RIVISTA
DI FILOLOGIA
D' ISTRUZIONE )CLASS1CA
TU'RETTO'RE
ETTO RE STA MPI N
j^isr:isro 2^x:^,
TORINO
ERMANNO LOESCHER
189 7.
Torino — Vincenzo Bona, Tip. di S. M. e RR. Principi.
PA
K55
INDICE GENERALE
DEL VOLUME XXV (Anno 1897)
L — Filologia Greca.
a) Monografie e Studi critici.
D. BASSI. Notizie di codici greci nelle biblioteche italiane. 1. Epi-
stole di Massimo Planude. 2. Giorgio Lacapeno e Andronico
Zaride .... P^^ff- 265
— — Ancora su Giorgio Lacapeno » 445
A. OLIVIERI. Appunti critici. I. 11 mito di Oreste nel poema di Agia
di Trezene. — II. Le due Elettre. — III. La Clytemestra e
y Aegistkus di Accio » 570
G. 0. ZURETTI. La misoginia in Euripide . ...» 53
— L'attività letteraria dei due Dionisii di Siracusa . , » 529
b) Recensioni.
D. BASSI. Sophocles, the plays and fragments with criticai notes,
commentary and translation in english prose by R. G. Jebb.
VII, The Ajax » 288
G. FRACGAROLI. W. Ghrist, Pindari Garmina prolegomenis et com-
mentariis instructa » 108
— — Vittorio Puntoni, L'inno Omerico a Demetra, con apparato
critico scelto e un'introduzione » 118
— — LionelHorton-Smith, Ars tragica Sophoclea cum Shaksperiana
comparata .......... 123
— — Ulrich vo.\ Wii..\ìMo\vitz-Moellendorkk, Aeschylos Orestie
griechisch und deutsch. Zweites Stùck, Das Opfer am Grabe » 290
— — .JoH. .Jos. ScHWiCKERT , Ein tiypticon klassischer kritisch-
exegetischer Philologie » 297
L. A. Michelangeli, Frammenti della melica greca da Ter-
pandro a Bacchilide, riveduti, tradotti e annotati. Parte VI
ed ultima : Pratina, Diagora, Prassilla, Bacchilide . » 298
— IV --
G. FRACGAROLl. Arnaldo Beltrami, Esiodo, Le opere e i giorni
con introduzione e note Pag- <^'**^
— — Charles W. L. Johnson, Musical pitch and the nieasurement
of intervals aniong the ancient Greeks .... » 308
— — Thukydides erklàrt von J. Classrn. Erster Band. IV. Aiifl.
bearbeitet von J. Steup » 460
— — Alexander Veniero, De liyinnis in Apollinem homericis » 466
Homei'i Opera et Reliquiae, recensuit D. B. Monro . » 470
G.E RIZZO. A. Veniero, Gli epigrammi di Callimaco. Versione,
varianti e frammenti » 609
C. 0. ZURETTl, Select private orations of Demosthenes. With In-
troduction and English Commentary, by J. E. Sandys. Part. II » 277
— - Gregorius Zereteli, de compendiis scripturae codicum grae-
corum praecipue Petropolitanorum et Mosquensium anni nota
instructorum .......... 280
— — Sofocle, Elettra con note di Dcmenico Bassi ...» 448
— Flavii losephi, .\ntiquitatum ludaicarum epitoma edidit Bene-
DicTus Niese » 453
— — Richard Reitzensteix. Geschichte der griechischen Elymo-
logika » 612
— — L'Odissea di Omero. Versione italiana di Placido Cesareo.
Voi. 1 e II » 618
— — Eschilo, Prometeo legato, traduzione di Errico Proto . » »
Giuseppe Pescatori, Tavole per lo studio e per la ripetizione
della grammatica greca (Morfologia). — M. Belli, Morfologia
greca. — M. Belli, Sintassi greca. — Omero, il libro XVIII
dell'Iliade con note italiane di Enrico Longhi . . » 621
li. — Filologia Latina.
a) Monografie e Studi critici.
A. CIMA. Sopra alcuni passi della V Verrina .... » 429
E. COCCHIA. La Satira e la Parodia nel Satiricon di Petronio Ar-
bitro studiate in rapporto coll'ambiente storico in cui visse
l'autore » 353
C. CRISTOFOLINI. A proposito d'un recente studio sul « Pauper
aquae Daunus » » 104
C. GIAMBELLI. Sopra le tradizioni classiche pure e sopra le tradi-
zioni classiche in Italia e specialmente nella Lombardia.
I. Catullo, LXVII. Brescia e Verona, il Gagliardi ed il Maffei » 250
L. A. MICHELANGELI. Adnotationes melricae ad Senecae Medeam » 602
e. PASCAL. Quaestionum Ennianarum Paiiicula 1 . . . Pag. 85
— — Quaestionum Ennianarum Particula li .... » 236
P. RASI. — In Glaudii Rutilii Namatiani de reditu suo libros adno-
tationes metricae ......... 169
Lanx satura (1. La 1 iscrizione degli Scipioni. — 2. Orazio,
carm. I, 2, 39. — 3 Giovenale, I, 131) » 558
R. SABBADINI. Sulla « Constructio » . . . . » 100
Del « Numerus » in Floro ..... » 600
V. USSANI. Spigolature oraziane » 432
L. VALMAGGl. 11 valore estetico dell'episodio virgiliano di Bidone » 1
b) Recensioni.
A. CIMA. F. Oscar Weise, Les caractères de la langue latine. Tra-
duit de l'allemand par Fero. Antolne .... » 481
E. COCCHIA. An introduotion to Latin textual emendation based on
the text of Plautus by W. M. Lindsay ...» 282
— — The Pseudolus of Plautus edited with introduotion and notes
by H. W. AuDEN . . • » 284
C. GlUSSANl. T. Lucretius Garus, de rerum natura. Buch 111, er-
klàrt von Rich.\rd Heinze » 474
R. SABBADINI. J. P. Postgate, Silva Maniliana ...» 447
E. STAMPINI. Miscellanea Tironiana. Aus dem Godex Vaticanus la-
tinus reginae Christinae 846 (fol. 99-114) herausgegeben von
W. SCHMITZ » 303
Y. USSANI. Horatii carmen tertium libri I edidit atque illustravit
Salomon Piazza » 307
L. VALMAGGl. Pietro Sciascia, L'arte in Catullo. Studio critico » 454
M. Schanz, Geschichte der ròmischen Litteratur bis zum Ge-
s,etzgebungswerk des Kaiser .Justinian. Dritter Teil . » 457
III. — Storia e Geografia antica.
a) Monografia.
G. DE SANCTIS. Eschine e la guerra contro Anfissa . . » 215
b) Recensioni.
V. COSTANZI. Gaetano De Sanctis, Saggi storico-critici. Fase. I » 132
— — Benedictus Niese, Grundriss der ròmischen Geschichte nebst
Quellenkunde. Zweite umgearbeitete und vermehrte Auflage » 286
— - Julius Beloch, Griechische Geschichte. Zweiter Band , » 605
P. ERCOLE. M. A. Micaleli-a, La fonte di Dione Cassio per le
guerre galliche di Cesare t'iKJ' 125
G. TROPEA. Francesco Sollima, Le fonti di Strahone nella geo-
grafia della Sicilia » 624
IV. — Antichità classiche, Archeologia, Mitologia.
a) Monografìa.
A. DE MARCHI. « Sacra prò saccllis » » 513
b) Recensioni.
D. BASSL G. Pascal, Studii di antichità e mitologia . » 130
G. FRAGCAROLL Handbuch der klass. Alterturnswiss. heraiisg. von
D*" Iwan von Mùller. Alias zu Band VI : Archaologie der
Kunst » 472
— — G. F. ScnòMANN, Griechische Alterthùmer, vierte Auflage, neu
bearbeitet von .1. H. Lipsius » 473
L. \ ALMAGGl. Solonk Ambrosou, Vocabolarietto pei Numisma-
tici (in 7 lingue) » 623
V. — storia comparata delle lingue classiche.
a) Recensione.
E. STAMPINL Relliquiae philologicae : or Essays in comparative
Philology by the late Herbert Dukinkield Darbishire,
edited by R. S. Conway » 483
VI. — Rassegna di pubblicazioni periodiche . » 135,
309, 487, 627.
VII. — Necrologia: Eugenio Ferrai (G. Fraccaroli). » 635
VIU. — Pubblicazioni ricevute dalla direzione . » 166,
349, 510, 638.
ELENCO DEI COLLABORATORI
DKL VOLUME XXY (Anno 1897)
D"" Domenico Bassi, Professore di Lettere greche e latine nei RR. Licei,
comandato alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano.
» Antonio Cima, Libero docente di Grammatica e Stilistica latina nella
R. Università e Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo
Umberto I di Roma.
» Enrico Cocchia, Professore ordinario di Letteratura latina nella R. Uni-
versità di Napoli.
» Vincenzo Costanzi, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo
di Trani.
» Cesare Cristofolim, Professore a Trieste.
» Attilio De Marchi, Professore straordinario di Antichità classiche nella
R. Accademia scientifico-letteraria di Milano.
» Gaetano De Sanctis, Professore a Roma.
» Pietro Ercole, Libero docente di Letteratura latina nella R. Università
di Padova e Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo di
Vicenza.
» Giu.seppe Fraccaroli, Professore ordinario di Letteratura greca nella
R. Università di Torino.
» Carlo Giambelli, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo
Cesare Beccaria di Milano.
» Carlo Giussani, Professore ordinario di Letteratura latina nella R. Ac-
cademia scientifico-letteraria di Milano.
Luigi Alessandro Michelangeli, Professore straordinario di Letteratura greca
nella R. Università di Messina.
D"' Alessandro Olivieri, Professore nel R. Ginnasio Superiore di Prato.
» Carlo P.A.SCAL, Libero Docente di Letteratura latina nella R. Università
di Napoli e Professore di Lettere greche e latine nei R. Liceo
Manzoni di Milano.
» Pietro Rasi, Professore ordinario di Letteratura latina nella R. Univer-
sità di Pavia.
» Giulio Emanuele Rizzo, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo
di Trapani.
» Remigio Sabbadini, Professore ordinario di Letteratura latina e Incari-
cato di Storia comparata delle lingue classiche e neo-latine nella
R. Università di Catania.
D"" Ettore Stampini, Professore ordinario di Letteratura latina e Incaricato
di Storia comparata delle lingue classiche e neo-latine nella R. Uni-
versità di Messina.
» Giacomo Tropea, Professore straordinario di Storia antica nella R. Uni-
versità di Messina.
» Vincenzo Ussani, Professore di Lettere greche e latine nel R. Liceo di
Tivoli.
» Luigi Valmaggi, Incaricato di Grammatica greca e latina e Lil)eio Do-
cente di Letteratura latina nella R. Università di Torino.
» Carlo Oreste Zuretti, Libero Docente di Letteratura greca nella R. Uni-
versità di Torino.
IL VALGHE ESTETICO DELL'EPISODIO VIKGILIANO
DI DIDONE
1.
Per unanime consentimento, o piuttosto, e con più verità, per
tradizione comunemente ammessa e rinnovata senza contrasto, è
l'episodio di Didone nel quarto libro dell'Eneide tra i luoghi più
perfetti e mirabili non pur del poema virgiliano, ma sì della
letteratura romana o anzi della letteratura greca e romana tutta
quanta. Sennonché, affermata così genericamente l'eccellenza su-
prema dell'episodio, quanti sono che abbian cercato di rendersene
ragione in qualsivoglia modo ? Quanti, che si sieno ingegnati di
determinare in che propriamente siffatta eccellenza consista? Quanti,
che veramente abbiano misurato in ogni sua parte, in ogni suo
elemento e fattore l'impressione estetica che l'episodio esercita in
noi, e posto mente se quella sia proprio l'impressione medesima
che esercitò su gli antichi, nell'età stessa e nell' « ambiente »
stesso del poeta, o in altre parole, se il valore suo estetico sia
stato per gli antichi quello a punto, che si trova essere per noi
moderni, assuefatti dall'ambiente e da altre cause a tutt' altre
consuetudini e a tutt'altre specie di gusto?
Perchè, occorre che si avverta subito, l'estetica evoluzionista e
scientifica ha del bello e delle sue forme e appartenenze ben di-
verso concetto che non ne avesse l'estetica empirica e volgare, la
vecchia estetica delle accademie e delle scuole. Un tempo, e non
è pur molto lontano da noi, ammesso un certo tipo di bello
assoluto e trascendente, per verità assai vago e indefinito e
fìivista di filologia, ecc., XXV. 1
- 2 -
incerto e anche contradditorio, si giudicavan senz'altro più o
men belle le cose secondo che parevano avvicinarglisi più o
meno, e si proclamavan brutte più o meno, secondo che sem-
brava più 0 meno se ne discostassero. Ma per l'estetica scien-
tifica la bisogna è ben altra. Per l'estetica scientifica il bello,
non meno che il vero per la logica e il buono per l'etica, è
anzitutto una qualità delle cose affatto relativa, e non istà
nelle cose in loro e per loro, ma sibbene nel modo come noi
le sentiamo, ossia nella impressione che le cose esercitano prima
sui nostri sensi, poi sui sentimenti, su l'intelletto, sullo spirito
nostro, per l'azione simultanea e concorrente di molte cause, per
lo stimolo di mille suggestioni inavvertite e impercettibili, per
degenerazioni atavistiche o per artificiali superfetazioni di gusti,
in una parola per infiniti e variabilissimi effetti di eredità e
d'ambiente, di educazione erudita e d'adattamento estetico. Quello
che piace a imo, può piacere assai meno a un altro e dispiacere
addirittura a un terzo : così le divergenze s'accrescono secondo gli
abiti, le età, le condizioni e le classi sociali, secondo il temi-
peramento sensoriale, sentimentale, intellettuale, ideale degli in-
dividui, secondo l'ambiente . fisico e morale nel quale s'è nati o
si vive, e si fanno sempre maggiori e più profonde da luogo a
luogo e da tempo a tempo. Tutte queste sono verità note e di-
vulgate dell'estetica evoluzionista e scientifica ; ma era necessario
ricordarle, chi pensi che non s'è guari avvezzi a tenerne conto
nella cerchia ristretta delle letterature classiche, tra per la con-
suetudine invalsa di considerar quelle letterature come modelli
insuperabili di perfezione, e perchè l'opera della critica intorno
ad esse è stata sin qui quasi esclusivamente filologica, non ele-
vandosi a un giudizio estetico complessivo o parziale se non ra-
rissimamente, e ancora le più volte in modo affatto empirico e
soggettivo, non con severo procedimento scientifico. Il quale dovrà
essere, anzitutto, procedimento storico e ad un tempo comparativo,
non circoscritto dalla impression momentanea, fugace, soventi in-
gannevole che il documento artistico antico determina in noi, ma
sì da questa accortamente fatto risalire alla impressione o alle
impressioni ch'è ovvio presumere esso abbia determinato già negli
antichi, fra mezzo a condizioni di civiltà di coltura di spirito così
diverse dalle nostre presenti, di fronte a un temperamento di gusto
formato da ben altri stimoli, da ben altre tendenze, da ben altre
idealità artistiche e per ciò stesso estetiche. Sarà necessario dunque
che il critico mostri non solo dove e perchè le opere dei Greci e
dei Komani paiano belle a noi, bensì ancora, e più, fino a quel
punto almeno cui la rievocazione storica dell'ambiente fisico, mo-
rale, psicologico e soprattutto letterario ed estetico concederà al-
l'occhio nostro d'arrivare, dove e perchè esse sieno sembrate belle
agli antichi stessi. Una così fatta ricerca, applicata anche a pochi
dei più insigni monumenti dell'arte greco-romana, potrà esser fe-
conda di assai impreveduti risultamenti, e metterà in chiaro che
in moltissimi casi non vi fu giudicato bello dagli antichi tutto
quello che vi giudichiam tale noi moderni, o, più esattamente
forse, che gli antichi non vi sentirono sempre le medesime forme
e specie di bello, che noi siara soliti sentirvi. Dal che non iscarso
profitto avrà a ricavare eziandio la storia letteraria ; perchè allora
appariranno nella lor vera luce certi fenomeni, la vision dei quali
ci riesce ora del tutto imperfetta e fallace ; allora ci si potrà
render piena ragione di certi "giudizi, di certe preferenze e di
certe repugnanze, di certe nominanze e di certi oblii, che or tro
viamo ingiustificati o pur spieghiamo affatto arbitrariamente ;
allora si vedranno chiare le cause di talune singolarissime tras-
migrazioni e reviviscenze di forme artistiche, che a noi paiono ora
inesplicabili, o quasi, e ci si faranno manifeste le sorgenti estetiche
di altre, le quali indarno noi ci studiamo ora di sapere perchè
sieno irrigidite e fossilizzate ; in una parola allora, ma allora sol-
tanto, sarà possibile intendere adeguatamente moltissimi fatti let-
terari, la cui vera natura, e le cause e gli effetti, ora ci sfuggono
interamente.
E anche si badi a quest'altro. Non eccedeva certo il Leopardi,
giudice non sospetto in materia, ma affermava anzi una verità
profonda e luminosa, quando scriveva in quella sua aurea operetta
Della gloria che « la fama durevole e universale delle scritture,
posto che a principio nascesse non da altra causa che dal merito
loro proprio ed intrinseco, ciò non ostante, nata e cresciuta che
— 4 —
sia, moltiplica in modo il loro pregio, che elle ne divengono assai
più grate a leggere, che non furono per l'addietro ; e talvolta la
maggior parte del diletto che vi si prova, nasce semplicemente
dalla stessa fama » (1). Ha qui luogo infatti un duplice fenomeno
di suggestione e ad un tempo di quasi collaborazione estetica in-
consapevole e inavvertita ; onde come all'effetto d'un quadro, o
d'una statua, o d'un volume di versi contribuiscono non poco la
cornice, o il piedestallo, o l'eleganza nitida e civettuola dell'ese-
cuzione tipografica, così per ogni documento dell'arte antica l'am-
mirazione tradizionale ed ereditaria è cagione che noi siamo in-
volontariamente tratti a sentirvi un bello bene spesso convenzionale,
il quale poi ci sforziamo di chiarire e dimostrare sperimentalmente
con mille artifizi e spedienti d'erudizione, giungendo da ultimo a
fermare un'impressione estetica, ch'è lontana le mille miglia da
quella che fu lo stimolo primo dell'opera d'arte, e più o meno
trasfigurata ed elaborata l'opera d'arte rispecchiò all'esterno.
Perchè l'arte, o, quando questo nome si pigli in quella più
larga comprensione e significazione che non a torto taluni gli
danno, diremo l'arte creativa, cioè la specie più elevata e com-
plessa dell'arte, non è in sostanza se non l'espressione del bello
sentito prima dall'artista, e ricomposto e riprodotto da lui in nuove
immagini, che saranno a lor volta origine di nuovi stimoli e di
nuove impressioni estetiche, su lo spettatore, su l'uditore, sul let-
tore. Di che segue che analizzare queste impressioni, ma, non si
dimentichi, le più prossime e spontanee, non le più remote e ar-
tifiziali, torna in fondo ad un medesimo che analizzare il proce-
dimento stesso dell'artista, o per lo meno dall'indagine del fatto
estetico, ossia delle impressioni provocate dall'opera d'arte, si
svolgerà necessariamente quella del fatto artistico, cioè del modo
come il primo stimolo esterno s'è venuto elaborando nella mente
dell'artista, determinandosi fino a qual punto vi s'è compenetrato
d'altri elementi preesistenti, in qual guisa vi s'è atteggiato e
trasfigurato nell'espressione, quali caratteri l'artista v'ha attenuato,
quali altri posti in rilievo, quali isolati, quali altri associati, quali
(1) Gap. V.
- 5 —
colti e significati, quali altri taciuti o sottintesi col magistero della
forma e dello stile, che, se non tutta l'arte, son pure dell'arte la
porzione maggiore e migliore.
Dall'indagine estetica bisognerà dunque che proceda l'indagine
artistica, e dall'una e dall'altra ci si faranno manifesti tutti quei
vari molteplici aspetti, sotto i quali l'opera d'arte vuol essere con-
siderata perchè la determinazione del suo valore estetico riesca
intera e compiuta, e si possa scientificamente assegnarle il posto
che le spetta nella ricostruzione estetica della storia letteraria.
Le pagine che seguono, che non hanno altra pretesa se non quella
di porgere un modestissimo contributo a siffatto genere di studi,
saranno volte appunto a sottoporre al procedimento storico e com-
parativo dianzi accennato l'episodio virgiliano di Bidone, che è
pure, come avvertivo da principio, tra i più celebri ed universal-
mente ammirati dell'arte greco-romana.
II.
L'episodio (non occorrerebbe veramente richiamarlo alla memoria
del lettore : sennonché per il seguito del nostro esame sarà pur
bene averne presenti i tratti essenziali), l'episodio, dico, si svolge
a questo modo.
Preparato nel primo libro, per opera e volontà principalmente
di Venere (1), l'innamoramento di Bidone, la cui figura tuttavia,
gioverà avvertirlo subito, è a mala pena adombrata con qualche
cenno men che fuggevole (2), il poeta abborda nel quarto la crisi.
(1) Già per effetto delle raccomandazioni di Mercurio inviato da Giove
l'animo della regina era favorevolmente disposto verso i Troiani (I, 297-304);
ma il prorompere impetuoso e improvviso del suo amore fu propriamente
opera di Cupido, con sottile accorgimento sostituito da Venere al giovinetto
A Scanio (ib. 657-722).
(2) 11 poeta si contenta di presentarla incedente maestosa tra la moltitu-
dine che le fa ala su l'ingresso del tempio, « instans operi regnisque fu-
turis » (I, 504), come donna « forma pulciierrima » (ib. 496) ; e questa, in
verità alquanto indeterminata, è la sola qualità fisica di lei che ricorra
qualche altra volta nel quarto libro (cfr. vv. 60 e 192). A pena su la fine
— 6 —
nella quale è propriamente la sostanza dell'episodio, col colloquio
tra Bidone e la sorella Anna, che nuova e naaggiore esca accende
nell'infiammato animo della regina mostrandole quanta immensa
gloria e potenza potrà venire al suo regno dall'unione di lei con
Enea :
quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna
coniugio tali ! Teucrum comitantibus armis
Punica se quantis attoUet gloria rebus (1) !
Frattanto in cielo Giunone e Venere, quella col solito proposito
di sviare l'eroe troiano dal compimento dei suoi destini, questa
per impedire ch'egli sia tradito dai Cartaginesi (2), s'accordano
a favorire il connubio di Enea e Didone, che accade il giorno
dopo, durante una caccia, quando, per cercar riparo dalla tem-
pesta scatenata da Giunone, i due si ritrovan soli in un medesimo
antro. Ma la Fama diffonde tosto la novella degli amori di Didone
e la fa pervenire agli orecchi del re larba, uno dei pretendenti
falliti alla sua mano ; i lamenti del quale son pretesto a Giove
di richiamare Enea, mediante Mercurio, al compimento de' suoi
destini. Enea, ossequente al cenno del dio, risolve immediatamente
di partire, ordinando ai compagni di preparare in segreto la fuga ;
e qui la situazione precipita al suo scioglimento. Prima Didone
ricorre* alle preghiere e alle lagrime, poi all'ira e alle impreca-
zioni ; ma tutto riesce inutile a smuovere l'eroe dal suo proposito:
ille lovis monitis immota tenebat
lumina et obnixus curam sub corde premebat (3).
Dopo un ultimo vano tentativo d'indugiarne almeno la partenza,
l'infelice regina, incapace di reggere al disperato dolore, e atter-
dell'episodio Virgilio accenna vagamente al suo « pectus decorum » e alle
« flaventis comas » (v. 589 sg.). Di qualità o abiti morali poi non n'è af-
fermato nessuno, dove si tolga la monotona nota della infelicità, pur più
esterna e accidentale che interiore e propria del carattere della donna.
(1) Vv. 47-49.
(2) Cfr. I, 657-61.
(3) Vv. 331-32.
_ 7 ~
rita anche da strani portenti, delibera di morire. Ordina il rogo
allontanando con una pietosa finzione la sorella Anna, e dopo una
notte di tormenti ineffabili, vedute il mattino seguente dall'alto
della reggia le navi troiane che solcano maestosamente il mare
in rotta verso l'Italia, maledice in un supremo strazio di furore
Enea e i suoi discendenti, e si trafigge con la spada stessa dona-
tale da lui. Anna sopraggiunge a pena in tempo per assistere alla
sua agonia, e infine Giunone manda Iride a scioglierle l'anima
dal corpo.
Così fatta è la trama dell'episodio che l'unanime ammirazione dei
moderni sembra abbia reso immortale. Dei moderni dissi, a bello
studio : benché assai pochi si sieno fermati a ricercare e considerar
le cause di quella ammirazione. È tra i pochi Onorato Occioni (1) ;
e la sua sottile analisi dell'episodio può dirsi forse il migliore
commento estetico che intorno ad esso sia stato scritto. Accen-
nati i precedenti letterari dell'episodio, e singolarmente la storia
degli amori di Medea e Giasone, celebrata da Euripide e da Apol-
lonio Rodio (su quest'ultimo secondo Macrobio Virgilio avrebbe
modellato di sana pianta il quarto libro àeWEneide (2)), l'Occioni
per via di opportuni confronti e acute osservazioni mette in rilievo
ad uno ad uno i caratteri grazie ai quali nella rappresentazione
virgiliana Bidone si distingue profondamente da tutti gli altri
tipi di donna, con cui fu voluta paragonare. Nel punto del suo
innamorarsi ella non è semplice e inesperta fanciulla, che inge-
nuamente ceda al primo stimolo della passione, ma sì donna, già
provata alla sventura, e piena la mente e il cuore del suo amato
Sicheo, il che rende altamente drammatica la situazione. Ne Bi-
done s'innamora d'Enea per la sua bellezza fisica, sibbene « l'am-
mirazione per il grande guerriero, la pietà per le sue sventure
sono il principale incitamento alla passione (3) »; oltre di che
ancora è animata dal generoso pensiero della futura grandezza del
suo popolo. « Per questo il darsi ad Enea non è una colpa, ma
(1) Bidone in Scritti di letter. lat,, Torino 1891, pp. 297 sgg.
(2) V, 17, 4.
(3) Loc. cit., p. 322.
— 8 -
un patto di nozze, per questo non sente rimorso di esserglisi data;
ella si congiunge all'uomo che ama e provvede alla sicurezza e
alla prosperità del suo popolo (1) ». Onde la donna ingrandita,
al dir deirOccioni, dagli alti propositi e dalla virtù, rimane pur
sempre donna anche nel disinganno e nella disperazione. « Ella
non filosofeggia come Medea sopra i guai che toccano alle povere
donne, non gitta lamenti al vento come Arianna sulle rive di Nasso,
non somiglia a Simeta che confida alla luna la sua disperazione
perchè Delfi non giunge, non trasfonde il suo cruccio in colloqui
immaginari come Canace od Enone Pegaside (2) »; Bidone è in-
vece una donna vera, che dice e opera come qualunque donna ap-
passionata antica o moderna avrebbe detto e operato nella sua
condizione. Riavutasi dall'abbattimento, la regina dall'alto della
rocca assiste allo straziante spettacolo delle navi Troiane che si
preparano alla partenza; ma (riassumo sempre le parole dell'Oc-
cioni), in cambio di pensare alla vendetta, agevole e pronta, come
avrebbe fatto una donna della stampa di Medea, Didone non ha
più avanti a se che la coscienza della colpa e risolve di darsi la
morte. « I particolari che si accompagnano alla morte della infe-
lice compiono l'illustrazione bellissima delle sue qualità di donna
e regina. La donna affettuosa ch'era vissuta d'idealità, di memorie,
di speranze, di amore, giunta al suo fine, volle che ogni più mi-
nuto accessorio dovesse rispondere al grande funerale d'amore.
Questa donna che, usando colla sorella degli inganni ben noti, fa
costruire il rogo esposto all'aria, alla luce, che lo adorna di sua
mano di ghirlande e di frondi funeree, che vuole vi si sovrappon-
gano le armi del disleale, la immagine di lui, le vesti, gli ar-
nesi, i doni tutti che le aveva fatti nel tempo felice, e le spoglie
e il letto nuziale dov'era giaciuta, e muore invocando il sole te-
stimonio delle sue ultime parole, e vuole che l'amante infido veda
da lontano le fiamme che l'abbruciano, e coll'ultimo sguardo er-
rante par che cerchi la luce e manda un lamento fin che l'ha
trovata; questa donna nell'estremo istante come nel primo momento
(1) Ib., p. 224.
(2) Ib., p. 226.
— 9 —
deiramor suo è sempre la gentile, l'affettuosa, l'appassionata Di-
done. Ogni atto rivela la somaia squisitezza di sentimento che
con parola non troppo bella si dice sentimentalità', ne sarebbe
male ci riflettessero sopra coloro che chiamano cosa moderna l'arte
dei romantici (1) ».
La « sentimentalità » della donna e dell'amore è dunque se-
condo rOccioni il carattere prevalente della rappresentazione vir-
giliana di Bidone; e il medesimo in sostanza hanno affermato
quanti dell'episodio si sono occupati di proposito o in qualsivoglia
modo ebbero occasione di toccarne. Così il Sainte-Beuve, additando
quelle che a lui sono sembrate le prove migliori della sensibilità
del poeta, ma sensibilità « à l'état naturel et sain », e non an-
cora malinconia, ch'è forma patologica della sensibilità, non manca
di ricordare il quadro di Bidone, nel quale il poeta avrebbe messo
« toutes les tendresses et les secrets féminins de la passion (2) »;
e per citare qualche altro esempio, a giudizio di Giovanni Canna
Bidone dimostra « come l'autore ^q\Y Eneide^ al pari d'altri in-
signi poeti dell'antichità classica, conosceva e pregiava quel fonte
inesauribile di pietà e d'amore, di fortezza e di mansuetudine,
mitigatore degli umani dolori, che è il cuore di donna gentile: il
femminile eterno, secondo l'espressione del gran poeta germanico,
ispirò, come Sofocle, anco Virgilio (3) ». Piìi concisa, ma non
meno esplicita e risoluta, è la sentenza del Girard, il quale, pa-
ragonata là Medea di Apollonio con la Bidone di Virgilio, af-
ferma che questi « a voulu faire une tragèdie et nous a donne,
en effet, la plus touchante de l'antiquité (4) ». Né altri, eh' io
sappia, ha detto altrimenti. Per conchiudere, adunque, l'impres-
sione moderna dell'episodio, dico cioè l'impressione che l'episodio
sembra abbia determinato costantemente nei moderni, è quella
d'un bello sentimentale, che ha la sua radice sì in un corrispon-
dente bello sensoriale, ma è tanto piti elevato e complesso di esso,
quanto la zona del sentimento è pili elevata e complessa che quella
(1) P. 328 sg.
(2) Étude sur Yirg., Paris 1857, p. 113.
(3) Della umanità di Virg., Torino 1883, p. 48 sg.
(4) Etudes sur la poesie grecque, Paris 1884, p. 338.
— 10 -
inferiore dei sensi. Non hai in Bidone soltanto la sensuale pla-
sticità dell'amante; bensì ella è soprattutto la donna gentile, pie-
tosa, passionale, che vive d'amore e per amore si uccide, e l'epi-
sodio virgiliano contiene la rappresentazione tra le antiche più
delicata e perfetta del sentimentalismo amoroso, materiato di senso,
ma nobilitato e fatto sublime dalla profondità e grandezza degli
aifetti.
III.
In questo contenuto ideale principalmente sta secondo i moderni
la ragion d'arte suprema della creazione di Virgilio. Sennonché
avanti di ricercare se così fatta sia stata anche l'intenzione del
poeta, e se nella storia di Didone e di Enea egli proprio abbia
riflesso, consciamente od inconsciamente non monta per ora, e ri-
composto in nuove immagini e sentimenti il bello d'un commo-
vente passionale episodio d'amore prima balenato alla sua mente
d'artista, e quivi elaboratosi e trasformatosi in quelle immagini
e in quei sentimenti-, avanti di veder tutto ciò, è d'uopo stabilire,
come si avvertiva di sopra, sino a qual segno e in qual misura
si può presumere l'impressione nostra moderna (la quale per la
gran distanza di tempo e differenza di civiltà riesce per se me-
desima sospetta) s'accosti e risponda a quella che chiameremo per
brevità l'impressione antica, cioè ricevuta e provata nell'età stessa
dello scrittore da' suoi contemporanei. Per noi quel di Didone è,
s'è visto, un bello soprattutto di sentimento amoroso. È stato anche
per gli antichi?
No.
Le prove abbondano, e prima ci s'affaccia una considerazione
bensì generale, ma non perciò men calzante al proposito nostro.
Questa. Il sentimentalismo in fatto d'amore tra uomo e donna
(perchè io specifichi così strettamente si vedrà or ora) è stato
esclusivamente un prodotto dello spirito cristiano, estraneo in tutto
alla civiltà e ai costumi del paganesimo. Il quale ebbe sì una
complicata e sottile dottrina filosofica d'amore, e può trovarsi
— 11 —
esposta con arte mirabile, chi voglia, nel Simposio di Platone (1);
ma quella è dottrina che muove dall'amore tra uomo e uomo, e
svestendolo a passo a passo di ogni forma e traccia di sensualità,
lo sublima a ideale unione di spiriti, in cui la donna non ha né
valore nò parte nessuna: anzi, come avvertì acutamente Ruggero
Bonghi, l'amore non vi s'eleva « se non a patto che si distacchi
e si separi dalla donna (2) ». Ora questa intima unione spiri-
tuale di due creature il Cristianesimo ebbe per effetto che si cer-
casse di fare tra uomo e donna, e ne venne fuori a poco a poco
una nuova forma di sentimentalismo amoroso, nel modo stesso che
il paganesimo aveva generato invece tra l'altro un vero e pro-
prio sentimentalismo dell'amicizia (3). Si badi alle più tarde
elaborazioni e propaggini di così fatto spirito d'idealità amo-
rosa, ai suoi vari e copiosissimi riflessi letterari, dalla teorica
d'amore ond'è piena la letteratura dei secoli XII e XIII giù giù
(1) Non però nel Simposio soltanto ; perchè la materia dell'amore era stata
trattata, probabilmente prima, nel Simposio di Senofonte, e fu trattata di poi
in più scritti filosofici, parecchi dei quali anche sono opera di discepoli di
Socrate. 11 che prova quanta parte così fatto tema prendesse non pur nella
dottrina Socratica, ma ancora, e più, nello spirito e nella coltura dei tempi.
Gfr. in proposito il Proemio di R. Bonghi alla traduzion del Simposio
[Dial. di Piai, trad., voi. IX, Roma 1888], pp. lxvi sgg.
(2) Lettera a ìm ignota, premessa alla versione del Convito testé citata,
p. IX.
(3) I leggendari esempi di Oreste e Pilade, di Damone e Finzia e somi-
glianti non hanno altra origine che questa. E per la medesima ragione
quello dell'amicizia fu un dei temi morali più spesso e più sottilmente trat-
tati dai filosofi greci e romani in tutte le sue appartenenze e forme: capi-
talissima però la quistione del punto ove l'amore (^piuq) finisce e comincia
l'amicizia (qpiXia;, e della distinzione di forma ed essenza tra i due senti-
menti, che tuttavia non pare, né forse avrebbe potuto essere, troppo chiara-
mente fermata. V. ad esempio Plat. Symp. 182 G, 183 C, 186 D, 192 D e
altrove; Arist. Eth. Nic.yiW, 1, 1155 A 4; 1175 A 22, e ancora le pseudo-
Aristoteliche Eth. Eud. Ili, 1, 1229 A 21; 1234 B 28 e 32; 1245 A 24 ed
Eth. M. II, 12, 1211 B 31. Che Aristotele riputasse che l'amore potesse, se
governato dalla ragione, confondersi con l'amicizia, è detto da Ermia (Schol.
in Phaedr. p. 76 Ast): 'ApiaTOT€\ri<; bè 6Xti<; M^v Tfjc; qjuxn<; cpnol tòv èpujxa
TTÓGoc; elvar èàv |uèv ó Xoyi(Tmò(; KpoTriar), qpiXiaq aÙTÒv eivai, èàv òè tò
TTÓBoi;, ouvouaiac; 1 e dal medesimo scoliasta sappiamo che altri (Euclide?;
giudicava Tamore non avesse per oggetto se non l'amicizia, e soltanto per
accidente alcuni cadessero nel venereo.
- 12-
per il platonismo del Rinascimento sino al romanticismo del nostro
secolo, e si vedrà che alle sottili astrazioni della speculazione filo-
sofica antica rispondono altre non men sottili astrazioni poetiche
e non poetiche, anzi sono inconsciamente da prima, non più di
poi, quelle astrazioni antiche medesime le quali hanno mutato la
base, e all'uomo, nella formula d'amore, semplicemente sostituita
la donna. Di qui in sostanza il convenzionalismo cavalleresco delia-
poesia trovadorica ; di qui il convenzionalismo filosofico della scuola
bolognese e più compiutamente il mistico del dolce stil nuovo ;
di qui in gran parte la trasformazione cristiana delle dottrine pla-
toniche nel secolo XVI, eh' è quanto dire l'adattamento loro al-
l'amore tra l'uomo e l'altro sesso, non però senza reticenze e dubbi
e contrasti che inconsapevolmente rivelano il dissidio tra le
origini pagane della nuova filosofia d'amore e il troppo disforme
ambiente in cui ella è costretta ad adagiarsi (1); di qui ancora,
benché fatte più corporee e più solidamente materiate di senso,
le vaporosità e trasparenze quasi morbose del moderno sentimen-
talismo romantico. Quello a punto al quale fu tratta, certo inav-
vertitamente, la rappresentazione virgiliana di Didone ; ma scono-
sciuto affatto all'antichità pagana tutta quanta.
E valga il vero. Cosa han prodotto le due letterature, greca e
romana, che possa essere accostato, nella sostanza non nella forma,
alla tenerezza delicata e gentile di sentimentalità amorosa che
trabocca e soverchia poi nel romanticismo, o anche all'idealismo
(1) Le traccie sono assai manifeste, chi voglia riscontrarle, in presso che
tutte quelle svariatissime scritture intorno alla materia d'amore onde ab-
bonda la nostra letteratura del 500, dal commento di Marsilio Ficino sopra
il Shnposio di Piatane (pubblicato la prima volta con la traduzione latina
di tutti i dialoghi di Platone in un'edizion fiorentina senza indicazione d'anno,
che si crede del 1482) alle Rime platoniche da Gelso Cittadini dell'Angio-
lieri dedicate alla virtuosissima e graziosissima Gentildonna, madonna
Hippolita, sopranominata la Fiamma (Venezia 1585), dal Dialogo della
infinità d'amore della celebratissima Tullia d'Aragona agli Asolani del Bembo
e al Cortegiano di Baldassar Castiglione, che ne sono i rappresentanti più
noti. Io ricorderò soltanto l'ultima quistione sottoposta nel Cortegiano al
giudizio di Pietro Bembo, e non risoluta poi nel libro né da lui né da altri,
se, cioè, « le donne sono cosi capaci dell'amor divino come gli omini, o no »
(IV, 73).
— 13 —
tra feudale e teologico della poesia provenzale e della nostra del
dugento e del primo trecento? Si osservi la poesia erotica de' Greci
e dei Eomani, che del sentimento pagano d'amore ha pur da es-
sere stata la manifestazione più raffinata e squisita, e non vi si
troverà altra inspirazione e rappresentazione se non quella del-
l'amore più risolutamente e compiutamente sensuale. Questo è il
carattere ininterrotto e costante di siffatta poesia in tutti i suoi
atteggiamenti e in tutte quante le sue forme, dalla molle elegia
di Mimnermo e dalla melica gaia d'Anacreonte al convenzio-
nalismo erudito e mitologico della scuola alessandrina e degli
alessandrineggianti poeti « nuovi » dell' età Augustea. Catullo
stesso, che l'arte nuova romana in gran parte precorse e preparò,
e fu degli antichi poeti d'amore il più vicino forse al sentire mo-
derno, pur non conobbe e non cantò l'amore altrimenti che così.
E la commedia? Dico della nuova, e di quella sua fedelissima
immagine che fu la palliata latina, della quale l'amore è parte
indubbiamente assai grande, per non dir sovrabbondante o sover-
chiante addirittura; ma amore o amori soltanto di cortigiane,
e su questo tema sogliono aggirarsi quanti sono in siffatta
commedia intrecci e sviluppi dove la donna abbia luogo non pur
come accessorio o incidente secondario (1). Ne in niun'altra forma
0 parte di letteratura antica l'amore tra l'uomo e la donna ci
appare mai rivestito di una così profonda e intensa idealità che,
lasciando i lenocinì e le seduzioni dell'arte, lo faccia alquanto di-
verso da quello tra il maschio e la femmina nella natura animale.
Io non posso qui se non accennare al vasto soggetto, e toccarne
più largamente non si potrebbe senza uscir fuori dai confini un
po' angusti della letteratura e rintracciarlo nelle istituzioni pub-
bliche e private, nella religione, nella mitologia, nell'arte figura-
tiva, e in una parola in ogni altro aspetto della vita e del co-
stume pagano. Ma si ricordi quel che ne lasciano intendere, per
la civiltà greca più antica, i poemi Omerici (2) ; s'abbian presenti
(1) V. questo argomento largamente illustrato da V. Giachi, Uamore nelle
commedie di Plauto in Amori e costumi latini. Città di Castello 1887,
pp. 3-71.
(2) L'no studio completo del sentimento amoroso nei poemi Omerici manca,
— 14 —
le dissertazioni dei filosofi (1), e certe definizioni e ritratti non di
filosofi soltanto (2); si vedano taluni generi ed opere, che non men
della commedia sono documento autorevole dello spirito e del co-
stume contemporaneo, i Mimi di Eronda, ad esempio, e VArs
e potrebbe riuscire assai interessante e importante. Io mi contento di ricor-
dare tra mille un solo esempio, il noto passo del III libro dove Paride, sal-
vato miracolosamente da Venere nel combattimento con Menelao, e trattagli
innanzi Elena, risponde con calde professioni d'amore alle rampogne di lei
(441-447):
àXX* à^e òf] qpiXÓTr|Ti TpaTTeio|U6v eùvriGévTe •
où ydp TTib iroxé |u' (bbé y ^puic, q)péva<; àMqpeKdXuvjiev,
oùb' 6x6 ae TipÙTOv Aaneòaiiuovo^ èE èpar€\vf\c,
^uXeov àpirdEat; èv irovroTTÓpoiai véeoaiv,
vt^OLu b' èv Kpavdr;) èfiiynv cpiXÓTriTi koì eùvfl,
(ùc, aeo vOv epaiuai Kai jne yX^kù; l'iuepoi; aipeì.
r\ ^a Koì f\pxe Xéxoobe. kxkUv • ajuo ò' eiirer' ókoitk;.
(1) Nel Simposio di Platone (181 .B), Pausania, fatta la distinzione tra
l'amore celeste e buono e l'amore volgare ossia quello « con cui amano gli
uomini abbietti », comprende in questo secondo amore quel dell'uomo per
la donna, poiché non può avere altro oggetto che il corpo, e l'uomo non vi
bada che a soddisfarsi, senza punto avvertire, se bene o altrimenti. Nella
medesima opera Aristofane, dichiarata con un mito assai curioso e bizzarro
l'origine dell'amore, ne trova tre specie, sensuali tutte, cioè della donna per
la donna, dell'uomo per l'uomo, e della donna per l'uomo o viceversa ; ma
quest'ultima specie soltanto sembra ch'egli giudichi capace di dare occasione
al male, giacché oi uoXXoì xuùv |uoiX(Jùv ék toùxou xoO Yévou<; Y^TÓvaai,
Kai òaai ai -{vvaiKec, cpiXavbpoi xe koì juoixeuxpiai (191 E). E nel discorso
stesso di Diotima all'amore tra l'uomo e la donna, benché sia mostrato ra-
zionale e legittimo, non si concede tuttavia nessuna partecipazione alla mi-
stica idealità di cui soltanto è capace quello tra uomo e uomo. Altri filosofi
sono anche più espliciti. Antistene, il fondatore della scuola cinica, giudica
l'amore per la donna (e dal Simposio di Senofonte parrebbe non ne ammet-
tesse altro che questo) un mero sfogo del corpo, cioè una pravità e infer-
mità dell'animo (Senof. Symp. IV, 38; cfr. Diog. Laerzio, VI, 11 sgg.; Glem.
Aless. Strani. II, 20: amorem revera nihìl aliud esse diocit nisi animi pra-
vitatem cui qui succumberent morbum appellarent Deum; v. anche Mùller,
De Antisth. Cyn. vita etscriptìs, Marb. Catt. 1860, p. 47). Per Epicuro l'amore
in genere non è se non un intenso desiderio del venereo (Ermia, Schei, ad
Phaedr. p. 76 Ast; Aless. d'Afrod., Top. 75 A), da non assaggiarlo più di
quello che la natura richiede (Lucr. V, 1050 sg.). Anche si veda quel che
è detto da Cicerone nel quarto libro delle Tusculane (65-76).
(2) Si legga ad esempio il quadro dell'origine della natura e degli effetti
d'amore in Lucrezio IV, 1031 sgg.
- 15 -
amatoria di Ovidio (1); si ricerchi e si consideri pur tutto ciò,
e s'avranno abbondantissime le prove di quel sensualismo d'amore
che esclusivamente fu proprio della società pagana.
11 quale del resto si rispecchiava così nella letteratura, perchè
così era innanzi tutto e soprattutto nella vita e nel costume. Un
romanzo d'amore, nel senso che l'intenderemmo noi, e come fu
ritratto con fine or lieto or triste in mille forme della letteratura
della prima metà del secolo nostro, cioè sotto l'influsso diretto o
indiretto del sentimentalismo romantico, non sarebbe stato possi-
bile concepirlo, non che rappresentarlo artisticamente, nell'ambiente
pagano. Il matrimonio stesso fu allora non punto, come divenne
poi per effetto e in grazia della civiltà cristiana, la legittimazione
dell'amore; ma sì esclusivamente un legame giuridico e un con-
tratto economico e sociale, in cui l'amore non aveva, né avrebbe
potuto avere, parte nessuna (2). Perciò l'ideale domestico della
famiglia non riposava se non sul rispetto reciproco dei due coniugi
e sulla lor piena concordia economica (3); perciò ancora l'ideale
(1) Non cito i satirici, perchè l'intenzione stessa delia satira gli può aver
tratti ad eccedere, o almen non sarebbe senza sospetto d'eccesso. E mede-
simamente v'hanno pur sospetti per varie ragioni più altri documenti e
testimonianze del fatto. Ricordo ad esempio quella parte degli "Epujxe^ at-
tribuiti a Luciano di Samosata dove Garicle di Corinto parla in favore del-
l'amore tra l'uomo e la donna, traendone la principal ragion di difesa dai
bruti, che non ne conoscono altro; che sarebbe passo tanto più calzante al
proposito, in quanto v'è luogo al confronto con l'amore tra uomini. Ma è
più che probabile che quest'opera non appartenga a Luciano, benché i cri-
tici non sieno sin qui riusciti a determinarne né l'autore, né, che riuscirebbe
più importante per noi, il tempo.
(2) Lasciando l'aspetto giuridico della quistione, l'instituzione stessa del
matrimonio nell'antichità greco-romana non rispose ad altro scopo che quello
di assicurare una discendenza legittima e procrear cittadini allo stato. È
noto per esempio che a Sparta, dove la personalità dello stato assorbiva in-
teramente quella dell'individuo, il celibato non andava immune da un certo
grado d' àriiuia (Plut. Lyc, 15); e persino la famosa legislazione d'Augusto
Bu la famiglia, ancorché in un temperamento di civiltà e costumi molto di-
versi dagli Spartani, non fu informata se non al principio di provvedere al
depauperamento di popolazione per varie cause cresciuto spaventevolmente
nell'ultimo secolo della repubblica. Gfr. E. von der Smissen, La population,
Parigi 1893, pp. 82 sgg.
(3) Le testimonianze antiche in proposito sono infinite : valga per tutte il
— 16 -
d'un'ottima moglie era ch'ella fosse obbediente al marito e di
buoni costumi, ma niente più. È celebre l'augurio di Ulisse a
Nausicaa, che gli Dei le concedano
avòpa Te xaì oIkov Kaì ó|aoqppocyùvriv
èa0Xr|V où |uèv y«P toOy€ KpeTaaov Ka\ dpeiov,
ri 6G' ójuo(ppovéovT€ vornuaaiv okov è'xnTOv
óvfip r\bk Tuvri (1).
Perfetto accordo nel governo della famiglia, non altrimenti che
nel governo dello stato e in ogni altro negozio nel quale entrino
la volontà e l'opera di più contraenti: tale è l'ideale domestico
della società greca più antica, e tale tuttavia, alla distanza di
parecchi secoli, l'ideale domestico di Koma repubblicana. ì^eW An-
fitrione di Plauto è voluto ritrarre in Alcumena un tipo di moglie
molto migliore di tante altre del teatro plautino, una moglie, anzi,
esemplare addirittura. Ma quale è dessa? S'odano le qualità sue,
definite da Alcumena medesima:
Non ego illam mihi dotem duco esse, quae dos dici tur,
Sed pudicitiam et pudorem et sedatum cupidìnem
Deum metum parentum amorem et cognatum concordiam,
Tibi morigera atque ut munifica sim bonis, prosim probis (2).
Pudicizia, verecondia, pietà religiosa, amore per i genitori, buon
accordo coi parenti, e verso il marito ubbidienza e devozione (3),
seguente luogo di Golumella, che tocca de' Romani e de' Greci ad un tempo:
« Nam et apud Graecos et mox apud Romanos usque in patrum nostrorum
memoriam fere domesticus labor matronalis fuit, tamquam ad requiem fo-
rensium exercitationum omni cura deposita patribus familias intra domesticos
penates se recipientibus. Erat enim summa reverentia cum concordia et di-
ligentia mixta, flagrabatque mulier pulcherrima diligentiae aemulatione, stu-
dens negotia viri cura sua maiora atque meliora reddere. Nihil conspicie-
batur in domo dividuum, nihil, quod aut maritus aut femina proprium esse
iuris sui diceret, sed in commune conspirabatur ab utroque » (12 pr.).
(1) Od., VI, 181-84.
(2) Amph., 839 sgg.
(3) Morigerus significa a punto « compiacente », « ubbidiente ». Cfr. di
Plauto stesso Epid. V, 1, 1; Cas. V, 2, 20, e Lucr. IV, 1281 morigerisque
modis et mundo corpore culto.
- 17 -
ma di amarlo né anche una parola (1). E nel celebre elogio di
Turia, moglie a Q. Lucrezio Vespiglione, non altre doti si ricor-
dano della donna, che quelle attinenti alla castigatezza de' costumi,
e soprattutto alla perfetta concordia col marito nell'amministra-
zione della casa: « omne tuum patrimonium acceptum ab paren-
tibus communi diligentia conservavimus ; neque enim erat adqui-
rendi tibi cura, quod totum mihi tradidisti; officia ita partiti
sumus, ut ego tutelam tuae fortunae gererem, tu meae custodiam
sustinerfis (2) ». 0 dov'è l'affetto, dov'è la passionalità amorosa
che tanta parte ha occupato di vita moderna, e tanta parte occupa
di moderna letteratura e ancora di letteratura contemporanea?
11 nostro ragionamento fino a questo punto fu volto a mostrare
che, per mancare il sentimento, presumibilmente nell'episodio di
Didone non ci sarebbe stato luogo presso gli antichi a un'impres-
sione estetica, che da quel sentimento a punto traesse origine.
Sennonché non fanno difetto le prove non pure della presunzione,
ma ancora del fatto, e più documenti sono ad attestare, che una
impression sentimentale dell'episodio (riduciamoci anche a chia-
marla così) non solo non ci avrebbe potuto essere allora, ma in
realtà non ci fu. Lascio, ch'è ovvio, la tradizion copiosissima dei
commenti; benché vi potrei avere agevolmente buon giuoco al
proposito mio. Ma convengo che la natura e l'indirizzo di siffatte
compilazioni, pullulate in buon numero intorno al gran nome di
Virgilio nella letteratura grammaticale dei secoli imperiali, non
ammetteva per regola se non osservazioni e materiali di tutt'altro
genere che estetici. 11 commento di Servio, che n'è il più auto:
revole rappresentante, contiene in discreta misura illustrazioni at-
tinenti alla critica del testo, alla grammatica, e a quello che
si suol chiamare il commento « reale », ciò è dire interpretazioni
di vocaboli e passi, e dichiarazioni retoriche, filosofiche, storiche,
geografiche, onomastiche, etimologiche, metriche; ma nessuna
traccia di critica estetica. Il medesimo deve dirsi del commento.
(1) Cfr. V. Giachi, 1. cit., p. 16.
(2) C.LL., VI, 1, 1527, 37 sgg. E idee non punto dissimili si trovano
espresse nelle altre iscrizioni funerarie dello stesso genere.
Rivista di filologia, ecc., XXV. 2
- 18 —
ora perduto, di Elio Donato, per quanto almeno ci concedono di
giudicarne le citazioni che ne son fatte e i passi che ne sono addotti
nell'opera di Servio (1); il medesimo deve ripetersi del commento
retorico di Tiberio Claudio Donato, di quello dello pseudo Probo,
delle varie raccolte di scoli più o meno antichi e in una parola di
tutti i commenti virgiliani. Ma se il non trovare attestata dai
commentatori antichi a proposito dell'episodio di Didone un' im-
pressione estetica quale quella che noi ricerchiamo non potrebbe
essere, per la natura medesima dei loro lavori, indizio certo che
l'impressione non ci sia stata, altri fatti e documenti non man-
cano che lo provano indirettamente pur senza uscire dal terreno
stesso della tradizione grammaticale. La quale invero ci ha con-
servato qualche traccia delle impressioni destate dal poema vir-
giliano al suo primo apparire: sennonché esse sono impressioni
assai diverse da quelle supposte poi dai moderni, e quando anche
toccano alla sfera più elevata e squisita del sentimento, non è
già l'idealità amorosa che v'abbia luogo, bensì piuttosto la pietà
filiale e gli affetti, diciam così, familiari. Così allorché il poeta
lesse ad Augusto e ad Ottavia, per saggio dell'opera presso che
finita, il secondo, il quarto (si noti bene, anche il quarto) e il
sesto libro, non fu punto l'episodio di Didone che commosse i suoi
regali ascoltatori, ma sì quello di Marcello nel sesto, com'è espli-
citamente affermato dalla biografia antica che va sotto il nome di
Donato : « Tres omnino libros recitavit, secundum quartum et
sextum, sed hunc notabili Octaviae adfectione, quae cum recitationi
interesset, ad illos de filio suo versus (2), Tu Marcellus eris, de-
fecisse fertur atque aegre focillata est (3) ». E si noti che l'ori-
ginale di siffatta biografia fu compilato da Svetonio di su docu-
menti e notizie risalenti ai tempi stessi del poeta (4).
(1) Gfr. il mio studio su La biografia di Yirg. attribuita al gramm. Elio
Donato in Riv. di filol. class., XIV 48 sgg.
(2) En., VI, 884.
(3) Ps. Don., Vita Yerg. 32.
(4) Gfr. Ps. Don., Yerg. vita, 10; 16; 29; 42; Reiflferscheid, Svet. rell,
[Lips. 1860], p. 54 sgg.; Ribbeck, Prolegg., p. 89 sgg.; Gomparetti, Yirg.
nel Medio evo, I*, 180 sg.
- 19-
So bene che qui risovverranno alla mente di molti i versi di
Ovidio nell'elegia del secondo libro de' Tristi:
Et tamen ille tuae felix Aeneidos auctor
contulit in Tyrios arma virumque toros,
Nec legitur pars ulla magis de corpore tote,
quam non legitimo foedere iunctus amor (1).
Le parole del poeta sono esplicite e chiarissime, non c'è dubbio ;
ma non bisogna pigliarle così isolate e fuori del contesto al quale
appartengono. Ora il vero è che nell'elegia citata Ovidio si rac-
comanda caldamente ad Augusto per impetrarne, se non addirit-
tura il perdono, almeno alcuna mitigazion della pena, e a tal fine
gli ricorda non solo tutte le lodi che egli ha fatto di lui, ma
ancora l'esempio di altri moltissimi, cui l'aver composto dei versi
mordaci o licenziosi non è pur stato cagione di nessun danno :
Denique nec video de tot scribentibus unum
quem sua perdiderit Musa: repertus ego (2).
Quale esempio perciò più calzante che Virgilio, il poeta quasi di
corte, e nelle costui opere quale luogo migliore che, diQ\V Eneide,
la beniamina d'Augusto (3), l'episodio di Didone, e gli amori ri-
tratti in taluna delle egloghe ? Infatti Ovidio, nei versi che se-
guono quelli ricordati di sopra, non manca di citare anche le
egloghe (4), a mostrar che nemmeno a Virgilio l'aver trattato di
amore fu soggetto che punto nuocesse, come non nocque a Tibullo
e a più altri scrittori menzionati nell'elegia. Ognun vede dunque
che le parole del poeta non sono che un innocente artifizio reto-
rico per crescere con l'iperbole efficacia al concetto, e non sarebbe
ragionevole voler prenderle troppo sul serio e tenerle in conto d'una
testimonianza solenne della predilezione dei lettori per l'episodio
(1) Vv. 533-36.
(2) Ib. 495 sg.
(3) Cfr. Ps. Don., Yerg. vita, 31 sg.
(4) Vv. 537-38:.
Phyllidis hic idem teneraeque Amaryllidis ignes
bucolicis iuvenis luserat ante modis.
— 20 —
di Bidone. Ma, a largheggiare, poniamo anche, il che dai versi
d'Ovidio non ò provato affatto, che questa parte fosse la più letta
di tutto il poema ; che giova ? Qui non importa sapere se l'epi-
sodio si leggesse poco o molto, ma bensì se, oltrepassando le prime
immagini puramente sensoriali, poco o molto toccasse e commo-
vesse il sentimento del lettore. La qual cosa Ovidio non lascia
intendere punto che seguisse : anzi, chi avverta bene il fine del-
l'elegia, e la natura degli altri esempì addotti,^ l'appaiarsi della
storia di Didone con gli amori delle egloghe, parrebbe che lasci
intendere il contrario, e dell'episodio non colga e non attesti se
non la rappresentazione e l'impressione sensuale. 0 come altri-
menti avrebbe potuto siffatto motivo quadrare all'intenzione del
poeta? come essere chiamato in causa dove bisognava scolparsi
d'avere scritto l'Ars amatoria (1)?
Veniamo ad altro. Tra il IV e il V secolo fu composta intorno
a Virgilio, documento assai importante per la storia della sua
nominanza, una curiosa opera enciclopedica, la quale non pur ci
è prova del concetto altissimo in cui il poeta era tenuto dall'autore
e da' suoi contemporanei, ma ancora contiene e rispecchia la somma
di tutti i giudizi e di tutte le impressioni d'allora e di prima,
compilata, com'è, di su svariatissime scritture anteriori d'ogni
(1) 11 medesimo è a dire di certe composizioni seriori più o men diretta-
mente inspirate dall'episodio di Didone. Alludo alla celebre epistola VII di
Ovidio, a quella, pure in versi, sullo stesso tema dell'abbandono di Enea
composta da un anonimo forse del 111 secolo (Baehrens, P. L. M., IV,
271 sgg.), di materia virgiliana e di forma ovidiana (cfr. Teuffel-Schwabe^
398, 12), e alla ventottesima delle Dictiones di Ennodio, ch'è una parafrasi
prosastica della prima invettiva di Didone (Aen. IV, 305 sgg.). L'epistola
ovidiana non attesta che la Didone di Virgilio abbia lasciato nell'animo dei
contemporanei un'impressione punto diversa da quella che v'avrebbero la-
sciato tutte l'altre donne che trovan luogo nelle Epistolae, senza dire che
queste eroine nelle elegie di Ovidio parlano, sentono e amano non altrimenti
che le Glicere, le Cinzie, le Gorinne ond'è piena la poesia erotica dell'ales-
sandrineggiante scuola nuova Augustea; e quanto al resto noi non ci tro-
viamo dinanzi se non una letteratura d'esercitazioni retoriche (cfr. E. Stampini,
Alcune osserv. sulla leggenda di Enea e Didone nella leti, rom., p. 37
dell'Estr. dall'Ann, della R. Università di Messina 1892-93) che s'è estesa
a più altri nomi e tipi di donne antiche, e al più prova la popolarità ognor
crescente dell'Eneide.
- 21 —
tempo e maniera (1). Alludo, l'intende ognuno, ai Saturnali di
Macrobio. Non v'ha aspetto, quasi, ne tratto nessuno del sapere,
del pensiero, dell'arte, dei meriti di Virgilio, che questo autore
non tocchi in quel che ci è giunto dell'opera sua (sono perdute
le parti che riguardavano l'astrologia e la filosofia), sempre ba-
dando a porvi in rilievo le eccellenze tutte del poeta, nel conte-
nuto non meno che nella forma. Sarebbe ovvio dunque attender-
sene qualche traccia dell' impressione destata dall' episodio di
Didone, se siffatta impressione fosse quella a punto che i moderni
hanno affermato ; tanto più che un capitolo intero è nei Saturnali
dedicato al movimento degli affetti (2). Ora, che cosa riferisce
Macrobio a proposito di quell'episodio? Che Virgilio l'ha model-
lato sul quarto libro delle Argonaiiticlie di Apollonio Rodio, e
che la storia di Didone narrata da lui è mera finzione poetica ;
ma niente altro. Ecco qua le sue parole stesse : « Non de unius
racemis vindemiam sibi fecit sed bene in rem suam vertit quid-
quid ubicumque invenit imitandum adeo ut de Argonauticorum
quarto, quorum scriptor est Apollonius, librum Aeneidos suae
quartum totum paene formaverit ad Didonem vel Aenean ama-
(1) « Nec mihi vitio vertas si res quas ex lectione varia mutuabor, ipsis
saepe verbis quibus ab ipsis auctoribus enarratae sunt explicabo ». Così
scrive Macrobio stesso nella prefazione deiropera sua (4), seguendo un uso
divulgatissimo nella letteratura di compilazione erudita dei bassi tempi.
(2) Vero -è che l'autore non considera questa parte che rispetto alla reto-
rica, e non fa che passare pedestremente in rassegna le leggi retoriche del
pathos, esemplandole a mano a mano coi luoghi di Virgilio che lor si ri-
feriscono. Perciò nei pochi esempi addotti, tra gli altri, anche del quarto
libro, non si .scorge che Macrobio colga e penetri della frase niente più che
il valore puramente formale e retorico: così i versi 419 sg. (hunc ego si
potici tantum sperare dolorem ecc.) son citati per gli esempi del pathos
« praeter spem » (IV, 6, 6), e il verso 651 (dulces exuviae, dum fata deusque
sinebant) fra quelli della specie in cui « sermo dirigitur vel ad inanimalia vel
ad muta » (ih. 10). E d'altra parte questo sottoporre l'opera di Virgilio a una
critica sì schematicamente oratoria non è cosa da meravigliarsene punto,
chi pensi che la tecnica retorica era penetrata nella poesia già assai per
tempo, e da Ovidio in poi, come ha notato il Sabbadini (Prolus. al corso di
letter. lat., Catania 1894, p. 7), è manifesta ne' poeti l'influenza de' retori
e dei loro insegnamenti, senza dire che in genere i retori medesimi, il che
eziandio avverte il Sabbadini, « sceglievano volentieri i loro esempi dai poeti ».
-22 -
toriam incontinentiam Medeae circa lasonem transferendo. Quod
ita elegantius auctore digessit, ut fabula lascivientisDidonis, quam
falsam novit universitas, per tot tamen saecula speciem veritatis
obtineat et ita prò vero per ora omnium volitet ut pictores ficto-
resque et qui figmentis liciorum contextas imitantur effigies hac
materia vel maxime in efBgiandis simulacris tamquam unico ar-
gumento decoris utantur nec minus histrionum perpetuis et ge-
stibus et cantibus celebretur. Tantum valuit pulchritudo narrandi
ut omnes Phoenissae castitatis conscii, nec ignari manum sibi
iniecisse reginam, ne pateretur damnum pudoris, coniveant tamen
fabulae et intra conscientiam veri fidem prementes malint prò
vero celebrari quod pectoribus humanis dulcedo fingentis in-
fudit » (1). Né si deve lasciarsi trarre in inganno dal vago ac-
cenno su la fine alla dolcezza dell'episodio, poiché esso non richiama
se non un'immagine aifatto sensuale, quella a punto che nell'atmo-
sfera già cristiana, benché cosciente più o meno lo scrittore, dà
luogo al contrasto morale con la sì risolutamente affermata ca-
stità di Didone. Lo stesso si dica dell'allusione alle rappresenta-
zioni dell'arte figurata. Ammettiamo pure che a noi non sia pei'
venuta diretta notizia di tutte quelle che esistevano ai tempi di
Macrobio e prima di lui : resta sempre che in somiglianti rappre-
sentazioni accanto a Didone (2) si trovan ritratti più altri perso-
naggi, episodi e scene delV Eneide, come la fuga di Enea (3), la
(i) V, 17, 4 sgg.
(2) Oltre le miniature illustrative, ricavate però probabilmente da modelli
antichi dei famosi codici Vaticani 3225 e 3867 (riprodotte da vari, e tra gli
altri dal De Nolhac, Les peint. des mss. de Virg. in Mèi. de Vèc. franq. de
Rome, IV, 305 sgg. e tavv. 5-12), non si conosce di Didone altra rappresen-
tazione (Pauly-Wissowa, Realencycl. I, ì, 1018) che quella di un musaico
di Alicarnasso, non anteriore all'età degli Antonini, ritraente la scena della
caccia: Enea corre contro una tigre, Didone contro un'altra belva sgrazia-
tamente distrutta come la maggior parte della figura di Enea (cfr. G. Henzen
in Bull. delVlnst. di corr. ardi., 1860, p. 105),
(3) Questo soggetto s'incontra nelle rappresentazioni di molti vasi (v. per
es. 0. lahn, Munck. Vasensamml., 903; Gerhard, Auserl. Vas. tav. 217 e
altrove), e anche in pitture murali : celebre una caricatura Pompeiana che
può vedersi in Pitt. d'Ercol. Il, 166; Millin, Gal. Myth., tav. GLXXllI,
607; Helbig, Wandgem. der Stadie Campan. 1380.
— 23 —
sua pietà filiale (1), il combattimento dei Kutuli e dei Troiani (2),
l'incontro di Enea con la scrofa di Lanuvio (3) e altrettali. Anzi
s'aggiunga che nei monumenti superstiti dell'arte figurativa i sog-
getti cavati dalle altre parti del poema sono in numero incompa-
rabilmente maggiore che quelli inspirati dalla storia di Enea e
Bidone, i quali si riducono a pochissimi esemplari ; il perchè tutto
ciò non sembra se non argomento acconcio ad attestare la grande
popolarità àeWEneide e de' suoi episodi principali, ma non è prova
punto d'una più vivace e profonda impressione determinata dalle
peripezie amorose della regina Cartaginese.
Contemporaneo di Macrobio fu S. Agostino, del quale tutti co-
noscono un passo famoso (4), in cui, secondo molti hanno affer-
mato, pur citando di seconda o di terza mano, dovrebb'essere detto
chiaramente, che dalle dolorose vicende di Bidone Agostino fu
commosso sino alle lagrime. Non sarebbe dunque luogo a dubitare
che non vi si tratti d'una schietta e vivace impressione del sen-
timento. Osserviamo, intanto, che lo scrittore era cristiano, e perciò
ch'egli intendesse e sentisse l'episodio con quella disposizione di
mente e di cuore che a punto fu un prodotto del Cristianesimo
non potrebb'essere cagion di meraviglia, né contraddirebbe in niun
modo a quanto siam venuti dicendo sin qui a proposito dello spi-
rito e dell'ambiente pagano. Ma in realtà l'autore delle Confes-
(1) Una statua del foro di Augusto rappresentava « Aenean oneratum
pondera sacro » (Ov. Fast. V, 563; cfr. Kekulé, Ant. Terracotten, 1, 48 sgg.)-
Il medesimo soggetto è ritratto in più vasi d'antico stile (Micali, Mon. (ned.,
tav. LXXXVIII ; R. Rochette, Mon. inèd. I, tav. LXXVllI, p. 385 ; Ge-
rhard, Auserl. Vas. Ili, tav. 216, p. 217 ed Etrusk. u. Campan. Vas. Ili,
tav. 231, 1; Overbeck, Gal. heroisch. Bildw., p. 665 e altrove), in bassori-
lievi, in lampade e in altri monumenti.
(2) Cfr. Gerhard, Auserl. Vas. I, tav. 49; III, 223; Mon. delV Inst. arch.
I, tav. 38.
(3) È ritratto su una medaglia dell'imperatore Antonino Pio. Lasciamo
naturalmente di ricordare le rappresentazioni di monumenti anteriori a Vir-
gilio, che poco importano al proposito nostro, come ad esempio l'uccision
di Turno per mano di Enea raffigurata in una cista prenestina del V o VI
secolo di R. (Brunn, in Ann. delVInst. ardi. 1864, p. 356; Mon. dell' Inst.
Vili, tav. VIl-VIII).
(4) Confess. I, 13, 20 sgg.
— 24 —
sioni non dice precisamente quello che infiniti gli han fatto dire
0 hanno supposto che dicesse. Già il Sainte-Beuve avvertiva che
il passo è « plus agréable à citer de loin qu'à lire de près, saint
Augustin étant beaucoup moins tendre et moins touchant en cela
qu'on ne se plaìt à l'imaginer » (1); e a persuadersene basta con-
siderare con qualche attenzione le parole medesime dello scrittore.
Nel brano, dov'esse si trovano, Agostino rimpiange il fastidio pro-
vato da giovine nello studio dei primi rudimenti della lingua e
il vano diletto ricevuto da quello della letteratura latina, ch'è
materia della scuola più elevata dei « grammatici », « nara utique
meliores, quia certiores erant primae illae litterae, quibus fiebat
in me, et factum est, et habeo illud ut et legara si quid scriptum
invenio, et scribara ipse si quid volo, quam illae quibus tenere
cogebar Aeneae nescio cuius errores, oblitus errorum meorum ; et
plorare Didonem mortiiam, quia. se occidit oh amorem, cum in-
terea me ipsum in bis a te morientem, Deus vita mea, siccis
oculis ferrem miserrimus. Quid enim miserius misero me mise-
rante se ipsum, et flente Didonis mortem quae fiebat amando
Aeneam, non flente autem mortem suam, quae fiebat non amando
te, Deus lumen cordis mei, et panis oris intus animae meae, et
virtus maritans mentem meam et sinum cogitationis meae ? »
Non si richiede molto acume a scoprire di' mezzo all'artifizioso
involucro di frasi che riveste qui il solito tema della vanità del
sapere profano, ond'è piena tanta parte di letteratura cristiana dei
primi secoli, non si richiede molto acume a scoprirvi, dico, il va-
lore puramente retorico di tutta la mossa del plorare Didonem
mortuam, studiata a procacciare la doppia antitesi col ?ne mo-
rientem prima e di poi col lungo pesante giro d'anafora: flente
Didonis mortem quae fiehat amando Aeneam^ non flente autem
mortem suam, quae fiebat non amando te, Deus (2). E non è
(1) Et. sur Vir(/., p. 114.
(2) Di concettini così fatti, e d'antitesi, d'iperboli, di tropi e figure di ogni
maniera abbonda lo stile di Agostino e di molti altri Padri e scrittori chie-
sastici; né farebbe opera vana chi li venisse accortamente rintracciando e
classificando, essendoci qui copiosa materia a un capitolo non meno interes-
sante che utile della storia della latinità cristiana.
— 25-
difficile neanche avvedersi che il nome di Bidone non è se non
un pretesto, provocato dalla gran fama déìV Eneide e di Virgilio,
per significare figuratamente la letteratura profana tutta quanta,
come sono poco appresso il cavallo di legno e l'incendio di Troia
e l'ombra di Creusa (1). Ognun vede dunque che ridotte a questi
termini, ne si potevano altrimenti non ridurre, neanche le parole
di Agostino provano punto che l' episodio virgiliano abbia de-
terminato in lui una così profonda commozione, da paragonarla
in qualche modo con l'impressione sentimentale dei moderni. La
quale perciò ci è lecito conchiudere che fu straniera affatto all'an-
tichità, non pure pagana, ma eziandio in quell'ultimo scorcio di
tempo, quando la profonda mutazion di spirito e di temperamento
morale che seguitò il diffondersi del Cristianesimo era già avve-
nuta in grandissima parte.
Maturata anzi la trasformazione in quest'altro ambiente, e tut-
tavia non fecondati i germi dai quali per effetto di essa dovevan
scaturire più tardi l'idealità e il sentimentalismo amoroso, la
Bidone virgiliana fu presa a intendere e giudicare alla stregua
di quella nuova tendenza moraleggiante, che sì largamente si de-
terminò intorno a più altri notissimi nomi e personaggi dell'anti-
chità classica. Non è soggetto che faccia direttamente al proposito
nostro ; ma non sarà inopportuno toccarlo brevemente pur per com-
pimento alla rassegna delle impressioni varie cui l'episodio di
Bidone ebbe a dar luogo avanti i tempi moderni.
S'è visto addietro, parlando di Macrobio, che questo scrittore
non mostra di prestar fede nessuna alla verità storica del racconto
di Virgilio, ma sì afferma invece risolutamente che quel racconto
è mera finzione poetica, perchè Bidone non s'uccise se non per
amore di castità, « ne pateretur damnum pudoris ». Orbene così
fatta opinione non è propria di Macrobio soltanto : al contrario
essa si trova essere comune a molti altri autori dei secoli cristiani.
Tertulliano cita Bidone come modello di pudicizia e di fede con-
(1) Loc. cit. 22: <i lam vero unum et unum duo, duo et duo quatuor,
odiosa causa mihi erat: et dulcissimum spectaculum vanitatis equus ligneus
plenus armatis, et Troiae incendium, atque ipsms umbra Greusae ».
— 26 —
iugale (1). Agostino stesso, nel luogo di sopra ricordato, nega
che Enea sia stato mai a Cartagine (2), e qualcosa di simile nota
anche l'interpolatore di Servio (3), osservando che Enea venne in
Italia trecent'anni avanti la fondazione di Cartagine. Ausonio pone
in bocca a un ritratto di Bidone le seguenti parole :
Illa ego sum Dido vultu, quem conspicis, hospes,
Assimilata modis pulchraque mirificis.
Talis eram ; sed non, Maro quam milii finxit, erat mens,
Vita nec incestis laeta cupidinibus,
Namque nec Aeneas vidit me Troius unquam,
Nec Libyam advenit classibus Iliacis.
Sed furias fugiens atque arma procacis larbae,
Servavi, fateor, morte pudicitiam,
Pectore transfixo, castus quod perculit ensis.
Non furor aut laeso crudus amore dolor.
Sic cecidisse iuvat : vixi sine vulnero famae :
Ulta virum, positis moenibus, oppetii.
Invida cur in me stimulasti, Musa, Maronem,
Fingeret ut nostrae damna pudicitiae ? (4).
E più altri esempi si potrebbero racimolare nella letteratura dei
bassi secoli di così fatta opinione (5), la quale è ne più ne meno che
(1) Apol. 150: « Aliqua Carthaginis conditrix rogo secundum matrimonium
dedit: o praeconium castitatis ! ». Cfr. anche De exhort. castit. 13; Ad nat.
1, 18, 5.
(2) Ib., 22: « si proponam eis, interrogans utrum verum sit quod Aeneam
aliquando Garthaginem venisse poeta dicit : indoctiores se nescire respon-
debunt, doctiores autem etiam negabunt verum esse ».
(3) Ad Aen. IV, 459: « Nam quod de Bidone et Aenea dicitur; falsum
est. Gonstat enim, Aeneam GGGXL annis ante aedificationem Romae venisse
in Italiam, cum Garthago nonnisi XL annis ante aedificationem Romae
constructa sit. Sed altius considerandum est, cur Vergilius Aeneae Didonem
coniunctam dixerit ».
(4) Epigr. 118.
(5) Vv. 183-86, in Baehrens, Poetae Latt. minn. V, 281 e in C. Mueller,
Geogr. Gr. minti. Il, 112. Gfr. Stampini, op. cit., p. 50, n. 132,
— 27 —
un semplice ritorno a quella forma della leggenda antica di Bi-
done, che mette capo al racconto di Timeo. Nel quale storico del
III secolo avanti l'era volgare appaiono esposte la prima volta le
vicende della regina, nel modo seguente : Didone, il cui vero nome
era Elissa, perseguitata dal fratello Pigmalione, re dei Tiri, che
le uccise il marito Sicheo, abbandonò la patria in compagnia di
alcuni notabili, e dopo molte peregrinazioni sbarcò sulle coste
dell'Africa, dove diede opera all'edificazione di Cartagine. Chiese
la mano di lei larba, re dei Libi, e volendo il popolo costringerla
alle nuove nozze, Didone preferì uccidersi ; sicché, fatto preparare
un rogo col pretesto di sciogliersi dal vincolo del primitivo giu-
ramento, trovò nelle fiamme volontaria morte (1).
Tal'è in sostanza la narrazione di Timeo, molto diversa come
ognun vede dalla trama dell'episodio Virgiliano ; e perchè quest'ul-
tima, nonostante la fama e l'autorità grandissima del poeta, abbia
poi ceduto il luogo a quella è stato sottilmente indagato dai cri-
tici, e particolarmente dallo Stampini (2). Sennonché a spiegare
la reviviscenza della vecchia finzione è piti che sufficiente ragione
la tendenza moralizzatrice dello spirito cristiano, fecondo di ria-
bilitazioni così fatte ; ed è lecito soggiungere che dove anche
la più antica forma della leggenda qual' è attestata da Timeo
non fosse esistita, per effetto della popolarità medesima di Vir-
gilio, e per la diffusione straordinaria del suo poema, ne sarebbe
nata nell'ambiente moraleggiante dei bassi secoli un'interpreta-
zione di Didone poco dissimile da quella che s'è vista affermata
negli scrittori testé menzionati. Niuna traccia v'ha in ogni modo,
il che basta al proposito nostro, niuna traccia, diciamo, d'una
impressione che in qualche maniera possa essere paragonata alla
sentimentale dei moderni, neanche in questo estremo scorcio della
decadente romanità, già largamente soprappresa e penetrata dallo
spirito del Cristianesimo, e oramai prossima a dissolversi e tra-
sformarsi per entro alle nuove tendenze della civiltà medievale.
(1) Fragra, hist, Graec. 1, 197.
(2) Op. cit , p. 38. .
28
IV.
S'è considerato sin qui l'episodio di Didone esclusivamente ri-
spetto all'impressione estetica ricevutane dagli antichi ; ma pur
tenendo per dimostrato che gli antichi non v'abbiano scorto mai
la rappresentazione delicata e passionale d'una profonda sentimen-
talità amorosa suppostavi dai moderni, può esser luogo tuttavia
al dubbio se il sentimento, benché non avvertito da' contemporanei
e ancora appresso per parecchio tempo, sia stato per avventura
nell'animo e nell'inspirazione del poeta. Perchè, non giova dissi-
mularlo, sebbene Cristo non era ancor nato quando Virgilio com-
pose il suo poema, nondimeno già nell'atmosfera morale e sociale
del tempo gravitava molta parte di quella che poi fu la dottrina
cristiana, e molti elementi dello spirito del Cristianesimo s'erano
già svolti e largamente diffusi prima che la nuova civiltà li as-
sorbisse e li assimilasse nel lento costituirsi della sua salda com-
pagine. D'altra banda s'osservi che nei fatti artistici, non altri-
menti che nei fatti politici, civili, filosofici, etici e in ogni altra
maniera di fatti storici, accade non di rado che alle menti più
elette balena l'intuizione di quella che sarà per essere forma o
tendenza prevalente in un prossimo avvenire, e secondo la lor vi-
sione è piena e perfetta più o meno, anche più o men vivace e
manifesta si traduce e si afferma nell'opera loro. Non ci sarebbe
-dunque da meravigliare se della profonda rivoluzione che nel sen-
timento d'amore, d'amore, dico, tra uomo e donna, il Cristianesimo
doveva compiere, un sintomo apparisse a punto in Virgilio, nel
poeta cioè agli occhi di molti il più delicato e gentile di tutta
l'antichità, come infatti qualche indizio n'appare in altri scrittori
pagani del primo secolo, pur men profondi e d'ingegno assai men
largo che Virgilio non è stato (1).
(1) Si vedano le acute osservazioni del Bonghi (Proemio cit., p. cxxix sgg.)
su l'unico dialogo superstite delle varie opere di Plutarco intorno all'amore,
« il primo scritto dell'antichità pagana, in cui dell'amore onesto tra uomo
e donna è parlato con purità e altezza » (p. cxxxiii). E alla medesima mu-
— 29 —
Sennonché, pur giudicando a primo aspetto, non sembra che a
questa supposizione convenga troppo bene quel che sappiamo della
natura e degli affetti del poeta. Lasciando invero che non si co-
nosce di lui nessun componimento erotico (e il genere era di moda
nell'arte dei suoi tempi, tanto, che Virgilio è forse il solo poeta
di quell'età che non ci si sia provato (1)); lasciando ch'egli non
ebbe moglie, il che per sé nuUameno non proverebbe molto, giacché
non l'ebbe ad esempio neanche Orazio ; lasciando, dico, questi ed
altri così fatti argomenti, si sa tuttavia dalle affermazioni con-
cordi degli antichi che Virgilio non provò per la donna e per
l'amore di donna mai nessun sentimento che di ripugnanza, e
questa sua avversione fu così intensa e costante, che gliene venne
quella buona fama di probità, la quale è attestata esplicitamente
dallo pseudo Donato (2). Ora, dato nel poeta un temperamento
così fatto, non s'intenderebbe in qual guisa egli potesse essere
disposto a concepire molto profondamente le vicende tormentose
d'una patetica storia d'amore, e, ch'è più, come dovesse essere in
grado di rappresentarle artisticamente con la vivezza di colorito
e l'efficacia di stile che i moderni hanno voluto vedere nell'epi-
tazion profonda dell'ambiente già imbevuto di Cristianesimo se non ancora
cristianizzato vuol ricapitarsi il sentimento nuovo d'amore che trapela ad
esempio nella celebre egloga di Stazio alla moglie {Silv. Ili, 5) e in altri
versi dello stésso poeta : nel quale anzi, come nota un critico moderno, non
si trovano punto traccio d'altro sentimento amoroso che questo delicato e
gentile di famiglia (G. G. Gurcio, Studio su P. Papinio Stazio, Catania 1893,
P- 52).
(1) Che siano autentici taluni componimenti poetici di genere erotico pe-
netrati nella raccolta delle così dette opere minori di Virgilio e attribuiti a
lui principalmente su la fede di un noto passo di Plinio il giovine (Epp.
V, 3) non è cosa che possa esser dimostrata : anzi può agevolmente dimo-
strarsi che non sono, chi pensi al luogo di Ovidio che abbiamo allegato di
sopra. Gfr. Teuffel-Schwabe^ 230, 2; M. Schanz, Gesch. d. róm. Liti., 11,
55 sg.
(2) Verg. vita, 11: « vitae et ore et animo tam probum constai, ut Nea-
poli Parthenias vulgo appellatus sit » . Né gioverebbe supporre che l'amore
abbia trovato cosi indifferente il poeta a punto per un sentimento ch'ei ne
avesse più ideale ed elevato, perchè basta a provare il contrario quell'altra
specie d'amore ch'è si esplicitamente attestata dalla biografìa stessa (§ 9 :
« libidinis in pueros pronioris » ecc.) e da taluna delle egloghe.
— 30 —
sodio di DidoDe. Ma ciò che la natura dell'uomo lascia sospettare,
conferma e dimostra luminosamente il quadro stesso dell'episodio ;
nel quale, chi lo consideri spassionatamente, e soprattutto vincendo
le suggestioni varie del sentimento che non l'arte del poeta ma
l'esperienza ereditaria e l'abito inconsciamente provocano qua e là,
non si tarderà a scorgere che l'inspirazione e l'intonazione sono
ben altre che passionalmente amorose, e se un qualsisia sentimento
vi predomina, non è se non quel medesimo sentimento politico e
religioso ond'è informato e penetrato il poema virgiliano tutto
quanto.
Rammentiamo, intanto, gli antecedenti letterari dell'episodio,
0, come ora usa dirsi più spesso, le sue fonti, prossime e remote,
consapevoli o no. Non già ch'esse importino direttamente al pro-
posito ; poiché l'arte sta tutta, o quasi, nel modo come il poeta
ricompone e riproduce e vivifica le forme del bello, sian poi quali
si vogliano le sorgenti alle quali egli ne attinge gli elementi e
la materia prima. Però il conoscerle potrà giovare a determinare
più nettamente in che consista l'elaborazione soggettiva dello scrit-
tore, e quanto egli abbia aggiunto di nuovo, quanto modificato e
trasfigurato la materia, parte viva e necessaria del suo fine este-
tico ; né il giudizio intorno al valore artistico d'un documento
letterario (e non letterario soltanto) potrà mai essere intero e
perfetto, se non quando si sappia esattamente qual sia il suo
valore storico. Di antecedenti adunque dell'episodio virgiliano ve
n'ha due gruppi, o almeno gli elementi sostanziali di esso vogliono
ricondursi a due distinte serie di fonti. Da una parte quella leg-
genda di Didone, che, come s'è accennato già a dietro, mette capo
al racconto di Timeo : leggenda con autorità più che discreta dif-
fusa nella tradizione storica, poi che ai tempi stessi del poeta essa
trova luogo anche nelle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo,
secondo appare dal compendio di Giustino (1). Parte integrale di
siffatta leggenda è, come anche s'è già detto, il suicidio della re-
gina, provocato dal suo non voler consentire alle nozze col re larba,
cui il popolo cercava costringerla, e ancora qui, si noti, il suicidio
(1) Epit. XVIII, 4 sgg.
- 31 —
è procacciato mediante un pretesto, giacche Didone vi fa disporre
il rogo fingendo di ordinare un sacrifizio per sciogliersi dal giu-
ramento di fede che la vincola al marito Sicheo. Quest'è dunque
una fonte capitalissima dell'episodio, se diretta o indiretta or non
accade ricercare ; ma di contro non vuol dimenticarsene un'altra
non men rilevante, più rilevante anzi dove si volesse prestar cieca
fede alle affermazioni degli antichi, e sta nel motivo, nella leg-
genda e nella letteratura anteriore popolarissimo, di donne inna-
morate di illustri eroi e guerrieri erranti, prodighe loro di con-
siglio d'aiuto di fede e poi da loro tragicamente abbandonate per
crudele necessità di destino. Tali sono le note storie di Medea e
Giasone, tema favorito del dramma e dell'epica (1), di Arianna
e Teseo, ritessuta da Catullo (2) in forme e movenze non a torto
paragonate con le virgiliane di Didone, di Scilla e Minosse, e
altre ancora. Or chi intrecci in un solo i due soggetti, ciò è dire
la pristina leggenda di Didone con quest'altro motivo di donne
innamorate e abbandonate, avrà tutta quanta la trama dell'epi-
sodio di Didone, bastando a tal uopo collegare col suicidio il fatto
dell'abbandono, e porre che questo sia stato la causa determinante
di quello. Se somigliante fusione abbia avuto luogo già nella tra-
dizione popolare e letteraria avanti Virgilio, è stato argomento di
dotte indagini e controversie ; ma oramai sembra la critica inclini
ad ammettere che sia seguita assai tempo prima nella tradizione
popolare (3) e di qui penetrata nella letteratura almeno col poema
(1) Gli esemplari più conosciuti sono nella letteratura greca la Medea di
Euripide e il poema d'Apollonio Rodio; ma il medesimo soggetto fu trat-
tato anche nella letteratura romana in due tragedie di Ennio e d'Accio, e
negli Argonauti di Terenzio Varrone Atacino.
(2) 'ì^eW Epitalamio di Peleo e Teti, vv. 52-264; e i molti riscontri che
l'episodio di Catullo presenta con quello di Didone in Virgilio furono mo-
strati già dallo Stampini, il quale acutamente osserva che « più che la Medea
di Apollonio, è l'Arianna di Catullo che ispirò la Didone virgiliana » (Al-
cune osservaz. sulla legg. di Enea e Did. nella letter. rom. nell'Estr. cit.
AqW Ann. della R. Univer. di Messina 1892-93, p. 7J.Cfr. anche l'Eichhoff,
Et. grecques sur Virg., 11, 287.
(3) V. in proposito le sopra citate Osservazioni sitila legg. di Enea e
Did. dello Stampini,' dove si troveranno additati anche gli studi anteriori
su l'argomento.
— 32 —
di Nevio (1), innestandovisi saldamente congiunta all'autorevole e
diffusissima leggenda di Enea. E ancora a primo aspetto parrebbe
che il precedente conferisca per sé solo a sminuire alquanto la
pretesa originalità artistica della creazione virgiliana : non però
più che a primo aspetto, poiché in ogni caso la novità e l'arte
dovrebbero esser tutte nel modo come la materia è stata elaborata
e atteggiata dal poeta, nel sentimento che l'avviva, nel magistero
del colorito e dello stile. Anche la storia di Paolo e Francesca è
anteriore alla Commedia-, ma l' immortai dramma d'amore non
l'hai se non nell'episodio Dantesco, e « la Francesca, come Dante
l'ha concepita, è viva e vera assai più che non ce la possa dare
la storia » (2). Or questo a punto ci bisogna vedere, se, qualunque
s'ammetta sia stata la fonte o le fonti della finzione, e quali si
vogliano le sue vicissitudini popolari e letterarie, primo il poeta
v'abbia introdotto tali nuovi elementi di viva e profonda senti-
mentalità, e data alla sua rappresentazione tale un'intonazione
passionale, da balzarne fuori con plastica evidenza scolpita quella
squisita e commovente figura di donna innamorata, che invano
cercheresti nella poesia amatoria di Orazio, di Tibullo, di Pro-
perzio, di Ovidio e in tant'altra parte di letteratura antica. A
questo patto, ma a questo patto soltanto, la Didone virgiliana si
distinguerebbe profondamente per caratteri suoi propri dalle Medee,
dalle Arianne, dalle Scille e da tutte l'altre femmine dell'anti-
chità, accostandosi invece risolutamente, tipo di donna, come ta-
luno ha detto, già quasi del tutto moderna, al mondo di Fran-
cesca, d'Ofelia, di Giulietta, di Clara, di Tecla, di Margherita.
Sono adunque nella rappresentazion di Virgilio o tutti o parte
i tratti essenziali di questa ideale modernità femminile? C'è egli
in quel celebrato episodio non pure l'amore, ma ancora squisito
ed intenso il sentimento d'amore? Non pare. Non ve n'é traccia
nessuna, intanto, nella protasi stessa dell'episodio, quale si svolge,
(1) Ciò è attestato da Servio (Aen, I, 198) e da Macrobio (Sat. VI, 2, 31)
ed ammesso comunemente dai moderni, benché si sia ingegnato di negarlo
con prove a dir vero poco convincenti, Luciano Muller (Quaest. Naeo. in
Q. Ennii carm. reti., Petrop. 1885, pp. xxiv e xxviii).
(2) Fr. De Sanctis, Nuovi saggi critici, Napoli^ 1879, p. 7.
— 33 —
e si ferma nel primo libro, ch'è l'antefatto logico e necessario del
quarto. Non per alcuna notabile qualità fisica o morale, non per
la bellezza del corpo ne per la nobiltà dell'animo o per la gene-
rosità di propositi 0 per la grandezza delle imprese Bidone s'in-
namora d'Enea; bensì soltanto per volere e intervento immediato
della divinità. Sbalzato Enea sulla costa d'Africa, e già predispo-
stogli favorevolmente l'animo di Bidone per intromissione di Giove,
pur paventando il diletto eroe non sia tradito dai Cartaginesi,
quippe domum timet ambiguam Tja-iosque bilinguis (1),
Venere pensa d'innamorare la regina, e a tal fine sostituisce
Cupido al giovinetto Ascanio. Così la regina inconscia, « inscia
Dido (2) », beve Yohlivion del misero Sicheo non dalla bocca o
dall'aspetto di Enea, ma dalla presenza inavvertita e dalla terri-
bile potenza del dio:
infelix, pesti devota futurae,
expleri mentem nequit ardescitque tuendo
Phoenissa et pariter puero donisque movetur.
Ille ubi complexu Aeneae colloque pependit
et magnum falsi implevit genitoris amorem,
reginam petit. Haec oculis, haec pectore toto
haeret et interdum gremio fovet, inscia Dido,
insidat quantus miserae deus. At memor ille
matris Acidaliae paulatim abolere Sychaeum
incipit et vivo temptat praevertere amore
iam pridem resides animos desuetaque corda (3).
Ammettiamo, ne si potrebbe altrimenti non ammettere, che sia
qui semplicemente un dei consueti spedienti mitologici dell'epica
classica, e che ciò non pregiudichi punto il partito artistico che
il poeta sarà per trarre di poi dall'episodio; resta in ogni modo
che nella protasi non è indizio nessuno di quel fine studio psico-
(1) 1, 661.
(2) I, 718.
(3) I, 712-22.
HivisUi di filologia, ecc., XXV.
— 34 —
logico che qualche moderno s'è avvisato di scorgervi, e, ancora,
che dal lato del sentimento puro questa specie d'antefatto non può
non nuocere alquanto all'efficacia estetica dell'insieme.
Nel modo stesso le nuoce e la raffredda anche più, sempre rispetto
al sentimento soltanto, l'impostatura medesima dell'episodio, qual
ci si offre sul principio del quarto lil?ro nel colloquio tra Bidone
e la sorella Anna. Didone, ferita oramai irrimediabilmente dalla
fatale opera di Cupido, « gravi iamdudum saucia cura(l) », spiat-
tella ad Anna con assai cruda franchezza di linguaggio la fiamma
che l'arde. Anche in Apollonio incontra a Medea qualche cosa di
simile (2); ancora ella dopo una notte febbrile pensa di trovar
conforto a' suoi tormenti nella sorella ; ma quanto non è più de-
licato il suo esitare e disdirsi, finché venutale innanzi la sorella
ringoia a forza le parole che le brucian la lingua e mendica pie-
tosi pretesti a coprire la vera causa della sua ambascia ! Sennonché
là si tratta del pudor verginale d'una fanciulla, in Virgilio invece
di donna matura, la cui condizione stessa naturalmente comporta
minor riserbo e discrezione. E, inoltre, non soltanto Didone è sti-
molata dall'impulso spontaneo del cuore, ma ancora alla sua mente
balena un pensiero più accorto e più complesso, quel delle nozze,
che oramai l'ha soprappresa e suo malgrado forse presso che sog-
giogata tutta quanta:
quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
degeneres animos timor arguit
si mihi non animo fixum immotumque sederet,
necui me vinclo vellem sociare iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae (3).
Del sentimento politico della futura prosperità e grandezza che
(1) IV, 1.
(2) III, 636 sgg.
(3) IV, 10-19.
— 35 —
da siffatte nozze potran derivare alla nazione cartaginese qui non
v'è tuttavia che il germe o la suggestione inconscia : più netto e
vigoroso, ch'è naturale, esso prorompe e s'afferma nella risposta
d'Anna:
nec venit in raentem, quorum consederis arvis?
hinc Getulae urbes, genus insuperabile bello,
et Nuraidae infreni cingunt et inhospita Syrtis,
hinc deserta siti regio lateque furentes
Barcaei. Quid bella Tyro surgentia dicara
germanique minas?
Dis equidem auspicibus reor et lunone secunda
hunc cursum Iliacas vento tenuisse carinas.
quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna
coniugio tali! Teucrum coraitantibus armis
Punica se quantis attollet gloria rebus (1) !
Il regno è circondato da nemici, e gravi pericoli lo minacciano :
qual fortuna migliore che congiungere le armi Cartaginesi con le
Troiane? e quanta non sarà per questa unione la gloria avvenire
dello stato? Tale la ragion precipua delle nozze; tale ancora il
solo stimolo che trascinerà Didone su la via della colpa. E la
colpa è, s'avverta bene una volta per tutte, non punto nel darsi
ad Enea (2), come sembra intendano i moderni, ma esclusiva-
mente nel violare con nuove nozze la memoria del primo sposo e
la fede giuratagli eterna, tolta la quale, anche sarebbe tolto
senz'altro ogni sospetto od occasione di colpa. L'amore adunque,
nato per fatale artifizio divino, immediatamente si volge e si
(1) Vv. 39-49.
(2) Questa potrà parere colpa a noi moderni, che per tanta parte ancora,
pur senza addarcene, e a volte anche nostro malgrado, siamo imbevuti di
morale cristiana; ma non sarebbe parsa mai a mente romana. Basti ricor-
dare che il concubinato stesso non aveva nulla di scandaloso allora, e anzi
tra le forme del ìnatrimonium iustum era anche quella del semplice usus,
una specie di prescrizione od usucapione giuridica che aveva luogo quando
la donna avesse dimorato per un anno senza interruzione nella casa del ma-
rito, e divenne poi, massime nell'età imperiale, il modo più comune di ma-
ritaggio (Tac. Ann., IV, 16).
- 36-
sfrutta a scopo politico: o che ha da vedere tutto questo con la
patetica passionalità spirituale di una donna che vive d'amore e
per amore si uccide?
Ma, si dirà, se nell'impostatura dell' episodio predomina sopra
ogni altro il sentimento politico, nulla vieta che da esso o accanto
ad esso non si svolga poi e non grandeggi nel quadro il senti-
mento amoroso. Notiamo intanto che siffatta intrusione e mesco-
lanza di due sentimenti diversi finirebbe con risolversi in un ibri-
dismo di forme troppo ostico e repugnante; e appena occorre
osservare che in arte la rappresentazione estetica d'un sentimento
riesce di tanto attenuata e impicciolita, quanto quel sentimento
è men puro e più compenetrato o complicato con altri disformi o
dissonanti da esso. Ora non v'è forse sentimento nessuno per na-
tura sua propria più egoista del sentimento amoroso, ne più in-
sofferente di qualsiasi giogo, né più alieno da comportare accop-
piamenti 0 poco 0 molto eterogenei. L'amore, perchè sia grande,
perchè sia profondo ed intenso, dev' essere solo principio e fine
esclusivo a se stesso, e ogni superfetazione, ogni altra infiltrazione
di sentimenti dissimili gli è immediatamente funesta ed esiziale.
Non a pensiero di nozze, non a remoto disegno politico obbedisce
Francesca, ma all'amore soltanto, alla ineluttabile legge d'amore
che « a nullo amato amar perdona » ; e a Francesca somigliano
tutte le più geniali creazioni femminili ed amorose dell'arte mo-
derna. Ma quella di Virgilio non è creazione femminile ed amo-
rosa: non è nelle origini sue, e non è neanche nel compimento
ulteriore dell'episodio.
Si badi: Bidone innamorata e risoluta a scoprirsi si ritrova di-
nanzi Enea. Il momento psicologico è altamente drammatico, e
a coglierlo è più che sufficiente una mossa fuggevole, un tratto,
una parola anche, una suggestione o reticenza sapiente. Ma a patto
che le vibrazioni di quel sentimento, tanto più rapide e intense
quanto il sentimento è più cercato di comprimere e soggiogare,
non trovino muto, inerte, impassibile l'uomo. Togliete Paolo, e
avrete dimezzato Francesca; sopprimete Faust, e svanirà senz'altro
Margherita. Come la donna dell'uomo, così è nella psiche amo-
rosa l'uomo il complemento necessario della donna; e alla rap-
— 37 -
presentazione artistica d'una grande e perfetta storia d'amore bi-
sogna sempre l'uno e l'altro elemento, per quanto sia poi libero
l'artista di relegare un dei due nello sfondo del quadro, o d'adom-
brarlo a pena in un gioco accorto di chiaroscuro, o di ritrarlo
comecchessia e quasi accennarlo in iscorcio soltanto. Or qual' è
l'atteggiamento di Enea di fronte a Bidone? Come al sentimento
dell'una risponde il sentimento dell'altro ? La mossa virgiliana a
primo aspetto pare non men delicata che suggestiva:
nunc media Aenean secum per moenia ducit
Sidoniasque ostentat opes urbemque paratam;
incipit effari mediaque in voce resistit;
Dunc eadem labente die convivia quaerit
Iliacosque iterura deraens audire labores
exposcit pendetque iterum narrantis ab ore (1).
Sennonché la frase del terzo verso, in apparenza così spontanea e
mirabile per verità psicologica, è presa da Apollonio (2), e l'effetto
artistico di tutto il passo riesce turbato e sminuito ancora per
l'infiltrarvisi del sentimento politico, che di straforo s'afferma fra
le righe, in queWurhem troppo capziosamente paratam, in quella
ricchezza e potenza Cartaginese con troppa ostentazione (non ostendit
dice il poeta, ma ostentat) cercata di far valere dalla regina. Ed
Enea? Di llii, dell'impressione sua, del suo atteggiamento, che
pur sì efficace rilievo avrebbe dovuto dare al quadro, neanche una
parola. Enea qui, nell'intenzion di Virgilio, sembra sia apparso
superfluo addirittura ; ma se quella intenzione fosse stata di creare
un grande e potente dramma d'amore, e se la fiamma di Bidone
non fosse un accidente affatto secondario dell'azione, gli è chiaro
che a l'occhio suo d'artista sarebbe indubbiamente balenato non
solo il partito estetico che dal contrapposto si poteva ricavare, ma
(1) Vv. 74-79.
(2) 111, 685-86. Medea vorrebbe confidarsi con la sorella, ma il pudore la
trattiene, e non sa risolversi a farlo :
TToXXaKi ò' iiaepóev nèv àvà eroina 60ev èviarrelv •
qpGoYYi*) ^' où irpoùpaive -rrapoiTépai.
— 38 —
eziandio il vuoto e l'effetto quasi d'interferenza che dal suo man-
care sarebbe derivato alla rappresentazione del sentimento amo-
roso (1).
Né questo è il solo passo dove chi giudichi esclusivamente dal
lato del sentimento, e, com'è ovvio, sia tratto spontaneamente a
integrarlo col naturai complemento di Enea, non provi poi una
sensazione di quasi stridente ripugnanza e non veda offuscarsi e
sconvolgersi l'armonia ideale del quadro per la piena inerzia amo-
rosa dell'eroe. Siamo in un punto molto inoltrato dell'azione : già
nella caverna si sono compiute le nozze, già la Fama ha diffuso
intorno la novella di quegli amori, e il re larba s'è già querelato
con Giove, e Giove ha mandato Mercurio a ricordare a Enea che
(1) Né mi si accusi di giudicare la situazione psicologica con criterio
troppo moderno e troppo diflforme dall'antico, perchè pur fra gli antichi non
mancano esempi di veri drammi d'amore, nei quali la scena a punto s'in-
tegra e si compie per la presenza simultanea d'entrambi i necessari prota-
gonisti. Basti per tutti la situazione di Medea e Giasone nel terzo libro di
Apollonio, non pure affine ma identica addirittura a quella di Bidone ed
Enea ; e si veda come l'efficacia poetica della rappresentazione s'accresca
per via del rilievo che al vibrare anche qui pudicamente frenato dell'amore
di Medea conferisce la mal dissimulata commozion di Giasone, e l'abbassar
che fanno entrambi lo sguardo, e il rialzarlo poi scambievolmente negli
occhi illuminati da un soave sorriso (vv. 1008-25):
"S2(; cpÓTo Kubaivwv • i^ 8' èY*«^>^òv oaae PaXoOaa
veKxApeov |uei&r|a'* èx'J^ri bé oì ?vòo9i 6u|uò(;
alvuj àeipofiévriq, koì àvéòpoKev ò|a)uaaiv àvTrjv
oùò' èx^v ÒTTI TTÓpoiGcv liT0<; 7TpoTi|uu9riaai to,
àXX' à|uu9i(; |uevéaivev àoXXéa iiavT' àYopeOoai.
TTpoirpò ò' àqpeiòriaaaa 9uit)òeo<; lEeXe lairpri*;
qpdtpinaKOV aÙTÒp 6 y' o.^^la x^poiv ÙTréòeKTO yefr]Q\iì<;,
Koi vù Ké ol Kol irfiaav àirò 0TTi9éujv àpvaaaa
Hjux»*)v èYYUÓXiEev àYaXXo|Liévr| xcTéovTi •
TOìoc, dirò 5av9oìo KopriaToc; Aìoovibao
arpàiTTEv "Epujc; i^òetav fino cpXÓYO • rf\c, b' àpiapvyàc,
òqp9aX|auJv fip-rraZev laivexo bè (ppévCic, eìavj
TriKO|uévr|, oTóv re irepì ^obéi^oiv èépor)
TifjKexai riiboiaiv ìaivo)uévr) qpaéeaaiv.
"Ajuqpuj b' óXXoTG |uév xe kot' oìj6eo(; 0|u|uaT' èpeibov
a(bd|aevoi, óre b' aOriq ini oqpiai póXXov òuujitàq,
i)Liepóev qpaibpr)ffiv ùtr' òqppOai jneibióujvTeq.
'Ov}jè bè òi] Toioiai ilióXk; TrpooTtTÙEaTo Koùpr|.
— 39 —
l'Italia, non l'Africa e Cartagine, ha da essere per imperscruta-
bile volontà del fato il termine delle sue peregrinazioni. Anche
qui la situazione è profondamente drammatica; anche qui s'atten-
derebbe che alla intensità dell'amore di Didone dia risalto e rilievo
l'intensità dell'amore di Enea, e si vorrebbe vedere perciò l'effetto
che il misterioso e terrifico ammonimento del dio esercita sul
cuore innamorato dell' eroe. Perchè, torniamo a dire, non giova
illudersi o sofisticare: una vera e grande storia d'amore è storia
sempre di due anime, di due sentimenti, di due passioni; è ne-
cessariamente prima che la donna si dia, ed è tanto più dopo, se
si vuole nella donna l'innamorata, non la sgualdrina o la delin-
quente soltanto, se si vuol Francesca o Margherita, non Semira-
mide 0 Messalina. Or come, di nuovo, e in che misura la passione
di Enea è sfondo e cornice a quella di Didone ? come e in che
misura lo strazio amoroso del cuore di lui annunzia e prepara la
catastrofe della fine?
At vero Aeneas aspectu obmutuit amens,
arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit.
ardet abire fuga dulcisque relinquere terras,
attonitus tanto monitu imperioque deorum (1).
Nell'improvviso stupore che soprapprende l'eroe (2), nel drizzarsegli
in testa i capelli per lo spavento e nel restargli strozzata in gola
la voce, non c'è luogo alla rappresentazione di altro sentimento
che religioso, non punto turbato, avvivato anzi, dal ricordo fugge-
volissimo e affatto sensuale delle « dolci terre », che cresce per
via del contrasto la significazione religiosa dell'ardore posto da
Enea in obbedire immantinente al monito della divinità. « Ardet
abire fuga dulcisque relinquere terras » : questo è il solo senti-
mento che lo domini in quella terribile situazione, e se pure il
suo pensiero si volge finalmente a Didone, ciò non è se non perchè
non sa trovare acconcie vie da ingannarla:
(1) Vv. 279-82.
(2) In questo effetto d'improvviso stupore i commentatori hanno notato
già l'imitazione dell'i^., XXIV, 358-60.
— 40-
heu, quid agat? quo nunc reginam ambire furentem
audeat adfatu? quae prima exordia sumat (1)?
E si badi a quel reginam del primo verso; non l'idea della
donna, non quella dell'innamorata balena nel tormentoso frangente
alla mente di Enea, ma sì soltanto la grandezza della regina,
della potente regina che il troiano presente già minacciosa e ter-
ribile. Non è che un lampo di sentimento politico; ma nella ra-
pidità sua stessa più che sufficiente ad attestare ancora di quali
elementi si componga il sostrato spirituale dell'episodio. A pena
dopo, quando nella infin presa risoluzione s'è quietato il tumulto
dell'anima, e l'eroe ha ritrovato la calma del freddo riflettere e
ponderare, a pena allora gli risovviene la bontà della donna e
l'amore ch'essa s'illudeva non dovesse aver fine mai; ma il ri-
cordo è soltanto per la speranza di aver Didone più arrendevole,
e di poter trovare più agevole modo alla partenza:
sese interea, quando opti ma Di do
nesciat et tantos rurapi non speret amores,
temptaturum aditus et quae mollissima fandi
tempora, quis rebus dexter modus (2).
Ne io affermo già, s'avverta bene, che Enea non potesse essere
innamorato : sì dico che il poeta non cura di ritrarlo tale, e perciò
non si preoccupa se non di quei tratti i quali gli sembra qua-
drino meglio alla rappresentazione del tipo ch'egli ha in mente,
che è esclusivamente, qui e per tutto il poema, il pius Aeneas,
l'eroe religioso per eccellenza, nel rispetto morale, e dal lato po-
litico il fondatore venerando della .stirpe e della grandezza ro-
mana. Non a torto osservava già il Fustel de Coulanges che « il
ne faut pas juger l'Eneide avec nos idées modernes. On se plaint
souvent de ne pas trouver dans Ènee l'audace, l'élan, la passion.
On se fatigue de cette épithète de pieux qui revient sans cesse.
On s'étonne de voir ce guerrier consulter ses Pénates avec un
(1) Vv. 283-84.
(2) Vv. 291-94.
- 41 -
soin si scrupuleux, invoquer à toiit propos quelque divinité, lever
les bras au ciel quand il s'agit de corabattre, se laisser ballotter
par les oracles à travers toutes les mers, et verser des larmes à
la vue d'un daoger. On ne manque guère non plus de lui repro-
cher sa froidear pour Didon C'est qu'il ne s'agit pas ici
d'un guerrier ou d'un héros de loman. Le poète veut nous mon-
trer un pietre. Ènee est le chef du eulte, l'homme sacre, le divin
fondateur, dont la mission est de sauver les Pénates de la cité
Sa qualité doniinante doit étre la piété Sa vertu doit
étre une froide et haute impersonnalité, qui fasse de lui non un
homme, mais un instrunoent des dieux (1)». Di qui a punto nella
rappresentazion virgiliana (la realtà della leggenda o della storia
poco importa al proposito nostro) quella freddezza di Enea verso
Didone, che anche appare più risoluta di poi nel colloquio tra i
due, avviamento e preparazione alla catastrofe finale, dove pur
campeggia sovrana la pietas dell'eroe, e la costanza e rigidità sua
inflessibile in obbedire superstiziosamente ai decreti divini. A un
certo tratto, è vero, il poeta ricorda fuggevolmente il « grande
amore»; ma il ricordo anche qui, come altrove s'è già osservato,
non giova se non a dare vie maggior risalto alla religiosità pro-
fonda del protagonista:
At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem
solando cupit et dictis avertere curas,
multa gemens magnoque animum labefactus amore,
lussa tamen divom exsequitur classemque revisit (2).
Qui non è certo la figura di Enea che qual ch'ella siasi dia ri-
lievo e compimento a quella di Didone; ma al contrario è l'amor
della donna che fa spiccare più vivo nel quadro il carattere mo-
rale dell' eroe, e gli serve di sfondo e cornice ad un tempo. È
anzi uno dei più mirabili esempi di quel gioco sapiente d'anti-
tesi, ch'è sì gran parte del magistero dello stile, e sì vigoroso
sussidio nell'arte della parola. Posta lì isolata, o ristretta in brevi
tocchi e pennellate, o stemprata nelle faticose volute d'un lungo
(1) La cité antique [Paris 1864], p. 179 sg.
(2) Vv. 393-96.
— 42 —
monologo, la pietas di Enea non sarebbe balzata mai così efficace
alla mente del lettore, come accade per l'aperto contrasto con
l'amore di Didone, e tanto più vivamente scolpito riesce il ca-
rattere di Enea, quanto appare più intensa e tenace la passione
della regina. Non è dunque il sentimento erotico il soggetto prin-
cipale di questa parte dell' episodio, ma sì, ancora, l'inspirazion
religiosa e politica; non è Enea il complemento ideale del quadro
amoroso di Didone, ma sì l'amore di questa l'accessorio e il ri-
lievo della religiosità di quello.
E non gioverebbe neanche supporre che a punto nel cozzo di
così disparati sentimenti, nel contrasto cioè tra l'ardor di Didone
e la rigida impassibilità di Enea sia il dramma d'amore che
Virgilio ha voluto rappresentare nel suo episodio, perchè in ogni
caso siffatto dramma s'intenderebbe che potesse aver trovato luogo
prima delle nozze, non mai dopo, e inoltre riuscirebbe troppo ri-
pugnante stonatura, nel modo come avviene e nelle circostanze
che l'accompagnano, il suicidio stesso della regina. La causa unica
del quale, a pena occorre ricordarlo, è l'abbandono di Enea, non
punto la sua freddezza, e se il dramma doveva essere nel con-
trasto, anche era ovvio e necessario che Didone si uccidesse prima,
non dopo.
Sennonché è il tragico scioglimento dell'episodio la parte dove
i moderni si sono argomentati di cogliere più intensamente e
squisitamente ritratta la passionale e profonda sentimentalità
amorosa della donna. Anzitutto, è stato detto, nella cieca violenza
dell' estrema miseranda invettiva di Didone, vibrante ancora di
desiderio e d'amore, non turbata né offuscata da nessun pensiero
di vendetta, quale sarebbe balenato minaccioso e prepotente in
donne di stampa diversa, o altrimenti concepite e rappresentate,
in Medea ad esempio, e in altre somiglianti. Nessun pensiero di
vendetta? Ma non pure il pensiero è in Didone, sibbene, ch'è più
grave, il rimpianto di non averlo tradotto in atto, quando il
tentar di tradurlo in atto era possibile tuttavia:
non potui abreptum divellere co-rpus et undis
spargere, non socios, non ipsum absumere ferro
- 43 —
Ascanium patriisque epulandum ponere mensis?
Veruna anceps pugnae fuerat fortuna. Fuisset:
quem metui moritura (1)?
E non vibra in questa invettiva che il cuore straziato della donna?
Ma anzi, qui la donna scompare, e non hai se non la regina
mortalmente offesa nel suo decoro, nella sua dignità, nelle sue
speranze a venire; non hai se non l'orgogliosa signora di Carta-
gine, la quale impreca allo straniero che s'è fatto giuoco del suo
regno:
et nostris inluserit advena regnis (2)?
e bestemmia lo scettro prostrato ai piedi dello spergiuro (3), e
inveisce contro tutta la schiatta de' profughi Troiani, e implora
che il suo popolo nutra eterno implacabile odio verso la stirpe
maledetta :
tum vos, 0 Tyrii, stirpem et genus omne futurum
exercete odiis cinerique haec mittite nostro
munera. Nullus amor populis nec foedera sunto.
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor,
qui face Dardanios ferroque sequare colonos,
nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.
Litora litoribus contraria, fluctibus undas
imprecor, arma armis : pugnent ipsique nepotesque (4).
Qui ogni traccia di sentimento erotico è soffocata interamente dal
sentimento politico, che solo invade e pervade la rappresentazion
poetica tutta quanta, e nell'odio di Didone per Enea e per la sua
schiatta annunzia e compendia la fiera accanita rivalità avvenire
di due popoli e di due razze, 1' una contro l' altra armata terri-
bilmente, « litora litoribus contraria, arma armis », senza posa
mai, senza tregua, senza speranza nessuna di pace sin che l'una
(1) Vv. 600-04.
(2) V. 591.
(3) Vv. 596-97.
(4) Vv. 622-29.
— 44 —
0 l'altra non sia annientata per sempre. Vibra qua dentro, in
questa rapida chiusa solenne dell'invettiva, come l'eco di quella
coscienza storica in cui s'era idealizzato il ricordo della titanica
lotta di Koma e Cartagine ; non è piìi Didone che parla, ma
il poeta stesso, e nel ritmo composto maestoso della sua pa-
rola balena come un raggio della grande anima di Roma, e il
verso sprizza scintille di fuoco, e scatti e fremiti ne balzan fuori,
i quali a noi così lontani dal modo d'essere e di sentire di quella
età non vien fatto di cogliere se non per isforzo tenace di ripro-
duzione erudita, .e in minima parte soltanto. Ma era qui, rispetto
al contenuto dell'epopea virgiliana, l'elemento suo migliore e più
durevole, era nel ricordo di queste formidabili guerre cartaginesi,
che le ultime generazioni repubblicane e dietro a loro l'augustea
s'erano avvezze ad ammirare come la più formidabile e gagliarda
prova della potenza romana, al modo stesso che la generazione
nostra fra le sacre memorie delle guerre d'indipendenza è cre-
sciuta all'odio contro lo straniero oppressore, e la francese d'og-
gidì accenna a voler ritemprarsi e rinfocolarsi tutta ai rinnovati
ricordi del cesarismo napoleonico.
0 dove s'è smarrita fra queste vampe d'entusiasmo patriottico
la passionalità sentimentale della donna votata al pietoso funerale
d'amore? Bisogna pur che si rintracci e si ritrovi da noi; e, di-
cono i critici, ancora ella rivive e risplende di nuova fulgidissima
luce nei particolari pietosi che accompagnano l'esecuzione stessa
del triste divisamento, in quel raccogliere sul rogo fatale le armi
di Enea, le sue spoglie, il letto iugalis e quasi le memorie tutte
del trascorso amore, per ultimo disperato conforto nell'istante su-
premo. Certo se una intenzione così fatta fosse in Didone, se letto
e spoglie e armi di Enea fossero poste sul rogo per un sublime
tratto di sentimento soltanto, questa sarebbe così squisita idealità
di rappresentazione amorosa, da non doversi dubitar punto che i
moderni non abbiano colto nell'episodio una buona parte di vero,
se non proprio tutto il vero, e che il poeta non abbia obbedito
negli ultimi tocchi almeno del quadro a una intensa e vivacis-
sima suggestione di sentimentalismo, s'intende senz'altro di senti-
mentalismo amoroso. Ma, ahimè ! anche le spoglie dell' eroe si
— 45 —
trovan sul funebre rogo per ben altra ragione. Bidone, per allon-
tanare da sé la sorella e aver modo di porre in atto il fiero pro-
posito, finge di voler ricorrere al soccorso della magia,
quae mihi reddat eum vel eo me solvat amantem (1).
Invia perciò la sorella a sollecitar l'opera d'una celebre incanta-
trice, pur raccomandandole di erigere innanzi tutto nell'atrio una
pira, con soprapposte l'armi e l'altre spoglie di Enea :
tu secreta pyram tecto interiore sub auras
erige et arma viri, thalamo quae fixa reliquit
impius, exuviasque omnis lectumque iugalem,
quo perii, superimponas : abolere nefandi
cuncta viri monimenta iuvat monstratque sacerdos (2).
Armi, spoglie e letto son dunque il pretesto all'erezione stessa
del rogo, e nel momento tragico della fine non vi si trovan rac-
colti se non per effetto d'una comunissima operazione d'incante-
simo amoroso, durata viva anche di poi tra le pratiche più diffuse
della magia (3). Naturalmente, giacche quei ricordi dell'amore
trascorso hanno da essere di necessità presenti alla morte di Di-
done, il poeta non può dimenticarli o trascurarli del tutto ; il che
avrebbe nqòiuto troppo alla naturalezza della rappresentazione, e
troppo apertamente violato i più elementari canoni dell'arte. Ma
questo affacciarsi medesimo del passato nel supremo istante, ch'era
pur fonte d'un'altra commoventissima e drammaticissima situa-
zione, non è colto in realtà da Virgilio se non per quel tanto che
richiedevano le materiali condizioni di fatto in mezzo alle quali
il suicidio si compie, e non senza che vi baleni un'ultima volta
il sentimento tutto politico dell'episodio. S'avverta ad esempio quel
(1) V. 479.
(2) Vv. 494-98.
(3) Per questo fine all'altre spoglie Bidone aggiunge poi anche l'imma-
gine di Enea (V, 508), giacché negli incantesimi erotici, mancando la per-
sona contro la quale eran diretti, s'usava rappresentarla con una figura di
lana o di cera, Gfr. eziandio Or. Sat. I, 8, 30.
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lectum iugalem quo perii, che ai commentatori è parsa soventi
così squisita mossa di pudor femminile, provocata dall'incalzante
memoria della caduta, e non è. Lasciamo che tutta la frase sembra
più che probabile reminiscenza di Euripide (1); ma se il pensiero
della regina avesse voluto trascorrere al rimorso della pretesa ca-
duta (che ben altra sia la colpa di Didone s'è già notato di sopra)
era in ogni caso da rammentare il luogo e il momento ov'ella si
dette ad Enea, non punto il letto coniugale. Là veramente Didone
sarebbe « perita », se la cagion del suo perire fosse quella che
i commentatori suppongono, cioè l'amore di lei per Enea, mentre
sono invece la costui fatale partenza e le nozze mancate. Perciò
non il ricordo dell'antro cuoce alla regina, ma il talamo, il ta-
lamo nuziale (2), sul quale e per il quale « data dextera quon-
dam » (3) e « incepti h3'menaei » (4) ; non 1' abbandono del-
l'amante l'uccide, ma l'offesa fatta alla signora di Cartagine e la
memoria di Sicheo indarno violata e il vano sacrifizio della fama
di pudica
qua sola sidera adibam (5).
Senza dire poi che taluni particolari e sfumature di quest'estreme
scene dell'episodio sono manifeste imitazioni e reminiscenze di
modelli greci, e attestano più che altro quello sfoggio sia pur
misurato e geniale d'erudizione, il quale, come parecchi hanno
(1) Alcest. ili sg. È Alceste che apostrofa il letto coniugale, così: x«?p''
où yàp èxOaipui a' àinbXeoac, òé |ue | )uóvr|v.
(2) Che questo sia il senso dell'aggettivo iugalis è provato da infiniti
esempi, che possono vedersi addotti nei vocabolari. Noi ricordiamo soltanto
le taedas iugales di Catullo, 64, 302, i iugalia dona di Ovidio, Met. Ili,
309, il iugale foedus di Valerio Fiacco, Vili, 222, il iugalis amor di Se-
neca, Agam. 239, i iugales annos (anni di vita matrimoniale) di Marziale,
X, 38, 2. Sostantivato poi iugalis designa tanto il marito quanto la moglie :
il marito ad esempio in Venanzio Fortunato, VI, 2, 76 : 0 virgo miranda
mihi, placitura iugali ; la moglie in un'iscrizione Portuense, pubblicata da
R. A. Lanciani {Bull, dell'inst. archeol. 1870, p. 22) e in qualche altro do-
cumento epigrafico.
(3) V. 307.
(4) V. 316.
(5) V. 322.
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già avvertito ^1)» è sì gran parte sempre della composizione vir-
giliana. Un esempio di ciò assai probabile s'è notato dianzi ; ma
per non abbondare in citazioni che non sarebbero da questo luogo,
basti per tutti la mossa finale del suicidio,
inciibuitque toro dixitque novissima verba (2),
che più d'un antecedente si trova avere nella letteratura greca.
Si veda ad esempio in Sofocle (3) la morte di Deianira, che si
trafigge con la spada sul letto di Ercole, o in Euripide (4) quella
di Alceste, pur sul letto matrimoniale, e si avranno lì le fonti e
l'inspirazione più che verosimile della figurazione di Virgilio, che
non è punto effetto d'una qualsiasi suggestione di sentimento. E il
medesimo potrebbe agevolmente ripetersi di più altre frasi e im-
magini di questa come di ogni altra parte dell'episodio.
Ma qui verranno alla mente di molti quelle apostrofi varie e
quei bruschi e improvvisi epifonemi, piccoli strappi alla rigidità
impersonale dell'epica, che qua e là s'incontrano per l'episodio, e
non possono attribuirsi se non al sentimento proprio e soggettivo
del poeta. Verissimo; però, si badi, a quale specie di sentimento?
Qui sta il punto essenziale da risolvere; e chi ben ne consideri
l'intima natura e significazione, non tarderà a ravvisarvi gli scatti
spontanei di quel non so che spirito o sentimento di mite e tem-
perato pessimismo, che in Virgilio avvertiva già molto assennata-
mente il Giussani (5). Non è il pessimismo disperato del Leopardi
nostro, ne il filosofico di Lucrezio o dello Schopenauer ; non è
neanche il pessimismo positivo e sperimentale che tanta parte in-
gombra di letteratura moderna e pur inavvertito serpeggia in
tant'altra parte di letteratura antica : è invece una cotal forma
(1) Sainte-Beuve, Et. sur ^irg.^ p. HO; Gomparetti, Yirg. nel M. E. 1',
22; D. Riccoboni, Quibus in rebus V. Hom. aliosque imitatus singul. hi-
geniwn prodest, Venezia 1879-80; P. Gauer, Verstdndniss der nachahm.
Kunst des Verg., Kiel 1885.
(2) V. 650.
(3) Trachin. 912 sgg.
(4) Alcest. 173 sgg.
(5) Studi di letter. rom., Milano 1885, pp. 91, sgg.
— 48 —
equilibrata e serena di pessimismo, che diffonde come un alito di
rassegnata mestizia e malinconia per tutto il poema, e si rivela
spesso in una frase, in un'esclamazione fugace, in un motto, anche
in una sola parola. Ora è il rimpianto dell'impotenza umana a di-
vinare l'imperscrutabile volontà del destino (1); ora il pensiero
della cieca forza di Amore (2); ora la rassegnazione né scettica
né fiduciosa all'inflessibile azione del Fato (3) ; ora altre somi-
glianti riflessioni, colte e fermate nel verso a pena di volo, nelle
quali sarebbe vano scorgere gli indizi di un sentimentalismo qui
più che altrove profondo e di un quasi partecipar più intenso
(ancor questo è stato detto) che il poeta faccia alla rappresenta-
zione oggettiva del suo quadro. Il che è tanto vero, e tanto poco
siffatti epifonemi importano l'attestazione d'un sentimento tutto
particolare all'episodio nostro, che altri esempi se ne incontrano
eziandio fuori di esso, in altri libri e passi del poema, ed anche
più rilevanti che non sien quelli del quarto libro, come del nono
la notissima apostrofe ad Eurialo e Niso, uccisi durante l'audace
spedizione a traverso il campo nemico (4).
Conchiudiamo dunque, ch'è tempo oramai. Le varie osservazioni
che Siam venuti facendo sin qui intorno all'episodio di Bidone,
non scemano punto il suo valore estetico, ma sì mostrano ch'esso
vuol essere inteso e giudicato in modo assai diverso da quello che
sogliono intenderlo e giudicarlo i moderni quando vi scorgono la
rappresentazione squisita e profonda d'una particolar specie di
bello sentimentale, che qui non ha luogo. Quel sentimento tutto
moderno d'idealità amorosa, da cui soltanto avrebbe potuto sca-
turire un tipo di donna qual molti si sono argomentati di rav-
visare in Bidone, un tipo di donna intensamente passionale, che
vive d'amore e per amore si uccide ; quel sentimento non è in
Virgilio, come non è nell'ambiente morale e intellettuale che lo
circonda, ne di esso è l'episodio l'espressione artistica, al modo
medesimo che dall'episodio non ricevettero gli antichi nessuna
(1) IV, 65.
(2) IV, 296.
(3) Cfr. le belle osservazioni del Giussani, 1. cit., p. 96.
(4) Vv. 446-49.
- 49 -
impressione, che ad esso si accosti. 11 valore estetico dell'episodio
non è perciò se non parte dello stesso valore estetico di tutto il
poema, né si compone di elementi dissimili da quelli onde si
compone in ogni altro luogo del poema, ne v'entra alcun senti-
mento diverso dal sentimento, ch'è inspirazione, anima e vita del
poema intero, cioè il sentimento politico e religioso. Nell'episodio
stesso la figura principale è Enea, non Bidone, introdotta esclu-
sivamente per dare vie maggior risalto e rilievo alla rappresen-
tazion poetica del protagonista ; e se anche a ritrarre le vicende
di Bidone Virgilio s'indugia più che non abbia fatto per ogni
altro personaggio secondario del poema, se le relazioni di Bi-
done con Enea occupano da loro sole un buon terzo di tutta
l'opera, ciò non è perchè il poeta intendesse crearvi una patetica
storia d'amore, ma per ben diversa, e, rispetto al fine deWEneide,
ben più grave ragione, la quale sta in quella profonda funzion
politica di Bidone nel poema, che con la consueta acutezza è
stata veduta e additata già chiaramente dallo Stampini. « Bi-
done », egli scrive, « assume... nel poema un alto significato
politico, incarnando, per così dire, in sé quell'antagonismo fra
Roma e Cartagine che si dispiegò col più fiero accanimento nelle
tre guerre puniche ; e si collega inoltre intimamente col fine pre-
cipuo àeiy Eneide, che è quello di dimostrare la fatale 'necessità
dell'impèro mondiale di Roma e di legittimare la recente domi-
nazione di Augusto, quale discendente di Enea. Quindi, se anche
si vuole, come si può, provare che gli amori di Enea e Bidone,
l'abbandono e la morte della regina di Cartagine, non furono per
la prima volta da Virgilio innestati nella leggenda di Enea,...
resta ciò non pertanto a Virgilio il merito di aver dato alla leg-
genda di Bidone un nuovo rilevantissimo significato, in quanto
che, nella economia del poema, essa raffigura il più forte ostacolo
che potesse impedire la fondazione di Roma e l'attuazione de' suoi
grandi destini » (1). Qui è il vero, il solo significato ideale del-
l'episodio di Bi.done noìVEneide, e a questa stregua soltanto può
essere adeguatamente inteso e misurato, lasciando il tecnicismo
(1) Op. cit., p. 15 sg.
Rivista di filologia, ecc., XXV.
— 50 —
della forma e dello stile, relemento spirituale del suo valore este-
tico. Nel quale, chi lo consideri bene, non è troppo arrischiato
ravvisare le traccie d'un altro aspetto di quella influenza greca,
che appare così largamente attestata nell'arte non che di Virgilio,
ma della scuola « nuova » tutta quanta, ed anzi è di così fatta
scuola una delle caratteristiche più risolute e nel tempo stesso,
se m'è lecita la parola, più battagliere. Ognun sa invero che, a
tacere dei singoli particolari, l'imitazione omerica si fa manifesta
sin nel disegno organico deW Eneide; e come questo poema nel-
l'intenzion dello scrittore doveva essere, e in realtà fu nel giudizio
dei contemporanei (1), l'epopea nazionale romana, al modo mede-
simo che Vlliade era l'epopea nazionale del popolo greco, non è
a meravigliare se la riproduziane fu da Virgilio voluta estendere
anche all'antefatto dell'azione eroica, e se il poeta s'è avvisato di
trovare nell'episodio di Enea e Bidone, radice delle secolari guerre
Cartaginesi, il corrispondente romano di quello di Elena e Paride,
dond'era nata la guerra Troiana.
V.
Or, si dirà, com'è accaduto l'equivoco? In qual guisa i moderni
sono stati condotti a scorgere nella Bidone virgiliana quello che
né gli antichi pensarono vi potesse essere rappresentato, né il poeta
intese rappresentarvi ? La ragion del fatto è ovvia assai, e sta a
punto in quel fenomeno d'inconscia collaborazione artistica, al
quale accennavo già nel principio del mio discorso. Collaborazione,
però, qui imperfetta e fallace, perchè troppo remota e disforme
dall'opera d'arte cui inavvertitamente si applica. Per riuscire effi-
cace e geniale siffatta collaborazione ha d'uopo che tra scrittore
e lettore sia piena omogeneità di sentire e di gusto, e che quasi
(1) Il confronto fra Virgilio e Omero doveva sorgere spontaneo per gli
antichi, che « non conoscendo Tessere vero dell'epopea omerica come oggi
noi lo conosciamo da Vico in poi, consideravano erroneamente Omero e Vir-
gilio come due individui solo distinti per lontananza di tempi e grado di
genio ». Gomparetti, op. cit., I-, 6.
- 51 -
respirino entrambi la medesima atmosfera artistica ; la qual con-
dizione essenzialissima viene a mancare, quando il lettore non
possa riprodurre e far rivivere intorno a sé l'ambiente intellettuale
e morale, in mezzo al quale l'opera d'arte è nata. Il che a punto
è seguito dei critici moderni, che non inducendosi ad ammettere
la relatività dell'estetica e delle sue leggi, e volendo d'altra parte
coonestare e giustificare in qualche modo la gran fama tradizio-
nale àeWEneide, sono stati tratti a riconoscervi le traccia di quei
tipi e forme del bello, che hanno maggior parte nella coscienza
artistica moderna. Tra i quali è in primissimo luogo il bello sen-
timentale, che ha per fondamento l'idealità amorosa ; onde non fa
meraviglia, se, movendo dal preconcetto d'un bello assoluto e im-
mutabile per ogni tempo e luogo si sien cercate in un poeta pa-
gano quelle specificazioni di esso, che rispondono meglio alle ten-
denze dello spirito moderno, e si sia voluto scoprire in Didone il
modello della donna gentile, passionale, presso che romantica, ch'è
straniero affatto al costume morale e all'arte degli antichi.
Quanto piaccia o dispiaccia ai fautori degli studi classici, che
non son pochi fra noi, somigliante conclusione, non molto dissi-
mile da quella cui si perverrebbe esaminando alla stregua del-
l'estetica scientifica e sperimentale tant'altra parte di letteratura
greca e romana, io non so, né mi propongo ora di sapere. Com.e
anche noii m'indugio a ricercare perchè dei parecchi che hanno
manifestato così viva ammirazione per l'episodio di Didone, neppur
uno abbia avvertito che la figura di questa donna, se fosse stata
nella mente di Virgilio sì intensamente sentimentale come fu
detto, dovrebbe avere il suo naturale e piti squisito compimento
in un altro luogo del poema, dove la situazione sarebbe stata anche
più profondamente drammatica e commovente che nell' episodio
stesso del quarto libro. Alludo alla discesa di Enea all'inferno,
nel libro sesto. Quivi tra l'ombre delle amanti infelici l'eroe s'ab-
batte anche in Didone, e cerca di rivolgerle la parola per iscu-
sare la propria colpa. Quale, nel supremo incontro, l'atteggiamento
di Didone ? L'antico amore, poi che i poeti l'amore l'hanno sempre
immaginato eterno, l'antico amore, dico, dovea pur sopravvivere
all'offesa, o almen tradirsi, quand'anche contenuto e represso, in
— 52-
uno sguardo, in un turbamento improvviso, in una rapida mossa
qualsiasi, e il momento era, ad esprimerlo, delicatissimo. Ma di
tutto ciò nemmen l'ombra in Didone :
Illa solo fixos oculos aversa tenebat,
nec magis incepto voltum sermone movetur,
quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.
Tandem corripuit sese atque inimica refugit
in nemus umbriferum... (1).
Nemica sempre, qui come nell'estrema invettiva del quarto libro,
nemica in vita e in morte, nient'altro che nemica : tale nell'in-
tensità del sentimento politico che l'informa la Didone virgiliana,
e come l'anima di lei fra l'ombre discrete della selva infernale
così sfugge e dilegua e svapora quell'altra Didone gentile inna-
morata troppo immaginosamente supposta dai critici.
L. Valmaqgi.
(1) Vv. 469-473.
— 53 -
LA MISOGINIA IN EURIPIDE (*).
TTÌc; |uèv KaKf\c, kókiov oùòèv YiTvexai
yuvaiKÓ^, èffGXfn; b' oòbèv el? ùirepPoXi^v
iréqpuK* fijLieivov.
Eurip. fr. 494 (Nauck^ p. 516).
I.
La misoginia di Euripide, per quanto da taluno negata, è tut-
tavia per molti un dogma letterario, per altri una verità dimo-
strata, per altri ancora un fatto controverso; per i più è almeno
una preoccupazione (1). Il quesito da lungo tempo è discusso; ma,
per quanto in vari sensi risolto piti volte, non è male che venga
sottoposto a nuovo esame, nel quale desideriamo né ciecamente
inchinarci alle autorità, ne venir compresi nel numero di coloro
che ad ogni modo vogliano essere fra i non illustri demolitori di
leggende letterarie e di opinioni generalmente o almeno larga-
mente professate. Ci dobbiamo adunque proporre, in primo luogo
e sopratutto, l'investigazione di quanto si trovi nel poeta stesso,
(*) Prolusione ad un corso libero di Letteratura greca presso la R. Uni-
versità di Torino, letta il 24 Novembre 1896.
(1) Vd. E. H. Braut, Euripides mulierum osor num recte dicatur, Berolini,
1859; E. H. Braut, Euripides de matrimonio quid senserit, Marienburg,
1863; P. J. Goster, Diatribe in Euripideae philosophiae locum qui est de
amore, Utrecht, 1835; A. Goebel, Euripides de vita privata ac domestica
quid senserit, Mùnster, 1849 ; Lentz, Euripides kein Feind der Weiber,
in Bibliothek der schònen Wissenschaften, 58, ll,195sqq.; A. Levi, Miso-
ginia Euripidea, L'Ateneo Veneto, 1895, p. 271 sqq.; H. Weil, Euripide,
Alceste, Paris, Hachette, 1891, p. 1 sqq., e H. Weil, Sept Tragédies d'Eu-
ripide, Paris, Hachette, 1879, Introduction passim. L'argomento è tale che,
almeno fuggevolmente, se ne dovettero occupare tutte le biografie di Eu-
ripide, comprese quelle incluse nelle Storie della letteratura greca. Cfr. U.v.
Wilamowitz-Moellendorf, Euripides Herahles^, I, p. 10.
— 54 —
guidata da un giudizio cauto e sereno tanto de' singoli passi,
quanto del loro complesso; vengono in seguito, beninteso, le no-
tizie che sul nostro argomento ci sono pervenute nelle opere degli
antichi, e quindi gli studi dei moderni. Dobbiamo vale a dire
esaminare pel nostro tema l'antichità in sé stessa ed il giudizio
e l'interpretazione che in lungo decorso di tempo ne fu data, met-
tendo a contribuzione l'antica tragedia, la comedia, la biografia,
gli scolii, i cenni isolati e la critica, che ora ex professo ora oc-
casionalmente hanno su tutto questo esercitata i moderni. Dal-
l'unione di questi elementi potremo avere criteri non inadeguati
a giudicare dell'arte euripidea e dell'importanza e del posto che
in essa occupi la misoginia. Anzi sarà questo un quesito di non
lieve momento: riconosciuta che siasi la misoginia nell'arte del
poeta, si dovrebbe inferirne che fosse misogino il poeta stesso,
Euripide? Distinzione questa interamente necessaria, anche a priori,
e che metterà nella debita luce più di un fatto, spiegando nel
tempo stesso l'origine e la diffusione di molti errori. Di fronte ai
quali si è spesso sorpresi e meravigliati che una tale questione
sia stata posta infelicemente e infelicemente discussa, ricorrendo
ad argomenti non solo destituiti di valore o insussistenti affatto, ma
benanco ingenui e puerili: dacché nelle affermazioni troviamo spesso
audacia inconscia e puerile fiducia, come pur troppo anche rispetto
ad altri punti che riguardano intimamente la vita e le opere del
poeta Salaminio. Necessariamente deve essere nostra massima : de
omni est duhitanduni^ tenendoci lontani dalla sicurezza di chi
tutto vuole sapere e tutto vuole spiegare. Più d'uno invero par-
rebbe che possa vantarsi di una conoscenza mirabile dell'anima
di Euripide e gloriarsi di averne scrutato i più intimi recessi,
conoscendo gli odii onde il poeta sarebbe stato animato, le idee
che avrebbe professato, le preferenze onde si sarebbe compiaciuto.
C'è chi non ignora quali personaggi il poeta avrebbe fatti suoi
interpreti, c'è chi afferma che il poeta non solo si tenne lontano
dalla vita politica, ma che è avverso alla democrazia, che detesta
gli atleti, che gli riescono insopportabili gli indovini (1), che dif-
(1) Non sarebbe stato il solo ad avversarli, che gli indovini si appalesa-
vano solenni ciurmadori. Si cfr. la prima parte dei Cavalieri di Aristofane.
— 55 -
fida degli Orfici, che disprezza gli araldi, che detesta gli oratori
intriganti (1), i quali cercano la popolarità, che odia le donne, e
così via (2). Qualcuna di queste affermazioni è tutt'altro che una
scoperta importante; le più fra le altre non sono corroborate nep-
pure da una costanza di enunciati nelle tragedie Euripidee. Da
molti alle numerose contraddizioni Euripidee non si è badato (3);
dai più tutto, 0 quasi, fu dedotto unicamente dai versi del poeta
(1) Ma questo era sentimento di ogni persona onesta: per gli oratori in-
triganti poteva sentire ammirazione solo o l'illuso o il tristo. Cfr. la dia-
tribe fra biKaio<; e fiòiKo<; Xóyoi; nelle Nubi Aristofanee. È questo uno dei
non pochi accordi, almeno teorici, col poeta che tanto lo mise in carica-
tura sulla scena. Che valore si deve attribuire al fr. 495 ?
(2) Vd. p. es. M. Groiset, Eistoire de la Littèrature Grecgue, 111, Paris,
P, Thorin, 1891. P. es. p. 291: « Parfois aussi, ce qui lui plaisait en eux
(les personnages), c'était une certaine conformité de leur caractère ou de
leur tendance morale avec son propre caractère ou les dispositions de son
esprit. Il était bien-aise de s'en faire des interprètes, et il s'attachait à eux
en raison des services qu'il en attendali». E p. 315: « A chaque instant et
de mille manières, le poète apparali dans ses pièces sous le masque de per-
sonnages ». — Accanto ad affermazioni incomplete (p. es. p. 322 : « Autant
que nous pouvons en juger, les amours qu'il avait mis sur la scène c'étaient
tous des amours coupables, qaelques-uns mème incestueux) » non mancano
di quelle troppo assolute; p. es. p. 335: « Hippolite est son interprete dans
le morceau célèbre où il exprime son aversion pour le sexe féminin ».
(3) Non poche sono le contraddizioni euripidee, o meglio i luoghi dove
si incontrano pensieri opposti. Per l'ateismo si veda p. es. fr. 254-56, 286,
292, 39'). Ma nelle tragedie non sono pochi i luoghi ne' quali si parla con
venerazione dei numi. Sono contradditori! i fr. 25 e 291, nel primo de' quali
i vecchi sono detti dissennati, nel secondo assennati. Per i messaggeri, che
secondo taluno Euripide esecra, non soltanto si cfr. p. es. Med. 1127, ma
si pensi quante parti belle ed elevate loro furono attribuite dal poeta. Eu-
ripide non ha un tipo fisso, ma si adatta alle varie leggende ed ai varii
personaggi. Sicché neppure per il fr. 282, dove c'è una tirata abbastanza
estesa contro gli atleti, si può dire senz'altro che quello fosse il pensiero di
Euripide. Già Ateneo, X, 413, dice che il pensiero è dedotto da Senofane;
certo, aggiungo, che anche Platone non ha troppa fiducia in tutte le parti
dell'educazione fisica, come attesta se non altro il Lachete, ed anche altri in
Atene non la pensavano diversamente, come provano se non altro le Nubi
di Aristofane, v. 413 sgg. e Lyc. in Leocr. 51. Era perciò questo un luogo
discusso, che poteva preoccupare Euripide e indurlo a trattarne; ma da
questo a dire che Euripide detestasse gli atleti, anche per l'educazione avuta
in gioventù, c'è un abisso. — Gontradditorii sono in Euripide anche i pen-
sieri circa la forma di governo.
— 56 —
con non troppa cautela esaminati isolatamente per sentimenti e idee
per le quali non abbiamo nelle tragedie di Euripide luminose
contraddizioni. Taluno vede continue allusioni ed è sempre pronto
a scorgere il poeta rimpiattato, direi, dietro la sua poesia. Ma se
neppure per la filosofia Euripide, il filosofo della scena, non
enuncia principii costanti ed in tempi successivi segue differenti
indirizzi, presentandoci così una notevole incostanza, che costi-
tuisce un elemento prezioso pel retto giudizio e pel retto inten-
dimento delle sue tragedie; se neppure per il pensiero, parte che
in lui, più che in altri tragici, predomina, accanto alla passione,
troviamo coerenza ed unità, a maggior ragione non potremo tro-
varla nel sentimento. Si pensi che l'arte di Euripide si esplicò
durante non meno di un quarantennio. La ragione del fatto, già
in parte spiegata dalla lunga carriera drammatica, sta in questo,
che Euripide è poeta, per quanto attinga alla filosofia, e come
poeta è soggetto alle varie e non costanti impressioni dell'ambiente.
Di queste impressioni si deve tenere il massimo conto; ma quanto
altri vuole o crede scorgere ne' versi di Euripide potrà essere
creduto solo qualora sia validamente dimostrato. Si tratta, in fondo,
della misura onde dall'opera si possa senz'altro riconoscere l'au-
tore: la misura è troppo manifestamente varia ed incerta ed ha
grandissimo e continuo bisogno di un cautelato controllo. Siamo,
è vero, in tempi ne' quali si desidera e si ama e non è sover-
chiamente difficile investigare quale parte di se gli autori con-
temporanei mettano nelle opere loro ; ma, pur essendo vive o per
tempo a noi immediatamente prossime le persone, quanti sono
gli errori, quante le inesattezze, quante le notizie diffuse e cre-
dute, eppure completamente smentite dalla realtà ! E se pur non
difettando di mezzi sono per i contemporanei così gravi e nume-
merosi gli errori, di troppo maggiore è il pericolo rispetto agli
antichi, la cui vita è generalmente nota in scarsa misura. Ma il
pericolo attira molti, e molti rende non prudenti, ma audaci. 11
pericolo però non deve essere dimenticato, né deve cadere in oblio
che la natura umana non è priva di contraddizioni, sicché non in-
frequentemente le opere artistiche non corrispondono in quella
misura ed in quella maniera, che taluno potrebbe credere, alle
- 57 -
persone; e tale che in pratica è debole, incostante, soggetto ai
bisogni ed alle passioni della realtà, in arte invece, quasi a com-
penso della vita, preferisce l'idealità, la fermezza, la forza; e nep-
pure mancano esempi del fatto contrario (1). Né tutti sono egual-
mente disposti ad aprire l'animo loro nelle opere artistiche: Euripide,
per natura scontroso e riserbato e solitario, quanta parte di se
volle esplicare? Si rammenti da ultimo che l'arte antica è più
oggettiva della nostra, che il mondo interiore tanto più è studiato
e rappresentato quanto maggiormente ci avviciniamo ai nostri
tempi, che Euripide deve essere studiato nel suo ambiente, non
già secondo tendenze proprie dell'età alla quale noi apparteniamo.
II.
Vediamo subito i non pochi elementi misogini, che si trovano
nelle tragedie di Euripide: uniamoli anzi in una certa qual unità
di esposizione come chi volesse trovare nel nostro poeta l'odio
contro le donne (2). Incominciamo da Elena, la quale si trova in
una posizione veramente eccezionale, dacché contro di lei si innalza
un concorde plebiscito di biasimo, di odio, di ira, cui partecipano
senza distinzione tutti i Greci ed i barbari. Elena è la pessima
fra le donna (Andr. 595, Cycl. 280, Orest. 521); il suo matri-
monio è infelice per eccellenza (Rhes. 260, Troad. 357), sia a
danno di Menelao (Iph. A. 389, Troad, 132), sia di Paride, il
(1) Cfr, Comparetti, Virgilio nel medio evo^ I, p. 15, n. 2 : « Niente di
meno serio dell'idea espressa da qualche crìtico moderno (V. fra gli altri
Teufiel, Gesch. der róm. Liti., p. 391) che la natura molle e mite di Vir-
gilio non fosse tagliata per l'epopea. Dicano di grazia questi signori quale
dei poeti epici della stessa categoria a cui Virgilio appartiene può dirsi nato
per l'epopea. Forse il Platonico Tasso, o il pio Milton, o il mistico Klop-
stock ? E come fra tanti poeti d'arte così diversi per stirpe e per carattere, il
solo molle Virgilio ha saputo fare il meglio in questo genere, mentre il
titanico e multilaterale Goethe quando a ciò si è voluto provare ha messo
fuori quell'aborto che è VAchilleideì »
(2) Nelle enumerazioni che seguono, più che indicare i singoli versi, si
designano i passi de' quali fanno parte. 1 frammenti sono designati colla
sigla fr. solo quando sono citati dopo versi di tragedie giunte a noi complete.
— 58 —
quale con essa è maledetto (Hec. 943). Elena è la rovina di Troia
(Andr. 362, 603, Hec. 266, 441), causa della morte di Priamo
(Troad. 132), di Ettore, di Achille (Hec. 266, 441), dei Greci e
dei Troiani, onde i genitori la maledicono. È causa di grandi
mali (Hel. 120), causa di rovina per la casa di Argo (Electr. 214),
e per Troia è non fàpioc, ma àtri (Andr. 104) ed Erinni (Orest.
1389). La sua bellezza è dannosa agli altri ed a lei stessa (Hel.
127, 263, 305), cui odiano anche gli dei (Orest. 20, Troad. 1264),
e che gli uomini detestano a tal segno da non volerne sentire
neppure il nome (Hel. 120). Lei, dopo la presa di Troia giusta-
mente fatta prigioniera (Troad. 35), dovrebbe uccidere Menelao
(Troad. 890), lei sacrificare i Greci invece di Polissena (Hec. 266),
dacché è cagna (Andr. 630), KaKÓqppuuv KÓpa (Electr. 480), ^àTaiO(;
(Electr. 1065), kokòv \Jiefa (Iph. A. 498, Orest. 247), obbrobrio di
tutto il sesso femminile (Orest. 1153, Troad. 1035), indegna di
Castore e Polluce (Electr. 1065, Troad. 132) e causa del suicidio
di Leda (Hel. 135), che, non reggendo alla vergogna della figlia,
si appese. Sebbene però sia conscia della triste sua fama (Hel.
53, 270), non cessa di abbigliarsi e farsi bella, dopo il ritorno da
Troia ed essendo lontano il marito, comportandosi così a modo di
donna non saggia (Electr. 1072); tuttavia osa difendersi dinanzi
a Menelao, ad Ecuba, che lancia contro di lei gravi e risolute
accuse, dinanzi alle prigioniere Troiane, che la maledicono (Troad.
1057); e parla con molta arte e con maligni pensieri (Troad. 967):
anche questo è uno de' suoi tristi pregi. Contro di lei jÀiaoq
"EWricriv anche Ifigenia si scaglia, augurandole insieme al coro
di fanciulle greche, che arrivi alla Tauride per esservi sacrificata
ad Artemide (Iph. T. 525, 530). Del suo ritorno ad Argo si duole
Oreste (Iph. T. 522) ; meglio era per Menelao il tornare senza di
lei (Orest. 247), lussuriosa (Cycl. 181), che si lasciò spontanea-
mente rapire (Troad. 373), e traditrice (Cycl. 182), infamia dello
Eurota (Troad. 132), e tale, che il servire ad Elena è pessima
delle servitù. — Ecco quanto con violenza, alle volte fortissima,
con disdegno e rabbia pensano di Elena, con raro accordo, Ecuba,
Andromaca, Elettra, Oreste, Teucro, Menelao, Penteo, Sileno, ed
altri fra i personaggi più insigni de' Greci e de' Troiani ed anche
— 59 —
tra l'umile volgo : è una condanna generale, un sentimento invin-
cibile. — Per altre donne, o per le donne in generale, il giudizio
sfavorevole non è sempre aspro e violento; talora anzi viene enun-
ciato senza che nell'espressione del pensiero, direi nella constata-
zione di fatto, traspaia un sentimento di ira o di odio o di bia-
simo profondo. Dall'ira, dalla rabbia, dalla passione si passa anche
al giudizio oggettivo. Ma le accuse sono varie e non poche. Seb-
bene le donne greche sieno migliori delle barbare (Andr. 870,
1139), tuttavia la loro inferiorità di fronte agli uomini è così
manifesta, da essere spessissimo ammessa inesplicitamente e dagli
uomini e dalle donne (Andr. 327, 458, Bacch. 786, 1297, 1345,
Hec. 1353, Hipp. 405, 498, Iph. A. 913, Iph. E. 627, lon. 398,
Orest. 309, 680, Troad. 731, fr. 483, 953 v. 10). Ed invero le
donne sono infelici appunto perchè donne (Hipp. 161, 668, Med.
230, 889): la natura stessa le ha fatte deboli (Iph. T. 1005), e
non le esime dai mali (209), talché basta essere donna per avere
KttKÓv (Iph. T. 521, Med. 928, fr. 119), e son peggiori le saggie
(Hipp. 55, Med. 285, 303), e le ignoranti riescono inutili, e le
belle mancano di senno (fr. 212) — però in generale le donne sono
stolte (Electr. 1035, Hel. 1697) — e le ricche sono meno sop-
portabili delle povere (232, 396, 405, 502, 503, 543, 775). Sa-
rebbe meglio che non esistessero (Cycl. 187, Hipp. 65), dacché
si hanno danni ogni qual volta ci si deve trattenere seco loro (Hec.
1179), e che i figli si avessero d'altronde: meglio sarebbe che si
impiccassero tutte (Hipp. 1252). Tutte debbono essere odiate,
fuorché la madre (498): sono linguacciute, maligne e sfacciate
nel parlare (Phoen. 198, Electr. 1013, fr. 3, 323, 430), ed amano
sparlare di loro stesse, cpiXóvjjoTOV Tevoq (Phoen. 201). Così loro
é altresì caro lagnarsi ad alta voce dei mali che le affliggono
(Andr. 93), dinanzi ai quali, causati da loro stesse, temono, fino
a tentare il suicidio (Andr. 804, Hipp. 728), segno massimo della
mobilità femminile. Facili al pianto (Her. 526), sebbene sia breve
la durata della gioventù femminile (fr. 24), si affidano alla bel-
lezza (Andr. 208), la quale tuttavia talora riesce loro dannosa
(Hel. 127, 263, 305); amano l'eleganza dell'abbigliamento, anche
in momenti affatto inopportuni (Med. 1160), e tanto abbondano
— 60 —
di inganni (Hel. 1620, Hipp. 481, fr. 421), da vincere con essi
gli uomini (Iph. T. 552, 1032, 1328) anche ricchi e nobili (662),
de' quali sono danno e rovina (Andr. 272, Med. 1223, 1292), e
contro i quali adoprano i veleni (lon. 615, 843, fr. 464) — e le
le cattive hanno veleni peggio che le vipere (Andr, 272) — e le
male arti. Chi ha senno non deve credere loro (675), perchè non
c'è da fidarsene (463), La natura femminile non ha giusta misura,
perchè nella donna i beni ed i mali sono massimi (Med. 408,
fr. 78, 276, 401, 408, 494): deboli, cedono e tentano indurre
altrui ad inchinarsi ai potenti (Andr. 117), diffidano di loro stesse,
tanto che la moglie legittima teme che l'illegittima con secreti
veleni le impedisca la procreazione della prole e tenti dominare
il marito valendosi del figlio illegittimo (Andr. 31, 157, 160).
Si tormentano fra di loro (Andr. 910, 930), specialmente se le
muove gelosia: così Tisifone è venduta dalla moglie di Creonte
pel timore che per la sua bellezza Creonte la sposi (vd. Ino), così
la moglie legittima perseguita la moglie illegittima, anche se
questa è infelice e tenta difendere il figlio (Andr. 29, 48, 68, 181).
Ma la gelosia femminile giunge ben a peggio, fino al sacrilegio,
violando il tempio dove si rifugiano i supplici (Andr, 255), fino
all'uccisione de' figli che il marito ha procreato da altra donna.
Questi sono sempre invisi (lon, 608), ma, nell'Egeo (4), Medea
trama contro la vita di Teseo, Creusa contro la vita di Ione (lon.
1017), Ermione contro la vita di Molosso (Andr. 807), onde ri-
sulta, tra l'altro, che matrigna è peggio di vipera (Ale. 310, lon.
1262), capace di sparlare benanco della figliastra allo scopo di
rovinarne le nozze (Ale, 315), Medea in impeto di rabbia gelosa
uccide perfino i proprii figli e causa la morte della nuova sposa
di Giasone e del padre di costei ; Teano tenta mandare a morte
i proprii figli, che, pur non conoscendoli come tali, aveva presso
di sé (Mei, desm.), ed i figli tenta di uccidere anche Temisto
(824), per non parlare di Frisso ed Elle obbligati a lasciare la
loro patria per le persecuzioni della matrigna. Nella gelosia rab-
biosa Medea impreca a sé, alle donne, al marito. Pe' difetti delle
donne il matrimonio è pieno di mali: la moglie giovine odia il
marito vecchio o lo domina (317, 804, 807) ; è male il matri-
— 61 —
monio di giovane con giovane (914), male per giovani e pei vecchi
(23), male anche con donna ricca. L'amore è dannoso alle donne
(400, 429, 430, 431, Med. 330, 462), che, se pur buone, non pos-
sono sottrarsi a tristi amori (Hipp. 358), che Afrodite rende dif-
ficile l'amore alle donne (Iph. A. 170); né mancano esempi di
lussuria. Questa rende le donne inferiori agli uomini (Andr. 218),
dacché le cose di Afrodite sono per esse le prime dovunque (Andr.
241, 372, 905). Le donne sono impudiche, mancano al riserbo
femminile, al quale é d'uopo richiamarle, anzi le spartane vivono
in soverchia comunanza cogli uomini e adottano fogge di abiti
virili (Andr. 593). Sono adultere (Andr. 945) anche per lucro, e
non mancano esempi di amore incestuoso : basti rammentare Fedra
e Stenebea. È inutile ed impossibile custodire le donne (Andr. 951,
fr. Ili, 320), che dovrebbero essere attorniate non da ancelle,
ministri dei loro intrighi, come la nutrice nell'Ippolito, ma da
mostri mordenti, sicché non potessero aver comunicazione col di
fuori. Che più? Le donne assai più degli uomini sono vinte dal
furore bacchico e spinte da esso a tal segno che Agaue uccide
il proprio figlio, avendo a socie le altre Tebane (Bacch. 35, 1222).
Le donne si vendicano atrocemente: Ecuba nel dolore per il re-
cente eccidio di Troia, per la morte di Priamo, di Polissena, di
Polidoro, sa ancora con raffinata arte femminile vendicarsi di Po-
limestore accecandolo (Hec. 1125), Elettra incita Oreste, che esi-
tava, ad uccidere la madre (Electr. 967), Alcmena insiste, contro
il desiderio degli Ateniesi vincitori, nel pensiero di uccidere Eu-
risteo (Heraclid. 1345) fatto prigioniero — l'efferatezza di Medea
nel vendicarsi è troppo atroce e nota. Ancora: la donna trista non
attende alla casa, ma sta sulla porta (521): per la femminile li-
tigiosità c'è da augurarsi che i nemici abbiano sempre le mogli
avverse. Da nessuno si deve temere più che da una donna trista
(1059), che anche morta danneggia l'innocente, come Fedra che
falsamente accusa Ippolito. I tristi sposano le triste (59), da cat-
tive madri nascono cattivi figli (298, 570). Se la madre ama i
figli più che non li ami il padre, ciò avviene per la ragione mater
autem certa ; ma le donne amano meno i figli che il marito
(Elect. 205) ; tra i mali che le affliggono si dee porre e pongono
— 62 —
esse medesime il parto (Iph. T. 14G6, fr. 251, 1030, 1291). Dav-
vero si deve dare la preferenza ai figli maschi (Iph. T. 57, fr. 15),
perchè vale più un solo uomo vivo che molte donne (Iph. A. 1394).
Stante la infelice natura femminile, le donne sono superbe e cru-
deli, fino a rinfacciare aspramente ai deboli ed agli oppressi la
autorità e la fortuna propria e le altrui sventure (Andr. 160); sono
TrótvTUJv òucJTuxujTaTOV (1544), TrdvTuuv àYpiuJTaTov kokóv (828),
àtripòv KttKÓv (Andr. 343), àmcTTOv févoq (Iph. T. 1298), 6npe?
(Hec. 1073, fr. 1407), cagne sanguinarie (Hec. 1173). Riescono
d'impaccio agli uomini, li spingono al male e li rendono tristi
(Orest, 605, 737). Le donne triste danno biasimo all'intero sesso
(493), onde l'odio all'amor femminile (Hipp. Cycl. 148, fr. 388,
428), onde il pensiero che si dovrebbe fare sacrificio di ringra-
ziamento non quando si sposa, ma quando si seppellisce la moglie.
In presenza di tanti mali non è da saggio smettere di parlare
delle donne (36) ; anzi, non ostante l'accusa di insistere su questo
argomento, di esse si deve sparlare sempre, od almeno fino a quando
esse smettano di essere triste (Hipp. 665).
IH.
In presenza di tali e tante accuse si potrebbe essere tentati a
concludere senz'altro in favore della misoginia di Euripide, repu-
tando scarsi e deboli gli argomenti che potrebbero addurre i so-
stenitori della tesi opposta, tanto più che questa è stata difesa
più con affermazioni e con varii esempi di passi euripidei non sfa-
vorevoli alle donne, che coU'esame minuto delle molte afferma-
zioni alle donne contrarie. Ma se l'enumerazione or ora veduta
può sembrare convincente — pur troppo molte pretese dimostra-
zioni e confutazioni a questo punto si fermerebbero — perchè
ampia e varia (sebbene non si vanti di essere completa), si pensi
che altri elementi non dissimili sarebbe non disagevole raccogliere
dall'argomento svolto in tragedie di Euripide giunte a noi soltanto
in forma frammentaria, a quella guisa che altri ce ne forniscono
la biografia di Euripide e la comedia. La parte più importante
- 63 -
per questo riguardo spetta senza fallo alle Tesmoforiazuse di Ari-
stofane, le quali anzi ci possono dare, o mi inganno, la chiave di
tutta la questione.
Nelle Tesnioforiazuse, Euripide, già vecchio, accompagnato dal
vecchio Mnesiloco, si reca alla casa di Agatone per averne soc-
corso contro le donne, le quali sdegnate contro il poeta, perchè
continuamente ne sparlasse nelle tragedie, sono prossime a convo-
carsi e prendere gravi decisioni contro il loro avversario. Ma Aga-
tone non si lascia commuovere dalle preghiere di Euripide, non
vuole andare fra le donne in abito femminile, temendo per la vita;
sicché Euripide, presi ad imprestito da Agatone degli abiti fem-
minili, ne riveste Mnesiloco, indarno riluttante, e lo manda al
consesso delle donne. Si alza una prima donna, che da lungo tempo
di mal animo tollera di vedere le donne insultate da Euripide,
figlio dell' erbivendola, Kai iroWà Kaì iravToTa àKouoùcra(; KaKÓ.
perchè Euripide loro muove ogni sorta di accuse ovunque ci sieno
spettatori, tragedi e cori. Sicché gli uomini, tornati dal teatro a
casa, guardano non ci sia in qualche luogo nascosto un adultero,
tolgono alle donne la pristina libertà, e di tutto sospettano — se
si intreccia una corona, se si rompe una pentola, se è pallida una
fanciulla — pensando sempre al peggio. Se poi una donna vuol
fìngere un parto, non è più possibile, dacché il marito non si al-
lontana, ne è pili possibile che le giovani trovino de' vecchi che
le sposino. Gli uomini tentano custodire il quartiere femminile
con serrature e catenacci e cani molossi, terrore degli adulteri.
Tutto questo però ad Euripide potrebbe ancora essere perdonato ;
ma, quel che è peggio, le donne non possono più disporre libera-
mente della farina, dell'olio, del vino, perchè gli uomini chiudono
tutto con certe maledette chiavi laconiche, piccoline, contro cui
ogni arte è vana, mentre per lo innanzi bastava per qualunque
serratura un òaKTÙXtov TpiopóXiov. È bene dunque che Euripide,
rovina delle famiglie, sia punito dalle donne con veleno o con in-
sidie. — Il coro approva completamente, e s'alza un'altra donna,
che fa ad Euripide un'accusa ben più grave, l'accusa cioè di es-
sere per colpa di lui priva del suo lavoro, onde deve mantenere
cinque figli, da che il marito le è morto a Cipro. Prima fmiKdKoi?
-64 —
SÌ, ma tuttavia riusciva a mantenerli col vendere corone di fiori ;
ma Euripide nelle tragedie ha persuaso gli uomini che non ci
sono dei, ed ora non si vende neppure la metà delle corone che
erano smerciate prima. Ed ecco Mnesiloco, in abiti femminili, di-
chiara di spiegarsi l'odio delle donne per Euripide e di parteci-
parvi; ma che fra loro donne, non potendo i discorsi venir ripor-
tati, è bene parlar chiaro. Che ragione c'è per condannare Euripide
se ci accusa di due o tre colpe a lui note, mentre noi ne com-
mettiamo infinite? lo stessa so di averne fatte di tutti i colori,
ma la più bella è questa che, sposa appena da tre giorni, di notte
sentii un grattar alla porta — era il mio antico amante, che mi
aveva violato quando avevo sette anni — finsi d'aver mal di pancia
ed uscii, non solo di camera, ma di casa, bagnando d'acqua i car-
dini ; godetti l'amante vicino all'altare, e tornai che il marito mi
preparava i rimedi pel mal di pancia. Una cosa siffatta Euripide
non l'ha mai detta, ne ha detto mai che in mancanza d'altri noi
si ricorre ai servi, ne che dopo una notte d'amore coll'amante,
noi si mangia dell'aglio, perchè il marito non si insospettisca ; né
ha detto che una moglie fece fuggire l'amante, mentre faceva
contemplare al marito quanto è bello l'èTKvjKXiov di mattina.
Un'altra per dieci giorni finse di essere sopra parto, ed il marito
si affacendava a comprare rimedi ; finché una vecchia porta a casa
il bambino dentro una- pentola, lo estrae di là e lo presenta al
marito, che ne gongola, e si gode gli elogi ironici. E noi osiamo
sdegnarci contro Euripide? — 11 coro si meraviglia dell'audacia
di questo discorso, dice TTavcOpyo? la supposta donna che osa par-
lare così, e conclude che al mondo peggio delle donne sfacciate
non c'è nulla, fuorché le donne. — Ma una terza donna propone
di punire chi ha osato parlare tanto apertamente ed insultare tutte
quante: Mnesiloco difendendosi replica che Euripide ha messo
nelle tragedie le Melanippe e le Fedra, perchè simili a queste sono
tutte le donne, ma di Penelopi ce ne fu una sola, e perciò egli
non l'ha cantata; ed aggiunge che le accuse di Euripide non col-
piscono neppure la infinitesima parte del vero, ed espone come le
donne sottraggono il vino, diano la carne alla mezzana e poi ac-
cusano la mustela — noi diremmo la gatta — e seguita col dire
— 65 —
che una prese a colpi d'accetta il marito, un'altra lo fece impaz-
zire coi filtri, un'altra lo seppellì sotto il pavimento del bagno;
una acarnese partorì una femmina, e la diede alla schiava pren-
dendo il maschio che costei aveva partorito. L'avversaria non regge
più, vuole sconciamente punire l'acciisatrice delle donne; si viene
alle mani ; ma il coro invita alla calma, dacché si avanza distene,
che le donne ammettono fra loro per la sua effeminatezza, di-
stene porta la notizia che si bucina un affine di Euripide sia pe-
netrato fra le donne per difenderlo; bisogna adunque cercare questo
uomo vestito da donna. Mnesiloco tenta di andarsene inosservato,
ma non gli riesce fatto, anzi viene interrogato, cade in contrad-
dizioni e perciò è sconciamente ricercato nella persona, con grande
compiacimento delle donne, e da esse custodito, finché distene
possa indurre i pritani a provvedere al caso. Ma ecco che Mne-
siloco afferra il bambino di una donna e con esso si rifugia al-
l'altare, minacciando di uccidere l'infante se non viene lasciato
libero. La donna strepita, le altre urlano, Mnesiloco scopre il bam-
bino per ucciderlo, e trova non un bambino, ma un otre ripieno
di vino e fasciato, ed esclama che le donne sono un gran bene
per gli osti e un gran male porgli uomini. Dall'otre ferito sgorga
il vino, e la donna chiede un recipiente per raccogliere il sangue
del figliuoletto suo. Però Mnesiloco, tornatogli vano il primo ten-
tativo, riconosce che urge pensare alla salvezza, e pensa di imi-
tare le arti di Palamede. Mentre egli aspetta soccorsi, il coro delle
donne si difende nella parabasi : se siamo quel gran male che si
dice, jierchè ci sposate, perchè tanto ci custodite e infuriate se
altri ci tocca ? Dovreste essere contenti che altri ci portasse via ;
ma invece se una donna, un male, si affaccia alla porta, tutti de-
siderate questo male e vorreste almeno rivederlo. Le donne sono
migliori degli uomini, prova ne siano i nomi, né sono poche le
lagnanze che le donne hanno da muovere agli uomini: o perché
la madre di buon cittadino non è onorata e premiata, e la madre
di tristi cittadini non è punita? — Mnesiloco, stanco di aspettare,
imita la nuova Elena, cioè l'Elena di Euripide ; Euripide in abito
di Menelao tenta sottrarlo alle donne, ma esse lo respingono. Suc-
cede un coro delle donne, dopo il quale giunge il toxotes, che
Rivista di filologia, ecc., XXV. 5
— 66 -
lega Mnesiloco ad un'asse, e Mnesiloco si atteggia ad Andromeda,
legata allo scoglio, ed Euripide, in abito di Eco, tenta salvarlo ;
ma indarno, che il toxotes lo scaccia. Euripide allora si volge alle
donne, perchè lo aiutino a salvare Mnesiloco; se lo aiutano, non
sparlerà più di loro, nel caso contrario ne sparlerà ai mariti re-
duci dall'esercito. Le donne acconsentono, Euripide si avanza ve-
stito da vecchia e accompagnato da una flautista, di cui si inva-
ghisce il toxotes: Euripide-vecchia gliela concede, ed il toxotes si
allontana colla flautista, affidando la custodia di Mnesiloco alla
presunta vecchia per l'appunto ed alle donne. Ma queste slegano
Mnesiloco, che fugge con Euripide. Quando torna il toxotes, le
donne gli danno false indicazioni sulla via presa dai fuggitivi.
Questo, in breve, il sunto delle Tesmoforiazuse ; ma quale è il
significato di questa comedia, tanto ridicola e pur tanto seria?
Parrebbe una caricatura di Euripide ritenuto misogino, almeno
come poeta, ma non è ; almeno non è soltanto questo. Aristofane,
con palese caricatura, professa che dall' opera con molto stretta
misura si deduca l'autore, e finge negli Acarnesì che Euripide
componga le sue tragedie miserevoli indossando misere vesti,
e nelle Tesmoforiazuse stesse mette ridicolamente sulla scena
Agatone che si accinge alle sue tragedie molli e delicate assu-
mendo abiti femminili; anzi Agatone dichiara (Tesm. 148 sgg.)
che in lui 1' abito corrisponde al pensiero, perchè il poeta deve
avere i costumi conformi ai drami che intende comporre, che è
fatto inevitabile che si poeteggi conforme alla propria natura. II
canone è vero, ma la difficoltà sta nell' applicarlo nella debita
misura; per questo rispetto però dal poeta comico non si può
aspettare nessun riguardo. Ebbene, non c'è in Aristofane passo
alcuno nel quale contro Euripide sia formulata l'accusa di miso-
ginia. Nelle Nubi il vecchio Strepsiade si scandalizza per l'im-
moralità di alcuni tipi di donne che appaiono nelle tragedie di
Euripide — nel che è contenuta un'accusa di immoralità, non di
misoginia. Nella Lisistrata si dice che le donne sono nemiche
degli Dei e di Euripide, e che nessuno è più sapiente di Euri-
pide, che ha conosciuta l'impudenza delle donne; ed appunto nella
conoscenza parziale che Euripide ha dei difetti delle donne è fon-
- 67 -
data nelle Tesmoforiazuse la difesa di Mnesiloco. Il bello è questo
che Aristofane inventando la favola della sua comedia, inopian-
tata sull'odio delle donne contro il poeta, supera di gran lunga
il poeta Salaminio, e fa sì che le donne appalesino le loro ma-
gagne, le riconoscano esistenti, e si sdegnino non perchè Euripide
loro apponga colpe immaginarie, ma le accusi di colpe reali. Per-
sino nella parabasi non c'è una difesa, dacché si rileva con molta
comicità la contraddizione insita nel sentimento degli uomini
verso le donne, sentimento misto di amore, di gelosia, dì diffi-
denza, di sprezzo, di odio. Parrebbe quindi da non escludersi la
conclusione che Aristofane sarebbe stato molto più misogino che
Euripide, e forse per ragioni personali anch'esso, dacché si citano
de' versi donde apparirebbe che neppure Aristofane sarebbe stato
fortunato per la famiglia, e non solo perchè le Tesmoforiazuse
sono una satira del sesso femminile tutto quanto, più che una
riprensione comica di Euripide come reputato misogino, ma anche
perchè in altre comedie aristofanee la donna appare molto spesso
censurata, dileggiata e ricca di difetti. Davvero fa meraviglia,
che avendo tanto affermato a carico di Euripide in base al con-
tenuto della sua poesia, non siasi a fortiori affermato almeno al-
trettanto per Aristofane. Si potrebbe osservare altresì che non
essendosi fatta, e non a torto, questa affermazione a carico d'A-
ristofane, a maggior ragione non dovrebbe esistere per Euripide.
E questa ■ conclusione non è senza valore; ma ha molto maggior
importanza un altro fatto, che riguarda la genesi delle Tesmofo-
riazuse stesse, collegate non a tutta l'opera Euripidea, ma a due
tragedie in modo speciale. Le Tesmoforiazuse furono rappresen-
tate il 411, cioè l'anno dopo che Euripide aveva dato sul teatro
ateniese l'Elena e l'Andromeda. Ora nell'Elena, come Euripide la
rappresentò, non c'è il tipo della donna censurabile, quale l'an-
tica eroina era nell' universale giudizio, perchè , riprendendo il
motivo già trattato da Stesicoro nella famosa Palinodia, Euripide
mise sulla scena un' Elena fedele al marito, non mai andata a
Troia, ma fermatasi in Egitto (mentre un fantasma simile a lei
seguiva Paride ad Ilio), sempre fedele a Menelao, a segno di re-
spingere, dopo lunghi anni, le nozze di Teoclimeno, e da sottrarsi
— 68 —
ad esse fuggendo insieme al marito con grande gioia riveduto e
con grande accortezza salvato. — Anche l'Andromeda, almeno a
giudizio dei frammenti giunti sino a noi e della parodia che Ari-
stofane ne fa nelle Tesmoforiazuse, doveva essere esente da azioni
turpi 0 violente commesse da qualche eroina. Si avevano dunque
almeno due tragedie, nelle quali mancavano elementi misogini,
che in altre, a queste anteriori, non difettavano. Il poeta comico
approfittò di questo fatto, ne inventò una spiegazione comica:
Euripide non ha sparlato delle donne ? Perchè ? Egli è venuto a
patti colle donne, ne ha placata l' ira, ha . promesso di non spar-
larne più. Questo si trova appunto nella chiusa delle Tesmofo-
riazuse. Ma è troppo palese che la spiegazione è interamente co-
mica ed interamente inventata, che essa è di per sé una carica-
tura, la quale però mette in rilievo un fatto notevole, cioè che
abbiamo tragedie di Euripide dove non si trovano elementi miso-
gini. L'affermazione in generale è giusta, anzi è vero che in pa-
recchie tragedie accanto ad elementi misogini altri ne abbiamo
che rivestono un carattere diametralmente opposto. Anche di questo
fatto si deve esaminare l'estensione e l'importanza: ma prima è
d'uopo trattare un altro punto, strettamente collegato a quanto
or ora si è veduto, e che ci lascierà poi libero il campo della
ricerca e delle conclusioni.
mi.
Veduta un' invenzione della comedia antica a proposito della
misoginia di Euripide, è d' uopo studiare altre consimili inven-
zioni, delle quali abbiamo una qualche notizia, parimenti dovute
alla comedia. — Nelle biografie greche si racconta che Euripide
avesse due mogli, che 1' una fosse peggiore dell' altra e infedeli
entrambe, che Cefisofonte collaborasse non solo alle tragedie del
poeta, ma anche alla procreazione della famiglia, che il poeta da
queste particolari vicende delle sue relazioni matrimoniali si ac-
cendesse di odio e di sdegno contro le donne, e questo sentimento
esprimesse nelle tragedie. Con questo sfogo di odio contro le
donne è messo in speciale relazione il tipo di Fedra ed il fatto
- 69 -
che il poeta lasciò Atene per recarsi alla corte di Archelao. Si
narra altresì che le donne sdegnate contro Euripide deliberarono
di ucciderlo in un antro (1). — Per taluna di queste notizie il Pic-
colomini (2) ha luminosamente dimostrato la provenienza dalla
coraedia, rintracciando perfino le vestigia dell' antica forma me-
trica, non interamente scomparsa neppure dopo molte e molte
manipolazioni ; per le altre or ora esposte è parimenti palese la
medesima origine; si può anzi dire che abbiamo nelle antiche
biografie il sunto o l'accenno di più di una comedia, tra le non
poche composte per mettere in caricatura il poeta Salaminio, e
che alla stessa guisa delle Tesmoforiazuse di Aristofane avevano
per punto di partenza le conseguenze dell'odio delle donne contro
Euripide. Aristofane colle Tesmoforiazuse volle spiegare comica-
mente le ragioni intime onde sarebbe risultata l'Elena euripidea;
un'altra comedia volle spiegare la ragion d'essere dell'Ippolito;
la medesima comedia, od un' altra, svolgeva il tema dell' assalto
dato dalle donne all'antro, dove Euripide soleva raccogliersi a
meditare ; un' altra voleva spiegare la partenza di Euripide da
Atene colla infedeltà della seconda moglie. Invero Melito e Obe-
rile sono i nomi delle due mogli assegnate ad Euripide; ma non
sono costanti le indicazioni, secondo taluna delle quali Melito
sarebbe stata la prima e Oberile la seconda ; altre accennano
un ordine inverso, ed ancora si dice che, in forza di una legge
ateniese, il poeta misogino avesse, per un certo tempo, tutte e
due le mogli insieme. Ma si osservi che Oberile è tutt'altro che
nome sicuro di donna realmente esistita, che troppo facilmente
esso ha un significato osceno ed interamente inventato dai comici,
come appunto sostiene il Wilamowitz-Moellendorf (3), che per
questo motivo può essere ritenuto come ignominioso soprannome
dato alla moglie di Euripide. Oon questa considerazione manche-
rebbe il massimo appoggio a credere che Euripide avesse due
mogli: Melito e Oberile corrisponderebbero ad una persona sola,
(1) Che questa invenzione siasi ispirata al v. 194 sgg. delle Tesmoforia-
zuse dove Agatone teme che le donne lo uccidano ?
(2) Hermes 1882, p. 333-5.
(3> Anal. Eurip., 149.
— 70 —
tanto più quando si consideri l'incertezza della cronologia, diremo
così, matrimoniale, — incertezza che può essere derivata dal non
aver badato al senso del nome Cherile e dal volersi spiegare l'esi-
stenza del nome Cherile accanto a quello di Melito. Se questa
conclusione non fosse accettata, ed altri preferisse vedere nella
bigamia attribuita ad Euripide un' altra invenzione de' comici,
non potremmo, è vero, addurre argomenti in contrario, ma avremmo
un'ipotesi tutt'altro che sfavorevole alla nostra dimostrazione. Che
pili? Si racconta che Euripide morisse sbranato da cagne; il poeta
tragico, tanto perseguitato in vita dai poeti comici, non fu rispar-
miato dopo la morte, come dimostrano le Rane di Aristofane e le
Muse di Frinico, rappresentate insieme, con un sincronismo no-
tevolissimo per farci capire con quanta intensità i comici pren-
dessero argomento dal nostro poeta. Ebbene anche nella morte
violenta del poeta si volle vedere l'opera delle donne, sia per ven-
dicarsi del poeta in causa delle accuse da lui rivolte al sesso
femminile, sia per punirlo di un intrigo d'amore o di preferenza
ad amore maschile — né si era interamente alieni dal credere
che le cagne furenti fossero appunto le donne. Qui e' è o un'altra
invenzione comica o le conseguenze di altre invenzioni della co-
media (1). — Abbiamo così, accennato da piti parti, un saggio
dell' antica caricatura attica ; ma, per esprimermi mediante un
confronto colle moderne caricature, è giunto intero a noi soltanto
un numero, le Tesmoforiazuse; degli altri numeri della caricatura
abbiamo soltanto minimi e separati pezzettini, sicché non possiamo
neppur tentare di ricostruire il disegno del foglio intero. Con
queste invenzioni comiche si comprende come si diffondesse l'opi-
nione che Euripide fosse misogino; dapprima le notizie di origine
comica erano distinte e valutate secondo la loro derivazione, ma
pili tardi, nella costrizione dell'antico sapere, tutto fu coartato e
confuso, e non si seppero disgiungere le notizie storiche e quelle
dovute alla caricatura. Ora per l'appunto, se facciamo astrazione
dagli elementi misogini contenuti nelle tragedie euripidee, del
cui valore ed interpretazione parleremo subito, circa la misoginia
(1) Si vedano le vite raccolte a principio dell'ed. euripidea del Nauck.
— 71 —
di Euripide pel nostro giudizio esiste probabilmente soltanto una
caricatura completa e frammenti minimi di altre, e appunto da
caricature dovremmo ricostruire e trovare la realtà — problema
certo difficile e pericoloso. Ma per giudicare rettamente delle ca-
ricature le quali concernono la misoginia euripidea, non si deb-
bono dimenticare quelle riguardanti altri punti della biografia di
Euripide. Dalla proporzione che ha la verità di fronte all'inven-
zione comica in quest'ultima potremo arguire la medesima pro-
porzione anche per le prime, che ora direttamente ci riguardano.
Ricorro all'esempio che ritengo il più efficace, vale a dire a quanto
dicono i comici sui genitori di Euripide. Aristofane e gli altri
comici colgono ogni occasione per rinfacciare al Nostro la sua
ignobilità, dicendo che la madre del poeta, Olito, era erbi Vendola,
che il padre era fuggito in Beozia per vergognosa povertà. Di
fronte all'accordo dei comici qualcuno de' moderni si prese il gusto
di supporre che Olito fosse una bella popolana sposata per la sua
bellezza da un signore ateniese: almeno questa è una bella ipo-
tesi. Ma Filocoro che tutti i moderni apprezzano grandemente per
esattezza di ricerche e per felicità di metodo storico. Filocoro dico,
il quale sulla biografia di Euripide fece studi speciali e diligenti,
favoriti altresì dalla non grande distanza dai tempi del poeta, af-
ferma invece che Euripide apparteneva a buona famiglia. È il
caso di ripetere ab imo disce owmes (1). Non già che le caricature
dei comici mancassero di un fondamento nella realtà ; questo no,
ma questo fondamento è troppo difficile trovarlo, chi abbia sol-
tanto a sua disposizione la caricatura, dacché un fatto minimo
può originare una caricatura, che direi massima, ed un fatto mas-
simo una caricatura minima. Ma per la madre di Euripide, la
XaxavÓKuuXiq dei comici, è opportuno un raffronto moderno, de-
sunto da quelle Guépes che Alfonso Karr per parecchi anni con-
secutivi pubblicò, con vivacità di spirito qualche volta non infe-
riore a quella di Aristofane ma con forma di arte, che di fronte
a quella di Aristofane è appena rudimentale. Egli appunto rac-
(i) Si confronti la caricatura di Euripide negli Acarnesi, di Agatone nelle
Tesm., di Socrate nelle Nubi.
— 72 —
conta che, regnante in Francia Luigi Filippo, ogni mattina
una vettura di corte collo stemma reale portava sul mercato di
Parigi, per la vendita, le ortaglie raccolte da' reali giardini, ed
esclama che si spiega che i negozianti vogliano fare il re, se i re
vogliono fare il negoziante (1). Un fatto di tal natura non sa-
rebbe sfuggito alla comedia antica, e Pericle, Cimone, un altro
qualsiasi della nobiltà o appartenente a buona famiglia ateniese,
non sarebbe in nessun modo passato inosservato neppur per cose
meno importanti. Sicché una qualche ragione della caricatura
contro la madre di Euripide ci fu, quale non si può dire; ma si
può con Filocoro negare la bassa estrazione di Euripide. Pari-
menti ci furono occasioni ed appigli a molti altri attacchi dei
comici contro Euripide; gli elementi misogini, che dalle tragedie
abbiamo pur dianzi raccolto, troppo abbondante materiale forni-
vano, perchè la caricatura lo trascurasse ; ma ciò non significa che
alla caricatura si debba prestar cieca fede, neppure se gli scoliasti
ci parlano qua e là di Euripide mcTofuvri*;. L'epiteto è più che
naturale in chi commentava comedie e riferiva notizie da altre
comedie, nelle quali, per caricatura Euripide appariva laiaoYuvriq
0 giù di lì : si aggiunga che i passi degli scolii dove tale desi-
gnazione è data ad Euripide sono poco numerosi e tali da ag-
giungere ben poco o nulla al verso che dovrebbero illustrare.
Qualche altro indizio, derivato da aneddoti giunti fino a noi sul
conto di Euripide, può avere qualche relazione colla comedia, fatto
che non si potrebbe per ogni singolo caso ne negare né affermare,
ma che per un gruppo di casi é agevole ammettere; ma sarebbe
piuttosto un appoggio alla tesi nostra, contrastando cioè alla cor-
rente, che dipingeva Euripide come misogino. Tale è l'aneddoto
di Sofocle, che diceva Euripide misogino èv TpaTOJbiaiig, ma èv
KXivr] qpiXoTÙvn? (2), tale anche l'aneddoto di motti scambiatisi
fra Sofocle ed Euripide per un comune puer pathicus, che al
poeta coloneo rubò il vestito. Né l'amor maschile, che più volte
viene innanzi a proposito del nostro poeta (in questi ed altri
(1) A. Karr, Les Guépes, voi. I, p. 21.
(2) Sofocle distingue, in questo anedotto, fra l'uomo ed il poeta; tale di-
stinzione non è presso gli antichi cosi rara come parrebbe a taluno.
- 73 -
elementi che dalla comedia non si possono escludere) non è argo-
mento di misoginia, né per noi, ne per gli antichi. Dacché l'amore
maschile era largamente praticato da tutti non solo, ma formava
benanco materia ad importanti discussioni filosoSche. Se anche
qualche aneddoto ci rappresenta Euripide dedito all' amor ma-
schile, sarebbe questa .una prova della misoginia d'Euripide, solo
quando per la medesima ragione si potesse affermare che era mi-
sogino anche Sofocle, che a quell'amore era in particolar modo
dedicato. Dall'esame adunque di quanto circa la nostra questione
troviamo nei comici è giuocoforza concludere che la misoginia fu
attribuita ad Euripide per caricatura comica, da molti e spesso
usata, ma tuttavia sempre caricatura, e perciò stesso affermazione
attendibile non nelle proporzioni della caricatura, e solo quando a
noi consti il punto di partenza, a stabilire il quale giova non
soltanto la constatazione degli elementi non misogini, che anche
la comedia mise in chiaro per Euripide, ma anche la valutazione
degli elementi misogini già veduti.
V.
Nelle tragedie di Euripide non mancano coloro che amano le
donne, uè difettano donne egregie e ricche di virtù. Anzi tutto
sono non scarsi i passi ne' quali le donne non vengono confuse
tutte insieme, ma spesso si distingue espressamente fra buone e
cattive (Hec. 1183, fr. 493, 494, 546, 657), si afferma che le
buone mogli, anche povere (137, 822), sono grande bene per i
mariti, le madri per i figli, le figlie pei genitori (Suppl. 1101),
e si espone a quali sacrifici, spesso spontaneamente, sottostiano pel
vantaggio altrui, e come affrontino con dignità e coraggio i più
grandi pericoli. Non soltanto si nota che anche le donne hanno
TToXXà (Joqpà (Suppl. 294), ma nelle tragedie euripidee molte sono
le figure femminili ricche di grande bellezza spirituale. Andromaca
solo pensa a salvare il figlio dall'ira di Ermione e di Menelao, e
si allontana dal tempio di Teti, ove si era rifugiata, accettando
la morte, solo perchè non perisca il figlio suo : in quei pericolosi
momenti chi la sostiene, mentre è sola ed abbandonata da tutti.
— 74 —
non è unicamente il vecchio Peleo, ma una misera ancella troiana,
che per Andromaca osa affrontare l'ira degli sdegnati padroni.
Né la virtù di Andromaca rifulge solo nella difesa di Molosso
(Andr.); anche* nei tempi felici, a Troia, ella offerse il petto
ai figli illegittimi di Ettore, per dar segno di amore al marito
(Andr. 224), perduto il quale le sembra preferibile la morte
(Troad. 634): parimenti è indicibile la disperazione di Andromaca
quando i Greci le strappano Astianatte, natole da Ettore, per
ucciderlo (Troad.). — Polissena nell'Ecuba, quando conosce che
i Greci hanno deciso di sacrificarla sulla tomba di Achille, pensa
prima al dolore della madre, poi a sé (Hec. 197, 212), e quando
Bcuba tenta sottrarla alla morte, ella rompe gli indugi e con
nobile fierezza si offre spontaneamente ad Ulisse perchè la con-
duca al sacrificio (Hec. 348), esprimendo sensi liberi e generosi,
e induce la madre a desistere dalle vane resistenze (Hec. 403) :
quando poi, attorniata dall'esercito greco, ha prossima la morte
e Neottolemo si avanza per colpirla, non teme, ma offre il petto
e la gola e muore eroicamente, preoccupandosi del suo pudore,
talché anche i Greci l'ammirano. Ecuba altresì appare grande e
nobile : con abile discorso tenta dapprima di indurre Ulisse a non
toglierle Polissena, o almeno uccidere lei vecchia e non la figlia,
e quando questi rifiuta, si dispone a resistenza disperata ; e più
tardi, quando apprende la morte di Polidoro, trova, in mezzo a
tante sciagure che insieme la colpiscono, l'energia non già di pen-
sare a sé, ma di vendicare il figlio su Polimestore. — Elettra è
tipo di femminile energia, dacché tutto sopporta, anche il matri-
monio umilissimo che le viene imposto con un contadino, lei figlia
di re; ma non perdona agli uccisori del padre suo, e non desiste
dal chiederne ad alta voce la vendetta : né si arretra quando
questa, che ella considera un dovere, è prossima, ma è valida
cooperatrice di Oreste (Electr.), Lo assiste poi e lo cura con te-
nerezza ed amore e devozione (vd. p. es. Orest. 136, 167), quando
Oreste cade infermo per le persecuzioni delle Erinni, e lo salva
da morte prossima e inevitabile, dovendosi a lei l'artificio che
obbliga Menelao a soccorrere i nipoti. — Elena stessa appare, in
una tragedia almeno, come donna assennata e come moglie fedele.
- 75 —
che ad ogni costo rifiuta altre nozze, e salva il marito (Elen.).
Macaria negli Eraclidi si offre spontaneamente al sacrificio, pia-
di salvare i fratelli. Nell'Eracle furente Megara difende i figli
contro il marito, e difendendoli muore nella lotta impari — e
già prima li aveva difesi, assente Eracle ed essendo Anfitrione
debole per vecchiaia, contro Lieo. — Nelle Supplici Etra con
grande coraggio difende la causa delle donne, che vogliono sep-
pellire i morti nella guerra contro Tebe. — Evadne si getta sulla
pira del marito, non sapendo vivere senza di lui, a quella guisa
che, nel Protesilao, Laodamia, mortole il marito, che primo fra
i Greci sbarcò a Troia, tiene seco un simulacro di lui, e quando
anche questo le è tolto, rinuncia alla vita, gettandosi sulla pira.
— Ifigenia vuole nobilmente morire pensando alla gloria sua e
della Grecia ; tenta, è vero, dapprima di indurre il padre a non
ucciderla (Iph. A. 1211) cedendo momentaneamente all'istinto della
conservazione, ma poi ascolta i sensi generosi che la animano,
provocando l'ammirazione dei Greci e specialmente di Achille, né
vuole, per sottrarsi a morte, che l'eroe Tessalo la difenda contro
i Greci e sopratutto rifiuta di provocare, come Elena, le battaglie
degli uomini (Iph. A. 1417). Per di più ella tenta indurre la
madre a non odiare, per la morte sua, Agamennone (Iph, A. 1455),
e condotta al sacrificio, fino all'estremo momento si mostra forte
e coraggiosa. Trasportata da Artemide nella lontana Tauride non
dimentica la patria e la famiglia degli Atridi : quando riconosce
Oreste, lo salva dal barbaro sacrificio umano, di cui erano vittime
tutti gli stranieri che giungessero a quel lido inospitale. Né meno
energiche ed amanti della patria si mostrano le donne greche, che
l'attorniano, dacché ad esse Ifigenia si affida per l'esecuzione del
suo disegno, e queste, con pericolo di morte, tentano di impedire
che Toante e gli altri barbari raggiungano i fuggenti (Iph. T. 1294).
— Bella nelle Fenisse la figura di locasta, preoccupata sempre
dei figli sciagurati, che indarno tenta di placare e indurre agli
accordi : alla loro morte non regge. Bella altresì la figura di An-
tigone, nelle Fenisse, che non abbandona il vecchio padre, come
dianzi non rinunciava all'affetto pel fratello assente, e poi affronta
la morte per seppellire il cadavere del fratello, contro il divieto
— Te-
di Creonte (Autig.), a quella guisa che nella medesima occasione
Argia corre lo stesso pericolo, pur di dare una tomba al marito.
Bellissimo e ideale tipo di donna è quello di Alcesti, che muore
pel marito, sostituendosi a lui come vittima dell' Ades : Apollo
aveva ottenuto che la morte si accontentasse di altro mortale in-
vece di Admeto ; ma per lui non vogliono morire i genitori, seb-
bene vecchi. Accetta la morte Alcesti, solo pensando al marito ed
ai figli. — Prassitea, nell'Eretteo, rinuncia alla figlia e l'offre in
olocausto a difesa della patria, persuadendo il marito al sacrificio.
Merope ha bella parte nel Cresfonte, e bella parte, almeno nel-
l'affrontare coraggiosamente la morte, ha Canace nell'Eolo. Ino
salva i figli, Danae pel figlio si affligge. Fedra stessa nell'Ippolito
coronato è figura elevata per la ferma resistenza all'amore che la
infiamma : all'amore colpevole non vuole cedere, e l'infamia la
colpirebbe solo per le arti della nutrice, che vorrebbe salvarle
la vita. — Non sarebbe troppo arduo trovare altri esempi e ci-
tare dei luoghi ove si esprimono sulle donne giudizi non sfavo-
revoli ed anche elogi ; ma anche quello che si è veduto compensa,
0 quasi, per estensione ed importanza gli elementi misogini dianzi
raccolti, e ci fa scorgere che non solo in una o due tragedie, ma
in molte Euripide mise sulla scena donne buone e ricche di virtìi,
sotto varii aspetti e in differenti gradazioni, a quella guisa che
molte e varie sono le forme della passione che nelle medesime
tragedie euripidee conducono a traviamento le donne. 11 numero
e l'importanza degli elementi non misogini sarebbe già di per se
sufficiente contrappeso agli elementi misogini ; direi anzi che tanto
più questi elementi misogini appaiono sforniti di valore assoluto
e decisivo, quanto maggiormente sono messi in relazione coi per-
sonaggi e coi fatti delle singole tragedie.
VI.
Le invettive contro le donne (1) contenute nelle tragedie giunte
a noi intere sono in massima parte spiegate dalla situazione dram-
(1) Per rettamente giudicare di queste invettive si pensi a quelle che nelle
tragedie Euripidee sono lanciate contro gli uomini. Per esempio Euripide
condanna forse Ulisse, perchè Ifigenia lo detesta? Gfr. Iph. T. 535.
— 77 —
matica, dalla passione de' personaggi, i quali il più delle volte
ne' singoli casi particolari hanno torto quando escono in espres-
sioni misogine, condannando le donne per azioni che i Greci re-
putavano lodevoli 0 che tali appaiono anche secondo i nostri co-
stumi. Chi esaminasse uno ad uno i passi sopra raccolti potrebbe
facilmente convincersi della verità di questo asserto, a favore del
quale è però non inopportuno addurre qualche esempio. — Per
tacere dell'Alcesti, l'Andromaca non può dirsi tragedia misogina,
dacché ad Ermione è contrapposta Andromaca per l'appunto, e
per di più chi le donne condanna è Andromaca nella passione e
nella lotta, e questa pensa a stigmatizzare Ermione, non già a
lodare l'ancella che la soccorre. Così che gli elementi misogini
di questa tragedia scaturiscono dall'azione e dai personaggi, e non
hanno un valore oggettivo. Nelle medesime condizioni sono anche le
Baccanti : il furor dionisiaco che invade le donne è opera del dio,
che delle donne si vuole valere per punire l'oltracotanza di Penteo
e della famiglia di Semele, che in Dioniso non voleva riconoscere
il dio e prestarsi al culto di lui : ma nelle Baccanti Penteo che
dispregia le donne è appunto empio e dissennato, mentre Cadmo
e Tiresia, nella loro saggezza, riconoscono il dio e non condannano
le donne. Di più se Agaue uccide il figlio, l'azione è voluta da
Dioniso stesso, è pena di anteriori colpe di chi la commette non
sapendo, nel furore bacchico, quanto si faccia — ed invero Agaue
e le altre donne non già credono di uccidere Penteo, ma un leone.
Le Baccanti poi hanno una tale grandiosità di carattere religioso,
che basterebbe esso da solo, anche perchè non frequente nei drammi
euripidei, almeno quelli giunti fino a noi, ad escludere un intento
ed un significato di misoginia sia dalla favola della tragedia, sia
dai varii passi considerati isolatamente. L'Ecuba, che ci presenta
la fierezza di Ecuba e la nobiltà di Polissena, neppur essa può
venire ascritta alla misoginia per la parte che vi ha Polimestore:
si comprende che questi imprechi alle donne — è un vinto, è
persona giustamente punita, che rovescia e sfoga la sua ira im-
potente su chi lo ha vinto ed umiliato. Nelle imprecazioni di
Polimestore c'è troppa rabbia e troppa passione, perchè si possa
immaginare che il poeta abbia con esse voluto rappresentare quella
— 78 —
che gli paresse verità. Parimenti alla concitazione di Ecuba, af-
franta da tante sventure, si deve che essa quasi si vanti degli
inganni femminili, che le daranno la agognata vendetta e ram-
menti gli esempi famosi di astuzia femminile che riuscì a vincere
le forze degli uomini. Nell'Elena si mostra sfavorevole ad Elena
Teucro; ma si comprende il suo giudizio, perchè egli ignora che
l'eroina è rimasta in Egitto, anzi questa ignoranza giustifica anche
altre espressioni di altri personaggi in altri passi euripidei : ne
fa meraviglia che Teoclimeno, quando Elena gli è sfuggita e si
accorge che Teonoe non l'abbia avvisato, si scagli contro le donne:
diremmo anzi che il suo biasimo appassionato mette ancora mag-
giormente in rilievo l'opera di Elena, che Euripide nella sua tra-
gedia volle rappresentare come, altamente preclara. Nell'Elettra se
viene biasimata Clitennestra da Elettra e da Oreste e dal Coro,
a questa figura biasimevole, cantata anche da altri tragici, e con
tinte certo non meno fosche, senza che perciò contro di loro sor-
gesse l'accusa di misoginia, si contrappone quella fiera e forte di
Elettra, che nello squallido ambiente in cui si trova non è meno
dignitosa della donna sofoclea. Basta Macaria a togliere dagli
Eraclidi qualunque sospetto di misoginia. Nell'Eracle furente spicca
la bella figura di Megara e non si trovano neppure biasimi iso-
lati mossi alle donne. Nelle Supplici le donne hanno grande e
nobile parte; esse, con rischio della vita, pensano alla religione
dei morti: spiccano poi in modo speciale Etra ed Euadne — è mi-
soginia questa? Per misoginia fu dichiarato insigne l'Ippolito:
ho sempre provata una grande meraviglia per questa affermazione,
dacché Fedra appare come vittima di un affetto che vuole con
tutte le sue forze combattere, un affetto che nella sua famiglia
sembra una fatale eredità : ed ella protesta contro la nutrice, né
il coro l'incita al male. Si trova, è vero, la lunga tirata misogina
di Ippolito, ma questa è perfettamente a posto — chi si sarebbe
trattenuto da escandescenze dopo tali proposte, chi avrebbe potuto
e saputo distinguere fra donna e donna in quel momento ? Se
Ippolito poi è rappresentato casto e puro, tuttavia nel suo carat-
tere c'è qualche cosa di esagerato, che anche da chi attornia il
giovane è ripreso (si veda la scena col servo a principio della tra-
— 79 —
gedia): ne si dimentichi che nella catastrofe della tragedia ha
parte precipua una dea, Afrodite. Né Euripide colla falsa accusa
che Fedra pur morta mosse ad Ippolito potè pensare a descrivere
una speciale perfìdia femminile, dacché in altri luoghi anche per-
sonaggi maschili si abbandonano nella passione ad eccessi ben più
gravi. Nell'Ifigenia in Aulide le brevi accuse lanciate ad Elena
sono ad usura compensate dal sacrificio di Ifigenia, ed anche Cli-
tennestra vi appare come madre affezionata alla figlia, che indarno
tenta sottrarre al sacrificio. Nell'Ifigenia in Tauride le accuse sono
mosse contro le donne dall'araldo e da Toante, quando queste
favoriscono i fuggitivi, quando esse compiono un'azione generosa,
quando il torto sta palesemente dalla parte di chi accusa. Nello
Ione Creusa è condannata pel suo tristo intendimento : ma anche
essa è accecata dalla passione. Se nel Ciclope i satiri sono con-
trari alle donne, ma in un modo tutto speciale, sono davvero essi
personaggi adatti a rappresentare il pensiero personale di Euripide ?
In realtà però i satiri sono tutt' altro che misogini. Medea è rap-
presentata quale la dava la leggenda, appare cioè in essa un tipo
stabile e fisso che il nostro poeta seppe ritrarre maestrevolmente :
per Medea non era neppure possibile esporre una leggenda difforme
da quella universalmente creduta, come nel caso di Elena, alla
cui figura biasimevole si oppone nell'Oreste quella di Elettra.
Nelle Troadi, per non parlare del Keso, da molti negato ad Euri-
pide, ad Elena si contrappongono Ecuba, Cassandra e Andromaca,
e nelle Fenisse le donne hanno ottima parte. — In questa ras-
segna abbiamo trovato che la massima parte dei luoghi detti mi-
sogini in Euripide sono voluti dalla situazione drammatica, dal
carattere dei personaggi, dalla passione, che ottenebra e travia la
mente e il sentimento : un esame, anche non molto profondo, dei
frammenti ci fa giungere alla medesima conclusione. Così che,
tolto di mezzo o troppo considerevolmente diminuito circa la mi-
soginia il valore dei singoli luoghi, rimarrebbe il loro complesso
ed il loro numero considerevole, che anche per filologi eminenti
è oggetto di grave preoccupazione. Ma l'importanza di questo nu-
mero è di per sé molto scarsa, ora che si è messo in chiaro il
valore dei singoli elementi, e poi, essa non può neppure fondarsi
— 80 -
sull'ipotesi che Euripide cercasse a bella posta per le sue tragedie
argomenti che si prestassero a misoginia. La confutazione è molto
facile : basta consultare l'indice del Nauck per vedere quanti prima
e dopo Euripide abbiano trattato i medesimi argomenti, senza che
per questo si possa ragionevolmente muovere l'accusa di misoginia.
Si potrebbe forse obbiettare che trattarono il medesimo argomento,
ma in modo diverso; ma quale sia il modo speciale di Euripide
non dovrebbe essere ora troppo arduo comprendere, dacché Euri-
pide trattò la donna così come essa è, nella sua realtà, introdu-
cendo nelle sue tragedie donne ottime, buone, mediocri, cattive,
pessime, con belle e varie gradazioni di carattere. Si può anzi
dire che ad ogni tipo di donna censurabile si può ritrovare nel
complesso dell'opera euripidea un tipo di donna lodevole da con-
trapporre, appunto come è per gli uomini, i cui difetti, i cui
eccessi non sono meno vivamente rappresentati che quelli delle
donne. Sicché si vorrebbe dedurre da taluno che Euripide fu mi-
santropo. No, egli è, piuttosto, profondamente pessimista, seconda
le tendenze che, appalesatesi nella filosofia contemporanea, si svol-
sero poi in differente modo nelle scuole posteriori. Verista o rea-
lista, che dir si voglia, in arte, pessimista in filosofia, non fa
meraviglia che delle donne accanto alle parti buone rappresenti
anche sotto molti aspetti le parti cattive : il che esclude la mi-
soginia. Ma su questa conclusione è d'uopo insistere, eliminando
alcune obbiezioni che potrebbero venir mosse alla nostra argomen-
tazione. Si disse che, quando Euripide rappresentò nature eroiche
e virtuose, le scelse tra le persone giovani e non ancora logore
dalle lotte della vita. La scelta, in primo luogo, corrisponderebbe
in molti casi alla verità, ma Euripide osservò anche la virtù in
persone provate dalle traversie della vita e la rappresentò nelle
sue tragedie, non solo per gli uomini, ma anche per le donne —
così accanto ad Ifigenia, a Polissena, a Macaria, troviamo Alcesti,
Elettra, Ecuba, Andromaca. Il rappresentare tipi femminili che
serbino virtù ed eroismo anche nelle sventure non è certo miso-
ginia. — Se Aristofane dedusse le Tesmoforiazuse dal fatto che
Euripide in taluna tragedia non sparlò delle donne, notando la
non misoginia posteriore a quanto si potrebbe credere misoginia ;
— 81 —
se in realtà nell'Ippolito coronato, posteriore all'Ippolito velato, il
tipo di Fedra appare moralmente migliorato e più lontano da
misoginia (non saprei trovare espressione meno compromettente),
non si può credere che il poeta cambiasse la disposizione della
sua poesia tragica, lasciando in disparte la misoginia, allo scopo
di conseguire un successo clie la misoginia avesse potuto contra-
stargli. Ciò non è possibile : Euripide non era artista da adattarsi
ai gusti della folla, e lo dimostra la sua vita speculativa, l'op-
posizione a idee generalmente professate ed anche il famoso aned-
doto, che egli sulla scena facesse tacere le disapprovazioni del
pubblico, dichiarando che il poeta deve appunto insegnare al po-
polo, non già da esso lasciarsi guidare (1). E poi il successo, se
gli mancò ufficialmente, con scandalo anche degli antichi, non gli
difettava realmente, in modo speciale fra i giovani, anche in grazia
di un elemento che potrebbe essere stimato affine a misoginia, pel
realismo cioè col quale egli rappresentò la vita femminile — prova
ne sono anche le Nubi (2). Al più però si potrebbe accusare il poeta
di immoralità nell'arte, ma non di altro. Né si dimentichi che il
poeta lasciò Atene, ma non l'arte sua : cosicché il fatto che tra-
gedie palesemente non misogine succedono ad altre che taluno
stimerebbe misogine, non può essere in nessun modo prova di
misoginia. Anche ammettendo la cosa, come la espone Aristofane,
che misoginia sarebbe quella che si ritira dinanzi al desiderio
di successo teatrale ? Ma questa ipotesi non deve neppur essere
fatta, dacché, pur essendo troppo incerti sulla cronologia delle
tragedie di Euripide, tuttavia, anche col poco che ne sappiamo,
si scorge che a tragedie dette misogine ne succedono altre che
tali non vengono stimate e a queste poi altre nelle quali la mi-
soginia da taluno è ritrovata. Ma quello che più importa è che
(1) Non è il caso di pensare che Euripide come che sia volesse procu-
rarsi il successo con mezzi non artistici, togliendo a sé l'opposizione fem-
minile. Si ammette ora che le donne fossero presenti alle rappresentazioni
teatrali, ma sull'assegnazione de' premi l'opera loro non doveva tornare
molto efficace, e perciò non era neppure da temersi, se neanche Gìicera
riuscì, co' suoi maneggi, ad assicurare la vittoria di Menandro sopra i suoi
competitori.
(2) v. 1331 sgg.
Rivista di filologia, ecc., XXV. 6
- 82 —
non solo alcune tragedie sono prive o scarseggiano di elementi
misogini, ma che nel medesimo dramma euripideo accanto a figure
femminili non belle, ne compaiono altre virtuose, nobili, eroiche,
il che è prova che il poeta seguiva l'arte, non già serviva ad un
sentimento personale estraneo all'arte. Neppure si può ricorrere
all'argomento della lunghezza, alle volte notevole, di tirate miso-
gine, deducendone che la lunghezza appunto dipende dalla parte
cipazione del poeta ai sentimenti che egli attribuisce ai personaggi.
Non cada in obblio che Euripide, anche secondo Aristotele, oùk
eij oÌKovo|LieT, che egli cerca più di svolgere le singole scene, che
di bene collegarle ed equilibrarle di fronte all'esigenza dell'intero
lavoro, e che questo è conseguenza delle tendenze retoriche e filo-
sofiche dell'età e del poeta, dalla quale derivano le lunghe narra-
zioni, i lunghi discorsi, i sottili argomenti : Euripide, trovato un
tema, che si presta a tal svolgimento, non lo lascia cosi presto,
qualunque esso voglia essere (1). Dacché sono lunghe alcuùe tirate
misogine, alla guisa che sono lunghi gli squarci dove delle donne
si espongono azioni lodevoli, come sono lunghi i tratti che met-
tono sulla scena le azioni degli uomini insigni per bontà o per
malvagità. Questa tendenza retorica in Euripide è unita ad arte
grandissima ; ma è ben più palese ne' suoi imitatori, i quali, al
solito, esagerarono i difetti del loro modello. Si consideri da ul-
timo che le donne appaiono triste perchè chi le incita al male e
le aiuta sono appunto gli uomini — così Menelao procede per
Ermione, così il pedagogo aizza e stimola Creusa contro Ione e
Xuto — e che non può ritenersi che la misoginia sia per Euripide
quanto fu l'amor di libertà e l'odio ai tiranni per l'Alfieri — nel-
l'Alfieri questo sentimento è il fondamento dell'arte tragica e causa
dell'ispirazione, in Euripide la misoginia è soltanto un elemento
di arte veristica (2). In questo verismo entra altresì il contrasto
fra ideali filosofici e la realtà della vita presente, che appunto
Euripide volle riprodurre, ma non solo per le donne, bensì anche,
(1) Aristot. Art. Poet. 1453, a, 28: el xaì tu fiXXa jjlÌ] eO olKOVO|uet, àXXà
TpaYiKibTaTÓq fé tòiv Troir|Tuùv cpaivexai.
(2) Per di più la vita deirAlfieri ci è assai maggiormente nota che non
quella di Euripide.
- 83 -
e non meno, per gli uomini, onde la sua tragedia rispecchia i
difetti ed i pregi delle une e degli altri. Ne si può neppur lon-
tanamente supporre che le invettive dei comici contro Euripide
a causa di Olito, inducessero il poeta a ritenere dalla madre gli
fossero derivati dei danni, e perciò lo spingessero a generalizzare
e quindi odiare le donne. La supposizione è affatto gratuita ed è
interamente combattuta anche da quanto dice il poeta sull'affetto
e sui meriti delle madri. D'altronde ad Atene, ai tempi della
comedia antica, si doveva essere tanto avvezzi alle caricature, che
queste null'altro provocavano se non l'ilarità, anche dei colpiti:
ed in Euripide nessun cambiamento - artistico troviamo, che si
possa attribuire all'effetto della caricatura comica.
VII.
Per ammettere la misoginia di Euripide c'erano soltanto due
ordini di argomenti — dedotti gli uni dalle tragedie, gli altri
da notizie biografiche. Ma le tragedie ci hanno dimostrata la na-
tura e l'importanza e il valore di questi elementi misogini, come
non derivati dal sentimento del poeta, ma da' suoi intendimenti
artistici : d'altronde questi sentimenti misogini erano sufficienti a
provocare le caricature della comedia attica, che trasportò le cose
dall'arte alla vita del poeta. Appunto da queste caricature deri-
vano le notizie biografiche dalle quali potrebbe supporsi la miso-
ginia del Salaminio. Veduto però che i due ordini di fatti non
possono condurre a questa conclusione e che null'altro esiste per
ammettere che Euripide fosse misogino, tale opinione risulta priva
di fondamento e di prove, e quindi deve essere respinta, ritenendo
che se la misoginia appare in Euripide, vale a dire nelle sue tra-
gedie, nulla c'è per ritenerla altro che un elemento artistico adatto
alla situazione ed ai caratteri dei personaggi e dei drammi. E si
deve reputare che in Eschilo ed in Sofocle quella che vorrebbe
dirsi misoginia per Euripide non è estranea, dacché anche in essi
troviamo tipi femminili non belli, come Clitennestra (1); ma la
(1) E Neofrone? Ed i poeti che prima e dopo Euripide trattavano argo-
menti tragici, ne' quali apparisce tipo di donna reprensibile ? Scorrendo
anche solo i titoli della raccolta del Nauck dovremmo trovare una folla di
poeti misogini.
— 84 —
loro arte ideale e non verista non dà luogo a quelle tirate e
sopratutto a quelle espressioni sentenziose, che possono illudere e
far credere che prorompano dall'animo del poeta. La sentenziositù,
euripidea fu causa non ultima della predilezione degli antichi per
le tragedie del poeta Salaminio, e causa che ci venissero conser-
vati in varie raccolte versi sparsi ed isolati, ma sentenziosi. Però
la sentenziosità è propria di Euripide non soltanto per la misoginia
(rispetto alla quale si manifesta con apoftegmi spesso contraddi-
torii), ma per ogni ordine di fatti e di sentimenti, sicché, anche
per questo rispetto, la misoginia è parte dell'arte euripidea ne più
né meno che gli altri sentimenti che il poeta attribuisce a' suoi
personaggi, e la sentenziosità colla tendenza a generalizzare é
unicamente una forma speciale, una peculiarità stilistica predi-
letta da Euripide, non già un segno che nel dramma intervenga
egli stesso ad appalesare i suoi sentimenti e le sue opinioni. Direi
perciò non soltanto che esporre i mali delle donne può essere non
già odiarle, ma compiangerle, ma che Euripide in arte non può
dirsi più misogino di quegli scienziati i quali professano e vo-
gliono dimostrare l'inferiorità della donna (1): né la tendenza
artistica, né la tendenza scientifica sono prova che in coloro, i
quali le professano, esista misoginia. Di tale conclusione possiamo
essere contenti, senza tentare di giungere ad affermare che Euri-
pide fosse proclive alle donne : a dimostrarlo tale non basta la
tendenza di fare il nostro poeta quasi rappresentante dell'amore
femminile in contrapposizione a Sofocle, rappresentante dell'amore
maschile ; non basta neppure la presenza di qualche epiteto che
designa le bellezze femminili — siffatti epiteti sono, direi, pura-
mente ornamentali, solenni, immanenti, ed in tale ufficio si ri-
scontrano da Omero in poi, senza che acquistino in Euripide un
valore ed una funzione speciale, per le quali -il poeta Salaminio
appaia diverso, per questo rispetto, e da altri poeti e in parti-
colare dai tragici contemporanei.
C. 0. ZURETTI.
(1) Non si può avvicinare Euripide a Semonide di Amorgo, dacché nel-
rAmoigino troppo scarsa è la parte assegnata alla donna buona.
I
- 85
QUAESTIONUM ENNIANARUM
Particula I.
1. De cannine, quod ab Ennio inscriptum est
'Scipio', hoc fere inter omnes convenit, saturanti esse, si
verbum ea vi accipimus, quam apte descripsit Diomedes, I, 485 K.:
'olim Carmen quod ex variis poematibus constabat, satura
vocabatur, quale scripserunt Pacuvius et Ennius '; quibus e verbis
patet, carmina e quibus satura constaret, diversis inter se metris
conscripta esse. Hoc Carmen libro Saturarum tertio adscribendum
esse, iure statuit Lerschius (Rh. Mus. 1837, p. 420), recentiores
fere omnes confirmaverunt. Ea enim quae contra attulerunt
Bitter (ub. d. Scip. d. Q. Enn., Zeitsch. f. d. Alterstunasw. 1840,
p. 389 sqq.), Ribbeckius (Rh. Mus. 1856, p. 285-287), Roeper
(De Q. Enn. Scip. Gratul. Christ. Herbst, Gedani, 1868, p. 21 sqq.),
magis subtiliter quam vere putamus dieta.
Sed quae fragmenta sint huic carmini vindicanda, non levis
inter viros doctos est dissensio ; neque adhuc, nisi fallor, in rem
et significationem quae sub relliquiis illis lateret, satis planeque
inquisitum est. Id igitur studebimus, ut, undique collatis testi-
moniis, Carmen ad historiae fidem enarremus, atque disiecta frag-
menta, si fieri possit, reconcinnemus.
Toto Carmine bella praesertim Scipionis laudibus esse celebrata
raonemur loco ilio, Schol. ad Horat. ep. Il, 1, 16 ' Lucilius vi-
tam Scipionis privatam descripsit, Ennius vero bella'. — At quod
fuerit carminis initium iure, si quid video, efficere possumus ex
loco ilio Suidae, s. v. "Evvio<;: 'PuuinaToq KoiriTrig, ov AìXiavòq
ènaivouv àHióv cpncri. ZKiniuuva yàp aòoiv Kal èm ixé-^a tòv àvòpa
èEdpai pouXóiLievóq cpriCTi jnóvov av "0|Lir|pov èTraEiouq èTraivou?
eÌTTeiv ZKiTTiiuvoq. òfìXov òè ójc, éxeQY]-aei toO ttoivitoO xriv |H6Ta-
Xóvoiav Kaì twv lieipujv tò |ueYaXeiov koi àEidYaaiov '. — Hic Sui-
dae locus nobis ansam praebet ut duos Ennii versus idoneo loco
reponamus, qui a L. Muellero, nescio cur, Annalibus, quamquam
non definita sede, tribuuntur ; eos dico versus, quos Theodorus
Mommsenus in Kb. Mus, 1862, p. 143-144, ex cod. Parisino 7960
(Schol. ad Verg. Georg. II, 43) protulit:
'non si lingua loqui saperet, atque ora decem sint
in me, tum ferro cor sit pectusque revinctum '
[saperet codi. ; superet, nescio cur, L. Muell. ; in me, tum L. Muell.,
in metrum cod., atque meum, incertus auct. apud Momms. 1. 1.].
Cetera quae supersunt carminis fragmenta ad duas praesèrtim
res spoetare videntur: Scipionis res in Africa gestas, et crimina-
tionem in quam Scipio incurrerit ; at, cum de priore inter omnes
conveniat, alteram ut demonstremus danda nunc opera est. Sed
antequam hanc quaestionem aggredior, alterura locum liceat at-
tingere et brevibus expedire. Locus quem tractare in animo est,
apponatur:
mundus caéli vastus cónstitit siléntio,
et Neptunus saévus undis àsperis pausàm dedit,
Sòl equis iter repressit ùngulis volàntibus,
cónstitere amnés perennes, àrbores ventò vacant '.
[v. L. Muell. Enn. Rell., p. 74; Vablen. Enn. Rell., p. 156;
Baehr. F. P. R. p. 117]. — Cum hic locus nominatim a Macrobio
(VI, 2, 26) ex Ennii * Scipione ' afferatur, nulla res ex Scipionis
rebus gestis aptior reperietur, ad quam versus hi referantur, quam
ab Italia discessus atque Africani litoris appulsus. De qua re
audiendus est Livius qui (XXIX, 27, 13 sqq.) haec habet: 'pro-
speram navigationem sine terrore ac tumultu fuisse permultis
Graecis Latinisque auctoribus credidi. Coelius, praeterquam quod
non mersas fluctibus naves, ceteros omnis caelestes maritiraosque
terrores, postremo abreptam tempestate ab Africa classem ad in-
sulam Aegimurum, inde aegre correctum cursum exponit, et prope
— 87 —
obrutis navibus iniussu imperatoris scaphis, haud secus quam
naufragos, milites sine arrais cum ingenti tumultu in terram
evasisse *. — Quis credat huius totius tana in amplitudinera ad-
ductae narrationis fuisse qui fontem ex Ennio repetiverint? Gil-
bertus enira (Die Fragmente des L. Coelius Antipater, p. 390 sqq.),
et is, qui ipsi adsentitur, Sieglinus (D. Fragm. d. Coel. Antip.
p. 61) ad duos Annalium versus oculos adiciunt, quorum alter
quid ad rem nostram attineat, minime me perspicere fateor:
' Navibus explebant sese terrasque replebant '.
et
' Africa terribili tremit horrida terra tumultu '.
At prior versus et ad aliam quandam tempestatem alio tempore
coortam, referri potest; alter de bello est, non de tempestate. Nec
locus hic noster quem supra attulimus, ex ' Scipione ' sumptus,
praetermittendus erat, qui prosperam navigationem, non fluctibus
agitatam, significare videtur; quin etiam miror, quod Zielinskius
quoque (Die letzten Jahre d. zw. pun. Krieges, p. 109), qui
Gilberti refellit atque comminuit argumenta, locum hunc piane
omnino neglexit. Tamen in illa Coelii Antipatri commenticia tem-
pestate aliquid inesse puto, quod vix abiciendum sit. Nam quae
ratio loci illius explicandi ab Herra. Petero (Histor. rom. rell.
p. CCXXlil), cui adsentitur Kessler ('Secundum quos auctores
Livius res a Scip gestas narraverit ' Diss. Kiel. 1877, p. 28),
proponitur, ea minime videtur esse omnibus numeris absoluta.
Censent enim haec Coelium ex suo ingenio propterea scripsisse,
quia scriptores Hannibalici miras quasdam et inauditas difficul-
tates ab Hannibale in Alpium transitu superatas esse commenti
sint. At contra, si quid video, Coelius hic ad miram amplitudi-
nem auxit aliquam tempestatis mentionem, quam apud quosdam
scriptores invenit. li fortasse sunt- scriptores, quos secutus est
Appianus, Pun. 13 (Vili, 13), qui illam in Africana traiectionem
narrans, de tempestate leviter tangit, bis tantum verbis : ' è^ tìv
['Ituktiv TTÓXiv] ó Ikittiuuv KaxaxOeìc; iitt' àvéjLiujv '. Atque ut ad
Ennium nostrum revertamur, ipsi etiam loco, quem in manibus
habemus, tempestatis cuiusdam inest significatio. Num enim bue
Neptunus ille induceretur, qui * saevus undis asperis pausam '
daret, nisi superioribus versibus de concitato mari ventorumque
inclementia narratio aliqua praecessisset ?
Ad locos illos nunc recensendos enarrandosque transeamus, qui
de iudicìo in P. Scipionem habito nobis videntur esse. De qua
re cuna obiter strictimque locuti simus, in libello qui a nobis
inscriptus est ' Studii romani ' (I, p. 13 sqq. 18), liceat hic de-
dita opera agore, atque aliqua vel explicare vel addere.
Tria fragmenta in unum corpus (quod iam fecit Vablenus p. 157,
minime tamen L. Muell. p. 75 et Baehr. p. 118) redigenda esse
putamus :
Desine, Koma, tuos hostis ^ ^ - ^ ^ - ^
* , * *
Nam tibi moenimenta mei peperere labores.
* * *
testes sunt campi Magni ^ ^ ~ ^ ^ - •■^
lati campi quos gerit Africa terra politos.
[de variata lectione nunc praetermitto, vel potius lectores ad
editores quos laudavi mitto].
Scipionem hic loqui Cicero ipse testatur (De Fin. 2, 32, 106
'Itaque beatior Africanus, cum patria loquens: Desine, Roma,
tuos hostis '). At cum versiculus primus ille a Cicerone (De Orat.
3, 42, 167) utpote exemplum tropi illius cui nomen est ' mutatio '
afferatur, statuamus oportet hic non de hostibus externis rem esse,
sed de intestinis Romae inimicis, i. e. de Scipionis accusatoribus.
Ex toto enim Ciceronis (De Orat. 3, 42, 167) loco hoc efficitur,
hic hostium nomen ea vi sumptum esse, qua 'prò verbo pro-
prio subicitur aliud, quod idem significet' (Orator, 27, 92), i. e.
prò ' inimicis ' hostium nomen usurpatum. At si versiculus ille
'Desine, Roma, tuos hostis' ad Scipionis accusatores referatur,
continuo iungendum esse videtur fragmentum aliud quod apud
Nonium 470, 13 habemus;
' nam is non ben vult tibi, qui me falso crìminat
apùt te.
- 89 —
Statim post poDenda mentio illa de suis laboribus, atque de
Magnis campis, quibus Scipio Syphacem vicit. Ut brevi perstrin-
gara, sunt haec omnia ex oratione ipsa hausta, quam ad populum
KomaDum Scipio habuit. Constat enim, cura P. Scipio a Naevio
trib. in capitale iudiciiira esset vocatus, orationem magnificam
de rebus ab se gestis habuisse (Liv. 38, 59-51); quae usque ad
Gellii tempora pervenerit: Geli. IV, 18 'Fertur etiam oratio quae
videtur habita eo die a Scipione '. — Accedit quod de rebus, quas
hac oratione Scipio complexus sit, Appianus haec habet: (De reb.
Syr. 40) ' tòv òè piov éauioO, Kaì èTTiTr|òeù)LiaTa Kaì è'pYct iravra
èireHi^ei, Kal TToXe'iuouq òcJ'ou(; èiroXéiaTiaev, òaaKxq re èviKriaev ',
quae verba, si apte considerentur, iis quae exstant Ennii frag-
mentis pieno consensu concentuque respondent (èmTr|òeij|LiaTa Kal
epya = Enn. 'mei labores'; ■rToXé|nou(; òaoxjc, èTtoXéiLiilcyev ' ktX.
= Enn. ' testes sunt Magni Campi '). — At aliud etiam habemus
fragmentum, quod in incerta sede ab editoribus positura, buie
orationi piane convenire putamus. Est apud Festum, 166 M.:
' illic nugator nìhili, non nauci est homo '
[Comoediis, nescio cur, tribuit Vahlenus, p; 154; saturarum
libris incertis L. Muell. p. 86 et Baehrens. p. 123].
Haec potuit sane de accusatore suo dicere Scipio in oratione
illa; de ea enim haec habet Livius (38, 56, 6) ' ipsa oratio [Sci-
pionis] sine nomine est accusatoris: nebulonera modo, modo nu-
gatorem appellai. Alius denique ad orationem illara pertinere
potuit versus, eum dico, quem habemus apud Gellium VI, 9, 1 et
Non. 140, 25:
' meum non est, ut si me canis memórderit '.
Superiore versu haec fere sententia esse poterat, quam versu
perstrinxit L. Mueller satis ineleganti:
' horainum malorum attendere animura iniuriis '.
[cfr. L. Muell. Q. Ennius, eine Einleitung in das stud. d. ròm.
Poes. 1884, p. noi.
— 90 —
Ex his omnibus percipi potest quantus fructus in quaestionem
illam afferatur, quae est de huius orationis genuina certaque ori-
gine. Eius enim sinceritatem in dubium revocavit Th. Mommse-
nus (Ko. Forsch. II, 420), cuius ego argunienta comminuere atque
dissolvere conatus sum (St. rom. I, p. 11 sqq,), atque adeo com-
minuisse et dissolvisse mihi videor.
At alia quoque oratio ad iudicium in Scipionem spectans a
Mommseno in dubium revocata est (Ro. Fo. II, 420), atque re-
centiori ascripta aetati, eam dico orationem quam Ti. Gracchus
senior, cum prò L. Scipione Asiatico intercederet, in contiene prò-
nuntiavit (Liv. 38, 66 et 60; Cic. Prov. cons. 8, 18; Geli. 6 [7],
19; V. de tota hac re St. rom. I, pp. 15-20). Cuius quoque ora-
tionis exsistere puto vestigia in Ennianis relliquiis; ad quae de-
prehendenda nunc operam dabimus. De orationis illius exitu haec
habemus apud Livium (38, 56, 10-12) ' ad postremum, cum auxi-
lium L. Scipioni pollicetur, adicit [Ti. Gracchus] tolerabilioris
exempli esse a tribuno plebis potius quam a privato victam vi-
deri et tribuniciam potestatem et rem publicam esse, sed ita
hanc unam impotentem eius iniuriam invidia onerat, ut incre-
pando quod degenerarit [L. Scipionis frater, i. e. P. Scipio Afri-
canus] tantum a se ipse cumulatas ei veteres laudes moderatio-
nis ac temperantiae prò reprehensione praesenti reddat : castigatum
enim quondam ab eo populum ait, quod eum perpetuum consu-
lem et dictatorem vellet facere: prohibuisse statuas sibi in co-
mitio, in rostris, in curia, in Capitolio, in cella lovis poni ', cet.
— Haec verba tamquam nota recentioris aetatis obsignata Momm-
seno visa sunt, propter illud: 'perpetuum consulem et dictatorem
vellet facere', quod tamen voluntatem ac desiderium tantum si-
gnificat [italice: 'avrebbe voluto farlo']. Nam quod ad vocabu-
lum illud ' perpetuum ' attinet, potuit fortasse a recentioribus addi,
vel etiam potuit per amplificationem dici, quomodo a Catone:
'Scipionis in Senatu regnum'. At hunc orationis locum versibus
expressit Ennius (apud Paul. 369 M.):
' vel tu dictator, vel equorum equitumque magister,
esto vel con sul ! '
— 91 —
quae verba omnes uno ore Scipioni tribuunt. Videtur Ennius hic,
si minus nominatirn, at saltera evidenti significatione, Ti. Grac-
chum in rem vocasse, atque ei ita respondere voluisse : ' at sane,
at sane ! sit consul Scipio, sit dictator ! \
At qui locus in oratione Ti. Gracchi statim subsequitur de sta-
tuis, etiam habet quae sibi apud Ennium respondeant. Habet
enim Trebellius Pollio, Claud. 7: 'dicit Ennius de Scipione:
' quantam statuam faciet populus Komanus, quantam columnam
quae ras tuas gestas loquatur?' [de metro parum constat; pro-
cul dubio haec Trebellius memoriter attulit; 'statuam statuet'
fortasse scripsit Ennius; cfr. L. Muell. p. 75 Enn. Kell., et
Ennius Einleit. p. 110; Vahlen. p. 156; Baehr. p. 118]. Etiam
hic videtur Ennius Ti. Gracchum voluisse insectari : ' at statuae,
quotcumque erunt, at columnae, nunquam eius gloriam satis ef-
ferre poterunt ! '
Postrema igitur haec duo fragmenta, quae attulimus, etiam
carmini illi, quod 'Scipio' inscriptum erat, tribuimus; quod de
altero inter omnes convenit; de priore tamen non item. Huic car-
mini tribuit Vahlenus, p. 157 ; sed huius rei se paenitere fatetur
in Qu. Ennian. p. LXVII; in fragmenta Annalium incertae sedis
rettulit Baehrensius, p. 108; Annalium libro decimo adsignavit
L. Mueller, p. 41. Nos hac potissimum de causa 'Scipioni' tri-
buimus, quod illis verbis videtur Ennius directo limite in Ti,
Gracchi orationem collineare, in quam altero quoque fragmento,
de cuius sede nulla dubitatio est, telum adigit.
II. De quibusdam Annalium relliquiis, vel expli-
candis vel recensendis, nunc agere nobis est institutum.
1. Servius ad Aen. VII, 691 haec habet: ' ab hoc [Messapo]
Ennius dicit se originem ducere, unde nunc et cantantes inducit
eius socios et eos comparat cycnis' (Ennii Kell. ed. Mueller, p. 6;
Ennii Rell. ed. Vahlen., p. 66). Verba quae sunt de cycnis ad eos
referuntur Vergilii versus, quos statim afferemus (vv. 698 sqq.):
'Ibant acquati numero regemque canebant:
Ceu quondam nivei liquida inter nubila cycni,
- 92 —
Cum sese e pastu referunt, et longa canoros
Dant per colla modos, sonat amnis et Asia longe
Pulsa palus '.
Ex Serviano loco aperte patet Vergilium ex Ennio hanc simi-
litudineno sumpsisse; narn, etsi non piane liquida sit dicendi
ratio, tamen, si particula unde ad Ennium referatur (= e quo),
hoc fere Servìus significare voluisse videtur: Vergilium Ennia-
nam cycnorura cum Messapi sociis comparationera in suam rem
attulisse. At non haec Ennius ex suo ingenio sibi fiuxit: similia
enim et apud Homerum repperit et fortasse apud ApoUonium,
qui Ennio paullo fùit aetate provectior:
II. II, 459 sgg. . . .
' ujqt' òpviGouv TT€Terivujv è'Ovea iroXXà,
Xnvujv Y\ yepdvuuv r| kukvuuv òouXixoòeipuuv,
'Aaiuj èv Xei)auL)vi, KaDcripiou à)ncpì pée9pa,
ev6a Kaì Iv6a TroToivrai àYaXXó|uevai TTTepÙYeacJiv,
KXaTYl^òv 7TpoKa9iZ;óvTaiy, aiuapaYti òé xe Xei|uuòv '
Apoll. Rhod. IV, 1298:
f) òie KttXà vàovTOC, èn òcppùai TTaKxujXoTo
KÙKVoi Kivr'icfouaiv éóv néXo^, à|ucpl òè Xeijiiùv
èpariei^ ppé,u6Tai rroxaiuoTó xe KaXà péefìpa '.
Si quis autem quaerat cur hanc cycnorum sirailitudinem En-
nius ad Messapi socios applicuerit, praesto erit ea de avibus
Diomediis, cycnorum simillimis, valde apud omnem antiquitatem
pervulgata fabula. Diomedis enim socii in Messapiis arvis (Ov.
Met. XIV, 513) in avium formas commutati sunt, de quibus ita
est apud Ovidium (XIV, 508).
' Si volucrum quae sit subitarum forma, requiris,
Ut non cycnorum, sic albis proxima cycnis '.
Lycophron quoque eas cum cycnis comparat, vv. 592 sqq. —
At locus etiam Plinii de bis avibus afferendus est, H. N. X, 44,
61 : ' Advenas barbaros clangore infestant, Graecis tantum adulan-
— 93 -
tur miro discrimine, velufc generi Diomedis hoc tribuentes'. —
Ponimus igitur, ex liac fabula de avibus Diomediis, in Messapiis
arvis et contra Apuliae oram degentibus, Ennium ad similitudi-
nem illam, quam apud Homerum et Apollonium iam legisset,
ductum esse; atque haec omnia ad Messapi, suae stirpis patris,
socios comitesque transtulisse.
2. De Korauli apud Ennium ortu haec habet Servius, ad Aen.
I, 273 'Naevius et Ennius Aeneae ex filia nepotem Komulum con-
ditorem urbis tradunt \ Idem, ad Aen. VI, 77-78 ' dicit namque
[Ennius] Iliam fuisse fìliam Aeneae; quod si est, Aeneas avus
est Komuli' (v. Vahlen. p. 9; L. Mtill., p. 8; Baehrens., F. P.
R. p. 63). In hac fabula declaranda, in diversas abierunt sen-
tentias viri docti. Nam de omnibus aliis rebus, quae ad Aeneam
Romulumque attinent, Ennius cum Livio ceterisque consentit;
Iliam a Marte compressam facit, geminos in Tiberim proiectos,
lupam ubera praebentem et puerorum corpora lingua fingentem,
Araulium regem in Iliam crudeliter saevientem. Quomodo igitur
cum bis omnibus ea quae de Romuli ortu afferuntur, apte cohae-
rere possunt? Omnia ea quae de Ilia in Tiberim, iussu Amulii,
praecipitata traduntur, quomodo quadrare possunt in Enniannm
Iliam, quae Aeneae non Numitoris sit filia?
Ad quem locum enodandum, statuendum est unde Ennius fìctas
has fabellas hausisse videatur. At patet, ipsum fabulas alias
aliunde ortas contaminasse atque in unum corpus redegisse. Nam
de Eomulo utpote Aeneae nepote apud nonnullos scriptores tra-
ditum erat, quos igitur Ennius in suam rem convertit. li sunt
scriptores quos significat Diodorus, in fragmento quodam libri VII
apud Eusebium (Chron. l, 46, 1) et Syncell. (366, 194 e) ser-
vato. Plutarchus quoque de quibusdam scriptoribus breviter tan-
git qui Eomulum ex Marte et Aemylia, Aeneae filia, genitum
ponebant (Rom. 2: 'ci òè, AìjnuXiav ifiv Aìveiou xaì Aapivia(;,
"Apei 0UTTevo)Liéviiv ').
At si accuratius in hanc rem inquirere volumus, alia praebe-
tur Ennianos fontes investigandi ratio. Nam apud Ciceronem,
- 94 —
De divinatione, I, 20, 40, Iliam Vestalem Ennius haec cum ' ger-
mana sorore ' colloquentem inducit :
' Eurudica prognata, pater quam noster amavit '..
Quibus ex verbis efficitur Eurudicam hic esse Aeneae uxorem ;
Iliae enim soror, i. e. Aeneae fìlia, utpote ex Eurudica genita
ponitur. At de Eurudica Aeneae uxore perinsignis locus est Pau-
saniae, quem totura afferre operae pretium erit (X, 26, 1) ' 'Erri
òè Tri Kpeoùcrr) XéYOuaiv, wq r\ Geoiv Mniiip Kal 'AqppoòiTn òou-
Xeia<; ùttò 'EWrivuuv aùxfiv èppùcravro. eivai fòp òr) Kaì Alveiou
Tfjv KpéoucJav YuvaiKa. Aeaxeuu^ bè Kaì ó Tioiricraq enr] xà Kù-
TTpm òiòóaaiv EùpubiKriv YuvaiKa Aiveia ' (1). — In Leschera
igitur Cypriorumque poetam Ennium oculos coniecisse verisimil-
limum est. Ad Graecos quoque nos adducit poetas, Iliae nomen
ab Ennio adhibitum, quae eadem prò ' nata ex Ili stirpe ' habenda
est: Ilus enira unus est ex Aeneae antiquis patribus (11. XX, 236).
In Italicis commenticiis fabulis non Ilia nomen ipsi inditum est,
nec Khea, sed Silvia (Ovid. Fast. II, 383; III, 45; Polyaen. Vili.
1, 2; Plut. de fortuna rom. 8). Deinde omnia haec nomina, fa-
bulis coalescentibus , promiscue aliud prò alio esse usurpata,
complures locos testes habemus (Plutarch. Kom. 3 ' Tauiriv ci |iièv
'IXiav, 01 bè 'Péav , oi bè ZiXouiav òvo|udZ:oucriv : Serv. Aen. VII,
659 'mater Romuli dieta est Ilia, Rhea, Silvia'; Dionys. I, 76;
Dion. Cass. frgm. 4, 12 apud Tzetz. in Lyc. 1232, cet.).
Sed, ut ad caput disputationis veniamus, quaenam putanda est
ratio, quomodo Ennius Italicas has de Amulio Albanorum rege
fabulas cum peregrinis fabulis composuerit ? Censeo quaestionis
huius nodum esse in Amulii nomine. An fortasse apud poetas, quos
Ennius secutus est auctores, Aemulus i. e. AiVuXoq fuit ? Nam
(1) De Servii loco paullum addubitavit Schwegler, Ròm. Gesch. I, 407,
an ex iis Ennii verbis ducendus esset, quo Aeneas gnatam' Iliam appellai
(Gic. De Div. 1, 20, 49 z= Vahlen. v. 46, L. MùUer, v. 38), quae verba de
longiore cognationis gradu intellegi possent. At Schweglero, qua fuit giugu-
lari doctrina vir, minime effluxit locus Pausaniae X, 26, quo Servii testimo-
nium firmatur. De ea re v. etiam Vahlenum, Quaest. Ennian. XXIX ; et de
loco Pausaniae Weicker., de cyclo epico li p. 248.
— 95 —
de Aemulo, xlscanii filio, traditura erat apud veteres (Pauli ep.
Test. p. 23 M,). Etiam hoc Domen in quasdam de Eomulo fabiilas
inrepsisse, si quis ad Aemuliam, quam iam vidimus, Romuli
matrem, animum advertat, probabile ducat. Atque quod de Nu-
mitore et Amulio narrant veteres, idem siispicari possumus de
lulo et Aemulo traditum esse : Aemulum regnum affectantem,
fratrem pepulisse, geminos in Tiberim deiecisse, ne quis prolem
suam regia potestate privaret. Fortasse aliter quoque fabula haec
tota reconcinnari potest, atque cum fabula ea coniungi, quam
veteres de Aemulio Mamerco narrarunt (Fest. 1. 1. Plutarch.
Aem. 2). Quem si Pythagorae filium fecerunt, inde apparet, varia
haec et diversis in locis edita in unum coaluisse, atque permìxta
confusaque esse ; nam Mamerci nom.en ad Martem nos adducit,
id quod ad rem nostram perstricte attinet, et nos de priore fabulae
ratione, admodum diversa ab ea quam scriptores tradiderint, com-
monefacit. Quomodocumque hae res se habent, haec fere sunt
quae in propatulo posita voluì : Ennium cyclicos quosdam poetas
in Aeneae stirpe enarranda secutum esse ; ipsum autem, vel saltem
eum, quem ipse auctorem habuerit, graeca haec commenta cum
latinis de Amulio fabulis ita in unum redegisse, ut quod nomen
apud Graecos fuisset Ai'iuuXoq vel Ai)uuXiO(;, in Amullium (lib.
Monac.) vel Amulium mutaret. Quae tamen mutatio fortasse et
Ennio valde'antiquior fuit. Nam duo fabularum ordines in hac
re decernendi esse videntur : alter de Numitore et Amulio, longam
post regum seriem ex Aeneae stirpe procreatis, alter de Aemulia
Aeneae filia, de Aemulio Aeneae nepote, de Romulo et Remo Aemu-
liae vel Iliae filiis, Aeneae nepotibus ; quae omnia ad varia ho-
minum ingenia ficta, composita et reconcinnata sunt, et varie a
poetis usurpata (1).
(1) Quomodo autem Ennius longa temporis intervalla a Troiae excidio
usque ad Romana conditam explevisset, non satis diiudicare possumus; nisi
forte putamus ipsum Troiae finem valde communi opinione recentiorem
habuisse. De Romae origine, certe constai ipsum paullo vetustiorem fecisse;
eius enim exstat fragmentum (ap. Varr. de re r. Ili, 1, 2)
'septingenti sunt, paullo plus aut minus anni,
augusto augurio postquam incluta condita Romast ',
— 96 —
3. Enniani versus apud Nonium habentur (378, 16) :
' Te -{-saneneta precor Venus, te genetrix patris nostri
Ut me de caelo visas cognata parumper *.
(= Vahlen., XXXVI ; L. Miìller XXXIV e ; Baehr. 30).
De ' saneneta ' consentiunt libri, aliter aliì litterulas eonlocantes
(tesa neneta) ; viri autem docti varie locum teniptarunt : ' nunc
sancta \ reposuit Columna, quem secutus est L. Mueller ; ' dea
Sancta ' H. Tlbergiiis ; ' sale nata ' Vahlenus ; ' venerata ' Baehren-
sius. Lectionena ' sale nata * saadent loci quidam, qui sunt de
Venere ' aXirevei ' (Plut. Symp. V, 10, 4 ; Auson. epigr. 33).
Coniectura autem Baehrensii ' venerata ' etiam habet quo nitatur.
Nam verba * venerata Venus ' propter allitterationera Enniani ser-
monis praebent speciem ; cfr. Inter multa ' Fata docet fari '
(Prob. p. 14 Keil.), ' Accipe daque fidem foedusque feri bene
firmum ' [vel ' fidus ', Bergk, Kl. philol. Schrift. I, 681] (apud
Macrob. Sai VI, 1 ), ' caeli caerula tempia ' (ap. Cic. De Div. I,
20), vel ' caerula caeli tempia ' (ap. Varr. L. L. VII, 6), mul-
taque alia (1). Sed haec corrigendi ratio in hoc peccat, quod a
unde patet ipsum initia urbis inter annos 903 et 868 a. G. n. collocasse (v. de
ea re praesertim Ritter., Rh. Mus. 1843, p. 481-494; Ribbeckius tamen, Rh.
Mus. 1856, p. 273, Ennianam annorum enumerationem ad Albanorum rao-
dulum redigens, ad annum U. e. 583 rem adducit). Potuit fortasse Ennius
commenticiam illam Albanorum regura seriem omnino praetermittere, atque
de Ascanio et Aemulio sive Amulio tantum loqui. Neque obstat quod apud
ipsum de Tiberino fiat mentio (ap. Macrob. VI, 1, 12 ' teque, pater Tiberine,
tuo cum flumine sancto'), qui unus fuit ex -illa Silviorum regum serie (Liv.
I, 3; Dion. I, 71); nam, si Servio fides est adiungenda, haec fabula ex Ale-
xandre Polyhistoris narratione procedit, sed aliter alii tradebant, cfr. Serv. ad
Aen. "Vili 330 ' Quod Livius dicit ab Albano rege Tyberino Tybrin dictum,
non procedit, ideo quia etiam ante Albani Tybris dictus invenitur. Sed hic
Alexandrum sequitur, qui dicit Tyberinum Capati filium venantem in hunc
fluvium cecidisse et fluvio nomen dedisse '. — Qui Alexander Polyhistor
cum Sullae libertus fuerit (Ritter, Rh. Mus. 1843, p. 493), recentiori aetati,
quam Ennius, adscribendus est ; fortasse igitur vetustior fabula in illam Al-
banorum regum progeniem minime Tiberini inseruit nomen.
(1) Hac Enniani sermonis prcprietate, quam, ut Grammaticorum utamur
verbo, parhomoeon appellare possumus, adductus est Lucianus Mueller
(Jahrbb. f. klass. Phil. 1867, p. 504) ut versum qui est apud Diomedem, p. 441
- 97-
librorum lectione longe differt ; illa autem Vahleni ' sale nata '
ineptae, si quid video, neque huic loco accommodatae inducit rei
mentionem. Coniecturam habeo qua mihì videor locum posse sa-
nare. Ita enim lego atque interpungo :
' te sane, alta precor Venu \ te, cet ',
De particula ' sane ' satis constat, imperandi vel exhortandi causa
esse usurpatam ; cfr. Terent. Heaut. 3, 3, 27 ' Abi sane istac '. —
' Alta Venus ' dici potuit, ut ab Ovidio, Met. Ili, 284 ' ab alta
lunone '. Ex ' sane alta ' potuit librariorum menda, syllaba ne bis
scripta facile ' saneneta ' ha beri.
Posteriore autem versu reponimus cum Hauptio et Baehrensio
'rogitata'; illa enim librorum lectio 'cognata' inepta videtur.
Ceterum bis duobus versibus continuo subiungendum putamus
versura alium quem, a Macrobio VI, 1, 12 servatum, editores
omnes separatim proferunt :
' teque, pater Tiberine, tuo cum flumine sancto '.
Ex toto enim loco apparet lliam hic loqui, quae cum iam in
Tiberim demersa esset (Porphyr. ad Horat. I, 2, 17 ; Serv. ad
Aen. I, 273) opem ex dis numinibusque peteret. At Y.enerem
opem Iliae apud Ennium tulisse efficere possumus ex duobus
frao-mentis :
machina multa minax minatur maxima muris' Ennio tribueret. Ipse notis-
simum conferì versum
' 0 Tite, tute, Tati ' cet.
Poterant et adduci :
Stultus est (si) qui cupienda cùpiens cupientér cupit '
apud Nonium 91, 7 [sic Onions., Non. p. 112: aliter alii] ; et 'multo mulier
melior mulierum ' (apud Cic. De div. 1, 32), et ' festivum festinant diem '
(ap. Serv. Aen. 9, 401; Georg. 4, 171), et multa alia. Suspicari etiam pos-
sumus Ennio esse vindicandum versum illum, Ennio sane dignum, quem
apud Cic. De Off. 1, 39, 139 legimus :
' 0 domus antiqua, heu quam dispari
dominare domino '.
Rimia di filologia, ecc., XXV. 7
- 98 -
(ap. Fest. 286):
' llia, dia nepos, quas ernmnas tetiilisti ! *
(ap. Serv. ad Aen. IX, 653):
' cetera quos peperisti
ne cures \
[cetera, id est in ceterum, Serv. 1. 1.],
quae verba apte ad Venerem referri possunt. At Tiberinura quoque,
sive Tiberis fluminis genium, opem tulisse facit Ennius ; nam
statina ' consistit fluvius qui est omnibu ' princeps ' (apud Front.
160), atque aquae ' destituunt campos rivoque remanant ' (ap.
Fest. 282 M.) ; Iliam autem in immortalium numerum receptara
facit, atque, Porphyrione teste (ad Horat. I, 2, 17), Anieni ma-
rimonio iunctam ; quam ad rem vulgo putant referendum esse
fragmentum illud 'at llia reddita nupta', ap. Serv. ad Aen. Ili,
333, [L. Mueller: ' ad llia reddita nuptum '], quod tamen ad
Martisa mores complexusque malira referre.
Versus denique quem L. Mueller cum ilio, qui est de Tiberino,
connectit (p. 9, XXXVIII) :
' vosque, Lares, tectum nostrum qui funditu ' curant \
si modo est Ennii [nam sine nomine scriptoris profertur ap. Cha-
risium 238, 9] ex hoc loco est removendus; inepte enim hic
' tecti ' fieret mentio.
4. Ex Commentariis Bernens. ad Verg. Georg. IV, 7, Ha-
genus (Jahrb. fùr klass. Philol. 1865, p. 503) aliud fragmentum
Ennianum eruit. Habet enim Scholiastes : ' laeva prospera — ut
in mus alt ab laeva rite probatum ', i. e. 'ut Ennius ait : ab
laeva rite probatum '. Hoc fragmentum Lucianus Mueller (p. 21),
nulla Hageni facta mentione, idcirco in librum rettulit tertium,
quod in eo alii quoque etiam nunc exstant loci, qui sint de pro-
speris auguriis a laeva captis. At puto fragmentum hoc nostrum
loco perinsigni subiungendum esse, cuius sententia, eo addito,
raihi piena videtur. Locus est de Romuli Remique auguriis, apud
Cic. De Div. 1, 48, 107. 108, atque eius extremos apponam versus,
- 99 —
ex lectione quam optime dedit H. lordanus (Quaest. Enn. Kegi-
montii, 1885, p. 4) :
' et simul ex alto longe pulcherruma praepes
laeva volavit avis : simul aureus exoritur sol.
cedunt de caelo ter quattuor corpora sancta
avium praepetibus sese pulchrisque locis dant.
conspicit inde sibi data Komulus esse priora
auspicio regni stabilita scamna solumque \
Continuo subiungendum putamus :
' a laeva [namj rite probatum [est auspicium . . .].
5. Apud Servium, ad Aen. II, 355 hic Ennii fere dioai-
diatus legitur versiculus :
' _ w w - v^ w _ lupu * femina feta repente '
[Vahlen. p. 13 ; L. Muell. p. 10 ; Baehr. p. 65].
Quid hic sibi velit ineptum illud ' repente ' parum me intel-
legere fateor ; quin etiam illud huic loco sane abiudicandum
censeo. At cum hic de lupa illa sine controversia agatur, qui
Romulo Remoque ubera praebuerit eosque suo lacte aluerit, praesto
est coniectura, versum ita restituendum esse :
' lupu ' femina feta recenter '.
Feta recenter, i. e. ' quae panilo ante partum edidisset '. (Hanc
enim ' fetae ' vocabulo vim inesse constat ex Varrone apud Non.
312, 12; Verg. Aen. 8, 630; Ovid. Met. 13,803; Fast. 2,413;
Colum. 7, 3 fin.).
Carolus Pascal.
100
SULLA 'CONSTRUCTIO
Ogni lingua ha una collocazione delle parole tutta sua, sempre
riconoscibile e tale da potersi anche ridurre a norme generali,
nonostante che i singoli scrittori, o per le tendenze del secolo, o
per fini particolari, si scostino dall'ordine consueto. Così nella
frase italiana ' io non amo Paolo ' non è lecito mutare il posto
alle parole senza violentare l'indole della lingua o alterare il
senso; solo chi volesse dare una diversa piega al pensiero potrebbe
dire ' Paolo io non l'amo ', ma aiutandosi col pronome ' lo \ Lo
stesso vale per il latino, che colloca le parole molto differente-
mente dall'italiano e la cui più spiccata proprietà, subito rico-
noscibile, di mettere il verbo alla fine, fu avvertita già e incul-
cata da Quintiliano TieWInsUt or. IX 4, 26 col famoso precetto :
' verbo sensum eludere multo optimum est '.
Ma il concetto del latino a poco a poco si snaturò e nel tempo
in cui cessò di esser parlato venne formandosi un nuovo e diverso
criterio della collocazione delle parole, del quale troviamo indizi
netti la prima volta in uno schema falsamente attribuito a Te-
renzio Scauro e che si legge in un codice del IX o X secolo.
Lo riporto : ' In contextu historiae vel latinitatis primum verbum
indicativi modi, deinde dicimus adverbium, postea infinitivum,
deinde rectum casum idest nominativum, deinde pronomen, postea
participium et postea obliquos casus. Siquis recto historiam legat,
secundum hunc ordinem omnes partes orationis examinabit' (1).
A dir la verità non si capisce bene come si dovrebbe concre-
tare questo ' ordo \ se non p. e. così : ' cupiebat strenue pugnare
dux ille, defensurus libertatem patriae '. Non è certo l'ordine ve-
nuto in uso dipoi, ma intanto inverte sostanzialmente l'ordine
latino col richiedere il verbo al principio anziché alla fine. Meglio
si concreta il nuovo ordine nel cod. deWEneide Ashburn. 4 (3
Paoli) del sec. X, dove la parlata di Enea del lib. II 347-353
■
I
(1) Grammatici latini ed. Keil VII 33.
- 101 —
(f. 22) è dalla seconda mano per mezzo delle lettere alfabetiche
ridotta alla ' constructio ' come segue: '0 iuvenes (a) fortissima (b)
pectora (e) videtis (d) quae sit (e) fortuna (f) rebus (g) excessere (h)
omnes (i) dii (k) relictis (1) adytis (m) arisque (n) quibus (o) ste-
terat (p) imperium hoc (z) frustra (q) succurritis (r) incensae (s)
urbi (t) si vobis (u) cupido (x) audendi (y) extrema (z)\
Lasciando ' frustra ', collocato in un luogo che non è il suo, e
'imperium hoc', che per la lettera 'z' ripetuta non sappiamo
a che posto precisamente assegnare, risulta evidente dai nessi 'quae
sit fortuna ' ed ' excessere omnes dii ', che l'autore dava la pre-
cedenza al verbo sul soggetto, e in ciò si avvicina allo schema
sopradescritto; ma nel rimanente si accosta più al metodo poste-
riore, che possiamo ritenere definitivamente costituito, senza dubbio
sotto l'azione dei volgari parlati, nel sec. XII, al quale appar-
tiene un documento sicuro e preziosissimo, il Sallustio del cod.
Ashburn. 3 (2 Paoli) (1), ridotto per uso scolastico alla ' con-
structio ' ; di che ecco un piccolo esempio :
Sali. lug. 102, 5
Kex Bocche, magna laetitia
nobis est, cum te talem virum
di monuere, uti aliquando pacem
quam bellum malles.
Cod. Ashburn. 3 f. 54 v
Rex Bocche, magna laetitia
est nobis, cum dii monuere te
talem virum uti aliquando mal-
les pacem quam bellum.
Del resto nel penultimo anno di quel secolo, nel 1199, usciva
il Doctrinale di Alexander de Villa-dei, che stabiliva e consa-
crava la ' constructio' nei seguenti versi (1390-1396 ed. Reichling):
'Construe sic: casum, si sit, praepone vocantem;
' mox rectum pones; hinc personale locabis
' verbum, quod primo statues, si cetera desint.
' tertius hinc casus et quartus saepe sequuntur,
' aut verbo subdes adverbia. subde secundum
•' casum rectori. debet vox praepositiva
' praeiungi quarto vel sexto, quem regit illa '.
Si domanda ora se nello scrivere seguivano la 'constructio'.
(1) Gfr. Th. Stangl nel Philologus 45, 223-225.
— 102 -
Rispondiamo di no; essa serviva solo a scopi didattici; e ce lo
dice chiaramente Guido Fava nella Summa didaminis (1), com-
posta nel terzo decennio del sec. XIII: * In constructione duplex
est ordo, scilicet naturalis et artificialis. Naturalis est ille qui
pertinet ad expositionem, quando norainativus cum determinatione
sua precedit et verbum sequitur cura sua, ut ego amo te. Arti-
ficialis ordo est illa compositio que pertinet ad dictationem, quando
partes pulcrius disponuntur ': in altri termini la * constructio '
si adopera nell'interpretare (ad expositionem) gli autori e non nel
comporre (ad dictationem). E lo ripete alla distanza di due secoli
e mezzo Cristoforo Barzizza nella sua grammatica: ' Rectum or-
dinem (cioè quello della ' constructio ') dicimus quum in quovis
compositionis genere ab eo verbo quod principale appellatur or-
dinandae litterae initium semper sumitur. Obliquura vero quum
idem fere exponendae litterae ordo est qui fuit contexendae. Et
ille quidem aliquanto acutior videtur sed certe difficilior, hic et
promptior est et elegantior et eius, cuius est compositio, volun-
tati accoraodatior ' (2).
Ma l'età umanistica, alla quale appartiene Cristoforo Barzizza,
fece aspra guerra alla ^ constructio *; e il primo o uno dei primi
a dichiararla fu il suo illustre antenato Gasparino Barzizza nel
Be compositione (3), movendo dal succitato precetto di Quintiliano
e più dall'uso costante osservato nei classici. La scuola guariniana,
che contò cinquantanni (1410-1460) di vita gloriosa, diede parimenti
il bando alla ' constructio * ma non in guisa da sradicarla. E
infatti essa durò e si imponeva anche a quelli che non la vole-
vano, come il Nebrissensis (Antonio di Lebrixa), che la aveva
esclusa dalla sua grammatica, e per compiacere agli amici fu
costretto poi a metterla (4).
(1) Pubblicata da A. Gaudenzi nel Propugnatore N, S. Ili 338 (1890).
(2) Christophori Barzizii , Grammaticarum institutionum Brixiae
MCCGGLXXXXII.
(3) Barzizii Gaspar. et Guiniforti Opera, Romae 1723, I 4-6.
(4) Antonii Nebrissensis Grammatica 1530, f. 136-137. Giova rilevare
l'argomento nuovo da lui adoperato contro la ' constructio ', cioè che Donato
nell'ordinare i due versi di Vergilio {Aen. I 108-109) ' Tris Notus hibernas...*
dice: 'ordo est: Tris naves abreptas Notus torquet...' ' En tibi, soggiunge il
Nebrissensis, accusativum praepositum non modo verbo sed etiam verbi sup-
posito..." ('verbi suppositum ' è il soggetto). La prima edizione della gram-
matica del Nebrissensis comparve nel 1481 (Hain Repertorium 11685).
<
— 103 —
E continua a vivere ancora oggi, pur troppo, nelle nostre scuole,
senza che i suoi partigiani si siano accorti che lungi dall'essere
una costruzione la è invece una vera demolizione della struttura
periodale latina. Che se ai giovinetti quella struttura riesce in
sulle prime difficile, ci sono buoni mezzi e più razionali di chia-
rirla, richiamando nel tradurre la loro attenzione sulle parole che
nel periodo italiano occupano un posto diverso e specialmente sul
verbo principale.
Remigio Sabbadini.
- 104 —
A PROPOSITO D'UN RECENTE STUDIO
SUL « PAUPER AQUAE DAUNUS »
Nell'ultimo volume della Rivista (l) il ch.mo Sig. Grasso dotta-
mente si adopera a dimostrare che Orazio, ove nomina il Dauno
povero d'acqua, non intende parlare del mitico re dell' Apulia, al
quale solo metonimicamente s'approprierebbe quell'epiteto, sibbene
accenna ad un fiume, che il diligente indagatore vorrebbe iden-
tificare col Carapella. Gli argomenti, onde il Sig. Grasso conva-
lida la sua congettura, a me sono sembrati persuasivi ; ma, quando
pure alcun dubbio potesse levarsi rispetto al nome odierno del
fiume Dauno, resterebbe però vero che per il fatto stesso dell'es-
sere il pauper aquae Daunus citato a riscontro del violens
Aufidus, l'ipotesi dell'esistenza d'un fiume, che in antico fosse
così chiamato, presenterebbe un altissimo grado di verosimiglianza.
Certo sarebbe strano che la povertà d' acqua delle campagne
Daunie fosse ricordata appunto qui, dove del maggior fiume, che
le solca rumoreggiando, è fatta menzione. Sic tauri formis vol-
vitur Aufidus, qui regna Danni praefluit Apuli, cum
furit Jiorrendamque cultis diluviem meditatur agris, leggiamo
alla strofa settima del XIV nell'ultimo libro dei carmi: altro
che pauper aquae Daunus, almeno finche V Aufidus violens oh-
strepit !
Tuttavia non si può negare che la necessità di fondere in uno
e quasi dicevo di confondere nel soggetto Dauno il carattere di
fiume con quello di re, se trova sua giustificazione nel concetto
panteistico della natura, comune alle antiche religioni, all'evidenza
poetica nuoce più che non giovi. E forza è altresì riconoscere
che tra obstrepit, predicato di Aufidus, e regnavi t, pre-
dicato di Daunus, non è pur l'ombra di quella relazione anti-
tetica, che ci si presenta negli epiteti violens e pauper aquae;
(1) Voi. XXIV, p. 243 sgg.
- 105 -
che se, come a molti piacerà di credere, gli epiteti entrano qui
a far parte essenziale del predicato, qual riscontro è dato scoprire
fra violens obstrepit e pauper aquae regnavit? Posto
adunque che il Dauno, nella mente d'Orazio, sia originariamente
un fiume, sorge spontaneo il dubbio, se in regnavit non s'oc-
culti per caso un vizio della lezione. E questo dubbio si fa più
grave, ove s'attenda alla presenza d'un'antica variante regnator,
che mal si presume di spiegare come un emendamento escogitato
da tale, cui fosse ignota la greca eleganza regnavit populorum.
Perchè il genitivo, anche senza ricorrere alla dipendenza dal verbo,
ammetteva una soddisfacente spiegazione grazie al potens; se
pure non si voglia dire che all'interpolatore fosse uscito della me-
moria anche il noto diva potens Cypri (Carm. I, 3, 1) e
quell'altro imbellisque lyrae Musa potens (ib. 6, Q), che
fin dalle prime carte s'affacciano ai lettori d'Orazio. E poi, che
emendamento sarebbe stato quello che, per togliere una difficoltà
puramente estrinseca e per altra via eliminabile, avesse privato
il soggetto Daunus del suo verbo, costringendo il lettore a sup-
plirlo alla meglio col verbo della proposizione precedente, vale a
dire con quell'obstrepit, che starebbe in evidente contraddizione
coll'epiteto pauper aquae? A me nessuno leverà di capo che tra:
dicar qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
.' regnator populorum ex humili potens,
e:
dicar qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum ex humili potens,
la lezione veramente difficilior non sia la prima; epperò credo
più probabile la derivazione di regnavit da regnator, che
quella di regnator da regnavit.
Non già ch'io pensi d'avere con ciò definita la questione. Gli è
questo il primo passo per giungere ad una razionale restituzione
del testo genuino, e nulla più. A venirne a capo, ci resta ancora
da considerare, se offrasi il modo di fornire al soggetto Daunus
un verbo che gli convenga meglio dell'obstrepit. A tale effetto
non sarà inopportuno citare due altri luoghi d'Orazio, che hanno
— 106 -
col presente una certa analogia. Nel terzo carme di questo me-
desimo libro terzo si legge (v. 45 segg.):
Horrenda late nomen in ultimas
extendat oras, qua medius liquor
secernit Europen ab Afro,
qua tumidus rigat arva Nilus;
e poco più oltre (v. 53 segg.):
Quicumque mundo terminus obstitit,
hunc tangat armis, visere gestiens,
qua parte debacchentur ignes,
qua nebulae pluviique rores.
In ambedue questi passi l'anafora esclude l'uso della copulativa ;
eppure le regioni indicate così nell'uno come nell'altro sono tra
sé diversissime. Nel nostro invece, parlandosi dell'unica Apulia,
Orazio avrebbe detto: là dove rubesto croscia l'Aufìdo e là dove
regnò Danno, ricco o povero d'acque non monta. 0, se egli stesso
ci attesta che l'Aufido regna Danni praefluit Apuli? E qui,
non da altro motivo indotto che dal desiderio di guastare una
bella ed efficacissima anafora, egli avrebbe inserito un et^ retori-
camente censurabile e geograficamente spropositato! Lo ammetta
chi vuole ; per noi, quell'ex non può essere stato scritto da Orazio.
Esso devesi esclusivamente ad inavvertenza di copisti, tratti in
errore da uno di que' sottili accorgimenti, di cui è dovizia nel
Venosi no, sovrano maestro dello stile. Ripongasi nel luogo di
quella particella, peggio che oziosa, il verbo it, che tanto le
rassomiglia paleograficamente, ed ecco il costrutto che ne risulta:
dum Capitoli um
scandet cum tacita virgine pontifex,
dicar, qua violens obstrepit Aufidus,
ii qua pauper aquae Daunus, agrestium
regnator populorura ex humili potens,
princeps Aeolium Carmen ad Italos
deduxisse modos.
Qual meraviglia che un siffatto iperbato sfuggisse all'attenzione
dei trascrittori, e che Yet cacciasse ben presto di seggio Vit^ E,
— 107 -
dopo questo primo errore, non era egli naturale che di regnator
si foggiasse un regna vit? Quanto all'iperbato stesso, la sua
ragion d'essere consisteva nello studio d'aggiunger vaghezza e
novità al dettato mediante il chiasmo violens obstrepit — it
pauper aquae; ed è superfluo avvertire che questa figura di rado
si scompagna dall'anafora. Per la latinità e la proprietà della
locuzione poi basterà accennare al Virgiliano Euphrates ibat
iam mollior undis (Aen. Vili, 726), che tanta affinità pre-
senta col nostro passo anche per la significazione.
Per tal guisa, se io non m'inganno, la critica verrebbe in certo
senso a pagare il debito, che le corre verso il valoroso erudito,
che COSI felicemente intuì la natura del Dauno; perchè, metten-
done a profitto le indagini, restituirebbe il testo per modo da
comprovare luminosamente la verità di quella, che, di fronte alla
volgata, non sarebbe che mera ipotesi.
Trieste, 27 settembre '96.
C. Cristofolini.
— lOS —
BIBLIOGKAFIA
W. Christ, Pindari Carmina prolegomenis et commentariis in-
structa. Lipsiae, Teubner, MDCCCXCVI, pp. cxxx, 466.
« Cum duo viri de Pindari carminihus emendandis post im-
mortalem Aug. BoecTchii memoriam meritissimi ita in utrainqite
partem peccassent, ut Ubrorum manu scriptorum fidei alter ni-
mium^parum alter trihueret, mihi mediani inire viam visum est ».
Così comincia il Christ. La sua edizione dunque dovrebbe tenere
una via di mezzo tra la scrupolosità soverchia di Ticone Mommsen
e la soverchia arditezza del Bergk. Se e in quale misura il fatto
corrisponda alla dichiarazione, lo dirà un esame particolare dei
luoghi singoli. JÌI per abbreviarlo e renderlo più facile, sopprimerò
senz'altro il confronto col Bergk, e pregherò il lettore per ora di
credermi sulla parola che il Christ è veramente senza confronto
più conservatore. Esaminare i voli pindarici di questo filologo o
di quello è occupazione abbastanza inutile : certamente nelle con-
getture del Bergk c'è la prova evidente di un ingegno felicissimo,
ma non è questo che andiamo cercando; noi cerchiamo il testo
del poeta, quale ce lo può dare l'eco della sua voce ripercosso
nei libri trasmessici dall'antichità, e non vogliamo intromissione
d'altri suoni. L'ingegno qui ha poco che fare, anzi non c'è bisogno
di averne molto: basta pazienza, diligenza e retto discernimento:
è lavoro da notai, e guai a quel notaio che riproducendo un atto
pubblico lo cambiasse dove non fosse di suo gusto ; rischierebbe
d'andare in galera. Adattiamoci dunque ai doveri dell'ufficio, e
ricordiamoci che più in là dell'archetipo da cui derivano i nostri
codici non ci è dato di risalire: se ivi qualche passo era già
guasto, quel passo è perduto, né possiamo rifabbricarlo di nostro.
Procediamo pertanto al confronto col Mommsen, e vediamo se il
Christ sia veramente meno scrupoloso, e se abbia confermato con
questa la sua prima edizione minore del 1869 o se ne sia ricre-
duto. Tralascio le varianti che riguardano esclusivamente l'orto-
grafia, e mi limito di preferenza a quelle che importano una dif-
ferenza di senso. Mi limito a queste per discrezione verso il lettore,
non perchè anche le questioni di forma non possano talora avere
una certa gravità. Così per esempio il Christ si lasciò persuadere
dal Boeckh a sostituire parecchie volte èGéXuj a GéXuj, a dispetto
dei codici, in 0. VITI 85 ; L VI 43 ; L Vili 28. Il Boeckh esclu-
- 109 -
deva però GéXuu del tutto, per la ragione che nemmeno Omero lo
usa, e perciò fu consentaneo a sopprimerlo anche in 0. II 107,
mentre il Christ stampa senz'altro tò XaXaTncrai GéXuuv e non
cita neanche in nota l'emendamento del Boeckh. Peggio, in I. I
15, dove i codd. danno vuJiadaavr' èGéXuu, sostituisce l'altro verbo,
emendando vujindaavTi, GéXiu. Se dunque il Christ intendeva di
dare queste due lezioni per buone, buone doveva ritenere anche
(juelle altre tre ; non c'era infatti veruna ragione plausibile di
cambiarle. Analoga è la questione tra àjuaupó'oj e laaupótu : il
Christ, contro tutti i codici, sostituisce la seconda forma in
P. Xll 13 e I. Ili iì6, ma non nel fr. 12G: perchè? Cosi dicasi
di a)Lia che vorrebbe sostituire Gaiuà, ma non riesce a cacciarlo
del tutto.
Ma veniamo alle differenze più sostanziali. Ho esaminato le
Olimpiche e le Istmiche e ho notato nelle prime oltre a 80 luoghi
e nelle seconde oltre a 30 (può darsi che parecchi altri mi siano
sfuggiti), in cui la lezione del Christ differisce da quella del
Mommsen, senza contare le differenze ortografiche (tra le quali
annoveriamo pure per brevità GéXuu-èGéXai) e quelle di punteggia-
tura, che esamineremo più sotto. Dei detti luoghi delle Olimpiche
una trentina sono diversi dalla edizione del Christ del 1869, e
così una decina di quelli delle Istmiche. La lezione nuova torna
a quella dei codd. in 0. I 29, IH 9, IV 10, VI 15, VIII 45,
58-59 ; I. I 14, IV 69, V 19 : altrove sostituisce una lezione
egualmente accreditata, o un altro emendamento di solito meno
grave ; sostituisce invece un emendamento alla lezione dei codici
dapprima accettata in 0. I 51, 65, li 85, IX 76, XI 21, XIII 97;
I. Ili 36, VI 47.
Le variae lectiones di Pindaro erano già state raccolte con tanta
diligenza e pazienza da Ticone Mommsen che poco di nuovo re-
stava in questo campo da racimolare. Infatti la materia dell'ap-
parato critico del Christ è tutta tratta da quella edizione ; dice
bensì che rende grazie a Carlo Ruck, Giorgio Karo e Ottone
Schroeder d'avere nei luoghi dubbii riscontrati di nuovo i codici
Vaticani e Medicei, ma non ho trovato che da questa nuova col-
lazione sia scaturita alcuna importante novità. Il merito adunque
non poteva consistere che nel disporre e apprezzare i materiali
raccolti, e il Christ seppe ben scegliere il meglio e rigettare il
superfluo, limitandosi di regola ai quattro codici principali e solo
in casi dubbi chiamandone in soccorso pochi altri. Così il lettore
trova più facilmente a pie di pagina il fatto suo, e non avrà che
di rado e per luoghi molto combattuti da ricorrere all'apparato
più ampio del Mommsen. E subito, nell'uso di questi quattro soli
codici, si vede tra il Christ e il Mommsen una notevole diversità
di apprezzamento : il Mommsen infatti dà la preferenza, in con-
fronto degli altri, al cod. A (che contiene le 12 prime olimpiche),
il Christ agli altri. Troviamo infatti :
— 110 —
MOxMMSEN ChRIST
0. Ili 17, airei AB^^ aiiei BpcCD
» IV 29, 9a|uàKi Tiapà A 6a)Lià koi irapà BCD
» VI 27, àvaTTeTTTàiuiev A ctvaTTiTvd)aev BCD
0 VII 15, eù6u)Liaxov A €Ù9u)Lidxav BCD
» » 86, éiepou A etepov BCD
» » 92, èxpeov A ^xP«ov BCD
» Vili 24, òiaKpTvai A òiaKpiveiv BCD
» X 13, TTÓXiq A* TTÓXiv A^BCD
» XII 2, ZuuTeipa, Tuxa A Zuòieipa Tùxa BCD
» » 26, Kttì òièK A Kai bic, ck BCD
Così dove interviene un emendamento il Mommsen preferisce ac-
costarsi alla grafia di A, il Christ a quella degli altri codici :
0. IX 16-17, Christ : àpeiaicriv (Jóv te, KacTTaXia, Tiàpa più vi-
cino ai codd. BCD e A^ che hanno : àpetaìq Taóv re KacTTaXia
(al. -Xia), e Mommsen : àp. è'v re KadiaXia irapà che è la lezione
di A\ Similmente, ibid. 82, Christ con BCD : eanoiTo, TTpoEevia
e Mommsen : 'éanon' aiei, Hevia, mentre A dà earroiT' alci. Ttpo-
Hevia. Il caso inverso non l'ho trovato che in 0. VI 62, dove il
M. legge luerdXXacrev con BCD, e il Christ ^eTdXXacrcrev con A.
Tranne le due lezioni dell'O. XII, che nel cod. A sono affatto
assurde, quella in A> di 0. IX 17 evidentemente peggiore e quella
pure di A' in 0. X 13 ttóXi^ = iróXiaq più che dubbia, poiché
parlasi di una città sola, quanto alle altre non si saprebbe deci-
dere quali meritino la preferenza, sebbene la bilancia pieghi piut-
tosto a favore di BCD; ad ogni modo tre buoni codici concordi
hanno maggiore autorità d'uno solo d'egual merito, e fino a qui
dunque il Christ non fu più ardito del Mommsen, ma più pru-
dente. Altrove la scelta è tra altri codici: 0. i 84; Mommsen:
Td Ké TI? con AB^C^; Christ: ti k€ ti? con B2C2D ; 0. Vili 40,
Mommsen: dvópouae con B, e Christ èaópouae con CD; 0. XIII
10, Mommsen : epaaùeuiaov con CD^ ; Christ : Gpacfu^uGov con
BE ; ibid. 44, Mommsen : TToXéecrai con D ; Christ : nóXeaiv con
BC ; 0. XIV 15, Mommsen : 'A0uu7tiov con E ; Christ: 'Aauumxov
con gli altri codd.; ibid. 21, Mommsen: kóXttok; con E; Christ:
kóXttoicti con BCD. Così pure con lievi emendamenti in 0. III 45
il Mommsen legge ladv dove ABC^ hanno larjv, e il Christ viv dove
C^ ha pure viv e D laiv.
Altrove non si può dire che la scelta sia fra due codici equi-
valenti : così 0. Vili 11, i soli codd. GN hanno eanrìi' adottato
dal Christ, dove gli altri hanno ecTTret' tenuto dal Mommsen ; e
1. Ili 90, i soli codici tricliniani hanno YimaTalwv del Christ,
mentre l'àTTocrTd^ujv del Mommsen è dato da B : così similmente
0. Xlll 6, dove il Christ accettò dcTcpaXè? di N e il Mommsen
dacpaXfi? degli altri codici ; e neanche queste si possono chiamare
— Ili —
grandi arditezze, tanto più quando il senso, come in quest'ultimo
caso, se ne avvantaggia notevolmente. Ad ogni modo c'è anche il
caso in cui è il Christ quello che sta ai codd. più autorevoli : in
0. XIII 82 legge eùGùq con BCDE, mentre il Mommsen dà èf^vq
con NOP.
In altri luoghi la grafia dei codici si può facilmente prestare
ad una doppia interpretazione. Tipico è il KopivBuu di CD in
0. XIII 52, che può essere tradotto tanto in KopivGiji (M.) quanto
in Kopiveou (Ch.). Similmente dove si tratti di variante d'accento,
come I. I 24, alxMaiq (M.) e alxMaì<; (Ch.), se è vero che nei co-
dici si legga a questo secondo modo, come risulta dall'apparato
critico del Christ, mentre giusta quello del Mommsen si legge-
rebbe nel primo, e fatte le debite riserve per l'ammissione di
queste forme esotiche. Così I. VI 8-9 il Kaiaanévbeiv dei codd.
poteva egualmente tradursi nel KÓra arrévòeiv del Christ quanto
nel Kaià crtrevòeiv del Mommsen.
Ma parecchi altri luoghi vi sono nei quali il Christ non che
più ardito è anzi conservatore più accurato del Mommsen. Si con-
frontino le seguenti lezioni :
Mommsen
Christ
0. II 69,
^YXepo'S àK)Lia
èv x^pò? òtK^a
» IV 10,
òéK€U
òéSai
» VII 33,
operai
eùeùv
» » 71-72
IvSa crocpuuTaTa ^ixQek
èv0a 'Póbuj TTOTè mx^eì?
TCKev eTTià 'Póòuj
TTOlè
TÉKev éiTTà aocpóiTaTa
V ormar'
vormai'
» IX 109,
ctpucTai
ujpucTai
» XIII 7, -
Tam'
Ta|niai
» » 21,
blbUjUVOV
ÒÌÒU|UOV
» » 68,
àye òè qpiXxpov
afe qpiXipQV
» » 91,
òiacriujiTàao|uai
biaaujTTdao|Liai
» » 109,
ava, Koùqpoiaiv
dWd Koùqpoicriv
» XIV 4,
(JÙV
(jùv ydp
» » 8,
KOipavéoicTiv
KOipavéovTi
» » 16,
ìv te |U€\éTai(;
èv |U€\éTai<s t'
I. I 63,
(JeaiTaiiévov
(JecrtuTTaiLiévGv
» II 11,
Ga)Lià
G' d|ua
» » 42,
OtKTa^.
dKxdv.
» IV 53,
Karaiuapipai
KataiLidpvpaKj'
» » 69,
OKiaa
aixfid
» V 19,
TTueéa Te
TTuGéa le
» VII 39,
àpiaócraii;
àppLÓlwv
» Vili 10,
Kaì TavidXou
fé TavxdXou
» » 12,
Xdpiaa
beì|ua
» » 33,
cpéptepov TEKéiiev
dvttKTa
qpépTepov yòvov dv
Ttaipòq TÓvov
dvttKTa •iTaTpò(; T€Keìv
— 112 —
Sono 23 luoghi nei quali il Mommsen si scosta dai codici e il
Christ li segue ; soltanto nell'ultimo inserisce av che i codici non
danno. In tutti questi luoghi infatti, tranne 0. XIII 109 e 1. V 19,
la lezione dei codici o è senz'altro ottima, o è almeno tale che
non autorizza (se non talora per dubbie ragioni metriche) alcun
mutamento. E fino a qui la edizione del Christ in confronto di
quella del Mommsen segna un vero progresso, appunto perchè
torna ai fatti e lascia andare i sogni. A questi luoghi sono da
aggiungere alcuni altri nei quali, dovendosi di necessità (più spesso
per ragioni metriche) introdurre un emendamento, il Christ vi
riuscì con minor squarcio del Mommsen. Tali sono :
0. I 65-66, Mommsen : oiaiv àqp9iTOV 0év viv ; Christ : oi^
viv acpGiTOV Qéooav. E nei codd. : oIcJiv AD, oT(; C, aqpSiTov Gécrav
aÙTÒv ACD ; Béacfav By^. L'emendamento ole; viv, ancorché non
assolutamente necessario, è così lieve e migliora tanto il testo da
farlo ritenere più probabile dell'antica lezione.
0, II 33-34, Mommsen : pporujv ye irépaq où KÉKpiTai ti
9avdT0u, Christ : fìpoTuJv je Kékpixai Tteipacg ou ti BavdToO, coi
codd. airinfuori che questi danno Tiépaq.
Id. 84, Mommsen: ov iraTrip è'xei [xOovóqJ ; Christ: ov iraTrip
exei laÉTaq : la proposta però è del Mommsen. Codd.: ov TtaTfip
è'xei Ta?.
0. IX 76, M. Fivvo?, Ch. ToOvoq, codd. róvo?.
1. VII 28, M. àjLiTTeTTaXu'jv, Ch. àvja cpépuuv, dove i codd.
hanno àiuùvujv, ma gli scoli èvavTiov cpépuuv.
I. Vili 35, M. Znvì, Ch. Al ye, Codd. Aii.
In tutti questi luoghi non occorre io dichiari che preferisco di
gran lunga la lezione del Christ : non però in I. VI 72, ancorché
qui pure sia più vicina ai manoscritti ; questi infatti danno :
cpain? Ké viv àvòp' èv àeOXriTaTaiv e il Christ : (pa{r[q kc viv dv-
òpdaiv deeXriTaicfiv, laddove il Mommsen emenda : cpairiq Ke Mé-
vavòpov èv de6XriTaT0iv. Le ragioni della preferenza per questa
lezione le ho addotte nelle mie Odi di Pindaro, p. 704, nota 1.
Altre volte i due emendamenti sono press'a poco a egual di-
stanza dai testi, né paleograficamente v'è ragione di preferenza
per l'uno o per l'altro ; e talora difficilmente se ne troverebbe
alcun' altra ; come in :
0. II 57, M. dcppoauvav TiapaXuei, Ch. TrapaXuei òucTcppovav,
Codd. òuaqppoaùvav napaXùei, dove la lezione del Christ, seb-
bene un po' più distante dai mss., pare preferibile per il senso.
0. Vili 16, M. 6 aè nèv èv Nefièa, Ch. oc, o' èv |ièv Neiaéa,
Codd. o<; oe [xìv èv NeMéa CD (A e B omettono 6q).
Ib. 23, M. Ò6i yàp ttoXù koì TToXXd pénoi, Ch. ò ti TÒp
TToXù Ktti TToXXa pénr], Codd. 6 ti ydp ttoXù koi noXXa péTTOi.
0. XIII 17, M.' aocpiaiiaO'. dirav, Ch. (ToqpicriLiaTa • irav,
Codd. aocpianaTa. dnav BC, aoq)xO\ia-x\ aTtav D.
Ibid. 42, M. Tepipia eqjovT', Ch. Tepv|jìa 6' ^vpovx', meglio.
- 113 —
Ibid. 107, M. 'ApKttcriv acraov, Ch. 'ApKÓaiv aaauuv, tutti e
due mediocri emendamenti della lezione dei codd. 'ApKdaiv dvda-
(Tuuv : io aveva proposto 'ApKdaiv d6\oi(;, ma di gran lunga pre-
feribile e, si può dire, sicuro è un emendamento del Boehmer,
da lui gentilmente comunicatomi : 'ApKdat vd0aov = accumular
rono nei giuochi Arcadi.
I. V 48, M. KcXaòéeiv, Ch. KeXapùcrai, Codd. KeXaòfjaai.
I. VI 5, M. aure, Ch. auiev, Codd. aux èv. L'emendamento
accettato dal Christ si potrebbe dire sicuro, se non ostasse la sin-
golarità della forma.
Ibid. 36, M. toOtov, Ch. Euvòv, per supplemento di due sil-
labe mancanti.
Ibid. 59, M. Tra ò' èv, Ch. TrdvT èv, Codd.: ttoO kèv B, ira
k' èv D.
Ibid. 60, M. vaiolai, Ch. vaiovti, Codd. vaiouai.
I. Vili 68, M. veóraq béKero irpiv, Ch. irpìv è'òeKTo veóiaq,
Codd. veótaq irplv èòcKTo.
Che se fino a qui il Christ adempì ottimamente l'ufficio di cri-
tico conservando il testo, non manca anche qualche luogo nel quale
si può dire l'abbia veramente restituito o migliorato accettando
qualche felice congettura. Questi luoghi sono :
0. VII 49, KCivoi? ó luèv, congettura del Mingarelli per Kei-
Voiai |név.
0. IX 112, Aiav, teóv x', congettura dell'Hermann per Aìdv-
T61ÓV t'.
0. X 70, Zd^o(; ibXipoGiou, congettura del Boeckh per afiin'
dXippoGiou.
Ibid. 87, |LidXa òé Foi, congettura del Boeckh per ladXa
Ò€ TOl (1).
0. XIII 81, aùepùr^, congettura del Boeckh per dvapuri.
Ibid. 97, Tiaùpui FéTiei, congettura del Bergk per Traupiu
ò' ETTei.
1. Ili 54, ^x' èv TTttiòeaaiv, congettura del Bergk per è'xei
TTaiòecraiv.
I. Vili 12, TxapoixóiLievov, congettura del Benedictus per
Trapoixo|uévujv.
Altrove, comecché la lezione dei codici possa esser difesa, l'e-
mendamento ha pure una certa appariscenza e chi non sia scrupo-
loso può accettarlo, talora definitivamente, talora provvisoriamente:
0. II 67-68, i(j' èv òè vuKTeacTiv aiei, i(Ja ò'èv à|uépaiq, con-
gettura dello Schwickert per ì'aaiq òè vuKTecraiv (ò' èv vùkt. B)
(1; Nelle mie Odi di Pindaro ho pur io seguito questa congettura tanto
nella dichiarazione quanto nella versione, ma mi dimenticai di avvertire che
mi scostavo dal Mommsen. Simile dimenticanza mi occorse per la punteg-
giatura di 1. Ili 44, per la punteggiatura di I. V, 58 e la lez. di 59 (ttóvt'
e non -aq. ò'), ma il commento e la versione non lasciano alcun dubbio al
lettore discreto.
Rivislii di filologia, ecc., XXV. S
— 114 —
ì(yai(; b' év à^epaiq, sebbene paia preferibile, perchè meno contorta,
quella del Triclinio : laov òè vÙKteaaiv aìeì, l'aa ò' èv ecc.
(M. 'iaaxc, bè ... laaxc, b' à|Li., assai vicino ai codd., ma è uno stento).
0. Ili 38, TTÒp, congettura del Boeckh per ttóI.
0. VI 76, TTOTiaiaEri, congett. del Bergk per TroTiaiaZiei ovv.
-Sei.
Ibid. 77, òpouq, buon emendamento del Moscopulo per òpoi<;.
0. VII 61, à|Li nàXov, congettura del Boeckh per àuTraXov.
0. XI 4, TTpàcrari, congett. dell'Hartung per TTpàcraoi.
0. XII 6, ^JeObrl per i|j6ubfi.
0. XIII 47, bè FeKdaTiy, proposta del Mommsen per b' èv
éKdaiuj.
1. VI 20, e|U|Li€v, congett. del Boeckh per eivai.
Ibid. 29, AaofjebovTeiav UTtèp diiTiXaKiav, congett. del Kayser
per Aao)LiebovTeiav ùrrèp àjUTrXaKiav.
Ibid. 53, KCKXe', congettura del Bergk per KÉKXex'.
I. Vili 47, àvaKT€, emendamento del Triclinio per avaKia.
Da queste ultime innovazioni io non affermerei che il testo sia
uscito migliorato in confronto di quello del Mommsen, che sta più
stretto ai codici, non direi però che neanche sia uscito piìi guasto,
poiché ad essere le nuove lezioni accettabili interamente non manca
che un buon codice che le confermi. Più difficile è accettare :
0. I 51, à|Liqpibeù|uaTa per à^q>i beuTaia (Cfr. le mie Odi di
P., p. 175, n 4).
Ibid. 107, àXXa Kaì per l'errato a)ia Kaì : meglio nella prima
edizione, e M. àmue Kaì.
0. II 25, b' è'mivev (Hermann) per bè iriTveT, che si può
bene interpretare come presente storico (Fennell).
0. X 6, àXiToEévuuv (Mingarelli) per àXiióÉevov.
0. XI, biaXXdEavTo per biaXXdEaivio. Omero usa pure in
questi casi l'ottativo senza av (Monro, Hom. Gramm., § 299, f.
Cfr. § 322), e non si può assicurare che Pindaro non lo abbia
imitato anche in ciò.
1, VI 46, Heivióv )liou per Heivov à)uóv, mentre c'era il ge-
niale emendamento del Fennell : Eeivi', d)iiap, che non viene nep-
pure citato in nota.
Similmente dicasi degli emendamenti dell'O. XIV, dovuti a
ragioni metriche ; v. 5 : xà yXuké' àvetai per tà Y^UKéa ji-
veiai ; V. 7 : àyvav per aeiavav ; v. 10 : TTu8ujov per TTuGiov ;
v. 19 : eXue' per èX0é.
C'è però un'altra ventina di luoghi nei quali l'emendamento
non ha affatto ragione di essere, e spesso peggiora il testo note-
volmente. Il Christ muta o piuttosto accetta i mutamenti : 0. II 63,
auTi? per aùriK', che muta il senso ma non lo chiarisce ; 0. VI
83, irpocreXKei per TTpoO'épTTei, Vili 78, èpbo|iévujv per èpbóiuevov,
XI 10, ó)aoiujq per ò^vjc, iJuv, Ibid. 17, \j\i\ji\v per |uri uiv, I. I 36,
èpeiTTÓiaevov per èpeibó|uevov, i quali mutamenti sono lievi bensì,
— 115 —
ma altrettanto superflui, poiché il senso con la lezione tradizio-
nale corre egualmente bene e forse meglio. Più grave nella so-
stanza è la mutazione di viKav in viKav, in 1. Ili 43, sebbene
questa lezione paia nota agli scoli, i quali interpretano qpniuri
viKdv, nesso assurdo nel contesto, mentre è semplicissima la co-
struzione : a év TOUvoT^ 'AGavav ujrraae viKav, é!v t' 'AòpaaTeiOK;
àé6\oi<; ujTvaae Toidòe cpùXXa. Ma non so assolutamente capire
come mai il Christ si sia indotto ad accettare in 0. II 35 un
duépav TTOTépa dell'Herwerden per à|Ltepav ÓTTÓie ; ib. 82 un Kpo-
Tdq)ou(; del Karsten per atecpàvou*;, che è correttissimo (cfr. Le
Odi di Pind., p. 113); 0. Vili 47 un nTreiT n del Bergk per
fìK€iTev, una delle tante miserie regalate al poeta per farlo parere
più ragionevole e insegnarli la geografia ; I. Ili 36 un xeiMcpiuuv
TTOiKiXa dell'Hartung per xeine'piov ttoikiXuuv ; I. V 54 un Toidòe
Ti)Lia del Bergk per Toiaiòe Ti|uai, senza dì che è perduta ogni
concinnità di senso ; I. VI 47 un idv )Lièv del Eauchenstein per
TÒv )aèv, lezione certissima (cfr. II. I 5 aÙTOÙ?, dove pure la
personalità si collega essenzialmente al corpo); I. VIII 27 un
epiaav TToaeibdv del Benedictus per epxaac,, noaeiòdv. Tranne
forse quest'ultimo caso, sono lezioni tali queste nuove proposte
che, ove anche i codici le dessero, bisognerebbe esaminar bene se
non avessero preso delle papere ; perciò in un'edizione critica non
dovrebbero affatto essere accolte. Non capisco come si possa soste-
nere ancora in 0. II 107 il vecchio errore dell'Hermann : Kpucpov
Ti9é)aev per Kpùcpov t€ 9é)aev, dato concordemente dai codd. e
correttissimo, perchè non è che un esempio di doppia costruzione
verbale e nominale (cfr. Le Odi di P., p. 204, nota 1 ; cfr. pure
p. 123) : non capisco come si tormenti 0. Ili 4 toi TrapécTTa fioi
mutandolo in |uoi Trapeaiairi, congettura del Naber (o anche in
)aoi irapeaTdKOi col Mommsen e col Christ della prima edizione),
ne perchè, ibid. 25, dove il Mommsen col cod. A legge soddisfa-
centissimamente TTopeuev 6u)Liòq ujpiua, occorra andar nel difficile
per sostituire uópeuev Qvjàòc, ópiaa. Questi erano però tutti emenda-
menti altrui : di propri il Christ è molto parco, come deve essere
un filologo serio : tra le Olimpiche e le Istmiche ne ho con-
tati cinque soli, e disgraziatamente punto felici : 0. VII 53,
dbóXuuq per dòoXoq, con che non vedo che si guadagni né che
differenza di senso ne venga ; 0. X 9, tóko<; ójuapTéoiv, mentre
c'era il semplice e felice emendamento del Friederichs ye xÓKoq
dvòpujv (v. Le Odi ecc., p. 293, nota 1) ; 0. XIII 99, eEopKo<;
per lioQKoc,, che ha tutta l'aria d'uno scherzo; ibid, 113, ti wc,
òu)nev, prosaica roba per ri ójc, lòé)aev, che però è probabilmente
scorretto; I. I 41, el ò' dpexa 'vréiaTai (cioè àviéiaTai) iiq, ele-
gante congettura, che ha il solo torto d'esser molto lontana dal
KaidKeiTai dei codici, che pure è metricamente corretto e quanto
al senso materiale non lascia a desiderare.
Un altro genere di varianti resta ad esaminare, quello della
— 116 —
punteggiatura, dove il critico ha le mani più libere, e da ufficiale
d'ordine diventa impiegato di concetto. E qui pure il Ohrist in
confronto del Mommsen accettò e introdusse parecchie novità. Non
conto I. V 41-42 e 1. VI 12, dove la differenza è piuttosto di
segni che di sostanza. Enumeriamo gli altri casi :
0. 1 V. 29. Tenendo cpariq pone un punto in alto dopo Xóyov,
emendamento del Mezger, ottimo per se, se il verso seguente non
rimanesse staccato dal contesto.
0. VI 71. Mette un punto dopo 'iaiuiòav, ma il restare ò\po<;
à)i 'éOTxeio isolato, e il confronto con N. X 37 fanno preferire la
lezione del Mommsen che lo soppresse.
0. IX 14. Toglie il punto dopo 'OTtóevTO<;, ottimamente:
intollerabile sarebbe aìvrjcrai? Fé xaì uióv staccato da ogni con-
testo : dopo uiòv alla virgola preferirei un punto in alto.
0. XI 2-3. Pone una virgola dopo ùòdTuuv e la leva dopo
òjuppiuuv, emendamento del Wilamowitz, sicurissimo.
0. XIII 97-98. Pone un punto dopo èmKoupo(g e lo leva dopo
Nejiéqt, benissimo.
1. I 18-19. Leva il punto dopo ÓTXaiav e lo pone dopo
TÓ01, bene.
I. Ili 44. Leva il punto dopo ujrraaev, ottimamente.
Ibid. 53. Pone virgola dopo àXKÒv e la leva dopo cpoiviov
(Madwig) ; meglio se lasciava stare.
I. VI 58. Pone punto dopo te e lo leva dopo xpÓTTov, otti-
mamente.
Ibid. 61 : Tpei(;, àn IcGiugO, per Tpeic, àn 'I(76|uo0, benissimo.
I. Vili 4. Leva il punto dopo Nejaéqt, pure ottimamente.
Nessuna di queste varianti è opera originale del Christ, ma fu
proposta già da altri prima: ad ogni modo egli sentì e scelse
ottimamente ; di undici volte che è diverso dal Mommsen, nove
è migliore : è una buona proporzione.
Resterebbero ad esaminare parecchi altri luoghi nei quali il
Christ concorda col Mommsen, e non concorda però coi codici,
ma anche della pazienza dei lettori bisogna tenere un po' di conto.
E poi questi luoghi che restano non sono né molti ne gravi, se
deve esser vero che, come altri gli appose a biasimo io a lode,
il Mommsen sia un esagerato conservatore. Ad ogni modo il con-
fronto tra le due edizioni da questo esame non riuscirebbe più
pieno, poiché questo é un termine comune. Per concludere, poiché
non è supponibile che le Pitie e le Nemee mutino la proporzione,
l'edizione del Christ segna un progresso quanto alla critica del
testo, non perché sia egli stato più ardito del Mommsen, non
perchè ci sieno molte lezioni nuove, non perchè le poche nuove
sieno accettabili, ma perché è fatta una scelta diligentissima e
assennata delle antiche, e perchè di questi ultimi trent'anni di
critica il Christ ha raccolto le poche spighe sane e le ha purgate
dal molto loglio. Disgraziatamente anche un po' di questo c'è ri-
— 117 —
masto, e quanto a deviazioni dal testo dei mss., a contarle, poco
s'è guadagnato in confronto del Mommsen : s'è migliorato invece
di molto nella qualità degli emendamenti e nella punteggiatura.
Quinc'innanzi perciò sarà questa la edizione normale da citarsi
di preferenza, e per un pezzo potrà restare l'edizione definitiva.
1 libri si devono giudicare per quello di buono che contengono,
non per quello che manca, e mi sono tanto indugiato sulla cri-
tica del testo, perchè è appunto come edizione critica che l'edi-
zione del Christ va giudicata. Quanto al resto, in meno di 600 pa-
gine si sa quello che ci può stare, e lunga perciò sarebbe la
enumerazione di quello che si desidererebbe e che non vi si trova.
Un commento che fosse, o poco o molto, estetico, che cercasse le
ragioni dell'arte di Pindaro, studiasse la composizione di ogni
singola ode, ne analizzasse i nessi e la struttura, avrebbe richiesto
un altro volume, e il Christ a questo ufficio, che pure sarebbe
stato meno ingrato e senza confronto più ricco di messe, volle
rinunciare interamente. Il suo commento è affatto prammatico ;
dell'esegesi non si occupa che per incidenza in luoghi singoli, né
si dà pensiero delle questioni d'interpretazione che in parecchi
luoghi tengono divisi i filologi (1). Perciò neanche pone alcun
canone da seguire, né premette alcuna ricerca sulla sintassi e
sugli atteggiameati del pensiero di questo^ poeta, né si preoccupa
di ciò che fu scritto a questo proposito. È un commento del ge-
nere di quello del Bergk, ma più breve : per ciò che si limita
ai fatti, è bensì meno interessante e meno nuovo, ma perciò stesso
sarà più durevole. Né si perde in lungaggini : già nella prefazione
si scusa se non cita le fonti delle sue interpretazioni : infatti ci
vorrebbe altro ! La critica spicciola, per quanto utile, è un me-
stiere inglorioso, e guai per chi ha la fregola di farsi citare.
Osservo anzi che nell'apparato critico molti emendamenti pote-
vano utilmente per il buon esempio ai lettori, e caritatevolmente
per la fama degli autori, passarsi sotto silenzio, poiché sono
alzate d' ingegno o esercizi di sottigliezza. Apro il libro a caso :
N. IV 12, lìuTTupTov eòo<; ; così emendò lo Schmid la lez. dei
codd. euTTupTov, con probabilità pari alla facilità ; ma a che prò
soggiungere: « ùipiTTupTov coni. Schroeder »? E a la^ievei del
V. seguente a che notare che il Bergk congetturò laixevr]c, ? (2).
Vero é che il Christ credette meglio di abbondare, e nella critica
tedesca racimolò largamente (specialmente cita molte monografìe),
ancorché altri possa notargli delle lacune : pare infatti che le ci-
tazioni sieno in proporzione non del merito ma del numero delle
volate a cui i diversi filologi si lasciarono andare. Invece gli studi
(1) Così in 0. I, 26: Ka6apo0 Xépr|Tot; intende senz'altro della nascita di
Pelope: ibid. 62: fiera rpiuùv intende Sisifo, Tizio e Issione (V. Gomparetti,
Philol.32). — 0. II 60: di PaOeiàv {juéxvjv |uépi|ivav àYporépav non fa que-
stione alcuna: e così della sintassi di 62 sqq. d fé viv ^xiuv tk;, ecc. ecc.
(2) ZapL^vic, è errore di stampa.
- 118 —
di fuori di Germania sono molto trascurati: nell'apparato critico,
per esempio, non è mai citato il Fennell, che tra i commentatori
di Pindaro ha pure uno dei primissimi posti, ne ricordo d'aver
mai veduto il nome del Croiset.
Il testo del Christ è preceduto da 130 pagine di Prolegomeni
divisi in cinque capitoli. 11 primo, e più breve, tratta dei codici
e dei sussidi critici. 11 secondo della metrica di Pindaro, nella
qual materia, non facile ne piacevole, la dottrina fa a gara con
la chiarezza dell'esposizione. 1 versi anche questa volta sono riu-
sciti divisi diversamente, e questo, senza colpa dell'editore, pro-
duce una gran confusione; né oramai ci potremo più intendere
se nelle citazioni non si ritorni ai vecchi numeri degli scoliasti :
così non si fa parzialità per nessuno. Il terzo capitolo tratta dei
giuochi e degli epinici (questioni agonali e cronologiche (1 ), elenco
dei luoghi dove si celebravano giuochi, feste e canti per la vit-
toria) ; il quarto riferisce le cinque note vite di Pindaro, cui è
aggiunto un elenco dei fasti Pindarici ; il quinto dà la genealogia
degli eroi di Pindaro secondo le diverse stirpi, e finisce con tre
tavole.
11 volume si chiude con la collezione di tutti i frammenti,
secondo l'ordine tenuto dal Bergk, corredata essa pure di note
critiche, e con due indici, l'uno dei nomi, l'altro delle cose.
G. Fraccaroli.
Vittorio Puntoni^ L'Inno Omerico a Bemetra, con apparato
critico scelto e un'introduzione. Livorno, Giusti, 1896, pp. viii
e 165.
Chi si sentisse ancora qualche scrupolo di negare la possibilità
d'un' Iliade messa insieme da canti disparati e non gli bastasse
il confronto col Kalevala magistralmente istituito dal Comparetti,
potrebbe in questo solo inno toccare con mano a che razza di
incongruenze e di assurdità una tale contaminazione conduca, e
son tali e tante in meno di 500 versi, quali certo e quante forse
non sono nei 28.000 dei due poemi omerici. Là infatti, nei poemi,
potremmo trovare delle contraddizioni materiali, delle dimenti-
canze, delle mutazioni nelle forme plastiche, delle eccedenze o dei
sottintesi ; qui, nell'inno, delle contraddizioni in termini, delle
(1) Tiene la cronologia delle Pitiadi secondo il Boeckh, sebbene ormai
generalmente abbandonata, aggiunge però tra parentesi le date del computo
del Corsini. — Non tornerò su questo tedioso argomento, poiché nulla ho
da aggiungere a quanto ho discorso in generale nel Mì(seo del Comparetti
del 1888, e ho riprovato a parte a parte poi nel commento delle singole
odi in questione.
— 119 —
assurdità, delle vere e proprie sciocchezze. Sono cose tanto grosse
e tanto gravi che non potevano non colpire anche gli osservatori
superficiali subito fino dalla scoperta del Codice Moscovita, e però
è ricca la letteratura intorno a questo lavoro. Ma nessuno diresse
le proprie ricerche a risultati così persuasivi e, per quanto è dato
in questo genere, sicuri come il Puntoni. 11 rigore del metodo e
la stringatezza logica costringono il lettore e lo sforzano anche a
proprio malgrado a convenire nelle conclusioni ; e l'esposizione è
così chiara e perspicua che là dove non senza ragione ci aspet-
teremmo trovare difficoltà e tedio, ci sentiamo attratti invece da
un vero diletto intellettuale.
Da tre cause distinte secondo il P. hanno origine le difficoltà
che ad ogni passo incontriamo, cioè da contaminazione di inni
diversi, da ampliamenti, e dal sincretismo mitico cui si abban-
donarono gli stessi autori primi. Di quest'ultimo genere è solo
trattato in via d'esempio nelle ultime pagine con tale evidenza
da non richiedersi più parole ; gli ampliamenti sono ridotti dal P.
a poca cosa ; lo sceveramento dei singoli inni primitivi, che si
fusero in questo povero centone, è invece la tesi principale ch'egli
si propone e svolge per disteso. Egli la riassume a p. 2 in queste
parole : « L'inno omerico tradizionale a Demetra, quale è oiferto
da M |il codice di Mosca] risulta principalmente da un più an-
tico inno A ampliato mediante l'inserzione di un numero consi-
derevole di frammenti estratti da due altri inni a Demetra, B
e C, e più 0 meno convenientemente adattati in A da due di-
stinti redattori. Argomento di A era il ratto di Persephone e la
conseguente jufiviq di Demetra ; né vi si accennava ad un sog-
giorno di Demetra presso Celeo in Eleusi. B si avvicinava per
la struttura e per molti particolari all'Inno a Demetra attribuito
a Pampho : cantava principalmente non la |mìvi<; ma il TTév9o(; di
Demetra ; non il ritorno di Persephone, ma come Demetra, afflitta
per la perdita della figlia, andò errando tra i mortali, finché non
fu ospitata nella casa di Celeo, e come ebbe luogo la fondazione
del tempio di Eleusi e l'istituzione dei m.isteri eleusini. C infine
combinava i motivi di J. e di 5 in una versione, che, per il suo
argomento e per il suo carattere, non doveva esser molto distante
da quella seguita nel componimento orfico noto sotto il titolo di
Kópni; àpTTaTri ». Dimostrato ciò a parte a parte riassume a p. Ili
i risultamenti, e attribuisce al nucleo primitivo A ì vv. 1-4, 8-17,
19-20, 38-46, 62-8], 87-90, 305-35, 337-51, 370-94, 404-13, 433,
441-50, 459-7G, 483-84, 486-89 ; riconosce come frammenti di B
(qualcuno dubitativamente) i vv. 5-7, 22-23, 30-37, 357, 359-69,
82-86, 92-188, 212-301, 478-82, 490-91, 494, e come frammenti
di C i vv. 24-25, 27-29, 47-54, 58, 191-99, 202-11, 395-99, 401-
03, 434-40. Riconosce poi tre ampliamenti principali nei vv. 352-
56, 414-32, e 451-58. La prova razionale è ribadita da un dato
di fatto : A, nucleo primitivo, avrebbe in proporzione un terzo
— 120 -
circa di meno di parole postomeriche che non abbia J? e la metà
circa meno di C [a p. 113, 1. 1 : ò|U0K\ri di A, v. 88, è data
come parola postomerica, ma di nuovo non ha che la psilosi]. Da
ultimo è fatta notare la diversità di carattere dei singoli perso-
naggi secondo le tre diverse redazioni ; del merito comparativo
delle quali non è dato giudizio esplicito, sia perchè ciascuno può
riassumerselo da sé, sia perchè A q G sono forse scusabili della
meschinissima figura che ci fanno per esserci pervenuti potati e
sbranati miseramente. Ad ogni modo, dato l'inno come è ora,
qualche lampo di poesia vera si trova solo negli squarci attribuiti
a -B, il resto è roba mediocre cucita insieme da un sarto ancora
più mediocre.
Kiassumere gli argomenti che il P. addusse, sia altrui sia propri
0 rinnovati, a favore della sua tesi, è assolutamente impossibile,
poiché se talora si può notargli il difetto di una eccessiva dili-
genza e sottigliezza, non si può trovargli mai quello della lun-
gaggine. Piuttosto accennerò ad alcuni luoghi dove l'argomenta-
zione del P. mi ha lasciato qualche dubbio ; io sono molto scettico
quanto alla fede nella critica razionale, e perciò nessuno si mera-
viglierà certo tanto di quel poco che trovo a ridire, quanto io mi
meraviglio del molto che ho trovato da lodare. Né se io scarto
qualche argomento, vuol dire che la conclusione vada sempre per-
duta : raro è che il P. si accontenti di un solo indizio o di una
sola ragione per sostenere un dato punto, e se anche una ragione
si elimina ne restano spesso delle altre. Le conclusioni sono accet-
tabili assai più spesso dei singoli motivi. Che il v. 87 debba tener
dietro immediatamente ai vv. 80-81 (p. 57) basta enunciarlo per
convincersene: lo stesso dicasi dei vv. 188 e 212 (p. 68); meglio
ancora pei vv. 90 e 305-6, sebbene nel primo vi sia un axo<;
mentre l'antecedente della vendetta di Demetra sarebbe piuttosto
una \xr\\\Q, o un xó^o^: sono d'accordo pure che i vv. 191-211
sieno stati tolti da un altro inno, ma non sono però altrettanto
persuaso che le ultime parole del v. 188 e i vv. 189-90 sieno opera
di chi voleva incollare insieme i diversi brani :
Kai pa |Lie\d9pou
KÙpe Kdpri, TrXfìaev òè Gùpaq créXaoq eeioio.
ifiv ò' aìòu)^ te (Jépa? te ìòè x^i^jpòv òéo<; eiXev.
Poiché il P. ci ha dimostrato con tutta evidenza che questi versi
non possono stare con la scena che segue, che cane di poeta do-
veva esser quello che per congiungere intrometteva appunto un
concetto così disforme dal contesto ? Così, mentre in complesso è
ingegnosissima la restituzione dei vv. 395-403 (p. 18-26), farei
eccezione per il v. 398,
fi òri Toi TTÓXiv (auTK;) ioGcr' utt[ò KeuGea tciìti]*;-
— 121 -
Il P. giustamente rimprovera i critici che lo precedettero, perchè
nelle loro restituzioni non tennero conto di qualche singola lettera
data dal codice ; ora egli in questo verso altera delle intere parole.
Egli vuole scoprire in questo brano un frammento di 0, e per-
suaso che in G Deraetra prendesse le cose ragionevolmente e si
sforzasse anzi di persuadere essa stessa la figlia ad adattarsi al
suo destino, riduce questi versi ad una vera TrapaiuuBia in questo
senso. Ora per quanto pien di sonno vogliamo sia stato il compi-
latore, difficilmente si potrà ammettere che non si sia accorto
che questo avrebbe fatto a pugni con tutto il resto dell'inno. Che
Demetra fosse piuttosto addolorata che adirata o viceversa, ad un
osservatore superficiale poteva far poca differenza, ma che da un
momento all'altro la si rappresenti anche contenta, questo passa
ogni misura di dabbenaggine. Se anche questi versi appartengono
a (7 e se anche originariamente contenevano una irapainueia, è
forza ammettere che il compilatore li abbia o bene o male adat-
tati, in modo da togliere o attenuare la contraddizione; e la restitu-
zione del P. invece non attenua nulla. D'altra parte mi par troppo
sottile la ragione d'escludere l'emendamento eì ò' èndauj : Demetra
afflitta, dice, avrebbe usato delle espressioni meno indifferenti di
quelle dei vv. 401-403 : ciò sta bene; ma in primo luogo ad un
poeta così mediocre non si può certo domandar sempre l'espres-
sione pili propria, ed oltre di ciò usano i poeti epici di oggetti-
vare spesso la narrazione dimenticando il sentimento speciale di
chi parla, o la circostanza speciale in cui il personaggio si trova,
la quale considerazione potrebbe addursi anche a difesa del laérav
vóov del V, 37, e dell' ó òè vócrqpiv tìctto ecc. dei vv. 27-28, senza
scavizzolare sul contrapposto sottinteso. Per la stessa ragione è un
debole argomento il dire, contro il v, 80 àXXà, Geà, KaraTraue
lUÈYav Y<3ov (p. 54), che questa esortazione di Elio a Demetra
richiederebbe da parte di questa un yóo<; od un xóXoc; prima del
colloquio con Elio, 11 xóoq e il xóXoq sono noti al lettore ; anche
se non se ne fosse parlato espressamente prima, essi sono l'argo-
mento del poema, ed anche questo errore di prospettiva di tras-
portarsi nel punto di vista del pubblico invece di stare in quello
del personaggio della scena è frequente negli antichi, e per esso
si spiegano molte cose che per noi sarebbero vere incongruenze.
Non c'è pericolo tanto attraente e insieme tanto grave nella cri-
tica delle opere d'arte, e sopra tutto delle opere d'arte spontanea,
quanto il ragionare troppo serrato. Al poeta antico basta colpire
l'immaginativa, e quando questa è soddisfatta non ha bisogno di
cercar altro : egli eviterà pertanto solo quelle incongruenze e con-
traddizioni che si presentano intuitivamente alla prima audizione
0 lettura ; di una riflessione piìi profonda quanto a sé non si oc-
cupa e quanto agli altri non ne tien conto. Ohe una giornata sia
troppo breve per ciò che deve contenere, non glie ne importa :
Dante percorre il diametro terrestre in due giorni, e questo è
— 122 -
assai più che ammettere che gli Eleusini abbiano in un giorno
fabbricato un tempio (p. 78) ; si potrà dire dunque che il poeta
s'è espresso male, che non ha saputo nascondere (come seppe Dante)
questa incongruenza, ma per sé questo non basta a dichiarare il
passo illegittimo. Così ai vv. 33-35 (p. 31) :
òqppa laèv ouv foiàv te koì oùpavòv àcriepóevia
XeOcrae Geà Kaì ttóvtov aYdppoov ìxQiJÓevxa
aÙTÓtq t' lìeXiou,
il P., fatto notare che l' oùpavòv daiepóevra si usa benissimo
anche per il cielo diurno, muove dubbio sull' avfàq t' tieXiou,
perchè, o la prima espressione indica il cielo notturno, e allora
Persefone avrebbe veduto insieme il sole e le stelle, o indica, come
è preferibile, il cielo diurno, e allora nel cielo è compreso anche
il sole. Ora a me questa pare una sottigliezza qui fuori di luogo :
la prima espressione indica il cielo plasticamente, in correlazione
alla terra ed al mare (non gli elementi, come vorrebbe il Franke,
ma le cose), e le avfdi neXiou invece indicano la luce che illu-
mina le cose tutte che sono nel cielo, nella terra e nel mare, la
caratteristica del mondo dei vivi, in confronto del mondo sotter-
raneo, la quale perciò non è niente affatto parte del cielo: aÙYai
tìeXiou è un'espressione che Mimnermo adopera spesso appunto in
questo senso, e veder la luce del sole per lui equivale senz'altro
a vivere : tutte le altre cose possono essere accidentali per la vita,
la luce è concepita come essenziale, perciò è posta ultima.
Similmente troppo sottili, e quindi non persuasive, sono alcune
ragioni addotte contro i vv. 357-359 (pp. 45-46), cioè che non sa-
rebbero a rigore esatte le espressioni oùò' àmGncre, in quanto Ades
ubbidisce solo apparentemente, ed ènéXeucre, in quanto Persefone
non aveva bisogno di esortazioni. Queste sono formule che hanno
perduto il loro significato logico, come tante altre : né è da me-
ravigliarsi se qualcuna col lungo uso si snaturò, come potrebbe
essere avvenuto dell' oùòé xi ae xpn del v. 82 (p. 54), per la
quale non è perciò decisivo il fatto che si trovi in contesto diverso
da quello del solito uso d'Omero.
Più grave è l'abuso delle regole logiche nel giudicare il con-
testo d'un periodo di una certa estensione. Ho provato per Pin-
daro e mi propongo di provare per Tucidide, il più ispirato dei
poeti e il più riflessivo dei prosatori, che prima che la retorica,
e per sua conseguenza la logica, fermassero gli atteggiamenti del
pensiero in forme cristallizzate, il concetto non usciva morto dal-
l'officina dell'artista, ma ancora in continuo germoglio, talché
spesso alla fine della serie o del periodo non è più quel medesimo
che era al principio, ma s'è venuto modificando e trasformando.
Ora trovo a p. 91, a proposito del significato della parchi vdp-
K\aooq : « ad esprimere i due diversi concetti viene adoperata
— 123 -
una medesima parola, vdpKiaaov, nel v. 8 ; la quale mentre in
rapporto a ciò che precede, ha, per causa della particella xe, un
valore generico parallelo a quello degli altri accusativi designanti
altri fiori, dovrebbe poi contemporaneamente e in rapporto con ciò
che segue, essere assunta nel valore più determinato o di una
-speciale serie di fiori, i narcissi, in contrapposto agli altri, o di
uno speciale narcisso da distinguersi dagli altri fiori della stessa
specie ». Ebbene, questo per me non dà alcun indizio di corrut-
tela del testo : è il concetto che si svolge e si modifica, e questa
volta non per esuberanza di fantasia originale o per celerità nel
cogliere i rapporti lontani, ma per cagione di quello stesso sin-
cretismo mitico pel quale poi non è ben chiaro (p, 123) se si
parli della specie dei narcissi o di un narcisso piìi bello degli
altri. Non nego dunque la possibilità che il compilatore abbia
anche qui fuso insieme due recensioni differenti, dico che la di-
sformità logica non ne è indizio sufficiente. E così in generale non
nego che la ragione e la logica possano condurre molto innanzi la
critica dei testi, dico che non bastano a condurre alla meta.
G. Fraccaroli.
LiONEL Horton-Smith, Ars tragica Sophoclea cum Shaksperiana
comparata. Cambridge, Macmillan and Bowes 1896, pp. xvii-146.
Questo lavoro fu reputato degno di premio in un concorso di
saggi latini tenuto nell'università di Cambridge nel 1894, e non
v'ha dùbbio che, a considerarlo come svolgimento d'un tema di
scuola, il premio l'abbia ben meritato. Fuori della scuola però
non si può dire sieno ricerche di molto valore ne nel campo della
filologia, ne in quello dell'estetica. È una mera compilazione di
fatti notissimi e di opinioni altrui ben scelte, se si vuole, e ben
vagliate, ma senza una vita propria, e senza alcuna originalità :
di raro l'osservazione passa oltre le generali. L'ultima parte è
però migliore della prima, ancorché neppur qui vi sia molto di
nuovo: fors'anche l'obbligo di scriver latino, nella qual lingua
l'autore veramente non è troppo a casa sua, tolse molto di quella
precisione d'espressione che poteva dare alle speciali sue vedute,
se veramente ne aveva, uno speciale carattere. Certo non si può
essere ben prevenuti a leggere delle dozzine di interrogazioni
0 esclamazioni, come queste (p. 17): Quid enim dicam de an-
tiquis Dionysi ritibus ? Quid de satyrorum clioro circum aram
Bionysi saltantium ? — ovvero (p. 19) : Quid dicam de Mara-
thoìie, quid de Salamine, quid denique de Fìataeis? — ecc. ecc.
Anche se il contenuto fosse ottimo veramente, il formulismo re-
— 124 —
torico non può non metterlo in mala luce, e specialmente nei
lavori che spaziano nei campi dell' estetica bisognerebbe evi-
tare anche ogni apparenza di declamazione, come pure ogni asse-
verazione troppo recisa. I fenomeni estetici sono così complessi
che difficilmente si possono definire tutti interi, e il nostro giu-
dizio è sempre unilaterale. L'arte di Sofocle è scultoria, quella,
di Shakespeare pittorica, lo disse lo Schlegel e disse bene : ma
se si aggiunge che appunto per questo il palcoscenico greco era
lungo e stretto, si corre il rischio di essere smentiti: il Bethe
infatti recentemente (e mi ha persuaso) ha dimostrato che lungo
e stretto era il palco del teatro ellenistico, non quello d'Eschilo
0 di Sofocle. Lo stesso dicasi della presunta calma e freddezza
del dramma classico, un'opinione da metter con quella che im-
maginava i templi greci affatto incolori.
Del resto l'argomento non era agevole a trattarsi, che tra Sofocle e
Shakespeare meglio che le affinità era facile notare le dissomiglianze.
Ad ogni modo l'analisi poteva essere più profonda: così nel con-
fronto tra le idee religiose dei due poeti, piuttosto che ripetere le
cose che tutti sanno, valeva la pena di indagare quali presenti-
menti, per così dire, dell'idea platonica e dell'idea cristiana si
trovino in Sofocle, — quello dell'espiazione, per esempio, nell'Edipo
a Colono, — e si sarebbe veduto che anche Sofocle aveva posto
i grandi problemi morali, ancorché più serenamente e meno con-
scientemente del gran tragico inglese. Similmente è detto bene
quanto è detto dei giuochi di parole di Sofocle, ma si poteva pene-
trare più addentro: non basta infatti notare che il tale autore si
compiace dei tali scherzi, ma più interessante è studiare perchè
se ne compiaccia e come sia giunto a compiacersene: si poteva
perciò far osservare come la riflessione sull'opera naturale del par-
lare, frutto della retorica e della sofistica, portasse con se anche
un ripiegamento del pensiero su se stesso, e come l'artificio del-
l' espressione fosse un effetto di questa evoluzione psicologica.
La scena tra Egi sto ed Elettra neW Elettra di Sofocle, vv. 1448 sqq.
sarebbe stato un ottimo esempio da addursi: infatti le parole di
Elettra continuano ad avere un doppio senso, uno per Egisto ed
uno per il Coro; è una continua anfibologia ben consciente, ca-
ratteristica del pensiero Sofocleo, della quale importava studiare
l'artifizio e la misura. Dopo ciò diventava più interessante ve-
dere se veramente in Shakespeare vi sia nulla di simile, e se c'è,
esaminare se sia nato da cause analoghe o difterenti; cercare
insomma se nell'uno e nell'altro poeta questo, o qualsiasi altro
fenomeno artistico, sia prodotto dall'analogia di sentire e di pen-
sare individuale, o nasca da cause sociali esteriori analoghe nel-
l'una e nell'altra epoca.
G. Fraccaroli.
- 125
Dr. M, A. MiCALELLA, La fonte di Dione Cassio per le guerre
galliche di Cesare. Esame critico delle guerre contro gli
Elvezi e contro Ariovisto. Lecce, tip. Cooper. 1896, p. 58.
Seguendo, a passo a passo, nel primo libro dei Commentarli il
racconto della campagna di Cesare prima contro gli Elvezi (VI-
XXVII) e poi contro Ariovisto (XXXI -LUI), l'autore di questo
diligente studio nota con molta acutezza le differenze che esso
presenta a chi lo confronta con la narrazione di Dione Cassio
(XXXVIII, 31, 1-33, 6; XXXVIII, 34, 1-50, G). E le conclusioni
a cui egli arriva sono le seguenti: 1° Dione non ci dà soltanto,
« come vorrebbe il Raucbenstein, dei semplici estratti di Cesare »
né le « nuììierosissime sue divergenze possono essere effetto di
cattiva interpretazione dei Commentarli e di fretta nel compen-
diare, ne si possono ascrivere alla fantasia di Dione ». 2° Non
sembra «probabile l'uso di Cesare accanto a quello di una o più
altre fonti diverse. Avrà potuto Dione leggere e Cesare e altri
libri intorno alle guerre Galliche, ma, al momento in cui scriveva,
il M. pensa che avesse presente soltanto uno scritto che credeva
23iù confacente alla verità ». 3° Questa fonte si deve con tutta la
probabilità cercare nella storia perduta di Asinio Pollione. 4° « In
ogni modo il racconto Cassiano delle guerre galliche non è da
mettere in non cale e può giustamente essere adoperato come
controllo della credibilità dei Commentarli ».
Ricerche del genere di questa a cui si è accinto il Dr. Mica-
Iella sono piene di pericoli e ben difficilmente possono condurre
a risultati sicuri. Ed i pericoli sono maggiori quando, come nel
caso presente, nulla più resta della supposta fonte e non è più
possibile alcun raffronto diretto tra essa e l'opera che si crede
da lei derivata. L'autore stesso mostra di non ignorare questi
pericoli, poiché prudentemente — e di ciò gli va data lode —
presenta soltanto come probabili i suoi risultati.
Pare pertanto a chi scrive queste righe che tutti accetteranno
la prima delle conclusioni indicate. Solo si potrà notare nelle
argomentazioni una sottigliezza talvolta eccessiva. Basteranno al-
cuni esempi a giustificare questa mia osservazione. Gli Elvezii
portarono seco, come dice Cesare (V, 3), viveri per tre mesi ; ma
è questo indizio sufficiente a provare che essi, come afferma il M.,
non volevano « molestare le terre per cui sarebbero passati » ?. — .
E ammesso pure che Dione abbia notato il nesso fra la cani
pagna elvetica e quella contro Ariovisto, si può dire proprio che
egli abbia mostrato in ciò di possedere spirito di finissima osser-
vazione storica e che diventano quindi « sospetti i numerosi er-
rori, sviste, ecc. di cui lo incolpano»?. — .Vero è poi che Dione
- 126 -
scrive che gli Elvezii si mossero 'OpyeTÓprfóq acpiaiv fiyounévou,
mentre, secondo Cesare, quando essi si muovono Orgetorige è già
morto (Dion. XXXVI li, 31, 3 e Ces. I, V, 1). Ma poiché fra i
significati del verbo nréoiuai ci sono anche quelli di sono causa
d?, (lo occasione a, sono iniziatore di (1), il genit. ass. 'OpT
flYOU|u., non potrebbe, nell'intenzione di Dione, corrispondere alla
nota formola latina Orgetorige auctore ? (2). — il M. trova inoltre
« non priva di fondamento la notizia di Dione, che cioè gli Elv,
volessero dapprima stabilirsi vicino alle Alpi », e propende a cre-
dere che poi venissero costretti a cambiar direzione ed a rivol-
gersi verso il paese dei Santoni (XXXVIII, 31, 3). E questo egli
afferma osservando che Cesare mostra di sapere dell' itinerario
degli Elv. verso il paese dei Santoni solamente quando s'erano
già rivolti ai Sequani per avere da loro il passaggio libero (I,
10, 1). Ecco il dilemma che al M. sembra inoppugnabile: « o
gli Elv. intendevano fin da principio di andare nel paese dei
Santoni, e allora è storicamente inesatto che Cesare lo sapesse
soltanto quando essi furono già - nel paese dei Sequani ; oppure
la direzione verso i Sequani era nuova, e allora Cesare ha taciuto
dove gli Elv. intendevano rivolgersi. Aut aut. ». Ma mi >-ia le-
cito osservare: 1" Nelle parole di Dione èv vuj exovTtc; tóv re
Tóòavov òia^nvai Kai Trpòc; Tai<; "AXiieai ttou KatoiKiaGfìvai non si
accenna veramente ad alcun mutamento di direzione. 2° Se era
nell'intenzione prima degli Elv. di stabilire la loro dimora in
una regione qualunque delle Alpi, che bisogno avrebbero avuto
di passare il Rodano? 3^ Il passo di Cesare, se si tiene ben conto
dell'ordine con cui le parole si succedono, ci dice non tanto che
allora solamente egli era informato dell'intenzione degli Elv, di
dirigersi verso il paese dei Santoni, quanto d'aver saputo allora
che la strada da loro scelta per arrivare alla meta era quella
che passava per le terre dei Sequani e degli Edui. Il che non
esclude, a mio giudizio, che egli sapesse anche prima il luogo
a cui volevano arrivare (3). 4" Se Cesare avesse avuto notizia
che gli Elv. si dirigevano dapprima ad una regione alpina, perchè
avrebbe fino dal cap. VI ricordata anche la strada fra il Giura
ed il Rodano che li avrebbe allontanati dalle Alpi? Sembra
dunque più probabile che Dione o sia stato ingannato dall'au-
tore scelto come fonte, o che abbia, per inesatta conoscenza dei
luoghi, sbagliato nell'indicare la direzione degli Elv. (4). L'inter-
(1) V. i Lessici del Schenkl-Ambrosoli e del Mùlier. Il Passow nel suo
Lessico traduce il verbo greco anche col ted. « erhòffnen » che significa in
alcuni casi iniziare, avviare.
(2) Gfr. le parole di Cesare : « auctoritate Orgetorigis permoti » (L 3, 1).
(3) Ces. X, 1: « Caesari renuntiatur Helvetiis esse in animis per agrwn
Sequanoruni et Aeduorum iter in Santonum Jìnes facere ».
(4) Potevano gli Elv. credere che Cesare avrebbe loro permesso di stan-
ziarsi in una regione alpina adiacente alla Provincia ? In questo solo caso,
- 127 -
cessione di Diimnorige presso i Sequani in favore degli Elv. (Ces.
IX, 2), per essere accessorio di poca importanza, può benissimo
essere stato trascurato da Dione (1) al quale basta dire che i
Sequani non furono costretti dalla forza, ma concedettero di loro
volontà (èGeXovTi) il passo agli Elv., sia pure per intercessione
di Dumnorige: sicché vera contradizione fra Dione (XXXVIII, 32, 2)
e Cesare (1,9) non c'è (2). — . Giustamente il M., dopo avere accen-
nato alle due possibili interpretazioni del passo di Dione (XXXVI li,
32, 3): Kal eXeyov \xìm oòòèv 6|ioia oiq eirpaHav, èruxov ò'
ouv ojaiuq tLv r\l\o\jv dichiara legittima solo quella per la quale
si dà al verbo Kpairuu accompagnato da un neutro plur., valore
intransitivo = trovarsi in una condizione o stato. Secondo questa
interpretazione, Dione fa sapere che gli ambasciatori dei Sequani
e degli Edui non dissero precisamente ciò che era loro accaduto,
ma esagerarono i danni sofferti. Ma tutto questo, osserva il M.,
non può derivare dal racconto di Cesare (I, 11, 1-5). Pure, si
badi bene. In principio del capitolo 11 Cesare non dice altra
cosa se non questa, che gli Elv., giunti nel paese degli Edui, lo
devastavano : subito dopo, nel riferire l' ambasciata degli Edui a
Cesare per ottenerne l'aiuto, non fa dir loro solamente che il
proprio territorio era devastato, ma essi aggiungono ancora che
i j)r aprii figli erano fatti schiavi ed i loro castelli erano espu-
gnati. Poiché questo manca assolutamente nella notizia data
poco prima da Cesare, non è chiaro che anch'egli nel suo rac-
conto fa sì che gli ambasciatori esagerino ad arte le loro condi-
zioni? — Così, malgrado le acute osservazioni del Kauchensteìn
che il M. riporta, non sì troverà sostanziale differenza nel rac-
conto che i due storici fanno della vittoria romana sui Tigurini
(Ces. I, 12; Dione XXXVIII, 32, 4), quando si voglia pensare
che Dione con le parole toT<; 'EXoutiTioi^ tòv "Apapiv òiapaivouai
indica prima in generale tutta la popolazione elvetica che ancora
non aveva finito di passare il fiume, per poi distinguere gli ul-
timi rimasti addietro {lovc, \ihi leXeutaiouq èTTaKoXouOoOvTa(;)
che a me pare assurdo, si capirebbe la loro intenzione di passare il Rodano.
D'altra parte che gli Elv. volessero cercarsi un'altra sede nella Gallia ri-
sulta dai cap. II e 111 dei Gommentarii : sicché non si può neppur pensare
che essi volessero dapprima dirigersi alle regioni alpine a mezzogiorno e ad
oriente dal lago Lemanno, fuori della Gallia.
(1) Lo stesso direi a proposito di qualche lacuna che il M. vede nel rac-
conto che fa Dione dopo la vittoria ottenuta dagli Elv. sulla cavalleria ro-
mana, confrontato con la narrazione di Cesare. Dione compendiando fìssa
solo i fatti principali. Nella stessa maniera si possono conciliare i due scrit-
tori nel racconto del colloquio fra Cesare ed Ariovisto e dell'assalto di Ve-
sonzione. Ci sono poi dei casi in cui si può pensare a qualche apprezza-
mento che Dione fa per conto suo: questo io direi, per esempio, circa l'in-
tenzione da lui attribuita a Cesare nell'intimazione fatta ad Ariovisto (XVIII,
34, 6).
(2) La richiesta degli ostaggi da parte dei Sequani si concilia benissimo,
a mio avviso, con la concessione volontaria.
- 128 -
che sono i Tigurini, da quelli che già erano passati (toùq òè
rrpoKexujpriKÓTaq) e che, secondo Cesare, rappresentavano tre quarti
della moltitudine. Tutto pertanto si spiega e in Dione e in Ce-
sare, senza ricorrere al sussidio di altra fonte, purché si am-
metta che Cesare giungesse nel paese dei Segusiavi quando già
il grosso degli Elv. aveva passato il fiume e marciava verso il
territorio degli Edui; mandasse contro all'ultima parte, i Tigurini,
che ancora doveva passare, Labieno il quale li distrusse (questo è
detto più chiaramente da Plutarco e da Appiano, ma non può fare
meraviglia se Cesare, seguito poi da Dione, narri il fatto in modo
da attribuire a se il merito di tutta l'impresa); ed egli corresse
intanto dietro ai primi che dal suo improvviso arrivo capirono
quanto era avvenuto e mutarono contegno (1). — E quanto alla
spiegazione che Dione dà della sconfitta finale dei Galli (XXXVIII,
49, 5), che cioè « essi erano più fieri nel cominciare l'attacco che
nel proseguirlo » — spiegazione che trova riscontro anche in un
frammento di Appiano, come fa notare il M., si potrebbe osser-
vare che se essa manca nella narrazione di Cesare, Dione po-
teva però ricordare d'averla letta o in altra parte degli stessi
Commentarli dove si racconta la vittoria di Titurio Sabino sui
Venelli (111, 19) (2) o in Livio (3) o in qualche altro scrittore,
e che la lunga esperienza dei Komani doveva aver divulgata la
conoscenza di un difetto comune ai Galli e ad altri barbari.
Questi esempi e alcuni altri, che si potrebbero indicare, provano,
se non m'inganno, che il M. ha veduto forse più differenze fra
Cesare e Dione che realmente non esistano, e che non sempre è
necessario pensare all'uso di un'altra fonte, da parte di Dione.
Ma non si può negare che le differenze ci sono, se non numero-
sissime^ come crede il M., certo in numero considerevole; ed il
M. ha saputo scoprirle con molta acutezza. Ed egli ha ragione
nel dire che non possono essere tutte frutto della negligenza o
della fantasia di Dione. Ha pure perfettamente ragione di affer-
mare l'importanza del racconto cassiano « per controllare la ve-
ridicità di Cesare ».
Due sono le conclusioni del M. che a molti parranno dubbie:
che insieme con una o più fonti diverse Dione non abbia fatto
uso anche dei Commentarli di Cesare; e che lo storico da lui
(1) Le acute osservazioni che fa il M. sull'uso delle particelle jiév, &é,
Koi, Te per provare che Dione distingue due direzioni nell'assalto dei Romani,
non possono avere un gran valore per un prosatore così poco esatto nello
stile e nella sintassi. Più importante invece è la circostanza che in tutto
il periodo non si ha menzione alcuna di Labieno, sicché è assolutamente
impossibile pensare, come pensa il M., che lo storico abbia voluto riferire a
lui l'azione espressa dal verbo òiéqpOeipe. E nelle parole ex toO raxouq -xr^c,
biijuSeujc;... èSéTT\r)E6 non si sente l'eco di queste altre di Cesare: repentino
eius adventu commoti (XIII, 2) ?
(2) E il passo di cui si ricordò anche Tacito in Agr. XI.
(3) Liv. X, 28, 4.
- 129 —
uificamente seguito sia, più probabilmente d'ogni altro, Asinio
Pollione. Quanto alla prima , dice il M. che « il confronto
coi Commentarii avrebbe dato piti frequentemente a Dione oc-
casione per osservazioni critiche profonde e gli avrebbe fornito
maggiore materia per i discorsi ornati di cui egli si compia-
ceva ». Non si deve però dimenticare che un compendiatore
come Dione non può abbandonarsi che di rado al desiderio di
sfoggiare la sua erudizione per mezzo di osservazioni e di mostrare
la sua abilità oratoria con discorsi elaborati. E poi, se non mi
sono ingannato, alcune espressioni sue lasciano senza dubbio sen-
tire un'eco di altre che si leggono in Cesare. Quanto alla seconda,
l'incertezza dipende, come dissi in principio, e dalla natura della
ricerca e dalla perdita dell'opera storica di Pollione. Come si può
afferm.are ch'egli nella sua storia delle guerre civili abbia raccon-
tato, e con una certa ampiezza, anche le imprese di Cesare nella
Gallia? Nessuna delle testimonianze che ci restano si riferisce a
tali avvenimenti ne ad altri fatti anteriori alla battaglia di Par-
salo (1). L'argomento principale del M. è il seguente: « l'opera
che poteva rivaleggiare con quella di Cesare (fra quelle che si
sono perdute) possiamo affermare che era la storia di Asinio Pol-
lione, sia per l'importanza datagli da Svetonio, riportando il noto
giudizio di lui sui Commentarii e sia perchè, essendo Pollione
al servizio di Cesare nella guerra civile, poteva avere avuto dagli
amici legionarii e dai soldati informazioni esatte sulle imprese
condotte nella Gallia. Niente di pili prohahile quindi che Dione
si sia servito di questo storico, credendolo piìi consentaneo alla
verità, come quello che era estraneo agli avvenimenti ». E tutto
questo è vero; ma il giudizio di Pollione sui Commentarii nulla
ci dice né della materia della sua storia civile, né dei limiti da
lui osservati, né delle intenzioni e dei criterii che guidarono la
sua narrazione. E poiché tutto questo ci è ignoto, nessuno può
con ragione affermare che la fonte più prohahile di Dione Cassio
per le guerre galliche di Cesare sia stata l'opera di Asinio Pol-
lione e non quella di Q. Elio Tuberone, o di L. Lucceio, o di
Tanusio Gemino, o di Nicolò di Damasco o di altri.
Mi resta a dire, per amore del vero, che lo stile del M. non
va del tutto esente da qualche censura (2). Ma queste osserva-
ci) V. Teuffel, Gesch. d. ròm. Litt. 5 Aufl. bearb. v. L. Schwabe, 221, 3.
Le parole di Orazio bellique cav.sas (II, 1, 2), a cui si appoggia il M., sono
troppo vaghe e potrebbero anche alludere ad un semplice cenno o ad un
riassunto, a guisa d'introduzione al racconto delle vere guerre civili.
(2) Ricordo, a caso, le espressioni : tampoco, confacente o consentaneo
alla verità ; imprese condotte ; ragazzi scornati : procurava di non com-
parire il primo ad attaccarlo. E non è almeno inopportuno il richiamo
dei versi danteschi « Quale i fanciulli vergognando muti ecc. » (Purg. XXXI,
fil ecc.), a proposito delle parole di Cesare: « tristes capite demisso terram
intueri » d, 32, 2) e « nihil Sequani respondere sed in eadem tristitia ta-
citi permanere » (ibid. 3)?
Rnisla di filoloqia, ecc., XXV. «
— 130 —
zioni non possono togliere la lode giustamente dovuta a chi nel
trattare, come egli ha fatto, una difficile quistione, diede prova
sicura di acume, di diligenza, di dottrina e, per quanto gli era
concesso dalla natura dell'argomento, di buon metodo.
Vicenza, settembre '96.
P. Ercole.
C. Pascal. Studii di antichità e mitologia. — Milano, Hoepli,
1896; 8», pp. 241.
Ecco anzitutto il titolo dei dodici studii raccolti nel volume:
1. Il più antico tempio di Apollo a Roma — 2. De lectisterniis
apud Romauos — 3. Osservazioni sui commentarii dei ludi seco-
lari augustei — 4. Il culto di Apollo in Roma nel secolo di Au-
gusto — 5. Il culto degli Dei Ignoti a Roma — 6. I ludi funebri
romani — 7. Acca Larentia e il mito della Terra Madre — 8. Le
divinità infere e i Lupercali — 9. Il mito di Licaone — 10. La
leggenda del Diluvio nelle tradizioni greche — 11. De Cereris
atque lunonis castu — 12. Il mito del Pitone nelle antiche tra-
dizioni greche.
Di ciascuna di queste monografie, già tutte edite a parte dal
'93 al '95, fu reso conto in periodici di filologia e scienze affini
nostrani e stranieri ; la qual cosa dimostra nel miglior modo come
l'autore abbia saputo richiamare sopra di se l'attenzione degli
studiosi. Io potrei pertanto limitarmi a ricordare le recensioni che
si pubblicarono dei singoli lavori, e ciò mi sarebbe molto facile
avendo preso nota di tutte man mano che mi cadevano sott'occhio.
Se non che me ne verrebbe fuori un articolo di pura bibliografia,
non adatto alla Rivista; e se per rimpinzarlo volessi recare, anche
solo sommariamente, il giudizio dei referenti andrei troppo per le
lunghe e occuperei molto maggior spazio che non mi si possa con-
cedere. Si aggiunga che di alcune monografie scrissero parecchi
critici: e come non sempre le opinioni loro concordano, mi biso-
gnerebbe riassumere i punti controversi, affinchè il lettore sappia
chiaramente di che si tratta. Passo dunque a dire senz'altro della
raccolta, facendo astrazione dalle notizie bibliografiche intorno ai
singoli studii.
Mi sembra inutile trattenermi a notare l'importanza dei varii
argomenti che furono oggetto delle ricerche del Pascal, argomenti,
almeno la maggior parte, non nuovi, anzi alcuni già trattati più
volte da altri eruditi, ma su cui ancora non era stata detta l'ul-
tima parola. Certo non si può asserire che il Nostro abbia sempre
risolto definitivamente le questioni onde s'è occupato; è tuttavia
— 131 -
innegabile che del contributo da lui portato alla soluzione si deve
tenere il massimo conto. S'intende che la monografia 1 giunge,
per l'indole sua archeologica, a resultati di valore incontestabile;
ciò che il Pascal ha provato è acquisito alla scienza: nuove sco-
perte getteranno nuova luce su taluni particolari, ma i fatti po-
sitivi, da lui constatati, restano. Lo stesso dicasi della mono-
grafia 4, che completa in bel modo la prima ed è un eccellente
capitolo di quella futura grande storia dei culti italici, della quale
oramai è sentito il bisogno. Chi si accingerà a scriverla trarrà
molto profitto anche dalle altre monografie su le antichità ita-
liche e specialmente dalla settima, dall'ottava e dalla undicesima
(che ebbe l'onore d'essere accolta nel Hermes). Le due monografie
7 e 8, come la nona, la decima e l'ultima, soprattutto per il loro
carattere prevalentemente filologico, appartengono alla categoria
di quelle di cui ho avvertito che i resultamentì non sono defini-
tivi. Così, per esempio, riguardo alla monografia 9 piti d'uno du-
biterà che l'autore abbia colto nel segno facendo di AuKduuv una
divinità infera contro l'opinione comune, e non errata, che in ori-
gine esso AuKÓujv sia stato invece una divinità luminosa. Non
altrimenti, a tutti sembrerà, come a me, genialissima la interpreta-
zione affatto nuova del nome AeuKaXiuuv (monografia 10) « quello
[cioè il costruttore] della KaXid [casa, tempio] di Zeus [Aeu<g =
Zeu?] » ; ma alcuni preferiranno vedere nel mito dell'arca di Deu-
calione un accenno alle abitazioni lacustri: né mancherebbero ar-
gomenti a dimostrare ciò, forniti dalle prove stesse che il Pascal
adduce in sostegno delle sue ipotesi.
In generale si può affermare che egli si rivela conoscitore piti
profondo delle antichità italiche che non dei miti greci: o per
meglio .dire, i suoi studi intorno a quelle persuadono di più,
mentre parecchie spiegazioni di fatti della mitologia ellenica ap-
pariscono pili verosimili, e talora piìi speciose che vere. Tale è il
caso dell' ultima monografia, dove fra 1' altro 1' autore cerca il
significato della « redazione della leggenda, per cui Apollo ancor
fanciullo assale di saette Pitone ». Movendo dalla narrazione ovi-
diana del diluvio, al quale è ricollegato il mito del Pitone, trova
che il mostro è un prodotto delia terra già rammollita dalle acque
caotiche e poi vivificata dal calore del sole. « Apollo fanciullo
che uccide il dragone è dunque il sole che appena si svolge dalle
tenebre del diluvio rivive alla rinata terra » (pagg. 234-235). Ora
tutto ciò è bello; ma è anche vero? 0 piuttosto il Pascal non si
è spinto troppo oltre nelle sue concessioni al simbolismo mitolo-
gico? È una tendenza accentuata in lui questa di attenersi, qua
e là esagerandolo, al metodo dei simbolisti nella interpretazione
dei miti: e a ogni modo nel caso speciale basti osservare che la
forma del tardo racconto delle Metamorfosi ovidiane, così lon-
tano dalle origini del mito, non può avere se non un significato
relativo; più che valore come una delle versioni della saga ha.
- 132 -
se non sbaglio, quello di un tentativo di spiegazione della saga
stessa.
E dopo questi brevi cenni e appunti, trattandosi di uno stu-
dioso il quale cosi nel campo delle indagini mitologiche come in
altri parecchi s'è acquistato oramai larga e meritatissima fama
di lavoratore dotto, serio e cos 'ienzioso, è superfluo aggiungere
che la piena conoscenza di tutte le pubblicazioni, anche le meno
note, intorno agli svariati argomenti presi a svolgere e alle sin
gole parti di essi, la sagacia, l'acutezza, non di rado la genialità
delle osservazioni, e specialmente l'impronta di originalità delle
ricerche del Pascal rendono il suo volume non solo ben accetto,
ma addirittura prezioso.
Milano, dicembre '96.
Domenico Bassi.
Gaetano De Sanctis. — Saggi storico-critici. Fascicolo I — Roma,
Tipografia dell'unione cooperativa editrice, 1896, pp. 41.
Questo primo fascicolo contiene due monografie: I) « La divi
nità omerica e la sua funzione sociale » ; II) « L'amnistia di So-
lone e le origini dell'areopago », ambedue degne della massima
considerazione per l'importanza dei problemi trattati e la profon-
dità d'analisi, che l'autore ha dimostrata anche in altri lavori.
La prima consiste in una rappresentazione ordinata delle idee teo
logiche proprie dell'età omerica; la seconda contiene uno studio
sugli ordinamenti giudiziari dell'età presolonica in Atene, e pren-
dendo le mosse dall' esegesi del frammento della legge selenica
riguardante l'amnistia, ritorna sulla gravissima questione dell'ori-
gine e competenze dei tribunali dell'areopago e degli efeti.
Cominciando il nostro esame dalla prima, l'autore dopo aver
rilevato la fede nell' intervento divino in tutte le cose umane,
distingue due categorie principali di fatti in cui ha luogo l'azione
d'egli dei: l'una quando è determinata da motivi identici a quelli
che operano sull'uomo, l'altra in cui l'intervento ha una funzione
sociale. Giustamente osserva che quei casi in cui gli dei operano
senza ombra di motivo, sono eccezioni e contraddizioni inerenti a
qualunque modo di concepire di tempi primitivi, e che a torto si
vedrebbe in essi la sopravvivenza di una più rozza idea della divi-
nità. Certo non potrei enumerare tutti gli esempì cavati dall'epopea
che l'autore molto opportunamente produce ed illustra, mostrando
talvolta come alcuni concetti religiosi dell'età susseguente hanno
nell'età omerica il loro antecedente storico e la loro radice, come
è il caso dello qpGóvo^ eeuùv (p. 10). Credo invece opportuno fer-
marmi alquanto suU' opinione che egli proferisce riguardo alla
— 133 —
jioTpa. 11 De Sanctis attribuisce ad Omero l'idea della laoipa còme
fosse una forza indipendente e superiore alla volontà degli dei
(p. 17). Ma qui non mi pare del tutto nel vero, o almeno la que-
stione esigeva una trattazione meno concisa. Egli stesso poco ap-
presso osserva: <.< la MoTpa od Alerà che personifica il destino, ora
viene rappresentata in Omero come la volontà stessa degli dei,
ora come da questa volontà ben distinta, senza che ciò possa dirsi
contraddittorio ». Contraddittorio è veramente, ma simili contrad-
dizioni sono spiegabili, anzi direi inevitabili in tempi nei quali
le credenze non sono state ancora disciplinate in sistemi organici.
Ma se il D. S. riconosce (p. 18) « che i poemi omerici, lungi dal
darci il prodotto d'una riflessione religiosa personale, si sono la-
sciati rimorchiare inconsapevolmente dalle correnti religiose e di
più età successive », la constatazione di questo fatto così rilevante
non basterebbe a spiegare come i due concetti della luoTpa cor-
rispondano a due diversi stadii del pensiero, dei quali sarebbe an-
teriore quello in cui la iiioTpa è concepita come l'espressione della
volontà degli dei? Certamente sarebbe un'impresa molto scabrosa
tentare una dimostrazione di questa ipotesi fondandosi sulla cro-
nologia dei canti dell'epopea, e le conclusioni avrebbero un valore
molto discutibile; ma al difetto di argomenti storici, si può fino
a un certo punto supplire con l'esame comparativo dei due con-
cetti, e difficilmente si potrebbe impugnare che l'idea di una po-
tenza cieca e inflessibile, indipendente e superiore a qualunque
volontà, è sempre più recente di quella che suppone in ogni fatto
umano l'opera dell'arbitrio.
Venendo alla seconda memoria, il De Sanctis sostiene con va-
lidi argomenti che la determinazione KaraòiKaOBéviet; uttò tujv
PacJiXéujv non va riferito ai soli giudizi pronunciati nel pritaneo,
ma a quelli di tutti i tribunali menzionati; inoltre fondandosi
sull'analogia di altri casi, osserva come il plurale Pa0i\éujv si
debba spiegare non già ammettendo la pluralità dei membri del
collegio così nominati, ma attribuendogli significato iterativo. Ri-
mossa adunque ogni difficoltà ermeneutica, e interpretato il passo
in modo più conforme alle leggi della sintassi, emerge che l'ar-
conte re presiedeva ciascuno dei tre tribunali, il pritaneo, quello
degli efeti e l'Areopago. Eliminate quindi con ragionamento molto
persuasivo le varie ipotesi sulla costituzione del Pritaneo nell'età
presolonica, secondo le quali sarebbe stato composto o dei TipuTavei^
Tuùv vauKpdpujv 0 degli arconti, il D. S. giunge alla conclusione
che il Pritaneo dell'età presolonica fosse il medesimo di quello
dell'età classica, cioè il tribunale composto dei quattro qpuXoPaaiXei^
presieduti dal pa(Ji\eu(;, come esplicitamente afferma Aristotele
nell'ATT, 57. 11 D. S. revoca in dubbio, e forse a ragione, che il
Pritaneo potesse avere in origine delle competenze molto più estese
come alcuni filologi sono propensi ad ammettere; ma la sua af-
fermazione (p. 31) che « un tribunale di soli reges sacrifìcuH
- 134 —
pare foggiato apposta per avere attribuzioni puramente formali »
avrebbe dovuto essere maggiormente illustrata. La formalità vuota
è un controsenso come istituzione primigenia, ma è sempre residuo
d'un sistema o consuetudine obliterata, come si potrebbe dimo-
strare con infiniti esempi. Forse nei giudizi pronunciati dal Pri-
taneo contro gli animali e le cose inanimate si deve scorgere
qualche vestigio dell'antico animinismo, che tramontato dalla co-
scienza umana, non coinvolse nella sua rovina tutte le usanze e
pratiche ad esso inerenti. Sopravvissute queste, nell'ignoranza della
loro origine e della loro ragione, si annesse in tempi storici un
altro significato alle competenze del pritaneo: che condannando
gli animali e le cose inanimate, si volesse condannare l'autore
ignoto dell'omicidio o del ferimento. Giustamente il D. S. osserva
che tali giudizi potevano avere effetto se l'omicida fosse in se-
guito scoperto, o rimanendo senza effetto, la coscienza del legisla-
tore sarebbe stata tranquilla.
Quanto all'origine dell'Areopago, il D. S. combattendo tutte le
ipotesi dei moderni, ritiene che sia stato proprio esso il continua-
tore della gerusia omerica, avvalorando la sua congettura con
argomenti indiretti desunti dall' inverisimiglianza che tanto il
collegio dei naucrari quanto degli efeti fossero i posteriori rappre-
sentanti di essa, e con l'argomento diretto che il nome di pouXri,
per nulla rispondente alla natura delle sue attribuzioni, non si
spiegherebbe se non ammettendo una competenza del consesso in
origine diversa da quella esercitata in tempi storici (p. 35-39).
Il collegio degli areopagiti avrebbe prima giudicati tutti i delitti
di sangue, ma, in grazia del progressivo incivilimento, si sarebbe
fatta la distinzione tra il cpóvoc, aKOvGioc, o biKaioc e il qpóvo(;
éKoùaio?: la competenza di quest'ultimo sarebbe rimasta all'Areo-
pago, per i primi si sarebbero creati tribunali speciali, quelli degli
efeti.
Quest'ultima ipotesi dedotta da un rigoroso esame dei docu-
menti storici superstiti è ingegnosa e originale; né contro di essa
si può obiettare che rimane insoluta la questione del numero cin-
quantuno di cui si componeva il collegio degli efeti, perchè non
è la sola difficoltà di questo genere che nelle istituzioni attiche
rimane inesplicata.
Come il lettore può vedere da questa magra e sommaria ras-
segna, le conclusioni a cui giunge 1' autore in questa memoria
sono molto interessanti e degne della più severa ponderazione, ri-
solvendo molti punti oscuri di storia ateniese o almeno affret-
tando la via alla loro soluzione.
Trani, dicembre 1896.
V. COSTANZI.
135 —
KASSEGNA DI PUBBLICAZIONI PERIODICHE
Wiener Studien. Zeitsclirift fur classische Philologie. XVIII.
1. 1896. — J. La Roche, Metrische Excurse zìi Homer, IL pp. 1-26
[la parte / è nel fase, preced. XVII. 2. 1895. pp. 165-179. Rias-
sumo in breve le conclusioni a cui l'a. è giunto. 1, Il verso ome-
rico originariamente risultava di due parti ; la divisione si riconosce
ancora nella cesura del terzo piede. 2, La dieresi bucolica non
può essere considerata come una divisione principale del verso.
3, Non si può dimostrare che nel primo piede ci sia una speciale
prevalenza del dattilo o dello spondeo. 4, Nel secondo piede pre-
vale specialmente lo spondeo, quando sono possibili forme di due
generi (vedi n. (5). 5, Fra le due cesure principali nel terzo piede
prevale la trocaica, e fra il dattilo e lo spondeo la preferenza è
data al primo. 6, Nel quarto piede il dattilo occorre con maggior
frequenza dello spondeo; ma dove sono possibili forme di due ge-
neri, p. es, èv évi, npòq npoii, ttS^ otTiag..., prevale sempre la
più breve, talché esso piede diventa spondaico. 7, Nel quinto
piede sta di regola il dattilo. 8, Quando c'è conflitto tra una legge
linguistica e una metrica, questa seconda cede]. — E. Kalinka,
Troleyomena Bur pseudoxenopJiontischen 'AOrivaiujv noXiieia,
pp. 27-83 [Analizza minutamente l'opuscolo e dimostra che esso è
una trattazione compiuta, la quale non ha punto tendenza politica,
ma si riduce ad una semplice discussione teorica di un sofista a
noi non altrimenti noto. Dopo ciò passa in rassegna i mss. che
possediamo dell'opuscolo e ne determina le derivazioni e le reci-
proche relazioni: così viene a stabilire le loro varie classi e famiglie,
di cui dà lo stemma. Discute infine criticamente alcuni luoghi
speciali. Chiude promettendo un'edizione critica dell' 'A9. TroXiteìa].
— E. Hauler, De fragmento Terentiano vindohonensi^ pp. 84-90
[Fine deir^w^na V, 4, 9 — V, 6, 17; argomento e principio degli
Adelphoe sino a II, 1, 4. Descrizione delle carte contenenti il
frammento, fatta in modo imperfetto dall' Umpfenbach nella sua
edizione delle comedie di Terenzio, pp. XXIII sg. ; ortografia ; ed
emendamenti dal testo manoscritto delle lezioni più errate nella
stampa Umpfenbachiana. Conclusione: non ostante gli errori di
vario genere onde è inquinato, il frammento ora conserva la le-
zione vera ora migliore che non apparisca dalla suddetta stampa].
— H. JuRENKA, Humor bei Pindar, pp. 91-98 [Esame di varii
passi, fra cui alcuni versi delle Olimp. X e XII..., nei quali si
possono trovare tracce di humor, s'intende dal punto di vista del
— 136 —
Jurenka]. — J. Jung, Das Treffen am See von Plestia, pp. 99-
115 [Si tratta di un episodio della guerra annibalica nella pri-
mavera del 217 av. C, quando il duce cartaginese attraversò
l'Apennino. Su gli avvenimenti che seguirono alla battaglia del
Trasimeno si hanno due notizie contemporanee : 1, la sconfitta per
opera di Maarbale di 4000 cavalieri formanti l'avanguardia del-
l'esercito di Cn. Servilio. 2, la presa per opera di Annibale della
posizione al lago di Plestia nell'Umbria, dove a capo dei Romani
si trovava un C. Centenio, lo stesso che era comandante di quei
4000 cavalieri (?). Polibio accoglie la prima notizia; T. Livio, che
le conosce entrambe, cerca di fonderle; in Appiano è conservata
la seconda, che è la vera e costituisce un importante contributo
alla storia di Annibale e della guerra annibalica]. — W. Weix-
BERGER, Studien zu Tryphiodor und KoUuth, pp. 116-159 [Studi
linguistici, che è impossibile riassumere].
PJdlologus. Zeitschrift fur das class. Alterthum. LV. 2. 1896.
— R. Reitzenstein, Leukarion hei Hesiod, pp. 193-196 [A pro-
posito di un passo di Esiodo che occorre presso Strabene 7. 2. p. 321
e in origine doveva essere àkéaq irópe AeuKaviuuvi, donde si de-
duce che nella piìi antica saga genealogica dei Locresi non era
parola di Deucalione, bensì di Leucarione: quindi una duplice
versione della leggenda dipendentemente dalle due differenti forme
del nome, alle quali fanno capo anche differenti genealogie]. —
W. Heraeus, Sublimen, pp. 197-212 [Sembra un composto avver-
biale. Son passate in rassegna le varie grafie e forme della parola
nei manoscritti, e le etimologie proposte]. — J. Marquart, tfnter-
sucJmngen zur Geschicliie von Eran, pp. 213-244 [5, Zur Kri-
tik des Faustos von Bysanz, con raffronti, anche genealogici, con
la narrazione mosaica. 6, Hasarapet, era il nome del comandante
{chiliarcho) di ciascuno dei 10 reggimenti che formavano la guardia
del corpo presso i Persiani; l'autore studia nelle fonti greche gli
uffici onde era rivestito e ne prende occasione per dire degli altri
grandi funzionarli dell'impero persiano anche secondo le stesse
fonti. 7, Der altpersische Kalender. 8, 'Apiaioi {Herod. r\ 61),
probabilmente fu il nome col quale erano designati nei tempi an-
tichi i Persiani. 9, Erymandus. 10, Haraiiva = ' kpa\^\\ —
G. F. Unger, Umfang und Anordnung der Geschichte des Posei-
donios, pp. 245-256 | V, Zeit der JReise an den Ocean. 11 filosofo
visitò le coste dell'Oceano dopo il 75, finita la guerra di Sertorio,
al più tardi nel 69 o nel 68]. — W. Soltau, Die Entstehimg der
Annales maximi, pp. 257-276 [I pontifices notavano avvenimenti
della vita comune e politici nelle aggiunte alla loro tabula ponti-
ficale, che serviva per le comunicazioni d'ordine religioso; e i
fatti, che avevano, secondo il loro modo di vedere, interesse sto-
rico, in una specie di cronaca annuale. Ora negli Annales inaxitni
- 137 -
cominciati a pubblicare il 120 av. C. si tenne conto di quelle
note precedenti, le quali attestano una tradizione storica che può
essersi formata nei primi 3 e 4 secoli di Koma]. — A. Baumstark,
Die zweite Achilleustriìogie des Aischylos, pp. 277-306 [Com-
prendeva le tragedie: Psychostasia, scena: le alture dell'Ida;
Memnon, scena: la pianura fra llion e il campo navale degli
Achei ; {Leitides), scena : il campo acheo. Fu rappresentata nel 468
dopo la trilogia Myrmidones-Nereides-HeMoros li/ tra che è del
470 0 469. Della seconda trilogia l'a. ricostruisce, molto genial-
mente, l'azione nei tre drammi e nelle loro singole parti con ele-
menti derivati, oltreché da Eschilo stesso, specialmente da Quinto
Smirneo]. — E. Graf, Zu Arisio2)hanes FròscJien, pp. 307-317
[Fra l'altro, osservazioni di vario genere ai v. 25-30. 209-210.
643-644. 830-870...]. — H.Deiter, Cicero Philipp. XIV 5, 18.
pp. 317 [Legge coH'Orelli: impetus crimen invidiaque qiiaeretur?
considerando impetus come genitivo dipendente da crimen invi-
diaque (endiadi)]. — L. Gurlitt, Handschriftliches und Textkri-
tisches zu Ciceros epistulae ad M. Brutum, pp. 318-340 [È un
contributo alla nota questione della autenticità delle lettere cice-
roniane a Bruto. La trattazione è divisa in tre parti : manoscritti
nordici, manoscritti italiani e apparato critico. Le conclusioni sono
queste: il testo del Cratander (Basilea 1528) è la fonte migliore
e ha importanza quasi pari all'eccellente ms. Laurislieimensis del
sec. X 0 XI; i mss. italiani possono servire semplicemente per
attestare della credibilità di alcune lezioni del testo stesso]. —
H. Blììmner, Textkritiscìies zu Apuleius Metamorphosen., pp. 341-
352 [Proposta di emendamenti a I 1 p. 1, 2 (ediz. Eyssenhardt,
1869). I 5 p. 3, 18. II 2 p. 18, 9. II 12 p. 25, 6. II 25 p. 33,
28. II 31 p. 38, 5. Ili 11 p. 45, 13. III 20 p. 51, 3. Ili 28
p. 55, 8. IV 2 p. 57, 10. IV 12 p. 63, 17 e p. 63, 29. IV 24 p. 71,
20. IV 26 p. 72, 27. V 13 p. 86, 16. V 16 p. 88, 5. V 18
p. 89, 6. V 28 p. 95, 27. VI 8 p. 101, 25. VI 10 p. 103, 11.
VI 31 p. 116, 8. VII 5 p. 120, 10. VII 12 p. 122, 15. VII 15
p. 126, 9. VII 16 p. 127, 4. VII 25 p. 131, 17. Vili 5 p. 137,
10. Vili 21 p. 147, 20. IX 4 p. 157, 8. X 21 p. 195, 3. XI 5
p. 208, 3. XI 29 p. 216, 17 e I 12 p. 8, 9]. — O.Crusius, Gren-
fells Erotic fragment und seine litterarische Stellung,^^. 353-
384 |I1 frammento, greco, fa parte di un gran papiro 'finanziario'
trovato in Egitto negli inverni del '93 e del '94. È scritto a tergo
di un contratto dell'anno 8 del regno di Tolomeo Filometore,
quindi dev'essere posteriore al 173 av. C. Da un esame paleografico
risulta con certezza che risale prima della fine del II sec. Son due
colonne (e ci sarebbe spazio per una terza), di cui la prima in-
tiera, della seconda non rimane che una parte. II Crusius ripro-
duce il testo tal quale è dato dal papiro, anche riguardo alla
disposizione delle linee, poi con gli accenti e l'interpunzione mo-
derna e la necessaria divisione lineare. Seguono l'interpretazione,
- 138 —
con proposte di correzioni di vario genere, e lo schema metrico,
giacche il frammento è in versi. Si tratta di una lirica che
doveva essere cantata, cioè propriamente di un mimo lirico,
che appartiene al genere delle cosidette Hi 1 arodi e, onde fu
principale maestro Simos di Magnesia. Nulla vieta di credere che
il nostro componimento sia appunto opera di lui]. — W. M. Lind-
SAY, Ber Salamanca - Epictet, pp. 385-387 [Descrive, con pro-
posta di correzioni, l'edizione di Salamanca del 1555, contenente
le dissertazioni e il manuale del filosofo greco]. — F. Mììnzer,
Der erste Gegner des Spartacus, pp. 387-389 [Fu il pretore
C. Claudius Glaber, figlio di Gaio, della tribù Arnensis, e non
di stirpe patrizia]. — W. Schmid, Zu Terentius Adelph. 55. 56,
pp. 389-391 [I due versi originariamente furono scritti così : nam
qui mentiri aut fdlleré suuni erum a/U patrém \ audébit, tanto
mdgis audéhit céterós.]. — Th. Stanol, Zu Cicero de oratore li
321, pp. 391-392 [A proposito della affermazione incontestabile
dello Strobel in ' Berichte iiber die Litteratur zu Ciceros rheto-
rischen Schriften aus den Jahren 1881-1893 ' (Jahresb. Bursian
- Miiller) che la lezione dei tre libri del De oratore è migliore
nei mss. mutilati M che non nei mss. completi L].
Bulletin de correspondance hellénique. XIX. 1895. XI-XIL^ —
Henri Weil, Un péan delphique à Dionysos, pp. 393-418 [È il
quarto inno venuto in luce dagli scavi di Delfo, ma .non è accom-
pagnato da note musicali come i tre precedenti ad Apollo. Com-
prende due parti, l'una mitologica, l'altra storica o, come la de-
signa il W., di attualità: con l'aiuto della seconda e con l'estratto
del decreto onorifico in favore dell'autore del peana, Philodamos
di Scarfia [ZKapcpeu(g, città della Locride Epicuemidia], e dei suoi
due fratelli, estratto scolpito sotto ai versi, si può determinare la
data dell'inno e conoscere in quale occasione esso fu composto: e
cioè 0 fra il 339 e il 336 o intorno al 328-327 av. C. ; l'occa-
sione, i lavori di restauro del tempio di Apollo delfico otto anni
almeno dopo la seconda guerra sacra. La prima parte dell'inno
riassume la ' storia ' di Dionyso dalla sua nascita all'ammissione
fra le grandi divinità dell'Olimpo; c'è poco di notevole, tranne
questo che il dio assumendo il nome di Pean diviene un altro
Apollo. Il W. dà lo schema dell'inno (dal quale risulta che il
poeta segue le migliori tradizioni per la struttura delle sue strofe)
e aggiunge di questo una preziosa illustrazione eruditissima filo-
logica e metrica],
Archaeologisch-epigrapliische Mittheilungen aus Oesterreich-
Ungarn hrgb. v. 0. Benndorf u. E. Bormann. XIX. 1896. 1. —
Emil Szanto, Zu den Tetralogien des Antipìion, pp. 71-77 [Delle
tre tetralogie la prima riguarda un caso di cpóvoq ìy.o\}(S\oc, da
— 139 —
trattare davanti all'Areopago, la seconda di (póvo<; àKOU(JiO(; da-
vanti al Palladion, la terza di qpóvoc; òiKaiO(; (così l'a. propone
di chiamarlo) davanti al Delfinion. Sono casi finti, ma non perciò
meno importanti, come quelli per i quali si richiedeva l'applica-
zione di una legge non solo nuova, ma in aperta contraddizione
alle leggi vigenti e generalmente note. Lo S. analizza minutamente
i tre casi dimostrando che appartengono a un nuovo ordine di
òiKai cpoviKai da stabilire su la base di una sottile filosofia del
diritto. Le tre tetralogie sono semplici esercizi accademici e si
deve affatto escludere l'ipotesi che tendessero a produrre un reale
cambiamento nella legislazione relativa alle òikqi qpoviKai dei tempi
dell'oratore. — All'articolo dello S. ha dato occasione uno studio
del DiTTENBERGER SU la medesima questione nel Hermes XXXI
271-277 {Aniipli. Tetràl. u. das attische Criminalrecht)'].
Indogermanische Forschungen. Zeiisclirift fur indogerm. Sprach-
und AUeriumshunde ìirgh. v. K. Brugmann ii. W. Sireitherg.
VL 1896. 5. — Wilhelm Streitberg, Die griecMschen Lol-ative
aiif -ei, pp. 339-341 [Accanto ad èKei abbiamo àGeei (Omero),
àcTTTOvbei, TTavbri)nei ecc. La differenza dell'accento è la stessa che
fra èKTTOÒLuv e -rrobOùv, Kai e lit. har e risale all'antica QÌh{Ur2eit)
indogermanica].
Neue pMloìogiscìie Rundschau ìirgh. von C. Wagener u. E. Lud-
ivig. 1896. — n. 18. J. May. Zur Kritih der Reden des Demo-
sthenes (I Filippica, § 33-fine) [W. Fox. Appunti]. — F. Hawr-
LANT, Horaz cds Freund der Èatur nach seinen Gedichten. I
I E. Rosenberg. Non contiene nulla di nuovo, ma v'è tenuto conto
di tutti gli studi precedenti e la trattazione è ordinata]. —
W. SxiivE, Ad^ Ciceronis de fato lihrum ohservationes variae
[L. Keinhardt. è una dissertazione ingegnosa ed erudita, benché ne
siano scarsi i risultati]. — J. Brenous, Étude sur les Jiellénismes
dans la sijntaxe latine [J. Schaefler. Può essere considerato
come un eccellente contributo alla sintassi comparata delle lingue
greca e latina]. — J. E. Hylén, De Tantalo commentatio aca-
demica [P. Weizsaecker. Lavoro diligentissimo e compiuto].
n. 19. H. Magnus, Die antil-en Biisien desHomer [Sittl. Ricerche
di molto valore, non ostante alcune mende]. — Kief, Wert der
lliasleMure fiir die Jugendbifdung [0. Sch. Il tema tutt'altro che
nuovo non è trattato scientificamente]. — P. Vergili Maronis
Opera, apparatu critico in artiiis contracto iterum recensuit
0. HìBBECK. II-IV Aeneis Eiusdeni Opera cum appendice, in
usum sch. it. recogn. 0. R. [F. Gustafsson. Riguardo all'edizione
critica, non sono accettabili parecchie fra le lezioni proposte dal
R. ; riguardo all'altra, essa non leverà tanto rumore quanto ne
levò a suo tempo la prima]. — Ciceros rhetorische Schriften.
— 140-
Auswahl far d. Schide nehst Einleitung u. Vorbemerhmgen v.
0. Weissenfels [0. Wackermann. 11 pregio maggiore del libro
consiste nella introduzione]. — Roberts, W. Rhys, The Ancient
Boeotians^ their character and culture, and their repuiation
[R. Hansen. Importante]. — F. P. Garofalo, Sul 'plebiscitum Ati-
nium [F. LuTERBACHER. La questione è svolta con larga conoscenza
della letteratura relativa]. — E. Hula, Die Toga der spàteren
rómischen Kaiserzeit [P. Weizsaecker. Non condivide in tutto
le opinioni dell'autore]. — H. C. Mììller, Beitrage zur Lehre
der Wortsusammensetzung im GriechiscJien [F. Stolz. Senza
« vedute » individuali; di più l'autore non ha tratto sufficiente
profitto dalle pubblicazioni di cui si è valso].
n. 20. Herodotus. The fourth, fifth and sixth books, tcith intro-
duction, notes, appendices, indices, maps, hy R. W. Macan. [p. No-
tizia, con appunti all'appendice]. — Herodot in Ausivahl. Fiir
den Schulgebrauch hrgb. u. erklàrt y. P. Dòrwald; Ausivahl aus
Herodot. Filr d. Schulg. bearb. v. Fr. Harder; Schulerkom-
nientar zu der Auswahl aus Herodot v. Fr. Harder, hrgb. v.
Fr. Harder; Herodot. Fiir den Schulg. hrgb. v. .1. Werra; He-
rodot 77, Kommentar bearb. v. J. Franke; Herodot. Ausivahl fiir
den Schulg. hrgb. v. H. Kallenberg; Herodotos. Auswahl f. d.
Schulg. V. H. Stein (libri pubblicati fra il '93 e il '95) [J. Sitz-
ler. La scelta, varia secondo le varie pubblicazioni, è lode-
vole; il commento in tutte non tende a rendere inutile l'opera
del maestro, ma solo a facilitare la preparazione all'allievo]. —
0. Weissenfels, Cicero als Schulschriftsteller [0. Wackermann.
È un buon libro per più rispetti e merita di non passare inos-
servato]. — G. Maspero, Histoire ancienne des peuples de VOrieni
classique. Les origines [A. Wiedemann. È la storia migliore,
finora pubblicata, dell'Oriente antico e che potesse essere scritta
allo stato attuale degli studi orientali]. — Tjallingi Halbektsmae
Adversaria critica ...ed. H. van Herwerden (Osservazioni e con-
getture su Omero, Esiodo, Sofocle e gli altri tragici, Aristofane,
Tucidide e Senofonte, gli oratori e i grammatici, Teocrito e Lu-
ciano; inoltre Terenzio, Sallustio, Orazio, Ovidio, Fedro, Livio, Sve-
tonio e Giovenale) [F. Luterbacher. Si può tenerne conto].
n. 21. Sophokles' Oidipus Tyrannos. Zum Gebrauch fiir Schfi-
ler hrgb. v. Ch. Muff [H. Mùller. Per lo scopo che l'editore si
è proposto, il libro è fatto bene e praticamente]. — The Politics
of Aristotle. a revised text with introduction, analysis and
commentary by F. Susemihl and R. D. Hicks. I-V [W. Heine.
Questa edizione inglese è in molte parti diversa dalla tedesca del
Susemihl e certo non migliore]. — Q. Horatii Flacci Carminum
liber II... Ili with introduction a. notes by F. Gow [E. Rosen-
berg. Analisi dell'introduzione che presenta qualche lacuna; ri-
guardo alle note c'è poco da osservare: son prese per lo più da
edizioni tedesche, né manca materia per fare appunti]. — Lau-
— 141 -
TENSACH, Gramatische Studien su den griechiscìien Tragikern u.
KomiJcern, 1 [E. Basse. Kicerche diligenti e acute]. — Th. Momm-
SEN, Beitrclge zu der Lehre von den griechiscìien Prdpositionen
[J. SiTZLER. Lavoro di gran merito, per cui l'autore ha pieno di-
ritto alla gratitudine degli studiosi]. — M. Deloche, Le pori
des anncauo: dans Tantiqiiité romaine et dans les premier s siècles
da ììioyen dge [Sittl. Qualche osservazione].
n. 22. K. Kuiper, Studia GaUimacliea. I, De hymnorum I-IV
dictione epica [W. Weinberger. Molti appunti]. — R. Y. Tyr-
rell, Latin Poetry [Sittl. L'opera, che pure non manca di difetti,
offre una lettura soddisfacente specie nelle trattazioni relative a
Catullo, Lucrezio, Virgilio, Orazio e Giovenale]. — W. Schmid,
Der Atticismus in seinen Hauptvertretern von Dionysius v. Ha
likarnass bis auf den ziveiten Philostratus. III-IV [Ph. Weber
(la recensione continua nel n. 23). Analisi delle singole parti, alla
quale seguono aggiunte da fare ai passi, citati dallo Sch., di varii
autori, e rettifiche]. — H. D. Darbishire, Belliquiae philologi-
cae or Essays in comparative Pìiilology |Fr. Stolz. Contenuto
del libro, nel cui titolo anziché di ...filologia s'avrebbe adire
di ...scienza del linguaggio]. — Jos. Langl, Grundrisse
hervorragender Baudenhmale [L. Buchhold. Eccellente comple-
mento della pubblicazione dello stesso autore, Bilder zur Ge-
schichte].
n. 23. HoMERi Iliadis carmina cum apparatu critico ediderunt
J. VAN Leeuwen J. f. et M. B. Mendes da Costa. Ed. altera.
Pars prior. Garm. 1-XII [Sittl. Breve raffronto con la prima
edizione, di cui questa in molte parti è assai migliore]. — K. F.
Ameis, Anhang zu Homers Odyssee. Schulausgahe. IH Heft
(Appendice critica ed esegetica ai canti XIII-XVIIl) [H. Kluge.
Notizia]., — P. E. Rosenstock, Die Akten der Arvaìbruderschaft
[0. Wewe. Il lavoro attesta studi diligenti e sufficiente conoscenza
delle pubblicazioni relative all'argomento, nessuna delle quali ri-
solve la questione, alla cui soluzione del resto non intende nem-
meno l'autore]. — Fr. Schmidinger, Untersuchungen uber Fio-
rus [0. Weise. Contenuto]. — A. v. Domaszewski, Die Religion
des ròmischen Heeres [Bruncke. Lo schizzo che egli dà del libro
ha lo scopo di eccitare a leggere il libro stesso]. — F. Knoke,
Die ròmischen Moorbriichen iti Deutschland [E. Dunzelmann.
Parecchie rettifiche]. — J. Asbach, Zar Erinnerung an Arnold
Dietrich Schaefer [Hansen. Troverà calda accoglienza].
n. 24. F. R. Stourac, Ueber den Gebrauch des Genetivus
lei Herodot, 4 [J. Sitzler. Non consente in alcune cose con
l'autore]. — Ausivahl aus Xenophons Anabasis. Fiir den Schul-
gebrauch bearb: von C. Bììnger [R. Haxsen. Fra gli altri appunti
questo: il libro ha più il carattere di una redazione, di una edi-
zione « migliorata » di Senofonte che non di una scelta]. — Plu-
tarchi Chaeronensis 31 or alia, voi. VI, ree. G. N. Bernarda-
- 142 -
Kis [Weissenberùer. a parte alcune mende, segna un passo im-
portante a(?>HeZ«<s nell'edizione degli scritti morali]. — K. Lincke,
Klassiìcer-Aiisgahen der griechiscìien Philosophie. I, Sohrates [Th.
Klett. Notizia del contenuto (brani scelti dai Memorabili e dal-
l'Economico di Senofonte, dall'Apologia e dai Critone di Platone,
con introduzione) non senza lodij. — M. Annaei Lucani Fharsalia
cum commentario critico ed. C. M. Francken ...I, lib. I-V [Bauer.
La critica del testo lascia a desiderare, anche riguardo all'orto-
grafia, dove l'editore non è sempre conseguente a sé]. — Paulys
Keal-Encyclopaedie per klassischen Altertumswissenschaft.
Neue Bearh. hrgb. v. G. Wjssowa, 1-2 Halhhand [0. Schul-
THESS. Osservazioni di vario genere relative ad alcuni articoli, la
qual cosa però non toglie che si debba fare alla pubblicazione
la più favorevole accoglienza].
n. 25. E. HoLZNER, Studien zu Euripides [L. Eysert. Molte
delle correzioni proposte dal H. non sono accettabili, tuttavia l'o-
pera di lui merita d'essere lodata]. — Herodotos. Fiir den Schul-
gebrauch erUart v. K. Abicht, Uh. VII-IX ^. K. Abicht, TJe-
bersicht uber den Dialeld des Herodotus'* [J. Sitzler. Notizia].
— Hyperidis orationes sex cum ceterarum fragmentis ed. Fr.
Blass ^ [J. Sitzler. È una edizione veramente migliorata e ac-
cresciuta. Il referente contrappone a quelle del Blass alcune
lezioni sue nell'orazione contro Athenogenes]. — Dionis Prusaensis
quem vocant Chrysostomum quae exstant omnia ed. apparatu cri-
tico instruxit J. de Arnim. Voi. II [J. Sitzler. Notizia]. —
M. Ladyzynski, De quibusdam prìscorum poetarum scaenicorum
locutionibus, quae qualis, talis aa. pronominum, ut, ita aa. ad-
verbiorum vicem explent... [0. We]SE. Notizia]. — E. A. Free-
MAN, Geschichte Siciliens. Deutsche Ausgabe v. B. Lupus. 1. —
Gescliichte Siciliens unter den Phònikiern, Griechen u. Ròmern.
Aus dem Engliscìien tibersetut... v. J. Kohrmoser [H. Swoboda.
Molte lodi ad entrambe le pubblicazioni]. — Lateinische Varia-
tionen nach Livius XXI und XXII [0. Wackermann. È un libro
per i maestri, non privo di valore]. — Les caractères de la langue
latine par F. Oscar Weise. Trad.de Vallemandpar ¥, Antoine
[M. Erbe. In complesso favorevole].
Beitràge zur kunde der indogermanischen sprachen hrgb. von
Ad. Bezzenberger u. W. Prellwitz. XXII. 1-2. 1896. — A. Fick,
Altgriechische ortsnamen II-III. p. 1-76 [Nomi di spiagge, delle
parti del mare e dei mari, delle isole e delle acque nell'interno
delle terre (fiumi, torrenti, laghi...)]. — W. Prellwitz, Studien
zur indogermanischen etymologie und tvortbildung, pp. 76-114
[Noto, fra l'altro, lat. superbus, probus, dubius, iiTrepoTT€Ù(; (IH)-
lat. caelebs, caecus (IV)]. — Lo stesso, Etymologische miscellen,
pp. 118-124 [lat. pessimus. pestis. pesestas. stips. I suffissi latini
— 143 -
-estis. -esticus. -ensis]. — A. Fick, TTaWà? und TiaWàòiov,
pp. 125-126 [TTaXXÓK; corrisponde, per il senso, a Koùpri, Trap0évo(; :
TTaWaòiov non deriva dal nome proprio della dea, naa ha con esso
comune l'origine. TTaXXd? è: « fanciulla»; TraXXàòiov « idolo fem-
minile, puppattola ». Molto probabilmente le due parole sono da
riportare a ttoiXg*;]. — F. Skutsch, Zar lateinischen grammatik.
3, Culter, pp. 126-127 [la l è dovuta alla dissimilazione da r;
forma antica "*" certros, gr. Keipiu]. — Recensione, pp. 130-139:
A. Fick, Die griechischen personennamen nach ihrer hildung
erkldrt und systematiscìi geordnet. 11 aufl. hearh. v. Fr. Bechtel
u. A. Fick [0. Hoffmann. È un libro che non solo fornisce molte
nuove cognizioni, ma dà una potente spinta a ricerche proprie].
Wochenscìirift fur Jdassische Philologie. XIII. 1896. — n. 42.
Bevenue Laws of Ptolemy PJdladelphus edited... hy B. P. Gren-
FELL. An Alexandrian erode fragment and other greek papyri
cliiefly ptolemaic ed. hy B. P. Grenfell [C. Wessely. Non ostante
alcune mende, le due pubblicazioni fanno molto onore all'editore].
— A. Fairbanks, Locai cults in Homer [H. Steuding. Poco di
nuovo]. — LuciANUs, recogn. J. Sommerbrodt. Voi. II, pars
poster. |P. ScHULZE. Favorevole].
n. 43. G. IwANOWiTSCH, Opiniones Ho me ri et Tragicorum
graecorum de inferis per comparationem excussae [H. Morsch.
Analisi qua e là minuta del lavoro, che è fatto con molta cura].
— Philonis Alexandrini opera quae supersunt edd. L. Cohn et
P. Wendland. voi. I [J. R. AsMUS. Edizione eccellente]. —
J. P. Waltzing, Étude historique sur les corporations professio-
nelles chez les Romains depuis les origines jusqu'à la chute de
l'empire d'Occident. I [W. Liebenam. Contenuto. È uno studio
coscienzioso sia riguardo alla raccolta del materiale sia riguardo
al modo della trattazione].
n. 44. Th. Plììss, Die Tragódie Agamemnon und das Tra-
gische [0. Weissenfels. Sotto un certo rispetto è una trattazione
compiuta]. — Lautensach, Grammatiscìie Studien zu den grie-
chischen Tragikern und Komikern. 7, Personalendungen [E. Holz-
ner. Pubblicazione lodevole]. — Euclidis Opiera omnia edd.
J. L. Heiberg et Menge. Voi. VI. Euclidis Data [S. Gùnther.
Notizia]. — Claudio Claudiano. La guerra getica, epitalamio.
Studio e versione del prof. E. Donadoni [L. Jeep. Interessante
e buona l'introduzione]. — S. Cybulski, Tabulae quibus anti-
quitates graecae etromanae illusirantur. IX [? Lodi]. — K. Erbe,
Hermes. Vergleichende Wortkunde... II Aufl. [H. Draheim.
L'idea del libro, è molto buona, ma sono necessarie alcune in-
novazioni].
n. 45. E. F. M, Benecke, Antimachus of Colophon and the
Position of Women in Greek Poetry [Th. Matthias. Breve rias-
- 144 —
sunto dei due saggi, a ciascuno dei quali il referente trova modo
di fare alcuni appunti, soprattutto dal lato storico]. — Oh. Ju-
STICE, Le « codex Schottanus » des exiraiis « de legationihus »
(cioè: estratti constantiniani Trepì irpeapeiuv [Tu. Bììttner-AA'obst.
È un lavoro ' fondamentale ']. — 0. Haupt, Livius-Kommentar
far den Scliulgehr aneli. Buch Vili bis X [E, Wolff. Può esser
utile, sebbene le mende siano parecchie e di vario genere]. —
Vergils Aeneis. Fiir den Schulgehr. in verh'irster Form hrgh.
von J. Werra 2. Vergies Aeneis in Auswald. Fiir d. Sclmìg.
hrgh. von J. Sander [H. AVinther. In complesso favorevole]. —
F. 0. Weise, Les caractères de la langue latine., traduit de l'al-
lemand par Ferd. Antoine [A. Schirmer. È una traduzione li-
bera; le modificazioni introdotte dal traduttore rendono l'opera
del AVeise anche più utile]. — Klassisch oder volkstmnlich?
Auch ein Beitrag mr Losimg der Schulfrage von Har. Arjuna
[0. Weissenfels. L'ideale della cosidetta scuola nazionale vagheg-
giata, e in che strano modo, dall'ARjuNA, è roba da Zulù-cafri !].
n. 46. Klassiherausgahen der grìechischen Philosophie. /, So
hrates von K. Lincke [K. Joèl. Molti appunti e piuttosto se-
veri tanto all'introduzione, quanto alla scelta, un vero ragout,
dei brani di Senofonte. Ciò non ostante il 'piano' dell'edizione è
buono]. — J. Nesbitt Anderson, On the sources of Ovid's
heroides J, III, VII, X, XII [IL. Winther. C'è molto di
buono; sarebbe stato però più opportuno intitolare altrimenti il
lavoro, p. es. così: Contributi alla storia di alcuni motivi poetici
nelle Eroidi di Ovidio]. — M. Gg. Zimmermann, Kunsjgeschichte
des Altertums und des MiUelalters [Th. Schreiber. È un lavoro
al quale non si debbono lesinare le lodi].
n. 47. J. ToLKiEHN, De Homeri auctoritate in cotidiana Ro-
manorum vita [Fr, Harder. Analisi delle sette parti in cui si
divide la conimentatio, della quale il referente dà un favorevolis-
simo giudizio, esprimendo il desiderio che a questo 'prodromus'
tenga presto dietro l'opera principale]. — V. Hahn, Die Biogra-
pJiieen Plutarchs und Aristoteles' 'A6Tivaiuuv noXiieia (in polacco)
[Z. Dembitzer. Lavoro diligente]. — ^ Calvus. Edition complète
des fragments et des témoignages. Elude biographique et litté-
raire per F. Plessis. Avec un essai sur la polémique de Cicéron
et des attiques par J. Poirot [Th. Birt. Appunti alla edizione.
Nello studio del Plessis si notano tre omissioni: una ricerca rela-
tiva alla questione, fino a qual tempo Calvo sia stato letto (ancora
dopo Gellio?); un accenno all'influenza esercitata da Calvo su i
grandi poeti augustei; una parola su la metrica. Difettoso è per
vari rispetti il saggio del Poirot, dove si tratta di Calvo come
oratore]. — C. Sallustius Crispus. FUr den Scliulgehr auch bearh.
u. erlautert v. Fr. Schlee [Th. Opitz. La critica del testo reca
l'impronta individuale dell'editore. Il commento produce una fa-
vorevole impressione. L'introduzione è opera scientifica adatta agli
— 145 —
scolari. Copioso e largo l'indice alfabetico dei nomij. — H. Mau-
RER, De exemplis quae Claudius Marius Victor in Alethia se-
cutus sii [M. Manitius. Recensione favorevolissima]. — Archiie-
ktoniscìie Studien von S. A. Iwanoff, 2. Lief. mit Erlàuterungen
V. A. Mau (Pompei) [M. Rostowzew. Molti elogi].
n. 48. J. Ilberg, Èie Sphinx in der griechischen Ktmst und
Sage [H. Steuding. Piena padronanza della letteratura relativa e
larga conoscenza del materiale artistico, temperati tutti i giudizi,
cauta e sicura la conclusione]. — Lucien, Dialogues choisis,
suivis de Le Songe ou La vie de Lucien par A. Masson
[P. ScHULZE. Molti appunti]. — A. Weidner, Schiderkommentar
zu Tacitiis' Agricola [Th. Opitz. Osservazioni al commento, del
quale del resto si può essere soddisfatti], — A. Knappitsch, De
L. Caeli Firmiani Lactanti Ave Plioenice [S. Brandt. È una
pubblicazione senza valore scientifico nuovo].
n. 49. C. Pascal, Studi di antichità e mitologia [H. Steuding.
'L'intiero volume (12 monografie) contiene poco di nuovo, ma
merita approvazione']. — Xenophons Helleniha. Ausgeivahlte
Ahschnitte. Nach der Ausgahe R. Grossers neubearb. von C. Pol-
thier [E. Bachof. In complesso favorevole]. — Car. J. Hidén,
De casuum syntaxi Lucretiana 1 [0. Weissentels. Trattazione
ordinata], — K. Knust, Bedeutung und Gebrauch der zu der
Wurzel fu gehorigen Verbalformen bei Saliti st [Th. Opitz.
I risultati, se anche non sono tutti convincenti, meritano d'essere
presi in considerazione]. — P. Thomas, Catalogne des manuscrits
de classiques latins de la bibl. rogale de Bruxelles [G. Schepss.
Notizia]. — A. CzYCZKiEWicz, De dativi usu Taeiteo [Th. Opitz.
Alcuni appunti], — A, Caspari, De Cgnicis, qui fuerunt aetate
imperatorum Éomanoritm [P. Schulze. Contenuto]. — E. Ber-
ners Lateinische Stilistik... 9 Aufl. von Dr. E. Ludwig [0. Drenck-
HAHN. Le poche mende che si possono notare nell'opera non tolgono
nulla al valore di questa]. — E. Zimmermann, Uebungsbuch. IV.
UebungsstUcke ini Anschluss an das XXII Buch des Livius
[W. Friedrich. Notizia]. — E. Schwabe, Aufgaben zur Einii-
bung der lateinischen Syntax [0. Drenckhahn. Elogi].
n. 50. M. Wetzel, Antiker und moderner Standpunkt bei der
Beurteilung des Sophokleischen Dramas Kònig Oedipus [H. Otte,
Buon lavoro]. — A. Philippson, Der Kopa'is-See in Griechenland
und scine Umgebung [E. Oberhummer. Notizia]. — B. Nogara,
Iscrizioni etrusche e messapiche [W. Deecke. Notizia senz'altro],
— P. Cauer, Die Kunst des Uebersetzens ^ [R. Busse. Edizione
migliore della precedente, dalla quale differisce in alcune parti]. —
G. R. Hauschild, Lateinisches Lese-und Uebungsbuch. I [C. Boet-
ticher. è un lavoro diligente e originale, che merita favorevole
accoglienza].
n. 51. E. VON Reber und A, Bayersdorfer, Klassischer Skul-
pturenschatz, 1 [W, Amelung. Eccellente], — D. Bassi, Apollo
Miista di filoloqia, ecc., XXV. 10
— 146 -
liceo [H. Steuding. Appunti]. — Die homerische Batracho-
macliia des Karers Pigres nebst Scholien und Paraphrase,
lirgh. u. erlàut. von A. Ludwich [C. Haeberlin. Osservazioni di
vario genere. In una nuova edizione, che il referente augura pros-
sima, potranno essere introdotti dei miglioramenti, i quali rende-
ranno l'opera anche più preziosa]. — K. Rossberg, Xenophons
Hellenika, ausgeivdhlie geschiclitliche Gruppen u. Einzelhilder
fur d. Scìmlgehraucìi [W. Vollbrecht. Buona la scelta, ma il
libro non manca di difetti]. — C. Bùnger, Aiisivaìil aus Xeno-
phons Memorahilien. Fiir den Scìmlgeh. [Lo stesso. Conte-
nuto, con alcuni appunti]. — C. Kalbfleisgh, Galeni Insti-
tutio logica [H. Marquardt. Notizia]. — A. Rademann, 25
Vorlagen zum tlehersetzen ins Lateinische bei der AhscJduss^Jru ■
fimg aus dem Gymnasium [E, Zimmermann. Nonostante molte
mende può esser utile].
Berliner philologische Wochenschrift. XVI. 1896. — n. 42.
R. HiRZEL, Ber Dialog. Ein Uterarhistorischer Versiicli [0. Immisch.
Lavoro eruditissimo e molto notevole]. — A. Lovjagin. Aristo-
telis 'AGnvaiujv jroXiTeia grasce et russice [V. v. Schoeffer. Fa-
vorevole]. — Geoponica sive Cassiani Bassi scliolastici de re
rustica eclogae. Ree. H. Beckh [J. Ilberg. L'editore ha reso un
servigio importante agli studiosi]. — P. Terenti Adelphoe. Prin-
cipia critica secutus ab usitaiis diversa ree. M. Gitlbauer [S.
Strano!]. — K. Brugmann und B, Delbrùck, Grundriss der
vergleichenden Grammatik der indogermanischen Sprachen. Ili,
Sijntax V. B. Delbrùck, I [W. Schulze. Recensione molto favo-
revole (continua nel n. 43)]. — Ausgrabungen in Griechenland
{Pireo, Micene, Tessaglia, Ter a), dalle athen. Mitthei-
liingen.
n. 43. W. HoFFMANN, Die Chorlieder und Wecìiselgescinge aus
den Tragoedien des Sophokles in deutscher Uehersetzung I: Kónig
Oedipus. Oedipus auf Kolonos. Antigone [0. Sch. Favorevole].
— L. Alzinger, Studia in Aetnam collata [0. Rossbach. L'au-
tore fa sua l'ipotesi che l'anno 44 av. C. sia il terminus ante
quem e che il carme si possa ritenere, secondo l'attestazione dei
mss., come lavoro giovanile di Virgilio. Appunti]. — P. Gauckler,
L'archeologie de la Tunisie. M. Carton, Mémoire sur les cara-
ctères de l'architecture de VAfrique romaine. Si. Gsell, Guide
archéologique des environs d'Alger [A. Sghulten. Notizia]. —
W. Wattenbach, Bas Schriftwesen im Mittelalter ^ [F. Rììhl.
Qualche osservazione, che però nulla detrae al valore dell'opera].
n. 44, J. VAN Leeuwen j. f., Enchiridium dictionis epicae. II
[A. Ludwich. Il titolo dell'opera non è esatto (si dovrebbe dire
omerica e non epica iu generale) e il lavoro è troppo soggettivo].
— A. W. Verrall, Euripides the rationalist. A study in the
— 147 -
history of art and religion [Wecklein. Originale, come tutti gli
altri scritti dell'autore, ma le conclusioui a cui egli giunge sono
contestabili]. — Anecdota Cantabrigiensia edid. et commentatus
est E. Oder. I [J. Ilberg. Notizia e correzioni]. — Iwanow,
'Avuuvu|aou eìcJ'aYUJYri apiaoviKq [C. v. Jan. Fuori dei paesi russi la
pubblicazione non ha alcun valore]. — C. Sallusti Crispi Bellum
Catilinae, Bellum lugurth/num, orationes et epistulae ex Historiis
excerpiae. Fiir der Schulgebrauch erkldrt v. Th. Opitz. I, B. Cai.
[E. Hauler. Non ostante parecchie mende, il libro, specialmente
per il commento, è utile per la scuola]. — G. Radei, Èìi Phnjgie.
Rapport sur une mission scientifique [J, Partsch. Contenuto, con
elogi]. — P. Kretschmer, Einleitung in die Geschichte der grie-
chischen Sprache [J. Wackernagel. Analisi e qualche appunto.
La parte più preziosa dell'opera è la seconda]. — A. Dììhr, Ho-
MERS Ilias in niederdeutscher poetischer Uebertragung [Leger-
LOTZ. Sfavorevole].
n. 45. K, Kuiper, Studia Callimachea. I, De hymnorum 1-IV
dictione epica [A. Ludwich. Trattazione copiosa, ma non originale].
— E.Bethe, De Theocriti editionibus antiquissimis [Fr. Susemihl.
Non consente in parecchie cose con l'autore, trovandosi così spesso
d'accordo col Kannow che aveva recensito il lavoro del Bethe
nella Woch. f. Mass. PJiilologie, 1896, col. 707 sgg.]. — W. Schmid,
Der Atiicismus in seinen Hauptvertretern von Dionysius voti
Halikarnass bis auf den ziveiten Philostratus. III-IV [P. Wend-
LAND (la recensione continua nel n. 46). Appunti e rettificazioni,
ma anche molte lodi]. — W. Brandes, Beitrdge zu Ausonius
[R. Peiper. è un buon lavoro, sebbene l'autore non abbia sempre
giudicato dirittamente]. — R. Schultze und C. Steuernagel,
Colonia Agrippinensis. H. Nissen, Zur Geschichte des ròmischen
Koln [G'. WoLFP. Interessanti].
D. 46. Catulli Veronensis liber ed. by A. Pauier [H. Magnus.
Le congetture dell'autore sono esercizi che il ' mondo ' {die Welt)
non sente il bisogno di conossere]. — A. Polaschek, Caesariana
[R. ScHNEiDER. Rettificazioni]. — Th. Teusch, De sortitione iu-
dicum apud Athenienses [Thalheim. Ricerche sagaci e caute, ma
non profonde]. — Fr. Frohlich, Lebensbilder beriihmter Feld-
herren des Altertmns zum Schul-und Privatgebrauch. I [L. Holz-
apfel. Le osservazioni del referente potranno tornar utili per una
seconda edizione]. — H. Willrigh, Juden und Griechen ver der
mahkabdischen Erhebung [U. Wilcken (la recensione continua
nel n. 47). Lavoro notevolissimo che sarà accolto molto favorevol-
mente da tutti gli amici dell'Ellenismo]. — G. Pascoli, Lyra
Romana. G. Kirner, Manuale di letteratura latina ad uso delle
scuole classiche: I [? Sfavorevolissima per entrambe le pubblica-
zioni]. — B(elger), Bemalte Grabstele aus Myhene. Notizia su
l'importante scoperta (dall'ultimo fascicolo della 'E(priiuep\<; àpxaio-
XoTiKri).
- 148 —
n. 47. E. HoRNEFFER, De Ippia malore (lui fertur P la-
toni s [0. Apelt. Dissertazione diligente e accurata]. — G. Albert,
Die Platonische Zaìil und einige Conjecturen zu Platon soivie
zu Lucrez [F. Hultsch. Molti e gravi appunti]. — C. Suetonii
Tranquilli Divus Auyustus edited with historical intro-
dicction, commentari/, aijpendices... hy E. S. Shuckburgh [G. Helm-
REiCH. Lodevole l'intento, buono in complesso il lavoro]. — M. Bue-
DiNGER, Die Universalhistorie ini Altertume [F. Koepp. Molto
difettoso e per più rispetti]. — L. Cantarelli, Le fonti per la
storia dell'imperatore Trajano [G. F. Hertzberg. Eccellente e
assai utile]. — Anonymus, Ueher die GelehrsamJceit des klas-
sischen Altertums und den Wert der klassischen Bildung
[C. NoHLE. Contestabile].
n. 48. E. Halévy , La théorie Platonicienne des sciences
[0. Apelt. Notizia del contenuto]. — H. Hobein, De Maximo
Tyrio quaestiones philologae selectae [Wendland. Delle due parti
in cui si divide la trattazione la prima è alquanto prolissa e non
sempre chiara, la seconda piena di valore]. — E. Lalin, De par-
ticulanmi comparativarum usu apiid Terentium [E. Hadler.
Il lavoro ha qualche valore come raccolta di materiale]. — J. N.
Anderson, Oh the sources of Ovid's Herofdes. /, 111, VII, X,
XII (R. Ehwald. Non ha significato scientifico originale]. —
V. Ferrenbach, Die amici populi romani republikanischer Zeit
[W. Liebenam. Accurato]. — Monumenti anticJn pubblicati per
cura della R. Accademia dei Lincei. Voi. VI [A. Furtwaengler.
Notizia del contenuto dei singoli articoli, qua e là con lodi]. —
Hieratisclie Papyrus aus den k. Museen zu Berlin, i, Ritual
fiir den Kultus des Amon \K. Sethe. Analisi minuta. Elogi e
appunti].
n. 49. HipPOCRATis opera quae feruntur omnia. Voi. I recens.
H. KuEHLEWEiN. Pro/e^rwH. conscrtpserunt l. Ilbeeg et H. Kueh-
lewein [L. Cohn. Eccellente e quale si poteva attendere dai due
eruditi editori]. — Th. Zahn, Der Stoiker Epiktet und sein
Verhaltniss zum Ghristentwn [C. Nohle. Appunti alla tratta-
zione in generale]. — C. Torr, On the interpretation of greek
music [C. V. Jan. Lavoro sbagliato di sana pianta]. — W. M.
LiNDSAY, The Palatine text of Plautus [0. S(EYFFERr). Conte-
nuto. Qualche osservazione]. — G. Giri, Il suicidio di T. Lu-
crezio. La questione delV emendatore ed editore della ' Natura '.
E. Stampini, Il suicidio di Lucrezio. G. Giri, Ancora del suicidio
di Lucrezio [A. Brieger. Analisi dei tre scritti, con pochi ap-
punti]. — E. Bethe, Prolegomena zur Geschichte des Theaters
im Altertum. Untersuchungen ither die Entivickelung des Dramas,
der Biihne, des Theaters [E. Bodensteiner. Ottimo libro. Con-
tenuto]. — 0. VON Sarwey undF. Hettner, Der obergermanisch-
ràtische Limes des Ròmerreiches... [G. Wolff. Notizia].
n. 50. P. Masqueray, De tragica ambiguitate apud Euripidem
— 149 —
["Wecklein. Breve notizia con qualche appunto]. — Th. Gomperz,
Beitrdge zur Kritih imd Erklàrung griechischer Schriftstcller
[C. Haeberlin. In complesso favorevole]. — 0. Podiaski, Die
trochaiscìien Septeyiare des Terenz, mit hesonderer BerUchsicldi-
gung der Hecyra [E. Hauler. Studio di gran valore e giudi-
zioso]. — J. Gilbert, Ovidianae quaesiiones metricae et exege-
ticae [K. Bhwald. Contenuto. Appunti]. — G. \Yobbermin, Ile-
ligionsgeschicìitliclie Studien zur Frage der Beeinflussung des
Urchristentums durcìi das antihe 3Iysteriemvesen [E. Kohde.
Molte contestazioni, tanto riguardo ai fatti quanto riguardo ai giu-
dizi], — C. Pascal, Studi Romani. I. Il processo degli Scixnoni.
Il, Valerio Ansiate e Tito Livio [L. Holzapfel. Contenuto, non
senza elogi]. — K. Schwerzek, Erlauterungen zu der ReJwn-
struJction des Westgiehels des Parthenon [A. Furtwaengler. Sfa-
vorevole]. — P. Cauer, Die Kunst des Uebersetzetis^ [C. Noht,e.
La nuova edizione è per più ragioni migliore della precedente],
n. 51. P. Natorp, Platos Staat und die Idee der Sozialpii-
dagogik [C. Nohle. Si può in qualche cosa consentire con l'au-
tore]. — Bie Inschriften von Pergamon unter Mitwirkung
V. E. Fabricius u. C. Schuchardt hrgh. v. M. Fraenkel. II [Br.
Keil. Pubblicazione utile e degna di lode]. — C. J. Hidén, De
casuum sijntaxi Lucretiana. I [A. Brieger. Per un certo rispetto
e considerato in se e nei limiti in cui lo volle tenuto l'autore
è un eccellente lavoro, meritevole di premurosa accoglienza]. —
P. VON WiNTERFELD, Beitrdge zur Quellen-und Textkritik der
Welter zeicìien Aviens [A. Breysig. Ha delle mende, ma c'è del-
l'utile e del buono]. — Th. Reinach, L'empereur Claude et les
antisémites Alexandrins d'après un nouveau papyrus [U. Wilcken.
Favorevolissima]. — L. Halkin, Les collèges de vétérans dans
V empire romain [W. Liebenam. Lavoro meritevole d' elogi, se
anche non si possa essere, in tutto, d'accordo con l'autore]. —
P. Gauckler, Musée de Cherchel [Musées et coli. ardi, de l Al-
gerie et de la Tunisie) [A. Furtwaengler. Pubblicazione inte-
ressante].
The Classical Revieiv. X. 1896. 6. - A. W. Verrall, Tgr-
taeus: a Graeco-Roman Tradition, pp. 269-277 [Tutto ciò che
la tradizione racconta della vita di Tirteo in relazione con la se-
conda guerra messenica non regge alla critica. Dalla Leocratea
di Licurgo, §§ 102-109, si deduce che Tirteo visse nel V secolo
e non nel VII e che la guerra messenica, nella quale egli rappre-
sentò la nota parte, fu quella combattuta dal 464 al 454. A questa
conclusione si giunge anche valendosi degli accenni al poeta che
occorrono in Aristotele e in Platone]. — W. Warde Fowler,
Gaius Gracclius and the Senate: Note on the Epitome of the
sixtieth Book of Livij, pp. 278-280 [Nega che il passo dell'epi-
tome del libro LX di T. Livio tertiam, qua equestrem ordinem
— 150 —
iunc orni senatu consentienfem corriimperet... ut cquester ordo
his ianium viriwn in senatu haheret sia guasto e dimostra che
G. Gracco fu veramente l'autore della riforma del senato, a cui
si accenna in esso passo; proposte corrispondenti a quelle di
G. Gracco vennero presentate da Livio Druso il giovane durante
la guerra sociale, da Sulla e più tardi da Cesare]. — F. C. Cony-
BEARE, Emendations of Fililo De Sacrificantibus, pp. 281-284
[Emendazioni proposte prendendo per base un'antica traduzione
armena, pubblicata a Venezia, nel 1892, dello scritto di Filone].
— G. B, Grundy, Tlie Trebbia and Lake Trasimene in... How
and Leigh's Roman History, pp, 284-287 [È una critica, ab-
bastanza severa, della esposizione delle operazioni di guerra di
Annibale dalla battaglia alla Trebbia a quella del Trasimeno
nella Storia romana dei due autori, i quali troppo spesso non
hanno tenuto conto delle testimonianze degli antichi]. — W. W.
Waddell, The Piace of the Parmenides in the Order of the
Pìatonic Dialogues, further considered, pp. 287-291 [A proposito
di un articolo del Campbell, pubblicato nel numero di aprile
della Revieii\ appunto intorno al posto che il Parmenide occupa
nella serie dei dialoghi platonici]. — H. Eichards, The minor
tvorks of Xenophon. IL The Symposium, pp. 292-295 [Osserva-
zioni critiche a 1, 7. 1, 10. 1, IL 1, 14. 1, 15. 2, 3. 2, 4. 2, 6.
2, 8. 2, 9. 2, 13. 2, 20. 2, 25. 2, 26. 3, 1. 3, 8. 3, 9. 4, 23. 4, 37.
4, 38. 4, 49. 4, 63. 5, 6. 5, 10. 6, 9. 7, 4. 8, 1. 8, 5. 8, 13. 8, 16.
8, 17. 8, 35. 8, 40. 9, 5]. — J. B. Bdry, Note on eì auucppovoOai
in Thucydides I, 40, pp. 295-296 [Spiega ricorrendo ad Ero-
doto Vili, 60]. — E. C. Marchant, On the meaning of certain
passages iti Thucydides VI, pp. 296-299 [Note ai passi seguenti:
14, 1. 21, 2. 23, 1. 31, 1. 31, 4. 46, 2. 69, 1. 82, 2. 82, 3. 87, 3.
87, 4. 89, 6 che sono tra i più difficili del lib. VI]. — E. J. Chol-
meley, Notes on Theocritus, pp. 299-300 [Propone di leggere,
22, 8: oùpavòv èHavuovia — 21, 59: oijioaa ò' dùkéti — 1, 56:
aloXiKÓv, nel senso del pindarico aìóXov (ipeOòo^ ; cfr. Lycophr. 4
Xpricriaujv aìóXov OTÓp.a) — 30, 3 segg.: )aaKO(; laèv laeipiu;, àXX'
ÓTTÓCTov TU) Txebà TTeppe'xei | Ta<; fàq, toOto xótpi? (cfr. per il
senso Anth. Pai. XII, 93) — 1, 106: rrivei òpùeq è'vGa Kvneipoc,,
con omissione della prossima linea]. — A. C. Clark, The Madrid
ms. of Asconius {M. 81), pp. 301-305 [È il più antico fra' mss.
del Poggio, forse di sua mano, ma non è la prima copia stesa a
5. Gallo]. — J. B. Bury, Note on Zosimus V, 46, p. 305 [Si
deve leggere: òvia CTTpaxriYÒv koi tojv dXXuuv ìXuùv òaai TTaiovac;
Te TOÙ<; àvu) Kaì NojpiKoìx; xaì 'PaiTOÙ(; èqpuXaTTOv]. — pp. 305-311
Recensioni, fra cui noto quelle di R. Ellis delle Commentationes
del Menozzi De Catulli carni. XLIX et LXXXXV. e di
L. Campbell delVEschilo Laurenziano (Biagi-Eostagno). —
W. Gardxer Hale, a ncw tns. of Catullus, p. 314 [Si tratta del
ms. Vaticano (Otton. 1829) importantissimo, forse copia indipen-
dente del Veronensis perduto].
— 151 —
Idem. 7. — W. W. Fowler, On the Toga Praeiexta of Boman
Children, pp. 317-319 [La toga praetexta era una veste sacra
per i sacerdoti mentre sacrificavano e per i magistrati in fun-
zione; fu un concetto religioso a cui i Romani s'inspirarono nel
determinare che la portassero anche i fanciulli liberi]. — W. M.
LiNDSAY, The mss. of the first eight plays of Plautus, pp. 319-321
[Kende conto delle sue ricerche intorno alle reciproche relazioni
dei mss. che contengono le prime otto commedie plautine. È im-
possibile riassumere l'articolo]. — A. C. Clark, A Paris ms. of
the Letters io Atticus, p. 321-323 [Descrizione, necessaria perchè
finora del ms. (bibl. nazionale di Parigi, Lat. nouv. fonds, 16, 248)
non fu tenuto il debito conto]. — J. Masson, Netv data presu-
■mahhj from Suetonius' life of Liicretius, pp. 323-324 [Contro il
WoLTJER, in Mnemosyne 1895, 2, a proposito della prefazione del
BoRGius ad una edizione completa, non ancora pubblicata, di Lu-
crezio secondo il testo del Fontano]. — T. D. Seymour, Note
on Plato's Bepuòìic, VII. 519 A, pp. 324-325 [In ràq tfì?
T€vécr6uu(; avjyevéxc, si contrappone tò yitvÓ|U€vov o féveoxq a tò
6v 0 oùcria]. — E. Bosanquet, Further note on Plato, Bep. X.
597 E, pp. 325-326. — E. C. Marchant, Corrections in the text
of Thucydides VI, pp. 326-327 [Passi a cui l'autore propone cor-
rezioni: 35, 1. 37, 2. 64, 1. 83, 4. 78, 4. 82, 1. 86, 3. 89, 6]. —
E. S. Thompson, Note on Borace, Odes I, 28, pp. 327-328 [È
la famosa ode d'Archytas, nella quale l'a. vede un èmiuiiipiov
per un cenotafio: il carme è una specie d'iscrizione funeraria].
— P. Shorey, Note on Theniistius' paraphrase of Physics [di
Aristotele] IL 9, p. 328. — T. L. Agar, iVo^e on II XVI, 99.
p. 329 [Si dovrà forse leggere ; vili ò' èKÒuir||U€v (invece di èKÒuT|uev)
òXeGpov]. — W. Ray, Note on Vergil, Geòrgie II, 501-502,
p. 330 [Spiegazione e traduzione]. — pp. 330-349. Recensioni, fra
cui noto quelle di W. M. Lindsay di Plauti Comoediae ree. et
emend. Fr. Leo, molto favorevole; di H. J. Roby di A. H. J.
Greenidge, Infamia, its Place in Boman Public and Private
Law, con qualche appunto; di E. B. England di The Orestes of
Euripides edited ivith Introduction, Notes and metrical Appendix
hy N. Wedd, con molti elogi ; e di W. M. Geldart di P. Giles,
A short Manual of comparative Philology for Classical Stu-
dents. Inoltre quella di J. L. Myres del Helbig, La question
mycénienne.
Mitfheilungen d. Jcais. deutsch. archdologischen Instituts. Athe-
nische Ahtheilung. XXI. 1896. 2. — E. Pridik, Amphorenstempel
aus Aihen, pp. 127-187 [Collezione di 385 anfore, di cui 265 di
Cnido, 84 di Rodi e 9 di Taso (le rimanenti 27 non entrano in
conto), con la 'marca di fabbrica', importante, quando si tratti di
nomi, nel rispetto epigrafico: la 'bollatura' ha carattere privato
ed è opera del fabbricante stesso]. — L. Pollar, Von griechi-
— 152 —
schen Inseln, pp. 188-228 [Raccolta di materiale antiquario ed
epigrafico fatta dall'autore nel 1894 durante un suo viaggio nelle
isole del mare Egeo: Syros, Siphnos, Melos e Naxos, Notevoli spe-
cialmente tre iscrizioni arcaiche di Melos della seconda metà del
sec. VI]. — A. Wilhelm, Beschliisse lesbischer Samothrakiasten,
pp. 237-239 [Psephisma del II sec. av. C.]. — Fk. Sjudniczka,
Die Weihinschrift der Kamo, pp. 240-241 [Si tratta della iscri-
zione I. G. A. 324 che si deve leggere Kajuò òvéGucre tai KópFai;
per ùvé0ucre è da cfr. il cipr. òvéGriKe]. — A. OiXiot;, Tò èv
'E\eu(JTvi TeXecTiripiov Kaì 'Apiateiòriq ó (SocpiaiY\q, pp. 242-245
I Dall' 'EXeuaivioq Xóto^ del sofista, in cui si parla della distruzione
del santuario di Eleusi, e dalla notizia di uno scoliaste che esso di-
scorso fu pronunziato da Aristide quando egli aveva 53 anni e mezzo,
si deduce che la nascita di lui risale circa al 129 dell'e. v.]. —
F u n d e, pp. 246-263 [Noto, fra l'altro, la relazione sugli scavi
di HiLLER voN Gaertringen a Thera. 11 numero totale delle iscri-
zioni ivi trovate è ora di 650, fra cui oltre 150 arcaiche. Furono
scoperte le rovine della (Ttoà ^aaiXiKt], le fondamenta di un tempio
di Apollo Pizio (?) e di un ginnasio. Una grotta finora creduta
un santuario di Poseidon pare fosse invece consacrata ad Hermes,
Herakles e Tiberio Cesarei.
Mittìieilimgen d. kais. deutsch. archàologisclien Instituts. Bo-
misclie Ahtheilung. XI. 1896. 2. — A. Erman, Obelisken ròmi-
scher Zeit. II, Der Obelisk des Antinous, pp. 113-121 [Dalla
iscrizione, in pessime condizioni e variamente interpretata, risulta
che l'obelisco venne eretto su la tomba del giovane favorito di
Adriano nel « campo di confine di Roma » cioè dove appunto in
origine sorgeva, in Roma, l'obelisco]. — Ch. Huelsen, Das Grab
des Antinous, pp. 122-130 [Rifacendo la storia del monumento
fino al sec. XVI, tratta e risolve la questione relativa al luogo
dove in origine era stato innalzato l'obelisco di Antinoo. Dalle
varie testimonianze si può dedurre che la tomba di Antinoo era
posta nell'estremo punto sud-est di Roma, su la via Labicana
poco lungi dall' ^.^wa Claudia nella regio V Esquilina di Au-
gusto. È dubbio se il giovane sia stato sepolto ivi]. — A. Mau,
Das Capitolium und der Tempel des Zeus Meilichios in Pom-
peji, pp. 141-149 [È probabile che, ,^condo l'opinione di 0. Kuh-
feldt {De Capitoliis imperii romani, Berlin 1882, pp. 20 sgg.)
il tempio di luppiter nel foro di Pompei fosse consacrato alle
tre divinità capitoline e fosse quindi il cosidetto Capitolium.
La sua architettura appartiene indubbiamente ai primi tempi
della colonia: ciò significa che la fondazione dell'edificio fu
opera degli Osci. Se ne desume che o gli dei di Roma furono
introdotti a Pompei già nel II sec. o in origine il tempio era
consacrato ad un'altra triade, a cui i coloni sostituirono quella
— 153 —
capitolina romana. La quale, dopo la distruzione dell'edifizio nel
63 av. C, passò nel cosidetto tempio di Esculapio, che ora il
Mau crede sia stato invece di Zeus Meilichios]. — Lo stesso,
Die Statuen des Foriims von Fompeji, pp. 150-156 [Le basi e
i resti delle iscrizioni dimostrano che nel foro di Pompei sorge-
vano: 1, statue di grandezza naturale di primati del municipio;
2, statue equestri di grandezza naturale di primati del municipio
e di patroni della colonia; 3, statue colossali di Augusto, Cali-
gola, Claudio, Nerone e Agrippina. Sopra l'arco di trionfo si in-
nalzava la statua equestre di Tiberio, e nelle due nicchie le statue
di Nerone e di Druso, figli di Germanico]. — E. Petersen, Funde,
pp. 157-192 [Fra gli altri, scavi a Conca, nel Lazio, probabil-
mente l'antica Satricum; se così è, ne viene che il santuario, di
cui ivi furono scoperte le rovine, era il templuni Matris Matutae\
Revue 'de philologie, de littérature et d'histoire anciennes. XX.
1896, 4. — P. CouvEEUR, Inventaire sommaire des textes grecs
classiques retrouvés sur papyrus, pp. 165-174 [Il titolo dice
tutto. Mi limito quindi a notare che il catalogo è fatto secondo
l'ordine cronologico e con le indicazioni bibliografiche necessarie.
Prima son registrati gli scritti di poesia, poi quelli di prosa. Fra"
poeti Omero occupa nella letteratura dei papiri il primo posto
(n." 1-25); seguono Euripide (n." 36-44) ed Esiodo (n." 26-30);
altri non compariscono che una sol volta : cosi Eschilo (n.''° 35),
Callimaco vn.''° 56), Apollonio rodio {n."^" 61), ecc. Fra' prosatori
tiene il primato Iperide (n." 88-92); poi vengono Aristotele e De-
mostene (n." 71-75 e 82-86); Tucidide e Platone occorrono cia-
scuno due . volte (n." 67-68 e 69-70), Isocrate tre (78-80), ecc.
Qualche frammento anonimo, tanto di poesia quanto di prosa]. —
P. Tanneky, Vitruvius Rufus § 39, pp. 175-177 [Le e. 6^-8^ del
Codex Arcerianus di Wolfenbtittel, del VII sec, contengono degli
estratti (non pubblicati dal Lachmann nella sua edizione critica
dei Gromatici veteres, della quale è la fonte più importante
appunto esso codice) di due autori, Epaphroditus e Vitruvius
Rufus. Questi estratti furono editi in-extenso dal Cantor nella
sua opera Die roemisclien Agrimensoren... pp. 207-215. Ora nel
penultimo paragrafo, che dev'esser posto sotto il nome di Vitruvio,
c'è un passo evidentemente corrotto: {cacumen) plictum cum caelum.
Per correggerlo il Tannery applica, senza preconcetti, le regole
paleografiche e gliene vien fuori perlineatum cum oculo, pensiero
che già in questa forma risponde bene al senso; ma paleografica-
mente plictum può dare perlihratum, correzione che calza anche
meglio ed è quindi proposta dall'autore]. — L. Havet, Phaeder,
pp. 178-184 [Emendamenti : III Prol. 38 (III Epil. 14). Per avere
del V. 38 (14) un'idea assolutamente completa, occorrerebbe co-
noscere il verso perduto precedente, eccolo a titolo d'esempio:
— 154 —
Exemplum prinius dedit Aesopus posteris. — III 15, 20. Propone
di sostituire dogmatis (cfr. poematis) a legimus, che deve rappre-
sentare un dat. plurale, donde legihus in R e nella copia del
Perotti. — III. Epil. 2. Testo esatto: 'Primuni, Eutycìie^ w^ ne
uidear Uhi molestior'. — V 5, 11-12 (e I 29, 3). Si interpunga
cosi : 'Dispersus rumor ciuitatem concitat | Paulo ante uacuam ;
turbara deficiunt loca'; meglio sarebbe inoltre leggere turbae, dat.,
anziché turham. — Appendix 6, 6. La correzione uocem, invece
di uoces, s'impone]. — A. Macé, Térence: Eunuquey. 588, p. 185
[Il Fabia nella sua recente edizione dell'Eunuco (Paris, Colin,
1895) a hominem dei rass., nel verso 588, sostituì imirem; ma se
Terenzio avesse scritto imbrem, i copisti non ne avrebbero 'tirato'
hominem: avrebbero conservato imbrem. 11 Macé crede che il
poeta abbia scritto invece hiemem, congettura la quale permette
di spiegare più facilmente l'origine paleografica dell'errore, come
egli, il Macé, dimostra in breve]. ■ — 0. Keller, Notes critiques,
pp. 186-187 [1. Anecdota Bernensia, ed. Hagen, p. 187t si cor-
regga ÙTTÒ TTavTi (YPOPANTI del ms.) in ÙTraTravTri 'processione'
termine tecnico usato a designare una festa istituita dall'impera-
tore Giustino il trace. — II. Alexand. Aphrodis., problem. 2, 16
(ed. Ideler, Physici et medici gr. min. 1 p. 58): si legga cpoi-
WKec, Kaì TrepCiKoi. La congiunzione è aggiunta dal K. — III. Orose,
VII, 9, 14: si restìtuìscdi Èesbii 0 Vesbii {Vesbtus e Vesuius nomi
del Vesuvio)].—!. Chauvin, Phèdre,n, 9, 2. pp. 188-190 [Pro-
pone di leggere, e dimostra lungamente il perchè: 'Reperire efFu-
gium alteri US succurrit malo'. 1 mss. hanno quaerit, e ne risulta
falso il verso, donde già vari tentativi di correzione, tra' quali i
più noti semplici trasposizioni di parole]. — pp. 191-203 Bulletin
bibliographique : G. Lafaye, Quelques notes sur les Silvae de
Stac e [J. Chauvin. Lavoro importante]. — Thucydides, Booh III
edited with introduction and notes by A. W. Spratt [E. Chambry.
Eccellente]. — G. Schmidt, De Fìavii Josephi elocutione obser-
vationes criticae [J. Viteau. Breve notizia]. — J. J. Hartman,
De Terentio et Donato commentatio [Ph. Fabia. Tolto il secondo
capitolo, tutto il resto non valeva la pena d'essere scritto]. —
P. C. Taciti Ab excessu divi Augusti quae supersunt... par. L. Cox-
STANS et P. GiRBAL I-VI [Lo stesso. In complesso favorevolissima].
— Anihologia latina. Pars poster ior : carmina epigraphica con-
legit F. Buecheler, 1 [G. Lafaye. L'opera è degna dell'autore].
— Cassii Dionis Cocceiani Historiarum romanarum quae super-
sunt edidit V. Ph. Boissevaix, I [i)X. Lavoro coscienzioso].
Berliner Studien ffir classische Philologie und Archaeologie.
Neue Folge, I, 1-4. 1897. — C. Valeri Flacci Setini Balbi
Argonauticon libri octo enarravit P. Laxgen [Voi. I. Praefatio
pp. 1-4. — {Introduzione): cap. I, Breviloquentiae Valerianae
155
exempla notabiliora, pp. 5-9. — cap. II, De notionibus vocabu-
lorum et locutionibiis minus usitatis, pp. 10-13. — cap. Ili, De
usu transitivo passivi tamquam medii graecae linguae, pp. 13-15.
— {Testo) lib. I-III. — Voi. II, lib. IV-VIII. — pp. 554-569:
Index nominum. — pp. 570-572: Addenda].
The journal of Hellenic studies. XVI, 1896. 1. — G. B.
Grundy, An investigation of the topography of the region of
Sphakteria and Fyìos^ pp. 1-54 [Gli studi fatti sul luogo dal-
l'autore durante un viaggio dell'agosto del '95 dimostrano che
Palaeo-Kastro non è l'antica Sphakteria, ne Agio-Nicolo l'antica
Koryphasion; bensì a Sphakteria corrisponde l'attuale Sphagia, a
Koryphasion l'attuale Palaeo-Kastro. Inoltre le notizie fornite da
Tucidide su la topografia della regione risultarono tutte esatte e
accuratissime]. — R. M. Burrows, Fylos and Sphacteria, pp. 55-
76 [Si occupa anch'egli della identificazione delle due località,
prendendo come punto di partenza le ricerche del Leake, e ne
conchiude che Sphagia è l'antica Sphacteria e Palaeo-Kastro l'an-
tica Pylos. 11 resultato ultimo è quello stesso degli studi del
Grundy: la constatazione dell'esattezza delle notizie di Tucidide
in proposito]. — W. Rìdgeway, What people produced the ohjeds
called 3Ii/cenaean? pp. 77-119 [Ecco in breve quali sono i re-
sultamenti delle indagini dell'autore. Secondo una tradizione co-
mune fra' Greci, tutti i luoghi della Grecia propriamente detta
e altre regioni, fra cui l'Asia Minore, l'Egitto, l'Italia e la Si-
cilia, dove sorgevano monumenti preistorici, avevano avuto per
primi abitatori i Pelasgi ; l'Attica e l'Arcadia non furono mai in
possesso degli Achei, e ciò è attestato dagli storici: se lo siano state
Orcomeno, Tera e l'Egitto non è possibile né affermare né negare.
— I Pelasgi abitarono Micene e Tirinto, luoghi occupati per
breve tempo dagli Achei prima dell'età di cui i poemi omerici
ci conservarono la memoria. — I Pelasgi innalzarono le mura e
le porte di Micene e gli edifizi di Tirinto, come concordemente
recano le testimonianze degli antichi. — Il palazzo di Menelao
a Sparta aveva ospitato prima i re di stirpe pelasgica, mentre
d'altra parte di quello di Alcinoo, nell'isola dei Feaci, Omero ri-
corda che era stato eretto da genti non achee. — Dedalo, l'au-
tore degli edifizi di Cnosso a Creta, era ateniese, cioè un pelasgico ;
e a un re pelasgico di Tirinto, Preto, Omero attribuisce l'invenzione
dell'arte della scrittura. — I segni scritti da Preto furono letti
in Licia, quando ancora non v'erano colonie greche nell'Asia; ciò
posto, si badi che su gemme di Creta e del Peloponneso, come
su vasi del Peloponneso stesso e dell'Attica si trovano segni di
scrittura perfettamente simili a quelli che furono trovati nel-
l'Asia minore e sui monumenti pelasgici o degli Haetei. — Le
antichissime leggende d'Io e di Danao, dei Ciclopi e di Bellero-
— 156 -
fonte, degli Argonauti e di Pelope attestano relazioni fra il con-
tinente greco e, rispettivamente, l'Egitto, la Licia e la parte nord-
ovest dell'Asia minore; all'incontro esse leggende non provano che
ci siano state relazioni fra il Peloponneso e i Fenici. — Da ul-
timo, tra la civiltà di Micene e quella descritta da Omero c'è
un gran divario. Conclusione : il popolo di cui si tratta fu pre-
acheo e preomerico; in altre parole, i Pelasgi]. — Fr. von Duhk,
Archaeological research in Italy cluring the last eiglit years,
pp. 120-142 (Traduzione della nitida esposizione del valente ar-
cheologo sull'interessante argomento. Com'è noto, la lettura fu
fatta dall'autore a Colonia il 27 settembre 1895 nel congresso
dei filologi]. — Talfourd Ely, Pompeian xyaintings and tlieir
relation to Hellenic master jjieces, with special reference to re-
cent discoveries, pp. 143-157 [Si occupa degli affreschi trovati
nella casa di Vettius a Pompei e specialmente di tre: Herakles
che strangola i serpenti, il supplizio di Dirke, cioè Dirke e il
toro, la morte di Penteo: il primo e il terzo si riportano ai quadri
corrispondenti di Zeusi, il secondo ricorda una pittura d'Ari-
stide]. — A. W. Werrall, TJie Megalithic tempie at Buto :
Herodotus li 155, pp. 158-163 [Se, come scrive Erodoto, il fa-
moso tempio di Buto consisteva di cinque monoliti, avrebbe ri-
portato il primato su quello di Sais, che egli stesso dichiara,
li 175, l'edifizio più meraviglioso. Ma le parole dello storico deb-
bono essere intese in altro modo, cioè la designazione èS évò<;
XiGou si riferisce alla trave di pietra che formava la cornice delle
pareti. La notizia di Erodoto è dunque errata soltanto per ciò che
riguarda i dati architettonici, né il luogo può essere addo'to come
prova della poca credibilità di lui]. — É. C. Bosanquet, On a
group of early Attic lehythi, pp. 164-177 [Descrizione di dodici
vasi del 480-430 av. C, quindi del periodo di pace succeduto
alle guerre persiane. Sono specialmente interessanti perchè rap-
presentano scene della vita domestica e per le loro iscrizioni]. —
J. L. Myres, Inscriptions from Crete, pp. 178-187 [Trentatre
iscrizioni copiate dall'autore nel luglio-agosto 1893 nei distretti
di Khanià, Kissamo e Selino]. — W. R. Paton and J. L. Myres,
Karian sites and inscrijìtions, pp. 188-236 [Contributi preziosi
alla topografia della Karia, con l'aggiunta di 36 iscrizioni karie.
È un resoconto delle esplorazioni del 1893-94].
Milano, dicembre 1896.
Domenico Bassi.
I
— 157 —
Eevue des études grecques, piiblication trimestrielle de VAsso-
ciation pour Vencoiiragement des études grecques. Tom. IX,
n" 34. Avril-Juin 1896. — Paris, Ernest Leroux éditeur.
I. Statuti ^qW Association pour V encouragement des Études
grecques en France. — IV. Norme per conferire ed acquistare
la médaille de V Association. — V. Souscription permanente pour
la publication des Monuments grecs. — VI. Assemblée generale
du 21 Mai 1891. — Discours prononcé par M. B. Bikélas, pré-
sident. — XII. Rapport de M. Faul Girard secrétaire sur les
travaux et les concours de l'année 1895-96 (su A. Croiset, Histoire
de la littérature grecque IV, E. Pottier, Catalogue des vases an-
tiques du Louvre, N. Navarre, Dionysos, S. E. Hamdy Bey e
Tlì. BeinacJi, Une nécropole royale à Sidon, P. Masqueray, Théorie
des formes lyriques de la tragèdie grecque). — XXVI. Concours
de typographie grecque (premi a compositori e novizi-compositori).
— XXVIII. Rapport de la Commission administrative (il bilancio
del 1895 dà attivo L. 8485, passivo 8,482,50. — XXXVl. Membres
fondateurs de l'Association. — XXXVl. Membres fondateurs pour
les Monuments grecs. — 169. H. Weil., Un monologue grec ré-
cemment découvert (su dì un frammento pubblicato dal Grenfell
in An Alexandrian erotic fragment and other greek papyri chiefly
ptolemaic, Oxford 1896 — un'amante abbandonata va alla casa
dell'amato per tentare una riconciliazione. — Il frammento è in
prosa ritmica, dove si incontrano dei docmii. Fu scritto su di un
papiro non molto posteriore al 173 a. C. 11 Weil corregge e sup-
plisce la lezione del Grenfell.) — 175. jB. Bareste, Un document
juridique de 1' epoque Romaine (n° 388 del Corpus papyr, do-
cumento del 200 d. C.) diremmo un rendiconto giudiziario per un
processo contro dilapidazione a danno di minorenne. Al testo greco
il Dareste fa seguire la traduzione in francese. — 186 Th. Eei-
nach, deux fragments de musique grecque (Kormasia e Canon
hypolidius, studio sui mss. (due famiglie), testo, studio compa-
rativo coi cenni di Alipio e colla musica moderna — due facsi-
mili). — 216 H. Belehaye, Une épigramme de l'Anthologie grecque
(1, 99, studio patristico, cfr. colla vita di S. Daniele stilita, ri-
costituzione del testo). — 225 G. Castellani, Un traité inédit en
grec de Cyriaque d'Ancóne (trattato dei mesi romani, scritto nel
1448 a Sparta). — 231 H. Lechat, Bulletin archéologique (ampio
rendiconto degli scavi). — 306 Correspondance grecque. — 310
Actes de l'Association. — 313 Comptes-rendus biblìographiques
(di 57 opere).
158 -
Hermes, Zeitschrift tiir classische Philologie herausgegeben von
Georg Kaihel und Cari Robert. Einundreissigster Band. |
Viertes Heft, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1896.
481 B. Niese, Ziir Geschichte des Pyrrhischeii Krieges. —
508 B. Keil, Zur delphischen Labyadeninschrift. — 518. K. J.
Neumann, Polybiana (Wie ist Polybius zu seiner Datiriing des
ersten Vertrages zAvischen Kom und Karthago gekoramen? — da
Catone — pubblicò i primi 15 libri a parte, prima di finire l'opera).
— 530 G. Robert, Die Scenerie des Aias, der Eirene und des Pro-
metheus (sei possibili distribuzioni delle parti fra gli attori, per
l'Aiace, critica sui risultati del Bethe [Prolegomena zu einer Ge-
schichte des gr. Theaters], specialmente circa l' impiego dell'èK-
KUKXriina, del cui uso si parla anche rispetto alla Pace d'Aristo-
fane: altre questioni pel Prometeo di Eschilo). — 578 H. F.
Kàstner, Pseudo-Dioscoridis de herbis femininis (cenno e classifi-
cazione dei mss. Pubblicazione di LXX capitoli), — 627. P. Stengel
Gueiv und 6ùe09ai — lepuuauva und 0€O|Liopia (studio lessicale
e sinonimico). — 643 W. Dittenherger, Der Brief des Kònigs
Dareios (pubb. dal BuUetin de correspondance Hellénique XIII
(1889), p. 529). — 647 F. Skutsch, Cuias fuerit Firmicus. —
G. Ttirk, èviauTÓ? = Jahrestag.
Leipziger Studien zur classischen Philologie herausgegeben von
0. Ribbeck, H. Lipsius, C. Wachsmuth. Siebzehnter Band,
Zweites Heft, Leipzig, Verlag von S. Hirzel 1896.
275 M. Thiel, quae ratio intercedat Inter Vitruvium et Athe-
naeura mechanicum [Aut Vitruvius usus est Athenaeo auctore aut
utrique subest communis fons — Athenaeum posterioris aetatis
esse quam Vitruvium dictione eius apparet -- Etiam alia ratione
adducimur ut communi utrumque usum esse fonte censeamus (di-
versa ampiezza di taluni luoghi) — Quid ei uterque debeat ac-
curatius definitur. Communis auctor fuit Agesistratus — Athenaeus
fortasse idem est ac Gallieni imperatoris architectus — Symbolae
criticae — Agesistrati quae esse visa sunt ex Athenaei et Vi-
truvii libris eximuntur et cousociantur]. 329 E. F. BiscJwff, Bei- .j
tràge zur Wiederherstellung altgriechischer Kalender [der Ka- |
lender von Pergamon und der asiatischiiolische Kalender]. — |
339 E. Martini. Quaestiones Posidonianae (de vario usu vocabu-
lorum laetéujpa et luexàpaia observationes — de separanda Posi-
donii de rebus caelestibus doctrina (da Plinio, Achille, Gemino,
Cleomede) — Peroratio qua demonstratur a Cleomede profici-
scendura esse Posidonii de rebus caelestibus doctrinae rudera in-
I
— 159 —
dagaturis). — 403. J. H. Lipsius, Procheirotonie und Epicheiro-
tonie (Arisi 'A0riv. TToX. 43, 6 osservazioni allo studio fattone- dal
"Wilamowitz (Aristot. und Athen. II, 13).
Neue Jahrbuecher fiir Philolooie und Paedagogik, herausge-
geben unter der verantwortliclien Redaction von Dr. Alfred
FlecJceisen, Professor in Dresden, und Dr. Richard Richter,
Rektor und Professor in Leipzig, — LXVI Jahrgang. 153
und 154 Band, 9 u. 10 Heft Ausgegeben am 24 November
1896. Leipzig, Druck und Verlag von B. G. Teubner 1896.
577. H. Pomtow , Die dreiseitige basis der Messenier und
Naupaktier zu Delphi (forsetzung von s. 505-536 — ampio studio
storico epigrafico, consono a precedenti lavori del Pomtow pub-
blicati nel Philologus e nei N. Jahrb. ed ottima preparazione al
futuro Corpus Inscriptionum delphicarum) — 640 H. Crdmer,
Zu Ovidius ex Ponto (ex P. IV, 16, 33. Leggere Tityrus
pastorque) — 641 F. Heuss, die chronologie Diodors (ampio e
minuto) — 671 F. Reuss, zu Livius (l, 17, 1 leggere in novo
populo per vim adfectahatur ; inter eie. 1,21, 1 non proximo
ma prò solito o sollicito; I, 54, 5 paene non prae', 11, 30, 1
aggiungere eam dopo sententiam; XXI, 5, 4 non iugendoque
ma iugandoque\ XXII, 1, 16 non quemadmodum cordi esset ma
q. curanda esse e; XXII, 6, 9 non adinique ma ad iniquum;
XXII, 16, 3 non lenta pugna ma laeta p.\ XXII, 17, 1 non
nocte ma ortis.) — 673 H. Welzhofer, der riickmarsch des Xer-
xes (non rassomiglia alla ritirata di Napoleone da Mosca) — 679
H. Stadler, zu Theophrastos trepi cpuTUJV icJTopìaq (difende contro
A. Schòne KpdinPri in I, 3, 1 e propone in I, 10, 1 : è'xei òè oò
Trdvra oùòè toOtov. xà ò' è'xei |uèv oìik del bè àW èTréieiov
oiov evia toiv -rroiujbuùv Kaì oOa xpoviourepa TaT(; pilaxq. — 1,
12, 2 non yàp ma bri; III, 5, 2: èqp' fnuépav bè luiav aùSTi9eT(Ja
èàv Ù7TÒ ToO Kaù|uaTO(; XricpOrì Erjpà Yivetai Kaì àvauEn? cttì tò
|neTZ!ov TtXfiv if\c, TritToeibouq. biÓTiep Tivèq aùtujv où iiieTZov
exoucTi Kud|aou tò )LiéTe6oq' èTiveto YÒip dv fieiZiujv tlù jne^éGei)
— 681 A. FlecJceisen, zu Plautus Aulularia (159 sed és tu natu
grandior : mediasi mulieris aétas ; 161 spiegato — dati i vv. 120-
177) — 684 J. U. Schmalz, zu Caesar de bello gallico (I, 40, 14
spiegat.). 685 E. Hoffmann, der Untergang der Fabier am Cre-
merà, zu Ovidius fasti II, 195 fF. (il v. 200 va dopo il 203;
V. 201 preferibile dextra a dextro) — 689 J. Lange, Ueber die
congruenz bei Càesar (molte congetture).
— 160 -^
Jahrbuecher fuer classischen Piiilologie herausgegeben von
Di: Alfred Fleckeisen Professor in Dresden. Drei iind zwan-
zigster Supplementband. Erstes Heft. Leipzig, Druck und
Verlag von B. G. Teubner 1896.
1. J. GeffcJcen, Leonidas von Tarent (Eigentum des Leouidas,
Text, Kommentar, Riickblick iind Zusammenfassung, Register:
Ampio e diligentissimo, l'elenco dei vocaboli contiene solo i prin-
cipali, ma consta di 30 fitte colonne). — 165. E. BiUrich, Cal-
limachi Aetiorura librum l, prolegomenis, testi moniis, adnotatione
critica, auctoribiis, imitatoribus instriixit (minuto e completo) —
221 J. TolMehn, de Homeri auctoritate in cotidiana Romanorura
vita (nelle scuole grammaticali e retoriche, in casi singoli, locu-
zioni proverbiali, nelle lettere, nei discorsi e nei conviti, nomi
omerici di Romani e Romane — studio letterario ed epigrafico).
Byzantinische Zeitschrift herausgegeben von Karl Krumhacher
a. 0. Professor an der Universitàt zu Miinchen. Ftinfter
Band, drittes und viertes Heft, ausgegeben am 1 September
1896. Leipzig, Druck und Verlag von B. G. Teubner, 1896.
285 C. Brockelmann, die armenische Uebersetzung der Geo-
ponica (sembra che dia il testo di Anatolio nella forma originaria)
— 410 R. Wuenscìi. zu Lydus de ostentis (dal ms. Paris, suppl.
gr. 20, s. XVII, cod. reg. 1113, Ambr. E, 81 sup. s. XV —
derivati da trattati di brontologia, uniti di solito ai calendari) —
422 C. E. Gleye, Beitrage zur Johaiinesfrage (ricerche di cro-
nografia bizantina) — 465 A. Burckhardt, der Londoner Codex
des Breviarium der Nicephoros P. (descrizione, relazione, classi-
ficazione dei mss.) — 478 J. Driisehe, zu Photios' Bibliothek
Cod. 1 (l'autore dell'opera sembra Geuubopot; TTpea3ÙTepo(; di ^
Palestina) — 481 L. Voltz, Zu dem TTapdòeiaog des Ioannes %
Geometres (indicaz. di edizione e codici che attribuiscono l'opera
a Nilo) — 484 K. Praechter, die romische Kaisergeschichte bis
auf Diokletian in cod. Paris. 1712 und cod. Vat. 163 (descri-
zione dei mss. estratti sugli imperar, e loro confronti con altri
dati storici). — 538 M. Trew, Manuel Holobolos (biografia, indici
delle opere ed in quali mss. si trovino) — 560. J. Sturm, Fran-
ciscus graecus, ein unbekannter Handschriftenschreiber des 16
Jahrhundert (lettere di F. G. dal Vat. gr. 1898 — era addetto
al seguito di un cardinale, trascrisse opere di Libanio — in re-
lazioni coi cardinali Niccolò Ridolfi, Giovanni Salviati — era un
greco colto) — 565 S. P. Lamjìros, Zwei Berichtigungen und
Ergiinzungen zu Rallis Potlis, e Ein griechisches Palimpsest in
Wien (cod. Phil. CLVIII traccie di scritture anteriori apparte-
Ài.
- 161 -
nenti a varie età) — 567 P. Orsi, Iscrizione bizantina della
Sicilia (facsimile — proveniente da Sanmichele (?) — coli 'iscri-
zione: 0eò^ TrpóaòeHai i\xò\f tò 9u|uia)Lia toO TTouaaxàpou TTp[e-
pUT(épou)]) — 570 J. B. Bury, A Greek Wort in the Liber
Pontificalis (Vita di Costantino Papa voi. 1 p. 391 ed. Duchesne,
non hotarea ma cibotarea =^ Kipuutàpia) — 573 J. Braseke, Ziim
Kircheneinigungsversuch des Jahres 1439 — 587 II Abteilung
(recensioni). — 613 III Abteilung (ampio notiziario sistematico).
CoMMENTATiONES PHiLOLOGAE Jenenses. Edideriint seminarli philo-
logorum Jenensis Professores. Voluminis Sexti fasciculus prior.
Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri MDCCGXCVI.
1. TJi. Krieg, Quaestiones Kutilianae (duos de schematibus
lexeos libros qui Éutilii nomine etiaranunc exstant ex ipsius
Rutilii manu profectos esse demonstratur — genuina totius libri
Eutiliani forma restituitur — il titolo dell'opera era: P. Rutilii
Lupi schemata lexeos et dionoeas — quae Inter Rutilium et
Gorgiam intercedat ratio explicatur: non attinse interamente da
G., non usò traduzioni latine) — 49 G. Siefert,de aliquot Plu-
tarchi scriptorum moralium compositione atque indole (tt. €Ù6u-
)nia^, rrepl qpuYiìq, tt. àp6Tfi(g Km KaKiaq, tt. TÙxn*;» ei òiòaKTÒv
fi àpeiiT, TTÓtepov Tà Tfi<; H/uxn<s r\ m toO aouinaTO? TTaOii xei-
pova, eì aiJTdpxr|(; n KaKia npòc, KaKobaiiuoviav, kuj^ àv ti^
maGoiTO éauToO TrpoKÓnTOVTog, Ttepì Ttìq r|eiKfj(; dpeTfì(;).
Nachrichten von der Konigl. GesellscJiaft der Wissenschaften
m Gòttingen — Philologischhistorische Klasse, 1896, Heft 2.
— Gòttingen, Commissionsverlag der Dieterichschen Verlags-
buchhandlung, 1896.
102 P. Keìir, Ueber die Chronologie der Briefe Pabst Pauls I
im Codex Caroliuus (dall'aprile 757 al 767) — 158 U. v. Wila-
moivitz-Moellendorff, die Amphikionie von Kalaurea (studio storico
su epigrafi) — 171 M. LeJimcuin, Denkwiirdigkeiten des Frei-
herrn von Stein auf dem Jahre 1812 — 191 F. Leo, die Staatsrecht-
lichen Excurse in Tacitus' Annalen (ce n'è una serie intera ed
importante per la storia del diritto: per le fonti di XII, 23 cfr.
l'editto censorio di Claudio (49 d. C.) — di XIV, 20, 21 cfr. Teo-
frasto; ma non si può indicare quale fosse precisamente l'opera
onde Tacito attinse).
Torino, dicembre 1896.
C. 0. z.
Rivisla di filologia, ecc., XXV.
- 162 -
Bollettino di filologia classica, ann. Ili; N. U C. 0. Zuretti,
Aescìiinis orationes cur. Fr. Blass (edizione ottima). — Ii>.,
Leges Graecorum sacrae edd. J. de Prott, L. Zieìien, /(Rac-
colta utilissima per rillustrazione del culto greco). — L. Val-
maggi, E. Stampini, Il suicidio di Lucrezio (Confuta acuta-
mente e vittoriosamente le conchiusioni del Giri [Il suicidio di
T. Lucrezio, Palermo 1895]) — Id., G. Borghesie, Il primo
libro delle storie di T. Livio (Disegno utile alle scuole). — Id.,
C. Martha, Mélanges de littératiire ancienne (Lodi: qualche
rettificazione). — Comunicazioni : F. Eusebio, Sopra un'emenda-
zione del Baehrens a un verso di Cn. Mazio (L'A. difende la
lezione tradizionale del framra. 8 del Baehrens [an maneat spedi
simulacrum in morte silentum\, contro la correzione in nocfe si-
lentum, non punto necessaria al senso). — P. Ercole, Si può
credere romano Tacito ? (Nessuna testimonianza esclude che Ta-
cito sia romano, ma anzi dalle testimonianze stesse appare più
probabile che egli sia nato a Roma che in qualunque altra città
della penisola). N° 5 : C. ' 0. Zuretti, ApoUonius von Ki-
iium illustr. Komm. zu der Hippokrateischen Schrift -rrepì ap-
Gpujv hgg. v. H. Schone (Splendida edizione). — L. V., Sereni
Antinoensis Opuscula ed. I. L. Heiherg (Lodi). — C. Gius-
sani, G. Giri, Ancora del suicidio di Lucrezio (Il ree. non ne
approva le conchiusioni). — A. Cima, U. Nottola, La similitu-
dine in Cicerone (Lodi con rettificazioni e discussioni particolari).
— A. Corradi, Horatii Satirae, Epistolae. Ree. e note di
G. Bridi (Favorevole; qualche critica nei particolari). — Comu-
nicazioni : F. Eusebio, Sopra un'emendazione del Baehrens a un
verso di Cn. Mazio (Continuazione e fine dell'articolo precedente).
— — N° 6: G. Fraccaroli, Ludtvich, Die homerische Batra-
chomachia des Karers Pigres (Favorevole, con molte osservazioni
e rettificazioni particolari). — C. 0. Zuretti, Pindari Carmina
ed. W. Christ (Lodi). — A. Cima, Manfredi, Il rinnova-
mento degli studi ellenici (V'è del buono, ma con molte mende
e stranezze). — D. Bassi, A. De Marchi, Il culto privato di
Poma antica. I. (Lodi). — Comunicazioni : C. 0. Zuretti, Euripide
fr. 773, V. 3 (Propone: aiioO ti xPTl^^iq ev iTè'pa YÒtp oO
eéiaiq I Xa3eiv ere* koìv |aèv ruYXÓvric; éXubv ròbe, eeoO iré-
qpuKa<s ■ eì òè |ur|, i|jeuòfi(g èyuu). — Id., Horat. Epod. 10, 2,
olentem Mevium {Olentem è da tradurre non con «repugnante»
ma con « fetente ». Ibid. v. 16 pallor luteus è « pallor verde »
0 « pallor livido »). — L. Valmaggi, Ancora sul luogo della
battaglia di Bedriaco (La congettura proposta dall'A. circa il
luogo di questa battaglia, che dev'essere stato a oriente di Cre-
mona sul confluente dell'Arda col Po, è confermata dal fatto che
in passato l'Arda ebbe nel Po una sua propria foce, ancora at-
testata al presente da un braccio di Arda morto).
I
- 163 -
lìassegna di antichità classica, voi. I; fase. 2: G. M. Columba,
Le fonti di Giulio Solino (Continuazione e conchiusioni: la teoria
delle fonti di Solino quale fu stabilita dal Monomsen è inaccet-
tabile. Solino attinse direttamente a Plinio, specialmente nella
parte polistorica, ma in misura minore che non parrebbe dalla
corrispondenza verbale tra l'opera sua e l'enciclopedia di Plinio.
Quanto a Mela, vi ha ragion di credere che esso non sia stato
nelle mani di Solino durante la compilazione dei Collectanea. La
Cliorographia Pliniana supposta dal Mommsen non è mai esistita:
invece l'esame dei rapporti tra Mela e Plinio e Solino ed Am-
miano ci riconduce ad un'opera anteriore alla Natur. hist., che
dalle fonti romane donde sembra in buona parte derivata potrebbe
essere detta « corografia varro-sallustiana », e che fu la fonte tanto
della Nat. hist. quanto, indipendentemente, di Solino, il quale
anzi la rappresenta anche piìi fedelmente di Plinio. 1 frammenti
di Giuba comuni ai due scrittori derivano esclusivamente dai
Collectanea), — G. Giri, Ancora del suicidio di Lucrezio (Com-
batte lo studio dello Stampini \_Pàv. di st. ant. I, 4°J contro le
conchiusioni dell'A. nella prima monografìa sul suicidio di Lu-
crezio, che il Giri crede mera leggenda). — Id. Sul primo libro
delle elegie di Properzio (Continuazione: discute la lezione e l'in-
terpretazione di 5, 3; 6, 13 sgg.; 31 sgg. ; 7, 13 sgg. ; 8, 7 sgg.;
11 sgg.; 21 sgg.). — G. Melodia, Cicerone, Tuscul. V, 16, 47
(In difesa della lezione vulgata princeps ille philosophiae, voluta
correggere dal Boot [Mnem. '95, 215]). — A. Mancini, Euri-
pidea (Discute la lezione di molti passi ^oiVElena, ^q\V Hercul.
264 sgg. e del fr. 187 Nck.). — Miscellanea: G. Melodia, Ovidio,
Metam. Vili 709-710 (Contro la correzione di nec in ne). —
Id., Tacito, Agrippa, V (Si legga Agric, V: interpretato dei
codd. è la lezione buona). — Id., Gellio, X V, 12 (Ancora in di-
fesa della lezione mss.). — N. Pirrone, Dìtcb v. 7 (Difende la
correzione cuncta del Éeins e del Bàhrens). — G. Melodia, Gli
studi più recenti stdla biografia di Lucrezio. — G. Kirner, A
proposito dei processi degli Scipioni (Sugli « Studi romani » di
C. Pascal).
EJieinisches Museum, n^ s*', voi. LI; fase. 4°: R. Foerster, Zur
HandschriftenJcunde und Geschichte der Philologie. IV. Cyriacus
von Ancona zu Strahon (Sulla storia della prima parte di un
ms. straboniano di Ciriaco, ora conservato nel Collegio di Eton
(la seconda parte è nella Laurenziana), con copie di 11 iscrizioni
e altre note marginali). — Th. Bikt, De Properti poetae testa-
mento (Osservazioni critiche-esegetiche a li, 13 B, 17 sgg.). — Id.
De Francorum Gallorumque origine Troiana (Le traccie di questa
leggenda per i Galli, e specialmente per gli Edui, si riconducono
fino al tempo di Cesare: in Prop. II, 13 B, 48 la lezione buona h
Gallicus (codd.) Iliacis miles in aggeribus). — V. Kyssel, Neu
— 164 -•
aufgefundene graeco-syrishe Pliilosophensprucìie ilber die Seele
(Traduzione delle sentenze del ms. del Sinai e delle due rac-
colte in Sacliau, Ined. Syr.). — 0. Crusius, Excurse zìi Virgil.
\. Entstehìing und Composition der 8. Ekloge {Contro l'ipotesi del
Bethe [Eh. Mus. XLVII, 590 sgg.] circa la composizione delle
parti dell'egloga: questa poi fu scritta nel 39 a. Or., al ritorno
di Pollione dalla spedizione contro i Parti; e appartiene perciò
alle parti più recenti della raccolta). II. Zar 4. Ekloge (Nel v. 6 2
si legga con Quintiliano qui non risere parenti. Virgilio ha se-
guito una specie di canto della Sibilla; il puer nascens è con-
cepito come uno sconosciuto beniamino della sorte, che devB ri-
condurre l'età dell'oro). — H. Pomtow, Delphisclie Beilagen. I.
Die Jalire der Herrschaft des Peisistratos (I numeri dati da
Aristotele neU"Ae. ttoX. sono guasti). II. Die Batierung der VII.
PytJdschen Ode Pindars (486 a. Cr.). — J. Ziehen, Textkri-
tisches zu Ciceros Briefen. — L. Kader:macher, Ueher den Cy-
negeticus des XenopJwn (Prima parte di uno studio contro l'au-
tenticità). — Miscellen : H. Weber, Zu Ariston von Chios (Cerca
di provare che lo storico Aristone è l' imitatore di Pione). —
E. ZiEBARTH, Zur Epigraphik von Thyateira (Osservazioni sulla
tesi di M. Clerc, Be rebus Thyatirenorum comm. epigr.^ 1893).
— W. ScHWARZ, Bie Reptanomis seit Hadrian (11 Nomos di
Arsinoe non appartiene alla città di Arsinoe sul mar Rosso, ma
bensì all'omonima presso il lago Moris). — A. Iìiese, Za Statius'
Silven IV, 3 (Propone Flaviumque clavum). — M. Ihm, Zu
Augustins Confessiones (In Vili, 2, 3 si legga inspirahat popuìo
Osirim). — F. B., Be inscriptionihus quibusdam cJiristianis.
Archiv fiir lateinische LexikograpJiie und Grammatik, voi. X,
fase. 1 : E. Wòlfflin, Ber reflexive Gehrauch der Verha tran-
sitiva (su recipere; accingere; derigere; vertere e composti ; flectere
e taluni composti come deflectere, e altri verbi nell' uso del lin-
guaggio militare; poi aequiperare; applicare; lavare; liabere ^=
eu ex€iv; e altri del latino seriore). — le, Ber Infinitiv memi-
nere (Ne è una traccia in Servio, ad Aen. Il, 13). — 0. B.
ScHLUTTER, Beìtruge zur lateiniscJien Glossographie (Discute varie
lezioni di glosse). — S. Brandt, Oculis contrectare (A proposito
di Lattanzio, Be opif. Bei 1, 15 discusso da C. Weyman, Ardi. Vili,
405 e W. Heràus, Ardi. IX, 596). — J. v. d. Vliet, Incommo-
ditas (Nella S. Silviae Peregrin. ad loca sancta p. 19. v. 1, si
deve leggere nam cuicumque incommoditas fuerit). — Id., Uelum
■= nauigium, ratis (A conferma del lat. volgare uelum = na-
vigium 0 veìiiculum adduce il sostantivo velatura, che si incontra
in Varrone R. R. 1, 2, 14 e L. L. V, 43). — S. G. Stacey, Bie
Entwickclung des livianisdien Stiles (Rapporti e riscontri formali
di Livio con Ennio, Virgilio, Lucrezio, Tibullo, Orazio e altri
— 155 —
poeti: la loro influenza è massima nella prima decade, e minima
per contro nella quarta e nella quinta. Esame delle forme sosti-
tuite alle poetiche in queste altre decadi nella morfologia, nel
lessico (prefìssi e suffissi) e nella sintassi. Formule di citazione
di Livio). — H. Stadler, Lateinische Pflanzennahmen ini I)io-
skorides (Spoglio dei nomi di piante, sin qui sconosciuti ai les-
sici, contenuti nei mss. Viennesi, Bizantino e Napolitano di Dio-
scoride). — Fr. Schòll, Gio (Nel frammento del Brut, di Accio
in Varr. L. L. V, 80 si legga consul ciat). — Id. Lato (Su Varr.
L. L. VII, 16), — T. M. AuRACHEK, Die Berner Fragmente des
lateinischen Bioshorides. — E. Wòlfflin, Pone und post (La
differenza arcaica tra pone locale e post temporale è ripresa in
parte da Tacito e da Svetonio). — 0. Hey, Accipio (Articolo di
lessico). — E. Wòlfflin, Zur Leìire vom Imperativ (Doppio uso
arcaico dell'imperativo nelle Xli tav.). — Id. Accognosco — Ac-
comodus (Articoli di lessico: accognosco, accoìa^ accolanus, accolo,
accomitor, accommodate, accommodatio, accommodatwus, accommo-
dator, accommodatus, accommodus). — Miscellen : E. Lattes, Vi-
henna, Vivenna [Lsl prima forma è la più corretta). — Fr. Weih-
RICH, Eversuiri (La forma, che occorre in Agost. Be cons. evang. 399
è da aggiungere a quelle già note di inf. fut. in -uiri). — Id.,
Perspicivus (Dubita che questa forma sia un errore di copista in
Agost. Be cons. evang.). — P. Geyer, Praesens = fiyoùiaevo?
(Non crede possa riconoscersi questo uso di praesens nel passo
di Porfirione allegato dallo Stowasser [Xenia Austr. 186]). —
H. Blasé, Zu amabo (Rettificazione all'articolo inserito in Arch.
IX, 488). — E. Wòlfflin, Sponte sua (Esempi in prosatori an-
teriori a Plinio il vecchio). — Id. Temere ein Tribracìiys (In
Plauto, Bacch. 922 e Trin. 740). — Litteratur 1895. 1896.
Bullettino della Commissione Archeologica comunale di Poma,
ann. XXIV; fase. 3°: G. Gigli, Bue incisioni votive (Iscrizioni
di due basi marmoree, una greca e l'altra latina). — Fr. Cera-
soli, / restauri alle colonne Antonina e Traiana, ed ai cavalli
marmorei del Quirinale al tempo di Sisto V (Notizie attinte ai
registri dell'archivio segreto Vaticano). — G. Gatti, Le recenti
scoperte sul Campidoglio (Notizie più complete intorno alle sco-
perte già ricordate nel fascicolo precedente). — G. Pinza, Sopra
V origine dei ludi Tarentini o saeculares (Si propone di dimostrare:
V che le feste al Tarentum erano in origine famigliari, e diven-
nero più tardi gentilizie; furono portate in Roma dai Valerli con le
prime emigrazioni dei Sabini nel Lazio, ed erano sacre a Soranus
e Feronia; 2° che. nel 505 furono celebrate dai decemviri, iden-
tiche nella sostanza a quelle più antiche, ma mutate nella forma,
e cambiato il nome alle divinità, essendosi Soranus e Feronia iden-
tificati con Dite e Proserpina; 3" che le feste antichissime che il
- 166 -•
popolo attratto dalla forma esterna e da cerimonie notoriamente
importate da Taranto disse naturalmente Tarantine erano cele-
brate nel luogo detto Tarenium dopo la celebrazione delle feste
del 505. Lo studio continuerà nel prossimo fascicolo).
Torino, dicembre 1896.
L. V.
PUBBLICAZIONI RICEVUTE DALLA DIREZIONE
AiscHYLOs Orestie griechisch und deutsch von Ulrich von Wilamowitz-
Moellendorff. Zweites Stùck (Da? Opfer am Grabe). Berlin, Weidiiiann,
1896, di pp. 268.
Ars tragica sophoclea cum shaksperiana comparata. On essay on the tragic
art of Sophocles and Shakspere by Lionel Horton-Smith. Cambridge,
Macmillan and Bowes, 1896, di pagg. XVn-146.
Selectet private orations of Demosthenes. Part li containing Pro Phor-
mione, Gontra Stephanum 1. 11.; Contra Nicostratum, Cononem, Cal-
liclem ; with introduction and english commentary by J. E. Sanuys.
Third edition, revised. Cambridge: at the University press, 1896, di
pagg. LXXll-286.
Mario Antimo Micalella. La fonte di Dione Cassio per le guerre galliche
di Cesare. Lecce, tipografia cooperativa, 1896, di pagg. 58.
Giorgio Castellani. Un traité inédit en grec de Cyriaque d'Ancóne (Extrait
de la Revue des études grecques. Tome IX, N» 34j. Paris, E. Leroux,
1896, di pagg. 8.
Plauti comoediae. Recensuit et emendavit Fridericus Leo. Volumen al-
terum (Miles Mostellaria Persa Poenulus Pseudolus Rudens Stichus
Tiinummus Truculentus Vidularia Fragmenta). Berolini apud Weid-
mannos, 1896, di pagg. 574.
JoH. Jos. ScHwiCKERT. Ein Triptychon klassicher kritisch-exegetischer Phi-
lologie. Leipzig und Wùrzburg, 1896, di pagg. 88.
T. Livi ab urbe condita libri. W. Weissenborns erklarende Ausgabe neu
bearbeitet von H. J. Mùller. Buch 1111 und V. Sechste Auflage. Berlin,
Weidmann, 1896, di pp. VllI-282.
CiCEROs ausgewàhlte Reden. Erklàrt von Karl Halm. Erster Band (Die
Reden fùr Sex. Roscius aus Ameria und ùber das Imperi uni des Cn. Pom-
peius). Elfte umgearbeitete Auflage besorgt von Laubmann. Berlin,
Weidm., 1896, di pagg. 168.
Sofocle. Elettra, con note di Domenico Bassi. Torino, E. Loescher, 1897,
di pagg. XV-124.
Martin Schanz. Geschichte der ròniischen Litteratur bis zum Gesetzge-
bungswerk des Kaisers Justinian. Dritter Teil: Die Zeit von Hadrian
_ 167 —
117 bis auf Costantin 324 (in Handbucli Her klassichen Altertums-
wissenscliaft di Iwan von Miiller). Miinchen, 189fi, di pagg. XlX-410.
Pietro Sciascia. L'arte in Catullo. Studio critico. Palermo, Reber, 1896.
di pagg. 254.
W. M. LiNDSAY. An introduction to latin textual emendation based on the
text of Piautus. London, Macmillan and Co., 1896, di pagg. VlI-131.
Franciscus Alagna. Observatione.s criticae in L. Annaei Senecae Herculem.
Panorrai, Reber, 1896, di pagg. 35.
Vittorio Manfredi. Il rinnovamento degli studi ellenici. Libro pel secolo
ventesimo. Torino, Paravia, 1896, di pagg. 196.
Umberto Nottola. La similitudine in Cicerone. Studio. Aosta, tip. Mensio,
1896, di pagg. 87.
Vincenzo Ussani. In difesa di Enea. Roma, Voghera, 1896, di pagg. 12.
— In Pervigilium Veneris coniecturae. Editio altera. Roma, tip. Voghera,
1896, di pagg. 8.
M. Tulli Giceronis in C. Verrem actio prima, comm. da V. Brugnola.
1896, Loescher, di pagg. XIX-36.
Omero. L'Odissea commentata da C. 0. Zuretti, 1897, Loescher, di pagg.
Vili- 100.
Wilhelm Schmitz. Miscellanea Tironiana. Aus dera codex vaticanus latinus
reginae Christinae 846 (fol. 99-114) herausgegeben. Mit 32 Tafeln in
Lichtdruck. Lipsia, Teubner, 1896, in-4°, di pagg. 79.
Foscarini Amilcare. Saggio di un catalogo bibliografico degli scrittori Sa-
lentini. Lecce, tip. Lazzaretti, 1896, di pagg. XVI -310.
Pescatori Giuseppe. Tavole per Io studio e per la ripetizione della gram-
matica greca (morfologia) ad uso degli alunni del ginnasio superiore e
del liceo. Livorno, R. Giusti, 1897, di pagg. 223.
M. TuLLii CiCERONts Gato Maior, de senectute. Erklàrt von .Julius Som-
merbrodt. Zwòlfte Auflage. Berlin, Weidmann, 1896, di pagg. 88.
Flavii Iosephi antiquitatum ludaicarum epitoma, edidit Benedictus Niese.
Berolini apud Weidmannos, 1896, in-4o, di pagg. X-369.
Grundriss der ròmischen Geschichte nebst Quellenkunde von D"" Benedictus
Niese. Zweite umgearbeitete und vermehrte Auflage. Miinchen, C. H-
Beck, 1897, di pagg. VIII-265.
Gregorius Zereteli. De compendiis scripturae codicum graecorum prae-
cipue Petropolitanorum et Mosquensiura anni nota instructorum. Acce
dunt 30 tabulae. Petropoli, typis Aeademiae Caesareae scientiarum
1896, di pagg. XLlII-226.
HoRATii Carmen tertium libri I. Edidit atque illustravit Salomon Piazza Dr
Phil. Patavii ex officina Seminarii, 1896, di pagg. 49.
Oreste Nazari. Del suffisso locativo -n nel greco e nell'antico indiano
Torino, Tip. Bona, 1896, di pagg. 12.
Ettore Ciccotti. Donne e Politica negli ultimi anni della repubblica romana
Un saggio. Milano, edito a cura dell'autore, 1895, di pagg. 48.
Giacomo De Gregorio. Sopra una forma d'infinito attivo nelle lingue clas
siche (gr. -aai, lat, -re, ind. -se (she) = ^ as -\- esp. dat. ai). Palermo
A. Reber, 1896, di pagg. 30.
— Ifi8 —
Giovanni Setti. Omero e la critica moderna. Prelezione ad un corso sulla
« Odissea » Omerica, Palermo, coi tipi del « Giornale di Sicilia », 1896,
di pagg. 29.
Aurelio-Giuseppe Amatucci. I funerali a Roma durante i primi cinque
secoli. Nota letta alla R. Accademia di archeologia, lettere e belle arti.
Napoli, tip. della R. Università, 1896, di pagg. 15.
Alessandro Arrò. Noterelle glottologiche. Torino, Glausen, 1896, di pagg. 47.
Enrico Cocchia. Note glottologiche. Memoria letta all'Accademia di ar-
cheologia, lettere e belle arti. Napoli, tip. della R. Università, 1896,
di pagg. 25 in-40.
Carlo Giussani. La questione del linguaggio secondo Platone e secondo
Epicuro (dalle memorie del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere,
classe di lettere ecc., voi. XX— XI della serie III. — Fascicolo II). Mi-
lano, Hoepli, 1896, di pagg. 39 (103-141) in-4o.
T. Lucreti Cari de rerum natura libri sex. Revisione del testo, commento
e studi introduttivi di Carlo Giussani. Voi. I. Studi Lucreziani. Voi. II.
Libro I e II. Torino, E. Loescher, 1896, di pagg. LXXXlI-284 e XI-297.
P. Ovidio Nasone. 1 Fasti illustrati da Riccardo Cornali. Parte 1. Lib. I e II.
Torino, E. Loescher, 1897, di pagg. XLVIII-102.
Gaetano de Sangtis. Saggi storico-critici. Fascicolo I. Roma, Unione coop.
editrice, 1896, di pp. 41.
Enrico Cocchia. La geografia nelle Metamorfosi d'Ovidio e l'Averno virgi-
liano (Memoria letta alla R. Accademia di archeologia, lettere e belle
arti). Napoli, 1896, di pp. 48, in-4«.
L. A. Michelangeli. Frammenti della Melica greca da Terpandro a Bac-
chilide riveduti, tradotti e annotati. Parte VI ed ultima (Pratina, Dia-
gora, Prassilla, Bacchilide) con aggiunte alla Parte V. Bologna, Zani-
chelli, 1897, di pp. VII-102.
Rivista di Storia antica e scienze affini diretta da Giaccmo Tropea, Mes-
sina, 1896. Anno II, Fascicolo I, di pp. 130.
The Glassical Review, voi. X, N. 7, 8, 9. London, D. Nutt, 1896.
Bollettino di filologia classica diretto da G. Cortese e L. Valmaggi. Anno III,
N. 7 (Gennaio 1897).
Cornelio Tacito. Il libro secondo delle Storie, con introduzione, commento,
appendice critica ed una carta geografica, a cura di Luigi Valmaggi.
Torino, E. Loescher, 1897, di pp. XL-208.
G. Lanzalone. Non programmi, ma uomini. Proposte. Salerno, 1896, di
pp. 44.
.Julius Beloch. Griechische Geschichte. Zweiter Band bis auf Aristoteles
und die Eroberung Asiens. Mit einer Karte. Strassburg, Trùbner, 1897,
di pp. XIIl-713.
Pietro Ussello. gerente responsabile
169 —
IN CLAUDII KUTILIl NAMATIANI
DE REDITU SUO LIBROS ADNOTATIONES METRICAE
Claudii Rutilii Namatiani (l) numeros tanta cum cura esse
perpolitos, ut is inter praestantissimos Romanorum versificatores
(1) De eius nominibus cfr. Lue. Muellenis 1. mox proferendo, p. viii,quem
sequor; Aiig. Guil. Zumptius, qui Rutilium praeponi iubet {Observat. in
Rut. Claud. Namat. carmen de reditu suo. Pars prior. Berol. 1836, p. 1 sqq.
et in eius edit. Berol. 1840, p. xx sq.); Io. Chr. Wernsdorfius (Poet. Lai. Min.
T. V, P. 1, Altenb. 1788 [non vero 1778, ut perperara scribit Muell. p. vii],
p. 7 sq.) qui, ut est etiam apud Petrum Burmannum (Poet. Lat. Min. T. II,
Leidae, 1731), prò Namatiano Numatianum scribi vult : quae scriptura est
etiam in editione Bononiensi, quam curavit Io. Bapt. Pius anno 1520 in
aedibus Hieronymi de Benedictis : huius autem editionis principis paene
deperditae est nova impressio editio Romana (1523), quae sic inscribitur :
De Roma prisca et nova varii auctores. Romae, eco aedibus lacobi Ma-
zochii. Etiam Aera. Baehrensius {Poet. Lat. Min. Voi. V, Lips. 1883, p. 3)
nomina jeius sic scribit ut Muellerus. Contra Guil. Sig. Teuffelius (Gesch.
der róm. Litt. neu bearb. von L. Schwabe, V A ufi. Leipz. 1890, p. 1164)
scriptura, quae erat in cod. Bobiensi et est in Vindobonensi, nisus ita no-
mina disponit ut Zumptius. Codicem autem Vindobonensem a Sannazario
ipso, ut videtur, ex Bobiensi exscriptum esse, demonstravit Car. Schen-
kelius in editionis Muellenanae censura {Zeitschr. fi'ir die òsterr. Gynin. XXII
[1871], p. 127 adn. 3). Cfr. etiam Car. Hosius in Textgesch. des Rut. (Rhein.
Mus. f. Pini. LI [1896], p. 197 sqq. Alterum autem codicem Rutilianum
nuper detexit Romae in quadam privati iuris" bibliotheca A. Elterus, qui
eius parvam facit mentionem in Rhein. Mus. (XLVI [1891], p. 112 sq.
adn. 2). Hunc quoque codicem saec. XVI ex Bobiensi fluxisse, ut maxima ex
parte cum Vindobonensi congruat, scribit idem vir doctus. Accuratissimam
eius collationem ac descriptionem, de qua cogitabat M. Siebourgius, perfecit
Hosius I. adi. p. 199 sqq. In hoc codice nomina sic exhibentur : Claudii
Rutila Poetae Z)i(sic)(= De — fortasse inscriptionis carminis initium). Hunc
eundem librum tertio quartove decennio post codicem Bobiensem inventum
(1494) scriptum esse, censet Hosius p. 200.
Jticisla di filologia, ecc., XXV. Il*
— 170 —
merito habeatur, rectum est Luciani Muelleri iudicium (1). Quod
cum ita sit, iure mireris, singularem librum adhuc desiderari,
quo in eius rem artemque metricam proprie ac subtilius inqui-
ratur, Quae enim panca Muellerus editioni suae, quam modo in-
dicavi, praefatus est (pp. xi-xii), quamquam illa quidem non
parvi pretii sunt et nobilissimo scriptore, qui universara rem me-
tricam poetarum Latinorum pertractavit, non indigna, tamen
eadem non eiusmodi esse videntur, ut dicas, buie toti quaestioni
abunde esse satisfactum. Quam rem ut ipse susciperem ac prò
meis viribus absolvere conarer, hac maxime causa adductus sum,
quod liber is, quem abbine annos prope tres de elegiae Latinae
compositione et forma scripsi (2), viam mihi ad id, quod spoeto,
quasi stravit ac munivit. Itaque eandem fere ad disputandum
ingressus rationem et ea exponam, quibus Rutilius Namatianus
a communi optimorum elegiae Latinae scriptorum consuetudine
non recedit, et ea non omittam, quae aut eius propria ac pecu-
liaria videntur aut quolibet alio modo ad eius versuum conden-
dorum artem r^ionemque declarandam magis conferunt. J^e au-
tem longiore, quam par est, sermone utar neve, ut est in pro-
verbio, cantilenam eandem saepius canam, in iis omnibus, quae
ad universam distichorura naturam, formam, historiam pertinent,
eos, qui legent baec, ad librum de elegiae Latinae compositione
et forma inscriptum, quera supra attuli, compendiis op. adi.
adhibitis, delegabo. Quae cum proposuerim, ad singula iam
accedam.
(1) Claudi! Rutili! Namatiani de reditu suo libri II. Accedunt Hadriani,
cett. Lips. 1870. Praef. p. xi. Gfi". etiam quae paulo supra (p. v) scripta sunt :
« Fuit homo (Namatianus) liberaliter eruditus optimisque poetarum exem-
plis innutritus, id quod et sermonis urbanitate nec minus elegantia
metrorura comprobatur cett. ». Gfr. Teuffel 1. adi. p. 1163: « (Das Ge-
dicht) in der Form sorgfàltig und rein »; Zumpt. I. adi. ed. p. 191:
« (poeta) diligentissiraus in rebus raetricis »; Schenkelius, 1. ad), p. 126 sq.
Alia antiquiorum horainum doctorum iudicia videsis in editione quam
cum selecta lectionis varietale atque integris notis Io. Georg. Graevii,
aliorum curavit Io. Sig. Gruberus, Norirab. 1804, p. xviii sqq.: quam Ru-
tili! editionem nescio quo pacto non commemorat Muellerus. Gfr. Wernsd.
I. adi. p. 66 sqq. et N. E. Lemairius {Poet. Lat. Min. Voi. IV, Paris. 1825,
p. 71 sqq.).
(2) Fatavi!, MDCGGXGIV.
- 171 —
I. — Primura id compertura exploratumque est, poetas Komanorum
elegiacos, ut pedum dactylicoriim inopiae, qua Latina lingua la-
borabat, occurrerent eamque ob rem taraquara raoUiorem expedi-
tioremque redderent stropham elegiacara, multa excogitavisse
atque fecisse; praeter alia, id quoque remedium buie incoramodo
quaesiverunt perficientes, ut et hexameter versus et pentameter
multo saepius a pedibus dactylicis quam spondiacis inciperent :
ex quo illud efficiebatur, ut dactylis in primis sedibus crebrius
collocatis versus elegiaci iam ab initio naturam suam dactylicam
declararent et numerus ipse, ut dactylicus coeperat, sic dactylicus
procedere videretur {op. adi. p. 117 sqq.). Qua in re Eutilius
paululum ab optimorum poetarum exemplo digressum esse, ex
iis apparet, quae nunc appono. In versibus enim 712 (1) initia
sunt dactylica 360, spondiaca 352, ut dici possit, utriusque ge-
neris initia fere exaequari apud Eutilium (init. dactyl. fere
50,56 °/o, init. spond. fere 49,44 *^/o): quod aliter se habet cum
apud Propertium, tum maxime apud TibuUum et Ovidium,
quorum hae sunt rationes :
Apud Propertium init. dact. 67,16 °/o, init. spond. 32,84 ^/q
.> Tibullum » » 79,38 o/o » » 20,62 %
» Ovidium » » 78,49 o/^ >. » 21,51 »/o-
Videsis oj). adi. p. 125.
Quod si quaerimus utrum hexametri an pentametri saepius a
dactylo quam a spondeo aut contrarie ordiantur apud Rutilium,
ea quae sequuntur rem explanabunt: initia enim hexametrorum
dactylica sunt 189 (i. e. 53,09 o/^^), spondiaca vero 167 (i. e.
46,91 o/o), cum initia pentametrorum dactylica sint 171 (i. e.
48,03 o/g), spondiaca vero 185 (i. e. 51,97 o/o): unde patet, hac
in re Kutilium, cum paulo maior sit numerus hexametrorum a
dactylo incipientium quam pentametrorum (ut pentametri contra
(1) Liber prior, cui nonnulla deesse in principio patet, continet versus 644;
liber posterior, qui vix est incohatus, constat ex versibus 68. Editione utor
Muelleriana. Librum autem posteriorem vix dee imam totius libri partem
esse putat Schenkelius 1. adi. p. 127.
- 172 -
paulo crebrius a pede spondiaco quam a dactylico initium capiant)
propius ad Ovidium quam ad Propertium Tibullumque accedere
(cfr. op. adi. p. 126 sq., ubi etiam huiusmodi collocationis Ovi-
dianae causas adferre studui).
Cum vero illud magnani haberet admirationera, Namatianum,
qui esset peritissimus versuum artifex, tam saepe in bexametro-
rum pentametrorumque capiti bus, spondeos collocasse (contra id
quod facere consuerunt elegiae Latinae principes) cumque mirae
huius rei causas quaererem, has esse inveniebam : Primum patet,
Kutilium, qua ipse erat et ingenii et honorum, quibus erat per-
functus, digiiitate, hanc tamquam viri gravitatem in versus ipsos,
ut ita dicam, transtulisse: non enim solum in hexaraetrorum
pentametrorumque principiis, sed etiam in versuum sedibus iis,
in quibus promiscue usurpari solent et dactyli et spondei (se. in
quattuor prioribus hexametri, duobus prioribus pentametri locis),
multo rarius dactyli quam spondei reperiuntur: quod hi numeri
docent: In pedibus enim 2136 (=356 disi X 6 = 2136) spondei
insunt 1176, cum dactyli non plures sint quam 960, ut inter
dactylorum spondeorumque numeros haec fere ratio intercedat :
0,82 : 1 (= dact. 44,94 ^/^ : spond. 55,06 o/o). Quae ratio longe
recedit a ceterorum elegiae Latinae scriptorum principum : taceo
enim Tibullum et eo magis Ovidium, apud quos dactyli cre-
briores sunt spondeis (— apud Tibullum haec est ratio: dact.
50,51 %: spond. 49,49 o/^; apud Ovidium haec: dact. 55,94 o/o :
spond. 44,06 "/o"» cfr. op. adi. p. 123), sed a Propertio ipso, apud
quem paulo maior sit numerus spondeorum quam dactylorum,
aliquantum differt Eutilius, cum illius ratio sit dact. 46,69 ^j^ :
spond. 53,31 o/^ (cfr. ibid.). Quid? quod adeo a Catullo hac in
re dissimilis est, apud quem cum paulo minus quam dimidio
superent dactylos spondei {op. adi. p. 76), tamen artificio ilio
praestat Rutilio dactylos in versuum capitibus collocandi : nam
Catulli ratio initiorum dactylicorum spondiacorumque haec est :
58,59 o/o : 41,41 o/^ {ap. adi. p. 77). Non iniuria igitur, cum id
numeris, quos attuli, comprobetur, adfirmare videor cum Luciano
Muellero, versus Rutilii paulo magis quam deceat poetam eie- ^
giacum (JTTOvbemZieiv, idque non solum, ut vult Muellerus, quod
- 173 -
« et quinto hexametri loco bis habeat spondeum et saepius primo
eiusdem mensurae vocabuliim disyllabum collocet » {praef. 1. e.
p. xi), sed etiam quia iidem cum universe tum in singulis capi-
tibus maiore copia spondeorum, quam principum elegiae scripto-
rum numeri, notantur.
Alteram causam versuum Rutilii spondeis abundaatium atque
interdum « cum magno pondere missorum » hanc esse statuerim,
quod ab eo elegia ad alias res tractandas translata est atque eo
usque maximam partem consuerunt poetae Latini : nimirum in-
tellegitur, genus poesis id, quod vel ad locos describendos vel ad
res narrandas pertinet, non illam orationis levitatem stropharumve
facilitatem et pedum expeditam ac profluentem quodammodo ce-
leritatem requirere, quae contra convenire videtur generi priori,
quo poetae vel minimos animi motus sensusque aperire solent,
dea illa dominante, « quae dulcem curis miscet amaritiem ».
Cum ad alia pergam, duabus de causis versus Rutilii paulo
magis quam deceat poetam elegiacum (JTTOvòeiàZieiv scrìpsisse
Muellerum modo vidimus: quarum unam in more Rutilii saepius
primo hexametri loco vocabulum duarum sj'llabarum spondiacum
coUocandi statuit vir doctissimus: sed hic, praeter ea, quae supra
dixi, id quoque peccat, quod tantummodo hexametrum intellegit,
cum contra Rutilii pentametri quoque, quod multo magis dis-
plicet (1), hac in re suis numeris non admodum absoluti sint :
nam pedes spondiaci ex singulis verbis constantes in capitibus et
hexametrorura et pentametrorum sunt octoginta, hoc est, cum
versus Rutilii sint 712, in centenis versibus fere undeni (ac-
curatius 11,23 °/o) ex singulis vocabulis duarum syllabarum spon-
diacis initium ducunt; cum vero ex locis illis 80 triginta
(1) Isidorus Hilberg., qui pentametrum Ovidii diligentissime perscrutatus
est {Die Gesetze der Wortst. im Pentam. des Ooid. Leipz. 1894), hanc
legem, praeter ceteras, statnit pentametro Ovidiano, qui instar omnium ha-
bendus est : « Làsst es sich nictit hindern, dass der erste Fuss des Penta-
meters ein Spondeus ist, so soli doch womòglich das Zusammenfallen von
Fussende und Wortende in diesem Falle vermieden werden » (p. 752, Ge-
setz, 7).
— 174 —
quinque (1) ad hexametros pertineant (= 4,91 %), sequitur, ut
aliquanto plures, quadraginta et quinque (2) (=6,32 o/^),
sint pentametri, quorum principia bisyllabis vocibus spondiacis
continentur (3): ut, si singulos hexametros (356) et singulos pen-
tametros (356) per se consideramus, in centenis versibus hexa-
metris fere noveni (rectius 9,82 %), in centenis contra versibus
pentametris fere duodeni (rectius 12,61 %) reperiantur, qui ex
pedibus duarum syllabarum spondiacis incipiant. Sed alia hic
sunt animadvertenda. Namatianus enim non solum multo crebrius
quam Ovidius ceterique hexametrorum pentametrorumque capita
vocibus bisyllabis iisque spondiacis distinguit, sed etiara, id quod
magis offendit, vel utrumque unius alterius distichi versum (ut 1,
61-62 ; 361-362 — , quorum tamen priori ob comparationis con-
cinnitatem, posteriori propter anaphoram parata est venia — ;
135-136; 463-464; 591-592; 595-596), vel pentaraetrum unius
distichi et hexametrum alterius (ut 1,84-85; 198-199; 334-335;
440-441; 444-445; 602-603) vel denique complures pentametros
continuos (ut I, 124.126.128 ; 226.228 ; 362.364.366 ; 550.552)
hoc eodem modo ordiri insto saepius passus est.
IL — Nunc vero ad alia transeamus. Atque id primum videndum,
quatenus apud Namatianum vera reperiatur lex ab Hultgreno
condita (4), principia pentametri respondere principiis he-
(1) Loci singuli hi sunt: 1,31; 35; 39; 61; 75; 85; 89; 135; 139; 171; 195;
199; 215; 295; 305; 319; 335; 361; 375; 389; 441; 445; 459; 463; 567; 585;
591; 595; 599; 603; li, 1; 11; 29; 37; 67.
(2) Locos singulos appono : I, 6; 26; 48; 52; 62; 66; 82; 84; 96; 108; 124;
126; 128; 136; 164; 184; 198; 210; 220; 226; 228; 254; 308; 314; 330; 334;
358; 362; 364; 366; 372; 392; 422; 440; 444; 464: 470; 506; 516; 550; 552;
592; 596; 602; 612.
(3) Huc etiam referre quis poterit locos duos, I, 272 et 476, in quibus
monosyllaba ad et hoc cura verbis superioribus usque et namque per eli-
sionem cohaerent : quos sì relìquis adnumerare volumus, hanc rationem
numerorum nonnihil mutari pauloque maiorera fieri necesse est.
(4) Observationes metricae in poetas elegiacos Graecos et Latinos. Pars
prior. Leipz. 1871, p. 12 et 16. Cfr. eiusdem Statisi. Unters. des Distichons
p. 3 (in Bericht. der phil.-hist. CI. der k. Sachs. Gesell. der Wiss. 1872)
et Die Techn. der róm. Dichter im ep. und eleg. Yersm. p.. 752 (in Jahrb.
f. Phil. Voi. 107, a. 1873).
— 175 —
xametri, seu hexametrum, qui sit in capite dactylicus, adiun-
gere sibi pentametriim eodem modo structum, praeterea hexa-
metrum dactylicum adiungere sibi pentametrum dactylicura,
et rursus hexametrum spondiacum adiuugere sibi pentametrum
spondiacum, id est, quo magis hexametri structura sit dacty-
lica aut spondiaca, eo magis pentametrum quoque esse dactyli-
cum aut spondiacum (1). Quam rem ut commodius investigare
ac magis perspicue enucleare possi mus, litteris d ad dactylos et s
ad spondeos significandos adhibitis, omnes figuras ( — has vero
non plures quam sedecim in hexametris, non plures quam qu at-
tuo r in pentametris esse, necesse est), quae ex varia dactylorum
spondeorumque collocatione in iis versuum locis, quos dixi, exsi-
stere possunt, sic indicabo :
Hexametrorum formae :
I. dddd\ Aurea turrigero radient diademata cono.
IL ssss: lamiam lassati carae complexibus urbis.
III. dsss: Semina virtutum-d/eraissa et tradita caelo.
IV. sdss: Securos levius crimen contemnere cives.
V. ssds'. Cessantem iustis poterant urgere querelis.
VI. sssd: Quid longum toto Eomam venerantibus aevo.
(1) Hexametrum dactylicum Hultgrenum partim secutus (1. adi. Observ.
p. 5) eum voco, cuius in prioribus quattuor pedibus maior est numerus
dactylorum quam spondeorum, vel qui totusest dactylicus; itidem centra spon-
diacum. Quod vero ad pentametrum, eadem ratione is dicetur dactylicus
aut spondiacus, cuius duo pedes priores aut dactyli sunt aut spondei. Aequos
denique vel pares nomino et hexametros et pentametros, cum iisdem sedibus
illi ex duobus dactylis et ex duobus spondeis, hi ex uno dactylo et ex uno
spondeo Constant. Qua in re ex hac parte fallitur Hultgrenus, quod cum
pag. 5 statuat, pentametros, quorum alterura hemistichium sine ulla exce-
ptione dactylicum sit, spondiacos nullos reperi ri, sed omnes aut dactylicos
esse aut pares, non solum pag. 12 sibi non constat, ubi pentametrum
spondiacum nominat, sed etiam pag. 5 secum pugnat, cum hexametrum
ex duobus dactylis et ex duobus spondeis in priore parte constantem ae-
q u u m appellet, quem contra, cum hexameter quinta in sede, exceptis ver-
sibus spondiazontibus, semper sit dactylicus, eundem dactylicum vocare
debebat. Praestat igitur, partibus iis hexametrorum et pentametrorum ne-
glectis, quae constantes dici possunt, eam rationem sequi, quam ipse in-
dicavi.
— 176 —
Yll. sddd: Exaudi, genetrix hominum, genetiixqiie
[deor um.
Vili. f?sfM: Ipse triiimphali rediraitiis arundine Tibris.
IX. ddsd: 0 quater et quotiens non est numerare
[beatos.
X. ddds: Relligiosa patet peregrinae curia laudi.
XI. fZsfZs: Illa quidem longis nimium deformi a bellis.
XII. sdsd: Felices etiam, qui proxima munera primis.
XIII. ddss: Ordinis imperio collegarumque fruuntur.
XIV. ssdd: Qui Komanorum procerum generosa propago.
XV. dssd: At mea dilectis fortuna revellitur oris.
XVI. sdds: Velocem potius reditum mirabere, lector.
Pentametrorum formae :
I. dd: Tam cito Romuleis posse carere bonis.
II. ss: Nil umquam lougumst, quod sine fine placet,
HI. ds: Nec putat externos, quos decet esse suos.
IV. sd: Sortiti Latias optinuere doraos.
Primum quod attinet ad hexametrorum pentametrorumque co-
pulationem, eorum initia, quae quattuor bisce figuris exprimi
possunt
A B C D
bis rationibus usurpata a Rutilio repperi: figurae primae (A)
nonagies quinquies, alterius (B) nonagies semel, ter-
tiae (C) nonagies quater, quartae (D) septuagies sexies.
Cum igitur in distichis 356 (= vv. 712) initia pentametrorum
et dactylica et spondiaca centies octogies sexies (Ah-B=:
= 95-1-91) respondeant principiis hexametrorum, centies se-
ptuagies (C -t- D = 94 -f- 76) non respondeant, sequitur, ut in l
Rutilio Hultgreni lex non ex omni parte vera dici possit: nam in j
eius hexametris pentametrisque quamquam numerus initiorum inter
se congruentium (figg. A et B) maior utique sit alterius generis
initiis (figg. C et D), tamen discrimen non id est, ut lex illa
— 177
sanciri posse videatur; hoc tantum animadvertendum, principia
figurae C paulo crebriora esse quam figurae D : quod in poeta
bono facile intellegitur, cum ut stropha elegiaca, quae sua na-
tura dactylica est, in dactylicum numerum semper desinit, sic
eandem cum quadam metri congruentia atque concinnitate omnium
optime ab eodem nimiero, dura modo ne gratae varietati studere
velint poetae, saepius exordiri oporteat (cfr. op. adi. p. 127).
Quod vero ad sedecim hexametri, quattuor pentametri formas,
quas supra indicavi, earum numeri ordine hoc, prò uniuscuiusque
minore frequentia, decrescente significantur :
Hexametrorum formae
I dsss
li sdss
III ddss
[ IV ddsd
\ V sdsd
VI dssd
VII dsds
i Vili sssd
( IX ssds
X sdds
XI ssss
XII ddds
XIII sddd
XIV dsdd
XV ssdd
XVI dddd
Numeri.
= 111) 45
= IV) 42
= XIII) 37
= IX) 28
= X1I) 28
= XV) 27
= X1) 26
= VI) 21
= V) 21
= XVI) 20
= 11) 18
= X) 14
= VII) 10
= V1II) 9
= XIV) 7
= 1) 3
(Summa 356).
Pentametrorum formae. Numeri.
I sd (=1V) 110
Il ds (=111) 106
III ss (=11) 75
lY dd {=1) 65
(Summa 356).
Rivttia di filologia, ecc., XXV.
12
— 178 -
Unde efficitur, esse apud Rutilium
hexametros dactylicos
64
» aequos
145
» spondiacos
147
(Surama
356)
et rursus
pentametros dactylicos
65
» aequos
216
» spondiacos
75
(Sumraa
356)
Itaque ex his tabulis elucet, cum in ceteris numeris nullus sit
consensus, numerum hexametrorum dactylicorum fere exaequaie
numerum eiusdem generis pentametrorum, ut ex hac parte Hult-
greni lex, liexametrum dactylicum plerumque adiungere sibi so-
cium pentametrum eodem modo formatura, vera esse videatur :
sed id specie potius quam reapse ita esse, statim adparebit cum
reputabimus, illud fieri posse, et revera hoc omnium saepissime
usu venire, ut non ingratae varietatis assequendae causa, ne quasi
unus versuum numerus lentius aequabiliusque accidat auribus,
hexametri et pentametri quam dissimillima ratione in unoquoque
disticho inter se coniungantur. Nam quod ait Hultgrenus pag. 12
legem hanc <c non de singulis versibus, sed de maiore versuum
valere multitudine », non est hac in re audiendus vir clarissi-
mus: non enim de hexametris et pentametris separatim conside-
ratis sermo esse potest, sed centra agitur de singulis eorum co-
pulationibus ad disticha componenda: quarum coniunctionum
naturas varias (id quod etiam pertinet ad distichorum initia, de
qua re supra dixi) tum demum perspicere licet cum antea sin-
gulorum distichorum formas persecuti erimus: quoties enim,
ut ipsius Hultgreni verbis utar (ibid.), qui hìc quoque sibi non
constare mihi videtur, in veterum carminibus obversantur nobis ^
legentibus hexametri dactylis referti, quibus annexi sunt penta- J
metri spondeorum pieni, et quoties pentametri dactylici praece-
dentibus hexametris spondiacis ! Quam rem ut, numeris adlatis.
— 179 —
in Kutilii distichis confirmem, in versibiis 712 (= disi 356) vix
centies tricies bis naturas ac formas hexametroriim pentame-
trorumque inter se respondere vidi, ut multo saepius (ducen-
ties vicies quater) aut hexametnim dactylicum pentameter
vel spondiacus vel aequus aut hexametrum spondi acum penta-
meter vel dactylicus vel aequus aut contrarie excipiat. Atque
proprie
hexametri spond. cum eiusdem generis pent. coniunguntur tri-
cies novies (1).
hexametri dact. cum eiusdem generis pent. coniunguntur se-
xies (2),
cum contra maior sit hexametrorum parium numerus, qui pen-
tametros eadem ratione conformatos sibi adiungunt: est enim
numerus 87.
Igitur perspicuura est, numeros Rutilii, quamvis spondeis paulo
nimis abundantes, callida iucundaque et in singulis versibus (de
qua re uberius infra dicam) et in singulis hexametrorum penta-
metrorumque copulationibus pedum iunctura ac varietate (3) in-
signes esse magnique faciendos.
lam vero si tabulam eam, quara supra ad hexametrorum for-
mas indicandas proposui, cum altera comparamus, qua easdem
hexametrorum formas apud Tibullum, Propertium, Ovidium per-
secutus sum {op. adì. p. 130), adparet, formam dsss^ in qua
dactylura tres spondei excipiunt quaeque apud Rutilium primum
(1) 1, 3-4; 29-30; 61-2; 65-6; 91-2; 93-4; 101-2; 121-2; 123-4; 127-8;
137-8; 159-60; 183-4; 189-90; 209-10; 237-8; 255-6; 273-4; 285-6; 305-6;
313-4; 349-50; 363-4; 421-2; 441-2; 475-6; 479-80; 493-4; 507-8; 515-6;
555-6; 583-4; 587-8; 607-8; 611-2; 639-40; li, 47-8; 53-4; 59-60.
(2) I, 79-80; 151-2; 541-2; 563-4; 631-2; 641-2. Hic est animadvertendum,
cum hexametri toti dactylici, quos pentametri eodem pacto conditi inse-
quantur, nulli sint, duo esse disticha (I, 237 sq.; 273 sq.), quae, locis ni-
mirum sollemnibus exceptis, tota sunt spondiaca.
(3) Huius rei hoc est etiam argumentum, quod formae hexametrorum
dddd, pentametrorum dd extremum locum, praeterea formae hexametrorum
ssss locum decimum primum, pentametrorum ss proximum a postremo oc-
cupant.
— 180 -
sibi vindicat locum, a ceteris quoque omnium creberrime usurpar! ;
namque non solum si plurimi minimique numeri vel numeri
meda, qui dicitur, apud universos poetas elegiacos principes ra-
tionem ducimus, sed etiam apud singulos haec figura omnium
est frequentissima. Subsequitur apud eum forma sdss^ quae est
quinta apud universos poetas elegiacos, nisi quod apud Pro-
pertium, non secus atque apud Rutilium, secundum obtinet lo-
cum. Forma autem ddss tertia est in Rutilii elegis et secunda
in ceterorum, excepto Propertio, apud quem, ut apud Eutilium,
tertia est; multaque alia et discrepantia et congruentia, quae
minoris sunt momenti, duabus bisce tabellis inter se collatis do-
cemur. Hoc unum addam, Namatianum in variis hexaraetrorum
schematis utendis propius ad Propertium quam ad TibuUum et
Ovidium accedere, cum etiam Propertium, cui hac in re quoque
similis est Rutilius, non solum spondeis magis quam ceteros uti,
sed etiam in arte a dactylis versus ordiendi ceteris inferiorem
esse, numeris demonstraverim op. adi. p. 126 sq. Quod vero per-
tinet ad pentametros, multum interest inter Rutilium et ceteros:
quae est enim prima forma apud Rutilium (sd\ extrema est
apud Tibullum, Propertium, Ovidium; quae est secunda apud
illum (ds\ est prima apud hos; forma ss tertium tenet locum
apud utrosque; quae denique ultima est apud Namatianum {dd),
secunda est apud ceteros (cfr. op. adi. p. 136), Quae omnia,
opinor, repetenda sunt ab ingenio ipso Rutilii poetico, quem
magis quam ceteros spondeis indulsisse vidimus.
in, — Sed hac quoque re versus Namatiani elegantes venustique
dicendi sunt, clausulis, inquam, et hexametrorum et pentametro-
rum. Compertum est enim exploratumque, eos versuura exitus
omnium optimos haberi, qui cum in hexametris ex vocabulis tri-
syllabis vel bisyllabis, tum in pentametris ex bisyllabis constent.
Cuius artificii causas et alii exposuerunt nec ipse non tetigi op.
adi. p. 79 sq. et p. 113 sqq. Rationes vero harum clausularum
in centenis versibus, cum hexametri conclusiones quadrisyllabae
sint duae (I, 585; II, 33: ratio 0,56 ^/o), pentasyllabae duae
(I, 239; 637: ratio 0,56 o/o), pentametri vero trisyllabae tres
(I, 160; 328; 526: ratio 0,84%), quadrisyllabae novem (I, 56;
— 181 —
82; 121; 382; 564; 572; 608 (1); II, 22; 42: ratio 2,53 %), pen-
tasyllabae duae (I, 306; 472: ratio 0,56 7o)i heptasyllabae duae
(I, 450; 628: ratio 0,56 7o)» ^^^ sunt apud Kutilium, quae in-
sequiintur :
In hexametris 356 In pentametris 356
numerus clausul. tamquam legit. nuraerus clausul. tamquam legit.
(bisyll. et trisyll.) (bisyll.)
352 = ratio 98,88 7o 340 == ratio 95,51 o/o-
Terminationes monosyllabas nuUas repperi apud Rutilium neque
in bexametris neque in pentametris, excepto nimìrum enclitico est^
quod cum per aphaeresim in extremis ordinibus metricis verbo
superiori adhaereat nullam habere ofifensionem nemo est quin sciat.
Ceterum hoc non fit nisi semel (I, 364) « ferro viast », ubi
clausulam bisyllabara statui (2) (cfr. op. adi. p. 79 sq. adn. 2).
Quamquam vero liexametri et bisyllabis et trisyllabis aeque
optime finiuntur, tamen iam alii animadverterunt, in poetis ele-
giacis plures esse prò rata parte hexametrorum clausulae trisyl-
labae quam bisyllabae eiusque etiam rei causas explicare stu-
duerunt {op. adi. p. 78 adn. 2; p. 116 adn. 1). Quod contrarie
fieri apud Rutilium, numeris ipsis confirmabo: clausulae enim
hexametrorum bisyllabae sunt 210, trisyllabae 142, ut, binis clau-
(i) Insolentem huius clausulae mensuram (Harpyias prò Harpyias ; cfr.
etiara initium hexametri subsequentis, ubi tamen nihil impedii, quominus
Harpyias legitime metiamur) notavit Muellerus praef. p. xii. Cfr. Zumpt.
ed. p. 191.
(2) Etiam in extremis hexametri et pentametri hemistichiis prioribus,
hoc est in caesuris primariis, nuUum monosyllabum repperi, nisi quod hic
quoque excipitur verbura est, quod duobus locis (1,4 et 140) per aphaeresim
cum vocabulo superiore coniungitur, ita ut id nullam habeat ofFensionem;
idem duobus locis (I, 91 et 506) iure ÈYKXioeujc;, ut Graeci dicunt, excusatur ;
denique uno loco (I, 583) et propter ^ykXioiv et ideo quod alterum monosyl-
labum ante est, idoneam habet excusationis causam. Praeter encliticum est
nullum aliud reperias monosyllabum in caesura principali, si fortasse a versu
1, 485 haud aliter quam, cum // giade riget horridus Hister discesseris,
ubi tamen monosyllabum ante monosyllabum est : etiam hoc loco caesuram
semiseptenariam,' trithemimere praecedente, statuere licuerit tali modo :
haud aliterjquam cum, giade // riget horridus Hister.
— 182 —
sulis'quadrisyllabis et pentasyllabis omissis (0,56°/o-h
-+- 0,56 ^Iq = 1,12 7o)? hae rationes efficiantur in centenis versibus:
claus. hexam. bisyll. : 58,99 7o
» » trisyll.: 39,89 7o-
Unde fit, ut hac in re Rutilii hexametros ad hexametrorum
epicorum naturam magis accedere quam ceterorum elegiae La-
tinae scriptorum (cfr. de bis Hultgr. Il, p. 1 sqq.) eluceat.
Veruni enimvero si fines pentametrorum propius inspexerimus
et cum ceteris poetis elegiacis contulerimus, perspicue apparebit,
Rutilium in artifìcio pentametros verbis, quae duabus syllabis
nec maiora nec minora sint, concludendi Propertio atque adeo
Tibullo praestitisse. Tacco enim Ovidium, qui in Amo rum 11-
bris, quos proprie examinandos suscepi, ne unam quidem clau-
sulara, quae non esset bisyllaba,- adraisit {op. adi p. 138) et in
reliquis elegiis perquam raro (vix tricies semel in tot mil-
libus pentametrorum, exceptis Arte, Eemediis, Medie, in
quibus quoque, ut in Amorum libris, pentametri verbis bisyl-
labis semper clauduntur : cfr. Hultgr. I, p. 30 sq.) aliis clausulis
usus est, sed rationes terminationum bisyllabarum sunt apud
Propertium 88,99 "/o, apud Tibullum 94,21 % {op. adi p. 139 sq.):
quod vero ad Propertium, discrimen esse non tenue inter tres
priores libros et duos posteriores numeris demonstro op. adi p. 141,
cum clausularum bisyllabarum ratio in illis sit 80,56 o/q, in
bis 97,96 °Jq: quin etiam, ut discrimen inter primitias tamquam
Musae Propertianae et maturioris artis fructus luculentius ex-
staret, extremis libris in contentionis iudicium vocatis, id quoque
ostendi, in libro primo, qui constat ex distichis 353, clausulas
pentametrorum trisyllabas esse 31 (== 8,79 %), quadrisyllabas 86
(= 24,34 "/o), pentasyllabas 9 (= 2,56 %), centra in libro quinto,
cuius etiam distichorum numerus maior est (i. e. 476), clausulas :"
trisyllabas non plures esse quam 1 (=0,21 o/^), quadrisyllabas J
quam 4 (= 0,84 7o). pentasyllabas quam 1 (= 0,21 ^'/o): ex quo j
cum conficiatur, clausularum bisyllabarum (227) rationem in |
libro primo esse 64,31 y^, in libro quinto (470) 98,74 %, bac »
ex parte Kutilius quam similis sit non solum Tibullo, sed etiam
I
)'■
— 183 —
Propertio, iiemo est qui non videat: quamquam si Propertii libros
posteriores eoque magis si tanturamodo librum quintum ante
oculos habemus, ei post Ovidium hac in re priraas esse defe-
rendas, fatendum est.
At in bis Kutilii clausulis alia sunt observanda. In hexametris
enim I, 585 et II, 33 clausulae quadrisyllabae praefecturam et
Appenninum ( — de bac clausula cfr, Quint. IX, 4, 65 sq. et
op. adi. p. 72) versus efficiunt spondiazontas, qui tamen ideo le-
gitimi sunt, quod bae voces verba in dactylum excidentia {post-
ponere et praetexuit) subsequuntur ; etiam consensus, non quidem
discrepantia, exsistit, quod ad alterum hexametri hemistichium,
inter accentum, quem vocant, metricum et accentum grammati-
cum. In clausulis quoque pentasyllabis I, 239 (amphitheatrum) et
637 (Oarioni) (1) verbis praeeuntibus concludUur et suhiungitur
bic consensus non tollitur. De qua re cfr. op. adì. p. 114 sq. adn. 1;
de versibus autem spondiazontibus apud poetas elegiacos proprie
quaesivi p. 69 sqq. In pentametris vero clausulae quae fere mi-
nus legitimae videntur ( — has universas sedecim esse supra
vidimus) maximam partem iustam habent excusationem. Cum
enim nunc mittara clausulas Eutilii tetrasyllabas, pentasyllabas,
heptasyllabas, in quibus ad unam omnibus utriusque accentus,
et verbi et versus, in posteriore pentametri parte consensus non
tollitur (excepto nimirum pede sexto catalectico, quod idem fit
in clausula bisyllaba), etiam in clausulis trisyllabis, quae ple-
rumque omnium pessimae habentur, duobus locis haec congru-
entia reperitur, cum pedibus anapaestis adiungantur voces mono-
syllabae (I, 160 sed popidi; I, 526 mine animi)', tertio vero loco,
quo vocabulo trisyllabo fìnitur pentameter apud Rutilium, I, 328
sive loci ingenio seu domini genio, dissensus utique est inter
(1) Hanc verbi formam, quae fere est dnoE XeYÓfievov, cum uno Gatulli
exemplo (LXVI, 94) firmetur, ex editione principe mutuatus est Muellerus,
cum altera forma Orioni (dispondeus) praeferenda esse videatur : haec enim
et codicis Vindobonensis fide nititur et saepius invenitur in clausulis hexa-
metrorum : cfr. Zumptius, ed. Co.wm. pag. 198 (qui i&vaen dà) editionis prin-
cipis scriptura non recedit) et Schenkelius 1. adi. p. 130 adn. 6. Si hanc
formam recipimus, oportet tertium spondia/.onta duobus reliquis adiungi.
— 184 —
utrumque accentum, sed haec pentametri terminatio et propter
verba contraria ac similiter desinentia et propter adnominationem
iure excusatur (1). Etiam verborum ac sententiarum oppositione
iustam habent, praeter cetera, clausularum excusatìonem versus,
quos nuper indicavi, I, 160 non sit praefecti gloria, sed po-
puli, et 526 tunc mutàbantur corpora mmc animi; modo
autem nominum propriorum, modo orationis et gravitatis excu-
satio etiam accipienda in versuum clausulis plusquam trisyllabis
1, 56; 82; 382; 572; 628; II, 22; praeterea verba pentasyllaba
adultera et amicitiis, quibus concluduntur pentametri I, 306 et
472, a ceteris quoque elegiae scriptoribus nonnumquam usur-
pantur in extremo pentametri ordine metrico posteriore. Restant
clausulae septem syllabarum duae, quibus maxime differt Ru-
tilius a ceteris; nam cuni clausulis pentasyllabis nonnum-
quam concludant pentametros et Catullus (op. adi. p. 79) et
Tibullus et Propertius {op. adi. p. 139) atque adeo Ovidius (se-
mel in Epistulis iis, quae non ab omnibus germanae habentur,
bis in Tristibus, ter in Epistulis ex Ponto: cfr. Hultgr. I,
p. 30 sq.), et clausula hexasyllaba semel utatur Propertius,
IV, 6, 22 (M) Athamantiadae, Rutilius non solum bis usurpat
verbum sesquipedale septem syllabarum ad totam penta-
metri partem alteram explendam, I, 450 sollicitudinihus et 628
(1) Hic versus praebet optimum ac certissimum horaoeoteleuti cuui adno-
minatione coniuncti exemplum eius generis, quod alio loco trisyllabura no-
minavi {Dell' Omeoteleiito latino. Padova, 1891, p. 33 et p. 36; civ . Osserva-
zioni sull'uso delV Allitterazione nella lingua latina. Padova, 1889, p. 33
adn. 20). Quos vero adlitterationis, quam dicunt, locos in adnotationibus
attulit Schenkelius, 1. adi. p. 136, haec magna ex parte nec sunt vera ac pro-
pria adlitterationis exempla (ut 1, 100 « tale^iganteum Graecia laudat opus »,
vel I, 49 « exaudi, genetrix hominum, genetrixqxiQ deorum », ubi tantum-
modo repetitio eiusdem verbi est) et plerumqne fortuita atque necessaria di-
cenda sunt. Equidem malim adlilterationem intellegere eius generis, quod
alibi. Osservazioni cett. p. 6, interius dixi, cum paronomasia s. adnomi-
natione coniunctam, ut id exempli causa ponam, I 492 « tempestas dulcem
fecit amara moram ». Etiam ad homoeoteleuti genus, quod dixi « di fles-
sione » (Dell' Omeot. cett. p. 9) rettulerim I, 107 « nempe tibi subitus
calidarw/n gurges aquarwm », ubi utriusque accentus, et metrici et gram-
matici, congruentia est; ad quasi- homoeoteleuton (cfr. p. 7) I, 154 « de-
vehat bine ruris, subvehat inde maris ».
- 185-
Amphitryoìiiadae, sed etiam in loco priore pentametrum totum
ex duobiis vocabulis composuit: Bellerophonteis sollicitudinihus :
qualem alibi in litteris Latinis invenire se non meminisse ait
Muellerus praef. p. xii (1).
IV. — Sed cura adeo excellat Namatianus in artificio versuum
claudendorum, ut quae ipsae videntur minus aptae numerorum
conclusiones et perpaucae sint et pleraeque excusari possint, mirum
non est, eundem multum curae atque diligentiae ad extremam et
hexametri et pentametri syllabam impendisse. Neminem enim
fugit quam sedulo caverint poetae boni elegiaci, ne cuna hexa-
metrum tum maxinae pentametrum syllaba in vocalem brevem
apertam, ut aiunt grammatici, b. e. consonanti non terminatam
exeunte finirent. Cuius rei et causas et exempla attuli op. adi.
p. 91 sqq. et adn. 1; p. 142 sqq. et adn. 1, Rutilius autem hac
in re non modo Catullum, id quod minime est mirandum, sed
et TibuUura et Propertium atque etiam, quod iure mireris, sum-
raum disticbi elegiaci artificem, Ovidium superavit. Narnque et
hexametros fere semper (2) et pentametros semper terminavit
Rutilius syllabis aut in litteras consonantes aut in vocales natura
longas (3) cadentibus, cum Ovidius in Amorum libris, qui di-
sticborum elegantia ac subtilitate omnium praestantissimi videntur,
vicies pentametros vocali correpta concludere passus sit; atta-
men id non fit apud Ovidium nisi in vocabulis bisyllabis, cum
centra aliquanto saepius atque non solum in voce bisyllaba, sed,
quod aegrius est ferendum, nonnumquam etiam in verbis trisyl-
(1) Ex uno verbo constat prior pentametri pars, praeter versum I, 450,
quem modo attuli, etiam I, 256 (investigato), 572 {Laurentinorum), 608
(circumsistentes), 620 (insanituris). Versus autem 572 et 608 ex tribus verbis
simili ratione metrica conformatis compositi sunt : Laurentinorum regibus
insereret et circurnsistentes reppulit Harpyias. De huius generis verbis
sesquipedalibus , quibus ceteri quoque elegorum scriptores interdum usi
sunt, nonnulla exposui op. adi. p. 78 sq. adn. 3. Cfr. iudicium Lue. Muel-
leri d. r. m. (ed. alt. Petrop. et Lips. 1894), p. 574: « Nam in tanta vasti-
tate vocum haud perinde amplus cum insit sensus, facile subibit legentium
animis montis murem parturientis memoria ».
(2) Loci enim excipiuntur septem (I, 87; 121; 247; 505; 545; 589; II,
59), in quibus vocalis est correpta.
(3) Pentameter unus, I, 454, syllaba ancipiti (lego) concluditur.
- 186 -
labis atque rarius in quadrisyllabis et pentasyllabis eius generis
claiisula reperiatur apud Catulhim, Tibullum, Propertium, ut nu-
meris exemplisque probavi op. adi. p. 143 sq.; cfr. p. 91 sq.
V. — Videamus nunc, si placet, qiiae sit elisionum natura et
quam saepe hae fiant apud Eutilium (1): qua in re conferantur,
quaeso, ea quae exposui op. adi. e. Vili, p. 184 sqq. Primum hoc
est commonendum, nullas esse apud eura elisiones, quae vel aspe-
riores sint vel quarum non reperiantur exempla etiam apud pro-
batissimos elegiae Latinae auctores: numquam enim in eius elegis
fit elisio in altera pentametri parte (nam aphaeresini litterae e
in monosyllabo est, idque uno loco, I, 364 ferro vivendi prima
reperfa viast, et nihil habere quod olTenderet et bue pertinere
non videri, iam supra monui): qua in re non solum CatuUum et
Propertium superavit, sed etiam Ovidio ipso et Tibullo diligentior
ac paene dixi morosior fuit, quiid tantum caverunt, ne in hac
pentametri parte syllaba in litteram m excidens cum vocali sub-
sequente collideretur {op. adì. p. 185 sqq.); etiam numquam apud
eum aut monosyllabum, quod praecedat, eliditur aut elisio fit in
sede caesurae: quod nonnumquam peccavit (ut Catullum prae-
teream) Propertius {op. adi. p. 188), qui etiam syllabam ancipitem
inter utrumque pentametri hemistichium ponere non dubitavit
(II, 8, 8; sed videsis quae ipse de hoc loco disputavi, praeter
op. adi. p. 188, etiam Bollett. di Filologia Class. I, 2, p. 46).
Ceterum elisionis exempla rarissima sunt prò rata parte et lenis-
sima habenda apud Kutilium. Non plura enim sunt quam sexa-
ginta unum (quae in versibus 712 rationem efficiunt fere
hanc : 8,57 °/o), quorum ad hexametros pertinent 35 (= 4,92 7o))
ad pentametros 26 (^= 3,65 ^Iq) (2). Quae elisiones in hexametris
et pentametris quales sint, subiectis tabellis docemur:
(1) Omnes locos eos exclusi (qui tamen non plures sunt quam sex: 1, 4
140; 327; 364; 426; 505), in quibus encliticum est, vocali e detracta, in unum
quasi corpus cum verbo superiore aut in vocalem aut in m excidenti coa-
lescere dicendum est.
(2) Haec ratio longe minor est (plusquam dimidio) ratione ipsa Ovidii,
quam in A m o r u m libris, omnium fere maxime limatis, 7,42 "/o in p r i o-
ri bus pentametrorum hemistichiis (nam apud Rutilium nuUum verbum
eliditur in hemistichiis posteriovibus), esse demonstravi (op. adi. p. 185).
- 187
Hexamrtrorun elisiones:
In arsi prima: n^^lla.
In thesi prima: septem
In arsi seciinda: septem
In thesi seeunda: una
In arsi tertia: nulla.
In thesi tertia: nulla.
In arsi quarta: duae
In thesi quarta: quindecira
(I, 65: inter spondeum et prae-
cedentem vocem encliticam que;
141 : inter pyrrhich. et praeced.
spond. [vel trochaeum: cfr. infra
p. 190J; 153: inter paeona III et
praec. troch.; 167: inter anap. et
praec. voc. enei, qùe; 395: inter
anap. (1) et praec. troch.; 583:
inter iamb. et praec. pyrrh.; 643:
inter anap. et praec. troch.).
(I, 83: inter choriamb. et praec.
tribrachyn; 149: inter monos. et
praec. choriamb.; 169: inter mo-
loss. et praec. anap.; 179: inter
monos. et praec. troch. in m ca-
dentem ; 187: inter moloss. et praec.
paeona I; — 451: inter moloss.
et praec. anap.; II, 55: inter mo-
loss. et praec. anap.).
(I, 373: inter anap. et praec. troch.).
(I, 449: inter epitr. IV et praec.
troch. littera m terminatum; 559:
inter monos. et praec. spond.).
(I, 9: inter monos. et praec. pa-
limbacch.; 29: inter ion. a mai.
et praec. troch.; 39: inter ion. a
mai. et praec. voc. enei, que ;
(i) Ad tempora syllabarum definienda eius niensurae rationem duxi, quam
verba non per se ipsa, id est natura, sed in versu exhibent, mensurae, dico,
metricae, non grammaticae s. prosodiacae.
- 188 —
53: inter ion. a mai, et praec.
paeoua IH; — 99: inter monos.
et praec. palimbacch.; 119: inter
ion. a mai. et praec. palimb. ;
133: inter monos. et praec. pa-
limb.; 227: inter monos. et praec.
spond.; 447: inter ion. a mai. et
praec. palimb. in tn desinentem;
487: inter ion. a mai. et praec.
moloss. diplithongo finitum ; 509:
inter palimb. et praec. alterum
palimb. in m exeuntem; 539 :
inter ion. a mai. et praec. mo- ^
loss.; 569: inter monos. et praec. . ì
moloss.; 615: inter monos. et V
praec. moloss.; II, 23: inter ion. l
a mai. et praec. palimb.). t
In arsi quinta: duae (I, 93: inter trocli. et praec. tribr.; t
199: inter duo trochaeos). /
In thesi quinta: una (I, 639: inter bacchium et praec. ì
ion. a mai.).
In arsi sexta et in thesi sexta catal. nuUum est exemplum
neque synaliphes neque episyna-
liphes (1).
Pentametrorum elisiones :
In arsi prima: nulla.
In thesi prima: sex (I, 162: inter anap. et antece-
dentem trochaeum ; 272 : inter
monos. et antec. troch.; 476: inter
monos. et antec. troch.; 534: inter
(1) Apud Romanos in numero elegiaco unum invenitur episynaliplies
exemplum in GatuUi versu hypermetro GXV, 5-6: sed videais quae de hoc
loco disputavi op. adi. p. 86 sqq. et Scampoli metrici in Bollett. di FU.
Class. 1, 2, p. 45 sq.
— 189 —
spond. et antec. voc. enei, que;
» 624: inter anap. et antec. troch.
640: inter disp. et antec. troch.)
In arsi secunda: tredecim (I, 150: inter choriamb. et antec
voc. enei, que; 266: inter monos
et antec. palimb. in m exciden
tem ; 274 : inter monos. et antec
spond. ; 284 : inter moloss. et
antec. voc. enei, que; 328: inter
choriamb. et antec. iambum (1)
486: inter moloss. et antec. voc
enei, que; 494: inter duo mo
lossos; 496: inter moloss. et antec
tribrachyn; 520: inter choriamb
et antec. spond. ; 528 : inter mo
loss. et antec. spond.; 532: inter
chor. et antec. palimb. in m de
sinentem; II, 26: inter monos. et
antec. moloss.; 30: inter choriamb.
et antec. voc. enei. que).
In thesi secunda: se p tem (1, 10: inter anap. et antec.
paeona III; — 118: inter spond.
et antec. voc. enei, que ; 130 :
inter spond. et antec. voc. enei.
que; 240: inter anap. et antec.
voc. enei, que; 434: inter anap.
et antec. voc. enei, que; 458:
inter spond. et antec. voc. enei.
que; II, 40; inter anap. et antec.
voc. enei. que).
In reliquis arsibus et thesibus numquam fit elisio apud Kutilium.
'*Quas elisiones si diligentius examinarimus, id primum appa-
rebit, has eius generis esse, ut quam minime numeros impediant
(1) De hac elisione cfr. Muell. praef. p. xii.
— 190 —
aut retardent : numquam enim aut in liminibus aut in exitibus
singulorum ordinum metricorura fiunt, numquam bis verba col-
lidiintur in singulis vefsibus (atque adeo non pluries quam
ter elisio duplex reperitur in singulis distichis: I, 9-10;
149-150; 639-640) (1), numquam vocalis longa elidituv ante
vocalem brevem (namque I, 141 ergo age a mensura ergo optinàos
quoque poetas aetatis, quam dicunt, aureae non abstinuisse
constat; cfr. Muell. 1. adi. p. 415), etiam perraro id fit in
vocali longa ante vocalem vel natura longam vel positione
productam (t^ecj'es in hexametris: 1,149; 169; 227; 451; 487 (2);
539; 559; 569; 615; II, 55; sexies in pentametris: I, 274;
328; 494; 520; 528; II, 26), cum ceteris locis semper vo-
calis brevis coUidatur cum vocali tum longa tum brevi ;
exempla autem synaliphes verborum, quae in litteram m exci-
dant, non crebriora sunt quam quattuor in hexametris (I, 179;
447; 449; 509), quam duo in pentametris (I, 266; 532).
Quibus numeris locisque confirmatur, vere iudicasse Muel-
lerura, cum scriberet, Kutilium « plurimum observantiae in
elisione parco cauteque admittenda » collocasse (p. XII).
VI. — Venie nunc ad hexametrorum caesuras earumque genera;
qua quoque in re Kutilium optimorum poetarum exemplum secutum
esse atque adeo modum excessi sse efficietur: is enim caesuras
fortes, quas masculinas vocant grammatici, quaeque post arses
fiunt, nusquam non usurpavit, uno fortasse loco excepto, qui
insectionem debilem s. femininam (Kaià rpirov xpoxaiov) ex-
hibere videtur, I, 51 te canimiis semperque, // sinent dum fata,
canemus: ubi tamen, si vocem encliticam que a verbo superiore
seiunctam esse sumitur, semiquinaria statui potest; etiam, si a
loci sententia contextuque discesserimus, semiseptenaria, trithe-
mimere accedente, non esse excludenda videtur. Keliquae vero
(1) Gontra apud ceteros elegiae Latinae scriptores, quos singillatim per-
secutus 8um, duplicium elisionum exempla in pentametris nonnumquam re-
periuntur {op. adi. p. 186).
(2) Hoc unum est exemplum elisionis quod in diphthongo fiat apud Ku-
tilium.
— 191 —
caesurae longe maximam partem ad genus illud pertinent, quo
creberrirae usi sunt Romani, penthemimeren dico: nam semi-
septenariae, cui etiam caesura tamquam auxiliaria post pedis
alterius arsin adiungitur, locos certos non plures repperi quam
sedecim (I, 47; 49; 121; 145 (1); 165; 185; 197; 253;
411 ; 423 ; 467 ; 503 ; 523 ; 571 ; 593 ; II, 15) : in aliis ver-
sibus quamquam si loci sententiam vel graviorem interpun-
ctionem spectamus, caesuram hephthemimeren, cum trithemimere
plerumque consociatam, esse statuendum est, tamen si metri
tantum rationem habemus, hos eosdem locos penthemimere in-
signiri dici potest ; cuius generis sunt: I, 179; 199; 205;
223; 377; 399; 405; 421; 455; 505 (2); 527; 531; 611;
617 ; II, 17 ; 19 ; 67. Versus autem I, 561 praehet equos,
offert etiam carpenta trihimus insectione principali semiquinaria
quin notetur, nullum est dubium, cum etiam ad carpenta^ non ad
oifert pertineat. Quae caesurarum genera modico et sapienter
per hexaraetros distributa nemo est quin intellegat, quantum va-
rietati numerorum auriumque delectationi conducant , idque
praecipue in metro elegiaco, ubi pentametros una atque
constanti illa insectione masculina praeditos esse necesse est.
VII. — Sed de hoc quidem hactenus; nunc alia videamus. Atque
primum universam elegorum Latinorum tamquam legem esse,
ut in singulis distichis singuli pentametri plerumque et ora-
tionem flnirent et sententiam, non uno loco monui numerisque
ostendere atque causas reddere conatus sum op. adi. (ut p. 3 sqq.;
p. 26 sq.; p. 81 sqq.; p. 112 sq.; p. 170 sqq.; p. 183 sq.);
(1) Hic hexameter exhibet etiam diaeresin pedis alterius in numerum
dactylicum exeuntis, quod item est v. 165 et v. 523; contra diaeresis nu-
mero spondiaco in monosyllabum excidenti efficitur v. 571.
(2) Hoc loco sine dubio praestat, caesuram semiseptenariam, cui trithe-
mimeres adiungitur, statuere tali modo: plus palmaest / illos Inter // vo-
ltasse piacere ; nam si versum sic metimur ac recitamus : plus palmaest
illòs II intér voluisse piacére, necessario fit, ut verba inter se coniunctis-
sima (qualia sunt praepositio et ex ea aptum nomen) asperius contraque
naturam rerum distrahantur: quod hic aegrius est ferendum, cum etiam
verborum reversio, quam Graeci dicunt àvaaTpoq:)rìv, accedat.
— 192 —
etiam addidi, praestantissimos poetas Komanorum elegiacos, ut
vitium illud orationis defugerent, quod Graeci appellant )liovo-
Tovìav, quodque, ut perspicuum est, facile orirì poterat ex tam
magna tamque diligenti metri observantia ac paene dixi moro-
sitate, multa invenisse atque perfecisse; praeter alia, in hac
quoque re elaborasse, ut cum verba ipsa in uniuscuiusque di-
stichi hexametro pentametroque con veni enter apteque coUocarent,
tum plura disticha, cum unaquaeque stropha per se simplex
esset dumtaxat et una, tamen vel grammatica vel rhetorica
aliqua ratione coniungerent, ut disticha ipsa callida iunctura et
quasi rotunda constructione Inter se aptarentur et concinne
cohaererent; unde factum esse, ut in complurium distichorum
coraplexionibus vel comprehensionibus ( — has etiam Graeca voce
usi appellare possumus peri odos metricas), cum unumquodque
distichon unam aliquam totius orationis partem integram atque
ipsam per se expletam contineret, non antea universa orationis
sententia piane perfecteque explicar^tur atque intellegeretur,
quam ad extremum totius ambitus versum esset perventum: ut
inde unum quiddam ex vario ac rursus varium ex uno fieret.
Quam ad normam Kutilium, TibuUi maxime et Ovìdii vestigia
persecutus, disticha sua direxisse, cuique vel cursim haec legenti
in promptu est. Primum enim eius elegi ita conformati sunt, ut
in iis nihil « de sensu versus pentametri remaneat inexplicatum,
quod insequente versu hexametro reddatur, sed vel uterque sen-
sibus suis terminetur versus, vel sibi mutuo prior hexameter ac
pentameter subsequens, prout poetae placuerit, conserantur ». (Haec
sunt verba Bedae grammatici, Vll,p. 243, Gramm. Lati, ed. K., qui
de universa distichi elegiaci natura disputans primus, quod sciam,
legem hanc pentametri, in qua oonsuetudo optimorum poetarum
Latinorum numquam fere mentita est, animadvertit atque expo-
suit). Sed duos locos excipio; quorum unus est I, 519 sqq.:
Noster enim nuper iuvenis maiorihus ampUs, Nec censu in-
ferior coniugiove minor, Impulsus furiis, ìiomines terrasque
reliquit eqs. » (qui locus excusatur a Miiellero d. r. m."^ p. 267),
alter est I, 405 sqq., quem omisit Muellerus, ubi subiectum
vetustas (v. 405), propositione relativa pentaraetrum (v. 406)
- 193 —
expleiite, cum verbo fundavit (v. 407) coniungitur (1). Cetera
disticlia ad unum omnia graviore interpunctione distinguuntur,
nisi quod, ut par est, post singulos maioris distichorum com-
plexionis pentametros minus firma vel etiam admodum debilis
interpunctio nonnumquam accedit, ea tamen lege, ut singulae
orationis partes singulis distichis comprehendantur. Sed hac
quoque in re Namatianus Tibullum et Ovidium potius quam
Propertium imitatus esse videtur, quod cum sapienter crebra
tum non longa distichorum continuatione utitur, adeo ut et non
defatigentur animi legentìum et iucunda numerorum varietate
recreentur. Cura enim duo rum distichorum complexiones (seu
biniones) satis sint apud eum frequentes, quas invenerim
triginta quattuor (2), terniones non plures sunt quam quin-
que (I, 193-198; 243-248; 403-408; 535-540; 639-614);
quaternionem autem unum inveni (I, 255-262). Quod si hos
(1) Hisce forsitan adnumerandus sit locus I, 39 sqq., ubi tamen inter-
punctio (et sententia, quae inde efficitur) alia est apud alios edilores ; at
Lue. Muellerus, qui perpessus participium coniunctum cum Tuscus et Au-
relius ager intellegit et post mantis (v. 40) distinguendi notam omittit, cur
hunc quoque locum, qui tali modo simillimus fit 1, 519 sqq., indicare ne-
glexit ? Huc centra non refero I, 31 sqq. ipsi ginn etiam fontes si mittere
vocem, — ipsaque si possent arbuta nostra loqìd: — cessantem iustis po-
terant urgere querelis cett.: nani in hoc circuitu et quasi orbe verborum
prior periodi, quam vocant grammatici, hypotheticae pars (protasis) priore
disticho,' altera (apodosis) posteriore integra continetur, ut locus rectius in
distichorum, quae leviore gravioreve interpunctione inter se distinguuntur
(op. adi. p. 179 sq. adn. 3), complexioiium numero reponendus sit.
(2) Haec enuntiata, quae binorum distichorum ambitu comprehenduntur
(itemque reliqua, quae ex pluribus distichis inter se coniunctis Constant)
varia sunt natura, cum, ut grammaticorum verbis utar, sive temporalia
sint, sive relativa, sive consecutiva, sive hypothetica, sive causalia, sive si-
milia, aliaque id genus. Locos singulos indicabo : I, 31-34; 39-42; 133-136;
151-154; 155-158; 161-164; 185-188; 267-270; 299-302; 317-320: 327-330;
435-438; 459-462; 475-478; 479-482; 483-486; 499-502; 519-522; 561-564;
571-574; 597-600; 609-612; 615-618; 625-628; 633-636; li, 17-20; 31-34;
35-38; 43-46. Etiam huc spectare dixeris I, 251-254; 337-340;' 487-490; II,
1-4; 27-30, in quibus quamquam in singulorum binionum distichis posteriora
non .sunt re vera prioribus subiecta aut ex his apta, vel e contrario,
tamen, si intimàm rationem grammaticam et sententiam spectes, disticha
priora et posteriora eo vinculo inter se continentur, quo propositiones pri-
Jìmsla di filologia, ecc., XXV. 13
— 194 —
numeros cum numeris ceterorum elegiae scriptorum componimus,
apparet, inter Rutilii et Tibulli Ovidiique disticha magnani, ut
nuper dixi, congruentiam similitudinemque esse, cum Tibullus
quoque et Ovidius omnium frequentissime binionibus , satis
etiam crebro ternionibus utantur ; pluriura vero distichorum com-
plexiones perquam raro, prò rata parte, ut apud Rutilium, in-
veniuntur apud hos, cum quaternionum exempla quattuor
legantur apud Tibullum, octo apud Ovidium (in Amm. libris),
quinque autem distichorum una sit continuatio apud Ti-
bullum, una apud Ovidium (op. adi. p. 175 sq.). Sed quam
distat hac in re Namatianus a Propertio ! qui, quo erat non-
numquam elatiore tamquam spiritu atque ore malora fortasse
sonaturo quam consuetudo poetae elegiaci et ipsius carminis
natura ferebant (op. adi. p. 177), non solum multo crebrius
quaternionibus delectatur, sed etiam quinque, sex, septem,
novem, atque adeo duodecim disticha (ibid.) inter se gram-
matica et logica ratione, ut ita dicam, coniunctissima usurpat
interdum (1). Nonnulli vero Rutilii distichorum ambitus mihi
videntur ut Tibulli maxime, apud quem descriptiones vel nar-
rationes in singulis elegiis sunt tamquam pictoris imagines ac
formae, quae in tota tabula ad unitatis rationem rediguntur, vel
quasi orbes minores, qui in aliquo circulo maioribus continentur.
Praeterea quamquam apud Rutilium non saepius quam semel
bisve, ut supra vidiraus, ita interpunctio gravior post penta-
mètrum neglecta est, ut singulae grammaticae constructionìs
partes non singulis distichis expleantur, tamen non adeo insolens
apud eum offensio est ut apud Propertium, qui hac in re ab
optima elegorum norma longius interdum deflexisse ac gravius,
mariae et secundariae. Pi-aeterea vel anaphorae s. repetitionis vi (ut I,
357 sqq.), vel in locorum descriptionibus (ut I, 565 sqq.), vel in rerum nar-
rationibus (ut I, 581 sqq.) singula disticha etsi gravioribus interpunctionibus
distinguuntur et per se una dumtaxat et simplicia suique tamquam iuris
sunt, tamen artiere quadam adfinitate inter se iungi dicas oportet.
(1) Apud GatuUum maxima distichorum continuatio (in qua tamen alia
graviora notanda sunt) non plura quam septem disticha complectitur (op.
adi. p. 83).
- 195 -
ut poeta aetatis Augusteae, peccasse videtur quarti CatuUus ipse
{op. adi. p. 179 sqq.; efr. p. 81 sqq.) (1).
Vili. — Etiam Kutilius ideo eximius distichorum artifex habendus
est, quod non modo plura disticha affabre apteque tamquam Inter
se consociata ad unitatem revocare non nescit, sed etiam quia in
singulis distichis luculentissimos elegiae auctores secutus hexa-
metrum cura pentametro artificio quodam copulandi ac singula
cola disponendi non ignarus est. Illum enim TrapaXAri^K^MÓv, ut
Gracco vocabulo utar, quem summopere laudat Gruppius in
Tibulli hexametris pentametrisque singula disticha efficientibus (2)
(cfr. etiara quae de òixoTOjuia, quae dicitur, apud universos
poetas elegiacos disputat Ern. Eichnerus p. 57 sqq.) (3), in
Eutilii quoque elegis optime usurpari aniraadverti, ita ut aut
una eademque sententia per utrumque strophae versum conti-
nuata toto disticho concludatur atque expleatur, ut II, 23 sq.:
— In latura variis damnosa amfractibus intrat
Tyrrheni rabies Adriacique salis. — ,
aut prius enuntiatura priore versu, alterura altero totum conti-
neatur, ut 1, 173 sq.:
— Kexerit ante puer populos prò consule Poenos; —
— Aequalis Tyriis terror amorque fuit. — ,
aut, cùm itera in disticho duplex sit sententia, enuntiatum unius
alteriusve versus non suis tamquam finibus includatur, sed in
alterura extendatur, ut I, 35 sq. :
(1) Lygdami et Neaerae elegias a Tibullo abiudicandaa esse ex hoc quoque,
praeter alia, effici, quod versus III, 3, 1-10 et praecipue 4, 51-60 (cfr. ma-
xime V. 51 cum V. 57) tam longa eaque tam laxa compositione inter se
cohaereant, ut aliquid simile frustra requiras in germanis Tibulli elegiis,
monco op. adi. p. 179 adn. 2.
(2) Bie Rómische Elegie, Leipz. 1838, II, p. 15 sqq.
(3) De poetarum Latin, usqiie ad Aug. aetatem distichis quaestionum
metric. particulae duae. Sorav., 1866. Hunc eundem locum in Propertii
elegiis proprie tractavit Sperlingius, Properz in sein. Verhdltn. zum Ale-
xandriner Kallimachus. Strals. 1879, p. 18 sq.
— 196 —
— lamiam lassati carae complexibus urbis
Vinci mur, — et serum vix toleramus iter. — , ;
vel, quod rarius fit apud eum, contrarie, ut I, 241 sq.:
— Attollit geminas turres — bifidoque meatu
Faucibus artatìs pandit utrumque latus. — ,
aut plura cola uno alterove vel utroque versu comprehendantur,
ut I, 165 sq. :
— His dictis iter arripimus. — Comitantur amici. —
— Dicere non possunt lumina sicca ' vale ' — ,
vel I, 71 sq. :
— Hinc tibi certandi bona parcendique voluptas: —
— Quos timuit, — superat ; — quos superavit, — amat. — ,
vel 1, 137 sq.:
— Quae restant, — nuUis obnoxia tempora metis; —
— Dum stabunt terrae, — dum polus astra feret. —
Atque aliis multis rationibus hexameter et pentameter inter
se respondent atque cohaerent; quae omnia, ne in re non neces-
saria ac taedii piena nimium longus sim, missa facio, hoc
tantum addens, figuram illam distichi optimam, qua hexameter
unam sententiam vel unara sententiae partem integram, penta-
meter alteram sententiam vel alteram sententiae partem itidem
integram explet, ita ut utriusque versus TTapaX\riXio'|nò(g effi-
ciatur, longe esse omnium ceterarum creberrimam apud Ru-
tilium, ut quae affinia aut contraria sint ideo etiam simul coni- :
ponantur, ut oratio ipsa aut similium aut contrariorum vi j
acuatur et validior fiat. i
IX, — Reliquum est, ut quaeramus, qualis sit apud Rutilium 5
dispositio illa nominum substanti vorum, quae dicuntur a gram-
maticis, adiectivorumque, in qua tantopere praecipui elegiae
Latinae scriptores praestiterunt. (Hunc locum universum uberius
pertractavi op. adi. e. VII. p. 144 sqq., quod ad caput, ne plura
— 197 -
quam aequum est, dicere videar, neve cramben, ut aiunt, repetam,
in iis, quae mitto, rei studiosos delegabo).
Ac primiim quaeram de substantivorum atque adiectivorum
pari duplici, deinde de eorundem pari simplici. Qua in re sic
versabor, ut eorum adiectivorum (vel pronominum et partici-
piorum (1), quibus vis atque notio adiectivorum subiecta sit et
quae sic usurpentur ut adiectiva, vel substantivorum mobilium,
vel appositorum ceti) rationem habeam, in quibus non solura
vis attributiva (liceat mihi hoc loco et aliis brevitatis ac per-
spicuitatis causa recentioribus his verbis ad rem grammaticam
pertinentibus uti), sed etiam praedicativa insit: item sic sub-
stantiva persequar, ut ea quoque pronomina, adiectiva, participia
adnumerem, quae idem valeant atque substantiva. Etiam litteris
A qì S utar ad adiectivum et substantivum in pari simplici
significandum, litteris coniunctis A S qì A' S' ad substantiva et
adiectiva in pari duplici s. gemino indicanda : in pari
autem duplici compendio AS par primarium, compendio A'S'
par secundarium denotari volo, cum par primarium id
intellegam et vocem, quod et ad sententiam et ad grammaticam
raaioris sit ponderis, par secundarium alterum (cfr. op. adi.
p. 149). Cum vero in conexione duplici substantiva et adiectiva
tribus rationibus inter se coniungantur sibique respondeant, quas
rationes tum par exterius (cum utraque unius alterius copu-
lationis' pars alteram copulationem antecedit), tum par in-
teri us (cum unum par alterius paris membris continetur), tum
par alternum (cum singulae utriusque conexionis partes al-
ternis vicibus inter se excipiuntur) nominavi op. adi. p. 153, et
cum in unoquoque harum formarum genere singula membra
modo decussatim vel Katà xiac^MÓv, modo Kaià rrapaXAriXiaiuòv
inter se conectantur, sequitur, ut bine in singulis tribus bisce
paribus octonae formae exsistant, quas sic numeris, litteris,
exemplis (hexametrorum et pentametrorum) signifìcabo :
(1) Omnia ea participia exclusi, quae cum verbo esse coniuncta tempus
aliquod propositionis finitum indicant, ut eodem pertinere non videantur.
— 198 —
a) In pari duplici exteriore:
Formae. Exerapla.
I SAS'A' Hex. (Nullum exemplum huius formae
est in Rut, hexam.).
Pent. Sed cor frigidius relligione sua.
II ASS'A' Hex. Praesentes lacrimas iectis debemus
avitis.
Pent. luDEX POSTERITAS Semina dira notet.
Ili SAA'S' Hex. Quid simile Assyriis conectere con-
tigit armis?
Pent. Et REGES RuTULOS teste Marone
refert.
IV ASA'S' Hex. Expectata fides pelagi ter quinque
diehus.
Pent. Auri caecds amor ducit in omne
nefas.
V S'A'SA Hex. (Nullum exempl. huius formae est
in Rut. hexam.).
Pent. Poste coronato vota secunda colat.
VI A'S'SA Hex. Utque novas vires fax inclinata
resumit.
Pent. Inque omnes ventos litora nuda
patent.
VII S'A'AS Hex. Viscerihus nudis armatum condidit
HOSTEM (1).
Pent. Iure suo poterat longior esse libek.
(1) Temere ac sine causa hunc versum (II, 47) aliter refingere vult Muel-
lerus d. r. m.' p. 359 (amatam hastam prò armatum hostem): rectius
centra quam Barthius (exesum) lacunam explere I, 227 idem vir doctus
mihi videtur verbis hinc canens.
— 199 —
Vili A'S'AS Hex. Qua taraen est iimcti maris angu-
STISSDIA TELLUS.
Pent. Ut fixos latices torrida duret
HUMUS.
p) In pari duplici interiore :
Formae. Exempla.
I SS'A'A Hex. (NuUum exempl. huius formae est
in Kut. hex.).
Pent. (Nullum exempl. huius formae est
in Kut. pent.).
II AS'A'S Hex. Arridet VLkQibmi radiis crispantibus
AEQUOR.
Pent, CoNTEMPTUS solidet vulnera clausa
DOLOR.
Ili SA'S'A Hex. Fecisti patriam diversis gentibus
UNAM.
Pent. Lymphave fumifico sulplmre tincta
calet.
IV AA'S'S Hex. Porrige victuras Romana in sae-
Clda LEGES.
Pent. Ionias himari littore (1) findit
AQUAS.
V S'SAA' Hex. Materies vitiis aurum letale pa-
randis.
Pent. Excitat in fruges germina laeta
novas.
VI S'ASA' Hex. (Nullum exempl. huius formae est
in Rut. hexam.).
Pent. Congressu explevit mutua vota suo.
(1) In hoc nomine scribeiido (I, 320) Muellerus sibi non constai : cfr. I,
534, ubi est, ut praestat, litora. Sed hac in re variam is codicis scripturam
secutus esse videtur.
— 200 —
VII A'SAS' Hex. Percensere labor densis decora alta
tropaeis.
Pent. SoUicitosque habuit Roma futura
deos.
Vili A'ASS' Hex. Non olim sacri iustissimus arbiter
auri.
Pent. Consumat Stygias tristior umbra
faces.
t) In pari duplici alterno:
Formae. Exempla.
I SS'AA' Hex. (Huius formae nullum est exerapl.
in Eut. hexam.).
Pent. (Huius formae nullum est exempl.
in Rut. pent.).
II S'SA'A Hex. (Huius formae nullum est exempl.
in Rut. hexam.).
Pe)it. (Huius formae nullum est exempl.
in Rut. peni).
Ili SA'AS' Hex. Exaudi, regina tui pulcherrima
mundi.
Pent. Tempestas dulcem fecit amara mo-
ram.
IV S'AA'S Hex. Tempore Cyrnaeas quo primum
venit in oras.
Pent. (Huius formae nullum est exempl.
in Rut. pent.).
V AS'SA' Hex. (Huius formae nullum est exempl.
in Rut. hexam.).
Pent. Dum melior liinae se daret aura
novae.
\
I
— 201 —
VI A'SS'A Hex. lam matutinis Hyades occasihus
UDAE.
Peni (Huìus formae nullum est exempl.
in Kut. peni).
VII A'AS'S Hex. Quid loquar aerio pendentes for-
nice RIVOS.
Pent. Et levi radiat picta nitore silex.
Vili AA'SS' Hex. Sed procera suo praetexitur alga
profundo.
Pent. Et SULCATA levi murmurat unda
sono.
Multa alia duplicis copulationis genera omitto, quae idcirco huc
non pertinent quod aut singula utriusque paris verba inter se
comparata eodem tenore atque ordine progrediuntur, ut alteruni
par alteri subiectum non sit (velut in hexametris : I, 611 quae
lusciim faciunt Argum, quae Lyncea caecum (1), et in penta-
metris : I, 224 nunc villae grandes, oppida parva prius) (2), aut
in nullum ordinem venire possunt (velut in hexametris : I, 335
unum mira fides vario discrimine portum (3), aut geminae co-
pulationis verba, si constructionem illam dictionum spectamus,
quam Graeci auvTaEiv vocant, non uno versu, sed utroque distichi
versu continentur neque ad paris duplicis naturam comparata
inter se cohaerent, ut I, 533 sq. mira loci facies. Pelago pul-
santur aperto — inque omnes cett. (4).
Cum autem quaererem, quam crebrae singulae paris duplicis
fìgurae (nam de pari simplici deinceps investigabo) in hexametris
et pentametris Rutilii legerentur, hos numeros reperiebam. Ut hic
eas formas mittam, quae cum aut nullae aut perquam rarae sint,
(1) Gfr. I, 39; 89; 253; 385; 499; 599; II, 59.
(2) Gfr. I, 148.
(3) Gfr. 1, 453; 635. Versum autem supra adlatum, I, 355, partim (« mira
fides ») ad schema AS, partim (« unum vario discrimine portum ») ad
schema paris inter ioris quartum (AA'S'S) referre quis poterit.
(4) Huius fere generis sunt etiam I, 115 sq.; 241 sq.; 299 sq.
— 202 —
huc referre non est necessarium, reliquas hoc ordine niagis ma-
gisque decrescente, prout minus ab eo frequentantur, oculis sub-
iciam fidelibus:
Hexametrorum
a) in pari exteriore:
Primus locus est formae IV (ASA'S'), cuius numerus frequentiae
est 5 (1).
Secundus locus est formis TU et Vili (SAA'S' et A'S'AS), cuius
utriusque formae num. freq. est 4 (2).
P) in pari interiore:
Primus locus est formae Vili (A'ASS'), cuius numerus frequentiae
est 18 (3).
Secundus locus est formae IV (AA'S'S), cuius numerus frequentiae
est 13 (4).
Tertius locus est formae VII (A'SAS'), cuius numerus frequentiae
est 8 (5).
(1) I, 191; 205; 317; 361; 489.
(2) Figurae III loci singuli sunt : I, 83; 193; 441; 451; figurae YIII sunt
hi : I, 7; 375; 405; 11, 25. Ad hasce vero figuras et eas, quas infra indicabo,
etiam aliae accedant, quibus una aliave harum formarum contineri dici po-
test, eas dico figuras, in quibus etiam tertium (vel tertium et quartum)
adiectivum (vel participium cett.) aut substantivum binis adiectivis aut sub-
stantivis in pari duplici adiunctum est, quod adiectivum vel substantivum
crassioribus litteris tum a, tum a', tum s, tum s' usurpatis, prout ad unum
alterumve adiectivum vel substantivum paris duplicis pertinet, significabo.
Huius itaque generis copulatio ad paris exterioris figuram 111 adiciatur
versus I, 559 (SAA'S'a : puppihus ergo meis fida in sfattone locatis), ad
figuram Vili versus I, 319 (aA'S'AS : qualis per geminos fluctus Ephy-
reius Isthmos). — Reliquae paris exterioris formae aut nullae sunt in
Rutilii hexametris (ut formae I = SAS'A' et V = S'A'SA), aut b i s usur-
pantur, ut forma li (ASS'A'): 1, 25; 519, ut forma VI (A'S'SA): I, 131; 367,
ut forma VII (S'A'AS): I, 329; 11, 47 ( — buie formae adiciatur etiam I, 87
= S'A'ASs: nec Ubi nascenti plures animaeque manusque).
(3) I, 23; 69; 119; 137; 171; 211; 213; 221; 235; 271; 483; 605; 607; II, 27;
51; 55; 63; 65. (Addi possunt propter analogiam vel similitudinem I, 81;
353, quorum est forma aA'ASS').
(4) 1, 17; 29; 133; 187; 231; 265; 285; 311; 425; 457; 569; 575: lì, 29.
(5) I, 93; 95; 219; 315; 387; 493; 503; 603. (Addi possunt propter simili-
- 203 -
y) in pari alterno:
Primus locus est formae Vili (AA'SS'), cuius numerus frequentiae
est 33 (1).
Secundus locus est formae VII (A'AS'S), cuius numerus frequentiae
est 7 (2).
Tertius locus est formae III (SA'AS'), cuius numerus frequentiae
est 4 (3).
Pentametrorum
a) in pari citeriore:
Primus locus est formis VII et Vili (S'A'AS et A'S'AS), cuius
utriusque formae num. freq. est 12 (4).
Secundus locus est formae VI (A'S'SA), cuius numerus frequentiae
est 7 (5).
P) in pari interiore:
Primus locus est formae VIII (A'ASS'), cuius numerus frequentiae
est 18 (6).
tudinem 1, 245; 445; 507, quorum et forma aA'SAS')- Ceterorum paris i n-
terioris schematum aut nullum est exemplam, ut f. I (SS'A'A) et
f. VI (S'ASA'), aut reliquis rariora sunt, ut f. II (AS'A'S): I, 373; 535;
li, 9; 13; 49, ut f. Ili (SA'S'A): I, 63; 301; 331;' II, 41, ut f. V (S'SAA'):
I, 357).
(1) I, 13; 19; 43; 101; 105; 107; 117; 153; 159; 175; 181; 263; 267; 277;
283; 327: 333; 339; 347; 359; 393; 401; 411; 415; 461; 471; 511; 525; 537;
547; 597; -II, 31; 57.
(2) I, 97; 143; 155; 203; 513; 565; 617. (Addi possunt propter similitudinem
I, 151 et 247, quorum est forma aA'AS'S).
(3) I, 21; 47; 477; 621. (Addi possunt propter similitudinem I, 391 et 423,
ex quibus prioris forma est aaSA'AS', posterioris aSA'AS'. Reliquorum in
pari alterno formarum exempla aut nulla reperiuutur, ut f. I (SS'AA'),
ut f. II(S'SA'A), ut f. V (AS'SA'), aut singula in formis IV (S'AA'S): 1,
437 et VI (A'SS'A): I, 633.
(4) Prioris formae loci singuli hi sunt: I, 118; 360; 432; 476; 478; 482;
522: 588: 614; 638; II, 16; 48. Posterioris hi: I, 20; 114; 146; 234; 242; 352;
380; 404; 406; 580; 594; II, 2.
(5) I, 182; 240; 316; 410; 412; 434; 534. Reliquae formae paris exte-
rioris aut semel inveniuntur in Rutilii pentametris, ut f. Il (ASS'A'):
1, 308, ut f. IH (SAA'S'): 1, 170, aut bis, ut f. IV (ASA'S'): I, 358; 550), ut
f. I (SAS'A'): I, 250; 390, aut t e r, ut f, V (S'A'SA): I, 258; 398; 424.
(6) I, 24; 80; 102; 106; 144; 156; 294: 304; 346; 368; 370; 392; 496; 524;
616; 636; lì, 46; 58.
— 204 —
Secundus locus est formae VII (A'SAS'), cuius nuraerus frequentiae
est 17 (1).
Tertius locus est formae IV (AA'S'S), cuius numerus frequentiae
est 16 (2).
Quartus locus est formae V (S'SAA'), cuius numerus frequentiae
est 8 (3).
Quintus locus est formis II et VI (AS'A'S et S'ASA'), cuius
utriusque formae num. freq. est 6 (4).
t) in pari alterno:
Primus locus est formae Vili (AA'SS'), cuius numerus frequentiae
est 17 (5).
Secundus locus est formae VII (A'AS'S), cuius numerus frequentiae
est 8 (6).
(1) 1, 48; 198; 248; 278; 280; 286; 356, 374; 382; 384; 420; 440; 458; 462;
56S; 578; li, 40. (Addi possunt propter similitudinem I, 228 et 438, quorum
forma est aA'SAS').
(2) I, 54; 112; 142; 150; 202; 292; 314; 320; 348; 354; 486; 518; 564; 602;
632; li, 6.
(3) I, 70; 128; 168; 298; 376; 426; 596; 618.
(4) Prioris formae: 1, 44; 108; 120; 296; 302; II, 8; posterioris formae:
I, 62; 92; 300; 418; 466; 494. (Addi potest propter similitudinem I, 270,
cuius forma est S'AaSA'). Duarum figurarum , quae in hoc pari in-
teriore reliquae sunt, altera (f. I =: SS'A'A) n u s q u a m reperitur, al-
tera (f. Ili := SA'S'A) bis legitur (I, 252; 338). Quod vero ad huius formae
versum I, 388 « quae genitale caput propudiosa metit », mire propter ini-
prudentiam lapsus est Georgesius in verbo, quod est propudiosus interpre-
tando {Aiisf. Lat.-Beutsch. Handwórt. II Bd, p. 1801): nam hoc adiectivum
perperam cum convicia hexametri superioris coniungit, cum idem ad quae,
quod ad genti eiusdem hexametri refertur (« Reddimus obscaenae convicia
debita genti »), pertineat.
(5) I, 60; 86; 90; 104; 244, 246; 284; 322; 448; 484; 502; 514; 528; 642;
644; II, 14; 42. Huius formae versus I, 644 « sive corusca suis sidera pascit
aquis » (iteraque v. I, 438) praebet exemplum pedis amphibrachi in priore
pentametri parte: quod perraro fieri in poetarum et Graecorum et Lati-
norum elegis, nuper demonstiavit Isidorus Hilbergius (Zeitschr. f. d. òsterr.
Gymn. 1895, p. 805 sqq.). Videsis quae ipse animadverti in huius opusculi
censura (Bollett. di Filologia Class., Ili, n. 8, p. 185 sqq.).
(6) I, 152; 332; 338; 488; 500; 624; 634; II, 66.
- 205 -
Tertìus locus est formae III (SA'AS'), cuius nuraerus frequentiae
est 6 (1).
Quae tabellae mirum quantum cura tabellis iis, quas de opti-
morum elegiae scriptorum pentaraetris disputans proposui op. adi.
p. 157 sqq., congruant, cuique erit persuasum, qui has cum illis
comparare velit. Neque dixerit quispiara hoc esse opus perdere;
non id enim solum constabit, Rutilium in peritissimos atque eie-
gantissimos elegorum conditores iure raeritoque ascribendum esse,
quip])e qui omnium optima exemplaria secutus sit, sed etiam
nonnulla distichorum tamquam leges Kutilii quoque exemplo
magis magisque firmabuntur.
Hic videamus, si placet, ex tribus paris duplicis formis quae
magis minus frequentatae sint a Rutilio: quod ex subiecta tabella
perspicuum erit:
Numerus universus paris e x te ri ori s est 59 (hex. 19 -h pent, 40)
» » » interioris » 122 (hex. 49 -h pent. 73)
» » » alterni » 78 (hex. 46 -f- pent, 32).
Ex quo colligitur, copulationem illam substantivorum adìecti-
voruraque duplicem, quara omnium optimam ducebant poetae,
qua efficiebatur, ut alterutrum par altero, quasi nucleura suo in-
volucro, contineretur (cfr. op. adi. p. 156 adn. 2), longe creber-
rimam esse, ut apud elegiae Latinae tamquam triumviros {op.
adi. p. 161), ita apud Namatianum, idque non modo in penta-
raetris, verum etiam in hexametris. Cum enim ex universis trium
parium numeris summ.a subducatur 259, sequitur, ut in centenis
locis ratio paris interioris sit 47,10 % (hex. 18,92 % + P^nt.
28,18%), cum paris alterni sit 30,12 % (liex. 17,77 % + pent.
12,35 7o), paris exterioris 22,78 o/o (hex. 7,34 o/o --t- 15,44 %) (2).
(1) 1, 378; 386; 468; 492; II, 30; 34. Ex ceteris paris alterni schematis
quattuor non itiveniuntur in Rutilii pentametris (I :=; SS'AA' ; 11:=
S'SA'A; IV= S'AA'S; VI = A'SS'A), unum (V = AS'SA') semel (I, 206).
(2) Hae rationes nihil fere mutantur, si paucas eas formas adnumerave-
rirnus, quas in ad'notationibus indicavi quasque tantummodo propter simili-
tudinem ad eas, quas principales nuncupaverim, referri posse dixi.
- 206 -
Quod vero pentameter, ut cuiusdara grammatici verbis utar, est
tamquam distichi anima, si versus Eutilii breviores a longioribus
seiungere et cum pentametris Tibulli, Propertii, Ovidii in com-
parationis iudicium vocare velimus, apparet, Eutili um in hu-
iuscemodi figuris utendis ceteris poetis ideo sirailem esse, quod
copulationi substantivorura adiectivoruraque geminae interiori
primas detulit, eundemque hac re ab iis diferre, quod non pari
exteriori, sed pari alterno ultimum tribuit locum: quod
facile perspiciemus si has rationes, dico
in unìversis pentametrorum paris duplicis formis 145
rationem paris interi oris 50,34 '^Iq
» » exterioris 27,59 %
» » alterni 22,07 o/o (1)-
cum tabellis op. adi. p. 161 comparabimus.
Quod si in unoquoque collocationis duplicis genere singulas
formas aut certe eas, quae magis proposito conducant et haereant
apte, examinamus, piane intellegitur, eas formas in singulis pa-
ribus, idque non minus in hexametris quam in pentametris, ceteris
crebriores esse, aut in quibus unumquodque adiectivum ante suum
substantivum vel ambo adiectiva ante sua substantiva posita sunt
(ut in paris exterioris formis IV et Vili hexametrorum, Vili
pentametromim, ut in paris iute ri oris formis Vili, IV, VII hex.,
Vili, VII, IV pent., ut in paris alterni formis Vili et VII hex.,
VIII et VII peni), aut in quibus ambo adiectiva suis substantivis
continentur (ut in paris exterioris forma III hexametrorum.
(1) In ceteris eorundem parium duplicium formis, quae ad hexametros
pertinent quaeque universae sunt 114 (pent. 145 + hex. 114 = 259) has ra-
tiones inveni in centenis locis :
paris i n t e r i 0 r i s : 42, 98 o/o
» exterioris: 16, 67 o/o
» alterni: 40,35 0/0.
Linde patet, Rutilium magis in hexametris quam in pentametris regulam
illam, ad quam plus minus disticha sua conformarunt poetae elegiaci, ut
formis paris exterioris quam minimum prae ceteris faverent (cuius rei
causas exposui op. adi. p. 156), secutum esse.
- 207 -
VII pentametromm, ut in paris alterni forma III hex., Ili peni):
id autem hoc loco animadvertendura, in paribus interiore et
alterno hexametrorum atque pentametrorum (quae paria elegan-
tissimi habebantur) aut singula vel ambo adiectiva ante sua sub-
stantiva collocari aut quaterna paris duplicis membra ita inter
se plerumque copular], ut singi\la adiectiva et substantiva de-
cussatim sibi respondeant et unum alterum adiectivum alteri utri
substantivo praecedat. Videsis op. adi. p. 165 et cfr. p. 147 sq.
Quae tamquam elegantiae metricae lex etiam ex contrario con-
firmatiir: nam ut apud optimos elegiacos ita apud Rutilium
perquam rara (aut nulla) ea schemata inveniuntur, in quibus aut
singula adiectiva singulis suis substantivis postponuntur (ut in
paris exterioris formis I et V hexametrorum atque pentame-
trorum) aut ambo substantiva ambobus suis adiectivis excipiuntur
(ut in paris interioris forma I hex. atque pent. et forma V
hex. [haec centra forma paulo est frequentior in pentametris], ut
in paris alterni formis I et II hex. atque pent.) (1).
In pentametns vero, quod etiam ad hanc rem spectat, mirus est
conseosus inter huius generis versus Rutilii et ceterorum: nam
ut in universis Tibulli, Propertii, Ovidii pentametris (quos op.
adi. proprie examinavi) primae deferendae sunt formis paris inte-
rioris octavae et septimae, ita apud Rutilium, qui non secus
ac ceteri tertium ordinem assignavit formae paris alterni octavae,
quartum autem formae paris interioris quartae. Etiam formas
paris alterni tertiam et septimam, quae non raro a ceteris
(1) Formae paris alterni II (S'SA'A) ita adversabantur elegiae Latinae
scriptores, ut ne apud eos quidem poetas, quorum carmina alio loco per-
scrutatus sum, huius formae ullum exemplum in pentametris invenerim {op.
adi. p. 154): cuius rei causas indagare studui op. adi. p. 160. Etiam ceterae
formae, quarum fortasse propter haud ita magnum versuum numerum
nuUum legitur exemplum in distichis Rutilii, perrarae sunt apud Tibullum,
Propertium, Ovidium {op. adi. p. 157 sq.). Huc autem, praeter alia (ut in
clausulis pentametrorum) pertinere videntur Schenkelii verba, /. adi. p. 129,
qui, cum Muellero assentiatur, artem metricam Namatiani « einen Versbau
zeigen, welcher alien Anforderungen der Richtigkeit und Schònheit ent-
spricht », haec addit : « dass damit auch eine Beschrànkung auf
gewisse metrische Formen und somit eine unangenehme Ein-
tònigkeit verbunden ist ».
— 208 -
usurpantiir, cum apud eos quintum sextumque locum sibi
vindicent, satis crebro apud Rutili um legimus, ut tabella, quam
supra apposui, docet, (Cfr. op. adi. p. 162 sq.).
Idem fere dicendum de paris duplicis schematis in hexa-
m e tris Rutilii, apud quem has tres formas, ordine frequentìae
servato, omnium esse creberrimas ex nostra tabella elucet: paris
alterni octavam, paris interioris octavara et septimam: ut
hac in re id tantum differant hexametri a pentametris, quod cum
ceterum hae formae in utriusque generis versibus omnium sint
reliquarum frequentissimae, in pentametris primus est locus or-
dini interiori, in hexametris ordini alterno.
Praeterea non alienum est ab hoc loco monere, cum etiam
apud Namatianum, ut apud ceteros, quae formae magis minusve
crebro reperiuntur in pentametris, has eadem fere ratione ple-
rumque usurpatas esse videamus in hexametris, eius quoque
exemplo confirmari, quam prope pentameter ad tamquam sui pa-
rentis imaginem accedat.
Paucis nunc absolvam, quae ad collocationem substanti vorum
adiectivorumque, quam par simplex supra dixi, pertinent. Ut
in pari duplici eas formas omnium subtilissimas habitas esse
ac maxime excultas vidimus, in quibus adiectiva vel singula vel
bina ante sua substantiva itidem vel singula vel bina collocantur,
ita in pari simplici formam AS multo crebriorem esse quam
contrariam, SA, et facili coniectura assequimur et numeris ipsis
docemur. Ex locis enim 291, in quibus par simplex legitur in
hexametris pentametrisque Rutilii, 234 ad formam pertinent AS
(= hex. 136 + peni 98), 57 ad formam SA (= hex. 23 H- pent. 34):
ut in centenis locis hae rationes efficiantur:
AS = «0,41 0/^,
SA =.19,59-0/0 (1).
(1) Omitto hoc loco qaaerere, quo modo haec adiectiva et substantiva in
utroque ordine metrico distributa sint : nam de hac quoque re paulo infra,
cum ad par duplex redeam, nonnulla dicam, quae etiam ad homoeote-
leuta, quae vocant, s. verba similiter desinentia spectare videntur. Ulud
tantum addam, formam 1) ...A//...S, qua adiectivum in extremo ordine
priore (h. e. ante caesuram primariam), substantivum in extremo ordine
— 209 —
Dp adiectivis autem in pari simplici ante sua snbstantiva pie-
rumque collocandis eadem fere valent quae de huius generis col-
locatione diximus antea in pari duplici ; cfr. praeterea quae monui
op. adi. p. 144 sqq.
X. — lam vero videamus qua ratione substantiva et adiectiva
liexametrorum pentametrorumque in paribus simplicibus et du-
plicibus caesura principali dividantur.
Quod ad par simplex spectat (1), nuraerus hexametrorum et pen-
taraetrorum universus, in quibus adiectiva et substantiva vel, ex
contrario, substantiva et adiectiva in utroque ordine metrico aeque
distributa inveniuntur, est 161 (= hex. 80 -+- pent. 81): ex bis
loci sunt 100 (= hex. 53 -t- pent. 47), in quibus utrumque adie-
ctivum et substantivum vel, ex contrario, quod multo fit rarius,
utrumque substantivum et adiectivum extremum quemque ordinem
raetricum occupat; in reliquis 61 (= hex. 27 -t- pent. 34) vel
utrumque vel unum alterumve copulationis simplicis membrum
in unius alterius hemistichii fine non legitur; deinde hexametri
pentametrique reperiuntur 100 (== hex. 63 -t- pent. 37), qui totum
posteriore denotari volo, omnium esse cum praestantissimara tiim creber-
rimam non minus in hexaraetris quam in pentametris : huius enim colloca-
tionis numerus universus est 91 (=r hex. 50 + pent. 41). Reliqua verborum
distributionis genera satis hic habeo numeris et litteris nude ac simpliciter
sic indicare : 2) A//S ( — qua figura significatur, aut unum alterum copu-
lationis niembrum aut utrumque in extremo quoque tum priore tum poste-
riore ordine metrico non inveniri): 54 (== hex. 23 -|- pent. 31); 3) ....//AS :
72 (= hex. 53 -f- pent. 19); 4) AS//.... : 17 (= hex. 10 + pent. 7); 5) ....S//....A:
9 {= hex. 3 -f- pent. 6); 6) S//A : 7 {— hex. 4 -h pent. 3); 7) . ..//SA : 28 (=
hex. 10 -H pent. 18); 8) SA// : 13 (= hex. 6 -|- pent. 7). Propter similitu-
dinem adici possunt ea schemata, in quibus paris simplicis substantivo et
adiectivo alterum substantivum aut adiectivum accedit : itaque ad formam
1) referri possunt versus I, 100 et 516 (= AA//....S et ...A//...AS), ad for-
mam 2) vel etiam 3) versus I, 74; 82; 546; II, 24 (= AA//S et A//AS), ad
formam 7) vel etiam 4) vel etiam 5) vel etiam 2) versus I, 14; 32; 52; 76;
276 (= A//SA et AS//A et AS//... A), ad formam 2) versus I, 174 (z= A/SS),
ad formam 8) vel etiam 2) versus I, 604 {z= S>kl j^), ad formam 5) versus
I, 552 (= ...S//...AA), ad formam 6) versus I, 9 (= S//AA), ad formam 3)
versus 1, 217 (= ....//AAS).
(1) Ea pauca exempla neglego, quae ut ad paria duplicia sic ad paria
simplicia tantummodo propter similitudinem pertinere videntur quaeque ad
numerum universum nullius sunt momenti.
ninsta di Jiloìoyia, ecc., XXV. 14
— 210 —
par (AS vel SA) in hemistichio posteriore, 30 (= hex. 16 -t-
-h pent. 14), qui idem in hemistichio priore exhibent. Ciim vero
in pentametrorum (ut de his tantum dicam) locis iis, in quibus
uterque utriusque ordinis metrici finis adiectivo et substantivo,
vel substantivo et adiectivo obtinetur (nam ceteros locos excludi
necesse est) sint 47 (= AS : 41 -\- SA : 6) et in his loci repe-
riantur viginti octo, i. e. aliquanto plus quam dimidia pars,
in quibus, cum alius sit exitus adiectivi, alius substantivi, ho-
moeoteleuti concentus non auditur (etiara si homoeoteleuton sic
intellegimus ut multi volunt), sequitur, ut Rutilii quoque esemplo
ea satius confirmentur, quae alio loco homoeoteleuton in poetarum
elegiacorum pentametris persecutus exposui {op. adi. p. 152 sq. ;
cfr. etiam opusculi, quod est a me inscriptum BelV Omeoieleuio
latino, Padova, 1891, p. 23 sqq.) (1).
Sed haec etiam probantur atque adeo luculentiora efficiuntur,
si, quibus rationibus singula parium geminorum membra cae-
sura primaria dispertìantur, antea inquiratur. Etenim fieri potest,
ut aut binae copulationis duplicis partes in binis hexame-
trorum pentametrorumque ordinibus raetricis aeque distributae
legantur ( — hoc collocationis genus, quod sic indicabo 1. 2.//3. 4.,
divisionem verborùm aequam appellavi op. adi. p. 167), aut
unum paris duplicis membrum priore hemistichio, reliqua tria
posteriore ( — hanc divisionem non aequam ita significabo:
1.//2. 3. 4.) comprehendantur (2): prioris generis sunt exempla
(1) Hexametros omisi, nam ut libelli adlati de homoeoteleuto p. 23 sqq.
monui, etiam si recitationem versùum illara, quam dicunt metricam, se-
quimur, homoeoteleuti concentus, ut illi volunt, oriri non potest, nisi prior
ordo metricus caesura, quae dicitur kotò TpiTov TpoxaTov, (quae perrara
est apud ceteros, nulla, uno fortasse loco excepto, qui etiam huc non per-
tinet, apud Rutilium) finiatur : nulla enim aut fere nulla soni similitudo
auribus accipitur, ut unum proferam exemplum, hoc loco: « àst ubi flà-
grantcs // admóvit Sirius ignes ».
(2) Divisionis itidem non aequae sed buie contrariae (1. 2. 3// 4)
exemplum n u 1 1 u m exstat in pari alterno, unum in paris exterioris
hexametris (f. Ili = SAA'S' : I, 83), unum in eiusdem paris pentametris
(f. IV = ASA'S' : I, 550), unum in paris interioris hexametris (f. VII =
A'SAS' : I, 503), unum in eiusdem paris pentametris (f. Ili =: SA'S'A :
I, 388). Etiam duo loci sunt in hexametris (in paris interioris forma VII =r
A'SAS' : I, 93 et 493), in quibus totum par duplex posteriorem versus
partem explet.
J
— 211 —
apud Rutilium 138 (= hex, 55 -f- pent. 83), posterioris 115
(= hex. 55 H- pent. 60) : ut hac re quoque eum ab optimorum
exemplarium consuetudine non recessisse eluceat (cfr. op. adi.
p. 165 sqq., ubi etiam huiuscemodi coUocationura causas et ra-
tiones investigare atque reddere studui).
Praeterea id est animadvertendum , in utriusque divisionis
(aequae et non aequae) generibus maiore numero pollere pen-
tametros quam hexametros, atque in paribus exteriore et alterno
divisionis aequae, in pari contra interiore multo crebriora esse
divisionis non aequae exerapla. In pari enim exteriore numerus
divisionis aequae est 51 (= hex. 15 -+- pent. 36), non aequae
6 (= hex. 3 -+- pent. 3), in pari alterno aequae 61 (hex. 32 -h
-+- pent. 29), non aequae 17 (= hex. 14 -i- pent. 3), contra
in pari interiore divisionis aequae numerus est 26 (= hex. 8 -h
pent. 18), non aequae 92 (= hex. 38 -h pent. 54): qua in re
conferantur, quaeso, ceterorum elegiacorum numeri, quos op. adi.
p. 167 collegi.
Atque nunc si illud in quaestionem vocamus, utrum crebrius
per TTapaXXri\i(y)Liòv an per xiaaixòv s. decussatim singula paris
duplicis membra inter se respondeant, numeri docent, prius col-
locationis genus, cuius sit summa universa 167 (= hex. 81 -h
-r- pent. 86), crebrius esse quam posterius, cuius numerus uni-
versitatis est 92 {= hex. 33 -t- pent. 59) (1). Quam eandem fere
rationem. reperiri in Tibulli, Propertii, Ovidii pentametris facile
cuique op. adi. p. 165 inspicienti persuasum erit.
Quod denique spectat ad quaestionem de homoeoteleutis, quam
supra in pari simplici tetigi, Rutilii quoque exemplo in pari du-
plici demonstrabo, perversam esse eorum sententiam, qui conten-
(1) Hos utriusque collocationis numeros sic ad singula paria pertinere
repperi :
Collocationis per TrapaXXriXia]uóv Collocationis per xici0|uóv
numerus est : numerus est
In pari exteriore 28 (= hex. 9 + pent. 19) . . 31 (rz hex. 10 + pent. 21)
» » interiore 74 (;= hex. 32 + pent. 42) . . 48(=:hex.l7 + pent. 31)
» » alterno 65 (—hex. 40 + pent. 2.5) . . 13(= hex. 6 + pent. 7).
— 212 —
dunt, ideo maxime poetas elegiacos adiectìvum (vel, qiiod multo
rarius usu venit, substantivum) unius alteriusve paris in priore
hemistichio extremo, substantivum (vel adiectivum) in posteriore
extremo plerumque collocasse, ut utrumque versus ordinem me-
tricum syllabis sìmiliter desinentibus atque inter se concinentibus
artius conecterent. Ex pentametrorum enim locis 145 ( — hexa-
metros hic omittendos ea de causa censeo, quam antea exposui),
quorum 40 ad par exterius, 73 ad par interius, 32 ad par
alter num pertinent, primum excludendae siint omnes paris
exterioris formae, quippe in quibus ei adiectivorum substanti-
vorumque coUocationi, quam dixi, nullo pacto locum esse possit
nisi in divisione non aequae alterius generis (1. 2. 3// 4.), cuius
nullum aliud invenitur exemplum in Rutilii distichis praeter
hexametrum I, 83 (qui bue non pertinet) et pentametrum I, 550,
ubi tamen substantivum, cum quo adiectivum in exitu ordinis
prioris collocatum coniungitur, non extremam alterius ordinis
sedem obtinet nec sìmiliter cadit atque adiectivum. In pari autem
interiore necesse est eas omnes formas praeterire, in quibus di-
visio aut aequa est aut non aequa alterius generis (1. 2. 3//4.),
et earum tantum rati onem habere, in quibus divisio non aequa
generis prioris (1.//2. 3. 4.) fit: ex is vero formae I et formae III
exemplum est nullum, formae II exempla sunt quinque, sed
in bisce non plura quam duo (1) eandem praebent in singulis extre-
mis hemistichiis adiectivorum substanti vorumque terminationem.
In ceteris formis hos numeros inveni:
Formae IV exempla tria, sed sine liomoeoteleuto vel rectius ho-
moeoptoto.
» V » octo: ex bis cum homoeopt. in extremis
ordin. metr. duo (2).
» VI » sex : ex bis cum homoeopt. in extremis
ordin. metr. duo (3).
(1) 1, 108; 302.
(2) I, 426; 618.
(3) I, 92; 418.
— 213 —
Formae VII exempla quindecim: ex liis cum liomoeopt. in ex-
tremis ordin. metr. novem (1).
» Vili » decera et septem: ex his cum homoeopt.
in extremis ordin. metr. sex. (2).
Denique in pari alterno omnes formae eae segregandae sunt,
in quibus divisio non aeqiia fit: in his enim nullo modo illi
verborum disposìtioni, quam indicavi, locus esse potest (3); prae-
terea excipiendae sunt formae l, li, IV, VI, quarum nullum est
exemplum in Rutilii pentametris ; restant formae III, V, VII, Vili,
quas singillatira examinabo:
Formae IH exempla di vis, aequae sunt sex : ex his cum homoe-
opt. in extremis ord. metr. quinque (4).
» V exemplum divis. aequae est unum, idque cum bo-
ra oeoptoto (5).
» VII exerapla divis. aequae sunt quinque: ex his cura
homoeopt. unum (6).
» Vili » divis. aequae sunt decera et septera:
ex his cum homoeopt. sex (7).
Igitur patet etiam paris duplicis formis regulam illam homoeo-
teleutorum, quam'volunt, non comprobari, quam supra in pari
simplici rainime reperiri dixiraus: in locis enim huius generis
84 colloGatio illa paris duplicis, ex qua propter similitudinem
adiectivorum substantivorumque in easdem syllabas cadentium,
idque in utroque pentametri ordine extremo, homoeoteleuton oriri
putant nonnulli, non pluries legitur quam tri eie s qua ter, ut
multo plures quam dimidia parte loci sint, in quibus aut propter
(1) 1, 48; 198; 286; 356; 374; 440; 462; 568; 578.
(2) I, 156; 346; 370; 392; 524; 616.
(3; Geterum in Rutilii pentametris huius divisionis exemplum nullum re-
peritur nisi in forma VII (A'AS'S : I, 332; 634; II, 66).
(4) I, 378; 386; 468; II, 30; 34.
(5) I, 206.
(6) 1, 152.
(7) I, 246; 284; 528; 642; 644; II, 42.
— 214 —
dissimiles adiectivorum atque substantivorum in casus declina-
tiones vel terminationes, aut propter collocationem ipsam adiecti-
vorum vel substantivorum non in unius alterius ordinis metrici
exitu factam, nullum homoeoteleuti (rectius homoeoptoti) con-
centum audiri, etiam homoeoteleiito sic intellecto ut illi volunt,
Decesse est.
Pietro Rasi.
— 215
ESCHINE E LA GUERRA CONTRO ANFISSA
Quando nell'autunno del 340 si riunirono come di consueto a
Delfi i rappresentanti degli stati ascritti all'Anfizionia (1), il pi-
lagoro ateniese Eschine figlio di Atrometo del demo di Cotocide,
presa appena la parola, fu interrotto dalle violenti invettiv^e d'un
deputato d'Anfìssa che accusò Atene d'empietà ricordando il soc-
corso dato ai Focosi nella precedente guerra sacra. Né pareva
che avesse a trattarsi soltanto d'una contesa di parole : a quanto
erasi sparso, si macchinava niente meno che una condanna anfi-
zionica contro Atene. Sorse allora di nuovo il pilagoro ateniése
e pieno d'ira, ispirato dalla vista che si spiegava dinanzi della
pianura di Cirra, accusò i Locresi d'Anfìssa d'aver coltivato sa-
crilegamente quella pianura condannata dalla prima guerra sacra
a restare in eterno sterile. Gli Anfizioni fuori di se dallo sdegno
per il sacrilegio degli Anfissei, sotto la impressione della fulminea
eloquenza dell'oratore, determinano di accedere tosto nella pia-
nura e- là incendiano e devastano campi e seminati. E la conse-
guenza è che i Locresi aprono immediatamente le ostilità.
Questa è nella sua sostanza l'esposizione che fa dei principi
di quella guerra nella Grecia centrale che terminò con la battaglia
di Cheronea colui che fu in apparenza in quel fatto l'attore prin-
cipale : Eschine {in Ctesipli. 107-124). Ma ognuno che la rilegga
e che sappia pensare non può a meno di scuotere il capo. Solo
se la scena era nel medio evo invece che nel pieno fiore della
civiltà ellenica, se l'attore invece che Eschine si chiamava Pietro
d'Amiens o Bernardo di Chiaravalle, se invece che d'Anfizioni si
trattava di Crociati, il racconto potrebbe accettarsi tal quale.
(1) Per la cronologia v. Beloch Gr. Geschichte II 556 n. 3.
— 216 —
Eppure nessuno fin qui ha fatto di quel racconto la giustizia
che merita. Ed anche il più recente storico dei Greci, che nes-
suno certo accuserà di servilità verso la tradizione, sostanzial-
mente lo ricopia (Beloch Griechische Geschichfe II 556 segg.)-
La ragione sta in ciò che a favore della esattezza del racconto
d'Eschine nelle sue linee essenziali v'è una testimonianza a primo
aspetto gravissima, quella di Demostene {de Cor. 149-151); il
quale nega ed a ragione che i Locresi d'Anfissa abbiano mosso
un'accusa formale contro Atene, cosa che del resto Eschine non
dice, ritiene che Eschine abbia recitato nell'Anfizionia la sua
parte d'accordo con Filippo; conviene però con Eschine nel rite-
nere che il costui discorso abbia realmente scatenato la guerra
sacra.
Ma tanto il discorso per la Corona quanto quello dell'Amba-
sceria stanno a dimostrare che l'accordo tra Demostene ed Eschine
su questo punto non può avere troppo valore. Per Demostene
Eschine è la causa di tutti i mali della Grecia : ouTÓq (dic'egli)
è(J6' ó là GriPaiujv vuv òòupóiaevoi; TtaBr) Kal òieHiùJV ójc, oÌKTpà
Kttì TouTiuv Ktti Tujv èv OuuKeOcJi KaKujv Kttì ò& àWa ireTTÓvGaaiv
01 "€\\riv€q ÓTrdvTUJV aùiò^ ujv aiTioq (de Cor. 41). Lui come ha
fatto perire i Focesi (de Cor. 142. 158 etc), così ha suscitato
la guerra di Anfissa da cui sono derivati danni sì gravi. Quindi
Demostene, il quale ritiene, ed a ragione, la condotta d'Eschine
a Delfi contraria agl'interessi ateniesi, non discute il vanto che
Eschine s'è dato di avere suscitato la guerra d'Anfissa: lo accetta,
perchè in quel vanto non vede che un'arma tremenda di accusa ;
e si contenta di contrapporre alla descrizione della seduta aufi-
zionica, in cui l'eloquenza di Eschine suscitò la guerra contro
Anfissa, quella della riunione dell'assemblea in cui la sua elo-
quenza preparò l'alleanza fra Tebe ed Atene. Del resto, si noti
bene, per Demostene Eschine ad Anfissa non fu che uno strumento
di Filippo.
E d'altra parte la caratteristica, che Demostene dà degli iero-
mnemoni « uomini inesperti dei discorsi e imprevidenti del fu-
turo», pecca senza dubbio di esagerazione. La Anfizionia da anni,
da quando cioè si era mossa la guerra sacra ai Focesi, aveva
— 217 -
rivestito un'importanza politica di prim'ordine. E non bisogna
dimenticare che accanto agli ieromnemoni sedevano i pilagori e
che, sebbene agli ieromnemoni fosse riservato il voto effettivo, è
evidente che i pilagori d'un paese non potevano mancare d'influire
sui rispettivi ieromnemoni. Ora ad Atene i pilagori erano scelti tra
gli uomini più ragguardevoli. Basti ricordare che furono pilagori
Iperide (Dera. de Cor. 134 seg.), Demostene (Dem. de f. Icg. 65.
Aesch. w Ctesiph. 113 sg.) e lo stesso Eschine. E se probabilmente
lo ieromnemone ateniese era sorteggiato (Aristoph. iVt<&. 623 seg.),
non bisogna dimenticare che gli Ateniesi nel loro dottrinarismo
democratico sorteggiavano anche i propri arconti, i futuri membri
del più ragguardevole consesso d'Atene, l'Areopago. Altrove certo
gli ieromnemoni non saranno stati sorteggiati. Ciò era già noto
per gli ieromnemoni etolici d'età posteriore. Adesso da liste an-
cora inedite di ieromnemoni del sec. IV risulta che anche gli
Achei, i Perrebi, i Maliesi ed i Tessali hanno mandato talora
per più anni successivi una stessa persona al consiglio anfizionico
(Bourguet Bidl. de Corresp. Hellénique XX 1896 p. 238 seg). In
ogni caso i due delegati che Filippo inviava all'Anfizionia, dal
momento ch'egli — nessuno lo mette in dubbio — mirava a va-
lersi dell'Anfizionia pe' suoi fini politici, debbono essere stati uo-
mini capaci di apprezzare la situazione, e non si potrebbe stimar
mai troppo il peso che la loro voce aveva nell'Anfizionia. Lo
stesso Gotti fo di Parsalo che presiedeva il sinedrio degli iero-
mnemoni (Aesch. in Ctesiph. 124) difficilmente sarà stato un
uomo tanto inesperto e dappoco se nella successiva riunione an-
fizionica fu scelto a comandante delle truppe che si spedirono
contro Anfissa (ibid. 128. Dem. de Cor. 151). Ma poi gli Anfi-
zioni nella lega istituita da Filippo hanno formato, pare, il su-
premo tribunale federale (Paus. VII 10, 10. Demosth. de Cor.
322). È verosimile che egli affidasse un ufficio sì delicato ad un
consiglio di uomini aTteipoi Xótouv?
Anche la direzione dell'amministrazione dei beni sacri spettava
agli ieromnemoni, e non era cosa di poco. L'autorità loro era
superiore a quella del consiglio dei vaoTTOioi delfici. Eppure tra
i vaoTTOioi hanno seduto uomini assai eminenti come lo storico
— 218 -
megarese Dieuchida, e a quanto pare lo stesso re Filippo d' Aminta
(Bourguet mem. cit. p. 233). È da sperare che tutte le liste di
ieromnemoni del sec. IV scoperte dalla scuola francese d'Atene
vengano presto alla luce e ci diano nuovi elementi sulla costitu-
zione del consiglio anfizionico (1). Fin d'ora però possiamo ser-
virci di una via indiretta. Dopo cessato il dominio etolico in
Delfi l'Anfizionia che, com'è noto, nel III sec. aveva subito nella
sua organizzazione non poche alterazioni è stata ricostituita, non
sappiamo precisamente quando ne da chi, sulle stesse basi del
suo ordinamento nel 346. La sola differenza degna di nota è che
gli Eracleoti invece d'essere compresi tra i Maliosi hanno nella
lista degli ieromnemoni del 178/7, che ci rispecchia questo ri-
torno all'antico ordinamento (Foucart Bull, de Corresp. Hellé-
nique VII 428), due voci, una tolta ai Maliesi, l'altra ai Lace-
demoni. Invece in una epigrafe del tempo di Alessandro Magno
i Lacedemoni non sono esclusi dalla lista anfizionica (Bourguet,
p. 206 seg.); cosa singoi are, -mentre abbiamo presso Pausania
(X 8, 2) la testimonianza esplicita che i Lacedemoni furono da
Filippo espulsi dall'Anfizionia in pena della parte presa pei Fo-
cesi nella guerra sacra ; ed io non so se dobbiamo dedurne che
l'epigrafe del 178/7 ci rappresenta le condizioni dell' Anfizionia nel
346-338 anche meglio di quella dell'arcontato di Carisseno che
ha pubblicato il Bourguet. Checché ne sia, nella lista degli iero-
mnemoni del 178/7 noi troviamo una quantità di personaggi
ragguardevoli e ben noti. In primo luogo lo ieromnemone tessalo
Ippoloco figlio d'Alessippo è senza dubbio identico allo stratego
(1) Sembra che ci sarà dato di conoscere anche i colleghi di Diogneto
nel consiglio anfizionico. Infatti una delle liste, spettante alla pilea autun-
nale dell'arcontato di Aristonimo, reca, a quanto pare, il nome di Diogneto.
Ciò prova, sia detto tra parentesi, che l'arconte delfico Aristonimo spetta
al 340/39; se è vero che lo ieromnemone ateniese era sorteggiato, sarebbe
singolarissimo che la sorte avesse favorito due anni la stessa persona ; oltre
di che in Atene la carica di ieromnemone era considerata come un' àp\f\,
anzi come un' ópxn abbastanza ragguardevole (cf. Aristot. 'A6tiv. ttcX. 30, 2);
ma per le àpxai vale la legge enunciata da Aristotele 'A0. ttoX. 62, 10 :
fipxeiv òè Tà<; }^év Karà TróX6|uov ópxòq eSeaxi riXeovaKic;, tùjv h' fiXXuuv
oùÒ€|u(av TTXf)v PcuXeOaai biq.
— 219 —
della lega tessalica nel 181 (Euseb. I 243 Schòne. Su lui e la
sua famiglia cf. Kiichnev in Pauly-AVissowa Real-Encydopadie.
I p. 1467); poi l'uno degli ieronanemoni Eniani AóxaYO? 'A^riTa
KaXXmoXiTric; è lo stratego etolico del 179/8, l'altro NiKia? 'A\e-
Eàvòpou KaXuòa)vio<; è il figlio di quell'Alessandro Calidonio
che rivestì per la terza volta la strategia nel 185/4: e infine lo
ieromnemone dei Locresi orientali FTpóavòpoi; TTpoavòpou OóXac;
fu stratego della lega etolica nel 171/0 e quello dei Locresi oc-
cidentali NiKavòpo(; Bìttou Tpixoveù<; ebbe la dignità di stratego
nel 177/6. Dopo tutto ciò mi par poco dubbio che, come dissi,
nelle parole citate di Demostene c'è una buona dose d'esagerazione.
Se vogliamo spiegarci ciò che accadde in Delfi nell'autunno
del 340, bisogna esaminare brevemente quale era stata la politica
di Filippo di fronte a Tebe e ad Atene nel 346, quando gli Ate-
niesi strinsero con lui la pace di Filocrate. Allora la tirannide
militare di Faleco si sfasciava nella Focide e continuare a soste-
nerlo avrebbe avuto per gli Ateniesi l'effetto di trovarsi presto
di fronte nella Grecia centrale Beoti e Macedoni e d'impedire
almeno per molti anni un'intesa tra Tebe ed Atene. Gli uomini
più illuminati del partito che fino allora aveva chiesto la guerra
ad oltranza con Filippo, vedendo nell'intesa tra Tebe ed Atene
il solo modo per riprendere in migliori condizioni la lotta nel
momento opportuno, si trovarono unanimi nel desiderio di pace
col partito degl'interessi materiali che sospirava da anni per la
pace ad ogni costo. E Filippo fu contentissimo della piega che
prendevano le cose. Egli aveva poco altro da guadagnare pel mo-
mento nella guerra contro Atene. Tutto quel che gli Ateniesi
possedevano sulla costa nord dell'Egeo era caduto in sua mano
ad eccezione del Chersoneso. Più prima di costituire una potenza
navale capace di contrastare agli Ateniesi il dominio del mare
non c'era da sperarlo. Ed anche invadendo per terra l'Attica era
dubbio se i risultati da conseguire sarebbero stati in relazione
coi sacrifizi necessari e coi danni che gli Ateniesi spinti alla di-
sperazione potevano fare per mare alla Macedonia. La pace non
solo abbandonava nelle sue mani Cersoblepte di Tracia, ma lo
assicurava che gli Ateniesi non gli avrebbero chiuse le Termopili
- 220 —
e poteva anche dargli agio di fare in una volta il passo mag-
giore per il conseguimento de' suoi intenti. Perchè ormai, stabi-
lita la sua autorità in Tessalia, essendo in dissoluzione la po-
tenza focese, l'unica potenza che nella Grecia centrale o anzi in
tutta la Grecia fosse capace di stargli contro in campo aperto
era Tebe. Se lusingando le antiche gelosie riusciva a trascinare
Atene ad una guerra contro Tebe, nessuno ormai in tutta la
Grecia poteva tenergli fronte per terra. Tale è stato evidente-
mente l'intento di Filippo nelle trattative che accompagnarono la
pace di Filocrate : ed egli non mancò d'infiammare le cupidigie
degli Ateniesi per mezzo di promesse : retrocessione d'Oropo, ri-
stabilimento di Tespia e Platea, l'Eubea attribuita alla sfera di
influenza ateniese (Dem. de Pace 9 seg. Phil. II 30. de f. leg.
20 segg. etc. cf, Aesch. de f. leg. 119 seg. 136). Queste pro-
messe non sono state realizzate; ma ciò non dà alcun argomento
per dubitare della loro sincerità ; come potevano effettuarsi se nel
momento decisivo neppure un oplita ateniese fu inviato per unirsi
alle truppe di Filippo ? Tuttavia questi vantaggi sarebbero stati
pagati dagli Ateniesi a carissimo prezzo. La sola via che aprivasi
agli Ateniesi per sostenere quandochessia in campo la loro posi-
zione di grande potenza sarebbe stata chiusa per sempre. L'ege-
monia di Filippo nella Grecia sarebbe divenuta un fatto compiuto.
Ma di tali conseguenze non potevano aver sentore le masse popo-
lari dell'agora.
Qui stava il pericolo delle trattative di pace ufficialmente
aperte dal decreto di Filocrate che stabiliva s'inviasse in Mace-
donia un'ambasceria. E per ovviarvi Demostene, l'avversario più
risoluto di Filippo, non esitò ad assumere in queste trattative
una parte principale. Conveniva assolutamente impedire che l'am-
basceria prèndesse accordi effettivi con Filippo per un'azione co-
mune contro Tebe ; conveniva che il popolo si rassegnasse alle
concessioni necessarie alla conclusione della pace, il che non era
facile, e al tempo stesso era necessario spargere la maggiore dif-
fidenza contro le promesse di Filippo.
Forse altrove tenterò la storia particolareggiata di queste trat-
tative e mostrerò con quali mezzi Demostene è riuscito nel suo
- 221 —
intento trionfando splendidamente di tutte le arti diplomatiche
del Re. La difficoltà principale egli la incontrò fra i suoi stessi
colleghi in chi meno doveva credere. Infatti Eschine, il quale
poco prima nella sua ambasceria peloponnesìaca aveva spiegato
tutta la sua arte oratoria nell'infiammare gli animi de' Greci
contro Filippo e nell'atterrirli col pericolo del barbaro del nord
(v. in specie Dem. de f. leg. 9 segg. 302), mostrò chiaramente
la sua intenzione di prevenire i desideri del Re (Aesch. de f. leg.
104 segg.), ed ha acremente rimproverato Demostene per avere
impedito l'azione comune contro Tebe : T7To\eiTTO|uevriq ò' è'xOpag
qpavepctcg ct'iXinTTUj irpòq GiiPaioui; Kal 0eTTa\oij(; (così Eschine
nell'orazione sull'Ambasceria 141) lóie diruOXovTo ai TrpdEei? où
òi' é|aè, dWà òià tfiv (5\\v Ttpoòoaiav Kai xfiv rrpò(^ GriPaioug
TTpoSeviav (Cfr. 106: Kaì xàp irpò^ toT(; dXXoiq KaKoTq ponju-
TiaZlei). Perchè questo è notevole, che dal 346 in poi come gli
amici di Filippo a Tebe lavorarono costantemente a danno di Atene,
così gli amici di Filippo ad Atene lavorarono costantemente alla ro-
vina di Tebe (Dem. de Cor. 18 seg. 161. 188). Questa condotta
di Eschine parve a Demostene un alto tradimento. E si noti che
Eschine non era reso cieco alle conseguenze necessarie della
guerra contro Tebe dalla sete di vendicare antichi torli e dalla
avidità di guadagni immediati per Atene come avrebbe potuto
essere uno della massa popolare. Il partito in cui Eschine si
schierava, oltreché affatto alieno da una politica estera d'avven-
ture — e un'avventura era sempre in quel momento una guerra
con Tebe — aveva continuamente cercato di venire con Tebe ad
un'intesa amichevole (Dem. de Cor. 162). A che questo muta-
mutamento repentino quando l'abbandono della causa focese fa-
ceva entrare questa intesa amichevole nel campo della possibilità?
La cooperazione d'Atene e di Filippo contro Tebe mancò in
base ad un equivoco : alla sfiducia irragionevole che Demostene
seppe spargere tra le masse verso il Re (cf. Aesch. de f. leg.
187 segg.). Ma sulla base dell'equivoco non si governa. Demo-
stene lo capiva bene. Fortunatamente per la sua politica, il po-
polo dal moinento in cui aveva visto Filippo al di qua delle
Termopili cominciava ad aprir gli occhi sugli intendimenti ultimi
— 222 —
del Ke, Ma finche il popolo ateniese non entrava completamente
nelle vedute di Demostene, era purtroppo sempre possibile che
da un momento all'altro si concordasse quell'azione comune contro
Tebe che Demostene voleva ad ogni costo impedire. Per ovviare
a ciò servì la guerra spietata che per mezzo dei tribunali De-
mostene ed i suoi mossero contro il partito di Filippo.
Un documento di questa guerra è la sua orazione rrepi Trapa-
TTpecrpeia?. Altri si è compiaciuto a mettere in luce le accuse
menzognere, i sofismi d'avvocato, e diciamo pure le prove d'in-
signe mala fede di cui rigurgita quel discorso. Ma s'è dimenti-
cato questo, che l'argomento principale per cui Demostene ri-
guardava Eschine come traditore della patria, egli era costretto
a tacerlo innanzi ai giurati ateniesi. Se Demostene diceva : « Si
le promesse di Filippo erano leali. Con un po' di buona volontà
da parte vostra, Tebe sarebbe ora' cancellata dal numero delle
potenze: voi avreste Oropo e sarebbero state ristabilite Tespia e
Platea. Ma è appunto per essersi associato a queste proposte di
Filippo che Eschine è un traditore » — se Demostene diceva
ciò, la massa ignorante si sarebbe levata contro di lui come un
sol uomo. Per cui l'oratore onde combattere Eschine e rendere
impossibile una politica ch'egli reputava fatale alla patria doveva
tenere un'altra via. E Demostene seppe prudentemente sceglierla
con pari acume e perfidia. La pace conteneva una quantità di
concessioni a Filippo che erano presentate nel modo più coperto
per farle inghiottire all'assemblea popolare. Sulla necessità di tali
concessioni Demostene era l'ultimo ad illudersi. Ora gli offrivano
un tema eccellente per attacchi violenti contro i suoi compagni
d'ambasciata onde metterli presso la massa popolare in vista di
traditori. E le promesse che naturalmente Filippo aveva fatto a
mezza bocca per il caso d'una cooperazione contro Tebe, le quali
non s'erano realizzate — e Demostene senza dubbio lo capiva
bene — perchè questa cooperazione non aveva avuto luogo, offri-
vano materia inesauribile ad attacchi, quasiché gli ambasciatori
avessero cooperato con Filippo ad ingannare il popolo con la lan-
terna magica di speranze immaginarie. Nella posizione falsa che
Demostene ha dovuto prendere sta la ragione della debolezza re-
— 223 —
lativa del suo discorso a confronto della semplice e serrata di-
mostrazione di Eschine; ma mentre Eschine è agitato in sostanza
da una sola passione, l'affetto alla vita, in Demostene, tra i so-
fismi e le calunnie, vibra potente l'amor di patria e l'odio al tra-
ditore.
Quanto a Filippo, egli sentì certamente assai al vivo l'insuc-
cesso patito. Ma giunto in Focide e lasciato in asso da' suoi nuovi
alleati, non gli restava che procedere d'accordo per quanto era
possibile coi Tebani a regolare le condizioni della Focide ed a
riordinare l'Anfizionia. È vero che prevalendosi del risentimento
dei Beoti e dei Tessali per l'aiuto dato da Atene ai Focosi, solo
che avesse voluto, avrebbe potuto invadere l'Attica con un esercito
anfizionico. Ma dopo la pace conclusa, rompendola senz'alcun mo-
tivo, anzi senz'alcun pretesto, sarebbe stato un atto di forza bru-
tale che avrebbe impressionato sfavorevolmente tutta l'opinione
pubblica in Grecia e spaventati i piccoli stati gelosi della loro
autonomia. D'altronde per riprendere la guerra con gli Ateniesi
alla testa di un esercito anfizionico egli doveva pensare, ed a ra-
gione, che c'era tempo e che poteva intanto tranquillamente pre-
valendosi della pace con Atene estendere la sua autorità e accre-
scere i mezzi militari di cui disponeva. In ogni caso gli Ateniesi
avevano la superiorità marittima e non potendo esser vinti nel
loro elemento era opportuno trattarli con' molti riguardi. Il ri-
guardo f-u cominciato a mettere da parte da Alessandro Magno
quando non ce n'era più bisogno ossia dopo che la conquista di
Cipro e della Fenicia rese l'impero macedonico una potenza ma-
rittima di prim'ordine. Il meglio che il Re poteva fare era ormai
di lasciar andare le cose per la loro china. Chi sa se non gli
sarebbe riuscito col tempo di assicurarsi la cooperazione ateniese
contro Tebe che questa volta gli era sfuggita ? Certo ad Atene
egli aveva amici che lavoravano per lui con zelo ed intelligenza;
per lui stava l'avversione popolare che i fatti degli ultimi de-
cenni avevano nutrita contro i Tebani; era da sperare che si po-
tesse chiarire l'equivoco e togliere le diffidenze irragionevoli che
avevano impedito la cooperazione contro Tebe.
Questa politica, che forse era la sola possibile a seguirsi, aveva
224 —
però i suoi lati deboli. 11 malcontento di Tebe, che non poteva
regolare da padrona le condizioni della Focide e che sentiva di
perdere nell'Anfizionia la sua posizione preponderante, poteva fi-
nire con lo spingerla alla unione con Atene. Però ciò sarebbe ac-
caduto soltanto se gli uomini dirigenti in Atene seguivano una
linea di condotta tale da rendere possibile l'unione nel momento
decisivo; ed era difficile che avessero tanta intelligenza, tatto ed
energia e che sapessero con tanta costanza frenare lo scoppio delle
passioni popolari: e del resto non poteva sempre Filippo aizzare
l'uno contro l'altro i due stati per mezzo degli amici provati che
aveva in Beozia ed a Atene ?
Questo può bastare per illuminare un po' il retroscena politico
dei fatti del 346. Scendere a maggiori particolari sarebbe tanto
facile quanto alieno dal mio scopo. Mi trovo del resto sostanzial-
mente d'accordo con la trattazione più recente di questi fatti che
è nel secondo volume della Storia Greca del Beloch (p. 509segg,).
Di qui si ha da partire per spiegare gli avvenimenti del 340 ;
perchè mi sembra evidente che Filippo ha fatto in ambedue gli
anni lo stesso tentativo; e se il risultato è stato diverso, è solo
perchè lo stato degli animi e le condizioni di fatto erano assai
diverse.
Nella estate del 340 Filippo, mentre si preparava ad attaccare
Bisanzio, lanciò il suo ultimatum agli Ateniesi. Ormai i danni
della guerra aperta — che almeno gli permetteva di rivalersi
senza riguardo — erano minori di quelli della incessante guerra
sotto mano che da qualche anno gli facevano gli Ateniesi. E
del resto non era escluso che essi cedessero anche una volta
alla minaccia di guerra come subito dopo la pace di Filocrate,
quando s'erano piegati a riconoscere il nuovo ordinamento dell' An-
fizionia. Ma le cose non stavano più come nel 346. Allora la
massa popolare con una negligenza più o meno volontaria poteva
chiudere gli occhi sulle mire di Filippo. Adesso conveniva essere
ciechi per non vedere che Filippo a nulla meno mirava che alla
egemonia della Grecia. Ma la sottomissione all'altrui egemonia
le masse popolari ateniesi sono state sempre unanimi nel respin-
gerla finché ne hanno veduto la possibilità. E così quando la voce
— 225 —
di Demostene, che a tempo dell'assedio di Olinto era spesso più o
meno inascoltata, tonò nell'assemblea contro il Ke, il popolo decretò
di abbattere la stela della pace di Filocrate (Philocli. fr. 135 =
Dionys. Epist ad Amm. I 11) (1). Né solo si trattò di parole,
ma gli Ateniesi mostrarono una energia di cui fin qui in guerra
con Filippo non avevano dato prova. E il risultato fu che, nono-
stante l'abilità grandissima degli ingegneri di Filippo, il Ke do-
vette accorgersi che l'assedio di Bisanzio non aveva probabilità
di riuscita. Filippo evidentemente aveva pensato che la conquista
della città dovesse riuscirgli almeno altrettanto facile quanto
quella d'Olinto; ma non aveva tenuto conto del sentimento auto-
nomistico che s'era sollevato contro di lui in tutta la Grecia, in
ispecie ad Atene.
Mentre il Re moveva fiducioso nella riuscita all'assedio di Bi-
sanzio, si preparava anche ad intervenire nella prossima prima-
vera nella Grecia centrale. Ormai, incerti nella fede i Tebani (cf.
(1) Sull'origine dell'ultima guerra tra Atene e Filippo si son dette pa-
recchie cose che a mio avviso non reggono. Tale è p. e. l'opinione che De-
mostene per creare un fatto compiuto che rendesse inevitabile la guerra si
sia servito dell'opera di Diopite nel Chersoneso. L'incidente di Diopite è
stato ingigantito dai moderni per la sola ragione che ci è stato conservato
uno dei discorsi detti in proposito nell'assemblea d'Atene (Demosth. Vili). Si
tratta in realtà di un incidente di confine come non sono rari quando si
trovano a contatto truppe di due potenze, fra cui le relazioni sono molto
tese, ed esso non ha né ritardato né affrettato il corso degli avvenimenti.
Eschine, che nell'orazione contro Ctesifonte accumula a carico di Demostene
tutte le possibili accuse, si è guardato bene dal fargli quella che svolge
assai abilmente il Beloch Griech. Geschichte II 547 di essersi servito
di Diopite come strumento servile per provocare la guerra contro Filippo.
Gli Ateniesi hanno fatto semplicemente il loro dovere concentrando truppe
nel Chersoneso quando Filippo si aggirava in tale vicinanza delle coste
della Propontide, come sarebbe stato una negligenza imperdonabile il non
tenere in permanenza una squadra d' osservazione nelle acque di Taso
(Vitae X orai. 845 e. De Ealonn. 15 e lo schol. ad 1.). Eschine non vede
punto nell'affare di Cardia l'occasione della guerra ; il suo silenzio {in
Ctesiph. 83) è eloquente. La rottura tra Atene e Filippo è stata provocata
dal fatto che Filippo minacciava gli stretti del mar di Marmara e che gli
Ateniesi non potevano e non volevano lasciarglieli in mano. A Demostene
si deve solo se questa guerra é stata condotta in modo molto diverso dalla
precedente.
Rivista di filologia., ecc., XXV. 15
— 226 —
Aesch. in Ctesiph. 140), in guerra contro lui gli Ateniesi, riunita
a suo danno una federazione di stati minori con centro ad Atene;
per conservare il prestigio che gli aveva dato la vittoria su Ono-
raarco e la distruzione della potenza focose, non poteva tardare a
riaffermare nella Grecia centrale la sua superiorità militare. La
via migliore per conseguire tale intento era farsi chiamare da un
decreto degli Anfizioni: e senza por tempo in mezzo egli presele
misure opportune per far sorgere una nuova guerra sacra. Motivi
per suscitarla a dir vero i nemici di Filippo cercavano di guar-
darsi dal darli. Conveniva con una casistica dall'occhio di lince
rintracciare vecchie colpe non espiate o abusi ormai inveterati. E
del resto che importava ? Bastava trovar pretesto ad un intervento
militare di Filippo nella Grecia centrale : in tutte queste mac-
chinazioni il sentimento religioso non entrava per nulla. La man-
canza di alcuna nuova offesa ai diritti dell'Anfizionia e i mali
suscitati dalla guerra precedente, da cui nessuno dei membri del-
l'Anfizionia era uscito senza piaghe, faceva sì che alla possibilità
d'una guerra sacra nessuno in quel momento pensava. Tutti i
nemici di Filippo guardavano a Bisanzio. Nessuno attendeva a
parare il colpo ch'egli preparava in Delfi. Solo così possiamo
spiegarci come in Atene, in un momento in cui più che mai do-
minava Demostene, riuscissero eletti pilagorì per l'anno 340/39
tre uomini del partito che gli era nemico. Eschine, Midia figlio
di Cefisodoro del demo di Anagiro, il noto avversario politico e
personale di Demostene, e Trasicle di Lecco, lo stesso probabil-
mente che poi ebbe l'animo di chiamare in giudizio per pretesa
sottrazione di denaro fatta dal padre i figli dell'integro Licurgo
{Vitae X orai. p. 842 d. Schaefer Demosthenes IIP 348). Si
vede molto chiaro che i partigiani di Filippo avevano dietro una
sua parola d'ordine concentrato in quella elezione ogni sforzo e
sorpreso, come dice Demostene, gli altri imprevidenti {de Cor. 149);
ed è presumibile che a questo risultato non fosse estraneo l'oro
macedonico. Naturalmente era aperta ai patriotti la via di tentare
in qualche modo di cassare l'elezione per mezzo dell'Areopago :
già un'altra volta l'Areopago, che si trovava interamente d'intesa
con Demostene, aveva cassata l'elezione d'Eschine e sostituitogli
— 227 —
Iperide {de Cor. 134). Se i patriotti non hanno pensato neppure
a ricorrere a questo mezzo, vuol dire che essi non prevedevano
il minimo pericolo. La condanna di Anfissa li colse come un ful-
mine a ciel sereno.
Come nel 346 Filippo alleato di Tebe ed in guerra contro
Atene era pronto a fare i migliori patti ad Atene se riusciva a
trascinarla ad una guerra con Tebe, così ora allo stesso intento
ripeteva lo stesso tentativo ; ma le condizioni erano diverse in
questo che allora non andandogli le cose a seconda si fermò prima
di combattere, ora conveniva in ogni caso trarre la spada dalla
vagina. Così se a Filippo non riusciva di trascinare Atene alla
guerra contro Tebe, non gli restava che invadere l'Attica alla
testa di un esercito anfizionico. D'altra parte difficoltà gravi al
nuovo accordo con Atene contro Tebe non mancavano. C'erano
tutte quelle che nel 346 avevano impedito la cooperazione effet-
tiva, più l'eccitamento del partito patriottico contro la Macedonia.
Filippo poteva credere, e i suoi partigiani in Atene come lui,
che si trattasse d'una montatura passeggiera, artificiale, facile a
vincersi con l'esca di grassi guadagni ; ma che non era un'ecci-
tazione artiiìciale sta a dimostrarlo tutta la storia ateniese fino
alla seconda guerra macedonica dei Eomani. Di più Filippo non
poteva a meno di tener conto dello stato dell'opinione pubblica
tra i suoi alleati tessali. Con quali sentimenti i Tessali avrebbero
visto dopo 'i danni sofferti nella guerra focese la cooperazìone con
gli antichi amici di Filomelo e d'Onomarco contro Tebe, la loro
vecchia alleata ? In conseguenza Filippo, preparato ad ogni evento,
con una diplomazia assai abile, trattava affinchè, non riuscendo
nel suo scopo, riuscisse almeno ad avere alleati i Tebani e tutti
i popoli anfizionici nella guerra contro Atene. Condurre insieme
le due pratiche riuscivagli tanto meno difficile in quanto che i
suoi partigiani ateniesi erano, come abbiamo visto, i più accaniti
nemici di Tebe e i suoi partigiani beoti i maggiori nemici di
Atene. Così quando gli ieromnemoni ed i pilagori si riunirono a
Delfi nell'autunno 340, due proposte erano pronte ad essere messe
sul tappeto, ambedue nell'interesse di Filippo. Una, che voleva
a quanto pare presentare il delegato dei Locresi d' Anfissa, era
— 228 —
diretta a far decretare una multa di cinquanta talenti contro gli
Ateniesi per aver posto nel nuovo tempio prima della sua ricon-
sacrazione (1) scudi aurei con l'epigrafe : « Gli Ateniesi dai Medi
e dai Tebani quando combatteroDO contro gli Elleni » (Aesch. de
f. leg. 116). Si trattava, come si ritiene, d'un antico donario rin-
novato durante la guerra focese. La cosa era ormai vecchia ; e
del resto se nel 346 non si era dichiarata la guerra anfizionica
contro Atene, vuol dire che gli Anfizioni avevano dato tacita-
mente la sanatoria a tutto quanto Atene aveva operato nella
guerra focese. Tornarvi sopra senza motivo era tutt'altro che cor-
retto ed onesto. Era però molto abile la scelta che del pretesto
avevano fatto Filippo e i suoi agenti. Di fatti se veniva pronun-
ciata una condanna anfizionica, i Tebani punti da queiràvaGnina
nel loro amor proprio non potevano a meno di schierarsi con gli
Anfizioni contro Atene. Ma questa proposta era di ripiego ; per
quanto lo ieromnemone anfisseo potesse tenere seriamente al trionfo
di essa e sperare che per farla trionfare Filippo avrebbe messo
in bilancia tutto il peso della sua autorità morale, quella che
Filippo desiderava di vedere accettata era un'altra proposta. Era
un'accusa da intentarsi contro i Locresi d'Anfissa perchè coltiva-
vano, probabilmente dal tempo che era finita la guerra focese
(cf. Aesch. in Ctesiph. 113 segg.), la pianura cirrea. È vero che
la coltivazione colà risaliva a qualche anno ; ma non v'ha dubbio
che il pretesto era scelto bene, atto ad infiammare gli animi
degli Anfizioni. Era da sperare che Filippo sarebbe riuscito per
questa via a provocare una guerra anfizionica contro i Locresi e
contro Tebe loro alleata ; ma il problema per lui era questo :
impedire che Atene si schierasse con Tebe contro gli Anfizioni ;
valersi dei rancori verso Tebe per unirsi Atene contro il comune
nemico. Certamente un'alleanza tra Tebe ed Atene era quello
ch'egli sarebbe stato assai lontano dal desiderare. Per raggiun-
(1) Il Kaivò(; veiib^ di cui parla Eschine è quello che fu costruito dopo un
incendio che, verisimilmente prima del 371, distrusse l'antico tempio eretto
nel sec. VI da Spintaro. Ciò è dimostrato in base alle recenti scoperte epi-
grafiche e monumentali da Pomtow Rh. Museum 51 (1896) p. 345 segg. Cfr.
Kòhler Hermes 26 (1891) p. 45 n. 1.
-. 229 —
gere meglio il suo intento, furono i delegati ateniesi che incaricò
di fare la proposta: e naturalaiente il sapere che era in corso
un'altra proposta diretta contro Atene non poteva che infiammare
il loro zelo e giustificare il loro operato davanti alla opinione
pubblica ateniese. Se la guerra era provocata dai delegati ate-
niesi, era da sperare che la rivalità tra Atene e Tebe si riaccen-
desse più viva e che, almeno per un sentimento di coerenza, gli
Ateniesi prendessero parte contro i Tebani.
Questi erano evidentemente i calcoli di Filippo. Ma egli non
teneva conto abbastanza del lavoro che Demostene andava facendo
da lunga pezza per preparare un'alleanza tra Atene e Tebe. 'Opuùv
yàp ifd) (dic'egli, de Cor. 161) 0riPaiou<j, axeòòv òè Kai \)^à(;
ùrrò TuJv rà OiXìttttg'j qppovoùvTuuv Kaì òieqpGapjuévuuv Tiap' eKa-
TépoK;, o fièv rìv à}icpoTépo\q 9opepòv Kaì cpuXaKfic; TToXXfii; òe-
ójaevov, TÒ tòv OiXittttov èav auEàveaGai, TrapopuJVTaig Koùòè
KaG' ev cpuXaTTO|Liévouq, ei^ è'xGpav bè Kaì tò TrpoaKpoùeiv dX-
Xr|Xoi(; éTOi|uuj^ è'xovxaq, òttuj? toOto |uri xevf\aeTai TrapairipuJv
òietéXcuv. In parte com'egli realizzasse questo programma s'è ve-
duto, in parte lo aveva effettuato con una deliberazione assai
grave: quella di rinunciare all'antica alleanza con Sparta ; perchè
sia dalla neutralità di Argo, Messene, Megalopoli nella guerra
di Atene contro Filippo, sia dal contegno di Sparta durante la
guerra, par chiaro che quell'alleanza non esisteva più (cf. Vitae
X orai. p. 851 a. Aesch. in Ctesiph. 83. Beloch Attische Folitik
368). Se la lotta suprema contro la Macedonia è stata condotta
separatamente da Atene e da Sparta, ciò è dovuto alla politica
di Demostene. Con colpo d'occhio sicuro egli aveva riconosciuto
fin da quando pronunciò la sua orazione per Megalopoli che l'al-
leanza spartana non era che un impaccio inutile : troppo Sparta
era occupata nel Peloponneso coi nemici che le aveva suscitato
Epaminonda. Seguendo sempre la stessa linea di condotta egli
aveva infine stabilito buone relazioni tra Atene e gli antichi
amici della Beozia nel Peloponneso. Così un serio ostacolo alla
unione tra Tebe ed Atene era rimosso. E la saviezza della politica
di Demostene si vide chiaro quando nella guerra detta di Cre-
monide Atene e Sparta riunite, ma senza l'aiuto della Beozia, af-
- 230 -
frontarono la Macedonia. Allora il peso della guerra cadde prin-
cipalmente sugli Ateniesi che non sembra potessero ricevere
nessun aiuto efficace dai loro alleati peloponnesiaci, mentre Sparta
continuò lungo tempo, tra il Parnone ed il Taigeto, a sfidare i
Macedoni (1).
Checché ne sia, quando i delegati anfizionici già lavorati op-
portunamente da Filippo e da' suoi agenti, trascinati dall'elo-
quenza di Eschine e dall'esempio dei delegati macedonici, ebbero
deciso di procedere immediatamente nel modo più rapido e bru-
tale a distruggere le coltivazioni sacrileghe del piano di Cirra,
Filippo dovette pensare di aver raggiunto il suo scopo. La rela-
zione di Eschine ebbe nell'assemblea popolare ateniese il mag-
giore successo (Aesch. in Ctesiph. 125). Demostene intuì imme-
diatamente la gravità della situazione. L'opera per cui egli aveva
tanto sudato, per cui aveva elemosinato alleati dal mar Ionio al
mar Bosso, minacciava rovina. La passione popolare si scatenava
di nuovo contro Tebe ; e l'effetto sarebbe stato di rendere impos-
sibile una lotta con speranza di successo contro il Macedone. La
sua parola non era udita sulla questione anfizionica. Era vano il
sostenere che Eschine guidava nell'Attica la guerra anfizionica
(1) Un fenomeno assai singolare è la condotta che hanno tenuto sempre
i Macedoni riguardo a Sparta. Essi non hanno in genere peccato di sover-
chia mitezza verso i nemici pericolosi : basti ricordare Tebe ed Olinto ;
Atene stessa è stata trattata con riguardo finché aveva la superiorità ma-
rittima : ma poi i re di Macedonia non hanno mancato di cercar d'assicu-
rarsene incondizionatamente. Con Sparta hanno agito in tutt'altro modo.
Filippo ha invaso la Laconia, ma non si è curato di soggiogare Spai'ta,
cosa che nessuno gli avrebbe impedito ; e si noti che soggiogandola avrebbe
risparmiato al suo successore Megalopoli. Alessandro ha anch'egli trattato
Sparta con ogni mitezza. Antigono Gonata nonostante le sue vittorie -sugli
Spartani non sembra siasi curato di distruggere la cittadella delTantimace-
donismo. Antigono Dosone dopo Sellasia non si è neppure incaricato di met-
tere in Sparta un presidio ; e Filippo V sul principio della guerra sociale
degli Achei, invece di comprimere i moti antimacedonici a Sparta sul na-
scere, ha lasciato agio agli Spartani di preparare la ribellione contro di
lui. Ciò costituisce per me un' àrropia storica. Eppure io non vedo che nes-
suno si sia posto sul serio il problema ed abbia tentato di risolverlo ; o per
dir meglio il solo Isillo di Epidauro : toIc; ò' 'AoKXi-iTnò^ fjXSe PoaSóo; il
'GTTibaùpou I TijLiùJv 'HpaKXéouc; Y^vedv, àc, qpeiòero ópa Zeù;.
— 231 —
(Dem. de Cor. 143). Nessuno voleva credergli. E difatti era chiaro
che gli Ateniesi avrebbero avuto la guerra anfizionica nell'Attica
solo se avessero voluto.
Ma intanto le armi di Filippo s'erano spuntate davanti a Bi-
sanzio. Il Re toglieva l'assedio. I Bisantini salvi dal timore d'una
sorte come quella d'Olinto esprimevano agli Ateniesi la loro gra-
titudine con decreti e corone {de Cor. 89). Gli sbocchi del mar
Nero erano aperti come sempre al commercio ateniese. Nonostante
l'incremento subito dalla potenza macedonica, l'energia e la poli-
tica di Demostene avevano inflitto al Ee un grave scacco. A tali
successi la politica fiacca di Eubulo non aveva abituato gli Ate-
niesi. La posizione di Demostene se ne trovò grandemente rinfor-
zata. La speranza di farla finita coi tentativi di Filippo per as-
sumere l'egemonia prevalse su ogni altra passione. E Demostene
riuscì a far passare un decreto con cui gli Ateniesi rifiutavano
di prender parte alla nuova riunione anfizionica in cui s'avevano
a decidere le misure da prendere contro Anfissa (Aesch. m Ctesiph.
125 segg.). Ormai il passo decisivo era fatto. Atene non voleva
per l'ombra in Delfi interrompere la guerra cominciata sotto sì
buoni auspici contro la Macedonia. D'altra parte, proclamato Fi-
lippo dagli Anfizioni duce della guerra sacra contra Anfissa, un
accordo con Tebe era ormai impossibile, nonostante che il Re lo
tentasse quando vide la pertinacia degli Ateniesi in combatterlo
(Demosth. de Cor. 213. Plut. Demostli. 18); molto meno poi era
possibile un accordo con Atene contro Tebe, quantunque i parti-
giani ateniesi del Re fossero convinti ancora che questo accordo
era in cima a' suoi desideri (Aesch. in Ctesiph. 141). Così l'ef-
fetto della politica del Re era stato solo l'alleanza fra Tebe ed
Atene. Per la seconda volta Demostene aveva trionfato delle arti
diplomatiche di Filippo.
Questo può bastare al mio scopo di tentare una spiegazione di
ciò che accadde nella pilea autunnale del 340. Non voglio man-
care però di trarne alcune conseguenze riguardo al giudizio che
s'ha da portare su Eschine. Infatti l'ambasceria del 346 e la pilea
— 232 —
dell'autunno 340 rappresentano i due momenti più importanti
nella vita politica di quest'oratore.
Eschine è stato un agente della Macedonia in Atene. Noe ha
esitato in servizio della Macedonia a tentare d'accendere una
guerra contro Tebe, dalla quale è chiaro che gli Ateniesi po-
tevano ritrarre pochi e momentanei vantaggi ; ma il vantaggio
reale e duraturo era della Macedonia. C'è chi ha inneggiato
allo splendido avvenire che s'apriva ad Atene nel caso di un'al-
leanza con Filippo contro Tebe: e difatti poteva essere in vista
l'occupazione d'Oropo. È da credere che Eschine ha creduto di poter
conciliare gl'interessi della Macedonia e quelli della sua patria.
Probabilmente non si è mai immaginato che, quando i Macedoni non
avessero avuto più bisogno d'Atene, l'avrebbero trattata come i
Komani il regno di Pergamo e la lega achea. Questo basta a
mostrare la sua inferiorità cerne uomo politico di fronte a Demo-
stene. È vero che alcuni avvezzi a giudicare degli uomini politici
dal successo condannano Demostene come politico per ciò solo che
ha condotto gli Ateniesi a Cheronea. Ma è certo che era inevi-
tabile una lotta mortale tra Atene e la Macedonia. Non dobbiamo
rendere responsabile Demostene d'averla provocata, ma solo della
scelta del momento e dei mezzi : ed è chiaro che Atene non
avrebbe mai potuto intraprendere la guerra con Filippo in con-
dizioni migliori: ed è pur chiaro, lo temeva anche Filippo (Plut.
Flioc. 16. Demosth. 18. Aesch. in Ctesiph. 148 segg.), che senza
i gravi errori militari dei generali ateniesi e tebani lo stabilimento
della egemonia macedonica in Grecia avrebbe potuto essere non
impedito, ma notevolmente ritardato.
Ed io ritorno ad Eschine. Se egli si è contentato di essere un
agente macedonico in Atene, lo ha fatto nella chiara coscienza
del vantaggio che avrebbe recato alla causa nazionale l'unione di
tutti sotto l'egemonia macedonica contro il barbaro? Nelle ora-
zioni di Eschine non c'è traccia quasi di aspirazioni panelleni-
stiche ; appena ne ha fatto mostra quando era proprio comandato
dalle circostanze. E la stessa orazione contro Ctesifonte, letta
quando si sfasciava il trono dei re di Persia, cosa che a qualunque
panellenista avrebbe offerto occasione di levare l'inno della vit-
— 233 -
toria, parla si della rovina dei Persiani, ma semplicemente come
un fatto singolare e straordinario, simile alla caduta di Tebe e
e alla decadenza di Sparta e di Atene (e. 132 segg.). Leggendo
quella pagina si sente che l'intelligenza di Eschine è colpita dai
grandi avvenimenti che gli si svolgono innanzi, ma che il suo
cuore non è penetrato da alcun soffio di passione patriottica. Il
panellenismo si rifugia solo alle ultime parole dell'orazione nel
paragone tra l'avversario ed Artmio di Zelea (e. 258 seg.), luogo
comune degli oratori, che, applicato qui a Demostene come De-
mostene l'aveva applicato ad Eschine {de f. leg. 271), comandava
proprio una parola in quel senso.
Se però conviene giudicare non da qualche frase isolata, ma
dal sentimento di tutti i discorsi, la causa panellenica ha lasciato
Eschine assai freddo. Con ciò non voglio negare che tra gli amici
politici di Eschine alcuni fossero animati dal più schietto panel-
lenismo, quello che splende nel Filippo d'Isocrate (1). Ma il Re
non aveva scelto il suo agente tra costoro; ed a ragione, perchè
difficilmente un uomo che pensava come Isocrate avrebbe prestato
al Ee l'opera sua per suscitare guerra o discordia tra Atene e
Tebe. Ho chiamato Eschine agente di Filippo. Demostene va più
in là e lo chiama suo mercenario. Bisogna convenire che a fa-
vore di questa sua asserzione egli non ha mai addotto alcuna
prova giuridicamente valida, perchè evidentemente non ne ha
avuto in mano alcuna. E noi non dobbiamo seguirlo dove lo tra-
(1) Del resto qualunque siano state le simpatie di Isocrate per Filippo,
non sono arrivate al punto di dirigergli, dopo Gheronea, una lettera come
quella che sta sotto il n. 3 nelle epistole di Isocrate. Questa lettera è cer-
tamente apocrifa. Sappiamo per altra via che Isocrate vide di buon oc-
chio l'alleanza di Atene e di Tebe. Infatti nel Panatenaico, dando prova di
molto tatto, altera il mito della guerra tra Atene e Tebe pel seppellimento
dei caduti con Polinice e vi sostituisce una versione assai più onorevole
per la nuova alleata ateniese (171 seg.) senza punto curarsi della contrad-
dizione in cui si mette con ciò che egli aveva detto nel Panegirico (58.64):
Ò.WÒ. -fàp (dic'egli) oùòéva voiaiZuj tOùv TaOra auvibetv cìv òuvriGévTUJV
SoTic; oÙK av èiraivéaeié |ue Kaì aoiqppoveìv i^y^'^cuto tòte |uèv èKeivux;, vOv
b'oÙTUJ biaXexQévTa -rrepl aÙTUJv irepl |aèv oOv toùtujv olò' 6ti KaXuJi; yé-
Tpaqpa Kol au)LicpepóvTUj(;.
— 234 —
scina lo spirito di parte. Non dobbiamo però nascondere una cosa
che sta a carico di Eschine. Filocrate collega di Eschine e di
Demostene nella famosa ambasceria venne accusato da Iperide di
corruzione e condannato a morte in contumacia. Si è detto die
Eschine non ha parlato mai in suo favore dopo la condanna perchè
i verdetti dell'Eliea ateniese valevano per altrettanto infallibili
quanto quelli dei nostri giurì. Ed è vero, ma appunto per ciò
era sempre lecito di assalirli copertamente, arte in cui oggi molti
giornalisti sono maestri. Per convincersene basta dare un'occhiata
alla orazione di Demostene sulla TTapaTrpeapeia, dov'egli molte
volte prende più o meno apertamente le difese del suo amico
Timarco (i passi citati da Schaefer Demosthenes IP p. 342 n. 4).
Citerò anche il discorso contro Neera, dove l'oratore si fa pala-
dino del poeta Senoclide che era stato colpito d' àtiinia (e. 26).
Credo che non sarebbe difficile ' trovare altri esempi : ma questi
possono bastare. Eschine invece non solo non ha preso la difesa
di Filocrate, ma ne ha ammesso apertamente la colpabilità ed ha
inveito contro di lui (in Ciesipli. 58 segg.). Ora la condotta di
Eschine verso il suo vecchio amico politico (1) non solo ha qualche
cosa di ributtante, ma getta anche un'ombra sulla onorabilità
dello stesso Eschine. Peraltro la cosa si può spiegare anche solo
col desiderio se non di trascinare Demostene nella rovina di Fi-
crate, almeno di comprometterlo agli occhi del pubblico per le
sue relazioni con uno che i tribunali avevano condannato per
òtupoboKia.
Ad ogni modo per capire la subitanea conversione di Eschine,
quando dopo la sua ambasciata peloponnesiaca, dove aveva pre-
dicato contro Filippo, intraprese quella di Macedonia, non c'è hi
sogno di ricorrere alla ipotesi della corruzione. Basta il fascino
che Filippo come tutti gli uomini di genio era capace di eserci-
tare sui mediocri e l'impressione che il favore del Re faceva
sullo spirito volgare del parvenu. E ho detto spirito volgare, perchè
(1) Naturalmente Eschine ha cercato poi di rinnegare le sue antiche re-
lazioni con Filocrate: ma è evidentissimo che essi hanno lavorato insieme
allo stesso intento.
i
_ 235 —
a me non riesce trovare nelle orazioni di Eschine traccie d'ele-
vatezza d'animo e di pensiero. C'è piuttosto una certa compostezza
di parola e di pensiero: ma è quella dell'attore che ha imparato
sulla scena moti composti, eleganti, misurati. Cos'altro che un
attore può essere il viveur confesso (m Timarch. 135 segg.) che
nell'orazione contro Timarco si erige a vindice della morale?
Roma.
Gaetano De Sanctis.
236-
QUAESTIONUM ENNIANARUM
Particola IL
I. De Carmine, quod ab Ennio inscriptum
est Epicharmus, priusquam agamus, pauca de saturae apud
Ennium indole ac natura absolvenda putamus. De qua re ea
praesertim proferamus oportet, quae habet Diomedes (G. L. I,
485 K.): 'satira dieta sive a Satyris sive satura a lance quae
referta variis multisque primitiis in sacro apud priscos dis infe-
rebatur, et a copia ac saturitate rei satura vocabatur ; sive a
quodam genere farciminis, quod multis rebus refertum saturam
dicit Varrò vocitatum alii autem dictam putant a lege satura,
quae uno rogatu multa simul comprehendat, quod scilicet et
satura Carmine multa siraul poemata compre-
fa e n d u n t u r'. — De horum verborum sententia nullam du-
bitationem esse posse censemus. Satura igitur Carmen erat ttoXu-
ILiexpov, i. e. ex variis poematibus vario metro conscriptis sed ad
eandem rem spectantibus corapositum. Quod etiam perspicitur ex
loco ilio eiusdem Diomedis, 1. 1. 'olim Carmen quod ex variis poe-
matibus constabat, satira vocabatur, quale scripserunt Pacuvius
et Ennius ' (1). Talia carmina proprio etiam saepe nomine inscripta
esse, ostendit Ennii Scipio, de quo iam in particula I locuti
sumus (2). At Epicharmum quoque saturam fuisse efficimus ex hac
(1) E Suetonio (Rell. p. 20 Reiff.) sumpsit haec omnia Diomedes: cfr.
ReiflF., Qu. Sueton. (in Suet. Rell.) p. 379.
(2) Hic occasione data hoc lectores monitos volo, ea, quae de Enniano
loco qui est apud Nonium 470, 13 ' nani is non ben vult tibi qui me falso
criminat apud te' cum loco ilio 'Desine, Roma, tuos hostis' componendo,
diximus in particula I, § 1, non in eam sententiam intellegenda esse ut
— 237 —
eius proprietate, quod id Carmen, ut nobis persuasum est, ex
variis poematibus vario metro compositis constabat. Kecentiores
vero iidemque praestantiores editores Vahlenus (Qu. Enn. XCIII,
et Eunii Kell. p. 167), Lue. Mueller (Ennius, Einleitung in das
Stud. p. 112 et Enn. Eell. p. 77) id statuerunt, Epicharrao esse
tantum ea fragmenta tribuenda, quae metro trochaico conscripta
essent. Id quam longe a ventate abhorreat, estendere nunc nobis
propositum est. Ex Epicharmi poetae igitur relliquiis eas excer-
pemus, quae ad nostram rem faciant, atque comparatione instituta
aliquem fructum ad Ennii fragmenta vel explicanda vel recensenda
atque in ordinem redigenda capiemus. Postremum erit disputa-
tionis nostrae ut quaenam Ennii ratio fuerit in graecis Epicharmi
sententiis latine vel vertendis vel imitatione exprimendis sta-
tuamus.
Perinsignes Epicharmi poetae loci sunt de quibusdam herbis
dapibusque, ab Athenaeo servati. Nam loco quodam de maratho
loquitur Epicharmus, et aspero cacto, quem cum aliis quidem
edere oleribus liceat (Athen. Il, 70 E):
'ludpaGa jpaxéeq te kókioi, toìx; aùv dXXoig |uèv cpayeiv
èCTÌ \axavoi<;'.
Tum alio loco haec comraemorat (ap. Athen. II, 71 A):
'GpiòaKag, èXàiav, crxTvov, paqpaviòac;, KdKTOU(;'
et paullo effusius alibi (ap. Athen. II 71 A):
'ó òé Ti<; àypóeev èoiKe |udpa9a Kaì KÓKiouq qpépeiv,
icpuov, \à7Ta9ov, ÒTTÓcpuWov, aKopóbiov, aépiòa,
òdKTuXoV, TTTépiV KdKTOV, ÒVÓTTOpòOV '. —
At his iocis mira quaedam sìmilitudo intercedit cum ilio uno
versus hi continuo ordine coniungantur, sed ut Carmen ad quod ille versus
pertinuit statina subiiciatur carmini ad quod hic posterior. Addendum etiam
puto ex Bergkii coniectura (Klein. Schr. I, 305) versum priorem illuni ita
posse etiam restitui : 'Nam is noenli bene volt tibi, qui falso criminat 1
Amicuni aput te'.
— 238 —
dimidiatoque versiculo, qui ex Ennii saturarum libro quarto
exstat :
±±^yy±±^.jj. neque ìlle triste
quaéritàt sinàpì neque caépe maéstura ± j.
[Vahl. p. 158; L. Muell. p. 76; Baehr, p. 119].
Quae similitudo nobis suspicionem movet, hos quoque versus
Ennium ex quodam Epicharmi loco, nunc deperdito, hausisse. At
cum hi versus ex Saturarum libro quarto a Macrobio VI, 5, 5,
afferantur, praesto est coniectura minime, puto, improbanda, hunc
Saturarum librum ' Epicharmum' ab Ennio inscriptum esse. Hanc
igitur Saturae quartae particulam, quae de herbis esset, sotadico
metro esse compositam censemus.
Ad aliam nunc eius saturae partem transeundum est, quam
putamus esse de praeceptis. Nam opus id nominis esse Ennio
adscribendum, constat ex Prisciani loco, p. 900 K., ubi hi ex Ennii
Praeceptis versus afferuntur:
'libi videt avénam lolium créscere inter triticum,
séligit, secérnit, aufert, àddit operam sédulo,
quanto studio séruit, servat*.
Hoc opus idem esse quod Charisius, 40 'Protrepticum' appellat,
recto statuerunt et Vahlenus et L. Mueller. At quodnam car-
minis genus fuerit Praeceptorum liber, non piane inter omnes
convenit; praestantiores tamen editores inter saturas referunt. Nos
eius saturae, quam Epicharmum inscripsit Ennius, partem fuisse
ea potissimura de causa suspicamur, quod Epicharmum poetam
ad tale sententiarum genus se contulisse compertum est. Habet
enim lamblichus, de pythagorica vita, 29, 166: 'ci xe YvuuiiioXoTfìcrai
TI Tujv Kaià TÒv piov pouXó|Lievoi, tàq 'Emxapiuou biavoiag irpo-
cpépovxai, Ktti ax^^òv TtdvTecg aùtài; oi qpiXóaoqpoi Katéxouai'.
— Idem rursus, 36, 266: 'Tijùv ò' èHujOev àKpoaTuùv YevécfGai
Kal 'ETTÌxap)uov, àW oùk Ik toO (JuaTrmaToq tuùv àvòpuùv. 'Aqpi-
KÓ)aevov òè eì(; ZupaKoùaaq bià Tf]v 'lépoivo*; Tupavviòa tou
|Lièv qpavepùùq (piXocToqpeTv àTToaxécr6ai, ^\% laérpov ò' èveivai làq
— 239 —
biavoia*; tujv àvòpùàv, luexà Traiòiag Kpùqpa èKcpépovia là TTu-
GaTÓpou ÒÓTiuaTa'. — At si supra recte posuimus Ennii Prae-
cepta particulam quandam Epicharmi carminis esse, ex bis lam-
blichi verbis statuere licet, Enniiim non Epicharmi poetae bine
illinc excerpsisse sententias, sed eius libellum quondam de sen-
tentiis latine vertisse. — Potest fortasse et bue referri fabula
illa aesopica, quam tetrametris trochaicis expressisse Eunium ex
Gelilo II, 29 compertum babemus; quod praesertim et propter
metrum et propter argumentum suspicor.
Sed et aliam particulam bexametris versibus scriptam ad Epi-
cbarmum Carmen pertinuisse putamus. Nara puto bue esse revo-
canda fragmenta quaedam, quae vulgo Annalibus tribuuntur: sed
quomodo ad res gestas populi Komani spoetare possint, minime
me perspicere fateor. Quod ut ad liquidum adducatur, fragmenta
ipsa afferemus:
1) apud Varr. V, 60, V, 111; IX, 54):
'terraque corpus,
quae dedit, ipsa capit nec dispendi facit bilum '.
2) (ap. Varr. V, 59; Prisc. 802, 880, 965, Diom. 378):
' ova parire solet genu' pinnis condecoratum,
non animam, post inde venit divinitu' pullis
ipsa anima'
quem locum attigit etiam Lucretius, cum ait, I, 116 *an pecudes
alias divinitus insinuet se [anima], Ennius ut noster cecinit'.
Hos locos ideirco Epicharmo carmini tribuendos putamus, quod
ex Epicharmo poeta eos bausisse videtur Ennius. Nam cum priore
ilio apte conferri potest baec Epicharmi sententia (ap. Plutarcb.
Consol. ad Apoll. 15 [110 A]):
ZuveKpiGri xaì òi€Kpi9ri KÒiTTfivGev, òGev fivGev, TrdXiv,
ya |Lièv eiq t«v, TTveO)aa àvuu. ti Tuùvòe x«^£Tróv; cube ev.
Alter autem, id quod iam vidit Columna p. 289, ex hoc est
Epicharmi sumptus loco (ap. Diog. Laert. Ili, 16):
— 240 —
Eu)Liai€ TÒ (Jocpóv èativ où Ka0' ev laóvov
àW ocfCairep Ix] Travia Kai -^vwjàoìv è'xei
Kttl TÒtp TÒ efìXu lav dXeKTopiòuuv jévoq
ai Xfic, KataiuaBeiv àrevéq, où tìktci téKva
16jvt\ àW* è7TUjZ;ei, Kai Tioiei ipuxàv ^x^iv.
TÒ òè (Tocpòv a cpuaic; tóò' oTòev ùjq è'xei
MÓva, TreTTaiòeuTai fàp au Tauiaq utto.
Ex Ennii fragmentis, quae sine certa sunt sede, huc etiam referri,
et propter argumentum, quod est de animalibus, et propter me-
trum, possunt haec:
I. (apud Cic. De Nat. D. I, 35, 97):
'simia quam similìs, turpissima bestia, nobis !'
[L. Miiell. p. 86, Vahlen. p. 162, Baehrens. p. 122].
IL (apud Paul. 59 M.):
'propter stagna, ubi lanigerum pecu' piscibu' pascit'.
[Baehr. p. 122; Muell. p. 86; Vahl. p. 161].
Cetera ad Epicharmum pertinentia fragmenta paene omnia no-
minatim a scriptoribus afieruntur; nec de iis est ulla dubitatio.
Ea habent L. Muell. p. 77, Vahlenus , p. 167, Baehrensius ,
p..l23 sqq. — De iis pauca tantum liceat addere. At primum
ex oblivione eruendam puto coniecturam quam protulit Columna,
p. 275, qui fragmentum a Varrone, de re rust. 1, 4, servatum
' aqua terra, anima, sol' ita explevit:
'Aqua, terra, anima, sol, ignis, sidera '
conlato Menandri loco (ap. Meineck. 196):
' 0 |Lièv 'Errixapuoq Tovq deovq elvai \éfei
TTup, TiXiov, ff\v, uòujp, dve'iLiouq, àcJTépaq '.
Tum recte putamus a Baehrensio, F. P. R. p. 124, Ennio tri-
butum esse versum quendam, quem sine scriptoris nomine affert
- 241 -
Tertullianus, de an. 18 'animus cernit, animus audit, reliqua
caeca et surda sunt'; haec enim afferuntur a Plutarcho, De fortuna,
3 [98BJ, fortasse ex Epicharmo: 'vóo^ óprj Kaì vóoq uKoùei, xaXXa
Kujqpà Kal TuqpXd'. Ad hanc sententiam animum advertit Cicero,
Tusc. I, 20; eamque acriter exagitat Lucretius III, 36.
Haec omnia, de quibus postremo loco egi fragmenta, cum
metro trochaico scripta sint, ad eandem particulam putamus esse
referenda, ad quam tetrametra illa trochaica, quae ' Praecepta '
inscripta esse posuimas.
Nunc si omnia quae di sputa vimus brevi perstringere volumus,
in tres parti culas Epicharmus Carmen videtur esse digestum.
Quarum in una hexametris de anima et fortasse etiam de re-
rum natura agitur; altera est de praeceptis quibusdam ad ho-
minum mores, ad deos, ad rerum elementa spectantibus, trochaico
metro composita; tertia denique, de qua tamen in principio
egimug, de herbis quae ad hominum sanitatem plurimum valent.
At, si quaerimus, hoc totum Ennii Carmen, quod Epicharmus ab
eo inscriptura est, ex eo videtur Epicharmi opere expressum esse,
de quo memorat Diogenes Laertius, Vili, 3, 2: 'Outo<; ['Em-
XapiLio^] uKO|Livri|LiaTa KaTaXéXomev, èv oig cpucrioXoYeT, yvuj]lio-
XoY€T, ìaTpoXoyei'. Epicharmi igitur commentarii ex tribus par-
tibus constabant: de rerum natura, de praeceptis, de medicina;
quae partes cum iis, in quas Ennianus libellus dividebatur, mire
concinu'nt. Puto itaque ex hoc Diogenis Laertii loco plurimum
firmamenti accedere ad ea omnia quae de Ennii Epichaimo di-
sputavi mus.
Postremum erit, ut, occasione data, de acrosticho Enniano lo-
quamur. De Epicharmo enim haec habet Diogenes Laertius, 1. 1.
' TTapacTTixìbia toTc; TrXeiaToig tóùv iJTTO)Livri)udTuuv iTeTTOÌr|Kev, ole;
òiacTaqpei oti aÙToO ècTtì là auYTPctM^ciTa '. Haec verba nobis
ansam praebent ut huc revocemus atque Epicharmo carmini tri-
buamus ea quae de Ennio tradit Cicero, de divinatione, II, 54,
111 'non esse antera illud Carmen [Sibyllae] furentis cum ipsum
poema declarat — tum vero ea quae dKpoaTixk dicitur, cum
deinceps ex primis versuura litteris aliquid connectitur, ut in
quibusdam Ennianis: Q. Ennius fecit. id certe magis est
Rivista di filologia, ecc., XX Y 16
— 242 —
attenti animi quam furentis' [Vahl. p. 183; L. Muell. p. 88;
Baehr. p. 132].
II. De E n n i i S a b i n i s ununa haberaus testera lui. Vic-
torem qui in capite sexto, de artificiali argumentatione (p. 402
Halra), haec habet : 'ut Sabinis Ennius dicit: cum spolia generis
detraxeritis, quam inscriptionem dabitis?' — In Macrobii enim
loco VI, 5, 5, in quo Enniani versiculi quidam alferuntur, ex
libro Sabinarum quarto , omnes 'Saturarum' nomen,
non 'Sabinarum', legendum esse uno ore consentiunt. Quis enim
sibi persuaderi poterit poema totum de Sabinis, in quattuor mi-
nimum libros digestum, ab Ennio esse compositum ? At si de
Carmine epico absoluta res est, non item de ceteris : nam fue-
runt qui fabulam praetextatam Ennii Sabinas interpretarentur,
fuerunt qui saturam quandara, vel saturarum librum quendam,
quem Ennius Sabinarum nomine, quomodo tertium saturarum
Scipionis nomine, inscripsisset. Nos rem diiudicari minime posse
fatemur; potuerunt Sabinae et satura esse, quod carminum genus
ab Ennio ita esse tractatum, ut et ex variis argumentis et ex
variis metris constaret, satis compertum est; potuerunt et fabula
praetexta, in quam, ut Diomedis utar verbis (p. 487 K.) 'reges
romani vel duces' inducebantur. Si quem autem capiat voluptas
disputationes de bac re virorum doctorum perlegendi, hunc ad
hos mitto scriptores: Vahlenum, Quaest. Ennian. p. LXXXVIII,
et Eh. Mus. XVI, p. 580; Roeperum, De Q. Ennii Scip. p. 26-27;
L. Muell. Ennius Einl. p. 100-103, qui versum illum apud lui.
Victorem servatura ita recte restituit :
'cum spólia generis detraxeritis, quam, patres,
inscriptionem dabitis?'
Nos tantum patica addere instituimus, quae non ad carminis
genus sed ad fragmenta ipsa spectarent. Nullam dubitationem
esse posse putamus, quin bue quoque revocanda sit illa Hersiliae
precatio, quam ex Cn. Gellii historici annali tertio nobis tradidit
Aulus Gellius, N. A. XIII, 22. In qua manifesta carminis ve-
stigia optime deprehendit Eoeper, in Philol. VII, 592-3; atque
- 243 -
vix uno alterove verbo transposito, versus in hanc formam re-
stituit :
'Te Neria Martis obsecro pacera dare,
uti liceat nuptiis propriis uti et prosperis,
quod de Consilio coniugis tui contigit,
uti integras nos raperent, unde liberos
patriae pararent et sibi et suis posteris \
Qui versus igitur, Ennianam speciem sane praebentes (cfr. illa :
propriis et prosperis; Consilio coniugis contigit; patriae para-
rent), Ennianis relliquiis, si quid video, sunt adiungendi.
Quod autem ad locum illum spectat ;
' cum spolia generis detraxeritis, quam, patres,
inscriptionem dabitis ? »
operae pretium erit ad eum explicandum animum intendere.
Nam arbitramur morem illum hic adumbratum esse, quem apud
veteres fuisse constat, nomina caesorum hostium inscribendi in
ferculis seu truncis, e quibus eorum arma spoliaque suspende-
rentur. Cuius rei testem habemus Vergilium, Aen. 11, 83: 'in-
dutosque iubet truncos hostilibus armis Ipsos ferre duces ini-
micaque nomina figi'. — Patet igitur Ennium Sabinas ipsas
induxisse, Inter tela hostiliaque arma corpora inferentes atque
lacrimis precibusque patribus suadentes, ut viris vellent parcere
armisque desistere: Quae nomina, patres (sic enim locuntur Sa-
binae), quae nomina in hostium spoliis inscribetis? Nostra, nostra
nomina, patres ! Constat enim e Sabinis virginibus triginta curias
roraanorum nomina sumpsisse (Plut. Eom. 14; Liv. I, 13, 6; Cic.
De Rep. 2, 8). Qua ex re aliquid firmamenti affertur ad ea quae
in Actis Reg. Acad. Lyncaeor. nov. 1895, p, 550, de matronarum
auctoritate apud Sabinos prae viris valente suspicati sumus.
III. Quaestionem illam de Ennio grammatico, quem alii di-
versum a nostro fecerunt, alii eundem habuerunt, minime tangere
est in animo ; de ea satis est, et ad Ritschelium (Jahrb. f. klass.
Philol. 75, 314), et ad L. Muellerum (Q. Ennius, Einl. p. 212-213)
- 244 ^
lectores mittere. Hoc tamen commemoratione dignum cen^eo, non
quia in Ennianis relliquiis paucas deprehendamus quae ad gram-
maticam artem videantur spectare, idcirco eas statina ad duos
libros illos 'de litteris sylIabisque'{Siiet. gramna. 1; p. lOOKeiff.)
esse referendas.
Quod ut argumentis confirmemus, fragmenta illa, quaecumque
sunt, ad grammaticam artena pertinentia apponamus :
1) Test. 351 M. 'tappete ex graeco sum[psit ] tae Ennius
cum alt t lius in Demetrio'; fortasse melius: 'sum[pseruDt
poe]tae, Ennius ', cet.
2) Fest. p. 241 M. ' [philo]logam Ennius in p [li]bra-
riorum, qui ea quae fe[mina mascujlino*.
3) Varr. 5, 86 ' foedus, quod tìdus Ennius scribit dictura '.
4) Charis. p. 98 K. 'erumnam' Ennius ait per e solum
scribi, quod mentem eruat, et per ae, quod mentis aegrorem
[cod. quod merorem] nutriat',
5) Varr. L. L. 5, 55 "nominati, ut ait Ennius, Titienses ab
T. Tatio, Ramnenses ab Romulo'.
lam quod fragmentum est de tappete, ipsi hanc sententiam
inesse putamus, Ennium graecum hoc vocabulura usurpasse. Con-
ferenda sunt quae de daedala Minerva ab ipso Ennio dieta,
habet PauUus p. 68 M.: 'daedalam' a varietate rerum artitìcio-
ruraque dictam esse apud Ennium Minervam facile est in-
tellegere, cum graece òaiòdXXeiv significet variare'. Fragmentum
de philologae vocabulo patet esse de ipsius feminino genere, atque
ad locum aliquem Ennianura, ubi verbum tali genere usurpatum
sit, spectare.
Sequitur locus de foedere, in quo tamen hoc Ennium voluisse pu-
tamus, 'fidus' idcirco appellatum esse quod sit fidum, i. e. in fide
pactum. At potuit Ennius etiam in carminibus haec proferre : de eius
enim enodandorum nominum consuetudine luculentus testis est locus
Varronis,L. L. VII, 82: 'apud Ennium : Andromachae nomen qui in-
didit, recte indidit. Item: quapropter Parim pastores nunc Alexan-
drura vocant. Imitari dum voluit Euripidem et ponere èiuiuov, est
lapsus; nara Euripides quod graeca posuit, exu^a sunt aperta'. —
Cum duo hi versus, quos aifert Varrò, ex Ennianis fabulis hausti
— 245 —
sint, apparet etiam in carminibus Enniura in verbis enodandis
ingenio indulsisse suo. Potest et huc afferri Varrò, L. L. 5, 68: 'bine
Epicbarmus Enni VProserpinam ' quoque appellat [Lunam] quod
solet esse sub terris; dieta Proserpina quod haec [luna] ut
serpens noiodo in dexterara modo in sinistram partem late mo-
vetur. Serpere et proserpere idem dicebant'; atque fortasse potest
etiam huc Bergkii (Klein. Schrift. I, p. 485 n.) suspicio de En-
niano loco apud Varronem L. L. V, 64 in quaestionem vocari :
'haec enim terris genteis oranis peperit et resumit denuo, quae
dat cibaria, ut ait Ennius ; quae quod gerit fruges, Ceres: anti-
quis enim e quod nunc g'; quo loco Bergkius non verba Illa,
quae vulgo tribuunt, Ennio adscribit: 'quae dat cibaria', sed
haec: 'quae quod gerit fruges, Ceres'. In eiusdem generis seriem
conferri potest etiam locus ille quem attulimus (Varr. L.L. 5, 55)
de Tatiensibus Ramnensibusque.
Unum igitur reliquum est fragmentum, de erumnae vocabulo,
vel per e vel per ae scripto (Charis. p. 98 K.), quod si ne ulla
controversia in grammatico quodam opere fuit; quod itaque ad
Ennium illum, vel si potius placet, Hennium, Ciceronis aequalem,
referamus.
IV. Versum saepius retractatum habemus apud Varronem,
L. L. VII, 26 sine scriptoris nomine prolatum :
Musas quas Grai memorant, nos Casmenarum.
At liber Florentinus ita profert:
musac quas memorant nosce nos esse.
In aliam alii redegerunt formam bunc versum; quem Satur-
nium liabuit L. Mueller (Q. Ennius Einl. p. 137 ; Qu. Naev.
p. XXIII ; Enn. Naev. Rell. p. 157), atque ita posuit, Naevio
tribuens :
Musàs quas memorant Grài quàsque nós Oasménas.
At Ennio tribuerunt, C. 0. Muellerum secuti, Vahlenus (Rell.
p. 3), A. Kochius (Exercit. crit. Bonnae 1851 p, 5) qui extrema
— 246 — .
verba ita restituit 'nos ciemus sas Casmenas'; Maehlyus (Jahrb.
f. klass. Philol. 1857, p. 359), qui ita:
* Musas quas Grai memorant, nos noscimus esse
Casmenas'.
Ennio item Keichardtius (De Q. Enn. Annal. 1889, p. 23), qui
Scaligerum (Coniect. ad Varr. 1581, p. 115) secutus haec pro-
tulit :
'Musae quas memorant Casmenas esse...'.
Baehrensius autem in versus incertorum poetarum rettulit,
atque ita edidit (F. P. L. p. 137):
'Musae quas memorant Casmenas esse latinas'.
Bergkius denique (Jahrb. f. klass. Philol. 1861, p. 134 = Klein,
philol. Schrift. I, p, 268) versum in eam formam restituit, quae
propius ad eam, quam liber florentinus praebet, accedit:
'Musae quas memorant Osci nostrique Camenas'.
Potest fortasse cogitari, ut ad eam proxime accedat :
'Musas quas memorant, nos noscimus esse Camenas'.
Versum rectius Ennio quam Naevio ea potissimum de causa tri-
buendum putamus, quod Enniani sermonis proprium id videtur
esse, ut graeca verba latino nomine declarentur. De qua Ennii
consuetudine iam tetigerunt Vahlenus (Qu. Enn. p. XCIV), Eib-
beckius (Eh. Mus. 1856, p. 267), Bergkius (Jahrb. f. klass. Phil.
1861, p. 334=Klein. Schrift. 1, 267); at exempla aliqua pràestat
afferre :
Apud Prob. Verg. Ecl. 6, 31 (= 19 K.):
'Vento quem perhibent Graium genus aera lingua'.
Apud Varr. L. L. 5, 65:
' Istic est luppiter quem dico, quem Graeci vocant
Aera, qui ventus est et nubes, imber postea'.
- 247 -
Apud Fest. 325 M.:
'Nec quisquam sophiam sapientia quae perhibetur ',
Serv. Aen. I, 741:
'Ennius dicit Nilum Melonem vocari, Atlantem vero Telamonem '.
Fest. p. 301 M.:
'Oontendunt Graecos, Graios memorare solent sos\
Haec igitur exempla minime nos in dubitationem inducere pos-
sunt, quin versus ille recte Ennio tribuatur; qui versus Ennianam
quandam nescio quara speciem praebet. At non quia de hoc satis
comperta confirraataque est sententia, idcirco sequitur ut in An-
nalium initio sit reponendus atque cum eo versu coniungendus
qui est
'Musae quae pedibus magnum pulsatis Olympum',
quomodo fecerunt et Vahlenus (Kell. p. 3) et Bergkius (Kl. Schr.
I p. 268); quorum in priorem acerba convicia propter eam con-
iunctionem iactat L. Mueller (Ennius, Einl. in das Stud. p. 137).
Potuit enim Ennius et aliis quibusdam Annali um libris a Mu-
sarum invocatione initium facere, ut de alio quoque libro, for-
tasse decimo, constat (apud Geli. 18, 9 'Insece, Musa', cet.).
V. Apud Nonium Marcellum (87, 32; 109 Onions; 88 M.)
hoc ex Varronis "Ovuj Aupaq haberaus epigramma:
« Pacvi discipulus dicor: porro is fuit (Enni):
Ennius Musarum: Pompilius clueor ».
Sed codex Guelferbytanus saec. X praebet ex priore manu (V)
Pompoliits.
Hic Pompilius seu Pompolius seu quis alius sub hoc nomine
latet, si quaerimus, prorsus ignotus est ; tenebras enim potius
quam lucem offundit alter Varronis locus, qui est de Pomponio
quodam seu Papinio (nam varia haec nomina in libris addu-
cuntur). Quem locum afferamus oportet: Varr. L. L. VII, 28:
- 248 —
'Item ostendit -|-Papini èTriTpamLiàTiov, quod in adolescentem
fecerat Cascam:
Kidiculum est, ciim te Cascam tua dixit amica
Fili Fotoni, sesquisenex puerura.
Dice illam f pusara: sic fiet mutua muli
Nam vere pusus tu, tua amica senex.
Cum hoc loco qui est de Papinio quodam poeta alter Varronis
locus (L. L. VII, 63) comparatus est, ubi Fompilii caiusdam
versus senarius legitur; qua de re in eam sententiam fere omnes
adducti sunt, ut de Fompilii nomine etiara apud Varr. VII, 28
restituendo vix dubitandum sit.
At perperam puto. Nam versus ille:
Heu, qua me causa, Fortuna, infeste premis?
haud dubie est ad tragoediam quandam referendus: non igitur
ex eo efficitur, ut et illorum versuum, quos supra adduximus,
scriptor et huius, unus idemque sit faciendus. Sed maximi, quantum
video, est momenti, ad hoc quaestionis caput absolvendum, quod
apud Friscianum I, 90, H. (T, I p, 110 Kr.) haberaus. Is enim
Fomponii cuiusdam epigramma ex Varrone laudat; quod idem
est atque illud, quod iam adduximus, in adulescentem Cascam.
Nulla Frisciani verbis inest de nomine dubitatio, cura omnium
librorum consensu Pompnius seu Pomponius habeatur.
Quid igitur? A Pomponio et ad Fapiniura et ad Fompolium
aperte patent viae ; inde transgressos esse puto librarios ad Fom-
pilium, atque mendum longe lateque in plerosque libros inrep-
sisse. Ne multis morer, puto hic agi de L. Fomponio Bono-
niensi, quem ex multis scriptorum locis iam novimus. In quam
opinionem propterea inducimur, quod scriptor Ennium Musarum
discipulum dicit, id quod ad saturara, ' Graecis intactum Carmen '
referendum arbitramur: nullum enim aliud invenietur carminis
genus quod Ennius non ex Graecis, sed ex Musis ipsis didicerit
(cfr. etiam Havet., Rev. d. philol. VII, 193). At inter saturarum
scriptores occurrit sane Bononiensis ille Fomponius.
Falso enim Foraponium Atellanas tantum fabulas scripsisse
— 249 —
vulgo credunt (Hieronym. ad Eus. Chron. ad a. Abr. 1928; Ma-
crob. 6, 9, 4; 2, 1; v. Suet. De viris ili. XIII Reiff. p. 38). Sed
et satiiras scripsisse apparet ex verbis quae ex eius saturis pro-
ferunt Nonius Marcellus, 112 (p. 138 On.), et Priscianus 1,200;
282 H.; V. Baehrens. Fragm. Poet. Lat. p. 293 ; et praetextatas
togatasque, testatili- Scholiastes vetus Crucq. ad Horatium: 'Prae-
textatas et togatas scripserunt Aelius Lamia, Antoniiis, Riifus,
C. Melissus, Afraniiis et Pomponius '. — Puto igitur Pomponii
nomen in Epigrammate apiid Nonium Marcellum, 87, 32, a quo
initium duximus, esse restituendum :
'Pacvi discipulus dicor: porro is fuit Enni,
Ennius Musarum: Pomponius clueor'.
Accedit quod de hoc potissimum genere Varronem in saturis
menippeis locutura esse par est; unde ratio explicatur cur Varrò
distichon illud ex Pomponio afferat. At liquet hic saturam prò
eo Carmine habendam esse, 'quod ex variis poematibus constet;
quale scripserunt Pacuvius et Ennius', ut Suetonii (p. 20 Reiff.),
et Diomedis(p. 485, 32K.) utar verbis,
Carolus Pascal.
- 250 - .
SAGGI SOPKA LE TRADIZIONI CLASSICHE PURE
E SOPRA LE TRADIZIONI CLASSICHE MEDIEVALI
IN ITALIA E SPECIALMENTE NELLA LOMBARDIA
I.
Catullo, LXVII. Brescia e Verona, il Gagliardi ed il Maffei.
Intendo con questo scritto, diviso in più articoli, raccogliere
note mie particolari, fatte in diversi tempi spiegando i classici,
0 leggendo libri varii di storia e di erudizione rispetto a tradi-
zioni che, 0 derivano direttamente dagli scrittori latini, o passa-
rono pel medio evo e furono raccolte dai nostri dotti del Risor-
gimento, onde se ne sente l'eco anche presso i moderni. Non mi
propongo di fare gran cosa, ne di percorrere tutto il vasto campo
degli studi sull'antichità, ne illustrare le locali leggende, che
hanno il loro fondamento nei classici, come farebbe chi volesse
trattare interamente tutta questa materia, oppure illustrare la
storia antica d'Italia, o di alcuna sua regione speciale, come sa-
rebbe tutta l'Italia superiore, o tutta la Lombardia soltanto, o il
Piemonte, o il Veneto, ecc.; il mio intendimento, ripeto, è di
scrivere note, appunti, seguendo il metodo critico, e vorrei che
altri di me più fortunato ne formasse un'opera degna degli studi
critici moderni.
I. Incomincio da Catullo, elegia o carme LXVII, ad ianuani.
Mi giovo, tra gli altri, del commento antico di Alessandro Gua-
rino, Venetiis MDXXI, per Georgium de Rusconibus, e di Emilio
Baehrens fra i moderni, Lipsiae 1876 ; della traduzione italiana
del Subleyras, Roma 1812, ed. 2" (sarebbe stata scritta nel 1770,
e la 1* ed. pubblicata nel 1783, e l'A. avrebbe seguito, secondo
il Toldo, il commento del Volpi); di questo stesso lavoro del Tolde ,
i
— 251 ~
* carmi di C. Valerio Catullo, ecc. Imola, 1883; in fine della
traci, tedesca di Kud. Westphal (Leipzig, 1884), che non mi sembra
né per l'ordine dei carmi, nò pel loro strozzamento al tutto da
approvare, sebbene elegante, esattissima la traduzione.
L'elegia Catulliana ha un riscontro in una simile di Properzio,
I, 16, ma qui il dialogo è tra la porta e il giovanotto innamo-
rato, una specie di canto notturno di quella gioventù. In Catullo,
che usa più arte drammatica, la porta interrogata risponde nar-
rando nefandità mostruose. Ma chi è, o chi sono quelli che la
interrogano, il poeta coi vicini, o cogli amici, a nome di essi, o
i vicini, i curiosi soltanto, oppure soltanto il poeta senz'alcun
vicino 0 forastiere fa da interlocutore colla porta ? Poi la divisione
precisa delle parti del dialogo, poi la patria della donna infamata,
cioè se fu di Verona come vorrebbe lo Scaligero, o non piuttosto
di Brescia, come afferma ripetutamente il Guarino ? Quest'ultima
domanda è certamente più importante pel nostro tema; giova
tuttavia tener conto anche della prima, cioè della persona, o delle
persone che interrogano la porta. Mentre il Toldo dice essere
queste persone dei curiosi (in latino viatores, che mi sembra però
dal Toldo mal tradotto per curiosi) gli altri tutti dal Guarino
al Baehrens ammettono la sola persona del poeta, e noi possiamo
accettare il poeta sì per suo conto particolare come per conto del
pubblico. Ho detto che la sposa dallo Scaligero, seguito dal
Baehrens, è ritenuta Veronese di patria (verso 34: Veronae tuae?
meae) mentre dal Guarino si fa Bresciana; ma questo antico e
riputato espositore immagina una storia troppo lunga, cioè che la
fanciulla Bresciana avendo sposato un giovane impotente prati-
casse il padre di lui, e dopo questo, già vecchio, passasse ad
altri adulteri, Cornelio, Postumio; quindi per fuggir l'ignominia
venisse a Verona nella casa appigionata di Balbo e mortole il
marito, cacciato il vecchio suocero, sposasse Cecilie ; non contenta
di questo, si procurasse altri ganzi. Catullo, che si trovava in
Verona, si sarebbe innamorato di lei, ma, non essendo corrisposto,
le avrebbe, novello Archiloco, scagliato contro per vendetta questa
infamante elegia. Ho detto Archiloco, ma più per la rabbia del ri-
fiuto che per la somiglianza del caso e per la forma, per cui è
piuttosto da paragonare con Callimaco, da lui tradotto nella Chioma
di Berenice, imitato, raffazzonato (LXVI, Baehrens, p. 470). Né
deve farci meraviglia che egli scagliasse tutte quelle infamie
- 252 —
contro la povera donna; chi non conosce quello che ha scritto
contro Gellio (LXXXVII-XC) contro Celio e Quinzio (carme XCIX
oppure C), flos Veronensum iuvenum, e contro altri ed altre ? Ma
vediamo come il Guarino potè supporre Bresciana la sposa, che
prima si maritò e dimorò a Brescia, poi venne e si rimaritò a
Verona. Kechiamo in mezzo i versi su indicati (31-34):
Atqui non solum hoc dicit se cognitum hahere
Brixia Cycneae supposita speculae,
Flavus quant molli percurrit flumine Mella,
Brixia Veronae mater amata meae,
Set de Postumio, etc.
Primieramente sul testo osserviamo che, mentre d'accordo coi
migliori codici quasi tutti gli editori hanno: Veroìiae meae,
lo Scaligero, seguito dal Baehrens, corregge: ttiae. Poi chi parla
qui, Catullo o la porta? oppure nessuno dei due, e il dialogo è
interrotto ? o questi quattro versi debbonsi espungere ? Il Guarino
interpreta i primi versi come se la casa di Balbo, prima che vi
entrasse quella infamata sposa, fosse onorata, onesta : quo iempore
Balbus domum tenuit, honesta fuit, cum vero Caecilii facta est,
propter impudicam eius uxorem facta est inhonesta : il Baehrens
invece fa Balbo padre della disgraziata, e si meraviglia che nes-
suno abbia ciò veduto : miror, neminem vidisse, huius Balbi ftliani
fuisse feminam etc, onde il servisse benigne della porta a Balbo
e maligne natae, vv. 3, e 5, sarebbe interpretato per questo che :
non intacta domum venerit nova domina. S'aggiungono perciò in-
famie ad infamie (v. 19 e segg. 35-36), ne vale a diminuirne la
gravità il dire che è una voce popolare: populus narrat; ma il
Baehrens per approvare codesta interpretazione deve mutare in
natae maligne, v. 5, la lezione dei codici: voto maligno,
che pure si volle correggere in nato maligne. Del resto chi
siano questi personaggi, Balbo, Cecilio, Postumio, Cornelio, non
possiamo sapere, e solo dalle iscrizioni apprendiamo che erano
nomi di famiglie locali. Ma noi dobbiamo stare, almeno secondo
l'opinione mia, finché si possa, al testo per non moltiplicare le
difficoltà, già di per sé stesse abbastanza gravi e numerose, della
interpretazione, e per fuggire al possibile le incoerenze, le con-
traddizioni. Concludendo pertanto dirò che in questa prima parte,
— 253 -
in cui il poeta parla alla porta, la quale avrebbe dovuto star
chiusa per mantenere l'onore della casa, della famiglia, e custo-
dirne la roba, e così fece per verità, finché ne fu possessore il
vecchio Balbo, mentre poi entratavi col marito Cecilio quella
sventurata donna, si cangiò e venne meno di fede in dominum
veierem (vv. 1-8), in questa prima parte si deve preferire l'inter-
pretazione del Guarino, senza alterare il testo, a quella del Baeh-
rens, o di qualunque altro. Notiamo di passata che il poeta non
afferma, né dà come certe, indubitabili le notizie della reità della
ianua e delle orribili colpe della donna, ma usa l'espressione co-
mune: si dice, {ferans deseruisse fìdem), corre voce ecc.
Prima che la porta venga fuori, come una ciarliera portinaia,
a spifferare tutto quello che sa e che non sa, cerca di schermirsi
rispondendo che la colpa non è sua, quantunque tutti l'accusino
gridando : ianua, culpa tua est (vv. 9-14). Ma il poeta l'incalza
dichiarandosi non soddisfatto delle parole, vuole sapere i fatti.
Come posso, risponde essa ; — e poi nessuno si briga di cono-
scere i fatti. E il poeta insistendo : Siamo noi che vogliamo i
fatti e tu non devi avere alcuna difficoltà a spifferarceli (vv. 15-18).
Allora essa riappiccando il discorso interrotto al v. 9: Non ita
Caecilio, comincia con un « Primum igitur» e fa in cinque distici
(vv. 19-28) il racconto dello scandaloso incesto della donna collo
suocero, scusato per l'impotenza del marito. « Bella impresa è
quella che tu narri, osserva il poeta, di questo genitore, che fece
tale oltraggio al suo figlio. Eppure, soggiunge la linguaccia della
porta, ciò non basta {Atqui non soluni). Tutta Brescia va nar-
rando di aver inteso non solo questa prodezza, ma anche degli
amori di questa sposina con Postumio, con Cornelio, coi quali
commise adulterio » (vv. 31-36). E qui facciamo sosta; la divisione
delle parti è identica in quasi tutte le edizioni, nella minore di
Lipsia, 1868, e nelle altre : varia l'interpretazione degli ultimi
tre distici, disputatissimo specialmente il punto riguardante Brescia
e Verona. Ecco come il Guarino spiega V Atqui non solum: Non
est verum cjuod haec virgo Me (Veronae) vitiata fuerit^ sed an-
tequam huc (Veronam) venerit, violata fuit, et non solum apatre
Sponsi, sed etiam Brixiae commisit adulterium cum duohus aliis,
et Jioc in urbe illa (in Brescia, poiché la porta sarebbe di una
casa di Verona) notissimum est. Ed a me sembra giustissima la
interpretazione del Guarino, e dobbiamo perciò ammettere che la
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sposa era Bresciana, onde questa città conosceva benissimo i suoi
amori, e non poteva commettere adulterio cogli amanti se non
era maritata, teniamo certo, a Cecilio, col quale, abbandonata la
città natia, venne a Verona, che doveva essere perciò a lei cara,
amata-, entrambi gli sposi col vecchio padre dello sposo andarono
ad abitare la casa, prima onorata, del vecchio Balbo, morto il
quale si venne a sapere il fatto incestuoso della donna collo suocero
per l'impotenza del marito, e divulgata la cosa ; poiché il popolo
si maravigliava dell'onta di quella casa prima tanto onorata,
quando Balbo, il vecchio possessore antecedente della casa, era
vivo, si vengono a scoprire gli adulterii commessi a Brescia, città
natale, e quindi madre, della sposa. Come il lettore vede, abbiamo
bensì approvata la spiegazione del Guarino, ma tenendo una via
più breve abbiamo pure eliminata la supposta morte del primo
marito, la cacciata di casa del vecchio suocero, e il matrimonio
con un secondo marito, fantasticherie dello stesso Guarino. E non
si ebbe bisogno di alterare il testo, come ha fatto il Baehrens
per supporre, a danno della fanciulla, che sarebbe figlia del vec-
chio Balbo {Balbi pii fìlia impia), divenuta poi la sposa di un
tale che l'abbandonò per impotenza al suo padre. Se figlia di
Balbo, sarebbe una Veronese, che da Brescia, ove si macchiò, tornò
poi a Verona. — A questo punto della narrazione, cioè che altri
adulterii, come quelli con Postumio e Cornelio, sono ben noti a
Brescia, pare che il poeta avrebbe dovuto finire la sua elegia, ma
essa invece continua ancora per sei distici, nei quali, secondo la
minore di Lipsia e quasi tutte le altre edizioni, continua a parlare
la porta, mentre il Toldo riferisce i due distici (vv. 37-40) ai via-
tores; è meglio, collo Schwabe e col Baehrens, al poeta; certamente
non si possono riferire alla porta, la quale anzi risponde ad essi
spiegando il modo con cui venne a scoprire queste laidezze, pale-
sate dalla stessa femmina in confidenza alle ancelle, credendo che
la porta non avesse ne orecchie per ascoltare, né lingua per par-
lare; ma puV troppo questa linguaccia svela tutto quello che sa
e quello che non sa, accennando copertamente un finto parto della
sua padrona per non perdere l'eredità, forse della casa, che sarebbe
passata in proprietà di remoti congiunti, spento Cecilio, che l'avrebbe
comperata dopo la morte di Balbo. — Si sa che Orazio dava pure
a Canidia l'accusa di falso puerperio, epod. XVIl, 50 la quale
Canidia era amata nautis multum et institoribus, v. 20 ; anche
— 255 —
Canìdia non dovett'essere così rea. Del resto Catullo ed Orazio
imitarono molto i Greci, il primo gli Alessandrini e specialmente
Callimaco nelle elegie, come fece Properzio, il quale volle essere
detto il Callimaco Eomano, mentre Orazio imitò Archiloco. E se è
vero che gli Alessandrini riprodussero i modelli antichi, variando
la forma ed esagerandone spesso, guastando talora, il concetto, e lo
spirito, con un sentimento non naturale, non inspirato, ma simu-
lato, artifiziale, dobbiamo dire che nei carmi contro le donne dal
Veronese poeta così perseguitate (v. l'Aufilena, carme XCIX, op-
pure C ; CIX-CX, oppure CX-CXl : anch'essa pare Veronese, come
Veronesi certamente erano Celio e Quinzio) si sente insieme la
rabbia d' Archiloco e l'arte posticcia del poeta Alessandrino (1),
modificata però in modo, che noi, se ci sentiamo qual cosa di
urtante, siamo rapiti tuttavia da quella grazia spontanea, da quella
facile vena dell'ingegno, da quell'eleganza di forma, che ci fa
amare ed ammirare il cantore di Lesbia. Avrebbe, secondo me,
bisogno di essere un po' più studiato storicamente, che artistica-
mente; il sommo artista, se non conosciuto perfettamente, è abba-
stanza sentito; il rappresentante dei costumi dell'età sua, della
sua patria, mi sembra poco noto. Bisogna distinguere in esso ciò
che appartiene all'imitazione greca da ciò che è reale, ciò che si
deve all'ingegno poetico, alla passione, al risentimento privato,
da ciò che la storia dei costumi romani, dei municipii, delle co-
lonie d'Italia (etrusca, veneta, gallica o comunque) e le condizioni
civili ed economiche del bel paese ci attestano. Non basta quindi
quella, 'divisione dei carmi catulliani tentata da alcuni secondo
l'ordine cronologico, e quelle illustrazioni brevi, che si riferiscono
ai varii personaggi; non so nemmeno se si debbano approvare
quelle due parti, quei due periodi stabiliti nella vita e nei carmi
da Eodolfo Westphal; desidero insomma dal lato della storia un
lavoro più serio, più profondo. Ho, come qualunque suo ammira-
tore, in sommo pregio i suoi versi, dico anche divina l'arte sua;
ma come fu egli vero e reale rappresentante dei tempi suoi, fin
dove si può dire storico sincero ?
(1) Sopra Archiloco ricorderò, ed amo ricordare i lavori serii dei nostri,
che sono così pochi, la bella dissertazione del prof. Pietro Malusa, nella
Cronaca liceale di Campobasso, 1883. Egli nota a pag. 23 il raffronto, che,
se avessimo più frammenti, si potrebbe fare tra la Neobuie di Archiloco e
la Canidia di Orazio.
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E per tornare all'elegia di cui ci occupiamo, quanta oscurità,
quanta difficoltà nell 'interpretarla ! Quella povera donna sarà Ve-
ronese 0 Bresciana? Come dissi, inclino a crederla Bresciana col
Guarino, e non farla Veronese, che, come la fa il Baehrens, dalla
patria partita pia, pudica, andrebbe a Brescia, ove s'infangherebbe
e tornerebbe a Verona continuando nelle sozzure. Cecilie, che
quasi da tutti si fa marito di questa infelice Bresciana (lasciamo
se primo, o secondo, o piuttosto, come io credo, unico) è dal Baeh-
rens tenuto, non quale marito, ma quale compratore della casa
di Balbo, il quale, se era il padre di quella donna, avrebbe dovuto
lasciarla a lei in eredità ; e questa, per conservarne il possesso e
trasmetterlo poi a chi volesse, avrebbe simulato il puerperio? Il
viro del primo verso e il parenti chi sarebbero ? Pel Baehrens il
genitore sarebbe Balbo, padre della fanciulla, allora onorata, e
non già del marito di lei, non vedendovi in principio alcuna
ironia. Ma se, come pare più probabile, questi due versi debbonsi
ritenere pronunciati ironicamente, parenti è il padre del marito,
al quale la porta si mostra gentile, compiacente, come allo stesso
marito, viro, e così ironicamente l'interpreta il Guarino, il quale,
ammettendo due mariti, questo fa diverso da Cecilio, mentre è un
solo e identico con esso, ed è più sotto, v. 9, apertamente no-
minato. La casa pel Guarino è appigionata, conducta, da Balbo,
comperata poi da Cecilio, secondo marito di codesta perseguitata. Ma
come, perchè ha potuto inspirare tanta rabbia al Veronese poeta ?
Ne fu causa l'amore ributtato, la gelosia, o qual cosa d'altro ?
Trovo nei già citati carrai descritta con tristi caratteri la già
ricordata Aufilena, bella donna, diritta della persona : essa è amata
da Quinzio, lodata, ma per mercede, dalle sue buone vicine, e
mentre la si dice contenta di un solo marito, commette col fra-
tello Quinzio incesto, onde ha dei figli che hanno "per padre il
proprio zio (XCIX, oppure C; CIX-X, oppure CX-CXI), così al-
meno parmi che si debba dal raffronto dei citati luoghi interpre-
tare: matrem fratres efficere ex patruo (1). Ma se Quinzio è fra-
(1) L'interpretazione è varia; il Baehrens crede che Aufilena sia stata
fatta madre dal suo zio paterno, unendo ex patruo con matrem {matrem
ex patruo effecisse fratres — patrueles — cugini e fratelli tra loro). Ma
in questo caso non ci sarebbe stato incesto ex nire civili, ma concuhitus,
come osserva lo stesso commentatore. Perciò ex patruo si deve riferire a
fratres, che così avrebbero avuto il fratello della madre come loro zio e
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tello di Aufilena, perchè costei non sarà identica alla Quinzia del
carme LXXXVI: Quintia formosa est niidtis eie? dove il poeta
paragona questa donna formosa, diritta e grande della persona,
colla sua Lesbia e non poteva quindi vederla di buon occhio. Ma
neppure il suo fratello Quinzio poteva essergli caro (LXXXII),
poiché gli destava gelosia. Cecilio adunque e la sua donna avreb-
bero dato un motivo simile senz'essere stato Cecilio rivale di
Catullo riguardo a Lesbia. Ed anche il Baehrens mi avverte che
Quinzia, ovvero Aufilena, che aveva marito, fa amata da Catullo
(pag. 37, e comm. al v. 1 del carme LXXXII), quantunque il me-
desimo erudito tedesco, nel comm. al v. LXXXVI, dica che Quinzia
non è sorella di Quinzio pel v. 5, amando allora Catullo Lesbia,
come se egli, che negli amori e nei passatempi profuse il suo ricco
patrimonio ed impegnava una villa facendoci su un epigramma
(v. ad Furium, XXVI), sapesse contentarsi di un solo amore.
Quindi un simile caso dovette essere quello del carme LXVII.
Ma da cosa nasce cosa. Nel e. XXXV, al giovane Comasco,
Cecilio, poeta lirico, uno degli imitatori di Euforione, della scuola
di Calvo e Catullo, si fa l'invito di venire a Verona, Questo
Cecilio è ignoto al pari dell'altro, ma più sotto, oltre all'essere
autor di un carme in onore della madre Idea (Cibele, dal monte
Ida), Dindymi domina, tema favorito allora (carme LXIII), si
dice pure che ha fatto innamorare di sé una bella e dotta fan-
ciulla Comasca, Sapphica puella Musa doctior. Ora sarà forse
una grande stranezza l'accostare questi due Cecilii per farne uno
solo? E. nell'Aufilena vederci la moglie, infamata poi dal troppo
ardito e non corrisposto cantor di Lesbia ? Né occorre dire che
sono troppo diversi i casi e neppure s'accordano quanto all'età
delle donne, alla patria, poiché quella sarebbe nata a Brescia, quivi
già disonorata, e venuta poi a Verona. Ebbene non avrà il poeta
usato nessun artifizio per non far conoscere il nome della donna
così perseguitata? Non avrebbe dovuto rispondere anche dinanzi
ai tribunali di tante calunnie, se si fosse potuto scoprire il nome
vero dei calunniati ? Forse si sarebbe potuto difendere colla scusa
che erano, come in realtà erano, imitazioni di poeti Alessandrini,
padre. Ma il fratello della madre, osservasi, è avunculus rispetto ai nipoti,
fratres, legittimi. Ma si potrà qui osservare questa precisione trattandosi di
incesto tra sorella e fratello germano ?
Ririnia di filologia, tee, XXV. 17
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tristi scherzi, ma nulla piìi che trastulli e scherzi; ed anclie Orazio
soleva ricorrere a più nomi, quasi tutti greci, per indicare una
sola donna ; onde i suoi 18 nomi circa si riducono a due, od al
sommo tre nomi di femmine vere, che hanno potuto avere cono-
scenza, 0 qualsiasi relazione con lui (1).
E la Leshia sarà la famosa Clodia, che ci descrive Cicerone ?
A me pare di no, e chiunque legga attentamente il paragone fatto
della Quinzia colla Lesbia (LXXXVI) dovrà convenirne meco.
Già altri ne dubitarono, v, Toldo, XXIII-XXIV, e lo Hertzberg
(presso il medesimo Toldo) ne fa addirittura una di quelle etere,
che calate giù di Siria, di Grecia, di Sicilia, sapevano così bene
ingannare e corrompere la ricca e spensierata gioventù romana.
Il Westphal tuttavia col Baehrens e con quasi tutti i moderni,
continuano a tenerla per la famosa Clodia, moglie di Q. Metello Ce-
lere, detta la Inno Boopis da Cicerone. Ma perchè farne una Ko-
mana od myì etera, se la Quinzia, colla quale è messa a confronto,
è Veronese ? È maritata anch'olla, come la Clodia, ed entrambe
forse non tanto ree, quanto le vogliono fare il Romano oratore ed
il poeta Veronese, il quale poi s'arrabbiava contro di lei, s'inge-
losiva e faceva quelle mille pazzie, che descrive, ne sparlava e
diceva infamie, che solo si dicono alle donne volgari. Vero è che
io qui batto una strada un po' pericolosa e in senso opposto a
quella finora tenuta, e se gli altri errarono per pessimismo, io
posso errare per soverchio ottimismo. Ma chi può credere, che in
una città di provincia, quali Brescia e Verona, oppure Como
sempre poetica, si commettessero tante nefandità senza alcun ri-
tegno della madre col figliuolo, della nuora col suocero, del fra-
tello colla sorella ? Perciocché lasciando pure che non si possa
identificare la Quinzia coll'Aufilena secondo la mia congettura,
certo Quinzio nel carme XCIX, o C, commette incesto colla sorella
Aufilena. ì^ìqW Agricola Tacito, e siamo sotto l'impero in cui i
(1) Non occorre neppure dire che il carme XXXV, ove Como assume il
nome di Novum Comuni, non può essere stato composto prima del 695/59;
ma siamo noi certi che gli altri, LXVII, LXXXVI, Quintia, G, CX, CXI
in Aufilenam furono scritti prima oppure dopo ? La nota del Toldo, che
segue lo Schwabe, tra gli altri mette dopo i carmi XGI, CI, GV, LXV,
LXVIII, LXXXV, LXXXVII, mentre all'anno 688/66 riferisce l'elegia in
questione ad ianuam LXVll, ed al 693/61 l'epigramma LXXXVI ad Quin- y
tiam; ma ignoro i criterii di questa cronologia, non da tutti certo seguita. '^
— 259 —
costumi si andavano senapre più guastando, loda Marsilia per
la sua provinciale parsimonia unita alla greca gentilezza ed ele-
ganza, la bontà, la semplicità del vivere, e noi dovremo supporre
così depravate queste tre nobili città nostre ? Certo queste in-
famie non sono creazioni fantastiche del volgo, che si dimostre-
rebbe non solo maligno, tristo, ma depravato, immorale anch'esso;
tali infamie sono sguaiate imitazioni di scadenti poesie greche
del periodo Alessandrino, di poeti che vissero sotto i Tolomei, e
furono salariati cortigiani di principi, che non avevano alcun ri-
guardo di sposare la sorella e uccidere il padre, i fratelli e com-
mettere altri simili delitti ed incesti, Eicorderò per ultimo gli
epigrammi di Catullo contro Gelilo, LXXXVllI-XC, ove si tratta
perfino d'incesto colla propria madre, dal quale, secondo la super-
stizione persiana, Persarum impia religio, avrebbe dovuto na-
scere un mago, il sapiente di quei popoli (il Baehrens cita a
questo luogo Strabene, XV, 735; Clem. Alessandrino, Strom., HI,
515; Diogene Laerzio, I, 7; Eurip. Andr. 173). Sono dunque co-
stumi orientali, espressi dagli Alessandrini che il nostro imitò.
Ma affrettiamoci a scusare il poeta, che assecondava il gusto let-
terario della corrotta dominatrice, Roma, che pur troppo non era
più la repubblica dei Bruti e delle Lucrezio. Del resto il Vero-
nese ci fa conoscere la coltura letteraria non solo di Como in
Cecilie, ma della sua terra, o delle vicine in Gornificio, pur uno
degli imitatori di Euforione, che aveva una sorella autrice di epi-
grammi (carme XXXVIII; e le citazioni di commenti ad Ovidio;
di S. Gerolamo, Chronic. ecc.); in Volusio, deriso autore di annali,
continuatore di Ennio, pur citato da Seneca (XXXVI); in Cinna
cui loda pel suo poema Zmyrna (XCV), imitazione degli Ales-
sandrini. Lo nomina pure nel e. X, 29-30, e pare sia stato suo
compagno in Bitinia; era dunque uno de' suoi sodales, più gio-
vane di lui. Il suo poema Zmyrna, paragonato cogli annali di
Volusio, doveva essere certo molto più prezioso e vivere immor-
tale: trattava dell'incesto di Mirra col padre Cinira, argomento
prediletto agli Alessandrini (cfr. Callimaco, epig. 29, 3), perchè
simili mostruosità letterarie, peggiori del moderno realismo, face-
vano più impressione. Ma vediamo i versi del e. LXVII riguar-
danti Brescia e Verona.
E prima di tutto né i versi in questione si possono espungere,
giacché non ne trovo alcun segno di dubbio presso i critici, ne
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tanto meno rifiutare l'intera elegia, sebbene il Westphal non
l'abbia compresa tra quelle da lui tradotte, poiché non tradusse
né tutti i carmi, né tutti poi interamente. Facile mi sembra essere
la critica dell'espungere versi o rifiutare intere odi, interi epi-
grammi e canti lirici, ecc. degli antichi, massime dei latini poeti.
Pel Maffei poi v'era una ragione evidentissima di questa sua cri-
tica; i versi in questione, 31-34, farebbero, secondo la maggior
parte dei moderni interpreti, Brescia madre, ossia metropoli di
Verona, mentre era Brescia capo dei Cenomani, Verona invece dei
Reti ed Euganei (Plinio, Natur. HisU III, 19, 130) oppure, se-
condo un dotto del secolo XVI, Gian Grisostomo Zanchi, dei Li-
guri Etruschi. Figuriamoci il Maifei, così amante della sua città
natale, come sono tutte le anime belle, se poteva tollerare che si
dicesse la sua patria, che si disse, pur per brevissimo tempo, sede
imperiale, colonia di Brescia ! Neppure per sogno ; quindi pole-
mizzava coll'amico suo, canonico Paolo Gagliardi, e non trovò
una via più semplice e piìi sicura, che quella di negare a Catullo
tutta l'elegia, od almeno sopprimere gli sciagurati versi.
Il colto lettore, se ha considerato attentamente fin qui le mie
note, pur non ammettendo tutte le mie spiegazioni e congetture
circa le varie donne Catulliane, e i loro incesti, dirà con me che
queste sono prette imitazioni Alessandrine, o, con vocabolo un po'
volgare, Alessandrinate, quindi non degne di fede le incredibili
mostruosità che vi si narrano. Ora che si debba considerare così
il racconto della porta, l'accenna anche il Baehrens, ma poi s'im-
papina e non viene alla nostra conclusione. Egli adunque ai versi
31-32, accennata l'opinione del Maffei {Verona illustrata, I, 1,
Museo Veronese, p. CCV), e rigettata l'opinione de degressione
more Aleccandrinorimi facta, vi riconosce piuttosto una lepidis-
simam inrisionem di un dotto Bresciano, il quale per troppo amor
patrio ne spiegava in modo abbastanza ridicolo l'origine e la po-
stura, cum detractatione Veronae, inter quam et Brixiam f or-
tasse simultas quaedam exstiterat; Me igitur doctus tamquam
in transcursii iocose perstringitur. Ma qui parrebbe non già spie-
gare la causa e l'occasione di questi quattro versi, ma alludere
alla contesa sorta tra il Maffei e il Gagliardi sull'origine delle
loro città natie, sui loro confini, sulla loro stirpe, sulla maggior o
minore potenza ecc.; contesa brevemente riassunta dal Pindemonte
neìVelogio del marchese Scipione Maffei (Verona, MDCCLXXXIV,
I
- 261 —
pag. 42 e seg.)- Ed a suffragare tale opinióne il medesimo com-
mentatore spiega : Veronae meae non come dativo di amata, come
il Guarino voleva, ma come genitivo di mater {Brixia mater ; |uti-
TpÓTToXiq Veronae). Perciò pel Maffei, che pigliava sul serio questi
versi, e trovandoli contrarii alla storia ed alla dignità patria li
giudicava intrusi; pel Gagliardi, che li trovava onorevoli, secondo
i suoi sentimenti da erudito e buon cittadino, alla sua- Brescia
e perciò li reputava giustissimi e verissimi, non v'era altro modo
di interpretare: Brixia Veronae mater am.aia meae. Alessandro
Guarino, del tutto inconscio delle future dispute, naturalmente,
schiettamente, come facevano quei nostri dotti del secolo XV e
XVI, senza pensar punto a metropoli, che non poteva essere né
l'una né l'altra delle due città, interpreta così : Brixia, inquit,
mater, sive ipsius puellae, erat namque Brixiana puella, sicut
superius diximus, vel Brixia mater amata est, quae tamquam
mater amatur a mea Verona. Il dativo con amatus pare indubita-
bile; ricordiamoci dell'Oraziano, su riferito, amate nautis multum
et institorihiis. Chi parla qui é la porta e parla dei misfatti
della donna, commessi a Brescia prima che andasse a Verona per
liberarsi dall'infamia; la porta dunque della casa Veronese deve
dire Veronae meae, col linguaggio dell'affetto, e non già tuae,
diretto al poeta, secondo lo Scaligero ed il Baehrens ; quindi
non occorre alcun emendamento al testo, né si tratta di me-
tropoli.
Spiegati quei due distici per un'Alessandrinata, come un'imita-
zione Alessandrina è tutto il carme, non credo di dovere più tanto
occupare il lettore delle altre difficoltà ; del fiume Mella, ri-
cordato da Virgilio, Georg. IV, 278: prope flumina Mellae, ove
il Filargirio commenta : Metta amnis in Gattia Cisalpina, vi-
cinus Brixiae, oritur ex monte Brenno, e quindi poeticamente
si può intendere Brixia pel suo ager, territorio, ed anche Plinio
usa: Brixia Cenomanorum {in) agro. Quanto alla: Cycneae
speculae, o Cycnea in specula, se la correzione dello Zanchi,
approvata dai moderni, è da ritenersi giusta, non mi sembra però
giusta la sua etnologia; ma di questa diremo parlando degli
Orobii. Mi restringerò qui ad accennare solo come la disputa
sorta tra i due grandi eruditi sull'importanza delle loro patrie,
Brescia e Verona, nei tempi romani, fu ripresa nel 1813 da
— 262' —
Giovanni Labus in un suo opuscoletto, pubblicato però a sua
insaputa e senza che potesse assistervi alla stampa (vi fece
quindi delle correzioni in fine) col titolo: Sulla tribù e sui decu-
rioni deìVantico Municipio Bresciano — Dissertazione epistolare
del D"" Giovanni Labus ecc.). Osservo primieramente che il termine
municipio si deve prendere nel senso moderno e non dell'antico
niunicipium sotto i Komani ; ed anche il dotto autore parmi che
qui cada in grave errore, dividendo il Municipio Bresciano in
pagi, nei quali alcune famiglie predominanti erano inscritte in
qualche tribù romana, onde avevano il diritto del voto nei comizii,
ed i Seniori di esse famiglie serdevano e deliberavano nel Senato.
Brescia inoltre, sorgendo in mezzo alle fertili e varie pianure di
Mantova, Cremona e Bergamo, fu capo della nuova e potente na-
zione dei Cenoraani, floridissima anche pe' suoi istituti. E segui-
tando di questo passo crede d'imporre silenzio al Maffei ed al
Gagliardi, allegando e interpretando a suo senno passi d'antichi
autori ed epigrafi e non già seguendo il vero metodo critico. Ma
riducendoci al solo nostro argomento, notiamo che il Maffei, se-
condo lui, non ha rovesciati i passi di Giustino, di Livio, di
Tolomeo, né si è sbrigato il Gagliardi di un detto formidabile
di Polibio ; per l'uno i Galli Cenomani si portavano alV Adige,
per l'altro si limitavano al disi (Chiese). E le loro opinioni si
concilierebbero col distinguere i tempi ; imperciocché i fatti nar-
rati abbraccerebbero un periodo di trecent'anni circa. Nella prima
incursione i Galli avrebbero occupato Verona; sconfitti, obbligati
a retrocedere fino al Clisi, avrebbero finalmente fatto sosta presso
il Mincio, ove avrebbero posto stabile dimora. Ma poi l'A. modi-
ficando ancora alquanto la sua opinione li fa girare attorno a Cre-
mona, distendersi lungo il Po, e risalendo a ponente l'Adda pie-
gare a Bergamo; quindi in mezzo a questi paesi, capo della po-
tente nazione, sarebbe sorta Brescia (pag. 9).
Ognuno vede che in queste dispute non poco dominava l'amore
del tetto natio ; dobbiamo tuttavia scusarlo per gli antichi avanzi
romani, che in Verona e Brescia ancora si conservano, e per gli
studi che dal Risorgimento in poi sempre vi fiorirono. 11 cardinal
Quirini, vescovo di Brescia, morendovi lasciò a quei cittadini la
sua ricca biblioteca, detta Quiriniana (1750). Un greco, il Pana-
gioti di Sinope, venuto in Italia ed accolto dapprima in Verona
passò in Brescia ed ivi diffondeva l'amore degli studi Greci, po-
i
- 263 —
nendo mano anche alla correzione deW Eiymologicum magnum,
sebbene l'opera sua di critico a Lipsia non fosse del tutto lo-
data (1); e questi sono pure i tempi del Maflfei e del Gagliardi.
Di Verona e della sua copiosissima biblioteca comunale e della
Capitolare, preziosa per codici manoscritti, e, ai tempi di cui di-
scorriamo, per l'Accademia Filarmonica, pel Museo ecc., non oc-
corre parlare. Ricorderò invece qualche passo di lettere del Maffei
pubblicate in un volumetto dal Silvestri, Milano, 1844, insieme
con altre lettere sue al Muratori ed alcuni altri opuscoli impor-
tanti. Dice che ha sempre riputato il Muratori il primo onore
d'Italia; coll'amico canonico di Brescia discorrendo più d'una
A'^olta degli storici antichi di Eoma, afferma che se essi ci dicono
che l'Italia fu divisa in regioni, niuno ci dice mai quali di queste
fossero le capitali^ poiché le regioni italiche sotto i Romani non
ebbero mai metropoli, onde neppure i Presidi avrebbero avuto
una residenza fissa. Furono però queste ed altre sue opinioni
combattute, ed uno degli avversarli, che le impugnarono, fu il
Madrisio. Egli tuttavia persisteva a credere che la Residenza era
già a terra ed aveva esalato già l'ultimo respiro, e credeva che
non risuscitasse più. « Il Governo romano non è più stato inteso.
« In proposito dei Vici belle cose ho trovate, e la più bella l'ho
« presa da un paragrafo della mia Ars critica lapidaria, dove
« cinque Vici io nomino in Italia, non osservati da niun geo-
« grafo ». — È facile notare la somiglianza dei Vici coi Pagi^
dei quali parla il Labus, il quale per altro li fa come una delle
parti, pnd 'erano composte le colonie, che egli dice pure municipii.
Il Maffei aveva trovato i nomi di cinque Vici nelle Lapidi, ed
appare, secondo lui ed il Labus, che avevano anch'essi i loro ma-
gistrati (deciiriones), come risulterebbe da più luoghi del codice
Teodosiano. Bisogna però ammettere che colonie e vici godevano
dei diritti accordati anche ai piccoli centri, che partecipavano
della cittadinanza romana, o, meglio secondo il Gravina, del ius
italicum, ond'erano esenti da certi tributi (levatio censionis —
Gravina, Originum iuris civilis lib. III, tom. II, pag. 286. Venetiis
MDCCXXX); quindi si distingue la colonia immunis, che partecipa
del giure italico, pleniiis aliquid, ...participationem iuris italici
(1) V. nel Dizion. di Pedagogia di Martinazzoli e Credaro. Milano, Val-
lardi, l'articolo mio sui Greci moderni.
- 264 -
in traditionibus per nexum, ecc. cioè dei medesimi diritti, dei
quali godevano anche i popoli italici ; e la colonia non immunis,
la quale godeva di un sollievo di censione, o tributo capitis. Nello
stesso luogo il Gravina distingue il ius italicum dal latinum e
provinciale ; il primo era minore del secondo, maggiore del terzo.
Conviene a chi intende studiare la condizione primitiva delle nostre
città Lombarde, Venete, Piemontesi, Liguri, considerare se la co-
lonia è militare, o no, e tener conto non solo dei Pagi e dei Vici,
ma anche dei Fora, di che toccherò a proposito di Liciniforum e
di Comuni in un altro articolo.
{Continua).
Carlo Giambelli.
— 265 —
NOTIZIE DI CODICI GRECI
NELLE BIBLIOTECHE ITALIANE
1. Epistole di Massimo Planude.
Come è noto a tutti gli studiosi della letteratura bizantina,
Max Treu ha pubblicato per il primo (Vratislaviae, ap. G. Koebner,
1890) la silloge completa delle epistole di Massimo Planude. Egli
crede (pp. 184 sg.) che di queste si conservi nella biblioteca Am-
brosiana un solo manoscritto, C 114 sup. Ora ciò non è vero; ve
ne ha un altro, G 14 sup., il quale contiene sei epistole (XXIX.
I. Vili. XII. XI. IV della edizione del Tre u) e merita di non
passare inosservato. Io lo collazionai con la stampa Treuiana e
raccolsi tutte le varianti, anche quelle che evidentemente sono
errori dell'amanuense. Quantunque non si tratti che di una pic-
cola parte, anzi minima, dell'epistolario (questo comprende ben
centoventuna lettera), è utile forse conoscere il risultato della mia
collazione: avuto riguardo così all'età del codice, come special-
mente -al fatto che sopra 70 varianti (nel novero entrano anche
le lacune e le omissioni) 57, fra cui parecchie notevolissime, sono
proprie in modo esclusivo di esso codice. Il quale inoltre, e in ciò
consiste il suo principal valore, presenta molte delle lezioni del
Laurenziano LVI 22 [L] e del Viennese CCLXIX [V], i due mi-
gliori manoscritti delle epistole Planudee (1).
Premetto una breve notizia del nostro codice.
Borabicino; mm. 162X123; carte 196, escluse le guardie.
Miscellaneo; il testo di Planude a e. 188'"-196% le quali sono del
(1) Questi due e il Monacese L [M] contengono la raccolta compiuta ;
altri, fra cui il Laurenziano LVI 3 [F], il Madrileno LXXII [i] e il Tori-
nese CGCLIV [T], soltanto alcune lettere (Treu, pp. Ili sg.)- Sono da ag-
giungere, oltre TAmbrosiano G 114 sup., due codici del monte Athos, uno
della biblioteca Bodleiana e uno Vaticano Palatino (Treu, pp. 184 sgg.).
— 266 — .
principio del secolo XIV, Raro il iota sottoscritto. Qualche cor-
rezioDe interlineare di mano del copista (1). Manca il nome del-
l'autore e sempre quello dei 'destinatarii' ; a e. ISS"^ nel margine
superiore, di mano del copista, -+- èTTicnoXaì senz'altro. L'epistola
che segue (e. 188') alla prima non è di Planude ; veggasi il n° 2
di questo mio articolo. A e. lOG"" in fine della epistola sesta cioè
quinta (XI T r e u) ÙTiaivujv koì eù0u|uuùv (JuuZioió )lioi -h forraola
di chiusa, il che spiega come possa trovarsi ivi (2), la quale non
appartiene ad essa epistola, ma con leggere modificazioni è co-
mune ad altre lettere Planudee: così CXII ÙYiaivujv xaì eùGuiaujv
eir\c, LXXXVIII Kaì ÙYiaivoi^ Km €Ù6u|iioiri<; (XXIX ùt- Kai eùG.)
e CVIII (JujZIoio KaXujq ...
E ora le varianti (3) con l'aggiunta, fra parentesi quadra, delle
sigle (dove ci sia corrispondenza di lezione), con le quali il Treu
designò i manoscritti da lui usati.
epist. 1 (e. 188) = XXIX Treu 7 aggiunto ÓTtàvTujv
dopo aWuuv 9 agg. irepì r\^àc, dopo Cou 11 omesso re
prima di Km 19-20 oiv ocruj irXeiuj XéTeiv è6éXoi)ni 23 fnaTv
^évTOi Tiap' oXr|v oùòajuóOev èKeivrjv tììv Tipecrpeiav (èKeiv. t. Tip.
[LF]) 28 Trepl là aà (invece di TTpò<; ere) 34 agg. Km dopo òè
39 ouTTUJ (inv. di oòòéTTuu) 41 agg. re dopo xà 44 òXiYa
èKcivov 46 agg. dtpexfi dopo àvrip 48 èv xauTuj 52-53 om.
Kai — KaBiòpuaGe 55 om. Kaì dopo juoi
epist. 2 (e. 189^-191') = I T r e u 4 cpXexojuevriv (inv. dì
Tp€(po)aévr|v) 6-7 PouXriGévxe? àvaKpiveiv (inv. di Kpiveiv Pou-
Xó|Lievoi) 22 om. eìq TTopeìav 39 xà TrpoariKovxa 44 cfe-
auTÒv [L ma di altra m. in marg.] 48 òiaYiTVuuO'KUJv 55 YÓp
(1) epist. 1 Tujv ecTTaXOùv corretto in SexTaXiai; (T r e u, XXIX 3) —
b a
epist. 2 XiTTiiiv ÒTTicTiu (T r e u I 11) — epist. 4 aKu9ia^ corretto in avpiaq
(Treu XII 56).
(2) Dopo eùvoiaq, ultima parola della lettera 5 (Treu XI), sono segnati
due punti e la solita croce, indicazione di fine; ma poi la croce fu cancel-
lata dal copista stesso e posta, come si vede quassù, dopo ilici, nella linea
seguente.
(3) Non tengo conto degli errori e delle sviste del copista quali : epist. 1
(Tr. XXIX 48) lòpuari; per Xbpvaxc, — epist. 3 (Tr. Vili 12) qpiXoTi|neìTai
per qpiXoTi|ufjTai — epist. 4 (Tr. Xll 19) Xé^eiv per ypdfpeiv — epist. 5 (Tr.
XI 3) TÒ PoùXeaeai per tu» p. ma dopo (4) xd) — epist. 6 (Tr. IV 5) lùfac-
XoYoO|uev ecc. Cosi trascuro sempre èc, (per eì<;).
— 267 -
TOi [L] 68 om. fàp auùv (inv. di àXXuuv) 74 ràq
dTTdcra(; 75 paXXavTiai [L] tuj, òuuri [V] 78 èvteOBev
(inv. di èKeiGev) 83 liòri lavriaOiivai 85-86 om. Kal — èTid-
veicfi [V] 87 TTpòq niudq jàp Kaì eì òiaqpópuu^ Tivoviai kqì
à)Li(pÓT6poi éauTLÙv ùviJriXÓTepoi [L] 101 irivdXuuq [L] HJuxr)
(inv. di vjjuxaì) 102 Kuuqpd kqihóvtuuv
epist. 3(c. 191) = VIII Treu 7 om. aù [VM] 23 om.
TTpóbpoino? 34 om. Kal 39 Kaì eì (inv. di d Kal) 46 agg.
Tfiv prima di è|ufiv 54 TuxeTv èTravóbou
epist 4 (e. 191^-195') = XII Treu 12 toigùtok; àv-
GpujTTOK; 36 om. tò èvreOGev 37 éauToO 48 KaiToi (Jù
TÒ TTpùiJTOV dvTe'Paiveq 53 dveTTiòeiKTuuq 60 irdvTa èKei-
vou (inv. di ToÙTou) 128 om. ba(|uujv 135 toùtuu èvToXfiv
138 om. Kal prima di Geu) 143 r^xac, [VM] 159 om. dv
[codd.] 164 om. fàp 168 koivòv 200 eì \xr\ Kal
epist. 5 (195'"-196'') = XI Treu 6-7 vOv fiKouaiv XéYuuv
f| juex' où Tidvu jUttKpòv iiEouai Kal ti 16 vixàq eixev [VMT]
17 rfiv u|Lia)v 6TToGricra|Liev Ttapoucriav 18 om. óòòv 19 ayci
31-32 TTepuaravTai [LF] 51 om. laéaov 70 TrpopdXXriTai
aÙTiKa àjuqpoTépai(; 71 beicruu jaf) jucTdXiiv
epist. 6 (e. 196) = IV Treu 14 om. Trapd 19 om.
òr) [VM| 32 om. -fé 59 npouTTrìviricraiuev 61 iniba
2. Giorgio Lacapeno e Andronico Zaride.
Ludwig Voltz nella sua pregevole monografia Die Scìirift-
stellerei des Georgios Lakapenos^ in Byzantinisclie Zeitschrift
II 1893 pp. 221-234, passa in rassegna i manoscritti che con-
tengono le lettere di Giorgio Lacapeno e di Andronico Zaride e
i cosidetti èTTi)iepia|uoi del primo. Fra questi manoscritti, molto
numerosi, ne ricorda (p. 228 in n.), su la testimonianza del
Montfaucon {Bihliotheca hihliothecarum I 497: « Georgii Le-
capeni Grammatica... Item Epistola cum scholiis... »), uno solo
dell'Ambrosiana, che io non ho saputo trovare. Ne ho invece tro-
vato altri quattro inesplorati, ai quali bisogna aggiungere G 14 sup.:
la lettera che ivi (e. 188') segue alla prima di Massimo Planude
e manca anch'essa di intestazione appartiene alla ' corrispondenza'
— 268 — .
fra Giorgio Lacapeno e Andronico Zaride ed è appunto di quest'ul-
timo. La pubblico oltre e dirò a suo luogo perchè.
Dei quattro manoscritti Ambrosiani due comprendono lettere ed
epimerismi, gli altri due soltanto gli epimerismi; portano rispet-
tivamente la segnatura D 12 sup. L 44 sup. A 115 sup. 1 214
inf. (1). Ecco una breve descrizione di ciascuno di essi.
D 12 sup. Cartaceo; mm. 210 X 133; carte 111 (esclusele
guardie); secolo XV. Miscellaneo; lettere ed epimerismi a e. l-99^
A e. !'■ in alto, di altra mano da quella del copista e forse po-
steriore, H- èTTiaxoXaì toO XeKaTiivou. xaì Z^apiòou • in numero di
trentadue, cioè la 'corrispondenza' completa, con i rispettivi epi-
merismi dopo ciascuna lettera, eccettuate la 17 (lù juèv eìg iato-
piav àqpTxOai) e la 19 (^Ap' èmaKr]\])ei<; noi) che non ne hanno.
L'ordine di successione delle epistole, delle quali nessuna reca il
nome ne dello 'scrivente' ne del 'destinatario', è lo stesso che
nel codice Vaticano Reginae Svecorum 157 del sec. XIV (Ste-
venson, Codices maniiscripti graeci Reginae Svecorum et Pii
PP. IL Romae 1888. pp. 108-110) fino alla lettera 'lòou ffoi
fiKei ihóXk; (di Lacapeno), 23 del ms. Ambrosiano (2). A questa
tengono dietro successivamente le epistole "Atottóv ti koì 9au-
)naT05 (di Zaride) Triv yàp àoiòriv (di Lacapeno) e OTaGa Tiri
Toi (di Zaride); cosi la lettera "Atottóv ti Kal GaufiaToq ha nel-
l'Ambrosiano D 12 sup. la medesima collocazione che nel codice
Coisliniano 341 del 1318 (Montfaucon, Bihliotheca Coisliniana,
p. 455; cfr. Voltz, pp. 222 sg.). Le rimanenti sei epistole si
succedono di nuovo nello stesso ordine del manoscritto Vaticano,
cioè dalla XIX alla XXIV (di Lacapeno ad Andr. Zaride) secondo
(1) È il n° 2 del volume segnato I 224 inf. che comprende dieci mano-
scritti (II 224. 214. 213. 206 ... inflf.).
(2) Lo Stevenson nella sua descrizione ha distinto le lettere del La-
capeno da quelle dello Zaride senza tener conto della successione delle carte.
Ad evitare ogni equivoco segno qua la cori-ispondenza delle epistole, fino
alla 23 di D 12 sup., fra questo codice e il Vaticano illustrato dallo S t e-
venson: 1-10 = 1-X (di Lacapeno) Stev. — 11 = 1 (di Zaride) —
12 = XI (di L.) — 13 = II (di Z.) - 14 = XII (di L.) - 15 = III
(di Z.) — 16 =^ XIII (di L.) — 17 = IV (di Z.) — 18 = XIV (di L.)
— 19= V (di Z.) — 20 = XV<di L.) — 21 = XVI (di L.) — 22 = VI
(di Z.) - 23 = XVII (di L.). — Delle lettere 24-26 è dato sopra il ri-
spettivo principio, cosicché non sono possibili confusioni di sorta, e nem-
meno quanto alle sei ultime (27 = XIX ... 29 = XXI ... 32 = XXIV).
— 269 —
la catalogazione dello Stevenson. Oltre agli epimerismi infine
delle singole lettere, tutte hanno scolii, e qualche glossa, inter-
lineari di varia lunghezza, che qua e là continuano o sono affatto
in margine.
L 44 sup. Cartaceo ; mm. 235 X 150 ; carte 197 (senza
guardie); secolo XIV fin. Miscellaneo; mutilo in fine; lettere ed
epimerismi a e. 175*-197\ Comprende dieci epistole e (a e. 197')
il principio di un'altra 'Qc, ò' oùk fiv tk; — Kal toO t ^vvoid
Tiq eìaioOcra Le undici lettere si succedono nel medesimo ordine
che le undici prime in D 12 sup. e per conseguenza nel codice
Vaticano citato. Anepigrafe così la raccolta come le singole epi-
stole; delle quali ciascuna ha in calce gli epimerismi rispettivi
e gli stessi scolii (e glosse) interlineari di D 12 sup., che anche
in L 44 sup. continuano non di rado o si trovano per intero in
margine.
A 115 sup. Cartaceo; mm. 210 x 154; carte 508 (escluse le
guardie); secolo XV. Miscellaneo. Contiene a e. lOS'-lSO'' i soli
epimerismi di tutte le lettere della raccolta, anepigrafi; però in
fine: TéXoq ifi^ Ypa|Li|uaTiKfi^ toO XcKanrivou — Segue (e. ISl""-
183') un indice alfabetico, di altra mano, senza intestazione, dei
vocaboli illustrati negli epimerismi. L'ordine di successione di
questi, dico delle singole serie, corrisponde perfettamente a D 12
sup.; donde anche la perfetta corrispondenza nell'ordine di succes-
sione delle trentadue epistole, con i rispettivi epimerismi in calce
di ciascuna, fra D 12 sup. e il manoscritto di cui A 115 sup. è
la copia immediata o mediata. Perchè dobbiamo ammettere che
dapprima la silloge delle lettere abbia compreso il testo di queste
e i rispettivi epimerismi in fine di ciascuna: su ciò non possono
cadere dubbi; più tardi furono trascritti, e nell'ordine che essi
avevano in unione con le rispettive epistole, i soli epimerismi
come trattazione a sé, indipendente dalle epistole stesse, e alla
loro raccolta fu data la denominazione di YPaMMCfiKr). Infatti la
'grammatica' di Giorgio Lacapeno altro non è che il commento o
gli epimerismi alle lettere di lui e di Andronico Zaride (cfr.
Voltz, p. 228 e Krumbacher, Geschichte der hyzantiniscìien
Litterattir^ § 229, p. 559).
I 214 inf. Cartaceo; mm. 240 X 152; carte 16 oltre una
guardia iniziale; secolo XVI. Anepigrafo, e mutilo in fine. Con-
tiene gli epimerismi delle prime sette epistole nell'ordine di D 12
— 270 —
Slip.-, quindi vale anche per I 214 inf. l'osservazione fatta testé
per A 115 sup. Gli epimerismi dell'ultima serie cessano con le
parole Kaì cru)HTrÌTTTei Kupiou èm dell'epimerismo TtpocrpaXXei tò
KO)Lia...
Allo scopo di rendere più facili future ricerche o' collazioni su
A 115 sup. e I 214 inf. reco qua l'indicazione delle carte di
entrambi i manoscritti dove cominciano le singole serie di epi-
merismi delle singole lettere; si tenga presente che esse serie si
succedono nello stesso ordine che in D 12 sup.
A 115 sup. 108'- — 110^' — 114>- — 119'- — 123^- — 127'
— 131^ — 139^^ — 143>^ — 146^ — 149^ — ìbV — ISS"" —
154' — 155^- — 156^ — 158^ — 160'- — 160" — 163" — 164-
— 165" — 167' — 167" — 170" — 171" — 175'' — 176' —
176" — 177' — 177".
I 214 inf. 1' — 2" — 5' — 8' — 10" — 12" — 15'.
Ho avvertito che in D 12 sup. e in L 44 sup. vi hanno scolii
(e qualche glossa) interlineari. Ora aggiungo che questi scolii (e
a piti forte ragione le glosse) sono una cosa diversa dagli epime-
rismi propriamente detti. Ciò tuttavia non toglie che in A 115 sup.
alcuni di essi scolii e precisamente soltanto quelli affatto margi-
nali non trovino luogo fra gli epimerismi delle lettere rispettive.
Tale è, in A 115 sup., il caso degli epimerismi alle lettere 15
(Oò 9a0|aa e'i tic; GeriaXiav oìkOùv). 23 ('lòovj (Joi ìikgi )aóXi<s).
25 (Tfiv yàp àoiònv). 27 (Tò bè aè irpòc^ ifiv tujv koXujv).
Inoltre gli scolii della lettera 19 (^Ap' èmaKì'mjeK^ ilici), che in
D 12 sup., come già notai, non ha epimerismi, diventano tali in
A 115 sup. (1).
Qui bisogna badare a due fatti importanti: l.°le lettere 15. 23.
25 e 27 hanno in D 12 sup. altri scolii (marginali) in più di
quelli che compaiono fra i rispettivi epimerismi in A 115 sup.:
2." in D 12 sup. la lettera 17 (lù |uèv de, laiopiav àqpTxBai),
che manca, come fu osservato sopra, di epimerismi, è corredata
di scolii (marginali), cinque in tutto, i quali non differiscono
punto per la loro forma e il loro carattere da quelli delle lettere
(1) La corrispondenza fra D 12 sup. e A 115 sup., intendo dire fra questi
scolii del primo manoscritto (dati come epimerismi nel secondo) e i rispet-
tivi epimerismi del secondo, non è sempre perfetta; si tratta però di diffe-
renze di poco momento.
— 271 -
15. 19. 23. 25. 27 compresi in A 115 siip. fra gli epimerisrai :
eppure questi cinque scolii della lettera 17 non ci sono in A 115 sup.
Dai due fatti accennati credo sia lecito dedurre che nelle rac-
colte degli epimerisnai messe insienae perchè servissero come trat-
tati di grammatica per le scuole (1) — raccolte che, senza dubbio,
derivavano dai primi manoscritti contenenti le lettere con i ri-
spettivi scolii ed epimerismi — non fu sempre conservata la ne-
cessaria distinzione fra scolii ed epimerismi; e degli scolii alcuni
vennero tenuti in conto di epimerismi propriamente detti, altri
invece no. Quale criterio abbia presieduto alla scelta non è pos-
sibile determinare.
S'intende che le cose fin qui discorse intorno agli epimerismi
e agli scolii (marginali) non possono riguardare i due manoscritti
L 44 sup. e I 214 inf. ; perchè la questione è sorta a proposito
di epimerismi non contenuti né in L 44 sup. né in I 214 inf.
Gli epimerismi di entrambi i manoscritti corrispondono perfetta-
mente a quelli di D 12 sup.: solo, in I 214 inf. manca il primo
articolo (AoKUJ |uoi, vojuiZiuj, ÙTTo\a|Lipàvu), oi|aai, f]YoO)uai...) degli
epimerismi della lettera 6 (Tò crixav ei xi^ aipoito); la serie degli
epimerismi di essa lettera comincia "Epxo)Liai Kai ixé^uw Ó|lioiuu(;
Kttì fiKuu... Quanto ad A 115 sup. in particolare, gli epimerismi
sono identici a quelli di D 12 sup. e nello stesso ordine di suc-
cessione per le lettere 1—5. 7—14. 16. 18. 20—22. 24. 26. 28.
29. 31. 32. Per le ragioni, esposte sopra, degli scolii (marginali)
accolti fra gli epimerismi, la serie di questi comincia in modo
differente da D 12 sup. nelle epistole 15. 23. 25 e 27, dove essi
scolii sono in principio. Manca, come in I 214 inf., il primo ar-
ticolo degli epimerismi della lettera 6 (c'è però, a suo luogo,
uno spazio vuoto sufficiente a contenere le poche parole dell'ar-
ticolo omesso), che anche qui cominciano "Epxo|nai Kaì ecc.; e
manca l'ultimo articolo ("Ori è'xuj...) degli epimerismi della let-
tera 30 ('AW cube TÒv 'HpaKXéa). Degli epimerismi, cioè pro-
priamente scolii, della lettera 19 fu detto sopra. Della lettera 17,
ripeto, non ce ne sono.
Infine, dacché nel codice Vaticano più volte citato, con la cui
descrizione dello Stevenson collazionai i principii delle singole
lettere e delle singole serie rispettive di epimerismi di D 12 sup.,
(1) Gfr. Volt z, p. 234.
— 272 —
mancano gli epimerismi di parecchie epistole, mi sembra neces-
sario recare qua da D 12 sup. il principio di quelli omessi ap-
punto nel codice Vaticano. Premetto che i principi! degli epime-
rismi delle prime sedici lettere e della 20 di D 12 sup. sono i
medesimi del codice Vaticano.
epist. 21 (OÙK av oTjuai ae paòiujq) — epim. "Oti tò aKÓTO(;
kqI ó (Skótoc,
epist. 22 (TToWd )uoi tò èmatéWeiv} — epim. "Avw TToranOùv
Trapoi)aia èail XeYOjaévri
epist. 23 ('lòoù aoi r|Kei iuóXk;) — epim. Tò ijlóXic, Xa)upd-
vetai àvTÌ toO òipè
epist. 24 ("Atottóv ti Kai 6aù)LiaToq) — epim. TTóGoq è'puuTOc;
òiaqpépei
epist. 25 (Tr]v yàp aoiòf|v) — epim. 'Ava^aiveiv tòv ittttov
cTuvTaacróiiievov aiTiaTiKfì
epist. 2G (OlaGa tui toi) ^- epim. Tò ih]<; òjuoiuj<g Kai
ècpe^fi<; XéT€Tai
epist. 27 (Tò bè aè TTpò<; Triv tujv KaXuùv) — epim. 'Okvùj
XéTCTai KOivuù<; òtvTÌ toO pa6u|LiuJ
epist. 28 (Zù |Lièv i'auuq) — epim. Truv0àvo)Liai XeYeTai àvTi
ToO )uav9dvtju
epist. 29 ("Ov erri Tri nriTpì Xóyov) — epim. "EXaxe KXfipov
Kai èXaxe KXripou
epist. 30 (['A]XX' oùbè tòv fipaKXéa) — epim. AiaTeXuj ttoiujv
Ttt ÒÉOVTa
epist. 81 (Zù fàp òr) KeqpaXfì) — epim. "Oti tò del tò im-
CTTOTe
epist. 32 ("OvTUD^ 0ù rravTaxóGev) — epim. "ATOjaai rraGri-
TiKa)(g àvTi ToO cpépo|Liai
Inoltre il principio degli epimerismi della lettera 1 (Tip i^ri^èv
f\pia(; croi Ypà<P£iv àx0ó|Lievo<;), mutilo nel codice Vaticano 157, è
in D 12 sup., come sempre, fpdqpeiv tò cruYYpdqpeiv Xóyov e la
serie degli epimerismi della lettera 18 ('Ap' òaiiq ùjairep) co-
mincia in D 12 sup. (e così in A 115 sup.) dvapdXXeaGai tò
TipaYna dvTi toO pa0u)aoOvTa ÙTrepTiGecrGai e non, come nel co-
dice Vaticano, Tò dpa èvTaOGa dvTÌ toO dXriGuJ»;].
- 273 —
Ecco ora la lettera di cui ho annunziato sopra la pubblicazione.
È la 13 in D 12 sup. e, come già avvertii, di Andronico Zaride
a Giorgio Lacapeno: ciò rilevo dal Montfaucon {Bibl. Coisl.
p. 454), dallo Stevenson (1. e.) e da un accenno del Treu
{Maximi monaclii Flanudis episiulae, p. 224 3) alla lettera stessa ;
la quale, ripeto, ne in G 14 sup. né in D 12 sup. non reca ne
il nome dello 'scrivente' né quello del 'destinatario'.
Il fatto che in G 14 sup. la lettera si trova fra le epistole di
Massimo Planude dimostra che il copista la credette di lui (?).
Questa confusione, se realmente è tale, non è cosa di poco mo-
mento ; invero concorre con le altre prove addotte dal Treu (1. e.)
a mettere in sodo che lo Zaride o meglio i due fratelli Zaride,
Andronico e Giovanni, con i quali Giorgio Lacapeno fu in rela-
zione epistolare, sono appunto quelli nominati nelle lettere di
Massimo Planude.
A pubblicare la nostra lettera mi hanno consigliato parecchie
considerazioni. Anzitutto l'epistolario di Giorgio Lacapeno e di
Andronico Zaride finora è inedito; non mi sembra pertanto inu-
tile darne un saggio : sarà un contributo alla futura edizione cri-
tica di esso epistolario, che oramai é desiderata (Krumbacher,
1. e). In secondo luogo, avendo avuto fra mano due manoscritti
di diversa età che contengono la lettera, mi é stato possibile ten-
tare una restituzione del testo meno difettosa (1). Si ricordi poi
che G 14 sup. è del principio del secolo XIV: ha quindi una
grande importanza; tanto più che, come nota il Treu (1. e), le
epistole' del Lacapeno e di Andronico Zaride a lui furono scritte
'haud multo post iniens saeculum XIV'. Finalmente la lettera
in G 14 sup. é più lunga che in D 12 sup.: e con ogni proba-
bilità la redazione conservata in G 14 sup. è la primitiva, forse
antecedente agli epimerismi. Queste due ultime considerazioni
spiegano perché ho dato la preferenza alla lettera 13, trascurando
(1) Gli scolii (e le glosse) interlineari mi servirono, quantunque di rado,
a stabilire quella che mi parve la lezione più probabile ; nessun aiuto in-
vece mi venne dagli epimerismi: e anche questa è una delle ragioni che
mi dissuasero dal pubblicarli. In una edizione critica di tutto l'epistolario
non dovrebbero mancare; ma per una sola lettera il caso è diverso. E su-
perfluo, credo, aggiungere che sono miei i segni d'interpunzione, gli iota
sottoscritti e, quasi sempre, gli accenti.
Rivista di filologia, ecc., XX V. 18
— 274 -
le prime dieci, per le quali pure avrei potuto valermi anche di
due manoscritti, D 12 sup, e L 44 sup.
Zè ò' riv Tiq epTiiai Tiri (G 14 ttoT) y'K ^laiia, (piiaei<; oTinai
lUttKpàv àXrjV (G 14 à\\r|V [sic]) Kai Eeviav Kai èiriiuiHiav à|uouaa)v
àv6pu)TTUJV èK TToWoO luetiévar èf(b òe Toùvavxiov cinav uj<g
CTùvei Taiq luoùaaiq Kai ae Karéaxov auiai èrr' iOì}<; toig òià
|avìT|uriq e.\q (codd. ic) ^pLaq KaOriKOUffiv . uj<; b' òtav (D 12 ore)
irpòq aTidvTriaiv iriq toO TTuv9avo|uévou ttoT yf\q rrapei, opa Kai
Tipòq a xpct9£i<5» l'v' ó Xóf 0? |iiri ttgikiXoi^ r| Kai òidaTpoqpoq • eì
b* CUV oiKO0ev ó ludptuq Kai aov ràq èiricTToXàc; èvrauGa tk;
Kaià aov ónXiaerai Kai rraiava^ aaei, èqp' oiq aù Kpateiq laOta
TTpoPePXrmévoq; àXX' oìik àvdaxoit' dv 'AxiXXeùq aùv tì} à\h}
OKevx} Kai TÒ òópu, o xoO jévovc, r\v ènicTriiLiov, TrepuòeTv dXXov
Tivd Koafiouv dXXà beivuJ^ dv axcin, (G 14 a^elv [sic]) toùtou
òpuu)Liévou Kai TÒv TTriXéuj(; Kai AiaKoO Kai eì òri ti? dXXo? è'axe
Ttepl TÒ eTXO? PoìiCCTai epujTa, ùjc, ck toùtujv TtdvTUJV TTepif^Kov
aÙTUJ, iva nepl ràq xeipac, laaivoiTo (1).
(JÙ ò' opa |Lif| qpiXuùv r\ìJiaq àvxaq oùòèv tìttov ri TOLìvavTiov
TTOiujv xpóvou xdp ocjou Ypd|U)aaaiv (G 14 èv Ypduiuacriv) fmiv
oùx uj)aiXTiaaq Kai TaO0' outuu péuuv, fi|uiei(; ò' òrrep èTKaXoO)Liev )ufi
7TpdTT0VTe(; Tf|V aiTiav où béòi|Liev. ti ydp dv Tiq alTioiio tòv ottok;
)afi (G 14 juf) 67TUJ<;) èXéYXOiTO aiYUJVTa; Cv b' ovx onujq (D 12 òaov)
ToO béovq dqpéOTriKaq, dXXd Kai CTuvTiGri? òaa beiKvujueva npòc,
è'KTtXriHiv dYci toÙ(; bexo|uévou<j* Kai eì |liìì èEeir] toutok; dTToXaueiv
if\c, Toiv l'aujv cpopdi;, del TaÙTÒ Trdcfxeiv èoÌKaai Tpau)aaTiai<;,
o'ì iLiribéva tòv àvaKTriffó|Lievov eupeiv è'xouai TrXf]V tòv iit" aÙToì?
Ttt péXri ìGùvavTa (G 14 ìGuvovTa) TpuqpujVTd Tiva Kai pXaKeu-
ó|Lievov Kai TÒ dXYoq où PouXó)aevov èXaùveiv. eì |uèv ouv Xu-
neiv Kai rrXriTTeiv ^}Jià(; è'YVuuq, eu l'aGi oùk av àWwc; biaGrì
KaTd TÒ boKoOv ìì jpàcpwy/ oùtuj bid laaKpoJv xpóvou irepióbiuv
eì bè Tiùv baKvóvTiuv dvuu Paiveiv f]}Aàq èaTi coi XÓYoq, fpà\x-
laaaiv où ttoXù npecrPuTe'poK; dXXrjXuuv beHioO Kai ihc, dppuu-
(TToOvTaq TTapa)iiu0ou. oùbè y^p dnaGeic; èCjaev tuùv toO (Juu-
(1) Debbo confessare che il senso di questo ultimo periodo (àWà ... juai-
voiTo) non l'ho afferrato troppo bene; mi verrebbe con un emendamento,
che però non oso proporre, perchè, fra l'altro, i due manoscritti non mi
autorizzano a farlo.
- 275 —
|LiaTO<; KttKUJV, àWà CuxvoO xpóvou xvj^óq Tiq òiecpBopÒK; laiq
àpiripiaK; èveiXixGeìq axoXrjv oùk àyei toO Béeiv avou Kaì Kdiuj
òóXixov 'éxvjv 1 ànò KecpaXfì<; eìq (codd. eq) rovq nóbaq. ecTii
ò' ore Kal (uanep jxq x^i^appoug éhv^pioac, xà kùkXuj eireiai Kaì
l^ieià òriYlLtuùv èTriKXùZ;er ev. òè xoO KaKoO cpópinaKOv tò èXeuGe-
pidZ^eiv eÙTÓvuj(g paòiZiovia?. r\ anovòx] ò' ujx^to Kal tì]V vuxQ'oXrjV
vei)Lia|Liévou toO uttvou ' CTùv é'xpr\jópc!ei (ò') oùòév ti toO utcvou
TTXéov TTOioOari òcra ye eie, tò TTpdrTeiv — oùòè yàp anoubaiou
iivòq Ix^aQm oi KaKÙj(; àTToXoù)uevoi TraTòe^ ìarpuùv niaiv Ttpocr-
TaTTOuai — 0"Tp6q)ó|.ie9a TToXXà Kairicpfì qppeaìv ópiuaivovTec;
Kal Triv euu |aévo|uev iv' éKÓvxeq aKOwéc, ^e Gujliijj eìq toìk; av-
vriGeiq bpó)nou(j àcpujjuev. èv Touxoig ò' oiv Kal cpiXou XeiTró|uevoq
òi' 6v où iLiexaiuéXei )lioi if\(; eie, tòv piov elaóòou, n(bc, oiei
àriòujg è'xuj' eì fàp ae eixo)Liev uap' fi|uTv, oteTol (D 12 auxol [sic])
dv èv veqpéXaiq (1) fi|uev. ó xdp ek ToaoOtov (D 12 toOto)
TTporiKuJv è|uol qpiXiag (G 14 (piXia(; èjaoi) ópuu|Lievoq èv òucJKÓXoiq
Tiva vó(Jov ouK dv dvaXùcrai;
ó dcTiavò^ dòeXcpòc; èrravrÌKev VTv bieSeicTi ò' del KaTd (D 12
bè KaTd om. del) oov póbuuv f^biouq Xóyouc;, tò bè jniKpòv pi-
pXiov juévei ad)v. fìv b' r\\Aiv nepl nXeiaTOU èvexGfjvai (Joi toOto*
dXX' f) Tojv Ttap' v^ac, cpoiTÓìvTUJV où irpóbriXoi; Kal Pe^aia €Ì<;
TÒ PipXiov qpuXttKf) èxKÓTTTei ttì? óp|afì(g. òxoO b' èrr' (Gr 14 erri)
dacpaXuJv èXitibouv, ùjq outuj jneTéxov Trap' fi)uTv qppovTibo(; bià
noXXujv èTUJv tò dvGoc; Triprjaei (2).
Tuj TtaTpl fiiuujv Trap' fiiuajv dnóboq qDiXri)naTa, TTepiTrXoKd(; ,
irdvTa òaa òcpeiXeTai Trj toOtou xcipi^cTTri ^)vxr[. tò èTTiCTTÓXiov
0Xebiujq cfuveTéGn vf) Triv fi)i€Tépav didirriv.
Trattandosi di ima sola epistola su le trentadue della raccolta,
una illustrazione, dirò così, storica, che potrei fare, in qualche
parte, con gli elementi fornitimi dalla lettura di tutte le altre,
non avrebbe ragione di essere. Mi limito quindi a poche osserva-
zioni, del resto molto ovvie.
(1) KOTÒ Tf\v Ttapoiiuiav (, àvTÌ ToO oùbèv àyciuev XuTrripóv) dice qui uno
scolio interlineare e 'Aerò^ èv vecpéXaiq fu veramente un proverbio: cfr. Pa-
roemiogr. graeci ed. L e u t s e h-S e h n e i d e w i n I, p. 45 (Z. II 50). II,
p. 252 (A. I 45).
(2) A questo punto termina la lettera in D 12 sup.
— 276 —
Si capisce che Lacapeno non dava notizie di se da lungo tempo
a Zaride e che costui, quando scrisse la lettera, era infermo e
nella assoluta impossibilità di attendere ad occupazioni serie : e
se mai, dissuaso dai medici. L'affetto di Zaride per Lacapeno vi è
affermato nel modo più palese, e doveva essere ben profondo, se
gli detta espressioni come questa: qpiXou... òi' ov où inexaiLiéXei
)ioi Tf\c, eie, TÒv piov eìcróòou. I due fratelli Zaride, di cui Gio-
vanni è designato ó àaiavò<; àòeXcpó(S (1), si trovavano allora in-
sieme, e lontani dal padre; al quale mandano per mezzo di La-
capeno l'attestazione del loro amore.
Milano, gennaio 1897.
Domenico Bassi.
(1) Perchè Giovanni Zaride sia così chiamato dal fratello Andronico è
detto dal T re u, o. e. p. 224 3 ; uno scolio interlineare spiega senz'altro 6
aitò Tf\c, àaiac,.
- 277
BIBLIOGEAFIA
Select private orations of Demosthenes. Part II containing prò
Phormione, cantra Stephanum I. II, cantra Nicostratum,
Cononem, Calliclem; with Introduction and english comraen-
tary by J. E. Sandys, Litt. D., with supplementary notes
by F. A. Paley. M. A., LL. D. — Third edition, revised.
Cambridge: at the University Press, 1896, pp. LXXII-286.
La prima edizione fu pubblicata nel 75, la seconda nell' '86,
questa nel '96, cioè alla distanza di un ventennio dalla prima.
Mancano a me, pe' confronti, le due edizioni anteriori e la parte I
della medesima raccolta: forse però, giudicando dalla pagina XVIII,
le due parti furono composte in modo da potere stare a sé. 11
volume, di eleganza severamente britannica, nitidamente stampato,
corrisponde interamente alla aspettazione che desta in noi il nome
del dotto commentatore; corrisponde altresì all'indirizzo che agli
studi filologici è dato generalmente in Inghilterra, dove dell'an-
tichità non soltanto è studiata la parte letteraria, ma investigata
la vita quale essa era nella realtà e nella pratica. Gli autori an-
tichi pe' dotti Inglesi divengono carne e sangue, entrando intima-
mente nel loro pensiero e nella loro anima: ma essi, a differenza
degli umanisti, non aspirano alla riproduzione della vita antica ;
conoscendola minutamente, la studiano in modo oggettivo. Di qui
anche la tendenza a divulgare, secondo la comune espressione, i
trovati della scienza: ma i dotti Inglesi sono ottimi divulgatori,
i quali sanno fare interamente loro proprio quanto da altri è
stato esposto. 11 Sandys nel suo egregio lavoro non viene meno
a questi intenti , ed appunto per questo il suo commento fa sopra
di noi un effetto differente da quello che subiamo di fronte ad
altri lavori consimili: si direbbe che il suo è lavoro derivato non
tanto dalla filologia quanto dalla scienza dell'antichità. A ciò non
è estranea neppure la scelta delle orazioni e per questo volume
e per il primo, il quale comprende cantra Phormionem, Lacritum,
Pantaenetum, Boeotum de nomine, Boeotum de dote, Dionyso-
dorum (oration. 34, 35, 37, 39, 40, 56, cfr. p. IX), cioè discorsi
pertinenti non già alla vita pubblica di Atene, parte generalmente
pili nota, ma alla vita privata, non meno importante, ma comu-
nemente meno studiata e curata. Ne fanno fede altresì le edizioni.
— 278 — •
che abbondano per le orazioni politiche di Demostene, difettano per le
altre. Eppure questo è un campo nel quale, per più di un rispetto,
Demostene può essere confrontato cogli altri oratori, almeno finche
il nostro patrimonio non si arricchisca di nuovi e insperati acquisti
di altre orazioni. Per di più la figura di Demostene, come uomo
e come oratore, non può risultare completa se anche questa parte
della sua arte non sia esaminata, parte degna invero di entrare
anche nelle scuole, alle quali è adatta in sommo grado, anche per
uscire da quegli eterni soliti limiti che pur troppo fanno risentire
tuttora la loro tirannia con grande danno della coltura. Vorrei
che dall'esame di queste orazioni e di questo commento taluno
dei nostri insegnanti si inducesse a leggere un discorso di De-
mostene che non sia tra le Olintiache o le Filippiche, preferendole
magari ad uno squarcio anche esteso della orazione per la Corona.
È un fatto che per inveterata consuetudine il contenuto e lo spirito
delle orazioni politiche può essere più facilmente conosciuto, è cosa
nota a molti ed è agevole saperla l'uno dall'altro. L'aggiunta di
orazioni non politiche, senza nulla togliere al patrimonio della
generale coltura, sarebbe un utile e benefico acquisto. — Ma ve-
niamo finalmente all'esame del volume. Alle prefazioni ed all'in-
dice, segue un elenco dei libri citati : l'elenco non vuole essere
completo, è una « select List » fatta con molta accortezza e molto
utile a chi volesse dedicarsi allo studio degli oratori attici; no-
tevole la lista delle opere giuridiche, contenente opere general-
mente accessibili e d'indole generale. Forse, per questo motivo
almeno, non sarebbe stato male aggiungere anche l'opera che ai
tribunali ateniesi ed alle antichità private è dedicata nel Hand-
buch di Ivs^an Mùller. Dopo la spiegazione delle sigle usate nel-
l'edizione (in massima parte per mss.) ed una tavola pel valore
delle monete attiche rispetto alle monete inglesi, vengono tutte
di seguito le introduzioni alle sei orazioni. Altri preferirebbe
vederle premesse man mano ai singoli discorsi , ma l'autore forse
colla disposizione adottata ha fatto un tacito invito a conoscere
per sommi capi l'argomento e le spiegazioni di parecchie orazioni
congeneri prima di passare alla lettura di ciascuna di esse, e non
si può negare che la cosa sarebbe davvero opportuna, tanto più
avendo a propria disposizione dei riassunti come questi del Sand3's,
non preoccupato, come gli autori di antiche ipotesi greche, di esporre
brevemente l'argomento, ma inteso a spiegare l'impianto del pro-
cesso e la definizione delle questioni giuridiche. Per le due orazioni
contro Stefano c'è anche un'appendice circa la loro autenticità.
— Al testo delle orazioni sono premessi gli antichi argomenti
greci, spiegati anch'essi con note; fra il testo ed il commento sta
in ogni pagina l'apparato critico rivolto in massima parte a no-
tare le lezioni dei critici moderni. Questo apparato è parco, ma
fatto con grande senso di opportunità. Al discorso Katà Kóvuuvoc;
aÌKeiac; seguono quattro brevi appendici sul verbo difettivo tutxtuu,
— 279 —
sulla quantità di è'|LiTTU0(;, sul significato di aùioXriKuGoq, sui Tri-
balli nell'orat. 54 § 39. Il libro si chiude con un indice greco
delle parole maggiornaente notevoli, e con un indice ' inglese sui
fatti più importanti spiegati nelle note e dei nomi degli autori
citati. Le note sono di più specie, cioè prammatiche od esplicative,
critiche, stilistiche, storico-archeologiche. Così il commento, non
troppo ampio, appare completo, tanto più per lo scopo che si pro-
pone, e adatto non solo ai filologi o a chi vuol diventare filologo,
ma alle persone colte che possano leggere Demostene nel testo
greco — e di persone così fatte sembra ce ne sieno in Inghilterra
più che da noi. Lodevole sopratutto è la sobrietà delle note e la
ampiezza dei confronti con altri autori Greci e Latini e l'uso
sicuro dei vari mezzi che possano essere a nostra disposizione per
comprendere e commentare uno scrittore greco in generale ed un
oratore attico in particolare. Notevole la diligenza nelle citazioni
delle opere moderne, non solo indicate in modo generale a prin-
cipio del libro e collocate nell'elenco bibliografico, ma intima-
mente esaminate e diligentemente rammentate ai singoli luoghi,
e ciò non solo per opere che potevano consultarsi già per le edi-
zioni anteriori, bensì anche per altre apparse anche più tardi.
Le aggiunte dovute a tale scrupolosa esattezza sono molte e im-
portanti, sicché il libro del Sandys appare un modello nel suo
genere. Sarebbe davvero desiderabile che i commentatori italiani
di Demostene se lo proponessero, accanto agli esemplari tedeschi,
dacché nell'opera del Sandys c'è un equilibrio ed una sicurezza
di dottrina, e c'è per ogni elemento una così giusta proporzione,
che anche soltanto approssimarsi a quanto e come egli ha fatto
sarebbe merito non piccolo. Si comprende che l'autore, il quale
aveva preparato un commento come questo, poteva poi mostrarsi
così agguerrito nel pubblicare 1' 'AGrjvaiujv iroXiieia fornita di
note così dense di materia e così dotte e sicure [Vd. Aristotle's
Constitutions of Athens. A revìsed Text with an Introduction,
Criticai and Explanatory Notes, Testimonia and Indices, pp.LXXX
-t- 302. London, 1893; e la recensione in questa Eivista di Fi-
lologia voi. 22 p. 125 segg.]. Ma all'opera che ora esaminiamo
l'Autore altre ne aggiunge che lo rendono benemerito dell'elo-
quenza attica, cioè un'edizione di Isocrate [Isocrates. Ad Derao-
nicum et Panegyricus 1868, 1872; pp. XLIV +169. Longman],
di Demostene {^Demosthenes. — Speech against the Law of Le-
ptines. With Introduction, Criticai and Explanatory Notes and
Autotype Facsimile from the Paris MS. pp. XLVIII 4- 122. Cam-
bridge: at the University Press], di una scelta di orazioni greche
[First Greek Eeader and Writer, with Greek and English Voca-
bularies, pp. 225. 16mo, 1896 Sonnenschein] ; della revisione ad
una edizione della retorica di Aristotele [The Rhetoric of Ari-
stotle, with a Coramentary by the late E. M. Cope, revised and
editet by I. E. Sandys; with a biographical Memoir by the late
- 280 -=-
H. A. J. Munro, 3 vols. pp. XX -h 913. Cambridge : at the Uni-
versity Press], per tacere di altre opere dove il Sandys si è del
pari mostrato valentissimo conoscitore del greco e del latino.
Se dovessi esprimere tutto il mio giudizio, direi che l'opera più
importante del Sandys è il commento all' 'AOrìvaìoiv noXiteia
di Aristotele, dove ebbe campo a mostrare tutta la sua forza ;
ma questo commento a Demostene è forse anche più utile, dacché
destinato e adatto a pubblico più esteso. Non si tratta di un'edi-
zione scolastica — veramente il vocabolo scolastico per colpa di
molti è troppo scaduto, ed in tale senso generalmente si adopera e
l'uso anch'io in questo luogo — ma di lavoro utile nella scuola
e fuori, ed allo scolaro ed al docente. Un'ultima osservazione : in
più luoghi il Sandys impugna l'interpretazione altrui — che in
tutti questi passi possa essere seguito è troppo difficile — ma
nella discussione è meritoria la completa oggettività e la deferenza
che mostra agli altri eruditi e la cura, che appare dovunque, di
non attribuire a se quanto in qualunque modo ed in qualunque
misura da altra parte è giunto ,a lui [vd. p. es. p. XLIX terzo
capoverso e nota 2].
C. 0. ZURETTI.
Gregorius Zereteli, de compendiis scripturae codicum grae-
corum praecipue Petropolitanorum et Mosquensium anni
nota instructorum. Accedimi 30 tahulae. Petropoli typis
Academiae Caesareae scìentiarum MDCCCLXXXXVI.
Il libro è scritto in russo e perciò per me e per altri meno
comodo ed utile di quanto sarebbe se composto in altra lingua più
diffusa tra noi: in più di un luogo mi son fatto aiutare, sicché
mi accingo a parlare del libro avendone una qualche conoscenza.
L'autore é stato mosso dal medesimo pensiero che indusse il
Lehmann (die tachygraphischen Abkùrzungen der gr. Handschriften
von Dr. Oskar Lehmann, Mitglied des koniglichen stenographi-
schen Instituts zu Dresden. Mit 10 Tafeln in Lichtdruck, Leipzig,
Druck und Verlag von B. G. Teubner 1880) e l'Alien (Notes on
Abbreviations in Greek Manuscripts by T. W. Alien Queeu's Col-
lege Craven Fellow, with eleven pages of Facsimiles by Photo-
lithography, Oxford at the Clarendon Press MDCCCLXXXIX) ;
ma è meno teorico del primo e meno a bella posta quasi esclu-
sivamente pratico del secondo. Riesce utile almeno quanto en-
trambi i due lavori che lo precedettero, anche per l'abbondanza
delle tavole e delle spiegazioni che l'accompagnano, in massima
parte utilizzabili pur da chi ignori il russo. 11 lavoro comincia
— 281 —
con una introduzione, nella quale si distinguono i varii generi di
compendii, l'indole e l'età loro: una parte speciale è destinata ad
una importantissima epigrafe attica (CIA. Suppl. II n° 4321) che
espone un sistema di scrittura tachigrafico illustrato, oltre che
dagli autori citati dal Z., anche dal Mitzschke (1). Vd. Eine grie-
chische Kurzschrift aus dem vierten vorchristlichen Jahrhun-
dert von Paul Mitzschke. Leipzig, Verlag von J. H. Eobolsky,
1885. La trattazione che a tale importante parte della paleografia
dedicano il Montfaucon e il Gardthausen è rifatta e molto bene,
sia nella parte storica, sia nella parte teorica, con conoscenza
ampia degli antichi autori greci e dei lavori moderni. Segue la
parte sostanziale del libro, quella piìi vicina all'opera dell'Alien,
dove vengono successivamente trattati i compendii di a, ai, axq,
av, àvTi, ànó, ap, aq, au, aÙTÓ^, TÓtp? ^é, òià, e, ti, eiv, eivai.
èffTì, eìcrC è'aiai, èatoj, eìg, èiri, èv, ep, eq, tìtcov, riv, r|p, ti<;,
i, iva, IV, i?, ripóq, i, ùnép, ùttó, ve,, uj, uuv, ujp, uuq. Viene in
seguito un elenco di mss, datati onde sono dedotti gli esempi :
i mss, sono ordinati per età, dal secolo I d. C. al 1506, e per
ognuno si indica quali compendii siano riprodotti. Da ultimo tro-
viamo un elenco di pubblicazioni paleografiche, abbastanza ricco,
ma che non comprende tutti i lavori citati, con molta diligenza
bibliografica, nel corpo dell'opera, e le tavole, disposte in modo
che le pgg, dispari, a destra, sono destinate alle tavole litogra-
fiche, le pagine pari, a sinistra, contengono le spiegazioni, ossia
la trascrizione di ogni parola riprodotta nella tavola litografica
corrispondente e l'indicazione dell' anno cui appartiene il ms.
onde fu desunto l'esempio. Gli esempi sono, molto opportunamente,
disposti in ordine cronologico, in modo che dei compendii si può
seguire il vario atteggiamento nello svolgersi del tempo. Le ta-
vole sono belle e chiare ed utili a chiunque voglia estendere le
sue cognizioni paleografiche, specialmente per quanto riguarda il
fissare le date dei mss., quesito che rimane tuttora fra i più dif-
ficili della paleografia greca, quando non ci si contenti di una
certa approssimazione. 11 libro del Zereteli è un buon contributo
alla conoscenza della paleografia, utile, insisto, anche a chi non
sappia il russo. Anzi mi spiace che la mia troppo esigua cono-
scenza della lingua russa non mi permetta di addentrarmi nel-
l'esame dell'esposizione del Zereteli, dacché dalla ricchezza delle
tavole mi riprometterei non piccolo vantaggio, tanto più che il
Zereteli, e questo non è piccolo pregio dell'opera, volle ricorrere
specialmente ai mss. di Pietroburgo e di Mosca, meno noti di
quelli esistenti e consultati nelle biblioteche d'Italia, di Francia,
di Germania e d'insrhilterra. Così il libro offre una raccolta di
(1) 11 M. non si accorda col Gomperz ; ma il tentativo del M. non mi
sembra riuscito.
— 282^
osservazioni paleografiche esatte che il Graux (1) desiderava ve-
nissero pubblicate per giungere a conclusioni sicure circa l'uso
de" compendii grafici usati dai Greci.
C. 0. ZURETTI.
An inirodtiction to Latin textual emendation hased on the text
of Flautus hf W. M. Lindsay, M. A. London, Macnoillan,
1896, pagg. XII-13L
Il nome del Lindsay è assai favorevolmente noto agli stu-
diosi di filologia latina. Egli lavora da qualche anno con persi-
stente energia nel campo della latinità arcaica; e, quantunque
non sian molti né cospicui i risultati veramente nuovi e sicuri
delle sue indagini, pure non vi è filologo che possa oggi prescin-
dere da esse, in vista soprattutto della gran copia ed esattezza
del materiale critico che vi è raccolto.
Lo scritto recente, che qui si annunzia, prelude ad una novella
edizione delle commedie plautine ; e rampolla, come da sua di-
retta scaturigine, da una serie di esercitazioni critiche intorno al
testo di Plauto, di cui furono primi saggi lo studio intorno ai
metri plautini considerati sotto l'aspetto della quantità e dell'ac-
cento, nel voi. XX del Journal of FJiilology, pag. 135-158, e la
memoria sul testo palatino di Plauto {the Palatin text of Flautus),
pubblicata a principio del passato anno pei tipi del Parker (Oxford,
1896, pagg. 20). 11 nuovo volume del Lindsay mira però ad uno
scopo più alto, e certo affatto indipendente da quell'obiettivo, a
cui pure è servito di preparazione.
Nessuno ignora quanto sia largo, e spesso incontrastato, il do-
minio che la fantasia esercita nel campo della critica del testo ;
non perchè manchino dei criterii direttivi nell'esercizio delicato di
essa, ma perchè questi risultano da soli insufficienti, se non sono
preceduti ed accompagnati da quell'intuito critico, nel quale con-
siste quasi sempre il segreto delle più felici emendazioni. Or egli
accade molto spesso, che l'arbitrio del critico si sostituisca alla
mancanza di così favorevoli disposizioni ; e che la mania di emen-
dare lo trasporti oltre di quei confini, fra cui l'opera sua dovrebbe
rimaner circoscritta. Di qui la necessità ed insieme il vantaggio
di determinare con norme stabili e precise il campo della critica
congetturale, perchè esse da un lato servano di, riprova alle di-
vinazioni più geniali e dall'altro pongano freno alle illusioni troppo
facili dei novatori.
(1) Revue critique, 1880 p. 168.
— 283 —
Il Liiidsay si è assunto l'ufficio di ordinare in sistema i canoni
fondamentali, che debbono presiedere alla critica del testo; ed ha
fatto tesoro in più special modo, per questa sua bella iniziativa,
delle osservazioni molteplici e preziose a cui dà luogo lo studio
dei manoscritti plautini. Nessuno ignora la condizione, per questo
rispetto assai fortunata, in cui ci si conserva il testo di Plauto.
Noi abbiamo modo per alcune delle sue commedie di studiare così
la scrittura di esse in caratteri capitali senza intervallo tra pa-
rola e parola, come la loro riduzione o adattamento nella forma
di lettere minuscole, colle giuste o pure arbitrarie suddivisioni che
i varii copisti hanno giudicato opportuno di introdurvi. In queste
vicende, a cui il testo di Plauto fu sottoposto nella tradizione
manoscritta dal IV al XII secolo, noi abbiamo modo di studiare
le trasformazioni successive di esso e di dedurne le norme gene-
rali di alterazione che segue la parola scritta, e che corrispon-
dono per tanta parte alle leggi stesse di evoluzione, che regolano
lo scadimento della parola viva o parlata,
11 Lindsay riduce a sette capi principali le cause di alterazione
che guastano e perturbano la lezione genuina dei mscr., errori
cioè di emendazione, di trasposizione, di omissione, di inserzione,
di sostituzione, di confusione di lettere, di confusione di contra-
zione. Sotto la prima categoria di errori di emendazione egli com-
prende così le ricostruzioni dotte dell'età della rinascenza, come
gli adattamenti più grossolani fatti dai copisti, del testo che essi
trascrivevano, alle tendenze della loro pronunzia o alle esigenze
grammaticali ed ermeneutiche, a cui erano abituati o di cui si
sentivan capaci. Per errori di trasposizione e di omissione egli
intende così lo spostamento di sillabe, di parole e di versi al di
fuori del luogo che loro compete, come la perdita totale di esse.
Fra gli errori di inserzione annovera così le glosse come le dit-
tografie ;• fra le sostituzioni, oltre alle glosse stesse, parecchie di
quelle variazioni fonetiche che si trovano di già comprese nella
prima categoria; fra le confusioni di lettere i facili scambi che
possono aver luogo tra di esse, soprattutto nella scrittura minu-
scola: e fra gli errori di contrazione le interpretazioni fallaci di
alcune sigle, frantese dai copisti posteriori.
Certo questa distinzione sistematica non basta ad esaurire tutta
la serie degli errori che hanno luogo nei mscr., e quegli stessi
che s'incontrano nel testo plautino non sono forse qui completa-
mente classificati. Vi hanno sviste capricciose, che non rientrano
in alcuna norma generale ; ed errori di trascrizione che, sebbene
abituali in alcuni codici, mal si riporterebbero in altri, a cui
restano per solito affatto estranei. A queste sottili distinzioni prov-
vede solo il buon senso dei critico, né vi sarà mai un manuale
scientifico che gli additi con cura minuziosa e completa tutte le
cautele, di cui dovrà circondarsi nell'esercizio della sua arte. Il
libro del Lindsay è pregevole ed utile, in quanto gli offre i cri-
— 284 —
terii più semplici e comuni di emendazione: ma non può addi-
targli volta per volta di quale di essi capiti l'opportunità di far
uso. Per questo rispetto quasi direi che l'autore stesso ha voluto
distruggere in chi legge l'illusione, che basti la conoscenza teo-
rica ad assicurare un pieno successo nella pratica. Egli ha fatto
seguire a ciascuno dei capitoli del suo libro, come in via d'espe-
rimento, alcuni tentativi di emendazione, nei quali si applicano
i criterii stessi da lui esposti. Or se parecchie volte la sua con-
gettura tocca nel segno, come ad es. pel v. 762 del 3Iiles glo-
riosus :
sed procellunt sed in mensani dimidiati dum appetuni^
verso già precedentemente emendato anche da altri, quasi nella
medesima forma; non può dirsi d'altra parte che le sue proposte
appariscono sempre egualmente plausibili. Basti il dire somma-
riamente di esse, che rappresentano un contributo assai utile alla
critica del testo plautino, e che fanno vivamente aspettare la nuova
revisione, di cui son già così lieta promessa.
E. Cocchia.
The Pseudolus of Plautus edited ivUli introduction and notes
hy H. W. AuDEN. Cambridge, University press, 1896;
pagg. xxviii-156.
La nuova edizione dello Pseudolus è fatta esclusivamente ad
uso delle scuole ; e, non contenendo alcun elemento utile o nuovo
per la critica plautina, non meriterebbe d'esser qui presa in esame.
Essa è condotta quasi esclusivamente sul testo dell' Ussing e sul
commento del Lorenz e compendia dall'uno e dall'altro le prin-
cipali osservazioni, che si trovano contenute nelle note. Si avverte
però, così nell'introduzione come nel commento, una sovrabbon-
danza affettata di erudizione, che riuscirebbe inopportuna e su-
perflua, pur se non la deturpassero le molte sviste, che l'autore
vi ha lasciato penetrare per mancanza di una seria cultura.
Accenno per sommi capi alle principali inesattezze, senza la
pretesa, che sarebbe del resto superflua, di darne ai lettori l'elenco
completo, L'A. distingue, a pag. xii della sua introduzione, un
numerus italicus dal versus saturnius, ed afferma che in saturnii
furono scritti dei lunghi poemi, come ad es. quello di Ennio. A
pag. XIII considera come originaria la breve flnale di cetisur, ed
attribuisce alla presenza dell'accento l'abbreviazione delle sillabe
lunghe per natura, e viceversa all'assenza di esso l'allungamento
- 285 -
delle brevi. Ivi stesso mostra d'ignorare la legge che prevalse
nella poesia latina fino a Lucrezio, per cui Vs finale non fece
posizione innanzi a parola cominciante per consonante. A pag. xiv
forma per proprio uso il v. òtKataXriYw, per rendersi conto della
nomenclatura acataìectus ; e spiega i tetrametri catalettici come
versi che possono mancare di una sillaba in fine. A pag. xvi
distingue la grammatica semplice dalla grammatica comparata,
col dire che questa seconda è qualche cosa di più della prima.
A pag. XVIII afferma, che lo studio della grammatica storica serve
a provare « che il linguaggio è sensibile ». A pag. xxii consi-
dera i cantica della commedia latina come monologhi re-
citati con accompagnamento di flauto e i diverhia come d i a-
1 0 g h i, sebbene sia da un pezzo acquisita alla scienza la differenza
che passa tra queste due parti del dramma antico.
Le stesse incertezze si ripetono nel commento. A pag. 66 af-
ferma che la prima sillaba di reliquus era originariamente lunga.
A pag. 67 spiega la connessione di duo con bis col dire, che dv
è passato prima in d e poi in h. A pag. 68 afferma che del v. la-
vere, flesso sul tipo della 3^ coniug., non esiste traccia nel lin-
guaggio letterario degli scrittori Augustei. A pag. 69 spiega il
V. di Plauto Pseud. 29 : an ohsecro hercle liahent quas gallinae
manus, ammettendo in esso un esempio affatto nuovo di attrazione
per manihus qiias gallinae ìiahent. A pag. 73 ammette, con una
teoria ormai antiquata, il fognamento della seconda sillaba di
volìiptatum. A pag. 97 considera quom e ium come forme di lo-
cativi per quosme e tosme. A pag. 125 pone a base del nome
romanzo la forma dell'acc. latino, e riconosce un precedente di
questo fatto nella derivazione di voci latine dal greco. A pag. 150
scandisce magistratus come un trisillabo, e richiama per una pre-
tesa pronunzia monosillabica di semul la voce spagn. ensemhra e
it. insembre.
Rallegriamoci che una erudizione così indigesta e stantia sia
sparita da un pezzo dai nostri manuali scolastici. Quanto alle
scuole inglesi, esse hanno un antidoto assai efficace contro di queste
contraffazioni nei libri sotto ogni aspetto pregevoli, che vi sono
in uso da lunga mano.
E. Cocchia.
— 286 -
Dr. Benedictus Niese. Grundriss der ròmischen Geschichte nehst
Quellenkunde. Zweite umgearbeitete und vermehrte Auflage.
Munchen, 1897. C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung pp. 265.
(Handbuch d. Klass. Alt. heraug. von Dr. Iwan v. Muller
III Bd. 5. Abt.).
Ogni manuale della collezione diretta dall'insigne filologo Iwan
V. Muller riesce sommamente vantaggioso ai cultori delle disci-
pline classiche; poiché l'esposizione procede sempre in quella
forma compendiosa che si raggiunge non con omissione di notizie
salienti, ma con opportuna condensazione della vasta materia. Se
in qualunque ramo della filologia e della storia antica, un ma-
nuale di questa collezione è sempre un prezioso contributo alla
disciplina trattata, un manuale di storia romana, specialmente se
compilato da un dotto di nome tanto meritamente noto come il
Niese, soddisfa un vero bisogno degli studiosi, e — usando un'e-
spressione sciupata per essere troppo spesso applicata alla pubbli-
cazione di libercoli inutili e nati morti, ma adatta alla circo-
stanza — colmava fin dalla sua prima edizione una lacuna.
Poiché se per la Grecia e Koma dell'età imperiale abbiamo delle
opere utilissime che al pregio della trattazione uniscono una
larga notizia delle fonti antiche e del lavoro critico moderno, per
il periodo di Koma anteriore all'instaurazione della monarchia,
un'opera sintetica che offrisse allo studioso, raccolto in bell'or-
dine, il tesoro dei documenti opportuni pel controllo dei resul-
tati e per il lavoro di ricostruzione, finora mancava ; poiché
la classica « Kòmische Geschichte » del Mommsen é una rap-
presentazione stupenda, ma individuale della vita del popolo ro-
mano e delle sue vicende; né al silenzio sulle notizie bibliogra-
fiche, tenuto dal Mommsen, suppliva gran fatto l'ihne, al quale
basta soltanto citare le testimonianze degli antichi. L'opera dello
Schwegler è rimasta troppo presto incompiuta, né ora più corri-
sponderebbe alle esigenze della cultura storica dei tempi nostri,
a causa dell'assiduo e fecondo lavoro fattosi nel campo della storia
di Koma dalla morte dello Schwegler in poi. 11 trattato del Niese
esce ora in una seconda edizione, considerevolmente migliorata e
accresciuta. Speriamo di fare cosa non inutile né ingrata ai let-
tori presentando del libro una sommaria analisi piuttostoché no-
tare le differenze tra la prima e la seconda edizione. Quantunque
esso per l'indole della collezione di cui fa parte, non può conte-
nere un repertorio completo di notizie bibliografiche, offre tuttavia
indicazioni sufficienti per chi voglia di ciascun periodo procurarsi
una conoscenza sicura e compiuta. L'opera è divisa in otto capi-
— 287 —
tolì: il primo, l'introduzione, contiene un breve, ma eccellente
riassunto della letteratura storiografica, esposta in ordine crono-
logico, dalla seconda metà del secolo decimoquinto fino ai giorni
nostri ; altri cinque capitoli sono consacrati alla storia dai tempi
più antichi sino alla fine della repubblica; gli ultimi due trat-
tano del periodo che va dalla fondazione della monarchia sino
alla fine dell'impero d'occidente. Sorprende invero di non veder
ricordata nell'enumerazione delle opere storiche complete la Gè-
schìclite d. ròmischen Kaiserzeit dello Schiller, che l'autore cita
poi a suo luogo; ne si sarebbe aspettato nell'elenco (p. 9) degli
storici romani che adoperarono la lingua latina, la dimenticanza
di Sempronio Asellione, non meno importante certo di Calpurnio
Pisene, Tuditano, Fannio, e Celio Antipatro. La trattazione dei
più antichi popoli italici non manca di qualche oscurità ; e se-
condo il mio modo di vedere, commette il N. una inesattezza (p. 16)
quando fa degli Enotri e degli Itali due individualità etniche
diverse, mentre nella prima denominazione si deve ravvisare la
designazione greca, nell'altra l'indigena. Quanto alla spinosa que-
stione riguardante la lingua e la nazionalità degli Etruschi, ac-
canto a tanti insigni tedeschi si poteva ricordare anche il nostro
Elia Lattes, i cui lavori non è permesso lasciare inosservati da
chi voglia studiare la questione. Qualche altra omissione si può
rimproverare all'autore; quando (p. 173) dimentica, a proposito
dell'invasione cimbrica, due lavori del Pais pubblicati nel 1891
e 1892, e quando a p. 228 passa sotto silenzio lo studio sul co-
lonato romano dell'Heisterbergk. Benché cosa di poco conto, noto
un'inesattezza a p. 155 n. 1, dove la citazione non è a proposito.
In certe questioni di storia primitiva, non sarebbe stato fuor
di luogo supplire col metodo comparativo alla mancanza di espli-
cite testimonianze. P. e. a p. 27 il N. segnala l'oscurità che in-
volge l'origine della plebe in Koma: il confronto con le classi
sociali in Grecia, e specialmente in Atene avrebbe potuto gettare
un po' di luce sulla questione. L'ipotesi del Mommsen che la
plebe romana sia una derivazione della clientela, è poco proba-
bile_ 0 almeno insufficiente, poiché in qualunque organismo sociale
si ritrovano differenze di classi, senza perciò dover ricorrere al-
l'ipotesi di relazioni di dipendenza tra le più elevate e le più
basse. Finalmente mi sembra che non si sarebbe troppo snaturato
il carattere richiesto dalla collezione di cui l'opera fa parte, se
l'autore avesse alla fine di ciascun periodo brevemente discorso
della produzione letteraria e filosofica, nonché delle idee religiose
proprie dell'epoca ; e la fisonomia di ciascun periodo storico sa-
rebbe stata certo più efficacemente ritratta.
L'esposizione è condotta sempre in una forma concisa, ma lim-
pida; e la distribuzione della materia è sempre ben proporzionata,
evitando lungaggini inutili e trattazione diffusa di punti che
trovano meglio il loro luogo in apposite monografie. Una traduzione
— 288 -
italiana di quest'opera è certo meno reclamata che quella di
qualcun'altra, poiché chi non conosce il Tedesco non può nemmeno
prendere grande interesse a certi lavori; ma sarebbe certamente
utile, se non altro, come^esempio del modo come si dovrebbe scri-
vere un manuale per uso degli istituti superiori.
Trani, gennaio 1897.
Vincenzo Costanzi.
SoPHOCLES, the plays and fragments ivith criticai notes^ commen-
tari/ and translation in english prose hy K. C. Jebb. VII,
The Ajax. — Cambridge, at the University press, 1896; 8°
pp. LXXiii-258.
Come i sei volumi precedenti, questo comprende una introdu-
zione, notizie su i manoscritti, su le edizioni ecc., l'analisi me-
trica dei * cantici \ il testo commentato e tradotto (preceduto dalla
ipotesi, dai personaggi e dallo schema delle divisioni del dramma),
un'appendice e indici.
Dirò delle singole parti principali, più o meno brevemente se-
condo la loro importanza.
Nell'introduzione l'autore espone la leggenda di Aiace nei suoi
vari momenti, fermandosi più a lungo, ben s'intende, su 1" Aiace'
sofocleo e accennando anche al 'Teucro' e all' 'Eurisace' dello
stesso poeta. Non si può certo pretendere che in una semplice in-
troduzione l'argomento sia svolto con quella larghezza che è con-
sentita in una monografia speciale ; quindi non merita biasimo il
Jebb se dell'Aiace omerico si è occupato con molta parsimonia.
Ma egli, pur tenendosi entro i limiti modesti che fu costretto ad
imporsi, avrebbe dovuto anzitutto mettere maggiormente in rilievo
i due momenti della saga senza dubbio più importanti così in sé
come per lo svolgimento posteriore della saga stessa: il giudizio
delle armi di Achille e il suicidio di Aiace. In secondo luogo
bisognava insistere su le modificazioni introdotte dal poeta della
MXià? juiKpd nella leggenda, cioè la pazzia e la strage del gregge:
due particolari che Sofocle derivò appunto dal poemetto ciclico e
non altronde.
Le notizie intorno ai manoscritti, specialmente all'archetipo
Laurenziano, agli scolii ecc. sono brevi, ma sufficienti a dare
un'idea esatta degli uni e degli altri. Compiuta e ordinata l'ana-
lisi metrica con buone esemplificazioni e schemi e diagrammi
chiarissimi. Preziosa l'appendice critica che integra non solo il
commento critico, ma anche l'esegetico. Accurati gl'indici (I, greco.
I
— 289 —
II, inglese) e pratici all'uso : tutti pregi che il nostro volume ha
in comune con i precedenti.
Vengo al testo e al commento. La traduzione non sono in grado
di giudicarla.
Base della critica del testo è naturalmente il codice Lauren-
ziano; alla cui autorità, come a quella dei manoscritti in gene-
rale, il Jebb si mostra qualche volta troppo ligio. È questione di
apprezzamenti, almeno nella maggior parte dei casi; comunque,
ecco a mo' d'esempio una breve nota di luoghi, nei quali le cor-
rezioni proposte da vari critici e accettate da uno o da un altro
editore e non di rado anche da parecchi insieme, ma non dal Jebb,
sono ottime e talune necessarie.
V. 110. Dindorf òa|urì invece di Gàvri che par soverchio con
luàariTi tanto piti dopo cpoivixQei?.
v. 197. Dindorf àTàp^r]Toq ópiuàrai invece di tLò' àrapPriTa
ópinaiai (ópiudt'). 11 senso è compiuto senza iLò', omesso anche
nella citazione di Snida 'ExOpuJV ò' (ippn; dtapPriTuuq óp)ua dove
inoltre va notato àtapPnTUjq.
V. 531. Hermann èEeppuadjariv (scoi. pùaaaGai GéXoucra èHn-
YaTOv) per éHe\uad|ur|v assai meno espressivo.
V. 546. Wecklein tou [L toO] per ttou. Non v'ha dubbio che
Aiace possa accennare in modo coperto a sé stesso, quale autore
della strage del gregge, di cui gli pesa la vergogna (v. 550-553).
V. 729. Thiersch èai' invece di ujctt'. Con l'emendamento del
Th. si evita, almeno, la sgradevole ripetizione di uj(Jt(€) nello
stesso verso, e il senso, in fondo, non cambia.
V. 773. Musgrave tóò' invece di tòt non necessario per la
corrispondenza col precedente ^vìk' (v. 771), mentre con TÓÒe si
insiste, a ragione, su òeivòv dpprjTÓv t'.
V. 799. Bothe eknilew cpe'pei ['metuere (nos) facit'], che è la
lezione più ovvia, invece di è.\mlei cpépeiv.
Talora, all'incontro, il Jebb accoglie emendamenti plausibili,
ma di cui non si vede troppo bene il bisogno. Cito nn solo
esempio. Al v. 297 i codici hanno eÙKepuJv t' (dypav). Anzitutto
l'espressione richiama (e par ragionevole, trattandosi precisamente
di dire la medesima cosa) alla somigliante del v. 64, dove Athena,
come qui Tecmessa, narra della strage del gregge. Poi con essa
vengono designati non solo i tori, ma anche i montoni, che fanno
parte del gregge stesso e su cui Aiace sfogò la sua rabbia (v. 237).
Ora il nostro editore ha preferito la congettura dello Schneidewin
euepov.
Il commento è molto copioso. Dal. raffronto con parecchie edi-
zioni tedesche con note, fra cui quelle del Lobeck^, del Seyffert
e di Wolff-Bellermann'* mi risulta che in massima parte è ori-
ginale. Questo però non vuol dire che sia originalità dovunque
lodevole. Così non trovo giustificate a proposito di taluni vocaboli
certe citazioni da scrittori come Galeno, Appiano, Ippocrate...,
Rivista di filologia, ecc., XXV. 19
— 290 —.
vicino alle quali forse stridono note sintattiche troppo elementari ;
p. es. V. 9 TUTXÓtvei: se. ujv — v. 103 èSripou )li' ottou, se. èaii...
— V. 709 Tràpa = TTdpecTTi — v. 762 KaXuj^ \éxovTO<;: genitivo
assoluto ecc.; e altre, p. es. v. 172 Aiò<;, {figlia) di Zeus —
V. 576 éTTTdpoiov = epieo érrTapóeiov ecc. necessarie in un com-
mento scolastico, ma fuori di luogo in un commento che ha ca-
rattere spiccatamente scientifico. Inutile del resto aggiungere che
in un libro, come quello del Jebb, uhi plura nitent, queste e le
altre poche indicate sopra sono mende quasi affatto trascurabili.
Milano, febbraio 1897.
Domenico Bassi.
Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff. Aeschylos Orestie grie-
cìiisch und deuiscJi. Zweites StiicJc^ Das Opfer ani Grahe.
Berlin, Weidmann, 1896 pp. 268.
, La dottrina filologica ampia e sicura dèi von Wilamowitz non
ha timore di compromettere il proprio decoro uscendo dal collegio
dei pochi iniziati alla luce del sole e della vita. Sia lodato Dio,
che questa volta l'esempio viene da tale che difficilmente si potrà
far passare per un dilettante, — terribile accusa per certe scuole
di critica il cui compito principale, e spesso il solo, è quello di
annoiare.
Il libro si divide in tre parti, introduzione, testo con traduzione
di fronte, e note filologiche.
L'introduzione prende a considerare il dramma di Eschilo non
solo e non tanto nel suo svolgimento materiale e teatrale quanto
nel suo valore morale. Esaminando infatti le varie fasi che per-
corse nella sua evoluzione il concetto della vendetta e della pu-
nizione nel mondo greco, ricolloca le Coefore nel loro vero am-
biente e dimostra come questa tragedia è un germoglio della vita
vissuta, non una elucubrazione fredda da tavolino, e rappresenta
un punto notevole nella storia di quella idea che si è venuta ma-
turando fino ad essere un elemento essenziale della nostra civiltà.
L'Ellenismo infatti è il fondamento della storia di tutti i popoli
colti, e deve perciò essere conservato come il gioiello piti caro
della nostra eredità; che se le nazioni moderne tenessero conto
dell'origine e dell'essenza della loro cultura, vedrebbero che ciò
che hanno di meglio lo possedono in comune, e mentre dall'una
parte cesserebbe l'odio fraterno, dall'altra si sentirebbero sollevate
oltre la volgarità che vede nel benessere materiale lo scopo della
vita per i singoli e per la società. — Vere parole ! e che provano
insieme quanto cattivi apostoli della civiltà e della scienza sieno
— 291 —
coloro che vogliono riservare questi studi a quattro gatti solitari
e sospettosi. — Ma non divaghianao.
Come gli uomini abbiano potuto lentamente costringere il ca-
priccio e l'interesse individuale a servire al bene comune, come
la vendetta di sangue sia stata elevata ad un dovere obbligatorio
per tutti, e come poi da questo dovere si sia riusciti di nuovo a
liberarsi, — non è clie un caso speciale ed un esempio di questo
svolgimento dell' idea morale. 11 caso tipico, l' antecedente di
fatto del primo passo fu rappresentato da un poeta epico di re-
ligioso sentire (l'autore della Orestiade delfica); in Eschilo, dopo
Dante il più gran poeta religioso dell'umanità, il fatto medesimo
si è già svolto a rappresentare l'esempio tipico del secondo.
E qui il V. Wilamowitz comincia ad esaminare la condizione
della società omerica (ancorché vi possa essere stata prima una
civiltà più antica, con Omero siamo di nuovo daccapo), e trova
che il concetto di Stato in essa è ancora molto basso: lo stato è
l'uomo, la sua salvezza è nella sua forza, la sua rovina è nella
sua debolezza: può far violenza, purché la sappia sostenere, altri-
menti non ha riparo contro la vendetta, e fu già un progresso
quando si ammise la possibilità che l'offensore si potesse com-
porre con donativi: quando si diifuse la persuasione che l'offeso
fosse obbligato a riceverli e ad accontentarsene, cominciò una spe-
ranza di pace per la società. Ad ogni modo però questo modo di
vedere è sostanzialmente immorale : per esso infatti non si fa altro
che accomodare le cose coi vivi, il morto è morto e non se ne
tien conto: era del resto una conseguenza immediata del concetto
dell'oltretomba nella società omerica (cfr. E. Kohde, Psyclie): se
le anime dei morti col mondo dei vivi non possono avere rap-
porto alcuno, non può restare alcun conto da regolare rispetto a
loro. I Greci profughi in Asia, lasciata la patria e le tradizioni,
nella vita aspra e randagia che nei primi tempi furono costretti
a condurre, dimenticarono quasi del tutto la loro prima cultura
e caddero in basso : è una fortuna che la decisiva evoluzione del
diritto e della religione non sia proceduta da Omero. Invece nella
madre patria gli invasori non ruppero le tradizioni, ma vi si sot-
toposero, e la fede nella potenza dell'anima umana e nelle potestà
del regno dei morti divenne sempre più forte. Le tombe stesse
ricordavano un grande passato, un passato che non era scomparso,
ma era esso stesso una forza: i passati non erano più, come in
Omero, à|uevnvà Kcipriva, ma diventarono eroi. Per i Greci della
madre patria pertanto non si può dire affatto che in caso di morte
violenta tutto fosse finito con una composizione tra gli eredi :
l'anima del morto obbliga tutti quelli del sangue medesimo, e
comunanza di sangue prepara comunanza di diritto.
A questo punto dell'evoluzione conosciamo le disposizioni del
diritto sacro in gran parte nella forma che ricevettero da Dra-
cene in Atene verso la fine del settimo secolo: esse vigevano
— 292 —
quando Eschilo scrìveva, e il loro spirito aleggia nel mito d'Oreste
ch'egli pose sul teatro. Lo stato è intervenuto tra il vendicatore
e il colpevole; egli ha preso sopra di sé la vendetta e perciò elimi-
nato stabilmente l'obbligo del sangue che perdurava ancora per
Oreste. 11 fondamento legale della vendetta di sangue resta lo
stesso: la società riconosce che il singolo non perchè vive ed è
danneggiato ha diritto alla vendetta, ma vi ha diritto perchè il
danneggiato vive in lui ; però Vunità tattica non è più il singolo
ma la società, e il concetto del legislatore è appunto di liberare
la società dall'ira del morto, che per essere morto non cessa di
appartenerle.
Se infatti la vendetta è obbligatoria, e se ogni volta viene ese-
guita, la serie delle morti non finisce più, e la società va in ro-
vina: doveva perciò il singolo cedere al bene comune; ma quale
autorità ve lo poteva costringere? Apollo. — E qui l'autore mette
in rilievo la superiorità spirituale che Delfo aveva in tutta la
Grecia, riconosciuta dagli individui e dagli Stati , il carattere mo-
rale che Apollo rivestì in Delfo: ciò che era Dio, perchè era po-
tente, divenne ciò che è Dio, perchè è buono, pur restando un
Dio individuale legato ad un luogo determinato e con personalità
propria, diverso dal Zeus di Eschilo, che è veramente il Dio
universale degli stoici e dei cristiani. Nota quindi come questo
movimento religioso si possa fissare all'ottavo secolo, come Esiodo
ancorché prendesse la lingua e la forma da Omero, abbia già un'in-
tonazione ben diversa, e da rapsodo, per così dire, diventi profeta,
come l'oracolo di Delfo accettasse la stessa forma poetica e si rin-
novassero sulla morale delfica le antiche leggende. E come anche
d'altre vendette di sangue, di Edipo per esempio e di Anfiarao,
vi avevano leggende Delfiche, così crede il von W, si avesse anche
una Orestiade, il cui contenuto, ch'egli tenta ricostituire, sarebbe
stato la glorificazione del Dio che tutto sana e compone tanto la
vendetta del padre quanto le furie della madre. A questo poema,
anziché all'Orestiade di Stesicoro, avrebbero attinto Eschilo e Pin-
daro, come pure Stesicoro stesso, sul qual punto si estende in mag-
giori particolari in un'apposita appendice.
Ma un più raffinato sentimento morale doveva scuotere l'auto-
rità della morale delfica, e la leggenda d'Oreste bastava a pro-
vare il vantaggio dell'ordine sociale che toglieva di mezzo tali
atrocità. L'uccisione della madre era un delitto anche se imposto
da un Dio, un delitto che nessuna autorità può condonare. Eschilo
riconosce la dignità della donna e della madre, dà a Cliten-
nestra (1) un carattere, — essa con la forza della sua volontà
(1) Non vorrei prendermi deirignorante, perchè la chiamo ancora Cliten-
nestra e non Clitemestra : è un nome diventato italiano da tanti secoli e
la sua forma in italiano non si può cambiare: così diremo in italiano sempre
Virgilio ancorché in latino si preferisca Vergilins , come diciamo Londra
- 293 —
domina tutti, il marito, il coro, l'adultero ; e il fatto tradizionale
che Oreste uccise la madre Eschilo lo rappresenta come un de-
litto. In questa lotta della coscienza d'Oreste che è costretto a
poco a poco a compiere ciò che gli ripugna di compiere sta la
sostanza del dramma; — l'analisi del quale tende a mettere in
luce appunto questa lotta e le incertezze del giovane che aveva
il concetto confuso della vendetta ch'era necessario di compiere e
dell'obbligo morale cui doveva soddisfare, ma rifuggiva dal fer-
mare il pensiero sul modo ultimo di eseguirla. Nel girare attorno
all'idea del matricidio anziché prenderla di fronte sta l'arte de-
licata del poeta, e nel saperla mettere in rilievo, meglio che altri
non si sia curato di fare, la finezza del senso del critico. Anche
la scena del riconoscimento tanto tartassata dai pappagalli della
critica, dopo che Euripide le scagliò contro dei frizzi di cattivo
gusto, ha trovato finalmente il suo avvocato, e se il buon senso
deve aver ragione della pedanteria, si potrebbe sperare che la vec-
chia sciocchezza non si dovesse più ripetere.
L'introduzione termina con alcune giuste osservazioni sopra le
condizioni speciali della scena di Eschilo nella trilogia Orestiade,
e sul come le Coefore potrebbero essere riprodotte su di un teatro
moderno.
Il testo della tragedia citato dal von Wilamowitz ha carattere
conservativo senza pedanteria; e nel complesso nessun filologo che
abbia un concetto chiaro dell'ufficio suo potrebbe disapprovarlo ;
nei particolari si sa bene che qualche divergenza di vedute vi
può essere, tanto più là dove la lezione del codice è così corrotta
da non sapersi da che parte pigliare. « Non è cosa da poco, »
egli nota, « che uno presuma di dire, — nel marzo del 458 a.
C. Eschilo non poteva dir questo nel teatro d'Atene ; io però so
ciò che egli ha detto, — ma è anche molto comodo il dire —
egli ha detto questo, perchè questo è nel Laurenziano, ed io non
vedo perchè egli non abbia dovuto sentire e pensare e parlare
così ». Certamente per Eschilo alla critica congetturale deve esser
concesso assai più largo posto che per gli altri scrittori : l'arche-
tipo delle Coefore infatti non dobbiamo cercarlo ne nei tempi di
Aristarco né in quelli di Erodiano, poiché é impossibile che l'an-
tichità classica, anche tarda, abbia letto il penultimo canto corale
nello stato in cui lo dà il Laurenziano. È da credere piuttosto
che, come l'ignoranza dei secoli VII e Vili aveva lasciato per-
dere la tradizione letteraria, quando nella metà del IX cominciò
il risveglio si cercasse salvare ciò che si poteva e si trascrivessero
quei manoscritti che era dato di trovare, qualunque fosse il loro
e Parigi e non London e Paris. Nelle mie Odi di Pindaro, colpito dalla
novità, avevo scritto anch'io Clitemestra, e fu il proto che mi corresse al-
l'ultimo momento a mia insaputa: allora me ne dolse, adesso riconosco che
fece bene.
— 294 —
valore: il nostro archetipo si deve perciò cercar lì. Con tutto ciò,
dove il senso corre, il W. non si allontana dalla lezione del Lau-
renziano, e vi ritorna spesso anche là dov'era stata abbandonata :
molte volte infatti l'emendamento non era frutto che o d'igno-
ranza, 0 di vanità o di pedanteria. Così abbiamo un testo assai
più vicino alla tradizione che non sieno quelli degli altri editori,
— con grave scandalo di tutti coloro che misurano il progresso
della critica dal numero delle scempiaggini recenti che si appiop-
pano agli autori antichi. Anche la maggior parte delle trasposi-
zioni di versi che erano state proposte le rigetta. Molte libertà
invece adopera, com'è giusto, quanto alla punteggiatura e all'in-
terpretazione in generale, — questo è infatti l'ufficio del filologo,
interpretare, non rifare; — e con tutto che il testo sia conserva-
tivo, c'è perciò tanto di nuovo, quanto non v'era in molte altre
recensioni cervellotiche sommate insieme.
Poiché la critica del W. si fonda essenzialmente sulla consecu-
zione dei pensieri e dei sentimenti, — non tanto sulla consecuzione
logica, quanto sull'associazione spontanea, diversa nelle diverse
condizioni d'animo dei personaggi, — mi è impossibile, senza an-
dare ad eccessiva lunghezza, dare un elenco nemmeno delle novità
principali del suo commento, e citerò solo qualche esempio iso-
lato, e neanche dei punti più discussi. — 1 canti corali, e spe-
cialmente due, quelli ai vv. 585-651 e 784-837, sono in tale stato
che è già molto se si arriva a capire il filo dei concetti : il W.
infatti confessò in molti luoghi di non sapere trovarci il bandolo,
ed anche se propose degli emendamenti non sono questi certo i
più sicuri. Ma se è facile trovar delle obiezioni da fargli, non è
facile però suggerire di meglio. Così per esempio al v. 626 contro
la proposta di mutare cppevOùv in cpépuuv si potrebbe osservare
che non è vero che il coro tolleri adesso YuvaiKoPouXou^ )ariTiba(;
èir' àvòpì Teuxecrcpópuj e che perciò cpepuiv non può stare, perchè
sarebbe in correlazione con tiuuv, che sta: nel v. 628 poi, èir' àvòpì
brioiaiv èmKÓTiy oé^aq, invece dell'aggettivo èrriKÓTLu preferirei
intendere che Agamennone ai nemici stessi oltre al rancore (èm
KÓTUj), ispirava rispetto (aépaq), ma come poi il periodo si dovesse
accomodare, non vedo probabilità di azzeccarla. Similmente nell'an-
tistrofa vv. 363-71 al v. 364 preferirei tenere il vocativo Traiep,
anziché mutarlo in Trairip, anche per la simmetria col verso cor-
rispondente della strofa, che al luogo stesso ha lo stesso vocativo.
In tal modo mi pare più tollerabile l'ommissione di uj(pe\e(;, né
farei caso del passaggio dalla seconda alla terza persona al v. 367:
l'apostrofe dà al discorso un movimento più appassionato, ma ap-
punto per questo permette poi quella libertà di sintassi che in
tanti altri luoghi di questa tragedia il W. stesso, e ben a ra-
gione, riconosce per legittima. Così porrei dopo il v. 366 un punto
in alto, virgola dopo il 367 e supplirei il 368 con koì xfiv (koì
può facilmente essere stato confuso con l'ultima sillaba di òa-
- 295 -
lufivai) : dubito poi se Tuùvòe non convenga riferirlo ad alcrav e
intendere « e gli uccisori prima così fossero stati uccisi e il
loro fato di morte altri (cioè noi) lo udisse da lontano ignaro di
dolore ».
Ma lasciando stare i luoghi più o meno disperati, vengo a
qualche altra osservazione. Lacunoso è il principio e, non ostante
sia stato commentato nelle Rane, difficile e di dubbia interpreta-
zione: il W. rende Trarpoi' èTtoTTteùuuv Kpdxri : che tieni sotto la
tua protezione la maestà di mio padre, — contro l'opinione del
Wecklein che accetta invece l'interpretazione che Aristofane pone
in bocca ad Euripide, — e in ciò credo abbia ragione. Poi segna col
Wecklein una lacuna dopo il v. 3, e qui avrei qualche dubbio. Il
V. 3, così da solo, tikuj y^p ic, yhv trivòe Kal Kaiépxoiuai dice il
W. sarebbe tautologico, e sta bene; ma appunto nelle Rane è
accusato da Euripide di tautologia, ora se fosse seguito un verso
che questa tautologia l'avesse tolta, sarebbe stato assurdo che
Eschilo si difendesse, come fa, sostenendo avere i due verbi si-
gnificato differente (1). Persuade di più l'altra ragione che ad-
duce per segnar la lacuna, cioè che da solo il v. 3 dice poco o
nulla e sarebbe inutile: supplirei però eventualmente senza dar
complementi a KatépxoiLiai.
Al V. 32 invece di q)oTpo(; corregge oiKToq, al v. 517 invece
di GavóvTi ò' ou qppovoOvTi dà Gavóvti òua9povoOvTi al v. 574
invece di èpei dà eiaiv, al v. 738 invece di eéio crKuGpuuTTÒv dà
ouTUj cTKuGpujTTUJV, al V. 915 invece di òixuxj dà aÌKuùc;; tutti
emendamenti geniali e probabili.
Più grave alterazione introduce nei vv. 79-80 che restituisce :
òiKaia Kaì \xr\ biKai' àpxà<; irpeTTOV Pia qppevujv aivéaai, ma al-
meno se ne ha finalmente un senso chiaro : similmente dicasi dei
vv. 712-713, dove, pur dovendo mutare qualche cosa, col minor
strappo possibile si è ottenuto il maggior miglioramento. Invece
al V. 177 rinnova il caso dell'uovo di Colombo: al coro che chiede
se la ciocca di capelli trovata sulla tomba di Agamennone po-
tesse essere un dono furtivo di Oreste, Elettra in tutte le edi-
zioni rispondeva : )aa\i(JT' èKeivou poaipuxoi? irpoCeiòeTai ; in
(1) Il V. Wilamowitz qui per incidenza esamina tutto il luogo corrispon-
dente delle Rane, e sono d'accordo nelle sue conclusioni tranne nella le-
zione del V. 1144 où òììt' èxelvov, mentre, che la vera sia quella del Raven-
nate où òfix' èK€Tvo<;, lo mostrano ad evidenza gli altri luoghi ove si ripete
la stessa formula, cioè Ran. 788, 1457, Lys. 521. Così mentre è giusto ciò che
egli osserva al v. 1149, che poiché Dioniso interrompe il discorso, deve dire
OUTUJ Y* Sv etr), e che i codici che hanno oùtu;? fiv danno a Dioniso anche
il verso precedente, mi par preferibile, lasciando pure il verso precedente
ad Euripide, far che Dioniso continui con oÙTUJt; fiv. Non è infatti una
interruzione, ma una continuazione: Dioniso toglie la parola di bocca ad
Euripide: questi avea pronunciata la protasi e Dioniso soggiunge l'apodosi.
Nella continuazione mi pare ci sia maggiore finezza di scherzo che non
nell'interruzione.
— 296 —
questa risponde più ragionevolmente: )ud\i(TT'- èKeivou poaipu-
Xok; TTpcaeiòetai. E con questa lievissima mutazione, se pur si
può chiamar tale, e col levar via il v. 208, non conosciuto certo
da Euripide, che ne avrebbe fatto strazio, è tolta alla scena del
riconoscimento ogni tinta di esagerazione e di inconseguenza. —
Un'altra mutazione semplicissima e sicura consiste nel continuare
ad Oreste il v. 551 anziché darlo al coro. E del pari semplice
quanto ottima è la correzione dei vv. 1073-74:
vOv ò' au TpiTO? ^\9é 7ro6ev — (Tujtììp*
f| jLiópov emuj ;
invece che r\\Qé TroBev cyoJTrip. Le quali innovazioni tutte dimo-
strano che ad entrare nello spirito vero degli autori, anziché fer-
marsi solo alla materialità esterna o misurar tutto con le seste
della logica, si può fare ancora del cammino parecchio nell'inter-
pretazione senza darsi subito per disperati a rifare i testi. Sono
infatti parecchi i luoghi che il v. Wilamowitz così riesce a sanare
senza far forza alla tradizione scritta, ai quali credo se ne po-
trebbe aggiungere un altro, chiudendo tra parentesi i vv. 299-301
(come fece dei vv. 286-89) invece di eliminarli dal contesto. Delle
nuove punteggiature proposte una sola non mi persuade affatto,
quella del v. 901, al secondo dei tre versi di Pilade: mentre
tutti leggono :
TToO òf) xà Xomà AoHiou |LiavT€U)uaTa
xà TTuGóxpncTTa, TricTxà ò* eùopKuu|uaxa ;
il W. trasporta il segno d'interrogazione dopo xà TTuBóxpTicfxa e
intende il resto in senso positivo: unverhriichlich ist der Scìiwur.
Questa sentenza, in questo momento, a me sembra d'una tale fred-
dezza da non potersi tollerare. Sono due fatti corrispondentisi tra
di loro il comando dell'oracolo e la promessa giurata d'Oreste di
eseguirlo, né capisco perchè il W. cavi dalla lezione comune che
anche il Dio sarebbe vincolato dal giuramento! Ogni ombra di
equivoco sarebbe tolta se a ò' si sostituisse x', come fece l'Her-
mann, io però preferirei lasciar la lezione come sta, perché esprime
meglio la correlazione dei due fatti. Del resto non voglio dire
già che tutti i luoghi che il W. conserva perchè hanno un qualche
senso, si debbano tenere per genuini; dubito, per esempio, dei
vv. 696-99, sebbene la spiegazione data sia molto ingegnosa; ma
meglio un senso contorto e fondato sulla tradizione, che non un
senso pianissimo rimaneggiando il testo a piacer nostro. Certa-
mente il testo dell'Hermann, per esempio, si legge nei canti corali
con meno intoppi, ma chi vorrebbe affermare che quello sia il
testo di Eschilo ? Non affermeremmo neanche che sia questo, ma
mentre là probabilmente abbiamo chiaro il pensiero d'un filologo
— 297 —
moderno, qui conserviamo, si può credere il più delle volte, an-
corché corrotto e confuso, il pensiero del poeta antico.
Della traduzione tedesca non m'impanco a giudicare: parmi
chiara ed efficace; si legge infatti correntemente, anche perchè
ai luoghi dubbi è dato un senso e le lacune sono supplite con
adatti concetti. Le didascalie che vi sono aggiunte servono a chia-
rire l'azione scenica senza bisogno di ricorrere alle note. Le quali
note poi sono bensì per i filologi, ma non tutte per i filologi soli.
Da noi, dove anche le persone che si presumono colte non si ver-
gognano di tornare al graecum est, non legitur, converrebbe, per
non ispaveutare la gente, il contenuto di quelle note sceverarlo
altrimenti.
G. Fraccaroli.
JoH. Jos. ScHwiCKERT. Ein trypUcìion Jdassicher hritiscli-exegeti-
scher Fhilologie. Leipzig und Wiirzburg, Kriiger, 1896,
pp. 88.
Dei tre scritti contenuti in questo libretto il primo tratta « del
vero metodo di critica per i testi antichi », e dice molte e belle
cose, nelle quali non si può non convenire in teoria. Rispettare
la tradizione scritta, ma non crederle alla cieca, poiché essa è
relativamente molto recente, correggere dunque dove è sbagliata:
— tutto questo sta benissimo: ma dov'è che sarà sbagliata? Ecco:
— « Lezioni tali che contengono apertamente delle contraddizioni
0 delle sciocchezze puerili nel senso, o contorsioni e scipitezze
intollerabili nella lingua o nelle metafore o in queste e in quella,
0 rendono senz'altro il senso inintelligibile, o apertamente e roz-
zamente fanno violenza al metro, non possono essere che errate, —
almeno quando si tratta di produzioni letterarie degli eroi rico-
nosciuti dello spirito classico ». Ora lo Schwickert parla qui prin-
cipalmente del testo di Pindaro: ebbene, se a Pindaro volessimo
correggere le metafore sbagliate, cosa resterebbe di sano dei suoi
epinici? Ciò che ho notato nelle altre pubblicazioni pindariche
dello Schwickert anche in questa è evidente, grande acutezza e
sottigliezza di logica e insieme grande amore di trovare delle
difficoltà. Egli difende vivamente contro L. Borneraann i propri
emendamenti a Pindaro: per esempio: 0. I 65 o^ ìv àcpBiTOV
Gnaat' : = quibus non periturum quidclam suxerat Uhi: iv sa-
rebbe dativo eolico del pronome di terza persona = ci. Ebbene,
con questo 'ìv esotico di più, cosa ci si guadagna? non basta il
solo medio Gri(JaTO senza quest'ingombro? Anche quel nudo àqpGi-
Tov come oggetto di ericrato non so quanto possa esser chiaro ;
tant'è vero che nel latino si sente il bisogno di aggiungere un
— 298 -
quidclam. Ora a me pare che a non voler accettare la lezione co-
mune oTaiv aqpGiTov 9écraav, che è passabile, non vi possa esser
dubbio che l'unico emendamento possibile sia quello di M. Schmidt
oTq viv. — Ad ogni modo lo Schwickert ha ragione quando si duole
di non aver potuto trovar modo di pubblicare il proprio commento
di Pindaro; e gli auguriamo presto una migliore fortuna.
Il secondo saggio verte su luoghi singoli della TToXiTeia 'AGri-
vaìujv, una cinquantina circa, sui quali per la ristrettezza dello
spazio concessomi non mi è dato discutere a parte a parte. Le
correzioni proposte dallo Schwickert ad Aristotele hanno gli stessi
pregi e gli stessi difetti di quelle proposte a Pindaro, con questa
differenza, che se dall'una parte per lo stato del testo della ttg-
Xiteia alla fantasia del critico era concesso maggior campo libero,
dall'altra maggiori obblighi erano imposti alla sua diligenza. Se
ciascuno volesse rifarsi daccapo, specialmente qui dove la critica
continua a rinnovarsi rapidamente e tutti aggiungono qualche
cosa alla cassa comune, non ci potremmo più intendere. Lo Schwic-
kert conosce l'edizione del Kenyon e quella di Kaibel e von Wi-
lamowitz (la prima, da quanto pare), cita anche spesso lo Schul-
tess e qualche volta, probabilmente di seconda mano, il Blass,
ma non conosce, o non usa (per tacere di scritti di minore im-
portanza) né l'edizione di Leida, ne lo SUI imd Text der ttoXi-
Teia del Kaibel, né VAristoteles und Aihen del von Wilamowitz,
e perciò là dove discute la loro lezione non tien conto delle loro
ragioni; veggasi, per esempio, a proposito di aTrebeòoTO (IV 2),
che lo Schweickert vorrebbe mutare in ÓTreòiòOTO, ciò che ne dice
il W. in Arisi, u. Atlien I p. 77 n. 6.
La terza parte, e più breve, contiene emendamenti a quattro
luoghi delle Opp. d'Esiodo, otto di Aristofane, tre di Sofocle,
l'ultimo dei quali sui vv. 596-621 dell'Ajace, ecc.
G. Fraccaroli.
A. Michelangeli. Frammenti della melica greca da Terpandro
a Bacchilide, riveduti, tradotti e annotati. Parte VI ed ul-
tima : Pratina, Diagora, Prassilla , Bacchilide. — Bologna,
Zanichelli 1897, pp. VII e 103.
Dei pregi veramente notevoli di questa antologia la critica ebbe
occasione di parlare altre volte quando apparvero gli altri fasci-
coli ed anche per questo, ultimo uscito, io non posso che confer-
mare il giudizio che ho espresso del precedente nel Bollettino di
Filologia Classica. Disgraziatamente il fascicolo era già stampato
e pubblicato quando si annunciò la fortunata scoperta dei papiri
— 299 —
bacchilidei, così che la parte principale del lavoro, da pag. 29 in
poi, dovrà essere rifatta, e il Michelangeli, che ha dato così larghi
saggi di acume critico e d'ampia conoscenza di questa materia,
porterà, speriamo, copioso e serio contributo alla critica del nuovo
testo. Per intanto Bacchilide lasciamolo stare; non pare infatti
ragionevole discorrere delle cose sue immaginando, quando tra
pochi mesi ne potremo forse parlare sapendo : non discuterò dunque
se il M. in questo o in quel luogo abbia torto o ragione ; forse
il nuovo testo lo dirà ; dirò solo, e questo è un elogio che nes-
suna scoperta gli può torre, che egli fu fedele al suo antico sistema
di nulla trascurare di ciò che fu scritto di utile sull'argomento,
e talora anche d'inutile. Si potrebbe osservargli che tra tanta ab-
bondanza di cose meritava posto anche la questione del rapporto
degli epinici di Bacchilide con quelli di Pindaro, specie con la
prima Olimpica, ma forse il M. la indovinò a non pronunziarsi;
pare infatti che su questo punto veramente i papiri ci diranno
qualche cosa, e non è mica cosa frequente che ciò che un filologo
si immagina a tavolino, una scoperta poi lo confermi. Quanto agli
altri tre poeti, di Pratina è riportato il lungo frammento dell'ipor-
chema, di Diagora i due che ci restano (cinque versi in tutto) e
di Prassilla i cinque (nove versi in tutto)., Nel frammento di Pra-
tina il M. si scosta dal Bergk, e fa bene, nei vv. 10-11 dove
accetta l'emendamento più lieve e molto ragionevole dell'Emporio:
iraie tòv cppuviou ttoikìXou TTVoàv è'xovTa, e nel v. 15 dove accetta
l'emendamento del Bamberger Ò€Hia(g per òeEid, ma qui, credo,
senza bisogno : aòe aoi beHià kqì ttoòÒ? òiappicpà è una espressione
asimmetrica, come se ne trovano tante anche in Pindaro, ma
sostanzialmente più esatta di quella sostituita : òeHiac; òiappicpà
non è così appropriato come Troòòg òiappicpa, perchè sotto il sin-
golare TTOÒò(g è chiaro intendersi tutti e due i piedi, ma sotto il
singolaire beiia^ non mi pare si possa intendere anche la mano
sinistra: a òeEià logicamente avrebbe dovuto tener dietro nove,,
ma essendosi sostituito ttoòò<; òiappicpà fu compreso e coinvolto
in questa espressione anche il predicato verbale che il primo nome
avrebbe richiesto. La traduzione di questo frammento, nei ritmi
dell'originale, è una delle più ben riuscite di questo genere. —
Per gli altri frammenti il testo è come nel Bergk. Ottimo è il
giudizio sul fr. 2 di Prassilla, faccio però una riserva sulla ver-
sione : di \hpaiovc, OiKvovq il M. traduce i maturi cedrioU. Ado-
nide sarebbe stato di ben cattivo gusto; morendo gli rincresceva
lasciare il sole, le stelle, la luna — e sta bene — le mele e le
pere ■ — e passi — ma i cedrioli maturi? Non dubito s'abbia a
intendere invece i poponi, il 0ikuo(; TTéiraiv, e allora si capisce;
per i poponi può anche rincrescere di morire.
G. Fraccaroli.
— 300 —
Arnaldo Beltrami, Esiodo, Le opere e i giorni con introduzione
e note. Messina, Trimarchi, 1897, pp. XX e 57.
L'edizione d'un testo classico greco che non si legge nelle scuole,
quando non sia fatta per cura di qualche Accademia o non si pub-
blichi in periodici o stampe d'occasione, è un avvenimento raro
in Italia. L'editore Antonio Trimarchi di Messina ha dato il buon
esempio, e perciò, benché il libretto sia piccolo, non è piccola la
lode che gli spetta.
E il libro non è senza pregi. Il Beltrami volle fare opera mo-
desta e nelle proporzioni ch'egli si prefisse, quanto alla parte
sostanziale, non venne meno al suo assunto. Benché le Opere e
i giorni non sieno propriamente un testo scolastico, egli scrive
espressamente per gli alunni; se infatti lo studio del greco non
fosse per nostra vergogna così trasandato nelle nostre scuole e
se quelli che Io insegnano fossero sempre così esperti e valenti
come è il Beltrami, che male vi sarebbe se anche di Esiodo si
desse un saggio nei licei? Ad ogni modo, chi comincia a studiare
questo autore trova qui raccolto con chiarezza e con sufficiente
esattezza quanto gli occorre per orientarsi. Una breve prefazione
riassume le questioni intorno alla vita, all'età, alle opere del poeta,
al suo dialetto, all'imitazione virgiliana, ecc., segue il y^vo?
'HcJióòou di Gio. Tzetze, indi il testo col commento a pie di
pagina, dove facendo prò, come è giusto, delle osservazioni altrui,
e aggiungendone di proprie e opportune, dice tutto ciò che è ne-
cessario per l'intelligenza del testo, e quanto basta intorno alle
sue interpolazioni e amplificazioni, come pure ai confronti con
gli altri autori. La esattezza però e la diligenza materiale, come
anche in altri punti fa difetto, così talora anche nel commento
lascia a desiderare : parlando ai giovani era necessario sopra tutto
usare delle espressioni che non si prestassero ad essere intese er-
roneamente. Così per esempio al v. 12: tfiv ]xi\ kcv èTraivécrcreie
\ox\6ac, è notato : « vox\oac, coU'omissione molto comune dell'ar-
ticolo, per ó \o\\oa.c, chi ha senno, l'uom prudente », dove chi
non conosce altrimenti l'uso Omerico ed Esiodeo, può credere che
il poeta si sia preso una licenza nell'omettere ó, abbia fatto uno
strappo alle regole: se c'è omissione, si potrebbe piuttosto dire che
manchi tì? anziché l'articolo. Così al v. seguente, òià ò' avòixa
0u|Liòv exoucfiv, nota « òià... exoucTi tmesi », dove, lasciando stare
che la parola tmesi può far credere preesistesse nella lingua il
verbo composto e fosse stato quindi spezzato, il che non è, si
riferisce il òià al verbo, mentre il òiàvbixa inepinripigev d'Omero
fa credere invece debba congiungersi ad ctvòixa. Ma queste sono
piccole mende.
— 301 —
Il peggio è avvenuto là dove il B., se vi avesse posto cura,
poteva far opera in parte nuova e dare al suo libro un vero va-
lore filologico. La sua prefazione termina con queste parole: «Fi-
nalmente, dato il luogo in cui si pubblica questa edizione, è parso
opportuno e non inutile, per la critica del testo esiodeo, aggiun-
gere le varianti ricavate dalla collazione continua e minuziosa del
testo col codice Messinese finora conosciute in modo alquanto im-
perfetto ». Subito, appena letto, quella specie di scusa dato il
luogo in cui sì pubblica questa edizione mi dispiacque. Quella
collazione ora dunque fatta sopra tutto per deferenza ai messinesi,
mentre per se stessa importava poco ? Ancorché l'edizione abbia
essenzialmente carattere scolastico, poiché le si aggiunge una colla-
zione di codice, era, mi pare, necessaria una mezza paginetta che
desse di questo codice qualche notizia, tanto piti che dei codici
messinesi non v'era alcun catalogo a stampa (1), o almeno si dovea
rimandare agli autori che ne hanno discorso. Uno studio di clas-
sificazione del detto codice avrebbe richiesto confronti e collazioni
diverse, e quindi viaggi e spese che un professore di scuola secon-
daria da noi (e neanche d'università, se non ne ha dei suoi da
spendere) non può permettersi il lusso di fare: questo studio lo
compì invece recentemente lo Ezach, il cui lavoro (2), che in
Italia non ho potuto trovare, ebbi dalla cortesia del mio ottimo
collega ed amico, il prof. Jurenka di Vienna. Ad ogni modo, e
per ciò che era stato detto da altri, e per ciò che deve apparir
subito al collazionatore anche distratto, che il codice messinese
tenga uno dei primi posti tra i codici esiodei, era evidente e si
poteva dirlo,
11 codice messinese era stato collazionato da Alb. Guethe e le
varianti da esso raccolte furono riportate nella edizione di A. Koertly
e G. Kinkel ; questa collazione ho riscontrato sul codice non essere
del tutto esatta. Un'altra collazione fu fatta poi da G. Loewe la
quale servì per la edizione d'Esiodo curata dallo Rzach nel 1884;
una terza fu fatta dallo Ezach stesso nel 1895 e gli servì di norma
per la classificazione del codice. Secondo il risultato di questi
studi il codice messinese è a capo di una speciale famiglia di
manoscritti, cui appartengono il cod. Ambr. J. 15, il cod. Paris.
2773 della Bibl. Naz., il cod. Galeano 0. 9, 27 di Cambridge, il
cod. Vat. 1332 e il cod. Vindob. 256, ed è parallelo, ancorché di
alquanto minore importanza, dei codici Par. 2771 e Laur. XXXI,
39, che sono i più autorevoli di tutti.
(1) Per il voi. V degli Studi Italiani di Filologia classica del "Vitelli ho
già stampato io in queste ultime settimane il Catalogo di quella parte dei
Mss. greci di Messina che appartiene al fondo antico della bibl. universi-
taria, la qual parte comprende ^iche il codice esiodeo.
(2) Die Sippe des Codex Messanhts der hesiodischen Erga von Alois
Rzach.
— 302 - ,
Dal confronto coi pochi appunti che avevo preso di questo co-
dice, m'era venuto il dubbio che la collazione del B. lasciasse
a desiderare per esattezza; disgraziatamente, confrontandola coi
dati dello Rzach, ho dovuto conchiudere che essa è del tutto man-
chevole.
Enumera infatti lo Kzach una serie di luoghi dove il cod. mes-
sinese concorda col Par. e col Laur. nel serbare la lezione genuina
od una variante antica. Fra questi sono, 148 iiieToi^il ^è piri,
293 aÙTuJ, 294 eìcrlv, 352 Tcfa dtriai, 363 éXéSerai, 606 xópxov
t' èaKO|uiaai, 693 Kai qpopTi" à|uaupuj9eìri, oltre 111 épaaiXeuev,
154 vuuvu|ioi, le quali lezioni sono tutte dal B. trascurate , non
ostante che per la maggior parte fossero state già notate dal Kinkel.
Nota lo Rzach dopo ciò alcune corruttele comuni ai tre codici,
e anche qui il B. lascia delle lacune; fa osservare quindi come
il Messinese concordi di preferenza col Par. che col Laur. e dà
una lista di queste concordanze ; delle quali il B. omette le se-
guenti : 20 è'yeipev (prima mano), 280 k' è9éXoi, 338 arrovòrìcTi
0u€(Tai re, 389 vaieidiua', 391 vaiax?', 793 TreTTVU|Lif.vo(;.
Mi pare che basti, senza racimolare più oltre: se delle sole le-
zioni principali su cui lo Rzach fonda il suo ragionamento il B.
ne trascura sì gran parte, come si può fidarsi per tutto il resto?
Di distinzioni tra la prima mano e la seconda si tocca solo qua
e là, né è detto che dal v. 744 in poi le pagine furono supplite
più recentemente, né per i vv. 770-75, 791-802, di cui si conser-
vano anche le antiche, si sa se le varianti riportate sieno di questa
lezione o della nuova. I lavori di questo genere sono utilissimi,
purché però sieno esattissimi ; c'è chi di questa esattezza non è
capace, e non gli si vorrà apporre a torto, perché, oltre occhi
lincei, occorre a ciò fare una pazienza e una freddezza di spirito,
che non tutti hanno, e un'ordinatezza così minuta e costante che
non si dà che in certi speciali temperamenti. Ma chi non si sente
queste disposizioni, lasci star ciò. Forse il B. non ha la vista
esercitata abbastanza a questi lavori, e il suo occhio non è avvezzo
a fissarsi, quanto occorre, sulle forme (e anch'io confesso che ci
riesco male); infatti l'edizione é piena di spropositi madornali di
stampa, alcuni dei quali, non i più, furono registrati in un'errata-
corrige. Quando il compositore non intende la lingua, a voler cor-
reggere tutto, non ci sarebbe da finir più; togli uno sproposito e
lui te ne mette due; é una disperazione. Certo una gran confu-
sione anche questa volta deve essere succeduta, e non tutta im-
putabile al compositore; basti dire che al v. 263 é stampato nel
testo iGuvexe ixvQovc, e poi in nota come variante del cod. mes-
sinese di nuovo ìeùvexe )liù9ou^: forse nel testo intendeva porre
bxKac,.
Non s'abbia a male il prof. Beltrami, se questo giudizio gli
pare troppo severo; non è un giudizio, è una esposizione di fatti.
Forse egli alla collazione non badò molto, e lo si capisce dalle
- 303 —
parole che premette, ma allora era meglio la omettesse ; anche
senza contare quella dello Rzach che uscì poi, era stato fatto già
prima assai di meglio. Del resto il B. ha dato già ben altre prove
della sua dottrina e della sua diligenza per iscoraggirsi di questo
tentativo non riuscito, ed è giusto che sia giudicato in quel ge-
nere di lavori dov'egli si trova meglio a suo agio. Lo aspettiamo
adunque per una rivincita.
G. Fraccaroli.
Miscellanea Tironiana. Aus dem Codex Vaticanus latinus reginae
Christinae 846 (fol. 99-114) herausgegeben von Wilhelm
ScHMiTZ. Mit 32 Tafeln in Lichtdruck. Leipzig, Teubner,
1896, in 4°, di pp. 79.
È questa una pubblicazione la quale, se per il contenuto ri-
guarda quasi interamente la lingua e la letteratura latina me-
dioevale, nondimeno non può essere trascurata dagli studiosi della
latinità classica per varii motivi, ma principalmente perchè offre
un notevole contributo alla conoscenza di quel sistema tachigra-
fico (o stenografico, come si direbbe con termine oggi tanto in
uso), il quale prese il nome dal dotto liberto di Cicerone, Tullio
Tirone. Di fatto si sa che le abbreviazioni stenografiche per una
rapida scrittura (da distinguersi dalle litterae singulares, propria-
mente dette, 0 sigle, e dalle notae Utterarum, abbreviazioni di
parole fatte con lettere della parola stessa (1) e non mediante
segni convenzionali), pur essendo una invenzione anteriore a Ti-
rone (2), furono certamente da lui accresciute di numero, come
furono successivamente aumentate da altri fino a Seneca, il quale,
contracto omnium digestoque et aneto numero, opus effecit in
quinque millia (3), e divennero quindi usitatissime, anche per le
scuole, nell'età imperiale e nei primi secoli del medio evo, tanto
(1) Vedi a questo riguardo i Notarum laterculi edente Th. Mommseno
nel voi. IV dei Grammatici latini del Keil (pp. 265-352).
(2) Lo Schmitz sostiene tuttora che si devano riferire al poeta Ennio, e
non già ad un Ennio posteriore, le parole di Svetonio (ed. ReifFerscheid,
p. 135; cfr. Isid., Etym., I, 22 ed. Migno): Vulgares notas Ennins primus
mille et centum invenit. Vedi la sua opera Commentarii notarum Tiro-
nianarum cum, prolegomenis adnotationibus criticis et exegeticis nota-
rumqiie indice alphabetico, Lipsiae, MDGGGLXXXXIII, p. 10. Ma fra
quelli che dubitano dell'identità del poeta con l'inventore dei segni tachi-
grafici c'è pure la Schanz, il quale osserva (G. d. ròm. Liti., erster Teil,
p. 272): « wenn es .sich um stenographische Zeichen, nicht um literae sin-
gulares handelt, kann man nicht den dichter Ennius nennen. »
(3) Svet. 1. e, p. 136.
- 304 -
che ci furono conservate da non pochi codici, di cui tuttavia nes-
suno è anteriore al secolo IX, in una collezione, con nome varia-
bile secondo i varii codici (1), la quale fu per la prima volta
pubblicata, da un codice che sembra perduto (2), alla fine del suo
Thesaurus inscripU. nel 1603 per cura del famoso erudito olan-
dese Giovanni Gruter (3).
E la pubblicazione, che qui annunciamo, è appunto tratta da
parecchi fog^li stati legati insieme ad un codice del sec. IX ma
alquanto più antichi dei rimanenti del codice stesso. Si tratta di
16 fogli, a cui ne andava innanzi un altro che andò perduto, i
primi sette (4) interamente in notae Tiroìzianae, ad eccezione di
qualche parola qua e là scritta in minuscola Carolingia, che lo S.
chiama « Cursiv », e i rimanenti nove con mescolanza più o meno
rilevante della stessa minuscola coi segni tachigrafici. Tutti questi
fogli (5) sono stupendamente riprodotti mediante la fototipia in
32 tavole in cui le singole righe sono, tavola per tavola, indicate da
numeri i quali sono riprodotti nella trascrizione che per cura dello
Schmitz fu eseguita in scrittura comune, cioè nel carattere di stampa
corsivo oppure in tondo, secondo che si tratti di parole scritte
in notae Tironianae o di parole in minuscolo. Certo, poiché nel
secolo IX, al quale i fogli appartengono, già quelle notae erano
scritte con molta negligenza, non è meraviglia se alla interpreta-
zione data dallo S., nonostante l'insigne competenza che tutti gli ri-
conoscono in questo campo, non sempre si potrà pienamente sotto-
scrivere, perchè lo stato dei manoscritti in notae Tironianae rende
necessariamente qua e là più o meno arbitraria ogni interpretazione.
Ma, lasciando star questo, e venendo ad esaminare se la trascrizione
del testo risponda sempre esattamente, secondo il diverso carattere
a stampa adoperato, alla scrittura del codice, e limitandoci ai
primi dieci fogli oltre all'undecime rect.(= tavole 1-21) (6), trovo
che, nonostante la somma diligenza impiegata dallo S., sono in-
(1) Notae Senecae ; Notae Senecae et Cyceronis ; Notae Tyronis ac Se-
necae, etc. Cfr. Schmitz, Comm. citt., p. 5 segg.
(2) Cfr. Schmitz, op. cit., p. 8 in fin.
(3) Notae Tulli Tyronis Ciceronis liberti, et Annaei Senecae etc.
Sono pagine 200.
(4) Lo Schmitz dice realmente a pag. 1 « die ersten fiinf Blàtter »; ma
io non trovo grande differenza fra i cinque primi ed i fogli sesto e settimo
circa la presenza di qualche parola in minuscola Carolingia ; mentre il
foglio 106 (ottavo della serie), tanto nel recto quanto nel verso, contrasta
davvero in modo singolare coi sette primi per la mescolanza onde si tratta.
(5) 11 loro contenuto è diviso, pagina per pagina, in due colonne dal
primo sino al foglio quinto rect. inclusivo ~ fol. 103 rect., e dal foglio un-
decimo verso = 109 vers. sino alla fine (fol. 114).
(6) Della rimanente parte di questa Miscellanea si è recentemente occu-
pato, anche riguardo alla esattezza della trascrizione, il prof. Clifford H.
Moore nel suo studio Die medizinischen Rezepte in den Miscellanea Ti-
romana, pubblicato nel voi. X, fase. 2 deWArchiv fìtr lateinische Lexi-
kogr. und Gramm.., pp. 253-272.
- 305 —
corsi parecchi errori. Per esempio non sono in notae Tirordanae,
e quindi si dovevano riprodurre in carattere tondo, le seguenti
j)aro]e che nel cod, si leggono in minuscola Carolingia: h o ni i e i-
d i u m (tav. 12, 3), E g n a t i u s (13, 25), 1 a u a e r u m (14, 3),
Ohristum (17, 21; il nome è bensì scritto con abbreviatura,
ma non in nota Tir. come invece è, p. e., nella linea preced.), r e-
(| u i e u i t arca (17, 29), fulgor a ns (19, 24), u m b r a ra
(19, 37) (1), di li ci ae (20,14). Parimenti si deve leggere e o n-
0 1 u d it a tav. 15, 18, e non già concludit : così devesi scrivere a
tav. 21, 10 onos labos. In quella vece sono date, non poche
volte, come scritte in minuscolo parole segnate nel codice con
■iota Tironiana; e però si deve correggere il testo a stampa scri-
vendo Colossenses, Timotìieum (tav. 15, 15), dosi tuUt (17,0),
nonien (17, 7), inter frigidum (17, 11), est (20, 24 in fin.),
per e sola (20, 31; cfr. 20, 28), cum e sola (21, 13), quia (21,20
in fin.; cfr. 21, 17). Inoltre a tav. 15, 7 si deve leggere h e s d r e,
non già Hestre; a 15, 17 iud ha l'asta del d tagliata da
una lineetta orizzontale; a 16, 10 si deve leggere s u b t r a h a t,
non già s u b t r a h i t : a 16, 20 è scritto m i e h a h e 1 ; a 19, 25
è scritto 1 e p t h e, non già I e p h t e. Devo anche osservare che
le linee 22 e 23 della tavola 20 non sono esattamente riprodotte
secondo l'originale, quanto all'ordine delle parole, poiché nel testo
a stampa le parole «sine aspiratione scrihituryy , q\ìq trovansi nella
linea 22 del cod. tra « coniimctio per t » e « haud quando » sono,
fors'anco per svista del tipografo, messe nella linea 23 dopo le parole
« coniunctio est per i ». Finalmente io credo che nella trascrizione
lo S. avrebbe dovuto essere più fedele, non sostituendo in parecchi
nomi propri le iniziali maiuscole alle minuscole, e non adoperando
due segni distinti per i suoni m e v, mentre nel codice è scritto,
p. e., uelox (16, 12), e uà (17, 21), uersatilis (18, 16),
Dauid' (19, 28), uallis (20,17), uolubiles (20,18),
U arr 0 (21, 5), ecc.
Ma questi sono piccoli difetti che non recano alcuna meraviglia
a chi s'intende di questo genere di pubblicazioni, e non scemano
punto il merito singolare del valoroso filologo, giustamente repu-
tato come il più profondo conoscitore delle note Tironiane che
abbia la dotta Germania.. Ed io faccio voti che presto lo Schraitz
possa pubblicare quel Lexicon Tironianum, da lui promesso, che
si sente il bisogno di sostituire a quello del Kopp. Ma intanto
sarebbe desiderabile che sì questa pubblicazione, di cui qui ci
siamo occupati, come quella che la precedette di tre anni per
opera dello stesso S., cioè i Commentarii notarum Tironianarum
{\) Lo Schmitz scrive umbra, ma nel codice si legge chiaramente um-
bram con una lineetta orizzontale sulF a finale per indicare am, precisa-
mente come nella parola Io rara con cui comincia la stessa riga.
Rivisia di filologia, tee, XXV. 20
— 306 -T
già da me più volte citati, fossero acquistati dalle nostre Biblio-
teche per servire d'eccitamento anche per qualche italiano a col-
tivare questo genere di studi. Del resto eziandio chi non s'intenda
di note Tironiane, può trovare non iscarso materiale di studio
nelle parti III, IIII e VII di questa Miscellanea per la conoscenza
della grammatica e della lessicografia della tarda latinità, perche
la loro lingua, in cui si vede una spiccatissima trascuranza delle
norme regolatrici della flessione e della sintassi e si incontran
parole che indarno si cercano nei lessici piii ampli, è un latino
il quale trovasi manifestamente, come lo stesso S. avverte (1),
« im Ùbergange in das Romanische ». Nella parte III (pp. 28-34),
che contiene un testo intitolato Sententiae defiorate de diversis
causis d'incerto autore il quale, come dice lo S., attinse a Gero-
lamo, Agostino ed Isidoro, incontriamo espressioni di questo genere:
Homo prò quid dicitur? — Homo dicitur ab Jiumum — Propter
illa sex peccata quod conmisit Adam — uhietipse venturus est —
de cadeste generatione — Dei fìlius non de simplice virgine, sed
de dispensata natus est — quattuqr stellas constitutas sunt in caelo
— in quantos annos fahricavit arca ? etc. Ma una particolare im-
portanza ha la parte VII, la quale abbraccia appunto quel libro
di ricette medicinali che, dopo la pubblicazione fatta dallo S.,
diede occasione alla monografia, sopra citata in nota, del prof. Clif-
ford H. Moore. Ad essa rimando i lettori, pur non potendomi
trattenere dal citare qualche espressione, come queste: Incipiunt
curas ad fico sanandum — incipiunt pulvera mirahilis qui facit
ad renium dolorem — non demittit lapidis coaculare — da bibere
radicem — cum mei et pane — dactylus tritus cum pane molle
infusum pone — Ad carnes qui in gyro dentes crescunt — Ad
pulmonis vulneros sanandum, idem herba. E qua e là in questa
curiosa Miscellanea trovansi vocaboli come panaricium, buticula,
scorcia^ gutta (la gotta), tisicus, cervella, cardus , cocliarium,
cotidianarius, dispensata ; forme come iocinoris, gigantorum, eli-
mentibus etc. All'incontro troviamo, dove la parola non è rappre-
sentata da segno tachigrafico, qualche forma scritta con esatta
ortografia, per es., PAENITENTIA che si legge in onciale in
tav. 1, 21 ; e a e 1 i (16, 2); f e m i n a e (22, 11); C e t e r a (21, 12).
Dalla forma cotidianariis, che' leggesi in minuscolo a
tav. 22, g, si può ricavare la esatta grafia cotidie contro la dot-
trina di Isidoro che nello stesso cod. (vedi sotto) dice : Q u 0-
tidie per q, non per e (tav. 21, 15). Interessante pei latinisti
è pure la parte VI {Orthographiscìies) che ci dà il testo del
cap. 27 del lib. I di Isidoro Etym. Questo testo, confrontato con
quello riprodotto dal Migne daÙ'ediz. di Faustino Arevalo, pre-
li) Pag. 47.
- 307 -
senta non poche varianti. Ed è curioso che, dopo le parole con
cui termina il capitolo, « S i e i 1 i e u s enim fit ita », si vede ab-
bastanza chiaramente nel codice (tav. 21, 27) la figura del sicilico
in forma di un O (1).
Messina, febbraio 1897.
Ettore Stampini.
Horatii Carmen tertium libri I edidit atque illustravit Salomon
Piazza Dr. Pliil. Patavii^ ex officina seminarii. MDCCCXCVI,
pagg. 49.
Nell'opuscolo del dott. Piazza non si riscontra nessuna soluzione
nuova delle difficoltà di interpretazione che presenta la terza ode
di Orazio, ma di tutte o quasi le soluzioni già proposte si discute
con diligenza e con larghezza, forse troppa, di esame. E quanto
ai luoghi di dubbia intelligenza, egli sostiene nel suo commento
che si debba al v. 6 porre virgola dopo fmibus Aiticis, al v. 19
intendere Mortis per genitivo soggettivo, al v. 22 accettare per
il famoso dissociahili la spiegazione del Reiske (ciiliiktoi;), al v. 26
per il vetitum nefas quella del Dillenburger {non nescientes pec-
care ìiomines, sed ruere eos per scelera, quae scelera esse sciant).
Quanto ai luoghi di lettura più controversa, egli vorrebbe che al
V. 19 si leggesse piuttosto turgidum che turhidum e al v. 37 piut-
tosto ardui est che arduum est. E per V ardui est., non ostante
che non sia stato accolto dal Keller, io credo che il Piazza si
troverà oggi d'accordo con i più; non così per il turgidum che
il Piazza chiama prohatae fidei lectionem, ma che proprio per
ragioni diplomatiche fu lasciato in disparte nella sua edizione
critica di Orazio dallo Stampini, a cui pure il turhidum pareva
per ragioni estetiche peggiore (2).
Resterebbe ora a dirsi qualche cosa del metodo, trattandosi di
un giovine che si occupa con amore degli studi oraziani (il Piazza
è anche autore di un altro libretto su la cronologia delle opere
di Orazio (3)) e che mostra, se si toglie qualche frase non chiara,
(1) Lo Schmitz a questo riguardo osserva (p. 47 n. 2): « Diese kreisfòr-
tni^e Gestalt des sicilicus war bisher unbekannt ; ihr nàhert sicli die cor-
rupte Forni, welche Hultsch itn Jl. Bande der metrologicor. scriptor. rell.
praef. p. xxi ad § 17 erwahnt ».
(2) Cf. Stampini, Commento metrico a XIX liriche di Orazio. Torino,
Loescher, 2* ediz., 1885; pag. 1 e 52.
(3) Horaliaaa. Quibus temporibus Horatinm tres priores carminum
libros et prtorem epistularum confecisse atque edidisse verisimillimum sit.
(Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Tomo VI, Serie VII.
p. 115-247). Gfr. questa Rivista, voi. XXIII, pp. 421-425.
— 308 -
una certa perizia dello scrivere latino. Ora io dico con franchezza
di non veder chiaro quale sia lo scopo propostosi dal Piazza con
questa sua pubblicazione di saggio. Se egli ha in mente di dare
alla luce un comnaento a tutta l'opera del poeta, è bene ricor-
dargli fin d'ora che di commenti si danno due specie: scientifici
e scolastici. Ma in un commento scolastico, perchè fermarsi ad
ogni passo per combattere le audacie — ahi vecchie audacie ! —
del Peerlkamp ? E in un commento scientifico perchè derivare,
per esempio, dal Preller tutte quelle notizie su Dedalo che i let-
tori 0 sanno o sono in grado di ritrovare da se ? E sarà lecito
tinche ricordargli quest'altra cosa che veramente dispiace a un
Italiano che legge un commento su Orazio non veder citata mai
fra tanti nomi stranieri né l'edizione critica dello Stampini (1),
né la Lyra Bomana del Pascoli (2).
Vincenzo Ussani.
Charles W. L. Johnson, Musical pitch and the measurement
of intervals aniong the ancient Greehs. Baltimore, 1896,
pp. VI e 76.
È una tesi presentata all'Università di Baltimora per la laurea
in filosofia. — Dopo alcune osservazioni sulla difficoltà maggiore
che presenta lo studio della musica antica in confronto delle altre
arti e sull'importanza del determinare correttamente il rispettivo
valore tonico delle note, esamina prima le antiche dottrine intorno
ai suoni, loro definizione e classificazione, quindi quello sugli in
tervalli, loro ragioni e misure, ecc. È un notevole contributo alla
storia della musica greca condotto direttamente sulle fonti antiche
con chiarezza e competenza tanto nella parte filologica quanto
nella matematica.
G. F.
(1) Q. Horati Flacci opera. Recor/novit praefatus est adnotationes cri-
ticas addidit H. S. Mutinae, an. MDGCGXCII, sumptibus Ernesti Sarasino
bibliopolae.
(2) Livorno, Giusti, 1895.
— 309 —
KASSEGNA DI PUBBLICAZIONI PERIODICHE
Bendiconti della Reale Accademia dei Lincei. Classe di scienze
morali storiche e filologiche. Serie Quinta. Voi. V. 1896. — Fase. 1.
K. Lanciani, Notizie inedite sull'anfiteatro Flavio, pp. 1-8. Allo
sfasciamento, masso per masso, del Colosseo, prodotto da un pro-
cesso di sgretolamento, lento ma continuo, la cui prima origine
rimonta forse al terremoto del 422, susseguito da quello non meno
violento del 508, si deve aggiungere, per ispiegare l'enorme ro-
vina dell'edificio, la caduta istantanea di gran parte dei portici
australi, la quale produsse una montagna di pietrame. Siffatta ro-
vina si deve attribuire al terremoto « del Petrarca » avvenuto
nel principio del settembre dell'anno 1349. Per il giro di quattro
secoli quella montagna di pietrame servì di miniera di materiali
da costruzione. Ma i documenti (di cui alcuni sono citati dall' A.)
provano che gli atti di violenza esercitati dalla mano dell'uomo
contro il Colosseo fanno eccezione alla regola. I ricostruttori di
Eoma dal secolo XIV in poi hanno « esercitato la cava », hanno
bruciato calcare, ma sempre, o quasi sempre, a carico dei mate-
riali caduti pel terremoto del settembre 1349.
Fase. 3. Carlo Pascal. La leggenda degli Orazii e Curiazii.
pp. 139-153. Questa leggenda è uno dei più caratteristici e in-
sieme piìi strani esempii del modo onde si trapiantarono sul suolo
italico leggende e tradizioni greche, e del come queste si fusero con
le leggende italiche in un unico corpo di storia leggendaria. Nei
suoi tratti fondamentali, è la medesima leggenda, che si racconta
della guerra tra Tegea e Pheneos (cfr. Stobeo, Fiorii., 39, 32 e
Plutarco, Parali., 16). I particolari di questa leggenda greca fu-
rono adattati sopra un fondo di tradizioni italiche per certi indizii
e fatti che la richiamavano alla mente del « novellatore greco »
che prima redasse la leggenda degli Orazii e Curiazii, Tuttavia
si può ricostruire nella sua forma originale la leggenda italica.
All'ara ad Janus Curiatius, il quale non è altro che il Janus
Quirinus, si contrappone l'ara alla dea Hora, sposa di Romolo,
eroe eponimo della tribù palatina: gli adoratori delle due divinità
erano Curiata ed Horatii, e le due are sono una testimonianza
della fusione delle due tribù costituenti il duplice elemento degli
abitanti di Roma « i ramni-etruschi del Palatino e i sabini del
Campidoglio »' dopo la lotta combattuta fra loro. I Sabini erano
i Curiti 0 Curiazii. Il nome Hora, dea degli Horatii, ci riporta
alla tribù Palatina. Una prima guerra si rannoda alla tradizione
— 310 ^
di Tito Tazio : ad una seconda si riferisce la leggenda degli Orazii
e Curiazii che si collega al nome di Tullio Ostilio e alla distru-
zione di Alba. 11 nome stesso di Horatii {= ^Hos-atii) si connette
col nome Hos-tilius. Le incertezze degli autori di Livio sulla vit-
toria degli uni o degli altri si risolvono cogli elementi della leg-
genda stessa e con gli indizii topografici. 11 passaggio dell'Orazio
sotto il giogo {tigillum sororium), il fatto del nome dato ad una
località di Horatia pila (da pilum, arma da getto), le monete
dei Curiazii, ove è rappresentata una divinità femminile incoro-
nata dalla Vittoria, dimostrano la vittoria dei Curiti o Curiatii,
e quindi la primitiva vittoria dei Sabini, che è provata pure dagli
indizii topografici che l'A. ricerca sulla via che la tribù sabina
del Quirinale dovette seguire per muovere all'occupazione del
Celio, donde mosse, con le sue genti (Horatii), Tulio Ostilio. Ora
questa leggenda dei trigemini fu posteriormente e malamente
connessa colla distruzione di Alba, sui cui destini, nel fatto,
il combattimento dei trigemini stessi non ebbe alcuna influenza.
Termina l'A. congetturando che la lotta fra la tribù sabina del
Quirinale e la tribù tusca del Celio sia rimasta simboleggiata
nella cerimonia annuale della lotta per la testa del cavallo, in
cui combattevano « per il conquisto di quella testa » una schiera
di uomini che venivano dalla via Sacra con una che veniva dalla
Subura.
Fase. 6 e 7. "W. Gardner Hale. Un nuovo manoscritto di Ca-
tullo, pp. 272-274. L'A. annunzia la scoperta da lui fatta di un
importante manoscritto di Catullo nella Biblioteca Vaticana. È
quasi dello stesso tempo di 0 (manoscritto di Oxford) e di G
(Germanensis), scritto verso la fine del secolo decimo quarto, o
almeno nei primi anni del decimo quinto. Nei passi dove 0 e G
concordano perfettamente, contrariamente a tutti gli altri codici,
il nuovo codice ha la medesima lectio quasi sempre. Per mezzo
di esso potremo arrivare più sicuramente alle lectiones del perduto
manoscritto di Verona, « essendo non soltanto sicuri quando i tre
accordano, ma trovandoci nel caso di decidere fra i due, quando
risultano in opposizione. » Si potrà forse sapere donde vengano le
lectiones variantes, rare in 0, frequenti in G, che stavano senza
dubbio nel manoscritto perduto ; e si potranno anche meglio de-
cidere le relazioni fra i vari codici di secondo ordine. L'A. pub-
blicherà nell'inverno venturo (a. 1897) la collazione intera del
nuovo cod. nel primo voi. dei Papers of the American Scìiool
of Glassical Studies. Propone che si dia « al prezioso codice » da
lui trovato il nome di li {codice Romano). — G. Lumbroso, Gita
papirologica a Oxford e Dublino, pp. 281-284. L'A. ha potuto
conoscere e notare a suo agio il contenuto di una serie conside-
revole di nuovi documenti greco-romani dell'Egitto, sì presso il
Grenfell al Queen's College di Oxford, come presso il Mahaffy al
Trinity College di Dublino. 1 documenti presso il Grenfell sono
— 311 —
più di duecento, ed appartengono a tutte le età internaedie tra
la conquista macedonica e la conquista musulmana, trattando
d'ogni genere di cose, gettando luce sulla cronologia, sulla topo-
grafia, sull'onomastica, sulla parlata dell'Egitto greco. Una sequela
di papiri riproducono con varianti ed aggiunte notevoli testi co-
nosciuti e famosi della letteratura greca o ci restituiscono dei
testi smarriti. Son degni di nota fra altri una lettera dell'impe-
ratore Adriano in risposta ad un amico, i frammenti di sei libri
dell'Iliade (I, Vili, XIII, XiV, XXII, XXIII) con lezione sovente
assai diversa da quella che corre e con aggiunta di versi affatto
nuovi, di tre orazioni di Demostene, di tragedie smarrite, ecc. Il
più prezioso poi dei papiri che sta studiando il MahafFy è un
lungo testo di ben sessanta linee, che descrive quasi romanzesca-
mente un viaggio marittimo Kaia xo KprixiKov TueXaYoq. Segue
un elenco dei recentissimi lavori di egittologia greco-romana do-
vuti a Brooks, Torr, Cheetam, Floyer, Grenfell, Hogarth e Benson,
Kenyon, Mahaffy, Petrie, Sayce.
Fase. 8 e 9. L. Ceci. SulV antichissima iscrizione latina di
Dueno. pp. 354-359. Notate e non approvate le recenti interpreta-
zioni del Lindsav {A sliort Jiisiorical Latin Grammar, Oxford, 1895,
p. 175) e del Maurenbrecher (Philologus, LIV, (1895), p. 620 seg.),
propone di leggere: « lovei(s) Sat(urnos) deivos, quoi med mitat,
neited endo, cosmis virco sied as ted, noisi Ope Toitesiai pakari
vois. Duenos med feced en manom einom, dze noine med mano
statod ». Ed interpreta: lovis Saturnus divus, cui me mittat,
niteat (i. e. propitius sii) indo, comis virgo sit ad te, nisi Opi
Tuteriae pacri (i. q. propitiae = ut propitia sit) vis (mittere).
Biienus me fecit in mortuum; itaque die noni me mortuo sistito.
Per la glottologia e per il lessico latino importano neited, as,
pakari 11 lat. niteo e il denominativo del part. "^nl-to-s = ant,
ind. nl-tcl-s (cfr. nà-tha n. aiuto, nà-thitd-, bisognoso di aiuto);
ed endo va riferito a "^niteat {Hndunìteat). Sebbene l'A. ammetta
che non è impossibile che si abbia asted = adstet, preferisce leg-
gere as ted =^ ad te (cfr. l'osco az, ad). La forma panari, da
pàcri-, è un aggettivo, come ha già visto il Lindsay, rispondente
all'umb. ^acé^r colla vocale svarabhaktica, ed è usato prolettica-
mente per ut pacris sit.
Fase. 10. L. Ceci. Sui frammenti maggiori dei Carmi Saliar i.
pp. 403-408. Trovando che il Maurenbrecher, se fu felice nella
critica delle congetture anteriori, non vinse tuttavia le più gravi
difficoltà « entro cui si dibatte l'editore del monumento augusto
dell'antichissima poesia sacrale di Roma », l'A. tenta dei tre
frammenti maggiori « una nuova, benché, pur troppo, non defi-
nitiva edizione ». I. JDeivom em (en?) patrem caute — deivom
deom supplici cante (interpreta : Divum em (en ?) patrem canite —
divum deum in supplicio canite, ritenendo il supplicante dei codd.
nato da supplici (= in supplicio) cante). II. 0 Zol adorise; omnia
- 312 -
veritod ab (?) Patulci; cosmis es lanos, Giusi, lanis duonos,
Ceros es duonos lanos — Vetusi xìotis es meliosom recom (in-
terpreta: 0 Sol adorere (surge); omnia aperito Patulci; comis
es lanus, Giusi, lanis bonus, Cerus es bonus lanus — Vetuii
potis es meliorum regum). III. Quomde tonas, Loucesie, \ prai
fe<f tramonti quoti | te«t deinei deisquont tonantem (inter-
preta : Cum tonas, Lucerie, praetremunt te quot te in re divina
deisquunt (= canunt) tonantem). A proposito di deinei = in re
divina, l'A. richiama il deina (= divina) della nota iscrizione di
Spoleto e il dìnam di Plauto per correggere un luogo di Nevio
Bellum Poen. II, fr. XIII che legge (ls> ree dinas edicit, prae-
dicit castus.
E. S.
Archivio per lo studio delle tradizioni popolari. Rivista tri-
mestrale diretta da G. Pitrè e S. Salomone-Marino. Voi. XV,
fase. II e III, pp. 266-276, 305-331. M. Messina Faulisi. Il Folk-
lore in Orazio. L'A. non si ferma soltanto ai dati di Magia e
Pregiudizi, ma ha voluto « spigolare nel campo Oraziano tutti
gli elementi demopsicologici per metterli in rilievo», cioè: I. Miti
e Leggende (i miti occupano gran parte nella poesia del Veno-
sino). II. Nascita (usi osservati nel momento della nascita; cre-
denze popolari dell' influsso celeste sul destino degli uomini).
111. Magia. IV. Religione, culto, voti, auguri. V. Origine delle
passioni. VI. Giuochi fanciulleschi. VII. Pasti. Vili. Medicina.
IX Morte. X. Animali. XI. Piante. XII. Proverbi. XIII. Ingiurie,
frizzi. XIV. Favole.
E. S.
Jahreshericht f tir Alter tumstvissenschaft (BvRSi A.ys-1. v. Mùller)
herausgegeben von 0. Seyffert imd P. Wendland.
(LXXXIX 1896 II) —
Jahreshericht tiher Tacitus 1892-1895 von Prof. Dr. G. Hel.m-
REICH.
pp. 1-8. Allgemeines. — (1) Ph. Fabia, Les sources de
Tacite dans les Histoires et les Annales (Paris 1893). Minuta
analisi delle due parti in cui si divide il libro. L'autore ha con-
dotto una difficile e intricata ricerca con molta perspicacia e
abilità. ,(2) Chr. Baier, Tacitus und Plutarch (Frankfurt a. M.
1893). È contrario alle ipotesi del Peter e del Mommsen relative
alla questione oggetto del suo studio, ma i suoi argomenti non
sono più forti di quelli degli avversarli. Altre contestazioni.
(3) P. DE NoLHAC, Boccace et Tacite (in Mélanges d'archeologie
et d'histoire, XII 1. 2. 125-148). Contro l'ipotesi dell' Hochart
che Storie e Annali di Tacito siano una falsificazione di Poggio,
- 313 -
Fiorentino. Breve notizia. (4) Ph. Fabia, Le consulai de Tacite
(in Revue de philologie XVIP^ 164-170). Eiassunto.
pp. 8-12. Sprachgebrauch. — (5) Lexicon Taciteum edi-
derunt A. Gerber et A. Greef. Fase. X-XIl (Lipsiae 1892).
Ammirabile per la diligenza e l'accuratezza con cui sono fatti
i singoli articoli. (6) L, Constans, Étude sur la langiie de Tacite
(Paris 1893). È essenzialmente una compilazione degli scritti
del Draeger e del Sirker, ma in molti luoghi li completa in
modo degno di lode. Appunti e rettifiche. (7) R. Macke, Die
ròmischen Eigennamen bei Tacitus, IV (Hadersleben 189 J). Me-
rita d'essere compiuto.
pp. 12-30. Dialogus. — (8) Cornelii Taciti dialogus de
oratoribus. A revised text ivith introductory essays and criticai
and explanatory notes by W. Peteeson (Oxford 1893). Edizione
pregevole. 11 referente si trattiene più a lungo su la critica del
testo e riconosce che non di rado il Peterson è stato felice nella
scelta delle varianti e nelle proposte di emendamenti. (9) Tacitus,
Dialogus de oratoribus ed. by Oh. E, Bennet (Boston-London
1894). Buona edizione anche questa. La costituzione del testo è
accurata e coscienziosa e mostra una profonda conoscenza della
letteratura relativa. Lunga nota di varianti. (10) P. Cornelii Ta-
citi dialogus de oratoribus edited by A, Gudeman (Boston 1894).
Altra eccellente pubblicazione, nella quale con mirabile diligenza
l'autore ha tratto profitto di tutto ciò che in trecento anni si è
venuti facendo per la critica e il commento dell'opuscolo taci-
tiano. 11 testo lascia qualche cosa a desiderare o per dir meglio
non sempre si può consentire con l'editore. Lunghissima nota di
varianti, alcune con discussione e qua e là appunti e contesta-
zioni. (11) C. John, Dialogus de oratoribus cap. XXVIII bis
Scìiluss, uhersetst und hritisch-exegetisch erlautert (Schwabisch-
Hall 1892). Traduzione corretta ; alcune fra le note contenenti
buone osservazioni critiche ed esegetiche. (12) Th. Avé-Lalliì-
MANT, Ueber das Verhdltnis tmd den Wert der Handscìiriften
su Tacitus dialogus (Pyritz 1895). Risultati delle ricerche del-
l'autore. Qualche rettifica. (13) R. Dienel, Observationes in
Cornell Taciti dialogum de oratoribus (in Zeitschrift fiir d.
osterreich. Gymnasien 1895 481-488). Riassunto. Contestazioni.
(14) Lo stesso, Untersucliungen nber den Taciteischen Bedner-
dialog (St. Pòlten 1895). Scritto che contiene molte osservazioni
giuste e altre di valore non poco problematico. Riassunto.
pp. 30-32. Agricola. — (15) Tacitus, Agricola and Ger-
mania. With introduction and notes by H. M. Stephenson (Cam-
bridge 1894). Notizia. Una contestazione a proposito del prenome
di Tacito. (16) C. Cornelii Taciti lulii Agricolae vita. Nou-
velle édition d'après les meilleurs textes avec sommaires et notes
en franrais par M. Boistel (Paris 1893). Il testo non ha alcun
valore; inoltre il Boistel non conosce i lavori del Wex, del
- 314 -
Halm, dell' Andresen... (17) W. Pfitzner, Ist Irland jemals
von einem ròmisclien Heere hetrefen worden? Ehic liistoriscli-
philologische Untersuchung liber Tacitus Agr. Kaj). 2à {Neu-
stielitz 1893). Contestazioni.
pp. 32-30. Germania. — (18) Cornelii Taciti Germania,
Erhlàrt von K. Tììcking^ (Paderborn 1894). Confronto con l'edi-
zione precedente. Breve notizia con qualche leggero appunto.
(19) B. Sepp , Bemerkungen zur Germania des Tacitus (in
Blàtter f. d. hayer. Gymnasial-Schuhvesen 1892 169-175).
Notizia con obiezioni a proposte di nuove lezioni del Sepp.
(20) A. LucKENBACH, De Germaniae quae vocatur Taciteae fon-
tibus (Marpurgi 1891). Non c'è nulla di essenzialmente nuovo.
(21) R. WuENSCH, De Taciti Germaniae codicibus Germanicis
(Marpurgi 1893). Lavoro pregevole. (22) E. Wòfflin, Ziwi Titel
der Germania des Tacitus (in Rhein. Miis. XLVIII. 1893. 312).
Riassunto. (23) J. Holub, Unter den erìialtenen Handscliriften
der Germania ist die Stuttgarter Handschrift die beste (Wei-
denau 1893 und 1894). Il riferente cita molti passi della disser-
tazione del Holub e chiude manifestando il timore di abusare
della pazienza dei lettori se ne citasse altri.
pp. 36-40. Historien. — ^23) (ma è errore di stampa invece
di 24; cosi per i numeri successivi fino al 30) Cornelii Taciti
liistoriarum liber I annotato jjer le scuole da A. Corradi (Verona
1892). Brevissima notizia. Il commento a certi passi difficili non
di rado è insufficiente. (24[25]) Cornelii Taciti historiarwm
libri 1 et IL ScJiolarum in usum recensuit R. Novak (Pragae
1892). Nota di luoghi donde risulta che il Novak tratta la tra-
dizione manoscritta con gran libertà. (25[26]) P. Cornelii Ta-
citi historiarum liber IV et V. Ed. C. Meiseu (Berlin 1895).
Nota di lezioni con qualche osservazione. Alcuni leggeri appunti
al commento. (26[27]) L. Herr, Betriacum-Bebriacum (in Be-
vue de pUlol. XVIP^ 208-212). Obiezioni.
pp. 40-54. Annalen. — (27[28]) P. Cornelius Tacitus
erkl V. K. Nipperdey, I-VP. Xl-XVP (Berlin 1892. Il II voi.
fu curato da G. Andresen). Nota di lezioni differenti in queste
due dalle precedenti edizioni. (28[29]) Die Annalen des Tacitus.
Schulausgabe von A. Draegeh. I^ von F. Becher (Leipzig 1894-
95). Edizione molto migliore delle precedenti, e ciò per merito
speciale del Becher. Nota di lezioni. (30) P. Cornelii Taciti
annalium ab excessti divi Augusti libri. ErJclart von K. Tu-
CKiNG, lib. l-II^ (Paderborn 1895). Ottiene il suo scopo meglio di
prima (in altre parole, è preferibile alla 1 edizione). (31) Cor-
nelio Tacito. Gli Annali commentati da V. Menghini, lib. I-Il
(Torino 1892). Giudizio molto favorevole. (32) P. Cornelii Ta-
citi ab excessu divi Augusti quae supersunt pubi, par L. CoN-
stans et P. GiRBAL. Lib. I (Paris 1894). Come sopra. (33) G. An-
dresen, De codicibus Mediceis annalium Taciti (Berlin 1892).
— 315 -
Collazione che dopo quella del Meiser (e di altri) non dà molti
risultati nuovi, ma pure è utile. Ciò il referente dimostra con
una lunga nota di lezioni. (34) F. Becker, De locis quibusdam
Taciti annalium (Halle- Wittenberg 1894). Dissertazione acuta in
un latino elegante. (35) Fr. Zòchbauer, Studien zu den An-
nalen des Tacitus (Wien 1893). (36) Lo stesso, Antikritisclie
Untersucìiungen zu den Annalen des Tacitus. Mit einem An-
liange: ' SimuV mit dem Dativ oder dem Ahlativ? (Wien 1894).
Bisogna riconoscere l'acume dell'autore, ma non sempre si può
consentire con lui. Nota di passi con discussione e con obiezioni.
(37) W. LiEBENAìM, Bemerhungen zur Tradition Uher Germa-
nicus (in Neue Jahrhilclier fiir PMMogie 1891. 717-736. 793-
816. 865-888). Trattazione che differisce dalle molte consimili,
pp. 54-62. Zerstreute KonjeJcturen. — 0. Keller, Dewic
passages de l'Agricola de Tacite (in Bevue de pliilologie XVI.
1892. 146-148 ^ Notizia. — H. J. Heller, Beitrage zur Kritik
und ErMdrung der Taciteischen WerJce (in Fhilologus LI. 1892.
316-350). Nota di luoghi con discussione e schiarimenti, non senza
appunti qua e là gravi. — P. R. Mììller, Zu Tacitus Germania,
Annalen und Agricola (in Neue Jahrbucher fiir PJiilol. 1892.
140-142. 320. 633-634). La maggior parte delle lezioni conget-
turali proposte sono inaccettabili. — 0. Keller, ad Agr. 5 [ibi-
dem. 336). Notizia. — H. Sedlmeyer, KritiscJies und Exege-
tiscJies zu Horaz und Tacitus (in Eranos Vindobonetisis, Wien
1893. 108-112). Riassunto. — A. W'eidner, Zu Tacitus (in
K Jahrbucher f. Phil 1894. 853-864). Poche soltanto delle
proposte sono degne di considerazione. — P. R. Mììller {ibidem.
864-865). H. Geist (ibidem. 1895. 79). J. J. Hartmann (in Mne-
mosyne XXII. 1894. 357-358). Breve notizia degli articoli dei
tre critici. — Th. Stanol, Éas Adjectivum ' rullus ' bei Plau-
tus und Tacitus (in Jahrbucher f. Phil. voi. 149 (1894). 573-
576). — K. Hachtmann, in Neue Jahrbb. f. Phil. voi. 151 (1895).
415. Lo stesso {ibidem. 1893. 353-356). Lo stesso {ibidem. 1894.
493-496). — Ad. Wilhelm, Ueber Kietis [a proposito di Tacito
Ann. VI. 41. 1 e XII. 55. 2] (in Archciol.-epigraph. Mitteilungen
aus Oesterreich-Ungarn 17. 1). Notizia di questi vari articoli.
Il referente non vide le seguenti pubblicazioni (p. 62):
G. Marina, Romania e Germania., ovvero il mondo germanico
secondo le relazioni di Tacito e nei suoi veri caratteri, rapporti
e influenza sul mondo romano (Trieste 1892). — Tacitus, An-
nales. Texte latin public avec des arguments et des notes par
E. .Jacob (Paris 1892). — The histonj of Tacitus translated,
wiih notes, bij A. W. Quill (London 1892). — Taciti ab ex-
cessu divi Augusti annalium libri ree. E. Garizio (Torino 1893).
— Taciti historiarum libri V ed. A. Beverlé (Paris 1893). —
Taciti Agricola ed. R. Davise (London 1892). — Taciti ab ex-
cessu divi Augusti libri I-VI ed. Nemethy (Budapest 1893). —
- 316 -
Taciti the Agricola and Germania ed. Hopkins (Boston 1893).
— Taciti de vita et morihus Jidii Agricolae ed. C. Jacob (Paris
1804). — Tacitus, Ann. ah excessu D. Augusti libri ed. hy H.
FuRNEAUX (Oxford 1894). — Tacitus, Germania ed. hy H. Fur-
NEAUX (Oxford 1894). — Tacitus, Germania ed. hy R. F. Davis
(London 1894).
Bisogna aggiungere U. Nottola, In Cornelii Taciti lihriim
qui inscrihitur JDe vita et morihus lulii Agricolae (Aosta 1895),
monografia che il Helmreich non conosce e per la quale vedi
Bollettino di filologia classica 11 1895 n. 3, pp.72 sg.
(LXXXX 1896 III) —
BericJd iiber das antike Bnhnenwesen 1885-1895 von Br.
E. Bodensteiner.
pp. 1-6. I. Zusammenfassende Bearheitungen. —
(1) A. MiiLLER, Lehrhuch der griechischen. Biihnenaltertnmer
(in K. F. Hermanns Lehrhuch der griechischen Antiquitaten
neu hrgh. von H. Blumner uncl W. Dittenberger III 2). Opera
molto istruttiva, diligente e profonda, però in gran parte (ne po-
trebbe essere altrimenti [uscì nei 1886]) antiquata. È desiderabile
una nuova edizione, nella quale dovranno trovare luogo parecchie
aggiunte che il referente indica. — (2) R. Opitz, Schauspiel und
Theaterwesen der Griechen und Ròtner (Leipzig 1889). Tratta-
zione popolare in cui è tenuto conto delle ultime ricerche. —
(3) W. Latyschew, Grundriss der griechischen Altertumer. II,
Sakral-und Buhnenaltertumer ([in russo] Petersburg 1889). Il
solo annunzio. — (4) A. E. Haigh, The Attic theatre. A de-
scription of the stage and theatre of the Athenians and of the
dramatic performances at Athens (Oxford 1889). C'è poco di
nuovo rispetto al Lehrhuch del Mììller (1), ma è un lavoro ben
fatto e che mostra buon gusto. — (5) G. Oehmichen, Das Buh-
nemvesen der Griechen und Bòmer (in I. Mììllers Handhuch
d. Mass. Alter t.-Wissensch. 14 Halhhand. 1890). Piena padro-
nanza dell'argomento, originalità nel modo della trattazione. Le
numerose e minute divisioni costituiscono un pregio del libro,
ma questo metodo, dacché si risolve in un soverchio dottrinalismo,
forma la parte debole del libro stesso. — (6) A. Mììller, Die
neneren Arheiten auf dem Gehiete des griechischen Biihnenwesens.
Bine kritische Uehersicht (estratto dal Philologus, Supplem.-
Band VI. 1801). Giudizi profondi e imparziali. — (7) 0. Na-
varre, Dionysos. Étude sur Vorganisation matérielle du théàtre
athénien (Paris 1895). Buona pubblicazione che ricorda quelle
del Haigh e dell'OpiTZ ed è migliore di entrambe: della prima,
per l'ordine della trattazione; della seconda, perchè più scientifica.
pp. 7-16. IL Theatergrundriss. — (8) L. Dyer, Vitru-
vius' account of the Greek stage (in The journal of Hellenic studies
XiP^ 356 sgg.). (9) E. Capps, Vitravius and the Greek stage
— 317 —
(in Studies in classical pldlology I. Chicago 1893). 1 due autori
si occupano del passo di Vitruvio (relativo alla costruzione del
teatro) V 8 per centrumque orchestrae... minoreque latitudine
ptdpitum e delle varie questioni che vi si riportano (fra cui una
notevole variante di manoscritti e di editori [...circinatio adpro-
scaenii sinistram parteni o dextram? e poco dopo circuma-
gitur ad proscaenii dextram partem o sinistram?^), giun-
gendo in parte a conclusioni affatto opposte. — (10) K. Dumon,
Le théàtre de Polyclète. Beconstruction d' après un modide
(Paris... 1889). (Ila) Lo stesso, Ad Vitruv. V 8 (in Mnemos.
XX^2 419 sgg.). (116) Lo stesso, Die griechiscìie Buhne nach
Vitruv V 7 (in Berliner phil. Wochenschrift XV^^ 284). (12) Lo
stesso, Études d'art grec (Paris... 1894) ISymétrie et harmonie.
— Le logeion]. (13) Lo stesso, Open Brief aan Ihr. Br. I. Six
(AnQsterdam 1895). Concetto che informa questi vari studi, per i
quali il punto di partenza è costituito dal teatro di Policleto. 11
UuMON si mostra contrario alla teoria della ' scena ' propugnata
dal DòKPFELD (vedi sotto). — (14) E. Petersen, Scaenica (in
Wiener Studien VIP^ 175 sgg. II, Die Plankonstruktion des
griechischen Theaters). (15) A. Muller, Scaenica (in Pìiilologus
'XLV^e 237 sgg.). (16) G. Oehmichen, Die Hilfskreislinien in
Vitruvs Theatergrundriss (in Bliein. Miiseum XLVP^ 99 sgg.).
(17) E. Fabricius, Ueher den Enttvurf des griechischen Theaters
lei Vitruv {ibidem. 837 sgg.). Di questi quattro articoli intorno
alla questione della lunghezza del proscenio e dell'allargamento
laterale dell'orchestra il referente nota le relazioni vicendevoli,
con riguardo anche agli scritti del Vecklein (in Philologus XXXI
485 sgg.) e del Kawerau (in Baumeister, Denhmaler, art. Thea-
tergehaude). — (18) G. Oehmichen, Griechischer Theaterbau,
nach Vitruv und den Ueberresten (Berlin 1886). Sguardo su
tutti i teatri a noi noti con continui riferimenti alle regole di
Vitruvio. Benché nel titolo si accenni soltanto al teatro greco,
l'autore si occupa anche del teatro romano. Nella sua trattazione
è fatta gran parte alla statistica ; ora si può dubitare se ciò sia
conveniente.
pp. 16-39. HI. Theaterdenhmàler. — Sono passate in
rassegna oltre a 40 pubblicazioni (n" 19-61), di cui parecchie,
non di rado di un solo autore, brevi articoli di periodici, che il
referente riassume in poche parole. Dare qui la nota di tutte non
mi sembra né opportuno né utile; mi limiterò a ricordar quelle
che 0 per la loro importanza o perchè uniche meritano a prefe-
renza di essere conosciute. S'intende che mi attengo all'ordine del
Bodensteiner e come di solito riferisco il più brevemente possi-
bile i suoi giudizi e, dove occorra, gli schiarimenti.
1. Atene [il teatro di Dioniso] — (19) J. K. Wheeler, The
theatre of Dionysos (in Papers of the American School at
Athens I. Boston 1885). Determina in modo nuovo le differenze
— 318 —
di costruzioni del celebre teatro corrispondenti alle varie età, se-
condo i risultati delle sue ricerche. Il referente contesta in parte
i risultati stessi con la sfuida di parecchi autori, valendosi anche
delle testimonianze degli antichi, e stabilisce (dopo il n'^ 20) le
'epoche della costruzione' che sono cinque: (I) l'antica orchestra
circolare del V sec. ; (II) la costruzione di Licurgo della seconda
metà del sec. IV; (III) il proscenio di pietra, molto dopo Licurgo,
ma prima di Nerone; (IV) erezione di una ' scena ' romana, sotto
Nerone; (V) ricostruzione del ' logeion ' romano verso il 290 d. C.
— (21) J. P. Mahaffy, The ih. of B. ai Atliens (in The Aca-
demy 1889 I 313). Dimostra che nel teatro c'era spazio per 15
mila persone. — (22) Chr. Kirchhoff, Ber lìhombos in der
Orchestra des Bionysostheaters zìi Athen. Eine dreifarhige Stein-
drucldafel nehst einigen Bemerkungen (Altona 1885). La parte
complementare [del disegno, dovuto all'architetto A. Winkler]
è esatta.
2. Pireo [il piccolo teatro presso il porto di Zea] — (23) D. Pm-
Lios, Tò irapà if]v Zéav èv TTeipaieT Géarpov (in 'E(pri)H€pì(^ àp-
xaioXoYiKri 1885, 62 sgg.). Gli scavi furono eseguiti dal Philios
nel 1880 e dal Dragatsis nel 1883. Si sono trovati indizi di un
secondo periodo di costruzione.
3. E pi da uro [nel Hieron di Asclepio. Il teatro ivi (scoperto
nel 1881-1882) è per noi il modello più famoso della piìi recente
costruzione greca del teatro: interessantissimo soprattutto per la
sua bella orchestra] — (25) A. Defrasse et H. Lechat, Épi-
daure. Restauration et description des principaux monwnents
du sanctuaire d'Asclépios (Paris 1895). Magnifica opera, che con-
tiene una particolareggiata ed elegante descrizione del teatro
(pp. 193-228), superiore a quella del (n. 24) Cavvadias in Foiiil-
les d'Epidaure (Athènes 1891), che pure è una pubblicazione
definitiva intorno ai risultati del periodo di scavi 1881-87.
4. Pergamo [teatro che sorgeva sul terrazzo occidentale della
rocca della città e fu posto in luce dagli scavi della scuola ar-
cheologica germanica degli anni 1883-85] — (26) C. Hdmann,
R. BoHN, M. Frankel, Bie Ergehnisse der Ausgrahungcn zn
Pergamon. HI. vorldufiger Bericht (Berlin 1888). Kiassunto della
descrizione.
5. Thoriko [piccolo, ma importante teatro scoperto nel
1886 dalla scuola archeologica americana; è del V secolo] —
(27) VV. Miller, The theatre of Tìioricus. Preliminary reporf
(in Papers of the American School at Athens IV. Boston 1888.
1 sgg.). (28) W. L. Cushing,... Supplementary report {ibidem.
28 sgg.). Riassunto delle due relazioni.
6. Oropo [teatro (probabilmente dell'età romana) di piccole
dimensioni, molto elegante, scoperto nel 1886 dalla società ar-
cheologica greca nel Hieron di Amphiaraos presso Oropo] —
(29) V. -J. Leonardos, 'Ajuqpiapeiou àvaaKacpai toO 1886 (in TTpa-
KTiKa 1886, 51 sgg.). Riassunto delle notizie.
— 319 —
7. Si ciò ne [teatro la cui scoperta è dovuta di nuovo alla scuola
americana, che eseguì gli scavi dal 1886 al 1891 con interruzioni]
— (30-33) Excavations (prima e successive) at the iheatre of
Sihyon (relazioni di vari archeologici, Murtry, Earle, Brownson,
YouNG in The American journal of Archaeologi) V^^ 267 sgg.
VIPi 381 sg. Vlir-'s 388 sgg. 397 sgg.). Riassunto delle relazioni
con accenni a particolarità che il teatro di Sidone ha in comune
con altri.
8. Mantinea [teatro nelle vicinanze dell'agora (costruito nel
mezzo del piano) fra altri edilìzi pubblici: scavi della scuola fran-
cese (1887) sotto la direzione del Fougì<;res] — (34) G. Fougèires,
Fouilles de Mantinée (in Bulletin de correspondance hellénique
XIV^o 248 sgg.). Riassunto della descrizione, con una osservazione
del referente intorno a ciò che l'editore scrive dell' 'hyposkenion'.
9. T espi e [teatro nel santuario delle Muse presso Thespiai
(scavi della scuola francese (1888) sotto la direzione del Jamot):
ancora non furono pubblicati ne il piano ne la descrizione].
10. Trai le s [teatro scoperto, solo in parte, e quindi noto
solo in parte, dal Humann (scuola germanica) nel 1888] —
(35) C. Humann und W. Dorpfeld, Ausgrabungen in Tralles
(in Athenische Mittheilungen XVIIF^ 395 sgg.). Riassunto della
descrizione.
11. Magnesia al Meandro [scavi della scuola germanica
intrapresi nel 1890-91 da F. Killer von Gaertringen; somiglia
in parto al teatro di TrallesJ — (38) F. Killer v. G., 0. Kern,
W. Dorpfeld, Ausgrahungen im Theaier von Magnesia am Mai-
andros (in Athen. Mitteil. XIX^^ 1-92). Prendendo a guida spe-
cialmente quest'ultima pubblicazione il referente fa la storia della
costruzione dell'edifizio dal IV secolo al II e più in qua.
12. Megalopoli [è il teatro che ha il maggior significato per
le questioni sceniche; scavi della scuola inglese in due campagne:
fine maggio 1890, inverno 1890 e primavera 1891] — (44) E. A.
Gardner, W. Loking, G. C. Richards, W. J. Woodhouse, The
theatre at Megalopolis (in Tìie journ. of Hellenic studies XP^
294 sgg.) (51) Gli stessi, Excavations at Megalopolis 1890-1891
(London 1892). (52) W. Loring, The th. at 31. (in The Athe-
naeum 1893 II 200 = Journal cit. XIIP2-9:^ 356 sgg.). Riassunto
particolareggiato dei risultamenti di tutti gli scavi su la scorta
specialmente della pubblicazione maggiore e definitiva (n. 51),
con minute indicazioni intorno ai vari periodi di svolgimento della
costruzione del teatro dalla fondazione di Megalopoli al sec. IV.
13. Eretria [il teatro, la cui costruzione appartiene alle più
importanti, venne in luce successivamente negli scavi del 1891 e
del 1895 per opera della scuola americana] — (57) Ch. Wald-
stein, R. B. RiCHARDSON, A. FossuM, C. L. Brownson, Excava-
tions at Eretria 1891;... in the theatre (in The American journ.
of Archaeology VIPi 233-280). (58) E. Capps, Excav. in the
- 320 —
Eretrian theatre in 1894 {ibidem. X^^ 338 sgg.). Riassunto, in
massima parte, della pubblicazione segnata col n.*» 57 che dà tutto
l'essenziale.
14. Argo [gli scavi cominciarono nel 1891 per incarico del-
rispettorato (ephoria) generale greco delle antichità e sarebbe
molto desiderabile che fossero condotti a termine] — (59) J. K.
KoPHiNiOTis, 'lOTopia ToO "ApYOuq )li6t' eÌKÓviuv aTTÒ Tujv àpxaio-
TOTiuv xpóvuuv laéxpi? fnauJv (Athen 1892). Relazione compiuta.
15. Gytheion (il porto di Sparta) [un piccolo teatro: scavi
della società archeologica greca nel 1891, non finiti] — Ofr.
AcXtìgv 1891 113 e BuUetin de correspondance hellénique XV^^
• »54 sg.
16. Delo [scavi della scuola francese: cominciati da S. Rei-
NACH nel 1882 e poi sospesi; li riprese, e questa volta con esito
felice, il Chamonard nel 1893; le rovine (del teatro) sono inte-
ressantissime]. (60) (Th. Homolle) in Bull, de corr. Jiell. XVIIP^
161 sgg. (61) (W. Dokpfeld) ibidem, 167 sg. e in Atlienische Mit
theil. XVIIF^ 221 sg. Notizia riassuntiva.
pp. 39-65. IV. Die Buhnen fraga. — Gli scritti che il
BoDENSTEiNER reccnsisce, dal n." 62 al 92, si riportano tutti di-
rettamente 0 indirettamente alla cosidetta 'Teoria del teatro' del
Dokpfeld e alle modificazioni in essa introdotte. I punti princi-
})ali della teoria Dòrpfeldiana sono questi: 1. Nel V secolo non
vi ebbe alcuna costruzione stabile della scena, ma solo temporanea
in legno. 2. Nel IV secolo si cominciò a costruire la scena in
pietra. Il modo e i materiali della costruzione delle altre parti
del teatro nei due periodi di tempo furono dipendenti da quella
della scena. — (62) G. Kawerau, art. "Theatergebciude' (in Bau-
MEiSTER, Denhmaler 111 1732 sgg.) (63) J. E. Harrison, Dr. Dòrp
f'eld on the Greeh theatre (in The classical Eeview IV^^ 274 sgg.).
Obiezioni mosse dai due autori alla teoria del Dòrpfeld. —
(64) A. E. Haigh, Br. Dòrpfeld on the logeion in Greeh theatres
{ihidem. 277 sgg.). (65) H. Richards, Dr. Dórpfeìd's theory of
the GreeJc stage (ibidem V^^ 97). (Q6) E. Curtius, Orchestra und
Biihne (cfr. Berliner philol. Wochenschrift XUP^ 97 sgg. 125).
(67) W. Christ, Das Theater des PolyJclet in Epiidauros in seiner
litterar - und kunsthistorischen Bedeutung (in Sitzungsherichte d.
hayer. Ahad. d. Wissenschaften 1894 I 1-52). (68) M. L. Earle,
Problems of the Greeh theatre (in Annual Beport of the Ar-
chaeolog. Inst. of Ameriha 1892/93 61 sg.). Riassunto delle
obiezioni, di vario genere e di diverso valore, alla teoria Dòrpfel-
diana, qua e là con analisi di parti degli scritti citati, ai quali
va aggiunto (69) l'articolo ' Theatervorstelìungen di B. Arnold
(in Baumeister, Denhmaler III 1750 sgg.). — Su la 'Th\-mele'
(altare di Dioniso) in particolare, per ciò che riguarda la sua forma
e il luogo preciso dove sorgeva, sono presi in esame e in discus-
sione (70) E. Petersen, Scaenica (vedi n. 14) pp. 175 sgg.: Or-
- 321 -
chestra und Konistra. (71) A. B. Cook, On the thymele in Greek
theatres (in The class. Review IX^^ 370 ggg ^ q (72) \^/. Christ,
BedeutimgswecJisel einiger auf dus griechische Theater bezugli-
chen Ausdrncke (in Jahrhh. fiir Vhilologie 1894 27-47) tratta-
zione la quale ha contribuito non poco a portare chiara luce su
tutto il complesso della questione. — Infine sul significato di
(JKrivri e di TrpocTKriviov e a prova del fatto che potè esistere un
Bearpov prima che fosse innalzato un edifìziò della scena è da
cfr. (73) A. C. Merriam, Evolution of the Greek tìieatre (in The
class. Éevietv V^^ 343 sg.). — Le pubblicazioni che seguono, di
tutte le quali il referente dù notizia in modo riassuntivo metten-
dole m relazione fra loro e dimostrando come e in che misura
possano servire allo scopo a cui tendono, riguardano il teatro di
Atene nel V sec. e tutte le questioni che vi si riconnettono (de-
corazione, 'messa in scena', ripostigli ecc.; coro e attori; svolgi-
mento del dramma in corrispondenza con l'edifizio del teatro e
con le sue parti...). Come punto di partenza per la rassegna è
preso lo scritto di J. Hòpken, De theatro Attico saecidi a. Chr. V
(Bonn 1884), che contiene una nuova teoria su lo spettacolo nel-
l'orchestra. (74) U. V. WiLAMOWiTZ, Die Biihne des Aischylos (in
Hermes XXF^ 597-622). Ricerche profonde. (75) B. Todt, Noch
einmal die Biihne des Aischylos (in Philologus XLVllP^ 505 sgg.).
Importante. (76) N. Wecklein, Studien zu den Hiketiden des
Aeschylos (in Sitmngsher. d. hayer. Akad. d. Wissenschaften
1893 11 393 sgg. Ili, Die Biihne in den Hiketiden, 429 sgg.).
(77) Fr. Wieseler, Scaenica (in Nachrichten d. Gótting. Gesellsch.
d. Wissensch. 1890 200 sgg.). (78) J. Niejahr, De PoUucis loco
qui ad rem scaenicam spectat (Greifswald 1885). Contro la teoria
del HoPKEN. (79) A. Zernecke, De choro Sophocleo et Aeschyleo
quaestionum capita tria (Breslau 1885). (80) Fr. Harzmann,
Quaestibnes scaenicae (Marburg 1890), Contro il Kawerau (n. 62).
(81 ) J. S. FuRLEY, The stage in the Greek theatre (in The class.
Review IIP^ 85 sg.). (82) W. White, The 'stage' in Aristophanes
(in Harvard Studies in class, philol. IP' 159-206). Mostra me-
todicamente la via per le ricerche intorno alla parte dello spet-
tacolo che si svolgeva nell'orchestra, (83) E. Capps, The stage in
the Greek theatre according to the extant dramas (New Hawen
1891, Estratto da Transactions of the Amer. Philol. Association
XXII). Scritto eccellente nel quale l'argomento è trattato in modo
felice secondo il sistema inaugurato dal White. (84 a) J. Pickard,
Der Standort der Schauspieler und des Chors im griechischen
Thuiter des V Jahrhund. (Munchen 1892). (85) K. Weissmann,
Die scenische Auffidirung der griechischen Dramen des V Jahr-
hund. (Munchen 1893). (86) E. Bode^bikiner, Scenische Fragen.
Ueber den Ort des Auftretens und Ahgehens von Schampielern
und Chor im griechischen Drama (Estratto dai Jahrhh. fiir. Philol.
Sappi. XIX 639 808, Leipzig 1893). {S4h) J. Pickard, The re-
Rivùla di filologia, ecc., XXV. 21
— 322 -
lative position of actors and chorus in the Greek iheatre of the
fifih century (Baltimore 1S93). Tutte pubblicazioni intorno allo
stesso soggetto di cui si occupò il Capps; il valore di quella del
BoDENSTEiNEK è provato da ciò che essa fu premiata nel concorso
bandito, per consiglio del Christ, dalla facoltà filosofica univer-
sitaria di Monaco, concorso che aveva appunto per tema l'argo-
mento svolto nelle pubblicazioni citate. — Ancora: intorno alla
'teoria della Thymèle' e alle questioni che vi si ricollegano (87) K.
Weissmann , Zur Tìiyinelefrage (in Jàhrhh. fiir Philol. 1895
673 segg.). Nulla di essenzialmente nuovo. (88) G. Oehmichex,
Zur Eisodosfrage (in Wocìienschrift fiir Mass. Philologie XT^*
362 sg.). Notizia. — (89) E. Capps, The side-entrances io the
Greeh iheatre (in The class. Beview VIIP* 318 sgg.). Su la
questione del 'parodo' trattata dal Bodensteiner (n. 86), in favore
della cui teoria il Capps reca nuovi argomenti. Non meno impor-
tante di questo è l'articolo dello stesso (90) E. Capps, The chorus
in the Inter greek drama with reference to the stage question
(in The American journ. of Archaeology X^^ 287-325). — Uno
sguardo generale, riassuntivo, su lo stato della questione del 'Lo-
geion' e della Thymele' secondo gli studi dell'ultimo decennio è
in (91 ) J. Paulson, Ben grekiska teatern under det fonte àrhnn-
dradet f. Kr. (Goteborg 1894). Compiuto e profondo. — Sul teatro
greco in corrispondenza alla storia del suo svolgimento quale ora
la si conosce (92) E. Re[SCH (in Verhandlungen der XLIIl Ve-
reins deutsch. Philolog. und Schuhn. zu Kóln 1895) della cui
lettura interessantissima forma il punto di partenza e il nocciolo
la teoria del Dòrpfeld.
^]). 6^-70. M . Dekoration und Maschinerie. — La 'messa
in scena' è stata studiata per mezzo dell'analisi di singoli drammi,
fatta astrazione dalle altre questioni (metodo che il referente non
approva) nei seguenti scritti : (93) Bruno Arnold, De Euripidis
re scaenica III (Nordhausen 1888). Notizia, con rimando al
MùLLER (n. 6 [pp. 46 sgg.]), (94) H. Dahn, Scenische Untersu-
chungen, I (Danzig 1892\ Assennato. (95) Niejahr, Commen-
tatio scaenica (Halle 1888). Riassunto con osservazioni. (96) N.
Wecklein, Ueherden SchauplatzinAeschylus' Eumenidenund ueher
die sogenn. Orchestra in Athen (in Sitzungsher. d. hayer. Akad.
d. Wissenschaften 1887 1 62-100). Contenuto delle due parti in
cui è divisa la trattazione. (97) W. Lange, Quaestiones in Ari-
stophanis Thesmophoriazusas ((jlottingen 1891). Utile. — (98) 0.
Crusius, Zu den Buhnenaltertnmern (in Philologus XLVIIP^
696 sgg). (99) W. Christ, Zur Chronologie attischer Dramcn
(in Jahrhh. fiir Philologie 1894 157 sgg.). (100) Neckel, Das
Ekkyklema (Friedland 1890). Riassunto di questi tre ultimi scritti
(su quello del Neckel il referente si trattiene più a lungo) re-
lativi alle macchine sceniche in particolare.
323 —
La seconda parte del Bericht sarà pubblicata più tardi: così
a p. 70 in fine.
The American Journal of Philology ed. hy B. L. Gildersleeve.
XVII. 1896. 2. >òQ. — F. C. Conybeare, On the western text of
the acts as cvidenced hy Chrysostom, pp. 135-171 [L'autore stesso
riassume (pp. 170-171) in nove 'conclusioni' i risultati delle sue
ricerche; ecco i principali e più interessanti: 1, 11 commento del
Crisostomo [degli Atti degli Apostoli] si fonda sopra un altro
commento perduto, che si riportava ad un testo occidentale di
essi Atti. 2, Tanto del commento perduto quanto del detto testo
occidentale rimangono tracce più numerose nella forma armena
[del commento del Crisostomo] che non nella forma greca. 3,
L'antico commentatore, della cui opera trasse profitto il Criso-
stomo, deve aver scritto in greco e si servì d'un testo greco occi-
dentale; non può dunque essere stato Ephrem cotesto antico com-
mentatore, perchè Ephrem scrisse in lingua siriaca. 4, Il testo
greco occidentale su cui l'antico commentatore, preso a guida dal
Crisostomo, fece il suo commento era più genuino e più ampio
che non quello del codice di Beza (D)]. — L. Hokton-Smith,
Esiahlishment and extension of the law of Thurneysen and
Havet, II §§ 5-9. pp. 172-196 [Gli 'articoli' della 'legge' sono
questi: nel corso del terzo secolo av. C. 1, Toriginario latino óv-
(che conserva l'indogerm. o) diventò àv-\ 2, l'originario latino ov-
(che conserva l'indogerm. ò) diventò àv-\ 3, l'originario dittongo
latino ou diventò au mentre si avviava a divenire posteriormente
a ó (on its way to the later u ò)\ — W. C. Lawton, The clas-
sical element in Browning' s poetry, pp. 197-216. — H. Schmidt-
Wartenberg, a physiological criticisni of the liquid and nasal
sonant iheory, pp. 217-223. — Recensione, pp. 224-229: Index
Antiphonteus . Composuit Fr. Louis yan Cleef [Wm. Hamilton
KiRK. Appunti e nota di parecchie omissioni ; ma in complesso il
giudizio è favorevole]. — pp. 233-252. Rassegna di pubblicazioni
periodiche : Bevue de Philologie XIX 1-4 [Milton W. Hum-
phreys]. — Philologus LI e Supplementhand VI [Kirby
F. Smith].
Idem. 3. 67. — C. D. Buck, Some general prohlems of ahlaut,
pp. 267-288 [Studio di glottologia pura]. — R. B. Steele, The
authorship of the Dialogus de oratoribus, pp. 289-318 [Premesse
alcune notizie su i manoscritti del JJialogus e il conto che di essi
si può fare riguardo alla paternità dello stesso, divide la sua trat-
tazione in due parti: I, Data della pubblicazione. II, Lingua e stile
del Dialogus. Ciascuna parte comprende parecchi paragrafi, fra i
quali noterò nella prima: condizione dell'eloquenza sotto Domi-
ziano; Fabius Justus; la morte degli interlocutori (del Dialogus);
iuvenis admodum; discussione intorno alla decadenza dell'arte
— 324 -
oratoria; età di Plinio e di Tacito. Nella seconda: teoria dello
svolgimento genetico; sentenze cumulative nel Dialogus; duplica-
zione delle parti (p. es. 10, 33 notahilem et cutn aucioritate di-
cturam — 22, 8 iam senior et inxta fìnem vifae . . .) ; diverso
atteggiamento rispetto alle medesime parole. Il riassunto, pur con-
tenuto entro modesti limiti, dell'eruditissimo lavoro, la cui im-
portanza apparisce anche solo dal breve cenno che precede, richie-
derebbe troppo spazio; mi restringo quindi a riferire il risultato
delle profonde indagini dello Steele: Tacito non può essere l'au-
tore del Dialogus de oratoribus]. — E. Capps, The dramatic
syncìioregia at Athens, pp. 319-328 [La legge relativa alla co-
regia tragica e comica nelle Dionisie urbane (là èv àatei o xà
àcTTiKÓt), che determinava l'unione di due cittadini (quindi la
(juYxopnTia), fu emanata nel 406. Fra il 399 e il 394 essa legge
venne abolita per quanto riguardava la tragedia; rimase invece
in vigore la auTXopriTia per la comedia. Prima del 388 il nu-
mero delle comedie da porre in scena fu portato a cinque. Così
durò fino circa al 340, nel qual te;npo si ristabilì l'antica usanza].
— G. B. HussEY, The more complicated fìgures of comparison
in Plato, pp. 329-346 [Studia: I, Le comparazioni miste; li, La
metafora (in genere) e per conversione ; HI, L'argomento per ana-
logia. L'articolo originale e interessante, ma che non si può rias-
sumere se non molto imperfettamente (e per ciò non tento nem-
meno) è irto di cifre e di schemi, donde risulta in quali degli
scritti di Platone occorrano con maggiore e in quali con minor
frequenza le più complicate figure di paragone e di che genere
queste siano e come si passi dall'una all'altra]. — H. D. Wild,
Notes on the historical syntax of "^quamvis', pp. 347-351 [1, Nel
periodo preciceroniano, li. Nel periodo ciceroniano. Ili, Nel pe-
riodo d'Augusto. IV, Nel primo secolo d. Cr. V, Dal secondo al
settimo secolo. Anche di questo articolo, che pure è breve, il
riassunto, facilissimo, occuperebbe qui soverchio spazio]. — E. W.
Fay, As to agglutination, pp. 352-355. — pp. 356-372. Kecen-
sioni: H. Usener, Gòtternamen. Versuch einer Lehre von der
religiosen Begriffshildung [B. L. Gildersleeve (l'articolo occupa
ben 11 fittissime pagine). Non può condividere molte delle opi-
nioni dell'autore, alcune aifermazioni gli sembrano false, contesta
anche l'utilità di varie ricerche, appunta qua e là il metodo di
trattazione, ma insieme riconosce l'importanza, per piti rispetti,
dell'opera]. — Plauti Comoediae. Recensuit et emendavit F. Leo,
l-ll. — F. Leo, Plautinische Forschungen zur Kritik und Ge-
schichte der Komoedie [G. Lodge. Kiassunto delle 'Ricerche plau-
tine'; notizia della edizione. Assai favorevole, in complesso, il giu-
dizio intorno alle due pubblicazioni]. — C. Suetoni Tranquilli
Divus Augiistus. Edited tvith historical introduction, commentarg,
appendices and indices hy Evelyn S. Shuckburgh [K. F. Smith.
Notizia con elogi]. — pp. 373-389. Rassegna di pubblicazioni
- 325 —
periodiche : Archiv fur lateiniscìie LexikograpMe und Gram-
matik, V [E. M. Pease]. — Hermes XXX (1895) [Barker
NewhallJ. — Neue Jahrbncher fiir Fhilologie und Paedagogik
1 893 [F. L. Van Cleef].
The Classical Revietv. X. 1896. 8. — C. Knapp, A discus-
sion of Gatullus LXII 39-5S, pp. 365-368 [Dimostra con argo-
menti nuovi che è giusta l'affeimazione di Quintiliano (IX. 3. 16)
che in Catullo LXll 45 e 56 dum ... dum sono usati con valore
correlativo, come corrispondenti a quam dm ... tam diu\. —
J. E. B. Mayor, Martiamis Capella, p. 368 [Breve nota a pro-
vare che di Marziano Capella manca ancora una buona edizione
critica; a conferma di ciò spiega, fra l'altro, l'inutilità della con-
gettura dell' Eyssenhardt (§ 92 p. 25 1. 23) ó \ovc, acer per
honos 5rtcer]. — F. W. Walker, Philological notes, XI, pp. 369-
370 [Su la formazione del futuro aéuj (aéauu) e specialmente
dell'ottativo oeinv, aeia (aecririv, aeaia), con riferimenti all'osco,
all'umbro e al latino]. — G. B. Grundy, Fylos and Sphahteria,
pp. 371-374 [L'articolo si riporta alle pubblicazioni dello stesso
titolo dell'autore e del Burrows in The journal of Hellenic stu-
dies XVl. 1896. 1. pp. 1-54. 55-76 (vedi Rivista., fase, preced.,
p. 155). Sono presi in considerazione i punti di divergenza, cioè:
1, L'identità di Pylos e di Sphakteria. 2, Il TtaXaiòv epujLia men-
zionato da Tucidide (IV. 31, 2). 3, La via seguita dal duce messenio
e dalla sua schiera. 4, Le fortificazioni di Pylos (Palaeo-Kastro)].
— M. L. Earle, Note on Euripidess Alcestis, pp. 374-376
[vv. 282-289, propone 284 0vriiaKUj, rrapóv |uoi pii] OaveTv, urrèp
(yé9ev. facendo dipendere così ùnèp créOev direttamente da Ovni-
(JKUJ anziché da Gaveiv secondo l'interpunzione comune 6vr|iaKUj,
Tiapóv noi nn Oaveiv ùirèp aéGev 287 oOk rjGéXriaa Kba' àno-
cuaOQeioà aou invece di .... lr[\ àTroanaaGeicra croO — v. 292
accetta la sostituzione (richiesta dal precedente [291] KatBaveTv)
del Wakefield di qpGiveiv a GaveTv e scrive KeÙKXeeì^ invece di
KeÙKXeuù^, dunque KeÙKXeeiq cpGiveiv per KeÙKXeux; GaveTv —
v. 321 lo KvicALA propose luéXXov invece di |utivò(; I'Earle, pren-
dendo le mosse appunto da lui, (oliò' ic, rpirriv |aoi) jiifiv è(J(ép-
Xeiai KttKÓv) in luogo di ... ixy\vòc, è'pxeTai ... — v. 302 ... irpìv
éc, (pójq & i^Karaai^aai (itàXiv) (invece di ... irpiv èc; cpvòc, aòv
KaTaaTfjaai piov) con rimando a I. T. 981 sg. Kai aè ttoXu-
KiUTTUj aKÓtqpei I aieiXaq MuKr)vai^ èYKaiacJTriauj TidXiv — vv. 1118-
1120 sta bene la divisione del Weil del v. 1118, all'incontro
non è accettabile la sua proposta riguardo al 1119 AA. èxw viv.
HP. owlé vuv.;. bisogna leggere col Monk AA. è'xuu. HP. vai,
adòxli. vuv Inoltre vuv e nÓT'(v. 1120) sono in contrapposizione —
V. 1131 da leggere Gìyuj, 7tpo0€Ìttuj Idjaav ùjq (èTriTU)Liuj(;) ; per
... \h<; òdinapT' é|uriv; — v. 1134 oÙKéT' invece di outtot' —
— 326 —
V. 1143 TI 'fàp TT06' iLò' àvauÒ0(S ecTTriKev Y^vr); — In fine fa notare
l'importanza della lezione del 'codex Farisinus 2713 (a)/ contro
l'affermazione del Kikchhoff, citando, con osservazioni di vario
genere, dell' 'Alcestis' i vv. 433-434. 546. 811. 1055. 1140 e 37.
45. 1049. 1117]. — A. Platt, Notes on Reicìiel's 'Romerische
Waffen\ pp. 376-378 [È propriamente una recensione (del libro
del Reichel, Veher homeriscJie Waffen), nella quale si dimostra
in che relazione stanno le descrizioni omeriche di oggetti arti-
stici in genere con il periodo dell'arte cosidetta di Micene]. —
J. Adam, On some diffìculties in the Platonic musical modes,
pp. 378-379 [Discussione tecnica specialmente su le dpjuoviai
cppuYicTTi, XuòicTtì, òtupicTTi, ìaaTi (Plat. Be2ì. 398 E) secondo le
spiegazioni dei più insigni fra i recenti scrittori di metrica dal
WE.^TPHAL al YoN Jan e al Monko]. — G. C. Richards, On
certain passages in Thiicydides F7, pp. 379-381 [E quasi un'ag-
giunta all'articolo del Marchant nel n" 7 della Classical Revieiv
(vedi Rivista, fase, preced., p. 151). Passi a cui l'autore propone
correzioni: 89, 6. 69, 1. 23, 1.-87, 3]. — A. Platt, Miscellanea,
pp. 381-382 [SoPH. Antig. 673 spiega fio' per mezzo di xai ac-
cennando ad altri casi simili nell'uso dei pronoun — Elkip.
Androni, v. Ih2> proporrebbe puu)ur|V )ae xaì vOv per pujiariv \x è-
Ttaivu) — V. 602 xp^ per XPHV — v. 1145 èv eubia ò' òttuu^ per
... òé un}q — V. 1231 xàpw Oo\ TuJv per xàpw aojv tujv —
Xenoph. Oecon. II 15 fìYTic^ótMn"^ P^r tiyoiyov — Vili 2 eiòein*;
per eìòfiq — XII 1 irpìv ... XuBeiri per Ttpiv ... XuGrì (e irpìv av
Xu0ri del Dindorf) — XII 17 TTaiòeuovToq per TtaiòeùeaGai —
XIX 9 ci òqp6aX)uoì 01 Kaià Tfìq Yn<S per 01 òqp9aX)aoi kotù trìq
Yn? elev — VII 21 per Ka'i ... Kaì rimanda a Tucidide I 126 ad
^w.]. — H. LuTZ, Note on Horace Od. I 7, p. 383 [La spie-
gazione del KiESSLiNG, HoR. Oden iind Epoden p. 53, non appaga,
perchè non chiarisce lo svolgimento del pensiero del poeta: il
LuTZ cerca appunto di fare ciò]. — G. 0. Eichards, Note on
Strabo IX. 1. 16 (p. 396), pp. 383-384 [Afferma che il luogo
citato di Strabone non ci autorizza punto a supporre che si debba
riportare al periegeta TToXéiuujv la notizia relativa al numero di
174 demi attici, e osserva come abbia un valore indeterminato
l'espressione uj^ qpaaiv, a cui finora non si diede la necessaria
importanza]. — J. Adam, Four conjectures on the Republic
(di Platone], pp. 384-386 [Ecco le quattro congetture : 111 396 E
Tfjq àrrXnq òiriYncTeujt; invece di rf^q àXXri? òiriYJltJejLK; — III 407 B
YU)avaaTiK(ri), r|^ {scilicet iaiwi) per YuinvaaiiKfìq — III 414 D
br||nioupYou|uévri €ti. n^r) òè ... per brmioupYouiaévri. èneiòn bè ...
— IV 421 B XeujpYouq per YeujpYOuq]. — pp. 386-406. Recen-
sioni: Herodotus, The fourth, fifth and sixth booJcs witli introdu-
ction, notes, appendices, indices, maps by R. W. Macan [J. Stra-
CHAN. Notizia con elogi e qualche appunto, ma di poco momento].
— HoMERi opera et reliquiue. Recensuit D. B. Monro [T. L.
— 327 -
Agar. 11 riferente si trattiene specie su gli 'inni omerici' e di-
scute parecchie varianti dei quattro principali. 11 giudizio com-
plessivo è questo: il volume del Monro vuol essere apprezzato
non solo dai dotti (scholars), ma anche da tutti i bibliofili (booJc-
lovers) et quantum est hominwn venustiorum; merita un sincero
' benvenuto '|. — P. ìerenti Plwrmio. With notes and introdu-
ctions (based in pari upon the second edition of K. Dziatzko)
by H. C. Elmer [H. W. Hayley. In complesso molto favorevole].
— V. Puntoni. L'inno omerico a Demetra con apparato critico
scelto e un'introduzione [Tn. W. Allen. Dice bene della 'forma'
del libro, ma dell'opera afferma con rincrescimento che non può
fare gran conto]. — A. De-Marchi, Il culto privato di Roma
antica, 1 [W. Warde Fowler. Notizia riassuntiva con elogi]. —
F. Granger, TJie Worship of the Momans, viewed in relation
to the Roman temperament [Lo stesso. Libro ben fatto, interes-
sante e qua e là suggestivo (soìnetimes suggestive)]. — D. BuRGON
and E. Miller, The traditional text of the Holy Gospels
[K. Lake]c — Index Antiphonteus, composuit F. L. Van Cleef
[C. B. GuLiCK. Eccellente]. — P. Vergili Maronis opera appa-
ratu critico iti artius contracto iterum recensuit 0. Eibbeck
[F. Haverfield. Edizione per ogni rispetto migliore della prece-
dente]. — W. \V. How (and) H. D. Leigh, The iattles of the
Trebia and laJce Trasimene. A reply to mr. Grundy (nel n'' 6
della Classical Review. Vedi Rivista, fase, preced., p. 150)
[Qualche contro-obiezione con ringraziamenti per le lodi date dal
Grdndy ai due autori]. — Archaeology. Olympia. Die Er-
gebnisse der von dem deutschen Reich veranstalteten Ausgra-
bung. V, Die Inschriften, bearb. v. W. Dittenberger und K. PuR-
GOLD [H. B. Walters. Questo volume è degnissimo della più
alta lode]. — E. A. Gardner, A Handbook of Grecie Sculpture
[G. F. Hill. L'autore ha saputo vincer bene le varie difficoltà
che la compilazione dell'opera richiedeva. Alcune parti sono ec-
cellenti].— F. Knoke, Die rómischen Moorbriichen in Deutsch-
land. Lo stesso , Das Varuslager im Habichtswalde [F. H(a-
vekfield). Le prove sono insufficienti]. — L. Jelic, F. Bulic,
S. RuTAR, Guida di Spalato e Salona [W. C. F. Anderson. Pre-
ziosa e utile]. — 0. Marucchi, Foro Romano [Lo stesso. Buono].
^ A. Furtwaengler, Fuhrer durch dieVasen-Sammlung Km.
Ludwigs I in der alten Pinakotheh zu Miinchen [Lo stesso.
Breve notizia con lodi].
Idem. 9. — E. Riess, Notes, criticai and explanaiory, on the
magical papyri, pp. 409-413 [Testi usati: Faktrey, Zivei griech.
Zauberpapyri in Beri. Akad. Abh. 1865. Dieterich in Jahrb.
f. Philol. Suppl. XVI (V); e Abraxas, Leipzig 1891 (W). Wes-
sely , Griech. Zauherpapyrus in Wien. DenJcschr. XXXVI; e
Neue griech. Zauberpapyrus, ib. XLll (We. l We. II). Il RiESS
si occupa di: V, I, 33 — V, III, 27 sgg. — V, 4, 3 — V, V, 1
— 328 —
— V, 5, 11, 12 — V, 8, 6 sg. — V, 9, i — Y, 12, 13 — W. I.
19 sgg. — W. X. 15 — W. XIV. 43 — W. HI. 35, XV. 32 —
W. VII. 17 — We. I. 15 — We. I. 46 - We. I. 51 — We. I.
50 - We. 1. 51 (pap. Parisinus 271 sgg.) — We. (I) 51 (Par.
286 sgg.) — We. I. 52 — We. I. 51 — We. I. 57 — We. 1. 58 —
We. I. 60 — We. I. 63 - We. I. 65 — We. 1. 71 — We. 1. 109 —
We.1. 114 — We.I. 122 — We. 1.123 — We. 1. 124 — We. I. 132
sgg. — We. 1. 138 —We. 1. 147 — We. II. 39 — We. II. 31 —
We. II. 33 - We. II. 43 — We. II. 51 — We. II. 52 — We.
II. 56 — We. II. 6(), 67. A cui interessa, queste indicazioni
bastano]. — J. B. Bury, Aristides ai Salamis, pp. 414-418 [Le
notizie degli antichi sono discordi e ciò è prova della grande in-
certezza della tradizione. L'autore prende in esame vari passi di
Erodoto, Diodoro Siculo, Plutarco, Aristotele ('AG. ttg-
Xr.eia) e dal loro riscontro ne deduce che la soluzione più sem-
plice di tutti i dubbi è questa: Aristide stesso (himself) in. uno
degli strateghi (ateniesi)]. — H. Ldtz, The Gorintìiian constiiution
after the fall of the Cypselides, pp. 418-419 [La costituzione di
Corinto stabilita dopo la cacciata dei tiranni è descritta da Ni-
colao Damasceno in poche parole (presso Mùllek , Fragni,
hist. graecorum, fr. 60). Con l'aiuto di due luoghi di Polibio,
11299 b e 1298 b (Susemihl) il Lutz dimostra che essa consistette
in ciò : divisione del popolo in otto qpuXai, di cui una formata
dalla nobiltà. La direzione suprema degli affari pubblici data a
due corpi di governo, i ìipópouXci nobili e la pouXi'i popolare; i
TTpópouXoi avevano il diritto della 'prima deliberazione': alla
PouXn spettava la decisione finale su le proposte dei npópouXci].
— A. SouTER, Greeli metrical inscriptions from Phrggia, pp. 420-421
[L'articolo continuerà. Qui sono pubblicate e variamente illustrate
tre iscrizioni, da copie epigrafiche del Ramsay]. — M. L. Earle, Of
the suhjunctive in relative clauses after oùk è'(JTiv and its kin,
pp. 421-424 [A proposito di due articoli di W. W. Goodwin, On
the extent of the deliberative construction in relative clauses in
Greeli (in Harvard Studies in Class. Philology VII 1-12) e Some
remarhs oh the Moods of will in Greek (in Transactions of
the American philological association XXVI. 1894. L-Ll), tenuto
conto anche della recensione dèi primo pubblicata da A. Sidgwick
nella Class. Revieiv dell'aprile '91. È impossibile riassumere il
lavoro dell'EARLE e senza conoscere la trattazione le conclusioni
non si intenderebbero. Mi accontento di osservare che è un eccel-
lente contributo alla sintassi dei modi in greco]. — W. M. Lindsay.
The dative singular of the fìfth declension in Latin, pp. 424-427
[La conclusione è questa: è affatto incerta la terminazione bisil-
labica {-ei) nel dativo singolare della quinta declinazione nel la-
tino classico]. — C. Knapp, Notes, pp. 427-429 |A Plautus,
Amphitruo 343 (Goetz-Schoell) ; Captivi 769 sgg. ; Trinummus
533-537 (Brix-Niemeyer). Terentius, Fhormio 140 sgg. Horatius,
- 329 —
Sat. 1 1 49. I 1 68 sgg. I 5 50. Come esempio del genere reco
( uest'ultima nota: «per un buon commento di pienissima villa
e. ". Cicero, Caio Maior § 56 : Semper enim boni... succidiam
ai erant appellant »]. — L. Horton-Smith, Latin ' harha ' and
its initial JB, pp. 429-430 [Il h iniziale nel latino harha (invece
di Vfarhd) è una delle tracce dell'influenza celtica sul Latino].
— )\ W. Mackail, Notes on Virgil, ' Georg. Il 501-2\ p. 431
[A i"oposito di populi tahularia con riferimento alla spiegazione
del ]t\AY (vedi Rivista, fase, preced., p. 151)]. — A. Plait, Note
on Rmier hymn Dem. 268, pp. 431-432. — pp. 432-453. Recen-
sioni: G. BusOLT, Griechische Geschichte. 11'^ [R.W. Macan.
Opera preziosa e utile]. — Adversaria in comicorum graecorum
fragnunia scripsit et co?%^7 F. H. M. Blaydes. Il [W. Headlam.
AmpiaWotizia esemplificata, con qualche osservazione]. — L. Muel-
LERi L,". re metrica lihri septem^ [S. G. Ovven. Confronto con
la edizil ne precedente. Troppo accentuato 1' ' egotismo ' dell'autore;
pure il\ ibro è un notevole contributo alla scienza del latino]. —
CallimaÀhi Aetiorum lihrum I prolegonienis, testimoniis, adno-
tatione e 'itica, auctorihus , itnitatoribus instruxit E. Dittrich
[R. Elli 1. Notizia con lodi]. — J. Wackernagel, Altindisclie
Gramma. ik, I[J. Strachan. Notizia].— Archaeology. A. Furt-
waenglee Intermezzi: Kimstgescìiichtliche Studien. — Lo stesso,
Ueher Statuenhopien im AUertìmm, I [E. Sellers. Largo rias-
sunto , cor, elogi, della prima pubblicazione; breve notizia della
seconda, di cui la referente afferma che ha uno speciale interesse
per gli ar{) leologi inglesi]. — Q.lonR, Memphis and Mycenae;
an examini tion of Egyptian Ghronology and its application io
the early history of Greece [J. L, Myres. Ampio riassunto. Giu-
dizio molto favorevole]. — p. 453-454. H. B. Walters, Monthly
recort? '(scavi: Italia, Grecia, Asia minore). — D. B. Monro, Mr.
Agar's review of the Oxford Homer, p. 455 [Breve dichiarazione
su la responsabilità che egli, il Monro, ha riguardo all'edizione
degli inni omerici dell'ALLEN (vedi il n° preced. della Classical
Review, fra le recensioni].
Wochenschrift fur Jclassische Philologie. XIII, 1896. — n. 52.
F. Nencixi, Lucretiana. Estr. dalla Rivista di Filol. II (XXIV)
[Fk. Susemihl. Delle varie congetture alcune sono veramente fe-
lici, altre contestabili]. — G. Melodia, Gli studi più recenti
sulla biografia di Lucrezio. — G. Grasso, Il ^pauper aquae
Bauniis ' oraziano [0. Weissenfels. In entrambe le dissertazioni
l'argomento è trattato con chiarezza critica e acutamente [ —
Cornelius Nepos. Ausivahl der wichtigsten Lehensheschreibung .
Fur den Schulgebrauch hrgh. von K. Hoeber, 1, Text [F. Fii-
GNER. L'introduzione lascia molto a desiderare, specialmente per
un libro, come questo, destinato alle scuole, e tutto il resto non
- 330 —
meno]. — W. Mììnch, Vermischte Aufsciize iiber Unterricìits-
ziele und Unterrichtskunst an hohcren Sclmlen^ [0. AVeissen-
FELS. Contestazioni].
XIV. 1897. — n. 1. H. Sauppes AusgewuhUe Schriften [0. Kern.
È una pubblicazione che non ostante alcune po*'he mende merita
la riconoscenza di tutti i filologi]. — A. De Marchi, Il culto
privato di Roma antica. I [M. Ihm. Opera utile che può essere
accolta nel miglior modo. Qualche appunto]. — T. Livi ah urbe
condita libri. W. Weissenborns erklarende Ausgabe, neu bearh.
von H. J. Muller. Bucìi XXIV u. XXV\ IV u. F« [E.
WoLFF. Rassegna di molte lezioni qua e là con proposte di retti-
fiche del referente. 11 commento è pregevole per la copia e la
chiarezza delle notizie]. — tì. Melodia, Miscellanea [G. A(ndre-
sen?). Contenuto]. — Ber obergermanisch-raetische Limes des
Romerreiches... ìirgb. von 0. v. Sarwey und F. Hettner [M.
Ihm. Notizia]. — H. Belling, Epikritische Studien zu Tibull, 1.
Zu IV, 2-14. — Ein altgriechisches Pferdegeschirr [Riassunto
della notizia data di un fornimento di cavallo, acquistato dal
museo reale di archeologia di Berlino, da E. Pernice nella so-
lenne seduta del 9 decembre (in onore del Winckelmann) della
società archeologica berlinese].
n. 2. Fr. Blass, Grammatik des neutestamentlichen Griechisch
[J. Draeseke. Molti elogi]. — J. Kuhm, Die Komposition der
Sophokleischen Tragoedie ' Oidipus Tyrannos ' 1, 2 [H. Morsch.
In troppe cose il referente non può condividere l'opinione dell'au-
tore, che molto spesso è andato al di là del segno]. — J. Tralka,
Socratis de diis eiusque (sic!) daemonio opiniones qtiae fuerint
[Z. Dembitzer. Non solo non contiene nulla di nuovo, ma anche
l'esposizione delle opinioni altrui è fatta in modo che non si può
acquistare cognizioni esatte su l'argomento. Inoltre le citazioni
lasciano molto a desiderare]. — F. Alagna, Observationes criii-
cae in L. Annaei Senecae Herculem [W. Gemoll. Delle 11
osservazioni una sola, quella al v. 268, è giusta]. — F. Gnecchi,
Monete romane [A. Pfeiffer. Non ostante varie omissioni, il
manuale merita buona accoglienza]. — F. J. Scherer und
H. A. ScHORNBUSCH, UehungsbucJi nebst Grammatik filr den grie-
chischen Unterricht der lertia^ [A. Reckzey. Notizia, con qualche
osservazione].
n. 3. Der erste Brief an die Korinther, neu bearh. von
C. F. G. Heinrici [J. Draeseke. Molti elogi]. — K. Dahl, De-
metrius rrepì épinriveiaq, ein Beitrog zar Bestimmung der Ah-
fassungszeit der Schrift [B. Kììbler. Lavoro diligente, che merita
lode incondizionata per la trattazione metodica e cauta della que-
stione]. — P. Thomas, Sénèque. Morceaux choisis. Extruits des
lettres à Lucilius et des traiiés de morale. Texte latin puhlié avec
une iniroduction, des remarques et des notes [W. Gemoll. Le
note costituiscono la parte migliore del libro]. — Joh. Paulsox,
- 331 —
In tertiam partem libri Juìiacensis unnotationes. Accedit ap-
pendicis loco eìusdem partis initium adkuc meditum [C. W. No-
tizia]. — H. Belling, EpiJcr. Studien zu Tihull, 1. Continuazione,
n. 4. K. ScHWERZEK, ErUluierungen su der Rehonstruktion
des Westgiebels des Farthenon. — Wizemann, Die Giehelgrup-
pen des PartJienon [B. Sauer. La prima pubblicazione rictiiede
non poche rettificazioni, ma in complesso è un lavoro di gran
valore; nella seconda non ce niente di nuovo: non è adatta per
la scuola, è inutile per i dotti]. — P. Cornelio Tacito, Il libro
secondo delle ' Storie ' con ititr eduzione, commento, appendice
critica e una carta geografica a cura di L. Valmaggi [G. Ax-
DEESEN. Edizione degna di lode, specialmente in quanto la cono-
scere al lettore tutti i contributi finora portati alla critica e alla
interpretazione delle storie tacitiane]. — V. Henry, Antinomies
linguistiques [0. Weise. Scritto che non manca di valore. Ap-
punti]. — H. Belling, EpiJcr. Studien zu Tibull, 1. Continua-
zione. — K. Z., Ausgrabungen bei E'aimingen (presso il villaggio
di Dillingen). — Eine ethnologische Hypothese von H. Grotii'S
[La lettera del celebre filologo, già pubblicata neWAthenaeum da
E. C. Strutt [nr. 3(309, p. 905], al Voss, Parigi 1645].
n. 5. Olympia. Die Ergehnisse der von dem deutsclien Reich
veranstalteten Ausgrabung, ìirgb. v. E. Curtius und Fu. Adler.
F, Die Inschriften v. Olympia bearb. v. W. Dittenbekger und
K. Purgold [0. Kern. Notizia particolareggiata con molte lodi].
— Hesiodos. Ins DeutscJie uebertragen und mit Einleitungen
und Anmerkungen versehen von R. Peppmììller [C. Haeberlin.
È un libro che acquisterà nuovi amici all'antico poeta]. — Th. Gom-
PERZ, Zìi Aristoteles Foetik. Ein Beitrag zur Kritik und Er-
lildrung der Kapp. I- VI. — Lo stesso. Za Aristoteles Poetik
II und III. — Lo stesso, Las Scìdusskapitel der Poetik (1888-
1896) [A. Doring. Pubblicazioni di gran valore, nelle quali sono
esposti i risultati di una profonda critica esegetica]. — H. Mer-
QUET, Handlexikon zu Cicero. Probeheft (a-adfero) [A. Prììmers.
In generale si può affermare che è un lavoro fatto con grande
cura]. — H. Belling, Epikr. Studien zu Tibull. Continuazione.
— ?. Das zweite romische Kastell in Welzheim. — ?. Bòmi-
sches Kastell bei Rheinau.
n. 6. Paulys Realencyklopddie der klassischen Altertums-Wis-
senschaft. Neue Bearb. ...ìirgb. von G. Wissowa. Artemisia-
Barbaroi [Pr. Harder. Alcuni articoli sono troppo brevi, ma in
complesso questo, come i volumi precedenti, attesta la diligente
attività dei collaboratori e della redazione].. — J. E. Sandys, Se-
lect private orations of Demosthenes. P. II containing prò
Plcormione, centra Stephanum I-II, cantra Nicostra-
tum, Cononeni, Calliclem. With introduction and english
commentar y, with supplementary notes by Palez^ [E. Rosenberg.
Brevissima notizia. L'editore non ha tenuto conto di alcune pub-
— 332-
blicazioni importanti]. — Dem. Sp. Stavropulos, 'EpeipiaKÒ |ue-
XetriiLiaTa (Estratto dalla 'Eqprifiepìi; ópxaioXoYiKri 1895) [K. No-
tizia sommaria del contenutoci demi di Eretria. 1 santuarii di
Artemis Amarysia nell'Eubea e nel demo attico degli Athmones.
Correzioni e aggiunte ad alcune iscrizioni di Eretria già pubbli-
cate')]. — E. GscHWiND, M. Tulli Cicekonis Tusculanarum
disputationum libri I, II, V [0. Weise. 1 difetti della pubbli-
cazione, non pochi e di vario genere, non sono però tali che ne
possano sconsigliare l'uso nella scuola, tanto più che non mancano
i pregi]. — hvANOFF , Arcìiitektoniscìie Studien (Nachtrag)
[M. KosTOWZEW. Kettifiche alla recensione che il referente pubblicò
del lavoro delllwANOFF nella Woch. f. hi. Philol. 1896, n. 47
(vedi Rivista, fase, preced., pag. 145)]. — Mitteilimgen: Arcliuo-
logiscìie Gesellschaft su Berlin. Winckelmannsfest : SchÒxVE, ' Com-
memorazione di Ernst Curtius'. — (Dal Gentralhlatt d. Bau-
verwaltung): Ber Stand der Limes f or schung irn Taunusgebiet
[Breve descrizione].
n. 7. Omero, L'Iliade commentata da C. 0. Zuretti, 1. —
L'Odissea [dallo stesso], I [C. Kothe. Molte lodi tanto alla i:ri-
tica del testo quanto al commento eruditissimo e accuratissimo].
— Thukydides. AuswaJd fiir den Schulgebrauch von Heinrich
Stein, II [Ch. Harder. Alcune mende non diminuiscono punto
il valore del libro, la cui apparizione si deve salutare con piacere].
— Phaedri Augusti liberti fabulae Aesopiae. Recensuit usus
editione codicis Rosanboniani ab Ulixe Robert comparata
L. Havet. — Phèdre, Fables Esopiques, édition classique par
L. Havet [S. Herzog (la recensione continua nel n. 8). Entrambe
le edizioni hanno molto valore; il commento (della seconda) è
assai pili copioso che non sia necessario]. — Eos. Commentarii
societatis philologae editi a Ludovico Cwiklinski. Ili, 1 (com-
prènde: Th. Zielinski, Lucretianum. — N. Sabat, Be imagini-
bus atque tropis in Morati carminibus, qui ex proportionis ra-
tione profìciscuntur. — (in polacco) St. Schneider, ' Tracce di
polemica sofistica presso Erodoto e Tucidide \ — Lo stesso, ' Al-
lusioni a Tucidide il vecchio '. — J. Szydlov^ski, ' Osservazioni
intorno al tempo della composizione delle due Elettre [di Euripide
e di Sofocle] *. — P. L. Dkopiowski, ' Studi su Omero. I, La-
grime e pianti'. — V. Hahn, 'Polluce e Aristotele') [Z. Dem-
bitzer. Notizia delle singole monografie]. — H. Bellino, Epihr.
Studien zu Tibull. Continuazione. — K. Fuchs, Zur Geschichte
der klassischen Medisin [Breve nota bibliografica].
n. 8. Sophokles' Elehira erkldrt von G. Kaibel {Sammlung
wissenschaftliclier Kommentare zu griecJi. und ròm. Schriftstel-
lern hrgb. von G. Kaibel) [E. Holzner (la recensione continua
nel n. 9). Riassunto delle varie parti dell'introduzione. Nota di
varie lezioni del Kaibel, col quale il referente può spesso con-
sentire. La ' forza ' del libro consiste nel commento che è ottimo.
— 333 —
pur dove non si vada d'accordo con l'autore].^— H. Francotte,
Vaniiclosis en droit aihénien [0. Schultbess. È dubbio se l'eccle-
tisnno, di cui l'autore dà prova nella sua trattazione, sia ammis-
sibile]. — E. LiNDEN, De hello civili Sullano [E. Kornemann.
Non giunge a risultati nuovi]. — L, Winkler, Der Infinifìv bei
Livius in den BucJiern 7, XXI und XLV [E. Wolff. In com-
plesso favorevole]. — A. van Wessem, De Ugonis Grotii epistola
ad J. VossiUM data (varianti, con commento, e correzioni alla
lettera del Grotius [pubblicata dallo Strutt, vedi n. 4 sopra]
dalla edizione di Amsterdam 1688). — H. Bellino, Epìkr. Stu-
dien zu Tihull. Continuazione.
n. 9. AiscHYLOs' Orestie griechisch und deutscli von Ulr. v. Wi-
lamowitz-Moellendorff. II, Bos Opfer ani Graie [C. Haeberlin,
Notizia del contenuto con qualche appunto, ma di poco momento].
■ — Schefczik, Ueher die Ahfassungszeii der ersten philippisclien
Bede des Bemostìieves [E. Rosenberg. Il referente non può con-
dividere le opinioni dell'autore, il quale del resto lascia insoluta
la questione]. — M. Sceanz, Geschichte der ròmischen Liiicratur
bis zmn Geseizgehungstcerh des Kaisers Justinian, III [Fr. Har-
DER. Notizia del contenuto. L'autore fortunatamente scrive non più
per il ' primo orientamento ', che era il suo scopo in principio
della pubblicazione, ma fornisce tutti i materiali per uno studio
profondo. Alcuni leggeri appunti]. — T. Livi ah urhe condita
lihri I, II, XXL XXIL Adiunctae sunt partes selectae ex
lihris in- VI, Vili XXVI XXXIX. Unter Mitwirhung von
A. Scheindler far den ScJmlgehrauch hrgh. von A. Zingerle*
[E. Wolff. Nota dei divari fra questa e la terza edizione, con
appunti]. — H. Belling, Epihr. Studien su Tihull. Continuazione.
— Eintrittsmarhen fur das Theater zu Athen (dall' "AcTtu
2206). — Eine Sclierhe vom Ostrakismos des Themistokles (dal
giornale Post 1897, n. 41).
Berliner pliilologiscìie Wochenschrift. XVI. 1896. — n. 52.
Platons Protagoras. Fiir den Schulgehrauch erklàrt von J. Deu-
schle. 5 Aufl. hearh. von E. Bochmann [0. Apelt. Basta il sem-
plice annunzio]. — Philodemi volumina rhetoriea edid. S. Sudhaus,
voi. 11 [C. Hammer. Segna un forte progresso rispetto al voi. 1.
Qualche appunto]. — Sereni Antinoensis opuscula. Ed. et latine
interpretatus est J. L. Heiberg [F. Hultsch. La critica del testo
è trattata con mano ferma. In un punto solo il referente non
condivide l'opinione dell'editore]. — P. Ovidii Nasonis Metamor-
plioses. Ausivaid fiir die Schiden mit erlaut. Anmerkungen... von
J. SiEBELis. X-XV... 13 Aufl. hesorgt von F. Polle [K. Ehavald.
Libro eccellente]. — C. Sallusti Crispi Catilina med sproglig rg
historisk Kommentar udgivet af M. Cl. Gertz. — K. Kunst,
Bedeutung und Gehrauch der zu der Wurzel 'fu^ gehòrigen Ver-
— 334 —
hàlformen bei Salltist [J. H. Schmalz. 1. Molti appunti sia alla
critica del testo sia al commento. 2. Trattazione acuta e interes-
sante]. — H. GiLLiscHEWSKi , De Aetolorum praetorihus intra
annos 221 et 168 a. Chr. n. munere fimctis [G. F. Hertzbekg.
In complesso è uno scritto da classificare fra quelli di cui i Fran-
cesi dicono 'matériaux pour servir à l'histoire etc.'J. — B. P.
Grenfell, Revcnue Laws of Ptolemy JPìiiladelplius, edited front
a Greek papyrus in the Bodleian Library with a translation,
commentary... by J. P. Mahaffy [P. Viekeck. Minuta notizia del
contenuto; bisogna essere molto grati all'editore di questa eccel-
lente pubblicazione]. — A. Ohlert, Die deutsche hòhere Schule
[0. NoHLE. Riassunto con qualche osservazione]. — 0. Schwab,
Libyssa [Il luogo dove fu sepolto Annibale. L'autore dichiara e
dimostra che in nessun caso Gebize si può identificare con Libyssa.
Questa si trovava piuttosto, secondo le supposizioni del Leake e
del Kiepert, presso l'attuale stazione di Dil (golfo di Ismid, l'an-
tico sinus Astacenus). — ?. Ausgrabimgen in Kornith, Athen,
Tunis (das Bild Vergils) [Notizia]. — Berichtigmig [Rettifiche
di L. Alzingeu alla recensione- che della sua opera Studia in
Aetnam collata fece il Rossbach in questo periodico, n. 43 (vedi
Rivista, fase, preced., pag. 146)].
XVII. 1897. — n. 1. Apollonius von Kitium illustrierter Kom-
mentar zu der Mppokrateischen Schrift irepì àpGp'ov, lirgb. von
H. ScHONE [J. Ilberg. Ampia notizia con molte lodi]. — P. Ver-
gili Maronis opera apparatu critico in artius contracto iterum
recensiiit 0. Ribbeck. Voi. II-IV, Aeneis I-XII. Appendix Ver-
giliana. — P. Vergili Maronis opera cum appendice in usuni
scholarum iterum recognovit 0. Ribbeck [A. Zingerle. Edizioni
entrambe di gran valore, a cui nulla detraggono alcune poche
mende]. — F. C. Burkitt, The Old Latin and the Itala. With
an appendix containing the text of the S. Gallen Palimpsest of
Jereniiah [C. Weyman. Lavoro nuovo e buono. Parecchie conte
stazioni]. — R. Wagner, Der Entwicldungsgang der griechischen
Heldensage [H. Steuding. Elogi tanto alla trattazione ordinata
e compiuta, quanto alla esposizione chiara]. — G. Caruselli,
Sidla origine dei popoli italici. 1, Dimostrazione storico-lette-
raria. [HoLM. Notizia senz'altro]. — W. Caland, Die altindischen
Todien - und Bestattungsgebràuche [P. Stengel. Copioso e vario
il contenuto; interessanti i risultati]. — J. FiSKO, Kurzg e fasstes
Handbuch der nordalbanesischen Sprache [G. Meyer. Lodi e ap-
punti]. — W. Rein, Encyklopadisches Handbuch der Pàdagogik
II 2 [C. Nohle. è una pubblicazione che non può essere trascu-
rata da nessun studioso di pedagogia]. — P. Hartwig, Statuette
eines Apoxyomenos aiis Frascati [Descrizione].
n. 2. E. Wolff, Quae ratio intercedat inter Lysiae epitaphium
et Isocratis panegyricum [Thalheim. Lo scopo dell'autore essendo
quello di trattare la questione dell'autenticità dell' 'epitafio' che
— 335 -
va sotto il nome di Lisia, il titolo del lavoro non è esatto]. —
E. Martini, Quaestiones Posidonianae [F. Susemihl. Buona dis-
sertazione. Analisi]. — Ch. Justice, Le « Codex SchoUanus »
des exlraits 'de legationihiis' [F. Hultsch. Ampia notizia del con-
tenuto]. — JoH. Vahlen, De deliciis qmhusdam orationis Catid-
lianae [K. P. Schulze. Trattazione eccellente: ma non in tutto
lo Schulze può consentire con l'autore |. — Q. Horatids Flaccts
erUart v. A. Kiessling. II, Satiren 2 [Haeussner. Notizia, La cri-
tica del testo segna un miglioramento rispetto alla prima edi-
zione]. — Evangelium Falatinum... denno ed. J. Belsheim [C. W.
Notizia]. — A. HòCK, Demosthenes. Ein Lehenshild. Gymnasial-
Bihliotìiek [Thalheim. È dubbio se l'autore abbia raggiunto il
suo scopo]. — A. Furtwaexgler, Ueher Statuenliopìeen im Alter-
thum, 1. — Lo stesso. Intermezzi: KunstgeschicìiUìche Studien
[F. Hauser. Notizia delle due pubblicazioni con molte lodi]. —
0. Holtzmann, NeutestanientlichR Zeitgeschiclite. Grundriss der
theologischen WissenscJiafien [A. Hilgenfeld. Appunti di vario
genere]. — W. M. Ramsay, The Rivers of Laodiceia ad Lycum
[Nota topografica a proposito della recensione del Partsch (in
Berliner phil. Wochenschriff 1896 n^ 15 e 16) dell'opera dello
stesso Ramsay, Cities and Bisliofries of Fìirygia, I].
n. 3. N. Batistic, La Nekyia ossia il libro XI dell' Odissea
considerato dal lato linguistico e sintattico e confrontato col resto
delle poesie di Omero [R. Peppmuller. Molti e gravissimi ap-
punti]. — V. Puntoni, L'inno omerico a Demetra con apparato
critico scelto e un'introduzione \A. Ludwich. Lavoro serio, dili-
gente e accurato ; ma i risultati sono contestabili]. — 'Apyu-
piaòrì(;, KpiTiKaì Kaì épiUTiveuTiKaì òiopGiOaeK; eìq GouKuòibriv [G.
Behrendt. Fa difetto la critica]. — G.M. Columba, La tradizione
geografica dell'età romana. — Lo stesso. Le fonti di Giulio Solino
[A. Haebler. Il merito principale di entrambi gli scritti consiste
nei diligenti paralleli che l'autore istituisce fra i passi di molti
classici romani e greci]. — L. Annaei Plori epitomae libri II et
P. Anxii Plori fragmentum de Vergilio oratore an poeta ed.
0. RossBACH [G. Helmreich. Filologi e storici saranno grati al-
l'autore per il suo buon lavoro]. — D. Philios, Eleusis. Ses my-
sières, ses ruines et son musée [0. Rubensohn. L'autore merita la
riconoscenza non solo dei visitatori di Eleusi, ma di tutte le per-
sone colte]. — P. Trommsdorff, Quaestiones duae ad historiam
legionum Bomanarum spectantes [L. Holzapfel. Prezioso contri-
buto alla storia delle legioni romane]. — R. Edward, Museum of
fine Aris Boston; Catalogne of casts, p. IH: Grecie a. Roman
sculpture [F. Hauser. Non ostante alcune mende è una buona pub-
blicazione]. — G. Castellani, Giorgio da Trebisonda maestro di
eloquenza aVicenza e aVenezia. — Lo stesso. Documenti veneziani
inediti relativi a Francesco e Mario Filelfo [Lehnerdt. Notizia di
entrambe le pubblicazioni, con qualche appunto alla prima]. —
- 336 -
H. PoMTOW, Die netien delphischen Tempelhau-Rechnungen, die
Felsinschrift [Su le scoperte del 1893 (Bullet. de correspondance
hellénique XX, 1806, 197-241). 11 Pomtow dimostra quanta im-
portanza esse abbiano, servendo a stabilire la lista degli arconti
delfici e la genealogia dei cittadini di Delfo e fornendoci preziose
notizie su la composizione deirAmtìzionia delfico-pileata dopo il
336 a, C. In fine un accenno alla iscrizione dei Labiadi],
n. 4, A, HiLLERT, De casimm sijrdaxi Sophocka [Wecklein.
L'A. mostra di non possedere cognizioni profonde intorno al signi-
ficato dei casi], — M. Graf, In Dionis Prusaensis orationes
ah J. DE Arnim editas (voi. I) coniecturae et explanationes [P.
Wendland. Molte contestazioni], — Convmentaria in Aristotelem
graeca edita Consilio et auctoritate acad. litterarum r. Borus-
sicae. Voi. X, Simplicii in Aristoielis Physicorum lihros quattuor
posteriores commentaria, ed. H. Diels [X. Pubblicazione che de-
sterà negli studiosi un sentimento di riconoscenza verso l'editore],
— A. Gercke, Seneca-Studi en [0, Rossbach, Lavoro che attesta
qua e là della diligenza dell'autore, ma con troppe mende], —
John, Die Briefe des jìingeren Plinius und der Dialogm [K. NiE-
MEYER, Notizia con qualche contestazione], — K, Bapp, Prome-
theus. Ein Beitrag zur griechischen Mgthologie [H, Steuding.
In complesso molto favorevole], — 0, Meltzer, Geschichte der
Karthager, II [R, Oehler, Notizia del contenuto, con appunti
di vario genere, ma anche con elogi]. — Zum altsprachlicìien
Unferricht : Demosthenes, Die Olynthischen und Philippischen
Reden nehst der Bede iiber den Frieden. Zum Gebrauch fiir
Scinder ìirgh. von H. Windel. — Licurgo, L'orazione contro
Leocrate commentata da A, Cima, — Homers Odyssee. Fiir den
Seìiidgebrauch in verhiirzter Form hearh. u. hrgh. von J, Bach,
— SoPHOKLEs' Antigone. Zum Gebrauch fnr Schiller hrgh. von
Chr, Muff. [Fr. MiìLLER, Brevissima notizia delle quattro pub-
blicazioni, per certi rispetti tutte più o meno commendevoli],
n, 5, R, C, Jebb, Homer.Eine Einfiihrung in die llias und Odyssee.
Autorisierte Uebersetzung... von E, Schlesinger [R. Peppmììller.
Libro nel suo insieme utile malgrado le sue mende], — J, Hooy-
KAAS, De Sophoclis Oedipode Coloneo [Wecklein. Breve notizia],
— V. Ussani, Un caso della fusione di due voci in Vergilio ;
due luoghi di Vergilio spiegati [A, Zixgerle. Contestazioni], —
HiERONYJius, Liber de viris inlustribus. — Gennadius, Liber de
viris inlustribus hrgh. von E, C, RichardsON, — Der sogcnannte
SoPHRONius hrgb. von 0. v. Gebhardt [C. Wetman (la recensione
continua nel n, 6), Molti appunti alle due edizioni curate dal
RiCHARDSON, Favorevole in complesso il giudizio intorno a quella
del Gebhardt], — La Glyptothèque Ny-Carlsberg fondée par
C. Jacobsen. Les monuments antiques. Clioix et texte de P, Akndt
[B. Sauer. Pubblicazione eccellente alla quale è da augurare la
più larga diffusione].
- 337 -
n. 6. Herodotos erhldrt von H. Stein. 112 Uh. IV^ [J. Sitzler.
Nota di parecchie lezioni congetturali dell'editore qua e là con
appunti e rettifiche. 11 commento è accurato e più ampio di prima |.
— W. A. Heidel, Pseudo-Platonica fO. Apelt. Ciò che v'ha di
originale e di nuovo è parte insignificante parte contestabile). —
Aeschinis orationes. Post Fu. Frankium curavit Fr. Blass. Ed.
maior aucta indice verhorum a S. Preuss con facto. — ... Ed.
minor. — Index AescTdneus, composuit S. Preuss [Thalheim.
Notizia con lodi ; qualche rettifica alla critica del testo eschineo].
— Th. Keinach, Deux fragments de musique grecque (Estr. dalla
Pevue des études grecques 189G) [C. v. Jan. Pubblicazione utile.
Appunti]. — CiCERONis Tusculanarum disputationum libri V fiir
den SchulgehraucJt erklàrt von O.Heine, à lib.IlI-V* [H. Deiter.
Edizione veramente migliore delle precedenti]. — Eranos. Ada
philologica Suecana. Edenda curavit "\V. Ltjndstrom, I (comprende:
Hesiodea scr. 0. A. Daniei.ssox. — J. Paulson, Anmerkungen
zur Oidipus-Sage. — 0. A. Danielssox, Die argivische Bronzein-
schrift der Sammlung Tyshiewicz. — Lundstròm, Emendatiohcs
in Columellam. — Clas Lindskog, Ueher die sogen. Attractio
inuersa ini Lateinischen) [C. Haeberlin. Questo primo fascicolo
promette molto ed è il benvenuto. Notizia delle singole mono-
grafie]. — L. Whibley, Greeh Oligarchies, their characier and
organisatìon [Holm. Lavoro assai diligente, con vedute originali].
— J. E. Hylén, De Tantalo. Commentatio academica [H. Steu
DiNG. Se anche non si possa consentire in tutto con l'autore bi-
sogna riconoscere che è utile l'accurata e chiara raccolta del
materiale]. — J. Jùthner, Ueber antike Turngerate [H. Blùmner.
Molte lodi. Riassunto delle quattro parti in cui è divisa la trat-
tazione]. — V. Eeforgiato, Gli epigrammi di Giano Pannonio
[Lehnerpt. Il referente non ha trovato nulla di nuovo]. — C. Ca
STELLANi, Pietro Bembo bibliotecario della libreria di S. 3Iarco
in Venezia [Lehnerdt. Notizia del contenuto].
n. 7. TJie Orestes of Euripides edited ivith iniroduction, notes
and metrical ajjjjendix by N. Wedd [Wecklein. È una edizione
fatta con garbo, ma superficiale così rispetto alla grammatica,
come alla critica del testo e alla letteratura dell'argomento]. —
.J. L. V. Hartmann, Notae criticae ad Platonis de republica
libros. Pars prior, I- V [0. Apelt. Lavoro molto utile, per il
quale l'autore merita riconoscenza. È desiderabile che il Hartmann
possa condurlo a fine così come l'ha cominciato]. — Galeni In-
stitutio logica., edidit C. Kalbfi.eisch [J. Ilberg. È la migliore
edizione, di quelle delle opere autentiche, di Galeno]. — C. Sue-
TONii Tranquilli vita Divi Claudi?'. Commentario instnixit
H. Smilda [G. Helmreich. Offre tutto ciò che è necessario per
la intelligenza del testo]. — lurisprudentiae Antehadrianae qitae
supersunt ed. F. P. Premer, 1 [W. Kalb. Lascia molto a desi-
derare e per più ragioni]. — J. ì^iccowsi, l'asti trihunorum plebis
Riti$ia ili Jilolijgìii, ecc., XXV. 22
— 338 —
ab an. 260(494 usque ad an. 731123 |L. Holzapfel. Lavoro
prezioso]. — P. Giles, Vergleichende Grammatik der klassiscìien
Sprachen. JEin hurzes Handbucli fiir Studierende d. hi. PJiilo-
logie... deutsche Ausgahe hesorgt voti J. Hertel [G. Meyer. Libro
che può rendere buoni servigi ai principianti]. — J. Schvarcz,
Nemi Briefe an Prof. Dr. Paul Nekrlich iiher die Literatur
der Griechen [C. Haeberlin. È una pubblicazione superflua]. —
0. TiiSELMANN, Eifie Studienreise durch Italien ini Jahre 1562
[Lehnerdt. Notizia]. — Sghòne, ' Commemorazione di E. Curtius'
{vedìWoch. f. hi. Philol., n. 6, in questo fase, della Rivista). —
?. Ausgrahungen in Athen, ini Piràus und in Korinth [Notizia].
n. 8, A. F. R. Knotel, Homeros der Blinde von Cliios und
seine Werhe, II [R. Peppmuller. Non ha nessun valore]. —
PiNDARi Carmina prolegomenis et commentariis instructa edidit
W. Christ [A. B. Drachmann. C'è molto di buono. Appunti e
rettifiche]. — U. Nottola, La similitudine in Cicerone. Studio
[G. Landgraf. Lavoro diligente; ma la raccolta (delle similitu-
dini) non è compiuta né sempre bene ordinata]. — Novum Te-
stamentum domini nostri lesu Christi latine secundum editionem
sancii Hieromjmi ad codd. mss. fìdem recens. I. Wordsworth
in operis societatem adsumto H. I. White. I 3-4 [A. Hilgenfeld.
Qualche contestazione]. — D. Ma.llet, Les premier s établissements
des Grecs en Égypte [E. Meyer. Accurato; ma l'autore si mostra
alquanto digiuno di letteratura greca e non ha l'abito della ri-
cerca storica]. — W. Ihne, Bómische Geschichfe. 11^. Von ersten
puniscJien Kriege bis zum Ende des ziveiten [G. Hertzberg.
Edizione migliore della precedente. L'Ihne ha tenuto conto dei
lavori scientifici pubblicati sull'argomento dopo che era uscita la
prima edizione, e ha fatto molte aggiunte importanti]. — Fest-
buch ziir hundertjdhrigen Jubelfeier der deutscìien Kurzschrift.
Zur Mosengeilfeier hrgb. von C. Johnen (comprende, fra l'altro,
Zangemeister, Ueber den Ursprung des Alpliabetes der tironi-
schen Noten) [G. Gundermann. Notizia delle singole monografie
che riguardano l'antichità classica]. — Catalogne of the Greeh
and Etruscan vases in the British Museum. Ili, Vases of the
finest period, by C. Smith. IV, Vases of the latest period by
H. B. Walters [F. Hauser. Eccellente, anche per le note e le
introduzioni]. — M. HarTxAIANN, Metrum und Bhythmus. Die
Entstehung der arabischen Versmasse [v. Jan. Notizia del con-
tenuto]. — (G. Pascoli), Cena in Caudiano Nervae. Carmen
praemio aureo ornatum in certamine poetico Hoeufftiano. Acce-
dunt duo poemata laudata [CI Haeberlin. Sono poesie che « ci
lasciano intieramente freddi »]. — ?, Myhenisches. Nachfor-
schungen nach dem Kynosarges zu Athen [Relazione su varie
scoperte e su le ricerche a cui hanno dato luogo].
n. 9. Ph. Chr. Molhuysen, De tribus Homeri Odysseae codi-
cibus antiquissimis (cioè G. F. P.) [A. Ludwich. Contestazioni
— 339 —
e rettifiche]. — TTXouxdpxou Tò èv Ae\cpoT(g E TTpoacpoiveiTai
'Epvéatuj KoupriLU aYOVti ■xy\v ÒYÒor|KovTaeTr)pìòa ùttò fp. N.
BepvapòdKr]. — The treatise of Plutarch 'De cupidifate divitiarum
edtfed hy W. E. Paton [E. Kurtz. Notizia di entrambe le edi-
zioni, a ciascuna delle quali il referente move degli appunti di
vario genere ; ma il giudizio in complesso è favorevole]. — Die
Apologien Justins des Miirtyrers hrgb. von G. Krììger ^ [A. Hil-
GENFELD. Edizione migliore della precedente. Qualche rettifica],
— A. Ledschke, De metamorplioseon in scholiis Vergilianis fa-
hulis [H. Stedding. Notizia con lodi]. — E. Novak, Ohserva-
tiones in scriptores historiae Augustae |H. Peter. Non si può
in tutto essere d'accordo con l'autore, specialmente nelle sue pro-
poste di emendamenti al testo]. — L. Hervieux, Les fabulistes
latins depuis le siede d'Auguste jusqii'à la fin du moyen àge.
IV, Eudes de Cheriton et ses dérivés [0. Keller. Eiassunto. Bi-
sogna essere molto grati al Hervieux per questo suo nuovo libro].
— Studi italiani di filologia classica. IV [W. Kroll. Breve no-
tizia delle singole monografie. Lodi alla pubblicazione]. — K.Weiss-
MANN, Die scenischen Amceisungen in den SchoUen su Aischylos,
SophoJcles, Euripides und Aristophanes und ilire Bedeutung fiir
die BuhnenJcunde [A. Muller. Interessantissimo. Inoltre è un
lavoro che attesta profonde cognizioni. Qualche osservazione]. —
E. Thomas, Rome et V Empire aux deux premiers siècles de notre
ère [G. Hertzberg. Ampia notizia con elogi. È un libro per chi
conosce bene l'argomento, ma alquanto difficile in alcune parti
per tutti gli altri]. — ?. Kleine MUteilungen : Neues von Delphi,
AtJien, Salamis [Notizie archeologiche].
Revué critique dliistoire et de littérature. 1897. — n, 1. Edwin
W. Fay, The Aryan God of Lightning [V. Henry. Trattazione
chiara e dilettevole. Etimologie nuove, ingegnose e spesso molto
ardite]. — (Euvres de Platon traduites par V. Cousin. Seconde
édition par M. Barthélemy-Saint-Hilaire, I [P. Couvreur. Edi-
zione inferiore alla precedente ; questo primo volume ora pubbli-
cato si dovrebbe rifarlo tutto].
n. 2. M. AVellmann, Die pneumatische Schule bis auf Archi-
genes in ihrer Entwickelung dargestellt [My. È un libro di ca-
rattere tecnico].
n. 3. jEgyptischc JJrhunden aus den Jcoenigh Miiseen zu Berlin:
griechische Urkunden, I 4-12. II 1-9 [H. G. Pubblicazione per
ogni rispetto eccellente]. — Traces of epic influence in the tra-
gedies of Aeschylus... by S. B. Franklin [A. Martin. Eicerche
in parte deficienti]. — A. Furtwaengler, Ueber Statuenkopien
ini Alterthum, I, — Lo stesso, Intermezzi : Kimstgeschichtliche
Studien [S. Reinach. Minuta analisi dei due libri, con elogi e
contestazioni e qualche rettifica).
- 340 -
n. 4. A. Mancini, Il dramma satirico greco [A. Martin. La-
voro fatto con cura; però ci sono delle lacune e il carattere pro-
prio del dramma satirico non è messo sufficientemente in luce].
— P. Masqueray, Théorie des formes lyriques de la tragèdie
grecque [J. Combarieu. Sono semplicemente delle note, eccellenti
come preparazione allo studio del vero soggetto , ma alle quali
manca « l'essenziale »].
n. 5. P. Masqueray, De tragica amhiguitate apiid Euripidem
[A. Martin. Lavoro serio e solido, pieno di osservazioni giuste e
geniali, che segna indubbiamente un progresso nella interpreta-
zione del testo di Euripide. Qualche appunto]. — E. Thomas,
Rome et l'Empire aux deux premiers siècles de notre ère [P. T.
Non ostante alcuni errori, del resto leggeri, e alcune lacune è
una buona opera di volgarizzamento che troverà numerosi lettori].
n. 6. E. Bethe, Prolegomena zur Geschiclite des Thcaiers im
Alterthum [A. PIadvette. Libro d'erudizione brillante e temeraria
con conclusioni che non mancano di originalità]. — M. Carroll,
Aristotle's Poetics e. XX V iìt the Ughi of the homeric scholia
[My. Non è uno studio definitivo]. — Aeschinis oraiiones. Post
Fr. Fh'ANKiUM curavit Fr. Blass. Ed. minor. — Ed. maior ancia
indice verhorum a S. Preuss con fedo [A. Martin. Eccellenti le
due edizioni, che sono una vera opera nuova. Alla seconda aggiunge
pregio il diligentissimo e prezioso indice del Preuss]. — 0. Muen-
SCHER, Quaestiones Isocrateae [My. Conoscenza profonda della
lingua greca e dello stile d'Isocrate, metodo di trattazione solido
e rigoroso]. — L. Weber, Anacreontea [My. Non ha quasi altro
merito all'infuori di quello della accuratezza e della esattezza]. —
D'Arcy Wentworth Thompson, A glossary of greek birds [My.
Potrà essere utile, per la raccolta di tutte o quasi le citazioni,
a coloro che si occupano della interpretazione e dei miti astrono-
mici e delle leggende religiose. Nota di alcune aggiunte di vario
genere]. — W. Schmid. jDer Atticismus in seinen Hauptvertre-
tern von Dionysius von HaliJcarnass bis auf den zweiten Phi-
lostratus, IV [A. Hauvette. Degna corona di un'opera magistrale
(questo IV voi. è l'ultimo)]. — E. Kornemann, Die historische
Schriftstellerei des C. Asinius Pollio; zugleich ein Beitrag zur
Quellenforschung ueher Appian und Plutarch [P. L. Riassunto.
Contestazioni; pure il lavoro, che sarà di grande aiuto a chi ri-
tratterà la questione, ma sotto il duplice aspetto storico e filolo-
gico, già fin d'ora è utile per la raccolta e il raggruppamento
del materiale]. — Tacitus, Germania fur den Schulgehrauch
erklart von Ed. Wolff fP. Lejay. Il commentatore ha saputo
scegliere, dominare e coordinare i materiali della sua edizione,
che mostra inoltre tracce di legittima e discreta originalità]. —
I. Myer, Scarabs, the History, Manufacture and religious Sym-
bolism of the Scaraboeus in Ancient Egypt, Phoenicia, Sardinia,
Etruria, etc... [G. Maspero. Libro che si legge con piacere non
- 341 -
ostante le sue mende, in particolar modo nel campo egittologico].
— Amélineau, Les nouvelles fouilles d'Abydos [G. Maspero.
Molte e varie contestazioni].
n. 7. A. KiKCHHOFF, Thukydides und sein JJrlmndenmaterial.
Ein Beitrag zur Entstehungsgescìtichte seines Werkes [A. Hau-
VETTE. Novello esempio della penetrazione sottile e della potenza
logica dell'autore]. — H. Smilda, G. Suetonii Tranquilli vita
divi Claudii [É. Thomas. Saggio felicissimo che potrebbe essere
indicato come modello a chiunque tratterà argomenti analoghi.
Qualche appunto].
n. 8. R. PoEHLMANN, Grimdriss der griecìiisclien Geschiclite
nehst QiiellenJcunde^ (in Handhucìi d. Iclass. Altertumsw. hrgh.
voti IwAN V. Mììller) [A. Hauvette. Libro che è anzitutto ' uno
strumento di lavoro '. Qua e là la parte bibliografica avrebbe ad
essere più completa e più esatta]. — Licurgo, L'orazione contro
Leocrate commentata da A. Cima [A. Martin. Edizione ' racco-
mandabilissima ' che senza avere grandi pretese scientifiche attesta
competenza e tatto nell'autore. Qualche appunto]. — J. Tolkiehn,
De Homeri auctoritate in cotidiana Romanorum vita [E. T. Dis-
sertazione accurata, nella quale c'è molta erudizione e molto buon
senso. È un lavoro che dev'essere raccomandato a quanti s'interes-
sano dell'argomento].
n. 9. A. E. Haigh, The tragic drama of the GreeJcs, with illu-
strations [M. Croiset. È, quale l'autore ha voluto, opera di vol-
garizzamento, ma di volgarizzamento erudito, e dà una impres-
sione di solidità, di lealtà scientifica e di chiarezza. Però troppo
spesso la chiarezza si risolve in una semplificazione eccessiva,
difetto reso anche più grave dalla insufficienza delle notizie biblio-
grafiche. Tuttavia è un buon libro, che segna bene lo stato at-
tuale iielle nostre cognizioni intorno alla tragedia greca]. — Ta-
ciTUS. Histories, hook I edited with introduction, notes and index
hy G. A. Davies. — Q. Horati F lacci Carmina, liher Epodon
with infroduction and notes hy J. Gow. — The Pseudolus of
Plautus, edited with introduction and notes hy H. W. Audkn
[E. Thomas. L Lascia parecchio a desiderare e per più rispetti.
2. È un volume che piacerà al lettore e gli renderà dei servigi
molto apprezzabili. 3. Ci sono delle mende, ma il libro fa una
eccellente impressione]. — R. His, Die Domaenen der roemiscìien
Kaiser zeit [R. Cagnat. La prima parte dell'opera è la meno in-
teressante ; la seconda, sul valore dei possessi imperiali, è più
istruttiva. Però l'argomento è trattato meglio sotto il rispetto del
diritto che non sotto il rispetto storico].
n. 10. Adversaria in Comicorum Graecorum fragmenta scripsit
ac collega Fr. H. M. Blaydes, 11 [A. Martin. Ci sono tutte le
buone qualità e tutti i difetti, fra cui abbondanza di cose inutili,
del Blaydes]. — F. Jurandic, Die peripatetische Grammatik
[My. Contestazioni di vario genere ; pure l'opera in parte è anche
— 342 —
degna di tutti gli elogi]. — Hippocratis opera quae feruntur
omnia. Voi. I recensuit H. Kuehlewein. Prolegomena conscripse-
runt J. Ilbekg et H. Kuehlewein [My. Non ostante le numerose
mende, questo primo volume costituisce un progresso su le edizioni
precedenti; però è desiderabile che i seguenti siano migliori e al-
meno con minor numero di 'inconseguenze']. — V. Cuapot, La flotte
de 3Iisè)ie, son liistoire, son recrutement, son regime aclministratif
[R. Cagnat. Libro chiaro, nel quale è tenuto conto di tutte le
opere francesi e straniere su l'argomento e che le riassume tutte
senza dipendere direttamente da alcuna di esse. Coscienziosa e saggia
la soluzione delle varie questioni sollevate dall'autore]. — Jurispru-
dentiae antehadrianae quae supersunt ed. F. P. Bremek , I.
[É. Thomas. L'autore conosce bene il suo soggetto; pure ci sarebbe
modo di rivolgergli molte critiche di diverso genere].
Milano, marzo 1897.
Domenico Bassi.
Bollettino di filologia classica. III. 1896-97. — n. 7. V. Pun-
toni, L'inno omerico a Demetra, con apparato critico ed una
introduzione [G. Setti. Ottima pubblicazione]. — V. De Cre-
scenzio, Omero, L'Iliade commentata [C. 0. Zuretti. Il com-
mento può essere utile ai nostri licei]. — D. Bassi, Sofocle,
Elettra con note [G. Fraccakoli. Commento scolastico eccellente].
— Fr. Blass, Ada Apostolorum sive Lucae ad Tìieophilum
liber alter [C. 0. Zuretti. Testo curato con la massima dili-
genza filologica]. — G. Vitelli e G. Mazzoni, ,Manuale della
letteratura greca [G. Fraccaroli. È un libro ben pensato e ben
compilato). — A. Piccarolo, Le vite di Cornelio Nepote con
note illustrative e vocabolario [G. Cortese. Buona edizione sco-
lastica]. — G. Lafaye, Quelques notes sur les Silvae de Stace,
premier livre [L. V. Lodi]. — G. Marina, Romania e Germania.
Studio storico-etnografico sul mondo germanico secondo le rela-
zioni di Tacito e nei suoi veri caratteri, rapporti ed azione sul
mondo romano. Terza edizione [L. V. Ve del buono ; ma non
è molto al corrente degli ultimi studi]. — G. C. Pallu de
Lessert, Fastes des provinces africaines sous la domination
romaine, I [E. F. Lodi]. — Comunicazioni: C. 0. Zuretti, i?/-
curg. in Leocr. 32, pp. 165-166 [Intende: Quali persone sarebbe
ora impossibile sedurre cogli abili artifici dell'eloquenza? I giu-
dici]. — G. Pescatori, Sulla pronuncia di '6 e ò latini e di o e
w greci, pp. 166-168 [o greco aveva suono chiuso e uj suono
aperto; o latino aveva suono aperto, e ò suono chiuso].
n. 8. C. GiussANi, T. Lucreti Cari De rerum natura libri
sex. Revisione del testo, commento e studi introduttivi: voi I e II
- 343 —
[L. Valmaggi. è lavoro che non solo colma magistralmente una
lacuna della letteratura filologica italiana, ma reca nel tempo
stesso un contributo originale e prezioso all'interpretazione del
ppeta latino, e non mancherà di tenere uno dei primissimi luoghi
nella moderna critica lucreziana]. — C. J. Hidén, De casuum
syntaxi Lucretiana. Pars prior [C. G. Lavoro diligente e utile.
Qualche appunto]. — G. B. Bonino, M. Tallii Ciceronis, Caio
maior de senectute. Laelius de amicitia. Testo e commento
[A, Corradi. Buono per la scuola]. — L. R. Farnell, The culfs
of the Grecie stafes, voi. I-II [D. Bassi. Pubblicazione impor-
tantissima]. — Comunicazioni: A. Cima, Lycurg. in Leocr. 33,
p. 184 [Confuta l'interpretazione proposta dallo Zuretti nel n"
precedente]. — P. Rasi, Di un altra recente pubblicazione di
Isidoro Hilberg (« Ueber den Gebrauch amphibr. Wortformen
in der ersten Hàlfte des griechischen und lateinischen Pentame-
ters »), pp. 185-189 [Esposizione del contenuto con parecchie
osservazioni e discussioni particolari].
n. 9. — C. 0. Zuretti, Ornerò^ U Odissea commentata, libro I
[D. Bassi. Il commento dello Z., l'ottimo fra quelli pubblicati
in Italia, è tale da poter reggere al confronto con i migliori stra-
nieri]. — C. Kalbfleisch. Galeni Institutio logica; G. Wein-
berger, TrypModori et Colluthi Carmina; A. Heinsenberg,
Nicephori Blemmydae Curriculum vifae [C. 0. Zuretti. Lodi].
— G. Pescatori. Tavole per lo studio e per la ripetizione della
grammatica greca [V. Buono per la pratica della scuola]. —
F. Guglielmino, Le similitudini nel poema di Lucrezio [C. G. E
, lavoro meritevole di considerazione]. — G. Melodia, Gli studi
jnù recenti sulla biografìa di Lucrezio [C. G. Notizia, e aggiunta
all'articolo precedente (n" 5; cfr. Riv. XXV, 1°, 162) sulla
monografìa del Giri]. — G. A. Davies, Tacitus Histoires Book I
[L. V.' Le note sono elementari, ma compilate con garbo e con-
tengono quant'è necessario alla scuola]. — E. Donadoni. Claudio
Claudiano [A. Corradi. Buon riassunto delle principali notizie
che si hanno di Claudiano: le traduzioni in versi che seguono allo
studio mostrano buon orecchio e attitudine al verseggiare, ma
bisogno di lima]. — F. 0. Weise, Les caractères de la langue latine,
traduit de Vallemand par F. Antoine [L. V. Traduzione oppor-
tuna e buona, e fatta con quella libertà che bisognava per adat-
tarla a lettori francesi]. — 0. Antognoni, Luoghi scelti da pro-
satori latini con i volgarizzamenti più noti [L. V. Libro ben
pensato e vivamente raccomandabile alle scuole]. — C. Pascal,
Studii di antichità e mitologia [L. V. Larga conoscenza delle
fonti antiche e della letteratura moderna dei vari argomenti
trattati, acutezza di critica e perspicuità notevole di deduzioni
se non sempre di forma]. — L. Hugues, Dizionario di geografia
antica [L. V. Lavoro accurato e utile a ogni maniera di studiosi ].
— Comunicazioni: A. Cima, Un passo di Aristotele, p. 211
— 344 —
[Rhet. I, 13; propone: ècp' oTq òveibri Kai enaivoi Kaì àiiiaiai
Kaì Ti^ai (Ktti TiMujpiai) Kaì buupeai]. — G. Pescatori, Sulla
pronuncia del fonema E nel greco e nel latino, pp. 211-213
[Adduce alcuni esempi e osservazioni per mostrare che la pro-
nuncia, comunemente in uso nelle scuole, di e aperto, e di n
chiuso, è errata, e non è per contro in latino quella di e e di c\.
Archiv fiir lateinische LexiJcographie und Grammatik. X. 1896.
— Fase. 2°: Fr. Stolz, Zur Bildung und Erklarung der ròmischen
Indigeten-Namen, pp. 151-175 [Etimologia di indiges; significato
di indigetare e indigita menta: VA. illustra poi la formazione di
una serie di nomi di divinità indigete, fin qui non ancora suffi-
cientemente spiegati, 0 tentati di spiegare da lui in modo diverso
dal comune]. — L. Havet, Meminens, p. 175 [Propone di re-
stituire questa forma di participio, usata da Plauto e da Levio,
anche in Mil. 88S [memoriast meminens et sempiterna)]. —
Id., Mentio = mentior p. 170 [Congettura mentiiitis in Plauto
Mil. 252]. — Id., Sal'uus, Minerlla, Latona p. 176 [Come
salìius in Mil. 131-3, Heaut. 406, così in Baccli. 893 si deve
ammettere Minerua Latona\ — E. Woelfflin, Die Entivi-
ckelung des Infinitivus historicus, pp. 177-186 [Sulla storia di
questo costrutto da Plauto alla latinità seriore: l'A. piglia le
mosse dalle spiegazioni dei grammatici antichi, e poi passa in
rassegna l'uso dei singoli scrittori e particolarmente degli storici,
considerando il valore sintattico dell'infinito storico e i gruppi di
verbi che più spesso ammettono questa costruzione]. — E. Lattes,
Ergenna, p. 186. — 0. Schlutter, Zur lateinischen Glossogra-
phie, I, pp. 187-208 [Continuazione dell'articolo del precedente
fascicolo: cfr. Riv. XXV, 164]. — E. Woelfflin, Tesquitum,
p. 208 [^Tesquitum, in un'iscrizione del I sec, è per tesquetum
da tesqua: cfr. Porfir. ad Hor. Epist. I, 14, 19]. — G. Land-
GRAF, Der Acciisativ der Beziehung {determinationis), pp. 209-
224 [L'A. prende in esame 1° l'acc. di relazione con aggettivi
(e sostantivi), distinguendo a) gli accusativi di sostantivi, con
aggettivi indicanti colore, bello o brutto, forte o debole,
pieno 0 vuoto, simile o diverso; b) gli accusativi plurali
di pronomi neutri {cetera, alia, omnia ecc.) con aggettivi vari;
2° l'acc. di relazione con verbi passivi, e particolarmente con i
participi perfetti passivi a) col senso di colpito, concitato e
i loro contrari; b) di verbi velandi e induendi e contrari;
e) di verbi pingendi e somiglianti; d) di verbi mutandi;
6/ di verbi ver tendi e somiglianti]. G. Laxdqraf, Nugas =
nugax, pp. 225-228 [Prende in esame dal lato morfologico,
semasiologico e sintattico 1") nugas come accusativo ellittico di
nugae; 2"*) il plur. tantum nugae; 3") l'aggettivo nugax: 4") l'ag-
— 345 —
gettivo indeclioabile nugasl. — W. M. Lindsay, Vulgdrlateiniscìies
huhia. graia, p. 228. — J.C. Rolfe, Die Ellipse von ars, pp. 229-
246 [Classificazione degli aggettivi usati con questa ellissi, ed
elenco alfabetico con esempi degli scrittori {ahecedaria, aedifica-
tona, analytice, apotelestnatice, architectonica, argentaria, arith-
metica, astrologica, athletica, harhatoria, caementaria, (caupo-
naria, dubbio), cavillatoria, cavillatrix, cenacuìaria, coquina,
crusmatica, dialectica, diastemaUca, disputatrix, dynamice, eh-
euforia, elocutrix, empirica, encaustica, etilica, exercitatrix, fa-
hrica, fictoria, figlina, fossoria, fullonia, furatrina, fumaria,
geometrica, gnomonica, gnostice, grammatica, harmonica, haru-
spicina, heriaria, histrionia, lintiaria, litteratoria, litteratrix,
logica, magica, mathematica, mechanica, medicamentaria, medi-
cina, musica, navicularia, notaria, Numeraria [personificata],
nummularia, optice , oratoria, oratrix, organica, palaestrica,
pecuaria, physica, pictoria, piratica, piscatoria, plastica, pla-
tice (?), poetica, rìietorica, rhythmica, saccaria, scrutarla, ser-
mocinatrix, sophistica, statuaria, stellaris, sutrina, tabernaria,
theoretica, tJieorica, tihicinaria, topiaria, topica, unguentaria,
vestiaria, volatica)]. — E. Woelfflin, Munerarius, p. 246 [La
notizia data da Quint. Vili, 3, 34, circa l'introduzione di mune-
rarius fatta da Augusto, della cui autenticità non abbiamo ra-
gione di dubitare, mostra quale sia stato il criterio dello stesso
Augusto nelle questioni di lingua]. — H. Krueger, BemerJcungen
iiher den Sprachgehraucli der Kaiserkonstitutionen im Codex Ju-
stinianus, pp. 247-252 [Contributo al lessico del codice Giustiniano:
l'A. tratta di amhages, amhiguus e amhiguitas, aperio apertus
apertissimus, appellatorius, attamen, elogium, evide ntissimus\ —
C. H. MooRE, Die medizinischen Hezepte in den Miscellanea
Tironiana, pp. 253-272 [1. L'esemplaie manoscritto; 2. Parti e
fonti del trattato; 3. Supplementi; 4. Critica ed esegesi; 5. Nuove
forme e nuovi significati ; 6. Cronologia]. — Fr. Leo, Sub divo
calumine, pp. 273-278 [Sul significato di questa espressione, che
l'A. ammette anche in Plauto, Most. 765 {sub diu columine),
scorgendovi un esempio di asindeto arcaico (= sub diu et colu-
mine''^. — G. Landgraf, Nucula (?'. e. nugula): somnia p. 278
[Addizione a IX, 398]. — P. Menge, Acervalis-acervus, pp. 279-
280 [Articoli di lessico]. — A. Kohler, Die Allitteration tectus-
tutus, p. 281 [Un caso di questa allitterazione è da riconoscere
anche nella lettera di Plance (Cic. Ejìp) X, 8, 5, e da aggiun-
gere agli esempi allegati dal Bergmiiller (Ueì^. d. Latin, d. Br.
d.L. M. PI., 1897)]. —E. Wòlfflin, Galbanus e Galbianus, p. 282
[Sulla forma aggettivale derivata dal nome Galba]. — 0. Hey,
acesis-acetum, pp. 283-285 [Articoli di lessico]. — E. Wòlfflin,
Eques ^= equus, p. 286 [Sull'uso di equcs per equus in Ennio,
di cui non mancano neppure esempì nell'età di Cicerone]. —
Miscellen: L. Havet, Salueto, pp. 287-289 [Da un passo dei
— 346 —
Àlen. in fuori, salveto è sempre in Plauto una forraola di risposta;
onde non sono da accettare le correzioni ultimamente proposte dal
Fleckeisen in Men. 1125, dal Geppert in Foen. 1120, da L. Miil-
ler in un framm. di Pomponio]. — A. Kòhler, Zum metapho-
riscìien coquere, pp. 280-291 [In Sen. Conirov. Il, 1, 31 si può
accettare la lezione coquere, che non è punto improbabile né dal
lato paleografico né rispetto al significato]. — K. Lessino, A
und ah in der Historia Augiisia, pp. 291-292 [Eccezioni alla
norma dell'uso di a dinanzi a vocale e ad h, e di ah dinanzi a
consonante]. — H. Blasé, Modo si, p. 292 [Modo si in cambio
di si modo è già in Plauto, poi in Ovidio e in Properzio: è
dunque un arcaismo, conservatosi, come altri, anche nella latinità
africana]. — W. v. Gììmbel, Viride Appianimi, p, 292 [La deno-
minazione {viride quod Aiìpianum vocatur) in Plin. N. H. XXXV,
48, è puramente geografica]. — Litteratur 1895. 1896: H. Mek-
GUET, Handlexicon zu Cicero. Proheheft [Annunzio]. — Oh. De
LHOEBE, De Senecae tragici suhstantivis [Riassunto del contenuto].
— r. P. DuTRiPON, Vuìgatae editioms hihliorum sacrorum con
cordantiae. Ed. nona [Interessante anche per i filologi: qualche
osservazione]. — G. Goetz, Ueher Dunkel- und Geheimsprachen
im spàten und mittelalterlicJien Latein [P. Geiger: Esposizione
del contenuto]. — C. Lindskog, De parataxi et hypotaxi apud
priscos \^scriptores'\ latinos [Buono]. — R. B. Steele, Tìie for-
mula Non modo... sed etiam and its equivalents [Cenno dei ri-
sultati]. — E. Hauler, Zu Catos Schrift uber das Landwesen
[Riassunto: ma manca tuttavia l'illustrazione storica del conte-
nuto]. — CI. HiDÉN, De casmim syntaxi Lucretiana, I [F. Gu-
STAFSSON. Notevole specialmente la trattazione compiuta dell'acc.
terminationis, adverbialis ed exclamationis e di tutta la teoria del
dativo]. — L. Bergjiuller, Ueher die Latinitat der Briefe des
L. Munatius Flancus an Cicero [Diligente]. — N. Vulic,
ÌJntersuchungen zum Belluni Hispaniense [Breve notizia]. —
K. KuNST, Bedeutung und Gèhrauch der zu der Wurzel « fu »
gehòrigen Verhalformen hei Sallust [H. Blasé. Qualche osser-
vazione e rettificazione particolare]. — J. L. Ussing, Betragtnin-
ger over Viiruvii de architeciura lihri X [Annunzio]. — Ch. Schoe-
ner, Ein Gesetz der Wortsteìliing im Pentameier des Ovid [An-
nunzio]. - J. ScHARNAGL, De AmohH maioris laiinitate, II [È
una monografia utile, come altre dello stesso genere]. — H. Limberg.
Quo iure Lactantius appelletur Cicero Christianus [S. Brandt. 11
titolo promette più del contenuto: ad ogni modo il lavoro è chiaro
e utile, ma bisogna di parecchie aggiunte e rettificazioni]. —
H. Maurer, De exemplis quae Claudius Marius Victor in Aleihia
secuius sii [Annunzio: qualche osservazione]. — 0, Gùnther, Aveì-
lana-Studien [Annunzio con alcune rettificazioni]. — M. Giltbauer,
P. Terenti Adelphoe [Tentativo vano]. — 0. Rossbach, L. An-
naei Fiori Epitomae lihri II [Lodi]. — H. Peyrot, Padani
— 347 —
opuscula [Importante]., — F. G. Bremer, lurisprudentiae ante-
hacìrianae quae supersioit, I [Importante e utile anche per i
filologi]. — M. ScHANZ, Geschichte der ròmischen Litteraiur,
II-III [Annunzio]. — K. Vollmòller, Kritiscìier JalireshericM
Uher die Fortschritte der romanischen PMlohgie, 11^ 1 [An-
nunzio]. — E. Hauler, Etne lateinische Falimpsestuhersetsung
der Didascalia apostolorum [Interessante]. — H. F. Kaestner,
Pseudodioscoridis de lierhis femininis Uher [H. Stadler. Qualche
rettificazione. Per la lessicografia l'opuscolo non contiene molto
di nuovo]. — W. ScHMiTZ, Miscellanea Tironiana [Notizia].
RheiniscJies Museum fiir Philologie, LII. 1897, 1. — 0. Koss-
BACH, Der Prodigiorum Uher des lulius Ohsequens, pp. 1-12
[Sulla cronologia, che l'A. ascrive al regno di Traiano o dei
primi Antonini, sul compilatore, un pagano ortodosso, sulla tras-
missione e sulla critica dell'opera: parecchie congetture]. —
L. Kadermacher, Ueher den CynegeUcus des XenopJwn, II,
pp. 13-41 [Continuazione (cfr. Bw. XXV, 1«, 164): i capp. 2-13
sono da ascrivere a un compilatore; l'opera non può essere un
lavoro giovanile, essendovi tra essa e gli scritti posteriori di S.
un'assoluta discrepanza; è dunque apocrifa, e composta nella
prima metà del IV secolo. 11 proemio (I, 1-17) è un prodotto
dell'oratoria asiatica]. — I. Kaerst, Die Begriindung der Ale-
xander-und Ptolemaerhultes in Aegypten, pp. 42-68 [La divi-
nizzazione di Tolomeo Soter è cominciata o durante la sua vita
stessa 0 poco dopo la sua morte, e quella di Alessandro come
dio tutelare di Alessandria, fin da principio. Il culto regio è un
puro egizjanismo, e si è vie più egizianizzato in seguito]. —
P. Wessner, Die Ueherlieferung von Aeli DonaU commenium
TerenUi, pp. 69-98 [Classificazione dei manoscritti e determina-
zione del loro valore per ciascuna commedia]. — E. Hoffmann,
Die BukoUasten, pp. 99-104 [Sull'origine della poesia pastorale
e sulla corrispondenza col mito di Dafni]. — H. Pomtow, Del-
phiscìie Beilagen. III. Die ThdUgkeit der Alhneoniden in Del-
phi, pp. IOj-125 [I rapporti degli Alcmeonidi con Delfo e con
l'edificazione del tempio sono quali risultano da Pindaro e da
Erodoto : il prestito del denaro destinato alla costruzione o la sua
sottrazione è un'invenzione piìi tarda]. — Miscellen: 0. Im-
MiscH, Vergiliana, pp. 126-129 [1. In .4ew. IV, 39 sgg. propone di
collocare i versi con quest'ordine: 41, 40, 42; II. Ciò che il
poeta in VI, 518 fa dire a Deifobo di Elena può derivare da
Stesicoro, che a sua volta è probabile l'abbia ricavato dalla
superstizione popolare]. — M. Ihm, Zum Carmen de hello Ac-
tiaco, pp. 129-131 [Prove dell'imitazione di Virgilio e di Ovidio].
— M. Manitius, HandschriftUcJies zu Germanicus und Ciceros
- 348. —
Aratea, pp. 131-135 [Collazione del frammento di Germanico,
vv. 1-146 contenuto in un codice di Berlino del sec. IX-X, e di
quello di Cicerone in un codice di Dresda]. — H. Schoene,
Sechseìmsilhige Normalzeile bei Galeri, pp. 135-137 [Nuova prova
in favore dell'ipotesi del Diels, che l'edizione originale delle
opere di Galeno fosse scritta in linee di 16 sillabe]. — C. Wack-
SMUTH, Ein neiies Fragment aus Lydus Scìtrift de ostentis,
pp. 137-140 [Frammento contenuto nel cod. Parig. Suppl. gr. 20].
— Id., Das Heroon des ThemistoMes in Ilagnesia am Maian-
dros, pp. 140-143 [La notizia data da Cornelio circa la statua
in foro Magnesiae è confermata da una moneta del tempo di
Antonino Pio]. — M. Ihm, Zu den graeco-syrischen PJiilosophen-
spriichen iiber die Seele, p. 143 [Aggiunta all'articolo pubbl. nel
voi. LI, p. 529 sgg.]. — K. FoERSTER, Cyriacus von Ancona
zu Strabon, pp. 144 [Aggiunta all'articolo pubbl. nel voi. LI,
p. 490]. — R. W., Zu Band LI, S. 148, p. 144 [Rettifica-
zione].
Bullettino della commissione archeologica comunale di Roma.
XXIV. 1896, 4°. — R. Lanciani, Varia, pp. 233-249 [I. An-
tichi edifizi nella vigna del cardinale Grimani. II. Terme di
Elena a S. Croce. III. Arco di Portogallo. IV. I cippi del po-
merio ampliato da Claudio. V. Gaianum, che è dubbio se signi-
fichi veramente circo di Gaio]. — Atti della commissione. —
Libri e pubblicazioni periodiche.
Torino.
L. V.
349 —
PUBBLICAZIONI RICEVUTE DALLA DIREZIONE
Placido Cesareo. L'Odissea di Omero. Versione italiana. Volume II. To-
rino, Casa Editrice E. Loescher, 1897, di pp. 215.
Federico Eusebio. Sopra un'emendazione del Baehrens a un verso di Cn.
Mazio (Estratto dal « Bollettino di Filologia classica, Anno III, N" 4-5
Ottobre-Novembre 1896), di pp. 19.
Pietro Ercole. Gatilina e l'Innominato (Estratto dal « Giornale storico
della letteratura italiana », 1896, voi. XXV li), di pp. 15.
Petrus Ercole. De duobus Catonis et Festi locis ad Henricum Cocchia
(Dagli Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Tomo VII,
Serie VII. — 1895-96), di pp. 4.
F. GuGLiELMiNO. Le similitudini nel poema di Tito Lucrezio Caro. Acireale,
Tipografia Donduzo, 1896, di pp. 49.
Achille Giulio Danesi. Foglie letterarie. Roma, a spese dell'autore, 1897,
di pp. 147.
B. Peyronel. Uso del congiuntivo in Lucano. Parte I. Congiuntivo indi-
pendente. Catania, N. Giannetta, 1896, di pp. 57.
Alessandro Veniero. Gli epigrammi di Callimaco. Versione — Varianti e
Frammenti. Girgenti, Stamperia S. Montes, 1897, di pp. 36.
— Callimaco e le sue opere. Parte 1. - Gl'Inni. Palermo, Clausen, 1892,
di pp. 173.
— Influenza delle colonie nella letteratura latina. Modica, tip. C. Papa, 1896,
di pp. 25.
Esiodo. Le Opere e i Giorni con introduzione e note a cura di Arnaldo Bel-
trami. Messina, Trimarchi, 1897, di pp. XX-56.
Arnaldo Beltrami. Gl'inni di Callimaco e il nomo di Terpandro. Primo
saggio di studi callimachei. Firenze, tip. Carnesecchi, 1896, di pp. 42.
Pindari carmina prolegomenis et commentariis instructa edidit 'W. Ghrist.
Lipsia, Teubner, 1896, di pp. CXXVll-466.
Alfred Holder. Alt-Celtischer Sprachschatz. Neunte Lieferung. I — Livius.
Lipsia, Teubner, 1897, di colonne 256.
Les caractères de la langue latine par F. Oscar Weise traduit de l'alle-
mand par Ferd. Antoine. Paris, Klincksieck, 1896, di pp. V-295.
Relliquiae philologicae : or essays in comparative philology by the late
Herbert Dukinfield Darbishire, edited by R. S. Conway, with a bio-
graphical notice by J. E. Sandys. Cambridge : at the University Press,
1895, di pp. XVI-279.
— 350 —
Plautus. The Pseudolus edited with introduction and notes by H. W. Auden.
Cambridge: at the University Press, 1896, di pp. XXVlII-156.
Luigi Hugues. Dizionario di geografia antica. Torino, E. Loescher, 1897, di
pp. X-576.
Hyaclnthi Catanzaro. Galypso. Carmina. Ligurni, ex typis Raph. Giusti,
1897, di pp. 34.
W. M. LiNDSAY. The Latin Language. An historical account of Latin
sounds, stems, and flexions. Oxford, Clarendon Press, 1894, di pp. XXVIII-
659.
M. Annaei Lucani Pharsalia. Gum commentario critico edidit C. M. Franciien.
Adiecta sunt specimina phototypica Ashburnhamensis, Montepessulani,
Vossiani primi. Voi. I continens libros I-V. Lugduni Batavorum, apud
A. W. Sijthoff, 1896, di pp. XXXIX-224.
NoNiL'S Marcellus. De conpendiosa doctrina I-III. Edited with introdu-
ction and criticai apparatus by the late J. H. Onions. Oxford, Clarendon
Press, 1895, di pp. XXVI-298.
Giovanni Pascoli. Epos. Volume primo. Livius Andronicus. Cn. Naevius.
Q. Ennius. Hostius. L. Accius. A. Furius Antias. Cn. Matius. Ninnius
Crassus. Gannius. M. Tullius Cicero. M. Furius Bibaculus. P. Terentius
Varrò Atacinus. L. Varius. Vergili Aeneis. Reliquiae Pedonis, Severi, Mon-
tani aliorumq. Homerus Latinus. Excerpta ex Lucano, Petronio, Valerio,
Silio, Statio, Claudiaao. Livorno, RafF. Giusti, 1897, di pp. LXXXIl-465.
M. Belli. Sintassi greca. Livorno, Raff. Giusti, 1896, di pp. 39.
— Morfologia greca. Livorno, RafF. Giusti, 1897, di pp. IV- 139.
Alessandro Tartara. Sulle Verrine di Cicerone (Estratto dagli « Studi
italiani di Filologia classica » Voi. V. pp. 39-62).
Ettore Pais. Il porto di Satiro (Estratto dagli « Studi italiani di Filologia
classica » Voi. V, pp. 109 112).
Giuseppe Fraccaroli. Catalogo dei manoscritti greci della Biblioteca Uni-
versitaria di Messina (Estratto dagli « Studi italiani di Filologia clas-
sica » Voi. V, pp. 329-336).
Giulio Emanuele Rizzo. Questioni Stesicoree. I. Vita e Scuola poetica. Mes-
sina, tip. D'Amico, 1895, di pp. 79 (Estratto dalla Rivista di Storia an-
tica e Scienze affini, anno I, nn. 1 e 2).
Musical Pitch and the measurement of intervals among the ancient Greeks
by C. W. L. Johnson. Thesis presented for the degree of doctor of phi-
losophy in the Johns Hopkins University. Baltimore, 1896, di pp. Vl-76.
Handbuch der klassischen Altertums-Wis.senschaft in systematischer Dar-
stellung etc. v. D"" Iwan von Mùller. — Atlas zu Band VI: Archàologie
der Kunst. Mùnchen, Beck, 1897.
Solone Ambrosoli. Vocabolarietto pei numismatici (in 7 lingue). Milano,
Hoepli, 1897, di pp. VII-134.
Eschilo. Prometeo legato, traduzione di Errico Proto. Napoli, Pierre, 1897,
di pp. 70.
Pier Enea Guarnerio. L'intacco latino della gutturale di CE, C/ (Estratto
dall'Archivio glottologico italiano, serie gen. (Supplem. period.), IV), di
pp. 51.
— C51 --
L. La Rocca. La raccolta delle forze di terra fatta da Sesto Pompeo Magno
nella Spagna. Catania, Tip. ed. dell'Etna, 1896, di pp. 31.
Giuseppe Givitelli. Sirene e Satiri. Napoli, Tip. della R. Università, 1897,
di pp. 23.
Carlo Pascal. Ancora su Livio e i processi degli Scipioni. Messina, Tip.
D'Amico, 1897, di pp. 11 (Estratto dalla « Rivista di Storia antica e
Scienze afiSni », Anno II, n. 2).
Polybiblion. Revue bibliographique universelle. Partie littéraire. VoI.LXXIX,
fase. 1-3. Paris, 1897.
Bollettino di Filologia classica redatto da Giacomo Cortese e Luigi Val-
maggi. Anno III, nn. 8 e 9 (febbraio e marzo). Torino, E. Loescher,
1897.
Bessarione. Pubblicazione periodica di studi orientali. Anno I, nn. 9 e 10.
Roma-Siena, 1897.
Rivista di Storia antica e Scienze affini diretta da Giacomo Tropea. Anno II,
fase. 2 (marzo). Messina, 1897.
Revue de l'instruction publique en Belgique publiée sous la direction de
MM. Ch. Michel et P. Thomas. Voi. XL., fase. 1. Bruxelles, H. La-
mertin, 1897.
Neue Philologische Rundschau. Herausgegeben yon G. Wagener und E. Lud-
wig. Gotha, F. A. Perthes, Ann. 1897, fase. 1-6.
Zeitschrift fùr deutsche Philologie. Herausgegeben von H. Gering und
F. Kauflfmann. Voi. XXIX, fase. 3. Halle, Waisenhaus, 1896.
The Classical Review. Editor: G. E. Marindin. Voi. XI, nn. 1 e 2 (feb-
braio-marzo), London, David Nutt, 1897,
La Cultura di Ruggero Bonghi. Nuova serie diretta da Ettore De Ruggiero.
Ann. XVI, n. 1-7. Roma, Libreria B. Lux, 1897.
Mnemosyne. Bibliotheca philologica baiava. CoUegerunt S. A. Naber, .]. van
Leeuwen, 1. M. J. Valeton. Nova Series, voi. XXV, pars I. Lugduni
Bata>'orum, E. J. Brill, 1897.
Modem Language Notes. A. Marshall Elliott, Managing Editor. Voi. XII,
No. 1 (Januaiy), Baltimore, 1897.
Uberto Pestalozza. I caratteri indigeni di Cerere. Milano, Tip. Cogliati,
1897, di pp. 55.
W. M. LiNDSAY. A short historical latin Grammar. Oxford, Clarendon Press,
1895, di pp. XII-201.
Platos Gesetze. Kommentar zum griechischen Text, von Constantin Ritter.
Leipzig, Teubner, 1896, di pp. IX-415.
— Darstellung des Inhalts von Constantin Ritter. Leipzig, Teubner, 1896,
di pp. IX- 162.
Thukydides, erkiàrt von J. Classen. Erster Band. Einleitung. Erstes Buch.
Vierte Auflage, bearbeitet von J. Steup. Mit sechs Abbildungen. Berlin,
V^eidmann, 1897, di pp. LXXIV-398.
Max Schneidewin. Die antike Humanitàt. Berlin, Weidmann, 1897, di
pp. XX-55g.
Atti della R. Accademia della Crusca. Adunanza pubblica del 27 di di-
cembre 1896. Firenze, Tip. Gellini, 1897, di pp. 111.
- 352 —
Buletinul oficial al Ministerului Gultelor si Instructiunii publice, Bucuresci,
1897, nn. 82. 83. 84.
Ettore Romagnoli. Saggi di versione dagli « Uccelli » d'Aristofane
(Estratto dalla «Nuova Antologia », voi. LX, Serie III. Fascicolo 15 Di-
cembre 1895), di pp. 11.
— Sulla esegesi di alcuni luoghi degli Uccelli d'Aristofane (Estratto dagli
« Studi italiani di Filologia classica», Voi. V, pp. 337-356).
Omero. 11 libro XVlll dell'Iliade con note italiane di Enrico Longhi. Mi-
lano, Albrighi, 1897, di pp. 64.
Silva Maniliana. Congessit loh. P. Postgate. Gantabrigiae, 1897, di pp. VIlI-72.
Paul Regnaud. Éléments de grammaire comparée du grec et du latin,
d'après la méthode historique inaugurée par l'auteur. Seconde partie :
Morphologie, Paris, Armand Colin et 0\ 1896, di pp. VlII-376.
Pier Enea Guarnerio. Gli apparecchi fisici ed il loro ufficio nello studio
storico della parola. Prolusione letta nell'Università di Genova. Genova,
Tip. A. Giminago, 1897, di pp. 31.
Giacomo Giri. I grandi poeti dell'età di Gesare e dell'età di Augusto. Di-
scorso inaugurale letto nella R. Università di Palermo. Palermo, tip.
Virzì, 1897, di pp. 31. '
AGGIUNTA.
A pag. 249 si aggiunga la seguente nota al nome Pomponius:
(1) Pomponius: cfr. apud Horatium epod. 10, 19 ionius, cum alibi sit
idnicus epod. 2, 54, e. Ili, 6, 21; apud eundem, epod. 16, 59; ep. 1, 10, 26
Sidonius, cum apud Vergilium sit Sidónius.
Pietro Ussello, gerente responsabile.
— 353 —
LA SATIRA E LA PARODIA
NEL SATIRICON DI PETRONIO ARBITRO
STUDIATE IN RAPPORTO GOLL' AMBIENTE STORICO
IN CUI VISSE L'AUTORE
La parodia e la satira nel romanzo di Petronio.
Singolare ventura è quella toccata all'opera di Petronio. Sot-
tratta in forma frammentaria, e come per caso, alla congiura del
silenzio onde nell'antichità fu ricoperta, essa destò il più vivo
compiacimento nella società colta dei secoli XVI, XVII e XVIII,
in cui la rinascenza degli studii fu salutata come un gaio ritorno
della vita antica; ed attrae intorno a sé con sempre maggiore
insistenza l'attenzione degli studiosi, anche oggi che al piacere
estetico per l'opera d'arte si accoppia e disposa soltanto l'inte-
resse storico per una più intima ed esatta conoscenza della vita
antica. Ho detto che un sentimento fino e squisito dell'arte dà
vita quasi ad ogni frammento dell'opera di Petronio; ma debbo
anche aggiungere che essa ha il pregio di essere l'unico esempio
del romanzo latino, prima d'Apuleio, e di presentarsi tuttora a noi
come il modello più perfetto di questo genere letterario, fra le
varie forme che ce ne ha tramandate la letteratura greca della
decadenza.
11 romanzo di Petronio però, sebbene si limiti nell'apparenza
a narrare i casi della vita di Encolpio, non può considerarsi pro-
priamente come un semplice racconto d'avventure, alla stregua
di quel tipo comune che è riprodotto con monotona uniformità
in tutti i romanzi greci. La nuova forma di arte, a cui esso si
Rivista di filologia, tee, XXV. 23
— 354 —
rannoda, deve considerarsi bensì come l'ultimo germoglio pullu-
lato dal tronco vigoroso e fiorente dell'antica poesia epica, e de-
stinato a sostituire tutte le altre manifestazioni che si erano già
svolte progressivamente in Grecia da quella ricca e splendida fio-
ritura letteraria. Ma è merito esclusivo di Petronio di aver fatto
col suo romanzo come la parodia di quella stessa epopea eroica,
onde aveva avuto origine. Io ho già mostrato altrove come la
parodia prenda in Petronio la veste finissima dell'umorismo, e come
egli avvolga, con amabile giocondità, tra le spire della sua satira
così il mondo umano ed eroico come il mondo degli dei, formato
dai due primi a loro immagine e somiglianza (1). Da queste si-
tuazioni comiche, che contraffanno il tono solenne dell'epopea, io
potrei trarre ancora largo partito, per un'analisi completa della
coscienza artistica di Petronio e del carattere della sua satira.
Ma qui mi preme di mettere in mostra soltanto l'intenzione pa-
lese e costante di essa. E perciò mi limito a richiamarne, come
per saggio, soltanto quel lampo, con cui si illumina la ignobile
contesa insorta tra Encolpio ed Ascilto per il possesso di Gitone.
Entrambi si apparecchiavano di già a sostenere col ferro i loro
diritti, quando il fanciullo li scongiura tra le lagrime a non rinno-
vare in un'umile taverna le lotte fratricide della reggia Tebana;
e prorompe in un grido patetico, dove non è chi non avverta con
straziante ironia l'eco lacrimevole delle parole di Niso : « quod si
« utique facinore opus est, nudo ecce iugulum, convertite huc
« raanus, imprimite mucrones; ego mori debeo qui sacramentum
« amicitiae delevi » (2),
Certo, a chi si lascia sedurre dalla grazia amabile del narra-
tore, questi stessi motivi comici che egli intreccia al suo rac-
conto possono apparire come una semplice efflorescenza del suo
spirito colto ed immaginoso. Tali infatti li giudica il Collignon,
sulla traccia non ben sicura di Macrobio, il quale par che col-
lochi il romanzo di Petronio, al pari di quello di Apuleio e delle
(1) Un romanzo di costumi nelV antichità ovvero il Satyricon di Petronio
Arbitro, in Nuova Antologia, fascicoli del 1° e 15 aprile del 93, p. 41-43
dell'estratto.
(2) Sat. e. 80.
— 355 —
commedie di Menaiidro, tra le piacevoli invenzioni poetiche create
solo a scopo di passatempo {tantum conciliandae auribus volup-
tatis) (1). Ne io negherò certamente che tale esso apparisca,
nella serenità perfetta della concezione ed esecuzione che ha ri-
cevuto per mano dell'artista. Ma chi dal fatto che l'intenzione
umoristica, la quale pur serve di fondamento al romanzo e agli
accessorii di esso, rimane nascosta e come seppellita sotto la se-
rietà della rappresentazione, volesse desumere che l'ironia è sol-
tanto un elemento accidentale di esso, attribuirebbe alla coscienza
morale dello scrittore quella serietà d'intonazione che è solo un
coefficiente dell'arte sua. La satira non è una sovrapposizione
esteriore al romanzo, ma è compenetrata intimamente colla ma-
teria di esso; e guizza fuori da quelle allusioni al mondo eroico,
in cui così spesso si deridono con bonaria compiacenza le debolezze
congenite alla natura umana. Si direbbe quasi che il Satiricon
preluda agli splendori dell'arte ariostea. Certo ha comune con
essa l'ispirazione ed il fine; e il significato profondo della sua
ironia segna, al pari di quella, una delle colonne luminose nella
storia dello spirito umano.
Ho detto che il concetto fondamentale del Satiricon adombra,
nella stessa eccellenza sua, l'ironia fina e bonaria del poema ario-
stesco. E potrei qui aggiungere che è carattere comune ad en-
trambi anche la rappresentazione sensuale dell'amore, che cam-
peggia sullo sfondo di essi e che sfolgora da una parte la decadenza
del mondo ellenico e dall'altra la corruzione della società caval-
leresca. Sidonio Apollinare colse questo lato solo della satira, e
mettendo Petronio alla pari delle glorie maggiori dell'eloquenza
(1) Macrob. Sat. 1, 117: « nec omnibus fabulis philosophia repiignat nec
omnibus adquiescit; et ut facile secerni possi t, quae ex bis ab se abdicet
ac velut profana ab ipso vestibulo sacrae disputationis excludat, quae vero
etiam saepe ac libenter admittat, divisionum gradibus explicandum est. Fa-
bulae, quarum nomen indicat falsi professionem, aut tantum conciliandae
auribus voluptatis aut adhortationis quoque in bonam frugem gratia repertae
sunt. Auditum mulcent, velut comoediae, quales Menander eiusve imitatoros
agendas dederunt, vel argumenta fictis casibus amatorum referta, quibus vel
multum se Arbiter exercuit vel Apuleium nonnumquam lusisse miramur »;
e CoLLiGNON, Elude sur Pi'trone, Paris 1893, p. 16-19.
— 356 —
Romana, di Cicerone, di Livio e di Virgilio, lo proclamò emulo
del Priapo dell'Ellesponto e propagatore del culto di lui pei giar-
dini di Marsiglia (1). Con ciò volle forse dire, che egli avesse
gareggiato nella dipintura dell'oscenità coi romanzi greci (2), e
avesse illustrato colla sua arte le sconce e turpi manifestazioni
che facevano del loro culto al Dio di Larapsaco, nelle città del-
l'occidente, i suoi numerosi e fervidi adoratori. Ma nessuno im-
maginerà mai, che il pio vescovo di Clermont avrebbe fatta questa
glorificazione dell'arte di Petronio, proprio anzi solo per l'oscenità
sua. Egli è che il Satiricon può considerarsi veramente come una
Priapeide cioè un poema umoristico, di cui il Dio di Lampsaco
tenga in mano le fila e regoli gli eventi, alla maniera stessa come
l'ira di Nettuno persegue e sospinge Ulisse nei suoi lunghi errori.
L'eroe di questo basso mondo è Encolpio, che viola senza sa-
perlo nelle sue avventure i misteri di Priapo (3), ed incorre mi-
seramente nell'ira terribile del suo nume protettore. La vendetta
tremenda del Dio accomuna la sua sorte a quella dei più grandi
eroi dell'antichità.
Non solum me numen et implacabile fatura
Persequitur. Prius Inachia Tirynthius ora
Exagitatus onus caeli tulit, ante profanara
Laomedon gemini satiavit numinis iram.
(1) SiD. Apoll., c. XXIII:
Quid vos eloqùii canaai Latini,
Arpinas, Patavine, Mantuane ?
Et te Massiliensium per hortos
Sacri stipitis, Arbiter, colonum,
Hellespontiaco parem Priapo ?
(2) V. anche Gollignon, o. c, pag. 19-20 e 361.
(3) Cfv.Sat. e. 16: « misereor medius vestri ; neque enina impune quis-
quam quod non licuit adspexit... Imprudentes enim... admisistis inexpiabile
scelus... Maior in praecordiis dolor saevit... ne scilicet iuvenili impulsi li-
centia, quod in sacello Priapi vidistis, vulgetis deorumque Consilia proferatis
in populum. Protendo igitur ad genua vestra supinas manus petoque et oro,
ne nocturnas religiones iocum risumque faciatis, neve traducere velitis tot
annorum secreta, quae vix mille homines noverunt », e cap. 21: « etiam
dormire vobis in mente est, cum sciatis Priapi genio pervigilium deberi ? »
— 357 —
lunonem Pelias sensit, tulit insciiis arma
Telephus et regnum Neptuni pavit Ulixes.
Me quoque per terras, per cani Nereos aequor
Hellespontiaci sequitur gravis ira Priapi (1).
Parrebbe quasi che egli si rassegni a sopportare l'ira del nume.
Ma un essere basso e volgare, per cui la vita non abbia altro
scopo che la soddisfazione dei sensi, non può a lungo rimaner
fermo in questo suo proposito. E volge a Priapo, per l'espiazione
dei suoi falli, una preghiera patetica, sa cui Petronio ha sparsa
la luce del più brioso umorismo:
Nympharum Bacchique comes, quem pulchra Dione
Divitibus silvis numen dedit, inclita paret
Cui Lesbos viridisque Thasos, quam Lydus adorat
Septifluus templumque suis imponit Hypaepis :
Huc ades, et Bacchi tutor Dryaduraque voluptas,
Et timidas admitte preces. Non sanguine tristi
Perfusus venio, non templis impius hostis
Admovi dextram, sed inops et rebus egenis
Attritus facinus non toto corpore feci.
Quisquis peccat inops, minor est reus. Hac prece, quaeso,
Exonera mentem culpaeque ignosce minori:
Et, quandoque mihi fortunae arriserit bora.
Non sine honore tuum patiar decus. Ibit ad aras,
Sancte, tuas hircus, pecoris pater, ibit ad aras
Corniger et querulae fetus suis, hostia lactens.
Spumabit pateris hornus liquor, et ter ovantem
Circa delubrura gressum feret ebria pubes (2).
Di questi tipi volgari e superstiziosi, che invocano la divinità
propizia ai loro godimenti, si riscontrano forse un po' d'ogni dove
gli esempii, nella degenerrazione progressiva della natura umana.
Ma essi certo non sono insoliti in quelle regioni medesime, dove
(1) Sat. e. 139.
(2) Sat. e. 133.
— 358' -
Petronio collocò la scena del suo ronaanzo. Or non vi è chi non
scorga in questa dipintura realistica delle smanie di Encolpio
l'ironia maliziosa dello scrittore, il quale deride bonariamente
nella persona del suo eroe una delle maggiori debolezze della na-
tura umana.
Né il suo sorriso accenna in alcun modo a compiacimento per
quelle sozzure, quasi egli vi diguazzasse dentro a semplice diver-
timento dei lettori, come ha preteso di dimostrare in un suo scritto
recente il Collignon (1). Certo egli non si solleva di volta in
volta a censore di quelle turpitudini, ne innesta abitualmente al
racconto una dissertazione morale, che distrugga l'effetto della
rappresentazione artistica. L'indegnazione rimane nascosta e come
repressa nel fondo della sua coscienza, e non si sovrappone quasi
mai alla pittura fedele che egli ci ha tessuto dei costumi e della
depravazione della società ellenica, nell'età della decadenza. Ma
pure fa capolino qua e là, e guizza come un lampo attraverso di
quelle situazioni comiche, vuoi per farci balenare innanzi agli
occhi idealità tramontate per sempre (2), vuoi per difendere l'arte
sua dalla ipocrisia di chi la chiama colpevole delle oscenità che
essa illumina.
Quid me constricta spectatis fronte, Catones,
Damnatisque novae simplicitatis opus ?
Sermonis puri non tristis gratia ridet,
Quodque facit populus, candida lingua refert.
Nam quis concubitus, Veneris quis gaudia nescit?
Quis vetat in tepido membra calere toro ?
Ipse pater veri doctus Epicurus amare
lussit et hoc dixit vitam habere léXoq (3).
Certo qui non s'intravede il ghigno sarcastico del poeta satirico;
ma lo scrittore con sorriso bonario quasi cerca una scusa alle
debolezze dei suoi personaggi, che non sono poi gran fatto diversi
(1) 0. e, pag. 14-16.
(2) Cfr. il nostro scritto già citato, pagg. 43-5.
(3) Sat. e. 132.
— 359 —
dal comune degli uomini. Egli ha paura di assumere il tono so-
lenne di censore di costumi e, come a schivare il pericolo che
lo si imbranchi tra codesti ipocriti, cerca rifugio nella sua abi-
tuale ironia. Ma frantenderebbe apertamente il carattere dell'umo-
rismo petroniano chiunque interpretasse questo sorriso come un
omaggio reso al vizio. Esso comunica alla materia dell'arte quella
serietà di cui manca nella vita; e, nello scetticismo della co-
scienza, lascia pur intravedere un mondo migliore, diverso o op-
posto a quello della realtà (1).
* *
Dell'umorismo di Petronio toccherò ancora altrove, con l'am-
piezza richiesta dall' importanza del soggetto. Qui voglio solo
aggiungere, che di questo carattere dell'opera di lui mostrarono
di aver sentore, anche fra gli antichi, alcuni di quelli che ce ne
han tramandato il nome. Si comincia già dal titolo stesso del
libro, ricordato quasi concordemente nella tradizione dei mscr.
sotto la forma di satyricon. A prescindere dal fatto che un agg.
derivato da satira non s'incontra in latino prima dell'età di Si-
donio, a me parve che la desinenza del gen. in -6n accoppiata
per solito a titoli greci di opere letterarie, quali bucoUcón, ge-
orgicón, rhetoricón, meiamorpJióseón libri, non rendesse verosimile
né tollerabile l'ibridismo della forma satiricón, la cui base fosse
costituita da un aggettivo latino (satiricus) (2). Il Bucheler si
schermì da questa difficoltà adottando il titolo di satirae, che si
trova adoperato in due dei codici meno antichi di Petronio (3).
Ma, pur volendo lasciare da parte la forma esterna di esso, egli
(1) Il CoLLiGNON, 0. c, p. 17, presume che queste generalità o declama-
zioni morali inserite nel racconto abbiano spesso intenzione ironica. Or io
consento che Petronio non abbia gran fede nella virtù umana, come prova
il caso della matrona d'Efeso; ma nessuno certo ne argomenterà che egli
derida la virtù, sol per il fatto che questa ha esulato dal mondo.
(2) Ecco cosi appagata anche la curiosità di quel critico della Derliner
Philologisclie Wochenschrift, a. 1894, il quale non sapeva intender la ragione
della grafia greca satyricon usata da un italiano, immemore forse ai suoi
occhi dell'antico precetto « satira quidem tota nostra est ».
(3) V. il nostro scritto già citato, pag. 3, in nota.
— 360 ^
è innegabile che il nome di satira accenna ad una dipintura
mordace dei costumi, e che Petronio, scegliendo per il suo ro-
manzo il titolo proprio delle satirae Menippeae, volle riprendere
con esso i vizii più consueti e deformi della società in mezzo a
cui visse. Credere, come alcuni presumono, che quel tìtolo fosse
scelto non già per indicare l'intonazione umoristica del racconto,
ma per additare la forma esterna di esso mista di prosa e poesia (1),
significa voler metter da parte il significato e il valore abituale
di quella parola nella letteratura contemporanea, per il solo gusto
di negare a Petronio ogni intenzione satirica. Laddove l'esempio
tanto affine della Menippea di Seneca in morte di Claudio, la
quale vien definita, nella tradizione più autentica, come Divi
Claudii apotheosis per satiram^ ci consiglia a riconoscere la me-
desima caratteristica pure alle satire di Petronio.
Il cui nome è ricordato espressamente da Giovanni Lido ac-
canto a quello di Giovenale, per dire che entrambi, coi loro ec-
cessi nelle invettive, violarono le norme del genere satirico (2).
Ne vale il dire che questo giudizio o raffronto fosse ispirato al
dotto Bizantino del VI secolo dal fatto, che egli identificava fin
d'allora l'autore del Satiricon col cortigiano di Nerone, di cui
Tacito ha narrato la morte (3). Se questa connessione fosse così
antica, ciò proverebbe solo il saldo fondamento di essa, e giusti-
ficherebbe anche meglio quella identificazione tra il Satiricon e
i codicilli^ gettati da Petronio come sua vendetta contro il ti-
ranno; poiché sarebbe fatta in un'epoca in cui più sicuri e co-
spicui erano gli elementi di quel raffronto. Ma noi non abbiamo
bisogno di queste interpretazioni indirette a favore della nostra
tesi. A cui serve ben anche d'illustrazione e commento il distico
di un tal Giulio, letto da Claudio Binet sopra un frammento di
Petronio in un manoscritto della Vaticana :
(1) CoLLiGNON, 0. c, p. 20-31. Cfr. anche Schanz, Geschichte der Ròm.
Lit., Voi. II, p. 293, il quale accetta per il titolo del romanzo la forma e
l'interpretazione di essa proposta dal Bùcheler.
(2) Lydus, de Magistr. 1, 41: ToOpvo? bè koì 'loupevóXio; koì TTerpiLviot;
aÙTÓGev Taì(; Xoibop(ai(; èTreteXOóvxeq tòv aorupiKÒv vó|uov TrapéTpuuaov.
(3) GOLLIGNON, 0. e, p. 339.
- 361 -
Petroni Carmen divino pendere currit,
Quo iuvenum mores arguit atque senura (1).
Il quale prova pur sempre, die non si perdette mai di vista in
nessun tempo il carattere satirico del romanzo di lui.
IL
L'ambiente storico descritto nel Satiricon.
Or la satira, per quanto sia dissimulato il movente personale
di essa, ricava sempre la sua materia dall'ambiente storico in
cui visse l'autore. I fatti, che egli deride col suo allegro umo-
rismo ovvero flagella coi pungenti sarcasmi, possono bensì essere
trasfigurati dai fini più complessi e sovrani dell'arte, e ricevere
mercè l'elaborazione fantastica adattamenti e sviluppi estranei,
ovvero anche contrarli alla realtà ; ma non perdono mai il loro
contatto con essa. Giacché non conviene dimenticare, che nell'am-
biente sereno e ideale dell'arte i fatti umani si spogliano da quei
vincoli affatto contingenti e passeggieri, tra cui eran legati e come
costretti nella vita reale, e si ricompongono in una unità piìi larga
e più comprensiva, dentro cui spazia come nel suo regno la fan-
tasia dell'artista. Le esigenze dell'arte non son quelle stesse onde
è vincolata la rappresentazione storica; e gli elementi di essa, per
quanto improntati alla vita reale ed espressione fedele di espe-
rienze concrete, raccolte e depositate di tempo in tempo dall'ar-
tista nel fondo della sua coscienza, non ci appariscono mai, per
dirla con Petronio, come religiosae orationis sub testibus fìdes (2).
Or di ciò sembra che non tengano giusto conto tutti coloro che,
per determinare l'epoca storica ritratta da Petronio nel suo ro-
manzo, pretendono di subordinare il contenuto di esso ad alcuni
elementi affatto accidentali della rappresentazione artistica. Questi
elementi sono l'agnome di Maecenatianus, che Trimalchione fa
(1) GOLLIGNON, 0. e, pag. 15.
(2) Sat. e. 118.
— 362 -^
incidere sul suo sepolcro (1); il titolo di pater patriae con cui è
salutato r imperatore regnante (2) ; la nomenclatura antica di
sextilis adoperata per il mese di agosto (3) ; il ricordo dell'ospi-
talità concessa a Scauro (4); e il vino Opimiano di cento anni
imbandito ai commensali (5). Tutte queste allusioni di carattere
storico, interpretate letteralmente, ci porterebbero suppergiù a ri-
ferire l'azione descritta nel romanzo all'età di Augusto. E difatti
l'agnome di Mecenaziano, onde Trimalchione fa pompa nel suo
titolo sepolcrale, se gli derivò, come assume il Mommsen (6), dal
suo primo padrone, deve di necessità riferirsi all'amico di Augusto,
morto nel 746 di Koma. La designazione onorifica di pater pa-
triae, se accenna ad Augusto, poiché non è possibile che si rife-
risca a Tiberio, il quale la rifiutò ognora con grande ostenta-
zione (7), dovrebbe essere posteriore al 752, anno in cui Ottaviano
accettò per la prima volta quel titolo ufficiale (8). E allo stesso
torno di tempo ci riporterebbe poi anche l'allusione a Scauro,
l'ospite da Trimalchione, che è evidentemente l'ultimo rappresen-
tante di questa famiglia, cioè Mamerco Scauro estinto in Roma
nel 787 (34 d. Cr.), vittima della crudeltà di Tiberio (9). Vice-
versa la nomenclatura di sextilis dovrebbe essere più antica del
746, in cui essa fu sostituita ufficialmente dall'altra di Augustus.
E più indietro ancora ci riporterebbe il vino Opimiano di cento
anni, se pretendessimo di computarne l'epoca precisa dal consolato
di Opimio, che cade nel 633 di Roma.
11 contrasto, che si avverte tra queste varie indicazioni storiche,
(1) Sat. e. 71: « C. Pompeius Trimalchio Maecenatianus hic requiescit ».
(2) Sat. e. 60: « consurreximus altius et Augusto patri patriae feliciter
dixirnus ».
(3) Sat. e. 53: «actuarius tamquam urbis acta recitavit: VII Kal. sextiles
in praedio Ctimano, guod est Trimalchionis, nati sttnt pueri XXX ».
(4) Sat. e. 77: « Scaurtcs, cum huc venit, misquam ìnavoluit /labitare-».
(5) Sat. e. 34: « allatae sunt amphorae vitreae diligenter gypsatae cum
hoc titillo ' Falernum Opimianum centum annorwn '».
(6) Mommsen, Trimalchios Eeimath und Grabschrift in Hermes 13,
p. 117 seqq.
(7) SvET. Tib. 26.
(8) Dione 55, 10. 10.
(9) Tac. Ann. 6, 29 e Sex. Suas. 2, 22
- 363 -
mostra a chiare note come non sia il caso di attribuire ad esse
un valore perentorio, quasi fossero consegnate in un documento
ufficiale. Ne tornerei a discorrerne ancora qui, dopo di aver esau-
rito già altrove quasi completamente l'esame di questo problema
storico (1), se non avessero dato luogo pur di recente a fallaci
deduzioni questi elementi del racconto di Petronio. Accenno prin-
cipalmente all'Haley, il quale aderì teste all'antica tesi del
Beck (2) e del Mommsen (pur essendo convinto della evidenza delle
allusioni fatte nel Satiricon alla corte di Nerone), collo specioso
pretesto che l'autore le avesse dissimulate, — per sfuggire alla
vendetta del principe, — relegando l'azione del romanzo in un'epoca
più remota (3). Or io noto che, se per combinare insieme le due
allusioni, del mensis sextilis anteriore al 746 e àe\ pater pairiae
posteriore al 752, bisogna di necessità spostare più innanzi o più
indietro una di esse ; conviene pur ammettere che quelle espres-
sioni non abbiano un carattere preciso, e non sieno in alcun modo
adoperate coll'intenzione di designare un'epoca storica.
Or come son facili gli anacronismi in un'opera letteraria, cioè
le anticipazioni di consuetudini che hanno un'origine relativa-
mente moderna, così del pari non è estranea al carattere di essa
la preservazione di abitudini più antiche, che resistono tenaci
contro ogni tentativo d'innovazione. Certo nel romanzo, al cap. 38,
troviamo adottata la nomenclatura di kalendis iuliis, che fu sosti-
tuita a partire dal 710 alla più antica di Tiol. quintilihus. Ma se
non vi si accoglie anche l'altra di hai. Augusias, che fu in uso
dal 746, può ben darsi che l'origine più recente di essa non fosse
bastata a cacciare ancor di nido la prima di sextiles, che vi si
opponessero le abitudini conservatrici della colonia (4), che l'uso
(1) V. lo scritto già citato, pag. 22-29.
(2) Carl Beck, The age of Petroniiis Arbiter in Memoirs of American
Academy VI, p. I, pag. 21-178.
(3) Quaestiones Petronianae . Scripsit H. \V. Haley in Harvard studies
in classical philology, Boston 1891, voi. II, pag. 3.
(4) Se la scena principale del romanzo, come proveremo anche più oltre,
si deve collocare indubbiamente a Napoli, si potrà scorgere in questa te-
nacia dell'antica tradizione come uno dei motivi ?econdarii che accreditano
il riferimento da noi proposto.
- 364 -•
frequente di quell'aorgettivo in accezioni diverse giustificasse e
quasi provocasse la continuazione di quella nomenclatura paral-
lela. Certo nessuna di queste indicazioni è tale da poter autoriz-
zare l'attribuzione del romanzo di Petronio o dell'azione in esso
svolta all'età di Augusto; così come non la giustifica il ricordo
del vino Opimiano, che era ormai niente più che una falsifica-
zione (1). In questa prova della millanteria burbanzosa di Tri-
malchione, nessuno che ricordi l' ignoranza proterva di lui (2)
presumerà di scorgere un documento storico di valore irrefutabile ;
senza dire che il cartello annesso alle anfore gessate poteva ad-
ditare bensì l'epoca del 733, in cui nella cantina di Trimalchione
fu riposto Opimiano vecchio di cento anni, ma non tener conto del-
l'occasione solenne in cui venne imbandito, e che non vi era bisogno
di ricordare alla memoria non ancor vacillante dei commensali (3).
Delle due allusioni storiche, che ancora soccorrono in favore
dell'ipotesi del Mommsen, l'agnome di Mecenaziano e il ricordo
di Scauro, nessuna può dirsi che accenni con sicurezza all'età di
Augusto. Difatti, se l'azione del romanzo dovesse collocarsi intorno
all'anno 745 di Roma, questa data non potrebbe conciliarsi, come
ho dimostrato altrove (4), neppure coll'altro criterio del Mommsen,
il quale considera Trimalchione nella sua prima giovinezza come
schiavo di Mecenate. Se egli nel 745 era già settantenne ed era
entrato fin dalla prima fanciullezza a servizio di C. Pompeo, con-
verrebbe ammettere che fosse stato servo di Mecenate intorno al
685 di Roma, quando cioè questi o non era ancora nato o si tro-
vava appena in fasce.
(1) Plin. N. H., 14, 4, e Patergolo 2, 7, 3.
(2) Cfr. lo scritto già citato, pag. 27, 29.
(3) Non accenno all' /tistrionem Syrum del cap. 52 (« ipse erectis saprà
frontem manibus Syrum histrionem exhibebat, concinente tota familia »),
nel quale THaley, o. c, p. 6, ha creduto di scorgere un'allusione al mimo-
grafo Publilio Siro, che Petronio ritrarrebbe come contraffatto da Trimal-
chione, poiché l'ignoto pantomimo di cui è qui parola non si può confondere
in alcun modo col contemporaneo di Cesare e di Cicerone, ricordato espres-
samente nel cap. 55 del Satiricon, cfr. Friedlaender, Pctronii cena Tri'
malchionis, p. 158.
(4) V. lo scritto già citato, pag. 27-28.
— 365 -
Per quanta sia l'esattezza di questa deduzione, debbo però ri-
conoscere che il Klebs ha distrutto per altra via e con maggiore
efficacia l'argomento del Mommsen, dimostrando come esso con-
traddica sostanzialmente al racconto che fa Trinialchione della
propria vita. Egli infatti, nel cap. 75, così narra la prima origine
della sua fortuna: « tam magnus ex Asia veni quara hic cande-
•< labrus est. Ad sumraam quotidie me solebam ad illum metiri,
<< et, ut celerius rostrum barbatum haberem, labra de lucerna
« ungebam. Tamen ad delicias ipsimi annos quatuordecim fui...
^< Ceterum quemadmodum di volunt dominus in domo factus
« sum, et ecce cepi ipsimi cerebellum. Quid multa? coheredem
« me Caesari fecit, et accepi patrimonium laticlavium ». Or qui
non si fa alcun cenno di Mecenate, e di lui si tace il nome pur
nelle pareti del portico dove erano effigiati i casi della vita di
Trimalchione (1). Si aggiunga d'altra parte che egli mostra di aver
sempre a se dinanzi il candelabro ereditato dal suo padrone (2),
a cui soleva misurare la sua altezza all'arrivo dall'Asia in Roma,
dove fu venduto come schiavo. E da tutto ciò ci vedremo costretti
ad ammettere, che egli non abbia avuto altro signore all'infuori
di quello, da cui ha ereditato il patrimonio (3).
In questa maniera il secondo cognome di Mecenaziano perde la
funzione specifica assegnatagli dal Mommsen. Ma noi non vi scor-
geremo per questo una infrazione alla norma comune. L'uso di
aggiungere agli schiavi o liberti un secondo cognome in -anus, in
(1) Sat. e. 29: « erat autem venalicium cum titulis pictum, et ipse Tri-
inalchio capillatus cadaceum tenebat Minervaque ducente Romani intrabat.
Hinc quemadmodum ratiocinaii didicesset, denique dispensator factus esset,
omnia diligenter curiosus pictor cum inscriptione reddiderat ».
(2) Gfr. anche Sat. e. 52: « habeo capides M quas reliquit patrono meo
Mummius ».
(3) Se egli avesse ereditato il candelabro da Mecenate, converrebbe am-
mettere che non fosse più uscito dalla casa di lui in qualità di schiavo ; e
in questo caso non si spiegherebbe il secondo periodo di servitù, per lo spazio
di quattordici anni, in casa di G. Pompeo. L'argomentazione, che qui ho
riassunta, è di Elimar Klebs, Petroniana, in Philologus, Sechster Supple-
mentband, Zweite Hàlfte, p. 662, e si trova già vagamente accennata dal-
THaley, 0. e, p. 12, il quale nota pure, ma senza trarne alcun partito, che
Trimalchione non fa mai parola della sua vita presso di Mecenate.
- 366 —
memoria dell'antico padrone, non è frequente, come nota rHulsen(l),
nelle iscrizioni latine. Esso è piuttosto una caratteristica speciale
dei servi pubblici e di quelli della casa imperiale, ed è aggiunto,
a nostro avviso, o a contrassegno delle loro attitudini o come
omaggio verso i loro protettori (2). È in altri termini anche questa
una nuova caratteristica a cui riconosciamo l'ambiente impe-
riale descritto nel Satiricon, e converrà tenerne conto unica-
mente per determinare le allusioni realistiche contenute nella
satira.
L'ultima allusione storica a Mamerco Scauro ci riporterebbe vera-
mente, come già si è visto, all'età di Tiberio. Ma il Mommsen prefe-
risce di tirarla indietro fino ad Augusto, per evitare che si attribui-
scano al primo le due designazioni di Augustus e di x>ater pa-
triae, che egli rifiutò tenacemente nel corso del suo regno. Il Klebs
non aderisce a questo concetto, sembrandogli che, se la volontà
del principe dovè essere rispettata nei monumenti pubblici, nulla
potè imporre quella restrizione anche nell'uso privato (3), soprat-
tutto riguardo ad un titolo onorifico che non importava nessuna
designazione ufficiale di carica pubblica. Però egli è innegabile
che quell'omaggio di devozione, portato nel mezzo del banchetto
alla salute del principe, è pure, ad onta di una lieve tinta d'ironia
onde è cosparso, una prova sicura di adulazione e di cortigianeria
per parte dei commensali; la quale non avrebbe loro permesso di
contravvenire ad una così recisa volontà del sovrano.
Ma, lasciando da parte queste considerazioni d'ordine secondario, a
me pare che la menzione di Scauro contenga un accenno ad età assai
remota e sia una nuova prova di quella millanteria grossolana di
Trimalchione, che non conosceva a se dinanzi limite alcuno di
tempo 0 di spazio. Io ho già notato altrove (4), che il compiaci-
(1) HÙLSEN, Sopra i nomi doppi di servi e liberti della casa imperiale
in Mittheil. Deutsch. Instit. 3, p. 222, in nota.
(2) Che quel titolo non formasse una parte integrante del nome di Tri-
malchione può dedursi anche dal fatto, che esso manca nella iscrizione a
lui dedicata, colle insegne del grado, dal dispensiere Ginnamo: C. Pompeio
Trimalchioni seviro Angiistali (e. 30).
(3). 0. e, pag. 666.
(4) Nello scritto già citato, pag. 26-27.
— 367 —
mento di Trimalchione per l'ospitalità concessa a Scauro è un sem-
plice ricordo del passato {Scaurus cum huc venit nusquam maro-
luit hahiiare), di un passato cioè che non ritorna mai più. Certo
egli non dice che quegli fosse già morto, anzi insinua espressamente
che possedesse ancora nella colonia una splendida villa sulla riva
del mare {et liahet ad mare paternum ìiospitiiim). Ma chi dal
fatto della permanenza della villa volesse dedurre la prova che
il padrone di essa fosse ancora in vita, farebbe assegnamento
troppo sicuro sul giudizio naturale di Trimalchione, per cui il
possibile tien sempre luogo del vero, quando risponde allo scopo
di soddisfare la sua immensa vanità (1).
Egli è vero che nel romanzo ricorre ancora una seconda allu-
sione a Tiberio, là dove si parla dell'inventore del vetro flessi-
bile, condannato a morte da Cesare, perchè non si svilisse il pregio
dell'oro (2). 11 carattere storico di questo avvenimento è confer-
mato da Plinio e da Dione, i quali lo riferiscono entrambi al
regno di Tiberio (3). Ma chi pon mente alla forma in cai esso
è narrato da Trimalchione {fuit faher qui fecit pìiialam vitream
quae non frangehatur, cioè 'fu già un fabbro' ecc.), non può non
avvertire che egli vi allude come a fatto non recente , ma
passato da lunga mano; e non troverà inverosimile sulla bocca
di un settantenne un ricordo di venti anni innanzi, se è vero,
come io credo fermamente, che l'azione generale del romanzo si
debba riportare sotto il regno di Nerone, salito al trono nel 54.
Io non ripeterò qui la dimostrazione che già ne ho data altrove.
Mi basta il fatto che il Klebs, il quale si decide per l'età di
Tiberio, riconosce anch'egli nel ricordo di Apellete e di Menecrate
due artisti dell'età di Nerone (4), per concluderne con piena si-
curezza che è questo l'ambiente storico ritratto nel romanzo.
(1) Si noti che è una caratteristica comune delle persone volgari questa
di designare un'estesa proprietà col nome del suo antico padrone, pur dopo
che egli è morto, facendolo quasi sopravvivere a se medesimo.
(2) Sat. e. 51. Il Klebs, 1. e, fa molto assegnamento su questa allusione
di carattere storico. V. in contrario le nostre osservazioni nello scritto già
citato, p. 23.
(3) Plinio, N. H., 36, 195: Dione 57, 21.
(4) 0. e, pag. 667. Gfr. anche le nostre osservazioni nello scritto già ci-
- 368-
III.
L'autore del Satiricon e il cortigiano di Nerone.
La conclusione storica a cui siamo giunti, che Petronio rap-
presenti nel suo romanzo l'età di Nerone, lascia apparire sotto
nuova luce anche l'antico problema relativo all'epoca in cui egli
visse. E difatti se, come si è già dimostrato, egli ebbe l'intento
precipuo di colpire i vizii della società contemporanea e di met-
tere a nudo la corruzione di essa, coll'arraa terribile della satira
e del ridicolo, conviene ammettere di necessità che egli abbia
fatto parte di quello stesso ambiente storico. E in questo caso,
come riconobbe con grande sincerità pur di recente un acuto av-
versario di questa opinione (1), sarebbe assurdo negare l'identità
di Petronio col cortigiano di Nerone.
Questa tesi, che molti con me si ostinano a ritenere ormai su-
periore ed estranea ai dibattiti della critica, ha trovato di recente
due valorosi contradittori nel Collignon e nel Sogliano. I quali,
pur movendo da criterii affatto opposti, hanno creduto concorde-
mente di poter escludere qualsiasi relazione tra l'autore del Sati-
ricon e il personaggio famoso descritto da Tacito (2). Io non farò
qui molto assegnamento, per ribattere i loro dubbii, sulle prove
dedotte dallo stile di Petronio. Esso è di sua natura così singo-
tato, pag. 24. — L'Haley non si ferma a queste allusioni, ma si prova ad
escludere Vetà di Nerone con alcuni di quegli argomenti, che meglio sono
atti a provarla ; come ad esempio (o. e, p. 16) l'usanza affatto nuova {inati-
ditus mos, come la chiama Petronio, e. 70), praticata da Trimalchione, del-
l'unzione ai piedi dei commensali, che fu proprio, a detta di Plinio, H. N..^
13, 22, un'invenzione del molle figliuolo di Agrippina. Quanto alValabastì-um
cosmiani del framm. XVIII* del Bùcheler, che conterrebbe un'allusione più
tardiva al parrucchiere ricordato da Marziale e da Giovenale, non è inve-
rosimile che egli fosse diventato già famoso nell'età di Nerone, e che il
nome di lui fosse rimasto poi in seguito proverbiale in Roma.
(1) Antonio Sogliano, La questione di Napoli colonia e il Satyricon di
Petronio Arbitro, in Archivio Storico Napoletano, Napoli 1896, pag. 18.
(2) V. lo scritto già ricordato del Sogliano e Collignon, o. c, p. 333-358.
- 369 —
lare, e porta impresse in sé le tracce di una così grande e spic-
cata originalità, che riesce difficile additarne i precedenti o tro-
varne veri e proprii continuatori nel campo della letteratura antica.
Si potrebbe forse avere un indizio del tempo in cui egli visse,
nel fatto che Seneca è l'ultimo degli scrittori antichi, del cui
stile si risenta l'eco nell'opera di Petronio (1). E si potrebbe in
quella tendenza alla parodia, che è come la forma tipica del suo
ingegno, trovare il criterio finissimo di distinzione tra le remini-
scenze che egli ha raccolto nella letteratura anteriore e le imita-
zioni successive che fecero di lui gli scrittori satirici, come Mar-
ziale e Giovenale e il solo continuatore che egli trovò in Koma
del suo stesso genere letterario, cioè Apuleio. Ma questa seconda
specie di conformità, che tocca insieme la materia e lo stile, per
quanto assai cospicua, è stata finora appena intraveduta (2), e non
si può quindi prendere a base sicura del nostro giudizio. Però, nel
prescinderne per ora; non possiamo non tener conto dell'ammae-
stramento che ce ne viene, cioè che è pur sempre dell'età di Ne-
rone l'ultimo degli scrittori antichi, di cui Petronio ha fatto
tesoro nel suo romanzo.
Del quale se mancano le menzioni esplicite prima di Macrobio,
non mancarono però di tener conto nelle loro allusioni alcuni
degli scrittori vissuti nel primo secolo dopo Cr. Lascio da parte
l'accenno al Satiricon, che l'Hirschfeld ha creduto di riconoscer
di recente in una breve dipintura dello schiavo sopravvenuto, la
quale fa parte del discorso di Luciano intorno al modo di scriver
la storia (3). In esso l'autore paragona certi cattivi scrittori « allo
« schiavo di recente arricchito, il quale appena entrato in possesso
« dell'eredità del suo padrone non conosce né il modo di vestirsi
«né quello di sedere a tavola convenientemente; ma libero da ogni
« freno si rimpinza di carne di uccelli, di maiale e di lepre, come
« se fosse polenta o carne salata, fino a scoppiare dal soverchio del
« cibo ». Or qui la punta della satira sta tutta nell'ultimo termine;
(1) Cfr. CoLLiGNON, 0. c, pag. 311.
(2) Cfr. GoLLiGNON, 0. e. pag. 388-397.
(3) Otto UmaciiVELu, Petronius imd Lucianus in Rhein. Museuni, 51,3,
p. HO.
Rùisla di filologia, ecc., XX V. 24
— 370 ^
e, poiché questo non ha alcun riscontro nel Satiripon, parmi ad-
dirittura illusorio il latfronto intraveduto fra il ritratto di Luciano
e la figura di Triraalchione.
Ben altrimenti notevole è il rapido cenno, con cui Plutarco
delinea il carattere morale di Petronio, nel suo discorso intorno
all'adulatore. Parlando dei danni che arreca con se l'adulazione
egli scrive, che questa è soprattutto pericolosa quando, invece di
correggere i difetti dell'amico, colpisce in lui vizii e tendenze
contrarie interamente alla sua natura, come fa ad esempio chi accusa
di dissolutezza un avaro, « ovvero chi rimprovera di spilorceria e
di sordidezza un uomo dissoluto e dissipatore, come fece Tito
Petronio con Nerone » (1). In queste parole è certamente descritto
Varbiter elegantiae della corte di Nerone; né si potrà negare che
a lui convenga in certo modo il titolo di adulatore, soprattutto se
si tien conto della lunghezza del tempo in cui egli godè della di-
mestichezza del principe. Ma non conviene dimenticare d'altra parte
che egli redense questa sua colpa colla nobiltà della morte, e che la
forza d'animo onde in questa die prova smentisce recisamente il
titolo, onde Plutarco lo ha gratificato. « Ne codicillis quidem »,
scrive di lui Tacito, « quod plerique pereimtium, Neronem aut
« Tigellinum aut quem alium potentium adulatus est » (2); cioè
egli non adulò il principe neppure in quell'atto estremo della
sua vita. Testimonianza solenne quest'ultima dalla quale è lecito
di concludere, che egli avesse conquistato la grazia imperiale solo
colla libertà della parola e senza risparmiare al principe i frizzi
inesauribili del suo spirito mordace.
Si avverta inoltre che, se dal punto di vista altissimo di una
morale perfetta ogni manifestazione di colpa dovrebbe essere acre-
mente ripresa e se ad una natura ideale e virtuosa non è con-
fi) Plut., de adul. et ani.^ cap. 19: f\ xoùq ò.Q\jjxo\3c, au iróMv kuì ttoXu-
TeXeìc; (Xc, MiKpoXoyiav kuì ^uirapiav òveiòiZiouai, iBoirep Népujva Tixc^ TTe-
TpDÙvioc;.
(2) Tac, Ann., 16, 19.
- 371 -
sentito dì scherzare col vizio, egli è d'altra parte innegabile che
non si scambia, senza grave torto, con l 'adulazione il contegno
di colui che non trasforma in virtù i difetti della persona amica ;
ma con arguzia finissima ne lascia trasparire il lato falso e ri-
dicolo, mettendo in mostra le colpe opposte in cui vanno a rica-
dere. L'adulatore chiama bensì « dotto l'ignorante e loda la par-
simonia in chi ha le mani bucate » (l), facendo assegnamento
sulla vanità e credulità umana, che si compiace ognora pur di
ciò a cui non presta fede. Ma, se l'uomo avaro o dissoluto non
sente la puntura della satira in chi l'accusa di dissipazione o di
sordidezza, vuol dire che egli è, alla maniera del miles plau-
tino, eleplianti corto circumtenhis. Or nessuno vorrà gratificare
del nome di adulatore colui che ha pur tentato di emendarlo dalle
sue colpe. Se a ciò non provvide la paura del ridicolo, a cui la
natura umana è pur di solito così sensibile, si può mettere pegno
che a nulla approderebbe l'efficacia sempre scarsa dei precetti
morali.
Gli stessi elementi dunque del tipo, che Plutarco ha descritto,
escludono da Petronio la caratteristica di adulatore. Indicheremo
poi quale è la ragione per cui quel tipo si è formato nella sua
mente. Intanto qui come un primo assaggio delle conformità tra
l'artista e il cortigiano di Nerone, che ci porteranno poi a con-
cludere in favore della tesi che identifica l'uno all'altro, vogliamo
notare alcuni contatti tra l'arte e la vita, dai quali apparirà ma-
nifesto che l'autore del Satiricon riprendeva e derideva nelle sue
creazioni artistiche le medesime colpe, rimproverate con tanta ar-
guzia da Petronio a Nerone. Io ho già avuto occasione di avvertire
altrove (2), che Petronio frusta a sangue nella sua satira quella
classe esosa di liberti sopravvenuti, che pur tra le opulenze non
riuscivano a far dimenticare la bassezza della loro origine e, tra
il fasto della vita, trovavan sempre modo di lasciar trasparire la
rozzezza natia. Questo tipo di profusione e di sordidezza è perso-
nificato nell'eroe del banchetto, il quale, pur sotto il peso degli
(i) Son le parole del Sogliano, o. c, pag. 17, che pur non dubita di giu-
dicare a questa stregua, sulla fede di Plutarco, Petronio come adulatore.
(2) V. Io scritto già citato, pag. 50-1.
- 372 -
immensi anelli onde ha cariche le dita e le braccia, non disdegna
di comparire al bagno in pantofole (1), e consente che il suo
portiere in abito verde stia sull'uscio di casa a sgranar piselli in
un piatto d'argento (2). Questo curioso contrasto predomina in
tutti gli atti della sua vita. In mezzo alla munificenza sovrana,
onde dà prova ogni dì ai suoi numerosi convitati, egli consente
che un servo tutto nudo si getti ai piedi dei suoi ospiti, e che li
supplichi di sottrarlo alla fiera punizione onde è minacciato, per
essersi lasciato rubare nel bagno una veste del cassiere, che
quantunque già di porpora non era or più che un cencio lavato (3j.
E, in mezzo a tanto sfarzo, non manca di raccomandare allo scal-
pellino Abinna, che perfino sul suo monumento sieno bene inges-
sate le anfore di marmo, per paura che se ne versi il vino che
non contengono (4). Il quadro si compie colle numerose prove di
volgarità, a cui Trimalchione trascende nel corso del banchetto (5).
E a me non pare che sia un semplice caso questo, per cui l'au-
tore del Satiricon raccoglie nella persona di uno dei personaggi,
meglio 0 più completamente rappresentati nella sua satira, quei
difetti medesimi che, a detta di Plutarco, Petronio rimproverava
in Nerone.
L'evidenza quasi perfetta di questo riscontro ci è data da quel
luogo notissimo degli Annali, in cui Tacito scolpisce nei suoi
tratti più spiccati e indimenticabili la figura di Petronio. Di
(1) Sat., e. 27: « videmus senem calvum, tunica vcstitani russea, inter
pueros capillatos ludentem pila. Nec tam pueri nos, quamquam erat operae
prelium, ad spectaculum duxerant, quam ipse pater familias qui soleatus
pila prasina exercebatur ».
(2) Sat., e. 28: « in aditu autem ipso staLat ostiarius prasinatus, cerasino
succinctus cingulo, atque in lance argentea pisum purgabat ».
(3) Sai., e. 30: « servus nobis despoliatus procubuit ad pedes ac rogare
coepit, ut se poena eriperemus,... subducta enim sibi vestimenta dispensa-
toris in balneo, quae vix fuissent decem sestertioruni ».
(4) Sat., e. 71: « (ponas in monumento) amphoras copiosas gypsatas, ne,
efHuant vinum ».
(o) V. il nostro scritto già citato, pag. 50.
- 373 —
questa testimonianza, già così largamente discussa altrove (1), io
richiamerò solo quegli elementi che possono ritenersi ancora con-
troversi, e che in ogni modo hanno dato origine ai dubbii e allo
scetticismo cosi del Collignon come del Sogliano. Non insisterò a
lungo sull'obiezione comune ad entrambi (2), che Tacito nel lungo
ed insolito ritratto, che ha disegnato di Petronio, non trovi modo
di inserire almeno un cenno intorno all'attività letteraria di lui,
della quale sarebbe stato frutto un'opera assai cospicua, che non
era punto lecito di passare sotto silenzio.
Coloro che così argomentano non mostrano di ricordare, che un'o-
pera d'arte non interessa il racconto storico, se non per la menzione
speciale dei fatti ovvero dei motivi che ne determinarono l'origine.
Tucidide accenna nelle sue storie al Partenone, ma invece di ricor-
dare gli splendidi tesori che vi aveva depositati l'arte di Fidia, si
ferma a rilevare che l'oro che esso conteneva sarebbe bastato a far
fronte a tutte le spese, a cui Atene andò incontro per sostenere la
guerra del Peloponneso (3). E altrove menziona bensì l'incendio
onde fu rovinato in Argo il tempio di Era, ma non sente per
questo il bisogno di far cenno delle opere d'arte che vi perirono,
ne di quelle più splendide che vi sostituì la mano maestra di
Policleto (4). Ne diverso è il sistema seguito da Tacito. Del poeta
Lucano, di cui si contenterà di dire più tardi che fu gran lustro
del suo casato (5), egli ricorda che la fama dei versi di lui
aveva destata, l'invidia di Nerone (6), e che egli morì recitando il
carme con cui nel suo poema aveva descritto la morte di un sol-
dato ferito in battaglia (7). Del poeta Pomponio Secondo scrive
(1) Cfr. il nostro scritto già citato, pag. 29-39.
(2) Collignon, o. c. pag. 337, e Sogliano, o. c, pag. 11-12.
(3) Tue. 2, 1.5.
<4) Tuo. 4, 133.
(5) Tac, Ann., 16, 17: « idem Annaeimi Lucanum genuerat, grande ad-
iiimentum claritudinis ».
(6) Tac, Ann., 15, 49 : « Lucanum propriae causae accendebant, quod
famam carminum eius premebat Nero, prohibueratque ostentare, vanus ad-
simulatione ».
(7) Tac, Ann., 15, 70: « recordatus Carmen a se compositum... versus
rettulit, caque illi suprema vox fuit ».
- 374 -
che, nella memoria dei posteri, il trionfo da lui riportato sui
Catti è oscurato dalla gloria dei suoi versi (l). E di Seneca egli
menzionerà bensì l'orazione da lui composta in memoria di Claudio
e recitata nel giorno dei funerali da Nerone (2), le occupazioni
retoriche (3), la smania del verseggiare, in lui stimolata da un
sentimento di mal compressa gelosia verso il principe (4), e gli
ultimi precetti morali dettati sul punto di morte (5); ma non
addita singolarmente nessuna delle opere, a cui è raccomandato
il suo nome nella fama dei posteri.
Da questo rapido cenno appar manifesto lo studio che pone
Tacito a ricordare degli scrittori soprattutto le circostanze storiche
tra cui si svolse la loro attività letteraria, e di tener conto esclu-
sivamente di quelle manifestazioni di essa, che s'intrecciano co-
munque agli avvenimenti contemporanei. Or da questo punto di
vista a nessuno può far meraviglia, che Tacito non ricordi espres-
samente, accanto all'ignavia per cui Petronio acquistò fama nel
primo periodo della sua vita, anche l'attitudine letteraria di cui
egli diede piìi tardi un saggio così insigne. Gli basta aver detto
che questi fosse un uomo di spirito, il quale brillava nella società
contemporanea per l'arguzia squisita e la grazia semplice e schietta
del suo conversare. E se piti tardi aggiunge di lui che, sul punto
di togliersi la vita, scagliò contro il tiranno una dipintura atroce
delle sue ribalderie, il fatto stesso della compiacenza, insolita, con
cui si ferma a descrivere il contenuto dei codicilli, può interpre-
tarsi come una prova del loro valore letterario. Se si fosse trat-
(1) Tac, Ann., 12, 28: « decretusque Pomponio triumphalis honos, mo-
flica pars famae eius apud posteros, in quis carminum gloria praecellit ».
(2) Tac, Ann., 13, 3: « die funeris laudationem eius princeps exorsus
est... Oratio a Seneca composita;... ut fuit illi viro ingenium amoenum et
teraporis eius auribus accommodatum ».
(3) Tac, Ann., 13, 42: « studiis inertibns et iuvenum imperitiae suetum,
livere iis qui vividam et incorruptam eloquentiam tuendis civibus exer-
cerent ».
(4) Tac, Ann., 14,52: « obiciebant eloquentiae laudem uni sibi adsci-
scere et carmina crebrius factitare, postquam Neroni amor eorum venisset ».
(n) Tac, Ann., 15, 63: « novissimo quoque momento, suppedi tante elo-
quentia, advocatis scriptoribus, pleraque tradidit, quae in vulgus edita eius
verbis invertere supersedeo ».
- 375 —
tato di un libello, o di un semplice elenco nominativo delle colpe
del principe, si può mettere pegno che Tacito o ne avrebbe ta-
ciuto del tutto il ricordo o più concisamente lo avrebbe traman-
dato alla memoria dei posteri. Il cenno, che egli vi dedica, è
appunto indizio di quelle attitudini artistiche che si vorrebbero
trovare attestate da Tacito, per attribuire al cortigiano di Nerone
la composizione del Satiricon.
Ma è poi vero che i codicilli, in cui Petronio segnò l'estrema
sua volontà prima della morte, fossero una satira pungente di
Nerone e della sua corte ? Il Sogliano dubita di questa afferma-
zione, così per la natura propria dei codicilli, come per l'indole
del principe a cui erano indirizzati. A lui pare che nella forma
di un codicillo, cioè di una postilla annessa al proprio testamento,
Petronio non avesse modo di scrivere un'opera d'arte, ma sol di
gettare in viso al tiranno l'elenco delle sue turpitudini, e che so-
lamente questo grido di vendetta potesse colpire l'animo del prin-
cipe (1). Le due affermazioni mi sembrano entrambe gratuite ed
inverosimili.
Quanto al significato letterale della voce codicilli, non è certo
possibile alcun dissenso nell'interpretazione; ne io insisterò anche
qui (2) sull'uso comune che ne è fatto in latino, e soprattutto
da Tacito e da Petronio, vuoi nel senso di lettera intima vuoi
in quello di testamento. La differenza di apprezzamento sta in
questo solo, nel sapere cioè se sotto la forma di codicilli po-
tesse essere scritta un'opera letteraria. Or da questo punto di
vista a me par sempre assai conclusivo il raffronto con Fabrizio
Veientone, il quale quattro anni prima di Petronio fu mandato
in esilio da Nerone, « quod multa et probrosa in patres et sa-
« cerdotes composuisset iis libris, quibus nomen codicillorum de-
« derat » (3). II Sogliano interpreta questo titolo nel senso di
(1) Sogliano, o, c, pag. 13-14.
(2) V. lo scritto già citato, pag. 33. Cfr. anche Sat.. e. 55: « codicillos
poposcit et non din cogitatione distorta haec recitavit », e Tac. 15, fi4.
(3) Tac, Ann., 14, 50.
- 376-
« libello famoso scritto sotto la forma di lettere intime ». Ne io
avrei interesse alcuno di oppormi a tale dichiarazione, se non la
trovassi contradetta dagli interpreti di Tacito, i quali vi annettono
senz'altro il significato e il concetto abituale di 'testamento poli-
tico' (1). Per me l'analogia consiste solo nell'uso che fu fatto di
questo mezzo, così da Fabrizio come da Petronio, nel dare sfogo
ai loro personali risentimenti. Ma non intendevo, come non intendo,
di trascurare la differenza cospicua che intercede tra le due com-
posizioni letterarie. Quella di Veientone era fatta a base di ven-
dette e di odii personali, e, avidamente cercata finché con minacce
ne proibirono la lettura, cadde in obblio, quando cessò il divieto
e il pericolo di possederla (2). Della sorte toccata alla satira di
Petronio Tacito non fa cenno; ma ne addita espressamente il con-
tenuto e la materia. Segno evidente che essa si sottrasse all'obblio
e alle persecuzioni, sempre insufficienti, della pubblica censura ;
poiché Petronio come non aveva adulato il principe, alla maniera
delle altre vittime della sua crudeltà (3), così del pari aveva di-
sdegnato di calunniarlo o di offenderlo volgarmente nei suoi co-
dicilli.
#
Ma qual era il contenuto di essi ? Il Sogliano immagina che
la requisitoria di Petronio dovesse contenere rmdta et probrosa
in jprincipem, alla maniera stessa dei codicilli di Veientone, e ne
esclude di proposito qualunque intenzione satirica : poiché, a suo
(1) ìNipperdey-Andresen al luogo di Tacito già citato annota : « codici!-
Zorwm'Testaiìiente'. Es kam in dei- Kaiserzeit ofter vor, dass man in seinem
Testamente seinem lang verborgenen Unwillen gegen den Kaiser und aiidere
hohe Personen Luft machie. Aus solchen fìngierten Testamenten bestanden
diese Biichor »; cfr. anche Vannucci nelle Annotazioni a Tacito: « è noto
che usavasi dai testatori di mettere nei testamenti ingiurie contro le persone
odiate ».
(2) T.\c., 1. e: « convictum Veientonem Italia depulit et libros exuri
iussit, conquisitos lectitatosque, donec cum poriculo parabantur; mox licentia
habendi oblivionem attulit ».
(3) Cfr. Tac. Ann., 16, 17: « Mela exsolvit venas scriptis codicillis. quibiis
grandem pecuniam in Tigellinum generumque eius erogabat, quo celerà
manerent ».
— 377 —
avviso, « l'arma potente del ridicolo, terribile per ogni uomo quanto
« la morte stessa, non aveva punta alcuna per Nerone, sensibile
« solo ai colpi sanguinosi di un vero e proprio flagellum ». Ve-
diamo se è il caso di sostituire alle comuni immaginazioni, più
0 meno comode e spiritose, qualche fatto o testimonianza concreta,
donde sia lecito di dedurre, in modo più positivo, così il senti-
mento di Nerone come l'indole dello scritto, con cui Petronio
ebbe intenzione di flagellarlo.
In quell'immenso e tragico funerale da cui furono accompagnati
gli ultimi anni del regno di Nerone, in mezzo all'orrore e alla tri-
stezza di tante morti vilmente sopportate. Tacito sottrae con pietosa
cura all'obblio della posterità il ricordo di quegli illustri che, fra
la pazienza servile del volgo, non altrimenti poteron lottare contro
l'efferatezza del tiranno, che col dispregio rassegnato ed eroico per
la loro vita (1). Tra gli esempii memorabili di tanta virtù spicca
quella del tribuno Subrio Flavo, che accusato di complicità nella
congiura di Pisone « primo dissimilitudinem morum ad defen-
« sionem trahens, ncque searmatum cum inermibus et effeminatis
« tantum facinus consociaturum, dein, postquam urgebatur, confes-
« sionisgloriam amplexus (est). Interrogatusque a Nerone, quibus
« causis ad oblivionem sacramenti processisset, Oderam te, inquit.
« Nec quisquam Uhi fldelior militum fuit, dum amari meruisti :
« odis^e coepi, postquam parricida matris et uxoris, auriga et
« histrio et incendiarius exstitisii. Ipsa rettuli verba, quia non,
« ut Senecae, vulgata erant, nec minus nosci decebat militaris
« viri sensus incomptos et validos. Nihil in illa coniuratione gra-
« vius auribus Neronis accidisse consti tit, qui ut faciendis sce-
(1) V. Tac, Ami., 16, 17: « etiam si bella externa et obitas prò re pu-
blica mortes tanta casiium similitudine niemorarem, meque ipsuni satias
ccpisset aliorumque taedium exspectarem, qiiamvis honestos civiuin exitus,
tristes tamen et continuos aspernantium. At nunc patientia servilis tan-
tumque sanguinis domi perditum fatigant animum et raacstitia restringunt.
Neque aliam defensionem ab iis, quibus ista noscentur, exegerim, quam ne
oderim tam segniter ('tranquillamente, impassibilmente 'j pereuntes... Detur
hoc illustiinm virorum posteritati ut, quomodo exsequiis a promiscua sepul
tura separantur. ita in traditione supremorum accipiant liabeantque prn-
priam mùnioriaiii ».
- 378 -
« lerihus promptiis Ha audiendi quae faceret insolens erat. Poena
« Flavi Veianio Nigro tribuno raandatur. Is proximo in agro
« scrobem effodi iussit, quam Flavus ut humileni et angustam
« increpans, circumstantibus mWìtìhus, Ne ìioc qui dem, inquit, ea;
« disciplina. Admonitusque fortiter protendere cervicem, Uiinam,
« ait, tu tam fortiter ferias » (1).
Un postumo sentimento d'omaggio alla nobiltà serena dell'animo,
con cai Siibrio Flavo andò incontro alla morte, mi ha vietato di
soffermarmi a quella parte del racconto di Tacito, la quale illu-
mina più direttamente, e quasi direi di insolita luce, il nobile
disdegno con cui Petronio respinse le accuse e i sospetti del ti-
ranno. Noi apprendiamo dal disprezzo e dall'odio di Flavo per la
crudeltà e la volgarità di Nerone, che le sue accuse, più della
congiura stessa, fecero peso sull'animo del principe, non abituato
(insolens) a sentirsi rinfacciare le proprie colpe. Da questa ana-
logia, che io stesso ho additato, potrebbe ritenersi smentito o come
contradetto quel criterio medesimo, con cui altra volta mi provai
a ricostruire il carattere della satira di Petronio. A me parve,
quando non aveva ancora avvertito questo nuovo riscontro, che
« per Nerone, il quale si era disfatto di Agrippina e di Ottavia,
« il ricordo delle sue colpe potesse accrescere bensì la coscienza,
«anzi dargli quasi l'ubbriacatura morale della sua onnipotenza, ma
« non potesse arrecargli un'ora sola di dolore o rimpianto » (2). Ne
io trovo ora che questo concetto sia sostanzialmente smentito dal
caso di Subrio Flavo, che valse, solo a acuire in lui il desiderio
della vendetta e a renderlo più feroce e implacabile nella sua re-
pressione. Si aggiunga inoltre che, se le parole del tribuno fecero
così grave impressione sull'animo del tiranno, ciò non avvenne
perchè esse gli ridestassero la coscienza già da tempo sopita delle
sue colpe (3), ma per l'oltracotanza di colui che si faceva gioco,
al cospetto di una moltitudine servile, della immensa e incontra-
stata autorità del suo nome. Or io non nego che, se la requisitoria
(1) Tac, Ann., 15, l57.
(2) V. lo scritto già citato, pag. 35.
(3) Cfr. Tac, Ann., 14, 10-11.
- 379 -
scritta da Petronio avesse avuta suppergiù l'intonazione medesima
delle parole di Subrio, essa potesse ridestare nell'animo del tiranno
l'irritazione che quelle vi avevan lasciato; che il cortigiano potesse
vendicarsi del principe, rinfacciandogli le sue colpe. Ma nego
d'altra parte recisamente, che le parole di Tacito ci inducano a
riconoscere una conformità ideale tra le rampogne severe di Subrio
e l'invettiva di Petronio, che non ebbe nella vita altra seria di-
strazione all'infuori dell'arte.
A determinare la natura di essa, non sarà forse inutile il ri-
cordo della forma precisa in cui Tacito l'ha descritta: flagitia
prmcipis sub nominihus exoletorum feminarumque et novitate
cuiusquc stupri perscripsit aique ohsignata misit Neroni(ì). Noto
subito che coloro, i quali si ostinano a considerare l'invettiva di
Petronio conae un elenco sommario delle colpe del principe, si
trovano obbligati a prescindere, anche senza volerlo, dal significato
preciso del v. perscribere, il quale include ognora in se il concetto
ben noto di « descrizione compiuta e fedele ». Ma, lasciando pur
da parte questa obiezione richiamata già altrove (2), a me non
pare che risulti in alcun modo attestato dalle parole di Tacito
quel carattere storico del documento, su cui tanto insistono tutti
coloro che si credono in diritto di negare la connessione di esso
col Satiricon (3).
Egli è vero che la frase sub nominibus fu interpretata dal
(1) Tac. Ann., 16, 19.
(2) V. lo scritto già citato, pag. 34.
(3) Non sarà inutile ricordare il modo come il Collignon, o. c, p. 337,
descrive « ce href codicillo, sorte de procès-verbal des débauches de Néron,
avec les noras à Tappui, libello accusateur sans nulle précaution oratoire,
vengeance postume d'une victime clairvoyante et admirablement informée »;
cfr. anche pag. 333: « ce fameux récit où, avant de mourir, avec les noms
des jeunes impudiques et des femmes perdues, il retra^a en détail les dé-
bauches du prince et leurs monstrueux raffinements ». All'opinione del Col-
lignon si contrappone quella del Peter, Geschichle Roms^, Halle 1881, III,
p. 354 n., il quale non si mostra punto convinto che l'opera, che noi pos-
sediamo, non sia quella stessa che fu inviata a Nerone.
— 380 --
Nipperdey come additis fidei causa nominibus^ e che molti oggi
giurano sulle parole di lui. Ma certo non basterà questo solo a
farle apparire in tutto sicure o pienamente plausibili. Chi tien
presente il largo uso che fece Tacito della preposizione sub, deve
certo riconoscere che questa ha assunto assai frequentemente
presso di lui la semplice accezione di ciim, cfr. Ann. 4, 11 :
ut darò sub exemjìlo falsas auditioncs depellerem-, 13, 25:
quidam, pcrmissa semel licentia sub nomine Neronis , inulti
propriis cum globis eadem cxercebant. Ma non può d'altra parte
dimenticare che, parallelamente a questa accezione, ricorre con
non minor frequenza anche l'altra, per cui sub nomine si è volto
talora a significare « sotto il falso o finto nome, sotto veste, ap-
parenza, pretesto » e così via (1). Ricordo soltanto alcuni degli
esempii più cospicui che rientrano in questa categoria, come Ann.
2, 33: faciìem adsensum Gallo sub nominibus honcstis («- sotto
la falsa veste o finta apparenza di onestà ») confcssio vitiorum et
simiìitudo audicntium dedit \ 5, 4: ferebantur sid/ nominibus
(« sotto i finti, pretesi, falsi nomi ») consniarium fictae (« ben
foggiate, false ») in Scianum sentcntiae. Or chi si prova ad esa-
minare, alla stregua di questi costrutti, anche il luogo di Tacito
testé discusso (flagitia principis sub nominibus exoletorum femi-
narumque perscripsit), non può non riconoscere che quella frase
ha il semplice valore di « solfo i nomi », e che è una vera su-
perfetazione quella di coloro che l'interpretano in una accezione
più complessa ed insolita («sotto l'indicazione precisa dei nomi »(2));
la quale, a non dir altro, non è consentita nemmeno dall'espres-
sione generica exoletorum femìnarumque, che mal comporterebbe
una determinazione così precisa.
(1) Anche il Wolkk nelle sue Annotazioni alle storie di Tacito, 1. 5,
Berlin 1886, riconosce che nella frase sub nomine « die Praposition deiitet
den Missbraiich des Namens an, ini angeblichen Auftrage ».
(2) A prova della inverosimiglianza intrinseca di questa interpretazione e
dello sforzo che essa richiede per essere accolta, basti ricordare che anche
il CoLUGNON, 0. e, p. 10, traduce per suo conto la frase di Tacito: « Pé-
trone traga sous les nonns de jeunes impudiques et de femmes perdues le
récit des débauches du prince » e che solo in nota egli aggiunge « ou
plutót avec les noms des jeunes impudiques ».
— 381 -
Ma io credo di poter giungere anche per altra via ad una de-
terminazione egualmente limpida e sicura del pensiero di Tacito.
Se Petronio avesse aggiunto alla sua satira i nomi precisi delle
femmine e dei cinedi, che erano testimoni ed attori delle disso-
lutezze e delle orgie notturne del principe, Nerone non avrebbe
avuto bisogno di una lunga indagine per determinare il mezzo,
onde Petronio aveva penetrato i suoi segreti ; perchè il nome di
Silia, Ì2)si ad omnem lihidinem adscita ac Petronio perquam fa-
miliaris, lo avrebbe liberato in un tratto da ogni incertezza. Se
invece quel nome gli occorse come per caso {offertur) e dopo una
lunga serie di dubbii che avevano attraversato l'animo suo {ani
òigenti), ciò vuol dire apertamente che esso non era suggellato in
quel marchio perenne d'infamia impresso da Petronio sulla fronte
di lui. Giacché, si noti, ove il nome di Silia avesse brillato tra
quelle turpitudini immonde, in mezzo alle donne perdute che furono
cieco strumento delle libidini di Nerone, Tacito non avrebbe avuto
bisogno d'aggiungere che ella era ipsi ad omnem lihidinem adscita,
quasi per darci ragione dei sospetti che ricaddero sopra di lei (1).
Or se lo scritto di Petronio non conteneva i nomi delle vittime
del tiranno, e non sferzava la condotta del principe col rimproveri
fiero delle sue colpe, ma solo colla descrizione fedele delle sue
stravaganze notturne, ognuno intende come la punta di questa
accusa non dovesse consistere già nella violenza di essa, ma nello
scherno che versava a piene mani su Nerone. Essa non fu una
requisitoria, alla maniera di quella pronunziata da Subrio Flavo
al cospetto del tiranno, ne gli rimproverò i più immani delitti,
in cui quegli aveva già estinta pur la coscienza della sua colpa.
Questo sentimento non poteva esser ridestato in lui dal semplice
ricordo delle sue violenze notturne, che lo richiamava all'ebbrezza
dei suoi trionfi, ma dal ridicolo gettato su di quelle a piene mani
dal genio di Petronio. Essa non era una requisitoria ma una sa-
tira, in cui il principe trovava squadernata la propria vita. E fu
solo nell'elaborazione fantastica, a cui l'assoggettò l'opera dell'ar-
tista, dipingendo ogni nuova sozzura (novitate cuiusque stupri),
che potè perdere quel disgusto monotono che ispirava la realtà.
(1) lo accennai già a questo concetto, ma solo di sbieco, nfillo scritto
assai spesso citato, pag. 39.
382
IV.
Il carattere morale di Petronio Arbitro.
L'interpretazione più diretta e genuina delle parole di Tacito
ci porta dunque a confermare, che lo scritto lanciato da Petronio
contro il tiranno avesse lo stesso carattere satirico già riconosciuto
nel suo romanzo. Per coloro che sono abituati a considerare Pe-
tronio come un cortigiano di Nerone, la satira forma un contrasto
troppo stridente con l'adulazione, di cui quegli aveva dato prova
nella sua vita passata. Or io ho avuto già occasione di avvertire
altrove, che questo concetto non è conforme al vero (1). E mi
proverò qui a dimostrarlo, senza il diretto proposito di una ria-
bilitazione, ma per semplice omaggio alla verità.
Bicordo anzitutto il posto segnalato che occupa Petronio nel rac-
conto di Tacito, in mezzo agli illustri cittadini {illustrium
virorum) che affrontarono con stoica serenità il loro ultimo fato.
L'arte dello storico avrebbe disdegnato di illuminarne la figura coi
l'aggi più splendidi della sua luce, se l'ultimo suo grido di vendetta
fosse stato quello laido e interessato del cortigiano adulatore, nel
dì della sua disgrazia. Petronio era stato bensì nella sua giovinezza
uomo molle e dissoluto, ma non aveva affogato nei vizii tutte le
energie dello spirito, anzi aveva dato perfino a quelli un'intona-
zione geniale ed elegante. Le sue mollezze attestavano sempre
una cultura oltremodo raffinata, e la grazia arguta del piacevole
motteggiatore grande schiettezza e semplicità di animo. Egli
viveva allegramente in mezzo alla corruzione della vita mondana,
ma senza esserne sopraffatto, anzi dominandola signorilmente colla
superiorità dello spirito. E vi si adattò non per bisogno della sua
natura, ma per sfogo della sua attività, a cui i tempi non con-
sentivano un'occupazione più seria. Si lasciò attrarre per un mo-
mento dalla passione della vita pubblica, e prima in qualità di
(1; V. lo scritto già citato, pag. 37-39.
— 383 -
proconsole di Bitinia e poi in quella di console mostrò di posse-
dere vigore e attitudine pari all'alto ufficio (1). Ma se ne stancò
presto e, messo dal nuovo suo grado a contatto immediato colla
corte, revoluius ad vitia, seu vitiorum imiiatione, intcr paucos
familiarium Neronis adsumptiis est, eleganiiae arhitcr (2). Egli
conquistò l'affetto del principe non per conformità di vita, ma per
le qualità dello spirito, che facevan di lui l'arbitro della eleganza
e del buon gusto. E pur vivendo in quell'ambiente osceno e mal-
fido della corte, in cui Seneca potè obbliare e tradire la dignità
del suo grado, rivendicò a se stesso la scienza dei piaceri {scien-
tiam voluptatum), ma ne lasciò l'arte e la pratica a Tigellino. 11
vizio non ne aveva guastato l'animo. E, come Bruto visse alla
corte di Tarquinio, ex industria factus ad imitationcm siultitiae,
ut, sub eius obtentu cognominis liberator ille populi Romani
animus, latens opperiretur tempora sua (3); così Petronio, imita-
tione vitiorum cioè 'fingendosi corrotto', potè meditare e compiere
tranquillamente nella corte del principe quella satira sociale, che
fu da ultimo il suo strumento terribile di vendetta, come era
stata fin qui l'occupazione più seria e costante della sua vita. Né
fé' mai omaggio della libertà sua ai capricci del principe. Come
in vita mantenne fede all'amicizia di Scevino, pur dopo che questi
cadde in disgrazia di Nerone (4), così da ultimo di fronte alle
accuse dei cortigiani non supplicò la grazia del principe (5); anzi
volle darsi da sé stesso la morte a poco a poco, perchè questa
sembrasse fortuita e il tiranno non avesse la gioia di attribuir-
sene il merito (6). Natura semplice e schiva di qualunque osten-
(1) Tac, Ann., 16, 19 : « proconsul Bithyniae et mox consul vigentem
se ac pareni ne^otiis ostendit ».
(2) Tac, 1. e. Cfr. per il significato del v. attinebatur, usato in séguito
da Tacito nel corso della sua narrazione, Ann. 6, 19: carcere attinebatur.
(3; Liv., 1, 56, 8. •
(4) Tac, 1. e: « ergo (Tigellinus) crudelltatem principis, cui ceterae li-
bidines cedebant, adgreditur, amicitiam Scaevini Petronio obiectans »; cfr.
intorno a Scevino, Ann. 15, 49 segg.
(5) Tac-, 1. e: « nec tulit ultra timoris aut spei moras ».
(6) Tac, 1. e: « iniit epulas, somno indulsit, ut quamquam eoacta mors
fortuitae similis esset ».
— 384 —
tazione volgare, egli andò incontro alla morte con spensierata in-
differenza, disdegnoso, nonché dell'infinita vanità del tutto, pur
della gloria e immortalità del suo nome (1).
Nulla io ho aggiunto a questo ritratto, che non ci sia traman-
dato dall'interpretazione genuina delle parole di Tacito. E, se il
tipo che ne vien fuori si sottrae alla comune volgarità e contende
al dramma la gloria della più perfetta e completa incarnazione
di un carattere artistico, non ne invidiamo perciò la natura umana,
che trova in esso così raro compenso alle sue infinite debolezze.
Ciò che a noi interessa solamente è che non sia disforme dalla
realtà storica. Or questa ci addita bensì degli individui , che
ostentano la virtù a più sicuro appagamento dei loro vizii ; ma
non ci ha mostrato ancora degli uomini, che simulino per puro
capriccio dei vizii che non hanno. Ciò non può avvenire che per
morbosa impotenza, e attesta la degenerazione ultima della natura
umana. Ma quando l'animo resiste al vizio e, pur restando spon-
taneamente in mezzo ad esso e sentendo il lezzo che ne emana,
non lo subisce, vuol dire che vi è una forza intima che lo puri-
fica e lo conserva immacolato, tra le tentazioni pungenti del male.
In ciò dire io non perseguo una mia vaga immaginazione, ma
presto ascolto agli ammaestramenti sicuri delle parole di Tacito.
11 quale, raccontando che il principe vendicò in Silia la rivela-
zione delle sue stravaganze notturne, ha affermato nel modo più
solenne che di esse non fosse consapevole o ministro Petronio.
* *
Un egregio giovane, il dr. Ci vitelli, commentando testé con
affettuosa cura lo scritto del Sogliano intorno a Petronio, si è pro-
vato a dare di queste parole di Tacito un'interpretazione affatto
nuova, che io reputo perciò stesso meritevole d'esser presa in
esame. Pigliando le mosse dalla traduzione del Davanzati, che io
riferii nel primo mio scritto a più comoda e facile intelligenza
dei lettori ùeW Ardologia, egli contesta anzitutto che Silia avesse
(1) Ibid.: « neque tamen praeceps vitaiu expulit, ut libitum alloqui amicos,
non per seria, aut quihus glorvim constantiae peteret ».
- 385 -
tradito i segreti di Nerone; e poi afferma che essa fu esiliata dal
tiranno solo a sfogo della sua ira e per l'amicizia onde era av-
vinta a Petronio (1). Le parole di Tacito, a cui egli si riferisce,
son queste sole: agitur in exsilium iamquam non siluisset, quae
viderat pertuleratque, proprio odio. 11 Civitelli afferma, che la
frase iamquam non siluisset non rappresenti già l'imputazione
sotto di cui essa fu condannata dal principe, ma il pensiero dello
storico, il quale dichiarerebbe che essa fu mandata in esilio,
« quantunque avesse taciuto su tutto quello che aveva sofferto e
veduto »; e, riferendo poi l'ablativo proprio odio alla proposizione
incidentale che precede, immagina per questo mezzo che essa
avesse taciuto, « perchè a dirlo ci avrebbe rimesso il proprio
onore, perchè ne aveva essa stessa vergogna ».
Questa interpretazione, a tacere di parecchie inverosimiglianze
intrinseche (Silia, ad es., era troppo dissoluta per poter avere
gli scrupoli che il Civitelli le attribuisce), poggia apertamente
sopra un duplice equivoco. Il Civitelli immagina da una parte,
con un intervento poco opportuno dello storico nel bel mezzo
del suo racconto, che iamquam implichi sempre un concetto
contrario alla realtà (' come se ') ; laddove gli era così agevole
avvertire che Tacito vi ricorre assai di frequente per accennare
ad un capo d'accusa, più spesso vera che falsa, cfr. Hisi. 1, 8:
solliciii et iraii iamquam ('perchè') alias paries fovissent', 1,
48 : servili deinceps probro respersus esi, iamquam (' perchè ')
scyphum aureum in convivio Claudii furaius ; 2, 26 : vincius
praefecius casirorum lulius Gratus, iamquam frairi apud Otho-
nem miliianti proditionem ageret ('sotto l'accusa che meditasse il
tradimento nell'interesse del fratello'): Ann. \, 12: pridem itivisus
iamquam plus quam civilia agitaret; 13, 43: intercessa princeps
iamquam satis expleia ultione (2). E d'altra parte egli distacca
(1) Giuseppe Civitelli, Sirene e Satiri, Napoli 1897, pag. 14-15 in nota.
(2) Il fatto trovasi di già avvertito dal Draeger, Hisf. Syntax der lat.
Spraché^, 2, p. 680: « die modale Partikel iamquam hat bei Tacitus zu-
vpeilen, wie das griechische ibc,, eine causale Bedeutung : 'weil angeblich*,
also eine fremde Ansicht oder Aussage angebend... Nach Pfitzner bezeichnet
tamqiiam die Voraussetzung und Annahme allgemeiner Uebereinstimmung ».
Rivisiu di filologia, ecc., XXV. 25
— 386 -
l'ablativo proprio odio dalla frase agiiur in exsih'um, di cui è si-
curo complemento, per saldarlo insieme con siluisset e volgerlo
ad un significato non meno complesso che inverosimile, cioè « per
sfuggire alla odiosità che gliene sarebbe incolta ». Or anche qui
tornava assai facile richiamare l'analogia di luoghi affini, come
ad es. Ann. 15, 64: at Nero, nullo in PauUnam proprio odio
(« non avendo alcuna ragione personale di odio »), iuhet inhiberi
mortem; e ad ogni modo di avvertire, che la frase agitur in exsi-
lium proprio odio ha il suo naturale e immediato contrapposto
nel periodo successivo: at Minucium Thermum Tigellini simul-
tatibus dedit. Dal quale si deduce che Nerone, mentre abbandonò
Minucio Termo alla vendetta di Tigellino, sfogò d'altra parte
contro di Silia la terribile indegnazione in lui destata dalla satira
di Petronio.
Ma non son queste le sole sviste, in cui va a dar di cozzo l'in-
terpretazione nuovissima del Civitelli. Avendo escluso le rivelazioni
imprudenti di Silia e presumendo che Petronio, come uno dei
pochi familiari di Nerone, conoscesse per propria esperienza le
orgie notturne di lui, egli è costretto ad ammettere, per rendersi
conto dell'incertezza del principe intorno alla provenienza della sa-
tira, che questa gli fosse recapitata anonima; che Petronio avesse
rotto il suggello, con cui aveva indirizzato all'imperatore il suo
testamento, perchè quello non servisse di prova contro di lui e non
gli togliesse il gusto di morire a poco a poco e a suo piacimento;
che Nerone avesse scoperta la fonte della satira, sol dopo la morte
di Petronio, e che si sfogasse dell'ira accolta contro di lui colla
punizione di Silia che gli era stata amica. Non è facile distri-
carsi dal ginepraio di codeste ipotesi, che s'incalzano e contrad-
dicono in maniera veramente vertiginosa. Esse attestano ad ogni
modo un esercizio della mente per quanto vano altrettanto ingegnoso,
e meritano almeno per questo titolo l'onore di una confutazione.
11 fatto, che Petronio mandò suggellato (obsignata) a Nerone
il proprio testamento, è un indizio che egli volesse non già elu-
derne, ma farne riconoscere colla propria impronta la provenienza.
E se ebbe cura di rompere il suggello e di disperderne le tracce,
dopo quest'ultimo atto della sua vita, ciò fu solo perchè la tri-
- 387 -
stizia dei tempi aveva fatto crescere il numero dei delatori, e
Petronio volle evitare per sua parte che si abusasse del suo nome
e delle circostanze della sua morte, per mietere vittime nel campo
dei suoi amici {fregit anuhim, ne mox usui esset ad facienda
periculà) (1). Che del resto Nerone non potesse aver dubbio in-
torno all'autore della satira, ci è ancor questo indizio che lo con-
ferma, che bastò il fatto dell'amicizia di Silia per Petronio, per
farla ritenere intermediaria e complice delle atroci rivelazioni che
questi aveva fatte.
Giudicando da questa altezza la satira di Petronio, appare evi-
dente la sua connessione col Satiricon ; e s'intendono allora sotto
la vera luce non solo l'ideale artistico, a cui s'informa la co-
scienza dell'autore, ma anche le divagazioni morali onde il ro-
manzo è cosparso, e che contrastano in modo così stridente col-
l'oscenità e volgarità dei personaggi messi sulla scena. Egli è che
il sentimento morale, onde s'illumina quel lurido mondo, è solo
nella coscienza di Petronio, e che l'ambiente che egli ritrae è la
corte del principe, sentina d'ogni sozzurra. Questa antitesi tra la
coscienza e la vita s'infiltra quasi in ogni pagina del romanzo di
Petronio, e ha resistito finora ad ogni serio tentativo di riduzione
dell'opera d'arte sotto il concetto medesimo, alla cui stregua si
giudica' comunemente il cortigiano di Nerone (2). Si neghi pure
a Petronio, come fa il Collignon, la coscienza morale; si attri-
buiscano le sue invettive a quel convicium saeculi, che fu di moda
nella letteratura retorica del primo secolo dell'impero; si consenta
il carattere ironico di quelle tirate morali, che sarebbero messe
sulla bocca di Eumolpo, soltanto per farsi gioco del disaccordo
(1) Gfr. infatti Tac, Ann.^ 16, 17: « raixta inter patrem filiumque con-
iurationis scientia fingitur, adsimulatis Lucani litteris ». Si noti inoltre che
la frase facere pericidum prende quasi sempre in Tacito il valore di 'accu-
sare'; cfr. ad es. Ann. 13, 33: « prò Eprio Marcello, a quo Lycii res repetebant,
eo usque ambitus praevaluit, ut quidam accusatorum euis exsilio multarentur,
' tamquam insonti periculum fecissent »: 10, 74: (delator) clarissimo cuique
pericidum facessil.
(2) Gfr. il nostro scritto già citato, pag. 43.
che esiste tra le nobili teorie e la corruzione della vita (1). Ma,
per quanto l'ironia campeggi nel romanzo di Petronio, non si potrà
mai negare che egli abbia un concetto alto e serio dell'arte, e che
l'artista è sincero, quando ne deplora la decadenza, provocata dalla
corruzione dai costumi e dalla sete dell'oro, con cui si è estinta
il gusto per le cose belle (2).
V.
La satira di Nerone.
Le conformità sin qui additate non sono le sole, da cui sia lecito-
di dedurre la più esatta corrispondenza tra l'autore del Satiricon
e il cortigiano di Nerone. Io ho accennato già altrove alle due
dottrine filosofiche dello Stoicisino e dell'Epicureismo, che, come
furono la norma della vita dì Petronio, così del pari campeggiano
assai largamente nel romanzo di lui (3); ai nomi di exoleti e di
feminae, sotto di cui furono adombrati così i delitti di Nerone
nel testamento della vittima, come la satira della sua corte (4).
Ed ora aggiungo il carattere che Tacito avvertiva nei motti di
Petronio, solutiora et quandam sui negligentiam praeferentia,
cioè quella species simplicitatis tanto graziosa in lui, che si ri-
specchia pur nello stile dei suoi personaggi, e costituisce la vita
0 l'elemento principale della sua satira, novae simplicitatis opus,
come egli stesso l'ha definita (5).
Ma vi ha un altro lato del carattere di Petronio che si ri-
specchia anche più largamente nella sua satira, ed è quella mor-
bida raffinatezza d'ingegno (erudito luxu) posta nei suoi godimenti.
(1) GOLLIGNON, 0. c, p. 67-8.
(2) CoLLiGNON, 1. c: « rien n'empéche d'admettre que Pétrone est sincère
quand il déplore la perle de la simplicité ancienne, quand il se plaint que
la passion de l'argent ait succede au goùt des belles choses. G'est l'artiste
qui parie alors. Je le croix plus convaincu encore quand il regrette les
nobles et fécondes études d'autre fois. Sceptique en morale, Pétrone est en
littérature un homme de foi et de tradition ».
(3) V. il nostro scritto già citato, pag. 30-3i.
(4) Ibid., p. 36-37.
(5) Sat., e. 132.
— 389 -
e che fece di lui Varbiter elegantiae della corte di Nerone (1),
duni nihil amoenum et molle affluentià putat nisi quod ei Pe-
troniiis approhavisset. Questa eleganza raffinata, in cui brilla
quella medesima preoccupazione artistica, che è la nota fonda-
mentale della vita di Petronio, ha lasciato tracce assai cospicue
di sé pur nell'ambiente realistico del romanzo. E il raccoglierle
non solo sarà nuovo indizio di conformità tra l'artista e il corti-
giano di Nerone, ma ci darà anche norma per intendere la parte
che egli prese nella corte ai piaceri del principe (2).
La prima novità, che qui attrae la nostra attenzione, è quella
della pietanza imbandita al banchetto di Trimalchione, sotto la
forma dei segni dello zodiaco. Su ciascuno di essi l'abile prepa-
ratore aveva disposto una vivanda allusiva ai varii loro nomi :
« super arietem cicer arietinum, super taurum bubulae frustum,
« super geminos testiculos ac rienes, super cancrum coronam,
« super leonem ficum Africanam, super virginem steriliculara,
« super libram stateram in cuius altera parte scriblita erat, in
« altera placenta, super scorpionem pisciculura marinum, super
« sagittarium oclopetam, super capricornum locustam marinam,
« super aquarium anserem, super pisces duos mullos. In medio
« autem caespes cum herbis excisus favum sustinebat » (3). Nel
mentre i commensali si disponevano di mala voglia a saggiare cibi
così grossolani, all'invito di Trimalchione che assicurava esser
quella la parte migliore del pranzo, irruppero nella sala danzando
quattro schiavi, i quali sollevarono il coperchio della tegghia e
(1) Il cognome di Arbiter, che porta nei mscr. l'autore del Satiricon, è
certamente connesso col titolo di elegantiae arbiter, che ha in Tacito il
cortigiano di Nerone, sia che quell'agnome gli sia derivato più tardi da
questa speciale caratteristica che egli ebbe nella corte del principe, sia che
questa caratteristica stessa si fondi e tragga origine dal suo primitivo co-
gnome. Quel che è certo quella definizione non deriva punto da Tacito,
cosa quest'ultima non avvertita dal Collignon, o. c, p. 334-5, quando ra-
giona intorno all'origine di essa, come se fosse un'invenzione spiritosa e
personale dello storico.
(2) Di che non tenne conto Plutarco, quando attribuì a Petronio il titolo
di cortigiano adulatore.
(3) Sat.. e. 3').
'
— 390 -
lasciarono apparire di sotto « altilia et sumina leporemque in
« medio pinnis subornatum, ut Pegasus videretur, et circa an-
« gulos repositorii Marsyas quattuor, ex quorum utriculis garum
« piperatum currebat super pisces, qui tamquam in euripo na-
« tabaut ».
A questa prima galanteria tien dietro ben presto un'altra di
maggiore spirito. Una compagnia di Omeristi comparisce sulla scena
e, picchiando cogli scudi sulle aste, comincia la sua rappresenta-
zione. Ma, prima che essa abbia termine, Trimalchione l'interrompe,
per spiegarne la comica allusione ai commensali. « Scitis, egli
« dice, quam fabulam agant? Diomedes et Gan3'medes duo fra-
« tres fuerunt. Horum soror erat Helena, Agamemnon illam ra-
« puit et Dianae cervam subiecit. Ita nunc Homerus dicit, quem-
« admodum inter se pugnent Troiani et Parentini. Vicit scilicet
« et Iphigeniam filiam suam Achilli dedit uxorem. Ob eam rem
« Aiax insanit » (1). A questo punto vien portato a tavola in
un enorme vassoio un vitello lesso, con un elmo in testa. Aiace
che lo seguiva colla spada insanguinata, come fuori di sé, lo
squarta e, trinciando gesti nell'aria, leva i pezzi sulla punta e li
divide tra i commensali stupefatti. Queste scene di così vivace
schiettezza, immaginate per lo stimolo della gola, si ripetono e
s' incalzano nel romanzo come tanti quadretti di genere, dise-
gnati quasi per pascolo dello stomaco e della mente. Qui è una
scena di caccia, e in mezzo a un gran frastuono di cani e di uc-
cellatori viene imbandito a mensa un intero cinghiale, col pileo
in testa e con piccoli porcellini di pasta frolla attaccati alle mam-
melle (2). Là è una gara tra due pescatori che, cogli otri pieni,
si litigano presso il fonte e lascian cadere dai loro vasi ostriche e
pettini, che un valletto poi raccoglie e distribuisce agli ospiti (3).
In queste spiritose invenzioni noi abbiamo forse un saggio di
quella eleganza raffinata, onde Petronio era arbitro alla corte del
principe. In mezzo all' abbondanza di ogni altro piacere, eran
queste le sole e gaie mollezze che lo richiamassero ai divertimenti
(1) Sat., e. 59.
(2) Sat., e. 40.
(3) Sat., e. 70.
— 391 —
spensierati della prima gioventù, e che ricevessero ancora l'appro-
vazione del suo spirito artistico. Ma non è senza una vena di spi-
ritoso umorismo, che egli ce ne rinnova lo spettacolo innanzi agli
occhi. Nel sorriso e nel disgusto dei convitati si presente già la
satira mordace, con cui egli sfolgorerà più tardi nel romanzo
stesso, per bocca di Eumolpo, la corruzione Komana :
Ecce Afris eruta terris
Ponitur, ac maculis imitatur vilius aurum,
Citrea mensa, greges servorum ostrumque renidens,
Quae sensum trahat. Hoc sterile ac male nobile lignura
Turba sepulta mero circumvenit, omniaque orbis
Praemia corruptis miles vagus esurit armis.
Ingeniosa gula est. Siculo scarus aequore mersus
Ad mensam vivus perducitur, atque Lucrinis
Eruta litoribus vendunt conchylia cenas,
Ut renovent per damna faraera. lam Phasidos unda
Orbata est avi bus, mutoque in litore tantum
Solae desertis adspirant frondibus aurae (1).
*
* *
Non son però queste le sole allusioni satiriche, che presenta il
romando alla corte di Nerone. Il Collignon pretese di dissimu-
larne la verosimiglianza o pur di limitarne la portata affermando
che, se la menzione che ha fatto Tacito della satira imperiale di
Petronio si riscontrasse per caso, invece che nell'opera di lui, in
uno degli autori delle Historiae Augustae che fu contemporaneo di
Adriano, non si mancherebbe di scorgere nel Satiricon, collo stesso
diritto, una dipintura della corte di questo imperatore e un'allusione
non meno verosimile al famoso Antinoo (2). Noto anzitutto, che
il fatto stesso della possibilità di questo secondo riscontro lascia
naturalmente supporre, che nel Satiricon sia comunque descritto
l'ambiente di una corte imperiale, io non debbo qui ripetere la
(1) Sai. e. 119; cfr. anche e. 93.
(2) Collignon, o. c, pag. 14-15.
— 392 -
larga dimostrazione, che già ho fatto altrove di codesto assunto (1).
Ma posso qui aggiungere, a conferma sempre più sicura di quelle
deduzioni, che pur dell'altro romanzo latino, composto da Apuleio
un secolo dopo di Petronio, il Mahaffy ha creduto recentemente,
e con grande verosimiglianza, di scorgere la fonte ultima nelle
Metamorfosi di Lucio di Patra, e di additare nelle immoralità e
turpitudini che ne costituivano il fondo come una dipintura fedele
delle orgie, onde nell'antichità fu famosa la corte di Nerone (2).
Io non insisterò più del dovere sopra codesta ipotesi, che avrò
forse occasione di richiamare e valutare altrove con assai miglior
proposito. Ma non posso tacere, tra i contatti molteplici che il
Satirico!] presenta colla persona di Nerone, alcune analogie nuove,
non sufficientemente avvertite la prima volta che mi proposi di
indagare gli elementi storici del carattere di Trimalchione (3).
Accenno anzitutto alla volgarità di lui, che fa così strano con-
trasto alla pretesa di eleganza, a cui informa ogni altro abito ed
atto della sua vita. Egli si lascia accompagnare al bagno da un
puer delicatus colla zazzera lucida ed inanellata, ma si serve poi
di quella sì bella e lunga capigliatura sol per nettarvi le dita (4).
11 desiderio della nettezza lo lascia ricadere nell'eccesso opposto
di una grande sudiceria, poiché non si contenta di far dare acqua
alle mani dei commensali, ma anche ai loro piedi, e di farne
nettare con gran cura le unghia (5). Non sa moderare a tavola
(1) Cfr. lo scritto già citato, pag. 45-59 e pag. 5, e anche l'altra nostra
indagine su 'Napoli e il Satyricon » in Archivio Storico Napoletano, anno
1893, pag. 3-14.
(2) The greek world under Roman sway froìn Polybius to Plutarch by
J. P. Mahaffy, London 1890, pag. 295-300.
(3) Ora naturalmente rinunzierei ad ammettere, che Petronio abbia trovata
la prima ispirazione del suo romanzo nel sepolcro di M. Antonio Encolpo,
esistente in Roma sulla via Aurelia. Quella iscrizione, come ha mostrato
ottimamente il Sogliano, o. e, p. 20-34, e confermato poi il Bùcheler in
Rhein. Museum, 51, p. 471, è dell'età degli Antonini, e risente bensì in sé
dello spirito scettico dell'autore del Satiricon (cfr. anche il nostro scritto già
citato, p. 47-49), ma non può avergli servito come di modello.
(4) Sai., e. 27 : « exonerata ille vesica aquam poposcit ad manus digi-
tosque paululum adspersos in capite pueri tersit ».
(5j Sat., e. 31: « pueris Alexandrinis aquam in manus nivatam infunden-
tibus aliisque insequentibus ad pedes ac paronychia cum ingenti subtilitate
tollentibus ».
— 393 —
la sua incontinenza, e domanda scusa agii ospiti per questa sua
sconcia debolezza, autorizzandoli anzi spronandoli ad imitarne
l'esempio (1). Crede di dar prova di grande eleganza, facendo versar
vino invece che acqua fra le mani dei convitati, durante il ban-
chetto (2). E pesa poi a tavola i braccialetti della moglie, per dar
saggio delle immense spese a cui va incontro per essa (3). A
questa volgarità fa riscontro la ferocia crudele, con cui si abbandona
alla punizione dei suoi servi, pure in mezzo alla gran libertà loro
concessa. Fa tempestare di schiaffi un valletto, a cui era cascato
di mano un tondo d'argento, sol per l'audacia che aveva avuto di
raccattarlo e di non spazzarlo via con le altre immondizie (4). In
questo misto di lusso e di taccagneria, di benevolenza e di efferata
tirannide non è chi non riconosca la bizzarria capricciosa e crudele
del figliuolo d'Agrippina, Nihil tam inacquale erat, dice Encolpio
di Trimalchione (5); e, chi pensa all' incostanza dell'imperatore
nelle sue relazioni verso gli amici, non può non credere che contro
di lui soprattutto sia indirizzata la satira dì Petronio.
A me pare che alcune scene di questa lo prendano così diret-
tamente di mira, che non sia più consentito di disconoscerne l'al-
lusione. Accenno alla scena in cui Trimalchione, dopo di aver of-
feso il suo ragazzo prediletto, se lo leva sulle spalle per calmarne
lo sdegno. « Puer Croesus autem lippus, sordidissimis dentibus,
« catellam nigram atque indecenter pinguem prasina involvebat
« fascia panemque semissera ponebat super torum atque nausea
« recusantem saginabat. Quo admonitus officii Trimalchio Scy-
« lacem iussit adduci praesidium domus familiaeque. Nec mora,
« ingentis fbrmae adductus est canis catena vinctus, admonitusque
« ostiarii calce, ut cubaret, ante raensam se posuit. Tum Tri-
« malchio iactans candidum panem 'nemo', inquit, Mn domo mea
« me plus amat'. Indignatus puer quod Scylacem tam effuse lau-
(1) Sat., e. 47.
(2) Sat., e. 31: « vinum dedere in nianus ».
(3) Sat., e. 67: « ultimo etiam, ne mentiri videretur, stateram iussit af-
ferri et circumlatum approbari pondus ».
{A) Sat., e. 34: « Trimalchio colaphis obiurgari puerum ac proicere rursus
paropsidem iussit »; cfr. anche e 52.
(5) Sat, e. 52.
- 394' -
« daret, catellam in terra deposuit hortatusque est ut ad rixam
* properaret. Scylax, canino scilicet usus ingenio, taeterrimo la-
« tratti tricliniuna implevit Margaritamque Croesi paene laceravit.
« Nec intra rixam tumultus consti ti t, sed candelabrum etiam
« super mensam eversum et vasa omnia crystallina comminuit et
« oleo ferventi aliquot convivas respersit. Trimalchio ne videretur
« iactura motus, basiavit puerum ac iussit super dorsum ascendere
« suum. Non moratus ille usus est equo manuque piena scapulas
« eius subinde verberavit, interque risum proclamavit: 'bucca
« bacca, quot sunt hic?' Kepressus ergo aliquamdiu Trimalchio...
« potiones iussit dividi omnibus servis, qui ad pedes sedebant,
« adiecta exceptione : 'siquis, inquit, noluerit accipere, caput illi
« perfunde. Interdiu severa, nunc hilaria » (1). Non vi è chi non
avverta una satira sanguinosa e mordace, nella descrizione del ti-
ranno che soggiace ai capricci del suo schiavo prediletto. Qui non
è più la gaiezza del narratore di genio, che racconta e sorride ;
ma attraverso alle parole di lui guizza l'ironia più feroce, che
appunta lo strale della critica e lo converte in arma terribile di
vendetta. Qui Petronio non ride allegramente, ma schernisce con
profonda amarezza ; e la satira di lui non mira già a colpire nel
liberto risalito la sua antica origine servile, ma abbassa al livello
di uno schiavo chi fu posto sul trono da un capriccio della for-
tuna. Una natura così bizzarra non ha contratta la sua volgarità
dalle condizioni della nascita ; ma convien dire piuttosto che egli
l'abbia acquisita nella depravazione progressiva dell'animo, dalla
quale non riesce ad esimersi mai, neppure coll'ostentazione di una
insolita clemenza. E difatti, quando colpito in un braccio dalla
caduta di un giocoliere, tra la costernazione generale della moglie
e dei commensali, egli vieta ai servi di menarne vendetta, ha un
bel dire che concede la libertà a quel fanciullo, « ne quis posset
« dicere tantum virum esse a servo vulneratum »; ma nessuno
gli crede, né tien conto di questa sua benignità, la quale è smen-
tita dalla flagellazione del povero schiavo, « qui brachium domini
« contusum alba potius quam conchyliata involverat lana » (2).
(1) Sat., e. 64.
(2) Sat., e. 54.
— 395 —
*
* *
In questa specie di arguzie crudeli è un'altra nota della natura
di Nerone, che Petronio ha ritratta e colorita nella sua satira, lo
non accenno già a quelle prove di spirito, in cui Triraalchione dà
così misero saggio della sua cultura, come ad es. la variazione erme-
neutica intorno ai segni dello zodiaco e all'efficacia che essi eser-
citano sulla generazione (1), la definizione del bronzo Corinzio (2),
le sottigliezze intorno alla natura della povertà e al fondamento
delle controversie retoriche (3). Tutte queste son manifestazioni
ulteriori di quelle tendenze artistiche, in cui già altra volta cre-
demmo di dover sorprendere come un'allusione diretta alle velleità
del principe. Ma io qui intendo di mettere in mostra principal-
mente quella ostentazione di compassionevole liberalità, che vuol
essere insieme prova di arguzia e di sentimenti umanitarii. Tri-
malchione, parlando degli animali a cui dobbiamo la nostra gra-
titudine, mette tra i più laboriosi la pecora e il bue; «boves,
« quorum beneficio panem manducamus; oves, quod lana illae nos
« gloriosos faciunt. Et, facinus indignum ! aliquis ovillam est et
< tunicam habet » (4). Questo sentimento di compassione vorrebbe
essere arguto, ma riesce insieme ad appagare la naturale vanità
dell'animo ; come quando Trimalchione concede la libertà al servo
Dioniso, per avere il diritto di proclamarsi, alla maniera di Ales-
sandro, padre piuttosto che figliuolo di Bacco (5). È così radicata in
lui questa aspirazione, che in un momento d'ebbrezza egli se ne trova
indotto a concedere, o almeno a promettere, la libertà a tutti i suoi
servi, rilasciando però loro in principio, come saggio iniziale della sua
magnanimità, soltanto il libero uso dell'acqua. «Amici, inquit, et
« servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos
(1) Sat., e. 39.
(2) Sat., e. 50.
(3) Sat., e. 48.
(4) Sat., e. 56.
(5) Sat., e. 41: « Trimalchio, 'Dionyse, inquit, liber esto'. Puer dctraxit
pilleum apro capitique suo iniposuit. Tum Trimalchio: 'non iiegabitis me,
inquit, habere Liberum patrem' ».
- 396-
« malus fatus oppressit. Tamen me salvo cito aqiiam liberam
« gustabunt. Ad summara, omnes illos in testamento meo manu-
« mitto » (1). Si metta ora a riscontro con questa tendenza la
passione sfrenata che egli ha per le cose greche (2), l'ambiente
in cui vive, i personaggi che frequentano la corte di lui; e mi
si dica se in questo duplice carattere, falsamente umanitario e
ostentatamente greco, di Trimalchione Petronio non abbia ritratto
due delle debolezze più caratteristiche della natura di Nerone. Si
direbbe quasi che in questa descrizione si presenta l'editto, con
cui qualche anno più tardi Nerone doveva concedere la libertà a
tutta quanta la Grecia.
Di questa concessione, già variamente accennata dagli scrittori
antichi, si è ritrovato testé il documento storico in un titolo greco
posto dalla città di Acraephiae a ricordo perpetuo di quell'av-
venimento. Non sarà forse inutile di riferirne quella parte almeno,
in cui Nerone esalta la propria magnificenza: aTrpoaòÓKriTOV ii)uiv,
àvòpeq "EWriveq, òuupeàv, el Kal |Lir|òèv irapà Tr\q ènr]c, jacTaXo-
(ppoaùvr|(; òtvéXTriaTov, xap\lo}xa\, TOffaùrnv 6aY]v oùk èxujpricTare
aÌTeT(T6ai. rTavrei; oi Tf]v 'Axaiav Kai tfiv euu<; vOv TTeXoTróvvricrov
KaTOiKouvreq "EXXr^vec; XópeTe èXeuGepiav dviaqpopiav tìv oùò' èv
loxc, eÙTuxeaTdTOK; ù|ud)v rrdvTe^ xPÓvoi<; è'axeTe, n yòp àXXoTpioiq
f) àXXrjXoK; èòouXeùaaT€. Ei'Oe |uèv ouv aK^xalovC^q Tr\q 'EXXdboq
trapeixóiLiTiv taùrriv iy]v òuupedv, iva fiov TrXeioveg dTroXauujcri
ir\<; xdpiToc;, òiò Kaì )aé|Licpo)Liai tòv aìuùva TrpobarravriCavTd )uou
TÒ yiéfeQoc, Tf\c, xdpiTO(;. Kaì vOv òè où òi' è'Xeov v^àc, dXXd òi'
euvoiav èuepTeiu), d,u€ipo|nai òè xoùq 0eoù? ùjuujv iLv Kaì bid
Yn? Kaì old OaXdTTri(; atei |liou 7Tpovoou)aéviJuv 7T6TT€ipaMai oti
jLioi TnXiKaOra eùepTeteiv Ttapécrxov. TTóXei<g laèv ydp Kaì dXXoi
ilXeuGepuuaav r|T6|uóve(;, Népuuv òè oXrjv xnv tTrapxeiav (3).
Il dotto archeologo francese Maurizio Holleaux, a cui noi dob-
biamo la scoperta e la lettura di questo titolo, sospetta giusta-
mente che esso riproduca con gran fedeltà il discorso tenuto da
(1) Sai., e. 71.
(2) Sat. e. 38.
(3) Gfr. Maurice Holleaux in Bullctin de Correspondance Helléniqne,
Paris 1888, pag. 510-528 e Mahakky, o. c, pag. 256 segg. e 313.
— 397 —
Nerone in quella circostanza. Or chi pon mente all'intonazione di
esso, a quel misto di orgoglio e di vanità che ne traspare, alla
benevolenza accoppiata all'ironia, all'ambizione che si disposa al
disprezzo, a quella goffa e ostentata fiducia nella protezione degli
dei, a quel sentimento di insana superbia, che gli fa parere
troppo augusti i confini segnati dai tempi alla sua magnanimità,
non può non riconoscere che Petronio ha scolpito nella sua satira
la natura del principe, con un'arguzia ed un'ironia che si mantiene
fedele alla realtà e ne rispetta le esigenze, più di qualsiasi rac-
conto storico.
Certo convien riconoscer che la satira, per quanto pungente,
rifugge quasi sempre dal prendere un tono soverchiamente perso-
nale ed aggressivo. L'artista fa scomparire la sua persona e, tutto
intento a ritrarre la natura dei suoi personaggi, non carica le
tinte del suo quadro, ma si riserba la parte dell'osservatore ; la-
sciando che l'arguzia e la satira non s'infiltri già nel suo racconto,
come per sovrapposizione esteriore, ma sgorghi limpida e serena
da quel contrasto tra il mondo ideale o fittizio della immagina-
zione e quello rude della realtà, che fu mai sempre la sorgente
più sicura e abbondante del ridicolo. Giacche non conviene di-
menticare che la satira di Petronio, sebbene gli servisse da ul-
timo come strumento assai efficace di vendetta, non fu concepita
né composta a sfogo di personali risentimenti. Essa è una vera
dipintura ideale e fedele della corte, e assunse il tono dell'ironia,
sol perchè questa è la veste esteriore con cui il genio dell'artista
può disegnare e riprodurre il lato falso e comico della vita. Anzi
è così lontano dal pensiero di Petronio l'intento puramente sog-
gettivo di una satira personale, che egli ha cura perfino di dissi-
mularne le allusioni. La realtà si trasfigura sempre nel regno della
fantasia, l'individuo si converte nel tipo, a suggello di quella
idealità che è la vita perenne dell'arte. Però, pure in mezzo a
questa elaborazione fantastica, apparivano così nitidi e vivaci i con-
tatti colla realtà, che Petronio, per disperderne le tracce, preferì
- 398 —
di lasciare nell'ombra l'ambiente storico da lui descritto, e di ta-
cere anche il nome della città a cui ci riporta una delle scene
principali del suo romanzo.
VI.
La parodia della « Troiae Halosis » e la critica della Farsaglia.
Prima di sottrarre alla coscienza dell'artista la rivelazione di
questo suo segreto, non sarà inutile di far cenno dell'ultimo dato
storico che il romanzo presenta, riguardo all'epoca della sua com-
posizione. Ne riceverà luce anche l'indole generale del suo rac-
conto, e ne resterà confermato in modo definitivo quell'intento
satirico, nel quale consiste non solo il maggior segreto, ma anche
il più vivo interesse della sua creazione artistica. Io accenno a
quel breve saggio di poema epico intorno alla guerra civile, in
cui si riconosce ormai da tutti concordemente un'allusione a Lu-
cano (1).
L'esatta valutazione dell'intento artistico di Petronio gioverà
anche meglio a determinare il significato preciso dell'altro poe-
metto relativo alla presa di Troia (2). Di cui riesce troppo
facile negare lo scopo satirico, sol perchè s'ignora la composizione
originale, che Eumolpo avrebbe schernita (3). Ma chi tien pre-
sente il metro lirico in cui esso è scritto (65 senarii graecanici),
pari forse a quello in cui Nerone, durante l'incendio di Koraa,
declamò con accompagnamento della lira il suo carme intorno
alla presa di Troia (4); l'evidente contratfazione della maniera di
Lucano (5), della cui arte fu pure emulo e seguace l'imperatore ;
(1) Gfr. il nostro scritto già citato, pag. 39-40 e anche Sogliano, o. c,
pag. 44-45.
(2) Sat., e. 89.
(3) Gfr. CoLLiGNON, 0. e, pag. 132-148.
(4) Il BùcHELER sostiene che T MXiou ó[Xu)0i<; di Nerone sia soltanto una
parte o un canto del poema intitolato Troica; ma non vi è nessuna prova
di fatto che confermi tale ipotesi.
(ò) Gfr. GoLLiGNON. 0. e, p. 141: « il semble qu'il ait voulu ici lucaniser
Virgile ».
-399 —
può ben riconoscere in questo saggio una spiritosa parodia di quella
MXiou a\ujcnq a lui attribuita da Svetonio (1). Certo in esso pre-
dominano quelle tendenze retoriche ed enfatiche, che, come colo-
rivano ì discorsi di Nerone, così dovevano ridondare soprattutto
nei suoi carmi. Accenno sommariamente all'iiso ardito di alcune
metafore, come messis per anniis (2), alla sovrabbondanza di nomi
astratti con significato concreto (3), alle espressioni soverchia-
mente concise (4), al giro artifizioso della frase (5), alle affettate
e continue antitesi (6); e concludo che senza un'intenzione satirica
mal s'intenderebbe il cumulo di tante contorsioni ed asprezze, nel
breve giro di pochi versi, sulla bocca di Eumolpo.
Del resto io intendevo soprattutto di riferirmi al poema de hello
civili (7), di cui non disconosce l'intonazione critica neppure il
Collignon, nel lungo studio destinato a questo soggetto (8). Con-
viene però deplorare, che una considerazione affatto subiettiva
perturbi in lui l'intelligenza serena e compiuta di questa critica
(1) SvET., Ner., 38.
(2) Vv. 1-2:
« lam decima maestos inter ancipites metus
Phrygas obsidebat messis »,
dove messis obsidet è certamente una goffa stortura. Ad essa fa riscontro la
« Roborea moles spirat alieno metu »
del V. 2fì, e il
« Pulsumque marmor abiete imposita gemit »
del V. 34.
(3) vv. 7-8 : « recessus — Qui castra caperent »,
e V. 9 : « irata virtus abditur ».
(4) V. 10: « in suo voto latent ».
(5) v. 31: <.< undaque resultat scissa tranquillo minor »,
V. 38: « liberae ponto iubae »,
v. 47: « morsque ipsa miseros mutuo perdit metu ».
(6) V. 17: « mentisque pavidae gaudium lacrimas habet »,
V. 27: « ibat iuventus capta, dum Troiani capit »,
V. 50: « iam morte pasti »,
V. 51: « iacet sacerdos inter aras victima »,
V. 53: « Peritura Troia perdidit primum deos »,
V. 65: « Gontraque Troas invocat Troiae sacra ».
(7) Sat., e. 119.
(8) Collignon, o. c, pag. 149-226 e soprattutto pag 184 segg. e p. 357.
— 400 —
letteraria, alla cui illustrazione avevano già così bellamente con-
ferito le lunghe e accurate ricerche del Mòssler e del Wester-
burg (1). Al Collignon non sennbra verosimile che Petronio derida
contemporaneamente così Lucano come Nerone, che fu emulo di
lui; e si leva d'imbarazzo negando recisamente un'intenzione sa-
tirica a queste due composizioni epiche, che quegli ha introdotte nel
suo romanzo (2). E il Sogliano lo segue su di questa via così
scabrosa, affermando che non possono coesistere nella medesima
opera le due caricature; e che la pazza gelosia, anzi l'odio indo-
mito di Nerone per i trionfi di Lucano, dovesse attutire nel-
l'animo di Petronio il desiderio o il bisogno di farsene eco nella
sua satira (3).
Qui si giudica evidentemente di Petronio alla stregua di
quel fallace criterio, che gli ha fatto attribuire il titolo di cor-
tigiano ; e, volendosi cercare in ogni caso un intento personale
e interessato nella sua satira, si viene di necessità a riconoscere
che, se la gelosia di Petronio potè esser destata dal favore di
Lucano, essa dovesse rabbonirsi colla disgrazia di lui. Chi ab-
bassa al livello di contese personali la critica d'arte contenuta
nel Satiricon, non solo ne frantende la serena obiettività, ma
mostra di non pregiare quella natia e perenne freschezza, quello
studio spassionato del vero, che è il segreto eterno della vitalità
d'ogni opera letteraria. L'impersonalità della satira di Petronio
apparirà anche meglio agli occhi nostri, se essa accumuna in-
sieme innanzi alla coscienza dell'artista la vittima ed il tiranno,
il poeta e il suo rivale. Ne ci lasceremo indurre da questa pretesa
contradizione ad optare tra l'uno o l'altro termine dell'alternativa,
messa dal Collignon al nostro giudizio. Queste considerazioni
estrinseche, se non prevalsero sull'animo di Petronio, non debbono
(1) Gfr. MoESSLER, Commentatio de Petronii poemate de bello civili,
Bresiau, 1842, e Quaestiomim Petronianarum specimina tria, Hirschberg
Pfund, 1857-70; E. Westerburg, Petron nnd Lucan in Rhein. Mui5eum,
voi. 38, p. 92 segg.; cfr. ancora Maurice Souriau, de deorum ministeriis
in Pharsalia, Paris 1885.
(2) Collignon, o. c, p. 147, 357.
(3) Sogliano, o. c, p. 45.
- 401 -
nemmeno perturbare i nostri apprezzamenti. La critica, che egli
ha fatto della Farsaglia, anticipa così serenamente il giudizio della
posterità, che è una vera ingiustizia quella del Collignon, il quale
ha preteso di abbassarne la finezza e la portata al semplice livello
di una esercitazione di scuola.
L'improvvisazione di Eumolpo, quantunque a detta di Petronio (1)
non abbia ancor ricevuta l'ultima mano, è concepita con tutta la
serietà di un'opera d'arte, quale si addice all'altezza dell'argo-
mento e alla dignità dell'ideale artistico da lui contradetto. Gli
spettatori, a differenza di ciò che avevan praticato per l'altra im-
provvisazione sulla presa di Troia, non coprono di fischi e di pietre
la voce del poeta (2), ma si mostrano compresi d'ammirazione per
questo nuovo saggio di straordinaria volubilità del suo ingegno.
Or se nella voce degli spettatori, come nel coro di una tragedia
greca, si vuol veder rispecchiato il convincimento morale di Pe-
tronio, convien ritenere che egli, pur dissentendo sostanzialmente
dalla maniera e dall'ideale artistico di Lucano, non potesse avere
per lui il disdegno e il disprezzo, che ha riversato a piene mani sul-
l'ingenua fissazione del suo imperiale imitatore. Nei 295 esametri di
Eumolpo Petronio, pigliando a modello la Farsaglia, ha voluto darci
un saggio di quel che dovrebbe essere un poema intorno alla
guerra civile. Egli ne ha disegnati non solo gli elementi artistici
ma anche il concetto storico, con una serietà d'intendimento a
torto disconosciuta dal AVesterburg. Il canto infatti si apre con
una splendida dipintura della corruzione Romana, nella quale il
poeta addita, con profonda coscienza di osservatore e di storico, la
prima e più diretta causa delle guerre civili. Passando quindi a
descrivere le due forze umane, che si servirono di quelle come
(1) Sat., e. 118: « tamquam si placet hic impetus, etiam si nondum re-
cepii ultimam manura »,
(2) Petronio, a proposito della Troiae halosis, narra nel Sat., e. 90: « ex
iis, qui in porticibus spatiabantur, lapides in Eumolpum recitantem mise-
runt »; e riguardo al bellton civile si contenta di notare, Sat., e. 124: « haec
Eumolpus ingenti volubilitate verborum effudit ».
Rivista di filologia, ecc., XXV. 26
- 402 —
strumento della loro ambizione, egli delinea il carattere di Cesare
e di Pompeo, mostrando a chiare note la sua predilezione per il
primo dei due campioni, cui assiste insieme la coscienza altissima
della sua missione, la nobiltà del carattere e la giustizia della
causa.
Questo concetto fa mostra di sé fin dalle prime parole in cui
egli addita i triumviri, per far cenno della sorte ad essi riserbata :
Tres tulerat fortuna duces, quos obruit omnes
Armorum strue diversa feralis Enyo.
Crassum Parthus habot, Libyco iacet aequore Magnus,
lulius ingratam perfudit sanguine Komam,
Et quasi non posset tot tellus ferre sepulcra,
Divisit cineres. Hos gloria reddit honores (1).
Il motivo epico però, che qui si trova accennato come in forma
d'epiteto nell'ingratitudine di Roma, brilla in tutta la sua luce,
appena Cesare si presenta sulla scena e dalla vetta delle Alpi
sfolgora il suo rivale. La figura di lui assume allora, in mezzo
alle asprezze della natura, il carattere e la tempra indomita del-
l'eroe, ed egli vede fuggire a sé dinnanzi, tra lo spavento e la
costernazione generale dei suoi nemici, anche il Magno Pompeo,
Ille tremor Ponti saevique repertor Hydaspis,
Et piratarum scopulus, modo quem ter ovantem
luppiter horruerat, quem fracto gurgite Pontus
Et veneratus erat submissà Bosporus unda.
Proh! pudor, imperii deserto nomine fugit.
Ut Fortuna levis Magni quoque terga videret (2).
1 motivi mitologici, che da questo punto s'intrecciano alla narra-
zione poetica, rispondono così fedelmente all'ideale classico dell'e-
popea, svolto e affermato nella precedente discussione da Eumolpo,
che è necessità ritenere che essi sieno stati contrapposti al carattere
storico e artistico della Farsaglia, sol per metterne in mostra la
falsità.
(1) Sat., e. 120.
(2) Sat., e. 123.
-403 -
Certo io non nego che questa contradizione assuma qua e là la
punta dell'ironia. 11 Westerburg ne ha con grande acume ricercati
alcuni indizii nel poema di Eumolpo; ne il Collignon è riuscito,
per quel che a me pare, ad impugnarne in alcun modo l'evi-
denza (1). Ricorderò due sole di queste tracce, che mi sembrano
fra le più sicure e cospicue. Lucano aveva scritto nella Parsaglìa,
3, 16-17, che Caronte si era trovato in grave difficoltà nel tra-
ghettare all'altra riva le ombre dei morti nella giornata di Farsalo:
Praeparat innumeras puppes Acherontis adusti
Portitor.
Petronio ricalca questo medesimo motivo, ed esagerando il lato
veramente comico di esso fa presagire espressamente dalla For-
tuna il grave imbarazzo del nocchiero infernale:
Vix navita Porthmeus
Sufficiet simulacra virum traducere curaba;
Classe opus est (2).
Così del pari Lucano, facendo l'apoteosi di Nerone, aveva prean-
nunziato in questa forma la sua ascensione celeste:
Aetheris immensi partem si presseris unara,
.' Sentiet axis onus (3).
E Petronio, volgendo al ridicolo questa prova stomachevole di
adulazione, fa addirittura intervenire un rivolgimento nelle sfere
celesti, abbandonate dagli dei per la loro partecipazione alla bat-
taglia di Farsalo :
Sentit terra deos: rautataque sìdera pondus
Quaesivere suum ; namque omnis regia caeli
In partes diducta ruit (4).
(1) V. Collignon, o. c. pag. 180 segg.
(2) kat. b. e, V. 117-119.
(3) Lue, Phars., 1, 45.
(4) Petr., b. e, V. 264-266.
- 404 —
Se la parodia è l'esagerazione di un motivo comico, nessuno potrà
disconoscerne la presenza in questi due luoghi di Petronio. I quali,
coll'intenzione ironica che comunicano alla sua critica, ce ne ri-
velano l'obiettivo, volto principalmente a ritrarre Lucano dal falso
indirizzo artistico sin qui seguito nel suo poema. Ciò farebbe sup-
porre che la Farsaglia fosse appena cominciata e nota solo per i
varii saggi, che il poeta ne aveva dato nelle pubbliche letture. Ne
è indizio il fatto, che le allusioni di Petronio si riferiscono quasi
esclusivamente 0 ai tre primi libri o al settimo (1); e che egli
accenna alla Farsaglia come a un semplice tentativo, ancora lon-
tano dal suo compimento (2). Or chi riporta questi dati alla no-
tizia che ci comunica Vacca nella vita di Lucano, che cioè Nerone
gli interdisse nel 64 l'uso delle pubbliche letture, deve natural-
mente ritenere che la conoscenza che ebbe Petronio della Farsaglia
fosse di epoca anteriore a questa data. E d'altra parte, poiché l'in-
tonazione generale della sua critica richiede di necessità che questa
fosse scritta, mentre l'autore del poema era ancora in vita, se ne
deduce con piena certezza che la parte del Satiricon, in cui Lu-
cano è preso di mira, fosse composta prima del 65, cioè dell'anno
della sua morte. Conclusione questa assai preziosa ed atta a dis-
sipare perfin gli ultimi dubbii circa la persona dell'autore del
Satiricon, nel quale non è ormai più consentito ad alcuno di non
riconoscere il contemporaneo di Nerone (3).
(1) CoLLiGNON, 0. e, pag. 162.
(2) Sai., e. 118: « ecce belli civilis ingens opus quisquis attigerit, nisi
plenus litteris, sub onere labetur ».
(3) Il Sogliano si serve ancora di due prove per negare questa attribu-
zione cronologica del Satiricon all'età di Nerone; del nuper (e. 2) con cui
si accenna al decadimento dell'eloquenza (Sogl., p. 48), e dell'agg. tam ma-
gnus che, essendo comune a Petronio (e. 20, 92, 117, 136) e all'iscrizione
della villa Panfili, gli sembra d'origine assai tardiva in latino (1. e, p. 42-43).
Riguardo al primo punto io noto che, sebbene nnper si possa riferire tal-
volta ad età assai remota (come in Cic, de div., 1, 39, de n. d., 2, 50),
non è possibile d'altra parte distaccare la testimonianza di Petronio da quelle
del tutto affini di Cassio Severo, di Quintiliano e di Tacito. E quanto al-
l'origine dei costrutti tam grandis e tam magnus non possiamo dimenticare
che essi ricorrono già in Sen. ad Marc, 16, e diventano poi frequentissimi
in Marziale, 6, 36, 1; 11, 56, 7.
- 405 -
VII.
La scena principale del romanzo di Petronio
e la colonia Napoletana.
L'ultimo tentativo fatto dal Sogliano, per ritrarre l'epoca della
composizione del Satiricon a principio del terzo secolo dell'impero,
procede dall'onesto proposito, di cui assai gli sono grato, di ri-
muovere dalla identificazione pur così evidente della scena prin-
cipale del Satiricon con Napoli (1) l'obiezione antica e costante,
che le vien contrapposta, dell'origine tardiva della colonia Napo-
letana. La dimostrazione del suo assunto era assai ardua, e non
può destar meraviglia che egli non sia riuscito punto allo scopo,
che si era prefisso. Prima però di rimettere in relazione tra di
loro i due termini del problema, che sembrano così inconcilia-
bili, vediamo se non sia il caso di spostare il secondo di essi, e
di riferire ancora, come altri presumono, a Cuma o a Pozzuoli la
scena del banchetto, per cui pur ci parve indicato con tanta si-
curezza l'ambiente di Napoli.
Noto subito che l'identificazione con Cuma, proposta e difesa
così autorevolmente dal Mommsen, non incontra ormai più il fa-
vore dei dotti. A prescindere dalle altre obiezioni, su cui non
parmi ora il caso di insistere (2), il ricordo che fa Trimalchione
di Cuma (5a^. e. 48: nani Slhyllam qiiidem Cumis ego ipse oculis
meis vidi in ampulla pendere) esclude affatto la residenza di lui
in quella città, durante l'epoca del banchetto; e l'ipotesi che Cumis
sia semplicemente una glossa, sostituita all'espressione generica in
hac colonia, mchiàe il dubbio assai poco verosimile che la tradi-
zione della sibilla non fosse popolare, come dianzi, o l'immagine
di lei non più visibile in Cuma (3).
(1) Cfr. Sogliano, o. c, pag. 7-9, e lo scritto speciale da me destinato a
questo soggetto col titolo Napoli e il Satyricon di Petronio Arbitro in
Arch. Stor. Napolet, ann. XVIII, 1893, fascicolo li.
(2) V. lo scritto testé citato, pag. 17-22.
(3) A questa argomentazione ha aderito recentemente anche il Klebs, o.
e, pag. e68-70.
— 406 -
Un'argomentazione egualmente perentoria sembra ognora a me
anche quella che ho fatto valere altrove contro l'ipotesi del lan-
nelli, il quale identificava con Pozzuoli la colonia del Satiricon.
Sebbene a questa tesi abbiano testé aderito, quasi contemporanea-
mente e senza alcuna relazione tra di loro, il Beloch, l'Haley e
il Klebs (1), nessuno di essi, per quel che a me pare, è riuscito
a rimuovere l'obiezione gravissima, che a Pozzuoli non convenga
in alcun modo il titolo di urhs graeca. Il ricordo che ne fa
Encolpio {Sat. e. 81: effugi iudiciiim... ut mendicus exsid in de-
versorio graecae urbis iacerem desertus) implica una determina-
zione ben precisa, alla quale non è punto consentito di attri-
buire il significato metaforico, con cui Giovenale, come in tuono
di disprezzo, scaglia quel nome medesimo contro di Roma (2). E
d'altra parte il contrapposto con exsul afferma in modo vera-
mente esplicito il dispiacere di Encolpio, di trovarsi egli greco
abbandonato senza protezione e difesa in una città greca (3).
Or non basta evidentemente il fatto additato dal Klebs (4),
che Petronio menziona ancora in 120, 68 i magnae Dicarchidos
arva, per spiegare con questa preservazione tardiva e poetica del
nome greco, scomparso dall'uso ufficiale fin dal 194 av. Cr.,
l'allusione concreta del Satiricon. La città descritta da Petronio,
come ho già largamente dimostrato altrove, è greca d'origine,
di lingua, di costumi, d'istituzioni (5). E, se appariscono qua e
là degli accenni a consuetudini Romane, ciò accade o per quelle
(1) Beloch, Campanien. Ergdngungen imd Nachtrdge. Breslau 1890,
pag. 450-51; Haley, o. c, pag. 23-40; Klebs, o. c, pag. 677-683.
(2) V. Bei.och, 1. e, e la critica già fatta della sua ipotesi nella nostra
memoria precedente, pag. 15-16.
(3) L'H.\LEY, o. e, pag. 37-8, si prova a riferire questo cenno, sull'esempio
del lannelli, ad un quartiere greco della città di Pozzuoli. Ma è una limi-
tazione assolutamente arbitraria, non autorizzata in alcun modo dalle parole
dell'autore.
(4) Klebs, o. c, pag. 678. — 11 Klebs (ib.) vede additato come una forma
tuttora viva il nome di Bicaearchia nel seguente luogo di Plinio, N. H., 3,
61: Pideoli colonia, Bicaearchia dicti. Ma la concordanza del predicato lascia
scorgere facilmente che egli segue una cattiva interpunzione, invece della
vera: Puteoli - colonia Bicaearchia - dicti.
(5) Cfr. il nostro scritto testé citato, pag. 3-14.
— 407 -
necessarie transazioni e concessioni, che la realtà è sempre obbli-
gata a fare alle esigenze dell'arte, ovvero anche per lo scopo
speciale, che Petronio ha avuto, di contrapporre la corte Eoniana
di Trimalchione (1) all' ambiente greco dei suoi commensali ed
adoratori; senza dire di quegli scambi reciproci di abitudini, che
la convivenza dei due ceti aveva apportato nella vita e dovevano
trovare il loro rijflesso nell'arte. Ed è appunto a questo ceto medio
dei greci, già quasi interamente romanizzati, che io credo di
dover riportare, assieme alle altre tracce che attestano la loro
natura di popolazione bilingue, anche quegli accenni che si tro-
vano nel romanzo ad usi e costumi Romani, come la tunica e la
lacinia {Sai. e. 13-14), le nuptiae ed il flammeum (e. 26), Vepulum
dato al popolo (e. 45, 71) e i muìtera gladiatoria (ih.), ì\ noven-
diale (e. 65) e i parentalia (e. 78), i Saturnalia (e. 44, 58) e il
nome Romano della festa indigena dei Nudipedalia (e. 44) (2).
Ma son queste peculiarità che, come non mancano di convenienza
quando si trovino riferite a Napoli in un'opera letteraria dell'età
di Nerone, così non accennano peculiarmente a Pozzuoli. E a ben
altre affinità si dovrebbe aver riguardo, per richiamare in vita
una identificazione, già per altri rispetti riconosciuta impossibile.
Quanto all'affermazione dell'Haley (3), che si riferisca esclusi-
vamente a Pozzuoli il titolo di seviro Augustale, onde Trimal-
chione- fa pompa nel suo monumento (4), si potrebbe osservare
che quella carica gli fu conferita nella sua assenza {huic sevi-
ratus ahsenti est decretus). Il che rende assai verosimile il dubbio,
che essa sia stata esercitata almeno da lui, se non pure dal suo
collega Abinna (5), in paese affatto lontano e diverso dalla sua
(1) 11 Klebs, 0. e, p. 677, mette in mostra appunto questi elementi, senza
rendersi conto della natura di essi. Ora egli è notevole, fra l'altro, anche il
modo come Trimalchione ostenta di riportare ad origine Romana {Sat.^ e. 36)
pure il nome greco del •^uo servo Carpus.
(2) Veramente Petronio descrive soltanto la cosa, ma non ce ne indica il
nome, il quale vien ricordato, forse per la prima volta, da Tertulliano.
(3) Haley, 0. e, pag. 40.
(4) Sat. e. 71,* cfr. anche e. 30: C. Pompeio Trimalclnoni seviro Augu-
stali.
(5) Sat. e. 65: Hahinnas sevir ; cfr. anche e. 58: sev ir gratis faclìis sum. Si
— 408 —
abituale residenza, secondo una consuetudine comune attestata
pure da altre fonti (1). Ad ogni modo la magistratura degli
Augusfali non è circoscritta particolarmente a Pozzuoli; e, co-
mune al resto d'Italia e alle provincie, non sembra clie sia rimasta
estranea neppure a Napoli, a cui la riferisce un antico titolo:
M. Antonius Trophimus
AuG(ustalis) Pdteolis et Neapoli (2).
* *
L'altro argomento, che s'invoca per solito in favore di Pozzuoli,
è la fortuna commerciale fatta da Trimalchione nella colonia, dove
anche dopo ebbe la sua residenza (3). L'Haley si ferma anch'egli
su di questo punto e, considerando che Encolpio ed Ascilto fug-
gono dalla colonia, in compagnia di Eumolpo e di Gitone, sulla
nave del mercante Tarantino Licha, conclude che questi non
avesse potuto approdare altrove che in un grande emporio com-
merciale, come quello di Pozzuoli (4). Ed io aggiungo per mia
parte che il simulacro di Nettuno, osservato in Baia da Trifena
durante questa gita di piacere (5), c'induce ad ammettere una
loro fermata non breve nel porto di Pozzuoli. Però noi non ci
sentiremo da questo autorizzati a concludere, che anche Trimal-
chione dimorasse in quella città. Chi volesse giudicare di questi
cenni coi criterii che oggi abbiamo intorno alla navigazione, po-
trebbe facilmente ritenere che la nave di Licha, movendo da Poz-
zuoli per Taranto, non fosse obbligata a fermarsi nel golfo di
Napoli; e ne vedrebbe quindi esclusa la possibilità di un'allusione
noti però, quanto ad Abinna, che la presenza del littore, onde è accompa-
gnato a casa di Trimalchione, lascerebbe piuttosto credere che egli si trovi
in quella città nel pieno esercizio delle sue funzioni.
(1) Gfr. G. I. L. X, 5394 (Aquinum): « ei honorem llllviratus detu(lerunt
Veronenses ratione habita) absentis eius extra ordinem.
(2) I. R. N., n. 2524.
(3) Gfr. Sat., e. 71 e e. 76.
(t) Haley, o. c, pag. 26, e Sat.,c. 99-101.
(5) Sat., e. 104: « et mihi simulacrum Neptuni, quod Baiis in tetrastylo
notaveram, videbatur dicere 'in nave Lichae Gitona invenies" ».
- 409 -
ad essa, qual residenza stabile di Trimalchione. Ma sarebbe una con-
seguenza dedotta da un'analogia interamente fallace. Gli antichi non
abbandonavano mai nei loro viaggi marittimi la linea di costiera;
e, come per giungere da Leuca al capo Lacinie giravano tutto
intorno il golfo di Taranto, così del pari, movendo da Pozzuoli,
facevano la loro prima fermata nel porto di Napoli. Ne è indizio
la visita fatta al tempio di Ercole, cioè ad Ercolano (1), nel loro
primo viaggio di navigazione da Taranto verso Pozzuoli. E lo
conferma poi in modo sicuro l'invito frettoloso, rivolto dal mari-
naro ad Eumolpo, di prendere cioè subito imbarco sulla nave di
Lica (2); sollecitazione quest'ultima che sarebbe inesplicabile ri-
ferita a Pozzuoli, cioè al punto di partenza del loro viaggio, e
che è invece completamente a posto in relazione con Napoli, dove
la barca era forse obbligata a fare appena una breve sosta.
Kichiederebbe forse ancora qualche dichiarazione più precisa la
fortuna commerciale ammassata da Trimalchione. Ma, a prescin-
dere che questa non era forse preclusa, nemmeno allora, a chi
viveva in Napoli , egli è certo che Petronio descrive la sua colonia
non già come centro di commercio, ma esclusivamente come sede
di studii. Or l'Haley potrà bensì richiamare la nostra attenzione
sull'esempio di quel ragazzo ricordato da Plinio, il quale da Baia
si recava a far scuola in Pozzuoli (3); ma non potrà indurci a
credere che nella Campania, anche nell'antichità più remota, ci
fosse un altro centro letterario al di fuori di Napoli. Come tale
la dipingono Cicerone e Strabone (4), come tale la conferma Pe-
(1) Sat, e. 106 : « sed Lichas, memor adhuc uxoris corruptae contume-
liarumque, quas in Herculis porticu acceperat, turbato vehementius vultu
proclaniat », cfr. Strab., 5, 5. 8; e riguardo ai viaggi degli anticiii una
nostra memoria sulla Geografia Ovidiana.
(2) Sat., e. 99: « adhuc loquebatur, cum crepuit oslium impulsum stetitque
in limine barbis horrentibus nauta et ' moraris, inquit, Eumolpe, tamquam
propudium ignores'. Haud mora omnes consurgimus, et Eumolpus quidem
mercennarium suum exire cum saicinis iubet. Ego adoratis sideribus intro
navigium ».
(3) I'lin., iV. H., 9, 24 e Haley, o. c, pag. 39.
(4) Gic, prò Rab., 26: « non modo eives Romanos, sed et nobiles adu-
lescentes et quosdam etiam senatores summo loco natos Neapoli in celeber-
rimo oppido cum Graeca palla saepe vidimus ».
- 410 —
troiiio (1), sull'esempio ben a lui familiare del Mantovano, e
come sede di un voluttuoso seguace di Epicuro l'additano gli stessi
papiri di filosofia epicurea trovati ad Ercolano (2). Invece dunque
di insistere sulle numerose ragioni di convenienza clie fanno di
Napoli come il centro naturale del romanzo di Petronio, e che
nessuno ha smentito (3), sarà bene tener conto delle particolari
difficoltà opposte contro di quella identificazione. La quale, a diffe-
renza di tutte le altre, ha pure il pregio di trovarsi già consacrata
nel glossario di Petronio del padre Daniele, e di riportarci indietro
sino all'età di Mario Mercatore (a. 430) o di Fulgenzio Planciade
(480-550), i quali, attingendo le loro notizie ad una tradizione
assai piti dell'attuale larga e sicura, ebbero anche modo di tra-
mandarla a noi in una forma forse più genuina ed autentica (4).
*
L'obiezione più formidabile contro di questa ipotesi deriva dal
titolo di colonia attribuito alla città, in cui ebbe luogo il ban-
chetto di Trimalchione (5). Interpretando quel nome alla stregua
del diritto Romano, si nega concordemente la convenienza di esso
alla città di Napoli, prima della concessione ufficiale del ius co-
loniae; il quale, secondo l'unica attestazione sicura che ce ne è
data dalle iscrizioni, non potrebbe rimontare più indietro di Ca-
racalla o di M. Aurelio (6). Gli agnomi di Aurelia e di Anto-
niniana, che porta la colonia nel titolo marmoreo innalzato in
onore di Alessandro Severo:
(1) Gfr. il nostro scritto già citato, pag. 37.
(2) Gfr. Mahaffy, o. c, pag. 210-218.
(3) Gfr. il nostro scritto già citato, pag. 22-40.
(4) V. scritto citato, pag. 32 e cfr., per l'antichità del glossario, Gollignon,
0. e, pag. 1-2.
(5) Petronio adopera il nome colonia in Sat., e. 44, 57, 76, patria in 45,
76, e cioilas in 8, 117, 129.
(6) Gfr. De Petra, Napoli colonia Romana, negli Atti dell'Accademia
di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Napoli 1892, voi. XVI, pag. 57-79,
SoGMANO, 0. e, pag. 1-3, GiviTELLi, 0. c, pag. 5-10, e anche il nostro scritto
.speciale suira''gomento, pag. 23-25.
- 411 —
Colonia Aurelia. Aug.
Antoniniana Felix
Neapolis
accennano direttamente ai due imperatori, ed escluderebbero, se-
condo la dottrina che oggi prevale fra gli archeologi, la possi-
bilità di una concessione più antica, della quale non avrebbe man-
cato di tener conto la nomenclatura larga e solenne a cui l'iscrizione
si conforma.
Riconosco schiettamente che tutti i titoli marmorei da me
esaminati, sulla scorta del Corpus e della Epliemeris epigraphica,
si adattano con costante fedeltà a questa norma; e che in corri-
spondenza di essa, ad es., la città di Avellino nel C. I. L. X,
1117, sotto la forma:
Colonia Yen. Livia Aug.
Alexandriana
Abellinatium ,
ricorda le due concessioni coloniali da essa avute prima per parte
di Augusto e poi di Alessandro Severo; e che la città di Capua
ostenta la sua gratitudine successiva a Cesare, Diocleziano e Mas-
simiano colla nomenclatura ben nota delle sue iscrizioni:
Concordia lulia Valeria Felix Capua (1).
Ma, se nessuno dei monumenti epigrafici deroga strettamente alla
norma, non conviene dimenticare d'altra parte, che essa è appli-
cata molto raramente in una forma così completa; e che le iscri-
zioni coloniali si contentano più spesso o di mettere in mostra
soltanto il titolo generico o di aggiungervi uno solo dei molti
agnomi, onde la colonia fa gratificata. Certo a me non è riuscito
di trovare fra i tanti titoli marmorei il caso di una iscrizione,
in cui gli agnomi più recenti avessero tolto di seggio i più an-
tichi. Ma può con egual sicurezza affermarsi lo stesso delle iscri-
zioni impresse sulle monete coloniali ?
(1) Cfr. C /. L., X, 3867.
412
*
Indicherò con un numero progressivo alcune delle principali
eccezioni da me notate a questa norma classica, onde muovono gli
archeologi nelle loro deduzioni.
I. La colonia di Ilici, la quale nelle monete di Augusto è
denominata semplicemente C. II. A., non riconosce la sua prima
fondazione da Augusto, come pur l'agnome farebbe presumere, ma
da Giulio Cesare, secondo che appare dai titoli segnati sulle mo-
nete dell'etcì di Tiberio:
a I. 2(ulia) A. (1)
IL La colonia di Corinto ebbe, come è noto, una duplice
deduzione, la prima da Giulio Cesare e la seconda da Flavio Do-
miziano (2). Ora è notevole che di questo imperatore si conser-
vano due monete, l'una colla scritta
Col. Flavia Aiig. Cor. (3),
la quale riporterebbe, secondo la norma comune, la prima dedu-
zione a Domiziano, e l'altra col titolo
Col. lui. Aug. Cor. (4),
in cui di quella deduzione medesima si tien conto solo per l'a-
gnome generico di Augusta. Certo di fronte all'una e all'altra
esistono monete colla nomenclatura completa :
Col. lui. Flav. Aug. Cor. (5).
(1) MiONNET, Description de mèdailles antiques grecques et romaines,
T. 1, pag. 45.
(2) Cfr. MiONNET, li, p. 171: Col. L. lui. Cor. (moneta colla testa di Giulio
Cesare), e p. 178 (n. 222): Col. lui. Flav. Aug. Cor. (moneta colla testa
di Domiziano).
(3) MiONNET, i. e, n. 223.
(4) MiONNET, 1. e, n. 224.
(5) Cfr. nota 2 e Cohen, negli indici delle monete coloniali annessi al-
Tultàmo volume delle Monete Romane.
— 413 —
Ma d'altra parte è innegabile, che da Domiziano a Gordiano III
le monete coloniali di Corinto portano la semplice scritta :
a L. I. Cor. (1),
la quale, secondo la legge comune, escluderebbe affatto la dedu-
zione di Domiziano; e che nel tempo medesimo altre monete del-
l'età di Traiano, Adriano e Gordiano III la includono sotto la
forma generica:
Col. lui. Aug. Cor. (2).
III. La colonia di Alessandria nella Troade, la quale da Au-
gusto a Salonina si trova denominata:
Col. Aug. Tro.^
riceve nelle monete di Caracalla i soli agnomi di
Col. Aur. Antoniniana (3),
i quali escluderebbero, con un' interpretazione soverchiamente re-
strittiva, la prima concessione fatta da Augusto.
IV. La colonia di Laodicea nella Pieria, la quale nelle mo-
nete greche di provenienza coloniale da Augusto a Caracalla si
trova denominata costantemente :
lOYAlEQN. TCON. KAI. AAOAIKEQN (4),
e riconosce quindi, mercè del suo agnome, la prima fondazione
ed origine da Giulio Cesare (5), in séguito alla nuova concessione
(Ij MiONNET,!. c, p. 181, n. 241-2-4-7; p. 182-3, n. 250-1-64; Head, Hist.
numm., p. 339; Cohen, 1. e.
(2) MiONNET, 1. e, p. 178, n. 225; p. 179, n. 228; Cohen, 1. e.
(3) MioNNET, li, pag. 640, n. 80-162, e Suppl. V, p. 511, n. 86-355.
(4) MioNNET, V, pag. 248-255, n. 716-768.
(5) In questa stessa categoria si potrebbero collocare anche le monete
greche di Iconio, le quali da Claudio a Gallieno portano il titolo di KAAY-
AEIK0NIES2N, mentre invece le monete Romane fanno cenno soltanto della
concessione ricevuta da Adriano, mediante la scritta Col. Ael. Hadr. leoni.,
cfr. MiONNET, III, pag. 534, n. 5-18.
— 414 —
ricevuta da Settimio Severo e da Caracalla, omette nelle monete
latine il titolo antico, per far pompa soltanto dei suoi nuovi co-
gnomi :
Col. Sept. Aurei. Antonin. Sever. Land. Matrop. (1).
V. La colonia di Berito, che ebbe successivamente la con-
cessione di questo titolo da Giulio Cesare e da Augusto (2), si
trova denominata sotto Tiberio soltanto coll'attributo del primo:
Col. lui. (3);
e, dopo di aver ricevuto da Settimio Severo e da Caracalla il
nuovo agnome di Antoniniana (4), lo perde interamente nelle
monete successive, da Macrino a Salonina, che adottano unifor-
memente questa nomenclatura :
Col. lui. Aug. Fcl. Ber. (5).
VI. La colonia di Cesarea in Samaria, la quale negli agnomi di
Col. Prima FI. Aug. Caesaren. (6),
frequenti nelle sue monete da Traiano a Gallieno, mostra chia-
ramente di dovere a Vespasiano questa sua attribuzione, attesta
d'altra parte una concessione più antica del diritto medesimo, me-
diante il titolo:
Col. J(ulia) FI. Aug. Caesaren. (7)
(1) Questi titoli non ricorrono tutti insieme sulle stesse monete, ma a
gruppi nelle varie specie di esse, cfr. Mionnet, V, pag. 256-8, n. 770-83.
(2) Cfr. Mionnet, V, pag. 337, n. 21: Col. lui. Ber. (monete colla testa di
Cesare); ibid., n. 22: Col. lui. Aug. Fel. Ber. (moneta còlla testa di Augusto).
(3) Mionnet, V, p. 338, n. 25.
(4) Cfr. Mionnet, V, p. 344, n. 63: Col. lui. Ant. Aug. Fel. Ber. (moneta
colla testa di Giulia Domna); ibid., p. 345, n. 70: Col. lui. Ant. Aug. Fel.
Ber. (moneta coll'immagine di Caracalla).
(5) Mionnet, V, pag. 345-351, n. 71-112. Si noti che questo titolo più sem-
plice ricorre anche in una moneta di Caracalla (ibid., n. 69;.
(6) Mionnet, V, pag. 487-497, n. 4-61.
(7) Mionnet, V, pag. 488, n. 7-8- 10; pag. 491, n. 27; p. 492, n. 32-33.
— 415 —
di alcune monete dell'età, di Adriano, Macrino e Severo Ales-
sandro.
VII. La colonia Flavia Neapolis di Samaria, la quale ebbe
da Vespasiano l'agnome di Flavia (1) e forse da Caracalla quello
di Aurelia (2), perdette l'uno e l'altro a tempo dell'imperatore
M. Giulio Filippo, dal quale o fu denominata semplicemente
ovvero anche
Col. Serg. Neapol. (3),
Col. lui. Neapol. (4).
Queste deviazioni dall'uso comune, che altri più pratico di me
potrà estendere e completare collo studio diretto dei monumenti,
provano, se io non m'inganno, che la norma stabilita dagli ar-
cheologi non è di un'applicazione così rigida, generale e costante,
come pur di solito si presume. Certo sarebbe venir meno a quelle
giuste cautele che la scienza prescrive, ove ci sentissimo autoriz-
zati a postulare delle eccezioni a quella norma, senza il sussidio
di alcuna prova di fatto. Ma credo d'altra parte, che sia una pre-
tesa egualmente ingiustificata dare a quella norma un'interpreta-
zione così restrittiva, che ci obblighi a riconoscere i quattro
agnomi della colonia Napoletana : Aurelia Augusta Antoniniana
Felix da- un solo imperatore, sia egli M, Aurelio o pure Ca-
racalla. Certo a noi mancano prove epigrafiche ben esplicite,
donde sia lecito di desumere, in modo sicuro, un'attribuzione an-
teriore fatta a Napoli del titolo di colonia; e d'altra parte è troppo
noto il valore generico del titolo di Augusta., per poter trovare
in questo semplice agnome un vero ostacolo a riferire la prima
origine della colonia Napoletana a M. Aurelio o a Caracalla. Ma,
se una interpretazione così restrittiva può ritenersi legittima,
quando concorrano altri fatti storici ad assodarne il valore o a
(1) Gfr. MiONNET, V, p. 499-506, n. 69-117: (DAAOTI. NEAnOLI. lAMAP.
(2) MiONNET, V, p. 503-4, n.99, 102: AYP. «DAA. NEAnOAEi2C. CYP.nAA.
(3) MiONNET, V, p. 507-9, n. 119-133.
(4) MiOiNNET, V, p. 507, n. 122.
— 416 —
limitarne la portata, sarebbe addirittura assurdo, per quel chea
me pare, riconoscere in questo titolo una prova perentoria contro
([ualunque notizia di concessione anteriore.
lo non so se, presa isolatamente, l'iscrizione di Alessandro Severo
consentirebbe di giudicare che l'istituzione della colonia Romana
non possa essere più antica di M. Aurelio. Essa ci darebbe forse
diritto di affermare, che solo questo risulti in modo sicuro. Ma, se
altre prove indirette, cioè non epigrafiche, concorressero a farci
ritenere che la colonia è d'origine Augustea, nessuno può legitti-
mamente presumere che tale attribuzione sia esclusa, in modo
preciso, dal contenuto e dalla forma dell'iscrizione. In qual altro
modo, io domando, il lapicida o l'autore di essa avrebbe potuto
attestare, che la colonia Napoletana riconosceva da Augusto la
sua prima origine, se per ciò, non gli è bastato di intercalare
quel titolo tra Aurelia ed Antoniniana, e di spostarlo dall'ultimo
0 penultimo posto della frase, che era il solo che gli convenisse
per un'indicazione generica ? lo non ho bisogno di ricordare i nu-
merosi esempii che confermano questa consuetudine (1). Mi basta
il dire che al de Petra quello spostamento parve un'anomalia. E,
se l'iscrizione consente, secondo l'avviso di lui (2), che quella
anormalità si possa attribuire al desiderio del lapicida di tener
distinte le due concessioni successive di M. Aurelio e di Cara-
calla, a me non pare che ciò escluda un possibile riferimento
ad età anche più antica, come sarebbe quella di Augusto. Basta
il fatto che quell'agnome non esprime qui una semplice funzione
generica, per crederci autorizzati a riportarlo, con attribuzione più
concreta, al fondatore stesso dell'impero.
È un'ipotesi questa che non contraddice direttamente al tenore
dell'iscrizione, e che non può essere invalidata seriamente dal solo
fatto, che mancano fino ad oggi dei documenti epigrafici per con-
fermarla. E difatti, se un argomento ricavato dal silenzio potesse
essere così perentorio, noi ci vedremmo obbligati a negare a Na-
(1) Vedi, oltre agli esempii citati innanzi, anche riscrizione della città di
Ganosa, che deve a Marco Aurelio il suo titolo di colonia, G. 1. L., IX, 34 :
Colonia Aurelia Augusta Pia Canusium.
(2) De Petra, o. c, pag. 78.
- 417 _
poli, in forza di esso, anche il titolo di municipio Romano, che
Cicerone attesta e la costituzione della città lascia poi intravedere
per segni non dubbii. Anzi, si noti, se la costituzione di Napoli
si fosse trasformata sol così tardi da municipale in coloniale,
rimarrebbe anche più inesplicabile l'assenza completa di quel
primo titolo nelle sue iscrizioni. Certo non è nuovo il caso di mu-
nicipii, che rimasero a lungo cristallizzati in quella istituzione. La
città di Aeclanum, che riconosce da Sulla il principio della sua
costituzione municipale, fu nominata colonia Aelia Augusta sol-
tanto a tempo di Adriano (1). Il municipio di Milano fu assunto
al grado di colonia J.(urelia) J.(ntoniniana) forse non prima di
Caracalla, cioè del terzo secolo (2). Ma in tutti questi casi non
mancano mai tracce del loro titolo anteriore (3). Or chi tien conto
che dalla guerra sociale Koma aveva tenuto nelle sue mani l'am-
ministrazione di Napoli, che Koraani furono nel primo secolo tutti
i suoi magistrati (4), può difficilmente indursi a credere, che la pre-
senza di tanti coloni non abbia avuto fin d'allora un contrassegno
esteriore anche nel titolo della città. 11 nome di colonia, che im-
portava ancora nei primi tempi dell'impero una deduzione vera e
propria di coloni (5), si addiceva interamente alle condizioni di
Napoli, e non importava d'altra parte alcun mutamento proprio
nella costituzione della città, come prova il fatto non raro della
coesistenza di esso accanto all'altro di municipium (6). Or si può
egli giustamente presumere che Napoli abbia aspettato il terzo
secolo, per cambiare il suo antico nome in quello più onorevole
di colonia (7)?
(1) G. I. L.,IX, pag. 99en. 1111.
(2) C. I. L., V, pag. 634 e De Petra, o. c, pag. 79, n. 1.
^3) Gfr. per Aeclanum G. 1. L., IX, n. 1140 e 1146, e per il municipio di
Milano G. I. L., V, n. 5738, 5854, 5858, 6349.
(4) Gfr. il nostro scritto su Napoli e il Satiricon, pag. 28-30.
(5) Gfr. DioN., Ant. Rom., 2, 53 e Gic, Phil., 2, 53. Si noti che su un
suolo coloniale non si potevano mandare nuove colonie, e che le ulteriori
concessioni di titoli furono soltanto onorifiche, cfr. però Tac, Ann., 14, 27.
(6) Gfr. G. 1. L., IX, .5074: patrono municipii et coloniai municipibus co-
loneis incoleis.
il) V. il nostro scritto già citato, pag. 27.
Hifìista di biologia, ecc., XXV. 27
— 418 —
* *
Si potrebbe obiettare che, come manca per Napoli l'attestazione
ufficiale del titolo di municipìum pei primi due secoli dell'impero.
così manca assolutamente anche l'altra relativa alla colonia, lo
noto però che latfermazione non è pienamente esatta. Vi ha un
antico titolo, oltre a quello posto in onore di Severo Alessandro e
all'altro più tardivo di Munazio Concessiano, in cui quel nome si
ritrova ancora adoperato, per quel che a me pare, in rapporto con
Napoli. L'iscrizione
LlCINI
Alfio Licinio
V. P. Patrono Co
loniae ex comitibus
Kegio Thermensi
um vere patrono
che nel C. L L. X, 1680, si trova riferita a Pozzuoli, appartiene
quasi sicuramente a Napoli, come già accennai altrove (1). A
questa città la riportano le notizie concordi dei trovamenti, Gio-
condo che ne parla come esistente in Napoli 'in un vico detto la
giogiosa'; Filo nardi che la menziona 'apud rotundam Mariam',
Agostino 'in vico ecclesiae S. Archangeli', Accursio 'nella
strada di Mezzocannone in un gran quadrato', Valletta 'in
plataea qua mons adscenditur ad Bartolomaei i. e. castrum'. Gior-
dano 'apud S. Angelum ad Nidum'; e il de Falco che così la
descrive: « partendo dal seggio di Nido per andare al seggio di
« Porto vedrai un marmo intero nel quale si legge Licinio Alfio ;
« ma perchè le lettere sono imperfette, per tal ragione non ho
« avuto cura di scriverlo » (2). Ora, per quanto il Sogliano si
(1) Gfr. lo scritto citato, pag. 28.
(2) De Falco, Descrizione dei luoghi nntichi di Napoli, Napoli 1617,
pag. 47.
- 419 -
ostini a prestar fede all'attribuzione del Mommsen (1), egli è
d'altra parte innegabile che questo nuovo titolo, sebbene più re-
cente, ha conformità assai notevoli colla base di Munazio Conces-
siano (2), per l'intestazione Licini che vi è sovrapposta pari al-
l'altra di Concessiani, per la formola V. P. patrono coloniae, per
la chiusa dell'iscrizione che ricorda in modo più semplice l'altra
adoperata nella lapide di Concessiano : Ree. primaria splendidis-
sima Hercidanensium. Se a ciò si aggiunge che la Begio Ther-
mensis è attestata in modo pienamente sicuro per Napoli anche
nelle età successive (3), che in essa fu ritrovato e conservato
questo antico titolo, che il nome osco Alfio, frequente ad es.
nelle iscrizioni di Capua, si spiega assai meglio a Napoli che a
Pozzuoli, si troverà nel cumulo di queste prove una condanna
sicura ed esplicita dell'attribuzione del Mommsen.
*
* *
Se dalle iscrizioni passiamo ai documenti letterarii, troviamo
anche qui notizie non ispregevoli in favore di una più antica ori-
gine della colonia Napoletana. Nel liher coloniarum, che è una
compilazione dell'età Augustea, tra le altre colonie Campane si
trova riferito, ex commentario Claiidii Caesaris, anche il nome
di Napoli: « Neapolis muro ducta, iter populo dehetur pedum
« LXXX. Sed ager eius Syriae Palestinae a Graecis est in iu-
« gerihus adsignatus, et limites intercisivi sunt constituti, inter
« quos postea et miles imperatoris Titi lege modum iugerationis
« ob meritum accepit » (4).
Chi tien presente la forma abituale tenuta dal compilatore,
non può non avvertire una lacuna nella notizia riferita a Na-
poli. La menzione delle colonie Campane riproduce per ben
sessantanove volte in forma stereotipa lo schema adoperato per
(1) SoGLiANO, 0. c, pag. 7.
(2) G. I. L., X, 1492.
(3) Cfr. Capasso, Pianta della città di Napoli nel secolo XI in Arch.
Stor. Napolet., voi. XVII, pag. 425, n. 3 e pag. 443.
(4) Gromatici veteres ex recensione Caroli Lachman.xi, Berolini 1848, 1,
pag. 235.
— 420 —
la prima di esse : « Aquinum muro ducta colonia, a trium-
« Yiris deducta, iter populo debetur pedum XXX. Ager eius
« perennis limitibus est adsignatus » (1). Questa formola ri-
corre con qualche leggiera variazione, quasi abitualmente, anche
nelle notizie che precedono (2); e ci lascia assai agevolmente so-
spettare, che nella parte relativa a Napoli sieno stati omessi o
soppressi quegli elementi relativi al territorio, che si trovano di
solito introdotti colla formola ager eius. Non dico già che questa
manchi completamente nel nostro testo ; ma la forte avversativa
sed che l'accompagna, la quale sarebbe affatto insolita e inespli-
cabile in rapporto con ciò che precede (3), lascia chiaramente in-
tendere che il discorso qui devia ad argomento diverso. A ciò si
aggiunga la menzione esplicita che segue intorno all'imperatore
Tito, la quale contradice espressamente alla fonte ricordata dianzi
per tutte queste notizie ; e nei due fatti si leggerà la prova si-
cura, che quella parte del testo, la quale si riferisce apertamente
a Napoli di Palestina, a partire da sed ager eius, sia nient'altro
che una glossa marginale aggiunta da un qualche copista a saggio
della sua cultura, e inserita poi nel testo, anzi sostituita a quella
parte di esso, dove colla formola abituale ager eius erano ricor-
dati i confini e il territorio della Napoli Campana. Credere che
la notizia intera appartenga a Napoli di Samaria, come sospetta
il Civitelli (4), e che ad essa si riporti integralmente colla sem.-
plice omissione di sed e di Syriae Palestinae, significa ricono-
scere un'intrusione illegittima nel novero delle città Campane,
(1) Ibid , pag. 231.
(2) Cfr. pag. 211 : « territorium Panormitanum imp. Vespasianus adsi
gnavit militibus veteranis: ager eius finitur terminis Tiburtinis »; pag. 220
« colonia Graniscos ab Augusto deduci iussa est; natn ager eius in absoluto
lenebatur »; ib.: « colonia Veios prius quam oppugnaretur ager eius mili-
tibus est adsignatus »; pag. 228: « ager Amiternus : iter populo non debetur
nani ager eius in tetragona est adsignatus »; pag. 229: « colonia Superae
quana: ager eius veteranis est adsignatus ».
(3) Anche il Sogliano il quale ha cercato delle analogie nel testo, per
riferire le due parti di questa testimonianza alla Napoli di Samaria, ha do
vuto convenire, o. e, pag. 4-5, che manca un termine di confronto che au
torizzi questa interpretazione.
(4) Civitelli, o. c, pag. 11-12, cfr. anche Sogliano, 1. e.
— 421 —
non motivata da alcuna causa esteriore. Ed oltre a ciò bisogne-
rebbe anche ammettere, che un copista posteriore abbia scoperto
l'errore e si sia provato a sanarlo, non già espungendo la parte
illegittima, ma conservandola accanto a quella che egli riteneva
sana.
Eesta ancora un'altra prova in favore dell'origine Augustea da
noi attribuita alla colonia Napoletana, la testimonianza cioè di
Stazio, il quale parla della sua Partenope come haud tennis pro-
priis (i. e. incolis), nec rara colonis (1). 11 Sogliano, sull'esempio
dei suoi predecessori, vorrebbe attenuare l'importanza di questo
raffronto, notando che in un'opera poetica la voce coloni possa as-
sumere il significato generico di incolae (2). Ma non si avvede
che, se questo è il valore che essa riceve realmente in relazione con
propriis, nel contrapposto cogli abitatori indigeni della città tale voce
non può avere altro significato che quello ufficiale di ' forestieri ' o
di 'cittadini Eomani'. Ma, lasciando pur da parte questa considera-
zione, io noto sempre che è un'opera d'arte, al pari delle Selve di
Stazio, anche il Satiricon, e che non può sconvenire a questo ciò
che conviene a quelle. Anzi, se entrambi gli scrittori fossero stati
indotti dalle ragioni dell'arte a prescindere dalla nomenclatura
ufficiale, si può sostenere in un certo senso che Petronio fosse
autorizzato a farlo anche più di Stazio. Questi era in certo modo
vincolato, dall'antitesi cogli abitanti greci della città, ad usare co-
loni nel significato preciso di 'cittadini Romani'. Per Petronio
invece, che contrassegna esplicitamente come greca, la città di
Triraalchione, si potrebbe perfin sostenere, nella peggiore ipotesi,
che egli con colonia traduce il termine greco aTToiKia, e intende
di riferirsi non già alla città Romana, ma alla colonia fondata
dai Calcidesi sulle coste della Campania. In altri termini io con-
cludo, se i canoni rigidissimi della loro scienza non consentono
ancora agli archeologi di affermare per l'età di Augusto l'esistenza
della colonia Napoletana, aspettino pure a loro piacimento la nuova
(1) Stat., SUv., 3, 5, 78-9.
(2) Sogliano, o. c, pag. 5.
- 422 -
luce che li illumini ; ma non si credano autorizzati a smentire in
alcun modo, colla forza delle prove onde dispongono, il riferimento
pur così sicuro che ha con Napoli la scena principale del romanzo
di Petronio (1).
Attendo anch'io con piena fiducia un'ulteriore e sicura conferma
delle mie deduzioni ; ma intanto non voglio perder di mira alcune
difficoltà minori opposte alla mia tesi, per snebbiare pur dalle
tenebre che esse irraggiano l'aspettazione serena dell' avvenire.
Fu detto dal Mommsen che il titolo di pretore, che porta nel
Satiri con il magistrato supremo della colonia (2), non convenga
punto a Napoli, retta fino ai tempi più tardi dall' àpxuuv ovvero
dal òrjiuupxo?. Il tono canzonatorio, in cui quel termine è adope-
rato, esclude affatto da esso la funzione giuridica che il Mommsen
pretende di ritrovarvi. Quel titolo ha un valore generico, al pari
àoiVimperator provinciae con cui nel racconto della matrona di
Efeso vien denominato il proconsole dell'Asia (3). E d'altra parte
il Klebs nota, con molta larghezza di prove, che nell'uso lette-
rario latino praetor ha sempre il significato di 'capo', sia in rap-
porto colla confederazione dei popoli latini, sia in rapporto coi
Lucani, coi Sanniti, cogli Etruschi. Esso è il nome consueto così
della magistratura suprema di Falerio, come dei llviri o llllviri
i quali presedevano per solito nelle colonie Romane alla ammini-
strazione della città. E, a quel modo che, nella parte latina della
tavola di Banzia, praetor sostituisce il nome della magistratura
indigena meddix, non ha nulla di strano che esso si adoperi nel
Satiricon a far le veci di òri)napxo(; (4).
Resta l'altro argomento ricavato contro di Napoli dalla lingua
(1) Anche Émile Thomas, Uenvers de la società Romaine d'après Pa-
trone., Paris 1892, pag. 19, riconosce la verosimiglianza generica di questa
allusione : « par le ton, par la liberté de peinture, le roman rappelle tout à
fait le laisser aller qu'on dit étre de tradition sous le ciel de Naples ; c'est
par là et à ce titre que nous le croirions volontiers Napolitain ».
(2) Sai., e. 65; cfr. il nostro scritto già citato, pag, 17-18.
(3) Sai., e. Ili, 113.
(4) Klebs, o. c, 671-5.
— 423 —
di cui fa uso il banditore (1). Confesso che io non riesco a ren-
dermi conto esatto del valore di questa prova, addotta primiera-
mente dal lannelli e poi dal Mommsen contro l'identificazione di
Napoli colla colonia descritta nel Satiricon. Se la romanizzazione
consentì ai Greci di Napoli di fare ancora uso della propria lingua
nei pubblici monumenti, ciò non vuol punto dire che Koma abbia
precluso ai suoi concittadini il diritto di adoperare il latino. La
stessa iscrizione, posta dalla colonia Napoletana in onore di Severo
Alessandro, mostra la larga accoglienza che esso vi aveva già
avuto. E poi il linguaggio stesso adoperato dai personaggi del
Satiricon, nel quale si riflette fuor di ogni dubbio un'immagine
fedele della parlata locale, mette ben in chiaro qual fosse il dia-
letto caratteristico che parlava il volgo, nella colonia Napoletana,
durante il primo secolo. Noi non dobbiamo lasciarci frastornare
dal fatto, che io stesso pel primo ho messo in mostra (2), che il lin-
guaggio colto della conversazione e del teatro era ancora in Napoli
il greco, nell'età di Nerone. Il teatro è stato sempre, in fatto
di lingua come di pronunzia, lo specchio più fedele dell'urbanità
locale, e fa meno d'ogni altra forma letteraria concessioni alle
esigenze dialettali. Or dalla lingua del teatro differisce sempre
assai notevolmente quella del volgo, anche quando questo si trovi,
per le sue tradizioni e i suoi bisogni, tuttora in grado d'intenderla
e di farne uso. Non fa perciò meraviglia, anche a prescindere
dalle esigenze artistiche a cui lo scrittore ha dovuto conformarsi,
che il banditore messo in iscena da Petronio faccia in latino le
sue comunicazioni al popolo. Era questo uno dei maggiori indizii
della sovranità di Roma ; e, pur consentendo la possibilità di ec-
cezioni, non è presumibile che Eoma volesse rinunziare a questo
suo diritto. Si ricordi che Roma concesse come a titolo di grazia
alla città di Cuma, nel 180 av. Cr., di far uso del latino nelle
vendite e nei pubblici incanti (3) ; e si trovi in questa solenne
attestazione non solo la prova del valore che essa annetteva a
(1) Sai., e. 97; cfr. il mio scritto già citato, pag. 6 e Sogliano, o. c,
pag. 41-2.
(2) Nello scritto già citato, pag. 29.
(3) Liv.. 40, 42: praeconihus latine vendendi ius esset.
— 42-4 —
questo suo privilegio, ma anche la causa più diretta della pronta
diffusione che ebbe il latino nelle colonie. Or, interpretando a
questa stregua anche la menzione di Petronio, potremo ben am-
mettere che Napoli abbia conservato il privilegio di usare il greco
nei suoi monumenti ufficiali, che erano indirizzati sopratutto alla
intelligenza delle persone colte; ma che si sia servita del latino
nei bisogni ordinarli della vita, per una concessione affatto neces-
saria alle esigenze dell'uso popolare.
Un nuovo ostacolo a riconoscere in Napoli la città di Trimal -
chione potrebbe scorgersi forse nel fatto, non avvertito ancora da
altri, che nella colonia del Satiricon si danno degli spettacoli
gladiatore, mentre invece Napoli mancò sempre di un anfiteatro.
L'argomento sarebbe più grave di tutti quelli sin qui ribattuti,
se Petronio accennasse espressamente all'edifizio necessario ed
adatto per questa specie di giuochi. Sennonché, l'una e l'altra
volta che egli vi allude, ne parla come di divertimenti concessi
da privati cittadini, e senza nessuna conformità con quelle con-
suetudini che si trovano praticate altrove. Nel primo caso è il
Romano Tito, che in occasione di un ricchissimo patrimonio
ereditato dal suo genitore concede al popolo familia non lani-
sticia, sed plurimi liberti (1). E, come si vede, una improvvisa-
zione, 0 meglio si direbbe una contraffazione di ciò che si pratica
altrove. Vi partecipa infatti una lottatriee che combatte dal coc-
chio {mulier essedaria), ed alcuni sciocchi, aliquot Manti, i quali
si prestano ai capricci bizzarri del loro padrone. Ne la partita è
fatta solo da burla; poiché è destinato ad esserne vittima il po-
vero cassiere di Glicoiie, sorpreso in coUoquii troppo intimi colla
sua padrona, e condannato ad bestias, in séguito forse all'appli-
cazione della ìex Petronia fatta dal magistrato competente. Lo
spettacolo si annunzia molto divertente, perchè il popolo sarà ob-
bligato a pigliar parte inter zelotypos et amasiuncidos, cioè in
favore dell'amante o pure del marito geloso. E a differenza di ciò
(1) Sat. e. 45.
— 425 —
che si pratica nel circo, dove i gladiatori posti fuori combatti-
mento vengono trascinati nello spoliariuni, per ricevere il colpo
di grazia, gli spettatori vedranno qui sotto i loro occhi il sacri-
fizio del povero schiavo; giacche « Titus ferrum optimum daturus
« est, sine fuga, carnarium in medio, ut amphitheater ('gli spet-
« tatori') videat » (1).
Né meno singolare e notevole è il caso di Nerbano, il quale
per acquistarsi il favore popolare « dedit gladiatores sestertiarios,
« quos si sufflasses, cecidissent... de lucerna equites... alter bur-
« dubasta, alter loripes, tertiarius raortuus prò mortuo, qui habebat
« nervia praecisa. Unus alicuius flaturae fuit Thraex, qui et ipse ad
« dictata ('senza arte') pugnavit. Ad sumraam omnes postea secti
« sunt (scil. flagellis) » (2). L'insuccesso dimostra che i due ten-
tativi non furono fatti secondo le regole dell'arte gladiatoria, e
che ad essi nocque soprattutto la mancanza dei mezzi adatti a
questa specie di spettacoli. Sicché, invece di affermare l'esistenza
di un anfiteatro vero e proprio nella colonia di Trimalchione,
queste due prove attestano piuttosto l'assenza di esso; e che i
due cittadini Romani, memori forse delle consuetudini patrie, cer-
carono di provvedervi, a solo scopo di popolarità, con due improv-
visazioni mal riuscite o non bene architettate.
Come nulla prova contro di Napoli il niunus gladiatorium ri-
cordato nel Satiricon, così del pari sarebbe una pretesa eccessiva
voler dar risalto, fra le tante ragioni di conformità, al solo fatto
che Petronio non menziona tra i cibi svariatissimi imbanditi al
banchetto di Trimalchione le castagne arrosto, che Marziale con-
siderava per l'età sua, come un prodotto speciale di Napoli (3).
L'omissione di questo ricordo può derivare dalla forma frammen-
taria in cui il Satiricon ci è conservato e dall'uso troppo comune
(1; Sat. 1. e.
(2) Ibid.
(3) Mart. 5, 78, 14:
Et quas docta Neapolis creavit
Lento castaneae vapore tostae ;
cfr. anche Pi.in. N. H. 15, 23: « patria laudatissimis (castaneis) Tarentuin
et in Campania Neapolis ».
- 426 -
di questo cibo volgare, non conforme alla squisita ricercatezza dei
gusti di Trimalchione. Ed è ad ogni modo compensata dalla men-
zione continua degli unguenti, onde Napoli era famosa nell'anti-
chità, al pari di Capua (1).
Noi certo non faremo gran caso di questa conformità, e nep-
pure cercheremo una prova dell'antichità della colonia nell'au-
gurio fatto dal Napoletano Stazio ai figliuoli di Menecrate, suo
concittadino, di essere cioè ammessi col favore imperiale nel Se-
nato Romano (2). Questo diritto derivava ad essi dalla cittadi-
nanza Komana concessa a Napoli col ius municipale, e non aveva
bisogno per farsi valere delle nuove prerogative inerenti al ius
coloniae (3).
* *
Un'ultima difficoltà contro l'identificazione da noi adottata po-
trebbe scorgersi, secondo l'avviso del Civitelli, nel titolo di basi-
lica^ che la colonia avrebbe assunto, dopo che Ermerote vi stabilì
la sua residenza. Puer capillatus, questi dice nel Sat. e. 57, in
ìianc coloniam veni, adirne basilica non erat facta. Non ritornerò
sull'interpretazione da me data di queste parole, perchè trovo con
piacere che vi aderiscono anche i miei contradittori (4). Mi corre
però l'obbligo di appagare anzitutto uno scrupolo del Civitelli, al
quale parve che la forma abituale fecit basilicam, adoperata da
Livio (5), potesse giustificare pure un'interpretazione analoga della
(1) Varr. Sat. Men. 38: « hic narium seplasiae, hic hedycus Neapolis »;
cfr. Sat. e. 60, 70, 76.
(2) Stat. Silv. 4, 8, 59:
Quippe et opes et origo sinunt...
Patricias intrare fores; hos
Si modo prona bonis invicti Caesaris adsint
Numina, Romulei limen pulsare Senatus.
(3) Friedlaender, Petronii cena Trimalchionis, Leipzig 1891, pag. 64 :
« font und fort wurden Municipalen nicht blos in den Ritterstand erhoben,
sondern stiagen auch zum Senatorenstande empor (in Rom) ».
(4) Cfr. il mio scritto già citato, pag. 26; Sogliano, o. c, pag. 6; Civitelli,
o. e, p. 10.
(5) Lrv., 39, 44.
- 427 -
frase di Petronio basilica facta erat, alla maniera come il Mommsen
aveva proposto. Or, a prescindere dalle difficoltà che crea, in
conformità di questa ipotesi, la determinazione precisa del con-
cetto dell'autore, egli è certo che il v. fieri ha quasi sempre in
Petronio significato intransitivo o metaforico, e che l'uso di facta
erat nel senso di 'era stata costruita' non ha analogie o raffronti
diretti nel Satiricon. Gli stessi esempii che più vi si avvicinano,
come Sat. e. 11: nec adirne quidem omnia erant facta Ma fac-
cenda non era ancor terminata'; e. 15: siìentio facto; e, 47: quem
ex liis vultis in cenam statim fieri 'che vi si prepari'; e. 71 :
faciatiir triclinia 'si preparino'; e. 109: ncque iniuriam tihi
factam a Gitone ('ti sia toccato qualche torto da parte di (j\-
ìoi\q' ) quereris ncque si quid ante lume diem factum es^ ('t'è ca-
pitato') oòicies, hanno tutti un'intonazione affatto speciale e, se pur
non bastano da soli ad escludere l'interpretazione del Mommsen,
non si può dire nemmeno che la favoriscano.
Ma, passando all'argomento del Civitelli, egli osserva che, se la
colonia divenne hasilica cioè Augusta, quando già Ermerote vi
dimorava da parecchi anni, ciò vuol sempre dire che come colonia
essa preesisteva alla sua venuta. E, se la sola innovazione inter-
venuta ai tempi suoi fu quella del nuovo titolo aggiunto all'an-
tico, si può ben presumere, mettendo d'accordo l'iscrizione scoperta
testé a Napoli colle parole di Petronio, che Ermerote venisse a
stabilirsi nella colonia Aurelia, 3 assistesse poi alla sua trasfor-
mazione in colonia Augusta, cioè Augusta Antoniniana (1),
Qui siamo evidentemente in presenza di due equivoci. Il Civitelli
non si è accorto, che nella prima parte della testimonianza del
Satiricon la voce colonia è una semplice concessione fatta dallo
scrittore alla tirannia della forma. Anche Stazio, parlando di Napoli,
aveva detto haud tennis propriis nec rara colonis, cioè aveva do-
vuto riferire il titolo di coloni tanto agli antichi quanto ai nuovi
abitatori di Napoli, sebbene questo non convenisse che agli ultimi.
Ma è chiaro che egli fu indotto dalla maggiore semplicità ed
euritmia dell'espressione ad estendere, in senso generico, il sost.
(1) Civitelli, 1. e.
— 428 —
coloni anche al primo termine. Così parimenti Petronio, invece
di far uso della forma più grave e pesante « puer capillatus in
liane urhem veni, adhnc colonia basilica non erat facta », ha
preferito di semplificare l'espressione e di trasportare il sost.
colonia anche nel primo termine, attribuendo ad esso, in quella
relazione, il semplice valore generico di urhs. Quanto poi al signifi-
cato che il Civitelli attribuisce all'agnorae Augusta, è veramente
strano che egli, che pur si sforza di dimostrare il valore generico
che ha il termine Augusta nella iscrizione Napoletana (1), voglia
qui riconoscergli un significato così intensivo e specifico, da rite-
nere che la colonia Aurelia potesse derivare quel nuovo suo titolo
di Augusta soltanto da Caracalla. 11 contrassegno speciale di
questo imperatore è ben altro, e Petronio non l'avrebbe certo
omesso per alludere alla persona di lui. Se non ha creduto di
dover determinare ulteriomente il suo concetto, egli è solo perchè
la designazione di Augusta era compiuta in se medesima, cioè
esprimeva quel rapporto concreto col fondatore dell'impero, che
noi abbiam visto adombrato ben anche nel titolo Napoletano.
Napoli, 8 aprile 97.
Enrico Cocchia.
(1) Civitelli, o. c, pag. 8.
— 429 —
SOPKA ALCUNI PASSI DELLA V VERKINA
XX. 5L Non può esser dubbio che nei pronomi correlativi:
quod - id, sia qui designato « il privilegio » ossia «l'esenzione»
dal tributo della nave, che i Mamertini non avevano potuto otte-
nere all'atto della stipulazione del trattato coi Romani, e che ave-
vano invece ottenuto da Verre per corruzione, ciò che è espressa-
mente indicatola Cic, stesso nella chiusa del periodo: a C. Verre
pretto adsecuti sunt, ac non solum adsecuti, ne navem darent.
Non così chiaro riesce l'inciso: iure imperii nostri quotannis
usurpatum ac semper retentum, nonostante il silenzio dei com-
mentatori, di quelli almeno che io ho potuto vedere. Infatti in questo
inciso i due participii : usurpatimi e retentum concordano bensì
grammaticalmente con quod - id, m2i non logicamente; anzi, sono
in aperta opposizione al concetto di « privilegio » od « esenzione »,
perchè ciò che si era sempre applicato e mantenuto era appunto
il contrario: la non esenzione. Di* tale contraddizione devono es-
sersi accorti gli antichi, giacché i codd. inferiori danno usurpato
e retento, riferendo questi participii a iure. Ma oltre che l'au-
torità dei codd. migliori sta contro questa lezione, che non è ac-
cettata dagli editori moderni, la struttura stessa del periodo rende,
a mio parere, mollo sospetto un tale inciso.
Tutto il periodo è architettato con perfetta simmetria, e consta
di due parti principali: 1. quod tum — adsequi non potuerunt',
2. id nunc — adsecuti sunt; i membri delle quali si corrispon-
dono esattamente in forma anaforica:
1) quod 2) tum 3) recentibus suis officiis 4) integra re
5) ìiullis P. R. difficultatihus 6) a maiorihus nostris 7) foedere
8) adsequi non potuerunt ;
1) id 2) nunc 3) nullo officio suo 4) tot annis post
5) stimma in difficultate navium 6) a G. Verre 7) pretto 8) ad-
secuti sunt.
L'inciso: iure imperii nostri... retentum turba la concinnità del
periodo, senza aggiungere nulla di necessario, e sta per di più, come
si è notato, logicamente in contraddizione col resto; perciò credo
che si deva uncis includere come una inopportuna interpolazione.
- 430.-
XXI li, 57. Primiim, ut in iudiciis qui dccem laudatores
dare non poteste honestius est ei mdlum dare, quam illuni quasi
legitimum numerimi consuetudinis non explere.
Quasi tutti gli editori si accordano nell'espungere quel! wf, che
pure è attestato da tutti i codici e appena ha contro di sé la
scarsa autorità dello Scoliaste Gronoviano (Prisciano invece: ut
iudiciis), e che in verità, se s'intende conae introduzione della
prima parte d'una similitudine, difficilmente si può difendere.
Peraltro, lo Halm (seguito dal Thomas) vede qui un anacoluto,
sostenendo che il secondo membro del paragone avrebbe dovuto
essere: ita tihi honestius fuit laudatione carerefWR fu, a suo
dire, dimenticato per essersi intromesse le proposizioni seguenti :
tot in Sicilia civitates sunt ecc., dopo le quali, con le parole:
lioc quid est nisi intellegere, la seconda parte della comparazione
sarebbe ripresa sotto altra forma (1). Anzitutto contro questa
spiegazione osserva giustamente il Richter-Eberhard che sta la
collocazione di in iudiciis dopo tit, onde parrebbe che nel caso
presente non si trattasse d' un iudiciwn. Io aggiungerei che il
pensiero espresso nell'ultima parte del periodo: hoc quid est nisi
intellegere ecc. non è appunto quello che, secondo lo Halm, avrebbe
dovuto esprimersi colle parole: ita tihi honestius fuit lauda-
tione carere. Cicerone dice piuttosto, come spiega in sostanza lo
stesso Halm: « questo (hoc, cioè, intendo, il mentionem facere
Mamertinae laudationis e il trovarsi questa isolata) mostra che
tu capisci quale importanza avrebbe una lode piena ed unanime,
ma che nello stesso tempo sei costretto, per il malgoverno che
facesti della Sicilia, a rinunciarvi » ; il che è, se non erro, al-
quanto diverso.
Esclusa dunque, come troppo forzata, questa spiegazione, mi pare
tuttavia che si possa conservare Vut, purché si attribuisca alla
proposizione un significato ammirativo, scrivendo: Primuni, ut in
iudiciis... honestius est ei nulliim dare, quam... non explere!
Dell'uso di tale ut (Forcell. s. v. ut n. 11 'prò quam admira-
tive') si hanno in Cic. parecchi esempi (v. il Merguet); è frequente
(1) La spiega/ione dello Halm risale al Manuzio (nel cui testo però è
omesso ul): ' Ut in iudiciis: Subjici debuit: sic: sed eius particulae vini in-
clusit Cicero in sententiam proxime sequentem, quasi diceret: Sic cura tot
in Sicilia civitates sint, quae arguant, paucae et parvae, quae sileant, una,
quae laudet : quid hoc est nisi etc'
— 431 -
in Plauto (v. Brix Cajjt. 419), e fanno specialmente al nostro
caso, tra gli altri, i seguenti esempi: Hor. {Carni. I, 11, 3): ut
meliiis, quidquid erit,pati! , Plaut. (Truc. 4, 3, 22): ut facilius
alia quani illa, unde est, puerum parit ! (1)
XXV, 63. Cam P. Caesetius et P. Tadius decem navibus
suis semiplenis navigarent, navem quandam piratarum j)raeda
refertam non ceperimt, sed abduxerunt, onere suo piane captam
atque depressam. Nota il Thomas che tra cepérunt e captam si
ha qui una « opposition bien froide ». Aggiungo che il bisticcio
diventa ancor meno piacevole, se si considera che qualche riga
appresso Cicerone ripete : Jiaec una navis a classe nostra non
capta est, sed inventa. Ma non tanto per questo mi pare che
captam sia sospetto, quanto perchè mal s'accorda coU'altro partic.
depressam (affondata). Quest'ultimo infatti include un'iperbole
che manca nel primo, sia che captam s'intenda con lo Halm:
« bildlich fiir seiner freier Bewegung beraubt », sia che si spieghi
col Thomas: « le chargeraent enorme du vaisseau le destinali
d'avance à étre pris ». L'Eberhard propone senza esitare tardami
« doch ist fiir captam vohl zu lesen tardam ». Ma ognun vede
quanto sia languido tardam accanto a depressam., con cui, del
resto, non s'accorda meglio di caqjtam.
Se il captam è da correggere, proporrei fractam, ch'è vocabolo,
per così dire, tecnico delle navi che fanno naufragio, come* appare
dai seguenti luoghi : Ad Her. 4, 44, 57 navi fracta ; Caes. b. g.
IV 29, 3 compluribus navibus fractis, Ter. Andr. I, 5, 17: navem
is fregit apud Andrum insidam; Hor. A. P. 20-21 fractis na-
vibus. Cfr. infine anche il § 98 di questa stessa orazione: Me
primum ojjes illius civitatis comminutae depressaeque sunt ; in
hoc portu Atìieniensium nobilitatis, imperii, gloriae naufragium
factum existimatur.
Roma, 2 marzo 1897.
Antonio Cima.
(1) Con questi due esempi di ut exclamatiouni col comparativo, ne cita
circa 200 senza il comparativo Bastian Dahl(jD/c lateinische Partihel YT,
Kristiania, 1882, pag. 8 segg.), come mi faceva notare il direttore della
Rivista, eh. prof. Stampini, con sua cortese comunicazione privata.
— 432
SPIGOLATURE ORAZIANE
Odi I. 2. 21-22 Audiet cives acuisse ferrum Quo graves Persae
melius perirent. Il testo, così come appare nei codici e general-
mente nelle edizioni, non ammette una spiegazione soddisfacente.
Le migliori che io sappia sono quella del Reifferscheid che volle
vedervi accennata per via di eufemismo la morte di Cesare, e quella
del Pascoli {Lyra Romana, pag. 321) che propone di interpun-
gere: Quo {graves Persae melius!) perirent e cita in proposito
il melius non tangere! di Sai II. 1. 45. Ma l'una e l'altra di
queste interpretazioni risente dello sforzo che il trovarle dovè co-
stare al professore tedesco e al gentile rimatore italiano. Peggio
ancora quelli che in un poeta come il nostro, solito sì a far pensar
molte cose più di quelle che dice, ma anche a non lasciare in-
compiutamente accennata nessuna di quelle che dice, ricorrono a
sottintesi : ad se trucidandos (Ritter), iu cives (Cortese), perituros
(Pascoli, Lyra Romana^ pag. 192) etc. Io credo sia questo uno
dei pochi casi in cui la disperazione di ogni spiegazione ragio-
nevole rende lecita una modificazione del testo tradizionale, e come
altri proposero cecidisse ferro (L. Mtìller), iacuisse ferro (Baehrens),
rapuisse ferrum (Madwig, leep, Eckstein), proporrei più sempli-
cemente di leggere ferirent in luogo di perirent. Mi pare che le
ragioni dell'arte non scapiterebbero dalla correzione, la quale ver-
rebbe a introdurre nel testo una sarcastica ironia. Di più Tallite-
razione ferrum-ferire non doveva sonare ingrata ad orecchie ro-
mane.
Odi I. 3. 22. Oceano dissociabili. A prescindere dalla vecchia
interpretazione del Lambino: dissociabili = quem par erat a
terris dissociari ac separari, si può dire che oggi tre interpre-
tazioni del dissociabili si contendono il campo. V'è chi lo inter-
preta per dissociato e sottintende naturalmente terris, chi lo in-
terpreta per dissocians giusta 1' uso di forme analoghe, per es.
-433 -
penetrahilis^ genitahilis, in luogo di participii attivi e chi infine
seguendo il Reisk pone dissociahilis ■== o.]x\K-xoq, àEevoq, quocum
nulla societas contraili potesf. Ma se dissociabili avesse qui il
valore di dissociato, sarebbe forza riconoscere ad Oceano dissociato
il valore di ablativo assoluto, che non può avere se il poeta scrisse
ahscidit, non discidif: alla seconda spiegazione che ammette un anaE
XeYÓiaevov si dovrebbe ricorrere senza paura solo quando ogni altra
spiegazione fallisse, e la terza, chi bene rifletta, richiederebbe nel
testo latino non dissociabili com'è scritto, ma piuttosto insociabili
0 non sociabili che sono i veri equivalenti di àjuiKTO? e l'ultimo
dei quali s'adatterebbe anche al metro. A me pare che si possa
in questo luogo lasciare al dissociabili quel significato che gli
discende regolarmente dal verbo dissociare: dissociabilis = qui
dissociari potest, qui dividi potest. Quella di « Oceano separabile.
Oceano divisibile » mi pare una iunctura non assolutamente ri-
provevole, se i poeti latini, anzi i poeti, amarono sempre questa
figura del dividere, del fendere il mare con le navi, con i remi
e simili. Cf. Orazio, Odi I. 1. 13-14 trabe Cypria Myrtoum pa-
vidus nauta secet mare; Stazio, TebaiJe, V. 482: Spumea porrecti
dirimentes terga profundi (1).
Odi 1. 3. 26. vetitum nefas. Quel vetitum parve al Dillenburger
adiectivum non sine magna vi additum; egregie enim sic indicatur
non nescientes peccare homines, sed ruere eos per scelera quae
scelera esse sciant. E la migliore spiegazione che se ne può dare;
ma non è già nel nefas tanta idea di « vietato » da rendere ri-
dondanza inutile ogni aggiunta in questo senso? A me pare che
un semplice cambiamento della interpunzione tradizionale sia
capace di dar senso molto migliore. Metterei dunque due punti
do^o vetitum e Tenuto esclamativo dopo nefas: Gens fiumana ruit
per vetitum: nefas! che bene esprimerebbe, se non m'inganno,
lorrore del poeta per il sacrilegio commesso dalla stirpe umana.
(1) In questo medesimo senso va certo inteso il non dissociabile corpus
di Glaudiano, In Ruf. II. 238 e forse anche il dissociabilis di un notissimo
luogo di Tacito (Agr. 3): Nerva Caesar res olim dissociabiles miscuerit
principatum ac libertatem, volendosi, se non erro, dallo storico dar lode al
morto imperatore di aver reso indivisibile ciò che prima poteva esser diviso.
Rivista di filologia, ecc., A'.V.' 28
— 434 — .
Certo la lirica oraziana, come ogni grande lirica, ripugna dalle
esclamazioni; ma con «e/as ne troviamo esempio anche in Orazio:
palam captis gravis, heu nefas Jieu! Nescios fari pueros Achivis
Ureret flammis (Odi IV. 6. 17 e sgg.). Un esempio di nefas ac-
compagnato da altro aggettivo s'incontra pure, è vero, in Orazio:
maculosum nefas .[Oà.\ IV, 5. 20), ma lì il maculosum aggiunge
realmente qualcosa all'idea del nefas.
Odi I. 8. 16 in caedem et Lycias proriperet catervas. Porfi-
rione commenta: Manifesto Me Lycias prò Troianis posuit. E
sta bene, ma non si ha da porre col Ritter : in caedem et Lycias
catervas = in caedem Troianorum, che quello di evitare la strage
dei Troiani non era stato secondo la leggenda e non poteva pre-
sentarsi alla mente di Orazio come il fine per cui Achille venne
nascosto dalla madre nell'isola di Sciro. E non vorrei neanche
intendere con l'Orelli: Ln caedem guani facturae sunf Lyciae
catervae, perchè non per le mani delle catervae Lyciae, ma per
quelle di Apollo e di Paride cadde Achille alle porte Scee. Non
si tratta dunque di nessuna endiadi, ma secondo me di due fatti
staccati : in caedem (suam) et Lycias catervas, come a dire « alla
morte e alla guerra ». Logicamente la posizione dei due termini
dovrebbe essere invertita: in Lycias catervas et caedem, ma il
poeta più che da ragioni metriche dovè esser indotto, inconsciamente
s'intende, alla trasposizione dal fatto, che quello che avvenne dopo,
la morte, fu per la madre nell'ordine psicologico motivo primo di
nascondere il figlio.
Odi I. 23. 5-6 seu mohilihus veris inìiorruit Adventus foliis.
Così i codici, tranne quello che al Mureto in luogo di veris offriva
l'impossibile vitis, e nel commento di Porfirione si legge: TnaWaYn
est prò « veris adventu folia enata inhorruerunt » idest: commota
sunt ac tremuerunt. Se non che il commentatore latino non si
accorse di aver introdotto nella esegesi un eìiata che non era nel
testo e bene notava il Bentley in proposito, non ostante le sottili
distinzioni del nostro Cortese, che nel testo (quando s'intenda così)
si contiene un assurdo e Yadventus veris non può inhorrescere
foliis, cum eo temj)ore nondum nata sint folia. E l'obbiezione del
Bentley è secondo me così grave da infirmare, quel che a prima
- 435 —
vista non pcare, anche la spiegazione del Ritter, che poneva veris =
favonii, uguaglianza non vietata certo dalle leggi della retorica, ma
ad un patto solo, che il poeta abbia riconosciuto alla parola veris
quel valore stesso che alla parola favonii. E allora se è assurdo dire
che le foglie rabbrividirono al venir della primavera, perchè in quel
tempo esse non sono ancora nate, sarà assurdo anche dire che « le
foglie rabbrividiscono al primo soffio di favonio » che, direbbe il
poeta, Comes veris, spira la prima volta [advenit) quando esse non son
nate ancora. Pure, secondo me, non occorre nessuna modificazione
congetturale del testo. Se si intende infatti il foliis come un abla-
tivo strumentale non raro con inhorrescere e si pone adventus
veris = ver adveniens = tellus adveniente vere, è ben naturale
che il poeta potesse scrìvere: adventus veris itiJiorruit foliis ossìa.
« la prima primavera si vestì di foglie » e l'idea del vento sa-
rebbe a sufficienza resa dal mohilihus = « mobili al vento ». Solo
a qualcuno potrebbe parer troppo forte l'uso di inliorruit (letteral-
mente = « divenne ispido ») a significare l'idea gentile del vestirsi
di verde che la terra fa a primavera. Ma nessun verbo era forse più
proprio di questo qui dove la presenza di quel tenero e leggiadro
fogliame primaverile è concepita come ragione di spavento per
Viiiuleus fuggente. È naturale che al povero animale sembri quasi
che quelle foglie paurose deturpino la selva e il poeta finemente
con (\\\q\V inliorruit ha rappresentato senza parere lo stato d'animo
— si può dir così? — del soggetto suo; sfumatura di pensiero
che potrebbe riprodursi forse traducendo inhorruit per « si vesti
paurosamente ». Nello stesso modo Vergilio, il quale scriveva in
Georg. IL 12 Litora myrtetis laetissima, ritraendo le apparenze
naturali così come si presentano allo sguardo e all'animo di chi
le osserva senza che sia turbato da altri sentimenti, in Eneide
III. 23 dove gli premeva preparare gli animi al monstrum di
Polidoro scrisse: densis hastilihus horrida myrtus. Là i mirti
ornavano, qui spaventano.
Odi I. 29. 14. Socraticam et domum. S'intende generalmente
« la scuola di Socrate » e di fatto domus per « scuola » è ado-
perato da Seneca, Ep. 29: Idem hoc omnes Ubi ex omni domo
acclamahunt , Peripatetici, Academici, Stoici, Cynici. Di più
a questa immagine di « casa » per « scuola » ricorre certo un'altra
- 436 -
volta Orazio, E2)ist. I. 1. 13: quo me duce, quo Lare Inter. Ma
non è forse questo il caso nostro. E in realtà, se non si può ne-
gare che la scuola stoica di cui era seguace Iccio possa chiamarsi
in certa guisa socratica (anzi Cicerone in Be off. I. 1. 2 dice
chiaramente di sé, seguace degli Stoici, e dei Peripatetici: utrique
Socratici et Platonici volumus esse), bisogna pur convenire che
non era certo questo il miglior modo di indicarla, dovendo a
miglior diritto per antonomasia chiamarsi socratica la scuola pla-
tonica. Di più è notevole che nell'esempio recato sopra di Seneca
clonius ha significato di « scuola » sì, ma nel senso materiale di
« luogo dove si insegna o si disputa » : e così si dica di quello
scherzoso Lar dell'epistola prima. Qui invece domus sarebbe preso
nel senso aifatto nuovo di « dottrina filosofica professata da una
scuola » e le relazioni della metafora con l'idea significata appa-
iono oscure e lontane. Oserei quasi dire che il poeta nel senso che
si vuol dare alle sue parole avrebbe scritto meglio familia che
nel significato di « scuola filosofica » (ma si noti bene « scuola
filosofica » per « gruppo di filosofi professanti le stesse dottrine »)
non è alieno dalla prosa ciceroniana (Cf. Be div. II. 3) e passò
anche nell'antico italiano, in cui fu lecito scrivere a Dante (In-
ferno IV. 131-132): « Vidi il maestro di color che sanno Seder tra
filosofica famiglia ». Del resto io non sarei recisamente contrario
alla spiegazione domus = « scuola »,se non fosse molto più sem-
plice e naturale lasciare a domus lungi dalle metafore il suo si-
gnificato proprio di « casa ». Vorrei dunque intendere domus So-
cratica per « casa alla Socrate, simile a quella di Socrate » che
è quanto dire « modestissima ». Noi sappiamo che tutto l'avere
di Socrate era stimato cinque mine (Cf. Senof. Econ. II. 3) e la
sua famiglia era composta di cinque persone. Ora è naturale che
Iccio ai bei tempi del suo stoicismo vantasse la povertà della
sua casa chiamando la sua una domus Socratica e che il nostro
arguto poeta gli abbia voluto ricordare con una parola gettata lì
senza parere le sue vanterie passate, quando pareva se ne fosse
dimenticato e stava per indossare la lorica iberica, sospirando le
heatae Aràbum gasae.
Odi li. 7. 12. Turpe solum. Porfirione: « Turpe solum » aut
cruore foedatum aut nomen est loco adverhii positum: « turpe
solum. tetigere » prò « turpiter tetigere ». Di queste due spiega-
- 437 -
zioni la seconda fu accettata dal Peerlkamp, ma in istretta unione
con una interpretazione di tutta la frase, che è storicamente falsa :
voglio dire la sottomissione che i minaces dopo la rotta di Filippi
avrebbero fatto al vincitore. Invece queste sottomissioni avvennero
dopo l'amnistia dì Efeso. Ma non è per questo più commendevole
l'altra spiegazione: cruore foedatiim o quella di chi intende turpe
per « polveroso » sull'analogia di Ovidio, Tr. I. 3. 93. lo ricordo
il « disonor del Golgota » come chiamava nel Cinque maggio,
V. 101, la croce il divino Manzoni, e mi pare di dover intendere
il turpe soluni per « suolo disonorato » (da tanta strage di cit-
tadini fatta da cittadini, s'intende). E non importa che altra volta
ad Orazio i duci delle guerre civili sian parsi non indecoro puh
vere sordidos (Odi II. 1. 22): il poeta poneva là mente alla gran-
dezza delle battaglie destinate a infiammare piìi tardi gli estri
della musa di Lucano.
Odi 111. 30. 10-14. Dicar, qua violens obstrepit Aufidus Et
qua pauper aquae Daimus agrestium Regnavit populorum ex
humili potens Princeps Acolium Carmen ad Italos Deduxisse
modos. È questo uno dei luoghi più contrastati di Orazio. Di fatto
se quel doppio qua {qua violens obstrepit Aufidus e qua pauper
aquae Baunus etc.) si avesse ad intendere nel senso di una li-
mitazione territoriale, questa limitazione o dovrebbe essere riferita
al Bicar e verrebbe a dir cosa che il poeta non poteva pensare,
che cioè la sua fama sarebbe stata contenuta nei confini dell'A-
pulia; 0 anche venir riferita al deduxisse modos che segue e
verrebbe a significare che le odi furono scritte in Apulia, che non
è vero. Io proporrei dunque di ritenere l'avverbio qua come un
avverbio di direzione in istretta relazione con deduxisse e inter-
preterei: Diranno di me che ho dedotto (il poeta verrebbe così a
paragonare l'opera sua con quella degli antichi eroi e fondatori
di città) il carme eolio alle armonie italiche per quella via per
la quale {qua) scroscia con violenza l'Aufido e per la quale {qua)
Danno assetato (così si ha da intendere anche se come vollero
altri e pure ieri il nostro Grasso nel voi. XXIV, p. 243 sgg. di
questa stessa Rivista, Baunus si chiamasse anche un fiume di
Apulia, ed è allusione, credo, a qualche tradizione non giunta fino
a noi. Non venne forse il profugo d'Illiria assetato ^W Aufidus
violens e bevve e fu re ?) si fece signore {regnavit = èpaaiXeuae)
— 438 —
SU popoli di agricoltori. Così sarebbe appianata una difficoltà del
testo; raa ne rimane un'altra: Vex humili àel v. 12, di cui scrive
L. Muller: verha illa .... qui explicarei , nondum est inventus. E
a me non piace nemmeno (\\\q\Y agrestium populorum regnavit che
è un ellenismo (PaaiXeueiv Tivóq) non consueto. Invece ricordo
Ovidio, Met. XIV, 223 Aeolon Uh re feri Tusco regnare profundo
e Vergilio, En. J. 265 Tertia diim Latto regnantem viderit aestas
e non credo nella disperazione del testo così come è di far cosa
audace, proponendo di sostituire a popidorum ex ìiumili la cor-
rezione populis rex liumilis: con che si otterrebbe anche il van-
taggio di metter fuori del testo una di quelle sinalefi per è'K6\in;iv
in dieresi che sono realmente troppe, tenuto conto delle propor-
zioni oraziane, in quest'ode. Introdotta questa correzione, il rex
humilis diventerebbe un'apposizione di Baunus e il potens unito
a Princeps del verso seguente (princeps non nel senso temporale
di « primo », ma in quello di « dominatore, signore ») da riferirsi
ad Orazio formerebbe un bel contrapposto al rex humilis. In so-
stanza il poeta verrebbe a dir questo, che egli deduttore della
gloriosa colonia della lirica eolica alle armonie romane, si sentiva
da pili del mitico eroe, divenuto di fronte a lui un humilis rex,
e troverebbe modo di alludere alla sua origine tra apula e lucana.
Dell'effetto, come si dice, poetico giudichino gl'intelligenti (1).
(1) Un'altra emendazione congetturale di questo passo di Orazio fu pub-
blicata in questo stesso volume della Rivista da G. Cristofolini con il titolo
A proposito di un recente studio sul «.pauper aqiiae Baunus-» (p. 104 sgg.)
che sarebbe poi lo studio citato del Grasso. 11 Cristofolini dunque vorrebbe
introdurre nel testo in luogo di regnavit il regnator del codice harleianoe
di altri pochi e sostituire con it nel verso seguente Vet iniziale. Si otter-
rebbe così una anafora analoga a quella di Odi III. 3. 47-48 e 55-56. Ma
0 m'inganno o l'effetto di quell'anafora sarebbe in gran parte distrutto dal-
l'inversione: it qua.
Ma le congetture — si sa — hanno sopra tutto questa virtù, di piacere
soltanto 0 quasi a chi le trova: sicché potrebbe essere, come a me non
piace quella del Cristofolini, che a lui e ad altri non piacesse la mia. E
forse nessuna potrebbe piacerne al chiarissimo direttore di questa Rivista, il
quale a pag. xi della sua edizione di Orazio scriveva: Nostra enim aetate
ille mihi multo niaiorem laudem consegui posse videtur, qui traditas optimis
codicibus lectiones, quotiens id sententiarum ratio et natura patiatur, in
sedem suam revocare studeat, quatn qui novarum rerum atque inanis alo-
riolae cupidine capti, contempto libroriim omnium consensu, inconsulti
- 439 -
Odi IV. 8. 17. ]>ìon incendia Garthaginis inpiae. È un verso
che va secondo me conservato assolutamente nel testo, da cui lo
vogliono bandito per ragioni di metrica o d'altro. E le ragioni
metriche, per cominciare da quelle, valgono poco, non già perchè
qui si tratti, come diceva il Eitter, di nome conqposto, che il
senso di questa composizione {Kartìiago = qarth -h hados = ci-
vitas nova) non era più avvertito di certo ai tempi di Orazio; ma
perchè, se è vero che Orazio si prefisse obbligatoria la dieresi a
metà dell'asclepiadeo, non è meno vero che la stessa regola s'im-
pose per l'endecasillabo alcaico. Ora, se la legge fu da lui stesso
violata, per quel che riguarda gli endecasillabi alcaici (Cf. Odi
I, 37. 14 e IV. 14. 17), perchè non potè esser violata una volta,
per quel che riguarda gli asclepiadei? Di più si aggiunga che si
tratta qui di un nome proprio e ai nomi proprii il nostro poeta (1)
va debitore anche di una feroce durezza in questo libro quarto
medesimo (5. 26): Quis Germania qiws Jiorrida parturit, e di
un'altra infrazione alla sua metrica abituale in Epod. 16. 4: Mi-
nacis aut Etrusca Porsenae manus. E poi le ragioni metriche
non hanno valore così assoluto come a prima vista parrebbe, e
per parlare di cosa su cui non può cader dubbio , il principe
impeccabile dei decadenti italiani, Gabriele D'Annunzio, non ha
scritto ieri, in Poema Paradisiaco pag. 102 v. 12 un ipermetro:
« i soldati ebri, una turba sconosciuta »? Sicché per questa parte
et temerarii verba scriptorum mutare et corrigere conentur. Per farmi
perdonare dunque, se paressero inconsulte e temerarie, le poche mutazioni
che in queste Spigolature propongo, farò notare che, ammessa la costruzione
greca regnavit populorum e non offendendosi delle troppe sinalefi in die-
resi, il contesto così come è nei codici può dar pure un buon senso, quando
s'interpreti Princeps per « signore » e ex humili per equivalente dell'ero-
doteo dirò aiaiKpoO rèo (1. 58); cioè: «Si dirà di me che per quella via per
la quale rumoreggia con violenza l'Aufido e per la quale Danno assetato
giunse al regno di popoli agresti, io da umili principii potente signore ho
condotto (anzi ho dedotto) la canzone eolia alle armonie italiane ».
(1) E non solo il nostro: altri anzi commisero licenze maggiori. Per
esempio Lavinium era una città del Lazio notissima a Roma e per la sua
vicinanza e per la parte che aveva nella storia primitiva della città; la
pronunzia quindi di quella parola doveva essere una delle più fisse e sicure:
eppure in En. I. 5 Va di Lavinium è considerato per lungo, e nello stesso
libro, v. 258 e 270, tutti luoghi dove non si può far questione d'interpola-
lazione, per breve.
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il verso nostro potrebbe esser lasciato ad Orazio. Ma vi sono
altre ragioni, si dice, che lo vietano. Anzi, scriveva il Bentley, se
si lascia questo verso nel testo, ne risulta una horribilis hallu-
cinatio, quae vix in nllum hominem de media plebe cadere potuit.
Primo enim Hannihalis fugam et Carthaginis incendium uni et
eidem Scipioni adscribit. Deinde Ennium (le Calabrae Pierides
del V. 20 che altri intendono come detto dal poeta di se stesso)
innuit in poèmate suo Carthaginis incendium attigisse (Ennio mori
nel 585 a. u. e. e Cartagine fu distrutta nel 608 della medesinaa
era). Ora a me fa meraviglia come il Bentley e dopo lui tanti
valentuomini studiosi di Orazio siano rimasti vittima di una hallu-
cinatio quasi non meno horribilis di quella rimproverata al sup-
posto interpolatore. Dice il testo: non celeres fugae Reiecfaeqiie
retrorsum Hannibalis minae, Non incendia Carthaginis inpiae
Eius qui domita nomen ab Africa Lucratus rediit, clarius iudi-
cant Laudes quam Calabrae Pierides. — dove è appena secondo
me da mettersi in dubbio che il Beiectae retrorsum va riferito
non solo alle Hannibalis minae, ma anche agli incendia Cartha-
ginis iìtpiae. D'altra parte incendia Carthaginis ha lo stesso va-
lore che incendia Poenorum e come di incendia Poenorum reiecta
retrorsum non può parlarsi che a proposito della guerra annibalica,
tutto il passo non contiene menzione alcuna ne dell' eccidio di
Cartagine ne di Scipione Emiliano. Anche per questo riguardo
dunque il verso conteso può rimanere nel testo. Che, se poi in
omaggio al principio tetrastico invalso cosi largamente nella poesia
latina e oraziana si volesse ad ogni costo espungere qualche verso
di quest'ode, meglio espungere il v. 28 che anticipa il contenuto
dell'emistichio seguente, e il v. 33 che sembra quasi trascritto da
Odi HI. 25. 20.
Odi IV, 9. 32-34 Totoe tuos patiar labores Impune, Lolli,
carpere lividas Obliviones. Qual è il soggetto di quell'infinito
carperei Se si avesse a far soggetto il lividas Obliviones, si do-
vrebbe intendere carpere per « strappare » (il Miiller ha. n-egraffen).
Ma con questo ci troveremmo dinanzi a una prosopopea piuttosto
barocca, per cui le lividae Obliviones verrebbero paragonate a
quei cavalli che primi apparvero su la costa d'Italia ai profughi
di Troia: equos in gramine vidi Tondentes campum late, candore
nivali (Eneid. Ili, 537-538). Sarà meglio, a mio parere, per ot-
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tenere un'immagine d'impronta classica, prendere invece per sog-
getto lahores. Così carpere lividas Ohliviones sarebbe stato coniato
per analogia su carpere iter e significherebbe quasi « prendere
le livide vie dell'oblio ». Una difficoltà a questa interpretazione
potrebbe sorgere dall' impune quando lo si volesse rendere per
« senza castigo, senza pena ». Ma non mancano esempi in Orazio
stesso di una significazione più lata, come a dire « liberamente,
senza ostacolo ». Cf. Arte poetica, 381: Ne spissae risum tollant
impune coronae.
Odi IV. 15. 1-4 Phoehus volentem proelia me loqui Victas et
urbis increpuit lyra, Ne parva Tyrrhenum per aequor Vela da-
rem. Nell'Orelli-Baiter-Hirschfelder si legge : Noli iungere « loqui
lyra »; nam v. « increpuit » requirit èniGeTOV, quo tota imago fiat
poetica: contra «loqui» et «dicere » per se significat « Carmine
celebrare »\ giusta osservazione per quel che si riferisce ad incre-
puit, giustissima per quel che si riferisce a loqui, con il quale
per giunta sarebbe stato più naturale ad lyram che non lyra.
Dunque loqui lyra no; ma e increpuit lyra? Nello stesso com-
mento si legge che increpuit lyra vai quanto dire: lyra plectro
tacta hoc me facere vetuit, dove il tacta plectro è nato, come
Minerva, dalla testa del commentatore. Meglio il nostro Pascoli
{Lyra Romana, pag. 314): « Mi toccò della lira » ; ma è proprio
vero che increpuit significa tetigit? Per non dire anche che questo
toccar con la lira non è affatto naturale e più naturalmente
Apollo avrebbe toccato il poeta col plettro, come in Properzio:
plectro sedem monstrat eburno (IV. 3. 25). Cosicché io sarei
tentato di ravvisare in quel lyra un ablativo di allontanamento
e in (\\\q\V increpuit una sostituzione poetica di prohibuit: me in-
crepuit lyra = « mi vietò la lira ». È un'analogia che potrà forse
parere violenta, ma è certo violenta meno di altre ammesse da
tutti : per esempio di quella che mi viene a mente di un luogo
notissimo di Erodoto (I. 35): à)iirixavriaei(; xPnMctTOi; oùbevòq
ILiévujv èv rnuetépou (= év r\\xé:vv).
Carme secolare. 2. Lucidum caeli decus. S' intende comune-
mente di tutte due le divinità nominate nel verso antecedente,
l'una e l'altra decus caeli « Apollo als Sol bei Tage, Diana als
— 442 -
Luna in der Nacht ■» per citare le parole del Kiessling, uno fra i
tanti. E il Nauck cita in appoggio dìie analogie: Ixion Tityosque
volfu Risii invito (Odi TU. 11. 22) e Clarum Tyndaridae sidus
(Odi IV. 8. 31). Ma mi pare che quella doppia analogia non si-
gnifichi nulla, mentre a nessuno può venire in mente di voler
negare che a un soggetto plurale si possa accompagnare un pre-
dicato nominale o verbale al singolare. È invece opportuno esa-
minare il caso speciale e nel caso speciale a me sembra miglior
partito quello di riferire il Lucidum caeli decus alla sola Diana:
non perchè quell'attributo non possa convenire benissimo anche
ad Apollo, ma perchè al contrario esso sarebbe inutile per Diana
come per Apollo, ambedue divinità della luce, se per Diana esso
non fosse stato suggerito al poeta dall'antitesi del silvarum po-
tens del verso antecedente.
Epod. 9. 17. Ad hunc frementis. Così la maggior parte dei
codici, non quella delle edizioni dove si preferisce adJmc, at Jiuc,
ad hoc, at hoc, at hinc (Cf. Keller, Epileg. p. 381). Ma io la-
scerei la lezione più comune dei codici intatta e unito stretta-
mente ad hunc con frementis... equos intenderei « i cavalli fre-
menti verso lui ». Ma verso chi? Quelli che conservarono nel
testo Vad hunc dei codici, ponendolo però in relazione stretta con
il verterunt che segue, intendono generalmente di Ottaviano, per
non parlare di una vecchia interpretazione: « ad hunc « idest
« contra Antonium » (!). E tra quelli che intendono Vhunc di
Ottaviano va citato il nostro Stampini a pag. 168 della sua edi-
zione critica, al quale quel riferimento non parve duro, e perchè
tutta la frase può costruirsi così : Galli canentes Caesarem ver-
terunt ad hunc e perchè Cesare è nominato al v. 2; quamohrem,
egli seguita, « ad hunc » idem valere puto atque « ad hunc no-
strum, cuius Victoria nunc laetamur ». Ingegnosi ragionamenti
ai quali io sottoscriverei volentieri, se nel distico antecedente non
mi avvenisse riscontrare un riferimento più vicino e insieme più
poetico nella parola Sol. Vorrei dunque che si spiegasse « fre-
menti verso il sole », che può parere spiegazione vuota di senso
a chi non ripensi come, secondo la tradizione raccolta da Erodoto
(III. 84-86), il nitrito di un cavallo ^Xi'ou éTravaTé\XovTO(g dette
il regno dei Persiani al primo Dario e, secondo il racconto di
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Tacito (Germania, 10) da cavalli candidi et nullo mortali opere
contadi solessero prendere gli auspicii loro i Gernaani osservan-
done hinnitus ac fremitus. Poteva dunque ben essere il fremitus
di duemila cavalli verso il sole augurio di vittoria e d'impero a
Cesare o meglio esser raffigurato tale dal poeta cui forse non era
ignoto l'uso germanico e notissimo certo il racconto di Erodoto.
Aggiungi che la presenza dello zanzariere egizio tra le aquile di
Koma nei v. 15-16: Interque signa turpe militaria Sol adspicit
conopium era stata rappresentata dal poeta come un'offesa al sole
che lungi da queste vergogne deve invece niJiil urbe Roma Vi-
sere tnaius (Carm. sec. 11-12), onde bene osservava il Pascoli
{Lyra Romatia, pag. 152) che Vadspicit del v. 16 andrebbe tra-
dotto « soffre di vedere ». E ponendo ad hunc = ad solem il sole
si verrebbe quasi a prendere una rivincita dell'offesa patita.
Epod. 15. 15. Nec semel offensae cedei constantia formae. Of-
fensae e offense hanno i codici, perpaucis exceptis, secondo lo
Stampini. Ma come si ha da intendere? La interpretazione più
comune è quella che pone attivamente offensae = odiosae, in-
visae, ingratae e intende « una volta che io offendi in eam =
urtai in essa, cioè essa mi urtò, mi sdegnò ». Ma, notava arguta-
mente il Bentley, rogo vos, quid caussae erat, cur forma Neaerae
Horatio invisa forefè Un'altra interpretazione è quella che fu
anche sostituita in un codice : iratae = « di te sdegnata » per
aver io cercato parem. Ma anche qui : Neera dimentica poteva
andar in collera, se dimenticata da Orazio? A me pare piuttosto
di dover prendere offensae per dativo da accordarsi in significato
passivo con formae e intendere : Nec mea constantia cedet tuae
formae, si eam offenderò semel, con che il poeta verrebbe a dire
a un dipresso: «Rotto una volta sola l'incanto che mi lega alla
tua bellezza {si eam offenderò semel), dinanzi a lei non mi pie-
gherò più {non cedet mea constantia).
Arte poetica, 342. Gelsi praeiereunt austera po&mata Ramnes.
Di quel Gelsi inteso come attributo dei Ramnes sono possibili
due spiegazioni: o quella di « nobili, illustri » o quella che pone
cehi = superbi, fastidiosi. Ma l'uno e l'altro di questi attributi
— 444 —
mi parrebbe inutile qui accanto a quell'epico ed eroico Ramnes
così bene adoperato dal poeta a castigare la superbia dei Mena e
dei Vedii occupanti a dispetto di Otone Roselo le famose quat-
tordici file. Proporrei dunque di spiegare quel Gelsi come un
genitivo di nome proprio e intenderei poèmata Gelsi « i poemi
(le tragedie?) di Celso ». E questo Celso potrebbe essere benissimo
l'Albinovano che scriveva anche lui, come si ricava da Epist. i.
3. 15-20, dove viene ripreso come saccheggiatore, o piuttosto, se-
condo il Dillenburger, pedissequo imitatore degli scritti, Pala-
tiniis quaecumque recepii Apollo (1).
Tivoli, marzo 1897.
Vincenzo Ussani.
(1) Questa sostituzione da me tentata non so con quanta fortuna di un
genitivo singolare dove l'esegesi riconosce comunemente un nominativo plu-
rale, mi fa pensare che una sostituzione simile sarebbe possibile anche in
Art. poet. 5: Spectatum admissi risum teneatis amici? IS admissi amici "^o-
Irebbe essere un genitivo. Se non che, per dir il vero, questa spiegazione
grammaticalmente giustificabile sembra anche a me molto inferiore a quella
che sulla scorta di una cattiva traduzione italiana di Mauro Golonnetti (Mi-
lano 1861) propose nel Bollettino di Filologia (Anno I pag. 117) il nostro
Cima.
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ANCORA SU GIORGIO LACAPENO
(Gfr. fase, preced., pag. 267 segg.).
Troppo tardi perchè io avessi modo di tenerne conto per 1 "ar-
ticolo, a cui rimando quassù, mi è venuto alle mani un altro
codice Ambrosiano, E 81 sup., da aggiungere ai quattro, onde è
detto nell'articolo stesso (D 12. L 44. A 115 supp. e I 214 inf,),
e come questi inesplorato.
Eccone una breve descrizione.
Cartaceo ; mm. 220 X 142 ; carte 318 (escluse le guardie ante-
riori) ; secolo XIV-XV. Miscellaneo : a e. 74'' -h toO croqpLUTdTOu
Kttl XoYiuuTdTou KupoO ìuj(àvv)ou ToO XttKaTTrivou YPOMMCtTiKri : ,
cioè epimerismi (v. art. cit. pag. 269), i quali giungono fino a
e. 80^
Anzitutto va notato il nome Giovanni invece di Giorgio
0 di Gregorio, che occorrono nei rimanenti manoscritti finora
conosciuti (cfr. V o 1 1 z [op. cit. a pag. 267], pag. 221 e K r u m-
b a e h e r [op. cit a pag. 269], 1. e, 2). In secondo luogo, e anche
ciò è una novità, gli articoli degli epimerismi, come si vedrà
sotto, sono distribuiti in ordine alfabetico e quindi scelti da varie
serie, ma immediatamente successive. Benché il copista, il quale
volle, sembra, compilare una specie di dizionario, non sia andato
oltre agli epimerismi della epistola 7, nulla ci vieta di supporre
che egli abbia o avrebbe continuato il lavoro, di cui possediamo
solo il principio, per tutti e progressivamente fino all'ultima let-
tera dell'alfabeto. Bisogna per altro osservare che, o per svista o
per negligenza, omise alcuni articoli, i quali dovevano trovar
posto fra quelli da lui trascritti, e che infatti nelle serie rispet-
tive degli epimerismi nei quattro codici citati sono a loro luogo.
Comunque, E 81 sup. contiene soli ventisei articoli dichiarativi
0 epimerismi di parole che cominciano in a. Le reco qua nell'or-
— 446 —
dine di successione del codice, segnando il numero progressivo
delle singole epistole, a cui appartengono gli epimerismi stessi ;
con « codd. » indico i quattro soliti manoscritti.
àaxoXia 1. òittXoO^ (cod. aTrXouq) 1. aTraYOpeùuu 2. àjnuveiv 2.
àniaàZiuj 2. àyeiv 2. aia9dvo)aai 2. àvaipeiaSai 3. àvaieiveiv
(codd. àvaielvei) 3. àvaTréiUTTeiv 3. àvrip 3. àviaai 4. àpa 4.
àjLiaxov 4. àcpiaiaiai (codd. ùqpiaraTai e così dev' essere) 4. àrré-
X€(J9ai 5. ÓTTOcpaivei (codd. aTToqpaiveiv) 5. àve'xei (codd. dve'xeiv) 5.
otjuapTaveiv 6. àiTÓKpiaiv (il solo A 115 àTTÓKpiaiq) 6. ànaTa) 6.
ópieiiuj 7. àvaTrXdxTeiv 7. óXicTKeTai (cod. àXicrKerai) 7. àno-
Kpunreiv 7. àHióxpeuj? 7.
I singoli articoli sono identici, rispettivamente, ai loro corri-
spondenti nei quattro manoscritti, eccetto àpiGmli, che in E 81 sup.
manca di poche parole in principio.
Milano, 18 maggio 1897.
Domenico Bassi.
447 —
BIBLIOGRAFIA
J.P.PosTGATE, Silva Maniliana, Oantabrigiae,MDCCCLXXXXVII,
pp. vii-72.
A Manilio, l'astruso e ostico autore degli Astronomica, consacra
in quest'opuscolo amorose e intelligenti cure il Postgate, il quale
discorre in primo luogo De locis spuriis et suspectis, prendendo
di mira specialmente alcune congetture del Bentley, da lui giu-
dicate eccessive. Il rimedio della trasposizione dei versi, qui spesso
adoperato, non è scevro di pericoli : ma l'autore lo giustifica a
p. 62. In secondo luogo tratta De locis corruptis, discutendo un
buon numero di passi e suggerendo emendamenti. Da ultimo reca
un elenco delle migliori lezioni del cod. di Madrid e classifica gli
errori che usualmente ricorrono nei codici maniliani, fermandosi
di proposito sull'ex nato da falsa lettura di e o di ex, dove ber-
saglia argutamente Vec che taluni critici ne hanno voluto trarre.
In lavori di tal genere è inteso che sian più le congetture de-
stinate a scomparire che quelle destinate a restare ; ma quando
siano dottamente ragionate, com'è il caso presente, giovano in ogni
modo a promuovere l'intelligenza del testo e invogliano altrui a
continuare la ricerca. Alcuni emendamenti del Postgate sono si-
curi, quali p, e. I 812 volatus (agii volatus) per locatus ; IV 298
Danaae per decanae ; I 843 partusque caprinos per partoscj[ue
capillos. Quest'ultimo però non mi sembra compiuto, perchè ca-
pillos piuttosto che a caprinos riconduce a caprillos, diminutivo
di caprinus, come hovillus di hovinus, ovillus di ovinus, lupillus
di hipimis, suillus di siiinus. E con ciò si arricchirebbe il lessico
latino di un nuovo vocabolo e il lessico maniliano di un nuovo
arcaismo.
Al IV 888-893, passo molto torturato, il Postgate porta nuova
luce ; solo c'è troppa violenza nelle correzioni. Quae iussa gu-
hernat 890 evidentemente trova esatta corrispondenza in qui
cuncta giibernat 892 e non vi si deve sopprimere il pronome re-
lativo ; tra mundus 889 e spiritum 890 esiste il medesimo asin-
. deto che tra corpora 891 e animo 892 ; e perciò basta la pun-
teggiatura, senza mendicare un est dopo spiritum e un esse prima
ài animo. Lasciando pertanto il testo più che si possa intatto,
proporrei così :
— 448 --
utque sit ex omni constructus corpore raundus
aetheris atque ignis sumrai teiraeque marisque,
spiritns ex toto rapidus qiu' iussa gubernat :
sic esse in nobis terrenae corpora sortis
sanguineasque aniraas, anim«<m qui cuncta gubernat
dispensatque hominem ?
Catania, 29 marzo 1897.
Remigio Sabbadini.
Sofocle, Elettra, con note di Domenico Bassi. Torino, Ermanno
Loescher, 1897, pp. xvi-124.
Il commento del Bassi è deliberatamente scolastico, e con questo
criterio l'autore ha diritto che venga giudicato, a quella guisa che,
partendo dal medesimo concetto, il Bassi stesso in più di una
Rivista filologica ha espressa la sua opinione sopra altri lavori
consimili, destinati anch'essi alle nostre scuole. Anzi tutto una
pregiudiziale : il Bassi è convinto che la lettura di Sofocle possa
utilmente praticarsi ne' nostri Licei, e lo ha dimostrato anche
pubblicando, non è gran tempo, un commento scolastico dell'An-
tigone ; il commentatore troverà difficilmente altri più convinto
di me circa l'opportunità, direi la necessità, di tale lettura, che
dà buoni frutti nelle scuole secondarie classiche di altri paesi, e
che anche in Italia si è almeno iniziata dai più volenterosi. Anche
da chi in pratica non voglia seguire le idee del Bassi, la giu-
stezza de' suoi criteri didattici, rispetto a tale opportunità, è uni-
versalmente ammessa in teoria : perciò l'egregio professore non va
destituito della debita lode che gli spetta pel lodevole intento di
fornire alle nostre scuole una edizione corretta e provveduta di
commenti non composti per vana pompa di scienza, ma che spie-
ghino il testo ne' limiti che le scuole appunto desiderano. Ma qui
invero può sorgere divergenza non tanto sull'ampiezza del com-
mento, quanto sull'indole sua : vale a dire qual menomo grado
di conoscenza della lingua greca e della vita greca deve supporsi
in chi si accinga alla lettura dell' Elettra di Sofocle? con quale
estensione deve farsi questa lettura nei nostri Licei ? 11 commento,
ed il giudizio che altri se ne formi, dipende dalle risposte che
a tali domande si possono dare : e le risposte possono essere pa-
recchie. Non crederei di andare errato affermando che solo classi
liceali eccezionalmente buone, e di lunga mano preparate, si pre-
stino a leggere una tragedia intera — ciò vale almeno pel mo-
-.449 —
mento attuale, daccliè in avvenire non lontano spero che tali classi
sieno più frequenti. La lettura quindi, almeno per ora, è gene-
ralm.ente limitata soltanto a passi più o meno estesi ; sicché non
è male, anzi è spesso bene, che una medesima osservazione torni
più volte nel corso del commento, specialmente quando l'osserva-
zione ricorra per luoghi abbastanza lontani. A questo caso il Bassi
volle provvedere con molta diligenza, lodevolissima è vero, ma
talora cosi scrupolosa da essere, direi, soverchia, e da cadere in
Scilla per evitare Cariddi. Ricorro ad un esempio. Opportunissima
alla lettura è la scena nella quale il pedagogo n-trra splendida-
mente la presunta morte di Oreste ai giuochi Delfici (vv. 660-822):
ebbene non meno di sei volte vi si osserva che kéìvo? corrisponde
ad èK€Tvo(;, una volta perfino in due versi consecutivi [cfr. vv. 664,
665, 681, 698, 720, 791]. Anche supponendo che non si legga
per intero la scena, questa frequenza non appare affatto neces-
saria, trattandosi tanto più di spiegazione ovvia, anzi di un fatto
che dovrebbe, a mio giudizio, supporsi noto in chi si accinga a
leggere Sofocle, e che si trova chiarito nella grammatica e nel
dizionario, soli sussidi che il Bassi suppone pel lettore. Non già
che insegnando non sia opportuno esigere ogni singola volta anche
siffatte spiegazioni dagli scolari ; ma da questo ad insistere tal-
mente nei commenti ci corre un gran tratto. Così avviene per
altre non dissimili osservazioni, che senza danno del lavoro, anzi
con notevole vantaggio, potrebbero senz'altro ritrovarvisi una sola
volta, 0 magari essere interamente e sempre soppresse : ciò valga
ad esempio per èq che in più luoghi è spiegato con eie;. Ma questa
osservazione ci riconduce alla prima e più importante questione,
quella cioè sulla natura di un commento a Sofocle. Limitiamoci pure
ad un commento scolastico, quale il Bassi si è prefisso : quale
vantaggio- può ricavare dalla lettura di Sofocle quella classe che
ha costaùte bisogno che si spieghi èc, con eìq, si noti sempre la
anastrofe, si sciolgano costantemente le crasi, si osservino le om-
missioni perfino di ecrii [p. es. vd. v. 22] ? che si accenni che
cosa sia l'Acheronte [v. 184]? che si dica f]|aiv = fiiuTv e simili?
che si completi ogni parola la cui vocale finale è in elisione ?
In questi punti il commento, per espressa volontà dell'autore, è
riuscito troppo elementare. Chi non possiede siffatte elementaris-
sime nozioni è bene che attenda ancora alquanto tempo prima di
osare l'interpretazione di un tragico ; però, a vero dire, le nostre
classi liceali non si trovano in così basso stato, anzi sono in con-
dizione di spiegarsi questi fenomeni da per se e senza fatica. —
Lasciamo però questo punto, che riterrei il più vulnerabile del
lavoro, e veniamo ai pregi del commento. Questo è condotto con
retta e sicura intelligenza del testo, sicché l'autore può non sol-
tanto con sagacia scegliere tra varie interpretazioni da altri pro-
poste, ma metterne innanzi delle sue proprie [vd. p. es. v. 66], e
rettamente fissare la lezione del testo. Nel fissare il testo il Bassi
liicista (li Jilologia, ecc., A .VI'. 29
— 450 -
si comporta in modo prudente e lodevole, né audace nelle conget-
ture e desideroso di novità peregrine, né ligio soverchiamente ai
codici ed alle autorità di filologi eminenti : eppure in questo
campo è molto facile cadere in eccessi. Non già che tutti in ogni
singolo luogo trovino preferibile a tutte quella particolare lezione
adottata dal Bassi, cosa questa assolutamente impossibile, qua-
lunque sia il testo edito, qualunque l'editore ; ma anche chi con-
fronti la recentissima edizione del Kaibel [Sophocles Elektra erklàrt
von Georg Kaibel, Leipzig, Uruck und Verlag von B. G. Teubner
1896 che inizia una Sammlung wissenschaftlicher Commentare zu
griechischen und roemischen Schriftstellern], può notare come le
divergenze fra i due testi non siano nò molte né gravi. E questo
torna ad elogio del nostro commentatore, anche se per l'Elettra
non esistono quei pericoli e quelle incertezze che si incontrano
invece per altre tragedie. Notevole è la chiarezza delle spiegazioni,
che osano affrontare le difficoltà e renderle superabili a chi da
solo non potrebbe vincerle, ed opportuni sono i raffronti con altri
passi Sofoclei, specialmente con altri luoghi della medesima tra-
gedia. Non era possibile abbondare di numerosi raffronti, quanti
se ne hanno nei commenti p. es. dello Schneidewin-Nauck :
troppo differente é l'indole dei due lavori, perchè da entrambi si
possa esigere la medesima abbondanza. Didatticamente è un bene
che in questa edizione, fatta espressamente per chi incomincia,
i materiali, anche buoni, non sovrabbondino ; per una seconda
lettura il Bassi stesso si è preso l'incarico di indicare altre edi-
zioni. Vero è che anche rispetto a questi raffronti qualche appunto
potrebbe essere fatto. Così nei primissimi versi con toO aiparr]-
fr\(5avToc, èv Tpoia ttotè 'ATa|Lié^ivovo<g si confronta l'espressione
'EWàvujv ctvaH del v. 483; perchè non piuttosto toO tò kXcivÒv
'EXXaòoq 'AyainéiuvovGq aipòiTeuiu' ÒTeipavró^ ttotc del v. 694-5?
in qualche luogo non potrei accordarmi colla spiegazione o colla
traduzione proposta : al v. 3 renderei il Tiapóvii col nostro qui :
ora tu puoi qui vedere. Nella nota al v. 4 c'è forse uno sposta-
mento, dovendosi forse leggere : il desiderio (tióOo?) di rivedere
la patria ("ApYo<;) era, per Or., inseparabile dalla brama che
lo travagliava di vendicare il padre. 11 cfr. con 240-41 mi con-
ferma in questa idea ; c'è appunto fjq iineiperai au-|^. 11 qpdcTKeiv
del V. 9 è troppo lontano dall'eHecfTì del v. 2, perchè, secondo la
comune espressione, ne dipenda ; non solo, ma i versi frapposti
interrompono la dipendenza. Nel v. 36 renderei acfKeuov non con
senza, ma con inerme. Nel v. 49 il Bassi afferma « che il poeta
parla dei ludi pitici del mito, quelli cioè istituiti da Apollo stesso
dopo l'uccisione di Pjthon, e non degli storici cominciati a ce-
lebrare l'anno terzo della Olimpiade 48 ». Non discuto la data,
dopo lo studio pubblicato sull'argomento dal Fraccaroli [Museo
italiano di antichità classica. 111, p. 125 1; ma nella mente del
poeta il mito era davvero nettamente separato dalla storia? e nella
— 451 —
mente de' più ai tempi del poeta esisteva tale separazione ? Non
sarebbe inopportuno, credo, il confronto con quanto dice Pindaro
della fondazione de' giuochi Olimpici, appunto nell'Olimpica prima.
— L'd)b(e) del v. 50 è reso sufficientemente dal nostro così ; il
proprio così è troppo forte e corrisponderebbe piuttosto ad luòi.
La nota al v. 56 concernente nbeiav cpdiiv dichiaro francamente
di non capirla ; e questo è l'unico luogo nel quale non afferri
l'idea del commentatore : il testo è ben chiaro : portiamo loro la
gradita notizia che ecc. Ai vv. 82-83 si osserva : « Se a questo
punto Oreste non si allontanasse, non sarebbe più possibile la
scena del riconoscimento ». Ma di tale svolgimento dell'azione
non è causa soltanto questo motivo artistico, che appare insigne
nell'Ifigenia in Tauride di Euripide; Oreste si allontana, come
ha già dichiarato, per recarsi alla tomba del padre e compiervi
sacrifici. Circa poi all'assentarsi del pedagogo (nota al v. 84) non
sono d'accordo col Bassi, che in ireipLuineGa vede una conferma per
la sua ipotesi che, stante la venuta di Elettra, il vecchio accom-
pagni i due giovani alla tomba regale. Il plurale, trattandosi di
due persone, è molto frequente, e perciò può benissimo riferirsi
soltanto a Pilade ed Oreste : inoltre Oreste ha già dianzi divise
le parti — egli e l'amico andranno alla tomba di Agamennone,
ed il vecchio entrerà nel palazzo per sapere ixav tò òpuOiuevov,
nella speranza di non essere riconosciuto stante la sua avanzata
età. Che cosa faccia il pedagogo fino al v. 660 è difficile dire con
certezza : ma dal fatto che egli domandò al coro se veramente è
quello il palazzo regale, quasi allora soltanto vi giungesse, non
è prova che egli vi giunga (per la seconda volta?) appunto allora:
ciò non si accorderel3be col piano di Oreste, dacché il vecchio deve
entrare nel palazzo (inoXdjv ... òójuuuv è'auj tujvòe) e riferire ad
Oreste ed a Pilade quanto ha veduto, per prendere gli accordi
definitivi. Vero è che c'è la clausola òiav ere Kaipòq eiaà-fx], che
lascia supporre un qualche intervallo fino all'esecuzione ; vero è
che per Oreste l'entrare nel palazzo e narrare la finta morte erano
cose che dovevano andare unite, e questo appunto fa il pedagogo
dopo il V. 660. Ma abbiamo anche ai vv. 73-4 una separazione
tra il compito di Oreste e Pilade e quello del pedagogo, e
Oreste più tardi (v. 79) è incerto se anch'egli debba rimanere —
che rimanga il vecchio è cosa già decisa, sicché il TreipouiueGa non
sarebbe dovuto ad altro che alla vivissima partecipazione affettiva del
vecchio a quanto debbono far subito i giovani. Si potrebbe quindi
supporre che il vecchio entri nel palazzo, e poi, uscitone, si presenti
al coro come ambasciatore per esporre a Clitennestra il falso rac-
conto : quando si presenta al coro e non gli resta che f^re il
racconto, deve già essere compiuta la sua esplorazione. È anzi
molto opportuno che egli sappia la disposizione d'animo di Cli-
tennestra e sopratutto di Elettra : questa conosce, restando in
disparte tulla scena ed entrando poi nel palazzo, quella quando
— 452 -^
la cerca per riferirle il falso messaggio. Perchè poi doveva allon-
tanarsi, per qual timore, essendo stato scelto alla parte che assume
appunto perchè è difficile riconoscerlo ? Se gli scolii ci conservas-
sero le antiche perepigrafi, qualche spiegazione in riguardo po-
tremmo forse averla. Non accettando l'ipotesi che il pedagogo si
soffermi in disparte sulla scena e entri nel palazzo al momento
che ritiene opportuno (òiav ae xaipòq eìaàTri v. 39), rimarrebbe
un'altra possibilità, tutt'altro che irriverente per Sofocle, che qui
ci sia uno slegamento scenico — esaurita la prima scena, il pe
dagogo ritorna al momento opportuno; che cosa faccia fino a quel
momento, dal poeta non è né detto né pensato. Di consimili in-
convenienti l'antica drammatica mostra più di un esempio: il
pedagogo sarebbe personaggio ora dimenticato e tralasciato, e più
tardi ripreso. — Al v. 149 mi sembra che'àiuZiojuéva meglio si
traduca con timido. Al v. 253 pel aù vìko non era male ram-
mentare che l'espressione è collegata ad influenze delle forme
proprie della eloquenza forense e politica ; ed al v. 263 non sol-
tanto si deve ricordare che Egisto è un usurpatore, ma che il
palazzo già di Agamennone, apparteneva per diritto ai figli di
lui e perciò anche ad Elettra. V. 273 né òvia è necessario sia
aggiunto al testo greco, né altro deve aggiungersi nella tradu-
zione italiana. Nel v. 681 'EXXdòoq si può intenderlo benissimo
spiegandolo con 'EXXrjviKÓv : al v. 685 -xdìc, CKei si può tradurlo
con: i presenti, e nel 686 òpó)aou ... tà xépiaaTa corrisponde a:
vittoria nella corsa. Pel v. 707, ed anche nel seguito del racconto,
non sareblje male un cenno su quel sentimento così proprio di
Atene e che noi talora saremmo tentati di designare col nome di
chauvinisme, rammentando quale effetto ebbe in molte tragedie,
specialmente di Euripide. Nel v. 726 teXcOvieq vuol dire palese-
mente : finendo il sesto giro ed iniziando il settimo : TeXcOvieq
€KTov, é'pboiuGV t' ri^r| [dpxójuevoi] bpó|uov: è un semplice zeugma.
V. 732 Txapeiq = schivando. V. 737 con Kf'Xaòov èvcreiaac; GoaT(;
ttiuXgk; cfr. 712 f)via? x^poìv è'aeiaav, locuzione la quale conforta
l'interpretazione di 0. MuUer, accettata anche dal Bassi. V. 747
TMriToiq più che epitheton ornans {= eÙTiuriToiq) è un epiteto im-
manente, di cui abbondano gli esempi in Omtn-o e non scarseg-
giano neppure i tragici. V. 1460 MuKrivaioiaiv 'ApYeioi? 9' òpav
preferirei spiegarlo richiamando al v. 4 e al v. 9, col fatto cioè della
vicinanza iniuiediata delle due città e della piopinquitù del pa-
lazzo regale appunto a Micene: cpdaKeiv MuKrjvaq ... ópdv ... òu)|ua
TTeXoTTiòuJv. Altre osservazioni si potrebbero fare qua e là, peiò
nò più numerose né più gravi di quelle che potrebbero venir
mosse anche alle più famose edizioni. Ma se su questi punti mi
sono 'alquanto soffermato, ne é stata ragione il desiderio che ri-
sultasse chiaro e palese che l'elogio al Bassi per la sua edizione
non è cieco ed irragionevole e incondizionato, ma procede dall'at-
tento esame del lavoro. Assai più luoghi si troverebbero nei quali
— 453 -
si dovrebbe notare una retta e felice interpretazione, tanto più che
l'autore sa rifare suoi e ripensare i commenti altrui e sa anche
da questi staccarsi. Le note ai vv, (3 e 7 si appalesano proprie
del bibliografo diligente che ha saputo raccogliere in servizio altrui
preziosi elementi pel mito di Apollo, illustrandone altresì valen-
temente qualche punto. Retta è l'interpretazione data al v. 66 per
acTtpov ójc, Xàiuipeiv è'ii : la spiegazione del Bassi coincide inte-
ramente con quella del Kaibel. — La introduzione nella sua bre-
vità torna molto utile ai lettori cui il libro è destinato : anche
in essa appare il bibliografo diligente, più accurato, in alcuni
punti, che lo stesso Kaibel. Se volessi mostrarmi incontentabile,
desidererei l'aggiunta di una nota, non estesa, in cui si accennasse
al diverso disegno drammatico delle Coefore e delle due Elettre,
e l'aggiunta di notizie metriche. Ben è vero che la metrica da
noi è poco studiata e ritenuta non solo ardua ed arida ma presso
che inutile ; il fatto è che troppo pochi la conoscono, e il male
è grave. Non ritengo che la trattazione metrica, almeno delle
parti drammatiche, non sia troppo ardua ne' nostri licei, almeno
per chi voglia vincere l'apatia quasi generale per questo ramo
della filologia ; per gli studenti delle Facoltà letterarie è obbligo
imprescindibile anche la conoscenza della metrica dei cori, senza
la quale non si può aver idea dell'arte greca e di che cosa fosse
veramente un dramma. 11 male però è questo, che se alcune parti
della metrica sono veramente difficili, tutta la metrica è stimata
difficile e perciò schivata : ora questa dovrebbe essere piuttosto una
ragione per affrontarla coraggiosamente. Trascurandola sin dal prin-
cipio, si corre il rischio di trascurarla sempre ; e questo pur troppo
è il caso più frequente. — Finirò esprimendo il desiderio che il
Bassi dia alle nostre scuole altri volumi, che tendano sempre più
ad introdurvi saldamente la lettura dei tragici greci.
C. 0. ZURETTI.
FL.4.VI1 losEPHi. Antiquitatiim ludaicarum epitoma edidit Bene-
didus Niese. Berolini, apud Weidmannos MDCCCXCVI,
pp. x-369.
Di Giuseppe Flavio il Niese ha da non lungo tempo pubblicata
un'ottima edizione (in sette volumi l'editio maior, in sei l'editio
minor); sicché- questa epitoma, che ora appare per le sue cure,
risulta, di fronte all'opera intera, un naturale complemento, al quale
era appunto desiderabile che il Niese stesso si dedicasse, perchè
avessimo un altro saggio della sua vasta, tranquilla e sicura attività
— 454 —
di storico e di filologo. L'edizione del Niese è fondata sulla co-
noscenza di nove mss. : Berolinensis Philippicus N. 222, Busbe-
kianus (nella bibl. imper. di Vienna) hist. gr. nro 22, Lauren-
tianus LXIX, 23, Parisinus gr. nro 1418, Parisinus gr. uro 1422,
Parisinus gr. nro 1424, Parisinus gr. 1601, Vaticanus gr. 984,
Hennebergensis (nella bibl. del Ginnasio di Schleusingen). Gli
ultimi tre danno soltanto i primi dieci dei venti libri dell'epi-
toma : fatto questo che conferma l'epitoma essere stata traman-
data in due separati libri o volumi. Fra questi mss. il Niese pose
a fondamento dell'edizione il Busbekianus (s. XIV), seguendola
anche in talune particolarità grafiche proprie non già dell'epito-
matore (appartenente al s. X o XI), ma dell'amanuense : in questo
non tutti possono dare ragione al Niese o seguirne l'esempio, trat-
tandosi di edizione. Il N. consultò poi per i primi dieci libri
l'Hennebergensis, quindi per taluni luoghi il Laurentianus e dalla
p. 265 in poi anche il Berolinensis, e quindi, sempre parzialmente,
anche il Parisinus 1601 ed oltre il sussidio del testo di Giuseppe
stesso, ricorse anche a Zonara, che dell'epitoma si valse. Il N. nella
breve prefazione discorre anche della relazione fra i mss. discesi
tutti da un archetipo unico, perchè mancatiti tutti ne' medesimi
luoghi, che già erano lacunosi nel ms. onde derivarono. 11 lavoro
fu pubblicato in tempo assai lungo, nel corso di nove anni : il
che spiega anche talune divergenze fra la prima e l'ultima parte
del volume, pel quale rammentare la diligenza e l'accuratezza
sarebbe davvero iniuria virtutum. Basti invece rimandare all'edi-
zione dell'Antiquitates senz'altro. Di una cosa però in questo breve
cenno non si deve tacere, dell'avere cioè il Niese conservato nel
testo talune forme grammaticali, che, aliene dagli scrittori corretti
ed eleganti, non solo formano un elemento di giudizio per lo sto-
rico della letteratura, ma presentano fenomeni degni di studio
pel grammatico e pel glottologo.
0. 0. ZURETTI.
Pietro Sciascia. V arte in Catullo. Studio critico. Palermo,
A. Keber, 1896, pp. 254.
Il soggetto che il signor Sciascia s'è dato a trattare è bello e
attraente-, giacché, se anche non vogliam dire con lui che la cri-
tica d'arte abbia « relativamente alle altre una maggiore impor-
tanza » (p. 246), poi che tutto importa allo stesso modo quanto
ha per fine la ricerca del vero, non v'ha dubbio in ogni modo
che essa è della critica letteraria la parte più complessa e piti
elevata. Ma è eziandio forse la meno agevole, chi voglia farla
- 455 —
compiuta e durevole; tra perchè le bisogna padronanza piena e
sicura di tutti i risultati della critica filologica e storica (e non
sempre questi risultati hanno quella base di universale o quasi
universale consenso che veramente occorrerebbe), e perchè qui più
che altrove è facile lasciarsi fuorviare dal proprio giudizio e dalle
proprie impressioni soggettive, e riuscire perciò a una critica tutta
personale, che può anche abbondare di osservazioni argute e cal-
zanti, ma non è la critica d'arte quale oggi si deve intenderla e
attuarla. Sennonché questo difetto il S. l'ha saputo evitare presso
che sempre, e se nel suo libro v'hanno delle mende, esse sono,
come si vedrà, di genere assai diverso.
Il volume è diviso in quindici capitoli. 11 primo tratta della
vita di Catullo, il secondo del rinnovamento della poesia la-
tina per opera di Lucrezio e Catullo, il terzo del realismo, il
quarto dell'arte nella poesia di Catullo, il quinto della poesia gio-
cosa ed epigrammatica in Catullo, il sesto dell'arte del poeta in
relazione con quella degli Alessandrini, il settimo delle similitu-
dini, l'ottavo dell'elocuzione, il nono del sentimento della natura,
il decimo e l'undecimo rispettivamente della rappresentazion del-
l'amore e del dolore, il dodicesimo delle relazioni del Heine e del
De Musset con Catullo; in fine il decimoterzo contiene un breve
confronto tra Medea, Arianna e Didone, il decimoquarto un giu-
dizio ragionato della morale di Catullo, e il decimoquinto alcune
considerazioni sull'importanza e l'efficacia della critica d'arte. La
materia è molta senza dubbio; ma son parecchie eziandio le di-
vagazioni che l'ingrossano senza frutto, cioè non punto necessarie
rispetto all'argomento principale del libro, e naturalmente troppo
scarse e incompiute quanto al soggetto al quale si riferiscono.
Così a proposito della parte che Lucrezio e Catullo ebbero nel
rinnovamento della poesia latina l'A. ragiona diffusamente dell'ori-
gine e dello svolgimento della letteratura in Roma, ripetendo na-
turalmente cose le quali non c'è compendio di storia letteraria
che non le dica allo stesso modo, mentre per contro più altro si
sarebbe potuto avvertire intorno alla evoluzione dell'arte nuova,
dove appunto il così detto rinnovamento catulliano sta tutto, o
quasi tutto. Così nel sesto capitolo, che dovrebb'essere consacrato
a determinare il valore artistico di Catullo rispetto ai suoi modelli
Alessandrini, il S. si rifa da capo a esporre sommariamente i ca-
ratteri della lelteratura alessandrina; e questa esposizione occupa
veramente la parte maggior del capitolo. Parimenti nel decimo,
accingendosi a discorrere della rappresentazion dell'amore nella
poesia catulliana, egli sente il bisogno di dedicare parecchie pa-
gine alla condizione sociale della donna in Roma. E gli esempi
si potrebbero accrescere facilmente. Per contro taluni capitoli ap-
paiono troppo smilzi in confronto dell'argomento al quale son de-
dicati. Ad esempio il primo e il terzo: due paginette sulla bio-
grafia del poeta e tre sul realismo dei suoi versi sono veramente
— 456^
poco. Altrove il difetto è nella distribuzione e nell'ordine della
materia : cito ad esempio il capitolo sulle similitudini, che in
cambio d'una rassegna metodica per classi e per gruppi, quale
avrebbe dovuto essere per venire a qualche conchiusione attendi-
bile, non contiene se non alquante osservazioni spicciole intorno
a quelle similitudini, che all'A. sono sembrate per particolar leg-
giadria ed efficacia più degne di nota.
Tutto ciò naturalmente non esclude che nel libro del S. non
ci sia eziandio del buono. Certo l'A. mostra familiarità grande
col testo di Catullo ; e parimenti s'è dato la briga di informarsi
(che non sempre accade in lavori di questa fatta) della « lettera
tura » del suo argomento. Non però compiutamente , e talune
lacune, massime di studi recenti, sono assai gravi : così, per non
moltiplicare inutilmente gli esempi, il S. discorre della letteratura
alessandrina senza avere notizia dei due volumi del Suseraihl, e,
ch'è piì], tratta dell'arte di Catullo in relazione con l'alessandrina
senza conoscere il noto libro del Lafaye. Spiace poi una strana
miscela di autorità vecchie e nuove, per la quale accanto, pò
niamo, al Giri e al Baehrens trovan luogo con pari credito e
peso il Foscolo e YHistoria critica di Tommaso Vallauri ! Ne
mancano le citazioni vaghe e incompiute, del genere di queste :
« V. Fontana, noiV Album Virgiliano » (p, 61); Mommsen, Storia
romana (p. 76); « Graf, Nuova Antologia. 1892 » (p. 197); e
altrettali.
Da questa imperfetta preparazione in non piccola parte anche
derivano le inesattezze che qua e là s'incontrano nelle affermazioni
stesse dell 'A. Ne spigolo qualcuna. A p. 17 egli parla dei poeti
nuovi che « prepararono il terreno ai loro successori ed anche
a Catullo », il quale « quindi è prodotto da questi poeti nuovi,
ma è l'uomo di genio dopo un seguito di poeti comuni e pe-
danti ». 0 dove sono nella letteratura romana del VI e del VII
sècolo i poeti nuovi prima di Catullo e suoi precursori ? e quali
indizi e prove ha egli l'A. della loro « pedanteria »? A p. 25 è
aflèrinato col Vannucci che Lucrezio e Catullo fecero una vera
rivoluzione poetica, tra l'altro eziandio per avere introdotto nuovi
metri. Passi per Catullo; ma che c'entra Lucrezio? A p. 120 si
dice che a tempo di Catullo « i comici erano molto apprezzati »,
e alla imitazione dei comici si ricapitano gli arcaismi catulliani.
Sennonché siffatti arcaismi, che Catullo ha comuni non pur con
Lucrezio ma eziandio con altri poeti della sua stessa scuola, hanno
in verità tutt'altra origine, e ognun sa che la scuola nuova è ap-
punto una reazione contro tutta l'arte del secolo VI, quella de'
comici non esclusa. E poi che un po' più innanzi, a p. 121, l'A.
ricorda le « molte forme antiquate comuni a Catullo ed a Lu-
crezio », bisognava almeno un cenno sulla quistione delle pre-
sunte imitazioni lucreziane, trattata dal Muiiro, dal lessen, dal
Brieger e da altri. A p. 141, n. 1 egli scrive che la donna di
— 4r,7 -
Catullo « i mio-liori critici con Of]fni probabilità ammettono eh»'
sia Clodia sorella di Clodio, e moglie di Q. Metello Celere ». È
un'affermazione che avrebbe potuto tenersi buona all'A. parecchi
anui addii'tro, ma non più ora, dopo che la controversia è stata
risollevata dai gravi argomenti addotti contro l'identità delle due
donne dal Kiese e principalmente dal Hermes; senza dire che in
un capitolo destinato a studiare la rappresentazione dell'amore in
Catullo la quistione di Lesbia meritava qualcosa più che una si
semplice e fuggevole allusione. Curioso è poi che in uno studio
critico, scritto, almen pare, senza alcuna intenzione didattica o
scolastica, l'A. si fermi a mostrare l'importanza poetica degli epi-
teti esclusivamente perchè questo ornamento non è « curato ab-
bastanza dagli insegnanti di belle lettere » (p. 112); e più curioso
ancora il concetto che egli ha degli uffìzi della critica tecnica
nell'interpretazione delle opere letterarie, facendole abbracciare,
non che la grammatica e la fraseologia, ma anche l'etimologia e
persino la fonologia (p. 245).
Torino, dicembre 1896.
L. VALM.4.GGI.
M. ScHANZ. Geschichte der romischen Litteratur bis zum Gesetz-
gebungswerJc des Kaisers Justinian (Handbuch der Massi-
schen Altertumswissenschaft hgg. v. I. VON MtiLLER, Vili).
Dritter Teil : Die Zeit von Hadrian 117 bis auf Constantio
324. Muncheu, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1896,
pp.'xix-410.
Quale sia il genere di trattazione che Martino Schanz ha pre-
scelto per la sua Storia della letteratura romana, che fa parte
dell'ottima enciclopedia di antichità classica pubblicata da Gio-
vanni Muller, è cosa ormai nota per i due primi volumi venuti
a luce rispettivamente nel 1890 e nel 1892; e ognun sa parimenti
(\\ confronto si offre spontaneo tra due opere siffatte) per quali
caratteri essa diversifichi notabilmente da quella divulgatissima
del Teuffel. Invero mentre il vai tre della storia del Teuffel, più
che nel testo, sta tutto o quasi tutto nell'apparato critico e bi-
bliografico copiosissimo, in questa dello Schanz per contro è il
testo che principalmente si raccomanda all'attenzione degli stu-
diosi, contenendovisi dello svolgimento della letteratura romana e
di tutte quante le quistioni filologiche che con esso hanno atti-
nenza un'esposizione succinta, ma accurata e compiuta e al' cor-
rente sempre dei risultati degli ultimi studi. 11 che naturalmente
— 458 —
non esclude le citazioni di fonti e testi antichi ne le indicazioni
bibliografiche, delle quali eziandio lo Schanz (enei nuovo volume
anche più largamente che nei precedenti) allega ognora almeno
Je più importanti, in misura più che sufficiente ad avviare il let-
tore a uno studio maggiore di qualsiasi punto o quesito particolare.
Solo difetto grave di siifatte indicazioni bibliografiche è il non
estendersi se non molto di rado ai lavori pubblicati fuori di Ger-
mania; benché ancora per questa parte VA. abbia accennato a
largheggiare un po' più nel nuovo volume. Ma più dovrà lar-
gheggiare, io penso, nella ristampa dei due volumi precedenti,
che egli annunzia non lontana, e che non potrà non essere accolta
dagli studiosi con molta e viva aspettazione.
Con questo terzo volume l'opera non è tuttavia compiuta, come
doveva secondo il disegno primitivo, perchè esso non giunge che
all'età di Costantino (324). Pigliando le mosse dal principio del
regno di Adriano (117), abbraccia dunque un periodo di poco più
di due secoli ; ma è dei più attrattivi della decadenza, per la
reazione frontoniana da prima e poi per la letteratura cristiana,
che appunto allora prende a diffondersi nell'occidente latino. E a
questi due essenziali momenti della storia letteraria del li e del
111 secolo corrispondono appunto le due parti fondamentali, nelle
quali lo Schanz ha nel presente volume diviso la sua trattazione.
La prima è dedicata a quella che egli chiama « letteratura na-
zionale », cioè agli scrittori pagani dei due secoli, e, premesso
un cenno generale sulla parte avuta nella coltura e nelle lettere
dagli imperatori di questo periodo, si suddivide a sua volta in
due sezioni, le quali, secondo il metodo tenuto dall'A. anche nei
volumi precedenti, comprendono rispettivamente la storia della
poesia e quella della prosa. Nella prima sezione trova luogo an-
zitutto un gruppo di poeti, quali Anniano, Settimio Sereno, Alfio
Avito e Mariano (in Filargirio, a Virg. Ecl. 1, 20), che dovreb-
bero rappresentare la scuola dei poetae neoierici o novelli di cui
è fatta menzione da Diomede e da Terenziano Mauro. A questi
segue appunto Terenziano Mauro, e a lui tengon dietro Q. Sereno
0 il qual che sia autore del Liher medicinolis, M. Aurelio Olimpio
Nemesiano, i così detti Disticìia Catonis e altre poesie proverbiali,
una serie di componimenti anonimi (Riese, Anth. Lai. n.' 718;
388^; 720; 83; 198) che VA. ascrive a questo tempo, Vespa,
Reposiano, Pentadio, Osidio Geta e una dozzina d'altri versifi-
catori di minor conto, quali T. Cesio Taurino, Giulio Paolo
(Gellio XIX, 7 1 e altrove) Modestino, i mimografi Lentulo, Ostilio,
Marnilo ecc.
Assai maggiore importanza, e per qualità di nomi e per esten-
sione di materia, ha naturalmente la sezione consacrata alla ])rosa,
che comprende in tre gruppi la storiografia, l'oratoria e la prosa
d'erudizione. Degli storiografi è a capo Svetonio, di cui l'A. con-
sidera a parte prima le opere pervenuteci e poi le perdute. A
— 459 —
Svetonio segue Floro, o più esattamente i tre Fiori, cioè lo sto-
rico, il poeta e il retore: a identificarli inclina, pare, anche lo S.,
pur facendo la debita parte alla difficoltà del nome dello storico
{luliiis Florus nel codice Bambergese, L. Anneus Floriis nel
Nazariano: la corruzione di Luci in lidi fu teste cercata di coo-
nestare paleograficamente dal Kossbaeh nella sua edizione di Floro,
p. XLiiO. 11 secondo Floro porge all'A. occasione di discorrere
anche del Pervigilium Vcneris, pur giudicando naturalmente fan-
tastica l'attribuzione che n'è stata fatta a questo scrittore. Chiu-
dono la serie degli storici Lucio Ampelio, Granio Liciniano e gli
scrittori fonti deìV Historia augusta (Mario Massimo, Giunio Cordo
e altri minori). Il gruppo degli oratori, che tien dietro a quello
degli storici, è diviso in cinque paragrafi, dedicati rispettivamente
a Frontone, Apuleio, Giulio Tiziano padre e figlio, i panegiristi
e il declamatore Calpurnio Fiacco; e quello della prosa d'erudi-
zione in quattro sottogruppi, cioè dei grammatici e metrici, degli
antiquari, dei giuristi e degli scrittori tecnici. Nel primo sotto-
gruppo trovan luogo L. Cesellio Vindice, Q. Terenzio Scauro,
Velio Longo, Sulpicio Apollinare, Emilio Aspro, Flavio Capro,
Statilio Massimo, Elenio Acrone con lo pseudo Acrone. Porfirione,
Giulio Romano, Sacerdote e Giuba; nel secondo Aulo Gelilo, Sam-
raonico Sereno e Cornelio Labeone, nel terzo, molto più numeroso,
.Salvio Giuliano, Sesto Pomponio, L. Volusio Meciano, Gaio, Q. Cer-
vidio Scevola, Emilio Papiniano, Ulpiano, Giulio Paolo, Erennio
Modestino, Gregorio, Ermogeniano e vari minori e anonimi, tra
i quali è annoverato eziandio, appartenente alla storia del diritto
pubblico romano, il catalogo provinciale del 297, pubblicato la
prima volta da Scipione Maftei nel 1742. Nell'ultimo sottogruppo,
dei tecnici, non trovan luogo se non Censorino, Gargilio Marziale
e Giulio' Solino.
Tal'è per sommi capi il contenuto della prima parte, consa-
crata, come dicemmo, alla letteratura pagana o nazionale secondo
preferisce chiamarla lo S. Non meno considerevole, anzi per esten-
sione di trattazione e di ragguagli anche più, è quella relativa
alla letteratura cristiana, senza dire che degli scrittori che essa
comprende (Minucio Felice, Vittorio I, Tertulliano, Cipriano, No-
vaziano, Commodiano, Vittorino di Pettau, Arnobio, Lattanzio e
Reticio d'Autun) parecchi sono per varie ragioni tra i più impor-
tanti del cristianesimo latino. E di ciascuno l'A, discorre con la
maggior dovizia di particolari, facendo anche la debita parte a
quelle quistioni teologiche, le quali sono più strettamente legate
alle loro opere, e per ciò appunto non possono esser trascurate,
chi voglia avere di queste, pur dal lato letterario soltanto, notizia
piena e sicura. Come ad esempio si potrebbe intendere e giudi-
care l'opera letteraria di Tertulliano senza una idea conveniente
del Montanismo? come si potrebbe intendere e giudicare tant'altra
parte di letteratura patristica ignorando i molti e gravi problemi
— 460 —
dogmatici coi quali essa ha sì immediata attinenza? Ed è vera-
mente merito non piccolo dello S. l'avere trattato questa materia
non pure con singoiar perizia e con molta dottrina, ma eziandio
non soverchiando mai quei confini che non si sarebbero potuti
violare senza danno in una esposizione, come è questa, essenzial-
mente letteraria.
Certo qualche osservazione e discussione particolare si presen-
terebbe ovvia qua e là, e qualche lacuna e omissione soprattutto
bibliografica si potrebbe segnalare; ma delle lacune non sarebbe
giusto accagionare esclusivamente l'A., poi che egli avverte che
la stampa del presente volume per cause indipendenti dalla vo-
lontà sua s'è attardata assai più che non avrebbe dovuto, e per
osservazioni particolari, che in lavoro di siffatta mole dovrebbero
essere molte e molto minute, non è questo il luogo più acconcio.
Le rimetto perciò ad altra occasione meglio opportuna; e intanto
conchiudo esprimendo l'augurio vivissimo che l'importante lavoro
dello Schanz sia per essere presto compiuto con la pubblicazione
dell'ultimo volume.
L. Valmaggi
Thukydkìes erklàrt von J. Classen. Ersi er Band. IV. Aufl. hear-
beitet von J. Steup. Berlin, Weidmann, 1897, pp. lxxiv-398.
Non ho sott 'occhio per il confronto se non la prima delle tre
edizioni c\irate dal Classen; come però questa dello Steup, lontana
dall'ultima di quasi vent'anni, sia da essa in molte parti sostan-
zialmente differente, è chiaro a chi la sfogli con discreta atten-
zione, sia dagli squarci espressamente contrassegnati da parentesi,
sia dall'accettazione o discussione dei risultati degli studi critici
di quest'ultimo ventennio. 11 volume dalla prima edizione in qua
nella introduzione diminuì un pochino di mole, ma per compenso
crebbe di molto nelle note, e più ancora nell'appendice critica, che
diventò cinque volte più estesa, ed è quasi tutta lavoro nuovo del-
l'ultimo editore.
L'IntroduziAne nella prima parte, ove si espone la vita di Tuci-
dide, è con lievi modificazioni quella stessa del Classen : diversa
affatto invece è la parte che discute la famosa questione come
Tucidide componesse le sue storie. Infatti il Classen aveva soste-
nuto, contro rUllrich, che egli avesse già preso appunti e scritta
bensì gran parte dell'opera prima della pace di Lisandro, ma che
avesse dato al tutto la for;ua e continuiti attuale nella tranquil-
lità del suo ritiro a guerra finita, e più particolarmente in questo
^ 461 -
tempo avesse composto il primo libro, corretto la guerra decennale
e la spedizione di Sicilia, inserito il periodo della eìprivri uttou\o<j
e cominciato a narrare la guerra ionico-deceleica. Lo Steup invece
riaccostandosi all'Uliricli sostiene con lui che Tucidide subito dopo
la pace di Nicia abbia dato ordine e forma definitiva alle me-
morie raccolte sulla guerra decennale con l'intenzione di raccon-
tare solo questa guerra, prima di assistere alla guerra successiva.
Oltre ai luoghi citati dall'Ullrich a sostegno di questa afferma-
zione ne adduce degli altri, cioè 1 23. 3 e 5G. 2. 11 23. 3 e 94. 1.
Ili 3. 1 e 68. 4. Dissente invece dall'Ullrich là dove questi ri-
tiene che dalla metà del quarto libro si deva ammettere un'in-
terruzione del lavoro per dieci o undici anni, sostenendo invece
che tutta la guerra decennale (fino a V 20) sia stata scritta da
Tucidide dal principio alla fine con un solo concetto e senza no-
tevoli intervalli di tempo. Per le ragioni in proposito rimanda
alle proprie Quacst. Tlmcyd. (Bonn 1868). Però ammette non
solo che il giudizio sopra Pericle (Il 65. 5) e le lodi di Archelao
(II 100. 2), ma che anche tutto lo squarcio della pentecontaetia
(I 89-118) sia stato dall'autore aggiunto piti tardi a guerra finita,
come pure i quattro cnpitoli 21-24 del libro V. Altre correzioni
ancora può l'autore aver introdotto dopo del 404, ma per le troppe
inconseguenze che restano nega però lo Steup che questa parte
sia mai stata da Tucidide regolarmente rielaborata. Per la se-
conda parte, dove l'Ullricb e il Classen e i più vanno d'accordo,
è d'accordo anche lo Steup, che la redazione ne sia stata in-
trapresa dopo il 404. Crede poi che i difetti della parte di
mezzo del 1. V si possano attribuire al fatto che per gli avveni-
menti di quei giorni, che Tucidide aveva ritenuto di poca impor-
tanza, egli avesse trascurato di raccoglier subito appunti e docu-
menti, e, che i difetti del 1. Vili si devano invece attribuire alla
morte troppo presto avvenuta dello scrittore, la quale gli impedì
pure di riordinare definitivamente la prima parte del lavoro.
11 resto dell'Introduzione fino alla fine è riprodotto dal Classen
senza alcun mutamento, che non sia la correzione di qualche er-
rore affatto materiale : tutt'al più è fatta qualche riserva nelle
note, come a proposito del sentimento religioso di Tucidide. Ne
io credo che in complesso si possa rimproverare lo Steup di essere
stato in ciò troppo conservatore, se non fosse in un punto fon'la-
mentale, quello della lingua e sintassi tucididea, la cui retta in-
terpretazione è la chiave della retta intelligenza del testo, e sul
quale sono ^tati già emessi apprezzamenti notevolmente diversi da
quelli del Classen. Non mi pare perciò sufficente lo sbrigarsene
con note come questa: « su di ciò F. Blass è d'un'altra opinione »;
ovvero : « il Blass trova che con ciò si afferma troppo » ; —
quando, per liriiitarmi a quest'ultimo esempio, la riserva è apposta
a questa asserzione, che in Tucidide il periodo costituito da pro-
tasi, apodosi e membri intermedi sia nella sua piena perfezione e
_ 462 -
d'uso comunissimo. Perocché non si può dire che quella del Blass
sia qui un'opinione opposta ad un'altra ; è la ricognizione d'un
fatto che sta altrimenti di quello che il Olassen credesse : sarebbe
stata pertanto opportuna più che una riserva una correzione. E
forse ancora sarebbe stata opportuna in proposito qualche aggiunta.
Se infatti il commento Classen-Steup è pregevolissimo sopra tutto
per la diligenza con la quale cerca di penetrare nel vero senso e
nello spirito dell'autore, periodo per periodo e frase per frase, questa
analisi sarebbe riuscita assai piti persuasiva per lo studioso, ove
nell'introduzione intorno allo stile di Tucidide si fosse fatta una
sintesi un po' più larga di quella pure così pregevole, e per i
suoi tempi abbastanza estesa, del Olassen. Dopoché il Blass aveva
già tracciata la via specialmente per le orazioni, non sarebbe stato
difficile e riassumere le conclusioni sue ed allargare in parte le
sue ricerche. Vero é, per esempio, che il Olassen accenna in qualche
luogo di sfuggita alle leggi della recita orale e alla loro efficacia
sulla sintassi ; per poco però che si fosse venuti ad un'analisi più
particolare, si sarebbe riconosciuta la falsità dell'asserzione sopra
citata sulla forma dei periodi tucididei. Quella infatti é la forma
tipica del pensiero riflesso ed elaborato a tavolino, rara affatto,
tranne nelle forme più semplici, nel parlare comune. Tucidide
invece non trovò innanzi a sé che pochi esempi di prosa elaborata
letterariamente, e tutti relativi alla pratica forense, dunque ad un
ordine determinato e ristretto di idee. Fu egli infatti il vero crea-
tore dell'arte di scrivere la prosa attica, come e più che da noi
non sia stato il Boccaccio, — perocché tra i due v'é questa ca-
pitale differenza, che mentre messer Giovanni potè torcere la lingua
dietro il modello letterario della prosa latina, Tucidide doveva
trar tutto dalla materia prima della lingua parlata e della sin-
tassi spontanea, all'infuori di che solo avea per iscorta e per esem-
plare, non sapremmo dire se più opportuno o più pericoloso, lo stile
è i ritmi della poesia, ch'era giunta al sommo del suo svolgimento.
Certamente non si scrive come si parla, né si parla come si scrive,
né questa uguaglianza in generale costituirebbe un pregio, ma un
difetto, sia per lo scrittore sia per il parlatore. Ma è certo del
pari che come adesso il buon oratore per effetto dell'abitudine e
della tradizione letteraria s'informa piuttosto alla sintassi scritta
che al parlar quotidiano, così in origine il buono scrittore di ne-
cessità prendeva le mosse dalla sintassi parlata. Ora è chiaro che
altro e ben diverso per propria natura é l'ordine conveniente ai
concetti che si sottopongono al giudizio fedele degli occhi, alla
lettura tranquilla e riposata, che può essere a piacere interrotta
0 ripresa o ripetuta in diversa condizione d'animo e d'intelligenza;
ed altro é, quando si dirigono all'impressione fuggitiva delle orec-
chie, all'audizione istantanea e non rinnovabile, prodotta in un
solo stato d'animo, non in quello che scegliamo noi, ma in quello
che è dato dall'occasione particolare. Altro é la parola che ci si
— 463 -
presenta morta e fredda nelle pagine d'un libro, ed altro è la
parola viva e recente, parlata da persona viva, nel momento del-
l'azione corrispondente, accompagnata dal tono e dall'inflessione
della voce, dalle pause, dalle sospensioni, dal gesto e dallo sguardo,
dagli atteggiamenti del volto, tutti commenti sensibili ed effica-
cissimi, da costituire quasi un secondo linguaggio, forse anche più
chiaro e più evidente del primo. Pertanto quando i concetti, che
si usavano prima comunicare a viva voce, cominciamo a volerli
fissare nello scritto, ci si parano innanzi molte e gravi difficoltà.
La scrittura riproduce solo ciò che può riprodurre, che è poco e
male ; tant'è vero che, con tutta la tradizione grafica perfettamente
conservata, non giungiamo a farci un'idea sensibile della pronuncia
dei Greci e dei Romani, né quanto al suono delle lettere, né
quanto alla durata delle sillabe, ne quanto alla tonalità delle pa-
role. La punteggiatura pure non serve che a separare i membri
del periodo secondo la sintassi più generale, ma a separarli gros-
solanamente e uniformemente, non già ad avvicinare od allonta-
nare entro ai singoli membri quelle parole che vanno avvicinate
ed allontanate, non già a mettere in evidenza quelle parole su
cui si vuol richiamare più specialmente l'attenzione. Non c'è alcun
segno che avverta fin da principio se quel periodo si svolgerà in
modo ascendente o discendente, o, tranne nella lingua spagnuola,
se sarà positivo o interrogativo. Or bene, io dico che spessissime
volte Tucidide e Platone ci riescono difficili solo perchè non li
sappiamo leggere. Essi scrivono come parlano, e il periodo loro
si svolge di mano in mano che si svolge in mente a loro il pen-
siero : non hanno architettato prima l'edificio dei loro concetti
presentandoli già freddi e messi a posto, ma li mettono a posto
di mano in mano che si presentano. In ciò essi sono ancora più
poeti che loici. Perciò il periodo di Tucidide non potrebbe vera-
mente essere chiamato con questo nome, — è come un essere vi-
vente e germogliante, e vuole piuttosto essere parlato che scritto.
Chiunque infatti si metta per la prima volta a leggere una di
quelle lunghe serie con cui Tucidide infila l'uno sull'altro i fatti
e le loro cagioni e spiegazioni, difficilmente riesce a capire qualche
cosa ; spesso anzi leggendo col senso abituato ai veri periodi re-
torici, giunto in fondo prova l'impressione come di chi scenda al
buio da una scala, che cerca ancora i gradini, quando la scala è
finita. Se invece questa serie la sentiamo leggere da uno che,
avendola capita prima, sappia modulare la voce e distribuire le
pause al loro posto, quello che agli occhi prima era parso un
guazzabuglio, ritorna per le orecchie ben chiaro e ordinato. Era
la sintassi parlata che voleva diventare sintassi scritta e non v'era
potuta riuscire, per la mancanza di segni grafici. E fu l'oscurità
proveniente da questa deficenza che contribuì poi ad eliminare
nello scrivere molte forme convenientissirae nel parlare, e a raf-
forzarne certe altre, a preparare la frase fatta, a rappresentare il
- 164 ^
pensiero nella sua ultima elaborazione e non più nel suo divenire.
Perciò lo studio della sintassi tucididea è senza dubbio il più
interessante di quanti se ne possano fare su alcun prosatore, ed
è uno studio insieme filologico e psicologico. 11 commento dello
Steup, come già prima quello del Classen, a parte a parte, convien
riconoscerlo, risponde a questa esigenza, e non solo fa notare ciò
che precisamente l'autore dice, ma anche, ove occorra, la diffe-
renza di contenuto tra la sua espressione, per noi anormale, e
quella della sintassi comune che le sarebbe più vicina; ad ogni
modo una coordinazione di questi fenomeni nell'Introduzione avrebbe
chiarito una volta per tutte molte cose e data una norma più fa-
cile dietro la quale lo studioso potesse il più delle volte adden-
trarsi nell'intelligenza del testo anche da solo.
E del pari questa determinazione della norma direttiva gene-
rale dell'ermeneutica tucididea avrebbe fin da principio levato di
mezzo anche altre difficoltà e dato al commento una maggiore
uniformità. Mi spiego con un esempio che trovo subito nel primo
capitolo. Dopo aver detto che la guerra che imprende a narrare
fu la più grande di quante furono, Tucidide prosegue: tà yàp
Ttpò aÙTUJV Kal là eii TiaXaiÓTcpa aacpilx; luèv eùpeiv òià xpóvou
TtXriGoq dòùvaia fjv, ìk be TeK|ar|piujv, iLv erri luaKpóxaTOV oko-
ttoOvtì )Lioi TTiareOaai EujLiPaivei, où laeTaXct vgmìZìuj y^vécrBai cure
Katà lOvc, TToXeiaouc; oute éc; rót àX\a. Questo periodo lo Steup
lo segna di croce come guasto. E ragiona dirittamente, rinnovando
i dubbi e le obiezioni messe innanzi da L. Herbst {Fhil. XXXVIII,
p. 538). Infatti negli avvenimenti precedenti alla guerra del Pe-
loponneso c'erano anche le guerre Persiane, e come poteva Tuci-
dide dire anche di queste où luexaXa fevécjQai ouxe Karà roùcg
TToXé|uou<; ouxe ic, xà àXXa ? Nega poi lo Steup che xà irpò aùxujv e
xà èxi naXaióxepa possano indicare due periodi di tempo, quello im-
mediatamente precedente, ed uno più antico, sopra tutto perchè non
è credibile che uno storico nella determinazioìie e. coordinazioìie
di periodi di tempo abbia usato rrpò in questo senso. Perciò mentre
l'Herbst proponeva correggere xà yòp TpujiKà Kal etc, egli crede
più probabile Tucidide scrivesse : xà yàp npò aùxuùv xà iraXaió-
x€pa. Ora quest'emendamento innanzi tutto non rimedia a nulla.
Tucidide aveva già detto espressamente che la guerra ch'egli narra
era stata la più importante di quante furono, e siccome tra quelle
che furono erano pure le guerre Persiane, dunque secondo lui fu
più importante anche di quelle, e lo dice espressamente nel cap. 23.
Oltre di ciò per noi che nello scrivere diamo il risultato della
nostra riflessione, sta bene il camminare per ordine cronologico :
questa è la guerra principale, infatti a cominciare dalle più an-
tiche venendo a noi si trova che tutte le altre furono da meno.
Ma l'associazione naturale e spontanea è piuttosto un'altra: questa
fu la guerra più importante perchè quelle che precedettero, a ri-
salir pure fino alle più antiche, furono da meno. Ora è bensì vero
- 465 -
che TÒ TTpò aÙTuJv e là èxi TtaXaiótepa non stanno in esatta an-
titesi tra loro, ma in antitesi non devono neppiir essere: là npò
aÙTuùv comprende in grenerale tutto il passato; ma non appena il
concetto è pronunciato, esso in particolare si determina per quella
parte del passato che è meno remota e che sta col presente in
continuità: ciò che si riferisce ai tempi favolosi, che è dei tutto
staccato dal mondo presente, vuol essere contrassegnato perciò con
un'espressione sua propria tò Iti TTaXaiórepa; e poiché la mente
è proceduta nella sua attenzione a questo periodo più antico, ciò
che segue ha riferimento ad esso soltanto, come suole avvenire
quando si parla. Così effettivamente Tucidide non dice delle guerre
persiane où }xe'fà\a Y^véaOai ecc., solo per essere il pensiero in
movimento, il soggetto nella fine del periodo non ha la compren-
sione stessa che aveva nel principio, il qual fatto fu anche dal
Classen riconosciuto parecchie altre volte. 11 testo dunque è sa-
nissimo, il che invece non si potrebbe dire con altrettanta sicurezza
se trovassimo scritto : xd fàp TpuuiKÒ Kaì xà èri TTaXaiórepa,
perchè nessuno aveva mai pensato che prima della guerra di
Troia ve ne fossero state altre di maggiori; ovvero xà YÒp Ttpò
aùxùjv xà TToXaióxepa perchè xà irpò aùxujv sarebbe inutile (meno
male se fosse xiJùv yàp irpò aiixujv xà )aèv TxaX.), e perchè il com-
parativo TtaXaióxepa, ancorché ammissibile, non avrebbe una ra-
gione speciale di essere.
Un'altra croce trovo al cap. 25. 4, dove si enumerano le cagioni
dell'insuperbire dei Corciresi contro i Corinzi : TTepi(ppovoOvxe<s
òè avTOvc, Kaì xP^MÓtTuov òuvdjuei òvxe^ Kax' èKcTvov xòv xpóvov
ó|uoTa xoTq 'EXXrivuuv TrXouaiujxàxoiq Kaì xrj iq TTÓXe)Liov Tiapa-
(JK€urì buvaxuJxepoi ktX. Anche qui lo Steup trova delle grandi
difficoltà per il preconcetto che buvaxLuxepoi deva governare il
tutto, cioè Kaì òvx€<; buvaxujxepoi [xOùv KopivGiojv] xP^ndxuuv
òuvà|uei (ó)LioTa joic, 'EXXrivuuv rrXoucTiujxàxoiq) Kaì xf) è^ TTÓXe)Liov
TTapaaKeufì • la quale costruzione non si presenta certo spontanea
a chi legge senza preconcetti, non foss'altro perchè XPHM- ^^v.
senza articolo e detto in generale non ha affatto l'aria di cor-
relativo di xf] iq TTÓX. TTap. con 1' articolo che ben determina
il caso particolare e attuale. No, è molto più semplice: «perchè
quanto a denaro si contavano fra gli Stati più ricchi della Grecia,
e quanto agli armamenti erano (sottinteso ripetuto òvxe?) più forti
(dei Corinzi) ». E ciò non dice affatto che fossero più ricchi dei
Corinzi, anzi fu la cura di non dir questo e di non lasciarlo sup-
porre quella che produsse la disformità fra i termini di confronto.
E a intender cosi i concetti l'uno di seguito all'altro, e non uno
intrecciato con l'altro, tutti e due sono evidenti: l'emendamento
dello Steup xpilM- ^uv. òvxeq Kax' éK. x. x- ó)aoToi Kaì etc. (omet-
tendo 'E. kX.), introduce un concetto nuovo, che nella sua rigida
determinatezza è inopportuno. Se i Corciresi erano uguali ai Co-
rinzi, questo confronto non era così atto a far che si tenessero da
liieistn di filologia, ec:., XXi'. 30
- 466 -
più di loro, quanto il credersi in generale alla pari coi più potenti.
Gli è che allo Steup piaceva cavare la gradazione ójligTg», òuva-
TUJTepoi, Kaì TToXù TTpoéxeiv, che Tucidide sentì bensì, ma non
curò di mettere in mostra a scapito della precisione dei concetti.
Spero di potere quando che sia ritornare più di proposito su
questo argomento del carattere del concepire tucidideo; per ciò che
tocca ora, questo mi pare che basti a dare ad intendere ciò che avrei
desiderato di più e di meglio in questo commento. Né insisterò
davvantaggio nella discussione di questo o quel punto, che, si sa,
è facile trovar da ridire specialmente là dove la questione non
si possa dirimere con dati di fatto, ma nasca da presupposti e
preconcetti differenti. Né è giusto nella critica insistere su poche
censure, quando piuttosto sono evidenti molte cagioni di elogiare,
ancorché per loro propria natura le lodi sien presto dette e gli
appunti richiedano spazio maggiore.
Per concludere, non solo dell'interpretazione letterale e gram-
maticale si prese cura lo Steup, ma anche di quella del contenuto,
non trascurando le disquisizioni storiche e cronologiche, e le il-
lustrazioni archeologiche, tra le quali ultime importa notare quella
riguardante l'iconografia di Tucidide e la comunicazione dello
Studniczka sull'antica acconciatura del capo in Atene.
G. Fraccaroli.
Alexander Veniero, De ìiymnis in ApolUnem homericis. Agri-
genti, MDCCCXCVII, pp. 60.
Non é ancora passato un anno dacché uscì il libro del Puntoni
sull'Inno omerico a Demetra, poderoso saggio d'ingegno e di dia-
lettica, ed eccone un altro dello stesso genere e condotto con lo
stesso metodo. Anche il Veniero infatti si propone di provare:
iotum hymnum qui in ApolUnem inscrihitiir ex iribus integris
ahsolutisque car minibus constare, quorum primum versus 1-18,
27-139, 181-206, secundum versus 19-25, 208-213, 140-176,
tertium versus 176-181, 207, 25-26, 213-304, 357-386 compre
hendere, quibus ineptus compositor, qiiae de Typhaone (vv. 305-
355 absoluta ìiaec quoque narratiuncula) enarrantur, interpo-
suisset; versus autem 388-546, ut quos alius poeta retractaverit,
sua tamen pristina ac genuina forma cum liijmno in ApolUnem
Pythium cohaesisse. E lo svolgimento del tema, se non raggiunge
la magistrale sicurezza della critica puntoniana, non le resta però
molto addietro, e, se si passa sopra a certi difetti talora gravi
di forma e a certe mende in luoghi particolari, gli argomenti non
— 467 —
sono nel loro complesso meno ingegnosi. 11 guaio è che con questo
sistema si provano troppe cose, miracoli addirittura. Si prova che i
vv. 1-18,27-139, 181-206 non solo appartenevano ad un inno solo,
ma costituivano un inno perfetto, a cui non manca nulla, di cui nulla
è andato perduto, un inno nel quale sono chiaramente riconosci-
bili tutte le sette parti del noraos di Terpandro. Si prova che
anche il secondo inno è perfetto, sebbene si possa ammettere sia
stato mozzo in principio, e per di più che doveva essere costituito
di strofe ternarie, come pure che in strofe ternarie è divisibile
lo squarcio vv. 305-55. Si prova pure che è perfetto ed intero
anche il terzo inno e che questo è costituito di strofe quinarie.
Troppe cose!
Sarebbe una scoperta ben fortunata questa specie di critica,
se veramente approdasse a qualche altro risultato sicuro, oltre
quello di provare l'acutezza del proprio ingegno. Pare invece
piuttosto una ginnastica acrobatica, pericolosa quanto meravi-
gliosa, bella se l'artista si mostra sicuro, penosa assai se fa
cenno tratto tratto di scivolare. Anche questa ginnastica però
entro certi limiti può essere utile, ed io persisto a credere che
nel libro del Puntoni ci sia più buona messe di quello che non
sia parso al Weil, che pur ne discorse con tanta dottrina e tanto
buon senso nel Journal des Savants. Infatti che sia proprio av-
venuta una contaminazione, come vuole il Veniero, senza che delle
opere originali se ne perdesse nulla o quasi nulla, senza che il
contaminatore v'abbia aggiunto un'idea propria, ne abbia sfigurato
0 alterato sostanzialmente i versi e i concetti dell'originale, questo
pare molto difficile a persuadersi ad alcuno. Il Puntoni però non
era andato tant'oltre, e ammettere, com'egli fa, che un antico inno
fosse stato ampliato con frammenti di altri inni, non è in se cosa
impossibile né strana. Gli è che la via è sdrucciolevole, ed è dif-
fìcile non lasciarsi andare fino al fondo. Se infatti questi fram-
menti costituiscono ciascuno un'unità, perchè si deve rinunciare
anche a questa scoperta ulteriore? E se non la costituiscono così
come stanno, poiché si sa che devono essere stati spostati e mano-
messi, perchè non sarà lecito riunire le sparse membra e rimet-
terle al loro posto? Ma il debole dell'argomento sta in questo,
che come si prova una ricostruzione, cosi ne sono state provate
delle altre, e se ne possono provare delle altre ancora, ed oltre
di ciò, che se c'è genere d'arte ove la troppa logica disconvenga,
è proprio questo sopra di ogni altro. Parecchie osservazioni in-
fatti che fa il Veniero sono giustissime e lodevolissime secondo
il nostro modo di concepire attuale, ma non hanno che fare col
concepire del poeta antico. Per esempio, comincia il Veniero dalla
critica di alcuni singoli passi e dalla esclusione del v. 152
oc, tòt' èTTavTiàaei' or 'Idoveq à8póoi eiev.
— 468 -^
Questo verso era sospetto al Groddeck ed al Matthiae per la
cattiva lezione dei codici, raa poiché con emendamento lievissimo
(di o'ì in òq) quanto sicuro fu sanato dall'Ilgen, non pare ci debba
essere piìi alcuna ragione di stare in sospetto. Ma, dice il Ve-
niero, dopoché il poeta sei versi prima ci aveva detto
è'v6a Toi éXKexiTUJve? 'Idoveq riTepéOoviai,
e per sei versi aveva continuato a descriverci quest' adunarsi degli
Joni, non è aifatto superfluo e golfo ripetere ancora lo stesso pen-
siero? Sarà, ma nulla è più comune nell'epopea antica di queste
superfluità. La ragione vera dell'espungere il verso non è questa,
ma appare più oltre; la ragione vera è che questo verso turba
la partizione in strofe ternarie che il V, si era proposto. Meglio
però turbare questa partizione che il senso. Infatti anche ad ac-
cettare il V. 151 come il V". lo riforma
cpairiq k' à9avdT0U(; kqi àyripujq è'|LiM€vai avòpa?,
con l'emendamento tollerabilissimo cpaÌTi(; (non già (pairi?, come
il V. stampa) e la cattiva variante dvbpaq, come si collega questo
col V. 153? In nessun modo: infatti il v. 153 ha di nuovo la
terza persona
TTdvTuuv TÓP Kev iboiTO xàpw, répiyaiTO òè 0u|ióv.
Similmente dicasi del v. 297
viéec, 'EpYivou, q)i\oi àGavàioiai GeoTcJiv.
Se Trofonio e Agamede aveano tanti meriti verso gli Dei, non
è inutile aggiungere che erano cari agli Dei? Sarà benissimo,
ma a togliere via ciò di cui si può far senza, si corre rischio di
toglier via il più. A me però questo verso pare tutt'altro che
inutile, perchè rende ragione dell'opera dei due fratelli: lavora-
vano alla fabbrica del tempio, perchè erano amici degli Dei, non
perchè vi fossero costretti. La ragione vera dell'ostracismo anche
qui pare dunque la stessa di prima, cioè che questo verso turba
la distribuzione quinaria. Lo stesso dicasi dell'espulsione del
V. 241, perchè offre Trpoxéei KaWippoov uòiup non faccia altro
che ripetere il KaWipéeGpov del v. 240; che di tali ripetizioni o
spiegazioni si trovano esempi a dovizia anche nei poemi omerici,
per es. 11. IX. 143: oc, |uoi TriXuYexo^ rpécpeTai GaXiri evi TToWrì.
XVI, 468-fi9: 6 b' e'Ppaxe eujuòv àiaGuJV... òtto b' eiTTaTo Gu|aó<;.
XIX, 34fì : àK|urivoq Kaì dTraaTOc^. Od. II, 65-66: irepiRTiova^
àvGpuuTTouq, 01 TTepivaiexàGuai, ecc. ecc.
Gli emendamenti che il V. introduce sono quasi sempre inge-
gnosi ed appariscenti, ancorché anche questi assai dubbi. Meglio
— 469 —
riuscirono quelli che non nacquero da un preconcetto già fisso, —
come quello del v. 862 da
qpoivòv dTTOTTveioua' • ó ò' èTreùSaio OoiPof^ 'AnóWuuv
in
Foi vuv àTToevn<JKOu0r) inevEaio Ooipo? 'AttóWujv,
la qual mutazione, non però necessaria, almeno servirebbe a to-
gliere via ogni difficoltà. Buono assai e con molta apparenza di
vero è pure quello del v. 29 in è'v9ev dTTopvù)uevoq uà6i Qvx]-
ToTo'iv àvaacei, da èvGev — àvàaae\q ; Infatti l'interrogazione ri-
presa a dieci versi di distanza, anche nello stato attuale del testo,
riesce dura e niente affatto naturale: però trasponendo, mutando,
levando e aggiungendo versi, chi sa poi più trovare il bandolo
della lezione originale? Chi ha già prestabilito l'ordine che vuol
dare ai versi, ne adatta facilmente la lezione a quell'ordine, ma
ciò è rifare, non interpretare. E quando ci si mette a rifare, en-
triamo in pelago senza bussola, e ciascuno va per suo conto. Ci-
terò un ultimo esempio. Il V. espunge i vv. 480-83: Apollo
parla ai naviganti cretesi che l'aveano portato sulla nave in forma
di delfino sino a Crisa, e dice loro che non torneranno più a Creta,
V. 478,
dX\' è'vBaòe iriova vr|òv
eEer' é|Liòv, TToXXoTai T6Ti|uévov dv9puuTroi(Tiv,
e\\x\ ò' èfùj Axòc, vióc,, 'AtcóWujv ò' euxonai eivai •
v^éac, ò' fìYOixov dvGàò' ÙTièp }Jiéfa XaiTjaa GaXàffariq ,
ouTi KttKà qppovéujv, dXX' évGdòe iriova vrjòv
eEex é|uòv, ndaiv ladXa TÌ)uiov dvGpuuTTOiaiv,
pouXdc; t' dGavdTuuv eìòricyeTe, tuùv ìÓTr|Ti
aìeV Ti|uriae0G6 òia|LiTTepè(g riMciTa Trdvra.
Qui ciascuno dee convenire che i vv. 482-83 non possono stare;
non solo infatti ripetono ciò che dicono i vv. 478-79, ma ripetono
anche le stesse parole ; una tale ripresa non è infatti ammissibile
se non dopo un lungo intervallo, e perciò o cadde in mezzo uno
squarcio, o questi due versi vanno cassati. Necessari invece sono
i vv. 480-81, senza dei quali manca l'essenziale, e i Cretesi non
avrebbero saputo con chi aveano l'onore di parlare. Ma li lascie-
remo lì dove sono? Se li smoviamo dal loro posto, si possono
tanto mettere in principio del discorso, dopo il v. 474, quanto
anche dopo il v. 485, quanto dopo il 486. Insomma per questa
via si potrà andar molto avanti nel distruggere, ma si va poco
avanti nell'edificare.
11 Veniero non è nuovo agli studi filologici, e già pubblicò
pregevoli lavori sopra Epicarmo e sopra Callimaco, e quanto il suo
ingegno sia acuto e originale, lo dimostra il presente lavoro, il
quale, non ostante i suoi difetti, nella letteratura degl'inni ome-
— 470 —
rici conserverà a lungo un posto segnalato. Non vorrei però egli
si mettesse su una via senza uscita, e perciò a me, che l'ebbi già
caro e valente discepolo nell'Università di Palermo, parve non
soltanto lecito ma doveroso fargli notare questo pericolo e richia-
marlo, finché è ancora in tempo di rimettersi sulla via buona, più
lunga bensì, ma però sicura dai precipizi e dalle paludi.
G. Fraccaroli.
Homeri Opera et Beliquiae, recensuit D. B. Monro, M. A. -
Oxonii, e typographeo clarendoniano, MDCCCXCVI, pp. iv-1039.
È un bellissimo volume comodamente tascabile, stampato con
caratteri nitidi e facilmente leggibili, poiché la mole del libro la
si cercò attenuare con l'estrema sottigliezza della carta, e non già
con la coartazione dei tipi. Comprende l'Iliade, l'Odissea, gl'Inni,
la Batracomachia, i frammenti omerici e quelli del ciclo epico.
Il testo adottato é, quale doveva essere, strettamente ma non
pedantescamente conservativo. Infatti là dove si può chiarire il
proprio concetto con note o con illustrazioni, si concede all'editore
di adoperare quei principi di critica che gli paiono più opportuni;
quando invece si presenta il nudo testo, non c'è più libera scelta,
ma bisogna seguire solo quelle norme che tutti sono d'accordo a
riconoscere per vere. Non poteva pertanto pensarsi, e non si pensò
infatti, alla restituzione dell'antica ortografia, poiché se è certo
che l'ortografia primitiva dei poemi omerici non é quella che ci
presentano le nostre fonti, é più certo ancora che non si può rico-
struirla in modo uniforme senza introdurre insieme delle muta-
zioni gravissime. Perciò furono lasciate stare le forme distratte
dei verbi in duj, non fu introdotto nessun digamma, né per un
presunto digamma fu mutata alcuna parola: cosi restò, A. 21,
Aiòq uiòv éKriPóXov 'AnóXXujva e non uTa FeKriPoXov, e A. 76,
ToiYàp èrùjv épéiu e non ctùj Fepéu). La lezione prescelta é per-
tanto quella più accreditata dalla tradizione scritta e dalle mi-
gliori testimonianze della critica alessandrina. Dei 41 luoghi del
libro I dell'Iliade, in cui Aristarco e Zenodoto discordavano, solo
per tre (v. 42 liaeiav, 260 \j|aTv, e 434 ùqpévie^) è preferita la
lezione di quest'ultimo, e per gli altri tutti quella d'Aristarco,
la quale pure il più delle volte concorda con la volgata dei co-
dici: dove poi Aristarco discorda dalla volgata, più spesso é pre-
ferita la lezione dei manoscritti, ancorché anche delle buone le-
zioni aristarchee sia tenuto il debito conto, come di kc KÓiauj al
- 471 -
V. 168. Non però so approvare l'aTreipova per oivona del v. 350,
né il piriv per piri del v. 404 (tanto più che in f. 193 è accet-
tato in identiche condizioni il KeqpaXfì dei codd. in confronto del
K€cpaXfiv di Aristarco), le quali paiono non già varianti ma più
verisimilmente congetture vere e proprie di Aristarco, come già
il Cauer cercò di mostrare {Grundfr. der Homerkr. p. 30-31).
Non occorre del certo che io mi dilunghi su ciò, poiché il testo
dell'Iliade non é che la riproduzione di quello già adottato dal
Monro per la sua edizione col commento inglese, come quello del-
l'Odissea è la riproduzione dell'edizione del Merry con poche va-
rietà, anche questa condotta con gli stessi principi direttivi.
Per gl'inni invece fu presa per base l'edizione del Goodwin, ma
fu ricorretta da T. W. Alien, il quale aggiungendo una breve
annotazione fece di questa parte una vera edizione critica: per
tal modo fu resa possibile qui una maggior libertà nel segnare
le lacune e le superfetazioni più notevoli, e nell'introdurre dei
supplementi assolutamente necessari per dare un testo leggibile.
L'ordine dato agl'inni non è il più comune, cominciandosi dal
codice di Mosca e perciò dal frammento dell'inno a Dioniso, cui
segue l'inno a Demetra (l'editore non fu a tempo di conoscere il
libro del Puntoni); vengono poi gli altri nella solita schiera: nel-
l'inno ad Apollo al v. 179 comincia anche una nuova numera-
zione dei versi, a indicare il principio dell'inno ad Apollo Pitio,
secondo parve al Euhnken.
Per la Batracomachia la prefazione avverte essere stato tratto
molto giovamento dagli studi del Ludwich; il testo del Ludwich
invece {Die ìwmer. Batrachomachie des Karers Pigres, Leipzig
1896) usciva contemporaneamente a questo libro, e non potè perciò
essere usufruito. E fu una disgrazia. Infatti il Ludwich ebbe a
riconoscere non essere del tutto retto l'apprezzamento ch'egli stesso
aveva altra volta manifestato sui codici di questo poemetto, e solo
in questa edizione egli riuscì a dare di essi una coordinazione
abbastanza sicura. Non si fa perciò torto alla dottrina del Monro,
se si deve osservare che la lezione da lui scelta spesse volte non
è quella più accreditata: egli non aveva ancora i mezzi di rico-
noscerla, poiché mancava un apparato critico sufficente. Così egli
stampa v. 1 irpuÒTov MoucrOùv per TTpujTri<; 0eXibo(;, v. 10 irpo-
créGriKe per napéGriKe, v. 19 àveepeipato per ttot' èTeivaTO, v. 20
nap' òxQac, per rrap' òx9ai(; e così via. Non si vorrà certo asserire
che la lezione dei codici più autorevoli sia sempre la migliore;
sempre però vi devono essere delle buone ragioni quando la si
voglia posporre ad un'altra, e qui manifestamente non furono le
ragioni ma il caso a determinare la scelta. Certo se il libro del
Ludwich fosse uscito un anno prima, anche il Monro, serbando
fede a' suoi principi di critica, ci avrebbe dato della Batracomachia
un testo notevolmente diverso. Ad ogni modo l'imperfezione di
queste poche pagine (che sono affatto le ultime e si potrebbero,
— 472-.
volendo, facilmente sostituire) nulla toglie ai molti pregi di tutto
il resto del volume, destinato a esser caro tanto agli studiosi,
quanto agli amatori dei libri belli, comodi ed eleganti.
G. Fraccaroli.
Handbuch der Idassischen AUertums-wissenschaft, herausg. von
Dr. Iivan von Miiller. Atlas zu Band VI : Archciologie
der Kunst. Miinchen, Beck, 1897.
Al bel volume del Sittl sull'Archeologia dell'arte pubblicato in
questa raccolta nel 1895 era sul frontespizio accompagnata la
promessa d'un atlante che doveva contenere 450 incisioni. La
promessa venne mantenuta e il debito pagato con lauti e straor-
dinari interessi, poiché le incisioni, da 450 che dovevano essere,
salirono a toccare il migliaio. — Queste mille incisioni poi se-
condo il frontespizio dell'atlante dovrebbero essere divise in 64 ta-
vole ; la prefazione però avverte che le tavole effettivamente
sono 66, e viceversa poi le tavole numerate sono 27, e QQ) invece
sono, non le tavole, ma i fogli in cui sono divise.
L'Atlante segue il testo e ne illustra, si intende, la parte sto-
rica, non la parte tecnica e propedeutica, dai primordi dell'arte
giù giù fino all'arte bizantina : accanto alle singole figure sono
notate le pagine del testo cui devono riferirsi, a cominciare dalla
pag. 430, dalla quale appunto ha principio l'esposizione della storia
dell'arte. Soltanto la fig. 1 esce da quest'ordine e rappresenta una
caverna presso Tetin in Boemia, la quale, quand'anche fosse rap-
presentata chiaramente, non essendo opera d'arte, non vedrei con
la storia dell'arte quale interesse potrebbe avere.
La distribuzione delle incisioni ha gli stessi pregi e gli stessi
difetti di quelli che ha la distribuzione della materia nel testo,
con questa differenza che, essendo gli occhi più fedeli testimoni
delle orecchie, le stonature qui si presentano più evidenti e più
urtanti. Forse indotto dall'analogia della distinzione chiara e netta
tra le statue arcaiche e le arcaizzanti, il Sittl pensò di distin-
guere del pari le opere originali del quarto e del quinto secolo
e le loro imitazioni e riproduzioni dell'epoca romana. Ma l'ana-
logia è un principio nel campo dell'arte molto pericoloso, perchè
molto spesso una differenza materialmente leggera costituisce effet-
tivamente un'assoluta diversità sostanziale fra l'un caso e l'altro.
Le opere infatti che il Sittl classifica come eseguite alla maniera
0 secondo i concetti {im Sinne) del IV o del V secolo, non sono
libere creazioni ma copie, le quali, mancandoci le opere originali,
- 473 —
vengono di necessità in loro sostituzione, e solo al posto di queste
hanno senso e ragione di essere nella storia dell'arte, — per cosi
dire, come le loro riproduzioni moderne hanno pregio, non come
creazioni nuove, ma solo in quanto sono immagini più o meno
fedeli. Non potevasi perciò affatto, senza lasciare lacune enormi,
condurre la distinzione alle sue ultime conseguenze ; donde una
confusione grandissima; e parte delle riproduzioni, senza che si
capisca il perchè della scelta, furono lasciate ancora accanto agli
originali, parte furono raccolte in questi nuovi aggruppamenti,
nei quali perciò si trovano l'uno accanto all'altro monumenti di
carattere tra loro del tutto diverso, secondo le diverse scuole che
i singoli imitatori prendevano a contraffare.
I disegni sono molti, più del doppio di quanti ne erano stati
promessi, e per la massima parte riproducono opere d'arte plastica
(scarsi e manchevoli sono i monumenti architettonici), ma la qua-
lità non è in proporzione della quantità. Meglio sarebbe stato
mantenere le proporzioni prima stabilite e dar dei disegni migliori.
Delle metope di Selinunte si può farsi un'idea sufficente anche
con una rappresentazione dozzinale, ma che cosa sia l' Ermes di
Prassitele e quale perfezione lo contraddistingua dalle riprodu-
zioni delle altre opere prassiteliche, nessuno certo può giungere
neppure a indovinarlo dalle fig. 5 a e 5 & della tavola XI e.
G. F.
G. F. ScHOEMANX, Griechische AltertìUimer, vierte Auflage, neu
bearbeitet von J. H. Lipsius. Erster Band, Das Staatswesen.
Berlin, Weidraann, 1897, pp. viii-(300.
Le scoperte di quest'ultimo decennio avevano resa troppo anti-
quata la classica opera dello Schoemann, della quale tra il 1855
e il 1871 s'erano fatte già tre edizioni. Fu perciò opportuno con-
siglio quello del Lipsius di curarne il rifacimento, il quale co-
minciato nel 1891 fu subito interrotto a metà, non senza buona
fortuna, che così rese più agevole il buon uso degli studi recenti
sui documenti poco prima trovati. Era naturale pertanto che mag-
giori 0 minori dovessero essere le novità introdotte in conformità
dei nuovi materiali, e che perciò la prima parte del libro rima-
nesse sostanzialmente la stessa. Le mutazioni qui sono piut-
tosto alla superficie che nel corpo dell' opera, sieuo esse dati
0 notizie nuove, come per esempio a p. 3 sui Pelasgi, a p. 89
sugli avanzi Micenei, sieno mutazioni di vedute, come a p. 29
sui due talenti del processo rappresentato nello scudo d'Achille,
sieno dubbi tolti, come a pag. 76, sulle abitazioni dei principi
— 474 —
nel tempo eroico chiarite dagli scavi di Tirinto, sieno anche cor-
rezioni, come a pag. 232, sulla condizione civile dei coloni man-
dati dagli Spartani, e a p. 236 sulla pretesa nuova partizione dei
terreni per opera di Licurgo. Ma quando siamo alla metà del vo-
lume si può dire che l'opera in alcuni punti è sostanzialmente
cambiata. La scoperta delle Leggi di Gortina per la costituzione
Cretese, le altre scoperte epigrafiche e quella della iroXiTeia di
Aristotele per la costituzione Ateniese, chiarirono, aggiunsero e
corressero tante cose da poter dire che su questi punti la storia
civile della Grecia antica dev'essere tutta riveduta. In questa se-
conda parte sta dunque la novità ed il pregio di questo rifaci-
mento, e la nuova vita del vecchio lavoro. Pertanto poiché noi
possediamo dell'edizione precedente la bella traduzione italiana di
Rodolfo Pichler, sarebbe per la gioventìi nostra studiosa un re-
galo intero con fatica meno che mezza, se altri anche da noi si
accingesse a svecchiarla sopra questo nuovo rifacimento.
G. F.
T. Lucretius Carus, de rerum natura. Buch III, erklàrt von
Richard Heinze. Leipzig, Teubner, 1897, pp. vi-206.
È questo il 2" volume della Raccolta di commentari scientifici
agli scrittori greci e romani che il Teubner ha ora intrapresa.
Dell'importanza del lavoro è già questo un segno, che mentre il
testo del poeta non occupa che le prime 30 pagine, il commento
continua per 170 pagine di formato grande e fittamente stam-
pate. E non si può dir già un commento prolisso o diffuso; che
anzi l'Heinze è studiosissimo della brevità scientifica, e da nulla
più rifugge che dall'acto agere. Ond'è che molte volte o omette
senz'altro di dare spiegazioni o entrare in discussioni, oppure si
contenta di accennare a qualche diversa sentenza altrui — ad una
tra parecchie — magari per semplice allusione, e brevemente e
recisamente so ne sbriga; così che non sempre riesce abbastanza
chiaro a chi non abbia presenti per conto proprio le antecedenti
discussioni. S'aggiunga che l'A. considera (si vede chiaro) come
parte secondaria del suo ufficio il trattare le questioni d'interesse
puramente filologico, ed anche questioni di critica del testo, quando
non abbiano importanza speciale in ordine al pensiero. Per questo
rispetto, anzi, non si scorge bene quale criterio l'abbia guidato
nella scelta, perchè certi passi o parole abbia creduto meritevoli
d'illustrazione filologica o critica, e in altri casi sia passato oltre.
L'ampiezza del commento viene da ciò, ch'esso è in ispecial
modo inteso a illustrare il filosofo, anziché il poeta. E ciò sotto
— 475 —
due rispetti ; uno piuttosto esteriore, uno interiore. Sotto il ri-
spetto che ho detto esteriore, noi dobbiamo essere ^rati alTHeinze
del numero grandissimo di passi di scrittori antichi ch'egli ha
raccolto nel suo commento, in aggiunta ai già noti, intorno alle
questioni lìlosofìche trattate nel 111 di Lucrezio. Di passi vera-
mente nuovi, ossia che apportino nuova luce sui punti controversi,
0 inducano a conclusioni nuove, non credo che ce ne sia, e nep-
pure che ce ne potrebbero essere. Giovano però questi supplementi
dell'Heinze o come conferma del già noto, o perchè allargano al-
quanto la vista dei rapporti o delle coincidenze della dottrina
epicurea con altre dottrine, degl'influssi che ha esercitato, anche
nel campo del pensiero non strettamente filosofico, o che ha sen-
titi da pensatori anteriori. Nel rispetto interiore, lo stesso Heinze
definisce il compito di un commentatore di Lucrezio in questo
senso: ch'ei debba anzitutto illustrare il contenuto filosofico del
poema, giovandosi naturalmente di quel tanto o poco che del si-
stema di Epicuro noi sappiamo per altre testimonianze; di seguire
pertanto nel suo svolgimento l'argomentazione lucreziana, mo-
strando anche dove essa sia per avventura deficiente; e poiché
si tratta di opera d'un poeta, e in altra lingua da quella del
filosofo maestro, di saggiare la lingua del poeta, se e quanto abbia
saputo interpretar fedelmente, e se e quanto poi il poeta abbia
tenuto l'ufficio suo di dare poetica unità al complesso e poetica
espressione alle singole parti. Chi scrive queste righe non può che
approvare di tutto cuore un siffatto concetto dell'ufficio che ora
incombe a un editore e dichiaratore di Lucrezio, poiché è sostan-
zialmente il medesimo concetto che egli ha avuto più volte oc-
casione di manifestare — anche in questa stessa Rivista qualche
anno fa — e al quale è principalmente informata la sua edizione
di Lucrezio. Egli spera, anzi, che questa sua condizione personale
gli concilierà il perdono del lettore, se nel breve esame che ora
farà di alcuni punti del libro dell'Heinze, non potrà sottrarsi alla
tentazione di parlare anche di sé.
L'Heinze premette al commento una introduzione, in cui espone
la psicologia epicurea, in quanto almeno ha riferimento al III libro
di Lucrezio. Piacerai incontrar fin dalle prime righe affermata
una tesi, che finora credevo d'ess-er quasi solo a sostenere, cioè
« che Lucrezio insegna la dottrina di Epicuro del tutto pura, o
per lo meno così crede d'insegnarla ». E non meno posso appro-
vare ciò che leggo poco dopo — giacché è pure il pensiero mio,
contro l'opinione più generale — che « Epicuro ha scritto la let-
tera a Erodoto colla massima cura, pesando ogni parola » riuscendo
per altro oscuro, perchè egli si dirigeva a dei lettori ai quali la
sua dottrina era già famigliare (1).
(1) Ciò posto, m'è anche lecito credere che l'Heinze non converrebbe col
Brieger, il quale (Bursian, Jahresbericht 1896 p. 181 sgg.) non accettando la
— 476 —
Passando ora sopra a qualche osservazione incidentale — p. es.
se si possa affermare così recisamente come fa l'Heinze, che l'aver
noi scarse notizie sopratutto intorno alla psicologia epicurea, di-
penda da ciò che « tutte le questioni psicologiche puramente teo-
retiche per Epicuro erano questioni indifferenti {galten fiir un-
wesentlich)»: il che mi par contraddetto dalla prima parte del III
di Lucrezio — veniamo alla psicologia epicurea stessa. L'Heinze
fonda la sua esposizione sulla interpretazione d'una parte dei pa-
ragrafi stessi di Epicuro nella lettera ad Erodoto (§§ 63-66). La
interpretazione e la dichiarazione è per molti punti buona (a mio
giudizio) e conforta quella che ho data nel mio studio Psicologia
epicurea (v. la mia edizione di Lucrezio, che l'Heinze non conosce,
nella raccolta Loescher; voi. 1, p. 208 sgg.). Qua e là, per altro,
io discordo. Mi riesce strano a cagion d'esempio che l'Heinze nelle
parole (63) è'an òè tò luépoc; TroX\ir)V TiapaWaYriv eìXrjcpòq ti]
X€TTTO)aepeia Kaì aÙTUJV toutluv (v, il citato voi. I, p. 208 sg.)
non voglia che Mepoq significhi una parte dell'anima, ma l'anima
intera come parte dell'uomo; e come possa negare l'evidente riferi-
mento di aÙTUJV TouTuuv alle parti dell'anima già nominate con
7TveO|ua 6ep|uo0 riva Kpacfiv e'xov, e voler che si riferiscano al
solito caldo soffio che s'incontra in natura. Non discuto; prego il
lettore di guardare il passo, lo non dubito che con quelle parole
Epicuro accenni alla 4=* essenza dell'anima.
Riguardo alla quale, per altro, noto che l'Heinze (p. 41) con-
sente pienamente con rao nella questione che è principalmente
discussa nella mia Psicologia epic. (che l'H. non conosce che in-
direttamente), vale a dire, che la 4* essenza è insieme coll'altre
parti dell'anima diffusa per tutto il corpo. Mi fa piacere di poter
dire: non son più solo; siamo in due. Ma per quanto unitario,
non credo probabile coll'Heinze (p. 63) che Epicuro neppur distin-
guesse 0 nominasse il voOq come parte della mjuxh : non c'è da
fondarsi su quella specie di cliassez-croisez che i due termini
animus e anima fanno in Lucrezio, or l'uno or l'altro or tutti
e due insieme significando or l'una or l'altra parte dell'anima or
tutta l'anima. La ragione dell'imbarazzo di Lucrezio sta in ciò,
che, non avendo egli adottato di tradurre (e si capisce) i due ag-
gettivi XoYiKÓv e dXoTov, l'ambito significativo de' suoi due ani-
mus e anima non corrispondeva ne a quello dei due aggettivi, ne
a quello di voOq e qjuxn : e neppur poteva dire p. es. mens e
anima o cousilium e anima, come termini fissi, perchè non esau-
rivano latinamente la psiche.
A pag. 36 (senza necessaria connessione coU'argomento) l'Heinze
dimostrazione da me tentata, che il testo della lettera a Erodoto ci sia per-
venuto in condizione di gran disordine e lacunoso, considera il disordine
come intrinseco alla lettera e lo attribuisce alla grande negligenza di Epi-
curo scrittore.
— 477 -
tocca la questione dei coniuncta e eventa, au)LipePriKÓTa e aujuTT-
TiJU)uaTa. Nel mio studio coniuncta e evenia (voi. cit., p. 27 sgg.),
ho cercato di mostrare che i due termini non distinguono già,
come in generale si crede, i caratteri essenziali di una specie di
cose dai caratteri non essenziali , ma i caratteri fisici tutti , pei
quali una cosa è quella cosa, dagli attributi che indicano rap-
porti, condizioni, eventi di quella cosa (p. es. se uno è ricco o po-
vero). Il Brieger, nella già citata ed estremamente cortese recen-
sione delle mie cosucce lucreziane, non accetta la mia spiegazione,
per ragioni che non posso qui riferire e confutare. Ma l'Heinze
fa le mie vendette. Egli non conosce quel mio scritto; egli posa
ancora sul concetto delle qualità essenziali o non essenziali, ed è
logicamente trascinato a scoprire che, per Epicuro, nell'uomo il
corpo non è coniunctum ossia un elemento essenziale, ma un eventum,
ossia un costituente non essenziale — e certo non si può pensare
nulla di più antiepicureo! Vero è che egli non scrive proprio che
il corpo per Epicuro è un eventum o au|urrTUJ|aa (credo che la penna
gli si sia ribellata in mano) ; ma poiché Epicuro definisce il cruiuPe
prjKÓ? come un àiòiov TtapaKoXouBoOv e il au)aTTTuj|Lia come un oùk
aibiov TTapaKoXou6o0v, e l'Heinze conclude che il corpo umano è
dell'uomo un oùk ai'biov TrapaKoXouOoOv, è come dire che il corpo
è per l'uomo un 0"ù|UTTTa))Lia, un eventum.
È questo, del resto, un esempio del come l'Heinze, in mezzo a delle
buone e utili indicazioni per l'interpretazione filosofica di Lucrezio,
non rifugga talvolta da recise affermazioni che fanno qualche sor-
presa. Ecco un altro esempio (e ora non siamo più nell'introdu-
zione, ma nel commento). Come seconda prova della estrema pic-
colezza delle minime particelle dell'anima e del tenuissimo suo
tessuto, dice Lucrezio (208 sgg.) che se l'anima tutta quanta diffusa
per tutto -il corpo si potesse conglomerare, si ridurrebbe a una cosa
minima, impercettibile ; come ne è prova il fatto che appena da uno
è uscita l'anima, il morto non appare diminuito in nulla alla vista
— ad speciem — in nulla nel peso. Lucrezio, si noti, non fonda
qui la sua conclusione sul fatto della rarezza dell'anima, ossia della
distanza tra particelle d'anima; che da ciò verrebbe soltanto la
conseguenza che l'anima è fatta di pochissima materia, non ne
discenderebbe ancora la piccolezza grandissima delle particelle (sia
pure, che la possibilità dello stato aeriforme dipenda appunto dalla
piccolezza delle parti : ma ciò, nell'argomento attuale non è ne pro-
vato né sottinteso). Lucrezio vuol dire: se voi*p. e. condensate lo ster-
minato numero di particelle minime d'aria, che riempiano una stanza,
allo stato solido, non avete che un minuscolissimo corpicino ; un egual
numero di particelle minime di ferro, parimente condensate, vi danno
un corpo notevolmente maggiore, perchè le particelle stesse di ferro
sono notevolmente più grandi delle aeree; or dunque, se, quando un
corpo così grande come l'anima, invadente tutta la persona, è sot-
tratto alla persona, la diminuzione della persona è affatto imper-
- 478 —
cettibile alla vista e al peso, vuol dire che lo sterminato numero
di particelle d'un'anima darebbero, condensate, un corpicino d'una
piccolezza impercettibile, e che le particelle stesse sono quindi
d'una minutezza estrema (1). Ora ecco la nota dell'Heinze a quel-
l'afa speciem: « Poiché atomi d'anima ci sono anche alla super-
ficie, alla extima memhrorum caesura, 219, del corpo, colla morte
anche questa extima menibr or uin caesura dovrebbe mutarsi [cioè:
apparir mutata, se la spiegazione ha da avere un senso] se, ap-
punto, gli atomi dell'anima non fossero così piccoli». Quasiché
il distacco dalla extima circum caesura di atomi molto maggiori
degli atomi d'anima dovesse esser percettibile ! Anzi non c'è forse,
secondo Epic, una continua, invisibile, dispersione di atomi di ma-
teria corporea dalla superficie del nostro corpo? Non fosse altro,
gli idoli per cui slam visti! È balordo per noi l'argomento di
Lucrezio; ma d'una ragione come quella che Heinze regala a Lu-
crezio — cioè a Epicuro — avrebbero riso anche gli antichi polli
attici.
Ma lo spazio tiranno mi dice : ad altro. Due parole di volo in-
torno alle note di carattere filologico o estetico. Non sono abbon-
i
(1) Ho preso l'occasione di spiegar qui questo argomento, perchè mi è
sfuggito di farlo nel mio commento del 111 libro, che dorme ancora, stam-
pato, in casa dello stampatore, in attesa che sia finito di stampare anche
il libro IV. — Del resto io ho qui evitato l'espressione atomi, e ho detto
particelle minime, perchè credo che anche qui si dimostri da Lucrezio la
minutezza estrema, non degli atomi dell'anima, ma delle particelle minime
aventi già i caratteri della sostanza (o delle sostanze) anima (ben inteso,
che questa implica la estrema minutezza degli atomi componenti, e ne di-
pende). Io ho espresso altrove (in Appendice allo studio Atomia) l'opinione
che in più luoghi dove si crede che Lucrezio parli di atomi (e lo crede
magari Lucrezio stesso), si deve invece intendere di molecole. 11 Brieger
(nella citata recensione) si ribella a questo concetto della molecola importato ,
nel sistema epicureo, e io non sono punto convinto delle sue obiezioui. In- 1
tanto aggiungo anche questo luogo di Lucrezio come richiedente quel con-
cetto: non tanto questo secondo argomento, quanto il precedente 179 sgg.
cerco nel mio commento di dimostrare che non ha alcun senso (dato il moto
atomico epicureo) se non s'intende di molecole d'anima. Ma anche in questo
secondo argomento la tennis textura ha da riferirsi alla estrema minutezza
delle particelle (non atomi) d'anima. Confrontiamo infatti IV 183 sgg. LJi
dice Lucr. che le cose fatte minutis corporibus sono anche velocissime :
fin qui possiamo intender minuta corpora = atomi; poi cita ad esempio
luce e calore, che sono e primis facta minutisi e ancora possiamo credere
priìna = atomi; ma ecco che segue: quae (prima) quasi cuduntur perqne
aéris tntervallum non dubitant transire sequenti concita plaga: e allora
non sono più atomi, che per correre non hanno bisogno di alcuna spinta !
E infatti continua Lucr.: suppeditatur enim confestim lumina lumen,
«giacché continuamente si seguono molecole di luce a molecole di luce ».
E chiaro che questi lumina inseguentisi sono ancora i prima minuta ; ed
è non meno chiaro che atomi della luce non possono essere chiamati lu-
mina, perchè gli atomi — salvo peso, grandezza e forma — non hanno
nessuna delle qualità delle cose che essi compongono. Ecco dunque un altro
caso di molecole, e una tennis textura molecolare, non atomica : e tale sarà
anche la tennis textura III 209.
— 479 "
dantissime, come s'è detto: o per lo meno, molte di quelle che
ci sono fanno sentire il desiderio di altre. Ce n'è delle assai fine
e interessanti, come p. es. alcune che si trovano in una pagina
sola (49), dove è bene spiegata la ragione poetica per la quale
Lucrezio in nessun proemio indica Epicuro col suo nome; e la
ragion poetica dell'arcaico ficta{v.4); e il valore tecnico, nella
poetica latina, di imìtari, che è un rinunciare all'originalità nella
materia trattata, ma non nella elaborazione artistica (cfr. la dram-
matica). Anche la poca convenienza di quasi caput al v. 138, è
fatta rilevare giustamente. E così via.
Talora però non si può convenire coll'autore, o la finezza arriva
all'artificiosità. Non riesco p. es. a capire la nota a v. 135, dove
è detto che habeant è da distinguere da sibi habeant, perchè questo
significa « se lo tengano per sé » e quello « facciamo come loro
piace ». Al V. 57 è detto che vox in Lucr. non significa mai, come
tanto spesso in altri, Ausspruch o Aeusserung, ma sempre la voce
in senso fisico; e così anche qui verae voces sono « gli involon-
tari suoni della verità ». Intende forse i semplici suoni emozio-
nali? È evidente che Lucrezio dice: «nelle disgrazie gli uo-
mini tradiscono (e non con semplici interiezioni !) i loro veri pen-
sieri e sentimenti ». In 364 l'H. non vuol credere al gioco di
parole lumina luminihus {lumina occhi, luminihus luce) — eppure
c'è molti esempi , più dei citati dal Munro — e intende quindi
d'una pili viva luce esterna che offuschi la interna luce degli occhi;
e cita Galeno per una simile dottrina (e poteva citar dell'altro;
cfr. p. es., Diels, Boxogr. p. 403 sg.); ma è del tutto fuori della
dottrina epicurea l'attribiiire agli occhi una lor propria luce.
Toccando da ultimo della critica del testo, non posso che ap-
provare, in genere, l'indirizzo conservatore dell' Heinze. Si può
dissentire ,nei particolari, ma l'importante è che resti sbandita
quella velleità emendatrice del Lachmann, contro la quale non
hanno abbastanza reagito il Bernays e il Munro. Piìi e più volte
consento dunque coli' Heinze; e in alcuni casi il consenso m' è
particolarmente confortante, come p. es. in 661 (663 H.) che l'Heinze
legge come leggo io; nel molto tormentato luogo 356-358 dove
l'Heinze legge e spiega come leggo e spiego io (già nella citata
mia recensione dell'ediz. Brieger), o in 804-817 (argomento della
mia Postilla Lucreziana), che l'H. pure conserva. Non è invece
fondata la sua opposizione alla bella restituzione del Brieger spi-
carumque, v. 198 ; e non è un guadagno la sua emendazione ante
liac in 967 (969 H.) per mss. ante Jiaec, ed è sottigliezza ecces-
siva quella che non gli fa comprendere in 1037 sgg. Bemocritum
matura vetustas admonuit memores mentis motus ìanguescere, e
quindi emendare col Bentley: Democritus.
E se qui l'H. non è, a mio giudizio, abbastanza conservatore,
lo è. poi troppo in altri casi. Certe equidem mss. in 1076 è mal
difeso contro la correzione di tutti certa quidem (mors), ch'egli
— 480 ^
trova addirittura antiepicureo. Già Vequidem è più che improba-
bile; e certa niors vuol dire « morte sicura » e non già una morte
di cui sia tìssato il giorno e l'ora e il modo. — In 700 è difeso
mss. dispertiiur contro la emendazione comune disperUtus; e il
verso diventa così uno strascico di cui non si può immaginare il
più inutile e ingrato. — Anche la difesa di mss. Tìam (corr. iam)
in 428 è infelice; e l'H. stesso deve conchiudere che l'argomento
manca di perspicuità, e deve poi trovare in 440 sgg. un argomento
sussidiario. — Sforzi eroici fa l'H, per difendere mss. snadet
in 84; egli si fonda sopra una osservazione molto fina: che, cioè,
può bensì riguardare il suicida per timor della morte Vohlivisci
fontem curarum liunc esse iimorem, ma non già (VohUvisci) ìiunc
vexare piidorem^ Jiunc vincula amiciiiai rumpere et pietatem ever-
tere. Ma chiunque legga sente che l'anafora hunc... Jmnc... hunc....
è infrangibile; e aggiungi che in summa = denique non si trova
altrimenti in Lucrezio. La incoerenza si spiega da ciò, che Lucr.,
dopo scritto obliti col suo primo oggetto {hunc timoreni esse fontem
curarum) ha dimenticato il soggetto di obliti e v'ha sostituito in
pensiero gli uomini in genere. Di simili inavvertite sostituzioni
in pensiero ne ho rilevate parecchie nel mio commento a Lucrezio.
Ma il più segnalato esempio di tradizionolatria nell'Heinze è
la sua teoria che l'ordine dei versi di tutto quanto il Jll libro,
quale c'è arrivato nei manoscritti, è l'ordine con cui sono usciti
dalle mani di Lucrezio; che non c'è spostamenti, non lacune
(salvo una a 619), non aggiunte seriori (salvo 803?) non doppie
redazioni; e la teoria deve anche valere in genere per tutto il
poema. Che nel 111 libro, e segnatamente nella serie delle prove
contro la immortalità dell'anima, gli spostamenti e le intrusioni
non sieno in così gran numero come s'è da altri sospettato, è cosa
nella quale pienamente convengo; ma la teoria assoluta dell'Heinze
lo costringe a dei tours de force, che sono la migliore confuta-
zione della teoria stessa. È chiaro che 613 sgg. e 728 sono proprio
la ripetizione dello stesso argomento; l'H. nega, e trova questa diffe-
renza, che in 613 sgg. si combatte la possibilità della postesistensa,
in 782 sgg. la possibilità della ^reesiSife/?^» dell'anima al corpo.
Io, per quanto aguzzi la vista, questa differenza non la vedo; vedo
anzi che nel secondo argomento, quello che dovrebbe combattere la
preesistenza, la conclusione 796 sgg. (798 sgg. H) — nella ediz.
dell'H., come in tutte le altre all'infuori della mia — suona : Quare,
corpus ubi interiit, periisse necessest Confiteare animam distractam
corpore tato. — E appunto anche di questi due versi si occupa
l'Heinze. lo ho mostrato (nella citata recensione dell'ediz. Brieger)
che non hanno nulla a che fare qui, e appartengono a un argo-
mento anteriore; ora l'Heinze rincalza la mia dimostrazione che
i due versi son qui del tutto fuor di posto, conchiudendo poi, che
però Lucrezio, che li aveva scritti per altrove, li ha voluti lui
trasportar qui; e ciò per una ragione che l'H. dice evidente, ma
— 481 —
che io confesso di non esser riuscito ad afferrare. — E per 86(<
(861 H.) sgg. conviene che fanno immediatamente seguito a 840
(842 H.): ma non per questo ha da essere aggiunta seriore ciò che
c'è di mezzo (841-859); l'H. non vede qui che uno dei soliti esempi
della Compositionsart di Lucrezio (quale?). — Conservati, come
s'è visto, 804-816 (806-818 H), è evidente la lacuna avanti 817 ,
perchè manca la conclusione di 804-816, e manca il sogg. di
817; Heinze non vuol lacuna, perchè dice che l'una e l'altra cosa
si sottintendono facilmente. E neppure vuole la lacuna, subito
dopo, tra 821 e 822 (823 e 824 H.), giustificando la discontinuità
del discorso con un anacoluto, lo prego il lettore di vedere il passo.
Ometto per brevità, altri esempi; ma questi bastano a provare
la curiosa fissazione dell' Heinze , mentre pure già il Lachmann
aveva luminosamente provato che, quanto a ordine e continuità,
Lucrezio è morto lasciando il suo poema in uno stato di grande
imperfezione. Provi l'Heinze ad applicar la sua teoria anche agli
altri libri, e veda se le forze gli reggeranno.
Con che non esprimiamo soltanto un consiglio: un sunàcìist
della sua prefazione par promettere che 1' Heinze ci darà altri
commenti di libri lucreziani. Noi lì aspettiamo con vivo desiderio.
G. GlUSSANI.
F, Oscar Weise. Les caracfères de la langue latine. Traduit de
l'allemand par Ferd. Antoine. Paris, Klincksieck, 1896, di
pp. v-295.
Non è più il caso di annunziare come una novità il libro del
Weise, che, pubblicato fin dal 1891 e accolto con meritato favore
nel mondo filologico, è noto agli studiosi che possono valersi di
libri scritti in tedesco. Solo, a chi non è di questo numero, ad-
ditiamo la recente traduzione dell'Antoine, condotta con modifi-
cazioni opportune pei lettori francesi e possiamo ben dire anche
pei lettori italiani. Nel libro del Weise non si trova proposto e
discusso nulla di nuovo, ma esposto con garbo e sobrietà, e so-
prattutto con piena conoscenza della materia, quanto è ormai
acquisito alla scienza per ciò che riguarda lo stile latino. Il Weise
divide tutta la sua trattazione in quattro capitoli. Nel primo,
dopo aver parlato delle leggi generali che governano i mutamenti
d'una lingua in relazione coll'indole del popolo che la parla, egli
passa a discorrere del carattere dei Romani, i cui tratti essenziali
si riflettono nella lingua, e appunto nella fonetica, nella flessione,
nella sintassi, nel vocabolario e nel significato di un certo numero
Rivista di filologia, ecc., XXV. 31
— 482 —
di parole che ci rivelano dei lati caratteristici del pensiero romano
e il modo come i Romani concepivano la vita. Il secondo capitolo
tratta della lingua latina in relazione alla civiltà romana. L'au-
tore vi espone con grande perspicuità come dai primi rozzi ten-
tativi d'un'arte dello stile in Catone si giunga alla perfezione
dell'età ciceroniana e si passi alla degenerazione dei tempi suc-
cessivi all'età augustea. 11 terzo capitolo comprende l'esame della
lingua poetica, prendendo come punti di partenza le qualità essen-
ziali dello stile poetico, ossia : la bellezza, la chiarezza, la natu-
ralezza, la libertà d'espressione, e quest'ultima in quanto si ma-
nifesta nell'ordine delle parole, negli arcaismi e nei neologismi.
11 quarto capitolo ha per oggetto la lingua popolare, e qui l'A.
accenna alle differenze essenziali tra la lingua letteraria e quella
del popolo, considerando prima quelle dovute alla tendenza natu-
rale del popolo ad agevolare i proprii mezzi d'espressione, nella
fonetica come nella flessione e nella sintassi ; poi quelle risultanti
dallo sforzo, pur naturale, di rendere chiare ed intelligibili le
espressioni attinte a lingue straniere. Tocca infine l'A. di certe
particolarità dello stile popolare, nelle quali si manifesta e si
afferma l'anima e lo spirito del popolo.
La trattazione del Weise, com'è dotta, così può dirsi in gene-
rale obbiettiva e imparziale ; mi pare tuttavia che, mentre egli
riconosce i lati più simpatici del carattere romano, qua e là esa-
geri alquanto l'inferiorità artistica dei Romani in confronto dei
Greci ; tendenza questa, propria oggidì della critica tedesca. Se
infatti una tale inferiorità è, parlando in generale, innegabile ed
era sentita dagli stessi Romani, non si dà forse abbastanza peso
a quello che i Romani crearono di originale o almeno trasforma-
rono secondo il proprio genio sì nel campo delle lettere (satira,
elegia), come in quello delle altre arti. Certo che, per es., l'ar-
chitettura in Roma ebbe per fine principale l'utilità pratica, ma
essa prese tale sviluppo, da farci dubitare assai di ciò che il Weise
afferma troppo assolutamente a pag. 10 : « Les Romains n'étaient
pas doués pour les arts ni pour la science ». Inoltre, egli non
distingue forse troppo esattamente nei poeti romani ciò che è ef-
fetto del sentimento da ciò che è un prodotto dell'arte rettorica ;
difetto anche questo comune ai critici tedeschi. In verità, non so
come si possano mettere ad uno stesso livello Virgilio ed Ovidio,
e scrivere (pag. 207, nota) che « l'exposition des combats qui se
livrent dans l'àme de Didon chez Virgile ou de Médée chez Ovide
peuvent rivaliser avec les suasoriae »; sebbene nessuno neghi che
anche in Virgilio non si faccia sentire la rettorica ; ma in misura
quanto minore che in Ovidio !
Nonostante tali tendenze, a mio vedere, non del tutto buone,
che qua e là fanno capolino, il libro del Weise sarà senza dubbio
consultato con molto profitto dai nostri studiosi delle facoltà uni-
versitarie (giustamente avverte il traduttore che non è fatto
— 483 -
per le scuole secondarie), specialmente di quelle facoltà in cui il
latino s'insegna ancora, seppur s'insegna, con criterii antiquati ;
così potranno orientarsi nel leggere e giudicare gli scrittori latini.
Questa traduzione francese può benissimo servire, come ho già
avvertito, anche per noi italiani. Aggiungerò che il traduttore ha
intercalato di suo nel testo parecchie aggiunte quasi sempre op-
portune. Non a tutti invero sembrerà tale quella a pag. 15, dove,
colla trascrizione di alcuni versi greci e colla loro traduzione in
prosa francese e tedesca, si pretende di dar un esempio delle dif-
ferenze fonetiche delle singole lingue.
A. Cima.
RelUquiae philólogicae : or Essays in comparative Fhilology hy
the late Herbert Dukinfield Darbishire, edited hy R. S.
Conway, with a hiographical notice hy J. E. Sandys. Cam-
bridge: at the University Press, 1895, di pp. xvi-279.
Si tratta di una pubblicazione postuma, come si rileva dal ti-
tolo, nella quale si è voluto raccogliere quanto di edito e di ine-
dito, di compiuto e d'incompiuto lasciò il giovane glottologo
(poiché sono quasi tutti scritti glottologici e non filologici nel
vero senso della parola) H. D. Darbishire colpito da morte nel-
l'età di trent'anni il 18 luglio 1893. Ed il libro è appunto diviso
in due parti, di cui la prima comprende gli scritti editi, e si
suddivide in « Originai Essays and Notes » (pp. 5-115) e « Se-
lections from Occasionai Writings » (pp. 119-145), mentre la
seconda abbraccia gli scritti inediti col titolo di « Unpublished
Essays in the Theory of Philology (noi diremmo « Glottologia »)
and in Indo-European Phonology ». Per dire subito di questa
seconda parte, lo scritto più ampio, che, cominciato nel 1891,
era stato compiuto nel mese stesso in cui l'A. morì, è quello sulle
Liquide nel sanscrito (pp. 199-264). Ma alcuni frammenti, come
p. e., quello sull'origine del linguaggio (pp. 156-159), quello sulla
culla degli Arii (« The Cradle of the Aryans » p. 170 seg.), sono
quasi insignificanti, e solo fanno fede di importanti problemi che
il giovane glottologo avrebbe trattato, se gli fosse bastata la vita.
Quanto alla prima parte, non sarà inopportuno darne qui l'in-
dice : 1. Originai Essays and Notes already published : 1) The
Numasios Inscription. 2) On the text of Tac. Ann. I. 32. 3) Notes
on the Spiritus Asper with Addenda. 4:) hdX. òmentum. 5) On the
meaning and use of èniòéSioq, èmbéEia: ivòihxoq, èvòéEia. 6) On
the Indo-European words for Fox and Wolf. 7) On the forra Ka-
Taa^maai , Herodas v. 39. 8) Some Latin etymologies {altus ,
- 484 —
colo, tubar, numen, scio). II. Selections from Occasionai Writings:
1) From a notice of Wharton's Eiyma Latina. 2) From a notice
of Fennel's Indo-European Vowel-System. 8) Abnormal Deriva-
tions (aggiunta al num. 1). 4) Frona a notice of Sweet's English
Grammar. 5) The Gottingen School of Comparative Philology.
Un indice di parole in fine del volume comprende le seguenti
sezioni: A. Sanskrit. B. Zend. C. Armenian, D. Greek. E. Latin.
F. Oscan. G. Keltic. H. Teutonic. I. Balto-Slavic.
Leggendo gli scritti di questa prima parte ho notato parecchie
osservazioni e conclusioni del D. delle quali si sarebbe dovuto tener
conto in lavori posteriori agli studi in cui sono esposte. Per esempio,
non vedo che sia stata presa nella considerazione che meritava
la derivazione di Carmen da "^cas-i-men, messa avanti come non
improbabile dal D. e dichiarata colla supposizione « that synco-
pation took place after the change from s to r between vowels »
(p. 129) e col richiamo della spiegazione Brugmanniana di verna
da *ves-itià (cfr. Griindriss, li, § Q^, p. 137) giudicata pure
come verosimile dallo Stolz {Hist Gramm., § 279, p. 281). Ma
il Pascal, che ne' suoi Saggi italici (a. 1896) si occupò con molta
dottrina dell' etimo di Carmen (p. 12 segg.), anche trascurando,
come fa, quella ipotesi, la quale forse potrà essere combattuta,
avrebbe dovuto rispondere alla grave obiezione che alla ipotesi di
Carmen da ^can-men aveva fatto il D. quando in proposito osser-
vava (p. cit. — È lo studio intitolato Abnormal Derivations
tolto dal num. dell'aprile 1892 della Class. Rev.): « Now as the
word [carmen'] occurs twice on the fragraents of the XII. Tables
which are preserved — and we know how carefully these were
cherished — is it likely that a form *canmen if such had existed
would bave been so completely displaced by the new-fangled
Carmen (in the middle of only the second century B. C.) that
Varrò should know no better than to derive carmen like Camena,
from *cas-men ? » Di fatto il D., combattendo il Wharton, aveva
osservato che se mai "^canmen esistette, « must bave existed
later than the time of Plautus » (p. cit). Il Ceci poi, ne' suoi
Appunti glottologici (a. 1892) spiegando il passaggio di s in r in
Carmen da casmen come effetto di legge fonetica latina, non co-
nosceva l'ipotesi emessa dal Conway ( Verner's Late, p. 14) e ci-
tata come non improbabile dal D., « that accentuai laws retained
the r (^)»; ma questa ipotesi del Conway risulta pure affatto igno-
rata dallo Stolz che (Op. cit., § cit., p. 282) si riferisce, per la
teoria dell'influsso dell'accento, soltanto al Ceci, disapprovandola
senza addurre motivi.
Cito un altro esempio. Il D. nel breve scritto On the deriva-
tion of lat. « òmentum » (p. 63: cfr. Class. Rev., giugno 1890)
notava come, in conformità della legge di Thurneysen, il causativo
*oweó (cfr. monco, qpopéuj) diventò aueo. Ora è strano che di
questa ipotesi, secondo me accettabilissima, nò lo Stolz al § 101
— 485 —
(p. 114), ne il Lindsay (in The Latin Language, cap. IV, §§ 17
e 19, p. 234 seg.), abbiano tenuto conto, mentre pure citano,
p. e., caveo per *coveo := gr. Ko(F)éuj. Ma se ne ricordò Lionel
Horton-Smitb che nel suo studio Establishment and Extension
of the Laiv of Thurneysen and Havet (inserito nel voi, XVI del-
V American Journal of Fhilol., n. 4, dicembre 1895), cita l'ipo-
tesi del U., e nota inoltre (p. 452) che ììveó da *oyeo si può
comparare a fdveò da '^ fovea di cui tratta nella pag. prec. È vero
invece che lo Stolz ha accettata, citandola nei Nachtrage alla
Hist. Gramm. a pag. 638, la spiegazione, data dal D. (cfr. p. 114),
di iuhar da *dHi-bhas- (la quale parve anche accettabile al Ceci
in Nuovo contributo alla fonistoria del latino, p. 28); ma lo Stolz
stesso non avrebbe, cred'io, dovuto passare sotto silenzio (e lo stesso
silenzio hanno tenuto il Lindsay tanto in Op. cit. quanto in A short
historical Latin Grammar, Oxford, 1895, e il Giles in A short
Manual of Comparative Philology, London, 1895) la seducente
etimologia di scio data dal D., il quale, dopo aver giustamente
notato che -io diventa -io dopo cons. nel verbo, aggiungeva trovarsi
in se- una forma debole della rad. segh-, che abbiamo nel scr. sah
e nel gr. eaxov, per cui scio significa originariamente « io tengo,
impugno », « I grasp », come dice il D. E tanto più credo che
non sia da disprezzare questa etimologia, in quanto io osservo
l'uso latino del verbo ieneo nel significato di sapere, quello che
prese appunto scire, come pure l'unione non infrequente dei due
verbi. Cfr. Plaut., Capt., 697 seg. ed. Leo: nunc ego teneo, nunc
scio I quid hoc sitnegoti; Cist., 613: iam scis? Mei. Teneo istuc
satis; I>-m., 666 seg.: scio te sponte non tuapte errasse ....atque
ipso Amoris teneo omnis vias; Cic, prò Mur., 9, 22: ille tenet
et scit, ut hostium copiae, tu, ut aquae pluviae arceantur, ove a
torto C. F. W. Miiller sopprime et scit che è pure citato in questo
passo da Quintiliano IX, 3, 33.
Insomma questo volume, in parte postumo, del valoroso glotto-
logo inglese merita davvero di essere studiato da chi è rivolto
alle indagini linguistiche nel campo greco-latino, siccome fece
anche ultimamente nella sua monografia Xepóq, iepó<; Ipó^ (cfr.
The Journal of Fhilologij, voi. XXV, n. 49, pp. 131-145), C. M.
Mulvany che prese in esame, pur non approvandolo, ciò che il
D. lasciò scritto sulla etimologia di quelle forme (cfr. p. 40 seg.
delle Relliquiae) derivando ipói; da un rad. vi, per cui *Flpóq
sarebbe divenuto Tpó(j, e l'aspirazione, non che la quantità del i
sarebbe poi passata a xepóq proveniente dalla rad. is (cfr. scr.
isirds), mentre, a sua volta, da Ì€pó<; avrebbe ìpóq avuto il suo
accento. Certo questa osservazione del D. sul passaggio della aspi-
razione da ipó^ a ìepóq (lapóq) sarebbe accettabilissima; ma il
guaio sta nello spiegare la derivazione di ipó?: per il che, non
convincendomi del pari la controipotesi del Mulvany (da una forma
- 486 —
*a\-póq che non vedo abbastanza chiarita), credo che sia tuttora
un problema da risolvere l'etimologia di ipóc;, sia che la si con-
sideri affatto distinta da quella di ìepóq, come parmi sicuro, sia che
colla stessa radice si vogliano spiegare entrambe le forme, spie-
gazione questa la quale urta contro difficoltà di vario genere, tanto
più che, come nota il Mulvany, contro la possibilità dell'essere ipóc,
e lepóq forme differenti della stessa parola sta il fatto che lo stesso
dialetto, il ionico, le ha entrambe, poiché ipó<; occorre cosi in
iscrizioni come nella letteratura (op. cit., p. 138); ne si risolve la
questione dicendo col Ceci {Appunti citi, p. 25) che ipó<; è « un
vero e proprio eolismo »; che il lesbico Tpo(; non ha, come par
che ritenesse il Ceci, l'aspirazione forte, della quale è noto che il
lesbico manca affatto (vyiXouaK;): onde rimarrebbe sempre un mi-
stero lo spirito aspro e dell'una e dell'altra delle due forme (1).
Messina, 29 maggio 1897.
Ettore Stampini.
(1) Non ho alla mano la recentissima edizione della Griechische Gram-
matik di Gustav Mnyer: ma dall'analisi fattane dal Bartholomae in Woch.
fur klass. Phil., 1897, No. 23 (cfr. anche P. Kretschmer in Beri. phil.
Woch-s 1897, No. 22) appare che il Meyer non abbia modificata la deriva-
zione, indicata al § 94, p. 109 seg. della 2» ediz. (Leipzig, 1886), di {pó(;
da *{a pó-^ 0 "lo-pó-^ con rimando airOsthoff(Af orp^. Unters., IV, p. 149.
— 487 —
RASSEGNA DI PUBBLICAZIONI PERIODICHE
Revue des études grecques. Pubìication trimestrielle de
l' Association pour V encouragement des études grecques, IX,
n°' 35-6 Juillet- Décemhre 1896. Anciens Présidents de l'Associa-
ti on, p. XXXVII, Membres du bureau pour 1896-97, Membres du
Comité pour 1896-97, p.xxxvm; Membres Donateurs, pp.xxxixxLv;
Liste generale des Membres au !<"■ novembre 1896, pp. xlvi-lxvi;
Sociétés correspondantes, p. lxvii ; Périodiques, p. lxviii ; Prix dé-
cernés dans les concours de l'association (1868-1896), pp. lxix-lxxi;
Prix décernés par l'Association dans les Lycées et Colléges (1896),
p. Lxxn. — M. HoLLEAUX, Un décret du KOI NON des villes de
Troade, pp. 359-370 [Restituzione di un' epigrafe trovata da
Ph. Legrand e da esso pubblicata nel Bulletin de correspondance
hellénique, 1893, p. 550. L'iscrizione comprende 21 linea, nella
parte giunta a noi ; manca il principio e la fine delle varie linee
e r H. le completa : il documento è mutilo alla sua fine. Vi si
loda un figlio di Zopirò, agoranomo, e il popolo di Parion, elo-
giati dai cTuveòpoi o rappresentanti delle città formanti una con-
federazione di cui era parte Parion, quella della Troade ; la pa-
negyris menzionata dall'epigrafe era in onore di Athena Iliade,
alle cui feste era assicurata la presenza di un medico]. —
G. MiLHAUD, La geometrie grecque considérée comme oeuvre per-
sonelle du genie grec, pp. 371-413 [Ci sono parecchie geometrie —
intuitiva e logica, euclidea e non euclidea — è opera dei Greci
la geometria speculativa, che resero dimostrativa e logica e idea-
lista senza troppo allontanarsi dalla intuizione naturale — diflté-
renze dalla geometria moderna, più vasta, e dall'egiziana, emi-
nentemente pratica: l'indirizzo dimostrativo rimonta al VII secolo].
— P. FoucART, Corrections à une inscription attique C. 1. A li,
772\ col I (IV, 2, p. 189), p. 414 [Da un calcolo il P. dà i passi
non restituiti dal Lolling]. — W. R. Paton, Inscriptions de Cos\
Cnide et Myndos, pp. 415-423 [Epigrafi trovate da G. Kalesperis,
8 a Cos, 3 a Cnido, 2 a Mindo : psefisma in onore di Diofanto,
altro per proscenia, dedica di una statua a Dioniso a nome degli
imperatori Severo e Antonino, una iscrizione mortuaria (distico),
frammenti di decreti e di epigrafi funerarie — l'iscrizione 9 è la
più antica che si abbia di Cnido |. — Th. Reinach, Une épi-
gramme funéraire de Vile de Rhodes, pp. 424-6 [tre distici pieni
di reminiscenze omeriche pel giovine AacpvaTocs, morto a 14 anni;
cfr. Anth. Pai. VII, 328 : è del 111° o 11° s. a. G. - seguono
- 488 —
altri 4 fr. epigr., fra i quali il penultimo faceva parte di un
catalogo di vittorie agonistiche]. — Th. Barnaud, Note sur une
inscription de Pergame, pp. 427-32 [in Friinkel, Inschr. v. Per-
gamon, 1, 224: si illustra la 2* parte (11. 17-21) — l'anobascia-
tore il cui nome non appare nell'epigrafe è Andronico, che andò
a Roma, sotto Attalo II: l'iscr. riguarda la 1* ambasciata di lui :
ciò contro il Frankel]. — P. Jouguet, Épitaphe d'un grec d'É-
gypte, pp. 433-6 [esametri eroici, ma con molti errori metrici, in
onore di Eubio figlio di Andromaco, morto a 25 anni. Ignoto il
personaggio, ignota l'età in cui visse]. — H. Lechat, Bulleiin
archéologiqiie, pp. 437-481 [Scavi, Questioni Micenee, Arti (Ar-
chitettura, Scultura, Pittura, Ceramica e Vasi dipinti, Oreficeria):
vi si parla anche di una statua di Agamennone (Monaco), del
trono di Amicle, dell'Apollo di Pompei, di una statua di bronzo
trovata a Delfo (di Polizelo fratello di Gelone e lerone di Sira-
cusa), dell'Ares Borghese, della Niobide di Subiaco, di Erma-
frodite allo specchio, della Diana di Versailles, di un ritratto di
Mitridate, dell'Hera Ludovisi]. — Actes de l'Association. —
Ouvrages offerts à l'Association. — Additions et Corrections. —
Indice, p. 483-4.
Hermes, Zeitschrift filr classische Philologie, herausgegeben
von G. Kaihel und C. Robert, voi. XXXII, fase. 1., a. 1897.
W. Dittenberger, Antiphons Tetralogien und das attische
Criminalrecht, pp. 1-41 [Continuazione del voi. XXXI, p. 271.
Dimostrato che le tetralogie antifontee non sono fonti sicure per
il diritto attico, l'A. procede alla riprova per quanto concerne
l'omicidio involontario év à9Xoiq e nella difesa della propria per-
sona, per ràTTeviauTi(J)uóq o confisca di un anno sui beni dell'o-
micida, per la testimonianza degli schiavi, per coloro che nei
processi tòv òììiugv èHriTrdTncyav, per la Tpot^^'ì lepoauXiaq (= t-
k\ott»ì<; lepujv xPTmóiTUJv), questioni tutte male fondate sulle ora-
zioni antifontee, in contraddizioni coi testi di epigrafi e di altri
oratori. Queste contraddizioni non si possono spiegare supponendo
che l'oratore badasse alle legcri di altra città, non di Atene; le
tetralogie non si adattano ne ad Atene ne ad altra città ; è in-
certo se ciò avvenga per intenzione o per ignoranza. In seguito
all'esame di fatti giuridici, grammaticali, lessicali, l'A. conclude
che le tetralogie furono composte in Atene, alla fine del tempo di
Pericle o meglio durante la guerra del Peloponneso, da persona pro-
veniente da paese parlante lo ionico]. — R. Wuensch, Zur Text-
gescliichte der Germania, pp. 42-59 {h' exemplar Bamhergense del
Lipsius non è il K del Massmann, ma è non più conosciuto. Segue
una breve collazione della Vulgata^ del Bambergensis, delV Arunde-
— 489 —
Zmnws (anch'esso irreperto). 11 Bamhergensis risulta affine all'Arun-
deliano. Sono poi esaminati il Vaticano 1862 (A), il Neapolitano o
Farnesino (C), il Vaticano 1518 (D), il Vaticano lat.2964, l'Ottobo-
iiiano lat. 1795,ilParisinoll80 ignoto finora, affine al Veneto, i quali
formano un gruppo speciale ; un altro gruppo è formato dal Lau-
reuziano plut. 73,20, Romano Bibl. Angel. S. 4. 42, Urbinate 412.
Dall'esame dei mss. e da una notizia del Fontano risulta che il
manoscritto padre di tutti i rimanenti venne alla luce dopo il 1457,
e nel 1458 fu usato da Pio II]. — E. Thomas, Zu Dionysios von Ha-
liharnass iiber die alien Iledner, pp. 60-67 [Isocrat. cap. 16 (p. 570)
nel Laurenziano plut. 59, 15 e nell'Ambrosiano D, 119 e Isocr.
de pac. § 12: spiega in modo diverso la tradizione manoscritta:
ANAPACAITOYCAElTAOeiH — ANAPACAITOYCAGHAGeiN].
— G. Thiele, Zu den vier Elementen des EmpedoJcles, pp. 68-78
[ed. Stein, vv. 33-5. Una pergamena nel cod. 2600 della biblioteca
di corte a Vienna, s. XII, rappresenta simbolicamente i 4 ele-
menti, aria e fuoco come maschili, terra e acqua come femmi-
nili : il disegno è riprodotto e spiegato col confronto di altri di-
segni, che si debbono ricondurre ad un comune tipo antico, per
cui si esaminano monumenti dell'antichità classica]. — J. van
DER Vliet, Die Vorrede der ApuleiscJien Metamorphosen, pp. 79-85
[L'A. dà la prefazione in una forma leggibile, dopo essersi soffer-
mato a spiegare il corso de' pensieri che vi sono espressi — chi
parla nella pref. ha appreso il greco e poi il latino, del quale
non si riconosce perito scrittore. — Finisce con un confronto col
^ukasaptati]. — W. ììelbkì, Eisene Gegensiànde an drei Stellen
des Jiomerischen Epos, pp. 86-91 [Riprende la tesi del Beloch
(Riv. di Filol. II, p. 56 sqq.) aggiungendo osservazioni tendenti a
provare che il ferro non può comparire nei poemi omerici : in
A 139 U lezione genuina non era òi(JtÒ(; ma xa^KÒq ; Z 34 è un
verso che turba interamente il senso ; A 485 dà similitudine non
corretta]. — F. Sckutsch, Coniectanea, pp. 92-98 [Plaut. Capt.
345 hunc mitte, hic optime etc. Mere. 82 amens amansque uix etc.
Mere. 563. De. Me dicit. Lv. Quid agis etc. — Mere. 920
Omnibus istic etc. Mil. 1356 Et si istaec etc. Ter. Andr. 936
invece di postilla si legga poste. Hec. 279 poi equidem etc. Varr,
de 1. 1. V, 7 sgg. Quartus ubi est adytum et initia religionis. ibid.
VI, 21 ah suffigendo suhligacidum. Rhetor. ad Her.p. 369, 10 sgg.
ed, Marx, non et quae ma solo quae. ibid. 15 il Marx non doveva se-
guire il Larabino, ma doveva coi manoscritti: "^Seus', inquit, ' Gor-
gia', pedisequo puerorum, 'ahsconde' etc.]. — U. v. Wilamowitz-
MoELLENDORF, die XenopJiontische Apologie, pp. 99-106 [Cento
anni prima che da Demetrio di Magnesia l'opera fu usata da
Erodico di Babilone (Athen. V, 218 e); se non l'autore, l'editore
la considerò coinè appendice ai memorabili ; la si può appena cre-
dere compilata nella prima metà del secolo IV°. Nel § 28 è mala-
mente imitato Plat. Phaed. 117 d L'apologia ò posteriore almeno
— 490 —
di settanta anni all'opera di Policrate, e sorge dal medesimo am-
biente che il Teagete. Il § 36 fa pensare al Palamede di Euri-
pide — l'opera è priva di valore ed apocrifa]. — L. Cohn,
Kritisch-exegetische Beitriige zu PJiilo, pp. 107-148 [Discussioni
su molti punti delle opere di Filone ne' quali spesso la lezione del
Mangey non è accettata : si discutono proposte di altri ed anche del
Cohn stesso e del Wendland]. F. Blass, Zu Aristophanes' Fròschen
und zu Aischylos Choephoren; pp. 149-159 [Kan. 12 sqq. iLvrrep
<t)puvixoiq eiuuSe TTOieTv Kttl Aù K i a i KOtiaeivyiaiq aKCuri cpépuuv.
269 TÒi Kuurriuj invece di tuj kujttìui. 404 Kaiaaxicyaiaevov e
TÓÒe TÒ (JavbaXicTKOv. 680 e 711 si lasci il t€. 788 forse
èTTexuOpriaev. 932 (Pac. 1177 Kripuj6évTUJV?) si legga: Kripiu-
0évTa qpapiattKUJv koXùv ttóvov. 1165 si lasci èXGeiv. 1227 dno-
Tipiou = kaufe ihm wieder. 1238 confrontato con altri accenna a
rimaneggiamento dei versi di Euripide da parte di Aristofane.
1291 lo scolio del v. 1291 si riferisce al 1289. 1384 e 1393
Héeeie • |ue9eiT6 ktX.. Aeschyl. Choeph. 683 eii' oCv non reca diffi-
coltà, dacché l'effetto si trova nel v. 682; 696 forse da cambiare
'OpécTTTiq in 'Opéatriv, ma anche Kaì vOv, 'OpéaTnq rjv TÒp ktX..
755 può stare r\ Xi^ò*; ktX.. 839 resti liópov b' 'OpécTTOu : è impos-
sibile poi àxQoq ai|aaToaTaTe<g. 851 ibeiv èXércai r'au GéXuj ktX..
877 non si approva la traduzione del Wilamowitz, 983 rrepi-
atabòv invece di Trapacyrabòv. 997 spiega la trasposizione proposta
dal Weil.]. H. Kaestner, Addendum ad Pseudodioscoridis De
herbis femininis ed. Hermae XXXI 578 (agg. a p. 610 e 635 :
i capp. XXXI e LXIX erano stati omessi nella stampa].
e
Neur Jahrbucher fùr classische Philologie, herausgegeben
von Alfred Fleckeisen, voi. 153, ann. 1896, fase. 11.
G. Friedrich, Zur griechischen geschichte 411-404 v. Ch.;
pp. 721-40 [la sortita di Agide da Decelea [Xen. Hell. 1, 1, 33)
è anteriore alle trattative di pace, immediatamente precedente la
battaglia di Cizico nel marzo del 410: l'A. si ferma sulla dimora
di Trasilo in Atene. 1 fatti esposti in Hdl. I, 1, 11 37 sono del
411/10; quelli in I, 2 sono del 410/9. La visita di Lisandro a
Ciro nel 408/7 ; quindi l'A. viene alla battaglia delle Arginuse,
sotto Antigene, e a Teramene]. — K. Lincke, Sokrates und Xe-
nophon; pp. 741-52 [Fortsetzung, v. pp. 447-456: non tutto quanto
si attribuisce a Socrate è Socratico]. K. Lincke, Zu Protagoras
Ttepì eeu)v: p. 753 [Diog. Laert IX, 51 ; Plat. Theait. 162 d:
in Diog. si deve sopprimere eìbévai: Diog. citava a memoria].
H. PoMTOW, Die dreiseitige hasis der Messenier und NaupaJctier
zu Delphi : pp. 754-69 [Schlusz v. pp. 505-536 e 577-639. Studio
e pubblicazione di epigrafi]. F. Knoke, Noch einmal zu Tacitus
— 491 —
ah exc. I, 64; pp. 170-12 [Sulla confusione tra undas, uda, umida\.
R. Nebert, Studien zu Antigonos von Karystos ; pp. 773-80
[forsetzun£T von Jahrb. 1895 pp. 303-375 : si occupa di Antigono
storico, di Antigono periegeta, di Antigono scrittore d'arte ; Anti-
gono paradossografo, storico, periegeta, scrittore d'arte formano
una sola persona]. Th. Stangl, Zu Ciceros Briefen an Aiticus ;
pp. 781-2 [V, 12, 2 non gravissimus ma gnarissimus\X.\\\,22,
4 per inimico animo ferre mancano esempi ; c'è l'errore frequente
nei mss. che inico {iniquo) sia ampliato in inimico]. J. Franke,
Zu Livius ; p. 782 [XXII, 50, 1 non c'è da fare nessun cambia-
mento alle parole alterius morieniis prope iotus exercitus fuit].
J. ZiEHEN, Zur lateinischen Anihologie; pp. 783-4 [Sympos.aen/^w.
e. 286 Riese leggasi : decoramine vocis ; e. 418 Riese si lasci :
ingenio mors nulla iacet = Ke\Ta\; e. 443, v. 4 leggasi lacum non
locmìi]. B. Nake, Ein neues dichierfragment bei Cicero ; p, 784
[settenario trocaico comico nel fr. 5, 1 del discorso in P. Clodium
et C. Curionem\
Id. id., fase. 12. — K. Krauth, Verschollene lander des alter-
tums ; pp. 785-808 [parte VI di uno studio la cui pubblicazione
si è iniziata nei N. Jahrb. nel 1893 : si occupa delle provincie
orientali della Persia secondo Erodoto e le iscrizioni di Dario :
è unita una tavola sinottica per le concordanze delle due fonti].
R. Gaede, Zur llias,^^. 809-814 [Per I 243-313. Dal Bergk e
dal Niese il passo fu creduto di origine posteriore per quanto
concerne il ratto di Pulidamante ; altri dubbi furono sollevati da
altri : l'A. crede dimostrare che tutto è in ordine e coerente].
A. Gercke, Ber Froschmausekrieg bei Plutarch; pp. 814-816
[Si connette all'ed. del Ludwich, spiegando in modo alquanto
diverso Agesil. 15 e de Herodot. malignit. 43]. P. Voigt, Die
Phoinissai des Euripides ; pp. 817-843 [Premessi alcuni criteri
per la retta intelligenza di una tragedia greca, intraprende l'esame
dell'economia delle Fenisse, esponendone ampiamente l'argomento,
esaminandolo minutamente, giustificando il poeta dalle censure
mossegli per cori, scene, e circa l'unità dell'azione]. L. Polster,
Zu CatuUus; pp. 843-4 [64, 108 si legga: exstirpata I prona
cadit /a/e, dumetis obvia frangens ; c.9Ò,4: mixtas, in luogo di
missas]. L. Alzinger, Der wert des codex Gyraldinus fiir die
Kritik der Aetna; pp. 845-860 [11 codice Giraldino «hat scine rolle
als 'beste quelle ' ausgespielt». Non ha quel valore che gli fu attri-
buito : per l'ed. dell'Etna si debbono usare i mss. C ed ^. {Canta-
brigiensis e fragmentum Stabtdense)\. E. Schweikert, Zu Hora-
tius ; p. 860 [Carm. II, 17, 25 si lasci cum ponendo innanzi al cum
i due punti e. dopo sonum del v. seguente la virgola]. J. Tolkiehn,
Zu Livius Andronicus; pp. 861-2 [Livio Andronico neW Equos
Troianus più che al Kvuuv di Sofocle avrebbe attinto all' 'ETteió<;
0 'Ettciói; di Euripide. 11 titolo poteva essere tanto Equos Tro-
ianus quanto Epius].
fi
— 492 -
Id. id. voi. 155, a. 1897, fase. 1. — A. Wilms, Das schladitfeld
ini Teutohiirger ivalde ; pp. 1-31 [Critica minuta e confutazione
di un lavoro dolio Knoke, le cui vedute sono in urto con assionai
militari, con Dione Cassio e colle altre fonti ; vd. del Knoke : das
Varuslager im Habichtswalde bei Stift Leeden]. W. Schwarz,
Epigraphisches \ p. 32 [in Golemsche^, reaieil de travaux XIII
(1890) pi. V' II, 75 si completi 'ArróXXu/vi? ^ji-|xaviKÓ(;, e nella 2^iscri-
zione pubblicata da E. Miller in Bevue archéologique, XXX (1875)
p. 107 scjg. si deve leggere nella linea 3" TTaYKpaTia(JTr|(j, trat-
tandosi di cose agonistiche]. C. Conradt, Zu Sopìiokles Aias :
pp. 33-48 [sui vv. 578-692 : dai vv. 650 sgg. risulta che Tecmessa
ha parlato ad Aiace dopo il v. 595 ; forse per noi è andato per-
duto un kommos. — parodos 172-200: hanno torto gli interpreti
moderni, ragione uno scolio antico che dice Artemide invocata
perchè Toùq ttoWoù^ yàp tujv |uaivo|névuuv èK creXtivr)? vocJcTv
ÙTTOTiBevTai: così è anche per Enialio, invocato come dio « des
wilden, mòrderischen tobens in der schlacht » — v. 602 sg. : si
legga: 'lòaia laijuvuuv \ei|uujvi' ónoTa luriXaiv èvr|pi9|Lio<; — v. 112 sg.
si legga : làW eYuuT' èqpieiuai — 319 si legga : ÙTreaiévar, où
TaOpoq ktX. — 405 sg, si legga : eì xà ixkv qpGivei, cpiXoi, ttoti
ToTq òè I néXa? luuOpaiq citTP«i? TTpoKeìineGa — v. 475 sg. basta
il ToOòe, senza ricorrere a toO fé — 800 sgg. Ogni difficoltà è
tolta leggendo ttót' invece di ttot' — 986 sg. si spieghi Kevó<;
come nel v. 288 — L'A. pone limiti all'affermazione dell'Otte che
le ripetizioni di parola in Sofocle siano intenzionali per rafforzare
il pensiero — v. 1133 è male inteso che TTpcuatr) = àvxe'O'TTi:
no, TTpoucTTTi ha il senso solito di difese, e ttoX€|uio^ = èxGpòq
— nei vv. 961-73 contro l'opinione del Bellermann ci sono parti
impure, errori, dittografie]. F.Hultsch, Zu Diophantos von Ale-
xandreia ; p. 48 [nella dedica ci sono traccie di verso]. F. Hdltsch,
Bine naherungsrechnung der alien poliorhetiher \ pp. 49-54 [calcolo
semplice con ottima approssimazione]. E. Hoffmann, Die Arvnl-
hrnder ; pp. 55-9 [critica all'articolo del Wissowa nella Real-En-
cyclopadie del Pauly, 2* ed., circa Varron. d. 1. 1. v. 85]. Ph. Loewe,
Zu Vergilius Aeneis ; pp. 59-60 [Aen. II, 117 si legga: cum pri-
mura Iliacos, Danai, iendistis ad oras]. M. Hodermann, De acto-
rum in fahulis Terentianis numero et ordine \ pp. 61-71 [l'A. ri-
prende una sua antica opinione che ogni personaggio importante
fosse sostenuto da apposito attore: ^er V Heautontimorumenos ba-
stano a stento sette attori ; neW Atidria c'è un attore per ognuno
dei personaggi Simone, Davo, Miside, Pamfilo, Carino, Cremete,
Critone ; per Sosia la cosa è incerta ; quindi basterebbero 7 attori ;
neW Eunuco almeno 8 attori; nel Formione non meno di sei:
wqW Hecyra ci sono parecchi dubbi ; negli Adelphoe sei attori
sicuri, 9 persone sì debbono distribuire fra attori secondari].
L. PoLSTER, Zu Tacitus ; pp. 71-2 [hist. 1, ò2 x\ou imperandi nvà
impetrandi ; 1, 58 non statis ma sublatis ; hist. IV, 15 non oc-
- 49.Ì -
Guatata ma applicata ; ab exc. 1, 35 completa pìromptas men tes ;
Germ. 29 non coniemnuntiir ma continentnr\ Th. Pluss, Z)ze
secltzehnte epode des Horatius \ pp. 73-80 [Ci sono forti contrad-
dizioni, fra il contenuto e la forma metrica, e nel contenuto stesso :
si evita il fato di Koma fuggendo dalla città ? l'A. nota contrad-
dizioni circa il giuramento dei Focesi e quello che Orazio pro-
pone, circa gli arva beata, circa l'accenno alle varie età del
mondo — contraddizioni che si spiegano intendendo la poesia
come parodia di Virgilio — l'epodo appartiene al 31/30 a. C.].
C. 0. Z.
Mittheilungen d. Jcais, deutsch. archdoìogischen Instituts. Athe-
niscìie Abtheiìmìg. XXI. 1896. 3. — H. Schrader, Die Ausgra-
hungen ani Westabhange der AJcropolis. IH, Funde im Gebiete
des Dionysion, pp. 265-286 [Descrizione dei trovaraenti, impor-
tanti soprattutto per le testimonianze che offrono del culto di
Dioniso e di Artemide, divinità delle quali vennero alla luce no-
tevoli frammenti di statue e di altari : di questi qualcuno intiero.
In una iscrizione occorre l'epiteto ep€i6o(; (= epiGoi;) di Artemide,
che lo Schrader illustra. Anche si trovarono, fra l'altro, dei mo-
numentini, bassorilievi, di Oibele e una piccola copia della Athena
Parthenos di Fidia]. — A. Koerte, Die Ausgrabungen amWestab-
hange der Akropolis. IV, Das Heiligtum des Amynos, pp. 287-332
[Da una dedica ad Asclepio trovata fra le rovine si era voluto de-
durre che il santuario fosse di questo dio; ma ciò è dimostrato
impossibile dal fatto che il santuario stesso è più antico della
introduzione del culto di Asclepio in Atene, la quale secondo la
notizia di una iscrizione seguì nel 420/19. Gli scavi del principio
del 1895," da cui fu messo in luce per intero il piccolo santuario,
danno modo di stabilire senz'altro che l'originario possessore del
luogo sacro fu l'eroe Amynos. Il Korte descrive minutamente tutto
il trovaraento in generale, poi nelle singole parti : sculture, terre-
cotte, vasi, iscrizioni. Queste sono in numero di otto e ci fanno
conoscere molte particolarità, finora ignorate, intorno agli dei della
salute e al culto che venne loro reso. Amynos ora è un semplice
epiteto di Asclepio ('AaKXriTTiuJ 'A,uùvuj), ora una personalità a sé
e come tale prende posto fra Asclepio ed Hygieia ('Amuvlu Kaì
'AaKXriTTiuJ Kttì TTeia), fra Asclepio e Dexio {toO 'Amùvou xaì toO
'AaKXriTTioO Kaì toO AeEiovoi;). Il nome di lui è da ricondurre ad
diaùveiv e designa la qualità dell'eroe di allontanatore di mali.
Egli dunque come 'alessicaco' può essere considerato una ipostasi
di Asclepio. Il KòRTE si trattiene a discorrere a lungo e dell'eroe
e di quanto si riferisce al culto delle divinità della salute, re-
cando così un contributo veramente preziosissimo e alla mitologia
e in parte alla storia della medicina nell' antichità greca]. —
B.Sauer, Nacliiragliches zu denMetopen von Phigalia, pp. 333-338
— 491 -^
[Intorno al luogo che occupavano le metope del famoso tempio di
Apollo e alle loro rappresentazioni. Aggiunta ad un articolo dello
stesso autore pubblicato nei Berichte der k. sachs. Gesellschaft
der Wissenscìiaften, 1895 207 sgg.]. — H. G. Lollixg, Sikelia
bei Athen, pp. 339-346 [ZiKeXia era il nome di un colle poco
lungi da Atene, al quale accennano fra gli antichi Pausania
Vili n 12. Suida s. v. 'Avvinai; e s. v. cTiKeXiZieiv e Dione
Crisostomo, 17 (rrepi 7TXeov€2ia(;) 469 Keiske, 11 Lolling, prese
in esame le opinioni dei moderni, K. 0. Mìjller, Forchhammer,
Leake, Bursian, Curtius, intorno alla topografia dell'altura e
messe a riscontro le testimonianze antiche, viene alla conclusione
che il colle sorgeva nelle vicinanze dell'antica cinta di mura della
città e fu poi chiuso entro la cinta stessa a difesa di Atene e
perchè servisse a coprire la via al porto di Falero]. — li. Von
Fritze, Zu den griechischen Totenmahlreliefs, pp. 347-366 [Passa
in rassegna e descrive i rilievi greci rappresentanti il banchetto
funebre, accennando qua e là a costumanze speciali ; e si ferma
a lungo su quello del Pireo pubblicato dal Kobert (in Aiìien.
Mittìieil., 1882 tav. 14) e su uno di Eleusi (di cui dà la ripro-
duzione a p. 360), che arricchisce le nostre cognizioni su l'argo-
mento e alle varianti già note ne aggiunge una nuova, caratte-
ristica]. — P. WoLTERS, Ein griechiscìier Bestattungshraucli ,
pp. 367-371 [Si tratta di una fascia che si faceva passare sul
mento del defunto, rappresentata in pitture vascolari e a cui ac-
cenna Luciano Ttepi -niv^oxic, 19. Ne fu trovato un esemplare
compiuto (onde è riprodotta la figura a pag. 369) nel 1885 (?) in
una tomba presso Atene]. — Funde, pp. 375-376 [Pireo. Patrasso.
Corfìi. Tira [Smirne]. Tralles].
Mittheilungen des kais. deutsch. archaeolog. Instituis. Roeinische
Ahtheilumi. XI. 1896. 3. — Ch. Huelsen, Untersucìmngen zar
Topographie des Palatins. 5, Der Tempel des Apollo Palatinus,
pp. 193-212 [La completa distruzione dell'edificio (uno dei mag-
giori e più splendidi tempii di Roma, tutto di marmi della cava
di Luni, attivata sotto Augusto, che fece innalzare il santuario),
la quale cominciò con l'incendio del 363 e fu proseguita dalla
mano dell'uomo nel medio evo, toglie che si possa stabilire con
certezza il luogo preciso dove esso sorgeva. Bisogna ricorrere ai
classici e vagliarne le testimonianze. Ciò appunto fa il dotto ar-
cheologo, traendo inoltre profitto da notizie posteriori relative a
frammenti di statue appartenute al tempio; e ne conchiude che
questo non si trovava, come si è creduto finora, sul dinanzi della
Villa Mills, ma e la silva e l'area Apollinis e il santuario stesso
erano nell'angolo est del colle, su l'altura di S. Sebastiano]. —
Lo stesso, Di una pittura antica ritrovata sulV EsquiUno nel 1668,
— 495 -
pp. 213-226 [Neir Ichnographia vetcris Romae del Bellori c'è
una incisione (riprodotta dal Huelsen, p. 213) di P. S. Barigli
che egli dice di aver copiato ex antiqua pici uva. Il soggetto rap-
presentatovi fu già spiegato in vari modi dagli eruditi, di cui
alcuni credettero di vedervi la sponda del Tevere sotto il Cam-
pidoglio e verso l'Aventino, altri vi ravvisarono il porto e le pilae
di Puteoli. Con l'aiuto di disegni della raccolta del cardinale Al-
bani, che ora sono conservati nella biblioteca di Windsor Castle,
il Huelsen dà una nuova spiegazione della pittura. Questa rap-
presenta veramente la regione tra il Tevere, il Campidoglio e
l'Aventino, con i due ' fori ' hoarium e oUiorium, il tempio di
Apollo extra portam Carnìentalem, il ])orticus (costruito nel 179
av. C.) post Spei a Tiheri ad aedem Apollinis Medici, le aquae
pensiles.cÀOQ un serbatoio di acqua, fabbricato in alto, gli /iorrea,
appartenenti alla categoria di quelli pubblici, sparsi per la città,
e il pons Aemilius con il molo vale a dire i navalia adiacenti.
La identificazione del Huelsen è importante tanto nel rispetto
topografico quanto specialmente nel rispetto architettonico]. — Lo
stesso. Miscellanea epigrafìca. XXI, Tessere lusorie, pp. 227-252
[Prende in esame, facendone una minuta e diligentissima rassegna,
le tessere cosidette alimentarie e le teatrali e dimostra che non
hanno nulla a che fare né col teatro ne con le liberalità e le
sparsiones, ma si debbono invece considerare e servirono come
strumenti da giuoco]. — XXII, Iscrizione di Casalbordino (pro-
vincia di Chieti, fra Vasto e Lanciano), pp. 252-256 [Già pub-
blicata e interpretata da Carmelo Mancini negli Atti d. r. Accad.
di Napoli, XVIII, 1. Il Huelsen supplendo le parole mancanti
dà dei testo una nuova restituzione e rettifica qua e là le affer-
mazioni del primo editore. L'epigrafe è di Fuficio Cornuto legato
della Pannonia superiore fra il 140 e il 146 e v'è descritto il suo
cursus ìionoruni\. — XXXIII, Iscrizione delle terme di Taranto,
pp. 256-257 [È la stessa di cui ha già trattato il prof. Orsi nelle
Notizie degli scavi 1896, p. 116. Il Huelsen la riproduce quale
è e poi come egli la legge, con alcune lievi emendazioni : appar-
tiene alla seconda metà del secolo IV]. — E. Loewy, Ancora del-
l'ara di Cleomene, pp. 258-259 [A proposito della questione sol-
levata nelle Mittheilungen Vili. 1893. p. 201 sgg. dal Michaelis
circa la forma genuina della composizione che adorna la detta
ara]. — Petersen, Fmide, pp. 260-267 [Notizie su le importanti
scoperte del prof. Orsi nella necropoli siracusana « del Fusco » e
sui bronzi degli Abruzzi (fra Aquila e Sulmona) raccolti e illu-
strati dal PiGORiNi].
Idem, 4. — A. Mau, Der Tenipel der Fortuna Augusta in
Pompeji, pp. 269-284 [Gli elementi per la ricostruzione del tempio,
il quale sorgeva all'angolo della via Nolana e dell'attuale strada
del Foro, non mancano, anzi quelli che possediamo bastano; ma
finora non fu tentata, ne si è saputo trarre partito degli elementi
— 496 -
stessi. Ciò appunto fa il Mau con numerosi piani e disegni archi-
tettonici e con preziosi accenni intorno alla storia dell'edifizio,
che non originariamente, ma solo più tardi fu consacrato alla
Fortuna Augusta]. — Lo stesso, I)er staedtische Larentempel in
Pompeji, pp. 285 301 [Altra ricostruzione medesimamente con
piani e figure. Che si tratti di un tempio dedicato ai Lares pu-
hìici di Pompei è congettura del Mau ; il quale crede che nella
'Aedicula' fra le statue dei due Lari fosse posta quella rappre-
sentante il Genio dell'imperatore (Augusto), cioè l'imperatore
stesso con la toga tirala sul capo e con la patera, in atto di li-
bare]. — E. Petersen, Sul monumento di Adamkìissi, pp. 302-316
[11 noto trofeo, « la cui rovina torreggia ancora nella deserta
campagna della Dobrudja fra Eassowa e Kustendje ». Il Fukt-
WAENGLER oltro ad escludere ogni relazione fra esso e la colonna
Traiana vorrebbe che sia stato eretto più di un secolo prima « in
memoria delle vittorie riportate nel 29 av. C. da Licinio Crasso
sopra popoli germanici ». Con argomenti di vario genere, fra cui
alcuni forniti da scoperte posteriori, il Petersen dimostra che
nel luogo, ove sorge il monumento, Traiano « prese rivincita di
un disastro precedente ed onorò i suoi soldati caduti; dai super-
stiti poi (crede l'autore) vi fece erigere il trofeo, ed una parte
forse di essi formarono il nucleo del municipio fondatovi »]. —
M. Eostov^zew, Anaholicum, pp. 317-321 [Una tessera di piombo
trovata nel Tevere, la quale reca da una parte il busto di Set-
timio Severo, dall'altra la testa di Caracalla; in ciascuna delle
due parti, attorno alla figura, Anabo/lici. Questa parola richiama
alla sezione dell'Amministrazione delle Finanze di Eoma, a cui
il piombo deve avere appartenuto, detta appunto anaholicum, cioè
vectigal, àvaPoXiKÒv TéKoq ; e deriva da dtvapàXXuu. Designa le
merci caricate su navi e che dovevano essere portate a Roma.
li' anaholicum era un'imposta su i prodotti naturali stabilita, come
risulta da varie testimonianze, fra il primo e il terzo secolo ; e
probabilmente è da ricondurre all'ordinamento dell'Egitto del
tempo dei Tolomei].
Neue pliilologische BundscJiau hrgh. von C. Wagener und
E. Ludwig. 1806. — n. 26. J. Klasen, De Aeschyli et Sopho-
clis enuntiatorum relativorum usu capita selecta [H. Mììller.
Trattazione puramente grammaticale senza vedute nuove]. —
G. HuBATscH, Die Tragoedien des Sophokles in neuer TJeher-
setsung [Lo stesso. Traduzione scorrevole e di facile e gradita
lettura. L'autore segue in generale buone lezioni]. — Zevocpoivioq
OÌKovo)uiKÓq. Tlie Oeconomicus of Xenophon with intro-
diiction, summaries, criticai and explanatorij notes and full in-
dexes hy H. Ashton Holden'^ [M. Houermaxn. Degno della più
calorosa accoglienza, che del resto è superfluo augurare ad un
- 497 -
libro giunto, in dieci anni appena, alla 5* edizione (la 1» è dell' '85)].
— Sext) Pompei Festi JDe verhorum significatu quae super sunt
cum Pauli epitome. Edidit Aem. Thewrewk de Ponor. I [Neff.
È un'edizione che segna un vero progresso, in quanto fu condotta
su molti manoscritti diligentemente collazionati ; ma dacché il
secondo volume non comparisce (il primo uscì nell' '89 e il Nefp
aspettò finora a renderne conto appunto nella speranza che l'altro
fosse pubblicato), bisogna per forza ritornare, e non ostante! suoi
difetti, all'edizione completa del Mììller]. — Hermann Sauppes
aiisgewahlte Schriften [G. Wentzel. Eccellente la scelta; è un
libro che non deve mancare in nessuna biblioteca di maestri
{Lehrerhihliotheh)}. — F. Imhoof-Blumer, Portratlcòpfe auf ro-
mischen Miinzen cler Repuhlik u. der Kaiser^eit, fiir den Schul-
yehrauch lirgh.'^ [Bruncke. Appunta la mancanza di schiarimenti,
necessarii, relativamente a certi segni particolari di talune mo-
nete. Del resto anche come ora si presenta, il libro è utile]. —
0. Meltzer, Geschichte der Karthager, II [H. Swoboda. Notizia
del contenuto, la quale chiude con l'espressione del desiderio che
il compimento dell'opera non si faccia attendere troppo a lungo].
1897. — n. 1. W. ScHNEiDAwiND, Die Antigone des Sophokles.
Uehersetzimg mit einem AnJiang sacJilicher Anmerhimgen [H.Mlìl-
LER. È una versione in prosa destinata ai giovani dei ginnasii (licei),
ai quali appunto perchè in prosa il referente esiterebbe a darla
in mano. Le osservazioni sono buone]. — Thucydides Book III.
Edited with introduction and notes hy A. W. Spratt [J. Sitzler.
Appunti alla critica del testo. Il commento è accurato e dotto].
— M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia. Eecognovit
C. F. W. Mueller, III 1 (Ejyistulae adfamiliares)[F. Dettweiler.
Edizione che gl'insegnanti saluteranno indubbiamente con grande
gioia]. -^ C, Wachsmuth, Einleitung in das Studium der alten
GeschicJite [0. Schdlthess. Libro eccellente e molto pratico al-
l'uso. Se anche non si possa consentire in tutto con l'autore, il
quale del resto ha fatto opera accuratissima, si deve riconoscere
che egli ha colmato in modo molto lodevole una sensibile lacuna].
— C. Stegmann, LateiniscJie Elementargrammatih [Lòschhorn.
Meritevole per i suoi molti pregi della più larga diffusione]. —
Entgegnung. Polemica fra F. Knoke ed E. Dììnzelmann a pro-
posito del giudizio dato dal secondo dell'opera del primo Die ro-
mischen Moorhruchen in Beutschland nel n.° 23 (1896) della
N. pltil. Rundschau (vedi Rivista, fase. 1, pag. 141).
n. 2. Ho.MERi Iliadis carmina cum apparatu critico ediderunt
J. van Leeuwen J. F. et M. B. Mendes da Costa. Ed. altera
passim aucta et emendata. — J. J. Hartman, Epistola critica
ad amicos J. v. Leeuwen et M. B. Mendes da Costa con-
tinens annotationes ad Ody sseam [Sittl. 1. In complesso favo-
revole. 2. C'è del buono, ma il metodo in generale è contestabile].
— M. "VVetzel, AntiJcer und moderner StandpimlH bei der Beur-
Bivitta di filologia, ecc., XXV. 32
— 498 —
teilung des Sophokleischen DramasKonig Oedipus [H. Mììller.
Dissertazione erudita e geniale]. — Eùpmiòou 'EXévr). Ad novam
codicum Laurentianorum factam a G. [sic] Vitellio collationem
recognovit et adnotavit H. van Hekwerden [L. Eysert. Il lavoro
in sé contiene poco di nuovo, il suo vero valore consiste nella
collazione. Ottima l'appendice {analecta tragica)]. — T. Livi ah
urbe condita libri. W. Weissenborns erkldrende Aiisgabe. Neu
bearb. von H. J. Mììller. II 2 lib. IV-V^ [F. Luterbacher. Ac-
curatissima la revisione del testo; molti emendamenti al com-
mento; copioso e assai utile l'apparato critico contenuto nell'ap-
pendice]. — ScJioUa Terentiana collegit et disposuit Fr. Schlee
[0. Wackermann. Benché l'edizione lasci qualcosa a desiderare
dev'essere accolta con gratitudine]. — 0. Occioni, Storia della
Letteratura latina^^ [F. Luterbacher. Può essere utile, non
ostante le sue mende di vario genere]. — M. Hodermann, Quae-
stionum oeconomicarum specimen [Th. Matthias. Dissertazione
istruttiva ed eccellente, che dimostra nell'autore piena padronanza
di tutta la letteratura dell'argomento. Riassunto]. — C. Pascal,
Studii di antichità e mitologia [Sittl. Indice del contenuto
senz'altro].
n. 3. G. Haupt, Commentationes arcìiaeologicae in Aeschylum
[P. Weizsacker. Contestazioni]. — Herodotos erklcirt von H. Stein.
II 2 libr. IV^ [p. Edizione migliore della precedente tanto nel
testo quanto nel commento]. — J. J. Hartman, De Terentio et
Donato commentatio [0. Wackermann. Notizia riassuntiva del
contenuto con elogi anche alla forma del latino]. — E. F.M. Be-
necke, Aniimachus of Colophon and the position of women in
greeJv poetry [Sittl. Il valore positivo dell'opera consiste più nei
particolari che nell'insieme]. — P. Gauckler, L'archeologie de
la Tunisie [Sittl. Interessante]. — Harvard stiidies in classical
philology, voi. VI (comprende: J. W. White, 'L'opistodomo su
l'Acropoli in Atene \ — J. H. Wright, ' Una tavola votiva per
Artemis Anaitis e Mén Tiamu nel museo artistico di Boston '. —
W. N. Bates, 'L'età di Licofrone'. — Qiwmodo iacien di verbi
composita in praesentibus temporibus enuntiaverint antiqui et
scripserint quaerit M. W. Mather. — G. E. Howes, 'Citazioni
omeriche presso Platone e Aristotele ') [Sittl. Notizia delle sin-
gole monografie con qualche appunto]. — C. Robert, Die Ma-
rathonschlacht in der Poikile und weiteres ueber Polygnot (in
XVIIl Hallisches Winckelmannsprogramm) [Weizsacker. Il
referente non può consentire in tutto con l'autore; pure deve af-
fermare che le ricerche del Robert sono profonde e stanno in
prima linea fra gli studi consacrati a Polignoto e all'arte di luij.
n. 4. Herodotus erJclcirt von H. Stein, II lib. III*. V-VI &, VIII-IX^^
[J. Sitzler. Edizioni per ogni rispetto migliori delle precedenti].
— J. NiKEL, Herodot und die Keilschriftforschung [R. Hansen.
Notizia con qualche appunto]. — Th. Wiegand, Die puteola-
- 499 —
nisclie Bauinsehrift sachUch erlautert [P. Weizsacker. Ricerca
profonda fin nei particolari e i cui risultati principali sono inoppu-
gnabili]. — C. Martha, Mélanges de liitérature ancienne [Sittl.
Indice del contenuto]. — Archaeologisch-ej)igraphische Mitthei-
lungen aus Oesierreich-Ungarn hrgh. von 0. Benndorf imd E. Bor-
marni, XVIII (comprende : F. Killer von Gaertringen, WeiJige-
schenJc von der Insci ChaìJce lei Bhodos. — W. Eeichel, Bie
Orsothyre ini homenscltcn Megaron. — L. Pollak, Zu den Mei-
stersignaturen und Liehlingsinschrifien. — F, Ladek, Alierihumer
aus Niederusterreich. — J. Bankó und P. Sticotti , Antiken-
sammlung ini erzhischufliclien Seminaire zu Udine. — V, Do-
BRTJSKy, Antike Lischriftcn aus Bulgaricn. — F. Killer von
Gaertringen, iVcjee Bischriften ans Bhodos. — A. Batjer, Bie An-
funge osterreichischer Geschichte: griechische Colonien in Bal-
matien, Boms ersier illyriscìier Krieg. — E. Szanto, Zur Politik
und Politie des Aristoteles. — J. Zingerle, Lekythos aus Ere-
tria. — Funde von Carnimtum (di vari). — E. Kalinka, Neue
Bischriften aus dem Norden Kleinasiens) [0. Schulthess. No-
tizia delle singole monografie qua e là con elogi]. — M. Schanz,
Geschichte der rómischen Litteratur bis zum Gesetzgehungswerk
des Kaisers Justinian, III [W. Piena padronanza dell'argomento,
larghissima conoscenza della letteratura relativa. Opera eccellente].
— S. Berger, Histoire de la Vulgate pendant les premiers siècles
du Moyen Age [Eb. Nestle. Buon libro e molto istruttivo. Qualche
appunto di poco momento]. — J. J. Binder, Laurion. Bie at-
tischen Bergwerke ini Altertmn [0. Wackermann. Riassunto con
lodi specialmente per la chiarezza della trattazione]. — K. Miller,
Bie cùtesten Weltkarten herausgegehen und erlautert, IV [R. Han-
SEN. Eccellente]. — A. Engelbrecht, Mykenisch-homerische An-
schauungsmittel fùr den Gymnasialunterricht [L. Buchhold.
Consente in generale con l'autore quanto allo scopo della pubblica-
zione].
n. 5. R. C. Jebb, Honier. Eine Einfuhrmig in die Ilias und
Odyssee. Autor. Uehersefzung nach der IH Auflage des Originals
von E. Schlesinger [K. Kluge. È da approvare la traduzione in
quanto per mezzo di essa avrà maggior diffusione il libro del
Jebb, nel quale però c'è qualcosa da correggere, p. es. ciò che
riguarda i risultati delle scoperte relative alla posizione di Troia].
— J. HooYKAAS, Be Sophoclis Oedipode Coloneo [H. Mììller.
Studio profondo. Il tema è svolto nelle sue varie parti con garbo,
ma il latino lascia molto a desiderare]. — Kerodot. Auswahl
fnr den Schulgehrauch, hrgh. von A. Scheindler. I, Text. II,
Kommentar [J. Sitzler. La scelta è copiosa e adatta; pure il
riferente desidererebbe che fosse stata accolta qualche altra parte.
Il Commento di natura lessicale e grammaticale non sempre sarà
inteso dallo scolaro]. — D. Iunii Iuvenalis saturarum libri V.
Mit erklàrenden Anmerkungen von L. Frieulaender [Eskuche.
- 500 —
L'edizione è l'opera matura di un filologo e storico, il quale, te-
nendosi pago dei sicuri risultati degli studi altrui, mette in ser-
vigio del commento le sue cognizioni linguistiche e storiche, e
ciò con la profondità dello specialista, con la larghezza di vedute
del cultore della storia]. — V, Henry, Antinoniies linguistiqiies
[Fr. Stolz. Eiassunto. Scritto interessante degno della più pre-
murosa accoglienza]. — Cl. Lindskog, Quaestiones de parataxi
et ìiypotaxi apiid priscos Latinos [0. Weise. Trattazione accurata,
profondità d'indagine, esatta conoscenza della letteratura relativa,
specialmente di scrittori tedeschi]. — F. Canu, Essai de Paléo-
géographie. Mestauration des contours des mers anciennes en
France et dans les pays voisins [H. Istruttivo]. — C. Robert,
Votivgemidde eines Apobaten. Nehst einem Exkurs ueher den
sogen. Ares Borghese (in X7X Halliscìies Winckehnannspro-
gramm [P. Weizsaeckek. Notizia con molte lodi]. — Per Odel-
BERG, Sacra Corintìiia Sicyonia PhUasia [Sittl. Lavoro diligente.
Qualche appunto]. — F. H. Bitter v. Arneth, Das hlassisclie
Heidentum und die christliche Religion [B. Pansch. Opera più
comprensiva che profonda ; del resto, a ogni modo, pregevole]. —
Zivei Wandtafeln der Ahropolis von Atìien und des Forum Ro-
manum der Kaiserzeit (Mùnchen, R. Oldenbourg) [L. Buchhold.
Buone entrambe, ma più pratica all'uso la prima che la seconda,
e ciò per i 'chiaro-scuri' che in questa mancano]. — A. Kaegi,
Griechiscìies Uebtmgshuch, 11^ [p. Divari dalla precedente edi-
zione. La nuova è veramente migliorata e accresciuta]. — Steiner-
ScHEiNDLER, Lateinisches Lese-und Uebungsbuch, Il ^ [B. Grosse.
Libro fatto bene e con cura, che troverà molti amici].
Literarisches Centralhìatt fUr BeutscTiland. 1897. — n. 1.
A. ScHULTEN, Bie romischen Grundìierrschaften. Fine agrarhisto-
rische UntersucJiung [K. J. N. L'autore non sempre è padrone
del suo argomento e il modo della trattazione lascia a desiderare ;
ma i risultati della ricerca meritano d'essere presi in considera-
zione]. — Aeschinis orationes. Post Fr. Frankium curavitVn.. Blass
{ed. minor). — Fd. maior aucta indice verborum a S. Preuss
confecto. — Index Aeschineus, composuit S. Preuss [? Sono tre
pubblicazioni ben venute]. — L. Annaei Plori epitomae libri II
et P. Annii Plori fragmentum de Vergilio oratore an poeta.
Fd. 0. KossBAcn [C. W. Edizione eccellente che rende inutili
tutte le precedenti e sarà fondamentale per tutte le future ricerche
su Floro].
n. 2. Flavii Josephi opera omnia. Post I. BEKKERu:\r recognovit
S. A. Naber. Voi. VI [? Rappresenta un importante progresso
nella critica di Giuseppe Flavio].
n. 3. P. Wendland u. 0. Kern, Beitràge zur Geschichte der
griechischen Philosophie und Peligion [0. H... e. Libro eccellente.
- 501 —
degno dei due chiari autori]. — I. Bruns, Das Uterarische Por-
triit der Griecìien im 5. und 4. Jahrli. v. Chr. Gehurt [li. Fe-
lice la scelta dell'argomento, ma non sempre scientifica la tratta-
zione]. — E. F. M. Benecke, Antimachus of Colophon and the
position of women in Greek poetry [? Breve notizia].
n. 4. P. GiLES, Vergleicìiende Grammatik der hlassischen Spra-
chen. Ein kiirzes Handhiich fnr Studierende der Mass. Philologie.
Autor, deutsche Ausgahe hesorgt von J. Hertel [W. Str. Libro
utilissimo]. — A. Harnack, Die Chronologie der altcìiristlichen
Literatur bis Eusebius, 1 [G. Kr. Opera ottima sotto tutti i
rispetti]. — W.- H. Roscher, Das von der « Kynanthropie »
handelnda Fragment des Marcellus von Side [Or. Riassunto. La
monografia dà molto più di quello che è detto nel titolo].
n. 5. A. Stauffer, Zivolf Gestalten der Glanzzeit Athens im
Zusammenhange der Cidturenticickelung [? Notizia con qualche
appunto]. — A. E. Haigh, The tragic drama of the Greeks [éX.
È un buon libro, non ostante, specialmente, parecchie lacune e
nella parte bibliografica e nella trattazione]. — Matopia 'A\eEàv-
òpou. Die armenische Uebersetzung der sagenhaften Aìexander-
Èiographie (« Pseudo-Callistìienes ») auf ihre mutJimassliche
Grundlage ziirilckgefuhrt von R. Raabe [A. B. — dt. Pubblica-
zione degna di lode]. — Nicephori Blemmydae curriculum vitae
et carmina nunc primum ed. A. Heisenberg [Joh. Dr. Ampia
notizia con elogi].
n. 6. J. Wachtler, De Alcmaeone Crotoniata [B-r. Assennato
ed erudito. Qualche appunto]. — D. Pezzi, Saggi d'indici siste-
matici illustrati con note per lo studio della espressione metafo-
rica di concetti psicologici. I: esempi tratti dalla lingua greca
antica [G. M-r. Notizia con lodi].
n. 7.- LuciANUs, recognovit J. Sommerbrodt, II 2 [B. Non segna
un passo ad melius. Il ' boycotaggio ' dell'editore nella critica del
testo non può accontentare i lettori]. — Aristoteles 'Poetik ueber-
setzt und eingeleitet von Th. Gomferz. Mit einer Abhandlung :
Wahrheit und Irrthum in der Katharsis-Theorie des Aristoteles
von A. Freih. von Berger [Or. Buona l'introduzione, pure essen-
dovi qualche lacuna ; lodevole la traduzione. Discreto il breve
studio del Berger]. — E. Kornemann, Die historische Schriftstel-
lerci des C. Asinius Pollio. Zugleich ein Beitrag zur Quellen-
forschung uber Appian und Plutarch [? Eccellente].
n. 8. T. Halbertsmae Adversaria critica. E schedis defuncti
selegit disposuit edidit H. van Herv\^erden (cfr. Rivista, fase. 1,
p. 140) [? Lodevole anche l'opera dell'editore].
Bevue de Vinstruction publique en Belgique. XL. 1. 1897. —
Fr. Cumont, L'astrologue Palchos, pp. 1-12 [Notizia di uno scritto
di astrologia, contenuto con altri simili nel cod. 0 4, 8 della Bi-
— 502 -.
blioteca Angelica di Koraa, e intorno al suo autore, Palchos, egi-
ziano, della fine del secolo V. Lo scritto è formato da una rac-
colta di note, fra cui meritano speciale menzione quelle dove sono
ricordati autori di opere astrologiche. 11 Cumont riproduce, illu-
strandole, le rubriche relative e in extenso due passi importanti,
che riguardano personaggi storici del regno di Zenone: Teodoro,
prefetto augustale dell'Egitto, e il patrizio Leonzio, pretendente
all'impero. Questi aveva fra' suoi seguaci il senatore Pamprepio,
un teratologo, che convinto di mendacio fu perciò da Leonzio con-
dannato a morte.]. — J. Bidez et L. Parmentiei;, Boanensis
Incus, Evagrius Hist. eccl. II, 14, pp. 13-15 [intendono di-
mostrare che il Boanensis lacus della Bitinia (il manoscritto Lau-
renziano 70, 23 di Evagrio dà èv tìì KaiKiavfj \\\\xMr\ invece di èv
Tri Boàvr) Xiiuvri degli altri codici) non è punto esistito e deve
quindi scomparire dalla geografia antica]. — A. Grégoire, L'en-
seignemeni de la pJionétique ; la phonéiique expérimentale, pp. 16-
26. — LuciEN MoLiTOE, Une réforme administrative dans Ven-
seignement moyen. Eapports secrets et feuìlles de signalement,
pp. 27-30. — Rendiconti (cioè Recensioni e Annunzi), pp. 31-68:
P. Kretschmer, Einleitung in die Geschichte der griechisclien
Sprache. Gottingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1896 [L. Par-
mentier]. — LuciEN, Bialogues clioisis, siiivis dii Songe (ou Vie
de Lucien), par A. Masson et J. Hombert. Tournai , Decallonne-
Liagre, 1896 [J. Haust]. — F. 0. Weise, Les caractères de la
langiie latine trad. de Valìemand piar F. Antoine. Paris, Klinck-
sieck, 1896 [P. T(homas)]. — Calvus, édition complète des frag-
ments, étude biogr. et littéraire par F. Plessis... avec un Essai
sur la polémique de Cicéron et des Attiques par J. Poirot... Paris,
Kiincksieck, 1896 [Lo stesso]. — Q. Horatii Flacci opera, édi-
tion classique annotée par A. Hubert. Naraur , Wesmael-Char-
lier, 1896 [Lo stesso]. — Phèdre, Fables ésopiques, édition
classique pid)liée avec diverses notices et des notes... par L. Havet. ^
Paris, Hachette, 1896 [Lo stesso]. — Quelques notes sur les Silves
de Stace, I, par G. Lafaye. Paris, Kiincksieck, 1896 [Lo stesso].
— E. Thomas, Rome et V Empire aux deux premiers siècles de
VEmpire. Paris, Hachette, 1897 [Lo stesso].
Mnemosyne. Bihliotheca pìiilologica baiava. Nova Series,
voi. XXV, p. I. 1897. — J, VAN Leeuwen J. F., Romerica,
pp. 1-7 [Continuazione da XX, 140. — XVII, Be Ulixis rate.
Dal racconto del viaggio di Ulisse, nel V dell'Odissea, dalla par-
tenza dall'isola di Ogigia alla tempesta che sbalestrò l'eroe sul
lido di Scheria, si deduce nel modo più evidente ch'egli si era
fabbricata una 'zattera' e non una 'nave' (cioè una 'barca'). Ora
tutti i versi, in cui si descrive l'imbarcazione di Ulisse come
opera finita, che dimostra una profonda conoscenza dell'arte delle
l^
\
— 503 —
costruzioni nautiche e ci presenta la sua quale vera navis e non
quale semplice ratis, sono interpolati. Lo scopo dell'interpolatore
0 degli interpolatori è manifesto: magnificare anche in ciò l'eroe,
alunno di Atena, a cui nulla doveva rimanere ignoto. Vanno quindi
espunti, per varie ragioni, i versi 245. 249-253. 255. 270. Inoltre
in 277 bisogna sostituire vriòq a xeipò<g]. — H. van Herwerden,
Homerica, pp. 8-17 [A proposito della seconda edizione di Omero
di J. V. Leeuwen J. F. e M. B. Mendes da Costa, II. Note cri-
tiche a II. XIII 541 sgg. XV, 31, 535, 653. XVII 441, 742.
XVIII 393 sgg. XXI 322. XXIII 540, 602. XXIV 358, 449-456,
720 sg., 664 e 729J. — J. C. Naber S. A. F., Ohservatiiinculae
de iure romano, pp. 18-36 [LXXIV, De honorum possessione
carboniana. LXXV, Quomodo fiat conventio']. — H. van Her-
werden, Pindarica, pp. 37-58 [A proposito della recentissima
edizione del Christ. Note esegetiche e critiche a 01. I 109. II
78. VI 89 sgg., 61, 98. VII 58. X 41, 97. XIII 88. Pyth. II 73.
Ili 44. IV 36, 42, 48, 84, 57, 127, 142, 148. V 96. VI 10. VIII
8, 29, 72. IX 36, 87, 111, 121. X 29. XI 41. XII 28. Nem. III
23, 47. IV 4, 85. IX 37. X 13, 60, 65. XI 43. Isthm. I 64. IH
79. V 59. VI 5. VII 28. Vili 33. Fragm. 119, 3. 123, 10. 131.
177. 201. 225]. — S. A. N(aber), "YnAP, p. 58 [Proposta di
emendamento a Adamantius, Bialogus contra Marcionitas
p. 842 B, e Polibio tram, vatic. XII 26 CJ. — Lo stesso,
KoaKu\)uàTia, pp. 59-75 [Proposte di emendamenti a 60 passi dei
Memorabili di Senofonte]. — I. C. G. Boot, Corrigendmn in
coniectaneis ad Minucii Felicis Octavium in voi. XXIIII p. 439.
p. 75 [Bisogna unire : iter fahidis faìlentihus']. — P. C. Molhuy-
SEN, De Homeri Odysseae codice Phillippico 1585, olim Meer-
manniano 307 (0), pp. 76-81 [Venne copiato dal cod. Fiorentino
Laurenzi^no Conv. Soppr. 52 (F), dopoché questo fu corretto qua
e là da una mano più recente: numerose citazioni a conferma di
ciò]. — J. VAN DER Vliet, Ad Senecttc dialogum de « tranquil-
litate animi », pp. 82-85 [Proposte di correzioni a e. I §§ 5, 9,
12. e. Vili §§ 3, 7. e. XI § 3. e. XIV § 1. e. XVI § 'l]. —
J. V. L(eeuwen), 'Q(;-Kaì. Ad Thucyd. VI 36, p. 85 [Invece di
Kttì (dopo (ppoviìcrai) si legga wq Ka\]. — H. van Herwerden,
Ad Herodoti lihrum I, pp. 86-88 [Proposte di emendamenti a
e. 74 in. e fin.; 77 in.; 80. 83. 84. 141 in.; 191, vs. 18. 194,
vs. 17 e vs. 3 sqq. 196 in. (l'indicazione vs. si riporta all'edi-
zione dell'autore)]. — J. v. L(eeuwen}, Ad Thucyd. VI 37 § 1,
p. 88 [Se Koùcpaiq è genuino, deve essere seguito da oucraiq]. —
A. PouTSMA, Ad Caesarem, pp. 89-92 [Proposte di emendamenti
a B. G. 4, 21, 1; 22, 3; 22, 4; 23, 2. 6, 12, 6. 7, 54, 4]. —
J. V. L(eeuwen), Ad Thucyd. VI 37 § 2, p. 92 [Sopprimerebbe
eXeoiev è'xovxe^ Kal e vorrebbe sostituire oÌK€iujcrd|uevoi ad oÌKr|-
(Tavieq]. — I. M. J. Valeton, De templis ronianis, § (5 : De po-
merio, pp. 93-109 [Continuazione da XXIII, 79. Qui l'autore si
— 504 —
occupa (C) de significatione vocabuU q. e.pomerium, passando in
rassegna le varie definizioni, che furono date della parola, e di-
mostrandone le reciproche relazioni].
Wiener Studien. Zeitschrift fur classische Philologie. XVIIL 2.
1896. — W. Weinberger, Studien zu Trypìiiodor und Kolluth,
pp. 161-179 [Continuazione (vedi Bivista, fase. 1, p. 136) e fine.
Su l'esametro dei due poeti]. — K. Fuchs, Beitrage zur Kritik
Herodians, IV-VIII Buch, pp. 180-234 [Continuazione da XVII,
pp. 221-252. I, Disposizioni (cioè ordine della trattazione): 1, de-
scrizione del personaggio; 2, elezione e principii del regno; 3,
corso del (cioè : fatti avvenuti durante il) regno; e, 4, fine. II, Pro-
prietà stilistiche di Erodiano: 1, ripetizioni; 2, luoghi comuni;
3, dati non sicuri (p. es. : nar' òXiyov-tò hx] TeXeuTaTov-naKpoi
XpóvLjj ecc.). Conclusione: « Erodiano (nei libri citt., come nei
tre precedenti) lavora su modelli fissi, che nella maggior parte
dei casi ritornano in forma eguale ossia con parole simili. Dove
gli manca una notizia positiva (del fatto), egli pone una sua frase
generale; e dove è cacciato in mezzo questo ornamento retorico,
le sue notizie non meritano credito »]. — H. Jurenka, Zur Auf-
hellung der Alhnan' scìien Poesie, pp. 235-259 [Con numerose
citazioni, e qua e là con opportuni raffronti chiarisce la caratte-
ristica della poesia di Alcmano e ne classifica i frammenti se-
condo il loro contenuto, illustrandoli con note di vario genere:
non di rado anche li traduce. La lingua del poeta è formata di
elementi epici, eolo-dorici, eolici e dorici e sempre risulta giusti-
ficato l'uso di ciascuno di essi]. — F. Kovàr, Zìi Platon irepì
vójnuuv 683 E (ed. Schansf), pp. 260-266 [Nota storico-critica]. —
R. Novak, Zu Valerius Maximus, pp. 267-282 [Proposte di emen-
damenti a 1, 7, ext. 1; 1, 7, ext. 10; 1, 8, ext. 18; 2, 6, 8; 2,
6, 12; 2, 7, 1; 2, 8, 5; 3, 7, 3; 4, 1, 7; 4, 1, ext. 8; 4, 2, 7;
4, 3, 4; 4, 3, 14; 4, 6, 1; 5, 1, 4; 5, 2, 6; 5. 2, ext. 4; 5, 3,
ext. 3; 5, 6, 8; 5, 7, ext. 1; 6, 1, 11; 6, 2, ext. 3; 6, 3, 4; 6,
8, 1; 6, 9, 6; 7, 3, 4; 7, 3, ext. 7; 8, 4, 2; 8, 7, 3; 8, 11, 5;
e l'epitome p. 14, 17 K; 55S, 2; 602, 2; 614, 7]. - K. Mììllner,
Acht Inauguralreden des Veronesers Guarino und seines Sohnes
Battista. Eiìi Beitrag zur Geschichte der PddagogiJc des Hu-
manismus^ pp. 283-306 [1,... Prooemiura in lectione artis oratoriae
et de eius laudibus. Ila, Oratio... recitata in principio lectionis
de Ciceronis Officlis. Uh,... (epistula) clarissimo iuris consulto
Madio. IH,... Prohemium {sic) in principio lecturae Valerli. IV,...
prohemium in expositione Augustini in libro de civitate dei. V,...
in incohanda lectione rhetorices praefatio. VI, Oratio... quam re-
citavit in principio studii Ferrariae coram marchione Leonello...
VII,... in lectione rhetoricae praefatio Ferrariae dieta. VI1&, Gra-
— 505 —
tiarum actio (continuerà). A ciascuna orazione, eccetto l'ultima,
precedono brevi notizie storiche e le relative indicazioni biblio-
grafiche]. — Fr. Marx, Lticiliana, pp. 307-314 [Note critiche ai
frammenti luciliani di recente scoperti e a quelli editi dal Baeh-
EENS. Di che genere siano coteste note risulta dalla dichiarazione
dell'autore, a proposito dei frammenti del Baehrens: « ego uersus
Lucilianos hic audeo proponere difficillimos non mutatione sed
distinctione et interpretatione me indice constituendos »].
Berliner Studien fiir dassische Philologie uncl Arcìiaeologie.
Neue Folge, li, 1, 1897. — Der letzte Feldziig des Barlciden
Hasdnibal imd die Schlacht am Metaurus. Eine ìdstorisch-topo-
graphische Studie von R. Oehler. Mit Beitràgen von F. Hultsch
und V. PiTTALUGA... [Vorwort pp. 1-3. — (Einleitung): Kurze
Kritik der bisherigen Ansichten pp. 4-11. — Die Quellen pp. 12-15.
— Vorgeschichte von Hasdrubals Zug nach Italien pp. 15-18. —
Hasdrubals Zug nach Italien bis zu seinem Eintreifen bei Sena.
Gegenmassregeln der Eomer pp. 18-30. — Neros Verhalten bis
zu seinem Eintreifen bei Sena pp. 30-36. — Hasdrubals liiickzug
zum Metaurus pp. 36-52. — Die Schlacht am Metaurus pp. 52-70.
— Das Lager Hasdrubals pp. 70-71. — Massnahmen der Ròmer
pp. 71-73. — Verlauf der Schlacht pp. 73-79. — Eiickblick
pp. 80-82. In fine due carte].
Beitrage sur kunde der indogermanischen sjirachen. XXII.
3-4. 1897. — A. FiCK, Altgriediische ortsnamen IV, pp. 222-238
[Nomi (Ji paesi e di regioni, di territorii di campagna e di città,
di pianure, di selve, boschi e luoghi sacri]. — H. Osthoff, EìXi-
7Toba<; eXiKa(; PoO?, pp. 255-269 [Significa: « buoi che (cammi-
nando) strascinano e volgono in giro i piedi ». Tutte le spiega-
zioni precedenti, fra cui (e\iKa(;) « dalle corna ricurve » o « ri-
torte », appartengono ai vecchi errori della etimologia greca 'che
non vogliono morire']. — A. Fick, Zum homerischen Jiymnus B
auf Hermes, pp. 269-273 [Note crìtiche ai versi 87. 119. 149.
241. 306. 339. 400. 447. 460. 485]. — V. J. Petr, Etymologische
nacJdese, pp. 273-279 [1, Sul gruppo fonetico sr in latino. 2,
Lat. suhlica... 3, Lat. suhula... 4, Lat. volare... 5, Epico tepiri-
Képa'jvoq (■^= scoti tore del fulmine; lepTTi- dalla radice terp- col
significato di « scuotere »; cfr. il virgiliano: fulmina torqiiés)]. —
F. Bechtel, Parerga, pp. 279-283 [10, Delph. èvToqpnia (nella
iscrizione dei Labiadi, venuta alla luce negli scavi della scuola
francese a Delfo). 11, indigetes (equivale a indugetos, ugetos, an-
tico participio, che significa « cresciuti », in istretta relazione
con lat. vegeo, greco ìiYiriq e àFéEuu)]. — W. Prellwitz, Lacon.
— 506 —
(Tiaòei;, pp. 283-284; 'Epiveó(;, messew. Tpayo^, lai. capriflcus
(:il fico selvatico), pp. 284-285.
BuUetin de correspondance liellénique, XX. 1896. I-X. —
'lujdvvTiq N. Zpopujvoq, NoiaiainaTiKfi tuùv AeXcpuùv, pp. 5-54
[1. Osservazioni preliminari su l'ordinamento cronologico seguito
dall'autore. 2. Catalogo delle monete delfiche, dal 520 av. C. al
217 d. C. (Caracalla). Lo studio continuerà]. — P. Perdrizet,
Mén, pp. 55-106 [1. Mén nell'Asia minore (monumenti del culto
di Mén, dio frigio della luna. I dati numismatici ed epigrafici,
tutti raccolti dall'autore, dimostrano che esso culto si estese in
tutta la Frigia antica, e che fuori del territorio frigio lo si trova
solo sporadicamente). — 2. Diffusione del suo culto fuori dell'A-
natolia (a Taso, a Delo, a Kodi , ma specialmente nell'Attica,
come è provato da numerosi monumenti dalla fine del IV secolo
sino all'impero. Rassegna di questi monumenti, di cui alcuni ri-
prodotti). — 3. Gli epiteti (surnoms) di Mén (generali : Ouranios,
Phosphoros, Catachthonios , Tyrannos ; locali: Cavalénos, La-
banès, ecc.; particolari e di dubbio significato: Tiamou, Aziottènos,
Carou, Pharnacou. Tentativo di spiegazione di questi ultimi). —
4. Sua origine (fu una divinità lunare frigia indigena, ben distinta
dalla corrispondente semitica). — 5. Natura, attributi e funzioni
(tutto ciò dipende dal concetto di divinità lunare)]. — G. Eadet
et H. OuvRÉ, Inscriptions de Fhrygie, pp. 107-118 [Di Nacoléa;
della' necropoli di Midas; di Lysias; di Synnada;di Melissa. Ei-
produzione con illustrazioni epigrafiche e storiche]. — G. Fou-
GÈRES, Inscriptions de Mantinée, pp. 119-166 [I. Decreti. 1, De-
creto di Antigoneia (nome che Mantinea ebbe nel 221 av. C,
quando fu incorporata alla lega achea, e tenne per 350 anni fino
ad. Adriano) in onore di un argivo, Aphrodisios, benemerito della
città. È importante, perchè ci fa conoscere le magistrature e gli
uffici pubblici di questa. — 2, ... in onore di certo Euphrosynos
e di sua moglie Epigone. Interessante come saggio di eloquenza
provinciale e per le notizie che fornisce intorno alla vita e alla
topografia di Mantinea. — IL Cataloghi. — III. Dediche. Noto
fra le altre : 8, Un'iscrizione del sec. IV av. C. trovata nel Bou-
leuterion, con la leggenda Aiòq EùpujXéoq. Zeus Eubouleus com-
pare anche a Cirene: il che completa la serie dei legami mito-
logici fra le due città, constatati prima d'ora. — 9, Una dedica,
che ha grande valore storico, al re Antigono Doson, che nel 222
conquistò Mantinea. — 12, Una lista di soldati, fra cui alcuni
cretesi, che combatterono sotto Filopemene, durante la sua quarta
strategia, e fecero in comune un'offerta votiva a tutti gli dei. La
dedica data dall'ottobre del 193 all'ottobre del 192 av. C. —
18, Frammento della stele, ricordata da Pausania (Vili 9 1), che
— 507 —
i Manti neesi dedicarono allo storico Polibio. A completarlo serve
l'iscrizione di Olimpia n° 449, e così si ha ToOto AuKÓpT[a Ttaiòì
TTÓXi?] TT€piKa\\[è(; ciYaXiaa | àvil KoAuJv epYwv eiaaio TTouXu-
piuui]. A proposito di questa stele il Fodgf:res enumera i monu-
menti innalzati in varie città greche in onore di Polibio. —
16, Altare con l'iscrizione 6edq 'louXia? XePaaTa(; ; costei molto
probabilmente fu Giulia Sabina, figlia dell'imperatore Tito. —
18, Dedica alla città di Mantinea, che riprende così il suo nome
antico : e in ciò specialmente consiste l'importanza dell'iscrizione,
nella quale è ricordato Antinoo, il favorito di Adriano, come dio
indigeno (èrtixujpioq Oeó^), che a Mantinea godeva di un culto
particolare. — 19, Dedica in onore di Lucio Vero. — 20, Altra dove
si accenna a una sacerdotessa, verosimilmente addetta al culto di
Antinoo. — 26, Piccola piramide votiva ad Artemide. — Seguono
Epitafii e Frammenti diversi]. — P. Jouguet, Inscriptions grecques
d'Égypte, pp. 167-196 [I, 0 m b o s. — Il , C o p t o s (un'iscri-
zione molto interessante, in quanto contiene una tariffa dei
prezzi di trasporto, per viaggiatori e merci, da pagare all'ammi-
nistrazione finanziaria dell'Egitto nella città di Coptos). — 111, H e r-
mopolis Magna (una lista di nomi di soldati, che facevano
parte della guarnigione del luogo: in gran maggioranza son nomi
greci). — IV, Fayoum(?)(due iscrizioni metriche funerarie; nella
seconda la Moira è designata con l'epiteto, nuovo, PioKXuuaTripaTi<;)].
— E. BouRGUET, Inscriptions de DelpJies, pp. 197-241 [Due
conti del Consiglio di Delfo, con la numerazione delle somme,
calcolate in valuta d'argento, date dal Consiglio stesso a una com-
missione di vaoTTOioi (fabbricieri), per metterla in grado di pagare
le spese relative al santuario. Il Bourgdet raccoglie (pp. 221 sgg.)
preziose notizie intorno ai vaoTTOioi di Delfo]. — pp. 242-250:
Nouvell.es et correspondance. Beozia e Grecia del nord —
Asia — Egitto. Fra le altre, un'iscrizione arcaica di Tanagra (?);
e parecchi graffiti greci di Tolemaide.
Idem. XI. — Th. Eeinach, Ohservation sur le système mone-
taire delpMque dii IV^ siècle, pp. 251-256 [A proposito dei conti
dei vaonoioi di Delfo pubblicati dal Bourguet (vedi quassù). Le
mine e i talenti dell'iscrizione delfica sono mine e talenti attici,
mentre gli stateri e le dracme sono eginetici. Questa strana
combinazione di unità monetarie di differenti sistemi caratterizza
un'epoca di transizione, quale appunto fu il sec. IV, a cui si
riferiscono quei conti]. — J. Chamonard , Thédtre de Bélos^
pp. 256-318 [Descrizione compiuta, come risulta dal seguente in-
dice: I, L'orchestra. II, Le hoilon {V analemma — pian du koilon
— les gradins — le diazóma — entrée et escaliers — date du hoilon).
Ili, La sJcénò {disposition des hàtiments de la scène — date des
hàt. de la se. — ' la qitestion du logeion). IV, Écoulement des eaux.
— Citernes. Appendici : A. La rue et les hahitations voisines du
thédtre. B. Ohjects trouvés dans les fouilles. Con piani e carte].
— 508 —
— A. De Kidder et A. Ohoisy, Devis de Livadie , pp, 318-335
[Iscrizione, trovata nel 1891 e ora nel Museo di Livadia, conte-
nente un conto relativo ai lavori del tempio di Zeus ivi, divisi
in due lotti, con la specificazione delle condizioni del contratto,
poste dai vaoTToioi agli imprenditori]. — P. Perdrizet, Notes sur
Chypre , pp. 336-363 [Iscrizioni raccolte in agosto e settembre
1896. Fra le molte noto una di Araathonte, interessante per
il culto di Era, e la cerimonia, che ne faceva parte, della iero-
gamia, a cui sembrano accennare i paraninfi, ricordati appunto
nella iscrizione; le dediche alla regina Arsinoe Filadelfa e quelle
provenienti dal santuario di un dio della medicina, Geòq liipiaio?,
che potrebbe essere il Zeus uipiaxoq di ditene]. — P. Hartwig,
Une gigantomacliie sur un canthare de Vacropole d'Athènes,
pp. 364-373 [Descrizione minuta con i relativi accenni mitologici.
Il vaso risale all'incirca al 560 av. C.]. — V. Dobrousky, In-
scription de PÌ20s, pp. 374-378 [11 monumento determina il sito
già occupato da Pizos, città commerciale della Tracia, e il tempo
della sua fondazione, fra il 202 e il 205 d. 0. L'autore dà un
repertorio dei nomi propri, disposti alfabeticamente, della iscri-
zione, traci, greci, romani e dei nomi geografici traci. Pare che
si tratti di un santuario rustico, dedicato alle Ninfe Naiadi, meta
di numerosi pellegrinaggi]. — pp. 379-400: Nouvelles et cor-
respondance. Grecia (noto fra l'altro: relazione del Cavvadias
su gli scavi dell'Acropoli d'Atene e lettera del Penrose su l'o-
rientazione del tempio di Apollo a Delfo) — Asia (un'iscrizione
trovata ad Efeso relativa al « territorio » di Artemide efesia ; e
altre in Lidia, in Frigia, ecc.) — Egitto (nel Fayoum (?) fu rinve-
nuta un'iscrizione , nella quale si accenna ad Agdistis, epiteto
tanto di Attis quanto di Cibele) — Sicilia (comunicazione dell Orsi
intorno all'area e alla necropoli dell'antica Camarina e agli scavi
a Noto Vecchio, a Monte Finocchito e a Siracusa).
Revue de pJiilologie, de littérature et d' histoire anciennes.
XXI. 1897. 1. — Fr. Gr. Kenyon, Deux papyrus grecs du Bri-
tisli Museum^ pp. 1-7 [1. Frammento d'una AaK€Òai|ioviujv tto-
\iT€ia (?). Descrizione del frammento che probabilmente è del
II secolo dopo C, e trascrizione del testo con la relativa restitu-
zione. Si tratta di un brano inedito con accenni alla educazione
dei giovani Spartiati, e si può supporre che appartenga, p. es., a
uno scritto di Aristotele. — 2. Il diritto di requisizione nell'E-
gitto romano. Documento interessante del terzo anno dell'impero
di Marco Aurelio e Lucio Vero, in data del 29 gennaio 163 d. C.
Vi si parla di certi camelli requisiti nel villaggio di Socnopaei
Nesus, nel Fayoum, per un servizio regolare di carovane da Coptos
sul Nilo al porto di Berenice sul mar Rosso]. — B. Haussoul-
- 509 —
LiER, Note^sur le papyrus CLXXXVII du British Museum,
pp. 8-10 [È il primo dei papiri di cui ha reso conto il Kenyon,
col quale I'Haussoullier si accorda nel riconoscere che nel fram-
mento si tocca realmente della gioventù spartiata]. — K. Pichon,
Servire, p. 10 [In Seneca, De tranquillitate animi IX, serviri ha
il significato del francese servir quelqu'im à tahle. Nello stesso,
De vita beata XVII, servitur corrisponde al francese servir un
plat\ — Ph. Fabia, Les thédtres de Home au temps de Plaute
et de Térence, pp. 11-25 [Ammettendo che il tentativo del cen-
sore del 575 per dotare Eoma di un teatro in pietra lasci sup-
porre l'esistenza, in quel torno di tempo, di teatri temporanei
completi, se ne deve dedurre che durante la breve carriera dram-
matica di Terenzio (588/166-594/160) gli spettatori assistevano
alla rappresentazione da seduti. Ma le commedie di Plauto for-
niscono argomenti per dimostrare che l'innovazione delle gradi-
nate risale fino all'età appunto di Plauto; non che allora essa
innovazione fosse oramai un fatto compiuto : sibbene che Roma
ebbe teatri a gradinate al piti tardi verso la metà del secolo VI.
A questa conclusione il Fabia giunge con un diligente esame
di passi plautini, la cui autenticità era stata contestata dal Ritschl:
talché il suo lavoro è insieme archeologico e letterario]. —
Ed. Tourniee, Bemarques sur le iexte de Vhistoire de Crésus
dans Hérodoie, pp. 26-28 [Note critiche a 1 27, S(tein) 1. 21.
— I 30, S. 1. 2. — I 31, S. 1. 16. — 1 34, S. 1. 13. — I 37,
S. 1. 17. — I 44, S. 1. 1. — I 77, S. 1. 23. — I 78, S. 1. 7. —
ib., S. 1. 16. — I 80, S. 1. 20. — I 81, S. 1. 17. — I 82, S. 1. 4.
— I 84, S. 1. 7. — I 90, S. 1. 14. — I 91, S. 1. 14]. —
L. CoNSTANS, Noiivelles notes critiques sur le texte de Tacite,
pp. 29-37 [Ad Agr. I 14. VII 10. XXV 1. XXX 12. XXXIV
11. XLIV 4. — Ann. Ili 54 27. IV 67 15 e 69 13. XI 22 3.
XII 40 '2 e 44 11 e 65 8J. — J. Keelhoff, Quinte-Curce L. Ili,
e. 1 % 11, p. 37 [Bisogna leggere: Qiiae continenti adìiaeret;
sed quia magna ex parte ...\ — B. Haussoullier, Dèmes et
tribus, patries et phratries de Milet, pp. 38-49 [Raccolta di tutte
le notizie forniteci su i demi e le tribù, su le rraipiai e le fratrie
di Mileto dalle iscrizioni già pubblicate o inedite della regione
di Mileto. Appunto da una delle seconde apprendiamo l'esistenza,
nella città ionica, di iraipiai o suddivisioni delle fratrie. Segue
una nota, con schiarimenti, del numero e dei nomi delle quattro
divisioni]. — E. Chatelain, Un nouveau maniiscrit des lettres
de Sénèque disperse entre Leyde et Oxford, pp. 50-57 [La prima
parte del manoscritto, il quale è del sec. X, sta nel Vossianus
F 70, 1 della biblioteca di Leida ; la seconda nel Canonicianus
Lat. class. 279 ad Oxford nella Bodleiana. Questo nuovo mano-
scritto, sebbene qua e là lacunoso, può s^ervire per controllare la
testimonianza del Parigino 8658 A del sec. IX o X; il che ap-
punto fa il Chatelain]. — E. Chambry, Notes sur Thucydide,
— 510 —
pp. 58-66 [Kelative al testo di una recentissima edizione (libreria
Garnier) di Morceaux clioisis de Thucydide dell'autore. Passi esa-
minati: I 1 2. 1 4. I 19. I 20 1. I 23 6. I 69 5. Il 37 1. Il
39 1 e 2. II 40 2. II 41 4. Il 42 4. II 43 1. II 44 1. II 47 2.
II 65 2 e 10. II 74 2 e 3. Il 76 1 e 2. II 77 2-3. Ili 23 3
e 5. IV 28 2. IV 40 1]. — L. Havet, Mis, tis honoris gratta
(causa), pp. 67-68 [Propone mis invece di miJii a Plauto Mil.
620 e Aul. 463; tis invece di tui a Cure. 549, Stick. 338 e
Poen. 638: con le quali sostituzioni si emendano i cinque versi
guasti. 3Iis e tis nei cinque luoghi sono pronomi personali e non
possessivi]. — Ed. Tournier, Tò |ari et toO juri. Question à propos
WHérodote I 86, p. 69 [Domanda se nei passi in cui occorre
ToO jLiri citati dal Krììger nella sua Grammatica (67 12 4) non
si debba leggere invece tò inri o quale altra dizione ?]. — L. Duvau,
Sur un passage de Phèdre, p. 70 [È lo stesso verso, IV 9 2 che
il Chauvin volle leggere Reperire effugium alterius succurrit
malo (vedi Rivista, fase. 1, p. 154). Il Duvau propone invece,
conservando l'inversione del Bentley, Repente effugium quaerit
alterius malo']. — Kecensioni , pp. 72-77: Epistola critica ad
amicos J.van Leeuwen et M. B. Mendes da Costa continens An-
notationes ad Odysseam scripsit J. J. Hartman. Leyde, Sijthoff,
1896 [P. Couvreur]. — Die Jwmerische Batrachornachia des
Karers Pigres, nebst Scholien und Paraphrase , hrgb. und er-
làutert V. A. Ludwich. Leipzig, Teubuer, 1896 [Lo stesso]. —
N. Wedd, The Orestes of Eiiripides. Cambridge, at the Univ.
Press, 1895; H. van Herwerden, Eìipimòou 'E\évr| ad novam
codicum Laurentianorura factam a G. Vitellio collationem. Lug-
duni-Bat., 1895[A. Martin]. — M. Carroll, AristotWs Poetics,
eh. XXV,in the light of the Homeric Scholia. Baltimore, 1895;
W, H. KiRK, Demosthenic style in the private orations. Balti-
more, 1895 [Lo stesso]. — G. Glotz, Leetures historiques. Histoire
grecque. Paris, Alcan, 1897 [B. H(aussoullier)]. — 0. Nayarre,
Dionysos. Elude sur V organisation matérielle du thédtre atlié-
nien. Paris, Klincksieck, 1895 [A. Krebs].
Milano, 24 maggio 1897.
Domenico Bassi.
PUBBLICAZIONI KICEVUTE DALLA DIREZIONE
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Untersuchungen ùber die Entwickelung des Dramas, der Bùhne des
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— 511 —
Bicocca di San Giacomo. Ode di Giosuè Carducci con la versione latina di
Angelo Sommariva. Città di Castello, S. Lapi, 1897, di pp. 31.
G. F. ScHOEMANN. Griechische Alterthùmer. Yierte Auflage neu bearbeitet
von J. H. Lipsius. Erster Band, Das Staatswesen. Berlin, Weidmann,
1897, di pp. YIII-600.
Richard Reitzenstein. Geschichte der griechischen Etymologika. Ein Bei-
trag zur Geschichte der Philologie in Alexandria und Byzanz. Mit zwei
Tafeln. Leipzig, Teubner, 1897, di pp. X-408.
T. LucRETius C.\RUS, De rerum natura, Buch. Ili, erklàrt von Richard
Heinze. Leipzig, B. G. Teubner, 1897, di pp. Vl-206.
AIZXTAOY òpà|LiaTa oiuZó^xeva koì àtroXujXÓTUJv àiroaTTaaiuaTa luerà èlr\-
YH'TiKÙJV Kaì KpiTiKiiJv aTi]U6iiÌj0eujv Tip) ouvepYaaiot EÙYeviou Zmiuapiòou
èKÒiòó)ueva ùttò N. Wecklein. Tó|U0(; òeurepoq irepiéxujv TTpo)ur|6éa,
'lKéTiòa(; Kaì àtToatraaiuàTia. 'A9rivr|aiv, èk toO xuTTOYpaqpeiou dbeXqpòiv
neppn, 1896, di pp. VIll-648.
— Tó|uoq xpiToc;, T6uxoq a' irepiéxov àTTOOuaaiudTia, 1897, da pag. 649 a
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MM. Ch, Michel et P. Thomas. Tome XL, fase. 2. Bruxelles, Lamertin,
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P. GiLES. A short ^Vlanual of Comparative Philology for Classical Students.
London, Macmillan, 1895, di pp. XXXlX-544."'
Giovanni Vittori. Volgarizzamento delle due Epistole de ordinanda repu-
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Alexander Veniero. De Hymnis in ApoUinem homericis. Agrigenti, Typ.
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Mnemosyne. Bibliotheca philologica Batava. Gollegerunt S. A. Naber, J. van
Leeuwen, 1. M. J. Valeton. Nova Series, voi. XXV. pars II. Lugduni
Batavorum, E. J. Brill, 1897.
Berliner Studien fùr classische Philologie und Archaeologie. Neue Folge.
Voi. II, fase. 1. Berlin, Calvary, 1897.
0 Archeologo Portugués. Collec^ào illustrada de materiaes e noticias pu-
blicada pelo Museu ethnographico Portugués. Voi. II, n. 12. Lisboa,
Imprensa Nacional, 1896.
Polybiblion. Revue bibliographique universelle. Partie littéraire. Voi. LXXIX,
fase. 4 e 5. Paris, 1897.
La Cultura di Ruggero Bonghi. Nuova serie diretta da Ettore De Ruggiero.
Anno XVI, nn. 8-12. Roma, Libreria B. Lux, 1897.
Modem Language Notes. A. Marshall Elliott, Managing Editor. Voi. Xll,
nn. 2-5 (february-may). Baltimore, 1897.
Le Musée Belge. Revue de philologie classique publiée sous la direction de
P. Willems et J. P. Waltzing. Ann. I, nn. 1 e 2. Louvain, Charles
Peeters, 1897.
Bulletin bibliographique et pédagogique du Musée Belge. Ann. I, nn. 1-5.
Neue philologische Rundschau. Herausgegeben von C. Wagener und E. Lud-
wig, ann. 1897, fase. 7-12. Gotha, F. A. Perthes.
Pietro Ussello gerente responsabile
— 513
SACRA PEO SACELLIS >
Leggiamo in Festo (245 M.) : « publica sacra quae publico
sumptu prò populo fimit, quaeque prò montibus, pagis, curiis,
sacellis. At privata quae prò singulis hominihus, faniiliis, gen-
tihus fiunt ». Secondo questa definizione i sacra publica, cioè quel
complesso di feste, di riti e di cerimonie che costituivano la pub-
blica religione del popolo romano, erano distinti in due classi:
I. quae publico sumptu prò populo fiunt,
IL quae prò montibus, po-gis, curiis, sacellis ;
gli uni celebrati a spese dello stato per tutto il popolo, quan-
tunque senza necessaria partecipazione di questo; gli altri, a' quali
conviene la designazione di popularia, celebrati da tutto o parte
del popolo in una delle sue divisioni o locali o politiche o sacre.
Ma in questa categoria, se i sacra prò montibus, pagis, curiis
non presentano difficoltà d'interpretazione, perchè più o meno è
noto quali fossero nell'organismo di Roma antica l'origine e la
funzione dei montes, dei pagi e delle curiae ; meno chiaro e con-
troverso è il modo d'intendere e spiegare i sacra prò sacellis.
Delle varie interpretazioni date, piìi radicalmente decisiva è
quella del Savigny (Vermisch. Schrift. I. pag. 174). Egli ritiene
che l'espressione prò sacellis sia equivalente a quella prò gentibus
che dopo si legge nei saera privata e che, attinta a notizia antica
sì, ma non ben compresa, abbia usurpato un posto non suo. A so-
stegno della sua opinione il Savigny reca il testo di Cicerone
(de haruspicum responso X V.) dove a provare che Pisene aveva
distrutto un « sanctissimum Dianae sacellum in Caeliolo » l'ora-
Rivisiii di fihlogin, ecr., XXV. 33
- 514 —
tore dice parlando in Senato : « Adsunt vicini eius loci, multi
sunt etiam in hoc ordine qui sacrificia gentilicia illo ipso in
SACELLO, stato loco, annivcrsaria factitarint ».
Ma è evidente che da questo passo una cosa sola risulta vera-
mente chiara; che sacella si dicevano i luog^hi sacri in cui i (jen-
tili compivano il loro annuale sacrificio ; non già che questi soli
così si chiamassero e tanto meno in una significazione antonomastica.
11 Marquardt, pur seguendo nella sua trattazione delle antichità
sacre la distinzione che si legge in Festo, non fa una particolar
discussione intorno al modo d'intendere ^ro sacellis ; ma dopo aver
parlato delle feste proprie ai montani (quale il Septimontium),
alle curie (quale i Fornacalia), ai pagani (quale gli Anibarvalia),
considera senz'altro i sacra prò sacellis come i sacra vicormn o
Gompitalia e intende (vedi pag, 197) per sacella gli altari colle
immagini dei Lari che sorgevano nei compita.
Non è a negarsi che questa interpretazione offre il modo di
bene inquadrar, per così dire, le diverse specie dei sacra popu-
laria, nei quattro membri della definizione festiana ; ma insieme
è pur necessario osservare due cose :
l* Che in tal senso si presentava assai più propria l'espres-
sione prò vicis, 0 prò compitis, le quali meglio anche corrispon-
devano come divisioni locali ai tre termini precedenti.
2° Che sarebbe pur necessario giustificare l'uso antonomastico
di sacella a indicare gli altari compitali in genere, mentre, per
tacer d'altro, nel verso di Properzio IV. 3. 57 Flore sacella tego
verhenis compita tego le due cose sono espressamente distinte.
Leggiamo sì in Varrone (de 1. 1. V. 49) Larum Querquetulanum
sacellum, e in Tacito (ann, XII. 24) sacellum Larum detto dei
Lari pubblici ; ma appunto per questo non conveniva forse ai com-
pita una denominazione specificamente propria a quelli.
In modo ben diverso interpreta la nostra parola nel testo festiano
il Mommsen (Staatsverwalt. III. 123). Per questi i sacra prò
sacellis si connettono alle cerimonie degli Argei celebrate due
volte l'anno: al 16 e 17 marzo e al 14 maggio. Nella prima di
queste due feste i pubblici sacerdoti facevano una processione
attraverso la città e offrivano un sacrificio ; nella seconda si rac-
— 515-
coglievano i magistrati e i sacerdoti sul ponte del Tevere e vi si
gettavano dalle Vestali de' fantocci detti Argei, evidente sostitu-
zione simbolica di più antichi sacrifici umani. Ma col nome di
Argei si chiamavano anche nel linguaggio rituale « loca... sacris
faciundis » che secondo Livio (I. 21. 5) erano stati distribuiti per
la città e dedicati da Numa. A questi, che Festo (ep. 19) chiama
anche argea loca., Varrone dà appunto il nome or di sacrarla, or
di sacella (1).
Che ai sacella o sacrarla degli Argei corrispondesse una certa
distribuzione territoriale di Eoma apparirebbe, secondo il Mommsen,
dalle parole di Varrone stesso (V, 45) : « reliqua urbis loca (cioè
escluso il Campidoglio e l'Aventino) olim discreta cum Argeorum
sacrarla septem et viginti in [quattuor] partis urbis sunt di-
sposila ».
Il numero di ventisette sacella ai quali corrisponde il numero
de' ventisette fantocci gettati nel Tevere (2), mal si accorda per
divisibilità con quello delle quattro regioni della città nelle quali,
secondo il testo supplito di Varrone, apparirebbero distribuiti, ma
piuttosto con quello delle tre tribù genetiche dalla cui fusione si
costituì lo stato romano. Perciò il Mommsen inclinava prima a
correggere il XXVII in XXIV, onde sarebbero risultati sei sacella
per ognuna delle quattro parti in cui fu divisa la città ; ma poi
(vedi 1. e.) preferì ammettere che ciascuna di queste potesse con-
tenere un diverso numero di. Argei. Ed è opinione più probabile,
quando però non si voglia — come io proporrei — non supplire il
testo varroniano, e intendere, come nulla vieta, « in partes urbis
disponere », « distribuir qua e là per la città » (3).
(1) Varr. de 1. 1. V. 45. Argeorum sacrarla; V. 48. primae regionis
quartum sacrarium ; V. 48. Argeorum sacellum sextum.
(2) Varr. de 1. 1. VII. 44. Argei fiimt e scirpeis simulacra liominum
XX VII. Dionigi I. 38 dice però, forse per falsa analogia col numero delle
curie, elbujXa... xpiàKOvra. Quanto al numero di due che leggiamo in Ovidio
(Fasti V. 628) vi dev'essere un evidente errore di codici.
(3) Confronta in Varrone stesso de 1.1. V. 52. « in eius regionis partibus
sunt ». La lezione del codice Fiorentino « cum, Argeorum sacraria in
septem et viginti partis urbi sint disposita » direbbe « distribuire in 27 parti
a servizio, o ad uso della città ».
- 516 -
Ma comunque si voglia pensare la distribuzione dei sacella
Argeorum, corrispondevano ad essi, secondo il Momncisen, altret-
tante divisioni territoriali della popolazione che, come i montani
e i pagani, avevano nel sacellmn il loro centro religioso, onde i
sacra prò sacellis sarebbero la festa di queste, vorrei quasi dire,
parrocchie.
Questa opinione del Momrasen, che identifica i sacra prò sa-
cellis coi sacra Argeorum, era già stata accolta dal Wissowa {de
feriis anni romanorum vetustissimi, pag. XII) ; ma oggi l'abban-
dona e la combatte (Real-Lexicon, IP. 694) colle ragioni seguenti:
Se la parola sacella fosse stata, così come vuole il Mommsen,
la parola propria e rituale per indicare le cappelle degli Argei,
non troveremmo in Varrone usata promiscuamente con essa quella
di sacrarla, di significato, conia già dimostrò lo Jordan, così di-
verso; ne Livio e Festo le chiamerebbero senz'altro loca.
Inoltre l'opinione di una suddivisione sacra della città connessa
col rito degli Argei, non troverebbe nelle parole di Varrone, sulle
quali solamente essa si appoggia, un sufficiente argomento ; perchè,
secondo il Wissowa, il passo da noi riferito di Varrone altro non
vuol dir che questo : « le altre località della città erano, quando
nei primi tempi furono istituite le cappelle degli Argei, designate
con nomi speciali, diversamente d'oggi che le particolari denomi-
nazioni, quali Collis Salutaris, Mucialis, Latiaris e simili, scom-
parvero dall'uso ».
Ritiene invece il Wissowa in un suo recente studio {Sepii-
montium und Subura, pag. 6 e seg.) che ne' tempi più antichi
come i pagi si suddividevano in compita, così i montes, ossia
quelle comunità che celebravano i sacra montanorum o Septi-
montium, si suddividevano in comunità aventi ciascuna il proprio
sacellmn (1) e celebranti esse pure, tutte nel medesimo giorno.
(1) All'iscrizione (Bdllctt. Com. XV. 1887, pag. 156) : Mag{istrei) et fia-
min{es) montani or um) montis Oppi de pequnia mont{anorum) monlis Oppi
sacellum claudend{nm) et coaequand{wn) et arbores serundas coeravertmt,
offre, egli dice, un perfetto riscontro quest'altra (GIL. IX. 1618): M. NaseU
lius... Sabinus et Nasellius Yitalis... paganis communib{us) pagi Lucul(...)
porticum cuni apparatorio et compitum a nolo pecun{ia) sua fecerunt.
-517 -
ma ciascuna per conto proprio, una festa annuale diversa dal
Septimoniium. Questi sarebbero i sacra prò sacellis de' quali si
parla in Festo.
Or quanto alle obbiezioni che il Wissowa move contro l'iden-
tificazione dei sacra prò sacellis coi sacra Argeorum proposta
dal Momrasen, pare a me che l'argomento tratto dall'uso promiscuo
che Varrone fa di succila e sacrarla a proposito degli Argei
avrebbe assai più valore se fra le due parole corresse quella sicura
e assoluta distinzione che lo Jordan afferma ; ma che non vi sia,
oltre a quanto diremo in seguito, lo dimostrerebbe per sé solo il
fatto di veder Varrone, che attingeva direttamente ai libri ponti-
ficali, far uso indifferentemente dell'uno e dell'altro vocabolo a
indicare il medesimo luogo o edificio sacro.
E quanto al modo d'interpretare il passo di Varrone, da lui
proposto, non appare, se non erro, abbastanza, qual relazione possa
intercedere fra il tempo o il fatto dell'istituzione delle cappelle
degli Argei e il tempo o il fatto delle particolari denominazioni
topografiche di Roma antichissima.
Se ora passiamo ad esaminare la nuova e per vero ingegnosa
opinione ch'egli emette sui sacra prò sacellis^ opinione che può
dirsi in certo qual modo la diversa applicazione del principio
stesso ch'è a fondamento di quella del Mommsen, essa pecca in
questo che, crea, senza l'appoggio di alcun testo, una del tutto
nuova suddivisione della popolazione montana, facendo, a dir così,
del mons una diocesi distinta in parrocchie; introducendo cioè per
via di mera ipotesi elementi nuovi in un organismo che noi già
troppo imperfettamente conosciamo.
Se dall'iscrizione da noi ripiodotta alla nota 1 della pag. prec.
qualcosa si potesse dedurre a proposito di questa ipotesi, non è, se
mal non vedo, in favore suo : poiché parmi risulti come ogni co-
munità montana avesse un unico e proprio sacellum, centro reli-
gioso del mons, mantenuto a spese comuni ; cosa che per sé stessa
parrebbe escludere, o render meno probabile, l'esistenza di altri
centri minori che non sappiamo qual cosa avrebbero o politica-
mente, 0 topograficamente rappresentato.
Né d'altra parte, pur ammettendoli, s'intenderebbe una distin-
— 518-
zione fra sacra prò sacellis e sacra prò montibus quando, inter-
pretando sacella in certo qual modo equivalente a montes, quei
sacra non sarebbero stati che una specie di questi.
In tutte le interpretazioni che siam venuti esponendo, è presa
la parola sacella in un significato particolare e antonomastico ;
cioè 0 come luoghi sacri al culto gentilizio, o come cappelle degli
Argei, 0 come altari compitali, o come santuari di montani. Per
vedere se non sia possibile accoglier la parola in una diversa e
più larga significazione è necessario, ripigliando un argomento già
toccato dallo Jordan (Top. IL p. 278), studiarne prima il valore
e l'uso e discutere alcuni testi in cui essa s'incontra.
Gellio (VI. 12) riporta la seguente definizione di sacellum data
da Trebazio in un suo libro de. religionihus : « Sacellum est locus
parvus deo sacraius cum ara », e insieme l'etimologia che quello
scrittore offriva della parola e che Gellio stesso dichiarava falsa :
« sacellum ex duobus verhis arhitror compositum: sacri et cellae;
quasi sacra cella » ; etimologia che contrastando, nella falsità sua,
colla definizione stessa, ci rivela però come nella mente di Trebazio
la parola non si scompagnasse dal concetto di edificio : cappella
0 tempietto.
Invece anche in Festo (318 M.) sacella son definiti « loca dis
sacrata sine tecto », dove sine tecto è da intendersi non di tem-
pietto scoperto come il «perforatum tectum ut ea videatur divum
idest caelum » di cui parla Varrone (de I. 1. V. 66), ma di spazio
aperto al di sopra. Tal parola conveniva quindi soprattutto a un
terreno scoperto dedicato a divinità, distinto, come può ben pen-
sarsi, mediante recinto, dal terreno profano e dove poteva sorgere
un'ara. Onde nell'iscrizione surriferita dei montani del monte Oppio
si parla di chiudere e appianare (claudendum et coaequandum)
il sacellum e di piantarvi alberi (arhores serendas) ; e nel passo
di Cicerone de divinat. 1. 46. dove si narra di Cecilia Metella
« exisse in quoddam sacellum ominis capiendi causa », pur evi-
dente appare dall'uso augurale a cui serve che il sacellum è spazio
libero e scoperto.
Anzi se ne dovrebbe dedurre che il sacellum è un templum nel
- 519 —
senso augurale ; anzi col nome di templum chiama Livio appunto
(X. 23) quello che prima aveva designato col nome di « sacellum ».
Sacellum in tal senso diremo quindi il « Corniscarum divarum
locus — trans Tiberim cornicibus dicatus » (Festo, ep. 64); sa-
cellum, V « aram in loco augusto consecratam » dalla vestale
Licinia (Cic. de dom. XLIIL 137), e per egual ragione eran forse
detti e in Livio e in Festo « loca » i sacella Argeorum ; i ter-
mini stessi di « suffossa, inaedifìcata, oppressa » che usa Cicerone
(de haurispic. resp. XV) per esprimere sacella soppressi, paiono
accennare non già ad edifici, ma piuttosto a recinti e ad aree sacre.
Che poi sull'area sacra sorgesse un'ara, o una statua, o un tem-
pietto, ben s'intende, onde malgrado che sacellum, ara, signum
abbiano significazioni distinte (1), s'indica in Ovidio (Fasti, V. 128)
colle parole « aram — signaque parva JDeum » quello che è detto
in Tacito {Ann. XII. 24) « sacellum Larum»; e con « Pudi-
cUiae signum » in Festo (242 M.) ciò che in Livio (X. 28) « Fu-
dicitiae sacellum », e in Varrone (de 1. 1. V. 47) è designato, ci-
tandosi fonti pontificali, « Minervium » (scil. sacellum) ciò che in
Ovidio (Fasti 111. 837) « parva — deluhra Minervae ».
Onde può riuscire in qualche caso dubbio se con quella parola
debba intendersi solamente un'area sacra, o anche un piccolo edi-
ficio sacro ; come, a cagion d'esempio, nel verso di Ovidio (Fast.
I. 271) «ara — parvo coniuncta sacello », e nel passo di Tacito
(hist. IH. 74) « modicum sacellum lovi conservatori aramque
posuit ».
I quali epiteti «parvum » e « modicum » qui e altrove aggiunti
a sacellum, ci portano a domandarci se veramente nella parola
non era già per se stesso contenuto il valore di diminutivo.
Gelilo (VI. 12) rifiutando la falsa etimologia che di essa dava
Trebazio, spiega la parola come un diminutivo di sacrum : « ex
SACRO dimìnutum » ; così Prisciano (111. 38). Spiegazione proba-
bile della parola e universalmente accettata, la quale ci porterebbe
(1) Così leggiamo in GIL. I. 577: eidem sacella aras sir/na quae in campo
sunl, quae demonstrata erunt ea omnia tallito de/erto composito statui-
ioque.
t
— 520 r-
a ritenere che il concetto di piccolezza fu primamente contenuto
e inteso nella parola, sia che si considerasse la cosa per sé stessa,
sia in contrapposizione all'area più ampia del templum. Ma lo
Jordan (Top. d, S. E. II. 280) nega questa originaria significazione
diminutiva del vocabolo, ritenendo sacellum non essenzialmente
diverso da sacrum, non più cioè che lo sia gemellus da geminus.
sella da sedes, flagellum da flagrum e non riconoscendovi alcun
valore diminutivo più che in Inno covetta.
Tesi certamente ardita, perchè, almeno nell'applicazione sua nei
testi classici, sacellum è sempre detto di luoghi sacri di modesta
importanza, tali che, come vedremo più innanzi, poterono scom-
parire per abuso privato senza difficoltà e senza proteste ; e gli
epiteti stessi parvum e modicum non tanto vogliono indicare una
proprietà che non fosse sempre comune a. sacellum quanto met-
terla in più chiaro rilievo o determinarne meglio il grado, nel
modo e per la ragione stessa che noi diremmo « piccola cappel-
letta ». Nel citato luogo di Tacito « modicum sacellum » è appunto
contrapposto a « templum ingens ».
Che se colle parole « apud Cloacinae sacrum » Plauto (Cure.
4. 1. 9) accenna veramente al sacellum di quella dea, ciò non porta
necessariamente a ritener sinonimi sacrum e sacellum., ma solo a
considerar questo come una specie di quello.
Se col nome di sacellum vedemmo indicati luoghi sacri al culto ,
sia pubblico che gentilizio, non saprei citare esempio sicuro nel IJi
quale esso sia usato per sacrario domestico. Dico esempio sicuro,
perchè dal contesto mi parrebbe potersi con una certa probabilità
intendere in senso privato nel passo di Giovenale (XIII. 232) :
pecudem spondere sacello JBalantem et larihus cristam promiitere
galli ; e le case pompeiane offrono esempi di aree interne recinte
e scoperte, coll'ara e le immagini degli dei, alle quali quel nome
ben converrebbe (1). Invece troviam applicata a indicare le private
cappelle la parola sacrarium (Cic. Verr. IV. 2. 3), parola che già
vedemmo usata da Varrone promiscuamente con sacellum e quindi
considerata come sinonimo suo. Or contro l'autorità dell'esempio
(1) Vedi il mio libro: Il Culto privato di Roma antica, pag. 86.
- 521 -
VaiToniano non credo regga la rigorosa distinzione rituale che lo
Jordan sostiene fra sacellum e sacrarium, nel senso che solamente
a sacellum si connetta necessariamente l'idea della consacrazione
fatta da un pubblico sacerdote, in luogo pubblico (Vedi Jordan,
op. cit. II. 279).
Infatti è difficile presupporre quella condizione pei sacella gen-
tilizi che non trovo mai diversamente indicati e in Livio (X. 23)
si narra che Verginia figlia di Aulo, respinta dal sacellum Pu-
dicitiae patriciae perchè s'era sposata a un plebeo, « in vico Longo
uhi habitahat, ex parte aedium quod satis esset loci modico sa-
cello exclusit aramque ibi posuit et convocatis plebeis matrimoniis
conquesta iniuriam patriciarum: hanc ego aram, inquit^ Pudicitiae
plebeiae dedico ». E fu sacellum che ebbe culto largo e duraturo.
La distinzione fra sacellum e sacrarium forse sta in ciò che dal
concetto del primo non si scompagnava l'idea di spazio sacro
aperto, il secondo invece s'appropriava a edificio chiuso, usato a
contenere e riporre immagini e oggetti sacri ; e poiché è possibile
che in ciascuno de' sacella Argeorum sorgesse un sacrarium che
servisse di deposito per le cose necessarie al rito, fors'anche a
contenere ciascuno uno di quei scirpei che venivan buttati nel
Tevere, sarebbe giustificato l'uso promiscuo che ne fa Varrone.
Nell'uso comune poi, quale ad es. si manifesta nelle iscrizioni
votive, sarebbe io credo vano cercare una vera distinzione fra le
due parole, quando non si volesse trovarla nel senso diminutivo
più visibile in sacellum (1).
Ne inutile a determinare l'uso e il valore della nostra parola
è il passo di Livio (IV. 30) in cui è detto che il popolo, infierendo
un'epidemia, s'era dato a pratiche superstiziose, onde si vedevano
divinità e culti stranieri « in omnibus vicis sacellisque », tanto
che fu dato ordine agli edili perchè provvedessero « ne qui nisi
Romani dii neu quo alio more quam patrio colerentur ».
Nel qual passo merita si noti l'avvicinamento e la distinzione
(1) Gonfr. ad' esempio GIL. VI, 414: I(ovi} O(ptimo) D(olicheno) — Sa-
crarum (sic) iussu I(ovis) D{olicheni) sua pec{unia) adnmpliavit con Wilm.
2078 — sacellum Semoni Sanco de sua pecunia fecit.
- 522 - .
di vici e sacella. Per il culto dei vici altro mi pare non si possa
intendere che quelle immagini e quegli altari, posti sulle pareti
esterne delle case, che la pietà privata dei vicini, abitanti nelle
insuìae, decorava — come oggi ancora avviene specialmente nelle
città meridionali — di lumi e di fiori, e che, come è naturale,
crescevano di numero nei momenti del pericolo. Quanto ai sacella
non diremo col Wissowa {Septimoniium und Sutura, pag. 7, n. 2)
ch'essi siano i sacella dei montes ; ma tutti in genere quei pub-
blici luoghi 0 recinti sacri sparsi per la città, e facilmente acces-
sibili a tutti e dove sorgeva un'ara o un simulacro ad una divinità
romana : quelli stessi che Properzio, nel verso citato, decorava
di fiori.
Ed eran numerosi in Koma: se noi aggiungiamo ai ventisette
sacella degli Argei quelli che son designati con tal nome — anche
quando esso non sia espressamente usato nei testi — nella carta
redatta da Huelsen e Kiepert, noi raggiungiamo il numero di
novanta (1) ; se a questi aggiungiamo, se non tutti, alcuni luoghi
designati col nome di ara e di aedicula, il numero cresce d'assai.
Molti di essi, come ad es. il sacellum Cacae, si connettevano
colle più antiche tradizioni storiche e mitiche della città; altri,
come il sacellum Streniae, conservavano memoria di divinità che
s'erano andate oscurando nel mutarsi della coscienza e delle forme
religiose ; altri, come il sacellum Larum querquetulanum, ricor-
davano scomparse particolarità topografiche.
E anche a de' particolari sacella dovette connettersi quella parte
di culto pubblico che per tradizione antichissima era affidata alle
gentes. A quel modo che Vara maxima era il centro religioso del
culto prestato ad Ercole dalle comunità gentilizie de' Potitii e dei
Pinari e in seguito da servi publici, leggiamo in Pesto (ep. 23)
che agli Aurelii venuti dalla Sabina fu concesso dallo stato « pu-
blice — locus in quo sacra facerent Soli » : or un tal luogo, pub-
blico e sacro, è bene un sacellum. E un sacellum sacro a Minerva
(1) Noto qui che manca in questa diligentissima rassegna il sacellum
Cacae ricordato in Servio, Aen. Vili. 190.
- 523 —
dovette pur avere la gens Naiitia venuta d'Alba e che prestava
particolar culto a quella dea (Serv. Aen, V. 704) di cui, come
racconta Dionisio (VI. 69) conservavano un'antica statua « àWoi
irap' àXXiuv lueTaXa^pàvovie? » : culto pur esso che fa parte della
religione di stato come della gentilizia e privata. Potrebbero è vero
tali sacella essere stati i medesimi che servivano ai sacra genti-
licia propriamente detti, poiché infatti vediamo dedicato a Diana
anche il « sacellum in Caeìiolo » pur usato a culto gentilizio, e
poi soppresso da Pisene ; ma celebrandovisi in rappresentanza dello
stato, tanto maggiore era l'importanza loro e la ragione di loro
continuità (1).
Ma coU'aumentare della popolazione, e col bisogno sempre cre-
scente di aree fabbricabili, e insieme coll'affievolirsi della pietà
religiosa, parecchi di quei recinti sacri stretti da ogni parte, spa-
rirono travolti 0 incorporati negli edifici, malgrado il principio
appunto a questo proposito proclamato da Cicerone (de haruspic.
resp. XIV. 32) : « quamquam hoc si minus civili iure perscriptum
est, lege tamen naiurae, communi iure gentium sanctum est, ut
nihil mortales a dis immortalihus usu capere possent ».
Allo scomparire dei luoghi sacri innanzi alla speculazione pri-
vata, accenna Varrone (de 1. 1. V. 49) dove, ricordati il « lucus
facutalis et Larum Quertulanum sacellum et lucus Mephitis et
lunonis Lucinae » aggiunge: « quorum angusti fines : non mirimi;
iam din enim late avaritia usa est».
E al medesimo fatto è verisimilmente da riferirsi una breve e
oscura notizia che leggiamo in Cicerone (de leg. agr. II. 14. 36).
Parlando l'oratore della sconfinata autorità che nella legge pro-
posta si concedeva ai dieci commissari, e in particolar modo di
quella « ut liceat ea vendere omnia de quihus vendendis senatus
consulta facta sunt M. Tullio Cn. Cornelio consulibus aut postea » ,
(1) In Pesto epit. 147 è ricordato un sacellum Minucii (pur questo da
aggiungersi alla rassegna di Huelsen e Kiepert), da cui avrebbe preso il
nome la porta Minucia. Non conosco altro esempio di sacellum indicato col
nome gentilizio, ma così probabilmente furono designati di solito i luoghi
sacri al culto delle genti.
— 524 —
domanda perchè nella legge non si volesse specificare nominata-
mente « ista omnia de quibus senatus censuit ». Or egli risponde t|
che noi fecero per un resto di pudore « simt enim loca pnhlica
urbis, sunt sacella, quae post restitutam tribuniciam potestateni
nemo attigit, qiiae maiores in urbe partim periculi perfugia esse
voluerimt. Haec lege tribunicia decemviri vendent ». Una tal ven-
dita dal Senato decretata « propter angustias aerarli» i consoli
non l'avevano eseguita « propter invidiam », che la cosa doveva ,
parere al popolo odiosa ; ora la si riproponeva da altri e per lo
stesso fine se non per la stessa necessità. Aree pubbliche ancor
libere in Eoma, e alcune nelle località migliori, tali da destare
la cupidigia degli speculatori, rappresentavano certamente un bel
capitale, dal quale lo stato non ricavava alcun frutto.
Che i sacella a cui qui si accenna sieno gli Argei, come non
pare alieno dall'intendere il Mommsen (Staatsr. IH. 124. not. 1),
non mi par punto probabile, quando penso alla loro connessione
con una delle antiche cerimonie purificatrici della città, e insieme
ai molti altri sacella di divinità ormai oscure e di culto obliato
sparsi in tutta Roma. In ogni modo non soltanto essi.
Ma ciò che in questo passo è più oscuro, è in qual modo tali
sacella fossero connessi colla restituia tribunicia poiestas. Certo
mi pare che qui si allude alla legislazione del 305 di R. e non,
come ad es. crede lo Zumpt annotando il passo, al rinnovato po-
tere tribunizio avvenuto per opera di Pompeo. E ciò per due ra-
gioni : in primo luogo perchè un così breve periodo di tempo non
bastava a far sentire tutta l'autorità d'una rispettata tradizione ;
in secondo luogo perchè vi si accenna a diritto di tal natura che
deve rimontare alla più antica ricostituzione del tribunato, per
quanto non se ne trovi mai accenno, intendo cioè quel diritto di
asilo, che in altra forma e per altro scopo ritroviam menzionato
già a proposito delle anticlie origini di Roma, e connesso all'area
inter duos lucos sul Campidoglio : diritto che ricostituendosi il
tribunato, ben potè essere o riconosciuto o riconfermato ad alcuni
(partim) luoghi sacri, e a condizioni non dissimili da quelle che
pur godevano certi xdì^ox \epoi in Grecia, quali, ad esempio, ve-
diamo così espresse per uno di essi (CIG. 2919): tòv ikétiiv \xr\
- 525 —
àòiK€iv |ar|òè àòiKou|Lievov Trepiopav • eì òè ^fi èHuuXri eivai Kaì
aÙTÒv Kttì TÒ Tévo(; aÙToO (1).
Questi perfugia pericuU costituivano, per così dire, quasi un
supplemento all'intercessione tribunizia; nel sacellum sacro al
nume, non penetrava la violenza, e l'asilo s'apriva pronto e facile
al plebeo perseguitato. Era una diversa forma di quell'intervento
divino che si manifestava anche nella sacrosancta poiesias del
tribuno.
Ma anche senza che una legge dello Stato intervenisse a sop-
primere questi centri religiosi, le trasformazioni edilizie di Roma
e le necessità dei nuovi tempi, cancellavano senza opposizione e
senza proteste le tracce dell'antica pietà. Un notevole esempio del
come ciò avvenisse lo troviamo nel seguente passo di Festo
(pag. 154 M.) : « Miitini TiUini sacellum fuit in Veliis, adversus
mutum (murum ?) Mustellinum in angiportu, de quo aris suh-
latis, halnearia sunt facta domus Cn. Domita Calvini ciim man-
sisset ah urbe condita ad principatum Augusti Caesaris invio-
latum religioseque et sancte cultum fuisset ut ex Pontificum
libris manifestum est, in quibus significatur fiiisse ad sacrarium
sextum et vicensimum dextra via iusta diverticulum ubi et
colitur et mulieres sacrificant in eo togis praetextis velatae ».
Nel qual testo non solamente ritroviamo la parola sacrarium,
già usata da Varrone, a indicare evidentemente una delle cappelle
degli Argei, ma lo vediamo fatto punto di riferimento e quasi
centro d'una circoscrizione ecclesiastica.
Ne risulta pure come i Pontefici esercitando anche rispetto ai
sacella il loro alto ufficio di sorveglianti del pubblico culto, ne
conservassero nei loro libri l'esatta indicazione topografica, certa-
mente per assicurare la perpetuità del culto contro l'oblio o l'u-
surpazione. Cosa tanto più necessaria quando i sacella già collocati
in località aperte e visibili, venivano circuiti, oppressi, nascosti
dalle case sempre crescenti, confinati, come leggiamo nel citato
passo di Festo « in angiportu ». E anche siam condotti ad am-
mettere che entro le case venissero a trovarsi racchiusi de' pub-
(1) Confronta anche GIG. 1926; 1909.
— 526 - .
blici sacella senza perdere gli antichi diritti di culto, rimanendo
non solamente sotto la sorveglianza de' sacerdoti, ma ne' registri
dello stato. Così Cicerone (de harusp. resp. XIV. 30) a provare
che nella casa già di Quinto Seio e poi passata in proprietà di
Clodio, vi erano stati sacellum et arae, soppressi da Clodio, scrive :
« tàbulis hoc censoriis, memoria multoruni firmaho ac docebo ».
Si potrebbe, è vero, mettere innanzi il dubbio trattarsi qui di
sacellum gentilizio, come gentilizio è il « maximum et sanctis-
simum Bianae sacellum in Caeliolo » che l'oratore stesso poco
dopo lamenta essere stato usurpato e tolto via da Lucio Pisone ;
0 anche di sacellum domestico, perchè parlando della soppressione,
vi si accenna anche all'istituzione sua colle parole : « ita est inae-
difìcatum sacellum, ut alius fecerit, tibi tantum modo sii demo-
liendum ». E veramente esempio di sacellum gentilizio entro case
private ci è offerto — benché caso singolare — da quello che
Clodio stesso aprì in casa sua dopo la sua transitio ad plebem ;
ma è tuttavia inverisimile che nei passaggi di proprietà si per-
petuasse l'obbligo pel nuovo padrone verso una comunità genti-
lizia diversa dalla propria. E quanto al carattere familiare, non
sarebbe stato certamente il caso di sollevare proteste per la chiu-
sura di un oratorio domestico. Si noti inoltre che a proposito del
sacellum delle case di Clodio Cicerone è condotto a parlare della
soppressione e invocata riapertura di un altro al quale sarebbe
impossibile negare il carattere di luogo sacro aperto al pubblico
culto, dico il magmeniarium Telluris.
Magmentarium è felice congettura del Mommsen invece del-
l'inintelligibile armamentarium dei codici, e detto di sacellum
trova, io credo, la sua spiegazione in un paragrafo della legge
sacra che regolava i sacrifici dell'ara narbonese (Orelli 2489) il
quale suona : « sive quis hostia sacrum faxit qui magmentum
nec protollat id circo tamen probe factum esto » ; poiché l'esonero
dall'obbligo di aggiungere il magmentum o « giunta sacrificale » (1)
nel sacrificio compiuto su quell'ara fa necessariamente supporre
(1) Vedi in proposito il Marquardt 111. 179.
— 527 -
che per altre arae e quindi sacella un tal obbligo vi fosse, e si
dicessero in tal caso magmentaria^ assai più che in Varrone (d.
1. 1. V. 112) si \%^gQ per verisimile correzione « magmentaria
fana ».
Or questo sacellum Telluris era stato tolto al culto e racchiuso
in un vestibolo privato : « nunc sanctissimam partem ac sedem
maxhnae religionis privato dicunt vestibulo contineri », dove la
controversa parola vestibulwn non pare possa prendersi in senso
diverso da quello che troviam definito in Gellio (XVI, 5) : « locum
ante ianuam vacuum... » : l'area pubblica era divenuta per usur-
pazione area privata. E la cosa non aveva suscitato proteste, cer-
tamente perchè nella trascuranza delle antiche tradizioni religiose
era caduto in dimenticanza anche il culto particolare di quel
luogo sacro ; ma infierendo allora una carestia, e desolando la
sterilità i campi, il pericolo destava dall'indifferenza e si chiedeva
con insistenza la riapertura del sacellum e il ripristinamento del
culto. Di questa necessità si preoccupava o fingeva preoccuparsi
Cicerone quale curator aedis Telluris ; ma pare che chi aveva
soppresso quel ?nagmentarium volesse valersi della sentenza stessa
che aveva prosciolto d'ogni vincolo religioso la casa di Cicerone
pur già consacrata, per giustificare la sconsacrazione di quell'area
sacra (1).
Ora tornando al punto primo dell'argomento nostro potrebbe
bene l'espressione « sacra prò sacellis » riferirsi a quella parte
di culto che si tributava alle divinità onorate nei pubblici sacella,
e del quale questi, numerosi e sparsi per tutta Roma, erano, più
0 meno secondo i diversi tempi, altrettanti centri. Culto certa-
mente vario e vivace, sia che, secondo i casi, vi pigliasse parte
una classe sola di cittadini (come ad es. le matrone patrizie nel
(1) Cosi pare a me doversi intendere il passo di Cicerone de haruspic.
responso. XIV. 31...: quod is qui illud magmentarium sustulit, mea domo
hidicio pontificuni liberata, secundum fratrem suum iudicatum esse di-
cebat » ; ritenendo che il padrone della casa fosse il fratello di Clodio ;
mentre Clodio avrebbe spinto a quell'usurpazione.
— 528 —
sacello della Pudicizia patrizia, o le matrone plebee nell'altro
innalzato come contro altare), sia che fosse affidato ad una comu-
nità gentilizia, sia che (come avviene pur oggi) formasse la cura
dei vicini (cfr. Cic. de harusp. resp. XV. 32) abitanti il rione.
Questa parte di pubblico culto, che, per quanto appartenga a
comunità meno definite delle curiae, dei montes, dei pagi, entra
però nel medesimo ordine ed ha i caratteri degli altri sacra pò-
pularia, nessun'altra designazione avrebbe nella definizione festiana
e ben ad essa converrebbe quella di « sacra prò sacellis » alla
quale ogni altro riferimento vedemmo convenir meno.
Attilio De-Marchi.
I
— 529 —
L'ATTIVITÀ LETTERARIA
DEI DUE DIONISII DI SIRACUSA
I.
II fenomeno delle corti letterarie non appare soltanto nell'età
moderna, dacché le splendide corti del nostro Rinascimento e
quelle, che in tempi a noi vicini fiorirono anche presso altri po-
poli, hanno nell'antichità riscontri notevoli e gloriosi antecedenti,
se pur con differenze di non piccolo rilievo. Nella Grecia antica
il fatto appare largo e complesso e ricco di straordinaria efficacia
sulla produzione letteraria: ne è proprio di una sola età della
letteratura greca; che, anche tralasciando circa l'unione fra saggi
e potenti esempi mitologici citati dagli antichi, quali di Poliido
e Minosse a Creta e di Tiresia e Creonte a Tebe (1), e solo ac-
cennando alla presenza di cantori presso corti antichissime de-
scritteci'nei poemi omerici (2), non si deve certo dimenticare che
le corti dei principi Greci esercitarono non lieve momento sullo
svolgersi della poesia epico-storica ed epico-genealogica dapprima
e della poesia lirica più tardi, ne è possibile tacere, fra gli altri,
degli Aleuadi e degli Scopadi in Tessalia (3). Richiamano però
(1) Platon, ^is^ 2, 311 a: xaì TTepiavòpov tòv KopivGiov koì 0aXf}v tòv
MiXriatov ùfivelv €'iu)9aaiv à'juct, Kaì TTepiKXéa Kaì 'AvaSayópav, koì KpoTaov
aO Kaì ZóXuJva ibc; aoqpoùq Kal KOpov lu; òuvòtorriv. Kaì b^ taiira jiiiuoù-
uevoi oi TTOir|Tai Kpéovxa laévxoi Kaì Teipeaiav aùvoYouffi, TToXùeibov he
Kol Mivuu, *AYa|aé)avova òè koì Néaropa koì 'Obuaaéa koì TTaXajari&ri • vj(^
b' èjuol òoKeì, Kol TTpo|Liri9éa Aiì toùto irr) avvf\fov oì itpi&TOi fivGpuuiroi.
(2) a, 154; 6, 44.
(3) Euforione di Calcide (111° s. a. C.) scrisse irepi 'AXeuabiùv, lavoro
storico-letterario come ir. ioSiuiiJUv e -rr. jueXoTTOnIiv del medesimo autore. Vd.
la Pyth. X di Pindaro e la vita di Simonide.
Rivista di filologia, ecc., XXV. 34
— 530 --
tutta la nostra attenzione le corti di Samo (1), di Atene (2), di
Fella (3), di Fere, di Alicarnasso (4) e sopratutto di Siracusa. Il
fenomeno delle corti letterarie nella Grecia si inizia in tenapi an-
tichissimi, si esplica poi e perdura finché si svolge in forma chia-
rissima nel periodo alessandrino (5). Basterebbe anche la sola
continuità del fenomeno a farlo giudicare importante quale risulta
studiando altresì notevoli sincronismi che si incontrano nelle bio-
grafie di poeti, di filosofi, di storici, di scienziati ed investigando
amicizie ed inimicizie di letterati. E, quello che più importa, da
ricerche che possono parere soltanto biografiche e perciò pertinenti
pili ai letterati che alla letteratura, si assurge alla contemplazione
ed alla intelligenza di uno svariato complesso di fatti politici,
storici, letterari, E ciò si comprende anche soltanto dai nomi di
Ibico, di Anacreonte, di Simonide, di Pindaro, di Bacchilide, di
Eschilo, di Epicarmo, di Euripide, di Agatone, di Filosseno, di
Platone, di Filisto, di Carcino, di Archita, di Eschine Socratico,
di Aristippo, di Eudosso e di molti altri che assumono non piccola
importanza nella storia delle lettere Greche e delle corti Elleniche.
Nell'età prealessandrina la corte letteraria, che tutte le altre
superò in importanza, fu senza dubbio quella di Siracusa, che
(1) CoGNETTi DE Martiis, Socialismo antico, Torino, Bocca, 1889, p. 459. 4
(2) H. Flach, Peisistratos und seine literarische Thdtigkeit, Tùbingen
1887.
(3) U. KòHLER, Makedonien unier kónig Archelaos, Sitzb. d. k. Ak. d.
W. Berlin 1893, p. 498; Gottleber, De Archelao Macedonum rege e Pla-
tonis Gorgia et Alcibiade II, Annaemontii 1771 (irreperibile). Per T 'Ap-
XéXaoq di Euripide vd. Nauck, F^G^ p. 426.
(4) Teodette compose il Maùauj\a<;, vd. Nauck, FTG"^, p. 802, e partecipò
al concorso, bandito da Artemisia, per l'elogio del defunto marito, e vinto
da Teopompo.
(5) Wegener, De aula Attalica litterarum fautrice, Kopenhagen 1836 ;
SusEMiHL, Geschichte der gr.Litt. in d. Alexandrinerzeit, Leipzig, Teubner
1891, I p. 1. Gfr. Pausan. I, 2, 3: ouvf|aav òè fipa Kai tótg to!<; PaaiXeOoi
TTOiriTai" Koi irpórepov Iti koì TToXuKpàTei Zdjuou TUpavvoOvTi 'AvaKpéuuv
itapf|v Kol èq ZupaKOÌKTaq iTpò<; 'lépiuva AioxuXoc; koì Zi|nuuvibr|(; èoTÒtXriaav
Aiovuaio) bé, 6^ OoTcpov èxupctvvricfev èv ZiKeXict, OiXóEevo<; irapfiv, kqì
'AvTiYÓviu MoKeòóvujv fipxovxi 'AvTaYÓpa(; 'Póbiot; xai ZoXeùq 'Aparoq.
Civ.Epist., Fiat, 2, 311.
- 531 —
noi, tralasciando la splendida fioritura coeva a lerone (1), ci ac-
cingiamo a studiare pel tempo dei due Dionisii, i quali e si sfor-
zarono di raggiungere il glorioso antecedente dei Dinomenidi e
riuscirono a suscitare imitatori (2). Entrambi i Dionisii, oltre ad
essere il centro di un notevole movimento letterario, alla produ-
zione letteraria vollero partecipare essi medesimi direttamente col-
l'opera e coU'attività loro, dacché il primo Dionisio aspirava alla
gloria di poeta ed il secondo si volse di preferenza alla filosofia. In
corrispondenza colle predilezioni dei due tiranni troviamo con Dio-
nisio il vecchio una corte in cui prevale la poesia e chi la coltiva,
e con Dionisio minore un predominio dell'elemento filosofico, per
quanto l'opera dell'uno continui talmente l'opera dell'altro, che,
non solo per ragione di persone e di età ma anche per il non
interrotto effetto sulla letteratura, i due tiranni formano neces-
sariamente, per questo riguardo, oggetto uno e indivisibile del
medesimo studio. 11 quale davvero, volendo non già fermarsi alla
superficie, ma addentrarsi nelle cose, non è fra i meno ardui, non
perchè difettino le notizie, ma perchè spesso queste sono incerte
e contraddicentisi e prive frequentemente dell'autorità che spetta
a documento di provata autenticità o di antichità sufficiente. I
quesiti di fatto si intrecciano e si intricano con quelli sulle fonti;
i dati storici appaiono talora esigui di fronte agli elementi favo-
losi e leggendari ; la ricerca sulle origini di racconti meravigliosi
è in sommo grado malagevole. Laonde su punti importantissimi
anche i pochi fatti sicuri, generalmente attestati e di tale natura
da essere ritenuti attendibili, non ci appaiono in tal luce, che
metta in evidenza i particolari piti importanti, li lumeggi e li
spieghi in quella misura che l'importanza dell'argomento richieda
e la diligenza della ricerca faccia sperare.
(1) G. Fraccaroli, Per la cronologia delle odi di Pindaro, in Museo
Ital. Ili p. 165, cap. IV (p. 42 dell'estratto).
(2) Non pochi furono i tiranni Greci che si dedicarono alle lettere: il più
vicino a Dionisio I è Mamerco (Plut. Timol. 31). Tra gli altri non si deve
dimenticare Tolemeo Filopatore. Il dilettantismo letterario si estese però
anche a sovrani di popoli non Greci: così Artavasde, re dei Parti, secondo
Plutarco Grass. 33 xpaYUJ&ia? èitoiei koI Xóyouc; ^ypavjje koì iaTop(a<;, oiv
èviai biaadiZovTai. Augusto tentò una tragedia intitolata Aiace; vd. Sueton.
Div. Ang. 85, Macrob. Sat. II, 4, 2.
— 532 -
Sui tiranni spetta alla storia pronunciare un giudizio, il quale
non deve essere dimenticato qui dove si studia la corte letteraria
Siracusana. Questa certo non era fatta per assicurare il trionfo
ai migliori, perchè, fondata sulla diffidenza dei principi, sul sistema
di una corruzione su larga scala, favoriva gli elementi guasti e
loro rendeva agevole il trionfo. Delle persone di retto ed elevato
intendimento si aveva paura, e contro di esse il primo Dionisio
si mostrò cupo e violento, il secondo carezzevole ed insidioso,
volendo quegli prevalere colla forza e colla prepotenza, questi col-
l'ipocrisia e la malizia. Piacere al tiranno era il supremo intento,
ad assicurarsene il favore si mirava con tutti i mezzi, e perciò
molti erano gli intrighi e le lotte. Ma due correnti appaiono bene
spiccate alla corte Siracusana, una, per lungo tempo trionfante, la
quale vuole mantenere e sfruttare la tirannide favorendola perchè
corrispondente ai proprii ideali politici, ed è il caso di Filisto(l), 4
0 per il proprio tornaconto, per bassezza d'animo, per adulazione, f
ed è il caso dei più — l'altra che forma l'opposizione alla tiran-
nide 0 al tiranno, in parte mossa da ideali politico-filosofici, ed
è il caso di Platone, in parte dall'ambizione di sostituirsi al ti-
ranno, pur con l'intendimento di assicurare a Siracusa un governo
migliore. La filosofia e la poesia furono in queste lotte soltanto
uno strumento, del quale entrambe le parti contendenti vollero
servirsi, aggruppandosi sotto gagliardi antesignani : sotto Dionisio I
e poi sotto Filisto coloro che favorivano i Dionisii, sotto Platone
e Dione coloro che miravano al cambiamento del governo e dei
governanti. La violenza della lotta politica si rispecchia nel campo
letterario, ed anche in esso troviamo morti, esigli, pericoli, in-
sidie, ripicchi personali, lotte spesso piccine e meschine : accanto
al più alto idealismo si trova il più basso tornaconto personale,
dacché per molti non si tratta soltanto di una censura ad ar-
gentea Musa, quale era quella di Simonide, ma di assicurarsi
con ogni più basso mezzo, nell'ambiente guasto e corrotto, la pa-
gnotta, per usare la comune espressione. Sulle viltà commesse da
(1) CoRNEL. Nep. Dion. 3: « Philistum hominem amicum non magis
tyranno quam tyrannidi ».
- 533 —
chi alla corte Siracusana cercò nelle lettere uno strumento per i
proprii interessi si fermano di preferenza le notizie giunte fino a
noi, segno che gli atti ignobili erano in troppo grande maggio-
ranza: ma per fortuna la dignità della natura umana e delle let-
tere brilla per l'opera di egregi personaggi. I quali però, sia pel
guasto ambiente della corte Siracusana, sia per false accuse dì
chi ne viveva lontano, ma ne riteneva corrotto chiunque anche
per non lungo tempo ne facesse parte, sia per reciproche accuse
delle due parti contendenti intorno ai tiranni, sia per esagerazioni
facilmente divulgate e facilmente credute e predilette anche da
qualche forma artistica che maggiormente le diffondeva, non po-
terono neppur essi sottrarsi alle calunnie; sicché difficoltà mas-
sima si trova nello sceverare l'elemento favoloso dal reale, nel
giudicare quali elementi di realtà vi siano nella favola, che spesso
è manifesta ed appalesa alle volte tali caratteri, da potersi ricon-
durre a tipi determinati e noti già in parte.
Chi pensi ai fautori che ebbe Dionisio 1, principalmente pei
successi della sua politica, ed agli avversari accaniti che egli
trovò necessariamente nei molti vinti, può senz'altro attendere
difese soverchie ed accuse esagerate, tanto più violente quanto
più insigne appariva il tiranno , tanto più insistenti quanto
maggiori sembravano le difficoltà anche solo per combatterlo, non
che per vincerlo. Esempio davvero luculento è l'orazione Olim-
piaca di Lisia. Ma se oratori e storici entrarono nell'agone, alla
forma dell'eloquenza e della storia non si limitò la lotta, tanto
più che nel primo Dionisio c'erano alcune debolezze proprie del-
l'uomo, le quali troppo facilmente offrivano il fianco al ridicolo :
nel secondo Dionisio la caduta dall'elevata posizione Siracusana
all'umile condizione di magistello a Corinto troppo agevolmente
si prestava al dileggio. Pel ridicolo e pel dileggio era forma assai
più indicata la comedia, che non trascurò l'ufficio suo e colpì i
due tiranni e coloro che li circondavano. Nella mischia letteraria
entrarono altre forme affini (1), e da tutte emanò quella corrente
che nella posterità condannò costantemente i Dionisii.
(1) Non vanno dimenticati i Siili di Timone.
— 534 —
Ma se per noi sono grandemente importanti le figure dei due ■
tiranni, non dobbiamo collocarle all' infuori degli elementi in I
mezzo ai quali vivono; e qui dobbiamo fermare in modo speciale
il nostro pensiero sull'adulazione, conseguenza della tirannide e
poi causa, tra le precipue, del suo inacerbimento ed infine della
sua rovina. È appunto questa la parte cui si volgono di prefe-
renza i racconti degli antichi, ricorrendo perfino ad un nome spe-
ciale — AiovuaioKÓXaKe^, tanto il fatto sembrava notevole. Vero
è che anche per i fautori (1) di altri principi l'accusa di adula-
zione non è risparmiata presso gli scrittori Greci, ma per nessuno
essa appare tanto profonda, sprezzante e convinta quanto per gli
adulatori dei Dionisii. Ed in realtà i fatti che sono citati per
l'accusa hanno tale natura da qualificarla e confermarla, qua-
lunque sia la fonte onde le notizie sono dedotte. Non solo alla
volontà del tiranno nessuno osava opporsi, tanto che anche i pochi
bene intenzionati ed i più audaci, che si trovassero momentanea-
mente alla corte Siracusana, dovevano usare grande cautela nel-
l'avvicinare il principe e nel consigliarlo — i cortigiani erano
supinamente pronti a compiacerlo bassamente, ad imitarlo, ad in-
graziarselo. Chi ride a distanza, unicamente perchè lo vede ridere
con altri, e non sa di che; chi imita il tiranno nel difetto della
vista, e la corte ai banchetti si cambia in un'accolta di miopi ;
chi si abbandona ai disordini della gola ed allo stravizio, che pei
Dionisii era arte di governo, adoperata anche contro le persone
ritenute pericolose — informi il caso del figlio di Dione : e così
abbiamo, almeno al tempo del primo Dionisio, un tiranno sobrio,
almeno tale intenzionalmente, attorniato da crapuloni (2), Fra
(1) Per questi l'accusa ha uno spiccato carattere politico che la determina,
mentre esso non è né l'unico né il principale movente delle accuse contro i
AiovuoioKÓXoKec;: si può anzi dire che mentre a priori fu considerato come
quasi non onorevole l'aver partecipato alla corte di Siracusa (anche Platone
per questo fu molto censurato), era invece stimato onorevole per artisti e
poeti l'aver frequentato altre corti precedenti e contemporanee. Si pensi p.
es. che per la dimora di Agatone alla corte di Macedonia Aristofane usa
l'espressione eU juaKàpuiv eùujxiav, Ran. 85, mentre il lusso e la sontuosità
dei banchetti Siracusani forniscono argomento a biasimi ed a satire.
(2) Cfr. HoRAT. Epist. ad Pison. 434 sqq.
— 535 —
questi non pochi letterati fanno trista figura; ma chi reagisca,
chi tenti le blandizie con retto sentimento, è vinto e soprafatto.
Pochi mostrano la franchezza, non davvero straordinaria, che ebbe
Filosseno (1) nel condannare i versi del primo Dionisio: altri
assecondava il capriccio e la debolezza dei tiranni che ambivano
d'essere poeti e filosofi, e persino taluno nei conviti osa venire a
contesa, e poi vantarsene, per aver preferito i versi di Dionisio
secondo a quelli dei più insigni poeti (2). Si comprende perciò
quale dovesse essere lo sprezzo dei due Dionisii, specialmente del
primo, per gli uomini della sua corte e, da questi, per tutti gli
uomini: dacché gli estranei che giungessero alla corte Siracusana
0 dovevano adottarne le maniere, e molti lo fecero assai volentieri,
0 ne erano combattuti e respinti.
Compaiono qui pagine che sono tra le meno belle della storia
dei Dionisii : non le gloriose lotte del primo Dionisio contro i
Cartaginesi, non la geniale politica e il disegno di un grande im-
pero greco occidentale (3), non il grande e ricercato influsso sugli
eventi della madre patria, ma l'uomo compare qui in stridente
squilibrio e contraddizione tra i difetti, che studiamo, e le qualità
insigni che si esplicano in altro campo. Ed invero dobbiamo con-
siderare Dionisio 1 nella sua parte meno bella, avvicinandoci man
mano agli ultimi anni del suo dominio, nei quali in lui, anche
come tiranno, andarono accentuandosi i difetti; e sull'altro Dio-
nisio richiama specialmente la nostra attenzione la lotta contro
Dione, nella quale la parte meno felice è rappresentata dal tiranno,
(1) Filosseno, del quale dovremo parlare in seguito, in alcuni atteggia-
menti ed in alcune audacie si presenta a noi come figura che ci fa pensare
ai buffoni delle corti medievali, cui tutto era lecito, e nei quali perciò l'au-
dacia era molto relativa. Certo alcuni aneddoti sul conto del poeta Giterio
hanno carattere buffonesco, qualunque sia la fonte onde emana il racconto.
(2) Athen. 250, b. Contese letterarie, molto animate ed anche troppo,
dovevano essere non infrequenti e violente e appassionate (vengono in mente
quelle per decidere la superiorità dell'Ariosto o del Tasso), ma questa non
ha per causa un motivo letterario, come quella cui, fra padre e figlio, l'uno
dei quali preferisce gli antichi poeti , l'altro Euripide, ci fa assistere Ari-
stofane nelle N'ubi, v. 1355 sqq.
(3; G. Beloch, L'impero Siciliano di Dionisio, Atti de' Lincei, Serie III,
voi. 7 (1880-1) p. 211.
- 536 ^
e quindi la rovina della tirannide Siracusana — assistiamo cioè
alla distruzione dell'edificio costruito dal primo Dionisio. L'umile
ufficio del secondo Dionisio, quando visse esule a Corinto, è la
chiusa misera di un ciclo grandioso di avvenimenti ; ma per noi
è appunto da studiarsi come il grammatista, il magistello di Co-
rinto si trovi nello pseudo-filosofo e poeta, quale voleva essere il
tiranno; alla stessa guisa nel primo Dionisio non tanto investi-
ghiamo il tiranno, ma quanto in esso sia rimasto, se pur con tras-
formazioni, dell'antico scrivano. Sicché, e nella grandezza massima
e nella decadenza dei Dionisii, il nostro studio è precipuamente
rivolto agli elementi meno belli e meno elevati, che tuttavia as-
sumono grande importanza e ci spiegano quanto mai gli eventi.
Qui non dobbiamo esporre quanto nei tiranni concerne la Storia;
tenendone grandissimo conto per studiare la corte letteraria Sira-
cusana è d'uopo limitarci, per quanto è possibile, al fatto lette-
rario. Investigando il quale la nostra ricerca comprenderà varie
parti: una prima cioè rivolta all'attività letteraria dei due tiranni
in quanto anch'essi vollero partecipare ad arricchire il patrimonio
poetico e filosofico dell'Eliade, una seconda dedicata alle relazioni
dei Dionisii coi letterati che o frequentarono la corte di Siracusa
0 ad essa si interessarono. E quest'ultima a sua volta sarà desti-
nata prima a studiare i poeti della corte Siracusana, e poi a trat-
tare della vita e dell'opera di Platone in quanto è connessa alla
corte dei Dionisii, presso la quale fu tre volte — e sarà questo,
e in se e per l'importanza del filosofo, l'elemento precipuo della
ricerca — e quindi si tratterrà sugli altri filosofi e sugli scien-
ziati che attorniarono i due tiranni. Vedute le varie vicende di
numerosi ed importanti personaggi, notatene le connessioni col
movimento del pensiero e dell'arte Greca e altresì collo svolgi-
mento della storia Ellenica, potremo finalmente con rapida sintesi
giudicare, in modo adeguato, i fatti e le persone.
Per ora ci limitiamo alla prima parte dello studio: vedremo
che l'attività letteraria dei due tiranni Siracusani non tanto è
importante in sé, quanto per i fatti che suscita e per i giudizi
che provoca e per la produzione letteraria che crea intorno a sé.
— Da un centro non felice viene un forte impulso che si estende
!
— 537 —
a larga cerchia, la quale si agita, reagisce, produce, e fra i pro-
dotti taluno va ascritto ai più notevoli della letteratura Greca
contemporanea. Ma per questi e per i prodotti inferiori va notato
subito che nessuna corte ebbe nella Grecia così largo e forte in-
flusso nella Storia e nella Letteratura: affermazione questa che è
la conseguenza della ricostruzione dell'ambiente della corte Sira-
cusana, a conoscere la quale, se risultano utili molti elementi che
pazientemente si possono riunire dai vari luoghi ove sono sparsi,
è molto idonea un'operetta Senofontea.
Leggendo il lerone si sente un'eco vivissima delle persone e
delle cose che attorniavano i due Dionisii, dacché se il titolo
pare voglia guidarci a' tempi anteriori, in realtà l'opera è tutta
piena di accenni ai due tiranni. Siamo all'incirca nel medesimo
caso della Ciropedia, ispirata da fatti e da persone contempo-
ranee all'autore e rivolta ad esporre, almeno in parte, vicende
antiche : come da Ciro il minore Senofonte assunse a Ciro il
grande, così l'autore del dialogo dai Dionisii risalì a lerone. Nella
breve opera filosofica si parla dei mali della tirannide, in modo
che lerone affermi che essa ha maggior numero di mali ed in
più alto grado che le altre condizioni di vita : questo pensiero
fondamentale del lerone è appunto enunciato in un verso di Dio-
nisio I (1), sicché non sarebbe interamente fuori luogo il supporre
(i) Nauck, FTG^, p. 794, fr. 4: r^ yàp rupavvie; àòiKi'aq Mrixrip eqpu. Cfr.
Xenoph. Cyrop. I, 1, 3; Plutarch. Apophteg. Moral. 175 d. — il dodice-
simo di quelli pertinenti a Dionisio I. — Ai mali della tirannide pensa anche
Euripide, e non una volta sola. Nel verso di Dionisio non scorgerei soltanto un
disprezzo cinico verso gli uomini, come ritiene I'Holm, Gesch. Sicil. II, 151,
ma altresì una difesa personale e l'espressione di un sentimento cui il ti-
ranno, profondamente pessimista , non poteva sottrarsi : così penso per lo
spirito che dominava nella corte Siracusana, dove avviene il fatto di Da-
mocle, dove l'invidia è trovata il massimo dei tormenti : vd. Horat. Epistul.
I, 2, v. 58 sq.:
Invidia Siculi non invenere tyranni
Maius tormentum.
Circa l'accordo con Euripide sulla tirannide cfr. Sittl, Gesch. d. Gr. Liti.
Ili p. 378 : « Den Athenern zu gefallen hatte er seiner Bewunderung fùr
Euripides einen wahrhaft furstlichen Ausdruck gegeben und auf dem Pa-
— 538 —
che esso e fatti sulla natura di quello di Damocle abbiano con-
tribuito alla concezione del lavoro Senofonteo — ed invero il ti-
ranno Siracusano cercava, anzi con troppo ardore, che le opere
sue fossero note. Si aggiunga che, se il buon Senofonte vuole fi-
losofare e generalizzare uscendo dai casi particolari del tale o
tal altro tiranno, e ciò specialmente nella seconda parte del dia-
logo, nella prima espone precipuamente una serie di mali proprii
sì del tiranno in generale, ma tali da essere stati comuni e a
lerone e ai Dionisii, come peculiari di questi ultimi soltanto. -
Senofonte invero era in condizioni favorevoli per conoscere Tarn- ■
biente e le persone di Siracusa, dacché fra i diecimila c'erano
Siracusani ; ad un Siracusano, Temistogene, attribuì V Anabasi un
Siracusano compare nel Symposion (1); egli poi dimorò a Scillunte,
vicino ad Olimpia, e perciò in luogo opportuno per sapere quanto
Dionisio I tentasse di eccellere in quella solenne riunione dei Greci,
e piti tardi a Corinto si trovò nella città che piìi intensamente e
direttamente si occupava ed aveva conoscenza delle cose Siracusane.
Senofonte, interamente devoto a Sparta, doveva seguire con spe-
ciale interesse gli eventi del potente alleato alla città, prediletta
ed essere spinto a giustificarne, almeno in certi limiti, atti ed
opere che in altri personaggi era difficile ammettere e che com-
piuti dal tiranno Siracusano destavano generalmente censure e ;
reazioni, alle quali poteva sembrare opportuno opporsi: in realtà
la preoccupazione della difesa è tutt'altro che aliena dal lerone
Senofonteo. Qualora poi si ammettesse col Diels e col Eichter (2)
l'ipotesi che Senofonte divulgasse le sue opere filosofiche colla
parola in forma quasi di conferenze e che a tale intento egli pre-
parasse i suoi scritti, ne verrebbe che argomento vivo ed interes-
pier sich als voruiteillosen toleranten Herrscher aufgespielt ». — Quanto
al verso di Dionisio qui citato vd. ^Iillkr, Mélanges de lilt. cjr. p. 304: i^
YÒp TUpavvì^ kt\. toOto Aiovuoìlu Tivéi; tuj ZixeXiaq xupdvvuj Trpocr-
ónTouoiv.
(1) Xenoph. Conviv. 2 sqq. Per questo tipo Siracusano vd. J. Bruns, Bas
literarische Portràt der Griechen ini fùnften itnd vierten Jahrhundert vor
Christi Geburt, Berlin, N. Hertz, 1896, p. 387 sq.
(2) E. RiCHTER, Xenophon Studien, in N. Jahrbùcher fiir Philol. und
P. XIX Supplementband, p. 154.
— 539 —
sante per il pubblico erano assai più i due Dionisii, il prinao
sopratutto, anzi che lerone — ai Dionisii tutto il pubblico si in-
teressava, trattandosi di cosa immediata e non lontana, e Seno-
fonte assumendone la difesa non si scostava dal suo ideale filo-
sofico e dal favorire la politica spartana.
Esaminiamo ora il dialogo. Fin da principio 1, 2 s'incontra
un'espressione notevole: Kal iòiuuTriv T€T£vr||a€VOv Kal vOv tù-
pavvov òvTtt, che non facilmente può riferirsi a lerone (1), ma
è interamente adatta al caso di Dionisio. Le parole eie, eùqppo-
auvaq Te Kaì XvjTtaq àvOpujTTOK; ci riconducono al noto verso di
Dionisio, già citato, e al fatto di Damocle (2), e preparano l'af-
fermazione del paragrafo nono : jueioi ttoXù eùqppaìvoviai ol tu-
pavvoi TuJv lierpiu)^ òiaYÓVTiuv Iòiuutujv, ttoXù òè TTXeiuu Kaì
jLieiZiu) XuTToOvTai, rinforzata da prove particolari, prima fra le
quali quella del paragrafo undecimo (3) — che i privati vanno
dove vogliono Kaì e\q làc, Koivà^ TTavr|Yupei<;. L'allusione ad Olimpia
potrebbe ritenersi riferita e a lerone e a Dionisio ; più tardi però,
tornando su questo punto, l'autore intende parlare di Dionisio (4).
Segue nel paragrafo decimoquinto un cenno sugli adulatori, i
(1) Cfr. 6, 1. — lerone, come fratello di Gelone, anche prima di essere
tiranno era fuori della condizione vera e propria di ìòiuOrric;, talché prima
di assurgere al potere era in condizioni consimili a quelle in cui si trovava
Dionisio II vivo ancor Dionisio I. Abbiamo poi altre espressioni di parecchi
antichi, nelle quali il contrasto fra privato e tiranno, qualità riscontrantisi
nella medesima persona per tempi successivi, è indicato appunto nel primo
Dionisio, che del fatto è, direi, esempio veramente classico. Vd. p. es. Diod.
Sic. XIII, 96: AiovÙ0io^ jièv oijv èn Ypci|U|uaTétu<; koì toO tuxóvtoc; ìòiujtou
Tfi^ lueYiarric; nóXeuic, tùjv 'EXXnvibujv èYevri0r| TÙpavvoc;. Cfr. Isocr. ad
Dionys. 405, e ; Demosth. Litt. Phil. 161. Vd. J. Bass, Die Herkunft des
Tìjrannen Dionysius I von Syrakus, Wiener Studien, III p. 151.
(2) Cic. Tusc. Disp. V, 21, 60.
(3) Cfr. 2, 8.
(4) E vero che neppure lerone andò ad Olimpia, ma vi riportò grande
successo, mentre l'opposto avvenne al primo Dionisio, che mandò ai giuochi
Olimpici Tearide, suo fratello, ma con insuccesso completo e rumoroso. Vd.
Strab. 212: Kal'Aiovùaioq ó Tfjq ZiKeXiaq TÙpavvo^ èvreCOev tò ìttttotpo-
qpelov auveatriaaTo tlùv óBXrixuJv Tttttujv, ujoxe Kal òvo|ia iv toxc, "EXXrjai
YevéoOai rnc; 'Ev€TiKrjq uujXeiat; koI ttoXùv xpóvov i.\}boK.\\xf\aa\ tò y^voc;.
— 540 —
quali, se non mancarono a lerone (1), erano troppo notoriamente
esistenti alla corte dei due Dionisii, come ci informano i fami-
gerati AiovucTiQKÓXaKeig (2). Subito dopo si parla della splendi-
dezza dei cibi, che colpì Platone, e che da varie parti ci è atte-
stata pei due Dionisii, anche da Cicerone — Si è veduto che per
quanto il primo Dionisio fosse sobrio (3), tali non erano ne voleva
che fossero le persone della sua corte (4). Parlando dei piaceri
venerei (1, 30) c'è una parola per moglie forestiera, quale era
appunto il caso di Dionisio, e si menzionano TraiòiKd, pei quali il
tiranno non può essere felice : Cicerone (5) riferisce per l'appunto
che neppure per tale rispetto era felice Dionisio. Nulla ci dice
che il nome AaiXoxog (1, 32) sia vero e storico, e perciò esso non
costituisce un argomento per riferire il passo piuttosto a lerone
che ad altri. Più oltre (2, 6) si parla di guerre e queste furono
sostenute assai più e con maggior pericolo da Dionisio che da
lerone. I sospetti ed i pericoli temuti in pubblico ed in privato,
non interamente alieni da lerone (6), furono provati assai più da
Dionisio, cui particolarmente sembra riferirsi 1' eicJuj tf]^ oiviiac, :
si confronti 2, 7 e 6, 5 (7). Parimenti le persecuzioni contro i
cittadini (2, 17) appartengono piuttosto a Dionisio (8). L'accenno
all'amicizia che dà principio al capo terzo ci riconduce al noto
episodio di Daraone e Finzia (9), cioè ai Dionisii. Le parole di
3, 2: ttgXXoìk; ò' uttò iraibiuv aLiTOÙ(; àTtoXujXÓTaq ci rammentano
(1) Plutarch. ilfor. 68: 'Eirixapiaoc; ò' oùk òp0à)(; toO lépojvoe; àveXóvToq
èviou(; TUL)v auvriQuiv kcì |ae9' i^iuépoq KoKéoavTot; ètri òemvov aÒTÓv, à\Xà
irpiuriv, èqpri, Gùluv toù^ q)iXou(; oùk èKÓXeoat;.
(2) Athen. 250. IsocRAT. ad Bionys. 4 (405 b), Anonym. in Arist. Rhet.
Ili, 2 (1405 a. 23), p. 168 deli'ed. Berlinese dei Commentatori di Aristotele.
(3) CiG. Tusc. Disp. V, 57: « atqui de hoe homine a bonis auctoribus sic
scriptum accepimus summam fuisse eius in victu temperantiam ». Cfr. Plu-
tarch. Moral. 175 f.
(4) Athen. 427, e. Cfr. Tzetz. Chil. X, 814 sqq.
(5) GiG. Tusc. Disp. V, 20, 58 e 60.
(6) Si pensi agli uUTaKcuarai di lerone; cfr. Aristot. PoL 1313, b, 14
(p. 282 ed. Susemihl, Teubner), Plutarch. Moral. 522 f.
(7) Gic. Tusc. Disp. V, 20, 59; De Off. II, 7, 25.
(8) Vd. Aelian. V. E. XIII, 34 e 45, tt. Zujuuv V, 15.
(9) Gic. Tusc. Disp. V, 22, 63.
- 541 -
che questo accadde a Dionisio I per opera di Dionisio II, e al-
l'opera di Dione contro il secondo Dionisio si riferisce l'espressione
che segue: Kaì òtto étaipiuv Te tùjv ludXiata òokoùvtijuv cpiXiuv
elvai. In 4, 6 la nostra attenzione è richiamata sull'avidità di
Dionisio I, delle cui empie spoliazioni c'è menzione e difesa in
I, 11: 01 TÙpavvoi Toivuv àvaYKaZiovTai TcXelaia (JuXav Kai lepà
Kttì àv9piJUTT0U(g olà TÒ eie, jàc; àvaYKaiai; òaTrdva? àei txpoa-
beiaQai xpnMÓiTUJv (1): fra i detti memorabili di Dionisio I raccolti
da Plutarco uno almeno si collega a quest'ordine di fatti (2). Coi
pericoli vicendevoli fra tiranno e uomini insigni che li circondano
si apre il capitolo quinto : se il male esistette alla corte Siracu-
sana pifi di una volta, non fu mai così grave come al tempo dei
Dionisii ; lo dimostrano le vicende di Antifonte il tragico, di Fi-
iosseno, di Platone. Ma in questo passo c'è, direi, una giustifi-
cazione delle violenze di Dionisio. In 5, 3 si parla di mercenari
stranieri (3) — Dionisio aveva mercenarii nella sua guardia per-
sonale e nell'esercito, financo dei Celti. Quanto si legge in 6, 2
non potrebbe riferirsi che a Dionisio, dacché lerone molto tardi
avrebbe cessato di essere d|uouao(; (4). Nel seguente paragrafo
terzo (5) avremmo una conferma alla sobrietà di Dionisio 1: )aé0r|v
Kttì U7TV0V ó)uoìuj(; èvéòpa (puXdTTOjuai, della quale sarebbe indi-
cato anche il movente: c'è altresì un altro accenno ai sospetti ed
alle paure che agitavano il tiranno — sul medesimo argomento
torna 6, 12 parlando di imprigionamenti, di morti, di rapimenti
di ricchezze che fanno ancora pel caso di Dionisio. All'amore di
popolarità, che Dionisio II cercò a principio del suo regno (6),
c'è un accenno in 8, 1 ; ai giuochi ritorna ancora 9, 11; 10, 16;
II, 5 dove c'è allusione a sconfitta, quale e pei carmi e pei cocchi
Dionisio I aveva subito ad Olimpia (cfr. 11, 6): per lerone invece
(1) Si confronti ancora il già citato verso di Dionisio. Cfr. 8, 9. Vd. Cic.
De Nat. Deor. Ili, 34, 83, Strab. 226, Lucian. Menipp. 13.
(2) Plutarch. Mor. 176, e (13).
(3) Cfr. 6, 5; 8, 10; 10, 1 e 6. Cfr. Cic. Tusc. Disp. V. 22, 58.
(4) Aeliax. V. Hist. mi, 15.
(5) Cfr. 2, 1; 7. 1.
(6) Plutarch. Moral. 176, d (1).
(1) Ath. 427, e. II Bentley, il Letronne, il Shindler ammisero questo
viaggio di Senofonte che sarebbe stato compito prima del 401; ma non ci
sono prove. Vd. A. Roquette, De Xenophontis Vita, Regimontii Borus-
sorum, 1884, p. 78. 11 Roquette crede che la fonte della notizia di Ateneo
sia un convivium quoddam. Ma se veramente essa derivi da un convivium,
circa la natura di esso non dovremmo dimenticare Y òttikòv òernvov di
Matrone Pitaneo (vd. Paradoxorum epicorum graecorum et Archestrati
reliquiae recognovit et enarravit P. Brandt, in Gorpusculum poesis epicae
ludibundae I, Lipsiae, Teubner MDCGGLXXXVlll, p. 53 sqq.), e non si deb-
bono perciò dimenticare talune fonti d'mdole speciale, su cui più tardi dovrà
tornare il discorso. Né si dimentichi il òeiTtvov di Filosseno Leucadio ; cfr.
Athen. 5, b; 146, f (ibid. 126); Rock, FCG, I, 645 sq. E per Archestrato
di Gela vd. ibid. p. 114. — Per la bibliografìa del lerone rimando al Ro-
quette. Vd. H.\RTMANN, Analecta Xenophontea, 1887-89, 1, p. 35 e li, p. 236.
— 542 —
erano assai più memorabili i trionfi. Oltre a questi e ad altri
cenni particolari, che si potrebbero cogliere qua e là, c'è l'intera
seconda parte, che, trattando di come un tiranno possa comportarsi,
non si scosta interamente dal tentativo politico attribuito a Dione
ed a Platone, di migliorare il governo di Dionisio I e special-
mente di Dionisio IL Per di più nel lerone si parla anche di
saggi che attorniano il tiranno, vocabolo non negato ai poeti, ma
usato maggiormente pei filosofi e quindi più adatto a designare
chi frequentava la corte dei due Dionisii, anzi che quella di le-
rone, sebbene qui Simonide stesso ed Epicarmo specialmente pos- |
sano reclamare per sé e per ogni ragione quella parola.
Il lerone Senofonteo appare adunque ispirato ed improntato a «
persone e vicende della corte Siracusana al tempo dei due Dio-
nisii, per quanto vi siano alcuni .elementi non alieni e da lerone
e da tiranni contemporanei a Senofonte : sicché e dai singoli
cenni, sparsi nel dialogo, ed ancor più dal loro complesso, che
soltanto ai Dionisii può riferirsi, crediamo convalidata la nostra
opinione, che Senofonte fu spinto a comporre il lerone dai casi
dei due Dionisii per l'appunto e che nel dialogo si trovi ripro-
dotto l'ambiente Siracusano contemporaneo ai due tiranni. Anche
non potendosi dimostrare ed essendo troppo difficilmente attendi-
bile, sulla sola attestazione isolata di Ateneo, che Senofonte sia
stato a Siracusa (1), e non potendo pensare che da un tale fatto
Senofonte abbia avuta conoscenza dell'ambiente e delle persone e
— 543-
la spinta a comporre l'opera sua, ad ogni modo è messo in chiaro
dal libro Senofonteo quanto interesse la corte Siracusana destasse
nel mondo Greco e quanta importanza le assegnassero i contem-
poranei.
Ammettendo però questa conclusione ne verrebbe che dovrebbe
mutarsi la data che è fissata per la composizione del lerone, do-
vendolo assegnare non al 401, né fra il 399 e il 394, né al 388
0 al 384, ma ad anno posteriore al 367: e potremmo spingerci
alquanto piti in là, dacché Senofonte passò gli ultimi anni della
sua vita a Corinto. Senza giungere però ad un limite estremo,
il lerone ritengo si possa assegnare ai primi anni del regno di
Dionisio li, e più precisamente circa al tempo in cui Dione esi-
liato da Siracusa procacciava amici a sé e nemici al tiranno: giun-
geremmo così a circa il 360. L'ostacolo maggiore a fissare questa
data si troverebbe nell'uso delle particelle, pel quale il Roquette
dice che il lerone ottimamente si adatta al 384; però, senza giun-
gere allo scetticismo che per tali ricerche mostra l'Hartmann, non
si possono d'altra parte accettare con tutto il rigore le conse-
guenze che il Koquette vorrebbe assodare, fondandosi sopra un
criterio che pur troppo molte volte non è soltanto unico ed iso-
lato, ma anche pericoloso, mentre per la natura sua dovrebbe
essere usato come un sussidio, prezioso sì, ma non assoluto.
Un'altra considerazione ci conduce a fare l'attuale esame del
lerone:' se investigandone lo stile e la lingua si é trovato un uso
molto Senofonteo e Senofontea anche appare la maniera di filo-
sofare, ciò è maggiormente confermato mediante l'osservazione di
un procedimento letterario che il lerone avrebbe comune colla
Ciropedia, l'assurgere cioè dal presente al passato, e dall'avere
ritrovato nel dialogo sentimenti di politica filo-lacone — contri-
buto questo alla questione della genuità del dialogo Senofonteo.
IL
Secondo Diodoro Siculo (1), Dionisio I liberatosi dalle guerre
contro Cartagine, approfittò della pace per darsi con molto zelo
(1) DioD. Sic. XIV, 109; XV, 6 e 7.
— 544-^
alla poesia, chiamò presso di sé i poeti più illustri e fra questi
Filosseno. I fatti esposti dallo storico Siciliano nei capitoli sesto
e settiDQO del libro decimoquinto sono da lui riferiti all'Ol, 98, 3
ossia al 386 a. C, ma è palese che non tutti si svolsero in quel-
l'anno, dacché fra l'altro Diodoro parla anche di un avvenimento
accaduto nell'Ol. 91,1 =388, narrato già nel capitolo 109 del
libro decimoquarto, che ci fornisce il più antico dato cronologico
che all'attività letteraria del tiranno si trovi esplicitamente asse-
gnato presso gli antichi. Ai giuochi Olimpici del 388 (1) Dionisio
volle partecipare splendidamente inviando quadrighe che prendes-
sero parte alle corse e mandando attori abilissimi che recitassero
poesie da lui composte e dalle quali sperava grande fama. Il suc-
cesso non corrispose all'aspettativa; tuttavia, data l'importanza
della solenne riunione dei Greci ad Olimpia, non é interamente
fuor di luogo ritenere che Dionisio, pur cedevole alle lusinghe
degli adulatori che lo attorniavano, e soverchiamente presuntuoso
de' suoi meriti letterari, non destinasse ai giuochi olimpici i primi
suoi tentativi poetici, i quali però si debbono ritenere alquanto
anteriori al 388, i cui mesi precedenti la festa solenne dovettero
essere impiegati nell'allestire i preparativi della recita, nel rac-
cogliere gli artisti, nel far loro imparare le poesie, nel trasportare
essi e le quadrighe, sotto la direzione di Tearide, fratello del ti-
ranno, da Siracusa ad Olimpia (2). Si aggiunge che nel 388 Ari-
stofane fece rappresentare per la seconda volta il Pluto, dove c'è
una parodia del Ciclope di Filosseno Cit'erio (3), che rappresentò
(1) Allora, non nel 384 come voleva il Grote, Lisia pronunciò il suo
'OXu|uniaKÓ<;: quindi per l'inizio dell'attività letteraria di Dionisio I resta
escluso che si debba pensare ad anno posteriore al 386. Vd. Dionys. Halic.
De Lys. 29; ps. Plutarch. Lys. (in vit. X orat.). Cfr. A. Schaefer, The-
miatohles und Ilieron von Syrakus, Lysias Olympische Uede in Philologus
XVIll, p. 187 sqq.; F. Blass, Die Attische Beredsamheit F, p. 432.
(2) Per la durata della navigazione fra Grecia e Sicilia cfr. G. M. Go-
LUMBA, Il mare e le relazioni marittime fra la Grecia e la Sicilia nel-
l'antichità, Archiv. Stor. Sic. p. 330.
(3) Aristoph. Phit. v. 290 sqq. Cfr. gli scolii. 11 Berglein, De Philoxeno
Cyterio dithyramborum poeta, Gottingae MDCGGXLIII , p. 10, riferisce
che Filosseno abbia dimorato presso Dionisio prima del 391 in poi.
— 545 —
quel ditirambo, composto contro Dionisio, soltanto dopo che si fu
allontanato dalla corte Siracusana. Perchè Aristofane ne facesse
la parodia (1) era necessario che il ditirambo di Filosseno fosse
divulgato, e che perciò fosse passato almeno qualche tempo dal-
l'allontanamento del Citerio da Siracusa, dove era stato chiamato
quando Dionisio si dedicò all'attività letteraria, la quale anche
per questo risulta anteriore al 388. Inoltre la prima dimora di
Platone a Siracusa finì nel 389, e prima dell'arrivo del filosofo
in Sicilia Dionisio era stato in relazione, sembra non soltanto
letteraria, con Archita di Taranto. Ci avviciniamo così al 392,
anno nel quale Dionisio concluse la pace con Magone cartaginese:
ma oltre quest'anno non potremmo risalire. Invero il Kòhler (2)
aveva creduto che fino dal 393 a Dionisio per la sua attività
letteraria fosse toccato l'onore di un'epigrafe Ateniese, nella quale
sarebbe comparso il nome di Filosseno. Una piìi attenta lettura
del marmo diede ragione all'Holm, che propose invece TToXuHevov
TÒv Kriòeffifiv TÒv Aiovu0iòu, facendo risultare che l'epigrafe è
in onore di Dionisio, de' suoi fratelli Leptine e Tearide e di Po-
lisseno, cognato del tiranno. Per ritenere che il decreto fosse cau-
sato dal desiderio di onorare in Dionisio il poeta, opinione alla
quale il Kòhler non seppe interamente rinunciare, rimarrebbe sol-
tanto, non il fatto che il decreto fu proposto da un Cinesia (3),
che non si può identificare col poeta omonimo, ma la circostanza
che l'iscrizione fu trovata nel teatro di Dioniso, a scegliere il
qual luogo potrebbe però aver contribuito il nome del tiranno. È
questa un'ipotesi molto semplice e che potrebbe sostituirsi a
quella che il Kòhler espone ed in cambio della quale dichiarava
(1) Il ditirambo di Filosseno fu rappresentato prima altrove e poi ad Atene.
(2) CIA. 11, 8. Cfr. U. Kòhler, Studien zu den att. Psephismen, in
Hermes, 111, p. 156 sqq. e Die gr. Politik Dionysius des àlteren, in Mit-
theil. d. d. arch. Instit. za Athen, I p. 1 sqq. Cfr. Holm, Gesch. Siciliens,
li, p. VII.
(3) ScHOL. AD Aristoph. Nub. 355, Av. 1372-1409, Lys. 838-958, Ran.
153, 404, 1437-8 e Gerytad. 149-150 (Rock, FCG, I, p. 428); Phere-
CRAT. Chiron. 145 (ibid. p. 187); Anaxil, Cic. (ibid. p. 267, fr. 13). In questi
luoghi si tratta sempre della medesima persona ?
Rivista di filologia, ecc., XXV. 35
— 546 —
di non saper trovarne altra migliore (1). Ma anche non accettando
la spiegazione qui proposta, accostandosi o no agli altri tentativi
del Kohler (2). è chiaro che l'epigrafe in discorso non appare
differente da altre due parimenti Ateniesi (3), che appartengono
ad anni nei quali Dionisio era certamente noto in Atene come
poeta, senza però che di tal sua qualità le iscrizioni facciano
menzione.
Per queste considerazioni e pensando alle gravi e molteplici
occupazioni politiche e guerresche del tiranno, ed osservando che
la sua attività letteraria ci è più attestata come un otium che come
un negotium, si può credere al più che prima del 392 Dionisio I
si volgesse alla poesia, se pur vi si dedicò, fuggevolmente soltanto
ed in modo da non destare l'attenzione altrui; ad ogni modo la
sua attività letteraria diventa notevole soltanto dal 392 in poi,
quando alle lettere si rivolse con grande ardore e come d'impeto.
Siccome Dionisio I visse fino al 367 e nelle Lenee di quell'anno
conseguì il primo premio ad Atene con una tragedia, probabil-
mente coir "EKTopoc, Xuipa, ne risulterebbe che egli si sarebbe
dedicato con grande, anzi soverchio fervore, alla produzione lette-
raria per oltre un ventennio, tempo più che sufficiente a perpe-
(1) Die Politik d. alt. Dionys. p. 6.
(2) Op. cit. p. 7. Gfr. CIA, II, 51, 52 e 800 b, 37. II Kòhier discute e
trova mancante di sostegno l'ipotesi che il decreto del 393 fosse dovuto al
desiderio di ringraziare Dionisio pel dono di una nave chiamata 'E\eua(<;,
dacché l'epigrafe 800 b fu scritta fra il 357 e il 350. Che una nave esistente
negli arsenali ateniesi fosse donata fino dal 393, ossia ventisei anni prima,
sarebbe tutt'altro che impossibile; male trattative iniziate in quell'anno fra
Atene e Dionisio (Lys. De bon Aristoph. 19) non ebbero tale successo da
far supporre come conseguenza il dono di una nave. Non sarebbe illogico
pensare che il dono fosse fatto non molto prima del 367, quando la politica
di Atene non discordava da quella di Sparta e di Dionisio, cui si concesse la
cittadinanza ateniese oltre ai premi per le tragedie. L'iscrizione del 393 po-
trebbe essere dovuta a semplici promesse di Dionisio quando Atene cercò
di avvicinarlo ad Euagora; certo, a quanto appare da Lisia, gli Ateniesi si
illusero sul successo di quelle trattative. — Sulla cittadinanza Ateniese data
a Dionisio vedi anche Demosth. Liti. Philip. 8, 10.
(3) CIA, II, 51 e 52 del 369/8 e 368/7: questi onori tributati da Atene a
Dionisio I, al figlio, ai congiunti, richiamano ^lla mente le corone d'oro vo-
tate dalle città italiote; cfr. Dico. XIIII, 105.
- 547-
trare molte opere, anche troppe. Di così lungo lasso di tempo il
tiranno, a quanto sembra, approfittò: secondo Snida (1) avrebbe
composto non solo tragedie, ma altresì comedie e storie — notizia
tutt' altro che attendibile in ogni parte, dacché se non è dubbio
che Dionisio I componesse tragedie, nulla ci dice che fosse anche
autore di comedie, anzi si hanno argomenti del contrario, e quanto
alle storie il cenno di Snida è interamente isolato e non ha l'ap-
poggio di nessun fondamento. Dunque il cenno di Snida su Dio-
nisio I, pur essendo brevissimo, pecca per eccesso dovuto proba-
bilmente a confusione del lessicografo bizantino o della sua fonte;
ma pecca altresì per difetto, avendo noi da più parti vari cenni
che Dionisio I oltre alle tragedie componesse altre poesie e scri-
vesse, oltre poesie, dialoghi filosofici ; notizie tutte la cui atten-
dibilità deve essere accuratamente discussa, ma che non dovevano
essere taciute. Ogni punto invero merita di essere partitamente
e minutamente considerato per quanto delle opere letterarie di
Dionisio siano giunti a noi scarsissimi frammenti e pochi e non
sicuri cenni. Tale sorte toccò ad infiniti altri scrittori e migliori
e peggiori del tiranno Siracusano; ma della perdita delle sue
opere, nel nostro caso speciale, non abbiamo troppo a dolerci.
Di una tragedia di Dionisio intitolata Adone ('/Kbwviq) posse-
diamo tre versi ; tre versi altresì àeWAlcmene ('A\K)Lirivr|); del
Hiscatto di Ettore ci è giunto il solo titolo ricordato dallo Tzetzes
in modo da dedurne "EKTopoq Xùtpa: abbiamo tre versi della
Leda (Af|òa). Un altro titolo è interamente incerto perchè appare
in forme varie e dubbie, ossia Fame (Ai|uó?) o Affamato (Ai-
jiuuTTUJv) 0 Lino (Aivog); ma della tragedia nessun verso ci è
giunto. L'Elmsley congetturò un altro titolo, Medea, da sostituirsi
alVAlcmene ed alla Leda ; ma a tale sostituzione non si prestano
le indicazioni dello Stobeo né dà forza od appoggio un qualsiasi
argomento. Rimangono incertarum tabularum fragmenta (2) ;
(1) SuiD. Aiovuaioc; ZixeXiat; rupavvoc;. IfpaH/e TpaYUJ&ia(; xaì Kuuuujòiaq
Kol iOTopiKà (koI mo9oqpopiKà Koi è'xepa E). Nel lessico di Suida troviamo
cenni biografici e letterari intorno ad altri undici Dionisii, nome molto co-
mune e perciò causa di non poche confusioni presso molti autori.
(2) Della ZujTCìpa non è il caso di parlare. Cfr. Meineke, FCG I (Histor.
crii, comic, gr.), p. 420. Né si deve parlare del Geoiuoqpópo; che a Dionisio 1
trovo attribuito dal solo Fabricius (ed. Harley), li, p. 296.
- 548 -
molto scarsi, dacché comprenderebbero in tutto soli dieci versi,
poiché i due versi che il Naiick pone fra gli adespota (fr. 530 e
533) non possono assegnarsi al tiranno Siracusano (1). Sommando
tutti i versi che rimangono attribuiti a Dionisio non ne troviamo
più di 19, numero esiguo, ma che tuttavia dà luogo a parecchie
difficoltà (2).
Fra le scarse reliquie, le quali della presso che infinita produ-
zione tragica dei Greci a noi sono giunte, è ricordato anche un
altro Adone oltre quello di Dionisio, perchè anche Tolemeo Fi-
lopatore compose una tragedia intitolata Adone (3); ma il titolo,
raro per la tragedia, era invece frequente per la comedia, dacché
abbiamo notizia di non meno di cinque comedie intitolate Adone,
di Platone, di Nicofonte, di Antifane, di Ararorote, di Filisco :
da taluni anche la Lisistrata di Aristofane era intitolata Ado-
niazuse per l'appunto (4). Perciò il titolo Adone in molti, che
non avessero vedute le opere di Dionisio (cosa coli 'andar del tempo
sempre piìi frequente sia per lo scarso valore letterario del tiranno,
sia per le condizioni dell'antica libreria (5)), poteva far sorgere il
pensiero si trattasse di una comedia piuttosto che di una tragedia.
Inoltre di una tragedia intitolata Adone, da attribuirsi ad Anti-
fonte il tragico, che fu in relazione colla corte Siracusana, é troppo
dubbia l'esistenza, anzi soltanto ipotetica, perchè fondata sopra
(1) Questa era già l'opinione del Wecklein, Rh. Mus. NF. XXVIII, p. 179.
(2) Pei frammenti di Dionisio cfr. Nauck, F^G^ p. 793-6 e 943-4, ed
anche la raccolta del Wagner nell'edizione Didotiana — Poetarum tragi-
coruni graecorum fragmenta primum coUegit vitasque breviter narravit
Frbdericus Guilelmus Wagner, p. 108 sqq.
(3) Nauck, JTG', p. 824.
(4) KocK, FCG, 1,601, 775, li, 16, 215, 230, 443, III, p. 301. Il Meineke,
I, p. 315 ed il KocK, II, p. 15, rammentano anche un Adone di Sotades il
comico; ma il Meineke si contraddice a p. 426 dicendo rettamente che
V Adone è poesia di Sotades Maronita, non del comico. 11 Kock ripete quasi
le parole che dà il Meineke in 1, p. 315, ommettendo poi, come il Meineke,
qualunque cenno di un Adone di Sotades il comico nei luoghi dove se ne
raccolgono i frammenti. Vd. Meinere, 111, p. 585; Kock, II, p. 447.
(5) Si pensi a questo proposito che una delle due redazioni della Pace di
Aristofane rimase ignota ad Eratostene, mentre Grates le conosceva en-
trambe. Cfr. Pac. Arg. Ili (p. 175 ed. Didot degli Schol. Aristoph.).
— 549 -
una deduzione non sicura ricavata da congettura non solida, su
confusione tra i nomi di Antifonte e di Antifane (1) neWAntiai-
ticista edito dal Bekker. Il Wagner (2) congetturò clie Dionisio,
composta la tragedia, la desse a correggere ad Antifonte ; ma se
abbiamo notizia che Dionisio facesse rivedere lavori suoi, per
esempio da Filosseno Citerio. nulla di simile si è detto né per
Y Adone né per Antifonte. La congettura del Wagner non è di-
mostrabile, né comechessia risulta necessaria; sicché può seguirsi
il Meineke, il quale afferma (3): fabula de Adonide Atticorum
certe poetarum nullus unquam ad tragoediae composUionem usus
est. Fecit id primus omnium is qui ut in vita ita in paesi nihil
non sibi licere existimavit, Diomjsius Maior. Sarei alquanto meno
reciso nella seconda parte dell'affermazione, dacché dopo r"Av6oq
di Agatone (4) si può credere che più di un poeta, anche fra i
dilettanti, facesse uso di una certa libertà nella scelta dell'argo-
mento e del titolo, e si deve ancora considerare che per altre
tragedie il tiranno non si scosta dai titoli e, si può credere, dagli
argomenti consueti: inoltre sono in lui palesi le traccio dell'imi-
tazione, assunta quasi a canone dell'arte, specialmente di Euripide.
Così, oltre quella di Dionisio, abbiamo cenno di altre quattro
Alcm^ne, di Eschilo, di Astidamante minore, di Euripide, di Ione,
fra le quali non é improbabile che Dionisio imitasse quella di
Euripide, modello preferito dai tragici d'ordine minore. Al pen-
siero di una imitazione Euripidea ritengo non estraneo l'emenda-
(1) Sarebbe una confusione simile a quella nata, dall'uso delle abbrevia-
zioni, tra il nome di Aristofane e di altri comici, nel cui nome ci fossero
elementi fonetici e grafici simili.
(2) Fragm. trag. gr. p. 110: Così ad esempio si ritiene da taluno che sia
stato confuso il nome di Euripide e di Grizia per tragedie composte da
Crizia e rivedute da Euripide ; ma anche questa è spiegazione che per quanto
non possa escludersi, tuttavia non è suscettibile di dimostrazione. Per adattarla
ad Antifonte e a Dionisio manca qualunque prova, tanto più che, ammessa
la confusione fra Antifonte ed Antifane, ci verrebbe a mancar l'unica ra-
gione di pensare ad un Adone di Antifonte, ed a ragione tale supposta tra-
gedia dai critici moderni è sottratta dal numero dei frammenti tragici. Gfr.
Meineke, I, p. 314.
(3) Meineke, 1, p. 315. Gfr. Wagner, p. HO.
(4) Aristot. Poetic. 1451, b, 21.
-550 -
mento tentato dall'Elrnsley circa una Medea (1) da assegnarsi a
Dionisio: ma la proposta dell'Elmsley ha contro di sé almeno ben
altre cinque congetture, che escludono tal nome, tanto meno a
questo proposito necessario quanto è meno infrequente nelle tra-
gedie il titolo Alcmene. Il pensiero che ci espongono i tre versi
superstiti deW Alcmene di Dionisio, benché compaia spesso anche
altrove, in Erodoto, in lirici (2), in tragici, é sotto varie forme
espresso anche da Euripide, donde potrebbe essere passato nella
tragedia del tiranno.
Anche l'argomento del Riscatto di Ettore fu trattato da altri
tragici, cioè da Eschilo (3), da Timesiteo, da Astidaraante, per
tacere di altri, dacché quest'ultimo aveva composto ima tragedia
intitolata Ettore, trattando un argomento per lo meno affine, qua-
lora col Welcker si voglia ammettere che VEttore di Astidamante
sia stato imitato da Nevio (4).
La Leda è in condizioni non dissimili àdXV Adone (5), perchè
non ci è giunta notizia di altre tragedie omonime, bensì sappiamo
di due comedie, di Eubulo e di Sofilo, così appunto intitolate; ma
tale circostanza non ci induce ad accettare l'ipotesi dell'Elmsley,
che a Leda voleva sostituire Medea, per quanto il pensiero dei
tre versi conservatici dello Stobeo sia fondamentalmente il mede-
simo esposto dei tre versi àoiV Alcmene. Certamente il mito di
Leda, come quello di Adone, poteva prestarsi a tragedia; ma noi
dobbiamo notare una seconda coincidenza con titoli di comedie e
non escludere traccio probabili di imitazione Euripidea, anche per
(1) Cfr. anche Stob. LXXVllI, 3, dove l'Elmsley da Piótou ex Mnbeiat;
congettura Aio. tu. Ik Mribeiai; — senza ragione alcuna.
(2) Cfr. fra gli altri Bacchylid. fr. 1, v. 3 (Bergk, PLG.\ 2, p. 569).
(3) Il Wagner, p. Ili, crede che 1' "EKTopoq Xurpa di Dionisio vix ah
Aeschyli Phrygibus discrepràsse; cfr. Nauck, FTG^, p. 84.
(4) I. G. Welcker, Die gr. Tragèdie mit Rùcksicht auf dem epischen
Cyclus, Bonn, 1839, p. 1059. La pittura Pompeiana riprodotta in Baumei-
STER, Denkmdler d. Kl. Alterth. n. 1949 dimostra quanto fosse diffuso l'ar-
gomento.
(5) Il Wagner, p. 110, senza addurre alcun argomento, suppone, e poi
subito recede dalla supposizione, che Adone e Leda siano di Dionisio Sino-
pense. 1 frammenti che éeW Adone e della Leda sono giunti fino a noi sono
affatto privi di carattere comico.
— 551 -
l'argomento in cui non sovrabbondi l'elemento tragico sublime,
ma gli dei pure siano affatto resi simili agli uomini, ed in cui,
nonostante la presenza degli dei nell'azione, prevalga l'elemento
umano.
Della Fame o Affamato o Lino (1) nulla di certo (2) si può
dire; ma è d'uopo rammentare che anche solo in parte accettando
la congettura del Meineke, esistendo una comedia di Alesside in-
titolata Lino^ si ammetterebbe, come per Y Adone e la Leda^ che
più d'uno poteva pensare si trattasse di una comedia. Si potrebbe
pensare però che si abbia a fare con un drama satirico, essendoci
giunta menzione di un Aivo? (TaTupiKÓ*; di Acheo. E a drama
satirico farebbero rivolgere il pensiero le altre due forme del ti-
tolo e la menzione di Eracle e di Sileno nei due luoghi che trat-
tano di quest'opera di Dionisio, potendosi supporre che l'eroe
Tebano avesse nel drama parte non differente da quella che as-
sume uqW Alcestide e nel Sileo di Euripide — e c'era altresì un
'HpaKXfì^ èm Taivdpiu (JatupiKÓg di Sofocle, 'HpaKXf]^ aaiupiKÓi;
di Astidamante minore, e forse tale era anche 1' 'HpaKXfiq di Dio-
gene, per tacere d'altro che sul tipo di Herakles può sembrare
ovvio.
Ma se l'elemento comico dell'intero drama o di qualche parte
di esso, oltre al titolo stesso, poteva anche per questa produzione
di Dionisio far pensare a comedia, un altro accenno ad elementi
comici si trova nello Tzetzes rispetto al fr. 11 di Dionisio, fram-
mento che secondo il poligrafo bizantino apparterrebbe a tragedia
tale da essere drama piìi comico che tragico e scritto contro Pla-
(1) Si suppose anche che il titolo fosse 'HpaxXfìc;: cfr. Wagner, p. 110.
(2) Neppure che appartenga al tiranno, dacché gli scolii Omerici a X, 515
ed EuSTAZio ad Iliad. p. 859, 49 sqq. citano solo il nome di Dionisio senz'altra
determinazione. 11 Mkineke, I, p. 419 credeva che il drama in discorso fosse
una comedia e di Dionisio Sinopense, pur essendo incerto sulla forma ge-
nuina del titolo. Ma appunto perchè è indeterminatissirao il Dionisio autore
del drama non si può escludere che si tratti del tiranno Siracusano e si
tratti di un drama satirico: onde quanto dice il Meineke stesso, 111, 554.
Invero il Kock nei frammenti di Dionisio Sinopense (FCA, II, p. 423 sqq.)
non fa cenno alcuno di tal drama. Si noti negli scolii ad Omero : toOto
fàp KUJiLiiKÓ, che si collega a kcI KU)|aiubia<; di Suida.
— 552 -
tone (1). Fra i due luoghi ove lo Tzetzes parla di quest'argo-
mento taluno forse potrebbe anche scorgere una contraddizione, se
non fosse agevolmente attendibile che il verso abbia sforzata al-
quanto la mano all'autore. Ben è vero che l'epistola prima dello
Tzetzes attira la nostra attenzione anche perchè sembrò al Man-
tranga che oltre al verso del fr. 11 il Bizantino assegni a Dio-
nisio altri otto versi, che non sarebbero, nel caso, piccolo acquisto. i
Ma quei versi che il Mantranga (2) credette opera di Dionisio
non si accordano per l'intonazione e pel contenuto col verso del
fr. 11, al quale rimangono interamente estranei. Perciò, anche
non assegnandoli senz'altro allo Tzetzes (3), a Dionisio non pos-
sono spettare, e tanto più così risulta la cosa considerando altresì
che nelle CMliadi, lo Tzetzes, occupandosi del medesimo argo-
mento e in gran numero di versi, cita solo il fr. 11 là dove aveva
(1) I. Tzetzes, Bpistol. ed. Th. Pressel, Tubingae 1851, p. 3: rriv Aio-
vuaiou xpaYtubiav èiróbovroc;. Cfr. Chiliad. V, 182 sqq.:
èv Ò€ T(4) KOTÒ TTXÓTUivot; òpd|LiaTi yeYpoiiuiaéviy
itXéov KUJ|uiKuuTépLU |uèv f\ TpaTuiòiac; òvti
ÒOKÙ) TÒv OTixov èXeScv, 8(; xf) àpxfl ^ypacpr] ■
aÙToTc; yàp è)aiTaiZ[oO(Jiv oi luuupol PpoTiùv.
Il ÒOKU) del V. 184 dimostra che lo Tzetzes, come era facilmente presumi-
raibile, non possedeva il drama di Dionisio onde cita il famoso verso e che
non deriva da questo drama quanto lo Tzetzes in quella sezione delle Ghi-
liadi ci racconta sulle relazioni fra il tiranno ed il filosofo. — Ecco gli otto
versi (vd. Pressel, 1. e):
DÒ yòtp ^|iò(; TrécpuKe xappriiuujv vóo(;,
oùb' dxapiTÓYXuuTTÓi; €l)ui iipòc; XÓYOuq,
fiXX' olòa vuiiLiàv eùqpuOùq iì\\i damòa.
oìòo Kpaòaiveiv beEiCùi; flyav òópu,
éXÒ» TÒV ITTnOV, OÙ TléqppiKa TÒV KTÙTTOV,
T^ auoTdòriv YHYriGa tOùv óXXujv uXéov,
Kol TÓEa TEivujv où TrTooO|iai TÓq ludxa^-
(2) Anecd. Gr. I, p. 15.
(3) Tale era l'opinione del Pressel, 1. e. nota 2: lusus Musae Tzetzianae
esse videntur. Ma lo Tzetzes nelle lettere cita sempre versi palesemente
non suoi, eccetto in due luoghi, appunto qui alla fine della prima lettera
ed alla chiusa della lettera 106. Dal non aver trovato che i versi di questi
due luoghi appartengano a poeti noti a noi, non si può senz'altro conclu-
dere che sieno dello Tzetzes.
— 553 -
posto e modo, più che nella lettera, a dire e a citare tutto quanto
sapeva del draraa del tiranno.
Ma che cosa era in realtà questo drama più comico che tra-
gico e fatto contro Platone ? Un aborto di tragedia, un drama
satirico, una comedia ? A quali drami appartenevano alcune pa-
role che Dionisio usò in modo ridicolissimo deviandole dall'uso
comune ? Queste parole sono le dieci seguenti (1): PaXàvTiov per
ÓKÓvTiGV, TapÓTa(; per poOq, éXKÙÒpiov per Kaòo<;, èpiuuXr) per
xXalva, ittKxoq per aO<g, névavòpo(; per napQévoc;, neveKpdTr)^ per
• 0tOXo?, ^u(JTr|pla per liuiliv òieKÒucreiq, (JKéTtapvov per è'piov. A
quanto sappiamo Dionisio fu il solo ad usare in siffatto modo
tali vocaboli, ad eccezione di un solo, taluni dei quali si possono
ritenere adoperati come sostantivi, altri come epiteti. Tra queste
parole taluna potrebbe parere a noi non addirittura insopportabile,
altre rivelano spirito acuto e scettico, raa le più, data l'accezione
che avevano nell'uso comune contrapposta a quella in che le volle
(1) Hellad. (Phot. Bibl. 532, 6, 27); Athen. 98, d; Socrat. Epist. 35;
EusTATH. Opusc. p. 49, 39; Procl. in Plat. Cratyl. p. 43 ed. Boiss.; Etymol.
M. p. 185, 55; 331, 10; Etym. G. p. 103, 23; Melamp. in Bekker, Anecd.
p. 734, 29; Eusth. Odyss. p. 1531, 50; Artemio. 4, 24. In questi luoghi si
dice espressamente che Dionisio usò talune di queste parole e non si ag-
giunge nome d'autore, sicché possiamo ritenere che Dionisio fosse l'unico
ad usarle in tal significato : in condizioni diverse è soltanto èpiujXr|. Se per
PaXdvTiQv Melampo si riferisce agli storici, non già vuol dire che qualche
storico adoperasse, con questo valore, tale parola, ma che da uno storico,
probabilmente da Atanide, egli attinge la notizia: ad Atanide si riferisce
anche Ateneo. L'autore designato da Melampo con ó bè si può ritenere
senz'altro Dionisio, dacché Melampo cita, per la medesima ragione, anche
aKÉTTapvov che EUadio attribuisce appunto al tiranno Siracusano; fatto questo
che ci attesta trattarsi del medesimo gruppo di parole e del medesimo fe-
nomeno. Ne viene che non può seguirsi il Casaubon, Aniniad>\ in Athen.
Deison. XV, p. 121 (Lugd. MDG), il quale per la doppia scrittura paXdvriov
e PoXXdvTiov era propenso a credere che anche altri avesse u.sato paXàvriov
nel senso di iacnlum. — vapora*; ha un aspetto spiccatamente Siracusano
qualora lo si confronti con YÓinopot; (si noti però l'esistenza degli epiteti
Y€paiÓTriP e YCiapÓTr|(;) e potrebbe, forse, far sorgere in taluno il pensiero
che fosse usato in comedia, e che Dionisio nelle comedie usasse un dialetto
non dissimile da quello di Epicarmo; ma il seguito dei nostio esame rende
palese che tale ipotesi non può sussistere: forme doriche si riscontrano anche
in tragedie, palesemente, e ■^apÒTac, è tale da potere essere stato usato
anche in parti non corali.
- 554 - ■
usare Dionisio, davano origine a strane e ridicole omofonie, che a
stento si riterrebbero ammissibili in tragedia, qualora si trattasse
di buon poeta. Una fra le altre, èpiuOXn (1), sembrerebbe derivata
da Aristofane, che l'usa nelle Vespe con molta comicità ; le altre
però, che non differiscono da questa per natura, le troviamo ram-
mentate, con biasimo costante, solo per Dionisio. Se però tali
parole fossero state usate in drami satirici o in comedie il loro
uso non avrebbe meritata la censura che invece raccoglie da ogni
parte: il biasimo è spiegabile solo ammettendo che il tiranno,
contro le esigenze dell'arte, le usasse in tragedie. Anzi, dato ap-
punto l'uso di tali parole in tragedie, potremmo spiegarci più
facilmente perchè lo Tzetzes dica che una tragedia di Dionisio è
più comica che tragica. Sarebbe questa altresì una conferma del-
l'arte infelice di Dionisio e forse anche una traccia di un'infelice
imitazione e ricerca di quella finezza e sottigliezza lessicale, che,
non aliena da Euripide, e vivamente censurata anche nelle NuM
di Aristofane (2), degenerò fino a diventare enigmatica: ed enig-
matica appunto sembra più di una fra le citate parole di Dionisio.
t
(1) Aristoph. Vesp. 146-9. Cfr. Schol. Vesp. 1148: èpitOXriv èpiiuv àitib-
Xeiav (napà tò xà ?pia àvaXuJaai). Fino a che punto si può scorgere in
questa parola l'effetto delle comedie di Aristofane, che Platone avrebbe man-
dato a Dionisio (quale ?), perchè dalla loro lettura apprendesse in quali con-
dizioni fosse il reggimento politico di Atene ? Non molto differente da
épiibXn sarebbe éXKubpiov, dacché àvéXKei tò ìjòtup. cfr. Etym. M. p. 331,
60. — Per èpiibXri in Aristofane lo scherzo è interamente a posto e grada-
tamente preparato e spiegato: la parola fu dunque usata da Aristofane in \
ben altre condizioni che da Dionisio. Cosi anche le altre parole appaiono tali ìj
che scherzosamente e bene avrebbero potuto comparire in comedia, e fanno
fede della caratteristica del tiranno: se vennero biasimate concordemente e
costantemente, questa è una prova, tra le altre, che a comedie non appar-
tenevano. Tra queste parole tre vanno notate in modo speciale, cioè 6uéOTr)i;,
jaKXOc; e lauOTiópia: all'uso che ne fece Dionisio non rimase estranea la sua
ben nota empietà.
(2) Nub. 662 sqq. Vd. Meinkke, I, p. 511: illiim novae tragoediae morem
quo pnelae in declarandis sententiis non simplici et plano dicendi genere^
sed obscuris verborum ambagibus utebantur. Quod quale stt docent exempla
ex lonis Theodectae, Agathonis aliorumque tragicorum fabulis ab Athen.
X p. 451 d — p. 455 f curiose collecta. A questa tendenza partecipò Car-
cino il tragico, che fu alla corte Siracusana. Ad essa si collega anche Li-
cofrone nella sua Cassandra o Alexandra.
- 555 -
Dovendo escludere che le parole or ora vedute siano state usate
in comedie o in drami satirici, ci resta a risolvere se il drama
Fame o Affamato o Lino si possa ritenere satirico e se altri
drami satirici si debba credere scrivesse Dionisio. Il lungo tempo
che il tiranno Siracusano dedicò all'attività letteraria dobbiamo
supporlo in massima parte esente dagli obblighi letterari che vin-
colavano i tragici ateniesi del quinto secolo ? In mancanza di no-
tizie che riguardino la prima metà del secolo quarto siamo ob-
bligati a contentarci di quanto sappiamo circa il drama satirico
nel primo decennio della seconda metà del medesimo secolo.
Un'iscrizione Attica frammentaria (1), pertinente agli anni 342-
340, ci informa che alle rappresentazioni tragiche si dava un solo
drama satirico, non già uno per ogni poeta ammesso alla gara.
Da quanto durasse quest'usanza non è possibile dire, tanto più
che Atene è la città dei rapidi cambiamenti non soltanto poli-
tici: ed invero l'epigrafe ci dà fede che in due anni successivi
le norme per il numero delle tragedie rappresentate non furono
le medesime, se pure non cambiarono, almeno per quattro anni
consecutivi, quelle pel drama satirico. Ed ancora l'epigrafe, come
è giunta a noi, ci impedisce di sapere se l'autore dell'unico drama
satirico rappresentato fosse uno degli autori delle tragedie date
nelle medesime rappresentazioni, ovvero fosse un altro poeta scelto
all'infuori dei concorrenti per le tragedie: sarebbe possibile l'una
cosa e l'altra, e perciò nelle conclusioni è d'uopo procedere molto
cauti. Non si deve dimenticare che Dionisio prese parte, e più di
una volta, alle gare dramatiche di Atene, delle quali non poteva
non osservare le norme. Chi, dalla incertezza in cui siamo circa
queste norme, fosse proclive a sostenere che il tiranno non com-
ponesse drami satirici, potrebbe forse osservare che non ci hanno
cenni espliciti contrari a questa tesi (2) e c'è la notizia che Dio-
(1) CIA, II, n.o 973.
(2) Vd. A. Mancini, Il dramma satirico greco, Pisa 1895, p. 99: « anche
però ammesso che due drami satirici siano rifacimento di opere di Eschilo,
ipotesi che mancherebbe di prove, sebbene non improbabile, non rimarrebbe
escluso che al drama satirico dovessero in qualche modo provvedere i poeti
ammessi alla gara tragica ».
— 556 — .
nisio fosse nemico del riso. Accettando quest'ultima notizia ed
anche dandole larga portata, per essa tuttavia non saremmo ob-
bligati ad escludere qualche conseguenza che potrebbe dedursi pur
tenendoci vincolati da quanto l'epigrafe in discorso può signifi-
carci. Ammesso che l'autore dell'unico drama satirico rappresen-
tato dovesse essere uno dei poeti autori delle tragedie partecipanti
alla gara — ipotesi questa che non può escludersi e che anzi
potrebbe avere per se qualche elemento non sfavorevole (1) —
sono due i casi possibili e tra i quali non possiamo decidere, ossia
che uno solo dei poeti avesse l'incarico di presentare il drama
satirico, o che tutti i poeti dovessero presentarne uno, fra i quali
si facesse la scelta. In questo secondo caso Dionisio, almeno per
le tragedie date ad Atene, non avrebbe potuto evitare di atten-
dere a comporre drarai satirici. Ma anche senza metterci nelle
condizioni dell'epigrafe, alquanto posteriore ai tempi di Dionisio,
potremmo credere che egli componesse drami satirici senza tro-
varci in contraddizione colla notizia di Eliano che Dionisio non
fosse qpiXÓTeXiJU(; — sarebbe bastato che pei drami satirici se-
guisse quel modello che anche noi abbiamo neWAlcestide, e si
deve ancora considerare che Euripide pessimista, anch'egli alieno
dal riso, compose drami satirici. Non si può dire che Dionisio
realmente seguisse il modello dielVAlcestide, tanto meno che lo
seguisse sempre. La natura seria e tetra di Dionisio era ricca di
umorismo, sicché, come il serio e tetro Euripide, poteva anch'egli
comporre drami satirici sul tipo del Ciclope o del Sileo : nulla ci
vieterebbe di ritenere tale per l'appunto il drama intitolato Faììie
0 Affaniaio o Lino. Anzi se per esso ci fosse attestato il solo per-
sonaggio di Herakles avremmo l'obbligo di esitare ; ma la menzione,
accanto ad Herakles, di Sileno ci conduce in mezzo a un ambiente
satirico, come quello del Ciclope Euripideo.
Ammesso che Dionisio I componesse anche drami satirici, non
(1) Infatti « se nella riga 23 il frammentario 0K\f\ci devesi integrare
con Ti|LiOK\ri<;, l'autore del drama satirico (AuKoOpToq) dello stesso anno,
resulta come l'autore del drama satirico era uno dei concorrenti nell'agone
tragico >. Vd. Mancini, 1. e.
— 557 —
se ne deve inferire che il loro numero corrispondesse senz'altro
al quarto o al terzo dell'intera produzione dramatica del tiranno,
dacché questi non lavorò sempre pel teatro di Atene, per quanto
più di una volta vi si presentasse: ai tempi di Dionisio la tragedia
era pure destinata alla semplice lettura, senza pensare alla rap-
presentazione — conseguenza questa anche delia strabocchevole
produzione dei numerosi dilettanti.
C. 0. ZURETTI.
— 558 —
LANX SATURA
(1. La I iscrizione degli Scipioni. — 2. Orazio, carm. I, 2, 39.
3. Giovenale, I, 131).
1. — È fuor di dubbio che fra gli elogia Scipiomim l'iscri-
zione in onore del figlio di Scipione Barbato (anteriore, come ora
si crede, per età all'iscrizione del padre) (1) è quella che offrì un
piti lato campo alle discussioni degli eruditi sia pe' supplementi,
con cui la si volle in vario modo integrare, sia per la difficoltà
di ridurre alcuni versi sotto lo schema del saturnio (2). La tra-
(1) Ritschl, Opp. IV, p. 222 s^g. e Mommsen nell'illustrazione della iscri-
zione del Barbato (CIL 1, p. 16). Gfr. Bucheler, Anth. Lai. ecc. P. post. Carm.
Epigr. Fase. I, Lips. 1895, p. 6, e Bàhrens, Fragm. poet. Lai. Lips. 1886.
Praef. (Anal. ad vers. saturn. spect.), p. 9 in nota.
(2) Pe" fini della mia dimostrazione devo dichiarare subito che rispetto
al verso saturnio sono seguace della teoria quantitativa, non della accentua-
tiva 0 ritmica (- per quanto io non neghi il valore e delle obiezioni, che si
fanno a quella, e degli argomenti in favore di questa). Gfr. fra i più recenti
A. Reichardt, Der saturn. Yers in der róm. Kunstd. in Jahr. f. class.
Phil. Suppl. Bd. XIX, p. 207 sgg., dove, oltre le ragioni, è addotta anche
la letteratura relativa. Il principale rappresentante della scuola opposta è
0. Keller, Ber saturn. Vers ah rythm. erwiesen. Leipz. 1883; la II* parte
è del 1886 (Prag). Gfr. anche F. Ramorino, Ad Otto Kelleri opusculum...
excursus in Rivista di FU. XII (1884), p. 181 sgg. e specialmente p. 189 sgg.
È dello stesso la chiara e compiuta trattazione del verso saturnio e delle
due differenti teorie, nonché di quella, dirò cosi, eclettica, nella monografia
La poesia in Romt nei primi cinque secoli in Rivista suddetta, voi. XI
(1883), p. 417 sgg. e specialmente p. 425 sgg., ed anche nella lettura acca-
demica (in Memorie del R*. Ist. Lomb. di Scienze e Lettere, voi. XVI,
p. 215 sgg.) intitolata Del verso saturnio e dedicata ad 0. Keller, della quale
mi duole di aver presa conoscenza troppo tardi. Per la nostra questione in
— 559 —
scrivo com'è nel Corpus (I, 32 e VI, 1287), omesse le parti sup-
plite :
HONG GINO • PLOIRVME • COSENTIONT • R
DVONORO . OPTVMO • FVISE • VIRO
LVCIOM . SCIPIONE • FILIOS • BARBATI
CONSOL . CENSOR • AIDILIS • HIC • FVET • A
HEC . CEPIT . CORSICA • ALERIAQVE • VRBE
DEDET . TEMPESTATEBVS • AIDE • MERETO.
I versi 1, 3, 4 non presentano serie difficoltà né di metro ne di
restituzione. Quanto al v. 1, sia che si compia con Romai (Bomae) {!)
genere e per la bibliografia cfr. pp. 215-217 ; in ispecie poi cfr. pp. 228 sgg.
della P. I e pp. 230 sgg. della P. II. — Osservo qui che la piccola differenza
di età fra l'iscrizione (anteriore) del figlio e quella del padre (- se pure,
come dapprima sosteneva lo stesso Mommsen [Rhem. Mus. IX, 461 sgg.]
contro il Ritschl, non è più antica quella del Barbato, come credono altri,
per es. l'Havet, non essendo quella del Ritschl che una semplice congettura,
per quanto dottamente e verisimilmente dimostrata), questa piccola differenza
adunque di età non mi sembra in relazione (cfr. Ramorino, 1. e. La poesia
ecc. p. 527) coU'ipotesi della « verseggiatura esclusivamente rit-
mica dell'una (quella del figlio) accanto al metro quantitativo del-
l'altra » (quella del padre. — Però cfr. Io stesso Ramorino 1. e. Del v. sat.
p. 249, dove parla del saturnio nella sua storia). — Dalla parte del Keller
si schierò, oltre il Westphal, anche R. Thurneysen, Ber Saturn. und sein
Verlìdltn. ziim spàt. róm. Volksverse. Hall. 1885. (Cfr. l'esame acuto delle
opinioni, quanto alla spiegazione accentuativa, del Keller e del Thurneysen
presso Ramorino 1. e. Bel v. sat. pp. 236 sgg.). — Del resto le parole, con
cui Mario Vittorino chiude il suo capitolo sul verso saturnio « unde apud
omnes grammaticos super hoc adhuc non parva lis est » (VI, 140, 5 K.),
conservano tutto il loro valore anche ai giorni nostri. Cfr. inoltre L. Muller,
Ber saturn. Vers und seine Benkm. Leipz. 1885, p. 41, Q. Ennius. Fine
Einleit. ecc. St. Petersb. 1884, p. 221, e Ramorino nella recensione del libro
del Reichardt, in Rivista suddetta, XXII (1893), p.280sgg., dove l'A. ritorna
sulla questione della teoria del verso saturnio.
(1) Sirmond, Orelli, Ritschl, altri. Se, come è certo preferibile, si supplisce
con Romne, credo anch'io con L. Havet, De sat. Latinor. versu. Paris,
1880, p. 221, n. 1, il quale opportunamente cita Liv. XXIX, 11, 6 e 14, 8,
che Romae sia complemento di fuise, non di cosentiont. E quindi cadrebbe
l'obiezione del Reichardt, 1. e. p. 212. In modo assai soggettivo e strano
supplisce tutta 1" iscrizione G. Hermann nella sua Epitome doctr. metr.
p. 221 sg.
- 560 -•
0 COD Bomane (Romanei, Romani) (1) non molto conta; il v. 4
è facilmente e sicuramente integrato con pud vos, confrontandolo
col V. 4 dell'iscrizione seconda (CIL I, 30) ; nel v. 3 c'è soltanto
una difficoltà sintattica, ma, a mio avviso, non grave. Infatti senza
mutare fiUos in filio {=filium, come vuole l'Havet) (2), o diret-
tamente in filiom (come propone il Wòlfflin) (8), giacché ad emen-
dare le lapidi bisogna andare molto più cauti e lenti che non a
correggere i rass. (se pure un lapsus calami è più presto sfuggito
che non un lapsus scalpri e questi non hanno per regola un ca-
rattere di solennità più o meno ufficiale che spesso hanno quelle),
e senza anche, per ispiegare il nominativo, supplire con la mente
il presente o il perfetto del verbo esse, perchè mai, domando io,
non si può intendere che filios (=fiUus) Barbati sia coordinato a
consol, ecc., costruendo così : Me fuet filios Barbati, consol, ecc.,
oppure auche, unendolo ad Jiic, così : hic filios Barbati fuet
consol, ecc.?
Maggiori difficoltà si riscontrano negli altri tre versi (2. 5. 6),
così che, quanto al metro, il Mtiller dispera e tralascia di ridurli a
forma di verso (1. e. Ber s. V. p. 104. 153 ; cfr. p. 20). Eppure io credo
che il caso non sia disperato e che, concesse certe licenze, le quali
se si accordano ai più antichi poeti latini nel metro giambico e
trocaico, a più forte ragione e in maggior copia dobbiamo ammet-
tere ne' più vetusti monumenti lapidari delV Jiorridus numerus e
grave virus (4), con un po' di buona volontà se ne possa venire
a capo. Anzi tutto sono anch'io d'opinione che non vi sia neces-
sità di supplemento in quei tre versi. Quanto al v. 2 (5) avverto
(1) Grotefend, Visconti, Niebuhr, Biicheler, altri.
(2) L. e. p. 221: congettura accettata e lodata dal Miiller, 1. e. Dcr s. V.
p. 104. 169.
(3) Atti della Akad. der Wiss. zu Mùnch. 1892, p. 194. E cosi prima di
lui il Bàhrens 1. e. p. 12 in nota; e, prima di questo, così scriveva il Gro-
tefend : « Nescio an prò filios filiom melius legatur » : cfr. Anth. Burm.(-
Meyer.) nelle Annotatioìies, p. 4. 11 Niebuhr [Ròm. Gesch. I, p. 266: cito
dalla 2" ediz.) legge senza più filium.
(4) Dico cosi in generale del verso saturnio, quantunque, naturalmente,
bisogna distinguere fra i versi « quos olim Fauni vatesque canebant » e
quelli di un'età più colta, a cui appartengono appunto gli elogia Scipionum, È
dei quali anche i più antichi (- il figlio del Barbato fu console nel 495) si ?
può dire che sono del secolo VI, e quindi, in generale, del secolo di Livio
Andronico, Nevio ed altri.
(5) L' aggiunta, dopo viro, di virorum (Grotefend) o viroro (Ritschl,
— 561 —
solo che, a tacere del noto confronto con l'elogio di Atilio Cala-
tino, il merito, per confermarne vieppiù la lezione, della cita-
zione di Livio XXIX, 14, 8, non ispetta all'Havet (1. e. p. 225),
come parrebbe dalle parole del Biicheler (1. e. p. 5), ma bensì a
Diintzer e Lersch (1). Ammesso adunque integro il verso, io pro-
porrei questa scansione:
Duonóro óptumó fuisè viro (2),
oppure, se spiace l'iato in tesi (quantunque e altri esempi vi sieno
e la parola si possa considerare come uscente in m, e quindi con
iato meno duro) (3), anche così, escludendo la sinizesi (cfr, duel-
lum, che è tanto trisill. che bisill.) (4) :
Diiónoro óptumó fuìsé viro.
Si noti che la prima scansione ammette anche e sinizesi ed eli-
sione, purché si consideri soppressa la tesi seconda. Che più tesi
Opp. IV, 219), oltreché non richiesta dal senso, anzi una vera superfetazione,
non è ammissibile anche considerata la condizione della lapide. V. la ripro-
duzione di questa in Ritschi stesso, Priscae Lai. Mon. Ep. (CIL I, Tab.
Lith.), tab. XXXVIII, e cfr. Bùcheler 1. e. p. 5; Keller 1. e. I, p. 58; Reich-
ardt 1. e. p. 223 ; Ramorino I. e. La poesia ecc. p. 441 e 526. E neppure
piace il supplemento notom del Bàhrens 1. e. p. 17, il quale si riferisce al-
l'elogio di Calatino (Gic. Gat. M. XVII, 61; su questo cfr. Ramorino 1. e.
La poesia ecc. p. 508 sg.), dove senza addurre convincenti ragioni egli vuol
riferire aìVe'ogium il notum del testo (cfr. p. 8 in nota) : ciò che, a tacere
d'altro, è contraddetto dal passo analogo e parallelo di Cicerone stesso, de
Fin. II, 35, 116. Meno dispiacerebbe il complemento di viro in virorum
(- meglio, al caso, viroro) per la corrispondenza con duonoro, come sup-
plisce 0. Mùller in Fest. p. 397 (Suppl. Ann.), se anche qui non si oppo-
nessero le altre ragioni che ostano per viro viroro e per notom.
(1) Be versu, quem vocant, saturnio. Bonn. 1838, p. 65. Del resto già il
Drakenborch (ed. di Stuttgart, 1824, T. IX) a quel passo di Livio cita la
nostra iscrizione ; cfr. inoltre l'annotazione del Weissenborn (Berlin, 1878).
(2) Con la cesura dopo la terza arsi si può considerare come principiante
con l'anacrusi la seconda metà. E questo dicasi pure pel primo verso del-
l'iscrizione, quantunque qui si possa anche ammettere che la cesura prin-
cipale sia fra i due elementi del verbo composto.
(3) Quanto alle forme terminanti o che dovrebbero terminare in m da-
vanti a vocale, e quanto all'iato ed elisione in generale cfr. Bàhrens 1. e.
p. 11 sgg. e Reichardt 1. e. p. 236 sg. Cfr. anche Cic. Orat. XLV, 152.
(4) Cfr. Ramorino 1. e. La poesia ecc. p. 433, n. 1.
Rivista di filologia, ecc., XXV. 30
— 562 —
e anche due nel secondo emistichio (e così pure nel primo) pos-
sano essere soppresse, lo ha provato I. A. Pfau con molti esempi
tratti dai saturni di Livio Andronico e Nevio (1) : perchè adunque
non potremo ammettere una simile licenza nel caso nostro ? (2).
(1) De numero saturnio commentatio. Quedl. 1864, pp. 67-68. Gfr. in pro-
posito il passo solenne sul saturnio del grammatico Cesio Basso (- poiché,
come provò il Keil, Gramni. Lati. VI, p. 245 sgg., è di lui il fragmentum
de metris, che prima si attribuiva ad Atilio Fortunaziano): « Nostri autem
antiqui usi sunt eo non observata lege nec uno genere
custodito, ut Inter se consentiant versus, sed praeterquam quod d u r i s-
s i m 0 s fecerunt, etiam alios breviores, alios longiores inserue-
runt ecc. », VI, 265, 10 K. (Da lui direttamente o indirettamente e più o meno
copiarono Mario Vittorino, VI, 139, 3 ; Atilio Fortunaziano, VI, 293, 25, ed
altri: cfr. L. MùUer 1. e. Ber sat. V. p. 7. Forse Cesio Basso attingeva da
Varrone : cfr. L. MùUer 1. e. Der sat. V. p. 5 sgg. e in Quaest. Naev. (ediz.
di Ennio, Pietroburgo, 1884), e. II de v. sat., p. xxxiii sg., Thurneysen 1. e.
p. 2 e Ramorino 1. e. Bel v. sat. p. 229). A spiegare la soppressione delle
tesi nei saturni (che anche nelle iscrizioni ed opere letterarie non perdono
il loro carattere di poesia originariamente popolare) giovano molto le giuste
osservazioni di H. Gleditsch, Metrik der Griechen und Romer nel Handb.
di I\v. Mùller (II, p. 577), sui versi Italici in generale, e quelle del Giu-
liani, citato pur dallo Zambaldi (Metrica, p. 348), sulla poesia improvvisata
« dei montanini ». Cfr. anche Corssen, Orig.poes. Rom. Berol. 1846, p. 195 sg.
e Ramorino 1. e. La poesia ecc. p. 435.
(2) La soppressione della tesi avviene anche in altri versi della poesia
quantitativa, soltanto che in questi essa non è arbitraria, ma costante, sor-
gendo così speciali schemi metrici (p. es. il distico elegiaco). Autore della
eoria delle tesi sopprimibili nel saturnio è 0. Muller {Fest. Suppl. Ann.
p. 396: cfr. ann. ad Varr. d. l. L. VII, 51): « Forma ab antiquis tradita...
piane insta est: modo unum observaveris ac tenueris, supprimi posse
theses omnes, excepta ultima, maxime penultimam ». Cfr. inoltre
Ramorino 1. e. La poesia ecc. p. 435 sgg. e L. Muell. 1. e. Q. Enn. ecc.
p. 222. E vero che, secondo il principio posto dal Ritschl (Opp. IV, p. 83,
e cfr. Ramorino 1. e. Del v. sat. p. 233 sg.), a studiare le leggi del saturnio
bisogna partire dalle iscrizioni e non dai frammenti dei poeti, ma perchè
pur non si potrà dire che in questo caso le iscrizioni confermino appunto
quanto altri hanno concluso e stabilito dai frammenti ? (Cfr. anche ciò che
scrive L. IMùUer 1. e. Der s. V. nella pref. p. iv e p. 19 sgg., Q. Enn. ecc.
p. 222 sg. e Quaest. Naev. p. xxxiv sg.). Egli è certo che molti versi delle
lapidi, e delle più antiche, corrispondono esattamente al tipo del saturnio dato
dai grammatici; perchè adunque non saranno saturni simili anche gli altri
delle stesse lapidi, ammesse, ben s'intende, quelle licenze, a cui indiretta-
mente accennano i grammatici, quando parlano di versi saturni duris-
simi (- cfr. gli oraziani horridus numerus e grave virus e vestigia ri'.ris)
ed ora più lunghi (scioglimento di arsi in due brevi, sostituzione di
pirrichi a tesi), ora più corti (soppressione di tesi) ?
- 563 —
L'allungamento della vocale in fine di parola nella quinta arsi
nulla ha di strano ; piuttosto è da render ragione della sillaba
radicale allungata in viro. Ma questo allungamento sotto Victus
dell'arsi non ci deve offendere più che non ci offenda sùlus nella
nota popularis incantatio conservataci da Varrone [r. r. 1, 2, 27:
cfr. Bàhrens 1. e. p. 34, Kamorino 1. e. La poesia ecc. p. 493 e
Bucheler nella recens. del Ritschl, Prisc. Lat. mon. ep. in Jalir.
f. class. PJiil. IX, 331), od Hercólei nella dedicatio Sorana
(CIL I, 1175) ed Herctdis nel Tit. Mumm. (CIL I, 541), o
Luciom nella nostra iscrizione ( — così Lucius in quella del padre ;
cfr. Ramorino 1. e. La poesia ecc. p. 433 e L. Mùller 1. e. Der s. V.
p. 64) (1), 0 Caecilio nel Mon. Caec. (CIL I, 1006 : se pure qui
meglio non si scandisce: ...Maàrco Caécìlio). Del resto che vir
(veir) avesse in origine la vocale lunga, lo prova dottamente, ap-
pellandosi anche al Bucheler, il Bahrens 1. e. p. 17 ; cfr. pure
l'Havet 1. e. al paragr. 5 « De voce vir », p. 85.
Anche il v. 5 non ha bisogno, come io credo, di supplemento.
Le aggiunte di clasid (2), o pugnad (Bàhrens 1. e. p. 11), o
pugnandod o jjMcwa«<?of? (Ritschl, Opp. IV, 215) sembrano affatto
oziose e sotto l'aspetto grammaticale e sotto quello logico (cfr. il
V. 5 dell'iscrizione del padre), e anche, come cercherò di provare,
non necessarie pel metro. Infatti scandendo così :
Hec cépit Corsica Alériàque urbe
abbiamo' un saturnio accettabile (3): l'iato nella « Ersatzcàsur »
(Christ 1. e.) non molto offende e perchè la prima parola si può
sempre considerare come fosse terminata per m ( — vedi quanto
sopra fu osservato) e perchè come in generale nel saturnio è am-
messo dovunque l'iato, così poi specialmente fra le due metà, che
sono asinartete, sono permessi e hiatus e syllaha anceps. La se-
conda sillaba di Aleria, quantunque il Ritschl la voglia breve
(1) Noto di passaggio che l'italiano dà pel maschile Lucio, pel femminile
Lucia (- nel dialetto veneto la parola in ambedue i casi è proparossitona :
Liizio, Lùzia).
(2) Questo supplemento, accettato da molti, era del Bucheler, ma fu da
lui stesso abbandonato 1. e. p. 6.
(3) Cfr. W. Christ, Metrik der Griech. v.nd Róm. Leipz. 1870, § 432,
p. 369.
— 564 —
(Opp. IV, 215), può essere comune (— cfr. Havet 1. e. p. 25) ; ad
ogni modo, anche fosse breve ( — in greco 'AXepia, a cui però
corrisponde anche 'AXaXiri) (1), nulla v'ha di anormale che possa
allungarsi sotto la percussione dell'arsi ( — V. osservazioni sopra).
Se spiace l'iato in tesi fra il 11° e 111° piede del 2° emistichio,
si può ammettere l'elisione con la conseguente mancanza della
penultima tesi.
L'ultimo verso è una vera crux. Che nulla vi manchi o al più un
d per dare a mereto una forma più arcaica ( — benché in proposito
l'uso non sia costante), lo arguisco dal fatto che anche così risulta
un senso soddisfacente (ben a ragione dedicò, ebbe ben ragione
di dedicare) (2), e che da quelle parole uno schema saturnio si
può ricavare. Ecco la scansione ch'io ne proporrei :
Dedét (3) Tempéstatebus aidé méreto.
Per l'omissione delle due tesi nel secondo emistichio (4) e per
aidé (= aidem), vedi quanto sopra si è detto ; e neppure offende
lo sdoppiamento dell'arsi nell'ultimo piede. Maggiore licenza sembra
certo essere nell'allungamento della sillaba te in Tempéstatebus.
Ma senza pensare alla terminazione -ebiis per -eibus (cfr. fuet =
fueit = fuit; hec = heic = Me, ecc.) (5), io credo che l'allunga-
mento sotto V ictus déìV arsì in sillabe di flessione sia una
licenza meno grave di quella osservata prima in sillabe radicali :
ad ogni modo data la lunghezza sesquipedale del vocabolo, trat-
tato qui per giunta come nome proprio, essendovi personificazione,
(1) V. il Wdì-ieì-buch der griech. Eigenn. del Pape a queste voci.
(2) Cfr. Ovid. Fast. VI, 193: « Te quoque, Tempestas, m e r i t a m de-
lubra fatemur, Gum paone est Corsis obruta classis aquis ». Con merito
soltanto (quantunque in altro rapporto sintattico) si chiude anche il penul-
timo verso della dedicatio Soratia (CIL 1, 1175).
(3) Non c"è ragione alcuna di scandire dedet mettendo la prima arsi sulla
sillaba seguente, come propone il Reichardt 1. e. pp. 219. 241, il quale
inoltre, seguendo il Grotefend, compie il verso con lubenter.
(4) Se in aide(m) si ammette col Ramorino (Letter. Rom. Ili* ediz. Mi-
lano, 1891, p. 35; cfr. 1. e. La poesia ecc. p. 327) la dieresi, vi sarà sop-
pressione di una sola tesi nel secondo emistichio.
(5) Cfr. Bahrens 1. e. p. 18: egli vuol compiere il verso con votam (che
è supplemento del Ritschl, Opp. IV, p. 217) ; il Grotefend (Lat. Gramm.
II, 295) con lubenter; il Keller 1. e. p. 58 con lubens.
— 565 —
perchè mai non si potrà ammettere, che vi abbia luogo, per ne-
cessità metrica, la diastole ? Forse che, per es., la sistole di de-
derunt, steterunt e simili, usata pur da poeti classici, è una
licenza minore ? (1)
2. In Orazio carm. I, 2, 39 tutti i codici sono concordi nel
dare Mauri ; Marsi è una congettura di Tanaquil Faber (2) (Tan-
neguy Lefebvre), approvata dal Dacier, ampiamente difesa dal
Bentley, accettata da alcuni moderni (Haupt, Vahlen, L. Miiller,
Kiessling). Non adduco le ragioni già note in favore della lezione
dei codd. e contro la congettura del Faber : per quanto bella
sembrasse una correzione, non dovrebbe valer mai tanto da poter
far mettere in non cale una lezione, la quale e di per sé dia un
senso plausibile e sia confermata dalla tradizione scritta in modo,
che non solo non vi sia varietà attuale di lezione, ma neppure
(1) Questo verso potrebbe essere scandito anche sopprimendo la seconda
0, meglio, la terza tesi del primo emistichio e ammettendo la sostituzione
del pirrichio nel posto che sarebbe della quarta tesi, secondo la legge V
di A. Spengel {Die ges. des saturn, versm. in Philologus XXIII, pp. 81 sg.
e HO), quantunque egli, contro Hermann, non ammetta questa licenza avanti
la cesura. Del resto cfr. anche Ghrist 1. e. § 436, p. 373, quanto all'uscita
eretica del primo ordine metrico, e K. Bartsch, Der saturn. Vers und die
altd. Langz. Leipz. 1867, p. 13. Siccome poi da taluno è ammessa la vio-
lazione della cesura in modo ch'essa cada in mezzo di una parola apparte-
nente alla seconda metà del verso (- cfr. Bartsch 1. e. p. 3 e 33 e Ritschl
nelle varie scansioni proposte, quantunque in simili casi sia certo preferi-
bile stabilire un'altra cesura, quella mascolina dopo la terza arsi), cosi, non
dovendo parer strano neppur il caso inverso, alcuno potrebbe scandire anche
in questo modo: Dedét Tempéstdte-bUs ecc. (- cosi infatti il Ritschl, Opp.
II, 636 [cfr. però IV, 213 sgg.], qui e in casi consimili, con la sola diffe-
renza, ch'egli sopprime la 11 tesi invece della 111). Tuttavia ciò non è da
approvare, perchè o la cesura femminina dopo la IV tesi (che è la più fre-
quente e la migliore, poiché così le due metà sono in bel contrasto metrico
fra loro, terminando l'una col tempo debole, cominciando l'altra col tempo
forte, e ambedue chiudendosi ugualmente, mentre differentemente princi-
piano), 0 quella mascolina dopo la III arsi si riconosce ormai come indispen-
sabile nel verso saturnio. Cfr. Ramorino 1. e. La poesia ecc. pp. 435 e 437.
Benché poi non necessaria, si ammette anche dopo la li arsi d'ogni emi-
stichio una cesura secondaria o accessoria, conosciuta col nome di caesura
Korschiana (- cfr, Theod. Korsch, De versu sat. Mosquae, 1868, p. 40 sgg.)-
(2) Sulla genesi di questa congettura cfr. l'excursus II nell'ediz. dell'Orelli,
curata ultimamente dal Hirschfelder, voi. 1 (Beri. 1886), p. 25.
sospetto di una preesistente varietà (1). Né dal lato paleografico
0 diplomatico sapremmo spiegarci come mai da un originario
Marsi sarebbe potuto derivare, senza lasciar la più piccola traccia
di sé nei mss., un 3Iaun, tanto più se si pensa che la voce Marsus
non doveva riuscir strana ai copisti, ricorrendo abbastanza spesso
(ben sette volte) nelle opere di Orazio. Ma, a prescindere dalle
ragioni diplomatiche, altri argomenti interni, oltre i noti, a me
sembrano così forti che, anche supposta una varia lectio di Marsi
e Mauri, ci dovrebbero far propendere per la lezione Mauri. In-
fatti è inteso generalmente e giustamente che Vìiostis cruentus sia
il ìniles romano. Ora che ragione ci sarebbe stata di rappresen-
tare combattenti fra loro e nemici acerrimi un Komano e un
Marso? I ricordi delle antiche guerre latine erano spenti da se-
coli ; certo più recenti erano quelli della guerra sociale, ma no-
tisi che questa guerra, ch'ebbe per conclusione finale il conferi-
mento dei pieni diritti civili ai Latini {lex luìia) e in generale
agli Italici {lex Plautia Papiria), non avea lasciate tracce così
profonde né reminiscenze così paurose da poter indurre Orazio a
scegliere appunto un Romano e un Marso come esempio di odio
accanito, di cui Marte si dilettasse, fra due popoli, essendo essi
alla fine della stessa stirpe e regione, cioè Latini. Al contraria
ogni cosa è al suo posto se pensiamo che stanno di fronte da una
parte un Romano, dall'altra un Mauro o Africano in generale, se
pure la lotta colossale e secolare coll'aemM^a imperii Carthago e
col parentihus ahominatus Hannibal avea lasciato dietro a sé uno
strascico, anzi un cumulo di odii feroci e terribili memorie. Sicché
in questo quadro, che dirò plastico, vediamo combattenti fra loro
due avversari non solo nemici naturali e implacabili, ma anche
di razza diversa: anzi, siccome qui trattasi veramente di una rap-
presentazione viva messa sotto gli occhi, la scena guadagna ancor
più, pel contrasto, in terribilità tragica, se ci raffiguriamo lo
sguardo truce (2) del Mauro scavalcato e scuro di colorito rivolto
in atto di sprezzo o sfida contro il vincitore insozzato di sangue
e bianco di carnagione.
(1) A ragione il Teuflfel(-Schwabe), Geschichte" ecc. p. 538, n. 6, scrive:
« Fùr Conjecturalkritik ist im horazischen Text wenig Ranni ».
(2) Cfr. l'àvbpiKÒv ópujai di Eliano (-rrepì Sujujv XIV, 5) a proposito dei
Maupoùoioi.
- 567 —
3. — Giovenale, 1, 131. Ed ora la lectio, che propongo, non
olet, ma la colpa non è mia. Tutte le edd, critiche e non critiche
di Giovenale leggono I, 131 : « Ciiius ad effigiem non tantum
meiere fas est ». Consultando un'ediz. critica di questo poeta,
p. es., l'ultima eccellente, che è anche esegetica, del Friedliinder
(2 voli. Leipz. 1895), si vede che il cod. migliore e più antico,
il P (già Pithoeanus, ora Montepessulanus 125, del principio del
sec.IX), dà mengere, e chep (la mano posteriore emendatrice di P)
ha eraso la n = megere (cfr. anche l'ultima edizione del Jahn, la
terza, curata dal Bùcheler, Beri. 1893): uu, cioè i mss. della vol-
gata, dà niejere {= meiere: cfr. Jahn 1. e). Osservo, per incidenza,
che mejere potrebbe essere, sotto l'aspetto paleografico, una diretta
emanazione di megere (= megere = mengere) : così che anche
questa scrittura si potrebbe far risalire a quella del P. Ma questo
poco monta per la mia dimostrazione. Quello che più importa di
notare è questo, che P dà mengere e che mengere, pel frequen-
tissimo scambio dell'e e dell'i nei codd., altro non è se non mingere.
E che Giovenale abbia scritto mingere e non meiere, a me sembra
molto verosimile per queste ragioni : Prima di tutto, per la grande
autorità del Pithoeanus, che anche quando sta solo, com'è del
codex Blandinius veiustiss. per la critica del testo oraziano, è da
preferire a tutti gli altri, come quello che in molti luoghi ha
conservata la vera lezione (1). Poi, perchè soltanto il verbo min-
gere, e non anche meiere, sia questa una pura combinazione od
altro, è- adoperato dagli scrittori ad indicare un atto di sommo
dileggio, mentre meio (e così pure il suo composto immeio) ha
piuttosto, oltre il significato proprio, un senso osceno. Infine, perchè,
e questo per me è pure un argomento forte, è evidente che Gio-
venale in questo luogo, dove a togliere l'ellissi bisogna sottinten-
dere « sed etiam cacare » (cfr. Friedl. nell' annotaz.), ebbe sot-
tocchio e volle alludere al noto verso di Orazio (S. I, 8, 38)
(1) Cfr. Bdcheler, Zur Gesch. der Ueberlief., Anhang 3 dell'ediz. cit. del
Friedliinder, I, p. 113. La I classe dei codici Giovenaliani è costituita, ora,
dal P e dai frammenti del cod. scoperto in Aarau (A); la classe li, poste-
riore e « stark verfàlscht », dagli altri, molto numerosi: cfr. Teuffel 1. e.
p. 821, n. 8; Friedl. 1. e. p. 87 sg.; cfr. p. 84 (IV. luven. im spdt. Alt. und
Mittelalt.) e Jahn^ nella praef. p. vii sg. e p. xvi. Del resto cfr. il recente
importante lavoro critico di E. Lommatzsch, Quaestiones hwenalianae, in
Jahr. f. class. Phil. XXII Suppl. Bd. (1896), p. 375 sgg.
— 568 —
« ...in me veniat mictum atque cacatum ». Che ragione aveva
dunque Giovenale, cosi fedele e frequente imitatore di Orazio, di
cambiare la parola usata da questo, tanto più che egli stesso con
l'ellissi usata volle dar chiaramente a vedere, che a quel verso
oraziano appunto accennava ? Non nego che una obiezione appa-
rentemente grave potrebbe esser mossa, osservandosi che i gram-
matici Prisciano (II, 494, 17 K.) ed Eutiche (V, 476, 23) citano
proprio il verbo quale è nella volgata per registrarne la forma
infinitiva. Ma dico che l'obiezione è più forte in apparenza cùe
in realtà, ove si pensi che una recensione delle satire di Giove-
nale fu appunto fatta da un certo Niceo, discepolo di Servio, verso
la fine del sec. IV° o principio del V", mentre Servio, che nel
Commentario di Virgilio molto si è valso di Giovenale, cita sempre
secondo la recensione conservata dal P. (1), Che v'ha dunque d'in-
verosimile Dell'ammettere che Prisciano (poiché Eutiche, scolaro
suo e che da lui attinge (2), non fa che ripetere quanto dice il
maestro) si sia giovato di un codice della redazione Niceana ? E
questo tanto più sicuramente affermo in quanto che si sa che i
grammatici, i quali riferiscono passi di Giovenale, seguono per la
maggior parte le lezioni della classe II (Teuff, p. 822, 8 e Jahn
Praef. p. VII sg.), e che le nuove lezioni introdotte da i? in P
derivano appunto da un codice condotto sul testo di Niceo (Friedl.
p. 85 sg.; cfr. Bùcheler 1. e. p. 116 sg. e Teuffel 1. e. p. 821,
n. 8) (3).
(1) G. Hosius, App. crii, ad luven. Bonn. 1888, p. 60, e Friedl. 1. e. p. 81,
n. 4: la recensione Niceana è posteriore al commento Serviano.
(2) Cfr. Teuffel 1. e. § 482, p. 1245.
(3) Forse Niceo ha corretto mingere in meiere, perchè l'usare mingere
fuori dei tempi derivati dal tema del perfetto « barbarum quidam esse
voluerunt, et mejo prò eo usurpari ». Ora io non so se il Forcellini, da cui
è tolta questa notizia (alla voce m,ingo), voglia con quel quidam, alludere
a fonti antiche, o a più recenti : è certo però che i grammatici latini non
accennano, almeno esplicitamente, a questa distinzione, ma soltanto si occu-
pano ad indicare certe forme di questi verbi, e specialmente il perfetto e
il supino (- cfr., oltre i citati, Carisio, I, 245, 11; 262, 1; Diomede, I, 369,
11; Prisciano, li, 488, 1; Probo, IV, 36, 3; Dositeo [pei composti], VII, 425,
14; e cfr. Neue, Formenl. der lat. Spr. Ili Aufl. Ili Bd. pp. 292. 399. 402.
544. Noto, per incidenza, una contraddizione del Georges, il quale mentre
nel Eandwórt. der lat. Spr., alla voce mingo, dice che Carisio, I, 245, 11,
riferisce, a differenza di Diomede, la forma mixi a meio, nel Lexicon der
— 569 -
lat. Wortf. cita lo stesso Carisio insieme con Diomede per attribuire mixi
a mingo). Comunque sia, è indubitato che, quantunque meio ricorra più di
frequente nei tempi formati dal tema del presente, anche di mingo queste
forme non sono escluse, come si vede dagli esempi, citati dai lessicografi
(Porcellini, Freund, Klotz, Georges, ecc.), non solo di scrittori posteriori a
Giovenale, ma anche di anteriori: così nel Cicero medicorum (« der Glas-
siker unter den Medizinern », Wòlffl. Arch. II, 239): « urina mingitur»
'(IV, 20).
Pietro Rasi.
570 -^
APPUiNTl CRITICI
I. Il mito di Oreste nel poema di Agia di Trezene. — IL Le due
Elettre. — III. La Clytemestra e TAegisthus di Accio.
I. — Dalla Crestomazia di Proclo (ed. "WagDer p. 245,23) si
rileva che nel poema di Agia di Trezene la morte di Agamennone
era consumata da Egisto e da Clitennestra ; concorda con questa
notizia l'epitome di Apollodoro (ed. Wag. p. 223, 1, 5) che, come già
dimostrammo in altro scritto (Za mor^e di Agam. sec. VOd., Riv.
di Filolog. voi. 24°, fase. 2°), aiuta assai a dichiarare il riassunto
di Proclo e quindi a ricostruire il poema perduto; anzi l'epitome
aggiunge che Agamennone arrivato in Micene vi fu ucciso con
Cassandra. Da noi poi fu anche provato come la tradizione dei Nosti
compaia in vari luoghi dell'Odissea, che anzi un frammento im-
portantissimo (y vv. 130-183) ci offre il movente divino della
morte dell'Atride, cioè l'ira di Atena per fatti avvenuti durante
la presa di Troia e un altro luogo (\ vv. 412-426) il movente
umano, cioè la gelosia di Clitennestra per la venuta di Cassandra.
Da questo secondo passo deducemmo che un vendicatore di Pala-
mede doveva essere il personaggio, di cui si servirono gli Dei per
vincere e ridurre omicida la moglie dell'Atride. Dallo stesso luogo
omerico risulta che la scena dell'uccisione avvenne in un ban-
chetto e vi risulta pure che Egisto ha ferito a morte Agamennone
quando appunto Clitennestra uccide Cassandra. Nell'epitome di
Apollodoro (5-11), subito dopo la notizia ricordata, troviamo un
brano in cui si legge che Agamennone fu ucciso dopo aver indossato
un xiTÙJv àxe\p Kaì àTpdxn^og, per cui l'eroe rimase impigliato
- 571 —
e ne fu facilitata la morte. Ma la tradizione del bagno e del-
1 arreipov uqpaaiaa {Or. 367) non può essere dei Nosti e la forma
stessa ci ha fatto dire nel citato scritto che il passo è interpolato.
Nel libro b dell'Od. (vv. 521 sgg.) esiste un brano nel quale sono
descritti i preparativi dell'esiziale banchetto, ma esso va congiunto
con altro brano che trovasi nel lib. y (vv. 262 sgg.), in cui sono
descritti precedenti ai preparativi e l'insieme non può appartenere
ai Nosti. Infatti dall'unione dei due brani risulta che Egisto
riesce a sedurre Olitennestra, per volere divino, già durante la
spedizione troiana; sedotta la donna, la conduce a casa sua; pone
una vedetta perchè osservi continuamente l'arrivo di Agamennone ;
e, arrivato l'eroe, lo invita ad un banchetto, dove ha appostati
venti sicari, e lo uccide. Mentre in codesta tradizione Clit. non
compare nell'eccidio del marito ed è Egisto l'unico òoXóiariTi^ e
l'unico operatore, e la donna rappresenta solo un ostacolo alla
morte dell'Atride che presto viene eliminato; nei Nosti al con-
trario Clit. deve pensarsi come la vera òoXó|uriTi(g, ed è ella che
ha allettato Egisto a far lega con lei ; ed il Tiestide deve aver
prontamente risposto all'invito della donna, ove si pensi che, a
norma della trad. da noi detta 4" Omerica, egli rappresenta il
ramo illegittimo della famiglia, spodestato dal legittimo. Però
poiché l'uccisione di Agam. avvenne in un banchetto, è chiaro
che a questo banchetto, il quale non può avvenire che a Micene,
nel palazzo dell'Atride, deve l'eroe essere stato allettato e spinto
dalla iiioglie e che, senza pensare al cpùXaH eschileo il quale è
pagato da Clit. stessa, può Egisto nei Nosti, conforme alla tradi-
zione seconda omerica, aver posto una vedetta, e certo egli deve
avere scelti i sicari ed appostatili all'insidia. La prima scena del-
l'Orestiade doveva nel poema di Agia svolgersi presso a poco così:
nella presa di Troia i Greci si sono resi colpevoli verso Atena;
la dea stabilisce di vendicarsene e la prima e più terribile ven-
detta dev'essere consumata sul duce supremo (Od. y vv. 130 sgg.;
cf. Proclo, epit. di Apollod.); Clit. per mezzo di Nauplio od Eace
(Ig. fav. 117) è spinta all'estremo della gelosia verso Cassandra.
Ella ordisce una trama con Egisto per uccidere Agam. (Ig. ib.).
Egisto pone una vedetta per aver tosto l'avviso dell'arrivo del-
l'Atride e, avutone l'annunzio, sceglie venti sicari, li apposta ad
un banchetto (cf. Od. ò 521-531), a cui Clit. spinge il marito.
Qui Agam. è ucciso da Egisto, mentre Clit. uccide Cassandra
— 572^
(Od. X 412-426; cf. Proclo, epit. di ApoUod.). — Tanto nella
Crestomazia di Proclo quanto nell'epitome di Apollodoro noi leg-
(riamo che Eo^isto e Clit. sono uccisi da Oreste insieme con Pi-
lade ; e l'epitome aggiunge che essi furono uccisi XaGpaiuu^. Poiché
Oreste compie la vendetta insieme con Pilade, chiaro è che il
fanciullo doveva essere stato, durante l'eccidio del padre, trafu-
gato e condotto nella Focide, allevato qui con Pilade, donde, di-
venuto giovinetto, tornava con Pilade stesso per compiere la ven-
detta paterna. E nell'epitome di Apollodoro noi troviamo che è
appunto Elettra quella che trafuga il fratello Oreste e lo fa al-
levare da Strofio Focese che lo conduce su negli anni insieme col
figlio suo Pilade. Inoltre poiché Oreste e Pilade uccidono XaBpaiiw?
Egisto e Clitennestra, noi ricordiamo quei passi della tragedia
greca {Coef. di Esch., El. di Sof. di Eurip.) in cui si fa men-
zione della risposta data dall'oracolo di Delfo ad Oreste di ucci-
dere Xa9paiuj(; gli uccisori di Agamennone, come XaGpaio)^ era
stato ucciso l'eroe stesso. E pensiamo che Oreste prima di arrivare
in Micene siasi recato all'oracolo di Delfo. Anche a questo proposito
l'epitome ci riferisce che Oreste prima di giungere a Micene recasi
in Delfo per chiedere all'oracolo se egli debba vendicarsi degli uc-
cisori del padre. Ma in qual modo compie l'uccisione di Egisto
e Clitennestra? quale parte ha Pilade nella strage? Com'è noto,
il Robert {Bild u. Lied, p. 149 sgg.) esaminò alcuni vasi attici
del quinto secolo rappresentanti l'uccisione di Egisto ; e dal fatto
che la rappresentazione di questi vasi non può derivare dalla tra-
gedia, egli, dopo aver detto quasi con rammarico che la man-
canza di notizie non gli permetteva di riferire la rappresentazione
stessa ai Nosti, la riferì 2i\V Orestiade di Stesicoro. La rappresen-
tazione, che pili compiuta appare sui due vasi B (Stamnos nel
Museo di Berlino trovato a Cervetri, M. d. 1. Vili, tav. XV
[Wiener Vorlegehlatter, serie I, tav. 1, n. 2J; A, d. 1. 1865,
p. 212 sgg.) E («Kelebe» in Bologna B. d. I. 1872, p. 110
[Zannoni, Scavi della Certosa]), in breve è la seguente: Oreste
uccide Egisto, il quale cade rovesciato giù dal trono; una donna
avvisa Oreste che la madre s'avanza con una scure per col-
pirlo; ma già un uomo tiene la Tindaride affinchè essa non
colpisca il giovane. 11 vaso che rappresenta piìi genuinamente la
scena originale, come pensa anche il Robert, è certo E. Ora,
quando il Robert dice che la figura che tiene Clitennestra è Tal-
— 573 —
tibio, egli, così mi comunica anche il prof. Brizio, « dimostra di
non aver visto il vaso di Bologna neppure in disegno. Quella fi-
gura è giovanile e perciò conveniente a Pilade, mentre Taltibio,
quando avvenne l'uccisione di Egisto, era vecchio, quale difatti è
rappresentato sul vaso di Vienna ». Ma ricordiamo che sul vaso B
c'è anche un altro cambiamento: al posto di Elettra che avvisa
il fratello del pericolo, troviamo Crisotemi. Anche dalla descri-
zione di C, ora perduto (Kylix vulcente, Gerhard, rapp. volc.
417, Miisée étrusque chi prince de Canino, n. 1186; cf. Brunn,
Kunstlergesch. II, p. 703), si rileva senza dubbio che la figura
la quale incoraggiava Oreste era giovane. Io credo senza dubbio
che la rappresentazione di cotesti vasi derivi immediatamente dai
Nosti. Come si vede, la parte di Pilade era di molta importanza
nel poema (cf. Eurip., Oreste) e ricordiamoci bene che le notizie
dateci dallo Scoliasta alle Nubi di Aristofane (v. 623), da Luciano
{Amores, XXVllI, 47, de domo, LXI,23), da cui si può rilevare una
parte veramente materiale avuta nella strage dal Focese, non pos-
sono riferirsi all'epica (BenndorfF). Il Brunn (Urne etrusche, Ili poi
ha dimostrato che, se nell'arte etrusca l'azione è divisa fra Oreste
che uccide Clitennestra e Pilade che uccide Egisto, ciò è dovuto
a necessità artistica. Come Oreste penetrava nella reggia d'Egisto?
Anche per questa parte un rilievo di Melos, che se non è più
antico di Eschilo, almeno è indipendente da lui (cf. anche Ai-
schylos Orestie, von Wilamowitz, P. II, p. 252) aiutava il Eobert
nella ricomposizione di parte della Orestiade stesicorea. Ma anche
nella dichiarazione di questo rilievo il Robert escludeva Pilade.
Elettra sta immersa in profondi, dolorosi pensieri sul sepolcro
paterno, le si appressano tre uomini, di cui il primo sembra par-
larle, laddove gli altri due si mantengono a rispettosa distanza.
Quei tre uomini hanno tutto l'aspetto di gente che arriva da un
viaggio. Io credo proprio col Gonze (Mon. d. Inst., VI, tav. LVII), a
norma anche della tragedia greca, che quegli che prende a parlare
con Elettra sia Oreste, l'altro Pilade; e credo che il terzo sia un
servo, forse Taltibio (i tratti sono più ruvidi e l'aspetto più vec-
chio di quello del primo personaggio). E si può far buon viso
all'opinione del Robert, accettata dal Wilamowitz, che a base della
rappresentazione ci fosse quella saga, secondo la quale Taltibio
trafugava per consiglio di Elettra il fanciullo Oreste e dopo dieci
anni lo riconduceva in patria vendicatore del padre. — Innanzi ad
— 574 —
Elettra sta l'offerta ai Mani e dietro a lei appare una donna piut-
tosto anziana, forse la nutrice. Ammetto col Robert che Elettra
fosse venuta a spandere libagioni sulla tomba del padre, perchè
la madre aveva fatto il celebre sogno del serpe; e suppongo dal-
l'aria mesta che la giovane ha sul rilievo di Melos che essa, prima
dell'appressarsi del fratello, si fosse doluta con la nutrice della
morte del padre e le avesse espresso il desiderio del ritorno di
Oreste, e la nutrice l'avesse confortata, come appunto fa il coro
nella tragedia greca. Oreste, dopo aver consultato l'oracolo di
Delfo, arrivava dunque a Micene e recatosi, secondo il precetto
apollineo, ad onorare la tomba del padre suo, vi trovava la so-
rella, e per mezzo dei due, il pedagogo e la nutrice, doveva con-
fermarsi il riconoscimento tra fratello e sorella. Riconosciutisi fra
loro, fratello e sorella, bisognava porsi all'opera e l'oracolo di
Delfo aveva pronunciato che la morte di Egisto e Clitennestra
doveva succedere Xa0paiiju(;, come XaGpaiiu^ era morto Agamen-
none. E allora noi pensiamo alla trama che la tragedia greca ci
riferisce, secondo cui Oreste si finge Focese e viene ad annunciare
la sua falsa morte. Ma non mi par giusto quel che dice il Ro-
bert, che Elettra stessa introduca nella reggia il fratello; essa
dopo V àvafvujpicfnóq sarà fatta rientrare dal fratello nella reggia,
e sarà presente quando il fratello viene ad annunciare la sua finta
morte. Io credo che fosse la nutrice quella che portava la prima
notizia, come appunto essa presso Eschilo va ad annunciare la
creduta morte di Oreste ad Egisto. Entrato nella reggia l'Aga-
mennonio trova il Tiestide sul trono e lo uccide. Accorre dal sì-
neceo Clitennestra e, per difendere il drudo da chi lo uccide e
che certo essa non ravvisa subito per suo figlio, imbrandisce una
scure; come Eschilo, memore dei Nosti, fa chiedere alla Tindaride
una scure per identico scopo. Come abbiamo già veduto, nei Nosti
Pilade tratteneva Clitennestra. Il Focese nella uccisione della
Tindaride esercitava qualche parte? Fu notato già da altri che
l'atto della madre, il quale si ripete continuamente nella tragedia
greca, di mostrare ad Oreste il seno che l'aveva allevato, deve
essere un elemento forse dell'epica ciclica, ed io credo che quel
tratto di Eschilo, in cui la madre supplica il figlio a non ucci-
derla, sia dei Nosti e che nei Nosti Pilade, come in Eschilo,
avesse richiamato l'amico al dovere ispiratogli dall'oracolo di
Apollo. La madre sul punto di morire doveva annunciare al fi-
— 575 -
gliuolo le Erinni. Credo poi anche che nel poema di Agia Elettra
passasse a nozze con Pilade: ma Oreste come finiva? In Eschilo
noi troviamo che l'oracolo di Delfo annuncia al vendicatore pa-
terno infiniti guai : « a lui non sarà lecito partecipare né a mensa
ne a libagioni ; nessuno lo accoglierà, nessuno scioglierà con lui le
vele, nessuno lo onorerà, nessuno gli sarà amico »(Coef. 291 sgg.).
Poiché neirOrestiade non si sviluppa nessuno di questi guai, in
Eschilo deve esserci certo una reminiscenza di fatti ben noti al po-
polo ellenico. Ora Pausania ci racconta che a Trezene si vedeva,
innanzi al sacrario di Apollo, un fabbricato detto la tenda di Oreste.
Nessun Trezenio volle accogliere Oreste in casa sua prima che
egli fosse purificato dal matricidio; e allora fu fatto entrare in
quella tenda, ivi purificato ed accolto ospitalmente. Vicino alla
tenda furono sepolti i mezzi di purificazione, e una prova del
luogo ove ciò succedette si ha, dice lo storico, in un albero di
alloro che anche ai nostri giorni è visibile innanzi alla aKrjvri
(II, 31, 11). In un altro luogo Pausania ci riferisce che innanzi
al tempio di Artemide Licea in Trezene c'è un sacro sasso che
deve essere stato il medesimo su cui una volta nove Trezeni pur-
garono Oreste dall'uccisione della madre (II, 31, 7). Mettendo
insieme i due passi, secondo me, si ricostruisce tutta una saga
peloponnesiaca, che doveva essere a fondamento della tradizione
popolare, e che corrisponde a quella attica che Eschilo largamente
poetò nelle Eumenidi. Oreste uccide la madre, é preso dalle
Erinni-, queste lo incalzano; egli allora va a Trezene, dove nes-
suno vuole accoglierlo, entra nel tempio di Apollo; Apollo lo pu-
rifica e certo con quei mezzi di purificazione che noi vediamo
riprodotti su vasi greci, cioè sangue di animali, specialmente di
un porcellino, spruzzato sul capo e sulle mani omicide con una
foglia di lauro. Purificato, egli va nel tempio di Artemide e in-
nanzi al tempio, da un tribunale di nove membri, certo presieduto
da Artemide stessa, egli è addirittura assoluto. Qual'é la fonte
di questa saga? A me par molto naturale ch'essa si debba ascri-
vere ad Agia, come quegli che era di Trezene e voleva dar lustro
alla patria sua, localizzandovi la purificazione e l'assoluzione di
Oreste. — La seconda scena dell'Orestiade doveva nel poema di Agia
svolgersi dunque presso a poco così: Elettra durante l'uccisione
del padre salva il fratello e, per mezzo del pedagogo, lo manda
nella Focide (Epit. di Apollod.). Qui é allevato da Strofio con
— 576 -^
Pilade ; passati dieci anni, il giovinetto ritorna con Pilade in patria
e priaia si reca presso l'oracolo di Apollo. L'oracolo gli dice che
deve uccidere con inganno la madre ed Egisto (Epit. di Apollod.
trag. greca); egli arriva a Micene, si reca sulla tomba paterna,
per farvi preghiere, per trarne ispirazione al grande fatto che
dovrà compiere; v'incontra Elettra che è stata mandata dalla
madre, spaventata da un sogno, a spandere libagioni sulla tomba
dell'eroe ucciso. Fratello e sorella si riconoscono per opera spe-
cialmente della nutrice e del pedagogo (rilievo di Melos, trag.
greca). Si ordisce una trama per uccidere Egisto e Clitennestra ;
Oreste si finge Focese che rechi un falso annunzio della morte
dell'Agamennonio; la nutrice lo accompagna (trag. greca); Egisto
viene ucciso, e Clitennestra accorre in aiuto del drudo con una
scure, ma Elettra avverte il fratello del pericolo che lo minaccia,
mentre Pilade già trattiene la donna (vaso E). Ucciso Egisto,
Clitennestra si raccomanda al figlio che non l'uccida. Pilade ri-
chiama l'amico al dovere ispiratogli dall'oracolo apollineo. Cliten-
nestra è uccisa (trag. greca). Elettra è data in isposa a Pilade
(trag. greca). Oreste, preso dalle Furie, va a Trezene, dove è pu-
rificato ed assoluto. — È chiaro dunque che la maggior parte della
materia, che il Kobert aveva ricondotto al componimento epico-
lirico stesicoreo e poco fa il Wilamowitz (o. e.) ha ricondotto ad
un epos delfico, deve ricondursi al poema di Agia; ed è chiaro
che la materia lirica e drammatica posteriore ha tutto il suo fon-
damento nell'epica. Kicorderò per ora soltanto che come in Omero,
sia pure per opera di redazione, ciò che noi abbiamo già dimo-
strato, il mito di Oreste non serve solo all'arte per l'arte, ma ha
uno scopo morale ben delineato, due grandi poeti, i quali si ser-
virono della saga anche con uno scopo politico, scorsero in essa
alti concetti morali. Pindaro vi estrinsecò l'amore alla vita pri-
vata, l'aborrimento alla tirannide. Eschilo il sommo principio che
la fortuna arrivata ad un certo punto precipita, che chi commette
un delitto deve pagar la pena. Ed egli, dando l'ultimo colpo al-
l'antico sistema religioso morale greco, dimostrò con Oreste come
l'uomo, sebbene appartenga ad una famiglia piena di delitti ed
abbia commesso egli stesso il più grave delitto, possa con la
propria espiazione purificare sé e tutta la sua famiglia.
— 577 —
IL — L'ultimo a trattare la tanto discussa e difficile que-
stione della priorità delle due Elettre (1) fu G. Kaibel [Sophohles
JElektra, p. 54 segg.; Leipzig 1896). Però il critico, pur giungendo
ad un risultato opposto a quello del Wilaniowitz {Die beiden
EleJciren, Herm. XVITI 214), a me pare troppo attratto dalla cri-
tica fatta dal Wilamowitz stesso alle due Elettre ; quindi non
conduce il suo esame a quel punto a cui doveva guidarlo spe-
cialmente la bella dissertazione del Wolterstorff (SophocUs et Eu-
ripidis Eledrae quo ordine sint compositae, lenae 1891) che
primo, a mio parere, pose il quesito su una base più certa e de-
signò meglio la via da tenere nella ricerca del vero. Di conseguenza
i due ultimi lavori usciti sull'argomento non esauriscono la ma-
teria ; anzi quello del Kaibel meno di quello del Wolterstorff : le
seguenti osservazioni anch'esse non l'esauriranno, ma, spero, vi
porteranno qualche nuovo ed importante contributo.
Prendiamo in esame i brani: 1" vv. 259-295 di Sofocle e
vv. 314-331 di Euripide; 2° vv. 503-646 di Sofocle e vv. 998-1122
di Euripide. 1° Dal primo passo sofocleo risulta quanto segue :
Egisto siede sul trono di Agamennone ; indossa le vesti un dì
portate dall'Atride; fa libagioni là dove avvenne l'uccisione del-
l'eroe; giace con Clitennestra su quel talamo, su cui essa aveva
posato accanto al legittimo marito. Clitennestra non solo si com-
piace della uccisione del suo consorte da lei stessa operata, ma
il dì anniversario di quell'orribile misfatto fa danze e sacrifizi
agli dei salvatori, e ogni volta che Elettra piange, la insulta, la
minaccia, la cuopre d'ogni sorta d'ingiurie e la rimprovera con-
tinuamente di aver sottratto dalle sue mani omicide il piccolo
Oreste. Egisto eccita e fomenta l'animo spietato della Tindaride.
— Dal primo passo euripideo risulta : Clitennestra siede sul trono,
figura in grande pompa, mentre ancora nella reggia scorre il
(1) Nel moménto di rivedere le bozze, per cortesia del prof. Stampini, ho
conosciuto la recensione del Bemhìlzer (Wochenschrift fikr hlassisclie Phi-
lologie 14 Jahrg. 1897 n. 7 10 Febb.) circa una dissertazione polacca dello
Szydlowski (Eos, Commentarti Societatis philol. ed. a Ludovico Cwiklinski,
Voi. Ili fase. I Leop. 8. 127 p.), che mi pare miri unicamente a fissare l'anno
di composizione e rappresentazione delle due Elettre. — Colgo l'occasione
per correggere alcuni errori di stampa rimasti nell'altro articolo De Eledrae
Euripideae libris florentinis (Riv. di Filol. ecc. XXIV) ;p. 463 1. 12 pigmento;
468,20 censuerunt; 473,31 adtribuenda 1. 479,13 exaratam.
Rivista di filologia, ecc., XXV. 37
— 578. —
sangue del marito ucciso. Ma Egisto è quegli che ha ucciso Aga-
mennone ; egli incede sugli stessi carri dell'eroe assassinato, ne
tiene lo scettro (nell' Ifigenia taurica Euripide segue l'altra tra-
dizione, secondo cui Egisto non tiene lo scettro dei Pelopidi
[810; cf. Paus. 9, 40, 6]), lascia inonorata la tomba dell'Atride,
anzi ebbro la disprezza e la insulta e inveisce contro Elettra e
contro Oreste lontano. — Dal confronto dei due passi risulta
evidente ed innegabile che dall'uno all'altro le due parti di Egisto
e di Clitennestra si mutano e s'invertono; l'inversione non sta
solo nella rappresentazione e nei motivi esteriori, ma anche nel-
l'intima caratteristica dei personaggi; là dove nel brano sofocleo
la figura posta in più sinistra luce è quella di Clitennestra, nel
brano euripideo è quella di Egisto. — 2° Dal secondo passo di
Sofocle risulta: Clitennestra si confessa, anzi vivamente afferma
di essere Tunica e vera operatrice dell'uccisione del marito; pro-
testa di avere operato secondo giustizia, perchè Agamennone le
aveva ucciso la figlia, senza ragione; solo per amore del fratello,
cioè per riconquistare Elena, mentre Menelao avrebbe potuto e
sarebbe stato in dovere di sacrificare figli propri. Elettra ottenuto
il permesso di parlar francamente e liberamente, ribatte il pre-
testo addotto dalla madre del sacrifizio d'Ifigenia e ne discolpa
il padre, adducendo che questi fu costretto ad immolare la cara
vittima, per aver ucciso la cerva di Artemide. Osserva inoltre
che, se anche l'Atride avesse immolato Ifigenia senza una vera
ragione, la moglie non era in diritto di uccidere il marito, perchè
se l'uno si uccidesse per l'altro, anche Clitennestra si giudiche-
rebbe da se stessa e dovrebbe aspettare la morte. Osserva poi che,
se Clitennestra fosse giustificata per l'uccisione del consorte, non
è punto giustificata la condotta sua riguardo ai figli del primo
letto; Elettra ed Oreste. La vera causa che spinse Clitennestra
ad uccidere il consorte fu, a suo parere, neiQùj KaKoO npòq àv-
òpòq, col quale ora convive (549). La madre non sa ribattere le
ragioni della figlia, ma prorompe in insulti e in tal guisa dichia-
rasi vinta. — Dal secondo passo di Euripide risulta: Clitennestra
ha preso parte all'uccisione del marito per due motivi; il primo
però è meno grave, meno incalzante del secondo; essi sono: il
sacrifizio d'Ifigenia, consumato dal consorte per riconquistare Elena,
la gelosia di Cassandra condotta da lui nei letti regali. Elettra,
ottenuta la libertà di parlare, non ribatte ne il primo ne il se-
— 579 —
condo argomento, ma asserisce che la madre uccise il legittimo
marito per vanità e leggerezza d'animo, per la tendenza al lusso
e alla lussuria. Osserva inoltre che, se anche l'azione di Cliten-
nestra fosse giustificata, la madre però non era in diritto di mo-
strarsi ingiusta e malvagia verso i figli avuti dal primo letto.
Come Elettra non ha ribattute le ragioni addotte da Clitennestra,
così questa non ci compare in sommo grado colpevole (cf. Wol-
terstorff, p. 56); ne dopo le parole della figlia si mostra adirata,
anzi è umile e la compiange per la cattiva sorte che l'ha colpita.
— Se poniamo a riscontro il passo sofocleo con l'euripideo, ci
accorgiamo che mentre in Sofocle Clitennestra compare in una
posizione molto sfavorevole, in luce assai tenebrosa, onde Elettra
guadagna per la caratteristica propria; in Euripide al contrario
Clitennestra assume un aspetto più mite, « der Horer empfindet
ftir die Mutter Sympathie und Widerwillen gegen die Tochter »
(Wilamowitz, dissertazione cit.,p. 222, XVIII Hermes); insomma
la madre guadagna per la sua caratteristica a discapito di
Elettra che non riuscirà a giustificare l'uccisione materna; che
in ultima analisi appunto dal rilievo delle due figure, essendo il
centro dell'azione mitica passato da Oreste (Omero, Nosti, Stesi-
coro, Pindaro, Eschilo) ad Elettra, risulterà la giustificazione del
fatto più importante e più saliente del drama, cioè dell'eccidio
di Clitennestra. — Se percorriamo tutto il drama sofocleo , tale
caratteristica e tali particolari avremo, oltre quelli già noti, per
la Tinda'ride : essa insieme con Egisto ha ucciso il marito (98-100,
cf. vv. 190-194, 198-201), ma nel misfatto la più grande parte
fu compiuta dalla donna e per essa il cadavere èMa(TX«^i<?6n ^d
essa erri XcuTpoicriv Kapa KnXibaq èSéjuaHev (437-39); nella strage
del marito voleva comprendere anche il figliuoletto Oreste (cf. pro-
logo; vv. 297, 1133, 1411), inveisce contro Elettra e con mani
e con parole (1175-1177); la minaccia sulla scena di rinchiuderla
in un carcere sotterraneo, appena torni il suo drudo (380-620) ;
nella preghiera durante il sacrifizio invoca disgrazie per i suoi
figli del primo letto, Elettra ed Oreste (640-641); non può fre-
nare la sua contentezza alla notizia che l'Agamennonio è morto
nei giuochi pitici, anzi promette larghi doni al nunzio (735 sgg.,
cf. specialmente il v. 794). 11 poeta ha cercato di delineare la
figura della donna coi più tristi e foschi colori, vi è riuscito; né
in alcuna parte del dramma è mai venuto meno al suo principio
- 580 —
di calcare le tinte su Clitennestra e lasciare nello sfondo Egisto.
È appunto per ciò che Oreste non dubita ne vacilla innanzi alla
uccisione di Egisto, puro atto di giustizia, perchè il drudo ha
preso parte alla morte di Agamennone e ne ha usurpati gli averi.
— Nel dramma euripideo è mantenuto costantemente il rilievo
della figura di Egisto su quella di Clitennestra, riconosciuto da
noi nel passo già studiato ? È necessario distinguere le parti reci-
tative dalle liriche. — Nel prologo si legge che Agamennone è
ucciso per mano del Tiestide (10), che questi s'impossessa del
regno dei Tantalidi (11-12), impalma la moglie dell' Atride (13),
vuol uccidere Oreste e, quando Elettra ha raggiunto l'età giove-
nile, la nega ai più distinti giovani dell'Eliade, perchè teme che
da un nobile connubio nasca il TroivdTop del duce supremo greco,
anzi, accorgendosi che anche tale mezzo non è privo di pericoli,
vuole addirittura ucciderla (19-27). Il TTaTpò(; T^paiòi^ Tpoqpeu?
salva Oreste dalle mani di Egisto (particolare tutto contrario al
sofocleo già noto) [16-18]; Clitennestra salva Elettra, e allora
Egisto promette una mercede a chi ucciderà Oreste e dà Elettra
all'auturgo (28, 32-35), Clitennestra ha ucciso il marito d'accordo
con Egisto (86-87, 89), ma è stata la òo\ó)LiriTi(g nel misfatto, e
poteva addurre scuse per la parte esercitata nel medesimo. No-
teremo qui che C. Haupt [Philol. 33, p. 374) e poi J. W. Schmidt
{Krifische Studien zu den Griechiscìien Bramaiikern, II, p. 145
[Berlin 1886]) trovarono difficoltà nei due vv. 9-10, appunto per
la divisione delle parti fra Egisto e Clitennestra nella uccisione
di Agamennone, affermando che in nessun altro luogo Euripide
la menziona e la determina. Ma, se si pone in rapporto cotesto
passo con le ragioni addotte da Clitennestra alla figlia a scusa
del delitto, si trova che Euripide ha voluto, nell'Elettra appunto,
risollevare, molto mitigata e trasformata, la tradizione da noi
detta nel nostro studio sulla morte di Agamennone secondo
V Odissea {Bivista di Filologia, ecc. XXIV) I* omerica (■=■ Nosti),
la quale fa òoXóiiriTi^ Clitennestra e assegna come motivo del suo
odio la venuta di Cassandra. — Però, se come moglie ebbe ragione
per inveire contro il marito (29), come madre si guarda bene
dall'inveire contro i figli, anche perchè teme di pagarne il fio
(29-30); quindi salva Elettra dalle mani di Egisto, non ha alcuna
parte nell'allontanamento di Oreste (85), e nella espulsione della
figlia dalle case paterne al più acconsente al drudo ; e su questo
- 581 -
ultimo particolare, cioè sui vv, 60-63, torneremo più tardi. —
Nel primo episodio (213-431) è detto espressamente come Cliten-
nestra non ha parte diretta nell'allontanamento della figlia; essa
al più cedette per quel sentimento che hanno le donne di essere
più amanti dei mariti che dei propri figli (266-67); ma Egisto
è quegli che ha ucciso Agamennone, ha inveito contro Elettra
(266-67), incute il massimo timore (270-71); e noi anzi cono-
sciamo il brano più importante dell'episodio, e ricordiamo che,
sebbene Clitennestra ivi sia rappresentata in grande pompa, non
è posta in luce sinistra; il poeta non le dà epiteto di sorta né
punto sviluppa la sua figura. — Nel secondo episodio (vv. 487-698)
Elettra non può credere che Oreste abbia avuto tanto coraggio
da tornarsene in Argo, essendo a tutti nota la tirannide di Egisto
(525-26); è proprio costui che ha ucciso Agamennone, e Cliten-
nestra non fu che la partecipe delle empie nozze (599-600). La
madre non è avversa ai figli suoi, anzi risponderà subito all'in-
vito del vecchio di recarsi da Elettra puerpera, e piangerà e si
lamenterà pensando quanto potevano essere illustri e nobili i nati
della figlia sua (657-58); sì che si può proprio dire col Wolter-
storff che essa accondiscese invita all'allontanamento di Elettra
dalla reggia. Riconosce di aver peccato ad unirsi con Egisto, perchè
non osa presentarsi al pubblico col marito (643). — Nel terzo
(747-858) e quarto (880-1146) episodio, l'ultimo da noi in parte
conosciuto, è Egisto quegli che fa voti perchè le sventure piom-
bino su Oreste e su Elettra (particolare contrario al noto sofocleo)
[vv. 805-808] ; egli ha ucciso Agamennone (769, 849, 884, 885,
915-16), ha rovinato Elettra, l'ha ridotta orfana del padre, ha
reso esule il fratello, ne ha sposata la madre. Però non sono tutti
giusti i lamenti che la giovane fa sul corpo di Egisto; tutti con-
sentanei alla caratteristica dei due personaggi, Clitennestra e il
Tiestide, i rimproveri che essa rivolge all'ultimo sul suo cadavere.
Né sono giustificate le espressioni contenute nei vv. 1086 sgg.,
1109-1110. Più tardi ne vedremo il perchè, e studieremo il
perchè della composizione. — Clitennestra si duole delle misere
condizioni in cui versa la figlia; Elettra stessa riporta la causa
dei proprii mali su Egisto, che la madre cerca in qualche modo
di scusare (1111-1117). — Possiamo stabilire che nelle parti
recitative, meno pochi passi, la figura posta in maggior rilievo,
per delinearne meglio gli spietati costumi, è Egisto ; né Oreste
- 582 —
vacilla punto quando deve ucciderlo, ma vacilla quando deve
uccidere la madre, perchè essa per la uccisione, o meglio per par-
tecipare alla uccisione del marito, aveva ragioni sue proprie e fino
ad un certo punto valide ; ma verso i figli non aveva colpe. —
Esaminiamo le parti liriche. Nella ^^arorfos (112-212) Clitennestra
compare come la crtuTvà Tuvbapéou KÓpa dell'epos omerico (117),
[cf. trad. Ili* omerica nel mio studio già citato]: essa ed Egisto
hanno ucciso l'Atride (124-25), anzi la donna ha assassinato il
marito: ogni colpa è condotta su lei, il bagno, la scure ne sono
le prove materiali ; la moglie non accoglie il marito reduce da
Troia né con mitre né con corone, ma con la morte. Egisto passa
proprio in seconda linea; egli diventa òoXó)ar|Ti(; (164-165), come
nel prologo era òoXóiariTi? Clitennestra, e il poeta non lo pone
in cattiva vista. — Nei vv. 211-212 si risolleva in luce fosca la
figura di Clitennestra che giace èv XéKxpoiq qpovioK^. E tanto è
vero che nella parados la figura della Tindaride fa la maggiore
e più triste impressione, che, per conciliare la parte recitativa con
la lirica, nei due vv. 213-214, il coro, per attenuare la parte
della donna, cerca di scusarla (cf. Omero, Od. vv. 436-39), e ri-
porta ogni colpa dei mali nelle case dell'Atride ad Elena ; onde
pensiamo al sacrifizio d'Ifigenia e possiamo anche pensare ad altri
motivi inerenti alla guerra Troiana. — Nel primo (432-486) e
nel secondo stasimo (699-746) Egisto non è più neppure ricordato;
la figura unica che emerge ed è fatta segno di attenzione è quella
di Clitennestra. Ma il primo stasimo deve essere sottoposto a più
minuto esame. Qui il poeta si volge alle navi che portarono ed
accompagnarono in Ilio con Agamennone il figlio di Thetis
(432-441); quindi passa a descrivere il momento in cui le Ne-
reidi portarono ad Achille lo scudo (442-451); poi descrive lo
scudo, seguendo non interamente il famoso luogo omerico [cf. Kvi-
cala, Studien su Eurip., Wien 1879] (452-477); infine si rivolge
a Clitennestra e la rimprovera della uccisione del consorte (478-486).
Possiamo dire che i vv. 432-441 sono un'introduzione alla descri-
zione dello scudo di Achille; i vv. 442-477 sono un breve canto
che ha per suo oggetto la celebrazione del figlio di Thetis ; ora
il rapporto fra la materia estranea allo svolgimento dell'Orestiade
e inerente al medesimo, è procurato per mezzo del v. 479 (toiujvò*
fivttKTa bopmóviuv), ma il poeta non ha parlato d'altri che di
Achille, ed ammesso anche che i vv. 452-477 siano quasi una
- 583 -
parentesi, un volo della fantasia poetica generato dalla menzione
del figlio di Thetis, resta sempre che Agamennone non è altri
che il duce d'Achille. Di ciò s'avvide anche LLabujewski (Quae-
stiones de cantico quod legiiur ap. Eur. in El., Rostochii 1874),
il quale non riuscì ad eliminare la difficoltà ; è chiaro che l'espres-
sione TOiujvòe òopmóvujv non ha nulla a cui riferirsi in prece-
denza. Onde i vv. 478-486 hanno tutto l'aspetto di appendice ad
un canto che originariamente era indipendente (432-477 e forse
442-477, perchè anche i vv. 432-441 riferiscono un'azione che
segue quella dei vv. 442-451) e che fu poi adattato per il coro
e, per mezzo di una breve aggiunta, collegato con l'azione dramatica,
in modo non troppo conveniente alla medesima, giacché questa
tendeva, come sappiamo, a dare il minore sviluppo possibile alla
figura di Clitennestra. Per il primo stasimo dovremo quindi con
molta circospezione accogliere l'opinione del Westrick {I)e Aeschyli
Choeph., deque Electra cum Soph. tum Eurip. L. B. 1826, p. 181),
che i cori nell'Elettra euripidea sono privi del difetto di cori di
altri drami euripidei « ut ea saepe canant, quae minus proposito
conducant, neque ad ipsum tragoediae argumentum pertineant ».
Dunque il 1° stasimo, non solo nella chiusa è contraddittorio al
disegno primo del drama, ma anche in se stesso mal connesso.
Nel terzo stasimo (859-879), che non è proprio un canto lirico
come la parados, e tanto meno come il primo ed il secondo sta-
simo, troviamo dominante la figura di Egisto, e ne studieremo il
perchè. Egisto è chiamato l'uccisore di Agamennone e il coro vede
con la sua morte abbattuto il governo tirannico Argivo. Nel quarto
stasimo (1147-1232) l'unica figura è Clitennestra; essa aÙTÓxeip
(cf. Sof. 938-1002) ha ucciso il marito, con la scure ; è la leonessa
0 la murena eschilea, è l'echidna (1159-1160: cf. v. 1189). —
Può concludersi che nelle parti più efficacemente liriche è dato
il maggiore e più sinistro rilievo alla figura di Clitennestra ; ora,
se nelle parti recitative è dato al contrario maggiore e più sinistro
rilievo alla figura di Egisto, chiaro è che fra le parti recitative
e le liriche esiste un contrasto. — Perchè questo contrasto ? E il
caso di pensare che quasi tutte le parti liriche non fossero state
scritte da Euripide, ma inserite da altro poeta dopo di lui? Tor-
niamo un momento sui due brani euripidei presi in considerazione
nel principio del nostro studio. — Abbiamo visto quanta atti-
nenza e quali differenze esistano fra Sofocle ed Euripide; non si
— 584 —
può fare a meno di ammettere' che l'un testo fu scritto con co-
gnizione dell'altro; ma quale dei due servì di fondamento o di
esemplare all'altro? 11 Kaibel intravvide nel corpo dei vv. euri-
pidei 313-331 una contraddizione, ma riferendo l'ui^ Xéroucriv del
V. 327 a ciò che precede e segue, cercò di attenuarla. A me asso-
lutamente non pare che Vwq XéToucfiv debba riferirsi a tanto
contenuto, ma al solo KXeivóq. Quindi giudico che mentre in So-
focle lo sfogo di Elettra è opportunissimo, naturale, efficace in
tutti i suoi particolari, in quanto che la giovane sta sempre nelle
case degli uccisori paterni, li vede tutto giorno e sopporta conti-
nuamente gl'insulti della madre; in Euripide al contrario lo sfogo
non è naturale, ne opportuno, né efficace, anzi contrario alla realtà,
perchè ella è già stata allontanata da tempo dalle case paterne,
non ha più alcun rapporto coi tiranni e non può dire di addolo-
rarsi per veder la madre in gran pompa sul trono e di essere
sempre fatta segno alle sevizie ed agli insulti di Egisto: perciò
bisognerebbe riferire il contenuto dei vv. 314-331 ad un tempo
passato, almeno ad un anno prima, cioè al periodo in cui Elettra
dimorava ancora nella reggia. Non è possibile che un poeta pensi
a cotesti particolari, se non, imaginata una situazione identica ad
una già preesistente, subisca ed accolga dalla medesima gli stessi
particolari. Ed Euripide ha migliorato, sotto un certo rispetto, la
situazione sofoclea, perchè in Sofocle i versi sono pronunciati da
Elettra al coro ; presso di lui da Elettra ad Oreste, e servono
quindi indirettamente, perchè la giovane non sa di avere innanzi
il fratello, a spronare l'animo suo alla vendetta. C'è di più : nei
due luoghi paralleli ricorre l'espressione ó kXeivó?: in Sofocle
essa: « cum totius loci et constructione et sententia multo magis
congruere atque cohaerere videtur, quam in Euripidis Electra,
Incipit apud Sophoclem ab illis verbis quasi series contumeliarum,
quibus Electra absentem Aegisthum afficit, cum in Euripidea
fabula ó KXeivóg verba versui 326 solute tantum adiecta videantur »
(Kraus, 1. e, p. 11). L'aggiunta a KXeivó?, di ójq Xérouffiv, mi
sembra proprio che accenni con tutta evidenza alla menzione già
preesistente nel drama sofocleo. Quindi, a maggior ragione del
Kaibel, ammettiamo che dal passo esaminato risulta la priorità
dell'Elettra di Sofocle.
Nel secondo brano, pure esaminato, ci troviamo dinanzi una
identica difficoltà. Da Sofocle risulta che Clitennestra è quella
- 585-
che inveisce in modo particolare e, dirò anzi, esclusivo, contro i
figli del primo letto, Oreste ed Elettra; dal draraa euripideo ri-
sulta che è Egisto, e Clitennestra si guarda bene dal fare torto
ai medesimi. Ora se l'argomento addotto presso Sofocle da Elettra:
tu, 0 madre, dici di aver ucciso il marito per il sacrificio di
Ifigenia; ammesso che questa sia ima buona ragione, eri tu in
diritto e sei di incrudelire in virtù della medesima contro di noi,
di me e di mio fratello ? ; se questo argomento, dico, è vali-
dissimo e necessario; presso Euripide al contrario una analoga
argomentazione (cf. specialmente v. 1087) mi pare del tutto falsa
e sconveniente. Il Wolterstorff, che considerò tutta la scena fra
El. e Clit., necessaria in Sof., non necessaria all'economia del
drama in Euripide, ed anzi, che Euripide non fu condotto dal di-
segno del suo lavoro ad inserirla, poiché era suo intendimento di
dimostrare la madre quanto più potesse buona, e quindi doveva
fare in modo che i delitti di lei fossero dimenticati affatto, rico-
nosce l'influenza del drama Sofocleo. 11 critico nega alla scena
presso Eur. ogni efficacia in rapporto alla connessione con le altre
scene, la desidererebbe omessa e considera i vv. 1086 sgg. una
ripetizione dei vv. 507 sgg.
Ora, come un poeta avrebbe inserito un tale brano, che con-
trasta col disegno dell'opera sua, se non pel fatto, che trovando in
un drama preesistente identiche situazioni, fu dalle medesime con-
dotto a riprodurne i tratti speciali ? Nello stesso brano l'argo-
mento Sofocleo, che se si uccide l'uno per l'nltro, Clitennestra
può aspettarsi la morte, e che è intimamente congiunto con l'an-
nullamento del pretesto addotto dalla Tindaride del sacrifizio di
Ifigenia, si ripete presso Euripide, ma disgiunto dal fatto di Au-
lide e sempre in contrasto con la caratteristica di Clitennestra.
Né meno in contrasto sono i due versi 1109-1110, dove é detto
che la miseria di Elettra dipende dal volere della madre che
troppo spinse all'ira il drudo. Difficilmente i due versi per sé
possono considerarsi come una interpolazione; e provo molta dif-
ficoltà a reputarli come facenti parte di una serie di versi tutti
interpolati. Infatti, ammessi interpolati i due versi, anche il verso
1111 dovrebbe ritenersi interpolato, e così i vv. 1112-1113 pari-
menti si dovrebbero espungere, perchè non dipendeva da Cliten-
nestra il far tornare Oreste, ma da Egisto; dichiarati interpolati
i vv. 1112-1113 se ne andrebbero anche i vv. 1114-1115. Il v. 1116
— 586 — '
si collega benissimo col v. 1108; certo è clie i due vv. 1109-1110 si
adatterebbero perfettamente al drama Sofocleo, e forse il modo mi-
gliore per spiegarli è quello di ammettere l'influenza continua e te-
nace dell'opera di Sofocle. — Nella parados siamo in casi identici :
Elettra in Sofocle ed in Euripide si lamenta per la morte paterna
(Sof. 86 sgg. Eur. 111-126 [Sofocle 77 = Eur. 114-129. 159;
Sof. 86 = Eur. 54 sgg.; Sof. 98-99 = Eur. 122-124; Sof. 88-93
=: Eur. 112-113. 125-128]); il coro cerca di consolarla e presso
Sofocle le dice, fra l'altro, che il dio tutto vede e tutto regge
(135 sgg., 186 sgg.); e presso Eur. che non con pianti ma con
preghiere agli dei si può ottenere ciò che si vuole (193 sgg.);
Elettra in Sofocle si paragona all'usignolo (145-46), in Euripide
al cigno (151 sgg.); espone la propria sorte, e presso Sofocle dice
che trovasi senza genitori, senza amici, ed abita le case paterne
deiKei crùv axoXa (183-184); presso Euripide che il fratello va
errando per case straniere, mentre ella in mezzo ai più gravi
dolori è stata lasciata nella reggia del padre: èv 6aXa|uoi^ ira-
Tpujai? (131-34; cf. 184-85).
Questo ultimo passo ci conferma vieppiìi nell'opinione che
l'Elettra di Euripide fu scritta con cognizione della Sofoclea,
perchè il passo si riferisce evidentemente anche allo stato presente
di El., ma El. presentemente non è più in casa dei genitori :
perciò anche qui non possiamo spiegarci altrimenti il fatto, se non
ammettendo che il poeta ha subito l'influenza dell'altro drama,
per modo che non ha saputo liberarsene anche quando doveva.
Nei vv. 118-119 El. dice che i cittadini la chiamano àeXia ; è
vero che in Eschilo El. dice di sé ine KavaGXiav, ma in Sofocle
àeXio<g è adoperato frequentemente, ed Elettra si esprime così a
suo riguardo : questo è Vaspetto di El. Kaì |aaX' à9XiiU(; èxov. Non
voglio fare ipotesi, ma potrebbesi anche supporre e, non senza
verosimiglianza, che Eur. avesse in mente questo luogo Sofocleo.
Un caso analogo al precedente trova il Kaibel nel v. 1120 di
Euripide paragonato col v. 263 di Sofocle. — È troppo noto che
l'Elettra di Euripide risente anche molto l'influenza delle Coefore
di Eschilo (cf. Flessa, Kraus, Wolterstorfif etc): e noi sappiamo
già come Eschilo, d'accordo con i Nosti, e più con la trad. 3*
omerica, abbia dato il massimo rilievo alla figura di Clitennestra
e posto nello sfondo quella di Egisto; nella parados la trad., come
già dicemmo, è l'eschilea, eschilea anche nei particolari, ed io
— 587 —
credo che i due vv. 162-163 siano proprio quella che i dotti chia-
mano critica indiretta euripidea, ad Eschilo. Infatti il particolare
che Clitennestra non accoglie il marito ne con mitre né con co-
rone, ricorda e corregge la scena eschilea in cui la donna con
corone, con pompa massima, con tappeti, accoglie il marito. 11
quarto stasimo (o meglio la parte del coro che accompagna la
morte di Clitennestra, vv. 1147-1164) ricorda perfettamente le
parole di Oreste dopo l'uccisione della madre (vv. 973 sgg.; cf.
specialmente vv. 993 sgg.); qui dunque Eur., come nella parados,
è sotto l'influenza eschilea. Se noi pensiamo che nelle Coefore
di Eschilo, tolta la parodos (22-83), in cui c'è il sogno di Cli-
tennestra, e si svolge il concetto della giustizia; tolto il 1° sta-
simo (306-478), in cui si esprimono concetti generali; tolto il
3° stasimo (783-838), in cui s'invoca la vendetta; nel 2° stasimo
invece, in cui la materia si libera un poco da quella espressa nel
drama, e il canto alla lontana ricorda la maniera euripidea; tutto
tende a delineare la figura di Clitennestra, potremo spiegarci il
1° ed il 2° stasimo nella Elettra. La parodos, il 1° (non credo
sia neppure per questo il caso di pensare ad un'aggiunta poste-
riore), il 2° ed il 4" stasimo sono in Euripide sotto l'influenza
eschilea e sofoclea. 11 3" stasimo, brevissimo, siccome quello che
segue immediatamente la morte di Egisto, e punto si allontana
dalla materia e dal soggetto del drama, si contiene nella cerchia
e nel disegno ideato dal poeta. Nel terzo episodio Elettra taccia
il drudo materno, o meglio, sul cadavere di lui scaglia le seguenti
invettive : Egisto fu sconsiderato nello sposare Clitennestra, perchè
una donna la quale ha tradito il primo marito non potrà mai
essere fedele al secondo: a proposito di questo rimprovero ripe-
tiamo presso a poco ciò che nota il Wolterstorff e che noi già
conosciamo rispetto alla scena fra Elettra e Clitennestra; poiché
di Clitennestra non è addotto nessun motivo che ce la rappresenti
cattiva dopo il secondo connubio, desidereremmo che il brano non
esistesse nel drama. L'altro rimprovero, che Egisto si lasciasse
dominare da Clitennestra, è consentaneo alla rappresentazione del-
l'Elettra ? Non mi pare: anche qui il poeta non sa liberarsi dalla
concezione eschilea e sofoclea. L'effeminatezza, la codardia, la fi-
ducia nell'oro sono altri rimproveri che bene si addicono al drudo
e s'accordano col disegno dell'opera. — Ma là, dove Clitennestra
(v. 970) è accusata di aver ucciso il marito con la scure, troviamo
— 588 —
un nuovo strappo alla legge drammatica àeW'EIettra, strappo a
cui il poeta fu condotto dalla situazione stessa ; la sorella doveva
eccitare Oreste all'eccidio materno e perciò il brano era necessario.
La scena ricorda moltissimo quella sofoclea fra Elettra e Criso-
temi (v. 930 sgg.), dove Elettra propone alla sorella di vendicare
il padre: Sofocle in quel brano, sebbene abbia delineato costan-
temente con colori tanto foschi la figura di Clitennestra , più
foschi che non abbia fatto Eschilo, si guarda dal far proporre ad
Elettra la morte della madre, nomina solo Egisto: Euripide, me-
more della scena, o meglio del particolare che la giovane avrebbe
avuto tanto coraggio da compiere essa stessa la vendetta paterna,
poiché Oreste dubita assai e vacilla nell'iramergere il ferro nel
petto di chi l'ha generato, ripete quel motivo per Clitennestra,
non pensando o non avvertendo che egli oltrepassava i limiti del
mito da lui accettato e svolto per la maggior estensione del drama.
Sono pure inerenti alla composizione del lavoro i vv. 60-63, o
sono una interpolazione posteriore ? Kicorderemo innanzi tutto che
i vv. 57-58 : iurhant evertuntque orationem (Steinberg, De inter-
polatione Euripideae Electrae. Halis Saxonum 1864, p. 23); in-
fatti dai vv. 64-66 risulta che l'auturgo rimprovera Elettra per
le fatiche che essa, non avvezza, sostiene nella stamberga e pre-
sentemente, perchè va ad attingere acqua al fonte: dai vv. 67-76
risulta che Elettra va al fonte per alleviare le fatiche del suo
così detto consorte (cf. v. 309), e sostiene occupazioni a lei non
convenienti per rendergli più facile e più comoda la vita: nei
vv. 77-80 l'auturgo pare persuaso delle ragioni addotte da Elettra,
osserva che il fonte non è poi tanto lontano e le avvisa che al-
l'alba andrà a seminare. Contraddicono a tale contenuto, confer-
mato e convalidato dal v. 309 (cf. Steinberg, 1. e. 24), i vv. 57-58,
in cui Elettra afferma che va al fonte non per necessità, ma per
mostrare agli dei la violenza di Egisto. Ne, secondo me, può ri-
tenersi genuino il v. 59, perchè se poi, nella parados, Elettra si
fa togliere dal capo il vaso per spargere lamenti al padre (v. 140),
non si capisce come prima essa esca di casa per spargere lamenti
al padre tenendo il vaso sul capo. Tolti i vv. 57-59, i vv. 60-63
possono congiungersi coi vv. 54-56 : ma il loro contenuto è inutile,
perchè già gli spettatori sanno che Elettra è stata cacciata dalla
reggia paterna: del resto vi è detto che Clitennestra ha allonta-
nato la figlia, ma non per sua volontà, sì bene xapiTa Tieeinévri
- 589 -
TTÓaei, e che, partoriti nuovi figli, considera come cosa secondaria
Elettra ed Oreste. Se si paragonano questi versi con i due sofoclei
576-577 si vede che gli uni furono scritti con cognizione degli
altri, e che appunto Euripide mitigò Sofocle per lo scopo che egli
aveva.
Ci resta ancora una parte da esaminare, in cui è evidentissima
l'affinità fra Sofocle ed Euripide: cioè il ^ro%o (cf. Wilamowitz
p. 221). Wilamowitz scrive che il prologo euripideo, a differenza
dal sofocleo, è motivato: « Sein Orestes hat im Prolog auf der
Bùhne etwas zu suchen, rauss die Elektra fùr eine Sclavin halten,
und muss sich erst tìber die Verhàltnisse orientiren. Bei Soph.
ist im Grande genommen nicht bloss die Expedition des Orestes
im Prologe, sondern die ganze Sendung des Pàdagogen mit der
Todesbotschaft ohne Zweck » (v. 222) [cf. Kaibel].
Poniamo innanzi tutto in rilievo i particolari comuni ai due
poeti: la prima cosa che si determina è il luogo della scena
(S. 1-10; E. 1-7); la seconda è il destino di Oreste in Sofocle,
anche di Elettra in Euripide (11-14 S.; 8-53 E.); la terza è il
tempo in cui si presentano i personaggi (17-19 S.: 54 sg. E.).
— In Sofocle si riferisce l'esistenza di un terzo compagno : Pi-
lade; e così in Euripide, appena Oreste si presenta, nomina il
Focese (15-16 S.; 82-83 E.). In Sofocle Oreste espone la sua gita
all'oracolo apollineo (32 sgg.); in Euripide Oreste dice di essere
venuto dall'oracolo apollineo (88 sgg.). In Sofocle Oreste deve
compiere ciò che gli ha ordinato l'oracolo (50 sgg.), in Euripide
l'ha già compiuto (90 sgg.) In Sofocle egli manda il pedagogo
nelle case di Agamennone per conoscere quello che si fa là entro
(39-40): in Euripide Oreste viene per farsi compagna Elettra
nella vendetta paterna e per sapere quello che succede entro le
mura (100-101). In Sofocle Oreste dice al pedagogo che si deve
fingere Focese mandato da Fanoteo (44 sgg.); in Euripide Oreste
dice ad Egisto che è Tessalo (563-64). In Sofocle il pedagogo
sente entro il palazzo il lamento di una persona che crede sia
una serva (73 sgg.); in Euripide Oreste crede che la persona che
s'inoltra sia pure una serva. — È necessario distinguere due parti
nel prologo euripideo : la 1* che comprende le parole dell'auturgo
e di Elettra, la 2=* il discorso di Oreste. La prima parte è tanto
poco motivata quanto il prologo del drama sofocleo; perchè l'au-
turgo non fa altro che dichiarare allo spettatore quanto questi
— 590 —
deve conoscere per intendere i fatti che sì svolgeranno successi-
vamente nell'opera. La seconda parte è motivata: i vv. 82-83 da
molti editori furono considerati come una correzione fatta da Eu-
ripide a Sofocle, ma notò il Kraus che essi sono puramente una
imitazione (p. 10): io voglio richiamare il lettore sopra due altri
punti. Oreste non vuol penetrare nelle mura di Argo ; ma fuggire,
se è scoperto nel far ricerche della sorella ; sa che essa è maritata,
e aspetta qualche aratore o serva per domandare se Elettra abita
in quei luoghi (94-106) : se ne può dedurre che Oreste non sa
soltanto che la sorella è maritata, ma che è maritata male,
perchè la sospetta abitare in quei luoghi alpestri, inaccessibili,
dove a stento il vecchio aio paterno può giungere (168. 210. 232.
341). Nel V. 238 Oreste pare dimostri di non saper nulla della
sorella; dal prologo al primo episodio c'è un certo cambiamento.
Più importante è la seconda osservazione: il prologo, o meglio la
seconda parte del prologo euripideo, è sotto l'influenza non solo
di Sofocle ma anche di Eschilo (cf. Wolterstorfif 11 sgg.): ora
in Eschilo (20-21) si capisce benissimo che Oreste si fermi in
luogo appartato per aver notizie della sorella, perchè ha ricono-
sciuto che la donna che s'appressa è appunto lei; ma in Euripide
(110-111) mi par poco naturale lo stesso motivo, giacche Oreste
non ha riconosciuto e non può riconoscere la sorella, e mi par
poco naturale che da una serva o da un contadino qualunque,
senza interrogarli in proposito, si aspetti rivelazioni circa ciò che
l'interessa. Euripide si trovava sotto l'influenza eschilea e sofoclea;
da Eschilo prese il particolare del fermarsi in luogo nascosto per
ascoltare; da Sofocle quello della, serva: ma non comprese che ne
sarebbe derivato un ibrido complesso. — Se noi ora riepiloghiamo
quanto fin qui risulta dalle nostre osservazioni, potremo conchiu-
dere: V Elettra di Euripide fu composta dopo quella di Sofocle,
con cognizione della sofoclea e naturalmente della eschilea. Con
ciò confutiamo il 3° (presso Kraus) argomento del Gruppe ; il
2° ed il 3° (== Teuffel) del Kolster. L'autore si propose uno scopo
ben diverso da quello di Eschilo e di Sofocle, consentaneo del
resto ai principi suoi, quale è di rendere sempre più dubbie ed
incerte le credenze negli oracoli divini, anzi nella divinità in ge-
nerale: infatti, dopo l'uccisione materna, punto giustificata, tro-
viamo pentiti tanto Elettra quanto Oreste, che possono ben chiamarsi
rei senza scopo e senza significato. E qui noterò che ben diversa
— 591 —
si rivela l'incertezza di Oreste presso Eschilo, nel momento di uc-
cidere la madre ; presso Eschilo è il sentimento di pietà che sorge
per un istante nell'animo del giovane verso colei che l'ha gene-
rato, sentimento che è tosto offuscato dalla piena fiducia religiosa
e da altri motivi che informano lo spirito dell' Agamennonio alla
vendetta (cf. J. K. Fleischmann, Kritiscìie studien iiher die
Kunst d. Charakt. lei Aescìi. u. Soph. p. 25; Nùrnberg 1875).
L'opera sofoclea in principal modo, ed anche l'eschilea hanno
esercitato tale influenza su Eurip. che egli non ha saputo libe-
rarsi dai particolari delle medesime anche quando doveva. Del
resto, fatta astrazione anche dalla critica dello Schlegel, è con-
corde il giudizio dei critici che l'Elettra è il drama più scadente
e più deficiente di tutti gli euripidei (cf. Seidler, Praefat ad
Electram, p. v; Bernhardy, Griech. Liti. Kb p. 450 sg., Stein-
berg 0. e, p. 3). Voltaire {Dissertation sur les principales tra-
gédies) la dichiarava addirittura non euripidea.
Fin qui noi abbiamo studiato il drama nelle sue parti gene-
rali, vediamo se anche qualche punto singolo conferma i nostri
risultati.
vv. 399-400. — Clitennestra presso Sofocle e presso Eschilo,
manda libazioni sulla tomba del marito, perchè ha fatto un cat-
tivo sogno; Elettra è dal coro persuasa, presso Eschilo, a non
sacrificare a nome della madre (22 sgg.); Crisotemi, da Elettra,
presso Sofocle, è pure persuasa a non sacrificare a nome di chi
ha ucciso il marito (vv. 371 sgg.). Presso Eschilo (37-41) sono
stati i KpiTttl Tujvò' òveipàxuuv (37) che hanno consigliato Cli-
tennestra a mandare le libagioni per placare il defunto; in ul-
tima analisi per allontanare la vendetta orestea. Ma la ven-
detta era determinata dalla divinità, da Apollo che si fece in-
terprete del volere di Zeus (cf. Od. a 40-41; Esch. Eum. 619-
621). Ora, in Euripide noi troviamo, nei due vv. 399-400, ap-
punto la critica o meglio il disprezzo per le interpretazioni dei
)LidvT€i^, contrapposto con la profezia di Apollo : i due vv. 399-
400 corrispondono ai due versi eschilei 269-270. I vv. 399-400
offrono occasione ad un'osservazione assai rilevante. In Èschilo
Pilade richiama Oreste al dovere di uccidere la madre, ricordan-
dogli l'oracolo apollineo (900-902), perchè egli conosce quell'ora-
colo (269 sgg.). ì^eW Elettra euripidea, la giovane eccita il fratello,
che ha soltanto detto iL OoTpe TroWnv t' àiuaGiav èeécrTticTa(; (971)
— 592 — •
a confidare sulla saggezza degli oracoli apollinei (972), ed Oreste
poi spiega che l'oracolo gli ha intimato di uccidere la madre.
Nei vv. 399-400 non è detto nulla del contenuto degli oracoli di
Apollo, onde, se si paragona il v. 972 con quello eschileo 261 sgg.,
si trova tanto maggiore efficacia in questi, quanto minore nell'eu-
ripideo. E quanto più efficacemente il racconto del sogno di Cliten-
nestra presso Eschilo, e presso Sofocle in special modo, avviva le
speranze del coro, tanto meno i due vv. 399-400 le avvivano presso
Euripide. — Crisoterai è rimproverata dalla sorella perchè ha
dimenticato il padre e solo si cura della madre (334-335) ; più
tardi, perchè, mentre potrebbe vantarsi di essere chiamata figlia
del più celebre degli eroi, ama di essere chiamata dalla madre
(358-360). Il coro insiste sopra il concetto, adducendo l'esempio
degli uccelli che hanno tante cure per i loro genitori (1041 sgg.).
Euripide torna su questo concetto, lo mette in bocca ad Elettra
come principio generale; ma agli spettatori doveva tornare in
mente il contrasto fra i due personaggi del drama sofocleo, Elettra
e Crisotemi: la forma stessa lo conferma (cf. specialmente vv. 933-
935 di Eur. corr. 358-360 di Sof.); inoltre, se il principio si ri-
pete e lo espone Clitennestra (1103 sgg.), siccome nel drama
euripideo non appaiono figli che amino Egisto e Clitennestra,
tanto più chiara e certa risulta la deduzione già espressa da altri
prima di noi (Kaibel).
I vv. 893-894 evidentemente, come notò per primo Flessa e
poi 0. Ribbeck {Leipziger Studien zur Klassischen PMlologie,
Lipsiae 1885, Vili, 2), fanno la critica della morte di Egisto,
quale è rappresentata da Sofocle; l'invenzione della gara pitica
che, come scrive il Ribbeck, ha una corrispondenza colla rappre-
sentazione della valentia Tessalica euripidea, raggiunge il sommo
della parodia nei vv. 883 sgg. (cf. Kraus 19). Sia pure in maniera
sofistica, come crede Wilamowitz {Aiscliyl. Orestie^, non mirabile,
come aveva pensato il Mau {Za Eurip. EL, Comment. pìnlolog.
momms., Berol. 1877); certo è che la scena del pedagogo con
Elettra intorno ai sacrifizi orestei sulla tomba paterna, è una pa-
rodia *ben riuscita ed efficace della famosa scena eschilea. Se la
critica euripidea non è giusta, non vale per il passo quel che
osserva VEXsT^erger {Beitrclge zur Erhlarung der Elektra des Soph.,
Ausb. 1867), che cioè l'Elettra sofoclea in tanto s'ha da stimare
anteriore a quella di Euripide, in quanto che, avendo introdotto
- 593 -
una scena simile a quella di Eschilo, non ancora conosce la giusta
critica euripidea; del resto Wolterstorif ha fatto vedere come So-
focle accettò da Eschilo quanto era conveniente alla natura umana
e mutò e corresse quanto poteva offrire difficoltà e generare inve-
rosimiglianza. Ad ogni modo a me par sempre molto innaturale
che al popolo Ateniese Sofocle ripresentasse, anche modificata,
una scena che aveva raggiunto il sommo della parodia, sia pure
informata a sistema sofistico, per opera di Euripide, E del resto
nella scena euripidea ci sono elementi per dedurre che Euripide
aveva sotto occhio la sofoclea e cercò anzi di imitarla e di supe-
rarla (cf. Wolterstorff p. 29 sgg.). — Non ometterò che a me pare
di scorgere una critica, o meglio una parodia ad Eschilo e So-
focle, specialmente nei vv. 220 sgg., come già in tutto l'dvaYviu-
pi(J|Lióq ; Oreste che tocca la sorella, questa che lo ammonisce di
non toccare ciò che non gli conviene, sono tutti particolari che
dovevano eccitare piuttosto il riso negli spettatori; e così il vecchio
che, al riconoscere Oreste, fa dei salti e degli sgambetti. Al v. 1177
di Sofocle corrisponde e per posizione e per contenuto il v. 239
di Euripide, ma quel Hripóv mi par proprio l'esagerazione del verso
sofocleo, come già una esagerazione della sofoclea è tutta l'Elettra
presso Euripide (cf. vv. 146 sgg., 183 sgg. etc), ed anche l'allon-
tanamento della giovane dalle case paterne non è per me che una
trasformazione della minaccia di relegamento della medesima, presso
Sofocle, in un carcere sotterraneo. I vv. 1184-85 di Sofocle corri-
spondono ai vv. 272-73 di Euripide; il v. 120 di Sofocle richiama
il v, 585' di Euripide. I lamenti di Elettra sul vaso òìtto? (1186)
contenente le false ceneri fraterne, corrispondono ai lamenti della
medesima sul cadavere di Egisto ; ma io credo che, come in Eschilo
Elettra che va a far libazioni sulla tomba paterna, o in Sofocle
Crisotemi che va per lo stesso oggetto, il vecchio aio euripideo,
che si presenta col vaso di vino prelibato per portarlo agli ospiti,
sia per porre in ridicolo Oreste e Pilade che si presentano sulla
scena col vaso di cenere.
Egisto è fuor della reggia (= Esch., Sof.), nei campi (Sofocle),
la sua morte avviene in essi, ora poiché Oreste non può entrare
nelle mura della città guardate a vista da sentinelle, bisognava
pure che la madre ne uscisse, ma se essa recavasi là dove era il
drudo si sarebbe accorta della di lui morte, onde tutta l'inven-
zione del parto. — Il racconto del pedagogo (= Taltibio della
Rivitta di filologia, ecc., XXV. 38
— 594 —
tradizione dei Nosti, al TtaiòaToiYÓg di Sofocle, al KfjpuS d'Eschilo),
della morte di Oreste, come già sappiamo, ricorda il racconto del
messo della uccisione di Egisto (anche la trama ordita da Oreste
per colpire Egisto in Eschilo cf. v. 574), ed è comune il partico-
lare che Olitennestra in Sofocle vuol sapere i minimi particolari
della gara pitica, Elettra quelli della morte del tiranno. E qui
noi facciamo un'osservazione: nei vv. 82-85 pare che Oreste arrivi in
Argo col solo Pilade (cf. Wilam. Hm. 221), lo chiama unico e fedele
ospite, l'unico che abbia con lui diviso i propri dolori ; e sembra
molto naturale che egli arrivi solo coll'amico del cuore, per non
dare sospetti ad Egisto di cui molto deve temere (525). Ma nel
V. 216 pare che gli stranieri non siano più due, sì bene un nu-
mero maggiore (cf. v. 341); nel v. 360 ròTraòoi bisogna intenderlo
come servi di Oreste, perchè non si può concepire che l'auturgo
abbia servi ; quando Elettra va da sé ad attingere acqua al fonte;
dunque Oreste arriva non col solo Pilade (= Esch.) ma con un
codazzo di servi (393-94). Il messo è un servo di Oreste (765-68),
onde pare che Oreste sia andato a rintracciare Egisto con i servi,
col suo seguito (774 sgg.); ma nella lotta dopo la morte del ti-
ranno, i servi di Egisto combattono contro due , Pilade ed Oreste
(844-45); onde l'accompagnamento dei servi in ultima analisi non
vale ad altro che a giustificare la comparsa del messo, che Elettra
neppure riconosce a prima vista (765-68). Anche qui notiamo la
grande differenza da Sofocle in cui il pedagogo è un personaggio
importantissimo; egli riconduce in Argo Oreste, prende parte al-
l'azione col consiglio e coll'opera, veglia su lui. — Sofocle ha un
altro privilegio su Eschilo ed Euripide, che fa venire il pedagogo
da Fanotèo amico di Egisto e di Olitennestra (v. Hermann, cens.
Aesch. Eur. ab 0. Muller ed. Annal. Vien. T. LXIV, p. 141 sgg.);
là dove in Euripide pare impossibile che Egisto non s'insospettisca
a vedere i forestieri, che li accolga anzi e li inviti tanto facil-
mente al banchetto, egli che ha paura di tutto e di tutti, che, per
così dire, non dorme neppur mai per timore che torni Oreste.
Euripide ha motivato l'andata di Egisto nei campi ; presso So-
focle un secondo sacrifizio di Olitennestra, dopo un primo di Cri-
sotemi non è giustificato ; sicché ingiustificata riesce la comparsa
di Olitennestra. — I lavacri che Egisto consiglia ai due stranieri
corrispondono in Eschilo a quelli che promette Olitennestra ai me-
desimi (670). — Il disonore in cui resta la tomba di Agamen-
- 595-
none è motivo eschileo (cf. 1° stasimo): i vv. 147-148 di Euri-
pide corrispondono al v. 25 di Eschilo ; i vv. 697-98 richiamano
i vv. 801 sgg. di Sofocle, ma in Sofocle sono di maggior rilievo,
perchè Elettra ha perduto ogni speranza, avendo avuto la notizia
che Oreste è morto; in Euripide al contrario sono posti in bocca
ad Elettra che assicura di uccidersi , ove il fratello non riesca
nell'impresa contro Egisto. Il v. 1215 di Euripide corrisponde al
v. 1391 di Sofocle : i vv. 897-99 al 1206 etc. — Elettra propone
a Crisotemi l'uccisione di Egisto adducendo come motivo la cer-
tezza che il tiranno non la darà sposa ad alcuno; Euripide ha
sviluppato questo concetto nel prologo e trasformatolo infine per la
concessione di Elettra all'auturgo. — L'osservazione delle viscere
fatta da Egisto nel sacrifizio, secondo me, ricorda il sogno di cat-
tivo augurio di Olitennestra presso Eschilo e Sofocle. — Si po-
trebbero citare moltissimi altri passi in cui è chiara l'analogia
fra i tre tragici; ma ripeteremmo cose già note (cfr. Flessa, le
antiche dissertazioni, etc). Prima però di fissare il nostro risul-
tato vogliamo ancora fermarci su un passo. Wilamowitz (Hm.)
adduce come pregio di Euripide che il coro motiva nel suo in-
gresso la propria comparsa (221 sgg.). E vero; ma il coro euri-
pideo non è formato veramente di Micenesi, come scrive Wila-
mov7Ìtz, e ciò si ricava dal v, 861, sì bene di vergini che stanno
lontane dalla città (298-99) : si suppone che anche queste siano di
condizione non troppo florida, ma a ciò si oppongono i vv. 190-191.
Bisognava far incontrare il coro con Elettra, e poiché Elettra vive
fuor delle mura, così bisognava scegliere fanciulle che abitassero
fuor delle mura. Ma si volle dare una ragione al presentarsi del
coro e non si badò che questa poi nei particolari veniva in con-
trasto con la condizione delle giovanette. — Mi par dunque pro-
vato che r Elettra euripidea come segna, rispetto ad Eschilo nella
saga della Orestea, un digradamento ed ahbbassamento succes-
sivo, il 2^ digradamento dopo Sofocle, del mito (cf. vv. 685 sgg.,
690-92), delle credenze religiose (cf. Fleischmann, o. e; cfr.
vv. 137-139, 197-199, 971-73, 75, 77, 79, 81, 890-92 qìq., esodo),
della caratteristica di Oreste; anche per composizione si deve
ritenere terza nella serie ; e daremo poi altri esempi per dimo-
strare che la composizione non è davvero troppo accurata.
Così l'esame del testo, contro l'opinione di Wilamowitz, ha ri-
condotto a Sofocle la trasformazione nel mito d'Oreste del prota-
— 596 —
genista nella vendetta; e questa trasformazione, cioè il passaggio
del primo posto da Oreste ad Elettra, mi pare molto conforme
all'indole dell'opera generale sofoclea che nel mito di Edipo sol-
levò Antigone e le diede come contrapposto Ismenia; appunto come
nel mito di Oreste sollevò Elettra e le assegnò quale contrapposto
Crisotemi.
Hanno un vero e proprio valore le altre argomentazioni addotte
dai critici per provare la priorità dell'Elettra euripidea? infirmano
punto i nostri risultati? 11 primo argomento del Gruppe è assai
debole, né ha bisogno di confutazione : perchè Sofocle scrisse dopo
Euripide il Filoitete, non se ne può concludere, come fa il critico,
che Sofocle scrisse dopo Euripide anche VEleitra. Il 1° argomento
del Kolster ( Ueher die Zeit der Ahfassung der JEL d. Sopii,
u. Eur. Meldorfii 1849) fu confutato dal Kraus che confutò
sufficientemente anche il Bruhn [Lucuhrationum Euripidearum
capita selecta. Fleckeis. Jahrb. f. klass. Philol. 15 Suppl. pp. 225 e
sgg.); il Wilamowitz stesso e poi Wolterstorff in special modo
dimostrarono quanto poco valore abbiano le argomentazioni me-
triche 0 basate su fatti esteriori (anno della rappresentazione, etc).
— Perchè non sembri troppo ardito il risultato circa la compo-
sizione del dramma, mi fermerò ancora su qualche punto del me-
desimo. In quanto allo svolgimento dell'azione risulterà a tutti
poco naturale come essa possa compiersi in un tempo così ristretto
quale ci porge l'opera. La scena incomincia prima del levar del
sole: nella notte si sviluppa il contenuto dei vv. 1-81, nonché si
è sviluppato il sacrifizio di Oreste sulla tomba paterna: all'alba
si presentano Oreste e Pilade e all'alba l'auturgo va a seminare.
S'incontrano Oreste, Pilade ed Elettra che torna dal fonte: soprav-
viene l'auturgo che non può subito essere tornato dal lavoro ; va
a ricercare il vecchio che sta nei confini tra Argo e Sparta; il
vecchio deve tornare; e prima di tornare si reca sulla tomba di
Agamennone; poi c'è l'àvafvujpiaiaóq, quindi l'uccisione di Egisto;
il pedagogo va a chiamare Clitennestra, Clìtennestra deve giungere,
infine succede l'eccidio di lei. — Tutto questo in una sola gior-
nata sembra addirittura inverosimile ed impossibile.
Vediamo l'arte con cui alcune scene, ed alcuni passi si collegano
fra loro. L'auturgo avendo trovato Elettra a discorrere con uomini, la
biasima, essa gli spiega che i forestieri sono inviati da Oreste e poi
gli dice: ènei vuv èErmapieq èv 0,uiKpoicriv ujv (408), va a cercare
— 597 —
il pedagogo : ed ecco la venuta del vecchio. — Il vecchio arrivato
cerca la casa di Elettra, si asciuga le lacrime, ed Elettra gli do-
manda: perchè ti asciughi le lacrime? (501-502) ed ecco la scena
fra il pedagogo e la giovane. — Elettra dice che morrebbe con-
tenta ove fosse avvenuta l'uccisione della madre, Oreste esclama :
oh ! se qui fosse tuo fratello a sentirti -, ed Elettra alla sua volta :
non lo riconoscerei (282-83) — Oreste dice : bisogna portar dentro
il corpo di Egisto (259-61); Elettra esclama: fermati, passiamo
ad altro discorso (962), ed Oreste: che c'è? vedi qualcuno dei
Micenesi che ci corre incontro ? — Il vecchio assicura Oreste che
nessuno lo riconoscerà nell'aggressione di Egisto (631), perchè i
servi non l'hanno visto mai, al contrario poi lo riconosce un vecchio
servo di famiglia (853). — Dal prologo risulta che l'auturgo
deriva Tratepujv MuKrivaiujv ano (35), è di schiatta Xaiartpóq
(cf. V. 363), ma povero ; essendo povero la nobiltà della stirpe di-
venta senza alcun valore, così Egisto ha concesso a lui àaSevei
Elettra per avere àcrGevn cpópov (35-39); nei vv. 367-390, Oreste
fa un lungo e sofistico ragionamento per porre in rilievo la virtù
dell'auturgo, che egli suppone un semplice uomo del volgo, —
Nello sfogo di Elettra sul cadavere di Egisto ci aspetteremmo una
descrizione delle sevizie sofferte da lei per opera dei tiranno, al
contrario leggiamo una serie di rimproveri adornati da principi
e sentenze morali. — Non è mio compito rilevare in questo scritto
le singole corruzioni del testo (cf. Steinberg, Vitelli); per ora mi
piace riferire il giudizio del prof. Vitelli: V Elettra è delle più
corrotte tragedie di Euripide {Appunti critici sulla Elettra di
Euripide, p. 1, Torino-Roma 1880): e mi piace col Vitelli notare
che « col dichiarare interpolato il tale o il tale altro verso si corre
il rischio di emendare il poeta stesso ; e pel futuro editore critico
^QVCElettra non sarà questo il compito meno difficile, indicare
cioè con sano giudizio quali dei tanti versi sospettati o sospetta-
bili siano in realtà dovuti ad interpolazione ».
III. — Secondo 0. Ribbeck {Die róm. Trag. im Zeitalt. d. Re-
puhlik, Leipzig 1875) la Clytemestra di Accio era ben distinta
àdàV Aegisthus dello stesso autore. Egli, basandosi sul concetto dei
vecchi critici, che nell'Odissea, il centro dell'azione nell'eccidio
dell'Atride posa assolutamente su Egisto; mentre nella nuova saga,
che è ignota al poema omerico, il centro posa su Clitennestra,
— 598 -
crede che protagonista dell'azione r\e]V Aegisthus fosse il Tiestide,
nella Clytemestra la Tindaride. Intanto e nell' uno e nell' altro
dramma, secondo il critico, compariva Cassandra; e ad essa egli
wqW Aegisthus riferisce il frammento 2° {Tragicorum Bomanorum
fragnienta); nella Ctytemestra il 6° ed il 7". Ora nel frammento 2P
àQW Aegisthus Cassandra profetizza la venuta di Oreste [cui manus
materno sordet sparsa sanguine) [Esch. Agam. 1850]; nel 6" si
duole delle villanie pronunciate da Clitennestra (cur me miseram
irridet, magnus compotem et multis malis?), nel 7° prevede la
morte sua {sciham hanc mihi supremam lucem et serviti finem
dari) [= Agam. Eschileo]. 11 frammento 3° ^q\V Aegisthus o si
può riferire a Cassandra che con l'espressione: celebri gradu
gressum adcelerasse dedecet, compiange Agamennone di cui pro-
fetizza la morte, o al coro che concepisce lo stesso sentimento dopo
avere inteso la profezia della Priamide, o forse anche, dalla scena,
le grida del re morente entro il palazzo. 11 frammento 4^* ricorda
la lotta n%\V Agamennone di Eschilo (1601 sgg.) fra Egisto e il
coro {neque fera hominum pectora \ Fragescunt, donec vim per-
sensint imperi); il frammento 5° {= Agam. 1605) prova eviden-
temente che la parte principale in tutta l'azione fu sostenuta da
Clitennestra e non da Egisto {melius quam viri \ Callent mulieres) ;
il frammento 1° può probabilmente riferirsi al coro che si duole
di vedere la famiglia di Agamennone in rovina e sente disprezzo
per gli assassini (Jieu! \ Cuiatis stirpem funditus fligi stiidet!) È
chiaro che tutti i frammenti a noi pervenuti deW Aegisthus ci
riconducono allo svolgimento àeW Agamennone Eschileo, dove pro-
tagonista è Clitennestra, ed Egisto, personaggio secondario, non si
presenta che sulla fine. I frammenti 3, 4, 5 della Clytemestra
(III Deum regnator nocte caeca caelum e conspectu abstulit \
IV Flucti inmisericordes iacere, tetra ad saxa adltdere \ V Pe-
ctore incohatum fulmen flammam obstentabat Jovis), ricordano
interamente la tempesta eschilea. L'8<» ci fa pensare al coro il
quale non può credere alla profezia di Cassandra che la moglie
uccida il marito {ut quae cum absentem rebus dubiis coniugem \
Tetinerit nunc prodat tdtoremP). Il 9° si riferisce certo ai due
personaggi : Clitennestra dolente per l'uccisione di Ifigenia, Egisto
per l'allontanamento della sua famiglia dal governo e per le cene
di Atreo ( seras potiuntur plagas). Il frammento 1^ non ha
grande importanza per la nostra questione; vi si allude forse alla
- 599 —
confusione nella reggia per l'uccisione di Agamennone? ( sed
valvae resonunt regiae). Il 10" accenna ad un contrasto fra Elettra
e Clitennestra (Matrem ób iure factum incilas, genitorem iniusium
adprohas). Dunque anche i framnaenti della Clytemestra dimo-
strano che il dramma era una perfetta imitazione eschilea; né
c'è bisogno di pensare ad Eace. Se il Kibbeck congettura che i
frammenti citati col nome di Achilles e quelli col nome di Mir-
midones derivano da un identico dramma, che i frammenti citati
dagli Agamemnonidae e quelli dalla Erigone derivano pure da
un solo dramma, nessuna difficoltà ci sarà più ad ammettere che
i frammenti della Clytemestra e deìV Aegisthus appartenevano ad
una stessa tragedia.
Prato, marzo 1897.
A. Olivieri.
— 600 -
DEL ' NUMEEUS ' IN FLORO
Nel frammento del dialogo di Floro Vergilius orator an poeta
incontriamo una prima clausola p. 183, 13(1) adfuisti: ditrocheo
con due percussioni (j. ^ s z). Qui parla l'autore; indi parla il
suo interlocutore adoperando due clausole: 184, 6 trìumphus
exultat, eretico-trocheo con due percussioni (^ ^ | _ ^ g) e 184, 11
ac deoriim, ditrocheo. Ripiglia l'autore, elevando un po' l'intona-
zione, ed ecco due eretici-trochei: l'uno alla metà 184, 17 for-
tuna permutiti l'altro alla fine 184, 23 (iiversa terrarum. Ancor
più si anima il discorso nella lunga risposta dell'autore, dove
anzitutto troviamo otto eretici-trochei consecutivi: 185, 4 sistra
pulsantem; » 6 Alpes lustro populos aquilone pdllentes {2)\ »
8 Fjrenaeus excepit\ » quaeve terrarum; » 14 redire serpentes; »
15 plaustra solvissem-, » 16 prora pender et \ » 19 macere con-
tingat. Vengono quindi un ditrocheo 186, 2 Jiospitalem, un peone-
trocheo 186, 3 annus imitatur, con due percussioni (.i v^ | v^ w z o),
nuovamente un eretico-trocheo 186, 5 QYMhescit autumno, e da ul-
timo, come chiusa generale, un altro peone-trocheo, bellissimo:
186, 12 litus adamavit.
In appresso una dimanda dell' interlocutore e la risposta del-
l'autore terminano con un ditrocheo 186, 16 subministrat, » 18
Utterarmn. Saltiamo il resto e passiamo al periodo passionato,
sfortunatamente mutilo, in cui -Floro esalta l'ufficio del maestro
di scuola; ivi, pur mancando la chiusa, si presentano quattro in- ,^
cisi consecutivi con quattro clausole: un eretico-trocheo 187, 18 ì'
ì
(i) L. Annaei Fiori Epitomae libri li, P. Annii Fiori Fragmentum, ed.
0. Rossbach, Lipsiae, 189dr
(2) Si noti lo slancio quasi uguale a quello di un verso esametro.
— 601 —
mentescjue formatitur, e tre ditrochei: 187, 17 litterarum, » 18
praeìegentem, » 19 excitantem.
In questa rapida rassegna ho scelto le clausole più manifeste e
sicure, per evitar discussioni, che riservo a tempo più opportuno;
ma intanto acquistiamo la certezza che Floro, l'autore del dialogo,
adopera il ' numerus , coscientemente e con senso d'arte, perchè
ne tempera la misura a seconda dell'intonazione del discorso.
Possiamo dire altrettanto di Floro, l'autore ^q\V Epitoma? In
qualche momento solenne egli presenta delle clausole, quattro ditro-
chei p. es. nella morte di Catone, II 13, 70-72 : claustra servahat;
laeius accivit; ìterumque percussit; violare fomentis. Ma anche
la morte di Cesare è un momento solenne, II 13, 92-95; eppure
non c'è ' numerus ,. La chiusa dell'opera, II 34, ha due clausole ;
nella metà (§ 63) un ditrocheo rettulere, alla fine (§ QQ) un ere-
tico-trocheo consecrarentur. Le finali dei capitoli, dove il ' nu-
merus , è più visibile e meglio sentito, mostrano generalmente la
clausola; ma ci son finali che ne mancano e non si capisce la
ragione. Negare che \ìq\V Epitoma ci sia ' numerus , non è lecito;
affermare che esso sia accidentale, mi sembra arrischiato; piut-
tosto la minor proporzione VioiVEpitoma rispetto al dialogo di-
pende dal genere diverso dei due componimenti.
Ad ogni modo anche da questo riguardo otteniamo un argo-
mento favorevole o tutt'al più non contrario all' identificazione
dei due autori.
Kemigio Sabbadini.
— 602 —
ADNOTATIONES METKICAE
AD SENECAE MEDEAM
Pridericus Leo {L. Annaei Senecae trayoediae: Berolini apud
Weidmannos, MDCCCLXXVIII-MDCCCLXXVIIII) Medeae verba
in V. 447, quae is (voi. II, p. 115) sic distinguit « Fugiraus, lason:
fugimus », explanat (ibid., p. 379) hac ratione : « scilicet olim fu-
gisse se, i. e. Colchis, nunc iterum fugere dicit. quod sententiae
acumen captasse poetam certum est, ut qui tribrachyn in trime-
trorum initiis non admisit ». Sed haec interpretatio, per se tam
dura atque contorta ut vix concedatur eam vim in verbis inesse,
falso et fallaci fundamento nititur : nam Seneca et in versu 937
eiusdem tragoediae « quid, anime, titubas? ora quid lacrimae
rigant » tribrachyn primae sedi adhibuit et alibi identidem. En
tibi complures, quos e ceteris collegi fabulis, huiuscemodi versus:
« Megara furenti similis e latebris fugit » (Herc. fur., 1009) :
« stat avidus irae Victor et lentum llium » {Troad., 22): « prior
Hecuba vidi gravida nec tacui métus » (ibid., 30): « Pavet animus,
artus horridus quassat tremor » (ibid., 168): « ut alia sileam me-
rita, non unus satis » (ibid., 234): « mihi cecidit olim, cum ferus |
curru incito » (ibid,, 413): « mihi gelidus horror ac tremor so- |
mnum expulit » (ibid., 457): « ubi Priamus? unum quaeris: ego
quaero omnia » (ibid. 572): « quid agis, Vlixe ? Danaidae credent
tibi » (ibid., 607): « Quid agimus ? aniraum distrahit geminus |
timor » (ibid., 642): « peragite. Me, me sternite hic ferro prius » |
(ibid., 680): « et Hecuba Priamum : solus occulte Paris » (ibid., :^
908): « ego video, tandem spiritum inimicum expue » {Phoen., 44): i
« bene animus uti — dextra, nunc toto impetu » (ibid., 155) : f
« ego laticis haustu satior aut ullo fruor » (ibid., 221): « et odia
mutat. regna materna aspice » {Phaedr., 575): « ut agilis altas
"%
I
- 603 —
fiamma percurrit trabes » (ibid., 644): « Patefacite acerbam caede
funesta domum » (ibid., 1275): « trigemina qua se spargit in
campos via » {Oed., 278): « in alia versus sidera ac solem avium »
(ibid., 1017): « Quid, anime, torpes? socia cur scelerum dare »
(ibid., 1024): « trigemina nigris colla iactantem iubis » [Agam.,
14): « ubi animus errat, optimum est casum sequi » (ibid., 144):
« ubi dominus odit fit nocens, non quaeritur » (ibid., 280): « quid,
anime demens, refugis? externos times? » (ibid., 915): « sed agere
domita feminam disces malo » (ibid., 959): « age, anime, fac quod
nulla posteritas probet » {Thyest, 192): « Quid, anime, pendes
quidve consilium diu » (ibid., 423): « quid odia valeant : nescit
irasci satis » {Herc. Oet., 298): « Quid, anime, cessas? quid stupes?
factum est scelus » (ibid., 842): « gerit aliquid ardens. omnibus
fortem addidit » (ibid., 1743): « quid, anime, trepidas? Herculis
cineres tenes » (ibid., 1828): « modo facibus atris armat infirmas
manus » (Oc^,, 118) ...Sed Octaviam praetereamus ac relin-
quamus oportet, namque ea tragoedia a Seneca abiudicanda est.
Commodius faciemus, si versum Oedipodis 922 « gemitus et altum
murmur, et gelidus fluit » prioribus adiungemus; verbum enim
gemitus singulari numero hic dici probabile et aequum videtur.
Idem clarissimus vir, disserens de canticorum formis (voi. I,
p. 136), « tertium, inquit, Medeae canticum est 849-878 versibus
Anacreonteis scriptum, in quibus non primum pedem tantum ana-
paestum ubique vel spondeum fecit, sed et novissimum ubique
spondèum praeter v. 852 etc. »: quae equidem probare ac laudare
nequeo. Primo enim facere non possum quin omni asseveratione
affirmem hos versiculos re vera esse dimetros ionicos a minore
anaclomenos, ob earaque causam nec locum hic esse anapaesto
nec spondeo proprio, nec pedi, cui nomen amphibrachys sit quique
inter utrumque necessario intercedat, sed tantum exstare ionicos
a minore et iambos; nec de novissimo spondeo sermocinandum esse,
at de ultima versus syllaba longa, vel potius de postrema pedis
ionici a minore, cui ante eam inserta est dipodia iambica. Deinde
et praecipue nego Senecam primum horum versuum pedem anapae-
stum ubique vel spondeum fecisse, nam versus 871 « nefanda
Colchis arvis » a iambo ducitur. Si ea lex accipienda et servanda
esset, hic libenter prò « nefanda » legerem « infanda », quae
correctio praecedenti versui, qui in syllabam natura longam de-
sinit, prorsus nihil officeret. Sed hac metri necessitate nequaquam
— 604 —
cogimur; latini enim poetae, cum dimetrum ionicum a minore
anaclomenum prò dimetro iambico cum anacrusi haberent, duabus
versus figuri s {^^-■^-^--et z - ^ - -^ - ^) permixte usi sunt.
Satis superque erit hos Prudentii versus {Catìiem., VI, str. 6)
exempli gratia proferre :
lex haec datast caducis
deo iubente membris
ut temperet laborem
raedicabilis voluptas. ■
Ceterum vide sis Christ, Metr. d. Gr. und iJ.^, p. 496-499, et
Zambaldi, Metr. gr. e l, p. 424-427.
Scr. Messanae, Kal. Aug. a. MDCGGLXXXXVII.
Aloys. Alex. Michelangeli.
I
- 605 -
BIBLIOGKAFIA
Julius Beloch. Griechische Gescìiichte. Zweiter Band. Bis auf
Aristoteles und die Eroberung Asiens. Strassburg, K. Triibner,
1897, di pp. 713.
Alla distanza di circa un triennio dalla pubblicazione del primo
volume, è uscito alla luce il secondo ed ultimo di quest' opera
poderosa. Come si vede dal titolo, l'autore termina la sua espo-
sizione al punto in cui nella vita greca si afferma definitiva-
mente la tendenza accentratrice in politica e un rigoroso spirito
di sistema nella ricerca scientifica. Si potrebbe certo far questione
se la conquista dell'Asia compiuta da Alessandro e il fiorire di
Aristotele siano due momenti così decisivi nel campo dell'azione
e del pensiero, che bastino a costituire per sé soli l'epilogo d'un
periodo storico, mentre già nella prima metà del quarto secolo
si preparava e iniziava il movimento verso quella nuova fase della
civiltà greca conosciuta sotto il nome di Ellenismo. Ma sarebbe
questa una questione oziosa perchè la ricerca di confini nettamente
precisi nella storia è un problema da quadratori del circolo : d'altra
parte l'antitesi tra la nazionalità della coltura ellenica come ci
si presenta approssimativamente nel periodo ionico e attico, e la
universalità che assume nel periodo alessandrino-imperiale, è così
spiccata che la critica non ha finora saputo scoprirne una più
manifesta e sostanziale. Nella recensione del primo volume che
ebbi l'onore di preparare per questo medesimo periodico (1) misi
in rilievo le qualità che distinguono quest'opera da pubblicazioni
consimili: geniale originalità di vedute intorno alla storia pri-
mitiva {Urgeschichte) della Grecia, singolare competenza nella
(1) Voi. XXllI della serie intera, fase. 2°, p. 232-242. In essa mi passa-
rono inosservate nella revisione delie bozze alcune mende tipografiche come
a p. 23"), linea 3* e 4" dell'ultimo capoverso: « ... alle visioni nei sogni che
colla morte non hanno differenza apparente » invece che « alle visioni nel
sonno che colla morte non ha etc. »; a p. 238, 1. 14: e poniamo invece
di eponimo. Ma un errore che mi preme di rettificare, e di cui non posso
incolpare altri che me stesso, è quello commesso a p. 236, n. 2 in cui at-
tribuisco ad Edoardo Meyer l'opinione che il culto di Afrodite abbia origine
semitica, mentre il Meyer, pure ammettendo infiltrazioni e aggregamenti se-
mitici nella figura di Afrodite, ne sostiene l'origine ellenica. Per questa ne-
gligenza imperdonabile invoco l'indulgenza dei lettori e dell'illustre storico
che troppo leggermente citai senza rileggere il passo.
— 606 - .
valutazione dei fatti economici, acume e sano criterio critico nel
risolvere speciali questioni, congiunti ad agile e perspicua forma
d'esposizione. Questi pregi segnalati pel primo volume erano per
sé una promessa e una garanzia che la continuazione dell'opera,
attesa con impazienza dagli studiosi, fosse degna del nome in-
signe dell'autore: infatti l'assoluzione del compito ha corrisposto
pienamente all'aspettativa. Abhiamo così una storia completa della
Grecia, in cui la materia è armonicamente distribuita, senza pro-
lissità, e vivificata da un' intuizione sicura e penetrante dei fatti
e dei tempi. La storia del Grote ha il difetto di essere la ripro-
duzione più che la sintesi del racconto come si trova presso gli
autori antichi: è superfluo menzionare i difetti della storia del
Curtius, poiché essa è tra noi oltremodo popolare per aver avuto
la fortuna d'una traduzione italiana quando la conoscenza del
tedesco era in Italia un'eccezione; onde molti concetti sulle ori-
gini, di cui il Curtius era rimasto in Germania quasi un patroci-
natore solitario, hanno fatto tra noi presa non di rado troppo
salda. Non parliamo della storia del Bnsolt che ha una fisonomia
speciale, e il principale interesse non lo suscita per i meriti che si
segnalano o che si desiderano nelle opere degli autori mentovati.
Il secondo volume della Griechische Geschichte del Beloch è
diviso in quindici capitoli: i primi due comprendono il periodo
della guerra deceleica sino alla seconda oligarchia in Atene; il
terzo il periodo compreso presso a poco tra la restaurazione della
democrazia ateniese e i successi di Agesilao nella sua spedizione
nell'Asia Minore, il quarto il primo periodo della tirannide di
Dionisio e le tirannidi nel Ponto, il quinto la guerra di Corinto
sino alla pace d'Antalcida, il sesto e il settimo il periodo com-
preso tra la pace d'Antalcida e la prima fase della guerra sacra
in Grecia e la restaurazione della tirannide di Dionisio Minore in
Siracusa. Il capitolo ottavo contiene una sintesi dello sviluppo eco-
nomico nella prima metà del quarto secolo ; il nono, il decimo e
l'undecimo un riassunto comprensivo ed efficace dei progressi del-
l'arte, della scienza e dell' organizzazione sociale in Grecia; gli
ultimi capitoli contengono l'esposizione del periodo in cui la ten-
denza accentratrice già manifestatasi nella politica di vari principi
greci e sicelioti, riceve consistenza ed effetto duraturo in quella
dei sovrani macedoni. Come nel primo volume, le note in calce m
offrono le indicazioni bibliografiche necessarie all'illustrazione del *
testo, venendo così in esse raggruppate le notizie di pubblicazioni
che con l'argomento hanno stretta attinenza. Tra queste si tro-
vano spesso ricordate quelle dello stesso autore, ed è naturale ;
poiché un'opera simile é sempre la sintesi d'una lunga e tenace
operosità in una provincia di studi, e quindi in parte una rica-
pitolazione di ricerche personali anteriori. La sicurezza o almeno
la verisimiglianza dei risultamenti di queste é accresciuta dal
fatto che ben di rado essi sono stati nell'opera presente corretti
I
— 607 —
nella loro parte fondamentale; poiché è questa una prova che
l'autore vi è giunto sempre dopo un ponderato e maturo esame
di tutti gli aspetti della questione.
Alle obiezioni mossegli dai critici intorno a qualche ipotesi già
enunciata risponde sempre sobriamente, perchè l'indole dell'opera
non si presterebbe a un eccessivo sviluppo di questioni speciali,
ma cogliendo sempre il lato vulnerabile del ragionamento. A
p. 102, n. 1, giustamente osserva che il J udeìch (Kleinasiatische
Studien, p. 106 sq.) volendo confutare la sua opinione che la
navarchia fosse una magistratura ordinaria nella costituzione la-
conica, non ha preso in giusta considerazione le ragioni giuridiche:
io aggiungerei che il Judeich ha trascurato anche le ragioni gram-
maticali, poiché basta solamente guardare all'uso di certe formole
per convincersi che le conclusioni del Beloch sull'argomento sono
ineccepibili e definitive (1). Io non avrei per parte mia affermato,
come fa il Beloch implicitamente, l'autenticità dei Macrohì che
vanno sotto il nome di Luciano (p. 95 e passim), mentre non
veggo ragioni molto gravi per negare a Senofonte la patei'nità
dell'opuscolo su Agesilao: poiché la concezione e lo stile di questo
scritto mi sembrano schiettamente senofontei ; all'incontro i Ma-
crohì sono un'arida filastrocca senza arguzia e senza freschezza,
aliena affatto dal carattere dello scrittore di Sam osata. Come già
"ììqW Attiscìie Politile, il Beloch ammette la veridicità della testi-
monianza aristotelica (ATT 34) sulla domanda di pace fatta dagli
Spartani dopo la battaglia delle Arginuse: a me é già sembrato
e sembra tuttora che la notizia dell'ambasceria spartana dopo il
disastro delle Arginuse, data da Aristotele, sia un duplicato di
quella della legazione mandata effettivamente ad Atene dopo la
battaglia di Cizico. Molte considerazioni condannano a parer mio
l'autorità d'Aristotele. In primo luogo mi sembra estremamente
improbabile che gli Spartani dopo l'insuccesso delle proposte fatte
nella prima legazione, ritentassero la prova di aver la pace alle
medesime condizioni, quando il popolo ateniese era ancor sotto
l'azione del demagogo Cleofonte. Inoltre ripeto un argomento già
altra volta prodotto. Senofonte poteva bene per negligenza omet-
tere una notizia così importante dopo la narrazione della battaglia.
ma sembra poco ammissibile che egli avrebbe rinunciato all'ef-
fetto di questa circostanza quando si trattava di mettere gli sven-
(1) Cfr. p. e. Ili, 1 : oi ò' Éqpopoi òiKaia voiuiffavxei; Xéyeiv aùxòv Za|uiiu
Tuj TÓre vaudpxuj èiréaTeiXav kté. Chi potrebbe sostenere che la locu-
zione TU) TÒTE vaudpxLu si giustificherebbe trattandosi d' un ufficio occasio-
nale ? Per sostenere come fa il Judeich {Kleinasia lische Studien, p. 108)
che : « Die Stellen KpaTriaiTTuibci Tf\c, vauapxi«<; 'tTapeXriXu9u{a<; (Xen. Hell.
1, 5, 1), TUJ Aiioóvbpuj 7rap€Xr|Xu9ÓTo<; Y\hr\ toO xP<^vou [ihid. 6, 1), Kvfì|uov
|uèv vaùapxov Iti óvto {Thukyd. VI, 80, 2) ergeben nur dass die Amts-
dauer des Nauarchen in des Regel eine von vornherein begrenzte war » ci
vuole un discreto sforzo di buona volontà.
- 608 —
turati strateghi processati in una viva luce di gloria e di pietà.
Dissentirei ancora dal Beloch su ciò che egli afferma seguendo
la tradizione (p. 449), che la legislazione di Caronda sia stata
mutuata integralmente per fondare gli ordinamenti costituzionali
della colonia di Turio. Giustamente all'incontro il Beloch sostiene,
basandosi sulla testimonianza di Polibio (p. 415) che Eforo per
primo scrisse una storia universale e con felice argomentazione
prova la falsità dell'opinione corrente che 'Eforo giungesse nella
sua esposizione sino alla presa di Perinto: come supporre infatti
che Eforo sorvolasse alla guerra sacra quando essa segnava, almeno
in apparenza, il momento più saliente per l'ingerenza di Filippo
nelle cose della Grecia meridionale? Ragionevolmente insorge
(p. 416, n. 1) contro il giudizio sfavorevole « das jetzt Ephoros
gegeniiber Mode ist » per usare le sue parole. Già Edoardo Meyer
(Forsch. U. S. W.) aveva osservato che i difetti rimproverati ad
Eforo si riscontrano in gran parte anche nel Grote e nel Dunker.
Certo i criteri rettorici che hanno governata l'opera di Eforo pos-
sono averle nuociuto quanto alla forma; ma l'esempio del suo
maestro Isocrate — tanto immeritamente riguardato come un ar-
tefice di periodi armoniosi privo di un'esatta intuizione della vita
reale — ci mostra come la rettorica del quarto secolo era qualche
cosa di ben diverso che una semplice esercitazione di parole come
la rettorica dell'età imperiale.
Omettendo altre osservazioni parziali, mi limito a rilevare
quanto magistralmente sia tratteggiato il carattere di Lisandro
spartano e del siracusano Dionisio; ma il punto in cui il Beloch
riesce più felicemente originale è nel descrivere il movimento
unitario che si va maturando nella coscienza nazionale per trovare
finalmente una direzione sicura nella mente di monarchi geniali
come Filippo e Alessandro di Macedonia. Anche i lavori di sommi
ricercatori erano più o meno dominati dal pregiudizio che la lotta
di. Atene contro Filippo fosse una guerra d'indipendenza: i ca-
pitoli della storia del Grote e del Curtius relativi a questo periodo
e la classica opera dello Schafer, Bemosthenes und seine Zeit
sono in parte il panegirico di Demostene (1). Dalle pagine del B.
balza viva e grande la figura del sommo oratore e uomo di Stato,
ma con tutte le sue passioni settarie e personali, e mentre viene
(1) Avevo già spedita questa recensione alla Gasa editrice, quando mi per-
venne il 2" fase, dell'annata coir, di questa Rivista, in cui si legge un prege-
vole lavoro del dottor Gaetano De Sanctis su Eschine e la guerra d'Anfissa.
Senza essere un ritorno al concetto tradizionale nella moderna storiografia, che
si risolve nell'apologia di Demostene, da esso si ricava che bisogna guardarsi
dall'esagerare il significato nazionale e panellenico delle aspirazioni del par-
tito macedonizzante in Atene. Non è questo il luogo di rilevare i punti che
a mio avviso meritano piena o riservata adesione, né di confutare molti
apprezzamenti su fatti particolari : solo mi è parso bene di segnalare il la-
voro, di cui mi duole di non aver potuto tener conto in questa recensione.
— 609 —
dissipato ogni dubbio sulla rettitudine delle intenzioni di Eschine
riguardo alla pace di Filocrate, è pienamente riabilitata la me-
moria di Demade, offuscata men che dall'ira dei nemici, dalla
rettorica e dalla vuota declamazione. Le idee qui esposte circa
le relazioni di Atene colla Macedonia, nonché sui partiti e gli uo-
mini che li rappresentarono, erano state già ampiamente svolte
neìVAttische Politik. Se le abbiamo messe in maggior evidenza
che altri punti della storia ateniese, ciò si deve alla loro importanza
per l'intelligenza di una situazione politica conosciuta non meno
delle altre, ma delle altre meno esattamente e spassionatamente
interpretata. Molte osservazioni speciali, specialmente di cronologia,
non sarebbero consentite dall'indole di una rece.isione sommaria,
colla quale non abbiamo avuto altro scopo che quello di diffon-
dere nel nostro paese la conoscenza di un'opera cosi piena di ri-
sultati originali, che facciamo voto non tardino a penetrare anche
nei trattati scolastici.
Trani, aprile 1897.
Vincenzo Costanzi.
A. Veniero, Gli epigrammi di Callimaco. Versione, varianti e
frammenti. Girgenti, Montes, 1897, pp. 30, in-8'\
L'A., già conosciuto per un altro suo lavoro su Callimaco {Cal-
limaco e le sue opere. P. 1. Gl'Inni., Palermo, 1892), ha ora pub-
blicato quella che dovrebbe essere come la seconda parte del suo
libro, quantunque egli abbia differito ad altro lavoro « il ragio-
nare sulla tecnica e il valore degli epigrammi di Callimaco »
(p. 19), e siasi qui occupato soltanto della traduzione degli epi-
grammi, condotta sull'edizione del Wilamowitz (Beri. 1882), delle
varianti di essi, e di alcune ricostruzioni dei frammenti calli-
machei (p. 19-36) (1).
A dir proprio il vero, la lettura di questi epigrammi lascia
quasi sempre freddo il lettore: essi non sono certamente, come
invece quasi tutti quelli di Meleagro e alcuni di Asci epiade, di
Leonida, di altri, fra le gemme più fulgide di quel libro così
diverso per valore estetico che è VAnthologia palatina. Non è
poi da omettere che se una commozione estetica, dirò così, riflessa,
si prova alla lettura dell'originale, poiché, oltre che nella metrica
impeccabile, nella forma — il gran segreto dell'arte alessandrina —
(l)Nel momento di correggere le bozze, mi arriva la 2* ediz. di Callimaco,
curata dal Wilamowitz (Berol. Weidmann, 1897), di cui riferirò in questa
Rivista. È notevole che il dotto grecista si lagna della mataeoponia degli
editori recenti di Callimaco.
Btvista di filologia, ecc.. XXV. 39
— 610 —
è quasi sempre riposto il pregio di questi epigrammi, non ci
sentiamo invece ne commossi né scaldati alla lettura della tra-
duzione. Non voglio dire pertanto che la traduzione del Veniero
non sia riuscita; ma credo che sia cosa assai difficile far gustare
un poeta ... — devo dirlo? — poco simpatico, almeno negli epi-
grammi, a noi che, pur essendo abbastanza alessandrini, siamo,
in generale, assai lontani dal riconoscere la bellezza di alquanti,
e dirò di molti epigrammi (Ì^W Anthologia: onde, da questo punto
di vista, parmi discutibile l'impresa di offrire alle così dette per-
sone colte ed ignare di greco il dotto e pesante poeta alessandrino
in veste italiana: che, per gli intenditori di greco, la traduzione
sarebbe poco utile.
Ma non ho detto ancora che la traduzione è metrica, anche
per quegli epigrammi che non sono in esametri ; e di ciò al V.
va data lode, che maggiore sarebbe, se la quasi uniformità dello
schema metrico da lui seguito (setten. -4- noven., per l'esam.;
2 setten., per il pentam.) non ingenerasse una certa monotonia.
Sarebbe lungo dire dove e perchè il V. segua il testo del Wila-
mowitz, e dove se ne allontani ; e quali altre congetture o emen-
damenti accetti: basterà dire che in questa parte l'A. mostrasi
bene informato della letteratura callimachea e bravo conoscitore
del non piccolo e assai diverso materiale epigrammatico alessan-
drino, dentro e fuori V Anthologia; e che l'interpretazione del testo
corre, generalmente, sicura, ed è qualche volta acuta. Dirò, piut-
tosto, di alcuni luoghi più importanti, sui quali il Veniero s'è
fermato di più, ingegnandosi a portare il contributo personale alla
ricostruzione del testo.
L'epigr. 3 della raccolta del V. risulta dall'epigramma 318 in
sieme col secondo distico del 320 degli 'ETriTu^Pia (VII) dell'A. P
(= 4° -4- 3** dello Schneider), entrambi omessi dal Wilamowitz
come apocrifi. Di essi il primo è dal lemma àeW Anthologia at
tribuito a Callimaco, il secondo ad Bgesippo; laddove, per la pa
ternità di quest'ultimo, abbiamo la grave testimonianza di Più
tarco {Ani., 70), che lo attribuisce a Callimaco. Or il Veniero
dopo aver discusso quanto gli altri hanno detto sulla questione
poggiandosi principalmente sul fatto che nell' epigr. VII, 318
« manca, contro la norma assoluta dell'arte di Callimaco, il nome
di chi sta nel sepolcro e la ragione dell'intero distico » (p. 21),
integra quest'epigramma con il secondo distico dell'epigr. di Ege-
sippo, completando questo, alla sua volta, con l'epigramma 319
della medesima sezione deW Anthologia. Ammiro sinceramente la
acutezza e la dottrina di tutta questa discussione; ma in questioni
di simil genere la ricerca della paternità è, se non proibita, almeno
pericolosa (1). Più sicuro risultato parmi invece abbia ottenuto
(1) Avevo già scritto così; e alla mia diffidenza trovo ora un conforto e un
appoggio autorevole nelle parole del Wilamowitz (ed. cit., p. 16): « doleo
— 611 -
il V. a proposito del fr. 71 (Schneider), che nella sua traduzione
occupa il w" 67. La restaurazione di questo importante epigramma
di Callimaco, sul sepolcro di Simonide di Geo, distrutto da Phoinix,
stratego degli Agrigentini (Suida, adv.), fu già tentata dal Gòttling,
ma non andò molto a' versi dello Schneider (II, pag. 255); ed il
Veniero ben fece a ritentar la prova ; e con miglior fortuna, per
avventura, del Gòttling. Egli, infatti, giovandosi di due piccoli
frammenti callimachei (555 e 262 dello Schneider), ricostruisce
tutta la prima parte lacunosa dell' epigramma; e se non è dato
affermare in simili casi che Callimaco scrisse proprio in quel
modo, è però molto il poter dire che la ricostruzione del Veniero
non ingenera nell'animo forti dubbi.
Meritano anche considerazione, e meriterebbero esame, se lo
spazio ce lo permettesse, i commenti che l'A. fa ai fr. 106 e 180
(Schn.) e i tentativi di ricostruzione di essi.
Qualche breve osservazione, spigolando, alla traduzione: VII,
80 (cito, per comodo dei lettori, dalVAnth. palai.) : perchè quel
non distese la predatrice mano, quando il testo ha oùk èm x^l^a.
PaXei — ? Si comprende quanto maggior forza abbia quel futuro:
« né ora, ne mai Hades distenderà la mano su' tuoi carmi, o Era-
clito (non Eraclide). » — A. P. IX, 67, v. 2: ujg piov nXXdxSai
Kal xpÓTTOv oìó)u€vo(s. Sembrami reso con poca chiarezza ed ele-
ganza: suo talento con vita sperando ancor mutato. A. P. VII,
524, V. 1-2: ...eì tòv 'Api|U)Lia | toO Kuprivaiou TiaTòa XéYeiq ...,
cioè « se tu intendi parlare del figlio di Arimma di Cirene » non
già: se inver quel d' Arimma \ del Cireneo progenie tu intendi^
dove pare che il V, abbia scambiato il patronimico 'Apì|Li|Lia con
una designazione locale. Ibd. v. 6: anche prima dell'interpreta-
zione del Kaibel, su quel TTeXXaiov inteso come nome di moneta
(cfr. H:ÉAD, H. N. 212), l'epigramma non poteva presentare dif-
ficoltà (cfr. il Dehéque, a pag. 207, n. 2, Voi. I, della sua trad,
àQÌV Anthol., Paris, 1863). Ma il V. rende poco elegantemente :
. . . ad un pelléo si dà un gran bue nell'Ade. — A. P. XII, 43,
V. 5-6 :
AucTaviri, aù òè vaixl KaXò<; KaXóq ' dXXà npiv eìrreiv
TOUTO cTaqpujq, rwA (py\0\ riq • ctXXo<; è'xei.
« Tue grazie, o Lisania, davver per mia fé! non l'han gli altri,
Ma pria che si finisca, l'Eco: « l'han gli altri » aggiunge ».
Qui è evidente lo sforzo, né poteva esser diversamente, di con-
servare nella traduzione lo scherzo dell'Eco, che, se io bene intendo.
autem quod ad .suavissima carmina emendanda non solum nihil novi adferre
poteram, sed etiam de pluribus quain antea locis me desperavisse confi-
tendum erat. » Egli, infatti, insiste nell'esciudere l'epigr. 3 (A. P. VII, 318),
che è uno dei due di cui ho parlato, e il 36 (A. P. VII, 454). Dubita anche
del 57 (= 58 Veniero).
— 612 —
alle parole vaixì KaXó? risponde maliziosamente: è'xei KèiX\o(;,
parole, tanto le prime quanto le seconde, le quali, lette con la pro-
nunzia contratta, già comune nell'età alessandrina, danno un suono
quasi identico. Ma l'esametro della traduz. è ben lontano dal ren-
dere la carezzevole grazia dell'originale, dove è ripetuto il popo-
lare motto d'amore, a noi noto per le pitture vascolari; né posso
esser d'accordo col Veniero, il quale non crede che questo epi-
gramma appartenga alla TraiòiKrj Moùar), quando l'ultimo distico
dovrebbe bastare a togliere ogni dubbio.
Ma queste ed altre piccole mende, che non mette conto notare,
nulla tolgono al pregio del lavoro; il quale, anzi, fa desiderare
l'altro suiV Epigramma aless. nel 3° sec.,che l'A. annunzia come
in corso di stampa.
G. E. Rizzo.
Richard Reitzenstein. GescMchie dcr griechischen Eiymolo-
gika. Ein beitrag zwir GeschicMe der Philologie in Alexan-
dria und Byzans. Mit zwei Tafeln. Leipzig, Druck und
Verlag von B. G. Teubner, 1897, pp. x-408.
È opera di grande importanza e frutto di lunghi e pazienti
lavori, di accurate e felici ricerche su di un terreno che pochi
tenta ed alletta sia per la difficoltà, sia per l'aridità apparente,
ma tale cui nessuno possa negare estensione di grande momento.
La trattazione è divisa nei seguenti capitoli: « Das Etymolo-
gikon Genuinum, Das Etymologicum Gudianum, Etymologica
vor Photios, Das Etymologicum Magnum, Symeons Etymolo-
gicum, Oros und Seine Zeit, Eulogios und Choiroboskos,' Hero-
dian als Atticist », con ordine non tanto cronologico quanto
adatto alle esigenze della ricerca. Lo seguiremo man mano. —
Il Reitzenstein ritiene che 1' Etymologicum Genuinum, la fonte
principale dei posteriori Etimologici, sia quello contenuto nei
mss. A (= cod. Vai graec. 1818, pergamenaceo, della fine del
decimo o del principio dell'undecimo secolo) e B (= cod. Laur.
Sancti Marci, pergamenaceo, della fine del decimo o del principio
dell'undecimo secolo), quest'ultimo pubblicato in parte da E. Miller
nelle sue Mélanges de liti, grecque e solo fuggevolmente noto
da prima: entrambi sono accuratamente descritti, giungendo alla
conclusione, certo sorprendente, che A e B sono dovuti ai mede-
simi due amanuensi — A und B stamraen von deraselben Schrei
berpaar — conclusione questa cui il R. perviene non senza voler
— 613 —
essere cauto, ma che non è necessaria alle posteriori dimostra-
zioni. Da B derivò il Paris, gr. 2720 già del Poliziano ed usato
dal Cramer, A e B non sono opera di amanuensi d'Italia, ma
Bizantini; anzi il K. nota la somiglianza di una delle scritture
con quella del Laurent. XXXII, 9, il famoso ras. di Eschilo, So-
focle, Apollonio (ms, che fu come B in possesso di N. Niccoli e
venne dalla Grecia), del Laur. VII, 10; X, 18 ed anclie, per la
seconda parte XXXII, 15, e LV, 6 nei ff. 55-6, del Moden. Ili,
D, 7; del Veneto (app.) Vili, 7, oltre al famoso A di Omero
(Marc. 454) venuto anch'esso di Grecia: ed altre somiglianze non
sono trascurate, anche col Barocc. 50. — A e B risalgono, ma
non indirettamente, al medesimo archetipo scritto in minuscolo,
coi soli lemmi in maiuscole. Dopo essersi fermato sopra altre par-
ticolarità grafiche il R. dà un saggio dell'opera in discorso: se-
guono cioè 183 glosse o articoli (della lettera a), per ciascuna
delle quali sono indicate in margine le fonti, nell'uso delle quali
è perspicua una certa regolarità sistematica, sopratutto in quanto
concerne Metodio. Si può quindi cogliere come il Lessico sia stato
formato dal compilatore, cosa che in nessun altro etimologico
è più possibile. Come fonti si debbono indicare Metodio, il Rhe-
toricon, l'Etyraologicon di Orione, un Etymologicon anonimo, di
Cherobosco i Kavóve?, irepì TToaÓTriTO<;, irepl òp9oYpacpia<;, gli
epimerismi ai Salmi, di Oro irepl èBviKiLv, nepì òpGoypaqpiaq,
Zenobio, gli epimerismi Omerici di ps. Erodiano e di altri, Ero-
diano tt. iraBaiv, Teognosto, Excerpta da varie opere di Filosseno,
Timoteo di Gaza n. òpGoTPctcpiaq, Ateneo, Svetonio, Gratino il
grammatico, commenti a\V Iliade o a\V Odissea, alla Teogonia ed
Opere e Giorni e Scudo di Ercole di Esiodo, ad Apollonio Rodio,
Nicandro,. Licofrone, Dionisio Periegete, ed anche ad Aristofane e
Sofocle ed a poesie alessandrine per noi perdute (vd. p. 47). —
Quindi il R. passa a dimostrare con esempi come su queste fonti
abbia lavorato il compilatore, in modo direi meccanico. — Ma
che VEtìjmol. Gemiinum sia giunto a noi soltanto in estratto è
provato, secondo il R., dalla circostanza che vi si rinvengono molti
richiami ad articoli che non vi si trovano. VEtymol. è ricco di
richiami per il compilatore stesso, che talora dopo il richiamo
ha poi aggiunto quanto aveva trovato nell'opera indicata. Tra
queste indicazioni è notevole quella di Zirixei eiq xò Té\o<; toO
A CTTGixeìou e simili, che aggiunte in fine delle varie lettere fu-
rono poi talune messe a posto e talune no. Quindi VEtijm. Gen.
è opera incompleta, tuttora in preparazione, come è palese anche
dalle aggiunte di glosse messe fuori ordine alfabetico e distinte
coll'intestazione à\\a, crepa : spesso sono attribuite a Fozio espres-
samente, in prima persona: p. es.: ouTuuq èyùj 0u)tio(; ó TTa-
xpidpxn?» che è anche frequentemente citato. — La compilazione
ùeìVEtym. Gen. appartiene al IX secolo, avendosi un ierminus
post quem nell'uso AeW Ortografia di Teognosto, dedicata all'ira-
— 614 —
peratore Leone V (813-20) ed un altro indizio nel confronto del
Lessico di Fozio coW Etymol. Dall'esame di altre prove e dal
fatto che Fozio ed il compilatore dell' Etymol. Gen. coincidono
nelle parole financo in modo che è poco possibile l'uso indipen-
dente di una medesima fonte, ed entrambi risolvono in prosa e
correggono il medesimo passo di Elladio (vd. Ma-fvfiTiq), il R.
crede che rimanga una sola possibilità: Fozio trascrisse il Ge-
niiinum, che trovò in un ms. più completo, e sarebbe composto
fra il Lessico di Fozio e la 118* Amfilochia di Fozio, Sorse
quindi per l' impulso di Fozio e nell' ambiente in cui viveva il
Patriarca, e fu compiuto in Bizanzio il 13 maggio 882, durante
quindi il secondo patriarcato di Fozio : ciò risulta dalla sottoscri-
zione che si trova nel f. 262 di B, che era quella del ms. onde
B derivò. Il nome del compilatore per noi è perduto.
Per VEtymologicum Gudianum il R. esamina i sgg, mss.:
a (Paris, gr, 2630, pergamenaceo, XIII secolo), h (Paris. 263J,
pergamenaceo, XIII secolo), e (Vindob. 3, pergamenaceo del prin-
cipio 0 della metà del XII secolo), e (Petropol, 114 e Sinait. 1201.
pergamenaceo, XIII secolo : le due parti del medesimo ms, sono
conservate in luoghi diversi), f (Neapol, II, D, 37, cartaceo,
XV secolo), z (Paris, suppl, gr. 172, pergamenaceo XIII secolo),
g (Ambros., 107 sup. cartaceo, XV secolo), h (Ferrariens. 194
NA 6, cartaceo, XV secolo), i (Laurent. 57, 11, cartaceo del 1466),
h (Laurent. 57, 15, cartaceo del 1466), l (Paris. 2638, cartaceo,
XV secolo), m (Bruxell. 11288, cartaceo, XV secolo), n (Traie-
stinus, cartaceo, XVII secolo), r (Urbin. gr. 160, cartaceo scritto
da Michele Apostoli), W (Vatic. gr. 880, cartaceo, anch'esso do-
vuto a M. Apostoli), 0 (Vatic. Pai. 244, cartaceo della medesima
mano dell'Apostoli), p (Vatic. gr. 879, dell'Apostoli), q (Paris.
7636, cartaceo, XV secolo), s (Laurent. 573, cartaceo, XVI se-
colo), t (Neapol. II, D, 38, XV secolo), u (Hauniensis regius 1971,
cartaceo, fine XV o principio XVI secolo): tutti questi ms. dal
K. sono divisi in tre classi. L'autore riproduce da questi mss. il
principio della lettera K, passando ad esaminare poi r (Vind. 158,
pergamenaceo, XIII secolo), in massima parte palimpsesto, che si
comporta in un modo speciale, derivando materiali anche da un
glossario Cyrillico e dando materia per ricostruire un antico ms. che
apparterrebbe ad una quarta classe, per la quale si debbono tenere
presenti i mss. Paris. 2659 {%), Vatic. 2130, Coislin. 394, Val-
liceli. E, 11, Urbin. 157. 11 R osserva che dal Paris. 2659 si
conclude che circa il 1116 (anno in cui fu scritto il ms.) o non
molto prima si compì la contaminazione di%\Y Etymol. Gud. col
Lessico di Cirillo. Di qui il R. passa a w (cod. Gudian. gr. 29
a 30), donde venne l'ed. dello Sturz; da un ms. affine derivò
VEtymol. Angelicanum y (A, 3, 34, cartaceo, XV secolo). Al-
l'ultima quarta classe spetta altresì x (Vatic. Regin. Pii II, 15,
pergamenaceo, XIII secolo, in gran parte palimpsesto), che non è
- 615 -
la fonte di v ne di w, raa con essi ha comune l'origine. Ma di
questi rass. è giunto a noi l'originale in d (Barber. I, 70, per-
gamenaceo) dal R. assegnato all'XI secolo, scritto da più mani :
anzi « tutte le aggiunte dovute alle varie mani di d si trovano
rispettivamente nel testo fondamentale degli altri mss. del Gu-
dianiim. e tutte queste mani sono contemporanee al testo prin-
cipale )». 11 R. opina che da d mediante tre (quattro) trascri-
zioni primitive sieno derivati tutti gli altri mss. L'archetipo
Barberiniano è molto prezioso, perchè completa gli altri codici,
perchè indica le varie fonti. Qui il R. dà un saggio di 234 ar-
ticoli (^lettera A) col confronto dei varii mss., di altre opere,
come YEtymol. Gen., Orione, Epimerismi Omerici etc: dal saggio
si appalesa il grande valore di d, cui poco aggiungono gli altri,
anche dove d non dà parti corrispondenti a quelle dei rimanenti
mss. 11 R ne deduce che in d possediamo l'opera nella sua parte
fondamentale, essenzialmente immacolata e completa. 11 Gudia-
num, che dopo il Genuinum è il più antico Etymologicon, è col
Genninum in relazione: gli scoliasti del Gudianum consideravano
Fozio come autore del Genuinum, onde vennero le glosse desi-
gnate colla sigla di 0a)Tio(;, delle quali il R. riproduce un numero
sufficiente ; alcune però derivarono àsdV Etymologicum parvum, che
segue in B al Genuinum e doveva seguirlo anche in A: la glossa
Ou)TiO(; indicherebbe adunque un antico ms. contenente entrambe
le opere; né si può escludere che contenesse anche un'altra opera
grammaticale.
A questo punto il libro del R. che era venuto a tempi poste-
riori a Fozio. occupandosi del Gudianum, fa un passo indietro e
tratta degli Etymologica prima di Fozio, avendo assodato che
anche V Etymologicon parvnm è dovuto all' impulso del famoso
Patriarca. Ma YEtymol. parvum dichiara di aver fatta una scelta
aTTÒ bmqpópujv étuiuoXoyikujv : quali son dessi e di chi? 11 R. co-
mincia col raccogliere (\?i\Y Etymol. Gudianum 65 glosse attri-
buite espressamente a Seleuco, cui realmente si debbono attribuire:
secondo il R. furono dedotte dal tt. 'EWrivicfiioO di Seleuco, ma
non direttamente. Ora il Barocciano 50 contiene, verso la fine,
egloghe etimologiche in ordine alfabetico, nelle quali si trova
gran parte delle glosse che nel Gudianum risalgono a Seleuco :
stante l'accordo, gli Etymologica e le egloghe hanno la medesima
fonte, che non è solo Seleuco: ciò è provato altresì dal breve
èTuuoXo-fiKÒv lniaeipov di Giovanni Mauropus di Euchaita, che
si trova nel Laur. LV, 7 ed i cui 208 versi sono dal R. nuo-
vamente stampati, e dai quali si è rimandati a Filosseno, che
visse alla fine della repubblica ed al principio dell'impero. Ed
invero il lavoro' onde derivò 1' emueipov èTU|ao\oTiKÒv era un ri-
facimento cristiano di un'antica opera ir. éTU|ao\oTia<; o ir. 'E\-
XrivicfiaoO, usata nel 701 da Giacobbe vescovo di Edessa : stava
quindi quest'opera fra il 400 ed il 700, tempo nel quale si pò-
— 616 —
tevano utilizzare fonti antiche e preziose. Dopo un rapido rias-
sunto della storia dell'Etimologia a partire dagli Stoici, il R. si
ferma nuovamente su Filosseno, che giunse a ricondurre le parole
a radici monosillabe. Dopo di lui, tra altri, compare Seleuco,
probabile fonte di Giovanni Mauropus: le egloghe del Barocc. 50
risalgono indirettamente a Seleuco, che fu utilizzato anche da
Suida. VEtymol. Genuin. usò Teognosto, 1' ortografia di Chero-
bosco, l'opera tt. òp9oTpacpia(;, gli epimerismi ed egloghe, cioè
opere comprese nel Barocc. 50. Concludendo, la fonte prima e prin-
cipale deìVEtymol. parviim, prezioso per la ricerca delle fonti,
era una raccolta in ordine non alfabetico di epimerismi ai libri 11,
III ^QÌVIUade, simile a quella che si ha in Gramer Anecd.
Paris. Ili, 294: dagli scolii derivò un Lessico^ ampliato con
successive aggiunte : il compilatore à.%\\'Etymol. parvum lesse gli
epimerismi in quella forma in cui li trovò due secoli più tardi il
compilatore del Gudianum. La ricerca così è riassunta a p. 208:
compilazione dei nostri epimerismi omerici al principio del VI se-
colo — loro ampliamento da commento critico esegetico — di-
visione in parecchie recensioni — una di queste è ampliata da
Cherobosco — è ridotta a lessico subisce molte interpolazioni
— l'opera derivata da questo procedimento è usata dai collabo-
ratori di Fozio.
Per VEtìjm. Magnum sono esaminati i mss. M = Marc. 530, che
risulta di varie parti che spettano a varie età; N = Paris, gr.
2654, cartaceo, dell'anno 1273; 0 = Dorvill. Bodleianus X, 1.
1, 2, pergamenaceo, del tempo della Rinascenza ma da ms. del
secolo XIII; P = Escorialensis Y III, 11, cartaceo XIV secolo;
Q = Marc, addit. XI, 3, cartaceo, XV secolo ; R = Hauniensis
regius 414, pergamenaceo, XV secolo; S = Mon. August. gr. 507,
cartaceo; excerpta in M e nel Matrit. N, 21 XV secolo; Vossian.
gr, 20; il ms. usato dal Calliergi per Veditio princeps è perduto.
Dopo un giudizio su questa edizione e sulle altre del Turrisano,
del Sylburg, del Panagiotes, del Gaisford, viene un saggio di
109 glosse (in margine sono indicate le fonti), dalle quali è
chiaro che la fonte principale è VEtymol. Genuin., di cui fu
usato un ms. vicino ad A, con aggiunte anche à?iVi Etymol. Gud.,
ed invero in più luoghi l'autore doìVEtym. Magnum dichiara di
aver attinto a due Etymologica, dei quali il Genuinum è citato
come TÒ Mera èTuinoXoriKÓv. Oltre di ciò il compilatore attinse
anche agli epimerismi, ai salmi, e forse a Cherobosco, e poi ad
Eulogio e a Stefano Bizantino ed a scolii ed inoltre ad una com-
pilazione dal Lessico di Diogeniano. Secondo il R. VEtym. Ma-
gnum fu compilato nel primo quarto del secolo XII da un pre-
decessore di Eustazio e di Giovanni Tzetzes.
11 capitolo quinto è consacrato a.\V Etymologicum di Simeone,
che abbreviò essenzialmente il Genuinum, ma attinse anche al
Gudianum, a Stefano Biz., al priTopiKÒv per noi perduto, ad un
— 617 —
trattato di ortografia affine ma non derivato da quelli di Chero-
bosco e di Timoteo. Per l'opera di Simeone il K. si occupa dei
sgg. mss.: F = Vindob, phil. 131, cartaceo, XIV secolo; E = Par-
mens. 2139, cartaceo, XIV secolo: 0 == Laurent. S. Marci 303,
cartaceo, XIII secolo ; D = Vossianus gr, 20, cartaceo, XIII se-
colo; onde è dedotto un saggio di 187 glosse, sui margini delle
quali sono, al solito, indicate le fonti. Dalle glosse risulta che
Simeone è la fonte del così detto Lessico di Zonara o Tittman-
nianum, il che permette di fissare che Simeone visse nella prima
metà del XII secolo.
Il primo excursus è dedicato ad Oros e il suo tempo. Combat-
tendo, circa l'età di Oros, il Ritschl, il E. in seguito sostiene
che il Lexicon Messanense (Cod. S. Salvat. 118) in parte edito dal
Rabe in Rh. Mus. 50, 148 sgg. è un frammento dell'ortografia
di Oro, coll'opera del quale confronta i frammenti del primo libro
n. òp9oYpaqpiaq di Erodiano dedotti da 11 fi. palimpsesti Lipsiensi
in parte fatti conoscere dal Tischendorf, Anecdota sacra et pro-
fana, p. 17: il testo greco è del secolo Vili o principio del IX.
I frammenti in parte sono formati di scolii : Oros appunto aveva
composto scolii all'opera di Erodiano, e gli scolii Lipsiensi ap-
partengono al tempo di Oros. Il E. dà i frammenti Lipsiensi,
difficili da completare nelle singole righe, ma che danno un'idea
del piano su cui era condotto il libro I di Erodiano. Da esso,
dall'attività letteraria di Timoteo e di Horapollon e di Oros stesso
il E. conclude che Oros è contemporaneo di Orione, fissando così
che visse prima della metà del secolo V d. 0.
Nel secondo excursus si tratta di Eulogio e Cherobosco. Del
primo si riproducono le 43 glosse che gli sono attribuite negli
Etimologica e si osserva che fu contemporaneo di Oros, Orione
ed Horapollon, e del secondo si investiga l'attività grammaticale,
il carattere, l'effetto che ebbe su lavori congeneri.
Singolarmente importante è l'ultimo excursus sopra Erodiano
come atticista. Confermata l'ipotesi che Erodiano sia stato usato
da Ateneo, risulta che Erodiano usò opere atticiste e diffuse pre-
cetti atticisti. Qui il E. ritiene che nei tempi tardi dell' impero
Eomano non ci fosse il dualismo tra grammatici di Pergamo e
quelli di Alessandria, e che si seguisse l'indirizzo di Aristarco,
non di Cratete, e tratta del tt. 'EXXriviaiaoO di varii grammatici,
e chiude il discorso con un excerptum atticista.
II volume è chiuso dagli indici e da due fac-simili (del Bar-
berin. I, 70, fl. 16^ e 950-
L'opera vasta del Eeitzenstein esigerebbe molto spazio per es-
sere degnamente esposta ed ancor più per essere convenientemente
esaminata e recensita: ma anche i cenni rapidissimi che ne ab-
biamo dato credo ne facciano palese l' importanza non comune.
Chi infatti consideri il numero e la qualità dei mss. esaminati,
come essi siano coordinati mettendone in chiaro le connessioni,
— 618 —
chi pensi che parecchi tra i codici solo da quest'opera sono stati
messi nella debita luce, non può che fare grandi elogi della parte
paleografica e diplomatica dell'opera del Reitzeinstein; ma questa
parte è il suhstratum ed il fondamento della ricerca, che procede
sicura in mezzo ad argomenti difficili ed intricati, prima incom-
pletamente e confusamente noti. Più di un capitolo non soltanto
della etimologia ma della grammatica greca, nell' età antica e
nell'età bizantina, è qui scritto con sicurezza, e più di una que-
stione è districata da vincoli che sembravano indissolubili. Ed è
questo un lavoro ove alla pazienza è unito l'acume, ove alla di-
ligenza va unita la genialità: quel che più è da ammirare si è
che l'autore non siasi atterrito dell' argomento, che di arido lo
abbia reso fecondo, di intricato e confuso lo abbia fatto accessi-
bile, rischiarando quesiti letterari e filologici di grandissimo mo
mento. Però le sudate fatiche del R. hanno trovato il loro com-
penso, e rendono possibile altresì altri lavori che, a questo
connessi, renderanno sempre più sicuri i risultati fondamentali
cui l'A. fin d'ora è pervenuto unendo a grande tenacia la mas-
sima disposizione per assumersi un tale peso adatto a pochissimi
omeri. Lodevole è l'unione di due qualità opposte, che però non
giungono all'eccesso, vale a dire l'audacia e la prudenza: altri
ha quasi sempre o soltanto l'una o soltanto l'altra; il R. felice-
mente le contempera e le equilibra, sapendo essere forte innova-
tore e saggio conservatore.
C. 0. ZURETTI.
L'Odissea di Omero. Versione italiana di Placido Cesaeeo. Voi. 1.
Messina, Ant. Trimarchi, 1896. Voi. II. Torino, Casa edi-
trice E. Loescher, 1897.
Eschilo, Prometeo legato. Traduzione di Errico Proto. Napoli,
Luigi Pierro tip.-editore, 1897.
Incomincio dal Prometeo. La traduzione del Proto vuole essere
molto fedele, anzi letteralissima, seguendo verso per verso il testo
greco, riproducendo nei singoli versi perfino la collocazione delle
parole. Idea lodevole questa, ma che impone un compito molto
difficile e direi soverchio, senza poi dare quei frutti che logica-
mente dovrebbero compensare la fatica sostenuta; qui almeno
spesso il verso è duro, talora contorto, altre volte il senso non ha
la chiarezza desiderabile. Non già che la lettera uccida lo spirito;
ma certo questo è danneggiato da quella. Non si ammirano più
ad occhi chiusi le belle infedeli, non si è più in tempi ne' quali
I
— 619 —
erano celebrati traduttori quelli clie, p. es. il Borsfhi, non cono-
scevano punto la lingua onde avrebbero dovuto tradurre ; ma se
pure attualmente si è molto esigenti e si vuole che il tradut-
tore possegga interamente l'originale nel pensiero e nella forma,
mi sembra che il Proto sia giunto un po' troppo oltre, non
abbia cioè dominato il testo greco, ma ne sia stato dominato. In
una traduzione non saranno tacciate di brevità soverchia le poche
note critiche sparse qua e là ; ma certi appunti non si debbono
ommettere. v. 7 del foco atto in ogni arte per TravTéxvou irupò?
(Si\aq è troppo letterale, è languido, è di soverchia estensione,
tanto più che (5i\a.c, è ommesso: per TravTéxvou basterebbe in-
dustre. — v. 13 e mdla a far più resta non corrisponde allo
spirito di K0ÙÒ6V è^TTOÒÙJv 6Ti: Efesto vuol dire che per Kratos
e Bia non c'è l'ostacolo della parentela e dell'affetto. — Non so
a quanti piaccia il v. 25 « E '1 sol dell'alba indi sfarà la brina».
— V. 77 « Vestimator delV opre è grave » troppo letterale. —
V. 455 non è gradevole « Vesta fruttiferosa » — v. 469 è troppo
prosaico « che ai mortali tanti mezzi invenni ». — Non belli i
vv. 492-3 « ne gli odi e gV innamori ed i convegni. — Be' visceri
il levore ». — E così via. Non mancano qua e là errori tipogra-
fici, che rendono difficile l'intelligenza a chi non possa ricorrere
al testo. Nel complesso se è lodevole il tentativo del Proto, e se
parecchi concetti svolti nel preambolo « al lettore » sono tra i
pili accettabili ed i più seguiti, nel complesso, dico, la traduzione
non supera quella del Belletti, venendo meno così al suo intento
principale. Se però il Proto all' intelligenza del testo unisse
maggior fuoco poetico, allora potrebbe rinnovare il tentativo o
per questa tragedia o per altra.
Maggior considerazione merita il lavoro del Cesareo, sia per la
maggior mole, sia per la riuscita. Del primo volume non parlo
ora, dacché la critica se n'è già occupata, e perchè ritengo che
il valore del poeta si possa maggiormente scorgere nella seconda
parte dell' opera, alla quale vorrebbe e può rendere simile la
prima; ma non posso tacere un fatto: ho letto e fatto leggere
lunghi brani ed anche interi libri del primo volume in più di
una classe liceale, e gli alunni stavano attenti spontaneamente e
provavano diletto. Questo non è un elemento trascurabile nel giu-
dizio, e non manca pel secondo volume che ho voluto sottoporre
alla medesima prova superata con pari esito. Intanto una lode
va data al traduttore per non avere né ommessi né collocati tra
parentesi i molti passi che molti critici moderni, per ragioni in
gran parte speciose, ritengono spuri: abbiamo così la traduzione
di quanto si può ritenere i grammatici alessandrini assegnassero
all'Odissea; e darci tutto questo è altamente meritorio e dimostra
una mente che non si lascia vincere da teorie peregrine che
hanno per molti il sapore della novità. Della forma parlo breve-
mente: il verso, lo stile, la lingua sono adatti al poema; Tende-
f
— 620 -
casillabo procede veramente sciolto e variato, senz' avere quella
sonorità che il Maspero volle desumere dal Monti e che è più in-
dicata per Vlliade, e senz'avere quella monotonia che riesce pe-
sante nella traduzione del Pindemonte. Che qua e la si possano
e si debbano fare degli appunti si comprende; ma è questa una
parte che riguarda Kiviste d'altra materia. Venendo quindi alla
parte filologica trovo più che sufficiente l'indicazione delle va-
rianti adottate in vari passi del poema staccandosi dal testo del
La Roche ; senza discuterle una ad una, si può affermare che il
Cesareo è stato parco e cauto. Ma veniamo pure all'esame di un
canto speciale: pel confronto alquanto minuto col testo scelgo il
libro XXI. — V. 1 Alla figlia d'Icario — è ommesso prudente
Penelope, che nel Maspero si trova. — v. 3 Nella stessa magion ; ,
nel testo: nella casa d' Ulisse. — v. 4 giuoco e inisio della strage: w
molto bene, traduzione fedele: nel Maspero c'è maniera troppo
lunga. — V. 6 bella man; meglio che dita morbide del Maspero.
— V. 8 con le donne; meglio che il M. che aggiunge fide. —
V. 9 al talamo profondo; meglio invece il Maspero: idtima stanza.
— V. 11 lavorato ferro, meglio che temprato acciaro del M., e
così giacca, v. 12 meglio che era rinchiuso. Nel medesimo verso
ad elastic' arco preferirei rincurvo arco; tuttavia elastico è mi-
gliore che grande del M. — v. 13 numerosi, ommesso non bene
dal M. — V. 14 in dono, trad, ampia e letterale, laddove il Maspero
inopportunamente egregi doni. — v. 15 sqq. tradotti bene, mentre i
il M. è troppo rapido e troppo restringe, contrastando all'ampiezza W
e la calma omerica, v. 19 non mi piace indmizso. — v. 21 in ?
barca, meglio il plurale: le navi antiche erano piccole e parecchie
ce ne volevano per trasportare greggie e trecento pastori; inoltre
non vorrei dimenticato l'epiteto dai molti banchi; questo è un -
epithetum ornans, è vero, ma la frequenza di tali epiteti imma- ■
nenti è appunto uno dei caratteri più costanti dell'antica epopea
e non credo sia bene sopprimerlo. Vero è che il Cesareo di tali
soppressioni non abusa e che il verso endecasillabo, meno capace
dell'esametro, ha molte esigenze: tuttavia vorrei che solo in po-
chissimi casi tali epiteti venissero ommessi. — v\ . 26-7 incettar .. .
morte; sto per la traduzione del Maspero, che dice: era in traccia
e perduto; e tale mi sembra sia il senso del passo, e tale risulta
dal V. 35 a2)po di sé ritenne le cavalle — sebbene, sottilizzando,
si possa accettare anche l'interpretazione seguita dal Cesareo, e
qui si potrebbe anche discutere a lungo — ma io sarei proclive
a scorgere in questo racconto mitologico uno dei non pochi esempi
di abigeato, che ci tramandano le antiche storie — v. 39 a reggia
vorrei aggiunto eccelsa, che c'è nel testo. — v. 46 gran guerra; il
grande non c'è nel testo e non si deve intendere ; dacché la grande
guerra sarebbe la troiana — si tratta invece di una qualunque
guerra; cfr. v. 49; nel medesimo v. 46 a salpò si deve aggiun-
gere: sulle nere navi. — v, 56 dopo battenti si metta un punto
— 621 —
e virgola (anche altrove la punteggiatura è tipograficamente in-
certa) — V. 60 al bue del Cesareo ed alla giovenca del Maspero
è preferibile il taupo^ del testo. — v. 64 fragranti vesti esatto,
mentre, forse con ipallage, il M.: odorate anche le vesti. — v. 195
Vadducesse un iddio, è ommesso eXGoi, che era bene tradurre per
conservare alla traduzione l'ampiezza omerica. — v. 243 è trascurato
òvbe òóiuovòe.
Un tale esame potrebbe essere esteso a tutto il canto, anzi a
parecchi libri e con pari esito. Si vedrebbe cioè che, se c'è ancor
d'uopo della lima, la traduzione è nel suo complesso lodevole e
degna del massimo incoraggiamento. Sicché è lecito sperare che
il lavoro del Cesareo giunga non troppo tardi ad una seconda edi-
zione; anzi è da augurarsi che questa sia tale da potere entrare
altresì nelle nostre scuole, dove pur troppo la lettura delle ver-
sioni dei poemi Omerici è molto trasandata, dacché non è più
imposta dai programmi governativi. Il lavoro del Cesareo potrà
così essere utile e per più rispetti sia alle persone colte, sia agli
scolari che di certi insegnamenti hanno molto bisogno; ma è
anche necessario che gli insegnamenti siano bene impartiti e con
buoni libri.
C. 0. ZURETTI.
Giuseppe Pescatori. Tavole per lo studio e per la ripetizione
della grammatica greca {Morfologia) ad uso degli alunni
del Ginnasio superiore e del Liceo. Livorno, Tipografia di
Raff. Giusti, editore libraio, 1897.
M. Belli. Morfologia greca. Livorno, Tipografia dì Raff. Giusti,
editore-libraio, 1897.
M. Belli. Sintassi greca. Livorno, Tipografia di Raff. Giusti,
editore-libraio, 1897.
Omero, il libro XVIIl dell' Iliade con note italiane di Enrico
LoNGHi. Milano, Albrighi, Segati & C, 1897.
Sono tre opere destinate alle nostre scuole; la meglio riuscita
credo sia quella del Longhi, il quale non soltanto seppe uscire
dai consueti libri primi onde soverchiamente pare si compiacciano
talune raccolte scolastiche, ma soddisfece con garbo ai non pochi
obblighi che il lavoro gli imponeva. Il commento è, e vuole es-
sere, strettamente scolastico, almeno nel senso che alla parola si
dà comunemente; anzi in questa tendenza è talora alquanto ac-
centuato, soffermandosi su taluni fatti molto agevoli all' intelli-
— 622 —
genza e trasvolando su taluni altri, o dando ancora espressioni
facili sì, ma di esattezza discutibile. Cfr. p. es. v. 385 TiTrte,
388 are, 392 cre;o, 400 TrjcJi, nap*, ecc. Non è però trascurato
l'elemento estetico ed archeologico, sebbene qualche raffronto col-
1 aanig 'HpaKXéouq sia desiderabile. Nel complesso il lavoro credo
sia utile alle nostre scuole, specialmente nelle condizioni attuali
della maggior parte di esse: non manca però nel commentatore
la disposizione ad intento più elevato. Lodevole la discrezione nel-
l'uso di altri commenti e lavori illustrativi. Negli altri due la-
vori invece, ma sopratutto per quello del Belli, c'è un grave e
fondamentale appunto da mettere innanzi, cioè che entrambi vol-
lero attenersi soltanto ai risultati ai quali si ferma la grammatica
del Curtius, la quale, ottima pei tempi in cui apparve e poi ab-
bandonata dall'illustre glottologo, non corrisponde più ai desideri
ed ai bisogni della scienza e della scuola. Il Pescatori ed il Belli
si sono sforzati di esporre le teorie del Curtius in modo più chiaro
che il Curtius medesimo: certo il merito della chiarezza, per la
quale ad es. erano insigni le prime edizioni dei manuali dello
Zenoni, ha massima importanza pedagogica; ma ha valore solo
quando si appoggi a solida base scientifica. Il Pescatori, da altri
lavori che ho veduto, sembra proclive ad uscire dalla cerchia del
Curtius: qualora ne fosse risolutamente uscito fin d'ora avrebbe
potuto applicare con frutto la non comune disposizione a facile
chiarezza di esposizione. Certo la questione della grammatica ele-
mentare della lingua greca è ora quanto mai urgente, e si aspetta
che un qualche insigne glottologo e filologo usi della completa
conoscenza della glottologia e della filologia per darci una gram-
matica greca che finalmente sottragga i discenti o dall' appren-
dere passivamente e inconsciamente, o dall'imparare teorie con-
traddicenti e palesemente insussistenti scorgendone i lati debolis-
simi. Togliere queste difficoltà è compito alto e difficile: meglio
forse accontentarci di grammatiche anteriori, piuttosto che rima-
neggiarle 0 introdurvi modificazioni insufficienti e soltanto formali.
Forse fra non molto tempo il Pescatori potrà darci lavori che
meglio corrispondano a questi desideri. Del Belli la parte più
deficiente, troppo scarsa, è la seconda; chi ignori quelle regole
empiriche non so quale danno possa avere, né quale vantaggio chi
le conosca.
C. 0. ZURETTI.
623
Solone Ambrosoli. Vocabolarietto pei Numismatici {in 7 lingue).
Milano, U. Hoepli, 1897; pp. vii-134 (Manuali Hoepli,
n° 242).
Giustamente osserva l'A. in principio della sua Prefazione che,
se v'ha una scienza che avrebbe dovuto e potuto assai facilmente,
al pari della botanica, continuare a valersi del latino almeno nella
nomenclatura e nelle descrizioni, essa è appunto la numismatica.
Ma poi che l'uso del latino è passato di moda anche qui, bisogna
bene che il numismatico provveda a saper leggere in parecchie
lingue diverse sia pure un catalogo o una descrizione sommaria sol-
tanto, giacche di monete sue ne ha e ne scopre e ne illustra ogni
paese. Ora in grado d'intendere altre lingue oltre la propria (e a
volte sin meglio della propria) non ci sono di solito che gli eru-
diti e gli studiosi di professione; senza dire che anche costoro
per lo più non ne approfondiscono che alcune, cioè quelle la cui
conoscenza è al presente più necessaria in qualsisia ramo di studi.
D'altra parte al numismatico non è strettamente indispensabile
tutto il materiale di una lingua, bastandogli per gli usi più co-
muni l'avere famigliari quelle parole ed espressioni che più fre-
quentemente s'incontrano nelle opere descrittive. Così stando le
cose, all'Ambrosoii è parso opportuno di raccogliere appunto queste
espressioni e parole più spesso usate nei libri di numismatica,
distribuendole con la rispettiva traduzione italiana in tanti dizio-
narietti, quante sono le lingue di cui maggiormente può occor-
rere notizia al numismatico, ossia il francese, il tedesco, l'inglese,
lo spagnuolo, il latino e il greco moderno. A questi sei diziona-
rietti se ne aggiunge un settimo di raffronto italiano-francese-
tedesco-inglese. Ma non sono tutti uguali per estensione, anzi
l'estensione vi è molto diversa dall'uno all'altro, tanto che, mentre
ad esempio il lessico tedesco-italiano occupa 41 pagina, allo spa-
gnuolo-i {aliano non ne sono dedicate che sei, e quattro e mezza al
latino-italiano. Ma è sproporzione voluta di proposito dall'A., come
egli avverte nella prefazione, per l'indole differente delle varie
lingue, per la loro maggiore o minor somiglianza con l'italiano,
e anche per semplici considerazioni pratiche.
Il libro è in tutto elementare, e non ha altro scopo che quello
(trascrivo le parole dell'Ambrosoli stesso) « di render possibile o
di facilitare l'intelligenza delle principali opere descrittive di nu-
mismatica, e dei cataloghi di vendita, a coloro i quali ignoras-
sero 0 conoscessero imperfettamente o non avessero familiare l'una
0 l'altra delle lingue suddette » (p. V). Ad ogni modo è compi-
lato con cura e merita lode: sennonché, pur essendo il volumetto
destinato principalmente ai raccoglitori e ai dilettanti di questa
materia, penso che vi si sarebbe potuto omettere o almeno restrin-
gere senza danno il gruppo latino-italiano, poiché non sembra
— 624 —
probabile che ci possa essere chi faccia collezione o studio di monete
ignorando il significato dei vocaboli più comuni della lingua latina.
Per maggior comodità di chi muove i primi passi nella scienza
tiene poi dietro ai sette dizionarietti un succoso e non inoppor-
tuno elenco delle principali voci ed espressioni tecniche della ma-
teria, che si estende anche alle più elementari, quali « capri-
corno, animale favoloso » (cito eziandio la spiegazione dell'A. per
dare un'idea più precisa del modo come l'elenco è stato compi-
lato); « clava, mazza d'Ercole » ; « consunto, -a, malconservato,
a- »; « cubito, gomito »; « gettoni, specie di marche »; «nessi
di lettere, lettere unite fra loro »; e somiglianti.
L. V.
Francesco Solldia. Le fonti di Stratone nella geografia della
Sicilia [VI. 265-274 O.Messina, 1897, di pp. 50 (Estratto
dagli «Atti della K. Accademia Peloritana», voi. XII).
L'A. si propone di ricercare le fonti dirette e riflesse di Strabone
265-274 C, rifacendo la via già battuta dall' Hunrath, dallo
Schweder, dal Pais, dal Beloch.
Dopo un minuto esame di dieci capitoli, nei quali l'Araasiota
descrive l'isola e ne illustra, qua e là, le vicende storiche, il Sol-
lima corre dietro allo scrittore e ne segue il cammino, passo a
passo, ricercando e determinando quali notizie provengano da
questa o quella fonte, quali sieno patrimonio della coltura del
tempo, quali derivino da osservazioni dirette di Strabone.
I risultati ai quali l'A. perviene, se non possono dirsi sempre
assolutamente sicuri, sono tuttavia quasi sempre convincenti, e ri-
velano in lui senso fine e prudente.
Sobrie le note; anzi taluna di esse, come quella che tratta della
corografia, è addirittura lo schema di un altro lavoro, tanta è la
materia ivi condensata, e così piena la letteratura dell'argomento.
Le conclusioni alle quali il Sollima perviene possono riassumersi
così: Posidonio per la parte geografica, Eforo per quella storica
sono le fonti principalissime di Strabone nella geografia della Si-
cilia; Ibico, Pindaro, Antioco, Filisto, Timeo, Apollodoro, Arte-
midoro e il Corografo sono le fonti secondarie. Detratta la parte
che spetta a queste fonti, non resta molto, in verità, che sia da
ascriversi alle ricerche di Strabone ed alle proprie sue osserva-
zioni.
II dott. Sollima, già alunno dell'Ateneo messinese, ha dato
prova di buon metodo, di attitudine alla ricerca storica e di piena
conoscenza delle fonti in tutto il campo della letteratura classica.
G. Tropea.
— 625 —
KASSEGNA DI PUBBLICAZIONI PERIODICHE
The Glassical Beview. XI. 1897. 1. — E, M. Burrows, Pylos
and Sphacteria. A reply io Mr. Grundy, pp. 1-10 [Tien fermo
alle conclusioni a cui era giunto contro il Grundy, e non ostante le
osservazioni di questo (vedi Rivista, fase. 1, p. 155; fase. 2, p. 325),
riguardo alla identificazione delle due località e agli avvenimenti
che ivi si svolsero [nel 425 av. C], secondo il racconto di Tuci-
dide. La « risposta » si divide in cinque parti: 1. I « dettagli »
dell'ultima battaglia a Sphacteria (le affermazioni del Grundy a
proposito del TraXaiòv è'pu|Lia si fondano su ipotesi). — 2. La linea
di difesa degli Ateniesi a sud, sud-est e sud-ovest di Pylos (bi-
sogna distinguere fra l'attacco dalla parte di terra e quello dalla
parte di mare, distinzione che il Grundy non ha fatto). — 3. La
linea di difesa degli Ateniesi a nord di Pylos (la teoria del Grundy
lascia sussistere le difficoltà inerenti alla questione, che sono in-
vece eliminate dalla teoria del Burrows). — 4. L' origine e la
natura dell'errore di Tucidide intorno al porto e ai suoi canali
(l'autopsia dei luoghi permette di determinare le posizioni della
flotta dei Peloponnesii e di identificare i vari punti occupati da
essa di fronte alle linee di difesa degli Ateniesi. Nel procedere
alla identificazione il Grundy ha fatto troppo a fidanza con Tu-
cidide e ha confuso i dati della topografia generale). — 5. L'ori-
gine della lunghezza errata di Sphacteria [intendi: dei dati ine-
satti relativi alla lunghezza...] secondo i nostri testi (il Grundy
ha preso e calcolato le distanze inesattamente)]. — R. W. Macan,
A note on the date of Tyrtaeus, and the Messenian ivar, pp. 10-12
[Torna su la questione trattata dal Verrall (vedi Rivista, fase. 1,
p. 149), riprendendo in esame il noto passo della Leocratea di
Licurgo, §§ 102-109. Si occupa (a) della età di Tirteo; {h) del
tempo della guerra messenica [la seconda]; (e) della data delle
poesie [attribuite a Tirteo]: e viene alla conclusione che l'ipotesi
del Verrall intorno al primo punto è inammissibile]. — E. W. Fay,
Contested etijmologies, pp. 12-15 [Latino I, ingens; 11, immanis;
III, Manus 'Dio' e di Mànes; IV, mas e Mars 'Dio della guerra'
(con raffronti coll'Indra indiano)]. — W. G. Rutherford, Con-
jectures in the text of the Comici Graeci, pp. 16-17 [Testo
del KocK. (1) Xia)vbri(; èv TTtuuxoì? K. 1, 5: toiò* ^t' oivov per
TUJÒe Toivuv — (2) ' EKqpavTÌÒri(; K. I, 9 : ( |ufi ) N\efap{ari<;,
Ku))iujòia, I (èyc; fi(j|aa òè eijur riaxuvÓMnv | tò òpd|Lia <av)
MeTopiKÒv Koieiv. — (3) Kpaxivof; év 'ApxiXóxoK; K. 1, 11:
aYoi invece di TrpuÓTUj — (4) ib., 14: KÓiuriv dppuvoua' per kó^lì]
Spuoua' — (5) Lo stesso èv BouKÓ\oi<g K. 1, 18: in Esichio, a
nYPrfEPErXEl , va letto nOp rtOp efxex... àp(TTa)Ea|ievo<;... dq
Tiv' (1) fiTttipei. — (6) Lo stesso èv AriXióaiv K. 1, 19: ai0pei'
liivista di filologia, ecc., XXV. 40
— 626 —
àYivoOvTa(; in luogo di aiGpeia Ti|auivTa<; — (7) ib., 20: epaJe
invece di kppale e bisogna espungere irpò? xfiv ff\v — (8) Lo
stesso èv AiovucraXeEàvòpLu K. I, 24: leggasi (TioXfiv òè br\ riv*
eix'; et' oùb' 6 |uoi (ppaaouv; — (9) Lo stesso èv ApairéTiaiv
K. I, 27: TÒv KepKuóva Téou? èvaTTOTraToOvTa ToTq AaKuucnv
eupibv àTtéTTViHa. — (10) ib., 30: AdinTTUJva 6' ov où Pporijùv
'■ quem mortalium non' 9'ov invece di tòv — (11) Lo stesso èv
MaXaKOiq K. I, 43: èpOù TroXXrì (TxoXrj per èfib ttgXXvì xo^^ —
(12) Lo stesso èv NÓ|lioi<; K. I, 52: xp^^^i^i I (TTrévòiuv, àva^pacpeO,
ToTq òcpeai TTieTv biòou]. — H. Richards, The minor works of
Xenophon^ pp. 17-21 [(Continuazione da X, 294) Osservazioni cri-
tiche a (III) Hiero 1, 1; 4; 14; 15; 23; 27; 28; 38. 2, 3; 7;
12-14; 15. 4, 3; 11. 6, 2; 10; 16. 7, 11. 8, 5; 9. 9, 7. 11, 7;
12. — (IV) Hipparchicus 1, 3. 3, 3. 4, 12. 5, 8. 6, 5. 7, 4.
8, 5; 12. 9, 1. —(V) De re equestri 1, 2; 3; 17. 2, 1. 4,4.
5, 10. 6, 3; 14. 7, 2. 8, 1. 10, 15. 12, 6]. — J. P. Postgate,
On some passages of XenopJioti's Oeconomicus and Helle-
nics, pp. 21-22 [Contro le proposte del Platt (Rivista, fase. 2,
p. 326) a II 15. Vili 2. XII 17. XIX 9 dell'Economico. Quanto
alle Elleniche il Postgate vorrebbe sostituire, in II 3, 31,
àTTcXéirei àn à|i(poT€pujv alla vulgata dnopXéTrei b'àir'àiLicpoTépiJuv,
rimandando per aTroXérrei ad Euripide, Ci/cl. 237J. — M. L. Earle,
Criticai notes on Cicero ' i)e oratore I\ pp. 22-26 [Passi a
cui l'autore propone correzioni: 1, 1 si.,, constitisset — 3, 11
vere... reperientur — 3, 12 dicendi... excellat — 4, 13 aut,..
amplioribus — 7, 26 hi... vidissent — 10, 42 agerent... convin-
cerent — 13, 55 quihus... appellant — 13, 57 haec... deditus.
Inoltre II 5, 19 tum... fugiehant — 29, 127 Me... desiderat - q de
le gè Manilia 4, 10 ut... videatur]. — P. H. Damsté, Note on
Curtius VI, 4, 7, p. 26 [Legge: Alexander duos, ..., praeci-
pitari iuhet equorum: corpora, ubi... exciperent, invece di...
iubet, quorum corpora, ubi etc.]. — W. W. Merry, Note on
Juvenal Sat. X, 82 foll.,^^. 26-27 \paUidulus mi... defensus!
Spiega e commenta con Svetonio, Tiberius cap. 61]. — .T. Stanley,
Note on Lucretius V, 436 seqq., pp. 27-28 [Intorno all'uso e
al valore di sic nel v. 441]. — È. Y. Tyrrell, Can a short
vowel resist position? p. 28 [Risponde negativamente: una vo-
cale breve non può sottrarsi all'allungamento di posizione. La
questione era stata messa avanti dal Platt nell'articolo citato in
Rivista, fase. 2, p. 329]. — T. L. Agar, The lengthening of
final syllables by position before the fifth foot in the Homeric
hexameter, pp. 29-31 [Con esempi opportunamente scelti e con
vari raffronti ora contesta, ora modifica le conclusioni, a cui era
giunto il Platt, nell'articolo quassù ricordato, riguardo a talune
particolarità della metrica omerica]. — A. Scuter, GreeJc me-
trical inscriptions from Phrygia, pp. 31-32 [(Continuazione da
X, 420-421, Rivista, fase. 2, p. 328). Due iscrizioni, nella prima
delle quali si accenna ad un altare eretto per ordine dell'oracolo
di Apollo Ciarlo; nella seconda Artemide è designata come Aaio-
— 627 —
TeveT Aibu|Liqt]. — F, Granger e W. Warde Fowler, Roman
burial, pp. 32-35 [Polemica fra i due autori. Il primo difende e
giustifica certe sue affermazioni, relative ad usi funerarii romani,
nella sua opera The Worship of ihe Bomans (Bivìsta, fase. 2,
p. 327), contro le critiche e le obiezioni del secondo; il quale
risponde insistendo nei suoi giudizi, con nuovi argomenti]. —
pp. 35-82, Kecensioni: M. Annaei Lucani Pharsalia. Cum
commentario critico ed. C. M, Francken. Voi. I coni. Uh. I- V.
Lugduni Batav., ap. A. W. Sijthoff, 189G [W. E. Heitland]. —
Quelques notes sur les Silvae de Stace, premier livre, par
(t. Lafaye. Paris, Klinksieck, 1896. Curae Statianae. Disser-
tatio inauguralis. Scripsit A. Klotz. Leipzig, 1896 (Robinson
Ellis]. — Bevenue Laws of Ptolemy Philadelphus. Edited from
a Greeh Papyrus... tvith a transìation, commentary and appen-
dices hy B. P. Grenfell, and an introduction hy J. P. Mahaffy.
Oxford, at the Clarendon Press, 1896 [W. Wyse]. — Adversaria
in Aeschylum scripsit ac coUegit F. H. M. Blaydes. Halle,
1896 [W. Headlam]. — Pindari Carmina prolegomenis et
commentariis instructa ed. W. Christ. Lipsiae, Teubner, 1896
[R. Y. Tyrrell]. — R. Hirzel, Ber Bialog. Ein literarhisto-
rischer Versuch. Leipzig, Hirzel, 1895 [R. D. Hicks]. — J. von
Arnìm, De Platonis dialogis quaestiones cìironologicae. Rostock,
1896 [L. Campbell]. — G. Su etoni Tranquilli JDiviis Au-
gustus ed. ... hy Shuckburgh (Cambridge, University Press) e
C. Sueionii Tranq. Vita Divi Glaudii v. H. Smilda (Grò-
ningen, Wolters) [Franklin T. Richards]. — Philonis Ale-
X and r ini oliera quae supersunt. Voi. I ed. L. Cohn. Berolini,
Reimer, 1896 [Fred. C. Conybeare]. — J. C. Egbert, Intro-
duction to the Study of Latin inscriptions. Columbia, Longmans
[F. Haverfield]. — A. De Nino, Archeologia leggendaria. To-
rino, Clausen, 1896 [R. S. Conway]. — M. Collignon, Histoire
de la sculpture grecque, II, Paris, 1897 [Percy Gardner]. —
E. Thomas, Bome et Vempire aux deiix premiers siècles de notre
ère. Paris, Hachette, 1897 [L. Dyer]. — C. Torr, Memphis and
Mycenae [Risposta ad alcune osservazioni del Myres (vedi Bi-
vistn, fase. 2, p. 329)].
Idem. 2. — E. W. Fay, Gonicsted e^?/moZo<72es, pp. 89-94 [(Con-
tinuazione da p. 12 sgg.) V, òppi|iO^ 0 ò|uPpi|uo(; ? (a proposito
di Iliade III 357 - Kenyon's Glassical texts from Papyri in the
JBr. Miis. 81 - e della forma del vocabolo nei rass. di Pindaro e
di Esiodo e in una epigrafe di Pergamo) ò^pifioq. — VI, òira-
Tpoq, etc. (Intorno ad ò- copulativo). — VII, Alcuni casi di
'Haplolalia' (cioè: ò|uriPO?, 6|aaòoq, dfiiXXa e ò|ui\o(;; milia,
aquila - aquilo; ò\ir\\xl). Continuerà]. — A. Platt, Agamemnonea,
pp. 94-98 [Commento ad E s e h i 1 o, Agam. 123: pXa^^via Xoi-
(jGiuuv òpónujv con rimando a Senofonte, Gyneg. V, 14, 17 e 19.
VI, 19. — a 131 sgg. xpóviy jaèv d^peT ... oiov m Tiq aya con
rimando al v. 1167. — 146 propone TÓaov rrep euqppiuv KÓKaXd
per ... KttXd. — 192 legge òi' aìuj invece di òaiiuóvcuv — 880
— 628 ~
sostituisce fXàiLia? a pxópa? — 1181 ì'XXeiv in luogo di KXueiv
dei mss., kXuZeiv dell'Auratus. — il v. 1321 presenta una lacuna,
che non fu riempita dai poeta, ma da altri. — 1536 a òè XriTei
è preferibile, e a ogni modo calza meglio, b' èrreiTei — dopo 1594
dev'essere caduto un verso, che a un dipresso era KÓpa t* è'Kpuqje,
anXdjxva òè Hùv èvTépoi<;. L'autore giustifica largamente la sua
congettura, ricorrendo anche al Thyestes di Seneca]. — F. Ha-
VERFIELD, Note OH Acsc il. Pr(ometh.) V, 358, p. 98 [Suppone
Tuqpojva GoOpov uacTiv àvrécTTri Geoig]. — E. C. Marchant,
Notes on Tìmcydides, hook VI, pp. 98-100 [Nuove osservazioni
critiche ai passi già esaminati, con speciale riguardo alle obiezioni
del KiCHARDS (vedi Rivista, fase. 1, p. 151; fase. 2, p. 32(3)]. —
Robinson Ellis, On an epigram of Leonidas of Tarentum, A.P.
IX 335, p. 100 [Emendazione ai due primi versi, così: TXo-
qpópou TUJTdXiua9*, óòomópe, MiKaXiuuvog — 'Ep^n? t'' dXX' iòè
TÒv KpriYuov ùXccpópov, cioè : duae fìgurae, uiator, lignatoris sunt
Micalionis, Mercuriusque: at tu cerne boium lignatoreni ...]. —
T. L. Agar, Note on Iliad XX, 18, p. 101 [Commento e ver-
sione; piuttosto che àixicTTa ci aspetteremmo, per il senso, iià-
XicTia]. — A. E. HousMAN, Ovid's Heroides, pp. 102-106 [Note
critiche a I 13-22 (propone, fra l'altro, lioste reuictum invece di
Hectore iiictum, v. 15) — II 105-118 (v. 115 huic in luogo di
cui) — V 81-88 (v. 85 va corretto: — dignaque sum fieri rerum
matrona potentis per ... et cupio ...) — VI 25-40 (vi sono varie
interpolazioni) — VI 107, 108 (in parte sospetti). Continuerà].
— J. H. Gray, Plautus, Epidicus 19 and 625, p. 106 [v. 19-20,
scrive: Thesp. Quid tihi vis dicani nisi quod est? Epid. ut
illae res? responde. Thesp. probe. Epid. quid erilis noster
fìUus? — v. 625, legge: pidcrum ut praedicas]. — Si. George
Stock, Note on Alcestis, 320-322, p. 107 [A proposito dell'emen-
damento dell'EARLE al v. 321 (vedi Rivista, fase. 2, p. 325) spiega
il senso delle parole del poeta]. — A. Lang, Magical papyri,
pp. 107-108 [Aggiunte all'articolo del Riess (vedi Rivista, fase,
cit., p. 327)]. — R. H. Gretton, Belate in the Senate, as to
the restoration of Ptolemy Auletes, a. u. e. 698 (B. C. 56),
pp. 108-109 [In Cicerone, Ad Fam. 12 2, riferisce ii a inulti
(anziché, secondo la interpretazione tradizionale, a consulihus) e
per conseguenza crede che non sia necessaria l'inserzione, proposta
da altri, di non davanti a invitis']. — C. D. Chambers, On the
construction of où ixr\, pp. 109-111 [Aggiunta all'articolo dello
stesso Chambers pubblicato nella Class. Revieiv, n°. di aprile 1896,
tenuto conto delle osservazioni del Goodwin e del Whitelaw.
L'autore ha la certezza che la sua teoria, relativa al valore ne-
gativo di où |uri, è affatto soddisfacente]. — G. E. Marindin, On
the meaning of ad in ad Opis and similar expressions, pp. 111-
112 {^Ad Opis ha il medesimo valore che in aede Opis, e così
tutte le espressioni analoghe, di cui l'autore reca una lunga lista].
— pp. 113-130. Recensioni: Jebb's Ajax (cioè Sophocles, the
plaìjs ... hy R. C. Jebb, VII: The Ajax-, cfr. Rivista, fase. 2,
-629 -
]). 288 sgg.) [A. S.]. — G. VAN OoRDT, Flato and the times he
lived in. Oxford, 1895 [R. D. Hicks]. — Corpus Fapyrorum
Raineri. Voi. I: griechische Texte, hrgh. von C. Wessely. Wien,
1895 [H.]. — L. Hortox-Smith, Ars tragica Sophoclea cum
Shalcsperiana comparata. Cambridge, Macmillan and Bowes, 1896
[L. Campbell]. — Epistola critica ad amicos J. van Leeuicen
et M. B. da Costa continens annotationes ad Odysseam. Scripsit
J. J. HarTxMAN. Lugd. Bat., Si.jthoff, 1896 [T. L. Agar]. —
Pausaniae Graeciae descriptio. Ed. ...H. Hitzig. Commenta-
rium germanice scriptum... addiderunt H. Hitzig et H. Bluemner,
I. Berolini, Calvary, 1896 [E. Gardner]. — M. Tullii Ci-
cer onis Oratio in Verrem de Signis, puhliée avec une intra-
duction et un commentaire explicatif par H. Bornecque. Paris,
1896 [E. Sellers]. — Das alte Bom. Entivickelung seines
Grundrisses u. Geschichte seiner Bauten ... dargestellt mit e.
Piane d. heutigen Stadi sowie e. stadtgeschichtUchen Einleitung,
hrgh. von A. Schneider. Leipzig, Teubner, 1896 [W. C. F. An-
derson]. — H. P. FiTZ- Gerald Marriott, Facts about Pompei;
its masons' marhs, town ivalls, houses and portraits. London,
Hazell ... 1895 (?) [Lo stesso]. — G. Boissier, UAfrique romaine :
promenades archéologiques en Algerie et en Tunisie. Paris, Ha-
chette, 1895 e The country of Horace and Virgil, translated hy
D. Havelock Fisher. London, Fisber Unwin, 1896 [Lo stesso].
— J. L. Myres, Torr's Mycenae and Memphis [Autodifesa del
Myres contro le obiezioni fatte dal Torr al suo giudizio intorno
all'opera del Torr stesso. Vedi il n*>, preced. della Class. Beview,
in fine].
Philologus. Zeitschrift fiir das class. Alterthiim. LV. 3. 1896.
— B. ■ Heisterbergk, Municeps, pp. 393-415 [Rassegna delle de-
finizioni dei vocaboli municipium e municepis., dalle due fondamen-
tali di Paolo e di Pesto alle più recenti. Dal raffronto di tutte e
dai vari studi intorno alla questione si deduce cbe municeps de-
signò ad un tempo 1) i peregrini migrati a Roma, ai quali fu
concesso di esercitare ivi, come esercitarono realmente, alcune
funzioni {mimerà) proprie dei cittadini romani, ma non di occu-
pare uffizi pubblici; 2) quelli fra i cittadini delle colonie latine
e delle città alleate, che avevano tenuto cariche pubbliche nei
loro comuni e acquistato, in conseguenza di ciò, per sé e per le
proprie famiglie il diritto di cittadinanza romana. Quanto a mu-
nicipium^ il valore della parola si riporta al secondo fatto : essa
fu usata dapprima a designare quei comuni, i cui magistrati ave-
vano appunto acquistato il detto diritto; più tardi municipia ven-
nero chiamati tutti i comuni, ammessi a fruire del diritto stesso].
— H. Dùntzer, Eine Beisesatire und cine Beiseepistel des Ho-
raiius, pp. 416-432 [Sat. I 5 ed Epist. I 15 riassunte e illustrate
con commenti di vario genere, fra cui riscontri con Lucilio]. —
H. Deiter, Zu Livius XXII, p. 432 [Propone di leggere 17, 2
ex capite aptae — 46, 5 ante alias — ^\^h spectandam
— 630 —
stragem exsistunf]. — L. Radekmacher, Ein meirisches Ge-
setz bei Bahrios und andern Janibendichtern, pp. 433-436 [« Se
nella seconda arsi si trova una parola monosillabica breve e nella
prossima tesi segue, davanti alla cesura, un monosillabo che forma
posizione, questo dev'essere lungo »]. — B. Maurenbrecher, Ti-
hullstudien, pp. 437-461 [Su la storia della tradizione (mano-
scritta), con un ricco apparato critico e continui raffronti di co-
dici, dei quali sono dimostrate le reciproche relazioni. La storia
è rappresentata graficamente con un duplice stemma (pp. 448 e
461)]. — C. Weyman, Beitrage sur Gescìiichte der altcìiristli-
cìien LUeratur, pp. 462-473 [1. Intorno a Gregorio Thaumaturgos
(a proposito della sua orazione di ringraziamento al suo maestro
Origene). — 2. Intorno alla Vita Martini (la biografia di S. Mar-
tino di Tours) di Sulpicio Severo (fu scritta quando il santo era
ancora vivo). — 3. Intorno a Pietro Chrysologus (di Ravenna,
406-450 [La raccolta delle sue prediche in Migxe, Patrologia la-
tina 52]. Nota di reminiscenze classiche e di poesia cristiana-
latina), — 4. Letture classiche in tempi posteriori (Virgilio, Sal-
lustio, Terenzio, Cicerone)]. — Th. Baunack, Neue Bruchsiucke
gortynischer Gesetze, pp. 474-490 [Frammenti di due iscrizioni
trovati presso al luogo dove fu rinvenuta la grande iscrizione,
illustrata dal Comparetti. Sono due leggi (incise su due pietre),
di ciascuna delle quali è recato il testo con dichiarazioni ; segue
l'indice dei vocaboli. In fine (del fascicolo) una tavola con i due
fac-simili]. — Th. Zieunski, Excurse su den Tracìiinierinnen^
pp. 491-540 [1. L'Eracle della religione di Zeus (il nocciolo della
leggenda di Eracle svolta da Sofocle nella sua tragedia e in ge-
nerale dell'eroe come dodekathlos è la saga pileata, la più antica,
che si riporta al culto di Zeus). — 2. Lica (questo messo di
Eracle è uno sconosciuto per Deianira e mostra per l'eroe un
amore idolatra}. — 3. L'infedeltà (l'amore di Eracle per Iole è
la sua prima e unica infedeltà verso Deianira). — 4. Il dono (che
Deianira manda ad Eracle per mezzo di Lica è già sulla scena,
quando ella si decide a spedirlo al marito; il momento della de-
cisione determina il principio della catastrofe (TFewfZepemc^) della
tragedia). — 5. L'incantesimo d'amore (operato da Iole su Eracle ;
così crede Deianira, e ciò spiega la sua condotta dopo l'ambasciata
di Lica a lei). — 6. Iole (il poeta tace delle relazioni fra Deia-
nira e Iole, condottale in casa da Lica insieme con le altre donne
fatte prigioniere da Eracle nella presa di Ecalia). Questi excursus
sono un prezioso contributo alla piena e retta intelligenza della
tragedia, che appartiene alla prima 'maniera' di Sofocle]. —
R. IssBERNER, Dijnamis und Ihesis, pp. 541-560 [Studio musi-
cale, in cui sono esaminate e discusse le opinioni dei metrologi
antichi e moderni intorno ai due fenomeni, con particolare ri-
guardo alla teoria del Westphal. Ecco in poche parole la conclu-
sione : la tesi di un tono è la sua altezza (Hohe) assoluta ; la
dynamis è la sua proporzione nella scala relativa]. — 0. Crusius,
JDie illustrierien Terenzhandschriften und Tacitus Bial. XX,
- 631 —
pp. 561-565 [Dimostra che l'accenno del dialogus, 1. e, ai gestus
Turpionis Anibivii si riferisce a manoscritti illustrati (cioè con
figure) di Terenzio, esistenti già al tempo di Tacito]. — Lo stesso,
Ber Tanz der 3Ianadeti, p. 565 [A proposito di Virgilio, Aen.
VII 373 sgg. Ivi il poeta descrive Amata come Menade, vale a
dire in atto di danzare al modo delle Menadi]. — E. Holznek,
Zu den Fragmenten der griechischen Tragiker, pp. 566-568
[Proposte di emendamenti a Sofocle fr. 619 e 620. D i e e o-
g e n e (Nauck) 1 e 3. M o s e h i o n 9, 1-4. Sosifane 2.
E s e h i 1 0, Alex. 1. Fr. adesp. 115]. — C. E. Gleye, Zu Q. Cur-
tius Bufus, pp. 568-571 [Note critiche a III 5 1. IV 1 14. Ili
10 4. IV 1 22. Vili 1 25. X 6 7]. — M. Krascheninnikoff,
Epigraphisches, pp. 571-573 [1. Fifeltares? CIL. I 603 = IX
3513. Spiega con l(n)specta Be. — 2. Sefitius (socurtalis?).
CIL. IX 4549. Spiega: Sefitio (per Suffitio) S{enatus) C{onsidto)
Curiali]. — M. Manjtius, Zur lateinischen Sprichivorterlitte-
ratur, pp, 573-575 [Aggiunte da fare al libro di A. Otto, Die
Sprichicorter und sprichwortliche Bedensarten der i?ówer, Leipzig,
1890, da epistolografi dei sec. VI- Vili]. — P. Knapp, Zu Eu-
ripidea Kyhlops V. 152, pp. 575-576 [L' uso del verbo èK\a-
Tàaaeiv ivi si riporta al giuoco del cottabo {kottàbos) originario
della Sicilia, scena del dramma satirico euripideo].
Idem. 4. — Th. Zielinski, Excurse zu den Trachinierinnen,
pp. 577-633 [(Continuazione e fine) 7. L'oracolo (a proposito dei
vv. 164 sgg. e 821 sgg. Dal raffronto dei due luoghi si deduce
che l'azione della tragedia si svolge nel giorno precedente all'ul-
tima notte del mese di skiroforione). — 8. Deianira (l'introduzione
di lei rende varia l'azione del dramma sofocleo, richiamando nel
cerchio di questo altre leggende. Il poeta ha fuso la tragedia di
Deianira nella tragedia di Eracle). — 9. La parte o l'elemento
medicinale [Medicinisches] (del dramma, cioè la natura, l'origine e
la preparazione del veleno, che dette la morte ad Eracle; la sua
proprietà e l'azione esercitata su l'organismo dell'eroe. Tutti questi
elementi costituiscono la parte fisica della tragedia di Eracle). —
10. L'Eracle delle Trachinie (non è un eroe ' tragico ' nel senso
proprio della parola). — 11. Tempo della composizione (della tra-
gedia; i criterii formali e i reali conducono alla conclusione, a
cui l'autore era giunto alla fine della precedente serie degli ex-
cursus, che le Trachinie appartengono alla prima 'maniera' del
poeta, anzi sono 'forse il più antico dei drammi sofoclei da noi
posseduti, certamente non molto più giovane dell'Antigone'). Chiu-
dono lo studio tre indici: versi citati delle Trachinie; citazioni
di autori antichi ; e registro delle parole citate (negli excursus)].
— A. VON Premerstein, Ueher den Myfìios in Euripides' Heletie,
pp. 634-653 [Lo svolgimento del mito di Elena è rappresentato
graficamente da uno stemma, in cui compaiono i nomi di Esiodo,
Stesicoro, Erodoto, Euripide, Apollodoro, Licofrone. Erodoto sta a
sé; Stesicoro dipende da Esiodo, e da lui dipendono gli altri tre.
Quanto ad Euripide in particolare, egli ha tentato di inalzare su
~ 632 -
la base della poesia stesicorea l'edificio del dramma, valendosi (ma
con minor successo) degli stessi elementi che costituiscono l'azione
della sua Ifigenia in 'Tauride; quindi il mito, quale ò trattato da
lui, deriva da due fonti]. — E. Drerup, Zur TextgeschicMe des
Isokrates, pp. 654-688 [Rassegna dei codici principali e Icfro re-
ciproche relazioni, con richiami agli studi critici precedenti. È
presa specialmente in esame l'orazione a Demonico. Sono aggiunti
i fac-simili di una pagina del noto ms. urbinate del sec. X e del
Vaticano (gr.) 65 del 1063]. — R. Fdchs, 'YcpnTeic^eai, p. 688
[Dimostra, particolarmente con l'aiuto di Teofrasto Mst. plani.
\, 2, 3 che ùcpriTei(y0«i 'precedere' è usato anche nel senso di
praedictum esse]. — K. Kalbfleisch, Zu Galenos, pp. 689-694
[Note critiche ai due opuscoli di Galeno rrepl toiv lòiuuv PipXiuuv
e Tiepì TuJv éauTuj òokouvtujv]. — 0. E. Schmidt, Die liand-
schriftUche Ueherlieferung der Briefe Ciceros an Aiticus, pp, 695-
726 [Recensione del cosidetto ms. di Wiirzburg, della edizione
del Cratander (Basilea, 1528), del codice Tornesianus (così desi-
gnato dal nome del suo possessore, Jean Detournes di Lione, morto
il 1564) e dei mss. della tradizione italiana, nella quale figurano
i nomi del Petrarca e di Coluccio Salutati. Relazioni reciproche
dei vari codici e collazione di un passo col testo del Baiter]. —
Gr. ScHEPSS, Pseudepigraplia Boetliiana, pp. 727-731 [A proposito
delle affermazioni di A. L. Baur (1841. 1873) e di K. Halm (1863)
che le Inedita Boethiana (pubblicate da A. Mai in Class, aiict.
Ili 317 sgg. = MiGNE, Patrologia lat. LXIV, 1217 sgg.): " Com-
munis speculatio de rhetorioae cognatioìie' e ' Locorum rhetori-
corum distinctio' sono estratti dal IV libro * De differentiis to-
picis' di Boezio]. — J. L. Heiberg, BihliotheJcsnoti^en, pp. 732-
748 [1. Il ms. degli Evangeli a Siena. — 2. Mss. greci a Pia-
cenza, Bergamo, (Rovigo) e Montecassino. — 3. Codici Saviliani
(cioè del Savily, nella Bodleiana). — 4. Un inventario dell'archivio
di S. Pietro (conservato nella Casanatense: cod. miscellaneo XIV
39). — 5. Mss. greci in S. Giovanni e Paolo (Venezia) e in S. An-
tonio (Padova)]. — H. Stuart Jones, Zur Geschichte Athens,
pp. 749-751 [1. Arcìiestratos (il generale ateniese che secondo
Tucidide, I 57, prese parte alle prime operazioni contro Potidea
nel 432, e alla cui identità con altri personaggi omonimi accenna
il WiLAMOWiTz nel primo volume del suo « Aristoteles und
Athen », p. 68, nota 40). — 2. Drakontides (nome di tre per-
sonaggi storici ateniesi della fine del V sec.)]. — W. Schmid,
PaeiTava, zu Papyrus Grenfell nr. LUI, p, 751 [La parola si
riconnette probabilmente a Yaeiòapo(; (yaiòapoq), asino]. —
L. Mendelssohn, Zu»i grieclmcìien Lexicon : 1, àcppoviiZieiv.
2, òpaxniov. eÌKocrabpaxiuia, pp. 752-754 [Le due prime voci sono
da cancellare dal vocabolario greco; alla seconda va sostituita la
terza].
Idem. LVI. 1. 1897. — P. Hartwig, Oedipus ver der Sphinx,
eine PhlyaJcenscene, pp. 1-4 [È una delle varie caricature (altre
rappresentazioni-parodie della stessa leggenda su vasi furono pub-
— 633 —
blicate prima d'ora), proprie dell'arte figurativa della Bassa Italia,
del noto momento della Edipodea, il quale si prestava bene al
ridicolo. Si sa che Euripide scrisse un'Edipodea; e forse questa
scena è l'ultimo riflesso di una farsa, in cui era parodiata una
tragedia attica]. — F. Duemmler, SittengeschicUtliche Parallelen,
pp. 5-32 [La trattazione, secondo i casi più o meno ampia, ri-
guarda gli usi della nudità e dei piedi scalzi (si ricordino, per
la Grecia, i Selloi , sacerdoti del Zeus dodoneo) in cerimonie
sacre; le profezie di vario genere; l'evirazione; le funzioni perla
fondazione di città, specialmente in relazione con i responsi degli
oracoli e con il culto di questa o di quella divinità; le immagini
falliche degli dei e le processioni falliche ; i sacrifizi umani ; certi
usi nuziali ; le rappresentazioni divine ermafroditiche]. — R. Her-
zoG, Namensuhersetzungen unii Vertvandtes, pp. 33-70 [Studia :
I, Il nome nella forma nazionale; II, L'atteggiamento del suono
nella nuova lingua; III, La traduzione, incominciando dai nomi
mitologici semitici (fenici, sirii, giudei) quali si presentano nella
versione greca. Seguono i nomi egiziani e persiani (in greco), e
punici, iberici, greci in latino. La raccolta del materiale è molto
copiosa]. — Cr(usius), Anth. Pai. XI, 17, p. 70 [Breve com-
mento più specialmente esegetico]. — H. Lutz, Zur Gcschidite
KorJcyras, pp. 71-77 [1. La data della fondazione di Corcira
(23 anni dopo la fondazione di Siracusa, che avvenne nel 757).
— 2. Cipselo e i Oorciresi (gli oligarchi di Corinto rifugiatisi a
Corcira trovarono ivi ospitalità presso i Bacchiadi, loro consan-
guinei. Cipselo mosse contro questi e li vinse : e anche da Corcira
i Bacchiadi dovettero sgombrare). — 3. L'assedio di Corcira e la
deposizione di Timoteo (i due fatti accaddero nell'estate del 373)].
— 0. ScHROEDER, Pindarica, pp. 78-96 [III, Intorno alla genea-
logia dei mss. (Il riassunto occuperebbe troppo spazio ; mi limito
ad avvertire che il punto di partenza è la classificazione di Tycho
Mommsen: Primaniis (A), Secimdaniis (B), Tertiani (C, MNO),
Quartani (gli altri)]. — E. Hildebrandt, Zur Ueberlieferung
der Aetna, pp. 97-117 [a. Il cosidetto (codice) Gyraldinus (usato
dal Gyraldus, donde il nome, in De poet. Just. dial. IV p. 259.
Lugd. Batav. 1696) ora perduto, h. Il fragmentum Stahulense
(nel codice parigino 17177), che serve per correggere la lezione
del miglior ras. del poemetto, il Cantahrigiensis, non privo di
interpolazioni]. — W, Soltau, Ber Annalist Piso, pp. 118-129
[L'importanza di L. Calpurnio Pisone consiste specialmente in ciò,
che egli è una delle fonti principali di T. Livio per le decadi
III-V, dove anzi figura come il rappresentante degli annales ve-
tustiores. Livio trasse profitto dagli Annali pisoniani anche nella
sua seconda pentade; mentre le notizie annalistiche della prima,
caratterizzate da una grande semplicità, si riportano per la loro
omogeneità e relativa credibilità soltanto ad una ricostruzione uf-
ficiale, sistematicamente ordinata dell'antica storia di Roma. Ora
codeste notizie formano un anello di congiunzione {MiUelglied)
fra Pisone e le narrazioni retoriche dei più giovani annalisti del
- 634 —
tempo ciceroniano Macer e Tubero, e probabilmente furono de-
sunte direttamente da Antias (annalista contemporaneo di Siila),
indirettamente dagli Annales maximi]. — E. Schweder, Ueber
die Weltkarte und Chorograplde des Kaisers Augustus, II,
pp. 130-162 [Tratta della corografia romana come fonte principale
delle geografie di (Pomponio) Mela e di Plinio (il vecchio), in
parte per via di raffronti]. — C. Haeberlin, Plautus Asi-
naria 366, p. 162 [Propone promissum invece di promissatri].
— C. VON Jan, Der Musili-Schriftsteller Alhinus, pp. 163-166
[È ricordato da Cassiodoro nel libro De artibus ac disciplinis
liberalium Utterarum, e da Boezio (De institutione musica 1 26),
il quale accenna ad una teoria di cotesto Albino relativa alla
differenza di tono fra la voce di chi parla e di chi canta. Tale
teoria Albino deve averla derivata da fonte greca, forse da Ari-
stide Quintiliano. — In una breve appendice il Jan aggiunge che
l'accenno alla detta differenza si trova anche presso Marziano
Capella IX 941J. — Th. Baunack, Ziir Inschnft des Soarchos
von Lehena, pp. 167-171 [Fu pubblicata dal Halbherk nel Museo
italiano d'antichità classica III 730 sg. e dallo stesso Baunack
nel Philologus IXL 577 sg. 604 sg. Qui egli se ne occupa nuo-
vamente, illustrandola in vari modi, con speciale riguardo a ciò
che ne disse lo Zingerle in Athenische Mittlieiliingen XXI 84 sg.].
— C. Wdndeher, Ber Streit uni das Sprichwort AoKpoì tàq
auvGriKag, pp. 172-177 [Della questione tocca Polibio XII 12», il
quale riporta la spiegazione del proverbio a Timeo. Ora questa
spiegazione, che lo storico di Megalopoli attribuisce a Timeo, è del
paremiografo Demon ; l'altra (che si tratti non dei Locresi greci,
ma di quelli della Bassa Italia) è senza dubbio di Aristotele].
— A. MiiLLER, TTap€TKUKXr|)aa, pp. 178-182 [Designa un'indica-
zione speciale dell'azione comica, secondochè si deduce dalle spie-
gazioni degli scoliasti, e non ha nulla a che fare con 1' èKKÙ-
KXriiua]. — M. Thiel, Textkritisches zum 3. Buche der oracula
SihjlUna, pp. 182-184 [Proposte di emendamenti ai vv. 29 sgg.
254 sgg. 266 sgg. 705 (e 700)]. — R. Fuchs, Zu den
pseudhippokratischen Epidermen, pp. 184-187 [Spiega sotto il
rispetto medico due passi (ediz. del Littré V 76 e 132)]. — Lo
stesso, Kpfìai^, pp. 188-189 [Nota di luoghi d'Ippocrate, nei quali
occorre la forma Kpr\Oi<; {KpaLaic,)]. — C. AVunderer, ì)ie alteste
Eidesformel der Eumer {z. Polybius 3, 25, 6), pp. 189-192 [È
la formola òià XiGiuv (e non Aia XiGov, non ostante il lovem
lapidem turare, a cui accennano Cicerone, Gellio e Apuleio). Livio
ce ne dà una spiegazione in I 24 8: {Biespiter popidum romanum
sic ferito), ut ego himc porcum Me hodie feriani. È uno strascico
di un culto naturale, che varia poco da un feticismo ; il \\Qo<;,
sia una pietra meteorica (bolide) o una pietra focaia, fu venerato
quale dio].
Milano, 12 settembre 1897.
Domenico Bassi.
- 635
NECKOLOGIA
EUGENIO FERRAI
L'alba del 17 luglio u. s. apportò ad Eugenio Ferrai la libe-
razione da una vita di dolori. Lo accompagnò al gran passo il
lutto della scuola e della scienza, lo strazio dei figli, il ramma-
rico dei discepoli, il rimpianto di tutti i buoni: resta e durerà
la memoria della sua vita illibata, esemplare, del suo martirio
pressoché quadrilustre sopportato con rassegnazione di santo, con
serenità di filosofo, cui fu solo conforto l'amore della famiglia e
degli studi e la coscienza del dovere compiuto e delle buone
opere costantemente esercitate.
Eugenio Ferrai nacque in Arezzo il 22 febbraio 1832 dall'in-
gegnere Ferrai aretino e da Giulia Rosellini fiorentina figlia di
Massimina Fantastici-Kosellini poetessa e scrittrice, nipote di
Fortunata Sulgher improvvisatrice. Cominciò i suoi studi nel
convitto di Montepulciano, li compì alla scuola normale di Pisa,
donde uscì dottore il 9 luglio 1853. Passò quindi a insegnare
nel liceo di Firenze, e nel 1859 venne nominato supplente di
Letteratura Greca all' Università di Siena, dove fu confermato
come ordinario nel 1860. Nel 1865 fu segretario particolare del
Ministro Berti, e per incarico del governo compì un viaggio
all'estero allo scopo di studiare gli ordinamenti scolastici della
Francia, della Germania, dell' Inghilterra e dell' Olanda. Final-
mente con Decreto Eeale 6 dicembre 1866 fu trasferito all'Uni-
versità di Padova, dove rimase e insegnò con intelletto d'amore
fino ai suoi ultimi giorni, dove lascia eredità di dottrina e di
affetti e tesoro di esempi per la cattedra e per la vita.
Il Ferrai fu dei primi a introdurre in Italia il metodo critico
e a far conoscere i risultati principali degli studi d'oltr'Alpe,
va perciò meritamente annoverato tra i fondatori della nostra
filologia. Cominciò infatti dal tradurre la Grammatica Greca
del Dubner e in collaborazione con Giuseppe Mtiller la Storia
della Letteratura Greca di C. 0. Mtiller, che, non ostante le
sue molte primavere, è ancora sostanzialmente il miglior libro
di questo genere e il più adatto ad andar per le mani dei gio-
vani, purché qualcuno avesse la diligenza di correggervi quei
dati di fatto e quelle asserzioni che gli studi di quest'ultimo
mezzo secolo mostrarono inattendibili. Né fin dal primo periodo
— 636 -
della sua attività si limitò solo al tradurre, ma col Fiìotiete di
Sofocle e coi Commenti Socratici^ che pubblicò nella collezione
Aldina di Prato ch'egli dirigeva, abbandonando la vieta retorica,
segnò praticamente il nuovo indirizzo all'interpretazione dei testi.
Il quale indirizzo seguì con anche maggior sicurezza nei succes-
sivi commenti scolastici che pubblicò nella collezione Loescher
dal 1885 al 1891, quali sono V Apologia di Socrate, il Critone,
il Fedone, il Protagora, e il primo volume delle orazioni scelte
di Lisia, contenente quella contro Eratosiene e quella contro
Agoraio.
Ma l'opera principale, cui il Ferrai dedicò la sua maggiore
attività e che era insieme l'occupazione e il conforto della sua
vita, fu la traduzione di Platone e il relativo commentario scien-
tifico, lavoro ingente, intorno al quale in Italia nessuno che me-
riti essere ricordato, dopo Marsilio Ficino, potè reggere insino al
termine. E per compierlo egregiamente al Ferrai non mancava
né la dottrina filologica, né l'attività e l'entusiasmo, se non gli
fosse mancata la salute. Colpito nel colmo della virilità da una
fiera malattia che gli logorò progressivamente l'esistenza, affranto
dal dolore per l'immatura perdita della moglie ch'egli adorava,
pareva che la lena a tanta impresa gli fosse venuta meno, e dopo
i primi tre volumi, che si erano succeduti a breve distanza (1872,
1874, 1875), il quarto che contiene i Dialoghi della Repubblica
si fece aspettare parecchi anni (1883), e fu l'ultimo e il meno
perfetto dei pubblicati. La morte gli tolse di attendere alla
stampa del quinto, che era già pronto e dovea contenere il Timeo,
il Critia e il Fedone. Da quanto egli mi scriveva pochi mesi
innanzi morire, e mi vien confermato dai suoi figli, pare che sia
finita anche la traduzione degli altri dialoghi, e che del Politico,
delle Leggi e del Parmenide sia finito anche il commento. Si può
dire pertanto che sostanzialmente l'opera sia compiuta. Ciò che
la critica tedesca avea scritto di meglio intorno al divino filosofo
il Ferrai lo riassunse e lo trasfuse nel suo lavoro, e non trascu-
rando la parte filosofica, intorno alla quale molte generazioni di
pensatori dovranno ancora affaticarsi prima che tutto sia chiarito,
pose le basi della retta interpretazione, curando la critica del
testo e spianando la via col trattare le questioni di fatto, senza
risolver le quali sarebbe pericoloso accostarsi alla sostanza e al
concetto. La lingua toscana, naturale al Ferrai, fu docile stru-
mento nelle sue mani a riprodurre le finezze dell'originale e vi
sono parecchi squarci che si potrebbero citare a modello di tra-
duzione perfetta: si sa del resto che di Platone non é possibile
rendere interamente il pensiero esatto in alcuna lingua, e che
l'interprete deve accontentarsi di aiutarne l'intelligenza, non pre-
sumere di sostituirsi al testo greco. 11 merito dunque d'un lavoro
di questo genere va computato dalle difficoltà superate, non da
quelle che erano insuperabili: di vincerle tutte non poteva riu-
— 637 —
scire sempre al Ferrai, come non riuscì al Bonghi ; e tante volte
l'uno e l'altro si trovarono nella dura alternativa o di rinunciare
alla forma o di venir meno al concetto. Era questo un guaio
inerente alla stessa materia , e perciò a torto lo si imputerebbe
al traduttore.
Degli altri scritti del Ferrai ricorderò innanzi tutto quelli che
si riferiscono a speciali questioni platoniche, cioè una nota negli
Atti dell'Istituto Veneto del 1884: Belle relazioni che vogliono
stabilirsi tra il Biisiricle (V Isocrate e il Dialogo platonico dello
Stato, — e Del luogo del Teetetopag. 143 C preso come canone
alV ordinamento dei DialogJii di Fiatone (Padova 1886). Tra pa-
recchi altri d'argomento diverso citerò L'Ellenismo nello studio di
Padova, discorso inaugurale inserito nell'Annuario di quella Uni-
versità del 1876-77; Per V inaugurazione della sala della scuola
di magistero in lettere e filosofìa (Padova 1881); I frammenti
della Politeia di Aristotele nel papiro CLXIJl del Museo
Egizio di Berlino (Padova 1888); Di una istituzione giuridica
ateniese attestataci da Lisia (Padova 1890), e tre memorie in-
serite negli Atti dell'Istituto Veneto: L'epigrafìa e V amministra-
zione del culto nell'antichità greca (1890); Dell' 'AGnvaimv TTo-
XiTCÌa d'Aristotele recentemente scoperta (1892), e Un nuovo in-
terprete ed espositore degli epinici di Pindaro (1894). Kicorderò
per ultimo il recentissimo scritto Antonio Bosmini a Padova
pubblicato nel volume stampato in occasione del centenario del
filosofo di Rovereto, in seguito al quale venne nominato membro
ordinario dell'Accademia degli Agiati di quella città, ma non
visse tanto da riceverne la partecipazione.
E a molti altri illustri istituti appartenne il Ferrai e di molte
altre accademie fu membro, e fu insignito pure ^i parecchi or-
dini cavallereschi in tempi in cui questo poteva ancora essere
reputato un fregio desiderabile. Ma nessun fregio ebbe così proprio
e nessun onore così meritato, quanto il culto e la reverenza che
egli seppe ispirare nei suoi discepoli. Maestro appassionato e sa-
piente della schiera forse più numerosa di pubblici insegnanti
che abbiano dato in questo trentennio le nostre università, non
alla nuda e sterile ricerca egli li diresse, ma cercò a tutto potere
di trasfondere in loro il sacro fuoco dell'arte. Perciò la sua me-
moria è cara e benedetta da tutti, e specialmente venerata da
me scrittore, poiché per i suoi conforti mi sono potuto decidere
a diventar greco di barbaro, a preferire la vita dell'intelligenza
e le idealità del pensiero alla volgarità d' un gretto e inutile
utilitarismo.
G. Fraccaroli.
— 638 —
PUBBLICAZIONI RICEVUTE DALLA DIREZIONE
Pietro Rasi. Della così detta Patavinità di Tito Livio. Memoria, di pp. 27
(Estratto dai « Rendiconti » del R. Ist. Lomb. di se. e lett. Serie II,
Voi. XXX, 1897).
Paolo Segato. Gli elementi ritmici di Aristosseno tradotti ed illustrati.
Feltre, Lito-tipografia P. Gastaldi, 1897, di pp. VI-58.
G. 0. ZuRETTi. Per la critica del Physiologus greco (Estratto dagli « Studi
italiani di Filologia classica », Voi. V, pp. 113-219).
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B. G. Teubner, MDGCGXGII, di pp. VIII-161.
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Lipsiae, B. G. Teubner, MDCCGXGV, di pp. XIII-130.
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plectens. Lipsiae, B. G. Teubner, MDCCGXGV, di pp. XVIII-222.
Fasciculus V Mostellariam, Persam, Poenulum complectens. Lipsiae,
B. G. Teubner, MDGCGXCVI, di pp. XI-207.
Fasciculus VI Pseudolum, Rudentem, Stichum complectens. Lipsiae,
B. G. Teubner, MDGCGXCVI, di pp. XXI-212.
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Lipsiae, B. G. Teubner, MDGGCXCVI, di pp. XVIlI-165.
Platons Ausgevràhlte Dialoge erklàrt von Hermann Sauppe. Drittes Bànd-
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Tacitus. Germania, Erklàrt von U. Zernial. Zweite verbesserte Auflage, mit
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Die CoRNUTUs-Scholien zum ersten Buche der Satiren Juvenals, herausge-
geben von Wilhelm Hòhler. Leipzig, Teubner, 1896 (Besonderer Ab-
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Pietro Ussello, gerente responsabile
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9 istruzione classica
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