiana. Qidhiis temporibus Horatium tres
priores carminum lihros et priorem epistularum confecisse
atque edidisse verisimillimum sit. Venetiis, ex offic. Caroli Fer-
rari, MDCCCXCV. — pp. 133, in 8°. (Estratto dagli Atti del
JR.° Ist. Ven. di sciente, lettere ed arti. T. VI, serie VII, 1894-
1895, pp. 115-247).
Quanto sieno ardue e spinose come tutte le questioni di cro-
nologia in generale, così anche quelle che si riferiscono alle opere
di Orazio, nessuno è che non sappia. E rispetto al poeta Venosino,
prova di ciò è anche la grande quantità di monografie, per tacere
dei commenti, le quali o trattano l'argomento in universale, o
svolgono un punto o l'altro di questo, e d'altra parte il poco pro-
fitto, a giudicare dalla varietà e spesso opposizione di pareri, che
se n'è ricavato finora. Un buon contributo, lo dico subito, a questa
intricata questione è offerto, a mio avviso, dal presente lavoro,
che, per quanto si debba ad un professore giovane, fa bella testi-
monianza della sua maturità d'ingegno e della sua erudizione non
disgiunta anche da una certa genialità e originalità di vedute.
Se l'ordine generale della trattazione lascia talora un poco a de-
siderare e se un index rerum non sarebbe stato fuori di posto,
anzi molto avrebbe giovato per un più facile orientamento, è pur
dovere di riconoscere, che le singole questioni sotto ai rispettivi
capitoli sono svolte con chiarezza e con un metodo non comune
di sana critica. È ovvio il soggiungere che non tutte le odi ed
epistole dei libri indicati formano materia della disputa: hanno
soltanto una compiuta trattazione quelle odi che piìi da vicino
riguardano il nodo della questione e rispetto alle quali dalle con-
— 422 —
clusioni che si ricavano si può anche giudicare indirettamente
della data di composizione delle altre poesie (odi ed epistole) e
conchiudere quindi intorno alla pubMicazione dei libri stessi; al-
cune poi, come ò noto, non sono soggette sotto questo rispetto a
nessun dubbio, anzi servono come fondamento o pietra di paragone
nella difficile ricerca. Le odi esaminate particolarmente sono le
seguenti e con questo ordine: 1, 2 (pp. I0-28Ì, li, 9 (pp. 29-35),
111, r, (pp. 35-40), 1, 20; HI, 8; II, 13; 17 (pp. 47-50), 111, 3
(pp. 50-59), 111, 29 (pp. 59-01), 1, 21 (pp. 01-03), 1, 7 (pp. 04-
07), 1, 12 (pp. 07-71), I, 3 (pp. 72-91). Seguono indi i due ca-
pitoli speciali: Utrum tres priores Horatianorum carrniniim lihri
uno eodemque tempore an sejìaratiìu in lucem editi sint (pp. 92-97)
e Quihus temporibus tres priores Horatianorum carminum lihri
atque prior epistularum confecti et ]mhlici iuris facti sint
(pp. 98-131), oltre l'indice della bibliografia (pp. 132-133).
Le difficoltà relative alla determinazione di una sicura crono-
logia oraziana dipendono principalmente, come bene osserva l'A.,
da una triplice specie di fatti, cioè, dallo scarso numero di quelle
poesie, dalle quali risulti con certezza il tempo in cui furono scritte,
dalla successione cronologicamente erronea, con cui le opere di Orazio
sono tramandate nei codici, dove il criterio della distribuzione è
arbitrario e di natura piuttosto metrica, e finalmente dalle poche
testimonianze lasciateci in proposito dagli antichi biografi e com-
mentatori. La pili importante notizia per questo riguardo è quella
fornitaci da Svetonio e confermata dagli scoliasti, che, cioè, Orazio
ha aggiunto, per esortazione di Augusto, ai tre primi libri delle
odi il quarto dopo lungo intervallo, e che il 2" libro delle
epistole è posteriore al 1", senza però l'indicazione del lasso di
tempo fra un libro e l'altro.
Le questioni cronologiche dei carmi oraziani furono per lunga
età neglette dai dotti; poi, cominciate specialmente dai Francesi,
ebbero una migliore trattazione dall'olandese Giovanni Masson, il
quale, come i suoi predecessori, rivolse principalmente le sue cure
allo studio degli accenni storici e biografici contenuti nelle sin-
gole poesie, per poterne ricavare la data della loro composizione.
Questo metodo fu impugnato e deriso dall'inglese Riccardo Bentley,
il quale, considerando come sciupio di tempo e d'ingegno una
simile ricerca, disse, che quei dotti « in operis summa totoque
constituendo rem adraodum infeliciter gesserunt », avendo essi
trascurato di far quello che invece, secondo lui, si doveva fare,
cioè, stabilire gli anni della pubblicazione dei libri. E forte di
questa sua opinione (dall'A. a ragione contraddetta, perchè meglio
certo si potrà giudicare del tutto, quando prima se ne sieno stu-
diate le singole parti), fissò molto arbitrariamente, come barriere
insormontabili, i termini di tempo entro cui si dovessero porre i
libri oraziani. 11 verbo bentleyano fu accettato, si può dire, senza
discussione ed ebbe pieno valore fino alla comparsa dei celeber-
— 423 —
rimi Fasti Horatiani di Carlo Frante, coi quali cominciò, e per
la massima parte dura ancora, una nuova èra della cronologia
oraziana. Tuttavia anche il Franke ebbe, specialmente ai giorni
nostri, i suoi oppositori, fra i quali Guglielmo Christ. E nomino
questo perchè certo egli è uno dei piti forti avversari di lui e
anche perchè una buona parte del lavoro, di cui ora ci occupiamo,
mira ad oppugnare i calcoli del Christ e a difendere quelli del
Franke. Esaminate dunque le tredici odi indicate sopra, la tesi
sostenuta e dimostrata dall'A. è che nessuna di queste appartiene
ad un'età posteriore all'anno 731, che è pure il limite estremo
assegnato dal Franke alla pubblicazione dei tre primi libri (1).
Accettata poi l'opinione di quelli che vogliono non successiva ma
simultanea la edizione di tutti e tre questi libri, fissa, seguendo
anche in questo il Franke, la pubblicazione del l** delle epistole
all'anno 734, ben comprovando come in tal caso si abbia più di
un triennio dedicato da Orazio esclusivamente alle epistole, mentre
ammesso il 735 o 736 come la data della pubblicazione delle odi,
bisognerebbe pure di necessità ammettere che Orazio avesse atteso
a scrivere contemporaneamente e odi ed epistole.
Non è ora mio disegno di seguire l'A. in tutte le sue dimo-
strazioni, né, dall'altra parte, i confini imposti a questa mia re-
ceBsione, lo permetterebbero. Dirò solo che l'A. procede nel suo
ragionamento con fine e giudizioso criterio e che quantunque ac-
cetti nella loro generalità, confortandole bene spesso con nuovi
argomenti, le conclusioni finali del Franke, tuttavia alle volte
anche se ne allontana in qualche particolare. Una delle parti del
lavoro, che a me sembrano meglio svolte e dove più originali ap-
paiono i risultati, è quella che riguarda la data di composizione
dell'ode I, 3. Universalmente quest'ode è considerata come un
propempiicon al viaggio virgiliano del 735, viaggio confermato
da Donato nella Vita di Virgilio e dagli antichi scoliasti. Ma qui
insorge subito un dubbio: come mai quest'ode sola sarebbe del
735, mentre gravi argomenti confermano che nessun'altra dei tre
primi libri è posteriore al 731 e che la silloge di questi fu pu b-
blicata ben prima del 735 ? Per ovviare a questa difficoltà, il
Lachmann, a cagion d'esempio, pensò che non si trattasse ivi del
(1) L'argomento principale del Franke è ricavato àdWEpist. 1, 13, nella
quale si raccomanda ad un Vinnio di consegnare con bel garbo un esem-
plare delle odi ad Augusto : siccome i)oi è storicamente provato che Au-
gusto fu assente dall'Italia dallautunno del 732 all'autunno del 735, così
l'ipotesi del Franke, suffragata da altri argomenti, è che Orazio abbia rac-
colte le suo odi nel 731 e ne abbia inviato una copia ad Augusto prima
ch'egli partisse por l'Oriente. Altri invece , come il Gampe, l'Anspach, il
Christ, ecc., pongono la silloge di quelle odi e la consegna ad Augusto nel
735 0 736, dopo, cioè, il suo ritorno dall'Oriente : onde essi sono anche co-
stretti a spostare l'anno della pubblicazione del 1» dello Epistole dal 734 al
735 0 736.
— 424 —
poeta mantovano, ma di un altro Virgilio qualunque, il Franke
invece volle sostituire Quinctilium là dove si le^fre Vergilium.
Kibaltiite bene queste strane e arbitrarie cont^etture, l'A., che a
raf^ione non dubita della notizia antica, dice che a togliere la
difficoltà non rimangono che due ipotesi : o che l'ode scritta bensì
nel 735 sia stata aggiunta alla raccolta già prima pubblicata, o
che si debba riferire ad un altro viaggio in Grecia compiuto an-
teriormente dal poeta. Dimostrata (juindi con buoni argomenti la
poca verosimiglianza della prima ipotesi, l'A. si attiene alla se-
conda, la quale egli difende con ragioni se non del tutto incon-
trastabili e, come si dice, esaurienti e definitive, certo assai forti
e plausibili. Soltanto osservo che non sembra molto convincente
l'argomento ch'egli riferisce per provare insostenibile (come io
pure credo) la data del 735, cioè, che in quell'ode non v'ha cenno
alcuno deWEneide, che tanta aspettazione suscitava di sé, e la
correzione della quale era lo scopo precipuo del viaggio di Vir-
gilio. Argomento questo negativo e quindi di poco peso, come in
generale tutti quelli dedotti dal silenzio, giacché non è ragionevole
dimandar conto ad uno scrittore, massime ad un poeta, di quello
che non ha detto o non ha voluto dire. E tanto meno di questa
prova dovea valersi il Piazza in quanto che egli poco prima
aveva, e, a mio giudizio, rettamente, oppugnata una consimile
ragione del Franke, il quale a negare la pubblicazione di quei
libri nel 735, avea pure addotto un argomento negativo, cioè, il
silenzio, che poteva esser tolto o con l'aggiunta di qualche ac-
cenno nell'ode o con l'inserzione di un nuovo carme nella silloge,
della morte di Virgilio avvenuta in quell'anno. Ancora, a me
sembra che troppo cerchi di volerne sapere il Piazza, quando, per
es., a proposito dell'ode diretta a Fianco (I, 7) si affanna a ri-
cercare le cause della tristezza di luì.
La lingua e lo stile di questo opuscolo sono da dirsi in gene-
rale buoni; è un latino per la massima parte piano, corretto, per-
spicuo, e quasi sempre giusto e sostenuto è il giro del periodo.
E ancor più sarebbe da lodare se talora non offendessero certe
parole di bassa latinità e certe forme e costruzioni che facilmente
potevano essere sostituite dalle classiche. Perchè, per es., non schi-
vare la forma ablativa in i del comparativo (p. 10; 15; 86: ecc.),
perchè usare così spesso Nosfer o 2^oeta (p. 38; 63; 48; ecc.) ri-
ferendosi ad una persona nominata innanzi, perchè adoperare ideo,
ideoque (p. 59 ; 95; ecc.) con valore conclusivo, o la frase teste o
auciore aliquo (nel senso di per testimonianza di) non unita ad
un verbo di asserzione ? E infatti, per esempio, la proposizione
Franliio et Duentzero auctorihus Carmen compositiim est ecc.
(p. 62) nient'altro significherebbe in buon latino se non questo :
per istigazione od esortazione di F. e D. il carme fu com-
posto ecc. E così pure da fuggirsi erano le locuzioni in universum
(p. 1), re vera (per namque, ecc.; p. 4), unice (nel senso di so-
— 425 —
lamente; p. 11), circumspecte (p. 22), saltem (meglio certe] p. 25),
multi (per magni, con aestimo; p. 38), ecc. (1).
Ma queste sono pure inezie in confronto dei veri e non pochi
pregi contenuti nel libro, il quale, ripeto, molto onora il giovine
autore ed è bella promessa, anzi arra sicura di frutti ancor mag-
giori del suo ingegno, della sua operosità e della sua dottrina.
Pavia, maggio 1895.
Pietro Rasi.
Qua ratione traditum sit M. TulUum Ciceronem Lucretii Car-
minis Emendatorem fuisse^ disputavit Georgius Castellani.
Venetiis, Visentini, pp. 19.
È ripresa in esame la quistione dell'autenticità della notizia
data da S. Girolamo (v. Teuffel-Schwabe^ 203, 1, p. 401 sq.).
La conclusione è negativa : la notizia rimonterebbe bensì a Sve-
tonio, ma sarebbe nata da una pura supposizione. Il traduttore di
(1) Trattanaosi specialmente del lavoro di un giovane, credo opportuno
di rilevare qui in nota qualche altra inesattezza od improprietà : evidenter
troppo spesso usato (p. 17; 33; 48; ecc.). insum col dat. (p. 41), false (per
falso ; p. 43), fortissimae rationes (p. 72 e 124), extemporalitas (p. 76),
praeconcepta opimo (p. 84), adolere (per comburere; p. 87), pepigisse (per
panxisse, trattandosi di un carnieri; p. 88 e 96), nemine (p. 95), quanivis
(per etsi o quamquam; p. 97 e 121), pedisseque (il quale avverbio, a ta-
cere della forma con doppio s, non esiste in latino), ecc. Quanto alla grafìa,
per la quale FA. ha adottato il metodo più razionale e sicuro, egli avrebbe
fatto bene ad evitare anche, p. es., la forma negligere (p. 77) e intelligere,
che usa più d'una volta (p. 20; 58; 120; ecc.), quantunque a p. 123 adoperi
la forma giusta {intellegitnr), né avrebbe dovuto scrivere certi aggettivi
con lettera iniziale minuscola, come horatianus (p. 7) e atticus (p. 105).
Perchè poi a p. 55 dice Cassius Dio e scrive poche righe più sotto Dio
Cassius { Ancora, per maggiore correttezza grammaticale doveva porre sunt
0 (se s'intende la proposizione intimaniente collegata con la principale) es-
serli in luogo di sint a p. 3, aggiungere il soggetto eam ad exaratam esse
a p. 64, dire usurparetur e non nsurpetiir a p. 34, sentirei e non senserit
a p. 98, unire il quippe con una cong. o col pron. relat. al modo congiunt.
a p. 103, nò avrebbe dovuto usare Vinquit nel disc, indir, (p. HO), né Vac
davanti a vocale (in che erra spesso, come a p. 26; 33; 62; ecc.). Cosi pure
avrebbe bene evitato le chiuse esametriche ' praeposnisse invabit' (p. 67) e
"ad rem \^ov\A.nentia praemisisse iuvabit' (p. 99), o il cumulo degli ablativi
in ' amicitiae eum vinculis cwn homine infido atque cortice leoiore con-
iunctum' ecc. (p. 131). Alle mende tipografiche indicate nei Corrigenda sa-
rebbero da aggiungere ieiuniam (p. 3), adcomodatxm (p. 22; spiace che
questo errore ricorra altre due volte; p. 67; 85), convinicnbant {-^.'id), fùr
einem. (p. 47), potes (per potest, p. 67), Riheckius (p. 79 e 90), e altre di
minor conto.
— 426 -
Arato sarebbe stato cioè ritenuto comò l'uomo più adatto ad emen-
dare un poema scientifico e l'imitazione di luot,'hi daiV Arutea
tulliana in Lucrezio avrebbe avvalorata questa ipotesi. Il Castel-
lani non ci dice, se da Svetonio pure lia avuta ori^^ine la notizia
della pazzia e dell'infelice morte del poeta; notizia cb'egli ri^^etta
come insussistente, senza alcun riguardo alla nota dello Schwabe
(1. e.) cbe sembra a lui sconosciuta (1).
In p^enerale la dissertazione non dà prova di straordinarie attitu-
dini alla ricerca filologica, né di cultura molto vasta; il cbe del
resto non fo meraviglia in un giovine, die ora è alle sue prime
armi. Le osservazioni originali mancano, l'argomentazione è ancora
fiacca e non riesce a convincere ; spesso a}»parisce evidente lo sforzo
di raggiungere la verità, andandole dietro senza mezzi adatti.
Una prova di ingenuità (di cui del resto, come si vede dalla nota 3,
non è responsabile interamente il giovine filologo) è nelle parole
seguenti (p. 8) che riguardano il tanto discusso luogo dell'epistola
tulliana ad Q. fr. 2, 9, 3: « ...nos codicum lectionem sequi malumus;
nam liaud obliti sumus verbum « ars» significare « praeceptionem,
quae dat certam viam rationemque faciendi aliquid » (Forcellini,
V. ars). Cicero igitur, nostra sententia, censuit multa esse in
Lucretii Carmine lumina ingenii, multam etiam artera, id est
multa praecepta, et revera Lucretius scientiae notiones, rerum
denique naturam et discipliuam patefacere cupit, adeo ut ingenio
iure opposuerit Cicero artem ».
Queste parole, sulle quali non è necessario fermarsi, danno anche
un saggio del latino, non molto chiaro ne corretto, in cui la dis-
sertazione è scritta. Non vi mancano espressioni equivoche come
« Catulhim imitatura esse Lucretium » (p. 3, n. 1), « Lachmann
sententiam amplexus est Bernhardy » (p. 4); italianismi come «sec-
tatorem in L Voltjer (sic) ...Lachmann invenit » (p. 5), « munus
exercuisse » (p. 6); parole usate contro senso come il « nuper » a
p. 11, che dovrebbe significare «paulo ante scriptam epistulam » (!),
e finalmente falsi costrutti come « nulli fundamento innituntur »
(pag. 15), ove vi si sarebbe tentati di credere ad un errore di
stampa, se la frase non ricorresse un'altra volta poco avanti (p. 12).
Ho notato inoltre alcune violazioni delle regole elementari sull'uso
dei modi e dei tempi e sulla consecutio temporum. Ma invece di
riportarle qui, preferisco augurare al Castellani che con la sua
buona volontà si liberi presto dei difetti accennati, e ci presenti
frutti più maturi del suo ingegno e dei suoi studi.
NiccoLA Festa.
(1) Non poteva poi conoscere le notizie comunicate da J. Masson neir-4cfl-
demy (1894, n°1155); cfr. C. Radinger in Berliner philol. Wocìienschr.,
1894, p. 1244-1248.
- 427
T. LuCRETi Cari, Be Eerum Natura libri VI. Edidit Adolphus
Brieger. — Lipsia, Teubner 1894, pagg. lxxxit-206.
Nel n° 4 del Bollettino di Filologia Classica ho già dato il
saluto a questa nuova edizione di Lucrezio, e ne ho segnalata la
importanza. Dicevo dei meriti insigni che il Lachmann, anzitutto,
e poi il Bernays e il Munro s'acquistarono per la critica e l'in-
telligenza di Lucrezio; ma notavo insieme come per due rispetti
fosse manchevole la critica lucreziana di quel periodo ; vale a
dire: per una scarsa conoscenza della dottrina filosofica di cui Lu-
crezio si è fatto banditore, e per uno scarso riguardo, nella trat-
tazione critica del testo, alla particolare condizione dei codici fon-
damentali e dell'archetipo onde derivano — per quanto sia merito
del Lachmann d'avere ben compresa e ben determinata questa
condizione. E notavo poi, come la edizione del Brieger, che rias-
sume e depura il lavoro critico di parecchi lustri sotto quei due
aspetti (lavoro critico di cui il Brieger stesso fu magna pars),
segni un nuovo periodo di edizioni lucreziane.
Con questo giudizio potrà parere che non s'accordi bene il nu-
mero non esiguo di passi, intorno ai quali, come si vedrà, io non
consento pienamente colla recensione del Brieger. Ma è un disac-
cordo apparente. Sono appunto i nuovi criteri a cui l'opera del
Brieger si informa — criteri che costituiscono un riconoscimento
chiaro e ben determinato della condizione del testo lucreziano —
sono essi che provocano, o meglio ci fanno sentire un gran nu-
mero di nuove incertezze intorno ai veri pensieri e intendimenti
e procedimenti del poeta. Le imperfezioni del testo lucreziano,
quale ci è pervenuto nei codici leidensi, non sono che nella minor
parte imputabili alla tradizione stessa diplomatica; per la mag-
gior parte risalgono alla prima pubblicazione del poema e al ma-
noscritto stesso di Lucrezio, quale venne nelle mani di Cicerone.
Questo manoscritto era in uno stato di gran disordine. Il poeta,
morendo, aveva lasciata l'opera sua compiuta all'ingrosso, ma in
nessuna parte condotta alla sua forma definitiva. Anche nella prima
composizione, egli aveva bensì lavorato dietro un piano generale già
stabilito, ma non aveva lavorato di seguito : e ciò va inteso non solo
nel senso che il suo lavoro possa essere stato interrotto da periodi
di insania, ma sopratutto in quanto egli, di frequente, trattava
singole parti isolatamente, senza curarsi, provvisoriamente, di tutti
i necessari collegamenti, lasciandole anche talora incompiute o
parzialmente appena abbozzate. Lungo il lavoro, poi, ritornava ri-
petutamente su parti giù trattate, ora rifacendo in diversa forma
qualche paragrafo o particella di paragrafo, ora facondo delle ag-
giunte, anche ({ueste talora messe giù come abbozzo provvisorio;
— 428 —
e amico com'era del ripetere certe espressioni o formole o versi
0 complessi di versi, che f,Mi paressero particolarmente etlìcaci per
concetto o per poetica bellezza, introduceva anche, o scriveva in
margine per una futura introduzione, di codeste ripetizioni in
parti f,nà scritte. Chi, morto Lucrezio, ebbe l'ufficio di procurare
la edizione del poema (Ciceronf! stosso o la persona alla (ju;ile
Cicerone l'affidò di seconda mano) non s'arrogò il diritto di met-
tere online in (|uel disordine, sceverando ciò che era da sceverare
e colhigando con opportuni collegamenti; ma si tenne contento,
molto lìrobabilmente, di pubblicare integralmente il manoscritto
lucreziano, inserendo le aggiunte e correzioni e ripetizioni mar-
ginali al posto indicato, se era ben indicato, o li vicino dove pa-
reva dovessero andare. E che in siltatta condizione di cose occor-
ressero omissioni qua e là già nel manoscritto stesso del poeta, e
altre per inavvertenza se ne aggiungessero nella prima o nelle
prime edizioni, si comjirende facilmente.
A tutto ciò pertanto un editore e un interprete moderno di
Lucrezio deve aver l'occhio molto attento; e mentre la sua critica
deve andar molto guardinga quando si tratta di mutazioni nelle
parole, e sopratutto essere in gran sospetto quando si tratti di
molteplici mutazioni e tra loro collegate (come più volte ha op-
portunamente inculcato il Brieger ; il quale, già fin dal principio
più cauto de' suoi predecessori, è andato via via piuttosto restrin-
gendo che allargando il numero delle sue mutazioni congetturali);
d'altra parte può e deve sentirsi assai meno legata dall'autorità
dei codici quando si tratta di ordine e continuità ; deve indagare
le lacune, le trasposizioni, le aggiunte, le doppie redazioni, rin-
tracciando il filo del pensiero lucreziano, e i collegamenti natu-
rali, sia logici che formali. Ben inteso che in quest'opera la critica
non mira già a costituire un testo più seguito o ordinato o depurato
di quello lasciato da Lucrezio; mira, anzi, a ricondurre il testo il
più che sia ora possibile a quella condizione in cui l'ha lasciato il
poeta. Deve quindi non già colmar le lacune, o, peggio, ricucirle
(come troppo spesso fa il Lachraann) con accomodamenti delle
parole tradizionali ; deve indicare, ma non certo sopprimere, le
aggiunte che riescono intruse e interrompenti la continuità del
discorso, e similmente le redazioni doppie; deve riordinare là dove
le trasposizioni appaiono avvenute per colpa di editori e copisti,
contro l'intenzione chiara del poeta; deve rispettare tutte quelle
ripetizioni che non appariscano interpolate da altri che dal poeta
stesso.
E si comprende come con questa indagine si connetta stretta-
mente l'altra che mira a penetrar più addentro nella dottrina
epicurea, a ben determinarla nelle singole parti, a intendere anche
ciò che nella esposizione poetica di Lucrezio talora è sottinteso,
talora è velato. A parte il guadagno diretto che ne ridonda per
la storia della filosofia, ciò è necessario per formarsi un concetto
- 429 —
adeguato dei rapporti tra Epicuro e Lucrezio, per arrivare ad una
interpretazione più sicura di questo ; ed è quindi un criterio non
rare volte indispensabile per la discussione stessa del testo lucre-
ziano. Ond'è che i lavori anteriori, principalmente del Brieger
stesso, intesi a schiarire diversi punti della dottrina epicurea, fu-
rono anch'essi una preparazione importante alla nuova edizione.
Ma se questa è la via giusta, è però tutt'altro che una via
piana e ben segnata. Quando così spesso si tratta di arrivare alle
intenzioni del poeta, è ben naturale che i dubbi sorgano frequenti,
e non si lascino così facilmente dissipare; è naturale che criteri
subbiettivi entrino in gioco molto piti che non si desidererebbe,
e che i dissensi non sieno rari anche tra quelli che sono piena-
mente d'accordo circa i criteri fondamentali e di metodo. Ecco
perchè dicevo che, al mio giudizio che questa edizione segna un
grande progresso della critica lucreziana, non contraddice il fatto
che in non pochi punti particolari non potrò consentire col pen-
siero del Brieger. Ma posso, e devo anzi dichiarare, che sopra-
tutto dal Brieger — del quale sono stato per parecchi anni, per
dir così, scolaro a sua insaputa — ho appreso a trattar l'armi
della discussione lucreziana, a conoscerne e sentirne le varie e
speciali esigenze. Il Brieger, che di Lucrezio ha fatto il campo
prediletto e costante de' suoi studi, e che v'apporta, oltre la dot-
trina e l'acume dell'ingegno, uno spirito di serena obbiettività e
di una molto cortese imparzialità, conosce quel campo e lo do-
mina come nessun altro, e senza una esclusività di indirizzo e di
scopo, che precisamente per Lucrezio non potrebbe non riuscire
di danno.
Ma entriamo, che è tempo, nell'esame particolareggiato dell'e-
dizione, specie di quei punti in che essa si stacca dalle tre edi-
zioni Lachmann, Bernays, Munro. Credo che a far meglio spiccare
il carattere dell'insieme giovi raccogliere la materia sotto diversi
capi : lacune, trasposizioni, eliminazioni (assolute o relative), e va-
rianti lezioni; una divisione che, naturalmente, non potrà essere
rigorosa, molte volte intrecciandosi le diverse questioni.
E cominciamo dalle lacune. Queste sono un tratto caratteristico
dell'edizione del Brieger, come già dice il fatto che il Lachra.
ne ha 8, 16 il Bern., 29 il Munro e il Brieger non meno di 70.
Nel che, se molte volte è da riconoscere il fiuto fine e il prudente
senso conservatore, in parecchi casi pare che la tendenza trascini
l'editore troppo oltre. Esaminiamo le più importanti (1).
Libro 1. — La lacuna dopo 43 (espunti per comun consenso
44-49 = Il 646-651) è evidente, e già riconosciuta, perchè ciò
che segue richiede un precedente vocativo « o Memmio ». Solo
(1) Per ragione di semplicità cito sempre i versi secondo la numerazione del
Bern., che del resto è segnata anche nell'edizione del Brieger. Devo pre-
gare il paziente lettore di tener sotto gli occhi il testo del poeta.
— 430 —
che, se si accetta, tra i molti proposti, il riordinamento del proemio
proposto dallo stesso ìlrìafrar (Fhiìol. XXlli), ciot- l.'*>(VM5-+-r>0-(n
dopo 79, la lacuna andrehl)c piuttosto avanti 80. La proposta fu
combattuta, tanto che il Brie},'er stesso pare v'abbia rinunciato,
e si contenta di mettere quei due brani tra || || , come distur-
banti il Carmen continuum; ma non vi rinuncio io, e solo per non
dilungarmi non mi fermo (|ui a mostrare e la bontà della pro-
posta, e che né 50-')! nò l;}()-145 vanno esclusi, e che la appa-
rente necessità che 80 segua immediatamente 79 non è, appunto,
che apparente.
Per la lacuna dopo 189, v. Boll, di Filai, ci, n" 7, p. 151. La
lacuna non va, perchè crescentes ripiglia il crescunt, e per ciò
appunto doveva anche stare al principio del verso, dove crescentia
non può stare. La sconcordanza (con omnia) si giustifica dunque
allo stesso modo come il lirieger stesso giustifica 50 sg. res
eadem perempta per la difficoltà di mettere nel verso easdem, pe-
remptas.
Sta bene la lacuna dopo 524 (cfr. 1009 sg.). A rigore non sa-
rebbe impossibile intendere corpus inani distinctum = corpus
inani et inane corpore distinctum; ma oltre che distinctum, come
osserva il Tohte, è appropriato per inane corpore e non egual-
mente per corpus inani, c'è anche la necessità di dover leggere
distinctumst. C'è dunque la lacuna; e solamente non vedo la ne-
cessità, data la lacuna, di pur aggiungere Yest in 525, come fa il
Brieger.
599 * 600 evidente, e già del Munro. — Invece non per-
suade 840 * 841 ignihus exiguis (per mss. ignibus ex ignis). La
lacuna si complica con una, sia pur materialmente lievissima,
mutazione del testo. Che dei quattro elementi non sieno nominati
che tre, qui non ha alcuna importanza, e tre soli sono pur no-
minati (non i' medesimi tre) in 453, un verso che molto giusta-
mente il Brieger difende e conserva, e che richiama questi. Il
pi. ignis, in confronto di viscus, sanguen, aurum, ierram, umorem,
è spiegato dal bisogno o desiderio di evitare ignem umorem; è
ben plur. anche ossa, per una sua ragione speciale. NotaTanche, che
colle lez. del Brg. l'ultimo termine della enumerazione viene in-
concinnamente strozzato entro un mezzo verso, ed esso solo resta
senza una espressione della piccolezza : desinit in piscem
881 sg. legge il Brg.:
conveniebat enim fruges quoque saepe, minaci
robore cum saxi franguntur, mittere signum
sanguinis aut aliquid, nostro quae corpore aluntur.
il . .
cum lapidi lapidera terimus manare cruorem. ||
ossia considera 884 come frammento di una più antica redazione
dei precedenti. Io lascio il testo come è, e non ci vedo alcuna
— 431 —
ripetizione, ma bensì un accenno al doppio grado di macinazione
che usavano. Quando il catiUus, con un certo congegno, era te-
nuto alquanto sospeso e quindi la sua interna superficie alquanto
discosta dalla superficie della meta (ciò dice appunto minaci ro-
hore saxi), il grano non era polverizzato, ma piuttosto triturato
(franguntur); quando invece il catillus era addossato alla meta e
girava sfregandola {cum lapidi lapidem terimus), allora il grano
era ridotto in finissima farina. Or bene, Lucrezio dice, che nel
primo caso dovremmo veder il grano mittere signum sanguinis,
nel secondo caso dovremmo vedere addirittura manare cruorem.
921 * 922 dà il Brieger stesso come mera congettura.
Benissimo 1013 * 1014.
Ha molto per sé la lacuna (anche del M.) dopo 1084. Però
non sarà da intendervi col Munro et qtiae de supero in terras
mittimtur ut imhres, perchè non mi par probabile un amplia-
mento di tre versi aggiunto a corpora liquoris, mentre corpora
terrarum resterebbe lì asciutto asciutto. Ma quasi fa difficoltà,
perchè mare e fiumi continentur effettivamente dalla terra; e urta
anche terreno corpore per il semplice terra. Propendo ancora a
intendere, come una volta il Brieger, che quae quasi terreno corpore
continentur significhi le cose che non si possono proprio dir terree
(metalli, legni ecc.), ma che solevano assegnarsi, tra i quattro
elementi, alla terra. Allora, non lacuna, ma 1086 avanti 1085.
Il II libro è forse quello dove più abbondano i guasti di
questo genere. Il Brg. trova già una lacuna tra 43 e 43'' {ornatas...
e fervere cum videas classem...)-, ma non vedo una chiara ragione.
La lacuna c'è di certo nei mss., poiché non hanno 143*^, salvatoci
da Nonio ; ma nulla prova che nei mss. manchi di più d'un verso ;
anzi il Q (il quadrato) omettendo anche i due versi precedenti,
e lasciando uno spazio vuoto per tre versi, sta contro un tal so-
spetto.
Neppure consento circa 105 :
paucula. quae porro magnum per inane profundum
e nella lac. forse : *
{praedita corporihus mage levibus atque rotundis)
cetera dissiliunt etc.
Paucula sarebbero i pochi metalli noti a Lucr., oltre il ferro ;
ma cetera de genere horum (104) sono tutti i corpi solidi, oltre
macigni e ferri. E non basta dire che magnum per inane vagari
è irreleitend come per inane profundum 96 ; gli atomi tutti va-
gantur per inane, anche i conciliati; epperò l'espressione sta bene
in 96, dove ancora si parla degli atomi tutti e solo due versi
dopo si passa bruscamente ai soli conciliati; ma in 105 non può
intendersi che il magnum inane extramondano (cfr. anche porro
«d'altra parte»). Io invece metto \Q'2 {paucula quae porro etc.)
tra II II , come variante lucreziana di 109, e intendo paucula
— 432 —
'< rari, dispersi, isolati »; cfr. IV, 09 Corpora multa minuta iaci
qtiae possint ordine eodeni quo fuerint et formai servare fìyuram,
et multo citius quanto minus indupediri pauca queunt\ qui è
evidente che l'esser pochi non conta per il formam servare (e del
resto son multa), conta bensì la rarezza.
Benissimo la lacuna dopo 105. L'hanno anche L. M. ma non
la colmano l)eno. 11 jioeta aveva jìromesso, 02 sjr^., di spiegare non
solo i moti atomici, ma anclio come (|uesti moti atomici varias res
gignant atque resolvant ; di quest'ultima sjtiec^'azione appunto non
è rimasto che il frammento 10(5, 107. Infatti cantra haec (105)
con ciò che segue, ha pieno senso rispetto a una dimostrazione
come la supposta, non ha senso se si riferisce alla semplice de-
scrizione dei moti.
Bella ed evidente è anche la lacuna briejreriana dopo 880; è
uno dei casi, non pochi, a cui alludevo Boll, di FU. ci. n" 7,
p. 154, nei quali un po' di meditazione sulla concatenazione lo-
gica mostra quanto sia fuorviante il ristabilire una concatena-
zione esteriore con mutazioni del testo. Son del pari decisamente
da approvare 401 * 402 (v. Boll. FU. ci, 1. e, p. 152), 405 *
406, e la lacuna avanti 478, che conteneva la prova del limite
di grandezza degli atomi, alla quale accenna 499, e dopo la
quale Lucrezio poteva ben dire : 478 quod quoniam docui pergam
conectere rem quae ex hoc aptam fidem ducat, primordin rerum
finita variare fgurarum ratione, mentre non poteva dir ciò in
relazione a 444-477. — Anche * 500 è evidente. Manca l'enun-
ciazione del nuovo argomento; chi legge in L. Bern. M. riceve
l'impressione falsa che seguano ancora esempi per la argomenta-
zione precedente, mentre ora non si tratta più di limiti di gran-
dezza, ma di limiti qualitativi. Io credo col M. anche a una nuova
lacuna dopo 501, e non credo alle violente mutazioni del Bern.
cauda e cacca per aurea e saecla, che il Brg. adotta, senza però
avvertircene nei Prolegomena, p. xlv. — Accetterei la lacuna 528 *
529 se non fosse collegata con una mutazione del testo, ostendi per
ostendam. Preferisco la semplice correzione del M. ostendens (che
più facilmente di ostendi potè corrompersi in ostendam), e mette
tutto a posto. Sarà « parum elegans » ; ma neppure probavi
(...cum...) ostendi riesce soddisfacente. — Bene 719 * 720. —
Anche la restituzione di 748 al posto tradizionale, e quindi 747
* 749 è ciò che vuole una critica prudente; e lo stesso si dica
della conservata lezione et omnis 749, e quindi lacuna. Le ragioni
che il Brg. oppone alla solita emendazione in omnis son forse un
po' sottili, e non varrebbero contro un in omnis mss.; ma valgono
contro una lezione congetturale.
Il Brg. vuole una lacuna avanti 788, dove sia detta la causa
che inlicit ad attribuire colore ai principia. Non credo. Per me
788 sgg. sono in istretto rapporto con ciò che precede, e da un
tal rapporto risulta naturalmente (cfr. anche 730 sgg.) che la ra-
- 433 —
gione che inlicit è la così comune esperienza di cose che, per
quanto sminuzzate, mostrano sempre lo stesso colore ; e il poeta
dice: che vale questa ragione, dal momento che si ammette anche,
come nel caso dell'onde or cerulee or bianche, potere ex alhis non
alba creavi (790) ? Ex aìhis, ex nigris, cioè principiis. Quoniam
(790) ha lo stesso valore come I, 581. — A ragione è accettata
la lacuna del Christ dopo 903; ed evidente è anche quella che il
Brg. mette dopo 1071 ; che Lucr. ha prima enumerate tre cause
(1067 sgg.), e qui, nella ripetizione, manca la seconda (ìocus).
Nel III libro son più frequenti i miei dubbi sulle lacune
briegeriane. Legge 297 || * 298 '|, cioè 298 come residuo d'un'antica
redazione almeno in due versi, a cui Lucr. avrebbe sostituito 297.
Si vede la ragione: la tautologia e il doppio pectora, jìectore. È
possibile; ma dubito che Lucr. si contentasse pel leone del solo
297, mentre poi dedica tre versi al cervo e cinque al bove. Piut-
tosto io terrei la lacuna sola, senza || |[ . Un verso di mezzo rende
più tollerabile 298.
Circa 357 * 358 il Brg. ha cambiato da una sua antica opi-
nione. Oggi conserva in aevo in 357 (e sta bene), ma unisce
questo verso al precedente come parte della obbiezione. Non credo.
357 è la risposta, e traduce (la traduzione poteva essere più pre-
cisa) la risposta stessa di Epicuro (D. L. X, 64): oli YÒp «ùtò èv
éauTUJ TttUTriv éKe'KTriTO iriv òuva)uiv; in vita il corpo sentiva
bensì, ma d'un senso comunicatogli dall'anima. Dopo data la ri-
sposta essenziale, vien in mente a Lucrezio che del resto il corpo,
pur persistendo qualche tempo dopo morte, perde subito anche certi
altri caratteri, che indiscutibilmente erano caratteri suoi in vita,
p. es. il calore, e aggiunge quindi 358 multaque praeterea perdit
cum expellihir aevo. 362 sg. credo si possa spiegare senza lacuna.
V. Boll, di FU. CI. p. 55 sg.
Anche per 443 sg. il Brg. legge:
aere qui credas posse haec cohiberier ullo ?
Il
corpore qui nostro rarus mage sit, cohibessit? ||
(mss. magis incohihescit). Come già ho osservato in Boll, dì FU.
CI. n" 7, p. 153, la lacuna non mi par probabile, perchè è dif-
ficile disgiungere corpore qui nostro da aere, e quindi improba-
bile anche la doppia redazione, e il ? alla fine di 443.
Inevitabile invece è la lacuna dopo 490. La correzione vis (mss.
vi) di Lach. Bern. non va, perchè disiracta per arfus dev'esser
l'anima e non si può né pensare né dire della vis morbi. K una
delle felici e acute lacune briegeriane, che, una volta trovate,
s'impongono.
Quanto a 740 || * 741 || è possibile, ma non mi finisce di persua-
dere. Io leggo et fuga cervis a patribus daiur ecc. colla lievis-
sima proposta mutazione cervis per ccrvos. Mi riesce sospetto Yct
liivùla di filologia, ecc., L 28
— 434 —
se ha da unire il terzo termine affatto simile al secondo; e tanto
più se — eliminato da Lucr., come vuole il Brg., * 741 — segue
sul)ito et iam edera. Invece Vet è pienamente giustificato, se il
terzo termine, con mutata costruzione e anche con studiata muta-
zione d'aspetto del medesimo pensiero, artisticamente si contrap-
pone al complesso dei due primi.
La lacuna dopo 757 è messa, perchè Lucrezio, venendo ad un'ipo-
tesi da sostituire alla precedente, non poteva restringere il discorso
alla sola specie umana. L'osservazione è fine e, in sé, giusta. Segno
materiale della lacuna sarebbe il mss. sic 75S. Ma una cosa mi
fa dubitare. Poiché un sin è ad ogni moilo richiesto per l'alter-
nativa, nella lacuna noi dobbiamo supporre invece dalla semplice
forma: sin et camini aninios in camini corpora et animos ho-
minimi in ìioni. corp. rlicent etc, la forma contorta : sin, iitcanum
aninios in canuni corpora sic animos honiinuni dicent etc.
Propendo ancora a credere che Lucr. è saltato nell'unico esempio
umano, come il più saliente e tipico, coll'intenzione che impli-
casse anche gli altri; e che appunto per segnalar questa inten-
zione aggiungesse (forse un po' dopo) il v. 76.
Sono molto più propenso ad accettare 800 :
quid enim diversius esse putandumst
aut magis inter se disiunctum discrepitansque,
quam mortale quod est immortali atque perenni
*
iunctum in concilio saevas tolerare procellas ?
E la ragione è che, senza lacuna, bisognerebbe intendere diver-
sius... inter se disiunctum discrepitansque nel senso di « contrad-
ditorio, assurdo », che non va. Non sarebbe però forse impossibile
veder qui una sincope logica, ossia : « Che v'ha di più inconci-
liabile della intima unione d'un mortale con un immortale esposta
alle saevae procellae? » in luogo di: « Che v'ha di più incon-
ciliabile di ciò che è mortale e di ciò che è immortale ? e quindi
che cosa c'è di più inconcepibile di una loro intima unione esposta
alle saevae procellae? (Se le due cose fanno una cosa sola, questa
non potrà essere né vulnerabile, né invulnerabile, perché sarà in-
sieme mortale e immortale). Cfr. anche discrepai !, 582. La lacuna
del Brieger apparirebbe senz'altro indisculibile, se non ci obbli-
gasse ad ammettere un passaggio di costruzione, ossia, invece di
quid magis inter se disiunctum discrepitansque quam mortale
quod est et quod est immortale et perenne., la sostituzione del
dativo immortali atque perenni., come se non ci fosse inter se ; il
quale dativo, che pare precipitarsi adosso dWiunctuni come il ferro
alla calamita, potrebbe anch'essere il segno di quella sincope lo-
gica, a cui s'accennava come a cosa non impossibile (1).
(1) Quando ho scritto la Postilla Liicreziana (pubblicata nel volume
— 435 —
Vuole il Brg. una lacuna avanti 902, perchè chi parla qui è
altra persona da chi ha parlato prima (892 sgg.), e Lucrezio do-
vrebbe dircelo. Ma s'intende subito. Come prima di 892 non ha
detto una parola che accenni all'occasione o alle persone dove e
da cui si sentono le parole di lamento — il carattere tipico del
lamento bastando a richiamar la scena alla fantasia de' lettori
romani — così passa qui a un'altra forma di lamentazione, a
un'altra scena comunissima, che non richiede nessuna determina-
zione, anzi nessun accenno della persona lamentante.
In 991 volucres, come l'intende il Munro, è ardito, ma non mi
pare impossibile, quando bado allo studio che qui Lucr. mette a
rilevare l'assimilazione delle nostre passioni e delle pene d'Ache-
ronte, anche colla identità delle parole ; v. casum in doppio senso
981 ; in Acherunte iacentum e in amore iacentum.
È prudente la lacuna (già del Munro) tra 1009 e 1010, in
luogo della comune e seducente emendazione egenus. Non sarà però
questa lacuna il posto della pena di Issione (che da Servio ad
Aen. VI, 596 risulta aver Lucrezio introdotta in questa parte del
III libro), perchè non si può rompere lo stretto rapporto che lega
Cerbero, le Furie, le tenebre e qualche altra cosa e il Tartaro
— cioè esseri e cose tormentanti — coi metus in vita poenarum
prò male factis, 1012; Issione è un tormentato, e sta quindi
nella stessa serie con Tantalo, Tizio, Sisifo; per esso io suppongo
un'altra lacuna avanti 1009.
La prima parte — circa un terzo — del IV libro è forse la
parte del poema che c'è arrivata più sconquassata e rotta; lacune
e spostamenti danno da fare al critico, e malagevole è l'impresa
di trovare il filo conduttore. Ma appunto per ciò è opportuno pro-
cedere con molta cautela, giacché non giova sostituire incertezza
a incertezza. Il Brieger trasporta 125, 126 dopo 41, naturalmente
con una lacuna di mezzo ; e dopo 124 (lasciando, s'intende, la
lacuna) mette invece 172, 173 (restituendo ora col Munro e molto
giustamente 174 al suo posto dopo 177); trasporta insieme 166-171
dopo 140, e tutto 127-140 -h 166-171 dopo 107; considera per
altro 166-171 come resto di antica variante di 127-140, e quindi
Il 166-171 * II. (Trasporta anche 228-236 dopo 95 ; ma di ciò a
Suo luogo). Ora vediamo. Il trasporto 127 sgg. dopo 107, par con-
sigliabile, perchè 107 sgg. è ancora un argomento della esistenza
degli idoli, e inoltre si vengono così ad aver di seguito i tre brani
108 sgg. {Nunc age quam tenni figura constet imago), 141 sgg.
(nunc ea quam facili et celeri ratione genantur), 175 sgg. {mine
Festgruss an Rudolf von Roth, Stuttgart, 1893) m'era sfuggita questa la-
cuna, proposta dal Brieger in Plnlol. XXVII, 54 sg. Per essa verrebbe in parte
a modifirarsi il principio del mio ragionamento (p. 157); ma non ne viene
infirmato il complesso della mia dimostrazione. Tanto che in questa edizione
del Brieger sono accettate le conclusioni a cui venivo ; vale a dire son con-
servati come inerenti al Carmen contimimn 804-816, ed è messa una la-
cuna tra 816 e 817.
Riviiia dì filologia, ecc., I 28*
— 436 —
age quani celeri motu simulacra ferantur). Puro io non oserei
faro il trasporto nel testo. Poiché le auaraaeiq di 127 s^'g. sono
in dirotto contrasto colla tenuità e invisibilità degli idoli, è na-
turalo anche il credere che Lucr., dopo dimostrata l'esistenza degli
idoli e mostrato anche che son tenuissiiiii e invisibili, aggiunga
che del resto vi sono anche delle nature analoghe, come una ra-
giono di piti per credere alle invisibili. Ciò è confermato da 125,
12(), che mostrano come la dimostrazione della tenuità rientrasse
alla fine in (juella della esistenza, in risposta a una qualche ob-
biezione, la quale, se era fondata sulla tenuità, non j)oteva essere
introdotta che dopo detto della tenuità. Giacché la eliminazione
dal posto tradizionale di 125, 120 non mi par giustificata. La
lacuna tra 124 e 125 è un'ampia lacuna (fu calcolata per ragioni
diplomatiche di 51 versi), e non fa ostacolo a ciò il paiicis 113,
se si bada al complesso. La tesi (los) è la tenuità degli idoli. Di
ciò un primo argomento {in prwiis 100) è fondato sulla estrema
piccolezza, non già degli atomi, ma (come ho mostrato nella Nota
in appendice alla mia dissertazione Atoniia, p. 2ft) delle particelle
minime di minimi esseri organici, e delle molecole di certe so-
stanze, e va fino a 124 e oltre, e a questo si riferisce il paucis;
dopo doveva seguire almeno un altro argomento, e infine l'obie-
zione, colla sua risposta, che si chiude con 125, 126. Non c'è dunque
una ragione sufficiente di rimovere questi due versi; non c'è, nep-
pure se convenisse introdurre dopo 124 gli altri due 172, 173;
giacché questi sarebbero, separati da lacuna, la chiusa del primo
argomento, e, separati da un'altra lacuna, verrebbero 125 sg.,
chiusa di tutta la dimostrazione della tenuità. E se qui possono
stare, stanno invece a disagio là dove li vuole il Brieger, dopo 41
(41 * 125 sg.). Lucr. ha cominciato (30 sgg.) a dire esse rerum
simulacra, e subito, premuto da cosa che gli sta molto a cuore,
fa una breve digressione per annunziar che simulacra siffatti
sono le apparizioni in sogno ecc. fonti di tanti errori : che di
più naturale, che dalla digressione rientri in argomento con
42 dico igitur rerum efflgias ecc.? Non impossibile, ma men na-
turale è questo passaggio, se già s'è soffermato alquanto a dimo-
strare e a respingere difficoltà, come implica la formola 41 *
125, 126. Si noti ancora il plur. ea genantur in 141, che, non
dico sia impossibile, ma riesce men naturale immediatamente dopo
quantula pars sii imago 172 sg.
I quali 172, 173, si prestano certo benissimo a venir come
chiusa di 114 sgg.; ma c'è necessità di divellerli da 166-171 ?
Sì, se 166-171 dovessero proprio stare dopo 127-140; ma io do-
mando: dopo la dimostrazione quam facili et celeri ratione ge-
nantur simulacra (141-165), non viene naturalissima, come con-
ferma, l'analogia quam facili et celeri ratione genantur quelle
altre aucTTacreK;, che poco prima ha descritte come un fatto ana-
logo degli idoli ? E non è naturale che conchiuda dicendo che,
— 437 —
poiché gli idoli sono di tanto più piccoli e tenui, tanto più ce-
lermente e facilmente sorgeranno? Cioè 172, 173 più una lacuna;
che segno di lacuna dopo 173 è anche eam ratioiiem, che riesce
per lo meno duro intendere come: rationem Jiuius rei, mentre, a mio
avviso, è quasi inevitabile intendere eam come un di que' pronomi
dimostrativi che preannunziano un successivo concetto, una succes-
siva proposizione (come illud in liis rebus vereor ne forte rearis).
Con tutta ragione il Brg. lascia intatto 214 e fa seguire lacuna
(per mire cfr. 746 mire mohilis ; qui sarà mira mobilitate). Non
convengo però nella eliminazione di 215-227, come dirò più sotto.
In 237-241 il Brg. accetta dal Kannengiesser 237, 238, 240,
241, 239 *. Le ragioni del Kanneng. sono: la mancanza di tantum
{tantum quo speciem vertimus), e il superfluo omnes, che risulta
invece pienamente giustificato quando sia levato 239. Più acuta è
la ragione che aggiunge il Brg.: la troppa ingenuità del ragiona-
mento 239, 240. La difficoltà è certamente fondata ; ma osservo
che è ben difficile non riferire l'avversativa 239 a undique in
cunctas partes, e che l'ingenuo ragionamento ritorna poi tal quale
con 139 *; giacche non saprei proprio che altro metter nella la-
cuna se non ciò che ci mette il Kanneng.: « uno eodemque tem-
pore unius tantum partis res a nobis percipi possunt ».
A ragione rimesso 268 al suo posto (dopo 288), ed evidente la
lacuna avanti ad esso. Il Munro per evitar la lacuna contorce 268
in modo strano.
Dubbia, al certo, la lezione di 416 e 417, ma appunto per ciò
molto dubbia la lacuna tra i due versi. Col Brg. tengo despicere^
tengo anche il mirande^ che ritorna 460, e lo tengo senza la
esitazione del Brieger: che è troppo improbabile una ripetuta cor-
ruzione del mss. (lucreziano) in una stessa parola non esistente
in latino; e se mirande è da tenere 460, è improbabilissimo che
sia corruzione qui : tanto più col vezzo lucreziano (segnatamente
nella 2** metà del poema), quando gli capita una parola un po'
fuor del comune di ripeterla a non molta distanza. Del resto mi
contento della lieve mutazione caeli ut per caelum (Brg. solem), e
non mi spaventa caelo alla fine del v. seguente.
Possibile la lacuna dopo 530; ma io preferisco intendere anche
vitare e sequi come sogg. di concidat.
È geniale la lacuna dopo 530, e illumina il passo. Io, a diffe-
renza di tutte le spiegazioni anteriori (compresa una del Brieger
stesso), mettevo punto fermo alla fine di 529, accettavo Yexpleti
di Lachm. e spiegavo : « iiifìitti ognun sa che raditur anche la
porta della bocca piena di fiato », sottinteso : « quando, cioò, si
soffia colla bocca stretta ». E questo è infatti ciò che vuol dire
Lucr., ma bisogna lasciargli il posto di dir tutto (quindi lacuna),
e conservare expletis (naturalm. buccis).
Evidente 631 * 632. Vedi Btdl. di FU. Class., n" 7, p. 153.
Felicemente trovata, e, parmi, indispensabile è anche la lacuna
— 438 —
dopo tiC'l, coH'integrazione : « come, p. es., che per una persona
ntialata abbia sapore aniaro ciò che per solito essa trova di sapor
dolce». A ri<,'ore si può sottintendere; ma non è probabile per
Lucrezio.
In 7."jO sg. non si j)uò far senza dell'ogg. leonem (confermato
da 753), né di leonum, che, del resto, è anche nel rass. È dunque
da approvare il Brieger :
niinc igitur quoniam docui me forte leonem jmss. leonum]
*• ( leonum)
cernere per siuiiilacra, oculos (|uaecumqiie iacessunt.
Quanto a 797 || * 798, 799 || (per errore è stampato: 1| 797 * 798,
799 II) bisogna osservare tutto 70G-!^19. 11 Brieger spiega: dap-
prima Lucrezio aveva scritto (in aggiunta a 75.5-70.5, delle visioni
in sogno) 700-774 -h 815-819; poi volendo mettere le regolari
movenze delle figure sognate in relazione col jironto affacciarsi
dell'immagine di una cosa qualunque a cui ])ensianio (nella veglia),
pensò di sopprimere 700-774 (quindi || 700-774 ), e scrisse invece
775-790, di cui 786-790 dovevano sostituire 700-77-1, e vi aggiunse
797, preso dalla redazione precedente (772), coll'intenzione di attac-
carvi anche i due versi 773, 774; ma avendoli omessi, qualcuno
completò invece coll'aggiunta di 798, 799 = 709, 770, salvo la so-
stituzione di hoc a qiiippe. Ora osservo: 1° È verissimo che 780 .sgg.
sia nuova e artisticamente più accurata redazione di 700-774.
2° Ma non par probabile che Lucr. volesse staccare questa nuova
redazione dal suo naturale collegamento coi sogni; e poiché non
c'è nessun legame tra 781 e 785, e invece è evidente che 800 sgg.
fanno seguito a 785, diremo che 780 sgg. dovevano stare al posto
di 700 sgg. e sono spostati per fatto dell'editore — come è evi-
dentemente fuor di posto 815-819, che giustamente il Brg. con-
sidera come appendice di 760-774 (oppure potrebbe essere appendice
della seconda redazione 780-799 : lo spostamento è più favorevole
a questa supposizione). Sarebbero dunque da trasportar 780 sgg.
prima o dopo 700-774, questi tra || ]|, e in seguito 81.5-819. .3° Ad
ogni modo è ben più probabile che Lucr. trasferisse dall'antica
redazione nella nuova (oltre 797 = 772) piuttosto 798, 799, che
i mss. danno (e senza dei quali sarebbe incompleta la spiegazione;
che anzi di questa spiegazione danno il momento decisivo), anziché
773, 774, che qui riescono una uggiosa ripetizione di 792 sgg. E
quindi scompare anche la lacuna.
Passiamo al libro V". I versi 29-31 sono nei mss. nell'ordine
29, 31, 30 con evidente spostamento. Giustamente il Brg. mette
lacuna dopo 28, e poi 31, 29, 30. Non egualmente mi persuade
il trasporto (Kanneng. Brg.) di 20, 27 dopo 3<3, malgrado il de-
nique. Si sa quante volte Lucr. dopo un denique aggiunge del-
l'altro; e del resto un denique^ che per la sua posizione ha più
decisamente valor conclusivo è in v. 34. E 32-30 ha tutto l'aspetto
— 439 —
di essere l'ultima fatica d'Ei-cole citata dal poeta, e per la mag-
giore ampiezza, e per la conclusione ironica in 36, che ha poi il
suo sviluppo in 37-42.
Evidente la lacuna dopo 209 (con ...fruges...). Non cosi certa
la inclusione || * 210-212 , , malgrado la tautologia terram pressis
proscindere aratris, fecimdas vertentes vomere glehas. lo credo
del resto 210 sg, scritti prima qui, col loro naturale oggetto fruges,
anziché in 1, 211 sg. coll'ogg. primordia, che v'ha del forzato.
Che I, 208-214 sia aggiunta seriore del poeta, n'è già un segno
questo (ce n'è altri), che vengon dopo 205-207, la conclusione ge-
nerale di tutta la dimostrazione nil de nilo ; conclusione che il Brg.
ha (con altri) giustamente trasportata dopo 214.
E neppure metto in dubbio 257 * 258; solo che, data la lacuna,
non era da accettare la emendazione alid per alit in 257; l'ogg.
era naturalmente nella lacuna, e la fine di verso alit auget occorre
anche altrove. Ma forse Valid è semplice svista, perchè non se ne
fa cenno nei Prolegomena, e anche nel testo del Lachm. c'è alid,
senza citazione a pie di pagina della lezione mss. alit. — Anche
la lacuna dopo 408 è ben trovata, e a buona ragione è restituito
l'ordine (410, 409) e la lezione (aut) dei codici.
In 460-464 son giustamente restituiti (col Munro) videmus,
exhalantque ', che due correzioni insieme collegate sono estrema-
mente sospette (per Lucrezio); di qui la necessità , vista dal Brieger,
d'una lacuna prima di 463, perchè l'ogg. di videmus non sia ae-
thera se extollere (nella lacuna ci sarà un ut con un indicativo).
lo poi trovo dubbio che 461, 462 non stieno li che come poetica
determinazione temporale, e trovo strano poi che, por descrivere il
momento in cui avviene un fatto sull'acqua, si usi un fatto che
avviene sulla terra; credo che, restando la lacuna avanti 463,sieno
da trasportare 461, 462 dopo 464; la rugiada ci dice l'umidità
della terra, onde i leggeri vapori.
Non accetto la lacuna dopo 694, combinata colla emendazione
non lieve anni per mss. aer alla fine di 693. Dice il Brieger :
« quaeritur enim cur certis in partibus anni dies longiores, in
certis breviores sint. aera crassiorem esse dici apparet ncque du-
bito quin vox aer eum versum qui excidit clauserit ». Si tratta
di ciò; ma l'indicazione di certe parti (anzi di certa parte del-
l'anno, l'invernale) è qui superflua; risulta da ciò che precede, e
risulta da hiherno tempore 697. Poiché il sole gira intorno alla
terra oscillando tra i tropici (come è descritto prima), o ad ogni
modo percorrendo d'inverno regioni, così del cielo come della
plaga subterranea, diverse dalle estive, cosi queste certae partes
sono appunto le regioni sub terris (io metto anzi la virgola non
dopo aer, ma dopo siih terris) che il sole attraversa d'inverno. Nota
anche che subito dopo, 699, alternis partibus anni è senza la
prep. in. 11 qual v. 699, insieme col seg. 700, potrebbero parer
favorevoli al Brieger, se s'intendono : « oppure perchè, variando
— 110 _
sta^orii, h più rapido o più lento il concorrer dei fuochi a for-
mare il nuovo sole »; ma allora 701 non ha più nò un fondamento
nò un perchò. S'intendano invece UOO sg^'.: « Ma anche dato che
(secondo la possihilità ammessa sojirai si tratti d'un nuovo sole
che ogni notte si formi, c'ò la possibile spiegazione del variare
della lunghezza di giorni e notti secondo le stagioni, in correla-
zione colle diverse posizioni del sorger del sole. Dato appimto,
come or si è detto (sic, 090), che l'aria sia, in diverse parti sotto
terra, diversamente crassa, e che secondo le diverse stagioni i
fuochi conllucnti a formar il nuovo sole e a mandarlo su nelle
diverse posizioni, confluiscono ora nelle regioni più crasse ora nelle
meno, il loro confluire sarà ora più lento ora più rapido; così
si spiegano le notti or più or meno lunghe, in relazione coi di-
versi punti orientati del sole ». — E con ciò è anche detto, che
sta benissimo la lacuna del Munro e del Brieger dopo 702; lacuna
che il Munro occupa con : qui faciunt solis nova semper lumina
gigni. Il Brg. però, accettando la lacuna, doveva mettere una
virgola alla fine di 701, perchè il sogg. di videaniur dev'esser
nella lacuna, non in 701.
Col Munro, restituzione della lezione ms. in 1011, e lacuna
avanti. Benissimo.
Anche la lacuna, già proposta dal Purmann, tra 1406 e 1407
non si può che approvare — almeno se non si tocca l'ordine di
questi versi. Io, per altro, propendo a credere che ci sia un gran
disordine in tutto il brano 1377-1409. Dirò altrove (che qui mi
condurrebbe troppo in lungo) le mie ragioni; qui mi basti dire,
che non oserei in una edizione metter sossopra l'ordine tradizio-
nale, ma in nota proporrei l'ordine seguente : 1377 — 1381 -+-
1403 — 1406 + 1384, 1385 -+- 1388 — 1402 -h 1382, 1383 -h
1407 — 1409. Chiuderei 1395 sg. tra || |;, come antica variante
di 1401, 1402. Lucrezio aveva conchiuso 1388 sgg. con 1395 sg.;
poi volle aggiungere 1397-1400, sopratutto per toccare anche degli
inizi della danza, e allora riprese, modificandola, la chiusa con
1401 sg. Con questo riordinamento la lacuna scompare.
Nel libro VI incontriamo anzitutto un brano, di cui non ci re-
stano che brandelli. Nell'edizione del Lachraann è uno degli esempi
tipici del suo procederò arbitrario e del curioso concetto ch'egli
ha, in questo rispetto, dell'ufficio di un editore critico. Nell'edi-
zione del Brg. appare invece in questa forma: 45 * 46 || 47 *
* 48 * 49 * 50. Convengo in tutta questa prudenza — ne vorrei
anzi un pochino di più. Circa 45 * 46 è da notare che qui il
poeta ricorda il contenuto del libro Y, dove prima si diraosio-a la
mortalità del cielo e del mondo tutto, poi si spiega, non già come
sien mortali le cose celesti (sole, luna ecc.), ma qua ratione fiant
i fenomeni celesti. Ne consegue che dissolui non può essere un
infinito parallelo a mortalia esse, ma è un perfetto nel senso « ho
risolto, ho spiegato ». S'aggiunga che nell'altra interpretazione
- 441 —
sarebbe falso pleraque dissolui, perchè le cose celesti omnia dis-
soluuntur. Ma di ego dissolui qiiaecumque fiunt in caeìo l'ogg.
deve essere una proposizione interrogativa, o un nome come raiio^
causa (con proposiz. interrog.). La lacuna dunque (con entro ...qua
fiant ratione ) è matematicamente dimostrata dal Brieger, Non
meno evidente è la lacuna (e forse non breve) dopo 47. Qui però
è troppo ardimento, in tanta scarsità di materiali superstiti, sen-
tenziar senz'altro, che 47 e una parte della lacuna appartengono
ad una più antica redazione proemiale, sostituita da una più re-
cente; è sospetto da esprimere in nota, non da imporre al testo.
Non approvo quindi \\ \\. Giustamente il Brg. conserva 48 (salvo
existunt per mss. existant, e un probabilissimo ut, dopo placentur,
per ragione di prosodia); ogni altra mutazione è da scartare a
priori; e la lacuna che segue è evidente come le precedenti. Dubbia
invece — e quindi da accennare in nota non da introdurre nel
testo — è la lacuna dopo 49; che un possibile e naturai collega-
mento di 49 con cetera (50) non si può escludere, quando non
si muti in 52 (come fa il Brg. con L. B.) mss. et in haec: mu-
tazione non necessaria, perchè il quae (50) in doppia funzione di
sogg. e ogg. non ha alcuna durezza. Cfr. Munro, Notes, II, e
anche Hor. Sat. II, 6, 72 sed quod magis ad nos pertinet et ne-
scire malum est; Cic. de Or. II, 43 quod et a Crasso tactum
est et Aristoteles adiunxit; vedi Madvig, Op. Acad. II, p. 177.
Veniamo a 292 *. A ragione il Brg. respinge come assurda la
correzione revocari, che trasporterebbe in cielo il diluvio. Di qui
viene la probabilità d'una lacuna dopo, coll'ogg. terras. Ma non
più che la probabilità. Il Vahlen difende ad diluviem revocare
senza oggetto espresso, col confronto di opprimere 286 e 266, e
pepuUt, perculit poco avanti 310 sg., del pari senza oggetto
espresso. Ciò non persuade il Brieger, il quale anzi ritorna in 286
alla correzione obruere,gìk prima da lui proposta e poi abbando-
nata. Io tengo fermo aAVojyprimere, e l'ogg. s'intende naturalmente:
ciò che sta sotto, e noi in primo luogo ; essenzialmente lo stesso
ogg, che è naturalmente inteso in 266; ciascun opprimere difende
l'altro, e tutti e due difendono revocare senza lacuna. Ho già fatto
l'osservazione come in questi ultimi libri, se a Lucr. capita qualche
espressione fuor del comune, ami spesso ripeterla a breve distanza.
Ma lasciam pure le cose in dubbio, esprimiamo pure la nostra
opinione contraria: in simili casi però io tengo per massima fon-
damentale che non sia lecito all'editore distruggere fatti, che pos-
sono essere discutibili, ma possono anche essere preziose testimo-
nianze di isolati fenomeni linguistici. È come nel caso precedente
di quae in doppia funzione di sogg. e ogg.; avessimo anche il solo
esempio lucreziano, io non credo (data la condizione dei mss. lu-
creziani) che sarebbe prudente distruggere l'esempio. Dunque la
lacuna dopo 292 è tutt'al più da proporre in nota.
Incontriamo poi 534 * 608. Vale a dire : Brieger nota che Lu-
— M2 —
crezio non lui dato come argomento di questo libro (83, 84) clie i
fenomeni mettorologici; ora invece, dopo 534, entra a parlare di fe-
nomeni terrestri, e non è supponibile che entrnj^se nell'inaspettato
argomento senza una nuova prefazione. Quindi lacuna dopo 534 ;
la quale lacuna aftpare poi manifesta, una volta che si trasporti
(come il Kannengiesscr avrebl^e dimostrato doversi fare) 008-038
avanti 035. Ora, questa coiiibina/ione ha (jualche cosa per sé: ma
pure: una ragione imiiellente per la trasposizione di f)08-038 non
c'è ; non h vero che là dov'è interrompa la continuità del carme,
corno pare al Lachmann, dapiioichè qui si salta d'uno in altro
argomento, molto disparati. È si può anche sospettare la lacuna
dopo 534, per la ragione addotta dal Brieger ; ma la cosa resta
incerta, vista anche la dul)bia condizione del testo dopo 83, 84.
Sicché neppur la lacuna dojio 534 oserei mettere nel testo; e me
ne sconsigliano anche i due nunc-age 495, 535. Chiara invece è
la lacuna davanti 008 (lasciando al loro posto 008-038), per il
Principio, che necessariamente suppone sia detto prima in che
nuovo ordine di argomenti si è entrati, de' quali il primo è an-
nunciato con princi^no (al quale non corrispondon già praeterea
610 e 027 e postremo 031). E mi spiegherei la cosa così: fino a
534 Lucr. ha dato ragione di fenomeni piìi o meno imponenti,
ma che non diciamo strani; ora viene una nuova categoria. 11 non
crescer del mare, malgrado il continuo afflusso d'acque, i monti
che vomitano fuoco, il Nilo che è in piena d'estate e in magra
d'inverno, i laghi che uccidono uccelli passanti sopra, una fonte
fredda di giorno e calda di notte, la calamita che attira il ferro,
sono fenomeni strani, paradossi di natura. Nella lacuna avanti 008
annunciava appunto questa nuova categoria di fatti. Cfr. 008jpn«-
cipio mare mirantur non recidere maius naturam.
Mi è molto sospetta, già per la concorrenza di lacuna ed emen-
dazione, la lezione:
674 scilicet, et fluvius qui visus maxirau' cuiquest
*
qui non ante aliquera maiorera vidit etc.
lo sto coi codici (salvo mt/5^ per visus) qui visust maximus
et qui non ante aliquem maiorem vidit. Cioè : Scilicet et (etiam)
ingens est (facilra. sottinteso dal v. preced.) fluvius qui visus est
maximus ei qui maiorem non vidit. La tautologia « il più gran
fiume che ha visto uno che non ne ha visti di più grandi » mi
spaventa meno che il pericolo di correggere il poeta. Mutare ei
qui., e rompere il legame maximus ei qui non maiorem mi pare
imprudenza. E che metter poi nella lacuna ? Certo il Brg. pensa
a un altro esempio.
Evidente la lacuna tra 097 e 098. Cfr. Boll, di FU. CI p. 155.
Circa 804 sg. il caso è disperato. Fa bene il Brieger a conser-
vare vini in 805 ; farebbe bene anche se non avesse messo lacuna
— 443 —
tra 804 e 805, giacché non vedo la necessità che 804 si riferisca
ancora all'odor di carbone. Della lacuna stessa, poi, nella assoluta
incertezza in cui siamo, non si può dire né bene né male: forse
parlano contro la lacuna tum, cum, che par proprio si debbano
corrispondere. Della forma data a 804 (at cum membra hominis
percepii fervidior vis per mss. at cum membra domniis percepii
fervida Servis (fervis) certo lo stesso Brg. non si tien sicuro.
Chiara, e non piccola, e già riconosciuta dal Lachm. è la lacuna
avanti 840. Non si passa con porro a tutt'altri argomenti, punto
collegati coi precedenti. Nella lacuna c'era l'introduzione e il prin-
cipio della spiegazione di una serie di paradossi di temperatura.
Nella completa nostra ignoranza di ciò a cui p)orro si riferisce,
non trovo sufficiente ragione di mettere 840-847 tra || ||.
Un altro passo intricato e di molto dubbia sanabilità è 954-958.
Fa benissimo il Brieger a non accettare mutazione di sorta in
954 e 955, e a mettere (col Bossart) una lacuna tra questi due
versi (1). Fin qui siamo al sicuro. Poi il Brg. mette nuova la-
cuna, e tocca in parecchie maniere ciò che segue; ossia:
955 morbida visque simul, cum extrinsecus insinuatur
ossia: {per caelum ani cum pestiliias hic saepe nocenti)
e tempestate in terra caeloque coortast,
in caelum terrasque remotas iure facessunt; (2)
quandoquidem nil est nisi rarum corpore nexum.
(mss.: ei iempestaiem ierra caeloque coorta
in caelum ierrasque remotae iurae facessuni
quandoquidem nil est nisi raro corpore nexum)
Sarà; ma un tal cumulo di correzioni in combinazione con una
lacuna non può non lasciar molti dubbi. E aggiungo : Lucrezio
reca esempi per provare la porosità di tutte le cose; ha citato
pietre e metalli, quindi ha citato la solida lorica caeli, che lascia
passare corpora nimborum e corpora pestiliiatis ; è possibile che
citi ora come ultimo esempio l'aria, dimostrandone la porosità pel
fatto che i miasmi liberamente l'attraversano ? Io credo anzitutto,
con Bossart e Polle, che 955 si lega soltanto con ciò che precede,
stando nella lacuna il verbo di cui morbida vis è soggetto; ossia :
la solida lorica celeste é attraversata non solamente (come s'è
mostrato sopra 483 sgg.) da corpora nimborum, ma insieme con
essi talora anche da corpora pesiilitaiis : quando cioè vediamo
(1) Per la lacuna il Bossart propone il bel verso : Fervida vis venti
transit spiracula mundi, lo, in considerazione di 4>^3 sgg. ed anche di ciò
che ora qui segue, penserei piuttosto a corpora nubiian tnmbornmrjKe.
(2) Facessunt forse per svista, perchè nei Prolerjg. legge faccssit. Del
resto facessunt potrebbe anche stare, perchè nominahnentc i soggetti sa-
rebbero due.
- 444 -
svilupparsi d'un tratto, come talvolta avviene, delle pestilenze, la
cui origine non si può spiegare per miasmi terrestri. Le pesti-
lenze che dipendono da condizioni del suolo, sogliono essere un
l'atto costante di quelle regioni insalubri; quell'altre, che deva-
stano le regioni più salutari, e capitano rare e improvvise, ci
piovon giti dal cielo, e son penetrate nel mondo attraverso i nioenia
mundi, dalle regioni extramondane. — Poi viene un nuovo esempio:
« e queste stesse tempeste, che dalla terra solida e attraverso il
solido cielo si sono cosi raj)idamente e in tal masse adunato, son
di nuovo rapidamente riassorbite dalla ferra e dal cielo». È ciò
che ha visto il Lachmann; sebbene io non accetti la sua barocca
emendazione. Leggo:
cum extrinsecus insmuatur.
et iempestates terra caehque coortae
in caelum terrasqiie remotae (partic. di removere) iure facessunt.
Così è chiaro il contrapposto: terra caeloque (coortae), in caelum
terrasque (remotae). Per iure cfr. col Brg. iure pereuni II, 1139;
ma è forse giusta la proposta rursu' del Madvig). — Quanto a
958 trovo un po' precipitata la sentenza del ISrieger, che raro
corjwre nexum sia « absurdura »; raro corpore è un abl. di modo;
« nessuna cosa c'è che non sia un tessuto dal corpo raro » (di
tal modo, che il suo corpo sia raro).
Giusta la lacuna avanti 1245. E davanti la lacuna mi pare
proprio che sia il posto per 1244 (qui trasportato dal Lachm.).
E non vedo la ragione di accettare l'emendazione cernehant (per
certahant) del Lachm., una volta ammessa la lacuna, oppure la-
sciato il verso al suo posto primitivo (dopo 1222) come fa il
Brieger. Certahant funera rapi è quanto mai lucreziano (cfr.
frigus non duhitat succedere). Del resto, non questo verso solo,
ma tutto J 244-1 249 va incluso tra || || (come pare anche al
Munro). È una variante — in istato frammentario — di 1276-
1284. E molto probabilmente una variante più antica; 1245 sg.
fino a certantes ha trovato una forma più sviluppata e dramma-
tica in 1270-1284; e appunto per finir colla scena d'effetto del-
l'ultimo verso, il poeta ha omesso nella seconda redazione il resto
di 1246 lacrimis redihant (che è un motivo tucididiano) col se-
guente ampliamento 1247-1249.
Col Munro 1260 * 1261. Probabile; io non sono però alieno
^2i\Vastu del Lachmann.
(Continua).
Milano, 5 giugno 1895.
Carlo Giussani.
Pietro Lì ssello, gerente responsatiìe.
GIUSEPPE MULLER
Prima che il presente quarto fascicolo dell'annata
1894-95 fosse finito di stampare, un gravissimo lutto
veniva a colpire la Direzione di questa Rivista colla
morte del benemerito fondatore di essa, prof. Giuseppe
MuLLER. Tormentato da qualche tempo da una grave
infermità cardiaca, la mattina del 13 scorso luglio il
prof. Mùller non dubitava por fine alla sua esistenza,
lasciando nel dolore la famiglia che Tadorava, e i col-
leghi e gli amici che egli aveva numerosi in ogni parte
d'Italia e all'estero. Noi, pur rimpiangendo ch'egli abbia
voluto troncare prima del tempo lo stame della sua
vita e cessare a un tratto la già instancabile operosità
sua, rispettiamo l'ultimo atto della sua volontà, e ri-
volgendo il pensiero alla sua vita passata, con animo
grato ricordiamo le sue benemerenze sia come scrittore
sia come maestro.
Nacque G. Mùller nel 1825 in Brùnn di Moravia, e
terminati i suoi studi nella Università di Vienna, co-
minciò la sua carriera didattica insegnando greco e
lingue moderne nella Technische Hochsc.hide di Vieima.
Nel 1852 vernie in Italia ove insegnò prima nel Liceo
di Milano, poi fino al 1860 nell'Università di Pavia, e
dal 1860 al 1866 in quella di Padova; nel 1867 fu no-
minato professore di Letteratura Greca nell'Università
di Palermo, ma non vi andò, rimanendo comandato
prima all'Archivio di Stato in Firenze, poi all' Uni ver-
Rwitia di filologia, ecc., I. 29
— 446 -
sita di Torino, dove poco (U)\h) ebbe In iKjniiua defini-
tiva; questa cattedra egli tenne per più d'un quarto di
secolo fino alla morte.
La storia antica e niedieviile e in jKirte anche la
storia niodei'na sono de])itrici al Mullor della i>ul)l)lira-
/ione di alcuni documenti molto importanti. Cominciò
con gli IJrlxKììdììcliP Beift'ih/c zitr Ge.srliirhlc (Ics sinkcndini
Rime)- Beichcs e coi Bijznnliìiifirht' Aìudelden uus Jlfoid-
srliriften der Si. Markus-BihI iothek zu Venedig u. der
k. k. IlofìiìbUoilick zu Wien pubblicati nei Sifzungsbe-
richU della Accademia delle Scienze di Vienna; poi in-
traprese in colla))orazione col Miklosich e a spese della
predetta Accademia la grandiosa pubblicazione degli
Ada et diplomata gracra medii aevi sacra et jirofana, di
cui sino al '90 sono usciti sei grossi volumi. Alla storia
più recente riferisconsi gli Adenstiicke zur neueren Ge-
schichte Mailands loiter franzosischer Herrschaft ìind nnter
den letzten Sforza' s che si leggono nel 21" volume del-
l'Archivio dell'Accademia Viennese, e le pubblicazioni
relative a Vittoria Colonna fatte in collaborazione con
E. Ferrerò, cioè la traduzione della biografia scrittane dal
lieumont (Torino '83) e il Imigo carteggio (Torino *89).
Le altre opere del Mùller appartengono alla filologia
greca e alla tedesca, e sono per lo più libri scolastici,
anzi, si può dire, formano un'intiera biblioteca scola-
stica per lo studio del greco e del tedesco nelle scuole
secondarie. Prima egli ritradusse ad uso delle nostre
scuole la Grammatica greca del Cm-tius (1), non tra-
tralasciando, a profitto dei docenti, l'ottimo libro delle
Erlàuterungen che il Curtius aveva aggiunto per render
ragione della sua maniera di raggruppare ed esporre i
fatti della lingua ; ed alla Grammatica fé' seguir subito
l'utile raccolta degli Esercizi proposti da Carlo Schenkl
per lo studio del Greco nei Ginnasi e ne' Licei. Questi
libri ebbero una grande diffusione in Itaha, e ad essi
(1) La prima traduzione italiana di questa Grammatica era stata fatta
molti anni avanti dal Teza.
— 447 —
si deve in gran parte il progresso che lo studio elemen-
tare del gl'eco fece da noi negli ultimi venticinque anni.
A queste opere il Muller aggiunse presto anche un libro
di letture greche, traducendo la Crestomazia dello stesso
Schenkl, e un Dizionario greco-italiano che con quello
italiano-greco del Brunetti colmò una lacuna da lungo
tempo fra noi lamentata. Questa biblioteca scolastica,
appunto perchè rispondeva a un sentito bisogno, ebbe la
fortuna di ripetute edizioni; e fu poi anche arricchita di
altri lavori come gli Esercizi greci del Boeckel e l'Av-
viamento allo studio della lingua greca, lavoro origi-
nale del Miiller, pubblicato nel '84, e accompagnato
dal relativo corso d'esercizi ; si aggiungano le edizioni
italiane delle forme irregolari de' verbi raccolte dal-
l'Hensell e delle tavole sinottiche per la coniugazione
dei verbi irregolari composte dal Boni; e infine un'An-
tologia di Letture storiche greche ad uso dei Licei
(2"^ ediz., Torino, 1895). — A questi libri di filologia
greca famio riscontro quelli scritti per facilitare lo
studio del tedesco, i quali formano il Corso pratico di
lingua tedesca, diviso in tre volumi.
Molto pure deve al Muller la Collezione scolastica
dei Classici Greci e Latini con note italiane, intrapresa
dalla Casa Editrice Loescher, per la quale Collezione
il Miiller preparò le due orazioni di Lisia, contro Era-
tostene e contro Agorato (2^ ediz. Torino, '87).
Non ultimo frutto poi dell'attività filologica del
Miiller fu la fondazione della presente Rivista di Filo-
logia e d'Istruzione Classica, che divenne presto ambita
palestra agli studi filologici dei nostri connazionali, e
fino ad ora ha contribuito non lievemente ài progresso
della nostra coltura e delle discipline filologiche. Egli la
fondò nel 1872 in collaborazione con Domenico Pezzi;
ma dopo il primo anno, essendosi ritirato il Pezzi, il
Miiller proseguì l'opera solo, avendo a condirott(ìri Do-
menico Comparetti, e i compianti profl\ G. M. Bertini e
G. Flechia dell'Università di Torino. Da un amio ap^ìema
— 448 —
si era iniziata la presente nuova serie con l'attuale Dire-
zione, la quale ben a ragione rimpiange la perduta col-
laborazione di un uomo che con operosità infaticabile
attendeva da ventitre anni alla redazione, alla corre-
zione delle prove di stampa e alla pubblicazicme rego-
lare dei fascicoli.
Sia reso omaggio anche alla memoria del Miiller
come maestro. Molti fra gli insegnanti lettere classiche
nei Ginnasi e Licei del Kegno e alcuni eziandio degli
attuali insegnanti imiversitari sono usciti dalla sua
scuola; tutti costoro ricordano con gratitudine la in-
sistenza e premura con cui il Mùller esortava i giovani
allo studio, additando, fra i primi in Piemonte, un alto
ideale scientifico, largheggiando di aiuti e di consigli,
esercitando anche fuori della scuola una notevole effi-
cacia didattica. Per questo Tinsegnamento di lui è riu-
scito incontestabilmente utilissimo a parecchie genera-
zioni di studenti italiani , ed è giusto che il nostro
Paese glie ne sappia grado.
G. MuLLER adunque, come studioso e come maestro,
lascia di se duratura memoria in Italia, e specialmente
le Provincie subalpine e l'Università di Torino lo ricor-
deranno come uno dei loro più attivi e benemeriti in-
segnanti. La Direzione della Rivista, col proposito di
continuare nel miglior modo che le sarà possibile l'o-
pera di lui, depone mestamente un fiore sulla sua tomba.
Firenze, agosto 1895.
La Diuezione.
— 449 —
I GIUDIZI DELLO STOLZ E DEL THURNEYSEN
CONTRO l'iTALLÌNITÀ DELL'ETRUSCO
IN RELAZIONE COLLE FASCE DELLA MUMMIA
COLLA PIETRA DI LENNO
E SPECIALMENTE
COI NOVISSIMI FITTILI DI NAECE
I.
§ 1. Compiuto appena l'esame di coscienza (^), che il nuovo
libro del Pauli imponeva a' fautori dell'italianità etrusca, sì col
persistere nelle antiche opinazioni, sì col tacere dei nuovi fatti venuti
in luce mercè alla meravigliosa scoperta del Krall, ecco sorgere
necessità di rinnovarlo a cagione delle sentenze contrarie dello Stolz
e del Tliurneysen; il primo de' quali (^) stima che il giudizio del
Pauli intorno all'etrusco torni pur sempre il più probabile, e che
l'appartenenza di quella lingua alla famiglia delle italiche, nello
stretto senso della parola « sia oggi non meno problematica di
prima »; il secondo (^) poi invita il Pauli a smettere « di pre-
(1) L'iscrizione etrusca della Mummia e il nuovo libro del Pauli in-
torno alle iscr. tirrene di Lenno, osservazioni critiche pubblicate nei Rendic.
Ist. Lomb. 1894, p. 613-623 e 627-662 ; cito abbreviatamente : Oss. crit. o
Rendic. Per le altre abbreviazioni, la bibliografia e la parte generale di
questo scritto (§ 1-14), cfr. L'italianità nella lingua etrusca estr. dalla
N(uova) Ant(ologia), 1" aprile 1895, p. 416-451.
(2) Stolz, Linguistisc/t-histor. Beitr. zur Paldo-Ethnol. von Tirol, Inns-
bruck 1894 (estr. dai Beitr. zur Anthrop. von Tirai), che debbo a cortesia
dell'Autore, p. 11 n.; Stolz, Hist. Gramm. der lat. Sprache, 1, p. tu e 12.
(òj Thurneysen, Wochensch. fi'cr klass. Philol. 1894, 40, col. 1085; cfr. In-
dog. Forsch., Anzeiger, IV, 37, n. 1. — Per vero sorprende che una si chiara
patente di morbosa stupidità sia data in questo solo campo ad uomini, che in
altri campi, più o meno vicini, non si reputano malati o cretini; e ciò senza
che preceda alcuna pur piccola prova dell'attento studio dedicato alle loro
- 4-J) —
dicar più oltre che non debbasi nell'ermeneutica etrusca muovere
il passo dal postulato dell'indogerraanità, perchè sia ottimismo
soverciiio sjxirare da siflatti ragionariienti >^ la f^uarif^ione di coloro
« cui nemmeno le l'asce di Agram valsero a guarire »', inoltre
rimprovera egli al Pianta, perchè nella sua eccellente grammatica
dell'osco e dell'umbro non abbia « con più di energia protestato
contro la fantasima di un'etrusca indogermanità; protesta, la quale
se non si faccia dagli studiosi delle lingue italiche, da chi mai
si farà?». Ora, quand'anche la revisione critica delle dottrine,
tanto recisamente oppugnate, non fosse richiesta dall'autorità dei
due valentuomini, sarebbe essa consigliata da ciò, che sebbene
agli studi etruschi, in questi anni dalle Accademie Italiane con
miolta benevolenza accolti e promossi, non sia mancato il pubblico
e privato suffragio d'insigni studiosi nostrani e forastieri, gran-
demente s'avvantaggeranno essi, se insieme gli avversari, fatti
sempre più persuasi della serietà de' nostri propositi, ci aiuteranno
colla minuta discussione, sia dello risposte da noi date alle an-
pagine, e delle insuperabili difficoltà da quelle, e dalle molte prove e riprove,
sollevate nella mente degli oppositori : sorprende che alla costoro equanimità
non sia parso giusto mostrare, come anzitutto abbiano dubitato della propria
miopia (cfr. n. 98), e siansi chiesto anche, se il perseverare ostinato di studiosi
onesti, e non del tutto impreparati, in una medesima via, non dimostri pur
qualche cosa; sorprende specialmente, perchè quelli, e dimostravano avere
bene o male pesate tutte le precedenti obiezioni altrui, e vantavano riprove nu-
merose delle precedenti affermazioni loro proprie, e pretendevano aver portato,
fra l'altro, pur sempre badando al quesito principale, da un pezzo il pro-
blema appunto in quel terreno dove il Thurneysen medesimo sembra invi-
tarli. Infatti nella predetta recensione del Pianta nota egli (p. 37): « torna
spiacevole che non siasi profittato dei monumenti etruschi, i quali co' loro
nomi italici non sono privi d'importanza per le cognizioni dell'italico set-
tentrionale »; ma se ciò vale dei nomi propri, e come no d'altre parole e
forme italiche comuni agli Etruschi e agli altri Italici ? e come escludere
a priori che se ne diano e di molte, e ricusar di vagliare le prove che di
ciò si porgano ? In ogni caso sta che per l'avvenire, quando, come noi da
tanti anni facciamo, si attenda a ricercare minutamente ne' testi etruschi
gli elementi italici, si otterrà, qual che sia Io scopo finale della ricerca, la
approvazione anche di un così deciso avversario dell'italianità etrusca, quale
si dichiara il Thurneysen; e ciò ne basta, ed è anzi la sola cosa che per
ora c'importi.
— 451 —
tiche obiezioni, sia sopratutto de' nuovi fatti che la Mummia per-
mise ora di mettere, ora di rimettere in luce.
§ 2, La dottrina, di cui si tratta, è doppia: essa cioè primiera-
mente statuisce che le iscrizioni etrusche a noi pervenute conten-
gono tanto numero di parole italiche e tale maniera di forme
grammaticali, da permettere ed anzi richiedere che se ne tenti
l'interpretazione per via di combinazioni etimologiche di base ita-
lica ed anche talvolta, con molta discrezione e cautela, semplice-
mente di base indoeuropea; in secondo luogo, e, per ora, in via
subordinata, i suoi fautori opinano che l'etrusco medesimo fu in sé
lingua indoeuropea ed anzi italica ; perocché tali siano gli argo-
menti addotti a favore della sua arianità, che, qualora si am-
mettano, importino insieme la italianità, ed eziandio parentela più
stretta col latino e falisco, che non coll'umbro e coll'osco (*). Non
si vuole adunque né punto, né poco, nella esplorazione ermeneutica
de' testi etruschi muovere il passo « dal postulato che la lingua
loro sia indoeuropea »; che anzi previamente si riconosce non po-
tersi a tale riguardo aspirare ad altro che ad una ben fondata
opinione personale, di cui l'avvenire soltanto dirà, se più si av-
vicini al vero quando affermi, o quando neghi. Per contro si af-
ferma'come fatto incontestabile, di cui crescano ogni giorno più
le prove, essere di siffatto modo i testi etruschi a noi pervenuti
da meritare ed esigere, che anzitutto se ne ricerchino e indaghino
con rigore di metodo gli elementi italici, e per via di questi po-
sitivamente 0 negativamente si argomenti la natura di quelli che
tali non appaiano, e il senso probabile del testo.
Dirò anzitutto brevemente della seconda e per ora accessoria
parte della nostra dottrina, affine di mostrare come sia fondato
il giudizio di coloro co' quali io sto, che l'etrusco appartenne cioè
(4) Forse apparirà un giorno come l'etrusco tramezzi, perchè disse ci per
'cinque' e probabilmente huQ{r) kut{r) per quattro', insieme con s'tnvhel
(cioè stafel) per lat. stnbilis; così pure ebbe insieme i nomin. acc. plurali
aseies 'quei dell'asa o ara' e tusurQir o -Qii o -0t 'coniuges' (Saggi 25 con
55 sg. e 37 n. 52). Forse però allora anziché d'eti-usco, sarà dato parlare
della tale e tale zona etrusca e del tale e tal gruppo di etruschi dialetti, e
sarà possibile anche distinguere le rispettive mutuazioni.
- 452 —
verisimilmente alla stessa famiglia del latino e del falisco, del-
l'umbro e deirosco.
§ 3. Il primo arf^omento è dato, ben s'intende, dalle parole
e forme italiche, onde si ragiona poi (§ 14-18) dilìusamonte a
proposito della tesi princijìale,
11 secondo argomento (Sagg. 180 sg. Oss. crit. 620, n. 8 e 657,
n. 28) viene dall'onomastico etnisco, nella grande maggioranza dei
casi tanto concorde con quello degli altri popoli italici, che gli
avversari immaginarono averlo da questi mutuato gli f]truschi di
sana pianta: ipotesi contraria a tutte le analogie istoriche di qual-
siasi tempo e luogo. Né si tratta solo, badiamo, di mera concor-
danza lessicale fra' prenomi o nomi o cognomi adoperati dagli uni
e dagli altri; concordarono invero nel campo onomastico gli Etru-
schi cogli altri Italici anzitutto nella fondamentale distinzione del
prenome dal nome, oltrecchè nell'uso caratteristico quasi costante
di scrivere quello abbreviato; distinzione, che ignota ai Greci e
ad ogni altra gente indoeuropea, apparisce cosi grave sotto il ri-
guardo giuridico, da potersi affermare che contenga in germe per
metà il Corpus luris. Concordarono poi quanto al nome personale
gli Etruschi sopratutto coi Latini : 1" nell'ordine delle diverse
parti onde quello constava, sicché occorre frequentissima anche
appo loro la formola latina M. Tullius Cicero ed é per contro
quasi ignota l'umbra M. M. (f.) Tullius {% mentre non mancano
esempi della latino-osca 31. Tullius M. [f.)\ 2" nella distinzione
del nome gentilizio in -io dal cognome: distinzione tanto signifi-
cativa per la somiglianza delle prische istituzioni famigliari d'ambo
(5) Per es. F. 871 Lar : Apini : Cecu, 1079 L(arQ). Ay^unie. Cesina, 137
Aule: Cae : Ancari, i3d> La{rQ) Cae Ful[u), Ìl5i La{rQ). Cai. Fe^i ecc. ecc.;
F. 1854 Z(ar)e. Vesis\ L{a)r, 1409 Aule: Vetis' : La(rQ), 176 La(re):
Lacs: Ca(es'), 1184 Au(le). Anei. Au(les'), 433^8 Ar{nQ) Capini-Ar(ne) :
come ose. F. 2768 Paakul Mulukiis Maral, 2760 G. Siili. G., 2785 M.
Siutliis .]/., N. Puntiis ili"., 2787 V. Pupidiis V. (cfr. C.l.L. I 52 e 1553b,
X 4719). Invece rarissimi occorrono gli esemplari etruschi del tipo rap-
presentato forse da F. 581 = F*. 200 L{ar)Q : Ar{nQ) : Cai o Ceni, e ri-
spondente, se mai, all'umb. F. 81 C. V. Vistinie, Ner. T. Babr., Vois.
Ner. Propartie, T. V. Voisiener, volse. F. 2736 Ec : Se : Cosuties, Ma :
Ca : Tafanies ecc.
— 453 -
i popoli, quanto la predetta del prenome e del nome per la loro
simile evoluzione posteriore.
§ 4. Né si obietti che dal canto loro, unici in Italia, usarono
gli Etruschi il matronimico: perocché, lasciato da parte il sospetto
arguto del Biicheler (Rh. Mus. 39, pag. 411 e cfr. Stolz, Hist.
Gramm. I, 358), che traccie di matronimico pur si abbiano fra'
Romani ; lasciata da parte altresì la tradizione greca, essersi anti-
camente intitolati dalla madre eroi ed uomini {^) : sta primiera-
mente il fatto, che la consuetudine del matronimico s'incontra in
paesi lontani e disparati, fra' quali con incredibile stento cercò il
Tòpffer (Att. Geneal, 193-95) ricondurla a comuni ragioni etno-
logiche, dimenticando, fra l'altro, che oltre a' Liei, a Coo, a' Locri
Epizefirii, agli Etruschi, era quella ben documentata per l'Egitto
(Sagg.188, n. 135); e sta poi un secondo fatto, di gran lunga più
importante, che, vale a dire, come appunto in Egitto, in Etruria
il nome della madre non surroga, ma sovente accompagna il
nome del padre: sicché nessuna deduzione può trarsi dalla for-
mola etrusca del nome personale a favore di un immaginario pri-
mitivo matriarcato, d'altronde contrario a tutto quanto i testi e
i monumenti c'insegnano circa il costume etrusco, spirante in ogni
rispetto la relativa parità sociale romana della donna e dell'uomo.
Ricordato poi, a tale proposito, che come nel regno della natura,
così in quello dell'uomo, alla somiglianza formale estrinseca di due
fenomeni sottostà non di rado l'intrinseca sostanziale loro dispa-
rità; e che altresì le stesse cause rinascendo in tempi e luoghi
diversi, spesso producono spontaneamente gli stessi effetti : io per
me opino, la ragione originaria del matronimico etrusco essere quella
medesima, per la quale furono anticamente e in Etruria e nel
Lazio non solo molto numerosi, ma altresì onorati gli spurii (cfr.
(6) Bekker, Anecd. 851,29: Omero ótottov yàp y^Y^<JaTO toc; tOjv l'iptOiuv
irpóEei^ è£r|Yoù|uevoq òtto inrirépLuv TrapdYeiv, o però, secondo il grammatico,
si astenne dall'usare il matronimico, laddove i posteriori, a dir suo, vi ri-
corsero spesso; cfr. Tzetz. Ghiliad. V 18, v. 654-655, a proposito de' Greci
prima di Gecrope: oi •iTatb€<; tótc Móva^ èiriYiTvtiiaKovTec; farirépaq où na-
Tépac,; cfr. altresì ivi, v. 614 con Klearch. ap. Athcn. Xlll 1. bbò^ oùk
elbÓTUJv Tùiv irpoTépwv bià tò uXfiBoi; tóv irar^pa.
- 4'A -
Sagg. 188, n. 135, 208); vale a dire le diverse forme del matri-
monio e la conseguente diversità degli effetti giuridici quanto ai
figli e alla moglie. In ogni caso la peculiare consuetudine del
matronimico, essendo stata dagli Etruschi conservata gelosamente
anche ne' latini epitafi da essi dettati alla fine della Repubblica
e a principio dell'impero, quando quella doveva a' Romani appa-
rire strana e ridicola, tanto j)iìi vuoisi cnnlere che, se in tutto il
resto l'onomastico loro concorda quasi allatto coll'italico, ciò non
provenne già dall'aver messo questo in luogo di quello, ma si
dalla originaria conformità d'entrambi.
§ 5. Né mancano di ciò nelle iscrizioni etrusche ulteriori
prove ; e son tre : l'italianità dei pochi prenomi speciali da quelle
offerti; l'uso di derivare in -on i nomi servili; l'identità morfo-
logica dei nomi comuni e dei propri. Quanto al primo punto, ri-
guarda esso i prenomi : ArunQ AranQ ArnQ (cfr. lat. arandus
con secimdus-sequi, Deferunda-deferre ecc.), Avile per Aule, Vel
(cfr. lat. Herius con umb. heri per lat. vel), Vel-Qur, Veiu (cfr.
lat. vetus Veturius), Qucer, Lar Lari Laris LarnQ (cfr. lat.
etr. Larunda) LarQ, Lau\me Lau^usie La{u)yfi Lucumu Luxu
(cfr. lat. locuples Leucetie Lucius), Se{r)Qre (lat. Sertor Serto-
rius), Tar\is\ Qana Qania etr. lat. Dana (cfr. lat. Diana), Qanx-
-vii (cfr. ose. iatigimid lat. tangere, lat. etr. Menerva), RatiQia-
AranQia e RavnQu-BamQu (cfr, etr. AranQ e lat. ravus), Fa{u)-
sti (cfr. lat. faustus). Ora, per numerose e difficili che appaiano
le minute questioni fonetiche e morfologiche o etimologiche, cui
tali voci porgono occasione, qual mai giudice discreto o spregiu-
dicato negherà che possano, e però debbano fino a prova contraria,
tenersi per prette italiche? E s'aggiunge poi a rincalzo il con-
fronto coi prenomi peculiari dei Latini, degli Osci e degli Umbri;
per es. Agrippa Caesar Denter Herius Hostus 3Iettus Opiter
Tirrius Volerò Vojnsais, ose. PaJcul Mara, umb. Voisieno; ri-
spetto a' quali tutti certamente concederanno che l'indagine eti-
mologica proceda per lo meno altrettanto incerta. — Quanto al
secondo punto, già il Pauli (Etr. St. i, 99 ; IV, 34) e il Bugge
(Beitr. Ili, 11 ag.) osservarono come Auliu Velu Larsiu ecc., pre-
nomi dei lanini, ossiano 'servi liberi' etruschi, siano derivati col
— 455 —
suffisso stesso dei lat. Rufio Stahilio Turpio ecc., propri a Koma dei
liberti 0 schiavi: ed io poi notai (Iscr. Pai. 77, n. 108) che al Cusu
ajpa lautni d'un epitafio etrusco fa riscontro Qusoni C{aiae) li-
berto) anciali (o Anciali) d'un epitafio latino' C)\ e che il suflF.
-on di etr. Auli-u ecc. lat. Bufi-o ecc. verisimilmente già sta in
lautn-i stesso, due volte scritto laut-un-i-s' laut-un-ie-s' , e sug-
gerisce l'interpretazione : 'lautone' ossia 'lautino* (^). — Infine,
circa il terzo punto (Sagg. 181, n. 132), si confrontino Crap-il-
-im-i-ai con ac-il-une, Cip-ir-un-ia con s'et-ir-une, Cat-r-n-a Scat-
-r-n-ia Step-r-n-i con clev-r-n- (loc. clev-r-n-Q, lat. tah-er-na ecc.),
Avil-er-ec con luc-air-ce e lat. lup-er-cu-s nov-er-ca, Cusp-er-i-ena
con peQ-er-en-i, Sescaina Sesumnei Tetuminas' con memesnamer
mimenica tatanus\ Veliza con putiza, Atinate con culchnati, Hul-
Xniesi Marcesi con caliaQesi nacnvaiasi, Viliasa e Viliania o
Salisa e Salinei con acnesem e acnina ecc. ecc. Non sono adunque
ì nn. pr. personali degli Etruschi roba accattata, ma documento
di basi lessicali e di suffissi e di combinazioni suffissali, e comune
possesso di quelli e degli altri Italici tutti quanti.
§ 6. Terzo argomento. Lo stesso vale pei nomi peculiari degli
dei etruschi : Tina 'Giove' (cfr. lat. dinus per-en-dinus)^ Qes-an
'Aurora' quasi 'divesana' (^), Usil 'Sole' (msc. e fem., cfr. lat.
(1) F. 1040 =^ G.I.E. 442 ; cfr. apa hels' con helu lautni, latna heliu,
C.I.L. V, 2675 = 1, 1433; cfr. poi etr. act7 con pren. acila ìat.ancilla (§26).
(8) Cfr. Rendic. 1892, p. 423, n. 73, lat. lautiores liberti e homines
lauti et urbani con pusio pumilio tiro ecc. fr. pion ecc.
(9) Gfr. Iscr. pai. 65 con 58 Marmis Metus Mus per ^àpTir\aaa Méòouaa
MoOaa, pren. Casenler per etr. Cas'ntra Cas'tra gr. lat. Cassandra, e cosi
CaQ ali. a CaQa sul bronzo di Piacenza, lauiniQ lautnit ali. a latttniQa
lautnita negli epitafi, ecc. — Alle obiezioni del Bréal (De quelques divi-
nités italiques, negli Atti del Congresso degli Orientalisti a Ginevra, nel
1894), circa Maris e Menrva, non mi lice qui arrestarmi, perchè non potei
vedere se non le prime prove tipografiche, da lui gentilmente favoritemi,
del suo discorso: nelle quali, certo per mera svista, occorrono più forme,
che gli Etru.schi mai non ebbero, come p. es. mai non ebbero il nioiQen.e del
Journ. do.s Savants (avril, 1893 p. 228), ch'è invece nitnQen \ s'rcncc\e.
Ammetto però anch'io volentieri che un qualche nome o dio etru.sco possa,
meglio studiato, risultare straniero, malgrado l'apparenza italica, o piuttosto
risultare confuso con alcun simile nome odio .straniero: ciò accadde sempre
e dovunque, senza che importi per le origini del popolo o della sua lingua
(L'italian. p. 20 = N. Antol. p. 435).
- 456 —
us-tu-m Auseli Aurora), Lei-nQ 'Morto* (lat. le-tu-m), MunQux
'dea del ciclo di Venere' (lat. mundus), etr. lat. Veriuninus il
dio del 'giro' annuale, Nortia (etr. NurBai) la Fortuna 'novatrice'
(cfr. lat. Nevcrita noverca novus).
Quarto: similmente i nomi locali dell'P^truria antica, e, se vo-
gliansi insieme, della circumpadana e della campana; invano vi
si cerca alcun che di diverso da quelli della restante Italia, o di
simile p. es. a' nomi berberi dell'Africa settentrionale, od agl'ibe-
rici delle Spagne, od ai celtici delle Gallie; dove si vuol notare,
che di ahjuanti luoj^'hi e popoli etruschi possediamo due nomi,
uno più antico, uno più recente (p. es. Camars-Clusium, Aurinini-
Saturnini, Cae[sye-Gisra-AguUa, mutato poi nel grecheggiante
Agalla, Purgi scritto poi grecamente Fyrgoi ecc.), senzachè il
primo appaia tuttavia meno italico del secondo.
Quinto: delle poche parole a noi tramandate (cfr. Sagg. 179)
come etrusche — e torna già bene notevole che, in tanta copia
e durata e importanza di relazioni, specie coi Romani, siano si
poche — nessuna presenta base o forma non italica, laddove pa-
recchie risultano chiaramente italiche; così aÙKriXui(; 'aurora', che
è verisimilmente dittografia (Rendic. 1871, pag. 15) di auKtiX-
-[e]ujq [eujqj uno Tupprjvujv (Hesych.), dove aucel o ausel (cfr.
etr. Mamerce-Mamerse^ uceti-useti, etr. lat. arse lat. arce ecc.) va
con lat, etr. Auseln e con etr. Usil 'sole'; così àvòac, 'borea'
(cfr. èive)noq), àvtap 'aquila', àpaKO(; lepaE, capz*5 ' falco' (cfr. lat.
capere), hister tliensa lanista lucumo Indio mantissa (la 'man-
ciata' 0 'manata', ossia 'la piccola mano di giunta'), xriPevva (^°),
arse verse{m) 'arce ignem' ecc.
§ 7. Sesto: delle sei voci etrusche, di cui le bilingui ci
danno il significato {trutnvt frontac 'haruspex fulguriator', lanini
'libertus', Gupsnal 'Coelia natus', Zicu 'Scribonius', clan 'filius')
cinque, altrimenti inesplicate, assai bene si spiegano rimanendo
nel campo italico; infatti per trut-n-vt (lat. lìaru-spex letter.
(10) Sfuggirono anche al Lewy, Die semit. Frendwórter im Griechischen,
p. 84 {s'ivonà 'veste colorata'] le osservazioni del Bugge, Urspr. d. Etr.
p. 36.
— 457 —
'trutino-vidus'), abbiamo ose. trutum truta-s 'quarto' o 'tagliato,
squartato, preciso*, gr. lat. rpvTàyf^-trutina, gr. TiTpuuffKuu (*^) ;
per laut-(u)n-i 'libertus' lat. lautiores liberti (§ 5^; per Gup-s-na
'Coelia', gr. etr. lat. cupa 'bicchiere a fondo cavo', nel senso di
lat. cava co eli (Deecke, Etr. Forsch. VI, 67): analogamente presso
Cicerone (Att. VII 13''. 5) traduoesi il nome degli Oppii^ famosi
usurai, con Succones 'succhiatori', quasi provenisse da òtto? 'succo'
(0. Keller, Lat. Volksetym. 177); per Zicu, lat, sig-n-are sig-illu-m
(Bugge, Beitr. Ili, 10 'signon', cfr. Deecke, op. cit. 107). Otti-
mamente poi si spiega, entro i confini italo-greci, la più impor-
tante e caratteristica fra le sei parole, ch'è insieme quella ap-
punto di cui raen torna legittimo immaginare abbianla gli Etruschi
mutuata da altri : dico frontac 'fulguriator', ossia come un lat.
'brontax', che va con lat. frontesia, ose. frunter, gr. PpovTri,^ it.
brontolare.
§ 8. Settimo: fra le sei predette voci, la più ardua, e finora
disperata, è clan 'figlio'; e perchè se\, che dagli epitafi risulta
avere significato 'figlia', prestò finora uguale resistenza a' tentativi
dell'etimologia, di queste due parole, e insieme di puia, con cui
negli epitafi designasi la 'moglie', si fece uno dei capisaldi del-
l'anarianità etrusca : essendosi su questo triplice fondamento pog-
giata la sentenza, che i nomi di parentela usati dagli Etruschi
differirono da quelli di tutte le altre genti indoeuropee, come del
resto di tutti quanti i popoli del mondo antico e moderno Q'^).
(11) Cfr. Sagg. 130 sg. etr. tru loc. trit-Q, trutum, Trut-v-ec-ie 'la luna
dei quarti* contrapposta a Cemna 'Gemina' o QnplQa 'doppietta' per 'luna
piena'.
(12) Farebbe eccezione aitu o atìu, che (Pauli, Vorgr. Inschr. II, 211)
direbbe 'madre* (cfr. Pauli, Etr. St. IV, 62 sg.. 'erede'^ perchè in susio ate
atta dice 'padre* ; ma l'epitafio perugino, testé pubblicato dal Dr. B. Nogara
(Annuario Acc. Scicnt. Lett. di Milano, 1894-95, p. 7 estr.) LarQ Selvas'l
aQnu, rende sempre più probabile, secondo egli giustamente nota, che sia
aQnu una designazione servile o libertina analoga a lut (cfr. Qic-lut[e]r)
lutni lanini e ahil (cfr. Selvas'l aQnu con Tins' lut e ahil Tua' Ques' ecc.,
gr. UpoboOXoi ecc.), conforme già intravvedevasi dalla relazione prima av-
vertita (Iscr. pai. 76, n. 106, cfr. Sagg., 65) di aitu atiu aQnìt (Pauli, 1. e.
'erede' come aitu ecc.) con lautni e quindi con akil acil (cfr. pren. acila
per lat. ancilla). Forse {h)aQ-nu (h)at-iu (h)alr-s' /la-tr-en-cu insieme
- 458 -
Ora, in tutto codesto v'ha solo una particina di vero; e pare tanto
esigua, che alla questione generale importa un bel nulla; sic-
come cioè le iscrizioni etrusche nella grande maggioranza dei
casi, né indicano la figliazione con clan o .sex» ^>^ il matrimonio
con puia, ma si ora col genitivo, ora con derivati aggettivali del
nome paterno, materno o maritale, niente permette di credere che
quelle parole dicano direttamente e necessariamente 'figlio' o 'figlia'
0 'moglie', e tutto consiglia a pensare anzitutto, che designino
certe speciali persone di siffatta condizione: sicché puia {dr.puiac
puliac) ben può andare per la base con lat. puella ; e quanto a
clan e sex torna anche possibile si tratti di caso analogo a quello
di lat. liheri per 'figli': vocabolo che nessuno trova nel dizionario
delle parentele, vuoi ariane vuoi anariane, come non vi trova per
es. il piem. masnà (letter. 'masnada'), mantov. hagai (lett. 'ba-
gaglio'), lomb. matan matell e piem. {ma)tota (lett. 'matti mat-
terelli, matterella'), bergara. bresc. sciett (lett. 'schietti'), mil.
ven. tosa (lat. tonsa per contrapposto alla 'mulier in capillis' delle
'Leges Barbarorum'), tutti ugualmente per dire 'figli, figlio,
figlia' (13).
con pren. (h)a-to-s fa-ta (cfr. però Fercles Felena etr. Veleria Vilenu)
provengono dallo stesso stipite di fa-m-uln-s ose. faa-ma-t (cfr. altresì
lat. Faunus fatuus). — Lasciano poi da parte gli avversari etr. {f)rat(r)acs'
'fratello' (umb. fratrex, cfr. Iscr. pai. 12 Remne Remznal con Frenine
Fremznal Fremrnal, e Sagg. 9 CZw^Mmsto-KXuTaiiuvriaTpa e tinQas'a-
trinQas'a LaQi-LarQi ecc., umb. hebetafe-ebetrafe, ose. lat. Frentani con
ose. Frentrei), nefts' nefts 'nepos', priim[f]te priimts prumaOs' 'pronepos',
perchè reputano mutuate tutte queste voci (senz'altro fondamento, che il
pregiudizio contro l'italianità etrusca), anziché, come noi, sino a prova con-
traria, comune possesso originario degli Etruschi e degli altri Italici.
Quanto a nexes 'nepos*, se la lezione è giusta, inclino io sempre piti (cfr.
Sagg. 24, 58, 128, 207) a vedere in -xe- un suffisso (cfr. rata-c-s' e Pata-
-c-s' con lat. frater e pater), circa come il dimin. -chio nell'aret. nepoc-
chio -chi -chie 'nepote -ti'.
(13) Nell'indagine ermeneutica intorno a clan (gen. clens' da *clanis, cfr.
Claintiz) e sec (Deecke-MiJller, 1, 503 s'ec s'\e]ec s'ec[e], sex s'^X» ^'^X* -'^'
due volte) e pitia, non si tenne mai conto del fatto (Iscr. pai. 18 n. 34, Sagg.
176), che appena 125 clan e 105 sec e 30 puia all'incirca si danno sopra
circa 6000 epigrafi, nelle quali ricordasi o la paternità, o la maternità o la
condizione coniugale, o insieme due di tali fatti: il che basta già ad esclu-
dere che abbiano potuto significare in sé e per sé 'figlio' o 'figlia' o 'moglie';
- 459 —
§ Sbis, Ottavo: vale ancora meno, perchè priva ornai di fon-
damento (Sagg. 173 sg., 193-195 e Oss. crii Rendic. 1894,
p. 644-653) l'obiezione de' supposti genitivi o dativi etruschi in -al
-sa -si -sia -sle, che sono invece suffissi nominali, in sé medesimi
nominativi, con cui si formano i derivati aggettivali testé detti,
indicatori della paternità o del matrimonio; e rispondono i primi
tre {-al -sa -si) a' derivati latini in -ali e -sio, laddove l'ultimo
{•s-le), che sarebbe in bocca latina suonato di per sé circa -ssiolo,
verisimilmente si confuse collo -s{e)le -c{é)le diminutivo: insomma
ArnQal lettor. 'Arruntialis' per 'figlio di Arrunte', Varnal letter.
Tarinialis' per 'nato di Varinia' o 'Varia', Aulesa o Aulesi lett.
specie quando si consideri che, come nelle antiche iscr. latine con quasi
assoluta costanza mai non si omette 'f(ilius)' o 'f(ilia)', e di rado si no^a
uxor 0 coniux (che occorre anche dappoi quasi solo quando p. es. il diverso
gentilizio del marito e della moglie impedirebbe d'inferire altrimenti il vin-
colo esistente fra loro), così mai non occorre, né nelle osche, umbre, volsche,
raessapiche, venete, né nelle greche, parola equivalente; sicché in ogni caso
le etrusche debbonsi ascrivere alla seconda categoria, e il peculiare uso la-
tino vuoisi ripetere da ragioni locali, che furono verisimilmente le stesse,
per le quali appo di essi i 'figli' veri si chiamarono liberi per antonomasia.
Il che posto, le predette parole etrusche devesi credere designassero o qualche
particolare qualità di figli e di mogli in relazione colle diverse forme del
matrimonio italico (cfr. Gamurrini, Mittheil. Ròm. IV, 1889, p. 89-100) e
co' diversi loro effetti giuridici, oppure essere stati meri pleonasmi (cfr. Sagg.
240 Lardai clan Puìnpual clan con clan ripetuto). Ora, dall'un canto,
niente accenna alle predette diversità nei testi dove quei vocaboli si leg-
gono; d'altro canto, occorrono essi di preferenza ne' testi onomastici lunghi
e diffusi, specie quando allitterino col nome proprio precedente. Torna quindi
più probabile trattisi di pleonasmo; e però oggi ancora, dopo 25 anni, non
mi sembra illecita la conghiettura etimologica che clan e sec vadano ri-
spettivamente con lat. calare e in-sece ; sicché Thocerual clan significhi
alla lettera niente più che 'Thoceronialis dictus', Caial sec 'Caialis dieta':
cfr. claz cl{a)z 'calatus*, cla-nt-l Cla-nt-ie pen(Q) pendens', clen{&) 'oo-
lendus cultor', nunQen = nunQenQ, adi = acilQ. Quanto a puia (cfr. puiac
ptiliac), inclino a credere significhi 'moglie già schiava' (cfr. Caipur Naei-
purs' lat. Caipor Naevipori), e pui-ac il figlio suo : certo è che prtia de-
signò anche la moglie di un lanini o 'servo libero' (Pauli, Etr. Forsch. IV, 6,
27; 8, 41, 44). e che puliac trovasi intitolato appunto un lautni (ib. 12,71)
e puiac un la(utni) eteri (ib. 23, 123); cfr. inoltre G. 790 [la>it\nia puiac
'servA liberà puellà natus', F. 930 /jw/ac Mu tainei con ¥* A2 Muteni lautna,
G.l.E. 367 ...Secu-Anies' puiac[.] e F. 985 sg. puil insieme con acnaice
(Sagg. 66 sg. con 20 sg.) e itruta (Sagg. 114, cfr. Rendic. 1892, p. 426 sg.).
— 460 —
'Aulesio' per 'figlio* o 'schiavo di Aulo', Latinisa lett. 'Latinesia'
per 'mo^'lie di Latinio', Alfnalisle 'Alfenaliculus' (lett. 'Alfena-
lissiolus') per 'fi<(lio della mof^lie di Alfenio'. Cosi nel volgare lu-
tino fratrissa designò la moglie del fratello, e Octavianiis 'il figlio
adottivo di Ottavio*, o pur lo schiavo, o il campo da Ottavio già
posseduto.
Nono argomento: taccio dell'obiezione dei perfetti etruschi in
-ce (per es. turce 'donavit', svalce 'vixit* ecc.), giacché l'oscura
origine loro a nessuno parrebbe da sola documentare l'anarianità
della lingua cui spettano, mentre poi nessuno ancora provò impos
sibile 0 improbabile la loro connessione col gr. XéXuKe, o coH'umb.
comhifìangiust, o meglio coll'osc. ce-hunst e col lat. ce-tte (Sagg.
172). Confesso invece subito che il tallone d'Achille dell'arianità
etnisca sono tuttodì fino ad un certo punto i numerali ; solo però fino
ad un certo punto: giacche (Sagg. 174 sg.) pur gli avversari ricono-
scono che max uno' può rannodarsi a ma e a lat. semel (cfr. ose.
ìat Macciis la maschera dello 'scempio' con lat. sim-plex),mexìtYe
poi quanto a Qu ci s'a^ mi sembra che omai negarne la rispon-
denza a lat. duo quinque sex equivalga a chiuder gli occhi per
non vedere. Ne meglio intendo, come si persista a staccare semcp-s'
da septimi, muva- da novem, tesne da umb. desen- o lat. de{c)ni,
tes'anisa da 'decem sex*' (cfr. umb. desenduf 'duodecim'), xim%m
da ceniuni, quantunque io ben riconosca non essersi data ancora
soluzione adeguata dei problemi fonetici impliciti in codesti pa-
reggiamenti: e ciò vale altresì pel sufiF. -Ix-al- (circa lat. '-dic-
-ali-s') delle decine ordinali (p. es. sem(pa-l\-al-s 'septuagesimi').
Per contro, come sieno sorti mi sai (cfr. sei zelar ecc.) 'tres' e hicQ
/m^quatuor', che cosa significhino esal-s (cfr. esl-3 es'ulzi)cezp-z
zaQrum e loro derivati, e che sia 1' -em di cietn esUm Qunem,
non s'intende ancora punto; sebbene cezp- fu forse termine tecnico
della settina egizia (cfr. copt. sesps base, zazpi) e -Qru- di za-
-Qru-m ebbe riscontro in lat. tria-tru-s e simili, come -zi di ci-zi
es'ul-zi Qun-z{i) nel -ti di umb. du-ti lat. ter-ti-tn (cfr. Bugge,
I, 173 e Sagg. 60, 97).
Decimo : finalmente si concede da tutti che la leggenda erodotea
delle origini lide, e le testimonianze di Dionisio, Cicerone e Geli io
— 461 —
intorno alla lingua degli Etruschi voglionsi intendere con discre-
zione: nia nessuna discrezione in verità occorre per avvertire, che,
quanto ad Erodoto, la è questione di fonti e di critica storica ;
e che gli altri finora non s'intesero affatto, perchè il pregiudizio
ne strappò le parole al contesto, di cui fan parte, e all'analogia
dei contesti identici o similari, per interpretarle poi secondo le
illusioni della probabilità attuale, anziché confornie a' criteri della
probabilità istorica (Sagg. 176-179, 240 e N. Ant. aprile 1895,
p. 438-442 = estr. p. 24-28).
§ 9. Sono questi i principali argomenti a favore dell'italia-
nità dell'etrusco. Ritorno però, prima di procedere, ai numerali,
giacché mi ci invita l'ingegnosa ed importante scrittura dello
Skutsch (Zu den etr. Zahlwòrtern, Indog. Forsch. V, 256-266), che
sopraggiunge per cortesia dell'autore, filologo, tutti sanno, meri-
tamente noto e lodato, specie pe' suoi 'studi Plautini in relazione
colle lingue romanze'. Anzitutto osservo come a giustificare l'as-
serto che i tentativi etruscologici di base ariana intorno ai nu-
merali etruschi possano senz'esame rifiutarsi, perché campati in
aria (p. 256 sg.), alleghi egli il pareggiamento di cezpz 'otto', da
*cepist, con Kupo(g e di zal 'tre' collo stri- dì lat. stritavus, del
quale dubita persino che sia veramente esistito. Ora: 1° perchè mai
la disapprovazione di queste due conghietture del Deecke esoneri
la critica dall'esame delle sue e altrui quanto a max 'uno', Qu
'due', ci 'cinque', s'a 'sei', semcp- 'sette', muva- 'nove', tesne 'dieci',
tes'am-sa 'sedici', ximQm 'cento', non intendo ; 2° quelle due di-
chiarazioni spettano a forme quasi disperate, perchè sino al
presente, almeno in apparenza, solitarie e per giunta, almeno
quanto a cezpz, incerte anche nel significato ; 3° sfugge allo Sk.
che io per me, pur consentendo col Deecke, col Bugge, e co' loro
predecessori italiani circa max 6cc., quanto a zal o sai, non so-
lamente ricusai il diretto pareggiamento con tri- o stri-, ma so-
spettai trattarsi di numero, almeno in origine, ordinale, sicché
r -al non differisca da quello di cezpa-lx-al-s cea-lx-{a)l s ecc., e
il tema vi sia rappresentato appena da 2- 0 s- (Sagg. 175); quanto
poi a cezp-2, non solamente ricusai la connessione con KuPoq, ma
notai l'estrinseca somiglianza (cfr. Ceetes lat. Sestii, Mamerce-
Rioista di filologia, ecc., I. 30
- 4G2 —
Mamerse ecc.) col copto sesps basco eazpi 'sette', oggi ammessa
anche dal Pauli (Lemn. II 104, cfr. Oss. crii 629 n.), e la
possibilità che all'estrinseco risponda l'intrinseco, e cioè che pure
etr. cezpz significhi 'sette*, perchè la qualità universalmente mistica
(li questo numerale e insieme le sue applicazioni astronomiche e
calendari e le relazioni dell' Etruria coll'P^gitto permettano di
ammettere per esso in una medesima lingua due vocaboli diversi,
ossia, nel caso presente, semcp- di origine ariana e cezpz di origine
egizia (Sagg. 97, Oss, crit. 029). — Di tutto ciò lo Skutsch non
tocca, e similmente adopera circa l'arguta, ma vecchia, obie-
zione accampata contro coloro che pur sempre fermamente inter-
pretano Qu con 'due', e ci con 'cinque' e s'a con 'sei': l'obiezione
cioè, che sui dadi di Toscanella, così inscritti, quella interpre-
tazione dia 2 opposto a 4, 1 a 3, 5 a 0, e però torni contraria ad
entrambi i modi, secondo i quali, giusta l'analogia di tutte le
tessere etrusche, od antiche, a noi note, i numeri debbono credervisi
disposti; sì vale a dire contraria al modo, per cui i numeri op-
posti sommati insieme danno 'sette', sì al modo per cui a ciascun
numero sta contrapposto il successivo (1:2, 3:4, 5:6). Ora io
già replicai (Sagg. 175), a codesta obiezione non potersi attribuire
valore assoluto, perchè trattasi di monumento unico nel suo ge-
nere: infatti, mentre in tutte le altre tessere a noi note i numeri
stanno indicati con cerchielli, ne' due dadi tuscaniesi, unici fra
tutti, s'hanno invece le corrispondenti parole ; e però ad essi male si
applicano le regole delle prime, giacché torna difficile ammettere
che l'artefice, o il suo committente, abbia senza particolare mo-
tivo tenuta maniera diversa dall'usata anche in Etruria; che anzi
il motivo può immaginarsi essere stato questo, che i numeri in
parola, ordinati com'egli volle, abbiano avuto alcun preciso senso,
secondochè il Corssen pensò (I 806 max Qu^al ^tuQ cis'a), quan-
tunque insieme a torto abbia egli negato a quelle parole, ciascuna
per sé, significazione numerale, e non sia stato poi troppo felice
nello interpretarle indipendentemente da essa ('Magus donarium
hoc cisorio facit'). Replicai inoltre, in via del tutto accessoria, che
già due sistemi conoscendosi, anziché uno solo, tornava possibile
l'esistenza di un terzo e di un quarto ; e che anzi documenti ma-
— 463 —
teriali del terzo rappresentato, se mai, dai dadi tuscaniesi, affermò
Domenico Campanari, fratello dello scopritore loro, d'avere osser-
vati: affermazione, fino ad oggi, non giustificata, ma non già,
direi, menzognera, come (p. 257, n, 2) stima il valente alemanno,
né imputabile « almeno a culpa lata, più probabilmente a doluti
malus » dell'etruscologo italiano. Se pertanto l'obiezione ripetuta
dallo Skutsch non ha valore assoluto, deve essa cedere davanti
al fatto capitale, che, cioè, collocato Qu nel luogo dove i cerchielli
indicano il 'due', ci e s'a cadono inevitabilmente sul 'cinque' e
sul 'sei'; coincidono adunque proprio con quei numeri, coi quali
per la estrinseca somiglianza delle parole si aspetterebbe coinci-
dessero. Perocché sta e starà sempre, checché predichino o tac-
ciano gli avversari nostri, che data una serie numerale Qic ci s'a,
di numeri sicuramente posti tra 1 e 6, propri di un popolo se-v
rondo la geografia e la storia, ab antiquo e sempre, italico del-
l'Italia centrale, e contermine e consorte dei Latini, degli Umbri e
degli Osci, sino a prova contraria, debbasi quella serie interpre-
tare come rispondente alla serie latina: duo quinque sex; anche se
prove materiali non dimostrassero — e vedremo appresso, come se
no diano parecchie affatto perentorie — che almeno Qu significa
appunto 'due' e solo 'due'; e debbasi rispettar anche in tal caso
la « vraisemblance parlant plus haut que les règles de la pho-
nétique » (Bréal), alle quali del resto con pazienza e perseveranza
darà certo, la grammatica, costruendo ulteriormente su questa
solida base, a suo tempo soddisfazione piena.
§ 10. Scartata così, col fondamento che si disse, la serie Qu
ci s'a 'duo quinque sex', e scartata di conseguenza altresì per 2al
huQ l'interpretazione: 'tres quatuor' — quanto a max, anche lo
Skutsch mantiene il valore di 'uno' — procede egli a determinare
« per via combinatoria » il valore di 2al, perchè tale via, pare
anche a lui, « la sola che rimpetto all'etrusco torni sino ad oggi
lecita » (p. 257 sg.); dove naturalmente lascia da parte i numerosi
fatti grammaticali e lessicali, messi in luce massime per occasione
della Mummia, onde risulta per contro essere il metodo etimolo-
gico non pure permesso, ma obbligatorio, almeno in quanto miri
ad accertare le numerose forme e parole sicuramente e probabil-
— 4G4 -
mente italiclie. Subito poi lo Skutsch porge due saggi della qua-
lità di codeste « combinazioui », con dare come sicura in F^ 388
la lezione eilc XI jìurts'vavc XI, e farne il suo punto di par-
tenza: ora, avendo in quel testo nient'altri che l'Helbig letto e
trascritto chiaro e tondo zildi jmris'vavcii (cfr. Qucte, fai. etr.
Sorade) (''*), e la stessa lezione risultando pienamente confermata
dal disegno del Corssen (I, 0<.i3j, come mai noi nella ignoranza
nostra possiamo osare simili ardimenti più che in forma allatto
conghietturale e dubitativa, non vedo. Ma s'aggiunge che se il
Deecke, così conghietturando appunto (Etr. Forsch, VII, 11), ad-
duceva a favor suo che nella stessa epigrafe il primo T dì Tutes
presenta forma diversa da quello dei due -ti, io per me opposi
(Sagg. 60, n. 88) ed oppongo che, — mentre l'argomento del Deecke
non è punto decisivo, perchè della concorrenza di due e pur di
tre forme diverse dello stesso elemento in una medesima epigrafe
si danno, come precisamente qui accade {^% più esempi, — i nu-
meri accompagnanti zil- o le simili voci di dignità ed ufficio non mai
finora s'incontrarono scritti in cifra, ma sempre in parola. Né basta:
come qui zilc-ti jìurts'vavc-ti, abbiamo F. 2100 t-macstrevc i-m
eisnyvalCj collo stesso t{Ì) probabilmente premesso, anziché posposto;
e abbiamo poi (cfr. n. 63) nella Mummia (I 5) un prezioso
....uxtiQur^ che potrebbe essere stato circa: \marun']u/tibur (cfr.
Sagg. 187 sg. \alu\mna%ura-s ceyasieQur desnesQurs iamiaQura-s
e dpinaltra pruevnetura purtisura, tutti derivati col suff. -turo
da voci analoghe a maru marunu -unu^ marnux, umb. lat. maro
Maro); il che ammesso, qui ancora avrebbesi ti in compagnia di
vocaboli significanti ufficio e gerarchia. Male adunque anche il
Pauli (Vorgr. Inschr. II, 72) accettò come certa la proposta le-
(14) Non serve F* 119 = G. 779 Luk.cti, perchè la facile supposizione
che il K sia apparente per V (Lu[v]cti), viene esclusa da F' 120 Luh.
Cass' (Brizio). Gioverà per contro non dimenticare il paieol. 'S. Racectius.
S.' del G.I.L. X 4719, nella stessa epigrafe, il cui Auctrodius s'allinea collo
Staiodius testé datoci dalla tessera ospitale di Trasacco (Not. d. Scavi 1895
p. 89).
(15) 11 primo T di purts' vavcti presenta la stessa forma del secondo ; e
però se questo leggasi X, dovrà così leggersi anche quello. S'hanno poi qui
tre forme diverse di f7, due dì Z e due di S' (cfr. Corss. 1. 19, 1, p. 663).
— 465 —
zione, e male ora lo Skutsch v'impernia la sua « combinazione »
che zàl significhi, non 'tre', ma 'sei', e s'a, non 'sei', ma 'cinque'.
La quale « combinazione » consiste in ciò, che il defunto del-
Tepitafio con zilcti purts'vavcti essendo morto di anni maxs
mQrums, se fu egli 2ilc e purts'vavc undici volte, deve zal, a
cui zaQrums per lo Skutsch sicuramente si rannoda, avere avuto
il più alto valore che i dadi permettano assegnargli, ossia 'sei'.
Ma zaQrums, prima che a sai o sai, per via di 2a(l]Qrums può
rannodarsi direttamente a s'a, come infatti opina il Deecke: il
che posto, il risultato voluto dallo Skutsch si otterrebbe, se bi-
sognasse, senz'alcuno stento, conservando a s'a il significato eti-
mologico di 'sei'. Quel risultato però torna per ora inutile af-
fatto, perchè per ora, come teste si mostrò, mie XI e purts'vacv
XI, non esistono. — Analogamente ci dà lo Skutsch (p. 260)^
da F. 2116 uno XI zila\ce, che è invece: XI zilaxce, ossia
(Sagg. 60, n. 88) circa [L\XI zila^ce (Deecke, E. Fo. VII 12, 22
VelQurus\la] XI zila\cé), dove la cifra indica l'età del defunto,
e non ispetta già, com'egli suppone, a zilaxce, perchè ne mai,
come già si disse, fu espressa in cifra la durata dell'ufficio, né mai
durò XI anni, ma o fu perpetuo, o durò molto meno : egli me-
desimo cita invero più esempi di zil- senz'alcun numerale. —
Parimenti (p. 258, n. 3) egli ammette in F. 2432 avil si l'emen-
dazione avil s{valce), senza badare che si potè in generale essere
legittima pronuncia etrusca di ci, e che ciò risulta in questo
special caso provato quasi all'evidenza da lemn. sialXveiz ali. a
etr. cialxus' cealxuz (Pai. 117 s. v. sì, Sagg. 152, Due isc. pr. 161,
Oss. crit. 632, n. 12). — Noto infine, per abbondanza, come giusta
lo Skutsch amce continui a significare: 'è' (p. 260), malgrado Vamce
etnam della Mummia allato al puiam amce prima conosciuto (Sagg.
41-56 sg. 71-73, Ult. col. 5); come egli creda (p. 261) pur sempre
ad un verbo avence, quantunque consti ornai trattarsi di a-
-vence lupum (Sagg. 62 sg. cfr. mul-veneke ecc.) ; e come reputi
« chiara forma preteritale » arce per 'habuit' o 'peperit', laddove
da un pezzo già si dimostrò (Iscr. pai. 16 sg.. Due iscr. prer.
164, Oss. crit. 623) che vuoisi tenere pel loc. sg. di arca: così
Manim arce 'in Manium arca', Quf-arce 'in Thufulthae arca'.
— 406 —
Manilm] ipe 'in Manium ipr)', ipa Ma.ani[rn\ 'ìPn Maanium*, ipa
murzua Certirum "i^r\ mortualis Cerorum', subi manalcu 'sedes
Manium' letter. 'inanalica', suQi cerixu o cerinu 'sedes Cerorum'
(letter. 'corica' o 'cerrinia'j, cioè 'sacra ai Mani o ai Ceri'(§17j.
§ 11. Niente però più mi sorprende, niente mi riesce più ine-
splicabile del silenzio assoluto clie serba lo Skutsch intorno ai fatti
materiali, onde consc^nie, come testé si accennava, che Bu valse
veramente 'due' e non già 'tre', second'egli col Pauli immagina, e
quindi che su di ciò deve fondarsi veramente, come infatti fra
noi sin da principio si fondò, l'interpretazione dei dadi tuscaniesi;
sicché qualsiasi controversia intorno alla realtà della serie: max
Qii zal huQ ci s'a '1, 2, 3, 4, 5, 0' è questione quasi di lana ca-
prina e perditempo, tanto più deplorevole quanto più gioverebbe
che le giovani forze si rivolgessero alla piena giustificazione fo-
netica di siffatto assai probabile risultamento. Ed eccoli di nuovo
(cfr. Sagg. 175, Oss. crit. 630 ecc.) codesti fatti, nella speranza
che una buona volta gli oppositori vogliano od accettarli, o discu-
terli : 1° F. 2033*'''^ A'', sopra uno schiavo che suona la doppia
tibia si legge Qun s'unu (Sagg. 38, n. 54 e cfr. Bugge, III, 8-9) ;
ossia, pareggiato Qu al lat. duo e Qun a lat. duonus bonus (*®j,
circa 'duonisonon' o 'suonatore della doppia (tibia)'; 2° F. 2095b
due persone si designano colla parola Qu-lut\e}r, dove luter è
plurale di lut (G. 88 = CI. E. 371 Tins'-lut), come p. e. amer
clenar di ama clan (Sagg. 37, n. 52, 56. 138, 148 e cfr. Bugge,
III 9), e come sul piombo di Magliano 6w-x i\utevr ; 3° F. 1246
tu-surQir, e 1247 tu-s'urBi (cfr. F. 2003 tu-s'wQiì), è detto di due
defunti (letter. 'biaopiti'), uomo e donna, raffigurati sul coperchio del
sarcofago e nominati separatamente |(") Dell'incisovi epitafio (Sagg.
37. n. 52), mentre poi s'urQi ('in cfopuj') da solo s'ha oggi (Sagg.
76) nella Mummia, Vili. 7 (mancante all'indice); 4° F. 2613'''^
Aiseras QuflQicìa, e quattro volte nella Mummia (Sagg. 70) Ais
(16) Cfr. etr. lat. Dana Lardia per etr. Qana LarBia, etr. perug. Vel-
Qunas' con lat. perug. Veldumnianiis ecc.
(17) Cosi pure Pauli, G.I.E. 433 (G. 492) L(a)rt. Tuie (e) Caoinei iii-
-s\urQir).
— 467 —
(o Ais') Cemna-c (o Cemna-y): ora Ais 'deus' rispondendo evi-
dentemente ad Aisera-s 'deae', ne consegue che pure Cemna può
tenersi rispondere a QuflBicla ; ma Cemna rida tal quale con
grafia etrusca lat. pren. Genina Gemina, e però ben risponde a quel
'Duplitticula' (cfr. lat. Belolai-Eomuìus ecc.), che sarebbe la tra-
scrizione latina letterale di QuflQi-cla, secondochè il Deecke (Bleipl.
V. Magi. 9) conghietturò genialmente assai prima che le Fasce giun-
gessero a dimostrarlo, e ad insegnarci quindi avere anche gli
Etruschi posseduto non solamente Qu per lat. 'duo', ma sì ancora
Qu-flo- 0 Qu-plo- (cfr. QuflQas' QuplQas') per lat. duplus ; 5" Tii-
-\ul-\a (Mon. Inst. IX, t. 15. 5. cfr. Corssen, I, 364) è il nome
d'una furia infernale dal cui capo schizzavano fuori due serpi
(Oss. crit. 630, n. 634 n.); nome ridato dal tu-x(u)la-c e dal Qun-
-Xule-m della Mummia (Sagg. 42. 124, Ult. col. 12 e cfr. gen. Qun-
-Xul-Qe, donde QunxulQ-l col suff. -u-Io nel cippo di Perugia); sicché
impariamo avere gli Etruschi oltre a Qu Qu-pìo, per lat. duo du-
plus, posseduto, pare, uno dun-gulo- ('quel del due'), foggiato su
lat. sin-gulu-s ('quel dell'uno') e nin-gulu-s ('quel del nulla'). —
Ma ben altri fatti inattesamente rivelarono le Fasce: lo Qun che
Qun s'unu ('bisonante' per 'diauleta') c'insegnava a mandare con
lat. duonus bonus ('quel del due', come be?mìo- heìlus dalla dop-
piezza e parità concorde e duellum dalla discorde) vi compare
due volte (Sagg. 73) nella combinazione ara Quni 'arae duonae'
(con -a da -ai e -i da -ii -ei -ai), e ricorda le -arae geminae
del funerale latino, una sacra agli dei inferi, una agli dei superi :
splendida conferma che Qun Quni vanno veramente con Qu lat. duo
e con lat. duonus. Allato poi a vacl ara Quni ('vocalis [sacerdos]
arae geminae') ci mostra la Mummia vacl ara Qui, e pure Qui
aras'; dunque, come lat. dui- in dui-census dui-dens ali. a duo,
così etr. Qui ali. a Qu: infatti (Sagg. 146), come ara Qui e Qui
aras' ali. ad ara Quni, così halyze Qui ali. ad haly^za Qu; inoltre,
come teste Qu-lut[e\r e 9w-x i^utevr e tu-surQir, così ora avvertiamo
(Sagg. 147) Qui acasr quale designazione, al modo che tu-surQir,
di due defunti insieme ricordati; e come poi ali. al plurale lui\e'\r
con Qu, ponevano il sg. lut, così ora ali. al plur. acazr con Qui,
avvertiamo il sg. ahase (Sagg. 16, 148 con I$cr. Pai. 11, 32). — Non
— 468 —
basta: la Mummia ci diede (Sagf?. 142. 114, Ult. col. 10 sg.) con
vìnum Bili anche vinum Qil vacl e 0e vacl, e, come pare, Sei aras
accanto ai testò citati Qui aras\ ara Qui, ara Quni; ora pure in
latino ali. a dui- abbiamo Builius e dis- o di- e his. Riprova :
come Qu-lut\e\r e Qu-\ ixutevr e tu-surQir e Qui acazr, così nella
Mummia Qar Qi ecir; e sul cippo di Perugia (Sagg. 145) naper
Qii, insieme con naper XII, naper ci, hut naper (F. 191 1 A 10,
cfr. cippo di Volterra F. 346 = C.I.E. 48 huQ naper). In fine
poi della grande epigrafe perugina (Sagg. 140) leggiamo: zeriu
nacxa Qil QnnXulQl; ora, mandato Qil con lat. Duilius, e pareg-
giato ad un lat. 'duilis' per 'duplex', quelle parole diranno ali 'in-
circa: 'series denicalis duplex Thunchulthulae sacra', e designe-
ranno l'iscrizione stessa del Cippo, come scritta nelle due diverse
faccie (maggiore e minore) della pietra, e sacra (cfr. § .33) all'in-
fera dea (dun)(ulQa, di cui il cippo medesimo narra essere stato
'cultore' uno fra gli oblatori {^^) della 'serie' de' funebri doni in
quella registrati; dea, vale a dire, verisimilmente non diversa
dalla QuftilQa o QuflQa o QuplQa, ossia 'Doppietta' o 'Gemina',
cui vedemmo consecrata l'arca (Quf-arce) in cui giaceva il de-
funto.
Ho io torto di meravigliarmi che di tanti e così cospicui do-
cumenti non faccia pur motto in una speciale scrittura intorno ai
primi sei numeri etruschi, un filologo arguto, promettentissimo,
spregiudicato, quale dagli 'Studi Plautini' a tutti apparve lo
Skutsch ? ho io torto di rimanere stupito, perch'egli reputi « le-
cito » (p. 266) lasciarli da parte, e sembri scorgervi niente piìi
che « orgie corsseniane »?
§ 12. Le cose predette, se bastano, a parer mio, per giusti-
ficare l'opinione che l'etrusco fu probabilmente lingua indoeuropea
ed anzi italica, non bastano però ad affermarlo come verità di-
mostrata; il che non accadrà, se non quando siasi offerta dei mag-
giori testi etruschi tale interpretazione, alla quale i più degli
(18) A. 13 + 12 yelQina cleri Qun\ulQe 'Voltinius colens Thunchulthae';
cfr. Rendic. 1892, p. 372 etr. clen Ce^a, lat. 'cultor I\Iinervae' (Perugia),
'cultores Saturni' (Cortona e Fiesole), 'cultores Herculis somnialis'
(Pisa).
— 469 —
studiosi possano concordi giustamente acquetarsi ; quando siansi
scoperte le cause per le quali la parola italica venne ad assumere
in bocca etrusca figura spesso diversa dalla latina, dall'osca, dal-
l'umbra; quando infine siasi per buona parte dipanata la matassa
arruffatissima dei numerali etruschi: imprese molto gravi, già ornai
bene avviate, ma lontane ancora da quel grado di progresso che
in questi nostri « errorum latibulis » può con discrezione aspet-
tarsi. Coloro co' quali io sto, debbono adunque, bilanciate le dif-
ficoltà cogli argomenti a favore, accontentarsi per ora di tener
soltanto probabile l'italianità dell'etrusco, ed anzi a tenerla soltanto
un po' più probabile o di gran lunga meno improbabile, che non
l'opinione opposta; pur confidando che la piena dimostrazione non
tardi e che il moto felicemente iniziato ne' tre campi sopraddetti,
mercè a' miracolosi trovamenti degli ultimi anni, si acceleri, come
suole, in ragione quadrata della distanza. Quasiché in tutto simile
risultato dipenderà tuttavia dalle nuove forze che si aggiungano
alle nostre, ancora miserabilmente povere e scarse : né l'aggiunta
sospirata accadrà, se non riusciremo a persuadere i più autorevoli
filologi e glottologi della prima e più importante parte della dot-
trina da noi difesa, sulla quale poggia la persuasione che lo studio
delle etrusche epigrafi possa ornai proseguirsi con fondata speranza
di sicuro e abbondante frutto.
Facciomi pertanto ora a dir di quella parte con qualche lar-
ghezza; ed osservo anzitutto, che la jiregiudiziale aspettazione delle
molte parole e forme italiche contenute ne' testi etruschi scatu-
risce direttamente dalla stessa sentenza degli avversari, avere cioè
gli Etruschi mutuato dagli altri Italici la farraggine de' loro nomi
propri di persona. Invero, dato ciò e non concesso, se tali furono
gli Etruschi che a loro, unici al mondo, si debba imputare sì
strana mutuazione da popoli assoggettati, e il conseguente ab-
bandono de' nomi propri nati nel loro mezzo, e da essi, prima
dell'italica conquista, posseduti; come mai avrebbero serbata im-
mune da contaminazioni la restante loro suppellettile linguistica?
Che se tale ipotesi si riconosca assurda, ne conseguirà doversi le
parole e forme etrusche, le quali appaiono esteriormente identiche
di parole o forme latine o falische od umbre od osche o greche,
— no —
sospettare a priori veramente identiche; e si dovrà ricercare prima
d'altro, se come tali, convengano ai contesti, fatta ragione d'ogni
più minuta circostanza. Ma s'aggiunge ornai che, sehhene tuttodì
per noi il numero de' nomi propri etruschi vinca d'assai quello
delle voci comuni, nullameno conosciamo parecchie decine di queste,
che coincidono estrinsecamente punto per punto con voci italiche
0 al più greche, laddove nemmeno dieci colali coincidenze per-
fette si seppero o si saprebbero additare con altre tavelle, specie
anariane : ora come supporre che ciò provenga da mero caso ?
come immaginare che appunto per essere stati gli Etruschi vicini
sempre, e padroni un tempo di Koma, a priori debbasi adi re-
putare sostanzialmente diverso dal pren. acila, avi! da lat. avilla,
alaQ da alatos, alumnaQe da alumnus, aprine aprens'a da ape-
riens, ama ara da ama e ara, arni da ama, ars'e da arsii, aue
da ave, axnaz da agnatus, ayjrum da agrum, afrs da apros? E
così via, più 0 meno per tutte le lettere dell'alfabeto; e sempre
più, se col latino si abbraccino l'umbro e l'osco e i loro dialetti.
e insieme si tenga d'occhio il greco; e sempre meno invece, se si
badi insieme p. es. al glossario gotico, o ibernico, o slavo, o san-
scrito ; e peggio se si sfogli altresì il dizionario ebreo, o copto, o
basco, e più giù sino alle lingue più remote. Ora, gli Etruschi
essendo stati dacché storia è storia popolo italico stretto da le-
gami costanti co' vicini del Lazio ; tale popolo adunque del quale
appunto si aspetterebbe che la sua favella fosse affinissima alla
latina ; come mai tanta copia di estrinseche consonanze non con-
fermerebbe per le voci comuni e per le forme grammaticali la
presunzione già suggerita dalle consonanze onomastiche, che molte
e molte debbano senza più essere state comuni?
§ 13. Ma naturalmente codesta presunzione di per se vale
quel che valgono le presunzioni ; e sarebbe nulla, se i contesti
rigorosamente esplorati non la convertissero ora in una realtà, ora
in una grande probabilità. Ed ecco alcuni esempi dello stesso
ordine di quelli qui sopra addotti pel numero 'due'. — Testé
ricordai etr. aìa% e afrs, come voci di cui sembri giusto presumer
possibile dalla esteriore loro apparenza il pareggiamento con lat.
alatos (ossiano 'alites') e apros (Deecke): ora quelle due voci stanno
— 471 —
insieme in una stessa brevissima linea della lamina di Magliano, e
però la possibilità già per ciò solo comincia a rasentare la probabilità;
infatti torna in sé probabile, che fra due parole vicinissime di un
medesimo inciso interceda alcuna relazione, quale apfiunto inter-
cederà ammettendo che entrambe designino degli animali. Ma
sono inoltre le dette voci separate da a, che i dadi di Toscanella
insegnarono designare un numero fra l'uno e il sei; mentre poi
ci segue ad afrs, ad aZ«e segue ximQm, parola esteriormente assai
simile a lat. centum (cfr. lit, szimt-)^ e ben resa da questo al
principio della medesima epigrafe e in altri testi; cresce quindi
la probabilità del sospettato pareggiamento, perchè in compagnia
di due vocaboli, che giusta quello spetterebbero a specie diverse
di un medesimo genere, troviamo vocaboli esprimenti due varietà
numerali, e però appartenenti anch'essi ad una medesima cate-
goria concettuale. E s'aggiunge, che, dall'un canto, mentre la ca-
tegoria di questi è il numero, tale è il genere di quelli, che
comprende appunto cose numerabili; dall'altro canto, mentre il nu-
mero maggiore \iìnQm ('cento') accompagna precisamente la specie
del genere che piti abbonda e meno costa (lat. aìafos per 'alites'),
il numero minore ci ('cinque', come da' più si stima, o almeno
fra uno e sei, come da tutti) accompagna la specie che più scar-
seggia e vale (lat. apros). Ma v'ha di meglio: ad afrs. ci alaQ.
XimQm ('apros quinque alites centum'), precede Maris'l menitìa :
dove Maris'l tutti ammettono andare con 3Iaris\ nome di quella
deità, che poco diversamente i Latini dissero Mars: ora niente
più conviene ad un testo antico, dove si parli di due diverse
specie di animali, ciascuna in numero preciso, dell'occorrervi in-
sieme il nome d'un dio, cui quelli si possano credere sacrificati:
e la convenienza cresce, se i)er l'interposto menitìa si pensi (Deecke)
a lat. niensis e gr. |uriv (^^), giacche così, insieme colle vittime
e col dio cui s'immolarono, possiamo credere si ricordi il tempo
(19) Quanto al suff. -da, io confronto ArnQali-tle Cezar-tle (circa un
lat. 'Gaesariculus'), maru-tl 'maroniculus', na-mul~tl, Qt(fiQi-cl(i 'Duplit-
ticula' (ossia iunicula') Std-sle 'solecchio solino' fr. 'soloil'; quindi vieni-tla
'mese' (letter. 'mensicula', it. 'mesetto') ecc. va coll'osc. zi-colo-m e col lat.
die~cula anni-cidu-s (Sagg. Ili n. 115 e cfr. qui n. 51 Calus'da).
~ 472 -
del rito in onor di quello celebrato. Ecco adunque, come, — posto
il principio, che i nomi propri etrusclii essendo quasi tutti ma-
nifestamente italici, debbano in etrusco per lo meno abbondare
anche le voci comuni di tale maniera, e che perciò si debba pre-
sumere, fino a prova contraria, possibilmente identica o connessa
ciascuna forma e parola etrusca colle italiche cui {)iù appaia so-
miu^liare, — si ottenf^a da un inciso etrusco di sei parole cosi
plausibile senso approssimativo, da invitare in primo luogo a ten-
tarne la rigorosa giustificazione fonetica e morfologica, e da far cre-
dere in secondo luogo, se il tentativo non approdi o solo in parte,
che l'infelice risultato vogliasi attribuire, anziché ad errore di
massima, al presente piti o meno inevitabile difetto dell'applica-
zione. — E siffatto discreto giudizio parrà non solo equo, ma si
imporrà, a chi consideri come gli oppositori mai non siansi dati
pena d'investigare se le sei parole predette potessero interpretarsi
secondochè, al modo esposto, acutamente indovinò il Deecke; ma
tutta ad un fascio condannarono la sua interpretazione della
Maglianese, ne all'opera sua surrogarono pur l'ombra di qualche
cosa, che mostrasse una buona volta i predicati miracoli dell'er-
meneutica, come dicono, meramente combinatoria. Che anzi av-
venturaronsi a provare, come al metodo delle combinazioni etimo-
logiche di base italica mancasse ogni saldo fondamento; sicché per
la stessa via sarebbe facile, nel loro giudizio, pervenire ad interpre-
tazioni affatto diverse. Ma ecco per contro quale risposta dessero in
mano loro scherzosamente le parole Maris'l menitla afrs ci alaQ
ximQm, che noi in modo molto semplice interpretiamo : 'a Maris nel
mese (suo), cinque cignali e cento volatili'. Richiamato cioè me-
nitla ad un ignoto nienis 'memoria', donde sarebbesi derivato col
suflf. -tXgv ; pareggiato afrs e alaQ a lat. afferas e aliata ; scom-
posto yiniQm in yJ^niQ per Koi)Lir|Tri ed in un immaginario -m en-
clitico per lat. -que\ quelle sei parole (Pauli, Altital. Stud. II,
131 e 133) direbbero: 'a Maris che tu apporti cinque doni me-
moriali apportati e sepolti'; e darebbero, così dicendo, un « senso
pienamente accettabile » (cfr. Pauli, Vorgr. Inschr. II, 12). Ora,
se torna incredibile, che alcuno siasi mai potuto illudere a questo
segno, torna anche più incredibile che nessuno degli oppositori
— 473 -
siasi mai dato briga di riconoscere, che in ogni caso l'altra inter-
pretazione era di gran lunga piti accettabile, e che, considerato
il contesto dell'intero cimelio, essa sola rimaneva tale, laddove
l'ingegnosa parodia non l'era affatto. Perocché con Maris'l inco-
mincia una nuova sezione, separata con tre punti da quanto pre-
cede, che alla sua volta va da uguale interpunzione spezzato in
due simili sezioni ; quindi di tutto ciò che forma il fondamento
primo e precipuo dell'interpretazione deeckiana, il critico parodia-
tore non si dà per inteso, e ancor meno avverte che, conforme a
quella, ciascuna sezione comincia con un nome di deità, cui se-
guono, dopo un'indicazione temporale, parole accennanti a rituali
offerte; insomma, come nelle sei parole sopra considerate, che
stanno al principio della terza sezione, prima sta il dio Maris'l,
poi il suo mese e le relative vittime animali, così nella seconda
sezione, prima èia nota dea ^fsera, poi la voce ?«e»2e, manifesta-
mente connesse col menitla di Maris'l, e fra l'altro le voci arni
e lacQ ben somiglianti a lat. ama (2") e lacie; e così ancora
nella prima sezione, anzitutto il dio CauQa, poi la voce avils,
che gli epitafi per universale consenso dimostrano significare 'anno',
e però torna concettualmente parallelo a mene e menitla 'mese' ;
e appresso, fra l'altro, di nuovo lacQ (lat. lad-), e altresì avil e
murinas'ie, che possono far famiglia con lat. avilla e murrina
(poiio). Ma, tutto codesto così perfetto parallelismo nella parodia
sfuma: al verbo sg. 'afferas' (etr. a/Vs) pel dio Maris'l^ risponde il
plur. 'duite' (etr. iuQi) per la dea Aisera, e persino scompare
affatto il dio CauQas, sebbene col suo nome cominci la prima
sezione, come con Aisera la seconda e con Maris'l la terza; sicché
di necessità dovrebbe stimarsi designare un dio, anche se CaQa
e (7a9(a) del bronzo di Piacenza (e insieme lat. Catius e lat.
gali. Cauto paté) noi riprovassero: scompare cioè, per far luogo
ad un part. pass. pass, dalla base verbale onde i Greci ebbero
Kaio), e permettere a chi l'inventò di bandire alle genti attonite,
come qualmente 'bruciato il Tutico di 80 anni è': e ciò in Etruria
dove i ricchi e i nobili, sino all'Impero, sempre aborrirono dalhi
(20) Gfr. ora, a conferma, § 'ÒX VArnuna di Narcc.
— 474 —
cremazione! (^'). K son codesti risultati clie vorrebbero persua-
derci indirettamente della eccellenza del metodo combinatorio
puro (che vuol dire adunque puramente cervellotico) e diretta-
mente della inanità delle combinazioni etimologiche a base italica;
quasiché l'opera seria potesse confondersi mai collo scherzo, e
l'uso cattivo 0 pessimo di ogni miglior cosa bastasse a condan-
narne l'uso buono.
§ 14, Passo ad altri più spicci esempi. — aj) r[e\7i s a
aprinQ, lat. aperiens (lett. aperiendus -da cfr. secundus ecc. per
'seguente' ecc.): preceduto (Sag. 22 n. 20) il primo da Senmnin
lat. Semonum, seguito (ib. 134) il secondo da Vale (cfr. ib. Ili
con 107-109 Ais-Vale letter. 'deus Valae' ossia 'Valentiae' con
lat. Heries lunonis, Salacia Ne^ìtuni ecc.); infatti sappiamo da
Serv. Aen. IV 301: 'moveri — sacra dicebantur cura solemnibus
diebus aperiebantur terapia instaurandi sacrifìcii causa, cuius
rei Plautus in Pseudolo (I 1, 107 = I 109) merainit. — Hoc
vulgo apertiones appellant'; inoltre cfr. Fest. ep. 22M. :=17
Th. 'Aperta' idera Apollo vocabatur, quia patente cortina
(21) Così all'interpretazione corsseniana di max Quzal (§ 9) il canonico
Taylor (Languages, 111 2, 15 febraio 1895 p. 23) continua ad opporre, che «in
good gaelic ;> quelle parole avrebbero detto (Ellis): 'Mac Dougal gave this',
e in « equally good Armenian »: 'Magus cuts the recornpense of the wow',
e come « a mixture of gothic and Greek » (Crawford): May these sacred
dice fall doublé sixes'; e conclude: « eveiything, in short, may be made
cut of anything if once the necdful license be allowed ». Ora, per infelice
che sia la conghiettura del Corssen, Quzal sta veramente dentro i confini
etruschi, ma non 'Dugal', e niente parla a prò' di speciali connessioni ar-
mene, come per disgrazia il libro del Bugge, cosi dammeno de' suoi splendidi
Beitràge' (specie il li e 111), dimostra; né mai poi il Corssen si rifugiò nella
enormitJi di una miscela greco-gotica. Tutti possono sapere del resto in
qual modo il T. tratti l'etrusco e i suoi numerali, e trovi p. es. che « the
Turanian languages afford a complete and satisfactory explanation » del
-l^l- etrusco : e sarebbe che lokke lappone' vai 10 (cfr. -lex -rex di al-
cuni linguaggi turchi, p. es. i-lex = 50); quindi Ik -\- lk = ^\ ora « there
are several reasons for supposing that the Etruscaras, like some other Tu-
ranian nations counted by scores instead of by tens »; il che posto, leklh
essendo di troppo difficile pronuncia, fu ridotto a lekl = 20. E così dopo
aver prese le mosse dal fatto che etr. Ix (per lui Ixl) dice 10. dimostra il
T. « completamente » ch'è turanico, facendogli dire 20 (Languages, 5, 15
marzo 1895, p. 48).
— 475 —
responsa ab eo denlur'. Essendo poi Semunin apr\e]ns'a detto di
donna {Qanxvil Velsui, laddove aprinQ Vale fu Laris Pulenas),
trova esso riscontro nel titolo della sacerdotessa peligna sacara-
cirix Semunu 'sacratrix Semonum\
axnaz acnesem acnina lat. agnatus : infatti su^i a\naz
'sedes (cioè 'sepulcrum') agnaticia', acnesem ipa 'agnaticia x^x],
acnina del 'agnaticia cellula' (Sagg. 70).
calatnam cntnam suntnam vacltnam vacl etnam \a,t. ca-
lans canens sonans voculans : non può facilmente ammettersi che
per mero caso in ben quattro parole composte, aventi, come pare,
uguale il secondo membro {-tnam per etnam), il primo trovi ri-
scontro per tutte quattro in basi verbali latine di significato si-
milare (Sagg. 137. 193, cfr. Due iscr. prer. 35 sg. kalatnenis').
Ma s'aggiunge che etnam sarà in bocca latina potuto, se mai\
suonare circa 'edanum' per dire 'edule' (gr. èòavòv), ossia 'ciba-
ri um', epiteto, come del pane e dell'olio, così del vino; e che la
Mummia ci dà, a tacer d'altro (Sagg. 133, Ult. col. 9), come vi-
num acilQ ame così acil ame etnam, dove etnam apparisce parallelo
di vinum,: ora ammesso che abbia quella voce designato alcun che
d'analogo al vino, i composti di cui si tratta troverebbero riscontro
nel composto gr. lat. spondaules -aulium. Cfr. per c(a)n-tnam, F.^
376 (Corss. I 1005) il suonator di liuto detto ca{n)cu, ossia come
un lat. canicon (Bugge III 6 canticon).
cela fai. cela lat. cella : parola cinque volte (Sagg. 79)
susseguita nelle Fasce da 5m0, che sta a suQi 'sepolcro', come p.
es. cel d'altre epigrafi a celi i^'^) ; torna quindi probabile che celi
indichi cosa in qualche guisa attinente alla sepoltura, quale ap-
punto fai. cela (lat. cella) 'sepolcro'. Ma s'aggiunge che sulla
porta di un sepolcro volcente si legge inciso cela s'alQn, e che
mentre sul candelabro di Cortona s'ha Qapna....s'alQn, nelle Fasce
incontriamo Qapnes'ts' celi-., onde risulta per doppia via che ceZ/
ha relazione con Qapn-, vocabolo quindi anch'esso verisimilmente
di significato sepolcrale e però ricordante gr. 0dTTTUj (cfr. gr. etr.
(22) Cfr. caper-c Qum Meati lNu]ì-Q: s'uQiQ Ta^nalQ allato a caperi,
Qufi cizi es'ulzi, Metani NurQzi s'uQiti TarxnalQi.
— 47C, _
Qese Qetis QeQis), specie occorrendo nelle scritture di tale paese,
dove la pratica delle umazioni fu con tanta costanza osservata
(Sagg. 79-80).
cenu lat. cena: l'inciso (Due iscr. prer, 30) del Cippo di
Perugia (F. 1914 A 10-11) s'cuna cenu eplc felic dà sospetto che
ccnu ed epl-c^ con -e lat. -que (Ult. col. 15 sg ), siano state voci
in qualche guisa connesse o fra loro analoghe; il che appunto si
verifica, se anche epl si pareggi a lat. ejmlum ; e la prohabilità
cresce, se, ricordati lat. Sqnna Secunnus e lat. etr. Anicona (Sagg.
22. 205, lat. etr. Annic- per Antig-), s'interpreti l'intero con-
testo: 'secunda cena epulumque felix' (").
cisuni lat. {circum)cisitium 0 (circunijcidaneum (mustumf:
nove volte (Sagg. 30-35) sulle Fasce, sempre susseguendovi j;M/e,
come appunto con lat. circimicisiiium potrebbesi avere potavit.
Ma s'ha poi altrove cisum con iatnera, che ben tre volte occorre
associato a vena-s ; quindi questo, col quale, a giudicare della
estrinseca somiglianza, potrebbe essere indicato il 'vino', indicò
certo cosa analoga a cisum, quale appunto il vino, se cisum va
con lat. (circum)cisitimn.
vena-s vene-s lat. etr. vinum: l'estrinseca somiglianza
teste allegata, riceve conferma intrinseca dalle combinazioni (Sag.
()3 con 34 e Ult. col. 39) ve\n\es luri e lu[r] venas; dove, chi non
creda che sempre l'apparenza contraddica alla realtà, potrà so-
spettare che insieme col 'vino' abbiasi la sua lora ; come altresì
sospetterà che in etr. tnul-veni-i mul-vene-Jce Mul-vena-s Mule-
vin-al (cf. Atti Ac. di Tor. 1893 p. 250 = 10 estr.) s'abbia col
'vino' il 'miele', al modo che in lat. mul-su-m {-^). Cfr. F. 71
ank{ar) venes AnJcariate Ve^s^iae 'anclabre vini (deae) Ancariatis
Vesiae' con F. 70 ankar Vesiae (Sagg. 109).
(23) Per 1' -u di cenu, cfr. RamQu e RamQa, reu-x e riva-x S'eu e lat.
cen-sevia (Wissowa, De fer. anni Romanor. vetustissimis p. vi) umb. etantu
ose. viù ecc.; cfr. anche etr. s'ars'nau-s' con umbr. ose. qersna- kerssna-, e
V. Iscr. pai. 19 sg. Sagg. 75 ecc. con Due iscr. prer. 28 n. 19 e Ult. col. 34b.
(24) Cfr. 'Vinum nell'iscr. della Mummia', p. 10 (Atti R. Acc. di Torino,
1892-93, p. 250), due volte ìnula con vinum.
— 477 —
Qaure Qauru-s' e liipu lupu-ni (cfr. ^ 11) lujmce, lat.
taurus e lupus per 'morto': che lupu e lupuce (Sagg. 62 n. 212-214.
217 sg.) significhino 'morto' o 'morì', tutti omai riconoscono, con-
forme all'evidenza de' numerosi epitafi, in fin de' quali si dice
del defunto : 'liqm o lupuce di anni tanti ; ma come indarno finora
si cercarono clan e sex ^^'^ 1® parole di qualsiasi lingua antica o
moderna per 'figlio' o 'figlia', così indarno si frugò ne' dizionari
del mondo intero per iscoprire chi abbia detto o dica 'morire'
con vocabolo che somigli a lup)u. Ora (Sagg, 62. 212. 214. 217 sg.),
dall'un canto a lupuce segue una volta -surasi ed una surnu ;
d'altro canto il popolo degli Hirpi Sorani così appellossi perchè
'lupi Sabinorum lingua hirpi vocantur, Sorani vero a Dite,
nam Dispater S o r a n u s vocatur, quasi lupi D i t i s patris'
(Serv. Aen. XI 785): donde caviamo un lat. lupus Soranus, che''
può ridare punto per punto etr. lupuce Surnu (cfr. etr. Lar Larce,
suQ s'uQi s'uQic s'uQce, lat. Alhucius Cusuccia Minucius), e ra-
senta lupuce Surasi (cfr. lat. Audasius Caprasius Loelasius).
Ma Dite Sorano fu deità per eccellenza infera, e il Soracte
(cfr. etr. Qucte zilcti purts'vavcii, gali. Bihracte) a lui sacro, fu
'mons Hirpinorum'; ed ancora de' tempi suoi narra Plinio (n.
h. VII 2, 11) che 'familiae sunt paucae quae vocantur hirpi*,
ossiano '1 u p i', le quali 'sacrificio annuo quod fit ad montera So-
ractem Apollini, super ambustam ligni struem ambulantes non
aduruntur', ondechè 'perpetuo senatus consulto militiae omniumque
aliorum munerum vacationem habent': ora ad Apollo Sorano, come
in Grecia ad Apollo, fu sacro il lupo, che vedesi appunto raffi-
gurato sulle monete dei Valerli Sorani, mentre poi una Valeria
troviamo essersi cognominata Luperca ^^). E non basta : sulla
(25) Babelon, Il 516 e Bassi, Apollo Moiragetes, p. 7 ^ Riv. di fil. 1895,
p. 149; cfr. Pascal, Il culto d'Apollo, nel Bull, commiss. archeol. munici-
pale, 22, 1894, p. 52-!^9 e in generale per tutta codesta materia il suo eru-
dito studio 'Le divinità infere e i Lupercali' nei Rendic. Acc. Lincei, 1895
p. 138-155, dove anche proponesi in f. una etimologia diretta di h'pu, senv.&
tener però conto né di surnu surasi né di Qaure. Cfr. altresì in generale
la mia spiegazione di etr. tusna (letter. lut. Tosnos TuniKs) per 'cigno',
come dovuto all'equazione Turno = Tirreno = Pelasgo e all'etimologia po-
polare di TTeXaaYÓq da TrcXapYÓq (Due iscr. prer. 134).
Kivisia di filologia, ecc., I. :il
— UH —
faccia posteriore della lamina di Magliano s'incontra S'uris Eis,
che vuol dire 'Suris Deus* (2^); e analo^^amente a surasi precede
Calu, noto nome di deità infera: cosicché lupuce Calu Surasi e
lupuce Surnu parrehhero aver designato il defunto come 'lupo'
sacro a Dite Sorano, ossia etruscamente Calu S'uris. il che posto,
nasce sospetto che pur gli enimmatici Baurc e Qauru-s di certi
epitafi etruschi designino analogamente il defunto come 'toro',
specie perchè sacri agli dei inferi furono in Koma i ludi Taurii,
cui dalla 'sterile' taura son rannodati i Luperci^ fecondatori delle
donne sterili collo striscio delle pelli sacrificali: e il sospetto rin-
saldano certi epitafi latini della Spagna, iscritti sopra « signa
nonnulla lapidea animalium tauri a p r i q u e sepulcralia »
(Sagg. 214). Quanto agli 'apri', richiamano essi V afrs ci della
Maglianese, sacrificati all'infero Maris, alla cui nascita su di una
cista etrusca assiste Cerbero (Iscr. Pai. p. 10 n. 19 e p. 56) (2'').
nun Q en o nunQen-Q estrei alcpazei 'nundina exteri albi'
(lettor, 'albasii' e cfr. umb. destrei lat. dextero): cioè (cfr. Sag.
71. 132. 154 sg.) 'nel novilunio del mese apportatore à^Walbus
Notus (cfr. AeuKÓvoTOc; e il 'chiaro e secco^ 'ApféaTr](; per con-
trapposto al 'nero' Aquilone), che 'obscuro detergit nubila coelo
neque parturit imbres perpetuos' (Hor. Od. I 7, 15); così nunQen
zus'leve zarve (Sagg. 139 sg.) 'nundina tortivae sacrae' (lett. 'tor-
culivae sacrimae'), cioè 'nel novilunio del mese in cui si torchiava
la sacrima\
r atu m lat. ratum : come (Sag. 84 cfr. 46) sulle Fasce
ratum Xuru, così i Latini 'astrorum r a t o s cursus' e 'e h o r u s
astrorum' e Tleiadura e h o r u s' ; come in quelle ratum leitrum
'ratum litamen ', così lat. 'r a t a e preces'.
sane zanes' lat. sanae sani : come in più epigrafi mes-
sapiche (Due iscr. prer. 190) (^^) sana Aprodita (acc. -a«), così
(26) Cfr. Hes.: alaoi Geoi vitto Tu^^rivujv, Sagg. 70 Ais e Eis Cemna-c,
134, 159 sg. 228, 241 Ais- Vale, Aisu Usi, Aisece (G.I.Etr. 52b) Tati.
(27) Certe fanciulle prendevano parte in Atene alle Brauronie col nome
di 'orse*; e a Hierapolis certi fanciulli precipitati come vittime, diceansi
'buoi' (Bérard, Gultes Arcadiens, 133 sg.)-
(28) Oltre a F' 560 ivi citato, Not. 1884 p. 132, 27 sana Aprodita : quindi
forse pure ib. (a) [s]ana-Aprodita , malgrado F. 2961 Da\ta-Mo roana-
— 479 —
nella Mummia X 23 Neris' sane 'Nerienis sanae' (cfr. X 19 zanes'
Vuvcnics' con Zalvi, Salvi, ZuXu Sueu ecc.); quindi anche la dea dei
cimelìì veneti (ib. 68. 92) s'almateli Rehtiiah 'sanatis Kaetiae' (cfr.
Fest. paleol. sanates per 'sani' e p. es. lat. Cesala fai. pretocl per
'Oaesula' e 'praetor'). Conformemente (Ult. col. 42 con Sag. 19.
159) nelle iscrizioni etrusche, due volte il fleres', a noi noto come
cosa sacra nominata solo in oggetti di provenienza funeraria, è
detto san-s'l letter. 'saniculum' (cfr. muni-svle-Q con muni-cle-Q,
LarQiali-svle con Qiv-cle-s, Mari-si con QuflQi-cla s'acni-cla);
mentre poi sian-s'l, che sta a san-s'l come p. es. (Iscr. pai. 5)
Tiucun\t\na\l] e Partiimus a Tucuntines' Partunus', è detto
Mari-si^ cioè lett. 'Marticulus' (ib. 40 con Sagg. 50), ossia appunto
il dio con cui più strettamente fu connessa Neriene (p. es. Geli.
XIII 22. 2 'Neriene Martis') : quindi Neris' sane ben va con ^
Marisl sians'l. Ma fu Maris deità infera, alla cui nascita assiste
Cerbero (Pai. 56); ora fra' pociila sepolcrali dell'antichità latino-
etrusca, uno è scritto Saint e s pocoloni ed uno Ai s ci ap i
pococoloDi (Iscr. pai. 3. 22), e 'salutarla' si appellarono i
collegi funeratizi (Sagg. 209), e in Africa i soldati del Numerus
Syrorum scrissero: 'salute domum llomul(am) istituerunt' sui
loro sepolcri (ib. 215) ^29).
Sul lat. Sol: che la somiglianza insuperabile di queste
due voci possa esser fortuita, nessuno contesta; ma come reputar
fortuito (Sagg. 110), che appunto il derivato Sid-al, ossia circa
lat. Solaris, occorra nella Mummia susseguito da Marti-Q, voce
evidentemente connessa con lat. Mars, il dio solare per eccellenza
dei paleoitalici? Inoltre appunto di Sul si dà in quella il derivato
diminutivo Sul-sle, ossia precisamente in veste etrusca (cfr. Fuflun-
sul Fuflun-sl, muni-svle-Q muni-cle-Q, slele-Q del ecc.) quel di-
minutivo soli-culu-s, che fr. soleil lad. solelg it. solicchio
-Aprodita. A torto quindi il Deecke, Rh. Mas. XLIl 227, e il Thorp, Indog.
Forsch. V 210 pensarono ad una preposizione o particola a>ia o anan, come
dapprima (op. cit.) io stesso per analogia con etr. annat ananc.
(29) Cfr. Sagg., 183 sg. n. 136 e le mie osservazioni sullo analogie fra
l'etrusco e la latinità africana, nellWrchivio del WòltHin, Vili, 495-499.
— 480 —
solecchio ecc. (cfr. it. solino assolinare) già documentano, e lat.
anniculus e diecuìa con ose. zicolo confermano.
tul tular lat. tumulus : che tular, cui sta tul come hilar
a hil- (Sagg. 128 cfr. lat. calcar ecc.), significhi all'incirca 'sepolcro*
0 'lapide sepolcrale*, è opinione antica e generalmente accettata
(Sagg. 27 sg., Pauli 'lapide terminale'); ora, comò la Bentnia se-
polcrale *del Cippo di Volterra (Sagg. 54. 74) è detta arasi'a lett.
'arasia', cioè 'quella dell'ara' (cfr. p. es. lat. etr. Ocresia etr.
Versa 'quella del colle* o 'di Ocrio'), così tul incontrasi accompa-
gnato da asil-m (Sagg. 37. 211), che potrà essere 'asialem' {^%
cioè parimenti 'quello ùeìì'asa o ara' (cfr. Sagg. 24 s. asi sacni
'super ara sancta' con 25 aseies sacnis'a), forse nel senso di 'se-
polcro', al modo che in molti epitafi latini; come poi tul var
letter. tumulus varus (Sag. 117 sg.), così cel{a\ la cella sepol-
crale, e la non meno sepolcrale etr. lat. ama^ trovansi intitolate
penQna o petna (ih. 77. 79), che potrà mandarsi con \a.t. pendere,
mentre poi ven. j^^eGaris, se tale suonò, circa per 'sepolcro' (2^),
si tocca con etr. peQereni, certamente connesso con j)ef«a (ib. 69.
84. 155).
flana farsi: che farsi (Oss. crii 662) ridia, almeno
in apparenza, presso che tal quale umb. farsio fa{r)sio fa{r)siu,
ossia lat. farreum, tutti facilmente concederanno; che poi lo ridia
veramente, reputeranno sicuro, grazie alla compagnia di flana,
tutti coloro a' quali il pregiudizio e la paura delle « fallaci par-
venze indogermaniche » non imponga più della stessa evidenza.
Invero al lat. farreum, famosa, fra le cento e cento focaccie delle
religioni greco-italiche, in causa del matrimonio 'coufarreato', sot-
tintendesi lihum (Paul, ex Fé. 88 M. 63 Thew. 'farreum genus
libi ex farre factum'): ora, a dieci passi dal confine etrusco, ben
potè appunto fla-na aver designato una maniera di lihnm, come
'soffiato'; secondochè sembrano per tempi recenti attestare il basso
lat. flatones flantones, il ted. fladen e il fr. flan, e consigliare
(30) Cfr. § 18 Naverial Navesial ecc.
(31) Riv. di filol. 23, 1894-95, p. 228 (dove, fra le utili recensioni pre-
cedenti, va ricordata anche quella del Pascal, Bullett. di filol. 1, 1, p. 12sg.)
e cfr. Due iscr. prer. 66-93, 188.
— 481 —
pei più antichi, oltre alla ragione stessa delle cose, la ricetta ca-
toniana (de agric. 84) pel savillum : 'videto ut bene percoquas
medium ubi altissimium est'. Se adunque pareggeremo farsi
alla voce umbro-latina che lo riflette, lettera per lettera, ed at-
tribuiremo all'imito flana di là del Tevere il significato medesimo
che potè spettargli di qua, avremo accanto all'aggettivo Tarreum*
il sostantivo 'libum' da esso presupposto, e ad esso per molti se-
coli dai Latini sottinteso.
Non sono dunque mere « fantasime di una fallace indogermanità
etrusca » le identità o le analogie esteriori di tante parole etrusche
e latine; che anzi, considerate le ragioni generali geografiche e
storiche, si può e si deve sempre, sino a prova contraria, presu-
merne la realtà intrinseca.
li-
§ 15. Ma le congruenze lessicali a poco approderebbero se
non se ne aggiungessero di molte grammaticali. Prima che si
scoprisse la Mummia, erasi (Sagg. 41. 56-64, Ult. col. 5 sg.) in-
contrato puiam anice ; ed ecco la Mummia darci amce etnam ;
dalla quale ripetizione di -ce con -m posti sull'avviso, tornò age-
vole riconoscere come pur già si possedessero: zilace ucntum, zi-
ìaxnce medium, [z]ilaxnce pulum, vence liipum, cui aggiungo qui
a\rum con Qrce (Sag. 20 n. 34 con Oss. crit. 628 n. 12). Ora
per^wfam amce, nel primo infuriare del turbine anticorsseniano,
quando parve a' più che niente d'italico omai si dovesse ammet-
tere nell'etrusco, si ricorse , ognun sa, alla invenzione del -m
congiuntivo (Iscr. pai. 19 n. 34, Sag. 53); sicché il -m di puia-m ,
— come dire lat. 'uxor-que' — avrebbe avuto che fare col nome
antecedente, anziché col seguente verbo anice : ma sitfatta dottrina,
priva sin da principio di solido fondamento, ed omai sfatata dalle
Fasce (cfr. Oss. crit. p. 660 n. 32), evidentemente non serve per
tanti -ce, tutti accompagnati da -m, e però dimostranti che fra
questo e quelli intercede alcuna ragione. I quali -ce con -ni cre-
scono, quando si badi che la Mummia (Sag. 7. 81) dà efnani
ce/wcN accanto a etnam celucim e (ib. 44) svem Qumsa malaìi
— 482 -
allato a cinam t'x maiali', di che discende, che nella stessa linea
di puiam amce, amce einani ecc., dovranno porsi sva[l)n svalce
(Sag. 35 n. 4ft, non clan) e Gm (cfr, s'n scn sew) con turke'y^-),
'lorne testò aXrum con Qrce. Ora, dall'un canto, la concorrenza di
-m con -n nella società con -ce, hon si spiega supponendo trat-
tarsi del caso di paleol. acc. sg. Libiiinan (dr. ven. e messap. -ati)
per Lihìthiam, e p. es. di gr. acc. sing. Xvjkov per lai ed etr.
ÌU2)um\ d'altro canto, nessuno contestando, da Lanzi in poi, che
le predette voci in -ce siano verbi attivi alla 3" pers. sg. del per-
fetto, nessuna compagnia più doU'accusativo che ne dipende, torna
ragionevole per un verbo attivo nell'anribito delle lingue indoeu-
ropee ed anzi italiche. Ed ecco la riprova (Ult. col. 5 sg.) essere
tale appunto la condizione di puiam amce o amce etnam ecc.
Un'iscr. campanc-etrusca mostra: 2^craciam idei (Garr. peracis
estam kiet), dove fefet nessuno dubita essere lat. cìccìit ; un'altra:
Limurce sia pruy^nm, dove nessuno parimenti dubita che le due
ultime parole significhino: 'stat (ossia 'statuit') upóxouv' [^'^)\
inoltre dal testé allegato peraciam fetef, mal si vorrà separare :
roinem uvlin Faricmis' polem is'airon tei di Novilara, dove si-
milmente con tet abbiamo rotnem e poìem. Son dunque tre esempi,
due semi-etruschi, uno pretto etrusco, di noti e certi verbi finiti
(32) F. 1014ter con Deocke, Etr. F. IV, 55, e cfr. F' 170b Vel Sapu
(n. 74).
(33) Cfr. Pauli, Mém. Soc. de ling. V 284 Touts Kemrs poterem, sot-
tinteso sta; dove, ad evitare la necessità di codesto accus. sg. etrusco in -m,
non potendo qui giovare l'immaginazione del -m congiuntivo per -e (lat.
-que), ricorre e%\\ Fà\'\\)0\.e&\ à\ potere-m{i) 'ce Trpóxouc;'. Per tal modo: 1» si
avrebbero in etrusco due -m, diversi, privi d'analogia altrove entrambi, ed
entrambi inutili, se, conforme all'analogia delle lingue italo-celtiche, si veda
in mi 'io per me', e, conforme alle italiche, in -m l'esponente dell'accusa-
tivo; 2« codesto -m{i), che mai, nemmeno una volta, occorre così scritto nei
cento e cento esempi sicuri di mi iniziale, mediano o finale, s'avrebbe sol-
tanto in compagnia di verbi finiti espressi o sottintesi : cioè appunto in quei
casi, in cui l'analogia delle favelle italiche ed ariane permette spiegarlo, come
esponente di accusativo: 3° data e non concessa l'ipotesi del Pauli, mentre
per essa l'etrusco si isola da tutte le lingue conosciute, la spiegazione nostra
lo rannoda precisamente a quelle lingue, alle quali tutte le ragioni storiche
e geografiche fanno presumere che l'etrusco dovesse rannodarsi.
— 483 —
in compagnia di vocaboli uscenti in -m, de' quali uno almeno
{pru-pmi) è un acc. sg. altrettanto noto e certo. Ma v'ha di più
e meglio: l'Etruria vera e propria insieme con zilayjice meQlum^
ci dà tenve medium : ora tenve può riflettere assai bene lat. tenuii,
e la probabilità di tale conghiettura aumenta di molto, quando vi
si pongano accanto i dieci cletram s'rencve o s'renxve della
Mummia (Sagg. 99-106), dove alla voce (s'rencve), equidesinente di
tenve, sempre e costantemente precede la voce (cletram) equide-
sinente di meylum : dunque tenve me\ìum e cletram s'rencve fanno
famiglia con amce etnam e puiam amce, e con peraciam tetet,
sta pruxum, rotnem polem tei ; e però, non solo intercedette al-
cuna relazione fissa fra -ce e -m, ma sì ancora fra -ve e -m ; e
come l'essere -ce uscita verbale quasi ci assicura che dovette es-
serlo anche -ve, anche se non si aggiungesse la piena congruenza,
di tenve con lat. tenuii, così l'uguale compagnia in ambo le serie
di parole in -m, quasi ci assicura che la ragione del fenomeno
dovette essere uguale, vale a dire la dipendenza sintattica loro,
perchè accusativi, dai verbi finiti, nella cui società costantemente
occorrono.
§ 16. Ma non basta ancora: s'erano avuti insieme prima
della Mummia CSagg. 32): cure malave pu(l)tace, e s'era cooghiet-
turato (Deecke) che, come pultace appariva un perfetto in -ce, se
n'avesse in malave uno in -avit (cfr. ib. 209 malvi); e tp.nto più,
quanto più, xq^o pultace, conforme all'esterna apparenza, con 'pulte
fecif, trovavasi convenire l'unione sua con malave lat. 'molavit'
(cfr. immolavit e umb. maletu). Dato poi -avit -ave, tornava facile,
per via di -«(y)/(/), spiegare a,Tìc\\e cure con lat. ciiravit (cfr. \]]t.
col. p. 7 lat. volg. calcai ae-fvai per calcavit signavit); mentre la
simultanea presenza di tre diverse equivalenti forme verbali, si giù -
stifica, a tacer d'altro (cfr. Sagg. 107-109 cresverae ìievtai lat. etr.
Taniae Detrone), con immaginare che si tratti di formola sacrale
tralaticia, e però fossilizzata in un periodo, nel quale certi -ce
ancora duravano, e non tutti gli -ave eransi trasformati in -e.
Or ecco osservarsi in altro testo (Sagg. 82) lo stesso cure con Qutum,
tal quale come tenve medium, zila\nce nicQlum. puiam anice, de'
tram s'rencve ecc.; e sopraggiungere insieme la Mummia col suo
— 484 —
ranem scare (Sagg. 39) e co' suoi nove cisum pute (Sagg. 30-38.
57); dove, secondo già si notò, mandato cinum con lat. circumci-
sitiuni 0 circumcifìaneum micstuni, se jm/e si riconduca ^potavit^
otteniamo accanto all'acc. per 'vino' un verbo finito per 'bere*
(cisum pute 'circumcisitium potavit', come puiam atnce, cleiram
s'rencve, peraciam tetet, rotnem poleni tei): dunque -m occorre
non solo con -ce, non solo col -ve di tenve lat. tenuit, ma sì an-
cora coH'-e da -avit di cure lat. curavit e pute lat. potavit.
§ 17. Procediamo. Come nell'allegata iscr. campano-etrusca
st<i pruxum 'statiiit Trpóxouv", cosi sulle Fasce (Sagg. 41-47) tre
volto etnam aisna, una etnam aisna i\ matam, una einam eisna,
al modo che puiam anice e cletram s'rencve; come poi cure Sm-
tum e cisiim pute, cosi nacuni aisna JiinQii(m) vinum, ratum aisna
leitrum, eisna hinQu{tn) hetum, eisna peva\ vinum', finalmente
come sva{l)n svalce e 9w turke, così spurtn eisna. Dunque anche
aisna eisna vuoisi tenere per verbo finito: il che posto, ben presso
all'Etruria, troviamo riscontro, per esso, come pel camp. etr. sta,
nel tal, cupa per lat. cuhat e p. es. nell'ama per amat dei graffiti
pompeiani ; o se il contesto delle Fasce ci porti a ravvisarvi un per-
fetto, quali amce s'rencve e pute, in lat. invitat (Lucrezio) o fumai
(Prisciano) per -avit. Ne qui ancora manca un principio di ri-
prova: perocché la Mummia (Sagg. 39), insieme con ranem scara,
ci dà scara priBas'-, dove omai, per analogia dell'acc. sg. ranem,
sospetteremo che priQas' sia acc. plurale, ed anzi risponda preci-
samente a lat. hrisas (cf. Sag. 36 n. 50 CaialiQa Caialisa ecc.
entrambi da -Ha), come quelle che così apparirebbero (Sagg. n. 40
n. 58 e p. 75), secondo il comun verbo fa credere, abbastanza
vicine al ranem, di cui, se va con umb. rami, sta per lo meno
certo che fu cosa liquida. — Incontriamo ancora da ultimo nelle
Fasce (Sagg. 55 Ult, col. 5-8) Qumsa, una volta fra svem e matan,
un'altra con putnam ; giova quindi sospettare anche in Qumsa
una forma verbale finita. Ma badiamo; nel primo luogo precede
ad essa: caperi zamti-c, ossiano due voci congiunte dal -e (lat.
-que), e tali che niente impedisce tenerle di caso nominativo, e
ravvisarvi quindi il doppio soggetto di eM««5a, tanto più che le
Fasce ci danno altresì l'equidesinente sacnisa analogamente pre-
- 485 -
ceduto da Qeusnua caper-c. Ora in un epitafio viterbese si legge:
papalser acnanasa VI manim arce e clenar ci acnanasa ; in
altro dello stesso sepolcreto: clenar zal arce acnanasa; ne' quali
testi la parola acnanasa, equidesinente di Qiimsa, sta insieme
una volta colla cifra VI, le due rimanenti con ci e zal, che i
dadi di Toscanella insegnarono essere numerali fra 1 e 6, e si
rendono solitamente con 'cinque' e 'tre' ; come adunque Qumsa e
sacnisa con due soggetti, così acnanasa o con VI, o con tali
numeri che tutti stimano per lo meno superiori all'unità; e però
entrambi saranno, se mai, verbi finiti al plurale, e in -sa vor-
remo vedere l'esponente morfologico di questo. Ed ecco la riprova:
come mi con acnanasa, abbiamo nelle Fasce triìiQas'a con sai.
— Ma non basta (Sagg. 144-151, Ult. col. 7); come sacnisa in
quelle coi due soggetti Qeusnua caper-c, così in un epitafio^
s'acnis'a Qui acasr, dove s'acnis'a sta con Qui, ossia, già il ve-
demmo (§ 13), lat. dui in dui-census ecc.; e parimenti, come sveni
Qumsa matan coi due soggetti caperi zamti-c, così nella Mummia
allo Qumsa di putnam precede 0?, che vedemmo andare con gr.
lat. di- dis- in digamus didrachna discordia appunto per 'due'.
Ancora, dall'un canto come s'acnis'a Qui con acazr, così acna-
nasa VI con papalser, ci acnanasa e zal acnanasa con clenar,
tutte voci uscenti in -r ; e similmente in epitafio cornetano:
Qui e r atiis'a; d'altro cauto nella Mummia, come 6/ con
Qumsa, così Qi Qapnes'ts' tritanas'a; e come in quella i due
soggetti Qeusnua caper-c con Qumsa e caperi zamti-c con sac-
nisa, così in un epitafio: aseies ha sacnisa: dunque il -r di
acazr clenar e r papalser e il -s di Qapnes'ts e aseies,
sempre associati coi verbi plurali in -sa, spesso accompagnati da
numeri di pluralità, furono esponenti di plurale, tanto quanto -5
e -r di umb. Ihuvinus e iovinur per lat. Iguvini. Siamo quindi
invitati a cercare anzitutto nella grammatica paleoitalica eziandio
la ragione plurale dei -sa-, e perchè le voci verbali di tale uscita,
dall'una parte concorrono nella Mummia col perfetto amce, con
pute lat. potavit e con s' reneve analogo di tenve lat. tenuit, dal-
l'altra s'incontrano in epitafi, e però verisimilmente spettano a
cose passate, vorremo cercare di preferenza quella ragione nella
— 486 —
teoria <(rammaticale de' tempi passati paleoitalici ; ed ecco infatti
offrircisi lat. (le<l(e)ro *(ledie)so ])('r dcderuni *-esuni.
§ 18, Pertanto non solamente occorrono ne' testi etruschi ben
numerose e ra<,'(fuardevoli congruenze lessicali colle lingue ariane
dell'Italia antica, ma si non poche, e cospicue, grammaticali :
perocché c'insegnano essi che, secondo la coniugazione etrusca,
nel pf. attivo la :}* ps. sg., oltreché in -ce, finì in ■(a)vi(t) -ave(t),
e in -e da -avii, e in -a lat. -àt per -avii (quando non trattisi di
-a lat. -ni del presente), e la plurale in -sa o -s'a hit. *-so -runl\
e che tale fu la declinazione dell'etrusco, da ammettere Tace. sg.
-m 0 -n, e il nom. pi. -5 o -r. Ma in punto a coniugazione c'in-
segnano ornai quei testi altresì, che per lo meno gli Etruschi di
Capua dissero sim e suni per lat. sum (cfr. lat. ant. simus per
sunms), come upsatiih seni per lat. oxìeraii sunt (Iscr. pai. 98,
dove manca sent), e quelli di Volterra qpyi fvimv per lat. fui
fuimii{s), diversamente scritti secondo che l'alliterazione (con
(i>aves lat. Fovius e con Fuluna Qus'cv lat. FuUonius Tuscus)
richiedeva (Rendic. Ist. Lomb. 1895 p. 708-713). — In quanto poi
a declinazione, c'insegnano sin d'ora gli epitafi del sepolcro Go-
lini ad Orvieto (Ult. col. 35 cfr. Iscr. pai. 18 sg. n. 34), che fra'
defunti della stessa famiglia uno fu (F. 2033 bis D") :
ArnQialum clan Velusum prumaQs';
un secondo e un terzo (ib. E^-^ con MiillerDeecke II 503 e Deecke
Etr. Fr. VII 17), fra loro fratelli :
Velusum nefts' ;
cfr. ib. F.* circa:
Y^ArnQialuni] : clan Velusum [nefts o prumfte'] :
ora in codesti ArnQialum e Velusum, sentì già il Corssen (Etr. I
437 sg.) dei genitivi plurali, ma li dichiarò in modo tanto infelice
(Tromatius' npr. anziché 'pronepos' per prum^Qs', 'Nefis' npr. an-
ziché 'nepos' per itefis e non già nefìs ecc.), che gli si potè opporre
(Deecke, Kritik 20 sg. cfr. Miill. De. 1. e.) a ragione l'argomento
dell'impossibilità ermeneutica. Questa però proveniva soltanto da
nostra propria ignoranza. E per vero, a Velusum prumaQs' (lat.
— 487 —
'Veliorum pronepos' nel primo caso precedendo ArnQiaJum clan,
male dal Corssen in poi negli altri testi a Velusum si riferì clan
'figlio', anziché nefts (Corss. iVe/is' npr.) lat. f2e/)05 : infatti, come
nel primo caso ArnQialum clan precede a Velusum prwnaQs\
così nel secondo a Velusum nefts sta innanzi LarQialis'a (Corss.
LarQi Aline) con clan, e nel terzo LarQial clan (cfr. nel quarto
clan, Velusum ). Ora ArnQial, cioè lat. Arruntìalis, non
solo significando 'figlio di Arriinte', come il Corssen credeva, ma
sì ancora 'figlio di Arrunzia' (cfr. Pauli, Etr. St. II 3-72 IV
69-90), ArtiQialum clan 'Arrimtialiiim filiiis' indica che il defunto
ebbe padre e madre figli di padre omonimo, cioè ArnQ (lat. etr.
Arrunti-s): e la riprova che veramente così vuoisi interpretare,
s'ha in ciò, che di lui non si dice di chi sia stato nipote, ma sì
subito dopo che fu Velusum prumaQs' , cioè 'pronipote di più VeliV,
perchè cioè, come i suoi genitori furono entrambi figli di un
ArnQ, i genitori loro lo furono entrambi di un Vel-, quindi già
insegnando il fatto dell'essere il padre e la madre sua stati 'Ar-
runziali', che l'avo suo da ambo le parti s'appellò ArnQ, ricordasi
soltanto il proavo Vel: e così coi due soli genitivi ArnQialum e
Velusum si raccontò per buona parte tutto quanto all'etrusco Persio
faceva chiedere (sat. III 27-28): 'an deceat pulmonem rumpere
ventis Stemmate quod Tusco ramura millesime ducis'. Similmente,
degli altri due defunti, non già si nota che furono clan ,Velusum,
— il che, significando 'filius Veliorum', per acquistar senso do-
vrebbe intendersi fuori d'ogni analogia co' simili testi (Corss.
'maior natu Velorum') in cui entra la voce clan, — ma sibbene che
furono Velusum nefts', e vale a dire ebbero ad avo paterno e ma-
terno un Vel: manca quindi qualsiasi motivo di sconoscere in
ArnQialum e Velusum due genitivi, quali si aspetterebbero in
epigrafe prettamente latina. — S'aggiunge poi una ulteriore e più
importante riprova. Che pure in etrusco s fra vocali diventasse ;■
(cfr. anche § 39 -s-va -r-va), si sa (Isc. Pai. 19) da iVayemZ ali. a
Navesial nello stesso sepolcreto (cfr. ib. Frcmrnal ali. a Frcmzìml
e 54 n. 84 Qerc per Qese 'Teseo'); ora, nell'epitafio di S. Mauuo
(ib. 10-20) incontriamo la frase: iva murzua ceruntm, che, a ra-
gione d'estrinseche somiglianze, può roiidorsi latinaiiiiMite con
— 488 —
' ìPn mortualis (letter. 'mortiva', ctV, lat. nocuus prodiguus ali. a
nocivus prodigivus) Cerorum'; siccome quindi ornai, chiarito Ve-
lusum, e giustificato il passaggio di -smn in -rum, la esistenza
per so stessa di un gen. pi. Ccrurum non può fare difficoltà,
vuoisi dimostrare soltanto che la proposta interpretazione avrebbe
avuto senso nella mento dogli Etruschi. Ma questo, parmi, risulta
insuperabilmente manifesto dall'incontrarsi in quattro altri epitafi
etruschi la voce su^i 'sepolcro' in compagnia di cerine o cerinu o
cen'xM 0 cen'xMM6e("*), e in altri ancora suQi il/anaZcM 'sepulcrura
Manalicum* (cfr. lat. mars. finem Esalico), ipa Macini, Mani ipe
(cfr. Oss. crit. r)23 n. 11) e Manim arce, da' quali tre, se con-
forme VeitulàQWe Fasce ali. a eini tul (Sagg. 1 12 sg.) persuade,
si supponga caduto nei primi due il -m conservato dall'ultimo,
otterremo: 'iPn Maanium, in Maniutn \^r\ (con -e da -m locativo,
secondo tantosto si mostra), in Manium arca'; dizioni affatto ana-
loghe a ipa nmrzua Ccrurum, e ricordanti il cerus maniis del
carme Saliare, che prelude alla parentela dei Ceri coi Mani e la
spiega (cfr. § 26). E risulta insomma, che anche il gen. pi. etrusco,
in quanto sia rappresentato da Vehìsum Cerùrum ArnQidlum
Manim Maani{m) Mani{m)^ non potrebbe essere suonato più pros-
simo al latino. — Quanto al genitivo singolare, l'evidenza della
identica conclusione mi lusingo s'imporrà anche a' più esitanti e
pregiudicati, qualora considerino la seguente serie (Iscr. paleol.
47 sg., Sagg. 107-109): zilaQ eteraias e zilaQ eierais, Rutia Velr
vaes, ArQaes e LeQaes Viro, enas, Aule Sansna A(rn)Q Xiirnias'
e Aule Scansna Xurnai (^^),Aiseras Truivecie, rax crcsverae hevtai
e rax.^wre(nomin. raxQ.tura), AnJcariale Ve[s\iae, lat. etr. Comi-
niai fia e Arisnai Teilniae e Taniae Deirone o Fonteiae Sep-
(34) Per la giustificazione morfologica di queste forme {-e -u femminile,
-l'XM lat. -tea, -i\-unQe lat. -ic-itndu-s p. es. in rubicimdus) v. Iser. pa-
leol. 19.
(35) II C. I. Etr. 511 dà ora Xurnol, anziché Xurnai; ma 1.° tanta e così
facile è la confusione fra I e L, che nemmeno ripetute autopsie valgono
spesso a procurare l'assoluta certezza (cfr. p. es. C.I.L. XI 2293 Artal Ga-
murrinì e Helbig, Artai altra volta Helbig, sempre per autopsia): 2." la esi-
stenza di etr. -ai resta d'altronde guarentita, in generale, da quella di -ae
-e, che manifestamente lo presuppongono.
^ 489 —
Urne, fai. Polae Ahelese, lat. C.I.L. I 219 pillerai feminae (^s), —
Finalmente, come loc. lat. JRomae, così etr. S'ene lat. Senae in
fine d'epitafio senese (Pai. 15, Sagg. 67) ; conae abl. dat. paleol.
Devas Corniscas, così etr. ces'as-in cesas-in dal nomin. cesa (Oss.
crit. 638 con Sagg. 46).
Chiaro apparisce pertanto, come ben vanamente ne' primi anni
del turbine anticorsseniano (Oss. crit. 650) ci s'industriasse a privar
l'etrusco de' genitivi in -5, documentati anche dall'^e^x^^ (o meglio
Velyfis) per A{idi) filius d'una bilingue (Rendic. 1871 p. 621. 1
e 628, 1892 p. 213, Corss. I 17. 8, Deecke Etr. F. V 102), con
immaginare che quelli ancora fossero mera illusione, e in realtà
risalissero a -sa o -si, donde poi per apocope sarebbero nati ;
nati, quasi diremmo, al solo intento di mascherare con veste ita-
liana, la barbara foresteria de' progenitori di Dante {^'^). "^
III.
§ 19. Argomento fortissimo a favore dell'italianità etrusca,
mi parve sempre questo, che i suoi fautori costantemente progre-
discono nel faticoso cammino delle scoperte ermeneutiche, laddove
gli avversari quasi mai tentarono in questo campo, se non che di
negare e di abbattere. Lungi da me la bestemmia insana, essere
l'opera loro stata perciò inutile: troppo noi medesimi ne profit-
tammo e profittiamo ; sicché anzi per più d'un loro scritto, con
attingervi di continuo noi medesimi predichiamo ai nostri il 'noc-
(36) Come i gen. dat. sg. fem. paleol. Diane {cfv. Cestdn cedile cedre Cepio
Cesilia Grecia Mecio, fai. pretor ecc.), Yictorie dono dedet, Vesune Erinie
et Erine patre dono (dedit), così gen. etr. Anhariate Trutvecie ture, gen.
dat. etr. fai. Abelese (nomin. -esa -essa), e loc. etr. S'ene. Non si tratta
adunque di -s solo, ma di -as = -ais = -aes = -ai =; -ae = -e, e di -as
con -e, come -ai con -ae ed -e con -ae, tanto negli esempi etruschi, quanto
nei latino-etruschi, nel falisco e nei latini.
(37) Altri notevoli argomenti a rincalzo delle congruenze grammaticali
etrusco-latine offre la metrica ; ma ne prescindo , perchè i documenti non
istanno ancora in mano agli studiosi, e mi accontento di rinviare qui per
quelli agli Studi metrici intorno all'iscrizione etrusca della Mummia (HI,
§6-13), testé pubblicati nelle Memorie doiristitulo Lombardo, 1895, voi. XX,
XI* della serie, III ci. di lett. e se. storiche.
- 490-
turna versate manu versate diurna'. Ciò non toglie tuttavia, che
nell'interpretazione come del bronzo di Piacenza, così della lamina
di Ma<(liano, della pietra di Lenno, delle Fasce, della stele di
Novilara, delle iscrizioni venete e retiche (^^), i progressi fatti,
e in parte dagli avversari stessi accettati, nel più dei casi siano
interamente di parte nostra. Ora, come si si)iega, in tanto succe-
dersi di trovamenti, l'irremediabile sterilità di uomini insigni, e
altrove, e persino in altre parti del medesimo campo, mirabil-
mente fecondi ? Si spiega solo, io penso, osservando, che nessuna
potenza d'ingegno o di dottrina vale a render buona una causa
cattiva e pessima; e che nessun vero progresso ermeneutico, né
mai fu, ne mai sarà possibile senza l'aiuto prudente e rigoroso
dell'etimologia. Ne offrirono da ultimo prova, a parer mio, lumi-
nosa gli studi delle due scuole intorno alle epigrafi tirrene di
Lenno. Entrambe (Palili, Bugge-Deecke) consentirono e dimostra-
rono quasi cogli stessi argomenti, cui altri poi si aggiunsero ap-
presso per via della Mummia (Sagg. 4. 151 sg.. Due iscr. prer.
157 sg., cfr. Oss. crit. 630 sg.), esserne su per giù la lingua come
un dialetto dell'etrusca ; ed entrambe opinarono inoltre subito, do-
versene il contenuto (Pauli, Deecke) presumere tale all'incirca,
quale negli epitafì ; ed anzi il Pauli sin da principio lo provò
colla sua efficace scoperta ermeneutica, essere aviz di Lenno pari
all'etr. avils 'anni', che seguito da voci numerali indica negli
epitafì etruschi l'età del defunto, e tali voci doversi a Lenno re-
putare sialy{viz -veiz e marazm. D'allora in poi però, malgrado la
Mummia, non fecero gli avversari un solo passo, ad eccezione
forse della conghiettura che nacpoQ vada con etr. nape-r nap-ti e
significhi all'incirca 'sepolcro'; conghiettura, di cui l'avvenire dirà,
(38) Chi reputi eccessiva codesta asserzione, pensi che circa il YE per F
nelle venete, noi precedemmo il Pauli e con lui c'incontrammo; e così nella
sostanza e nella parte certa quanto a e^o me\o e zonasto (Rendic. Ist.
Lomb. 1890, p. 630. 766, e 1891, p. 114; Arch. glottol. Supplem. 1; Iscr.
pai. 71; Sagg. 222; cfr. Due iscr. prer. 66-93, ed anche p. 72-73, circa
riscrizione retica della situla di Cembra, e p. 30 n. 51, alla nordetrusca
della pietra di Voltino. Con che naturalmente non si contesta punto — e
sarebbe non solo ingiustizia ridicola, ma follia — il merito e l'utilità dei
relativi scritti del Pauli, massime in ciò non ispetti all'ermeneutica.
— 491 —
se abbia colto nel segno, o siane andata lontana. In effetto, il ri-
sultaraento delle loro indagini è rappresentato dalle seguenti le-
zioni ed interpretazioni (Palili p. 105):
A)
Holaiez nacpoQ ziazi
« Holaei sepulcrum, magistratus;
evisQo zeronaiQ \ zivai \ sialxveiz aviz \ marazm avliz^
« ? conditus est aetate quinquaginta annorura primique anni...»
vamalasial zeronai morinail \ aker tavarzio
« ? condidit et sepelivit, proprietas sepulcri est' »
B)
Holaiezi PhoJciasiale zeronaiQ evisQo toveroma
« Holaei Phocaei; conditus est ? ? 'sepolcro (Grab) ?* »\
rom liaralio zivai eptezio arai tiz (poke[a]s
« ? validi tatis-erat aetate nobilitatis-erat gente; urbis Phoceae'».
zivai aviz sial\viz marazm aviz aomai
« aetate annorum quinquaginta primique anni domicilio' ».
Questa dichiarazione sembra allo Stolz « in sostanza felice (ge-
lungen), se anche non tutti i particolari di essa si possono repu-
tare in grado ugualmente alto sicuri o probabili » (Zeitsch. f. d.
òsterr. Gymn. 1895 p. 46); per contro il Thurneysen (sup. n. 3)
trova che essa « non fece progredire in modo essenziale la intel-
ligenza delle iscrizioni di Lenno », e che non v'ha in essa pure « un
principio (Beginn) o fondamento (Grundlage) di vera interpreta-
zione (wirklichen Deutung) » (^^). E per verità, manca anzitutto qual-
(39) Della « ben riuscita » interpretazione del Pauli, nemmeno tocca G. IMeyer
nella sua importante critica (Bori. Phil. Woch. 1895, 14, p. 434) : egli si
diffonde a provare invece, come in generale codeste indagini di quel dotto
uomo presentino « carattere nel più alto grado problematico (liòchst pro-
blematisch) » ; come ne' suoi tentativi di rincalzare la tesi dell'anarianità
etrusca per via di corrispondenti parentele anariane,ora (iranità dei Traci ecc.)
«manchi pur l'ombra di una prova »; ora (isc. paleofrigic) «il metodo eti-
mologico lo conduca ad opinioni non mono inverosimili di quello che in
altri campi egli spesso così acerbamente rimprovera a' suoi oppositori » :
ora (albanese) egli professi opinioni tanto infondate rispetto allo stato at-
tuale degli studi « da far duljitare del carattere scientifico dei libro, in cui
- 492-
siasi riscontro concettuale negli antichi epitafi italici, o greci, o
di qualsivoglia popolo, in quant'io so vedere, per le frasi: 'validi-
tatis erat aetate, nobilitati» erat gente', 'primique anni domicilio',
'proprietas sepulcri est'; manca poi sopratutto ogni saldo fondamento
ermeneutico pel significato così attribuito a ciascuna parola ;
sicché torna alTatto sorprendente l'asserzione dello Stolz « che tutti
i risultati vi siano ottenuti nella solida via della combinazione
rigorosamente metodica ». Ma come? Rigorosamente metodica una
interpretazione che comincia con dar di frego alle interpunzioni,
e muta in testo cosi raro e difficile a bel jiriiicipio Holaie • z \
in Hàlaiez \ ? Combinazione rigorosa quella che prosegue « emen-
dando » (po/ce : 0 cpohe:.. in qpo/i;e[aJs? e dallo aversi <^>'insieme
con codesto così sicuro Thocaeae', argomenta per quello il senso
di città' (cioè 'urbis Phocaeae'), senza darsi pensiero di etr. tis
tes teis\ voci già note in ben altro significato ('dedit, duo')? senza
darsi pensiero specialmente di tei-s', quantunque la conghiettura,
assai prima proposta, che lo rannodava a Qu lat. duo, trovisi
stanno » ; e come poi sopratutto gli argomenti addotti per la parentela del-
l'etrusco col licio e col cario « rasentino l'incredibile, sicché ammesse quelle
tutto si lasci assai facilmente ricollegare », e davanti a siffatte affermazioni
« campate in aria » altro non rimanga « alla scienza metodicamente labo-
riosa », se non « ben coprirsi il capo ». A me poi riesce assai lusinghiero
e di ottimo augurio trovare in questo scritto di G. Meyer un periodo finale
(p. 439 n.), che concorda a parola per parola con quanto si legge in fine
delle 'Osservazioni critiche' (p. GHS sg. n. 27), circa le singolari « merkwùr-
digerweis » omissioni del P. a proposito della questione pelasgica e dei
Turpha. Invero non essendo questa la prima volta ch'io mi trovo concordare
pienamente con lui, ed avendolo anzi egli in altra più importante occasione
(Beri. Philol. Wochenschr. 1882 p. 311) cortesemente rilevato (come del
resto pure in questa egli ricorda le predette mie Osservazioni, dallo Stolz,
contro il suo benevolo costume, dimenticate affatto), come non isperare che
un così preciso e indipendente consenso in questioni bensì piccole ed acces-
sorie, ma trattate per causa della grande e principale questione etrusca, non
preluda al consenso intorno ad essa? Come non isperarlo, quando vedo che
il Pauli stesso (N. philol. Rund. 3, 143 sg. secondo la Woch. f. klass.
Philol. 1894, 24 p. 666) giudicò i Saggi e Appunti intorno alVisc. della
Mum»iia « un modello di lavoro coscienzioso e circospetto (ein Muster ge-
wissenhafter und urasichtiger Arbeit) » ? Posso io adunque tranquillamente
passare oltre alle inesattezze della Civiltà Cattolica (giugno 1895 p. 156)
contro il « ludaeus Apella » e della N. Antologia (1 febbraio 1895 p. 667.
673) per occasione del P. Cesare A. de Cara.
- 493 -
splendidamente confermata appunto dallo arai tu 'arae duplicis'
della pietra di Lenno, equivalente alla ara Qui o Bui aras' o ara
Ouni farae geminae o 'in ara gemina') della Mummia ? Fondata
su combinazioni rigorosamente metodiche un'interpretazione, che
già nella lettura stacca zivai da tavar^io, mentre l'unione di queste
due voci, permettendolo assai bene la paleografia, apparisce fino
a prova contraria, imposta, dal parallelismo di tavar^ìo ^t'vai
con haralìo 0ivs.i e con epte^io arai? un'interpretazione che in-
venta di sana pianta per dvai il significato di età, mentre in
tutt'i testi codesta parola vedesi associata con altre notoriamente
sacrali; e però l'estrinseca somiglianza di ziva- con lat. divus già,
per ciò solo, diventa intrinsecamente probabile? Per nost>ra e sua
fortuna, ben diverso è il « rigore di metodo » adoperato dallo
Stolz nelle sue proprie « combinazioni » etimologiche e grammati-""
cali nel campo della lingua latina! Solo quindi, se la stessa giusta
misura avesse il dotto filologo d'innsbruck stimata in generale op-
portuna anche rispetto alle cose etrusche, dovremmo noi ben
meravigliarci, perchè poi egli — e purtroppo anche il Thurneysen
— asserisca sulla mera fede del Pauli (certo buonissima fede, ma
cieca e pregiudicata), essersi da lui dimostrate false e arbitrarie
tutte le precedenti interpretazioni; di cui niente paiono entrambi
sapere, fuorché quanto, alterandone incosciamente le parole e il
concetto, il Pauli stesso riferisce. Si giunge al punto, che a chi
scrive attribuisconsi due diverse interpretazioni di quel monu-
mento, laddove la seconda appena corregge e migliora in qualche
parte la prima; sicché, alla stessa stregua, p. es. il Biicheler
avrebbe date tre versioni diverse dell'iscrizione del Quirinale, tre
dell'epitafio della sacerdotessa di Corfinio, e magari due o più
delle tavole di Gubbio ! Orbene, certo neanche per le nostre in-
dagini tutto diventa chiaro; ma infrattanto, l'euimmatico e-vis-Qo,
risulta da quelle essere un participio passato passivo, sul fare, p.
es. di etr. sval-Qa-s 'vissuto' ten-Qa-s 'tenuto' : participio spettante
per la base alla stessa famiglia che etr. ves-ana 'domicilio', e signi-
ficante lett. 'in-ves-tu-s', ossia 'domiciliato'; per quelle, ZeronaiQ
e Zeronai, altrettanto enimmatici, si rannodano allo Zirna, che è
nome di dea su d'uno specchio etrusco, e a Sirona, nota dea delle
Rivùta di fiMogia, «ce, I. 82
— 494 -
iscrizioni latino-falliche ; [xt quelle, aker va con etr. aXrum e
lat. agrum ager (cfr. etr. ose. axepnO; per quelle, niarem sta a
max, come zelar Bar sur a zal Qu s'a; e cosi di sef(uito quasi
tutte le parole e formole (hi due preziosi cimelii : spesso .sul fon-
damento di testi etru.schi finora negletti, e specialmente delle
Pasce, fra tutti, strano a dirsi, dagli oppositori nostri in realtà
il più negletto. Trattati in tal modo, i due epitafi, non parlano
né di magistrati, nò di validità, ne di nobiltà,, né di domicilio
del prim'anno; ma dicono due volte assai semplicemente che il
defunto morì di 51 anni, e cioè divenne sacro alla
dea Zerona, alla quale era anche consecrato il suo
sepolcro: tutti concetti comunissimi nei simili documenti etru-
schi e latini, dove bene spesso, ognun sa, e il defunto e il .sepolcro
diconsi essere di Dite e de' Mani ; i quali documenti offrono poi
altresì esempi non pochi della ripetizione dell'epitafio (Saggi 107
n. 112 e Due iscr. prer. 159. 162), fenomeno trascurato del tutto
da' nostri avversari, quantunque porga esso ancora ulteriore non
ispregievole documento della parentela strettissima de' testi di
Lenno cogli etruschi: anche più stretta, bene osserva lo Stolz,
che a quelli non appaia (cfr, n. 34).
§ 20. La prova del fuoco fu d'altronde per noi la Mummia;
e se molti già consentono che incominciammo e continuammo a
tirarcene non senza onore, e che il metodo seguito per quella e i
risultamenti ottenuti trovarono indi a poco bella conferma nel
testo di Novilara, il tempo galantuomo ne persuaderà, speriamo,
tutti coloro che volontariamente, per paura di novità, non chiudono
gli occhi, né turano le orecchie. Ma ecco, lasciata appena la stele
di Novilara per tornare alle Fasce, sopraggiungere felicemente
un'altra prova nelle etrusche epigrafi scoperte a Narce nel 1892,
e ora soltanto, per cura del benemeritissimo Gamurrini, divulgate
(Monum. Ant. IV 321-346). Sono otto, graffite o incise sopra sette
vasi fittili, e vanno tutte fra' più antichi documenti della scrittura
etrusca, se pure non sono, a notizia nostra, i più antichi senz'altro.
De' sette pezzi, «cinque (§ 20-21, 22, 23, 27-35, 39-40) spettano
alla categoria dei fittili ad impasto artificiale nerastro, o della
rozza arte locale »; e si rinvennero « in tombe a camera semplice
— 495 —
cioè con sarcofago a coperchio fastigiato »: vale a dire « del tempo
in cui non solo fioriva il commercio di vasi precorinzi, ma vigeva
ancora la produzione delle figuline introdotte fra noi » (Gam.
p. 321. 323, cfr. Barnabei, ib. 279), e sta fra il VII" e il VI°
secolo a. E. 11 sesto pezzo (§ 24-26) è un bucchero sottile; il set-
timo (§ 36-38) un bucchero grosso « ossia posteriore » : tutti
spettano al 3° periodo della necropoli narcese (^''), meno il terzo
(§ 39-40) ch'è del secondo. In tutti, eccetto il penultimo (§24-26)
ch'è de' due meno antichi, la scrittura procede — salvo quanto al
S del num. 5 (Gam. 2, § 27-35) ch'è da destra — alla latina, cioè
da sinistra, come in altre delle più antiche epigrafi etrusche (Due
iscr. prer, 9); qui ancora però, io penso, solo apparentemente,
giacché delle quattro maggiori (Gam. 2. 3^ 3^ 7 = 5. 7. 8. 6,
§ 27-35. 39-40. 36-38) due formano spirale (G. 2. 7 = 5. 6),
due son circolari (G. 3*'^ = 7. 8, cfr. G. 6 = 4), mentre le ri-
manenti (G. 1. 4. 5. 6 = 1. 2. 3. 4), brevi o brevissime, occupano
appena una linea : offrono adunque le prime una varietà del bu-
strofedo, e niente osta che le seconde, vi si rannodino, conside-
randole come la parte anteriore di questo, per la cui sufficiente
esplicazione troppo scarseggiarono le parole in paragone allo spazio;
male invero (Due iscr. prer. 17) tuttodì si afferma che del bu-
strofedo manchi esempio fra gli Etruschi, laddove quando pur
mancasse, basterebbe a documentarlo l'uso del complemento so-
vrapposto (Pai. 70, Sagg. 4. 185), e lo farebbe in ogni caso di
necessità presupporre il comune abito loro, già antico e sempre
poi conservato, di scrivere da destra. — Mentre a Novilara sempre
abbiamo S', e non mai S, a Narce manca il S' affatto, come in uno
dei due alfabeti nolani; sicché, come (Due iscr. prer. 15) nel
mezzogiorno etrusco e nelle epigrafi campano-etrusche, anche i
genitivi esconvi in -s, anziché in -s' (§ 36 ipas KalemQas Tura-
nirias, 39 Letas). —• In due fra' testi occorre l'elemento Q : 5
(40) Si distinguono in essa tre periodi (Mon. IV, 70-92. 156-165): il primo,
dei sepolcreti a pozzo e a fossa semplice; il secondo, dei gruppi di tombe a
fossa, distribuiti intorno ad uno fossa maggiore ; il terzo, dei sepolcreti com-
posti con camere di forma semplice od anche di architettura più ricca, imi»
tanti la casa nell'interno e nell'esterno.
— 496 -
(G. 2) aliq^u, 7 (G. 3*) qutun\ sempre adunque davanti ad u (cfr.
pren. Mirqurios), conae negli altri esempi etruschi (*'), e come
davanti ad o nel qoi della epigrafe paleolatina del vaso Quiri-
nale (*^). Come poi in questa s'iia insieme pakari e feced, così
a Narce 4 (G. G.) kara, 6 (G. 7.) ha eka KalemQas Kania ikam,
ma 7 (G. 3^) zinace, 8 (G. 3»-) Ce^w..., G (G. 7.) Leciva. Sola ec-
cezione farebbe 4 (G. 0) kalike ; ma trattasi forse (§ 24) di pa-
rola straniera, e sarà caso analogo a quello del pren. Luqorcos; op-
pure avrà riscontro in quello del paleol. veqo, scritto insieme nello
stesso testo (Pai. 28) con Esqelino (cfr. [tren. Proqilia). Pertanto
il tentativo fatto, pare, da Accio di fissar l'uso de' tre elementi
gutturali nel modo predetto, non solo risponde ad un'antica tra-
dizione romano-etrusca, ma trovasi già attuato nelle piti antiche
epigrafi etrusche (*^). — Quanto alle forme grafiche, sono esse
delle più arcaiche, e infelicemente assai le riassume la tavola
della col. 331. Essa attribuisce infatti : a 4 (Gara. 2.) una A arro-
tondata insussistente; a 5. 7. 6 (Gara. 2. 3*. 7) il C rotondo,
laddove i disegni lo mostrano sempre spiccatamente angolare,
salvochè in 8 (G. 3*^); a 5 (G. 2.), oltreché il N etrusco, anche
il latino, mentre di questo non è traccia. Inoltre vi si dà valore
dì Y al 0, mentre ha naturalmente sempre quello di e, secondo
che l'editore stesso c'insegna trascrivendo zinace due volte (col.
(341. 342), accanto ad un immaginario (344, 7) semlegiva-, senza
dire poi dei due falsi d, di cui il solo esistente in apparenza
(§ 24) (*4) è R, del x ch'è T, dell'o ch'è H, secondo si mostra fra
poco (§ 23 e 39). Vero è soltanto, in tale riguardo, il 6 col pun-
tino assegnato dalla tavola a 8 (G. 3b), insieme coll'unico C
rotondo testé detto, in luogo della caratteristica figura, coi dia-
metri incrociati ad angolo ottuso o retto, propria delle più antiche
(41) Due iscr. prer. 14 Cenqunas sfuggito al Pauli, equ (cfr. Iscr. Paleol.
29 eku ecu lat. ego eca, fai. eha), Raquvus, Quius e quattro volte Tequnas.
(42) Gfr. eqo veqo Luqorcos Maq[olnia] con Mirqurios.
(43) Stolz, Hist. gr. 84; cfr. Iscr. pai. 82, e qui § 28 ( Vainiatta) circa l'uso
già antico di scrivere le doppie.
(44) Il 20 D attribuito al piede di tazza" (col. 327, fig. 171-17i^ 7 Gam.)
non esiste affatto.
— 497-
isci'izioni etrusche (Due iscr. prer. 9), e sempre in effetto, fuori
del predetto esempio, adoperata anche a Narce. Inesatta è altresì
la tavola quanto all'interpunzione, perchè vi si registrano solamente
quelle di tre e di due punti; ne guari meglio ci ragguaglia in-
torno a ciò la trascrizione, che tace de' quattro punti, due volte
chiaramente assegnati dal disegno al num. 5 (Gam. 2): forma di
interpunzione tanto più notevole, perchè occorre due volte eziandio
nell'epigrafe, affatto arcaica (Iscr. Pai. 105 con Sagg. 154) anche
essa, e parimenti scritta da sinistra, del vasetto di Moncalieri
(Fab. 2614 quat. « vidi et descripsi »), la quale appunto offre in-
sieme quel S da quattro a cinque angoli, che troviamo nel num. 4
(G. 3^) di Narce {^^). Occorrono poi i quattro punti anche nel-
l'epigrafe di Orecchio (Fab. LUI 2848 = Zwet. Inss. It. Med.
II 1 : kum : enei i, cfr. prenest. : vhe • vhaked :), ch'è una delle
così dette sabelliche; in altre delle quali, come tantosto (§ 23)
si vede, incontriamo quella forma di H^ che pur ci dà, cred'io,
la terza (G. 5) iscrizione di Narce. La verità è, che i nostri testi
presentano in questo rispetto varietà singolare e modi insoliti :
num. 1. 7. 8. 2. 3. 4 (Gam. 1. 3». 3\ 4. 5. 6) ininterpunte ;
5 (G. 2.) la prima metà parte ininterpunta, parte interpunta coi
tre punti {mi-aliqu \, auvilesi-alaat 1, puraQe-an-alQia •, in-pe-
in :), mentre nella seconda metà tutte le parole sono separate da
tre 0 quattro punti. Inoltre nel num. 6 (G. 7), subito sopra il prin-
cipio della spirale, stanno le due voci alliteranti .• ipas : iham .*,
con uno dei quattro primi punti accanto all'estremità superiore
sinistra di ciascuna delle due i, e l'altro accanto all'inferiore
destra (•!■), e coi due ultimi uno sopra e uno sotto l'asta mediana
del M: proprio come nel S' (ossia, per la figura, 31) di Velus'
sopra una stela perugina (F. 1931). Infine sotto 1'-^ di «pas, nello
stesso n. 6 (G. 7), sta VA di Arnuna^ sotto al quale vediamo
un punto semplice, indicante come di là cominci il testo (cfr.
F. 348 = CI. E. 49 .ta. sufi, ecc.), che continua ininterpunte
per ben sei parole : alla settima (Axavisur) precede un punto, e
(45) Non è esatto pertanto (col. 339) che « nessun alfabeto greco o ita-
lico » lo mostri.
— 498 —
ne seguono tre altri disposti a triangolo (cfr. F' 2. ;; Esia), due
80}ira il finale li, uno sotto 1'^ iniziale del gruppo lessicale suc-
cessivo (Alxuna-me), separato dal seguente {AXaxuna-me) per via
di due nuovi punti, uno sopra e uno sotto il suo primo A\ ven-
gono appresso 2-3 voci ininterpunte, cui ne tien dietro una co-
mi nciante per / con due punti disposti alla maniera sopraddetta
di ipus ikam. — Notevoli appaiono poi in testi cotanto antichi
anche i due nessi {*% egregiamente decifrati dal GamuiTini, cioè
5 (G. 2.) S -h I in auvilesi (con S da destra a sinistra come il
B e il iV dell'alfabeto di Cere e il L nel 2« di Chiusi), 3» N -h E
in Lemnesnas.
§ 21. Passando ora all'interpretazione, studio anzitutto le
quattro minori epigrafi (Cam. 1, 4, 5, 6) di per sé, e considero
poi insieme le quattro maggiori (Gam. 2, 3 = 3*. e 3^ 7).
Gam. 1 (fig. 165% col. 322. 327. 341):
1. ABCDEFZHQIKW ARA
iscrizione incisa sopra tazza d'alto piede di una tomba del sepol-
creto di contrada Morgi; essa comprende le prime undici lettere
dell'alfabeto greco-italico, di contro alle quali, dalla parte opposta,
si legge la parola ara. Anche questo alfabeto viene giustamente
dal Garaurrini (col. 328. 332-337), messo a confronto con quelli
« iscritti nel vaso (Chigi) trovato a Formello, luogo intermedio
tra Veii e Narce » (^'); presenta esso per gli elementi B C D
quella forma arrotondata che poi prevalse nel Lazio, e s'incontra
nelle iscrizioni greche della Beozia, dell'Eubea e delle colonie cal-
cidiche, ossia dei luoghi da' quali precipuamente ricevettero gli
antichi nostri il preziosissimo dono, insieme con altri parecchi. Dopo
la Z e davanti al 0, nel posto dell'S" sta però nell'alfabeto di
Narce quel segno quadrato, diviso in quattro quadratelli da due
perpendicolari intersecate, che a Formello, a Colle di Siena (Fab.
(46) Nessi non mancano, com'è risaputo, anche nell'iscrizione del vaso
Quirinale.
(47) Bull. Inst. Arch. 1882, p. 91-96 e tav. 88-89 (Mommsen); Mélanges
d'Archéol. 1882 p. 203-206 (Bréal), 302-308 (Lenormant), 357-361 (Gamur-
rini).
— 499 —
XXVIII 449 = C.LEtr. 176^-«) e a Cere (ib. XLIII 2403) sta
davanti all'O: e vi sta, cred'io, per volontà e non « per una ne-
gligenza dell'artefice ». Osservo cioè primieramente, che come in
questi tre monumenti davanti al 0, sta il predetto segno a Narce
davanti al 0, che nella sua posteriore forma di 0 col punto me-
diano si confuse con questo, e concorse nella stessa epigrafe (Riv.
di filol. 1895 p. 228) per indicare due differenti suoni. In secondo
luogo tiene a Narce il segno di cui si tratta il posto àeWH:
ora questo ne differì solo, perchè attraversato da u n a linea oriz-
zontale, anziché da due perpendicolari; il che insegna essersi ben
potuto adoperare per YH, onde occupa il luogo, e che in ogni
caso esso ne è soltanto una grafica varietà, nata al solito, per via
di semplificazione. Terzo, in un'iscrizione trovata in quel di Thes-
piae — del paese adunque ch'ebbe comune cogl'Italici il carat-
teristico L latino e che ci dà il più schietto riscontro greco pel
F fi" etrusco, latino e veneto — cinque volte (Rohl 146), codesto
H di Narce rappresenta (àvéGcKe Gene rrévBoq ecc. il 0, ossia
precisamente il suono, che sussegue all'^ di Narce; suono che in
etrusco si avvicenda con quello del 0 (Sagg. 8 Imi Qui, Hulxniesi
Qulxniesi), il quale poi anche a Narce vediamo espresso per mezzo
dell' 0 intersecato da due diametri, vale a dire per mezzo di una
varietà rotonda del nostro segno. Questo si trova poi (coi dia-
metri a X) indicare il 0 anche a Corcira (Ròhl 347 nuGaioi;), e
probabilmente altresì, sebbene il Pauli (Yen. 155) si sforzi a farne
un S', nelle iscrizioni sabelliche {cfr. § 24), di cui già ricordammo
l'accordo con una narcese nell'interpunzione de' quattro punti.
Dunque, o il segno in questione fu veramente H, secondo il posto
richiede, o fu il 0 beoto, corcirese e sabellico, e con esso scambiò
il luogo, alla maniera che a Formello appunto lo scambiarono le
figure parimenti similissime e contigue dell' E e del F.
§ 22. Vengo alla parola ara (^^). Ricordai già altrove (Sagg.
(48) Secondo il Gamurrini (col. 328) « le lettere ara > sarebbero « ini-
ziali del prenome maschile AraQ o Arand o del femminile AraQia », e non
già ara « nel significato datogli dagli italici e dai latini, ovvero derivata
dal greco f] ópd, supplicazione ►; e ciò « perchè sovente nei vasi funebri
scrivevansi le iniziali e non tutto il nome, solo per distinguere il sepolcro
- 500 —
140. 22G) come una tavola con quattro alfabeti latini rechi dopo
il Z la formola: 'Dfis) M(anibuH) sfacrum)* ; come un'altra collo
stesso all'abito dica con sacra formola essere scritta: 'ex visu' ;
come l'alfabeto greco da A a 0 si legga sopra lo scudo di Mi-
nerva in un'anfora panatenaica, e pure un alfabeto greco siasi
rinvenuto fra' 114 cocci letterati del sacrario di Corinto; come
infine sotto i due alfabeti di Formelio stia la leggenda; a-earua-
zarua-zaruas, che le Fasce insegnarono ad interpretare: 'o sacer
sacer sacer' (letter. 'sacrive', cfr. Sagg. 112 lat. admissivae Gra-
divus Opeconsiva prodigivae refriva sementivae)^ sicché si tocca
col triplice 'santo' di Ercole Alexicaco, e co' tre ctYioq dell'invo-
cazione cristiana. Aggiungo ora, che sotto un alfabeto greco inciso
su lapide cristiana, tornata di recente in luce a Napoli (Not. d.
scavi 1894 p. 173), s'ha senz'altro KcXeuadvTou (sic) OeoO; e ri-
cordo insieme le famose lamine paleovenete con alfabeti e silla-
bari dedicati (Pauli 7-14) s'ahnateh Rehtiaah 'sanatis Raetiae',
cioè alla dea di questo nome, coll'epiteto di 'sana' ossia infera
(§ 14 sane zanes), mentre poi negli analoghi chiodi (ih. 21-23.
27-29. 31-198) vedonsi gli spazi vuoti riempiti colla infinita
ripetizione di questa o quella lettera dell'alfabeto, al modo che
in fine al terzo de' predetti quattro alfabeti latini stanno tre Z.
Anche il vaso, con due alfabeti Greci, testé fatto conoscere dal
Kalinka (Mittheil. Athen. Abth. JNll 1892 p. 101-124), proviene
secondo probabilità (ib. 102 sg.) dal Cabirio di Tebe: dove vuoisi
altresì notare, che, come son due i suoi alfabeti, e due quelli del
vaso di Formelio, e due volte due quelli della tavola latina, così
a due a due sono i quattro chiusini incisi (F.^ 163-166, Oss. pai.
149) sopra due pietre calcari, uscite da due tombe diverse e parte,
come sembra, o di due od anzi di una sola « ara o cippo »;
di quel morto dagli altri della tomba famigliare ». Il Gamurrini del resto
dichiara (col. 341 , cfr. 343) « non venirgli l'animo di tentar l'interpreta-
zione » dei testi di Narce, perchè « già l'etrusca lingua è un mistero, e
per giunta qui a Narce non è del tutto schietta ma mista all'elemento ita-
lico nativo ». Tanto più corre a me l'obbligo di ringraziarlo per la molta
cortesia, con cui due volte (col. 342 n. e 344 n.) tocca de' miei studi in un
campo, che a lui deve, come più altre parti della patria storia, bella copia
di acute osservazioni e di feconde pubblicazioni.
— 501 —
sicché considerata l'origine e destinazione sepolcrale di quasi tutti
codesti cimelii, la costanza del numero binario, richiama alla
mente l'uso paleoitalico di duplicare gli oggetti funebri deposti
ne' sepolcri (cfr. p. es. Not. 1893 p. 208 sg.), la ripetizione ri-
tuale dell'epitafio in Etruria e fra' Tirreni di Lenno (Sagg. 107
n. 112, Due iscr, prer. 159. 162, 175 n. 77), nonché la numerosa
famiglia delle deità etrusche, verisimilmente infere, intitolate dal
numero due (Sagg. 148. 227. 241 Qua gen. Ques', Qus'a, QuflQa,
QunxulQa, TuXulXa). — Farmi pertanto provato che le iscrizioni
alfabetiche ebbero da' più antichi tempi a' piti recenti scopo
eminentemente religioso, quantunque forse ne' diversi tempi di-
verso; e che l'intenzione o reminiscenza didattica a quelle at-
tribuita — ed esagerata testé, non senza qualche miscela di
ieratiche fantasmagorie, fino ad immaginare che dove la serie si"^
scorge interrotta, l'oggetto iscritto sia spettato alla tomba di un
fanciullo che « nell'apprendere non era giunto oltre alla lettera
ultima della serie » — debbasi omai ricacciare fra le illusioni
dalla probabilità attuale. Il che posto, e considerata la voce ara,
come parte o complemento finale dell'epigrafe A-K, oltreché ri-
spondere alle formolo 'D. M. S', 'ex visu', K€\euadvTou toO GeoO,
etr. a-zarua ecc. de' monumenti alfabetici testé citati, troverà ri-
scontro nell'are finale dell'epigrafe scritta sotto il piede di vaso
volcente (Sagg. 70 cfr. 74) : Aisu tes Usi are 'Deo (lett. 'Dei',
gen. dedicatorio) dedi (o 'dedit') Soli (lett. 'Solis') in ara'; e come
are è locativo (cfr. S'ene lat. Senae), sarà locativo ara per arai
e i due staranno fra loro come sulla Mummia (Sagg. 5., Ult. col.
20 sg.). MlarQune eter-ti-c cadre e hilarQuna eter-ti-c caQra 'in
sepulcro duplici alteraque quadra' (cfr. ib. zina cave-Q 'in tina
cava' e zine-ti ramueQ 'in tina ramea'), come lat. nom. pi. Ma-
trona dat. sg. Feronia Marica Matuta, a' soliti dativi e plurali
in -ai -ae (cfr. Iscr. Pai. 86 n. 120 loc. lat. Alba, Roma, e Sagg.
46 ces-as-in con lat. dat. pi. Devas Corniscas).
§ 23 (Gara. 4 fig. 168 col. 323. 327. 343):
2. m i s a za
iscrizione « graffita nel fondo di una patera grande di rozza arte
— 502 —
locale >, proveniente dalla tomba a fossa semplice del sepolcreto
di Pizzo Piede, donde s'ebbe il boccaletto colle epigrafi 7 e 8
(Gam. 3 = 3^''). — Sopra un « fraj,'mentum vasis rubri coloris >
trovato a Cere (Abeken, Fab. 2407) si legge : mi-saxe, e si suppose
(Pauli Etr. St. Ili 16) essere iscrizione frammentaria, senza altro
motivo che l'ignoranza nostra, la quale fece analogamente «upjior
frammentarie (Sagg. 114 sg.) p. es. le leggende vascolari: Qatix-
vilus Caial ein e ni-tuna, assicurate poi dal confronto con altri
ein e ni e tuna (cfr. Sagg. 95), come ora sam assicura e chia-
risce saxe. Perocché la nasale anche in etrusco dileguandosi tal-
volta e davanti a dentale (p. e. Arm Larza LarB ali. Arma
LarnQ, RavQas RavnQus, s'aQec santic^ suQi hebu e su^i hinQiu,
Serate Seiante, Setinate e Sentinate) e davanti a gutturale (p. e.
tuxla-c Qunxuleni-i Cecu Cecunia ali. a Gencu Cencunia Cen-
qunas, slap-ix-un Qap-ic-unn]]. a hatr-enc-u), ia.iìto sa^a (*'sanctia'
cfr. 5aw^2c), quanto sax^ (**sancie*), ben vanno, insieme a sacni {eh.
lat. Sanqiiinius) ed ad umb. Sagi ose. ana-saket, con lat. Sancus
sanctus ; sicché mi-Saza{s) e mi-Saxe{s) diranno : 'ego fsum)
Sanci', e faranno famiglia con F. 2607 (statua enea, di sacer-
dotessa) mi : Qan.rs' 'ego (sum deae) Thanurae', 2608'''« (statuetta
enea di un'atleta) mi-Klanins'l 'ego (sum dei) Claniniculi' (cfr.
Pauli, Altit. St. I 68 sg.), 2610^'" (« tabula aenea olim Veli-
tris ») mi-Tiiurs'-KaQuniia-S'ul 'ego (sum deorum) Turii Catoniae
Solis' (Sagg. 241 con 76 sg. 110. 157 sg.) {*% — Continuo io
poi a interpretare mi con 'io', anziché con 'sono\ o, peggio, con
'hòc', per le ragioni ermeneutiche ed etimologiche altra volta
esposte (Arch. Glott. Suppl. 1 48-50, cfr. Iscr. pai. 42 n. 69):
vale a dire, che, dall'un canto, etr. mi essendo proprio e carat-
teristico delle iscrizioni piti antiche, solo se s'interpreti non già
'hoc', ma 'io' oppure 'sono', potrà intendersi perchè poi scompaia,
per essere cioè in progresso venuto meno anche presso gli Etruschi
(49) Il Gamurrini, col. 343, vede in saza « il nome etrusco del piatto, che
se è per bere, noi diciamo 'tazza" con voce assai simile » ; inoltre « pro-
babilmente discende l'etrusca dalla sanscrita radice sagh, che significa por-
tare* e 'tenere' ».
- 503 —
il rito, comune a tutti gli altri popoli italici e pure a' Greci, di
stilare i testi sepolcrali o dedicatorii in persona prima ; d'altro
canto, fra 'io* e 'sono', l'estrinseca identità con lai mi me (cfr.
celt. mi fr. moi 'io per me') consiglia di preferire il primo a
chiunque non voglia per forza anariani o non italici gli Etruschi ;
infine, fra l'altro, alle obbiezioni ermeneutiche, rispondono trion-
falmente il confronto p. es. con lat. 'sum ollarum superius et in-
ferius XXX' (C. I. L. 1055), e la facoltà di sottintendere, secondo
i casi, dopo 'io per me' p. es. 'donai, dono': e però p, es. il fallo
iscritto mi-LarQia non disse già 'ego Larthia', ma sì 'ego (sum)
Larthiae', o meglio 'ego Larthia (dedi)'
(Continua).
Milano, aprile 1895. ^
Elia Lattes.
17. 8. 'gs.
ERRATA-CORRIGE
ALLO SCRITTO SU « AGATOCLE « DI G. DE-SANGTIS.
(V. pag. 289 del Fascicolo 3").
Pag. 293 n. 2 in luogo di Waltzer leggi Meitzer
» 296 I. 10 » » » Alice » Alico
» 296 n. 4 » » » Ermann » Enmann
» 300 1. 18 » » » 315 » 317
» 305 1. 19 » » » di creare in queste di creare. In queste con-
condizioni, neanche » dizioni neanche
» 311 n. 2 » » » defezionato ad » defezionato da
» 314, 315, 316, 329, 330 passim : Arcaguto » Arcagato
» 316 n. 1 in luogo di Weltzer » Meitzer
» 322 n. 2 » » » G. Meyer » E. Meyer
» 327 n. 14 » » » poiché » poi che
— 504 —
IL PAllTENIO Dì ALCMANO
Del papiro di Saccarali e del prezioso frammento di Alcmano,
che contiene, manca tuttavia in Italia uno studio completo. Ab-
bondano bensì i lavori di dotti francesi e tedeschi, i quali ultimi
specialmente hanno speso, nello stabilirne il testo ed illustrarlo,
tutte le cure della critica paziente e della vasta dottrina, che li
distingue.
Scoperto il papiro nel 1855 dal Mariette, in una tomba presso
la seconda piramide di Saccarah, dove serviva di involucro a uno
stinco di mummia, fu dal Mariette stesso mandato a Parigi al-
l'Egger. Questi, nel 1863 ne diede una descrizione nei Mémoires
dliistoire ancienne et eh philologie, aggiungendovi il testo dei
primi versi che potè leggere ed esprimendo la congettura, che
essi fossero avanzo di un inno alcraanico ai Dioscuri ; del che gli
dava indizio il nome TTiuXubeÙKri^ che si trova in capo alla prima
colonna. — Nello stesso anno 1863 il ten Brink espose nel Phi-
lologus (voi. XXI, p. 126-163) il risultato de' suoi studi sull'oscuro
papiro, opinando che esso contenesse una scelta di frammenti
di Alcmano fatta da qualche grammatico; e nei primi versi ap-
punto credette scorgere un frammento di un inno a Giove Liceo,
di cui parla Imerio. Ma l'opinione della molteplicità dei fram-
menti fu combattuta dal Brunet de Fresie, che nel 1865 pubblicò
con un fac-simile questo papiro insieme agli altri del Louvre e
della Biblioteca imperiale nelle Notices et extraits des nianu-
scrits de la hibliothèque imperiale^ voi. XVIII, e vi riconobbe un
testo continuato di Alcmano, fondandosi specialmente sui vv. 64-65
citati dal grammatico Aristofane presso lo Scoliaste di Omero {II.,
€. 906) (1). — 11 Bergk diede un primo saggio dei suoi studi sul
(1) Vedi più giù ai versi citati.
- 505 —
frammento nel voi. XXII (p. 1-16) del Philoìogus, dove per altro
seguì qualcuno degli errori del ten Brink ; quindi nella terza edi-
zione dei lirici greci e negli Addenda et corrigenda posti in fine
al volume (Lipsia, 1867), ne pubblicò il testo con parecchie emen-
dazioni. — Poi nel 1870 il Christ illustrava nel v. XXIX del
Philologus la prima parte del frammento (versi 1-49); il Nigge-
meyer lo pubblicava nel De Alcmano poeta laconico (Monasteri!,
1869); e l'Ahrens in due memorie {Phil, XXVII, p. 241-285;
577-629, 1868) ne migliorava di molto la lettura, riconoscendone
il metro e mostrando, specialmente nelle derivazioni di alcune
parole, quella erudizione di cui già tanta prova aveva data nel
De graecae linguae dialectis. Egli tuttavia si fermò al verso 77,
astenendosi dal fare congetture sul resto. — Con migliori mezzi
e fortuna si adoperò intorno al papiro il Blass, il quale in una
prima memoria inserita tìqW Hermes (voi. XllI (p. 15-32), 1869)
ne diede il testo ridotto a più sicura lezione, il fac-simile in ta-
vola fotolitografica e vi aggiunse l'interpretazione degli scolii.
Dopo il Blass il Canini commentò e tradusse in francese il fram-
mento, sul quale, egli dice, già da lungo tempo aveva rivolto la
sua attenzione : Fragment du Parthénie d'Alcman pour les fétes
des Dioscures , restauréy commenté et traduit par M. R. Canini,
Paris, Baudry, 1870. — Primo in Italia ne trattò il Piccolomi ni
negli Studi di Filologia greca (Torino, 1882, voi. I, p. 193-205)
spiegando alcune sue idee intorno alla interpretazione di certi
passi : la sua memoria tuttavia è più che altro uno studio critico
su quello del Blass, ed è inoltre incompleta, cominciando solo dal
verso 35. — Il frammento fu quindi pubblicato ancora nella
4* ediz. postuma dei Poetae lyrici graeci del Bergk (Lipsia, 1882)
con ampio e scelto apparato di critica, sebbene non interamente
(versi 1-90) ; poi dallo Zambaldi, versi 34-77 {Lyricorum grae-
corum reliquiae selectae. Aug. Taur., 1883); dal Pomtov? (Poetae
lyrici graeci minores. Lipsiae, 1885); e dal Blass, che recatosi
una seconda volta a Parigi, dopo un nuovo esame del papiro, ora
in migliori condizioni per la tolta umidità, ne scrisse una se-
conda e più completa memoria {liìiein. Museimi, voi. XL, p. 1-22,
1885), nella quale accertò molti passi già dubbi e nuove ipotesi
- 506 —
espresse. — Ultimamente il Michelangeli nei Frammenti della
Melica Greca (Bologna, 1889) ne traduceva genialmente e com-
mentava la strofa quinta delle rimaste.
Ad onta tuttavia di cosi dotte ed indefesse fatiche molti sono
ancora i passi del testo di non sicura lezione e molte le questioni
che pendono perciò insolute. D'altra parte l'importanza del fram-
mento, unica reliquia degli antichi partenii, fa sentire il desiderio
di ulteriori studi, specialmente in Italia, dove troppo ed a torto
sono stati trascurati.
I. — 11 papiro di Saccarah è largo centimetri 20 ed alto 22 ;
presenta lo scritto diviso in tre colonne, di cui la prima ha
34 versi, la seconda 34 e la terza 33; in tutto 101 verso. La
scrittura della prima colonna è più chiara di quella delle altre
due, ma uno strappo dall'alto in basso ha fatto perdere le prime
sillabe di ogni verso ; la seconda colonna è deturpata da macchie
di umidità e dai buchi più o meno grossi disseminati in tutta la
sua area ; la terza finalmente è appena leggibile per la disgrega-
zione delle fibre e per un grosso buco tra il verso 23 e il 29.
— Nello spazio tra colonna e colonna, come in alto e in basso
di esse, si scorgono numerosi scolii, spesso richiamati al verso
commentato per mezzo del segno Xi nia anch'essi di difficile let-
tura per le cagioni dianzi dette.
In quanto al tempo in cui è scritto il papiro già il Wessely
confrontandone i caratteri con quelli di altri papiri trovati in Egitto
pensò che dovesse questo riferirsi al tempo di Augusto. — Il Blass
lo assegnerebbe a qualche anno più indietro, indotto dall'esame dei
testi di altro contenuto scritti da una seconda mano in margine
al papiro. Sotto la colonna prima infatti si leggono le seguenti
lettere; NOI KAPIHI — E€fì, e in un secondo rigo: eiIHN€-
TKGN; sotto la colonna seconda, in continuazione del primo rigo,
POMAI, e sotto la colonna terza in caratteri rovesciati BOYAHI-
POMA(iujv). — Il Blass scorge in queste parole come l'indirizzo
e la minuta di una supplica al senato romano, e suppone quindi
il papiro preesistente alla conquista di Alessandria, la quale, come
è noto, fu compiuta da Cesare nel marzo del 47 av. C.
— 507 —
Noi esamineremo anzitutto il testo quale ci si mostra nel pa-
piro ; quindi toccheremo le principali questioni riguardanti l'au-
tore, il suo dialetto, e il genere del componimento, riserbandoci
da ultimo di ricostruire il testo nella sua possibile integrità e di
darne la versione.
Col. I, V. 1 QAYAGYKHZ ujXuòeuKriq.
È la prima parola del papiro, colla quale verosimilmente doveva
chiudersi il periodo. In questa opinione è d'accordo col Blass
{Eheinisches Mttseum, 1885) anche il Bergk {Poetae It/rici Graeci,
ed. IV), che prima aveva creduto doversi quella unire come voca-
tivo al periodo seguente. È da notarsi, come rileva il ten Brink, la
scrittura [TTJujXuòeuKri? invece della comune TToXuòeÙKTig ; e che,
come nel frammento 9 dell'inno ai Dioscuri bene si adatta al-
l'andamento giambico, così in questo alla tripodia logaedica aca-
taletta con anacrusi. Sopra 1' ou vi è un accento grave molto in-
clinato che fu creduto dal ten Brink una « linea trasversa »
messa per indicare l'allungamento della vocale ; scrisse però bene
il Blass : « ùj mit gravis, nicht Langezeichen ».
2 NAYKAIIONerKAMOYZIN- v AuKaiaov èv KaiaoOaiv
[AAerQ [àXéfw.
Il ten Brink lesse: AuKaicr' ov èv k. a. e credette il verso ap-
partenere a un frammento dell'inno alcmanico a Giove Liceo, del
quale parla Imerio : « De Himerii (orai V, 3) testimonio nobis
sumere licet, Alcmanum hymno in Jovem Lycaeum Spartae laudes
et Dioscurorum intexuisse : huc igitur pertinet novum illud TTuu-
XubeuKriq ; AuKaiov manifestius Arcadicum Jovem significat ».
Osserviamo anzitutto che di fronte a questo verso trovasi un lungo
scolio in 14 righe (quelle di mezzo sono distrutte, osserva il Blass),
che dice : òri ToiauTri fi | bid[voia] • tòv AuKai/ov oò cTuTRaia/
pi6|i[a) ToTq KaiaojOaiv l 'liTTTOKoatJvTiòaiq | | ou)a | tou |
Xeia I eiTai cu inóvov | tòv AuKaio[v] aXX[àJ Kaì roùc, Xo[ij-
TTOÙ^ j òripi[Tiba(;]. AuK[aiov] è.n òvóiuaToq XéY€i. óiXXoiq —
Il Blass appoggiandosi alla lezione dello scolio, da lui supplito
nelle parti mancanti, ritiene che questo Li cai to (1) (o Licaio, se-
(1) AùKaicrov forma dorica per AuKaiGov.
— 508 —
condo lo Scoliaste) non sia fif^Ho di Ippocoonte, ma di Derite zio
di Ippocoonte, di cui parla Pausania (1). Agf^iunge a conferma
che Apollodoro non ricorda alcun Licaito fra i figli di Ippocoonte,
ma solo nomina AopKei'jq, ZKaToq, Evapoqpópo^, EÙTeixn^- Bou-
KÓKO(;, AÙKUJV, Té^pOq, 'iTTTTÓBoOq, EÙpUTO(;, 'iTTTTOKOpuCTTnq, *A\-
Kivouq, "AXkuiv {Bill., 3, 10, 5). — Se non che il testo del papiro
e lo scolio, ben considerati, non voglion dire che questo Licaito
non fosse figlio di Ippocoonte, ma solo che egli non era tra gli
Ippocoontidi periti nella pugna. In quanto al nome poi Licaito,
non ricordato né da Apollodoro né da altri, potrebbe essere lo
stesso che Aùkujv per una di quelle variazioni di scrittura che
trovansi non di rado tra Apollodoro e Pausania; così dove il primo
ha Téppoq e 'A\kivou<;, il secondo scrive Ze^póc, e "AXKijioq ; e
parimenti Alcmano chiamò Eùxeixn? quello che Apollodoro chiama
Eóaùxn?- A me sembra quindi che l'intenzione del poeta sia sem-
plicemente di escludere il vile Licaito dal numero degli altri Ip-
pocoontidi che valorosamente pugnando morirono -, e dello stesso
parere si mostra il Bergk traducendo : « den Lykaithos besinge
ich nicht unter den Todten )>.
'AXe'Tuj. — L'Ahrens opina che questo verbo equivalga a qppov-
tìZIuu, derivandolo da \6tuj: « durch ein epithetisches a >. — Se-
condo il nostro scoliasta ed altri nel passivo questa voce ha il
significato di àpi6^eTaeai, auTKaTa\éTecr9ai. — Se ne riscontrano
esempi presso lo scoliasta di Pindaro (01, 2, 78): TTriXeùcg re Kaì
Kdò|io^ èv ToTaiv àXérovrai (cioè tra gli eroi che stanno nelle
(1) VII, 18, 5: "AjLiTTuE r^v toO TTeXiou toO AìyivriTou toO Arjpeixou toO
'ApTÓ^ou ToO 'A|iÙKXa toO AaK€Òfti|uovo(;. E prima III, 1 : 'ATToBavóvxoq
ToO 'AfiÙKXa è^ 'ApyaXov tòv -rrpeapùTaTov tùv 'AhùkXo Traibujv koI uote-
pov Iq Kuvóptav, 'ApYtiXou xeXeuTricfovToq, àcpinero j^ àpxi], Kuvópxa bè
kyéveTO 0\^a\o<^ • oìjto<; irotba faxev Tuvbdpeuuv CD -rrepl Tfji; PaaiXeiac;
'Ittttokóujv rmqpiaPnxei.
AaK€boi|LHJUV
I
'A^ijKXa
'ApYoXoq Kuvópxa
I I
Ar|peixr|<; OtpaXoc;
I
I I
Tuvbdpeujv liTiroKÓiuv.
— 509 —
isole dei beati); e Marcello {Antliol. Pai., App., 50, 6): èv toictiv
àXéTTicrGov, come nella prima delle iscrizioni Triopee (V, 6), dove
il Salmasio e il Casaubono seguiti dal Visconti correggono Xé-
YTicreov, mentre il marmo ha chiaramente GNA0ANATOIIAA6-
rmOON, e così leggo pure con l'Hoeschel e col Brunck. — Che
qualche volta anche all'attivo abbia il significato di auTRataXé-
yeiv, oltre lo scoliasta nostro lo accerta quel passo di Pindaro
(0?., XI, 15): AoKpuJv 'EmZiTicpupiujv jeveàv àXÉTuuv, dove lo sco-
liasta annota: àXéTuuv vixvwv, Kal 'AXKaioq ' oùk èTÙJV Aukov
èv Moùaaiq òtXéTuj'. — Delle parole precedenti AuKaiaov, perdute
per uno strappo marginale, come si è già notato, non è rimasto
che una lettera : il Bergk credendola un Y completava: oTov cu
AÙKaiCTov ktX.; ma il Blass riconobbe in essa chiaramente un N,
e corresse : ouk éfùjv AuKaiaov ktX. Abbiamo così un verso molto
simile a quello citato dallo scoliasta di Pindaro, se pure non è\
lo stesso erroneamente scritto e male ad Alceo attribuito.
3 lOOPONTeKAIZeBPON- (p)aqpopov le Kal lePpòv
[nOAQKH [TroòwKn.
L' Egger completò 'Gvaicpópov , il ten Brink 'Gvapqpópov ; il
Bergk e il Blass videro tracce di un P prima del Z e scrissero
'€vap(Jqpópov, che sembrami la miglior lezione; anche quella del-
l'Ahrens — il quale, dopo aver notato che questo verso dev'essere
un trimetro trocaico, soggiunge « also vielleicht 'Gvapoqpópov »
— non mi pare che possa accordarsi col testo, né col papiro. —
L'incontro -per- non era disusato nel dialetto dorico puro e trovasi
anche altre volte presso Alcraano (Fr., 10, 11). Questo stesso
nome inoltre si presenta sotto la forma '€vapaqpópov in Plutarco
{Th., 31), '€vapoqpópo(g (i codici hanno 'GiLiapaqpópoq) in ApoUo-
doro, ed 'Gvapaicpópo<; in Pausania. — Esichio ha l'aggettivo
èvapqpópoq = cTKeuoqpópoq. — In questo e nei versi seguenti Alc-
raano annovera i più valorosi degli Ippocoontidi morti, ai quali
gli Spartani innalzarono poi degli riptùa; ed è cosa degna di os-
servazione che in mezzo a questi lìpiùa appunto ebbe Alcmano il
suo |avnina, come ci riferisce Pausania (1).
(1) III, XV, 1: "EoTi bé Tòq OToàc, ?\ trapà tòv TTAaraviaTÒv TT€TtoinTai,
TaÙTr|(; óittaGev ì'iptpa, tò |aèv 'AXkI|hou, tò 6è 'Evapai(pi'>pou, koì dq^earriKÒs
oò TToXù AopKéujq, TÒ òè ini toOto ZePpoO • Traiba<; bi. 'iTTnoKÓiuvioc; elvai
X^YOuaiv. ÒTTO bè AopKéioc; Kpr'ìvriv tì^v -nKi^aiov toO i^piuou AopKeiav, tò
Rivista di filologia, ree., I. 33
— 510 —
.NTeTONBIATAN v te tòv Biaiàv.
ìj'EfTfrer e il ten Hriiik (completano "AXkihóv te tòv piardv
inef(]io forse il Jier^^k e il Blass elio scrivono pÓKoXuuv re..., ser-
haiido il nome di "AXKiiioq al principio d(;lla strofa sej^uente.
5 NTGTONKOPYZTAN v re tòv Kcpuarav.
11 liergk riprovò la strana opinione deH'Kgger e del ten Brink,
i quali volevano vedere in questo verso una perifrasi del nome
'InTTOKcpuairiq, e scrivevano: ittttuuv re tòv KopuaTdv. L'Alirens
considerando che tale lezione non poteva adattarsi al di metro tro-
caico acataletto, scrisse: iTTiroTav te tòv Il Blass dall'indice
di Apollodoro trasse il nome 'iTTnóeoo? e completò : 'Ittttó0ujv
T6 ktX.
<> TeFANAKTATAPHlON te FdvaKxa t' àpniov.
Cramer, An. Ox., I, 159, 2 : où yàp ndvTuj? tò jièv KÙpia dei
PapuveTtti, Tà bè èiriGeTiKà òEuveTai, d\Xd, ei ttou PapùvcTai tò
KÙpiov, TÒ èm9eTiKÒv òSùveTar eì oìjv éaTÌv EÙTeixri? òvo^a
Kupiov Tiapà 'AXKjadvr Gùxeixri t' avoKTd t' dpr|iov, Kai uuqpeiXev
eivai TOUTip Xófiu GÙTcìxea. TTóGev ouv r\ ■x^ip\\x\xi\r\ papeia
Tdai<;; — Per me non ho dubbio che il verso citato, quantunque
con lievissime alterazioni, sia appunto questo : e forse con tal
pensiero il ten Brink scriveva completando ۓiTeixri t dvaKTd
T àpr|iov, quantunque l'Egger avesse già prima scritto eÙTeixri
T dvaKTd T* 'Apriiov, facendo di APHION un nome proprio. Il
Bergk scrisse dapprima FdvaKxa Fapriiov, ma poi corresse Fd-
vaKTtt t' àpriiov. L'Ahrens giudicando inverosimile il F innanzi
ad àpniov, scrisse invece ctvaKT* dr' dpniov (ara = \xi'^a come in
'AYacJBévriq = |i€Ta(J9évr|<; ; confr. laéxpiq = dxpi<;). L)a ultimo il
Blass riprende la lezione dell' Egger, 'Apriiov, e cita in appoggio
uno scolio — von zweiter Hand? — scritto al margine e da lui
completato come segue: Oep€Ku[òriq] èva | tujv 'l7TnoKoa)VTiò[ujv]
'Apri'iTOV (scil. (priCTiv) | ^r|[TT]oT ouv K[ai] iLò' r\ crùv tuj [t] | bel
Tpdqpeiv f) tòv 'Apr|ÌT0V. | ó *AXK|aàv 'Apriiov (scil. KaXeT).
Quale è dunque il senso ? — Secondo la lezione dell'Ahrens e
la prima lezione del Bergk ad Eutiche verrebbe dato l'epiteto di
hk xtupiov TÒ léPpiov KttXoOaiv òtto lePpoO. toO lePpiou òè laiw èv òeEiqt
— 5H -
« principe guerresco »; secondo la lezione del Blass e dell'Egger
in questo verso sarebbero nominati due Ippocoontidi, Eutiche l'uno
e il principe Areio l'altro : infine, secondo l'ultima lezione del
Bergk — che parmi di tutte la migliore — si nomina Eutiche e
si allude a un principe marziale, di cui si tace il nome perchè
facile ad intendere. Con questo epiteto infatti — che sarebbe male
appropriato ad Eutiche o ad altro dei fratelli — e con quello di
èSoxov fnaicriuuv che subito segue, si viene chiaramente, a parer
mio, a designare lo stesso Ippocoonte, cui solo spettava il nome
di àvaS; e assai convenientemente si chiude la strofe presentando
da ultimo, con estetica progressione, l'immagine del padre che
cade pugnando sui propri figli.
Perciò stesso al verso seguente
7 ATeZOXONHMIIIQN d t eHoxov niiiaiuuv,
non mi piace il completamento del Bergk e dell'Ahrens: AopKÉja
t' IHoxov fiiuiaiujv, non trovando ragione per cui tale nome debba
darsi a Dorceo anzi che allo stesso suo padre che era fratello di
Tindaro e zio dei Dioscuri. 11 Bergk immaginò in principio della
strofe Kttò' ò' 'Gvapaqpopóv re Kaì Xe^pòv TTOÒuuKn, e alla fine
éKTavei' è'Eoxov niuiiaiujv (scil. ù|ueT(;, Kdaiujp Kaì TTuj\ubeuKr|q) ;
cosa che non mi dispiacerebbe affatto, quantunque l'oggetto che
determina la traesi sia troppo complesso; ma il fatto è che lo
stesso Bergk e il Blass riconobbero un' A e non un' € nella let-
tera che precede il T del papiro. — L'errore del ten Brink, il
quale diceva doversi intendere lo stesso Ercole per 1' è'Soxov fiiui-
aiujv, deriva dall'aver egli creduto che nel papiro si contenessero
frammenti staccati di differenti carmi di Alcmano.
8 .....NTONArPOTAN v tòv àTpóiav
9 MerANeYPYTONTe laérav eùpuTÓv Te.
àrpótav ha il papiro, certo erroneamente per àYpéiav, da dTépiuu,
come corresse il ten Brink. Similmente nei Fersiaìii di Eschilo,
V. 973 Herm. i codici hanno àTpÓTai,dove per altro è da correggere
dKpujTai come fanno l'Hermann e il Weil, non àTpéTai, con.e
vorrebbe il Bergk per convalidare con altro esempio questo luogo,
senza accorgersi che nel passo di Eschilo il dialogo tra Serse e
il Coro si succede con identità di metro fra la strofe e Fanti-
strofe ; e perciò al primo verso della strofe pepdcri yàp toì nep
- 512 -
àKpoiTai (JTpaToO corrisponde per ordine metrico il primo dell'an-
tistrofe TTenXr|Y^€9*' dai òi' almvoq Tuxai ; il che non sarebbe
possibile secondo la lozione ih] Berj^k. — Innanzi a tòv ótypéTav
il ten Brink crede vedervi traccie di nn uu, e l'Ahrens e il Berjijk
(Philol., XXII) completarono: Kai (TTpaxo) tòv dfpe'Tav | ZKaTov
M^Tttv. Ma il Blass avendo osservato che non un u» ma un N pre-
cedeva TÒV à. corresse (sef^uìto poi dal Berf(k nella 4* ed. P. L.):
Kd\Ki^ov TÒV dtpéTav | (JTpaTÙJ n€TCtv €ùpuTÓv t€. — Di fronte
al V. 9 si veggono ah'une parole dal Hlass aggiudicate allo scolio
del V. 2, e dal ten Hrink credute un terzo scolio, nel quale lesse:
ò 'AXK[)aàv| |€ù]pu|tov] (X€Y€i) (éajxaxou naTpòq (òeÙTcpov)
Òripi[(yaa0ai|. Come vedesi il completamento è ardito, ma a qualche
cosa di simile accenna pure Pausania (III, 18, 7), dove descri-
vendo il trono di Amicle, dice che vi era rappresentato 'HpaKXtou?
ILiótxnv iTpò^ OoOpiov Kai Tuvbópenj tcqòc, €ì5puTov.
10
nQPQKAONON
nuupuu kXóvov
11
ATQIAPIITQI
a TÙJcj àpiaxujq
12
APHIOM€I
apr]aoyieq.
Innanzi a lOjq àpicTTUjq il Blass vide un' A, e completò "AXKujvà
T€ TÙjq àpiarwc, 1 cu TTapri(Jo|ie(;. Il Bergk dapprima scriveva:
Kttì (JTpttTUJ TÒV dYpéTav I €ù^éòr| laé^cx 6upuTÓv Te | èaXòv àv
TTiupuj kXóvov I àXXuuq Te TÙjq àpiaTou^ | rÌP»JÙct? Trapriao^eq ; ma
poi mutò il V. 10 e nel seguente accettò l'emendamento del Blass:
"Apeog dv TTuupuj kXóvov
"AXKUJvd Te lux; dpicTTU)?.
Tuttavia l'Ahrens non contento dell'interpretazione data dal Bergk
a TToiptu kXóvov = « belli tumultura sive laborem » (Kampfge-
wuhl), si sforza di provare con una lunga dissertazione come
7TUjpo(; abbia significato di dolore (confr. TTiupeTv bè oi 'HXeioi tò
7T€v9eTv. Suida\ e di duro (confr. Esichio TreTTaipuuiaévoi • éaKXripuj-
H^voi), e completa: €upuTÓv Te | òuipòq dv Ttiupw kXóvov | Tipé-
TTOvO' ctTe TÙjq dpicfTuuq | qpujToq où Trapncrope^. — Ora dal con-
testo risulta evidente che Kapnaoiaeq doveva essere preceduto da
una negazione, che a parer mio è la dorica oùò' djaiLq (cfr. v. 44).
Le parole TÙjq dpicfTuuq vengono secondo l'Ahrens unite come ter-
mine di paragone ad €upuTov, e come caso di apposizione ad
"AXki^ov, GupvjTov ed "AXKuuva secondo il Blass e il Bergk, i
— 513 —
quali veggono qui lo schema alcmanico (l); quest'ultima opinione
mi sembra più probabile, di modo che leggo :
Kd\Ki|io]v Tov àjpéiav
arpaidt] liérav EupuTÓv le
"Apeoi;] àv nuOpai kXóvov
"AXKoivJa te tuu^ àpiaruu^
oùò' djjuj? •n]apr\ao^eq.
13 rAPAIIATTANTON ràp oixaa ttuvtujv
14 rePAITATOI T^paiTaToi
15 eAIAOIAAKA ^bi\oc, à\Kd.
L'Ahrens completò e lesse questi versi nel modo seguente :
aÌTT€ia] fàp ATaa itdvTuiv
dv TTópiy] YcpaiTaTUJ >
t^k' riìiTTJéòiXoq àXKd.
Ma del verso 14 è affatto arbitraria la lezione YepaiTdxiu. — Ne
più felice è il completamento del Canini, il quale scrive:
TTópoq TÉ Km] alaa irdvTuuv
bai|ióvuuv] T€paÌTaTOi
d t' r|ÙTT]ébiXoq dXKd,
poiché è del tutto trascurata la parola ydp che leggesi al prin-
cipio del V. 13. Inoltre il senso viene ad essere violentemente
spezzato, contro l'uso di tutto questo carme, nel quale non pure i
singoli versi ma anche le strofe sono collegate da continuazione
di senso. Nò vale il dire che qui il Coro prima di farsi a cantare
del combattimento fra' due eroi invochi l'Amore, la Forza e il
Destino, a simiglianza dei guerrieri spartani ; poiché l'invocazione
si usava dai soldati, non dai poeti, e ad ogni modo essa sarebbe
stata opportuna al principio della strofe 1* e 2». — Gratuita
inoltre è l'affermazione che TTópo<; sia lo stesso che "€puj^, uni-
ficando così due personalità distinte da Platone ; il quale narra
come "Cpuj^ sia figlio di TTópo^, che alla sua volta lo è di Mi^tk;
(1) Dello schema alcmanico così parla Erodiano, TTepi 0XnMi ^^1- "AXk-
MOviKÒv axi]\Jia TÒ fi£OàZiuv t>*)v i,na\\r\\ii)\/ òvo.udxiuv f| ^ruaàxujv Oéaiv
irXriBuvTiKotq f\ òuikoii; òvÓMoaiv f\ ^tfmaoi. réaaapa hi trapà xiL iioiriTfl
ToiaOra* ijixi (ìoàq Zifuóeic; aunpàXXexov óPpi|Liov Obiup. irXeovdZci bè. Kal
xoOxo TÒ axniaa uap* 'AXkj^&vi tùj XupiKiù, òGev kqì dXKjjaviKÒv KaXelxai.
~ 514 —
(Simjf.^ 203, 3). E neppure raffermazione del Canini, come egli
crede, ò confermata dallo scolio, dal quale anzi parrebbe che
Tlópoc, fosse eguale a Xdog, riferendosi lo scoliaste piìi che altro
alla parola yepa'najoi; e in questo senso appunto interpretò il
teri Brink scrivendo : « Alcmani Porus fuit Deorum antiquissimus
(|ueniadmodum Chaos ilesiodi (1) et Eros J'armenidi.
Un completamento più fedele ai resti del papiro ci vien dato
dal Blass :
Kpairicrel fàp alaa TtdvTUJV
Kttì T7ópO(jj YepaiTaToi
(JlÙÙV à|TTÉÒiXoq óKkó.
Nella parola dTTébiXo(; il Blass vede un accenno alla nota pro-
prietà di locomozione da Omero attribuita ai calzari degli Dei.
Se non che osservo che tale proprietà Omero non l'accorda che
ai calzari di Mercurio, a cui come a messaggiero degli Dei essa
bene si addiceva (2). In quanto alle altre divinità, anche mag-
giori, esse non se ne valgono mai, anche quando piti ne avrebbero
bisogno ; lo stesso Nettuno cammina, anzi una volta
ipìq iLpéEtti' ìuuv.
Nel caso di 'AXkò poi non si saprebbe veramente a che le ser-
vissero dei calzari alati. — Piuttosto, volendo conservare 1' òtt^-
òiXocg del Blass, si potrebbe intendere la parola nel senso che la
forza colpisce l'uomo all'improvviso, senza farsi sentire, sopravve-
nendo tacitamente. Ma preferisco leggere questi versi così :
KparriCe] yàp ATcfa ttóvtujv
Koì TTópoq] TepaiiaTOi
aiujv K* riÒTT]ébiXo<; 'AXkó,
intendendo che il destino aiutato dalla Forza, riuscì vittorioso di
tutti.
La radice della parola T\óp-oc, affine con quella di rrepauj,
TTeipuu, TTopcTuvuj, 7TeTrpuj|uévov parmi che abbia un significato con-
(1) Theog., 116: 'H toi |uèv TTpóiTiaxa xóoi; yéveTo.
(2) II, «, 340 sgg.;
bidxTopoq àpYeiqpóvxrj*;
oùtìk' ^neiG' ùttò noaaìv èòt^aaro koXò TtébiXa
à|uPpóaia xp\)Or\a, rct |aiv qpépov riM^v èqp' ÙTp»\v
r|ò' kn àireipova jaiav-
- 515 -
genere a quello di ATaa, indicando cioè quello che ad uno è de-
stinato, la sorte. Né il trovare due parole di senso quasi identico,
ATaa e Tlópoc,, può far meraviglia a chi è pratico del linguaggio
poetico della Grecia.
16
17
PQnQNeifìPANON-
[nOTHZGQ
PHTQrAMGNTANA-
OPOAITAN
pLUTTuuv èq lùpavòv
[TTOTriaGuj
priTO) YOtMèv ràv 'A-
[cppoòirav
18
AN.IIANH-^TINA
dv.acyav fi uva
19
HnAlAAH.'PKfì
TI TTaìòa TT.'pKUU
20
ITGIAeAIOZA.MON
iTe<; òè Aiò<; ò[óJ)nov
21
IINGPOrAeOAPOI
aiv èpoYXécpapoi.
Giustamente osserva il Blass che il PHTQ del v. 17, deve essere
l'uscita di un imperativo corrispondente a quello del verso pre-'
cedente TTOiriaGuj, e così restituisce il testo :
)ariTi<; dv9jpuuTTUJV éq ibpavùjv KOTriaGuu
)Liriòè TTeiJprjTuu yaiuèv tàv 'AqppoòiTav
KuTTpiav] dvaaaav, ìi tiv'
_ - - fi Tiaiba TTópKUj
eìvaXiav, x«P]iTe<; bè A\òq òó|uov
ècrpaivoijcfiv èpoTXéqpapoi.
Chi è pertanto TTópKoq ? — Secondo Esichio sarebbe lo stesso
che Nereo — Nripeui;' QaXàaaioc, bai^ujv AXkjìòv òè Kaì TTópKov
òvoixàlex. — Ma la simiglianza del nome con 0ópKU(;, suo fra-
tello, mi induce quasi a credere che Esichio sia caduto in errore.
Di questa divinità marina così parla il Preller {Griecìi. Myili.):
« Sein Name lautet bald 0ópKO(;, bald OópKug auch OópKuv,
und scheint in miinnlicher Bedeutung dasselbe auszusagen, was
die weibliche Kr|TU) ausdriickt, das Meer als die Heimath aller
Ungeheuer (neYaxntea rróvrov) und so gilt Phorkys auch bei
Dichtern gewonlich fiir den Herrn und Herrscher ùber die Meer-
ungeheurs. Vgl. Schoraann {de Phorcyne eiusque familia), welcher
als primitive Forra FópKuq annimmt, woraus 0ópKu<; odor TTópKoq
geworden sei ». — 11 passaggio del F in qp e del cp in tt ha
luogo tanto frequentemente, che è inutile citarne esempi.
Nel V. 21 trovasi per la prima volta la parola époTXéqpapoi,
eguale, come giustamente nota il Blass, ad èpojTOYXécpapoi, con
— 510 -
formazione analoga ad i^epocpuuvo^. — In quanto poi alle Xd-
piT€5 del V. 20, il ten Brink preoccupato della citazione di Pau-
sania (1) dice doversi intendere per esse le due Grazie Lacede-
monie Oaévva o K\nTà; ma dal contesto pare piuttosto che si
parli di grazie in generale.
22
TATO!
TÓTOl
23
TAAAIMQN
Ttt feaì)ii))V
24
lOIAOII
l rpiXoi^
25
QKGAQPA
UJK€ bij'pa
26
PAPeON
Tap€ov
27
QAEZHBA
uj\€(t' fiPa
28
PONON
póvov
29
TAIAI
Tttiaq.
11 Canini crede poter ricomporre :
OVttTUJV ÒXPlÓTaTOl
oxc, Ka\à k' èparà òaimuv
XftpiTUJV òéòuuKe bujpa.
Ma a tale completamento si oppongono il metro e il testo del
papiro. Nota bene il Blass che soggetto di lòwKe òu»pa deve es-
sere òai|au)v e complemento qpiXoiq; del resto con sì scarsi fram-
menti riesce vano ogni tentativo di ricomposizione.
30 GBATQNAAAAOIIQI ipa tuùvò' aXXoq ìlù
31 MAPMAPfìlMYAAKPQI napiadpuj nuXdKpuj
11 Blass legge:
è'Pa* Tujv b' aXXoq ìoi
è'cpGiT', àXXo<; ò' auie] napiaópu) lauXdKpiu.
L'Ahrens invece, scambiando A A per M e I per N, lesse male e
supplì :
ipacpoq aÙTiKa (Jcp']epa tujv bajiuuaiuùv
ic, pOacv Òùaa0"a] luapnapiu fiuXdKpiu.
32 IGNAIAAI aev Aibaq.
(1) III, 18, 6: '€(; 'Aj-iÙKXaq he. KaTioOaiv ék I-rrapTric; tiOTa^ióc, èaxi T(aaa...,
Kal irpòc; aÙTfj Xapixujv èarìv iepòv Oaévva; Kai KXnTa<;, KoGà bi\ Koi
*A\K|iiàv èiToinoev.
Il papiro porta la dieresi su Aiòacj, ma lo schema metrico non
la permette. Il Blass vide traccie di un T innanzi €N : non re-
siste quindi la congettura dell'Ahrens e del Bergk :
nóvtxoq b' €napi|;]ev Aìòai;.
Supplisco quindi col Blass:
TijLJV ò' ójLiuù? KpdtrijcTev Aiòa(;.
33 AYTOI aÙToi
34 TTONAAAZTAAe ttov aXa^ia òè
Col. II:
35 ePrAHAIONKAKAMHZA- epTa ttóctov Kanà ^\]aà-
[MGNOI [M€voi.
Ai versi 33 e 34 supplisco:
u)Ò€ )aópai|iov TÒp] aìiTOÌ "^
èK Aiò<; aiaap èTréajTTov * ct^aara òè
epya Ttdaov Kanà fariaajaevoi.
Il verso 35 è il primo della seconda colonna del papiro, perve-
nutaci per intero, come ho già notato in principio, sebbene non
illesa da buchi e da macchie di umidità. Con esso inoltre si
chiude un periodo strofico — il terzo di quelli che presenta il
frammento, come più giù dimostrerò — ; quindi è pregio dell'o-
pera il fermarci per dare uno sguardo al contenuto generale dei
versi finora esaminati. — È fuori di dubbio che i versi 30, 31
e 32 appartengano alla descrizione di una battaglia ; e il Bergk
ha creduto che essa fosse appunto la battaglia tra gli Afaretidi
e i Dioscuri. Teocrito (XXII), che inneggiando ai Dioscuri l'ha
descritta, ne assegna la causa seguente. Ilaira e Febe, figlie di
Leucippo, erano promesse spose ai propri cugini Ida e Linceo (1);
(1) AToXoq
I
TTepiriPn<;
I I
Aqpapéoc; AeÙKnrnoc;
J I .1. .1
Ibac; AuYKCÙ^ Kóartup 'IXaeipo <t>oi^rj TToXubcÙKric;
'AvibYiuv MvrioiXaoq
- 518 -
ma i Dioscuri, anch'essi invagliiti della bellezza delle giovanette,
le rapirono e con esse procrearono figli. Di che offesi gli Afaretidi,
inseguirono e raggiunsero i Dioscuri presso la tomba del loro
padre Afareo, dove comincia la pugna anzitutto fra i più giovani
rivali Castore e Linceo, che è ucciso dal Tindaride a colpi di
spada :
qpdcTfavov ujae bianpò
Tuvbapibrig Xayóvoq re Kai ò^rpaXcO.
Ida allora, volendo vendicare il fratello, all'erra a due mani la
arriXriv che sorgeva sul tumulo del padre, per scagliarla contro
il nemico; ma Giove accorre in aiuto di Castore, fa cadere dalle
mani di Ida la tuktiPiv fidpiiapov e lui incenerisce col fulmine.
Secondo Pindaro poi {Nem., X, 60) Castore è ferito da Ida sde-
gnato contro di lui per un furto di vacche; sopraggiunge Polluce
ad inseguire gli Afaretidi, e rimasto illeso, perchè Dio, da una
statua di Aide che questi gli scagliano in petto {àfaX^x' Aiòa
gecTTÒv Ttérpov IjiPaXov aTépviy TToXubeuKeoq) uccide con un
colpo di giavellotto Linceo (aKovri Oguj),
Kaì }Aéja FépYOV ènnaavi' djKe'uu^
Km TTdBov beivòv TTaXdpaK; 'Aqpapr|TÌbai Aióq.
È facile vedere che questi due versi di Pindaro altro non sono
che un'amplificazione del concetto alcmanico
dXaaxa bè
è'pTCì TTdaov KaKd [xr\(yà\JLevoi ;
se non che non ammetto col Bergk che qui Alcmano abbia vo-
luto descrivere la pugna di cui parlano Pindaro e Teocrito. A
parte la questione dello spazio — in tutto otto brevissimi versi,
se pure non quattro, giacché i frammenti dei primi quattro
non pare si adattino a descrizione di pugne — un'attenta con-
siderazione del testo mi induce a credere che anche in questa
terza strofe il poeta continui sul tema della morte degli Ippoco-
ontidi. — Anzitutto Pindaro e Teocrito parlando di una grande
pietra usata come arma offensiva, ce la rappresentano entrambi
come un lavoro d'arte ; poiché il primo la chiama àyaXpa, Eecrtòv
- 519 —
Ttéxpov, e il secondo lUKifiv jadpfiapov. In Alcmano invece si fa
bensì parola di una pietra levigata (inapiLidpLU, naa è una pietra
di quelle che usavansi per macinare, come mostra la parola |nu-
XóiKpiu. — Aggiungi che presso Pindaro e Teocrito sono i soc-
combenti quelli che si armano inutilmente di tale pietra, presso
Alcmano i vincitori. Le altre armi poi sono ineguali, giacché
mentre i primi parlano di spada e giavellotto (àKoiv, dop, Eiqpo(;),
Alcmano nomina solamente i dardi (ioi [ecp9iTo]). — Inoltre,
la connessione col testo esclude del pari l'ipotesi che qui si tratti
della lotta degli Afaretidi. Teocrito infatti conclude la sua nar-
razione esclamando :
ouTuuc; Tuvòapiòaii; TTo\e|Lii2!€|uev oùk èv èXacppuj.
aÙTOi te Kpaiéovie Kaì ìk Kpaiéovroc, èqpuaav ;
e Pindaro alla sua volta :
XaXeità ò' epi<j dvOpuuTToi<; ójuiXeTv Kpeiacóvuuv ;
insomma se gli Afaretidi perirono, ciò avvenne perchè i Uioscuri
erano di loro più potenti (1); essi osarono una gran cosa — luéYa
è'pYov — , quella cioè di combattere esseri più forti — ómXeTv
KpcKJaóvuuv — ; e perciò perdettero, non per aver meditato cose
nefaste — KOKà }xr\aà\Aevoi — ; perchè anzi se colpa vi fu, questa
fu il furto, secondo Pindaro, o il ratto compiuto dai Dioscuri,
secondo Teocrito. Non è quindi possibile applicare alla descrizione
di un combattimento fra i Dioscuri e gli Afaretidi la chiusa della
3** strofe :
aXaCra òè
è'pYa TTÓacv KaKÒ |ariaa|U6voi,
e il principio della strofe seguente :
Ì0T\ ^\C, (JlUJV Tiai^ •
ó ò' òXpio<j, oanq eucppuuv.
Se si ammette invece che qui il poeta parli della strage degli
Ippocòontidi, fatta da Ercole, il senso di tutto il contesto corre
naturale. Degli Ippocòontidi invero, i (juali per vendicare la morte
di un vile cane uccisero il giovinetto Oionos, si può dire a ragione
che meditarono opere malvagie (KaKÒ )ar|(Jd)aevoi), e però la strage
— 520 —
di essi fatta da Ercole fu un più flie giusto castigo degli Dei
(aiujv TicTic;). — E a conffrmiire (|Uosta interprctazionf! concorrono
le giuste osservazioni del iilass, il quale nelle parole iuj e |iap-
^dplu liuXuKpLjj vede descritte armi che convenivano specialmente
ad Ercole; e nelle parole ùjXea' ripa scorge indicata la morte ap-
punto del giovin(!Ìto nipote di Ercole, Oionos (1).
36 e . TITIZIIQNTIZIZ ^|a|Ti riq aiwv xiaiq
37 OA . . BiOIOITIieYOPQN ó b|" ó|\pioq òati^ eùqppjjv
38 AMePAN . . AnAeKei ujaepav lòijaTxXéKei
39 AK . . . ZTOI dK|\au|crToq.
Nel verso 36, come in tutto il partenio, stimo che le parole mei,
CiOùv si debbano intendere in senso generale contrariamente al
Canini, che dà loro quello particolare di iJio.scuri come nella frase
laconica vf) yià xOj Ziiu, giacché la sentenza è generale: evvi sui
malvagi una vendetta degli Dei. — Di fianco al verso 37 è scritto
il seguente scolio :
àpi((JTapxcfq) 6.... (òò' òXpioc;)
Secondo Aristarco adunque bisognerebbe scrivere sinteticamente
òbe invece di ó òè. Nondimeno, quantunque l'autorità di Aristarco
sia grande, mi pare che qui l'asindeto sia reso indubbiamente
necessario dall'avversione del pensiero e dal cambiamento del sog-
getto. « Coloro che meditano opere malvagie, dice il poeta, vanno
incontro alla vendetta degli Dei; ma quegli invece è felice (ó òè
òXpioq), il quale ha buoni sentimenti (oaTi<; euqppuuv); a lui gli
Dei non mandano castighi e dolori che suscitino il suo pianto
(1) Evidentemente lo Scoliasta di Clem. Aless. aveva presente questo passo
di Alcmano, quando scriveva (T. IV, 107, ed. Klotz): « 'Ittitokóuìv tk; èyé-
vexo AaKebai|aóvio<; , oO uioì ónò toO itOTpòi; XeTÓiaevoi 'iTiTroKOiuvTiòm
èqpóveucrav tòv Aiku|liviou uìòv, Oìujvòv òvó^ari, ouvóvra tlù 'HpoKXet,
ÓYavaKTìiaavTec; ini tu) ueqpoveOaBai ùtt' aÙToO kOvo aùxujv Kaì bf\ àya-
vuKTì^aaq ètri toùtok; ó HpaKXfjc; iróXeiuov auYKpoxeT kot' aÙTiùv koI ttoX-
Xoùi; èvmpe!, óre koI aùròq ti^v x^^P" ènXjiYri' |ué|uvr|Tai òè xal 'AXkjuòv
èv a'. )». Del combattimento di Ercole contro grippocoontidi parla anche
Pausania (III, XV): « "AYaXina òè 'HpaKÀèoui; èaxiv djTtXioiuèvov tò òè
oxnMOi aÙToO (ÌYaX|uaT0<; òià Tf\v -apòc, litTTOKÓujvTa koI toù^ Ttaìòaq M^XT^
YÉvéaGai XéYouaiv ».
— 521 —
(ójLiépav òiaTTXÉKei aKXauaroq) » (1). Epperò opportunamente il
Piccolomini propone di segnare una virgola dopo euqppuuv, che
qui prende spiccato significato di àfaQà qppove'uuv opposto al pre-
cedente KaKÒ |ari(Jd|ievoi, mentre nelle parole seguenti à|iépav
òiaTtXeKei aKXaucTTOc; è mostrata la causa insieme e il modo della
felicità. — Al V, 38 il Christ lesse aKXucTToq, il ten Brink ànr)-
puKTO?, lezioni entrambe non sopportate dal metro; da ultimo il
Blass, seguito dal Bergk, corresse àK\a\jaTo<;. — Sullo scolio sopra
citato, di fianco al verso 37, se ne trova un altro, del quale non
vedonsi che le lettere a . x t' (solita abbreviazione di tuùv); e poi
dYiboua....; il Blass felicemente completò àpxii tujv 'AyiògO^
(èTTttlVUJV).
39 erQNAAGIAQ èTÙJV ò' àeiòuu
40 AriAQIT0(t)12Z0PQ 'ATibóùq tò qpuùq ópo)
41 PQITAAIONONnePAMIN p' ujt' àXiov, òvrep a^v ^
42 AriAQMAPTYPeTAI 'Aribub liapiupetai
43 0AIN6N (pm'vev.
11 ten Brink scriveva: èYÙJV ò' àeiòuu • — 'AyiòaG tò cpujq ópu).
— L'Ahrens: èydjv ò* àeiòuu — 'Ayiòuuv tò cpMC, òpuùp' — u)
Fàòiov ev TTÈp àjiiv — 'Ayiòub luapTuperai — qpnvriv. — Final-
mente il Blass vide traccio dell' Q e più ancora del I di 'ATiòuJq,
e concluse che il genitivo non poteva dipendere che da tò (puj(g,
dopo di cui si doveva mettere il punto. Arbitrariamente poi il
Bergk mutò àXiov in àXiO(; scrivendo: òpuup' OIjt' à\iO(;, poiché la
N nel papiro è chiarissima : quindi se è un accusativo, non può
essere òpuupe il verbo, ma òpai pà; epperò il senso non è, come
afierma l'Ahrens: « lux orta est ». — La migliore lezione, a parer
niio, è quella del Blass, che sopra ho segnato a 1. 39-43; dove la
necessità metrica ci obbliga a scrivere eolicamente (paivriv, contro
allo scrittore del papiro che è incorso certamente in errore.
Senonchè di questo testo il Blass ci dà la seguente versione:
« Agido, a dire il vero, ci assicura con giuramento che è il sole
che ci rischiara, ma io credo che Agido stessa risplende ». Ma
argutamente osserva il Piccolomini : « se, come almeno a me
sembra, risulta dai versi 60-64, che questo partenio doveva cau-
(1) Cfr. Esiodo, T/ieop., 96:
'6k hi Aloe; paoi\ri€c;' ó b' óXPioc, òvriva MoOaai
CpiXOÙVTOl.
— 522 —
tarsi di notte al sorgere delle Pleiadi, come può Agido assicurare
essere il solo (niello che rischiara il coro delle fanciulle? ». Pre-
ferisco quindi spiegare : io veggo Agido come un sole, cui essa ci
induce a credere che veramente risplenda; o in altri termini il
poeti!, dopo aver detto che Agido è splendente di bellezza, sog-
giunge iperbolicamente, ad accrescere la sua lode, che le fanciulle
son quasi indotte a credere che il raggiante viso di Agido —
'ATibujq TÒ qpuj? — sia il sole che splende in Oriente.
Al verso 41 scrivo, secondo il papiro, iìjt' uXigv col Blass, in-
vece di scrivere ùjtc col Michelangeli, poiché più della ragione
addotta dallo Schubert mi piace l'etimologia che di questa parola
dà Erodiano (presso Eustazio, //., p. 117,4), facendola derivare
da thc,eue: « "fiveiai bè Kaià 'Hpuubiavòv oùrujq' uj^eiie Km
ib(;eiTrep Kai dTToPoXri toO q kqì Kpdaei toO uj Kai toO e el(; ifiv
oj bicpGoYTOv bla ifiv toO i cruvalpeOiv Ojjie Kai Lurrcp ». Vj questo
valga per tutti i casi simili del carme. Il t di ójt' non è cam-
biato nell'aspirata corrispondente, quantunque seguito da a\iov,
secondo l'uso dorico. — Per aiuTv confr. Apoll. (Z)e ProM.,383B):
« t] AMIN bujpiKri éTKXivoiaériv auateWei tò i év o\q KpoTrepi-
(jTTaiar
al fàp a|iiv TOUTuuv jneXei
òHuvo^év te
à\i\v b' ùrrauXìiaei néXoq ('A\K|aav).
43 cDAINGN • eMeAOYTeTTAINeN qpaivev • è)aè b' cut' èrraivèv
44 OYT . . QMEI0AININAKA€N- ouile njuuiaéaeai viv d
[NAXOPArOZ [K\evvà xoparòq
45 OYAAMQIGHI oùb' dmjùi; èri.
11 ten Brink credeva che qpaivev (v. 43) e KXevvà (v. 44) si rife-
rissero alle due grazie lacedemonie, di cui parla Pausania, come
sopra ho già notato, e aggiudicava la parola xoparói; a uno scolio.
— Il Bergk ha letto:
é)Liè b' cut' ènaivèv
cute nuuiiiriaGai viv d KXevvd xop«TÒ?
cube Xilia' if),
e spiega: « Hagesichora (dal Bergk ritenuta corego), neque si
velit (oùbè Xujaa) me sinit laudare illam virginem (riferendo viv
ad Agido); ipsa enim pulcritudine sua animum meura piane oc-
cupat ». — Ma anzitutto la lezione del Bergk oùbè Xuùaa è ar-
- 523 —
bitraria, avendo il papiro chiaramente oùòaiauù?. Inoltre non si
può ammettere che Agesicora sia la corega, la quale invece da
tutto il contesto e più specialmente dai versi immediatamente
seguenti apparisce essere Agido; quindi cade da se tutta l'inter-
pretazione del Bergk, — Il Blass invece di luoi^naGai come legge
il Bergk, propone èTruu^iéaGai, giacche negli avanzi della lettera
distrutta per metà da un buco, vede piuttosto un TT che un M;
e spiega: « a noi non è concesso di lodare il sole e di giurare
per esso; Agido bensì può servirsi di tale formola di giuramento ».
Ma la voce iuuj^xéoQai sarebbe un aoristo, quale, secondo che il
Blass stesso dice, non trovasi in nessun altro scrittore; e d'altra
parte io non veggo quale vantaggio di senso apporti la sua cor-
rezione. Bensì accetto la correzione che egli fa alla lezione del-
l'Ahrens oùòa|uuj(s, scrivendo invece oìiò' à^()jq come esige il segno
messo suir A; e in quanto al senso intendo: la corega spiccandosi
velocemente alla corsa non mi permette di fermarmi sull'immagine
del sole, ma me ne richiama a un'altra — a quella cioè del no-
bile cavallo, che è appunto espressa nei versi seguenti e collegata
alla prima col yap.
45 AOKGirAPHM€NAYTA ÒOKeT fàp ril^ev aura
46 eKnPenHITQIQinePAITII èKTTpeTTfi(; lOjq OÙTT€p ai ti?
47 €NBOTOIIITAieieNI.... èv PotoT<; axdcreiev i[ttttov]
48 TTArONA€0AO0OPONKA- Traròv deOKccpópov Kavaxano-
|NAXA [ba
49 ...YTTOneiPIAlQNANeiPQN [toiv] ijttott€tpiòiujv òVeipuiv.
Al V. 45 fjiaev è forma dorica ben nota. — aura si riferisce a
XopaYÓq nominato al verso precedente, a cui quindi è appropriata
l'immagine del destriero. La pittura di questo rammenta i cavalli
omerici :
TTriYoij? àeGXoqpópouq oi déGXia TTOCTaiv àpovTO.
Al v. 49, il Blass osserva: « ANGIPQN, der erste Buchstaben
ist naturlich nicht als ò geraeint, sondern ein etwas dreieckig
gerathenes 0 ». — A questo stesso verso si riferisce un lungo
scolio in tredici righi, che va dal v. 14 al v. 24 della seconda
colonna: così lo leggo e supplisco col Blass :
ÒTi là Gau|Lia-
(jià Kq (= Kttì) TcpaTiubri o\
- 524-
TTOirjTal £kuGa[cn| Tolq
òveìpoi^ TTpo(;aTTTeiv
K^ (= Ka») ó^oioOv bla TÒ (paiv£(J6^ (= a6ai)
KOTÒ TÒv òveipov ToiaOra.
'Y[Tro|TT[eTp]ibi()[uq| eipriKe ux;
ÙTTÒ fTT€JTpa (sic) OÌKOÙVTftq
èvafKia é\K TÓTTuu (sic)" napaYpófqpei]
bè Onlnlpou è.v Tri 'Obvcaeuf.
* Tiàp b' icTav 'QKedvoio ^oàq
Kai XeuKÓ-
ba TT^Tpriv, r|bè rràp 'HeKioio TiùKaq Kal bfjiuov 'Oveipuuv.
Ma qual conto debba farsi della seconda parte di questo scolio
— al pari di qualche altro, inutile sunto di grammatico fretto-
loso — ha giudicato rettamente il Bergk: « Schnliasta Alcraanis,
docte magis quam vere existimat somnia dici ùrroTTeipibia, quo-
niam somniorum sedes fuerat prope XeuKdba Ttérpriv, adhibens
Homeri, versus {Od., Q, 11). Neque vero Dionysii explicatio latuit
hunc interpretem , qui videtur (vid. iiiit. schol.) dixisse veteres
solitos esse somniis aliisque, quae monstri instar sint, primas tri-
buere » (1). — E col Bergk va d'accordo il Blass nella spiega-
zione della parola uTTOTreTpibiujv data da Dionisio di Sidone :
< TTroTreipibioq dictum per metathesin prò ÙTrortiepibioc; vel po-
tius per syncopen prò uiroTTeTepibioq, id quod piane confirmat Et.
M., 783, 20: uTTOTTerpibiiuv oveipuuv (ita certe V a m. sec. Et.
Fior, vulgo uTTOTTTépuuv òveipujv) Aióvu(TO(; ó ZibuuviO(; (ita Boeckh)
TTpuLJTGV TttUTr) lì} èTTiPoXrì èxpncraTO riTTep xp^viai oi Tpaji^a-
TiKol ibg TU|aPo<; TU|apibioq, Traupoq TTaupibiO(;, MOixò? lioixibio?,
TTTCpÒV 7TT6pÌblO(J. éxpiìv OUV ÉlKeiV Kttì TUJV ÙTTOTTTépUJV ÒveipuUV
TUJV ÙTTOTTTepiblUUV. ÙTTEpSéaei TuiJV UTTOTTeTpibiuJV. GUTOI? 'HpUU-
biavòq èv TU) nepì Traeaiv. ita fere libri, sed apparet locum am-
pliorem male in breviarium redactum esse. Primura Dionysii Si-
donii, qui fuit Aristarchi discipulus et anagnostes (in scholiis
Homericis passim TToaeibiuvioq perperam scribitur prò ó ZibuuviO(;)
sententia proponitur : ÙTroTreTpibi'uv oveipuuv. Aiovucrioq ó Zibuu-
vioc, • TieTepòv, TaÙTri Tri èmPoXfì ('A\K)Liàv) èxpricraTO fJTrep
(1) Confr. pure Euripide. Ecuba. 70-71 :
(I) TTÓTVia x^iuv,
jueXavoTTTepuYujv inólTep òveipujv.
— 525 —
XpujVTai 01 TapavTwoi. Is igitur recte vidit Alcmanicum non ad
TTTepòv sed ad Tretepòv esse revocandum, quod inserta littera e
sit auctiim, èTTiPoXnv dicens, cui contraria est àTioPoXfi, quam
alii èTrévGeaiv, èiréKTao'iv, TtapoXKiìv vocant, neque inepte Laconici
poetae idiomati illustrando adhibuit sermonem Tarentinorum, qui
a Laconibus originem duciint, et ad eumdem modum rópovo^
prò TÓpvo(g dixerunt (vid. Hesych.). Dionysius igitur, quamvis non
agnoverit Trérepov esse primigeniam speciem, tanien eius auxilio
expedivit Alcmanicum, contra Herodianus metathesin tuetur: sed
Herodiani explanatio non integra est servata ; novissima ita red-
integranda: ouToq Ttrepòv Triepiòioq • èxpnv ouv emeìv tuùv ùtto-
TTTepiòiLuv òveipuuv Kaì ìirrepBéaei tujv ÙTTOTreTpiòiuuv. Quae prae-
terea Lenz (Herod., II, 238, 39) tentavit improbanda ».
In quanto poi alle tre prime lettere dello stesso verso 49, il
Bergk prima supplì vuù)a' ùttott. òv. ; l'Ahrens craOji' e il Blass
TTaTò' ì). ó.; finche quest'ultimo non riuscì a scoprire frammenti
tali da poter dare per sicura la lezione
TUJV ÙTT0TT6TpiòlUJV ÒVei'pUUV.
Il poeta pertanto profonde epiteti per rendere degno di Agido
il paragone col destriero, che egli perciò rappresenta robusto, dal
piede scalpitante e solito a vincere nelle corse, un cavallo in-
somma di quelli — tujv — che ci si mostrano nei sogni alati !
50 HOYKOPHIIOMeNKGAHI r\ oùk òprì<; ò laèv kéXti?
51 GNGTIKOZAAeXAITA évéTiKO<; a bè xaita
52 TAIGMAZANeVIAZ làc, èpiàc, àve\\)\à<;
53 ArHZIXOPAZenANGGI • 'ATTiaixópaq erraveeT
54 . PYZ. .QITAKHPATOZ [xlpuajòq] ujxe ÙKìipaTO^
55 TOTAPrYPIONnPOZQFTON tó t dpTupiov ttpócjujttgv
5G AIAOPAAANTITOIAGTQ biacppàòav ti rei XéTUJ
57 ArGZIXOPAMGNAYTA 'ATntJiXÓpa Mèv aura.
A torto il Canini nel v. 50 scrive oùx óprjq, ritenendo superfluo
e contro il metro la sillaba fi ; a lui si oppone l'aporia testimo-
nianza di Efestione : « ZuveKqpuuvriai? èariv • ÓTTÓiav bue auX-
Xa^aì (Ju)Li(pujvov ^ri è'xouaai nexaEù àXXiiXuuv, ùvtì |iid<; irapa-
XricpBuJcJr xpÓTToi be eìcJi Tr\(; (JuveKcp'uvncreuuc; o'i'be ■ ai TÒp bue
^aKpa\ eie, luiav uaKpàv TrapaXaupdvovTai ùjq tò"
ri oùx à\\c, ÒTTI fuvaÌKaq dvàXKibaq nnepoTreuei^.
Hivisiln di filologia, ecc., I 34
- 526 —
'0 >ièv Ké\)]q éveiiKoq. I cavalli veneti erano famosi nell'antichità
0 aono ricordati anche da Omero (/Z., 2, 852):
ìE *Gv£tu)v 60ev nmóvujv yévoq àYpoTCpdujv,
il quale però non fa mai menziono di dO\r|TiKoì irrTroi. Con queste
parole il poeta riassume il fiarapfone df;lle strofe precedenti, come
ò suo costume, e passa quindi alle lodi di Agesicora :
a bè xoiÌTa
'ATr|<^iXÓpa<; èTTavGeì
Xpuaòq ujt' dKripaTO(;
TÓ T* dpYUpiOV TtpÓCflDTTOV *
òiaqpdbav ti toi Xé-fiu ;
'AxntJiXÓpa |ièv aura.
Così scrive e punteggia il Blass, il quale al v. 55 corregge òia-
qppdòav in òiaqpdòav essendo nel papiro il P cancellato con una
linea obliqua dall'alto in basso. — 11 Bergk segna il punto so-
speso dopo dKripaToq, e mette tra parentesi ti toi Xétuj, e scrive
luiév' invece di inèv al v. 56, spiegando : < laudare cum vult vir-
ginis faciem fingit se nescire qua comparatione commode uti
possit ; itaque orationem non continuat reticentia usus fingit
enim Hagesichorara vel se avertere vel recedere ne coram suas
laudes audiat ». — Ma l'ipotesi di una scenetta dramatica nel
meglio del canto lirico non si può assolutamente ammettere, e
farebbe meraviglia il vederla qui espressa dal Bergk, se anche in
qualche altro passo il dotto filologo tedesco non si permettesse di
indulgere genio et principi (1). — Ne più felice è il Piccolomini,
il quale riconoscendo come dpTupiov ttpóctujttov non possa dipen-
dere dal medesimo verbo èiravGeT, dal quale dipende x«iTa — à
òè xaiTtt èTTav6ei aòTtì Tf\ 'Ayriaixópa — dice che ad dpYupiov
TrpócTujrrov si sottintende il semplice dvSei. —
Preferisco pertanto a tutte l'interpunzione del Michelangeli, la
quale toglie di mezzo ogni difficoltà :
a òè xotiTa
Ta<g i\xaq dvevjjidq
'Ayricrixópa^ èTrav0ei"
(1) Vedi più giù al verso 82 e segg.
— 527 —
TÓ t' dpTUpiOV TTpÓauUTTOV
òiacpdòav ti toi Xé'fuj;
'Ayrimxópa ixkv aura.
La sua chioma fiorisce come oro puro , ma perchè descriverti
minutamente l'argenteo volto? Ella è Agesicora, e basti dire chi
ella è, per dire che è bella.
Al V. 55 TTpó(TuuTTov è forma attica ed eolica invece della do-
rica TrÓTuuTTOv e trovasi pure presso Saffo (I, 14):
|Li€iòidaai(j' à9avdTUj ttpo(Tuuttlij.
N
58 AAeAeYTePATTGAAriAQI- abe òeutépa ireò' 'Atiòuuv
[TOeiAOI [tò dboq
59 innOZeiBHNQIKOAAEAiei- innoc, eìpnvtu KoXaEaTeq
[APAMGITAI [òpaiaeiiai.
Questi due versi, pur essendoci pervenuti per intero, sono stati
oggetto di lunghe discussioni, cui mette conto esaminare breve-
mente per stabilire la retta lezione ed interpretazione del testo.
AA6 — Contrariamente all'opinione del Blass, leggo anzitutto,
col Michelangeli, abe unito, perchè il papiro porta lo spirito e
l'accento suU' a, e più ancora perchè non serve ad introdurre
nessun nuovo soggetto, ma a continuare su quello di prima, cioè
Agesicora.
N
AflAQI « das letzte I scheint doppelt dazustehen. Bei der Cor-
rectur ist I durch einem Questrich getilgt, und N darùberge-
schrieben; also mit Ahrens 'ATibùjv ». Blass.
6IBHNQI — Se pure nel papiro è scritto elpnvLu, ciò manca
di qualsiasi autorità, secondo il Blass, come accade per l'iota sot-
toscritto in questo e negli altri papiri alessandrini.
KOAAZAiei « das I nach HA ist durch einem dicken Que-
strich getilgt; ob dann welter € oder 0 folgt, ist nicht zu er-
kennen. So nach der Photographie ; aus depi Originai habe ich
mir nur notirt, dass sich in dem Circumflex iiber a der Schweif
den P niescht, welcher dem ubergeschriebenen Scholion angehort
(irap' TÌeXioio) ». Blass.
innanzi al verso 58 vi è un x» ^^ quale si riferisce uno scolio in
più righi, di cui il Blass ha potuto leggere :
— 528 —
ÒTi TaO-
Ttt -févri èaxiv....
IKUJV ITTTTUUV
É|i|privo|q|.... (òvo||aaZ;ei dv (ÌK|j(riTr|v|,
(love nel torzo ri<^'0 pure, almeno secondo il Hergk, si debba com-
pletare ZkUTIKUJV ITTTTUUV.
11 significato pertanto di questi versi dipende dalla lettura e dalla
costruzione che si dà ad essi.
Lasciando da parte la arbitraria divisione del Canini, il quale
mette tra parentesi il v. 57 e unisce il 50 al 58, esaminiamo
anzitutto il significato di questo passo leggendo — col Piccolo-
mini e col Canini — KÓXaS dèq òpaiieirai, come rimane da KO-
AAZAI6Z se veramente 1' I è cancellato e l'apparenza del cir-
conflesso è dovuta al p dello scolio soprascritto. Secondo tale
lezione la costruzione sarebbe: dòe bpaneiiai àìq òeuiépa ttéò' 'A-
Yibùjv TÒ elboc, iTTTTO^ kóXqE eiPnvou. — Che cosa siano gli
elprivoi lo ha dimostrato abbastanza il Bergk adducendo la glossa
di Esichio : èPnvor àXwTteKiòeq, e Polluce, V, 38: Xéfouai bè
làc, laèv AaKttivaq (Kuva(;) èE àXaiTrÉKUJv Kal kuvujv Y€vo|iéva<;
KXri6nvai àXujTreKibaq; e segue: ai bè Kaaiópibe»; KdcFTopo<;
9pé|a)iaTa, 'AttóXXuuvo? tò bujpov • Taùiaq b' ó aùròq ouToq koi-
riTTÌq (Nicandro) eivai làc, dXujTreKibaq è'xei, m^aiaévou tò T^vcq
àXcuTieKi KàaTopo(;. Senofonte pure scrive che da principio vi era
una netta linea di separazione tra le due specie di cani Kaató-
pibeq e dXujTTeKÌbe(;; ma aggiunge: èv ttoXXlù bè xpóvqj auTKé-
Kpaiai aiiTuùv n cpvGxq (Kuvttk.); nelle quali parole si deve no-
tare il carattere affatto avversativo della particella bè. Da Castore
ad Alcmano era trascorso molto tempo, e pos.^iamo credere che
all'epoca del nostro poeta la fusione fosse già avvenuta.
Abbiamo pertanto un paragone tra la velocità di Agesicora e
quella di un cavallo; i termini di paragone sono uniti da tò
eiboq — accusativo di relazione, simile all'omerico béfaaq, da cui
differisce solo per essere seguito dal nominativo (iTTTToqì, invece
che dal genitivo (béinaq rrupòq ai0o^évoio). Traducendo si ha :
« Agesicora correrà dietro ad Agido come un cavallo che segue
un cane ». — In quanto alla parola àéc, il Piccolomini ne salva
abbastanza il senso iterativo — ogni qual volta vi sarà una gara
di corse, dopo Agido verrà sempre Agesicora — ; ma l'identità
- 529 —
di radice e di significato fra KÓ\-aE e à-KÓX-ou0O(s resta tutt'altro
che provata; e, quello che più importa, ripugna alla interpreta-
zione del Piccolomini il senso generale, giacché, come osserva il
Bergk, « poterat canis equi minister, non equus cani comes dici ».
Il Blass scarta i dativi 'ATibói e eìpnvLp, che tiene uno per ac-
cusativo, 'ATibuuv, e l'altro per genitivo eì^rivuj, e legge KoXa-
Haio^ invece di KÓXaH àèq. Egli crede che il genitivo eipnvuj di-
penda da òeùiepoq sottinteso, come neò' 'Ayiòujv da òeutépa ; e
costruisce : a òè òpafieiiai beuiépa ireò' 'Ayiòuuv, tò eiòoq iTiTToq
KoXaHaioq (òeÙTcpo*;) eìPnvuj. — Ma Polluce espressamente dice
che i cani adoperati nella caccia correvano al pari dei cavalli
(V, 41): 01 òè TrdpiTTTTOi (KÙveq) loxq iTTTroi^ auvGéouaiv, cure
TTpo6éovTeq ouT€ )Lifiv àTToXeiTTÓ)aevoi ; uè pare che trattandosi di
una questione di fatto, non di opinione, Alcmano potesse dissentire
da Polluce. Come dunque conciliare la testimonianza di Polluce
con le parole di Alcmano ? e come stabilire la lezione migliore
tra 'Ayiòuuv e Afiòuj ? — Esaminando il valore della proposizione
jLieta (= TTcbd) è facile osservare che essa quando è seguita da un
accusativo indica successione nello spazio e nel tempo ; quando
invece è seguita da un dativo, indica accompagnamento e simul-
taneità di azione (1). Attenendoci quindi alla lezione 'Atiòuj,
N
che dal papiro (AflAQI) sembra inoltre la più antica, epperò
da preferirsi, si risolvono in buona parte le difficoltà. Avremo
infatti : aòe òeutépa òpaiueiiai Tieò' 'Ayiòlu, tò eiòoq ittttoc Ko-
XaEaToq (ttcò') eìpriviu, ossia: Agesicora correrà alla pari con Agido
come un cavallo Colasseo con un veltro. — Cosi il passo di Pol-
luce diviene il miglior commento al verso 'ìtijtoc, eìPnvtu Ko\a-
EaToq òpa|U€ÌTai ; correrà alla pari cute TrpoGéaiv cute ànoXeiTió-
ILievoq; né però il òeuiépa resta soppresso, giacché l'importanza
di Agesicora sarà sempre di secondo grado di fronte a quella di
Agido che é la corega, pur mantenendosi alla pari con lei. —
(1) In tal caso Omero adopera promiscuamente latTà e &na secomlo le
esigenze del metro; per es. Od., II, 148:
Tib b' ^ujc, |uév jS' èTTéxovTo ^età TTvoir)!; àvt|uoio
e II., XXIV, 312:
(-rréòiXa) rd )uiv qpépov r\}xèv éqp' ùypf'iv
r]b' én àneipova yci^cv fijLia nvoirlq àvéjuoio.
— 530 —
Nel termine di paragone poi Alcmano ha tralasciato, come più si
addice ;illo stile lirico, di ripetere il Tiebd, che si può facilmente
sottintendere; che anzi il solo dativo può di per sé esprimere il
concetto delia simultaneità, come ce ne dà esempio Omero {II.,
M., 207):
aÙTÒq bè KXdfEac; TTéieTO TTvoirì<; àv^noio.
La lezione del Bergk, il quale nel v, 57 scrive neb' 'Ayibujv, e
nel V. 58 eiPnvip, mi semhra insostenibile, per il duplice sbalzo
che porta nella costruzione e nel senso passando così bruscamente
dall'accusativo al dativo.
In quanto alla parola KoXaEaìoq = KoXdEioq (contractione ad-
missa) da KoXaHaic;, cosi scrive il Bergk ; « Kolaxaidi, antiquo
Scytharum regi, equura pernicitate insignem fuisse videtur ». La
testimonianza di Erodoto invero è tutt'altro che esplicita e con-
vincente (Vedi IV, 9); tuttavia la novità della parola può trovare un
appoggio nella predilezione di Alcmarie pei nomi inusitati e rari.
60 TAineAGlAAEirAPAMIN lai TreXeidbeq fàp u)aiv
61 OPGPIAIcDAPOIOePOIIAII òpepiai (papo<; cpepoicraiq
62 NYKTAAIAMBPOZIANATe- vÙKxa bi' à)ippoaiav àie
[IHPION [anpiov
63 AZTPONAYeiPOMGNAIMA- àarpov aùeipo^évm ^d-
[XONTAI [xoviai.
Questi versi importantissimi, perchè toccano la questione capitale
della divinità a cui il carme era indirizzato e vi aggiungono la
particolarità del rito e del tempo in cui questo era celebrato, sono
stati oggetto di assai differenti interpretazioni.
Le difficoltà del testo sono accresciute da uno scolio posto a pie
della colonna, che dice:
aporpov
opGiai qpapo^ 5!uu(Jiqpdvr|<; dpoTpov òri
ifiv ['AtiJZ^Ou Kaì 'ATn<7iXÓpav Trepiatepaic; ìKàlovOi
È anzitutto strano perchè in questo passo lo Scoliasta voglia in-
tendere TTeXeidbeq come sinonimo di TTepicriepd, quando questa
parola trovasi pure presso Pindaro {Nemesi, li, 11):
ecTTi b' èoiKÓq
òpeidv T€ TTeXeidbav
jLif) TTiXó9ev 'Qapiuuva veTa9ai;
- 531 -
e Ateneo che scrive (XI, 490, F;: Kaì Ii|aiuvibri(; bk ià<; TTXeiaba^
TTeXeidòa? €ipr|Kev èv Touxoiq.
Itikt€ b' "AxXaq lav y' eHoxov elboq
éirià ìoTTXoKd)uujv qpiXav Guyaipoiv, taì KaXéoviai
TTeXeiàbeq oùpdviai. » ;
e poco dopo aggiunge : xal ó tfiv e\<; 'Hcriobov divaq)epo|iiévriv
TTOiriaa(; àaipovoiaiav dei TTeXeidbaq aùiàq XéT€i *
tàq bè ppoTOÌ KaXéoucTi TTeXeidba(;
Ktti TidXiv
Xei^épim bùvcuai TTeXeidbe^
Kaì TidXiv
Tf\}jLO<; dTTOKpuTrTouai TTeXeidbe(;,
Perchè dunque voler qui intendere le colombe, e non quelle che
Lamporcle invocava ^
aire TToravaiq
ó|LiiOvu)uoi TTeXeidcJiv aìBépi veTa9e?
Una seconda difficoltà deriva dalla parola OAPOI al v. 61, che
nel testo porta chiaramente l'accento circonflesso sull' A e nello
scolio è scritto senza alcun accento; dando luogo per conseguenza
a una doppia interpretazione, l'una di veste o pallio o peplo e
l'altra di aratro.
Collegata con questa ma più importante è la controversia che
nasce sulla prima parola dello stesso verso 01, letta dall' Ahrens,
dal Bliiss e dal Canini òp9piai, e dal Bergk, dallo Zambaldi, dal
Michelangeli 'OpGia. Anche qui il testo e lo scolio sono in dis-
accordo: il primo ha òpGpiai, il secondo op9iai senz'alcun accento.
E da ultimo nel verso 62 l'Ahrens, il Piccolomini, il Pomtow
e il Michelangeli leggono dYecrnpiov o àYebeipiov; il Bergk, il
Niggemeyer, lo Zambaldi e il Blass are cfripiov.
Da escludersi mi sembra anzitutto la lezione dell'Ahrens, il
quale {Fhil XXVII, 628) scrive :
Taì TTcXeidbeq Ydp à|Liìv
òp6piai (pdo^ cpepoiaaiq
vuKTa bi* aiaPpoaiav ùxeoépxov
darpov aùeipoMévai lidxovTai,
dove la voce qjdoq è smentita dal papiro, che reca evidentemente
qpdpoq.
— 532 -
Il Canini dando a qpàpot; il significato di luce, dal confronto
della radice phar = brillare, od omettendo arbitrariamente il e
finale di (p€poi0aiq, lesse dapprima (pag. 18) cosi:
Tal TTeXeidbec; xàp ix\i\\
òpGpiai (pdpo(; q)époicTai
vÙKTa h\ à^Ppoaiav àfcaripiov
darpov aùtipo/atvai lauxovTai,
e tradusse: < Les Pléiades matinales, astres qui amènent le
jiriutemps, se levant à travers la nuit obscure, pour nous ap-
porter le jour (qpMpo<; qpépoiaai , luttent avec nous-raéraes ». Ma
poi, indotto forse dalla sconvenienza di quella se(|uela di epiteti
riferentisi a neXeiabeq (òp6piai, qpépoicjai, aYccrripiov àaipov e
aueipo|Liévai), nel testo e »mpleto accettò il qpepoiaaiq del papiro;
e dando a cpdtpoq il significato di aratro, prendendo a\x\\ per un
dativo di relazione di òpGpiai, e sottintendendo un ralq àWaxc,
TieXeidaiv, spiegò: « les Pléiades matinales, astres qui ramènent
le printemps, se levant au milieu de la nuit obscure, rivalisent
avec les méraes étoiles ramenant la saisons du labourage ». Spie-
gazione nella quale risalta subito la difficoltà di intender (j.\ì\\i
come un dativo (à(aiv ópeiai, = raatutine per noi) troppo vicino
all'altro dativo qpepoiaaiq; si contorce troppo il giro del periodo
contrariamente allo stile di Alcraano, facendo di àTecrripiov àaipov
un caso di apposizione posposto alle parole 9àpo(; qpepoiaai^ vuKta
òi' à|aPpoaiav ; e si viola il regolare andamento grammaticale, che
nella ipotesi del Canini esigerebbe per lo meno l'articolo laì^
preposto a cpdpo(; qpepoicraiq.
11 Blass nella seconda lettura del papiro (i?/iem. Jf2<5. XL, 1 1 )
ha felicemente accertata la lezione aie aeipiov, annotando : « la
prima scrittura era AT6IIPI0N, ma ne furono cancellate 6 (?),
I, P, 0 N, e scritto sopra T6.€l(Te[0]eipiov); erano anche can-
cellate le altre lettere dal T in poi, "e ciò a causa della ortografia
itacese Cipiov. Non è meglio leggere àfecripiov.... perchè il T è
troppo attaccato al € per potere esser preso per un V \ è vero poi
che è obliterata la metà sinistra della sbarra orizzontale ». -
Nella qual lezione are ha. a parer mio, non tanto il significato
di un ouTuìq 0 ójTe, quanto quello del latino « quippe »; esso
fa insomma che le parole (Teipiov àarpov più che essere un sem-
plice epiteto di rceXeiàbeq, stieno in intima relazione col verbo |id-
— 533 —
XovTai, quasi volendo dire « splendendo, col loro splendore gareg-
giano ». — In quanto a 0APOZ il Bergk cita il passo di Erodiano
(tt. |iov. Xeg., 39, 31) : « koI oùbéTepov óttótc (JriiuavTiKÒv toO
IfiaTiou r| Kal toO àpórpou, ujq Ka\ Tiap' 'AXKpiavi, àWà Kai nap'
'AvTindxtu' dei cpàpeo(; x^'TCucuaiv èxiJ^v (scr. ynv xctTéouaav Ix-)
ouTUj(g èv TOiq àvTiYpdqpoiq eupritai »; ed appoggiandolo collo
scolio del papiro già citato conclude per cpapo^ nel senso di aratro,
di modo che viene a intendere che le fanciulle portavano un aratro
a Diana. Tuttavia non disconosce la novità della sua interpreta-
zione, e però aggiunge : « qpapoq, si aratrum notat, correpta priore
syllaba dictum esse poetarum usus arguit, atque hanc explica-
tionem praeter Sosipbanen coraprobavit Herodianus, cuius aucto-
ritas me movet ut hanc scripturam sequar, quamquam quid iste
ritus sibi velit, ignoramus; nara aratrum in Dianae sacris adhi-
beri insolens ».
A parer mio, per escludere in OAPOZ ogni idoa di aratro,
oltre il contesto generale, che non avrebbe senso con tale inter-
pretazione, concorre un altro motivo di non minore importanza :
ed è che sull' A di OAPOZ il papiro porta assai chiaro un ac-
cento circonflesso. Tolto quindi il dubbio che potrebbe cadere
sull'interpretazione del vocabolo, se vi fosse segnato l'accento acuto,
come talvolta trovasi in Eschilo ed Euripide, seguo la lezione del pa-
piro scrivendo cpapoq che traduco i»er « velo » ; riferisco à|Li\v a
(pepoicTai^, e collo scolio sostituisco 'OpBìa ad òpBpiai, togliendo
così per un lato ogni contraddizione col seguente vÙKta òi' àuPpo-
(Jiav, e per l'altro dando continuità al testo, ove è naturale che venga
espresso il nome della divinità a cui le fanciulle portavano in
dono il velo. 11 0apo(; infatti o TTéTrXoq era il dono solenne che
offrivasi agli dei sia per implorare grazia da loro, sia per rin-
graziarli di favore ottenuto (1). Nelle solenni adunanze festose poi,
che avevano luogo presso l'imboccatura dell'Alfeo per festeggiare
Artemide, le giovani spartane intrecciavano delle danze in onore
della Dea (Ved. Strab., VII, e Paus., Ili, C. 10, 8). Tali danze
avevano luogo specialmente di notte (vuKia bi' d)iPpoaiav), allor-
(1) Gonfr. Om., II., VI, 293; e del Partenio stesso i versi S7-8y
éytbv 6è T^ |ièv 'AOjti paXiata
àvòàvrjv èpip' TtóvLUv yòp
fifiiv IdTwp fY^VTO.
- 5M -
quando splendeva la luna raggiante e bella ((poipri), di cui Ar-
tf^mide era la Dea, rappresentata perciò al pari del fratello Ooìpo^
'AttóWujv con l'arco e le freccie (ìoxéaipa), simboli dei raggi di
luce che spande sulla terra (1). il celebrarsi poi tali feste nel
mese in cui cade l'equinozio di primavera, portò che questo mese
fosse consecrato a iJiana, col nome di Artemisio presso gli Spar-
tani e i Macedoni, e con quello di Elafebolione presso gli Ateniesi,
da cui Artemide era ap{)ellata éXacpnPoXoq (2). Ora in questo
mese il sole è in Ariete, e le Pleiadi si levano prima di esso,
mentre nel mese seguente, dagli Attici chiamato Mouvixiuùv, si
levano col sole, ùttò tòv òpGpov àvaTeWouaiv à^xa tuj tiXìlu év
TU» Taupuj òvTi (Ved. lo Scoliasta di Arato, V, 2G4). — Se dunque
il sorgere delle Pleiadi segnava l'ora in cui aprivasi la gara delle
corse, è evidente che queste fecevansi quando il sole non era an-
cora apparso sull'orizzonte; che torna a capello col vÙKxa bi' à)i-
Ppocriav. — Né perciò è necessario tradurre col Canini àiappoaiav
per « oscuro ». Tale epiteto infatti applicavasi in generale a tutte
le cose che appartengono agli dei ; per es,
à|uppóaiai b' apa xaitai èTreppujaavTO (//., I, 520);
e così a néTrXo*;, TiéòiXa e persino al cibo e alle greppie dei loro
cavalli come in Omero (IL, 6, 369) :
(1) In Atene durante le feste di Artemide portavansi alla dea grandi fo-
caccie, adorne di lumi all'intorno, dette à|nq)iqpiuvT€(;, come simbolo della
luna circondata dalle stelle.
(2) Di Artemide Ortia e del culto particolare che essa aveva a Sparta,
così parla Pausania (IH, XVI, 7) : « tò he xujpiov tò èTTOvojuaWiievov Ai|u-
vaTov 'Opeiat; iepóv èoriv *ApTé|uiÒ0(;. tò Eóavov bè èKeìvo elvai XéTouaiv, 6
•noTe 'Opéaxric; xaì 'iqpiYéveia èK TTÌq TaupiKf); èKKXé-rrTOuaiv. è; bè ti*iv
aqpexépav AaKebaiiaoviav KoiaiaOiìvai (paoiv ludpTupia he ^oi xai rdbe
Tf]v èv AaKeòai|uovi 'OpBiav tò èK tùjv Pappdpuuv eìvai Eóavov toOto luèv
Yòp 'AaTpdPaKoq koI 'A\uu7T6K0(;... tò à^faX^La eùpóvT6(; aÙTiKu Ttapecppóvricfav
toOto he o\ Ai)uvàTai IirapTiaTuJv koì Kuvoaoupeìt; koì èK tAeaóac, Te koI
TTiTavrit; BuovTeq Tri 'ApTemòi kc, biaqpopdv, dirò bè a\)rf\c, kqI èc; qpóvoui;
Ttporix9ri(jav, dTtoBavóvTuuv bè èttì tlù puj|udj ttoXXOùv, vóao(; èqpGeipe Toùt;
Xomou(;. koì aqpioiv èiil toOto yiveTai Xó-fiov • ai^ACTi dvGpibirtJuv tuj Puj|ìlìj
aÌMÓaaeiv. Buojaèvou bè ovTiva ó xXfipoq èTteXaiaPave, AuKofipToq laeTÉPaXXev
è<; Tàq èiTÌ ToTq èqpripoic; ^dOTiYoc;, è|UTTÌ|.nTXaTai bè oùtuj àv6piI)TTUJV m'uciTi
ó Puu|uóc; KaXoOai bè oùk 'OpBiav |uóvov, àXXà koì AuYobéaiuav ti'iv aù-
Tr]v, ÒTi èv edfiviu Xùyujv eùpéGr), irepieiXrieeìaa bè j^ XÙYoq èiroiriae tò
fitcXfia òpGóv ».
- 535 -
iTTTTOuq eairiae Tiapà ò' àja^póaiov póXev eiòap;
E siccome tutto ciò che aveva relazione cogli dei, doveva piii o
meno partecipare della loro divina bellezza, fu adoperato l'epiteto
di à|uppócriO(; per indicare ogni cosa bella. Pertanto vuKia bx
àjjPpoaiav non è altro che una notte divinamente bella, in cui
fra lo scintillìo delle stelle spicca sul fondo cupo azzurro del cielo
la bianca luna, come ben conviene a una festa di Artemide,
Concludendo scrivo così i quattro versi in questione :
Tttì TTeXeidòeq TÒp à\x\v
'OpGia cpapoq qpepoiCaK;
vÙKTtt òi' d)aPpoaiav dte aeipiov
dcfTpov aùeipo^évai judxoviai, ^
e interpreto: E già le Pleiadi levandosi nel loro splendore ga-
reggiano con noi, che per la notte divinamente bella rechiamo
il velo ad Artemide Ortia ». — Con molto accorgimento nota
il Piccolomini che il poeta « ha graziosamente qui innestato al-
l'immagine del sorgere delle Pleiadi, l'altra della gara di bellezza
che ha luogo tra le Pleiadi che sorgono e le fanciulle che recano
ad Artemide il sacro velo ». — Forse il Blass sminuzza inop-
portunamente il concetto sintetico di Alcmano distinguendo una
triplice gara di bellezza, celerità e agilità nella danza (Schònheit,
Schnelligkeit und Reiz) ; ma certo assai artisticamente le fan-
ciulle del coro si rappresentano spinte non meno dal sorgere an-
telucano delle Pleiadi che dal semplice splendore della loro bel-
lezza, e consapevoli di essere del pari agili e belle si augurano
il plauso e la vittoria pur rifiutando l'aiuto delle altre fanciulle
di Sparta e dei loro muliebri adornamenti (1). — Questo è ap-
punto il concetto dei versi seguenti :
64 OYTerAPTinOPOYPAZ oÙTC rap TI TTopqpupaq
65 TOIIOIKOPOIfìZTAMYNAI tóaaoc, KÓpoc, LÙai' à|nuvai
(1) In tutta la complessa e difficile questione mi trovo pienamente d'ac-
cordo col Dr. Carlo Bozza, al quale sono lieto di attestare qui la mia rico-
noscenza pel valido lume ed appoj^^gio prostatomi in questo non meno che
in altri difficili passi del papiro.
— 53^5 —
fio OYT€nOIKIAOIAPAKQN oùie noiKiXoq bpdKUJV
67 nArXPYIIOZOYAGMITPA TrafXpufTioq, oubè ^iipa
fi8 AYAIANGANIAQN Aubia veavibuov
Col. Ili:
fi9 lANOr . G(t)APQNArAAMA iavoT[\|e(papiiJV àraXna.
Sul testo di questi versi non vi è alcun dissenso, essendo chia-
ramente le<^f;^i|)ili. In (niiMito airinteri)r('taziorie, nel v. 04 il Blass
pref'erisie attribuire al verho attivai il si<iiiifi<-ato di * proteggere»,
quasi die il coro volesse dire: « noi dobbiamo tenere in conto,
dobbiamo conservare le nostre vesti, percln'* nt; abbiamo poche ».
Il Canini omette il yàp, che non potrebbe adattarsi al significato
da lui attribuito ai versi precedenti, dà alla parola à^iOvai il
senso di « allontanare p e intende KÓpoq per « sazietà, disturbo »
invece di considerarlo come causa, nel senso di « quantità, ric-
chezza, abbondanza » ; e spiega perciò : « On n'est jamais dégoùté
de la pourpre au point de la changer... ». — 11 Bergk cita a
ragione il grammatico Aristofane (ScnoL. Hom., IL, €, 906):
« qpriaìv ó Ypa|a)LiaTiKÒ? 'Api(JTO(pàvr)q tò à|Liuve(J9ai TÌ0€(T0ai
Kttì àvTi ToO n^iXoO ToO diaeiqjaaGai. cpépei yàp XPH^^iv ck te 'A\k-
laavoq TÒ" cu xdp ti Tiopipupaq tóoooc, KÓpoq ujctt' òi)iuva-
aGai » (1), e appoggiato sull'autorità di lui intende : « purpu-
rearum vesti um non tanta est copia ut mutare liceat » ; inter-
pretazione che sotto ogni riguardo è da preferirsi.
Verso 66. ApdKUJv chiamavasi una specie di monile a foggia
di serpente, cui accennano Luciano (Amov., 14): ci Trepi KapKOÌq
Km ppaxioiq bpdK0VT6(;, ed Esichio : òq^ei^...., Kaì tò xPucroOv
Trepippaxióviov ; òcpei(g*Tà bpaKOVTUjbri yivóiaeva i|ié\\ia. Tali
monili porta vansi di preferenza al braccio fra il gomito e la spalla,
poiché esso era lasciato scoperto dal xndtv ; e spesso si avvolge-
vano anche al collo del piede, siccome tuttora è in uso presso
alcuni popoli dell'Asia e dell'Africa. Moltissime statue greche
ricordano questo adornamento, e fra esse degnissima di atten-
zione è la graziosa statuina in bronzo conosciuta sotto il nome di
« Venere dei calzaretti », così detta perchè appunto in atto di
porsi tali bpdK0VTe(;.
(1) € àixùveadai ex librarli errore ortum, quem non debebat Brink probare,
nana media forma versus numero adversatur ».
— 537 -
V. 67. MiTpa. Non è accertato se le vergini portavano i capelli
legati alla sommità del capo o se li lasciavano cadere fluttuanti
sugli omeri; è certo però che li adornavano con gioielli e che
usavano molte specie di b.nde o reti, spesso anche a forma di
diadema, che chiamavano laìrpa, àjaTiuE, Kpriòenvov, aiecpdvri.
Confr. Om.. Il, X, 469-71 :
TTÌXe ò' ànò Kparòc; x^£ béaiuata aitaXóevTa
d^TTuxa, KÈKpuqpaXóv t' nòe TtXeKTfiv dvabécriiriv
Kpriòejavóv re.
Presso Omero però la parola ^irpa è nsata solam.ente a denotare
quel cinto di bronzo, internamente foderato di morbida stoffa, che
serviva a difendere la parte del corpo che rimnneva scoperta fra
lo l(b\xa e il GuOpri?. Più tardi poi fu adoperato a significare upa
specie di cuffia dalle forme più strane, e che spesso ricopriva
anche parte del collo. Qui vien detta Auòia perchè usata a pre-
ferenza fra popoli dell'Asia minore, dove era portata egualmente
da uomini e da donne.
Al V. 68 il Blass ha potuto leggere lANOI . eOAPQN; dopo
ro vi è una lettera di cui è avanzata solo l'asta verticale a causa
di un buco che si trova alla sua estremità superiore. Non si può
quindi immaginare una N, ma solo uu P; onde, secondo il Blass,
non è da scrivere éavòv T^e^dpwJV, ma lavoYXeqpdpiuv, parola
nuova, ma di legittima origine. Il monosillabo là infatti indiche-
rebbe la sua derivazione dialettale dall' éà di éavó(;, che Omero
usa unito a TTérrXoq o Kaaaiiepoq. ^oWIliacle (I, 613): « éavoO
KaaaiTe'poio * vien spiegato da Esichio « toO eùbiaxùxou » e se-
condo lo scolio « laaXaKoO, XeitToO > ; quindi, come giustamente
osserva il Blass, iavoTXeqpapiuv è uguale a inaXaKOTXeqpdpujv, epi-
teto che doveva pienamente adattarsi alle molli bellezze lidie.
70 OYAeT IKOMAI oùòè t q KÓiaai
71 AAAOYA I.eiAHZ dXX' oùò a.^Mc,
72 OYAei KA IIHPA oùbè a Ka icfnpa
73 OYAeiA...Z AZGN- oùò' èaa...a ac, èv-
(GOlIAOAieiZ [GoTcra qpaaelq
74 'AZTAOIZ O.TO "Aaiacpiq o.to
75 KAinOTir 0.AYAAA Kaì ttotit O.XuXXa
76 AAMAI....PA....IAN0eMIZ Aaiaa pa.... 'IdvGeinK;
77 AAAAr.Z..OPAMeTHPei dXX' ay-a.-ópa ^e inpei.
- 538 —
Il ristabilimento di questa strofe, già prima invano tentato dal-
l'Ahrens, è intieramente dovuto al Blas.s, il quale riusci a deci-
frare un lungo scolio scritto al di sopra della colonna. Le prime
parole dello scolio sono andate perdute, ma quello che ne resta
è evidentemente una ripetizione abbastanza esatta del testo :
aTaXoi
Yavoicì
y' IB TTpujToauYxàT€i (certo à^ei)
oùbè xai Navvujq KÓ^ai
0
'Apera — T€ZuXaKÌ<g (luXaKiq forma dorica = 9uXaKÌ(;)
te Kttì KXendicrripa
n AìviaiiaPpótaq Kaì 'Acrracpic;
qp Kaì ct>iXuXXa
re Kaì Aa|iapé|Ta Kaì 'Idv9e|aiq.
Sulla guida dello scolio, quantunque mancante qua e là di qualche
parola, riuscì il Blass a ristabilire con evidente felicità il testo, che
scrisse :
oùbè T[aì Navvuj]<; KÓ^ai
àXX' oùò' ['Apera] cf[i]eibri?
oùbè Z|uXaKÌc; xe) Ka[ì KXeriajiCfripa,
oùb' è<; A[ivi]a[i|aPpÓT]a^ évBoTaa (paae.ic,.
« 'Aaiaqpiq [ré )lioi y£vJo[i]to
Kaì ttotiy[X€ttoi] ^[iJXuXXa
Attrai péra t' èjpaid re] 'Idveepiq. »
àXX' 'AY[n]c^[ix]ópa Me tnpei.
Al V. 71 (Jieibìiq (= Geoeibriq) non è formato doricamente da Geóq,
ma dalla radice della parola aiq, che nel puro dialetto dorico
apparteneva alla stessa significazione. Al v. 75 il Bergk erronea-
mente scrive TToirivéTTOi, seguendo la prima lettura del Blass; il
quale avendo poi letto chiaramente un f al posto che aveva già
creduto occupato da un N, restituì TroTiYXéTTOi. Nel v. 73 il coro
si rivolge alla corega, alla quale mette irt bocca i vv. 74, 75,
76; nel V. 77 riprende il discorso in prima persona. — In quanto
agli stranissimi risultati a cui giunsero l'Ahrens e il Canini
prima che il Blass restituisse alla debita lezione questo passo,
stimiamo inutile il riportarli; basti recare l'interpretazione del
- 539 —
Canini : < ni des chevelures parfumées ni une boucle, sur la-
quelle sont gravées des images-des-dieux, ni des braies élégantes,
ni un collier de fils d'or entrelacés en spirale, ni les bandelettes
que l'on attaché à une couronne de laurier pour en joindre les
bouts, ni des raisins mùrs, ni des narcisses chers aux jeunes filles,
ni l'aimable violette, rien n'a pour moi autant d'attrait qu'Agé-
sichore » !!!
78 OYrAPAK.AAIZOYPOI ou yàp à KaXXiaqpupoq
79 APHIIX AYiei 'ATnaix aurei
80 AriAOIAe.KTAPMeNei 'AtiòoT ò* . Kxap névei
81 0QITHP..TAMenAIN€l Ouuarrip.y a^ enaivei.
Di fronte al secondo verso vi è uno scolio di cui restano le let-
tere: di....aÙTOu T\...p....(yTaaiKXfi<g, e che il Blass ha interpre-
tato : àvTi ToO « aÙToO Trapeati » iTacTiKXfiq. Abbiamo dunque in
aurei una forma dorica eguale ad aùroO, e simile ad altre che
trovansi pure presso Teocrito, per es. (V):
oùx épv|iuj rrjvei. rourei òpùeq ojòe Kuneipo?.
Perciò pare sicuro il completamento proposto dal Blass, e accet-
tato da tutti pei versi 78-79:
ou yàp à K[a]XXicrqpupo?
'AYr|aix[ópa Ttdp'J aòret;
Il verso 80 il Bergk lo scrive:
'Ayiòoi ò[€ TT]appévei,
ma il Blass avendo riconosciuto per T la lettera creduta un TT
dal Bergk, e avendo scoperto un k minuscolo prima del T, pro-
pone la lezione:
'AtiòoT h' [i]Krap pévei
che per significato non differisce da quella del Bergk. Al v. 81 il
Blass scrisse già (Hermes, XIII): Guuarripia Kct^ èTiaiveT; ma poi
(Rhein. Mus.) mutò più verosimilmente in Guuariipia r' ap* è-
TiaiveT, avendo riconosciuto un frammento del T. Né questa lezione
trova difficoltà nel metro, poiché d|aa non è avverbio — che in
tal caso il dialetto del parteiiio avrebbe richiesto la forma duci — ,
bensì un'abbreviazione di àpérepa. Il Bergk mutò il T in 6, ma
senza necessità, sapendosi come gli Spartani non usassero tali mu-
- 540 —
tamenti fonetici (confr. ójt' ciXiov al v. 41); epperò il Blass nota :
« Mir scheint dies mit der Natur der lakonischen Aspiraten zu-
saramenzuliiingen , die nicht eif^entich dies, sondern Spiranten
waren ». — A questo verso appartiene lo scolio: GujcJTripia €op[Tr)],
secondo il com[)letamento del Biase, conferraato pure dalla testi-
monianza di Ksicliio: GuucTTripia* €Ùujxr|Tripia Ka\ òvo^a lopTf\<;.
82 'AAAATAN...AIIIOI àWà Tav...aq aioi
83 AeHAI0e....rAPANA òéEaaee '.... TÙp (iva
84 KAITeAGI-.-POITATII Kaì T€Xo?..poaTdTiq
85 einOIMIKGrQNMGNAYTA emoiiai K'éfuuv Mèv aOià
86 nAPeeNOZMATANAnOGPANQ- Trapeévoq ^dtav, òtto
A A XX
[eeBAKA (epavuu pépaKtt
87 TAAYE TXaùE.
Prima che il Blass avesse riletto e ripubblicato il papiro, il
Bergk aveva completato:
àXXà TÓtv ctpdv - (Tioi,
òéEaaGai ctvav boxe — àpxd
Kai TéXoq" xopocrxdTig
eiTTOi|ai k' ■ dova |aév' aùxà
TTap(TÈVO(g • |ià xdv. aTretn', dvuu pé^aKa
TXauE.
e fisso nell'idea che Agesicora fosse la corega, spiegava: < precum
mearum, quas di ratas faciant, principiura et finis est; optat enim
ut virgo maneat et chorum regere pergat...: negat, noctua enim
rursus abiit; fingit enim noctuam infaustam dedisse omen, unde
colligit Agesichoram nolle semper virginem manere ». Il qual
completamento, oltre all'essere infedele al testo, cade nello stesso
inconveniente già sopra notato per la variante da lui proposta al
V. 57, e riconferma quanto il Bergk nella poesia greca, sempre
tutta grazia e semplicità, proceda con criteri estetici che troppo
pili si attagliano alla immaginativa nordica. — Il Blass prima
ideò, e poi lesse al v. 82 €YXAZ; onde scrisse:
dXXd xdv [6Ùx]à<;, CTioi,
òéEaaBe-
e ancora secondo i frammenti intravveduti dopo il òéSaaGe, scrisse:
— 541 —
[buuùv] yàp ava
Kai Té\o(;.
Il coro dunque si rivolge agli dei, e li prega di accettare le pre-
ghiere che le due vergini fanno per la vittoria, poiché questa da
loro due dipende.
I versi seguenti sono stati oggetto di lunghe discussioni e molte
interpretazioni si sono proposte e rifiutate. A me sembra che ogni
difficoltà venga a togliersi punteggiando così:
« [xoJpocrTàTiq »
eiTroi)Lii k' « tfùjv fièv aura
rrapcrévoq ladiav, àirò epdvuj XéXaKa
TXauH,
ossia: « la vittoria dipende solo da Agido ed Agesicora, ed io
invano qui vergine canto, perchè il mio canto è brutto come quello
di una civetta da un tetto ». — E subito appresso, quasi temendo
che la troppa lode data ad Agido ed Agesicora non possa offendere
Diana, aggiunge :
87 erQ.AGTAIMeNAQTI- érib. bè tq. nkv 'Auuti
[MAAIITAI f^aXidTqt
88 ANAANHNePQnONQNrAP àvbdvnv èpoj ttóvujv xàp
89 AMINIATQP..eNTO aimv mioup ..€vto
90 eZArHIIXOP..AeNeANIAei èS '^f^alxàp.. bè vedvibe?
91 ...HNAiePATAienGBAN ...nvaq èpaiSq èné^av.
Al V. 87 la lettera che manca è evidentemente N, onde il Blass
scrive ifùjv. 'Aujti deve essere qualche altro nome di Artemide,
della stessa formazione di Kapudri^ e Aifivatiq, al tempio della
quale accorrevano festosamente Spartani e Messeni, D'altra parte è
noto come Alcmano si dilettasse di nomi non comuni, chiamando
una stessa divinità con mille diversi epiteti tratti da città, monti
e fiumi cui essa presiedeva (1). — ^aXiaict è forma dorica per
ILiàXiaxa, come d|iia per à[xa. — Quanto ad d|Liiv vedi al v. 41. —
(1) Confr. Menandro (Walz, Rh., IX, 135) di Alcniane : t»^v 'Apiemv ìk
luupiujv ópéoiv, laupiujv bè TTÓXeuuv ?Ti 6è TTOTa|LnI)v àvanaXct. — Questo
vezzo portato all'esagorazioiie ha ingorierato in Lioofione la massima parte
dell'oscurità in cui si avvolge la sua Cassandra.
Rivùla di filologia, «ce, J. 35
— 542 —
Nel V. 91 il Blass completò eiprivaq, interpretando: le fanciulle
otteni^ono per merito di Agesicora la pace, quella pace cioè che
nasce dalla vittoria e consiste neH'appaj^amento dell'animo rai:^-
giunta che si è la meta. — Accettando adunque i completamenti
proposti dal Blass scrivo cosi questi versi :
éTuu|v| bè jq. ^iv 'AuuTi jiaXiaTqi
dvòUVlIV épu) • TTÓVOIV fdp
a^iiv lÓTiup [è'rJevTO
lE 'ATncrixóp[a(;J bè vedvibei;
[eìplnvaq èpaia^ énépav.
In quanto al senso escludo assolutamente le troppo varie ed ar-
tificiose interpretazioni dell'Ahrens, del Canini, e in parte anche
del Bergk e del Blass, La cosa pare a me assai semplice: avendo
il coro detto, nei v. 82-86, che la vittoria nel canto e nel corso
dipende tutta dalle due fanciulle Agido ed Agesicora, qui dice
che nondimeno esso canterà e correrà, farà del suo meglio, in-
somma, per mostrarsi sopratutto riconoscente alla Dea che ha li-
berato la città dai mali. E in questo senso continua:
92 lierAPII.NcDOPfìl i Te ràp m.v cpópiu
93 ..TQieA...KePAMAI iiLq eb... Kepa^iai
Il testo di quest'ultima strofe ci è pervenuto in così pochi e
sconnessi frammenti, che è oltremodo difficile darne un sicuro
ristabilimento (1). Stando all'uso costantemente seguito in tutto
questo partenio di ripigliare al principio di un periodo strofico il
senso degli ultimi versi del precedente — è lecito supporre che
nei versi 92-93 si continui sul tema delle lodi di Agesicora : il
che conferma anche il TÓtp del v. 92. Epperò il Piccolomini com-
pletava :
l)jT€ fàp OIUJV cpópu)
ovvero :
(Ìjtc y«P Kavaqpópu)
oùtok; ^boc, ai k' épd)Liai,
e interpretava: « se io voglio, nella gara della corsa posso pure
(1) Il Bergk (IV ediz.) giunto al v. 32, scrive : € A novissima stropha re-
stituenda me abstinui ».
- 543 -
andar piano come una canefora, giacché supplisce Agesicora colla
sua velocità alla mia mancanza >.
Le canefore erano vergini, che nelle processioni delle feste Pa-
natenaiche recavano sul capo panieri con dentro gli oggetti pel
culto di Minerva; il loro lento procedere e la dignità del loro
portamento era tanto notevole che gli architetti ne trassero ispi-
razione per scolpirle nel marmo e servirsene a mo' di Cariatidi.
Ne era decorato, fra gli altri il tempio di Pandroso nell'Acropoli
di Atene. 11 completamento del Piccolomini darebbe quindi un
senso soddisfacente, se la parola èpaiaai o èpd)Laai, se così dicevasi
nel dialetto dorico, colle sue prime due sillabe brevi non si op-
ponesse al metro, che richiede invece una breve seguita da due
lunghe. — Se non che il Blass nel nuovo esame che fece del
papiro nel 1885, quindici anni dopo il primo, avendone trovate
le fibre di molto avvicinate, disse di avervi meglio potuto leggere:
..ITerAPIHPAOOPQI
..TQIGA.PHMerAA.H
e completò:
TLÙ Te YÒp crripaq)ópLU
aÙTuJq èbópri, piéf' àKyx] {= fjXyei scilicet agesichora).
11 aeipaqpópoq tTTTTo<; era il cavallo attaccato alle tirelle, non al
giogo; epperò, dovendo esso percorrere nel girar la meta un arco
più lunofo, soleva essere scelto fra i più robusti e veloci (1).
Secondo dunque la lezione ultima del Blass avremmo l'imma-
gine del cavallo bilancino a cui si paragona Agesicora, e la tra-
duzione sarebbe questa: « Come un cavallo siraforo così essa si
spinge al corso.
94 T.lKYBGPNATAIAeX.H t.i KuPepvóia òex-t^
95 KHINNAIMAAH..0QKA Kr]vvài ^aXri-cpuJKa
96 AAeiAHNIHPH a'bè tcìv anpn
97 AOIAOT€PAMerA...e. àoiboTépa ^eTa...€
98 IlAirAP ami lap
(1) Gonfr. SoF., Eletr., 721-22:
{'OpéaTr]<,) beSióv t' àvelq
a€ipatov iiTTTov elpYe tòv TrpoaKe()a€vov,
ed Esichio : creipaqpópov • i^yenoviKÓv • jaert^KTai òè ànò tiùv berioaeipuiv
tlTTTlUV.
— 544 —
La lettura di questi versi e dei tre ultimi è più che mai irta
di difficoltà. Il Blass che già prima ueW Hermes ne aveva tentato
un completamento, fu poi costretto a riimegarlo. 11 (Janini pure
si accinse all'opera, ma per cavarne un senso secondo lui plausi-
bile, finì per darne una lezione tanto contraria al metro ed infedele
al papiro che parmi iriutih; prenderla in considerazione (1). — Il
Bergk rinunzia addirittura all'impresa; sicché non restano da esa-
minare che le conclusioni a cui giunse il Blass dopo il secondo
esame del papiro e che espose nel lihein. Mus. (XL, 1885).
Al V. 94 il Blass crede che tra il X e l'ultima lettera, la quale
a lui pare un' H anziché un N, lo spazio brevissimo richieda una
lettera molto stretta e suggerisce perciò di supplire con un P, scri-
vendo:
TLÙ KupepvÓTCjt bè XPP-
Al Bergk la costruzione troppo nuova dispiace; egli esige, per accet-
tarla, una prova che non è possibile dare per mancanza di esempi.
Io pur conservando il P suggerito dal Blass, stimerei si possa
ovviare all'inconveniente notato dal Bergk scrivendo b' ^xPI invece
di òè xpri- Così la contrazione ^XPH da ^XP«£ "on darebbe diffi-
coltà, anzi sarebbe una forma dorica simile a óprìq del v. 50. 11
verbo xpà^u col dativo si incontra poi anche presso Omero (Od.
V, 396):
atuTepóq òé ol è'xpae òaifiuuv, —
Il V. 95 ha a lato il seguente scolio: vai vai 'Api((TToqp(4vri^);
che evidentemente si riferisce alla doppia accentuazione della pa-
rola NAI, quale trovasi nel papiro, e vuol dire che Aristofane in
questo punto scriveva kiìv vai, mentre l'uso generale teneva kiìv
vai L'ultima lezione per altro col dittongo sciolto è voluta dal
logaedico (--------), nel quale mancherebbe una breve,
se si scrivesse va». In quanto all'ultima parola del verso OQKA,
il Blass stesso che l'ha letta, confessa che non sa trarne ne un
completamento né un senso plausibile ; tuttavia siccome il K non
(i) Eccone per saggio la traduzione : < Les Sirènes chantent avec une
Ielle douceur, qu'elles attirent le timonier et le font, dana son navire, tomber
ea démence. Mais le chant de cette jeune fille est plus mélodieux que celui
des Sirènes. Les dieux (Dioscures) mémes se plaisent à Tentendre mieux
chanter que les dix autres jeunes fiUes, comme un cygne le long des cou-
rants du Xanthe, comme un rossignol dans un vert bocage ».
— 545 —
è ben chiaro nel papiro, e potrebbe anch'essere un N di cui siasi
perduta una linea, io propongo di leggere qpuuvà, e nelle due
sedi vuote fra il qp e 1' H supplisco Ka, leggendo :
t[lù] Kupepvdta b' fx[p]Tl
Krjv vai' )Lid\' ri[Ka] qpujvd
Alla quale lezione ben corrisponde il senso generale, giacché alle
lodi di Agesicora per la sua valentia nella corsa ora seguono
quelle per la sua dolcezza nel canto ; « la sua voce, dice il poeta,
potrebbe conquidere dolcemente pur nella sua nave il nocchiero».
— V. 96-97. Lo spirito aspro segnato sull' A e l'accento sul AE
mi persuade a scrivere separatamente d òè, e non dòe come fa il
Blass. Ora il òé preceduto dall'articolo indica mutamento di sog-
getto (1) con tinta avversativa che ottimamente conviene alla le-
zione da noi adottata:
d òè Tiliv Iripri[viòujv] (supplisco col Blass)
doiboTf'pa |i6Ta[ip]ei
(Tiaì YttP-
che vale: « ma essa sebbene più canora delle Sirene, se ne
astiene; imperocché quelle sono dee >. Lode questa convenientis-
sima ad Agesicora che non é meno valente che saggia : la voce
di Agesicora supera quelle delle Sirene, potrebbe conquidere i na-
viganti nelle loro navi; ma non lo fa, perché quelle sono Dee, e
non é concesso agli uomini entrare in gara con gli Dei senza in-
contrare la loro vendetta : èaii ti<; aiuùv TÌai(g.
98 IIAITAPANTIA aial ràp- dvxì ò
99 nAIAQNAGK....eiAei Tralòujv beK...eiÒ6i
Al V. 98 si riferisce per mezzo del segno X un lungo scolio
scritto a destra della colonna e al di sotto di essa: bo eìpriKe
(1) Gonfr. Omero, Orf. XII. 411:
(OTÒc; ò' òniouj Ti^aev, tìnXa xe Trdvra
ci; fivrXov KaxéxuvB' 6 b' Apa iipùnvr) évi vr\\
TrXfjEc KuPepvnxeuu KetpaXrìv, aùv b' òcrxé' fipaEev
Tidvx' fifaubiq KeqpaXfì^. ó 6' fip* dpveuxfipi ioiKi'u(; — Kàimeaev.
ed Esiodo (Th., 71):
viaao|aévuuv -rraxép" eli; òv • ó 6' oùpav^i é).t(5aaiXeO€i.
— 546 -
— àXXà olà TÒ TÒv xopòv óiè )aèv éE lò TrapGtvujv óre b' ìk I.
qpriaiv ouv — ifiv xopTfòv a.eff.... ùvt\ \0 àbeiv T* i£f\v fàp
à....' — àpiG^iòv €ÌTT6Tv TÒV dpieiaòv tujv nupBévujv --
atoKai oXunTTio La impossibilità di completarlo rende meno
jirezioso questo scolio; tuttavia par chiaro che il numero delle
fanciulle fosse ordinariamente di undici, sebbene potesse ridursi
a dieci pel tacere di qualcuna ; tòv xopòv òie jièv iE la rtap-
9^vu)v ÓTè b* ìk i.
Per quello poi che spetta ai v. 98-99 il Blass ne trae appoggio
per completarli così:
àvTi b' [é'vbeKa]
Ttaibujv beK[àq ol' djeibei
ossia: « ma a fronte di undici fanciulle essa canta come dieci».
Nelle quali parole però non vorrei vedere quasi una gara fra
Agesicora e le sue compagne, il che, come già innanzi ho osser-
vato, è affatto alieno dal carattere di unità proprio di ogni coro
greco ; ma piuttosto una osservazione di fatto a lode di Agesicora
stessa.
100 00Grr6TAIA..QITeniEAN0QPOAIII
101 KYKNOIAAeeoeiMePQIHANGAIKOMIIKAl
leggo col Blass:
qpGeTY^Tai b' [ap*] lijie èm EàvGuu poaiai
KUKVoq • d bè èqpei)Liépuj HavGd KO|ii(JKa
È spiccata la tinta epica di questi due versi. Nel primo si
riassumono quasi le lodi della voce di Agesicora paragonandola a
quella dolcissima del cigno, che canta sulle correnti dello Xanto.
In quanto al secondo, il costrutto è spezzato bruscamente, ne il
mutamento di soggetto indicato dall' d bè ci permette di fare al-
cuna congettura.
II. Autore e dialetto. — Che l'autore del carme sia Alcmane
risulta evidente dalla testimonianza del grammatico Aristofane già
citato dal Brunet de Fresie ai versi 64-65; non che da quella
del grammatico citato dal Cramer al v. 6. — Una seconda
prova se ne ha dallo stile e dal dialetto del testo. Gli idiotismi
spartani abbondano; abbiamo per esempio: fì|Lii(Jiujv:^fi)niGéuJv(7),
— 547 —
Trapr|0"o|Lie? = TTapr|(Jo|uev (12), Y«Mèv = Tctineiv (17), aiujv =
Geujv (36), cTripiov := aeipiov (62) , T^écpapoi =: pxéqpapoi (69),
ai€iòr|(; =0€oeiòriq (71), èvBoTaa qpacreiq = èXGoOaa cpnaeiq (73),
ttotitX^koi = TTpo(^p\éTTOi (86), Txapaévoc, = napQéwoc, (86), ecc.
— Fra tali dorismi però si notano non poche forme eoliche, le
quali erano in uso presso i popoli di Lesbo e delle coste asiatiche
rimpetto a Mitilene. — Così al v. 44 troviamo KXevvà (=KXevvri
per assimilamento del j originario col v) che ha rapporto colla
voce q)devvov usata da Saffo (frag. 3):
a.\\\)' àTTOKpÙTTToiai cpótevvov eiboq.
Al V. 63 trovasi aùeipoiaévai = àeipó)i€vai col F cambiato in u
come in autug = àuò? che è in Saffo (fr, 95):
FécJTTcpe Travia (pépuuv oaa qpaivoXi^ éOKébaa' aìiiu?.
La forma ixebà {= laetà, ma derivata da altro tema) quantunque
dorica era pure in uso presso gli Eoli, e trovasi adoperata da Saffo
(fr 68):
OLI jàp TTeòéxeiq Ppóòuuv
....Tréò' à|LtaipuJV veKÙuuv èKTreTroraiuéva,
e fr. 38 :
ilj^ bè Ttaiq Tiebà inaiépa TreTTTepuxuJiLiai,
e da Alceo (fr. 59):
^jU€ beiXav, ^jue iracrav KaKOTÓtTuuv nebéxoKJav.
Al V. 88 troviamo dvbàvriv (1) = dvbdveiv, come in Saffo eìipriv
in luogo di eupeiv (fr. 56):
(1) A torto il Canini mette questa parola fra le doriche; essa appartiene
al dialetto eolico, come tutti gli infiniti in -r|v, che in dorico finiscono in
ev; cosi infatti scrivono Pindaro e Teocrito. In Alcmano si alternano le
forme doriche alle eoliche ; per es. fr. 76 :
TÒ Ffìp ÒKO
adXXei |uév, éoGiev b' fibav
oÙK fariv
dove la forma dorica è affatto indipendente dal metro. Schiettamente eolica
si mostra nel frammento 35 :
èpirei yàp tìvxa tuj aibdpip
TÒ KaXùx; Ki6ap(aòr|v,
dove il pretto dorismo esigerebbe Kixapibbev.
— 548 —
<t>a(Ji òr) TTOTtt Ar|ba(; ùaKivGivov
neTTUKdbiaevov aiiov €upriv,
e in Alceo più volte ricorre l'intiriito in pv, p. es. fr. 20:
vOv XP^ lieeOaGriv kqì riva TTpòq piav
TTiJùvrìv, éTT£i KdT6ave Mupcri\o(;.
Al V. 67 naYXPucTio^ e al v. 55 dpTÙpiov, sono pure forme eo-
liche, usate altresì da poeti eolici; confr. Saffo:
Xpuaiov CI ' nXeeq
dp|i* ÙTTaZ;eu^aiaa.
A differenza di Terpandro pertanto, il quale, sebbene nativo di
Lesbo, introducendo per il primo la lirica nella Laconia, aveva
serbato nei suoi componimenti il piìi puro dorismo, Alcmano sopra
un fondo dorico innesta abbondantemente forme eoliche. « 'AXK|aàv
cTuvexOùq aioXiJ^uuv > ha scritto Apollodoro {De Proti., 396, C). —
La spiegazione del fenomeno è data dalle vicende della vita
non che dall'indole propria del poeta. — Alcmano infatti dalla
Lidia natia fu ancora giovane condotto a Sparta, dove stette in
qualità di schiavo presso un tale Agesilao. Emancipato in seguito
da questo ed ottenuti i diritti di cittadinanza, non volle abban-
donare il suo benefattore, ma preferì di abitare con lui in Messoa,
una delle qpOXai di Sparta (2). Nella lunga dimora sull'Eurot-a
egli ebbe quindi agio di far proprio quel sapore di laconici idiomi
che tanto spicca nei diversi suoi componimenti; ma in essi tut-
tavia non lascia mai di farsi sentire il natio dialetto eolico, dal
quale Alcmano non rifuggiva sia per raddolcire e piegare al poetico
accento il rude dialetto degli Spartani (il che per altro a questi non
piacque troppo, come ci attesta Pausania (3)), sia pel potente af-
(1) In Teocrito abbiamo invece le forme coli" e, per es.:
oùbè Tòv ìxBOv xpuoeov elbec,. (AXieK).
(2) Eracl. Pont. (Polit., 2): ó 'AXxiuàv olKéTr|<; r^v 'Ati&ou (sic), eùtpur^g
he ujv r|Xeu6epó)6ri koI TTOitiTi^q à-né^x]. — La notizia di Suida: {'AXK|aàv)
AdKUJV ÒTTO Meaaóai;, devesi intendere come ho scritto.
(3) Lib. HI, cap. XV, 1 : (*AXK|aàv) ti) TTOiriaavTi àa^ara oùbèv el<; f]boyf\v
aÙTÙJv è\u|ufìvaTO tùjv AaKibvuuv ^ '{Xdjaca, ììkioto napexoiuévri tò eO-
qpujvov.
— 549 —
fetto della patria abbandonata, e alla quale vantavasi appartenere,
siccome da un coro di vergini egli stesso si fa dire (fr. 24):
oÙK eìg àviìp "TpoiKoq oùòè
(jKaiòg oùòè Tiapà aocpoiaw
oxìbì GecrcraXò? révog
OLIÒ' '6puaixaTo(; oùòè ttoi^iiv,
àXXà Zapòiuuv aTT* aKpóiv.
È da notarsi però che l'uso dei due dialetti non serba sempre le
medesime proporzioni : nei componimenti di indole piana e dimessa,
la cui intelligenza il poeta voleva render più facile a quelli pei
quali scriveva, predomina l'elemento dorico (confr. i framm. 66
e 76) ; l'eolico in quelli di carattere più nobile ed elevato, in tsui
si vede spiccata la tendenza del poeta a discostarsi dalla lingua
popolare assorgendo fino all'altezza dello stile e del metro epico.
(Confr. la bellissima descrizione della quiete notturna nel fr. 60,
non che i framm. 26, 40, 41, ecc.). Su ciò Alcmano si discosta dai
poeti di Lesbo, la cui lingua ha carattere affatto popolare e trova
pieno riscontro nelle iscrizioni dell'isola.
Verso l'olimpiade 42 (anno 612 a. C), quando Alcmano fiorì,
già Terpandro e Taleta avevano dato grande sviluppo alla lirica
e alla musica, che insieme alla danza nel concetto greco forma-
vano la divina triade delle arti ritmiche. Terpandro aveva ab-
bandonato il tetracordo (1), nel quale già fondavasi il sistema
musicale della Grecia, e derivandola dall'aggiunzione di un tetra-
cordo a un altro, mediante la soppressione della terza corda, aveva
ritrovata l'ottava, riconosciuta come l'accordo fondamentale da
tutti i greci. Pure Alcmano non si contentò delle forme musicali
e liriche trovate da Terpandro, e di nuove ne introdusse, come egli
stesso ci lasciò scritto (fr. 25):
èrtri tabe Kai faeXoq AXK/idv
cupe, Y^T^ujacraiaévov
KaKKapibujv axóina auv6€|ievoq.
(1) Fr. 5: Zoì h' i^jutte; Terpàyripov àTtooTépEavT€^ doibi'iv
énTOTÓvuj qpópmYYi véou(; KeXabnaonev (I^vou(;.
— 550 -
Ma sopra ogni altra cosa Alcraauo può considerarsi come l'inven-
tore della poesia corale, non meritando questo nome i rozzi canti
che i»rima di lui erravano sulle bocche del popolo. Questi egli
disciplinò, perfezionò, raffinò, educando nell'arte divina per lunghi
anni la gioventù spartana tanto da essere per eccellenza <ilgui-
(lator dei cori >; fincht' poi fatto vecchio, non reggendogli piti le
membra, canta ancora con dolcissimi versi alle fanciulle, invidiando
la sorte del cerilo che invecchiato trasvola sull'onda portato dalle
alcioni (1).
Nelle poesie corali di Alcmano è notevole la netta linea di se-
parazione tra la personalità del poeta e di quelli che cantavano
il coro, tino a costituire spesso un vero dialogo, come sul fram-
mento ora citato. Non si trova però ancora la connessione di due
strofe corrispondenti con una terza di natura diversa, che chia-
masi epodo; bensì le strofe sono tutte eguali e succendonsi le une
alle altre indefinitamente, secondo l'uso dei poeti eolici (2). — E
qui siamo a studiare il metro del nostro frammento.
III. Metro. — L'Ahrens fu il primo che ravvisò nel com-
ponimento il succedersi di strofe eguali, di quattordici versi cia-
scuna, e di identico ritmo, e ne diede lo schema seguente, accet-
tato dal Bergk, dal Blass e da tutti in generale.
(1) Fr. 26: OO \x eri, TrapOeviKaì ueXi-fàpuec; {|uepóq)iuvoi,
Yu!a cpépiiv òuvarar PdXe h^ pdXe KripùXoq elr^v,
6(; t' èiTÌ KU|uaToc; fivOoq fx\x cdKuóveaai ttottìtoi
vr)XeYèq fiTop ?x^v, àXiirópcpupot; eJapoi; fipviq.
A questi versi sono ispirati i due distici del Carducci, Terze Odi Barbare.
« Cerilo » :
€ Voglio con voi, fanciulle, volare, volare alla danza,
Come il cerilo vola tratto da le alcioni :
Vola con le alcioni tra l'onde schiumanti in tempesta,
Cerilo purpureo nunzio di primavera ».
(2) Solo in alcuni carmi di 14 strofe, dopo la 1" avveniva la neToPoXf).
— 551 —
10
1 -^-r _ w - _ s, _ z (oppure J_ "3-; _„__--).
Ogni strofa si può dividere in due periodi, l'uno di otto, l'altro
di sei versi. Nel primo, più uniforme, si alternano i dimetri tro-
caici cataletti, che occupano le sedi dispari, con le tripodie log&e-
diche con anacrusi, che occupano le sedi pari. Nel secondo periodo,
che è più variato, occupano i due primi posti due trimetri tro-
caici acataletti, ai quali fanno seguito due dimetri pure trocaici;
quindi un tetrametro dattilico acatalettico, e da ultimo chiude la
strofe un verso dattilico che in tre strofe è sostituito da una te-
trapodia logaedica.
La quantità di certe sedi non è rigorosamente mantenuta, ma
spesso una sillaba breve sostituisce una lunga o viceversa. Una
lunga talvolta si risolve in due brevi, come nella prima strofe,
verso nono:
ouK eyujv AuKaiaov èv Ka^oOaiv aXcYuj,
0 il dattilo iniziale dei versi 13 e 14 riduce in una lunga le sue
brevi, come nella strofe settima:
èH 'AYr|aixópa(g òè vedvibe^.
In quanto al numero delle strofe dell'intero componimento, non
mi dispiace l'opinione del Bergk, le cui parole qui trascrivo:
« Portasse carmen XII strophis constabat; sex strophis fabulare
argumentum absolvebatur, totidem lusibus et lasciviae pueUarum
erant destinatae. In utraque autem parte tres priores strophae
versu logaoedico, tres posteriores versu dactylico terminabantur.
Haec si tenemus, interciderunt ab initio tres strophae, in fine
— 552 -
una desideratur ». E per vero delle strofe rimaste, le prime tre
terminano colla tetrapodia dattilica catalettica al pari della set-
tima; mentre le strofe 4, 5 e G tertninano con la tetrapodia lo-
gaedica acataletta, come nel concetto del Bergk dovevano termi-
nare le tre prime strofe andate perdute.
Il senso di ciascuna strofa si compie costantemente con la strofa
stessa, il che non si osserva da Pindaro. Degno di nota è però
che l'ultimo verso di ogni strofa contiene come in germe il senso
della seguente, e questo è estrinsecato col T<ip — come nelle
strofe G, 7 e 8 — ; oppure il principio di una strofa, e piii [(re-
cisamente il primo verso di essa riepiloga il senso della precedente;
come nella strofa 4 :
^cTTi Ti^ aiuùv Tiaic;,
e nella 5: fi oùk òprìq; ó pi^v Ké\ì]c, èveiiKÓ?.
IV. Indole e fìnaliià del componimento. — Per conchiudere
con più fondamento sull'indole del componimento gioverà riepilo-
garne anzitutto brevemente il contenuto. — Nella prima e seconda
strofa (delle rimaste) si descrive la pugna tra Ercole e gli Ippo-
coontidi, dei quali sono nominati Enarsforo, Sebro, Eutiche ed
Eurito; nella terza strofa pare che continui la narrazione della
strage degli erapi Ippocoontidi, e la quarta si apre con una con-
siderazione sulla vendetta divina. Indi si passa bruscamente, in
apparenza, alla seconda parte del poema, nella quale il coro ce-
lebra le lodi delle due vergini Agido ed Agesicora. Agido, corega,
è brevemente ma potentemente paragonata prima col sole per la
bellezza del suo volto, e poi per la sua velocità con un nobilis-
simo cavallo; ma accanto a lei non meno bella ed agile si trova
Agesicora, di cui il coro rinunzia a descrivere i pregi: la corsa
è imminente e le Pleiadi sorgendo invitano le fanciulle. Queste
sono prive degli ornamenti di cui fanno pompa le fanciulle di
altri cori, ma hanno certa fiducia di vincere finche presso ad Agido
resterà Agesicora, che nel corso è pari al più veloce cavallo e nel
canto superiore alle stesse Sirene.
Per certo la prima parte è monca, ma dal contesto appare
chiarissimo che nei versi perduti celebravasi qualche divinità, e
— 553 -
che il poeta suggeriva di temerla e rispettarla per non attirare
sul proprio capo le vendette di quella, citando ad esempio la fine
miseranda toccata agli Ippocoontidi. Nella seconda parte è espli-
cita la lode di due vergini Agido ed Agesicora. — Non è dunque
un inno propriamente detto, perchè questo era rivolto a sola lode
degli dei; né un epinicio perchè vi si loda direttamente la divi-
nità. Esso invece rientra in quel genere promiscuo di lirici com-
ponimenti fra cui si annoverano i rrapGéveia, òacpvnqpopiKa, òaxo-
cpopiKÓt, eÙKTiKÓ e gli ÙTTopxnuciTa, tutti canti che abbracciavano
le lodi di esseri divini ed umani, siccome ci attesta Proclo: <e\(;
Beoxx; Ypacpó)a6va Kaì àvGpuuTTuuv TtepieiXriqpev ètraivou^ ». — In
ispecie poi chiamavansi Trapeéveia quelli che venivano cantati da
cori composti esclusivamente di vergini (TTap0évoi), come si verifica
nel nostro (confr. v. 9, strofe 7). — Ci troviamo quindi di fronte
a un partenio, la cui importanza non è chi non vegga, quando
si consideri che di sì geniali componimenti, elevati dopo Alcmano
a tanta altezza da Stesicoro e da Pindaro, non ci restano più che
informi reliquie e il nostro frammento è il solo che ce ne porga un
esemplare meno incompleto.
Ma se nella prima parte di questi carmi si contenevano le lodi
delle divinità (eì? Geoù? Ypacpóineva), quale era quella a cui si
rivolgevano le lodi del nostro ? — Essendo andata perduta la prima
strofa nella quale, secondo l'uso degl'inni, contenevasi l'invoca-
zione, è necessario cercar la risposta nell'esame del testo. Il Bergk,
non escludendo che il partenio possa essere indirizzato ad Artemide
Ortia, si mostra più inclinato a crederlo rivolto ai Dioscuri, dei
quali egli dice celebrarsi le lodi nelle prime strofe. Ma, come
bene osserva il Blass, non vi sarebbe a conferma di questa opi-
nione che il nome TTujXuòeuKTi<; scritto in capo alla prima colonna;
nome col quale non si può tentare alcun sicuro completamento
di senso, prestandosi così come è, a troppe interpretazioni. Né il
Bergk può appoggiare la sua opinione col fatto che gli Ippocoontidi
nominati nei versi 2-9 ebbero a gareggiare coi Dioscuri pel trono,
come narra Pausania (1), finché Ippocoonte coll'aiuto dei figli
(1) Paus., Ili, 1: (OipaXoc;) Traì^a ?axe TuvfxipeLUv, iL ■rT€pi Tf]c, paaiXtiaq
'Ittttokóoiv ^fifpioPnTfi.
- 554 -
scacciò da Lacedemone Tindaro e il fratello Icario (1); poiché nel
racconto di Pausania il combattimento di Eurito con Tindaro (2)
dcvesi riferire alla cacciata di quest'ultimo non alla strage degli
Ippocoontidi, di cui manifestamente canta il nostro. (Questa non
avvenne per mano dei Tiiidaridi desiderosi di acquistare il trono
j)erduto, ma per mano di Ercole, che volle vendicare l'uccisione
d(;l proprio nipote Oionos, ed estese la vendetta fin dopo la morte
degli Ippocoontidi facendo salire sul loro trono il nemico che già
ne avevano discacciato (3).
Che se pure la strage degli Ippocoontidi fosse avvenuta per
mano di Tindaro e dei Dioscuri non avremmo però un argomento
valido per attribuire l'inno a questi ultimi, avendo potuto Alcmano
innestare questa narrazione alle lodi di un'altra divinità, secondo
l'uso comune dei lirici greci e di Pindaro in particolare.
Anche prima del Bergk l'Egger stimò celebrati i Dioscuri in
questo carme, anzi attribuì tutto il frammento all'inno ai Dio-
scuri, di cui Erodiano (Tiepì axni^-i ^1) ci ha tramandato i primi
versi :
Kdatujp Te TTuuXuuv WKéuuv biiaTfjpeq, mnÓTai crocpoi
Km ITujXubeÙKrig Kuòpóc; ;
ma dopo la scoperta dell'Ahrens l'opinione dell'Egger è resa inam-
missibile dalla diversità del metro. — Del resto quale fosse il
soggetto dell'inno alcmanico ai Dioscuri possiamo argomentarlo
dalle parole di Pausania (1. 42, 4): « Nie^apéujc, òì Ti)Lia\Kov
(1) Apollodoro. Ili, 5 TOÙTOUc; 'Ittttokóuuv ^xujv ■naXhac, 'iKapiuuvd re
Kal Tuvòdpeujv èEéPaXe AaK6bai|Liovo(;.
(2) Paus., Ili, 18: ludxnv Tuvbdpeuu Trpò<; GìjpuTOv.
(3) Apollodoro, II, 3: ('HpaKXfiq) éXibv òè tì^v TTuXov èarpàTeuaev èirl
AaKebaifiOva, luexeXeeiv toù<; 'ImroKÓujvToq uatòoc; BéXluv. iLp^iZlero |aèv yàp
aÙToTi; Kol biÓTi NtiXei avv€.^àxr\aav, ludXXov bè ibpYiffSr) 6ti. tòv AiKU|aviou
TTaìòa dtréKTeivav. Oeo|uévou yùp aùxoO tò Ittttokóujvtoc; paaiXeià, èKbpa-
Hibv Kuujv TÙiv MoXottikCùv èu' aÙTÒv èqpépexo' ó bè paXibv XiGov èiréruxe
ToO Kuvòi;. èxTpoxdaavTeq bè ci 'Ittttokóujvtoc; iraibec; Kal tùittovt6^ oùtòv
OKUTÓXoiq diTÉKTeivav. Tòv bè toùtou edvaxov èKbiKUJv orpaxiàv èiri Aa-
Kebaifioviav auvriGpoiIev 'HpaKXfi^ ^^ Kteivaq tòv 'iTTTroKÓoivTa koì toù<;
Tiatba; aÙToO, x(.\piuaàiJ.evoc, Tf\v ttóXiv, Tuvbdpeuu KaTayayibv rnv ^aai-
Xeiav TrapébuuKe toùtiu. Gonfr. pure Lib., Ili, 5; e Io Scoliasta di Clemente
Alessandrino già citato ai versi 34-35.
Ttaiòa Tiq [xkv èq "Aqpiòvav èXeeiv laeià tuùv AioaKoOpujv èfpaqje;
11015 ^' ocv àqpiKÓ|nevo(; àvaipeOnvai voiaiJoiTO uttò Qr\Céwq : òttou
Kttì '/\\Kixàv TTOiriaai; óajua eìq -xovq AioaKOiipou(;, ùx; 'AGrjvaq
{" f^cpxbvaq) ^\oiev Kal rnv Gtiaéuuq àYa-fOiev iiiriTepa alxMaXujTov,
ÒMuu? ©riaéa qpncJiv auTÒv ÓTreivai »; non che dallo Scoliasta di
Omero, laddove commenta le parole di Elena che dall'alto delle
porte Scee osserva l'esercito Acheo {IL, III, 236 segg.): « 'EXévn
dpTra(y0ei(Ja ùttò 'AXeHdvòpou, àYvooOaa tò au|iPepriKÒ<; laetaSù
ToT? àbeXqpoiq AioaKOÙpoK; KaKÓv, ÙTToXainpdvei òi' al0xuvriq
a\)jf\q \xr] TTeTropeO(J9ai toutou? eìq "IXiov, èTteiòn TTpOTcpou^ uttò
Qr]aéujq ripiràaGri, KaOÙJ(; npoeipriTai ' bià yàp ifiv TÓte y^vo-
luévriv ópTTaYnv "Aqpiòva ttóXh; 'AniKr\c, TtopOeiTai Kai Titpuua-
KETai KdcJTuup \jtt' 'AcpiòvoO toO tòte pacTiXéuuq Kaid tòv òeSiòv
lariPÓv • 01 he AióaKOupoi, Qr]6é(xiq }xr] TUXóvT€<g, XaqpupaYWYoOai
TÒq 'Aqpiòvaq. f] i(JTopia napà -xoxc, IToXeiuuuviGi^ (sic) f| Toiq
kukXikoT? Kaì dirò fiépou^ itapà 'AXK)advi tuj XupiKUJ >.
Di tutte le quali cose non vi è alcun cenno nella parte del
carme pervenutoci, ne su quella andata perduta ci è lecito fon-
dare una stabile congettura, — Né vale l'industria del Canini, il
quale per dare maggior aria di probabilità all'ipotesi del Bergk
e sua, supplisce dovunque può il nome ZiuO, col quale a Sparta
por antonomasia si designavano i gemelli Castore e Polluce, per-
fino nella generalissima e capitale sentenza espressa nel v. 36:
^6i\ tk; aiujv T1015,
il cui senso generico ho già dimostrato (verso citato) e non è chi
non veda.
Noi pertanto, collo Zambaldi e il Michelangeli, stimiamo essere
il partenio rivolto a lodare Artemide Ortia, il cui nome abbiamo
già criticamente assodato nell'esame del v, 61 :
'OpGiqi (pdpo<; q)epoi(Jai<;,
confrontandolo coi versi 87-88:
èYÙJV bè TCÌ )Llèv 'AUUTI |HaXl(jT(jl
dvbdvr|V épuj »,
— 556 -
e le cui feste celebravansi in Sparta di notte tempo (vedi al verso
citato il lungo brano di Pausania arrecato), al modo stesso che
in Atene celebravansi le resto di Minerva (1).
V. Corega e numero delle vergini. — Affermata la natura
del componimento, quella cioè di un coro di fanciulle celebranti
Artemide, rosta a cercare chi fosse quella che {guidava le danze e
il canto — corega — , e quale il numero delle fanciulle compo-
nenti il coro.
11 Bergk dal vedere il poeta intrattenersi sulle lodi di Agesi-
cora per ben quattro strofe ha creduto che questa appunto fosse
la corega; ma più ragionevolmente il Blass rivendica quest'onore
ad Agido, le cui lodi nei versi 39-49 si prepongono a quelle di
Agesicora ed in modo tanto esplicito che non lasciano alcun dubbio
sulla preminenza della fanciulla (2). Inoltre nelle stesse lodi di
Agesicora non mancano espressioni che assegnano a lei il secondo
posto nel coro. Così al v. 58, dicendo che Agesicora gareggerà con
Agido nella corsa premette tuttavia che ella resterà seconda —
beuiépa, e di nuovo al v. 80 dice :
'AtiòoT b' [iKJtap laévei (scil. 'AyTicr.)»
il che non potrebbe dire se la corega fosse Agesicora, convenendo
che non la corega stia presso alla fanciulla, ma la fanciulla presso
la corega. — Nel lungo elogio adunque tributato ad Agesicora il
poeta include quasi argomento a minore ad maius le lodi di Agido,
e difficilmente invero, osserva il Canini, difficilmente si potrebbe
(1) Gonfr. Euripide, Eeracl., 781 segg. :
àv6)aótvTi he y' ^fr' à\Q\ìJ
òXoXÙYMCtTa ttowuxiok ùttò uap-
Gévujv lahxeì ttoòuùv Kpoxotaiv.
(2) Vedi ai versi 43-45:
i:|aè ò* oOt' ènaivèv
oOt€ |Liuj|uria6ai viv 6 KXevvà xopoiTÒ?
0Ò6* àml/q èfì,
dove ho dimostrato doversi le parole ò. KXevvà xopayòi; non ad altri riferirsi
che ad Agido.
— 557 —
lodare una fanciulla, anzi lodarne due insieme, in modo più no-
bile e grazioso di quello che in questo carme fa Alcmano, a ra-
gione soprannominato dall'oratore Aristide « il lodatore delle
donne ». Agido ed Agesicora, figlie probabilmente di quell'Age-
silao, presso cui viveva Alcmano, ci sorridono ancora dopo duemila
e cinquecento anni in tutta la loro vigorosa freschezza nei versi
del poeta, tipo perfetto di quelle giovani Spartane che ebbero il
vanto delle più belle fra le belle greche.
Un ultimo quesito resta sul numero delle fanciulle componenti
il coro e sull'ordine con cui cantavano.
11 Blass espose già nell'Hermes l'opinione che le strofe e le
vergini fossero dieci, e che ciascuna vergine cantasse una strofa.
Tale opinione che può trovare appoggio apparente nel ritorno co^
stante della prima persona singolare in tutta la seconda parte del
carme (èYÙJv ò' àeiòuj ecc.), a parer mio è insostenibile. Essa
ripugna assolutamente all'essenza del coro greco; ne in tutta la let-
teratura dell'Eliade noi troviamo esempio di un coro che si divida
in più di due fiiuixópoi, come neWAiace di Sofocle e forse anche
nelle Eumenidi di Eschilo. — D'altra parte uno scolio al v. 98
ci dice chiaramente che il coro talvolta constava di undici, tal-
volta di dieci fanciulle: óre \xh/ il ìà, óte òè èK ì. E la cosa si
spiega benissimo, poiché se nella prima parte del componimento
tutte le fanciulle insieme potevano celebrare le lodi di Artemide,
nella seconda parte in cui si passa alle lodi di Agido e di Age-
sicora, conveniva che ciascuna delle due fanciulle tacesse, quando
si cantava in suo onore ; epperò il coro da undici era ridotto a
dieci vergini.
In quanto al numero delle strofe ho già espressa e motivata
col Bergk la mia opinione che fossero dodici.
Rivisia di filohgia, ecc., 1 86
Col. I.
- 588 -
•A A K M A N
TTapGéveiov de, 'OpGiav
Itpoqpr] a'
1 = _ - .. [n]ujXubeuKri<;, 8
2 [OOk èyùjjv AÙKaiaov èv KaiaoOaiv à\éf^x) 9
3 [dW '€va]pa(pópov te Ka\ Zeppòv TTobuJKri 10
4 [BuuKoXóJv Te tòv piaidv 11
5 ['InTTÓSujJv Te tòv KopuaTdv 12
6 [€ÙTeixr|] Te FdvaKTa t' àprjiov 13
7 - - d t' eHoxov fmicriiuv 14
iTpoqpfi p'
8 [Kéi\Ki|io]v TÓV dtp^Tttv 1
9 [cTTpaTuJ] fiérav GupuTÓv Te 2
10 ["Apeoq dv] TTuupuj kXóvov 3
11 ("AXKuuvJd Te TU)? dpiaTuj? 4
12 [oùb' dfiujg TT]apri0O|ne?. 5
13 [KpdTTìCTe yjdp Alerà TrdvTuuv 6
14 [Kttì TTópo(;] YepaiTaToi 7
Partenio ad Ortia (Strofe 1"): 8 Polluce. 9 Non io fra i morti canto
Licaito, 10 ma Enarsforo e il piè-veloce Sebro 11 e il violento Bocolo
12 e Ippotoo armato d'elmo 13 ed Eutiche e il marzial principe 14 ...in-
signe fra i semidei.
(Strofe 2"): 1 E il grande Alcimo, che radunò 2 l'esercito, ed Eurito
3 ed Alcone valorosissimi 3 nel tumulto del crudele Marte 5 in niun
modo tralasceremo. 6 Poiché tutti vinse Aisa 7 e Poro antichissimi
— 559 —
15 [aiuJv k' nuTtJébiXoq 'AXkó. 8
16 [MriTi? àvOjpuJTTUJv èq ujpavòv TTOiriaGuj 9
17 [ì^r]be TTeijpriTo) Yainèv tùv 'AqppobiTav 10
18 [Kurrpiav] àv[ajaaav i\ tiv' 11
19 - - - ^ Traiba TTópKuu 12
20 [eivdXiav] XdpiT€<; be Alò? ÒÓ|lìov 13
21 fèapaivoijcriv epoTXéqpapoi. 14
Zipocpr] Y
22
----- TÓTOl
1
23
----- a òdjuoiv
2
24
----- qpiXoi?
3
25
- - - [^ò]ujK€ òujpa
4
26
- - - - Y«P€OV
5
27
- - - - oiXea'f^pa
6
28
- " - " - [xjpóvov
7
29
----- [)aa]Taiaq
8
30
----- ^Pa* Tuùv b' àWo? ìuj
9
31
[ècpGiTo' aWoq b' aure] )aap|adpuj juuXdKpiu,
10
32
[tujv b' ó)Liuj? KpdTriJcev Aiba<s,
11
33
[(Lbe |Liópai|Liov Tdp] aùioì
12
34
[èK A\òq djnap èTtécrJnov aXacTia bè
13
Col. IL
35 ?pTa irdaov KaKÙ |uricra)aévoi. 14
8 fra gli dei, ed Alca di bei calzari adorna. 9 Ninno degli uomini voli
al cielo, 10 né tenti sposare Venere 11 che in Cipro regna, o alcuna
12 0 di Forco la figlia 13 marina; ma nella casa di Giove 14 ascen-
dono le Grazie dell'amoroso sguardo.
(Strofe 3"): 1 2 un dio 3 agli amici 4 diede regali
5 6 perì la gioventù 7 tempo 8 invano 9 andò ;
e di loro chi di dardo 10 peri, e chi colpito da levigata pietra, 11 e
di essi tutti si impadronì Aide. 12 Così essi per volere di Giove 13 su-
birono il dì fatale, e indimenticabili 14 pene soffrirono avendo meditato
tristi opere.
Rivista di filologia, ecc., I. 86*
- 560-
IrporpH ò'
36 "€aTi Ti<; aiujv ticiq' 1
37 ò b'|6Kjpio? òajxq eùcppuuv, 2
38 ón^pav (biJanXéKei 3
39 fiKKaucJTO?. — '€tùjv b' dteibuj 4
40 'Ayibo)^ TÒ (puù(; * ópuì) 5
41 ^' ^^ 6(\iov, òvnep àmv 6
42 'Ayibib liapTupetai 7
43 q)aivr|V é)aè b' oOt* èrraivèv 8
44 ouTe liuunnaGai viv à KKevvà xopotfòq 9
45 oìib' ànd)(; é»j. AoKÈÌ fop 'IMtv aura 10
46 èKTTpenf)? tùj?, dÒTiep at ti? 11
47 év PoToT? ardaeiev ittttov 12
48 TTfliYÒv deOXoqpópov KavaxArroba 13
49 TuDv ùnoTTeipiblujv òveipuuv. 14
Zipoqpf) e'
(Strofe 4»): 1 Evvi una vendetta degli dei: 2 ma quegli è felice che
è ragionevole ; 3 egli passa la vita 4 senza pianto. — Io canto 5 di
Agido la luce ; la veggo 6 come un sole, cui a noi 7 ella fa credere
8 che splenda : ma né lodarlo 9 né biasimarlo l'illustre corega 10 in
nessun modo mi lascia. Imperocché essa mi serahra 11 insigne così, come
se uno 12 fra un gregge mettesse un cavallo 13 robusto, scalpitante
e aolito a vincere 14 come quelli che ci mostrano gli alati sogni.
(Strofe 5"): 1 Non vedi tu ? Il destriero 2 ben è veneto ; ma la chioma
3 della mia cugina 4 Agesicora risplende 5 come oro puro : 6 ed
il candido volto 7 perchè minutamente ti descrivo ? [8 Ella è Agesicora.
60
*H oùx 6pfì?; 6 fjièv Ké\r|?
51
éveriKÒ?' d bè xaiza
62
Tclq i\xàq àveijiiaq
63
'AyricriXÓpa? ènavOei
54
[x]pucy[òq] Oùt' ÓKripaTO^'
55
TÒ t' dtpYÙpiov TrpóauuTTOV
56
biaqpàbav ti toi Xé^uj;
57
'Afr\o\xópa \xkv aura.
- 561 —
58 "Aòe òeuTCpa ireò' 'Ayiòuj tò eiòo^ 9
59 \nno<; eìpnviu KoXaHaioq bpa)neiTai. 10
60 Tal ITeXeiàbe? Yctp àp.\v 11
61 'OpGia qpapo<; cpepoiCTai^ 12
62 vuKia b\' à)appoaiav aie aeipiov 13
63 àarpov aueipoiaévai ladxovxai. 14
Zipoqpii ^'
64 Ouie tàp TI TTOpcpupa? 1
65 -xóoaoq KÓpo? ujcTt' d)iuvai, 2
66 OuTe TTOiKÌ\o<; bpaKuuv 3
67 nayxpvoxoq, oùbè luiipa 4
68 Aubia veavibujv 5
Gol. IH.
69 iavo[T^]eq)(5ipujv d^aXiaa 6
70 oObè T[a\ NavvujJ(; KÓ)aai 7
71 àX\' oOb' ['Apéra] a[ij€ibfi? 8
72 oObè I[uXaKÌq le] Ka[\ KXeiiaJicrripa 9
73 oub' é(; Aì[vjìiai[)aPpÓTa<;] èvGotaa qpaaeìq • 10
74 « "AcTTaqpiq [té )aoi yévjofijxo 11
75 Ka\ TTOTiT[XéTTOi] 0iXuXXa 12
76 Aa|ia|"p^Ta t' è]pa[Tdi le] 'IdvGemq. » 13
77 dXX* 'AY[ri]cf[ix1ópa |ue tripei. 14
9 Ella seconda con Agido come; 10 con un veltro un cavallo Golassco
correrà. 11 E già le Pleiadi con noi, 12 che ad Ortia rechiamo il volo,
13 per la divina notte fulgido 14 astro levandosi, gareggiano.
(Strofe 6«): 1 Noi certo non abbiamo di vesti purpuree 2 tanta abbon-
danza da poterle cambiare, 3 né un vago monile 4 tutto d'oro, nò la
mitra 5 Lidia, ornamento 6 alle fanciullo dal molle sguardo, 7 nò
le chiome di Nanno, 8 e neppure è con noi Areta simile a dea, 0 né
Sìlaci nò Cleisitera, 10 né andando a casa di Enesimbrota dirai: 11 <0
fosso con me Astafi, 12 e da vicino mi stesse Fililla 13 e Damareta
e l'amabile lantemi ». 14 Ma Agesicora mi assicura.
— 5fi2 —
Trpocpi] V
78 Où Y^p a K[a]\\(acpupoq 1
70 ' (K\r\<S\y\bpii Kap'] aurei: 2
80 'AriboT b' liKJTap ^^vei 3
81 0ujcrTrip[ta] t' &h* èTiaiveT. 4
82 'AKKà TÓìv [eùxjàq, aioi, 5
83 béHaaee- [buuùvj fàp fiva 6
84 Kaì rAoq" < (xojpoaiaTK; » 7
85 eKtroiiLit k' < ètòiv ^\.\ aura 8
86 7Tap(Tévo^ /aarav, òtto Gpdvuj \e\aKa 9
87 yXauE. » èTiibv bè 1^. |ièv 'Aiuti jLiaXiara 10
88 6vbdvriv èpoi* ttóvujv yàp 11
89 fi^iv lÓTujp [?Y]evTO 12
90 il 'ATr|(7iXÓp[a(sJ bè v€(ivib€<; 13
91 [€tp]nva(; èpaTa<; ènépav. 14
Zipoqpfi ri'
92 [T]a» T€ yàp (Tripacpópiu 1
93 [aù]Td)(; èb[d]pri laéf' à^TH 2
94 TUJ KupepvAiqt b" ^x[p]n 3
95 Kr|V vai' |Lia\' ^[Ka] (puuvà 4
96 d bè TUJV Zr|pri[vibujv] 5
97 (JtoiboTépa )a€Ta[{p]e[i] 6
(Strofe 7»): 1 Non sta forse con noi 2 Agesicora dal bel pie ? 3 Essa
rimane a lato di Agido 4 e canta la nostra festa. 5 Ma voi, o dei, le loro
preghiere 6 accogliete ; poiché da loro due il principio 7 e la fine di-
pende. « 0 Gorega » 8 potrei dire < io vergine sono qui 9 invano,
poiché canto come da un tetto 10 una civetta ». Ma nondimeno ad Ar-
temide 11 sopra ogn'altra cosa io voglio piacere, perchè dai 12 mali
essa ci ha liberati, 13 e da Agesicora le fanciulle 14 ottengono la bra-
mata vittoria.
(Strofe 8): 1 Poiché come un cavallo siraforo 2 cosi essa si spinge al
corso ; 3 e la sua voce potrebbe dolcemente conquidere 4 il nocchiero
pur nella sua nave : 5 ma essa, quantunque delle Sirene 6 più canora.
- 563 —
98 (Jiaì Yap' òivtI ò' evbCKa 7
99 Ttaibuuv òeK[à(; oV] àeibei, 8
100 qp9éYT€Tai ò' [ap] ujt' èm Edv0uj poaidi 9
101 KUKVoq* d b' èqpeijae'puj Haved KOjuiaKci 10
se ne astiene, 7 poiché quelle sono dee : e a fronte di undici fanciulle
essa canta come dieci, 9 e risuona come sulle correnti dello Xanto 10 il
cigno
Napoli, maggio 1895. Gennaro Bruschi.
17. 8. '95.
BIBLIOaRA-FlA.
IsiDOR HiLBERQ. Die Gesetze der Wortstellung im Pentameter
des Ovid. Leipzig, Teubner, 1894; in 8° gr., pp. vii-892.
Augusto Bauraeister nella Allg. Einl. del Handb. der Erz.-
und Unterrichtsl. fiir lióh. Schul., I Bd, I Abt., Miinch., 1895,
discorrendo, fra altro, di un certo metodo pedante d'insegnamento
introdottosi nelle scuole medie della Germania, dà, in nota alla
p. XXII, an breve e severo giudizio del libro, di cui ora si tratta,
così scrivendo con parole cosparse di una ben palese tinta d'ironia :
« Eine neueste Ausgeburt dieser philologischen Mikrologie bietet
das Buch Die Gesetze..., worin die 14 « Gesetze » auf 892 Seiten
in teubnerischem Gross-Aktav (sic) abgebandelt werden. Der Ver-
fasser ist Professor an der Universitat in Ozernowitz; er riistet
eine lateinische Poetik, an deren Griindlichkeit nach dieser Probe
ein Zweifel kaum erlaubt ist! ». Ora io credo che il giudizio del
Baumeister, emesso, come pare, senza attento esame del libro, ma
così di prima impressione, scorrendo un grosso volume doctum,
luppiter, et laboriosum, che può sembrare di mole sproporzionata
all'argomento e che fa pensare subito al |uéYa PipXiov inéTot KaKÓv
di Callimaco, io credo, dico, che un tale giudizio non sia giusto
affatto. Anzi tutto osservo che il libro non è destinato alle scuole
secondarie (perchè appunto di un certo metodo d'insegnamento
che s'impartisce in esse discorre ivi il Baumeister), poi affermo
che, anche ammessa la micrologia, questa quando non sia fine a
sé stessa, ma serva come mezzo per giungere a qualche risultato,
non è da rigettare nò tampoco deve essere oggetto di derisione.
Forse che un fattore della incontrastata superiorità filologica e,
in generale, scientifica della Germania non è anche por l'appunto
la tanto vilipesa micrologia? Forse che quel grandioso edificio
— 564 —
non risulta in buona parte dalla minuta, seria e costante opera
di un numerosissimo esercito di volenterosi, ognuno dei quali,
aiiplicando sapientemente la legge della divisione del lavoro, vi
jiorta, secondo le proprie forze, la sua pietra? 11 libro dunque di
Isidoro Hilberg non è da naso suspendcrc adunco pel solo e sem-
plice motivo clie in un numero grande di pagine grandi tratta
di un argomento molto s]ieciale e relativamente tenue, ma piut-
tosto e da vedere se l'A. arrivi o a scoi)rire fatti nuovi o a vie-
meglio confermare fatti, di cui prima si aveva una notizia più o
meno confusa ed incerta, o, in generale, a conclusioni, per un
rispetto 0 per l'altro, apprezzabili. Per dirla subito com'io la
penso, il libro in questione si deve ascrivere a questa categoria,
né dubito di sostenere die per gli studi della poetica e metrica
in genere e di quella d'Ovidio in ispecie questo lavoro è di una
importanza capitale. Si potrà dissentire dall'A. in qualche parte,
là specialmente dove egli in relazione alle leggi da lui stabilite
propone delle congetture sia per la correzione che per l'esegesi
del testo ovidiano, ma h fuori di dubbio che nel suo complesso
l'opera costituisce, a mio modo di vedere, un tutto solidamente
organato e degno di plauso sincero.
Kiservandomi di fare più sotto qualche appunto, credo ora op-
portuno di premettere, con la maggiore brevità possibile, un'in-
dicazione sommaria della materia, la quale (ciò che è pure un
pregio non piccolo del lavoro) è esposta dall'A. con somma per-
spicuità e, tenuto conto delle molteplici leggi, che bene spesso
necessariamente s'incrociano e collidono fra loro, e delle infinite
citazioni dei luoghi e dei frequentissimi richiami e rimandi, con
un ordine che ha del meraviglioso (1).
Dalla breve e succosa Introduzione rileviamo che il presente
lavoro (dedicato dall'A. all'illustre suo maestro Giovanni Vahlen)
è da considerarsi come parte di un tutto ben maggiore, la La-
teiniscìie Foetih, alla compiuta trattazione della quale certo non
possono bastare le forze di un solo: egli ne ha indicata la via,
altri pure si uniscano per giungere a quella meta (cfr. p. vi e
p. 840). L'A., che fino al 1882, quando venne chiamato all'Uni-
versità di Czernowìtz, si era occupato più specialmente della tecnica
nella poesia greca, dalla più antica fino ai versificatori dell'età
bizantina, rivolse poi le sue cure alla poesia dei Romani: frutto
dei quali studi fu dapprima una lettura fatta nella 39^ Adunanza
dei filologi in Zurigo nel 1887, che ha per titolo Vorlauf. Mitteil.
iiher die Tekt. des lat. Hexam. Per la stessa ragione poi che quando
trattò della poesia greca prese come punto di partenza il bizantino
Nonno, ora invece occupandosi della collocazione delle parole nella
poesia latina (mentre in quella lettura aveva esposto solo la teoria
(1) Del rimanente ad orientarsi serve anche il compiutissimo ed esattis-
simo indice dei luoghi, che occupa ben 43 pagine ^pp. 847-890).
— 565 —
del nesso delle propos. o membri di propos. fra loro) ha scelto
per primo Ovidio, né, trattandosi del pentametro, a torto, come
ognuno consentirà e con lui e con me. Perchè poi abbia comin-
ciato dall'esame del pentametro (diviso dall'esametro : su di che
avrò qualche cosa da notare più sotto) e non da quello dell'esa-
metro, l'A. adduce come ragione il fatto che le leggi di questo
sono molto più complesse e numerose che non quelle dell'altro :
sicché volle cominciare dall'indagine relativamente più semplice
e più facile. Del resto ad un lavoro consimile anche sull'esametro
sta ora attendendo e lo deve già aver condotto a buon punto,
come risulta, oltreché da quanto dice a p. vi sg., anche dagli
accenni a pp. 393, 441 e 846 in nota. Quanto adunque alla di-
sposizione delle parole nel pentam. di Ovidio, l'A. fissa quat-
tordici leggi, che ora espongo nella loro nudità: però, affinchè
così brevemente indicate non paiano più rigide ed assolute di
quello che realmente sono, aggiungo subito che l'A. le conferma
e spiega a lungo col ragionamento e colla citazione dei pas^i
relativi, cercando poi sempre di render ragione delle deviazioni
da esse. Le obiezioni, che credo di dover fare, le rimando a dopo
l'esposizione delle leggi stesse. Legge I (A): La collocaz. delle
parole non deve urtare contro le leggi prosodiche e metriche di
Ovidio (pp. 1-17). Legge II (a): La collocaz. delle par. deve esser
tale che non ne risulti alcuna ambiguità rispetto al senso e alla
costruz. grammatic. delle proposiz. (p. 18. Di questa legge, che
per importanza cede soltanto alla I, l'A. non si occupa a parte,
perchè essa più di tutte s'incrocia con le altre leggi; onde solo
ne discorre nei rispettivi capitoli di queste, ogni volta che ne in-
tervenga qualche collisione). Legge III (B): La maggiore o minore
importanza delle singole parole deve, per quanto è possibile, ap-
parire dalla stessa loro collocazione (pp. 18-102). Legge IV (C).
Questa riguarda la successione od ordine naturale delle parole
(pp. 103-272). La legge V (D) si riferisce all'ordinaria precedenza
dell'attributo rispetto al suo sostantivo (o pronome) con i sin-
goli casi di eccezione (pp. 273-377). Legge VI {E): È evitata, per
quanto è possibile, la uscita del pentam. in vocale breve (pp. 378-
388). Legge VII (F) : L'est (st), che non formi di per sé solo
una sillaba, va posto, quando in generale si debba porre, per
quanto è possibile, alla fine del peni (pp. 388-447). Legge VILI
(G^): Sillabe lunghe per natura si trovano in fine della I metà
del pent. a preferenza di sillabe lunghe per posiz., purché con ciò
non si violino le leggi A, a, B, C e D (pp. 447-582). Legge IX
((r"^): Sillabe lunghe per natura si trovano in fine della 1 metà
del pent. a prefer. di sili, comuni, purché con ciò non si violino,
oltre le leggi A, a, B, C e B, ìe leggi H ed / (i)p. 583-G38).
Legge X (G-^): Lo stesso dicasi di sillabe comuni rispetto a sili,
lunghe per posiz. (pp. 639-056). Legge XI (//): Il l piede del
pent. deve, per quanto é possibile, essere un dattilo (pp. 657-751).
V
— 566 —
Legare XII (J): Se non si può impedire clie il 1 piede del pent.
sia uno spondeo, tuttavia in questo caso si deve, per (juanto •■
possibile, evitare che coincida fine di piede con fine di parola
(pp. 7r)2-7S7). Le^^e Xlll iK): Sostantivo (o pronome) e attrihiito
che gli appartiene devono, per quanto è possibile, essere distri-
buiti nelle due metà del pent. (pj). 788-842). Legge XIV (L):
11 verbo della propos. ò, per quanto è possibile, messo avanti,
purchò ciò possa farsi senza violazione di qualche altra legge re-
lativa alla collocaz. delle parole (pp. 812-844).
Si chiude il lavoro con un « Sclilussvvort » (pp. 845-84H),con
l'elenco di tuttti i luoghi discussi o semplicemente riferiti (pp. 847-
890) e con un piccolo indice di correzioni e aggiunte (pp. 891-892).
Se i limiti assegnati a questa mia recensione me lo permettes-
sero, vorrei ora indicare, pur per sommi capi, tutti i nuovi e
acuti argomenti e le prove di fatto che l'A. adduce a schiari-
mento e sostegno delle sue leggi e a giustificazione delle appa-
renti deviazioni da esse. Mi contenterò in quella vece di accennare
semplicemente a qualcuna di quelle conclusioni che a me paiono
più importanti ed originali. Intanto, riguardo alle singole leggi,
dirò che di alcune di queste si aveva già conoscenza, come, per
es., delle leggi J), E, II, /, alle quali si può aggiungere anche
K (1); altre, come le leggi A, a, B, C rientrano in gran parte
nella categoria delle leggi applicabili a tutta la poesia in gene-
rale : ma e queste e quelle trovano nella trattazione del Hilberg
una più sicura e razionale conferma. Nuove, o affatto o perchè
considerate sotto un nuovo punto di vista, appariscono le leggi
F, G\ G^, G'^, L {2\ Ogni legge poi esposta dà occasione al
(1) Mi si permetta di rimandare in proposito al mio opusc. De elegiae
Lai. composti, et forma, Patav., 1894, e. VI sgg. (p. 107 sgg.), dove ac-
cenno anche alla bibliografia relativa. Colgo poi questa occasione per di-
chiarare che se avessi avuto conoscenza del libro del Hilberg prima della
pubblicazione del mio, certamente avrei modificato il mio parere rispetto,
p. es., al motivo che addussi (p. 151) per ispiegare nei casi rispettivi la or-
dinaria collocaz. del poss. meus, tuxs, suus in fine del pent. Del resto, noto
qui di passaggio, una ragione di questo fatto, sfuggita al Hilberg, è certo
anche questa, la quale risulta da due circostanze unite insieme, cioè, e la
qualità od opportunità, dirò così, metrica di questi agg. che sono bisillabi
e giambici (calcolando l'ultima sillaba come indifferente alla fine del verso)
e il fatto, spiegabile più per ragioni estetiche, le quali meglio si sentono
che non si sappiano dimostrare, che aggett. e sost. costituiscono così spesso
e volentieri rispettivamente la chiusa dell'uno e dell'altro emistichio. An-
cora, e a proposito appunto delle chiuse dei due emistichi, il fatto solo che
queste due sedi furono con tanta diligenza e, forse direbbe alcuno, pedan-
teria curate dagli elegiaci in generale e da Ovidio in particolare (e special-
mente l'ultima, dove metricamente non solo ma anche grammaticalmente e
logicamente si chiude per regola il distico, strofa una per eccellenza), questo
fatto, dico, non proverebbe che a quelle sedi si annetteva grande impor-
tanza ? Perchè adunque queste vengono trascurate dal Hilberg, il quale in-
vece dà tutta l'importanza alle prime sedi delle due metà ?
(2) Riguardo specialmente alla legge G^, la quale non è da contestare.
— 567 —
Hilberg di giudicare in armonia con questa delle varianti dei
codd. e delle congetture proposte da altri, di interpungere, di spie-
gare in un modo piuttosto che in un altro il testo, di scoprire
in questo, proponendone la correzione, i luoghi corrotti o che tali
almeno sembrano a lui. Nel quale apprezzamento egli, secondo il
mio parere, passò talora il segno, come si vedrà piti avanti. An-
cora, le singole leggi in tanto manifestano la loro efficacia in
quanto, come nei casi particolari dimostra l'A., non si trovino in
conflitto reciproco: che allora la legge d'ordine superiore s'impone
a quella d'ordine inferiore, avvenendo anche non di raro il caso
che una legge più forte debba soccombere di fronte alle forze
unite di due (o più) leggi più deboli. Una delle trattazioni ch'io
credo più magistralmente condotte, più originali e più importanti
pei risultati, è quella che riguarda la voce est elisa per aferesi
(= 'st, al cap. della legge F, p. 388 sgg.), la quale è risaputo
come da copisti poco diligenti venga ora omessa ora collocata
qua e là senza criterio alcuno. Pel pentametro l'A. fissa la regola
generale che Ovidio ammette nell'interno del verso un est {'st)
solo allora ch'esso sia necessario pel senso oppure serva a togliere
iato 0 a prolungare una sillaba: altrimenti un « Binnen-'st »
sarebbe ozioso e anche talora dannoso (« ein parasitisches Binnen-
'st », p. 423). Quanto poi ad un est (st) finale, questo è collocato
spesso per togliere l'uscita breve vocalica del pent.: se l'uscita
fosse lunga o ancipite, volentieri si omette. Tuttavia per l'uscita
in i egli stabilisce la regola che Ovidio omette Vest ('st) solo
allora che senza detrimento del senso si ottenga una rima («Reim»)
fra le due metà del pent. E così dicasi delle chiuse in «, ó, um (1).
almeno nella sua generalità, perchè gli esempi addotti e i numeri la con-
fermano a sufficienza, sarebbe stato bene indagare ed esporre la ragione
perchè mai sillabe ancipiti debbano esser preferite in fine del primo emi-
stichio a sillabe lunghe per posizione perfino nel caso che la lunghezza di
queste risulti da una doppia specie di posizione, cioè, quella interna, dirò
cosi, nella parola stessa e quella esterna nel verso (p. es., «...contigerant ||
qua...», «... nunc II non...» ecc.): forse che questa doppia lunghezza non vale
metricamente lo stesso e più dell'altra ? A proposito poi dell'ultimo esempio
citato, crede l'A. che Ovidio abbia scritto A. a. 1, 626 nì'.nc quoque iudi-
ciuìn non tenuisse pudet e non: iudicum quoque nunc non ?.j9. soltanto in
considerazione della legge G-* ? E la stessa dimanda si può fare rispetto ad
Her. 7, 76 te satis est tittilum mortis habere meae (invece di te titulum
satis est mortis h. ni.) e di molti altri luoghi, anche fuori della legge G^,
p. e. a p. 379, dove l'esempio citato Pont. 4, 14,24 qtios e//o, cum loca sim
vestra perosus, amo non molto prova in favore della legge E, perchè certo,
anche prescindendo dalla ragione dell'uscita in vocale l)rcve (è noto che ego
è trattato sempre come pirrichio da Ovidio), mai il Sulmonese non avrebbe
detto nell'altro modo indicato q. amo, e. l. s. v,p.,ego.E neppure nel verso
riferito a p. 58'.i Her. 16, 28 hae mihi tam longae causa fuerc viae Ovidio
ha detto cosi invece di hae longae mihi tam e. f. v. soltanto per riguardo
alle leggi (7^ ed //.
(1) Sul modo di considerare la rima fra i due emistichi (e in generale
nella poesia e prosa latina) io dissento non solo dal Hilberg, ma piii o meno
— 568 —
Rispetto alle uscite in am, em, im Ovidio per regola evita di a^-
giuntrere un est ('«/) per le stesse ragioni che valgono per le
uscite in u, i, f', «e, cioè per ragioni di eufonia.
Importanti pure o ricche di risultati sono, per es., le osserva-
zioni che l'A. la sulla « relative > e < absolute V'orschiebung »
di certe parole, sulla dillcrente collocazione degli aggettivi secondo
che hanno valore attrih. o ])redicat., delle parole determinanti e
determinate, dei verha dicendi sia nel discorso diretto che indi-
retto, sulla naturalezza, da lui distinta in metrica, sintattica e o<i-
gettiva o reale («sachliche Natùrlichkeit »), sulla « lietonung» o
< Nachdruck » di certe parole o, in generale, sul <- Hauptton der
Kede », sulla rima (dal suo punto speciale di vista di conside-
rarla) e contro il metodo seguito dal Grimm e, più recentemente.*,
dal JDingeldein, ecc. ecc. A proposito poi della legge B, rispetto
alla quale stabilisce come i posti più importanti del verso le
prime sedi o, secondo i casi, le sedi meno distanti dal principio
dell'una e dell'altra metà del pent., giusta è l'osservazione che il
valore della legge B si manifesta non solo in senso positivo, cioè,
con la collocazione delle parole più accentuate in principio o in-
nanzi a quelle meno accentuate, ma anche in senso negativo, con
l'escludere, cioè, dai posti d'onore le parole che sono < tonlos »,
come la semplice copula est (sum, sunt, fuit) e i pron. possess.
e personali: questi nei casi obliqui, perchè nel caso retto il fatto
solo ch'essi sono adoperati indica chiaramente che hanno impor-
tanza, che altrimenti, com'è anche in prosa, sarebbero omessi.
Giusta è pure l'osservazione, confermata anche da copiosi e op-
portuni esempi, sulla collocaz. speciale dei pronomi mihi, tihi,
sili, ecc., quando abbiano il valore di dativi Graeci ed equival-
gano quindi a a me, a te, ecc. (p. 89 sg.); né meno vera l'altra
rispetto agli epitJieta ornantia (p. 48 ; cfr. p. 692) e quindi alla
diiterente collocaz., per es., di liquida riferito ad aqua secondo
che l'aggett. è da spiegarsi con fluida o con limpida. E bene
pure spiega a p. 394 la così frequente omissione dell'est i'st) in
fine dell'esametro e, per converso, la sua frequente collocazione in
fine del pent., trattandosi là di elisione in tesi, qui di elisione in
arsi, là di ritmo che non si deve bruscamente interrompere, qui
di ritmo che deve essere rigorosamente fermato. E molto altro
tralascio per brevità.
Quanto all'economia generale dell'intero lavoro, la quale del
resto è mirabilmente omogenea ed ordinata, taluno potrà rimpro-
verare al Hilberg di non aver esposte subito fin dal principio in
un quadro sintetico le 14 leggi, poiché riferendosi l'A. ben di
da quanti si occuparono di questo argomento. Mi sia lecito, per non fare
ora una lunga digressione, riferirmi al mio \2l\ oveiio snìV Omeoteleuto latino
(Padova, 1891) e specialmente a pp. 23-30. Cfr. anche o. e. Be eleg. ecc..
p. 145 sgg., dove accenno a tale questione e mi occupo abbastanza a lungo
della coUocaziene del sost. e atlrib. nel pentametro.
— 569 -
frequente nel corso dell'opera all'una o all'altra di alcune leggìi,
di cui ancora non fece parola, riesce incomodo ogni volta andarle
a ricercare per entro al volume. Altri gli potrà obiettare che per
moltissimi versi riferiti per intero senza alcuna necessità bastava
una semplice citazione dei luogbi relativi o di pochi versi, con
risparmio non piccolo e di fatica pel lettore e di spazio. Più giave
accusa gli potranno fare alcuni di aver esaminato il pent. staccato
dall'esam., mentre il pent. non è verso che possa stare e quindi
considerarsi a se, ma necessariamente si deve unire all'esam. a
formare la strofa elegiaca (1), tanto più se si tratta, come qui,
di collocaz. di parole, la quale così spesso è determinata e spie-
gata dalla qualità e dall'ordine delle parole nell'esametro. Ad
onore però del vero è debito aggiungere che non di rado l'A.,
quando lo crede conveniente, riferisce, per comprovare meglio la
sua tesi, non solo l'esam. relativo al pent. in questione, ma anche
interi complessi di distici. Dove però l'A. troverà un maggior
numero di oppositori è in quei luoghi nei quali, fondandosi suite
leggi stabilite, quando d'una data collocaz. di parole non sappia
rendersi ragione, cerca di correggere, anche contro la tradizione
unanime e costante dei codd. e delle edd., il testo (2), o di in-
terpungerlo e interpretarlo in una nuova maniera. In questi casi,
quantunque, bisogna pur riconoscerlo, egli dia generalmente prova
di acume e di dottrina e agisca sempre di conseguenza ai principi!
posti, pecca di esagerazione. Letto attentamente il libro (poiché
ho la sicura coscienza di appartenere a quegli « aufmerksanien
und nachprùfenden Lesern », che l'A. si desidera a p. 47), ho
già raccolto un buon numero di correzioni da lui proposte, le
quali io credo che non si possano accettare: di queste mi occu-
però particolarmente un'altra volta ; ora ne accenno ad una sol-
tanto. A p. 46 gli fa specie il verso Trist. 3, 3, 48 et feries
pavida peciora fida manu, giacche in forza della legge i? (p. 18)
Ovidio avrebbe dovuto dire et pavida feries p. f. m., mentre dal-
l'altra parte la legge L (p. 842), così inferiore a tutte le altre,
non potrebbe aversi come causa perturbatrice della legge B. L'A.,
non trovando alcun appiglio nella tradizione universale dei mss.,
cerca d'introdurre la minima correzione possibile e vuole restituire
(1) Su (ìi che cfr. specialmente quanto scrive Ern. Eicliner, De poeti.
Lati, usque ad Aug. aet. (list, guest, metr. partic. duae, Sorav., 1866,
p. 1 seg.
(2) No
(2) Non sempre ò vera la massima da lui riferita a p. 625: ratio centttm
codicihus potior, quando specialmente la lezione dei codd. dh pure un senso,
per quanto questo a taliuio di noi possa non garhai'e, e quando le leggi (le
quali in questo caso sono semplicemente dei falli generali ricavati a /nìstf-
riori con l'osservazione e meglio quindi si direldiero regole generali) non
hanno il cai'attere della ne(•essil^ e dell'assoluta certezza. Poi com'è subiet-
tivo questo concetto di ratio, non solo riguardo ai lettori del poeta, ma ri-
guardo al noeta stesso! E ancora è forse escluso il caso che i poeti stessi
qualche volta dorrnitetit ? Summi stmt, ìiomines tamen.
V
— 570 —
il verso così: at feries avida pectord fida manu. In tal caso non
v'iia, secondo quanto stabilisce l'A. (|ui e rispetto alle altre lej,'f^i,
alcuna oll'csa della le^^^'C, perchè una difTerente collocazione di
jiarole non sarehlìc j)Ossil)ile. Anzi tutto osservo che la ra^none
addotta «lall'A. per giustificare l'apjtarente violazione della rej(ola
da lui posta non pare sufficiente, perchè si può sempre risjtondere,
e qui G nei molti casi consimili, che Ovidio con quella sua pro-
verbiale facilità e ricchezza di vena poetica, per cui anche di sé
diceva « sponte sua Carmen numeros veniebat ad aptos, et quod
tem])(al)am dicere versus crat », non avrebbe avuta alcuna dit'li-
collà, se in quei casi credeva veramente di ofiendere una leg{,'e
di metrica estetica, di modificare e variare le parole: a^W non
era punto obbligato di attenersi a quelle voci o costruzioni le
quali ora abbiamo sott'occhio (che solo in questo caso la ragione
addotta dal Hilberg avrebbe valore), ma era liberissimo e capa-
cissimo di cambiare, tanto più poi in questo caso dove avrebbe
potuto scrivere assai facilmente e con sodisfazione della legge :
atqne avida feries ^). f. m. (un'elisione così lieve ed in quel posto
nulla avrebbe di slrano). Ma poi che cosa vuol dire avida manus?
lo comprendo benissimo avidac in direpiiones manus di Livio,
servorum manus suhiiis avidae di Tacito, avidae mortis inanus
di Tibullo, avida manus heredis di Orazio, ma l'aggett. avidus
imito senza più a mamis ad indicare un dolore disperato, « Un-
gestum, Heftigkeit, leidenscliaftliche Erregung » (pag. 47), mi
riesce affatto incomprensibile. Notisi inoltre che pavida manus,
come ha veramente detto Ovidio, non solo non ha nulla che of-
fenda in se stesso (ciò che riconosce lo stesso Hilberg; cfr. mae-
rens dextra Met. 11, 81; sollicita manus Trist. 5, 22; infesta
manus km. 3, 9, 10, ecc., e principalmente Trist. 1, 3, 78 et
feriunt maestae pectora nuda manus, che ci offre l'identica di-
sposizione della duplice coppia di sost.' e agg.\ dove però la col-
locazione di feriunt può essere stata spontaneamente suggerita
anche dalla ragione del cominciaraento dattilico), ma neppure nel
contesto del luogo intero: infatti l'aggett. pavidus corrisponde a
capello al turhahere che precede e indica una gradazione dal
meno al più rispetto al concetto racchiuso nel v. che segue: Farce
tamen lacerare genas ecc. Infine la collocazione delle parole come
è in tutti i codd. e in tutte le edd. trova spiegazione anche nella
consuetudine seguita, dietro l'esempio specialmente di Tibullo,
dai poeti elegiaci (e anche da molti non elegiaci) di porre così
di frequente, sia nella coppia semplice che doppia, l'aggett. in
fine del I emist. e il sostant. corrisp. alla fine dell'altro : fatto
già accennato dal Wackernagel in Zur Gesch. des deufsch. Hex.
und Pent., e più ampiamente dimostrato dal Gruppe in Rom.
Eleg. (1). Il quale fiitto, che pur è innegabile, l'A., non so perchè,
(1) Di questo argomento mi sono occupato abbastanza estesamente 1. e.
p. 145 sgg.
— 571 —
trascura quasi del tutto, occupandosene soltanto per un altro ri-
spetto e non a parte ma per incidenza a proposito della così detta
rima nella trattazione dell'est ('st), sotto la legge jP (p. 388 sgg.).
Un altro appunto si può fare al Hilberg per tutti quei casi,
abbastanza frequenti, nei quali egli non sapendosi altrimenti spie-
gare un dato ordine di parole osserva, che Ovidio le ha disposte
così, e non nell'altro modo che sarebbe richiesto dalla legge, perchè
se così avesse fatto ne sarebbe potuta derivare ambiguità di senso.
Casi d'ambiguità non nego che ci possano essere, ed ha ragione
di dire l'A. che Ovidio li schiva, ma chi mai, per es., potrebbe
prendere saiis per dat. di saia, invece di avverbio, in Fast. 4,
922 (p. 5), 0 pohis per participio, invece di sostant., in Pont. 3,
1, 18 (p. 20), 0 roscida per vocat. femmin., invece di neutro plur.,
in Am. 1, 13, 10 (p. 63), oppure intendere plorato, venenato,
peccato di Fast. 4, 856, Trist. 2, 556, Trist. 5, 2, 60 (p. 424)
come imperativi, o il tenui aggettivo (Fast. 1, 10, 16; p. 690)
pigliarlo per avventura per il perfetto di teneo nel senso di mè-
mini? Certo che abbagli simili non erano supponibili nei « zeit-
genòssischen » e neppure nei « nichtzeitgenòssischen Lesern » di
Ovidio: bisogna pur rimettersi un poco al buon senso e alla in-
telligenza del lettore. Caduto adunque l'unico argomento che in
questo caso e in molti altri casi consimili e non consimili a questo
giustifica per l'A. la deviazione dalla regola, non abbiamo una
prova di più da questi esempi appunto da lui stesso riferiti, che
le sue leggi non sono di valore assoluto e che quindi quei versi
sono da classificarsi fra quelli che non possono ridursi a legge o
almeno sotto una di quelle regole dal Hilberg tassativamente sta-
bilite ?
Questa parte adunque dell'opera del dotto tedesco, benché anche
in questa, ripeto, egli dia prova di acutezza, erudizione e coe-
renza, sarà la più contraddetta ne sempre, com'io credo, a torto.
Infatti, fissate a 14 le leggi della collocazione delle parole nel
pent. d'Ovidio, voler ridurre all'una o all'altra di queste, salvo i
casi d'impossibilità d'una differente collocazione di parole, tutti i
pentametri del Sulraonese correggendo, al caso, il testo, è un pre-
tender troppo. È innegabile clie Ovidio e in generale tutti i buoni
scrittori non procedono a caso nell'opera loro, ma seguendo, oltre le
leggi imprescindibili e tassative della te'xvri, altre norme d'ordine,
per così dire, estetico, nelle quali ha parte massima il tempera-
mento artistico in universale dei singoli poeti e la disposizione loro
'speciale in quel dato momento che poetavano: sono esse dunque di
loro natura soggettive e variabilissime e devono di necessità sfug-
gire almeno in parte all'occhio indagatore del critico che le ri-
cerca a posteriori. Onde se quelle 14 leggi, per parlare d'Ovidio,
si possono considerare giuste e applicabili, suitponiamo, a no-
vanta su cento dei casi considerati, è un voler abbracciare troppo
il pretendere di ricondurre per forza, mediante trasposizioni o cor-
— 572 -
lezioni, sotto l'iina o l'altra delle leg^i fissate gli altri dieci, dove
si [)otrol)bo alVermare che il poeta ha dotto cosi e non altrimenti
perdio, per os., così ine^dio suonava al suo orecchio o anche
perchè por ra<,norii sue speciali, a noi i^niote, così proferiva o sem-
pliconiento jiorchò così c'était son bon i^bihir di diro, l-ì dovere
perù di so<(<4Ìuni(oro <lie, sebbene l'A. non lo dichiari ai»ortanìonte,
tuttavia una tale ol)iezione sembra ch'o|,'li l'abbia prevenuta quando,
dopo aver parlato del modo di giudicare delle varianti e conget-
ture in base ad una data legge, aggiunge, per es., a proposito
della legge K e senza altrimenti spiegare la collocazione delle
l)arole nei versi riferiti: « Selbstverstiindlich ist nicht jede Lesart
odor Conjectur, welche rnit der Tendenz des (iesetzos K iiber-
oinstimnit, deshalb schon boifallswiirdig, wie sich aus folgenden
Beispielen ergibt » ecc. (pag. S.'jO). E così dice a un dipresso a
p. 364, a p. 570, a p. 633, ecc.
Le leggi adunque (o meglio regole generali) del Hilborg
io le credo principalmente utili in un caso speciale di critica del
testo, quando, cioè, vi sia varietà dubbia di lezione; allora la
legge fornisce, a mio giudizio, un argomento di più, di una si-
curezza, se non assoluta, almeno relativa, per preferire la variante
che sodisfa alla legge (vedi in proposito come ragioni universal-
mente bene l'A. nei capitoli intitolati Beurteilung von Varianten
uml Conjeciitren, ì quali susseguono a quasi tutte le leggi esposte
innanzi). Le credo pure utili nei casi ambigui d'esegesi e d'in-
terpunzione del testo: cfr. le giuste osservazioni (eccettuati pochi
casi, di cui, come dissi prima di alcune congetture proposte, mi
occuperò fra breve a parte) ch'egli fa, come in altri luoghi, così
specialmente nei vari capitoli che hanno per titolo Gewinn fnr die
Èxegese con riguardo alle singole leggi (1). Ma invece le reputo
(1) Come in altri casi, cosi a me pare che ottimamente interpunga e in-
terpreti l'A. a p. 137 (sotto la legge C) Fast. 4, 610 haud secus indoluit,
qnam si modo rapta fuisset, maestà parens. longa vixqiie refecta mora
est. (Tratta l'A. di questo passo nell'importantissimo capitolo del que cnclit.,
dove però non avrei omesso di notare che costruzioni come, p. es., Fast. 2,
16 nomma, per titidos ingredimurque tuos ricorrono già in Tibullo [cfr.
0. e. De eleg. ecc., p. 119] e che il que unito non alla prepos. ma al nome
è comune anche alla prosa classica né quindi può aver.-;i come violazione
della legge a). Osservo solo di passaggio che non è rigorosamente vero che
« so (cioè con la virgola dopo parens invece del punto) interpungiren alle
Herausgeber », perchè anche il Merkel ha ivi il punto. Invece è da riget-
tare, a mio avviso, l'interpunzione e la relativa interpretazione di Pont. 2,
7, 24 (p. 245; cfr. p. 114), dove, ammesso pure che il nec possa valere ne
— quidem, assai difficilmente si concederà che si possa dire che planum
esse casibus alcius significhi « sich davon eine klare Vorstellung machen
kònnen ». Gli esempi, che si vorrebbero analoghi, di certus, nianifestus,
apertus non paiono concludenti. Ancora, per quanto ingegnosa sia la cor-
rezione e interpunzione in Am. 3, 9, 16 (p. 573), non è da approvare, perchè
un ablativo iuveni (ciò che può sembrare però « àusserst gewagt » per con-
fessione stessa del Hilberg) non esiste in latino (solo accettato da Plinio
presso Carisio 123, 1 : cfr. Georges, Lex. der lat. Wortf. a questa voce).
— 573 —
di pericolosa attuazione o da applicarsi, se mai, con somma di-
screzione e cautela in tutti quei luoghi che deviano dalle leggi
stabilite e che pur sono confermati o da tutti i codd. o da una
serie di questi autorevole per numero e qualità e danno un senso
plausibile. (È questa, come dissi, la parte più vulnerabile del
lavoro, la quale apparisce più particolarmente nei capitoli iscritti
Aufdeckung von Corruptelen mit Hilfe dell'una o dell'altra delle
varie leggi).
Non voglio ora passare sotto silenzio alcune lezioni o congetture,
che a me paiono belle, proposte dal Hilberg o da lui rimesse in
onore. A p. 4 invece di iiistaque quamvis est, sii minor ira dei
(Pont. 2, 8, 76), dove offende il secondo piede che risulta di una
parola e per conseguenza il monosillabo non preceduto almeno da
un altro monosillabo, l'A. restituisce iustaque, quam visa est, sit
minor ira dei: leggansi ora le ragioni addotte, suffragate inoltre
da opportunissimi luoghi paralleli, e ognuno, credo, si convincerà
che una correzione migliore difficilmente si potrebbe fare di que^sto
passo, il quale altrimenti sarebbe un unicum fra i pentametri di
Ovidio (poiché gli altri 5 esempi analoghi sono già stati corretti
da lungo tempo, ne la difesa fatta dal Miiller d. r. m. p. 372 (1)
del pentametro in questione persuade). E con molta ragione pure,
addotti passi analoghi e in armonia alla legge A, ritorna a p. 12 sg.,
contro la congettura del Bentley (cfr. ad Hor. e. 1,7, 14) adot-
tata universalmente {^=^ pomifera) alla lezione, direi, sicura Ti-
buris Argei pomifer arva rigas (Ara. 3, 6, 46), che ha anche il
suffragio dei codd. migliori. A p. 256 (cfr. p. 407) in base alla
legge C richiama in onore una congettura di Tanaquil Faber e
scrive ottimamente et quia longo — tempore laetitiae icmua clausa
mea est (Pont. 2, 7, 38) contro la volgata e. q. longo est — t.
l. i. e. meae, osservando anche giustamente col Faber che Vest
dell'esametro manca in molti mss. e che il meae non è altro se
non mea é = mea est. E parimenti dicasi di Am. 1, 10, 14 (p. 407),
dove reputo sicura la correzione mine mentis vitio laesa figura
tuae (qui invece la lezione comune tua est è derivata molto
probabilmente da tua e per tuae). Ottima pure la congettura pro-
posta in relazione alla legge F (p. 404) a Fast. 2, 720, e taccio
di tante altre che sarebbe troppo lungo riferire. Correzioni poi
sicure, anche perchè fondate sopra osservazioni di fatto e sui nu-
meri, stimo le seguenti: A p. 7 nel pentametro Her. 20, 178 et
tu continuo, certe ego salvus ero, che sarebbe l'unico esempio in
Ovidio (giacché Trist. 2, 296 è da molto tempo sanato) di elis.
d'una voc. lunga nella II metà del pent., il nostro A. legge con
Hans Gilbert terque invece di certe. A p. poi 406 sg. venuto al
sicuro risultato che Ovidio non ha mai unito un est all'uscita di
(1) L'A. naturalmente cita dalla I ediz.; la paer. corrispondente della II
è 406.
— 574 —
un pent. in ae richiama in vigore molte lezioni giuste. Ed al-
trettanto fa rispetto ad altre chiuse del pent., nonchò rispetto al-
l'enclitica que, la quale, come prova l'A., non fu mai attaccata
da Ovidio ad una parola uscente in e breve (p. IO sg,). E sotto
la legge C vedi quanto giustamente scrive a p. 109 a proposito
dell'incredibile congettura del Kiese (Kem. Am. 774) et poteras
nupta lentus ah isse (codd. ahesse) tua. A p. 507 sg, ritorna fe-
licemente alla lezione alter erat l'yladcs... (Pont, ii, 2, 70) e
spiega acutamente e in modo evidentissimo come sia derivata la
falsa lezione usi Pylades alter..., che ha trovato accoglienza nelle
nuove edizioni.
Ma il mostrare tutto il buono e il bello che si contiene in
questo libro è opera che passerebbe i confini di una recensione,
e questa mia è già forse riuscita troi)po lunga. Conchiuderò di-
cendo che questo lavoro per la novità dell'argomento, per l'ori-
ginalità e, aggiungiamo pure, bontà del metodo (tenuto conto degli
appunti fatti), per l'importanza dei risultati, è un contributo no-
tevolissimo allo studio della poetica latina, né picciol pregio
gli viene anche dal lucidus ordo., che vi regna sempre, e dalla
assoluta correttezza tipografica (i pochi e lievissimi errori furono
indicati dall'A. stesso). Per gli studi poi del pentametro e del
distico in generale e dell'arte di Ovidio in particolare, esso è, per
usare una parola, di cui, come di tante altre, i Tedeschi a ra-
gione non hanno alcuno scrupolo di servirsi, veramente « epoche-
machend »,
Pavia, aprile 1895. Pietro Kasi.
C. Sallusti Crispi, De coniuratione Catilinae et De hello lu-
gurthino libri, ex Historiarum lihris quinque deperditis
orationes et epistulae. Erklàrt von Kudolf Jacobs. Zehnte
verbesserte Aufìage von Hans Wirz. Berlin, Weidmannsche
Buchhandlung, 1894.
È la X'' edizione di uno dei migliori tra i commenti fatti alle
opere di Sallustio, ch'è diffusissimo nelle scuole germaniche, e
del quale tutti riconobbero e lodarono l'alto valore e la grande
utilità pratica. Dell'edizione precedente l'Eussner aveva detto 'mo-
dello di edizione scolastica'. Questa le succede dopo otto anni, ed
è al corrente di tutto quanto si è pubblicato intorno all'opera
Sallustiana, da quella in poi: l'autore s'è scrupolosamente giovato,
rivedendo con diligenza l'opera sua, dei sussidi filologici ed ese-
getici che gli offrì la recente letteratura su Sallustio ; e le nuove
edizioni e dissertazioni, messe a profitto per migliorare il suo vo-
lume, egli ricorda ed enumera in un' avvertenza introduttiva ;
fra l'altre sono specialmente notevoli la 3* edizione dello Jordan
— 575 —
(1887) per tutte le opere, e quella del Maurenbrecher per le
Storie (1891-93).
La Introduzione generale a tutta l'opera, e le notìzie premesse
alle singole orazioni ed epistole delle Storie, conservano la loro
antica forma e fisionomia, salvo qualche opportuna modificazione
consistente in correzione di dati cronologici od in maggiori no-
tizie, dovute alle recenti scoperte ed agli ultimi studi.
Quanto al testo, la base ne è sempre quello dello Jordan : ma
vi si scorge un numero ragguardevole di discrepanze dalla edizione
precedente, e fra queste qualche nuova lezione dovuta all'autore.
In genere i mutamenti rappresentano un vantaggio di questa edi-
zione sulla precedente. Qui noterò soltanto le principali novità,
coll'opinione mia, senza far discussioni che troppo mi dilunghe-
rebbero dallo scopo. Lodevoli a parer mio sono : C. 20, 10 'nobis';
39, 2 'Ceterosque iudiciis terrore, quo... tractarent'; 50, 3 'erant ;
— sed... fecisse — : tum...'; 50, 4 'et praeterea'; 52, 11 'nominat?':
G. 31, 2 'XXV'; 43, 1 'consules designati'; 70, 2 'clarum'; 74, 3
'Numidis... tuta'; 106, 4 'Cenatos esse, in castris...'; 107, 1 'ante
a paucis'; 114, 2 'illique et usque': H. Or. Lep. 21 'victoriam' ;
23 'intellegerent'; Or. Phil. 14 'gratia tribuniciam' ; Ep. Pomp.
5 'Lacetaniam' ; 6 'Quid deinde?'; 9 'vastavimus, — praeter ma-
ritumas civitatis ultro... onerique'; Ep. Mithr, 8 *Eum (en) en'.
Non mi piacciono: C. 1, 3 'rogitare omnia, pavere'; 59,2 'rupem
asperam' ; 59, 5 'inermos' ; 60, 2 'cuncti infestis signis' : G. 76, 3
'Dein duobus locis'; 18, 3 'quìsque'; H. Or. Lep. 18 'mercatus
sum, pretio soluto iure dominus'. Nelle Storie si hanno alcune
congetture originali, nuove, tutte ingegnose ed acute ; ma poiché
le lezioni dei codici sono intelligibili, non parmi si debbano ac-
cettare nel testo: or. Lep. 24 'praeda civil(is div)isa servis, sum-
mum ius...', congettura paleograficamente più accettabile di quella
dell'Eussner 'praeda civilis a servis sumpta'; Or. Phil. 3 'omissa
cu(ra nost)ra', dove si cfr. Ep. ad Caos. I, 6, 4 'omittenda est cura
omnibus'; ottimamente l'autore ha rinunciato aH"amissa curia':
7 '(adr)e[m]pto'; se s'ha da sostituire aU"empto* dei codd. qualche
altra cosa, mi pare il senso richiederebbe piuttosto '^ad) empto' ;
16 'neque te proconsulem legiones, ncque...'; Ep. Mithr., 16 'par-
(vo t)uo labore'.
Dato così un cenno sulle novità del testo, dirò che l'appendice
finale critica, destinata come nelle precedenti edizioni a rilevare
le discrepanze tra il testo accettato dallo Jacobs-Wirz e quello
dello Jordan, è più accurata e copiosa: di ogni variante accolta
è indicata esattamente la fonte.
Delle note s'ha a dire ch'esse sono state in gran parte ritoccate
opportunamente ; alcune di esse, dove lo richiedeva l'esigenza sco-
lastica, furono ampliate ; altre troppo lunglie e confuse sono state
qui giudiziosamente spezzate, e più artisticamente, più elegante-
mente foggiate; alcune furono soppresse, quasi sempre, parmi, fe-
licemente; un numero discreto ve n'ha di nuove. Tutte sono
- 576 —
chiare, esatte e concise, ricche di osservazioni e di riscontri. Cosa
nuova, che par di lieve momento, e pedaf^ogicamente ù pur di
importanza non piccola, gli è il riferire la frase su cui s'aggira la
nota, in modo che il vocabolo od il costrutto più imjtortante, di cui
la nota s'occupa più specialmente, non manchi, come accadeva
nell'edizioni precedenti. Certamente qualche piccola aggiunta qua
e là non sarebbe stata inutile, e, sebbene in questo campo il giu-
dizio per noi stranieri, che non conosciamo le esigenze delle scuole
a cui il commento è destinato, sia difficile, pure voglio qui ac-
cennare ad alcune di queste mancanze: C, 2,1 'agitabatur', era op-
portuna una nota; H, r> 'aetate... similitudine', id.; 11, 0 'signa,
tabulae pictae, vasa caelata', id.; 15, i 'quietibus*, id.; IG, 2 'illis',
id.; 18, 2 'legibus ambitus interrogati*, si vorrebbe una nota più
diffusa; 21, 1 'abunde erant', non sarebbe fuor di luogo un cenno
sul costrutto; 21, 2 'fert' richiede una spiegazione; e cosi 28, 4
'fecerat'; 47, 4 'liberis custodiis', ecc. Alcune poi fra le note non
mi convincono; così C. 3, 3 'studio' inteso come abl. di modo,
avverbiale, = 'appassionatamente', e 'latus sum' fatto quindi ri-
flessivo; per lo meno dell'altra spiegazione possibile era da fare
pur cenno nell'annotazione; cosi pure 5, 8 'quos' riferito a 'ci-
vitas', è un costrutto 'ad sensum' un po' troppo ardito, a parer
mio; 11, 4 'bonis initiis', oltreché ablat. assol. conveniva dire
che poteva anche intendersi come dativo; 51,32 'malo creverant',
la natura di quell'ablativo voleva essere meglio definita;... H. Ep.
Pomp. 9 'ultro nobis sumptui onerique' ; non v'ha ellissi di 'est' ;
ma è un'apposizione libera ad 'Hispaniam citeriorem', ed il 'praeter
m. e* può riferirsi o a 'vastavimus' o al concetto appositivo.
Ho letto con amore ed attenzione il volume dello Jacobz-Wirz,
e qui ho esposto schiettamente quello che mi parve non accettabile
in esso. Voglio ancora notare una novità ortografica, la soppres-
sione delle maiuscole; dal lato pedagogico mi è parsa inopportuna.
Concludendo dirò che la parola 'verbesserte' non è un semplice
ornamento rettorico, ma che a quella parola risponde davvero la
realtà delle cose. Questa X=* edizione rappresenta un notevole pro-
gresso rispetto alle precedenti, e costituisce uno dei migliori vo-
lumi dell'ottima collezione classica Weidmann (1).
Firenze, maggio 1895. L. S. Fighiera.
(1) È un vero peccato che alcune mende tipografiche siano sfuggite al
correttore. Esse del resto sono facilmente correggibili. Le ricorderò qui per
comodo di chi abbia a giovarsi del libro. Nel testo: p. 30, 1. 5 'domire',
(p. dormire); 187, 18 'fagatique', (p. 'fugatique'); 229, 16 'Puncia', (p. 'Pu-
nica') ; nelle note: p. 21, 1. 13, 1» col. 11, 7 (p. 17, 7); p. 36, 1. 2, 2^ col.,
21' 'Or. P.hil 5' (p. 'Or. Phil'. 3'); pag. 291, 1. 6 fin. 'Lacetanium" (p. 'Lace-
taniam'l.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
PA Rivista di filologia e di
9 istruzione classica
v,23
PLEASE DO NOT REMOVE
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