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Full text of "Storia della letteratura italiana"

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STORIA 


DELLA 


LEHERATURA  ITALIANA 


DI 


FRANCESCO  DE  SANCTIS 


QixoLrtoL  JEcLtztorce. 

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NAPOLI 

CAV.  ANTONIO  MORANO,  EDITORE 
371.  Via  Roma,  372 
1890. 


f  %i\\m  mttit  tfte  mnU  Umpntt  mt  le  formalità 
^H$miit  Mh  Um  Attila  p^mih  kiimm.  mUnie  u\m\ 
della  p0Ut\m  t|e  le  leg^i  $Um  umUm. 


STORIA  DELLA  LETTERATURA  ITALIANA 


I  SICILIAxNI 

Il  più  antico  documento  della  nostra  letteratura  è  co- 
munemente creduta  la  Cantilena  o  Canzone  di  Giulio  (di- 
minutivo di  Vincenzo)  di  Alcamo,  e  una  Canzone  di  Fol- 
cacchiero  da  Siena. 

Quale  delle  due  canzoni  sia  anteriore,  è  cosa  puerile 
disputare,  essendo  esse  non  principio,  ma  parte  di  tutta 
un'  epoca  letteraria,  cominciata  assai  prima,  e  giunta  al 
suo  splendore  sotto  Federico  II  da  cui  prese  il  nome. 

Federico  II,  Imperatore  d'Alemagna  e  Re  di  Sicilia, 
chiamato  da  Dante  cherico  grande,  cioè  uomo  dottissi- 
mo, fu,  come  leggesi  nel  Novellino,  nobilissimo  signore, 
nella  cui  corte  a  Palermo  venia  la  gente  che  avea  bou- 
tade, sonatori,  trovatori  e  belli  favellatori.  E  perciò 
i  rimatori  di  quel  tempo,  ancorché  parecchi  sieno  d' altra 
parte  d'Italia,  furono  detti  siciliani. 

Che  cosa  ò  la  cantilena  di  Ciullo? 

È  una  tenzone,  o  dialogo  tra  Amante  e  Madonna. 
Amante  che  chiede,  e  Madonna  che  nega  e  nega,  e  in 
ultimo  concede,  tema  frequentissimo  nelle  Canzoni  popo- 
lari di  tutti  i  tempi  e  luoghi,  e  che  trovo  anche  oggi  a 
Firenze  nella  CaHZone  tra  il  Frustino  e  la  Crestaia. 

De  Sanctis  -  Leu.  Ital.  Voi.  I.  1 


Ciascuna  domanda  e  risposta  è  in  una  strofa  di  otto 
versi,  sei  settenari,  di  cui  tre  sdruccioli  e  tre  rimati,  e 
chiusi  da  due  endecasillabi  rimati.  La  lingua  è  ancor 
rozza  e  incerta  nelle  forme  grammaticali  e  nelle  desi- 
nenze, mescolata  di  voci  siciliane,  napolitane,  provenzali, 
francesi,  latine.  Diamo  ad  esempio  due  strofe: 

Amante — Molte  sono  le  femine 

Che  hanno  dura  la  testa  \ 

E  r  uomo  con  parabole  ^ 

Le  elimina  ^  e  ammonesta  *: 

Tanto  intorno  percacciale  ^ 

Sinché  l'ha  in  sua  podestà  ^ 

Femina  d'uomo  non  si  può  tenere. 

Guardati,  bella^  pur  di  ripentere^ 
Madonna —Che  eo  ^  me  ne  pentisse  ^ 

Davanti  ^^  foss'io  auccisa  *', 

Ca  nulla  buona  femina 

Per  me  fosse  riprisa  '^ 

Er  sera  ^^  ci  passasti 

Correnno  '*  a  la  dìstisa  '^ 


1  Sono  ostinate. 

2  Parabole  o  parade,  parole.  Nel  basso  latino  si  dice  parabola. 

3  Dimlna,  come  dimino  per  domino  o  dominio. 

4  Persuade,  ammonisce.  In  provenzale  e  spagnuolo  si  dice  admonestar. 

5  Percacciare,  dar  la  caccia:  in  provenzale  percassar. 

6  Potestas,  podestà,  come  majestas,  maestà. 

7  Pentere,  ripentere  dal  latino  poenitere. 

8  Eo  da  ego,  come  meo  da  weus,  abl.  meo. 

9  Pentessi,  pentissi:  desinenza  conforme  alla  latina  poenituìsset. 

10  Piuttosto,  o  innanzi  :  in  provenzale  davant. 

W  In  napoletano,  acciso,  nel  basso  latino  aucìr,  nel  provenzale  aucìre 
e  aucis,  neir  antico  francese  occire. 

12  Nel  basso  latino  prisKs  e  riprisus,  in  siciliano  prisu  e  riprisxi, 
Cà  vuol  dire  che,o  perchè,  ed  è  napoletano. 

13  Ieri  sera:  in  provenzale  er  ser,  dal  latino  heri  sero. 

14  Correnno,  forma   napoletana,  qnanno ,  triunno  .    dicenno,   cor- 
renvo  ecc. 

15  Alla  dìstisa,  alla. distesa,  a  tutta  corsa. 


—  3  — 

Acquistiti  '  riposo,  canzoneri  ^: 

Le  tue  parade  '  a  me  non  piaccion  guori  *. 

La  canzone  è  tirata  giù  tutta  d'  un  fiato,  piena  di  na- 
turalezza e  di  brio  e  di  movimenti  drammatici,  rapida, 
tutta  cose,  senza  ombra  di  artificio  e  di  rettorica.  Ci  è 
una  finezza  e  gentilezza  di  concetti  in  forma  ancor  greg- 
gia ,  ineducata.  E  perciò  il  documento  è  più  prezioso, 
perchè  se  l' ingegno  del  poeta  apparisce  •  nei  concetti  e 
ne'  sentimenti  e  nelF  andamento  vivo  e  rapido  del  dialo- 
go, la  forma  è  quasi  impersonale,  ritratto  immediaco  e 
genuino  di  quel  tempo. 

E  studiando  in  quella  forma,  è  facile  indurre  che  c'era 
allora  già  la  nuova  lingua,  non  ancora  formata  e  fissata, 
ma  tale  che  non  solo  si  parlava,  ma  si  scriveva;  e  e'  era 
pure  una  scuola  poetica  col  suo  repertorio  di  frasi  e  di 
concetti ,  e  con  le  sue  forme  tecniche  e  metriche  già 
fissate. 

Chi  sa  quanto  tempo  si  richiede  perchè  una  lingua 
nuova  acquisti  una  certa  forma ,  che  la  rende  atta  ad 
essere  scritta  e  cantata  ,  può  fars^  capace,  che  la  lin- 
gua di  Giulio,  ancoraché  in  uno  stato  ancora  di  forma- 
zione, dovea  già  essere  usata  da  parecchi  secoli  indietro. 

E  ci  volle  anche  almeno  un  secolo,  perchè  fosse  pos- 
sibile una  scuola  poetica,  giunta  allora  all'ultimo  grado 
della  sua  storia,  quando  i  concetti,  i  sentimenti  e  le  forme 
diventano  immobili  come  un  dizionario,  e  sono  in  tutti 
i  medesimi. 

Come  e  quando  la  lingua  latina  sia  ita  in  deccJtnposi- 


1  Acquistiti  in  luogo  di  acquistati,  desinenza  dell'imperativo  usata 
anche  oggi  in  parecchi  luoghi  :  acquistiti  riposo^  vuol  dire:  vattene  in 
pare,  ritirati,  e  finiscila,  acquetati. 

2  Canzoneri,  canzonerò,  canzonere,  vuol  dire  canzonatore ,  burlatore. 

3  Paraole  o  parabole,  in  provenzale  paraidas. 

4  Gueri.  o,  come  è  in  Brunetto  Latini,  guero,  guari,  punto  ,  niente 
affatto,  in  francese  guère. 


—  4  — 

zione,  quali  erano  i  dialetti  usati  dalle  varie  plebi,  come 
quando  siensi  formate  le  lingue  nuove  o  moderne  neo- 
latine, quando  e  come  siesi  formato  il  nostro  volgare,  si 
può  concetturare  con  più  o  meno  di  verisimiglianza,  ma 
non  si  può  affermare,  per  la  insufficienza  de'  documenti. 
Oltreché,  non  è  questo  il  luogo  di  esaminare  e  chiarire 
quistioni  filologiche  di  cosi  alto  interesse  ,  materia  non 
ancora  esausta  di  sottili  e  appassionate  discussioni. 

Si  possono  affermare  alcuni  fatti. 

La  lingua  latina  fu  sempre  in  uso  presso  la  parte  colta 
della  Nazione,  parlata  e  scritta  da'  chierici,  dai  dottori, 
da'  professori  e  da'  discepoli.  Ricordano  Malespini  dice  che 
Federico  II  seppe  la  lingua  nostra  latina  è  il  nostro 
volgare. 

Ci  erano  dunque  due  lingue  nostre  nazionali,  il  latino 
e  il  volgare.  E  che  accanto  al  latino  ci  fosse  il  volga- 
re, parlato  nell'uso  comune  della  vita,  si  vede  pure  dai 
contratti  e  istrumenti  scritti  in  un  latino  che  pare  una 
traduzione  dal  volgare,  e  dove  spesso  accanto  alla  voce 
latina ,  trovi  la  voce  in  uso  con  un  :  vulgo  diciiur ,  o 
dicto. 

Questo  volgare  non  era  in  fondo  che  lo  stesso  latino, 
come  erasi  ito  trasformando  nel  linguaggio  comune,  detto 
il  romano  rustico.  Neil' 812  il  Concilio  di  Torsi  racco- 
manda ai  preti  di  affaticarsi  a  dichiarare  le  omelie  in 
lingua  romana  rustica.  Questa  lingua  romana  o  ro- 
manza, dice  Erasmo,  presso  gli  spagnuoli,  gli  africani,  i 
galli  e  le  altre  romane  province  era  cosi  nota  alla  plebe, 
che  gif  ultimi  artigiani  intendevano  chi  la  parlasse,  solo 
che  l"  oratorie  si  fosse  accostato  alla  guisa  del  volgo. 
Il  volgo  dunque  parlava  un  dialetto  molto  simile  al  ro- 
mano, e  similissimo  a  questo  dovea  essere  il  nostro  vol- 
gare, anzi  quasi  non  altro  che  questo,  uno  nelle  sue  forme 
sostanziaU,  vario  ne'  diversi  dialetti,  quanto  alle  sue  parti 
accidentali,  come  desinenze,  accenti,  affissi  ec.  C  era  dun- 


-que  un  tipo  unico,  presente  in  tutte  le  lingue  neo-lati- 
ne, e  più  prossimo,  come  nota  Leibnizio,  alla  lingua  ita- 
lica, che  ad  alcun' altro. 

Con  lo  scemare  della  coltura  prevalsero  i  dialetti.  Per 
le  chiese,  per  le  scuole,  negli  atti  pubblici  era  usato  un 
latino  barbaro,  molto  simile  alla  lingua  del  volgo.  Nel- 
l'uso comune  il  volgare  non  era  parlato  in  nessuna  parte, 
ma  era  dappertutto,  come  il  tipo  unico,  a  cui  s'informa- 
vano i  dialetti  e  che  li  certificava  di  una  sola  famiglia. 
Questo  tipo  o  carattere  de'  nostri  dialetti  appare  e  nella 
somiglianza  de'  vocaboli  e  delle  forme  grammaticali,  e  nei 
mezzi  musicali  e  analitici  sostituiti  alla  prosodia  e  alle 
forme  sintetiche  della  lingua  latina.  Il  nome  generico  della 
nuova  lingua,  come  segno  di  distinzione  dal  latino,  era 
il  volgare.  Così  Malespini  dicea:  «  la  nostra  lingua  la- 
tina e  il  nostro  volgare  »,  cioè  la  nuova  lingua  parlata 
in  tutta  Italia  dal  volgo  ne'  suoi  dialetti. 

Con  lo  svegliarsi  della  coltura,  se  parecchi  dialetti  ri- 
masero rozzi  e  barbari,  come  le  genti,  che  li  parlavano, 
altri  si  pulirono  con  tendenza  visibile  a  svilupparsi  da- 
gli elementi  locali  e  plebei,  e  prendere  un  colore  e  una 
tìsonomia  civile  ,  accostandosi  a  quel  tipo  o  ideale  co- 
mune fra  tante  variazioni  municipali,  che  non  si  era  per- 
duto mai,  che  era  come  criterio  a  distinguere  fra  loro  i 
dialetti  più  o  meno  conformi  a  quello  stampo,  *e  che  si 
diceva  il  volgare,  così  prossimo  al  romano  rustico. 

Proprio  della  coltura  è  suscitare  nuove  idee  e  bisogni 
meno  materiali,  formare  una  classe  di  cittadini  più  edu- 
cata e  civile,  metterla  in  comunicazione  con  la  coltura 
straniera,  avvicinare  e  accomunare  le  lingue,  sviluppando 
in  esse  non  quello  che  è  locale,  ma  quello  che  è  comune. 

La  coltura  italiana  produsse  questo  doppio  fenomeno: 
la  ristaurazione  del  latino  e  la  formazione  del  volgare. 
Le  classi  più  civili  da  una  parte  si  studiarono  di  scri- 
vere in  un  latino  meno  guasto  e  scorretto,  dall'  altra,  ad 


esprimere  i  sentimenti  più  intimi  e  familiari  della  nuova 
vita,  lasciando  alla  spregiata  plebe  i  natii  dialetti,  cer- 
carono forme  di  dire  più  gentili,  un  linguaggio  comune, 
dove  appare  ancora  questo  o  quel  dialetto  ,  ma  ci  si 
sente  già  uno  sforzo  ad  allontanarsene  e  prendere  que- 
gli abiti  e  quei  modi  più  in  uso  fra  la  gente  educata  e 
che  meglio  la  distingua  dalla  plebe. 

Questo  linguaggio  comune  si  forma  più  facilmente  dove 
sia  un  gran  centro  di  coltura  ,  che  avvicini  le  classi 
colte,  e  sia  come  il  convegno  degli  uomini  più  illustri. 
Questo  fu  a  Palermo,  nella  Corte  di  Federico  li,  dove 
convenivano  siciliani,  pugliesi,  toscani,  romagnoli,  o  per 
dirla  col  Novellino,  dove  la  gente'  che  avea  bontade  ve- 
nia a  lui  da  tutte  le  parti. 

Il  dialetto  siciliano  era  già  sopra  agli  altri,  come  confessa 
Dante.  E  in  Siciha  troviamo  appunto  un  volgare  cantato 
e  scritto,  che  non  è  più  dialetto  siciliano,  e  non  è  an- 
cora lingua  italiana,  ma  è  già,  malgrado  gli  elementi  lo- 
cali, un  parlare  comune  a  tutti  i  rimatori  italiani,  e  che 
tende  più  e  più  a  scostarsi  dal  particolare  del  dialetto, 
e  divenire  il  linguaggio  delle  persone  civili. 

La  Sicilia  avea  avuto  già  due  grandi  epoche  di  col- 
tura, l'araba  e  la  normanna.  Il  mondo  fantastico  e  vo- 
luttuoso  orientale  vi  era  penetrato  con  gli  arabi,  e  il  mondo 
cavalleresco  germanico  vi  era  penetrato  co'  normanni, 
che  ebbero  parte  così  splendida  nelle  crociate.  Ivi  più  che 
in  altre  parti  d' Italia  erano  vive  le  impressioni ,  le  ri- 
membranze e  i  sentimenti  di  quella  grande  epoca  da  Gof- 
fredo a  Saladino;  i  canti  de'  Trovatori,  le  novelle  orien- 
tali, la  tavola  Rotonda,  un  contatto  immediato  con  popoli 
cosi  diversi  di  vita  e  di  coltura,  avea  colpito  le  imma- 
ginazioni e  svegliata  la  vita  intellettuale  e  morale.  La 
Sicilia  divenne  il  centro  della  coltura  italiana.  Fin  dal 
1166  nella  corte  del  normanno  Guglielmo  II  convenivano 
i  trovatori  italiani.  Sotto  Federico  II l' Italia  colta  avea 


la  sua  capitale  in  Palermo.  Tutti  gli  scrittori  si  chiama- 
vano siciliani.  Cronache,  trattati  scrivevano  in  un  latino 
già  meno  rozzo,  anzi  ricercato  e  pretensioso,  come  si  vede 
nel  Falcando.  I  sentimenti  e  le  idee  nuove  avevano  la 
loro  espressione  in  quel  romano  rustico  ,  fondo  comune 
di  tutt'i  dialetti  e  divenuto  il  parlare  della  gente  colta,  il 
volgare,  di  tutt'  i  volgari  moderni  il  più  simile  al  latino. 

La  lingua  di  Giulio  non  è  dialetto  siciliano,  ma  già  il 
volgare,  com'  era  usato  in  tutt'  i  trovatori  italiani,  an- 
cora barbaro  ,  incerto  e  mescolato  di  elementi  locali , 
materia  ancora  greggia. 

Vi  si  trova  una  forma  poetica  molto  artificiosa  e  mu- 
sicale, con  un  gioco  assai  bene  inteso  di  rime,  e  grande 
ricchezza  e  spontaneità  di  forme  e  di  concetti.  Per  giun- 
gere fin  qui  è  stato  necessario  un  lungo  periodo  di  ela- 
borazione. Giulio  è  r  eco  ancora  plebea  di  quella  vita  nuova 
svegliatasi  in  Europa  al  tempo  delle  Grociate,  e  che  avea 
avuta  la  sua  espressione  anche  in  Italia,  e  massime  nella 
normanna  Sicilia.  Di  quella  vita  un'espressione  ancor  sem- 
plice e  immediata ,  ma  più  nobile ,  più  diretta  ,  e  meno 
locale  è  nella  Romanza  attribuita  al  re  di  Gerusalemme, 
0  nel  lamento  dell'  amante  del  Crociato ,  di  Rinaldo  di 
Aquino.  Sentimenti  gentili  e  affettuosi  sono  qui  espressi' 
in  lingua  schietta  e  di  un  pretto  stampo  italiano,  con  sem- 
plicità e  verità  di  stile  ,  con  melodia  soave.  Cantato  e 
accompagnato  da  istrumenti  musicali,  questo  sonetto, 
come  lo  chiama  l' innamorata,  dovea  fare  la  più  grande 
impressione.  Comincia  così  : 

Giammai  non  mi  conforto 
Né  mi  voglio  allegrare. 
Le  navi  sono  al  porto 
E  vogliono  collare. 
Vassene  la  più  gente 
In  terra  d'  oltremare. 
Ed  io,  cimò  lassa  dolente  I 


—  8  — 

Come  degg'  io  fare! 
Vassene  in  altra  contrata, 
E  noi  mi  manda  a  dire: 
Ed  io  rimango  ingannata. 
Tanti  son  li  sospire 
Che  mi  fanno  gran  guerra 
La  notte  con  la  dia; 
Né  in  cielo  ne  in  terra 
Non  mi  par  ch'io  sia. 

In  seguito  della  canzone  è  una  tenera  e  naturale  me- 
scolanza di  preghiere  e  di  lamenti,  ora  raccomandando 
a  Dio  r  amato,  ora  dolendosi  con  la  croce  : 

La  croce  mi  fa  dolente, 
E  non  mi  vai  Deo  pregare. 
Oimè,  croce  pellegrina, 
Perchè  m'hai  così  distrutta? 
Oimè  lassa  tapina  ! 
Ch'  io  ardo  e  incendo  tutta. 

Finisce  cosi  : 

Però  ti  prego,  Dolcetto, 

Che  sai  la  pena  mia, 

Che  me  ne  facci  un  sonetto 

E  mandilo  in  Scria  : 

Ch'  io  non  posso  abentare 

Notte,  né  dia  : 

In  terra  d' oltremare 

Ita  è  la  vita  mia. 

La  lezione  è  scorretta;  pure,  questa  è  già  lingua  ita- 
liana ,  e  molto  sviluppata  ne'  suoi  elementi  musicali  e 
ne'  suoi  lineamenti  essenziali. 

L'  amante  che  prega  e  chiede  amore,  l' innamorata  che 
lamenta  la  lontananza  dell'  amato,  o  che  teme  di  essere 
abbandonata ,  le  punture  e  le  gioie  dell'  amore  ,  sono  i 
temi  semplici   de'  canti  popolari ,  la  prima   effusione  del 


—  0  — 

cuore  messo  in  agitazione  dall'amore.  E  queste  poesie, 
come  le  più  semplici  e  spontanee,  sono  anche  le  più  af- 
fettuose e  le  più  sincere.  Sono  le  prime  impressioni,  sen- 
timenti giovani  e  nuovi,  poetici  per  sé  stessi,  non  ancora 
analizzati  e  raffinati. 

Di  tal  natura  è  il  lamento  dell'innamorato  per  la  par- 
tenza in  Seria  della  sua  amata,  di  Ruggerone  da  Paler- 
mo, e  il  canto  di  Odo  delle  Colonne,  da  Messina,  dove 
r  innamorata  con  dolci  lamenti  effonde  la  sua  pena  e  la 
sua  gelosia.  Eccone  il  principio  : 

Oi  lassa  innaraorafa, 

Contar  vo'  lo  mia  vita, 

E  dire  ogni  fiata 

Come  l'amor  m'invita, 

Ch'  io  son,  senza  peccata, 

D'  assai  pene  guernita 

Per  uno  che  amo  e  voglio, 

E  non  aggo  in  mia  baglia  i, 

Siccome  avere  io  soglio  ; 

Però  pato  travaglia; 

Ed  or  mi  mena  orgoglio, 

Lo  cor  mi  fende  e  taglia. 
0*  lassa  tapinella, 

Come  l'amor  m'ha  prisa! 

Come  lo  cor  m' infella 

Quello  che  m'ha  conquisa! 

La  sua  persona  bella 

Tolto  m'ha  gioco  e  risa, 

Ed  hammi  messa  in  pena 

Ed  in  tormento  forte: 

Mai  non  credo  aver  bene, 

Se  non  m'accorre  morte, 

E  spero,  là  che  vene; 

Traggami  d'està  sorte. 


1  Baglia,  balia. 


—  10  — 

Lassa  che  mi  dicìa, 

Quando  m'  avìa  in  celato: 
«  Di  te,  0  vita  mia, 
«  Mi  tegno  più  pagato. 
«  Che  s'  io  avessi  in  balìa 
«  Lo  mondo  a  signorato  ». 

Sono  sentimenti  elementari  e  irriflessi ,  che  sbuccian 
fuori  nella  loro  natia  integrità  senza  immagini  e  senza 
concetti.  Non  ci  è  poeta  di  quel  tempo,  anche  trai  meno 
naturali,  dove  non  trovi  qualche  esempio  di  questa  for- 
ma primitiva,  elementare,  a  suon  di  natura,  come  dice 
un  poeta  popolare,  e  com'  è  una  prima  e  subita  impres- 
sione colta  nella  sua  sincerità.  Ed  è  allora  che  la  lingua 
esce  cosi  viva,  e  propria  e  musicale  che  serba  una  im- 
mortale freschezza,  e  la  diresti  pur  mó'  nata,  e  fa  con- 
trasto con  altre  parti  ispide  dello  stesso  canto.  Rozza 
assai  è  una  canzone  di  Enzo  Re  ;  ma  chi  ha  pazienza  di 
leggerla,  vi  trova  questa  gemma  : 

Giorno  non  ho  di  posa, 

Come  nel  mare  l'onda: 

Core,  che  non  ti  smembri! 

Esci  di  pene  e  dal  corpo  ti  parte; 

Che  assai  vai  meglio  un'  ora 

Morir,  che  ognor  penare. 

Rozzissima  è  una  canzone  di  Folco  di  Calabria,  paeta  as- 
sai antico;  ma  nella  fine  trovi  lo  stesso  sentimento  in 
una  forma  certo  lontana  da  questa  perfezione,  pur  sem- 
plice e  sincera  : 

Perzò  meglio  varria 
Morir  in  tutto  in  tutto, 
Ch'  usar  li  vita  mia 
In  pena  ed  in  corrutto, 
Come  uomo  languente. 


—  l]  — 

Nella  canzone  a  stampa  di  Folcaccbiero  da  Siena,  fredda 
e  stentata,  è  pure  qua  e  colà  una  certa  grazia  nella  nuda 
ingenuità  di  sentimenti  che  vengon  fuori  nella  loro  cru- 
dità elementare.  Udite  questi  versi: 

Ei  par  eli' 60  viva  in  noja  della  gente 

Ogni  uomo  m' è  selvaggio  : 

ISon  pajono  li  fiori 

Per  me,  com'  già  solcano, 

E  gli  augei  per  amori 

Dolci  versi  facoano  agli  albori. 

Questi  fenomeni  amowsi  sono  a  lui  cosa  nuova,  che  lo 
empiono  di  maraviglia,  e  lo  commuovono  e  lo  interes- 
sano, senza  eh'  ei  senta  bisogno  di  svilupparli  o  di  ab- 
bellirli. Narra,  non  rappresenta,  e  non  descrive.  Non  è 
ancora  la  storia,  è  la  cronaca  del  suo  cuore. 

Però  niente  è  in  questi  che  per  ingenuità  e  sponta- 
neità di  forma  è  di  sentimento  uguagli  il  canto  di  Ri- 
naldo di  Aquino  o  di  Odo  delle  Colonne.  Sono  due  esempli 
.notevoli  di  schietta  e  naturale  poesia  popolare. 

Ma  la  coltura  siciliana  avea  un  peccato  originale.  Ve- 
nuta dal  di  fuori,  quella  vita  cavalleresca,  mescolata  di 
colori  e  rimembranze  orientali,  non  avea  riscontro  nella 
vita  nazionale.  La  gaja  scienza,  il  codice  d'  amore,  i  ro- 
manzi della  Tavola  Rotojida,  i  Reali  di  Francia,  le  no- 
velle arabe,  Tristano,  Isotta,  Carlomagno  e  Saladino,  il 
Soldano,  tutto  questo  era  penetrato  in  Italia,  e  se  col- 
piva r  immaginazione,  rimaneva  estraneo  all'  anima  e  alla 
vita  reale.  Nelle  corti  ce  ne  fu  V  imitazione.  Avemmo  an- 
che noi  i  Trovatori,  i  giullari  e  i  novellatori.  Vennero 
in  voga  traduzioni,  imitazioni,  contraffazioni  di  poemi,  ro- 
manzi, rime  cavalleresche.  L' intelligenzia,  poema  in  nona 
rima  ultimamente  scoperto,  è  una  imitazione  di  sirail  ge- 
nere. L'amore  divenne  un'  arte,  col  suo  codice  di  leggi 
e  costumi.  Non  ci  fu  più  questa  o  quella  donna,  ma  la  donna 


—  12  — 

con  forme  e  lineamenti  fissati,  cosi  come  era  concepita 
ne'  libri  di  cavalleria.  Tutte  le  donne  sono  simili.  E  cosi 
gli  uomini  :  tutti  sono  il  cavaliere ,  con  sentimenti  fat- 
tizii  e  attinti  da'  libri.  Ma  il  movimento  si  formò  negli 
strati  superiori  della  società ,  e  non  penetrò  molto  ad- 
dentro nel  popolo,  e  non  durò.  Forse,  se  la  Casa  Sveva 
avesse  avuto  il  di  sopra,  questa  vita  cavalleresca  e  feu- 
dale sarebbe  divenuta  italiana.  Ma  la  caduta  di  Casa 
Sveva  e  la  vittoria  de'  Comuni  nell'  Italia  centrale  fecero 
della  cavalleria  un  mondo  fantastico,  simile  a  quel  fa- 
voleggiare di  Roma,  di  Fiesole  e  di  Troja. 

Essendo  idee,  sentimenti  e  immagini  una  merce  bella 
e  fatta ,  non  trovate  e  non  lavorate  *da  noi,  si  trovano 
messe  li,  come  tolto  di  peso,  con  manifesto  contrasto  tra 
la  forma  ancor  rozza  e  i  concetti  peregrini  o  raffinati. 
Sono  concetti  scompagnati  dal  sentimento  che  li  produsse, 
e  che  non  generano  alcuna  impressione.  Quando  vengono 
sotto  la  penna,  il  cervello  e  il  cuore  sono  tranquilli.  II 
poeta  dice  che  amore  lo  fa  trovare,  lo  rende  un  trova- 
tore; ma  è  un  amore,  come  lo  trova  scritto  nel  codice 
e  ne'  testi,  né  ti  è  dato  sentire  ne'  suoi  versi  una  tra- 
gedia sua,  le  sue  agitazioni.  Le  reminiscenze,  le  idee  di 
voga  ^\\  tengono  luogo  d'ispirazione.  Sono  migliaia  di 
poesie,  tutte  di  un  contenuto  e  di  un  colore,  cosi  somi- 
glianti che  spesso  sei  impacciato  a  dire  il  tempo  e  l' au- 
tore del  canto,  ove  ne'  codici  sia  discordanza  o  silenzio: 
ciò  che  non  di  rado  accade.  La  poesia  non  è  una  pre- 
potente effusione  dell'anima,  ma  una  distrazione,  un  sol- 
lazzo, un  diporto,  una  moda,  una  galanteria.  È  un  pas- 
satempo, come  erano  le  corti  di  amore,  è  la  gaia  scienza, 
un  modo  di  passarsela  allegramente,  e  acquistarsi  facile 
riputazione  di  spirito  e  di  coltura,  facendo  sfoggio  della 
dottrina  d'amore;  e  chi  più  mostrava  saperne,  era  più 
ammirato.  Invano  cerchi  ne'  canti  di  Federigo,  di  Enzo, 
di  Manfredi,  di  Pier  delle  Vigne  le  preoccupazioni'  o  le 


—  13  — 

agitazioni  della  loro  vita;  vi  trovi  il  solito  codice  d'a- 
more, con  le  stesse  generalità.  L'arte  diviene  un  me- 
stiere, il  poeta  diviene  un  dilettante;  tutto  è  convenzio- 
nale, concetti,  frase,  forme,  metri:  un  meccanismo  che 
dovea  destare  grande  ammirazione  nel  volgo,  specialmente 
usato  dalle  donne;  la  Nina  Siciliana  e  la  compiuta  Don- 
zella fiorentina  dovettero  parere  un  miracolo. 

Quello  che  avvenne  si  può  indovinare.  Migliori  poeti 
son  quelU  che  scrivono  senza  guardare  all'effetto  e  senza 
pretensione,  a  diletto  e  a  sfogo  ,  e  come  viene.  Anche 
nelle  poesie  più  rozze  trovi  bei  movimenti  di  affetto  e  di 
immaginazione,  con  una  gentilezza  e  leggiadria  di  forma, 
che  viene  dal  di  dentro.  Sono  più  vicini  al  sentimento 
popolare  e  alla  natura.  Ma  quando  vai  su,  quando  ti  ac- 
costi a  quella  poesia  che  Dante  chiama  aulica  e  cortigiana, 
ti  trovi  già  lontano  dal  vero  e  dalla  natura,  ed  hai  tutti 
i  difetti  di  una  scuola  poetica,  nata  e  formata  fuori  d'I- 
talia, e  già  meccanizzata  e  raffinata.  Hai  tutt'i  difetti 
della  decadenza,  un  secentismo  che  infetta  l'arte  ancora 
in  culla.  Ci  è  già  un  repertorio.  Il  poeta  dotto  non  prende 
quei  concetti,  cosi  crudi  e  nudi,  come  fanno  i  rozzi  nella 
loro  semplicità,  ma  per  fare  effetto  li  assottiglia  e  li  esa- 
gera. Nei  rozzi  non  ci  è  alcun  lavoro  :  in  questi  un  la- 
voro c'è,  ma  freddo  e  meccanico.  Concetti,  i  immagini, 
sentimenti,  frasi,  metri,  rime,  tutto  è  sforzato,  tormen- 
tato, oltrepassato,  si  che  il  lettore  ammiri  la  dottrina, 
lo  spirito  e  le  difficoltà  superate.  Trovi  insieme  rozzezza 
e  affettazione.  La  lingua  ancor  giovane  non  è  raffinata, 
come  il  concetto,  e  scopre  l' artificio  di  un  lavoro;  a  cui 
rimane  estranea.  E  fosse  almeno  originale  questo  lavoro, 
si  che  rivelasse  nel  poeta  una  vera  svogliatezza  e  attività 
dello  spirito!  Ma  è  un  seicentismo  venuto  anch' esso  dal 
di  fuori.  Eccone  un  esempio: 

Umile  sono  ed  orgoglioso. 
Prode  e  vile  e  coraggioso, 


—  14  — 

Franco  e  sicuro  e  pauroso, 

E  so^-o  folle  e  saggio, 

Facciome  prode  e  dannaggìo, 

E  di  raggio 

Vi'  corno 

Mal  e. bene  aggio 

Più  che  nuli'  omo. 

Così  comincia  una  canzone  Ruggieri  Pugliese ,  tutta 
su  questo  andare;  dove  la  rozzezza  e  la  negligenza  della 
forma  esclude  ogni  serietà  di  lavoro  ;  è  una  litania  di 
antitesi  racimolate  qua  e  là  e  messe  insieme  a  casacccio. 

I  poeti  siciliani  di  questo  genere  più  ammirati  a  quei  tem- 
pi sono  Guido  delle  Colonne,  e  il  Notajo  Jacopo  da  Lentino. 

Guido,  Dottore  o,  come  allora  dicevasi,  Giudice,  fu 
uomo  dottissimo.  Scrisse  cronache  e  storie  in  latino,  e, 
voltò  di  greco  in  latino  la  storia  della  caduta  di  Troja, 
di  Darete,  una  versione  che  fu  poi  recata  parecchie  volte 
in  volgare.  Un  uomo  par  suo  sdegna  di  scrivere  nel  co- 
mune volgare,  e  tende  ad  alzarsi,  ad  accostarsi  alla  mae- 
stà e  gravità  del  latino:  sì  che  meritò  che  Dante  le  sue 
■canzoni  chiamasse  tragiche,  cioè  del  genere  nobile  e  il- 
lustre. Ma  la  natura  non  lo  avea  fatto  poeta,  e  la  sua 
dottrina  e  il  lungo  uso  di  scrivere  non  valse  che  a  fargU 
conseguire  una  perfezione  tecnica,  della  quale  non  era 
esempio  avanti.  Hai  un  periodo  ben  formato,  molta  arte 
di  nessi  e  di  passaggi,  uno  studio  di  armonia  e  di  gra- 
vità: artificio  puramente  letterario  e  a  freddo.  Manca  il 
sentimento;  supplisce  l'acutezza  e  la  dottrina,  studian- 
dosi di  fare  effetto  con  la  peregrinità  d'immagini  e  con- 
cetti esagerati  e  raffinati,  che  parrebbero  ridicoli,  se  non 
fossero  incastonati  in  una  forma  di  grave  e  artificiosa 
apparenza.  Ecco  un  esempio  : 

Ancor  che  l' aigua  (acqua)  per  lo  foco  lasse 
La  sua  grande  freddura, 


-  15  — 

Non  cangerea  natura. 

Se  alcun  vasello  in  mezzo  non  vi  stasse: 

Anzi  avverrea  senza  alcuna  dimura 

Che  lo  foco  stutasse, 

0  che  r  aigua  seccasse. 

Ma  per  lo  mezzo  l'uno  e  l'altro  dura. 

Così,  gentil  criatura, 

In  me  ha  mostrato  amore 

L'  ardente  suo  valore, 

Che  senz'  amore  —  era  aigua  fredda  e  ghiaccio. 

Ma  el  m'ha  sì  allumato 

Di  foco,  che  m'abbraccia, 

Ch'eo  fora  consumato, 

Se  voi,  donna  sovrana, 

Non  foste  voi  mezzana 

Infra  T  amore  e  meve. 

Che  fa  lo  foco  nascere  di  neve. 

E  non  si  ferma  qui,  e  continua  con  l' acqua  e  il  foco  e 
la  neve  ,  e  poi  dice  che  il  suo  spirito  è  ito  via  ,  e  lo 
spirito  eli*  io  aggio,  credo  lo  vostro  sia  che  nel  7nio 
petto  stiay  e  conchiude,  eh'  ella  lo  tira  a  sé,  ed  ella  sola 
può,  come  di  tutte  le  pietre  la  sola  calamita  ha  balia  di 
trarre,  paragone  in  cui  spende  tutta  la  strofa,  spiegando 
come  la  calamita  abbia  questa  virtù.  Questi  son  concetti 
e  freddure  dissimulate  nell'artificio  della  forma;  perchè 
se  guardi  alla  condotta  del  periodo,  all'arte  de' passaggi, 
alla  stretta  concatenazione  delle  idee,  alla  felicità  della 
espressione  in  dir  cose  così  sottili  e  difficili,  hai  poco  a 
desiderare. 

In  Jacopo  da  Lentino  questa  maniera  è  condotta  sino 
alla  stravaganza  massime  ne'  soaetti.  Non  mancano  mo- 
vimenti d' immaginazione  ed  una  certa  energia  d'  espres- 
sione, come  : 

Ben  vorria  che  avvenisse 
Che  lo  meo  core  uscisse 


—  16  — 

Come  incarnata  tutto, 

E  non  dicesse  mutto  —  a  voi  sdegnosa: 

Ch'  Amore  a  tal  m' addusse, 

Che  se  vipera  fusse, 

Naturia  perderea: 

Ella  mi  vederea:  fora  pietosa. 

Ma  son  affogati  fra  paragoni ,  sottigliezze  e  freddure ^ 
che  nella  rozza  e  trascurata  forma  spiccano  più,  e  sono 
reminiscenze,  sfoggio  di  sapere.  Non  sente  amore,  ma 
sottilizza  d'  amore,  come  : 

Fino  amor  de'  fin  cor  vien  di  valenza 
E  scende  in  alto  core  somigliante^, 
E  fa  di  due  voleri  una  vuglienza , 
La  quale  ò  forte  più  che  lo  diamante , 
Legandoli  con  amorosa  lenza, 
Che  non  si  rompe,  né  scioglie  T  amante. 

Su  questa  via  giunge  sino  alla  più  goffa  espressione  di  una 
maniera  falsa  è  affettata,  come  è  un  sonetto,  che  comincia: 

Lo  viso,  e  son  diviso  dallo  viso, 
E  per  avviso  credo  ben  visare, 
Però  diviso  viso  dallo  viso, 
Ch'  altro  e  lo  viso  che  lo  divisare  ec. 

Nondimeno  questi  passatempi  poetici,  se  rimasero  estra- 
nei alla  serietà  e  intimità  della  vita,  ebbero  non  piccola 
influenza  nella  formazione  del  volgare  ,  sviluppando  le 
forme  grammaticali  è  la  sintassi  e  il  periodo  e  gli  ele- 
menti musicali;  come  si  vede  principalmente  in  Guida 
delle  Colonne.  Ne'  più  rozzi  trovi  de'  brani  di  un  colore  e  di 
una  melodia  che  ti  fa  presentire  il  Petrarca,  Valgano  a 
prova  alcuni  versi  nella  canzone  attribuita  a  Re  Manfredi: 

E  vero  certamente  credo  dire. 
Che  fra  le  donne  voi  siete  sovrana, 
E  d'  ogni  grazia  e  di  virtù  compita. 
Per  cui  morir  d'  amor  mi  saria  vita. 


■—  17  — 

L' Infelligenzia,  poema  allegorico,  pieno  d' imitazioni  e  di 
contraffazioni,  ha  una  perfezione  di  lingua  e  di  stile,  che 
mostra  nell'  ignoto  autore  un'  anima  delicata,  innamorata, 
aperta  alle  bellezze  della  natura  e  fa  presumere  a  quale 
eccellenza  di  forma  era  giunto  il  volgare.  C'è  una  de- 
scrizione della  primavera,  non  nuova  di  concetti,  ma  piena 
di  espressione  e  di  soavità  come  di  chi  ne  ha  il  senti- 
mento. E  continua  cosi  : 

Ed  io  stando  presso  a  una  fiumana 
In  un  verziere  all'  ombra  di  un  bel  pino, 
D'  acqua  viva  aveavi  una  fontana 
Intorneata  di  fior  gelsomino. 
Sentia  1'  aire  soave  a  tramontana  : 
Udia  cantar  gli  augei  in  lor  latino  ; 
Allor  sentio  venir  dal  fino  amore 
Un  raggio  che  passò  dentro  dal  core, 
Come  la  luce  che  appare  al  mattimo. 

E  descrive  cosi  la  sua  donna: 

Guardai  le  sue  fattezze  delicate, 
Che  nella  fronte  par  la  stella  Diana, 
Tant'  è  d'  oltremirabile  beltate, 
E  neir  aspetto  sì  dolce  ed  umana  ! 
Bianca  e  vermiglia  di  maggior  clartate 
Che  color  di  cristallo  o  fior  di  grana: 
La  bocca  picciolella  ed  aulorosa, 
La  gola  fresca  e  bianca  più  che  rosa, 
La  parladura  sua  soave  e  piana. 
L^>  bionde  trecce  e  i  begli  occhi  amorosi, 
Che  stanno  in  sì  salutevole  loco, 
Quando  li  volge,  son  sì  dilettosi. 
Che  il  cor  mi  strugge  come  cera  foco, 
Quando  spande  li  sguardi  gaudiosi, 
Par  che  il  mondo  si  allegri  e  faccia  gioco. 

Qui  ci  è  un  vero  entusiasmo,  lirico  il  sentimento  della 

De  Sanctis  —  Loti.  Ital.  Voi.  l.  S 


—  18  — 

natura  e  della  bellezza:  ond'  è  nata  una  mollezza  e  dol- 
cezza di  forma,  ohe  con  poche  correzioni  potresti  dir  di 
oggi  :  cosi  è  giovine  e  fresca. 

E  se  il  sonetto  dello  sparviero  è  della  Nina,  se  è  la- 
voro di  quel  tempo ,  come  non  pare  inverisimile ,  e  un 
altro  esempio  della  eccellenza  a  cui  era  venuto  il  vol- 
gare, maneggiato  da  un'  anima  piena  di  tenerezza  e  di 
immaginazione. 

Tapina  me  che  amava  uno  sparviero, 

Amaval  tanto  eh'  io  me  ne  moria  ; 

A  lo  richiamo  ben  m'  era  maniero, 

Ed  unque  troppo  pascer  noi  dovria 
Or  è  montato  e  salito  sì  altero; 

Assai  più  altero  che  far  non  solia  ; 

Ed  è  assiso  dentro  a  un  verziero, 

E  un'  altra  donna  V  averà  in  balìa. 
Isparvier  mio,  ch'io  t' avea  nodrito/ 

Sonaglio  d'  oro  ti  facea  portare, 

Perchè  nell'  uccellar  fossi  più  ardito. 
Or  sei  salito  siccome  lo  mare, 

Ed  hai  rotto  li  geti  ^  e  sei  fuggito, 

Quando  eri  fermo  nel  tuo  uccellare. 

Con  la  caduta  degli  Svevi  questa  vivace  e  fiorita  col- 
tura siciliana  stagnò,  prima  che 'acquistas-se  una  coscienza 
più  chiara  di  se  e  venisse  a  maturità.  La  rovina  fu  tale, 
che  quasi  ogni  memoria  se  ne  spense  ,  ed  anche  oggi, 
dopo  tante  ricerche,  non  hai  che  congetture,  oscurate  da 
grandi  lacune. 

Nata  feudale  e  cortigiana,  questa  coltura  diffondevasi 
già  nelle  classi  inferiori,  ed  acquistava  una  impronta  tutta 
meridionale.  Il  suo  carattere  non  è  la  forza,  né  l' elevatez- 
za,  ma  una  tenerezza  raddolcita  dall'  immaginazione  e  non 
so  che  molle  e  voluttuoso  fra  tanto  riso  di  natura.  Anche 


1  Geto  è  un  lacciuolo  di  pelle  che  si  lega  a'  pie  degli  uccelli. 


—  19  — 

nella  lingua  penetra  questa  mollezza,  e  le  dà  una  fiso- 
nomia  abbandonata  e  musicale,  come  da  uomo  che  canti 
e  non  parli,  in  uno  stato  di  dolce  riposo  :  qualità  spic- 
cata de'  dialetti  meridionali. 

La  parte  ghibellina,  sconfitta  a  Benevento,  non  si  ri- 
levò più.  Lo  nobile  Signore  Federico  e  il  bennato  Re 
Manfredi  dieron  luogo  ai  Papi  e  àgli  Angioini,  loro  fidi. 
La  parte  popolana  ebbe  il  di  sopra  in  Toscana,  e  la  li- 
bertà de'  comuni  fu  assicurata.  La  vita  italiana,  mancata 
neir  Italia  meridionale  in  quella  sua  forma  cavalleresca 
e  feudale,  si  concentrò  in  Toscana.  E  la  lingua  fu  detta 
toscana ,  e  toscani  furon  detti  i  poeti  italiani.  De'  Sici- 
liani non  rimase  che  questa  epigrafe  : 

Che  fur  già  primi:  e  quivi  eran  da  sezzo, 
IL 

I  TOSCANL 

Mentre  la  coltura  siciliana  si  spiegava  con  tanto  splen- 
dore e  lusso  d'immaginazione,  e  attirava  a  sé  i  più  chiari 
ingegni  d' Italia,  ne'  comuni  dell'  Italia  centrale  oscura- 
mente, ma  con  assiduo  lavoro,  si  formava  e  puliva  il  vol- 
gare. Centri  principali  erano  Bologna  e  Firenze,  intorno 
ai  quali  trovi  Lucca,  Pistoja,  Pisa,  Arezzo,  Siena,  Faenza, 
Ravenna,  Todi,  Sarzana,  Pavia,  Reggio. 

Gittando  uno  sguardo  su  quelle  antichissime  rime,  non 
ritrovi  la  vivacità  e  la  tenerezza  meridionale,  ma  uno  stile 
sano  e  semplice,  lontano  da  ogni  gonfiezza  e  pretensione, 
e  un  volgare  già  assai  più  fino,  per  la  proprietà  de'  vo- 
caboli ed  una  grazia  non  scevra  di  eleganza. 

Trovo  una  tenzone  di  Ciacco  dall'  Anguillara,  fioren- 
tino, sullo  stesso  tema  trattato  da  Ciullo.  Nella  cantilena 
di  costui  hai  più  varietà  e  più  impeto,  e  concetti  inge- 
gnosi in  forma  >^ozza.  Nella  tenzone  di  Ciacco  tutto  è  su 


—  20  — 

uno  stampo,  in  andamento  piano,  uguale  e  tranquillo,  e 
in  una  lingua  così  propria  e  sicura,  che  non  ne  hai  esem- 
pio ne' più  tersi  e  puliti  siciliani    Comincia  cosi: 

Amante  —  0  gemma  leziosa, 

Adorna  villanella, 

Che  sei  più  virtudiosa 

Che  non  se  ne  favella  : 

Per  la  virtude  che  hai, 

Per  grazia  del  Signore, 

Ajutami,  che  sai. 

Ch'io  son  tuo  servo,  amore'. 
Donna  —  Assai  son  gemme  in  terra 

Ed  in  fiume  ed  in  mare, 

Che  fanno  virtude  in  guerra, 

E  fanno  altrui  allegrare  : 

Amico,  io  non  son  dessa 

Di  quelle  tre  ^  nessuna  : 

Altrove  va  per  essa, 

E  cerca  altra  persona. 

Con  questa  precisione  e  sicurezza  di  vocabolo  e  di  frase 
che  ti  annunzia  un  volgare  già  formato  e  parlato,  si  ac- 
compagna una  misura  e  una  grazia  ignota  alla  nudità 
molle  e  voluttuosa  della  vita  meridionale.  E  vaglia  per 
prova  la  fine  di  questa  tenzone,  di  una  decenza  amabile, 
cosi  lontana  dal  plebeo,  allo  letto  ne  gimo,  di  Giulio. 

Donna  —  Tanto  m'hai  predicata, 

E  sì  saputo  dire, 

Ch'  io  mi  sono  accordata  : 

Dimmi:  che  t' è  in  piacere? 
Amante  —  Madonna,  a  me  non  piace 

Castella,  né  monete  ; 

Fatemi  far  la  pace 


1  n  tuo  amore,  il  tuo  innamorato. 

2  Gemme. 


—  21  — 

Con  r  amor  che  sapete. 
Questo  addimando  a  vui, 
E  facciovi  finita. 
Donna,  siete  di  lui, 
Ed  egli  è  la  mia  vita. 

Questi  dialoghi  sono  una  pretta  imitazione  della  lingua 
parlata,  e  sono  i  più  acconci  a  mostrare  a  qual  grado 
di  finezza  e  di  grazia  era  giunto  il  volgare  in  Toscana, 
massime  in  Firenze.  Ecco  alcuni  brani  di  un  altro  dia- 
logo di  Ciacco  : 

^  Mentr'  io  mi  cavalcava, 

Audivi  una  donzella  : 

Forte  si  lamentava, 

E  diceva  :  ahi  madre  bella, 

Lungo  tempo  è  passato, 

Che  deggio  aver  marito, 

E  tu  non  lo  mi  hai  dato. 

La  vita  d'  esto  mondo 

ISuUa  cosa  mi  pare. 
—  Figlia  mia  benedetta. 

Se  r  amor  ti  confonde 

De  la  dolce  saetta. 

Ben  te  ne  puoi  sofferere. 
■ — Per  parole  mi  teni, 

Tuttor  così  dicendo  ; 

Questo  patto  non  fina  * , 

Ed  io  tutta  ardo  e  incendo  ; 

La  voglia  mi  domanda 

Cosa  che  non  suole. 

Una  luce  più  chiara  che  il  sole, 

Per  ella  vo  languendo. 

In  queste  rappresentazioni  schiette  dell'  animo,  e  non 
astratte  e  pensate,  ma  in  casi  ben  determinati  e  circo- 

1  Non  ha  fine  o  effetto. 


~  22  — 

scritti  il  poeta  è  sincero  ,  vede  con  chiarezza  istintiva 
quello  s'  ha  a  fare,  e  dire,  come  fa  il  popolo,  e  non  espri- 
me i  suoi  sentimenti,  perchè  non  ne  ha  coscienza,  tutto 
dietro  alle  cose  che  gli  si  presentano,  dette  però  in  modo 
che  ti  suscitano  anche  le  impressioni  provate  dal  poeta. 
A  lui  basta  dire  il  fatto  e  la  sua  immediata  impressione, 
senza  dimorarvi  sopra,  parendogli,  che  la  cosa  in  sé  stessa 
dica  tutto:  semplicità  rara  ne'  meridionali,  dov'  è  mag- 
giore espansione,  ma  che  è  qualità  principale  del  parlare 
fiorentino.  Uno  stupendo  esempio  trovi  in  questo  sonetto 
della  Compiuta  donzella  fiorentina,  la  divina  Sibilla,  come 
la  chiama  Maestro  Torrigiano  : 

Alla  stagion  che  il  mondo  foglia  e  fiora, 
Accresce  gioja  a  tutt'  i  fini  amanti  : 
Vanno  insieme  alli  giardini  allora 
Che  gli  augelletti  fanno  nuovi  canti, 

La  franca  gente  tutta  s' innamora, 
Ed  in  servir  ciascun  traggesi  innanti, 
Ed  ogni  damigella  in  gioi'  dimora, 
E  a  me  ne  abbondan  smarrimenti  e  pianti. 

Che  lo  mio  padre  m'  ha  messo  in  errore  ', 
E  tienemi  sovente  in  forte  doglia: 
Donar  mi  vuole  a  mia  forza  Signore. 

Ed  io  di  ciò  non  ho  desio,  né  voglia, 
E  in  gran  tormento  vivo  a  tutte  V  ore  : 
Però  non  mi  rallegra  fior,  né  foglia. 

Un  sonetto  di  Bondie  Dietaiuti  è  similissimo  a  questa 
di  concetto  e  di  condotta,  con  minor  movimento  e  gra- 
zia e  freschezza,  ma  superiore  d'  assai  per  arte  e  perfe- 
zione di  forma. 

Quando  Taria  rischiara  e  rinserena. 
Il  mondo  torna  in  grande  dilettanza, 
E  r  acqua  surge  chiara  dalla  vena, 
E  r  erba  vien  fiorita  per  sembianza, 


1  Errore,  errare  di  mente,  inquietudine. 


—  23  — 

E  gli  augelletti  riprendon  lor  lena, 

E  fanno  dolpi  versi  in  loro  usanza, 

Ciascun  amante  gran  gioì'  ne  mena, 

Per  lo  soave  tempo  che  s'  avanza. 
Ed  io  languisco  ed  ho  vita  dogliosa  : 

Come  altro  amante  non  posso  gioire, 

Che  la  mia  donna  m'  è  tanto  orgogliosa. 
E  non  mi  vale  amar,  ne  ben  servire  : 

Però  l'altrui  allegrezza  m' è  nojosa, 

E  dogliomi  eh'  io  veggio  rinverdire. 

In  questi  due  sonetti  è  grande  semplicità  di  pensiero 
e  di  andamento,  e  una  perfetta  misura.  Si  ha  aria  di  nar- 
rare quello  si  vede  q,sì  sente,  senza  riflessioni  ed  emo- 
zioni, ma  con  una  vivacità  ed  un  colorito ,  che  suscita 
le  più  vive  impressioni.  Il  secondo  sonetto  è  cosa  per- 
fetta, se  guardi  alla  parte  tecnica,  ed  accenna  a  mag- 
gior coltura;  non  solo  la  nuova  lingua  è  pienamente  for- 
mata, ma  è  già  elegante,  già  la  frase  surroga  i  vocaboli 
proprii  :  a  me  piace  più  la  perfetta  semplicità  del  sonetto 
femminile,  con  movenza  più  vivace,  più  immediata  e  più 
naturale. 

La  proprietà,  la  grazia  e  la  semplicità  sono  le  tre  ve- 
neri che  si  mostrano  nel  volgare,  come  si  era  ito  for- 
mando in  Toscana:  qualità  che  trovi  ancora  dove  ò 
più  difficile  a  serbarle,  quando  per  una  impazienza  in- 
terna si  rompe  il  freno  e  si  dicono  i  secreti  più  delicati 
dell'  animo  con  tanta  più  audacia,  quanto  maggiore  è  stata 
la  compressione,  e  con  la  sicurezza  di  chi  sente  che  non 
ha  torto ,  ma  ragione  ;  è  una  violenza  raddolcita  da  una 
grazia  ineffabile,  e  che  per  una  naturale  misura  rimane 
ipotetica  nel  seguente  madrigale  di  Alesso  di  Guido  Donati: 

In  pena  vivo  qui  sola  soletta 
Giovin  rinchiusa  dalla  madre  mia, 
La  qual  mi  guarda  con  gran  gelosìa. 
Ma  io  le  giuro,  alla  croce  di  Dio, 


—  24  — 

S' ella  mi  terrà  più  sola  serrata, 
Ch'  io  dirò  :  fa  con  Dio,  vecchia  arrabbiata. 
E  gitterò  la  rocca,  il  fuso  e  V  ago, 
Amor,  fuggendo  a  te,  di  cui  m'  appago. 

Questa  bella  forma,  in  tanto  spirito  e  vivacità  così  ca- 
stigata ,  propria  e  semplice  e  piena  di  grazia ,  si  andò 
sviluppando  non  perchè  il  suo  contenuto  voleva  cosi,  ma 
in  opposizione  ad  esso  contenuto,  vuoto  ed  astratto.  Anzi 
che  qualità  del  contenuto,  o  di  questo  e  quel  poeta,  sembra 
il  progresso  naturale  dello  spirito  toscano,  dotato  di  un 
certo  senso  artistico,  che  lo  tirava  alla  forma,  nella  piena 
indifferenza  del  contenuto.  Perciò  queste  qualità  spiccano 
più,  dove  il  poeta  non  è  impedito  da  un  contenuto  con- 
venzionale, ma  si  abbandona  a  rappresentare  i  fatti  e  i 
moti  dell'  animo,  come  gli  si  affacciano  in  situazioni  ben 
determinate,  e  come  sono  nella  lealtà  della  vita.  Allora 
contenuto  e  forma  sono  una  cosa  stessa  ed  hai  ciò  che 
di. più  perfetto  ha  prodotto  a  quel  tempo  lo  spirito  to- 
scano :  come  è  in  parecchie  poesie  già  citate.  Potremmo 
desiderare  che  la  lingua  e  la  poesia  italiana  si  fosse  ita 
formando  per  un  movimento  ingenito,  naturale  e  popo- 
lare, com'  è  stato  presso  altri  popoli.  Ma  sono  desiderii 
steriU.  Il  fatto  è  che  mentre  la  hngua  si  formava,  il  con- 
tenuto era  già  formato  e  meccanizzato  e  convenzionale: 
la  lingua  si  moveva,  il  contenuto  rimaneva  stazionario, 
lo  stesso  ne'  più  puliti  scrittori,  tutti  del  pari  dimenticati, 
perchè  quello  solo  sopravvive,  che  ha  una  forma  pro- 
dotta da  un  contenuto  attivo  e  reale,  vivente  della  vita 
comune. 

Tale  non  è  il  contenuto  in  tanta  moltitudine  di  rima- 
tori a  quei  tempi.  In  Toscana,  come  in  Sicilia,  ci  era 
già  tutto  un  mondo  poetico,  non  formato  a  poco  a  poco 
insieme  col  volgare,  ma  già  fissato  con  lineamenti  pre- 
cisi e  costanti.  C  era  già  una  poetica,  e  e'  era  anche  un 
vocabolario  comune.  Concetti  e  parole  sono  in  tutt'i  tre- 


—  25  ~ 

vatori  gli  stessi.  Come  più  tardi  avemmo  le  maschere, 
cioè  caratteri  comici  con  lineamenti  tradizionali,  che  nes- 
suno si  attentava  di  alterare,  così  ci  era  allora  Madonna  e 
Messere. 

Madonna,  Y  amanza  o  la  cosa  amata ,  era  un  ideale 
di  tutta  perfezione  non  la  tale  e  tale  donna,  ma  la  donna 
in  genere,  amata  con  un  sentimento  che  teneva  di  ado- 
razione e  di  culto.  Messere  era  l'amante,  il  meo  Sere, 
che  avea  qualche  valore  solo  amando.  Uomo  senz'  amore 
è  uomo  senza  valore.  Amare  è  indizio  di  cor  gentile.  Chi 
ama,  è  cavahere,  ubbidiente  alle  leggi  dell'  onore,  difen- 
sore della  giustizia,  protettore  de' deboli,  umile  servo  o 
servente  d'  amore,  e  soffre  volentieri  ove  a  sua  Madonna 
piaccia,  e  amato  sta  allegro,  ma  senza  vanitate,  senza 
menar  vanto  e  spregia  le  ricchezze,  perchè  chi  è  amato, 
è  ricco.  Amore  è  di  due  voleri  una  voglienza ,  ed  è 
senza  fallimento  o  villania,  senza  peccato,  e  sta  con- 
tento al  solo  sguardo;  nello  stesso  paradiso  la  gioja  del- 
l'araamte  è  contemplare  Madonna,  e  senza  Madonna  non 
vi  vorria  gire.  Il  codice  d'amore  descrive  i  concetti  e 
i  sentimenti  degli  amanti  fini  e  cortesi.  Il  codice  della 
cavalleria  descrive  le  leggi  dell'  onore,  i  doveri  di  cava- 
liere leale  e  franco.  Come  si  vede,  amore  era  tutta  la 
vita  ne' suoi  varii  aspetti,  era  Dio,  patria  e  legge;  la 
donna  era  la  divinità  di  quei  rozzi  petti.  Chi  cerca  nelle 
memorie  della  prima  età,  troverà  questo  ideale  della  donna 
nella  sua  purezza  e  nella  sua  onnipotenza,  l'universo  è 
la  Donna.  E  tale  fu  negl'inizii  della  società  moderna  in 
Germania,  in  Francia,  in  Provenza,  in  Spagna,  in  Ita- 
lia. La  storia  fu  fatta  a  quella  immagine,  Trojanì  e  Ro- 
mani erano  concepiti  come  cavalieri  erranti,  e  così  Arabi, 
Sarraceni,  Turchi,  lo  Soldano  e  Saladino.  Paris  e  Elena, 
Piramo  e  Tisbe  sono  eroi  da  romanzo,  come  Lancillotto  e 
Ginevra;  Tristano  e  Isaotta  la  bionda.  In  questa  frater- 
nità universale,  si  trovano  gli  Angioli,  i  Santi,  i  Mira- 


coli,  il  Paradiso  in  istrana  mescolanza  col  fantastico  e  il 
voluttuoso  del  mondo  orientale  ,  tutto  battezzato  sotto 
nome  di  cavalleria.  Le  idee  generali  non  sono  ancora 
potenti  di  uscire  nella  loro  forma,  e  sono  ancora  alle- 
gorie. Le  idee  morali  sono  motti  e  proverbia  La  lette- 
ratura di  questa  età  infantile  sono  romanzi  e  novelle  e 
favole  e  motti,  poemi  allegorici  e  sonetti  nel  loro  primo 
significato ,  cioè  rime  con  suoni:  canti,  e  balli ,  onde  la 
canzone  e  la  ballata. 

La  cavalleria  poco  attecchì  in  Italia.  Castella  e  castel- 
lane col  loro  corteggio  in  giullari,  trovatori,  novellatori 
e  bei  favellatori  doveano  aver  poco  prestigio  presso  un 
popolo  che  avea  disfatte  le  castella,  e  s*  era  ordinato  a 
comune:  Vinto  Federico  Barbarossa,  e  abbattuta  poi  casa 
sveva  ,  quella  vita  di  popolo  fu  assicurata,  e  le  tradi- 
zioni feudali-e  monarchiche  perdettero  ogni  efficacia  nella 
realtà.  Rimasero  nella  memoria,  non  come  regola  della 
vita,  ma  come  un  puro  gioco  d' immaginazione.  Nessuno 
credeva  a  quel  n^ondo  cavalleresco,  nessuno  gli  dava  se- 
rietà e  valore  pratico  :  era  un  passatempo  dello  spirito, 
non  tutta  la  vita,  ma  un  incidente,  una  distrazione.  Ora 
quando  un  contenuto  non  penetra  nelle  intime  latebre 
della  società,  e  rimane  nel  campo  dell'immaginazione, 
diviene  subito  frivolo  e  convenzionale,  come  la  moda,  e 
perde  ogni  sincerità  e  ogni  serietà.  Ma  la  stessa  imma- 
ginazione era  inaridita  innanzi  a  un  contenuto  dato  e  fis- 
sato ,  come  si  trovava  in  una  letteratura  non  nata  e 
formata  con  la  vita  nazionale  ,  ma  venuta  dal  di  fuori 
per  via  di  traduzioni.  Perciò  niente  di  nazionale  e  di  ori- 
ginale, nessun  moto  di  fantasia  o  di  sentimento;  nessuna 
varietà  di  contenuto  ;  una  cosi  noiosa  uniformità  che  mal 
sai  distinguere  un  poeta  dall'altro. 

Questo  contenuto  non  può  aver  vita,  se  non  si  move, 
trasformato  e  lavorato  dal  genio  nazionale.  Quello  stesso 
senso  artistico,  che  avea  condotta  già  a  tanta  perfezione 


—  27  — 

la  lingua,  dovea  altresì  risuscitare  quel  contenuto  e  dar- 
gli moto  e  spirito. 

L'Italia  avea  già  una  coltura  propria  e  nazionale  molto 
progredita  :  V  Europa  andava  già  ad  imparare  nella  dotta 
Bologna.  Teologia,  filosofia,  giurisprudenza,  scienze  na- 
turali, studii  classici  aveano  già  con  vario  indirizzo  dato 
un  vivo  impulso  allo  spirito  nazionale.  Quel  contenuto  ca- 
valleresco dovea  parer  frivolo  e  superficiale  ad  uomini 
educati  con  Virgilio  ed  Ovidio,  che  leggevan  San  Tom- 
maso e  Aristotile,  nutriti  di  pandette  e  di  dritto  cano- 
nico, ed  aperti  a  tutte  le  maraviglie  dell'  astronomia  e 
delle  scienze  naturali.  Le  tenzoni  d' amore  doveano  parer 
cosa  puerile  a  quegli  atleti  delle  scuole,  così  pronti  e  così 
sottili  nelle  lotte  universitarie.  Quella  forma  di  poetare 
dovea  parer  troppo  rozza  e  povera  a  gente  già  iniziata 
in  tutti  gli  artificii  della  rettorica.  Nacque  1'  entusiasmo 
della  scienza,  una  specie  di  nuova  cavalleria  che  detroniz- 
zava l' antica.  Lo  stesso  impeto  che  portava  l'Europa  a 
Gerusalemme,  la  portava  ora  a  Bologna.  Gli  storici  de- 
scrivono co'  più  vivi  colori  questo  grande  movimento  di 
curiosità  scientifica,  il  cui  principal  centro  era  in  Italia. 

E  la  scienza  fu  madre  della  poesia  italiana,  e  la  prima 
ispirazione  venne  dalla  scuola.  Il  primo  poeta  è  chiamato   ; 
il  Saggio  ^  e  fu  il  padre  della  nostra  letteratura,  fu  il   ;: 
bolognese  Guido  Guinicelli ,  il  nobile  ,  il  massimo  ,  dice   \ 
Dante,  il  padre  : 

Mio  e  degli  altri  miei  miglior  che  mai, 
Rimo  d'amore  usar  dolci  e  leggiadre. 

Gruido  nel  1270  insegnava  lettere  nell'  Università  di 
Bologna.  Il  volgare  era  già  formato  e  si  chiamava  lingua 


1  Come  dice  Dante  : 

Amore  e  cor  gentil  sono  una  cosa. 
Siccome  il  Saggio  in  sux)  dittato  peno. 


—  28  — 

materna,  l'uso  moderno,  in  opposizione  al  latino.  Egli 
vi  gittò  dentro  tutto  V  entusiasmo  di  una  mente  educata 
dalia  filosofia  alle  più  alte  speculazioni,  e  commossa  dai 
miracoli  dell'  astronomia  e  dalle  scienze  naturali.  E  il 
mondo  nuovo  della  scienza,  che  si  rivela  con  le  sue  fre- 
sche impressioni  nella  sua  canzone  sulla  natura  dell'amore. 
In  generale,  le  poesie  de'  trovatori  sono  una  filza  di  con- 
cetti addossati  gli  uni  agli  altri  senza  sviluppo.  Qui  non 
ci  è  che  un  solo  concetto,  ed  è  il  luogo  comune  de'  tro- 
vatori espresso  nel  celebre  verso  : 

Amore  e  cor*  gentil  sono  una  cosa. 

Ma  questo  concetto  diviene  tutto  un  mondo  innanzi  a 
Guido,  e  si  mostra  ne' più  nuovi  aspetti.  Risorge  l'im- 
maginazione, e  attinge  le  sue  immagini  non  da'  romanzi 
di  cavalleria  ,  ma  dalla  fìsica  ,  dalF  astronomia ,  da'  più 
bei  fenomeni  della  natura,  con  la  compiacenza,  con  la  vo- 
luttà e  r  abbondanza  di  chi  addita  e  spiega  le  sue  sco- 
perte. I  paragoni  si  accavallano,  s' incalzano,  ti  par  di 
essere  in  un  mondo  incantato,  e  passi  di  maraviglia  in 
maraviglia.  Citerò  alcuni  brani  : 

Al  cor  gentil  ripara  sempre  amore, 
Siccome  augello  in  selva  alla  verdura  ; 
Né  fé'  amore  anti  che  gentil  coro^ 
Né  gentil  core  anti  che  amor,  Natura. 
Che  adesso  com'  fu  il  Sole, 
Si  tosto  fue  lo  splendor  lucente, 
Né  fu  davanti  al  Sole. 
E  prende  amore  in  gentilezza  loco 
Così  propriamente, 
Come  il  calore  in  chiarità  di  foco. 

Foco  d'  amore  in  gentil  cor  s'  apprende 
Come  virtude  in  pietra  preziosa  : 
Che  dalla  stella  valor  non  discende, 
Anzi  che  il  sol  la  faccia  gentil  cosa. 


—  29  — 

A.mor  per  tal  ragion  sta  in  cor  gentile, 
Per  qiial  lo  foco  in  cima  del  doppiere. 
Amore  in  gentil  cor  prende  ri  vera, 
Com'  diamante  dal  ferro  in  la  miniera. 

Fere  lo  scilo  fango  tutto  il  giorno  ; 
Vile  riraan  :  né  il  Sol  perde  calore. 
Dice  un  altier  :  gentil  per  schiatta  torno: 
Lui  sembra  il  fango;  e  il  Sol  gentil  valore: 
Che  non  dee  dare  uom  fé 
Che  gentilezza  sia  fuor  di  coraggio 
In  dignità  di  Re, 
Se  da  virtute  non  ha  gentil  core  : 
Com'  acqua,  ei  porta  raggio, 
E  il  ciel  ritien  la  stella  e  lo  splendore. 

C  è  qui  una  certa  oscurità  alcuna  volta  e  un  certo 
stento,  come  di  un  pensiero  in  travaglio,  e  n'  escono  vivf 
guizzi  di  luce  che  rivelano  le  profondità  di  una  mente 
sdegnosa  di  luoghi  comuni  e  per  lungo  uso  speculatrice. 
Il  contenuto  non  è  ancora  trasformato  internamente,  non 
è  ancora  poesia  cioè  vita  e  realtà  ;  ina  è  già  jun  fatto 
sden  tjfico  ,__scr  utato .  ^  .analizzatj^ 

sapere,  con  la  serietà  e  la  profondità  di  chi  si  addentra 
ne'  problemi  della  scienza,  e  illuminato  da  una  immagi- 
nazione, eccitata  non  dall'  ardore  del  sentimento,  ma  dalla 
stessa  profondità  del  pensiero.  Guido  non  sente  amore, 
non  riceve  e  non  esprìme  impressioni  amorose  ;  ma  con- 
t  empla^r  anaor  e^J  9,,  Jieil^za 

quello  che  gli  si  affaccia  non  è  persona  idealizzata,  ma 
è  pura  idea,  della  quale  è  innamorato  con  quello  stesso 
amore  che  il  filosofo  porta  alla  verità  intuita  e  contem- 
plata dalla  sua  mente  ,  quasi  fosse  persona  viva.  Così 
Platone  amava  le  sue  idee  ;  1'  amore  platonico  non  era 
altro  che  amore  d' intuizione  e  di  contemplazione,  una 
specie  di  parentela  tra  il  contemplante  e  il  contemplato  *• 
io  ti  contenjplo  e  ti  fo  mia.  Guido  ama  la  creatura  della 


—  30  — 

sua  meditazione,  e  l'amore  gli  move  T immaginazione  o 
gli  fa  trovare  i  più  ricchi  colori,  si  eh'  ella  par  fuori  pom- 
posamente abbigliata.  L'artista  è  un  filosofo,  non  è^ an- 
cora un  poeta.  A  quel  contenuto  cavalleresco,  frivolo  e 
convenzionale,  così  fecondo  presso  i  popoU  dove  nacque, 
così  sterile  presso  noi  dove  fu  importato,  succede  Pla- 
tone, la  contemplazione  filosofica.  Non  ci  è  ancora  il  poeta, 
ma  ci  è  V  artista.  Il  pensiero  si  move,  l' immaginazione 
lavora.  La  scienza  genera  1'  arte. 

La  coltura  cavalleresca,  se  giovò  a  formare  il  volgare, 
impedi  la  libertà  e  sp'ontaneità  del  sentimento  popolare,  e 
creò  un  mondo -artificiale  e  superficiale^  fuori  della  vita, 
che  rese  insipidi  gì'  inizii  della  nostra  letteratura  ,  cosi 
interessanti  presso  altri  popoli.  Quel  contenuto  staziona- 
rio comincia  a  moversi  presso  Guida,  di  un  moto  impresso 
non  da  sentimento  di  amoro,  ma  da  contemplazione  scien- 
tifica dell'  amore  e  della  bellezza  :  che  se  non  riscalda  il 
core,  sveglia  l' immaginazione.  Questo  dunque  si  ricordi 
bene,  che  la  nostra  letteratura  fa  prima  inaridita  nel  suo 
germe  da  un  mondo  poetico  cavalleresco,  non  potuto  pe- 
netrare nella  vita  nazionale,  e  rimaso  frivolo  e  insigni- 
ficante ,  e  fu  poi  sviata  dalla  scienza ,  che  1'  allontanò 
sempre  più  dalla  freschezza  e  ingenuità  del  sentimento 
popolare ,  e  creò  una  nuova  poetica,  che  non  fu  senza 
grande  influenza  sul  suo  avvenire.  L'  arte  italiana  na- 
sceva non  in  mezzo  al  popolo,  ma  nelle  scuole,  fra  San 
Tommaso  e  Aristotele,  tra  S.  Bonaventura  e  Platone. 

La  poesia  di  Guido  ha  il  difetto  della  sua  qualità  :  la 
profondità  diviene  sottigliezza,  e  l' immaginazione  diviene 
rettorica,  quando  vuole  esprimere  sentimenti  che  non  pro- 
va. Vuol  esprimere  il  suo  stato  quando  fu  colpito  dal 
dardo  di  amore,  e  dice  che  quel  dardo 

Per  gli  occhi  passa,  come  fa  lo  trono  *, 


1  Tuono. 


—  si- 
che fer  per  la  finestra  della  torre 
E  ciò  che  dentro  trova,  spezza  e  fende. 
Rimagno  come  statua  di  ottono, 
Ove  spirto,  né  vita  non  ricorre, 
Se  non  che  la  figura  d'  uomo  rende. 

Queste  non  sono  certo  le  insipide  sottigliezze  di  Jaco- 
po da'-Lentino.  Ci  si  vede  l'uomo  d'ingegno  e  la  mente 
che  pensa.  Ma  non  è  linguaggio  d' innamorato  questo 
sottilizzare  e  fantasticare  sul  suo  amore  e  sul  suo  stato. 

Immensa  fu  l' impressione  che  produsse  questa  poesia 
di  Guido,  se  vogliamo  giudicarla  da  quella  che  ne  ebbe 
Dante,  che  lo  imitò  tante  volte,  che  lo  chiamò  padre  suo, 
che  la  magnifica  terza  strofa  scelse  a  materia  della  sua 
Canzone  sulla  Nobiltà ,  che  ebbe  la  stessa  scuola  poe- 
tica, che  nota  la  celebrità  a  cui  venne  1'  uno  e  V  altro 
Guido  *  e  aggiunge  : 

E  forse  è  nato 
Chi  r  uno  e  1'  altro  caccerà  di  nido. 

Guido  oscurò  tutt'i  trovatori  e  sah  a  gran  fama  presso 
un  pubblico  avido  di  scienza,,  e  j)ieno  d' immaginazione, 
di  cui  Guido  era  il  ritratto ,  un  pubblico  uscito  dalle 
scuole,  per  il  quale  poesia  era  sapienza  e  filosofia,  ve- 
rità adorna ,  e  che  non  pregiava  i  versi ,'  se  non  come 
velame  della  dottrina. 

Mirate  la  dottrina  che  s'  asconde 
Sotto  il  velame  delli  versi  strani. 

Tal  poeta,  tal  pubblico.  E  si  andò  così  formando  una 
scuola  poetica,  il  cui  Codice  è  il  Convito  di  Dante. 

Se  Bologna  si  gloriava  del  suo  Guido ,  Arezzo  avea 
il  suo  Guittone,  Todi  il  suo  Jacopone  e  Firenze  il  suo 
Brunetto  Latini. 


1.  Guido  Guinicelli  e  Guiflo  Cavalcanti. 


—  32  — 

Dante  mette  Guìttone  tra  quelli  che  sogliono  sempre 
ne  vocaboli  e  nelle  locuzioni  somigliare  la  plebe.  Alla 
qual  sentenza  contraddicono  alcuni  sonetti  attribuiti  a 
lui ,  e  che  per  T  andamento  e  la  maniera  sembrano  di 
fattura  molto  posteriore.  Se  guardiamo  alle  sue  canzoni 
e  alle  sue  prose,  non  sarà  alcuno  che  non  stimerà  giu- 
sta la  sentenza  di  Dante.  In  Guittone  è  notabile  questo 
che  nel  poeta  senti  1'  u(^o  :  quella  forma  aspra  e  rozza 
ha  pure  una  fisonomia  originale  e  caratteristica,  una  ele- 
vatezza morale,  una  certa  energia  d'  espressione.  L'uomo 
ci  è,  non  l' innamorato,  ma  1'  uomo  morale  e  credente,  e 
dalla  sincerità  della  coscienza  gli  viene  quella  forza.  E 
e'  è  anche  1'  uomo  colto,  una  mente  esercitata  alla  medi- 
tazione e  ai  ragionamento.  I  suoi  versi  sono  non  rap- 
presentazione immediata  della  vita ,  ma  sottili  e  inge- 
gnosi discorsi,  che  doveano  parer  maraviglia  a  quel  pub- 
bhco  scolastico.  Venne  perciò  a  tale  celebrità  che  fu  te- 
nuto per  qualche  tempo  il  primo  de'  poeti  ;  ma  nella  sua 
vecchia  età  si  vide  oscurato  da'  nuovi  astri ,  onde  dice 
il  Petrarca  : 

...     Guitton  d'  Arezzo 
Che  di  non  esser  primo  par  eh'  ira  aggia. 

Nondimeno  gli  rimasero  ammiratori  e  seguaci,  con  grande 
ira  di  Dante  che  esclama:  «  cessino  i  seguaci  dell'igno- 
ranza che  estollono  Guittone  d'  Arezzo.  » 

Guittone  non  è  poeta  ,  ma  un  sottile  ragionatore  in 
versi,  senza  quelle  grazie  e  leggiadrie  che  con  sì  ricca 
vena  d' immaginazione  ornano  i  ragionamenti  di  Guini- 
ceili.  Non  è  poeta,  e  non  è  neppure  artista  :  gli  manca 
quella  interna  misura  e  melodia,  che  condusse  poeti  in- 
feriori a  lui  di  coltura  e  d'ingegno  a  polire  il  volgare. 
È  privo  di  gusto  e  di  grazia. 

Degne  di  maggiore  attenzione  sono  le  poesie  di  Jaco- 
pone,  come  quelle  che  segnano  un  nuovo  indirizzo  nella 


—  33  — 

nostra  letteratura.  Sono  le  poesie  di  un  Santo,  animato 
dal  divino  amore.  Non  sa  di  provenzali,  o  di  trovatori,  ^ 
0  di  codici  d'amore:  questo  mondo  gli  è  ignoto.  E  non 
cura  arte,  e  non  cerca  pregio  di  lingua  e  di  stile,  anzi 
affetta  parlare  di  plebe  con  quello  stesso  piacere  con  chft 
i  Santi  vestivano  vesti  di  povero.  Una  cosa  vuole,  dare 
sfogo  ad.  un'  anima  traboccante  di  affetto ,  esaltata  dal 
sentimento  religioso.  Ignora  anche  teologia  e  filosofìa,  e 
non  ha  niente  di  scolastico.  Si  capisce  che  un  poeta  cosi 
fuori  di  moda  dovea  in  breve  esser  dimenticato  dal  colto 
pubblico,  sì  che  le  sue  poesie  ci  furono  conservate  come 
un  libro  di  divozione  ,  anzi  che  come  lavoro  letterario. 
E  nondimeno  e'  è  in  Jacopone  una  vena  di  schietta  e  po- 
polare e  spontanea  ispirazione  ,  che  non  trovi  ne'  poeti 
colti  finora  discorsi.  Se  i  mille  trovatori  italiani  aves- 
sero sentito  amore  con  la  caldezza  e  1'  efficacia,  che  de- 
sta tanto  incendio  nell'anima  religiosa  di  Jacopone,  a- 
vremmo  avuta  una  poesia  meno  dotta  e  meno  artistica, 
ma  più  popolare  e  sincera. 

Jacopone  riflette  la  vita  italiana  sotto  uno  de*  suoi 
aspetti  con  assai  più  di  sincerità  e  di  verità  che  non  trovi 
in  nessun  Trovatore.  È  il  sentimento  religioso  nella  sua 
prima  e  natia  espressione,  come  si  rivela  nelle  classi  in- 
culte,  senza  nube  di  teologia  e  di  scolasticismo,  e  por- 
tato sino  al  misticismo  ed  all'estasi.  In  comunione  di 
spirito  con  Dio,  la  Vergine,  i  Santi  e  gli  Angeli,  parla 
loro  con  tutta  dimestichezza  ,  e  li  dipinge  con  perfetta 
libertà  d'immaginazione,  co' particolari  più  pietosi  e  più 
affettuosi  che  sa  trovare  una  fantasia  commossa  dall'  a- 
more.  Maria  è  soprattutto  il  suo  idolo ,  e  le  parla  con 
la  familiarità  e  l' insistenza  di  chi  è  sicuro  della  sua  fede 
e  sa  di  amarla. 


Di',  Maria  dolce,  con  quanto  disio 
Miravi  il  tuo  fig 

D«  Sanctia  —  Leu.  Ital.  Voi,  I 


Miravi  il  tuo  figliiiul  Cristo  mio  Dio, 


--  34  — 

Quando  tu  il  partoristi  senza  pena, 
La  prima  cosa,  credo,  che  facesti, 
Si  l'adorasti,  o  di  grazia  piena, 
Poi  sopra  il  fien  nel  presepio  il  ponesti: 
Con  pochi  e  pover  panni  l' involgesti, 
Maravigliando  o  godendo,  cred'  io. 

0  quanto  gaudio  avevi  e  quanto  bene. 
Quando  tu  lo  tenevi  fra  le  braccia  I 
Dillo,  Maria,  che  forse  si  conviene 
Che  un  poco  per  pietà  mi  satisfaccia. 
Baciavil  tu  allora  nella  faccia, 
Se  ben  credo,  e  dicevi  :  o  fìgJiuul  mio  I 

Quando  fìgliuol,   quando  padre  e  signore, 
Quando  Dio,  e  quando  Gesù  lo  cliiamavi; 
0  quanto  dolce  amor  sentivi  al  core, 
Quando  in  grembo  il  tenevi  ed  allattavi  l 
Quanti  dolci  atti  e  d'  amore   soavi 
Vedevi,  essendo  col  tuo  fìgliuol  pio  I 

Quando  un  poco  talora  il  dì  dormiva, 
E  tu  destar  volendo  il  paradiso, 
Pian  piano  andavi  che  non  ti  sentiva, 
E  la  tua  bocca  ponevi  al  suo  viso, 
E  poi  dicevi  con  materno  riso  : 
Non  dormir  più  che  ti  sarebbe  rio. 

Sotto  r  impressione  del  sentimento  religioso  Jacopone  in- 
dovina tutte  le  gioie  e  le  dolcezze  dell'  amor  materno, 
Jacopone  non  concepisce  il  divino  nella  sua  purezza,  carne 
un  teologo  o  un  filosofo  ,  ma  vestito  di  tutte  le  appa- 
renze e  gli  affetti  umani.  Questa  è  una  scena  di  fami- 
glia ,  colta  dal  vero  ,  con  una  franchezza  di  colorito  o 
con  una  grazia  di  movenze,  tutta  intuitiva.  Preghiere, 
sdegni,  follie  d'amore,  fantasie,  estasi,  visioni,  tutto  trovi 
in  Jacopone  al  naturale  e  come  gli  viene  di  dentro,  ciò 
che  ci  è  più  semplice  e  commovente,  e  ciò  che'  ci  è  più 
strano  e  volgare.  La  forma  è  il  sentimento  esso  mede- 
simo :  ed  ora  è  soave,  efficace,  quasi  elegante,  ora  stra- 


vagante  e  plebea.  Ha  una  facilità  che  gli  nuoce,  ed  un 
impeto  di  espressione  che  non  dà  luogo  alla  lima.  Ma 
ne'  suoi  impeti  gli  escono  forme  di  dire  così  fresche  e  fe- 
lici, che  non  disdegnarono  d' imitarle  Dante  e  il  Tasso. 
Né  è  meno  terribile  che  soave:  e  vagliano  a  prova  al- 
cuni tratti: 

Andiam  tutti  a  vedere 

Jesù  quando  dormia 

La  terra,  1'  aria,  il  cielo 

Fiorir,  rider  facia: 

Tanta  dolcezza  e  grazia 

Dalla  sua  faccia  uscia. 

La  faccia  di  Gesù  Bambino,  ii  Natale,  la  Vergine,  il 
volo  dell'  anima  al  paradiso,  gli  Angioli  sono  visioni  piene 
di  grazia  e  di  efficacia.  Nascendo  Gesù, 

Le  gerarchie  superne 
Eran  dal  ciel  discese  : 
Lucean  come  lucerne 
D'  ardente  foco  accese 
Le  loro  ale  distese. 

Gesù  ha  un  corteggio  di  donne,  che  gli  danzano  intor- 
no. Verginità,  Umiltà,  Carità,  Speranza,  Povertà,  Asti- 
nenza ;  è  qualche  cosa  di  simile  alle  tre  sorelle  di  Dante 
nella  sua  celebre  canzone.  Ecco  in  che  modo  Jacopone 
descrive  1'  Umiltà  : 

E  questa  era  gioconda, 
Onesta  e  mansueta 
E  con  la  treccia  bionda 
E  a  cantar  la  più  lieta; 
D'  ogni  virtù  repleta 
A  me  il  capo  chinava  : 
Tanto  m'  assicurava 
Cir  io  pi'esi  a  favellare. 

Quella  stessa  imrnagiaazio)ie  che  dipinge  con  tanta  gra- 


—  36  — 

zia,  rappresenta  con  evidenza  terribile  i  terrori  dell'  ani- 
ma peccatrice  nel  giudizio  universale  : 

Chi  è  questo  gran  Sire, 
Rege  di  grande  altura? 
Sotterra  io  vorrei  gire, 
Tal  mi  mette  paura. 
Ove  potria  fuggire 
Dalla  sua  faccia  dura? 
Terra  fa  copritura, 
Ch'io  noi  veggia  adirato. 

Non  trovo  loco  dove  mi  nasconda, 
Monte,  né  piano,  ne  grotta  o  foresta 
Che  la  veduta  di  Dio  mi  circonda, 
E  in  ogni  loco  paura  mi  desta. 


Tutti  li  monti  saranno  abbassati, 
E  r  aire  stretto  e  i  venti  conta r'bati, 
E  il  mare  muggirà  da  tutt'i  lati. 
Con  r  acque  lor  staran  fermi  adunati 
I  fiumi  ad  aspettare. 

Allor  vedrai  dal  Ciel  tromba  sonare, 
E  tutt'  i  morti  vedrai  suscitare; 
Avanti  al  tribunal  di  Cristo  andare, 
E  il  foco  ardente  per  Y  aria  volare 
Con  gran  velocitate. 

Jacopone  non  è  un'  apparizione  isolata  ;  ma  si  collega  a 
tutta  una  letteratura  latina  popolare,  animata  dal  senti-, 
mento  religioso.  Là  trovi  il  Salve  Regina,  e  V  Ave  Ma- 
ris  stella,  e  il  Dies  trae ,  e  drammi  e  vite  di  Santi 
scritte  da  uomini  eloquenti  e  appassionati.  Anche  in  vol- 
gare comparivano  già  Cantici  e  Laudi  :  di  Bonifazio  papa 
e' è  rimasto  un  breve  e  rozzo  cantico  alla  Vergine.  I 
fatti  della  Bibbia,  la  passione  e  morte  di  Cristo,  le  vi- 
sioni e  i  miracoli  de'  Santi,  i  lamenti  e  le  preghiere  delle 
anime  purganti,  le  mistiche  gioie  del  paradiso,  i  terrori 


dell'  inferno,  erano  il  tema  comune  de'  predicatori  e  rap- 
[)resentazioni  nelle  chiese  su  per  le  piazze,  sotto  il  no- 
me di  misteri,  feste,  moralità.  È  rimasta  memoria  di  una 
visione  dell'  inferno,  con  la  quale  Gregorio  VII  quando 
era  predicatore  atterriva  l' immaginazione  de'  suoi  udi- 
tori :  ed  è  visione  di  un  fantastico  e  di  una  crudezza  di 
colori  che  mette  il  brivido.  In  Morra,  mio  paese  nativo, 
ricordo  che  nella  festa  della  Madonna,  quando  la  pro- 
cessione è  giunta  sulla  piazza,  comparisce  1'  Angiolo,  che 
fa  r  annunzio.  Ed  è  ancora  la  vecchia  tradizione  dell'An- 
giolo, che  allora  apriva  la  rappresentazione,  annunziando 
l'argomento.  È  nota  la  grande  rappresentazione  dell'al- 
tro mondo  in  Firenze,  che,  rottosi  il  ponte  di  legno  sul- 
r  Arno,  costò  la  vita  a  molte  persone. 

Questa  materia  religiosa,  che  ispirò  tanti  capilavori  di 
pittura  e  di  scultura  e  di  architett^ura,  era  efficacissima 
fonte  di  poesia,  congiungendo  in  sé  il  fantastico  e  1'  affetto, 
il  divino  e  l'umano,  e  nelle  sue  gradazioni  dallo  inferno  al 
paradiso  facendo  vibrar  tutte  le  corde  dello  spirito.  La  sua 
tendenza  troppo  ascetica  e  spirituale  era  vinta  dal  gros- 
so senso  popolare,  che  paganizzava  e  umanizzava  tutto. 
In  questa  storia  religiosa,  il  cui  proprio  teatro  è  l' altra 
vita,  a  cui  questa  è  preparazione,  1'  uomo  mescolava  le 
sue  passioni  terrene,  le  sue  vendette,  i  suoi  odii,  le  sue 
opinioni,  i  suoi  amori.  Maria  era  1'  anello  che  giungeva 
la  terra  al  cielo,  e  il  devoto  le  parla  con  tutta  familia- 
rità, e  le  ricorda  che  la  è  stata  pur  donna.  Jacopone  dice: 

Ricevi,  donna,  nel  tuo  grembo  bello 
Le  mie  lagiime  amare. 
Tu  sai  che  ti  son  prossimo  e  fratello, 
E  tu  noi  puoi  negale. 

Lei  implora  il  Trovatore  nel  suo  colpevole  amore,  a  lei 
si  raccomanda  anche  oggi  il  brigante  nelle  sue  scelle- 
rate spedizioni.  Maria,  Gesù,  i  Santi,  gli  Angioli,  Luci- 


—  38  — 

fero  non  bastano  ;  l' immaginazione  popolare  personifica 
le  virtù,  e  ne  fa  un  corteggio  di  figure  allegoriche  alla 
Divinità,  rappresentandole  con  ogni  libertà,  come  fa  Ja- 
copone,  e  come  si  vede  ne'  bassirilievi  e  in  tante  opere 
di  scoltura  e  di  pittura.  E  come  il  paganesimo  ne'  suoi 
ultimi  tempi  era  interpretato  allegoricamente,  anche  le 
figure  pagane  entrano  in  questo  mondo,  torte  dal  senso 
letterale,  e  volte  a  significato  generale.,  come  Giove,  Plu- 
tone, Amore,  Apollo,  le  Muse,  Caronte.  Come  il  Papa 
aspirava  a  far  sua  tutta  la  terra,  la  storia  religiosa  as- 
sorbiva in  sé  tutt'  i  tempi  e  tutte  le  storie.  In  questa 
mescolanza  universale,  opera  di  una  immaginazione  pri- 
mitiva e  ancor  rozza  non  hai  luce  uguale  e  non  fusione 
di  tinte  :  domina  un  fondo  oscuro  ,  il  sentimento  di  un 
di  là  della  vita,  di  un  infinito  non  rappresentabile,  su- 
periore alla  forma,  che  riempie  lo  spazio  di  grandi  om- 
bre :  e  quelle  mescolanze  di  divino  e  di  terreno,  di  an- 
tico e  di  moderno  ,  di  serio  e  di  comico  non  sono  ben 
fuse,  anzi  stannosi  accanto  crudamente,  e  in  luogo  di  ar- 
monizzare producono  un'  impressione  irresistibile  di  con- 
trasto, di  cose  che  cozzano.  Quel  difetto  di  luce  è  il  go- 
tico, e  quel  difetto  di  armonia  è  il  grottesco  ;  e  però  il 
gotico  e  il  grottesco  sono  le  primo  forme  artistiche  di 
quel  mondo,  com'  è  nella  sua  prima  ingenuità,  non  an- 
cora vinto  e  domato  dall'  arte.  Il  sublime  del  gotico  si 
sente  nel  giudizio  universale  di  Jacopone,  dove  la  veduta 
di  Dio  ti  circonda,  senza  che  tu  lo  veda,  chiarissimo  al 
sentimento  ,  inaccessibile  all'  immaginazione.  Il  peccatore 
vede  suonar  le  trombe,  turbati  i  venti,  l' aria  immobile, 
e  i  fiumi  fermarsi,  e  il  mare  muggire,  e  il  fuoco  volare 
per  r  aria  ;  dappertutto  si  sente  inseguito  dalla  veduta 
di  Dio,  ma  non  lo  guarda,  non  gli  dà  forma  :  non  è  una 
immagine,  è  un  sentimento  senza  forma,  che  riempie  della 
sua  ombra  tutto  lo  spettacolo.  Di  qui  il  grande  effetto 
di  due  versi  stupendi ,  che  sono  veri   decasillabi ,  sotto 


—  39  — 

apparenza  di  endecasillabo,  pieni  di  movimento  e  di  ar- 
monia : 

Che  la  veduta  di  Dio  mi  circonda, 
E  in  ogni  loco  paura  mi  desta. 

È  il  sentimento  da  cui  sei  preso  innanzi  alle  grandi 
ombre  di  una  cattedrale.  Ma  ciò  che  prevale  in  Jaco- 
pone  è  il  grottesco,  una  mescolanza  delle  cose  più  di- 
sparate, senza  nessun  senzo  di  convenienza  e  di  armonia  : 
il  che,  se  fatto  con  intenzione,  è  comico  ;  fatto  con  rozza 
ingenuità,. è  grottesco.  Trovi  il  plebeo,  l'indecente,  il  dis- 
gustoso misto  coi  più  gentili  affetti;  ciò  che  è  pure  il 
carattere  del  Santo  con  le  sue  estasi  e  le  sue  strava- 
ganze. E  questo  in  Jacopoue  non  è  già  un  contrasto  che 
celi  alte  intenzioni  artistiche,  ma  rozza  natura,  cosi  di- 
scorde e  mescolata,  come  si  trova  nella  realtà.  Ecco  il 
principio  del  cantico  48  : 

0  Signor,  per  cortesia 
Mandami  la  malsania  ; 
A  me  la  febbre  quartana, 
La  continua  e  la  terzana  ; 
A  me  venga  mal  di  dente, 
Mal  di  capo  e  mal  di  ventre, 
Mal  de  occhi  e  doglia  di  fianco 
La  postema  ai  lato  manco. 

La  poesia  di  Jacoppne  è  proprio  il  contrario  di  quella 
de*  Troivatori.  In  questi  è  poesia  astratta  e  convenzio- 
nale e  uniforme,  non^  penetrata  di  alcuna  realtà.  In  Ja- 
copone  è  realtà  ancora  naturale,  non  ancora  spiritualiz- 
zata air  arte  ;  è  materia  greggia,  tutta  discorde,  che  ti 
da  alcuni  tratti  bellissimi,  niente  di  finito  e  di  armonico. 

Accanto  a  questa  vita  religiosa  ancora  immediata  e 
di  prima  impressione  spunta  la  vita  morale,  un  certo 
modo  di  condursi  con  regola  e  prudenza,  e  anch'essa  è 
nella  sua  forma  immediata  e  primitiva.  Non  è  ragione  o 


—  40  — 

filosofia,  è  pura  esperienza  e  tradizione,  nella  forma  di 
motto  0  proverbio,  che  riassume  la  sapienza  degli  avi. 
Il  motto  rimato  è  la  più  antica  forma  di  poesia  nel  no- 
stro volgare.  Ecco  alcuni  motti  antichissimi  : 

Ancella  donnea, 

Se  Donna  follea, 

In  terra  di  lite 

Non  poner  la  vite. 

Uomo  che  ode,  vede  e  tace 

Si  vuol  viver  in  pace. 

Chi  parla  rado 

Tenuto  è  a  grado.. 

Dì  questa  fatta  sono  una  filza  di  motti  ammassati  da 
Jacopone  in  un  suo  carme,  una  specie  di  catechismo  a 
uso  della  vita,  illustrati  brevemente  da  qualche  imma- 
gine 0  paragone,  ora  goffo,  ora  egregio  di  concetto  e 
di  forma.  Sulla  vanità  della  vita  dice  : 

Lo  fior  la  mane  è  nato 
La  sera  il  vei  seccato. 

Ciò  che  nella  sua  semplicità  ha  più  efficacia  ,  che  la 
elegante  traduzione  dello  stesso  concetto  fcitta  dal  Po- 
liziano, la  quale  ti  pare  una  Venere  intonacata  e  lisciata  : 

Fresca  è  la  rosa  di  mattino  :  e  a  sera 
Ella  ha  perduta  sua  bellezza  altera. 

I  motti  di  Jacopone  sono  pensieri  morali  espressi  per 
esempio  e  per  immagini,  come  fa  l'immaginazione  po- 
polare, e  nella  loro  brevità  e  succo  è  il  principale  at- 
trattivo. 

Ove  temi  pericolo, 
Non  fare  spesso  posa. 
Sappi  di  polver  tollere 
La  pietra  preziosa, 
E  da  uom  senza  grazia 


—  41.— 

Parola  graziosa: 

Dal  folle  sapienza, 

E  dalla  spina  rosa 

Prende  esempio  da  bestia 

Chi  ha  niente  ingegnosa 
Vediamo  bella  immagine 

Fatta  con  vili  deta  : 
-  Vasello  bello  ed  utile 

Tratto  da  sozza  creta  ; 

Pigliam  dai  laidi   vei'mini 

La  p leziosa  seta, 

Vetro  da  laida  cenere, 

E  da  rame  moneta. 
Non  dimandare  agli  uomini 

Che  lor  nega  natura  : 

E  non  pregar  la  scimia 

Di  bella  portatura, 

Ne  il  bue,  né  V  asino 

Di  dolce  parladnra. 
Quel  che  non  si  conviene, 

Ti   guarda  di  non  fare  : 

Né  messa  ad  uomo  laico,. 

Né  al  prete  saitare  ; 

Non  dece  spada  a  femmina, 

Né  ad  uom  lo  filare. 

Non  piace  se  in  suo  loco 

Non  ponesi  la  cosa  : 

Innanzi  che  ti  calzi, 

Guardi  da  qual  pie  è  Y  uosa 

Se  leggi,  non  far  punto 

Dove  non  è  la  posa  ; 

Dov'  è  piana  la  lettera, 

Non  fare  oscura  glosa. 

In  ogni  cosa  al  prossimo 

Ti  mostra  mansueto: 

Da  nimistate  guardati, 

Se  vuoi  viver  quieto. 


-^  42  — 

A  quel  modo  confoi-mati 
Che  trovi  nel  paese  : 
Al  Genovese,  in  Genova, 
Ed  in  Siena    al  Sanese. 

Uomo  che  spesso  volgesi, 
Da  tuo  consiglio  caccia  : 
Se  vedi  volpe^  correpe, 
Non  dimandar  la  traccia  : 
Non  ti  sforzare  a  prendere 
Più  che  non  puoi  con  traccia; 
Che  nulla  porta  a  casa 
Chi  la  montagna  abbraccia. 

Quando  puoi  esser  umile, 
Non  ti  dimostrar  forte: 
Il  muro  tu  non  rompere, 
Se  aperte  soii  le  porte. 

Con  Signore  non   prendere, 
Se  tu  puoi,  quisti'one  ; 
Ch' ei  ti  ruba  ed  ingiuria 
Per  piccola  cagione, 
E  tutti  gli  altri  gridano  • 
Messere  ha  la  ragione. 

Uomo  senz'  amicizia 
Castello  è  senza  mura. 
Quella  è  buona  amicizia, 
Che  d'ogni  tempo  dura: 
Povertà  non  la  parte, 
Né  nulla  ria  ventura 

Quel  che  tu  dice  in  camera, 
Non  dire  in  ogni  loco  : 
A  piaga  metti  ungento. 
Non  vi  mettere  il  foco. 


E  cosi  hai  motto  a  motto ,  spesso  senz'  altro  legame 
che  il  caso,  qual  più,  qual  meno  felice,  in  quella  forma 
sentenziosa  ed  esemplata,  che  è  propria  dell'  immagina- 
zione popolare ,  prima  ancora  che  nasca   la   favola  e  il 


—  43  — 

racconto.  E  trovi  certo  più  gusto  in  queste  prime  rozze 
informazioni  così  piene  della  vita  e  del  sentire  comune, 
che  ne'  sonetti  e  canzoni  morali  in  forma  più  artificiosa, 
ma  contorta  e  scolastica  di  Onesto  e  Semprebene  e  al- 
tri trovatori. 

Questi  uomini  con  tanti  proverbi!  in  bocca  e  con  tanta 
divozione  alla  Madonna  e  a'  Santi,  con  l' immaginazione 
piena  di  leggende  e  avventure  cavalleresche,  avevano  nei 
piccolo  spazio  del  Comune  una  vita  politica  ancora  più 
vivace  e  concentrata  ,  che  non  è  oggi  allargata  com'  è 
diffusa  in  qu^gl'  immensi  spazii  che  si  chiamano  regni. 
Certo,  i  costumi  si  pulivano,  come  la  lingua;  ma  reU- 
gione  e  cavalleria,  misteri  e  romanzi,  se  colpivano  le  im- 
maginazzioni,  poco  bastavano  a  contenere  e  regolare  le 
passioni  suscitate  con  tanta  veemenza  dalle  lotte  muni- 
cipali. Questa  vita  era  troppo  leale,  troppo  appassionata, 
e  troppo  presente,  perchè  potesse  esser  vista  con  la  se- 
renità e  la  misura  dell'  arte.  Si  manifesta  con  la  forma 
grossolana  dell'  ingiuria,  appena  talora  rallegrala  da  qual- 
che lampo  di  spinto.  Un  esempio  è  il  verso  : 

Quando  r  asino  raglia,  un  guelfo  nasce. 

Questa  forma  primitiva  dell'  odio  politico,  amara  an- 
che nel  motteggio  e  nell'  epigramma  e  cosi  sventurata- 
mente feconda  tra  noi  anche  ne'  tempi  più  civili,  non  esce 
mai  dalle  quattro  mura  del  comune  ,  con  particolari  e 
allusioni  così  personaU,  che  manca  con  la  chiarezza  ogni 
interesse:  prova  ne  sieno  i  sonetti  di  Rustico.  Certo,  in 
questo  antico  esempio  di  satira  politica  vedi  il  volgare 
condotto  a  tutta  la  sua  perfezione,  e  ci  senti  uno  spi- 
rito e  una  vivacità  propria  delF  acuto  ingegno  fiorentino. 
Ma  che  interesse  volete  voi  che  prendiamo  per  Donna 
Gemma  e  Messer  Fastello  e  Messer  Messerino  e  Ser  Cer- 
biolino,  con  quel  suo  parlare  sotto  figura  per  allusioni, 
che  non  ne  comprendiamo  un'  acca  ?  Ciò  che  è  meraraenta 


—  44  — 

personale,  muore  con  la  persona.  Il  cornane  sembra  un 
castello  incantato,  dove  1'  uomo  entrando  ignori  tutto  ciò 
che  vive  e  si  muove  al  di  fuori.  Nessun  vestigio  de'  grandi 
avvenimenti  di  cui  l' Italia  era  stata  ed  era  il  teatro  ; 
niente  che  accennasse  ad  alcuna  partecipazione  alle  grandi 
discussioni  tra  papato  e  impero,  tra  guelfi  e  ghibellini, 
o  rivelasse  un  sentimeuto  politico  elevato  e  nazionale,  al 
di  sopra  della  cerchia  del  comune.  Tutto  è  piccolo,  tutto 
va  a  finire  là,  nella  piccola  maldicenza  sulla  piazza  del 
comune.  Di  ciò  che  si  passava  in  Italia,  appena  un'  om- 
bra trovi  in  un  sonetto  di  Orlandino  Orafo,  eco  delle 
preocupazioni  e  ansietà  pubbliche,  quando  Carlo  d'  An- 
giò  andava  ad  investire  Re  Manfredi  in  Benevento.  Ma 
ciò  che  preoccupa  Orlandino,  non  è  il  risultato  politico 
e  nazionale  della  lotta,  ma  la  grande  strage  che  ne  verrà: 

Ed  avverrà  tra  lor  fera  battaglia, 
E  fìa  sanfaglia  —  tal,  che  molta  gente 
Sarà  dolente  —  chi  che  ne  abbia  gioja. 

E  molti  buon  destrier  coverti  a  maglia, 
In  quella  taglia  —  saran  per  niente^ 
Qual  fìa  perdente  —  allor  convien  che  muoja. 

A  lui  è  uguale  chi  vinca  e  chi  perda.  Ciò  che  gli  fa 
impressione,  è  la  lotta  in  sé  stessa  co'  suoi  accidenti.  Lo 
diresti  uno  spettatore  posto  fuori  de'  pericoli  e  delle  pas- 
sioni de'  combattenti,  che  contempla  avido  di  emozioni  i 
varii  casi  della  pugna. 

Questa  rozzezza  della  vita  italiana  sotto  i  suoi  varii 
aspetti  religioso,  morale,  politico,  spicca  più,  perchè  in 
evidente  contrasto  con  la  precoce  coltura  scientifica,  di- 
venuta il  principale  interesse  di  quel  tempo.  La  scienza 
era  come  un  mondo  nuovo,  nel  quale  tutti  si  precipita- 
vano a  guardare.  Ma  la  scienza  era  come  il  Vangelo, 
che  s' imparava  e  non  si  discuteva.  A  quel   modo    che 


—  45  — 

trojani,  roinani,  franchi  e  saraceni,  santi  e  cavalieri  erano 
nell'immaginazione  un  mondo  solo;  Aristotile,  Platone, 
Tommaso  e  Bonaventura,  erano  una  sola  scienza.  Il  mag- 
giore studio  era  sapere,  e  chi  sapeva  più,  era  più  am- 
mirato ;  nessuno  domandava  quanta  concordia  e  profon- 
dità era  in  quel  sapere.  Perciò  venne  a  grandissima  fama 
Ser  Brunetto  Latini.  Il  suo  Tesoro  e  il  Tesoretto  furono 
per  lungo  tempo  maraviglia  della  genti,  stupite  che  un 
uomo  potesse  saper  tanto,  ed  esporre  in  verso  Aristo- 
tele e  Tolomeo.  Di  che  nessuno  oggi  saprebbe  più  nulla, 
se  Dante  non  avesse  eternato  l'uomo  e  il  suo  libro  in 
quei  versi  celebri: 

Sieti  raccomandato  il  mio  Tesoro, 
'  NpI  quale  io  vivo  ancora. 

La  scienza  in  Brunetto  è  materia  così  rozza  e  greg- 
gia, com'  è  la  vita  religiosa  in  Jacopone  e  la  vita  po- 
litica in  Rustico.  Il  suo  studio  è  di  cacciar  fuori  tutto 
quello  che  sa,  cosi  crudamente  come  gli  è  venuto  dalla 
scuola,  e  senza  farlo  passare  a  traverso  del  suo  pensiero. 
Ciò  che  dice,  gli  pare  cosi  importante,  e  pareva  così  im- 
portante a'  suoi  contemporanei ,  eh'  egli  non  chiede  al- 
tro, e  nessuno  chiedeva  altro  a  lui.  Quella  sua  enciclo- 
pedia non  è  che  prosa  rimata. 

Brunetto  fu  maestro  di  Guido  Cavalcanti  e  di  Dante, 
che  compirono  i  loro  studii  nell'  Università  di  Bologna, 
dalla  quale  usci  pure  Cino  da  Pistoja.  Si  sente  in  tutti 
e  tre  la  scuola  di  Guido  Guinicelli.  Amore  si  scioglie  dalle 
tradizioni  cavalleresche,  e  diviene  materia  di  teologia  e 
di  filosofìa.  Si  discute  sulla  sua  origine,  su' suoi  feno- 
meni e  sul  suo  significato.  Nella  sua  apparenza  volgare 
esso  adombra  quella  forza  che  move  il  sole  e  !e  stelle, 
il  poeta  lascia  al  volgo  il  senso  letterale,  e  cerca  un  sopra 
senso,  il  senso  teologico  e  filosofico,  di  cui  quello  sia  il 
velo.  Il  lettore  con  le  sue  abitudini  scientifiche  disprezza 


—  46  — 

il  fenomeno  amoroso,  e  cerca  dietro  di  quello  la  scienza. 
L'esistente  non  è  per  lui  che  un  velo  del  pensiero,  una 
forma  dell'essere;  Gino  da  Pistoja  chiama  Arrigo  di  Lus- 
semburgo forma  del  bene  :  Il  corpo  è  un  velo  dello  spi- 
rito ;  la  donna  è  la  forma  di  ogni  perfezione  morale  e 
intellettuale;  spiritualismo  religioso  e  idealismo  platonico 
si  fondono  e  fanno  una  sola  dottrina.  L'  allegoria  ,  che 
era  già  prima  la  forma  naturale  di  una  coltura  poco  avan- 
zata, diviene  una  forma  fissa  del  pensiero  teologico  e  fi- 
losofico, disposizione  dello  spirito  aiutata  dall'uso  invalso 
di  cercare  il  senso  allegorico  a  spiegazione  della  mito- 
logia e  del  senso  letterale  biblico.  Ma  il  pensiero  eser- 
citato nelle  lotte  scolastiche  era  già  tanto  vigoroso  che 
poteva  anco  bastare  a  sé  stesso  ed  avere  la  sua  espres- 
sione diretta.  Perciò  nella  poesia  entra  non  solo  l'alle- 
goria, mail  nudo  concetto  scientifico,  sviluppato  dal  ragio- 
namento e  da  tutt'i  precedenti  scolastici.  Gino,  Cavalcanti 
€  Dante  erano  tra'  più  dotti  e  sottili  disputatori  che  fos- 
sero mai  usciti  dalla  scuola  di  Bologna.  La  loro  mente 
robusta  era  stata  educata  a  guardare  in  tutte  le  cose 
il  generale  e  1'  astratto,  e  a  svilupparlo  col  sussidio  della 
logica  e  della  rettorica.  Prima  di  esser  poeti  sono  scien- 
ziati. Anche  verseggiando,  ciò  che  ammirano  i  contem- 
poranei, è  la  loro  scienza. 

Gino  maestro  di  Franceso  Petrarca  e  del  sommo  Bar- 
tolo, fu  dottissimo  giureconsulto.  Il  suo  cemento  sopra 
i  primi  nove  libri  del  Codice  fu  la  maraviglia  di  quella 
età.  Ristoratore  del  diritto  romano  ,  aperse  nuove  vie 
alla  scienza,  e  non  fu  uomo,  come  dice  Banolo  ,  che  più 
di  lui  desse  luce  alla  civil  giurisprudenza.  L'  amore  di 
Selvaggia  lo  fece  poeta,  ma  non  potè  mutare  la  sua  mente. 
In  luogo  di  rappresentare  i  suoi  sentimenti,  come  poeta, 
egli  li  sottopone  ad  analisi ,  come  critico,  e  ne  ragiona 
sottilmente.  Posto  fuori  della  natura  e  nel  campo  della 
astrazione,  ogni  limite  del  reale  si  perde,  e  quella  stessa 


^  47  — 

sottigliezza  che  legava  insieme  i  concetti  più  disparati  e  no 
traeva  argomentazioni  e  conclusioai  fuori  di  ogni  realtà 
e  di  ogni  senso  comune,  creava  ora  una  scolastica  poe- 
tica, 0  per  dirla  col  suo  nome,  una  rettorica  ad  uso  dello 
amore,  piena  di  figure  e  di  esagerazioni,  dove  vedi  com- 
parire gli  spiritelli  d'  amore  che  vanno  in  giro  e  i  so- 
spiri che  parlano.  In  luogo  di  persone  vive,  abbondano 
le  personificazioni.  In  un  suo  sonetto  de'  raegho  condotti 
e  di  grande  perfezione  tecnica  vuol  dire  che  nella  sua 
donna  è  posta  la  salute,  meta  sì  alta,  che  avanza  ogni 
sforzo  d' intelletto ,  e  però  non  resta  altro  che  morire. 
Questo  è  rettorica,  non  solo  per  la  strana  esagerazione 
del  concetto,  ma  per  il  modo  dell'  esposizione  scolastico 
e  dottrinale. 

Questa  donna  che  andar  mi  fa  pensoso, 
Porta  sul  viso  la  virtù  d'  Amore  : 
La  qual  fa  disvegliare  altrui  nel  coro 
Lo  spirito  gentil  che  v'  è  nascoso. 

\  Ella  m'  ha  fatto  tanto  pauroso, 

iPoscia  eh'  io  vidi  quel  dolce  Signore 
j      Negli  occhi  suoi  con  tutto  il  suo  valore, 
j      Che  io  le  vo  presso  e  riguardar  non  V  oso  ; 

E  quando  avvien  che  quei  begli  occhi  miri, 
Io  veggio  in  quella  parte  la  salute, 
Ove  lo  mio  intelletto  non  può  gire. 

AUor  si  strugge  sì  la  mia  salute, 

Che  r  alma,  onde  si  movono  i  sospiri, 
S'  acconcia  per  voler  dal  cor  partire. 

Una  così  strana  esagerazione  non  può  essere  scusata 
che  dall'  impeto  e  dalla  veemenza  della  passione.  Ma  qui 
non  ce  n'  è  vestigio  ;  ed  hai  invece  una  specie  di  tema 
astratto,  che  si  fa  sviluppare  nelle  scuole  per  esercizio 
di  rettorica.  La  prima  quartina  ò  una  maggiore  di  sii- 


-  48  — 

logismo;  intelletto,  animo,  core,  sospiri,  virtù  di  onore 
e  spirito  gentile,  sono  le  sottili  distinzioni  e  astrazioni 
delle  scuole.  Esule  ghibellino,  si  levò  a  grande  speranza, 
quando  seppe  della  venuta  di  Arrigo  di  Lussemburgo;  e 
quando  seppe  della  sua  morte,  scrisse  una  canzone.  Quale 
materia  di  poesia!  dove  dovrebbero  comparire  le  speranze,  i 
disinganni,  le  illusioni  e  i  dolori  dell'  esule.  Ma  è  invece 
una  esposizione  a  modo  di  scienza  sulla  potenza  della 
morte,  e  l' immortalità  della  virtù.  Ancora  più  astratta 
e  arida  è  la  Canzone  sulla  natura  d'  amore  di  Guido  Ca- 
valcanti, dottissimo  di  filosofìa  e  di  rettorica;  la  qual 
canzone  fu  tenuta  miracolo  da'  contemporanei. 

Adunque,  la  vita  religiosa,  morale  e  politica  era  ap- 
pena nella  sua  prima  formazione,  e  la  splendida  vita  che 
raggiava  da  Bologna  era  anch'  essa  materia  greggia , 
pretta  vita  scientifica,  messa  in  versi. 

Siamo  alla  seconda  metà  del  dugento.  La  Sicilia,  mal- 
grado la  sua  Nina,  è  già  nell'  ombra.  I  due  centri  della 
vita  italiana  sono  Bologna  e  Firenze  ,  V  una  centro  del 
movimento  scientifico,  V  altra  centro  dell'  arte.  Neil'  una 
prevaleva  il  latino,  la  lingua  de'  dotti  ;  nell'  altra  preva- 
leva il  volgare,  la  lingua  dell'  arte. 

L'impulso  scientifico  partito  da  Bologna,  traendosi  ap- 
presso anche  la  poesia ,  dava  il  bando  alla  superficiale 
galanteria  de'  Trovatori  :  il  pubblico  domandava  cose  e 
non  parole.  E  si  formò  una  coscienza  scientifica  ed  una 
scuola  poetica  conforme  a  quella.  Il  tempo  de'  poeti  spon- 
tanei e  popolari  finisce  per  sempre. 

Il  nuovo  poeta  scrive  con  intenzione.  Più  che  poeta^ 
egli  è  lume  di  scienza  ;  si  chiamò  Brunetto  Latini,  l' en- 
ciclopedico, Cino,  il  primo  giureconsulto  dell'  età,  Caval- 
canti, filosofo  prestantissimo,  Dante,  il  primo  dottore  e 
disputatore  de'  tempi  suoi.  Scrivono  versi  per  bandire  la 
verità,  spiegare  popolarmente  i  fenomeni  più  astrusi  dello 
spirito  e  della  natura.  La  poesia  è  per  loro  un  ornamento. 


—  49  — 

la  bella  vest^-della  verità  o  della  filosofìa,  uso  amoroso 
di  sapienza  come  dice  Dante  nel  Convito.  Ci  è  dunque 
in  loro  una  doppia  intenzione.  Ci  è  una  intenzione  scien- 
tifica. Ma  ci  è  pure  una  intenzione  artistica,  di  ornare  e  di 
abbellire.  L' artista  comparisce  accanto  allo  scienziato. 
Questo  doppio  uomo  è  già  visibile   in   Guido  Guinicelli. 

È  in  Toscana  massime  in  Firenze  che  si  forma  questa 
coscienza  dell'  arte.  Il  volgare,  venuto  già  a  grande  per* 
fezidne^,  èra  parlato  e  scritto  con  una  proprietà  e  una 
grazia,  di  cui  non  era  esempio  in  nessuna  parte  d'Ita- 
lia. Se  i  poeti  superficiali  dispiacevano  a  Bologna,  i  poeti 
incolti  e  rozzi  non  piacevano  a  Firenze,  A  lungo  andare 
non  vi  poterono  essere  tollerati  Guittone  e  Brunetto,  e 
sorgeva  la  nuova  scuola,  la  quale  se  a  Bologna  signi- 
ficava scienza,  a  Firenze  significava  arte. 

Questo  primo  svegliarsi  di  una  coscienza  artistica  è 
già  notato  in  Gino.  Egli  scrive  con  manifesta  intenzione 
di  far  rime  polite  e  leggiadre,  e  cerca  non  solo  la  pro- 
prietà, ma  anche  la  venustà  del  dire.  Aveva  animo  gen- 
tile e  aJBfettuoso,  e  orecchio  musicale.  Se  a  lui  manca  la 
evidenza  e  l'efficacia,  virtù  della  forza,  non  gli  fa  di- 
fetto la  melodia  e  1'  eleganza,  con  una  certa  vena  di  te- 
nerezza. Fu  il  precursore  del  grajode  jjux^^d^^^^  Fran- 
cesco Petrarca. 

Ecco  un  esempio  della  sua  maniera: 

Poiché  saziar  non  posso  gli  occhi  miei 
^         Di  guardare  a  Madonna  il  suo  bel  viso, 
Mirarol  tanto  fiso  ' 

Oh'  io  diverrò  beato  lei  guardando. 
A  guisa  di  Angel  che  di  sua  natura 
Stando  su  in  altura 
Divien  Beato  sol  vedendo  Iddio; 
Così  essendo  umana  orlatura 
Guardando  la  figura 

De  Sbnotis  -  Lett.    Ital.  Voi.  I.  4 


—  50  — 

Di  questa  donna,  che  tiene  il  cor  mio, 
Potrei  beato  divenir  qui  io. 


Raccomando  agli  studiosi  la  canzone  sugli  occhi  della 
sua  Donna,  che  ispirò  le  tre  sorel'e  del  Petrarca,  il  quale 
ne  imitò  anche  la  fine,  che  è  piena  di  grazia  : 

Or  se  prendete  a  noia 

Lo  mio  amor,  occhi  d'  amor  rubegli 
Foste  per  comun  ben  stati  men  begli. 

Agli  occhi  della  forte  mia  nemica 
Fa,  Canzon  che  tu  dica  : 
Poi  che  veder  voi  stessi  non  possete. 
Vedete  in  altri  almen  quel  che  voi  siete. 

E  ci  ha  pure  parecchi  sonetti,  dove  Gino  in  luogo  di 
filosofare  e  sottilizzare  si  contenta  di  rappresentare  con 
semplicità  il  suo  stato,  e  sono  teneri  ed  affettuosi.  Meno 
apparisce  dotto,  e  più  si  rileva  artista. 

La  coscienza  artistica  si  mostra  in  Gino  nelle  qualità 
tecniche  ed  esteriori  della  forma.  La  sua  principale  indu- 
stria è  di  sviluppare  gli  elementi  musicali  della  Ungua  e 
del  verso,  né  fino  a  quel  tempo  la  lingua  sonò  si  dolce 
in  nessun  poeta,  rendendo  imagine  di  un  bel  marmo  po- 
lito, da  cui  sia  rimossa  ogni  asprezza  e  disuguaglianza. 
Ma  qualità  più  serie  e  più  profonde  si  rivelano  in  Guido 
Cavalcanti.  Anche  in  lui  la  perfezion  tecnica  è  somma, 
anzi  in  lui  è  scienza.  Innamorato  della  lingua  natia,  pose 
ogni  studio  a  dirozzarla,  e  fissarla,  e  scrisse  una  gra- 
matica  e  un'arte  del  dire.  Egli,  nota  Filippo  Villani,  di- 
lettandosi degli  studii  rettorici,  essa  arte  in  composizioni 
di  rime  volgari  elegantemente  ed  artificiosamente  tra- 
dusse. Di  che  si  vede,  quanta  impressione  dovè  fare  su'  con- 
temporanei di  Guittone  e  Brunetto  Latini  tanto  e  sì  nuo- 
vo artificio  spiegato  come  scienza  e  applicato  come  arte. 


—  ol- 
eosi Guido  divenne  il  capo  della  nuova  scuola,  il  crea- 
tore del  nuovo  stile,  e  oscurò  Guido  Guinicelli  : 

Così  ha  tolto  r  uno  all'  altro  Guido 
La  gloria  della  lingua. 

Ma  la  gloria  della  lingua  non  bastava  a  Guido,  a  cui 
lingua  e  poesia  erano  cose  accessorie,  semplici  ornamenti: 
sostanza  era  la  filosofia.  Perciò  aveva  a  disdegno  Vir- 
gilio, parendogli  dice  il  Boccaccio,  la  filosofia,  siccome, 
ella  è,  da  mollo  più  che,  la  poesia.  Sottilissimo  dialet- 
tico, come  lo  chiama  Lorenzo  de'  Medici,  introduce  nella 
poesia  tutte  le  finezze  rettoriche  e  scolastiche  ,  e  mira 
a  questo,  non  solo  di  dir  bene,  ma  dir  cose  importanti. 
I  contemporanei  studiarono  la  sua  Canzone  dell'  amore, 
come  si  fa  un  trattato  filosofico  ,  e  ne  fecero  comenti, 
come  si  soleva  di  Aristotele  e  di  san  Tommaso  :  anche 
più  tardi  il  Ficino  vi  cercava  le  dottrine  di  Platone.  Cosi 
Guido  era  tenuto  eccellente  non  solo  come  artificioso  ed 
elegante  dicitore,  ma  come  sommo  filosofo. 

Questo  voleva  Guido  e  questo  ottenne,  questo  gli  bastò 
ad  acquistare  ii  primo  posto  fra  i  contemporanei.  Salu- 
tavano in  lui  lo  scienziato  e  1'  artista. 

Ma  Guido  fu  dotto  più  che  scienziato.  Fu  benemerito 
della  scienza  perchè  la  divulgò,  non  perchè  vi  lasciasse 
alcuna  sua  orma  propria.  E  fu  artefice  più  che  artista, 
inteso  massimamente  alla  parte  meccanica  e  tecnica  della 
forma:  vanto  non  piccolo,  ma  che  tocca  la  sola  super- 
ficie dell'  arte. 

La  gloria  di  Guido  fu  là ,  dov'  egli  non  cercò  altro 
che  un  sollievo  e  uno  sfogo  dell'  animo.  Fu  là,  eh'  egU 
senza  volerlo  e  saperlo  si  rivelò  artista  e  poeta.  Vi  sono 
uomini  che  i  contemporanei  ed  essi  medesimi  sono  inca- 
paci di  apprezzare.  Guido  era  più  grande  eh' egli  stesso 
e  i  suoi  contemporanei  non  sapevano. 

Guido  è  il  primo  poeta  italiano,  degno  di  questo  nome, 


f 


—  52  — 

/  perchè  è  il  primo  che  abbia  >1  senso  e  T  affetto  del  reale. 
Le  vuote  generalità  de'  Trovatori,  divenute  poi  un  con- 
tenuto scientifico  e  rettorico,  sono  in  lui  cosa  viva,  perchè, 
quando  scrive  a  diletto  e  a  sfogo,  rendono  le  impressioni 
■e  i  sentimenti  dell'  anima.  La  poesia  che  prima  pensava 
e  descriveva,  ora  narra  e  rappresenta,  non  al  modo  sem- 
plice e  rozzo  di  antichi  poeti,  ma  con  quella  grazia  e  fi- 
nitezza a  cui  era  già  venuta  la  lingua,  maneggiata  da 
.Guido  con  perfetta  padronanza.  Qui  sono  due  forosette, 
egregiamente  caratterizzate  che  gli  cavano  di  bocca  il 
suo  segreto  d'  amore.  Là  è  una  pastorella  che  incontra 
nel  boschetto,  e  ti  abbozza  una  scena  d'  amore  colta  dal 
vero.  Sono  gli  stessi  concetti  de'  trovatori,  ma  realizzati, 
non  solo  ornati  e  illeggiadriti  al  di  fuori,  ma  trasformati 
nella  loro  sostanza,  divenuti  caratteri,  immagini,  senti- 
menti, cioè  a  dire  vita  e  azione.  Sentj^  là  dentro  l' anima 
dello  scrittore,  ora  lieta  e  serena  che  si  esprime  con  una 
grazia  ineffabile  come  nelle  ballate  delle  forosette  e  della 
pastorella  ,  ora  penetrata  di  una  malinconia  che  si  ef- 
fonde con  dolcezza  negli  amabili  sogni  dell'  immaginazione 

e  nella  tenerezza  dell'  affetto ,  come    nella   ballata ,  che 

« 

scrisse  esule  a  Sarzana,  il  canto  del  cigno,  il  presenti- 
mento della  morte.  Qui  lo  scienziato  sparisce  e  la  ret- 
torica  è  dimenticata.  Tutto  nasce  dal  di  dentro ,  natu- 
rale, semplice,  sobrio,  con  perfetta  misura  tra  il  sentimento 
e  r  espressione.  Il  poeta  non  pensa  a  gradire,  a  cercare 
effetti,  a  fare  impressioni  con  le  sottigliezze  della  dot- 
trina e  della  rettorica:  scrive  sé  stesso,  come  si  sente 
in  un  certo  stato  dell'animo,  senz' altra  pretensione  che 
di  sfogarsi ,  di  espandersi ,  segnando  la  via  nella  quale 
Dante  fece  tanto  cammino.  I  posteri  poterono  applicare 
a  lui  quello  che  Dante  disse  di  sé  : 

Io  mi  son  un,  che  quando 

Amor  mi  spira,  noto  e  a  quel  modo 

Ch'  ai  detta  dentro,  vo  significauTlo. 


—  53  — 

Il  che  non  avvenne  di  Lentino,  di  Guittone,  rimasti  al 
di  qua  del  dolce  siti  nuovo,  perchè  esagerarono  i  sen- 
timenti, andarono  al  di  là  della  natura,  per  gradire,  pia- 
cere a'  lettori. 

E  qual  più  a  gradire  oltre  si  mette, 
Nou  vede  più  dall'uno  all'altro  stile. 

Di  questo  dolce  stil  nuovo  il  precursore  fu  Guinicelli, 
il  fabbro  fu  Gino,  il  poeta  fu  Cavalcanti.  La  nuova  scuola 
non  era  altro  che  una  coscienza  più  chiara  dell'  arte.  La 
filosofìa  perse  sola  fu  stimata  insufficiente,  e  si  richiese 
la  forma.  Guittone  d' Arezzo  non  fu  più  apprezzato,  quan- 
tunque di  filosofia  ornatissimo y  grave  e  sentenzioso, 
come  dice  Lorenzo  de'  Medici ,  'perchè  gli  mancava  lo 
stile,  alquanto  ruvido  e  severo ,  né  di  alcun  dolce  lume 
di  eloquenza  acceso.  Anche  Benvenuto  da  Imola  chiama 
nude  le  sue  parole  e  lo  commenda  per  le  gravi  sentenze 
ma  non  per  lo  stile.  Nasceva  in  Firenze  un  nuovo  senso, 
il  senso  della  forma. 

A  quel  tempo  fra  tante  feroci  gare  politiche  la  lette- 
ratura era  nel  suo  fiore  in  tutta  Toscana  e  sotto  i  più 
diversi  aspetti.  Dante  da  Majano  era  un'eco  de' Trova- 
tori, con  la  sua  Nina  siciliana.  Guittone,  Brunetto,  Or- 
biciani  da  Lucca  erano  poeti  dotti  ma  rozzi,  come  i  Bo- 
lognesi Onesto  eSemprebene.  Ma  già  il  culto  della  formp, 
l'amore  del  bello  stile  si  sente  in  parecchi  poeti.  Dino 
Frescobaldi,  Rustico  di  Fihppo ,  Guido  Novello,  Lapo 
Gianni,  Cecco  d'Ascoli  sono  il  corteggio,  nel  quale  emerge 
la  figura  di  Guido  Cavalcanti. 

Ma  ben  presto  al  nome  di  Guido  Cavalcanti  si  accom  - 
pagnò  quello  di  Dante  Alighieri,  legati  insieme  da  una 
amicizia  che  non  si  ruppe  se  non  per  morte.  Parvero  le 
Nuove  Rime ,  e  fu  tale  l' impressione  eh'  ei  sah  subito 
accanto  a  Cavalcanti.  Sembrò  che  avesse  risolto  il  pro- 
blema di  esprimere   le  profondità   della  scienza  in  bella 


—  54  — 

forma  :  ultimo  segno  a  cui  si  mirava.  Perciò  ebbe  molta 
voga  la  sua  canzone  : 

Donne,  che  avete  intelleto  d'amore; 

e  ancora  più  1'  altra  : 

Voi  che  intendendo  il  terzo  ciel  movete. 

Dante  avea  la  stessa  opinione.  Il  dotto  discepolo  di 
Bologna  mira  poetando  a  divulgare  la  scienza ,  usando 
modi  piani  e  aperti  alla  intelligenza  comune.  Nella  can- 
zone, dove  esorta  la  donna  a  dispregiare  uomo  che  da 
sé  virtù  fatta  ha  lontana,  dice- 

Ma  perchè  il  mio  dire  util  vi  sia, 

Discenderò  del  tutto 

In  parte  ed  in  costrutto 

Più  lieve,  perchè  men  grave  s'intenda; 

Che  rado  sotto  benda 

Parola  oscura  giugne  allo  intelletto  ; 

Perchè  parlar  con  voi  si  vuole  aperto. 

E  quanto  pure  è  costretto  a  celare  sotto  benda  i  suoi 
concetti,  aggiunge  un  comento  in  prosa  e  dichiara  egli 
medesimo  la  sua  dottrina.  Tale  è  il  comento  che  fa  alla 
canzone  : 

Voi  che  intendendo  il  terzo  ciel  movete  ; 

e  parendogli  che  senza  quel  comento  la  canzone,  presa 
in  sé  stessa,  rimanga  fuori  dell'  intelligenza  volgare,  fi* 
nisce  così  : 

Canzone,  io  credo  che  saranno  radi 
Color  che  tua  ragion  intendan  bene, 
Tanto  lor  parli  faticosa  e  forte  : 
Onde  se  per  ventura  egli  addiviene. 
Che  tu  dinanzi  da  persone  vadi, 
Che  non  ti  pajan  d'  essa  bene  accorte  ; 
AUor  ti  priego  che  ti  riconforte, 


—  oo  

Dicendo  lor:  diletta  mia  novella: 
Ponete  mente  almen  com'io  son  bella. 

C  era  dunque  nell'  intenzione  di  Dante  di  bandire  i 
veri  della  scienza  ora  nella  forma  diretta  dal  ragiona- 
mento, ora  sotto  il  velo  dell'  allegoria,  ma  in  modo  che 
la  poesia  quando  anche  non  fosse  compresa  da'  più,  avesse 
un  valore  in  sé  stessa,  fosse  bella  e  dilettasse.  Era  la 
teoria  della  nuova  scuola  nella  sua  più  alta  espressione, 
una  coscienza  artistica  più  chiara  e  più  sviluppata.  Il 
rispetto  della  verità  scientifica  è  tale,  che  Dante  si  do- 
manda, come  essendo  Amore  non  sostanza,  ma  accidente, 
possa  egli  farlo  ridere  e  parlare,  come  fosse  persona.  E 
adduce  a  sua  difesa,  che  i  rimatori,  che  fanno  versi  in 
volgare  hanno  gli  stessi  privilegi  de  poeti,  nome  che  dà 
a'  latini,  i  quah,  come  Virgilio,  Ovidio,  Lucano,  Orazio, 
diedero  moto  e  parole  alle  cose  inanimate  :  il  che  egli 
chiama  rimare  sotto  vesta  di  figura  o  di  colore  ret- 
torico,  qualificando  rimatori  stolti  quelli  che  domandati 
non  sapessero  dinudare  le  loro  parole  da  cotal  vesta. 
Onde  si  vede  che  Dante  e  Cavalcanti,  eh'  egli  qui  chiama 
il  suo  primo  amico,  spregiavano  e  questi  rimatori  stolti, 
che  usavano  rettorica  vuota  di  contenuto  *,  e  quelli  che 
ti  davano  un  contenuto  scientifico  nudo,  senza  rettorica. 
Qui  è  tutta  la  nuova  scuola  poetica,  rimasa  per  molti 
secoli  r  ultima  parola  della  critica  italiana  :  ciò  che  il  Tasso 
chiamò  coìidire  il  vero  in  molli  versi. 

Con  queste  teorie,  con  queste  abitudini  della  mente 
parecchie  canzoni  e  sonetti  sono  ragionamenti  con  lume 
di  rettorica,  concetti  coloriti.  Di  tal  natura  è  la  Canzono 
sulla  gentilezza  o  nobiltà  : 

Le  dolci  rime  d'amor  ch'i' solfa. 


1  Dice  cosi  :  questo  mio  primo  amico  ed  io  uè  sapemo  bone  di  quelli 
che  così  rimano  stoltamente. 


—  56  -^ 

e  r  altra  : 

Amor,  tu  vedi  ben  che  questa  donna, 

dove  sotto  colore  rettorico  di  donna  amata  rappresenta 
gli  effetti  che  sul  suo  animo  produce  lo  studio  della  fi- 
losofia. I  fenomeni  dell'  amore  e  della  natura  sono  spie- 
gati scientificamente,  più  che  rappresentati,  com'è  l'in- 
verno nella  canzone  : 

Io  son  venuto  al  punto  della  rota, 
e  come  è  l' amore  nella  canzone  : 

Amor  che  muovi  tua  virtù  dal  cielo; 
0  come  è  la  bellezza  nella  canzone  : 

Amor  che  nella  mente  mi  ragiona. 

Delle  canzoni  allegoriche  e  scientifiche  la  più  accessi- 
bile e  popolare  è  quella  delle  tre  donne,  Drittura,  Lar- 
ghezza, Temperanza,  germane  d' amore,  che  cacciate  dal 
mondo  vanno  mendicando. 

Ciascuna  par  dolente  e  sbigottita, 

Come  persona  discacciata  e  stanca, 

Cui  tutta  gente  manca, 

E  cui  virtute  e  nobiltà  non  vale. 

Tempo  fu  già,  nel  quale, 

Secondo  il  lor  parlar,  furon  dilette  ; 

Or  sono  a  tutti  in  ira  ed  in  non  cale. 

Qui  il  poeta  non  ragiona  ma  narra  e  rappresenta.  Il 
concetto  scientifico  è  vinto  dalla  vivacità  della  rappre- 
sentazione e  dalla  elevatezza  del  sentimento.  Il  colore 
rettorico  non  è  semplice  colorito,  ma  è  la  sostanza. 

In  queste  canzoni  scientifiche  Dante  mostra  ben  altra 
forza  e  vivacità  e  ricchezza  di  concetti  e  di  colori  che 
i  due  Guidi.  Egli  fu  il  suo  proprio  cementatore,  avendo 
nella  vita  Nuova  e  nel  Convito  spiegata  1'  occasione,  il 


—  57  — 

concetto ,  la  forma  delle  sue  poesie.  E  quanto  alia  parte 
tecnica,  all'uso  della  lingua,  del  verso  e  della  rima,  nel 
suo  libro  de  Vulgari  eloquio  mostra  che  ne  intendeva 
tutt'i  più  riposti  artificii.  I  contemporanei  trovavano  in 
queste  poesie  il  perfetto  esempio  della  loro  scuola  poe- 
tica: la  maggior  dottrina  sotto  la  più  leggiadra  veste 
rettorica. 

Il  mondo  lirico  di  Dante  è  la  stessa  materia  che  s*  era 
ita  finora  elaborando,  con  maggior  varietà  e  con  più  chiara 
coscienza.  Il  Dio  di  questo  mondo  è  Amore,  prima  con  . 
le  ammirazioni,  i  tormenti  e  le  immaginazioni  della  gio-/ 
vanezza,  poi  con  un  misticismo  ed  un  entusiasmo  filoso- 
fico. Amore  non  può  operare  che  ne'  cuori  gentih  :  per- 
ciò gli  amanti  sono  chiamati  fini  e  cortesi.  Gentilezza 
non  nasce  da  nobiltà  o  da  ricchezza,  ma  da  virtù.  E 
però  le  virtù  sono  suore  d'amore  e  fanno  star  lucente 
il  suo  dardo  finché  sono  onorate  in  terra.  Ma  la  virtù 
è  in  pochi,  e  l'amore  è  perciò  di  pochi  vivanda.  V  ob- 
bietto  dell'  amore  è  la  bellezza ,  non  il  hello  di  fuori, 
le  parti  nude,  ma  il  dolce  pomo,  concesso  solo  a  chi  ^ 
amico  di  virtù.  La  bellezza  non  si  mostra  se  non  a  chi 
la  intende:  amore  è  chiamato  dagli  antichi  intendanza, 
e  Dante  non  dice  sentire  amore,  ma  avere  intelletto 
d' amore.  Ad  appagare  l' amore  basta  il  vedere,  la  con- 
templazione. Vedere  è  amore,  amore  è  intendere. 

E  chi  la  vede,  e  non  se  n'  innamora, 
D'amor  non  averà  mai  intelletto. 

Le  intelligenze  celesti  movono  le  stelle  intendendo: 

Voi  che  intendendo  il  terzo  ciel  movete. 

Dio  move  1'  universo  pensando  : 

Costei  pensò  chi  mosse  1'  universo. 
Nò  altro  è  amore  nell'  uomo  che  nova  inlelligenza. 


/ 


—  58  — 

che  lo  tira  su^  lo  avvicina  alla  prima   intelligenza.  La 
donna,  esemplare  della  bellezza,  è  nobile  intelletto, 

.     0  nobile  intelletto  ; 
Oggi  fu  Tanno  che  nel  ciel  partisti. 

La  donna  è  perciò  il  viso  della  conoscenza ,  la  bella 
faccia  della  scienza,  che  invaghisce  V  uomo  e  sveglia  in 
lui  nova  intelligenza,  lo  fa  intendere.  La  donna  dunque 
è  la  scienza  essa  medesima,  è  la  filosofia  nella  sua  bella 
apparenza  :  e  questo  è  la  bellezza,  il  dolce  pomo  consen- 
tito a  pochi.  Intendere  è  amore ,  e  amore  è  operare 
come  s' intende  ;  perciò  filosofia  è  uso  amoroso  di  sa- 
pienza ,  scienza  divenuta  azione  mediante  l'  amore.  La 
virtù  non  è  altro  che  sapienza,  vivere  secondo  i  dettati 
della  scienza.  Perciò  l' amante  è  chiamato  saggio  :  e  la 
donna  è  saggia  prima  di  esser  bella  : 

iBeltade  appare  in  saggia  donna  pui 
«Che  piace  agli  occhi. 

La  beltà  non  è  eiltro  che  1'  apparenza  della  saggezza, 
sì  che  piaccia  e  innamori  di  sé. 

Con  questo  mistÌGÌsmo  filosofico  si  accordava  il  misti- 
cismo religioso  ,  secondo  il  quale  il  corpo  è  velo  dello 
spirito,  e  la  bellezza  è  la  luce  della  verità ,  la  faccia  di 
Dio,  somma  Intelligenza,  contemplazione  degli  Angioli,  e 
dei  Santi.  Dio,  gli  angioli,  il  Paradiso  rappresentano  an- 
che qui  la  loro  parte.  Teologia  e  filosofia  si  danno  la 
mano.  ' 

È  la  prima  volta  che  questo  contenuto  esce  fuori  nella 
sua  integrità  e  con  cosi  perfetta  coscienza.  È  l' idealismo 
di  quel  tempo,  con  la  sua  forma  naturale,  1'  allegoria.  Ag- 
giungi r  opera  della  immaginazione  ,  che  dà  alle  figure 
tanta  vivacità  di  colorito,  ed  hai  T  ultimo  segno  di  per- 
fezione che  si  poteva  allora  desiderare. 


^  50  -^ 

III. 

LA  LIRICA  DI  DANTE 

Fin  qui  giunge  la  coscienza  di  Dante  Se  gli  domandi 
più  in  là,  ti  risponde  come  Raffaello:  noto,  quando  amor 
7nì  spira:  ubbidisco  all'ispirazione.  E  appunto,  se  vogliam 
trovar  Dante ,  dobbiamo  cercarlo  qui,  fuori  della  sua 
coscienza,  nella  spontaneità  della  sua  ispirazione.  Innanzi 
tutto,  Dante  ha  la  serietà  e  la  sincerità  dell'  ispirazione. 
Chi  legge  la  Vita  Nuova,  non  può  mettere  in  dubbio  la  sua 
sincerità.  Ci  si  vede  lo  studente  di  Bologna,  pieno  il  capo 
di  astronomia  e  di  cabala,  di  filosofìa  e  di  rettorica,  di 
Ovidio  e  di  Virgilio,  di  poeti  e  di  rimatori,  ma  tutto 
questo  non  è  la  costanza  del  libro,  ci  entra  come  colo- 
rito e  ne  forma  il  lato  grottesco.  Sotto  l'abito  dello  stu- 
dente, ci  è  un  cuore  puro  e  nuovo,  tutto  aperto  alle  ira- 
pressioni,  facile  alle  adorazioni  e  alle  disperazioni,  ed  una 
fervida  immaginazione  che  lo  tiene  alto  da  terra  e  va- 
gabonda nel  regno  de' fantasmi.  L*  amore  per  la  bella  fan- 
ciulla, involta  di  drappo  sanguigno,  eh'  egli  chiama  Bea- 
trice, ha  tutt'  i  caratteri  di  un  primo  amore  giovanile, 
nella  sua  purezza  e  verginità,  più  nell'immaginazione  che 
nei  cuore.  Beatrice  è  più  simile  a  sogno,  a  fantasma,  a 
ideale  celeste,  che  a  realtà  distinta,  e  che  produca  effetti 
propdi.  Uno  sguardo,  un  saluto  è  tutta  la  storia  di  que- 
sto amore.  Beatrice  mori  angiolo,  prima  che  fosse  donna^ 
e  r  amore  non  ebbe  tempo  di  divenire  una  passione,  come 
si  direbbe  oggi,  rimale  un  sogno  ed  un  sospiro  Appunto 
perchè  Beatrice  ha  cosi  poca  realtà  e  personalità,  esiste 
più  nella  mente  di  Dante,  che  fuori  di  quella,  ed  ivi  coe- 
siste e  si  confonde  con  l'ideale  del  trovatore,  l'ideale  del 
filosofo  e  del  cristiano:  mescolanza  fatta  con  perfetta  buona 
fede,  e  p.'rciò  grottesca  certo,  ma  non  falsa  e  non  con- 


—  GO  - 

venzionale.  Queste  che  presso  gli  altri  sono  astrattezze 
scolastiche  e  rettoriche,  qui  sono  cacciate  nel  fondo  del 
quadro ,  sono  non  il  quadro ,  ma  contorni  e  accessorii. 
Il  quadro  è  Beatrice,  non  cosi  reale  che  tiri  e  chiuda  in 
sé  r  amante,  ma  reale  tanto  che  opera  con  efficacia  sul 
suo  cuore  e  sulla  sua  immaginazione.  Non  ci  è  proprio 
l'amante,  ma  ci  è  il  poeta,  che  per  questo  o  quello  in- 
cidente anche  minimo  del  suo  amore  si  sente  mosso  a 
scrivere  sé  stesso  in  un  sonetto  o  in  una  canzone.  Quando 
il  suo  animo  è  tranquillo,  fa  capolino  il  dottore,  il  re- 
tore, e  il  rimatore  ;  ma  quando  il  suo  animo  è  veracemente 
commosso,  Dante  gitta  via  il  suo  berretto  di  dottore, 
e  le  sue  regole  rettoriche  e  le  sue  reminiscenze  poeti- 
che, e  ubbidisce  all'ispirazione.  Allora  é  Beatrice,  solo 
B  eatrice,  che  occupa  la  sua  mente,  e  le  sue  impressioni, 
appunto  perchè  immediate  e  sincere,  sono  quasi  pure  di 
ogni  mescolanza.  Il  suo  amore  si  rileva  schietto  come  lo 
sente,  più  adorazione  e  ammirazione,  che  appassionato 
amore  di  donna.  Tale  è  il  sonetto  : 

Tanto  gentile  e  tanto  onesta  pare. 

E  tale  è  la  ballata,  ove  con  la  grazia  e  l'ingenuità 
di  una  fanciulla  scesa  pur  ora  di  cielo  cosi  parla  Bea- 
trice : 

Io  mi  son  pargoletta  bella  e  nova, 
E  son  venuta  per  mostrarmi  a  vui 
Dalle  bellezze  e  loco,  dond'io  fui. 

Io  fui  del  cielo  e  tornerovvi  ancora, 
Per  dar  della  mia  luce  altrui  diletto; 
E  chi  mi  vede  e  non  se  ne  innamora, 
D'amor  non  averà  mai  intelletto. 

Ciascuna  stella  negli  occhi  mi  piove 
Della  sua  luce  e  della  sua  virtute: 


.-  61  — 

Le  mie  bellezze  sono  al  mondo  nove, 
Perocché  di  lassù  mi  son  venute. 

Questo  non  è  allegoria,  e  non  è  concetto  scientifico: 
0  per  dir  meglio  ci  è  1*  allegoria  e  ci  è  il  concetto  scien- 
tifico ,  ma  profondato  ed  obbJiato  in  questa  creatura , 
perfettamente  realizzato  ,  conforme  a  quel  primo  ideale 
della  donna  che  apparisce  all'  immaginazione  giovanile. 
Se  nell'espressione  di  quésta  ingenua  ammirazione  trovi 
qualche  reminiscenza  di  repertorio  e  qualche  preoccupa- 
zione scientifica,  senti  un  accento  di  verità  puro  ed  au- 
tonomo neir  espressione  del  dolore,  la  vera  Musa  di  que- 
sta lirica.  Perchè  infine  questa  breve  storia  d'  amore  ha 
rari  intervalli  di  gìoja  serena  e  contemplativa  ;  la  morte 
del  padre  di  Beatrice,  il  suo  dolore,  il  presentimento  della 
sua  morte  e  la  sua  morte  sono  la  sostanza  del  quadro^ 
il  motivo  tragico  della  poesia.  Finché  Beatrice  vive  è  un 
secreto  del  cuore  che  il  poeta  s' industria  con  ogni  più 
sottile  arte  di  custodire;  la  storia  è  poco  interessante, 
intessuta  di  artificiose  e  fredde  dissimulazioni  ;  ma  quando 
quell'ideale  della  giovinezza  minaccia  di  scomparire,  quando 
scompare,  al  poeta  manca  con  quello  il  fondamento  della 
sua  vita,  e  si  sente  solo  e  si  sente  morire  insieme  con 
quello.  Ne  nasce  una  situazione  nuova  nella  storia  della 
nostra  poesia:  l'amore  appena  nato,  simile  ancora  a' pri- 
mi fuggevoli  sogni  della  giovanezza,  che  acquista  la  sua 
realtà  presso  alla  tomba  ed  oltre  la  tomba.  L'  amore  si 
rivela  nella  morte.  Là  perde  quell'  aria  fattizia  e  con- 
venzionale, che  gli  veniva  da'  trovatori  e  della  scienza. 
Là  non  è  più  concetto,  né  allegoria,  ma  è  sentimento  e 
fantasia.  Quell'  amore  che  in  vita  della  donna  non  si'  è 
J  potuto  ancora  realizzare,  eccolo  qui  nella  sua  schietta  e 
■  pura  espressione,  ora  che  Beatrice  muore.  A  questa  si- 
tuazione si  rannoda  la  parte  più  eletta  e  poetica  di  que- 
sta lirica.  Poi  vengono  sentimenti  più  temperati  ;  il  poeta 


—  62  — 

si  consola  cantando  la  loda  della  morta;  Beatrice,  ita 
nel  cielo,  diviene  la  Verità,  la  cara  immagine  sotto  la 
quale  il  poeta  inviluppa  le  sue  speculazioni,  la  bella  faccia 
della  Sapienza.  Non  hai  più  la  Vita  Nuova  hai  il  Convito- 
L'  amore  non  è  più  un  sentimento  individuale  ;  ma  è  il 
principio  della  vita  divina  e  umana.  Beatrice  nella  sua 
gloriosa  trasfigurazione  diviene  un  simbolo,  il  dolce  no- 
me che  il  poeta  dà  al  suo  amore  ,  alla  filosofia.  Ma  la 
filosofìa  non  è  in  Dante  astratta  scienza  :  è  Sapienza,  cioè 
a  dire  pratica  della  vita  ;  con  che  orgoglio  si  profess;i 
amico  della  filosofia!  e  vuol  dire  amico  di  virtù,  che  ti 
fa  spregiare  ricchezze  e  onori  e  gentilezza  di  sangue,  e 
ti  dà  la  vera  nobiltà,  che  ti  viene  da  te  e  non  dagli  altri. 
Intendere  è  per  lui  il  principio  del  fare  ;  e  la  forza  che 
dà  attività  all'  intelletto  ed  efficacia  alla  volontà  è  l' amore. 
In  questa  triade  è  l'unità  della  vita;  l'uno  non  può  star 
senza  1'  altro.  Or  tutto  questo  in  Dante  non  è  mera  spe- 
culazione, ne  vanità  scientifica;  ma  è  vero  amore,  ma 
è  un  sentimento  morale  cosi  profondo  ed  efficace,  come 
è  la  fede  ne'  credenti.  La  filosofia  investe  tutto  Y  uomo» 
e  si  addentra  in  tutti  gli  aspetti  della  vita.  Questa  se- 
rietà e  sincerità  di  sentimento  fa  penetrare  fra  tante  sot- 
tili e  scolastiche  speculazioni  una  elevatezza  morale,  tanto 
più  poetica,  quanto  meno  espressa,  ma  che  si  sente  nel 
tono,  nel  colorito,  nello  stile.  Tale  è  la  sublime  risposta 
di  Amore  alle  sorelle  esuli,  e  quel  subito  ritorno  del  poeta 
in  sé  medesimo  ; 

L'  esilio  che  m'  è  dato  onor  mi  tegno  ; 

€  questo  sentimento  rende  tollerabile  tanta  pedanteria 
quanta  è  nella  canzone  sulla  vera  gentilezza.  La  quale 
elevatezza  morale  non  è  disgiunta  in  lui  da  un  certo  or- 
gogHo  direi  aristocratico  del  sentirsi  solo  con  pochi  pri- 
vilegiato da  Dio  alla  sapienza  :  cosi  alto  ha  collocato  lo 
ideale  della  scienza  e  della  virtù.. 


—  63  — 

Elli  son  quasi  Dei 

Quei  che  han  tal  grazia  fuor  di  tutt'  i  rei  ; 

Che  solo  Dio.  air  anima  la  dona. 

Sentimento  di  soddisfazione  che  si  volge  in  tristezza  e 
talora  in  fieri  accenti  di  sdegno  contro  la  moltitudine 
degli  uomini  bestie  che  somigliano  uomo.  E  dove  non 
è  virtù,  non  è  amore,  e  non  dovrebbe  esser  bellezza  : 
onde  esorta  le  donne  a  partirla  da  loro  : 

Che  la  beltà  che  Amore  in  voi  consente, 

A.  virtù  solamente 

Formata  fu  dal  suo  decreto  antico, 

Contro  lo  qual  fallate. 

lo  dico  a  voi 'che  siete  innamorate. 

Che  se  beltate  a  voi 

Fu  data  e  virtù  a  noi, 

Ed  a  costui  di  due  potere  un  farà, 

Voi  non  dovreste  amare, 

Ma  coprir  quanto  di  beltà  vi  è  dato, 

Poiché  non  è  virtù,  eh'  era  tuo  segno. 

Lasso  !  a  che  dicer  vegno  ? 

Dico  che  bel  disdegno 

Sarebbe  in  donna  di  ragion  lodato 

Partir  da  se  beltà  per  s  o  commiato. 

Qui  sviluppato  in  forma  scolastica  è  il  solito  concetto 
dell'amore,  che  fa  uno  di  due,  unisce  bellezza  e  virtù. 
Ma  questo  concetto  è  per  Dante  cosa  vivente ,  è  Y  ani- 
ma del  mondo,  l' unità  della  vita.  E  poiché  vede  bellezza, 
e  non  trova  virtù,  sente  nella  vita  una  scissura,  una  di- 
scordia, che  lo  move  a  sdegno.  Indi  quel  movimento  dì 
immaginazione  cosi  nuovo  e  originale,  quel  desiderare 
nella  donna  e  sperar  poco  un  atto  di  bel  disdegno^  per 
il  quale  dica:  poiché  nell'uomo  non  è  virtù,  cesso  di 
esser  bella,  cesso  di  amare.  Dante  si  crede  obbligato  ad 
argomentare ,  ad  esporre  il  suo  concetto  in  forma  dot- 
trinale, e  qui  è  il  suo  torto,  qui  è  la  forma  che  lo  cer- 


—  64  — 

tifica  di  quel  tempo;  ma  qui  il  concetto  scientifico  e  la 
sua  esposizione  scolastica  è  un  accessorio;  la  sostanza  è 
il  sentimento  che  sveglia  nel  poeta'  la  contraddizione  tra 
quel  concetto  e  la  realtà.  Lasso!  a  che  dicer  vegno? 
Il  poeta  sente  la  vanità  de'  suoi  desiderii,  e  che  il  mondo 
andrà  sempre  a  quel  modo. 

Come  r  amore  si  afferma  nella  morte,  cosi  la  filosofia 
si  afferma  nella  sua  morte,  cioè  nella  sua  contraddizione 
con  la  vita.  Qui  trovi  un  sentimento  chiaro  e  vivo  del- 
l'unità  della  vita,  fondata  nella  concordia  dell'intendere 
e  dell'  atto  o  come  si  direbbe  oggi  dell'  ideale  e  del  reale, 
e  insieme  il  dolore  della  scissura,  che  mette  il  poeta  in 
uno  stato  di  ribellione  contro  l'uomo  caduto  in  servo 
di  signore,  già  signore  di  sé,  ora  servo  delle  sue  incli- 
nazioni animali.  Ma  il  sentimento  di  questa  contraddi- 
zione non  uccide  1'  entusiasmo  e  la  fede,  come  ne'  poeti 
moderni  ;  1'  anima  del  poeta  è  ancora  giovane,  piena  di 
una  fede  robusta,  che  il  disinganno  nobilita  e  fortifica: 
e  però  il  dolore  del  disaccordo  non  lo  conduce  alla  ne- 
gazione della  filosofia  anzi  alla  sua  glorificazione,  ad  un 
più  ardente  amore  della  derelitta,  fiero  di  possederla  e 
amarla  egli  solo  con  pochi,  e  di  sentirsi  perciò  quasi  Dio 
tra  la  gregge  degli  uomini. 

Adunque,  il  primo  carattere  di  questo  mondo  lirico  è 
la  sua  verità  psicologica.  Se  e'  è  negli  accessorii  alcun 
che  di  fattizio  e  di  convenzionale,  il  fondo  è  vero,  è  la 
sincera  espressione  di  quello  che  si  passa  nell'  animo  del 
poeta.  Ti  senti  innanzi  ad  un  uomo  che  considera  la  vita 
seriamente.  La  vita  è  la  filosofia,  la  verità  realizzata,  e 
la  poesia  è  la  voce  e  la  faccia  della  verità.  Amico  della 
filosofia,  con  orgoglio  non  minore  si  chiama  poeta  il  ban- 
ditore del  vero.  Filosofo  e  poeta,  si  sente  come  investito 
di  una  missione ,  di  una  specie  di  apostolato  laicale ,  e 
parla  dal  tripode  alla  moltitudine,  con  1'  autorità  e  la  si- 
curezza di  chi  possiede  la  verità. 


—  65  — 

Ma  il  sentimento  che  move  questo  mondo  lirico  così 
serio  e  sincero  non  rimane  puramente  individuale  o  su- 
biettivo ;  anzi  la  parte  personale  e  contingente  appena  si 
mostra:  esso  è  1'  accento  lirico  dell'  umanità  a  quel  tempo 
la  sua  forma  di  essere,  di  credej'e,  di  sentire  e  di  espri- 
mersi. Queir  angeletta  scesa  dal  cielo ,  che  non  giunge 
ad  esser  donna,  breve  apparizione,  che  ritorna  al  cielo 
in  bianca  nuvoletta,  seguita  dagli  Angioli  che  le  cantano 
Osanna  ,  ma  rimase  in  terra ,  come  luce  della  verità  , 
della  quale  l'amante  si  fa  Apostolo,  è  tutto  il  romanzo  re- 
ligioso e  filosofico  di  queir  età  ;  è  la  vita  che  ha  la  sua 
verità  nell'  altro  mondo,  e  che  qui  non  è  che  Beatrice  , 
fenomeno,  apparenza,  velo  della  eterna  verità.  Se  la  terra 
è  un  luogo  di  passaggio  e  di  prova ,  la  poesia  è  al  di  là 
della  terra,  nel  regno  della  verità.  Beatrice  comincia  a 
vivere  quando  muore. 

Un  mondo  così  mistico  e  spiritualista  nel  concetto,  cos 
dottrinale  nella  forma,  se  può  essere  allegoricamente 
rappresentato  dalla  scultura,  se  trova  nella  pittura  e  nella 
musica  le  sue  movenze,  le  sue  sfumature,  il  suo  indefi- 
nito, è  difficilissimo  a  rappresentare  con  la  parola.  Per- 
chè la  parola  è  analisi,  distinzione,  precisione,  e  non  può 
rappresentare  che  un  contenuto  ben  determinato,  e  nei 
suoi  momenti  successivi,  più  che  nella  sua  unità.  Ana- 
lizzate questo  mondo  e  vi  svanisce  dinanzi,  come  realtà 
0  vita  :  r  analisi  vi  porta  irresistibilmente  al  discorso,  al 
ragionamento,  alla  forma  dottrinale,  che  è  la  negazione 
dell'  arte.  Non  bisogna  dimenticare  che  la  vita  interna 
di  questo  mondo  è  la  scienza,  come  concetto  e  come  for- 
ma, la  pura  scienza,  non  penetrata  ancora  nella  vita  e 
divenuta  fatto.  È  vero  che  per  Dante  la  scienza  dee  es- 
sere non  astratto  pensiero,  ma  realtà.  Se  non  che  il  ma  le 
è  appunto  in  questo  dee  essere.  Perchè,  prendendo  a 
fondamento  non  quello  che  è,  ma  quello  che  dee  essere, 

la  sua  poesia  è  ragionamento,  esortazione,  non  rappre- 
so SanctÌB  — Leu  Itul.  Vul.  I.  5 


--  60  ^ 

Gentazione,  se  non  in  forma  allegorica,  che  aggiunge  una 
nuova  difficoltà  ad  un  contenuto  cosi  in  sé  stesso  astruso  e 
scientifico. 

I  contemporanei  sentirono  la  difficoltà  e  credettero  vin- 
cerla con  la  rettoria ,  ornando  quei  concetti  di  vaghi 
fiori.  Anche  Dante  credeva  rendere  poetica  la  filosofia, 
dandole  una  bella  faccia.  Certo,  questo  era  un  progresso  ; 
ma  siamo  ancora  al  limitare  dell'  arte,  nel  regno  dell'  im- 
maginazione. GuiniceUi,  Gino,  Cavalcanti  non  possono  at- 
tirare la  nostra  attenzione  ,  e  neppur  Dante ,  ancorché 
dotato  di  un'  immaginazione  cosi  potente.  Anzi  egli  rie^ 
sce  meno  di  questi  suoi  predecessori  nell'  arte  dell'  or- 
nare e  del  colorire,  perchè  quelli  vi  pongono  il  massimo 
studio,  non  essendo  il  mondo  da  essi  rappresentato  che 
un  gioco  d' immaginazione,  dove  a  Dante  quel  mondo  è 
lui  stesso ,  parte  del  suo  essere ,  e  che  ha  la  sua  impor- 
tanza in  sé  stesso:  ond' egli  è  sobrio,  severo,  schivo  del 
gradire,  e  spesso  nudo  sino  alla  rozzezza.  E  non  corre 
agli  ornamenti,  come  mezzo  rettorico  e  a  fine  di  ornare 
e  di  lisciare,  ma  per  rendere  palpabile  ed  evidente  il  suo 
concetto. 

Ma  Dante  vince  in  gran  parte  la  difficoltà  appunto  per 
questo,  che  quel  mondo  è  vita  della  sua  vita  «  anima 
della  sua  anima.  Esso  opera  non  pure  sulla  sua  mente, 
ma  su  tutto  il  suo  essere.  Questa  sua  fede  assoluta  in 
quel  mondo  non  è  però  sufficiente  a  farne  un  poeta.  La 
fede  è  la  base,  il  sottinteso,  la  condizione  preliminare  e 
necessaria  della  poesia,  ma  non  è  la  poesia.  Il  poeta  dee 
essere  un  credente,  ma  non  ogni  credente  è  poeta  ;  può 
essere  un  Santo,  un  Apostolo,  un  Filosofo.  Dante  non  fu 
il  santo,  né  il  filosofo  del  suo  mondo;  fu  il  poeta.  La 
fede  svegliò  le  mirabili  facoltà  poetiche  che  avea  sortito 
da  natura. 

Dante  ha  in  supremo  grado  la  principale  facoltà  di  un 
poeta,  la  fantasia,  che  non  si  vuol  confondere  con  l' im- 


laaginazione,  facoltà  molto  inferiore.  L' immaginazione  ti 
dà  r  ornato  e  il  colore,  liscia  la  superflue,  il  suo  mag- 
giore sforzo  e  di  offrirti  un  simulacro  di  vita  nell'alle- 
goria e  nella  personificazione.  La  fantasia  è  facoltà  crea- 
trice, intuitiva  e  spontanea,  è  la  vera  Musa,  il  Deus 
in  nohis,  che  possiede  il  segreto  della  vita,  e  te  la  co- 
glie a  volo  anche  nelle  sue  più  fuggevoli  apparizioni,  e 
te  ne  dà  Y  impressione  e  il  sentimento.  L' immaginazione 
è  plastica;  ti  dà  il  disegno,  ti  dà  la  faccia:  pulchra  spe- 
cies ,  sed  cerehì^um  non  hahet:  l'immagine  è  il  fine 
ultimo  in  cui  ci  adagia.  La  fantasia  lavora  al  di  dentro, 
e  non  ti  coglie  il  di  fuori ,  se  non  come  espressione  e 
parola  della  vita  interiore.  L' immaginazione  è  1'  analisi, 
e  più  si  sforza  di  ornare,  di  disegnare,  di  colorire,  più 
le  fugge  il  sostanziale ,  quel  tutto  insieme  ,  in  cui  è  la 
vita.  La  fantasia  è  sintesi:  mira  all'essenziale,  e  di  un 
tratto  solo  ti  suscita  le  impressioni  e  i  sentimenti  di  per- 
sona viva  e  te  ne  porge  l'immagine.  La  creatura  del- 
l' immaginazione  è  l' immagine  finita  in  sé  stessa  e  opaca; 
la  creatura  della  fantasia  è  il  fantasma ,  figura  abboz- 
zata e  trat^parente,  che  si  compie  nel  tuo  spirito.  L' im- 
maginazione ha  molto  del  meccanico,  è  comune  alla  poe- 
sia e  alla  prosa,  a'  sommi  e  a'  mediocri;  la  fantasia  è 
essenzialmente  organica,  ed  ò  privilegio  di  pochissimi  che 
son  detti  Poeti. 

Il  mondo  lirico  di  Dante,  o  piuttosto  del  suo  secolo, 
così  mistico  e  spirituale  ,  resiste  a  tutti  gli  sforzi  della 
immaginazione.  In  balìa  di  questo  esso  non  è  che  un 
inondo  rettorico  e  artificiale,  di  bella  apparenza,  ma 
freddo  e  astratto  nel  fondo.  Tale  è  il  mondo  di  Guini- 

lli,  di  Cavalcanti  e  di  Gino.  L'  organo  naturale  di  que- 
sto mondo  è  la  fantasia,  e  la  sua  formale  il  fantasma. 
Il  suo  primo  e  solo  poeta  è  Dante,  perchè  Dante  ha  l' i- 


—  GS  ^ 

strumento  atto  a  generarlo,  è  la  prima  fantasia  del  mondo 
moderno. 

Dante  non  accarezza  l'immagine,  non  vi  s'indugia  so- 
pra, se  non  quando  essa  è  lume  che  come  paragone  dia 
una  faccia  al  suo  concetto.  Sia  d'  esempio  la  sua  canzono 
all'Amore: 

Amor  che  movi  tua  virtù  dal  cielo, 
Come  il  sol  lo  splendore. 
Che  là  s'  apprende  più  lo  suo  valore. 
Dove  più  nobiltà  suo  raggio  trova. 

Ed  barami  in  foco  acceso: 

Come  acqua  per  chiarezza  foco  accenae. 

È  sua  beltà  del  tuo  valor  conforto. 
In  quanto  piadicar  si  puote  afifetto 
Sopra  degno  sop-getto, 
In  guisa  eh' è  al  sol  raggio  di  foco; 
Lo  qual  non  dà  a  lui,  né  to*  virtute; 
Ma  fallo  in  alto  loco 
Neir  effetto  parer  di  più  salute. 

Queste  immagini  non  sono  il  concetto  esso  medesimo; 
ma  paragoni  atti  a  lumeggiarlo.  È  la  maniera  del  Guinicelli. 
Costui  se  pavoneQfgia,  e  vi  spiega  un  lusso  e  una  pom- 
pa che  passa  il  segno  e  affoga  il  concetto  nell'  immagine. 
Dante  è  più  severo  perchè  il  concetto  non  gli  è  indiffe- 
rente e  non  te  ne  distrae,  anzi  per  troppo  amore  a  quello 
spesso  te  Io  porge  nudo  e  irsuto  com'  è  la  natura.  Ma 
egli  penetra  in  questo  mondo  di  concetti  e  ne  fa  il  suo 
romanzo  ,  la  sua  storia  intima.  Il  concetto  allora ,  non 
che  abbia  bi^^ogno  di  essere  illuminato  da  una  immagine 
tolta  dal  di  fuori,  è  trasformato,  è  esso  medesimo  l' im- 
magine. In  quest'opera  di  trasformazione  si  rivela  la  fan- 
tasia. Pìgmahone  non  è  più  una  statua  di  marmo;  mei 
riscaldato  dall'amorosa  fantasia  diviene  persona.  La  donna 


—  G9  — 

astratta  e  anonima  del  Trovatore,  divenuta  innanzi  alla 
filosofia  un'  idea  platonica,  V  esemplare  di  ogni  bellezza  e 
di  ogni  virtù,  eccola  qui  persona  viva:  è  Beatrice,  quella 
angeletta  scesa  dal  cielo  che  annunzia  alle  genti  il  suo 
arrivo  e  racconta  la  sua  bellezza: 

Ciascuna  stella  negli  occhi  mi  piove 
Della  sua  grazia  e  della  sua  virtute. 

Ma  questo  lavoro  di  trasformazione  non  va  così  in- 
nanzi, che  il  concetto  sia  come  seppellito  e  dimenticato 
neir  immagine,  miracolo  dell'  arte  greca  ;  né  questo  av- 
viene per  manco  di  calore  e  di  fantasia.  Dante  è  così 
immedesimato  con  quel  suo  mondo  intellettuale  e  mistico, 
che  la  sua  fantasia  non  può  oltrepassarlo,  non  può  ma- 
terializzarlo. In  questa  dissonanza  può  capitare  1'  artista, 
a  cui  il  contenuto  sia  indifferente  ,  e  che  intenda  alla 
perfezione  del  modello,  non  il  Poeta  che  ha  un  culto  per 
il  suo  mondo  e  vi  si  chiude,  e  ne  fa  la  sua  regola  e  il 
suo  limite.  Dante  non  può  paganizzare  quel  mondo  dello 
spirito,  appunto  perchè  esso  è  il  suo  spirito,  il  suo  mondo 
il  suo  modo  di  sentire  e  di  concepire.  La  sua  immagine  è 
ricordevole  e  trascendente,  e  appena  abbozzata  è  già  scor- 
porata, fatta  impressione  e  sentimento.  Non  descrive:  non 
può  fissare  e  determinare  l' immagine,  come  quella  a  cui 
r  intelletto  non  giunge.  Gli  sta  innanzi  un  non  so  che, 
luce  intellettuale,  superiore  all'  espressione,  visibile  non 
in  sé  stessa  ma  nelle  sue  impressioni.  Perciò  esprime  non 
(juello  che  ella  è  ,  ma  quello  che  pare.  Ciò  che  è  più 
chiaro  innanzi  alla  sua  immaginazione,  non  è  il  corpo , 
ma  lo  spir  ito,  non  ò  V  immagine,  ma  il  suo  parere,  V  im- 
pressione: 

Ciò  eh'  ella  par,  quando  un  poco  sorrido, 
Non  si  può  dicer,  nò  tenere  a  mente: 
Si  è  no-  0  miracolo  e  gentile. 


—  70  — 

Ed  avea  seco  umiltà  si  verace, 

Che  parea  che  dicesse:  io  sono  in  pu.Cw 

E  par  che  dalla  sua  labbia  si  mova 
Uno  spirto  soave  e  pien  d'  amore, 

Che  va  dicendo  all'anima:  sospira. 

Questi  ultinai  tre  versi  sono  la  chiusa  mirabile  di  un 
sonetto  molto  lodato,  dove  il  poeta  vuol  descrivere  Bea- 
trice, e  non  fa 'che  esprimere  impressioni.  Beatrice  non 
la  vedi  mai.  Ella  è  come  Dio,  nel  santuario.  Non  la  vedi, 
ma  senti  la  sua  presenza  in  quel  mondo  tutto  pieno  di 
lei.  Ella  piange  la  morte  del  padre.  Lo  sguardo  del  poeta 
non  è  là.  Tu  vedi  lei  nella  faccia  sfigurata  del  poeta  e 
nel  pianto  delle  donne  che  gli  sono  intorno,  che  la  udi- 
rono, e  non  osarono  di  guardarla: 

Che  qual  1'  avesse  voluta  mirare, 
Saria  dinanzi  a  lei  caduta  morta. 

Beatrice  saluta,  e 

Ogni  lingua  divien  tremando  muta 

E  gli  occhi  non  V  ardiscon  di  guardare. 

Di  questa  giovinetta,  inaccessibile  allo  sguardo,  non 
descritta,  non  rappresentata,  di  cui  non  hai  nessuna  pa- 
rola e  nessun  atto,  non  restano  che  due  immagini^  del 
nascere  e  del  morire,  F  angeletta  scesa  di  cielo,  che 
torna  al  cielo  bianca  nuvoletta.  Dante  non  vede  lei  mo- 
rire. La  vede  in  sogno,  e  già  morta,  e  quando  le  donne 
la  coprian  di  un  velo.  Ma  se  della  morte  non  ci  è  l'im- 
magine, ce  n'  è  il  vivo  sentimento. 

.     .     .     Morte  assai  dolce  ti  tesano: 
Tu  dèi  ornai  esser  gentile,  i 
Poi  che  tu  sei  nella  mia  donna  stata, 
E  dèi  aver  pietate  e  non  disdegno. 

Vieni:  che  si  desideroso  vegno 


—  71  — 

D'  esser  de'  tuoi  eh'  io  ti  somiglio  in  fede. 
Vieni,  che  il  cor  ti  chiede. 

L'universo  muore  con  Beatrice: 

Ed  esser  mi  parea  non  so  in  qual  loco, 

E  veder  donne  andar  per  via  disciolte, 

Qual  lagrimando,  e  qual  traendo  guai. 

Che  di  tristizia  saettavan  foco. 

Poi  mi  parve  vedere  a  poco  a  poco 

Turbar  lo  sole  ed  apparir  la  stella, 

E  pianger  egli  ed  ella  ; 

Cader  gli  augelli  volando  per  1'  are, 

E  la  terra  tremare: 

E  uom  m'  apparve  scolorito  e  fioco. 

Dicendomi:  che  fai?  non  sai  novella? 

^lorta  è  la  dunna  tua  eh'  era  sì  bella. 

Si  bella  !  Questa  è  T  immagine.  Gli  basta  chiamarla 
bella;  chiamarla  Beatrice.  Incontra  per  via  peregrini,  essi 
soli  indifferenti  in  tanto  dolore  : 

Che  non  piangete,  quando  voi  passate 

Per  lo  suo  mezzo  la  città  dolente  ? 
Se  voi  restate  per  volere  udire, 

Certo  lo  core  de'  sospir  mi  dice 

Che  lacrimando  ne  uscirete  poi. 
Ella  ha  perduta  la  sua  Beatrice: 

E  le  parole  che  uom  di  lei  può  dire. 

Hanno  vii'tù  di  far  piangere  altrui. 

La  vita  e  la  morte  di  Beatrice  non  è  in  lei,  ma  negli 
altri,  in  quello  che  fa  sentire.  L' immagine  è  immedia- 
tamente trasformata  in  sentimento.  E  questa  immagine 
spiritualizzata  è  quella  mezza  realtà  che  si  chiama  il  fan- 
tasma, esistente  più  nella  immaginazione  dei  lettore,  che 
nella  espressione  del  poeta.  Ciascuno  si  fa  una  Beatrice 
a  sua  maniera  e  secondo  le  forze  del  suo  spirito.  Siamo 


—  72  — 

nel  regno  mi^sicale  dell'  indefinito.  Beatrice  ò  un  révc  y 
un  sogno,  una  visione.  La  stessa  sua  morte  è  un  sogno, 
0,  come  dice  Dante,  una  fantasia,  accompagnata  di  [)ar- 
ticolari  patetici  e  drammatici,  perchè  il  poeta  è  vittima 
de'  suoi  fantasmi,  e  vive  entro  a  quel  mondo  e  ne  sente 
e  riflette  tutte  le  impressioni.  Beatrice  muore  ,  perchè 
questa  vita  nojosa 

KoD  era  degna  di  sì  gentil  cosa, 

e  tornata  gloriosa  nel  cielo,  diviene  spiriluiX  hcUczza 
grande,  che  spande  per  lo  cielo  luce  d'  amore  e  fa  la 
maraviglia  degli  Angioli.  Questa  bellezza  spirituale,  o, 
come  dice  Dante  alti'ove,  luce  intellettual  piena  d'  a- 
raore,  è  il  mondo  lirico  realizzato  nell'  altra  vita,  dove 
il  fantasma  sparisce,  e  la  verità  ti  si  porge  nel  suo  splen- 
dore intellettuale,  pura  intelligenza,  bellezza  spirituale  , 
scorporata.  Il  fantasma,  quella  mezza  realtà  a  contorni 
vaghi  e  indecisi,  più  visibile  nelle  impressioni  e  ne'  sen- 
timenti che  nelle  immagini,  non  era  che  il  presentim-MUo, 
il  velo,  la  forma  preparatoria  di  questo  regno  del  puro 
spirito,  era  l'ombra  dello  spirito.  Ora  la  luce  intellet- 
tuale dissipa  ogni  ombra:  non  hai  niente  più  d'indeciso, 
niente  più  di  corporeo:  sei  nel  regno  della  fìbsofia,  dove 
tutto  è  precisione  e  dommatismo,  tu  Ilo  è  posto  con  chia- 
rezza, e  discorso  a  modo  degli  scolastici.  E  poiché  la 
filosofia  non  è  potuta  divenire  virtù,  poiché  in  terra  essa 
è  proscritta,  rimane  una  realtà  puramente  scientifica  e 
dottrinale.  L'impressione  ultima  è  che  la  terra  è  il  re- 
gno delle  ombre  e  de'  fantasmi,  la  selva  dell'  ignoranza 
e  del  vizio,  la  tragedia  che  ha  per  sua  inevitabile  fine 
la  morte  e  il  dolore,  e  che  la  realtà,  1'  eterna  e  divina 
Commedia,  è  nell'  altro  mondo. 

Né  prima,  nò  poi,  fu  immaginato  un  mondo  lirico  cosi 
vasto  nel  suo  ordito^  così  profondo  nella  sua  concezione. 


—  73  — 

oo^ì  coerente  nelle  sue  parti,  cosi  armonico  nelle  sue 
forme,  così  personale  e  a  un  tempo  cosi  umano.  Esso  è 
r  accento  lirico  del  medio  evo  colto  nelle  sue  astrazioni 
e  nelle  sue  visioni,  la  voce  dell'  umanità  a  quel  t<  mpo. 
Il  ministero  di  questo  mondo  religioso-tìlosofico  è  la  Morte 
gentile,  come  passaggio  dall'  ombra  alla  luce,  dal  fan- 
tasma i  Ila  realtà,  dalla  tragedia  alla  commedia,  o,  co- 
me dice  Dante  alla  pace.  La  morte  è  il  principio  della 
vita,  è  la  trasfigurazione.  Perciò  il  vero  centro  di  questa 
lirica,  la  sua  vera  voce  poetica,  è  il  Sogno  della  morte 
di  Beatrice,  là  dove  sono  in  presenza  questa  vita  e  l'al- 
tra, e  mentre  il  sole  piange,  e  la  terra  trema  ^  gli  An- 
gioli cantano  osanna  e  Beatrice  par  che  dica:  Io  sono 
in  pace.  Ci  è  la  terra  co'  suoi  dolori  e  il  Cielo  con  le  su 
estasi,  il  mondo  lirico  nel  momento  misterioso  della  su 
unità.  Non  credo  che  la  lirica  del  medio  evo  abbia  prò 
dotto  niente  di  simile  a  questo  sogno  di  Dante,  di  una 
rara  perfezione  per  chiarezza  d'intuizione,  per  fusione 
di  tinte,  per  profondità  di  sentimento,  per  correzione  di 
condotta  e  di  disegno,  per  semplicità  e  verità  di  espres- 
sione. 

Ma  se  questo  mondo  logicamente  è  uno  e  concorde, 
esteticamente  è  scisso,  perchè  non  è  insieme  terra  e  cielo, 
ma  è  ora  l'uno,  ora  l'altro,  imperfetti  ambidue.  Il  fan- 
tasma è  spesso  simile  più  ad  un'  allegoria,  che  ad  una 
realtà,  ed  è  stazionario,  senza  successione  e  senza  svi- 
luppo, senza  storia.  La  realtà  è  pura  scienza,  in  forma 
scolastica.  Si  può  dire  che  quando  in  questo  mondo  co- 
mincia la  realtà,  allora  appunto  muore  la  poesia,  s'ina- 
ridisce la  fantasia  e  il  sentimento.  È  un  difetto  organico 
di  questo  mondo,  che  resiste  a  tutti  gli  sforzi  dell'  arte, 
resiste  a  Dante. 

D'  altra  parte  Dante  vi  si  mostra  più  poeta  che  arti- 
sta. Quel  modo  è  per  lui  cosa  troppo  seria,  perchè  possa 
contemplarlo  col  sereno  istinto  dell'  arte.  Poco  a  lui  im- 


—  74  — 

porta  che  la  superficie  sia  scabra,  purché  ci  sia  sotto  qual- 
che cosa  che  si  mova.  Perciò  è  sempre  evidente,  spesso 
arido  e  rozzo.  L' ItaHa  ha  già  il  suo  poeta;  non  ha  an- 
cora il  suo  artista. 

IV. 

LA    PROSA. 

Se  i  rimatori  o  dicitori  in  rima  aiutarono  molto  alla 
formazione  del  volgare,  non  minore  opera  vi  diedero  i 
bei  favt^llatori,  o  favoleggiatori.  Favella  viene  da  l'ahella, 
favoletta,  e  perciò  le  lingue  moderne  furon  dette  favelle, 
lingue  de'  favoleggiatori.  Costoro  nelle  corti  e  ne'  castelli 
raccontavano  novelle,  come  i  rimatori  poetavano  d'amore. 
Così  gl'inizii  della  nostra  hngua  furono, 

Versi  d'amore  e  prose  da  romanzo. 

Come  i  versi,  così  le  prose  aveano  già  tutto  un  re- 
pertorio venuto  dal  di  fuori.  I  rimatori  attingevano  nel 
codice  d'amore;  i  novellatori  o  favellatori  attingevano 
ne'  romanzi  dalla  Tavola^  rotonda  o  di  Carlomagno.  Il 
cavahere  errante  era  il  tipo  convenzionale  degli  uni  e 
degli  altri. 

Questa  letteratura  non  produsse  altro  che  traduzioni, 
come  sono  i  Conti  di  antichi  Cavalieri,  la  Tavola  rotonda, 
e  i  Reali  di  Francia:  Tristano,  Isotta,  Lancillotto,  il  Re 
Meliadus,  il  profeta  Merlino,  Carlomagno ,  Orlando  erano 
gli  eroi  dell'  immaginazione  popolare.  Oggi  ancora  i  can- 
tastorie napoletani  raccontano  ad  una  plebe  avida  di  fatti 
maravigliosi  le  geste  di  Orlando  e  di  Rinaldo.  Anche  la 
storia  romana  prese  questa  forma.  Un  codice  antico  ha 
per  titolo:  Lucmw  tradotto  in  prosa,  ed  è  la  versione 
del  Ghilio  Cesare,  romanzo  in  versi  rimati  di  Jaques 
de  Foresi.  La  guerra  tra  Cesare  e  Pompeo  è  narrata 
con  colori  e  particolari  tolti  alla  vita  cavalleresca.  Ci- 


—  75  — 

cerone,  mastro  di  rettorica  e  buono  chierico,  così  co- 
mincia una  sua  aringa  a  Pompeo:  «Li  Re  e  Conti  e 
Baroni  e  1'  altro  popolo  ti  richieggono  e.  pregano  che 
tu  non  metta  la  cosa' a  indugio  ».  E  non  è  meraviglia 
che  anche  nelle  cronache  penetri  questa  vita  cavallere- 
sca. Si  leggono  non  senza  diletto  i  Diurnali ,  o  come 
oggi  si  direbbe,  giornali  di  Matteo  Spinelli,  la  più  an- 
tica cronaca  italiana,  non  solo  per  la  semplicità  e  na- 
turalezza del  racconto  in  un  dialetto  assai  prossimo  al 
volgare,  ma  per  la  vaghezza  de'  fattarelli,  che  pare  un 
favellatore  e  non  uno  storico.  Di  maggior  mole  è  la  sto- 
ria di  Firenze  di  Ricordano  Malespini,  che  dagli  inizii 
della  città  si  stende  sino  al  1282.  Quando  narra  fatti  con- 
temporanei, testimonio  veridico  ed  esatto  ,  né  la  sua 
fede  guelfa  lo  induce  ad  alterare  i  fatti.  Ma  quando  esce 
da'  suoi  tempi,  ti  trovi  nell!  infanzia  della  coltura.  Ana- 
cronismi ed  errori  geografici  sono  accoppiati  con  la  più 
grossolana  credulità  nelle  favole  più  assurde,  improntate 
di  tutto  il  maraviglioso  de'  romanzi  cavallereschi.  Dice 
che  la  Chiesa  di  san  Pietro  fu  fondata  ai  tempi  di  Ot- 
taviano, quando  san  Pietro  e  Cristo  stesso  non  erano 
ancora  nati;  che  la  mattina  di  Pentecoste  fu  celebrata 
la  messa  nella  chiesa  della  canonica  di  Fiesole  al  tempo 
di  Catilina;  che  il  tempio  di  san  Giovanni  in  Firenze  fu 
fondato  alla  morte  di  Cristo;  che  Pisa  viene  da  pisare 
0  pesare,  Lucca  da  luce,  e  Pistoja  da  pistolenzia:  narra 
gli  amori  di  Catilina  con  la  Regina  Belisea,  figlia  del  Re 
Fiorino,  e  le  avventure  di  Teverina,  figlia  di  Bèlisea,  e 
pare  una  pagina  tolta  a  qualche  romanzo  allora  in  voga. 

In  queste  versioni  e  cronache  la  lingua  è  ancor  rozza 
e  incerta,  desinenze  goffe  o  dure,  sgrammaticature  fre- 
quenti, nessun  indizio  di  periodo,  nessun  colorito:  non  ci 
è  ancora  1'  io,  la  personalità  dello  scrittore. 

Come  la  poesia,  così  la  prosa  cavalleresca  poco  attecchì 
in  Italia.  Non  solo  non  ci  fu  nessun  romanzo  originale, 


—  76  — 

ma  noppiire  alcuna  imitazione.  Tutto  quel  maravìgìioso 
è  riprodotto  con  quella  stessa  aridità  e  indifferenza,  che 
senti  nel  Malespini,  anche  quando  narra  fatti  commoven- 
tissimi,  come  la  morte  di  Manfredi,  o  di  Bondelmonte. 
Come  r  uomo  inculto  parla  assai  meglio  che  non  scrive, 
è  a  presumere  che  i  novellatori  raccontassero  le  loro  fa- 
volette  con  una  vivacità  d'immaginazione  e  di  affetto,  che 
non  trovi  nei  racconti  e  nelle  cronache.  Ci  è  una  rac- 
colta di  novelle,  detta  il  Novellino,  che  sembrano  schizzi 
e  appunti,  anzi  che  vere  narrazioni^  simili  a  quegli  ar- 
gomenti che  si  danno  a'  giovanetti  per  esercizio  di  scri- 
vere. Il  libro  fu  detto  fiore  del  parlar  gentile:  e  ve- 
ramente vi  è  tanta  grazia  e  proprietà  di  dettato  che 
stenti  a  crederlo  di  quel  secolo,  e  sembrano  piuttosto 
racconti  rozzi  e  in  voga  raccolti  e  ripuliti  più  tardi.  Ma 
se  la  lingua  è  assai  più  schietta  e  moderna  che  non  è 
ne'  Conti  di  antichi  Cavalieri  ^  ne'  romanzi  di  quel  tempo, 
e  in  tutti  la  stessa  aridità.  Ci  è  il  fatto  ne'  suoi  punti 
essenziali,  spogliato  di  tutte  le  circostanze  e  i  particolari 
che  gli  danno  colore,  e  senza  le  impressioni  e  i  senti- 
menti che  gli  danno  interesse.  Pure,  quando  il  fatto  è 
semplice  e  breve,  e  non  richiede  arte,  basta  a  conseguire 
r  effetto  quella  naturalezza  e  quel  candore  pieno  di  ve- 
rità che  è  nel  racconto.  Eccone  un  esempio: 

«  Leggesi  del  re  Currado,  padre  di  Corradino,  che 
quando  era  garzone,  si  avea  in  compagnia  dodici  gar- 
zoni di  sua  etade.  Quando  lo  re  Currado  favellava,  li 
maestri  che  gli  erano  dati  a  guardia,  non  batteano  lui, 
ma  batteano  di  questi  garzoni  suoi  compagni  per  lui.  E 
quei  dicea:  perchè  non  battete  me,  che  mia  è  la  colpa? 
Diceano  h  maestri  :  perchè  tu  sei  nostro  signore.  Ma  noi 
battiamo  costoro  per  te,  onde  assai  ti  dee  dolere^  se  tu 
hai  gentil  cuore,  che  altri  porti  pena  delle  tue  colpe.  E 
perciò  si  dice  che  lo  re  Currado  si  guardava  molto  di 
fallire  per  la  pietà  di  coloro  ». 


—  77  — 

Se  il  romanzo  e  la  novella  non  giunse  ad  esser  popo- 
lare tra  noi,  e  non  divenne  un  lavoro  d'  arte,  la  ragione 
è  che  una  materia  tanto  poetica  si  mostrò  quando  lin- 
gua e  arte  erano  ancora  nell'infanzia,  e  rimasa  fuori 
della  vita  e  dei  costumi  riuscì  un  frivolo  passatempo  > 
come  fu  della  poesia  cavalleresca.  Trattata  da  illet- 
terati questa  materia  non  potò  svilupparsi  e  formarsi  ,^ 
sopravvenuto  in  breve  tempo  il  risorgimento  dei  classici 
e  il  rifiorire  delle  scienze,  che  trasse  a  sé  1'  animo  dello 
classi  colte.  Quantunque  chierico  significasse  ancora  uomo 
dotto,  e  da'  pergami  e  dalle  cattedre  si  parlasse  ancora 
latino,  ed  in  latino  si  scrivessero  le  opere  scientifiche» 
già  il  laicato  usciva  dalle  università  vigoroso  ed  istrutto» 
con  la  giovanile  confidenza  nella  sua  dottrina  e  nella 
sua  forza.  Se  il  chierico  tendeva  a  restringere  in  pochi 
la  dottrina  e  farne  un  privilegio  della  sua  milizia,  lo  spi- 
rito laicale  tendeva  difi'onderla,  a  volgarizzarla,  a  furia 
patrimonio  comune.  La  libertà  municipale,  aprendo  la  vita 
pubbhca  a  tutte  le  classi,  costituiva  in  modo  stabile  un 
laicato  colto  e  operoso,  a  cui  non  bastava  più  il  latino, 
e  che,  formato  nelle  scuole,  superbo  della  sua  scienza, 
in  quotidiana  comunione  con  le  altre  classi,  aveva  già 
un  complesso  d'idee  comuni,  che  costituivano  la  biso 
della  coltura.  Erano  nuove  forze  che  entravano  in  azione 
e  davano  un  indirizzo  proprio  alla  vita  italiana.  A  quella 
gente  quei  romanzi  e  quei  racconti  doveano  sembrare 
trastullo  di  oziosi,  spasso  di  plebe.  Le  idee  religiose  così 
come  venivano  bandite  dal  pergamo  non  doveano  aver 
molta  grazia  a'  loro  occhi  ;  quella  semplicità  e  rozzezza  di 
esposizione  dovea  poco  gradire  a  quegli  uomini,  che  tutto 
codificavano  e  sillogizzavano.  Certo  non  fu  perciò  estinta 
la  razza  dei  novellatori  e  de'  predicatori  ;  ma  lo  spirito 
della  classe  colta  se  ne  allontanò,  e  i  conti  de'  cavalieri 
e  le  vite  de'  santi  rimasero  occupazione  di  uomini  sem- 
plici e  inculti,  senza  eco   e  senza  sviluppo.  La  società 


—  78  — 

mirava  a  divulgare  la  scienza,  a  difTondere  le  utili  co- 
gnizioni, a  far  sua  tutta  la  cultura  passata,  profana  o 
sacra.  I  suoi  eroi  furono  Virgilio,  Ovidio,  Livio,  Cicero- 
ne, Aristotile,  Platone,  Galeno,  Giustiniano,  Boezio,  San- 
to Agostino  e  San  Tommaso.  Il  volgare  divenne  V  istru- 
mento  naturale  di  questa  coltura.  I  poeti  bandivano  la 
scienza  in  verso  :  i  prosatori  traslatavano  dal  latino  gli 
scrittori  classici,  i  moralisti  e  i  filosofi.  Era  un  movi- 
mento di  erudizione  e  di  assimilazione  delF  antichità,  che 
darò  parecchi  secoli,  e  che  ebbe  una  grande  azione  sulla 
nostra  letteratura. 

La  materia,  a  cui  più  volentieri  si  volgevano  i  tra- 
duttori, era  T  etica  e  la  retorica,  1'  arte  del  ben  fare  e 
r  arte  del  ben  dire.  Una  delle  più  antiche  versioni  è  il 
Libro  di  Caio,  o  Volgarizzamento  del  Libro  dei  co- 
stumi, opera  scritta  in  distici  latini  e  divisa  in  quattro 
libri.  L'opera  ebbe  tanta  voga,  che  se  ne  fecero  tre  ver- 
sioni, ed  è  spesso  citata  dagli  scrittori.  Né  è  maraviglia: 
perchè  ivi  la  morale  è  nella  sua  forma  più  popolana,  es- 
sendo ciascuna  regola  del  ben  vivere  chiusa  in  un  di- 
stico, a  guisa  di  motto  o  proverbio,  o  sentenza,  facile  a 
tenere  in  memoria.  Ecco  un  esempio: 

Virtutem  priraam  esse  puto,  compescere  lingunm: 
Proximus  ,ille  Deo  est,  qui  scit  ratione  tacere. 

Ed  è  tradotto  egregiamente  cosi: 

«  Costringere  la  lingua  credo  che  sia  la  prima  ver- 
tude:  quelli  è  prossimo  di  Dio,  che  sa  tacere  a  ragione». 

Esercizio  utilissimo  a'  giovani  sarebbe  il  raff'ronto  delle  tre 
versioni,  che  ti  mostra  la  lingua  ne'  diversi  stati  della  sua 
formazione.  Laterza  versione,  pubblicata  dal  Manni,haper 
compagna  T^/zca  di  Aristotile  eia  i?(?//or/c^  di  Tullio.  Que- 
sta rettorica  di  Tullio  è  il  Fiore  di  Eetlorica,  attribuito  a 
Frate  Guidotto  da  Bologna,  e  ad  altri  con  più  verisimi- 
frlianza  a  Bono  Giamboni^  e  che  comincia  cosi:  Qui  coìnin- 


—  79  — 

eia  ìa  RelloiHca  nuova  di  Tullio,  Irnslatala  da  gram^ 
malica  in  volgare  per'  frale  Guidoito  da  Bologna.  Che 
importanza  avesse  la  rettorica,  e  quali  miracoli  potea  pro- 
durre, si  vede  da  queste  parole  del  traduttore:  «  Fu  uno 
nobile  e  vertudioso  nomo,  cittadino  nato  di  Capova  del 
regno  di  Puglia,  il  quale  era  fatto  abitante  della  nobile 
città  di  Roma,  che  avea  nome  Marco  Tullio  Cicerone,  lo 
quale  fu  maestro  e  trovatore  della  grande  scienza  di 
Rettorica,  la  quale  avanza  tutte  le  altre  s^ienzìe,  per  la 
bisogna  di  tutto  giorno  parlare  nelle  valenti  cose,  sic- 
come in  far  leggi  e  piati  civili  e  cherminali,  e  nelle  cose 
cittadine,  siccome  in  fare  batta^^lie.  ed  ordinare  schiere, 
e  confortare  cavalieri  nelle  vicende  degl*  imperii,  regni  e 
principati,  e  governare  popoli  e  regni  e  cittadi  e  ville, 
e  strane  e  diverse  genti,  come  conversano  nel  gran  cer- 
chio del  mappamondo  della  terra».  Il  libro  è  dedicato  a 
Re  Alanfredi,  il  quale  vi  potrà  avere  sufficiente  a  adorno 
ammacslramento  a  dire  in  piuvico  e  in  privato.  Ac- 
canto a  Cicerone  compariva  il  grande  poeta  Virgilio  :  il 
quale  Virgilio  si  trasse  tutto  il  costruì 'o  dello  inten- 
dimento della  rettorica,  e  ne  fece  chiara  diìnostran- 
za.  Il  frate,  cercando  le  magne  virtudi  di  Cicerone,  ag- 
giunge: si  mi  mosse  talento  di  volere  alquanti  mem- 
bri del  Fiore  di  rettorica  volgarizzare  di  latino  in  no- 
stra lingua,  siccome  appartiene  allo  mestiere  de  laici, 
volgarmente.  Onde  pare  che  il  tradurre  volgarmente,  in 
volgare,  era  mestiere  dei  laici,  scrivendo  i  chierici  in 
latino.  Queste  citazioni  sono  il  ritratto  del  tempo.  Ci  si 
vede  la  grande  impressione  che  facea  su  quelle  menti 
Virgilio  e  Cicerone,  d'  arme  maraviglioso  cavaliere, 
frarxo  di  coraggio,  armato  dì  grande  senno,  fornito 
di  scienzia  e  di  discrezione,  ritrovatore  di  tutte  le 
cose,  E  ci  si  vede  pure  la  gran  fede  nei  miracoli  della 
scienza,  come  se  a  vivere  con  buoni  costumi  e  a  ben 
dire  in  pubblico  e  in  priviito  bastasse  imparare  le  re- 


-  80  — 

gole  dell'Etica  e  della  Rettorica.  Né  si  re^nvano  in  vol- 
gare le  opere  sole  dell'Antichità,  ma  anche  le  contem- 
poraiieo  scritte  in  latino.  Cito  fra  gli  altri  il  volgarizza- 
mento fatto  da  Soffredi  del  Grazia,  notajo  pistoiesp,  dei 
trattati  di  morale,  dottissima  opera  di  Albertano  da  Bre- 
scia, scritta  in  prifrione.  Il  primo  trattato,  della  di- 
lezione di  Dio  e  del  prossimo  e  della  forma  della 
vila  onesta,  è  composto  1'  anno  1238.  L'  opera  levò  tal 
grido,  che  fu  tradotta  in  francese  ed  in  inglese,  e  vera- 
mente ci  è  lì  dentro  raccolta  tutta  la  dottrina  del  tempo 
intorno  all'  onesto  vivere,  sacra  e  profana.  L'  impulso  fu 
tale  che  gli  uomini  più  chiari  si  volsero  a  tradurre  o 
compendiare  grammatiche,  rettoriche,  trattati  di  morale, 
di  fìsica  ,  di  medicina.  Ristoro  di  Arezzo  scrivea  sulla 
composizione  della  ferra;  Cavalcanti  scrivea  una  gram- 
matica e  una  rettorica;  Ser  Brunetto  traduceva  il  trat- 
tato de  Inventione  di  Cicerone,  e  parecchie  orazioni  di 
Sallustio  e  di  Livio,  e  sotto  nome  di  Fiore  di  filosofi  e 
di  molti  savi  raccoglieva  i  detti  e  i  fatti  degU  antichi 
filosofi,  Pitagora,  Democrito,  Socrate,  Epicuro,  Teofra- 
sto,  e  di  uomini  illustri,  come  Papirio,  Catone.  Ecco  i 
fiori  di  Plato: 

«  Plato  fue  grandissimo  savio  e  cortese,  m  parole,  e 
disse  queste  seutenzie: 

In  amistade,  né  in  ffde  non  ricevere  uomo  follo:  più 
leggermente  si  passa  1'  odio  de'  fohi  e  dei  malvagi,  che  la 
loro  compa:rnia. 

A  neuno  uomo  ti  fare  troppo  compagno.  L'uomo  è  cosa 
troppo  singolare;  non  puote  sofferire  suo  pare,  de'  suoi 
maggiori  hae  invidia,  de'  suoi  minori hae  disdegno,  a'  suoi 
iguaii  non  leggermente  s'  accorda. 

Quelh  sono  pessimi  e  maliziosi  nimici,  che  sono  nella 
fronte  allegri  e  nel  cuore  tristi  ».         . 

Secondo  la  rettorica  di  quel  tempo  si  diceva  Fiore 
quel  raccogliere  il  megUo  degli  antichi  e  offrirlo  al  pub- 


—  81  — 

blico  come  un  bel  mazzetto.  E  sì  diceva  anchn  Ginr- 
dino,  come  spiegava  Bono  Giamboni  nel  suo  Giardino 
di  Consolazione,  versione  del  latino  :  e  chiaìnasì  que- 
sto Giardino  di  Consolazione,  imperò  che  siccome  nel 
giardino  altri  si  consola,  e  trova  molti  fiori  e  frutti, 
cosi  in  questa  opera  si  trovano  molti  e  begli  detti,  li 
quali  V  anima  del  divoto  leggitore  indolcirà  e  conso- 
lerà. In  effetti  questo  bel  libro,  dov'  è  molta  semplicità 
e  grazia  di  dettato,  è  una  descrizione  de'  vizi  e  delle  vir- 
tù, con  sopra  ciascuna  materia  i  detti  de'  Savii  e  de'  Santi 
Padri,  tanto  che  si  può  veramente  dire  dell'  autore:  Il 
più  bel  fior  ne  colse.  Ecco  il  capìtolo  dell'  ebrietade  : 

«  Ebrietade,  secondo  che  dice  Sauto  Agostino,  è  vile 
sepoltura  della  ragione  e  furore  della  mente.  Anche  di- 
ce: l'ebrietà  è  lusinghiere  dominio,  dolce  veleno,  soave 
peccato.  Anche  dice  :  la  ebrietà  molti  ne  ha  guasti,  to- 
glie il  senno,  fa  venire  infermitadi,  ingrossa  lo  ingegno, 
accende  alla  lussuria ,  mai  non  tiene  segreto ,  induce  a 
male  parole.  Santo  Basilio  dice:  l'ebro,  quando  per^sa 
bere,  si  è  beùto  :  come  lo  pesce  con  grande  desiderio  in- 
ghiottisce r  esca  nella  sua  gola  e  non  sente  1'  amo  ;  cosi 
r  ebro,  bevendo  il  vino ,  riceve  in  sé  nemico  senza  ra- 
gione. E  santo  Paolo  dice  :  non  t' inebriare  di  vino,  im- 
però che  di  vino  esce  lussuria  ». 

Né  solo  Fiore,  o  Giardino,  ma  si  diceva  pure  Tesoro 
0  Convito ,  quasi  mostra  di  ricche  pietre  preziose,  o  di 
elettissime  vivande.  Brunetto  che  scrisse  il  Fiore,  avea 
già  scritto  il  Tesoro,  in  romanzo  o  lingua  francesca. 
come  piii  dilettevole  e  più  comune  che  tutti  gli  altri 
linguaggi,  e  voltato  poi  in  volgare  da  Bono  Giamboni. 
Il  Tesoro  é  il  Cosmos  di  quel  tempo,  V  universalità  della 
scienza,  come  s'insegnava  nelle  scuole,  la  Somma  o  il 
Compendio  del  sapere,  e  per  dirla  con  le  parole  di  Bru- 
netto ,  un  arnia  di  mele  tratta  di  diversi  fiori,  un 
estratto  di  tutC  i  membri  di  filosofia  in  una  somma 

K.  De  Sanctis  —  Lett.  Ital.  Voi.  I.  0 


—  82  — 

hrevemente.  Prende  capo  dalla  filosofia  siccome  radice 
di  cui  crescono  titite  le  scienze,  ed  è  descrizione  di  Dio, 
dell'  uomo,  della  natura.  Segue  Y  etica,  o  filosofia  prati- 
ca, e  poi  la  rettorica,  ciie  ha  come  appendice  la  politi- 
ca, 0  r  arte  di  ben  governare  gli  stati.  È  il  disegno  di 
una  prima  Facoltà  universitaria^  che  prepara  con  que- 
sti studi  i  giovani  alle  scienze  speciali.  Questa  vasta  com- 
pilazione, di  cui  non  era  esempio,  parve  una  maraviglia. 
Ma  più  importanti  erano  i  Trattati  speciali,  dove  gU 
scrittori  mostravano  qualche  originalità,  come  furono  i 
tre  Trattati  di  Albertano,  e  il  famoso  trattato  De  re- 
gimine Principum  di  Egidio  Colonna,  dottissimo  patri- 
zio napolitano,  volgarizzato  da  un  toscano. 

Il  luogo  che  tenev^a  la  Fede ,  venne  occupato  dalla 
Filosofia.  Non  che  la  filosofia  negasse  la  fede,  anzi  era 
proprio  di  quel  tempo  aver  fede  in  tutto  quello  che  era 
scritto  ;  ma  sotto  quella  forma  s' afi'ermava  la  società 
colta,  e  si  distingueva  da'  semplici  e  dagl'  ignoranti.  Il 
luogo  comune  di  tutte  le  invenzioni  era  l'eterno  Giob- 
be ,  1'  uomo  colpito  dall'  avversità  che  maledice  prima 
alla  vita,  e  trova  poi  rimedio  e  consolazione  nella  fi- 
losofia ,  ovvero  nello  studio  della  scienza ,  nella  visione 
delle  opere  divine  e  umane.  Questo  spiega  la  grande  po- 
polarità del  libro  di  Boezio,  della  Consolazione,  fon- 
dato appunto  su  questa  base,  dove  la  filosofia  è  rappre- 
sentata in  sembianza  di  donna ,  in  tale  abito  e  in  sì 
mar avig  Uosa  potenzia,  che  cresceva  quando  le  piaceva, 
tanto  che  il  suo  capo  aggiungeva  di  sopra  alle  stelle 
e  sopra  al  cielo,  e  poggiava  a  monte  e  a  valle.  Tale 
è  pure  la  visione  di  Ser  Brunetto  Latini  nel  Tesoretto, 
eh'  è  visione  delle  cose  umane,  secondo  il  corso  stabi- 
lito a  ciascheduna: 

Io  le  vidi  ubbidire, 
Finire  e  incominciare, 
Morire  e  ingeutìiartì. 


—  83  — 

La  stessa  base  ha  il  libro,  Introduzione  alle  viriUy 
di  Bono  Giamboni.  E  un  giovine,  caduto  di  buono  luo- 
go in  malvagio  staio,  che  narra  di  sé  in  questo  modo: 
«  Seguitando  il  lamento  che  fece  Giobbe ,  cominciai  a 
maledire  1'  ora  e  il  die  che  io  nacqui  e  venn'  in  questa 
misera  vita,  e  il  cibo  cJie  in  questo  mondo  m'  avea  nu- 
tricato e  governato.  E  pienamente  lattando  con  guai  e 
gran  sospiri,  i  quali  venieno  della  profondità  del  mio  petto, 
fra  me  medesimo  dissi  :  Dio  onnipotente,  perchè  mi  fa- 
cesti tu  vivere  in  questo  miserò  mondo,  acciocch'  io  pa- 
tissi cotanti  dolori  e  portassi  cotante  fatiche  e  sostenessi 
cotante  pene  ?  Perchè  non  mi  uccidesti  nel  ventre  della 
madre  mia ,  o  incontanente  che  nacqui  non  mi  desti  tu 
la  morte  ?  Facestilo  tu  per  dare  di  me  esempio  alle  genti, 
che  neuna  miseria  d'  uomo  potesse  nel  mondo  più  mon- 
tare ?  Lamentandomi  duramente  nella  profondità  di  una 
oscura  notte  nel  modo  che  avete  udito  di  sopra,  e  di- 
rottamente piangendo,  m'  apparve  di  sopra  al  capo  una 
figura,  che  disse:  Figliuolo  mio,  forte  mi  maraviglio,  che 
essendo  tu  uomo,  fai  reggimenti  bestiali,  perciocché  stai 
sempre  col  capo  chinato,  e  guardi  le  oscure  còse  della 
terra,  laonde  sei  infermato  e  caduto  in  pericolosa  ma- 
lattia. Ma  se  tu  dirizzassi  il  capo  e  guardassi  il  cielo  e 
le  dilettevoli  cose  del  cielo  considerassi,  come  dee  fare 
uomo  naturalmente,  e  di  ogni  tua  malattia  saresti  pur- 
gato, e  vedresti  la  malizia  de'  tuoi  reggimenti,  e  sare- 
stine  dolente.  Or  non  ti  ricorda  di  quello  che  disse  Boe- 
zio :  che,  conciossiacosaché  tutti  gli  altri  animali  guardino 
la  terra,  e  seguitino  le  cose  terrene  per  natura,  solo  al- 
l' uomo  è  dato  a  guardare  il  cielo ,  e  le  celestiali  cose 
contemplare  e  vedere  ?  Quando  la  boce  ebbe  parlato,  si 
riposò  una  pezza,  aspettando  se  alcuna  cosa  rispondessi 
o  dicessi  ;  e  vedendo  che  stava  mutolo ,  e  di  favellare 
nessuno  sembiante  facea,  si  rappressò  verso  me,  e  prese 
i  ghironi  del  suo  vestimento,  e  forbimmi  ^Yi  occhi  i  quali 


—  84  — 

erano  di  molte  lacrime  gravati  per  duri  pianti  eh'  io  avea 
fatto.  Allora  apersi  gli  occhi,  e  guardaimi  dintorno  e  vidi 
appresso  di  me  una  figura  bellissima  e  piacente,  quanto 
più  innanzi  fue  possibile  alla  natura  di  fare.  E  delia  detta 
figura  nascea  una  luce  tanto  grande  e  profonda,  che  ab- 
bagUava  gli  occhi  di  coloro  che  guardare  la  volieno  : 
sicché  poche  persone  la  poteano  fermamente  mirare.  E 
della  detta  kice  naseeano  sotto  grandi  e  maravigliosi 
splendori  che  alluminavano  tutto  il  mondo.  E  io  vedendo 
la  detta  figura  cosi  bella  e  lucente,  avvegna  che  avessi 
dallo  incominciamento  paura,  m'assicurai  tostamente,  pen- 
sando che  cosa  rea  non  potea  cosi  chiara  luce  generare. 
Cominciai  a  guardar  la  figura  tanto  fermamente,  quanto 
la  dolcezza  del  mio  viso  poteva  sofierire.  E  quando  l'ebbi 
assai  mirata,  conobbi  certamente  eh'  era  la  Filosofia,  nelle 
cui  magioni  avea  lungamente  dimorato.  Allora  incominciai 
a  favellare  e  dissi:  Maestro  delle  virtudi,  che  vai  tu  fa- 
cendo in  tanta  profondità  di  notte  per  le  magioni  dei 
servi  tuoi  ?  ». 

Seguono  discorsi  tra  questo  servo  della  Filosofia  e  la 
Filosofia,  il  cui  costrutto  è  questo  :  che  la  vita  terrestre 
è  vita  di  prova;  e  la  vera  vita  è  in  cielo  se  però  poy^i 
in  pace  le  pene  e  le  tribulazioni  di  questo  mondo,  chi 
vuole  essere  verace  figliuolo  di  Dio,  e  no?i  bastardo, 
pensando,  che  se  egli  sarà  compagno  di  Dio  nelle 
passioni,  sarà  suo  compagno  nelle  consolazioni.  La 
filosofìa  finisce  con  questo  lamento  :  «  0  umana  genera- 
zione, quanto  se'  piena  di  vanagloria,  e  hai  gh  occhi  della 
mente,  e  non  vedi  !  Tu  ti  rallegri  delle  ricchezze  e  della 
gloria  del  mondo,  e  di  compiere  i  desiderii  della  carne, 
che  possono  bastare  quasi  per  uno  momento  di  tempo , 
perchè  poco  basta  la  vita  dell'  uomo  :  e  queste  sono  ve- 
racemente la  morte  tua,  perchè  meritano  nell'  altro  mondo 
molte  pene  eternaH.  E  della  povertà  e  delle  tribulazioni 
del  mondo  ti  turbi  e  lamenti,  che  poco  tempo  possono 


—.80  — 

durare:  e  queste  sono  veracemente  la  tua  vita,  perchè 
se  si  comportano  in  pace  meritano  nell'altro  mondo  molta 
gloria  perpetuale.  Disse  uno  savio:  quello  che  ne  diletta 
nel  mondo,  è  cosa  di  momento,  e  quello  che  ne  tormenta 
neir  altro,  durerà  ma'  sempre  ».  E  segue,  citando  i  detti 
dell'Apostolo,  di  san  Pietro,  e  di  Salomone. 

Questo  era  il  tema  comune  delle  prediche,  salvo  che 
qui  il  predicatore  è  la  Filosofìa,  che  si  fa  interprete  di 
Dio,  e  cita  Salomone  e  san  Pietro  e  i  Santi  Padri.  Que- 
sto concetto  è  l' idea  fondamentale  della  leggenda,  una 
storia  fantastica,  la  cui  base  è  il  peccatore  condannato 
0  redento.  In  queste  leggende  Dio  e  il  demonio  sono  g\i 
attori  principali  ;  Dio,  che  co'  suoi  Angioli  e  le  sue  virtù 
tira  r  anima,  alla  rinunzia  de'  beni  terrestri  e  alla  con* 
templazione  delle  cose  celesti,  e  il  demonio  che  la  tiene 
stretta  e  affezionata  alla  terra.  L'  uomo,  mosso  dalle  na- 
turali inchnazioni,  vende  1'  anima  al  demonio  pur  d'  es- 
ser felice  in  terra,  e  lo  spettacolo  finisce  nelle  tenebre 
e  nel  fuoco  dell'  Inferno.  Ma  spesso  la  tragedia  si  solve 
nella  commedia,  cioè  nel  trionfo  e  nel  gaudio  dell'  ani- 
ma, quando,  ajutata  dalla  divina  grazia,  sa  riscattarsi 
dal  demonio  e  acquistare  il  Paradiso.  Questa  lotta  tra 
Dio  e  il  demonio  è  la  battaglia  dei  vizi  e  delle  virtudi, 
che  nella  Introduzione  alle  Virtù  del  Giamboni  la  Filo- 
sofia mostra  al  suo  servo ,  perchè  in  quella  immagine 
fortifichi  la  sua  fede.  Questa  è  pure  la  base  della  leg- 
genda del  Dottore  Fausto,  che  vendè  l'anima  al  diavolo, 
leggenda  cosi  popolare  al  medio  evo,  e  resa  immortale 
da  Goethe.  E  questo  è  anche  il  concetto  del  mondo  li- 
rico dantesco,  dove  Beatrice  diviene  la  Filosofia,  e  le 
gioie  e  i  dolori  dell'amore  terrestre  svaniscono  nella  con- 
templazione intellettuale  della  Scienza. 

Così  il  secolo  decimoterzo  si  chiude  con  uno  stesso  con- 
cetto, esposto  in  prosa  e  in  poesia.  Brunetto,  Giamboni 
e  Dante  s'incontrano  nella  stessa  idea,  o  per  dir  megho 


—  86  — 

era  questa  l' idea  comune,  elaborata  in  tutto  il  medio  evo, 
e  che  sullo  scorcio  di  quel  secolo  ci  si  presenta  netta  e 
distinta,  consapevole  di  sé.  Ma  in  prosa  non  trovò  quel- 
r  adeguata  espressione  che  seppe  dare  Dante  al  suo  mondo 
lirico.  Mancò  la  leggenda^  come  era  mancata  la  novella, 
e  mancò  il  romanzo  religioso  o  spirituale,  com'  era  man- 
cato il  romanzo  cavalleresco.  Lo  scrittore  è  più  intento 
a  raccogliere  che  a  produrre.  Fra  tanti  fiori  e  Giardini 
e  Tesori  manca  Y  albero  della  vita,  1'  anima  impressio- 
nata e  fatta  attiva  che  produca.  Ci  è  un  lavoro  di  tra- 
duzione e  di  compilazione,  non  ci  è  ancora  un  lavoro  di 
assimilazione,  e  tanto  meno  di  produzione.  Le  ricchezze 
son  tante,  che  tutta  1'  attività  dello  spirito  è  consumata 
a  raccoglierle,  anzi  che  a  crearne  di  nuove.  Senti  una 
stanchezza  a  leggere  queste  traduzioni. o  compilazioni, 
dove  niente  è  affermato  senza  un  tpse  diocit,  o  piutto- 
sto ipse  dixerunty  tante  e  cosi  accumulate  sono  le  ci- 
tazioni. E  non  ci  è  tregua,  non  digressioni,  non  varietà 
in  questi  Giardini,  dove  hai  innanzi  un  cicerone  insop- 
portabile, sempre  con  la  stessa  voce  e  lo  stesso  tuono- 
Nessun  movimento  d'immaginazione  o  di  affetto;  nes- 
sun vestigio  di  narrazione  o  descrizione  ;  l' esposizione 
didattica,  il  trattato,  riempie  l' intelletto,  e  t'  uccide  l'ani- 
ma. L'  espressione  più  chiara  del  secolo  furono  i  dottis- 
simi Brunetto  Latini  e  Bono  Giamboni,  traduttori  e  com- 
pilatori infaticabili.  Basti  dire  che  il  Giamboni,  oltre  le 
opere  avanti  accennate ,  ha  tradotto  pure  le  storie  di 
Paolo  Orosio,  Y  Arte  della  Guerra  di  Flavio  Vegezio  e 
la  Forma  di  onesta  vita  di  Martino  Dumesse. 

La  gloria  di  questo  secolo,  cominciatore  di  civiltà,  è 
di  aver  preparato  il  secolo  appresso,  lasciandogh  in  ere- 
dità una  ricca  messe  di  cognizioni  fatte  volgari,  e  la  lin- 
gua e  la  poesia  formata  nella  sua  parte  tecnica.  Quel 
tradurre  fu  un  esercizio  utilissimo,  che  diede  forma  e 
stabilità  alla  nuova  lingua,  e  quella  pieghevolezza  ed.  evi- 


—  87  — 

denza  che  viene  dalla  necessità  di  rendere  con  esattezza 
il  pensiero  altrui.  Principe  de'  traduttori  fu  Bono  Giam- 
boni, così  terso  e  fresco  che  molte  pagine  con  lievi  cor- 
rezioni si  direbbero  scritte  oggi,  sopratutto  dove  sono 
descrizioni  di  animali  o  di  virtù  e  di  vizi. 

In  queste  prose  didattiche  non  ci  è  di  arte  neppure  la 
intenzione.  Ai  contemporanei  di  Gino,  di  Gavalcanti,  di 
Dante  quelle  nude  e  aride  prose  doveano  sembrare  as- 
sai povera  cosa.  E  si  venne  confermando  1'  opinione  che 
il  volgare  non  fosse  buono  che  a  dire  di  amore,  e  che 
le  materie  gravi  si  dovessero  trattare  in  latino,  come  co- 
stumavano gli  scrittori  di  polso. 

V. 

I  MISTERI  E  LE  VISIONI. 

Al  punto  a  cui  siamo  giunti,  ci  si  porge  chiara  l' im- 
m-àgine  del  secolo  decimoterzo.  Due  sono  le  fonti  di  quella 
letteratura  primitiva  :  la  cavalleria  e  le  sacre  scritture. 
L'  eroe  della  cavalleria ,  il  cavaliere ,  è  V  uomo  che  si 
sforza  di  reahzzare  in  terra  la  verità  e  la  giustizia,  di 
cui  è  immagine  la  donna,  suo  culto  e  amore.  La  sua 
vita  è  attiva,  piena  di  avventure  e  di  fatti  maravigliosi. 
Senti  la  sua  presenza  nella  più  antica  lirica,  nelle  no- 
velle, ne'  romanzi  e  nelle  cronache.  Ma  la  cavalleria,  ve- 
nutaci di  fuori,  con  gli  stranieri  che  occupavano  il  no- 
stro suolo,  non  prese  radice,  non  si  sviluppò  non  produsse 
alcuna  opera  originale  ,  rimase  stazionaria.  Perdette  il 
suo  carattere  serio  e  quasi  religioso  e  restò  un  puro  gioco 
d'immaginazione,  che  si  mescola  come  colorito  e  acces- 
sorio in  tutte  le  storie,  sacre  e  profane.  Di  ben  altra 
efficacia  era  l' idea  religiosa,  penetrata  ne'  sentimenti  e 
ne'  costumi,  e  nelle  istituzioni,  compagna  dell'uomo  in 


tutti  gli  stati  della  vita.  L'  eroe  cristiano  è  chiamato  pure 
Cavaliere,  il  Cavaliere  di  Cristo,  ma  è  un  eroe  contem- 
plativo, il  cui  tipo  è  il  Frate,  il  Romito,  il  Santo.  Come 
il  Cavaliere  errante,  anche  lui  rinunzia  ed  ha  a  vile  i 
beni  terrestri,  ma  la  vita  dell'uno  è  militante,  quella 
dell' altro  è  contemplante;  ci  è  in  fondo  la  stessa  idea, 
di  cui  l'uno  è  il  soldato,  1' altro  è  il  sacerdote.  Certo, 
questi  due  tipi  entrano  spesso  1'  un  nell'  altro,  e  il  Frate 
diviene  il  Templario  o  il  Cavaliere  di  Malta,  soldato  della 
Fede,  e  il  Cavaliere  errante  finisce  romito  e  penitente. 
Ma  il  cavaliere,  gittandosi  nelle  più  strane  avventure, 
dimentica  e  fa  dimenticare  il  cielo,  attirata  1' attenzione 
dal  maraviglioso  delle  opere,  sì  che  destano  uguale  cu- 
riosità e  interesse  le  gesto  de'  cristiani  e  de'  saracini, 
eia  rappresentazione  rimane  terrena.  L'altro  al  contra- 
rio, passando  la  vita  ne'  digiuni,  nella  povertà,- nella  ca- 
stità, e  nell'orazione,  6i  tien  sempre  viva  innanzi  l' imma- 
gine dell'  altro  mondo,  e  perciò  questa  vita  contemplativa 
è  schiettamente  rehgiosa  ;  anzi  è  ivi  la  perfezione,  ivi  il 
più  alto  ideale.  La  passione  dell'  anima  è  1'  esser  legata 
al  corpo,  alla  carne,  e  la  sua  beatitudine  o  santificazione 
è  sciogliersi  da  quella  e  star  con  Cristo  :  al  che  è  via 
la  contemplazione  e  la  preghiera.  Nelle  tre  allegorie  sul- 
r  anima  pubblicate  dal  Palermo  è  detto  :  ogni  bene  e 
virtù,  qualunque  vogli,  è  buono  in  sé  medesimo,  ma 
la  preghiera  solamente  trae  a  sé  tutte  le  altre  virtii^ 
In  queste  allegorie  compariscono  tre  esseri,  che  sono  i 
tre  gradi  della  santificazione:  Umano,  Spoglia  e  Rin^ 
nova.  Dapprima  Y  anima,  impacciata  dal  terrestre,  dal- 
l' limano,  non  può  scorgere  il  vero,  che  sotto  figura,  nel 
sensibile.  Il  secondo  essere,  Spoglia,  è  la  virtù  che  monda 
e  purga  l'anima  dagh  ajBfetti  terrestri,  insino  a  che  viene 
Riìinova,  luce  mentale,  che  rinnova  V  anima  in  tutto 
e  mostra  la  verità  senz'  ombra  e  senza  figura.  Que- 
sti tre  gradi  di  santificazione  comprendono  tutta  la  vita 


—  89  — 

del  cavaliere  cristiano.  Inviluppato  nel  senso  e  rella  carne, 
non  vede  che  un  barlume  del  Vero,  e  non  giunge  all'ulti- 
ma luce  mentale,  all'  ultimo  grado,  se  non  purificandosi 
e  mondandosi  della  parte  terrestre.  Anch'  egli  ha  le  sue 
battaglie,  ma  col  demonio  e  con  la  carne,  ch'egli  macera 
e  mortifica  d'  ogni  maniera,  e  le  sue  armi  sono  la  con- 
templazione e  la  preghiera.  Il  maraviglioso  di  questa  vita 
non  è  solo  ne'  miracoH,  ma  in  quella  forza  di  volontà 
che  trae  1'  uomo  a  vincere  tutti  gli  affetti  e  le  inclina- 
zioni naturali,  com'  è  in  Santo  Alessio,  il  tipo  più  com- 
movente di  questi  cavalieri  di  Cristo.  La  creazione  del 
mondo,  il  peccato  originale,  le.  profezie,  la  venuta  di  Cri- 
sto, la  sua  passione,  morte  e  trasfigurazione,  l'anticristo 
e  il  giudizio  universale  sono  1'  epopea,  il  fondo  storico  a 
cui  si  annodano  tante  vite  di  Santi.  E  questa  storia  del- 
l' umanità  era  tutt'  i  giorni  innanzi  al  popolo,  nella  pre- 
dica, nella  confessione,  nella  messa,  nelle  feste.  La  messa 
non  è  altro  che  una  rappresentazione  simbolica  di  que- 
sta storia ,  un  vero  dramma  senza  che  ce  ne  sia  Y  in- 
tenzione, rappresentato  dal  prete  e  da'  Fedeli.  Ogni  atto 
che  fa  il  prete,  è  pieno  di  significato,  è  rappresenta- 
zione mimica.  La  prima  parte  della  messa  è  epica  o  nar- 
rativa ;  è  il  Verbum  Dei,  V  esposizione  che  comprende 
le  profezie  e  il  Vangelo,  e  finisce  con  la  predica.  La  se- 
conda parte  è  drammatica,  è  l'azione,  il  Sacrificmm, 
V  adempimento  delle  profezie.  La  terza  parte  è  lirica,  co- 
me nelle  risposte  de'  Fedeli  (il  coro)  al  Prete  o  quando 
due  Cori  si  alternano  nel  canto,  e  negl'  inni,  e  nelle  pre- 
ghiere :  ciò  che  ha  luogo  principalmente  nella  Messa  can- 
tata. Aggiungi  le  immagini  de'  Santi  e  i  fatti  dell'  antico 
e  nuovo  Testamento  in  quelle  cappelle,  in  quelle  finestre 
variopinte ,  in  quelle  cupole ,  e  quelle  grandi  ombre ,  e 
quelle  moli  restringentisi  sempre  più  e  terminate  da  croci 
slanciate  verso  il  cielo,  ed  avrai  l' immagine  e  V  effetto 
musicale  di  questo  stacco  dalla  terra,  di  questo  volo  del- 


—  90  — 

l'anima  a  Dio,  Dopo  l'è  vangelo,  il  Predicatore  talora, 
per  fare  più  effetto  sull'  immaginazione,  esponeva  la  sua 
storia  sotto  forma  di  rappresentazione,  come  si  fa  in  parte 
anche  oggi  ne'  Quaresimali.  I  monaci  e  i  preti  rappre- 
sentavano il  fatto  ,  e  il  predicatore  aggiungeva  le  sue 
spiegazioni  e  considerazioni.  Era  una  rappresentazione  li- 
turgica, cioè  legata  al  culto,  parte  del  culto,  detta  Di- 
vozione  o  Mistero.  Di  tal  natura  sono  due  Divozioni,  che 
si  rappresentavano  il  giovedì  e  il  venerdì  santo,  e  sono 
piuttosto  due  atti  di  una  sola  rappresentazione^  che  due 
rappresentazioni  distinte.  La  prima  comincia  col  banchetto 
che  Cristo  ebbe  in  casa  di  Lazzaro,  sei  giorni  avanti  Pa- 
squa, e  che  qui  è  il  giovedì  santo.  Cristo  viene  da  Ge- 
rusalemme ;  Maria  con  Maddalena  e  Marta  gli  va  incon- 
tro. Maria  prega  il  figlio  di  non  tornare  a  Gerusalemme, 
perchè  vogliono  la  sua  morte.  Cristo  risponde  dover  ub- 
bidire al  Padre:  pur  si  conforti,  che  niente  farà  che  non 
lo  dica  a  lei.  Alla  fine  del  banchetto  Cristo  scopre  a  Mad- 
dalena che  dee  ire  a  Gerusalemme,  dove  patirà  il  sup- 
plizio della  croce  e  le  raccomanda  la  Madre.  Cristo  esce. 
Sopraggiunge  Maria  che  ha  visto  il  figlio  turbato,  e  la 
prega  a  svelarle  quello  che  il  figlio  le  ha  detto.  Mad- 
dalena tace.  E  la  madre  va  a  Cristo  tutta  in  lagrime, 
e  dice  : 

Dimmelo,  figlio,  dimmelo  a  me, 
Perchè  stai  tanto  affannato? 
Amara  me,  piena  di  sospiri, 
Perchè  a  me  lo  hai  celato? 
De  gran  dolore  se  spezzano  le  vene, 
E  de  la  doglia,  Fighe,  m'  esce  il  fiato. 
Che  t'  amo,  o  figlio,  con  perfetto  core, 
Dimmelo  a  me,  o  dolce  Signore. 

Cristo  dice  che  pel  riscatto  del  mondo  d^e  ire  a  morte  , 
e  Maria  sviene.  Tornata  in  sé,  e  lamentandosi  racco- 
manda il  figlio  a  Giuda  che  risponde  in  modo  equivoco: 


—  91  — 

So  quello  che  ho  a  fare.  Poi  si  volge  a  Pietro,  che  pro- 
mette difendere  il  figlio  contro  tutto  il  mondo.  Giunti  a 
una  porta  della  città,  Maria  non  vuol  separarsi  dal  fi- 
glio, ma  quando  non  lo  vede  più  e  sa  che  per  un'  altra 
porta  è  entrato  in  Gerusalemme,  fa  pietosi  lamenti  in- 
nanzi al  popolo  : 

0  figlio  mio,  tanto  amoroso, 

0  figlio  mio,  dove  sei  tu  andato/ 
0  figlio  mio,  tanto  grazioso, 
Per  qual  porta  sei  tu  entrato  ? 
0  figlio  mio,  assai  dilettoso, 
Tu  sei  partito  tanto  sconsolato. 
Ditemi,  donne,  per  amor  di  Dio, 
Dove  è  andato  il  figlio  mio  ? 

Segue  il  racconto  secondo  la  Bibbia.  Le  parole  di  Cri- 
sto tolte  al  Vangelo  sono  dette  in  latino.  E  la  Divozione 
finisce  con  la  prigionia  di  Cristo. 

La  Divozione  del  venerdì  Santo  racconta  la  passione 
e  la  morte  di  Cristo.  Il  Predicatore  interrompe  la  rap- 
presentazione con  le  sue  spiegazioni,  e  fa  cenno  quando 
si  ha  a  continuare.  Maria  vi  rappresenta  una  gran  parte. 
Mentre  Cristo  prega  pe'  suoi  nemici,  ella  dice  alla  croce: 

Inclina  li  tuoi  rami,  o  croce  alta, 
Dona  riposo  a  lo  tuo  Creatore  ; 
Lo  corpo  precioso  ja  si  spianta  ; 
Lassa  la  tua  forza  e  lo  tuo  vigore. 

Cristo  la  raccomanda  a  Giovanni,  che  inginocchian- 
dosi e  baciandole  i  piedi  cerca  racconsolarla.  Ma  essa 
abbraccia  la  croce  e  si  lamenta  : 

0  figlio  mio,  figlio  amoroso, 
Come  mi  lassi  sconsolata  I 
0  figlio  mio  tanto  precioso, 
Come  rimango  trista,  addolorata  I 


—  92  — 

Lo  tuo  capo  è  tutto  spinoso, 
E  la  tua  faccia  di  sangue  bagnata, 
AJtri  per  te  non  voglio  per  figlio, 
0  dolce  fiato  e  amoroso  giglio. 

Quando  Cristo  muore,  Maddalena  gli  sta  a'  piedi,  al 
capo  Giovanni,  Maria  nel  mezzo.  E  bacia  il  corpo  di 
Cristo,  gli  occhi,  le  guance,  la  bocca,  i  fianchi,  le  mani, 
C071  le  quali  henediva  il  mondo,  i  piedi  su'  quah  Mad- 
dalena sparse  tante  lagrime. 

Queste  rappresentazioni  erano  antichissim*e ,  e  si  scri- 
vevano in  latino,  come  il  Ludus  Paschalis,  rappresen- 
tazione di  Pasqua,  dove  è  messo  in  azione  l'Anticristo. 
Le  due  Divozioni  avanti  discorse  non  sono  probabilmente 
che  versioni  o  imitazioni  di  opere  più  antiche,  rimase 
nella  tradizione.  Tale  era  pure  la  Rappresentazione  del 
Nostro  Signore  Gesù  Cristo,  che  ebbe  luogo  a  Padova 
nel  1243,  e  il  Ludus  Christi,  una  Trilogia  rappresen- 
tata dal  Clero  in  Cividale  negli  ultimi  due  giorni  di  mag- 
gio il  1298.  Nella  Pentecoste  e  ne'  tre  seguenti  giorni 
il  Capitolo  di  questa  città  in  presenza  del  Vescovo  e  del 
Patriarca  di  Aquilea  diede  questa  serie  di  rappresenta- 
zioni: la  Creazione  di  Adamo  ed  Eva,  la  Profezia  o  T  an- 
nunzio, la  nascita,  morte  e  risurrezione  di  Cristo ,  la  di- 
scesa dello  Spirito  Santo,  l'Anticristo,  e  la  venuta  dì  Cri- 
sto nel  giudizio  universale.  Era  tutta  l'epopea  biblica, 
fatta  evidente  e  sensibile  dalla  musica,  dal  canto,  dalle 
scene,  dalla  mimica  e  dalla  parola.  Tale  era  pure  la  Pas- 
sione rappresentata  a  Roma  nel  Coliseo  il  venerdì  santo 
dalla  Compagnia  del  Gonfalone  nel  1264. 

Queste  rappresentazioni,  di  cui  i  Preti  erano  attori  e 
attrici,  avevano  tutto  il  carattere  di  solennità  o  feste  o 
cerimonie  religiose.  Il  diavolo  vi  ha  pure  la  sua  parte 
di  tentatore,  ma  parla  in  modo  serio  e  semplice,  se- 
condo la  sua  natura,  e  non  ha  niente  di  grottesco  e  di 


—  93  — 

ridicolo,  Chiuse  nel  recinto  delle  Chiese,  de'  Conventi  e 
delle  Curie  vescovili,  rimangono  tradizionali  e  immobili, 
senza  sviluppo  artistico,  come  anche  oggi  si  vedon  in 
parte  nelle  feste  del  contado. 

La  naoralità  di  queste  rappresentazioni  era  che  il  fi- 
ne dell'  uomo  è  nelF  altra  vita,  o  come  si  diceva,  è  la  sal- 
vazione dell'  anima,  che  per  conseguire  questo  fine  si  ha 
a  imitare  Cristo,  soffrire  in  questo  mondo  per  godere 
nell'  altro.  Perciò  l' ideale,  1'  eroico  o  come  si  diceva  la 
perfezione  della  vita  era  il  dispregio  de'  beni  di  questo 
mondo,  la  resistenza  a  tutte  le  inchnazioni  naturaU  e  il 
vivere  in  ispirito  nell'  altro  mondo  con  la  contemplazione 
e  la  preghiera.  Questa  è  la  vita  de'  Santi,  della  quale  si 
dava  anche  rappresentazione  a'  Fedeli.  E  tra  le  più  an- 
tiche è  una  ancora  inedita,  che  ha  per  titolo  :  d'  uno  Mo- 
naco che  andò  a  servizio  di  Dio,  probabilmente  reci- 
tata a  Monaci  da  Monaci  in  un  convento.  L'  eroe  è  que- 
sto monaco,  un  giovinetto  che  resiste  alle  lacrime  della 
Madre,  alle  querele  del  padre,  alle  tentazioni  del  com- 
pare, e  si  rende  frate  nel  deserto,  dove  è  accolto  come 
'  figlio  da  un  romito.  Ma  ivi  prove  più  dure  l' attendano. 
Mentre  egli  va  a  raccogliere  per  il  pasto  radici,  frutta, 
castagne  e  noci,  il  Romito  prega,  e  mosso  da  curiosità, 
chiede  a  Dio  qual  luogo  spetti  al  suo  Novizio  in  para- 
diso, e  un  angiolo  risponde  che  sarà  dannato.  Non  per- 
ciò della  notizia  si  turba  il  giovinetto,  anzi  risponde  tran- 
quillo che  continuerà  ad  amare  e  servire  Dio.  Invano  il 
demonio  lo  tenta ,  dicendogli  che  ha  guastato  V  amor 
naturale^  e  che  il  meglio  sarà  tornare  in  casa  del  pa- 
dre, che  forse  Dio  gli  avrà  misericordia.  Il  giovinetto 
con  gli  scongiuri  fuga  il  demonio,  e  rimane  fermo  nella 
sua  risoluzione.  Allora  1'  angiolo  annunzia  al  romito  che 
egU  è  salvo.  E  il  Monaco  e  il  Romito  intuonano  il  Te 
Beum  0  una  Lauda.  Neil'  epilogo  o  commiato  sono  esor- 
tati gli  spettatoli  a  castigare  la  carne  e  a  pensare  alia 


—  94  — 

vita  eterna.  Anima  della  rappresentazione  è  l'invitta  fede 
del  giovane  monaco,  che  la  preghiera  e  la  contempla- 
zione è  la  più  sicura  guardia  contro  il  peccato  e  la  ten- 
tazione della  carne ,  e  che  si  giunge  alla  santificazione 
col  rinunziare  al  mondo  e  vivere  con  lo  spirito  in  Dio. 
Questo  concetto  è  espresso  in  una  forma  scolastica  nel 
canto  del  Monaco,  di  cui  ecco  alcuni  brani: 

L'  anima  sensitiva  che  s' inchina 

Nel  mondo  a  tutto  quel  che  la  diletta. 
Apprezza  poco  la  legge  divina. 

L'alma  piena  di  fede  e  semplicetta 
Spesso  si  leva  pura  a  contemplare 
Quel  ben  che  veramente  la  diletta. 
E  quando  a  quel  più  intenta  esser  le  part5 
Allor  dal  grave  corpo  è  sì  costretta, 
Che  giuso  afflitta  le  convien  tornare, 
E  umile  e  isdegnosa  piange  e  dice: 
Deh!  chi  mi  sturba  esser  felice? 

Quell'anima  gentile  è  sempre  viva, 
E  vive  Iddio  in  lei  per  unione, 
E  tutta  sta  nella  contemplativa. 
E  gode  tutta  ;  e  s'  ella  ha  passione, 
È  per  esser  legata  al  corpo  tristo, 
Dal  qual  desia  disciorsi  e  star  con  Cristo. 

Ci  è  una  rappresentazione,  intitolata,  Commedia  del- 
V  anima,  che  è  una  storia  ideale  della  vita  de'  Santi,  una 
specie  di  logica,  dove  sono  le  idee  fondamentali  della 
santificazione,  1'  ossatura  e  lo  scheletro  di  tutte  le  vite 
de'  Santi.  L'  anima  esce  pura  dalle  mani  di  Dio  e  a  sua 
immagine.  Dio  la  contempla  con  amore,  dicendo: 

Quando  io  risguardo  quella  creatura, 
Che  air  immagine  mia  io  ho  formata, 
E  eh'  io  la  veggo  immaculata  e  pura 
Starmi  dinanzi,  la  m'  è  accetta  e  grata: 


—  95  — 

Ma  r  ha  bisogno  d'  una  buona  cura. 
La  quale  a  custodirla  sia  parata  ; 
E  percliè  ha  in  sé  l' immagine  di  Dio, 
Vo'  che  la  guardi  un  Angel  santo  e  pio. 

Ma  il  demonio  invidioso  che  si  vii  cosa  abbia  a  fruire 
quel  regno,  del  qual  esso  è  'privato,  si  apparecchia  a 
darle  battaglia.  L'  angelo  custode  conforta  1'  anima  e  le 
presenta  la  Memoria,  l'Intelletto  e  la  Volontà:  le  sue 
votenzie.  L'Intelletto  parla  dopo  la  Memoria  e  dice: 

10  sono  di  te  la  seconda  potenzia 

E  il  nome  mio  è  detto  Inteliigenzia. 

La  mia  quiete  si  sta  nel  verbo  eterno, 
E  quivi  sempre  debbo  esser  saziato  : 
Però  che  in  questo  esilio  io  non  discerno 
Com'  io  sarò  in  quel  regno  beato. 
Allora  io  sarò  sazio  in  sempiterno, 
E  quivi  il  mio  obbietto  arò  trovato, 
Fermandomi  in  quel  razzo  rilucente, 
Che  senza  quello  inquieta  è  la  mia  mente. 

Lievati  sopra  te  tutta  in  fervore, 

E  guarda  un  po'  del  Ciel  queir  ornamento, 

Vedrailo  circondato  di  splendore. 

Poi  pensa,  anima  mia,  quel  che  v'  è  drento 

Lascia  un  po'  star  le  cose  esteriore, 

Se  Tuoi  aver  di  quello  intendimento: 

Per  questo  i  Santi  tutti  innamorati 

11  mondo  disprezzorno,  pompe  e  stati. 

1S  la  Volontà  dice: 

Io  son  la  Volontà  che  ho  a  fruire 

Quel  ben  che  ha  dichiarato  l' intelletto, 
E  in  quel  fermando  tutto  il  mio  desire, 
Perchè  creata  sono  a  quest'  effetto. 
E  perchè  V  occhio  corporal  non  vede. 
Credendo  ho  da  seguir  con  pura  fede. 


—  93  — 

L' Intelletto  dice  alla  Volontà  : 

A  te  si  appartien  sol  deliberare 

Di  far  quel  che  ti  è  mostro  fedelmente  ; 
L'  ufìzio  tuo  è  sempremai  d' amare 
E  unirti  con  Dio  perfettamente. 

E  la  Volontà  risponde  : 

Nella  tua  spera  io.  m'ho  sempre  a  guardare, 
Benché  la  mostri  un  po'  con  pura  mente  ; 
Quand'io  sarò  nella  gloria  beata, 
Ciascuna  cosa  mi  fia  dichiarata. 

L' anima  confortata  alza  la  preghiera  a  Dio,  e  l'Angelo 
custode  aggiunge  : 

Dagli,  Signore,  un'ardente  fiammella, 
Che  la  difenda  dal  Drago  feroce  : 
Tu  sai  che  l'è  nel  corpo  incarcerata, 
E  non  può  a  te  senza  te  esser  grata. 

Cioè  a  dire  non  bastano  le  tre  potenzie  naturali,  Me- 
moria, Intelligenzia,  Volontà,  perchè  l'anima  piaccia  al 
Signore  ;  ci  vuole  anche  la  sua  grazia,  l' ardente  fiam- 
mella che  dee  cacciare  il  Drago,  il  demonio.  E  Dio  manda 
ad  assisterla  le  virtù  teologiche,  Fede  vestita  di  colore 
celeste,  con  una  croce  nella  mano  destra  e  nella  sinistra 
un  calice  e  suvvi  la  patena.  Speranza  vestita  di  verde, 
con  gli  occhi  fissi  al  cielo  e  le  mani  giunte.  Carità  ve- 
stita di  rosso,  con  un  parvolino  per  mano.  Intanto  il  de- 
monio chiama  l' Eresia,  la  Disperazione,  la  Sensualità  e 
tutte  le  sue  forze  capitanate  dall'  Odio.  Le  tre  Virtù  in- 
torniano r  anima.  La  Fede  dice  dell'  esser  suo,  e  S.  Gio- 
vanni Crisostomo  celebra  la  sua  potenza.  Ma  l'Infedeltà 
con  acri  parole  la  rampogna  ; 

Ei  vien  da  levità  chi  crede  presto. 
Tu  ne  sei  ita  quasi  che  per  terra, 
E  puossi  dir  che  la  fede  è  mancata; 


Uomini  grandi  e  dotti  ti  fan  guerra. 
Chi  t'esaltò,  or  t'ha  perseguitata: 
Va  nel  Levante  e  in  tutto  1'  Occidente, 
E  guarda  di  noi  dua  chi  ha  più  gente. 

Allora  la  Speranza  viene  in  soccorso  : 

Leva  su  gli  occhi  alla  città  superna 
Ch'  è  fabbricata  senza  ingegno  umano. 

Ma  l'anima  teme,  pensando  la  sua  debolezza: 

Come  io  digiuno  un  dì,  io  son  sì  bianc^, 
Che  par  che  un  curandajo  m'abbi  imbiancato; 
Io  mi  starei  a  dormir  sur  una  panca, 
E  il  corpo  vuole  un  letto  sprimacciato. 

La  speranza  le  pone  avanti  1'  esempio  de'  Santi  e  so- 
prattutto di  Santo  Agostino, 

Quando  diceva  orando:  Signor  mio, 
Questo  mio  cor  non  si  può  consolare: 
Tu  solo  sei  quel  che  lo  puoi  quietare. 

Allora  r  assale  la  Disperazione  e  dice  : 

Pensa  che  la  giustizia  ara  il  suo  loco; 
E  tu  hai  fatti  assai  ben  di  peccati: 
0,  tu  dirai:  io  non  vo'  disperarmi, 
Perchè  Dio  è  parato  a  perdonarmi. 

Ma  l'anima  risponde  allo  scherno,  cacciandola  da  se: 

E  tu  va  via,  bestiaccia  maledetta. 

Segue  un'  altra  disputa  tra  la  Carità,  della  quale  San 
Paolo  celebra  le  lodi,  e  l'Odio,  in  cui  spunta  1' ombra  di 
un  carattere,  qualche  cosa  di  simile  a  un  Capitano  millan- 
tatore. 

Voltati  in  qua,  porgimi  un  po'  1'  orecchio, 
E  non  guardar  eh'  io  sia  canuto  e  vecchio, 

De  Sanctis  — Leti    Ital.  Voi.  1.  7 


—  98  — 

Guardami  un  pò*  s' io  sono  un  bel  vecchiardo, 
E  per  antichità  tutto  canuto, 
Neil'  operar  son  giovane  e  gagliardo, 
A  ricordar  l' ingiuria  molto  astuto, 
Nel  mio  discorrer  non  son  pigro  o  lardo, 
Conosco  tutte  le  persone  al  fiuto; 
Subito  che  tu  pigli  qualche  sdegno, 
In  un  momento  io  vi  fo  su  disegno. 

La  Carità  ti  esorta  a  perdonare, 
Ed  io  ti  dico:  non  lo  voler  fare. 

Il  perdonar  vien  da  poltroneria 

E  d' animo  eh*  è  pien  di  debolezza; 
E  chi  t' ingiuria  e  dice  villania, 
Quando  che  tu  sopporti,  e'  vi  si  avvezza: 
Prendigli  il  cambio  a  ognun,  sia  eh,  si  sia. 
Mettigli  al  collo  una  grossa  cavezza, 
Non  lasciar  mai  la  vendetta  a  chi  resta, 
E  a  chi  fosse,  dagli  in  su  la  testa. 

Io  venni  qui  con  una  spada  in  mano 
Per  istar  teco  e  messimi  1'  elmetto, 
lo  son  del  Satanasso  capitano, 
Ottengo  volentier  quel  ch'io  prometto: 
Quando  io  veggo  per  terra  il  sangue  umano, 
Mi  genera  a  vederlo  un  gran  diletto, 
E  tengo  sempre  il  mio  cavai  sellato 
Per  esser  presto  presto  in  ogni  lato. 

0  quante  brighe,  o  quante  occisioni 

Son  per  me  fatte  in  città  e  in  castella: 

Ho  buon  affar  nelle  religioni. 

Me  ne  vo  pe'  Conventi  in  ogni  cella. 

Metto  r  un  1'  altro  in  gran  divisioni. 

Facendo  mormorar  di  chi  favella. 

Poi  mi  metto  in  cammino  e  in  poche  ore 

Mi  trovo  in  corte  di  qualche  signore. 

L'  ultima  battaglia  è  tra  il  senso  o  la  sensualità  e  la 
Ragione.  L'anima  pregando  si  sente  sopraffatta  dal  corpo  : 


—  99  — 

Io  ti  vorrei,  Signor,  sempre  servire. 
Ma  questo  corpo  m'  è  sempre  molesto  ; 
Ohe  s'io  voglio  vegliare  e'  vuol  dormire 
Ogni  po'  di  disagio  lo  fa  mesto, 
E  comincia  di  fatto  a  impallidire: 
La  sensualità  che  vede  questo 
Mi  dice:  tu  vorrai  volar  senz'ale, 
E  dare  un  buon  guadagno  allo  spedale. 

E  la  Sensualità  così  invocata  le  dice  beffando  : 

Tu  vorresti  ire  al  ciel  cosi  vestita  : 

Io  ti  vo'  dire  il  ver  senza  rispetto  : 

A  me  pare  che  tu  ti  sia  smarrita, 

Faresti  meglio  a  picchiarti  un  po'  il  petto: 

Non  vorresti  patir  caldo,  né  gielo, 

E  calzata  e  vestita  andare  in  cielo. 

Ma  ecco  la  Ragione  dire  all'  anima  : 

Deh  dimmi,  anima  mia,  che  hai  tu  avuto. 
Io  m'  era  appunto  appunto  addormentata. 

E  saputo  il  fatto,  dice  della  sua  nemica  : 

Ella  è  una  bestiaccia  sì  insolente. 
Bisogna  non  lasciar  punto  la  briglia: 
Battila  spesso  senza  discrezione, 
E  non  gli  mostrar  mai  compassione 

Ma  che  dovevo  fare  ?  dice  V  anima. 

Dovevi  tutta  aprirti  nelle  braccia, 
A  pigliare   una  mazza  tanto  grossa. 
Ohe  rompessi  la  carne  e  tutte  1'  ossa. 

La  sensualità  non  se  ne  spaventa,  e  dopo  uno  scambio 
di  villanie  aggiunge  : 

Questa  Ragiono  è  sol  l' ipocrisia, 
E  non  sa  appena  dir  V  ave  Maria. 


—  100  — 

E  m*  incresce  di  te  che  hai  questo  sprone, 

Bisognerà  che  tu  te  lo  cavassi. 

Deh  fa  a  mio  modo,  piglia  un  buon  mattone. 

Dagli  nel  capo  che  tu  lo  fracassi. 

La  sta  il  di  e  la  notte  inginocchione 

Col  collo  torto  e  dice  pissi  passi: 
Piglia  qualche  piacer,  deh  fa  a  mio  modo. 

Che  a  dargli  un  po' di  spasso  gli  è  dovuto. 

La  Ragione  è  vinta  e  l'anima   cede.  Ella  desidera  una 
ghirlanda  con  un  nodo, 

Come  di  quelle  eh'  io  ho  già  veduto. 

E  il  demonio  aggiunge: 

Fatti  un  bel  tocco  di  velluto  rosso 
E  una  zimarra  per  tenere  in  dosso. 

Cosi  la  Ragione  è  impotente  senza  la  Grazia.  Compa- 
risce Dio  stasso: 

Voltati  a  me,  non  mi  far  resistenza, 

Ch'io  t'  ho  aspettato  e  aspetto  a  penitenza. 

L'anima  pentita  del  mal  pensiero  risponde: 

Non  merito  da  te  essere  udita 

Pe'  miei  gravi  pensieri,  iniqui  e  stolti  : 

Io  ho  la  tua  bontà  tanto  schernita, 

Ch'  io  non  son  degna  che  tu  mi  ti  volti, 

E  senza  te  io  son  come  smarrita, 

Nessun  non  trovo  che  il  mio  cor  conforti  : 

Se  tu.  Signor,  che  hai  per    me  il  sangue  sparso. 

Non  mi  soccorri,  ogni  rim  e  dio  è  scarso. 

Allora  Dio  le  manda  in  soccorso  le  virtù  cardinali.  Pru- 
denza, Temperanza,  Fortezza,  Giustizia,  Misericordia,  Po- 
vertà, Pazienza,  Umiltà.  Ciascuna  parla  di  sé,  citando 
talora  questo  o  quel  passo  della  Bibbia.  Ecco  alcuni 
brani  : 


—  101  — . 

Prudenza  —  Io  ti  conforto  che  tu  sia  prudente 
In  tutte  r  opre  tue  come  il  serpente. 
l^cmperanza  —  Terrai  la  via  del  mezzo  in  ogni  cosa, 
E  sarà  la  tua  mente  graziosa 
Fortezza  —  Tullio  dice  di  me  questa  parola, 

Che  ognun  venga  a  imparare  alla  mia  scuola. 
Che  la  fortezza  ancor  rapisce  il  cielo, 
♦  Lo  dice  san  Matteo  nell'  Evangelo. 
Giustizia  —  Dice  David  con  la  sua  voce  amena: 
Di  Giustizia  è  la  destra  di  Dio  piena. 
Misericordia  —  MerC'^,  mercè,  o  Giustizia  divina, 
Abbi  pietà  dell'  alma  pellegrina, 
Perdona  volentieri  a  chiunche  erra, 
Che  son  richiusi  in  un  vaso  di  terra. 
E  questo  vaso  è  sì  pericoloso, 

jNel  quale  sta  rinchiusa  questa  gioia. 
Mentre  che  1'  alma  resta  in  questa  vita, 
Di  lacci  trova  presi  tutti  i  {)assi: 
Però  bisogna  a  lei  il  divino  ajuto, 
Che  senza  quello  ogni  cosa  è  perduto. 
Povertà  —  Io  son  la  Povertà,  o  città  mia. 

Che  non  so  chi  mi  voglia  in  compagnia, 
E  son  quella  virtù  che  da'  potenti 
Son  rifiutata  e  mandata  al  profondo: 
Ison  è  nessun  che  di  me  si  contenti. 
Eziandio  que'  che  han  lasciato  il  mondo. 
Ognun  va  dreto  a'  ricchi  e  bei  presenti, 
Ma  io  di  mendicar  non  mi  vergogno, 
Perchè  gli  è  di  me  scritto  nel  Vangelo: 
Quel  che  mi  segue  ara  il  regno  del  cielo. 
Pazienza  —  0  popul  mio,  io  son  la  Pazienzia; 
Che  più  non  ho  chi  mi  dia  udienzia. 
0  degna  Povertà,  virtù  perfetta. 
Che  tanto  fusti  accetta  al  Verbo  eterno, 
Felice  a  quella  che  ti  sta  suggetta, 
Nel  Ciel  sarà  felice  in  sempiterno, 
Che  non  si  può  godere  in  questa  vita, 
E  il  Paradiso  avere  alla  partita. 


—  102  — 

Povertà  —  .     .     .     .     M' affliorpfo  e  doglio 
Che  la  perfez'on  quasi  è  mancata, 
Non  è  più  il  tempo  de*  padri  pascati, 
Ch'  erano  pover,  vili  e  disprezzati. 
Pazienza  —  Chi  pensa  andare  al  Ciel  per  altra  via. 
Che  per  patir,  si  troverà  ingannato. 
Gesù  diletto  figliuol  di  Maria 
ì^e  ha  dato  esempio  e  a  tutti  ha  insegnato. 
Per  dimostrarci  che  s' avea  a  patire, 
Elesse  su  la  Croce  di  morire. 
Umiltà  —  L'  Umiltade  son  io,  fratei  diletti, 

Oggi  non  e'  è  nessun  che  mi  raccetti. 

Vestitevi  di  Cristo,  o  genti  stolte, 

Non  vi  avvedete  voi  che  il  tempo  vola? 

Non  entra  in  paradiso  alcun  difetto. 

Non  v'  entra  quel  che  a  Dio  non  è  soggetto. 

Andiam  cercando,  care  mie  sorelle, 

Per  tutto  il  mondo  un  po'  nostra  ventura: 

Se  nel  gregge  di  Cristo  una  di  quelle 

Ci  ricevessi  con  la  mente  pura. 

Perchè  noi  siam  vestite  poverelle, 

Non  vorrei  gli  facessimo   paura: 

Ch'  oggidì  le  virtù  non  son  richieste, 

Ma  fassi  onore  a  chi  ha  le  belle  veste. 

L^ anima  contrita  e  fortificata  alza  un  canto  a  Dio: 

A  te  mi  do.  Signor  clemente  e  pio, 
E  voglio  a  te  servir  tutt'  i  miei  anni, 
Altro  che  te  non  bramo  e  non  desio. 

Io  ho  fuggito  il  mondo  pien  d'  affanni, 
Dove  si  trova  sol  doglia  e  mestizia, 
Ben  è  infelice  chi  veste  suo'  panni. 

Ei  mostra  nel  principio  la  letizia, 
E  di  dover  donar  pace  e  riposo: 
Di  poi  non  dà  se  non  pianto  e  tristizia. 

0  mondo  cieco,  falso  e  tenebroso, 
Che  hai  tanti  amatori  in  questa  vita, 


—  103  — 

E  non  mostri  il  velen  che  hai  drento  ascoso 
Per  dolenti  poi  farli  alla  partita. 

Colpita  da  grave  infermità  dice: 

0  m'  è  venuto  tanto  male  addosso 
Che  più  star  ritta  niente  non  posso. 
Che  vuol  dir  questo  ?  ei  mi  manca  la  vita. 
Gesù  Gesù,  dolce  Signore,  aita. 

Intorno  alla  morente  fanno  l' ultima  battaglia  1'  angiolo 
e  il  demonio.  Gli  argomenti  dell'  angiolo  si  possono  ri- 
durre in  questi  tre  versi  : 

Umana  cosa  è  cascare  in  errore, 
E  angelica  cosa  il  rilevarsi, 
Sol  diabolica  cosa  è  star  nel  vizio. 

Dio  accoglie  1'  anima  e  pronunzia  il  suo  giudizio  : 

E  questa  è  la  mia  ultima  sentenzia, 
Che  la  venghi  a  fruir  la  mia  presenzia. 

E  r  angiolo  dice  : 

Partite  tutti:  la  sentenza  è  data: 
Sonate  per  dolcezza  una  calata. 

E  il  coro  accompagna  l' anima  al  cielo  con  questo 
canto: 

0  felice  Alma,  che  dal  corpo  sciolta 
E  per  amor  congiunta  col  tuo  Dio, 
La  vita  t'  è  donata  e  non  t'  è  tolta, 
Sei  fatta  ricca  di  un  prezzo  sì  pio, 
E  con  veste  si  bella  e  nuziale 
Al  convito  starai  celestiale. 

Cosi  finisce  questa  rappresentazione,  detta  Comme^ 
dia,  perchè  si  conchiude  con  la  salvazione  e  non  con 
la  perdizione  dell'  anima.  E  detta  anche  misterio^  per  la 
sua  natura  allegorica.  È  uno  degli  antichissimi  misteri 


—  101  — 

liturgici,  ritoccato,  ripulito,  rammodernato  e  fatto  laico 
a'  tempi  di  Lorenzo  de'  Medici  e  forse  più  in  là,  a  giudi- 
care dalla  forma  franca  e  spigliata,  da  certi  tentativi  di 
formazione  artistica,  come  nelle  figure  del  demonio,  del- 
l' odio,  della  sensualità,  della  povertà,  e  da  un  certo  non 
so  che  befiardo  e  grottesco,  che  svela  poca  serietà  e  un- 
zione nello  scrittore  e  negli  spettatori.  Ma  se  la  trama 
è  moderna,  la  stoffa  è  antica  ,  e  ricorda  il  duello  del 
senso  e  della  ragione,  cosi  comune  negli  scritti  volgari 
che  apparvero  prima,  e  la  battaglia  de'  vizii  e  delle  virtù 
del  Giamboni,  e  le  tre  allegorie  cristiane.  Anzi  questa 
Commedia  dell'  anima  non  è  se  non  le  tre  allegorie  messe 
in  rappresentazione.  Là  trovi  tre  gradi  di  santificazione. 
Umano,  Spoglia  e  Rinnova.  E  anche  qui  1'  anima  è  prima 
combattuta  dal  senso  e  cade  ne'  suoi  lacci,  perchè  umana 
cosa  è  cascare  in  errore,  poi  fa  la  sua  penitenza  ,  si 
spogha  e  si  monda  della  scoria  del  peccato,  e  così  a  Dio 
si  rimarita,  come  dice  Dante,  o,  come  dice  il  nostro  au- 
tore, sta  al  convito  celestiale  con  veste  bella  e  nuziale. 
Questi  tre  gradi  aveano  la  loro  formazione  Hturgica  nel- 
'  Inferno,  Purgatorio  e  Paradiso,  che  erano  appunto  il 
senso,  l'umano  puro,  abbandonato  a  sé  stesso,  lo  Spo- 
gha  0  la  penitenza  che  purga  o  monda  1'  anima,  e  il  Rin- 
novamento 0  la  luce  mentale,  la  beatitudine.  Questo  era 
il  concetto  delle  rappresentazioni  che  avevano  a  materia 
l'  altro  mondo,  come  quella  di  cui  fa  menzione  Giovanni 
Villani,  che  ebbe  luogo  a  Firenze.  L'  altro  mondo  era  la 
storia,  0  come  si  diceva  la  commedia  dell'  anima,  la  quale 
non  potea  giungere  a  redimersi  dall'  umanità,  dal  corpo, 
dalla  carne,  dall'  inferno,  se  non  con  la  penitenza  puri- 
ficandosi e  purgandosi,  e  cosi  contrita  e  confessa  dive- 
niva leggiera,  saliva  al  Cielo.  Questa  Commedia  spiri- 
tuale dell'  anima,  di  cui  ho  voluto  dare  un  sunto  possi- 
bilmente esatto,  è  il  Codice  di  quel  secolo,  il  contenuto 
astratto  e  generale,  particolarizzato  nelle  vite,  nelle  leg- 


—  105  — 

grande,  ne'  Trattati  e  nplla  Lirica,  Spiritus  inixis  aJif.  Lo 
spirito  che  alita  per  entro  a  quelle  prose  e  a  quelle  poe- 
sie è  la  Commedia  dell'  anima. 

Ma  in  tante  prose  e  in  tante  poesie  non  ci  è  ancora 
un  vero  lavoro  d' individuazione  e  di  formazione.  Il  con- 
tenuto rimane  nella  sua  astratta  semplicità,  innominato 
e  impersonale,  l'anima.  Essendo  il  suo  fondamento  la 
contemplazione,  e  non  l'azione,  o  un'azione  negativa,  la  re- 
sistenza agi'  istinti  e  agli  affetti  naturali  nen  penetra  nella 
vita,  non  ne  assume  tutte  le  forme,  non  diventa  la  so- 
cietà. Certo,  queir  azione  negativa  e  molto  poetica,  e  il 
sublime  religioso,  e  tocca  il  cuore,  quando  è  rappresen- 
tata con  semplicità  e  unzione.  Ma  in  questo  contrasto 
tra  il  sentimento  religioso  e  la  natura,  ciò  che  move  più 
è  il  grido  della  natura,  come  ne'  lamenti  della  madre  di 
Santo  Alessio  o  di  Santa  Eugenia,  o  nel  dolore  d' Isacco 
nel  Sacrifizio  di  Ahraam,  che  all'annunzio  della  sua 
morte  chiama  la  madre  : 

0  santa  Sara,  madre  di  pietade, 

Se  fussi  in  questo  loco,  io  non  morrei. 
Tutta  è  r  anima  mia  trista  e  dolente 

Per  tal  precetto,  sono  in  agonia: 

Tu  mi  dicesti  già  che  tanta  gente 

Nascer  doveva  della  carne  mia. 

Il  gaudio  volge  in  dolor  si  cocente, 

Che  di  star  ritto  non  ho  più  balìa. 

S'egli  è  possibil  far  contento  Dio, 

Fa  eh'  io  non  mora,  o  dolce  padre  mio. 

Quantunque  questo  non  sia  che  uno  de'  lati  più  angu- 
sti e  solitarii  della  vita  umana,  così  ricca  e  varia  nei 
suoi  aspetti,  pure  offre  contrasti  e  gradazioni,  che  lo  ren- 
dono capacissimo  di  un  grande  sviluppo  artistico.  Ma  in 
quel  suo  albore  la  letteratura  ha  lo  stesso  carati  ^re  che 
mostra  nella  decadenza,  la  naturalità  o  materialità  del 
contenuto.  Tante  vite  e  storie  e  leggende  e  visioni  stuz- 


—  103  — 

zìcavano  la  curiosità  con  la  varietà  e  novità  (hgìì  acci- 
denti, e  si  attendeva  più  allo  spettacoloso,  a  colpire  l' im- 
maginazione con  apparizioni  nuove  e  meravigliose,  che 
a  lavorarle  e  svilupparle.  Mancava  la  virtù  di  mettersi 
gli  oggetti  a  distanza  e  trasformarli,  la  realtà  anche 
nuda  era  per  sé  stessa  maravigliosa  e  bastava  ad  otte- 
nere r  effetto,  operando  in  modo  semplice  e  immediato 
sullo  scrittore  e  su'  lettori. 

Oltreché,  siccome  il  contenuto  riposava  su  di  una  dot- 
trina liturgica,  stabilita  e  inalterabile,  poco  era  accomo- 
dato da  una  rappresentanzione  libera  e  artistica,  anche 
quando  usciva  dalia  Chiesa  e  dal  Convento  ed  era  ma- 
neggiato da'  laici,  come  fu  anche  de'  Misteri.  Impadronirsi 
di  quel  contenuto,  cacciarlo  dalla  sua  generalità,  dargli 
corpo  e  persona,  sarebbe  sembrata  una  profanazione.  Lo 
spirito  mirava  a  rendere  accessibile  quella  dottrina  per 
via  di  esempli,  di  sentenze  e  di  allegorie,  come  si  vedea 
nella  ibbia.  Il  reale ,  il  concreto  non  avea  valore  se 
non  come  figura  della  dottrina.  E^^co  ad  esempio  in  che 
modo  è  nella  Commedia  dell'Anima  figurato  il  paradiso: 

In  su  quel  monte  dove  sta  il  Signore, 

V  è  una  fontana  traboccante  e  bella, 

Che  sempre  getta  un  mirabi)   liquore. 
D'  oro  e  d'  argento  v'  è  la  sua  cannella, 

Le  sponde  di  smeraldi  e  d'  oro  fine, 

E  tutta  la  Città  circonda  quella, 
Salite  al  monte,  o  alme  peregrine, 

Salite  al  monte,  e  lassù  troverete 

Soprabbondanti  le  grazie  divine, 

Le  ultime  parole  spiegano  la  figura.  Quella  è  la  fon- 
tana della  divina  Grazia.  Con  questa  tendenza  lo  scrit- 
tore sta  contento  alla  semplice  personificazione  e  gli  pare 
di  aver  fatto  assai  a  dare  una  immagine  che  renda  chia- 
ro e  sensibile   iì  suo  concetto.  Oltre  a  ciò,  1'  uomo  colto. 


—  107  — 

schivo  delle  forme  semplici  e  volgari  dell'  umile  credente» 
mira  a  trasformare  quella  dottrina  in  un  contenuto  scien- 
titìco,  e  la  traduce  nelle  forme  scolastiche,  e  di  questa 
Fede  ragionata  e  sillogizzata  fa  la  Filosofia ,  fighuola 
di  Dio.  Lo  studio  del  secolo  è  di  allegorizzare  e  dimo- 
strare, anziché  di  rappresentare;  è  di  chiarire  quel  con- 
tenuto ,  lumeggiarlo  ,  volgarizzarlo  ,  ragionarlo ,  anziché 
coglierlo  in  azione  e  nel!'  atto  della  vita.  Perciò  1'  opera 
letteraria  tiene  dell'  allegoria  e  del  trattato,  e  ciò  che  è 
mera  rappresent  izione,  rimane  neh'  infanzia.  Mai  non  ti 
senti  ben  fermo  in  terra,  in  mezzo  a  uomini  vivi,  con 
tali  caratteri,  passioni  e  cos  tumi,  anzi  lo  scrittore  ti  par 
quasi  estraneo  alla  società  e  alle  sue  lotte  ,  e  dimora 
nell'astratta  e  monotona  generalità  della  sua  contempla- 
zione. E  quando  pur  scende  a  rappresentare  la  vita,  ti 
senti  d'  un  tratto  balzato  nel  regno  de*  misteri,  delle  leg- 
gende^ e  delle  visioni  nell'  altro  mondo. 

La  visione  é  in  effetti  la  forma  naturale  di  questo  con- 
tenuto, quando  si  vuol  rappres  entarlo.  La  vita  e  la  realtà 
è  il  senso,  la  carne,  il  peccato,  e  lo  scrittore  o  guarda 
è  passa,  o  se  pur  vi  si  trattiene,  è  per  maledirla,  rap- 
presentandola non  quale  appare  in  terra,  ma  quale  é  nel- 
r  altro  mondo.  La  rappresentazione  è  dunque  la  visione 
della  realtà,  come  sarà  dopo  la  morte,  e  là  si  spazia  e 
si  diletta  l' immaginazione.  E  se  il  Mistero  é  Commedia, 
ed  ha  per  conclusione  la  santificazione  e  la  beatitudine, 
la  Visione  é  spesso  pittura  delle  pene  infernah,  lasciate 
alla  libera  immaginazione  de'  predicatori,  de'  vescovi,  dei 
frati ,  de'  Santi  Padri ,  che  col  terrore  operavano  sullo 
rozze  immaginazioni.  Laghi  di  zolfo,  valli  di  fuoco  o  di 
ghiaccio,  botti  d'  acqua  bollente,  rettili,  vermi ,  dragoni 
da'  denti  di  fuoco,  demoni  armati  di  lance,  di  fruste,  di 
martelli  infocati,  cadaveri  putridi  e  inverminiti,  scheletri 
tremanti  sotto  una  pioggia  di  ghiaccio,  dannati  inchio- 
dati al  suolo  con  tanti  chiodi  che  non  pare  la  carne» 


—  108  — 

0  sospesi  per  le  unghie  in  mezzo  al  zolfo,  o  menati  e 
rapiti  da  velocissime  ruote  di  fuoco  simili  a  cerchi  ros- 
seggianti,  o  infìssi  a  spiedi  giganteschi  che  i  demonii  ir- 
rugiadano  da'  metalli  fusi,  ecco  la  rea'tà  delle  visioni, 
rappresentata  co'più  vivi  colori.  I  tre  monaci  che  si  met- 
tono in  viaggio  per  iscoprire  il  paradiso  terrestre,  dopo 
quaranta  giorni  di  cammino  attraversano  l' inferno.  «  E 
veggono  un  lago  grandissimo  pieno  di  serpenti  che  tutti 
pareano  che  gittassero  fuoco,  e  odono  voci  uscire  di  quel 
lago  e  stridere,  come  di  mirabili  popoli  che  piagnessero 
e  urlassero.  E  pervenuti  che  sono  fra  due  monti  altis- 
simi, appare  loro  un  uomo  di  statura  in  lunghezza  bene 
di  cento  cubiti  incatenato  con  quattro  catene,  e  due  delle 
quah  eran  confìtte  neh'  un  monte  e  T  altre  due  nell'altro;  ^ 
e  tutto  intorno  a  lui  era  fuoco,  e  gridava  si  fortemente 
che  si  udiva  bene  quaranta  migha  da  lungi.  E  vengono 
in  un  luogo  molto  profondo  e  orribile  e  scoglioso  e  aspro, 
nel  quale  vedono  una  femmina  nuda  laidissima  e  scapi- 
gliata in  volto  e  compresa  tutta  da  un  dragone  gran- 
dissimo ,  e  quando  efìa  volea  aprire  la  bocca  per  par- 
lare 0  per  gridare,  quel  dragone  le  mettea  il  capo  in 
bocca  e  mordeale  crudelmente  la  lingua;  e  i  capelU  di 
quella  femmina  erano  grandi  infino  a  terra».  Nella  vita 
di  Santa  Margherita  si  trova  questa  pittura  del  dragone: 
«  Vide  uscire  un  dragone  crudelissimo  e  orribile  con 
isvariati  colori,  e  la  barba  ed  i  capelli  pareano  d'  oro,  e 
i  denti  suoi  parevano  di  ferro,  e  gh  occhi  acuti  e  lu- 
centi come  fuoco  acceso,  e  colla  bocca  aperta  menava 
la  hngua,  e  parea  che  per  le  mani  e  per  la  bocca  git- 
tasse  fuoco,  e  puzzo  gittava  di  zolfo  ».  Tra  le  visioni  è 
celebre  il  Purgatorio  di  San  Patrizio  di  Frate  Alberico, 
e  quella  d' Ildebrando,  poi  Gregorio  VIL  che  predicando 
innanzi  a  Papa  Niccolò  III  narra  di  un  Conte  ricco,  e 
insieme  onesto,  ciò  che  è  proprio  un  miracolo  in  questa 
gente,  egU  dice.  Questo  Conte  morto  dieci  anni  innanzi 


—  109  — 

fu  visto  da  un  santo  uomo  ratto  in  ispirito  starsi  al 
sommo  d'  una  scala  lunghissima,  che  erge  vasi  illesa  tra 
le  tiamme  e  si  perdeva  giù  nell'  inferno.  Su  ciascuno  sca- 
lino stava  uno  degli  antenati  del  Conte,  con  quest'  ordine, 
che  quando  alcuno  moriva  di  quella  famiglia,  doveva 
occupare  il  primo  gradino,  e  colui  che  vi  giaceva  e  tutti 
gli  altri  scendevano  di  un  grado  verso  1'  abisso  dove  tutti 
r  uno  appresso  V  altro  si  sarebbero  riuniti.  E  chiedendo  il 
santo  uomo  come  fosse  dannato  il  Conte,  che  avea  la- 
sciata in  terra  buona  fama  di  sé,  si  udì  una  voce  rispon- 
dere: Uno  degli  antenati,  di  cui  il  Conte  è  T  erede  in  de- 
cimo grado,  tolse  al  beato  Stefano  un  territorio  nella 
Chiesa  di  Metz  ;  e  per  questo  delitto  tutti  costoro  sono 
involti  nella  stessa  dannazione.  Questa  pena,  che  colpisce 
un'  intera  generazione,  è  molto  poetica,  mostrando  V  in- 
ferno nel  sublime  d'  un  lontano  indeterminato,  messo  co- 
stantemente innanzi  all'  immaginazione  de'  condannati,  che 
a  grado  a  grado  vi  si  avvicinano  insino  a  che  non  vi 
caggiano  entro:  come  quel  tiranno  che  voleva  che  le  sue 
vittime  sentissero  di  morire,  il  terribile  prete  vuole  che 
ei  sentano  l' inferno. 

Da  queste  visioni  e  misteri  e  prose  e  poesie  si  sviluppa 
questo  concetto:  che  attaccarsi  a  questa  vita  come  cosa 
sostanziale,  è  il  peccato  ;  che  la  virtù  è  negazione  della 
vita  terrena,  e  contemplazione  dell'  altra;  che  la  vita  non 
è  la  realtà,  ma  ombra  e  apparenza  di  quella;  che  la  vera 
realtà  è  non  quello  che  è,  ma  quello  che  dee  essere;  ed 
è  perciò  la  scienza,  o  la  verità;  come  concetto,  e  come 
contenuto,  è  1'  altro  mondo,  T  Inferno,  il  Purgatorio  e  il 
Paradiso,  il  mondo  conforme  alla  verità  e  alia  giustizia. 

Appunto  perchè  l' individuo  è  pulvis  et  umbra,  e  la 
realtà  è  pura  scienza  ed  un  di  là  della  vita,  questo  mondo 
resiste  ad  ogni  sforzo  d'individuazione  e  di  formazione. 
Lo  stesso  amore,  così  possente,  non  ci  può  gittare  un 
po'  di  calore,  e  non  ci  vive  se  non  come  figura  e  imina- 


—  110  — 

gine  dell'  amore  divino.  La  dorma,  come  donna,  è  pec- 
cato, essa  diviene  una  specie  di  medium  che  lega  1'  uomo 
a  Dio. 

Il  maggior  grado  di  realtà,  a  cui  q^iesto  mondo  sia 
pervenuto,  è  nella  Lirica  di  Dante.  La  donna  di  quel 
secolo  acquista  il  suo  nome  e  la  sua  forma,  è  Beatrice, 
la  fanciulla  uscita  pura  dalle  mani  di  Dio,  come  l'ani- 
ma nella  commedia  spirituale ,  breve  apparizione ,  tor- 
nata cosi  presto  in  Cielo  tra'  canti  degli  angioli.  La  sua 
vita  terrena  è  quasi  non  altro  che  nascere  e  morire.  La 
sua  vera  vita  comincia  dopo  la  morte,  neh'  altro  mondo. 
Ivi  è  luce  mentale  o  intellettuale,  verità  e  scienza.  Fi- 
losofia. Ma  non  è  filosofia  incarnata,  mondo  vivente,  dove 
l'idea  di  Dio  e  del  vero  sia  perfettamente  realizzata;  è 
pura  scienza,  incapace  di  rappresentazione,  nella  sua  forma 
scolastica  di  trattato  e  di  esposizione.  E  scienza  non  an- 
cora realizzata,  non  ancora  corpo;  è  idea^  non  è  visione, 
è  didattica,  non  è  commedia  o  rappresentazione.  Hai  mi- 
steri e  visioni;  manca  il  Mistero  e  la  Visione,  cioè  un 
mondo  vivente  nel  suo  insieme  e  ne'  suoi  aspetti ,  dove 
sia  realizzato  quel  concetto  teologico  e  filosofico  dell'uma- 
nità, comune  al  secolo,  e  rimasto  ancora  nella  sua  astra- 
zione dottrinale. 

Il  secolo  decimoterzo  si  chiudeva,  lasciando  una  hngua 
già  formata,  molta  varietà  di  forme  metriche,  una  poe- 
tica, una  rettorica,  una  filosofia,  ed  un  concetto  della 
vita  ancora  didattica  e  allegorico,  con  rozzi  tentativi  di 
formazione  e  individuazione.  Il  suo  primo  individuo  poe- 
tico è  Beatrice,  il  presentimento  e  1'  accento  hrico  di  un 
mondo  ancora  involto  nel  grembo  della  scienza,  ancora 
fuori  deUa  vita. 


—  Ili  — 

VI.  ^' 

IL  TRECENTO. 

Qnollo  elle  il  secolo  precedente  concepì  e  proparò,  fu 
realizzato  in  questo  secolo  detto  aureo.  I  posteri  com- 
presero sotto  questo  nome  tutto  un  periodo  letterario, 
dove  si  trovano  mescolati  dugentisti  e  quattrocentisti.  E 
in  verità  le  notizie  cronologiche  sono  si  scarse  e  incerte, 
che  non  è  facile  assegnare  di  ciascuno  scrittore  1'  età, 
seguire  strettamente  V  ordine  del  tempo.  Al  nostro  scopo 
è  più  utile  seguire  il  cammino  del  pensiero  e  della  forma 
nel  suo  sviluppo,  senza  violare  le  grandi  divisioni  cro- 
nologiche, ma  senza  cercare  una  precisione  di  date,  che 
ci  farebbe  sciupare  il  tempo  in  confetture  e  supposizioni 
di  poco  interesse. 

Questo  secolo  s'  apre  con  un  grande  atto,  il  Giubileo, 
Pontefice  Bonifazio  ottavo.  Tutta  la  Cristianità  concorse 
a  Roma,  d'  ogni  età,  d'ogni  sesso,  di  ogni  ordine  e  coa; 
dizione,  per  ottenere  il  perdono  de'  peccati  e  guadagnar- 
si la  salute  eterna.  Tutti  animava  lo  stesso  concetto 
espresso^osi  variamente  in  tante  prose  e  poesie,  la  ma- 
ledizione del  mondo  e  della  carne ,  la  vanità  de'  beni  e 
delle  cure  terrestri  e  la  vita  cercata  al  di  là  della  vita. 
Il  nuovo  secolo  cominciava,  consacrando  in  modo  tanto 
solenne  il  pensiero  comune  nella  varietà  della  coltura.  I 
preti  e  i  frati  soprastavano  nella  riverenza  pubblica,  non 
solo  pel  carattere  religioso,  ma  per  la  dottrina,  tenuta 
loro  privilegio,  tanto  che  il  Villani  loda  di  scienza  Dante, 
aggiungendo  :  benché  laico^  e  i  dotti  uomini,  benché  laici, 
erano  detti  chierici.  Tutta  la  società  italiana  ,  raccolta 
colà  dallo  stesso  fine,  rendeva  una  viva  immagine  di  quel 
pensiero  comune  e  di  quella  varia  cultura.  Vedevi  i  con- 


—  112  — 

templati ,  i  romiti ,  i  solitai'ii  del  deserto  e  della  cella 
col  corpo  macero  da'  digiuni,  da'  cilizii  e  dalle  vigilie,  ri- 
tratti viventi  de'  misteri  e  delle  leggende.  C  erano  gii 
umili  di  spirito,  animati  da  schietto  sentimento  religioso 
e  che  tenevano  la  scienza  come  cosa  profana,  e  ci  erano 
i  dotti,  i  predicatori  e  confessori,  il  cui  testo  era  la 
Bibbia  e  i  Santi  Padri.  Vedevi  gli  scolastici  e  gli  eruditi, 
teologi  e  filosofi,  che  univano  in  una  comune  ammira- 
razione  i  classici  e  i  santi  padri,  disputatori  sottili  di  tutte 
le  cose  e  anche  delie  cose  di  feje,  parlanti  un  latino  di 
uso  e  di  scuola,  vibrato,  rapido,  vivace,  dove  sentivi  il 
volgare  destinato  a  succedergli,  amici  della  fi  osofìa  con 
quello  stesso  ardore  di  fede,  che  gli  altri  si  professavano 
servi  del  Signore,  ma  di  una  filosofia  non  ripugnante  alla 
Fede,  anzi  sostegno,  illustrazione  e  ragione  di  quella^ 
confortata  da  sillogismi  e  da  sostanze  e  da  citazioni,  dove 
trovi  spesso  Tullio  accanto  a  san  Paolo.  Alteri  della  loro 
scienza  e  del  loro  latino:  spregiatori  del  volgare,  da  co- 
storo uscivano  que'  trattati,  que'  comenti,  quelle  Somme, 
quelle  Storie,  che  empivano  di  maraviglia  il  mondo.  Ac- 
canto a  questi  Veggenti  della  fede  e  della  filosofia  ,  a 
questa  vita  dello  spirito  trovi  la  vita  attiva  e  temporale, 
affraieiluti  dallo  stesso  pensiero  i  signori  e  i  tirannetti 
feudali  e  i  Priori  e  gli  anziani  delle  repubbliche,  il  ca- 
valiere de'  romanzi  e  il  mercatante  delle  cronache.  Là, 
appiè  del  Coliseo,  un  ardito  negoziante.  Giovanni  Villani 
pensò  che  la  sua  Fiorenza,  figliuola  di  Roma,  era  non 
meno  degna  di  avere  una  storia,  e  la  scrisse.  Fra  tanto 
splendore  e  potf^nza  del  chiericato,  lo  spregiato  laico  co- 
minciava a  levare  la  testa,  e  pensava  all'  antica  Roma  e 
a  Firenze,  figliuola  di  Roma.  Là  molte  amicizie  si  strin- 
sero, molte  piici  si  fecero  come  avviene  in  certi  grandi 
momenti  della  storia  umana  ;  sparirono  guelfi  e  ghibel- 
lini, ottimati  e  popolari,  baroni  e  vassalli,  stretti  tutti 
ad  una  sola  bandiera:  uno  Dio,  uno  Pupa,  uno  Impo- 


—  113  — 

ratore.  Là  il  Papato  ebbe  T  ultimo  suo  gran  giorno , 
l'ultimo  sogno  di  monarchia  universale,  rotto  per  sem- 
pre dallo  schiaffo  di  Anagni. 

Il  giubileo  ci  dà  una  immagine  di  quello  che  dovea 
essere  la  letteratura  nel  secolo  decimoquarto.  Ebbe  dal 
secolo  antecedente  la  sua  materia,  i  suoi  istrumenti  e  il 
suo  concetto,  del  quale  il  giubileo  fu  una  così  splendida 
manifestazione.  Ma  quel  concetto,  rimaso  nella  sua  astra- 
zione intellettuale  e  allegorica ,  con  così  scarsi  inizii  di 
rappresentazione  ne'  misteri  e  nelle  visioni,  ancora  senza 
nome  altro  che  di  Beatrice,  breve  apparizione,  svaporata 
subito  nelle  astrattezze  della  scienza,  ebbe  nel  trecento 
la  sua  vita,  e  venne  a  perfetta  individuazione  e  forma- 
zione :  questo  fu  il  carattere  e  la  gloria  di  quel  secolo. 

L'uomo,  che  dovea  dare  il  suo  nome  al  secolo,  avea 
già  trentatrè  anni,  avea  creato  Beatrice,  e  volgea  nella 
mente  non  so  che  più  ardito ,  che  dovesse  abbracciare 
tutta  l'umanità.  Tenzonava  nel  suo  capo  il  filosofo  e  il 
poeta  :  ci  era  il  Convito  e  ci  era  la  Commedia.  Ma  per 
apprezzare  più  degnamente  quella  vasta  sintesi  che  ne 
uscì,  è  bene  preceda  l'analisi,  studiando  la  fisonomia  del 
secolo  negl'  ingegni  più  modesti  che  non  conobbero  di 
tutto  quel  mondo,  se  non  questa  o  quella  parte. 

E  e'  incontriamo  dapprima  nella  letteratura  claustrale, 
ascetica,  mistica,  religiosa,  continuazione  in  prosa  di  Fra 
Jacopone ,  ma  in  una  prosa  piena  di  poesia.  Domenico 
Cavalca,  l'Autore  de'  Fioretti,  Guido  da  Pisa,  Bartolo- 
meo da  san  Concordio,  Jacopo  Passa  vanti,  Giovanni  dalle 
Celle  non  sono  scrittori  astratti  e  impersonah,  come  quelU 
del  secolo  innanzi,  ma,  anche  volgarizzando,  senti  che 
quegli  uomini  prendono  viva  partecipazione  a  quello  che 
scrivono  ,  e  vivono  là  dentro ,  e  ci  lasciano  l' impronta 
del  loro  carattere  e  della  loro  fisonomia  intellettuale  e 
morale.  Usciamo  dalle  astrattezze  de'  trattati  e  delle  rac- 
colte sotto  nome  di  Fiori,  Giardini,  e  Tesori,  ed  entriamo 

De  Sanctis  — Leu.  Itul.  Voi.  I.  8 


—  114  — 

nella  realtà  della  vita,  nel  vero  giardino  dell'arte.  Per- 
chè questi  uomini  non  ragionano  ,  non  disputano  ,  e  di 
rado  citano:  la  loro  dottrina  va  poco  al  di  là  della  Bibbia 
e  de'  santi  Padri  :  ma  narrano  quel  medesimo  che  si  rap- 
presentava ne'  misteri ,  vite,  leggende  e  visioni,  e  sono 
narrazioni  più  vive  e  schiette,  che  non  i  Misteri  del  quat- 
trocento ,  raffazzonamenti  degli  antichi ,  con  più  liscio  > 
ma  dove  desideri  la  purità  e  semplicità  delle  prime  ispi- 
razioni. 

Gli  scrittori  son  tutti  frati,  ed  hanno  le  qualità  degli 
uomini  solitarii,  il  candore,  l'evidenza,  e  l'affetto.  Hanno 
r  ingenuità  di  un  fanciullo  che  sta  con  gli  occhi  aperti 
a  sentire,  e  più  i  fatti  sono  straordinarii  e  maravigliosi, 
più  tende  V  orecchio  e  tutto  si  beve  :  qualità  spiccatis- 
sima ne'  Fioretti  di  san  Francesco,  il  più  amabile  e  caro 
di  questi  hbri  fanciulleschi.  L' immaginazione  concitata 
dalla  solitudine  presenta  gli  oggetti  cosi  vivi  e  proprii, 
che  vengon  fuori  di  un  getto,  non  solo  figurati,  ma  ani- 
mati e  coloriti,  caldi  ancora  dell'  impressione  fa tta^  sullo 
scrittore.  Nel  quale  l'affetto  è  tanto  più  vivace  e  impe- 
tuoso e  Urico,  quanto  la  sua  vita  è  più  astinente  e  com- 
pressa :  quasi  vendetta  della  natura,  che  grida  più  alto, 
dove  ha  più  contrasto.  Non  ci  è  in  queste  prose  alcuna 
intenzione  artistica,  nessun  vestigio  di  studio,  o  di  sforzo, 
o  di  esitazione,  o  di  scelta  ;  manca  soprattutto  il  nesso, 
la  distribuzione ,  la  gradazione.  Ma  si  conseguono  tutti 
gli  effetti  dell'arte  che  nascono  da  movimenti  sinceri  e 
gagliardi  dell'  immaginazione  e  dell'affetto,  e  n'escon  pa- 
gine animate,  e  potenti  assai  più  sul  tuo  spirito  che  non 
tanti  romanzi  moderni.  Cito  fra  l'altro  la  storia  di  Abraam 
romito,  che  prende  veste  e  costume  di  cavaliere  mon- 
dano, e  mangia  pane  e  beve  vino  ed  usa  nelle  taverne 
per  convertire  la  sua  nipote  Maria.  Il  suo  incontro  con 
Maria  nella  taverna,  gli  allettamenti  lascivi  di  costei,  la 
sua  sorpresa  e  vergogna  quando  nel  bel  cavaliere  scopre 


—  115  — 

il  suo  zio,  e  i  rimproveri  affettuosi  di  lui  e  le  grida  stra- 
zianti e  disperate  della  bella  pentita  sono  una  vera  scena 
drammatica,  alla  quale  non  trovi  niente  comparabile  nel 
teatro  italiano.  In  queste  Vite  del  Cavalca,  che  sono  tra- 
duzioni, ma  per  la  freschezza  e  spontaneità  del  dettato 
e  per  la  commossa  partecipazione  del  frate  sono  cosa  ori- 
ginale, il  concetto  del  secolo,  uscito  dalle  astrattezze  teo- 
logiche e  scolastiche,  prende  carne,  acquista  una  esistenza 
morale  e  materiale.  Il  santo  è  esso  medesimo  il  concetto 
divenuto  persona ,  e  la  sua  rappresentazione  ti  offre  il 
nuovo  mondo  morale  aperto  al  cristiano  fatto  attivo  e 
divenuto  storia ,  la  storia  del  Santo.  Cardine  di  questo 
mondo  morale  è  la  realtà  della  vita  nell'altro  mondo,  e 
la  guerra  a  tutti  gì'  istinti  e  affetti  terreni ,  1'  astinenza 
e  la  pazienza,  il  sustine  et  ahstine  ;  e  però  le  sue  virtù 
non  esprimono  altro  che  la  vittoria  dell'uomo  sopra  sé 
stesso,  sulla  sua  natura  :  indi  1'  umiltà,  il  perdono  delle 
offese,  la  povertà,  la  castità,  l'ubbidienza.  Se  la  vittoria 
fosse  preceduta  dalla  lotta,  lo  spettacolo  sarebbe  sublime: 
ma  il  più  sovente  il  santo  entra  in  iscena  ch'è  già  santo 
e  nell'esercizio  quieto  delle  sue  cristiane  virtù,  interrotto 
a  volte  dalle  tentazioni  del  demonio  cacciato  via  da  scon- 
giuri e  segni  di  croce:  ciò  che  ò  grottesco  più  che  su- 
blime. Il  santo  è  troppo  santo,  perchè  la  sua  vita  possa 
offrirti  una  vera  contraddizione  e  battaglia  tra  il  cielo 
e  la  natura  ;  ciò  che  rende  cosi  drammatica  la  vita  di 
Agostino  e  di  Paolo.  Qui  hai  racconti  uniformi,  infinite 
ripetizioni,  rarissimi  contrasti,  e  spesso  provi  noia  e  stan- 
chezza. La  musa  di  queste  cristiane  virtù  non  è  la  forza, 
e  non  è  l' azione,  ma  è  un  certo  languir  d'  amore,  una 
effusione  di  teneri  e  dolci  sentimenti,  liriche  aspirazioni 
0  l  estasi  e  orazioni,  un  impetuoso  prorompere  degli  af- 
fetti naturah  tosto  sedato  e  riconciliato,  il  sacrificio  igno- 
rato e  oscuro  che  ha  la  sua  glorificazione  anche  terrena 
(l)po  la  morte.   Una  delle  vile  più  interessanti  e  popò- 


—  116  — 

lari  è  quella  di  santo  Alessio,  che  abbandona  la  nobile 
casa  paterna  e  la  sposa  il  dì  delle  nozze,  e  va  peregri- 
nando e  limosinando,  e  dopo  molti  anni  tornato  in  patria, 
serve  non  conosciuto  in  casa  del  padre,  e  non  si  scopre 
alla  madrA  r»  alla  sDosa.  e  i  servi  gli  danno  le  guanciate, 
e  lui  umile  e  paziente.  Questa  vittoria  sulla  natura  non 
fa  effetto,  perchè  in  Alessio  non  ci  è  1'  homo  sum,  non 
ci  è  lotta,  non  la  coscienza  del  sacrifizio,  parendo  a  lui 
naturale  e  facile  esercizio  di  virtù  quello  che  a  noi  uo- 
mini pare  cosa  maravigliosa  e  quasi  incredibile.  L' inna- 
turale è  in  lui  natura  :  perfezione  ascetica,  ma  non  ar- 
tistica. L' interesse  comincia,  quando  la  natura  fa  sentire 
il  suo  grido,  e  col  suo  contrasto  sublima  il  santo;  quando^ 
saputo  il  fatto,  il  Pontefice  con  infinita  moltitudine  traendo 
a  venerare  il  servo  spregiato,  si  odono  tra  la  folla  que- 
ste grida:  prestatemi  la  via,  datemi  loco,  fate  che  io  vegga 
il  figliuol  mio,  quello  che  ha  succiato  le  mammelle  mie. 
E  ragionando  col  cuore  di  madre ,  la  donna  accusa  il 
figlio  e  lo  chiama  senza  cuore,  e  poi  nel  suo  dolore  lo 
glorifica  e  ricorda  che  i  servi  gU  davano  le  guanciate. 
Scene  simili  non  sono  scarse  in  queste  vite  :  ricorderò  la 
madre  di  Eugenia  e  Maria  Maddalena,  eloquentissima 
nelle  sue  lagrime. 

Una  vera  intenzione  artistica  si  scorge  nello  Specchio 
di  penitenza  di  Jacopo  Passavanti,  una  raccolta  di  pre- 
diche ridotte  in  forma  di  trattati  morah,  accompagnati 
con  leggende  e  visioni  dell'altro  mondo.  Il  frate  mira  a 
fare  effetto,  inducendo  a  penitenza  i  fedeli  con  la  viva 
rappresentazione  de'vizii  e  delle  pene.  La  musa  del  Ca- 
valca è  l'amore,  e  la  sua  materia  è  il  paradiso,  che  tu 
pregusti  in  quello  spirito  di  carità  e  di  mansuetudine,  che 
comunica  alla  prosa  tanta  soavità  e  morbidezza  di  colo- 
rito. La  musa  del  Passavanti  è  il  terrore  e  la  sua  ma- 
teria è  il  vizio  e  r  inferno,  rappresentato  meno  nel  suo 
grottesco  e  nella  sua  mitologia ,   che  nel  suo  carattere 


—  117  — 

limano,  corno  il  rimorso  è  il  grido  della  coscienza.  In- 
tralciato e  monotono  nel  discorso,  il  suo  stile  è  rapido, 
liquido  ,  pittoresco  nel  racconto.  Diresti  che  provi  vo- 
luttà a  spaventare  e  tormentare  1'  anima  :  cerca  imma- 
gini, accessorii,  colori,  come  istrumento  della  tortura,  e 
ti  lascia  sgomento  e  assediato  da  fantasmi.  Il  periodo 
spesso  ben  congegnato,  svelto  e  libero,  la  cura  de'  nessi 
e  de' passaggi,  la  distribuzione  degli  accessorii  e  de*  co- 
lori, r  intelligenza  delle  gradazioni,  un  sentimento  di  ar- 
monia cupo  che  accompagna  lo  spettacolo,  fanno  del  Pas- 
savanti  l'artista  di  questo  mondo  ascetico. 

Ma  ecco  fra  tante  vite  di  Santi  il  Santo  in  persona, 
scrittore  e  pittore  di  sé  medesimo ,  Caterina  da  Siena. 
Abbandonata  la  madre  e  i  fratelli,  resasi  monaca,  mace- 
rato il  corpo  co'  cilizii  e  digiuni,  vive  una  vita  di  estasi 
e  di  visioni,  e  scrive  in  astrazione,  anzi  detta  con  una 
lucidità  di  spirito  maravigliosa.  Scrive  a  Papi,  a  principi 
a  re  e  regine  ,  come  alla  madre  ,  a'  fratelli ,  a  frati  e 
suore,  dall'  altezza  della  sua  santità,  con  lo  stesso  tono 
di  amorevole  superiorità.  Nelle  più  intricate  faccende 
prende  il  suo  partito  risolutamente,  consigliando  e  quasi 
comandando  quella  condotta,  che  le  pare  conforme  alla 
dottrina  di  Cristo.  Ho  detto  pare,  e  dovrei  dire  :  è  ;  per- 
chè nessun  dubbio  o  esitazione  è  nel  suo  spirito,  e  le  dot- 
trine più  astruse  e  mentali  le  sono  chiare  e  sicure  come 
le  cose  che  vede  e  tocca.  Ha  la  visione  dell'astratto,  e 
lo  rende  come  corpo,  anzi  fa  del  corpo  la  luce  e  la  faccia 
di  quella.  Indi  un  linguaggio  figurato  e  metaforico,  spesso 
sazievol(\  talora  continuato  sino  all'assurdo.  È  un  po'  il 
fare  bibUco  ;  un  po'  vezzo  de'  tempi  ;  ma  è  pure  forma 
naturale  della  sua  mente.  Vivendo  in  ispirito ,  le  cose 
dello  spìrito  le  si  affacciano  palpabili  e  visibili  come  ma- 
teria ,  e  così  come  vede  Cristo  e  Angioli ,  vede  le  ideo 
e  i  pensieri.  È  una  ragione  spirituale  ,  divenutale  per 
lungo  uso  così  familiare,  che  ne  ha  fatto  il  suo  mondo 


—  118  — 

e  il  suo  corpo.  Questa  chiarezza  d' intuizione,  accompa- 
gnata con  la  squisita  sensibilità  e  la  perfetta  sincerità 
della  fede  le  fanno  trovare  forme  delicate  e  peregrine , 
degne  di  un  artista.  Ma  le  spesse  ripetizioni ,  1'  esposi- 
zione didattica,  queir  incalzare  di  consigli,  di  esortazioni 
e  di  precetti  senza  tregua  o  riposo  rendono  il  libro  sa- 
zievole e  monotono. 

In  queste  lettere  di  Caterina  quel  mondo  morale  rap» 
presentato  nelle  vite,  nelle  estasi,  nelle  visioni  de'  Santi, 
è  sviluppato  come  dottrina  in  tutta  la  sua  rigidità  asce- 
tica. È  il  codice  d'amore  della  cristianità.  La  perfezione 
è  morire  a  sé  stesso ,  secondo  la  sua  frase  energica  , 
morire  alla  volontà,  alle  inclinazioni,  agli  affetti  umani^ 
sino  all'  amore  de'  figli ,  e  tutto  riferire  a  Dio  ,  di  tutto 
fare  olocausto  a  Dio.  Il  suo  amore  verso  Cristo  ha  tutte 
le  tenerezze  di  un  amore  di  donna,  che  si  sfoga  a  quel 
modo  ,  lei  inconscia.  L'  ultima  frase  di  ogni  sua  lettera 
è  :  Annegatevi,  bagnatevi  nel  sangue  di  Cristo.  Ardente 
è  la  sua  carità  pel  prossimo  :  Amatevi ,  amatevi,  grida 
la  Santa,  e  predica  pace,  concordia,  umiltà,  perdono,  voce 
inascoltata.  La  Regina  Giovanna  rispondea  alla  Santa  con 
riverenza,  e  continuava  la  vita  immonda.  Lo  scisma  giun- 
geva al  sangue  nelle  vie  di  Roma.  Più  alto  e  puro  era 
r  ideale  delia  santa,  meno  era  efficace  sugli  uomini.  La 
sua  vita  si  può  compendiare  in  due  parole  :  amore  e 
morte.  Celebre  è  la  sua  lettera  sul  condannato  a  morte, 
da  lei  assistito  negli  ultimi  momenti.  «  Teneva  il  capo 
suo  sul  petto  mio.  Io  allora  sentivo  un  giubilo  e  un  odore 
del  sangue  suo;  e  non  era  senza  l'odore  del  mio,  il  quale 
io  desidero  di  spandere  per  lo  dolce  sposo  Gesù  ».  Il  san- 
gue di  Cristo  la  esalta ,  la  inebbria  di  voluttà.  Ad  una 
serva  di  Dio  scrive  :  «  Inebriatevi  del  sangue,  saziatevi 
del  sangue,  vestitevi  del  sangue  ».  Sudare  sangue,  tras- 
formarsi nel  sangue,  bere  l'affetto  e  l'amore  nel  san- 
gue, sono  immagini  di  questo  lirismo.  Della  cella  si  fa 


—  119  — 

un  cielo ,  e  vi  gusta  il  tene  degV  immortali ,  ohum- 
binandola  Dio  di  un  gran  fuoco  d'amore.  Nella  estasi 
0  visione  o  esaltazione  di  mente,  è  gittata  giù,  e  le  pare 
come  se  T  anima  sia  partita  dal  corpo.  Il  corpo  pareva 
quasi  venuto  meno.  Le  membra  del  corpo,  dice  Caterina, 
si  sentivano  dissolvere  e  disfare  come  la  cera  nel  fuoco. 
E  altrove  :  «  Nel  corpo  a  me  non  pareva  essere,  ma  ve- 
devo il  corpo  mio  come  se  fosse  stato  un  altro  ».  Questi 
ardori  di  anima ,  queste  illuminazioni  di  mente  ,  questi 
martirii  d*amore  sono  espressi  con  una  semplicità  ed  evi- 
denza, che  testimoniano  la  sua  sincerità.  L'anima  inna 
morata  e  ansietata  d'amore,  affogata  dal  desiderio  cro- 
ciato  0  della  croce,  annegata  la  propria  volontà  nel- 
l'amore del  dolce  e  innamorato  Verbo,  vive  nel  corpo, 
come  fosse  fuori  di  quello.  Posto  il  suo  amore  al  di  là 
della  vita,  vive  morendo,  dimorando  con  la  mente  al  di 
là  della  vita.  Ma  questa  morte  spirituale  non  l'appaga; 
muojo  e  non  posso  morire ,  dice  la  Santa.  Gli  ultimi 
giorni  furono  battaglie  con  le  dimonia  e  colloquii  con 
Cristo  ,  e  a  trentatrò  anni  finì  la  vita ,  consumata  dal 
desiderio. 

La  Comìnedia  dell'  anima  è  ora  pienamente  realiz- 
zata nel  suo  aspetto  religioso,  come  espressione  lettera- 
ria. Quell'anima  ora  ha  un  nome,  è  una  persona,  Alessio, 
Eugenia,  Caterina.  Il  demonio  e  la  carne  sono  un  mondo 
pieno  di  vita  ne'  racconti  del  Passavanti.  Quelle  virtù 
allegoriche  che  escono  in  processione  sulla  scena  sono  le 
opere,  le  volontà,  le  passioni  e  i  pensieri  de'  santi.  E  la 
divina  commedia,  la  trasfigurazione  e  la  glorificazione  del- 
l'anima, la  Beatrice  che  torna  bianca  nuvoletta  in  cielo 
trai  canti  degli  angioli,  vi  sono  estasi,  rapimenti  dell'a- 
nima, colloquii  con  Dio,  mistica  unione  con  Cristo,  e  dopo 
la  morte  la  santificazione,  o  la  contemplazione  nel!'  eterna 
luce.  Quel  concetto  è  uscito  dall'astrattezza  della  scienza 


—  120  — 

e  della  allegoria,  dalla  sua  vuota  generalità,  e  si  è  in- 
carnato, è  divenuto  uomo. 

La  prosa  italiana  in  questa  letteratura  acquista  evi- 
denza, colorito,  caldezza  di  affetto,  in  un  andar  semplice 
e  naturale  ,  specialmente  quando  vi  si  esprimono  senti- 
menti dolci  e  ingenui.  E  perfetto  esemplare  di  stile  cri- 
stiano, guasto  dì  poi.  Alla  sua  perfezione  manca  un  più 
sicuro  nesso  logico,  maggiore  sobrietà  e  scelta  di  acces- 
sori!, ed  una  formazione  grammaticale  e  meccanica  più 
corretta.  Con  lievi  correzioni  molti  brani  possono  para- 
gonarsi a  ciò  che  di  più  perfetto  è  nella  prosa  moderna. 
L'imitazione  di  Cristo  è  certo  prosa  superiore,  scritta 
in  tempo  di  maggior  coltura.  Ci  è  una  maggiore  virilità 
intellettuale,  una  logica  più  stretta,  e  pura  di  quella  pe- 
danteria scolastica  che  inseguiva  i  frati  fino  nel  Convento. 
Ma  non  è  superiore,  quanto  a  quelle  qualità  organiche, 
dove  è  il  segreto  della  vita,  la  schiettezza  dell'ispira- 
zione e  il  calore  dell'  affetto  :  e  spesso  in  quella  prosa  » 
mirabile  di  precisione  e  di  proprietà  ,  desideri  T  energia 
e  r  intuizione  di  Caterina. 

Né  questa  prosa  era  già  fattura  di  un  solo,  o  di  po- 
chi, perchè  la  trovi  anche  ne'minori,  che  scrivevano  delle 
cose  dello  spirito.  Citerò  una  lettera  di  un  discepolo  di 
Caterina ,  che  annunzia  la  sua  morte.  «  Credo  che  tu 
sappi  come  la  nostra  reverendissima  e  carissima  mamma 
se  ne  andò  in  paradiso  domenica,  addì  29  di  aprile  (1380); 
lodato  ne  sia  il  Salvatore  nostro,  Gesù  Cristo  crocifisso 
benedetto.  A  me  ne  pare  essere  rimaso  orfano,  però  che 
di  lei  avevo  ogni  consolazione,  e  non  mi  posso  tenere  di 
piangere.  E  non  piango  lei,  piango  me,  che  ho  perduto 
tanto  bene.  Non  potevo  fare  maggiore  perdita ,  e  tu  il 
sai.  Della  mamma  si  vuol  fare  allegrezza  e  festa,  quanto 
che  è  per  lei  ;  ma  di  quelli  suoi  e  di  quelle  che  sono  ri- 
masi in  questa  misera  vita ,  è  da  piangere  e  da  avere 
compassione  grandissima.  Con  nessuna  persona  mi  so  dare 


—  121   - 

dolore,  quanto  che  con  teco,  che  mi  fusti  cagione  di  ac- 
quistare tanto  bene.  Prendo  alcuno  conforto,  perchè  nel 
mio  cuore  è  rimasa  e  incarnata  la  mamma  nostra  assai 
più  che  non  era  in  prima;  e  ora  me  la  pare  ben  cono- 
scere. Che  noi  miseri  ne  avevamo  tanta  copia  che  non 
la  conoscevamo  e  non  eravamo  degni  della  sua  presen - 
zia.  Carissimo  fratello,  io  sono  fatto  tanto  smemoriato 
del  bene  che  ho  perduto,  ch'io  ti  scrivo  anfanando.  E 
però  di  ciò  non  ti  scrivo  più  ».  Lo  stesso  stile  è  in  Gio- 
vanni dalle  Celle,  Stefano  Maconi  e  altri  frati.  Ecco  in 
che  modo  commovente  e  semplice  sono  raccontati  alcuni 
particolari  della  fine  di  Caterina.  «  Nella  domenica  svenne, 
e  perde  il  vigore  di  sanità ,  mantenutole  dalla  forza  dello 
spirito,  e  che  non  pareva  scemarsi  per  inedia.  Il  dì  poi, 
un  altro  svenimento  la  lasciò  lungamente  come  morta: 
se  non  ch<^  risentitasi,  stette  in  piede  come  se  nulla  fosse. 
Cominciò  la  quaresima  con  le  solite  pratiche,  esercizio  a 
lei  di  consolazioni  angosciose.  Ogni  mattina,  dopo  la  co- 
lezione,  le  è  forza  rimettersi,  sfinita,  a  letto.  Di  là  a 
due  ore  usciva  a  San  Pietro  un  buon  miglio  di  strada, 
e  li  stava  orando  infine  a  vespro.  Cosi  fino  alla  terza 
domenica  di  quaresima,  quando  il  male  la  spossò.  E  per 
otto  settimane  giacque,  senza  potere  alzare  il  capo,  tutta 
dolori.  A  ogni  nuovo  spasimo,  alzando  il  capo,  ne  rin- 
graziava Iddio  lieta.  Alla  domenica  innanzi  l'Ascensione, 
il  corpo  non  era  omai  più  che  uno  scheletro,  nel  mezzo 
in  giù  senza  moto,  ma  nel  volto  raggiante  la  vita.  De- 
bole; un  alito  di  respiro;  pareva  il  fine;  e  le  fu  data  la 
estrema  unzione». 

Questa  ecctUenza  di  dettato  trovi  pure  ne'  volgarizza- 
menti de'  classici  o  di  romanzi  e  storie  allora  in  voga, 
come  sono  i  volgarizzumenti  di  Livio  e  di  Sallustio,  i 
Fatti  di  Enea,  gli  Ammaestramenti  degli  antichi  voltati 
da  Bartolomeo  da  San  Concordie  con  un  nerbo  ed  una 
vigoria  degna  del  traduttore  di  Sallustio.  È  una  prosa 


—  122  — 

adulta,  spedita,  calda,  immaginosa,  spesso  colorita,  con 
tutto  r  andare  di  lingua  viva  e  parlata,  già  nel  suo  fiore. 

I  romanzi  operavano  sul  popolo  non  meno  vivamente 
che  la  letteratura  spirituale.  Nella  sua  immaginazione  si 
confondea  il  cavaliere  di  Cristo  e  il  Cavaliere  di  Carlo- 
magno,  e  con  la  stessa  avidità  leggea  la  vita  di  Alessio 
e  i  fatti  di  Enea,  e  gli  amori  di  Lancillotto  e  Ginevra. 
Caterina  trae  dalla  cavalleria  molte  sue  immagini.  Chiama 
Cristo  un  dolce  cavaliere,  cavaliere  dolcemente  armato; 
chiama  la  Redenzione  un  torneo  della  morte  colla  vita. 
Ma  la  letteratura  cavalleresca  rimase  stazionaria  e  non 
produsse  alcun  lavoro  originale.  Le  traduzioni  sono  fatte 
senza  intenzione  seria,  in  prosa  scarna  e  trascurata,  po- 
sto il  diletto  nel  maraviglioso  de'  fatti.  Agli  stessi  tra- 
duttori è  materia  frivola,  buona  per  passare  il  tempo,  e 
non  vi  partecipano,  non  sentono  colà  dentro  il  loro  mondo 
e  la  loro  vita. 

Accanto  a  questo  mondo  dello  spirito  e  dell'immagi- 
nazione e'  era  il  mondo  reale,  il  mondo  della  carne  o  della 
vita  terrena,  come  si  dicea,  che  si  potea  maledire,  ma 
non  uccidere.  Era  la  cronaca,  memoria  di  per  dì  de'  fatti 
che  succedevano,  inanime  come  il  dizionario,  o  come  la 
lista  delle  spese.  Quelli  che  ne  scrivevano  con  qualche 
intenzione  artistica,  la  dettavano  in  latino  e  la  chiama- 
vano Storia.  Latini  erano  anche  i  trattati  scientifici  e  i 
lavori  propriamente  d'  arte.  Quella  letteratura  spirituale 
e  cavalleresca  rimanea  circoscritta  al  popolo  ed  era  te- 
nuta in  poco  conto  da'  dotti.  Costoro  spregiavano  il  vol- 
gare, come  buono  solo  a  dir  d'  amore  e  di  cose  frivole, 
e  le  gravi  faccende  della  vita  le  trattavano  in  latino.  Di 
questi  illustre  per  ingegno,  per  coltura  e  per  patriotti- 
smo fu  Albertino  Mussato,  coronato  poeta  in  Padova, 
sua  patria.  Abbiamo  di  lui  molte  opere,  alcune  ancora 
inedite.  Scrisse  in  quattordici  libri  De  gestis  Henrici  VII 
Caesaris,  e  anche  De  gestis  Italicorum  posi  mortem 


—  123  — 

Henrìcì  VII,  in  dodici  libri,  de'  quali  alcuni  sono  in  versi 
esametri.  Fece  epistole,  egloghe,  elegie,  e  due  tragedie, 
VAchilleis  e  VEccerinis.  Quest'  ultima  rappresenta  la  ti- 
rannide di  Ezzelino,  creduto  per  la  sua  ferocia  figlio  del 
demonio,  e  la  vittoria  de'  Comuni  collegati  contro  di  lui. 
È  narrazione,  più  che  azione,  come  ne'  Misteri,  un  nar- 
rare serrato  e  nervoso,  le  cui  impressioni  patetiche  e  mo- 
rali sono  espresse  dal  Coro.  Sotto  a  quel  latino  ossuto 
e  asciutto  palpita  1'  anima  del  medio  evo.  Sentì  una  so- 
cietà ancor  rozza,  selvaggia  negli  odii  e  nelle  vendette, 
senza  misura  nelle  passioni,  poco  riflessiva,  di  propor- 
zioni epiche  anche  in  forma  drammatica.  Il  carattere 
di  Ezzelino  non  è  sviluppato  in  modo  che  n'  esca  fuori 
un  personaggio  drammatico.  EgU  rimane  ravvolto  nel 
suo  manto  epico,  come  Farinata.  È  figlio  del  demonio, 
e  lo  sa  e  se  ne  gloria,  e  opera  come  genio  del  male, 
con  piena  coscienza:  ciò  che  gli  dà  proporzioni  colos- 
V)ssaU.  Invoca  il  padre,  e  dice: 

«  Nulla  tremiscet  sceleribus  fidens  manus; 
Annue  Satan,  et  filium  talem  proba  ». 

E  quest'  uomo  rimane  cosi  intero  e  tutto  di  un  pezzo  : 
manca  1'  analisi,  senza  di  cui  non  è  dramma.  Il  concet- 
to della  tragedia  è  più  morale  che  -politico,  quantun- 
que il  fatto  sia  altamente  politico  ,  rappresentando  la 
lotta  tra  i  comuni  liberi  e  i  tirannetti  feudali.  Certo, 
in  Mussato  e'  è  il  guelfo  e  ci  è  il  padovano ,  che  l' i- 
spira  e  1'  appassiona.  Ma  il  motivo  tragico  è  affatto  mo- 
rale. Ezzehno  è  punito  non  perchè  offende  la  libertà,  ma 
perchè  opera  scelleratamente,  e  qui  gladio  ferii,  gladio 
perii:  ciò  che  è  in  bocca  al  Coro  la  conclusione  del 
fatto  : 

Consors  operum 
Meritum  sequitur  quisqne  suorum  ». 


—  124  — 

È  il  concetto  ascetico  dell'inferno  ai^plìcato  anrhe  alla 
vita  terrestre.  Questa  nella  sua  prima  apparizione  lette 
raria  è  ancora  nella  sua  generalità  morale,  non  è  svi- 
luppata nei  suoi  interessi,  ne'  suoi  fini,  nelle  sue  passioni 
e  nelle  sue  idee  politiche  :  di  che  solo  può  nascere  il 
dramma.  Il  senso  del  reale  era  ancora  troppo  scarso , 
perchè  il  dramma  fosse  possibile.  Non  ci  è  il  sentimento 
collettivo,  non  il  partito  e  non  la  società:  ci  è  l' indivi- 
duo appena  analizzato,  rappresentato  buono  o  cattivo  e 
retribuito  secondo  le  opere,  forma  elementare  della  vita 
reale.  Il  feroce  e  il  grottesco  delle  pene  infernah  hanno 
qui  un  riscontro  nelle  immani  crudeltà  di  EzzeHno  e  nella 
immane  punizione. 

Questo  concetto  morale,  ancorché  non  ancora  pene- 
trato e  sviluppato  in  tutti  gli  aspetti  della  vita,  pure 
non  è  più  un  motto,  un  proverbio,  un  ammaestramento, 
un  fabula  docet,  una  esposizione  didattica  in  prosa  o  in 
verso,  come  nel  secolo  scorso,  ma  la  vita  in  atto,  con. 
tutt'  i  caratteri  della  personalità,  cosi  nella  vita  contem- 
plativa, come  nella  vita  attiva,  così  nel  Carbonajo  del 
Passavanti,  come  nell'  Ezzelino  del  Mussato. 

Onori  straordinarii  furono  conferiti  al  Mussato,  tenuto 
pari  a'  classici,  quando  i  classici  erano  ancora  così  poco 
noti.  Anche  Venezia  ebbe  i  suoi  latinisti,  che  scrissero 
la  sua  storia ,  Andrea  Dandolo  e  Martin  Sanuto.  Nel- 
r  Italia  settentrionale  abbondano  le  cronache  latine.  Il 
volgare  vi  si  era  poco  sviluppato.  E  dappertutto  teolo- 
gia, filosofia,  giurisprudenza ,  medicina  era  insegnata  e 
trattata  in  latino.  Scrissero  le  loro  opere  in  questa  lin- 
gua Marsiho  da  Padova,  Gino  da  Pistoja,  Bartolo  e 
Baldo. 

Ma  in  Toscana  il  Malespini  avea  già  dato  1'  esempio 
di  scrivere  la  cronaca  in  volgare.  E  Dino  Compagni  se- 
guì r  esempio,  scrivendo  in  volgare  i  fatti  di  Firenze  dal 
1270  al  1312.  Attore  e  spettatore,  prende  una  viva  par- 


tecìpazione  a  quello  che  narra,  e  schizza  con  mano  si- 
cura immortali  ritratti.  Non  è  questa  una  cronaca,  una 
semplice  memoria  di  fatti  :  tutto  si  move,  tutto  è  rappre- 
sentato e  disegnato,  costumi,  passioni,  luoghi,  caratteri^ 
intenzioni,  è  a  tutto  lo  seri  il  ore  è  presente,  si  mescola 
in  tutto,  esprime  altamente  le  sue  impressioni  e  i  suoi 
giudizi.  Così  è  uscita  di  sotto  alla  sua  penna  una  storia 
indimenticabile. 

Questa  storia  è  una  immane  catastrofe,  da  lui  preve- 
duta e  non  potuta  impedire.  E  non  si  accorge  che  di 
quella  catastrofe  cagione  non  ultima  fu  lui.  0  piutto- 
sto ne  ha  un'  oscura  coscienza ,  quando  con  quel  tale 
8671710  di  poi  dice  :  oh  se  avessi  saputo  !  Ma  chi  pote- 
va pensare  ?  Ma  Dino  peccò  per  soverchia  bontà  d'  a- 
nimo  ;  gH  altri  peccarono  per  malizia ,  e  Dino  li  fla- 
gella a  sangue.  Era  Bianco;  ma  più  che  Bianco,  era 
onesto  uomo  e  patriota.  Gli  parea  che  que'  Neri  e  quei 
Bianchi,  quei  Donati,  e  quei  Cerchi,  non  fossero  divisi 
da  altro  che  da  gara  d'  uffici,  e  gli  parea  che  partendo 
ugualmente  gh  uffici  quelle  discordie  avessero  a  cessare. 
Gli  parea  pure  che  tutti  amassero  la  città,  come  facea 
lui,  e  fossero  pronti  per  la  sua  libertà  e  il  suo  decoro 
a  fare  il  sacrificio  de'  loro  odii  e  delle  loro  cupidigie.  E 
gU  parea  che  uomo  di  sangue  regio  non  potesse  men- 
tire né  spergiurare,  e  che  nessuno  potesse  mancare  alle 
promesse,  quando  fossero  messe  in  carta.  E  anche  que- 
sto gli  parea,  che  gli  amici  stessero  saldi  intorno  a  lui 
e  che  ad  un  suo  cenno  tutti  gli  avessero  ad  ubbidire. 
Che  cosa  non  parea  al  buon  Dino?  E  con  queste  opi- 
nioni si  mise  al  governo  della  repubblica.  È  la  prima 
volta  che  si  trova  in  presenza  la  morale  com'  era  in  A.1- 
bertano  Giudice  e  come  fu  poi  in  Caterina,  la  morale 
de'  libri  e  la  morale  del  mondo.  La  contraddizione  balza 
fuori  con  tutta  V  energia  di  una  prima  impressione.  Il 
brav'  uomo  al  contatto  del  mondo  reale  cade  di  disinganno 


—  126  — 

in  disinganno,  e  ciascuna  volta  rivela  la  sua  ingenuità  con 
un  accento  di  maraviglia  e  d'indignazione.  Immaginatevelo 
alle  prese  con  Bonifazio  Vili,  Carlo  di  Vaiois,  e  Corso 
Donati,  ciò  che  di  più  astuto  e  violento  era  a  quel  tempo. 
L*  energia  del  sentimento  morale  offeso  è  il  secreto  della 
sua  eloquenza.  Qui  non  ci  è  nessuna  intenzione  letteraria; 
la  narrazione  procede  rapida,  naturale,  sino  alla  rozzez- 
za. Vi  è  un  materiale  crudo  e  accumulato  e  mescolato, 
senza  ordine  o  scelta  o  distribuzione;  ignota  è  l'arte  del 
subordinare  e  del  graduare;  mancano  i  passaggi  e  le 
giunture;  il  fatto  è  spesso  strozzato;  spesso  il  colorito  è 
un  po'  risentito  e  teso:  difetti  di  composizione  gravi.  Pure 
le  qualità  essenziali  che  rendono  un  libro  immortale  , 
stanno  qui  dentro,  la  sincerità  dell'  ispirazione,  1'  energia 
e  la  purità  del  sentimento  morale,  la  compiuta  perso- 
nalità dello  scrittore  e  del  tempo,  la  maraviglia,  l' indi- 
gnazione, il  dolore,  la  passione  del  cronista,  che  comu- 
nica a  tutto  moto  e  vita. 

In  tempi  meno  torbidi,  Giovanni  Villani  scrisse  la  sua 
cronaca  di  Firenze  sino  al  1318,  continuata  dal  fratello 
Matteo  e  dal  nipote  Filippo.  Mira  a  dar  memoria  de'  fatti, 
pigliandoli  dove  li  trova,  e  spesso  copiando  o  compen- 
diando i  cronisti  che  lo  precessero.  Sono  nudi  fatti,  rac- 
colti con  scrupolosa  diligenza,  anche  i  più  minuti  e  fa- 
miliari, della  vita  fiorentina,  come  le  derrate ,  i  drappi, 
le  monete,  i  prestiti  :  materiale  prezioso  per  la  storia.  Ma 
questa  cruda  realtà,  scompagnata  dalla  vita  anteriore 
che  la  produce,  è  priva  di  colorito  e  di  fisonomia  e  rie- 
sce monotoira  e  sazievole. 

La  cronaca  di  Dino  e  le  tre  cronache  de'  Villani  com- 
prendono il  secolo.  La  prima  narra  la  caduta  de'  Bianchi, 
le  altre  raccontano  il  regno  de'  Neri.  Tra'  vinti  erano  Dino 
e  Dante.  Tra'  vincitori  erano  i  Villani.  Questi  raccontano 
con  quieta  indifferenza  ^  come  facessero  un  inventario. 
Quelli  scrivono  la  storia  col  pugnale.  Chi  si  appaga  della 


—  127  — 

superficie,  legga  il  Villani.  Ma  chi  vuol  conoscere  le  pas- 
sioni, i  costumi,  i  caratteri,  la  vita  interiore  da  cui  escono 
i  fatti,  legga  Dino. 

Finora  non  abbiamo  creduto  necessario  di  entrare  nel 
vivo  della  storia,  perchè  gli  scrittori ,  o  ascetici,  o  ca- 
vallereschi 0  didattici  scrivono  come  segregati  dal  mondo. 
Ma  Dino  vive  nel  mondo  e  col  mondo;  i  fatti  che  rac- 
conta sono  i  fatti  suoi,  parte  della  sua  vita,  e  la  sua 
Cronaca  è  lo  specchio  del  tempo,  non  nelle  regioni  astratte 
della  scienza  o  nel  fantastico  della  cavalleria  e  dell'  a- 
scetica,  ma  nella  realtà  della  vita  pubblica. 

I  partiti  che  straziavano  Firenze  con  nomi  venuti  da 
Pistoja  erano  detti  i  Neri  e  i  Bianchi,  gli  uni  capitanati 
dai  Donati  e  gli  altri  da'  Cerchi,  famiglie  potentissime  di 
ricchezza  e  di  aderenze.  Dante  sperò  di  poter  pacificare 
la  città,  mandando  in  esilio  i  due  più  potenti  e  irrequieti 
capi  delle  due  fazioni,  Corso  Donati  e  Guido  Cavalcanti- 
Venuto  malato,  il  Cavalcanti  fu  richiamato,  ma  non  Corso 
Donati:  di  che  si  menò  molto  scalpore,  massime  che  Dante 
era  Bianco  e  amico  del  Cavalcanti. 

I  Neri  erano  guelfi  puri,  e  si  appoggiavano  sui  popolani 
e  sul  Papa,  vicino  influente,  e  centro  di  tutti  gì'  intrighi 
e  le  cospirazioni  guelfe.  Bonifazio  Vili,  venuto  dopo  il 
giubileo  in  maggior  superbia  ,  avea  chiamato  a  sé  con 
molte  promesse  Carlo  di  Valois,  detto  per  dispregio  senza 
terra,  e  mandato  a  Firenze  sotto  colore  di  pacificare  la 
città,  ma  col  proposito  di  ristorarvi  la  parte  Nera.  Qui 
comincia  il  dramma,  esposto  con  si  vivi  colori  dal  no- 
stro Dino  nel  libro  secondo. 

Dante  si  lasciò  persuadere  di  andare  Legato  a  Roma. 
Si  dice,  abbia  detto:  Se  io  vado,  chi  resta?  Restò  il  povero 
Dino.  Certo,  l'opera  di  Dante  sarebbe  stata  più  utile  a 
Firenze,  dove  lasciò  il  campo  libero  agli  avversarii.  A 
Roma  fu  tenuto  con  belle  parole  da  Bonifazio  e  non 
concluse  nulla. 


—  128  — 

Dino  comincia  il  racconto  con  stile  concitato.  Sembra 
un  profeta  o  un  predicatore  che  tuoni  sopra  Gomorra 
0  Gerosolima  : 

«  Levatevi ,  o  malvagi  cittadini ,  pieni  di  scandali ,  e 
pigliate  il  ferro  e  il  fuoco  con  le  vostre  mani  e  disten- 
dete le  vostre  malizie.  Non  penate  più  :  andate  e  met- 
tete in  ruina  le  bellezze  della  vostra  città.  Spandete  il 
sangue  de'  vostri  fratelli  ;  spogliatevi  della  fede  e  dello 
amore;  nieghi  l'uno  all'altro  ajuto  e  servigio.  Credete 
voi  che  la  giustizia  di  Dio  sia  venuta  meno  ?  Pur  quella 
del  mondo  rende  una  per  una.  Non  v'  indugiate,  o  mi- 
seri :  che  più  si  consuma  un  dì  nella  guerra,  che  molti 
anni  non  si  guadagna  in  pace,  e  piccola  è  quella  favilla 
che  a  distruzione  mena  un  gran  regno  ». 

Qui  non  ci  è  l'uomo  politico.  Ci  è  la  realtà  vista  da 
un  aspertto  puramente  morale  e  religioso,  come  gli  asce- 
tici ;  il  concetto  è  lo  stesso  ;  la  materia  è  diversa.  Con- 
siderata così,  la  realtà  riesce  al  buon  Dino  altro  che  non 
pensava,  e  in  luogo  di  riconoscere  il  suo  errore,  se  la 
prende  con  la  realtà  e  la  maledice.  I  suoi  errori  nascono 
dal  concetto  falso  che  avea  degli  uomini  e  delle  cose,  si 
che  divenne  il  trastullo  degli  uni  e  degli  altri,  perdette 
lo  stato  e  fu  calunniato  ,  come  avviene  a'  vinti.  Allora 
prende  la  penna,  e  li  maledice  tutti,  Neri  e  Bianchi,  rac- 
contando i  fatti  con  tale  ingenuità  che  se  le  male  pas. 
sioni  degli  altri  son  manifeste,  non  è  raen  chiara  la  sua 
soverchia  bontà. 

Mentre  gli  Ambasciatori  armeggiano  con  Bonifazio , 
largo  promettitore,  purché  sia  ubbidita  la  sua  volontà, 
furono  in  Firenze  eletti  i  nuovi  Signori ,  e  Dino  fu  di 
quelU.  Piacque  la  scelta,  perchè  uomini  non  sospetti  e 
buoni,  e  senza  baldanza,  e  avevano  volontà  di  acco- 
munare gli  uffici,  dicendo:  questo  è  Vuliimo  rimedio. 
Questo  è  il  giudizio  che  porta  Dino  di  sé  e  de'  colleghi- 
Ma  i  loro  avversarli  n'  ebbono  speranza,  perchè  h  co- 


—  129  — 

nosceano  uomini  deboli  e  pacifici y  i  quali  sotto  spezie 
di  pace  credeano  leggiermente  di  poterli  ingannare. 
Che  buono  Dino  !  Egli  stesso  pronunzia  la  sua  sentenza. 

I  Neri  a  quattro  e  a  sei  insieme,  preso  accordo  fra 
loro,  li  andavano  <i  visitare  e  diceano  :  Voi  siete  buoni 
uomÌ7ii  e  di  tali  uvea  bisogno  la  nostra  città.  Voi  ve- 
dete la  discordia  de'  cittadini  vostri;  a  noi  la  con- 
viene pacificare,  o  la  città  perirà.  Voi  siete  quelli  che 
avete  la  balia,  e  noi  a  ciò  fare  vi  profferiamo  l'avere 
e  le  persone  di  buono  e  leale  animo.  E  benché  di  cosi 
false  profferte  dubitassero,  credendo  che  la  loro  ma- 
lizia coprissero  con  falso  parlare,  pure  Dino  per  coni- 
messione  de'  suoi  compagni  rispose  :  «  Cari  e  fedeli  cit- 
tadini, le  vostre  profferte  noi  riceviamo  volentieri,  e 
cominciar  vogliamo  a  usarle  :  e  richieggiamvi  che  voi 
ci  consigliate,  e  pogniate  V  animo  a  guisa  che  la  no- 
stra città  debba  posare  ».  Che  scellerati!  e  che  buoni 
uomini  !  Non  si  può  megho  rappresentare  la  malizia  de- 
gli uni  e  r  innocenza  degli  altri.  Scrivendo  dopo  i  fatti, 
Dino  si  picchia  il  petto  ,  e  dice  il  mea  culpa:  E  così 
perdemmo  il  primo  tempo ,  perchè  non  ardimmo  a 
chiudere  h  porte  né  a  cessare  l'udienza,  ai  cittadini. 
Demmo  loro  intendimento  di  trattar  pace,  quando  si 
convenia  arrotare  i  ferrila. 

Poiché  si  trattava  la  pace ,  i  Bianchi  smessero  dalle 
offese,  e  i  Neri  presero  baldanza.  E  Dino  confessa  que- 
sto primo  effetto  della  sua  bontà  :  «  la  gente,  che  tenea 
co'  Cerchi,  ne  prese  viltà,  dicendo:  non  è  a  darsi  fatica, 
che  pace  sarà.  E  i  loro  avversarii  pensavano  pur  di  com- 
piere le  loro  malizie  !  ». 

La  voce  che  Bonifazio  Vili  si  fosse  chiarito  contrario 
a'  Cerchi,  e  che  Carlo  di  Valois  veniva  in  Firenze,  do- 
vea  aver  tanto  imbaldanzito  i  Neri,  che  a  costoro  pareva 
un  atto  di  debolezza  e  di  paura  quello  che  in  Dino  era 
ispirato  da  sincero  amore  di  concordia.  E  quelle  prati^ 

De  S&nctiB  -Lett.  Ual.  Voi.  I.  0 


^  130  — 

che  di  pace  spacciavano  covare  sotto  un  tradimento.  La 
forza  materiale  era  ancora  in  mano  di  Dino;  ma  la  forza 
morale  passava  gli  avversarii,  più  audaci  ,  e  confidenti 
in  vicina  vittoria.  Già  ci  era  un' altra  aria  in  città.  Non 
pur  gì'  indifferenti,  ma  anche  noti  seguaci  de'  Cerchi  mu- 
tavano lingua.  Sicché  Foratore  di  Carlo  riferi  che  la 
parte  de  Donati  era  assai  innalzata  e  la  parte  dei 
Cerchi  era  assai  abbassata,  veggendo  come  dopo  le  sue 
parole  molti  dicitori  si  levarono  in  pie  affocati  pjer 
dire  e  magnificare  messer  Carlo, 

Dino,  volendo  negare  l' ingresso  a  Carlo  e  non  osando 
prender  su  di  sé  la  cosa,  essendo  la  novità  grande,  si  ri- 
mise al  suffragio  de'  suoi  concittadini.  Fu  un  plebiscito 
fatto  dal  debole  e  che  riusci  in  favore  dei  forti:  solito 
costume  de'  popoU,  e  il  buon  Dmo  noi  sapea.  I  soh  for- 
nai si  mostrarono  uomini,  dicendo  che  7iè  ricevuto,  né 
onorato  fusse,  perchè  venia  per  distruggere  la  città. 

Dino  credette  trovare  il  rimedio ,  chiedendo  a  Carlo 
lettere  bollate,  che  non  acquisterebbe  ninna  giurisdi- 
zione, né  occuperebbe  ninno  onore  della  città  né  per 
titolo  d'  imperio^  né  per  altra  cagione ,  né  le  leggi 
della  città  muterebbe,  né  V  uso.  Dmo  pensava  che  Carlo 
non  farebbe  la  lettera,  e  provvide  (^.he  il  passo  gli  fosse 
negato  e  vietata  la  vivandi.  Ma  la  lettera  venne,  e  «  io 
la  vidi  e  fecila  copiare ,  e  quando  fu  venuto ,  io  lo 
domandai  se  di  sua  volontà  era  scritta.  Rispose  :  si 
certamente  "»,  Ora  che  Dino  ha  la  lettera  in  tasca,  può 
viver  sicuro. 

E  gli  viene  un  santo  e  onesto  pensiero ,  immaginando: 
questo  signore  verrà,  e  tutt' i  cittadini  troverà  divisi: 
-il  che  grande  scandalo  ne  seguirà.  Onde  li  rauna  nella 
Chiesa  di  S.  Giovanni ,  e  loro  fa  un  fervorino ,  perchè 
sopra  quel  sacrato  fonte  onde  trassero  il  santo  bat- 
tesimo, giurino  buona  e  perfetta  pace.  Le  parole  di  Dino 
sono  di  quella  eloquenza  semplice  e  commovente  che  vitno 


~  131  — 

<ln]  cuore.  In  quei  tempi  di  lotte  così  accese  il  sentimento 
della  concordia  era  tanto  più  vivo  negli  animi  buoni  e 
onesti,  da  Albertano  a  Caterina.  E  non  so  che  in  Ca- 
terina si  trovino  parole  nella  loro  semplicità  così  affet- 
tuose come  queste  di  Dino  :  «  Signori,  perchè  volete  voi 
confondere  e  disfare  una  cosi  buona  città  ?  Contro  a  chi 
volete  pugnare  ?  contro  a'  vostri  fratelli  ?  Che  vittoria 
avrete?  non  altro  che  pianto  ». 

Tutti  giurarono;  e  Dino  aggiunge  con  amarezza:  i 
malvagi  cittadini  che  di  tenerezza  mostravano  lacri-- 
me,  e  baciavano  il  libro,  furono  i  principali  alla  di- 
struzione della  città.  Povero  Dino  !  e  si  affligge  il  bravo 
uomo  e  si  pente,  e  di  quel  sacramento  molte  lacrime 
sparsi,  pensando  quante  anime  ne  sono  dannate  per 
la  loro  malizia. 

Carlo  venne,  e  dietrogli,  dicendo  che  vernano  a  ono  - 
rare  il  sigiiore,  lucchesi,  perugini,  e  Caute  d'  Agobbio  e 
molti  alcri,  a  sei  e  dieci  per  volta,  tutti  avversarii  dei 
Cerchi  :  ciascuno  si  mostrava  amico,  Dino  fece  il  ponte 
d'  oro  al  nemico  che  entra,  contro  il  proverbio.  E  Carlo 
ebb<^  in  Firenze  1200  cavalli. 

Che  fa  Dino  ?  Sceglie  quaranta  cittadini  di  amendue 
le  parti,  perchè  provveggano  alla  salvezza  della  terra. 
C.ò  che  ci  era  negli  animi,  è  qui  scolpito  in  pochi  tratti. 
«  Quelli  che  avevano  reo  proponimento,  non  parlavano  ; 
gli  altri  aveano  perduto  il  vigore.  Baldino  Falconieri^ 
u(»m  vile,  dicea:  Signori,  io  sto  bene,  perchè  non  dor- 
raia  sicuro  ».  Lapo  Saltarelli,  per  riamicarsi  il  papa,  in- 
giuria la  Signoria,  e  tiene  in  casa  nascosto  un  confinato. 
Albertano  del -Giudice  monta  in  ringhiera,  e  biasima  i 
Signori.  Pare  coraggio  civile,  ed  è  villa  e  diserzione.  I 
nemici  tacciono.  Gli  amici  ingiuriano,  per  farsi  grazia. 
Cominciano  i  tradunenti.  7  Priori  scrissero  al  papa  se- 
cretamenlc. ;  ma  tutto  seppe  la  parte  nera,  perocché 
quelli  che  giurarono  credenza  non  la  iennono. 


—  132  — 

Alfine  Dino  si  risolve  ad  accomunare  gli  uffici,  par- 
lando umilmente  e  con  grande  tenerezza  dello  scampo 
della  città.  Ma  era  troppo  tardi.  I  Neri  non  volevano 
parte,  ma  tutto. 

«  E  Noffo  Guidi  parlò  e  disse  :  Io  dirò  cosa  che  tu 
mi  terrai  crudele  cittadino.  E  io  li  dissi  che  tacesse  :  e 
pur  parlò,  e  fu  di  tanta  arroganza,  che  mi  domandò  che 
mi  piacesse  far  la  loro  parte  nell'  ufficio  maggiore  che 
l'altra;  che  tanto  fu  a  dire,  quanto  disfà  l'altra  parte, 
e  me  porre  nel  luogo  di  Giuda.  E  io  li  risposi  che  in- 
nanzi io  facessi  tanto  tradimento,  darei  i  miei  figliuoli  a 
mangiare  ai  cani». 

Carlo  volea  in  mano  i  Signori^  e  li  facea  spesso  in- 
vitare a  mangiare.  E  quelli  si  ricusavano,  adducendo  che 
la  legge  li  costringea  che  fare  non  lo  potevano  ;  ma  era, 
perchè  stimavano  che  contro  a  loro  volontà  li  avrebbe 
ritenuti.  Un  giorno  disse  che  in  Santa  Maria  Novella 
fuori  della  terra  volea  parlamentare,  e  che  piacesse  alla 
Signoria  esservi.  Dino  vi  mandò  tre  soli  de'  compagni, 
a  quali  niente  disse,  come  colui  che  non  volea  par- 
lare, ma  si  uccidere. 

«  Molti  cittadini  si  dolsono  con  noi  di  quella  andata, 
parendo  loro  che  ahdassono  al  martirio.  E  quando  furono 
tornati,  lodavano  Dio,  che  da  morte  gli  avea  scampati  ». 

Volevano,  se  la  Signoria  vi  fosse  ita  tutta,  ucciderli 
fuori  della  porta  e  correre  la  terra  per  loro,  E  Dino 
che  facea  ? 

G'  è  un  brano  stupendo,  che  è  una  pittura.  Vedi  co- 
me Dino  passava  i  giorni  ;  la  sua  incapacità  e  i  suoi  af- 
fanni. «  I  Signori  erano  stimolati  da  ogni  parte.  I  buoni 
diceano  che  guardassero  bene  loro,  e  la  loro  città.  I  rei 
li  contendeano  con  quistioni.  E  tra  le  domande  e  le  ri- 
sposte il  dì  se  ne  andava.  I  baroni  di  messer  Carlo  gli 
occupavano  con  lunghe  parole.  E  cosi  viveano  coi)  af- 
fanno». 


—  133  — 

Un  rimedio  gli  è  suggerito  da  frate  Benedetto:  Fate 
fare  processione ,  e  del  pericolo  cesserà  gran  parte, 
E  Dino  fece  la  processione,  e  molti  lo  schernirono,  di- 
cendo che  meglio  era  arrotare  i  ferri,  E  Dino  con- 
chiude, parlando  di  sé  e  de'  coUeghi  :  niente  giovò,  per^ 
che  usarono  modi  pacifici,  e  voleano  essere  repenti 
e  forti.  Niente  vale  Vumiltà  contro  la  grande  mali:^ia. 

Tutto  ti  è  messo  sott'  occhio,  come  in  una  rappresen- 
tazione drammatica.  Vedi  i  Neri  in  istrada,  corrompere, 
far  gente,  mostrar  la  loro  potenza.  Diceano: 

«  Noi  abbiamo  un  signore  in  casa ,  il  papa  è  nostro 
protettore  ;  gli  avversarii  nostri  non  sono  guerniti  né  da 
guerra ,  né  da  pace  ;  danari  non  hanno  ;  i  soldati  non 
sono  pagati». 

E  misero  in  ordine  tutto  ciò  che  a  guerra  bisognava, 
invitati  molti  villani  d'  attorno  e  tutti  gli  sbanditi.  I  Neri 
si  armavano  ;  i  Bianchi  no,  perché  era  contro  la  legge, 
e  Dino  minacciava  di  punirli.  E  ora  che  scrive  a  scol- 
parsi nota  che  fu  per  avarizia ,  perché  fece  dire  a'  Cer- 
chi: Fornitevi,  e  ditelo  agli  amici  vostri. 

I  Neri,  conoscendo  i  nemici  loro  vili  e  che  aveano 
perduto  il  vigore,  vengono  a'  ferri.  I  Medici  lasciano  per 
morto  Orlandi,  un  valoroso  popolano.  Si  grida  a'  Priori: 
voi  siete  traditi,  armatevi. 

Ecco  finalmente  sventolare  sulle  finestre  il  gonfalone 
di  giustizia.  Molti  vanno  nascosamente  dal  lato  di  parte 
nera.  Ma  traggono  alla  Signoria  i  soldati  che  non  erano 
corrotti,  e  altre  genti,  e  amici  a  pie  e  a  cavallo.  Era  il 
momento  di  operare  con  vigore.  Ma  i  Signori  non  usi 
a  guerra  erano  occupati  da  molti  che  voleano  essere 
uditi,  e  in  poco  stante  si  fé  7iotte.  Il  Podestà  non  si 
fé'  vivo.  Il  capitano  non  si  mosse,  come  uomo  piti  atto 
a  riposo  e  a  pace  che  a  guerra.  La  rannata  gente 
non   consigliò.  Il  giorno  finì:  e  non  si  concluse  nulla, 


—  134  — 

e  la  gpnte  stanca  se  né  andò  ,  e  cìascnno  pensò  a  so 
stesso.  E  Dino  cosa  faceva  ?  Dava  udienza. 

I  Neri  lusingavano  e  indugiavano  i  Bianchi  con  buone 
parole.  Li  Spini  diceano  alli  Scali  :  «  Deh  !  perchè  fac- 
ciamo noi  cosi  ?  Noi  siamo  pure  amici  e  parenti  e  tutti 
guelfi;  noi  non  abbiamo  altra  intenzione  che  di  levarci 
la  catena  di  collo,  che  tiene  il  popolo  a  voi  e  a  noi.  E 
saremo  maggiori  che  noi  non  siamo.  Mercè  per  Dio,  sia- 
mo una  cosa,  come  noi  dovemo  essere  ».  Quelli  che  ri- 
ceveano.tali  parole,  s'  ammollavano  nel  cuore,  e  i  loro 
seguaci  invilirono.  1  ghibellini,  credendosi  abbandonati, 
si  smarrirono,  e  gli  sbanditi  si  avvicinavano  alla  città. 
Come  farli  entrare?  Carlo  instava  presso  la  Signoria, 
perchè  si  desse  a  lui  la  guardia  della  città  e  delle  porte: 
che  farebbe  de'  malfattori  aspra  giustizia.  E  sotto  que- 
sto nascondea  la  sua  malizia ,  nota  1'  arguto  Dino.  Ma 
r  arguto  Dino  gli  dà  la  guardia  delle  porte  d'  Oltrarno! 
Bisogna  proprio  sentir  lui: 

«  Le  chiavi  gli  furono  negate,  e  le  porte  di  Oltrarno 
gli  furono  raccomandate,  e  levati  ne  furono  i  fiorentini 
e  furonvi  messi  i  francesi.  E  il  cancelliere  e  il  mahscalco 
di  messer  Carlo  giurarono  nelle  mani  a  me  Dino  rice- 
verle per  lo  comune.  E  mai  credetti  che  un  tanto  Si- 
gnore e  della  casa  reale  di  Francia  rompesse  la  sua  fede: 
perchè  non  passò  piccola  parte  della  notte  che  per  la 
porta  che  noi  gli  demmo  in  guardia ,  die'  1'  entrata  a 
molti  sbanditi  ». 

Fatta  la  breccia,  entrano  gli  altri.  E  i  signori,  venuta 
meno  tutta  labro  speranza,  deliberarono  quando  i  villani 
fossero  venuti  in  loro  soccorso,  prendere  la  difesa.  Che 
era  quel  prender  tempo  e  non  risolversi  degli  animi  de- 
boli. Furono  vinti  senza  combattere.  Tutti  si  gettarono  là 
dov'  era  la  forza. 

«  I  malvagi  villani  gli  abbandonarono.  I  famigli  li  tra- 
dirono. Molti  soldati  si  volsono  a  servire  i  loro  avver- 


—  135  — 

sari.  Il  Podestà  andava  procurando  in  aiuto  di  messer 
Carlo  ». 

Carlo  manda  i  suoi  a'  Priori,  per  occupare  il  giorno 
e  il  loro  proponimento  con  lunghe  parole.  Giuravano 
che  il  loro  Signore  si  tenea  tradito,  e  che  farebbe  la  ven- 
detta grande.  Tenete  per  fermo  che  se  il  nostro  Si- 
gnore non  ha  cuore  di  vendicare  il  misfatto  a  vostro 
modo,  fateci  levare  la  testa.  E  ora  che  scrive,  Dino  ag- 
giunge :  E  non  giurò  messer  Carlo  il  vero,  perchè  Corso 
Donati  di  sua  saputa  venne  ». 

Carlo  è  pronto  ad  armare  i  suoi  cavalieri  e  vendicare 
il  comune,  ma  ad  un  patto,  che  si  dieno  a  lui  in  cu- 
stodia i  più  potenti  uomini  delle  due  parti.  E  Dino  consente. 

«  I  Neri  vi  andarono  con  fidanza,  i  Bianchi  con  te- 
menza. Messer  Carlo  li  fece  guardare,  i  Neri  lasciò  partire, 
ma  i  Bianchi  ritenne  presi  quella  notte  senza  paglia  e 
senza  materasso,  come  uomini  micidiali». 

Qui  Dino  non  ne  può  più  e  prorompe: 

«  0  buono  re  Luigi,  che  tanto  temesti  Iddio,  ov'  è  la 
fede  della  real  casa  di  Francia,  caduta  per  mal  consi- 
glio non  temendo  vergogna?  o  malvagi  consiglieri,  che 
avete  il  sangue  di  cosi  alta  corona  fatto  non  soldato ,  ma 
assassino,  imprigionando  i  cittadini  a  torto,  e  mancando 
della  sua  fede,  e  falsando  il  nome  della  real  casa  di 
Francia  !  ». 

L' indignazione  è  uguale  alla  maraviglia  del  buon  uomo. 
Come  pensare  che  il  sangue  di  san  Luigi ,  un  Real  di 
Francia,  fosse  spergiuro  e  assassino  ? 

Quando  non  ci  era  più  il  rimedio,  si  corse  al  rimedio, 
Dino  fa  sonare  la  campana  grossa,  che  era  un  chiamare 
alle  armi.  Ma  nessuno  uscì.  La  gente  sbigottita  non 
trasse  di  casa  i  Cerchi.  Non  usci  uomo  a  cavallo,  né 
a  pie  armato. 

Anche  il  cielo  vi  si  mescola.  Apparisce  una  croce  ver- 
m  glia  sopra  il  palagio  de'  Priori. 


—  130  -~ 

«  Onde  la  gente  che  la  vide,  e  io  che  chiaramente  la 
vidi,  potemmo  comprendere  che  Dio  era  fortemente  cruc- 
ciato contro  la  nostra  città  » . 

La  città  per  sei  giorni  fu  messa  a  ruba.  In  pochi  toc- 
chi ti  sta  innanzi  il  quadro. 

«  Gh  uomini  che  teneano  i  loro  avversari  si  nascon- 
deano  per  le  case  de'  loro  amici.  L'  uno  nimico  offendea 
l'altro  ;  le  case  si  cominciavano  ad  ardere,  le  ruberie  si 
faceano,  e  fiiggivansi  gli  arnesi  alle  case  degl'  impotenti. 
I  Neri  potenti  domandavano  danaro  a'  Bianchi;  marita- 
vansi  le  fanciulle  a  forza;  uccideansi  uomini,  e  quando 
una  casa  ardea  forte ,  messer  Carlo  domandava  :  che 
fuoco  è  quello?  E  eragli  risposto  che  era  una  capanna, 
quando  era  un  ricco  palazzo  ». 

I  Priori,  moltiplicando  il  mal  fare,  e  non  avendo  rime» 
dio,  lasciarono  il  priorato.  E  venne  al  governo  la  par- 
te nera. 

Dino  fu  il  Pier  Sederini  di  quel  tempo,  e  fu  a  sé  stesso 
il  suo  Machiavelli.  Nessuno  può  dipingerlo  megho  che 
non  fa  egli  medesimo. 

In  questa  maravigliosa  cronaca  non  ci  è  una  parola 
di  più.  Tutto  è  azione,  che  corre  senza  posa  sino  allo 
scioglimento.  Ma  è  azione,  dove  pajon  fuori  caratteri  e 
passioni.  Un  motto,  un  tratto  è  un  carattere.  Carlo,  dopo 
di  aver  tratto  da'  fiorentini  molti  danari,  va  a  Roma  e 
chiede  danari  a  Bonifazio.  Ma  io  ti  ho  mandato  alla  fonte 
dell'oro,  risponde  il  Papa.  È  una  risposta,  che  è  un  ri- 
traUo  dell'  uno  e  dell'  altro.  I  discorsi  sono  sostanziosi, 
incisivi,  non  meno  pittoreschi  :  vedi  personaggi  vivi ,  con 
la  loro  natura  e  i  loro  intendimenti,  e  fanno  più  effetto 
che  non  le  studiate  e  classiche  orazioni,  venute  poi.  Uomo 
d'  impressione  più  che  di  pensiero.  Dino  intuisce  uomini 
e  cose  a  prima  vista,  e  ne  rende  la  fìsonomia  che  non  la 
puoi  dimenticare.  Di  Bonifazio  VIII  dice: 

«  Fu  di  grande  ardire  e  alto  ingegno  ,  e  guidava  la 


—  137  — 

Chiesa  a  suo  modo,  e  abbassava  chi  non  li  consentia  ». 

Di  Corso  Donati  fa  questo  magnifico  ritratto  : 

«  Un  cavaliere  della  somiglianza  di  Catilina  romano, 
ma  più  crudele  di  lui,  gentile  di  sangue,  bello  del  corpo, 
piacevole  parlatore  ;  adorno  di  belli  costumi,  sottile  d' in- 
gegno, coU'animo  sempre  intento  a  mal  fare,  col  quale 
molti  masnadieri  si  raunavano,  e  gran  seguito  avea,  molte 
arsioni  e  molte  ruberie  fece  fare:  molto  avere  guadagnò 
e  in  grande  altezza  salì.  Costui  fu  messer  Corso  Donati 
che  per  sua  superbia  fu  chiamato  il  Barone,  che,  quando 
passava  per  la  terra,  molti'  gridavano  :  Viva  il  Barone. 
E  parea  la  terra  sua.  La  vanagloria  il  guidava  e  molti 
servigi  facea». 

La  stessa  sicurezza  è  nella  rappresentazione  della  cosa. 
Rapido,  arido,  tutto  fatti,  che  balzan  fuori  coloriti  dalle 
sue  vivaci  impressioni,  dalla  sua  maraviglia,  dalla  sua 
indignazione.  Una  cosa  soprattutto  lo  colpisce,  che  molte 
lingue  si  cambiarono  in  pochi  giorni.  Non  vi  si  sa  ras- 
segnare, e  li  chiama  ad  uno  ad  uno,  e  ricorda  loro  quello 
che  diceano  e  quello  che  erano.  Il  mutarsi  dell'animo  se- 
condo gH  eventi  non  gU  potea  entrare. 

«  Donato  Alberti,  dove  sono  le  tue  arroganze,  che  ti 
nascondesti  in  una  vile  cucina  ?  0  messer  Lapo  Salte- 
relli, minacciatore  e  battitore  de'  rettori  che  non  ti  ser- 
viano  nelle  tue  quistioni,  ove  ti  armasti  ?  in  casa  i  Pulci, 
stando  nascoso.  0  messer  Manetto  Scali,  che  volevi  es- 
ser tenuto  sì  grande  e  temuto,  ove  prendesti  le  armi  ? 
0  voi  popolani,  che  desideravate  gli  ufficii  e  succiavate 
gli  onori,  e  occupavate  i  palagi  de'  rettori,  ove  fu  la  vo- 
stra difesa?  nelle  menzogne,  simulando  e  dissimulando, 
biasimando  gli  amici  e  lodando  i  nemici,  solamente  per 
campare.  Adunque  piangete  sopra  voi  e  la  vostra  città  ». 

I  soliti  fenomeni  delle  rivoluzioni  brutali  e  ingenerose 
sono  da  lui  rappresentati  con  lo  stesso  accento  di  ma- 
raviglia, come  di  cose   non  viste  mai,  e   svegliano  nel 


—  138  — 

s^io  animo  onesto  una  indignazione  eloquente.  Ed  è  da 
questi  sentimenti,  che  è  uscito  questo  capolavoro  di  de- 
scrizione : 

«  Molti  nelle  rie  opere  divennero  grandi,  i  quali  avanti 
nominati  non  erano,  e  nelle  crudeli  opere  regnando  cac- 
ciarongli  molti  cittadini  e  feciongli  rubelli,  e  sbandeggia- 
rono neir  avere  e  nella  persona.  Molte  magioni  guasta- 
rono, e  molti  ne  puniano,  secondo  che  tra  loro  era  or- 
dinato e  scritto.  Niuno  ne  campò  che  non  fosse  punito. 
Non  valse  parentado,  né  amistà;  né  pena  si  potea  mi- 
nuire,  né  cambiare  a  coloro  a  cui  determinate  erano. 
Nuovi  matrimonii  niente  valsero,  ciascuno  amico  divenne 
nimico;  i  fratelli  abbandonavano  l'un  l'altro,  il  figliuolo, 
il  padre,  ogni  amore,  ogni  umanità  si  spense.  Patto,  pietà 
né  mercé  in  niuno  mai  si  trovò.  Chi  più  dicea  :  muojano, 
muojano  i  traditori,  colui  era  il  maggiore  ». 

Tra'  proscritti  fu  Dante.  Condannato  in  contumacia,  non 
rivide  più  la  sua  patria.  Ira,  vendetta,  dolore,  disdegno, 
ansietà  pubbliche  e  private,  tutte  le  passioni  che  posson-o 
covare  nel  petto  di  un  uomo,  lo  accompagnarono  nel- 
r  esilio.Chi  ha  vista  l' indignazione  di  Dino ,  può  misu- 
rare quella  di  Dante. 

Il  Priorato  fu  il  principio  della  sua  rovina,  com'  egli 
dice,  ma  fu  anche  il  principio  della  sua  gloria.  Non  era 
uomo  politico  ;  mancavagli  flessibilità  e  arte  di  vita  ;  era 
tutto  un  pezzo,  come  Dino.  Priore,  volle  procurare  una 
concordia  impossibile,  e  non  riuscì  che  a  farsi  ingannare 
da'  Neri  in  Firenze  e  da  Bonifazio  in  Roma.  Esule,  non 
valse  a  mantenere  quella  preminenza  che  era  debita  al 
suo  ingegno  e  alla  sua  virtù,  si  lasciò  soverchiare  dai 
più  audaci  arrischiati ,  e  non  potendo  impedire  e  non 
volendo  accettare  molti  disegni ,  si  segregò  e  si  fece 
parte  p?r  sé  stesso.  Toltosi  alle  faccende  pubbhche,  ri- 
piegatasi in  sé,  sviluppò  tutte  le  sue  forze  intellettive  e 
poetiche. 


—  130  -^ 

Dopo  la  morte  di  Beatrice  erasi  dato  con  tale  ardore 
allo  studio  che  la  vista  ne  fu  debilitata.  Finisce  la  Vita 
J\uova  con  la  speranza  di  dire  di  lei  quello  che  non 
fu  mai  deffo  di  alcuno.  E  fece  di  questo  suo  primo  e 
solo  amore  la  bellissima  e  onestissima  figlia  dell'  Im- 
peratore dell  universo,  alla  quale  Pitagora  pose  nome 
filosofia.  Frutti  di  questi  nuovi  studi  furono  le  sue  can- 
zoni allegoriche  e  scientifiche. 

Tra  questi  studi  nacque  la  seconda  Beatrice,  luce  spi- 
rituale, unità  ideale,  r  amore  che  congiunge  insieme  in- 
telletto e  atto,  scienza  e  vita.  Intelletto,  amore,  atto,  era 
questa  la  trinità,  che  fu  il  suo  secondo  amore,  la  sua 
filosofia.  Beatrice  divenne  un  simbolo,  e  la  poesia  vanì 
nella  scienza. 

Quei  mondo  hrico,  che  a  noi  pare  troppo  astratto,  parve 
poco  spiritudle  ai  contemporanei,  che  chiamavano  sen- 
sensuale  quel  primo  amore  di  Dante,  e  poco  intendevano 
questo  suo  secondo  amore.  E  Dante  per  cessare  da  sé 
l'infamia  e  per  mostrare  la  dottrina  nascosa  sotto  figura 
di  allegoria,  volle  illustrare  e  cementare  le  sue  canzoni 
egli  medesimo. 

Era  iottissimo.  Teologia,  filosofia,  storia, mitologia,  giu- 
risprudenza, astronomia,  tìsica,  matematica,  rettorica,  poe- 
tica, di  tutto  lo  scibile  avea  notizia  e  non  superficiale  : 
perchè  di  tutto  parlò  con  (chiarezza  e  con  padronanza  della 
materia.  Il  disegno  ^li  si  allargò  :  al  poeta  tenne  dietro 
lo  scienziato  :  e  pensò  di  chiudere  in  quattordici  trattati, 
quante  erano  le  canzoni,  tutta  la  scienza  nella  sua  ap- 
plicazione alla  vita  morale.  Un  lavoro  simile,  che  Bru- 
netto chiamò  Tesoro,  altri  chiamavano  Fiore,  o  Giar- 
dino, egli  chiamò  Convito,  quasi  mensa  dov'è  imbandito 
il  pane  degli  angeli,  il  cibo  della  sapienza.  Brunetto  avea 
scritto  il  Tesoro  in  francese,  gli  altri  trattavano  la  scienza 
in  latino.  La  prosa  volgare  era  tenuta  poco  acconcia  a 
questa  materia,  massime  dopo  l'infelice  versione  dell'Etica 


—  140  — 

di  Aristotile ,  fatta  da  un  tal  Taddeo  ,  celebro  medico, 
nominato  l' Ippocratista.  Bisogna  vedere  quante  sottili 
ragioni  adduce  Dante  per  scusarsi  di  scrivere  in  volgare. 
Celebra  il  latino,  come  perpetuo  e  non  corruttibile,  e 
perchè  molte  cose  manifesta  concepute  nella  menfe^ 
che  il  volgare  non  può,  e  perchè  il  volgare  seguita  uso  e 
il  latino  arte:  onde  il  latino  h piit  hello,  piii  virtuoso  e 
più  nobile.  Ma  appunto  per  questo  il  comento  latino  non 
sarebbe  stato  suggetto  alle  canzoni  scritte  in  volgare,  ma 
sovrano,  e  il  comento  per  sua  natura  è  servo  e  non  si- 
gnore, e  dee  ubbidire  e  non  comandare.  Ora  il  latino  non 
può  ubbidire,  perchè  comandatore  e  sovrano  del  volgare. 
Oltreché,  come  può  il  latino  comentare  il  volgare,  non 
conoscendo  il  volgare  ?  E  che  il  latino  non  è  conoscente 
de'  volgare,  si  vede:  che  uno  abituato  di  latino  non  di" 
stingue,  s'egli  è  d' Italia,  lo  volgare  provenzale  dal  te- 
desco. Ecco  le  opinioni,  le  forme  e  le  sottigliezze  della 
scuola.  Questa  novità  di  scrivere  di  scienza  in  volgare, 
che  è  come  dare  a'  convitati  biado  e  non  formento,  gli 
pare  cosi  grande  che  a  difendersene  spende  otto  capitoli, 
modello  di  barbarie  scolastica.  Lasciando  stare  le  sotti- 
gliezze, la  sostanza  è  questa,  ch'egli  usa  il  volgare  di  si, 
perchè  loquela  propria,  e  de  suoi  generanti  e  suo  in- 
troducitore  nello  studio  del  latino  ,  e  perciò  nella  via 
di  scienza  che  è  V  ultima  perfezione.  Scrisse  in  volgare 
le  rime,  il  volgare  usò  deliberando,  interpretando  e  qui- 
stionando  :  dal  principio  della  vita  ebbe  con  esso  beni- 
volenza  e  conversazione  ;  il  volgare  è  l' amico  suo,  dal 
quale  non  si  sa  dividere.  Coloro  fanno  vile  lo  parlare 
italico  e  prezioso  quello  di  Provenza,  che  per  iscusarsi 
del  non  dire  o  dire  male  accusano  e  incolpano  la  mate- 
ria, cioè  lo  volgare  proprio.  La  plebe,  o  come  dice  egli, 
le  popolari  persone  cadono  nella  fossa  di  questa  falsa 
opinione  per  poca  discrezione  :  per  che  incontra  che 
molte  volte  gridano  :  Viva  la  loro  morte  e  Muoia  la 


—  141  — 

la  loro  vita,  purché  alcuno  cominci,  e  sono  da  chia- 
mare pecore  e  non  uomini.  Gli  altri  vi  caggiano  per 
vanità  o  per  vanagloria,  o  per  invidia  o  per  pusillani- 
mità. Questo  disamare  lo  volgare  proprio  e  pregiare  lo 
altrui,  gli  pare  un  adulterio,  conchiudendo  con  queste 
sdegnose  parole  :  «  e  tutti  questi  cotali  sono  gli  abbomi- 
nevolì  cattivi  d' Italia,  che  hanno  a  vile  questo  prezioso 
volgare,  lo  quale  se  è  vile  in  alcuna  cosa,  non  è  se  non 
in  quanto  egli  suona  nella  bocca  meretrice  di  questi  adul- 
teri ».  E  però  egli  scrive  questo  comento  in  volgare,  per 
fargli  avere  in  alio  e  palese  quella  hontade  che  ha  in 
potere  e  occulto,  mostrando  che  la  sua  virtù  si  manife- 
sta anche  in  prosa,  senza  le  accidentali  adornezze  della 
rima  e  del  ritmo,  come  donna  bella  per  naturai  bellez- 
za e  non  per  gli  adornamenti  dell'  azzimare  e  delle 
vestimenta,  e  che  altissimi  e  novissimi  concetti  convenien- 
temente, sufficientemente  e  acconciamente,  quasi  come 
per  esso  latino  ^  vi  si  esprimono.  E  finisce  con  queste 
profetiche  parole  :  «  Questa  sarà  luce  nuova,  sole  nuovo, 
il  quale  surgerà,  ove  T  usato  tramonterà», 

Tanta  veemenza  nell'  accusare,  tanto  ardore  nel  ma- 
gnificare può  fare  intendere  quanto  radicata  e  sparsa  era 
r  opinione  degl'infiniti  ciechi,  com'  egli  li  chiama,  che  te- 
nevano il  volgare  inetto  alla  prosa.  E  non  ottenne  V  in- 
tento. Il  latino  continuò  a  prevalere  :  egli  medesimo,  la- 
sciato a  mezza  via  il  Convito,  trattò  in  latino  la  retto- 
rica  e  la  politica ,  che  insieme  con  1'  etica  era  la  ma- 
teria ordinaria  dei  trattati  scientifici. 

Il  libro  de  Vulgari  eloquio  non  è  un  fior  di  Éetto- 
rica,  quale  si  costumava  allora,  un  accozzamento  di  re- 
gole astratte  cavate  dagli  antichi,  ma  è  vera  critica  ap- 
plicata ai  tempi  suoi,  con  giudizi  nuovi  e  sensati.  La 
base  di  tutto  1' edifizio  èia  lingua  nobile,  antica,  corti- 
giana, illustre,  che  è  dappertutto  e  non  è  in  alcuna  parte, 
di  cui  ha  voluto  dare  esempio  nel  Convito.  Questo  ideale 


—  142  — 

parlare  italico  è  illustre,  in  quanto  si  scosta  dagli  ele- 
menti locali,  ove  prendono  forma  i  dialetti,  e  si  accosta 
alla  maestà  e  gravità  dei  latino,  la  lingua  modello.  Vo- 
leva egli  far  del  volgare  quello  che  era  il  latino,  non 
k  lingua  delle  persone  popolari,  ma  la  lingua  perpetua 
e  incorruttibile  degli  uomini  colti.  S(igno  assai  simile  a 
quello  di  una  lingua  universale,  fondata  co'  procedimenti 
artificiali  della  scienza.  Scegliere  il  medio  di  qua  e  di 
là  e  far  cosa  una  e  perfetta ,  sembra  cosa  facile  e  assai 
conforme  alla  logica,  ma  è  contro  natura.  Le  lingue,  come 
le  nazioni,  vanno  all'unita  per  processi  lenti  e  storici; 
e  non  per  fusioni  preconcette  ,  ma  per  graduale  assor- 
bimento e  conquista  degli  elementi  inferiori.  Il  ghibellino 
che  dispreggiava  i  dialetti  comunali  e  voleva  un  parlare 
comune  italico,  di  cui  abbozzava  l' immagine,  ti  rivelava 
già  lo  scrittore  della  Monarchia. 

Il  trattato,  de  Manarchia,  è  diviso  in  tre  libri.  Nel 
primo  dimostra  la  perfetta  forma  di  governo  essere  mo- 
narchia: nel  secondo  prova  questa  perfezione  essere  in- 
carnata neir  impero  romano,  sospeso,  non  cessato,  per- 
chè preordinato  da  Dio.  Nel  terzo  stabilisce  le  relazioni 
tra  r  impero  e  il  sacerdozio,  1'  unico  imperatore  e  l'u- 
nico papa. 

L'  eccellenza  della  monarchia  è  fondata  sull'  unità  di 
Dio.  Uno  Dio,  uno  Imperatore.  Le  oligarchie  e  le  demo- 
crazie sono  polizie  oblique,  gouerni  per  accidente,  reg- 
gimenti difettivi.  Fin  qui  tutti  erano  d'  accordo,  guelfi  e 
ghibeUini.  Non  ci  erano  due  filosofìe  ;  le  premesse  erano 
comuni  ai  due  partiti. 

E  tutti  e  due  ammettevano  la  distinzione  tra  lo  spi- 
rito e  il  corpo  e  la  preminenza  di  quello,  base  della  fi- 
losofia cristiana.  E  ne  inferivano  che  nella  società  sono 
due  poteri,  lo  spirituale  e  il  temporale,  il  Papa  e  l' Im- 
pe  atore.  Il  contrasto  era  tutto  nelle  conseguenze. 

Se  lo  spirito  è  superiore  al  corpo  ,  duuv^ue,  conchiu- 


—  143  — 

flrva  r>'M:i Tazio  Vili,  il  papa  è  superiore  all'imperatore. 
*  11  put.eie  ^pirituale,  die' egli ,  ha  il  diritto  d' insciLuire 
il  potere  temporale ,  e  di  giudicarlo  ,  se  non  è  buono , 
E  rh\  l'esiste,  resiste  all'ordine  stesso  di  Dio,  a  m(»no 
cW  f'gìi  non  immagini,  come  i  Manich'^i,  due  p:'incipii,  ciò 
cli<;  sentenziammo  errore  ed  eresia.  Adunque  ogni  uomo 
<iee  essere  sottoposto  al  pontefice  romano,  e  noi  dichia- 
riamo che  questa  sottomissione  è  necessaria  per  la  salute 
dell'anima». 

Filosofìa  chiara,  semplice,  popolare,  irresistibile  per  il 
<'arattere  indiscusso  delle  premesse  consentite  da  tutti  e 
per  r  evidenza  delle  conseguenze.  Quando  lo  spirito  era 
il  sostanziale  e  il  corpo  in  sé  stesso  era  il  peccato  ,  e 
non  valea  se  non  come  apparenza  o  organo  dello  spi- 
nto, cos'  altro  potevano  essere  i  re  e  gl'Imperatori ,  che 
erano  il  potere  temporale,  se  non  gì'  investiti  dal  Papa, 
gh  esecutori  della  sua  volontà  ?  I  guelfi ,  che ,  salve  le 
iranchigie  comunaH  ,  ammettevano  premesse  e  conse- 
guenze, erano  detti  la  parte  di  santa  chiesa. 

Dante  ammetteva  le  premesse,  e  per  fuggire  alla  con- 
seguenza suppone  che  spirito  e  materia  fossero  ciascuno 
con  sua  vita  propria,  senza  ingerenza,  nell'altro,  e  da 
questa  ipotesi  deduce  l'indipendenza  de'  due  poteri,  amen- 
due  organo  di  Dio  sulla  terra,  di  dritto  divino,  con  gli 
stessi  privilegi,  due  soli,  che  indirizzano  l'uomo,  l'uno 
per  la  via  di  Dio,  1'  altro  per  la  via  del  mondo ,  1'  uno 
per  la  celeste,  1'  altro  per  la  terrena  felicità.  Perciò  il 
Papa  non  può  unire  i  due  reggimenti  in  sé,  congiungere 
il  pastorale  e  la  spada  ;  anzi  come  vero  servo  di  Dio  e 
immagine  di  Cristo,  dee  dispregiare  i  beni  e  le  cure  dì 
questo  mondo,  e  lasciare  a  Cesare  ciò  che  è  di  Cesare. 
L' imperatore  dal  suo  canto  dee  usar  riverenza  al  Papa, 
appunto  per  la  preminenza  dello  spirito  sul  corpo;  e  poi- 
ché il  popolo  é  corrotto  e  usurpatore ,  e  la  società  è 
viziosa  e  anarchica,  il  suo  uffizio  è  di  ridurre  il  moudj 


—  144  — 

a  giustizia  e  concordia,  ristaurando  V  impero  della  legge. 
Né  è  a  temere  che  sia  tiranno,  perchè  nella  stessa  sua 
onnipotenza  troverà  il  freno  a  sé  stesso  :  perciò  rispet- 
terà le  franchigie  de'  comuni  e  l'indipendenza  delle  na- 
zioni. Questa  era  l'utopia  dantesca  o  piuttosto  ghibellina. 
Dante  ne  ha  fatto  un  sistema  e  ne  è  stato  il  filosofo. 

Scendendo  alla  applicazioni,  Dante  mostra  nel  secondo 
libro  che  la  monarchia  romana  fu  di  tutte  perfettissima. 
La  sua  storia  risponde  alle  tre  età  dell'uomo.  Neil'  in- 
fanzia ebbe  i  re  :  adulta,  e  rettasi  a  popolo,  con  geste 
maravigliose,  una  serie  di  miracoh  che  attestano  la  sua 
missione  provvidenziale,  si  apparecchiò  alla  età  virile, 
ordinandosi  a  monarchia  sotto  Augusto,  che  san  Tom- 
maso chiama  Vicario  di  Cristo,  e  che  Dante,  seguendo 
la  tradizione  virgiliana,  dice  discendente  da  Enea  fonda- 
tore dell'impero,  per  disegno  divino.  E  fu  a  quel  tempo 
che  nacque  Cristo,  e  fu  suddito  dell'  impero  e  compi 
r  opera  della  redenzione  delle  anime  ,  mentre  Augusto 
componeva  il  mondo  in  perfetta  pace. 

Da  queste  premesse  storiche  Dante  conchiude  che  Roma 
per  dritto  divino  dee  essere  la  capitale  del  mondo,  e  che 
giustizia  e  pace  non  può  venire  in  terra  se  non  con  la 
ristaurazione  dell'  impero  romano,  la  monarchia  prede- 
stinata, di  cui  la  più  bella  parte,  il  giardino,  era  l' Italia. 

In  apparenza,  questo  era  un  ritorno  al  passato,  ma  ci 
era  in  germe  tutto  l'avvenire  :  ci  era  l' affrancamento  dai 
laicato  ,  e  1'  avviamento  a  più  larghe  unità.  I  guelfi  si 
tenevano  chiusi  nel  loro  comune;  ma  qui  al  di  là  del 
comune  vedi  la  nazione,  e  al  di  là  della  nazione  l' uma- 
nità, la  confederazione  delle  nazioni.  Era  un'  utopia  che 
segnava  la  via  della  storia. 

Guelfi  e  ghibellini  aveano  comune  le  persuasione  che 
la  società  era  corrotta  e  disordinata ,  e  chiedevano  il 
paciere.  La  selva,  immagine  della  corruzione,  è  un  punto 
di  partenza  comune  a  Brunetto  guelfo,  e  a  Dante  ghi- 


—  145  -^ 

bellino.  I  gnelfì  chiamavano  paciere  nelle  loro  discordie 
un  legato  del  Papa,  come  Carlo  di  Valois,  che  giostrò 
con  la  lancia  di  Giuda,  come  dice  Dante.  I  ghibellini 
invocavano  l'imperatore.  E  credesi  che  Dante  abbia  scritto 
questo  trattato  per  agevolare  la  via  all'Imperatore  Ar- 
rigo VII ,  di  Lucemburgo,  sceso  a  pacificare  V  Italia ,  e 
morto  al  principio  dell'  impresa,  glorificato  da  Dante,  ce- 
lebrato da  Mussato,  lacrimato  da  Gino.  Non  avevano  an- 
cora imparato  e  guelfi  e  ghibellini,  che  chiamar  pacieri 
è  mettersi  a  discrezione  altrui,  e  che  metter  l'ordine  e 
salvar  la  società  dalle  fazioni  è  antico  pretesto  di  tutt'i 
conquistatori. 

Dante  scrisse  lettere  anche  in  latino.  Una  ne  scrisse 
appunto  ad  Arrigo  nella  sua  venuta.  Raccogliendo  in- 
sieme le  sue  opere  latine,  di  cui  la  più  originale  è  quella 
De  vulgari  eloquio,  e  unendovi  il  Convito,  si  può  avere 
un  giusto  concetto  del  suo  lavoro  intellettuale. 

Era  uomo  dottissimo,  ma  non  era  un  filosofo.  Nò  la 
filosofia  fu  la  sua  vocazione ,  lo  scopo  a  cui  volgesse 
tutte  le  forze  dello  spirito.  Fu  per  lui  un  dato,  un  punto 
di  partenza.  L'  accettò  come  gli  veniva  dalla  scuola ,  e 
ne  acquistò  una  piena  notizia.  Seppe  tutto,  ma  in  nes- 
suna cosa  lasciò  un'orma  del  suo  pensiero,  posto  il  suo 
studio  meno  in  esaminare  che  in  imparare.  Accoglie  qual- 
siasi opinione  anche  più  assurda,  e  gran  parte  degli  er- 
rori e  de'  pregiudizi  di  quel  tempo.  Cita  con  uguale  rive- 
renza Cicerone  e  Boezio,  Livio  e  Paolo  Orosio,  scrittori 
pagani  e  cristiani.  La  citazione  è  un  argomento.  Il  suo 
filosofare  ha  i  difetti  dell'età.  Dimostra  tutto,  anche  quello 
che  non  è  controverso  ;  dà  pari  importanza  a  tutte  le  qui- 
stioni.  Ammassa  argomenti  di  ogni  qualità,  anche  i  più 
puerili  ;  spesso  non  vede  la  sostanza  della  quìstione ,  e 
si  perde  in  minuterie  e  sottigliezze.  Aggiungi  il  gergo 
scolastico  e  le  infinite  distinzioni.  Pure  se  fra  tanti  viot- 
toli ti  regge  ire  sino  alla  fine ,  troverai  nella  sua  Mo- 

De  Sanotis  —  Lett   Ttal.  Voi.  I.  10 


—  146  — 

narrliia  un*  ampiezza  ed  unità  di  disegno  ed  una  concér- 
danza  di  parti,  cìie  ti  fa  indovinare  il  grande  architetto 
deli'  altro  mondo. 

1  difetti  delle  opere  latine  sono  comuni  al  Convito,  e 
gì'  intralciano  lo  stile,  e  gì'  impediscono  queir  andamento 
naturale  e  piano  del  discorso,  che  potea  renderlo  acces- 
sibile agi'  illetterati,  a'  quali  era  destinato.  La  sua  teo- 
ria della  hngua  illustre  lo  allontana  da  quello  andare  soave 
e  semplice  della  prosa  volgare,  e  quando  gli  altri  vol- 
garizzano il  latino,  egli  latinizza  il  volgare,  cercando  no- 
biltà e  maestà  nelle  perifrasi,  ne' contorcimenti  e  nelle 
inversioni.  Usa  una  lingua  ibrida,  non  itaUana  e  non  la- 
tina, spogliata  di  tutte  le  movenze  e  attitudini  vivaci  del 
dialetto,  e  lontana  da  quella  dignità  e  misura,  che  am- 
mira nel  latino,  e  a  cui  tende  con  visibile  e  infelice  sforzo. 
Se  la  natura  gli  avesse  concesso  un  più  squisito  senso 
artistico,  avrebbe  forse  potuto  essere  fondatore  della 
prosa.  Ma  gU  manca  la  grazia,  e  senti  la  rozzezza  nello 
sforzo  della  eleganza.  Salvo  qualche  raro  intervallo,  che 
la  passione  lo  scalda  e  lo  fa  eloquente  ,  la  sua  prosa  , 
come  la  sua  lirica,  fa  desiderare  1'  artista. 

Vocazione  di  Dante  non  fu  la  filosofia,  e  non  fu  la  prosa. 
Quello  eh'  egli  cercava,  non  potè  realizzarlo  come  scienza 
e  come  prosa. 

Che  cerchi?  gh domandò  un  frate.  Rispose:  Pace. E  que- 
sto cercavano  tutt'i  contemporanei.  Pace  era  concordia  del 
regno  terrestre  col  regno  celeste,  dell'anima  con  Dio,  il  re- 
gno di  Dio  sulla  terra.  Advemat  regnum  tuum.  Pace  ve- 
ra quaggiù  non  può  essere;  vera  pace  è  in  Dio,  nel  mondo 
celeste  ;  Beatrice  morendo  parea  che  dicesse  :  Io  sono  in 
pace.  La  vita  è  una  prova,  un  tirocinio,  per  accostarsi 
quanto  si  può  all'  ideale  celeste,  e  meritarsi  l'eterna  pace. 

Lo  scopo  della  vita  è  la  salvazione  dell'  anima,  la  pace 
dell*  anima  nel  mondo  celeste.  Vivere  è  morire  alla  terra 
per  vivere  in  cielo.  La  vita  è  la  storia  dell'  anima,  è  un 


—  147  - 

tìftslero.  Uscita  pura  dalle  mani  di  Dio  che  la  vagheg- 
gia, è  sottoposta  quaggiù  al  male  e  al  dolore,  e  non  può 
tornare  nella  patria,  che  purificata  di  ogni  macula  ter- 
restre. Per  giungere  a  pace  bisogn  a  passare  per  tre  gradi, 
personificati  ne'  tre  esseri,  Umano,  Spoglia  e  Rinnova, 
€  a*  quali  rispondono  i  tre  mondi,  inferno,  purgatorio  e 
paradiso.  Il  mistero  e  la  storia  finisce  al  primo  grado, 
quando  1'  anima  sopraffatta  dall'  umano  e  vinta  nella  sua 
battaglia  col  demonio ,  viene  in  potere  di  questo ,  è  la 
tragedia  dell'anima,  la  tragedia  di  Fausto,  prima  che 
Goethe,  ispirato  da  Dante,  lo  avesse  riscattato.  Ma  quando 
r  anima  vince  le  tentazioni  del  demonio,  e  si  spoglia  e 
si  purga  dell'  umano,  hai  la  sua  glorificazione  nell'eterna 
pace  :  hai  b  commedia  dell'  anima.  Questo  è  il  mistero, 
ora  tragedia,  ora  commedia,  secondo  che  prevale  l'umano 
o  il  divino,  il  terrestre  o  il  celeste,  che  giace  in  fondo 
a  tutte  le  rappresentazioni  e  a  tutte  le  leggende  di  guel- 
r  età.  Messo  in  iscena  era  detto  rappresentazione  ;  nar- 
rato era  leggenda  o  vita  ;  esposto  in  figura,  era  allego- 
ria ;  rappresentato  in  modo  diretto  e  immediato,  era  visio- 
ne; anzi  le  due  forme  si  compenetravano,  e  spesso  l'allego- 
ria era  una  visione,  e  la  visione  era  allegoria.  Allego- 
rie, visioni,  leggende,  rappresentazioni  erano  diverse  for- 
me di  questo  mistero  dell'  anima,  del  quale  i  teologi  erano 
i  filosofi,  e  i  predicatori  erano  gli  oratori,  che  aggiun- 
gevano spesso  alla  dottrina  1'  esempio,  qualche  leggenda 
0  visione,  com'  è  nello  Specchio  di  vera  penitenza. 

Il  mistero  dell'  anima  era  in  fondo  tutta  una  metafi- 
sica religiosa,  che  comprendeva  i  più  delicati  e  sostan- 
ziali problemi  della  vita ,  e  produceva  una  civiltà  a  so 
conforme.  Ci  entrava  l' individuo  e  la  società,  la  filoso- 
fia e  la  letteratura. 

La  letteratura  volgare  in  senso  prettamente  religioso  si 
stende  per  due  secoU  da  Francesco  di  Assisi  e  Jacoponesino 
a  Caterina.  L'allegoria  dell'  anima,  la  rappresentazione  del 


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g'ovane  monaco,  T Introduzione  alle  virtù,  la  Commedia 
dell'anima  sono  in  forma  letteraria  la  teoria  di  questo 
mistero,  che  nelle  lettere  di  Caterina  raggiunge  la  sua 
perfezione  dottrinale,  ed  acquista  la  sua  individuazione 
0  realtà  storica  ne'  Fioretti,  nelle  leggende,  e  nelle  vi- 
sioni del  Cavalca  e  del  Passavanti. 

Ma  questa  letteratura  era  senza  eco  nella  classe  coita 
da  cui  esce  l'impulso  della  vita  intellettuale.  Dante  spre- 
giava il  latino  della  Bibbia,  come  privo  di  dolcezza  e  di 
armonia.  Quello  scrivere  così  alla  buona  e  come  si  parla 
era  tenuto  barbarie  o  rozzezza.  Vagheggiavano  una  for- 
ma di  dire  illustre  e  nobile,  prossima  alla  maestà  del 
latino,  della  quale  Dante  die  nel  Convito  un  saggio  poco 
felice.  Né  potea  piacere  quella  semphcità  di  ragionamento 
con  tanta  scarsezza  di  dottrina  ad  uomini  che  uscivano 
dalle  scuole  con  tanta  filosofia  in  capo,  con  tanta  eru- 
dizione sacra  e  profana.  Ma  se  avevano  in  poco  conto 
quella  letteratura,  giudicata  povera  e  rozza,  non  era  di- 
verso il  concetto  che  essi  avevano  della  vita.  I  teologi 
filosofavano  e  i  filosofi  teologizzavano.  La  rivelazione  ri- 
maneva integra  nelle  sue  basi  essenziali,  ammesse  come 
assiomi  indiscutibiH.  Tali  erano  1'  unità  e  personalità  di 
Dio,  r  immortalità  dello  spirito,  e  lo  scopo  della  vita  ol- 
tre terreno. 

Ma  se  il  concetto  era  lo  stesso ,  la  materia  era  più 
ampia,  abbracciando  la  coltura,  oltre  la  Bibbia  e  i  Santi 
Padri,  quanto  del  mondo  antico  era  noto,  e  la  forma  era 
più  libera ,  paganizzando  sotto  lo  scudo  dell'allegoria,  e 
voltando  il  hnguaggio  cristiano  nelle  formole  di  Aristo- 
tile e  Platone. 

Il  regno  di  Dio  chiamavano  regno  della  filosofia.  E 
realizzare  il  regno  di  Dio  era  conformare  il  mondo  ai 
dettati  della  filosofia,  unificare  intelletto  è  atto.  Il  me- 
diatore era  l'Amore,  principio  delle  cose  divine  e  umane, 
e  non  l'amore  sensuale,  ch'era  peccato,  ma  un  amore 


—  149  — 

intellettuale,  l'amore  della  filosofia.  Il  frutto  dell'  amore  è 
la  sapienza ,  che  non  è  puro  intelletto  ,  ma  intelletto  e 
atto  congiunti ,  la  virtù.  Il  regno  di  Dio  in  terra  era 
dunque  il  regno  della  virtù,  o  come  dicevano,  della  giu- 
stizia e  della  pace.  A  realizzare  questo  regno  erano  istru- 
menti  i  due  Soli,  i  due  organi  di  Dio,  il  Papa  e  l'Im- 
peratore. La  politica  era  1'  arte  di  realizzare  questo  re- 
gno della  giustizia  e  della  pace ,  rendendo  gli  uomini 
virtuosi  e  felici.  Il  criterio  politico  era  puramente  etico, 
come  s'  è  visto  in  Albertano  Giudice^  in  Egidio  Colonna  , 
in  Mussato,  in  Dino  Compagni.  All'  afifettuazione  di  que- 
sto regno  etico  concorreva  la  tradizione  virgiliana;  per- 
chè Virgilio  era  un  testo  non  meno  rispettabile  che  la 
Bibbia.  E  si  attendeva  la  monarchia  predestinata  da  Dio, 
la  ristorazione  dell'  impero  romano. 

In  questi  due  secoli  abbiamo  due  letterature  quasi  pa- 
rallele, e  persistenti  l' una  accanto  all'  altra,  una  schiet- 
tamente religiosa,  chiusa  nella  vita  contemplativa,  cir- 
coscritta alla  Bibbia  e  a'  Santi  Padri,  e  che  ha  per  risul- 
tato inni  e  cantici  e  laude,  rappresentazioni ,  leggende, 
visioni,  e  1'  altra  che  vi  tira  entro  tutto  lo  scibile  e  lo 
riduce  a  sistema  filosofico,  e  abbraccia  varii  aspetti  della 
vita,  e  dà  per  risultato  somme,  enciclopedie,  trattati,  cro- 
nache e  storie,  sonetti  e  canzoni.  Tra  queste  due  lettera- 
ture erra  la  novella  e  il  romanzo,  eco  della  cavalleria, 
rimasti  senza  seguito,  e  senza  sviluppo,  quasi  cosa  pro- 
fana e  frivola. 

GU  uomini  istrutti  si  studiavano  di  render  popolare  la 
cultura,  specialmente  nella  sua  parte  più  accessibile  e 
pratica,  l'etica  e  la  morale.  Indi  le  tante  versioni  e 
raccolte  di  precetti  etici  sotto  nomi  di  Fiori ,  Giardini, 
Tesori ,  Ammaestramenti.  Un  tentativo  di  questo  ge- 
nere fu  il  Tesoretto. 

Nella  prima  parte  della  Lirica  dantesca  hai  la  storia 
ideale  della  Santa,  nella  sua  purezza  soppresso  il  demo- 


—  150  — 

nio  e  le  tentazioni  della  carne.  È  il  mistero  dell'  anima 
cosi  come  è  rappresentato  nella  Commedia  dell' anima. 
L'  anima  che  uscita  pura  dalle  mani  di  Dio ,  dopo  breve 
pellegrinaggio  ritorna  in  cielo  bellezza  spirituale^  o  luce 
intellettuale,  è  Beatrice,  e  Beatrice  è  la  Santa  della  gente 
colta,  è  la  Donna  platonica  e  innominata  de'  poeti  bat- 
tezzata e  santificata. 

Nella  seconda  parte  Beatrice  è  la  filosofìa,  che  riceve 
la  sua  esplicazione  dottrinale  nelle  Canzoni  e  nel  Con- 
vito. La  poesia  va  a  metter  capo  nella  pura  scienza,  nel- 
r  esposizione  scolastica  di  un  mondo  morale,  dell'Etica. 

La  letteratura  popolare  va  a  finire  nelle  lettere  dottrinali, 
e  monotone  di  Caterina  ;  il  suo  difetto  ingenito  è  1'  astra- 
zione dell'ascetismo.  La  letteratura  dotta  va  a  finire  nelle 
sottigliezze  scolastiche  del  Convito  ;  il  suo  difetto  intrin- 
seco è  r  astrazione  della  scienza.  Tutte  e  due  hanno  una 
malattia  comune,  1'  astrazione,  e  la  sua  conseguenza  let- 
teraria, r  allegoria. 

Ma  il  mondo  di  Dante  non  pò  tea  rimaner  chiuso  in 
questi  limiti,  o  piuttosto  non  era  questo  il  suo  mondo 
naturale  e  geniale,  conforme  alle  qualità  del  suo  spirito 
e  del  suo  genio,  e  ci  sta  a  disagio.  La  sua  forza  non  è 
r  ardore  della  ricerca  e  della  investigazione,  che  è  il  ge- 
nio degli  spinti  speculativi.  La  scienza  è  per  lui  un  dom- 
ma,  il  cervello  rimane  passivo  in  quelle  scolastiche  espo- 
sizioni. Avea  troppa  immaginazione,  perchè  potesse  ri- 
maner neir  astratto,  e  studia  più  a  figurarlo  e  colorirlo, 
che  a  discuterlo  e  interrogarlo.  La  fantasia  creatrice,  il 
vivo  sentimento  della  realtà,  le  passioni  ardenti  del  pa- 
triota disingannato  e  ofi'eso,  le  ansietà  della  vita  pub- 
blica e  privata,  non  poteano  avere  appagamento  in  quella 
regione  astratta  della  scienza  che  pur  gli  era  tanto  cara. 
Sentiva  il  bisogno  meno  di  esporre  che  di  realizzare.  E 
volle  realizzare  questo  regno  della  scienza  o  regno  di  Dio 
che  tutti  cercavano,  farne  un  mondo  vivente. 


—  151  — 

II  mondo  è  una  selva  oscura,  corrotto  dal  vizio  e  dal-r 
r  ignoranza.  Rimedio  è  la  scienza,  secondo  i  cui  prin- 
cipi! dovrebb'  esser  conformato.  La  scienza  è  il  mondo 
ideale,  non  qual  è,  ma  quale  dee  essere.  Questo  idealo 
si  trova  realizzato  nell'  altra  vita,  nel  regno  di  Dio  con- 
forme alla  verità  e  alla  giustizia.  Perciò  ad  uscir  dalla 
selva  non  ci  è  che  una  via ,  la  contemplazione  e  la  vi- 
sione dell'  altra  vita.  Per  questa  via  V  anima,  superate 
le  battaglie  del  senso,  e  purificatasi,  ha  la  sua  pace,  1» 
sua  eterna  Commedia,  la  beatitudine. 

Da  questo  concetto  semplice  e  popolare  usci  la  con- 
templazione 0  visione,  detta  la  Commedia,  rappresenta- 
zione allegorica  del  regno  di  Dio^  il  Mistero  dell'  anima 
0  la  Commedia  dell'anima. 

VII. 

LA    COMMEDIA. 

Chi  mi  ha  seguito,  vede  che  la  divina  Commedia  non 
è  un  concetto  nuovo,  né  originale,  né  straordinario,  sorto 
nel  cervello  di  Dante  e  lanciato  in  mezzo  a  un  mondo 
maravigliato.  Anzi  il  suo  pregio  è  di  essere  il  concetto 
di  tutti,  il  pensiero  che  giaceva  in  fondo  a  tutte  le  for- 
me letterarie,  rappresentazioni,  leggende,  visioni,  Trat- 
tati, Tesori,  Giardini,  sonetti  e  canzoni.  L'  allegoria  del- 
l' anima  e  la  Conimedia  dell'  anima  sono  gli  schizzi,  le 
categorie,  i  lineamenti  generali  di  questo  concetto. 

Nel  Convito  la  sostanza  è  l' Etica,  che  Dante  cerca  di 
rendere  accessibile  agl'illetterati,  esponendola  in  prosa 
volgare.  Qui  il  problema  è'  rovesciato.  La  sostanza  sono 
le  tradizioni  e  le  forme  popolari  rannodate  intorno  al  Mi- 
stero dell'anima,  il  concetto  di  tutt'  i  misteri  e  di  tutte  le 
leggende,  ed  è  in  questo  quadro  che  Dante  gitta  tutta  la  col- 
tura di  quel  tempo.  Con  questa  felice  ispirazione,  pigliando 


—  152  — 

a  base  della  coltura  le  tradizioni  e  le  forme  popolari, 
riunisce  le  due  letterature,  che  si  contendevano  il  campo, 
intorno  al  comune  concetto  che  la  ispirava ,  il  mistero 
dell'  anima.  La  rappresentazione  e  la  leggenda  esce  dalla 
sua  rozza  volgarità  e  si  alza  a'  più  alti  concepimenti  della 
scienza;  la  scienza  esce  dal  santuario  e  si  fa  popolo,  si 
fa  mistero  e  leggenda.  Indi  l' immensa  popolarità  di  que- 
sto libro  che  gì'  illetterati  accettavano  nel  senso  lette- 
rale, e  i  dotti  cementavano  come  un  libro  di  scienza, 
come  la  Somma  di  san  Tommaso.  Il  popolo  vedeva  in 
quei  versi  quel  medesimo  che  sentiva  nelle  prediche, 
nelle  divozioni  e  rappresentazioni,  né  meraviglia  che  qual- 
cuno guardando  Dante  con  quella  faccia  pensosa  e  come 
alienata,  dicesse  :  Costui  par  veramente  uscito  ora  dal- 
li' Inferno.  Gli  eruditi  si  affannavano  a  cercare  il  senso 
de'  versi  strani,  e  il  Boccaccio  iniziava  quella  serie  di 
cementi  che  spesso  in  luogo  di  squarciare  il  velo  lo  fanno 
più  denso. 

In  ejBfetti  la  divina  Commedia  è  una  visione  dell'altro 
mondo  allegorica.  Cristianamente,  la  visione  e  la  con- 
templazione dell'altra  vita  è  il  dovere  del  credente,  la 
perfezione.  11  santo  vive  in  ispirito  nell'altro  mondo;  le 
sue  estasi,  le  sue  visioni  si  riferiscono  alla  seconda  vita^ 
a  cui  sospira.  Dante  accetta  questa  base  ascetica,  po- 
polarissima :  contemplare  e  vedere  1'  altro  mondo  è  la 
via  della  salvazione.  Per  campare  dalla  selva  del  vizio  e 
dell'  ignoranza,  egli  si  getta  alla  vita  contemplativa,  vede 
in  ispirito  l' altro  mondo  e  narra  quello  che  vede.  Que- 
sto è  il  motivo  ordinario  di  tutte  le  visioni,  è  la  storia 
di  tutt'  i  santi,  è  il  tema  di  tutt'  i  predicatori,  è  la  let- 
tera della  Commedia,  visione  dell'  altro  mondo,  come  via 
a  salute.  Ma  la  visione  è  allegoria.  L'altro  mondo  è  al- 
legoria e  immagine  di  questo  mondo,  è  in  fondo  la  sto- 
iTia  0  il  mistero  dell'  anima  ne'  suoi  tre  stati,  detti  nella 
Allegoria  dell'  anima  Umano,  Spoglia,  Rinnova,  che  ri- 


—  153  — 

spendono  a'  tre  raondi^  Inferno,  Purgai  orlo  e  Paradiso. 
È  r  anima  intenebrata  dal  senso,  nello  stato  puramente 
umano,  che  spogliandosi  e  mondandosi  della  carne  si  rin- 
nova, ritorna  pura  e  divina.  Questa  allegoria  era  popo- 
lare e  comune  non  meno  che  la  lettera.  Ciascuno  vedeva 
un  po'  r  altro  mondo  con  1'  occhio  di  questo  mondo,  con 
le  sue  passioni  e  interessi.  I  predicatori,  sopratutto  nella 
descrizione  delle  pene  infernali,  cercavano  immagini  delle 
passioni  terrene.  Il  mistero  dell' an  ima  era  la  base  di  tutt 
le  invenzioni,  la  leggenda  delle  leggende.  L'  uomo,  ca- 
duto neir  errore  e  nella  miseria,  che  finisce  o  vendendo 
l'anima  al  demonio,  o  purgandosi  e  salvandosi,  era  il 
fondamento  di  tutte  le  storie  pop  olari ,  come  s'  è  visto 
neir  Introduzione  alle  Virtù  e  nella  Commedia  dell'anima. 
La  Commedia  delV  anima  è  l' an  ima  uscita  dalle  mani 
di  Dio  pura,  che  in  terra  combatte  le  sue  battaglie  con 
la  carne  e  col  demonio,  e  vince  assis  tita  dalla  grazia  di 
Dio.  Vizi  e  Virtù  combattono ,  come  gli  Dei  di  Omero, 
intorno  all'  anima  ;  le  Virtù  vincono  e  1'  anima  è  salva. 
Neil'  Introduzione  alle  Viriii  è  un  giovane  caduto  in 
miseria,  a  cui  apparisce  confortai  ri  ce  la  Filosofia,  sua 
maestra  e  signora,  e  gli  mostra  la  battaglia  de'  Vizi  e 
delle  Virtù;  e  il  giovane,  spregiando  i  beni  terrestri,  si 
leva  al  cielo.  La  filosofia  è  anche  la  divina  consolatrice 
di  Boezio,  così  popolare,  e  di  Dante  a  cui  dopo  la  morte 
di  Beatrice  apparve  questa  nobilissima  figlia  dell'  Impe- 
ratore dell'  universo,  facendolo  suo  amico  servo.  Il  vi- 
zio e  r  ignoranza,  la  conversione  per  opera  di  Dìo  o  della 
filosofia,  la  redenzione  e.  beatificazione,  visione  di  Dio  e 
della  scienza,  era  il  luogo  comune  delle  due  letterature, 
de'  semplici  e  degli  uomini  colti .  E  Dante  fonde  insieme 
le  due  f)rme,  e  tira  nella  sua  allegoria  filosofia  e  teo- 
logia, ragione  e  grazia,  Dio  e  Scienza,  e  fa  un  mondo 
armonico,  assegnando  a  ciascuno  il  suo  luogo.  L'  anima 
neir  inferno  e  nel  purgatorio,  non  essendo  uscita  ancora 


—  154  — 

dal  terreno,  ha  guida  il  lume  naturale,  la  Ragione  o  la 
Filosofia;  ma  la  ragione  è  insufficiente  senza  la  grazia 
di  Dio:  fatta  libera  o  monda  o  leggiera,  ha  nel  para- 
diso maestra  la  grazia  o  la  teologia,  luce  intellettuale, 
che  le  mostra  la  scienza  senza  velo,  o  Dio  nella  sua  es- 
senza. 

Perchè  V  altro  mondo  è  allegorico,  figura  dell'  anima 
nella  sua  storia,  il  poeta  è  sciolto  da'  vincoli  liturgici  e 
religiosi  e  spazia  nel  mondo  libero  dell'  immaginazione. 
Prendendo  a  base  le  tradizioni  e  le  forme  cristiane,  adope- 
ra alla  sua  costruzione  tutt'  i  materiali  della  scienza,  sacra 
e  profana,  e  le  tradizioni  e  favole  del  mondo  pagano,  me- 
scolando insieme  Enea  e  san  Paolo,  Caronte  e  Lucifero, 
figure  classiche  e  cristiane.  Cosi  ha  realizzato  quel  mondo 
universale  della  coltura,  tanto  desiderato  dalle  classi  colte 
e  fino  allora  tentato  invano,  cristiano  nel  suo  spirito  e 
nella  sua  letteratura,  ma  dove  già  penetra  da  tutte  le 
parti  il  mondo  antico.  M*'SColanza  che  in  molti  contem- 
poranei pare  strana  e  grottesca,  legittimata  qui  dall'  al- 
legoria, che  concede  al  poeta  libertà  di  forme ,  eh'  egli 
creda  più  acconce  a  significare  i  suoi  concetti.  Il  mondo 
pagano  e  la  scienza  profana  sono  qui  materiali  di  co- 
struzione, usati  a  edificare  un  tempio  cristiano,  a  quel 
modo  che  colonne  egizie  e  greche  si  veggono  talora  nelle 
costruzioni  moderne  divenire  simbolo  e  figure  de'  nuovi 
tempi  e  delle  nuove  idee.  Così  a  questa  costruzione  gi- 
gantesca prendon  parte  tutte  le  età  e  tutte  le  forme, 
fuse  insieme  e  battezzate,  penetrate  da  un  solo  concetto, 
il  concetto  cristiano. 

L'  ordito  è  semplicissimo  :  è  la  storia  o  mistero  del- 
l' anima  nella  sua  espressione  elementare,  come  si  trova 
nella  rappresentazione  della  Commedia  dell'anima  ;  e  l'hai 
già  tutta  e  chiara  innanzi  fin  dal  primo  canto,  Dante  nel 
giorno  del  Giubileo  ,  quando  Bonifazio  facea  mostra  di 
tutta  la  sua  possanza,  il  mondo  cristiano  si  raccoglieva 


—  155  — 

intorno  a  lui,  si  trova  smarrito  in  una  selva  oscura,  e 
sta  per  soggiacere  all'assalto  delle  passioni,  figurate  nella 
lonza,  il  leone  e  la  lupa,  quando  a  camparlo  dal  luogo 
selvaggio  esce  Virgilio,  e  lo  mena  seco  a  contemplare 
r  inferno  e  il  purgatorio,  ove,  confessati  i  suoi  falli,  gui- 
dato da  Beatrice,  sale  in  Paradiso  e  di  luce  in  luce  giunge 
alla  faccia  di  Dio.  Allegoricamente,  Dante  è  1'  anima,  Vir- 
gilio è  la  Ragione,  Beatrice  è  la  Grazia,  e  l'altro  mondo 
è  questo  mondo  stesso  nel  suo  aspetto  etico  e  morale, 
è  r  Etica  realizzata,  questo  mondo  quale  dee  essere  se- 
condo i  dettati  della  filosofia  e  della  morale ,  il  mondo 
della  giustizia  e  della  pace,  il  regno  di  Dio. 

Dante  è  1'  anima  non  solo  come  individuo,  ma  comò 
essere  collettivo,  come  società  umana,  o  umanità.  Como 
r  individuo,  così  la  società  è  corrotta  e  discorde,  e  non 
può  aver  pace  se  non  instaurando  il  regno  della  giu- 
stizia 0  della  legge  ,  riducendosi  dall'  arbitrio  dei  molti 
sotto  uiiico  moderatore.  E  qui  entra  la  tradizione  virgi- 
liana: la  monarchia  prestabilita  da  Dio,  fondata  da  Au- 
gusto, dihvjendente  di  Enea,  e  Roma  per  diritto  divino 
capo  del  mondo.  Questo  concetto  politico  non  è  in- 
truso e  soprapposto,  ma  è,  come  si  vede,  lo  stesso  con- 
cetto etico,  applicato  all'  individuo  e  alla  società. 

È  tale  la  medesimezza  che  la  stessa  allegoria  si  può 
interpretare  in  un  senso  puramente  etico,  per  rispetto 
air  individuo,  e*  in  un  senso  poUtico,  per  rispetto  alla  so- 
cietà. E  non  è  perciò  maraviglia  che  la  stessa  materia  si 
presti  con  tanta  docilità  alle  più  diverse  interpretazioni. 

Se  r  allegoria  ha  reso  possibile  a  Dante  una  illimi- 
tata libertà  di  forme,  gli  rende  d'altra  parte  impossibile  la 
loro  formazione  artistica.  Dovendo  la  figura  rappresen- 
tare il  figurato  ,  non  può  essere  persona  libera  e  indi- 
pendente, come  richiede  1'  arte ,  ma  semplice  personifi- 
cazione 0  segno  d' idea,  sicché  non  contenga  se  non  i  trat- 
ti soli  che  hanno  relazione  all'  idea,  a  quel  modo  che  il  vero 


—  156  — 

paragone  non  esprime  di  sé  stesso  se  non  quello  solo  che 
sia  immagine  della  cosa  paragonata.  L'  allegoria  dunque 
allarga  il  mondo  dantesco,  e  insieme  lo  uccide,  gli  toglie 
!a  vita  propria  e  personale ,  ne  fa  il  segno  o  la  cifra  di 
un  concetto  a  sé  estrinseco.  Hai  due  realtà  distinte,  l'una 
fuori  dell'  altra,  V  una  figura  e  adombramento  dell'altra, 
perciò  amen^ue  incompiute  e  astratte.  La  figura,  dovendo 
significare  non  sé  stessa,  ma  un  altro,  non  ha  niente  di 
organico ,  e  diviene  un  accozzamento  meccanico  mostruo- 
so, il  cui  significato  è  fuori  di  sé,  com'  è  il  Grifone  del 
Purgatorio,  1'  Aquila  del  Paradiso,  e  il  Lucifero  e  Dante 
<ìon  le  sette  P  incise  sulla  fronte. 

La  poesia  non  s'  era  ancora  potuta  scioghere  dalla  al- 
legoria. Il  cristianesimo  in  nome  del  Dio  spirituale  facea 
guerr  i  non  solo  agi'  idoU,  ma  anche  alla  poesia,  tenuta 
lenocinlo  e  artifizio:  voleva  la  nuda  verità.  E  verità  era 
filosofia  0  storia:  la  verità  poetica  non  era  compresa.  La 
poesia  era  stimata  un  tessuto  di  menzogne,  e  poeta  e 
mentitore,  come  dice  il  Boccaccio,  eri  la  stessa  cosa;  i 
versi  erano  chiamati,  come  dice  san  Girolamo,  cibo  del 
diavolo.  La  poesia  perciò  non  fu  accettata  se  non  come 
simbolo  e  veste  del  vero:  l'allegoria  fu  una  specie  di  sal- 
vacondotto, pel  quale  potè  riapparire  fra  gli  uomini.  Erano 
detti  poeti  solenni,  a  distinzione  de'  popolari,  i  dotti  che 
esprimevano  in  poesia  la  dottrina  sotto  figura,  o  in  forma 
diretta.  Dante  finisce  la  poesia  banditrice  del  vero,  sotto 
il  velame  della  favola  ascoso,  di  modo  che  il  lettore 
solto  alla  dura  corteccia,  sotto  favoloso  e  ornato  par- 
lare trovi  salutari  e  dolcissimi  ammaestramenti.  La 
poesia  è  in  sé  una  bella  menzogna,  che  non  ha  alcun 
valore,  se  non  come  figura  del  vero. 

Con  questa  falsa  poetica,  di  cui  abbiamo  visto  l'in- 
fluenza de'  nostri  lirici,  Dante  lavora  sopra  idee  astratte; 
trova  una  serie  di  concetti,  e  poi  ti  forma  una  serie  cor- 
rispondente di  oggetti.  Le  menti  erano  assuefatte  a  que- 


—  157  — 

sto  processo,  a  correre  al  generale.  Il  campo  ordinano 
della  filosofia  scolastica  era  1'  Ente  con  tutte  le  altre  ge- 
neralità, e  la  pratica  del  sillogismo  avea  avvezzi  tutti, 
anche  i  poeti,  a  cercare  in  ogni  cosa  la  maggiore,  la 
Proposizione  generale.  Ora  quel  mondo  di  concetti  è  la 
maggiore  dell'  altro  mondo. 

Quali  sieno  questi  concetti,  io  dirò,  quasi  con  le  stesse 
parole  di  Dante: 

La  patria  dell*  anima  è  il  cielo,  e  come  dice  Dante,  di- 
scende in  noi  da  altissimo  abitacolo.  Essa  partecipa  della 
natura  divina. 

L'  anima  uscendo  dalle  mani  di  Dio,  è  semplicetta,  sa 
nulla;  ma  ha  due  facoltà  innate,  la  ragione  e  T  appetito, 
la  virtù  che  consiglia,  e  l'esser  mobile  ad  ogni  cosa  che 
piace,  V  esser  presta  ad  amare  ^ 

L'  appetito  (affetto,  amore)  la  tira  verso  il  bene  *.  Ma 
nella  sua  ignoranza  non  sa  discernere  il  bene,  segue  la 
sua  falsa  immagine,  e  s'inganna.  LMgnoranza  genera  l'er- 
rore, e  r  errore  genera  il  male  *. 

Il  male  o  il  peccato  è  posto  nella  materia,  nel  piacere 
sensuale  ^. 

Il  bene  è  posto  nello  spirito,  il  sommo  Bene  è  Dio,  puro 
spirito  *. 

L'uomo  dunque  per  esser  felice,  dee  contrastare  alla 
carne,  e  accostarsi  al  sommo  Bene ,  a  Dio.  A  questo  fine 


Esce  di  mano  a  lui  che  la  vagheggia 
L'anima  semplicetta  che  sa  nulla...  (Purg.  XVI) 
Innata  yi  è  la  virtù  che  consiglia... 
L'  anima  eh'  è  creata,  ad  amar  presta. 
Ad  ogni  cosa  è  mobile  che  piace.  (Pnrg.  XVIII) 

2  Ciascun  confusamente  un  bene  appreude.  (Porg.  XVII) 

3  Immagini  di  ben  seguendo  false.  (Purg.  XXX) 

4  Re  {wesenti  cose 

Col  falso  lor  piacer  volser  miei  passi.  (P«rg.  XXXI) 

5  Solo  il  peccato  è  quel  che  la  disfranca 

E  falla  dissimile  al  sommo  Bene.  (Par.  VII). 


—  158  — 

gli  è  stata  data  la  ragione  come  consigliera:  indi  nasce 
il  suo  libero  arbitrio  e  la  moralità  delle  sue  azioni  ^ 

La  ragione  per  mezzo  della  filosofìa  ci  dà  la  cono- 
scenza del  bene  e  del  male.  Lo  studio  della  filosofìa  è 
perciò  un  dovere,  è  via  al  bene,  alla  moralità.  La  mo- 
ralità è  la  bellezza  della  filosofia  (Convito)  :  è  1'  Etica, 
Regina  delle  Scienze,  il  primo  cielo  cristallino. 

A  filosofare  è  necessario  amore.  L'  amore  (appetito) 
può  esser  sementa  di  bene  e  di  male  secondo  l'oggetto 
a  cui  si  volge.  Il  falso  amore  è  appetito  non  cavalcato 
dalla  ragione.  Il  vero  amore  è  studio  della  filosofia  , 
unimento  spirituale  delV  anima  con  la  cosa  amata. 

Filosofia  à  amistanza  e  sapienza,  amicizia  dell'anima 
con  la  sapienza.  Nelle  nature  inferiori  l'amore  è  sensibile 
dilettazione.  Solo  l'uomo,  come  natura  razionale,  ha  amo- 
re alla  verità  e  alla  virtù  (alla  filosofia)  (Convito). 

Ciò  è  vera  felicità,  che  per  contemplazione  della  verità 
sì  acquista  (Convito). 

In  questi  concetti  si  trova  il  succo  della  morale  an- 
tica. Già  i  filosofi  pagani  aveano  mostrato  la  filosofia 
come  unico  porto  fra  le  tempeste  della  vita  ;  esser  filo- 
sofo significava  e  significa  anche  oggi  resistere  alle  pas- 
sioni ed  a'  piaceri,  vincer  se  stesso,  serbar  l' eguaglianza 
dell'  anima  nelle  umane  vicissitudini. 

Ma  ecco  ora  sopraggiungere  il  cristianesimo. 

L'  umanità  per  il  peccato  d'  origine  cadde  in  servitù 
dei  sensi  (del  male  o  del  peccato),  e  la  ragione  e  1'  a- 
more  non  furono  più  sufficienti  a  salvarla.  La  ragione 
andava  a  tentoni ,  e  menava  all'  errore  :  i  filosofi  an- 
davan  e  non  sapevan  dove,  l'amore  rimaso  senza  ret- 


Questo  è  il  principio,  là  onde  si  piglia 
Cagion  di  meritare  in  voi... 
CoJor  che  ragionando  andaro  al  fondo, 
S'  accorser  d'  està  innata  libertade, 
Però  moralità  lasciaro  al  mondo.  (Purg    XVIII). 


—  159  — 

tore  divenne  appetito  sensuale.  Era  necessaria  una  re- 
denzione soprannaturale.  Dio  si  fece  uomo  e  redense 
r  umanità  offrendosi  vittima  espiatoria  per  lei  (Par.  VII). 

Mediante  questo  sacrifìcio,  la  ragione  è  stata  a\«valo- 
rata  dalla  fede,  1'  amore  avvalorato  dalla  grazia,  la  filo- 
sofia è  stata  compiuta  dalla  teologia,  la  rivelazione. 

Redenta  1'  umanità  ciascun  uomo  ha  acquistato  la  virtù 
dì  salvarsi  con  l'aiuto  di  Dio.  Guidato  dalla  ragione  e 
dalla  fede,  fortificato  dall'amore  e  dalla  grazia,  può  afi'ran- 
carsi  da'  sensi  e  levarsi  di  mano  in  mano  sino  a  Dio,  al 
sommo  Bene. 

Questo  rammino  della  materia  o  del  peccato  sino  allo 
spirito  0  al  bene  comprende  tutto  il  circolo  della  morale 
o  etica.  La  conoscenza  della  morale  (naturale  e  rivelata, 
filosofia  e  teologia)  e  perciò  necessaria  a  salute. 

La  morale  è  il  Nosce  te  ipsum,  la  conoscenza  di  sé 
stesso.  L'  uomo  si  trova  in  questa  vita  in  uno  de'  tre 
stati,  di  cui  tratta  la  morale ,  stato  di  peccato,  stato  di 
pentimento,  stato  di  grazia. 

L'altro  mondo  è  figura  della  morale.  L'inferno  è  figura 
del  male  o  del  vizio  :  il  paradiso  è  figura  del  bene  o  della 
virtù;  il  Purgatorio  è  il  passaggio  dall'uno  all'  altro  stato 
mediante  il  pentimento  e  la  penitenza.  L'altro  mondo  è 
perciò  figura  de*  diversi  stati  ne'  quali  1'  uomo  si  trova 
in  questa  vita  ^ 

La  rappresentazione  dell'altro  mondo  è  dunque  un*e- 
tica  applicata,  una  storia  morale  dell'  uomo,  com'  egli  la 
trova  nella  sua  coscienza.  Ciascuno  ha  dentro  di  so  il 
suo  inferno  e  il  suo  paradiso. 

Il  viaggio  neir  altro  mondo  è  figura  dell'anima  nel  suo 
cammino  a  redenzione.  Ed  è  Dante  stesso  che  fa  questo 
viaggio. 


1  Poeta  agit  de  inferno  isto,  in  quo,  peregrinami  o  ut  viatores  mererl 
et  demereri  {lossamus  (Lettera  a  (Jan  Grande). 


—  160  — 

Si  trova  in  una  selva  oscura  (stato  d' ignoranza  e  di 
errore,  la  selva  erronea  del  Convito),  vede  il  dilettoso 
colle,  principio  e  cagione  di  tutta  gioja  (la  beatitudine), 
illuminata  dal  sole  che  mena  dritto  altrui  per  ogni  calle 
(la  Scienza),  ma  tre  fiere  (la  carne  ,  gli  appetiti  sensuali) 
gli  tengono  il  passo.  L'uomo  da  sé  non  può  salire  il  calle, 
non  può  giungere  a  salute;  viene  dunque  il  Deus  ex 
machina,  y  l'ajuto  soprannaturale.  Si  richiede  non  solo 
ragione,  ma  fede,  non  solo  amore,  ma  grazia.  Virgilio 
(ragione  e  amore)  lo  guida  insino  a  che  confesso  e  pen- 
tito e  purgato  d'  ogni  macula  terrena  succede  Beatrice 
(ragione  sublimata  a  fede,  amore  sublimato  a  grazia). 
Con  questo  ajuto  esce  dallo  stato  d' ignoranza  e  di  er- 
rore (la  selva),  e  prende  il  cammino  della  scienza  (l'al- 
tro mondo,  il  mondo  etico  e  morale).  Gli  si  affaccia  prima 
r  inferno  (l'anima  nello  stato  del  male)  e  conosce  il  male 
nella  sua  natura,  nelle  sue  specie,  ne'  suoi  effetti  (vedi 
canto  XI).  Entra  allora  in  purgatorio  (pentimento  ed  espia- 
zione), dove  ancor  Tive  la  memoria  e  l' istinto  del  male, 
e  conosciuto  il  suo  stato^  pentito  e  mondo,  diventa  libero 
(dalla  carne  o  dal  peccato).  Si  trova  allora  ricondotto 
allo  stato  d' innocenza ,  nel  quale  era  1'  uomo  avanti  il 
peccato  d'  origine,  e  vede  il  paradiso  terrestre,  e  vede 
Beatrice  (fede  e  grazia).  Con  la  sua  guida  sale  in  paradiso 
(!'  anima  nello  stato  di  beatitudine  )  di  grado  in  grado 
si  leva  sino  alla  conoscenza  e  amore  (contemplazione  bea- 
tifica) di  Dio,  del  sommo  Bene,  e  in  questa  mistica  con- 
giunzione dell'  umano  e  del  divino  si  riposa  (è  beato). 

La  redenzione  della  società  ha  luogo  nello  stesso  modo 
che  degl'  individui.  La  società  serva  della  materia  è  anar- 
chia, discordia,  sviata  dall'  ignoranza  e  dall'  errore.  E  co- 
me l'uomo  non  può  ire  a  pace,  se  non  vincala  carne  ed 
ubbidisca  alla  ragione,  così  la  società  non  può  ridursi  a 
concordia ,  se  non  presti  ubbidienza  ad  un  supremo  mo- 


—  161  — 

deratore  (l' imperatore)  che  faccia  regnare  la  legge  (la 
ragione),  guida  e  freno  dell'  appetito  ^ 

Con  questo  fondo  generale  si  lega  tutto  lo  scibile  di 
quel  tempo,  metafìsica,  morale,  politica,  storia,  fisica, 
astronomia  ec. 

Il  centro  intorno  a  cui  gira  questa  vasta  enciclopedia , 
è  il  problema  dell'umana  destinazione  che  si  trova  in  fondo 
a  tutte  le  religioni  e  a  tutte  le  filosofie,  il  mistero  del- 
l'anima, pensiero  della  letteratura  volgare  sotto  tutte  le 
sue  forme.  Il  problema  è  posto  ed  è  sciolto  cristiana- 
mente. L'umanità  ha  perduto,  ed  ha  racquistato  il  pa- 
radiso; questa  storia  epica  di  Milton  è  1'  antecedente  del 
problema.  L'umanità  ha  racquistato  il  paradiso,  cioè  cia- 
scuno uomo  ha  acquistato  la  forza  di  salvarsi.  Ma  in  che 
modo?  qual  è  la  via  di  salvazione?  La  Commedia  è  la 
risposta  a  questa  domanda,  la  soluzione  del  problema. 

Il  cristianesimo  ne' primi  tempi  di  fervore  rispondea: 
L'uomo  si  salva,  imitando  Cristo  che  ha  salvato  1'  uma- 
nità, si  salva  con  l'amore.  Bisogna  volger  le  spalle  alla 
vita  terrena  e  seguire  Dio,  lui  amare,  lui  contemplare. 
Di  qui  la  preminenza  della  vita  contemplativa,  che  Dante 
chiama  eccellentissima,  e  simile  alla  vita  divina.  Il  che 
dovea  menar  dritto  alla  visione  estatica,  alla  comunione 
tra  r  anima  e  Dio,  al  misticismo,  tanta  parte  della  let- 
teratura volgare.  Gli  uomini  stanchi  del  mondo  cerca- 
vano pace  e  obblio  nei  monasteri,  e  nutrivano  l'anima 
del  pensiero  della  morte,  della  meditazione  dell'  altra  vita; 


1  Orane  quod  boDum  est,  per  hoc  est  bonum,  quod  in  uno  consistit.. 
Malum  pluralìtas  principatuum  ;  unus  ergo  princeps  (De  Monarchia). 
Di  picciol  bene  in  pria  sente  sapore, 
Quivi  s' inganna  e  dietro  a  esso  corre. 
Se  guida  o  fren  non  torce  il  suo  umore. 
Onde  convenne  leggi  per  fren  porre. 
Convenne  rege  aver  che  discernesse 
Della  vera  cittade  almen  la  torre. 
Le  leggi  son  ;  ma  chi  pou  mano  ad  esse  ? 
F.  De  Sanctis  —  Lett.  Itul.  Voi.  I.  11 


—  162  — 

i  santi  padri  esortano  spesso  i  fedeli  a  volger  la  mente 
air  altro  mondo  ;  anche  oggi  le  prediche,  i  libri  ascetici, 
i  libri  di  preghiera  non  sono  che  un  continuo  memento 
mori;  è  famoso  il  pensa,  anima  mia,  frase  formida- 
bile, a  cui  il  lettore  vede  già  in  aria  venir  dietro  il  giu- 
dizio universale  e  le  fiamme  dell'  inferno.  Se  le  cose  àA 
quaggiù  sono  caduche ,  e  nulla  promission  rendono 
intera,  se  il  significato  serio  della  vita  e  nell'  altro  mon- 
do, se  là  e  il  vero,  è  la  realtà;  T  Iliade,  il  poema  della 
vita  è  la  Commedia,  la  storia  dell'  altro  mondo. 

In  quei  primi  tempi  la  scienza  non  è  necessaria  a  sa- 
lute, anzi  i  cristiani  menavano  vanto  della  loro  igno- 
ranza :  beati  pauperes  spiritu»  Avendo  per  avversari, 
gli  uomini  più  dotti ,  del  paganesimo  ,  rispondevano  ex 
abundantia  cordìs,  con  la  sicurezza  e  1'  eloquenza  della 
fede,  la  loro  lingua  di  fuoco.  Ma  questo  amore  di  cuori 
semplici ,  che  spesso  umiliava  1'  orgoglio  di  una  scienza 
vota  e  arida,  non  bastò  più  appresso.  Aristotele  domi- 
nava nelle  scuole,  la  scienza  si  era  introdotta  nella  teo- 
logia e  ne  avea  fatto  un  cumulo  di  sottigliezze,  lo  stesso 
misticismo  avea  preso  forme  scientifiche,  divenuto  asce- 
tismo, scienza  della  santificazione,  in  Agostino,  Bernardo 
e  Bonaventura.  L'amore  dunque  prende  un  contenuto, 
diviene  scienza^  e  la  loro  unità  è  la  filosofia,  uso  amoroso 
di  sapienza. 

La  scienza  però  non  contraddice,  non  annulla,  anzà  for- 
tifica e  dimostra  lo  stesso  concetto  della  vita.  Anche  per 
Dante  la  santificazione  è  posta  nella  contemplazione;  l'og- 
getto della  contemplazione  è  Dio  ;  la  beatitudine  è  la  vi- 
sione di  Dio;  al  sommo  della  scala  de'  Beati  mette  i  con- 
templanti, non  gli  operanti  ;  ma  per  giungere  all'  unione 
con  Dio,  non  basta  volere,  bisogna  sapere ,  ci  vuole  la 
sapienza  che  è  amore  e  scienza,  unità  del  pensiero  e  della 
vita.  Perciò  Virgilio  non  può  esser  ragione,  che  non  sia 
anche  amore,  e  Beatrice  non  può  esser  fede,  che  non  sia 


—  1G3  — 

anche  grazia;  Dante  stesso  conosce  e  vuole  a  un  tempo; 
ogni  suo  atto  del  conoscere  mena  a  un  suo  atto  del  vo- 
lere. L'intelletto  è  in  cima  della  scala;  Y  amore  dee  es- 
sere inteso,  se  ne  dee  avere  intelletto. 

Tale  è  la  soluzione  dantesca.  A  quattro  secoli  di  di- 
stanza il  problema  si  rlpresenta,  ma  i  termini  sono  mu- 
tati. Il  punto  di  partenza  non  è  più  V  ignoranza,  la  selva 
oscura,  ma  la  sazietà  e  vacuità  della  scienza,  1'  insullì- 
cienza  della  contemplazione,  il  bisogno  della  vita  attiva. 
La  sapiente  Beatrice  si  trasforma  nell'  ignorante  e  inge- 
nua Margherita  ;  e  Fausto  non  contempla  ma  opera;  anzi 
'  il  suo  male  è  stato  appunto  la  contemplazione,  lo  studio 
della  scienza,  e  il  rimedio  che  cerca  e  ribattezzarsi  nelle 
fresche  onde  della  vita.  Ma  al  tempo  di  San  Tommaso  la 
ragione  entrava  appena  nella  sua  giovinezza;  sorgea  da 
lungo  ozio,  curiosa,  credula,  acuta,  tanto  più  confidente, 
quanto  meno  esperta  della  misura  di  sé  e  delle  cose;  le 
si  domandava  tutto  e  prometteva  tutto.  Dovea  ella  darci 
^  la  pietra  filosofale  del  mondo  morale,  la  felicità.  Lo  scopo 
<ìella  scienza  non  era  speculativo  solamente  ma  pratico. 
Neir  ordine  speculativo  era  già  conseguito  il  suo  scopo, 
divenuta  per  Dante  un  libro  chiuso,  di  cui  tutte  le  pa- 
gine sono  scritte.  Ma  la  scienza  dee  operare  anche  sul- 
la volontà,  menare  a  virtù  e  felicità.  E  se  questo  mi- 
racolo non  era  ancora  avvenuto,  se  la  realtà  era  tanto 
disforme  alla  scienza,  doveasene  recare  la  cagione  secondo 
Dante  e  i  contemporanei  all'  ignoranza.  Bisognava  dun- 
que volgarizzare  la  scienza  ;  darle  uno  scopo  morale,  driz- 
zarla all'  opera.  Indi  V  importanza  che  ebbe  1'  etica  e  la 
retLorica,  la  scienza  de'  costumi  e  1'  arte  della  persuasione. 
I  tentativi  fatti,  compreso  il  Convito,  furono  infelici. 
Trattandosi  di  verità  da  esporre  e  non  da  cercare,  manca 
lo  spirito  e  1'  ardore  scientifico,  manca  in  tutti,  anche  in 
Dante.  La  stessa  esposizione  non  è  libera,  predeterminata 
da  forme  scolastiche.  Da  queste  condizioni  non  potea  uscire 


—  164  — 

una  letteratura  filosofica,  quella  forma,  propria  degli  uo- 
mini meditativi,  che  ti  rivela  non  solo  l'idea,  ma  come 
in  te  nasce,  come  la  si  presenta,  con  esso  i  sentimenti 
che  r  accompagnano,  pregna  di  altre  idee,  le  quali  per 
la  potenza  comprensiva  della  parola  intravvedi,  ancora 
senza  contorni,  mobili,  nasciture.  Qui  sta  la  vita  supe- 
riore della  forma  filosofica,  generata  immediatamente  dal 
travaglio  del  pensiero,  che  mette  immoto  tutte  le  altre 
facoltà,  compresa  l'immaginazione.  In  quei  tentativi  il 
contenuto  scientifico  ci  sta,  non  nel  punto  che  tu  lo  trovi 
e  vi  metti  sopra  la  mano,  ma  già  trovato,  divenuto  nello 
spirito  un  antecedente  non  esaminato,  tolto  pesolo  e  grezzo 
dalla  scuola.  La  terra  si  manifesta  m.eglio  al  coltivatora 
che  al  proprietario.  Dante  sa  di  avere  i  tali  fondi,  ma 
non  ci  va,  non  entra  in  comunione  con  quelli,  non  vive 
della  vita  de'  campi,  non  li  lavora,  li  conosce  sulla  carta» 
Rimane  una  proprietà  astratta,  senza  effettiva  possessione, 
senza  assimilazione,  un  mio  che  non  è  me,  non  è  fatto 
parte  dell'  anima  mia.  Non  ci  è  investigazione ,  e  non  ci 
è  passione,  dico  la  passione  che  è  generata  da  un  amo- 
roso lavoro  intellettuale.  Il  filosofo  fora  la  superficie  e 
si  seppellisce  nel  mondo  sotterraneo  ,  dove,  come  dice 
Mefistofele,  stanno  le  profonde  radici  della  scienza.  Ma 
qui  la  scienza  è  salita  sulla  superficie,  e  se  ne  coglie  i 
frutti  senza  fatica.  Tutto  è  dato,  la  scienza,  con  esso 
xe  sue  prove  e  il  suo  linguaggio;  si  che,  ferme  e  intan- 
gibiU  le  parti  superiori  della  scienza,  non  rimane  libera 
che  r  ultima  e  più  bassa  operazione  dell'  intelletto,  disti".- 
guere  e  sottilizzare. 

Essendo  la  scienza  base  di  tutto  1'  edificio,  ne  seguitò 
quella  falsa  poetica  di  cui  è  detto.  La  letteratura  so- 
lenne e  dotta  divenne  un  istrumento  della  scienza  ,  un 
modo  di  volgarizzarla.  E  tenne  due  vie,  1'  esposizione  di- 
retta 0  allegorica.  Né  altro  fu  l' intendimento  di  Dante 
nella  rappresentazione  dell'  altro  mondo.  Come  qua'  filosofi. 


—  165  — 

che  sotto  xìCfocie  di  Utopia  costruiscono  un  mondo  dova 
sia  realizzato  il  loro  sistema.  Dante  costruisce  un  mondo 
allegorico  della  scienza,  dove  pur  trova  modo  di  esporla 
in  forma  diretta  nelle  sue  parti  sostanziali. 

Egli  ha  aria  di  dire  :  Volete  salvarvi  1'  anima?  venite 
appresso  a  me  nell'  altro  mondo  ;  ivi  impareremo  dalla 
bocca  de*  morti  la  filosofia  morale,  la  scienza  della  sal- 
vazione. E  i  morti  parlano  ed  espongono  la  scienza ,  so- 
prattutto in  Paradiso,  i  cui  stalli  sembrano  convertiti  in 
vere  cattedre  o  pulpiti.  Né  la  scienza  è  solo  nelle  parole 
de'  morti,  ma  anche  nella  costruzione  e  rappresentazione 
dell'altro  mondo,  dove  essa  è  sposta  sotto  figura,  in  forma 
allegorica.  Il  sistema  insegue  il  poeta  in  mezzo  a'  suoi 
fantasmi,  e  dice:  Bada  che  tu  non  passeggi  per  curio- 
sità ,  per  osservare  e  dipingere  ;  il  tuo  scopo  è  V  inse- 
gnamento della  scienza  per  la  salute  dell'  anima  ;  non  ti 
dimenticare  della  scienza.  E  la  poetica  gli  soggiunge: 
Pensa  che  tutte  le  tue  invenzioni,  belle  che  sieno  e  ma- 
ravigliose,  sono  né  più  né  meno  che  sciocche  bugie,  quando 
non  rendono  odore  di  scienza  ;  la  poesia  è  un  velo  sotto 
il  quale  si  dee  nascondere  la  dottrina.  Ond'  è  che  il  poe- 
ta costringe  la  stessa  realtà  a  produrre  un  contenuto 
scientifico:  dietro  la  realtà  ci  é  la  scienza,  come  dietro 
r  ombra  ci  è  il  corpo:  qui  la  scienza  é  il  corpo,  e  la  realtà 
è  r  ombra,  ombrifero  prefazio  del  vero,  anzi  è  meno 
che  ombra,  perchè  nell'  ombra  ci  é  pure  l' immagine  del 
corpo.  È  r  alfabeto  della  scienza,  come  la  parola  é  del 
pensiero,  un  alfabeto  composto  non  di  lettere,  ma  di  og- 
getti, ciascuno  segno  della  tale  e  tale  idea. 

Questi  erano  i  concetti,  e  queste  le  forme  ,  a  cui  lo 
spirito  era  giunto.  Perciò  quel  concetto  fondamentale  del- 
l' età,  il  mistero  dell'anima  o  dell'umana  destinazione,  non 
era  ancora  realizzato,  come  arte;  perchè  l'arte  è  realtà 
Vivente,  che  abbia  il  suo  valore  e  il  suo  senso  in  sé  stessa, 


—  16G  — 

e  qui  la  scienza  in  luogo  di  calare  nel  reale  ed  obbìiar- 
visi,  lo  tira  e  lo  scioglie  in  sé. 

Il  mistero  dell'  anima  era  dunque  o  rozza  e  greggia 
realtà  nella  letteratura  popolare,  o  trattato  e  allegoria 
nella  letteratura  dotta  e  solenne. 

Dante  s' impadroni  di  questo  concetto  e  tentò  realiz- 
zarlo come  arte.  Ma  ci  si  mise  con  le  stesse  intenzioni 
e  con  le  stesse  forme.  Prese  quella  rozza  realtà  degli 
ascetici,  e  volle  farne  l'ombrifero  prefazio  del  vero,  l'al- 
legoria della  scienza.  Da  questa  intenzione  non  potea  uscir 
r  arte. 

Neppure  V  esposizione  della  scienza  in  forma  diretta  è 
arte.  Il  poeta  che  vuole  esporre  la  scienza,  e  vuol  pur 
fare  una  poesia,  si  propone  un  problema  assurdo,  voler 
dare  corpo  a  ciò  che  per  sua  natura  è  fuori  del  corpo. 
La  poesia  si  riduce  dunque  a  un  puro  abbigliamento  este- 
riore, non  penetra  l'idea,  non  se  l'incorpora;  l'idea  ri- 
mane invitta  nella  sua  astrazione.  Dante  spiega  in  que- 
sto assunto  tutte  le  forze  della  sua  immaginazione  ;  nessuna 
più  di  lui  ha  saputo  con  tanta  potenza  assahre  la  scienza 
nel  proprio  campo  e  farle  forza  ;  ma  questo  connubio 
della  poesia  e  della  scienza,  eh'  egli  chiama  nel  Convito 
un  eterno  matrimonio^  non  è  uno  di  due,  è  un  eterna 
due.  La  poesia  può  farle  preziosi  doni,  può  vestirla  son- 
tuosamente, ingemmarla,  girarle  attorno  carezzevole,  può 
abbigliarla,  non  possederla.  E  la  possiede  allora  sola- 
mente, quando  non  la  vede  più  fuori  di  sé,  perchè  è  di- 
venuta la  sua  vita  e  anima,  la  realtà. 

L'  allegoria  è  una  prima  forma  provvisoria  dell*  arte. 
È  già  la  realtà,  che  però  non  ha  valore  in  sé  stessa^ 
ma  come  figura,  il  cui  senso  e  il  cui  interesse  è  fuori 
di  sé,  nel  figurato,  oggetto  o  concetto  che  sia.  E  poiché 
nel  figurato  ci  é  qualche  cosa  che  non  è  nella  figura,  e 
nella  figura  ci  è  qualche  cosa  che  non  è  nel  figurato  , 
la  realtà  divenuta  allegorica  vi  é  necessariamente  gua- 


-.  167  — 

sta  e  mn'ilata.  0  il  poeta  le  attribuisce  qualità  non  sue, 
ma  del  figurato,  come  il  veltro  che  si  ciba  di  sapienza  e  di 
virtude  ,  o  che  esprime  di  lei  solo  alcune  parti,  e  non 
perchè  sue,  ma  perchè  si  riferiscono  al  figurato  ,  come 
il  Grifone  del  Purgatorio.  In  tutti  e  due  i  casi  la  realtà 
non  ha  vita  propria,  o  per  dir  meglio  non  ha  vita  alcu- 
na; l'interesse  è  tutto  nel  figurato,  nel  pensiero.  Ora  o 
il  pensiero  è  oscuro,  e  cessa  ogni  interesse;  o  è  dubbio 
di  maniera  che  ti  si  afiaccino  più  sensi,  e  tu  rimani  so- 
speso e  raffi'eddato;  o  è  chiaro,  e  lo  hai  innanzi  nella 
sua  generalità,  senza  carattere  poetico.  La  selva  è  fi- 
gura della  vita  terrena.  E  la  vita  terrena,  appunto  per- 
chè figurato,  ti  si  porge  spoglia  di  ogni  particolare,  per 
Cui  e  in  cui  è  vita,  generale  e  immobile  come  un  con- 
cetto. Questo  povero  figurato  è  condannato,  come  Pier 
delle  Vigne,  a  guardarsi  il  suo  corpo  penzolare  innanz» 
senza  che  mai  sen  rivesta  ;  e  non  propriamente  suo  per- 
chè quel  corpo  singolare,  che  chiamasi  figura,  serve  a 
due  padroni ,  è  sé  ed  un  altro  ^  è  insieme  lettera  e  fi- 
gura, un  coì'po  a  due  anime ,  rappresentato  in  guisa,  che 
prima  paja  sé  stesso,  la  selva,  e  considerato  attentamente 
mostri  in  se  le  orme  di  un  altro.  Talora  la  figura  fa  di- 
menticare il  figurato;  talora  il  figurato  strozza  la  figura. 
Per  lo  più  nel  senso  letterale  penetrano  particolari  estra- 
nei che  lo  turbano  e  lo  guastano ,  e  per  volerci  procu- 
rare un  doppio  cibo  ci  si  fa  stare  digiuni. 

Adunque  in  queste  forme  non  ci  è  ancora  arte.  La 
realtà  ci  sta  o  come  immagine  del  pensiero  astratto  ed 
estrinseco,  o  come  figura  di  un  figurato  parimente  astrat- 
to ed  estrinseco.  Non  ci  è  compenetrazione  dei  due  ter- 
mini. Il  pensiero  non  è  calato  nell'  immagine,  il  figurato 
non  è  calato  nella  figura.  Hai  forme  iniziali  dell'  arte  ; 
non  hai  ancor  a  1'  arte. 

Dante  si  è  messo  all'  opera  con  queste  forme  e  con 
queste  intenzioni.  Se  1'  allegoria  gli  ha  dato  abilità  a  in- 


—  168  — 

grandire  il  suo  quadro  e  a  fondere  nel  mondo  cristiano 
tutta  la  coltura,  mitologia,  scienza  e  storia,  ha  d'  altra 
parte  viziato  nelF  origine  questo  vasto  mondo ,  toglien- 
dogli la  libertà  e  spontaneità  della  vita ,  divenuto  un 
pensiero  e  una  figura,  una  costruzione  a  priori^  intellet- 
tuale nella  sostanza,  allegorica  nella  forma. 

E  se  la  Commedia  fosse  assolutamento  in  questi  ter- 
mini, sarebbe  quello  che  fu  il  Tesoretto  prima  e  il  Qua- 
d riregio  poi,  grottesca  figura  d' idee  astratte. 

Ma  dirimpetto  a  quel  mondo  della  ragione  astratta  vi- 
veva un  mondo  concreto  e  reale,  la  cui  base  era  la  sto- 
ria del  vecchio  e  nuovo  Testamento  nella  sua  esposizione 
letterale  e  allegorica,  e  che  nelle  allegorie,  nei  misteri, 
nei  cantici,  nelle  laude,  nelle  visioni,  nelle  leggende  avea 
avuta  già  tutta  una  letteratura.  Era  la  letteratura  degli 
uomini  semplici,  poveri  di  spirito.  A  costoro  la  via  a  sa- 
lute era  la  contemplazione  non  di  esseri  allegorici,  figu- 
rativi della  scienza  ma  reali,  Dio,  la  Vergine,  Cristo^gli 
Angioh,  i  Santi,  V  inferno,  il  purgatorio,  il  paradiso,  ciò 
che  essi  chiamavano  Y  altra  vita,  non  figura  di  questa, 
anzi  la  sola  che  essi  chiamavano  realtà  e  verità.  Il  con- 
templante  o  il  veggente  era  il  santo,  il  profeta,  1'  apo- 
stolo, banditore  della  parola  di  Dio.  Dante,  amico  della 
filosofia,  contemplando  il  regno  divino,  se  ne  fa  non  solo 
il  filosofo,  ma  il  profeta  e  l' apostolo,  rivelandolo  e  pre- 
dicandolo agU  uomini  ;  diviene  il  missionario  dell'  altro 
mondo,  ed  è  san  Pietro  che  gh  apre  la  bocca  e  lo  in- 
vesta della  sacra  missione: 

Apri  la  bocca 
E  non  nasconder  quel  eh'  io  non  nascondo. 

Ora  questo  mondo  cristiano,  di  cui  si  faceva  il  profeta, 
era  per  lui  una  cosa  così  seria,  come  per  tutt'  i  credenti, 
seria  nel  suo  spirito  e  nella  sua  lettera.  Ne  parla  col  lin- 
guaggio della  scienza,  lo  intravvede  attraverso  la  scienza 


—  169  — 

ma  la  scienza  non  lo  dissolveva  anzi  lo  illustrava  e  lo 
confermava.  Supporre  che  esso  fosse  una  figura,  una  forma 
trovata  per  adombrarvi  i  suoi  concetti  scientifici,  è  un 
anacronismo,  è  un  correre  sino  a  Goethe.  La  scienza  pe* 
netra  in  questo  mondo  come  ragionamento  o  come  alle- 
goria, e  spiega  la  sua  costruzione  e  il  suo  pensiero  ,  a 
quel  modo  che  il  filosofo  spiega  la  natura.  E  come  la 
natura  così  V  altro  mondo  è  per  Dante  più  che  figura,  è 
vivace  e  seria  realtà,  che  ha  in  sé  stessa  il  suo  valore 
e  il  suo  significato. 

Né  quel  mondo  cristiano  rimane  nella  sua  generalità 
religiosa  com'  è  ne'  cantici,  nelle  prediche  e  ne'  misteri  e 
leggende.  Dalla  vita  contemplativa  cala  nella  vita  attiva, 
e  si  concreta  nella  vita  reale.  Essendo  la  perfezione  re- 
ligiosa nel  dispregio  de'  beni  terreni,  i  credenti  da  Fran- 
cesco d'  Assisi  a  Caterina  non  poteano  vedere  con  animo 
quieto  i  costumi  licenziosi  de'  chierici  e  de'  frati,  la  cor- 
ruzione della  città  santa,  dove  Cristo  si  mercava  ogni 
giorno,  il  Papa  divenuto  sovrano  temporale  e  dominato 
da  fini  e  interessi  terreni,  in  tresca  adultera  co'  Re.  Su 
questo  punto  i  santi  sono  così  severi,  come  Dante;  più 
avean  fede,  e  maggiore  era  l' indignazione.  Venendo  più 
al  particolare,  abbiam  visto  Bonifazio  legarsi  con  Filippo 
il  Bello  contro  l'Imperatore,  ciò  che  Dante  chiama  un 
adulterio,  inviare  Carlo  di  Valois  a  Firenze,  cacciarne  i 
Bianchi,  instaurarvi  i  guelfi.  Il  guelfismo  era  allora  la 
Chiesa,  fatta  meretrice  del  Re  di  Francia,  che  la  trasse 
poco  poi  in  Avignone,  divenuta  pietra  di  scandalo  e  aiz- 
zatrice  di  tutte  le  discordie  civili.  Come  potere  e  inte- 
resse temporale,  era  essa  non  solo  radice  e  causa  della 
corruzione  del  secolo,  ma  impedimento  alla  costituzione 
stabile  delle  nazioni  e  massime  d' Italia  in  quella  unità 
civile  0  imperiale,  che  rendea  immagine  dell'unità  del 
regno  di  Dio.  A  questo  mondo  guasto  contrapponevano 
la  purezza  de'  tempi  evangelici  e  primitivi  e  il  vivere  ri- 


—  170  — 

posato  e  modesto  delle  città,  prima  che  vi  entrasse  la 
corruzione  e  la  licenza  de'  costumi,  di  cui  la  Chiesa  dava 
il  mal  esempio. 

Come  si  vede,  il  mondo  politico  entrava  per  qiipsta 
via  nel  mondo  cristiano,  e  ne  facea  parte  sostanziale.  La 
politica  non  era  ancora  una  scienza  con  fini  e  mezzi  suoi  ; 
era  un'  appendice  dell'  etica  e  della  rettorica.  E  come  vita 
reale  il  suo  modello  era  il  mondo  cristiano,  di  cui  si  ri- 
cordava un'  immagine  pura  in  tempi  più  antichi,  una  spe- 
cie di  età  dell'  oro  della  vita  cristiana. 

Questo  mondo  cristiano-politico  non  era  già  per  Dante 
una  contemplazione  astratta  e  filosofica.  Mescolato  nella 
vita  attiva,  egli  era  giudice  e  parte.  Offeso  da  Bonifa- 
zio, sbandito  da  Firenze,  errante  per  il  mondo  tra  spe- 
ranze e  timori,  fra  gli  affetti  più  contrarii,  odio  e  amore, 
vendetta  e  tenerezza,  indignazione  e  ammirazione,  con 
l'occhio  sempre  volto  alla  patria  che  nondovea  più  vedere, 
in  quella  catastrofe  italiana  e'  era  la  sua  catastrofe, le  suo 
opinioni  contraddette,  la  sua  vita  infranta  nel  fiore  dell'età 
e  offesi  i  suoi  sentimenti  di  uomo  e  di  cittadino.  Le  sue 
meditazioni,  le  sue  fantasie  mandano  sangue.  Non  è  Ome- 
ro, contemplante  sereno  e  impersonale;  è  lui  in  tutta  la 
sua  personalità,  vero  microcosmo,  centro  vivente  di  tutto 
quel  mondo,  di  cui  era  insieme  1'  apostolo  e  la  vittima. 

Se  dunque,  come  filosofo  e  letterato,  involto  nelle  forme 
e  ne'  concetti  dell'  età,  volea  costruire  un  mondo  etico  o 
scientifico  in  forma  allegorica,  come  entra  in  quel  mondo, 
iion  vi  trova  più  la  figura.  Simile  a  quel  pittore  che  s' in- 
ginocchia innanzi  al  suo  san  Girolamo,  trasformatasi  nel- 
r  immaginazione  la  figura  nella  persona  del  Santo ,  eglj 
cerca  la  figura  e  trova  una  realtà  piena  di  vita,  trova 
sé  stesso. 

Oltre  a  ciò,  Dante  era  poeta.  Invano  afferma  che  poeta 
vuol  dire  profeta,  banditore  del  vero.  Sublime  ignorante, 
non  sapea  dov'  era  la  sua  grandezza.  Era  poeta  e  si  ri- 


—  171  — 

bella  air  allegoria.  La  favola,  ciò  ch'egli  chiama  bella 
menzogna,  lo  scalda,  lo  soverchia,  e  vi  si  lascia  in  die- 
tro come  innamorato,  né  sa  creare  a  metà,  arrestarsi 
a  mezza  via.  Nel  caldo  dell'  ispirazione  non  gli  è  possibi- 
le starsi  col  secondo  senso  innanzi,  e  formar  figure  mozze, 
che  vi  rispondono  appuntino,  partic  olare  con  particolare, 
accessorio  con  accessorio,  come  riesce  a'  mediocri.  La 
realtà  straripa,  oltrepassa  l'allegoria,  diviene  sé  stessa; 
il  figurato  scompare,  in  tanta  pienezza  di  vita,  fra  tanti 
particolari.  Indi  la  disperazione  de' cementatori  :  egli  fece 
il  suo  mondo,  e  lo  abbandonò  alle  dispute  degli  uomini. 

Per  metter  d'accordo  la  sua  poetica  con  la  sua  poesia, 
Dante  sostiene  nel  Convito  che  il  senso  letterale  dee  es- 
sere indipendente  dall' allegorico ,  di  modo  che  sia  intel- 
hgibile  per  sé  stesso.  Con  questa  scappatoia  si  è  salvato 
dalle  strette  dell'allegoria,  ed  ha  conquistato  la  sua  li- 
berta  d'ispirazione,  la  libertà  e  indipendenza  delle  sue 
creature.  Sia  pure  l'  altro  mondo  figura  della  scienza; 
ma  è  prima  e  innanzi  tutto  l' alerò  mondo,  e  Virgilio  è 
Virgilio,  e  Beatrice  è  Beatrice,  e  Dante  è  Dante,  e  se 
d'  alcuna  cosa  ci  dogliamo  ,  è  quando  il  secondo  senso 
vi  si  ficca  dentro  e  sconcia  l'immagine  e  guasta  l'illusione. 

Sicché  nella  Commedia  come  in  tutt'  i  lavori  d'  arte,  si 
ha  a  distinguere  il  mondo  intenzionale  e  il  mondo  eftet- 
tivo ,  ciò  che  il  poeta  ha  voluto ,  e  ciò  che  ha  fatto. 
L'  uomo  non  fa  quello  che  vuole,  ma  quello  che  può.  Il 
poeta  si  mette  all'  opera  con  la  poetica,  le  forme,  le  idee 
e  le  preoccupazioni  del  tempo  ;  e  meno  è  artista,  più  il 
suo  mondo  intenzionale  è  reso  con  esattezza.  Vedete  Bru- 
netto e  Prezzi.  Ivi,  tutto  è  chiaro,  logico  e  concorde:  la 
realtà  e  una  mera  figura.  Ma  se  il  poeta  è  artista,  scoj)- 
pia  la  contraddizione,  vien  fuori  non  il  mondo  della  sua 
intenzione  ma  il  mondo  dell'  arte. 

Come  r  argomento  siasi  affacciato  a  Dante  non  è  chia- 
ro. Le  memorie  scerete  del  genio  non  sono  scritte  an- 


—  172  — 

Cora  e  mal  si  può  indovinare  da  quello  che  è  espresso 
quello  che  è  preceduto  nello  spirito  d' un  autore.  È  dif- 
ficile far  la  geologia  di  un  lavoro  d'arte,  trovare  nel  de- 
finitivo le  traccie  del  provvisorio.  È  probabile  che  la  Com- 
media sia  stata  vagamente  concepita  fin  dalla  giovinez. 
za,  ad  imitazione  di  quelle  commedie  dell'  anima ,  di  quelle 
visioni  dell'  altra  vita,  cosi  in  voga  :  e  che  dapprima  il 
poeta  pensasse  solo  alla  glorificazione  di  Beatrice  e  alla 
rappresentazione  pura  e  semplice  dell'altro  mondo;  e  forse 
de'  frammenti  e  anche  de'  canti  furono  scritti  prima  che 
un  disegno  ben  chiaro  e  concorde  gli  entrasse  in  mente. 
Questo  è  il  tempo  oscuro  alla  critica  e  altamente  dram- 
matico, il  tempo  de'  tentennamenti,  del  silenzioso  conten- 
dere con  sé  stesso,  degli  abbozzi,  del  va  e  vieni,  storia 
intima  del  poeta.  Il  quale,  quando  gli  si  mostra  1'  argo- 
mento ,  vede  per  prima  cosa  dissolversi  quella  parte  di 
realtà  che  vi  risponde,  fluttuante  come  in  una  massa  di 
vapori  guardata  da  alto,  dove  gii  alberi,  i  campaniU,  i 
palazzi,  tutte  le  figure  si  decompongono  e  si  offrono  a 
frammenti.  Chi  non  ha  la  forza  di  uccidere  la  realtà, 
non  ha  la  forza  di  crearla.  Ma  sono  frammenti  già  pe- 
netrati di  virtù  attrattiva,  amorosi,  che  si  cercano,  si 
congregano,  con  desiderio,  con  oscuro  presentimento  della 
nuova  vita  a  cui  sono  destinati.  La  creazione  comincia 
veramente,  quando  quel  mondo  tumultuario  e  frammen- 
tario trovi  un  centro  intorno  a  cui  stringersi.  Allora  esce 
dall'  inimitato  che  lo  rende  fluttuante  e  prende  una  forma 
stabile;  allora  nasce  e  vive  ,  cioè  si  sviluppa  gradata- 
mente secondo  la  sua  essenza.  Ora  il  mondo  dantesco 
trovò  la  sua  base  nella  idea  morale. 

La  idea  morale  non  è  concetto  arbitrario  ed  estrin- 
seco all'argomento,  è  insito  nell'altro  mondo,  è  il  suo  con- 
cetto; perchè  senza  di  quella  1'  altro  mondo  non  ha  ra- 
gion d'  essere.  La  base  dunque  è  vera ,  e  nell'  argomento; 
e  se  difetto  e'  è,  il  difetto  è  nella  natura  dell'  argomento. 


—  173  — 

Ma  Dante  meditandovi  sopra,  e  non  come  poeta,  ma  come 
filosofo,  valicò  r  argomento.  Non  è  contento  che  la  ci 
sia,  ma  la  mostra  e  la  spiega.  E  non  si  contenta  nep- 
pure di  questo.  Quella  idea  diviene  la  filosofia,  tutto  un 
sistema  di  concetti  ben  coordinato,  e  non  è  più  la  base, 
il  senso  interiore  dell'  altro  mondo,  a  quel  modo  che  lo 
spirito  è  nella  natura,  ma  è  essa  il  contenuto,  essa  l'ar- 
gomento, essa  lo  scopo.  Così  quella  vivace  realtà  si  va 
ad  evaporare  in  una  generalità  filosofica,  e  il  lavoro  di- 
viene un  insegnamento  morale-politico  sotto  il  velo  del- 
l' altro  mondo.  11  poeta  spontaneo  e  popolare  si  volta  nel 
poeta  dotto  e  solenne.  Descrivere  V  altro  mondo  così  alla 
semplice  e  nel  suo  senso  immediato  gli  pare  un  frivolo 
passatempo,  la  maniera  de'  narratori  volgari.  La  letter? 
ci  è,  ma  è  per  i  profani ,  per  gli  uomini  semplici ,  che 
non  vedono  di  là  dell'  apparenza.  Ma  egli  scrive  per  gli 
iniziati,  per  gì'  intelletti  sani,  e  loro  raccomanda  di  non 
fermarsi  alla  corteccia,  di  guardare  di  là  !  È  tutti  si  son 
messi  a  guardare  di  là. 

Cosi  sono  nati  due  mondi  danteschi ,  uno  letterale  e 
apparente,  1'  altro  occulto,  la  figura  e  il  figurato.  E  poi- 
ché l'interesse  è  in  questo  senso  occulto,  in  questo  di  là, 
i  dotti  si  son  messi  a  cercarlo.  L'  hanno  cercato,  e  non 
r  hanno  trovato,  e  dopo  tante  dispute  e  vane  congetture 
esce  infine  il  buon  senso ,  esce  Voltaire  e  dice  :  GÌ'  ita- 
liani lo  chiamano  divino  ;  ma  è  una  divinità  occulta;  pochi 
intendono  i  suoi  oracoli;  la  sua  fama  si  manterrà  sempre, 
perchè  nessuno  lo  legge.  E  Voltaire  vuol  dire  :  Abbiamo 
sudato  parecchi  secoli  per  capirti:  e  poiché  non  ti  vuoi 
far  capire,  statti  con  Dio.  E  vuol  dire  ancora  :  Ne  vai 
poi  la  pena  ?  è  una  falsa  divinità  quella  che  rimane  na- 
scosta. Pure  né  il  veto  del  Voltaire  valse  ad  arrestare 
le  ricerche,  né  il  suo  disprezzo  ad  intiepidire  1'  ammira- 
zione. Con  nuovo  ardore  italiani  e  stranieri  si  misero  a 
interpretare  questo  Giano  a  due. facce  o  piuttosto  a  duo 


—   174  — 

mondi,  r  uno  visibile  e  V  altro  invisibile;  ciascuno  si  provò 
ad  alzare  un  lembo  del  velo  di  cui  si  e  ravvolto  il  Dio. 
Ma  nò  acutezza  d'ingegno,  né  copia  di  doitrina,  né  pro- 
fonda conoscenza  di  quei  tempi ,  né  studio  paziente  delle 
altre  sue  opere  hanno  potuto  trarci  fuori  delle  ipotesi  e 
delle  congetture.  Gli  antichi  interpreti  dissentivano  nei 
particolari;  il  dissenso  de'  moderni  è  più  profondo;  hai 
interi  sistemi  che  si  confutano  a  vicenda.  Oggi  ancora 
non  si  pubblica  un  Dante  in  Germania  che  non  ci  si  ap- 
picchino nuove  spiegazioni;  non  puoi  le^'gere  una  critica 
della  Commedia,  che  non  ti  trovi  ingolfato  in  un  pelago 
di  quistioni.  Dante  è  divenuta  un  nome  che  spaventa, 
irto  di  sillogismi  e  soprasensi,  e  spes  so  sei  ridotto  a  do- 
mandarti: Qaal  é  il  vero  Dante  ?  Poiché  ciascun  cemen- 
tatore ha  il  suo,  ciascuno  gli  appicca  le  opinioni  e  pas- 
sioni sue,  e  lo  fa  cantare  a  suo  modo,  e  chi  ne  fa  un 
apostolo  di  libertà,  di  umanità,  di  nazi  onalità  ,  chi  un  pre- 
cursore di  Lutero,  chi  un  santo  Padre.  Cercano  Dante 
dove  non  è,  cercano  i  suoi  pregi  dove  sono  i  suoi  di- 
fetti, e  qual  maraviglia  che  il  Lamartine  alla  sua  volta 
cercandolo  colà  e  non  vel  trovando  ,  si  sia  affrettato  a 
conchiudere:  dunque  Dante  non  esiste  ?  Io  ne  con  chiudo. 
Poiché  non  é  là,  cerchiamolo  altrove.  La  giandtzza  del 
Dio  non  è  nel  santuario,  ma  là  dove  si  mostra  con  tanta 
}>ompa  al  di  fuori.  A  forza  di  cercar  marav  iglie  in  un 
mondo  ipotetico,  non  vediamo  quelle  che  ci  si  affacciano 
innanzi.  Parlando  a  coro  della  dignità  della  Ci  mmedia  e 
de'  veri  e  del  senso  arcano ,  si  é  data  una  impoi  tanza 
fattizia  a  questo  mondo  intellettuale  ali  egorico  ,  se  non 
fosse  per  altro,  per  la  fatica  che  ci  si  è  spesa.  Se  Dante 
tornasse  in  vita,  sentendo  a  dire  che  Beatrice  é  1'  ere- 
sia 0  la  sua  anima,  che  le  arpie  sono  i  monaci  domeni- 
cani, che  Lucifero  é  il  Papa,  che  il  suo  vocabolario  è 
un  gergo  settario,  e  vedendo  quanti  sensi  occulti  gli  sono 
affibbiati,  potrebbe  a  più  d'  uno  tirargU  le  orecchie  e  dire: 


Cotesto  ar^ri  non  ci  misi  io.  Ma  gli  si  potrebbe  rispon- 
dere: vostra  colpa:  perchè  non  siete  stato  più  chiaro? 
Ci  avete  promessa  un'  allegoria  :  perchè  non  ci  avete  data 
un'  allegoria?  La  vostra  figura  non  risponde  appuntino 
al  figurato:  perchè  1'  avete  fatta  si  bella?  perchè  le  avete 
data  tanta  realtà  ?  In  tanta  ricchezza  di  particolari  dove 
0  come  trovare  1'  allegoria  ?  E  qual  maraviglia  che  la 
stessa  figura  significhi  una  per  me  e  una  per  voi  ?  qual 
maraviglia  che  nella  stessa  figura  si  trovi  di  che  pro- 
vare la  verità  di  tre  o  quattro  interpretazioni  ?  E  ci  fosse 
solo  un  senso!  Ma  ci  fate  sapere  che  oltre  all'allegori- 
co, ci  è  il  senso  morale  e  l'analogico:  dove  trovare  il 
bandolo?  I  vostri  ascetici  gridano  che  il  corpo  è  un  velo 
dello  spirito  :  ma  il  peccatore  fa  di  cappello  allo  spirito 
e  adora  la  carne.  E  anche  voi  gridate,  che  i  versi  sono 
un  velo  della  dottrina;  e  come  il  peccatore,  piantate  lì 
il  figurato^  e  correte  appresso  alla  figura,  e  la  fate  cosi 
impolpata,  cosi- corpulenta,  che  è  un  velo  denso  e  fitto, 
di  là  dal  quale  non  si  vede  nulla,  e  perciò  si  vede  tutto, 
quello  che  intendete  voi  e  quello  che  intendiamo  noi.  Se 
dunque  la  vostra  allegoria  è  come  l'ombra  di  Banco  messa 
tra  voi  e  noi  che  ci  toghe  la  vostra  vista ,  se  il  vostro 
poema  è  divenuto  un  immenso  geroglifico,  un  mondo  igno- 
to ,  alla  cui  scoperta  si  son  messi  infruttuosamente  molti 
Colombi,  di  chi  è  la  colpa  ?  Non  forse  della  vostra  poca 
logica,  che  altro  intendete  e  altro  fate?  Rimproveri  che 
sono  un  elogio. 

Cosi  è.  Dante  è  stato  illogico;  ha  fatto  altra  cosa  che 
non  intendeva.  Ciascuno  è  quello  che  è,  anche  a  suo  di- 
spetto, anche  volendo  essere  un  altro.  Dante  è  poeta  e 
avvili  pato  in  combinazioni  astratte,  trova  mille  aper- 
ture per  farvi  penetrare  l' aria  e  la  luce.  Tratto  ad  una 
falsa  concezione  dal  mezzo  dei  tempi,  valica  T  argomento 
e  si  trova  in  un  mondo  di  puri  concetti,  e  fa  di  questi 
la  sua  intenzione  e  si  tira  appresso  tutta  la  realtà  e  ne 


—  176  — 

vuol  fare  la  figura  de'  suoi  concetti.  Ma  come  attinge  il 
reale  ivi  sente  sé  stesso,  ivi  genera,  ivi  l' ingegno  trova 
la  sua  materia  ;  queste  figure  prendono  corpo,  acquistano 
una  vita  propria  ;  e  le  direste  creature  libere  e  indipen- 
denti, se  quella  benedetta  intenzione  non  vi  fosse  rimasa 
attaccata  come  una  palla  di  piombo,  impacciando  a  volta 
a  volta  i  loro  movimenti.  Cosi  quel  mondo  internazio- 
nale, tanto  caro  al  poeta,  si  è  ito  come  nebbia  dissi- 
pando innanzi  alla  luce  del  mondo  reale,  solo  rimasta 
vivo.  Tutto  l'altro  è  l'astratto  di  quel  mondo,  è  il  lavoro 
oltrepassato,  non  è  la  Commedia,  è  il  suo  di  là,  la  sua 
nebbia,  che  pur  penetra  qua  e  là  e  lascia  delle  grandi 
ombre ,  che  gì'  interpreti  dilatano  e  trasformano  in  una 
Sola  e  vasta  ombra.  A  quel  modo  che  i  geologi  scoprono 
i  vestigi  di  forme  imperfette  ,  che  attestano  la  lenta  e 
progressiva  formazione  dolla  materia;  qui  si  discernono 
i  frammenti  di  un  mondo  prosaico,  intellettuale,  allego- 
rico, scissi,  isolati,  steriU,  più  o  meno  tollerabili,  seconda 
ia  maggiore  o  minore  abilità  dell'esposizione,  inviluppati 
in  una  forma  più  alta  ,  alla  quale  il  genio  sospinse  il 
poeta  attraverso  gli  errori  della  sua  poetica.  I  quali  fram- 
menti sono  i  fossili  della  Commedia,  morti  già  da  gran 
tempo,  vivi  solo  agli  eruditi,  i  geologi  della  letteratura; 
e  se  la  loro  morte  non  ha  potuto  seco  involgere  il  ri* 
manente,  gli  è  che  il  vero  lovoro  è  in  questo  rimanente,, 
dotato  di  una  vita  cosi  fresca  e  tenace,  che  distende  un 
po'  di  sua  luce  anche  sulle  parti  morte.  Quel  contenuto 
astratto  vive  in  grazia  del  mondo  in  cui  si  trova  entra- 
to; spiccatenelo,  isolatelo,  e  non  se  ne  parlerebbe  più. 

Che  cosa  è  dunque  la  Commedia  ?  È  il  medio  evo  rea- 
lizzato, come  arte,  malgrado  l'autore  e  malgrado  i  con- 
temporanei. E  guardate  che  gran  cosa  è  questa  !  Il  me- 
dio evo  non  era  un  mondo  artistico,  anzi  era  il  contrario 
dell'  arte.  La  religione  era  misticismo,  la  filosofia  scolasti- 
cismo. L'  una  scomunicava  l' arte,  abbruciava  le  imma- 


—  177  — 

gini,  avvezzava  gli  spiriti  a  staccarsi  dal  reale.  L'altra 
viveva  di  astrazioni  e  di  forinole ,  e  di  citazioni ,  driz- 
zando r  intelletto  a  sottilizzare  intorno  a'  nomi  e  alle  va- 
cue generalità  che  si  chiamavano  essenze.  Gli  spiriti  erano 
tirati  verso  il  generale,  più  disposti  a  idealizzare  che  a 
realizzare:  ciò  che  è  proprio  il  contrario  dell'arte.  Nei 
poeti  semplici  trovi  il  reale  rozzo  ,  senza  formazione  , 
come  ne'  misteri,  nelle  visioni,  nelle  leggende.  Ne'  poeti 
solenni  trovi  una  forma  o  crudamente  didascalica,  o  fi- 
gurativa e  allegorica.  L'  arte  non  era  nata  ancora.  C'era 
la  figura  ;  non  o'  era  la  realtà  nella  sua  libertà  e  per- 
sonalità. 

Dante  raccoglie  da'  misteri  la  commedia  dell'  anima  , 
e  fa  di  questa  storia  il  centro  di  una  sua  visione  dell'  al- 
tro mondo.  Tutta  questa  rappresentazione  non  è  che  senso 
letterale;  la  visione  è  allegorica,  i  personaggi  sono  fi- 
gure e  non  persone  ;  ma  ciò  che  è  attivo  nel  suo  spirito, 
lo  porta  verso  la  figura  e  non  verso  il  figurato.  La  sua 
natura  poetica,  tirata  per  forza  nelle  astrattezze  teo«lo- 
giche  e  scolastiche,  ricalcitra  e  popola  il  suo  cervello  di 
fantasmi,  e  lo  costringe  a  concretare,  a  materializzare, 
a  formare  anche  ciò  che  è  più  spirituale  e  impalpabile, 
anche  Dio.  Quel  mondo  letterale  lo  ammalia,  lo  perse- 
guita, lo  assedia  e  non  posa  che  non  abbia  ricevuta  la 
sua  forma  definitiva;  e  non  è  più  lettera,  ma  è  spirito, 
non  è  più  figura,  ma  è  realtà,  è  un  mondo  in  se  com- 
piuto e  intelligibile,  perfettamente  realizzato.  Visione  e 
allegoria,  trattato  e  leggenda,  cronache  ,  storie,  laude , 
inni,  misticismo  e  scolasticismo,  tutte  le  forme  lettera- 
rie e  tutta  la  cultura  dell'  età  sta  qui  dentro  inviluppata 
e  vivificata,  in  questo  gran  mistero  dell'  anima  o  dell'u- 
manità, poema  universale ,  dove  si  riflettono  tutt'  i  po- 
poli e  tutti  i  secoli  che  si  chiamano  il  medio  evo. 

Ma  questo  mondo  artistico,  uscito  da  una  contraddi- 
zione tra  r  intenzione  del  poeta  e  la  sua  opera,    non  ò 

P.  De  Saactìs.  —  Lett.  Ital.  Voi.  I.  12 


—  178  ^ 

compiutamente  armonico,  non  è  schietta  poesia.  La  falsa 
coscienza  poetica  disturba  1'  opera  di  quella  geniale  spon- 
taneità ;  e  vi  gitta  dentro  un  tentennare,  un  non  so  che 
di  mal  sicuro  e  di  non  compiuto,  una  mescolanza  e  cru- 
dezza di  colori.  Il  pensiero  ,  ora  nella  sua  crudità  scola- 
stica, ora  abbellito  d' immagini  che  pur  non  bastano  a 
vincere  la  sua  astrattezza,  vi  ha  troppo  gran  parte.  Le 
sue  figure  allegoriche  ricordano  talora  più  i  mostri  orien- 
tali che  la  schietta  bellezza  greca,  personificazioni  astratte, 
anzi  che  persone  conscie  e  libere.  Preoccupato  del  se- 
condo senso  che  ha  in  mente,  spesso  gli  escono  parti- 
colari estranei  alla  figura,  che  turbano  e  distruggono  il 
lettore  e  gli  rompono  V  illusione.  La  presenza  perenne  di 
un  altro  senso  che  aleggia  al  di  sopra  della  rappresen- 
tazione ed  introducevisi  a  quando  a  quando,  ne  turba  la 
chiarezza  e  1'  armonia.  Anche  lo  stile,  inviluppato  alcuna 
volta  in  rapporti  lontani  e  sottili,  perde  la  sua  lucidità 
e  riesce  intralciato  e  torbido.  Non  è  un  tempio  greco;  è 
un  tempio  gotico,  pieno  di  grandi  ombre ,  dove  contrar/ 
elementi  pugnano,  non  bene  armonizzati.  Or  rozzo,  or 
dehcato.  Ora  poeta  solenne,  or  popolare.  Ora  perde  di 
vista  il  vero  e  si  abbandona  a  sottigliezze  ;  ora  lo  intui- 
sce rapidamente,  e  lo  esprime  con  semplicità.  Ora  rozzo 
cronista,  ora  pittore  finito.  Ora  si  perde  nelle  astrattez- 
ze, ora  di  mezzo  a  quelle  fa  germogliare  la  vita.  Qui 
cade  in  puerilità,  là  spicca  il  volo  a  sopraumane  altezze. 
Mentre  tien  dietro  a  un  sillogismo,  brilla  la  luce  del- 
l' immagine.  E  mentre  teologizza,  scoppia  la  fiamma  del 
sentimento.  Talora  ti  trovi  innanzi  ad  una  fredda  alle- 
goria, quando  tutto  ad  un  tratto  vi  senti  dentro  tre- 
mare la  carne.  Talora  la  sua  credulità  ti  fa  sorridere, 
talora  la  sua  audacia  ti  fa  stupire.  Fu  un  piccolo  mondo, 
dove  si  rifletteva  tutta  V  esistenza^  com'  era  allora.  I  con- 
trari elementi  che  fermentavano  in  una  società  ancora 
nello  stato  di  formazione,  contendevano  in  lui.  E  senza 


—  179  — 

cue  ne  avesse  coscienza.  Se  guardi  alle  sue  aspirazioni, 
tutto  è  armonia.  Filosofo,  pensa  il  regno  della  scienza  e 
della  virtù.  Cristiano ,  contempla  il  regno  di  Dio.  Pa« 
triota,  sospira  al  regno  della  giustizia  e  delia  pace.  Poeta^ 
vagheggia  una  forma  tutta  luce  e  proporzione  e  armo- 
nia, lo  bello  stile;  il  suo  autore  è  Virgilio.  Maggiore  era 
la  barbarie  e  la  rozzezza,  e  più  si  vagheggiava  un  mondo 
armonico  e  concorde.  Ma  il  poeta  è  inviluppato  egli  me- 
desimo in  quella  rozza  realtà  e  in  quelle  forme  discordi  ; 
e  ne  sente  la  puntura,  e  gli  manca  la  serenità  dell'ar- 
tista. E  gli  esce  dalla  fantasia  un  mondo  deli'  arte  in 
gran  parte  realizzato,  ma  dove  pur  trovi  gli  angoli  e  le 
scabrosità  di  una  materia  non  perfettamente  doma. 

Entriamo  in  questo  mondo,  e  guardiamolo  in  sé  stes- 
so e  interroghiamolo.  Perchè  un  argomento  non  è  /a- 
òula  rasa,  dove  si  può  scrivere  a  genio,  ma  è  marmo 
già  incavato  e  lineato,  che  ha  in  sé  il  suo  concetto  e 
le  leggi  del  suo  sviluppo.  La  più  grande  qualità  del  ge- 
nio è  d*  intendere  il  suo  argomento  ,  e  diventare  esso, 
risecando  da  sé  tutto  ciò  che  non  è  quello.  Bisogna  inna- 
morarsene, vivere  ivi  dentro,  essere  la  sua  anima  o  la 
sua  coscienza.  E  parimente  il  critico,  in  luogo  di  porsi  in- 
nanzi regole  astratte,  e  giudicare  con  lo  stesso  criterio  la 
Commedia  e  l' Iliade  e  la  Gerusalemme  e  il  Furioso,  dee 
studiare  il  mondo  formato  dal  poeta,  interrogarlo,  inda- 
gare la  sua  natura  che  contiene  in  sé  virtualmente  la 
sua  poetica,  cioè  le  leggi  organiche  della  sua  formazio- 
ne, il  suo  concetto,  la  sua  forma,  la  sua  genesi,  il  suo 
stile.  Che  cosa  è  l'altro  mondo? 

È  il  problema  dell'  umana  destinazione  sciolto,  è  il  mi- 
stero dell'  anima  spiegato,  è  la  fine  della  storia  umana, 
il  mondo  perfetto,  l'eterno  presente,  l' immutabile  neces- 
sità. Nella  natura  non  ci  è  più  accidente,  neh'  uomo  non 
ci  è  più  libertà.  La  natura  è  predeterminata  e  fissata 
secondo  una  logica  preconcetta,  secondo  l'idea  morale. 


—  180  — 

Reale  e  ideale  diventano  identici,  apparenza  e  sostanza 
è  tatt'  uno.  L'  uomo  non  ha  più  libero  arbitrio;  è  li,  fis- 
sato e  immobilizzato,  come  natura.  Ogni  azione  è  ces- 
sata ;  ogni  vincolo  che  lega  gli  uomini  in  terra,  è  sciolto, 
patria,  famiglia,  ricchezze,  dignità,  costumi.  Non  c'è  più 
successione,  né  sviluppo,  non  principio  e  non  fine:  manca 
il  racconto  e  manca  il  dramma.  L' individuo  scompare 
nel  genere.  Il  carattere,  la  personalità,  non  ha  modo  di 
manifestarsi.  Eterno  dolore,  eterna  gioja,  senza  eco,  senza 
varietà,  senza  contrasto  né  gradazione.  Non  ci  é  epo- 
pea, perchè  manca  1'  azione  ;  non  ci  è  dramma,  perchè 
manca  la  libertà  :  la  hrica  è  l' immutabile  e  monotona 
espressione  di  una  sola  aria  ;  rimane  1'  esistenza  nella 
sua  immobile  estrinsechezza ,  descrizione  della  natura  e 
deh'  uomo. 

Che  cosa  è  dunque  l' altro  mondo  per  rispetto  all'ar- 
te? È  visione,, contemplazione,  descrizione,  una  storia 
naturale. 

Ma  in  questa  visione  penetra  la  leggenda  o  il  mistero , 
perché  ivi  dentro  è  rappresentata  la  Commedia  o  reden- 
zione dell'  anima  nel  suo  pellegrinaggio  dall'  umano  al  di- 
vino, da  Fiorenza  in  popol  giusto  e  sano.  Ci  hai  dun- 
que r  apparenza  di  un  dramma,  che  si  svolge  nell'altro 
mondo,  i  cui  attori  sono  Dante,  Virgilio,  Catone,  Sta- 
zio, il  demonio,  Matilde,  Beatrice,  san  Pietro,  san  Ber- 
nardo, la  Vergine,  Dio,  dramma  allegorico,  come  alle- 
gorica è  la  commedia  dell'  anima.  Dico  apparenza  di  un 
dramma,  perchè  la  santificazione  nasce  non  dall'operare 
ma  dal  contemplare,  e  Dante  contempla,  non  opera,  e 
gli  altri  .mostrano,  insegnano.  Il  dramma  dunq^ie  sva- 
nisce nella  contemplazione. 

Questo  mondo  cosi  concepito  era  il  mondo  de'  misteri 
e  delle  leggende,  divenuto  mondo  teologico  scolastico  in 
mano  a'  dotti.  Dante  lo  ha  realizzato,  gli  ha  dato  T  esi- 
stenza dell'  arte,  ha  creato  quella  natura  e  queir  uomo. 


"-  181  — 

E  se  il  suo  mondo  non  è  perfettamente  artistico,  il  di- 
fetto non  è  in  lui,  ma  in  quel  mondo,  dove  l'uomo  è 
natura  e  la  natura  è  scienza,  e  da  cui  è  sbandito  1'  ac- 
cidente e  la  libertà,  i  due  grandi  fattori  della  vita  reale 
e  dell'  arte. 

Se  Dante  fosse  frate  o  filosofo,  lontano  dalla  vita  rea- 
le, vi  si  sarebbe  chiuso  entro  e  non  sarebbe  uscito  da 
quelle  forme  e  da  queir  allegoria.  Ma  Dante  ,  entrando 
nel  regno  de'  morti,  vi  porta  seco  tutte  le  passioni  de'  vi- 
vi, si  trae  appresso  tutta  la  terra.  Dimentica  di  essere 
un  simbolo  o  una  figura  allegorica,  ed  è  Dante,  la  piti 
potente  individualità  di  quel  tempo,  nella  quale  è  com- 
pendiata tutta  l'esistenza,  com'era  allora,  con  le  sue  astrat- 
tezze, con  le  sue  estasi,  con  le  sue  passioni  impetuose, 
con  la  sua  civiltà  e  la  sua  barbarie.  Alla  vista  e  alle 
parole  di  un  uomo  vivo  le  anime  rinascono  per  un  istan- 
te, risentono  l'antica  vita,  ritornano  uomini;  nell'eterno 
ricomparisce  il  tempo  ;  in  seno  dell'  avvenire  vive  e  si 
muove  r  Italia,  anzi  l'Europa  di  quel  secolo.  Cosi  la  poe- 
sia abbraccia  tutta  la  vita,  cielo  e  terra,  tempo  ed  eter- 
nità, umano  e  divino;  ed  il  poema  soprannaturale  diviene 
umano  e  terreno,  con  la  propria  impronta  dell'  uomo  e 
del  tempo.  Riapparisce  la  natura  terrestre,  come  oppo- 
sizione, 0  paragone,  o  rimembranza.  Riapparisce  l'acci- 
dente e  il  tempo,  la  storia  e  la  società  nella  sua  vita 
esterna  ed  interiore  ;  spunta  la  tradizione  virgiliana  , 
con  Roma  capitale  del  mondo  e  la  monarchia  prestabi- 
lita, ed  entro  a  questa  magnifica  cornice  hai  come  qua- 
dro la  storia  del  tempo,  Bonifazio  Vili,  Roberto,  Filip- 
po il  Bello,  Carlo  di  Valois,  i  Cerchi  e  i  Donati,  la  nuo- 
va e  r  antica  Firenze,  la  storia  d' Italia  e  la  sua  storia, 
le  sue  ire,  i  suoi  odii,  le  sue  vendette,  i  suoi  amori,  le 
sue  predilezioni. 

Così  la  vita  s*  integra ,  1'  altro  mondo  esce  dalla  sua 
astrazione  dottrinale  e  mistica,  cielo  e  terra  si  mesco- 


—  182  -  H 

lano ,  sìntesi  vivente  di  questa    raraensa  comprensione 
Dante,  spettatore,  attore  e  giudic» .  La  vita  guardata  dal- 
l'altro  mondo  acquista  nuove  atti.idini,  sensazioni  e  ira- 
pressioni.  L'  altro  mondo  guardato  dalla  terra  veste  le 
sue  passioni  e  i  suoi  interessi.  E  ii'  è  uscita  una  conce- 
zione originalissima,  una  natura  nuova  e  un  uomo  nuovo. 
Sono  due  mondi  onnipresenti,  in  reciprocanza  d'  azione^ 
che  si  succedono,  si  avvicendano,  s' incrociano,  si  cora- 
penetrano,  si  spiegano  e  s' illuminano  a  vicenda,  in  per- 
petuo ritorno  l'uno  nell'altro.  La  loro  unità  non  è  in  un 
protagonista,  né  in  un'  azione,  né  in  un  fine  astratto  ed 
estraneo  alla  materia;  ma  è  nella  stessa  materia;  unità 
interiore  e  impersonale,  vivente  indivisibile  unità  orga- 
nica, i  cui  momenti  si  succedono  nello  spirito  del  poeta, 
non  come  meccanico  aggregato  di  parti  separabili ,  ma 
penetranti  gli  uni  negli  altri  e  immedesimantisi,  coni'  è 
la  vita.  Questa  energica  e  armoniosa  unità  è  nella  na- 
tura stessa  de'  due  mondi,  materialmente  distinti,  ma  una 
cosa  neir  unità  della  coscienza.  Cielo  e  terra  sono  ter- 
mini correlativi,  1'  uno  non  è  senza  1'  altro;  il  puro  reale 
ed  il  puro  ideale  sono  due  astrazioni;  ogni  reale  porta 
seco  il  suo  ideale  ;  ogni  uomo  porta  seco  il  suo  inferno 
e  il  suo  paradiso;  ogni  uomo  chiude  nel  suo  petto  tutti 
gli  Dei  d'  Olimpo  :  lo  scettico  può  abolire  l' inferno,  non 
può   abolir  la   coscienza.  Appunto  perchè  i  due  mondi 
sono  la  vita  stessa  nelle  sue  due  facce,  in  seno  a  que- 
sta unità  si  sviluppa  il  più  vivace  dualismo,  anzi  anta- 
gonismo :  r  altro  mondo  rende  i  corpi  ombre,  ombre  gli 
affetti  e  le  grandezze  e  le  pompe  ,  ma  in  quelle  ombre 
freme  ancora  la  carne,  trema  il  desiderio,  suonano  d' im- 
precazioni terrene  fino  le  tranquille  volte  del  cielo.  Gli 
uomini  con   esso  le  loro  passioni  e  vizi  e  virtù  riman- 
gono eterni,  come  statue  ,  in  quell'  attitudine ,  in  quella 
espressione  d'  odio,  dì  sdegno,  di  amore,  che  sono  stati 
colti  dall'artista  ;  ma  mentre  1'  altro  mondo  eterna  la  ter- 


—  183  — 

ra,  trasportandola  nel  suo  seno  e  ponendole  dirimpetto 
r  immagine  dell'  infinito,  ne  scopre  il  vano  e  il  nulla:  gli 
uomini  sono  gli  stessi  in  un  diverso  teatro,  che  è  la  loro 
ironia.  Questa  unità  e  dualità  uscente  dall'imo  stesso  della 
situazione  balena  al  di  fuori  nelle  più  varie  forme,  ora 
in  un'  apostrofe,  ora  in  un  discorso,  ora  in  un  gesto ,  ora 
in  un'  azione,  ora  nella  natura,  era  nell'  uomo,  in  questa 
unità  penetra  la  più  grande  vari  età,  né  è  facile  trovare 
un  lavoro  artistico  ,  in  cui  il  limite  sia  così  preciso  e 
così  largo.  Niente  è  nell'argomento  che  costringa  il  poeta 
a  preferire  il  tal  personaggio,  il  tal  tempo,  la  tale  azio- 
ne; tutta  la  storia,  tutti  gli  aspetti  sotto  a'  quali  si  è  mo- 
strata r  umanità,  sono  a  sua  scelta;  e  può  abbandonarsi 
a  suo  talento  alle  sue  ire  e  alle  sue  opinioni,  e  può  in- 
tramettere  nello  scopo  generale  fini  particolari,  senza  che 
ne  scapiti  1'  unità.  Il  che  dà  al  suo  universo  compiuta 
realità  poetica,  veggendosi  nella  permanente  unità  tutto 
ciò  che  sorge  e  dalia  libertà  dell'  umana  persona  e  dal- 
l'accidente, e  moversi  con  vario  gioco  tutt'  i  contrasti,  e  il 
necessario  congiunto  col  libero  arbitrio,  e  il  fato  col  caso. 

Adunque  che  poesia  è  codesta  ?  Ci  è  materia  epica  , 
e  non  è  epopea  ;  ci  è  una  situazione  lirica  e  non  è  liri- 
ca: ci  è  un  ordito  drammatico,  e  non  è  dramma.  È  una 
di  quelle  costruzioni  gigantesche  e  primitive,  vere  enci- 
clopedie, bibbie  nazionaU,  non  questo  o  quel  genere,  ma 
il  Tutto,  che  contiene  nel  suo  grembo  ancora  involute 
tutta  la  materia  e  tutte  le  forme  poetiche,  il  germe  di 
ogni  sviluppo  ulteriore.  Perciò  nessun  genere  di  poesia 
vi  ò  distinto  ed  esplicato  ;  l'uno  entra  nell'altro,  1'  uno  si 
compie  neir  altro.  Come  i  due  mondi  sono  in  modo  im- 
medesimati, che  non  puoi  dire:  qui  è  V  uno,  e  qui  è  l'al- 
tro ;  cosi  i  diversi  generi  sono  fusi  di  maniera,  che  nes- 
suno può  segnare  i  confini  che  fi  dividono,  né  dire:  que- 
sto è  assolutamente  epico,  e  questo  è  drammatico. 

È  il  contenuto  universale,  di  cui  tutte  le  poesie  non 


—  184  — 

sono  che  frammenti,  il  poema  sacro,  V  eterna  geometria 
e  r  eterna  logica  della  creazione  incarnata  ne'  tre  mondi 
cristiani,  la  città  di  Dio,  dove  si  riflette  la  città  dell'  uo- 
mo in  tutta  la  sua  realtà  del  tal  luogo  e  del  tal  tempo, 
la  sfera  immobile  del  mondo  teologico,  entro  di  cui  si 
movono  tempestosamente  tutte  le  passioni  umane. 

L' idea  che  anima  la  vasta  mole  e  genera  la  sua  vita 
e  il  suo  sviluppo,  è  il  concetto  di  salvazione,  la  via  che 
conduce  V  anima  dal  male  al  bene,  dall'  errore  al  vero, 
dall'anarchia  alla  legge  ^  dal  moltiplice  all'  uno.  È  il  con- 
cetto cristiano  e  moderno  dell'  unità  di  Dio  sostituita  alla 
pluralità  pagana.  Questo  concetto  se  fosse  solo  un  di 
fuori,  spiegato  nella  sua  astrattezza  dottrinale  come  pen- 
siero, 0  rappresentato  in  forma  allegorica ,  come  figu- 
rato ,  non  basterebbe  a  generare  un'  opera  d' arte.  Ma 
qui  è  non  solo  il  di  fuori,  ma  il  di  dentro,  non  solo  il 
significato  e  la  scienza  di  quel  mondo,  opera  di  filosofo 
e  di  critico,  ma  principio  attivo,  com'è  nell'  uomo  e  nella 
natura,  che  costruisce  e  forma  quel  mondo,  e  gli  dà  una 
storia  e  uno  sviluppo.  Questo  principio  attivo  se  nella 
sua  astrattezza  si  può  chiamare  il  vero  o  il  bene,  o  la 
virtù  0  la  legge,  come  realtà  viva  e  operosa,  è  lo  spi- 
rito ,  che  ha  per  suo  contrario  la  materia  o  la  carne , 
dove  sta  come  in  una  prigione  o  in  un  vasello  da  cui 
si  sforza  di  uscire.  La  vita  è  perciò  un  antagonismo,  una 
battaglia  tra  lo  spirito  e  la  carne,  tra  Dio  e  il  demonio. 
E  la  sua  storia  è  la  progressiva  vittoria  dello  spirito,  la 
costui  consapevolezza  e  libertà  sotto  le  forme  in  cui  vive, 
il  suo  successivo  assottigliarsi  e  scorporarsi  e  idealizzarsi 
sino  a  Dio,  assoluto  spirito,  la  Verità,  la  Bontà,  l'Unità, 
r  ultimo  Ideale.  Il  concetto  dantesco,  lo  spirito  che  abita 
per  entro  al  suo  mondo,  è  dunque  la  progressiva  disso- 
luzione delle  forme ,  un  costante  salire  di  carne  a  spirito , 
r  emancipazione  della  materia  e  del  senso  mediante  l'e- 
spiazione e  il  dolore,  la  collisione  tra  il  satanico  e  il  di- 


—  185  — 

vino,  r  inferno  e  il  paradiso  posta  e  sciolta.  Omero  tra- 
sporta gli  Dei  in  terra  e  li  materializza;  Dante  trasporta 
gli  uomini  neir  altro  mondo  e  li  spiritualizza.  La  materia 
vi  è  parvenza;  lo  spirito  solo  è;  gli  uomini  sono  ombre: 
i  fatti  umani  si  riproducono  come  fantasmi  innanzi  alla 
memoria  ;  la  terra  stessa  è  una  rimembranza  che  ti  flut- 
tua avanti  come  una  visione;  il  reale^  il  presente  è  l' infini- 
to spirito;  tutto  l'altro  è  vanità  che  par  persona.  Questo 
assottigliamento  è  progressivo;  il  velo  si  fa  sempre  più 
trasparente.  L' inferno  è  la  sede  della  materia ,  il  domi- 
nio della  carne  e  del  peccato  ;  il  terreno  vi  è  non  solo 
in  rimembranza,  ma  in  presenza;  la  pena  non  modifica 
i  caratteri  e  le  passioni;  il  peccato,  il  terrestre  si  con- 
tinua neir  altro  mondo  e  s' immobilizza  in  quelle  anime 
incapaci  di  pentimento;  peccato  eterno,  pena  eterna.  Nel 
purgatorio  cessano  le  tenebre,  e  ricomp  arisce  il  sole,  la 
luce  dell' intelletto,  lo  spirito;  il  terreno  è  rimembranza 
penosa  che  il  penitente  si  studia  di  cacciar  via,  e  lo  spi- 
rito sciogliendosi  dal  corporeo  si  avvia  al  compiuto  pos- 
sesso di  sé,  alla  salvazione.  Nel  paradiso  l'umana  persona 
scomparisce,  e  tutte  le  forme  si  scio  Igono  ed  alzano  nella 
luce;  più  si  va  su,  e  più  questa  gloriosa  trasfigurazione 
s' idealizza,  insino  a  che  al  cospetto  di  Dio,  dell'  assoluto 
spirito,  la  forma  vanisce  e  non  rimane  che  il  sentimento. 

Tutta  cessa 
Mia  visione  e  ancor  mi  distilla 
Nel  cor  lo  dolce  che  nacque  da  essa. 

Cosi  la  neve  al  sol  si  disigilla; 
Cosi  al  vento  nelle  foglie  lievi 
Si  perdea  la  sentenzia  di  Sibilla. 

Questo  concetto  comprende  tutto  lo  scibile  e  tutta  la 
storia  ;  non  solo  costruisce  e  sviluppa  il  mondo  dantesco  , 
ma  lo  incontrate  sempre  vivo  nel  cammino  intellettuale 
e  storico  della  vita,  sotto  tutte  le  forme,  in  tutte  le  qui- 


--  186  — 

stioni  che  si  affacciano  al  poeta ,  in  religione,  in  filosofia, 
in  politica, ^in  morale  ,  e  così  si  concreta  e  compie  in 
tutti  gl'indirizzi  della  vita.  In  religione  è  il  cammino  dalla 
lettera  allo  spirito,  dal  simbolo  all'  idea,  dal  vecchio  al 
nuovo  testamento;  nella  scienza  dall'  ignoranza  e  dall'er- 
rore alla  religione  e  dalla  ragione  alla  rivelazione  ;  in 
morale  dal  male  al  bene ,  dall'  odio  all'  amore  mediante 
l'espiazione;  in  pohtica  dall'  anarchia  all'unità.  Sottoposto 
alle  condizioni  di  spazio  e  di  tempo  ,  diventa  storia,  il 
tale  uomo,  il  tale  popolo,  il  tale  secolo.  In  religione  vi 
sta  innanzi  la  Chiesa  romana ,  il  Papato  ,  che  il  poeta 
vuole  emancipare  dalle  cure  e  passioni  terrene  e  ricon- 
durre al  suo  fine  spirituale;  in  filosofia  avete  la  scienza 
volgare  e  la  scienza  della  verità  in  paradiso  ;  in  morale 
vi  stanno  innanzi  le  passioni,  le  discordie,  le  colpe  e  i 
vizii  della  barbara  età,  dalle  quali  vi  sentite  a  poco  a 
poco  allontanare  nel  vostro  cammi  no  verso  il  sommo 
Bene;  in  politica  è  l'Italia  anarchica  e  sanguinosa  che 
il  poeta  aspira  a  comporre  a  pace  e  concordia  nell'  u- 
nità  dell'  impero.  Così  un  solo  conce  tto  penetra  il  tutto, 
come  forma,  come  pensiero  e  come  storia.  Mai  più  vasta  e 
concorde  comprensione  non  era  uscita  da  mente  di  uomo. 
Alcuni  ci  vedono  dentro  1'  altro  mondo,  e  il  resto  è  una 
intrusione  e  quasi  una  profanazione  ;  Edgard  Quinet  ri- 
mane choquè  t  veggendo  come  le  passioni  del  poeta  lo 
inseguono  fino  in  paradiso;  altri  ci  veggono  un  mondo 
politico,  di  cui  quello  sia  la  rappresentazione  sotto  figura. 
Chiamano  questo  poema  o  religioso,  o  politico,  o  dida- 
scalico 0  morale  ;  lo  riducono  a  que  relè  di  cattolici  e 
protestanti,  a  dispute  di  guelfi  e  ghibelUni.  Guardano 
non  dall'  alto  del  monte,  dalla  pianura,  e  prendono  per 
il  tutto  quello  che  incontrano  nella  diritta  linea  del  loro 
cammino.  Ciascuno  si  fabbrica  un  piccolo  mondo,  e  dice: 
questo  è  il  mondo  di  Dante.  E  il  mondo  di  Dante  con- 


—  187  — 

tiene  tutti  quei  mondi  iu  so.  È  il  mondo  universale  del 
medio  evo  realizzato  dall'  arte. 

Questa  immensa  materia  si  forma  e  si  sviluppa  se- 
condo il  concetto  in  tre  mondi,  de' quali  l'inferno  e  il 
paradiso  sono  le  due  forze  in  antagonismo,  carne  e  spi- 
rito, odio  e  amore  ,  e  il  purgatorio  è  il  termine  medio 
o  di  passagf^io:  tre  mondi,  dei  quali  la  letteratura  non 
offriva  che  povere  e  rozze  indicazioni,  e  che  escono  dalla 
fantasia  dantesca  vivi  e  compiuti. 

L' inferno  è  il  regno  del  male  ,  la  morte  dell'  anima  e 
il  dominio  della  carne,  il  caos;  esteticamente  è  il  brutto. 

Dicesi  che  il  brutto  non  sia  materia  d'arte,  e  che  l'arte 
sia  rappresentazione  del  bello.  Ma  è  arte  tutto  ciò  che 
vive  e  niente  è  nella  natura  che  non  possa  essere  nel- 
r  arte.  Non  è  arte  quello  solo  che  ha  forma  difettiva  o 
in  sé  contraddittoria ,  cioè  l' informe  o  il  deforme  o  il 
difforme:  e  perciò  non  è  arte  il  confuso,  l'incoerente,  il 
dissonante,  il  manierato,  il  concettoso,  1'  allegorico,  l'a- 
stratto, il  generale,  il  particolare:  tutto  questo  non  è 
vivo,  è  abbozzo  o  aborto  d'artisti  impotenti.  L'  altro,  bello 
o  brutto  che  si  chiami  in  natura,  esteticamente  è  sem- 
pre bello. 

In  natura  il  brutto  è  la  materia  abbandonata  a'  suoi 
istinti,  senza  freno  di  ragione:  e  ne  nasce  una  vita  che 
ripugna  alla  coscienza  morale  e  al  senso  estetico.  Alla 
sua  vista  il  poeta  vede  negata  la  sua  coscienza,  negato 
sé  stesso,  e  perciò  lo  concepisce  come  brutto  e  gli  dice: 
tu  sei  brutto.  Più  il  suo  senso  morale  ed  estetico  è  svi- 
luppato ,  e  più  la  sua  impressione  è  gagliarda  ,  più  lo 
vede  vivo  e  vero  innanzi  all'immaginazione.  Perciò  non 
pensa  a  palliarlo,  e  tanto  meno  ad  abbellirlo,  anzi  lo 
pone  in  evidenza  e  lo  ritrae  coi  suoi  pi'oprii  colori. 

Il  brutto  è  elemento  necessario  così  nella  natura,  corno 
nell'arte;  perché  la  vita  ò  generata  appunto  da  questa 
contraddizione  tra  il  vero  e  il  falso,  il  bene  e  il  mah, 


—  188  — 

il  bello  e  il  brutto.  Togliete  la  contraddizione,  e  la  vita 
si  cristallizza.  Verità  così  palpabile  che  le  immaginazioni 
primitive  posero  della  vita  due  principii  attivi ,  il  bene 
e  il  male,  1'  amore  e  1'  odio,  Dio  e  il  demonio  :  antago- 
nismo che  si  sente  in  tutte  le  grandi  concezioni  poeti- 
tiche.  Perciò  il  brutto  così  nella  natura,  come  nell'arte 
ci  sta  con  lo  stosso  dritto  che  il  bello,  e  spesso  con  mag- 
giori effetti,  per  la  contraddizione  che  scoppia  nell'anima 
del  poeta.  Il  bello  non  è  che  sé  stesso;  il  brutto  è  se 
stesso  e  il  suo  contrario,  ha  nel  suo  grembo  la  contrad- 
dizione, perciò  ha  vita  più  ricca,  più  feconda  di  situa- 
zioni drammatiche.  Non  è  dunque  maraviglia  che  il  brutto 
riesca  spesso  neh'  arte  più  interessante  e  più  poetico.  Me- 
fistofele  è  più  interessante  di  Fausto,  e  l' inferno  è  più 
poetico  del  paradiso. 

Dante  concepisce  l' inferno,  come  la  depravazione  del- 
l' anima,  abbandonata  alle  sue  forze  naturali ,  passioni , 
voglie,  istinti,  desiderii,  non  governati  dalla  ragione,  o 
<ìair  intelletto,  contraddizione  eh'  egli  esprime  con  l'ener- 
gia di  uomo  offeso  nel  suo  senso  morale: 

le  genti  dolorose        *^ 
Che  hanno  perduto  il  ben  dell'  intelletto. 
Che  lìbito  fé'  licito  in  sua  legge. 
Che  la  ragion  somn:iettono  al  talento. 

L'anima  è  dannata  in  eterno  per  la  sua  eterna  impe- 
nitenza; peccatrice  in  vita,  peccatrice  ancora  nello  in- 
ferno, salvo  che  qui  il  peccato  è  non  in  fatto,  ma  in 
desiderio.  Onde  neh'  inferno  la  vita  terrena  è  riprodotta 
tal  quale,  essendo  il  peccato  ancor  vivo,  e  la  terra  an- 
cora presente  al  dannato.  Il  che  dà  all'  inferno  una  vita 
piena  e  corpulenta,  la  quale  spiritualizzandosi  negli  altri 
due  mondi  diviene  povera  e  monotona.  Gli  è  come  un 
andare  dall'  individuo  alla  specie  e  dalla  specie  al  ge- 
nere. Più  ci  avanziamo,  e  più  i'  individuo  si  scarna  e  si 


—  189  — 

generalizza.  Questa  è  certo  perfezione  cristiana  e  mo- 
rale; ma  non  è  perfezione  artistica.  L'  arte  come  la  na- 
tura è  generatrice,  e  le  sue  creature  sono  individui,  non 
specie  0  generi ,  non  tipi  o  esemplari  ;  sono  res ,  non 
species  rerum.  Perciò  T  inferno  ha  una  vita  più  ricca  l. 
e  piena,  ed  è  de'  tre  mondi  il  più  popolare.  Aggiungi  che 
la  vita  terrena  o  infernale  è  colta  dal  poeta  nel  viva 
stesso  della  realtà  in  mezzo  a  cui  si  trova,  essendo  essa 
la  rappresentazione  epica  della  barbarie,  nella  quale  il 
rigoglio  della  passione  e  la  sovrabbondanza  della  vita 
trabocca  al  di  fuori.  Dante  stesso  è  un  barbaro,  un  eroico 
barbaro,  sdegnoso,  vendicativo,  appassionatissimo,  libera 
ed  energica  natura.  Al  contrario  la  vita  negli  altri  due 
mondi  non  ha  riscontro  nella  realtà,  ed  è  di  pura  fan- 
tasia, cavata  dall'  astratto  del  dovere  e  del  concetto,  e 
ispirata  dagli  ardori  estatici  della  vita  ascetica  e  con- 
templativa. 

Essendo  l' inferno  il  regno  del  male  o  della  materia 
in  sé  stessa  e  ribelle  allo  spirito  ,  la  legge  che  regola 
la  sua  storia  o  il  suo  sviluppo  è  un  successivo  oscurarsi 
dello  spirito,  insino  alla  sua  estinzione,  alla  materia  as- 
soluta. 

Il  suo  punto  di  partenza  è  l'indifferente,  l'anima  priva 
di  personalità  e  di  volontà,  il  negligente.  Il  carattere  qui 
è  il  non  averne  alcuno.  In  questo  ventre  del  genere  u- 
mano  non  è  peccato,  né  virtù,  perchè  non  è  forza  ope- 
rante ;  qui  non  è  ancora  inferno,  ma  il  preinferno,  il  pre- 
ludio di  esso.  Ma  se ,  moralmente  considerati ,  i  negli- 
genti tengono  il  più  basso  grado  nella  scala  de'  dannati, 
e  pajono  a  Dante  sciauraii  più  che  peccatori ,  il  con- 
cetto morale  rimane  estrinseco  alla  poesia,  e  non  serve 
che  a  classificare  i  dannati.  Altri  sono  i  criterii  del  poe- 
ta. La  morale  pone  i  negligenti  sul  Hmitare  dell'  inferno, 
la  poesia  li  pone  più  giù  dell'  ultimo  scellerato,  che  Dante 
stima  più  di  questi  mezzi  uomini.  E  la  poesia  é  d'accordo 


—  190  - 

con  la  tempra  energica  del  gran  poeta  e  de'  suoi  con- 
temporanei. A  quegli  uomini  vestiti  di  ferro  anima  e 
corpo  questi  esseri  passivi  e  insignificanti  doveano  ispi- 
rare il  più  alto  dispregio.  E  il  dispregio  fa  trovare  a 
Dante  frasi  roventi.  Sono  uomini  che  vìssero  senza  in- 
famia e  senza  lode ,  anzi  non  far  mai  vivi.  La  loro 
pena  è  di  essere  stimolati  continuamente^,  essi  che  non 
sentirono  stimolo  alcuno  nel  mondo.  La  pena  è  minima, 
eppure  tale  è  la  loro  fiacchezza  morale,  sono  così  vinti 
nel  duolo,  che  lacrimano  e  gettano  le  alte  strida,  che 
fanno  tumultuare  1'  aria  come  la  rena  quando  il  turbo 
spira.  A'  loro  piedi  è  la  loro  immagine,  il  verme.  Turba 
infinita,  senza  nome:  appena  accenna  ad  un  solo,  e  senza 
nominarlo,  colui  che  fece  per  viltate  il  gran  rifiuto. 
Il  loro  supplizio  è  la  coscienza  della  loro  viltà,  il  sen- 
tirsi dispregiati,  cacciati  dal  cielo  e  dall'  inferno.  Ritratto 
immortale,  e  popolarissimo,  di  cui  alcuni  tratti  sono  ri- 
masti proverbiali.  Esseri  poetici,  appunto  perchè  assolu- 
tamente prosaici,  la  negazione  della  poesia  e  della  vita: 
onde  nasce  il  sublime  negativo  degli  ultimi  tre  versi: 

V     Fama  di  loro  il  mondo  esser  non  lassa 
Misericordia  e  giustizia  gli  sdegna. 
Non  ragioniam  di  lor  ;  ma  guarda  e  passa. 

Se  i  negligenti  non  sono  neh'  inferno,  perchè  mancò 
loro  la  forza  del  bene  e  del  male,  gì'  innocenti  e  i  vir- 
tuosi non  battezzati  non  sono  in  paradiso  perchè  mancò 
loro  la  fede,  sono  nel  Limbo.  E  anche  qui  il  concetto 
teologico  ci  sta  per  memoria ,  per  semplice  classificazio- 
ne. La  poesia  nasce  da  altre  impressioni  e  da  altri  cri- 
terio Il  valore  poetico  dell'  uomo  non  è  nella  sua  mora- 
lità e  nella  sua  fede,  ma  nella  sua  energia  vitale;  non 
è  una  idea,  ma  una  forza  il  personaggio  poetico.  Per- 
ciò il  negligente,  considerato  esteticamente,  è  un  sublime 
negativo,  la  negazione  della  forza,  il  non  esser  vivo.  E 


—  191  — 

perciò  qui  nel  Limbo  la  mancanza  di  fede  è  un  semplice 
accessorio,  e  l'interesse  è  tutto  nel  valore  intrinseco  del- 
l' uomo,  come  essere  vivo,  come  forza.  Dio  ha  lo  stesso 
criterio  poetico  e  dà  ad  alcuni  un  luogo  distinto  non  per 
la  loro  maggiore  bontà,  ma  per  la  fama  che  loro  acqui- 
stò in  terra  la  grandezza  dell'  ingegno  e  delle  opere. 

L'  onorata  nominanza, 
Che  di  lor  suona  su  nel  vostro  mondo, 
Grazia  acquista  nel  elei  che  si  gli  avanza. 

Concetto  poco  ascetico  e  pòco  ortodosso  ;  ma  Dio  si  fa 
poeta  con  Dante  e  gli  fabbrica  un  Eliso  pagano,  un  Pan- 
teon di  uomini  illustri.  E  chi  vuol  trovare  le  impres- 
sioni di  Dante,  quando  alzava  questo  magnifico  tempio 
della  storia  e  della  cultura  antica,  e  le  impressioni  che 
ne  dovettero  ricevere  i  contemporanei,  ricordi  le  sue  im- 
pressioni quando  giovinetto  su'  banchi  della  scuola  gli  si 
affacciarono  le  meraviglie  di  questo  mondo  greco-latino. 
Aristotile^  Omero,  Virgilio,  Cesare,  Bruto,  ciascuno  di 
questi  nomi,  quante  memorie,  quante  fantasie  suscitava! 
Nudo  è  qui  un  elenco  di  nomi  tra  alcuni  tratti  carat- 
teristici che  segnano  i  protagonisti,  il  Signore  dell'al- 
tissimo canto  ,  e  il  maestro  di  color  che  sanno.  E 
colui  che  a  quella  vista  si  sente  esaltare  in  sé  stesso  e 
s' incorona  poeta  con  le  sue  mani  e  si  proclama  il  primo 
poeta  de'  tempi  nuovi,  sesto  tra  tanto  senno,  e  non  è  il 
Dante  dell'altro  mondo,  ma  Dante  Alighieri.  Ecco  ciò  che 
rende  il  Limbo  cosi  interessante,  come  il  mondo  de'  ne- 
gligenti, due  concezioni  originalissime  uscite  da  un  pro- 
fondo sentimento  della  vita  reale  e  rimaste  freschissime 
ne'  secoli.  Molti  tratti  sono  ancora  oggi  in  bocca  del 
popolo. 

Come  r  inferno  è  concepito  e  ordinato,  lo  spiega  nel 
canto  XI  il  poeta  stesso,  architetto  e  flloèofo  delle  sue 
costruzioni.  Qujl  regno  del  malo  è  partito  in  tre  mondi, 


—  192  — 

rispondenti  alle  tre  grandi  categorie  del  delitto:  la  in- 
continenza e  violenza,  la  malizia,  e  la  fredda  premedi- 
tazione. Ciascuna  di  queste  categorie  si  divide  in  generi 
e  specie,  in  cerchi  e  gironi.  Il  concetto  etico  di  questa 
scala  de'  delitti  è  che  dove  è  più  ingiuria,  è  più  colpa,  e 
l'ingiuria  non  è  tanto  nel  fatto  quanto  nell'intenzione. 
Perciò  la  malizia  e  la  frode  è  più  colpevole  della  incon- 
tinenza e  violenza,  e  la  fredda  premeditazione  de'  tradi- 
tori è  più  colpevole  della  malizia.  Indi  la  storica  evolu- 
zione dell'  inferno  dove  da'  meno  colpevoli ,  gì'  inconti- 
nenti, si  passa  alla  città  di  Dite,  sede  de'  violenti,  e  poi 
si  scende  in  Malebolge,  e  di  là  nel  pozzo  dei  traditori. 
Questo  è  r  inferno  scientifico  o  etico.  Ma  non  è  ancora 
r  inferno  poetico. 

La  poesia  dee  voltare  questo  mondo  intellettuale  in 
natura  vivente.  L'  ordine  scientifico  presenta  una  serie 
di  concetti  astratti,  il  poetico  una  serie  di  figure ,  di  fatti, 
e  d' individui:  il  primo  una  serie  di  delitti,  il  secondo  una 
serie  non  solo  d' individui  colpevoli,  ma  di  tali  e  tali  in- 
dividui. Dividere  in  categorie  significa  considerare  in  un 
gruppo  d' indvidui  non  quello  che  ciascuno  ha  di  proprio, 
ma  quello  che  ha  di  comune  col  gruppo  a  cui  appar- 
tiene. Così  una  classificazione  è  possibile,  una  esatta  ri- 
duzione a  generi  e  specie.  Ma  la  poesia  ritorna  1'  indivi- 
duo nella  sua  libera  personalità,  e  lo  considera  non  come 
essere  morale,  ma  come  forza  viva  e  operante.  E  più 
in  lui  è  vita ,  più  è  poesia.  Perciò ,  se  l' inferno,  come 
mondo  etico,  è  il  successivo  incattivirsi  d^llo  spirito,  si 
che  alla  violenza,  comune  all'  uomo,  e  all'  animale,  suc- 
cede la  malizia,  male  proprio  delV  uomo,  e  alla  malizia 
la  fredda  premeditazione,  questo  concetto  poeticamente 
rimane  ozioso  e  non  serve  che  alla  sola  classificazione. 
Come  natura  vivente  o  come  forma,  l'inferno  è  la  morte 
progressiva  della  natura,  la  vita  è  il  moto  che  manca 
a  poco  a  poco  sino  alla  compiuta  immobilità,  alla  materia 


—  193  — 

dove  insieme  con   la  vita  muore  la  poesÌP.  Indi  la  storia 
dell'  inferno. 

Dapprima  la  situazione  è  tragica;  il  motivo  è  la  pas- 
sione^ dove  la  vita  si  manifesta  in  tutta  la  sua  violenza; 
perchè  la  passione  raccoglie  tutte  le  forze  interiori,  di- 
stratte e  sparpagliate  nell'  uso  quotidiano  della  vita,  in- 
torno a  un  punto  solo,  di  modo  che  lo  spirito  acquista 
la  coscienza  della  sua  libertà  infinita.  Preso  per  sé  stesso 
lo  spirito  ed  isolato  dal  fatto,  la  sua  forza  è  infinita  e 
non  può  esser  vinta  neppure  da  Dio,  non  potendo  Dio 
fare  eh'  esso  non  creda,  non  senta,  e  non  voglia  quello 
che  crede ,  sente  e  vuole.  Non  vi  è  donnicciuola ,  cosi 
vile,  che  non  si  senta  forza  infinita,  quando  è  stretta 
dalla  passione.  Io  ti  amo,  e  ti  amerò  sempre,  e  se  dopo 
morte  si  ama,  ed  io  ti  amerò,  e  piuttosto  con  te  in  in- 
ferno, che  senza  te  in  paradiso.  Queste  sono  le  eloquenti 
bestemmie  che  traboccano  da  un  cuore  appassionato,  e 
che  rendono  eroiche  la  timida  Giulietta  e  la  gentile  Fran- 
cesca. 

Ma  quando  la  passione  vuole  realizzarsi,  s' intoppa  in 
un  altro  infinito,  nell'ordine  generale  delle  cose,  di  cui 
si  sente  parte  e  innanzi  a  cui  è  un  fragile  individuo.  E 
n'  esce  la  tragica  collisione  tra  la  passione  e  il  Fato,  l'uo- 
mo e  Dio,  il  peccato.  Nella  vita  né  la  passione,  né  il 
fato  sono  nella  loro  purezza,  la  passione  ha  le  sue  fiac- 
chezze e  oscillazioni;  il  fato  talora  è  il  caso,  o  l'espres- 
sione collettiva  di  tutti  gli  ostacoli  naturali  e  umani  in 
cui  intoppa  il  protagonista.  Ma  nell'  inferno  l'anima  è  iso- 
lata dal  fatto,  ed  è  pura  passione  e  puro  carattere,  per- 
ciò inviolabile  e  onnipotente,  e  il  Fato  è  Dio,  come  eterna 
giustizia  é  legge  morale:  onde  la  prima  parte  dell'  inferno, 
ove  incontinenti  e  violenti,  esseri  tragici  e  appassionati, 
mantengono  la  loro  passione  di  rincontro  a  Dio,  è  la  tra- 
gedia delle  tragedie,  1'  eterna  collisione  ueilo  sue  epiche 
proporzioni. 

F.  De  duiicùti.  —  Leu.  lul.  Voi.  I.  18 


—  194  — 

Tutto  questo  mondo  tragico  è  penetrato  dello  stesso 
concetto.  La  natura  infernale  non  è  ancora  laida  e  brut- 
ta; anzi  balzan  fuori  tutt'  i  caratteri  che  la  rendono  un 
sublime  negativo,  l'eternità,  la  disperazione,  le  tenebre. 
L'  Eterno  è  sublime,  perchè  ti  mostra  undOS  sempre 
allo  stesso  punto,  per  quanto  tu  ti  avvicini;  la  dispera- 
zione è  sublime  perchè  ti  mostra  un  fine  non  possibile 
a  raggiungere,  per  quanto  tu  operi;  la  tenebra  è  su- 
blime, come  annullamento  della  forma  e  morte  della  fan- 
tasia, per  quella  stessa  ragione  che  è  sublime  la  morte,  il 
male,  il  nulla.  Leggete  la  scritta  sulla  porta  dell'  inferno. 
Ne'  primi  tre  versi  è  l'eterno  immobile  che  ripete  sé  stes- 
so, dolore,  dolore  e  dolore,  quel  luogo,  quel  luogo  e 
quel  luogo,  per  me  ,  e  per  me ,  insino  a  che  in  ultimo 
r  eterno  risuona  nella  coscienza  del  colpevole  come  di- 
sperazione: 

Uscite  di  speranza  voi  che  entrate. 

La  luce,  il  dolce  lome,  rende  sublimi  le  tenebre,  morte 
del  sole  e  delle  stelle  e  dell'  occhio,  come  è  V  aer  senza 
stelle,  e  il  loco  d'  ogni  luce  muto,  e  quel  ficcar  lo  viso 
al  fondo  e  non  discernere  alcuna  cosa.  Certo  l'eter- 
nità, le  tenebre  e  la  disperazione  sono  caratteri  comuni 
a  tutto  l'inferno;  ma  solo  qui  sono  poesia,  quando  l'in- 
ferno si  affaccia  per  la  prima  volta  alla  immaginazione 
nella  gagliardia  e  freschezza  delle  prime  impressioni. 
Appresso  diventano  spettacolo  ordinario,  come  è  il  sole, 
visto  ogni  giorno. 

E  Dante  che  parte  da  principii  preconcetti  nelle  sue 
costruzioni  scientifiche,  quando  è  tutto  nel  realizzare  e 
formare  i  suoi  mondi,  opera  con  piena  spontaneità,  ab- 
bandonato alle  sue  impressioni.  Il  canto  terzo  è  il  primo 
apparire  dell'  inferno,  e  come  ci  si  sente  la  prima  im- 
pressione, come  si  vede  il  poeta  esaltato,  turbato  dalla 
sua  visione,  assediato  di  forme,  di  fanta^^mi,  impazienti 


^  195  — 

dì  venire  alla  luce.  In  quel  diverse  voci,  orribili  faveL  (/ 
le  ec.  non  ci  è  solo  il  grido  de'  negligenti;  ci  è  li  tutto 
r  interno,  che  manda  il  suo  primo  grido.  Quel  canto  del 
sublime  è  una  sola  nota  musicale  variamente  graduata, 
è  l'eterno,  il  tenebroso,  il  terribile,  l' infinito  dell'inferno 
che  invade  e  ispira  il  poeta  e  vien  fuori  co'  vivi  colori 
della  prima  impressione,  è  il  vero  canto  del  regno  dei 
morti,  della  moria  gente,  è  1'  albero  della  vita  ,  che  il 
poeta  sfronda  a  foglia  a  foglia  ad  ogni  passo  che  fa  e 
ne  toglie  la  speranza  : 

Lasciate  ogni  speranza  voi  che  entrate. 
E  ne  toglie  le  stelle  : 

Risonavan  per  1'  aer  senza  stelle. 

E  ne  toglie  il  tempo: 

Facevano  un  tumulto  il  qual  s'aggira 
Sempre  in  queir  aria  senza  tempo  tinta. 

E  ne  toglie  il  cielo: 

Non  isperate  mai  veder  lo  cielo. 
E  ne  toglie  Dio: 

Ch'  hanno  perduto  il  ben  dello  intelletto. 

Questa  natura  sublime  dapprima  è  indeterminata,  senza 
contorni,  cerchio,  loco,  null'altro:  la  diresti  natura  vuota, 
se  non  la  riempissero  1'  eternità  e  le  tenebre  e  la  morte 
e  la  disperazione.  Nel  regno  de'  violenti  prende  una  forma. 
Si  esce  dal  sublime  :  si  entra  nel  belio  negativo.  Incontri 
tutto  ciò  che  è  figura,  ordine,  regolarità,  proporzione  in 
terra;  anzi  con  vocabolo  umano  è  chiamata  città,  la  città 
di  Dite.  Vedi  selve,  laghi,  sepolcri;  e  1'  effetto  poetico 


—  196  — 

nasce  dal  trovare  la  stessa  figura,  ma  spogliata  di  tutti 
gli  accessorii  che  la  rendono  bella  in  terra. 

Non  frondi  verdi,  ma  di  color  fosco: 
Non  rami  schietti,  ma  nodosi  e  involti: 
Non  pomi  v'  eran,  ma  stecchi  con  tosco. 

La  natura  spogliata  della  sua  vita,  del  suo  cielo,  della 
sua  luce,  delle  sue  speranze  è  un  sublime  che  ti  gitta 
neir  animo  il  terrore  ;  la  natura  spogliata  della  sua  bel- 
lezza è  un  bello  negativo  ,  pieno  di  strazio  e  di  malin- 
conia. È  la  natura  snaturata,  depravata,  a  immagine  del 
peccato  :  con  la  virtù  se  n'  è  ita  la  bellezza,  sua  faccia. 

Questa  natura  snaturata  vien  fuori  con  maggior  vita 
nelle  pene.  Perchè  il  concetto  nella  natura  sta  immobile 
come  neir  architettura  e  nella  coltura  ;  dove  nelle  pene 
acquista  ogni  varietà  di  attitudini  e  di  movenze.  Le  pene 
sono  la  coscienza  fatta  materia,  e  qui  esprimono  la  vio- 
lenza della  passione.  In  quella  natura  eterna  e  tenebrosa 
ode  un  mugghio  come  fa  mar  'per  tempesta ,  e  il  ro- 
vescio della  grandine^  e  il  cozzo  delle  moltitudini  :  moti 
disordinati,  violenti,  come  i  moti  dell'  animo.  Vedi  tombe 
ardenti,  laghi  di  sangue,  alberi  che  piangono  e  parlano, 
la  natura  sforzata  e  snaturata  dal  peccatore.  GU  strani 
accozzamenti  producono  1'  effetto  del  maravigUoso  e  del 
fantastico,  ma  il  fantastico  è  presto  vinto  e  ti  pigHa  il 
raccapriccio  e  V  orrore.  Il  poeta  prende  in  troppa  serietà 
il  suo  mondo  per  darsi  uno  spasso  di  artista  e  sorpren- 
derci con  colpi  di  scena:  tocca  e  passa,  e  non  vuol  fare 
effetto  sulla  tua  immaginazione,  vuol  colpire  la  tua  co- 
scienza. Dove  il  fantastico  è  più  sviluppato,  è  nella  selva 
de' suicidi;  ma  anche  h  vien  subito  la  spiegazione,  eia 
maravigha  dà  luogo  ad  una  profonda  tristezza. 

Ma  il  concetto  non  ha  ancora  la  sua  subiettività,  non 
è  ancora  anima.  Un  primo  grado  di  questa  forma  è  nel 
demonio.  Cielo  e  inferno  sono  stati  sempre  popolati  di 


—  197  — 

leo^ioni  angeliche  e  sataniche,  che  riempiono  l' intervallo 
tra  r  uomo  e  Dio,-  tra  I'  uomo  e  Satana.  E  la  storia  del 
bene  e  del  male  che  si  sviluppa  nella  nostra  anima,  un 
progressivo  iiidiarsi  o  indemoniarsi.  Diversi  di  nomi  e  di 
forme  secondo  le  religioni  e  le  civiltà,  i  demonii  hanno 
\)LH'  base  i  diversi  gradi  del  male,  e  per  forma  il  gigan- 
tesco e  il  mostruoso,  il  puro  terrestre ,  il  bestiale  giunto 
all'umano,  e  spesso   preponderante,  come  nella  stìnge, 
nella  chimera,  in  Cerbero.  Il  demonio  di  Dante  non  ha 
più  la  sua  storia,  come  in   terra,  spirito  tentatore  ac- 
canto all'uomo  e  ribelle  e  rivale  di  Dio.  Qui  è  immo* 
bilizzato  come  V  uomo,  la  sua  storia  è  finita;  cosa  gli  re- 
sta ?  Soffrire  e  far  soffrire ,  vittima   e   carnefice  a  un 
tempo,  simbolo  esso  stesso  e  immagine  del  peccato  che 
fi  Igeila  nell'uomo.  Il  Satana  di  Milton  e  Mefistofele,  che 
combattono  contro  di  Dio  e  contro  1'  uomo  ,  erano  com- 
piute persone  poetiche.  Altra  è  qui  la  situazione  e  altro 
è  il  demonio.  Esso  è  il  vinto  di  Dio,  e  meno  che  uomo, 
perchè  non  è  dell'  uomo,  che  una  sua  parte  sola,  il  pec- 
cato. E  piuttosto  tipo,  specie,  simbolo,  che  persona.  È  il 
più  basso  gradino  nella  scala  degli   esseri   spirituali,  lo 
spirito  tra  1'  umano  e  il  bestiale,  in  cui  l' intelletto  è  an- 
cora istinto  e  la  volontà  è  ancora   appetito.  Figure  vive 
e  mobili  della  colpa  ma  figure,  semplice  esteriorità:  non 
carattere,  non  passione,  non  inteUigenza,  non  volontà. 
Fra  gl'incontinenti  e  i  violenti  il  demonio  è  tragico  e 
serio  ;  è  azione  mimica  e  tutta  esterna,  passione  tradotta 
in  moti  e  gesti,  senza  la  parola,  salvo  brevi  impreca- 
zioni. La  natura  ti  dà  figura  e  colore:    qui  la  figura  si 
muove,  e  il  colore  si   anima  ,  è  la  figura   in   azione.  Il 
poeta  ha  scossa  la  polvere  dalle  antiche  forme  pagane, 
e  le  ha  rifatte  e  rinnovate.  Come  a  costruire  il  suo  in- 
ferno toglie  alla  terra  le  sue  forme,  e  strappandole  dal 
circolo  loro  assegnato  le  compon    diversamente  e  ti  cri  a 
una  nuova  natu/a;  così  ad  esprimere  lo  spirito  toghe 


—  198  — 

dalla  mitologia  tutte  le  forme  demoniacne,  Minos,  Ca- 
ronte, Cerbero,  Fiuto,  Gerione,  le  Arpie,  le  Furie,  e  le 
trasporta  nel  suo  inferno:  le  trova  vuote  e  libere,  spo- 
gliate di  concetto,  di  vita  e  di  religione,  e  le  ricrea,  le 
battezza  ;  impressovi  sopra  il  suo  pensiero  e  la  sua  re- 
ligione. Il  demonio  meno  lontano  dall'  uomo  è  Caronte, 
in  cui  vien  fuori  V  apparenza  di  un  carattere:  impaziente, 
rissoso,  manesco,  che  grida  e  batte.  Il  poeta  si  è  ben 
guardato  di  sviluppare  il  comico  che  è  in  questo  carat- 
tere: la  figura  di  Caronte  rimane  severa  e  grave,  e  non 
fa  dissonanza  con  la  solennità  della  natura  infernale,  dove 
si  trova  collocata.  Minos  è  il  giudizio  rappresentato  in 
modo  affatto  esteriore  e  plastico,  e  rapido  come  saetta: 

Dicono  e  odono  e  poi  son  giù  volte. 

Le  altre  figure  sono  schizzi,  appena  disegnati;  inge- 
gnoso è  il  ritratto  di  Gerione,  che  ha  ispirato  una  delle 
più  belle  ottave  dell'Ariosto. 

Noi  concepiamo  oramai  la  costruzione  de'  singoU  canti. 
Il  poeta  comincia  col  porci  innanzi  la  natura  del  luogo 
e  la  qualità  della  pena  ;  il  demonio  ora  precede,  ora  vien 
subito  dopo,  poi  vedi  peccatori  presi  insieme  e  misti,  non 
ancora  l'individuo,  ma  1'  uomo  collettivo,  gruppi  di  mezzo 
a'  quali  spesso  si  stacca  l'individuo  e  tira  la  tua  attenzione. 

I  gruppi  sono  1'  espressione  generale  del  sentimento  che 
riempie  i  peccatori  nella  società  infernale;  sono  la  pa- 
rentela del  delitto,  dove  trovi  nello  stesso  lago  di  san- 
gue i  tiranni  Ezzelino  e  Attila  e  gli  assassini  di  strada 
Rinier  da  Corneto  e  Rinier  Pazzo. 

Come  nella  natura  e  nel  demonio,  cosi  ne'  gruppi  1'  a- 
spetto  è  dapprima  severo  e  tragico.  Essi  esprimono  il 
sublime  dello  spirito  ,  la  disperazione.  L'  uomo  ha  bisogno 
di  avere  innanzi  a  sé  qualche  cosa  cui  tenda;  al  pen- 
siero succede  pensiero  ;  il  cuore  vive  quando  da  senti- 
mento germoglia  sentimento  ;  1'  uomo  vive  quando  è  in 


—  199  — 

un'  onda  assidua  di  pensieri  e  di  sentimenti  ;  la  dispera- 
zione è  ranniiUamento  della  vita  morale,  la  stagnazione 
del  pensiero  e  del  sentimento,  la  morte ,  il  nulla ,  il  caos, 
le  tenebre  dello  spirito,  un  sublime  negativo.  Come  il 
sublime,  delle  tenebre  è  nella  luce  che  muore,  il  sublime 
della  disperazione  è  nella  morte  della  speranza: 

Nulla  speranza  li  conforta  mai 
Non  che  di  posa,  ma  di  minor  pena. 

L'espressione  estetica  della  disperazione  è  la  bestem- 
mia, violenta  reazione  dell'  anima,  innanzi  a  cui  tutto  muo- 
re, e  che  nel  suo  annichilamento  involge  1'  universo . 

Bestemmiavano  Iddio  e  i  lor  parenti, 
L'  umana  specie  e  il  luogo  e  il  tempo  e  il  seme 
Di  lor  semenza  e  di  lor  nascimenti. 

La  passione  trasforma  la  faccia  dell'uomo  abitualmente 
tranquilla,  il  peccato  gli  siede  sulla  fronte  e  fiammeggia 
negli  occhi  ;  momento  fuggevole  che  Dante  coglie  e  rende 
eterno  ne'  suoi  gruppi.  Gli  avari  stanno  col  pugno  chiu- 
so, gì'  irosi  si  lacerano  le  membra:  violenza  di  moti  ap- 
passionati, niente  che  sia  basso  o  vile;  puoi  abborrirli, 
non  puoi  disprezzarli. 

Immaginate  una  piramide.  Nella  larghissima  base  ve- 
dete la  natura  infernale.  Più  su  è  il  demonio,  figura  be- 
stiale in  faccia  umana,  bestia  talora  in  tutto,  mai  in  tutto 
uomo.  Alzate  ancora  1'  occhio  e  vedete  gruppi  nella  vio- 
lenza della  passione.  È  la  stessa  idea  che  si  sviluppa  e 
si  spiritualizza,  insino  a  che  da  questo  tripUce  fondo  si 
eleva  sulla  cima  la  statua,  l' individuo  libero,  l' idea  nella 
sua  individuale  realtà,  e  più  che  l' idea,  sé  stesso  nella 
sua  libertà.  È  di  mezzo  a  quella  folla  confusa,  a  quei 
gruppi  che  escono  i  grandi  uomini  dell'  inferno  o  piutto- 
sto della  terra;  è  da   questa  triplice  base  dell'  eternità 


—  200  — 

che  esce  fuori  il  tempo  e  la  storia  e  V  Italia  e  più  che 
altri  Dante  come  uomo  e  come  citta<ìin(). 

L'inferno  degl' incpntinenti  e  de' violenti  è  il  regno 
delle  grandi  figure  poetiche.  Qui  trovi  come  in  una  gal- 
leria di  personaggi  eroici  Francesca,  Farinata,  Caval- 
canti, Pier  delle  Vigne,  Brunetto  Latini,  Capaneo,  Dante 
il  Fato,  Dio  e  la  Fortuna.  Sono  in  presenza  forze  co- 
lossali, la  energia  della  passione  e  la  serenità  del  Fato. 
Qui  è  Francesca  eternamente  unita  al  suo  Paolo,  là  è 
la  Fortuna  che  non  ode  le  imprecazioni  degli  uomini  e 
beata  si  gode.  Ora  ti  percote  il  suono  della  divina  giu- 
stizia che  in  eterno  rimbomba;  ora  ti  stupisce  Capaneo 
che  tra  le  fiamme  oppone  sé  a  tutte  le  folgori  di  Giove. 
Su  questo  fondo  tragico  s' innalza  la  libera  persona  uma- 
na e  vi  si  spiega  in  tutta  la  ricchezza  delle  sue  facoltà. 
Qui  usciamo  dalle  astrattezze  mistiche  e  scolastiche  e 
prendiamo  possesso  della  realtà.  La  donna  non  è  più 
Beatrice,  il  tipo  realizzato  de'  trovatori,  fluttuante  ancora 
tra  r  idea  e  la  realtà;  qui  acquista  carattere,  storia,  pas- 
sioni, una  ricca  e  vivace  personalità  è  Francesca  da  Ri- 
mini, la  prima  donna  del  mondo  moderno.  L'uomo  non 
è  più  il  santo  con  le  sue  estasi  e  le  sue  visioni;  qui  ha 
la  sua  patria,  il  suo  uffizio,  il  suo  partito,  la  sua  fami- 
glia, le  sue  passioni  e  il  suo  carattere;  è  Farinata,  è 
Cavalcanti,  è  Brunetto,  è  Pier  delle  Vigne,  è  Dante  Ali- 
ghieri, alla  cui  fiera  natura  Virgilio  applaude: 

Alma  sdegnosa. 
Benedetta  colei  che  in  te  s' incinse  ! 

L' inferno  dà  loro  una  realtà  più  energ'ca ,  creando 
nuove  immagini  e  nuovi  colori.  Pier  delle  Vigne  giura 
per  le  nuove  radici  del  suo  legno.  Farinata  dice: 

Ciò  mi  tormenta  più  che  questo  letto. 


—  :^0i  — 

Air  annunzio  della  morte  del  figlio.  Cavalcanti 
Supin  ricadde  e  più  non  parve  fuori. 

Brunetto  raccomanda  il  suo  Tesoro,  nel  quale  si  sento 
vivere  ancora.  Capaneo  può  dire:  qual  io  fui  vivo,  tal 
son  morto.  E  Francesca  ricorda  il  tempo  felice  nella  mi- 
seria. L' inferno  è  il  loro  piedistello,  sul  quale  si  ergono 
col  petto  e  con  la  fronte,  affermando  la  loro  umanità. 
Nascono  situazioni  e  forme  novissime  che  danno  rilievo 
alle  figure  e  a'  sentimenti. 

Questo  mondo  tragico  dove  l'impeto  della  passione  e 
la  violenza  del  carattere  mette  in  gioco  tutte  le  forze 
della  vita,  ha  la  sua  perfetta  espressione  in  questi  grandi 
individui  rimasti  così  vivi  e  giovani  e  popolari ,  come 
Achille  ed  Ettore.  È  il  mondo  della  grande  poesia,  della 
epopea  ^  delln  tragedia.  E  ora  quale  contrasto  !  Lascia- 
mo appena  le  falde  dilatate  di  foco  e  la  rena  che  s' in- 
fiamma come  esca  sotto  fucile,  e  ci  troviamo  in  una  poz- 
zanghera che  fa  zuffa  con  gli  occhi  e  col  naso.  Lasciamo 
i  tragici  demonii  dell'  antichità,  i  centauri  e  le  arpie,  e 
incontriamo  diavoli  con  le  corna  e  armati  di  frusta,  e 
vilissimi  uomini  che  alle  prime  percosse  scappano  senza 
aspettar  le  seconde  né  le  terze.  In  luogo  di  Capaneo  con 
la  fronte  levata,  il  primo  che  vediamo  ha  gli  occhi  bassi, 
vergognoso  di  mostrarsi:  e  Dante,  così  riverente  e  pie- 
toso sinora  e  anche  sdegnoso,  diviene  maligno  e  sarca- 
stico e  compone  per  la  prima  volta  il  labbro  ad  un  sor- 
riso sardonico.  Chiama  salse  pungenti  quel  letamajo  , 
che  dagli  uman  privati  par  ea  mosso.\]vi  altro  lo  sgrida: 
Perchè  sei  tu  bi  ingordo  di  riguardar  più  me  che  gli  al- 
tri brutti?  E  Dante  che  lo  vede  col  capo  lordo  ,  tanto 
che  non  paroa  s' era  laico  o  cherco ,  gli  ricorda  cru- 
delmente di  averlo  veduto  in  terra  co'  capelli  asciutti. 
E  quegli  esprime  il  suo  dolore,  battendosi  la  zucca.  Tutto 
è  mutato,  natura,  demonio  e  uomo,  immagini  e  stile.  Ca- 


—  202  — 

diamo  in  pieno  plebeo.  Chi  sono  questi  uomini?  Sono 
adulatori  e  meretrici  dannati  alla  stessa  pena:  gli  uni 
vendono  1'  anima ,  le  altre  vendono  il  corpo.  Sentite  che 
noi  passiamo  in  un  altro  mondo,  nel  mondo  de'  fraudo- 
lenti. 

Esteticamente,  il  mondo  de'  fraudolenti  è  la  prosa  della 
vita ,  precipitata  dal  suo  piedistallo  ideale ,  e  divenuta 
volgarità.  È  la  passione  che  si  muta  in  vizio;  il  carat- 
tere che  diviene  abitudine;  la  forza  che  diviene  malizia. 
La  passione  è  poetica ,  perchè  ha  virtù  di  concitare  tutte 
le  forze  dell'  animo,  si  eh'  elle  prorompano  di  fuori  libe- 
ramente :  il  vizio  è  la  passione  fatta  abitudine ,  ripeti- 
zione degli  stessi  atti,  un  fare  perchè  si  è  fatto  :  è  1'  ar- 
tista divenuto  artefice,  1'  arte  divenuta  mestiere.  L'uomo 
appassionato  spiritualizza  la  sua  azione,  ci  mette  dentro 
sé  stesso,  ma  nel  vizioso  l'anima  è  sonnolenta,  la  sua 
azione  è  stupida  materia,  atto  meccanico  a  cui  lo  spi- 
rito rimane  estraneo.  La  passione  produce  il  carattere, 
la  forte  volontà  che  è  la  stessa  passione  in  continua- 
zione ;  il  vizio  ha  compagna  la  fiacchezza  e  bassezza  del- 
l' anima,  non  essendo  altro  la  bassezza  che  l'abdicazione 
e  r  apostasia  della  propria  anima.  I  grandi  caratteri  si- 
curi di  sé  hanno  a  loro  istrumento  la  forza,  impetuosi 
fino  all'  imprudenza,  semplici  fino  alla  credulità;  gli  animi 
fiacchi  hanno  a  loro  istrumento  la  malizia,  coscienza  della 
loro  impotenza,  e,  pipistrelli  notturni,  assaltano  alle  spalle, 
e  non  osano  guardare  in  viso. 

In  questo  mondo  il  di  fuori  è  mutato,  perchè  mutato 
è  il  di  dentro,  ove  non  trovi  più  caratteri  e  passioni,  ma 
vizio,  bassezza  e  malizia,  lo  spirito  oscurato  e  materia- 
lizzato, la  dissoluzione  della  vita.  A  quei  cerchi  indeter- 
minati, a  quella  città  rosseggiante  di  Dite,  nomi  e  figure 
terrene,  succede  un  non  so  che  ,  una  cosa  senza  nome, 
che  il  poeta  chiama  bizzarramente  Malebolge,  una  na- 
tura sformata  e  in  dissoluzione,  ripe  scoscese,  scogU  mo- 


—  203  — 

bili  che  fanno  da  ponticelli ,  e  giù  valloni  paladosi,  dove 
le  acque  finora  impetuose  e  correnti  stagnano  e  si  pu- 
trefanno, valloni  angusti,  bolgie,  valigie,  borse,  che  strin- 
gendosi più  e  più  vanno  in  un  pozzo:  natura  piccola,  in 
rovina  e  putrefazione.  Al  demonio  mitologico  iroso  e  ap- 
passionato succede  il  diavolo  cornuto,  essere  grottesco, 
0  piuttosto  i  diavoli  che  vanno  in  frotte,  e  si  mescolano 
in  ignobili  parlari  con  la  gente  più  abbietta,  e  canzonano 
e  sono  canzonati,  maliziosi,  bugiardi ,  plebei ,  osceni.  Al 
vivo  movimento  delle  bufere  e  delle  grandini  e  delle  fiam- 
me succede  la  materia  in  decomposizione,  quanti  strazi 
di  carne  umana  ti  offrono  i  campi  di  battaglia,  e  quante 
malattie  ti  offre  lo  spedale.  Tali  la  natura,  il  demonio,  le 
pene.  Vedi  ora  1'  uomo.  La  faccia  umana  è  rimasta  finora 
inviolata  ;  innanzi  all'  immaginazione  la  passione  inver- 
miglia la  faccia  di  Francesca,  e  la  grandezza  dell'anima 
pare  nella  faccia  dell'  uomo  che  si  leva  diritto  dalla  cin- 
tola in  su.  Qui  la  faccia  umana  sparisce:  hai  caricature 
e  sconciature  di  corpi.  Uomini  cacciati  in  una  buca,  capo 
in  giù,  piedi  in  su;  volti  travolti  in  su  le  spalle,  si  che 
il  pianto  scende  giù  per  le  reni;  visi,  occhi  e  corpi  im- 
bacuccati e  incappucciati;  musi  umani  fuor  della  pegola 
a  modo  di  ranocchi  ;  corpi  altri  smozzicati ,  accismati , 
altri  marciti  e  imputriditi,  scabbiosi,  tisici,  idropici.  Di 
questa  figura  umana  deturpata  e  contraffatta  V  immagine 
più  viva  è  Bertram  dal  Bormio,  il  cui  busto  si  fa  lan- 
terna del  suo  capo  che  porta  pesol  per  le  chiome.  In  que- 
sto mondo  prosaico  e  plebeo,  che  comincia  con  Taide  e 
finisce  con  mastro  Adamo,  la  materia  ovvero  la  parte 
bestiale  prevale  tanto,  che  spesso  siamo  in  sul  doman- 
darci. Costoro  sono  uomini  o  bestie?  Non  sono  ancora 
bestie,  e  1'  uomo  già  muore  in  loro  : 

Che  non  è  nero  ancor  e  il  bianco  muore. 

Sono  figure  miste  in  una  faccia  tra  bestiale  e  umana  ;  e 


—  204  — 

la  più  profonda  concezione  di  Malebolge  è  questa  tra- 
sformazione dell'  uomo  in  bestia,  e  della  bestia  in  uomo: 
hanno  1'  appetito  e  l' istinto  della  bestia ,  hanno  la  co- 
scienza dell'  uomo.  Si  sanno  uomini  e  sono  bestie  ;  e  qui 
è  la  pena,  nella  coscienza  umana  che  loro  è  rimasta. 

La  forma  estetica  di  questo  mondo  è  la  commedia,  rap- 
presentazione de'  difetti  e  de'  vizii.  Fra  tanta  fiacchezza 
della  personalità  il  grande  uomo ,  l' individuo,  è  gittato 
neir  ombra,  e  vien  su  il  descrittivo,  l'esteriorità.  Nell'in- 
ferno tragico  le  descrizioni  sono  sobrie  e  rapide,  l' inte- 
resse principale  è  negU  attori  che  prendono  la  parola; 
qui  è  un  gregge  muto  visto  da  lontano  ;  Virgilio  dice  a 
Dante:  Vedi  la  Mirra,  vedi  Giasone,  vedi  Manto.  Ap- 
pena è  so  qualche  epiteto  ti  segua  in  fronte  alcuno  dei 
più  grandi  personaggi,  come  si  fa  di  Giasone: 

E  per  dolor  non  par  lacrima  spanda. 

Prima  dite:  il  canto  di  Francesca,  di  Farinata,  di  Ser 
Brunetto  Latini  ;  ora  dite  :  il  canto  dei  ladri,  de'  falsa- 
rli, dei  truffatori  :  vi  sono  gruppi,  non  individui  ;  vi  è  il 
descrittivo,  manca  il  drammatico.  Manca  la  grandezza 
negli  attori,  e  manca  la  pietà  negli  spettatori.  La  figura 
umana  così  torta,  che  il  pianto  degli  occhi  bagnava  le 
natiche ,  cava  a  Dante  lacrime  ;  1'  homo  sum  si  sente 
colpito  in  lui;  ma  Virgilio  lo  sgrida: 

Ancora  sei  tu  degli  altri  sciocchi? 

Qui  vive  la  pietà,  quand'  è  ben  morta. 

Abbonda  il  descrittivo  ;  l' immaginazione  di  Dante  è  cosi 
robusta,  che  avendo  a  fare  con  oggetti  cosi  fuori  della 
natura,  non  che  sentirsi  impacciata,  pare  che  scherzi: 
con  tanta  facilità  e  spontaneità  esprime  le  più  varie  e 
strane  attitudini  :  la  fiamma  parla  come  lingua  d' uomo; 
le  zanche  piangono  e  fremono.  Il  più  grande  sforzo  della 


—  205  — 

immaginazione  umana  è  la  trasformazione  di  uomini  in 
bestie,  nel  canto  XXV,  quantunque  la  soverchia  minu- 
tezza generi  sazietà. 

Fra  tanti  gruppi  sorge  qua  e  là  alcuno  individuo  in 
cui  si  sviluppa  con  più  chiara  coscienza  il  concetto  di  Ma- 
lebolge.  Un  lato  serio  di  questo  concetto  è  lo  spirito  che 
varca  il  limite  assegnatogli.  Se  la  ragione  potesse  ve- 
der tutto ,  meslier  non  era  partorir  Maria.  L'  espe- 
rienza avea  le  sue  colonne  d'  Ercole  ;  la  ragione  aveva 
pure  le  sue  colonne.  Questo  concetto  qui  è  serio,  non  è 
sublime,  né  tragico  ;  perchè  1'  uomo  che  con  la  temerità 
oraziana  sforza  la  natura,  e  qui  non  dirimpetto  a  Dio 
come  Prometeo  e  Capaneo,  ma  colpito  e  soggiogato,  senza 
che  in  lui  paja  vestigio  di  ribellione ,  di  orgoglio  e  di 
violenza  : 

Dove  vai, 
Anfiarao  ?  perchè  lasci  la  guerra? 
E  non  restò  di  rovinare  a  valle, 
Fino  a  Minòs  che  ciascheduno  afferra. 

L' uomo  di  Orazio  è  subhme,  perchè  lo  vedi  nell'opera, 
senti  in  lui  la  voluttà  del  frutto  proibito,  malgrado  Dio 
e  la  Natura.  Anfiarao  è  un  puro  nome  ;  sublime  di  ter- 
rore è  quel  suo  precipitare  a  valle,  mostrandocelo  suc- 
cessivamente inabissarsi,  ma  il  grottesco  vien  subito  dupo: 

Mira  che  ha  fatto  petto  delle  spalle: 
Perchè  volle  veder  troppo  davante. 
Di  rietro  guarda  e  fa  ritroso  calle. 

Ulisse,  che  ha  varcato  i  segni  di  Ercole,  è  travolto  nelle 
acque  per  giudizio  di  Dio,  come  a  lui  piacque.  Pure  uu 
po'  dell'  audacia  di  Ulisse  è  ancora  in  Dante ,  che  gli 
mette  in  bocca  nobili  parole,  e  ti  fa  sentire  quali*  ardente 
curiosità  del  sapere  che  invadeva  i  contemporanei.  Ti  par 
di  assistere  al  viaggio  di  Colombo.  Il  peccato  diviene  virtù. 


—  206  — 

Se  la  logica  ghibellina  pone  in  inferno  1'  autore  dell'ag- 
guato contro  Troja,  radice  dell'impero  sacro  romano, 
la  poesia  alza  una  statua  a  questo  precursore  di  Colombo, 
che  indica  col  braccio  nuovi  mari  e  nuovi  mondi,  e  dice 
a'  compagni  : 

Considerate  la  vostra  semenza: 

Fatti  non  foste  a  viver  come  bruti, 
Ma  per  seguir  virtute  e  conoscenza. 

Ulisse  è  il  grand'  uomo  solitario  di  Malabolge.  È  una  pi- 
ramide piantata  in  mezzo  al  fango.  Il  comico  penetra  da 
tutt'  i  lati,  traendosi  appresso  il  lordo,  Y  osceno,  il  di- 
sgustoso :  lo  spirito,  divenuto  malizia,  è  qui  decaduto,  de- 
gradato; e  con  lui  si  oscura  la  nobile  faccia  umana.  Ulisse 
stesso  per  la  sua  malizia  ha  la  sua  figura  coperta  e  fa- 
sciata dalle  fiamme.  Siamo  in  un  mondo  comico. 

La  regina  delle  forme  comiche  è  la  caricatura,  il  di- 
fetto colto  come  immagine  e  ideahzzato.  Al  che  si  richiede 
che  il  personaggio  operi  ingenuamente  e  brutalmente,  co- 
me non  avesse  coscienza  del  suo  difetto,  a  quel  modo 
che  si  vede  in  Sancio  Panza  e  in  don  Abbondio,  eccel- 
lenti caratteri  comici.  I  dannati  di  Malabolge  sono  cot^ì 
fatti:  essi  sono  cinici  e  perciò  ridicoli,  come  i  diavoli  nel 
canto  XXII,  rissosi,  abbietti,  vanitosi,  bassamente  feroci 
ne'  loro  atti.  Così  sono  i  ladri,  i  truflatori,  i  barattieri, 
plebe  in  cui  il  vizio  è  così  connaturato  che  non  se  ne  ac- 
corge più.  Tale  è  Nicolò  III  vano  del  suo  papale  am- 
manto, che  crede  Dante  venuto  nell'  inferno  apposta  per 
veder  lui.  TaU  sono  pure  Sinone  e  maestro  Adamo.  Essi 
si  mostrano  nella  loro  naturalezza,  e  possono  essere  rap- 
presentati nella  forma  diretta  e  immediata,  isolando  il 
difetto  dagli  accessorii  e  idealizzandolo,  divenuto  un  con- 
tro-modello, r  immagine  opposta  a  quel  tipo,  a  quel  mo- 
dello di  perfezione  che  ciascuno  ha  in  mente  :  qui  è  la 
caricatura.  Le  concezioni  di  Dante  sono  di  un  comico  pie- 


—  207  — 

beo  della  più  bassa  lega  :  sia  esempio  la  rissa  tra  Sinone 
e  maestro  Adamo.  Si  rimane  nel  buffonesco,  l'infimo  grado 
del  comico.  Quest'  uomo,  così  possente  creatore  d' imma- 
gini neir  inferno  tragico,  qui  si  sente  arido,  freddo  in  un 
mondo  non  suo.  Le  situazioni  sono  comiche,  ma  il  co- 
mico è  rozzamente  formato,  e  non  è  artistico ,  non  ha 
la  sua  immagine  che  è  la  caricatura,  né  la  sua  impres- 
sione che  è  il  riso.  Due  persone  in  rissa  cadono  in  un 
lago  d'  acqua  bollente  che  U  divide.  Situazione  comica, 
se  mai  ce  ne  fu.  Il  poeta  dice  : 

Lo  caldo  schermidor  subito  fue. 

Espressione  vivace  ,  ma  che  non  sveglia  nessuna  imma- 
gine e  ti  lascia  freddo.  Non  ha  saputo  cogliere  quel  mo- 
vimento, quella  smorfia  che  fanno  quando  si  sentono  scot- 
tare e  si  sciolgono.  La  pancia  di  mastro  Adamo  che  sotto 
il  pugno  di  Sinone  sonò  come  fosse  un  tamburo ,  è  una 
felice  caricatura;  ma  è  una  freddura  il  dire: 

E  Mastro  Adamo  gli  percosse  il  volto 
Col  braccio  suo  che  non  parve  men  duro. 

Manca  spesso  a  Dante  la  caricatura ,  e  i  suoi  versi  più 
comici  non  fanno  ridere.  Perchè  a  fare  la  caricatura  bi- 
sogna fermare  l'immaginazione  nell'oggetto  comico,  spas- 
sarcisi,  obbliarsi  in  quello,  alzarlo  a  contro-modello.  Dante 
non  ha  questo  sublime  obblio  comico,  non  ha  indulgenza, 
né  amabilità.  Teme  di  sporcarsi  tra  quella  gente  ,  e  se 
ode,  se  ne  fa  rimproverare  da  Virgilio,  e  se  ci  sta,  se 
ne  scusa;  ah  fera  compagnia ì  ma  in  chiesa  co'  santi 
e  in  taverna  co'  ghiottoni.  Il  suo  riso  é  amaro;  di  sotto 
alla  facezia  spunta  il  disdegno;  e  spesso  nella  mano  la 
sferza  gli  si  muta  in  pugnale. 

Il  riso  muore,  quando  il  personaggio  comico  ha  co- 
scienza del  suo  vizio,  e  non  che  sentirne  vergogna  vi  si 
pone  al  di  sopra  e  ne  fa  il  suo   piedistallo.  Allora  non 


—  208  — 

sei  tu  che  gli  fai  la  caricatura;  ma  è  lui  stesso  il  suo 
proprio  artista,  che  si  orna  del  suo  difetto  come  di  un 
manto  reale ,  e  se  ne  incorona  e  se  ne  fa  un'  aureola , 
atteggiandosi  e  situandosi  nel  modo  più  acconcio  a  dire  : 
miratemi;  più  acconcio  a  dare  spicco  al  suo  vizio.  La 
"bestia  non  cela  il  suo  vizio,  e  non  arrossisce  ;  il  rossore  è 
proprio  della  faccia  umana.  L'  uomo  consapevole  del  suo 
difetto,  che  vi  si  pone  al  di  sopra,  rinuncia  alla  faccia 
umana  e  dicesi  sfacciato  o  sfrontato.  Qui  la  caricatura 
uccide  sé  stessa,  il  comico  giunto  alla  sua  ultima  punta 
si  scioglie  ;  e  n'  esce  un  sentimento  di  supremo  disgusto 
e  ribrezzo,  che  è  il  sublime  del  comico:  la  propria  abbie- 
zione  predicata  e  portata  in  trionfo  aggiunge  al  disgusto 
un  sentimento  che  tocca  quasi  V  orrore.  Qui  Dante  è  nel 
suo  campo.  Il  suo  eroe  è  Vanni  Pucci.  Mastro  Adamo 
è  come  animale,  senza  coscienza  della  sua  bassezza,  Vanni 
Fucci  ha  avuto  la  coscienza  e  l'ha  soffocata;  sono  i  due 
estremi  nella  scala  del  vizio;  l'uno  non  è  mai  salito  fino 
all'  uomo  ;  l'altro  è  passato  per  l' uomo  ed  è  ricaduto  nella 
bestia.  Si  sente  bestia,  e  si  pone  come  tipo  bestiale,  e 
scegUe  le  circostanze  più  acconcie  a  darvi  risalto: 

Vita  bestiai  mi  piacque  e  non  umana, 

Siccome  a  mul  eh'  io  fui.  Son  Vanni  Fucci 
Bestia,  e  Pistoia  mi  fu  degna  tana. 

Ecco  r  uomo  che  fa  le  fiche  a  Dio,  il  Capaneo  di  Male- 
bolge,  r  umano  divenuto  bestiale  e  idealizzato  come  tale. 
Ma  r  umano  non  muore  mai  in  tutto.  L'  uomo  diviene 
bestia,  ma  la  bestia  torna  uomo.  E  con  senso  profondo 
Dante  anche  sulla  faccia  sfrontata  di  Vanni  Fucci  sco- 
perto ladro  gitta  il  rossore  della  vergogna  : 

E  di  trista  vergogna  sì  dipìnse. 

L'  uomo  che  ha  coscienza  del  suo  vizio  e  se  ne  vergo- 
gna, in  luogo  di  mostrarlo  al  naturale,  ciò  che  produce 


—  209  — 

la  caricatura  cerca  occultarlo  sotto  contraria  apparenza: 
il  poltrone  fa  il  bravo.  Nasce  il  contrasto  tra  V  essere  e 
il  parere  :  la  situazione  divien  comica,  e  la  sua  forma  è 
r  ironia.  Lo  spettatore  indulgente  e  che  vuole  spassarsi 
a  sue  spese  fìnge  di  crederlo  e  di  secondarlo  ;  accetta 
come  seria  1'  apparenza  che  si  dà,  anzi  la  carica  ancora 
di  più;  fa  il  bravo,  ed  egli  lo  chiama  un  Orlando;  ma 
accompagnando  le  parole  di  un  cotale  ammiccar  d'  occhi 
che  esprima  scambievole  intelligenza,  di  un  tuono  di  voce 
in  falsetto,  di  un  riso  equivoco,  che  vuol  dire  :  io  ti  co- 
nosco. Perciò  r  essenziale  dell'  ironia  non  è  nell'  imma- 
gine ,  ma  nel  sottinteso  :  è  il  riflesso  che  succede  allò 
spontaneo  ;  immagine  sottilizzata  nel  sentimento.  Forma 
delicata,  perchè  lo  spettatore  alla  vista  del  difetto  ^he 
altri  cerca  di  mascherare ,  non  sente  collera ,  non  gli 
strappa  la  maschera  dal  viso,  anzi  se  la  mette  egli  stesso 
e  serba  una  compostezza  e  una  pulitezza,  equivoca  ne'  mo 
vimenti  e  ne'  gesti.  Forma  di  tempi  civili ,  assai  rara 
nelle  età  barbare  e  nelle  poesie  primitive.  Dante,  acci- 
gliato, brusco,  tutto  di  un  pezzo,  com'  è  ne'  suoi  ritratti, 
ha  troppa  bile  e  collera,  e  non  è  buono  né  alla  carica- 
tilra,  né  all'ironia.  Ma  dalla  sua  fantasia  d'artista  è 
uscita  una  di  quelle  creazioni,  che  sono  le  grandi  sco- 
perte nella  storia  dell'  arte ,  un  mondo  nuovo  :  il  nero 
Cherubino,  che  strappa  a  san  Francesco  l'anima  di  Guido 
da  Montefeltro,  é  il  padre  di  Mefistofele.  Egli  crea  il  dia- 
volo, gli  dà  il  suo  concetto  e  la  sua  funzione.  Il  diavolo 
è  l'ironia  incarnata;  non  ci  è  uomo  tanto  briccone  che 
il  diavolo  non  sia  più  briccone  di  lui,  e  capite  che  non 
è  disposto  a  guastarsi  la  bile  per  le  bricconerie  degli  uo- 
mini. L'  uomo  può  ingannare  un  altro  uomo,  ma  non  può 
ficcarla  al  diavolo,  perchè  il  diavolo  nel  suo  senso  poe- 
tico è  lui  stesso,  la  sua  coscienza  che  risponde  con  un'alta 
risata  a'  suoi  sofismi ,  e  gli  fa  il  contro -sillogismo,  e  gli 
dice  beffandolo  : 

F.  De  Sauctis.  —  Lett.  Ital.  Vul.  I.  14 


-  210  — 

Forse 
Tu  non  sapevi  ch'io  loico  fossi! 

Il  brutto  come  il  bello  muore  nel  sublime.  E  il  brutto 
è  sublime  quando  offende  il  nostro  senso  morale  ed  este- 
tico e  ci  gitta  in  violenta  reazione.  Scoppia  la  collera, 
r  indignazione,  l'orrore  :  il  comico  è  immediatamente  sof- 
focato. Quando  veggo  un  difetto  rivelarsi  all'  improvviso, 
uso  la  caricatura.  Quando  veggo  un  difetto  che  cerca 
mascherarsi,  prendo  la  maschera  anch'  io  e  uso  V  ironia. 
Ma  quando  quel  difetto  mi  offende,  mi  sfida,  mi  provoca, 
si  mette  dirimpetto  a  me  come  contraddizione  al  mio  intir 
mo  senso,  la  mia  coscienza  cosi  audacemente  negata  e  con- 
traddetta reagisce  :  io  strappo  al  vizio  la  maschera  e  lo 
mostro  qual  è,  nella  sua  laida  nudità.  La  caricatura  e 
r  ironia  si  risolvono  in  una  forma  superiore,  il  sarcasmo, 
la  porta  per  la  quale  volgiamo  le  spalle  al  comico  e  rien- 
triamo nella  grande  poesia. 

Nel  sarcasmo  caricatura  e  ironia  riappariscono,  ma  per 
morire  ;  nasce  la  caricatura ,  ed  è  guastata  ;  spunta  la 
maschera  ed  è  strappata.  E  la  morte  viene  da  questo  che 
nella  forma  sarcastica  del  brutto  ci  è  l'idea  che  l'uccide,  il 
suo  contrario.  Nel  canto  de'  simoniaci  il  sarcasmo  fa  la  sua 
splendida  apparizione.  Il  comico  muore  sotto  l'ira  di  Dante. 
L'  antitesi  tra  quello  che  è  di  fuori  e  quello  che  è  nella 
sua  anima  scoppia  in  ravvicinamenti  innaturali,  come  cal- 
cando i  tuoni  e  sollevando  i  pravi.  Dio  d'  oro  e  d'ar- 
gento; e  spesso  in  parole  a  doppio  contenuto ,  che  è  la 
immagine  del  sarcasmo.  Tale  è  la  parola  rimasa  prover- 
biale, con  che  è  qualificata  la  servilità  della  Chiosa.  Pa- 
rimente chiama  adulterio  la  simonia,  e  idolatria  1'  ava- 
rizia, parole,  nelle  quaU  entrano  come  elementi  la  santità 
del  matrimonio  e  il  vero  Dio;  in  una  sola  immagine  e'  è 
il  brutto  e  ci  è  l'idea  che  lo  condanna. 

Ma  il  sarcasmo  dee  purificare  e  consumare  sé  stesso. 


—  211  — 

Finche  rimane  nel  particolare  e  nel  personale,  il  linguag- 
gio è  acre,  bilioso  ;  hai  Giovenale  e  Menzini.  Il  poeta , 
non  che  rimanere  imprigionato  in  quello  spettacolo,  dee 
spiccarsene,  porcisi  al  di  sopra,  allargare  Y  orizzonte,  es- 
sere eloquente,  voce  di  verità,  espressione  impersonale 
della  coscienza.  Certo,  in  quel  canto  de'  simoniaci  vive 
immortale  la  vendetta  dell'  uomo  ingannato  che  anticipa 
a  Bonifazio  l' inferno,  e  del  ghibellino  e  del  cristiano  che 
vede  nel  papato  temporale  una  pietra  d' inciampo  e  di 
scandalo.  Ma  i  sentimenti  e  le  passioni  personali  se  hanno 
ispirato  il  poeta  e  resa  terribilmente  ingegnosa  la  sua 
fantasia ,  non  penetrano  nella  rappresentazione.  Bisogna 
sapere  la  storia  per  indovinare  i  terribili  incentivi  del- 
l' alta  creazione.  Ciò  che  qui  senti,  è  la  convinzione,  la 
buona  fede  del  poeta,  la  sincerità  e  l' impersonaUtà  della 
sua  collera  :  onde  sgorga  dal  suo  labbro  eloquente  tanta 
magnificenza  d' immagini  e  di  concetti.  Prima  Dante  è  in 
collera  con  Niccolò,  pinto  in  pochi  tratti  vano,  piccolo, 
col  cervello  e  co'  sensi  nel  piede.  E  comincia  col  tu,  e 
V  assale  corpo  a  corpo,  con  ironia  amara  che  si  trasfor- 
ma nel  pugnale  del  sarcasmo: 

E  guarda  ben  la  mal  tolta  moneta 
Oh'  esser  ti  fece  contro  Carlo  ardito. 

Ma  nel  pendio  dell'ingiuria  si  contiene  d'un  tratto, 
passaggio  meritamente  ammirato;  la  piccola  persona  di 
Nicolò  scomparisce  ;  sottentra  il  voi,  i  papi,  il  papato; 
le  idee  guadagnano  di  ampiezza  senza  perdere  di  ener- 
gia, e  da  ultimo  la  collera  svanisce  in  una  certa  tri- 
stezza pura  di  ogni  stizza;  è  deplorare,  non  è  più  uà 
inveire  : 

Ahi  Costantin,  di  quanto  mal  fu  matre 
Non  la  tua  conversion,  ma  quella  dote 
Che  da  te  prese  il  primo  ricco  patrel 


—  212  — 

Tale  è  Malebolge:  miniera  inesausta  di  caratteri  comici 
concezione  delle  più  originali,  dove  il  comico  è  posto  ed 
è  sciolto.  Poco  felice  nel  maneggio  delle  forme  comiche, 
il  poeta  è  insuperabile,  quando  se  ne  sviluppa,  mutato 
il  riso  in  collera,  come  nella  sua  invettiva,  nella  pena 
di  Bertram  dal  Bormio,  nella  rappresentazione  di  Vanni 
Fucci.  Rimane  un  fondo  comico  che  aspetta  ancora  il  sua 
artista.  Pure  m  quella  materia  appena  formata  vive  im- 
mortale il  suo  nero  cherubino. 

Nel  pozzo  de'  traditori  la  vita  scende  di  un  grado  più 
giù:  r  uomo  bestia  diviene  1'  uomo  ghiaccio,  1'  essere  pe- 
trifìcato,  il  fossile.  In  questo  regresso  dell'  inferno,  in  que- 
sto cammino  a  ritroso  dell'  umanità  siamo  giunti  a  quei 
formidabili  inizii  del  genere  umano,  regao  della  materia 
stupida,  vuota  di  spirito,  il  puro  terrestre,  rappresentato 
ne'  giganti,  figli  della  terra,  nella  loro  lotta  contro  Giove, 
natura  celeste  e  spirituale,  inferiore  di  forza  fìsica,  ma 
armato  del  fulmine  : 

Cui  Giove 
Minaccia  ancor  dal  cielo  quando  tuona. 

Con  questo  mito  concorda  la  storia  biblica  degli  an- 
geli ribelli.  Qui  all'  ingresso  trovi  i  giganti  ;  alla  fine  Lu- 
cifero: mitologia  e  bibbia  si  mescolano,  espressioni  della 
stessa  idea.  La  lotta  è  finita  ;  i  giganti  sono  incatenati; 
Lucifero  e  immenso  e  stupido  carname,  il  gradino  infi- 
mo nella  scala  de'  demoni.  Il  gigantesco  è  la  poesia  della 
materia;  ma  qui,  vuoto  e  inerte,  è  prosa.  Tra'  giganti 
e  Lucifero  stanno  i  dannati  fìtti  nel  ghiaccio.  Le  acque  pu- 
tride di  Malebolge  ,  ventate  dalle  enormi  ah  di  Lucifero, 
si  agghiacciano,  s' indurano,  diventano  mare  di  vetro ,  di 
dentro  a  cui  traspariscono  come  festuche  i  traditori  con- 
tro i  congiunti  nella  Caina,  contro  la  patria  nell'Ante- 
nora,  contro  gli  amici  nella  Tolomea,  e  contro  i  bene- 
fattori nella  Giudecca.La  pena  è  una, ma  graduata  secondo 


^  213  — 

il  delitto.  Il  movimento  si  estingue  a  poco  a  poco ,  la  vita 
si  va  petrificando,  finché  cessa  in  tutto  la  lacrima,  la 
parola  e  il  moto.  L'immagine  più  schietta  di  questo  mondo 
cristallizzato  è  il  teschio  dell'Arcivescovo  Ruggieri,  ina- 
nimato e  immobile  sotto  i  denti  di  Ugolino. 

L'  Ugolino  è  una  delle  più  straordinarie  e  interessanti 
fantasie.  È  per  lui  che  la  vita  e  la  poesia  entra  in  que- 
sto mare  morto,  dove  la  natura  e  il  demonio  e  1'  uomo 
è  materia  stupida  e  senza  interesse.  Come  concetto  mo- 
rale, il  tradimento  è  la  colpa  più  grave  ;  ma  qui  manca 
r  organo  della  colpa,  il  grido  della  coscienza  sembra  ag- 
ghiacciato insieme  col  colpevole.  Questo  grido  può  uscire 
dal  petto  concitato  di  Dante,  spettatore,  come  è  già  av- 
venuto in  Malebolge ,  dove  l' invettiva  di  Dante  risolve 
il  comico.  Qui  ci  è  di  meglio.  Tra  questi  esseri  petrifi- 
cati  Dante  gitta  il  suo  Ugolino  ghiacciato  come  gU  al- 
tri, come  traditore  egli  pure,  ma  col  capo  sul  capo  di 
Ruggieri,  perchè  insieme  egU  è  il  suo  tradito,  e  il  suo 
carnefice.  E  la  vittima  che  qui  alza  il  grido  contro  il 
traditore,  e  gli  sta  eternamente  co'  denti  sul  capo^  sa- 
ziando in  quello  il  suo  odio  ,  istrumento  inconscio  della 
vendetta  di  Dio.  Cosi  è  nato  T  Ugolino,  il  personaggio 
più  ricco,  più  moderno,  più  popolare  di  Dante,  dove  1'  a- 
nalisi  è  più  profonda  e  più  sviluppata,  nelle  sue  straor- 
dinarie proporzio-ni  cosi  umano  e  vero. 

Prendete  ora  una  carta  topografica  dell'inferno,  e  guar- 
date questa  piramide  capovolta,  a  forma  d' imbuto.  Ve- 
dete r  immensa  base  alla  cima,  senza  figura  altra  che  di 
cerchi,  fra  le  tenebre  eterne,  e  poi  quei  cerchi  prendon 
figura  di  città  rosseggiante  di  fiamme,  e  la  città  di  bol- 
gia putrida  e  puzzolenta ,  e  la  bolgia  di  pozzo  entro  il 
quale  è  petrificata  la  natura;  in  cima  V  infinito,  alla  fine 
il  tristo  buco  sopra  il  qual  pontan  tutte  le  altre  rocce  ; 
e  voi  avete  cosi  l' immagine  visibile  di  questo  inferno 
estetico.  Gli  è  come  nelle  rivoluzioni.  Nel  primo  entu- 


-.  214  — 

sìa^^mo  tutto  è  grande;  poi  vien  fuori  il  sanguinario,  il 
feroce,  V  orribile,  finché  da'  più  bassi  fondi  della  società 
sale  su  il  laido,  l'abbietto  e  il  plebeo.  Questa  decompo- 
sizione e  depravazione  successiva  della  vita  è  1'  inferno. 
L' inferno  è  l'uomo  compiutamente  realizzato  come  in- 
dividuo, nella  pienezza  e-  libertà  delle  sue  forze.  E  può 
misurare  la  grandezza  dell'  opera ,  chi  vede  gli  abbozzi 
di  Dino  Compagni  o  lo  scarno  Ezzelino,  o  le  rozze  for- 
mazioni de'  misteri  e  delle  leggende.  L' individuo  era  an- 
cora astratto  e  impigliato  nelle  formole,  nelle  allegorie 
e  neir  ascetismo.  In  quelle  vuote  generalità  ci  è  la  donna 
e  l'uomo,  come  genere,  come  simbolo,  come  l'anima; 
manca  l' individuo.  E  manca  tanto,  che  spesso  non  ha  un 
nome,  ed  è  la  mia  donna,  o  un  giovine,  un  santo  uomo. 
Non  un  nome  solo  era  rimasto  vivo  nel  mondo  dell'arte 
fra  tante  liriche  e  leggende.  Dante  volea  scrivere  il  mi- 
stero dell'anima;  si  cacciò  tra  allego  rie  e  formole,  ed  ecco 
uscirgli  dalla  fantasia  V  individuo,  valente  e  possente,  nel 
rigoglio  e  nella  gioventù  della  forza,  spezzato  il  nocciolo 
dove  lo  avea  chiuso  il  medio  evo.  I  pittori  disegnavano 
santi  e  cupole  ;  i  filosofi  fantasticavano  suU'  ente;  i  hrici 
platonizzavano;  gli  ascetici  contemplavano  e  pregavano; 
Dante  pensava  l'inferno;  e  là  tra'  furori  della  carne  e  l'in- 
furiar delle  passioni  trovava  la  stofi'a  di  Adamo,  l'uomo 
com'è  impastato,  con  la  sua  grandezza  e  con  la  sua  mi- 
seria ,  e  non  descritto  ,  ma  rappresentato  e  in  azione  ^ 
e  non  solo  ne'  suoi  atti,  mai  ne'  suoi  motivi  più  intimi. 
Così  apparve  suU'  o  rizzonte  poetico  Francesca,  Farinata, 
Cavalcanti,  la  Fortuna,  Pier  delle  Vigne ,  Brunetto,  Ca- 
paneo,  Ulisse,  Vanni  Fucci,  il  nero  Cherubino,  Niccolò  III, 
e  Ugolino.  Tutte  le  corde  del  cuore  umano  vibrano.  Vedi 
attorno  a  questa  schiera  d' immortali ,  turba  infinita  di 
popolo  nella  maggior  varietà  di  attitudini ,  di  forme ,  di 
sentimenti,  di  carattere,  che  ti  passano  avanti,  alcuni  ap- 
pena sbozzati,  altri  numero  e  nome,  altri  segnati  in  fronte 


—  215  — 

di  qualche  frase  indimenticabile,  che  li  eterna,  come  Tai- 
de,  iMosca,  Giasone,  Omero ,  Aristotile ,  papa  Celestino, 
Bonifazio,  Clemente,  Bruto,  Bocca  degU  Abati,  Bertram 
dal  Bormio. 

Nel  regno  de'  morti  si  sente  per  la  prima  volta  la  vita 
nel  mondo  moderno.  Come  è  bella  la  luce,  il  dolce  lume,  a  (\ 
Cavalcanti!  Quanta  malinconia  è 'in  quella  selva  de' sui- 
cidi, spogliata  del  verde!  Come  è  commovente  Brunetto, 
che  raccomanda  a  Dante  il  suo  Tesoro,  e  Pier  delle  Vi- 
gne che  gli  raccomanda  la  sua  memoria  !  Come  ride  quel 
giardino  del  peccato  innanzi  a  Francesca  !  Col  vivo  sen- 
timento della  dolce  vita,  della  bella  natura,  e  accompa- 
gnato il  sentimento  della  famiglia.  Quel  padre  che  cade 
supino,  udendo  la  morte  del  figlio,  e  Ugolino  che  dan- 
nato a  morire  di  fame  guarda  nel  viso  a'  figliuoli,  e  An- 
s  Imuccio  che  gli  domanda:  che  hai?  e  Gaddo  che  gli 
dice:  perchè  non  mi  ajuti?  sono  scene  solitarie  della  poe- 
sia italiana.  Ciascuno  è  in  una  situazione  appassionata.  I 
sentimenti  spinti  alla  punta  idealizzano  e  ingrandiscono 
gli  oggetti.  Tutto  è  colossale,  e  tutto  è  naturale.  E  in 
mezzo  torreggia  Dante,  il  più  infernale,  il  più  vivente  di  /  J 
tutti,  pietoso,  sdegnoso,  gentile,  crudele,  sarcastico,  ven- 
dicativo, feroce,  col  suo  elevato  sentimento  morale,  col 
suo  culto  della  grandezza  e  della  scienza  anche  nella  colpa, 
col  suo  dispregio  del  vile  e  dell'  ignobile,  alto  sopra  tanta 
plebe,  C0.SÌ  ingegnoso  nelle  sue  vendette,  cosi  eloquente  \ 
nelle  sue  invettive. 

Queste  grandi  figure,  là  sul  loro  piedistallo  rigide  ed 
epiche  come  statue,  attendono  l'artista  che  le  prenda 
per  mano  e  le  gitti  nel  tumulto  della  vita  e  le  faccia 
esseri  drammatici.  E  1'  artista  non  fu  un  italiano  ;  fu 
Shak^ispeare. 

Chi  vuole  ora  concepire  il  Purgatorio,  si  metta  in  quella 
età  della  vita  che  le  passioni  si  scoloriscono  e  l'esperienza 
0  il  disiganno   tolgono  le  illusioni,  e   scemata  la  parte 


—  216  — 

attiva  e  personale,  Y  uomo  si  sente  generalizzare,  si  sente 
più  come  genere  che  come  individuo.  Spettatore  più  che 
attore,  la  vita  si  manifesta  in  lui  non  come  azione,  ma 
come  contemplazione  artistica,  filosofica,  religiosa. In  quella 
calma  delle  passioni  e  de'  sensi  era  posto  l' ideale  antico 
del  Savio,  1'  ideale  nuovo  del  Santo,  fuso  insieme  in  quel 
Catone,  che  Dante  chiama  nel  Convito  anima  nobihssi- 
ma  e  la  più  perfetta  immagine  di  Dio  in  terra.  Catone 
è  il  savio  antico,  pinto  come  i  filosofi  ,  con  quella  sua 
lunga  barba,  in  quella  calma  e  gravità  della  sua  deco- 
rosa vecchiezza: 

De^^no  di  tanta  riverenza  in  vista, 

Che  più  non  dee  a  padre  alcun  figliuolo. 

Ma  è  qualcosa  di  più;  è  il  savio  battezzato  e  santi- 
ficato, con  la  fronte  radiante,  illuminata  dalla  grazia,  si 
che  pare  un  sole.  Virgilio  non  comprende  questo  savio 
cristianizzato,  e  parla  al  Catone  di  sua  conoscenza,  ri- 
cordando la  sua  virtù,  la  sua  morte  per  la  libertà,  la 
sua  Marzia.  E  il  nuovo  Catone  risponde  :  Marzia,  che  piac- 
que tanto  agli  occhi  miei,  non  mi  move  più;  ma  se  donna 
del  cielo  ti  guida,  non  ci  è  mestier  lusinga: 

Bastiti  ben  che  per  lei  mi  richieggo. 

Che  cosa  è  il  Purgatorio?  È  il  mondo  dove  questo 
doppio  ideale  è  reahzzato,  il  mondo  di  Catone  o  della  li- 
bertà, dove  lo  spirito  si  svildppa  dalla  carne  e  cerca  la 
sua  libertà: 

Libertà  va  cercando  eh'  è  si  cara, 
Come  sa  chi  per  lei  vita  rifiuta. 

Altro  concetto,  altra  natura,  altro  uomo,  altra  forma, 
altro  stile.  Non  è  più  F  Ihade ,  è  V  Odissea ,  è  un  nuovo 
poema.  Paragonare  inferno  e  purgatorio,  e  maravigUarsi 
che  qui  non  sieno  le  bellezze  ammirate  c^^à  gU  è  come 


—  217  — 

maravigliarsi  che  il  Purgatorio  sia  purgatorio  e  non  in 
ferno.  0  se  pur  vogliamo  maravigliarci  di  qualche  cosa, 
maravigliamoci  che  il  poeta  abbia  potuto  così  compiu- 
tamente dimenticare  V  antico  sé  stesso ,  le  sue  abitudini 
di  concepire,  di  disporre,  di  colorire,  e  seppellito  in  que- 
sto nuovo  mondo  ricrearsi  l'ingegno  e  la  fantasia  a  quella 
immagine,  e  con  tanta  spontaneità  che  pare  non  se  ne 
accorga  :  obblio  dell'  anima  nella  cosa ,  il  secreto  della 
vita,  dell'  amore  e  del  genio. 

L' inferno  è  il  regno  della  carne  che  scende  con  co- 
stante regresso  sino  a  Lucifero.  Il  purgatorio  è  il  regno 
dello  spirito  che  sale  di  grado  in  grado  sino  al  Para- 
diso. È  là  che  si  sviluppa  il  mistero,  la  commedia  del- 
l' anima,  la  quale  dall'  estremo  del  male  si  riscote  e  si 
sente  e  mediante  1'  espiazione  e  il  dolore  si  purifica  e  si 
salva.  Onde  con  senso  profondo  il  purgatorio  esce  dal- 
l' ultima  bolgia  infernale,  e  Lucifero ,  principe  delle  te- 
nebre, è  quello  stesso  per  le  spalle  del  quale  Dante  sa- 
lendo esce  a  riveder  le  stelle. 

Ci  è  un  avanti -purgatorio  ,  dove  la  carne  fa  la  sua 
ultima  apparizione.  Il  suo  potere  non  è  più  al  di  dentro  ; 
r  anima  è  già  libera  :  della  carne  non  resta  che  la  mala 
abitudine.  Gradazione  finissima  e  altamente  comica,  dalla 
quale  è  uscito  l' immortale  ritratto  di  Belacqua,  carica- 
tura felicissima  nella  figura,  ne'  movimenti,  nelle  parole, 
e  tanto  più  comica  quanto  più  Belacqua  si  sforza  di  ri- 
maner serio,  usando  un'  ironia  che  si  volge  contro  di  lui. 

Questo  avanti-purgatorio  è  quasi  una  transizione  tra 
r  inferno  e  il  purgatorio  ;  il  peccato  vi  è  e  non  v'  è;  è 
ancora  nell'abitudine,  non  è  più  nell'anima;  il  demonio 
ci  sta  sotto  la  forma  del  serpente  d'  Eva,  involto  tra  le 
erbe  e  i  fiori,  cacciato  via  da  due  Angioli  dallo  vesti  e  dalle 
ah  di  color  verde,  simbolo  della  speranza.  Comparisce 
per  scomparire,  quasi  per  far  testimonianza  che  se  ne  va 
dalla  scena  per  sempre.  Innanzi  alla  porta  del  purgato- 


—  218  — 

rio  scompare  il  diavolo  e  muore  la  carne,  e  con  la  carne 
gran  parte  di  poesia  se  ne  va. 

L'anima  non  appartiene  più  alla  carne,  ma  V  ha  avuta 
una  volta  sua  padrona  e  se  ne  ricorda.  La  carne  non  è 
più  una  realtà  come  nell'  inferno ,  ma  una  ricordanza.  Nei 
sette  gironi,  rispondenti  a'  sette  peccati  mortali,  le  ani- 
me ricordano  le  colpe  per  condannarle  ;  ricordano  le  virtù 
per  compiacersene. 

Quel  ricordare  le  colpe  non  è  se  non  T inferno  che  ri- 
comparisce in  purgatorio  per  esservi  giudicato  e  condan- 
nato ;  quel  ricordare  le  virtù  non  è  se  non  il  paradiso 
che  preluce  in  purgatorio  per  esservi  desiderato  e  va- 
gheggiato :  r  inferno  ci  sta  in  rimembranza  ;  il  paradiso 
ci  sta  in  desiderio.  Carne  e  spirito  non  sono  una  realtà; 
la  tirannia  della  carne  è  una  rimembranza;  la  hbertà 
dello  spirito  è  un  desiderio. 

Poiché  la  realtà  non  è  più  in  presenza,  ma  in  imma- 
ginazione, essa  vi  sta  non  come  azione  rappresentata  e 
drammatica,  ma  come  immagine  dello  spirito,  a  quel  modo 
che  noi  riproduciamo  dentro  di  noi  la  figura  delle  cose 
non  presenti,  e  pingiamo  al  di  fuori  quello  spettro  della 
mente.  Questa  realtà  dipinta  vien  fuori  nelle  pareti  e  nei 
bassi  riUevi  del  Purgatorio.  Neil'  Inferno  e  nel  Paradiso 
non  sono  pitture,  perchè  ivi  la  realtà  è  natura  vivente, 
è  r  originale,  di  cui  nel  purgatorio  hai  il  ritratto.  Inferno 
e  paradiso  sono  in  purgatorio ,  ma  in  pittura ,  come  il 
passato  e  l'avvenire  delle  anime,  non  presente  agli  oc- 
chi, ma  all'  immaginativa.  Quelle  pitture  sono  il  loro  me 
mento,  lo  spettacolo  di  quello  che  furono,  di  quello  che 
sarannno,  che  le  stimola,  mette  in  attività  la  loro  mente, 
si  che  ricordano  altri  esempli  e  si  affinano,  si  purgano. 

Siamo  dunque  fuori  della  vita.  Le  passioni  tornano  in- 
nanzi alle  anime,  ma  non  sono  più  le  loro  passioni,  sono 
fuori  di  esse,  contemplate  in  sé  o  in  altri  con  1'  occhio 
dell'  uomo  pentito.  Anche  le  virtù  sono  estrinseche  alle 


—  219  — 

anime,  contemplate  al  di  fuori  come  esempli  e  ammae- 
stramenti. Le  anime  sono  spettatrici,  contemplanti,  non 
attrici.  Passioni  buone  o  cattive  non  sono  in  presenza  e 
in  azione,  ma  sono  una  visione  dello  spirito,  figurata  in 
intagli  e  pitture. 

Questa  concezione  così  semplice  e  vera  nella  sua  pro- 
fondità è  la  pittura  e  la  scoltura  ,  V  arte  dello  spazio , 
idealizzata  nella  parola  e  fatta  poesia.  Perchè  il  poeta 
non  dipinge,  ma  descrive  il  dipinto.  La  parola  non  può 
riprodurre  lo  spazio  che  successivamente,  e  perciò  è  inef- 
ficace a  darti  la  figura,  come  fa  il  pennello  e  lo  scarpello. 
Né  Dante  si  sforza  di  dipingere,  entrando  in  una  gara 
assurda  col  pittore.  Ma  compie  e  idealizza  il  dipinto,  mo- 
strando non  la  figura,  ma  la  sua  espressione  e  impres- 
sione :  dinanzi  all'  immaginazione  la  figura  diviene  mo- 
bile, acquista  sentimento  e  parola.  Le  aguglie  di  Trajano 
in  vista  si  movono  al  vento  ;  la  vedovella  è  atteggiata 
di  lagrime  e,  di  dolore;  nell'attitudine  di  Maria  si  legge  : 
Ecce  Anelila  Dei;  V  angiolo  intagliato  in  atto  soave  non 
sembrava  immagine  che  tace  : 

Giurato  si  saria  eh'  ei  dicesse  Ave. 

Davide  ballando  sembra  più  e  meno  che  Re;  e  gh  sta 
di  contro  Micol,  che  ammirava, 

Siccome  donna  dispettosa  e  trista. 

Erano  i  tempi  di  Giotto;  e  parevano  maravigliosi  quei 
primi  tentativi  dell'  arte.  Quest'  alto  ideale  pittorico  di 
Dante  fa  presentire  i  miracoli  del  peimello  italiano.  Il 
poeta  aveva  innanzi  all'immaginazione  figure  animate, 
parlanti,  dipinte  da  Colui,  che  mai  non  vide  cosa  nuova, 
ben  più  vivaci  che  non  gliele  potevano  offrire  i  suoi  con- 
temporanei. 

Più  in  là  il  dipinto  sparisco  ;  senza  aiuto  di  senso,  por 


—  220  — 

sua  sola  virtù  lo, spirito  intuisce  il  bene  e  il  male,  ri- 
corda i  buoni  e  i  cattivi  esempli,  vede  da  sé  stesso  e 
in  sé  stesso.  La  realtà  non  solo  non  ha  la  sua  esistenza, 
come  cosa  sensata,  il  sensibile,  ma  neppure  come  figu- 
rativa, in  pittura  ;  diviene  una  visione  diretta  dello  spi- 
rito, che  opera  già  libero  e  astratto  dal  senso.  Nasce 
un'altra  forma  dell'arte,  la  visione  estatica.  L'anima 
vede  farsi  dentro  di  sé  una  luce  improvvisa,  nella  quale 
pullulano  immagini  sopra  immagini  come  bolle  d'  acqua 
che  gonfiano  e  sgonfiano  ,  e  l' universo  visibile  si  dile- 
gua innanzi  a  questa  luce  interiore ,  di  modo  che  il  suono 
di  mille  trombe  non  basterebbe  a  rompere  la  contem- 
plazione. Dante  trova  forme  nuove  ed  energiche  ad  es- 
primere questo  fenomeno.  Le  immagini  piovono  nell'alta 
fantasia  ;  la  mente  è  si  ristretta 

Dentro  di  sé,  che  di  fuor  non  venia 
Cosa  che  fosse  allor  da  lei  ricetta. 

L'immaginativa  ne  rw&a  di  fuori,  si  che  uom  non  s'ac- 
corge : 

Perchè  d*  intorno  suonin  mille  tube. 

L»  anima  volta  in  estasi  ficca  gh  occhi  nelF  immagine 
con  ardente  affetto  : 

Come  dicesse  a  Dio:  D'altro  non  calme. 

Tra  queste  visioni  bellissima  è  quella  del  martirio  di 
Santo  Stefano,  un  quadro  a  contrasto,  dove  tra  la  folla 
inferocita  che  grida  :  martira  martira ,  è  la  figura  del 
Santo,  la  persona  già  aggravata  dalla  morte  e  china 
verso  terra,  ma  gh  occhi  al  cielo  preganti  pace  e  per- 
dono; è  il  soprastare  dell'anima  nell'  abbandono  del  corpo. 

Siamo  dunque  in  piena  vita  contemplativa.  Il  processo 
della  santificazione  si  sviluppa.  Neil'  inferno  i  tumulti  e 
le  tempeste  della  vita  reale  appassionata  dal  furore  dei 
sensi:  qui  entriamo  in  quel  mondo  di  romiti  e  di  santi, 


—  221  — 

in  quel  mondo  de' misteri  e  delle  estasi,  così  popolare; 
nel  mondo  di  Girolamo,  di  Francesco  d'Assisi  e  di  Bo- 
naventura, dove  la  pittura  attingea  le  sue  ispirazioni. 

Nella  visione  estatica  lo  spirito  ha  già  un  primo  grado 
di  santificazione,  ha  conquistato  la  sua  libertà  dal  senso, 
ha  già  il  suo  paradiso;  ma  è  un  paradiso  interiore,  im- 
magine e  desiderio ,  e  non  sarà  realtà ,  paradiso  reale , 
se  non  quando  quella  luce  e  quelle  immagini  vedute  dallo 
spirito  entro  di  sé  sieno  fuori  di  sé,  sieno  cose,  e  non 
immagini.  Il  purgatorio  è  il  regno  delle  immagini,  uno 
spettro  dell'  inferno,  un  simulacro  del  paradiso. 

Nella  visione  estatica  la  spirito  è  attivo  e  conscio:  nel 
sogno  é  passivo  e  inscio  ;  è  una  forma  di  divisione  su- 
periore, non  solo  senza  opera  del  senso,  ma  senza  opera 
dello  spirito;  è  visione  divina,  prodotta  da  Dio.  Perciò 
il  sogno  sa  le  novelle  anzi  che  il  fatto  sia,  e  l' anima 

Alle  sue  vision  quasi  è  divina. 

Nel  sogno  si  rivela  il  significato  delle  visioni  e  della 
apparenze  del  purgatorio.  Che  cosa  significano  quelle 
pitture  e  quelle  estasi?  che  cosa  è  il  purgatorio?  È  il 
regno  dell'  intelletto  e  del  vero ,  dove  il  senso  è  spo- 
gliato delle  sue  belle  e  piacevoli  apparenze;  e  mostrato 
qual  é,  brutto  e  puzzolento.  L'  apparenza  é  una  Sirena  : 

Io  son,  cantava,  io  son  dolce  Sirena, 

Che  i  marinari  in  mezzo  al  mar  dismago, 
Tanto  son  di  piacere  a  sentir  piena. 

Ma  una  donna  Santa,  la  Verità,  fende  i  drappi;  e  la  mo 
stra  qual  è,  femmina  balba  e  scialba,  e  mostra  il  ventre  : 

Quel  mi  svegliò  col  puzzo  che  ne  usciva. 

Vinto  il  senso  e  V  apparenza,  si  presenta  a  Dante  in 
sogno  r  immagine  della  vita ,  non  quale  pare ,  ma  qual 


—  222  — 

è,  ]a  vera  vita  a  cui  sospira  e  che  cerca  nel  suo  pel- 
legrinaggio. E  vede  la  vita  nella  prima  delle  due  sue 
forme,  la  vita  attiva,  lo  affaticarsi  nelle  buone  opere  per 
giungere  alla  beatitudine  della  vita  contemplativa.  La  si- 
rena è  rozzamente  abbozzata;  manca  a  Dante  il  senso 
della  voluttà;  senti  nel  verso  stesso  non  so  che  intral- 
ciato e  stanco.  Lia  è  una  delle  sue  più  fresche  creazioni, 
personaggio  tipico  così  perfetto  nel  suo  genere,  come  la 
Fortuna.  La  sua  felicità  non  è  ancora  beatitudine,  come 
è  della  suora^  che  vive  guardando  Dio,  il  suo  miraglio  ; 
ma  appunto  perciò  è  più  interessante  e  poetica,  più  umana, 
più  vicina  a  noi  questa  bella  fanciulla,  che  va  tutta  lieta 
pel  prato,  e  coglie  fiori,  e  se  ne  fa  ghirlanda  e  si  mira 
allo  specchio.  Tale  è  la  prima  immagine  che  il  giovine 
incontra  sovente  ne'  suol  sogni  ! 

L'  ultima  forma  sotto  la  quale  si  presenta  la  realtà 
è  la  visione  simbolica,  dove  la  forma  non  significa  più 
sé  stessa,  ma  un'  altra  cosa.  Il  purgatorio  finisce  tra'  sim- 
boli; è  il  paradiso  che  si  offre  all'  anima  sotto  figura. 
Cristo  è  un  grifone,  è  il  carro  su  cui  sta  è  la  Chiesa^ 
e  Dante  ha  una  serie  di  strane  visioni,  che  rappresentano 
simbolicamente  la  storia  della  Chiesa. 

Cosi  la  realtà  corpulenta  e  tempestosa  dell'  inferno  si 
va  diradando  è  sottilizzando  per  trasformarsi  nella  vera 
realtà,  lo  spirito  o  il  paradiso.  Questo  processo  di  carne 
a  spirito  è  il  purgatorio,  dove  la  forma  diviene  pittura, 
estasi,  sogno,  simbolo.  Il  simbolo  già, non  è  più  forma, 
ma  puro  spirito,  lavoro  intellettuale.  Sotto  la  figura  ci 
è  la  nuova  e  vera  realtà,  pronta  a  svilupparsene  e  com- 
parire essa  direttamente. 

L'  uomo  del  purgatorio  ha  i  sentimenti  conformi  a  que- 
sto stato  dell'  anima.  Il  suo  carattere  è  la  calma  interiore, 
assai  simile  alla  tranquilla  gioia  dell'  uomo  virtuoso  che 
nella  miseria  terrena  sulle  ali  della  fede  e  della  speranza 
alza  lo  spirito  al  paradiso.  Le  ombre  sono  contente  nel 


—  223  — 

fuoco;  gli  affetti  hanno  dolci  e  temperati,  il  desiderio  puro 
d'inquietudine  e  d'  impazienza.  Ne  nasce  un  mondo  idil- 
lico, che  ricorda  l'età  dell'oro,  dove  tutto  è  pace  e  affetto, 
e  dove  si  manifestano  con  effusione  le  pure  gioie  dell'arte, 
i  dolci  sentimenti  dell'amicizia.  In  questo  mondo  di  pit- 
ture e  scolture  Dante  si  è  coronato  di  artisti,  Casella 
Sordello,  Guido  Guinicelli,  Buonagiunta  da  Lucca,  Ar- 
naldo Daniello,  Oderisi,  Stazio,  e  ne  ha  cavato  episodii 
commoventi^  che  fanno  vibrare  le  fibre  più  deHcate  del 
e  iore  umano.  Ricorderò  il  suo  incontro  con  Casella,  e  il 
ritratto  di  Sordello,  e  i  cari  ragionamenti  dell'  arte  con 
Guinicelli  e  Buonagiunta,  l' incontro  di  Stazio  e  Virgilio. 
E  un  lato  della  vita  nuova,  pur  così  vero  in  tempi  che 
la  vita  intima  della  famiglia,  dell'  arte  e  dell'  amicizia  era 
un  rifugio  e  quasi  un  asilo  fra  le  tempeste  della  vita 
pubblica.  Come  tocca  il  core  l'amicizia  di  Dante  e  di  Fo- 
rese, fratello  di  Corso  Donati,  il  principale  nemico  di 
Dante,  e  quel  domandar  eh'  egli  fa  di  Piccarda  I  I  movi- 
menti improvvisi  dell'affetto  e  della  maraviglia  sono  colti 
con  tanta  felicità  che  rimangono  anche  oggi  vivi  nel  po- 
polo, come  è  r  0  lungo  e  roco  delle  anime  che  veggon 
l'ombra  di  Dante,  o  il  paragone  delle  pecorelle,  e  la  calma 
di  Sordello  a  guisa  di  leon  quando  si  posa,  mutata 
subito  in  un  sì  vivace  impeto  di  affetto,  e  Stazio  che 
corre  incontro  a  Virgilio  per  abbracciarlo,  obliando  di  es- 
sere un'  ombra,  e  il  cerchio  dell'  anime  intorno  a  Dante, 
quasi  obliando  d'  ire  a  farsi  belle,  e  Casella  che  se  ne 
spicca  e  si  gitta  tra  le  braccia  di  Dante: 

0  ombre  vane,  fuor  che  nell*  aspetto! 
Tro  volte  dietro  a  lei  le  mani  avvìnsi, 
E  tante  mi  tornai  con  esse  al  petto. 

Questa  intimità,  questo  tenere  nel  cuore  un  cantuccio 
chiuso  al  mondo,  riservato  alla  famiglia,  agli  amici,  al- 
l' arte,  alla  natura,  quasi  tempio  domestico,  impenetrabile 


—  224  — 

a'  profani,  è  il  mondo  rappresentato  nel  purgatorio.  Le 
ricordanze  de'  casi  anche  più  tristi  sono  pure  di  amarezza, 
raddolcite  dalle  speranze  dell'ultimo  giorno.  Manfredi  non 
ha  una  ingiuria  per  i  suoi  nemici,  chiede  perdono,  ed  ha 
già  perdonato. 

Io  mi  rendei 
Piangendo  a  quei  che  volentier  perdona. 

Buonconte  di  Montefeltro  racconta  le  circostanze  più 
strazianti  della  sua  morte  con  una  calma  e  una  serenità, 
che  diresti  indifferenza,  se  non  te  ne  rivelasse  il  secreto  il 
sentimento  espresso  in  questi  versi: 

Nel  nome  di  Maria  finii,  e  quivi 
Caddi,  e  rimase  la  mia  carne  sola. 

Ciascuno  ha  conservato  in  quel  cantuccio  del  cuore  il 
suo  tempio  domestico.  Come  è  caro  quel  Forese  con  quel 
Nella  mia, 

La  vedovella  mia  che  tanto  amai  ! 

E  Buonconte  ricorda  la  sua  Giovanna  e  gli  altri  che 
si  sono  dimenticati  di  lui,  e  Manfredi  vuol  essere  ricor- 
dato a  Costanza,  e  Jacopo  a'  suoi  Fanesi,  che  pregassero 
per  lui  ;  la  sola  Pia  non  ha  alcun  nome  nel  suo  santua- 
rio domestico,  e  non  ha  che  Dante  che  possa  ricordarsi 
di  lei: 

Ricordati  di  me,  che  son  la  Pia. 

Questo  mondo  così  affettuoso  è  penetrato  di  malinco- 
nia, sentimento  nuovo,  che  avrà  tanta  parte  nella  poe- 
ria  moderna,  e  generato  qui,  nel  purgatorio.  Questo  sen- 
timento ti  prende  a  udir  la  Pia,  così  delicata  nella  soli- 
tudine del  suo  core;  eppure  non  era  sola,  e  ricorda  la 
gemma,  pegno  d'  amore.  La  tenerezza  e  delicatezza  dei 
sentimenti  dispone  V  animo  alla  malinconia  :  perchè  ma- 


—  225  — 

linconia  non  è  se  non  dolce  dolore,  dolore  raddolcito  da 
immagini  care  e  tenere.  Richiede  perciò  anime  raccolte 
che  vivano  in  fantasia,  sieno  pensose,  non  distratte  dal 
mondo,  chiuse  nella  loro  intimità.  La  malinconia  è  il  frutto 
più  delicato  di  questo  mondo  intimo.  Come  ti  va  al  core 
queir  ora  che  incomincia  i  tristi  lai  la  rondinella,  presso 
alla  mattina,  e  quella  squilla  di  lontano. 

Che  pare  il  giorno  pianger  che  si  muore, 

e  queir  ora  della  sera  che  i  naviganti  partono  e  s'intene- 
riscono pensando 

Lo  di  che  han  detto  a*  cari  amici  :  Addio  ! 

Qui  Dante  gitta  via  l' astronomia  che  rende  spesso  cosi 
aride  le  sue  albe  e  le  sue  primavere,  e  rende  tutte  le 
dolcezze  di  una  Natura  malinconica.  Tra  le  scene  più  in- 
time, più  penetrate  di  malinconia,  è  il  suo  incontro  con 
Casella.  Cominciano  espansioni  di  affetto.  Nel  primo  im- 
peto corrono  ad  abbracciarsi.  Casella  dice: 

Così  com'  io  t'  amai 
Nel  mortai  corpo,  cosi  t'  amo  sciolta. 

Dante  risponde  :  Casella  mio  !  E  lo  prega  a  voler  cana- 
tare,  come  faceva  in  vita,  che  col  canto  gU  acquietava 
r  anima,  e  ora  Y  anima  sua  è  cosi  affannata.  E  Casella 
canta  una  poesia  di  Dante,  e  Dante  e  Virgilio  e  le  anime 
fanno  cerchio,  rapite,  dimentiche  del  purgatorio,  sgridate 
da  Catone.  Ma  se  Catone  non  perdona,  perdonano  le  Muse. 
Quest'  obho  del  purgatorio ,  questa  musica  che  ci  ricon- 
duce alle  care  memorie  della  vita,  la  terra  che  scende 
nell'altro  mondo  e  si  impossessa  delle  anime,  si  che  obliano 
di  essere  ombre  e  vogliono  abbracciare  ^i  amici,  e  pen- 
dono dalla  bocca  di  Casella ,  questo  è  poesia.  Ci  si  sente 
qua  dentro  la  malinconia  dell'esilio,  l'uomo  che  giovine 
ancora  desiderava  con  la  sua  Bice  e  i  suoi  amici  e  le 

De  Sanotig  -  Lett.  Ital.4Vol.  I.  15 


—  226  — 

loro  donne  ritrarsi  in  un'  isola  e  farne  il  santuario  dei 
suoi  ajBTetti  e  obliarvi  il  mondo. 

E  e' è  la  malinconia  propria  del  purgatorio,  quel  ve- 
dere di  là  con  mutati  occhi  le  grandezze  e  gli  affetti  ter- 
reni, quel  disabbellirsi  della  vita,  quel  cadere  di  tutte  le 
illusioni. 

Non  è  il  mondan  rumore  altro  che  un  fiato 
Di  vento,  che  or  vien  quinci  e  or  vien  quindi, 
E  muta  nome  perchè  muta  lato. 

Una  delle  figure  più  interessanti  è  Adriano.  AH'  ultimo 
della  grandezza  dice: 

Vidi  che  là  non  ,si  chetava  il  core, 
Né  più  salir  poteasi  in  quella  vita  : 
Perchè  di  questa  in  me  s'  accese  amore. 

Questo  Papa  disilluso  ha  lunga  e  mala  parentela,  e  sono 
tutti  morti  per  lui,  eccetto  la  buona  Alagia: 

E  questa  sola  m'  è  di  là  rimasa. 

Quest'  ultimo  verso  è  pregno  di  malinconia. 

Questa  calma  filosofica  che  fa  guardare  dall'  alto  del 
purgatorio  la  vita  e  ne  scopre  il  vano  a  il  nulla,  restringe 
il  circolo  della  personaUtà  e  della  realtà  terrena.  Gli  in- 
dividui appariscono  e  spariscono,  appena  disegnati;  hanno 
la  bellezza,  ma  anche  la  monotonia  e  l' immobihtà  della 
calma.  Sono  uomini  che  discutono  e  conversano  in  una 
sala,  più  che  uomini  agitati  e  appassionati.  I  grandi  in- 
dividui storici,  le  grandi  creature  della  fantasia  scom- 
pariscono. 

Più  che  negU  individui  la  vita  si  manifesta  nei  gruppi: 
la  vita  qui  è  meno  individuo,  che  genere.  La  comune 
anima  ha  la  sua  espressione  nel  canto .  Neil'  inferno  non 
ci  son  cori  ;  perchè  non  vi  è  l' unità  dell'  amore.  L'odio 
è  solitario;  l'amore  è  simpatia  e  armonia;  la  musica  e 


997    

il  canto  conseguono  i  loro  effetti  nella  misurata  varietà 
delle  voci  e  degl'  istrumenti.  Qui  le  anime  sono  esseri 
musicali,  che  escono  dalla  loro  coscienza  individuale,  as- 
sorte in  uno  stesso  spirito  di  carità: 

Una  parola  era  in  tutto  e  un  modo,  L- 

Sicché  parea  tra  esse  ogni  concordia. 

Le  anime  compariscono  a  gruppi  e  cantano  salmi  e 
inni,  espressione  varia  di  dolore,  di  speranza,  di  preghiera, 
di  letizia,  di  lodi  al  Signore.  Quando  giungono  al  purga- 
torio le  odi  cantare:  In  eccito  Israel  de  Egipto.  Giun- 
gono nella  valle,  ed  ecco  intonare  il  Salve  Regina.  La 
sera  odi  T  inno:  Te  lucis  ante  terminum  Rerum  crea- 
tor poscimus.  Entrando  nel  Purgatorio,  risuona  il  Te 
Deum.  Sono  i  salmi  e  gì'  inni  della  chiesa,  cantati  se- 
condo le  varie  occasioni,  e  di  cui  il  poeta  dice  le  prime 
parole.  Ti  par  d'  essere  in  Chiesa  e  udir  cantare  i  Fe- 
deU.  Quei  canti  latini  erano  allora  nella  bocca  di  tutti, 
erano  cantati  da  tutti  in  chiesa  ;  il  primo  verso  bastava 
a  ricordarli.  Il  poeta  ha  creduto  bastar  questo  ad  accen- 
dere ne'  petti  l' entusiasmo  religioso.  E  forse  bastava  al- 
lora, quando  quei  versi  suscitavano  tante  rimembranze 
e  immagini  della  vita  religiosa.  La  poesia  qui  non  è  nella 
rappresentazione,  ma  in  quei  lettori  e  in  quei  tempi.  Un 
nome,  una  parola  bastava  in  certi  tempi  a  produrre  tutto 
r  effetto  :  con  quei  tempi  se  ne  va  la  loro  poesia,  e  re- 
stano cosa  morta.  Molte  parti  del  poema  dantesco,  aride 
liste  di  nomi  e  di  fatti,  soprattutto  le  allusioni  politiche, 
allora  così  vive,  oggi  son  morte.  E  tutta  questa  lirica 
del  purgatorio  è  cosa  morta.  Perchè  Dante  non  crea  dal 
suo  seno  quei  sentimenti, 'ma  li  trova  belli  e  scritti  nei 
canti  latini,  e  si  contenta  di  dirne  le  prime  parole.  Pure 
la  situazione  delle  anime  purganti  è  altamente  lirica;  la 
loro  personalità  non  è  individuale,  ma  collettiva,  e  l'espres- 
sione di  quella  comune  anima  svegliatasi  in  loro  ò  T  onda 


—  228  — 

canora  de*  sentimenti.  Qui  mancò  la  vena  e  la  forza  al 
gran  poeta,  e  si  rimise  a  Davide  di  quello  ch'era  suo 
compito.  Più  che  visioni  e  simboli  e  dipinti,  la  vita  del  pur- 
gatorio era  questa  effusione  lirica  di  dolore,  di  speranza, 
di  amore,  di  queir  incendio  interiore  che  rende  le  anime 
affettuose,  concordi  in  uno  stesso  spirito  di  carità.  Ha 
saputo  còsi  ben  dipingerle  queste  aninà^g~^ardenti  ,  che 
s'incontrano,  si  baciano  e  vanno  innanzi,  tirate  su  versa 
il  cielo! 

Li  veggio  d'  ogni  parte  farsi  presta 
Ciascun' ombra,  e  baciarsi  una  con  una, 
Senza  restar,  contente  a  breve  festa. 

Cosi  per  entro  loro  schiera  bruna 
S'  ammusa  V  una  con  V  altra  formica, 
Forse  a  spiar  lor  via  e  lor  fortuna. 

E  che  poteva  e  sapeva  con  pari  felicità  esprimere  i 
loro  sentimenti,  non  solo  il  vago  e  l' indeterminato,  ma 
anche  il  proprio  e  il  successivo,  ed  essere  il  Davide  del 
suo  purgatorio,  lo  mostra  il  suo  paternostro,  rimaso  canto 
solitario. 

Le  fuggitive  apparizioni  degli  angeh  sono  quasi  imnja- 
gine  anticipata  del  paradiso  nel  luogo  della  speranza.  In 
essi  non  è  alcuna  subbiettività :  sono  forme  eteree  ve- 
stite di  luce,  fluttuanti  come  le  mistiche  visioni  dell'estasi, 
e  nondimeno  ciascuna  con  propria  apparenza  e  attitudine» 

Tal  che  parea  beato  per  iscritto.  » 
Verdi  come  foglietto  pur  mo'  nate 

Erano  in  veste,  che  da  verdi  penne 

Percosse  traean  dietro  e  ventilate.  » 
Ben  discernea  in  lor  la  testa  bionda, 

Ma  nelle  facce  V  occhio  si  smarria, 

Come  virtù  che  a  troppo  si  confonda..  » 
A  noi  venia  la  creatura  bella 

Bianco-vestita,  e  nella  faccia  quale 

Par  tremolando  mattutina  stella  »• 


—  229  — 

]\Tolto  per  la  pittura,  poco  per  la  poesia.  Manca  la  pa- 
rola, manca  la  personalità.  Ci  è  il  corpo  dell'angiolo; 
non  ci  è  1*  angiolo.  Nelle  dolci  note ,  tra  quelle  forme 
d*  angioli,  1'  anima  s' infutura,  gusta  le  primizie  del  pia- 
cere eterno.  Di  che  prende  qualità  la  natura  del  pur- 
gatorio, una  montagna,  scala  al  paradiso,  in  principio 
faticosa  a  salire. 

E  quando  uom  più  va  su,  e  men  fa  male. 

Però  quando  ella  ti  parrà  soave 

Tanto  che  il  su  andar  ti  sia  leggiero, 
Come  a  seconda  giù  1'  andar  con  nave, 

Allor  sarai  al  fin  d'  esto  sentiero. 

Il  luogo  è  rallegrato  da  luce  non  propria,  ma  riflessa 
dal  sole  e  dalle  stelle,  che  sono  il  paradiso  dantesco.  La 
prima  impressione  della  luce  uscendo  dall'  inferno,  cava 
a  Dante  questa  bella  immagine: 

Dolce  color  d'  orientai  zaffiro 

Che  s'  accoglieva  nel  sereno  aspetto 
Dell'  aer  puro  infìno  al  primo  giro, 

Agli  occhi  mìei  ricominciò  diletto. 

La  natura  è  1'  accordo  musicale  e  la  voce  di  quel  di  den- 
tro :  qui  natura,  angeli  e  anime  sono  un  solo  canto,  un 
solo  universo  hrico.  Scena  stupenda  è  nel  canto  settimo, 
maravigliosa  consonanza  tra  le  ombre  sedute,  quete,  che 
cantano  Salve  Regina,  e  la  vista  allegra  del  seno  er- 
boso e  fiorito  dove  stanno: 

Non  avea  pur  natura  ivi  dipinto, 

Ma  di  soavità  di  mille  odori 

Mi  faceva  un  incognito,  indistinto. 
Salve  Regina  in  sul  verde  e  in  su'  fiori 

Quindi  seder  cantando  anime  vidi. 

Le  anime  piangono  e  cantano;  e  il  luogo  alpestre  è  lieto 
di  apriche  valli  e  di  campi  odorati:  il  quale  contrasto  ha 


'.» 


—  230  — 

termine^  quando  V  anima  si  leva  con  libera  volontà  a  mi- 
glior soglia,  tolte  le  schiume  della  coscienza ,  con  pura 
letizia.  Cosi  come  nell'inferno  si  scende  sino  al  pozzo 
ghiacciato  della  morte  ,  nel  purgatorio  si  sale  sino  al 
paradiso  terrestre,  immagine  terrena  del  paradiso,  dove 
l'anima  è  monda  del  peccato  o  della  carne,  è  rifatta  bella 
e  innocente.  Tutto  è  qui  che  alletti  lo  sguardo  e  lusin- 
ghi l'immaginazione;  riso  di  cielo,  canti  di  uccelli,  va- 
ghezza di  fiori,  e  tremolar  di  fronde  e  mormorare  di 
acque,  descritto  con  dolcezza  e  melodia,  ma  insieme  con 
tale  austera  misura,  che  non  dà  luogo  a  mollezza  ed  eb- 
brezza di  sensi,  né  il  diletto  turba  la  calma. 

Il  purgatorio  è  il  centro  di  questo  mistero  o  comme- 
dia dell'anima;  è  qua  che  il  nodo  si  scioglie.  Dante  più 
che  spettatore,  è  attore.  Uscito  dall'  inferno,  appena  al- 
l'ingresso del  purgatorio,  l'Angiolo  incide  sulla  sua  fronte 
sette  P,  che  sono  i  sette  peccati  mortali,  che  si  pur- 
gano ne'  sette  giorni.  Da  un  girone  all'  altro  una  P  scom- 
parisce dalla  fr-onte,  finché  van  via  tutte,  e  puro  e  rin- 
novellato giunge  al  paradiso  terrestre.  Passa  da  uno  stato 
nell'altro  in  sonno,  cioè  a  dire  per  virtù  della  grazia, 
senza  sua  coscienza.  È  Lucia,  nemica  di  ciascun  cru- 
dele, che  lo  pigha  dormente  e  sognante  ,  e  lo  conduce 
in  purgatorio.  Cosi  la  storia  intima  dell'  anima,  i  suoi 
errori,  le  passioni,  i  traviamenti,  i  pentimenti,  sono  sto- 
ria esterna  e  simbolica;  il  dramma  è  strozzato  nella  sua 
culla.  Là  crisi  del  dramma,  il  punto  in  cui  il  nodo  si 
scioglie,  è  il  pentimento,  Tanima  che  si  riconosce,  e  caccia 
via  da  sé  il  peccato,  e  si  pente  e  si  vergogna  e  ne  fa 
confessione.  A  questo  punto  il  dramma  si  fa  umano^  e 
ciò  che  avrebbe  potuto  far  Dante,  si  vede  da  quello  che 
ha  fatto  qui;  ma  una  storia  intima,  personale,  dramma- 
tica dell'  anima,  com'  è  il  Faust^  non  era  possibile  in 
tempi  ancora  epici,  simbolici,  mistici  e  scolastici. 

Qui  tutt'  i  lersonaggi  del  dramma  si  trovano  a  fronte. 


—  231  — 

Di  qua  Dante ,  Virgilio ,  Stazio  ;  di  là  Beatrice  con  gli 
Angioli  :  in  mezzo  al  rio  che  li  divide ,  bipartito  in  due 
fiumi,  Lete,  l'obblio,  ed  Eunoè,  la  forza.  Nell'uno  1'  a- 
nima  si  spoglia  della  scoria  del  passato  ;  nell'  altra  at- 
tìnge virtù  di  salire  alle  stelle. 

L'  alto  fato  di  Dio  sarebbe  rotto 

Se  Lete  si  passasse,  e  tal  vivanda 

Fosse  gustata  senz'  alcuno  scotto 
Di  pentimento  che  lagrime  spanda. 

Di  là  è  Matilde,  che  tuffa  le  anime,  pagato  lo  scotto 
del  pentimento,  e  le  passa  all' altra  riva,  rifatte  nell'  an- 
tico stato  d'innocenza.  E  lo  specchio  dell' anima  rinno- 
vellata  è  Matilde,  che  danza  e  sceglie  fiori,  in  sembian- 
za ancora  umana  celeste  creatura ,  con  l' ingenua  gio- 
condità di  fanciulla,  con  la  leggerezza  di  una  Silfide,  col 
pudico  sguardo  di  vergine;  il  viso  radiante  di  luce.  Tale; 
era  Lia,  affacciatasi  al  poeta  in  sogno,  il  presentimento 
di  Matilde,  il  nunzio  del  paradiso  terrestre. 

La  scena,  dove  questo  mistero  dell*  anima  si  scioglie, 
ha  le  sacre  e  venerabili  apparenze  di  un  mistero  litur- 
gico, una  di  quelle  sacre  rappresentazioni  che  si  face- 
vano durante  le  processioni.  Vedi  una  Chiesa  animata  e 
ambulante  di  processione  :  sette  candelabri ,  che  a  di- 
stanza parevano  sette  alberi  d'oro,  e  dietro  gente  ve- 
stita di  bianco  che  canta  Osanna,  e  le  fiammelle  lascia- 
no dietro  di  sé  lunghe  liste  lucenti,  e  sotto  questo  cielo 
di  luce  sfila  lu  processione.  Ecco  a  due  a  due  i  profeti 
e  i  patriarchi  dell'antico  testamento,  sono  ventiquattro 
seniori  coronati  di  gìglio, 

Tutti  cantavano:  Benedetta  tue 
Nelle  figlie  di  Adamo,  e  benedette 
Sieno  in  eterno  le  bellezze  tue. 

Segue  la  chiesa  in  figura  di  carro  trionfale,  a  due  ruoto 


—  232  — 

(i  due  testamenti),  tra  quattro  animali  (i  quattro  van- 
geli), tirato  da  un  Grifone,  simbolo  di  Cristo  ;  a  destra 
Fede,  Speranza  e  Carità;  a  sinistra  Prudenza,  Giustizia, 
Fortezza  e  Temperanza,  vestite  di  porpora;  dietro  due 
vecchi,  san  Luca,  e  san  Paolo,  e  dietro  a  loro  quattro 
in  umile  paruta,  forse  gli  scrittori  dell'  epistole,  e  solo  e 
dormente  san  Giovanni  dall'Apocalisse. 

E  diretro  da  tutti  un  veglio  solo 
Venir  dormendo  colla  faccia  arguta. 

Si  ode  un  tuono.  La  processione  si  ferma.  Comincia 
la  rappresentazione.  Virgilio  guarda  attonito,  non  meno 
che  Dante.  Il  senso  di  quella  processione  allegorica  gli 
sfugge.  La  missione  del  savio  pagano  è  finita.  Hai  in- 
nanzi la  dottrina  nuova,  la  Chiesa  di  Cristo  co'  suoi  Pro- 
feti e  Patriarchi,  co'  suoi  evangelisti  e  apostoli,  co'  suoi 
libri  santi. 

Fermata  la  processione,  una  canta  e  gli  altri  ripeto- 
no :  Veni,  Sponsa,  de  Libano,  e  sul  carro  si  leva  la  mol- 
titudine di  angioli  che  cantano  e  gittano  fiori. 

Tutti  dicèn  :  benedicius  qui  venis^ 
E  fior  gittando  di  sopra  e  dintorno, 
Manibus  o  date  lilla  plenis. 

Tra  questa  nuvola  di  fiori  appare  donna  sovra  candido 
velo,  cinta  d'  oliva,  sotto  verde  manto ,  vestita  di  colore 
di  fiamma;  appare  come  la  Madonna  nelle  processioni, 
sotto  i  fiori  che  le  gittano  dalle  finestre  i  fedeli.  Dante 
non  la  vede,  ma  la  sente  :  è  Beatrice. 

Quest'  apoteosi  di  Beatrice,  questo  primo  apparire  della 
sua  Donna  ancora  velata  fra  tanta  gloria  scioglie  l' im- 
maginazione dalla  rigidità  de'  simboli  e  de' riti,  e  le  dà 
le  libere  ah  dell'  arte.  Il  dramma  si  fa  umano;  spuntano 
le  immagini  e  i  sentimenti. 


—  233  — 

Io  vidi  già  nel  cominciar  del  giorno 

La  parte  orientai  tutta  rosata, 

E  l'altro  ciel  di  bel  sereno,  adorno  • 
E  la  faccia  del  Sol  nascere  ombrata, 

Sicché  per  temperanza  di  vapori 

L'  occhio  la  sostenea  lunga  fiata  : 
Cosi  dentro  una  nuvola  di  fiori, 

Che  dalle  mani  angeliche  saliva 

E  ricadeva  giù  dentro  e  di  fuori, 
Sovra  candido  vel,  cinta  di  oliva 

Donna  m'  apparve  sotto  il  verde  manto, 

Vestita  di  color  di  fiamma  viva. 

L'  apparire  di  Beatrice  è  lo  sparire  di  Virgilio.  Qui 
r  astrattezza  del  sinabolo  è  superata.  Ti  senti  innanzi  ad 
un'  anima  d'  uomo.  Quella  donna  è  la  sua  Beatrice,  V  a- 
more  della  sua  prima  giovinezza;  e  Virgilio  è  il  dolcis- 
simo padre  che  sparisce,  quando  più  ne  aveva  bisogno, 
quando  era  proprio  come  un  fantolino  in  paura  che  si 
volge  alla  mamma,  e  si  volge,  e  non  lo  vede  più  e  lo 
chiama  tre  volte  per  nome  nella  mente  sbigottita.  Il  mi- 
stero liturgico  si  trasforma  in  un  dramma  moderno. 

E  lo  spirito  mio  che  già  cotanto 

Tempo  era  stato  che  alla  sua  presenza 
Non  era  di  stupor  tremando  afi'ranto, 

Senza  degli  occhi  aver  più  conoscenza, 
Per  occulta  virtù  che  da  lei  mosse, 
D'  antico  amor  senti  la  gran  potenza. 

Tosto  che  nella  vista  mi  percosse 
L'  alta  virtù  che  già  m'  avea  trafitto, 
Prima  eh'  io  fuor  di  puerizia  fosse, 

Volsimi  alla  sinistra,  col  respitto 

Col  quale  il  fantolin  corre  alla  mamma, 
Quando  ha  paura  o  quando  egli  è  aiflitto, 

Per  dicer  a  Virgilio:  Men  che  dramma 
Di  sangue  m'  è  rimaso,  che  non  tremi  : 
Conosco  i  sogni  dell'  antica  fiamma. 


—  234  — 

Ma  Virgilio  ne  avea  lasciati  scemi 
Di  sé,  Virgilio  dolcissimo  padre, 
Virgilio,  a  cai  per  mia  salute  dièmi. 

Dal  pianto  di  Dante  esce  un  felicissimo  passaggio  per 
introdurre  in  iscena  Beatrice  : 

Dante,  perchè  Virgilio  se  ne  vada, 

Non  pianger  anco,  non  piangere  ancora, 
Che  pianger  ti  convien  per  altra  spada. 

Gli  occhi  di  Dante  sono  là  verso  la  donna,  che  lo  chia- 
ma per  nome. 

Guardami  ben  :  ben  son,  ben  son  Beatrice. 
Come  degnasti  ai  ascendere  al  monte  ? 
Non  sape' tu  che  qui  è  1' uom  felice? 

E  gli  occhi  cadono  nella  fontana,  e  non  sostenendo  la  pro- 
pria vista,  cadono  suU'  erba  : 

Gli  occhi  mi  cadder  giù  nel  chiaro  fonte; 
Ma  veggendomi  in  esso,  io  trassi  all'  erba  : 
Tanta  vergogna  mi  gravò  la  fronte. 

Qui  è  la  prima  volta  e  sola  che  un'  azione  è  rappre- 
sentata nel  suo  cammino  e  nel  suo  svolgimento  ,  come 
in  un  mistero,  e  Dante  vi  rivela  un  ingegno  dramma- 
tico superiore.  I  più  intimi  e  rapidi  movimenti  dell'ani- 
mo scappan  fuori;  i  due  attori,  Dante  e  Beatrice,  vi  sono 
perfettamente  disegnati;  gli  Angioli  fanno  coro  e  inter- 
vengono. La  scena  è  rapida,  calda,  piena  di  movimenti 
e  di  gradazioni  fine  e  profonde.  La  vergogna  di  Dante 
senza  lagrime  e  sospiri  giunge  a  poco  a  poco  sino  al 
pianto  dirotto.  Dapprima  sta  li  più  attonito  che  com- 
punto, ma  quando  gli  Angioli  nel  loro  canto  hanno  aria 
di  compatirgh,  come  se  dicessero  :  Donna  perchè  lo  stem- 
pre?  scoppia  il  piano.  Quello  che  non  potè  il  rimpro- 
vero, ottiene  ii  compatimento.  Gradazione  vera  e  prò- 


—  235  — 

fonda  e  rappresentata  con  rara  evidenza  d*  immagino. 
Instando  Beatrice:  di,  di,  se  questo  è  vero,  tra  con- 
fusione e  vergogna,  esitando  e  incalzato  gli  esce  un  tale 
si  dalla  bocca,  che  si  poteva  vedere,  ma  non  udire: 

Al  quale  intender  fur  mestier  le  viste. 

I  sentimenti  dell'  animo  scoppiano  con  tanta  ingenuità  e 
naturalezza,  che  rasentano  il  grottesco  ;  quando  Beatrice 
dice  :  Alza  la  barba ,  il  nostro  dottore  con  linguaggio 
della  scuola  riflette  : 

E  quando  per  la  barba  il  viso  chiese, 
Ben  conobbi  il  velen  dell'  argomento. 

II  berretto  dottorale  spunta  tutto  ad  un  tratto  sul  capo 
di  Dante  fra  le  lagrime  e  i  sospiri,  e  dà  a  questa  magni- 
fica storia  del  cuore  un  colorito  locale. 

Queste  gradazioni  corrispondono  alle  parole  di  Beatri- 
ce. Qui  non  ci  è  dialogo  :  è  lei  che  parla  :  le  risposte  di 
Dante  sono  le  sue  emozioni.  Pure  non  ci  è  monotonia, 
né  declamazione;  tutto  esce  da  una  situazione  vera  e 
finalmente  analizzata.  Regalmente  proterva,  la  sua  se- 
verità è  raddolcita  poi  dal  canto  degli  AngioU.  Beatrice 
non  parla  più  a  Dante  ;  parla  agli  Angioli  e  narra  loro 
la  storia  di  Dante.  La  situazione  diviene  meno  appassio- 
nata, ma  più  elevata;  mai  la  poesia  non  si  era  alzata  a 
un  linguaggio  si  nobile;  lo  spiritualismo  cristiano  trovava 
la  sua  musa: 

Quando  di  carne  a  spirto  era  salita, 
E  bellezza  e  virtù  cresciuta  m'  era, 
Fui  io  a  lui  meii  cara  e  men  gradita 

E  torso  i  passi  suoi  per  via  non  vera, 
Immagini  di  ben  seguendo  false, 
Che  nulla  proraission  rendono  intera. 

Poi  si  volta  a  Dante,  e  il   discorso  diviene  personale, 


—  236  — 

stringente,  implacabile  nella  sua  logica.  È  una  sola  idea 
sotto  varie  forme,  ostinata,  insistente,  che  vuole  da  Dante 
una  risposta.  Sei  uomo,  hai  la  barba:  come  potesti  pre- 
ferire a  me  le  cose  fallaci  della  terra,  o  pargoletta,  o 
altra  vanità  per  si  breve  uso  ?  E  quando  Dante  potè 
formare  la  voce,  viene  la  risposta: 

le  presenti  cose 
Col  falso  lor  piacer  volser  miei  passi, 
Tosto  che  il  vostro  viso  si  nascose. 

Come  si  vede ,  è  1'  antica  lotta  tra  il  senso  e  la  ra- 
gione che  qui  ha  il  suo  termine;  è  la  vita  tragica  del- 
l' anima  fra  gli  errori  e  le  battaglie  del  senso  che  qui 
si  scioglie  in  commedia,  cioè  in  lieto  fine,  con  la  vitto- 
ria dello  spirito.  L' idea  è  più  che  trasparente,  è  mani- 
festata direttamente  nel  suo  linguaggio  teologico.  Ma  la 
idea  è  calata  nella  realtà  della  vita  e  produce  una  vera 
scena  drammatica^  con  tale  fusione  di  terreno  e  di  ce- 
leste, di  passione  e  di  ragione,  di  concreto  e  di  astratto, 
che  vi  trovi  la  stoffa  da  cui  dovea  sorgere  più  tardi  il 
dramma  spagnuolo. 

Dante  pentito,  tuffato  nel  fiume  Lete,  è  menato  a  Bea- 
trice dalle  Virtù,  sue  ancelle: 

Noi  Sem  qui  Ninfe;  e  in  ciel  semo  stelle; 
Pria  che  Beatrice  discendesse  al  mondo. 
Fummo  ordinate  a  lei  per  sue  ancelle. 
Merrenti  agli  occhi  suoi. 

E  Beatrice  gli  svela  la  sua  faccia.  Non  è  poesia  che 
possa  rendere  quello  che  Dante  vede,  quello  che  sente  : 

0  splendor  di  viva  luce  eterna, 
Chi  pallido  si  fece  sotto  V  ombra 
Si  di  Parnasso,  e  bevve  in  sua  cisterna, 

Che  non  paresse  aver  la  mente  ingombra, 
Tentando  a  render  te,  qual  tu  paresti 


—  231  — 

Là  dove  armonizzando  il  del  ti  adombra. 
Quando  nell'  aere  aperto  ti  solvesti  ? 

Compiuta  la  rappresentazione,  ricomincia  la  proces^ 
sione  sino  all'  albero  della  vita,  dove,  antitesi  a  questa 
chiesa  gloriosa  di  Cristo,  apparisce  in  visione  allegorica 
la  Chiesa  terrena,  trafìtta  dall'  impero,  travagliata  dal- 
l' eresia,  corrotta  dal  dono  di  Costantino,  smembrata  da 
Maometto,  e  in  ultimo  meretrice  fra  le  braccia  del  Re 
di  Francia.  Concetto  stupendo,  questo  apparire  della  vita 
terrena  nelF  ultimo  del  purgatorio,  germogliata  dall'  al- 
bero infausto  del  peccato  di  Adamo.  Il  terreno  appari- 
sce quando  ci  si  dilegua  per  sempre  dinanzi,  non  solo  in 
realtà  ma  in  ricordanza.  Siamo  già  alla  soglia  del  Pa- 
radiso. 

Cosi  finisce  questa  processione  dantesca,  una  delle  con- 
cezioni più  grandiose  del  poema,  anzi  in  sé  sola  tutto 
un  poema,  dove  ci  vediamo  sfilare  davanti  tutt'  i  grandi 
personaggi  della  Chiesa  celeste,  immagine  anticipata  del 
regno  di  Dio,  un'  apoteosi  del  cristianesimo,  entro  di  cui 
si  rappresenta  il  più  alto  mistero  liturgico,  la  commedia 
dell'  anima.  "^^ 

Questa  processione  do"V%  far  molta  impressione  in  quei 
tempi  delle  processioni,  de'  misteri  e  delle  allegorie,  quan- 
do gh  angeli,  le  virtù  e  i  vizii,  e  Cristo  e  Dio  stesso 
entravano  in  iscena.  Ma  è  appunto  questo  carattere  litur- 
gico e  simbolico^  che  qui  scema  in  gran  parte  la  bel- 
lezza della  poesia;  Questo  difetto  nuoce  soprattutto  nella 
rappresentazione  della  chiesa  terrena,  dove  1'  aquila,  la 
volpe  e  il  drago  e  il  gigante  e  la  meretrice  rimpiccoli- 
scono un  concetto  cosi  magnifico^  una  storia  cosi  inte- 
ressante. 

Lo  stesso  contrasto  si  affaccia  a  Dante,  quando  il  me 
appare  nella  Città  di  Dio,  di  santo  Agostino,  e  ne  man- 


—  238  — 

tovano  Sordello,  e  sentendo  Virgilio  esser  di  Mantova, 
esce  dalla  sua  calma  di  leone  : 

o  Maritavano, 
Io  son  Sordello,  E  1'  un  1'  altro  abbracciava. 

E  Dante  pensa  alla  sua  Firenze,  dove 

r  un  r  altro  si  rode 
Di  quei  che  un  muro  ed  una  fossa  serra. 

Qui  non  è  impigliato  nelle  allegorie.  Scoppia  il  contra- 
sto impetuoso,  eloquente,  e  n'  esce  una  poesia  tutta  cose, 
dove  si  riflettono  i  più  diversi  movimenti  dell'  animo,  il 
dolore,  lo  sdegno,  la  pietà,  V  ironia,  una  calma  tristezza. 

Il  Purgatorio  è  il  dolce  rifugio  della  vecchiezza.  Quan- 
do la  vita  si  disabbella  ai  nostri  sguardi,  quando  le  vol- 
giamo le  spalle  e  ci  chiudiamo  nella  santità  degli  affetti 
domestici  tra  la  famiglia  e  gli  amici ,  nelle  opere  del- 
l' arte  e  del  pensiero,  il  purgatorio  ci  s' illumina  di  viva 
luce  e  diviene  il  nostro  libro,  e  ci  scopriamo  molte  de- 
licate bellezze,  una  gran  parte  di  noi.  Fu  il  libro  di  La- 
mennais,  il  Balbo,  di  Schlosser. 

Viene  il  Paradiso.  Altro  concetto,  altra  vita,  altre 
forme. 

Il  paradiso  è  il  regno  dello  spirito,  venuto  a  libertà 
emancipato  dalla  carne  o  dal  senso,  perciò  il  sopra  sen- 
sibile, 0  come  dice  Dante,  il  trasumanare,  il  di  là  dal- 
l' umano.  È  quel  regno  della  filosofia ,  che  Dante  volea 
realizzare  in  terra,  il  regno  della  pace,  dove  intelletto, 
amore  e  atto  sono  una  cosa.  Amore  conduce  lo  spirito 
al  supremo  intelletto,  e  il  supremo  intelletto  è  insieme 
supremo  atto.  La  Triade  è  insieme  unità .  Quando  l'uomo 
è  alzato  dall'  amore  fino  a  Dio,  hai  la  congiunzione  del- 
l' umano  e  del  divino,  il  sommo  bene,  il  Paradiso. 

Questo  ascetismo  o  misticismo  non  è  dottrina  astratta, 
è  una  forma  della  vita  umana.  Ci  è  nel  nostro  spirito 


-  239  — 

un  dì  là,  ciò  che  dicesi  il  sentimento  dell'  infinito,  la  cui 
esistenza  si  rivela  più  chiaramente   alle  nature  elevate. 

L*  arte  antica  avea  materializzato  questo  di  là,  uma* 
nando  il  cielo;  e  la  filosofìa  partendo  dalle  più  diverse 
direzioni  era  giunta  a  questa  conclusione  pratica ,  che 
r  ideale  della  saggezza  e  perciò  della  felicità  è  posto  nella 
eguaglianza  dell'  anima,  ciò  che  dicevasi  apatia,  affran- 
camento dalle  passioni  e  dalla  carne:  pagana  tranquil- 
lità che  vedi  nelle  figure  quiete  e  serene  e  semplici  del- 
l' arte  greca. 

Questa  calma  filosofica  trovi  nelle  figure  eroiche  del 
limbo  : 

Parlavan  rado  con  passi  soavi  : 
Sembianza  avean  né  trista  né  lieta. 

Virgilio  n' è  il  tipo  più  puro,  le  cui  impressioni  vanno 
<li  rado  al  di  là  di  un  sospiro,  o  di  un  movimento  tosto 
represso.  Questa  calma  è  la  fìsonomia  del  purgatorio,  il 
carattere  più  spiccato  di  quelle  anime ,  dove  V  aspira- 
zione al  cielo  è  senza  inquietudine,  sicuro  di  salirvi  quan- 
dochessia.  Ma  già  in  quelle  anime  penetra  un  elemento 
nuovo,  r  estasi,  il  rapimento,  la  contemplazione  ;  ci  sta 
Catone,  ma  irradiato  di  luce. 

Col  cristianesimo  s'  era  restaurato  nello  spirito  que- 
sto inquieto  di  là,  e  divenne  in  breve  molta  parte  della 
vita,  anzi  la  principale  occupazione  della  vita.  E  si  svi- 
luppò un'  arte  e  una  letteratura  conforme.  Chi  vede  gli 
ammirabili  mosaici  del  paradiso  sotto  le  cupole  di  San 
Marco  e  di  San  Giovanni  Laterano,  o  le  facce  estatiche 
de'  Santi  consumati  dal  fervore  divino  ha  imlianzi  stam- 
pato il  tipo  di  questo  uomo  nuovo.  Quel  di  là,  il  cele- 
ste, il  divino,  appare  su  quelle  facce,  come  appare  nella 
Città  di  Dio  di  santo  Agostino  ,  e  nella  Dieta  salutis 
di  san  Bonaventura.  A  questa  immagine  avea  composta 


—  240  — 

la  sua  Gerusalemme  celeste  Frate  Giacomino  da  Ve- 
rona nel  secolo  decimoterzo. 

Questo  di  là,  intraveduto  nelle  estasi,  ne'  sogni  nelle 
visioni,  nelle  allegorie  del  Purgatorio,  eccolo  qui  nella 
sua  sostanza,  è  il  Paradiso.  Il  quale  intraveduto  nella 
vita  ha  una  forma,  e  può  essere  arte;  ma  non  si  con- 
cepisce come  veduto  ora  nella  sua  purezza,  come  regno 
dello  spirito,  possa  avere  una  rappresentazione.  Il  para- 
diso può  essere  un  canto  lirico,  che  contenga  non  la  de- 
scrizione di  cosa  che  è  al  di  sopra  della  forma,  ma  la 
vaga  aspirazione  dell'  anima  «  a  non  so  che  divino  »,  ed 
anche  allora  V  obbietto  del  desiderio,  pur  rimanendo  un 
incognito  indistinto,  ricove  la  sua  bellezza  da  immagini 
terrene,  come  \i^ Asjpir azione  e  nel  Pellegrino  di  Schil- 
ler e  in  questi  bei  versi  del  purgatorio,  imitati  dal  Tasso  : 

Chiamavi  il  cielo  e  intorno  vi  si  gira. 
Mostrandovi  le  sue  bellezze  eterne. 

Per  render  artistico  il  Paradiso,  Dante  ha  immagi- 
nato un  paradiso  umano,  accessibile  al  senso  e  all'im- 
maginazione. In  paradiso  non  e'  è  canto ,  e  non  luce  e 
non  riso ,  ma  essendo  Dante  spettatore  terreno  del  para- 
diso, lo  vede  sotto  forme  terrene  : 

Per  questo  la  scrittura  condescende 
A  vostra  facultade,  e  mani  e  piedi 
Attribuisce  a  Dio  e  altro  intende. 

Cosi  Dante  ha  potuto  conciliare  la  teologia  e  1'  arte. 
Il  paradiso  teologico  è  spirito,  fuori  del  senso  e  dell'  im- 
maginazione ,  e  dell'intelletto;  Dante  gli  dà  parvenza 
umana  e  lo  rende  sensibile  ed  intelligibile.  Le  anime  ri- 
dono, cantano,  ragionano  come  uomini.  Questo  rende  il 
paradiso  accessibile  all'  arte. 

Siamo  all'  ultima  dissoluzione  della  forma.  Corpulenta 
e  materiale  neh'  inferno,  pittorica  e  fantastica  nel  pur- 


—  211  — 

gatorio,  qui  è  lirica  e  musicale,  immodiata  parvenza  dello 
spirito  ,  assoluta  luce  senza  contenuto  ,  fascia  e  cerchio 
dello  spirito  non  esso  spirito.  Il  purgatorio  come  la  terra, 
riceve  la  luce  dal  sole  e  dalle  stelle  ,  e  queste  1'  hanno 
immediatamente  da  Dio,  sicché  le  anime  purganti,  come 
gli  uomini,  veggono  il  Sole,  e  nel  Sole  intravvedono  Dio, 
offertosi  già  alla  fantasia  popolare  come  emanazione  di 
luce;  ma  i  beati  intuiscono  Dio  direttamente  per  la  luce 
che  move  da  lui  senza  mezzo: 

Lume  che  a  lui  veder  ne  condiziona. 

Adunque  il  paradiso  è  la  più  spirituale  manifestazione 
di  Dio;  e  perciò  di  tutte  le  forme  non  rimane  altro  che 
luce  ,  di  tutti  gli  affetti  non  altro  che  amore  ,  di  tutt'  i 
sentimenti  non  altro  che  beatitudine,  di  tutti  gh  atti  non 
altro  che  contemplazione.  Amore  ,  beatitudine ,  contem- 
plazione prendono  anche  forma  di  luce;  gli  spiriti  si  scal- 
dano ai  raggi  d' amore  ;  la  beatitudine  o  letizia  sfavilla 
negli  occhi  e  fiammeggia  nel  riso  ;  e  la  verità  è  sicco- 
me in  uno  specchio  dipinta  nel  cospètto  eterno: 

Luce  intellettual,  piena  d'  amore, 
Amor  di  vero  ben  pien  di  letizia, 
Letizia  che  trascende  ogni  dolzore. 

Gli  affetti  e  i  pensieri  delle  anime  si  manifestano  con  la 
luce;  l'ira  di  san  Pietro  fa  trascolorare  tutto  il  paradiso. 

Il  paradiso  ha  ancora  la  sua  storia  e  il  suo  progres- 
so ,  come  r  inferno  e  il  purgatorio.  È  una  progressiva 
manifestazione  dello  spirito  o  di  Dio  in  una  forma  sem- 
pre più  sottile  sino  al  suo  compiuto  sparire,  manifesta- 
zione ascendente  di  Dio  che  risponde  a'  diversi  ordini  o 
gradi  di  virtù.  Sali  di  stella  in  stella,  come  di  virtù  in 
virtù,  sino  al  cielo  empireo,  soggiorno  di  Dio. 

Ad  esprimere  queste  gradazioni  unica  forma  è  la  luce. 
Perciò  non  hai  qui,  come  nell'inferno  o  nel  purgatorio, 

D*  Sanotis  — I.eU.  Ita).  Vol.I.  16 


—  242  — 

differenze  qualitative  ,  ma  unicamente  quantitative  ,  un 
più  e  un  meno.  Prima  la  luce  non  è  così  viva  che  celi 
la  faccia  umana;  più  si  sale  e  più  la  luce  occulta  le  forme 
come  in  un  santuario.  Come  è  la  luce,  cosi  è  il  riso  di 
Beatrice,  un  crescendo  superiore  ad  ogni  determinazione; 
la  fantasia  formando  non  può  seguire  l'intelletto  che  di- 
stingue. Bene  il  poeta  vi  adopera  l'estremo  del  suo  in- 
gegno, conscio  della  grandezza  e  difficoltà  dell'  impresa: 

L'acqua  che  io  prendo  giammai  non  si  corse; 
Minerva  spira  e  conducemi  Apollo, 
E  nuove  Muse  mi  dìmostran  l'Orse. 

Dapprima  caldo  di  questo  mondo ,  sua  fattura ,  allet- 
tato dalla  novità  o  dal  maravighoso  de'  fenomeni  che  gli 
si  affacciano,  le  immagini  gli  escono  vivaci,  peregrine  ; 
poi  quasi  stanco  diviene  arido  e  da  in  sottigliezze  ^  ;  ma 
lo  vedi  rivelarsi  e  poggiare  più  e  più  a  inarrivabile  al- 
tezza, sereno,  estatico;  diresti  che  la  difficoltà  lo  alletti, 
la  novità  lo  rinfranchi,  l'infinito  lo  esalti. 

Il  paradiso  propriamente  detto  è  il  cielo  empireo,  im- 
mobile e  che  tutto  move,  centro  dell'universo.  Ivi  sono 
gli  spiriti,  ma  secondo  i  gradi  de'  loro  meriti  e  della  loro 
beatitudine  appariscono  ne'  nove  cieli  che  girano  intorno 
alla  terra.  La  Luna,  Mercurio,  Venere,  il  Sole,  Marte, 
Giove,  Saturno,  le  stelle  fisse  e  il  Primo  mobile.  Ne'  primi 
sette  cieli  che  sono  i  sette  pianeti ,  ti  sta  avanti  tutta 


1  Ecco  esempi  di  aridità  e  di  sottigliezze: 

e  quale  io  allor  vidi 

Negli  occchi  santi  amor,  qui  l'abbandono,  (e.  XVIII.) 

E  gli  occhi  avea  di  letizia  si  pieni, 

Che  passar  mi  convien  senza  costrutto,  (e.  XXXIII.) 

E  tal  nella  sembianza  sua  divenne 
Qual  diverrebbe  Giove,  s'egli  e  Marte 
Fossero  augelli  e  cambiasser  penne,  (e.  XXVII.) 

Poscia  tra  esse  un  lume  si  schiari, 

Si  che  se  il  cancro  avesse  un  tal  cristallo. 

Il  verno  avrebbe  un  mese  di  un  sol  di.  (e.  XXV.) 


—  213  — 

la  vita  tprrpna.  Tua  luna  è  una  speno  di  avantì-parn- 
diso.  I  negligenti  aprono  l'inferno  e  il  purgatorio,  e  a- 
prono  anche  il  paradiso.  E  i  negligenti  del  paradiso  sono 
i  manchevoli  non  per  volontà  propria,  ma  per  violenza 
altrui.  Il  loro  merito  non  è  pieno  ,  perchè  mancò  loro 
quella  forza  di  volontà  che  tenne  Lorenzo  sulla  grata  e 
fé  Muzio  severo  alla  sua  mano.  Perciò  in  loro  rimane 
ancora  un  vestigio  della  terra,  la  faccia  umana.  In  Mer- 
curio, Venere,  il  Sole,  Marte,  Giove  hai  le  glorie  della 
vita  attiva,  i  legislatori,  gli  amanti,  i  dottori,  i  martiri, 
i  giusti.  In  Saturno  hai  la  corona,  e  la  perfezione  della 
vita ,  i  contemplanti.  Percorsi  i  diversi  gradi  di  virtù , 
■comincia  il  tripudio,  o  come  dice  il  poeta,  il  trionfo  della 
beatitudine.  Ed  hai  nelle  stelle  fisse  il  trionfo  di  Cristo, 
nel  primo  Mobile  il  trionfo  degli  Angioli,  e  nell'  empireo 
la  visione  di  Dio,  la  congiunzione  dell'  umano  e  del  di- 
vino, dove  s' acqueta  il  desiderio. 

Questa  storia  del  paradiso  secondo  i  diversi  gradi  cìl 
beatitudine  ha  la  sua  forma  ne'  diversi  gradi  di  luce. 

La  luce,  veste  e  fascia  delle  anime,  è  la  sola  super- 
stite di  tutte  le  forme  terrene,  e  non  è  vera  forma,  ma 
semplice  parvenza  e  illusione  dell'  occhio  mortale.  Essa 
è  la  stessa  beatitudine,  la  letizia  dell'anime,  che  prende 
quell'aspetto  agU  occhi  di  Dante: 

La  mia  letizia  mi  tien  celato, 
•    Che  mi  raggia  d' intorno  e  mi  nasconde^ 
Quasi  animai  dì  sua  seta  fasciato. 

Queste  parvenze  dell'  interna  letizia  si  atteggiano  ,  si 
determinano,  si  configurano  ne'  più  diversi  modi,  e  non 
sono  altro  che  i  sentimenti  o  i  pensieri  delle  anime  che 
pajon  fuori  in  quelle  forme.  E  n'esce  la  Natura  del  pa- 
radiso, luce  diversamente  atteggiata  e  configurata,  che 
ha  aspetto  or  di  aquila,  or  di  croci,  or  di  cerchio,  or  di 
costellazione  ,  ora  di  scala ,  con  viste  nuove  e  raaravi- 
gliose.  Queste  combinazioni  di  luce  non  sono  altro  che 


—  244  — 

gruppi  d' anime  ,  che  esprimono  i  loro  pensieri  co'  loro 
moti  e  atteggiamenti.  A  rendere  intelligibili  le  parvenze 
di  questo  mondo  di  luce,  il  poeta  si  tira  appresso  la  na- 
tura terrestre  e  ne  coglie  i  fenomeni  più  fuggevoli,  più 
delicati ,  e  ne  fa  lo  specchio  della  natura  celeste.  Così 
rientra  la  terra  in  paradiso  ,  non  come  sostanziale ,  ma 
come  immagine  ,  parvenze  delle  parvenze  celesti.  È  la 
terra  che  rende  amabile  questo  paradiso  di  Dante;  è  il 
sentimento  della  natura  che  diffonde  la  vita  tra  queste 
combinazioni  ingegnose  e  simboliche.  La  terra  ha  pure 
la  sua  parte  di  paradiso,  ed  è  in  quei  fenomeni  che  ineb- 
briano,  innalzano  l'animo  e  lo  spongono  alla  tenerezza  e 
all'  amore  :  trovi  qui  tutto  che  in  terra  è  di  più  eterno, 
di  più  sfumato,  di  più  soave.  E  come  l'impressione  este- 
tica nasce  appunto  da  questo  profondo  sentimento  delia 
V  natura  terrestre,  avviene  che  il  lettore  ricorda  il  para- 
gone, senza  quasi  più  sapere  a  che  cosa  si  riferisca.  Questi 
paragoni  di  Dante  sono  le  vere  gemme  del  paradiso: 

Come  a  raggio  di  sol  che  puro  mei 
Per  fratta  nube,  già  prato  di  fiori 
Vider  coverti  "d' ombra  gi  occhi  miei; 

Vid'io  così  più  turbe  di  splendori 
Fulgorato  di  su  da'  raggi  ardenti, 
Senza  veder  principio  di  fulgori,  (e.  XXIII.* 

Siccome  il  Sol  che  si  cela  egli  stessi 
Per  troppa  luce,  quando  il  caldo  ha  rose 
Le  temperanze  de'  vapori  spessi. 

Per  più  letizia  si  mi  si  nascose 
Dentro  al  suo  raggio  la  figura  santa 
E  cosi  chiusa  chiusa  mi  rispose,  (e.  V.  ) 

Come  l'augello,  intra  l'amate  fronde, 
Posato  al  nido  de'  suoi  dolci  nati, 
La  notte  che  le  cose  ci  nasconde, 

Che  per  veder  gli  aspetti  desiali 

E  per  trovar  lo  cibo  onde  gli  pasca, 
In  che  i  gravi  labori  gli  son  grati, 


—  245  — 
Previene  il  tempo  in  su  l'aperta  frasca, 

E  con  ardente  affetto  il  sole  aspetta, 

Fiso  guardando  pur  se  l'alba  nasca,  (e.   XXXIII.) 
conae  orologio  che  ne  chiami 

Nell'ora  che  la  sposa  di  Dio  surge 

A  mattinar  lo  sposo  perchè  l'ami; 
Che  runa  parte  e  l'altra  tira  ed  urge, 

Tintin  sonando  con  sì  dolce  nota, 

che  il  ben  disposto  spirito  d'amor  turge.  (e.  X.) 
.     .     .     e  cantando  vanio 

Come  per  acqua  cupa  cosa  grave,  {o..  III.) 
Qual  lodoletta  che  in  aere  si  spazia, 

Prima  cantando  e  poi  tace  contenta 

Dell'ultima  dolcezza  che  la  sazia,  (e.  XX.) 
Pareva  a  me  che  nube  ne  coprisse 

Lucida,  spessa,  solida  e  pulita. 

Quasi  adamante  che  lo  Sol  ferisse. 
Per  entro  sé  l'eterna  Margherita 

Ne  ricevette,  com'acqua  recepe 

Raggio  di  luce,  rimanendo  unita,  (e.  II,) 
Siccome  schiera  di  api  che  s'infiora 

Una  fiata,  ed  una  si  ritorna 

Là  dove  suo  lavoro  s'insapora,  (e.  XXXI.) 
E  vidi  lume  in  forma  di  riviera, 

Fulvido  di  fulgore,  intra  due  rive, 

Dipinte  di  mirabil  primavera. 
Di  tal  fiumana  uscian  faville  vive, 

E  d'ogni  parte  si  mettèn  ne'fiori. 

Quasi  rubin  che  oro  circonscrive. 
Poi  come  inebbriate  dagli  odori 

Riprofondavan  sé  nel  miro  gurge; 

E  s'una  entrava,  un'altra  ne  uscia  fuori,  (e.  XXX.) 

Queste  tre  ultime  terzine  sono  mirabili  di  spontaneità 
e  di  evidenza.  Il  poeta  ha  circonfuso  le  celesti  sustanze 
di  tutto  ciò  che  in  terra  è  più  ridente  e  smagliante.  Siamo 
nell'empireo.  La  virtù  visiva  e  stanca,  ma  si  raccende 
alle  parole  di  beatrice,  sì,  che  gli  appare  la  riviera  di 


—  240  — 

luce,  e  fortificata,  la  vista  in  quella  riviera,  in  quei  fiori 
inebrianti,  in  quell'oro,  in  quei  rubini,  in  quelle  vive  fa- 
ville Dante  discerne  ambo  le  corti  del  cielo  nel  santo  de-^ 
lirio  del  loro  tripudio.  Ma  in  verità  gli  scanni  de'  beati 
sono  meno  poetici  di  queste  due  rive  dipinte  di  mirabil 
.primavera. 

Ma  la  forma,  come  parvenza  dello  spirito,  è  un  presso 
a  poco,  un  quasi,  un  come,  fiocca  e  corta  al  concetto. 
'Questa  impotenza  della  forma  produce  un  sublime  ne- 
gativo che  Dante  esprime  con  l'energia  intellettuale  di, 
•chi  ha  vivo  il  sentimento  dell'infinito; 

appressando  sé  al  sua  desire 

Nastro  intelletto  si  profonda  tanto 

Che  dietro  la  memoria  non  può  ire. 
ogni  minor  natura 

È  corto  ricettacolo  a  quel  Bene 

Che  non  lia  fine  e  so  in  sé  misura. 
nella  giustizia  sempiterna 

La  vista  che  riceve  il  vostro  mondo, 

Com'occhio  per  lo  mare,  entro  s'interna; 
Che  benché  dalla  proda  veggia  il  fondo, 

In  pelago  noi  vede;  e  nondimeno 

Egli  è,  ma  cela  lui  l'esser  profondo. 

La  letizia  che  move  le  anime  e  trascende  ogni  dol- 
zore, non  è  se  non  beatitudine.  E  rende  beate  le  anime 
l'entusiasmo  dell'amore  e  la  chiarezza  intellettiva,  o  come 
dice  Dante  luce  intelleitual  piena  d* amore.  Esse  hanna 
allegro  il  cuore  e  allegra  la  mente.  Nel  cuore  è  perenne 
desiderio  e  perenne  appagamento.  Nella  mente  la  verità 
sta  come  dipinta. 

La  luce  è  forma  inadeguata  della  beatitudine.  Ti  dà 
la  parvenza ,  ma  non  il  sentimento  e  non  il  pensiero. 
Spuntano  perciò  due  altre  forme ,  il  canto  e  la  visione 
intellettuale. 

Quello  che  nel  purgatorio  è  amicizia,  nel  paradiso  è 


—  247  — 

amore,  ardore  di  desiderio  placato  sempre  non  saziato 
mai,  infinito  come  lo  spirito.  Stato  lirico  e  musicale,  che 
ha  la  sua  espressione  nella  melodia  e  nel  canto.  La  me- 
desimezza del  sentimento  spinto  sino  all'entusiasmo  ge- 
nera la  comunione  delle  anime;  la  persona  non  è  l'in- 
dividuo, ma  il  gruppo,  come  è  delle  moltitudini  nei  grandi 
giorni  della  vita  pubblica.  I  gruppi  qui  non  sono  Cori, 
che  accompagnino  e  compiano  1'  azione  individuale,  ma 
sono  la  stessa  individualità  diffusa  in  tutte  le  anime,  e 
se  vogliamo  chiamarli  Cori,  sono  il  Coro  di  personaggi, 
invisibili  e  muti,  di  Cristo,  di  Maria  e  d'Iddio.  Ecco  il 
Coro  di  Maria: 

Per  entro  il  cielo  scese  una  facella, 
Formata  in  cerchio  a  guisa  di  corona, 
b)  cinsela  e  girossi  intorno  ad  ella. 

Qualunque  melodia  più  dolce  suona 
Quaggiù  e  più  a  sé  l'anima  tira, 
Parrebbe  nube  che  squarciata  tuona, 

Comparata  al  suonar  di  quella  lira, 
Onde  si  coronava  il  bel  zaffiro. 
Dal  quale  il  ciel  più  chiaro  s'inzaffira. 

Io  sono  amore  angelico  che  giro 
L*alta  letizia  che  spira  dal  ventre 
Che  fu  albergo  del  nostro  disiro; 

E  girerommi,  donna  del  ciel,  mentre 
Che  seguirai  tuo  figlio  e  farai  dia 
Più  la  sfera  superna,  perchè  li  entre. 

Cosi  la  circulata  melodia 

Si  sigillava,  e  tutti  gli  altri  lumi 
Facèn  sonar  lo  nome  di  Maria. 

E  come  fantolin  che  invèr  la  mamma 
Tende  le  braccia,  poi  che  il  latte  prese, 
Per  l'animo  che  infin  di  fuor  s'infiamma; 

Ciascun  di  quei  cantori  in  su  si  stese 
Con  la  sua  cima  si  che  l'alto  affetto 
Ch'egli  aveano  a  Maria,  mi  fu  palese. 


—  248  — 

.indi  rimaser  lì  nel  mio  cospetto, 
Regina  Coeli  cantando  si  dolce 
Che  mai  da  me  non  si  partì  il  diletto. 

Quella  facella  è  Tangiolo  Gabriele,  e  il  Coro  è  ange- 
lico. Angioli  e  Beati  sono  penetrati  dello  stesso  spirito, 
hanno  vita  comune,  se  non  che  negli  angioli  la  virtù  è 
innocenza  e  la  letizia  è  irreflessa  :  plenitudine  volante 
tra'Beati  e  Dio,  che  il  poeta  ha  rappresentato  in  alcuni 
bei  tratti:  è  un  andare  e  venire  nel  modo  abbandonato 
e  allegro  della  prima  età,  tripudianti  e  folleggianti  con 
una  espansione  che  il  poeta  chiama  arte  e  gioco  : 

Qual  è  quell'angel  che  con  tanto  gioco 
Guarda  negli  occhi  la  nostra  regina, 
Innamorato  sì  che  par  di  fuoco? 

L'amicizia  o  comunione  delle  anime  è  detta  dal  poeta 
sodalizi  a.  I  loro  moti  sono  danze,  le  loro  voci  sono  canti: 
ma  in  quali'  accordo  di  voci ,  in  quel  turbine  di  movi- 
menti la  personalità  scompare;  è  una  musica  in  cui  i  di- 
versi suoni  si  confondono  e  si  perdono  in  una  sola  me- 
lode. Non  ci  è  differenza  di  aspetto,  ma  per  dir  cosi  una 
faccia  sola.  Questa  comunanza  di  vita  è  il  fondo  lirico 
del  paradiso,  ma  è  la  sua  parte  fiacca,  perchè  il  poeta, 
contento  a  citare  le  prime  parole  di  canti  ecclesiastici, 
non  ha  avuta  hbertà  e  attività  di  spirito  da  creare  la 
lirica  del  paradiso,  rappresentando  nel  canto  i  sentimenti 
€  gh  affetti  del  celeste  sodalizio.  E  dove  poteva  giunge- 
re, lo  mostra  la  preghiera  di  San  Bernardo ,  che  è  un 
vero  Inno  alla  Vergine,  e  l'Inno  a  san  Francesco  d'As- 
sisi e  l'Inno  a  San  Domenico,  nella  loro  semphcità  an- 
che un  po'  rozza  tutto  cose  e  più  schietti  che  i  magni- 
loquenti inni  moderni. 

I  canti  delle  anime  sono  vuoti  di  contenuto  ,  voci  e 
non  parole,  musica  e  non  poesia:  è  tutto  una  sola  onda 
di  luce  di  melodia  e  di  voce,  che  ti  porta  seco: 


—  219  — 

Al  padre,  al  figlio,  allo  spirito  santo 
Cominciò  gloria  tutto  il  paradiso, 
Tal  che  m' inebbriava  il  dolce  canto. 

Ciò  che  io  vedeva,  mi  sembrava  un  riso 
Dell'universo,  perchè  mia  ebbrezza 
Entrava  per  V  udire  e  per  lo  viso. 

0  gioia!  0  ineffabile  allegrezza! 
0  vita  intera  d'  amore  e  di  pace  ! 
0  senza  brama  sicura  ricchezza! 

È  rarmonia  universale,  l'inno  della  creazione.  La  luce, 
vincendo  la  corporale  impenetrabilità,  e  frammischiando 
i  suoi  raggi  ,  'esprime  anche  al  di  fuori  questa  compe- 
netrazione delle  anime  ,  l' individualità  sparita  nel  mare 
dell'essere.  Il  poeta,  signore,  anzi  tiranno  della  lingua, 
forma  ardite  parole  a  significare  questa  medesimezza  amo- 
rosa degli  esseri  nell'essere:  inciela,  imparadisa,  india, 
inaiassi,  immei,  inlei,  s'infutura,  s'///wm;  delle  quali 
voci  alcune  dopo  lung  o  obblio  rivivono.  La  redenzione 
dell'anima  è  la  sua  progressiva  emancipazione  dall'egoi- 
smo della  coscienza  ;  la  sua  individualità  non  le  basta  ; 
si  sente  incompiuta,  parziale,  disarmonica,  e  sospira  alla 
idealità  nella  \ita  universale.  Questo  è  il  carattere  della 
vita  in  Paradiso.  Non  solo  sparisce  la  faccia  umana,  ma 
in  gran  parte  anche  la  personalità.  Vivono  gli  uni  ne- 
gli altri  e  tutti  in  Dio. 

Questo  vanire  delle  forme  e  della  stessa  personalità 
l'iduce  il  paradiso  a  una  corda  sola,  a  lungo  andare  mo- 
notona ,  se  non  vi  penetrasse  la  terra  e  con  la  terra 
altre  forme  ed  altre  passioni.  La  terra  penetra  come 
contrapposto  a  questa  vita  d'  amore  e  di  pace.  È  vita 
d'odio  e  di  vana  scienza,  e  provoca  le  collere  e  i  sar- 
casmi de'  Celesti. 

Il  contrapposto  è  colto  in  alcuni  momenti  altamente 
poetici.  Accolto  noi  sole  gloriosamente  allato  a  Beatrice 
si  affaccia  al  poeta  tutta  la  vanità  delle  cure  terrestri  • 


—  -^50  — 

0  insensata  cura  de'  mortali , 
Quanto  son  difettivi  sillogismi 
Quei  che  ti  fanno  in  basso  batter  1'  ali  1 

Chi  dietro  a  juia  ,  e  chi  ad  aforismi 
Son  giva,  e  chi  seguendo  sacerdozio, 
E  chi  regnar  per  forza  o  per  sofismi, 

E  chi  rubare,  e  chi  civil  negozio; 
Chi  nel  diletto  della  carne  involto 
S'  affaticava  e  chi  si  dava  all'  ozio. 

Un  altro  momento  di  alta  poesia  è  quando  il  poeta 
dall'alto  delle  stelle  fisse  guarda  alla  terra: 

e  vidi  il  nostro  globo 
Tal  ch'io  sorrisi  del  suo  vii  sembiante. 

La  terra  che  ci  fa  lanlo  feroci ,  veduta  dal  cielo  gli 
pare  un'ajuola.  Il  concetto  abbellito  e  allargato  dal  Tasso 
ha  qui  una  severità  di  esecuzione  quasi  ieratica.  Il  Poeta 
si  sente  già  cittadino  del  cielo,  e  guarda  così  di  passata 
e  con  appena  un  sorriso  a  tanta  viltà  di  sembiante,  vol- 
gendone immediatamente  Y  occhio  ,  e  mirando  in  Bea- 
trice : 

L'aiuola  che  ci  fa  tanto  feroci  , 

Volgendomi  io  con  gli  eterni  Gemelli, 
Tutta  m'apparve  da'  colli  alle  foci  : 
Poscia  rivolsi  gli  occhi  agli  occhi  belli." 

Pure  è  quest'aiuola  che  desta  nel  seno  de'Beati  varietà 
di  sentimenti  e  di  passioni,  facendo  vibrar  nuove  corde. 
Accanto  all'  inno  spunta  la  satira  in  tutte  le  sue  gra- 
dazioni, il  frizzo,  la  caricatura,  l'ironia,  il  sarcasmo.  Qual 
frizzo,  che  l'allusione  di  Carlo  Martello,  cosi  pungente 
nella  sua  generalità  : 

E  fanno  Re  di  tal,  che  è  da  sermone  ! 

Beatrice,  dottissima  in  teologia,  si  mostra  non  meno  dotta 


—  251  — 

nel  maneggio  della  caricatura  e  dell'  ironia,  frustando  i 
predicatori  plebei  di  quel  tempo: 

Ora  si  va  con  motti  e  con  iscede 
A  predicare,  e  pur  che  ben  si  rida. 
Gonfia  il  cappuccio  e  più  non  si  richiede. 

Giustiniano  conchiude  il  suo  nobilissimo  racconto  dei  casi 
e  della  gloria  dell'  antica  Roma  con  fiere  minacce  ai 
guelfi,  nemici  dell'aquila  imperiale.  Papi  e  monaci  sono 
i  più  assaliti.  S.  Tommaso,  dette  le  lodi  di  san  France- 
sco, riprende  i  francescani,  e  san  Benedetto  i  benedet- 
tini, e  san  Pietro  il  Papa.  Tutt'  i  re  di  quel  tempo  man- 
dano sangue  sotto  il  flagello  di  Dante.  Non  si  può  at- 
tendere da'  Santi  alcuna  indulgenza  alle  umane  fralezze. 
La  satira  è  acerba;  la  sua  musa  è  l'indignazione,  e  la 
sua  forma  ordinaria  è  l' invettiva.  Le  forme  comiche  sono 
uccise  in  sul  nascere  e  si  sciolgono  nel  sarcasmo.  Il  sar- 
casmo non  è  qui  né  un  pensiero ,  né  un  tratto  di  spi- 
rito, ma  pittura  viva  del  vizio,  con  parole  anche  gros- 
solane, come  cloaca ,  che  mettano  in  vista  il  laido  e  il 
disgustoso.  Il  vizio  é  colto  non  in  una  forma  generale  e 
declamatoria,  ma  là,  in  quegli  uomini,  in  quel  tempo, 
sotto  quelli  aspetti,  con  pienezza  di  particolari  ed  esat- 
tezza di  colorito  :  capilavori  di  questo  genere  sono  la  pit- 
tura de'  benedettini  e  l'invettiva  di  san  Pietro. 

Questo  contrapposto  tra  il  cielo  e  la  terra  non  è  al- 
tro se  non  l' antitesi  che  é  in  terra  tra  i  buoni  e  i  cat- 
tivi, e  per  scendere  al  particolare,  tra  l'età  dell'oro  e  del 
cristianesimo  e  i  tempi  degeneri  del  poeta  ;  é  il  presente 
condannato  dal  passato,  é  il  passato  messo  in  risalto  dal 
suo  contrasto  con  la  corruzione  presente.  Ci  erano  i  be- 
nedettini, ma  ci  era  stato  san  Benedetto;  ci  era  Boni- 
fazio ^  Clemente,  ma  ci  era  stato  san  Pietro,  e  Lino  e 
Cleto  e  Sisto  e  Pio  e  Calisto  e  Urbano.  Gli  uomini   di 


^ì 


—  252  — 
queir  aurea  età  più  illustri  per  santità  e  per  scienza  sono 
qui  raccolti,  come  in  un  panteon  ;  è  il  mondo  eroico  cri- 
stiano, succerluto  a  quel  mondo  eroico  pagano  stato  de- 
scritto nel  Limbo,  e  di  cui  Giustiniano  fa  il  panegirico 
in  Paradiso. 

Questa  età  dell'  oro  collocata  nel  passato  e  messa  a 
confronto  con  la  tristizia  di  quei  tempi  ha  ispirato  a 
Dante  una  delle  scene  più  interessanti ,  ed  è  la  pittura 
dell'antica  e  della  nuova  Firenze,  fatta  dal  Cacciaguida, 
uno  de'  suoi  antenati.  Ivi  inno  e  satira  sono  fusi  insie- 
me: vedi  l'ideale  dell'età  dell'oro  e  della  domestica  fe- 
licità con  tanta  semplicità  di  costumi,  con  tanta  mode- 
stia di  vita,  e  di  rincontro  vedi  il  villano  di  Agubbio  e 
le  sfacciate  donne  fiorentine.  La  conclusione  di  questa 
scena  di  famiglia  prende  proporzioni  epiche  ;  Dante  si  fa 
egh  medesimo  il  suo  piedestallo.  Nella  predizione  che  Cac- 
ciaguida gli  fa  del  suo  esiUo  è  tanta  malinconia  e  tanto 
affetto  ,  che  ben  si  pare  la  profonda  tristezza  del  vec- 
chio e  stanco  poeta.  L' esilio  non  è  rappresentato  ne'  pa- 
timenti materiali  :  Dio  riserba  dolori  più  acuti  ai  magna- 
nimi, lasciare  ogni  cosa  diletta  più  caramente  e  doman- 
dare il  pane  all'insolente  pietà  degli  estranei:  questo 
strazio  di  tanti  miseri  vive  qui  immortale  ne'  versi  di- 
venuti proverbiaH  del  più  misero  e  del  più  grande.  Ma 
è  un  dolore  virile;  tosto  rileva  la  fronte,  e  dall'alto  del  suo 
ingegno  e  della  sua  missione  poetica  vede  a'  suoi  piedi 
tutt'i  potenti  della  terra. 

La  letizia  delle  anime  non  è  solo  amore,  ma  visione 
intellettuale.  La  luce,  il  riso  non  sono  altro  che  mani- 
festazione del  loro  perfetto  vedere:  perciò  la  luce  è  detta 
intellettuale.  Beatrice  spiega  cosi  il  suo  riso  a  Dante: 

S'io  ti  fiammeggio  nel  caldo  d'amore 
Di  là  dal  modo  che  in  terra  si  vede, 
Sicché  degli  occhi  tuoi  vinco  il  valore, 


—  253  — 

Non  ti  maravigliar;  ciò  cho  procedo 
Da  perfetto  veder,  che  come  apprende, 
Cosi  nel  bene  appreso  move  il  piede. 

La  beatitudine  è  la  contemplazione,  e  la  contemplaziono 
è  appunto  questa  perfetta  visione  intellettuale.  Perciò  le 
anime  non  investigano,  non  discutono  e  non  dimostrano, 
ma  veggono  e  descrivono  la  verità,  non  come  idea,  ma 
come  natura  vivente.  In  terra  ci  è  l'apparenza  del  ve- 
ro ,  e  perciò  diversità  di  sistemi  fìlosolici  ,  come  spiega 
Beatrice: 

Voi  non  andate  giù  per  un  sentiero 
Filosofando:  tanto  vi  trasporta 
L'amor  dell'apparenza  e  il  suo  pensiero. 

In  paradiso  la  verità  è  tutta  dipinta  nel  cospetto  eter- 
no ;  in  Dio  è  legato  con  amore  in  un  volume  ciò  che 
per  l'universo  si  squaderna:  vedere  Dio  è  vedere  la  ve- 
rità. E  non  è  visione  solo  di  cose,  ma  di  pensieri  e  di 
desiderii.  I  Beati  vedono  il  pensiero  di  Dante,  senza  che 
egli  lo  esprime. 

La  scienza  com'era  concepita  a*  tempi  di  Dante,  spo- 
sata dalla  Teologia,  avea  una  forma  concreta  e  indivi- 
duale, materia  contemplabile  e  altamente  poetica.  Un  Dio 
personale,  che  immobile  motore  produce  amando  l'idea 
esemplare  dell'  universo  ,  pura  intelligenza  e  pura  luce, 
che  penetra  e  risplende  in  una  parte  più  o  meno  in 
un'  altra  sino  alle  ultime  contingenze  :  gli  astri  dove  si 
affacciano  i  Beati,  influenti  sulle  umane  sorti  e  governati 
(la  intelligenze  da  cui  spira  il  moto  e  la  virtù  de'  loro 
giri;  il  cielo  empireo  centro  di  tutt'i  cerchi  cosmici  e  sog- 
giorno della  pura  luce;  l'universo,  splendore  della  divi- 
nità, dove  appare  squadernato  ciò  che  in  Dio  è  un  vo- 
lume ;  r  ordine  e  1'  accordo  di  tutto  il  Creato  dalle  in- 
fime incarnazioni  fino  alle  nove  gerarchie  degli  Angioli; 
la  caduta  dell'  uomo  per  il  primo  peccato  e  il  suo  ri- 
scatto per  l'incarnazione  e  la  passione  del  Verbo;  la  ve- 


—  254  — 

rilà  rivelata,  oscura  all'intelletto,  visibile  al  nìnre ,  av- 
valorato dalla  fede  ,  confortato  dalla  speranza  ,  infiam- 
mato dalla  carità  ^;  in  questa  scienza  della  creazione  il 
pensiero  è  talmente  concretato  e  incorporato,  che  il  poeta 
può  contemplarlo  come  cosa  vivente,  come  natura.  Per- 
ciò la  forma  scientifica  è  qui  meno  un  ragionamento  che 
una  descrizione,  come  di  cosa  che  si  vede  e  non  si  di- 
mostra. Il  perfetto  vedere  de'Beati  è  privilegio  di  Dante; 
nessuno  gli  sta  del  pari  nella  forza  e  chiarezza  della  vi- 
sione. Spinto  dommatico,  credente  e  poetico,  predica  dal 
paradiso  la  verità  assoluta,  e  non  la  pensa,  la  scolpisce. 
Diresti  che  pensi  con  1'  immaginazione  ,  aguzzata  dalla 
grandezza  e  verità  dello  spettacolo.  Nascono  ardite  me- 
tafore e  maravigliose  comparizioni.  L'accordo  della  pre- 
scienza col  libero  arbitrio  è  una  delle  concezioni  più  dif- 
ficih  e  astruse;  ma  qui  non  è  una  concezione,  è  una  vi- 
sione, uno  spetttacolo:  così  potente  è  questa  immagina- 
isione  dantesca: 

La  contingenza  che  fuor  del  quaderno 
Della  vostra  materia  non  si  stende, 
Tutta  è  dipinta  nel  cospetto  eterno. 

Necessità  però  quindi  non  prende, 
Se  non  come  dal  viso  in  che  si  specchia 
Nave  che  per  corrente  giù,  discende. 

Da  indi,  si  come  viene  ad  orecchia 
Dolce  armonia  da  organo,  mi  viene 
A  vista  il  tempo  che  ti  si  apparecchia. 

Il  poeta  procede  per  deduzione,  guardando  le  cose  dal- 
l' alto  del  paradiso,  da  cui  dechina  via  via  fino  alle  ul- 
time conseguenze,  forma  contemplativa  e  dommatica,  anzi 
che  discorsiva  e  dimostrativa  e  propria  della  poesia,  pre- 
sentando air  immaginazione  vasti  orizzonti  in  una  so!^ 
comprensione: 


1  Vedi  i  canti  XTlI,  II,  XXX,  XXXlII,  X,  XXVIII  e  XXlX,  XXVlI 
VII,  XIV,  XXV,  XXVI. 


Guardando  nel  suo  figlio  con  l'Amore 

Che  r  una  e  l'altro  eternalmente  spira 

Lo  primo  e  ineffabile  Valore, 
Quanto  per  mente  e  per  occhio  si  gira, 

Con  tant' ordine  fé' ch'esser  non   puote 

Senza  gustar  di  lui  chi  ciò  rimira. 

Questa  forma  poetica  della  scienza,  questa  visione  in- 
tellettuale, abbozzata  nel  Tesoretto,  è  condotta  qui  a 
molta  perfezione.  È  un  certo  modo  di  situare  l'oggetto 
e  metterlo  in  vista,  si  che  1'  occhio  dell'  immaginazione 
lo  comprenda  tutto.  Se  ci  è  cosa  che  ripugna  a  questa 
forma,  è  lo  scolasticismo  con  la  barbarie  delle  sue  for- 
raole  e  le  sue  astrazioni  ;  ma  l' imaginazione  vi  fa  pe- 
netrare l'aria  e  la  luce:  miracolo  prodotto  dalle  due  grandi 
potenze  della  mente  dantesca,  la  virtù  sintetica  e  la  virtù 
formativa.  Veggasi  la  stupenda  descrizione  che  fa  Bea- 
trice del  moto  degli  astri  di  poco  inferiore  alla  storia 
del  processo  creativo,  il  capolavoro  di  questo  genere..  Qui 
la  scienza  della  creazione  è  abbracciata  in  un  solo  girar 
d'occhio,  con  si  stretta  e  rapida  concatenazione  che  tutto 
il  creato  ti  sta  innanzi  come  una  sola  idea  semplice.  Ci 
sono  concetti  difficilissimi  ad  esprimersi ,  come  1'  unità 
della  luce  nella  sua  diversità,  e  l'imperfezione  della  na- 
tura, che  non  ti  dà  mai  reahzzato  l'ideale.  I  concetti  qui 
non  sono  astrazioni,  ma  forze  vive,  gli  attori  della  crea- 
zione ,  la  luce ,  il  cielo ,  la  natura ,  e  non  hai  un  ragio- 
namento; hai  una  storia  animata,  con  una  chiarezza  e 
vigore  di  rappresentazione  che  fa  di  Dio  e  della  natura 
vere  persone  poetiche: 

Ciò  che  non  nasce  e  ciò  che  può  morire 
Non  è  se  non  splendor  di  quell'idea, 
Che  partorisce  amando  il  nostro  Sire. 
Che  quella  viva  luce  che  si  mea 
Dal  suo  Lucente,  che  non  si  disuna 
Da  lui,  nò  dall'amor  che  in  lor  s'intrea; 


—  25()  — 

Per  sua  bontate  il  suo  raggiare  aduna 
Quasi  specchiato  in  nuove  sussistenze, 
Eternalmente  rimanendosi  una. 

Queste  tre  terzine  sono  una  meraviglia  di  chiarezza  e 
di  energia  in  dir  cosa  difficilissima.  Né  minor  potenza  di 
intuizione  trovi  nella  fine  quando  paragonando  l'ideale 
alla  cera  del  sugello,  aggiunge: 

Ma  la  Natura  la  dà  sempre  scema, 
Similemente  operando  all'artista, 
Che  ha  l' abito  dell'  arte  e  man  che  trema. 

Ed  anche  la  mano  di  Dante  trema,  che  fra  tante  bel- 
lezze  ci  è  non  poca  scoria.  Non  di  rado  vedi  non  il  poeta, 
ma  il  dottore  che  esce  dall'università  di  Parigi  pieno  il 
capo  di  tesi  e  di  sillogismi.  Molte  quistioni  sono  troppo 
speciali,  altre  sono  infarcite  di  barbarie  scolastica  defi- 
nizioni, distinzioni,  citazioni,  argomentazioni.  E  questo  è 
non  per  difetto  di  virtù  poetica,  ma  per  falso  giudizio. 
A  lui  pare  che  questo  lusso  di  scienza  sia  la  cima  della 
poesia,  e  se  ne  vanta,  e  sì  beffa  di  quelli  che  lo  hanno 
sin  qui  seguito  in  piccola  barca.  Tornate  indietro  ,  egli 
dice;  che  il  mio  libro  è  per  soli  quei  pochi  che  possono 
gustare  il  pan  degU  Angioli:  e  sono  i  Filosofi  e  i  dottori 
suoi  pari.  Perciò  il  paradiso  è  poco  letto  e  poco  gustato. 
Stanca  soprattutto  la  sua  monotomia,  che  par  quasi  una 
serie  di  dimande  e  di  risposte  fra  maestro  e  discente. 

La  visione  intellettuale  è  la  beatitudine.  L'esposizione 
della  scienza  riesce  in  cantici  e  inni,  le  ultime  parole  del 
veggente  si  confondono  con  gli  osanna  del  cielo; 

Finito  questo,  l'alta  corte  santa 

Risuonò  per  le  spere:  Un  Dio  lodiamo, 
Nella  melode  che  lassù  si  canta. 

Siccome  io  taqui,  un  dolcissimo  canto 
Risonò  per  lo  cielo,  e  la  mia  donna 
Dicea  con  gli  altri;  Santo,  Santo,  Santo, 


—  257  — 

Così  è  sciolto  questo  mistero  dell'anima.  Adombrato 
ne'  simboli  e  allegorie  del  purgatorio ,  qui  il  mistero  è 
svelato,  e  la  divina  commedia  dell'anima,  il  suo  india rs 
neir  eterna  letizia.  La  forza  che  tira  Dante  a  Dio,  sì  che 
sale  come  rivo  «  se  di  alto  monte  scende  giuso  ad  imo  » 
è  l'amore,  è  Beatrice,  che  all'alto  volo  gli  veste  le  piu- 
me. Beatrice  è  in  sé  il  compendio  del  paradiso,  lo  spec- 
chio dove  quello  si  riflette  ne' suoi  mutamenti.  Puoi  di- 
pingerla ,  quando  prega  Virgilio ,  o  quando  realmente 
proterva  rimprovera  l'amante  ;  ma  qui  è  spiritualizzata 
tanto^  che  è  indarno  opera  di  pennello.  La  stessa  parola 
non  è  possente  di  descrivere  quel  riso  e  quella  bellezza 
trasmutabile,  se  non  ne'suoi  effetti  su  Dante  e  su'Celesti. 
Ecco  uno  de'  più  bei  luoghi  : 

Quivi  la  donna  mia  vid'  io  sì  lieta,  ^  , 

Come  nel  lume  di  quel  ciel  si  mise, 
Che  più  lucente  se  ne  fé'  il  pianeta  ; 

E  se  la  stella  si  eambiò  e  rise, 

Qual  mi  fec'  io,  che  pur  per  mia  natura 
Trasmutabile  son  per  tutte  guise  ! 

Come  in  peschiera  che  è  tranquilla  e  pura 
Traggono  i  pesci  a  ciò  che  vien  di  fuori, 
Per  modo  che  lo  stimin  lor  pastura  ; 

Si  vivi'  io  ben  più  di  mille  splendori 
Trarsi  ver  noi,  ed  in  ciascun  s*udia: 
Ecco  chi  crescerà  li  nostri  ardori. 

Spiritualizzato  il  corpo,  spiritualizzata  l'anima.  L'amore 
è  T)u.  dcato:  nulla  resta  più  di  sensuale.  Dante  che  nel  pur- 
gatorio senti  il  tremore  dell'  antica  fiamma,  qui  ode  Bea- 
trice con  un  sentimento  assai  vicino  alla  riverenza.  Quan- 
do ella  si  allontana,  ei  non  manda  un  lamento  :  ogni  parte 
terrestre  è  in  lui  arsa  e  consumata.  Le  sue  parole  sono  af- 
fettuose; ma  è  affetto  di  riverente  gratitudine,  siccome  nel 
piccolo  cenno  che  gli  fa  Beatrice,  l'amore  dell'uomo  come 
ombra  si  dilegua  nell'amore  di  Dio,  ella  lo  ama  in  Dio  : 

D»  SanotiB  -  Leu.  Ual.  Voi.  I.  H 


—  258  — 

Così  orai,  e  quella  sì  lontana, 

Come  parea,  sorrise  e  riguarJoramls 
Poi  si  tornò  alla  eterna  fontana. 

Come  Dante  non  potè  entrare  nel  paradiso  terrestre 
"a  vedere  il  simbolo  del  trionfo  di  Cristo  senza  lo  scotto 
del  pentimento  ,  così  non  può  ne'  Gemelli  o  stelle  fisse 
contemplare  il  trionfo  di  Cristo  che  non  dichiari  la  sua 
fede.  Allora  san  Pietro  lo  incorona  poeta,  e  poeta  vuol 
dire  banditore  della  verità:  San  Pietro  gli  dice  : 

E  non  nasconder  quel  eh*  io  non  nascondo. 

Cosi  la  commedia  ha  la  sua  consacrazione  e  la  sua  mis- 
sione. È  la  verità  bandita  dal  cielo,  della  quale  Dante  si 
fa  l'apostolo  e  il  profeta  :  è  il  poema  sacro.  Con  quella 
stessa  coscienza  della  sua  grandezza  che  si  fé'  sesto  fra 
cotanto  senno ,  qui  si  pone  accanto  a  san  Pietro  e  se 
ne  fa  l'interprete,  congiungendo  in  sé  le  due  corone,  il 
Savio  e  il  Santo,  l'antica  e  la  nuova  civiltà,  il  filosofo 
e  il  teologo. 

Dichiarata  la  sua  fede,  consacrato  e  incoronato.  Dante 
si  sente  oramai  vicino  a  Dio.  Avea  già  contemplata  la 
Divinità  nella  sua  umanità ,  il  Dio-uomo.  Il  trionfo  di 
Cristo,  la  festa  dell'  Incarnazione  ,  sembra  reminiscenza 
di  funzioni  ecclesiastiche,  co' suoi  principaU  attori.  Cristo, 
la  Vergine,  Gabriello.  Cristo  e  la  Vergine  sono  come  nel 
Santuario,  invisibili  ;  la  festa  è  tutta  fuori  di  loro  e  in- 
torno a  loro.  Succede  il  trionfo  degU  Angioh,  e  poi  nel- 
r  Empireo  il  trionfo  di  Dio. 

L'  empireo  è  la  città  di  Dio,  il  convento  de'  Beati,  il 
proprio  e  vero  paradiso.  Beatrice  raggia  si,  che  il  poeta 
si  concede  vinto^  più  che  tragedo  e  comico  superato  dal 
suo  tema,  e  desiste  dal  seguir  più  dietro  a  sua  bellezza 
poetando, 

Come  all'  ultimo  suo  ciascun  artista. 


—  259  — 

Ivi  è  la  luce  intellettuale,  che  fa  visibile 

Lo  creatore  a  quella  creatura 

Che  solo  ìq  lui  vedere  ha  la  sua  pace. 

La  luce  ha  figura  circolare,  come  il  giallo  di  una  rosa, 
le  cui  bianche  foglie  si  distendono  per  l'infinito  spazio 
e  sono  gli  scanni  de' Beati.  San  Bernardo  spiega  e  de- 
scrive il  inaraviglioso  giardino.  Il  punto  che  più  splende 
è  là  dove  sono  gli  occhi  da  Dìo  diletti  e  veney^ati,  dove 
è  la  Vergine  e  gli  angioli.  Quel  punto  è  la  pacifica  ori- 
fianama  del  paradiso,  la  bandiera  della  pace.  Il  giardino, 
la  rosa,  l'orifiamma  sono  immagini  graziose,  ma  inade- 
guate. Queste  metafore  non  valgono  la  stupenda  terzi- 
na, dove  san  Bernardo  è  rappresentato  in  forma  umana 
e  intelligibile  : 

Diffuso  era  per  gli  occhi  e  per  le  gene 
Di  benigna  letizia,  in  atto  pio, 
Quale  a  tenero  padre  si  conviene. 

Il  parJtìiso,  appunto  perchè  paradiso,  non  puoi  deter- 
minarlo troppo  e  descriverlo,  senza  impiccolirlo.  La  sua 
forma  adeguata  è  il  sentimento,  l'eterno  tripudio:  ciò  che 
è  ben  colto  in  quella  plenitudine  volante  di  angeli,  che 
diffondono  un  po'  di  vita  tra  quella  calma.  Il  vero  signi- 
ficato lirico  del  paradiso  è  nell'Inno  di  Dante  a  Beatri- 
ce e  neir  Inno  di  san  Bernardo  alla  Vergine,  ne'quali  è 
il  paradiso  guardato  dalla  terra  con  sentimenti  e  impres- 
sioni di  uomo.  I  beati  stessi  diventano  interessanti,  quando 
tra  quella  luce  vedi  spuntare  visi  a  carità  sitavi  e  atti 
ornati  di  tutte  onestadi ,  o  quando  chiudon  le  mani 
implorando  la  Vergine. 

Anche  Dio  ha  voluto  descrivere  Dante,  e  vede  in  lui 
r  universo,  e  poi  la  Trinità,  e  poi  T  Incarnazione,  con- 
giunzione dell'umano  e  del  divino,  in  cui  si  acqueta 
desiderio,  il  destro  e  il  velle^ 

Siccome  ruota  eh'  eguahuente  è  mossa. 


—  260  — 

Dante  vede,  ma  è  visione,  di  cui  hai  le  parole,  e  non 
la  forma  ;  ci  è  l' intelletto,  non  ci  è  più  V  immaginazione, 
divenuta  un  semplice  lume,  un  barlume.  La  forma  spa- 
risce ;  la  visione  cessa  quasi  tutta  ;  sopravvive  il  senti- 
mento : 

quasi  tutta  cessa 
Mia  visione,  e  ancor  mi  distilla 
Nel  cor  lo  dolce  che  nacque  da  e§sa 
Cosi  la  neve  al  sol  si  disigilla; 
Così  al  vento  nelle  foglie  lievi 
Si  perdea  la  sentenzia  di  Sibilla. 

L' immaginazione  morendo  manda  in  questi  bei  versi 
l'ultimo  raggio.  All'alta  fantasia  manca  la  possa;  e  in- 
sieme con  la  fantasia  muore  la  poesia. 

Così  finisce  la  storia  dell'  anima.  Di  forma  in  forma, 
di  apparenza  in  apparenza,  ritrova  e  riconosce  sé  stessa 
in  Dio,  pura  intelligenza,  puro  amore  e  puro  atto.  Ed  è 
in  questa  concordia  che  V  anima  acqueta  il  suo  deside- 
rio, trova  la  pace.  Neil'  inferno  signoreggia  la^ateria 
anarchica  :  le  sue  forme  ricevono  d'ogni  sorte  differenze, 
spiccate,  distinte,  corpulente  e  personali.  Nel  purgatorio 
la  materia  non  è  più  la  sostanza ,  ma  un  momento  :  lo 
spirito  acquista  coscienza  di  sua  forza ,  e  contrastando 
e  soffrendo  conquista  la  sua  hbertà  :  la  realtà  vi  è  in 
immaginazione,  rimembranza  del  passato,  da  cui  si  spri- 
giona ,  aspirazione  all'  avvenire  a  cui  si  avvicina  ;  onde 
le  sue  forme  sono  fantasmi  e  rappresentazioni  dell'  im- 
maginativa anzi  che  obbietti  reali  :  pitture,  sogni,  visioni 
estatiche ,  simboU  e  canti.  Nel  paradiso  lo  spirito  già 
libero  di  grado  in  grado  s' india  ;  le  differenze  qualitative 
si  risolvono,  e  tutte  le  forme  svaporano  nella  semplicità 
della  luce ,  nella  incolorata  melodia  musicale ,  nel  puro 
pensiero.  Quel  regno  della  pace  che  tutti  cercavano,  quel 
regno  di  Dio,  quel  regno  della  filosofia,  quel  di  tó,  tor- 
mento e  amore  di  tanti  spiriti,  è  qui  realizzato.  Il  con- 


—  201  — 

cetto  della  nuova  civiltà  di  cui  avevi  qua  e  là  oscuri  e 
sparsi  vestigi,  è  qui  compreso  in  una  immensa  unità, 
che  rinchiude  nel  suo  seno  tutto  lo  scibile,  tutta  la  col- 
tura e  tutta  la  storia.  E  chi  costruisce  così  vasta  mole, 
ci  mette  la  serietà  dell'  artista,  del  poeta,  del  filosofo  e 
del  cristiano.  Consapevole  della  sua  elevatezza  morale  e 
della  sua  potenza  intellettuale,  gli  stanno  innanzi,  acuti 
stimoli  all'opera  ,  la  patria,  la  posterità,  1'  adempimento 
di  quella  sacra  missione  che  Dio  affida  all'  ingegno,  acuti 
stimoli  nei  quaU  sono  purificati  altri  motivi  meno  nobili, 
r  amor  della  parte  ,  la  vendetta ,  le  passioni  dell'esule  : 
ci  è  là  dentro  nella  sua  sincerità  tutto  1'  uomo,  ci  è  quel 
d'Adamo  e  ci  è  quel  di  Dio.  A  poco  a  poco  quel  mondo 
della  fantasia  diviene  parte  del  suo  essere,  il  suo  com- 
pagno fino  agli  ultimi  giorni,  e  vi  gitta,  come  nel  libro 
della  memoria,  1'  eco  de'  suoi  dolori,  delle  sue  speranze, 
e  delle  sue  maledizioni.  Nato  a  immagine  del  mondo  c-he 
gli  era  intorno  ,  simbolico  ,  mistico  e  scolastico  ,  quel 
mondo  si  trasforma  e  si  colora  e  s' impolpa  della  sua 
sostanza,  e  diviene  il  suo  figlio,  il  suo  ritratto.  La  sua 
mente  sdegna  la  superficie,  guarda  nell'intimo  midollo, 
e  la  sua  fantasia  ripugna  all'  astratto,  a  tutto  dà  forma. 
Onde  nasce  quella  intuizione  chiara  e  profonda  che  è  il 
carattere  del  suo  genio.  E  non  solo  l'oggetto  gli  si  pre- 
senta con  la  sua  forma,  ma  con  le  sue  impressioni  e  i 
suoi  sentimenti.  E  n'  esce  una  forma,  che  è  insieme  im- 
magine e  sentimento,  immagine  calda  e  viva,  sotto  alla 
quale  vedi  il  colore  del  sangue,  il  movere  d^lla  passione. 
Vj  con  l'immagine  tutto  è  detto,  e  non  vi  s'  indugia  e 
non  la  sviluppa,  e  corre  lievemente  di  cosa  in  cosa,  e 
sdegna  gli  accessorii.  A  conseguire  1'  effetto  spesso  gli 
basta  una  sola  parola  comprensiva,  che  ti  offre  un  gruppo 
d' immagini  e  di  sentimenti,  e  spesso,  mentre  la  parola 
dipinge,  non  fosse  altro,  con  la  sua  giacitura,  1'  armo- 
nia del  verso  ne  esprime  il  sentimento.  Tutto  è  succo; 


—  262  — 

tutto  è  cose,  cose  intere  nella  loro  vivente  unità ,  non 
decomposte  dalla  riflessione  e  dall'  analisi.  Per  dirla  con 
Dante,  il  suo  mondo  è  un  volume  non  squadernato.  È 
un  mondo  penoso,  ritirato  in  sé,  poco  comunicativo,  come 
fronte  annuvolata  da  pensiero  in  travaglio.  In  quelle  pro- 
fondità scavano  i  secoli,  e  vi  trovano  sempre  nuove  ispi- 
razioni e  nuovi  pensieri.  Là  vive  involto  ancora  e  no- 
doso e  pregno  di  misteri  quel  mondo,  che  sottoposto  al- 
l'analisi  umanizzato  e  idealizzato,  si  chiama  oggi  lette- 
ratura moderna. 

Vili. 

IL    CANZONIERE. 

Dante  mori  nel  1321.  La  sua  commedia  riempie  di  se 
tutto  il  secolo.  I  contemporanei  la  chiamarono  Divina, 
quasi  la  parola  sacra  ,  il  libro  dell'  altra  vita,  o  come 
diceano,  il  libro  dell'  anima.  Un  tale  Trombetta,  quattro- 
centista, la  mette  fra  le  opere  sacre  e  i  libri  dell'  anima 
da  siiidiarsi  in  quaresima,  come  le  vite  de'  Santi  Pa- 
dri, la  vita  di  san  Girolamo.  Il  popolo  cantava  i  suoi 
versi  anche  in  contado,  e  pigliava  alla  semplice  la  sua 
fantasia.  I  dotti  ammiravano  la  scienza  sotto  il  velo  delle 
favole,  quantunque  alcuni  austeri,  come  Cecco  d'  Ascoli, 
quel  velo  non  ce  1'  avrebbero  voluto.  E  Fazio  degli  liberti 
credè  di  far  cosa  più  degna,  rimovendo  ogni  velo  ed 
esponendoci  arida  scienza  nel  suo  Dittamondo  ,  Dieta 
mundi. 

L' impressione  non  fu  puramente  letteraria.  Ammira- 
vano la  forma  squisita,  ma  tenevano  il  libro  più  che  poe- 
sia. Vedevano  là  entro  il  libro  della  vita  o  della  verità,  e 
ben  presto  fu  spiegato  e  comentato ,  come  la  Bibbia  e 
come  Aristotile  ,  accolto  con  la  stessa  serietà  con  la 
quale  era  stato  concepito. 

Gscurissimo  in  molti  particolari,  e  per  le  allusioni  pò- 


—  2G3  — 

litiche  e  storiche  e  pel  senso  allegorico,  il  libro  nel  suo 
insieme  è  così  chiaro  e  semplice,  che  si  abbraccia  tutto 
di  un  solo  sguardo.  La  scienza  della  vita  o  della  crea- 
zione è  colta  ne'  suoi  tratti  essenziah  e  rappresentata  con 
perfetta  chiarezza  e  coesione.  L'  armonia  intellettuale  di- 
viene cosa  viva  nell'  architettura,  cosi  coerente  e  signi- 
ficativa nelle  grandi  linee,  così  accurata  ne'  minimi  par- 
ticolari. L'  immaginazione  anche  più  pigra  concepisce 
di  un  tratto  inferno,  purgatorio  e  paradiso.  Il  pensiero 
nuovo,  mistico  e  spiritualista  ,  lunga  elaborazione  dei 
secoH,  compariva  qui  perfettamente  armonizzato  e  pie- 
no di  vita.  In  questo  mondo  intellettuale  e  dommati- 
co ,  così  ben  rispondente  alla  coscienza  universale ,  si 
sviluppava  la  storia  o  il  mistero  dell'  anima  nella  più 
grande  varietà  delle  forme,  si  che  vi  si  rifletteva  tut- 
ta la  vita  morale  nel  suo  senso  più  serio  e  più  eleva- 
to. Il  sentimento  della  famiglia ,  la  viva  impressione 
della  natura,  1'  amor  della  patria,  un  certo  senso  d'  or- 
dine di  unità,  di  pace  interiore  che  fa  contrasto  al  di- 
sordine e  alla  hcenza  di  quei  costumi  pubblici  e  privati, 
la  virtù  dell'indignazione,  il  disprezzo  di  ogni  viltà  e 
volgarità,  la  virilità  e  la  fierezza  della  tempra,  1'  aspi- 
razione ad  un  ordine  di  cose  ideale  e  superiore  ,  il  vi- 
vere in  ispirito  e  in  contemplazione,  come  staccato  dalla 
terra,  il  sentimento  della  giustizia  e  del  dovere,  la  pro- 
fessione delia  verità,  piaccia  o  non  piaccia,  con  l'occhio 
volto  a'  posteri,  e  quella  fede  congiunta  con  tanto  amore, 
queir  accento  di  convinzione ,  quella  coscienza  che  ha  il 
poeta  della  sua  personalità,  della  sua  grandezza-  e  della 
sua  missione,  tutto  questo  appartiene  a  ciò  che  di  più 
nobile  ed  elevato  è  nella  natura  umana.  Anche  quel  non 
so  che  scabro  e  rozzo  e  quasi  selvaggio  eh'  è  nella  su- 
perficie rendeva  l' immagine  di  quell'eroica  e  ancor  bar- 
bara giovinezza  del  mondo  moderno. 

Ma  r  impressione  prodotta  dalla  Commedia  rimaneva 


—  264  ^ 

circoscritta  nell'  Italia  centrale.  La  scuola  del  nuovo  stile 
non  avea  fatto  ancora  sentire  la  sua  azione  nelle  rima- 
nenti parti  d' Italia,  dove  la  lingua  dominante  era  sem- 
pre il  latino  scolastico  ed  ecclesiastico.  Malgrado  l'esem- 
pio di  Dante,  non  era  ancora  stabilito  che  in  rima  si  po- 
tesse scrivere  d' altro  che  di  cose  d'  amore.  E  in  questa 
sentenza  era  anche  Gino  da  Pistoja,  solo  superstite  di 
quella  scuola  immortale,  dalla  quale  era  uscita  la  Com- 
media. Compariva  sulla  scena  la  nuova  generazione. 

Lo  studio  de'  classici,  la  scoperta  de'  nuovi  capilavori, 
una  maggior^ pulitezza  nella  superficie  della  vita,  la  fine 
delle  lotte  politiche  col  trionfo  de'  guelfi,  la  maggior  dif- 
fusione della  coltura  sono  i  tratti  caratteristici  di  questa 
nuova  situazione.  La  situazione  si  fa  più  levigata,  il  gu- 
sto più  corretto ,  sorge  la  coscienza  puramente  letteraria, 
il  culto  della  forma  per  sé  stessa.  Gli  scrittori  non  pen- 
sarono più  a  render  le  loro  idee  in  quella  forma  più  viva 
e  rapida  che  si  offrisse  loro  innanzi;  ma  cercarono  la 
bellezza  e  l'eleganza  della  forma.  Dimesticatisi  con  Livio, 
Cicerone,  Virgilio,  parve  loro  barbaro  il  latino  di  Dante; 
ebbero  in  dispregio  quei  trattati  e  quelle  storie  che  erano 
state  r  ammirazione  della  forte  generazione  scomparsa, 
e  non  poterono  tollerare  il  latino  degli  Scolastici  e  della 
Bibbia.  Intenti  più  alla  forma  che  al  contenuto,  poco  loro 
importava  la  materia,  pur  che  lo  stile  ritraesse  della  clas- 
sica eleganza.  Cosi  sorsero  i  primi  puristi  e  letterati  in 
Italia,  e  capi  furono  Francesco  Petri|rca  e  Giovanni  Boc- 
caccio. 

Nel  Petrarca  si  manifesta  energicamente  questo  carat- 
tere della  nuova  generazione.  Fece  lunghi  e  faticosi  viaggi 
per  iscoprire  le  opere  di  Varrone,  le  storie  di  Plinio,  la 
seconda  deca  di  Livio;  trovò  le  epistole  di  Cicerone  e  due 
sue  orazioni.  Dobbiamo  a'  suoi  conforti  e  alla  sua  Ube- 
rai ita  là  prima  versione  di  Omero  e  di  parecchi  scritti 
di  Platone.  Scopritore  instancabile  di  codici,  emendava, 


—  2G5  — 

postillava^  copiava  :  copiò  tutto  Terenzio.  In  questa  in- 
tima latniliai'ità  co'  più  grandi  sci'ictori  deirantichità  gre- 
co-latina tutto  quel  tempo  di  poi  che  fu  detto  il  medio 
evo,  gli  apparve  una  lunga  barbarie,  di  Dante'  stesso  ebbe 
assai  poca  stima;  gli  stranieri  chiamava  barbari;  gl'ita- 
liani chiamava  latin  sangue  gentile;  voleva  una  ristau- 
razione  dell'  antichità ,  e  che  non  fosse  ancora  fattìbile, 
ne  accagiona  la  corruttela  de' costumi.  Era  Petracco  e 
si  fece  chiamare  Petrarca;  sbattezzò  i  suoi  amici  e  li 
chiamò  Socrati  e  Lelii,  ed  essi  sbattezzarono  lui  e  lo  chia- 
marono Cicerone.  Conchiuse  la  sua  vita  scrivendo  epi- 
stole a  Cicerone,  a  Seneca,  a  Quintiliano,  a  Tito  Livio, 
^ad  Orazio,  a  Virgilio,  ad  Omero,  co'  quali  viveva  in  ispi- 
rito,  e  poco  innanzi  di  morire,  scrisse  una  lettera  alla 
Posterità,  alla  quale  raccomanda  la  sua  memoria. 
(  Cosi  appariva  l'aurora  del  Rinnovamento.  L' Italia  vol- 
geva le  spalle  al  medio  evo,  e  dopo  tante  vicissitudini 
ritrovava  se  stessa,  e  si  affermava  popolo  romano  e  la- 
tino. Questo  proclamava  Cola  da  Rienzo  dall'alto  del  Cam- 
pidoglio. Guelfi  e  ghibellini  divennero  nomi  vieti  ;  gli  sco- 
lastici cessero  il  campo  agh  eruditi  e  a' letterati;  la  teologia 
fu  segregata  dagli  studii  di  coltura  generale  e  divenne 
scienza  de'  chierici  ;  la  filosofìa  conquistò  il  primato  in 
tutto  lo  scibile;  le  allegorie,  le  visioni,  le  estasi,  le  leg- 
gende, i  miti,  i  misteri,  separati  dal  tronco  in  cui  vi- 
vevano, divennero  forme  puramente  letterarie  e  d'imi- 
tazione ;  tutto  quel  mondo  teologico,  mistico  nel  concetto, 
scolastico  e  allegorico  nelle  forme  ,  fu  tenuto  barbarie 
da  uomini  che  erano  già  in  grado  di  gustare  Virgilio  e 
Omero. 

Questa  nuova  Italia,  che  ripiglia  le  sue  tradizioni  e  si 
sente  romana  e  latina  e  si  pone  nella  sua  personalità  di 
rincontro  agli  altri  popoli,  tutti  stranieri  e  barbari,  ispira 
al  giovine  Petrarca  la  sua  prima  canzone.  Qui  non  ci  è 
più  il  guelfo  0  il  ghibellino,  non  il  romano  o  il  fioren- 


—  26(5  — 

tino  ;  e'  è  r  Italia  che  si  sente  ancora  regina  delle  na- 
zioni; ci  è  r  italiano  che  parla  con  l'orgoglio  di  una  razza 
superiore,  e  ricorda  Mario  come  se  fosse  vivuto  1'  altro 
jeri,  e  quella  storia  fosse  la  sua  storia;  ci  è  la  viva  im- 
pressione di  quel  mondo  classico  sul  giovine  poeta,  che 
ivi  trova  i  suoi  antenati,  e  cerca  di  nuovo  queir  Italia 
potente  e  gloriosa,  Y  Itaha  di  Mario.  L'  orgoglio  nazio- 
nale e  l'odio  de'  barbari  è  il  motivo  della  canzone,  lo 
spirito  che  vi  alita  per  entro.  Vi  compariscono  già  tutte 
le  qualità  di  un  grande  artista.  La  chiarezza  e  lo  splen- 
dore dello  stile,  la  fusione  delle  tinte,  F  arte  de'  chiaro- 
scuri, la  perfetta  levigatezza  e  armonia  della  dizione,  la 
sobrietà  nel  ragionamento,  la  misura  ne'  sentimenti,  un 
dolce  calore  che  penetra  dappertutto  senza  turbare  l'equi- 
librio e  la  serenità  e  1'  eleganza  deljajforma ,  fanno  di 
questa  canzone  uno  de'  lavori  più  finiti  dell'arte.  L'Italia 
ha  avuto  il  suo  poeta;  ora  ha  il  suo  artista. 

In  questa  risurreziorieiieU'  antica  Italia  è  naturale  che 
la  Hngua  latina  fosse  stimata  non  solo  Ungua  de'  dotti, 
ma  hngua  nazionale,  e  che  la  storia  di  Roma  dovesse 
sembrare  agi'  italiani  la  loro  propria  storia.  Da  queste  opi- 
nioni usci  l'Africa,  che  al  Petrarca  dovè  parere  la  vera 
Eneide,  la  grande  epopea  nazionale,  rappresentata  in  quella 
lotta  ultima,  nella  quale  Roma,  vincendo  Cartagine,  si 
apriva  la  via  alla  dominazione  universale.  Questo  poema 
rispondeva  così  bene  alla  coscienza  pubblica,  che  Pe- 
t  ar.;u  fu  incoronato  principe  de'  poeti,  ed  ebbe  tal  grido 
e  tali  onori  che  nessun  uomo  ha  avuto  mai.  Nuovo  Vir- 
gilio, voile  emulare  anche  a  Cicerone,  accettando  volen- 
tieri legazioni  che  dessero  occasione  di  recitare  pubbliche 
orazioni.  Scrisse  egloghe,  trattati,  dialoghi,  epistole,  sem- 
pre in  latino:  lavori  molto  apprezzati  da'  contemporanei 
ma  tosto  dimenticati,  quando  cresciuta  la  coltura  e  raf- 
finato li  gusto,  parve  il  suo  latino  così  barbaro ,  come 
barbaro  era  parso  a  lui  il  latino  di  Dante,  e  de'  Mussati, 


—  2G7  — 

de'  Lovati,  e  de'  Boriati  tenuti  a'  tempi  loro  quasi  redi- 
vivi Orazii  e  Virgili!. 

Ma  la  lingua  latina  potea  così  poco  rivivere conae  l'Ita- 
lia latina.  Il  latino  scolastico  avea  pure  alcuna  vita,  per- 
chè lo  scrittore  sforzava  la  lingua  e  1'  ammodernava  & 
ci  mettea  sé  stesso.  Ma  il  latino  classico  non  potea  pro- 
durre che  un  puro  lavoro  d' imitazione.  Lo  scrittore  piena 
di  riverenza  verso  l'alto  modello  non  pensa  ad  appro- 
priarselo e  trasformarlo,  ma  ad  avvicinarvisi  possibil- 
men.te.  Tutta  la  sua  attività  è  volta  alla  frase  classica , 
che  gli  sta  innanzi  nella  sua  generalità,  spoglia  di  tutte  le 
idee  accessorie  che  suscitava  ne'  contemporanei,  e  dove  è 
il  più  fino  e  il  più  intimo  dello  stile.  Perciò  schiva  il  par- 
ticolare e  il  proprio,  corre  volentieri  appresso  le  peri- 
frasi e  le  circonlocuzioni,  è  arido  nelle  immagini,  povero 
di  colori,  scarso  di  movimenti  interni,  e  dice_jion  quanto 
o  come_gli  sgorga  dal  di  dentro,  ma  ciò  che  può  ren- 
dersi in  quellajforma  e  secondo  quel  modello  :  difetti  vi- 
sibili ncW Africa.  Cosi  si  formò  una  coscienza  puramente 
letteraria,  lo  studio  della  forma  in  sé  stessa  con  tutti  gli 
artificii  e  i  lenocinli  della  rettorica:  ciò  che  fu  detto  ele- 
ganza, forma  scelta  e  nobile;  maniera  di  scrivere  arti- 
ficiosa, che  pare  anche  nelle  sue  canzoni  pohtiche,  come 
quella  a  Cola  da  Rienzo,  opera  più  di  letterato  che  di 
poeta,  e  perciò  pregiata  molto,  finché  in  Italia  dui  ò  que- 
sta coscienza  artiticiale. 

In  verità  il  Petrarca  era  tutt'  altro  che  romano  o  la- 
tino, come  pur  voleva  parere:  potè  latinizzare  il  suo 
nome,  ma  non  la  sua  anima.  Lo  scrittore  latino  è  tutto  al 
di  fuori,  ne'  fatti  e  nelle  cose,  è  tutto  vita  attiva  e  virile; 
diresti  non  abbia  il  tempo  di  piegarsi  in  sé  e  interrogarsi. 
Al  Petrarca  sta  male  1'  abito  di  Cicerone  ;  anche  i  con- 
temporanei a  sentirlo  battevano  le  mani  e  ridevano.  Non 
sentivano  1'  uomo  in  tutto  quel  rimbombo  ciceroniano. 
L'uomo  c'era,  ma  più   simile  all'anacoreta  e  al  santa 


—  2G8  — 

che  a  Livio  e  a  Cicerone,  più  inclinato  alle  fantasie  e  alle 
estasi,  che  all'  azione.  Natura  contemplativa  e  solitaria, 
la  vita  esterna  fu  a  lui  non  occupazione,  ma  diversione; 
la  sua  vera  vita  fu  al  di  dentro  di  sé;  il  solitario  di  Val- 
chiusa  fu  il  poeta  di  sé  stesso ,  Dante  alzò  Beatrice  nel- 
r  universo,  del  quale  si  fece  la  coscienza  e  la  voce;  egli 
calò  tutto  r  universo  in  Laura,  e  fece  di  lei  e  di  sé  il 
suo  mondo.  Qui  fu  la  sua  vita,  e  qui  fu  la  sua  gloria. 

Pare  un  regresso  ;  pure  è  un  progresso.  Questo  mondo 
è  più  piccolo,  é  appena  un  frammento  della  vasta  sintesi 
dantesca,  ma  è  un  frammento  divenuto  una  compiuta  e 
ricca  totalità,  un  mondo  pieno,  concreto,  sviluppato,  ana- 
lizzato, ricerco  ne'  più  intimi  recessi.  Beatrice,  sviluppata 
-dal  simbolo  e  dalla  scolastica,  qui  è  Laura  nella  sua  e  hia- 
rezza  e  personalità  di  donna;  l'amore,  scioltosi  dalle  uni- 
verse cose  entro  le  quali  giaceva  inviluppato,  qui  non  è 
concetto,  né  simbolo,  ma  sentimento;  e  l'amante  che  oc- 
cupa sempre  la  scena,  ti  dà  la  storib.  della  sua  anima, 
instancabile  esploratore  di  sé  stesso.  In  questo  lavoro 
analitico  psicologico  la  realtà  pare  sull'  orizzonte  chiara 
e  schietta,  sgombra  di  tutte  le  nebbie,  tra  le  qnall  era 
stata  ravvolta.  Usciamo  infine  da'  miti,  da'  simboli,  dalle 
astrattezze  teologiche  e  scolastiche,  e  siamo  in  piena  luce 
nel  tempio  dell'  umana  coscienza.  Nessuna  cosa  oramai 
si  pone  di  mezzo  tra  1'  uomo  e  noi.  La  sfinge  é  scoperta: 
r  uomo  è  trovato. 

Gli  è  vero  che  la  teoria  rimane  la  stessa.  La  donna 
è  scala  al  Fattore  ;  l'amore  é  il  principio  delle  universe 
cose  ;  ma  tutto  questo  è  accessorio ,  è  il  covenuto  ;  la 
sostanza  del  libro  é  la  vicenda  assidua  de'  fenomeni  più 
delicati  del  cuore  umano.  Cresciuto  in  Avignone  fra  le 
tradizioni  provenzali  e  le  corti  d'  amore,  quando  France- 
sco da  Barberino  avea  già  pubblicato  i  Documenti  d'Amore 
e  i  Reggimenti  delle  Donne,  raccolta  di  tutte  le  leggi  e 
costumanze  galanti,  egli  attinge  nello  stesso  arsenale,  e 


—  2G9  - 

spaccia  la  stessa  rettorica,  allegorie,  concetti,  sottigliezze,, 
spiritose  galanterie.  Soprattutto  tiene  molto  a  questo  che 
tutto  il  mondo  sappia  non  essere  il  suo  amore  sensuale, 
ma  amicizia  spirituale,  fonte  di  virtù.  Dante  chiama  in- 
tamia r  accusa  di  avere  espresso  il  suo  amore  troppo 
sensualmente,  e  a  cessare  da  sé  V  infamia  trasformò  Bea- 
trice nella  filosofia  e  scrisse  canzoni  filosofiche.  Ma  le 
continue  proteste  e  dichiarazioni  del  Petrarca  non  con- 
vincono nessuno  ;  perchè  è  il  corpo  di  Laura,  non  come 
la  bella  /accia  della  Sapienza ,  ma  come  corpo ,  che  gli 
scalda  l' immaginazione.  Laura  è  modesta,  casta,  gentile,  ' 
ornata  di  ogni  virtù  ;  ma  sono  qualità  astratte ,  non  è 
qui  la  sua  poesia.  Ciò  che  move  l' amante  e  ispira  il  poeta, 
(è  Laura  da'  capei  biondi,  dal  collo  di  latte,  dalle  guance 
^infocate  ,  da'  sereni  occhi ,  dal  dolce  viso,  la  quale  egli 
situa  e  atteggia  in  mille  maniere  e  ne  cava  sempre  un 
nuovo  ritratto,  che  spicca  in  mezzo  ad  un  bel  paesag- 
gio, il  verde  del  campo,  la  pioggia  de'fiori,  l'acqua  che 
mormora,  fatta  la  Natura  eco  di  Laura, 

Questo  sentimento  delle  belle  forme,  della  bella  donna 
e  della  bella  J^atura,  puro  di  ogni  turbamento,  è  la  Musa 
del  Petrarca.  Diresti  Laura  un  modello,  del  quale  il  pit- 
tore sia  innamorato,  non  come  uomo,  ma  come  pittore, 
intento  meno  a  possederlo,  che  a  rappresentarlo.  E  Laura 
è  poco  più  che  un  modello,  una  bella  forma  serena,  po- 
sta li  per  essere  contemplata  e  distinta,  creatura  pitto- 
rica, non  interamente  poetica:  non  è  la  tale  donna  nel 
tale  e  tale  stato  dell'  animo ,  ma  è  la  Donna ,  non  vela 
0  simbolo  di  qualcos'  altro,  ma  la  donna,  come  bella.  Non 
ci  è  ancora  V  individuo  ;  ci  è  il  genere.  In  quella  quie- 
tudine dell'  aspetto  ,  in  quella  serenità  della  forma  ci  è 
r  ideale  femminile  ancora  divino,  sopra  le  passioni,  fuori 
degli  avvenimenti,  non  tocco  da  miseria  terrena,  che  il 
poeta  crederebbe  profanare,  calandolo  in  terra  e  facen- 
dolo creatura  umana.  La  chiama  una  Dea,  ed  è  una  Dea; 


—  270  ^ 

non  è  ancor  donna.  Sta  ancora  sul  piedistallo  di  statua; 
non  è  scesa  in  mezzo  agli  uomini,  non  si  è  umanata.  Co- 
loro i  quali  vogliono  leggere  nell'anima  di  questo  essere 
muto  e  senza  espansione  e  cercarvi  il  suo  segreto,  fanno 
il  contrario  di  quello  che  volle  il  poeta,  cercano  la  donna 
dov'  egli  vedea  la  Dea.  Certo  a'  nostri  occhi  Laura  dee 
parere  una  forma  monotona,  e  anche  talora  insipida;  ma 
chi  si  mette  in  quei  tempi  mitici  e  allegorici,  troverà  in 
Laura  la  creatura  più  reale  che  il  medio  evo  poteva 
produrre. 

La  vita  di  Laura  diviene  umana  appunto  allora  cha 
è  morta  ed  è  fatta  creatura  celeste.  Qui  1'  amore  non 
può  aver  niente  più  di  sensuale  ;  è  1'  amore  di  una  morta, 
viva  in  cielo,  e  può  liberamente  spandersi.  Non  vedi  più 
i  capei  d'  oro,  e  le  rosee  dita  e  il  bel  piede ,  dal  quale 
r  erbetta  verde  e  i  fiori  di  color  mille  desiderano  d'esser 
tocchi.  Pure  questa  Laura  non  dipinta  è  più  bella,  e  so- 
prattutto più  viva,  perchè  meno  alteì^a,  meno  Dea  e  più 
donna,  quando  apparisce  all'amante,  e  siede  sulla  sponda 
del  suo  letto  ,  e  gli  asciuga  gli  occhi  con  quella  mano 
tanto  desiata  ;  e  salendo  al  cielo  fra  gli  Angioh  si  volge 
indietro  come  aspetti  qualcuno  ;  e  nella  suprema  beati- 
tudine desidera  il  bel  corpo  e  l'amante,  ed  entra  con  lui 
in  dolci  colloqui.  Così  il  mistero  di  Laura  si  scioglie  nel- 
r  altro  mondo ,  come  è  nella  Commedia  :  tutte  le  con- 
traddizioni finiscono.  Sciolta  dalle  condizioni  del  reale , 
tolta  di  mezzo  la  carne,  divenuta  creatura  libera  dell'  im- 
maginazione. Laura  par  fuori  con  chiarezza,  acquista  un 
carattere,  dove  ci  è  la  Santa,  e  ci  è  soprattutto  la  donna. 
Esseri  taciturni  e  indefiniti,  mentre  vivono,  Beatrice  e 
Laura  cominciano  a  vivere,  appunto  quando  muojono. 

E  il  mistero  si  scioglie  anche  nel  Petrarca.  In  vita  di 
Laura,  sorge  l'opposizione  tra  il  senso  e  la  ragione,  tra 
la  carne  e  lo  spirito.  Questo  concetto  fondamentale  del 
medio  evo,  se  nel  Petrarca  è  purificato  deUa  sua  forma 


—  271  — 

simbolica  e  scolastica,  rimane  pur  sempre  il  suo  credo 
cristiano  e  filosofico.  L'  opposizione  era  sciolta  teorica- 
mente con  l'amicizia  platonica  o  spirituale,  legame  d'ani- 
mo, puro  di  ogni  concupiscenza  ;  dalla  quale  astrazione 
non  potea  uscire  che  una  lirica  dottrinale  e  sbiadita,  senza 
sangue ,  dove  non  trovi  ne  1'  amante ,  né  1'  amata  ,  né 
l'amore.  Vi  sono  momenti  nella  vita  del  Petrarca  abba- 
stanza tranquilli  e  prosaici,  perchè  egli  si  possa  dare  a 
questo  spasso.  Allora  riproduce  la  scuola  de*  Trovatori 
con  tutt'  i  suoi  difetti  ;  in  una  forma  eletta  e  vezzosa , 
ohe  U  pallia.  E  vi  trovi  il  convenzionale  ,  il  manierato, 
le  regole  e  le  sottigliezze  del  Codice  d'  amore ,  soprat- 
tutto concettoso  ,  dotato  com'  era  di  uno  spirito  acuto. 
Non  coglie  sé  stesso  nel  momento  della  impressione;  la 
impressione  è  passata,  e  se  la  mette  dinanzi  e  la  spiega, 
come  critico  o  filosofo  :  hai  un  di  là  dell'impressione,  la 
impressione  generalizzata  e  spiegata ,  come  è  nella  più 
parte  de'  suoi  sonetti  in  vita  di  Laura  ;  antitesi,  freddure, 
sottighezze,  ragionamenti,  in  forma  pretensiosa  e  civet- 
tuola. Allora  tutto  è  chiaro  ;  tutto  è  spiegato  con  Pla- 
tone e  col  codice  d'amore;  hai  il  solito  contenuto  hrico 
allora  in  voga  sulla  donna,  sull'  amore ,  pomposamente 
abbigliato.  Trovi  un  maraviglioso  artefice  di  verso,  un 
ingegno  colto,  ornato,  acuto,  elegante;  non  trovi  ancora 
il  poeta  e  non  l'artista.  Ma  nel  momento  delle  impres- 
sioni ,  tra  le  sue  irrequietezze  e  agitazioni ,  circuito  di 
fantasmi,  par  fuori  la  sua  personalità  ;  trovi  il  poeta  e 
l'artista.  Quello  che  sente  è  in  opposizione  con  quello  cho 
crede.  Crede  che  la  carne  è  peccato  ;  che  il  suo  amore 
è  spirituale  ;  che  Laura  gli  mostra  la  via  che  al  ciel 
conduce  ;  che  il  corpo  è  un  velo  dello  spirito.  E  se  in 
questo  credo  trovasse  ogni  suo  appagamento,  avremmo 
Dante  e  Beatrice.  Ma  non  vi  si  appaga;  l'educazione  clas- 
sica e  r  istinto  dell'artista  si  ribella  contro  queste  astra- 
zioni di  uno  spiritualismo  esagerato;  si  rivela  in  lui  uno 


—  272  — 

spìrito  nuovo,  il  senso  del  reale  e  del  concreto,  cosi  svi- 
luppato ne'  pagani.  Non  vi  si  appaga  l'artista,  e  non  vi 
si  appaga  l'uomo  ;  perchè  si  sente  inquieto,  non  ben  si- 
curo di  quello  che  crede  e  vuol  far  credere,  e  sente  il 
morso  del  senso,  e  tutte  le  ansietà  di  un  amore  di  donna. 
Scoppia  fuori  la  contraddizione,  o  il  mistero.  Il  suo  amore 
non  è  cosi  possente  che  lo  metta  in  istato  di  ribellione 
verso  le  sue  credenze,  né  la  sua  fede  è  cosi  possente  che 
uccida  la  sensualità  del  suo  amore.  Nasce  un  fluttuar 
continuo  di  riflessioni  contraddittorie ,  un  si  ed  uu  no , 
un  voglio  e  non  vogUo. 

Io  medesmo  non  so  quel  che  mi  voglia. 

Nasce  il  mistero  dell'  amore,  che  ti  offre  le  più  diverse 
apparenze,  senza  che  il  poeta  giunga  ad  averne  chiara 
conoscenza  : 

Se  amor  non  è,  che  dunque  è  quel  che  io  sento 
Ma  s'egli  è  amor,  per  Dio  che  cosa  e  quale? 

Manca  ai  Petrarca  la  forza  di  sciogliersi  da  questa 
contraddizione,  e  più  vi  si  dimena,  più  vi  s'  impiglia.  Il 
Canzoniere  in  vita  di  Laura  è  la  storia  delle  sue  con- 
traddizioni. Ora  gU  pare  che  contraddizione  non  ci  sia,  e 
unisce  in  pace  provvisoria  cielo  e  terra,  ragione  e  senso, 
gli  occhi  che  mostrano  la  via  del  cielo  e  gli  occhi  alfin 
dolci  tremanti. 

Ultima  speme  de*  cortesi  amori 

Sono  i  suoi  momenti  di  sanità  e  di  forza,  di  entusia- 
smo più  artistico  che  amoroso,  dal  quale  escono  le  vi- 
vaci descrizioni  del  bel  corpo,  e  le  tre  canzoni  sorelle. 
Ora  si  sente  inquieto,  e  si  lascia  ir  dietro  alla  corrente 
delle  impressioni  e  delle  immagini,  e  vede  il  meglio  e  al 
peggio  s'appiglia,  come  conchiude  nella  canzone 

r  Yo  pensando  e  nel  pensier  m'assale. 


dove  è  rappresentata  la  lotta  interna  tra  la  ragione .  e  il 
senso,  la  ragione  che  parla  e  il  senso  che  morde.  E  ci 
son  pure  momenti  che  la  ragione  piglia  il  di  sopra,  e  si 
volge  a  Dio,  e  si  confessa,  e  fa  proposito  di  svellere  dal 
suo  cuore  il  falso  dolce  fuggitivo, 

Che  il  mondo  traditor  può  dare  altrui. 

Non  e'  è  dunque  nel  Canzoniere  una  storia,  un  andar 
graduato  da  un  punto  all'  altro  ;  ma  è  un  vagar  conti- 
nuo tra  le  più  contrarie  impressioni,  secondo  le  occasioni 
0  lo  stato  deir  animo  in  questo  o  quel  momento  della 
vita.  Non  ci  è  storia,  perchè  nell'anima  non  ci  è  una 
forte  volontà,  né  uno  scopo  ben  chiaro;  perciò  è  tutta 
in  balia  d' impressioni  momentanee,  tirata  in  opposte  di- 
rezioni. Di  che  nasce  un  difetto  d'  equilibrio,  la  discor- 
dia 0  la  scissura  interiore.  Il  reale  comparisce  la  prima 
volta  nell'arte,  condannato,  maledetto,  chiamato  il  falso 
dolce  fuggitivo,  pur  desiderato,  di  un  desiderio  vago  che 
si  appaga  solo  in  immaginazione,  debolmente  contrad- 
detto e  debolmente  secondato.  Minore  è  la  speranza,  più 
vivo  è  il  desiderio,  il  quale,  mancatagli  la  realtà,  si  ap- 
paga in  immaginazione.  Nasce  una  vita  di  sogni,  di  estasi, 
di  fantasie,  di  quello  che  l'animo  desidera ,  non  con  la 
speranza  di  conseguirlo ,  anzi  con  la  coscienza  di  non 
conseguirlo  mai.  Il  poeta  sogna,  e  sa  che  sogna,  e  gli 
piace  sognare, 

E  più  certezza  averne  fora  il  peggio. 

Perchè  se  per  averne  più  certezza,  rompe  il  corso  del- 
l' immaginazione,  sopraggiunge  il  disinganno.  Cosi  vive 
in  fantasia,  fabbricandosi  godimenti  interrotti  spesso  dalla 
riflessione  con  un  :  hai  lasso  !  in  un  flutto  perenne  d' il- 
lusioni e  disillusioni.  Il  disaccordo  interno  è  appunto  in 
questo^,"  nella  immaginazione  che  costruisce  e  nella  ri- 

De  Sanotis  — Leu.  Ital.  Voi.  I.  18 


—  274  — 

flessione  che  distrugge:  malattia  dello  spirito,  nata  ap- 
punto dair  esagerazione  dello  spiritualismo ,  lo  spirito  non 
è  sano,  perchè  a  forza  di  segregarsi  dalla  natura  e  dal 
senso  si  trova  alfine  di  rincontro  e  ribelle  1'  immagina- 
zione, e  r  immaginazione  non  è  sana,  perchè  ha  di  rin- 
contro a  sé  e  ribelle  la  riflessione,  che  in  un  attimo  le 
dissipa  i  suoi  castelli  incantati.  Lo  spirito  rimane  pura 
riflessione  o  ragione  astratta,  e  non  ha  forza  di  sotto- 
porsi la  volontà,  per  il  contrasto  che  trova  nell'  imma- 
ginazione. L'immaginazione  rimane  pura  immaginazione, 
e  non  ha  forza  sulla  volontà,  non  lavora  a  realizzare  i 
suoi  dolci  fantasmi  per  il  contrasto  che  trova  nella  ri- 
flessione. Se  una  delle  due  forze  potesse  soggiogar  l'al- 
tra, nascerebbe  1'  equilibrio  e  la  salute  ;  ma  le  due  forze 
lottano  senza  alcun  risultato,  non  si  giunge  mai  a  un 
virile  :  io  voglio  ;  ci  è  al  di  dentro  il  sì  e  il  no  in  eterna 
tenzone;  perciò  la  vita  non  esce  mai  al  di  fuori  in  un 
risultato,  in  un'  azione,  rimane  pregna  di  pensieri  e  im- 
mam'nazioni  tutta  al  di  dentro  : 


*&■ 


In  questi  pensier,  lasso, 
Tienmi  dì  e  notte  il  Signor  nostro,  Amore. 

Lo  spirito  consuma  sé  stesso  in  un  fantasticare  inu- 
tile e  in  una  inutile  riflessione.  È  punito  là  dove  ha  pec- 
cato. Ha  voluto  assorbir  tutto  in  sé  e  ora  si  trova  solo, 
e  si  ciba  di  sé  stesso  ed  è  egli  medesimo  il  suo  avol- 
tojo.  Stanco,  svogliato,  disgustato  di  una  realtà  a  cui  si 
sente  estraneo,  il  poeta,  come  un  romito,  volge  le  spalle 
al  mondo  e  si  riduce  nella  solitudine  di  Valchiusa,  e  ne 
fa  il  suo  eremo ,  e  rimane  solo  con  sé  stesso  a  fanta- 
sticare, solo  e  pensoso,  incalzato  dal  suo  interno  avoltojo: 

Solo  e  pensoso  i  più  deserti  campi 
Vo  misurando  a  passi  tardi  e  lenti. 


Da  questa  situazione  sono  uscite  le  due^più  profonde 
cajizoni  dermpfTio  "èvòT^'^i^^  nota,  l'altra   assai 

popolare,  amendue  poco  studiate,  T  una  che  incomincia: 

Di  pensierein__£ensier,  di  monte  in  monte; 

Taltra  che  incomincia: 

Chiare,  fresche  e  dolci  acgLue. 

Se  il  Petrarca  avesse  avuto  piena  e  chiara  coscienza 
della  sua  malattia  ,  di  questa  attività  interna  inutile  e 
oziosa,  una  specie  di  lenta  consunzione  dello  spirito,  im- 
potente ad  uscir  da  sé  e  attingere  il  reale,  avremmo  la 
tragedia  dell'anima,  come  Dante  ne  concepì  la  comme- 
<lia,  una  tragedia,  nella  quale  il  medio  evo  avrebbe  ri- 
conosciuto la  sua  impotenza  e  la  sua  condanna;  tra'  do- 
lori della  contraddizione  vedremmo  il  misticismo  morire, 
spuntare  1'  alba  della  realtà  ,  il  senso  o  il  corpo ,  pro- 
scritto e  dichiarato  il  peccato,  ripigUare  la  parte  che  gli 
tocca  nella  vita.  Ma  nel  Petrarca  la  lotta  è  senza  vi- 
rilità. Gli  manca  la  forza  che  abbondò  a  Dante  d'  idea- 
lizzarsi nell' universo;  e  rimanendo  chiuso  nella  sua  in- 
dividualità, gli  manca  pure  ogni  forza  di  resistenza:  sì 
che  la  tragedia  si  risolve  in  una  fl<'bile  elegia.  Il  poeta 
si  abbandona  facilmente,  e  prorompe  in  lacrime  e  in  la- 
menti. Acuto  più  che  profondo  non  guarda  negli  abissi 
del  suo  male  e  si  contenta  descriverne  i  fenomeni  con- 
densati in  immagini  e  in  sentenze  rimaste  proverbiali. 
Tenero  e  impressionabile,  capace  più  di  emozioni,  che  di 
]).issioni,  non  dimora  lungamente  nel  suo  dolore,  che  vien 
]' resto  r  alleviamento,  lo  scoppio  delle  lacrime  e  de'  la- 
laenti.  Artista  più  che  poeta,  è  disposto  a  consolarsi  fa- 
cilmente, quando  l' immaginazione  abbia  virtù  di  offrir- 
gli un  simulacro  di  quella  realtà  di  cui  sente  la  priva- 
zione: 


—  276  — 

In  tante  parti  e  si  bella  la  veggio, 

Che  se  V  error  durasse^  altro  non  chieggio. 

La  famiglia.,  la  patria,  ia  natura;,  1'  amore  soao  per  i! 
poeta,  com'  ej;a  IDante,  cose  reali:,  clie  riempiono  la  vita 
e  -le  (làimw  muq  -soopo.  Per  il  Petrarca  sono  principal- 
mente jmateria  'di  Tap|)resentazione :  l'immagine  per  lui 
vale  la  >cosa.  Ma  'Come  ci  è  insieme  in  lui  la  coscienza 
che  ò  T iiiaMnagiiae,  e  nion  la  cosa,  la  sua  soddisfazione 
non  è -intenij,  ca  è  ili  fai^do  un  sentimento  della  propria 
inajpotei/i/za^  «ci  è  i|Mast«;  non  potendo  avere  la  realtà,  mi 
a|>j)iig.o  (de«l  sjaa  simulacro.  Onde  nasce  un  sentimento  ele- 
gT;aeF"^teg~;^iw^Ìi7malincoma  sentimento  di  tutte  le 
anime  ìeiaèii^^  «clii  iioh^  lèggono  lungamente  allo  strazio, 
e  non  ©sano  guardare  in  viso  il  loro  male,  e  si  creano 
amabili  fantasmi  e  dolci  illusioni.  Manca  al  suo  strazio 
r  elevata  coscienza  della  sua  natura  eia  profondità  del 
sentimento.  Ci  è  anzi  in  luì  la  tendenza  a  dissimular- 
selo, cercaado  scampo  nella  benefica  immaginazione.  La 
fìsonomia  di  questo  stato  del  suo  spirito  è  scolpita  nella 
canzone 

Chiare,  fresche  e  dolci  acque, 

cielo  fosco  e  funebre  che  a  poco  a  poco  si  rasserena  nei 
più  cari  diletti  dèli'  immaginazione,  insino  a  che  da  ul- 
timo divien  luce  di  paradiso: 

Costei  per  fermo  nacque  in  paradiso. 

H  poeta  è  cosi  attirato  in  questo  mondo  fabbricatogli 
dall'  immaginazione,  che  quando  si  riscuote,  domanda  : 

Qui  come  venn'  io,  o  quando  ? 

Il  suo  obblio,  il  suo  sogno  era  stato  così  tenace,  così 
simile  alla  realtà,  che  gli  pareva  essere  in  cielo,  non  là 
dov'  era.  Questa  dolce  malinconia  è  la  verità  della  sua 
ispirazione,  è  il  suo  genio.  Quando  si  sforza  di  uscirne, 
spunta  spesso  il  retore  :  le  sue  collere,  le  sue  ammira- 


—  277  — 

zioni  non  sono  senza  una  esagerazione  e  ricercatezza,  che 
rivelano  lo  sforzo.  Ma  quando  vi  s' immerge  e  vi  si  an- 
nega, la  sua  forma  acquista  il  carattere  della  verità  con- 
giunta con  la  grandezza,  è  un  modello  di  semplicità  e 
naturalezza. 

Gli  è  che  Natura,  negandogli  le  grandi  convinzioni  e 
3e  grandi  passioni  e  lo  sguardo  profando  di  Dante  ,  ne 
aveva  fatto  un  artista  finito.  L'immagine  appaga  in  luì 
non  solo  1'  artista,  ma  tutto  l'uomo.  Senza  patria,  senza 
famiglia,  senza  un  centro  sociale  in  mezzo  a  cui  viva 
altro  che  letterario,  ritirato  nella  solitudine  dello  studio 
e  nell'intimo  commercio  degU  antichi,  la  verità  e  la  se- 
rietà della  sua  vita  è  tutta  in  queste  espansioni  esteti- 
che, come  la  vita  del  Santo  è  nelle  sue  estasi  e  contem- 
plazioni. Dante  è  sbandito  da  Firenze,  ma  la  sua  anima 
è  sempre  colà.  Il  Petrarca  è  costretto  a  dimostrare  la 
sua  italianità  : 

Non  è  questo  il  terrea  eh'  io  toccai  prima  ? 

A  Dante  non  fa  bisogno  di  rettorica.  Si  sente  italiano, 
e  ne  ha  tutte  le  passioni,  e  ne  senti  il  fremito  e  il  tu- 
multo nella  sua  poesia.  Ciò  che  al  contrario  ti  colpisce 
nel  mondo  personale  e  solitario  del  Petrarca  è  la  pri- 
vazione della  realtà,  e  un  desiderio  di  essa  scemo  di 
forza  che  si  appaga  ne'  docili  sogni  dell'  immaginazione. 
Tutto  converge  noli' immaginazione;  tutto  gli  si  offre 
come  un  sensibile  :  il  pensiero  e  il  sentimento  sono  in  lui 
contemplazione  estetica,  bella  forma.  Ciò  che  l'interessa, 
non  è  entusiasmo  intellettuale  ,  né  sentimento  morale  o 
patriottico,  ma  la  contemplazione  per  sé  stessa,  in  quanto 
è  bella,  un  sentimento  puramente  estetico.  Laura  piange  : 
egli  dice:  quanto  son  b(^lle'quene''làcrime  !  Laura  muo- 
re; egli  dice: 

Morte  bella  pa    :ì  nel  suo  bel  viso. 


Fantastica  sulla  sua  morte.  Ed  ecco  Laura  che  prega 
sulla  sua  fossa,      • 

Asciugandosi  gli  occhi  col  bel  velo. 

La  bellezza  per  Dante  è  apparenza  simbolica,  la  bella 
faccia  della  sapienza  :  dietro  a  quella  ci  sta  la  vita  nella 
sua  serietà,  vita  intellettuale  e  morale.  Qui  la  bellezza, 
emancipata  dal  simbolo,  si  pone  per  sé  stessa,  sostan- 
ziale, libera,  indipendente,  quale  si  sia  il  suo  contenuto, 
sia  pure  indifferente,  o  frivolo  o  repugnante.  Il  conte- 
nuto, già  così  astratto  e  scientifico ,  anzi  scolastico ,  qui 
pare  per  la  prima  volta  essenzialmente  come  bellezza 
schietta,  realtà  artistica.  Al  Petrarca  non  basta  che  l'im- 
magine sia  viva,  come  bastava  a  Dante;  vuole  che  sia 
bella.  Ciò  che  move  il  suo  cervello  a  sviluppare  e  for- 
mare l'immagine,  non  è  l'idea,  come  storia,  o  filosofia, 
0  etica,  ma  è  il  piacere  estatico  che  in  lui  s' ingenera 
della  sua  contemplazione. 

Questo  sentimento  della  bella  forma  è  cosi  in  lui  con- 
naturato, che  penetra  ne'  minimi  particolari  deh'  elocu- 
zione, della  lingua  e  del  verso.  Dante  anche  nei  più  mi- 
nuti particolari  di  esecuzione  guarda  il  di  dentro,  e  non 
lo  perde  mai  di  vista,  perchè  è  il  di  dentro  che  l'ap- 
passiona; il  Petrarca  rimane  volentieri  al  di  fuori,  e  non 
resta  che  non  1'  abbia  condotto  all'  ultima  perfezion  tec- 
nica. Nelle  immagini,  ne'  paragoni,  nelle  idee  non  cerca 
novità  e  originalità,  anzi  attinge  volentieri  ne'  classici  e 
ne' trovatori ,  intento  non  a  cercare  o  trovare,  ma  a  dir 
megho  ciò  che  è  stato  detto  da  altri.  L'  obbiettivo  della 
sua  poesia  non  è  la^cosa,  ma  l'immagine,  il  modo  di 
rappresentarla.lS''reca  a  tanta  finitezza  1'  espressione  che 
la  hngua ,  1'  elocuzione  ,  il  verso  finora  in  uno  stato  di 
continua  e  progressiva  formazione  acquistano  una  forma 
fìssa  e  definitiva,  divenuta  il  modello  de'  secoli  posteriori. 
La  lingua  poetica  è  anche  oggi,  quale  il  Petrarca  ce  la 


—  279  — 

lasciò  ,  né  alcuno  gli  è  entrato  innanzi  negli  artifici  del 
verso  e  dell'  elocuzione.  Quel  tipo  di  una  lingua  illustre 
che  Dante  vagheggiava  nella  prosa,  il  Petrarca  lo  ha 
realizzato  nella  poesia,  dalla  quale  è  sbandito  il  rozzo, 
il  disarmonico,  il  Volgare,  il  grottesco  e  il  gotico,  eie- 
nienti  che  pur  compariscono  nella  Commedia.  E  una  forma 
bella  non  solo  per  rispetto  all'  idea ,  ma  per  sé  stessa, 
aulica,  aristocratica,  elegante^,  melodiosa.  La  parola  vale 
non  solo,  come  segno,  ma  come  parola.  Il  verso  è  non 
solo  armonia,  o  rispondenza  con  quel  di  dentro,  ma  me- 
lodia, elemento  musicale  in  se  stesso. 

Ma  questa  bella  forma  non  è  un  puro  artificio  tec- 
nico 0  meccanico,  una  vuota  sonorità,  anzi  vien  fuori  da 
una  immaginazione  appassionata  e  innamorata,  che  ha 
il  S'IO  riposo,  il  suo  ultimo  fine  in  sé  stessa.  È  una  im- 
maginazione chiusa  in  sé,  non  trascendente,  che  di  rado 
si  alza  a  fantasia  o  a  sentimento,  anzi  rifugge  dal  fan- 
tasma, e  tende  spesso  a  produrre  immagini  finite ,  ben 
contornate,  chiare  e  fisse.  E  se  vi  si  appagasse,  sarebbe 
poesìa  assolutamente  pagana  e  plastica.  Ma  il  grande 
artista  ne'  momenti  anche  più  geniah  della  produzione 
sente  come  un  vuoto,  qualche  cosa  che  gU  manchi,  e 
non  è  soddisfatto,  ed  è  malinconico.  Che  gli  manca 'f 

Gii  manca,  com'  è  detto,  il  possesso  e  il  godimento  e 
la  serietà  e  la  forza  della  vita  reale.  Come  artista  si 
sente  incompiuto  ;  come  immaginazione  si  sente  isolato; 
vivereJaiiiunaginazione  gli  piace;  pur  sente  che  là  non 
è  la_vita^_e_vi  trova  sollievo,  non  appagamento.  Questo 
sentimento  del  vuoto  che  penetra  ne'  più  cari  diletti  del- 
l' immaginazione,  e  li  tronca  bruscamente,  questa  imma- 
ginazione che  appunto  perchè  si  sente  immaginazione  e 
non  realtà,  produce  le  sue  creature  con  la  lacrima  del 
desiderio  negli  occhi,  questo  desiderio  inestinguibile  che 
pullula  dal  seno  stesso  dell'  arte  e  la  chiarisce  ombra  e 
simulacro,  e  non  coaa  viva,  sono  il  fondo  originalo  o 


—  280  — 

moderno  della  poesìa  petrarchesca.  L'  immagine  nasce 
trista,  perchè  nasce  con  la  coscienza  di  essere  immagine, 
^  e  non  cosa,  e  lo  strazio  di  questa  coscienza  è  raddol- 
'  cito,  perchè  non  ci  essendo  la  cosa,  ci  à  V  immagine,  e 
cosi  bella,  così  attraente.  Situazione  piena  di  misteri,  di 
contraddizioni  e  di  chiaroscuri,  che  genera  quel  non  so 
che  dolce  amaro,  detto  malinconia,  un  sentirsi  consu- 
ltare e  struggere  dolcemente  : 

Che  dolcemente  mi  consuma  e  strugge. 

La  malinconia  è  la  Musa  cristiana,  è  il  male  di  Dante 
e  de'  più  eletti  spiriti  di  quel  tempo.  Ma  la  malinconia 
del  Petrarca  e  della  nuova  generazione  che  gli  stava 
attorno  è  già  di  un'  altra  natura  e  accenna  a  tempi 
nuovi. 

La  malinconia  di  Dante  ha  radice  nello  spirito  stesso 
del  medio  evo,  che  poneva  il  fine  della  vita  in  un  di  là 
della  vita  ,  nella  congiunzione  dell'  umano  e  del  divino, 
che  è  la  base  della  divina  Commedia.  Le  anime  del  pur- 
gatorio sono  malinconiche,  perchè  sospirano  appresso  ad 
un  Bene  ,  di  cui  hanno  innanzi  la  sola  immagine  nelle 
pitture,  ne'  sìmboh  ,  nelle  visioni  estatiche.  Quei  godi- 
menti dell'  immaginativa  aguzzano  più  il  desiderio.  Non 
basta  loro  l' immagine  ;  vogliono  la  realtà  ;  e  questo  vo- 
lere raddolcito  alla  presenza  d^^l  simulacro  genera  la  loro 
malinconia.  Sono  prive  del  paradiso,  ma  lo  veggono  in 
immaginazione,  e  sperano  di  salirvi  quando  che  sia:  per- 
ciò sono  contente  nel  fuoco.  La  condizione  delle  anime 
purganti  è  molto  simile  a  quella  degli  uomini  nella  vita 
terrena  :  è  lo  stesso  tarlo  che  li  rode.  La  vita  corporale 
è  un  velo,  un  simulacro  di  quel  di  là  che  la  fede  e  la 
scienza  offriva  chiarissimo  all'  intelletto  e  all'  immagi- 
nazione; perciò  la  vita  corporale  era  in  sé  stessa  il  pec- 
cato 0  la  carne,  l' inferno,  il  vasello  o  la  prigione,  dove 
r  anima  vive  malinconica  :  il  giorno  della  morte  è  per 


—  281  — 

r  anima  il  giorno  della  vita  e  della  libertà.  Non  che  pro- 
fondarsi nel  reale,  e  cercare  di  assimilarselo,  l'anima 
tende  a  separarsene,  e  vivere  in  ispirito  o  in  immagi- 
nazione, fabbricandosi  un  simulacro  di  quel  di  là  a  cui 
spera  di  giungere:  indi  la  tendenza  all'  ascetismo,  alla 
solitudine,  all'  estasi  e  al  misticismo.  Questa  era  la  ma- 
linconia di  Caterina  quando  dicea:  rauojo,  e  non  posso 
morire. 

La  stessa  tendenza  e  la  stessa  malinconia  è  nel  Pe- 
trarca. Anch'  egli  cerca  fabbricarsi  ombre  e  simulacri  di 
Laura,  anch'  egli  cerca  1'  obblio  e  il  riposo  ne  sogni  del- 
l'immaginazione.  Quando  la  santa  e  il  poeta  s' incontra- 
rono in  Avignone,  dovettero  sentirsi  sotto  un  aspetto 
parenti  di  spirito.  Il  poeta  aveva  la  stessa  inclinazione 
alla  solitudine,  alla  contemplazione,  al  raccoghmento,  al- 
l' estasi,  alla  malinconia.  E  se  guardiamo  all'  apparenza, 
e'  era  in  tutti  e  due  le  stesse  credenze  e  le  stesse  aspi- 
razioni. Quel  muojo  e  non  posso  morire  corrisponde  bene 
a  questo  grido  del  poeta: 

Aprasi  la  prigione  ov'  io  son  cliinso, 
E  che  '1  cammino  a  tal  vista  mi  serra. 

Ikia  qui  fiutate  la  rettorica,  e  là  avete  1'  espressione  nuda 
ed  energica  di  un  sentimento  che  investe  tutta  1'  anima 
e  consuma  la  santa  a  trentatrè  anni.  Questa  concentra- 
zione ed  unità  delle  forze  intorno  ad  un  punto  solo,  in 
che  è  la  serietà  della  vita ,  mancò  al  Petrarca.  Il  suo 
mondo  è  pur  quello  di  Caterina  e  di  Dante  ,  mondato 
della  sua  scorza  scolastica  e  simbolica,  ridotto  in  forma 
più  chiara  e  artistica,  ma  pur  quello.  Se  non  che  questo 
mondo  mistico  non  lo  possiede  tutto,  e  sovrano  e  in- 
discusso nella  mente  non  tira  a  sé  tutte  le  forze  della 
vita.  È  in  lui  visibile  una  dispersione  e  distrazione  di  for- 
ze, come  di  uomo  tirato  di  qua  e  di  là  da  contrarie  cor- 
renti, che  vorrebbe  pigliar  la  sua  via  e  non  se  ne  sente 


-~  282  — 

la  forza,  e  vaga  in  balia  dei  flutti  scontento  e  riluttante. 
La  bella  unità  di  Dante,  che  vedeva  la  vita  nell'  armo- 
nia dell'  intelletto  e  deli'  alto  mediante  1'  amore,  è  rotta. 
Qui  ci  è  scompiglio  interiore,  ribellione,  contraddizione; 

E  veggio  il  meglio  ed  al  peggior  m'  appiglio. 

La  malinconia  di  Caterina  è  l' impazienza  del  morire, 
di  unirsi  con  Cristo  ;  la  malinconia  di  Dante  è  la  disso- 
nanza fra  il  mondo  divino  e  la  selva  oscura,  la  vita  ter- 
rena, malinconia  piena  di  forza  e  di  speranza,  che  si 
scioglie  neir  azione.  La  malinconia  del  Petrarca  è  la  co- 
scienza della  sua  interna  dissonanza,  e  della  sua  impo- 
tenza a  conciliarla,  malinconia  insanabile,  perchè  il  malo 
non  è  nell'intelletto,  è  nella  volontà  non  certo  ribelle, 
ma  debole  e  contraddittoria.  Per  palliare  la  dissonanza 
esce  in  mezzo  la  sofìstica  e  la  rettorica,  con  le  più  sma- 
glianti frasi,  con  le  più  sottiU  distinzioni;  intervalli  di 
tregua,  che  fanno  risorgere  più  acuta  la  coscienza  del 
male.  Gli  è  che  il  medio  evo  è  già  nel  suo  petto  in  fer- 
mentazione, penetrato  di  altri  elementi,  senza  che  egli 
abbia  una  distinta  coscienza  di  questo  nuovo  stato;  ac- 
canto al  cristiano  ascetico  ci  è  1'  erudito,  il  letterato,  lo 
artista,  il  pagano ,  l'  uomo  di  mondo  con  tutti  gì'  istinti 
e  le  tendenze  naturali,  ch^  vogliono  farsi  valere.  Si  forma 
^  in  lui  un  essere  contraddittorio,  come  ne'  tempi  di  tran- 
^  sizione ,  che  non  è  ancora  1'  uomo  nuova,  e  non  è  più 
r  uomo  antico,  i 

La  malinconia  del  Petrarca  non  è  dunque  più  la  ma- 
linconia del  med'o  evo,  di  un  mondo  formato  e  trascen- 
dente, che  rende  quaggiù  malinconico  lo  spirito  "per  il 
suo  legame  a  quel  corpo,  ma  è  la  maUnconia  di  un  mondo 
nuovo  che  oscuro  ancora  alla  coscienza  si  sviluppa  in 
seno  al  medio  evo  e  ci  sta  a  disagio,  e  tende  a  sprigio- 
narsene ,  e  non  ha  la  forza  per  la  resistenza  che  trova 
neir  intelletto.  L' intelletto  appartiene  al  medio  evo,  alle 


—  483  — 

cui  dottrine  ha  tolta  la  ruvida  scorza,  non  la  sostanza.  . 
Quel  mondo  nuovo,  plastico,  pagano,  reazione  della  na-  1 
tura  contro  il  misticismo,  è  ancora  così  debole,  cosi  poco 
lineato,  che  V  intelletto  può  condannarlo  e  maledirlo,  o 
assimilarselo  con  una  sofistica  apparenza  di  conciliazione, 
e  se  cacciato  dalla  vita  reale  riapparisce  nelF  immagi- 
nazione, può  penetrare  anche  colà  e  dirgli:  tu  non  sei  che 
un  fantasma. 

Se  in  vita  di  Laura  questo  sentimento  nuovo  che  sorge, 
più  vicino  air  uomo  e  alla  natura,  è  dissimulato  co'  più 
ingegnosi  sofismi,  quasi  peccato  che  si  cerchi  di  pallia- 
re, dopo  h  morte  di  Laura  purificato  e  trasformato  si 
manifesta  con  più  energia.  Beatrice  morta  diviene  per 
Dante  la  scienza,  la  voce  di  quel  mondo  di  là,  ov' era 
lo  scopo  della  vita.  La  storia  di  Beatrice  è  sviluppo  di 
idee  e  di  dottrine  nella  Lirica  e  nella  Commedia.  Il  suo 
riso  è  luce  intellettuale,  raggio  dell'  intelletto.  La  storia 
di  Laura  è  profondamente  umana  e  reale,  eco  de'  più  de- 
licati sentimenti,  delle  più  tenere  emozioni,  delie  più  vi- 
vaci impressioni  che  colpiscono  1'  uomo  in  terra. 

La  poesia  in  vita  di  Laura  è  dominata  dall'  intelletto, 
da  una  riflessione  sofistica  e  rettorica  che  altera  la  pu- 
rità de'  sentimenti,  e  sottilizza  le  immagini,  e  raffredda 
le  impressioni ,  e  con  vani  sforzi  di  conciliazione  mette 
più  in  vista  quel  si  e  quel  no  che  battagliavano  nella 
debole  volontà  delJape^^.  In  morte  di  Laura  ogni  bat- 
taglia cessa  e  non^i  è  più  vestigio  di  sofismi  e  di  ret- 
torica ,  perchè  la  conciliazione  cercata  finora  così  in- 
gegnosamente e  non  conseguita  è  già  avvenuta  per  la 
natura  delle  cose.  Laura  morta  diviene  libera  creatura 
dell'  immaginazione ,  non  più  persona  autonoma  e  resi- 
stente, ma  docile  fjintasma.  Il  poeta  ne  fa  la  sua  crea- 
tura, può  darle  alTetti  e  pensieri,  quali  gli  piaccia  :  può 
piangerla,  vederla,  parlare  seco,  vivere  seco  in  ispirito. 
La  situazione  è  semi>lice  e  umana.  È  la  donna  amuta, 


—  284  — 

sparita  dalla  terra,  che  ti  apparisce  in  sogno  e  ti  asciu- 
ga gli  occhi  e  ti  prende  per  mano  e  ti  parla:  consola- 
zioni malinconiche ,  interrotte  da  una  lagrima ,  quando 
ti  svegli.  Dante  si  asciuga  presto  la  lacrima ,  e  si  getta 
fra  le  onde  agitate  dell'esistenza,  e  si  rifa  un  ideale  e  lo 
chiama  Beatrice.  A  lui  manca  il  tempo  di  piangere,  per- 
chè tiene  nel  suo  petto  due  secoli,  ed  ha  la  forza  di  com- 
prenderli e  realizzarli.  Il  Petrarca  giunge  qui,  che  è  già 
stanco  e  disgustato  dell'  esistenza,  vi  giunge  con  V  ani- 
ma di  solitario  e  di  romito,  e  non  ha  altra  forza  che  di 
piangere  : 

Ed  io  son  un  di  quei  che  il  pianger  giova. 

Piange  la  fine  delle  illusioni,  il  vacuo  dell'  esistenza, 
il  perire  di  tutte  le  cose  : 

Veramente  siam  noi  polvere  ed  ombra. 

Cosi  dopo  vane  speranze  e  vani  timori,  quest'  anima  te- 
nera e  impressionabile  rinunzia  alla  lotta,  e  si  abbando- 
na, e  si  separa  da  un  mondo,  dove  invano  erasi  sfor- 
zata di  penetrare,  e  si  ritira  nella  solitudine  della  sua 
immaginazione  con  Laura,  chiamando  partecipe  de'  suoi 
lamenti  1'  usignuolo,  e  il  vago  augelletto,  e  la  valle  e  il 
bosco  e  r  aura  e  1'  onda.  La  scissura  interna  dà  kogo 
ad  una  calma  elegiaca;  il  cuore  stanco  si  riconcilia  con 
l'intelletto.  Il  passato,  cagione  di  gioje  e  di  affanni,  gli 
pare  un  sogno;  la  vita  gU  pare  insipida;  vivere  è  un  bre- 
ve sonno;  morire  è  svegliarsi  tra  gli  spiriti  eletti;  quando 
gli  occhi  si  chiudono,  allora  si  aprono  neh'  eterno  lume; 
il  mondo  cristiano,  non  contraddetto  mai  dal  suo  intel- 
letto, ora  penetra  nel  suo  cuore,  gli  appare  come  un 
mondo  nuovo,  che  dipinge  con  accenti  di  meraviglia: 
Come  va  il  mondo  !  or  mi  diletta  e  piace 

Quel  che  più  mi  dispiacque  ;  or  veggio  e  sento- 

€be  per  aver  sJute  ebbi  tormento 

E  breve  guerra  per  eterna  pace 


—  285  — 

Ecco  in  che  moda  raj^resenta.  questo  nuovo  stàirma 
suo  inno  alla  Vergine: 

Da  poi  cb*io  nacqui  in:  su  la  riva  d'Arno, 
Cercando  or  q.iiesta,.  ora  qu«ir  altra  parte, 
KoQ  è  stata  mia.  vfta  altro^  che  affanno. 
Mortai  bellezza,  atti  e  parole  m'  hanno 
Tutta  ingombrata,  l»*  alma, 
Non  tardar  r  eh*  ito  son  forse  all'  ultimo  anno, 
I  dì  miei  più  correnti  che  saetta 
Fra  miserie  e  peccati 
Sonsene  andati  ;  e  sol  morte  ne  aspetta. 

Quest'  uomo  che  gitta  sul  passato  lo  sguardo  del  disin- 
ganno ,  che  chiama  la  sua  vita  miseria  e  peccato ,  che 
vede  gli  anni  fuggiti  con  tanta  rapidità  senza  alcun  frutto, 
ben  si  promette  di  fare  un  altro  canzoniere  alla  Vergi- 
ne ,  ma  è  troppo  tardi.  Ornai  son  stanco  !  grida.  E  se 
ne'  Trionfi  cerca  d'ingrandire  il  suo  orizzonte,  e  uscire 
da  sé  e  contemplare  V  umanità  ;  ciò  che  ne'  suoi  versi  ha 
ancora  qualche  interesse,  è  il  suo  passato  che  i  vecchi 
hanno  il  privilegio  di  evocare,  rifirne  qualche  fram- 
mento ;  è  soprattutto  il  sogno  di  Laura ,  tanto  imitato 
da  noi. 

Chi  legge  il  Canzoniere,  non  può  non  ricevere  questa 
impressione,  di  un  mondo  astratto,  rettorico,  sofìstico, 
quale  fu  foggiato  da'  Trovatori,  dove  appariscono  senti- 
menti più  umani  e  reali  e  forme  più  chiare  e  rilevate, 
0  se  vogliamo  guardare  più  alto  di  un  mondo  mistico- 
scolastica  oltreumano,  ammesso  ancora  dall'  intelletto,  ma 
repulso  dal  cuore  e  condannato  dall'  immagina/Jone.  So 
guardiamo  alla  riforma,  quel  mondo  ha  perduto  il  suo  a- 
spetto  simbolico-dottrinale,  che  lo  teneva  al  di  là  della  vita 
e  dell'arte,  e  si  è  umanizzato,  è  divenuto  immagine  e  sen- 
timento ;  il  tempio  gotico  si  è  trasformato  in  un  bel  tem- 
pietto greco,  nobilmente  decorato,   elegante,  con  luca 


-"  286  -~ 

eguale,  con  perfetta  simetria,  ispirata  da  Venere,  dea 
della  bellezza  e  della  grazia.  Il  grottesco,  il  gotico  gli 
angoli,  lo  punte,  le  ombre,  l' indefinito,  il  dissonante,  il 
prolisso,  il  superfluo,  il  volgare,  il  difforme/ tutto  è  cac- 
ciato via  da  questo  tempio  dell'armonia,  maraviglia  di 
arte,  che  chiude  un  secolo  e  ne  annunzia  un  altro.  L'ar- 
tista gode;  l'uomo  è  scontento.  Perchè  sotto  a  questa 
bella  forma  cosi  levigata  e  pulita  vive  un  povero  core 
d'  uomo,  nutrito  di  desiderii  e  d' immagini,  a  cui  lo  tira 
la  natura,  da  cui  lo  allontana  la  ragione,  senza  la  forza 
di  uscire  dalla  contraddizione  e  senza  la  ferma  volontà 
di  reahzzarle.  L'  uomo  è  minore  dell'  artista.  L'  artista 
non  posa  che  non  abbia  data  1'  ultima  finitezza  al  suo 
idolo  ;  r  uomo  non  osa  di  guardarsi ,  e  abbozza  i  moti 
del  proprio  cuore,  e  salta  nelle  più  opposte  direzioni,  quasi 
tema  di  fermarsi  troppo,  di  esser  costretto  a  volere  e  a 
risolversi.  Perciò  quella  bella  superfìcie  riman  fredda;  non 
ha  al  di  sotto  profondità  di  esplorazione,  o  energia  dì 
volontà  e  di  convinzione.  La  situazione  poteva  esser  tra- 
gica, rimane  elegiaca;  poesia  di  un'  anima  debole  e  te- 
nera, che  si  effonde  malinconicamente  in  dolci  lamenti, 
assai  contenta,  quando  possa  vivere  in  immaginazione  e 
fantasticare  ;  1'  uomo  svanisce  neh'  artista.  Gli  è  che  a 
quest'  uomo  mancava  quella  fede  seria  e  profonda  nel  pro- 
prio mondo,  che  fece  di  Caterina  una  Santa,  e  di  Dante 
un  poeta.  Quel  mondo  giace  nel  suo  cervello  già  decom- 
posto e  in  fermentazione,  mescolato  con  altre  Divinità. 
Ciò  che  di  più  serio  si  move  nel  suo  spirito,  il  senti- 
mento dell'  arte  congiunto  con  1'  amore  deli'  antichità  e 
dell'  erudizione.  È  in  abbozzo  1'  immagine  anticipata  dei 
secoh  seguenti  di  cui  fu  l' idolo.  L'  arte  si  afferma  come 
arte,  e  prende  possesso  della  vita. 

Cosi  il  medio  evo,  quando  appena  cominciava  a  svi- 
lupparsi negh  altri  popoli,  presso  di  noi  per  una  pre- 
coce cultura  si  dissolveva  prima  che  avesse  potuto  espii- 


—  287  — 

carsi  in  tutti  gli  aspetti  deli'  arte  e  produrre  a  forma 
drammatica.  Dante  che  dovea  essere  il  principio  di  tutta 
una  letteratura,  ne  fu  la  fine.  Quel  mondo  così  perfetto 
al  di  fuori  e  al  di  dentro  scisso  e  fiacco  ;  è  contempla- 
zione d'  artista,  non  più  fede  e  sentimento.  Questa  disso- 
nanza, tra  una  forma  così  finita  e  armonica  e  un  con- 
tenuto così  debole  e  contraddittorio  ha  la  sua  espressione 
ne'  sentimenti  che  prevalgono  a'  tempi  di  transizione^  la 
mahnconia,  la  tenerezza,  la  delicatezza,  il  molle  e  volut- 
tuoso fantasticare.  E  l' illustre  malato  ,  abbandonato  ai 
flutti  di  questo  doppio  mondo,  di  un  mondo  che  se  ne  va 
e  di  un  mondo  che  se  ne  viene  e  che  con  tanta  dolcezza 
e  grazia  rappresenta  una  contraddizione  a  sciogher  la 
quale  gli  manca  la  coscienza  e  la  forza  ,  è  Francesco 
Petrarca. 

IX. 

IL  DECAMEROxNE 

Se  ora  apri  il  Becamercne,  letta  appena  la  prima 
novella^  gli  è  come  un  cascar  dalle  nuvole,  e  un  doman- 
darti col  Petrarca:  «Qui  come  venn' io  o  quando?» 
Non  è  una  -evoluzione,  ma  è  una  catastrofe,  o  una  ri- 
voluzione ,  che  da  un  dì  all'  altro  ti  presenta  il  mondo 
mutato.  Qui  trovi  il  medio  evo  e  non  solo  negato,  ma 
canzonato. 

Ser  Ciapperello  è  un  Tartufo  anticipato  di  parecchi 
secoh,  con  questa  differenza,  c^e  ^l  Molière  te  ne  fa  ve- 
nire disgusto  e  ribrezzo  ,  con  l' intenzione  di  concitare 
gli  uditori  contro  la  sua  ipocrisia,  dove  il  Boccaccio  ci  si 
spassa  con  l' intenzione  meno  d' irritarti  contro  l'ipocrita, 
che  di  farti  ridere  a  spese  del  suo  confessore  e  de'  cre- 
duU  frati  e  della  credula  plebe.  Perciò  V  arma  del  Mo- 
lière è  r  ironia  sarcastica  ;  r arma  del  Boccaccio  è  l'al- 
legra caricatura.  Per  giungere  a  queste  forme  e  a  questa 


—  288  —  . 

intenzioni  bisogna  andare  fino  a  Voltaire.  Giovanni  Boc- 
caccio sotto  un  certo  aspetto  fu  il  Voltaire  del  seccia 
decimoquarto. 

Molti  se  la  pigliano  col  Boccaccio  e  dicono  ch'egli  gua- 
stò e  corruppe  lo  spirito  italiano.  Egli  medesimo  in  vec- 
chiezza fu  preso  dal  rimorso  e  finì  chierico,  condannando 
il  suo  libro.  Ma  quel  libro  non  era  possibile  se  nello  spi- 
rito italiano  non  fosse  già  entrato  il  guasto ,  se  guasto 
s'  ha  a  dire.  Ove  le  cose,  di  cui  ride  il  Boccaccio,  fos- 
sero state  venerabili,  poniamo  pure  eh'  egli  avesse  po- 
tuto riderne,  i  contemporanei  ne  avrebbero  sentita  in- 
dignazione. Ma  fu  il  contrario.  Il  libro  parve  rispondere 
a  qualche  cosa  che  volea  da  lungo  tempo  uscir  fuori  dalle 
anime,  parve  dire  a  voce  alta  ciò  che  tutti  dicevano  nel 
loro  segreto,  e  fu  applauditissimo  con  tanto  successo 
che  il  buon  Passavanti  se  ne  spaventò  e  vi  oppose  corno 
antitodo  lo  Specchio  di  penitenza.  Il  Boccaccio  fu  dun- 
que la  voce  letteraria  di  un  mondo,  quale  era  già  con- 
fusamente avvertito  nella  coscienza.  G'  era  un  segreto , 
egli  lo  indovinò,  e  tutti  batterono  le  mani.  Questo  fatto 
in  luogo  di  essere  maledetto,  merita  di  essere  studiato. 

Il  carattere  del  medio  evo  è  la  trascendenza,  un  di  là 
oltreumano  ed  oltre  naturale,  fuori  della  natura  e  del- 
l' uomo,  il  genere  e  la  specie  fuori  delF  individuo,  la  ma- 
teria e  la  forma  fuori  della  loro  unità,  l'intelletto  fuori 
dell'anima,  la  perfezione  e  la  virtù  fuori  della  vita,  la 
legge  fuori  della  cosciènza,  lo  spirito  fuori  del  corpo,  e 
lo  scopo  della  vita  fuori  del  mondo.  La  base  di  questa 
teologia  filosofica  è  l'esistenza  degh  universali.  Il  mondo 
fu  popolato  di  esseri  o  intelligenze,  sulla  cui  natura  molto 
si  disputò  :  sono  esse  idee  divine  ?  Sono  generi  e  specie 
reali?  sono  specie  intelligibiU  ?  Questo  edificio  gemeva 
già  sotto  i  colpi  dei  nominalisti,  cioè  di  quelli  che  ne- 
gavano r  esistenza  de'  generi  e  delle  specie ,  e  li  chia- 
mavano puri  nomi ,  e  dicevano  esistere  solo  il  singolo,. 


—  289  ^ 

r  individuo.  Sulla  loro  bandiera  era  scritto  un  motto  di- 
venuto così  popolare  :  Non  bisogna  moltiplicare  enti  senza 
necessità. ;:iu;i [Ili  j 

L'ascetismo' 'èra  il  frutto  naturale  di  un  mondo  teo- 
cratico spinto  air  esagerazione.  La  vita  quaggiù  perdeva 
la  sua  serietà  e  il  suo  valore.  L'  uomo  dimorava  con  lo 
spirito  neir  altra  vita.  E  la  cima  della  perfezione  fu  posta 
neir  estasi,  nella  preghiera  e  nella  contemplazione. 

Cosi  nacque  la  letteratura  teocratica,  cosi  nacquero 
le  leggende,  l  misteri,  le  visioni,  le  allegorie  :  così  nac- 
que la  commedia,  il  poema  dell'altra  vita. 

Il  pensiero  non  aveva  intimità,  non  calava  nell'  uomo 
e  nella  natura,  ma  se  ne  teneva  fuori,  tutto  intorno  alla 
natura  e  alla  qualità  degli  Enti,  che  erano  le  stesse  forze 
umane  e  naturali  sciolte  dall'  individuo  ed  esistenti  per 
sé  stesse.  Le  astrazioni  dello  spirito  divennero  esseri  vi- 
venti. E  perchè  le  astrazioni,  frutto  dell'intelletto  ine^ 
sauribile  nelle  sue  distinzioni  e  suddistinzioni,  sono  in- 
finite ,  questi  esseri  moltiplicarono  nell'  acuto  intelletto 
degli  scolastici.  Coma  il  mondo  scolastico  fu  popolato  dì 
esseri  astratti,  così  il  mondo  poetico  fu  popolato  di  es- 
seri allegorici,  1'  uomo,  V  anima  ,  la  donna  ,  1'  amore,  le 
virtù,  i  vizii.  Non  erano  persone,  come  le  pagane  divi- 
nità; erano  semplici  personificazioni. 

Il  sentimento,  come  frutto  di  inclinazioni  umane  e  na- 
turali, era  peccato.  Le  passioni  erano  scomunicate.  La 
poesia  era  madre  di  menzogne.  Il  teatro  cibo  del  diavolo. 
La  novella  e  il  romanzo  generi  di  letteratura  profani. 
Tutto  questo  si  chiamava  il  senso,  e  il  luogo  comune 
di  questo  mondo  ascetico  era  la  lotta  del  senso  con  la 
ragione,  da  fra  Guittone  a  Francesco  Petrarca.  Il  sen- 
timento reietto  come  senso  e  costretto  ad  esser  ragione, 
strappato  dal  cuore  umano ,  divenne  anch'  esso  un  uni- 
versale, un  fatto  esteriore,  ora  simbolico,  ora  scolastico, 
0,  come  si  diceva,  platonico.  Il  padre  dei  sentimenti,  l'a- 

De  SanotiB  —  Leu.  Hai.  Voi.  I.  l) 


—  290  — 

more,  divenne  un  fatto  filosofico,  forza  unitiva,  unità 
dell'  intelletto  e  dell'  atto.  Cosi  nacque  la  lirica  platonica 
dal  Guinicelli  al  Petrarca.  Il  senso  e  l' immaginazione  si 
ribellavano  contro  questo  platonismo.  Ed  è  in  questa  ri- 
bellione, ancoraché  poco  scrutata  e  poco  accentuata,  che 
è  la  grandezza  della  lirica  petrarchesca.  Rappresentare  i 
moti  del  cuore  e  della  immaginazione  nella  loro  natura- 
lezza e  intimità  era  vietato.  E  colui  che  più  gustò  di 
questo  frutto  proibito,  fu  il  Petrarca. 

L' immaginazione  era  un  istrumento  dell'  intelletto,  de- 
stinata a  creare  forme  e  simboli  di  concetti  astratti.  Lo 
sa  il  povero  Dante.  Nessuno  ebbe  mai  l'immaginazione 
cosi  torturata.  E  nacquero  forme  simboliche  e  intellet- 
tuah,  nella  cui  generalità  scomparve  l' individuo  con  la 
sua  personalità.  Erano  forme  tipiche,  generi  e  specie,  an- 
ziché r  individuo.  La  regina  delle  forme,  la  donna,  non 
potè  sottrarsi  a  questa  invasione  degli  universali,  e  ri- 
mase un  ideale  più  divino  che  umano,  bella  faccia,  ma 
I  faccia  della  sapienza,  più  amata  che  amante,  e  amata 
1  meno  come  donna,  che  come  scala  alle  cose  celesti.  Così 
nacquero  Beatrice  e  Laura. 

Certo,  a  nessuno  è  lecito  parlare  con  poca  riverenza 
di  questo  mondo  dell'  autorità  che  segna  un  momento 
interessantissimo  nella  storia  dello  spirito  umano,  e  che 
ha  pure  il  suo  fondamento  nella  vita.  L' illuminismo  o  il 
misticismo,  la  visione  estatica,  é  un  portato  naturale  dello 
spirito  della  sua  alienazione  dal  corpo,  ciò  che  dicevasi 
vivere  in  astrazione  :  momento  di  concitazione  e  di  en- 
tusiasmo, che  r  uomo  pare  più  che  uomo,  e  sembra  in 
lui  parli  un  Dio  o  un  demonio.  Perciò  quell'  entusiasmo 
fu  detto  furore  divino  o  estro,  qualità  de'  profeti  e  dei 
poeti ,  che  sono  tutt'  uno  per  Dante.  Questa  elevazione 
dell'  anima  in  sé  stessa,  e  al  di  sopra  de'  limiti  ordinarli 
della  vita  reale,  è  il  lato  eroico  dell'  umanità,  il  privi- 
legio della  giovinezza,  la  condizione  di  tutte  le  società 


^  291  — 

primitive,  quando,  cessati  i  bisogni  materiali,  vi  si  sve- 
glia lo  spirito.  Tutto  ciò  che  ci  fa  disprezzare  la  vita  e 
le  ricchezze  e  i  piaceri,  è  degno  di  stima. 

Ma  è  uno  stato  di  tensione  e  di  disquilibrio  che  non 
può  aver  durata.  L' arte,  la  coltura,  la  conoscenza  e  la 
esperienza  della  vita  lo  modificano  e  lo  trasformano. 
'  L'  arte,  impossessandosi  di  questo  mondo ,  lo  umaniz- 
za, lo  accosta  all'  uomo  e  alla  natara,  lo  mescola  di  al- 
tri elementi,  vi  fa  penetrare  le  passioni  e  i  furori  del 
senso.  Non  ci  hai  ancora  equilibrio  ;  non  ci  hai  qualche 
<;osa  che  sia  la  vita  nella  sua  intimità,  insieme  paradiso 
e  inferno;  ma  già  di  rincontro  al  paradiso  hai  V  inferno, 
di  rincontro  a  Beatrice  hai  Francesca  da  Rimini,  e  di 
rincontro  a  Dante,  simbolo  dell'  umanità,  hai  Dante  Ali- 
ghieri, r  individuo  in  tutta  la  sua  personalità.  Nel  Can~ 
zoniere  quel  mondo  si  spoglia  pure  le  sue  forme  natie, 
teologiche,  scolastiche,  allegoriche,  e  prende  aspetto  più 
umano  e  naturale. 

E  se  fosse  durato  ancora  un  pezzo  nella  coscienza,  non 
è  dubbio  che  1'  arte  vi  si  sarebbe  compiutamente  svilup- 
pata, e  come  la  divisione  e  la  leggenda  divenne  la  com- 
media, come  Selvaggia  divenne  Beatrice,  e  Beatrice  Laura 
dal  seno  de'  misteri  sarebbe  uscito  il  dramma ,  e  molti 
generi  di  letteratura  ancora  iniziaU  e  abbozzati  già  nella 
Commedia  sarebbero  venuti  a  maturità,  come  l' inno  e  la 
satira.  Ma  già  quel  mondo  nel  Canzoniere  non  ha  più 
il  calore  dell'  entusiasmo  e  delia  fede,  e  in  quelle  forme 
cosi  eleganti  lascia  una  parte  della  sua  sostanza.  Il  sen- 
timento religioso,  morale,  politico  vive  fiaccamente  nella 
coscienza  del  poeta;  e  il  posto  rimasto  vuoto  ò  occupato 
dall'  arte. 

Questo  infiacchirsi  della  coscienza,  questo  culto  della 
bella  forma  fra  tanta  invasione  di  antichità  greco-roma- 
na sono  i  due  fatti  caratteristici  della  nuova  generazio- 
ne, che  succede  all'  età  virile  e  credente  e  appassionata 


—  292  — 

di  Dante.  Quegli  uomini  non  si  appassionano  più  per  le. 
dottrine,  e  non  cercano  il  vero  sotto  i  versi  strani  ;  la 
bella  veste  li  appaga.  I  loro  studii  non  hanno  più  a  gui* 
da  l'investigazione  della  verità,  ma  l'erudizione;  c'è  il 
sapere  per  il  sapere,  come  l'arte  per  1' arte.  I  fiori,  i 
giardini,  i  conviti,  i  tesori,  dove  la  sapienza  sacra  e  pr'o- 
fana  era  usata  a  scopo  morale,  danno  luogo  a  raccolte 
semplicemente  storiche  ed  erudite.  Ci  sono  ancora  gli  sco- 
lastici che  chiamano  il  Petrarca  un  insipient/e,  ma  le  Iopoì 
querele  si  sperdono  nel  plauso  universale  ,  che  pone  il 
Petrarca  accanto  a  Virgilio.  E  codesto  Virgilio  non  è 
più  il  mago,  precursore  del  cristianesimo,  e  neppure  il 
savio  che  tutto  seppe,  ma  è  il  dolce  ed  elegante  poeta. 
Dante  s' incorona  da  sé  in  paradiso  poeta,  profeta  e  apo- 
stolo ;  i  contemporanei  incoronano  nel  Petrarca  1'  autore 
dell'Africa,  della  nuova  Eneide.  La  coltura  e  1'  arte  sonO; 
i  nuovi  idoU  dello  spirito  itahano.  : 

Ma  la  coltura  e  1'  arte  non  è  il  naturale  fiorire  di  un; 
mondo  interiore,  anzi  è  accompagnata  con  V  infiacchirsi 
della  coscienza,  e  si  pone  già  per  sé  stessa,  come  uà, 
fatto  estrinseco  che  abbia  il  suo  valore  in  sé  e  sia,  a.  un^ 
tempo  mezzo  e  scopo.  È  una  coltura  e  un'  arte  formale 
non  riscaldata  abbastanza  dal  contenuto.  Ci  è  li  dentro 
lo  stesso  mondo  di  Dante,  ma  e'  é  come  ragione  in  lotta 
col  sentimento  e  con  l' immaginazione,  lotta  fiacca  e  in- 
concludente; scemato  è  il  vigore  della  fede  e  della  volontà. 

GU  è  che  quel  mondo  mistico,  fiori  della  natura  e 
dell'  uomo  appunto  per  la  sua  esagerazione,  non  poteva 
avere  alcun  riscontro  con  la  realtà.  Ebbe  la  sua  età  del- 
l' oro  evocata  da  Dante  con  tanta  malinconia;  ma  a  lungo 
andare  dovea  rimaner  pura  teoria,  ammessa  per  tradi- 
zione e  per  abitudine  e  contraddetta  nella  vita  pratica. 
Più  al^.o  era  il  modello ,  più  visibile  era  la  contraddi- 
zione e  più  scandalosa.  Nel  secolo  di  Dante  e  di  Cate- 
rina grandi  sono  i  lamenti  e  le  invettive  per  la  corrut-, 


—  293  — 

tela  de'  costumi,  e  specialmente  ne'  papi  e  ne'  chierici  che 
con  l'esempio  contraddicevano  alle  loro  dottrine.  Queste 
invettive  divennero  il  luogo  comune  della  letLeralura,  e 
ne  odi  !•' eco  un  po' retto ricà  '  ne' versi  eleganti  del  Pe- 
trarca condro  1' avara  Babilonia.  Ma  lo  spettacolo  dive- 
nuto abituale  e  generale  non  moveva  più  indignazione; 
e  mentre  Caterina  ammohiva,  e  il  Petrarca  satireggiava, 
il  mondo  continuava  sua  via.  Al  lato  al  misticismo  ve - 
devi  il  cinismo.  Dirimpetto  a  Caterina  vedevi  Giovanna 
di  Napoli. 

La  corruttela  de' costumi  non  era  negazione  ardita  delle 
dottrine  cristiane,  anzi  tutti  si  tenevano  buoni  cristiani, 
ed  erano  zelantissimi  contro  gU  eretici,  e  molti  faceva- 
no all'  ultimo  penitenza.  Ma  era  qualche  cosa  di  peggio 
era  indifferenza,  un  oscurarsi  del  senso  morale.  Quel  mondo 
viveva  ancora  nell' intelletto,-  non  ^i^edutó  e  non  combat- 
tuto, ozioso,  senza  alcuna  effiòa^iia  su*  sentimenti  e  sulle 
azioni.  "    •      ^  -  ■ 

In  questa  condizione  degli  spiri  ti,  la  col  tura,  do  vèà  ave- 
re un  effetto  deleterio.  La  parte  leggendaria,  fantàstica, 
miracolosa  di  quel  mondo  dovea  parere  a  quegl' ingegni 
cosi  svegliati  cosa  così  pòco  seria,  come  le  prediche  dei 
Frati  contraddette  dalla  vita.  Sparisce  quel  candore  in- 
fantile di  fede  anche  nelle  cose  più  assurde,  che  tanto 
ci  alletta  negli  àcrittoH  antecedenti.  Le  classi  colte  co- 
minciano a  separarsi  dalla  plebe  e  a  prendersi  spasso  della 
sua  credulità.  E^sser  credente  era  prima  un  titolo  di  glo- 
ria de'  più  forti  ingegni.  Essere  incredulo  diviene  ora  in- 
dizio di  animo  colto. 

D'altra  parte  la  maggiore  coltura, i generando  un  più 
vivo  sentimento  della  natura  e  dòli' uomo,  dovea  affret- 
tare la  rovina  di  un  mondo  così  astratto  e  còsi  estrin- 
secò alla  vita.  Il  reale  disconosciuto  dovea  prender  la  sua 
rivincita;  la  natura  troppo  compressa  dovea  reagire  a 
sua  volta.  Così  di  rinconti'O  a  quello  spiritualismo  esa- 


—  291  — 

gerato  sorgeva  una  reazione  inevitabile,  il  naturalismo  e 
il  realismo  nella  vita  pratica. 

Indi  è  che  la  coltura,  in  luogo  di  calare  in  quel  mondo 
e  modificarlo,  e  trasformarlo,  e  riabilitarlo,  nella  co- 
scienza, come  fu  più  tardi  in  Germania,  si  collocò  addi- 
rittura fuori  di  esso,  e  lasciata  la  coscienza  vuota,  im- 
piegò la  sua  attività  ne'  piaceri  dell'  erudizione  e  dell'  arte. 

Così  quel  mondo  si  trovò  fuori  della  coscienza,  senza 
lotta  intellettuale,  anzi  rimanendo  ozioso  padrone  del- 
l' intelletto.  Ci  erano  anche  allora  i  liberi  pensatori,  so- 
prattutto ne'  conventi ,  ma  erano  sforzi  isolati,  scuciti  ; 
una  lotta  più  seria  era  stata  iniziata  da'  ghibellini  ;  ma 
la  rotta  di  Benevento  e  il  trionfo  durevole  de'  guelfi  avea 
posto  fine  alla  discussione  e  all'  esame.  Gli  uomini  ama- 
vano meglio  scoprire  e  postillare  manoscritti,  e  nelle  cose 
di  fede  lasciar  dire  il  Papa,  e  vivere  a  modo  loro. 

Questo  fu  il  naturale  effetto  della  vittoria  guelfa.  Fi- 
nirono le  lotte  e  le  discussioni;  successe  l'indifferenza 
religiosa  e  pohtica,  fra  tanto  fiorire  di  coltura,  di  eru  - 
dizione,  di  arte,  di  commerci  e  d' industrie.  Ci  erano  tutti 
i  segni  di  un  grande  progresso:  una  più  esatta  cono- 
f  scenza  dell'  antichità,  un  gusto  più  fine  e  un  sentimento 
artistico  più  sviluppato,  una  disposizione  meno  alla  fede, 
che  alla  critica  e  all'investigazione,  minor  violenza  di 
passioni,  maggiore  eleganza  di  forme  :  l' idolo  di  questa 
società  dovea  essere  il  Petrarca,  nel  quale  riconosceva 
e  incoronava  sé  stessa.  Ma  sotto  a  quel  progresso  v'era 
il  germe  di  una  incurabile  decadenza ^  l' infiacchimento 
delia  coscienza. 

Il  Canzoniere j  posto  tra  quei  due  mondi ,  senza  es  - 
ser  nò  l' uno  né  1'  altro,  cosi  elegante  al  di  fuori ,  cosi 
fiacco  e  discorde  al  di  dentro^  è  1'  ultima  voce  lettera- 
ria, rettorica  ed  elegiaca,  di  un  mondo  che  si  oscurava 
rioUa  coscienza.  I  contemporanei  applaudivano  alla  bella 


—  295  — 

forma,  e  non  cercavano  e  non  si  appassionavano  pel  con- 
tenuto, come  avveniva  con  la  Commedia. 

Quel  mondo,  divenuto  letterario  .e  artistico,  anche  un 
po'  rettorico  e  convenzionale,  non  rispondeva  più  alle  con- 
dizioni reali  della  vita  italiana.  Quel  misticismo,  quell'e- 
stasi dello  spirito,  che  si  rivela  un'  ultima  volta  con  tanta 
malinconia  e  tenerezza  nel  Petrarca,  era  in  aperta  rot- 
tura con  le  tendenze  e  le  abitudini  di  una  società  colta, 
erudita,  artistica,  dedita  a'  godimenti  e  alle  cure  mate- 
riali, ancora  nell'  intelletto  cristiana  non  scettica,  e  non 
materialista,  ma  nella  vita  già  indifferente  e  incuriosa 
degli  alti  problemi  dell'  umanità.  Il  linguaggio  era  lo  stesso, 
ma  dietro  alla  parola  non  ci  era  più  la  cosa.  Questo  era 
il  segreto  di  tutti,  quel  qualche  cosa  non  avvertito  e  non 
definito,  ma  che  pure  si  manifestava  con  tanta  chiarezza 
nella  vita  pratica.  E  colui  che  dovea  svelare  il  segreto 
e  dargli  una  voce  letteraria,  non  usciva  già  dalle  scuo- 
le,  usciva  dal  seno  stesso  di  una  società  che  dovea  così 
bene  rappresentare. 

Tutti  i  grandi  scrittori  erano  usciti  dall'  Università  di 
Bologna,  Guinicelli,  Gino,  Cavalcanti,  Dante ,  Petrarca. 

Giovanni  Boccaccio,  nato  il  1313,  nove  anni  dopo  il 
Petrarca,  e  otto  prima  della  morte  di  Dante,  non  pie- 
namente avendo  imparato  grammatica,  come  scrive 
Filippo  Villani,  volendo  e  costringendolo  il  padre  per  ca- 
gione di  guadagno,  fu  costretto  ad  attendere  all'  ab- 
baco, e  per  la  medesima  cagione  a  peregrinare. 

Il  padre  era  un  mercante  fiorentino,  e  alla  mercatura 
indirizzò  il  figlio.  Quando  i  giovani  appena  cominciavano 
i  loro  studii  nella  Università,  il  nostro  Giovanni  faceva , 
come  si  direbbe  oggi,  il  commesso  viaggiatore,  in  servi- 
zio del  padre,  e  il  suo  libro  era  la  pratica  e  la  cono- 
scenza del  mondo.  Girando  di  città  in  città,  si  mostrava 
più  dedito  alle  piacevoli  letture  e  a'  passatempi  che  al- 
l' esercizio  della  mercatura .  e  più  uomo  di  spirito  e  di 

ì 


immaginazione  che  uomo  d'  affari.  Era  chiamato  il  poeta. 
Venuto  in  NapoH  a  ventitré  anni,  menava  vita  signo- 
rile, bazzicava  in  corte,  usava  co'  gentiluomini,  spendeva 
largamente,  amoreggiava,  scribacchiava,  leggicchiava.  Di- 
cesi che  alla  vista  della  tomba  di  Virgilio  rimase  pen- 
soso e  senti  la  sua  vocazione  poetica.  Fatto  è  che  il  buon 
.padre,  visto  che  non  se  ne  potea  cavare  un  mercante, 
pensò  farne  un  giureconsulto,  e  lo  mise  a  studiare  i  ca- 
noni, con  gran  rincrescimento  del  giovane  che  chiama 
sciupato  il  tempo,  mosso  a  fare  il  mercante  e  ad  impa- 
rare i  canoni.  Finalmente,  libero  di  sé,  si  gittò  agli  studi! 
letterarii,  e  come  portava  il  tempo,  si  die  al  latino  e  al 
greco,  e  si  empi  il  capo  di  mitologia  e  di  storia  greca 
e  romana.  E'  menava  la  vita,  mezzo  tra  gli  studii  e  i 
piaceri,  spesso  viaggiando,  non  più  a  mercatare ,  ma  a 
cercar  manoscritti.  Narrasi  che  a'  7  aprile  del  1341  siasi 
nella  chiesa  di  San  Lorenzo  invaghito  di  Maria,  figlia 
naturale  di  re  Roberto  :  certo  nella  corte  spensierata  e 
licenziosa  della  Regina  Giovanna  non  potè  prender  lezione 
di  buon  costume  né  di  amori  platonici.  E  volse  lo  stu- 
dio e  r  ingegno  a  rallegrare  col  suo  spirito  la  corte  e 
la  sua  non  ingrata  Maria,  che  con  nome  poetico  chiamò 
Fiammetta.  Il  Petrarca  non  era  ancora  comparso  suU'  o- 
rizzonte  :  tutto  era  pieno  di  Dante  ,  e  tra'  suoi  più  ap- 
passionati era  il  nostro  poeta.  Frutto  della  sua  ammi- 
razione fu  la  Vita  di  Dante,  uno  de'  suoi  lavori  giovanih. 
Ma  egli  poteva  ammirarlo,  non  comprenderlo;  perchè  lo 
spirito  di  Dante  non  era  in  lui.  Formatosi  fuori  della  scuo- 
la, aheno  da  ogni  seria  cultura  scolastica  e  ascetica, 
profano,  anzi  che  mistico  ne'  sentimenti  e  nella  vita,  si 
foggiò  un  Dante  a  sua  immagine.  Chi  vuol  conoscere  le 
opinioni  e  i  sentimenti  del  nostro  giovane  ,  legga  quel 
hbro  e  vi  troverà  già  la  stoffa,  da  cui  usci  il  Decame- 
rone.  Nessuna  originalità  e  profondità  di  p  ^nsiero,  nes- 
suna sottigliezza  di  argomentazione  ;  tutto  vi  è  dimostra- 


—  297  — 

to,  anche  le  più  comuni  verità,  ma  il  fondamento  della 
dimostrazione  non  è  nell'  intelletto,  è  nella  memoria;  non 
hai  innanzi  un  pensatore,  né  un  disputatore;  ma  un  eru- 
dito. Vuol  mostrare  l'ingratitudine  di  Firenze  verso  Dante, 
ed  ecco  uscir  fuori  Solone,  il  cui  petto  uno  umano  tem^ 
pio  di  divina  sapienza  fu  reputato,  e  la  Siria,  la  Ma- 
cedonia ,  la  grega  e  la  romana  repubbUca ,  e  Atene,  e 
Argo,  e  Smirne,  e  Pilos,  e  'Chios,  e  Gefelon,  e  Mantova, 
e  Sulmona,  e  Venosa,  e  Aquino.  «  Tu  sola,] conchiude 
il  poeta,  quasi  i  Camilli,  i  Publii,  i  Torquati,  Fabrizii, 
Catoni,  Fabii,  Scipioni  in  te  fossero,  avendoti  lasciato  il 
tuo  antico  cittadino  Claudiano  cader  dalle  mani,  non  hai 
avuta  del  presente  poeta  cura,  ma  T  hai  da  1?e  scacciato , 
sbanditolo,  privatolo,  se  tu  avessi  potuto,  del  tuo  sppran* 
nome  ».  Volendo  parlar  di  Dante,  comincia  ab  ovo,  dalla 
prima  fondazione  di  Firenze,  spesso  lascia  h  Dante  ed 
esce  in  lunghe  digressioni,  tra  le  quali  è  notabile  quella 
sulla  natura  della  poesia.  Secondo  lui,  il  linguaggio  poe- 
tico fu  trovato  per  porgere  sacrate  lusinghe  jìWa.  divi- 
nità, con  parole  lontane  da  ogni  altro  plebeo  o  pubblico 
stile  di  parlare,  e  sotto  legge  di  certi  numeri  compo- 
ste, per  le  quali  alcuna  dolcezza  si  sentisse  e  caccias- 
sesì  il  rincrescimento  e  la  noja,  I  poeti  imitarono  dello 
Spirito  Santo  le  vestigie:  perchè  come  nella  Divina  Scrit- 
tura, la  quale  teologia  appelliamo,  quando  con  figura 
di  alcuna  storia,  quando  col  senso  di  alcuna  visione, 
si  mostra  V  alto  mistero  della  Incarnazione  del  Verbo 
divino,  la  vita  di  quello ,  le  cose  occorse  nella  sua  mor- 
te, e  la  resurrezione  vittoriosa;  cosi  i  poeti,  quando 
con  finzioni  di  varii  Iddìi,  quando  con  trasmutazioni 
di  uomini  in  varie  forme,  quando  con  leggiadre  per- 
suasioni ne  dimostrano  le  ragioni  delle  cose  e  gli  effetti 
delle  virtù  e  dei  vizii.  Poi  spiega  ciò  che  lo  Spirito  Santo- 
velie  mostrare  nel  rogo  di  Mosè,  nella  visione  di  Nabucco- 
donosor,  nelle  lamentazioni  di  Geremia,  e  ciò  che  i  poeti 


—  298  — 

vollero  mostrare  in  Saturno,  Giove,  Giunone,  Nettuno 
e  Plutone,  nelle  trasformazioni  di  Ercole  in  Dio  e  di 
Licaone  in  lupo,  e  nella  bellezza  degli  Elisi  e  nell'  oscu- 
rità di  Dite.  E  ribattendo  quelli  che  chiamano  i  poeti  an- 
tichi uomini  insensati,  inventori  di  favole  a  ninna  ve- 
rilà  convenienti,  conclude  che  la  Teologia  e  la  Poesia 
quasi  una  cosa  si  posson  dire ,  anzi  che  la  Teologia 
ninna  altra  cosa  è  che  una  poesia  d' Iddio,  e  poetica 
finzione.  L'erudito  poeta  non  si  arresta  qui^  e  ci  re- 
gala la  favola  di  Dafne,  amata  da  Febo  e  in  lauro  con- 
vertita per  darci  spiegazione ,  perchè  i  poeti  avevano  la 
corona  d'  alloro.  Di  quello  che  fu  il  mondo  interiore  di 
Dante,  qui  non  è  alcun  vestigio;  invece  il  mondo  esterno 
vi  è  sviluppato  fino  all'  aneddoto  ,  fino  al  pettegolezzo. 
Ci  si  vede  uno  spirito  curioso  e  profano  che  cerca  il 
maraviglioso  e  lo  straordinario  negli  accidenti  umani , 
disposto  a  spiegarli  con  la  supcrficiahtà  di  un  erudito  e 
di  un  uomo  di  mondo,  o  del  secolo,  come  si  diceva  al- 
lora. Spende  le  ultime  pagine  ad  almanaccare  sopra  un 
sogno  attribuito  alla  madre  di  Dante,  e  vi  fa  pompa  di 
\  tutta  la  sua  erudizione.  Sotto  il  suo  sguardo  profano  Bea- 
trice perde  tutta  la  sua  idealità ,  e  T  amore  di  Dante , 
jscacciato  dalle  sue  regioni  ascetiche  e  platoniche  e  sco- 
lastiche, acquista  una  tinta  romanzesca.  Il  nostro  Gio- 
vanni non  si  fa  capace,  come  Dante  a  nove  anni  abbia 
potuto  amare  Beatrice.  Il  caso  gli  pare  strano,  e  ne  cerca 
diverse  spiegazioni.  Forse  fu  conformità  di  compres- 
sioni e  di  costumi;  forse  anche  influenza  da  cielo.  Ma 
queste  spiegazioni  non  lo  appagano,  e  si  ferma  in  que- 
st' altra ,  che  cava  dall'esperienza.  Dante,  secondo  lui, 
vide  Beatrice  in  una  festa  il  primo  di  maggio ,  quando 
la  dolcezza  del  cielo  riveste  de  suoi  ornamentila  terra, 
e  tutta  per  la  varietà  de*  fiori  mescolati  fra  le  verdi 
fronde  la  fa  ridente,  e  per  esperienza  veggiamo  nelle 
feste  per  la  dolcezza  de'  suoni,  per  la  generale  alle- 


—  299  -- 

grezza,  per  la  delicatezza  de*  cibi  e  de'  vini  gli  animi 
eziandio  degli  uomini  maturi  non  che  de'  giovanetti 
ampliarsi  e  divenire  atti  a  poter  leggermente  esser 
presi  da  qualunque  cosa  che  piace.  Dante  dunque  amò 
fanciullo  per  la  stessa  ragione  che  può  amare  un  uomo 
maturo  ;  i  cibi  e  i  vini  delicati  e  1'  allegrezza  generale, 
ecco  ciò  che  dispose  il  suo  animo  all'amore.  Beatrice  era 
per  Dante  angeletta  bella  e  nova,  senza  contorni  e  senza 
determinazioni,  scesa  di  cielo  a  mostrare  le  bellezze  e  le 
virtù  che  le  piovono  dalle  stelle.  Tutto  questo  non  entra 
al  Boccaccio,  il  quale  vuol  pure  spiegarsi,  come  la  po- 
tè parere  un'  angioletta,  e  si  foggia  nella  profana  imma- 
ginazione una  bella  immagine  di  fanciulla  e  la  descriva 
così  :  «  assai  leggiadretta  secondo  1'  usanza  fanciullesca, 
e  ne'  suoi  atti  gentili  e  piacevole  molto ,  con  costumi 
e  con  parole  assai  più  gravi  e  modeste  che  il  suo  pic- 
colo tempo  non  richiedeva  ;  ed  oltre  a  questo  avea  le 
fattezze  del  volto  delicate  molto  e  ottimamente  disposte 
e  piene,  oltre  alla  bellezza,  di  tanta  onestà  e  vaghezza, 
che  quasi  un' angioletta  era  riputata  da  molti».  Ecco 
un'  angioletta  di  carne  ;  eccoci  dalle  mistiche  altezze  di 
Dante  caduti  in  piena  fisiologia  e  notomia.  Dante  amò, 
perche  tra  vivande  e  sollazzi  l'animo  è  disposto  ad  amare, 
e  Beatrice  parea  quasi  un' angioletta,  perchè  era  fatta 
cosi  e  cosi.  Beatrice  muore  a  ventiquattro  anni,  il  nostro 
biografo  non  se  ne  maraviglia,  perchè  un  poco  di  soper- 
chio di  freddo  o  di  caldo  noi  abbiamo,  ci  conduce  alla 
morte.  I  parenti  e  gli  amici  per  consolare  Dante  gli  die- 
dero moglie.  «  Oh  menti  cieche,  o  tenebrosi  intelletti  !  » 
esclama  il  nostro  scapolo  e  nemico  dell'  amore  regolato. 
«  Qual  medico  ,  egli  aggiunge ,  s' ingegnerà  di  cacciare 
r  acuta  febbre  col  fuoco,  o  il  freddo  delle  midolla  delle 
ossa  col  ghiaccio  o  con  la  neve  ?  certo  niun  altro  se  non 
colui,  il  quale  con  nuova  moglie  crederà  le  amorose  tri- 
bolazioni mitigare».  E  qui  da  uomo  esperto  della  mate- 


—  300  — 

ria  parla  della  natura  e  de' fenomeni  dell'  amore  e  dol- 
'  l'indole  delle  donne,  e  delle  noje  e  degli  affanni  de'  ma- 
riti e  compiange  il  povero  Dante.  Dipinge  con  tocchi  si- 
curi, e  in  certi  punti  è  eloquente,  perchè  qui  è  in  casa 
sua:  udite  questo  periodo:  «Possiamo  pensare,  quanti 
dolori  nascondono  le  camere,  lì  quali  da  fuori,  da  chi  tion 
ha  occhi  la  cui  perspicacia  trapassa  le  mura ,  sono  ri- 
putati diletti».  Ma  Dante  secondo  ch'egli  narra  dtmén^ 
ticò  presto  moghe  e  Beatrice ,  e  si  die  all'  amore  dèlie 
donne:  ciò  che  l' indusse  al  gran  viaggio  nell'altro  mondo, 
óve  se  ne  fece  cosi  aspramente  rimproverare  da  Beatrice, 
li  quale  amore  non  pare  poi  un  così  gran  peccato  al  no- 
stro scapolo;  «  Chi  sarà  trai  mortali  giusto  giudice  a  con- 
dannarlo? non  io».  Ed  ecco  venire  innanzi  l'erudito,  e 
citare  parecchi  casi  di  uomini  illustri  vinti  dalle  donne, 
Giove,  Ercole,  Paride,  Adamo,  Davide,  Salomone,  Erode. 
Ti  par  di  assistere  a  una  parodia.  Eppure  niente  è  più 
serio.  Il  giovane  è  pieno  di  ammirazione  verso  Dante  che 
chiama  un  Iddio  fra  gU  uomini,  e  crede  con  questa  vita 
riparare  alla  ingratitudine  di  Firenze  e  alzargli  un  mo- 
numento. 

La  Vita  di  Dante  è  una  rivelazione.  Qui  dentro  si  ma- 
nifesta r  autore  in  tutta  la  sua  ingenuità  e  spontaneità  : 
vi  trovi  il  nuovo  uomo  che  si  andava  formando  in  Ita- 
lia. Mette  in  un  fascio  mondo  sacro  e  profano.  Bibbia  e 
mitologia,  teologia  e  poesia;  la  teologia  è  una  poesia  di 
Dio,  una  finzione  poetica.  Questa  strana  mescolanza  era 
già  comune  al  secolo  ;  Dante  stesso  ne  dava  esempio.  Ma 
dove  Dante  tirava  il  mondo  antico  nel  circolo  del  suo 
universo  e -lo  battezzava,  lo  spiritualizzava,  il  Boccaccio 
sbattezza  tutto  1'  universo  e  lo  materializza.  In  teoria 
ammette  la  religione,  e  parla  con  riverenza  della  teolo- 
gia che  ci  fa  conoscere  la  divina  essenza  e  le  aitile  se- 
parate intelligenze.  Ma  in  pratica  questo  mondo  dello 
spirito  rimane  perfettamente  estraneo  alla  sua  intelligenza 


-=^_  301  — 

e  al  suo  cuore.  Misticismo,  platonicismo ,  scolasticismo,: 
tutto  il  mondo  dantesco,  non  ha  alcun  senso  per  lui.  Non  , 
solo  questo  mondo  gli  rimane  estraneo  come  coltura,  ma  ^ 
ancora  più  come  sentimento.  E  gli   manca  non  solo  il , 
sentimento  religioso,  ma  fino  quella  certa  elevatezza  mo- 
rale che  talora  ne  fa  le  veci.  Spento  0'  in  lui  il  cristiano, 
e  anche  il  cittadino.  Non  gli  è  mai  venuto  in  mente  che  , 
servire  la  patria  e  dare  a  lei  l' ingegno  e  le  sostanz.e ,  e 
la  vita  è  un  dovere:  cosV  ^^tret^Pi,  OOm,?  ^  iJpi^pYveclere, 
al  proprio  sostentamento.  Dietro  al  cittadino' comincia  ai 
comparire  il  buon  borghese  che  anaa  la  sua  patria,  ma  j 
a  patto  non  igli  dia  molto  fastidio ,  e  lo  lasci  attendere  ] 
alla  sua  industria,  e  non  lo  tiri  per  forza  di  casa  0  di' 
bottega.  De'  guelli  e  ghibeUini  è  perduta  la  memoria,  tanto 
che  il  Boccaccio  crede  doverne  spiegare  il  significato.  E 
non  si  persuade  come  Dante  siesi  potuto  mescolare  nelle 
pubbliche  faccende,  e  ne  reca  la  cagione  alla  sua  vanità, 
ed  ha  quasi  l' aria  di  dirgU:  ben  ti  sta.'  Non  voglio  dire 
con  questo  che  il  Baccaccio  fosse  uomo  dispregiatore 
della  religione  0  della  virtù  o  della  patria;  sciolto  era 
di  costumf^,pure,  tutti  i  doveri  comuni  della  vita  U  adem- 
piva con  la  stessa  puntuaUtà  e  diligenza  degli  altri ,  6 
molte  legazioni  gli  furono  commesse  da'  suoi  concittadini. 
Ma  l'età  eroica  era  passata;  la  nuova  generazione  non 
comprendeva  più  le  lotte  e  le  passioni  de'  padrij  il  ca- 
rattere era  caduto  in  quella  mezzanità  che  non  è  ancora 
volgarità,  e  non  è  più  grandezza;  della  religione,  della 
libertà,  dell'uòmo  antico  c'erano  ancora  le  forme,  ma 
lo  spirito  ev,Si  ito.  DI  vita  pubblica  qualche  apparenza  era 
anpora  in  Toscana,,  secie,  ideila  cultura  ;  nelle  altre  parti 
era  vita  di  corte.  L*  erudizione,  1'  arte,  gli  affari,  i  pia- 
ceri costituivano  il  fopdo  di  questa  nuova  società  bor- 
ghese e  mezzana,  della  q^uale  ritratto  era  il  Boccaccio, 
gioviale,  cortigiano,  erudito,  artista.'  Se  la  malinconia 
dell'  estatico  Petrarca'  ti  presentava  un   simulacro  del- 


—  302  — 

ruomo  antico,  la  spensierata  giovialità  del  Boccaccio 
è  r  ingresso  nel  mondo  a  voce  alta  e  beffarda  della  ma- 
teria 0  della  carne,  la  maledetta,  il  peccato  ;  è  il  primo 
riso  di  una  società  più  colta  e  più  intelligente,  disposta 
a  burlarsi  dell'antica;  è  la  natura  e  l'uomo  che  pure 
ammettendo  1'  esistenza  di  separate  intelligenze,  non  ne 
tien  conto,  e  fa  di  sé  il  suo  mezzo  e  il  suo  scopo. 

Questo  tempo  fu  detto  di  transizione.  Vivevano  insieme 
nel  seno  degli  uomini  due  mondi,  il  passato  nelle  sue 
forme,  se  non  nel  suo  spirito,  ed  un  mondo  nuovo  che 
si  affermava  come  reazione  a  quello,  fondato  sulla  realtà 
presa  in  sé  stessa  e  vuota  di  elementi  ideali.  Erano  in 
presenza  il  misticismo  con  le  sue  forme  ricordevoli  del 
mondo  soprannaturale,  e  il  puro  naturalismo.  Ma  il  mi- 
sticismo, indebolito  già  nella  coscienza,  era  divenuto  abi- 
tuale e  tradizionale,  applaudito  nel  Petrarca  non  come 
il  mondo  sacro,  ma  come  un  mondo  artistico  e  lettera- 
rio. 11  naturalismo  al  contrario  sorgeva  allora  in  piena 
concordia  con  la  vita  pratica  e  coi  sentimenti,  con  tutti 
gli  allettamenti  della  novità.  Questo  mutamento  nello  spi- 
rito dovea  capovolgere  la  base  della  letteratura.  Il  ro- 
manzo e  la  novella,  rimasti  generi  di  scrivere  volgari 
e  scomunicati,  presero  il  sopravvento.  Al  mondo  lirico 
con  le  sue  estasi,  le  sue  visioni,  e  le  sue  leggende,  il 
suo  entusiasmo,  succede  il  mondo  epico  o  narrativo ,  con 
le  sue  avventure,  le  sue  feste,  le  sue  descrizioni,  i  suoi 
piaceri  e  le  sue  mahzie.  La  vita  contemplativa  si  fa  at- 
tiva; l'altro  mondo  sparisce  dalla  letteratura;  l'uomo  non 
vive  più  in  ispirito  fuori  del  mondo,  ma  vi  si  tuffa  e 
sente  la  vita  e  gode  la  vita.  Il  celeste  e  il  divino  sono 
proscritti  dalla  coscienza,  vi  entra  l'umano  e  il  naturale. 
La  base  della  vita  non  è  più  quello  che  dee  essere  ;  ma 

(quello  che  è;  Dante  chiude  un  mondo;  il  Boccaccio  ne 
apre  un  altro. 

Mettiamo  ora  il  pie  in  questo  mondo  del  Boccaccio. 


—  303  — 

Che  vi  troviamo?  Opere  latine  di  gran  mole,  una  specie 
di  dizionario  storico,  ove  hai  tutte  le  antiche  forme  mi- 
tologiche usate  dai  poeti,  e  con  le  loro  spiegazioni  alle- 
goriche, e  i  fatti  degli  uomini  illustri  e  delle  celebri  don- 
ne, libri  tradotti  in  francese,  in  tedesco,  in  inglese,  in 
ispagnuoìo,  in  italiano,  di  cui  si  fecero  moltissime  edi- 
zioni, accolti  con  infinito  favore,  da'  contemporanei,  come 
una  nuova  rivelazione  dell'antichità.  Prima  ci  erano  le 
enciclopedie,  e  i  fiori  e  i  giardini,  ove  si  raccoglieva  ciò 
che  gli  antichi  pensarono  in  filosofia,  in  etica,  in  retto- 
ri ca;  il  Boccaccio  raccoglie  quello  che  gli  antichi  imma- 
ginarono ,  quello  che  operarono.  Al  mondo  del  puro  pen- 
siero succede  il  mondo  dell'  immaginazione  e  dell'azione. 
Vediamolo  ora  all'  opera.  Quest'  uomo  che  ha  pieno  il 
capo  di  tanta  erudizione  greca  e  latina,  che  ammira  Dante, 
perchè  ha  saputo  molto  bene  imitare  Virgilio,  Ovidio,  Sta- 
zio e  Lucano ,  e  a  cui  di  fi  )rentino  è  rimasto  1'  amore 
del  bello  idioma,  e  il  sentimento  dell'  arte,  è  insieme  i] 
trovatore  e  il  giullare  della  Coite,  rallegrata  dalle  sue 
facezie,  e  dai  suoi  racconti,  è  l'erede  della  gaia  scienza, 
sa  a  menadito  romanzi  francesi,  italiani  e  provenzali,  e 
scrive  per  sollazzarsi  e  per  sollazzare.  Ci  erano  in  lui 
parecchi  uomini  non  ben  fusi,  1'  erudito,  1'  artista,  il  tro- 
vatore, il  letterato  e  1'  uomo  di  mondo. 

Ecco  uscirgli  dall'  immaginazione  il  Filocolo,  Il  titolo 
greco,  come  più  tardi  è  il  Filostrato ,  e  come  sarà  il 
Decamerone.  La  materia  è  tratta  da  un  romanzo  spa- 
gnuolo,  ed  è  gli  amori  di  Florio  e  Biancofiore.  Ma  si 
tratta  della  Spagna  pagana,  al  tempo  di  Roma  pagana, 
quando  già  vi  penetrava  il  cristianesimo.  La  materia  ò 
tale  che  il  giovane  autore  vi  può  sviluppare  tutte  le  sue 
tendenze.  Ai  giovani  innamorati  e  alle  amorose  donzelle 
consacra  «  i  nuovi  versi y  i  quaU  egli  dice  loro,  non  vi 
porgeranno  i  crudeU  incendimenti  dell'antica  Troja,  né 
le  sanguinose  battaglie  di  Farsaglia,  ma  udirete  i  pie- 


—  304  — 

tosi  avvenimenti  dell'innamorato  Florio  e  della  sua  Bian- 
cofiore, i  quali  vi  fieno  graziosi  molto».  Probabilmente 
i  -giovani  vaghi  e  le  donne  innamorate  avrebbero  desi- 
derato una  storia  di  amore  più  breve  meno  dotta.  Ma 
come  resistere  alla  tentazione?  Il  giovine  ci  ficca  dentro 
tutta  la  mitologia,  e  ad  ogni  menoma  occasione  esce  fuori 
con  la  storia  greca  e  romana.  Giulia,  uccisole  il  marito, 
neir  ultima  disperazione,  parlando  all'  uccisore,  cita  Ecuba 
e  Cornelia.  Né  la  mitologia  ci  sta  a  pigione,  come  sem- 
plice colerito,  ma  è  la  vera  macchina  del  racconto,  come 
in  Omero  e  Virgilio.  E  se  Giove,  Pluto,  Venere,  Pal- 
lade  e  Cupido  fossero  personaggi  vivi  avremmo  un  grot- 
tesco non  dispiacevole,  ma  sono  personificazioni  ampollose 
e  rettoriche,  formate  dalla  memoria,  non  dall'  immagi- 
nazione. Ancora,  visto  che  teologia  e  poesia  sono  una 
stessa  cosa,  la  teologia  è  paganizzata,  e  Dio  diviene  Giove, 
e  Lucifero  diviene  Pluto  :  sì  che  pagani  e  cristiani,  ini- 
micandosi a  morte,  usano  le  stesse  forme  e  adorano  gli 
stessi  Iddii.  Macchinismo  vuoto  che  s' intramette  dapper- 
tutto, e  guasta  il  linguaggio  naturale  del  sentimento  in- 
troducendo ne' fatti  e  nelle  passioni  un' espressione  arti- 
ficiale e  metaforica.  Volendo  dire  giovani  innamorati  si 
dice  :  «  i  quali  avete  la  vela  della  barca  della  vaga  mente 
dirizzato  a'  venti  che  muovono  dalle  dorate  penne  ven- 
tilanti del  giovane  tìghuolo  di  Citerea».  L'avvicinarsi 
della  sera  è  espresso  così:  «I  disiosi  cavalh  del  Sole 
caldi  per  lo  diurno  affanno  si  bagnavano  nelle  marine 
acque  d'  occidente  ».  Altrove  è  detto  :  «  L'  aurora  aveva 
rimossi  i  notturni  fuochi,  e  Febo  avea  già  rasciutte  le 
brinose  erbe  ».  Nasce  uno  stile  pomposo  e  freddo,  che 
invano  1'  autore  cerca  incalorire  con  le  figure  rettoriche, 
in  cui  è  maestro.  Spesseggiano  le  interrogazioni,  le  escla- 
mazioni, le  personificazioni,  le  apostrofi;  il  sentimento  si 
sviluppa  dalle  cose  e  si  pone  per  sé  stesso  in  una  forma 
a   pjllosa  e  pretensiosa.  Il  prode  Leho  è  ucciso  sul  cara- 


pò  di  battaglia;  e  il  poeta  vi  recita  su  questa  magni- 
fica tirata  rettorica:  «Oh  misera  fortuna,  quanto  sono 
i  tuoi  movimenti  vani  e  fallaci  nelle  mondane  cose  !  Ove 
sono  i  molti  tesori  che  tu  con  ampie  mani  gli  avevi 
dati  ?  Ove  i  molti  amici  ?  Ove  la  gran  famiglia  ?  Tu  gli 
hai  con  subito  giramento  tolte  tutte  queste  cose,  e  il 
suo  corpo  senza  sepoltura  morto  giace  negli  strani  campi. 
Almeno  gli  avessi  tu  concedute  le  romane  lacrime,  e  le 
tremanti  dita  del  vecchio  padre  gli  avessero  chiusi  i  mo- 
rienti  occhi,  (  V  ultimo  onore  della  sepoltura  gli  avesse 
potuto  fare».  Giulia  sviene;  gli  spiriti  suoi  vagabon- 
di pare  che  vadano  per  lo  vicino  aere,  e  il  poeta  fa 
una  lunga  apostrofe  a  Lelio  che  lei  semiviva  abbando- 
na ,  e  dice  di  Amore  :  «  Deh  !  quanto  Amore  si  portò 
villanamente  tra  voi^  avendovi  tenuti  insieme  con  la 
sua  virtù  tanto  tempo  caramente  congiunti,  e  ora,  nel- 
r  ultimo  partimento  non  consenti  che  voi  vi  avessi  in- 
sieme baciati  o  almeno  salutati  ».  I  personaggi  fanno 
spesso  lunghe  orazioni  con  tutti  gli  artifìcii  della  retto- 
rica, com'  è  la  parlata  di  Pluto  a'  ministri  infernali,  imi- 
tata dal  Tasso.  Spesso  la  sensualità  si  scopre  tra  le  la- 
crime. Giulia  si  straccia  i  capeUi  e  si  squarcia  le  vesti; 
il  giovane  deplora  quello  sconcio  tirare  che  traeva  i 
biondi  capelli  dell'usato  modo  e  ordine,  e  aggiunge:  «  I 
vestimenti  squarciati  mostravano  le  colorite  membra  che 
in  prima  solevanA  nascondere  ».  Non  mancano  qua  e  colà 
tratti  affettuosi ,  e  anche  modi  e  forme  di  dire  semplici , 
efficaci  ;  ma  rimane  il  più  spesso  fuori  dell'  uomo  e  della 
natura,  inviluppato  in  perifrasi,  circonlocuzioni,  aggettivi, 
orazioni,  descrizioni  e  citazioni;  ci  si  sente  una  viva  ten- 
denza al  reale  guastata  dalla  rettorica  e  dall'erudizione. 
Accampandosi  nel  mondo  antico ,  e  portandovi  preten- 
sioni erudite  e  rettoriche,  la  letteratura  se  da  una  parte 
si  emancipava  da  quel  mondo  teologico-scolastico  che 
sorgeva  come  barriera  tra  l'arte  e  la  natura,  s'intop- 

De  Sanotis  —  Leu.  Ital.  Voi.  I.  SU 


—  306  -^ 

pava  dall'  altra  in  una  nuova  barriera,  un  mondo  mito- 
logico-rettorico. 

II  successo  del  Filocolo  alzò  1'  animo  del  giovane  a  più 
alto  volo.  Pensò  qualche  cosa,  come  1'  Eneide,  e  scrisse 
la  Teseide.  Ma  niente  era  più  alieno  della  sua  natura, 
che  il  genere  eroico ,  niente  più  lontano  dal  secolo  che 
il  suono  della  tromba.  Qui  hai  assedil,  battaglie,  'con- 
giure di  Dei  e  di  uomini,  pompose  descrizioni ,  artificiosi 
discorsi ,  tutto  lo  scheletro  e  1'  apparenza  di  un  poema 
eroico;  ma  nel  suo  spirito  borghese  non  entra  alcun  sen- 
timento di  vera  grandezza,  e  Teseo,  e  Arcita,  e  Palemone 
e  Ippolito  ed  Emilia  non  hanno  di  epico  che  il  manto. 
Il  suo  spirito  è  disposto  a  veder  le  cose  nella  loro  mi- 
nutezza, ma  più  scende  nei  particolari,  più  1'  oggetto  gli 
si  sminuzza  e  scioglie  sì  che  ne  perde  il  sentimento  e 
l'armonia.  Le  armi,  i  modi  del  combattere,  i  sacrifizii, 
le  feste,  tutta  1'  esteriorità  è  rappresentata  con  la  dili- 
genza e  la  dottrina  di  un  erudito;  ma  dov'  è  1'  uomo?  e 
dov'  è  la  natura?  Dei  suoi  personaggi  carichi  di  emblemi 
e  di  medaglie  antiche  si  è  perduto  la  memoria.  Ecco  un 
campo  di  battaglia.  Egli  vede  con  molta  chiarezza  i  fe- 
nomeni che  ti  presenta,  ma  è  la  chiarezza  di  un  natu- 
ralista, scompagnata  da  ogni  movimento  d'immagina- 
zione; ci  è  l'immagine,  manca  il  fantasma,  que' sottin- 
tesi e  que'  chiaroscuri ,  che  ti  danno  il  sentimento  e  la 
musica  delle  cose: 

Dopo  il  crudele  dispietato  assalto 
Orribile  per  suoni  e  per  fedite, 
Li  fatto  prima  sopra  il  rosso  smalto, 
Si  dileguaron  le  polveri  trite; 
Non  tutte,  ma  tal  parte,  che  da  alto 
Ed  ancora  da  bas<o  eran  sentite 
Parimente  e  vedute  di  costoro 
Le  opere  e  il  marziale  aspro  lavoro. 

È  un'  ottava  prosaica,  dove  un  fenomeno   comunissimo 


—  o07   — 

e  sminuzzato  con  la  precisione  e  distinzione  di  un  ana- 
tomico, non  dì  un  poeta.  Il  Tasso  tutto  condensa  in  un 
verso  solo  che  ti  prosenta  in  unica  immagine  il  campo 
di  battaglia: 

Lfi  polve  inc^ombra  ciò  che  al  sangue  avanza. 
La  stessa  prosaica  maniera  trovi  neh'  ottava  seguente  : 

Il  sangue  quivi  de'  corpi  versato 
K  de*  cavalli  ancor  similemente, 
Aveva  tutto  quel  campo  inaffiato, 
Onde  attuttata  s'  era  veramente 
E  la  polvere  e  il  fumo:  imbragacciato 
Di  sangue  era  ciascun  destrier  corrente, 
0  qualunque  uomo  vi  fosse  caduto, 
Benché  a  cavai  poi  fosse  rivenuto. 

Qui  il  sangue  è  talmente  analizzato  negli  oggetti,  e  con- 
giunto con  particolari  così  vuoti  e  insignificanti,  che  se 
ne  perde  l' impressione.  Alla  grande  maniera,  sobria,  ra- 
pida, densa,  di  Dante,  del  Petrarca,  succede  il  prolisso, 
il  diluito  e  il  volgare.  Chi  ricorda  descrizioni  simili  nel- 
r  Ariosto  e  nel  Tasso,  vi  troverà  le  stesse  cose,  ma  vive 
e  mobili,  piene  di  sentimento  e  di  significato.  Nel  canto 
duodecimo  descrive  la  bellezza  di  Emilia  da'  capelU  fino 
alle  anche,  anzi  fino  a'  piedi,  e  non  si  content-i  di  pas- 
sare a  rassegna  tutte  le  parti  del  corpo,  che  di  ciascuna 
fa  minuta  descrizione,  e  non  solo  nel  quale,  ma  nel  quanto, 
si  che  pare  un  geometra  misuratore.  Delle  cigha  dice: 

Più  che  altra  cosa 
Nerissime  e  sottil,  neJle  qua'  lata 
Bianchezza  si  vedea  lor  dividendo, 
Né  il  debito  passavan  sé  estendendo. 

Ecco  un'  ottava  similmente  prosaica  su'  ('apelli 
Dico  che  li  suoi  crini  parean  d'  oro. 
Non  per  treccia  ristretti,  ma  soluti, 
K  pettinali  si  cho  infra  loro 


—  308  — 

Non  n'  era  un  torto,  e  cadean  sostenuti 
Sopra  li  candidi  omeri,  né  foro 
Prima,  né  poi  sì  bei  giammai  veduti: 
Né  altro  sopra  quelli  ella  portava, 
Che  una  corona  che  assai  si  stimava. 

Ottave  e  versi  soffrono  malattia  di  languore:  così  pro- 
cede il  suono  fiacco  e  sordo. 

La  Teseide  è  indirizzata  a  Fiammetta,  e  copertamente 
e  sotto  nomi  greci  espone  una  vera  storia  d'  amore.  Ma 
la  gravità  del  soggetto,  e  le  intenzioni  letterarie  soper- 
chiarono r  autore  e  lo  tirarono  in  un  mondo  epico  pel 
quale  non. era  nato.  Meglio  riusci  nel  FilostratOy  dove 
lo  scheletro  greco  e  troiano  esattamente  riprodotto  nelLi 
sua  superficie  è  penetrato  di  una  vita  tutta  moderna. 
L'allusione  non  è  in  questo  o  quel  fatto,  come  nella 
Teseide,  ma  è  nello  spirito  stesso  del  racconto.  I  lan- 
guori di  Troilo,  gli  artificii  di  Pandaro,  che  è  il  mez- 
zano, le  resistenze  sempre  più  deboli  di  Griselda^  le  gra- 
dazioni voluttuose  di  un  amore  fortunato,  le  arti  e  le 
lusinghe  di  Diomede  presso  Griselda,  la  sua  vittoria  e 
le  disperazioni  di  Troilo ,  questo  non  è  epico  e  non  è 
cavalleresco,  se  non  solo  ne'  nomi  de'  personaggi,  è  una 
pagina  tolta  alla  storia  secreta  della  corte  napoletana  , 
è  il  ritratto  della  vita  borghese,  collocata  di  mezzo  fra 
la  rozza  ingenuità  popolana  e  l' ideale  vita  feudale  o  ca- 
valleresca. Qui  per  la  prima  volta  1'  amore,  squarciato 
il  velo  platonico,  si  manifesta  nella  sua  realtà  ed  auto- 
nomìa, separato  da'  suoi  antichi  compagni,  1'  onore  e  il 
sentimento  religioso;  e  non  è  già  amore  popolano,  ma 
borghese,  cioè  a  dire  raffinato,  pieno  di  tenerezze  e  di 
languori,  educato  dalla  coltura  e  dall'arte.  Mancati  tutti 
gli  altri  sentimenti  della  vita  pubblica  e  religiosa ,  non 
rimane  altra  poesia  che  de^a  vita  privata.  La  quale  è 
vii  prosa,  quando  il  fine  del  vivere  non  è  che  il  gua- 
dagno ;  ed  è  nobilitata  dall'  amore,   vivere  tra'  godimenti 


—  309  — 

di  amore,  con  l'animo  lontano  da  ogni  cupidigia  di  onori 
e  di  ricchezze,  questo  è  l' ide  ale  della  vita  privata,  nella 
quale  la  parte  seria  e  prosaica  è  rappresentata  dal  mer- 
cante. È  un  ideale  che  il  Boccaccio  trova  nella  sua  pro- 
pria vita,  quando  volse  le  spalle  alla  mercatura,  e  si  die 
a'  piacevoli  studii  e  ali'  amore.  Descritti  in  morbidissime 
ottave  i  voluttuosi  ardori  di  Troilo  e  Gris  eida,  il  poeta, 
calda  ancora  l'immaginazione,  così  prorompe: 

Dell  !  pensin  qui  gli  dolorosi  avari, 
Che  biasiman  chi  è  innamorato, 
E  chi,  come  fan  essi,  a  far  denari 
In  alcun  modo  non  si  è  lutto  dato, 
E  guardin  se  tenendoli  ben  cari 
Tanto  piacer  fu  mai  a  lor  prestato, 
Quanto  ne  presta  amore  in  un  sol  punto 
A  cui  egli  è  con   ventura  congiunto. 

Ei  diranno  di  sì,  ma  mentiranno  ; 
E  questo  amor  dolorosa  pazzia 
Con  risa  e  con  ischerni  chiameranno* 
Senza  veder  che  sola  un*  ora  fia 
Quella  che  sé  e  i  danari  perderanno, 
Senza  aver  gioia  saputo  che  sia 
Nella  lor  vita  :  Iddio  gli  faccia  tristi, 
Ed  agli  amanti  doni  i  loro  acquisti. 

Ottave  sconnesse  e  saltellanti,  assai  inferiori  alle  bel- 
lissime che  precedono  ;  i!  poeta  sa  meglio  descrivere  che 
ragionare  ;  pure  ci  senti  per  entro  un  po'  di  calore,  e  la 
conclusione  è  felicissima;  è  un  modo  subito  e  vivace  di 
immaginazione  come  di  rado  gì'  incontra. 

Sotto  aspetto  epico  questo  racconto  è  una  vera  no- 
vella con  tutte  le  situazioni  divenute  il  luogo  comune 
delle  storie  d' amore,  i  primi  ardenti  desiri,  l'intramessa 
di  un  amico  pietoso,  e  le  ritrosie  della  donna,  le  raffi- 
nate voluttà  del  godimento,  la  separazione  degli  amanti, 
le  promesse  e  i  giuramenti  e  gli  svenimenti  della  donna, 


•^  310  — 

la  sua  fragilità  e  i  lamenti  e  i  furori  del  tradito  amante. 
Sotto  vernice  antica  spunta  il  mondo  interiore  del  Boc- 
caccio ,  una  mollezza  sensuale  dell'  immaginazione  con- 
giunta con  una  disposizione  al  comico  e  al  satirico.  La 
infedeltà  di  Griseida  lo  fa  uscire  in  questo  ritratto  della 
donna  : 

Giovine  donna  è  mobile,  e  vogliosa 
È  negli  amanti  molti,  e  sua  bellezza 
Estima  più  che  allo  specchio,  e  pomposa 
Ha  vanagloria  di  sua  giovinezza; 
La  qual  quanto  piacevole  e  vezzosa 
È  più,  cotanto  più  seco  V  apprezza  : 
Virtù  non  sente,  né  conoscimento, 
Volubil  sempre  come  foglia  al  ¥ento. 

A  Beatrice  e  Laura  succede  Griselda;  all'  amore  plato- 
nico r  amore  sensuale  ;  al  volo  dell'  anima  verso  la  sua 
patria,  il  cielo,  succede  il  tripudio  del  corpo.  La  rea- 
zione è  compiuta.  A  Dante  succede  il  Boccaccio. 

La  contraddizione  prende  quasi  aria  di  parodia  incon- 
scia neW Amorosa  visione.  La  Commedia  è  imitata  nel 
suo  disegno  e  nel  suo  meccanismo.  Anche  il  Boccaccio 
ha  la  sua  visione.  Anch'  egli  incontra  la  bella  donna,  che 
dee  guidarlo  all'  altura ,  che  è  principio  e  cagion  di 
tutta  gioia,  via  a  salute  e  pace.  Ma  dove  nella  Com- 
media si  va  di  carne  a  spirito,  sino  al  sommo  bene,  in 
cui  l'umano  è  compiutamente  divinizzato  o  spiritualizzato^ 
dove  nella  Commedia  il  sommo  Bene  è  scienza,  e  con- 
templazione ;  qui  il  fine  della  vita  è  1'  umano  e  la  scienza 
è  il  principio,  e  l'ultimo  termine  è  l'amore,  e  la  fine 
del  sogno  è  in  questi  versi  : 

Tutto  stordito  mi  riscossi  allora, 

E  strinsi  a  me  le  braccia,  e  mi  credea 
Infra  esse  Madonna  averci  ancora. 

Il  Paradiso  del  Boccaccio  è  un  tempio  dell'  umanità. 


-^  311  — 

un  nobile  castello,  che  ricorda  il  Limbo  dantesco,  ricco 
di  sale  splendide  e  storiate,  come  sono  le  pareti  del  pur- 
gatorio. Ed  è  tutta  la  storia  umana,  che  ti  viene  in- 
nanzi in  quelle  pitture.  Dante  invoca  le  Muse,  1'  alto  in- 
gegno; il  Boccaccio  invoca  Venere: 

0  somma,  o  graziosa   Intelligenza, 
Che  movi  il  terzo  cielo,  o  santa  Dea, 
Metti  nel  petto  mio  la  tua  potenza. 

Una  scala  assai  stretta  mena  al  castello,  e  sulla  pic- 
cola porta  è  questa  scritta  : 

questa 

Piccola  porta  mena  a  via  di  vita. 
Posta  che  paia  nel  salir  molesta: 
Riposo  eterno  da  cotal  salita  : 
Dunque  salite  su  senza  esser  lenti: 
L'  animo  vinca  la  carne  impigrita. 

Eccoci  nella  prima  sala.  E  vi  son  pinte  le  sette  scienze,; 
e  via  via  schiere  di  filosofi  e  poi  di  poeti,  a  quel  modo 
che  fa  Dante  nel  Limbo.  Tutto  il  canto  quinto  è  consa- 
crato a  Virgilio  e  a  Dante,  del  quale  dice: 

Costui  è  Dante  Alighier  fiorentino, 
Il  qual  con  eccellente  stil  vi  scrisse 

11  sommo  Ben,  le  Pene,  e  la  gran  Morte: 

Gloria  fu  delle  Muse,  mentre  visse 
Né  qui  rifiutan  d'  esser  sue  consorte. 

Dalla  sala  delle  Muse  si  passa  nella  Sitla  della  Gloria. 
E  ti  bhlano  innanzi  moltitudine  di  uomini  venuti  in  fa- 
ma, quasi  un  quadro  della  storia  del  mondo.  Da  Saturno 
e  Giove  scendi  all'  età  de'  giganti  e  degli  eroi,  poi  giungi 
agli  uomini  e  alle  donne  illustri  di  Grecia  e  di  Roma, 
in  ultimo  viene  la  cavalleria  ne'  suoi  due  circoli  di  Ar- 
turo e  Carlomagno,  sino  all'  ultimo  cavaliere,  Federico  II, 
e  rocchio  si  stende  a  Carlo  v  i  Puglia,  Cori-adino,  Rug- 


--  312  — 

gerì  di  Loria  e  Manfredi.  Il  poeta  dà  libero  corso  alla 
sua  vasta  erudizione,  intento  più  a  raccogliere  esempli 
che  a  lumeggiarli:  sicché  nessuno  de' suoi  personaggi  è 
giunto  a  noi  cosi  vivo,  come  è  l'Omero  e  l'Aristotile 
del  Limbo  dantesco,  e  l'Omero  del  Petrarca. 

Siamo  infine  nella  sala  di  Amore  e  Venere.  E  come 
innanzi  la  storia,  qui  vien  fuori  la  mitologia,  e  senti  le 
prodezze  amorose  di  Giove,  Marte,  Bacco  e  Pluto  ed  Er- 
cole. Poi  vengono  gli  amori  di  Giasone,  Teseo,  Orfeo, 
Achille,  Paride,  Enea,  Lancillotto. 

Scienza,  gloria,  amore,  ecco  la  vita  quando  non  vi  si 
intrometta  la  Fortuna ,  e  colpisca  Cesare  o  Pompeo  nel 
sommo  della  felicità.  Percorsi  i  circoli  della  vita,  comin- 
cia il  tripudio,  0  la  beatitudine;  e  non  sono  già  le  danze 
della  luce  sante  nel  trionfo  di  Cristo  o  degli  Angeli,  ma 
le  voluttose  danze  di  un  paradiso  maomettano,  o  le  danze 
delle  ninfe  napoletane  a  Baia.  Il  poeta  s'innamora  ,  e 
mentre  in  sogno  si  tuffa  negli  amorosi  diletti  e  tiene  fra 
le  braccia  la  donna,  si  sveglia,  e  la  sua  guida  gli  dice  : 

ciò  che  porse 
Il  tuo  dormire  alia  tua  fantasia 
Tutto  averai. 

E  mentre  la  visione  si  dilegua,  ella  lo  raccomanda  al  Sir 
di  tutta  pace,  all'  Amore. 

Con  le  stesse  forme  e  con  lo  stesso  disegno  di  Dante 
il  Boccaccio  riesce  a  un  concetto  della  vita  affatto  op- 
posto, alla  glorificazione  della  carne,  nella  quale  è  il  ri- 
poso e  la  pace.  La  Dì  orna  Commedia  qui  è  cavata  fuori 
del  soprannaturale  in  cui  Dante  aveva  inviluppata  V  uma- 
nità e  sé  stesso  e  il  suo  tempo ,  ed  é  umanizzata,  tra- 
sformata in  un  real  castello,  sede  della  coltura  e  dell'a- 
more. Se  non  che  il  Boccaccio  non  vide  che  quelle  forme 
contemplative  e  allegòriche,  naturale  involucro  di  un 
mondo  mistico  e  soprannaturale,  mal  si  attagliavano  a 


—  313  — 

quella  vita  tutta  attiva  e  terrena,  ed  erano  disformi  al 
suo  genio,  superficiale  ed  esterno,  privo  di  ogni  profon- 
dità ed  idealità  :  perciò  riesce  monotono,  prolisso  e  vol- 
gare. Oggi,  a  tanta  distanza  c'è  difficile  a  concepire,  come 
non  abbia  trovato  subito  il  suo  genere,  che  è  la  rap- 
presentazione della  vita  nel  suo  immediato,  sciolta  da  ogni 
involucro  non  solo  teologico  e  scolastico,  ma  anche  mi- 
tologico e  cavalleresco.  Ma  lento  è  il  processo  dell'uma- 
nità anche  nell'  individuo,  che  passa  per  molte  prove  e 
tentennamenti  prima  di  trovare  sé  stesso.  Il  Boccaccio, 
amico  delle  Muse,  stima  co' suoi  contemporanei  che  le 
cose  volgari  non  possono  fare  un  uomo  letterato,  e  che 
si  richiedono  più  alti  studii.  E  gli  alti  studii  sono  il  la- 
tino e  il  greco,  la  conoscenza  dell'  antichità.  Il  suo  mag- 
gior titolo  di  gloria  era  l'ampia  erudizione,  che  lo  ren- 
deva superiore  a  Dante  ed  anche  al  suo  Silvano,  il 
Petrarca.  Trova  innanzi  a  sé  forme  consacrate  e  ammi- 
rate, le  forme  epiche  di  Virgilio  e  Stazio,  le  forme  li- 
riche di  Dante  e  di  Silvano,  e  in  quello  forme  vuol  rea- 
hzzare  un  mondo  prosaico  che  gli  si  mova  de  atro.  Nei 
suoi  primi  lavori  salta  fuori  tutto  il  suo  mondo  greco- 
romano, mitologico  e  storico,  con  grande  ammirazione, 
de'  contemporanei.  Gli  amori  di  Troilo  e  Griselda,  d'Ar- 
cita  e  Palemone  passarano  le  Alpi  e  fecondarono  l' imma- 
ginazione di  Chaucer;  i  quadri  storici  e  mitologici  della 
sua  visione  ispirarono  molti  Saggi  e  molti  Tempii  ad' 
r  umanità.  Chi  legge  i  Reali  di  Francia  e  tante  scarne 
traduzioni  di  romanzi  francesi  allora  in  voga  può  con- 
cepire che  gran  miracolo  dovè  parere  la  Teseide,  i!  Fi- 
lostrato  e  il  Filocolo.  Anche  nelle  sue  Rime  si  vede 
l'uomo  nuovo  alle  pi'ese  con  f)rme  vecchie.  Vi  trovi 
il  solito  repertorio,  l' innamoramento,  i  sospiri,  i  desiri, 
i  pentimenti ,  il  volgersi  a  Dio  e  alla  Madonna  ,  ma  la 
bella  unità  lirica  del  mondo  di  Dante  e  del  Petrarca  è 
rotta,  ed  ogni  idealità   è  scomparsa.  Dietro  alle  stesse 


—  314  — 

forme  è  nn  diverso  contenuto  che  mal  vi  si  adagia.  La 
donna  in  nome  è  ancora  un'  angioletta,  ma  che  angiolo! 
Ella  sta  non  raccolta  e  modesta  nella  sua  ingenuità  in- 
fantile, come  Bice;  o  nella  sua  casta  dignità,  come  Laura; 
ma  alV  ombra  di  niille  arbori  fronzuti,  in  obito  leg- 
giadro e  gentilesco  tende  lacci  coìi  gli  occhi  vaghi  e  col 
cianciar  donnesco.  Hai  la  donna  vezzosa  e  civettuola 
della  vita  comune,  ed  un  amante  distratto,  che  ora  esala 
sospiri  profani  in  forme  platoniche  e  tradizionali,  ora  pianta 
li  la  sua  angioletta ,  e  si  sfoga  contro  i  suoi  avversarli, 
e  ragiona  della  morte  e  della  fortuna,  o  inveisce  contro 
le  donne: 

Elle  donne  non  son,  mQjdoglìa  altrui, 
Senza  pietà,  senza  fé,  senz'  amore, 
Liete  del  mal  di  chi  più  lor  credette. 

Perchè  meglio  si  comprenda  questa  dis  armonia  tra  for- 
me convenzionali  e  un  contenuto  nuovo,  guardiamo  que- 
sto sonetto: 

Sulla  poppa  sedea  d'  una  barchetta, 
Che  il  mar  segando  presta  era  tirata, 
La  donna  mia  con  altre  accompagnata, 
Cantando  or  una,  or  altra  canzonetta. 

Or  questo  lito  ed  or  quest' isoletta, 
Ed  ora  questa  ed  or  quella  brigata 
Di  donne  visitando,  era  mirata 
Qual  discesa  dal  elei  nuova  angioletta. 

Io  che  seguendo  lei  vedeva  farsi 
Da  tutte  parti  incontro  a  rimirarla 
Gente,  vedea  come  miracol  novo: 

Ogni  spirito  mio  in  me  destarsi 

Sentiva,  e  con  Amor  di  commendarla 
Vago  non  vedea  mai  il  ben  eh'  io  provo. 

II  sonetto  comincia  bene,  in  forma  disinvolta  e  fresca, 
ancoraché  per  la  parte  tecnica  un  po'  trascurata.  In  quelle 
giovanette   che  cantano  a  mare,  e  vanno  a  visitare  le 


—  315  — . 

amiche  e  sono  ammirate  dalla  gente,  vedi  una  scena  tutta 
napolitana,  e  ti  corre  innanzi  Baia,  sede  di  secrete  de- 
lizie che  destano  le  furie  gelose  del  poeta  ^  Ma  questa 
bella  scena  alla  fine  si  guasta ,  col  solito  Spirito  e  col 
solito  Amore  vago  di  commendare,  e  riesce  in  una  fred- 
dura. Chi  vuol  vedere  un  sonetto  affatto  moderno,  dove 
r  autore  si  è  sciolto  da  ogni  involucro  artificiale,  e  ti  co- 
glie in  atto  la  vita  di  Baia  con  le  sue  soavità  e  le  licenze, 
senta  questo  : 

Intorno  ad  una  fonte  in  un  pratello 
Di  verdi  erbette  pieno  e  di  bei  fiori, 
Seccano  tre  angiolette,  i  loro  amori 
Forse  narrando;  ed  e  ciascuna  il  bello 

Viso  adombrava  un  verde  ramoscello 

Che  i  capei  d'  or  cingea,  al  qual  di  fuori 
E  dentro  insieme,  due  vaghi  colori 
Avvolgeva  un  soave  venticello. 

E  dopo  alquanto  1'  una  alle  due  disse, 
Com*  io  udii:  Deh!  se  per  avventura 
Di  ciascuna  J'  amante  or  qui  venisse, 

Fuggiremo  noi  quinci  per  paura? 
A  cui  le  due  risposer:  chi  fuggisse. 
Poco  savia  sarla  con  tal  ventura. 

Qui  senti  il  Boccaccio  in  quella  sua  mescolanza  di  sen- 
suale e  malizioso.  Gli  scherzi  del  venticello  sono  abboz- 
zati con  r  anima  di  un  Satiro  che  divora  con  gli  occhi 
la  preda ,  e  la  chiusa  cinica  cosi  inaspettata  ti  toglie  a 
ogni  idealità  e  ti  gitta  nel  comico.  Qui  il  Boccaccio  trova 
sé  stesso.  Fu  chiamato  Giovanni  della  tranquillità  per 
quella  sua  spensierata  giovialità  ,  che  lo  tenea  lontano 
da  ogni  esagerazione  delle  passioni,  e  tiravalo  nel  gtjdi- 
mento  e  nel  gusto  della  vita  reale.  E  quantunque  si  do- 
glia dell'  epiteto  come  d'  una  ingiuria  e  lo  rifiuti  sdegno- 


1  Perir  possa  il  tuo  nome,  Hai»,  o  il  loco  (Sonetto  IVV 


-  316  — 

samente,  pure  è  là  il  suo  genio  e  la  sua  gloria,  e  non 
dove  sfoggia  in  forme  rettoriche  sentimoito  ed  erudizione. 
Fu  chiamato  anche  uomo  di  vetro,  per  una  cotal  sua  mo- 
bilità d'  impressioni  e  di  risoluzioni,  di  cui  sono  esempio 
le  Rime,  dove  invano  cerchi  1'  unità  organica  deJ  Can- 
zoniere, e  un  disegno  qualunque,  avvolto  il  poeta  dalie 
onde  delle  impressioni  e  della  vita  reale  e  de'  suoi  studi 
e  reminiscenze  classiche.  Pure  tra  molte  volgarità  trovi 
un  elevato  sentimento  dell'  arte,  o,  com'  egli  dice,  l'amor 
delle  Muse,  che  lo  trae  d' inferno,  come  chiama  la  terra 
deserta  dalle  Muse.  Vidi,  egli  canta: 

una  ninfa  uscire 

D'  un  lieto  bosco,  e  verso  me  vetiire 

Co'  crin  ristretti  da  verde  corona. 
A  me  venuta  disse  :  Io  son  colei. 

Che  fo  di  chi  rai  segue  il  nomo  eterno, 

E  qui   venuta  sono  ad  amar  presta: 
Lieva  su,  vieni;  ed  io  già  dì  costei 

Acceso,  mi  levai;  ond'io  d'inferno 

Uscendo,  entrai  neh'  amorosa  festa. 

Da  questo  elevato  sentimento  dell'arte  è  uscito  il  sonetto 
sopra  Dante,  scritto  con  una  gravità  e  vigore  di  stile 
così  insueto,  che  farebbe  quasi  dubitare  sia  cosa  sua  : 

Dante  Alighieri  son,  Minerva  oscura 

D' intelligenza  e  d'  arte,  nel  cui  ingegno 
L'  eleganza  materna  aggiunse  al  segno, 
Che  si  tien  gran  miracol   di  natura. 

L'  alta  mia  fantasia  pronta  e  sicura 

Passò  il  tartareo  e  poi  il  celeste  regno, 
E  il  nobil  mio  volume  feci  degno 
Di  temporale  e  spiritai  lettura. 

Fiorenza  gloriosa  ebbi  per  madre. 
Anzi  matrigna  a  me  pietoso  figlio. 
Colpa  di  lingue  scellerate  e  ladre. 


—  317  — 

Ravenna  furami  albergo  del  mio  esigilo; 

Ed  ella  ha  il  corpo,  e  1'  aima  il  sommo  Padre, 
Presso  cui  invidia  non  vince  consiglio. 

La  stessa  disparità  tra  le  forme  e  il  contenuto  troviamo 
nella  Fiaynmeita  e  nel  Corbaccio  o  Laberinto  d'amore.. 
Sono  due  generi  nuovi  e  pel  contenuto  affatto  moderni.! 
La  Fiammetta  è  un  romanzo  intimo  e  psiculogico,  dovei 
una  giovane  amata  è  abbandonata  narra  ella  medesima 
la  sua  storia,  rivelando  con  la  più  fina  analisi  le  sue  im- 
pressioni. Il  Corl>accio  è  la  satira  d^^l  sesso  femminile 
fatta  dal  vendicativo  scrittore^  canzonato  da  una  donna. 
La  scelta  di  questi  argomenti  è  felicissimo.  L'autore  volge 
le  spalle  al  medio  evo  e  inizia  la  letteratura  moierna. 
Di  un  mondo  mistico- teologico- scolastico  non  è  più  al- 
cun vestigio.  Oramai  tocchiamo  terra:  siamo  in  cospetto 
dell'  uomo  e  della  natura.  Abbiamo  una  pagina  di  storia;^ 
intima  dell'anima  umana,  colta  in  una  forma  seriaediretta\ 
nella  Fiammetta^  in  una  forma  negativa  e  satirica  nel  Cor- 
taccio.  La  letteratura  non  è  più  trascendente ,  ma  im- 
manente, cioè  a  dire  vede  l'uomo  e  la  natura  in  sé  stessa, 
e  non  in  forme  estrinseche  (3  separate,  mitologiche  e  al- 
legoriche. Ma  il  Boccaccio  non  sa  trovare  le  forme  con- 
venienti a  questo  contenuto.  Per  rappresentarlo  nella  sua 
verità  non  aveva  che  a  mettersi  in  immediata  comunione 
con.  quello  ed  esprimere  le  sue  impressioni  cosi  naturali 
e  fresche  come  gli  venivano.  Ma  s'accosta  a  questo  mondo 
con  l'animo  preoccupato  dall'erudizione,  dalla  storia,  dalla 
mitologia  e  dalla  rettorica,  e  lo  vede,  lo  dipinge  a  tra- 
verso di  queste  forme.  L' impressione  giungendo  nel  suo 
spirito  vi  è  immediatamente  falsificata,  né  si  riconoscono 
più  dietro  a  quel  denso  involucro,  che  se  non  è  teologico - 
scolastico,  é  pur  qualche  cosa  di  più  strano,  è  nùtologico- 
rettorico.  Nasce  una  nuova  trascendenza,  la  cui  radico 
non  è  nel  naturale  sviluppo  del  pensiero  religioso  e  filo- 
sofico, come  r  antico,  ma  nell'avviamento  classico  preso 


—  318  — . 

dalla  coltura.  Fiammetta  abbandonata  da  Panfilo,  prima 
di  fare  i.  suoi  lamenti  vuol  vedere  come  in  Virgilio  si  la- 
menta Bidone  abbandonata,  pensando  che  a  lei  non  è 
lecito  di  lamentarsi  in  altra  guisa.  E  se  vuol  consolarsi, 
cercando  compagni  al  suo  dolore,  ti  fa  un  trattato  di 
storia  antica,  narrando  tutti  i  casi  infelici  di  amore  de- 
gli antichi  Idilii  ed  eroi.  E  se  sogna,  cerca  in  Ovidio  la 
spiegazione  de'  sogni.  Vuol  dire  che  sente  vergogna  di 
palesare  ì  suoi  godimenti  amorosi  ?  E  ti  definisce  la  ver- 
gogna e  ragiona  lungamente  de'  suoi  effetti  sulle  donne . 
Vuol  esprimere  gioia,  speranza,  timore,  dolore,  ira,  ge- 
losia? E  analizza  ciascuno  di  questi  sentimenti,  facendo 
tesoro  di  tutti  i  luoghi  topici  registrati  da  Aristotile.  Bi- 
sogna vedere  con  che  diligenza  il  Sansovino  nota  tutti  i 
luoghi  etici  e  patetici,  e  le  imitazioni  e  le  erudizioni  della 
Fiammetta,  a  guida  de'  maestri  e  degli  scolari.  Dante, 
Minerva  oscura  ,  potè  spesso  tra  le  nebbie  delle  sue  al- 
legorie attingere  il  mondo  reale,  perchè  era  artista ,  e 
se  è  scolastico,  non  è  mai  rettorico:  il  Boccaccio  non  può 
distrigarsi  da  quel  mondo  artificiale  e  coglier  la  natura, 
perchè  gli  manca  ogni  serietà  di  vita  interiore  nel  pen- 
siero e  nel  sentimento,  e  vi  supplisce  con  le  esagera- 
zioni e  le  amplificazioni.  Che  dirò  delle  sue  descrizioni 
cosi  minute,  come  le  sue  analisi,  e  tutte  di  seconda  mano, 
non  ispirate  dall'  impressione  immediata  della  natura  ? 
Veggasi  il  suo  inverno  e  la  primavera  e  V  autunno,  e 
tutte  le  sue  descrizioni  della  bellezza  virile  e  femminile, 
fatte  con  la  squadra  e  col  compasso.  Cosi  gli  è  venuto 
scritto  un  romanzo  prolisso,  noioso,  in  guisa  che  a  sen- 
tir quegli  eterni  lamenti  della  Fiammetta  che  aspetta  Pan- 
filo, siamo  tentati  di  dire:  Panfilo  torna  presto!  che  non 
la  sentiamo  più. 

Più  conforme  al  suo  genio  è  il  Cordacelo,  satira  delle 
donne.  Ma  come  il  burlato  è  lui,  le  risa  sono  a  sue  spese, 
specialmente  quando  si  lamenta  che  una  donna  abbia  pò- 


—  319  — 

futo  farla  a  lui,  che  pure  è  un  letterato.  Vi  mostra  egli 
così  poco  spìriti ^  come  nella  lettera  a  Nicolò  Acciajoli, 
che  il  Petrarca  grecizzando  chiamava  Simonide ,  dove 
leva  le  alte  strida,  perchè  invitato  alla  corte  di  Napoli  gli 
sia  toccata  quella  cameraccia  e  quel  lettaccio,  ed  esce  in 
vituperii,  in  minacce,  in  pettegolezzi  resi  ancora  più  ri- 
dicoli da  quella  forma  ciceroniana.  Come  qui  minaccia  e 
vitupera  e  inveisce  alla  latina,  cosi  nel  Corhaccio  sa- 
tireggia con  la  storia,  co'  luoghi  comuni  degli  antichi 
poeti,  narrando  fatti  o  allegorie  e  ammassando  noiosi  ra- 
gionamenti. L'  ordito  è  semplicissimo.  Il  Boccaccio,  bef- 
fato da  una  donna,  si  vuole  uccidere,  ma  il  timore  del- 
l' Inferno  ne  lo  tiene,  e  pensa  più  saviamente  a  vivere 
e  a  vendicarsi  ,  non  col  ferro,  ma  come  i  letterati  fanno 
con  concordare  di  rime  o  distender  di  prose.  Fra 
questi  pensieri  si  addormenta  e  si  trova  in  sogno  nel 
Laberinto  d'amore,  o  Valle  incantata,  una  specie  di 
selva  dantesca ,  dove  gli  appare  un'  ombra  ed  è  il  ma- 
l'ito  della  donna,  che  nel  purgatorio  espia  la  troppa 
pazienza  avuta  con  lei.  Costui  gli  espone  tutte  le  cat- 
tive qualità  delle  donne  a  cominciare  dalla  sua.  E  quando 
si  è  bene  sfogato,  lo  conduce  sopra  di  un  monte*  altissi- 
mo, onde  vede  il  Laberinto  metter  capo  nell'  inferno.  Que- 
sta vista  guarisce  il  Boccaccio  del  mal  concetto  amore. 
Come  si  vede  la  satira  non  è  rappresentazione  artistica, 
ma  esposizione  in  forma  di  un  trattato  di  morale  de'  vizii 
femminili.  Nondimeno  trovi  qua  e  là  dei  bei  motti,  e  no- 
vellette graziose  e  descrizioni  vivaci  dei  costumi  delle 
donne  con  1'  uso  felicissimo  del  dialetto  fiorentino,  com'  è 
la  dorma  in  chiesa,  che  incomincia  una  dolente  filza  di 
pale  mostri,  dall'  una  mano  neU  altra  e  dall' altra  nel- 
V  una  trasmutandogli  senza  mai  dirne  ninno,  o  la 
donna  che  con  le  sue  gelosie  non  dà  tregua  al  marito,  e 
di  ciarlare  mai  non  resta,  mai  non  molla,  mai  non  fi- 
na, dalle,  dalle,  dalle  dalla  mattina  infina  alla  sera,  e 


—  320  — 

la  notte  ancora  non  sa  restare.  Nelle  sue  gelose  querele 
si  rivela  il  vero  genio  del  Boccaccio,  una  forza  comica  ac- 
compagnata con  vera  felicità  di  espressione  attinta  in  un 
dialetto  cosi  vivace  e  già  maturo ,  pieno  di  scorciatoie,  di 
frizzi,  di  motti,  di  grazie.  Citiamo  alcuni  brani:  «  Credi  tu 
eh'  io  sia  abbagliata,  e  eh'  io  non  sappia  a  cui  tu  vai  die- 
tro? a  cui  tu  vogli  bene  ?  e  con  cui  tutto  il  dì  favelli  ? 
Misera  me,  che  è  cotanto  tempo  ch'io  ci  venni,  e  pur  una 
volta  ancora  non  mi  dicesti:  Amor  mio,  ben  sia  venuta. 
Ma  alla  croce  di  Dio,  eh'  io  farò  di  quelle  a  te  che  tu  fai 
a  me.  Or  son  io  cosi  sparuta?  Non  son  io  cosi  bella,  come 
la  cotale?  ma  sai  che  ti  dico,  chi  due  bocche  bacia,  l' una 
convien  che  puzzi.  Fatti  costà,  se  Iddio  m'  aiuti,  tu  non 
mi  toccherai,  va  dietro  a  quelle  di  cui  tu  sei  degno,  che 
certo  tu  non  eri  degno  di  aver  me ,  e  fai  bene  ritratto  di 
quello  che  tu  sei,  ma  a  fare  a  fare  sia  ».  Questa  è  lin- 
gua già  degna  di  Plauto,  e  il  Corbaccio  è  sparso  di  co- 
tali  scene,  degne  di  colui  che  aveva  già  scritto  il  De- 
canierone. 

Fra  tanti  peccati  che  il  marito  tradito  e  l'amante  burla- 
to attribuiscono  alla  donna  e'  è  pur  questo,  che  le  sue  ora- 
zioni e  i  suoi  paterìios tri  sono  i  romanzi  franceschi  y 
e  tutta  si  stritola  quando  legge  Lancillotto  o  Tristano 
nelle  camere  segretamente.  E  anche  legge  la  canzone 
dell'  indovinello,  e  quella  di  Florio  e  di  Biancefiore  e 
simili  altre  cose  assai.  Sono  preziose  rivelazioni  sulla 
letteratura  profana  e  proibita,  allora  in  voga.  Ma  se  pec- 
cato e'  è  il  maggior  peccatore  era  il  Boccaccio  per  l'ap- 
punto, che  per  piacere  alle  donne  scrivea  romanzi.  Pure 
è  lecito  credere  eh'  elle  leggevano  con  più  gusto  la  nuda 
storia  francesea  di  Florio  e  Biancefiore,  che  l'imitazione 
letteraria  fatta  dal  Boccaccio,  detta  Filocolo,  dove  Bian- 
cefiore [Blaìichefleur)  è  chiamata  all'italiana  Bianco- 
fiore. Alle  donne  caleva  poco  di  mitologia  e  storia  an- 
tica, e  se  tanta   erudizione  e  artificio  rettorico  poteva 


—  321  — 

parere  cosa  mirabile  al  suo  maestro  di  greco,  Pilato,  e 
a'  latinisti  e  grecisti  che  erano  allora  i  letterati,  le  donne, 
che  cercavano  ne'  libri  il  piacer  loro,  facevano  de'  suoi 
scritti  poca  stima,  e  ciò  che  peggio  era,  per  lui  Aristo- 
tile, Tullio,  Virgilio  e  Tito  Livio  e  molti  altri  illustri 
uomini  creduti  suoi  amici  e  domestici,  come  fango  scal- 
pitavano e  schernivano.  In  verità,  le  donne  col  loro  senso 
naturale  erano  migliori  giudici  in  letteratura  che  Leon- 
zio Pilato  e  tutti  i  dotti. 

Quelli  che  chiamarono  tranquillo  il  nostro  Giovanni, 
espressero  un  concetto  più  profondo  che  non  pensavano. 
La  tranquillità  è  appunto  il  carattere  del  nuovo  conte- 
nuto eh'  egli  cercava  sotto  forme  pagane.  La  letteratura 
del  medio  evo  è  tutt'  altro  che  tranquilla;  anzi  il  suo  gpnio 
è  l'inquietudine,  un  carcere  continuo,  il  di  là  senza  spe- 
ranza di  attingerlo.  Il  suo  uomo  è  sospeso  da  terra  con 
gli  occhi  in  alto,  accesi  di  desiderio.  L'uomo  del  Boc- 
caccio è  al  contrario  assiso,  in  ozio  idilUco,  con  gli  oc- 
chi volti  alla  madre  terra,  alla  quale  domanda  e  dalla 
quale  ottiene  l'appagamento.  Ma  al  Boccaccio  non  piace 
esser  chiamato  tranquillo^  inconsapevole  che  la  sua  forza 
è  h  dov'  è  la  sua  natura.  E  si  prova  nel  genere  eroico  e 
cavalleresco,  e  nelle  Confessioni  della  Fiammetta  tenta 
un  genere  lirico-tragico.  Tentativi  infeUci  di  uomo  che 
non  trova  ancora  la  sua  via.  L' indefinito  è  negato  a  lui, 
che  descrive  la  natura  con  tanta  minutezza  di  analisi.  Il 
sospiro  è  negato  a  lui  che  numera  ad  uno  ad  uno  i  fe- 
nomeni del  sentimento.  L'  eroico  e  il  tragico  non  può  al- 
lignare in  un'  anima  idillica  e  sensuale.  E  quando  vi  si 
prova,  riesce  falso  e  rettorico.  Perciò  non  gli  riesce  an- 
cora di  produrre  un  mondo,  cioè  una  totalità  organica, 
armonica  e  concorde.  Nel  suo  mondo  epico- tragico- ca- 
valieresco penetra  uno  spirito  eterogeneo  e  dissolvente, 
che  rende  impossibile  ogni  formazione  artistica,  il  natu- 
ralismo pagano,  spirito  invitto  perchè  è  il  solo  che  vive 

Ce  Sanctis  — Leu.  Ital-  Voi.  I.  81 


—  322  — 

al  di  dentro  di  lui,  il  solo  che  si  possa  dire  il  suo  mondo 
interiore.  E  quando  gli  riesce  di  coglierlo  nella  sua  sem- 
plicità e  verità ,  come  gli  si  move  al  di  dentro  ,  allora 
trova  sé  stesso  e  diviene  artista.  Questo  mondo,  gittato 
come  frammento  discorde  e  caotico  ne'  suoi  romanzi  epici 
e  tragici,  par  fuori  in  tutta  la  sua  purezza  nel  Ninfale 
Fù'solano  e  nel  Ninfale  di  Ameio, 

Qui  r  autore  volgendo  le  spalle  alla  cavalleria  e  ai 
tempi  eroici,  rifa  con  l'immaginazione  i  tempi  idillici  delle 
antiche  favole  e  dell'età  dell'oro,  quando  le  Deità  scen- 
devano amicamente  nella  terra  popolata  di  Ninfe,  di  pa- 
stori, di  fauni  e  di  satiri.  La  mitologia  non  è  qui  ele- 
mento errante  fuori  di  posto  in  mondo  non  suo,  è  lei 
tutto  il  mondo. 

Questo  mondo  mitologico  primitivo  è  un  inno  alla  Na- 
tura. Nel  Ninfale  fiesolano  la  ninfa  sacra  a  Diana,  vinta 
dalla  natura,  manca  al  suo  voto,  ed  è  trasmutata  in 
fonte.  L'  animo  del  racconto  è  il  dolce  peccato,  nel  quale 
cadono  Africo  e  Mensola  non  per  corruzione  o  deprava- 
zione di  cuore,  ma  per  l'irresistibile  forza  della  natura 
nella  piena  semplicità  ed  innocenza  della  vita:  sì  che,  sa- 
puto il  fatto,  ne  viene  compassione  alla  stessa  Diana.  Indi 
il  poco  sopraggiunge  Atalante,  e  con  la  guida  del  figlio 
della  colpa,  nato  da  Mensola,  distrugge  gli  asili  sacri  a 
Diana,  e  .marita  le  Ninfe  per  forza,  ed  edifica  Fiesole  ed 
introduce  la  civiltà  e  la  coltura.  Così  il  mondo  mitolo- 
gico perisce  con  le  sue  selvatiche  istituzioni,  e  comincia 
il  viver  civile  conforme  alle  leggi  della  natura  e  dello 
amore. 

Il  racconto  è  diviso  in  sette  parti  o  canti  ed  è  in  ot- 
tava rima.  L'autore  non  costretto  a  gonfiare  le  gote  né 
a  raffinare  i  sentimenti  si  fa  cullare  dolcemente  dalla  sua 
immaginazione  in  questo  mondo  idillico,  e  descrive  pae- 
saggi e  scene  di  famiglia  e  costumi  pastoraU  con  una  fa- 
cilità che  spesso  è  negligenza ,  non  è  mai  affettazione  o 


—  323  — 

esagerazione.  La  tromba  è  mutata  nella  zampogna,  suono 
più  umile,  ma  uguale  e  armonioso:  Fottava  procede  piana 
e  naturale,  talora  troppo  rimessa  ;  e  non  mancano  di  bei 
versi  imitativi.  Africo  e  Mensola  debbono  dividersi,  che 
l'ora  è  tarda,  e  il  poeta  dice: 

partir  non  si  sanno 

Ma  or  si  partono,  or  tornano,  or  vanno. 

Altrove  dice  : 

Sempre  mirandosi  avanti  ed  intorno, 
Se  Mensola  vedea,  poneva  mente. 

Frequente  è  in  lui  T  uso  dello  sdrucciolo  in  mezzo  al  verso, 
e  queir  entrare  de'  versi  1'  uno  nell'  altro,  che  slega  e  in- 
toppa le  sue  ottave  eroiche,  ma  dà  a  queste  ottave  idil- 
liche un  aspetto  di  naturalezza  e  di  grazia.  Il  suo  pe- 
riodo poetico  saltellante  e  imbrogliato  nella  Teseide  qui 
è  corrente  e  spedito,  assai  prossimo  al  hnguaggio  na- 
turale e  famihare  : 

Ella  lo  vide  prima  che  lui  lei, 
Perchè  a  fuggir  del  campo  ella  prendea: 
Africo  la  sentì  gridare  omei, 
K  poi  guardando  fuggir  la  vedea  : 
E  infra  so  disse  ;  per  certo  costei 
È  Mensola;  e  poi  dietro  le  correa; 
E  si  la  prega,  e  per  nome  la  chiama, 
Dicendo  :  aspetta  quel  che  tanto  t'  ama. 

Africo  dorme:  e  il  padre  dice  alla  moglie,  Alimena: 

0  cara  sposa, 

Nostro  fìgliuol  mi  pare  addormentato, 
E  molto  ad  agio  in  sul  letto  si  posa, 
Sì  che  a  destarlo  mi  parria  peccato  1 
E  forse  gli  saria  cosa  gravosa 
Se  io  r  avessi  del  sonno  svegliato. 


—  324  — 

E  tu  di*  vero,  diceva  Alimena, 
Lasciai  posare  e  non  gli  dar  più  pena. 

Manca  il  rilievo  :  per  soverchia  naturalezza  si  casca  nei 
triviale  e  nel  volgare.  Più  tardi  verrà  il  grande  artista, 
che  calerà  in  questo  mondo  della  natura  e  dell'  amore 
appena  sbozzato  e  pur  ora  uscito  alla  luce  ,  e  gli  darà 
r  ultima  e  perfetta  forma. 

Simile  di  disegno,  ma  in  più  larghe  proporzioni  è  il 
Ninfale  d'Ameto.  È  il  trionfo  della  natura  e  dell'  amore 
sulla  barbarie  de'  tempi  primitivi.  E  il  barbaro  qui  non 
è  la  Ninfa,  sacrata  a  Diana,  che  per  violenza  di  natura 
rompe  il  voto,  ma  è  il  pastore  abitatore  della  foresta 
co'  Fauni  e  le  Driadi,  che  scendendo  al  piano  lascia  la 
alpina  ferità  e  prende  abito  civile.  Il  luogo  della  scena 
comincia  in  Fiesole,  negli  antichissimi  tempi  detta  Co- 
rito,  quando  vi  abitavano  le  Ninfe  e  non  era  venuto  an- 
cora Atalante  a  cacciarle  via  e  introdurvi  costumi  umani. 
Cosi  l'Ameto  si  collega  col  Ninfale  Fiesolano.  Il  pastore 
Ameto  erra  e  caccia  su  pel  monte  e  per  la  selva,  quando  un 
dì  affaticato  giunge  co'  suoi  cani  al  piano,  presso  il  Mu- 
gnone,  e  riposando  e  trastullandosi  co'  cani,  gU  giunge 
all'  orecchio  un  dolce  canto,  e  guidato  dalla  melodia  sco- 
pre più  giovanetto  intorno  alla  bellissima  Lia.  Sono  Ninfe, 
non  sacrate  a  Diana,  ma  a  Venere.  Lia  racconta  nella 
sua  canzone  la  storia  di  Narciso;  bellissimo  è  crudo  cac  • 
datore,  che  rifiutando  il  caro  amore  delle  donne,  e  in- 
namorato della  sua  immagine  fu  convertito  in  fiore.  Ametr» 
parte  pensoso ,  recando  seco  l' immagine  di  Lia.  Venuta 
la  primavera,  torna  al  piano,  e  cerca  e  chiama  Lia^  de  > 
scrivendo  la  sua  bellezza  e  offrendole  doni: 

Tu  sei  lucente  e  chiara  più  che  il  vetro, 
E  assai  dolce  più  ch'uva  matura, 
Nel  cuor  ti  sento,  ond'  io  sempre  t' impetro, 

E  siccome  la  palma  inver  1'  altura 


—  325  — 

Sì  stende,  cosi  tu,  vieppiù  vezzosa, 
Che  il  giovanetto  agnel  ne  la  pasturo. 

E  sei  più  cara  assai  e  graziosa, 
Che  le  fredde  acque  a'  corpi  faticati, 
0  che  le  fiamme  a'  freddi,  o  ch'altra  cosa. 

E  i  tuoi  capei  più  volte  ho  simigliati 
Di  Cerere  a  le  paglie  secche  o  bionde, 
Dintorno  crespi  al  tuo  capo  legati. 

Vieni,  eh'  io  serbo  a  te  giocondo  dono. 
Che  io  ho  colti  fiori  in  abbondanza, 
Agli  occhi  bei,  d'  odor  soave  e  buono. 

E  siccome  suol  esser  mia  usanza. 
Le  ciriege  ti  serbo,  e  già  per  poco 
Non  si  riscaldan  por  la  tua  distanza. 

Con  queste,  bianche  e  rosse  come  fuoco 
Ti  serbo  gelse,  mandorle  e  susine. 
Fra  volo  e  buzzacchioni  in  questo  loco. 

Belle  peruzze  e  fichi  senza  fine, 
E  di  tortore  ho  preso  una  nidata, 
Le  più  belle  del  mondo  e  piccoline. 

Si  avvicinano  i  giorni  sacri  a  Venere,  e  nel  suo  tempio 
traggono  pastori  e  fauni  e  satiri  e  ninfe,  e  Ameto  trova' 
la  sua  Lia  fra  bellissime  Ninfe,  delle  quali  contempla  le 
bellezze  parte  a  parte,  fatto  giudice  esperto  e  amoroso. 
E  tutti  fan  cei'chio  a  un  pastore  che  canta  le  lodi  di  Ve- 
nere, e  di  Amore.  Sopravvengono  altre  Ninfe,  le  quali 
non  umane  pensava,  ma  Dee^  e  contempla,  rapito  cele- 
sti bellezze  e  di  pastore  si  sente  divenuto  amante  ;  di- 
cendo: «Io  usato  di  seguire  bestie,  amore  poco  avanti 
da  me  non  saputo  seguendo,  non  so  come  mi  conver- 
tirò in  amante  seguendo  donne  ».  Le  belle  Ninfe  gli  sie- 
dono intorno  ed  egli  scioglie  un  inno  a  Giove,  e  canta 
la  sua  conversione.  Questi  sono  gli  antecedenti  del  ro- 
manzo, sparsi  di  vaghissime  descrizioni  di  bellezze  fera- 
rainili  in  quella  forma  minuta  e  stancante  che  ò  il  vez- 


—  326  — 

zo  dell'  autore.  Lia  propone,  che  ciascuna  Ninfa  canti  la 
sua  storia  e  canti  la  Deità  reverita  da  lei,  acciocché 
oziose  come  le  mìsere  fanno  non  passino  il  chiaro 
giorno.  Sedute  in  cerchio  e  posto  in  mezzo  Ameto,  co- 
me loro  presidente  o  antistite,  cominciano  i  loro  racconti^ 
Sono  sette  Ninfe,  Mopsa,  Emilia,  Adiona,  Acrimonia,  Aga- 
pes,  Fiammetta  e  Lia,  ciascuna  consacrata  a  una  divi- 
nità, Pallade,  Diana,  Pomena,  Bellona,  Venere,  delle  quali 
si  cantano  le  lodi.  Ne'  racconti  delle  Ninfe  vedi  la  vit- 
toria dell'  amore  e  delia  natura  sulla  ferina  salvatichezza 
degli  uomini,  e  aU'ozio  bestiale  tener  dietro  le  arti  di  Pal- 
lade, di  Diana,  di  Astrea,  di  Pomena,  e  di  Bellona ,  la 
cultura  e  1'  umanità.  Ti  vedi  innanzi  svilupparsi  tutto  il 
mondj  della  coltura,  e  cominciare  da  Atene,  ed  in  ul- 
timo posare  in  Etruria,  dove  1'  autore  con  giusto  orgo- 
gho  pone  il  principio  della  cultura.  Da  ultimo  apparisce 
luce  una  e  trina,  entro  la  quale  guardando  Ameto,  Mopsa 
gli  occhi  asciugandoU  da  queìh  levò  l'oscura  caligine,  si 
che  nella  triforme  ravvisa  la  celeste  e  santa  Venere, 
madre  di  amore  puro  e  intellettuale.  Tuffato  nella  fonte 
da  Lia,  gittati  i  panni  selvaggi,  e  lavato  di  ogni  lordura, 
si  sente  dibruto  fatto  uomo,  e  vede  chi  sieno  le  Ninfe,, 
le  quali  pili  all'occhio  che  all'  intelletto  erano  piaciute, 
e  ora  all'  intelletto  piacciono  più  che  all'  occhio,  di- 
scerne  quali  sieno  i  tempi  e  quali  le  Dee  di  cui  can- 
tano, e  chenti  sieno  i  loro  amori ,  e  non  poco  in  sé 
si  vergogna  de'  concupiscevoli pensieri  avuti.  Le  Ninfe, 
le  quali  non  sono  altro  che  le  scienze  e  le  arti  della  vita 
civile,  tornano  alla  celeste  patria,  e  Ameto  canta  la  sua 
redenzione  dallo  stato  selvaggio. 

Questo  disegno  evidentemente  è  uscito  da  una  testa 
giovaiiile:  ancora  sotto  l'azione  di  tutti  i  diversi  ele- 
menti di  quella  coltura.  Palpabili  sono  le  reminiscenze 
della  Divina  Cemìnedia.  Lia  e  Fiammetta  ricordano  Ma- 
tìi'e  e  Beatrice.  Il  concetto  nella  sua  sostanza  è    dan- 


—  327  — 

tesco  ;  e  1'  emancipazione  dell'  uomo,  il  quale,  percorse  le 
vie  del  senso  e  dell'  amore  sensuale,  è  dalla  scienza  in- 
nalzato all'  amore  di  Dio.  Anche  la  forma  allegorica  è 
dantesca,  non  essendo  quelle  apparizioni  che  simboli  di 
concetti,  e  fìguie  di  quelle  separate  intelligenze  che  pre- 
siedono alle  stelle  e  regolano  i  modi  dell'  animo.  Tutto 
questo  si  trova  inviluppato  in  un  mondo  mitologico,  che 
è  la  sua  negazione ,  animato  da  un  naturaHsmo  spinto 
sino  alla  licenza.  Apuleio  e  Longo  contendono  con  Dante 
nei  cervello  dello  scrittore.  Il  romanzo,  che  nell'intenzione 
dovrebbe  essere  spirituale,  è  nel  fatto  soverchiato  da  un 
vivo  sentimento  della  bella  natura  e  de'  piaceri  amorosi. 
Si  vede  il  giovane  che  sta  con  Dante  in  astratto,  ma  ha 
pieno  il  capo  di  mitologia,  di  ronàanzi  greci  e  france- 
schi,  di  avventure  licenziose,  e  fa  di  tutto  una  mesco- 
lanza. Se  qualche  cosa  in  questa  noiosa  lettera  ti  allet- 
ta,  è  dove  lo  scrittore  si  abbandona  alla  sua  natura, 
com'è  la  comica  descrizione  che  Acrimonia  fa  del  suo 
vecchio  marito,  nel  quale  intravvedi  già  il  povero  dot- 
tore, a  cui  Paganino  rubò  la  moglie,  e  com'  è  qua  e  là 
qualche  pittura  e  stnlimento  idillico.  Pure  in  un  mondo 
così  dissonante  e  scordato  si  sviluppa  chiaramente  un 
entusiasmo  giovanile  per  la  coltura  e  1'  umanità.  Ci  si 
sente  il  secolo  che  scuote  da  se  la  rozza  baibarie,  e 
s' incammina  fidente  verso  un  mondo  più  colto  e  polito. 
Ameto  si  spoglia  il  ruvido  abito  del  medio  evo,  e  gui- 
dato dalle  Muse  prende  aspetto  gentile  e  umano.  Le  om- 
bre del  misticismo  si  diradano  nel  tempio  di  Venere.  Danto 
canta  la  redenzione  dell'  anima  neh'  altro  mondo.  Il  Boc- 
caccio canta  la  fine  della  barbarie  e  il  regno  della  col- 
tura. È  lo  spirito  nuovo,  da  cui  più  tardi  uscirà  Lorenzo 
de'  Medici  e  Poliziano. 

Gittando  ora  un  solo  sguardo  su  questi  lavori,  si  pos- 
sono raccogliere  con  chiarezza  caratteri  della  nuova  cui* 
tura.  Le  teorie  in  astratto  rimangono  lo  stesse^  e  il  Boc- 


—  328  — 

caccio  pensa  come  Dante.  Ma  nel  fatto  lo  spirito  abbandona 
in  cielo  e  si  raccoglie  in  terra;  perde  la  sua  idealità  e 
la  sua  inquietudine,  e  diviene  tranquillo,  calato  tutto  e 
soddisfatto  nella  materia  della  sua  contemplazione.  A  un 
mondo  lirico  di  aspirazioni  indefinite  espresso  nella  vi- 
sione e  neir  estasi  succede  un  mondo  epico,  che  ha  nei 
fatti  umani  e  naturali  il  suo  principio  e  il  suo  termine. 
Il  poeta  in  luogo  d' idealizzare  realizza,  cioè  a  dire  fugge 
le  forme  sintetiche  e  comprensive  che  gittano  lo  spirito 
in  un  di  là  da  esse,  e  cerca  una  forma  nella  quale  la 
immaginazione  si  trovi  tutta  e  si  riposi.  Non  ci  è  più 
il  forse  e  il  parere^  non  una  forma  appena  abbozzata 
quasi  velo  di  qualcos'  altro,  ma  una  forma  terminata  e 
chiusa  in  sé  e  corpulenta,  nella  quale  1'  oggetto  è  minu- 
tamente analizzato  nelle  singole  parti:  alla  terzina  suc- 
cede r  analitica  ottava.  Rimangorit)  ancora  le  terzine,  e 
le  visioni  e  le  allegorie,  i  sonetti  e  le  canzoni,  ma  come 
forme  prettamente  convenzionali  e  d' imitazione,  sciolte 
dallo  spirito  che  le  ha  generate:  il  passato  per  lungo 
tempo  si  continua  come  morta  forma  in  un  mondo  mu- 
tato. Succedono  forme  giovani  e  nuove,  più  conformi  a 
un  contenuto  epico.  Sul  mondo  inquieto  delle  allegorie 
e  delle  visioni  si  alza  il  sereno  e  tranquillo  mondo  pa- 
gano, con  le  sue  deità  umanizzate,  con  la  sua  natura 
animata,  col  suo  vivo  sentimento  della  bellezza,  con  la 
sua  disinteressata  contemplazione  artistica.  Queste  ten- 
denze non  trovano  soddisfazione  in  un  contenuto  eroico 
e  cavalleresco,  perchè  la  serietà  di  una  vita  eroica  e 
cavalleresca  è  ita  via  insieme  col  medio  evo,  e  non  è 
più  nella  coscienza ,  e  non  può  essere  altro  che  imita- 
zione letteraria  e  artificio  rettorico.  Più  conveniente  a 
quelle  forme  è  la  vita  idillica,  ne'  cui  tranquilU  ozii,  nella 
cui  semplicità  e  chiarezza  V  anima  agitata  dalle  lotte  po- 
litiche e  turbata  dalle  ombre  di  un  mondo  trascendente 
si  raccoglie  come  in  un  porto  e  si  riposa.  L' idillio  è  la 


—  329  — 

prima  forma  nella  quale  si  manifesta  questa  nuova  ge- 
nerazione ,  fiacca  e  stanca ,  pur  colta  ed  erudita ,  che 
chiama  barbara  la  generazione  passata,  e  celebra  i  nuovi 
tempi  della  coltura  e  dell'umanità,  invocando  Venere  e 
Amore. 

Specchio  di  questa  società  nelle  sue  fluttuazioni,  nelle 
sue  imitazioni,  nelle  sue  tendenze  è  il  Boccaccio.  I  suoi 
tentennamenti  e  le  sue  dissonanze  provengono  dalla  coe- 
sistenza nel  suo  spirito  d'elementi  vecchi  e  nuovi ,  vivi 
e  morti,  mescolati.  Un  doppio  involucro,  mistico  e  mito- 
logico ,  circonda  come  una  nebbia  questo  mondo  della 
natura. 

Fra  questi  tentennamenti  si  andò  formando  il  Deca- 
merone.  Il  Boccaccio  lascia  qui  cavalleria ,  mitologia  > 
allegoria,  e  tutto  il  suo  mondo  classico,  tutte  le  sue  re- 
miniscenze dantesche,  e  si  chiude  nella  sua  società,  e  ci 
vive  e  ci  gode,  perchè  ivi  trova  sé  stesso,  perchè  vive 
anche  lui  di  quella  vita  comune.  Par  cosi  facile  attin- 
gere la  società  in  questa  forma  diretta  e  immediata,  pur 
si  vede  quanto  laboriosa  gestazione  è  necessaria,  perchè 
esca  alla  luce  il  mondo  del  tuo  spirito. 

Quel  mondo  esisteva  prima  del  Becamerone.  In  Italia 
abbondavano  romanzi  e  novelle  e  canzoni  latine,  canti 
licenziosi.  Le  donne,  come  abbiam  visto,  leggevano  se- 
cretamente  tra  loro  questi  libri  profani ,  e  i  novellatori 
intrattenevano  le  liete  brigate  con  racconti  piacevoli  e 
licenziosi.  Il  fondo  comune  de'  romanzi  erano  le  avven- 
ture de'  cavalieri  della  Tavola  rotonda  e  di  Carlomagno. 
Nell'Amorosa  visione  il  Boccaccio  cita  un  gran  numero 
di  questi  eroi  ed  eroine ,  Artù  ,  Lancillotto ,  Galeotto , 
Isotta  la  bionda,  Chedino,  Palamides,  Lionello,  Tristano, 
Orlando,  Uliviero,  Rinaldo,  Guttifrè,  Roberto  Guiscardo, 
Federico  Barbarossa,  Federico  IL  Egli  medesimo  scrisse 
romanzi  per  far  piacere  alle  donne,  e  rifatto  il  romanzo 
di  Florio  e  Biancofiore,  cercò  un  teatro  più  conforme  ai 


—  330  — 

suoi  studii  classici  ne'  tempi  eroici  e  primitivi  delle  gre- 
che  tradizioni.  Pure  le  novelle  doveano  riuscire  più  po- 
polari e  più  gradite,  perchè  più  conformi  a'  tempi  e  a'  co. 
stumi.  E  se  ne  affazzonavano  o  inventav  a  no  di  ogni  sorta 
serie  e  comiche,  morah  e  oscene,  variate  e  abbellite  dai 
novellatori  secondo  i  gusti  dell  'uditorio.  La  novella  era 
dunque  un  genere  vivente  di  lettera  tura,  lasciato  in  balìa 
dell'  immaginazione  e  come  materia  profana  e  frivola , 
trascurata  dagli  uomini  colti.  Rivale  della  novella  era 
la  leggenda  coi  suoi  miracoli  e  le  sue  visioni.  Gli  uomini 
colti  si  tenevano  alter  in  una  regione  loro  propria  e  la- 
sciavano a' frati  i  Fioretti  di  san  Francesco  e  la  vita  del 
beato  Colombino,  e  a' buontemponi  la  semplicità  di  Calan- 
drino e  le  avventure  galanti  di  Alatiel. 

In  questo  mondo  profano  e  frivolo  entrò  il  Boccac- 
cio, con  non  altro  fine  che  di  scrivere  cose  piacevoli  e 
far  cosa  grata  alla  donna  che  glie  ne  avea  data  com- 
missione. E  raccolse  tutta  quella  materia  informe  e  roz- 
za, trattata  da  illetterati,  e  ne  fece  il  mondo  armonico 
dell'  arte. 

Dotte  ricerche  sonosi  fatte  sulle  fonti  dalle  quaU  il 
Boccaccio  ha  attinte  le  sue  novelle.  E  molti  credono  si 
tolga  qualche  cosa  alla  sua  gloria,  quando  sia  dimostrato 
che  la  più  parte  de' suoi  racconti  non  sono  sua  inven- 
zione, quasi  che  il  merito  dell'artista  fosse  neh' inven- 
tare, e  non  piuttosto  nel  formare  la  materia.  Fatto  è  che 
la  materia  cosi  nella  Commedia  e  nel  Canzoniere,  come 
nel  Decamerone,  non  uscì  dal  cervello  di  un  uomo,  anzi 
fu  il  prodotto  di  una  elaborazione  collettiva,  passata  per 
diverse  forme  insino  a  che  il  genio  non  l'ebbe  fissata  e 
fatta  eterna. 

Ci  erano  in  tutti  i  popoli  latini  novelle  sotto  diversi 
nomi,  ma  non  e'  era  la  novella,  e  tanto  meno  il  Novel- 
liere, in  cui  i  singoli  racconti  fossero  composti  ad  unità 
e  divenissero  un  mondo  organico.  Questo  organismo  vi 


^  331  — 

spirò  dentro  il  Boccaccio  e  di  racconti  diversi  di  tempi» 
di  costumi  e  di  tendenze  fece  il  mondo  vivente  del  suo 
tempo^  la  società  contemporanea,  della  quale  egli  aveva 
tutte  le  tendenze  nel  bene  e  nel  male. 

Non  è  il  Boccaccio  uno  spirito  superiore  che  vede  la 
società  da  un  punto  elevato  e  ne  scopre  le  buone  e  cat- 
tive parti  con  perfetta  e  severa  coscienza.  È  un  artista 
che  si  sente  uno  con  la  società  in  mezzo  a  cui  vive,  a 
la  dipinge  con  quella  mezza  coscienza  che  hanno  gli  uo- 
mini fluttuanti  fra  le  mobili  impressioni  della  vita  senza 
darsi  la  cura  di  raccogliersi  e  analizzarle.  Qualità  che 
lo  distingue  sostanzialmente  da  Dante  e  dal  Petrarca , 
spiriti  raccolti,  ed  estatici.  Il  Boccaccio  è  tutto  nel  mondo 
di  fuori  tra'  diletti  e  gli  ozii  e  le  vicissitudini  della  vita 
e  vi  è  occupato  e  soddisfatto,  e  non  gli  avviene  mai  di 
piegarsi  in  sé,  di  chinare  il  capo  pensoso.  Le  rughe  del 
pensiero  non  hanno  mai  traversata  quella  fronte  e  nes- 
sun' ombra  è  calata  sulla  sua  coscienza.  Non  a  caso  fu 
detto  Giovanni  della  tranquillità.  Sparisce  con  lui  dalla 
nostra  letteratura  l'intimità,  il  raccoglimento,  l'estasi, 
la  inquieta  profondità  del  pensiero,  quel  vivere  dello  spi- 
T'ito  in  sé,  nutrito  di  fantasmi  e  di  misteri.  La  vita  sale 
sulla  superficie  e  vi  si  liscia  e  vi  si  abbellisce.  Il  mondo 
dello  spirito  se  ne  va  :  viene  il  mondo  della  natura. 

Questo  mondo  superficiale  ,  appunto  perchè  vuoto  di 
forze  interne  e  spirituali ,  non  ha  serietà  di  mezzi  e  di 
scopo.  Ciò  che  lo  move,  non  è  Dio,  nò  la  scienza,  non 
l'Amore  unitivo  dell'intelletto  e  dell'atto,  la  grande  base 
del  medio  evo;  ma  è  l' istinto  o  l' inclinazione  naturale  : 
vera  e  violenta  reazione  contro  il  misticismo.  Ti  vedi 
innanzi  una  lieta  brigata,  che  cerca  dimenticare  i  mali 
e  le  noie  della  vita ,  passando  le  calde  ore  della  gior- 
nata in  piacevoli  racconti.  Era  il  tempo  della  peste ,  e 
gU  uomini  con  la  morte  innanzi  si  sentivano  sciolti  da 
ogni  freno  e  si   abbandonavano  al  carnevalo  della  loro 


^  332  — 

immaginazione.  Di  questo  carnevale  il  Boccaccio  aveva 
r  immagine  della  Corte  ove  avea  passati  i  suoi  più  bei 
giorni,  attingendo  le  sue  ispirazioni  in  quel  letame,  sul 
quale  le  Muse  e  le  Grazie  sparsero  tanti  fiori.  Un  con- 
gegno simile  trovi  già  nell'Ameto,  un  decamero ne  pa- 
storale :  se  non  che  ivi  i  racconti  sono  allegorici  e  preor- 
dinati ad  un  fine  astratto  :  non  e'  è  lo  spirito  della  Di- 
vina Commedia,  ma  ce  n'  è  l'ossatura.  Qui  al  contra- 
rio i  racconti  non  hanno  altro  fine  che  di  far  passare  il 
tempo  piacevolmente,  e  sono  veri  mezzani  di  piacere  e 
d'  amore ,  il  vero  Principe  Galeotto ,  titolo  italiano  del 
Novelliere,  velato  pudicamente  da  un  titolo  greco.  I  per- 
sonaggi evocati  neir  immaginazione  da  diversi  popoli  e 
tempi  appartengono  allo  stesso  mondo,  vuoto  al  di  den- 
tro, corpulento  al  di  fuori.  Personaggi,  attori,  spettatori 
e  scrittore ,  sono  un  mondo  solo ,  il  cui  carattere  è  la 
vita  tutta  al  di  fuori ,  in  una  tranquilla  spensieratezza. 
Questo  mondo  è  il  teatro  de'  fatti  umani  abbandonati 
al  libero  arbitrio  e  guidati  ne'  loro  effetti  dal  caso.  Dio 
0  la  Provvideuza  ci  sta  di  nome  ,  quasi  per  un  tacito 
accordo  nelle,  parole  di  gente  caduta  nella  più  profonda 
indifferenza  religiosa,  politica  e  morale.  E  non  c'è  neppure 
quella  intima  forza  delle  cose,  che  crea  la  logica  degli 
avvenimenti  e  la  tiecessità  del  loro  cammino;  anzi  l'at- 
trattivo del  racconto  è  proprio  nell'opposto,  mostrando 
le  azioni  umane  per  il  capriccio  del  caso  riuscire  a  un 
fine  affatto  contrario  a  quello  che  ragionevolmente  si  pò- 
tea  presupporre.  Nasce  una  nuova  specie  di  maraviglioso, 
generato  non  dall'  intrusione  nella  vita  di  forze  oltrena- 
turali sotto  forma  di  visioni  o  miracoli,  ma  da  uno  straor- 
dinario concorso  di  accidenti  non  possibiU  ad  essere  pre- 
veduti e  regolati.  L'  ultima  impressione  è  che  signore  del 
mondo  è  il  caso.  Ed  è  appunto  nel  vario  giuoco  delle  in- 
clinazioni e  delle  pa^tìioni  degli  uomini  sottoposte  ai  mu- 


—  333  — 

tabilì  accidenti  della  vita  che  è  qui  il  Deus  eoo  machi- 
na,  il  Dio  di  questo  mondo. 

E  poiché  la  macchina  è  il  maraviglioso,  T  imprevisto, 
il  fortuito,  lo  straordinario,  T  interesse  del  racconto  non 
è  nella  moralità  degli  atti,  ma  nella  loro  straordinarietà 
di  cause  e  di  effetti.  Non  già  che  il  Boccaccio  sconosca 
il  mondo  morale  e  religioso,  ed  alteri  le  nozioni  comuni 
intorno  al  bene  od  al  male,  ma  non  è  questo  di  che  si 
preoccupa  e  che  lo  appassiona.  Poco  a  lui  rileva  che  i) 
fatto  sia  virtuoso  o  vizioso  ;  ciò  che  importa  è  che  possa 
stuzzicare  la  curiosità  con  la  straordinarietà  degli  acci- 
denti e  dei  caratteri.  La  virtù  posta  qui  a  fare  effetto 
suir  immaginazione  manca  di  sempl  icità  e  di  misura  e  di- 
viene anch'  essa  un  istrumento  del  maraviglioso  ,  con- 
dotta ad  una  esagerazione,  che  scopre  nell'autore  il  vuoto 
della  coscienza  ed  il  difetto  di  senso  morale.  Esempio  no- 
tabile è  la  Griselda,  il  personaggio  più  virtuoso  di  quel 
mondo.  La  quale  per  mostrarsi  buona  moglie  soffoca  tutti 
i  sentimenti  della  natura  e  la  sua  personalità  e  il  suo  li- 
bero arbitrio.  L'autore,  volendo  foggiare  una  virtù  straor- 
dinaria, che  colpisca  di  ammirazione  gli  uditori,  cade  in 
quel  misticismo  contro  di  cui  si  ribella  e  che  mette  in 
gioco,  collocando  1'  ideale  della  virtù  femminile  nell'ab- 
dicazione della  personalità  ,  a  quel  modo  che  secondo 
r  ideale  teologico  la  carne  è  assorbita  dallo  spirito  e  lo 
spirito  è  assorbito  da  Dio.  Si  rinnova  il  sacrificio  di  A- 
bramo,  e  il  Dio  che  mette  la  natura  a  cosi  crudel  pro- 
va ,  è  qui  il  marito.  Similmente  la  virtù  in  Tito  e  Gi- 
sippo è  collocata  cosi  fuori  del  corso  naturale  delle  cose, 
che  non  ti  alletta  come  un  esempio,  ma  ti  stupisce  come 
un  miracolo.  Ma  virtù  eccezionali  e  spettacolose  sono 
rare  apparizioni,  e  ciò  che  spesso  ti  occorre,  e  la  virtù 
tradizionale  di  tempi  cavallereschi  e  feudali ,  una  certa 
generosità  e  gentilgizza  di  re,  di  principi,  di  marchesi i 
reminiscenze  di  storie  cavalieresche  ed  eroiche  in  tempi 


—  334  — 

borghesi.  La  qual  virtù  è  in  questo  che  il  principe  usa 
la  sua  potenza  e  protezione  dei  minori ,  e  soprattutto 
degli  uomini  valenti  d' ingegno  e  di  studii  e  poco  favo- 
riti dalla  fortuna,  come  furono  Primasso  e  Bergami- 
no, verso  i  quali  si  mostrarono  magnifici  l'abate  di  Cli- 
gny  e  Can  Grande  della  Scala.  Così  è  molto  commen- 
dato il  primo  Carlo  d'Angiò,  il  quale,  potendo  rapire  e 
sforzare  due  bellissime  fanciulle,  figliuole  di  un  ghibelli- 
no, amò  meglio  dotarle  magnificamente  e  maritarle.  La 
virtù  in  questi  potenti  signori  e  di  non  fare  malvagio 
uso  della  loro  forza,  anzi  di  mostrarsi  liberali  e  cortesi. 
Già  cominciava  in  quel  mondo  a  parer  fuori  una  classe 
di  letterati,  che  viveva  alle  spese  di  questa  virtù,  cele- 
brando con  giusto  cambio  una  magnificenza,  della  quale 
assaporavano  gli  avanzi.  L'  anima  altera  di  Dante  mai 
vi  si  piegava,  né  gh  fu  ultima  cagione  d'amarezza  quel 
mendicare  la  vita  a  frusto  a  frusto  e  scendere  e  salire 
per  le  altrui  scale.  Ma  i  tempi  non  erano  più  all'eroica, 
e  il  Petrarca  si  lasciava  dotare  e  mantenere  da' suoi  me- 
cenati, e  il  Boccaccio  vivea  de'  rilievi  della  corte  di  Na- 
poh ,  comicamente  imbestiato  ,  quando  il  mantenimento 
non  era  dicevole  a  un  par  suo,  disposto  da'  buoni  o  dai 
cattivi  cibi  al  panegirico  o  alla  satira.  Tale  è  il  tipo  di 
ciò  che  in  questo  mondo  boccaccevole  è  chiamato  la  virtù, 
una  liberalità  e  gentilezza  d'animo,  che  dalle  castella  pe- 
netra nelle  città  e  fino  ne' boschi  asilo  de' masnadieri , 
della  quale  sono  esempio  Natan,  e  il  Saladino,  e  Alfonso, 
e  Ghino  di  Tacco,  e  il  negromante  di  Ansaldo.  Questo 
se  non  è  propriamente  senso  morale,  è  pur  senso  di  gen- 
tilezza, che  raddolcisce  i  costumi  e  spoglia  la  virtù  del 
suo  carattere  teologico  e  mistico,  posto  nell'astinenza  e 
nella  sofferenza,  le  dà  aspetto  piacevole,  più  conforme  ad 
una  società  colta  e  allegra.  Vero  è  che  siccome  il  caso, 
regolatore  di  questo  mondo,  ne  fa  di  ogni  maniera,  ta- 
lora l'allegria  che  vi  domina  è  funestata  da  tristi  acci- 


—  335  — 

denti,  che  turbano  il  bel  sereno.  Ma  è  una  nuvola  im- 
provvisa, la  quale  presto  si  scioglie  e  rende  più  cara  la 
vista  del  sole,  o  come  dice  la  Fiammetta  ,  è  una  fiera 
materia,  data  a  temperare  alquanto  la  letizia.  Volendo 
guardare  più  profondamente  in  questo  fenomeno,  osser- 
viamo che  la  gioia  ha  poche  corde,  e  sarebbe  cosa  mo- 
notona, noiosa  e  perciò  poco  gioiosa,  come  avviene  spesso 
ne' poemi  idillici,  se  il  dolore  non  vi  si  gttasse  entro  con 
le  sue  corde  più  varie  e  più  ricche  d'armonia,  traen- 
dosi  appresso  un  corteggio  di  vivaci  passioni,  1'  amore, 
la  gelosia,  1'  odio  lo  sdegno,  l' indignazione.  Il  dolore  ci 
sta  qui  non  per  sé,  ma  come  istru mento  della  gioia,  stuz- 
zicando l'anima,  tenendola  in  sospensione  e  in  agitazio- 
ne, insino  a  che  per  benignità  della  fortuna  o  del  caso 
comparisce  d'improvviso  il  sereno.  E  quando  pure  il  fatto 
sorta  trista  fine  ,  com'  è  in  tutti  i  racconti  della  gior- 
nata quarta,  l'emozione  è  superficiale  ed  esterna,  esa- 
lata e  raddolcita  in  descrizioni ,  discorsi  e  riflessioni ,  e 
non  condotta  mai  sino  allo  strazio,  com'  è  nel  fiero  do- 
lore di  Dante.  Sono  fugaci  apparizioni  tragiche  in  que- 
sto mondo  della  natura  e  dell'amore,  provocate  appunto 
dalla  collisione  della  natura  e  dell'amore  non  con  un  prin* 
cipio  elevato  di  morahtà,  ma  con  la  virtù  cavalleresca, 
il  punto  d'oìiore.  Di  che  bellissimo  esempio,  oltre  il  Ger- 
bino, è  il  Tancredi,  che  testimone  della  sua  onta  uccide 
l'amante  della  figliuola,  e  mandale  il  cuore  in  una  coppa 
d'oro:  la  quale,  messa  sopra  esso  acqua  avvelenata,  quella 
si  bee  e  così»  muore.  Il  motivo  della  tragedia  è  il  punto 
d'  onore ,  perchè  ciò  che  move  Tancredi  è  1'  onta  rice- 
vuta, non  solo  per  l'amore  della  figliuola,  ma  ancora  più 
per  l'amore  ccJlocato  in  un  uomo  di  umile  nazione.  Ma 
la  figliuola  dimostra  vittoriosamente  al  padre  la  legitti- 
mità del  suo  amore  e  della  sua  scelta,  invocando  le  leggi 
della  natura  e  il  concetto  della  vera  nobiltà  posta  non 
nel  sangue,  ma  nella  virtù  •  e  l'ultima  impressione  è  la 


—  336  — 

condanna  del  Padre  indarno  pentito  e  piangente  sul  morta 
corpo  della  figliuola,  il  quale  apparisce  non  come  giusto 
vendicatore  del  suo  onore  offeso,  ma  come  ribelle  verso 
la  natura  e  l'amore.  L' effetto  estetico  è  la  compassione 
verso  il  padre  e  la  figliuola,  T  una  di  alto  animo,  1'  al- 
tro umano  e  di  benigno  ingegno,  vittime  tutti  e  due  non 
per  difetto  proprio,  ma  per  le  condizioni  del  mondo  in 
mezzo  a  cui  vivono.  La  conclusione  ultima  è  la  riven- 
dicazione delle  leggi  della  natura  e  dell'  amore  verso  gli 
ostacoli  in  cui  s' intoppano.  Sicché  la  tragedia  è  qui  il 
suggello  e  la  riprova  del  mondo  boccaccevole ,  e  il  do- 
lore fugace  che  vi  fa  la  sua  comparsa,  presentato  nella 
sua  forma  più  mite  e  tenera,  vicina  alla  compassione,  è 
come  il  condimento  della  gioia,  a  lungo  andare  insipida, 
quando  sia  abbandonata  a  sé  stessa. 

La  base  della  tragedia  è  mutata.  Non  é  più  il  terrore 
che  invade  gli  spettatori  incontro  a  un  Fato  incompren- 
sibile che  si  manifesta  nella  catastrofe,  come  nei  greci, 
e  neppure  1'  espiazione  per  le  leggi  di  una  giustizia  su- 
periore, come  neir  inferno  dantesco;  ma  è  il  mondo  ab- 
bandonato alle  sue  forze  naturali  e  cieche,  nel  cui  con- 
flitto rimane  l'amore  come  una  specie  di  diritto  superiore, 
incontro  a  cui  tutti  hanno  torto.  La  natura  che  nel  mondo 
dantesco  è  il  peccato ,  qui  è  la  legge ,  ed  ha  contro  di 
sé  non  un  mondo  religioso  e  morale ,  di  cui  non  è  ve- 
stigio, ancorché  ammesso  in  astratto  e  in  parola,  ma  la 
società  come  si  trova  ordinata  in  quel  complesso  di  leggi, 
di  consuetudini  che  si  chiamano  1'  onore.  Il  conflitto  è 
tutto  però  al  di  fuori  nell'  ordine  de'  fatti  prodotti  dal 
diverso  urto  di  queste  forze  e  terminati  dalla  benignità 
o  malvagità  del  caso  o  della  fortuna;  e  non  sale  a  vera 
opposizione  interna  che  sviluppi  le  passioni  e  i  caratteri. 
Il  poeta  non  è  un  ribelle  alle  leggi  sociaU  e  tanto  meno 
un  riformatore  ;  prende  il  mondo  com'  é,  e  se  le  sue  sim- 
patie sono  per  le  vittime  dell'amore,  non  biasima  per- 


—  337  — 

ciò  coloro  che  dall'  onore  sono  mossi  ad  atti  crudeli,  an- 
ch' essi  degni  di  stima  ,  vittime  anch'  essi.  Così  esalta 
Gerbino  che  volle  romper  la  fede  data  dal  re,  suo  zio, 
anzi  che  mancare  alle  leggi  dell'  amore  ed  esser  tenuto 
vile;  ma  non  biasima  il  re  che  lo  fece  uccidere,  volendo 
anzi  senza  nipote  rimanere,  eh'  essere  tenuto  re  senza 
fede.  Ne  nasce  in  mezzo  all'  agitazione  dei  fatti  esteriori 
una  calma  interna,  una  specie  di  equilibrio,  dove  1'  emo- 
zione non  penetra  se  non  quanto  è  necessario  a  ravvi- 
vare e  variare  1'  esistenza.  Perciò  in  questo  mondo  bor- 
ghese e  indifferente  e  naturale  la  tragedia  rimane  esteriore 
e  superficiale,  naufragata  qui  come  un  frammento  gal- 
leggiante nella  vastità  delle  onde.  Il  movimento  non  ha 
radice  nella  coscienza,  nelle  forti  convinzioni  e  passioni 
stimolate  dal  contrato,  ma  si  scioglie  in  un  giuoco  di 
immaginazione,  in  una  contemplazione  artistica  de'  varii 
casi  della  vita,  che  sorprendano  e  attirino  la  tua  atten- 
zione. Per  dirla  con  un  solo  vocabolo  comprensivo,  virtù 
e  vizi  qui  non  hanno  altro  significato  che  di  avventure, 
ovvero  casi  straordinarii  tirati  in  iscena  dal  capriccio  del 
caso.  Gli  uditori  non  vi  prendono  altro  interesse  che  di 
trovarvi  materia  a  passare  il  tempo  con  piacere  ;  e  del 
loro  piacere  è  mezzana  la  stessa  virtù  e  lo  stesso  dolore. 
Un  mondo,  il  cui  Dio  è  il  caso,  e  il  cui  principio  di- 
rettivo è  la  natura,  non  è  solo  spensierato  e  allegro,  ma 
è  anche  comico.  Già  quel  non  prendere  in  nessuna  se- 
rietà gli  avvenimenti  e  farne  un  giuoco  di  pura  immagi- 
nazione, quell'intreccio  capriccioso  de'  casi,  quell' equìH- 
brio  interno  che  si  mantiene  sereno  tra  le  più  crudeli 
vicissitudini ,  sono  «il  terreno  naturale  su  cui  germina  il 
comico.  Un'  allegrezza  vuota  d' intenzione  e  di  significato 
è  cosa  insipida,  è  appunto  quel  riso  che  abbonda  nella 
bocca  degli  stolti.  Perchè  il  riso  abbia  malizia  o  intel- 
hgenza,    dee    avere  una  inlenzioue  e  un  significato,  dee 

De  SanctJB  —  L«tt.  Ital.  Voi    K  22 


—  338  — 

esser  comico.  E  il  comico  dà  a  questo  mondo  la  sua  fi- 
sonomia  e  la  sua  serietà. 

Questa  società  è  essa  medesima  una  materia  comica, 
perchè  niente  è  più  comico,  che  una  società  spensierata 
e  sensuale,  da  cui  escono  i  tipi  di  Don  Gróvanni  e  di 
Sancio  Panza.  Ma  è  una  società  che  rappresentava  a  quel 
tempo  quanto  di  più  intelligente  e  colto  era  nel  mondo , 
e  ne  avea  coscienza.  Una  società  siffatta  aveva  il  pri- 
vilegio di  esser  presa  sul  serio  da  tutto  il  mondo  e  di 
poter  ridere  essa  di  tutto  il  mondo.  In  effetti  due  cose 
serie  sono  in  questa  novella,  V  apoteosi  dell'ingegno  e 
della  dottrina  che  si  fa  riconosc  ere  e  rispettare  da'  più 
potenti  signori,  e  una  certa  alte  rezza  borghese  che  prende 
il  suo  posto  nel  mondo  e  si  prò  clama  nobile  al  pari  dei 
baroni  e  de'  conti.  Questi  sono  i  caratteri  di  quella  classe 
a  cui  apparteneva  il  Boccaccio,  istruita,  intelligente,  che 
teneva  sé  civile  e  tutto  1'  altro  barbarie.  E  il  comico  qui 
nasce  appunto  da  questo:  è  la  caricatura  che  l'uomo  in- 
telligente fa  delle  cose  e  degli  uomini  posti  in  uno  strato 
inferiore  della  vita  intellettuale.  La  società  colta  aveva 
innanzi  a  sé  i  frati  ed  i  preti;,  o  come  dice  il  Boccaccio, 
le  cose  cattoUche,  orazioni,  confessioni,  prediche^  digiuni, 
mortificazioni  della  carne,  visioni  e  miracoli;  e  dietro  stava 
la  plebe  con  la  sua  sciocchezza  e  la  sua  credulità.  So- 
pra questi  due  ordini  di  cose  e  di  persone  il  Boccaccio 
fa  sonare  la  sferza. 

Materia  del  comico  è  dunque  1'  efficacia  delle  orazioni, 
come  il  paternostro  di  san  Giù  liano,  il  modo  di  servire 
Dio  nel  deserto,  la  vita  pratica  de'  fr^ati ,  dei  preti  e  delle 
monache  in  contraddizione  con  le  loro  prediche ,  1'  arte 
della  santificazione  insegnata  a  fra  Puccio,  i  miracoh  e 
le  apparizioni  de' santi;,  come  1'  apparizione  dell'angelo 
Gabriello,  e  la  semplicità  della  plebe,  trastullo  dei  furbi. 
Visibile  soprattutto  é  la  reazione  della  carne  contro  gli 
eccessivi  rigori  di  un  clero  che   proscriveva  il  teatro  e 


—  339  — 

la  lettura  de'  romanzi,  e  predicava  i  digiuni  e  i  cilizi  co- 
iti '  la  via  al  paradiso.  È  una  reazione  che  si  annunzia 
naturalmente  con  la  licenza  e  il  cinismo.  La  carne  sco- 
municata si  vendica,  e  chiama  meccanici  i  suoi  maldi- 
centi, cioè  gente  che  giudica  grossamente  secondo  1'  opi- 
nione volgare.  Così  il  mondo  dello  spirito  in  quelle  sue 
forme  eccessive  è  divenuto  per  questa  ^enle  il  mondo 
volgare.  È  immaginabile  con  che  voluttà  la  carne,  dopo 
la  lunga  compressione  di  sfoghi,  con  che  dehzia  ti  pon- 
ga innanzi  ad  uno  ad  uno  i  suoi  godimenti,  scegliendo 
i  modi  e  le  frasi  più  scomunicate,  e  talora  volgendo  a 
senso  osceno  frasi  e  immagini  sacre.  È  il  mondo  pro- 
fano in  aperta  ribellione,  che  ha  rotto  il  freno  e  fa  la 
caricatura  al  padrone,  cadutogli  di  sella.  Su  questo  fondo 
comico  s' intreccia  una  grande  varietà  di  accidenti,  di  cui 
sono  gli  eroi  i  due  protagonisti  immortah  di  tutte  le  com- 
medie ,  chi  burla  e  chi  si  fa  burlare,  i  furbi  e  i  gonzi, 
€  di  questi  i  più  martoriati  e  i  più  innocenti,  i  mariti. 
E  fra  tanti  accidenti  si  sviluppa  una  grande  ricchezza  di 
caratteri  comici ,  de'  quali  alcuni  sono  rimasti  veri  tipi, 
come  il  cattivello  di  Calandrino  e  lo  scolare  vendicativo 
che  sa  dove  il  diavolo  tien  la  coda.  I  caratteri  scrii  sono 
piuttosto  singolarità  che  tipi,  individui  perduti  nella  mi- 
nutezza ed  eccezionalità  della  loro  natura,  come  Griselda, 
Tito,  il  conte  di  Anguersa,  madama  Beritola,  Ginevra  e 
la  Salvestra,  e  l' Isabetta  e  la  figlia  di  Tancredi.  Ma  i 
caratteri  comici  sono  la  parte  viva  e  intima  e  sentita 
di  questo  mondo,  e  riflettono  in  sé  fisonomie  universali 
che  incontrate  neh'  uso  comune  della  vita,  come  compar 
Pietro,  e  maestro  Simone,  e  Fra  Puccio,  e  il  frate  mon- 
tone, e  il  giudice  squasimodeo,  e  Monna  Belcolore,  e  To- 
fano, e  Gianni  Lotteringhi,  tutte  le  varietà,  perchè  in- 
finita è  la  turba  degli  stolti.  Così  questo  mondo  spen- 
sierato e  gioviale  si  disegna ,  prende  contorni,  acquista 
una  l^sonomia,  diviene  la  Couunedia  umana. 


—  340  — 

Ecco,  a  così  breve  distanza,  la  Commedia  e  1' Anti- 
commedia, la  Divina  Commedia  e  la  sua  parodia  ,  la 
commedia  umana!  e  sullo  stesso  suolo  e  nello  stesso  tempo 
Passavanti,  Cavalca,  Caterina  da  Siena,  voci  dell'  altro 
mondo,  soverchiate  dall'  alto  e  profano  riso  di  Giovanni 
Boccaccio.  La  gaia  scienza  esce  dal  suo  sepolcro  col  suo 
riso  incontaminato  ;  i  trovatori  e  i  novellatori  spenti  dai 
ferri  sacerdotali  tornano  a  vita  e  ripigliano  le  danze  e 
lo  gioiose  canzoni  nella  guelfa  Firenze;  la  novella  e  il 
romanzo,  proscritti,  proscrivono  alla  lor  volta  e  riman- 
gono padroni  assoluti  della  letteratura.  Certo,  questo  mu- 
tamento non  viene  improvviso,  come  appare  un  moto  di 
terra;  lo  spirito  laicale  è  visibile  in  tutta  la  letteratura 
e  si  continua  con  tradizione  non  interrotta,  come  s'  è  vi- 
sto, insino  a  che  nella  Divina  Commedia  prende  ardi- 
tamente il  suo  posto  e  si  proclama  anch'  esso  sacro  e  di 
diritto  divino,  e  Dante  laico  assume  tono  di  sacerdote  e, 
di  apostolo.  Ma  Dante  il  fa  con  tanta  industria  che  tutto 
r  edificio  stia  in  piedi  e  la  base  rimanga  salda.  La  sua 
Commedia  è  una  riforma;  la  commedia  del  Boccaccio  è 
una  rivoluzione ,  dov-e  tutto  V  edifìcio  crolla  e  sulle  sue 
rovine  escono  le  fondamenta  di  un  altro. 

La  Divina  Commedia  usci  dal  numero  de'  libri  viventi, 
e  fu  interpretata  come  un  libro  classico,  poco  letta,  poco 
capita,  pochissimo  gustata,  ammirata  sempre.  Fu  divina, 
ma  non  fu  viva.  E  trasse  seco  nella  tomba  tutti  quei 
generi  di  letteratura,  i  cui  germi  appaiono  così  vivaci  e 
vigorosi  ne'  suoi  schizzi  immortali,  la  tragedia,  il  dram- 
ma, r  inno,  la  laude,  la  leggenda,  il  mistero.  Insieme  pe- 
rirono il  sentimento  della  famiglia  e  della  natura,  e  della 
patria,  la  fede  in  un  mondo  superiore,  il  raccoghmento 
e  r  intimità ,  le  caste  gioie  dell'  amicizia  e  dell'  amore , 
r  ideale  e  la  serietà  della  vita.  In  questo  immenso  mondo, 
crollato  prima  di  venire  a  maturità  e  produrre  tutti  i 
suoi  frutti,  ciò  che  rimase  fecondo,  fu  Malebolge,  il  re* 


—  341  -~ 

gno  della  malizia,  la  sede  della  umana  commedia.  Quei 
Malabolge  che  Dante  gitta  nel  loto,  e  dove  il  riso  è  so- 
verchiato dal  disgusto  e  dalla  indignazione,  eccolo  qui 
<5he  mena  sulla  terra  la  sua  ridda  infernale,  abbigliato 
^alle  Grazie,  e  si  proclama  esso  il  vero  paradiso,  corno 
capì  don  Felice,  e  non  capì  il  povero  frate  Puccio.  In 
effetti  qui  il  mondo  è  preso  a  rovescio.  Commedia  per 
Dante  è  la  beatitudine  celeste.  Commedia  pel  Boccaccio 
è  la  beatitudine  terrena,  la  quale  tra  gli  altri  piaceri  dà 
anche  questo,  di  passare  la  malinconia  spassandosi  alle 
spalle  del  cielo.  La  carne  si  trastulla,  e  chi  ne  fa  le  spese, 
è  lo  spirito. 

Se  la  reazione  contro  uno  spiritualismo  esagerato  e 
lontanissimo  della  vita  pratica  fosse  venuta  da  lotta  vi- 
vaci nelle  alte  regioni  dello  spirito,  il  movimento  sarebbe 
stato  più  lento  e  più  contrastato,  come  negli  altri  popoli, 
ma  insieme  più  fecondo.  Il  contrasto  avrebbe  fortificata 
la  fede  negli  uni  e  le  convinzioni  negli  altri,  e  generata 
una  letteratura  piena  di  vigore  e  di  sostanza,  alla  quale 
non  sarebbe  mancata  né  la  passione  di  Lutero,  né  1'  e- 
loquenza  di  Bossuet,  né  il  dubbio  di  Pascal,  né  le  forme 
letterarie  possibili  solo  dove  la  vita  interiore  è  forte  e 
sana.  Così  il  movimento  sarebbe  stato  insieme  negativo 
e  positivo,  il  distruggere  sarebbe  stato  insieme  T edifi- 
care. Ma  le  audacie  del  pensiero  punite  inesorabilmente, 
troncata  col  sangue  Y  opposizione  ghibellina ,  rimaso  il 
papato  arbitro  e  vicino  e  sospettoso  e  vigile,  quel  mondo 
rehgioso  così  corrotto  ne*  costumi,  come  assoluto  nelle 
dottrine  e  grottesco  nelle  forme,  al  contatto  con  una  col- 
tura cosi  rapida  e  con  lo  spirito  fatto  adulto  e  maturo 
dello  studio  degli  antichi  scrittori,  non  potè  esser  preso 
sul  serio  dalla  gente  colta  che  pure  é  quella  che  ha  in 
mano  l' indirizzo  della  vita  nazionale.  Nacque  a  questo 
modo  la  scissura  tra  la  gente  colta  e  tutto  il  rimanente 
della  società  che  pure  era  la  gran  maggioranza,  rimasa 


—  342  — 

passiva  e  inerte  in  mano  al  prete  di  Varlungo,  a  donno 
Gianni,  a  frate  Rinaldo  e  a  frate  Cipolla.  Sicché  per  la 
gente  istruita  quel  mondo  divenne  il  mondo  del  volgo  , 
o  de'  meccanici,  e  saperne  ridere  era  segno  di  coltura: 
ne  ridevamo  anche  i  chierici  che  volevan  esser  tenuti 
uomini  colti.  Così  coesistevano  Tjana  accanto_air  altra 
due  società  distinte,  senza  troppo  molestarsi.  La  hberf  à 
del  pensiero  era  negata;  vietato  mettere  in  dubbio  la 
dottrina  astratta,  ma  quanto  alla  pratica  era  un  altro 
affare,  si  viveva  e  si  lasciava  vivere  trastullandosi  tutti 
e  sollazzandosi  nel  nome  di  Dio  e  di  Maria.  Gli  stessi 
predicatori  ne  davano  esempio,  cercando  di  divertire  il 
pubblico  con  motti  e  ciance  ed  iscede,  cosa  che  al  buon 
Dante  muoveva  Io  stomaco,  e  che  faceva  ridere  il  Boc- 
caccio scrivendo  nella  conclusione  del  suo  Novelliere  : 
«  Se  le  prediche  de'  frati  per  rimorder  delle  lor  colpe  gli 
uomini  il  più  oggi  piene  di  motti  e  di  ciance  e  di  scede 
si  veggono,  estimai  che  quegU  medesimi  non  stesser  male 
nelle  mie  novelle,  scritte  per  cacciar  la  maHnconia  delle 
femmine  ».  L'indignazione  di  Dante  era  caduta:  soprav- 
venne il  riso,  come  di  cose  oramai  comuni.  Non  si  move 
la  bile  se  non  in  quelli  che  credono  e  veggono  profa- 
nata la  loro  credenza  ne'  fatti,  è  la  bile  de'  santi  e  di 
tutti  gli  uomini  di  coscienza.  Ma  quella  colta  società, 
vuota  di  senso  religioso  e  morale ,  non  era  disposta  a 
guastarsi  la  bile  per  i  difetti  degU  uomini.  Le  sfacciate 
donne  fìoreniine  qui  allettano  e  lasciviano  e  fanno  qica- 
dri  viventi,  come  si  dice  e  si  fa  oggidì.  Il  traffico  delle 
cose  sacre,  occasione  allo  scisma  della  credente  Germa- 
nia ,  e  che  Dante  nella  nobile  ira  sua  chiama  adulterio , 
qui  è  materia  di  amabili  frizzi,  senza  fiele  e  senza  mali- 
zia. La  confessione  suggerisce  l' idea  di  equivoci  molto 
ridicoh,  ne'  quali  sono  i  laici  e  le  laiche,  che  la  fanno 
a'  preti,  uomini  tondi  e  grossi,  come  si  mostra  nel  con- 
fessore di  ser  Ciappelletto,  e  nel  frate  Bestia,  carattere 


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comico  de'  meglio  disegnati.  Il  foggiar  miracoli,  come  quel 
di  Masetto  1'  ortolano,  e  del  mal  capitato  Martellino,  o 
di  frate  Alberto,  o  di  frate  Cipolla,  il  fabbricar  santi  e 
renderli  miracolosi,  come  è  di  ser  Ciappelletto,  è  rap- 
presentato con  r  allegoria  comica  di  gente  colta  e  in- 
credula. Profanazioni  simili  fanno  ridere,  perchè  le  cose 
profanate  non  ispirano  più  riverenza. 

Questa  società  tal  q^uale,  sorpresa  calda  calda  neir  atto 
della  vita,  è  trasportata  nel  Decamerone :  quadro  im- 
menso della  vita  in  tutte  le  sue  varietà  di  caratteri  e 
di  accidenti  i  più  atti  a  destare  la  maraviglia,  sul  quale 
spicca  Malebolge  tirato  dall'  inferno  e  messo  sul  prosce- 
nio, il  mondo  sensuale  e  licenzioso  della  furberia  e  della 
ignoranza,  entro  cui  si  move  senza  mescolarvisi  un  mondo 
colto  e  civile,  il  mondo  della  cortesia,  riflesso  di  tempi 
cavallereschi,  vestito  un  po'  alla  borghese,  spiritoso,  ele- 
gante, ingegnoso,  gentile,  di  cui  il  più  bel  tipo  è  Fede- 
rigo degli  Alberighi.  Gli  abitanti  naturali  di  questo  mondo 
sono  preti  e  frati  e  contadini  e  artigiani  e  umili  borghesi 
e  mercatanti,  con  un  corteggio  femminile  corrispondente, 
e  le  alte  risa  plebee  di  questo  perpetuo  carnevale  co- 
prono le  donne  e  i  cavalieri,  le  armi  e  gh  amori,  le  cor- 
tesie e  le  imprese  di  quel  mondo  dello  spirito,  della  col- 
tura, dell'ingegno  e  della  eleganza,  allegro  anch'esso» 
ma  di  un'  allegrezza  costumata  e  misurata,  magnifico  ne- 
gli atti,  avvenente  nelle  forme,  e  nel  parlare  e  ne'  modi 
decoroso.  Questi  due  mondi,  le  cui  varietà  si  perdono  nello 
sfondo  del  quadro,  vivono  insieme,  producendo  un'  im- 
pressione unica  e  armonica  di  un  mondo  spensierato  e 
superficiale ,  tutto  al  di  fuori  nel  godimento  della  vita, 
menato  in  qua  e  in  là  da'  capricci  della  fortuna. 

Questo  doppio  mondo  cosi  armonizzato  nelle  sue  va- 
rietà riceve  la  sua  intonazione  dall'  autore  e  dalla  lieta 
brigata  che  lo  introduce  in  iscena.  L'  autore  e  suoi  no- 
vellatori appartengono  alla  classe  colta  e  intelligente.  Essi 


—  344  — 

invocano  spesso  Dio,  parlano  della  chiesa  con  rispetto_^ 
osservano  tutte  le  forme  religiose,  fanno  vacanza  il  ve- 
nerdì, perchè  in  quel  giorno  il  nostro  Signore  per  la  no- 
stra vita  mori,  cantano  canzoni  platoniche  e  allegori- 
che ,  e  menano  vita  allegra ,  ma  costumata  e  quale  a 
gentili  persone  si  richiede.  Lo  spirito,  1'  eleganza,  la  col- 
tura, le  muse  rendono  questa  società  amabile ,  come  oggi 
si  riscontra  ne'  circoH  più  eleganti.  Specchio  suo  è  ouel 
mondo  della  cortesia,  reminiscenza  feudale  abbellita  dalla 
coltura  e  dallo  spirito,  alla  cui  immagine  si  dipinge  la 
colta  e  ricca  borghesia.  E  come  quel  mondo  feudale  avea 
i  suoi  buffoni  e  giullari,  questa  società  ha  anch'  essa  chi 
la  rallegri.  E  i  suoi  giullari  e  buffoni  sono  quell'  infinito 
mondo  che  le  si  schiera  innanzi,  preti,  frati,  contadini, 
artigiani,  di  cui  prendono  spasso,  traendo  piacere  cosi 
dai  babbei  come  dai  furbi.  In  questo  comico  non  ci  è 
punto  una  intenzione  seria  e  alta,  come  correggere  i  pre- 
giudizii,  assaUre  le  istituzioni,  combattere  l'ignoranza, 
moralizzare^  riformare:  nel  che  sta  la  superiorità  del  co- 
comico  di  Rabelais  e  di  Montaigne,  che  è  la  reazione  del 
buon  senso  contro  un  mondo  artificiale  e  convenzionale. 
Lì  il  riso  è  serio,  perchè  lascia  qualche  cosa  nella  co- 
scienza; qui  il  riso  è  per  il  riso,  per  passare  mahnconia, 
per  cacciare  la  noja.  Quel  mondo  plebeo  è  guardato  co- 
me fa  un  pittore  il  modello,  senz'  altra  intenzione  che  di 
pigliare  i  contorni  e  i  lineamenti  e  mettere  in  vista  ciò 
che  può  meglio  trastullare  la  nobile  brigata.  Neil'  im- 
menso naufragio  sopravviveva  la  coscienza  letteraria  e 
il  sentimento  artistico  fortificato  dallo  spirito  e  dalla  col- 
tura :  ed  è  da  quella  coscienza  che  sono  usciti  questi  ca- 
polavori, i  modelU  ideahzzati  a  uso  e  piacere  di  una  so- 
cietà intelligente  e  sensuale  dal  geniale  artista,  idolo  delle 
giovani  donne  a  cui  sono  intitolati. 

L' ideale  comico  rimasto  come  il  suggello  dell'  immor- 
talità su  questi  modelli  è  nella  rappresentazione  diretta 


—  345  — 

di  questa  società,  così  com'è,  nella  sua  ignoranza  e  nella 
sua  malizia  messa  al  cospetto  di  una  società  intelligente, 
che  sta  lì  a  bella  posta  per  applaudire  e  batter  le  mani. 
Il  motivo  comico  non  esce  dal  mondo  morale,  ma  dal 
mondo  intellettuale.  Sono  uomini  colti  che  ridono  alle 
spalle  degli  uomini  incolti  che  sono  i  più.  Perciò  il  ca- 
rattere dominante  che  rallegra  la  scena  è  una  certa  sem- 
plicità di  spirito  di  nature  inculte^  messe  in  risalto  quando 
si  trova  a  contatto  con  la  furberia:  ciò  che  costituisce 
il  fondo  del  carattere  sciocco.  Con  la  millanteria  è  con- 
giunta spesso  la  credulità ,  la  vanità,  la  malinconia,  la 
volgarità  de'  desiderii.  La  furberia  dà  il  rilievo  a  questo 
carattere,  si  che  lo  metta  in  vista  nel  suo  aspetto  ridi- 
colo. Ma  la  furberia  è  anch'  essa  comica,  non  certo  allo 
sciocco,  ma  agi'  intelligenti  uditori  che  la  comprendono. 
Cosi  i  due  attori  concorrono  ciascuno  per  la  parte  sua 
a  produrre  il  riso.  Qui  è  il  fondamento  della  commedia 
boccaccevole.  Si  vede  la  coltura  in  quel  suo  primo  fio- 
rire mostrar  coscienza  di  se,  volgendo  in  gioco  l' igno- 
ranza e  la  malizia  delle  classi  inferiori.  Il  comico  ha  più 
sapore  quando  i  beffatti  sono  quelli  che  ordinariamente 
beffano,  quando  cioè  i  furbi  che  burlano  i  semplici,  sono 
alla  lor  volta  burlati  dagl' intelligenti ,  com' è  il  confes- 
sore burlato  dalla  sua  penitenteTl 

Il  comico  talora  vien  fuori  per  un  improvviso  motto 
0  facezia,  che  illumina  tutta  una  situazione,  e  provoca 
il  riso  di  un  tratto  e  irresistibilmente  :  ciò  che  oggi  si 
direbbe  un  tratto  di  spirito.  Sono  brevi  novelle,  il  cui  sa- 
pore, come  nel  Sonetto,  è  tutto  nella  chiusa.  Di  questo 
genere  è  la  novella  del  giudeo,  che  guardando  a  Roma 
la  corruzione  cristiana  si  converte  al  cristianesimo.  La 
chiusa  sopraggiunge  così  improvvisa  e  così  disforme  alle 
premesse,  che  V  effetto  è  grande.  E  ce  n'  è  parecchie  al- 
tre di  questo  stampo,  e  non  molto  felici,  perchè  V  au- 
tore lavora  sopra  un  motto  già  trovato  e  noto.  Tali  sono 


—  346  — 

le  novelle  della  Marchesana  di  Monferrato,  di  Guglielmo 
Borsiere  e  di  Maestro  Alberto.  Questi  fuochi  incrociati  di 
motti  e  di  frizzi  che  brillano  con  tanto  splendore  ne'  circoli 
eleganti  e  bastano  ad  acquistarti  riputazióne  di  uomo  di 
spirito,  sono  la  parte  più  appariscente,  ma  più  elementare 
dello  spirito.  La  fucina  dove  si  fabbricavano  motti, facezie, 
proverbi,  epigrammi,  frizzi,  era  la  scuola  de'  trovatori  e 
della  gaia  scienza.  Moltissimi  di  questi  motti  si  erano  già 
accasati  nel  dialetto  fiorentino,  e  con  molti  altri  usciti  dal- 
l'immaginazione di  un  popolo  cosi  svegliato  o  arguto.  Il 
Decamerone  ne  è  seminato.  Ma  questi  motti,  appunto  per- 
chè entrati  già  nel  corpo  della  lingua,  non  sono  altro  che 
parole  e  frasi,  un  dizionario  morto,  e  raccoglierli. e  infilarli 
come  fa  il  Burchiello,  non  è  da  uomo  di  spirito.  Sono  i  co- 
lori del  comico ,  non  sono  il  comico  esso  medesimo.  Sono 
il  patrimonio  già  acquistato  dello  spirito  nazionale,  e  per- 
ciò mancanti  di  quella  freschezza  e  di  queir  imprevisto 
che  è  la  qualità  essenziale  dello  spirito  ;  né  possono  con- 
seguire un  effetto  estetico  se  non  associandosi  a  qualche 
cosa  di  nuovo  e  d'  inaspettato,  trovato  allora  allora  che 
ti  vengono  sotto  la  penna.  Ciò  fa  che  il  Burchiello  è  insi- 
pido e  il  Boccaccio  è  spiritoso;  perchè  per  il  Boccaccio  i 
motti  e  i  frizzi  non  sono  scopo  a  sé  stessi,  ma  un  semplice 
mezzo  di  stile,  il  colorito. 

Lo  spirito  nel  suo  senso  elevato  è  nel  comico  quello  che 
il  sentimento  è  nel  serio^  una  facoltà  artistica.  E  come  il 
sentimento,  così  lo  spirito  è  un  grande  condensatore,  dando 
una  velocità  di  percezione  che  ti  faccia  cogliere  di  un 
tratto  sotto  contrarie  apparenze  il  simile  o  il  dissimile. 
Dove  la  sagacia  giunge  per  via  di  riflessione ,  lo  spirito 
giunge  di  un  salto  e  intuitivamente.  T  figli  di  Ugolino  nel- 
r  esaltazione  del  sentimento  dicono:  Tu  ne  vestisti  questo 
misere  carni  e  tu  le  spoglia.  Qui  il  sentimento  opera  nel 
serio  quello  che  nel  comico  lo  spirito;  congiunge  improv- 
visamente e  in  una  sola  frase  idee  e  immagini  diverse. 


—  347  — 

Ma  per  giungere  a  quosta  produzione  geniale  è  necessario 
che  lo  spirito  sia  anch'  esso  un  sentimento,  il  sentimento 
del  ridicolo,  cioè  a  dire  stando  in  mezzo  al  suo  mondo  ne 
provi  tutte  le  emozioni,  e  ci  viva  entro  e  ci  si  spassi,  pi- 
gliandovi lo  stesso  interesse  che  altri  piglia  nelle  cose  più 
serie  della  vita.  Pure  1'  emozione  dee  esser  quella  di  uno 
spettatore  intelligente,  anzi  che  di  un  attore  mescolato  in 
mezzo  a'  fatti,  sì  che  tu  guardi  quella  calma  e  prontezza 
di  animo,  che  ti  tenga  superiore  allo  spettacolo:  ond'  è 
che  il  vero  uomo  di  spirito  fa  ridere,  e  non  ride,  lui.  È 
questa  calma  superiore  che  rende  lo  spinto  padrone  del 
suo  mondo  e  glielo  fa  foggiare  a  sua  guisa,  annodando 
le  fila,  sviluppando  i  caratteri,  disegnando  le  figure ,  di- 
stribuendo i  colori. 

Lo  spirito  del  Boccaccio  è  meno  nell'  intelletto  che  Del- 
l' immaginazione ,  meno  nel  cercar  rapporti  lontani  che 
nel  produrre  forme  comiche.  Lo  studio  che  i  suoi  an- 
tecessori pongono  a  spiritualizzare,  lui  lo  pone  a  incor- 
porare. E  cerca  l'effetto  non  in  questo  o  quel  tratto, 
ma  neir  insieme  nella  massa  degU  accessorii  tutti  stretti 
come  una  falange.  Gli  antecessori  fanno  schizzi:  egli  fa 
descrizioni.  Quelli  cercano  l'impressione  più  che  l'og- 
getto; egh  si  chiude  e  si  trincera  nell'  oggetto  e  lo  per- 
corre e  rivolta  tutto.  Perciò  spesso  hai  più  il  corpo  e 
meno  l'impressione;  più  sensazione  che  sentimento;  più 
immaginazione  che  fantasia;  più  sensuahtà  che  voluttà. 
Mancano  1  profumi  a'  suoi  fiori,  mancano  i  raggi  alla  sua 
luce.  È  una  luce  opaca,  per  troppa  densità  e  ripetizione 
di  sé  stessa.  Questa  maniera  nelle  cose  serie  è  insop- 
portabile come  nel  Filocolo  e  nell'Amato  con  quelle  in- 
terminabili descrizioni  e  orazioni,  dove  ti  senti  come  are- 
nato e  che  non  vai  innanzi.  E  ti  offende  anche  talora 
nel  Decamerone,  quando  per  esempio  si  fa  parlare  Tita 
0  la  figliuola  di  Tancredi  con  tutte  le  regole  della  ret- 
torica  e  della  logica.  Ma  nel  comico  questa  maniera  ò 


—  348  — 

una  delle  sue  forme  più  naturali,  e  la  prima  a  compa- 
rire neir  arte  dopo  quella  esplosione  rudimentale  di  motti 
e  di  proverbi.  Perchè  il  comico  è  il  regno  del  finito  e 
del  senso,  e  le  prime  sue  impressioni  sono  singolarizzate 
nelle  minute  pieghe  degli  oggetti,  dove  nel  serio  le  pri- 
me impressioni  ti  danno  allegorie  e  personificazioni,  for- 
me generalizzate  neh'  intelletto.  Questa  prima  forma  del 
comico  è  la  caricatura. 

La  quale  è  la  rappresentazione  diretta  dell'  oggetto  , 
fatta  in  modo  che  sia  messo  in  vista  il  suo  lato  difet- 
toso e  ridicolo.  Certo,  basterebbe  metterti  sott'  occhio  il 
difetto,  e  lasciarti  indovinare  tutto  il  resto.  Un  solo  tratto 
di  spirito  illumina  tutto  il  corpo  e  te  lo  presenta  all'  im- 
maginazione. Ma  il  Boccaccio  non  se  ne  contenta,  e  co- 
me fa  il  pittore  ti  disegna  tutto  il  corpo,  scegliendo  e 
distribuendo  in  modo  gli  accessorii  e  i  colori  ,  che  ne 
venga  maggior  luce  sul  lato  difettoso.  Di  che  nasce  che 
il  ridicolo  non  rimane  isolato  su  quel  punto,  ma  si  spande 
su  tutta  r  immagine,  di  cui  ciascuna  parte  concorre  al- 
l' effetto,  apparecchiando,  graduando,  e  producendo  una 
specie  di  crescendo  nella  scuola  del  comico.  Il  riso,  per- 
chè vi  sei  ben  preparato  e  disposto,  di  rado  ti  viene  im- 
provviso e  irresistibile,  come  in  quei  brevi  tratti  che  ti 
presentano  rapporti  inaspettati ,  anzi  spesso  più  che  riso 
è  una  gioia  uguale  che  ti  tiene  in  uno  stato  di  pacata 
soddisfazione.  Non  ti  senti  eccitato  ;  ti  senti  appagato. 
Non  ridi ,  ma  hai  la  faccia  spianata  e  contenta ,  e  ti 
si  vede  il  riso  sotto  le  guance,  non  tale  però  che  deb- 
ba per  forza  scattar  fuori  in  quella  forma  contratta  e 
convulsa.  Il  quale  effetto  nasce  da  questo  che  1'  autore 
non  ti  presenta  una  serie  di  rapporti  usciti  dall'  intel- 
letto, ma  una  serie  di  forme  uscite  dall'  immaginazione. 
E  sono  forme  piene,  carnose,  togate,  minutamente  di- 
segnate. L'  autore  come  obbliato  in  questo  mondo  del- 
l' immaginazione  ha  aria  di  non  aggiungervi  niente  del 


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suo,  egli  che  ne  è  il  mago.  E  tu  ci  stai  dentro  come  in- 
cantato. L'  autore  non  si  distrae  mai,  non  mette  il  capo 
fuori  per  fare  una  smorfia  che  provochi  il  riso,  non  tratta 
il  suo  argomento,  come  cosa  frivola,  e  piglia  e  lascia  e 
torna.  Quella  è  la  sua  idea  fissa,  e  lo  incalza  e  lo  tiene 
e  tiraselo  appresso,  e  non  gli  dà  fiato,  se  non  sia  uscita 
tutta  fuori.  E  tu  non  ti  distrai,  ti  senti  come  dondolato 
deliziosamente  nella  tua  contemplazione  ,  né  il  riso  che 
talora  ti  coglie  t' interrompe,  che  subito  ti  ci  rituffi  en- 
tro e  corri  e  corri,  e  il  corso  è  finito,  e  tu  corri  an- 
cora dolcemente  naufragato.  Ma  non  è  il  mondo  orien- 
tale, dove  r  immaginazione,  quasi  fatta  ebbra  dall'  oppio, 
salta  fremente  dalle  braccia  dell'  amore  pe'  vasti  campi 
dell'  infinito,  e  ti  fa  provare  quel  sentimento  che  dicesi 
voluttà  e  che  è  l' infinito  nel  senso ,  quel  vago  e  inde- 
finito e  musicale  che  tra  gli  abbracciamenti  ti  rivela  Dio. 
Questo  è  un  mondo  prettamente  sensuale,  chiuso  e  ap- 
pagato in  forme  precise  e  rotonde,  da  cui  niente  è  che 
ti  stacchi  e  ti  rapisca  in  alte  regioni.  Appunto  perchè 
questi  fiori  non  mandano  profumi,  e  queste  luci  non  git- 
tano  raggi,  tu  hai  sensazioni  e  non  sentimenti,  immagi- 
nazione e  non  fantasia,  sensualità  e  non  voluttà.  Il  réve 
scompare.  L'  estasi  non  tiene  più  assorti  i  tuoi  sguardi. 
Hai  trovato  il  tuo  paradiso  in  quella  realtà  piena  e  attraen- 
te. Diresti  che  la  carne  in  questo  suo  primo  riapparire  nel 
mondo  ti  si  sveli  nel  suo  tripudio  tutta  nuda,  ed  empia  di 
lusinghe  e  di  vezzi  il  tuo  paradiso.  Perciò  la  forma  di 
questo  paradiso  è  cinica,  anche  più  dove  un  senso  iro- 
nico di  modestia  è  una  civetteria  che  riaccende  il  senso. 
Poiché  la  forma  di  questo  mondo  è  la  caricatura,  uscita 
da  una  immaginazione  abbondante,  mmuta  disegnatrice, 
hai  innanzi  non  punte  e  rialzi,  ma  1'  oggetto  intero  nello 
sue  più  fine  gradazioni.  Breve  ne'  preliminari  e  nella  di- 
pintura astratta  di  personaggi,  l'autore  alza  subito  il 
sipario  e  ti  trovi  in  piena  azione  che  si  movono  e  par- 


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lano.  E  già  fin  da'  primi  lineamenti  ti  balza  innanzi  il 
motivo  comico,  che  ti  si  sviluppa  a  poco  a  poco  per  via 
di  gradazioni  1'  una  entrata  nelle  altre  con  effetto  cre- 
scente. Il  Boccaccio  vi  spiega  quella  qualità  che  i  Fran- 
cesi mirando  alla  forza  nel  suo  calore  e  nella  sua  faci- 
lità chiama  verve  ^  e  noi  chiamiamo  brio  mirando  alla 
forza  nella  sua  allegra  genialità.  Di  che  maraviglioso 
esempio  è  la  novella  di  Alibech,  e  l'altra  di  ser  Ciap- 
pelletto. A  render  più  piccante  la  caricatura  serve  l' iro- 
nia, che  qui  è  forma  non  sostanziale  ma  accessoria.  Ed 
è  un'apparente  bonomia,  un'aria  d'  ingenuità,  con  la 
quale  il  narratore  fa  il  pudico  e  lo  scrupoloso,  e  non  vuol 
credere,  e  pur  crede,  e  si  fa  la  croce  con  un  sogghigno. 
Questa  ironia  è  come  una  specie  di  sale  comico  che  rende 
più  saporito  il  riso  a  spese  del  paternostro  di  San  Giu- 
liano e  de'miracoli  di  ser  Ciappelletto. 

Essendo  base  di  questo  mondo  la  descrizione,  cioè  l'og- 
getto non  ne'  suoi  raggi  e  ne'  suoi  profumi,  cioè  a  dire 
nelle  sue  impressioni,  ma  nel  suo  corpo  singolarizzato  ed 
individuato,  ha  bisogno  di  forme  piene  e  ricche,  e  cosi 
nascono  le  due  forme  della  nuova  letteratura,  l'ottava 
rima  nella  poesia,  e  il  periodo  nella  prosa. 

Abbiamo  già  vista  la  nona  rima  svilupparsi  con  ma- 
gnificenza orientale  nel  poema  l' Inlelligenza.  L'  ottava 
rima  non  è  inventata  dal  Boccaccio,  come  non'  è  sua  in- 
venzione il  periodo.  Ma  è  lui  che  le  dà  un  corpo  e  l' in- 
tonazione. Prima  di  lui  1'  ottava  rima  è  un  accozzamento 
slegato  e  fortuito,  dove  diversi  oggetti  sono  ficcati  in- 
sieme a  caso,  che  potrebbero  assai  bene  star  da  sé.  Stanno 
li  dentro  oggetti  nudi,  non  ci  è  un  solo  oggetto  svilup- 
pato e  addobbato.  L'  ottava  rima  è  un  meccanismo,  non 
è  ancora  un  organismo.  Il  Boccaccio  ha  fatto  dell'  ot- 
tava una  totalità  organica ,  ed  è  Y  oggetto  che  si  svi- 
luppa a  poco  a  poco  nelle  suo  gradazioni.  Ben  trovi  nei 
suoi  poemi  ottave  felici;  ma  in  generale  elle  sono  impi- 


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gliate,  mal  costruite,  e  in  sul  più  bello  ti  cascano.  Nel 
genere  eroico  ti  riesce  sforzato  e  teso;  nel  genere  idil- 
lico ti  riesce  volgare  e  abbandonato.  Gli  è  che  l'ottava 
neir  ampiezza  e  magnificenza  delle  sue  costruzioni  è  la 
maggiore  idealità  della  forma  poetica,  e  richiede  un' at- 
tività geniale  che  manca  al  Boccaccio  errante  in  un  mondo 
artificiale  e  convenzionale.  Il  difetto  è  tutto  al  di  dentro 
nell'anima;  ciò  che  freddamente  è  concepito,  nasce  de- 
bole e  mal  congegnato  e  non  ci  vale   artifìcio. 

Qui  al  contrario  1'  autore  è  a  casa  sua:  pinge  un  mon- 
do, in  cui  vive,  a  cui  partecipa  con  la  più  grande  sim- 
patia, e  tutto  in  esso  ,  gitta  via  ogni  involucro  artifi- 
ciale. Ci  è  in  lui  qualche  cosa  più  che  il  letterato,  ci  è 
r  uomo  che  vi  guazza  entro  e  vi  si  dimena  e  vi  si  stro- 
fìm.  e  vi  lascivia.  E  n'  esce  una  forma,  che  è  quel  mondo 
esso  medesimo,  di  cnii  sente  gli  stimoli  nella  carne  e  nel- 
r  immaginazione.  Così  è  venuta  fuori  quella  forma  di 
prosa,  che  si  chiama  il  periodo  boccaccevole. 

A  quel  tempo  il  grande  movimento  letterario  che  a- 
veva  il  suo  centro  a  Firenze  si  era  di  poco  allargato 
fuori  di  Toscana.  La  restaurazione  dell'  antichità  che  pre- 
sentava all'immaginazione  nuovi  orizzonti,  il  mondo  greco 
che  allora  spuntava  appena,  involto  in  quel  vago  chia- 
roscuro che  accresce  le  illusioni,  tirava  a  sé  1'  atten- 
zione. La  lingua  di  Dunte  non  era  ancora  hngua  italia- 
na ;  la  chiamavano  idioma  fiorentino.  La  lingua  era  sem- 
pre il  latino,  nò  era  mutata  1'  opinione  che  di  sole  cose 
frivole  e  amorose  si  potesse  scrivere  in  latino  volgare, 
come  si  chiamavano  i  dialetti.  11  Boccaccio  dice  di  so 
che  scrive  in  idioma  fiorentino,  e  quelli  che  usavano -il 
volgare  dice  che  scrivevano  in  latino  volgare.  Il  tipo  di 
perfezione  era  sempre  il  latino ,  e  l' ideale  vagheggiato 
dalla  classe  et'udita  era  un  volgare  nobile  o  illustre,  se- 
condo quel  modello  configurato,  un  volgare  alzato  a  quella 
stessa  perfezione  di  forma.  Queato  tentò  Dante  nel  Con- 


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Vito,  con  piena  fede  che  il  volgare  fosse  acconcio  ad 
esprimere  le  più  gravi  speculazioni  della  scienza  non  al- 
trimenti che  il  latino,  e  quello  scolastico  latino  volgare 
0  volgare  latino,  nudo  e  tutto  ossa  e  nervi,  parve  per 
la  prima  volta  magnificamente  addobbato  nelle  larghe 
pieghe  della  toga  romana.  Ma  la  pece  scolastica  s'  era 
appiccata  anche  a  Dante,  e  quella  barbarie  delle  scuole 
sta  cosi  in  quelle  ampie  forme  a  disagio,  come  un  con- 
tadino vestito  à  festa  in  abito  cittadinesco.  Non  ci  è  fu- 
sione, ci  è  punte  e  contrasti. 

Il  Boccaccio  non  era  uscito  dalle  scuole,  e  quando  più 
tardi  studiò  filosofia  e  un  po'  anche  teologia,  il  suo  spi- 
rito era  già  formato  neh'  esperienza  della  vita  comune, 
neir  uso  del  suo  volgare  e  nello  studio  de'  classici.  Come 
il  Petrarca,  ha  in  abbominio  gli  scolastici,  ne'  quali  vede 
proprio  il  contrario  di  quella  elegante  coltura  greca  e 
romana,  vede  la  barbarie  e  la  rozzezza.  Regnano  nel  suo 
spirito  Divinità,  Virgilio  e  Oyidio  e  Livio  e  Cicerone^  e 
non  ci  è  bibbia  che  tenga,  e  non  ci  è  San  Tommaso. 
Quando  vuol  dipingere  alcun  lato  serio,  morale  o  scien- 
tifico ,  del  suo  mondo ,  la  sua  imitazione  è  un  artificio 
esterno  e  meccanico,  perchè  ha  più  immaginazione  che 
sentimento  e  più  intelletto  che  ragione.  La  sua  forma  e 
decorosa,  nobile,  spesso  disimpacciata,  ma  troppo  uguale 
e  placida,  e  talora  ti  fa  sonnacchiare.  Il  periodo  è  un 
rumor  d'  onde  u'niforme ,  mosse  faticosamente  da  mare 
stanco  e  sonnolento.  Manca  V  ispirazione,  supplisce  la  ret- 
torica  e  la  logica.  Il  che  avviene,  perchè  il  Boccaccio, 
separato  dalle  immagini  e  gittato  nel  vago  del  sentimente 
0  neir  astratto  del  discorso  ,  perde  il  piede  e  va  giù* 
Tratta  le  idee  come  fossero  corpi,  e  analizza  e  minuteg- 
gia  che  è  uno  sfinimento.  Le  idee  sono  luoghi  comuni 
annacquati  in  un  viavai  di  piccoli  e  oziosi  accessorii,  di- 
stinzioni, riserve,  condizioni,  se,  ma,  avvegnaché  e  con- 
ciossiacosaché. Uno  studio    soverchio  di  esattezza ,    una 


—  353  — 

notomìa   minuta  di  ogni  pensieruzzo  mette  pii  in  vista 
la  volgarità  e  insipidezza  dell'idea.  La  forma  si  stacca 
visibilmente  dalla  cosa,  e  appare  un  meccanismo  inge- 
gnoso, lavorato  accuratamente  e  sempre  quello.  Cosa  c'è 
sotto?  Il  luogo  comune.  Questo   fu  chiamato  più  tardi 
forma  letteraria.  E  non  c'è  cosa  più  contraria  alla  scienza, 
che  è  parola  e  non  frase,  e  mal  si  riconosce  nelle  circon- 
locuzioni, nelle  perifrasi  e  ne'  pleonasmi.  In  questo  arti- 
fìcio ci  è  un  progresso  ;  ci  è  queir  arte  de'  nessi  e  delle 
gradazioni,  che  mancava  alla  prosa,  e  rivela  uno  spirito 
adulto,  educato  dai  classici.  Ma  ci  è  il  difetto  opposto, 
un  volere  di  ogni  idea  fare  una  catena  cominciata  e  ter- 
minata in  sé,  ciò  che  è  un  pantano,  e  non  acqua  cor- 
rente. Il  Boccaccio  odia  gli  scolastici;  ma  il  suo  periodo 
non  è  che  sillogismo  mascherato,  una  frase  generica, come 
umana  cosa  e  aver  compassione  degli  afflitti,  che  per 
molti  andirivieni  riesce  in  qualche   volgare  moraUtà.  11- 
formulario  è  divenuto  un  meccanismo  ben  congegnato;  ma 
il  fojado  è  lo  stesso.  Vedi  lo  scolastico  vestito  a  nuovo 
e  ];)il  alla  moda.  Se  1'  ampio  giro  del  periodo  boccacce- 
vole  è  una  catena  artificiale  dove  la  scienza  perde  la  sua 
i^ftmplicità  ed  elas  ticità  e  la  sua  libertà  di  movimento,  non 
è  meno  assurdo  nell'  espressione  del  sentimento,  la  forza 
più  libera  e  indisciplinabile  dello  spirito  che  spezza  tutti 
i  legami  della  logica  e  sbalza  fuori  con  rapidità.  I  bru- 
schi e  tragici  movimenti  dell'  animo  qui  sono  come  cri- 
stallizzati tra  congiunzioni,  parentesi  e  ragionamenti.  Manca 
ogni  subbiettività  :  ti  è  difficile  guardare  al  di  dentro  nella 
Coscienza,  i  casi  sono  straordinari,  i  fatti  interessanti,  le 
situazioni  drammatiche,  e  non  ti  viene  la  lagrima,  e  non 
ti  senti  commosso,  perchè  V  anima  non  si  manifesta  che 
in  frasi  comuni  e  rigirate.  Veggasi  la  novella  di  madama 
Beritola,  e  1'  altra  del  conte  d'  Anguersa,  ove  tra'  più  pie- 
tosi accidenti  e  mutazioni  della  fortuna  non  si  muta  la 
forma,  sempre  attillata  e  guantata.  Pure  qua  e  là  si  sento 

De  SanctlB-Lett.  Ital.  Voi.  I.  23 


—  354  — 

una  certa  non  dirò  commozione,  ma  emozione  di  una  im- 
maginazione calda,  e  n'escono  movimenti  sentimentali, 
come  nelle  ultime  parole  della  figliuola  di  Tancredi  e  in 
alcuni  tratti  della  Griselda. 

Questa  forma  di  periodo  che  si  affa  così  poco  alla 
scienza  e  al  sentimento,  dove  appare  un  mero  meccani- 
smo foggiato  alla  latina,  acquista  senso  e  moto,  quando 
il  teatro  della  vita  è  nell'  immaginazione ,  cioè  a  dire 
quando  l'autore  si  trova  nel  vivo  dell'azione,  non  con 
idee  e  sentimenti,  ma  con  oggetti  innanzi  ben  determi- 
nati. Tale  è  la  descrizione  della  peste,  o  del  combatti- 
mento di  Gerbino.  Perchè  il  fatto  non  è  come  l' idea,  uno 
e  semplice,  ma  come  il  corpo,  è  un  multiplo,  un  insieme 
di  circostanze  e  di  accessorii.  Questo  insieme  è  il  perio- 
do, il  quale  nella  sua  evoluzione  è  ciò  che  in  pittura  si 
chiama  un  quadro.  Aggruppare  le  circostaazO;  subordi- 
narle, coordinarle  intorno  ad  un  centro,  ombreggiare,  lu- 
meggiare, è  arte  somma  nel  Boccaccio.  La  descrizione, 
quando  sta  per  sé,  in  astratto  e  separata  dall'  azione,  non 
riscalda  abbastanza  l' immaginazione  o  riesce  fronzatj^a^ 
com'  è  spesso  nelle  introduzioni.  Ma  quando  ci  è  qualche 
cosa  che  si  move  e  cammina,  e  rassomiglia  ad  un'azio- 
ne, r  immaginazione  si  mette  in  moto  anche  lei,  e  assi- 
ste pacata  allo  spettacolo,  disegnando  e  facendo  quadri 
in  quelle  larghe  forme  che  si  chiamano  periodi.  Questa 
maniera  di  narrare  a  quadri  non  è  certo  1' andamento 
naturale  dell'  azione,  che  perde  V  impeto  e  1'  attrito,  ar- 
restata ne'  suoi  movimenti  più  rapidi  dall'  occhio  tran- 
quillo di  una  immaginazione  disegnatrice.  E  perciò  non 
è  maniera  conveniente  alla  storia,  e  non  è  prosa,  ma  è 
arte  in  forma  prosaica ,  e  narrazione  poetica.  Que'  qua- 
dri e  periodi  ti  danno  non  pur  1'  ordine  e  il  legame  e  il 
significato  de'  fatti,  ma  le  movenze,  le  attitudini,  le  gra- 
dazioni :  onde  nasce  quell'  effetto  d'  insieme  che  dicesi  fi- 
sonomia  o  ospressione. 


—  355  — 

Ma  dove  il  periodo  boccaccevole  diviene  una  creazione 
sili  generis,  un  organismo  vivente,  è  nel  lato  comico  e 
sensuale  del  suo  mondo.  E  non  già  che  vi  adoperi  mag- 
giore artitìcio  0  finezza;  ma  è  che  qui  ci  è  la  musa,  vale 
a  dire  tutto  un  mondo  interiore,  la  malizia,  la  sensua- 
lità, la  mordacità,  un  vero  sentimento  comico  e  sensua- 
le. Ed  è  questa  sentimentalità  la  sola  che  la  natura  ab- 
bia concessa  al  Boccaccio,  che  penetra  in  quei  flessuosi 
giri  della  forma  e  ne  fa  le  sue  corde.  Il  suo  periodo  è 
una  linea  curva  che  serpeggia  o  guizza  ne'  più  Hbidi- 
nosi  avvolgimenti,  con  rientrature,  e  spezzamenti,  e  spo- 
stamenti, e  riempiture,  e  sono  vezzi  e  grazie^  o  civette- 
rie di  stile  che  ti  pongono  innanzi  non  pur  lo  spettacolo 
nella  sua  chiarezza  prosaica,  ma  il  suo  motivo  sentimen- 
tale e  musicale.  Quelle  onde  sonore,  quelle  pieghe  am- 
pie della  forma  latina,  piena  di  gravità  e  di  decoro,  dove 
si  sente  la  maestà  e  la  pompa  della  vita  pubblica,  tra- 
sportata dal  foro  nelle  pareti  di  una  vita  privata  oziosa 
e  sensuale,  diventano  i  lubrici  volteggiamenti  del  pia- 
cere stuzzicato  dalla  malizia.  In  bocca  a  Tito,  a  Gisip- 
po, senti  la  rettorica  imitazione  di  un  mondo  fuori  della 
coscienza,  l'aria  è  pur  quella  ma  cantata  da  un  bor- 
ghese, che  non  ne  ha  il  sentimento  e  sbaglia  spesso  il 
motivo.  Qui  al  contrario,  in  questo  mondo  erotico  e  ma- 
lizioso, hai  la  stess'  aria  penetrata  da  un  altro  motivo 
che  la  soggioga  e  se  1'  assimila;  e  quelle  forme  magnilo- 
quenti che  arrotondivano  la.  bocca  degli  oratori,  arro- 
tondiscono  il  vizio  e  gli  danno  gli  ultimi  linimenti  e  al- 
lettamenti. I  latini  neir  espressione  del  comico  gittavano 
via  le  armi  pesanti  e  vestivano  alla  leggiera;  il  Boccac- 
cio concepisce  come  Plauto,  e  scrive  come  Cicerone.  Puro 
il  suo  con 'epiie  è  cosi  vivo  e  vero  che  Cicerone  si  tra- 
sforma nella  sua  immaginazione  in  una  Sirena  vezzosa 
che  tutta  in  sé  si  spezza  e  si  dimena.  Ma  spesso,  tutto 
dentro  nel  soggetto,  gitta  via  i  viluppi  e  i  contorcimenti, 


—  356  — 

e  salta  fuori  snello,  rapido,  diritto,  incisivo.  Maestro  di 
scorciatoie  e  di  volteggiamenti,  la  sua  immaginazione  co- 
vata da  un  sentimento  vero  spazia  come  padrona  tra 
forme  antiche  e  moderne  e  le  fonde  e  ne  fa  il  suo  mon- 
do, e  vi  lascia  sopra  il  suo  stampo.  Sarebbe  insopporta- 
bile questo  mondo  e  profondamente  disgustoso,  se  l'arte 
non  vi  avesse  profuse  tutte  le  sue  veneri,  inviluppando 
la  sua  nudità  in  quelle  ampie  forme  latine,  come  in  un 
velo  agitato  da  venti  lascivi.  L'  arte  è  la  sola  serietà  del 
Boccaccio,  solo  che  lo  renda  meditativo  fra  le  orgie  del- 
l' immaginazione,  e  gli  corrughi  la  fronte  nella  più  sfre- 
nata licenza,  come  avveniva  a  Dante  e  al  Petrarca  nelle 
loro  più  alte  e  pure  ispirazioni.  Di  che  è  uscito  uno  stile 
dove  si  trovano  fusi  i  varii  uomini  che  vivevano  in  lui, 
il  letterato,  1'  erudito,  1'  artista,  il  e  ortigiano,  Y  uomo  di 
studio  e  di  mondo,  uno  stile  cosi  personale,  così  intimo 
alla  sua  natura  e  al  suo  secolo,  che  F  imitazione  non  è 
possibile,  e  rimane  monumento  sohtario  e  colossale  fra 
tante  contraffazioni. 

Che  cosa  manca  a  questo  mondo  ? 

Mondo  della  natura  e  del  senso,  gli  manca  quel  sen- 
timento della  natura  e  quel  profumo  voluttuoso^  che  gli 
darà  il  Poliziano, 

Mondo  della  commedia,  gli  manca  quell'alto  sentimento 
comico  nelle  sue  forme  umoristic  he  e  capricciose  che  gli 
darà  Y  Ariosto. 

E  che  cosa  è  questo  mondo? 

È  il  mondo  cinico  e  malizioso  della  carne,  rimasto  nelle 
basse  sfere  della  sensualità  e  della  cari  catura  spesso  buf- 
fonesca ,  inviluppato  leggiadramente  nelle  grazie  e  nei 
vezzi  di  una  forma  piena  di  civetteria,  un  mondo  plebeo 
che  fa  le  fiche  allo  spirito,  grossolano  ne'  sentimenti,  rag- 
gentilito e  imbellettato  dall'  immaginazione  ,  entro  del 
quale  si  move  elegantemente  il  mondo  borgese  dello 
spirito  e  della  coltura  con  reminiscenze  cavalleresche. 


—  357  — 

È  la  nuova  Commedia,  non  la  divina,  ma  la  terrestre 
Commedia.  Dante  si  avvolge  nel  suo  lucco  ,  e  sparisce 
dalla  vista.  Il  medio  evo  con  le  sue  visioni,  le  sue  leg- 
gende, i  suoi  misteri,  i  suoi  terrori  e  le  sue  ombre  e  le 
sue  estasi  è  cacciato  dal  Tempio  dell'  arte.  E  vi  entra 
rumorosamente  il  Boccaccio  e  si  tira  appresso  per  lungo 
tempo  tutta  Y  Italia. 


L'ULTIMO  TRECENTISTA. 

L'ultima  voce  di  questo  secolo  è  Franco  Sacchetti, 
r  uomo  discolo  e  grosso.  Di  mezzana  coltura,  d' ingegno 
poco  al  di  là  del  comune,  ma  di  un  raro  buon  senso,  di 
poca  iniziativa  JL  originalità,  jna  di  molta  semplicità  e  na- 
turalezza, era  nella  sua  mediocrità  la  vera  eco  del  tem- 
po. Gli  facea  cerchio  la  turba  de'  rimatori ,  ripetizione 
stanca  del  passato,  il  lucchese  Guinigi  e  Matteo  da  S.  Mi- 
niato, e  Antonio  da  Ferrara,  e  Filippo  Albizi,  e  Giovanni 
d'Amerigo,  e  Francesco  degli  Organi,  e  Benuccio  da  Or- 
vieto, e  Antonio  da  Faenza,  e  Astorre  pur  da  Faenza, 
e  Antonio  Cocco,  e  Angelo  da  san  Geminiano,  e  Andrea 
Malavolti  e  Antonio  Piovano,  e  Giovanni  da  Prato,  e 
Francesco  Peruzzi,  e  Alberto  degli  Albizi,  e  Benzo  de'  Be- 
nedetti, che  lo  chiama  Eros  gentile  e  parecchi  altri.  E 
nostro  eroe  gentile  riceveva  e  mandava  sonetti,  eam- 
biando lodi  con  lodi.  Ultime  voci  de'  trovatori  italiani. 
^Luoghi  comuni  e  forma  barbara  annunziano  un  mondo 
\ tradizionale  ed  esaurito.  Ci  trovi  anche  sentimenci  mo- 
rali e  religiosi ,  ma  insipidi  e  freddi  come  un'  ave  maria 
ripetuta  moccanicamente  tutt'i  giorni.  Per  questo  lato 
il  Sacchetti  continua  il  passato,  la,  perchè  gli  altri  fan- 
no, pensa  così,  perchè  gli  altri  cosi  pensano,  piglia  il 
mondo  come  lo  trova,  senza  darsi  la  pena  di  esainmarlo. 
Questa  è  la  sua  parte  morta.  Ma  ci  è  una  parte  viva, 


—  358  — 

quella  a  cui  partecipa,  e  che  suona  nel  suo  spirito,  quella 
in  cui  apparisce  la  sua  personalità.  Ed  è  appunto  quel 
mondo  di  cui  il  Boccaccio  è  cosi  vivace  espressione. 

Franco  è  il  vero  uomo  della  tranquillità.  Il  Boccaccio 
sdegnava  1*  epiteto,  e  talora  voleva  sonare  la  tromba  o 
rappresentare  azioni  e  passioni  eroiche.  Franco  non  ha 
pretensioni,  e  si  mostra  com'  è  ed  è  contento  di  esser  cosi. 
E  uomo  stampato  all'  antica,  in  tempi  corrotti,  buon  cri- 
stiano e  insieme  nemico  degl'  ipocriti  e  mal  disposto 
verso  i  preti  e  i  frati,  diritto  ed  intero  nella  vita,  aheno 
dalle  fazioni,  benevolo  a  tutti,  talora  mordace^  ma  senza 
fiele,  modesto  estimatore  di  sé  e  lontanissimo  di  mettersi 
allato  a'  grandi  poeti  di  quel  tempo,  che  erano  secondo 
lui  i  contemporanei  Zanobi  da  Strada,  il  Petrarca  e  il 
Boccaccio.  QuaU  erano  i  desiderii  del  nostro  brav'  uomo? 
Menare  una  vita  tranquilla  e  riposata;  ed  era  il  più  con- 
tento uomo  del  mondo,  quando  in  villa  o  in  città  potea 
darsi  buon  tempo  fra  le  allegre  brigate,  motteggiando, 
novellando,  sonetteggiando.  Ci  è  in  lui  dell'  idillico  e  del 
comico.  Ama  la  villa,    perchè  in  città 

Mal  vi  si  dice,  e    di  ben  far  vi  è  caro; 

e  nelle  sue  cacce,  nelle  sue  ballate  senti  non  di  rado  la 
freschezza  dell'  aura  campestre,  come  è  quella  così  briosa 
delle  donne  che  givano  cogliendo  fiori  per  un  boschetto, 
e  l'altra  delle  montanine,  di  una  grazia  cosi  ingenua. 
In  città  è  un  burlone  pieno  il  capo  di  motti^di  facezie» 
di  fattereUi,  e  te  li  snocciola  come  gli  escono,  con  tutto 
il  sapore  del  dialetto ,  e  con  un'  aria  di  bonomia  che  ne 
accresce  1'  effetto.  I  suoi  sonetti  e  le  canzoni  sono  molto 
al  di  sotto  de'  madrigali  e  ballate  o  canzoni  a  ballo,  di 
un  andare  svelto  e  allegro,  dove  non  mancano  pensieri 
galanti  e  gentili:  dietro  il  poeta  senti  1'  uomo  che  ci  pi- 
glia gusto  e  vi  si  sollazza,  e  sta  già  con  l' immaginazione 


—  359  — 

nella  lieta  brigata  dove  i  versi  saranno  cantati,  tra  musica  e 
ballo.  Veggasi  la  ballata  del  pruno,  e  il  madrigale  del  falcone. 
(Te  novelle  del  Sacchetti  hanno  per  materia  lo  stesso 
mondo  boccaccevole  in  un  aspetto  più  borghese  e  dome- 
stico: frizzi,  burle,  amorazzi,  ipocrisie  fratesche,  aned- 
doti, pettegolezzi  vengon  fuori ,  bassa  vita  popolana  in 
forma  popolana.  Alcuni  le  pregiano  più  che  il  Decame- 
rone,  per  lo  stile  semplice  e  naturale  e  rapido,  non  privo 
di  malizia  e  di  arguzia  fiorentina.  Ma  la  naturalezza  del 
Sacchetti  è  quella  dell'  uomo  a  cui  le  Muse  sono  avare 
de'  loro  doni.  Non  è  artista,  e  neppure  d' intenzione.  Gli 
manca  ogni  sorta  d'ispirazione.  Quel  mondo  con  tanta 
magnificenza  organizzato  nel  Decamerone  è  qui  un  ma- 
teriale grezzo,  appena  digrossato.  Perciò  delle  sue  tre- 
cento novelle  si  ricorda  appena  qualche  aneddoto  ;  nessun 
personaggio  è  rimasto  vivo. 

Il  Sacchetti  soppravvisse  al  secolo.  Nel  suo  buon  umore 
ci  è  una  nota  malinconica,  che  all'  ultimo  manda  più  lu- 
gubre suono.  Non  piace  al  brav'  uomo  un  mondo,  in  cui 
chi  ha  più  danari,  vale  più,  e  grida  che  vertU  con  pe^ 
cunia  non  si  acquista,  e  che  gentilezza  e  virtù  son 
nella  mota.  Dipinge  al  vivo  gli  avvocati  de'  suoi  tempi: 

Legge  civile  e  ragion  canonica 
Apparan  ben;  ma  nel  mal  spesso  rnsano: 
Difendono  i  ladroni,  e  gli  altri  accusano. 

Chi  ha  danari  e  chi  più  piiote  scusnno: 
Tristo  a  colui  che  con  costor  s' incronica, 
Se  non  empie  lor  man  sotto  la  tonica. 

Ora  se  la  piglia  con  le  vecchie.  Ora  è  lutto  stizzoso  per 
le  nuove  fogge  di  vestire  portate  a  Firenze  da  altri  paesi. 
Grida  contro  la  turba  de'  rimatori  e  de'  cantatori: 

Pieno  è  il  mondo  di  chi  vuol  far  rime: 
Tal  compitar  non  sa  che  fa  ballate, 
Tosto  volendo  cho  sieno  intonato. 


—  360  — 

Cosi  del  canto  avvien,  senz'  alcun'  arte 
Mille  Marchetti  veggio  in  ogni  parte, 

E  quando  muore  il  Boccaccio,  copioso  fonte  di  eleganze, 
«sciama  : 

Ora  è  mancata  ogni  poesia, 

E  vote  son  le  case  di  Parnaso. 

S' io  piango,  o  grido,  che  miracol  fìa, 

Pensando  che  un  sol  e'  era  rimaso 

Giovan  Boccaccio,  ora  è  di  vita  fore  ? 

.     .  Quel  duol  che  mi  punge 

È  che  niun  riman,  né  alcun  viene, 

Che  dia  segno  di  spese 

A  confortar,  che  io  salute  aspetti,        - 

Perchè  in  virtù  non  è  chi  si  diletti.    \ 
Sarà  virtù  giammai  più  in  altrui?  ' 

0  starà  quanto  medicina  ascosta, 

Quando  anÈi  cinquecento  perde  il  corso? 

Chi  fia  in  quella  etate, 

Forse  vedrà  rinascer  tal  semenza; 

Ma  io  ho  pur  temenza. 

Che  prima  non  risuoni  1'  alta  tromba. 

Che  si  farà  sentir  per  ogni  tomba. 
Ne'  numeri  ciascuno  ha  mente  pronta, 

Dove  iroltiplicando  s'  apperecchia 

Sempre  tirare  a  so  con  la  man  destra. 

E  le  meccaniche  arti 

Abbraccia  chi  vuol  èsser  degno  ed  alto. 
Ben  veggio  giovanetti  assai  salire 

Non  con  virtù,  perdiè  la  curan  poco. 

Ma  tutto  adopran  in  corporea  vesta, 

giammai  non  cercan  loco 

Dove  si  faccia  delle  Muse  festa. 
Come  deggio  sperar  che  surga  Dante, 

Che  già  chi  il  sappia  legger  non  si  trova? 

E  Giovanni  che  è  morto  ne  fé'  scola. 


—  361  — 

Tutte   le  profezie  che  disson  sempre 

Fra  il  sessanta  e  V  ottanta  essere  il  mondo 

Pieno  di  varii  e  fortunosi  giorni, 

Vi  don  che  si  dovean  perder  le  tempre 

Di  ciascun  valoroso  e  gire  al  fondo 

E  questo  è  quel  che  par  che  non  soggiorna 

E  s'egli  è  alcun  che  guardi, 

Gli  studii  in  forni  vede  già  conversi. 

Questa  canzone  di  cui  abbiamo  citati  alcuni  brani  è 
r  elogio  funebre  del  trecento,  pronunziato  dal  più  can- 
dido e  simpatico  de' suoi  scrittori,  l'ultimo  trecentista. 
Sulla  fine  del  secolo  il  vecchio  burlone  gitta  uno  sguardo 
malinconico  indietro  e  gli  si  affaccia  la  grande  figura  di 
Dante,  e  1'  Africa  col  suo  alto  poeta,  e  Giovan  Boccacci 
non  col  suo  festevole  Decamerone,  ma  co'  dotti  e  magni 
volumi  latini,  de*  Tiri  illustri,  delle  donne  chiare,  e  il 
terzo. 

Bucolica,  il  quarto  monti  e  fiumi, 

Il  quinto  degl'  Iddìi  e  lor  costumi. 

Oìmè!  Dante  è  morto.  Morto  è  Boccacci.  Petrarca  muore. 
Chi  rimane  ?  E  T  ultimo  trecentista  guarda  intorno  e  ri- 
sponde: Nessuno.  Ricorda  le  infauste  profezie,  nunzie  di 
di  sciagure  fra  il  sessanta  e  1'  ottanta,  e  gli  pare  venuto  il 
finimondo.  La  forte  semenza  da  cui  uscirono  i  tre  grandi 
e  tanti  altri  dottissimi,  teologi,  filosofi,  legisti,  astrologi, 
è  perita  per  sempre?  o  risurgerà  dopo  cinquecento  anni, 
come  fu  della  medicina?  o  non  verrà  prima  il  giudizio 
finale?  Il  mondo  è  dato  all'abaco,  e  alle  arti  meccani- 
che: nuda  è  V  adorna  scuola  da  tutte  sue  parti, 

Non  si  trova  fenestra 
Che  valor  dentro  chiuda. 

La  nuova  generazione  è  tutta  dietro  alle  mode  e  a'  sol- 
lazzi e  al  guadagno,  e  non  cura  virtù,  e  spregia  le  Muse, 


—  362  — 

e  non  ci  è  chi  sappia  leggere  Dante,  e  gli  studi  sono 
mutati  in  forni.  Il  poeta  accomiata  la  canzone  in  questo 
modo  : 

Orfana,  trista,  sconsolata  e  cieca, 
Senza  conforto  e  fuor  d'  ogni  speranza, 
Se  alcun  giorno  t'  avanza, 

Come  tu   puoi,  ne  va  peregrinando, 
E  di'  al  cielo  :  io  mi  ti  raccomando. 

Con  questi  tristi  presentimenti  si  chiude  il  secolo.  Il 
dugento  finisce  con  Gino  e  Cavalcanti  e  Dante  già  adulti 
e  chiari ,  finisce  come  un'  aurora  entro  cui  si  vede  già 
brillare  la  vita  nuova,  una  nuova  era.  Il  trecento  fini- 
sce come  un  tristo  tramonto,  cosi  tristo  e  oscuro  che  il 
buon  Franco  pensa:  chi  sa  se  tornerà  il  sole? 

Antonio  da  Ferrara,  sparsasi  voce  della  morte  del  Pe- 
trarca, intuona  anche  lui  un  poetico  Lamento.  Piangono 
intorno  al  grand'  uomo  Grammatica,  Rettorica,  Storia,  Fi- 
losofia, e  lo  accompagnano  al  sepolcro  di  Parnaso 

Virgilio,  Ovidio,  Giovenale  e  Stazio, 
Lucrezio,  Persio,  Lucano  e  Orazio 
E  Gallo. 

E  Pallass  Minerva  venuta  dall'  angelico  regno  conserva 
la  sua  corona.  In  ultimo  della  mesta  processione  spunta 
r  autore  col  suo  nome,  cognome,  e  soprannome  : 

È  Anton  de'  Beccar,  quel  da  Ferrara, 
Che  poco  sa  ma  volentieri  impara. 

È  anche  mi  brav'  uomo  costui,  vede  anche  luì  tutto  nero: 

Del  mondo  bandita  è  concordia  e  pace  : 

Per  V  universo  la  discordia  trona  : 

Sommerso  è  ogni  bene  ; 

L'amor  di  Dio  ha  bando; 

E  parmi  che  la  Fé  vada  mancando. 


—  3G3  — 

Sono  lamenti  senili  di  uomini  superficiali  e  mediocri  > 
dove  non  trovi  alcuna  profondità  di  vista  e  non  forza 
di  mente  o  di  sentimento.  Pur  vi  trovi,  ancorché  in  for- 
ma pedantesca,  la  fisonomia  del  secolo  negli  ultimi  giorni 
della  sua  esistenza. 

Quella  nota  malinconica  è  la  stessa  forza  che  tirò  alla 
Certosa  il  vecchio  Boccaccio,  e  volse  a  Maria  gli  ar- 
dori del  Petrarca  e  rattristò  le  ultime  ore  di  Franco 
Sacchetti,  e  piegò  le  ginocchia  di  Giovanna  innanzi  a 
Caterina  da  Siena.  Perchè  quella  forza,  contraddetta  e 
negata  nella  vita,  occupava  ancora  l'intelletto,  e  tra  la 
orgie  di  una  borghesia  arricchita  e  gaudente  comparirà 
talora  come  un  rimorso,  e  chiamerà  gli  uomini  alla  pe- 
nitenza. 

La  fede  va  mancando,  grida  il  ferrarese.  E  gli  studii 
si  convertono  in  forni,  nota  il  fiorentino.  Non  si  potea 
megho  dipingere  la  fisonomia  che  andava  prendendo  il 
secolo,  e  che  comunicava  alla  nuova  generazione.  Pos- 
siamo disegnarla  in  brevi  tratti. 

Come  il  popolo  grasso  piglia  il  sopravvento  in  Firenze , 
cosi  nelle  altre  parti  d' Italia  la  borghesia  si  costituisce, 
si  ordina,  diviene  una  classe  importante  per  industrie, 
per  commerci,  per  intelligenza  e  per  coltura.  E  lo  stacco 
si  fa  profondo  tra  la  plebe  e  la  classe  colta.  La  coltura 
non  è  privilegio  di  pochi,  ma  si  allarga  e  si  difi'onde,  e 
fa  del  popolo  italiano  il  più  civile  d'  Europa. 

La  vita  pubblica  e  la  vita  religiosa  rimane  staziona- 
ria fra  r  universale  indifferenza.  Continuano  le  stesse  for- 
me, ma  sciolte  dallo  spirito  che  le  rendea  venerabiU , 
quelle  persone,  quei  riti  e  quel  linguaggio  appariscono 
cosa  ridicola  e  diventano  il  motivo  comico  delle  liete 
brigate. 

La  vita  privata  viene  su.  Ed  è  vita  socievole,  spen- 
sierata, condita  dallo  spirito.  Gli  uomini  si  uniscono  in 
compagnie  o  brigate  non  per  discutere,  ma  pi^r  sollaz- 


—  364  — 

zarsi ,  in  città  e  in  villa.  E  si  sollazzano  a  spese  delle 
classi  inculte.  Trovatori,  cantori  e  novellatori  non  sono 
più  il  privilegio  delle  castella  e  delle  corti.  L'  allegria 
feudale  si  spande  ancho  nelle  case  de'  ricchi  borghesi,  e 
i  racconti  e  i  piacevoli  ragionamenti  condiscono  i  loro 
piaceri ,  e  in  una  forma  spesso  licenziosa  e  cinica.  La 
licenza  del  linguaggio  era  il  solletico  dell'  allegria. 

Così  venne  una  letteratura  sensuale  e  motteggiatrice, 
profana  e  pagana.  Le  novelle  e  i  romanzi  tennero  il  cam- 
po. L'  allegra  vita  della  città  si  specchiava  in  forme  li- 
riche svelte  e  graziose,  rispetti,  strombetti,  frottole,  bal- 
late e  madrigali.  D'  allegra  vita  de'  campi  avea  pur  le 
sue  forme,  le  cacce  e  gì'  idillii.  L'  anima  di  questa  let- 
teratura è  lo  spirito  comico  e  il  sentimento  idillico. 

La  forma  dello  spirito  comico  è  la  caricatura  pene- 
trata di  un'  ironia  maliziosa,  ma  non  maligna.  La  forma 
idillica  è  la  descrizione  della  bella  natura  penetrata  di 
una  molle  sensualità.  Traspare  da  tutta  questa  lettera- 
tura una  certa  quiete  e  tranquillità  interiore  ,  come  di 
gente  spensierata  e  soddisfatta. 

Giovanni  Boccaccio  è  il  grande  artista  che  apre  que- 
sto mondo  allegro  della  natura. 

Il  misticismo  perisce,  ma  ben  vendicato^  traendosi  ap- 
presso religione,  moralità,  patria,  famiglia,  ogni  sempli- 
cità e  dignità  di  vita.  Vengono  nuovi  ideali:  la  voluttà 
idillica  e  1'  allegoria  comica.  Sono  le  due  divinità  della 
nuova  letteratura. 

Ma  come  1'  antica  letteratura  vede  i  suoi  ideali  attra- 
verso un  involucro  allegorico  scolastico,  così  la  nuova 
non  può  trovare  sé  stessa  se  non  attraverso  lo  involu- 
cro del  mondo  greco-latino. 

La  vita  del  Boccaccio  è  in  compendio  la  vita  lettera- 
ria italiana,  come  si  andrà  sviluppando.  Comincia  sco- 
pritore instancabile  di  manoscritti,  e  tutto  mitologia  e 
storia  greca  e  romana.  Non  è  ancora  un  artista,  e  un 


—  365  — 

erudito.  La  sua  immaginazione  erra  in  Atene  e  in  Troia. 
Tenta  questo  e  quel  genere,  e  non  trova  mai  sé  stesso. 
Quel  mondo  è  come  un  denso  velo  che  muta  il  colore 
degli  oggetti  e  gliene  toglie  la  vista  immediata.  Imita 
Dante,  imita  Virgilio,  petrarcheggia  e  platoneggia  come 
il  buon  Sacchetti.  Scrive  magni  volumi  latini,  ammira- 
zione dei  contemporanei.  E  si  scopre  artista,  quando  git- 
tato  via  tutto  questo  bagaglio,  scrive  per  sollazzo,  ab- 
bandonato alla  genialità  dell'  umore.  Dove  cerca  il  pia- 
cere, trova  la  gloria. 

Questa  vita  ne'  suoi  tentennamenti,  nelle  sue  imita- 
zioni, nelle  sue  pedanterie,  ne'  suoi  ideali,  è  la  storia  della 
nuova  letteratura. 

XI. 

LE    STANZE. 

Siamo  al  secolo  decimoquinto.  Il  mondo  greco -latino 
si  presenta  alle  immaginazioni,  come  una  specie  di  Pom- 
pei, che  tutti  vogliono  visitare  e  studiare.  L' Italia  ritro- 
va i  suoi  antenati,  e  i  Boccacci  si  moltiplicano,  l'im- 
pulso dato  da  lui  e  dal  Petrarca  diviene  una  febbre,  o 
per  dir  meglio  quella  tale  corrente  elettrica  che  in  certi 
momenti  investe  tutta  una  società  e  la  riempie  dello  stesso 
spirito.  Quella  stessa  attività  che  gittava  1'  Europa  cro- 
ciata in  Palestina,  e  più  tardi  spingendola  verso  le  Indie 
le  farà  trovare  l'America,  tira  ora  gì'  Italiani  a  dissep- 
pellire il  mondo  civile  rimasto  per  cosi  lungo  tempo  sotto 
le  ceneri  della  barbarie.  Quella  lingua  era  la  lingua  loro, 
e  quel  sapere  era  il  loro  sapere  ;  agi'  Italiani  pareva  a- 
vere  racquistato  la  conoscenza  e  il  possesso  di  sé  stessi, 
essere  rinati  alla  civiltà.  E  la  nuova  èra  fu  chiamata  il 
rinasdìnenio.  Nò  questo  era  un  sentimento  che  sorgeva 
improvviso.  Per  lunga  tradizione  Roma  era  capitale  del 
mondo,  gli  stranieri  erano  barbari,  gì'  Italiani  erano  sem- 


—  366  — 

pre  gli  antichi  Romani ,  erano  sangue  latino ,  e,  la  loro 
lingua  era  il  latino,  e  la  lingua  parlata  era  chiamata  il 
latino  volgare,  un  latino  usato  dal  volgo.  Questo  senti- 
mento legato  in  Dante  con  le  sue  opinioni  ghibelline  ispi- 
rava più  tardi  1'  Africa ,  e  latinizzava  anche  le  facezie 
del  Boccaccio.  Ora  diviene  il  sentimento  di  tutti  e  dà  la 
sua  impronta  al  secolo.  La  storia  ricorda  con  gratitu- 
dine g\i  Aurispi,  i  Guarini,  i  Filelfi,  i  Bracciolini,  che  fu- 
rono i  Colombi  di  questo  mondo  nuovo.  Gli  scopritori 
sono  insieme  professori  e  scrittori.  Dopo  le  lunghe  pe- 
regrinazioni in  oriente  e  in  occidente  vengono  le  letture, 
i  comenti,  le  traduzioni.  Il  latino  è  già  così  diffuso,  che 
i  classici  greci  si  volgono  in  latino^  perchè  se  ne  abbia 
notizia,  come  i  dugentisti  volgevano  in  volgare  i  latini. 
Pullulano  latinisti  e  grecisti:  la  passione  invade  anche 
le  donne.  Grande  stimolo  è  non  solo  la  fama,  ma  il  gua- 
dagno. Diffusa  la  coltura,  i  letterati  moltiplicano  e  si  strin- 
gono intorno  alle  corti,  e  si  disputano  i  rilievi  ringhian- 
do. Sorgono  centri  letterarii  nelle  grandi  città  :  a  Roma, 
a  Napoli ,  a  Firenze  ,  più  tardi  a  Ferrara  intorno  agli 
Estensi.  E  quei  centri  si  organizzano  e  diventano  Acca- 
demie. Sorge  la  Pontaniana  a  Napoli,  1'  accademia  pla- 
tonica a  Firenze,  quella  di  Pomponio  Leto  e  di  Platina 
a  Roma.  Illustri  greci,  caduta  Costantinopoli,  traggono 
a  Firenze,  Gemistio  spiega  Piatone  a'  mercatanti  fioren- 
tini, Marsilio  Ficino,  il  traduttare  di  Platone,  lo  predi- 
cava dal  pulpito,  come  la  Bibbia.  Pico  della  Mirandola, 
morto  a  trentun  anno,  stupisce  l' Italia  con  la  sua  dot- 
trina, ed  oltrepassando  il  mondo  greco,  cerca  in  Oriento 
la  culla  della  civiltà. 

I  caratteri  di  questa  cultura  sono  palpabili. 

Innanzi  tutto  ti  colpisce  la  sua  universalità.  Il  centro 
del  movimento  non  è  più  solo  Bologna  e  Firenze.  Pa- 
dova gareggia  con  Bologna.  Il  mezzodì  dopo  lungo  sonno 
prende  il  suo  posto  nella  storia  letteraria,  e  il  Panor- 


—  3G7  — 

niia  fa  già  presentire  il  Fontano  e  il  Sannazzaro.  Roma 
è  il  convegno  di  tutti  gli  eruditi,  attirati  dalla  liberalità 
di  Nicolò  V.  La  coltura  acquista  una  fisonomia  nazio- 
nale, diviene  italiana.  Anche  il  volgare,  trattato  dalle 
classi  colte,  ed  atteggiato  alla  latina,  si  scosta  dagli  ele- 
menti locali  e  municipali,  e  prende  aria  italiana. 

Ma  è  r  Italia  de'  letterati,  col  suo  centro  di  gravità 
nelle  corti.  Il  movimento  è  tutto  sulla  superfìcie,  e  non 
viene  dal  popolo  e  non  cala  nel  popolo.  0  per  dir  me- 
glio popolo  non  ci  è.  Cadute  sono  le  repubbliche;  man- 
cata è  ogni  lotta  intellettuale,  ogni  passione  politica.  Hai 
plebe  infinita,  cenciosa  e  superstiziosa ,  la  cui  voce  è  co- 
perta dalla  romorosa  gioia  delle  corti  e  de'  letterati,  esa- 
lata in  versi  latini.  A'  letterati  fama,  onori  e  quattrini; 
a'  principi  incensi,  tra  il  fumo  dei  quali  sono  giunti  a 
noi  Papa  Nicolò,  Alfonso  il  magnanimo,  Cosimo  padre 
<lella  patria,  e  più  tardi  Lorenzo  il  magnifico,  e  Leone 
decimo  e  i  duchi  di  Este,  I  letterati  facevano  come  i  ca- 
pitani di  ventura;  servivano  chi  pagava  meglio;  il  ne- 
mico dell'  oggi  diveniva  il  protettore  del  dimani.  Erranti 
per  le  corti,  si  vendevano  all'  incanto. 

Questa  fiacchezza  e  servilità  di  carattere  accompa- 
gnata con  una  profonda  indifferenza  religiosa,  morale  e 
politica  di  cui  vediamo  gli  albori  fin  da'  tempi  del  Boc- 
caccio, è  giunta  ora  a  tal  punto  che  è  costume  e  abito 
sociale,  e  si  manifesta  con  una  franchezza  che  oggi  ap- 
pare cinismo.  Una  certa  ipocrisia  e'  è,  quando  si  ha  ad 
esprimere  dottrine  non  ricevute  universalmente;  ma  quanto 
alla  rappresentazione  della  vita  ,  ti  è  innanzi  nella  sua 
nudità.  È  una  letteratura  senza  veH,  e  più  sfacciata  in 
latino  che  in  volgare. 

Ne  nasce  1*  indifferenza  del  contenuto.  Ciò  che  importa 
non  è  cosa  s'  ha  a  dire ,  ma  come  s'  ha  a  dire.  I  più 
sono  secretarii  di  principi,  pronti  a  vestire  del  loro  la- 
tino concetti  altrui.  La  bella  unità  della  vita,  come  Dante 


—  368  — 

1*  aveva  immaginata,  la  concordia  amorosa  dell'  intelletto 
e  dell'  atto,  è  rotta.  Il  letterato  non  ha  obbligo  di  avere 
delle  opinioni,  e  tanto  meno  di  conformarvi  la  vita.  Il 
pensiero  è  per  lui  un  dato,  venutogli  dal  di  fuori,  quale 
esso  sia  :  a  lui  spetta  dargli  la  veste.  Il  suo  cervello  è 
un  ricco  emporio  di  frasi,  di  sentenze,  di  eleganze;  il  suo 
orecchio  è  pieno  di  cadenze  e  di  armonie;  forme  vuote 
e  staccate  da  ogni  contenuto.  Cosi  nacg.ue  il  letterato 
e  la  forma  letteraria. 

Il  movimento  iniziato  a  Bologna  era  intellettuale:  si 
cercava  negli  antichi  la  scienza.  Il  movimento  era  è  pu- 
ramente letterario  :  si  cerca  negli  antichi  la  forma.  Sorge 
la  critica  circondata  di  grammatiche  e  di  rettoriche;  il 
gusto  si  raffina:  gU  scrittori  antichi  non  sono  più  con- 
fusi in  una  eguale  adorazione:  si  giudicano,  si  classifi- 
cano ,  pigliano  posto.  Questi  lavori  filologici  ed  eruditi 
sono  la  parte  più  seria  e  più  durevole  di  questa  coltu- 
ra. Spiccano  fra  tutti  le  Eleganze  di  Lorenzo  Valla.  Il 
titolo  ti  dà  già  la  fisonomia  del  secolo. 

Effetti  di  questa  coltura  cortigiana  e  letteraria,  coi 
suoi  varii  centri  in  tutta  Italia ,  sono  una  certa  stan- 
chezza di  produzione,  r  inerzia  del  pensiero,  l'imitazione 
;  delle  forme  antiche  come  modelli  assoluti,  l'uomo  e  la 
natura  guardati  attraverso  di  quelle  forme.  È  una  nuova 
trascendenza,  il  nuovo  involucro.  Lo  scrittore  non  dice 
quello  che  pensa  o  immagina  o  sente  perchè  non  e  l' im- 
magine che  gli  sta  innanzi,  ma  la  frase  di  Orazio  e  di 
Virgilio.  Vede  il  mondo  non  nella  sua  vista  immediata; 
ma  come  si  tro\  a  rappresentato  da'  classici,  a  quel  modo 
che  Dante  vedea  Beatrice  a  traverso  di  Aristotile  e  di 
San  Tommaso. 

Ma  non  ci  è  guscio  che  tenga  incontro  all'  arte.  Dante 
potè  spesso  rompere  quel  guscio,  perchè  era  artista.  E 
se  in  questa  coltura  fossero  elementi  serii  di  vita  intel- 
lettuale e  di  elevate  ispirazioni,  non  è  dubbio  che  ve- 


—  369  — 

dremmo  venire  il  grande  artista,  destinato  a  farne  smen- 
tire il  suono  pur  tra  queste  forme  latine.  Ciò  che  ferve 
neir  intimo  seno  di  una  società ,  tosto  o  tardi  vien  su , 
e  spezza  ogni  involucro.  Si  dà  colpa  al  latino,  che  que- 
sto non  sia  avvenuto.  E  se  il  medio  evo  non  ha  potuto 
sviluppare  tra  noi  tutte  le  sue  forme  ,  se  il  mondo  in- 
teriore della  coscienza  s'è  infiacchito,  la  colpa  è  de' clas- 
sici ,  che  paganizzarono  la  vita  e  le  lettere  !  La  verità 
è  che  i  classici  di  questo  fatto  sono  innocentissimi.  Certo, 
il  mondo  di  Omero  e  di  Virgilio,  di  Tucidide  e  di  Livio, 
non  è  un  mondo  fiacco  e  frivolo.  E  se  i  latinisti  non 
poterono  riprodurre  che  l'esterno  meccanismo,  e  se  sotto 
a  quel  meccanismo  ci  è  il  vuoto,  gli  è  che  il  vuoto  era 
nell'anima  loro,  e  nessuno  dà  ciò  che  non  ha.  Un  cuore 
pieno  trova  il  modo  di  spandersi  anche  nelle  forme  più 
artificiali  e  più  ripugnanti. 

Leggete  questi  latinisti.  Cosa  e'  è  lì  dentro  che  viva 
e  si  mova  ?  Lo  spirito  del  Boccaccio  che  aleggia  in  quei 
versi  e  in  quelle  prose  :  la  quiete  idillica  e  il  sale  co- 
mico ,  in  una  forma  elegante  e  vezzosa.  Questo  studio 
dell'eleganza  nelle  forme  accompagnato  co'  tranquilli  ozi 
della  villa  e  i  sollazzevoli  convegni  della  città  era  in 
iscorcio  tutta  la  vita  del  letterato. 

Così  quando  il  secolo  era  travagliato  da  mistiche  astra- 
zioni e  da  disputazioni  sottili,  il.  latino  fu  scolastico.  E 
ora  che  il  naturalismo  idillico  e  comico  del  Boccaccio 
è  il  vero  e  solo  mondo  poetico,  il  latino  è  idillico,  dico 
il  latino  artistico  e  vivo.  La  grande  orchestra  di  Dante 
è  divenuta  già  nel  Petrarca  la  flebile  elegia.  In  questo 
latino  elegante  il  dolore  è  elegiaco,  e  il  piacere  è  idil- 
lico. La  vita  è  tutta  al  di  fuori,  è  un  riso  della  natura 
e  dell'anima,  la  stessa  elegia  è  un  rapimento  voluttuoso 
de' sensi.  Sulle  rive  di  Mergellina  il  Fontano  canta  gli 
Amori  e  i  Bagni  di  Baia,  ora  tutto  vezzeggiativi  e  lan- 
guori, ora  motteggevole  e  faceto.  Mergdlina,  Posillipo, 

De  SanotiB  —  Lct   Itul.  Voi.  1.  21 


—  370  — 

Capri,  Amalfi,  le  isole,  le  fonti,  le  colline  escono  dalla  sua 
immaginazione  pagana  Ninfe  vezzose,  e  allegrano  le  nozze 
della  sua  Lepidina.  La  crassa  sensualità  è  vaporizzata 
fra  le  grazie  dell'  immaginazione  e  i  deliziosi  profumi  del- 
l' eleganza.  La  sua  Musa ,  come  la  sua  colomba ,  fugit 
insulsos  et  parum  venustos  ,  odit  sorditiem  ,  nega  i 
suoi  doni  a  quelli  che  sono  illepidi  aique  inelegantes^ 
e  gaudet  nitoì^e,  e  rassomiglia  alla  sua  puella,  di  cui 
nessuna  vivit  mundior  elegantiorve.  Spinto  di  eleganza, 
questo  è  il  mondo  poetico  di  una  borghesia  colta  e  con- 
tenta ,  che  cantava  i  suoi  ozi ,  e  passava  il  tempo  tra 
Quintiliano,  Cicerone,  Virgilio,  e  i  bagni  e  le  cacce  e 
gh  amori.  Ne  senti  l'eco  tra  le  delizie  di  Baia  e  tra  le 
villette  di  Fiesole.  Il  Fontano  scrivea  la  Lepidina  tra  i 
susurri  della  cheta  marina  ;  il  Poliziano  scrivea  il  Ru- 
sticus  tra  le  aure  della  sua  villetta  fiesolana.  In  tutte  e 
due  ispiratrice  è  la  bella  natura  campestre,  con  più  im- 
maginazione nel  Fontano,  con  più  sentimento  nel  Foli- 
zìano.  Fiace  la  cernia  ninfa  Fosilipo,  e  la  candida  Mer- 
gellina,  e  quel  voler  esser  uccello  per  cascarle  in  grembo 
è  un  bel  tratto  galante,  una  sensualità  dell'  immagina- 
zione. Il  Fontano  è  figurativo,  tutto  vezzi  e  tutto  spi- 
rito ;  il  Poliziano  è  più  sempUce,  più  vicino  alla  natura, 
e  te  ne  dà  1'  impressione  : 

€  Hic  resonat  blando  tibi  pinus  amata  susurro  ; 
Hic  vaga  ooniferis  insibilat  aura  cupressis  : 
Hic  scatebris  salit  et  bullantibus  incita  venis 
Pura  coloratos  interstrepit  unda  lapillos  ». 

Questo  latino  maneggiato  con  tanta  sveltezza,  modu- 
lato con  tanta  grazia,  non  cade  nel  vuoto,  come  Ungua 
morta,  e  questi  canti  non  sono  lavori  di  pura  erudizione 
e  imitazione.  Lorenzo  Valla  chiama  il  latino  la  lingua 
nostra;  nessuna  cosa  di  qualche  importanza  non  si  scri- 
/  vea  se  non  in  latino;   e  metteasi  a  fuggire  il  volgare 


—  371  — 

quello  studio  che  oggi  si  mette  a  fuggire  il  dialetto.  Dante 
stesso  era  detto  poeta  da  calzolai  e  da  fornai.  Non  pa- 
reva impossibile  continuare  il  latino,  come  i  greci  conti- 
nuavano il  greco  ,  parlare  la  lingua  universale  ,  la  lin- 
gua della  scienza  e  della  coltura,  essere  intesi  da  tutti 
gli  uomini  istrutti. 

Ma  queste  tendenze  trovavano  naturale  resistenza  a 
Firenze,  dove  il  volgare  avea  messo  salde  radici,  illu- 
strato da  tanta  gloria,  né  potea  parer  vergogna  scrivere 
nella  lingua  di  Dante  e  del  Petrarca.  Ivi  una  classe  colta 
nettamente  distinta  non  era,  e  popolo  grasso  e  popolo 
minuto  erano  ancora  il  popolo,  con  una  comune  fisono- 
mia.  Grandissima  l'ammirazione  de'classici:  frequentissimi 
gli  studii  del  Landino  ,  del  Crisoloro  ,  del  Poliziano  ;  si 
udiva  a  bocca  aperta  Gemistio  e  il  Ficino  e  il  Pico  ;  si 
disputava  di  Platone  e  di  Aristotile,  discussioni  erudite, 
senza  conclusione  e  serietà  pratica  ;  si  applaudiva  al  Po- 
liziano, quando  cantava  la  bellezza  o  la  morte  dell'Al- 
biera,  o  gli  occhi  di  Lorenzo,  purus  apollinei  sideris 
nitor^  come  fossero  gli  occhi  di  Laura.  Ma  insieme  sì 
difendeva  il  volgare  come  gloria  nazionale;  e  il  Filelfo 
spiegava  Dante  e  il  Landino  sponeva  il  Petrarca,  e  Leo- 
nardo Bruni  sosteneva  essere  il  volgare  lo  stesso  latino 
antico  com'  era  parlato  a  Roma  ,  e  Lorenzo  de'  Medici 
preferiva  il  Petrarca  a'poeti  latini,  chiamava  unico  Dante, 
celebrava  la  facondia  e  la  vena  del  Boccaccio,  e  di  Gino, 
e  di  Cavalcanti ,  e  di  altri  minori  scrivea  le  lodi  con 
acume  e  maturità  di  giudizio.  Ci  erano  gli  oppositori,  i 
grammatici,  i  pedanti,  che  dicevano  Dante  uno  spropo- 
sitato, un  ignorante,  rerum  omnium  ignarum,  e  che 
scrivea  così  male  il  latino.  Ma  in  Firenze  non  attecchi- 
vano. Cristoforo^^Iiajidino  nel  suo  studio,  dove  spiegava 
a  un  tempo  Dante  e  Virgilio  ,  pigliando  ad  esporre  il 
Petrarca ,  insegnava  non  esser  la  lingua  toscana  al  di 
sotto  della  latina ,  e  non  altrimenti  che   quella  doversi 


—  372  — 

sottoporre  a  regole  di  grammatica  e  di  rettorica.  Certo» 
il  vezzo  del  latino  introduceva  nel  volgare  caduto  in  mano 
a'  pedanti  vocaboli  e  frasi  e  giri ,  di  cui  si  sentono  gli 
effetti  fino  nella  prosa  del  Machiavelli  ;  ma  niu.lla  barbara 
mescolanza  per  la  sua  esagerazione  divenne  ridicola,  e 
non  potè  alterare  le  forme  del  volgare,  così  come  erano 
state  fissate  negli  scrittori  e  si  mantenevano  vive  nel 
popolo.  Né  l'uso  fu  mai  intermesso  ;  e  Lionardo  scrivea 
in  volgare  la  vita  di  Dante  e  del  Boccaccio,  e  in  vol- 
gare Feo  Belcari  scrivea  le  vite  de'  Santi  e  le  rappre- 
sentazioni, e  si  continuavano  i  rispetti,  gli  strambotti, 
le  frottole,  le  cacce,  le  ballate,  tutt'i  generi  di  lirica  po- 
polare legati  con  le  feste  e  gl'intrattenimenti  pubblici  e 
privati,  le  mascherate,  le  giostre,  le  serenate,  le  rappre- 
sentazioni, i  giuochi,  le  sfide.  Non  era  cosa  facile  gua- 
stare o  sopraffare  una  lingua  legata  così  intimamente 
con  la  vita. 

La  forza  della  lingua  volgare  era  appunto  in  questo, 
che  rifletteva  la  vita  pubblica  e  privata,  divenuta  parte 
inseparabile  d*lla  società  nelle  sue  usanze  e  ne' suoi  sen- 
timenti. Onde  se  gli  uomini  colti,  trasportati  dalla  cor- 
rente comune,  scrìvevano  in  latino  per  procacciarsi  fama, 
nell'uso  vario  della  vita  adoperavano  il  volgare,  condotto 
oramai  al  suo  maggior  grado  di  grazia  e  di  finezza,  par- 
lato e  scritto  bene  generalmente.  Un  gran  mutamento 
era  però  avvenuto  nella  letteratura  volgare.  Il  mondo 
ascetico  mistico  scolastico  del  secolo  passato  non  era  po- 
tuto risorgere  di  sotto  a'colpi  del  Petrarca  e  più  del  Boc- 
caccio, ed  era  tenuto  rozzo  e  barbaro^  e  continuava  la 
sua  vita,  come  un  mondo  fatto  abituale  e  convenzionale 
a  cui  è  straniera  l'anima.  Al  contrario  era  in  uno  stato 
di  produzione  e  di  sviluppo  il  mondo  pjrofano  ,  la  gaia 
scienza,  e  dava  i  suoi  colori  anche  alle  cose  sacre.  Le 
Laude  erano  intonate  come  i  rispetti,  e  i  misteri  acqui- 
stavano la  tinta  romanzesca  delle  novelle  e  romanzi  al- 


—  'ól'ó  — 

lora  in  voga.  La  Siella  ricorda  in  molte  parti  le  avven- 
ture della  bella  sventurata  Zinevra  ,  set  anni  andata 
tapinando  per  lo  mondo.  Spesso  c'entra  il  comico  e  il 
buffonesco,  e  ti  par  d'essere  in  piazza  e  sentir  le  ciane 
che  si  accapigliano.  La  lauda  tende  al  rispetto;  la  leg- 
genda tende  alla  novella. 

La  leggenda  è  un  racconto  maraviglioso  animato  da 
uno  spirito  mistico  o  ascetico,  con  le  sue  estasi,  le  sue 
visioni,  i  suoi  miracoli.  Ci  è  al  di  sotto  la  fede  che  fa 
muovere  i  monti,  e  ti  tiene  al  di  sopra  de'  sensi .  anzi 
sforza  i  sensi  e  dà  loro  le  ali  dell'immaginazione.  Que- 
sto mondo  miracoloso  dello  spirito  fatto  cosi  palpabile 
come  fosse  corpo  e  rappresentato  senza  alcuno  artificio 
che  lo  renda  verisimile,  anzi  con  la  più  grande  ingpuuità, 
(ssendo  quelle  verità  incontrastate  pel  narratore  e  pei 
lettori.  Questa  impressione  ti  fanno  le  leggende  del  Pas- 
savanti  e  le  vite  del  Cavalca. 

Questo  è  il  mondo  stesso  che  comparisce  nelle  rappre- 
sentazioni o  misteri  di  questo  secolo.  Sono  antiche  rap- 
presentazioni, messe  a  nuovo,  intonacate,  imbiancate,  a 
i:so  di  un  pubblico  più  colto.  Santo  Abraam  ,  Alessio  , 
Abramo,  Eugenio  e  Maddalena,  i  santi  e  i  padri  e  i  ro- 
miti del  Cavalca  ti  sfilano  innanzi.  Con  la  natia  rozzezza 
è  ita  via  anche  la  semplicità  e  l'unzione  e  ogni  senti- 
mento liturgico  e  ascetico.  Il  miracolo  ci  sta  corno  jvìiracolo, 
cioè  a  dire  come  una  macchina  del  maraviglioso,  a  qn(4 
modo  che  è  la  Fortuna  nelle  novelle  del  Boccaccio.  11 
motivo  drammatico  e  l'effetto  che  fanno  sugli  spettatori 
certe  grandi  mutazioni  e  improvvisi  nello  stato  de'  per- 
.'^onaggi  morale  o  materiale;  perciò  non  gradazioni,  non 
ombre,  non  sfumature,  i  contorni  sono  chiari  e  decisi; 
1\  'è  tutta  esteriore  e  superficiale  e  si  ferma  solo, 
quando  una  mutazione  improvvisa  provoca  esplosioni  li- 
riche di  gioia,  di  dolore,  di  meraviglia.  Ci  è  quella  lirica 
superiiciale  e  quella   chiarezza  epica  che  è  propria  del 


—  374  -- 

Boccaccio.  La  lirica  è  sacra  di  nome;  e  non  ha  quella 
elevazione  dell'anima   verso   un  mondo  superiore,  che 
senti  in  Dante  e  in  Caterina,  ci  è  la  preghiera,  non  e'  è 
il   sentimento.  L' azione  è  pedestre  e  borghese  ,  di  una 
prosaica   chiarezza ,  non   animata  dal  sentimento  ,   non 
trasformata  dall'  immaginazione.  È  il  mondo  dantesco  ve- 
stito alla  borghese,  i  cui  accenti  di  dolore  sono  elegia, 
le  cui  mistiche  gioie  sono  idillii,  mancato  è  il  senso  del 
terribile  e  del  sublime,  mancata  è  l'indignazione  e  T in- 
vettiva: se   alcuna  serietà  rimane  ancora  in  queste  spet- 
tacolose rappresentazioni,  apparecchiata  con  tanta  pompa 
di  scene  e  di  decorazioni,  è  reminiscenza  ed  eco  di  un 
mondo  indebolito  nella  coscienza.  Ci  erano  ancora  le  con- 
fraternite che  a  grandi  spese  davano  di  queste  rappre- 
sentazioni; ma  i  fratelli  non  erano  più  i  contemporanei 
di  Dante,  e  non  gh  autori  e  non  gli  spettatori.  Si  anda- 
va alle  rappresentazioni,  come  alle  feste  carnascialesche, 
per  sollazzarsi.  E  si   sollazzavano  ,  come  si  conviene  a 
gente  colta  e  artistica,  co'  piaceri  dello  spirito  e  dell'im- 
maginazione. Il  mistero  era  per  essi  un-  piacevole  eser- 
cizio dell'immaginazione,  una  ricreazione  dello  spirito. 
Con   la   coscienza  vuota  e  con  la  vita  tutta   esterna  e 
superficiale  il  dramma  era  così   poco   possibile  come  la 
tragedia  e  l' eloquenza  sacra,  o  come  rifare  la  visione  o 
la  leggenda.  Se  quelle  rappresentazioni  fra  tanto  Hscio 
e  intonaco   rimasero   stazionarie  ,  e  non   poterono  mai 
acquistare  la  serietà  e  profondità  di  un  vero  mondo  dram- 
matico ,  fu  perchè   mancò  all'  Italia  un  ingegno  dram- 
matico, come  affermano  alcuni,  quasi  l'ingegno  fosse  un 
frutto  miracoloso,  generato  senza  radici,  e  venuto  espres- 
samente dal  cielo.  0  fu,  come  affermano  altri,  perchè  il 
latino  attirò  a  sé  gli   uomini  colti  e  il  mistero  fu  tra- 
scurato come  cosa  del  popolo,  quasi  che  autori  de'  misteri 
non  fossero  gli  uomini  più  colti  di  quel  tempo,  o  il  latino 
che  non  potè  uccidere  il  volgare  potesse  uccidere  l' ani- 


—  375  — 

ma  di  una  nazione,  quando  un'anima  ci  fosse  stata.  La 
verità  è  che  il  povero  latino  non  potè  uccider  nulla  per- 
chè nulla  ci  era  ,  niuna  serietà  di  sentimento  religioso, 
politico,  morale,  pubblico,  da  cui  potesse  uscire  il  dram- 
ma. Quel  mondo  spensierato  e  sensuale  non  ti  potea  dare 
che  l'idillico  e  il  comico;  e  in  tanto  fiorire  della  coltura, 
con  tanta  disposizione  ed  educazione  artistica,  non  potea 
produrre  che  un  mondo  simile  a  sé,  un  mondo  di  pura 
immaginazione.  Il  mistero  è  un  aborto  ,  è  una  materia 
sacra  che  non  dice  più  nulla  alla  mente  ed  al  cuore  , 
senza  alcuna  serietà  di  motivi,  e  trasformata  da  uomini 
colti  da  puro  giuoco  d' immaginazione  :  dove  angioH  e 
demoni,  paradiso  e  inferno  hanno  così  poca  serietà  come 
Apollo  e  Diana  e  Plutone.  La  serietà  e  solennità  della 
materia  era  in  flagrante  contraddizione  con  quella  forma 
tutta  senso  e  tutta  superficie,  e  con  quel  mondo  spensie- 
rato e  allegro  della  pura  immaginazione  idillico-comico- 
elegiaco.  Il  mistero  ci  fu,  quale  poteva  realizzarlo  l' Italia 
in  questa  disposizione  dello  spirito,  e  ci  fu  l'ingegno, 
quale  poteva  essere  allora  l'ingegno  italiano.  Quel  mi- 
stero fu  l'Orfeo,  e  quell'ingegno  fu  Angiolo  Poliziano. 
Il  Poliziano  è  la  più  spiccata  espressione  della  lette- 
ratura in  questo  secolo.  Ci  è  già  l'immagine  schietta 
del  letterato,  fuori  di  ogni  partecipazione  alla  vita  pub- 
blica; vuoto  di  ogni  coscienza  religiosa  o  politica  o  mo- 
rale ,  cortigiano  ,  amante  del  quieto  vivere ,  e  che  al- 
terna  le  ore  tra  gli  studi  e  i  lieti  ozii.  Ebbe  in  Lorenzo 
un  protettore,  un  amico  e  divenne  la  sua  ombra,  il  suo 
compagno  ne'  sollazzi  pubblici  e  secreti.  Cominciò  la  vita, 
voltando  l' iliade  in  latino ,  grecista  e  latinista  sommo. 
Dettava  epigrammi  latini  con  la  facilità  di  un  improv- 
visatore. Si  traeva  da  tutta  Europa  a  sentirlo  spiegare 
Omero  e  Virgilio.  E  non  si  ammirava  l'erudito  ,  ma  ) 
l'uomo  di  gusto  e  il  poeta,  che  ispirato  vi  aggiungeva 
le  sue  emozioni  e  le  sue  impressioni  e  i  suoi  carmi.  11 


—  376  — 

suo  studio  e  la  sua  villetta  di  Fiesole  sono  il  compen- 
dio di  questa  vita  tranquilla  e  placida ,  spenta  a  qua- 
rant'anni. 

II  Poliziano  aveva  uno  squisito  sentimento  della  forma 
nella  piena  indifferenza  di  ogni  contenuto.  Il  tempio  era 
vuoto:  vi  entrò  Apollo,  e  lo  empì  d'immagini  e  di  ar- 
monie. Il  mondo  antico  s'impossessò  subito  di  un'anima, 
dove  ogni  vestigio  del  medio  evo  era  scomparso.  Il  Boc- 
caccio sentì  che  è  ancora  medio  evo ,  e  lo  vedi  alle 
prese  co'  canoni  e  le  scienze  sacre  e  le  forme  dantesche; 
il  vecchio  e  il  nuovo  Adamo  combattono  in  lui ,  come 
nel  Petrarca:  erano  tempi  di  transizione.  Nel  Poliziano 
tutto  è  concorde  e  deciso;  non  ci  è  più  lotta.  Teologia, 
scolasticismo,  simbolismo,  il  medio  evo  nelle  sue  forme 
e  nel  suo  contenuto ,  di  cui  vedevi"  ancora  la  memoria 
prosaica  nelle  laude  e  nei  misteri,  è  un  mondo  in  tutto 
estraneo  alla  sua  coltura  e  al  suo  sentire.  Quello  è  per 
lui  lajDarbarie.  E  non  ha  bisogno  di  cacciarlo  dalla  sua 
anima:  non  ve  lo  trova.  Il  sentimento  della  bella  forma, 
già  così  grande  nel  Petrarca  e  nel  Boccaccio,  in  lui  è 
tutto;  e  quel  mondo  della  bella  forma,  appresso  al  quale 
correvano  faticosamente  il  Boccaccio  e  il  Petrarca  fin 
da'  primi  anni,  e  il  mondo  suo,  e  ci  vive  come  fosse  nato 
là  dentro,  e  ne  ha  non  solo  la  conoscenza  ma  il  gusto. 
Questo  era  la  coltura,  l'umanità,  il  risorgimento,  orgo- 
gUo  di  una  società  erudita,  artistica,  idillica,  sensuale, 
quale  il  Boccaccio  l' avea  abbozzata,  e  che  ora  si  spec- 
chia nel  Poliziano,  come  nel  suo  modello  ideale.  Perchè 
questa  generazione,  caduta  così  basso,  fiacca  di  tempra 
e  vuota  di  coscienza,  aveva  pure  la  sua  idealità,  il  suo 
divino  ,  ed  era  l' orgoglio  della  coltura  ,  il  sentimento 
della  forma.  Le  sue  mascherate,  le  cacce  le  serenate,  le 
giostre,  le  feste,  tanta  parte  di  quella  vita  oziosa  e  al- 
legra, erano  nobiUtate  dalle  arti  dello  spirito  e  da'pia> 
ceri  dell'immaginazione.  E  se  il  Cardinale  Gonzaga,  rien- 


—  377  — 

trando  nella  patria^  bandisce  pubbliche  feste  e  cerca  nella 
poesia  il  loro  ornamento  e  decoro,  il  giovane  Poliziano 
'  ]cli  scrive  in  due  giorni  V Orfeo.  E  che  cosa  è  l'Orfeo? 
Come  gli  venne  in  mente  Orfeo  ?  Giovanni  Boccaccio  nel 
Ninfale  e  nell'  Ameto  canta  la  fine  della  barbarie ,  e  il 
regno  della  coltura  o  dell'umanità.  Il  rozzo  Ameto  edu- 
cato dalle  Arti  e  dalle  Muse  apre  l'animo  alla  bellezza 
e  all'amore ,  e  di  bruto  si  sente  fatto  uomo.  Atalante 
trasforma  il  bosco  di  Diana  in  città,  e  vi  marita  le  nin- 
fe, e  v'introduce  costumi  civili.  Orfeo  è  il  grande  pro- 
tagonista di  questo  regno  della  coltura,  venuto  dall'an- 
tichità giovine  e  glorioso  ne'  carmi  di  Ovidio  e  di  Vir- 
gilio. Questo  fondatore  dell'  umanità  col  suono  della  lira 
e  con  la  dolcezza  del  canto  mansuefa  le  fiere  e  gli  uo- , 
mini  e  impietosisce  la  morte,  e  incanta  l'inferno.  È  ii 
trionfo  dell'arte  e  della  coltura  su'rozzi  istinti  della  na- 
tura, consacrato  dal  martirio^,  quando,  sforzando  le  leggi 
naturali,  è  dato  in  balìa  all'ebbro  furore  delle  Baccanti. 
Dopo  lungo  obblio  nella  notte  della  seconda  barbarie,  Or- 
feo rinasce  tra  le  feste  della  nuova  civiltà,  inaugurando 
il  regno  dell'umanità,  o  per  dir  meglio  dell'umanismo. 
Questo  è  il  mistero  del  secolo ,  è  l' ideale  del  risorgi- 
mento. Le  sacre  rappresentazioni  cacciate  dalle  città  me- 
nano vita  oscura  nei  contadi,  e  cadono  in  così  profondo 
obblio  che  giacciono  ancora  polverose  nella  biblioteca. 
L'Orfeo  è  un  mondo  di  pura  immaginazione.  I  misteri 
avevano  la  loro  radice  in  un  mondo  ascetico,  fatto  tra- 
dizionale e  convenzionale,  pur  sempre  reale  per  una  gran 
parte  degli  spettatori.  Qui  tutti  sanno  che  Orfeo  ,  le 
Driadi,  le  Baccanti,  le  Furie,  Plutone  e  il  suo  inferno 
sono  creature  dell'immaginazione.  A  quel  modo  che  nelle 
giostre  i  borghesi  camuffati  da  Cavalieri  riproducevano 
il  mondo  cavalleresco,  i  nuovi  Ateniesi  dovevano  pro- 
vare una  grande  soddisfazione  a  vedersi  sfilare  innanzi 
co'  loro  costumi  e  abiti  le  ombre  del  mondo  antico.  Che 


—  378  — 

entusiasmo  fu  quello,  quando  Baccio  Ugolini,, vestito  da 
Orfeo  e  con  la  cetra  in  mano,  scendeva  il  monte,  can- 
tanto  in  magnifici  versi  latini  le  lodi  del  cardinale  !  Re- 
deunt  saturnia  regna.  Sembravano  ritornati  i  tempi  di 
Atene  a  Roma  ;  salutavano  con  immenso  grido  di  ap- 
plauso Orfeo  ,  nunzio  alle  genti  della  nuova  era ,  della 
nuova  civiltà.  Nel  medio  evo  si  dicea:  vivere  in  ispirilo^ 
ed  era  il  ratto  dell'anima  alienata  da'  sensi  in  un  mondo 
superiore.  Ciò  che  una  volta  ispirava  il  sentimento  re- 
ligioso ,  oggi  ispira  il  sentimento  dell'  arte,  la  sola  reli- 
gione sopravvissuta,  e  si  vive  in  immaginazione.  I  ric- 
chi ,  a  quel  modo  che  decorano  i  palagi  degli  avi,  de- 
corano con  r  arte  i  loro  piaceri. 

E  che  decorazione  è  quest'  Orfeo  !  dove  sotto  forme 
antiche  vive  e  si  move  quella  società  idealizzata  ne- 
Tanima  armoniosa  del  poeta.  È  un  mondo  mobile  e  su- 
perficiale, a  celeri  apparizioni,  e  mentre  fissi  lo  sguardo, 
il  fantasma  ti  fugge  :  la  parola  è  come  ebbra  e  si  esala 
nel  suono  e  nel  canto:  il  pensiero  è  appena  iniziale,  in- 
calzato dalle  onde  musicali  :  la  tragedia  è  una  elegia  , 
l'inno  è  un  idillio;  e  n'esce  un  mondo  idiliico-elegiaco, 
penetrato  di  un  dolce  lamento,  che  non  ti  turba,  anzi 
ti  lusinga  e  ti  accarezza,  insino  a  che  questo  bel  mondo 
dell'  arte  ti  si  disfà  come  nebbia ,  e  ti  svegli  violente- 
mente tra  il  furore  e  1'  ebbrezza  dei  sensi.  Il  canto  di 
Aristeo,  il  coro  delle  Driadi,  il  ditirambo  delle  Baccanti 
sono  le  tre  tappe  di  questo  mondo  incantato  ,  la  cui 
quiete  idillica  penetrata  di  flebile  e  molle  elegia  si  scio- 
ghe  nel  disordine  bacchico.  La  lettura  non  basta  a  darne 
I  un'adeguata  idea.  Bisogna  aggiungervi  gli  attori  e  le  de- 
corazioni e  il  canto  e  la  musica  e  l'entusiasmo  e  l'eb- 
brezza di  una  società  che  ci  vedea  una  cosi  viva  imma- 
gine di  sé  stesso.  Il  suo  ideale,  il  suo  Orfeo  è  una  lieve 
apparizione,  ondeggiante  tra'  più  dehcati  profumi  a  cui 
se   troppo  ti   accosti ,  ti  fuggirà  come   Euridice.  È   un 


—  379  — 

mondo  che  non  ha  altra  serietà,  se  non  quella  che  gli 
dà  r immaginazione;  le  passioni  sono  emozioni,  gli  avve- 
nimenti sono  apparizioni ,  i  personaggi  sono  ombre  ;  la 
vita  danza  e  canta,  e  non  si  ferma  e  non  puoi  fissarla. 
La  stessa  leggerezza  penetra  nelle  forme,  flessibili,  va- 
riamente modulate,  e  come  tutta  un'orchestra  di  metri, 
entrati  gli  uni  negli  altri  in  una  sola  armonia.  Il  set- 
tenario rammorbidisce  l'endecasillabo;  la  ballata  dà  le 
ali  all'ottava;  le  rime  si  annodano  ne' più  voluttuosi  in- 
trecci; ora  è  il  dialetto  nella  sua  grazia,  ora  è  la  Ungua 
nella  sua  maestà;  qui  lo  sdrucciolo  ti  tira  nella  rapida 
corsa,  là  il  tronco  ti  arresta  e  ti  culla;  con  una  facihtà 
e  un  brio  che  pare  il  poeta  giuochi  con  i  suoi  stru- 
menti. 

Così  Orfeo,  il  figlio  di  Apollo  e  di  Calliope,  rinacque  ; 
così  divenne  il  nunzio  del  risorgimento.  Le  edizioni  mol- 
tiplicarono; penetrò  dalle  corti  nel  contado;  se  ne  fe- 
cero imitazioni;  comparve  la  Historia  e  favola  d'Orfeo; 
e  anche  oggi  nelle  valli  toscane  ti  giunge  la  melodia 
di  Orfeo  dalla  dolce  lira,  una  storia  in  ottava  rima. 
Personaggio  indovinato,  comparso  proprio  alla  sua  ora 
nel  mondo  moderno,  segnacolo  e  vessillo  del  secolo. 

L'Orfeo  nacque  tra  le  feste  di  Mantova;  e  tra  le  fe- 
ste di  Firenze  nacquero  le  Stanze.  Quel  mondo  borghese 
della  cortesia,  cosi  ben  dipinto  nel  Decamerone,  ripro- 
ducea  nelle  sue  giostre  il  mondo  profano  de'  romanzi  e 
delle  novelle,  la  cavalleria.  I  poeti  celebrano  a  suon  di 
tromba  le  gloriose  pompe  e  i  fieri  ludi  di  questi  mer- 
canti improvvisati  cavalieri  e  vestiti  all'eroica;  non  ci 
era  più  la  realtà;  ce  n'era  l'immaginazione.  Le  giostre 
erano  in  fondo  una  rappresentazione  teatrale,  e  i  gio- 
stranti erano  attori  che  rappresentavano  i  personaggi 
de'  romanzi,  spettacolo  continuato  oggi  nelle  corse,  con 
questo  progresso  che  gli  attori  sono  i  cavalli.  Ridicoli 
sono  i  poeti  che  narrano  le  alto  jeste  de'  giostranti  come 


—  381  -^ 

e  ti  tiene  in  una  dolce  malinconia;  non  sei  nel  regno  dei 
misteri  e  delle  ombre,  nel  regno  musicale  del  sentimento  ; 
sei  nel  regno  dell'immaginazione.  Venere  è  nuda  ;  Iside 
ha  alzato  il  velo.  Non  hai  più  gli  schizzi  di  Dante,  hai 
i  quadri  dei  Boccaccio;  non  hai  più  la  faccia  di  Giotto, 
hai  la  figura  del  Perugino  ;  non  hai  più  il  terzetto  nel 
suo  raccoglimento  ,  hai  1'  ottava  rima  nella  sua  espan- 
sione. Ci  è  quel  sentimento  idillico  e  sensuale  che  ispirò 
il  Boccaccio,  e  di  cui  senti  la  fragranza  nella  Lepidina 
e  nel  Rusticus  :  l'anima  sta  come  rilassata  in  dolce  ri- 
poso ,  non  fantasticando  ma  figurando  parte  a  parte  e 
disegnando  ,  quasi  voglia  assaporare  goccia  a  goccia  i 
suoi  piaceri.  E  non  è  la  descrizione  minuta,  anatomica, 
spesso  ottusa,  del  Boccaccio  ;  ohe  mentre  la  natura  ti  si 
ofi're  distinta  come  un  bel  paesaggio,  non  sai  onde  o  come 
ti  giungono  mormorii,  concenti,  note,  come  la  voce  di 
una  divinità  nascosta  nel  suo  grembo.  La  sensualità  fil- 
trata fra  tanta  dolcezza  di  note  lascia  in  fondo  la  sua 
parte  grossolana  ed  esce  fuori  purificata  ;  e  non  è  la 
musa  civettuola  del  Boccaccio,  è  la  casta  Musa  del  Par- 
naso ,  che  copre  la  sua  nudità  e  vi  gitta  sopra  il  suo 
manto  verginale.  Nel  Boccaccio  è  la  carne  che  accende 
l'immaginazione;  nel  Poliziano  l'immaginazione  è  come 
un  crogiuolo,  dove  l'oro  si  affina.  La  sensuale  e  vol- 
gare Griseide  si  spoglia  in  quel  crogiuolo  la  sua  parte 
terrea,  e  diviene  la  gentile  Simonetta,  bellezza  nuda,  svi- 
luppata da  ogni  velo  allegorico  dantesco  e  petrarche- 
sco, a  contorni  precisi  e  finiti,  pur  divina  nella  sua  realtà: 

Neir  atto  regalmente  è  mansueta, 
E  pur  col  ciglio  le  tempeste  acqueta. 

Tra  il  poeta  e  il  suo  mondo  non  ci  è  comunione  di- 
retta; ci  stanno  di  mezzo  Virgilio,  Teocrito,  Orazio,  Stazio, 
Ovidio,  che  gli  prestano  le  loro  immagini  e  i  loro  colori. 
Ma  egli  ha  iin  gusto  cosi  fine  e  un  sentimento  della  forma 


—  380  — 

fossero  Orlando  e  Carlomagno;  con  le  frasi  ampollose 
de'  romanzi,  e  descrivono  minutamente  gli  abiti,  le  fogge, 
le  divise,  gli  stemmi,  gli  scontri  con  una  serietà  frigola. 
Anche  Giuliano  de'  Medici  fece  la  sua  giostra,  e  divenne 
r  eroe  di  quel  poemetto ,  che  i  posteri  hs^nno  chiamato 
le  Stanze. 

Comincia  a  suon  di  tromba.  Il  poeta   vuol  celebrare 
le  gloriose  imprese, 

Si  che  i  gran  nomi  e  i  fatti  egregi  e  soli 
Fortuna  o  morte^  o  tempo  non  involi. 

Ma  i  fatti  egregi  e  i  gran  nomi  sono  dimenticati.  E  che 
cosa  è  rimasto?  Le  stanze:  forme  vaganti,  di  cui  nes- 
suno cerca  il  legame,  ciascuna  compiuta  in  sé.  Nella  gio- 
vine mente  del  poeta  non  ci  è  il  romanzo  ,  ci  è  Stazio 
e  Claudiano  con  le  loro  Selve,  ci  è  Teocrito  ed  Euri- 
pide ;  ci  è  Ovidio  con  le  sue  Metamorfosi,  ci  è  Virgilio 
con  la  sua  Georgica,  ci  è  il  Petrarca  con  la  sua  Laura  ; 
ci  è  tutto  un  mondo  d'immagini  fluttuanti,  sciolte,  dis- 
seminate come  le  stelle  nel  cielo  all'occhio  semplice  del 
pastore.  Questo  è  il  mondo  che  vien  fuori  in  un  legame 
artificiale  e  meccanico  ;  delle  cui  fila  interrotte  nessuno 
si  cura  ;  perchè  la  giostra  non  è  il  motivo  di  questo 
mondo  ;  è  la  semplice  occasione.  La  sua  unità  non  è  in 
un'azione  frivola  e  incompiuta,  debole  trama.  La  sua 
unità  è  in  so  stesso,  nello  spirito  che  lo  move,  ed  è  quel 
vivo  sentimento  della  natura  e  della  bellezza  che  dal 
Boccaccio  in  qua  è  il  mondo  della  coltura. 

La  primavera,  la  notte,  la  vita  rustica,  la  caccia,  la 
casa  di  Venere,  il  giardino  d'Amore,  gl'intagli,  non  sono 
già  episodi,  sono  questo  mondo  esso  medesimo  nella  sua 
sostanza,  animato  da  un  solo  soffio.  Sono  1'  apoteosi  di 
Venere  e  d' Amore  ,  della  bella  Natura ,  la  nuova  Di- 
vinità. 

E  la  Natura  non  ha  già  quel  vago,  che  ti  fa  pensoso 


.     —  382  — 

cosi  squisito  che  ciò  che  riceve  esce  con  la  sua  stampa 
come  una  nuova  creazione.  Ci  è  nel  suo  spirito  una  gra- 
zia che  ingentilisce  il  volgare  naturalismo  del  suo  tempo, 
e  una  delicatezza  che  gli  fa  cogliere  del  suo  mondo  il  più 
bel  fior.  L'insignificante,  il  rozzo,  il  plebeo,  non  entra 
nella  sua  immaginazione  ;  ciò  che  sta  lì  dentro,  è  tutto 
elegante  e  profumato^  e  non  cessa  che  non  l'abbia  reso 
con  r  ultima  finitezza.  Le  sue  reminiscenze  mitologiche 
e  classiche  sono  semplici  mezzi  di  colorito  e  di  rilievo  : 
gli  sta  innanzi  Venere ,  Diana  e  la  tale  e  tale  frase  di 
Ovidio  0  di  Virgilio  ;  ma  il  suo  spirito  va  al  di  là  della 
frase,  attinge  le  cose  nella  loro  vita,  e  le  rende  con  evi- 
denza e  naturalezza.  Perciò,  raro  connubio,  l'eleganza 
in  lui  non  è  mai  rettorica  e  si  accompagna  con  la  na- 
turalezza, perchè  ha  delle  cose  una  impressione  propria 
e  schietta.  La  mammola,  la  rosa,  l'ellera,  la  vite,  il  mon- 
tone, la  capra,  gli  uccelli,  le  aurette,  l'erba  e  il  fiore, 
tutto  si  anima  e  si  configura  e  prende  le  più  vaghe  e 
gentili  abitudini  innanzi  a  questa  immaginazione  idiUica. 
Ciò  che  prova  non  è  sensualità^  è  voluttà,  sensazione  al- 
zata a  sentimento,  che  fonde  il  plastico  e  te  ne  fa  sen- 
tire la  musica  interiore.  Ottiene  potentissimi  efi*etti  con 
la  massima  semplicità  de' mezzi,  spesso  col  solo  allogare 
gli  oggetti,  ora  aggruppando,  ora  distinguendo,  e  tutto 
animando,  come  persone  vive.  Tale  è  la  mammoletta  ver- 
ginella, con  gli  occhi  bassi  e  vergognosa,  e  l'ellera  che 
va  carpone  co' piedi  storti,  o  l'erba  che  si  maraviglia 
della  sua  bellezza ,  bianca,  cilestre ,  pallida  e  vermiglia. 
Il  sentimento  che  n^esce  non  ha  virtù  di  tirarti  dalle  cose 
e  lanciarti  in  infiniti  spazii  ;  anzi  ti  chiude  nella  tua  con- 
templazione e  vi  ti  tiene  appagato,  come  fosse  quella  tutto 
il  mondo ,  e  non  pensi  di  uscirne ,  e  la  guardi  parte  a 
parte  nella  grazia  della  sua  varietà.  Perchè  il  motivo  del- 
l'ispirazione  non  è  lo  spirito  nella  sua  natura  trascen- 
dente e  musicale,  quale  si  mostra  in  Dante,  ma  il  corpo. 


—  383  — 

e  non  come  un  bel  velo,  una  bella  apparenza,  ma  ter- 
minato e  tranquillo  in  sé  stesso,  quale  si  mostra  nel  pe- 
riodo e  neir  ottava,  le  due  forme  analitiche  e  descrittive 
del  Boccaccio,  divenute  la  base  della  nuova  letteratura. 
L'  ottava  del  Boccaccio  diffusa,  pedestre,  insignificante, 
qui  si  fissa,  prende  una  fisonomia.  Ciascuna  stanza  è  un 
piccolo  mondo,  dove  la  cosa  non  lampeggia  a  guisa  di 
rapida  apparizione,  ma  ti  sta  riposata  innanzi  come  un 
modello  e  ti  mostra  le  sue  bellezze.  Non  è  un  periodo 
congegnato  a  modo  di  un  quadro,  dove  il  protagonista 
emerga  tra  minori  figure  ;  ma  è  come  una  serie  dove  ti 
vedi  sfilare  avanti  le  parti  ad  una  ad  una  di  quel  pic- 
colo mondo.  Diresti  che  in  questa  bella  natura  tutta  è 
interessante  ,  e  non  ci  è  principale  ed  accessorio  ,  ma- 
niera di  ottava  accomodata  al  genio  di  un  uomo  che  non 
ammette  l' insignificante  e  l' indifferente  ,  e  tutto  vuole 
sia  oro  e  porpora.  Perciò  non  hai  fusione,  ma  successio- 
ne, che  è  la  cosa  come  ti  si  spiega  innanzi,  prima  che 
il  tuo  spirito  la  scruti  e  la  trasformi.  La  stanza  non  ti 
dà  l'insieme,  ma  le  parti  ;  non  ti  dà  la  profondità,  ma  la 
superficie  ,  quello  che  si  vede.  Pure  le  parti  sono  cosi 
bene  scelte  e  la  serie  è  ordita  con  una  gradazione  così 
intelligente ,  che  all'  ultimo  te  ne  viene  l' insieme  ,  pro- 
dotto non  dalla  descrizione,  ma  dal  sentimento.  Vuol  de- 
scrivere la  primavera  e  ti  dà  una  serie  di  fenomeni  ; 

Zefiro  già  di  bei  fioretti  adorno 
Avea  ai  monti  tolta  ogni  pruina  : 
Avea  fatto  al  suo  nido  già  ritorno 
La  stanca  rondinella  peregrina  ; 
Risonava  la  selva  intorno  intorao 
Soavemente  all'  ora  mattutina  : 
E  la  ingegnosa  pecchia  al  primo  albore 
Giva  predando  or  uno  or  altro  fiore. 

Questi  fenomeni  sono  cosi  bene  scelti,  legati  con  tanto 


—  384  — 

accordo  di  pause  e  di  tono,  armonizzati  con  suoni  così 
freschi  e  soavi,  che  sembrano  le  voci  di  un  solo  motivo, 
e  te  ne  viene  non  all'occhio  ma  all'anima  l'insieme,  ed 
è  quel  senso  d'intima  soddisfazione,  che  ti  dà  la  prima- 
vera, la  voluttà  della  natura.  In  Dante  non  ci  è  voluttà, 
ma  ebrezza  :  cosi  è  trascendente.  Nel  Boccaccio  non  ci 
è  voluttà ,  ma  sensualità.  La  voluttà  è  la  Musa  della 
nuova  letteratura,  è  l'ideale  della  carne  o  del  senso  ,  è 
il  senso  trasportato  neil'  immaginazione  e  raffinato ,  di- 
venuto sentimento.  Qui  è  una  voluttà  tutta  idillica,  un 
godimento  della  Natura  senz'altro  fine  che  il  godimento, 
con  perfetta  obblivione  di  tutto  l'altro  ;  senti  le  prime  e 
fresche  aure  di  questo  mondo  della  natura  assaporato 
da  un'  anima  ,  il  cui  universo  era  la  villetta  di  Fiesole 
illuminata  e  abbellita  da  Teocrito  e  da  Virgilio.  Da  que- 
sta doppia  ispirazione,  un  intimo  godimento  della  natura 
accompagnato  con  un  sentimento  puro  e  delicato  della 
forma  e  della  bellezza,  sviluppato  ed  educato  dai  classici, 
è  uscito  il  nuovo  ideale  della  letteratura,  l'ideale  delle 
stanze,  una  tranquillità  e  soddisfazione  interiore  piena  di 
grazia  e  di  delicatezza  nella  maggior  pulitezza  ed  ele- 
ganza della  forma  ;  ciò  che  possiamo  chiamare  in  due  pa- 
role :  voluttà  idillica.  Il  contenuto  di  questo  ideale  è  l'età 
dell'oro  e  la  vita*  campestre,  con  tutto  il  corteggio  della 
mitologia,  ninfe,  pastori,  fauni,  satiri,  driadi,  divinità  ce- 
lesti e  campestri,  in  una  scala  che  dal  più  puro  e  più 
delicato  va  sino  al  lascivo  ed  al  licenzioso.  La  forma  è 
il  descrittivo  ammollito  e  liquefatto  in  dolci  note  musi- 
cali, quale  apparisce  nell'Orfeo  e  nelle  Stanze,  i  due  mo- 
delli di  questa  letteratura,  che  iniziata  nel  Boccaccio  an- 
drà fino  al  Metastasio. 

La  quale  non  è  lavoro  solitario  di  letterato  nel  silenzio 
del  gabinetto,  ma  è  lo  spirito  stesso  della  società,  come 
si  andava  atteggiando,  colto  nelle  costumanze  e  feste  pub- 
bliche. Centro  di  questo  movimento  è  Lorenzo  de'  Medici, 


—  385  — 

col  suo  coro  di  dotti  e  di  letterati,  il  Ficiiio,  il  Pico,  i  fra- 
telli Pulci,  il  Poliziano,  il  Rucellai,  il  Benivieiii,  e  tutti 
gli  accademici.  La  letteratura  vien  fuori  tra  danze  e  fe- 
ste e  conviti. 

Lorenzo  non  avea  la  coltura  e  l' idealità  del  Poliziano. 
Avea  molto  spirito  e  molta  immaginazione,  le  due  qualità 
della  colta  borghesia  italiana.  Era  il  più  fiorentino  tra'  fio- 
rentini, non  della  vecchia  stampa  s'intende.  Cristiano  e 
platonico  in  astratto  e  a  scuola,  in  realtà  epicureo  e  in- 
differente, sotto  abito  signorile  popolano  e  mercante  dai 
motti  arguti  e  dalle  salse  facezie,  allegro,  compagnevole, 
mezzo  tra'  piaceri  dello  spirito  e  del  corpo ,  usando  a 
chiesa  e  nelle  bettole,  scrivendo  laude  e  strambotti,  al- 
ternando orgie  notturne  e  disputazioni  accademiche,  cor- 
rotto e  corruttore.  Era  classico  di  coltura,  toscano  di  ge- 
nio, invescato  in  tutte  le  vivezze  e  le  grazie  del  dialetto. 
Maneggiava  il  dialetto  con  quella  facilità  che  governava  il 
popolo,  lasciatosi  menare  da  chi  sapeva  comprenderlo  e 
secondarlo  nel  suo  carattere  e  nelle  sue  tendenze.  Chi 
comprende  1'  uomo,  è  padrone  dell'  uomo.  Portò  a  grande 
perfezione  la  nuova  arte  dello  stato,  quale  si  richiedeva 
a  quella  società,  divenute  le  feste  e  la  stessa  letteratura 
mezzi  di  governo.  Alla  violenza  succedeva  la  malizia,  più 
efficace  :  il  pugnale  del  Bandini  uccise  un  principe,  non 
il  principato;  la  corruzione  medicea  uccise  il  popolo;  o 
per  dire  più  giusto,  Lorenzo  non  era  che  lo  stesso  po- 
polo studiato,  compreso  e  realizzato,  l'uno  degno  dell'al- 
tro. Tal  popolo,  tal  principe.  Quella  corruzione  era  an- 
cora più  pericolosa,  perchè  si  chiamava  civiltà,  ed  era 
vestita  con  tutte  le  grazie  e  le  veneri  della  coltura. 

Il  giovine  Lorenzo,  odorando  ancora  di  scuola,  tra  il 
Landino  e  il  Ficino,  dantesco,  petrarchesco,  platonico, 
con  reminiscenze  e  immagini  classiche,  entra  nella  folla 
de'  rimatori,  i  quali  continuavano  il  mondo  tradizionale 

Be  SanctiB  — Leu   Ital    Voi.  1.  25 


—  386  — 

de'  sonetti  e  delle  canzoni.  Ce  n'  erano  a  dozzina,  e  in 
tutte  le  parti  d' Italia  ;  l'uomo  colto  esordiva  col  sonetto, 
uso  giunto  fino  a'  tempi  nostri.  Molti  canzonieri  uscirono 
in  questo  secolo  ;  appena  è  se  oggi  si  ricordi  Giusto  dei 
Conti  e  il  Benivieni.  Continuare  il  Petrarca  dovea  signi- 
ficare realizzarlo,  sviluppare  quell'elemento  sensuale,  idil- 
lico, elegiaco,  che  giace  sotto  il  suo  strato  platonico,  e 
che  è  l'elemento  nuovo.  Ma  il  povero  Petrarca  era  ma- 
lato, e  i  sonettisti  esalano  sospiri  poetici  dall'anima  vuota 
e  indifferente.  Del  Petrarca  rimane  il  cadavere  :  imma- 
gini e  concetti  scastrati  dal  mondo  in  cui  nacquero  e  cam- 
pati in  aria,  senza  base.  Non  e'  è  più  un  mondo  organico, 
ma  un  accozzamento  fortuito  e  monotono  di  forme  di- 
venute convenzionali.  Manca  l' immaginazione  e  la  ma- 
linconia e  r  estasi,  i  veri  fattori  del  mondo  petrarchesco: 
restano  le  astrattezze  platoniche  e  le  acutezze  dello  spi- 
rito, congiunta  l'insipidezza  con  le  vuote  sottigliezze,  co- 
me nelle  rime  tanto  celebrate  del  Ceo,  del  Notturno,  del 
Serafino,  del  Sasso,  del  Cornazzano,  del  Tibaldeo.  Lo- 
renzo comincia  lui  pure  con  qualche  cosa  come  la  Vita 
nuovUy  e  narra  il  suo  innamoramento,  con  le  occasioni 
e  le  spiegazioni  de'  suoi  sonetti,  in  una  prosa  grave  e 
ampia  alla  maniera  latina,  pur  disinvolta  e  franca.  An- 
che nel  suo  Canzoniere  appariscono  forme  e  idee  con- 
venzionali ;  anche  vi  domina  lo  spirito,  di  cui  avea  si  gran 
dovizia.  Ma  e'  è  lì  una  sua  impronta  ;  ci  è  un  sentimento 
idillico  e  una  vivacità  d' immaginazione  che  al  cuna  volta 
ti  rinfresca  e  ti  fa  andare  avanti  con  pazienza.  Non  ci 
è  sonetto  o  canzone  che  si  possa  dire  una  perfezione;  ma 
e'  è  versi  assai  belli  e  qua  e  là  paragoni,  immagini,  con- 
cetti che  ti  fermano. 

Il  sonetto  e  la  canzone  sono  quasi  forme  consacrate 
e  inalterabili,  dove  nessuno  osa  mettere  una  mano  pro- 
fana. Rimangono  perciò  immobili,  senza  sviluppo.  Il  nuovo 
spirito  si  fa  via  nella  nuova  forma,  1'  ottava  rima  o  la 


—  387  — 

stanza.  Vi  apparisce  l'amore  idillico-elegiaco,  proprio  del 
tempo  ;  la  forma  condensata  del  Petrarca  si  scioglie  e  si 
effonde  ne'  magnifici  giri  dell'  ottava;  non  più  concetti  e 
sottili  rapporti;  hai  narrazioni  vivaci  e  fiorite  descrizioni. 
Anche  dove  il  concetto  è  dantesco,  come  nelle  stanze  del 
Benivieni  che,  lasciato  il  primo  casto  amore  e  corso  ap- 
presso alla  sirena,  si  sente  trasformato  in  lonza,  la  for- 
ma è  lussureggiante  e  vezzosa,  e  più  simile  a  sirena  che 
a  casta  donna.  Modello  di  questo  genere  è  la  Selva  di 
Amore  di  Lorenzo,  composizione  a  stanze  d' un  fare  largo 
e  abbondante,  alquanto  sazievole,  il  cui  difetto  è  appunto 
il  soverchio  naturalismo,  una  realtà  minuta,  osservata  e 
riprodotta  esattamente  ne'  suoi  caratteri  esterni,  non  fatta 
dall'  arte  mobile  e  leggiera,  non  idealizzata.  Tra  le  sue 
più  ammirate  descrizioni  è  quella  dell'  età  dell'  oro,  dove 
è  patente  questo  difetto.  Vedi  l' uomo  in  villa  che  tutto 
osserva,  e  anima  con  1'  immaginazione  la  natura  senza 
averne  il  sentimento.  Ci  è  1'  osservatore ,  manca  1'  ar- 
tista. 

Bella  e  parimente  sazievole  è  la  descrizione  degli  effetti 
che  gU  occhi  della  sua  donna  producono  sulla  natura. 
La  soverchia  esattezza  nuoce  all'  illusione  e  addormenta 
r  immaginazione.  Veggasi  questa  ottava  : 

Siccome  il  cacciator  eh'  i  cari  figli 
Astutamente  al  fero  tigre  fura  ; 
E  benché  inoanzi  assai  campo  gli  pigli, 
La  fera  più  veloce  di  natura 
Quasi  già  il  giunge  e  insanguina  gli  artigli; 
Ma  veggendo  la  sua  propria  figura 
Nello  specchio  che  trova  in  su  Ja  rena, 
Crede  sia  il  figlio  e  il  corso  suo  raffrena. 

Ci  si  vede  un  uomo  che  in  un  fatto  cosi  pieno  di  con- 
citazione rimane  tranquillo  in  uno  stato  prosaico,  e  os- 
fc;3rva  e  spiega  il  fenomeno  e  lo  rende  con  evidenza ,  ma 


—  388  -- 

nonne  riproduce  il  sentimento;  c'è  l'esattezza,  manca 
il  calore  e  l'armonia.  Veggasi  ora  Y  artista,  il  Poliziano: 

Qual  tigre  a  cui  dalla  pietrosa  tana 
Ha  tolto  il  cacciator  gli  suoi  car  figli; 
Rabbiosa  il  segue  per  la  selva  ircana, 
Che  tosto  crede  insanguinar  gli  artigli  : 
Poi  resta  di  uno  specchio  ali*  ombra  vana, 
All'  ombra  che  i  suo*  nati  par  somigli  ; 
E  mentre  di  tal  vista  s' innamora 
La  sciocca,  il  preda tor  la  via  divora. 

Anche  Lorenzo  descrive  le  rose,  come  fa  il  Poliziano; 
ma  si  paragoni.  Ciò  che  in  Lorenzo  è  naturalismo,  è  idea- 
lità nel  Poliziano.  Neil'  uno  è  il  di  fuori  abbellito  dalla 
immaginazione,  V  altro  nel  di  fuori  ti  fa  sentire  il  di  den- 
tro. Lorenzo  dice: 

Eranvi  rose  candide  e  vermiglie  : 
Alcuna  a  foglia  a  foglia  al  sol  si  spiega, 
Stretta  prima,  poi  par  si  apra  e  scompiglie: 

Altra  più  giovinetta  si  dislega 
Appena  dalla  boccia:  eravi  ancora 
Chi  le  sue  chiuse  foglie  ali*  aer  nìega: 

Altra  cadendo  a  pie  il  terreno  infiora. 

Minuta  analisi,  con  perfetta  esattezza  di  osservazione  e  con 
proprietà  rara  di  vocaboli.  Vedete  ora  nel  Poliziano  que- 
ste rose  animarsi  come  persone  vive;  ne  senti  la  fra- 
granza, la  grazia,  la  freschezza  : 

Questa  di  verdi  gemme  s' incappella  ; 
Quella  si  mostra  allo  sportel  vezzosa; 
L'  altra  che  in  dolce  foco  ardea  pur  ora, 
Languida  cade  e  il  bel  pratello  infiora. 

In  questo  genere  narrativo  e  descrittivo,  di  cui  il  Boc- 
caccio nel  Ninfale  dava  l'esempio,  il  poeta  non  è  obbli- 


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gato  a  platonizzare  e  sottilizzare  intorno  alle  sue  poetiche 
fiamme  per  tutta  una  vita.  Finge  amori  altrui,  e  in  luogo 
di  chiudersi  nella  natura  e  ne'  fenomeni  dell'  amore  fino 
alle  più  raffinate  acutezze,  trae  colori  nuovi  e  freschi 
dalla  qualità  degU  avvenimenti  e  dalla  natura  e  condi- 
zioni dei  personaggi  che  introduce  sulla  scena.  La  donna 
cala  dalle  nubi  e  acquista  una  storia  umana.  Come  son 
care  queste  ricordanze  di  donna  amata,  che  torna  a  casa 
e  non  vi  trova  il  suo  amore  ! 

Qui  r  aspettai,  e  quinci  pria  lo  scorsi. 
Quinci  sentii  Y  andar  de*  leggier  piedi, 
E  quivi  la  man  timida  li  porsi; 
Qui  con  tremante  voce  dissi:  Or  siedi; 
Qui  volle  allato  a  me  soletto  porsi: 
E  quivi  interamente  me  li  diedi. 


0  sospirar  che  di  ambo  i  petti  uscia  ! 
0  mobil  tempo,  o  brevi  ore  e  fugaci, 
Che  tanto  ben  ve  ne  portaste  via! 
Quivi  lasciommi  piena  di  disio. 
Quando  già  presso  al  giorno  disse:  Addio. 

V Ambra,  il  Corinto,  Venere  Marte,  la  Nencia 
sono  poemetti  di  questo  genere.  Soprastà  per  calore  ed 
evidenza  di  rappresentazione  l'Ambra,  graziosa  invenzione 
ispirata  da  Ovidio  e  dal  Boccaccio.  Ma  il  capolavoro  e 
la  Nencia,  che  pare  una  pagina  del  Decamerone.  Qui  Lo- 
renzo lascia  la  mitologia,  e  gli  amori  sentimentaU  e  idil- 
lici, ed  entra  nel  vivo  della  società,  rappresentando  gli 
amori  di  Vallerà  e  Nencia,  due  contadini,  con  un  tono 
equivoco  che  non  sai  se  dica  da  senno  o  da  burla,  e  sco- 
pre il  borghese  disposto  a  pigliarsi  beffe  della  plebe.  Tutta 
Firenze  fu  piena  della  Nencia  ;  era  la  città  che  metteva 
in  caricatura  il  contado.  L' idillio  vi  si  accompagna  con 
quel  sale  comico,  che  si  ^ente  nel  prete  di  Vai'luugo  e 


—  390  — 

Monna  Belcolore,  e  che  è  la  vera  genialità  di  Lorenzo: 
basta  ricordare  i  Beoni,  Chi  ama  i  paragoni,  ragguagU 
la  Beca,  la  Nencia  e  la  Brunettina,  tre  ritratti  di  con- 
tadine. Nella  Beca  del  Pulci  senti  il  puzzo  del  contado: 
la  caricatura  è  sfacciatamente  volgare  e  licenziosa.  Nella 
Nencia  hai  V  idealità  comica  :  una  caricatura  fatta  con 
brio  e  con  grazia,  con  un'aria  perfetta  di  bonomia  e  di 
sincerità.  Nella  Brunetlincu  del  Poliziano  hai  il  ritratto 
ideale  della  contadina,  rimossa  ogni  intenzione  comica. 
È  la  Venere  del  contado  con  morbidezza  di  tinte  assai 
ben  fuse,  vezzosa  e  leggiadra  nella  maggior  correzione 
ed  eleganza  del  disegno.  Notabile  è  soprattutto  la  ve- 
rità del  colorito  e  la  perfetta  realtà. 

Tra  le  feste  si  ravviva  la  poesia  popolare.  Vedevi  Lo- 
renzo andar  per  le  vie,  come  Re  Manfredi,  sonando  e 
cantando  tra'  suoi  letterati.  Il  poeta  della  Nencia  qui  è 
nel  suo  vero  terreno,  divenuto  la  voce  di  quella  società 
licenziosa  e  burlevole.  La  trasformazione  è  compiuta: 
giungiamo  sino  alla  parodia  fatta  con  intenzione.  I  Beoni 
0  il  Simposio  è  una  parodia  della  Divina  Commedia  e 
dei  Trionfi  non  pur  nel  disegno,  ma  nelle  frasi:  le  sa- 
cre immagini  dell'Alighieri  sono  torte  a  significare  le  scon- 
cezze e  turpitudini  dell'  ebbrezza.  Tra  questi  passatempi 
poetici  è  da  porre  la  Caccia  col  Falcone,  fatti  frivoli  e 
insignificanti,  ma  raccontati  con  lepore  e  con  grazia  in 
stanze  sveltissime ,  con  tutt'  i  sali  e  le  vivezze  del  dia- 
letto. Così  si  passava  allegramente  il  tempo: 

E  così  passo,  compar,  lieto  il  tempo, 
Con  mille  rime  in  zucchero  ed  a  tempo  ». 

Che  è  la  fine  e  insieme  il  significato  di  questa  pittura  di 
costumi. 

Lo  stesso  spirito  è  nelle  ballate  e  ne'  canti  carnascia- 
leschi; una  sensualità  illuminata  dall'allegria  e  dall'umor 
comico.  Il  mondo  convenzionale  de'  trovatori  è  ito  via , 


—  39i  — 

e  insieme  il  suo  vocabolario.  Ti  senti  in  mezzo  a  un  po- 
polo festevole  e  motteggiatore,  che  ha  rotto  il  freno  e 
si  dà  baha.  Un'  allegria  spensierata  e  Hcenziosa  è  il  mo- 
tivo di  (juesti  canti  :  V  amore  non  è  un  affetto ,  ma  un 
divertimento ,  un  modo  di  stare  allegri.  Il  motto  comune 
è  la  brevità  della  vita,  V  orrore  della  vecchiezza,  il  do- 
vere di  coglier  la  rosa  mentre  è  fiorita,  quel  tale  :  eda- 
mics  et  bibamus  :  post  morlem  nulla  voluptas.  Aggiungi 
la  caricatura  de'  predicatori  di  morale  e  delle  cose  sacre, 
com'è  la  confessione  di  Lorenzo,  e  la  sua  preghiera  a 
Dio  contro  i  mal  parlanti.  In  questo  mondo  rappresen- 
tato dal  vero  e  nell'atto  della  vita,  così  di  fuga  e  tra 
le  impressioni,  non  hai  concetti  raffinati,  ma  pittura  vi- 
vace di  costumi  e  di  sentimenti,  com'  è  l'ansia  dell'aspet- 
tare nella  canzone: 

Io  non  so  qual  maggior  dispetto  sia 

Che  aspettar  quel  che  il  cor  brama  e  desia; 

0  il  dispetto  contro  i  gelosi: 

Non  mi  dolgo  di  te,  né  di  me  stessi, 
Che  so  mi  aiuteresti  stu  potessi  ; 

0  quel  volere  e  disvolere  della  donna  nella  canzonetta 
sulla  pazzia,  e  nell'altra,  tirata  giù  tutta  di  un  fiato, 
così  rapida  e  piena  di  cose  : 

Ei  convien  ti  dica  il  vero 
Una  volta,  dama  mia. 

Questo  carnevale  perpetuo  si  manifesta  ne'  canti  e  trionfi 
carnescialeschi  in  tutta  la  sua  licenza.  Uscivano  di  car- 
novale, come  si  costuma  anche  oggi  ,  carri  magnifica- 
mente addobbati,  ora  rappresentazioni  mitologiche,  com'è 
il  Trionfo  di  Bacco  e  Arianna  co' suoi  satiri  e  Sileno  e 
Mida,  ora  corporazioni  di  arti  e  mestieri,  com'  è  il  canto 


—  392  — 

de*  cialdoni,  o  de'  calzolai,  o  delle  ^filatrici,  o  de'  beri- 
cuocolai,  ora  pitture  sociali  come  il  canto  delle  fan- 
ciulle 0  delle  giovani  donne,  o  de'  romiti,  o  de'  poveri. 
Il  motivo  generale  è  l'amor  licenzioso,  stuzzicato  spesso 
da  equivoci  e  allusioni  che  mettono  in  moto  l' immagi- 
nazione. È  il  cinismo  del  Boccaccio  giunto  in  piazza  e 
portato  in  trionfo.  La  rappresentazione  della  vita  e  dei 
costumi  e  delle  condizioni  sociali  e  1'  allegra  caricatura, 
che  sono  1'  anima  di  questo  genere  di  letteratura,  com'è 
nel  carnevale  di  Goethe,  si  perdono  ne'  bassi  fondi  della 
oscenità  plebea.  Cosa  ora  possono  essere  le  sue  Laude^ 
se  non  parodie  ?  Concetti,  antitesi,  sdolcinature  e  freddure. 

In  questa  pozzanghera  finirono  le  serenate,  le  matti- 
nate, le  dipartite,  le  ritornate,  le  lettere,  gli  strambotti, 
le  cacce,  le  mascherate,  le  frottole,  le  ballate,  venute  a 
mano  de'  letterati.  Il  mondo  del  Boccaccio  e  del  Sac- 
chetti perde  i  suoi  vezzi  e  le  sue  leggiadrie  nei  sonetti 
plebei  del  Canonico  Franco  e  suoi  pari,  che  non  avevano 
neppure  l' arguzia  e  la  festività  di  Lorenzo. 

Il  popolo  era  meno  corrotto  de'  suoi  letterati.  Ne'  suoi 
Canti  non  trovavi  certo  l'amore  platonico  e  ascetico  e 
i  concetti  raffinati,  ma  neppure  gli  equivoci  osceni  di  Lo- 
renzo e  le  brutture  del  Franco. 

La  più  schietta  voce  di  questa  letteratura  popolare  è 
Angelo  Poliziano.  Rado  capita  negli  equivoci.  Scherza, 
motteggia,  ma  con  urbanità  e  decenza,  come  nei  suoi  con- 
sigU  alle  donne  : 

Io  vi  vo*  donne,  insegnare 
Come  voi  dobbiate  fare; 

e  nel  ritratto  della  vecchia,  e  in  quella  ballata  grazio- 
sissima  : 

Donne  mie,  voi  non  sapete 

Che  io  ho  il  mal  che  avea  quel  prete. 


—  393  — 

Nelle  sue  ballate  senti  la  gentilezza  e  la  grazia  delle 
montanine  di  Franco  Sacchetti,  massime  quando  il  fondo 
è  idillico,  come  nella  ballata  dell'augelletto  e  nell'  altra  : 

Io  mi  travai,  fanciulle,  un  bel  mattino 
Di  mezzo  giorno,  in  un  verde  giardino. 

Nelle  sue  canzoni  e  canzonette ,  nelle  sue  Lettere  e  nei 
suoi  Rispetti  non  trovi  novità  d'  idee  o  d' immagini  o  di 
situazioni ,  e  neppure  un'  impronta  personale  e  subbiet- 
tiva,  come  nel  Petrarca.  Ci  trovi  il  segretario  del  popolo, 
che  traduce  in  forme  eleganti  il  repertorio  comune  dei 
canti  popolari  dall'  un  capo  all'  altro  d' Italia.  Perciò  non 
hai  qui  la  freschezza  e  originalità  delle  stanze  idilliche; 
spesso  ci  senti  la  fretta  e  la  distrazione,  come  di  chi  scriva 
di  fuga  e  per  occasione.  Vedi  ritornare  le  stesse  idee  con 
lievi  mutamenti,  com'  è  il  fuggire  del  tempo  e  il  coglier 
la  rosa  fiorita.  Il  dizionario  delle  idee  popolari  è  piccolo 
volume,  0  non  s' ingrandisce  in  mano  al  Poliziano.  Quelle 
poche  idee  si  aggirano  intorno  a  situazioni  generiche  e  sem- 
plici, come  sono  la  bellezza  del  damo  o  della  dama  ;  la  ge- 
losia, la  dipartita,  1'  attendere,  lo  sperare,  l' incitare,  la 
disperazione  e  i  pensieri  di  morte,  le  dichiarazioni  e  le 
disdette.  Sono  1'  espressione  di  un  essere  collettivo,  non 
del  tale  e  tale  individuo.  E  cosi  sono  nel  Poliziano.  I  no- 
mi mutano,  secondo  1'  argomento,  come  la  dipartita  e  la 
ritornata,  e  anche  secondo  il  tempo,  come  la  serenata  o 
il  notturno  o  la  mattinata;  ma  le  forme  sono  le  stesse. 
Sono  per  lo  più  stanze  in  rime  variamente  alternate,  co- 
me nelle  ballate  e  ne'  rispetti,  fatte  svelte  e  leggiere  nelle 
canzonette ,  ove  domina  il  settenario  o  l'ottonario.  Spesso 
non  hai  che  un  solo  motivo  variamente  modulato  e  con 
graziose  ripigliate,  come  fosse  un  trillo  o  un  gorgheggio  : 

E  crederei,  s' io  fossi  entro  la  fossa 
Risuscitare  al  suon  dì  vostra  gola; 


—  394  — 

Crederei,  quando  io  fussi  nell' inferno, 
Sentendo  voi,  volar  nel  regno  eterno. 

La  ripigliata  è  il  vezzo  del  rispetto  toscano.  Ci  si  vede 
il  cervello  in  riposo,  fra  onde  musicali,  e  come  viene  la 
idea,  non  corre  a  un'  altra,  ma  ci  si  ferma  e  la  trattiene 
deliziosamente  nell'orecchio,  finché  non  le  abbia  data  tutta 
la  sua  memoria.  Questo  palpare  e  accarezzare  l' idea,  com- 
piuta già  come  idea,  ma  non  ancora  compiuta  come  suono, 
è  proprio  della  poesia  popolare,  povera  d'idee,  ricca  d' im- 
magini e  di  suoni.  La  parola  è  nel  popolo  più  musica  che 
idea.  Ciò  che  si  diceva  allora:  cantare  a  aria  c^dX  si 
fosse  il  contenuto ,  o  come  dice  un  poeta ,  siccome  ti 
frulla.  Cosi  cantavasi  Crocifisso  a  capo  chino  ^  una 
Lauda,  con  la  stess'  aria  di  una  canzone  oscena. 

Tra  queste  impressioni  nacque  la  canzone  di  maggio, 
il  saluto  della  primavera: 

Ben  venga  Maggio, 
E  il  gonfalon  selvaggio, 

cantata  dalle  villanelle,  che  venivano  a  Firenze,  anche 
due  secoh  dopo,  come  afferma  il  Guadagnoli.  Vi  si  nota  la 
fina  eleganza  di  un  uomo  che  fa  oro  ciò  che  tocca,  con- 
giunta con  una  perspicuità  che  la  rende  accessibile  anche 
alle  classi  inculte.  Se  Lorenzo  esprime  della  vita  popolare 
il  lato  faceto  e  sensuale,  coi>rafia  di  chi  partecipa  a  quella 
vita,  ed  è  pur  disposto  a  pigliarne  spasso;  il  Poliziano 
anche  nelle  sue  più  frivole  apparenze  le  gitta  addosso 
un  manto  di  porpora,  elegante  spesso,  gentile  e  grazioso 
sempre.  Alla  idealità  del  Poliziano  si  accosta  alquanto 
solo  il  Trionfo  di  Bacco  e  Arianna. 

Lorenzo  e  il  Poliziano  sono  il  centro  letterario  dei 
canti  popolari ,  sparsi  in  tutta  Italia  non  solo  in  dialetto, 
ma  anche  in  volgare,  e  di  alcuni  ci  sono  rimasti  i  primi 


—  395  — 

versi,  come:  0  crudel  donna  ,  che  lasciato  m'  hai  —  Giù 
per  la  villa  lunga  La  bella  se  ne  va  — Chi  vuol  l'anima 
salvare  Faccia  bene  a'  pellegrini  ec.  Vi  si  mescolavano 
laude,  racconti  e  poemetti  spirituali  con  le  stesse  into- 
nazioni. Li  portavano  ne'  più  piccoli  paesi  i  rapsodi  o 
poeti  ambulanti  e  i  ciechi  con  la  loro  chitarra  o  man- 
dola in  collo,  che  vivevano  di  quel  mestiere.  E  si  chia- 
mavano cantastorie,  quando  i  loro  canti  erano  roman- 
zetto 0  romanze,  racconti  di  strane  avventure  intercalati 
di  buffonerie  e  motti  licenziosi.  Questa  letteratura  pro- 
fana e  proibita  a*  tempi  del  Boccaccio,  come  s'  è  visto, 
era  il  passatempo  furtivo  anche  delle  donne  colte  ed  ele- 
ganti. Erano  alla  moda  romanzi  franceschi  con  le  loro 
traduzioni,  imitazioni  e  raffazzonamenti  in  volgare.  In 
questo  secolo  moltiplicarono  co'  rispetti  e  le  ballate  an- 
che i  romanzi.  Della  cavalleria  si  vedeva  l' immagine  sfar- 
zosa nelle  corti,  e  alcuna  lontana  reminiscenza  ne  da- 
vano le  compagnie  di  ventura.  CavaUere  e  cavallo  era 
ancora  il  tipo  della  storia,  l' ideale  eroico  celebrato  nelle 
giostre,  e  riflesso  ne'  romanzi.  Se  ne  scrivevano  in  dia- 
letto e  in  volgare.  Tra  gli  altri  che  venner  fuori,  sono 
degni  di  nota  l'Aspraraonte,  l'Innamoramento  di  Carlo, 
r  Innamoramento  di  Orlando ,  Rinaldo,  la  Trebisonda,  i 
Fioretti  de' Paladini,  il  Persiano,  la  Tavola  rotonda,  il  Tro- 
iano, la  Vita  di  Enea,  la  vita  di  Alessandro  di  Macedonia, 
il  Teseo,  il  Pompeo  romano,  il  Ciriffo  Calvaneo.  Il  mag- 
giore attrattivo  era  la  libertà  delle  invenzioni;  si  empi- 
vano le  carte  di  fole  e  di  sogni,  come  dice  il  Petrarca: 
e  chi  le  dicea  più  grosse ,  era  stimato  più.  Questo  ele- 
mento fantastico  penetrò  anche  ne'  misteri,  come  nello 
laude  era  penetrato  il  canto  popolare.  Le  rappresenta- 
zioni presero  una  tinta  romanzesca;  l'effetto  non  poten- 
dosi più  trarre  da  un  sentimento  religioso  che  faceva 
difetto,  si  cercava  nella  varietà  e  nel  maraviglioso  degli 
accidenti,  com'  è  il  S.  Giovanni  e  Paolo  di  Lorenzo. 


—  396  — 

Il  romanzo  adunque  era  penetrato  in  tutti  gli  strati 
della  società,  e  dalle  corti  scendeva  fino  ne'  più  umili 
villaggi  e  di  là  risaliva  alle  corti.  La  plebe  aveva  i  suoi 
cantastorie,  la  Corte  aveva  i  suoi  novellatori.  E  non  si 
contentavano  di  riferire  i  fatti  come  erano  trasmessi  dalle  * 
cronache  e  dalle  tradizioni,  ma  vi  aggiungevano  del  loro 
non  solo  nel  colorito  e  negli  accessorii,  ma  nella  inven- 
zione. Il  Boccaccio  recitava  i  s:oi  romanzi  a  corte  e 
tra  liete  brigate,  come  immagino  fossero  recitate  le  sue 
novelle.  Il  suo  Florio,  il  Teseo,  il  Troilo  lasciarono  poco 
durevole  vestigio,  perchè  argomenti  poco  popolari  e  gua- 
sti dall'  erudizione  e  dalla  mitologia.  Ma  l' impulso  da  luì 
dato  fu  grande,  e  la  ballata,  la  novella,  il  romanzo,  ciò 
che  chiamasi  letteratura  profana,  divennero  l'impronta  del 
secolo,  da  Franco  Sacchetti  a  Lorenzo  dei  Medici.  La  ca- 
valleria propriamente  detta  avea  per  suo  centro  gh  eroi 
della  Tavola  rotonda  e  i  paladini  di  Carlo  Magno.  In  an- 
tico la  Tavola  rotonda  avea  molta  popolarità,  e  Tristano 
e  Isotta  tennero  per  qualche  tempo  il  primato.  Il  Boc- 
caccio nell'Amorosa  visione  cita  gli  eroi  principali  di  que- 
ste tradizioni  normanne,  come  nomi  già  noti  e  volgari. 
Ma  la  Francia  era  più  nota,  e  i  romanzi  franceschi  più 
diffusi,  e  Carlo  Magno  avea  un  certo  legame  con  l' Ita- 
lia, come  un  eroe  religioso,  protettore  del  Papa  e  vin- 
citore dei  saracini,  e  precursore  delle  Crociate.  Era  già 
comparso  1'  Innamoramento  di  Orlando,  E  Matteo  Bo- 
jardo  ci  die  1'  Orlando  innamorato,  una  vasta  tela  in 
sessantanove  canti,  interrotta  dalla  morte. 

Il  Bojardo,  conte  di  Scandiano,  crebbe  nella  corte 
estense,  divenuta  un  centro  letterario  importante  accanto 
a  Napoli,  Roma  e  Firenze.  Ivi  la  letteratura  nasceva 
pure  fra  le  giostre,  gli  spettacoli  e  le  danze.  Il  Bojardo, 
uomo  coltissimo,  dotto  di  greco  e  di  latino,  studiosissimo 
di  Dante  e  del  Petrarca,  era  rimasto  estraneo  al  movi- 
mento impresso  dal  Boccaccio  alla  letteratura  toscana. 


—  397  — 

Ne'  suoi  sonetti,  canzoni  e  ballate  è  facile  a  vedere  non 
so  che  astratto  e  rigido,  come  di  uomo  ben  composto 
negli  atti  e  nella  persona,  pure  impacciato.  È  in  lui  una 
serietà  di  motivi  che  in  quel  secolo  della  parodia  si  può 
chiamare  un  anacronismo.  Gli  piace  recitare  i  suoi  canti 
tra  liete  brigate,  e  averne  le  lodi;  ma  i  passatempi  e 
gli  scherzi  non  sono  il  suo  elemento,  e  crederebbe  pro- 
fanare i  suoi  eroi  a  pigliarsene  gioco.  Racconta  con  la 
serietà  d'  Omero,  e  fu  salutato  allora  1'  Omero  italiano. 
Certo,  non  crede  alle  sue  favole,  e  non  ci  credono  i  suoi 
colti  uditori,  e  la  comune  incredulità  scappa  fuori  alcuna 
volta  in  quache  tratto  ironico;  ma  questo  riso  della  col- 
tura a  spese  della  cavalleria  non  è  il  motivo,  è  un  ac- 
cessorio fuggevole  del  racconto.  Cosa  dunque  aveva  più 
di  serio  la  cavalleria  nella  coscienza  italiana?  Di  vivo 
non  era  rimasto  altro  che  le  pompe  e  le  cerimonie  e  le 
feste  delle  corti.  Quelle  forme  erano  cosi  vuote,  come 
le  cerimonie  chiesastiche,  scomparso  ogni  sentimento  eroi- 
co e  religioso,  anzi  negato  e  parodiato.  Invano  si  studia 
il  Bojardo  di  togliere  alla  plebe  il  romanzo  e  dargli  le 
serie  proporzioni  di  un'  epopea. 

Il  mondo  omerico  è  un  organismo  vivente,  dove  sen^ 
timenti,  pensieri,  costumi  e  avvenimenti  sono  perfetta- 
mente realizzati  e  armonizzati;  il  mondo  cavalleresco, 
mancati  tutt'  i  suoi  motivi  interiori ,  è  qui  sotto  forme 
epiche  il  mondo  plebeo  dell'  immaginazione,  un  maravi- 
glioso  sciolto  dalle  leggi  dello  spazio  e  del  tempo,  senza 
serietà  di  scopo  e  di  mezzi,  tra  castelU  incantati  e  colpi 
di  spada.  Come  Elena  neh*  Iliade ,  qui  è  Angelica  che 
move  intorno  a  sé  Europa  e  Asia;  salvo  che  Elena  è 
un  semplice  antecedente,  rimasto  ozioso  nel  racconto,  e 
AngeUca  è  la  vera  motrice  dell'  immensa  macchina ,  è  il 
maraviglioso  in  permanenza,  la  Maga.  Il  miracolo  con- 
tinua; non  lo  fanno  i  Santi;  lo  fanno  i  maghi  e  le  ma- 
ghe. E  il  miracolo  non  è  la  macchina  o  V  istrumento  . 


—  398  — 

ma  è  fine  a  sé  stesso.  Voglio  dire  che  il  miracolo  non 
è  un  mezzo  per  conseguire  uno  scopo  serio,  e  sviluppare 
un'  azione  interessante,  come  nelle  leggende  e  ne'  primi- 
tivi poemi  cavallereschi  animati  dalla  fede  ;  non  essendo 
nel  mondo  del  Bojardo  altra  serietà  che  il  miracolo  stesso, 
il  fine  di  sorprendere  gli  uditori  con  la  straordinarietà 
degli  avvenimenti.  I  motivi  delle  azioni  non  sono  a  cer- 
care nella  serietà  di  un  mondo  religioso,  morale,  eroico, 
divenuto  convenzionale  e  tradizionale,  come  il  mondo 
cristiano ,  ma  nel  libero  gioco  delle  passioni  e  de*  carat- 
teri sotto  r  influsso  di  potenze  occulte.  Onde  nasce  un 
mondo  pieno  di  vivacità  e  di  mobilità,  dove  tutte  le  forze 
dell'individuo  non  frenate  da  leggi  e  da  autorità  supe- 
riori si  sviluppano  nel  pieno  rigoglio  della  natura,  e  pro- 
ducono effetti  così  maravigliosi  come  le  stregonerie  e 
gì'  incanti.  Orlando  e  Rinaldo  ti  fanno  maravigliare  non 
meno  che  Malagigi  e  Angelica.  Un  mondo  cosi  essen- 
zialmente fantastico  e  insieme  cosi  poco  serio  per  il  poeta 
e  per  gli  uditori  è  in  fondo  quel  mondo  della  cortesia 
calato  dal  Boccaccio  in  mezzo  alla  borghesia  e  fatto  mo- 
derno, e  ritirato  dal  Bojardo  alle  sue  aure  natie.  Il  fer- 
rarese ha  creduto  renderlo  cosa  seria,  dandogli  forma 
nobile  e  decorosa ,  purgata  dalle  licenze  e  da'  disordini 
de'  romanzi  plebei  ;  ma  è  appunto  quest'  apparenza  di  se- 
rietà che  toglie  attrattivo  al  suo  racconto.  Ne'  romanzi 
plebei  il  maraviglioso  fa  un  effetto  serio  sugl'ignoranti 
e  ingenui  uditori;  ma  i  colti  signori  e  cavalieri,  alla 
cui  presenza  recitava  il  Bojardo  i  suoi  canti,  non  pote- 
vano vedere  in  quei  fantastici  racconti  che  un  puro  giuoco 
d' immaginazione  ,  disposti  a  spassarsi  della  plebe ,  che 
faceva  gli  occhioni  e  apriva  la  bocca.  Quel  mondo  dun- 
que non  poteva  divenire  borghese,  se  non  trasportato 
neir  immaginazione ,  e  accompagnato  da  un  sogghigno. 
E  tutte  e  due  queste  condizioni  mancano  nell'  Oi'lando 
innamorato.  Il  Bojardo  ha  molta  vena  inventiva;  avve- 


^  399  -- 

nimenti  e  personaggi  pullulano  sotto  la  sua  penna;  certo 
non  è  tutta'  cosa  sua  ;  raccoglie  di  qua  e  di  là  ;  trova 
innanzi  a  sé  un  immenso  materiale  agglomerato  da'  se- 
coli :  ma  quella  materia  la  fa  sua  ,  scegliendo ,  combi- 
nando, padroneggiandola.  Il  suo  intento  ,  direi  quasi  la 
sua  vanità,  è  di  sorprendere  gli  uditori  con  la  ricchezza 
e  varietà  de'  suoi  intrecci,  menandoseli  appresso  tra  le 
più  strane  avventure.  Ma  al  Bojardo  mancano  tutte  le 
grandi  qualità  dell'  artista,  e  soprattutto  quelle  due  che 
sono  essenziali  alla  rappresentazione  di  questo  mondo,  la 
immaginazione  e  lo  spirito.  Ben  tenta  talora  lo  scherzo; 
ma  rimane  un  tentativo  abortito  :  non  ha  brio,  non  fa- 
cilità, non  grazia.  Gli  manca  lo  spirito  e  gli  manca  an- 
cora quell'alta  immaginazione  artistica  che  si  chiama  fan- 
tasia. Vede  chiaro;  disegna  preciso,  come  fosse  un  mondo 
storico;  e  appunto  perciò  in  un  mondo  cosi  fantastico 
rimane  pedestre  e  minuto,  e  non  ti  sottrae  al  reale,  non 
ti  ruba  i  contorni,  non  ti  tira  per  forza  in  una  regione 
incantata.  A  questo  grande  inventore  di  magie  la  Natura 
negò  la  magia  più  desiderabile,  la  magia  dello  stile.  Le 
più  originali  concezioni,  le  più  interessanti  situazioni  ti 
cascano  sul  più  bello;  sei  nel  fantastico  e  ti  trovi  nel 
volgare;  e  Angelica  ti  si  trasforma  in  una  donnicciuola, 
e  Orlando  in  un  babbeo.  Il  che  avviene  senza  intenzione 
comica,  unicamente  per  la  soverchia  crudezza  de'  colori, 
a  cui  mancano  le  gradazioni  e  le  mezze  tinte.  Così  quel 
mondo  che  nella  sua  intima  natura  dovea  essere  fanta- 
stico e  comico  ,  ti  riesce  spesso  nella  rappresentazione 
prosaico  e  volgare.  Non  una  sola  situazione  ,  non  una 
figura  è  rimasta  viva.  Dicesi  che  il  nobil  conte  facesse 
suonare  a  festa  le  campane  del  villaggio,  quando  gli  venne 
trovato  il  nome  di  Rodamonte,  quasi  l' importanza  fosse 
ne'  nomi  o  ne'  fatti.  E  non  è  Rodamonte,  che  è  rimasto 
vivo,  è  Rodomonte. 

Se  il  Bojardo  recitava  i  suoi  canti  a'  signori  ferraresi, 


—  400  — 

Luigi  Pulci  rallegrava  le  feste  e  ì  conviti  di  Lorenzo, 
recitando  le  stanze  del  suo  Morgante.  Qui  ritroviamo  la 
fìsonomia  letteraria  del  tempo  nelle  sue  gradazioni  dal 
Burcgiello  sgangherato  e  senza  remi,  come  lo  chiama 
Battista  Alberti,  sino  a  Lorenzo  dei  Medici.  Il  Pulci  di- 
scende' in  diritta  lìnea  dal  Boccaccio  e  dal  Sacchetti,  e 
ne  sviluppa  le  tendenze  con  più  energia  che  non  il  Po- 
liziano e  non  Lorenzo. 

Piglia  il  romanzo  come  lo  trova  per  le  vie,  un  miscu- 
glio di  santo  e  di  profano ,  di  buffonesco  e  di  serio.  E 
non  pensa  a  dargli  un  carattere  eroico,  anzi  niente  più 
gli  ripugna  che  la  tromba.  Ti  dà  un  mondo  rimpiccinito, 
fatto  borghese,  gli  eroi  sono  scesi  dal  piedistallo,  hanno 
perduta  la  loro  aureola,  e  ti  camminano  innanzi  semplici 
mortali.  Niente  è  più  volgare  che  Carlo  o  Gano.  Carlo 
è  un  rimbambito;  Gano  è  un  birbante  destituito  di  ogni 
grandezza  ;  volgare  lui,  volgari  i  suoi  intrighi.  Rinaldo 
è  un  ladrone  di  strada;  Ulivieri  è  un  cacciatore  di  donne 
e  la  sua  Meridiana  non  è  in  fondo  che  una  femminella. 
Di  caratteri  e  passioni  non  è  a  far  parola,  è  un  mondo 
superficiale  e  mobilissimo,  e  voi  di  pala  in  frasca,  e  non 
ti  raccapezzi.  Gano  trama  la  rovina  de' Paladini;  Fori- 
sena  si  gitta  dalla  finestra;  Babilonia  rovina;  Carlo  è 
scoronato  da  Rinaldo  ;  tutti  questi  grandi  avvenimenti 
scappan  fuori  appena  abbozzati,  come  non  fossero  opera 
di  uomini,  ma  di  qualche  bacchetta  magica,  rappresen- 
tati con  la  stessa  indifferenza  e  leggerezza  di  colorito , 
con  la  quale  Morgante  si  mangia  un  elefante  e  sfracella 
il  capo  a  una  balena.  È  la  cavalleria  com'  era  concepita 
e  trasformata  dalla  plebe.  Il  cantastorie  è  in  fondo  un 
giullare,  o  piuttosto  un  buffone  plebeo  che  abbassa  quel 
mondo  al  suo  livello  e  de'  suoi  uditori ,  e  invocati  gra- 
vemente Dio  e  i santi  e  la  Madonna,  si  abbandona  a'  suoi 
lazzi  e  ti  fa  sbellicar  dalle  risa.  Il  buffone,  personaggio 
accessorio  ne'  racconti  e  nelle  commedie,  è  qui  il  perso- 


—  401  — 

naggio  principale,  è  lo  spirito  stesso  del  racconto.  La 
parte  più  seria  del  romanzo  è  certo  la  morte  di  Orlando  ; 
e  anche  lì  quanti  lazzi!  Ecco  il  principio  della  grande 
battaglia  : 

Chi  vuol  lesso  Macon,  chi  l'altro  arrosto; 
Ognun  volea  del  nemico  far  torte; 
Dunque  vegnamo  alla  battaglia  tosto, 
Sì  eh'  io  non  tenga  in  disagio  la  morte, 
Che  colla  falce  minaccia  ed  accenna 
Ch'  io  muova  presto  le  lance  e  la  penna. 

Neir  inferno  si  fa  gran  festa,  che  attendono  i  pagani; 
Lucifero  trangugiava  a  ciocche  le  anime  che  ipiovean 
de  seracini  e  san  Pietro  attende  le  anime  de'  cristiani: 

E  perchè  Pietro  a  la  porta  è  pur  vecchio, 
Credo  che  molto  quel  giorno  s'affanna, 
E  converrà  ch*  egli  abbi  buon  orecchio, 
Tanto  gridavan  quelle  anime  :  Osanna, 
Ch'eran  portate  dagli  angeli  in  cielo: 
Sicché  la  barba  gli  sudava  e  il  pelo. 

I  campi  di  battagha  svegliano  immagini  tolte  ad  im- 
prestito da'  macellai  e  da'  cucinieri,  i  colpi  di  spada  sono 
in  modo  cosi  grossolano  asagerati  che  la  morte  stessa 
diviene  ridicola;  i  miracoli  sono  cosi  strani  e  cosi  cari- 
cati che  perdono  ogni  serietà,  come  è  Orlando  morto^ 
trasformato  in  colomba,  che  si  posa  sulla  spalla  di  Tur- 
pino  e  gli  entra  in  bocca  con  tutte  le  penne. 

Se  il  buffone  fosse  di  buona  fede,  seriamente  credulo 
e  sciocco,  avremmo  il  grottesco,  com'  è  ne*  romanzi  pri- 
mitivi. Ma  qui  il  buffone  è  un  uomo  colto,  che  parla  a 
un  colto  uditorio,  e  non  è  il  buffone,  ma  fa  il  buffone, 
oontraffacendo  il  cantastorie  e  la  plebe  che  gli  crede.  Sic- 
ché ci  troviamo  in  quella  stessa  disposizione  di  animo, 

I)«  SanctiB  — Leu.  Ital.  Voi.  I.  S6 


—  402  ~- 

che  ispirò  la  Belcolore  e  la  Nencia;  è  il  borghese  che 
si  spassa  alle  spalle  della  plebe.  E  te  ne  accorgi  alla  finta 
serietà  con  che  il  poeta,  quando  le  dice  assai  grosse,  chia- 
ma in  testimonio  Tarpino,  o  dove  nelle  cose  più  gravi 
fa  boccacce  e  t'  esce  fuori  con  una  smorfia  e  si  burla  del 
suo  argomento  e  de'  suoi  personaggi.  La  parodia  è  an- 
cora comica,  perchè  dissimulata  con  molta  cura,  di  rado 
rilevata  ,  e  posta  il  più  sovente  nella  natura  stessa  del 
fatto  senza  alcuno  artificio  di  forma,  come  è  Morgante 
che  uccide  una  balena  ed  è  ucciso  da  un  granchiolino, 
o  Margutte  che  scoppia  dalle  risa  e  muore.  E  riderà  in 
eterno,  nota  l'angiolo  Gabriello,  trasformato  l' individuo 
in  tipo.  La  rappresentazione  è  anch'essa  conforme  a  que- 
sta parodia  plebea.  La  plebe  non  analizza  e  non  descrive; 
ma  ha  l' intuito  sicuro  e  la  percezione  viva,  e  coglie  ciò 
che  vede  alfe  naturale  e  così  in  grosso,  e  non  ci  si  fer- 
ma, e  passa  oltre.  La  forma  qui  è  tutta  esteriore  e  ra- 
pida; si  movono  insieme  le  lance  e  la  penna;  l'autore 
mentre  move  la  penna  vede  le  lance  moversi,  vede  quello 
che  scrive;  le  figure  si  staccano  dal  fondo,  e  ti  balzano 
innanzi  vivide,  e  tu  le  cogU  in  una  sola  girata  d'  occhio. 
L'ottava  non  ha  periodo  e  le  rime  non  hanno  gioco;  è 
un  incalzare  di  versi  senza  posa,  frettolosi,  poco  curati,- 
gli  uni  addossati  agli  altri,  e  spesso  tutto  il  quadro  è 
un  verso  solo.  Al  che  aiuta  il  dialetto  maneggiato  mae- 
strevolmente, soprattutto  per  la  proprietà  de'  vocaboli. 
Tutto  è  plebeo:  azioni,  passioni  e  Hnguaggio.  Un  capo- 
lavoro di  questa  vita  plebea  è  il  sacco  di  Sarragozza,  col 
supplizio  di  Gano  e  di  Marsilio.  E  io  voglio  fare  il  boia, 
dice  l'Arcivescovo  Turpino.  Uno  di  quei  tratti  che  illu- 
minano tutta  una  situazione.  La  risposta  di  Rinaldo  a 
Marsilio,  che  vuol  farsi  cristiano  all'  ultima  ora,  è  quale 
potrebbe  suonare  in  bocca  di  un  becero. 

Il  romanzo  è  una  commedia,  che  contro  l' intenzione 
dell'autore  si  vohe  in  tragedia.  Ma  la  trai^edia  è  da  burla, 


—  403  — 

e  non  ce  n'  è  il  sentimento.  Lo  spirito  del  racconto  è  il 
basso  comico,  un  comico  vuoto  e  spensierato,  che  im- 
putridisce nelle  acque  morte  di  un'  immaginazione  volgare 
e  non  si  alza  a  fantasia.  Maggiore  spirito  è  in  Lorenzo 
e  nel  Boccaccio,  che  si  mescolano  fra  la  plebe  ,  e  non 
sono  plebe ,  e  la  guardano  alcun  poco  dall'  alto.  iVla  il 
Pulci,  ancorché  uomo  colto,  per  i  sentimenti  e  le  incli- 
nazioni è  plebe,  e  a  forza  di  rappresentare  la  parte  del 
buffone  plebeo,  diviene  egli  medesimo  quel  cotale.  Per- 
ciò gU  mancano  tutte  le  alte  qualità  di  un  artista  co- 
mico: la  grazia,  la  finezza,  la  profondità  dell'  ironia,  e  ti 
riesce  spesso  grossolano,  superficiale,  inculto  e  negletto 
anche  nella  forma.  Ha  non  solo  la  grossolanità,  ma  an- 
che r  angustia  di  una  immaginazione  plebea^  non  essen- 
doci ne' suoi  personaggi  molta  ricchezza  di  carattere,  quella 
varietà  di  movenze,  di  sentimenti  e  d' istinti  che  fa  del- 
l' uomo  un  piccolo  mondo.  Rinaldo,  Orlando,  Olivieri,  A- 
stolfo,  Sansonetto,  Ricciardetto,  i  paladini  sono  tutti  a 
uno  stampo,  e  non  ci  è  differenza  in  loro  chf;  della  forza. 
Malagigi  è  insignificante.  Gano,  Falserone,  Bianciardino, 
Marsilio,  Caradoro,  Manfredonio,  Falcone,  Salmcorno,  tutti 
i  pagani  sono  esseri  superficiali,  e  spesso  puri  nomi.  I 
più  accarezzati,  dall'autore  sono  i  due  personaggi  del  suo 
cuore,  Morgante  e  Margutte.  Morgante  è  lo  scudiere  di 
Orlando,  ed  è  il  vero  protagonista,  lo  spirito  del  racconto. 
Non  è  il  cavaliere,  è  lo  scudiere,  1'  eroe  di  questa  storia 
plebea,  il  cui  spirito  penetra  dappertutto  e  si  continua 
anche  dopo  la  sua  morte.  Morgante  rappresenta  il  luto 
eroico  e  cavalleresco  della  plebe,  ghiotto  ,  millantatore, 
ignorante,  di  poca  msjlizia,  ma  buono,  fedele  e  corag- 
gioso. Il  suo  battaglio  ò  l'emulo  di  Durindana.  Margutte 
è  la  plebe  nella  sua  degenerazione  e  corruzione,  igno- 
bile, beffardo,  ladro  fraudolento,  assai  vicino  all'  animale. 
Questi  due  esseri  accoppiati  insieme  si  compiono  e  si  spie- 
gano. Se  ci  fosse  maggiore  stacco  tra  queste  ligure  voi- 


—  404  — 

gari  e  i  cavalieri,  nel  loro  antagonismo  o  dualismo  sa- 
rebbe la  vera  parodia,  come  è  di  Sancio  Panza  e  don 
Chisciotte.  Ma  lo  spirito  plebeo  penetra  ancora  fra'  ca- 
valieri e  Margutte  e  Morgante  sono  non  una  parte,  ma 
il  tutto,  r  alto  modello  a  cui  più  o  meno  è  informata  la 
storia,  intitolata  a  buona  ragione  il  Morgante. 

Una  concezione  originale  è  Astarotte.  Il  diavolo  cor- 
nuto di  Dante  che  già  riceve  una  prima  trasformazione 
nel  suo  nero  cherubino,  il  bravo  loico  che  ha  tutta  l'aria 
di  un  dottore  di  Bologna,  qui  prende  aria  paesana,  ed  è 
un  buon  compagnone.  Come  il  nero  cherubino  arieggia 
agli  scolastici,  Astarotte  è  il  nuovo  spirito  del  secolo, 
motteggiatore,  ironico,  e  libero  pensatore,  che  fa  il  teo- 
logo e  l'astrologo,  e  spiega  la  bibbia  a  modo  suo,  e  bat- 
tezza asini  Dionisio  e  Gregorio;  che  ognuno  erra 

A  voler  giudicare  il  ciel  di  terra. 

Astarotte,  che  è  stato  un  serafino  e  de'principah,  sa  molte 
cose,  che  non  sanno  i poeti,  i  filosofi  e  i  morali ,  e  dice 
la  verità,  e  non  fa  come  gh  spiriti  folletti  che  si  aggi- 
rano per  r  aria  e  ingannano  gli  uomini,  facendo  parere 
quel  che  non  è: 

Chi  si  diletta  ir  gli  uomini  gabbando  ; 
Chi  si  diletta  di  filosofìa; 
Chi  venire  i  tesori  rivelando; 
Chi  del  futuro  dir  qualche  bugia. 

Vedesi  la  filosofia  messa  a  fascio  con  1'  astrologia  e  le 
altre  arti  di  gabbare  gli  uomini. 

Ma  Astarotte  promette  di  dire  la  verità,  e  tiene  la  pro- 
messa, come  un  diavolo  d'  onore  : 

Che  gentilezza  è  bene  anche  in  inferno. 

E  sa  la  verità  non  per  ragione,  ma  per  esperienza,  come 


—  405  — 

di  cose  che  vede  e  tocca,  confermaodole  anche  con  Tau- 
torità  della  Scrittura.  Dove  ci  vuol  ragione,  come  nella 
quistione  della  prescienza,  la  quale  l'umano,  gente  av- 
volge di  tanti  errori^  dice:  noi  so:  però  no7i  ti  rispondo. 
I\Ia  quanto  a'  fatti,  afferma  ardito  e  sicuro.  E  afferma, 
che  salvo  i  giudei  e  i  saracini,  piacciono  a  Dio  quelli 
che  osservano  la  loro  religione,  come  fecero  gli  antichi 
romani,  su' quaU  piovve  tanta  grazia  celeste;  che  al  di 
là  delle  colonne  d'Ercole  è  l'altro  emisperio,  abitato  co- 
me questo,  e  ben  vi  si  può  ire;  che  quella  gente  è  parte 
della  famiglia  di  Adamo ,  anche  essa  redenta,  altrimenti 
Dio  sarebbe  stato  partigiano  ;  che  gli  animali  pinti  nel 
padigUone  di  Luciano  non  sono  tutti,  e  compie  la  lista 
descrivendo  un  gran  numero  di  animali  poco  noti.  Ri- 
naldo, avido  di  imparare^  si  propone  di  lanciarsi  pe'  mari 
ignoti  e  scoprire  il  nuovo  mondo  rilevato  da  Astarotte: 
la  poesia  indovina  Cristoforo  Colombo  ,  o  piuttosto  la 
scienza,  perchè  il  dotto  Astarotte  era  in  fondo  il  celebre 
Toscanelli,  amico  e  suggeritore  del  Pulci. 

Questa  concezione  è  una  delle  più  serie  della  nostra 
letteratura  e  delle  megUo  disegnate  e  sviluppate  del  Mor- 
gante.  Ci  è  lì  il  secolo  nelle  sue  intime  tendenze  non  an- 
cora ben  chiare,  che  volge  le  spalle  alle  forme  scolastiche 
e  alle  contemplazioni  ascetiche^  e  diffida  de'  ragionamenti 
astratti ,  e  si  gitta  avido  nella  esplorazione  della  natura 
e  deli'  uomo.  Il  mondo  gli  si  allarga  innanzi ,  e  mentre 
gli  uni  ricalcano  le  vie  della  storia,  e  rifanno  Atene  e 
Roma,  gli  altri  lasciando  teologia,  filosofìa,  e  astrologia, 
e  fatture  e  altre  opinioni  sciocche,  mostre  ingannevoli 
degli  spiriti  folletti,  percorrono  la  terra  in  tutt'  i  versi 
e  già  sono  con  T  immaginazione  al  di  là  dell'  oceano.  Il 
secolo  comincia  a  prender  possesso  della  terra;  la  sto- 
ria naturale,  la  fisica,  la  nautica,  la  geografia  prendono  il 
posto  delle  quistioni  sugli  Enti  e  suU'  esistenza  de'  ge- 
iieraU;i  fatti  e  l'esperienza  occupano  le  menti  più  che 


—  406  -^ 

i  ragionamenti  sottili.  Aggiungi  l' ironia,  quel  prender  le 
cose  così  alla  leggiera,  e  sdrucciolandovi  appena,  quel- 
l'aria già  scettica  e  miscredente,  ancoraché  non  ci  sia 
ancora  negazione  e  scetticismo,  e  avrai  V  immagine  del 
secolo,  il  ritratto  di  Astàrotte.  Ma  l'autore  sembra  quasi 
non  accorgersi  della  stupenda  concezione,  e  abborraccia 
dappertutto  anche  qui.  Gli  manca  la  coscienza  seria  e 
intelligente  delle  nuove  vie,  nelle  quali  entra  il  secolo; 
gU  manca  queir  elevatezza  d'  animo  che  rende  eloquente 
r  uomo  quando  gli  lampeggiano  innanzi  nuovi  orizzonti. 
L'Ulisse  di  Dante  è  sublime;  il  suo  Rinaldo  e  insigni- 
ficante. E  r Astàrotte  riesce  l'eco  volgare  e  confusa  di 
un  secolo  ancora  inconsapevole  di  sé. 

Il  Pulci,  il  Bojardo,  il  Pohziano,  Lorenzo,  il  Fontano, 
e  tutti  gli  eruditi  e  i  rimatori  di  quell'età  non  sono  che 
frammenti  di  questo  mondo  letterario,  ancora  nello  stato 
di  preparazione,  senza  sintesi. 

Ci  é  un  uomo  che  per  la  sua  universalità  parrebbe 
volesse  abbracciarlo  tutto,  dico  Leon  Battista  Alberti,  pit- 
tore, architetto,  poeta  erudito,  filosofo  e  letterato,  fio- 
rentino di  origine,  nato  a  Venezia,  educato  a  Bologna, 
cresciuto  a  Roma  e  a  Ferrara,  vivuto  lungamente  a  Fi- 
renze accanto  al  Ficino,  al  Landino,  al  Filelfo,  caro  ai 
papi,  a  Giovan  Francesco  signore  di  Mantova,  a  Lionello 
d'  Este,  a  Federigo  di  Montefeltrò,  celebrato  da'  contem- 
poranei come  uo7no  dottissimo  e  di  miracoloso  inge- 
gno, vir  ingenii  elegantis,  acerrimi  judicii,  exquisitis- 
simaeque  doctinnae,  dice  il  Poliziano.  Destrissimo  nelle 
arti  cavalleresche,  compi  i  suoi  studi  a  Bologna  dalle 
lettere  sino  alle  leggi,  datosi  poi  con  ardore  alle  mate- 
matiche e  alla  fìsica.  Deesi  a  lui  la  facciata  di  Santa  Ma- 
ria Novella,  la  cappella  di  san  Pancrazio,  il  palazzo  Ruc- 
cellai,  la  Chiesa  di  Sant'Andrea  in  Mantova  e  di  San  Fran- 
cesco in  Rimini.  Sono  s^oi  trovati  la  camera  ottica,  il; 
roticelo  de'  pittori,  e  l'istrumento  per  misurare  la  prò- 


—  ^107  — 

fondita  del  mare,  detto  bolide  albertiana.  Nelle  sue  Pia- 
cevolezze matematiche  trovi  non  pochi  problemi  di  molto 
interesse,  e  nei  suoi  libri  dell'  Aì^chiteitura ,  che  gli  pro- 
cacciarono il  nome  di  Vitruvio  moderno,  hai  cenni  di  pa- 
recchie invenzioni  o  fatte  o  intravedute.  I  suoi  Rudi- 
menti e  i  suoi  Elementi  di  pittura,  e  la  sua  statua  con- 
tengoLO  preziosi  insegnamenti  tecnici  di  queste  arti. 

Fu  cosi  pratico  del  latino,  che  un  suo  scherzo  comico 
scritto  a  venti  anni  e  intitolato  Philodomios  venne  da 
tutti  gli  eruditi  attribuito  a  un  antico  scrittor  latino,  e 
da  Alberto  d'  Eyb  a  Carlo  Marsuppini,  professore  di  ret- 
torica  a  Firenze  e  segretario  della  repubblica.  E  non 
minor  pratica  ebbe  del  volgare,  in  prosa  e  in  verso ,  ad- 
destratosi anche  nel  maneggio  del  dialetto,  quando  con 
Cosimo  de'  Medici  e  gU  altri  sbanditi  fu  richiamato  in 
Firenze.  Ne'suoi  Intercenali  o  intrattenimenti  della  cena, 
ne'  suoi  Apologhi^  nel  suo  Momo  scritto  a  Roma  il  1451, 
dove  rappresenta  sé  stesso,  piacevoleggia  con  urbanità. 
Scrisse  i  soUti  sonetti  e  canzoni  :  e  chi  non  ne  scrivea 
allora  ?  o  chi  non  ne  scrisse  poi  ?  Meglio  riuscirono  le 
sue  Egloghe^  e  le  sue  Elegie,  amorosi  idilli,  come  era 
la  voga  dal  Boccaccio  in  qua.  Era  in  voga  anche  Pla- 
tone, e  platonizzò.  Ma  al  suo  ingegno  così  pratico,  così 
lontano  dalle  astrazioni,  non  potea  piacere  il  misticismo 
platonico,  che  facea  andare  in  visibilio  il  suo  amico  Fi- 
cino,  e  lo  segui  come  artista  ne'  suoi  dialoghi  della  Tran- 
quillila dell'  animo,  e  della  Famiglia,  il  cui  terzo  libro 
fu  lungo  tempo  attribuito  al  Pandolfìni,  e  del  Teogenio 
0  della  vita  civile  e  rusticana.  Tali  sono  pure  l' Eca- 
tomfxlea^X'à  Beifìra,  la  Cena  di  famiglia,  la  Sofrone, 
la  Deiciarchia,  11  dialogo  è  la  sua  maniera  prediletta, 
un  certo  discorrere  alla  familiare  e  alla  buona,  cosi  alieno 
dalle  prdanterie  scolastiche,  e  che  trovi  anche  dove  parla 
uno  solo,  come  nelle  sue  Efebie,  nella  sua  epistola  sul- 
l'Amore, nella  sua  Amiria»  Chi  misura  V  ingegno  dalla 


—  408  — 

quantità  delle  opere  e  dalla  varietà  delle  cognizioni,  dee 
tenerlo  ingegno  così  miracoloso  come  fu  tenuto  a  quel 
tempo.  Certo,  egli  fu  l'uomo  più  colto  del  .^uo  tempo  e 
r  immagine  più  compiuta  del  secolo  nelle  sue  tendenze. 

Battista  ha  già  tutta  la  fìsonomia  dell'  uomo  nuovo , 
come  si  andava  elaborando  in  Italia.  La  scienza,  sve- 
stite le  sue  forme  convenzionali,  è  in  lui  amabile  e  fa- 
miliare. Lascia  le  discussioni  teologiche  e  ontologiche. 
Materia  delle  sue  investigazioni  è  la  morale  e  la  fìsica 
con  tutte  le  sue  attinenze,  cioè  T  uomo  e  la  natura,  così 
coni'  è  secondo  1'  esperienza,  il  nuovo  regno  delia  scienza. 
È  un  artista,  perchè  non  solo  studia  e  comprende,  ma 
contempla,  vagheggia^  ama  1'  uomo  e  la  natura.  Anima 
idillica  e  tranquilla,  alieno  dalle  agitazioni  politiche,  ri- 
tirato nella  pace  e  nell'  affetto  della  famigha,  abitante  in 
ispirito  più  in  villa  che  in  città,  non  curante  di  ricchezze 
e  di  onori ,  vuoto  di  ogni  cupidigia  e  ambizione ,  si  formò 
una  filosofia  conforme,  di  cui  è  base  V  aurea  mediocri- 
tas,  una  moderazione  ed  eguaglianza  d'animo,  che  ti 
tenga  fuori  di  ogni  turbazione.  Il  suo  amore  della  na- 
tura campestre  non  ha  nulla  di  sentimentale  e  d' inde- 
finito, che  t'induca  a  fantasticare;  anzi  tutto  è  disegnato 
partitamente  con  la  sagacia  di  un  osservatore  intelli- 
gente, e  con  r  impressione  fresca  di  uomo,  che  se  ne 
senta  ricreare  1'  occhio  e  riposare  1'  anima.  E  non  è  la 
natura  in  sé  stessa  che  lo  alletta,  com'  è  ne'  quadretti 
di  genere  del  Poliziano,  ma  è  l'uomo  nella  natura;  il 
paesaggio  è  un  fondo  appena  abbozzato,  sul  quale  vedi 
muoversi  la  vita  campestre  in  quella  sua  temperanza  e 
tranquillità ,  dov'  è  posto  V  ideale  della  felicità.  Il  vero 
protagonista  è  perciò  l'uomo ,  com'  era  concepito  allora, 
sottratto  alle  tempeste  della  vita  pubblica,  che  cerca 
pace  e  riposo  nel  seno  della  famiglia  e  tra'  campi,  tutto 
alle  sue  faccende  e  a' suoi  onesti  diletti.  Ma  è  insieme 
r  uomo  colto  e  civile  e  umano,  che  disputa  e  ragiona. 


—  409  — 

nel  cerchio  degli  amici  e  con  la  famiglia  attorno,  por- 
gendo utili  ammaestiamenti  intorno  all'  aite  della  vita. 
La  quale  arte  si  può  ridurre  in  questa  sentenza  ,  che 
r  uomo  dee  tener  lontane  da  sé  le  passioni  e  le  turba- 
zioni  dello  spirito  e  serbar  regola  e  modo  in  tutte  le  cose. 
Questo  equilibrio  interno,  metà  epicureo,  è  quella  pace 
che  Dante  cercava  nell'altro  mondo,  e  che  Battista  ti 
offre  in  questo  mondo,  il  nuovo  principio  etico  generato 
dagli  antichi  morahsti,  e  che  Lorenzo  Valla  chiama  ar- 
gutamente la  Voluttà.  Il  concetto  ascetico  che  1'  uomo 
non  può  conseguire  vera  felicità  in  terra  è  alieno  dal 
quattrocento,  che  non  nega  e  non  afferma  il  cielo  e  si 
occupa  della  terra.  Battista  non  ti  dà  una  filosofia  con 
deduzioni  rigorose;  non  cessa  di  essere  un  buon  cristiano 
e  riverente  alla  religione,  e  non  sospetta  egH  e  non  so- 
spettavano i  contemporanei,  a  quaU  pericolose  conse- 
guenze traeva  quello  indirizzo.  Non  è  il  filosofo  ;  è  l'ar- 
tista e  il  pittore  della  vita,  come  gli  si  porgeva.  I  suoi 
ragionamenti  non  movono  da  principii  filosofici,  ma  dalle 
sentenze  de'  moralisti  antichi,  dagli  esempli  della  storia, 
e  soprattutto  dalla  sua  esperienza  della  vita.  Il  suo  uomo 
non  è  un'  astrazione,  un'  idea  formata  da  concezioni  an- 
ticipate, ma  è  preso  dal  vero  nella  vita  pratica,  co'  suoi 
costumi  e  le  sue  inclinazioni.  Finge  e  descrive  più  che 
non  ragiona,  e  non  è  un  descrivere  letterario  o  rettorico, 
ma  rapido,  evidente,  concentrato,  come  chi  ha  innanzi  agli 
occhi  il  modello  e  n'  è  vivamente  impressionato.  Onde 
riesce  pittore  di  costumi  e  di  scene  di  famiglia,  o  cam- 
pestri, 0  civih,  impareggiabile.  E  non  hai  già  la  vuota 
esteriorità ,  come  spesso  è  in  Lorenzo  ;  ma  dentro  è  il 
nuovo  ideale  dell'  uomo  savio  e  felice,  che  par  fuori  nella 
calma  decorosa  e  composta  de'  lineamenti,  a  cui  fa  spesso 
da  contrapposto  la  faccia  disordinata  dell'  uomo  sregolato 
e  turbato.  È  1'  onesto  borghese  idealizzato,  che  succede  al 
tipo  ascetico  o  cavalleresco  del  medio  evo,  un  borghebO 


—  410  — 

purgato  ed  emendato,  toltagli  1'  aria  beffarda  e  licenziosa. 
Di  questo  ideale  immagine  parlante  è  lo  stesso  Battista,  di 
cui  suprema  virtù  era  la  pazienza  delle  ingiurie  anche  più 
gravi  e  de'  mali  più  stringenti  della  \ìta;  profervoriim  im- 
petum  paciencia  frangébat,  dice  di  sé:  ottimo  rimedio  a 
non  guastarsi  il  sangue.  Questa  pazienza  o  uguaglianza 
dell'animo  è  la  genialità  della  nuova  letteratura^  impressa 
sulla  fronte  tranquilla  del  Boccaccio,  del  Sacchetti,  del  Po- 
liziano, e  del  nostro  Battista ,  e  che  gì'  innamora  dello 
forme  terse  e  riposate,  il  cui  interno  equilibrio  si  man'fe- 
sta  nella  bellezza  e  nella  grazia.  Questo  amore  della  bella 
forma,  non  solo  in  sé  tecnicamente,  ma  come  espressione 
dell'  interna  tranquillità  é  la  Musa  di  Battista.  Scrivendo 
di  sé,  dice:  praccipiiam  et  singularem'voluptatem  ca- 
piehat  speciandis  rebus,  in  quibus  aliquod  esset  spe- 
cimen formae  ac  decits.  Senes  praeditos  dignitate  aspec- 
tus  et  integros  atqiie  valentes  iteruyn  atquc  iterimi  de- 
mirahafur,  deìitinsque  natiirae  S'^se  cenerari  praedi- 
cabat.  Quicquid  ingenio  esset  honnnum  cum  quadam. 
effectiaim  elegantìa.idprope  dioinura  dicebat.  GemmiSy 
floribus,  ac  locis  praesertim.  amoenis  visendis,  7ion~ 
numqiiam  ex  aegrìtudine  in  bonam  valetudinem  rediif. 
Quest'uomo  che  alla  vista  della  bella  natura  si  sente  tor- 
nar sano,  che  sta  h  a  contemplare  1'  aspetto  decoroso  di 
una  vecchiezza  sana  e  intera,  che  chiama  divina  l'opera 
elegante  dell'  ingegno,  e  sente  voluttà  a  contemplare  le 
belle  forme,  aggiunge  a  questa  squisita  idealità  un  senso 
così  profondo  del  reale,  che  gU  rende  familiari  gli  arcani 
della  natura  e  anche  della  storia,  come  mostrò  nelle  lettere 
a  Paolo  Toscanelli,  dove  predice  con  molta  sagacia  parec- 
chi avvenimenti,  le  future  sorti  di  principi  e  di  pontefici, 
e  i  moti  delle  città.  Indi  é  che  nelle  sue  pitture  trovi  pre- 
cisione tecnica,  verità  di  colorito  e  grande  espressione;  è 
una  realtà  finita  ed  evidente,  che  mostra  nelle  sue  forire 
impressioni,  e  sentimenti.  Veggasi  nel  governo  della  Fa- 


—  411  — 

miglia  la  pittura  della  vita  villica,  e  la  descrizione  del  con- 
vito, e  quella  maravigliosa  scena  di  famiglia,  dove  Agnolo, 
reggendo  la  sua  donna  tutta  pinta  e  impomiciata,  dice: 
«  tristo  a  me;  e  ove  t' imbrattasti  così  il  viso?  forse  t'ab- 
battesti a  qualche  padella  in  cucina  ?  laveraiti,  che  que- 
st'  altri  non  ti  dileggino.  Ella  m' intese  e  lagrimò.  Io  le 
die'  luogo  eh'  ella  si  lavasse  le  lagrime  e  il  liscio.  »  Dello 
stesso  genere  è  la  pittura  de'  giuocatori  nella  Cena  di  fa- 
miglia e  nella  Deiciarchia,  e  il  ritratto  nel  Teogenio  della 
vita  quieta  e  felice  di  Genipatro,  nel  quale  intravvedi  Bat- 
tista. «  Truovomi  ancora  per  la  età  riverito,  pregiato, 
riputato;  consigliansi  meco  ;  odonmi  come  padre;  ricor- 
danmi,  lodanmi  in  suoi  ragionamenti;  approvano,  seguono 
i  miei  ammonimenti  ;  e  se  cosa  mi  manca ,  vedomi  presso 
al  porto  ove  io  riposi  ogni  stracchezza  della  vita,  se  ella 
forse  a  me  fusse,  qual  certo  ella  non  è,  grave.  Nulla 
truovo  ancora  in  vita  che  mi  dispiaccia,  e  questo  mi  co- 
nosco oggidì  più  felice  che  mai,  poi  che  in  cosa  ninna 
a  me  stesso  dispiaccio.  G-odo  testé  qui  ragionando  con 
voi;  godo  solo  leggendo  questi  libri;  godo  pensando  e 
commentando  queste  e  simili  cose,  quali  io  vi  ragiono, 
e  ricordandomi  la  mia  ben  trascorsa  vita  e  investigando 
fra  me  cose  sottili  e  rare,  sono  felice.  E  parmi  abitare 
fra  gì'  Iddii,  quando  io  investigo  e  ritruovo  il  sito  e  forze 
in  noi  de'  cieli  e  suoi  pianeti.  Somma  certo  felicità  vi- 
versi senza  cura  alcuna  di  queste  cose  caduche  e  fra- 
gili della  fortuna,  con  1'  animo  libero  da  tanta  contagione 
del  corpo,  e  fuggito  lo  strepito  e  fastidio  della  plebe  in 
solitudine,  parlarsi  con  la  natura  maestra  di  tante  ma- 
raviglie ;  seco  disputando  della  cagi(^ne,  ragione ,  modo 
e  ordine  di  sue  perfettissime  e  ottime  opere,  riconoscendo 
e  lodando  il  padre  e  procreatore  di  tanti  beni  ».  Parti 
udire  Cicerone  a  discorrere  della  vecchiezza  e  dell'ami- 
cizia, e  delle  lettere,  e  dell'  uomo  felice  ;  sentì  in  questo 
Tcogenio  quella  superiorità  dell'  intelligenza   sulla  forza 


—  412  — 

e  sulla  fortuna,  e  della  coltura  sulla  barbarie  e  ìa  roz- 
zezza plebea,  quella  beatitudine  dell'  uomo  ritirato  nello 
studio,  nella  famiglia,  ne'  campi,  quello  ardore  delle  sco- 
perte ,  quel  culto  dell'  arte ,  che  è  la  fìsonomia  del  se- 
colo. Animate  da  questo  spirito  sono  pure  le  ultime  pa- 
gine della  Tranquillità  dell"  animo,  ove  Battista  pinge 
maravigliosamente  sé  stesso.  NeirEcatomfilea  ti  arrestano 
ritratti  di  ancora  maggior  freschezza  ed  evidenza,  come 
è  la  pittura  degli  amanti  troppo  giovani,  e  troppo  vec- 
chi, e  dell'  amore  degli  nomini  che  fioriscono  in  età  fer- 
ma e  matura:  pittura  che  ha  ispirato  le  belle  ottave 
dell'Ariosto.  De'  vagheggini  perditempo  dice:  «Farmi  poca 
prudenzia  amare  questi  oziosi  e  incerti,  i  quali  per  di- 
sagio di  faccende  fanno  1'  amore  suo  quasi  esercizio  e 
arte,  e  con  sue  parrucchine,  frastagli,  ricamuzzi  e  livree, 
segni  della  loro  leggerezza,  vagosi  e  frascheggiosi  per 
tutto  discorrono:  —  fuggiteli,  figliuole  mie,  fuggiteli,  però 
che  questi  non  amano ,  ma  cosi  logorano  passeggiando 
il  dì  non  seguendo  voi,  ma  fuggendo  tedio  ».  La  storia 
dell'  amore  e  della  gelosia  di  Ecatomfìla  sembra  un  bel 
frammento  di  un  romanzo  fisiològico  perduto,  e  per  fi- 
nezza e  verità  di  osservazione  è  molto  innanzi  alla  Fiam- 
metta del  Boccaccio  ,  la  cui  imitazione  è  visibile  nella 
Ecatomfilea,  e  più  nella  Deifira,  e  nella  Epistola  di  un 
fervente  amante,  pianti  e  querele  amatorie,  dove  il 
buon  Battista,  uscendo  della  sua  natura,  come  il  Boc- 
caccio, dà  nella  rettorica.  Per  trovare  il  grande  scrit- 
tore devi  cogliere  Battista  quando  pinge  o  descrive,  come 
neir  Epistola  sopra  1'  amore,  reminiscenza  del  Corbaccio, 
e  la  pittura  delle  donne  e  1'  altra  dell'  amante,  pari  alle 
più  belle  del  Corbaccio.  E  per  finirla  vedi  nella  Tran- 
quillità delV  animo,  la  descrizione  del  Duomo  di  Firenze, 
con  tanta  idealità  nella  massima  precisione  degli  acces- 
sorii.  «  Questo  tempio  ha  in  sé  grazia  e  maestà ,  e  mi 
diletta  eh'  io  veggo  in  questo  tempio  giunta  una  graci- 


—  413  — 

lità  vezzosa  con  una  sodezza  robusta  e  piena:  tale  che 
da  una  parte  ogni  suo  membro  pare  posto  ad  amenità, 
e  dall'  altra  parte  comprendo  che  ogni  cosa  qui  è  fatta 
a  perpetuità.  Qui  senti  in  queste  voci  il  sacrificio  e  in 
questi,  quali  gli  antichi  chiamavano  misteri,  una  soa- 
vità maravìgliosa.  Ei  possono  in  me  questi  canti  ed  inni 
della  chiesa  quello  a  che  fine  ci  dicono  che  furono  tro- 
vati: troppo  m'acquietano  da  ogni  altra  perturbazione 
d'  animo,  e  coramuovonmi  a  certa  non  so  quale  io  la  chia- 
mi lentezza  d'  animo  piena  di  riverenza  verso  di  Dio.  E 
qual  cuore  sì  bravo  si  trova  che  non  mansueti  sé  stesso, 
quando  ei  sente  su  bello  ascendere  e  poi  discendere  quelle 
intere  e  vere  voci  con  tanta  tenerezza  e  flessitudine? 
AfFermovi  questo  che  mai  sento  in  quei  misteri  e  ceri- 
monie funerali  invocare  da  Dio  ajuto  alle  nostre  mise- 
rie umane,  che  io  non  lacrimi».  Come  son  vere  queste 
impressioni  !  e  con  quanta  feUcità  rese  !  Gracilità  vezzo- 
sa, lentezza  d'  animo  sono  forme  nuove,  pregne  d' idea- 
lità. Il  sentimento  religioso,  cacciato  dalla  coscienza,  si 
trasforma  in  sentimento  artistico,  e  move  V  animo,  come 
architettura  e  come  musica. 

Pittore  egregio,  Battista  non  è  del  pari  felice,  quando 
ragiona,  o  quando  narra.  I  suoi  ragionamenti  non  sono 
originali  e  non  profondi,  e  sembrano  uscire  più  dalla  me- 
moria che  dall'intelletto;  e  la  sua  novella  di  Lionora 
de'  Bardi,  vivace,  rapida,  rimane  una  pura  esteriorità  , 
lontana  assai  dal  suo  modello,  il  Boccaccio. 

Volle  Battista  raggiungere  nella  prosa  quella  idealità 
che  il  Poliziano  poi  raggiunse  nella  poesia.  Amendue 
maneggiano  maestrevolmente  il  dialetto,  ma  abborrono 
dal  plebeo  rozzo  e  licenzioso  e  mirano  a  dare  alla  forma 
un  aspetto  signorile  ed  elegante.  Come  il  Poliziano  va- 
gheggiò una  Poesia  illustre ,  cosi  Battista  continua  la 
prosa  illustre  di  Dante  e  del  Boccaccio.  Patente  è  su  di 
lui  r  influsso  che  esercita  la  prosa  latina  e  la  maniera 


—  414  — 

del  Boccaccio.  Ne'  suoi  trattati  e  dialoghi  trovi  prette 
voci  latine,  come  bene  est,  etiam ,  idest,  praesertim. , 
e  parole  e  costruzioni  e  giri  latini,  come  proibire  e  vie- 
tare, e  participii  presenti  e  infiniti  con  costruzione  la- 
tina, e  nffìrmare,  asseguire,  conditore  di  leggi,  dut- 
tore,  valitudine,  e  moltissimi  altri  vocaboli.  Anche  nel 
collocamento  delle  parole  e  nell'  intreccio  del  periodo  la- 
tineggia. Ma  non  è  un  barbaro,  che  ti  faccia  strane  me- 
scolanze ;  anzi  è  uno  spirito  colto  ed  elegante,  che  ha 
nella  mente  un  tipo  e  cerca  di  realizzarlo.  Mira  a  un 
parlare  di  gentiluomo,  se  non  con  la  latina  maestà,  certo 
con  gravità  elegante  ed  urbana.  E  come  è  ui  toscano, 
anzi  un  fiorentino,  la  latinità  è  temperata  dalla  vivezza 
e  grazia  paesana.  Se  guardiamo  ai  trecentisti ,  il  con- 
gegno del  periodo,  T  arte  de' nessi  e  de' passaggi,  una 
più  stretta  concatenazione  d'idee,  una  più  intelligente 
di>^tribuzioae  degli  accessorii,  una  più  salda  ossatura  ti 
mostra  qui  una  prosa  più  virile  e  uno  spirito  più  col- 
tivato, fatto  maturo  dalla  educazione  classica.  Pure  se 
per  queste  qualità  Battista  avanza  i  trecentisti  è  infe- 
riore al  Boccaccio,  e  rimane  molto  al  di  qua  dalla  per- 
fezione. La  prosa  non  è  nata  ancora:  ci  è  una  prosa  di 
arte,  dove  lo  scrittore  è  più  intento  alla  forma>  che  alle 
cose,  e  mira  principalmente  all'eleganza,  alla  grazia  e 
alla  sonorità.  Come  arte,  i  ritratti  del  Battista  sono  ciò 
che  la  prosa  ti  dà  di  più  compito  in  questo  secolo.  Ma 
sono  frammenti,  e  tutti  quasi  vogliono  gli  ultimi  tocchi, 
e  nessuno  si  può  dir  cosa  perfetta,  come  è  un  quadro 
del  Poliziano. 

Cosa  dunque  rimane  vivo  di  Battista?  Niuna  cosa  in- 
tera, come  il  Decamerone,  fra  le  trentacinque  sue  opere. 
Rimangono  di  bei  frammenti,  quadri  staccati.  Il  secolo 
finisce,  e  non  hai  ancora  il  libro  del  secolo,  quello  che 
lo  riassume  e  lo  comprende  ne'  suoi  tratti  sostanziali.  Se 
bassi  a  dir  secolo  un'  età  sviluppata  e  compiuta  in  sé  in 


'     —  415  — 

tutte  le  sue  gradazioni,  come  un  individuo,  il  primo  se- 
colo comprende  il  dugento  e  il  trecento,  il  cui  libro  fon- 
damentale è  la  Commedia,  e  il  secondo  secolo  comincia 
col  Boccaccio  ed  ha  il  suo  compimento,  la  sua  sintesi 
nel  cinquecento.  Il  Petrarca  è  la  transizione  dell'  uno  al- 
l' altro. 

Il  quattrocento  è  un  secolo  di  gestazione  ed  elabora- 
zione. E  il  passaggio  dall'età  eroica  all'età  borghese, 
dalla  società  cavalleresca  alla  società  civile,  dalla  fede 
e  dalla  autorità  al  libero  esame,  dall'  ascetismo  e  sim- 
bolismo allo  studio  diretto  della  natura  e  dell'  uomo,  dalla 
barbarie  scolastica  alla  coltura  classica.  Hai  un  muta- 
mento profondo  nelle  idee  e  nelle  forme,  di  cui  il  secolo 
non  si  rende  ben  conto.  Hai  perciò  un  immenso  reper- 
torio di  forme  e  di  concetti;  hai  frammenti;  manca  il  li- 
bro; hai  r  analisi;  manca  la  sintesi.  Il  secolo  ha  tendenze 
varie  e  spiccate  ;  ma  non  ne  ha  la  coscienza.  Nella  sua 
coscienza  ci  è  questo  solo  chiaro  e  distinto,  che  la  per- 
fezione e  ne'  classici,  e  che  a  quel  modello  bisogna  con- 
formarsi: onde  lo  studio  della  eleganza,  della  bella  forma 
in  qualsivoglia  contenuto.  Perciò  il  grande  uomo  del  se- 
colo per  confessione  dei  contemporanei  fu  Angiolo  Poli- 
ziano, che  nelle  Stanze  si  accostò  più  a  quell'ideale  classico. 

Ma  questo  grande  movimento,  che  più  tardi  si  mani- 
festò in  Europa  come  lotta  religios  a,  fu  in  Italia  gene- 
ralmente indifìferenza  religiosa,  morale  e  politica,  con  la 
apoteosi  della  coltura  e  dell'  arte.  Il  suo  Dio  è  Orfeo,  e 
il  suo  ideale  è  l' idìllio,  sono  le  Stanze.  L'  eleganza  e  il 
decoro  delle  forme  è  accompagnato  con  la  licenza  dei 
costumi,  ed  uno  spirito  beffardo,,  di  cui  i  frati,  i  preti 
e  la  plebe  fanno  le  spese.  Non  era  una  borghesia  che  si 
andava  formando:  era  una  borghesia  che  già  aveva  avuta 
la  sua  storia,  e  fra  tanto  fiore  di  coltura  e  d'arte  si 
dissolveva  sotto  le  apparenze  di  una  vita  prospera  e  al- 
legra. A  turbare  i  baccanali  sorse  sullo  scorcio  del  se- 


—  416  —       , 

colo  frate  Geronimo  Savonarola,  e  parve  P  ombra  scura 
e  vindice  del  medio  evo  che  riapparisse  improvviso  nel 
mondo  tra  frati  e  plebe,  e  gitta  nel  rogo  Petrarca,  Boc- 
caccio, Pulci,  Poliziano,  Lorenzo,  e  gli  altri  peccatori, 
e  rovescia  il  carro  di  Bacco  e  di  Arianna,  e  ritta  sul 
carro  della  Morte  tende  la  mano  minacciosa  e  con  voce 
nunzia  di  sciagure  grida  agli  uomini  :  Penitenza!  Peni- 
tenza I  tra  questo  canto  de'  morti  : 

Dolor,  pianto  penitenza 
Ci  tormentan  tutta  via: 
Questa  morta  compagnia 
Va  gridando;  penitenza. 

Fummo  già  come  voi  sietoS 
Voi  sarete  come  noi: 
Morti  Siam,  come  vedete  ; 
Cosi  morti  vedrem  voi: 
E  di  là  non  giove  poi 
Dopo  il  mal  far  penitenza. 

La  borghesia  gaudente  e  scettica  chiamò  quella  gente 
i  piagnoni,  e  quella  gente  pretese  dal  suo  frate  qualche 
miracolo,  e  poiché  il  miracolo  non  fu  potuto  fare,  si  volse 
contro  al  frate.  Nessuna  cosa  dipinge  meglio  quale  stacco 
era  fra  una  borghesia  colta  e  incredula  e  una  plebe  igno- 
rante e  superstiziosa.  Su  questi  elementi  non  poteva  edi- 
ficar nulla  il  frate.  Voleva  ella  restaurare  la  fede  e  i 
buoni  costumi  facendo  guerra  a'  libri ,  a'  dipinti  e  alle 
feste,  come  se  questo  fosse  la  causa  e  non  1'  effetto  del 
male.  Il  male  era  nella  coscienza,  e  nella  coscienza  non 
ci  si  può  metter  niente  per  forza.  Ci  vogliono  secoli, 
prima  che  si  formi  una  coscienza  collettiva;  e  formata 
che  sia,  non  si  disfà  in  un  giorno.  Chi  mi  ha  seguito, 
e  ha  visto  per  quali  vie  lente  e  fatali  si  era  formata  que- 
sta coscienza  italiana,  può  giudicare  qual  criterio  e  quanta 
buon  senso  fosse  nell'impresa  del  frate.  Nella  storia  c'è 


—  417  — 

r impossibile,  come  nella  natura.  E  il  frate,  che  voleva 
rimbarbarire  l'Italia  per  guarirla,  era  alle  prese  con  Tim- 
possibile. 

Savonarola  fu  una  breve  apparizione.  L' Italia  ripigliò 
il  suo  cammino,  piena  di  confidenza  nelle  sue  forze,  or- 
gogliosa della  sua  civiltà.  Quaranta  anni  di  pace,  la  lega 
medicea  tra  Napoli,  Firenze  e  Milaao,  l' invenzione  della 
stampa ,  la  digestione  già  fatta  del  mondo  latino,  1'  ap- 
parizione e  lo  studio  del  mondo  greco,  la  vista  in  lon- 
tananza del  mondo  orientale,  l'audacia  delle  navigazioni 
e  l'ardore  delle  scoperte,  e  tanto  splendore  e  gentilezza 
di  corti  a  Napoli,  a  Firenze,  a  Qrbino,  a  Mantova,  a 
Ferrara,  tanta  prosperità  e  agiatezza  e  allegria  della  vita, 
tanta  diffusione  ed  eleganza  della  coltura  e  amore  del- 
l' arte  avevano  ravvivate  le  forze  produttive  indebolite 
nella  prima  metà  del  secolo,  e  creato  un  movimento  cosi 
efficace  di  civiltà,  che  non  potè  essere  impedito  o  trat- 
tenuto dalle  più  grandi  catastrofi.  Spuntava  già  la  nuova 
generazione  intorno  al  Boiardo,  al  Pulci,  a  Lorenzo,  al 
Poliziano.  E  i  giovani  si  chiamavano  Nicolò  Machiavelli, 
Francesco  Guicciardini,  Ludovico  Ariosto,  Leonardo  da 
Vinci,  Michelangelo,  Raffaello,  Bembo,  Berni,  tutta  una 
falange  predestinata  a  compiere  l'opera  dei  padri.  L'un 
secolo  s' intreccia  talmente  nell'altro,  che  non  si  può  dire 
dove  finisca  l'uno,  dove  l'altro  cominci.  Sono  una  con- 
tinuazione, un  correre  non  interrotto  intorno  allo  stesso 
ideale. 

XII. 

IL  CINQUECENTO 

Di  questo  ideale ,  di  cui  adombra  i  lineamenti  Gio- 
vanni Boccaccio,  non  hai  finora  che  segni,  indizi,  fram- 
menti. Il  suo  lato  positivo  è  una  sensualità  nobilitata 
dalla  coltura  e  trasformata  nel  culto  della  forma  come 

De  SanotiB-Lett.  lUiI.  Voi.  1.  H 


—  418  — 

forma,  il  regno  solitario  dell'  arte  nell'  anima  tranquilla 
e  idillica:  di  che  trovi  l'espressione  filosofica  nell'acca- 
demia platonica,  massime  nel  Ficino  e  nel  Pico,  e  V  e- 
spressione  letteraria  nell'Alberti  e  nelPoliziano,  a  cui  con 
pari  tendenza,  ma  con  minore  abilità  tecnica  e  artistica, 
si  avvicina  il  Boiardo.  Il  protagonista  di  questo  mondo 
nuovo  è  Orfeo,  e  il  suo  modello  più  puro  e  perfetto  sono 
le  Stanze.  Accanto  al  Poliziano,  pittore  della  natura,  sta 
Battista  Alberti,  pittore  dell'uomo.  Attorno  a  questi  due 
spuntano  egloghe,  elegie,  poemetti  bucolici,  rappresenta- 
zioni pastorali  e  mitologiche  :  la  beata  Italia  in  quegli 
anni  di  pace  e  di  prosperità  s'  interessava  alle  sorti  di 
Cefalo,  e  agli  amori  di  Ergasto  e  di  Corimbo.  Le  acca- 
demie, le  feste,  le  colte  brigate  erano  un'Arcadia  lette- 
raria, alla  quale  in  quel  vuoto  e  ozio  degli  spiriti  il  pub- 
blico prendeva  una  viva  partecipazione.  A  Napoli,  a  Fi- 
renze, a  Ferrara  si  vivea  tra  novelle,  romanzi  ed  eglo- 
ghe. Gli  uomini ,  già  cospiratori ,  oratori ,  patrioti ,  ora 
vittime,  ora  carnefici,  sospiravano  tra  ninfe  e  pastori.  E 
mi  spiego  r  infinito  successo  che  ebbe  V Arcadia  del  San- 
nazzaro,  la  quale  parve  ai  contemporanei  l'immagine  più 
pura  e  compiuta  di  quell'  ideale  idillico.  Ma  di  questo 
Virgilio  napolitano  non  è  rimasta  viva  che  qualche  sen- 
tenza fehcemente  espressa,  come  : 

L' invidia,  fìgliuol  mio,  sé  stessa  macera. 
Peggiora  il  mondo  e  peggiorando  invetera. 

Né  della  sua  Arcadia  è  oggi  la  lettura  cosa  tollerabile, 
e  per  la  rigidità  e  artifìcio  della  prosa  monotona  nella 
sua  eleganza,  e  p^r  un  cotal  vuoto  e  rilassatezza  di  azio- 
•ne  e  di  sentimexito,  che  esprime  a  maravigha  quell'ozio 
interno,  che  oggi  chiameremmo  noia,  e  allora  era  quella 
^placidità  e  tranquillità  della  vita,  dove  ponevano  l'ideale 
della  felicità. 


—  419  — 

Il  lato  negativo  di  questo  ideale  era  il  comico,  una  sen- 
sualità licenziosa  e  allegra  e  beffarda,  che  in  nome  della 
terra  metteva  in  caricatura  il  cielo,  e  rappresentava  col 
piglio  ironico  di  una  coltura  superiore  le  superstizioni , 
le  malizie,  le  dabbenaggini,  i  costumi  e  il  linguaggio  delle 
classi  meno  colte.  Da  questa  coltura  sensuale,  cinica  e 
spiritosa  usci  quell'  epiteto  i  piagnoni,  che  fu  a  Savo- 
narola più  mortale  della  scomunica  papale.  I  canti  car- 
nascialeschi sono  il  tipo  del  genere  ;  il  suo  poeta  è  il  Boc- 
caccio; il  suo  storico  è  il  Sacchetti  ;  il  suo  istrione  è  il 
Pulci;  il  suo  centro  è  Firenze.  A  questo  lato  negativo 
si  congiunge  il  Pomponazzo,  che  spezza  ogni  legame  tra 
cielo  e  terra,  negando  l' immortalità  dell'  anima.  Era  il 
vero  motto,  il  segreto  del  secolo,  la  coscienza  filosofica  di 
una  società  indifierente  e  materialista  che  si  battezzava 
platonica,  predicava  contro  i  turchi  e  gli  ebrei,  voleva 
il  suo  Papa,  il  suo  Alessandro  VI,  che  cosi  bene  la  rap- 
presentava, e  non  poteva  perdonare  al  Pomponazzo  di 
dire  ad  alta  voce  i  suoi  segreti,  quando  ella  medesima 
non  si  aveva  fatta  ancora  la  domanda  :  Cosa  sono  ?  e 
dove  vado? 

Questa  società  tra  balli  e  feste  e  canti  e  idillii  e  ro- 
manzi fu  un  bel  giorno  sorpresa  dallo  straniero  e  co- 
stretta a  svegliarsi.  Era  verso  la  fine  del  secolo.  Il  Pon- 
tano  bamboleggiava  in  versi  latini  e  il  Sannazzaro  sonava 
la  sampogna,  e  la  monarchia  disparve,  come  per  intrin- 
jseca  rovina ,  al  primo  urto  dello  straniero.  Carlo  Vili 
correva  e  conquistava  Itaha  col  gesso.  Trovava  un  po- 
polo che  chiamava  lui  un  barbaro ,  nel  pieno  vigore 
delle  sue  forze  intellettive  e  nel  fiore  della  coltura,  ma 
vuota  r  anima  e  fiacca  la  tempra.  Francesi ,  spagnuoli, 
svizzeri,  lanzichenecchi  insanguinarono  T Itaha,  insino  a 
che  caduta  con  fine  eroica  Firenze,  cesse  tutta  in  mano 
dello  straniero.  La  lotta  durò  un  mezzo  secolo,  e  fu  in 
questi  cinquant'  anni  di  lotta  che  Y  Italia  sviluppò  tutte 


—  420  — 
le  sue  forze ,  e  attinse  queir  ideale  che  il  quattrocento 
le  aveva  lasciato  in  eredità. 

All'  ingresso  del  secolo  incontriamo  Machiavelli  e  l'A- 
riosto, come  all'  ingresso  del  trecento  trovammo  Dante. 
Machiavelli  aveva  già  trentun  anno,  e  ventisei  ne  aveva 
l'Ariosto.  E  sono  i  dae  grandi  nei  quali  quel  movimento 
letterario  si  concentra  e  si  riassume,  attingendo  l'ultima 
perfezione. 

Gittando  un'  occhiata  sull'  insieme  ,  è  patente  il  pro- 
gresso della  coltura  in  tutta  Italia.  Il  latino  e  il  greco 
è  generalmente  noto  ,  e  non  ci  è  uomo  colto  che  non 
iscriva  corretto  ed  anche  elegante  in  Ungua  volgare,  che 
oramai  si  comincia  a  dire  senz'  altro  hngua  italiana.  Ma 
fuori  di  Toscana  il  tipo  della  lingua  si  discosta  dagli  ele- 
menti locali  e  nativi  e  si  avvicina  al  latino  producendo 
così  quella  forma  comune  di  Unguaggio  che  Dante  chia- 
mava aulica  e  illustre.  I  letterati,  sdegnando  i  dialetti  e 
vagheggiando  un  tipo  comune,  e  riconoscendo  nel  latino 
la  perfezione  e  il  modello  ,  secondo  1'  esempio  già  dato 
dal  Boccaccio  e  da  Battista  Alberti,  atteggiarono  la  lin- 
gua alla  latina.  E  non  pur  la  hngua,  ma  lo  stile,  mi- 
rando alla  gravità,  al  decoro,  all'eleganza,  con  grave 
scapito  della  vivacità  e  della  naturalezza.  Questo  con- 
cetto della  lingua  e  dello  stile  ,  creazione  artificiosa  e 
puramente  letteraria,  ebbe  seguito  anche  in  Toscana,  come 
si  vede  ne'  mediocri,  quale  il  Varchi  o  il  Nardi,  e  anche 
ne'  sommi,  come  nel  Guicciardini  e  fino  talora  nel  Ma- 
chiaveUi.  La  quale  forma  latina  di  scrivere  sposata  nel 
Boccaccio  e  nell'Alberti  alla  grazia  e  al  brio  del  dialet*' 
to,  così  nuda  e  astratta  ha  la  sua  espressione  pedan- 
tesca negli  Asolarli  del  Bembo ,  e  giunse  a  tutto  quel 
grado  di  perfezione  ,  di  cui  è  capace  nel  Galateo  del 
Casa  e  nel  Cortigiano  del  Castighone.  Ma  in  Toscana 
quella  forma  artificiale  di  lingua  è  di  stile  incontrò  dap- 
prima viva  resistenza ,  e  sentì  negU  scrittori  il  sapore 


—  421  - 

del  dialetto,  quella  non  so  quale  attività,  che  nasce  dal- 
l' uso  vivo  ,  e  che  ti  fa  non  solo  parlare  ma  sentire  e 
concepire  a  quella  maniera,  come  si  vede  nelle  Novelle 
del  Lasca ,  ne'  Capricci  del  Bottaio  e  nella  Circe  del 
Gelli,  neW Asino  d'oro  e  ne'  Discorsi  degli  Animali  di 
Agnolo  Firenzuola.  Ma  anche  in  questi  hai  qua  e  là  un 
sentore  della  nuova  maniera  ciceroniana  e  boccaccevole, 
come  non  mancano  fra  gli  altri  italiani  uomini  d'inge- 
gno vivace,  che  si  avvicinano  alla  spigliatezza  e  alla  gra- 
zia toscana,  quale  si  mostra  Annibal  Caro  negli  Strac- 
cioni ,  nelle  Lettere ,  nel  Dafni  e  Cloe.  La  lotta  durò 
un  bel  pezzo  tra  la  fiorentinità  e  quella  forma  comune 
e  illustre^  che  battezzavano  Hngua  italiana,  cioè  a  dire 
tra  la  forma  popolare  o  viva,  ed  una  forma  convenzio- 
nale e  letteraria.  Anche  in  Toscana,  gli  uomini  colti  non 
si  contentavano  di  dire  le  cose  alla  semplice  e  alla  buona, 
come  faceva  il  Lasca  e  Benvenuto  CeUini,  ma  avevano 
innanzi  un  tipo  prestabilito,  e  cercavano  una  forma  no- 
bile e  decorosa.  La  borghesia  voleva  il  suo  linguaggio 
e  lo  stacco  si  fece  sempre  più  profondo  tra  essa  e  il 
popolo. 

Fioccavano  i  rimatori.  Da  ogni  angolo  d'Italia  spun- 
tavano sonetti  e  canzoni.  Le  ballate,  i  rispetti,  gli  stor- 
nelli, le  forme  spigliate  della  poesia  popolare,  andarono 
a  poco  a  poco  in  disuso.  Il  petrarchismo  invase  uomini 
e  donne.  La  posterità  ha  dimenticati  i  petrarchisti ,  e 
appena  è  se  fra  tanti  rimatori  sopravviva  con  qualche 
epiteto  di  lode  il  Casa ,  il  Costanzo  ,  Vittoria  Colonna , 
Gaspara  Stampa,  Galeazzo  di  Tarsia  e  pochi  altri,  capi- 
tanati da  Pietro  Bembo  ,  boccaccevole  e  petrarchista , 
tenuto  allora  principe  della  prosa  e  del  verso. 

Certo ,  prose  e  versi  erano  nel  loro  meccanismo  di 
una  buona  fattura,  e  l'ultimo  prosatore  o  rimatore  scri- 
vea  più  corretto  e  più  regolato  che  parecchi  pregiati  scrit- 
tori de'  secoli  scorsi.  E  perchè  tutti  scrivevano  bene,  e 


—  422  ~ 

tutti  sapevano  tirar  fuori  un  sonetto  o  un  periodo  ben 
sonante,  moltiplicarono  gli  scrittori,  e  furono  tentati  tutt'i 
generi.  Comparvero  commedie  ,  tragedie,  poemi,  satire, 
orazioni,  storie,  epistole,  tutto  a  modo  degli  antichi.  Il 
Trissino  scrivea  l' Italia  liberata  e  la  Sofonisba ,  Luigi 
Alamanni  faceva  il  Giovenale  e  Monsignor  della  Casa 
contraffaceva  Cicerone.  Ai  misteri  successero  commedie 
e  tragedie,  con  magnifica  rappresentazione.  E  non  solo 
le  forme  del  dire  latine,  ma  anche  la  mitologia  s' incor- 
porava nella  lingua ,  e  si  giurò  per  Iddìi  immortali ,  e 
Apollo,  le  Muse,  Elicona,  il  Parnaso,  Diana,  Nettuno, 
Plutone,  Cerbero,  le  ninfe,  i  satiri,  divennero  luoghi  co- 
muni in  prosa  ed  in  verso.  Sapere  il  latino  non  era  più 
un  merito  ;  tutti  lo  sapevano,  come  oggi  il  francese ,  e 
mescolavano  il  parlare  di  parole  latine,  per  vezzo,  o  per 
maggiore  efficacia.  Ci  erano  gì'  improvvisatori,  che  nelle 
Corti  li  su  due  piedi  fabbricavano  epigrammi  e  facezie, 
come  oggi  si  fa  i  brindisi,  e  ne  avevano  in  merito  qual- 
che scudo  0  qualche  bicchiero  di  buon  vino,  che  Leo- 
ne X  dava  annacquato  al  suo  Archipoeta,  un  improv- 
visatore di  distici ,  quando  il  distico  mal  riusciva.  E  ci 
erano  anche  non  pochi,  che  conoscevano  ottimamente  il 
latino  e  lo  scrivevano  con  rara  perfezione,  come  il  San- 
nazzaro,  il  Fracastoro  e  il  Vida,  i  cui  poemi  latini  sono 
ciò  che  di  più  elegante  sìesi  scritto  in  quella  lingua  nei 
tempi  moderni.  Aggiungi  le  odi  ed  elegie  del  Flaminio. 
Latinisti  e  rimatori  erano  le  due  più  grosse  schiere 
de'  letterati.  Nelle  loro  opere  l' importante  è  la  frase,  un 
certo  artificio  di  espressione,  che  riveli  nell'autore  col- 
tura e  conoscenza  de'  classici.  I  lettori  non  meno  colti 
ed  eruditi  rimanevano  ammirati,  trovando  nel  loro  libro 
le  orme  dei  Boccaccio  o  del  Petrarca ,  di  Virgilio  o  di 
Cicerone.  Pareva  questa  imitazione  il  capolavoro  dell'in- 
gegno. E  mi  spiego  come  uomini  assai  mediocri  furono 
potuti  tenere  in  cosi  gran  pregio,  quali  Pietro  Bembo» 


—  423  — 

il  capo -scuola,  e  Monsignor  Guidiccioni,  e  Bernardo  Tasso 
e  simili,  noiosissimi.  Ma  la  frase  in  tanta  insipidezza  del 
fondo  non  poteva  essere  sufficiente  alimento  all'attività 
di  una  borghesia  così  svegliata  ed  eccitata,  che  decorava 
la  sua  sensualità  e  il  suo  ozio  co'  piaceri  dello  spirito. 
Salse  piccanti  si  richiedevano,  fatti  maravigliosi  e  straor- 
dinarii,  intrecciati  in  modo  che  stimolassero  la  curiosità 
e  tenessero  viva  1'  attenzione.  L' intrigo  diviene  la  base 
delle  novelle,  de'  romanzi,  delle  commedie  e  delle  trage- 
die ,  un  intrigo  cosi  avviluppato  che  è  assai  vicino  al 
garbuglio.  Si  cerca  ne'  fatti  il  nuovo  e  lo  strano ,  che 
stuzzichi  r  immaginazione,  il  buffonesco  e  1'  osceno  nella 
commedia,  il  mostruoso  e  l'orribile  nella  tragedia.  Dal- 
l'una parte  ci  è  la  frase  ,  vacua  sonorità  ,  dall'  altra  il 
fatto ,  il  vacuo  fatto  uscito  dal  caso  ;  e  come  la  frase 
oltrepassa  l'eleganza  ed  è  pretensiosa,  come  nel  Bembo, 
o  leziosa  e  civettuola,  come  nel  Firenzuola  o  nel  Caro, 
così  il  fatto  per  voler  troppo  stuzzicare  diviene  osceno 
0  mostruoso ,  e  sempre  assurdo.  Il  realismo  abbozzato 
dal  Boccaccio,  sviluppato  nel  quattrocento,  corre  ora  a 
passo  accelerato  alle  ultime  conseguenze,  la  dissoluzione 
morale  e  la  depravazione  del  gusto.  Ci  è  nella  società 
itahana  una  forza  ancora  intatta ,  che  in  tanta  corru- 
zione la  mantiene  viva,  ed  è  nel  pubblico  1'  amore  e  la 
stima  della  coltura ,  e  negli  artisti  e  letterati  il  culto 
della  bella  forma,  il  sentimento  dell'arte.  In  quella  forma 
letteraria  e  accademica  vedevano  gì'  italiani  una  tradu- 
zione della  lingua  viva,  il  parlare  quotidiano  idealizzato, 
secondo  quel  modello  dove  ponevano  la  perfezione  ed 
eran  larghi  non  pur  di  lodi  ma  di  quattrini  e  di  onori 
a  questi  artefici  della  forma.  I  centri  letterarìi  moltipli- 
carono ;  comparvero  nuove  accademie  ;  e  le  più  piccole 
corti  divennero  convegni  di  letterati,  i  più  oscuri  prin- 
cipi volevano  il  segretario  che  ponesse  in  bello  stile  le 
loro  lettore  ,  e  letterati  e  artisti  che   li  divertissero.  Il 


—  424  — 

centro  principale  fu  a  Roma  ,  nella  corte  di  Lpone  X , 
dove  convenivano  d'ogni  parte  novellatori,  improvvisa- 
tori, buffoni,  latinisti,  artisti  e  letterati,  come  già  presso 
Federico  IL  Anche  i  Cardinali  avevano  segretarii  e  pa- 
rassiti di  questa  risma  ;  anche  i  ricchi  borghesi,  come  il 
Conte  Garabara  di  Brescia,  il  Chigi,  i  Sauli  a  Genova,  i 
Sanseverino  a  Milano.  Intorno  a  Domenico  Veniero  in  Ve- 
nezia si  aggruppavano  Bernardo  Tasso,  Trifon  Gabriele, 
il  Trissino  ,  il  Bembo,  il  Navagero ,  Speron  Speroni  ;  a 
Vittoria  Colonna  facevano  cerchio  in  Napoli  il  vecchio 
Sannazzaro,  e  il  Costanzo,  il  Rota,  il  Tarsia.  Da  questi  noti 
s' indovini  la  caterva  de'  minori.  Pensioni,  donativi,  im- 
pieghi, abbazie,  canonicati,  era  la  manna  che  piovea  sul 
loro  capo.  E  e'  era  anche  la  gloria,  onorati,  festeggiati, 
divinizzati,  e  senza  discernimento,  confusi  i  sommi  e  i  me- 
diocri. Furono  chiamati  divini  con  Michelangelo  e  l'Ario- 
sto Pietro  Aretino,  e  il  Bembo,  e  Bernardo  Accolti,  detto 
anche  l'Unico.  Costui,  fatto  Duca,  usciva  con  un  cor- 
teggio di  prelati  e  guardie  Svizzere,  dove  giungeva  s' il- 
luminavano le  città,  si  chiudevano  le  botteghe,  si  traeva 
ad  udire  i  suoi  versi  dimenticati  :  tanti  onori  non  furono 
fatti  al  Petrarca.  I  Letterati  acquistarono  coscienza  della 
loro  importanza;  pitocchi  e  adulatori,  divennero  insolenti, 
e  si  posero  in  vendita,  e  la  loro  storia  si  può  riassumere 
in  quel  motto  di  Benvenuto  Cellini  :  Io  servo  a  chi  mi 
paga.  Come  si  facevano  statue,  quadri,  tempii  per  com- 
missioni, cosi  si  facevano  storie,  epigrammi,  satire,  so- 
netti a  richiesta,  e  spesso  l' ingiuria  era  via  a  vendere 
a  più  caro  prezzo  la  lode.  In  quest'aria  viziata  g'i  uo- 
mini anche  meno  corrotti  divenivano  servili  e  ciarlatani 
per  far  valere  la  merce.  Non  ci  è  immagine  più  stra- 
ziante che  vedere  l' ingegno  appiè  della  ricchezza,  e  udir 
Machiavelli  chiedere  qualche  ducato  a  Clemente  VII,  e 
l'Ariosto  gridare  al  suo  Signore  che  non  aveva  di  che 
rappezzarsi  il  manto,  e  veder  Michelangelo,  quando,  darei 


—  425  — 

tempi  costretto.  Eroi  dipinse  a  cui  fu  campo  il  letfo^ 
sdegnose  parole  di  Alfieri.  Soverchiavano  i  me'diocri  con 
r  audacia ,  la  ciarlataneria,  l' intrigo  e  la  bassezza ,  ora 
addentandosi,  ora  strofinandosi,  temuti  e  corteggiati.  Vec- 
chia storia  ;  ed  è  a  credere  che  la  cosa  fosse  pure  così 
a'  tempi  di  Federigo  o  di  Roberto.  Se  non  che  allora  la 
dottrina  era  merce  rara ,  e  richiedeva  molta  fatica  ad 
acquistarla;  dove  ora  la  coltura  ed  il  sapere  era  diffuso, 
e  lo  scrivere  in  prosa  e  in  verso  era  divenuto  un  vero 
meccanismo  facile  a  imparare,  che  teneva  luogo  d' ispi- 
razione, e  per  la  somiglianza  esteriore  confondeva  nella 
stessa  lode  sommi  e  mediocri.  Dì  grandi  uomini  è  pieno 
quel  secolo,  se  si  dee  stare  a'  giudizii  de'  contemporanei. 
Francesco  Arsilli  nella  sua  elegia ,  De  poetis  urhanis, 
ti  dà  la  lista  di  cento  poeti  latini  nella  sola  corte  di 
Leone  X,  e  lo  stesso  Ariosto  celebra  nomi  oggi  dimen- 
ticati. Bernardo  Tasso,  il  Rucellai,  l'Alamanni,  il  Gio- 
vio,  lo  Scaligero,  il  Muzio,  il  Doni,  il  Dolce,  il  Franco, 
€  altri  infiniti  furono  tenuti  cime  d'  uomini  che  oggi  nes- 
suno più  legge.  Pure  ne' più,  anche  ne'  mediocrissimi,  era 
viva  la  fede  nella  loro  arte  e  lo  studio  di  rendervisi  per- 
fetti. Venale  era  il  Giovio  e  ossequioso  cortigiano  era 
Bernardo  Tasso,  ma  quando  prendevano  la  penna  e'  era 
qualche  cosa  nel  loro  animo  che  li  nobilitava,  ed  era  lo 
studio  della  perfezione,  il  prendere  sul  serio  il  loro  me- 
stiere. 

Quest'  era  la  sola  forza,  la  sola  virtù  rimasta  intatta. 
La  corruzione  e  la  grandezza  del  secolo  non  era  merito  o 
colpa  di  principi  o  letterati,  ma  stava  nella  natura  stessa 
del  movimento,  ond'  era  uscito,  che  ora  si  rivelava  con 
tanta  precisione,  generato  non  da  lotte  intellettuali  e  no- 
vità di  credenze,  come  fu  in  altri  popoli,  ma  da  una  pro- 
fonda indifferenza  religiosa,  politica,  morale,  accompagnato 
con  la  diffusione  della  coltura,  il  progresso  delle  forze 
intellettive  e  lo  sviluppo  del  senso  artistico.  Qui  è  il  germe 


—  426  — 

della  vita,  e  qui  è  il  germe  della  morte;  qui  è  la  sua 
grandezza  e  la  sua  debolezza. 

Questo  movimento  è  già  come  in  miniatura  tutto  rac- 
colto presso  il  Boccaccio ,  il  quale  se  riproduce  con  vi- 
vacità le  apparenze  non  ne  ha  coscienza,  e  non  sa  qual 
mondo  nuovo  sia  in  fermentazione  sotto  le  sue  ciniche 
caricature.  Del  qual  mondo  nuovo  appariscono  i  fram- 
menti dal  Sacchetti  al  Pulci,  che  ne  fissano  il  lato  ne- 
gativo e  comico,  mentre  il  suo  ideale  trasparisce  già  nel- 
l'Alberti, nel  Boiardo,  nel  Poliziano.  La  violenta  rea- 
zione del  Savonarola  non  fa  che  accrescere  forza  e  ce- 
lerità al  movimento  e  dargli  coscienza  di  sé.  Il  secola 
decimosesto  nella  sua  prima  metà  non  è  che  questo  me- 
desimo movimento  scrutato  profondamente,  rappresen- 
tato nel  suo  insieme,  e  condotto  per  le  varie  sue  forme 
sino  al  suo  esaurimento.  È  la  sintesi  che  succede  al- 
l' analisi. 

Quale  il  lato  positivo  di  questo  movimento  ?  È  l'ideale 
della  forma  amata  e  studiata  con  forma,  indifferente  di 
contenuto. 

E  qual  è  il  suo  lato  negativo  ?  È  appunto  l' indiffe- 
renza del  contenuto,  una  specie  di  eccletismo  negli  uni^ 
come  Raffaello,  Vinci,  Michelangelo,  il  Ficino  ,  il  Pico, 
che  abbracciano  ogni  contenuto,  perchè  ogni  contenuto 
appartiene  alla  coltura,  all'arte  e  al  pensiero,  eccletismo 
accompagnato  negli  altri  da  una  satira  allegra  e  senza 
fiele  di  quei  principii  e  forme  e  costumi  del  passato  an- 
cora in  credito  presso  le  classi  inculte. 

Ciò  che  è  divino  in  questo  movimento  è  Y  ideale  della 
forma,  o  per  trovare  una  frase  più  comprensiva  è  la  col- 
tura presa  in  sé  stessa  e  deificata.  Il  lato  comico  e  ne- 
gativo non  è  esso  medesimo  che  una  rivelazione  della 
coltura. 

Il  Limbo  di  Dante  e  l'amorosa  Visione  del  Boccaccio 
fanno  già  presentire  quest'orgoglio  di  un'  età  nuova,  che 


—  427  — 
comprendeva  e  glorificava  tutta  la  coltura.  Orfeo  an~ 
nunzia  al  suono  della  lira  la  nuova  civiltà,  che  ha  la 
sua  apoteosi  nella  Scuola  di  Atene,  ispirazione  dantesca 
di  Raffaello,  rimasta  così  popolare,  perchè  ivi  è  1'  anima 
dpi  secolo,  la  sua  sintesi  e  la  sua  divinità.  Questa  Scuola 
d* Atene  con  i  tre  quadri  compagni,  che  comprendono 
nel  loro  sviluppo  storico  teologia,  poesia  e  giurisprudenza^ 
è  il  poema  della  coltura ,  di  così  larghe  proporzioni,  come 
il  Paradiso  di  Dante,  aggiuntovi  il  Limbo.  Il  quadro  di- 
viene una  vera  composizione,  come  lo  vagheggiava  Dante 
ne'  suoi  dipinti  del  Purgatorio:  il  suo  santo  Stefano  e  il 
suo  Davide  hanno  un  riscontro  nel  Cenacolo,  nella  Sa- 
cra famiglia,  nella  Trasfigurazione,  nel  Giudizio,  poemi 
sparsi  qua  e  là  di  presentimenti  drammatici.  Il  pittore 
vagheggia  la  bellezza  nella  forma  come  l'Alberti  o  il 
Poliziano,  e  studia  possibilmente  a  non  alterare  con  troppo 
vivaci  commozioni  la  serenità  e  il  riposo  dei  lineamenti: 
perciò  riescono  figure  epiche  anzi  che  drammatiche.  Quel 
non  so  che  tranquillo  e  soddisfatto ,  che  senti  nelle  stanze 
del  Poliziano,  e  ti  avvicina  più  al  riposo  della  natura 
che  all'  agitazione  d;ella  faccia  umana,  quella  pace  tran- 
quilla senz'  alcun'  affanno  è  1'  impronta  di  queste  belle 
forme;  salvo  che  quella  pace  non  è  già  simile  a  quella 
che  nel  cielo  india^  un  ideale  musicale,  come  Beatrice  e 
Laura,  ma  vien  fuori  da  uno  studio  del  reale  ne'  suoi 
più  minuti  particolari.  Senti  che  il  pittore  ha  innanzi  un 
modello  accuratamente  studiato  e  contemplato  con  amore, 
che  nella  sua  immaginazione  si  compie,  e  prende  quella 
purezza  e  riposo  di  forma,  che  RaiTaello  chiamava  una 
certa  idea.  In  questa  certa  idea  ci  entra  pure  alcun 
poco  il  classico,  il  convenzionale  e  la  scuola;  difetti  ap- 
pena visibiU  ne'  lavori  geniali,  usciti  da  una  sincera  ispi- 
razione, dove  domina  il  sentimento  della  bellezza  e  lo 
studio  del  reale.  Cosi  nacquero  le  Madonne  del  secolo, 
nella  cui  fisonomia  non  è  l' inquietudine,  1'  astrazione  e 


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V  estasi  della  santa,  ma  la  ingenua  e  idillica  tranquillità 
della  verginità  e  dell'  innocenza. 

Queste  facce  si  vanno  sempre  più  realizzando,  insìno 
a  che  nella  immaginazione  veneziana  di  Tiziano  pigliano 
una  forma  quasi  voluttuosa. 

La  stessa  larghezza  di  concezione  nella  purezza  e  sem- 
plicità de' lineamenti  trovi  nell'architettura:  il  gotico  è 
debellato  dal  Brunelleschi;  si  collega  insieme  1'  ardito  e 
il  semplice.  Michelangiolo  e  Palladio.  Chi  ricordi  in  che 
guisa  l'Alberti  rappresenta  il  duomo  di  Firenze  può  con- 
cepire il  San  PietrOj  la  vasta  mole,  che  è  il  medio  evo 
nella  sua  materia  e  il  mondo  nuovo  ne'  suoi  motivi,  la 
vera  e  profonda  sintesi  di  tutto  quel  gran  movimento,  la 
che  ti  offriva  nell'  apparenza  lo  stesso  mondo  del  passato, 
quelle  forme,  quei  nomi,  quei  costumi,  que'  concetti  e 
quella  materia,  pure  sostanzialmente  trasformato  ne'  suoi 
motivi,  uscito  dalla  coscienza,  e  divenuto  un  puro  ideale 
artistico,  l'ideale  della  forma.  Questa  materia  antica  pene- 
trata di  uno  spirito  nuovo  nella  sua  vasta  comprensione 
epica,  dove  trovi  fusi  tutti  gli  elementi  della  nuova  ci- 
viltà, ti  dà  anche  la  letteratura  neìV Orlando  Furioso, 
La  Scuola  di  Atene,  il  San  Pietro,  l'Orlando  Furioso 
sono  le  tre  grandi  sintesi  del  secolo. 

L'Orlando  Furioso  ti  dà  la  nuova  letteratura  sotto  il 
suo  duplice  aspetto  positivo  e  negativo.  E  un  mondo 
vuoto  di  motivi  religiosi,  patriottici  e  morali,  un  mondo 
paro  dell'arte,  il  cui  obbiettivo  è  realizzare  nel  campo 
dell'  immaginazione  1'  ideale  della  forma.  L'  autore  vi  si 
travagha  con  la  più  grande  serietà,  non  ad  altro  inteso 
che  a  dare  alla  sua  materia  1'  ultima  perfezione,  cosi  nel- 
r  insieme  come  ne'  più  piccoli  particolari.  Il  poeta  non 
ci  è  più,  ma  ci  è  1'  artista  che  continua  il  Petrarca,  il 
Boccaccio,  il  Poliziano,  e  chiude  il  ciclo  dell'  arie  nella 
poesia.  Ma  poiché  in  fine  questo  mondo  così  bello,  edi- 
ficato con  tanta  industria,  non  è  che  un  giuoco  d' irama- 


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gìnazione,  vi  penetra  un'  ironia  superiore,  che  se  ne  burla. 
e  vi  si  spassa  sopra  col  più  allegro  umore.  La  parte 
plebea  che  nel  Decamerone  occupa  il  proscenio,  qui  giace 
ne'  bassi  fondi,  con  la  sua  oscenità  e  la  sua  buifoneria, 
e  sorge  a  galla  il  mondo  della  cortesia  e  del  valore,  nei 
suoi  più  bei  colori, ma  accompagnato  da  questo  sentimento^ 
che  è  un  bel  sogno:  la  realtà  si  fa  valere  e  disfà  il  castella 
incantato.  È  la  visione  severa  di  un'  anima  ricca  che  si 
effonde  in  amabili  fantasie,  elegiaca  nelle  sue  turbazioni,. 
idillica  nelle  sue  gioie  ,  con  non  altro  fine  e  non  altra 
serietà  che  la  produzione  artistica.  Nelle  arti  figurative,. 
la  produzione  è  accompagnata  con  un  perfetto  obbho  del- 
l'anima nella  sua  creatura;  Raffaello  è  tutto  intero  nella, 
sua  opera^  e  non  guarda  mai  fuori,  e  realizza  la  sua  idea 
con  quella  serietà  con  la  quale  Dante  costruisce  1'  altro 
mondo.  L' ideale  della  forma,  che  si  esprime  con  tanta 
serietà  nelle  arti,  non  ha  ancora  la  coscienza  che  essa 
è  mera  forma ,  mero  giuoco  d' immaginazione.  Ma  qui 
r  arte  si  manifesta  e  si  sente  pura  arte ,  e  sa  che  il 
mondo  reale  non  è  quello,  e  accompagna  con  un  sorriso 
la  sua  produzione.  In  questo  sorriso,  in  questa  presenza 
e  coscienza  del  reale  tra  le  più  geniali  creazioni  è  il  lata 
negativo  dell'  arte,  il  germe  della  dissoluzione  e  della 
morte. 

Intorno  a  questo  mondo  ariostesco  pullulano  poemi  e 
romanzi  e  novelle.  Lascio  stare  il  Girone  e  V Avarchide 
dell'Alamanni,  prette  imitazioni,  senza  alcuna  serietà. 
Dirò  un  motto  di  due  che  tentarono  vie  nuove,  il  Tris- 
sino  e  Bernardo  Tasso.  A  tutti  e  due  spiacque  il  sor- 
riso ariostesco.  Orlando  e  Rinaldo  parvero  al  Trissino, 
non  altrimenti  che  al  Duca  d'  Este,  delle  corbellerie,  fole 
e  capricci  di  cervello  ozioso.  Cercando  nella  storia  le 
sue  ispirazioni  e  in  Omero  il  suo  modello,  scrisse  Ylla- 
Ha  liberata  da  Goti.  Nella  sua  intenzione  dovea  essere 
un  poema  eroico  e  serio,  come  1'  iliade,  che  chiamasse 


—  430  — 

r  Italia  ad  alti  e  virili  propositi.  Ma  il  Trissino  non  era 
che  un  erudito,  non  poeta  e  non  patriota,  e  non  potea 
trasfonder  negli  altri  un  eroismo  che  non  era  nella  sua 
anima ,  e  nemmeno  nella  sua  arida  immaginazione.  Di 
eroico  non  e'  è  nel  suo  poema  che  le  armi  e  le  divise  : 
manca  1'  uomo.  La  sua  punizione  fu  il  silenzio  e  la  di- 
menticanza, e  il  poveruomo,  non  volendo  recarne  la  colpa 
a  difetto  d' ingegao ,  se  la  piglia  con  V  argomento ,  e 
prorompe  : 

Sia  maledetta  1'  ora  e  il  giorno,  quando 
Presi  la  penna  e  non  cantai  d'Orlando. 

Ma  l'argomento  cavalleresco  non  valse  a  salvare  dal 
naufragio  Bernardo  Tasso,  che  nel  suo  Floridante  e  nel 
suo  Amadigi,  più  noto,  vagheggiò  una  rappresentazione 
epica  più  conforme  a'  precetti  dell'arte,  e  lontana  da  ciò 
<5h'egli  diceva  hcenza  ariostesca.  Non  piacque  al  pubblico, 
ma  piacque  a  Speron  Speroni,  come  il  Girone  era  pia- 
ciuto al  Varchi.  E  il  pubblico  avea  ragione:  che  non  s'in- 
tendeva di  Aristotile  e  di  Omero,  e  non  potea  pigliare  sul 
serio  gli  eroi  cavallereschi,  si  chiamassero  Orlando  o  Ama- 
digi.  Bernardo  è  tutto  fiori  e  tutto  mele,  così  artificiato 
e  prolisso  lui,  come  il  Trissino  negletto  e  arido,  tutti  e 
due  noiosi.  Piacque  invece  l' Orlando  innamorato  rifatto 
dal  Berni,  dove  la  soverchia  e  uniforme  serietà  del  testo 
è  temperata  da  forme  ed  episodii  comici,  appiccativi  dal 
Berni.  Ma  il  comico  non  passa  la  buccia  e  non  penetra 
neir  intimo  stesso  di  quel  mondo  e  non  lo  trasforma,  e 
il  Berni  mi  fa  l'effetto  di  quel  bufi'one  nelle  commedie, 
posto  lì  per  far  ridere  il  pubblico  co'  suoi  lazzi,  mentre 
gU  attori  accigliati  conservano  la  lor  posa  tragica. 

Scrivere  romanzi  diviene  un  mestiere  ;  1'  epopea  ario- 
stesca è  smembrata,  e  i  suoi  episodii  diventano  romanzi. 
Sei  ne  scrive  Lodovico  Dolce  tra'  quali  Le  prime  im- 


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prese  di  Orlando.  Il  Brusantini  ferrarese  canta  Angelica 
Innamorata,  il  Bernia  canta  Rodomonte ,  il  Pescatore 
Ruggiero,  e  Francesco  de'  Lodovici  Carlo  Magno.  R; iman- 
zi  con  la  stessa  facilità  composti,  applauditi  e  dimenti- 
cati. Accanto  agi'  imitatori  del  Petrarca  e  dei  Boccaccio 
sorgono  gli  imitatori  dell'Ariosto. 

Il  mondo  ariostesco  nel  suo  lato  positivo  si  collega 
con  r  idilio,  e  nel  suo  lato  negativo  con  la  satira  e  la 
novella. 

Dal  Petrarca  e  dal  Boccaccio  al  Poliziano  l' idillio  è  la 
vera  Musa  della  poesia  italiana,  la  materia  nella  quale 
lo  spinto  realizza  l' ideale  della  pura  forma,  1'  arte  come 
arte.  In  quella  grande  dissoluzione  sociale  la  poesia  la- 
scia le  città  e  trova  il  suo  ideale  ne'  campi,  tra  ninfe  e 
pastori  fuori  della  società,  o  piuttosto  in  una  società 
primitiva  e  spontanea. 

Là  trovi  queir  equilibrio  interiore,  quella  calma  e  ri- 
poso della  figura,  quella  perfetta  armonia  de'  sentimenti 
e  delle  impressioni,  che  chiamavano  l' ideale  della  bellezza 
o  della  bella  forma.  Questo  spiega  la  grande  popolarità 
delle  Stanze,  dove  questo  ideale  si  vede  realizzato  con 
grande  perfezione.  Sono  imitazioni  la  Ninfa  Tiberina  del 
Molza  e  il  Tirsi  del  Castiglione.  Nella  Ninfa  Tiberina 
hai  di  belle  stanze  :  Euridice  in  fuga  con  alle  spalle  1'  in- 
namorato Euristeo  è  cosi  dipinta: 

La  sottil  gonna  in  preda  a'  venti  resta. 
E  col  crine  ondeggiando  indietro  torna. 
Ella  più  che  aura  o  più  che  strale  presta 
Per  r  odorata  selva  non  soggiorna, 
Tanto  che  il  lito  prende  snella  e  mesta, 
Fatto  per  la  paura  assai  più  adorna. 
Esce  Aristeo  la  vaga  selva  anch'  egli, 
È  la  man  per  avergli  entro  i  capegli. 

Tre  volte  innanzi  la  man  destra  spinse 
Per  pigliar  delle  chiome  il  largo  invito , 


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Tre  volte  il  vento  solaraente  strinse, 
E  restò  lasso  senza  fin  schernito. 


Maniera  corretta ,  e  nulla  più.  Manca  in  queste  stanze 
il  movimento,  il  brio,  il  sentimento,  o  piuttosto  la  vo- 
luttà idillica  del  Poliziano.  La  stessa  parca  lode  è  a  fare 
dei  due  poemi  idillici,  le  Api  del  Rucellai  e  la  Coltiva- 
zione dell'Alamanni.  Ci  è  la  naturalezza,  manca  il  sangue. 

L*  idillio  fu  la  moda  dell'  Italia  ne'  suoi  anni  di  pace 
e  di  prosperità.  Era  il  riposo  voluttuoso  di  una  borghe- 
sia  stanca  di  lotte  e  ritirata  deliziosamente  nella  vita 
privata ,  fra  ozi  e  piaceri  eleganti.  Ora  tra  il  rumore 
delle  armi,  fra  tante  avventure  e  agitazioni  della  vita 
sottentra  il  romanzo  cavalleresco.  L' idillio  cessa  di  es- 
sere un  genere  vivo,  e  va  a  raggiungere  il  platonismo 
e  il  petrarchismo.  Gli  angeli  e  il  paradiso ,  Giove  e  Apollo 
le  piagge  apriche  e  i  vaghi  coUi,  i  languori  di  Tirsi  e 
le  smanie  di  Aristeo  fanno  lega  insieme,  e  n'esce  un  va- 
sto repertorio  di  luoghi  comuni,  dove  attingono  poeti  e 
poetesse:  che  di  poetesse  fu  anche  fecondo  il  secolo. 

Il  quattrocento  ondeggiava  tra  l' idillio  e  il  carnevale: 
ozio  di  villa  e  ozio  di  città.  La  quiete  idillica  era  il  solo 
ideale  superstite  nella  morte  di  tutti  gli  altri,  presso  una 
società  sensuale  e  cinica^  la  cui  vita  era  un  carnevale 
perpetuo.  Celebri  diventano  il  carnevale  di  Venezia  e  il 
carnevale  di  Roma.  I  canti  carnascialeschi  fanno  il  giro 
d' Itaha.  La  buffoneria ,  1'  equivoco  osceno ,  lo  scherzo 
grossolano  diventano  un  elemento  importante  della  let- 
teratura in  prosa  e  in  verso,  l' impronta  dello  spirito  ita- 
liano. Le  accademie  sono  il  semenzaio  di  lavori  simili. 
Esse  rassomigliano  quelle  Uete  brigate  di  buontemponi 
e  fannulloni,  che  ispirarono  il  Decamerone,  modello  del 
genere.  Sono  letterati  ed  eruditi,  in  pieno  ozio  intellet- 
tuale, che  fanno  per  sollazzarsi  versi  e  prose  sopra  i  più 
frivoli  argomenti,  tanto  più  ammirati  per  la  vivacità  dello 


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spirito  e  r  eleganza  delle  forme,  quanto  la  materia  è  più 
volgare.  Strani  sono  i  nomi  di  queste  accademie  e  di  que- 
sti accademici,  come  lo  Impastato,  il  Raggirato,  il  Pro- 
paginato,  lo  Smarrito  ecc.  E  recitano  le  loro  dicerie,  o 
come  dicevano,  cicalate  sull'  insalata,  sulla  torta,  sulla 
ipocondria,  inezie  laboriose.  Simili  cicalate  fatte  in  verso 
erano  dette  capitoli  ;  il  Casa  canta  la  gelosia  :  il  Varchi 
le  ova  sode  ;  il  Molza  i  fichi  :  il  Mauro  la  bugia  ;  il  Caro 
il  naso  lungo  ;  si  cantano  le  cose  più  volgari  e  anco  più 
turpi,  e  spesso  con  equivoci  e  allusioni  oscene,  al  modo 
di  Lorenzo,  il  maestro  del  genere.  Il  carnevale  dalla 
piazza  si  ritira  nelle  accademie,  e  diviene  più  attillato, 
ma  anche  più  insipido.  Tra  queste  accademie  era  quella 
dei  Vignaiuoli  a  Roma,  dove  recitavano  il  Mauro,  il  Casa, 
il  Molza,  il  Berni  tra  prelati  e  monsignori.  Il  Berni  piacque 
fra  tutti.,  e  si  disputavano  i  suoi  capitoli,  e  se  li  passavano 
di  mano  in  mano. 

Francesco  Berni,  maestro  e  padre  del  burlesco  stile, 
detto  poi  bernesco,  è  1'  eroe  di  questa  generazione,  erede 
di  Giovanni  Boccaccio  e  di  Lorenzo,  nella  sua  sensualità 
ornata  dalla  coltura  e  dall'  arte.  Nella  sua  ammirazione 
per  questo  primo  e  vero  trovatore  dello  stile  burlesco, 
il  Lasca  dice  : 

Non  sia  chi  mi  ragioni  di  Burchiello; 
Chò  saria  proprio  come  comparare 
Caron  dimonio  all'  Agnol  Gabriello. 

Buontempone,  amico  del  suo  comodo  e  del  dolce  far 
niente  la  sua  divinità  è  1'  ozio  più  che  il  piacere  : 

Cacce,  musiche,  feste,  suoni  e  balli, 
Ginochi,  nessuna  sorte  di  piaceri 

Troppo  il  movea 

Onde  il  suo  sonno  bene  era  in  iacore 
Nudo,  lungo,  disteso  ;  e  il  suo  diletto 
Era  il  non  far  mai  nulla  e  starsi  in  letto. 

De  Sanctis  — Leu   Ital.  Voi.  I.  C3 


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Ma  il  pover  uomo  è  costretto  a  lavorare  per  guada- 
gnarsi la  vita,  e  fa  il  segretario,  come  tutti  quasi  i 
letterati  di  quel  tempo,  a'  servigi  di  questo  e  quel  car- 
dinale : 

Aveva  sempre  in  seno  o  sotto  il  braccio 
Dietro  e  innanzi  di  lettere  un  fastella, 
E  scriveva  e  stillavasi  il  cervelìo. 

Dietro  a'  capricci  del  suo  padrone,  una  volta  non  ne 
può  più,  che  ha  sonno,  e  dee  stare  lì  a  guardarlo  gio- 
care la  primiera  : 

Può  far  la  nostra  donna  eh'  ogni  sera 
Io  abbia  a  stare  a  mio  marcio  dispetto 
Infino  alle  undici  ore,  e  andarne  a  letto 
A  petizioD  di  chi  gioca  a  primiera? 

Direbbon  poi  costoro:  ei  si  dispera, 
E  a'  maggiori  di  sé  non  ha  rispetto: 
Corpo  di     .     .     .     io  r  ho  pur  detto, 
Hassi  a  vegliar  la  notte  intera  intera? 

La  morte  di  Papa  Leone  gitta  il  terrore  tra'  letterati, 
che  vedono  mancare  la  mangiatoia,  e  più  quando  il  suc- 
cessore è  Adriano  Vlspagnuolo,  oltramontano,  avaro,  con- 
tadino, e  non  so  quanti  altri  epiteti  gli  appicca  nella  sua 
indignazione  il  Berni: 

Pur  quando  io  sento  dire  oltramontano, 
Vi  fo  sopra  una  chiusa  col  verzino, 
Idest  nemico  del  sangue  italiano. 

Era  in  fondo  un  brav'  uomo,  senza  fiele,  un  buon  com- 
pagnone, col  quale  si  passava  piacevolmente  un  quarto 
d'ora,  anima  tranquilla  e  da  canonico,  vuota  di  ambi- 
zioni, e  di  cupidigie,  e  di  passioni  e  anche  d' idee.  Sapea 
di  greco,  e  più  di  latino,  e  fece  anche  lui  i  suoi  bravi 
versi  latini  e  i  suoi  sonetti  petrarcheschi,  come  portava 


—  435  — 

il  tempo.  Scrivea  il  più  spesso  a  sfog amento  di  cer~ 
vello,  il  maggior  suo  passatempo.  Non  cercava  T  ele- 
ganza, per  fuggire  fatica  ,  e  gli  veniva  il  sudor  della 
morte,  quando  si  dovea  ine  iter  la  giornea  e  rispondere 
per  le  consonanze  o  per  le  rime  a  lettere  eleganti.  Lo 
scrivere  stesso  gli  era  fatica.  A  vivere  avemo  sino  alla 
morte,  dice  al  Bini,  a  dispetto  di  chi  non  vuole,  e  il 
vantaggio  è  vivere  allegramente,  come  conforto  a  fcir  voi, 
attendendo  a  frequentar  quelli  banchetti  che  si  fanno  per 
Roma  ,  e  scrivendo  sof)rattutto  il  manco  che  potete  : 
quia  haec  est  Victoria  guae  vincit  mundùm  ».  Si  quali- 
fica asciutto  di  parole ,  poco  cerimonioso  e  intrigato 
in  servitii :  oitimQ  scuse  alla  sua  pigrizia.  E  quando  lo 
assediano,  e  lo  tormentano  e  si  dolgono  che  non  risponda, 
e  non  li  arai  e  li  dimentichi,  gli  viene  la  stizza: 

Perchè  m'  ammazzi  con  le  tue  querele, 
Priuli  mio,  perchè  ti  duoli  a  torto, 
Che  sai  che  amo  più  te  che  l'orso  il  miélef 

Sai  che  nel  mezzo  del  petto  ti  porto 
Serrato,  stretto,  abbarbicato  e  fitto, 
Più  che  non  son  le  radici  nell'orto: 

Se  ti  lamenti  perchè  non  ti  ho  scritto... 

E  qui  si  calma  la  stizza,  e  vince  la  pigrizia  e  la  let- 
tera finisce  con  un  eccetera.  Benedetta  pigrizia,  che  lo 
fa  parlare  come  gli  viene  alla  bocca,  e  gli  fa  scriver 
lettere,  che  sono  un  zucchero  di  tre  cotte,  intarsiate  di 
Ijrevi  motti  lathii  per  vezzo,  le  più  saporite  e  semplici 
e  disinvolte  in  quel  tempo  de'  segretarii  che  se  ne  scris- 
sero tante   e  cosi   sudate!  E  non  bastava   che  dovesse 

river  lettere  per  forza,  che  volevano  da  lui  anche  i 
capitoli  e  i  sonetti  con  la  coda.  Fateci  un  capitolo  sulla 
primiera  !  «  Compare,  scrive  il  poveruomo,  io  non  ho  po- 
tuto tanto  schermirmi,  che  pure  mi  è  bisognato  dar  fuori 
(jucsto  benedetto  capitolo  e  commento  della  primiera,  e 


—  430  — 

siate  certo  che  l' ho  fatto,  non  perchè  mi  consumassi  di 
andare  in  istampa,  né  per  immortalarmi  come  il  cava- 
her  Casive,  ma  per  fuggire  la  fatica  mia  e  la  malevo- 
lenza di  molti  che  domandandomelo  e  non  lo  avendo,  mi 
volevano  mal  di  morte.  Avendogliel  a  dare,  mi  biso- 
gnava 0  scriverlo  o  farlo  scrivere;  e  1'  uno  e  F  altro  non 
mi  piaceva  troppo  per  non  mi  affaticare  e  non  m'obbh- 
gare».  Eccolo  dunque  costretto  a  fare  il  capitolo,  e  poi 
a  stamparlo  ;  eccolo  immortale  a  suo  dispetto.  E  scrisse 
sulle  anguille,  i  cardi,  la  peste,  le  pesche,  la  gelatina,  e 
sopra  Aristotile,  il  quale 

Ti  fa  con  tanta  grazia  un  argomento, 
Che  te  lo  senti  andar  per  la  persona 
Fino  al  cervello  e  rimanervi  drente. 

Cosi  venner  fuori  capitoli,  sonetti,  epistole,  dove  vi- 
vono eterni  i  capricci  e  i  ghiribizzi  di  un  cervello  ozioso 
e  ameno.  Il  successo  fu  grande.  Dicono,  perchè  era  fio- 
Tentino,  e  maneggiava  assai  bene  la  lingua.  Ed  è  un  dir 
poco.  Il  vero  è  che  il  Berni  ha  una  intuizione  immediata 
e  netta  delle  cose,  che  rende  vive  e  fresche  con  facilità 
e  con  brio.  Tra  lui  e  la  cosa  non  ci  è  nessun  mezzo,  o 
imitazione,  o  artifìcio  di  stile,  o  repertorio;  egli  l'attinge 
direttamente,  secondo  l' immagine  che  gU  si  presenta  nei 
cervello.  E  V  immagine  è  la  cosa  stessa  in  caricatura , 
guardata  cioè  da  un  punto  che  la  scopra  tutta  nel  suo 
aspetto  comico.  Il  quale  aspetto  balza  improvviso  innanzi 
alla  nostra  immaginazione,  perchè  non  esce  fuori  a  pezzi 
e  a  bocconi  da  una  descrizione,  ma  ti  sta  tutto  avanti 
per  virtù  di  somiglianze  o  di  contrasti  inaspettati.  Tale 
è  la  pittura  di  maestro  Guazzai  etto,  e  la  mula  di  Flo- 
rimonte  ,  e  la  bellezza  della  sua  donna  ,  contraffazione 
della  Laura  petrarchesca.  In  questi  ritratti  a  rapporti 
non  hai  niente  che  stagni  o  langua;  hai  una  produzione 


—  437  — 

continua,  che  ti  tien  desto  e  ti  sforza  a  ire  innanzi  in- 
sino  a  che  il  poeta  trionfalmente  ti  accomiata  : 

Ora  eccovi  dipinta 
Una  figura  arabica  un*  arpia, 
Un  uom  fuggito  dalla  notomia. 

Fin  qui  avevamo  visto  dal  Boccaccio  al  Pulci  messa 
in  caricatura  plebe  e  frati;  e  anche  il  Berni  ci  si  prova 
nella  Catrìna  e  nel  Mogliazzo,  imitazioni  caricate  di  par- 
lari e  costumi  plebei,  inferiori  per  grazia  e  spontaneità 
alla  Nencia.  Ma  la  materia  ordinaria  del  Berni  è  la  ca- 
ricatura della  borghesia,  in  mezzo  a  cui  viveva.  Non  è 
più  la  coltura  che  ride  dell'  ignoranza  e  della  rozzezza  ; 
è  la  coltura  che  ride  di  sé  stessa;  la  borghesia  fa  la  sua 
propria  caricatura.  Il  protagonista  non  è  più  il  catti- 
vello di  Calandrino,  ma  è  il  borghese  vano,  poltrone, 
adulatore,  stizzoso,  sensuale  e  letterato,  la  cui  immagine 
è  lo  stesso  Berni,  che  mena  in  trionfo  la  sua  poltrone- 
ria e  sensualità.  L' attrattivo  è  appunto  nella  perfetta 
buona  fede  del  poeta  che  ride  de'  difetti  propri  e  degli 
altrui,  come  di  fragiUtà  perdonabili  e  comuni,  delle  quali 
è  da  uomo  di  poco  spirito  pigharsi  collera.  li  guasto 
nella  borghesia  era  già  cosi  profondo,  e  tanto  era  oscu- 
rato il  senso  morale  ,  che  non  si  sentiva  il  bisogno  del- 
l' ipocrisia,  e  si  mostravano  servili  e  sensuah  uomini  per 
altre  parti  commendevoli  ;  com'erano  moltissimi  lette- 
rati e  il  nostro  Berni,  il  dabbene  e  genlt'le  Bevnì,  dice 
il  Lasca ,  che  si  dipinge  a  quel  modo  con  piena  tran- 
quillità di  coscienza,  e  non  pensa  punto  che  glie  ne  possa 
venire  dispregio.  Quando  certi  vizii  diventano  comuni  a 
tutta  una  società,  non  generano  più  disgusto  e  sono  raa- 
;^nifica  materia  comica,  e  possono  stare  insieme  con  tutte 
le  qualità  di  un  perfetto  galantuomo.  Il  Berni  è  poltrone 
e  sensuale  e  cortigiano,  e  non  lo  dissimula,  ciò  che  fa- 
rebbe ridere  a  sue  spese,  anzi  lo  mette  in  evidenza,  co- 


—  438  — 

gliendone  V  aspetto  comico,  come  fa  un  uomo  di  spirito, 
che  non  crede  per  questo  ne  scapiti  la  sua  riputazione. 
Questa  credenza  o  perfetta  buona  fede  lo  mette  in  una 
situazione  netta  e  schiettamente  comica,  si  eh'  egU  con- 
templa e  vagheggia  il  suo  difetto  senz'  alcuna  preoccu- 
pazione di  biasimo  e  con  perfetta  libertà  di  artista.  È 
sottinteso  che  in  questi  ritratti  berneschi  non  è  alcuna 
profondità  o  serietà  di  motivi;  appena  la  scorza  è  in- 
cisa; ci  è  la  borghesia  spensierata  e  allegra  che  non  ha 
avuto  ancora  tempo  di  guardarsi  in  seno,  ed  è  tutto  al 
di  fuori,  nella  superficie  delle  cose.  Questa  superficialità 
e  spensieratezza  è  anch'  essa  comica ,  è  parte  inevita- 
bile del  ritratto.  Perciò  la  forma  comica  sale  di  rado 
sino  all'ironia  e  rimane  semplice  caricatura,  un  movi- 
mento e  calore  d'immaginazione,  com'è  generalmente 
ne'  comici  italiani,  a  cominciare  dal  Boccaccio.  Dove  non 
è  immaginazione  artistica,  il  comico  non  si  sviluppa,  ed 
il  difetto  rimane  prosaico,  e  perciò  disgustoso,  come  è 
in  tutti  gli  scrittori  di  proposito  oso<3ni.  Ne'  ritratti  del 
Derni  entra  anche  V  osceno ,  ingrediente  di  obbligo  a 
quel  tempo  ;  ma  non  è  lì  che  attinge  la  sua  ispirazione, 
non  vi  si  piace  e  non  vi  si  avvoltola.  Ciò  che  l' ispira, 
non  è  il  piacere  dell'  osceno,  o  la  seduzione  del  vizio,  ma 
è  un  piacere  tutto  d' immaginazione  e  dà.  artista ,  che 
senti  nel  brio  e  nella  facilità  dello  stile,  e  che  mettendo 
in  moto  il  cervello  gli  fa  trovare  tanta  novità  di  forme, 
d' immagini  e  di  ravvicinamenti,  come  è  il  ritratto  della 
sua  cameriera,  e  1'  altro,  un  vero  capolavoro,  della  sua 
famiglia.  Ecco  perchè  il  Berni  è  tanto  superiore  a'  suoi 
imitatori  ed  emuU,  freddamente  osceni  e  buffoni.  Pure  la 
buffoneria  oscena  diviene  l'ingrediente  de'  banchetti,  delle 
accademie  e  delle  conversazioni  e  invade  la  letteratura, 
quasi  condimento  e  salsa  dello  spirito  :  la  statua  di  Pa- 
squino diviene  1'  emblema  della  coltura.  Ci  erano  capitoli 
e  sonetti:  sorgono  poemi  interi  berneschi,  com'  è  la  Vt(a 


—  439  — 

di  Mecenate  del  Caporali,  di  una  naturalezza  spesso  in- 
sipida e  volgare,  e  il  suo  Yingrjio  al  Parnaso^  e  la  Gi^ 
gantea  dell'Arrighi,  e  la  Nanea  del  Grazzini,  o  i  Nani 
vincitori  de'  giganti.  Di  tanti  poeti  berneschi  si  nomina 
oggi  appena  il  Caporali.  Nondimeno  questa  lirica  berne- 
sca è  la  sola  viva  in  questo  secolo.  Gli  stessi  poeti  pe- 
trarcheggiando annoiano,  e  si  fanno  leggere  piacevoleg- 
giando ;  perchè  i  loro  sospiri  d'  amore  escono  da  un  re- 
pertorio già  vecchio  di  concetti  e  di  frasi,  e  non. corri- 
spondono allo  stato  reale  della  società  e  della  loro  ani- 
ma ;  dove  in  quel  piacevoleggiare  ci  è  il  secolo,  ci  è  loro, 
e  non  ci  è  ancora  modelli  o  forme  convenzionali,  e  qual- 
che cosa  dee  pnr  venire  dal  loro  cervello. 

I  canti  carnascialeschi,  come  i  rispetti  e  le  ballate  e  le 
serenate,  erano  legati  con  la  vita  pubblica  ;  ora  il  circolo 
della  vita  si  restringe;  la  vita  letteraria  è  nelle  accade- 
mie e  tra'  convegni  privati.  Per  le  piazze  si  aggirano  an- 
cora i  cantastorie,  e  si  sentono  canzoni  plebee.  Ma  la 
coltura  se  ne  allontana  e  la  trovi  in  corte  o  nell'  acca- 
demia, 0  nelle  conversazioni,  centri  di  allegria  spensie- 
rata e  licenziosa  ;  però  da  gnnte  colta,  che  sa  di  greco 
e  di  latino,  che  ammira  le  belle  forme,  e  cerca  ne'  suoi" 
divertimenti  l'eleganza,  o  come  dicevasi,  il  bello  stile. 
Vi  si  recitavano  capitoli,  sonetti,  poemi  burleschi,  poemi 
di  cavalleria  e  novelle.  Come  però  l'arte  è  una  merce 
rara  e  la  produzione  era  infinita,  il  pubblico  diveniva 
meno  severo,  e  pur  d'esser  divertito  non  mirava  tanto 
pel  sottile  nel  modo.  In  sostanza  questa  borghesia  spen- 
sierata e  oziosa  era  sotto  forme  così  Hnde  vera  plebe, 
mossa  dagli  stessi  istinti  grossolani  e  superficiali,  la  cu- 
riosità, la  buffoneria,  la  sensualità,  e  quando  quest'  istinti 
orano  accarezzati,. accettava  tutto,  anche  il  mediocre,  an- 
che il  pessimo  :  il  che  era  segno  manifesto  di  non  lon- 
tana decadenza. 

Questa  letteratura  comica  o  negativa  si  sviluppa  in 


—  440  — 

modo  prodigioso.  Accanto  a'  capitoli  e  a'  romanzi  molti- 
plicano le  novelle.  Il  cantastorie  diviene  l'eroe  della  boi- 
ghesia.  E  tutti  hanno  innanzi  lo  stesso  vangelo,  il  De- 
camerone.  Il  petrarchismo  era  una  poesia  di  transizione, 
che  in  questo  secolo  è  un  cosi  strano  anacronismo,  come 
l'imitazione  di  Virgilio  odi  Cicerone.  Ma  il  Decamerone 
portava  già  ne'  suoi  fianchi  tutta  questa  letteratura,  era 
il  germe  che  produsse  il  Sacchetti,  il  Pulci,  Lorenzo,  il 
Berni,  l'Ariosto  e  tutti  gli  altri. 

Quasi  ogni  centro  d' Itahaha  il  suo  Decamerone.  Ma- 
succio  recita  le  sue  novelle  a  Salerno,  il  Molza  scrive 
a  Roma  il  suo  Decamerone,  e  il  Lasca  le  sue  Cene  a  Fi- 
renze, e  il  Giraldi  a  Ferrara  i  suoi  Ecatommili,  o  cento 
Favole,  e  Antonio  Mariconda  a  Napoh  le  sue  Tì^e  gior- 
nate^ e  Sabadino  a  Bologna  le  sue  Porr  elane,  e  quat- 
tordici novelle  scrive  il  milanese  Ortensio  Landò,  e  Fran- 
cesco Straparola  scrive  in  Venezia  le  sue  Tredici  piace- 
voli notti,  e  Matteo  Bandelle  il  suo  novelhere  ,  e  le 
sue  diciassette  novelle  il  Parabosco.  A  Roma  si  stam- 
pano le  novelle  del  Cadamosto^  da  Lodi,  e  di  Monsignor 
Brevio  da  Venezia.  A  Mantova  si  pubblicano  le  novelle 
•  di  Ascanio  de'  Mori,  mantovano,  e  a  Venezia  escono  in 
luce  le  sei  giornate  di  Sebastiano  Erizzo,  e  le  dugento 
novelle  di  Celio  Malespini ,  gentiluomo  fiorentino  ,  e  i 
Giunti  a  Firenze  pubblicano  i  Trai  tenimenii  ài  ^c\\Aone 
BargagU.  Aggiungi  la  Giulietta  di  Luigi  da  Porto  vi- 
centino, e  r  Eloquenza,  attribuita  a  Speron  Speroni. 

Tutti  questi  scrittori,  dal  quattrocentista  Masuccio  sino 
al  Bargagli  che  tocca  il  seicento,  si  professano  discepoli 
e  imitatori  del  Boccaccio.  Chi  se  ne  appropria  lo  spirito 
e  chi  le  invenzioni  anche  e  la  maniera.  I  Toscani,  presso 
1  quah  il  Boccaccio  è  di  casa,  scrivono  con  più  libertà, 
e  ci  hanno  una  grazia  e  gentilezza  di  dire  loro  propria, 
che  copre  la  grossolanità  de'  sentimenti  e  de'  concetti:  talo 
è  il  Lasca,  e  il  Firenzuola  nelle  novelle  inserite  ne'  suoi 


—  441  — 

Discorsi  degli  animali,  e  nel  suo  Asino  d'oro.  Gli  al- 
tri procedono  più  timidi,  e  riescono  pesanti  come  il  Gi- 
raldi  e  il  Brevio  e  il  Bargagli,  o  scorretti  e  trascurati, 
come  il  Parabosco  o  lo  Straparola  o  il  Cadamosto.  Il 
linguaggio  è  quell'  italiano  comune  che  già  si  usava  dalla 
classe  colta  nello  scrivere  e  talora  anche  nel  parlare  , 
tradotto  in  una  forma  artificiosa  e  alla  latina  che  dice- 
vasi  letteraria,  e  solcato  di  neologismi,  barbarismi,  lati- 
nismi, e  parole  e  frasi  locali,  salvo  ne'  più  colti,  come  è  il 
Molza,  per  speditezza  e  festività  vicino  a'  toscani. 

Quel  bel  mondo  della  cortesia  che  nel  Decamerone 
tiene  si  gran  parte ,  rifuggitosi  ne'  poemi  cavallereschi, 
scompare  dalla  novella.  E  neppure  ci  è  quello  stacco  tra 
borghesia  e  plebe,  quella  coscienza  di  una  coltura  su- 
periore, che  si  manifesta  nella  caricatura  della  pleb  \  quel- 
r  allegrezza  comica  a  spese  delle  superstizioni  e  de'  pre- 
giudizi frateschi  e  plebei,  che  tanto  ti  alletta  nelle  novelle 
fiorentine  e  fino  nella  Nencia.  Questo  mondo  interiore 
scompare  anch'  esso.  La  novella  attinge  tutta  la  società 
ne'  suoi  vizi,  nelle  sue  tendenze ,  ne'  suoi  accidenti,  con 
nessun  altro  scopo  che  d' intrattenere  le  brigate  con  rac- 
conti interessanti.  L' interesse  è  posto  nella  novità  e  stra- 
ordinarietà degli  accidenti,  come  sono  i  mutamenti  im- 
provvisi di  fortuna,  o  burle  ingegnose,  per  far  danari  o 
possedere  1'  amata,  o  casi  maravigliosi  di  vizi  o  di  virtù. 
Re,  principi,  cavaheri,  dottori,  mercanti,  malandrini, scroc- 
coni, tutte  le  classi  vi  sono  rappresentate  e  tutt'  i  ca- 
ratteri, comici  e  seni,  e  tutte  le  situazioni,  dalla  pura 
storia  sino  al  più  assurdo  fantastico.  Sono  migliaia  di  no- 
velle, arsenale  ricchissimo,  dove  hanno  attinto  Shakeo- 
speare,  Molière  e  altri  stranieri. 

La  più  parte  di  queste  novelle  sono  aridi  temi,  ma- 
gri scheletri  in  forma  affettata  insieme  e  scorretta.  Lo 
interessai. te  è  stimolare  la  curiosità  del  pubblico,  e  le  suo 


—  442  — 

tendenze  licenziose  e  volgari.  Perciò  hai   da  una  parte 
il  comico  e  dall'  altra  il  fantastico. 

Nel  comico,  salvo  i  toscani,  ne'  quali  supplisce  la  gra- 
zia del  dialetto,  i  novellieri  mostrano  pochissimo  spirito. 
Una  delle  novelle  meglio  condotte  è  la  scimia  del  Ban- 
dello,  la  quale  si  abbiglia  co'  panni  di  una  vecchia  morta, 
e  par  dessa,  e  spaventa  quelli  di  casa.  II  fatto  è  in  se 
comico,  ma  l'esposizione  è  arida  e  superficiale,  e  i  sen- 
timenti e  le  impressioni  comiche  ci  sono  appena  abboz- 
zate. C  è  una  novella  dì  Francesco  Straparola  assai  spi- 
ritosa d'  invenzione,  dove  si  racconta  il  modo  che  tenne 
un  marito  per  rendere  ubbidiente  la  moglie,  e  la  sciocca 
imitazione  fattane  dal  fratello,  novella  che  suggerì  al  Mo- 
lière la  Scuoia  dei  mariti.  Ma  di  spiritoso  non  e'  è  che 
r  invenzione,  forse  neppur  sua:  così  triviale  e  abborrac- 
ciata è  r  esposizione.  Un  villano  che  fa  la  scuola  ad  un 
astrologo  è  anche  un  bel  concetto  del  Landò,  ma  scarso 
di  trovati  e  situazioni  comiche.  Pure  il  Landò  è  scrit- 
tor  vivace  e  rapido,  e  nelle  descrizioni  efficace  e  pitto- 
resco. Il  villano  predice  la  pioggia;  ma  l'astrologo  vedo 
il  cielo  sereno.  «  Alzato  il  viso,  guatava  d'  ogni  intorno, 
e  diligentemente  ogni  cosa  contemplando,  s'  avvide  es- 
sere il  cielo  tutto  bello,  il  sole  temperato,  il  monte  netto 
da  nuvoU,  e  appresso  s'accorse  che  l'austro  nel  soffiare 
era  dolcissimo ,  e  cominciò  attentamente  a  considerare, 
in  qual  segno  fosse  il  sole  e  in  qual  grado,  che  cosa  stes^-e 
nel  mezzo  del  cielo,  e  qual  segno  stessegli  in  dritta  li- 
nea opposto.  Nò  potendo  in  verun  modo  conoscere  che 
pioggia  dovesse  dal  cielo  cadere,  al  villano  rivolto  disse 
con  ira  e  con  isdegno:  Dio  e  la  Natura  potrebbono  far 
piovere,  ma  la  Natura  sola  non  lo  potrebbe  fare  ».  So- 
pravvenuta più  tardi  pioggia  dirottissima,  descrive  le  sue 
rovine  e  i  suoi  effetti  in  questo  modo  :  «Rovinarono  torri, 
sbarbicaronsi  molte  querce,  caddero  beUissimi  palagi,  tre- 
mò tutta  la  riviera  dell'Adige,  parve  che  il  cielo  cadesse, 


—  443  — 

e  che  tutta  la  macchina  mondana  fosse  per  disciogUersi  ». 
Tutta  la  novella  è  scritta  in  questa  prosa  spedita  e  ani- 
mata e  si  legge  volentieri,  ma  il  sentimento  comico  vi 
fa  difetto,  né  vi  supplisce  una  lingua  poetica  e  senza  co- 
lore locale.  Gran  vantaggio  ha  sopra  di  lui  il  Lasca,  non 
di  spirito  0  di  coltura  o  di  arte,  ma  di  lingua,  essendo 
il  dialetto  toscano,  ricco  di  sali  e  di  frizzi  e  di  motti  e 
di  modi  comici,  un  istrumento  giù  formato  e  recato  a 
perfezione  dal  Boccaccio  al  Berni.  Materia  ordinaria  <Iel 
Lasca  è  la  semplicità  degli  uomini  to7tdi  e  grossi  fatta 
giuoco  de'  tristi  e  degli  scrocconi.  È  la  novella  ne'  ter- 
mini che  r  aveva  lasciata  il  Boccaccio.  Il  suo  Calandriua 
è  Gian  Simone  o  Gasparri ,  rigirati  e  beffati  da  scroc- 
coni, che  si  prevalgono  della  loro  creduhtà.  11  Boccac- 
cio mette  in  iscena  preti  e  frati,  il  Lasca  astrologi,  guar- 
dando meno  alle  superstizioni  religiose ,  che  alle  credenze^ 
popolari  neir  orco,  tregenda  e  versiera,  negli  spiriti  e 
ne'  diavoli.  Oggi  abbiamo  i  magnetisti  e  gli  spiritisti;  al- 
lora e'  erano  i  maghi  o  ^Xi  astrologi,  con  la  stessa  pre- 
tensione di  conoscere  l'avvenire  e  di  guarire  gì'  infermi, 
e  conoscere  i  fatti  altrui,  e  farti  comparire  i  moiti  o  le 
persone  lontane:  materia  inesausta  di  ridicolo,  non  al- 
trimenti che  i  miracoh  de'  frati.  Se  il  Boccaccio  mette  in 
gioco  il  mondo  soprannaturale  della  religione,  il  Lasca 
si  beffa  del  mondo  soprannaturale  della  scienza.  Il  fan- 
tastico regna  ancora  qua  e  colà  in  Itaha  ;  ma  a  Firenze 
era  morto  sotto  l'ironia  del  Boccaccio,  del  Sacchetti,  di 
Lorenzo  e  del  Pulci,  né  i  piagnoni  poterono  risuscitarlo. 
Il  nostro  Lasca  non  ha  lo  spirito  e  la  finezza  del  Boc- 
caccio, non  ha  ironia  ed  è  grossolano  nelle  sue  carica- 
ture, ma  è  facile,  pieno  di  brio  e  di  vena,  evidente,  e 
trova  nel  dialetto  immagini  e  forme  comiche  belle  e  pronte,, 
senza  che  si  dia  la  pena  di  cercarle.  Ecco  magnifica  pit- 
tura dell'  astrologo  Zoroastro  :  «  Era  uomo  di  tientasei 
in  quarant' anni,  di   grande  e  di  ben   fatta  perdona,  di 


—  444  — 

colore  ulivigno,  nel  viso  burbero  e  di  fiera  guardatura, 
con  barba  nera  arruffata  e  lunga  infino  al  petto,  ghiri-»- 
bizzoso  molto  e  fantastico,  aveva  dato  opera  all'  alchi- 
mia, era  ito  dietro  e  andava  tuttavia  alla  via  degl'incanti; 
aveva  sigilli,  caratteri,  fìlattiere,  pentacoli,  campane,  boc- 
che e  fornelli  di  varie  sorte  da  stillare  erba,  terra,  me- 
talli, pietre  e  legni  ;  aveva  ancora  carta  non  nata,  occhi 
di  lupo  cerviero,  bava  di  cane  arrabbiato,  spina  di  pesce 
colombo,  ossa  di  morti,  capestri  d' impiccati ,  pugnali  e 
spade  che  avevano  ammazzato  uomini,  la  chiavicola  e  il 
coltello  di  Salomone,  e  erba  e  semi  colti  a  varii  tempi 
della  luna  e  sotto  varie  costellazioni ,  e  mille  altre  fa- 
vole e  chiacchiere  da  far  paura  agli  sciocchi;  attendeva 
all'Astrologia,  alla  Fisonoraia,  alla  Chiromanzia  e  cento 
altre  baiacce  ;  credeva  molto  nelle  streghe,  ma  soprat- 
tutto agli  spiriti  andava  dietro,  e  con  tutto  ciò  non  aveva 
inai  potuto  vedere  né  fare  cosa  che  trapassasse  V  ordine 
della  natura,  benché  mille  scerpelloni  e  novellacce  in- 
torno a  ciò  raccontasse  e  di  farle  credere  s' ingegnasse 
alle  persone  ;  e  non  avendo  nò  padre,  né  madre,  e  assai 
benestante  essendo  gli  conveniva  stare  il  più  del  t^mru> 
solo  in  casa,  non  trovando  ppr  la  paura  né  .serva,  né 
famiglio  che  volesse  star  seco,  e  di  questo  infra  sé  me- 
ra vighosamt^ntegodea,  e  praticando  poco,  andando  a  casa, 
con  la  barba  avviluppata  senza  mai  pettinarsi,  sudicio 
sempre  e  sporco,  era  tenuto  dalla  plebe  per  un  gran  fi- 
losofo e  negromante  ».  È  un  periodo  interminabile,  tirato 
giù  felicemente,  dove,  come  in  un  quadro,  ti  sta  dinanzi 
tutta  la  persona,  in  una  ricchezza  di  accessorii  espressi 
con  una  proprietà  di  vocaboli,  che  si  può  trovar  solo  in 
un  fiorentino.  Struggersi  d'  amore  è  un  sentimento  serio 
che  il  Lasca  traduce  in  comico^  aggiungendovi  le  imma- 
gini del  dialetto  :  «  la  farò  in  modo  innamorar  di  voi , 
eh'  ella  non  vegga  altro  Dio  e  si  consumi  e  strugga  dei 
fatti  vostri,  come  il  sale  neh'  acqua,  e  verrà  dietro,  più 


—  445  — 

che  i  pecorini  al  pane  insalato».  Parlando  del  banchetto 
che  tenne  l'astrologo  con  i  suoi  compagni  di  giunteria, 

10  Scheggia,  il  Pilucca  e  il  Monaco,  alle  spese  del  can- 
dido Gian  Simone,  dice;  «  e  fecero  uno  scotto  da  pre- 
lati, con  quel  vino  che  smagUava  ».  Se  il  Lasca  dee  molto 
al  dialetto,  ha  pure  un  pregio  proprio  che  lo  mette  ac- 
canto al  Berni,  una  intuizione  chiara  e  viva  delle  cose, 
che  te  le  dà  scolpite  in  rilievo.  Tale  è  i!  viaggio  per  aria 
del  Monaco,  come  Zoroastro  dà  a  credere  al  dabben  Si- 
mone: «Zoroastro  si  stese  in  terra  boccone,  e  di>:se  non 
so  che  parole,  e  rittosi  in  piede  e  fatto  du'^  tomboh  si 
arrecò  da  un  canto  del  cerchio  inginocchioni,  e  guar- 
dando fìsso  nel  vaso,  disse:  Il  Monaco  nostro  ha  già  ria- 
vuto il  resto ,  e  vassene  con  l' insalata  verso  Pellicce- 
ria per  andarsene  a  casa;  ma  in  questo  istante  io  l'ho 
fatto  invisibilmente  alzare  ai  diavoli  da  terra:  oh  eccolo 
eh'  egli  è  già  sopra  il  vescovado;  oh  che  gli  vien  bene, 
egli  è  già  sopra  la  Piazza  di  Madonna;  oh  ora  egli  ò 
sopra  la  vecchia  di  Santa  Maria  Novella;  testé  entra  in 
Gualfonda  ;  oh  eccolo  a  mezza  la  strada;  oh  egli  è  g'à 
presso  a  meno  di  cinquanta  braccia  ;  oli  eccolo,  eccola 
già  rasente  alla  finestra;  or  ora  sarà  nel  cerchio  in  pia- 
nelle, in  mantello,  in  cappuccio,  e  con  l' insalata  e  con 
le  radici  in  mano  :  e  subito,  messo  un  grandissimo  strido, 
cominciò  ad  urlare,  quanto  gliene  usciva  dalla   gola». 

11  nostro  speziale,  che  colui  che  chiamavano  il  Lasca  nella 
accademia  degli  Umidi  era  appunto  lo  speziale  Anton  Ma- 
ria Grazzini,  dipinge  con  tanto  rilievo  gli  oggetti,  per- 
chè \ì  vede  chiarissimi  nell'  immaginazione,  e  non  si  ha 
a  travagliare  intorno  alla  forma,  e  non  v'  usa  alcuno  ar- 
tificio, scrive  parlando.  Nò  è  meno  evidente  e  parlante 
nel  dialogo.  Simone,  passata  la  paura  e  uscitogli  tutto 
r  amore  di  corpo,  non  vuol  più  dare  all'  astrologo  i  ven- 
ticinque fiorini  promessogli.  E  dice  allo  Scheggia  «  Io  ti 
giuro  sopra  la  fede  mia  che  mi  ò  uscito  Lutto  V  amor  di 


—  446  — 

corpo,  e  della  vedova  non  mi  curo  più  niente.  Oh  che 
vecchia  paura  ebb'  io  per  un  tratto  !  e  mi  si  arricciano 
i  capelli,  quando  vi  ci  penso,  sicché  pertanto  licenzia  e 
ringrazia  Zoroastro.  Lo  Scheggia,  udite  le  di  colui  pa- 
role, diventò  piccino  piccino,  e  pai-endogli  rimaner  scor- 
nato, disse:  Oimè,  Gian  Simone,  che  è  quello  che  voi 
mi  dite  ?  Guardate  che  il  negromante  non  si  crucri.  Che 
diavol  di  pensiero  è  il  vostro  ?  Voi  an  late  cercando  Ma- 
ria per  Ravenna;  io  dubito  fortemente,  come  Zoroastro 
intenda  questo  di  voi,  eh'  egli  non  si  adiri  tenendosi  uc- 
cellato e  che  poi  non  vi  faccia  qualche  strano  gioco:  bella 
cosa  e  da  uomini  dabbene  mancar  di  parola  !  Tanto  è, 
Gian  Simone,  egli  non  è  da  correrla  così  a  furia  :  s'egli 
vi  fa  diventar  qualche  animalaccio,  voi  avrete  fatto  poi 
una  bella  l'accenda.  Colui  era  già  per  la  paura  diventato 
nel  viso  un  panno  lavato;  e  rispondendo  allo  Scheggia, 
disse  :  per  lo  sangue  di  tutt'  i  diavoU  che  fo  giuro  d'as- 
sassino, che  domattina  la  prima  cosa,  io  me  ne  voglio 
andare  agli  Otto,  e  contare  il  caso,  e  poi  farmi  bello  e 
lodare,  e  non  so  chi  mi  tiene  che  non  vada  ora.  Tosto 
che  lo  Scheggia  sentì  ricordare  gli  Otto,  diventò  nel 
viso  di  sei  colori,  e  fra  sé  disse  :  Qui  non  è  il  tempo  da 
battere  in  camicia,  facciamo  che  il  diavolo  non  andasse 
a  processione;  e  a  colui  rivolto,  dolcemente  prése  a  fa- 
vellare e  disse  :  Voi  ora,  Gian  Simone,  entrate  bene  nel- 
r  infinito,  e  non  vorrei  per  mille  fiorini  d'  oro  in  beneficio 
vostro,  che  Zoroastro  sapesse  quel  che  voi  avete  detto. 
Or  non  sapete  che  1'  ufficio  degli  Otto  ha  potere  sopra 
gli  uomini ,  e  non  sopra  demonii  ?  Egli  ha  mille  modi 
di  farvi,  quando  voglia  gliene  venisse,  capitar  male,  che 
non  si  saprebbe  mai  ».  Cosa  manca  al  Lasca  ?  La  mano 
che  trema.  Scioperato,  spensierato,  balzano,  vispo  e  svelto, 
ci  è  in  lui  la  stofi'a  di  un  grande  scrittor  comico  ;  ma 
gli  manca  il  culto  e  la  serietà  deh'  arte  ,  e  abbraccia  e 
tira  giù  come  viene,  e  lascia  a  mezzo  le  cose,  e  si  arresta 


—  447  — 

alla  superfi-cie,  naturale  e  vivace  sempre,  spesso  insipido, 
grossolano  e  trascurato,  massime  nell'ordito  e  nel  disegno. 

Questo  basso  comico,  plebeo  e  buffonesco,  ne'  confini 
della  semplice  caricatura^  perciò  superiìciale  ed  esteriore, 
ritratto  di  una  borghesia  colta,  piena  di  spirito  e  d'  im- 
maginazione, e  insieme  spensierata  e  tranquilla,  ha  la 
sua  sorgente  colà  stesso  onde  usci  il  Morgan  te,  e  poi  i  ca- 
pitoli e  i  sonetti  del  Derni,  è  il  bernesco  nell'  arte,  buffo- 
neria ingentilita  dalla  grazia  e  alzata  a  caricatura,  ma- 
niera sviluppatasi  gradatamente  dal  Boccaccio  al  Lasca , 
infiltratasi  nel  dialetto  e  rimasta  forma  toscana.  Nelle  al- 
tre parti  d' Italia  la  buffoneria  è  senza  grazia,  spesso  ca- 
ricata troppo,  e  lontana  da  quel  brio  tutto  spontaneità 
e  naturalezza,  che  senti  nel  Berni  e  nel  Lasca.  Tra'  più 
sgraziati  è  il  Parabosco. 

Col  comico  va  congiunto  il  fantastico.  Il  novelliere,  in 
luogo  di  guardare  nella  vita  reale  e  studiarvi  i  carat- 
teri, i  costumi,  i  sentimenti,  cerca  combinazioni  tali  di 
accidenti  che  solletichino  la  curiosità.  Per  questa  via  dal 
nuovo  si  va  allo  strano,  e  dallo  strano  al  fantastico,  al 
soprannaturale  e  all'  assurdo.  Cosi  una  borghesia  scet- 
tica, che  ride  de'  miracoli,  che  si  beffa  del  soprannatu- 
rale religioso  a  non  vuol  sentire  a  parlare  di  misteri  e  di 
leggende,  come  forme  barbare,  sente  poi  a  bocca  aperta 
racconti  di  fate,  di  maghi  ,  di  animali  parlanti,  che  ten 
gano  desta  la  sua  curiosità.  Il  Mariconda  narra  con  se- 
rietà rettorica  i  casi  di  Aracne,  di  Piramo  e  Tisbe  e  al- 
tre favole  mitologiche.  E  con  la  stessa  serietà  Francesco 
Straparola  raccoglie  nelle  sue  Notti  le  più  sbardellate 
invenzioni  di  quel  tempo,  saccheggiando  tutt'  i  novellieri, 
Apuleio,  Brevio,  soprattutto  il  napolitano  Girolamo  Mor- 
lino,  autore  di  ottanta  novelle  in  latino.  Ivi  trovi  il  fan- 
tastico spinto  all'  ultimo  limite  dell'  assurdo.  Vedi  un 
anello  trasformato  in  un  bel  giovane,  pesci  e  cavalli  o 
falconi  e  bisce  e   gatte  fatate  che  fanno  maraviglie,  o 


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satiri,  e  uomini  salvatici,  o  in  forma  porcile,  e  morti 
risuscitati,  e  asini  e  leoni  in  conversazione,  e  fate  e  ne- 
gromanti e  astrologi.  Queste  ch'egli  chiama  favole,  si 
accompagnano  con  altri  racconti  osceni  o  faceti,  e  come 
egli  dice,  ridicolosi,  e  sono  le  solite  burle  fatte  alla 
gente  semplice  e  grossa,  o  com'  egli  dice  materiale.  Il 
pretesto  è  uno  scopo  di  volgare  morale  o  prudenza,  un 
fabula  docet,  ma  in  fondo  V  autore  mira  a  render  pia- 
cevoli le  sue  Notti,  eccitando  il  riso  o  movendo  la  cu- 
riosità. Non  mostra  alcuna  intenzione  letteraria ,  salvo 
nelle  descrizioni,  una  goffa  imitazione  del  Boccaccio;  chia- 
ma egli  medesimo- ^«550  e  dimesso  il  suo  stilo  e  dice 
che  le  invenzioni  non  son  sue,  ma  suo  è  il  modo  di  rac- 
contarle. Non  hai  qui  dunque  contorcimenti ,  lenocinli , 
artificii,  eleganze;  è  un  narrare  alla  buona  e  a  corsa, 
in  quella  lingua  comune  italiana,  di  forma  più  latina  che 
toscana,  mescolata  di  parole  venete,  bergamasche  e  an- 
che francesi,  come  follare  (foulerj  per  calpestare.  Non 
si  ferma  sul  descrivere  o  particolareggiare,  non  bada  ai 
colori,  salta  le  gradazioni,  va  diritto  e  spedito,- cercando 
r  effetto  nelle  cose,  più  che  nel  modo  di  dirle.  E  le  cose, 
non  importa  se  di  lui  o  di  altri,  contengono  spesso  con- 
cetti molto  originali,  come  Nerino,  lo  studente  portoghe- 
se, che  .fa  le  sue  confidenze  amorose  al  suo  maestro  Bru- 
nello ,  eh'  egh  non  sa  essere  i^  marito  della  sua  bella, 
onde  Molière  trasse  il  pensiero  della  sua  École  des  fem- 
mes;  o  1'  asino  che  coi  suoi  vanti  la  fa  al  leone,  o  i  ber- 
gamaschi che  con  la  loro  astuzia  la  fanno  ai  dottori  fio- 
rentini ;  0  la  vendetta  dello  studente  burlato  dalle  donne; 
0  Flaminio  che  va  in  cerca  della  morte  ;  o  le  nozze  del 
diavolo.  Il  successo  fu  grande  ;  si  fecero  in  poco  tempo 
del  libro  più  di  venti  edizioni;  e  di  molte  favole  è  rima- 
sta anche  oggi  memoria.  L'  osceno ,  il  ridicolo  il  fanta- 
stico era  il  cibo  del  tempo:  poi  quella  forma  scorretta, 
imperfetta,  ma  senza  frasche  e  spedita  soprattutto  nel 


—  449  — 

vìvo  del  racconto  dovea  rendere  il  libro  di  più  facile  let- 
tura alla  moltitudine  che  non  gii  Ecatommiti  del  Giraldi, 
e  le  novelle  dell'  Erizzo  e  del  Bargagli,  di  una  forma 
artificiata  e  noiosa.  Ma  il  successo  durò  poco.  Anche  la 
Filenia  del  Franco  fu  tenuta  pari  al  Decamerone,  e  di- 
menticata subito.  Manca 'allo  Straparola  il  calore  della 
produzione,  e  ti  riesce  prosaico  e  materiale  anche  nel 
più  vivo  di  una  situazione  comica,  o  nel  maggiore  allet- 
tamento dell'oscenità,  o  ne' movimenti  più  curiosi  del 
fantastico,  come  di  uomini  uccisi  e  rifatti  vivi.  Narra  il 
miracolo  con  quella  indifferenza,  che  i  casi  quotidiani 
della  vita  ;  e  mi  rassomiglia  un  uomo  divenuto  per  la 
lunga  consuetudine  frigido  e  ottuso,  che  non  ha  più  pas- 
sioni, ma  vizii.  Chi  vuol  vederlo,  paragoni  le  sue  Nozze 
del  diavolo  col  Belfegor  del  Machiavelli,  argomento 
simile,  e  il  suo  studente  vendicativo  col  famoso  studente 
del  Boccaccio.  E  vedrà  che  a  lui  manca  non  meno  il  ta- 
lento comico,  che  la  virtù  informativa.  Ma  che  importa? 
Non  mira  che  a  stuzzicare  la  sensualità  e  la  curiosità' 
e  chi  si  contenta,  gode.  E  per  meglio  avere  l'uno  e  1'  al- 
tro intento,  aggiunge  al  racconto  un  enigma  o  indovi- 
nello in  verso,  osceno  di  apparenza,  e  spiegato  poi  al- 
trimenti che  suona  a  prima  udita.  Cosi  oggi  i  cervel- 
li oziosi  per  fuggir  la  noia  fanno  o  sciolgono  sciarade 
e  rebus.  Il  fantastico  era  il  cibo  de'  cervelli  oziosi,  non 
meno  che  1'  enigma,  o  i  tanti  poemi  cavallereschi.  L'arte 
era  divenuta  mestiere  ;  e  pur  di  sentire  fatti  nuovi  e  stra- 
ni, non  si  cercava  altro.  Ristorare  il  fantastico  in  mezzo 
a  una  borghesia  scettica  e  sensuale  era  vana  impresa. 
Nelle  antiche  leggende  senti  il  miracolo,  e  senti  il  ma- 
raviglioso  ne'  romanzi  antichi  di  cavalleria  :  ora  manca 
r  ingenuità  e  la  semplicità,  e  1'  arte  non  può  riprodurre 
il  fantastico  che  con  un  ghigno  ironico,  volgendolo  in 
gioco.  Perciò  la  sola  novella  fantastica  che  si  possa  chia- 
mare lavoro  d'  arte,  è  il  Belfegor,  il  diavolo  accompa- 

Pe  Sanotii  -  Lett.  Ital.  Voi.  I.  ÌH 


—  450  — 

gnato  dal  sorriso  machiavellico.  Cosa  ha  di  vivo  il  diavolo 
borghese  e  volgare  dello  Straparola,  o  la  sua  Teodosia, 
che  è  la  leggenda  messa  in  taverna? 

Se  una  ristorazione  del  fantastico  non  era  possibile, 
come  poteva  aversi  una  ristorazione  del  tragico?  Ma  ci 
furono  anche  novelle  tragiche  con  la  stessa  intonazione 
del  Decamerone  ,  anzi  della  Fiammetta.  E  sono  quelle 
che  potevano  essere,  fior  di  rettorica.  D'immaginazione 
ce  n'era  molta,  ma  di  sentimento  non  ce  n'era  favilla. 
Cosa  di  eroico  o  di  affettuoso  o  di  nobile  poteva  essere 
tra  quelle  corti  e  quelle  accademie,  ciascuno  sei  pensi. 
Chi  desideri  esempli  di  questa  rettorica,  vegga  la  Giu- 
lietta di  Luigi  da  Porto,  o  nel  Bandello  i  monologhi  di 
Adelasia  e  Aleramo  ,  o  nell'  Erizzo  i  lamenti  di  Re  Al- 
fonso sulla  tomba  di  Ginevra.  Come  a  svegliare  i  ro- 
mani ci  voleva  la  vista  del  sangue;  a  muovere  quella  bor- 
ghesia sonnolenta  e  annoiata  si  va  sino  al  più  atroce  e 
al  più  volgare.  La  figliuola  di  Re  Tancredi  nel  Boccac- 
cio è  una  nobile  creatura,  ma  sono  mostri  volgari  la  Ro- 
smonda  del  Bandello,  o  l'Orbecche  del  Giraldi,  che  pur 
non  ti  empiono  di  terrore  e  non  ti  spoltriscono  e  non  ti 
agitano,  per  il  freddo  artificio  della  forma.  Tra  gli  eleganti 
elegantissimo  è  il  Bargagli,  che  sceglie  forme  nobili  e  so- 
lenni anche  dove  è  in  fondo  cosa  da  ridere,  come  è  la  sua 
Lavinella,  situazione  comica  in  forma  seria,  anzi  oratoria. 

Ciò  che  rimane  di  vivo  in  questa  letteratura,  non  è 
il  fantastico,  e  non  il  tragico,  ma  un  comico,  spesso  osceno 
e  di  bassa  lega  e  superficiale,  che  non  va  al  di  là  della 
caricatura  e  talora  è  più  nella  qualità  del  fatto  che  nei 
colori.  Alcuna  volta  ci  è  pur  sentore  di  un  mondo  più 
gentile,  soprattutto  nell' Erizzo  e  nel  Bandello,  come  è 
la  novella  di  costui  della  reina  Anna  ;  ma  in  generale 
come  nelle  corti  anche  più  civiH  sotto  forme  decorose  e 
amabili  giace  un  fondo  licenzioso  e  grossolano,  la  no- 
vella è  oscena  e  plebea  in  contrasto  grottesco  con  uno 


—  451  — 

stile  nobile  e  maestoso,  puro  artificio  meccanico.  E  uu 
comico  che  a  forza  di  ripetizione  si  esaurisce  e  diviene 
sfacciato  e  prosaico.  Il  capitolo  muore  col  Derni  e  la  no- 
vella col  Lasca. 

È  il  Decamerone  in  putrefazione.  Il  difetto  del  capi- 
tolo è  di  cercare  i  suoi  mezzi  comici  più  nelle  combi- 
nazioni astratte  dello  spirito  che  nella  rappresentazione 
viva  della  realtà  ;  è  lo  stesso  difetto  del  petrarchismo  ;  il 
Petrarca  del  capitolo  è  Francesco  Berni,  e  i  petrarchi- 
sti sono  i  suoi  imitatori,  che  a  forza  di  cercar  rapporti 
o  combmazioni  escono  in  freddure  e  sottigliezze.  Il  di- 
fetto della  novella  è  la  sensualità  prosaica  e  la  vana  cu- 
riosità; senza  ideali  e  senza  colori  e  in  una  forma  spesso 
pedantesca  e  sbiadita.  E  capitolo  e  novella  hanno  poi  un 
difetto  comune,  la  superficialità,  quel  lambire  appena  la 
esteriorità  dell'  esistenza  e  non  cercare  più  addentro,  come 
se  il  mondo  fosse  una  serie  di  apparenze  fortuite,  e  non 
ci  fosse  uomo  e  non  ci  fosse  natura.  Essendo  tutto  un 
giuoco  d' immaginazione,  a  cui  rimane  estraneo  il  cuore 
e  la  mente ,  la  forma  comica  nella  quale  si  dissolve  è 
la  caricatura  degradata  sino  alla  pura  buffoneria.  Lo  spi- 
rito volge  in  giuoco  anche  quel  giuoco  d' immaginazione, 
intorno  a  cui  si  travagliarono  con  tanta  serietà  il  Boc- 
caccio, il  Sacchetti  il  Magnifico,  il  Poliziano,  il  Pulci,  il 
Berni,  il  Lasca,  divenuto  nel  Furioso  il  mondo  organico 
dell'  arte  italiana,  e  traduce  l' ironia  ariostesca  in  aperta 
buffoneria,  avvolgendo  in  una  clamorosa  risata  tutti  gli 
idoli  dell'  immaginazione,  antichi  e  nuovi.  La  nuova  arte, 
uscita  dalla  dissoluzione  religiosa,  politica  e  morale  del 
medio  evo,  e  rimasta  nel  vuoto  innamorata  di  solo  sé  stes- 
sa, come  Narciso,  va  a  morire  per  mano  di  un  frate  sfra- 
tato, di  Teofilo  Folengo,  muore  ridendo  di  tutto  e  di  so 
stessa.  La  Maccaronea  del  Folengo  chiude  questo  ciclo 
negativo  e  comico  dell'  arte  italiana^ 

Ma  ci  era  anche  un  lato  positivo.  Mentre  ogni  spo- 


—  452  — 

ciò  di  contenuto  è  messa  in  giuoco,  e  l'arte  cacciata 
anche  dal  regno  deirimmaglnazione  si  scopre  vuota  forma, 
un  nuovo  contenuto  si  va  elaborando  dall'intelletto  ita- 
liano, e  penetra  nella  coscienza  e  vi  ricostruisce  un  mondo 
interiore,  ricrea  una  fede  non  più  religiosa ,  ma  scienti- 
fica, cercando  la  base  non  in  un  mondo  sopra  naturale 
e  sopra  umano,  ma  al  di  dentro  stesso  dell'  uomo  e  della 
natura.  Pomponazzo  negando  l'esistenza  degli  universali, 
rigettando  i  miracoli ,  proclamando  mortale  1'  anima ,  e 
spezzando  ogni  legame  tra  il  cielo  e  la  terra  pose  ob- 
biettivo della  scienza  l'uomo  e  la  natura.  Platonici  e  ari- 
stotelici per  diverse  vie  proclamavano  1'  autonomia  della 
scienza,  la  sua  indipendenza  dalla  teologia  e  .dal  dogma. 
La  Chiesa  lasciava  Ubero  il  passo  a  tutta  quella  lette- 
ratura frivola  e  oscena  e  a  tutta  quella  vita  licenziosa, 
della  quale  era  esempio  la  corte  di  Leone,  ma  non  po- 
tea  veder  senza  inquietudine  questo  risvegliarsi  dell*  in- 
telHgenza  nelle  scuole;  il  materialismo  pratico,  l' indiffe- 
renza religiosa  era  spettacolo  vecchio;  ma  la  spaventava 
quel  materialismo  alzato  a  dottrina,  e  V  indifferenza  di- 
venuta aperta  negazione,  con  quella  ipocrita  distinzione 
di  cose  vere  secondo  la  fede ,  e  false  secondo  la  scien- 
za. Il  concilio  lateranense  testimonia  la  sua  inquietudine. 
Leone  X  proclama  eresia  quella  distinzione,  proibisce  V  in- 
segnamento di  Aristotile,  e  sottopone  i  libri  alla  censura 
ecclesiastica.  A  che  prò?  Il  materialismo  era  il  motto 
del  secolo.  Leone  X  stesso  era  un  materialista,  come  fu 
Lorenzo  con  tutto  il  suo  platonismo.  Né  altro  erano  il 
Pulci,  il  Derni,  il  Lasca,  e  gli  altri  letterati,  ancoraché 
si  guardassero  di  dirlo.  Alcuni  manifestavano  con  fran- 
chezza la  loro  opinione,  come  Simone  Porta ^  Lazzaro 
Bonamico,  Giulio  Cesare  Scaligero,  Simone  Porzio,  An- 
drea Cesalpino,  Sperou  Speroni,  e  quel  professore  Cremo- 
nino  da  Cento  che.  fé'  porre  sulla  sua  tomba:  Hicjacet 
Cremonìnus  totus.  Quando  gli  studenti  avevano  innanzi 


^  ^53  — 

un  professore  nuovo,  e  lo  vedevano  nicchiare,  gli  dice- 
vano subito:  Cosa  pensate  deU' anim;i^ 

Quando  il  materialismo  apparve,  la  società  era  già  ma- 
terializzata. Il  materialismo  non  fu  il  principio,  fu  il  ri- 
sultato. Fino  a  quel  punto  il  dogma  era  stato. sempre  la 
base  della  fìlosotia  e  il  sue  passaporto.  Era  un  sottin- 
teso che  la  ragione  non  poteva  contraddire  alla  fede,  e 
quando  contraddizione  appariva,  si  cercava  il  compro- 
messo, la  conciliazione.  Cosi  poterono  lungamente  vivere 
insieme  Cristo  e  Platone,  Dio  e  Giove:  tutta  la  coltura 
era  unificata  nell'arte  e  nel  pensiero,  e  non  si  cercava 
con  quanta  logica  e  coesione  e  con  quanta  buona  fede. 
In  nome  della  cultura  si  paganizzavano  le  forme  catto- 
liche anche  da'  più  pii,  come  ne'  loro  poemi  sacri  face- 
vano il  Saunazzai'^  e  il  Vida^  si  paganizzò  anche  san  Pie- 
tro, e  paganizzava  anche  Leone  X.  Tutto  questo  era 
arte,  era  civiltà,  e  non  solo  non  era  impedito,  anzi  pro- 
mosso e  incoraggiato;  farvi  contro  non  si  poteva  senza 
aver  taccia  di  barbaro  e  incolto.  E  si  tollerava  pure  Pa- 
squino, voglio  dire  quella  buffoneria  universale  le  cui  mag- 
giori spese  le  facevano  preti,  frati,  vescovi  e  cardinali. 

In  quella  corruzione  cosi  vasta  soprattutto  nel  Clero 
era  il  caso  di  dire:  petwmsque  damusque  vicissim  ;  e 
tutti  ridevano,  e  primi  i  beffati.  Di  cose  di  religione  non 
si  parlava,  e  quando  era  il  caso  le  si  faceva  di  berret- 
to, se  ne  o.*::5ervavano  le  forme  e  il  linguaggio  per  l'an- 
tica abitudine  senza  darvi  alcuna  importanza.  Sotto  \\ 
manto  dell'  indifferenza  ci  era  la  negazione.  In  quel  vuoto 
immenso  non  rimaneva  altro  in  piedi,  che  la  coltura  come 
coltura  e  1'  arte  come  arte.  Ed  era  appunto  la  negaziuna 
che  appariva  nell'  arte  sotto  forma  comica ,  e  formava 
il  suo  contenuto.  Che  cosa  èra  quell'  arte?  Era  il  ri- 
tratto dello  spirito  italiano.  Era  la  contemplazione  dj 
una  forma  perfetta  nella  indifferenza  o  negazione  del  con- 
tt'iiuio.  La  società  vagh<'ggiava  noli'  arte  se  btebsa. 


—  454  - 

Ma  era  una  società  spensierata  e  accademica  che  non 
si  era  ancora  guardata  al  di  dentro,  non  si  avea  fatto 
il  suo  esame  di  coscienza.  E  quando  per  la  prima  volta 
gitta  l'occhio  entro  di  sé  e  domanda:  Che  sono  dunque? 
onde  vengo?  ove  vado?  la  risposta  non  poteva  essere 
altra  che  questa:  Sono  corpo:  vengo  dalla  terra  e  torno 
alla  terra,  V  alma  parens,  la  gran  madre  antica.  Qu-^sta 
risposta  dapprimi  fa  rabbrividire:  sembra  una  scoperta, 
ed  è  un  risultato.  E  invade  le  università  e  si  attira  i 
fulmini  del  Concilio.  Zitto!  grida  la  borghesia  gaudente 
e  spensierata  che  non  volea  esser  turbata  nel  suo  alto 
sonno.  E  la  cosa  rimase  h.  Intus  ut  libet,  foris  ut  moris, 
diceva  Cremonino.  Credete  come  volete,  ma  parlate  corno 
parlano.  E  le  audacie  dnl  Vallo  e  del  Pompouazzo  si  per- 
dettero nel  rumore  de'  baccana'i.  Ci  eri  la  cosa,  ma  non 
si  voleva  la  parola.  Materialismo  era  in  tutto,  njlla  vita, 
nelle  lettere,  nelle  sue  applicazioni  alla  mirale,  alla  po- 
litica, all'  uomo  e  alla  natura.  Ma  non  si  chiamava  ma- 
terialismo. Si  chiamava  coltura,  arte,  erudizione,  civiltà, 
bellezza,  eleganza:  ipocrisia  in  alcuni,  in  altri  corta  in- 
telligenza. Cosi  si  viveva  tutti  in  buon  accordo  e  alle- 
gramente, e  quando  veniva  la  bile  ci  era  lo  sfogatoio  , 
permesso  di  dir  male  de'  preti  e  anche  del  papa,  e  di  ab- 
bandonarsi a  tutt' i  piaceri  corporali,  and  indo  a  m3ssa, 
facendosi  il  segno  della  croce  e  gridando  contro  gli  ere- 
tici, e  specialriiente  contro  i  signori  luterani  che  con  le 
l()ro  malinconie  teologiche  minacciavano  il  mondo  di  una 
nuova  barbarie.  Pigliare  sul  serio  la  teologia!  questo 
per  i  nostri  letterati  era  un  tornare  indietro  di  due  secoli. 

Fu  appunto  in  quel  tempo  che  Lutero,  spaventato  come 
Savonarola  alla  vista  di  sì  vasta  corruttela  italiana , 
proclamò  la  riforma,  e  regalò  al  mondo  una  teologia  pur- 
gata ed  emendata.  Se  innanzi  al  Papato  fu  un  eretico^ 
alla  borghesia  italiana  apparve  un  barbaro,  come  Savo- 
narola. E  ia  verità  la  sua  teologia  era  in  una  vera  con- 


—  4oj  — 

traddizinne  con  la  civiltà  italiana  ,  avendo  per  base  la 
reintegrazione  dello  spirito  e  l' indifferenza  delle  forme, 
cioè  a  dire  negando  quella  sola  divinità  che  era  rimasta 
viva  nella  coscienza  italiana,  il  culto  della  forma  e  del- 
l'arte.  Una  riforma  religiosa  non  era  pù  p()>sil)ilH  in  un 
paese  coliissimo,  avvezzo  da  liuigo  tempo  a  riden^  di 
quella  corruttela,  che  moveva  indigi!;»ziore  in  Gm  mania, 
e.  che  uvea  già  cancellato  nel  suo  pensiero  il  Ci*  I  •  dal 
1  bro  dell' esistenza.  L'Italia  avea  già  valica  l'età  te.)- 
iogica,  e  non  credeva  più  che  alla  scienza,  e  dovea  sti- 
mare i  Lutero  e  i  Calvino  come  de'  nuovi  scolastici.  Per- 
ciò la  Riforma  non  potè  attecchire  fra  nd  e  rimase  estra- 
nea alla  nostra  coltura,  che  si  sviluppava  con  mezzi  suoi 
proprii.  Affrancata  già  dalla  teologia,  e  abbracciando  in  un 
solo  amplesso  tntr,e  le  religioni  e  tutta  la  coltura,  l'I- 
tdia  del  Pico  e  del  Pomponazzo,  assisa  sulle  rovine  de] 
medio  evo,  non  j)()tea  chiedere  le  base  del  nuovo  edifi- 
cio alla  teol()gia,  ma  alla  scienza.  E  il  suo  Lutero  fu  Ni-  ' 
colò  ÌNlachiavelli. 

11  Machiavelli  è  la  coòcieiiza  e  il  pensiero  del  secolo,^ 
la  società  ehe  guarda  in  sé  e  s' interroga,  e  si  conosce; 
è  la  negazione   })iù  profonda  del   medio  evo,  e  insieme 
1'  affermazione  più  chiara  de'  nuovi  temj)i  ;  è  il  materia- 
lismo dissinmlato  come  dottrina,  e  annnesso  nel  fatto  e  ^ 
presente  in  tutte  le  sue  applicazioni  alla  vita.  o 

Non  bisogna  dimonticare  che  la  nuova  civiltà  italiana 
è  una  reazione  contro  il  misticismo  e  l'esagerato  spiri- 
tualismo religioso,  e  per  usare  vocaboh  propi'i,  contro 
l'ascetismo,  il  simbolismo  e  lo  scolasticismi):  ciò  che  di- 
cevasi  il  medio  evo.  La  l'eazlone  si  presentò  da  una  parte 
come  dissoluzione  o  negazione:  di  che  venne  l'elemento 
comico  V.  negativo  che  dal  Decamerone  va  sino  alla  INlac- 
caronea.  Ma  insi« me  ci  era  un  lato  positivo,  ed: era  una 
tendenza  a  considerare  Y  uomo  e  la  natura  in  sé  stessei 
risecando  dalla  vita  tutti  gli  elementi  soprauiuaiii  e  so- 


—  456  — 

prannaturali ,  un  naturalismo  aiutato  potentemente  dal 
culto  de'  classici  e  dal  progresso  delF  iiiterigen/a  e  delia 
coltura.:  Onde  venne  quella  tranquillila  idea  e  della  ii.-^o- 
nomia,  quello  studio  del  reale  e  del  pUist'co ,  quella  iini- 

l^tezza  dei  contorni,  quel  sentimento  idillico  della  natn'a 
e  dell'  uomo,  che  die  nuova  vita  alle  arti  delio  s{>azio,  e 
che  senti  ne' ritratti  dell'Alberti,  nelle  Stanze,  nel  Fu- 
rioso e  fino  negli  scherzi  del  Derni.  Qu*  feto  era  il  lati> 
positivo  del  materialismo  italiano,  un  andar  più  da{  presso 
al  reale  ed  alla  esperienza,  dato  bando  a  tutte  le  ni  b- 
bie  teologiche  e  scolastiche  che  pai'vero  astrazioni.  Il 
pensiero  o  la  coscienza  di  questo  mondo  nuovo  e  in  quello 
che  negava  e  in  quello  che  uffei'mava  è  il  Mach;aveir. 

^  Il  concetto  del  Machiavelli  e  questo,  che  bi&ogna  con- 
siderare le  cose  nella  loro  verità  effettuale,  cioè  come 
son  poste  dall'  esperienza  ed  osserva  te  dall'  intelletto  :  che 
era  proprio  il  rovescio  del  sillogismo  e  la  base  dottri- 
nale del  medio  evo  capovolta  :  concetto  ben  altrimenti 
rivoluzionario  che  non  è  quel  ritorno  al  puio  spirilo  della 
Riforma  e  che  sai'à  la  leva  da  cui  usrirà  la  sciin/a  mo- 
derna. 

Questo  concetto  applicato  all'  uomo  ti  dà  il  Principe 
e  i  Discorsi,  e  la  Storia  di  Firenze  e  i  Dialfjr/ /ti  ìsuihi 
milizia.  E  il  Machiavelli  non  ha  bisogno  di  dimOitrailo: 
te  lo  dà  come  evidente.  Era  la  parola  del  secolo  ch'egli 
trovava  e  che  tutti  riconoscevano. 

Così  nasce  la  scienza  dell'uomo,  non  quale  può  o  dee 
essere,  ma  quale  è;  dell'uomo  non  solo  come  individuo, 
ma  come  essere  collettivo,  classe,  popolo,  società,  uma- 
nità. L'obbiettivo  della  scienza  diviene  la  conoscenza  del- 
l' uomo,  il  nosce  te  ipsum,  questo  primo  motto  de  la  scienza 
quando  si  emancipa  dal  soprannaturale  e  pone  la  sua  in- 
dipendenza. Tutti  gU  universali  del  medio  evo  fcCon)[a- 
riscono.  La  divina  Commedia  diviene  la  commedia  umana 
9  si  rappresenta  in  terra,  si  chiama  storia,  politica,  Ilio- 


—  457  — 

sofia  della  storia,  la  scienza  nuova.  La  scienza  della  na 
tura  si  sviluppa  più  tardi.  Non  si  crede  più  al  miracolo, 
ma  si  crede  ancora  all'  astrologia.  Attendete  ancora  un 
poco ,  e  il  concetto  del  Machiavelli  applicato  alla  natura 
vi  darà  Galileo  e  V  illustre  coorte  dei  naturalisti. 

Non  è  il  caso  di  disputare  sulla  verità  o  falsità  delle 
dottrine.  Non  fo  una  storia  e  meno  un  trattato  di  filo- 
sofìa. Scrivo  la  storia  delle  lettere.  Ed  è  mio  obbligo 
notare  ciò  che  si  move  nel  pensiero  italiano  ;  perchè  quello 
solo  è  vivo  nella  letteratura,  che  è  vivo  nella  coscienza 

Da  quel  concetto  esce  non  solo  la   scienza  moderna 
ma  anche  la  prosa.  Come  nella  scienza  ci  aveva  ancora 
molta  parte  T  immaginazione,  la  fede,  il  sentimento;  cosi 
nella  prosa  erano  penetrati  elementi  etici,  rettorie!,  poe 
tici,  chiusi  in  quella  forma  convenzionale  boccaccevole 
che  dicevasi  forma  letteraria,  ed  era  già  divenuta  7na- 
mera,  iiii   V^rc'  meccanismo.  Ma    il  Machiav^»Jjj  spezza 
questo  involucro,  e  crea  il  modello   ideale   della  prosa, 
tutta  cose  e  intelletto,  sottratta  possibilmente  all'  influsso 
dell'immaginazione   o   del  sentimento,  di  una  struttura 
solida  sotto  un'  apparente  sprezzatura. 

E  da  quel  concetto  dovea  uscire  anche  un  nuovo  cri- 
terio della  vita  e  perciò  dell'arte.  L'uomo  e  lanatuia 
hanno  nel  medio  evo  la  loro  base  fuori  di  sé,  nell'altra 
vita;  le  loro  forze  motrici  sono  personificate  sotto  nome 
di  universali  ed  hanno  un'  esistenza  separata.  Questo  con- 
cetto della  vita  genera  la  Divina  Commedia.  La  mac- 
china della  storia  ò  fuori  della  storia  ed  è  detta  la  Prov- 
videnza. Questa  macchina  è  nel  mondo  boccaccesco  il 
caso,  la  fortuna.  Non  ci  è  più  la  Provvidenza,  e  non  ci 
è  ancora  la  scienza.  Il  maraviglioso  non  è  più  detto  mi- 
racolo, anzi  del  miracolo  si  fanno  bette  ;  ma  è  dcìtto  in- 
trigo, nodo,  accidente  straordinario.  Le  passioni,  i  carot- 
teri,  le  idee  non  sono  forze  che  regolano  il  mondo,  f^r- 
pratTatte   da  questo  nuovo  fato,  la  volubile  e  capi  ice  o».i 


—  458  — 

fortuna.  Il  Machiavelli  insorge  e  contro  la  fortuna,  e 
contro  la  Provvidenza,  e  cerca  nell'  uomo  stesso  le  forze 
0  le  leggi  che  lo  conducono.  Il  suo  concetto  è  che  il 
mondo  è  quale  Io  facciamo  noi,  e  che  ciascuno  è  a  sé 
stesso  la  sua  provvidenza  e  la  sua  fortuna.  Questo  con- 
cetto dovea  profondamente  trasformar  V  arte. 

La  poesia  italiana  usciva  dal  medio  evo  libera  da  ogni 
ingombro  allegorico  e  scolastico,  ma  insieme  vuota  di 
ogni  contenuto,  forma  pura.  11  suo  vero  contenuto  e  ne- 
gativo, cioè  a  dire  il  ridere  del  suo  contenuto,  consi- 
derarlo come  un  giuoco  d'immaginazione,  un  esercizio 
dello  spirito.  Questo  doppio  elemento  dell'arte  è  detto 
dal  Cecchi  il  ridicolo  e  il  grupposo,  intendendo  per  grup- 
poso  il  nodo,  l'intreccio,  la  varietà  e  novità  de'  casi.  Di 
questo  maraviglioso  perseguitato  dal  ridicolo  ti  dà  il  Ma- 
chiavelli splendido  esempio  nel  suo  Belfegor.  La  novella, 
il  romanzo,  la  commedia  sono  il  teatro  naturale  di  que- 
sta poesia,  la  divina  Commedia  dell'  arte  nuova.  Ma  nel 
concetto  del  MachiavelU  la  vita  non  è  una  farsa  della 
Provvidenza,  e  non  è  il  giuoco  capriccioso  della  fortuna, 
ma  è  regolata  da  forze  o  da  leggi  umane  e  naturali.  Per- 
ciò la  base  dell'arte  non  è  1'  avventura  e  l' intrigo,  ma 
il  carattere;  e  se  volete  vedere  quello  che  sarà,  guar- 
date quali  sono  gh  attori,  e  quali  le  forze  che  mettono 
in  giuoco.  L'  arte  non  può  starsi  contenta  alla  semplice 
esteriorità,  e  presentare  gli  avvenimenti  come  un  ac- 
cozzo fortuito  di  casi  straordinarii,  ma  dee  forare  le  su- 
perficie e  cercare  al  di  dentro  dell'  uomo  quelle  cause 
che  sembrano  provvidenziali  o  casuali.  Cosi  T  arte  non  e 
un  vano  e  ozioso  gioco  d'immaginazione,  ma  è  rappresen- 
tazione seria  della  vita  nella  sua  realtà  non  suio  este- 
riore, ma  interiore.  E  quest'  arte  che  cerca  la  sua  base 
nella  scienza  dell'  uomo,  ti  dà  la  Mandrogc^ra  e  la  Sto- 
ria di  Firenze,  e  più  tardi  la  Stona  d  Italia  dei  Guic- 
ciardini, e  i  suoi  Ricordi. 


—  459  — 

A  questo  modo  si  realizza  questa  grand'  epoca,  detta 
il  Risorgimento,  che  dal  Boccaccio  si  stende  sino  alla  se- 
conda metà  del  secolo  decimosesto.  Da  una  parte,  mancati 
tutti  gì'  ideali,  religioso,  politico,  morale,  e  non  rimasta 
nella  coscienza  altra  cosa  salda  che  1*  amore  della  col- 
tura e  dell'  arte,  il  contenuto  non  ha  alcun  valore  in  sé 
stesso,  e  diviene  una  materia  qualunque  trattata  a  libito 
dall'  immaginazione ,  che  ne  fa  la  sua  creatura  e  spesso 
anche  il  suo  gioco,  un  gioco  che  ha  la  sua  idealità  nel- 
r  ironia  ariostesca,  e  trova  la  sua  dissoluzione  nella  cari- 
catura della. Maccaronea.  Mentre  T  arte  produce  i  suoi 
miracoli  nella  piena  indifferenza  del  contenuto,  come  pura 
arte,  un  nuovo  contenuto  si  forma  e  penetra  nella  co- 
scienza, uno  studio  dell'  uomo  e  della  natura  che  cerca 
la  sua  base  nell'esperienza,  e  non  nell'immaginazione  e 
nelle  vane  agitazioni.  Questo  senso  profondo  del  reale 
ti  crea  la  scienza  e  la  prosa,  e  ti  segna  nella  Mandra- 
gora un  nuovo  indirizzo  dell'  arte. 

Se  dunque  vogliamo  studiar  bene  questo  secolo,  dob- 
biamo cercarne  i  segreti  ne'  due  grandi,  che  ne  sono  la 
sintesi,  Ludovico  Ariosto  e  Niccolò  Machiavelli.  l 


FINE    DEL   PRIMO   VOLUME. 


INDICE 


I.  I  Siciliani ,  pag.     \ 

H.  I  Toscani »  19 

IH.  La  Lirica  di  Dante »  59 

IV.  La  Prosa »  74 

V.  I  Misteri  e  le  Visioni »  87 

VL  II  Trecento »  1  il 

VII.  La  Commedia  .     .     .     , >  151 

VIIL  II  Canzoniere »  262 

IX.  Il  Decamerone ,    .     .     .  »  287 

X.  L' ultimo  trecentista »  357 

Xr.  Le  Stanze »  365 

XII.  Il  Cinquecento »  417 


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