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STORIA
DELLA
LEHERATURA ITALIANA
DI
FRANCESCO DE SANCTIS
QixoLrtoL JEcLtztorce.
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NAPOLI
CAV. ANTONIO MORANO, EDITORE
371. Via Roma, 372
1890.
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^H$miit Mh Um Attila p^mih kiimm. mUnie u\m\
della p0Ut\m t|e le leg^i $Um umUm.
STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
I SICILIAxNI
Il più antico documento della nostra letteratura è co-
munemente creduta la Cantilena o Canzone di Giulio (di-
minutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una Canzone di Fol-
cacchiero da Siena.
Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile
disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta
un' epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al
suo splendore sotto Federico II da cui prese il nome.
Federico II, Imperatore d'Alemagna e Re di Sicilia,
chiamato da Dante cherico grande, cioè uomo dottissi-
mo, fu, come leggesi nel Novellino, nobilissimo signore,
nella cui corte a Palermo venia la gente che avea bou-
tade, sonatori, trovatori e belli favellatori. E perciò
i rimatori di quel tempo, ancorché parecchi sieno d' altra
parte d'Italia, furono detti siciliani.
Che cosa ò la cantilena di Ciullo?
È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna.
Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in
ultimo concede, tema frequentissimo nelle Canzoni popo-
lari di tutti i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a
Firenze nella CaHZone tra il Frustino e la Crestaia.
De Sanctis - Leu. Ital. Voi. I. 1
Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto
versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre rimati, e
chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor
rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desi-
nenze, mescolata di voci siciliane, napolitane, provenzali,
francesi, latine. Diamo ad esempio due strofe:
Amante — Molte sono le femine
Che hanno dura la testa \
E r uomo con parabole ^
Le elimina ^ e ammonesta *:
Tanto intorno percacciale ^
Sinché l'ha in sua podestà ^
Femina d'uomo non si può tenere.
Guardati, bella^ pur di ripentere^
Madonna —Che eo ^ me ne pentisse ^
Davanti ^^ foss'io auccisa *',
Ca nulla buona femina
Per me fosse riprisa '^
Er sera ^^ ci passasti
Correnno '* a la dìstisa '^
1 Sono ostinate.
2 Parabole o parade, parole. Nel basso latino si dice parabola.
3 Dimlna, come dimino per domino o dominio.
4 Persuade, ammonisce. In provenzale e spagnuolo si dice admonestar.
5 Percacciare, dar la caccia: in provenzale percassar.
6 Potestas, podestà, come majestas, maestà.
7 Pentere, ripentere dal latino poenitere.
8 Eo da ego, come meo da weus, abl. meo.
9 Pentessi, pentissi: desinenza conforme alla latina poenituìsset.
10 Piuttosto, o innanzi : in provenzale davant.
W In napoletano, acciso, nel basso latino aucìr, nel provenzale aucìre
e aucis, neir antico francese occire.
12 Nel basso latino prisKs e riprisus, in siciliano prisu e riprisxi,
Cà vuol dire che,o perchè, ed è napoletano.
13 Ieri sera: in provenzale er ser, dal latino heri sero.
14 Correnno, forma napoletana, qnanno , triunno . dicenno, cor-
renvo ecc.
15 Alla dìstisa, alla. distesa, a tutta corsa.
— 3 —
Acquistiti ' riposo, canzoneri ^:
Le tue parade ' a me non piaccion guori *.
La canzone è tirata giù tutta d' un fiato, piena di na-
turalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida,
tutta cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è
una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greg-
gia , ineducata. E perciò il documento è più prezioso,
perchè se l' ingegno del poeta apparisce • nei concetti e
ne' sentimenti e nelF andamento vivo e rapido del dialo-
go, la forma è quasi impersonale, ritratto immediaco e
genuino di quel tempo.
E studiando in quella forma, è facile indurre che c'era
allora già la nuova lingua, non ancora formata e fissata,
ma tale che non solo si parlava, ma si scriveva; e e' era
pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di
concetti , e con le sue forme tecniche e metriche già
fissate.
Chi sa quanto tempo si richiede perchè una lingua
nuova acquisti una certa forma , che la rende atta ad
essere scritta e cantata , può fars^ capace, che la lin-
gua di Giulio, ancoraché in uno stato ancora di forma-
zione, dovea già essere usata da parecchi secoli indietro.
E ci volle anche almeno un secolo, perchè fosse pos-
sibile una scuola poetica, giunta allora all'ultimo grado
della sua storia, quando i concetti, i sentimenti e le forme
diventano immobili come un dizionario, e sono in tutti
i medesimi.
Come e quando la lingua latina sia ita in deccJtnposi-
1 Acquistiti in luogo di acquistati, desinenza dell'imperativo usata
anche oggi in parecchi luoghi : acquistiti riposo^ vuol dire: vattene in
pare, ritirati, e finiscila, acquetati.
2 Canzoneri, canzonerò, canzonere, vuol dire canzonatore , burlatore.
3 Paraole o parabole, in provenzale paraidas.
4 Gueri. o, come è in Brunetto Latini, guero, guari, punto , niente
affatto, in francese guère.
— 4 —
zione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come
quando siensi formate le lingue nuove o moderne neo-
latine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si
può concetturare con più o meno di verisimiglianza, ma
non si può affermare, per la insufficienza de' documenti.
Oltreché, non è questo il luogo di esaminare e chiarire
quistioni filologiche di cosi alto interesse , materia non
ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.
Si possono affermare alcuni fatti.
La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta
della Nazione, parlata e scritta da' chierici, dai dottori,
da' professori e da' discepoli. Ricordano Malespini dice che
Federico II seppe la lingua nostra latina è il nostro
volgare.
Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino
e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volga-
re, parlato nell'uso comune della vita, si vede pure dai
contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una
traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce
latina , trovi la voce in uso con un : vulgo diciiur , o
dicto.
Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino,
come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto
il romano rustico. Neil' 812 il Concilio di Torsi racco-
manda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in
lingua romana rustica. Questa lingua romana o ro-
manza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i
galli e le altre romane province era cosi nota alla plebe,
che gif ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, solo
che l" oratorie si fosse accostato alla guisa del volgo.
Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al ro-
mano, e similissimo a questo dovea essere il nostro vol-
gare, anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme
sostanziaU, vario ne' diversi dialetti, quanto alle sue parti
accidentali, come desinenze, accenti, affissi ec. C era dun-
-que un tipo unico, presente in tutte le lingue neo-lati-
ne, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua ita-
lica, che ad alcun' altro.
Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per
le chiese, per le scuole, negli atti pubblici era usato un
latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo. Nel-
l'uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte,
ma era dappertutto, come il tipo unico, a cui s'informa-
vano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia.
Questo tipo o carattere de' nostri dialetti appare e nella
somiglianza de' vocaboli e delle forme grammaticali, e nei
mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle
forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della
nuova lingua, come segno di distinzione dal latino, era
il volgare. Così Malespini dicea: « la nostra lingua la-
tina e il nostro volgare », cioè la nuova lingua parlata
in tutta Italia dal volgo ne' suoi dialetti.
Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti ri-
masero rozzi e barbari, come le genti, che li parlavano,
altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi da-
gli elementi locali e plebei, e prendere un colore e una
tìsonomia civile , accostandosi a quel tipo o ideale co-
mune fra tante variazioni municipali, che non si era per-
duto mai, che era come criterio a distinguere fra loro i
dialetti più o meno conformi a quello stampo, *e che si
diceva il volgare, così prossimo al romano rustico.
Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni
meno materiali, formare una classe di cittadini più edu-
cata e civile, metterla in comunicazione con la coltura
straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando
in esse non quello che è locale, ma quello che è comune.
La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno:
la ristaurazione del latino e la formazione del volgare.
Le classi più civili da una parte si studiarono di scri-
vere in un latino meno guasto e scorretto, dall' altra, ad
esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova
vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cer-
carono forme di dire più gentili, un linguaggio comune,
dove appare ancora questo o quel dialetto , ma ci si
sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere que-
gli abiti e quei modi più in uso fra la gente educata e
che meglio la distingua dalla plebe.
Questo linguaggio comune si forma più facilmente dove
sia un gran centro di coltura , che avvicini le classi
colte, e sia come il convegno degli uomini più illustri.
Questo fu a Palermo, nella Corte di Federico li, dove
convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli, o per
dirla col Novellino, dove la gente' che avea bontade ve-
nia a lui da tutte le parti.
Il dialetto siciliano era già sopra agli altri, come confessa
Dante. E in Siciha troviamo appunto un volgare cantato
e scritto, che non è più dialetto siciliano, e non è an-
cora lingua italiana, ma è già, malgrado gli elementi lo-
cali, un parlare comune a tutti i rimatori italiani, e che
tende più e più a scostarsi dal particolare del dialetto,
e divenire il linguaggio delle persone civili.
La Sicilia avea avuto già due grandi epoche di col-
tura, l'araba e la normanna. Il mondo fantastico e vo-
luttuoso orientale vi era penetrato con gli arabi, e il mondo
cavalleresco germanico vi era penetrato co' normanni,
che ebbero parte così splendida nelle crociate. Ivi più che
in altre parti d' Italia erano vive le impressioni , le ri-
membranze e i sentimenti di quella grande epoca da Gof-
fredo a Saladino; i canti de' Trovatori, le novelle orien-
tali, la tavola Rotonda, un contatto immediato con popoli
cosi diversi di vita e di coltura, avea colpito le imma-
ginazioni e svegliata la vita intellettuale e morale. La
Sicilia divenne il centro della coltura italiana. Fin dal
1166 nella corte del normanno Guglielmo II convenivano
i trovatori italiani. Sotto Federico II l' Italia colta avea
la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiama-
vano siciliani. Cronache, trattati scrivevano in un latino
già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede
nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la
loro espressione in quel romano rustico , fondo comune
di tutt'i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il
volgare, di tutt' i volgari moderni il più simile al latino.
La lingua di Giulio non è dialetto siciliano, ma già il
volgare, com' era usato in tutt' i trovatori italiani, an-
cora barbaro , incerto e mescolato di elementi locali ,
materia ancora greggia.
Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e mu-
sicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande
ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giun-
gere fin qui è stato necessario un lungo periodo di ela-
borazione. Giulio è r eco ancora plebea di quella vita nuova
svegliatasi in Europa al tempo delle Grociate, e che avea
avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella
normanna Sicilia. Di quella vita un'espressione ancor sem-
plice e immediata , ma più nobile , più diretta , e meno
locale è nella Romanza attribuita al re di Gerusalemme,
0 nel lamento dell' amante del Crociato , di Rinaldo di
Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi'
in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con sem-
plicità e verità di stile , con melodia soave. Cantato e
accompagnato da istrumenti musicali, questo sonetto,
come lo chiama l' innamorata, dovea fare la più grande
impressione. Comincia così :
Giammai non mi conforto
Né mi voglio allegrare.
Le navi sono al porto
E vogliono collare.
Vassene la più gente
In terra d' oltremare.
Ed io, cimò lassa dolente I
— 8 —
Come degg' io fare!
Vassene in altra contrata,
E noi mi manda a dire:
Ed io rimango ingannata.
Tanti son li sospire
Che mi fanno gran guerra
La notte con la dia;
Né in cielo ne in terra
Non mi par ch'io sia.
In seguito della canzone è una tenera e naturale me-
scolanza di preghiere e di lamenti, ora raccomandando
a Dio r amato, ora dolendosi con la croce :
La croce mi fa dolente,
E non mi vai Deo pregare.
Oimè, croce pellegrina,
Perchè m'hai così distrutta?
Oimè lassa tapina !
Ch' io ardo e incendo tutta.
Finisce cosi :
Però ti prego, Dolcetto,
Che sai la pena mia,
Che me ne facci un sonetto
E mandilo in Scria :
Ch' io non posso abentare
Notte, né dia :
In terra d' oltremare
Ita è la vita mia.
La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua ita-
liana , e molto sviluppata ne' suoi elementi musicali e
ne' suoi lineamenti essenziali.
L' amante che prega e chiede amore, l' innamorata che
lamenta la lontananza dell' amato, o che teme di essere
abbandonata , le punture e le gioie dell' amore , sono i
temi semplici de' canti popolari , la prima effusione del
— 0 —
cuore messo in agitazione dall'amore. E queste poesie,
come le più semplici e spontanee, sono anche le più af-
fettuose e le più sincere. Sono le prime impressioni, sen-
timenti giovani e nuovi, poetici per sé stessi, non ancora
analizzati e raffinati.
Di tal natura è il lamento dell'innamorato per la par-
tenza in Seria della sua amata, di Ruggerone da Paler-
mo, e il canto di Odo delle Colonne, da Messina, dove
r innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la
sua gelosia. Eccone il principio :
Oi lassa innaraorafa,
Contar vo' lo mia vita,
E dire ogni fiata
Come l'amor m'invita,
Ch' io son, senza peccata,
D' assai pene guernita
Per uno che amo e voglio,
E non aggo in mia baglia i,
Siccome avere io soglio ;
Però pato travaglia;
Ed or mi mena orgoglio,
Lo cor mi fende e taglia.
0* lassa tapinella,
Come l'amor m'ha prisa!
Come lo cor m' infella
Quello che m'ha conquisa!
La sua persona bella
Tolto m'ha gioco e risa,
Ed hammi messa in pena
Ed in tormento forte:
Mai non credo aver bene,
Se non m'accorre morte,
E spero, là che vene;
Traggami d'està sorte.
1 Baglia, balia.
— 10 —
Lassa che mi dicìa,
Quando m' avìa in celato:
« Di te, 0 vita mia,
« Mi tegno più pagato.
« Che s' io avessi in balìa
« Lo mondo a signorato ».
Sono sentimenti elementari e irriflessi , che sbuccian
fuori nella loro natia integrità senza immagini e senza
concetti. Non ci è poeta di quel tempo, anche trai meno
naturali, dove non trovi qualche esempio di questa for-
ma primitiva, elementare, a suon di natura, come dice
un poeta popolare, e com' è una prima e subita impres-
sione colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua
esce cosi viva, e propria e musicale che serba una im-
mortale freschezza, e la diresti pur mó' nata, e fa con-
trasto con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza
assai è una canzone di Enzo Re ; ma chi ha pazienza di
leggerla, vi trova questa gemma :
Giorno non ho di posa,
Come nel mare l'onda:
Core, che non ti smembri!
Esci di pene e dal corpo ti parte;
Che assai vai meglio un' ora
Morir, che ognor penare.
Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, paeta as-
sai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in
una forma certo lontana da questa perfezione, pur sem-
plice e sincera :
Perzò meglio varria
Morir in tutto in tutto,
Ch' usar li vita mia
In pena ed in corrutto,
Come uomo languente.
— l] —
Nella canzone a stampa di Folcaccbiero da Siena, fredda
e stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella nuda
ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro cru-
dità elementare. Udite questi versi:
Ei par eli' 60 viva in noja della gente
Ogni uomo m' è selvaggio :
ISon pajono li fiori
Per me, com' già solcano,
E gli augei per amori
Dolci versi facoano agli albori.
Questi fenomeni amowsi sono a lui cosa nuova, che lo
empiono di maraviglia, e lo commuovono e lo interes-
sano, senza eh' ei senta bisogno di svilupparli o di ab-
bellirli. Narra, non rappresenta, e non descrive. Non è
ancora la storia, è la cronaca del suo cuore.
Però niente è in questi che per ingenuità e sponta-
neità di forma è di sentimento uguagli il canto di Ri-
naldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono due esempli
.notevoli di schietta e naturale poesia popolare.
Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Ve-
nuta dal di fuori, quella vita cavalleresca, mescolata di
colori e rimembranze orientali, non avea riscontro nella
vita nazionale. La gaja scienza, il codice d' amore, i ro-
manzi della Tavola Rotojida, i Reali di Francia, le no-
velle arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il
Soldano, tutto questo era penetrato in Italia, e se col-
piva r immaginazione, rimaneva estraneo all' anima e alla
vita reale. Nelle corti ce ne fu V imitazione. Avemmo an-
che noi i Trovatori, i giullari e i novellatori. Vennero
in voga traduzioni, imitazioni, contraffazioni di poemi, ro-
manzi, rime cavalleresche. L' intelligenzia, poema in nona
rima ultimamente scoperto, è una imitazione di sirail ge-
nere. L'amore divenne un' arte, col suo codice di leggi
e costumi. Non ci fu più questa o quella donna, ma la donna
— 12 —
con forme e lineamenti fissati, cosi come era concepita
ne' libri di cavalleria. Tutte le donne sono simili. E cosi
gli uomini : tutti sono il cavaliere , con sentimenti fat-
tizii e attinti da' libri. Ma il movimento si formò negli
strati superiori della società , e non penetrò molto ad-
dentro nel popolo, e non durò. Forse, se la Casa Sveva
avesse avuto il di sopra, questa vita cavalleresca e feu-
dale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa
Sveva e la vittoria de' Comuni nell' Italia centrale fecero
della cavalleria un mondo fantastico, simile a quel fa-
voleggiare di Roma, di Fiesole e di Troja.
Essendo idee, sentimenti e immagini una merce bella
e fatta , non trovate e non lavorate *da noi, si trovano
messe li, come tolto di peso, con manifesto contrasto tra
la forma ancor rozza e i concetti peregrini o raffinati.
Sono concetti scompagnati dal sentimento che li produsse,
e che non generano alcuna impressione. Quando vengono
sotto la penna, il cervello e il cuore sono tranquilli. II
poeta dice che amore lo fa trovare, lo rende un trova-
tore; ma è un amore, come lo trova scritto nel codice
e ne' testi, né ti è dato sentire ne' suoi versi una tra-
gedia sua, le sue agitazioni. Le reminiscenze, le idee di
voga ^\\ tengono luogo d'ispirazione. Sono migliaia di
poesie, tutte di un contenuto e di un colore, cosi somi-
glianti che spesso sei impacciato a dire il tempo e l' au-
tore del canto, ove ne' codici sia discordanza o silenzio:
ciò che non di rado accade. La poesia non è una pre-
potente effusione dell'anima, ma una distrazione, un sol-
lazzo, un diporto, una moda, una galanteria. È un pas-
satempo, come erano le corti di amore, è la gaia scienza,
un modo di passarsela allegramente, e acquistarsi facile
riputazione di spirito e di coltura, facendo sfoggio della
dottrina d'amore; e chi più mostrava saperne, era più
ammirato. Invano cerchi ne' canti di Federigo, di Enzo,
di Manfredi, di Pier delle Vigne le preoccupazioni' o le
— 13 —
agitazioni della loro vita; vi trovi il solito codice d'a-
more, con le stesse generalità. L'arte diviene un me-
stiere, il poeta diviene un dilettante; tutto è convenzio-
nale, concetti, frase, forme, metri: un meccanismo che
dovea destare grande ammirazione nel volgo, specialmente
usato dalle donne; la Nina Siciliana e la compiuta Don-
zella fiorentina dovettero parere un miracolo.
Quello che avvenne si può indovinare. Migliori poeti
son quelU che scrivono senza guardare all'effetto e senza
pretensione, a diletto e a sfogo , e come viene. Anche
nelle poesie più rozze trovi bei movimenti di affetto e di
immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di forma,
che viene dal di dentro. Sono più vicini al sentimento
popolare e alla natura. Ma quando vai su, quando ti ac-
costi a quella poesia che Dante chiama aulica e cortigiana,
ti trovi già lontano dal vero e dalla natura, ed hai tutti
i difetti di una scuola poetica, nata e formata fuori d'I-
talia, e già meccanizzata e raffinata. Hai tutt'i difetti
della decadenza, un secentismo che infetta l'arte ancora
in culla. Ci è già un repertorio. Il poeta dotto non prende
quei concetti, cosi crudi e nudi, come fanno i rozzi nella
loro semplicità, ma per fare effetto li assottiglia e li esa-
gera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro : in questi un la-
voro c'è, ma freddo e meccanico. Concetti, i immagini,
sentimenti, frasi, metri, rime, tutto è sforzato, tormen-
tato, oltrepassato, si che il lettore ammiri la dottrina,
lo spirito e le difficoltà superate. Trovi insieme rozzezza
e affettazione. La lingua ancor giovane non è raffinata,
come il concetto, e scopre l' artificio di un lavoro; a cui
rimane estranea. E fosse almeno originale questo lavoro,
si che rivelasse nel poeta una vera svogliatezza e attività
dello spirito! Ma è un seicentismo venuto anch' esso dal
di fuori. Eccone un esempio:
Umile sono ed orgoglioso.
Prode e vile e coraggioso,
— 14 —
Franco e sicuro e pauroso,
E so^-o folle e saggio,
Facciome prode e dannaggìo,
E di raggio
Vi' corno
Mal e. bene aggio
Più che nuli' omo.
Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese , tutta
su questo andare; dove la rozzezza e la negligenza della
forma esclude ogni serietà di lavoro ; è una litania di
antitesi racimolate qua e là e messe insieme a casacccio.
I poeti siciliani di questo genere più ammirati a quei tem-
pi sono Guido delle Colonne, e il Notajo Jacopo da Lentino.
Guido, Dottore o, come allora dicevasi, Giudice, fu
uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino, e,
voltò di greco in latino la storia della caduta di Troja,
di Darete, una versione che fu poi recata parecchie volte
in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel co-
mune volgare, e tende ad alzarsi, ad accostarsi alla mae-
stà e gravità del latino: sì che meritò che Dante le sue
■canzoni chiamasse tragiche, cioè del genere nobile e il-
lustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta, e la sua
dottrina e il lungo uso di scrivere non valse che a fargU
conseguire una perfezione tecnica, della quale non era
esempio avanti. Hai un periodo ben formato, molta arte
di nessi e di passaggi, uno studio di armonia e di gra-
vità: artificio puramente letterario e a freddo. Manca il
sentimento; supplisce l'acutezza e la dottrina, studian-
dosi di fare effetto con la peregrinità d'immagini e con-
cetti esagerati e raffinati, che parrebbero ridicoli, se non
fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa
apparenza. Ecco un esempio :
Ancor che l' aigua (acqua) per lo foco lasse
La sua grande freddura,
- 15 —
Non cangerea natura.
Se alcun vasello in mezzo non vi stasse:
Anzi avverrea senza alcuna dimura
Che lo foco stutasse,
0 che r aigua seccasse.
Ma per lo mezzo l'uno e l'altro dura.
Così, gentil criatura,
In me ha mostrato amore
L' ardente suo valore,
Che senz' amore — era aigua fredda e ghiaccio.
Ma el m'ha sì allumato
Di foco, che m'abbraccia,
Ch'eo fora consumato,
Se voi, donna sovrana,
Non foste voi mezzana
Infra T amore e meve.
Che fa lo foco nascere di neve.
E non si ferma qui, e continua con l' acqua e il foco e
la neve , e poi dice che il suo spirito è ito via , e lo
spirito eli* io aggio, credo lo vostro sia che nel 7nio
petto stiay e conchiude, eh' ella lo tira a sé, ed ella sola
può, come di tutte le pietre la sola calamita ha balia di
trarre, paragone in cui spende tutta la strofa, spiegando
come la calamita abbia questa virtù. Questi son concetti
e freddure dissimulate nell'artificio della forma; perchè
se guardi alla condotta del periodo, all'arte de' passaggi,
alla stretta concatenazione delle idee, alla felicità della
espressione in dir cose così sottili e difficili, hai poco a
desiderare.
In Jacopo da Lentino questa maniera è condotta sino
alla stravaganza massime ne' soaetti. Non mancano mo-
vimenti d' immaginazione ed una certa energia d' espres-
sione, come :
Ben vorria che avvenisse
Che lo meo core uscisse
— 16 —
Come incarnata tutto,
E non dicesse mutto — a voi sdegnosa:
Ch' Amore a tal m' addusse,
Che se vipera fusse,
Naturia perderea:
Ella mi vederea: fora pietosa.
Ma son affogati fra paragoni , sottigliezze e freddure ^
che nella rozza e trascurata forma spiccano più, e sono
reminiscenze, sfoggio di sapere. Non sente amore, ma
sottilizza d' amore, come :
Fino amor de' fin cor vien di valenza
E scende in alto core somigliante^,
E fa di due voleri una vuglienza ,
La quale ò forte più che lo diamante ,
Legandoli con amorosa lenza,
Che non si rompe, né scioglie T amante.
Su questa via giunge sino alla più goffa espressione di una
maniera falsa è affettata, come è un sonetto, che comincia:
Lo viso, e son diviso dallo viso,
E per avviso credo ben visare,
Però diviso viso dallo viso,
Ch' altro e lo viso che lo divisare ec.
Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero estra-
nei alla serietà e intimità della vita, ebbero non piccola
influenza nella formazione del volgare , sviluppando le
forme grammaticali è la sintassi e il periodo e gli ele-
menti musicali; come si vede principalmente in Guida
delle Colonne. Ne' più rozzi trovi de' brani di un colore e di
una melodia che ti fa presentire il Petrarca, Valgano a
prova alcuni versi nella canzone attribuita a Re Manfredi:
E vero certamente credo dire.
Che fra le donne voi siete sovrana,
E d' ogni grazia e di virtù compita.
Per cui morir d' amor mi saria vita.
■— 17 —
L' Infelligenzia, poema allegorico, pieno d' imitazioni e di
contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che
mostra nell' ignoto autore un' anima delicata, innamorata,
aperta alle bellezze della natura e fa presumere a quale
eccellenza di forma era giunto il volgare. C'è una de-
scrizione della primavera, non nuova di concetti, ma piena
di espressione e di soavità come di chi ne ha il senti-
mento. E continua cosi :
Ed io stando presso a una fiumana
In un verziere all' ombra di un bel pino,
D' acqua viva aveavi una fontana
Intorneata di fior gelsomino.
Sentia 1' aire soave a tramontana :
Udia cantar gli augei in lor latino ;
Allor sentio venir dal fino amore
Un raggio che passò dentro dal core,
Come la luce che appare al mattimo.
E descrive cosi la sua donna:
Guardai le sue fattezze delicate,
Che nella fronte par la stella Diana,
Tant' è d' oltremirabile beltate,
E neir aspetto sì dolce ed umana !
Bianca e vermiglia di maggior clartate
Che color di cristallo o fior di grana:
La bocca picciolella ed aulorosa,
La gola fresca e bianca più che rosa,
La parladura sua soave e piana.
L^> bionde trecce e i begli occhi amorosi,
Che stanno in sì salutevole loco,
Quando li volge, son sì dilettosi.
Che il cor mi strugge come cera foco,
Quando spande li sguardi gaudiosi,
Par che il mondo si allegri e faccia gioco.
Qui ci è un vero entusiasmo, lirico il sentimento della
De Sanctis — Loti. Ital. Voi. l. S
— 18 —
natura e della bellezza: ond' è nata una mollezza e dol-
cezza di forma, ohe con poche correzioni potresti dir di
oggi : cosi è giovine e fresca.
E se il sonetto dello sparviero è della Nina, se è la-
voro di quel tempo , come non pare inverisimile , e un
altro esempio della eccellenza a cui era venuto il vol-
gare, maneggiato da un' anima piena di tenerezza e di
immaginazione.
Tapina me che amava uno sparviero,
Amaval tanto eh' io me ne moria ;
A lo richiamo ben m' era maniero,
Ed unque troppo pascer noi dovria
Or è montato e salito sì altero;
Assai più altero che far non solia ;
Ed è assiso dentro a un verziero,
E un' altra donna V averà in balìa.
Isparvier mio, ch'io t' avea nodrito/
Sonaglio d' oro ti facea portare,
Perchè nell' uccellar fossi più ardito.
Or sei salito siccome lo mare,
Ed hai rotto li geti ^ e sei fuggito,
Quando eri fermo nel tuo uccellare.
Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita col-
tura siciliana stagnò, prima che 'acquistas-se una coscienza
più chiara di se e venisse a maturità. La rovina fu tale,
che quasi ogni memoria se ne spense , ed anche oggi,
dopo tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da
grandi lacune.
Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi
già nelle classi inferiori, ed acquistava una impronta tutta
meridionale. Il suo carattere non è la forza, né l' elevatez-
za, ma una tenerezza raddolcita dall' immaginazione e non
so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche
1 Geto è un lacciuolo di pelle che si lega a' pie degli uccelli.
— 19 —
nella lingua penetra questa mollezza, e le dà una fiso-
nomia abbandonata e musicale, come da uomo che canti
e non parli, in uno stato di dolce riposo : qualità spic-
cata de' dialetti meridionali.
La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si ri-
levò più. Lo nobile Signore Federico e il bennato Re
Manfredi dieron luogo ai Papi e àgli Angioini, loro fidi.
La parte popolana ebbe il di sopra in Toscana, e la li-
bertà de' comuni fu assicurata. La vita italiana, mancata
neir Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca
e feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta
toscana , e toscani furon detti i poeti italiani. De' Sici-
liani non rimase che questa epigrafe :
Che fur già primi: e quivi eran da sezzo,
IL
I TOSCANL
Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splen-
dore e lusso d'immaginazione, e attirava a sé i più chiari
ingegni d' Italia, ne' comuni dell' Italia centrale oscura-
mente, ma con assiduo lavoro, si formava e puliva il vol-
gare. Centri principali erano Bologna e Firenze, intorno
ai quali trovi Lucca, Pistoja, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza,
Ravenna, Todi, Sarzana, Pavia, Reggio.
Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime, non
ritrovi la vivacità e la tenerezza meridionale, ma uno stile
sano e semplice, lontano da ogni gonfiezza e pretensione,
e un volgare già assai più fino, per la proprietà de' vo-
caboli ed una grazia non scevra di eleganza.
Trovo una tenzone di Ciacco dall' Anguillara, fioren-
tino, sullo stesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena
di costui hai più varietà e più impeto, e concetti inge-
gnosi in forma >^ozza. Nella tenzone di Ciacco tutto è su
— 20 —
uno stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e
in una lingua così propria e sicura, che non ne hai esem-
pio ne' più tersi e puliti siciliani Comincia cosi:
Amante — 0 gemma leziosa,
Adorna villanella,
Che sei più virtudiosa
Che non se ne favella :
Per la virtude che hai,
Per grazia del Signore,
Ajutami, che sai.
Ch'io son tuo servo, amore'.
Donna — Assai son gemme in terra
Ed in fiume ed in mare,
Che fanno virtude in guerra,
E fanno altrui allegrare :
Amico, io non son dessa
Di quelle tre ^ nessuna :
Altrove va per essa,
E cerca altra persona.
Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase
che ti annunzia un volgare già formato e parlato, si ac-
compagna una misura e una grazia ignota alla nudità
molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per
prova la fine di questa tenzone, di una decenza amabile,
cosi lontana dal plebeo, allo letto ne gimo, di Giulio.
Donna — Tanto m'hai predicata,
E sì saputo dire,
Ch' io mi sono accordata :
Dimmi: che t' è in piacere?
Amante — Madonna, a me non piace
Castella, né monete ;
Fatemi far la pace
1 n tuo amore, il tuo innamorato.
2 Gemme.
— 21 —
Con r amor che sapete.
Questo addimando a vui,
E facciovi finita.
Donna, siete di lui,
Ed egli è la mia vita.
Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua
parlata, e sono i più acconci a mostrare a qual grado
di finezza e di grazia era giunto il volgare in Toscana,
massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dia-
logo di Ciacco :
^ Mentr' io mi cavalcava,
Audivi una donzella :
Forte si lamentava,
E diceva : ahi madre bella,
Lungo tempo è passato,
Che deggio aver marito,
E tu non lo mi hai dato.
La vita d' esto mondo
ISuUa cosa mi pare.
— Figlia mia benedetta.
Se r amor ti confonde
De la dolce saetta.
Ben te ne puoi sofferere.
■ — Per parole mi teni,
Tuttor così dicendo ;
Questo patto non fina * ,
Ed io tutta ardo e incendo ;
La voglia mi domanda
Cosa che non suole.
Una luce più chiara che il sole,
Per ella vo languendo.
In queste rappresentazioni schiette dell' animo, e non
astratte e pensate, ma in casi ben determinati e circo-
1 Non ha fine o effetto.
~ 22 —
scritti il poeta è sincero , vede con chiarezza istintiva
quello s' ha a fare, e dire, come fa il popolo, e non espri-
me i suoi sentimenti, perchè non ne ha coscienza, tutto
dietro alle cose che gli si presentano, dette però in modo
che ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta.
A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione,
senza dimorarvi sopra, parendogli, che la cosa in sé stessa
dica tutto: semplicità rara ne' meridionali, dov' è mag-
giore espansione, ma che è qualità principale del parlare
fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto
della Compiuta donzella fiorentina, la divina Sibilla, come
la chiama Maestro Torrigiano :
Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
Accresce gioja a tutt' i fini amanti :
Vanno insieme alli giardini allora
Che gli augelletti fanno nuovi canti,
La franca gente tutta s' innamora,
Ed in servir ciascun traggesi innanti,
Ed ogni damigella in gioi' dimora,
E a me ne abbondan smarrimenti e pianti.
Che lo mio padre m' ha messo in errore ',
E tienemi sovente in forte doglia:
Donar mi vuole a mia forza Signore.
Ed io di ciò non ho desio, né voglia,
E in gran tormento vivo a tutte V ore :
Però non mi rallegra fior, né foglia.
Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questa
di concetto e di condotta, con minor movimento e gra-
zia e freschezza, ma superiore d' assai per arte e perfe-
zione di forma.
Quando Taria rischiara e rinserena.
Il mondo torna in grande dilettanza,
E r acqua surge chiara dalla vena,
E r erba vien fiorita per sembianza,
1 Errore, errare di mente, inquietudine.
— 23 —
E gli augelletti riprendon lor lena,
E fanno dolpi versi in loro usanza,
Ciascun amante gran gioì' ne mena,
Per lo soave tempo che s' avanza.
Ed io languisco ed ho vita dogliosa :
Come altro amante non posso gioire,
Che la mia donna m' è tanto orgogliosa.
E non mi vale amar, ne ben servire :
Però l'altrui allegrezza m' è nojosa,
E dogliomi eh' io veggio rinverdire.
In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero
e di andamento, e una perfetta misura. Si ha aria di nar-
rare quello si vede q,sì sente, senza riflessioni ed emo-
zioni, ma con una vivacità ed un colorito , che suscita
le più vive impressioni. Il secondo sonetto è cosa per-
fetta, se guardi alla parte tecnica, ed accenna a mag-
gior coltura; non solo la nuova lingua è pienamente for-
mata, ma è già elegante, già la frase surroga i vocaboli
proprii : a me piace più la perfetta semplicità del sonetto
femminile, con movenza più vivace, più immediata e più
naturale.
La proprietà, la grazia e la semplicità sono le tre ve-
neri che si mostrano nel volgare, come si era ito for-
mando in Toscana: qualità che trovi ancora dove ò
più difficile a serbarle, quando per una impazienza in-
terna si rompe il freno e si dicono i secreti più delicati
dell' animo con tanta più audacia, quanto maggiore è stata
la compressione, e con la sicurezza di chi sente che non
ha torto , ma ragione ; è una violenza raddolcita da una
grazia ineffabile, e che per una naturale misura rimane
ipotetica nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:
In pena vivo qui sola soletta
Giovin rinchiusa dalla madre mia,
La qual mi guarda con gran gelosìa.
Ma io le giuro, alla croce di Dio,
— 24 —
S' ella mi terrà più sola serrata,
Ch' io dirò : fa con Dio, vecchia arrabbiata.
E gitterò la rocca, il fuso e V ago,
Amor, fuggendo a te, di cui m' appago.
Questa bella forma, in tanto spirito e vivacità così ca-
stigata , propria e semplice e piena di grazia , si andò
sviluppando non perchè il suo contenuto voleva cosi, ma
in opposizione ad esso contenuto, vuoto ed astratto. Anzi
che qualità del contenuto, o di questo e quel poeta, sembra
il progresso naturale dello spirito toscano, dotato di un
certo senso artistico, che lo tirava alla forma, nella piena
indifferenza del contenuto. Perciò queste qualità spiccano
più, dove il poeta non è impedito da un contenuto con-
venzionale, ma si abbandona a rappresentare i fatti e i
moti dell' animo, come gli si affacciano in situazioni ben
determinate, e come sono nella lealtà della vita. Allora
contenuto e forma sono una cosa stessa ed hai ciò che
di. più perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito to-
scano : come è in parecchie poesie già citate. Potremmo
desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita
formando per un movimento ingenito, naturale e popo-
lare, com' è stato presso altri popoli. Ma sono desiderii
steriU. Il fatto è che mentre la hngua si formava, il con-
tenuto era già formato e meccanizzato e convenzionale:
la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario,
lo stesso ne' più puliti scrittori, tutti del pari dimenticati,
perchè quello solo sopravvive, che ha una forma pro-
dotta da un contenuto attivo e reale, vivente della vita
comune.
Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rima-
tori a quei tempi. In Toscana, come in Sicilia, ci era
già tutto un mondo poetico, non formato a poco a poco
insieme col volgare, ma già fissato con lineamenti pre-
cisi e costanti. C era già una poetica, e e' era anche un
vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt'i tre-
— 25 ~
vatori gli stessi. Come più tardi avemmo le maschere,
cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali, che nes-
suno si attentava di alterare, così ci era allora Madonna e
Messere.
Madonna, Y amanza o la cosa amata , era un ideale
di tutta perfezione non la tale e tale donna, ma la donna
in genere, amata con un sentimento che teneva di ado-
razione e di culto. Messere era l'amante, il meo Sere,
che avea qualche valore solo amando. Uomo senz' amore
è uomo senza valore. Amare è indizio di cor gentile. Chi
ama, è cavahere, ubbidiente alle leggi dell' onore, difen-
sore della giustizia, protettore de' deboli, umile servo o
servente d' amore, e soffre volentieri ove a sua Madonna
piaccia, e amato sta allegro, ma senza vanitate, senza
menar vanto e spregia le ricchezze, perchè chi è amato,
è ricco. Amore è di due voleri una voglienza , ed è
senza fallimento o villania, senza peccato, e sta con-
tento al solo sguardo; nello stesso paradiso la gioja del-
l'araamte è contemplare Madonna, e senza Madonna non
vi vorria gire. Il codice d'amore descrive i concetti e
i sentimenti degli amanti fini e cortesi. Il codice della
cavalleria descrive le leggi dell' onore, i doveri di cava-
liere leale e franco. Come si vede, amore era tutta la
vita ne' suoi varii aspetti, era Dio, patria e legge; la
donna era la divinità di quei rozzi petti. Chi cerca nelle
memorie della prima età, troverà questo ideale della donna
nella sua purezza e nella sua onnipotenza, l'universo è
la Donna. E tale fu negl'inizii della società moderna in
Germania, in Francia, in Provenza, in Spagna, in Ita-
lia. La storia fu fatta a quella immagine, Trojanì e Ro-
mani erano concepiti come cavalieri erranti, e così Arabi,
Sarraceni, Turchi, lo Soldano e Saladino. Paris e Elena,
Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo, come Lancillotto e
Ginevra; Tristano e Isaotta la bionda. In questa frater-
nità universale, si trovano gli Angioli, i Santi, i Mira-
coli, il Paradiso in istrana mescolanza col fantastico e il
voluttuoso del mondo orientale , tutto battezzato sotto
nome di cavalleria. Le idee generali non sono ancora
potenti di uscire nella loro forma, e sono ancora alle-
gorie. Le idee morali sono motti e proverbia La lette-
ratura di questa età infantile sono romanzi e novelle e
favole e motti, poemi allegorici e sonetti nel loro primo
significato , cioè rime con suoni: canti, e balli , onde la
canzone e la ballata.
La cavalleria poco attecchì in Italia. Castella e castel-
lane col loro corteggio in giullari, trovatori, novellatori
e bei favellatori doveano aver poco prestigio presso un
popolo che avea disfatte le castella, e s* era ordinato a
comune: Vinto Federico Barbarossa, e abbattuta poi casa
sveva , quella vita di popolo fu assicurata, e le tradi-
zioni feudali-e monarchiche perdettero ogni efficacia nella
realtà. Rimasero nella memoria, non come regola della
vita, ma come un puro gioco d' immaginazione. Nessuno
credeva a quel n^ondo cavalleresco, nessuno gli dava se-
rietà e valore pratico : era un passatempo dello spirito,
non tutta la vita, ma un incidente, una distrazione. Ora
quando un contenuto non penetra nelle intime latebre
della società, e rimane nel campo dell'immaginazione,
diviene subito frivolo e convenzionale, come la moda, e
perde ogni sincerità e ogni serietà. Ma la stessa imma-
ginazione era inaridita innanzi a un contenuto dato e fis-
sato , come si trovava in una letteratura non nata e
formata con la vita nazionale , ma venuta dal di fuori
per via di traduzioni. Perciò niente di nazionale e di ori-
ginale, nessun moto di fantasia o di sentimento; nessuna
varietà di contenuto ; una cosi noiosa uniformità che mal
sai distinguere un poeta dall'altro.
Questo contenuto non può aver vita, se non si move,
trasformato e lavorato dal genio nazionale. Quello stesso
senso artistico, che avea condotta già a tanta perfezione
— 27 —
la lingua, dovea altresì risuscitare quel contenuto e dar-
gli moto e spirito.
L'Italia avea già una coltura propria e nazionale molto
progredita : V Europa andava già ad imparare nella dotta
Bologna. Teologia, filosofia, giurisprudenza, scienze na-
turali, studii classici aveano già con vario indirizzo dato
un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto ca-
valleresco dovea parer frivolo e superficiale ad uomini
educati con Virgilio ed Ovidio, che leggevan San Tom-
maso e Aristotile, nutriti di pandette e di dritto cano-
nico, ed aperti a tutte le maraviglie dell' astronomia e
delle scienze naturali. Le tenzoni d' amore doveano parer
cosa puerile a quegli atleti delle scuole, così pronti e così
sottili nelle lotte universitarie. Quella forma di poetare
dovea parer troppo rozza e povera a gente già iniziata
in tutti gli artificii della rettorica. Nacque 1' entusiasmo
della scienza, una specie di nuova cavalleria che detroniz-
zava l' antica. Lo stesso impeto che portava l'Europa a
Gerusalemme, la portava ora a Bologna. Gli storici de-
scrivono co' più vivi colori questo grande movimento di
curiosità scientifica, il cui principal centro era in Italia.
E la scienza fu madre della poesia italiana, e la prima
ispirazione venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato ;
il Saggio ^ e fu il padre della nostra letteratura, fu il ;:
bolognese Guido Guinicelli , il nobile , il massimo , dice \
Dante, il padre :
Mio e degli altri miei miglior che mai,
Rimo d'amore usar dolci e leggiadre.
Gruido nel 1270 insegnava lettere nell' Università di
Bologna. Il volgare era già formato e si chiamava lingua
1 Come dice Dante :
Amore e cor gentil sono una cosa.
Siccome il Saggio in sux) dittato peno.
— 28 —
materna, l'uso moderno, in opposizione al latino. Egli
vi gittò dentro tutto V entusiasmo di una mente educata
dalia filosofia alle più alte speculazioni, e commossa dai
miracoli dell' astronomia e dalle scienze naturali. E il
mondo nuovo della scienza, che si rivela con le sue fre-
sche impressioni nella sua canzone sulla natura dell'amore.
In generale, le poesie de' trovatori sono una filza di con-
cetti addossati gli uni agli altri senza sviluppo. Qui non
ci è che un solo concetto, ed è il luogo comune de' tro-
vatori espresso nel celebre verso :
Amore e cor* gentil sono una cosa.
Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a
Guido, e si mostra ne' più nuovi aspetti. Risorge l'im-
maginazione, e attinge le sue immagini non da' romanzi
di cavalleria , ma dalla fìsica , dalF astronomia , da' più
bei fenomeni della natura, con la compiacenza, con la vo-
luttà e r abbondanza di chi addita e spiega le sue sco-
perte. I paragoni si accavallano, s' incalzano, ti par di
essere in un mondo incantato, e passi di maraviglia in
maraviglia. Citerò alcuni brani :
Al cor gentil ripara sempre amore,
Siccome augello in selva alla verdura ;
Né fé' amore anti che gentil coro^
Né gentil core anti che amor, Natura.
Che adesso com' fu il Sole,
Si tosto fue lo splendor lucente,
Né fu davanti al Sole.
E prende amore in gentilezza loco
Così propriamente,
Come il calore in chiarità di foco.
Foco d' amore in gentil cor s' apprende
Come virtude in pietra preziosa :
Che dalla stella valor non discende,
Anzi che il sol la faccia gentil cosa.
— 29 —
A.mor per tal ragion sta in cor gentile,
Per qiial lo foco in cima del doppiere.
Amore in gentil cor prende ri vera,
Com' diamante dal ferro in la miniera.
Fere lo scilo fango tutto il giorno ;
Vile riraan : né il Sol perde calore.
Dice un altier : gentil per schiatta torno:
Lui sembra il fango; e il Sol gentil valore:
Che non dee dare uom fé
Che gentilezza sia fuor di coraggio
In dignità di Re,
Se da virtute non ha gentil core :
Com' acqua, ei porta raggio,
E il ciel ritien la stella e lo splendore.
C è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo
stento, come di un pensiero in travaglio, e n' escono vivf
guizzi di luce che rivelano le profondità di una mente
sdegnosa di luoghi comuni e per lungo uso speculatrice.
Il contenuto non è ancora trasformato internamente, non
è ancora poesia cioè vita e realtà ; ina è già jun fatto
sden tjfico ,__scr utato . ^ .analizzatj^
sapere, con la serietà e la profondità di chi si addentra
ne' problemi della scienza, e illuminato da una immagi-
nazione, eccitata non dall' ardore del sentimento, ma dalla
stessa profondità del pensiero. Guido non sente amore,
non riceve e non esprìme impressioni amorose ; ma con-
t empla^r anaor e^J 9,, Jieil^za
quello che gli si affaccia non è persona idealizzata, ma
è pura idea, della quale è innamorato con quello stesso
amore che il filosofo porta alla verità intuita e contem-
plata dalla sua mente , quasi fosse persona viva. Così
Platone amava le sue idee ; 1' amore platonico non era
altro che amore d' intuizione e di contemplazione, una
specie di parentela tra il contemplante e il contemplato *•
io ti contenjplo e ti fo mia. Guido ama la creatura della
— 30 —
sua meditazione, e l'amore gli move T immaginazione o
gli fa trovare i più ricchi colori, si eh' ella par fuori pom-
posamente abbigliata. L'artista è un filosofo, non è^ an-
cora un poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo e
convenzionale, così fecondo presso i popoU dove nacque,
così sterile presso noi dove fu importato, succede Pla-
tone, la contemplazione filosofica. Non ci è ancora il poeta,
ma ci è V artista. Il pensiero si move, l' immaginazione
lavora. La scienza genera 1' arte.
La coltura cavalleresca, se giovò a formare il volgare,
impedi la libertà e sp'ontaneità del sentimento popolare, e
creò un mondo -artificiale e superficiale^ fuori della vita,
che rese insipidi gì' inizii della nostra letteratura , cosi
interessanti presso altri popoli. Quel contenuto staziona-
rio comincia a moversi presso Guida, di un moto impresso
non da sentimento di amoro, ma da contemplazione scien-
tifica dell' amore e della bellezza : che se non riscalda il
core, sveglia l' immaginazione. Questo dunque si ricordi
bene, che la nostra letteratura fa prima inaridita nel suo
germe da un mondo poetico cavalleresco, non potuto pe-
netrare nella vita nazionale, e rimaso frivolo e insigni-
ficante , e fu poi sviata dalla scienza , che 1' allontanò
sempre più dalla freschezza e ingenuità del sentimento
popolare , e creò una nuova poetica, che non fu senza
grande influenza sul suo avvenire. L' arte italiana na-
sceva non in mezzo al popolo, ma nelle scuole, fra San
Tommaso e Aristotele, tra S. Bonaventura e Platone.
La poesia di Guido ha il difetto della sua qualità : la
profondità diviene sottigliezza, e l' immaginazione diviene
rettorica, quando vuole esprimere sentimenti che non pro-
va. Vuol esprimere il suo stato quando fu colpito dal
dardo di amore, e dice che quel dardo
Per gli occhi passa, come fa lo trono *,
1 Tuono.
— si-
che fer per la finestra della torre
E ciò che dentro trova, spezza e fende.
Rimagno come statua di ottono,
Ove spirto, né vita non ricorre,
Se non che la figura d' uomo rende.
Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Jaco-
po da'-Lentino. Ci si vede l'uomo d'ingegno e la mente
che pensa. Ma non è linguaggio d' innamorato questo
sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato.
Immensa fu l' impressione che produsse questa poesia
di Guido, se vogliamo giudicarla da quella che ne ebbe
Dante, che lo imitò tante volte, che lo chiamò padre suo,
che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua
Canzone sulla Nobiltà , che ebbe la stessa scuola poe-
tica, che nota la celebrità a cui venne 1' uno e V altro
Guido * e aggiunge :
E forse è nato
Chi r uno e 1' altro caccerà di nido.
Guido oscurò tutt'i trovatori e sah a gran fama presso
un pubblico avido di scienza,, e j)ieno d' immaginazione,
di cui Guido era il ritratto , un pubblico uscito dalle
scuole, per il quale poesia era sapienza e filosofia, ve-
rità adorna , e che non pregiava i versi ,' se non come
velame della dottrina.
Mirate la dottrina che s' asconde
Sotto il velame delli versi strani.
Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando una
scuola poetica, il cui Codice è il Convito di Dante.
Se Bologna si gloriava del suo Guido , Arezzo avea
il suo Guittone, Todi il suo Jacopone e Firenze il suo
Brunetto Latini.
1. Guido Guinicelli e Guiflo Cavalcanti.
— 32 —
Dante mette Guìttone tra quelli che sogliono sempre
ne vocaboli e nelle locuzioni somigliare la plebe. Alla
qual sentenza contraddicono alcuni sonetti attribuiti a
lui , e che per T andamento e la maniera sembrano di
fattura molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni
e alle sue prose, non sarà alcuno che non stimerà giu-
sta la sentenza di Dante. In Guittone è notabile questo
che nel poeta senti 1' u(^o : quella forma aspra e rozza
ha pure una fisonomia originale e caratteristica, una ele-
vatezza morale, una certa energia d' espressione. L'uomo
ci è, non l' innamorato, ma 1' uomo morale e credente, e
dalla sincerità della coscienza gli viene quella forza. E
e' è anche 1' uomo colto, una mente esercitata alla medi-
tazione e ai ragionamento. I suoi versi sono non rap-
presentazione immediata della vita , ma sottili e inge-
gnosi discorsi, che doveano parer maraviglia a quel pub-
bhco scolastico. Venne perciò a tale celebrità che fu te-
nuto per qualche tempo il primo de' poeti ; ma nella sua
vecchia età si vide oscurato da' nuovi astri , onde dice
il Petrarca :
... Guitton d' Arezzo
Che di non esser primo par eh' ira aggia.
Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci, con grande
ira di Dante che esclama: « cessino i seguaci dell'igno-
ranza che estollono Guittone d' Arezzo. »
Guittone non è poeta , ma un sottile ragionatore in
versi, senza quelle grazie e leggiadrie che con sì ricca
vena d' immaginazione ornano i ragionamenti di Guini-
ceili. Non è poeta, e non è neppure artista : gli manca
quella interna misura e melodia, che condusse poeti in-
feriori a lui di coltura e d'ingegno a polire il volgare.
È privo di gusto e di grazia.
Degne di maggiore attenzione sono le poesie di Jaco-
pone, come quelle che segnano un nuovo indirizzo nella
— 33 —
nostra letteratura. Sono le poesie di un Santo, animato
dal divino amore. Non sa di provenzali, o di trovatori, ^
0 di codici d'amore: questo mondo gli è ignoto. E non
cura arte, e non cerca pregio di lingua e di stile, anzi
affetta parlare di plebe con quello stesso piacere con chft
i Santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole, dare
sfogo ad. un' anima traboccante di affetto , esaltata dal
sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofìa, e
non ha niente di scolastico. Si capisce che un poeta cosi
fuori di moda dovea in breve esser dimenticato dal colto
pubblico, sì che le sue poesie ci furono conservate come
un libro di divozione , anzi che come lavoro letterario.
E nondimeno e' è in Jacopone una vena di schietta e po-
polare e spontanea ispirazione , che non trovi ne' poeti
colti finora discorsi. Se i mille trovatori italiani aves-
sero sentito amore con la caldezza e 1' efficacia, che de-
sta tanto incendio nell'anima religiosa di Jacopone, a-
vremmo avuta una poesia meno dotta e meno artistica,
ma più popolare e sincera.
Jacopone riflette la vita italiana sotto uno de* suoi
aspetti con assai più di sincerità e di verità che non trovi
in nessun Trovatore. È il sentimento religioso nella sua
prima e natia espressione, come si rivela nelle classi in-
culte, senza nube di teologia e di scolasticismo, e por-
tato sino al misticismo ed all'estasi. In comunione di
spirito con Dio, la Vergine, i Santi e gli Angeli, parla
loro con tutta dimestichezza , e li dipinge con perfetta
libertà d'immaginazione, co' particolari più pietosi e più
affettuosi che sa trovare una fantasia commossa dall' a-
more. Maria è soprattutto il suo idolo , e le parla con
la familiarità e l' insistenza di chi è sicuro della sua fede
e sa di amarla.
Di', Maria dolce, con quanto disio
Miravi il tuo fig
D« Sanctia — Leu. Ital. Voi, I
Miravi il tuo figliiiul Cristo mio Dio,
-- 34 —
Quando tu il partoristi senza pena,
La prima cosa, credo, che facesti,
Si l'adorasti, o di grazia piena,
Poi sopra il fien nel presepio il ponesti:
Con pochi e pover panni l' involgesti,
Maravigliando o godendo, cred' io.
0 quanto gaudio avevi e quanto bene.
Quando tu lo tenevi fra le braccia I
Dillo, Maria, che forse si conviene
Che un poco per pietà mi satisfaccia.
Baciavil tu allora nella faccia,
Se ben credo, e dicevi : o fìgJiuul mio I
Quando fìgliuol, quando padre e signore,
Quando Dio, e quando Gesù lo cliiamavi;
0 quanto dolce amor sentivi al core,
Quando in grembo il tenevi ed allattavi l
Quanti dolci atti e d' amore soavi
Vedevi, essendo col tuo fìgliuol pio I
Quando un poco talora il dì dormiva,
E tu destar volendo il paradiso,
Pian piano andavi che non ti sentiva,
E la tua bocca ponevi al suo viso,
E poi dicevi con materno riso :
Non dormir più che ti sarebbe rio.
Sotto r impressione del sentimento religioso Jacopone in-
dovina tutte le gioie e le dolcezze dell' amor materno,
Jacopone non concepisce il divino nella sua purezza, carne
un teologo o un filosofo , ma vestito di tutte le appa-
renze e gli affetti umani. Questa è una scena di fami-
glia , colta dal vero , con una franchezza di colorito o
con una grazia di movenze, tutta intuitiva. Preghiere,
sdegni, follie d'amore, fantasie, estasi, visioni, tutto trovi
in Jacopone al naturale e come gli viene di dentro, ciò
che ci è più semplice e commovente, e ciò che' ci è più
strano e volgare. La forma è il sentimento esso mede-
simo : ed ora è soave, efficace, quasi elegante, ora stra-
vagante e plebea. Ha una facilità che gli nuoce, ed un
impeto di espressione che non dà luogo alla lima. Ma
ne' suoi impeti gli escono forme di dire così fresche e fe-
lici, che non disdegnarono d' imitarle Dante e il Tasso.
Né è meno terribile che soave: e vagliano a prova al-
cuni tratti:
Andiam tutti a vedere
Jesù quando dormia
La terra, 1' aria, il cielo
Fiorir, rider facia:
Tanta dolcezza e grazia
Dalla sua faccia uscia.
La faccia di Gesù Bambino, ii Natale, la Vergine, il
volo dell' anima al paradiso, gli Angioli sono visioni piene
di grazia e di efficacia. Nascendo Gesù,
Le gerarchie superne
Eran dal ciel discese :
Lucean come lucerne
D' ardente foco accese
Le loro ale distese.
Gesù ha un corteggio di donne, che gli danzano intor-
no. Verginità, Umiltà, Carità, Speranza, Povertà, Asti-
nenza ; è qualche cosa di simile alle tre sorelle di Dante
nella sua celebre canzone. Ecco in che modo Jacopone
descrive 1' Umiltà :
E questa era gioconda,
Onesta e mansueta
E con la treccia bionda
E a cantar la più lieta;
D' ogni virtù repleta
A me il capo chinava :
Tanto m' assicurava
Cir io pi'esi a favellare.
Quella stessa imrnagiaazio)ie che dipinge con tanta gra-
— 36 —
zia, rappresenta con evidenza terribile i terrori dell' ani-
ma peccatrice nel giudizio universale :
Chi è questo gran Sire,
Rege di grande altura?
Sotterra io vorrei gire,
Tal mi mette paura.
Ove potria fuggire
Dalla sua faccia dura?
Terra fa copritura,
Ch'io noi veggia adirato.
Non trovo loco dove mi nasconda,
Monte, né piano, ne grotta o foresta
Che la veduta di Dio mi circonda,
E in ogni loco paura mi desta.
Tutti li monti saranno abbassati,
E r aire stretto e i venti conta r'bati,
E il mare muggirà da tutt'i lati.
Con r acque lor staran fermi adunati
I fiumi ad aspettare.
Allor vedrai dal Ciel tromba sonare,
E tutt' i morti vedrai suscitare;
Avanti al tribunal di Cristo andare,
E il foco ardente per Y aria volare
Con gran velocitate.
Jacopone non è un' apparizione isolata ; ma si collega a
tutta una letteratura latina popolare, animata dal senti-,
mento religioso. Là trovi il Salve Regina, e V Ave Ma-
ris stella, e il Dies trae , e drammi e vite di Santi
scritte da uomini eloquenti e appassionati. Anche in vol-
gare comparivano già Cantici e Laudi : di Bonifazio papa
e' è rimasto un breve e rozzo cantico alla Vergine. I
fatti della Bibbia, la passione e morte di Cristo, le vi-
sioni e i miracoli de' Santi, i lamenti e le preghiere delle
anime purganti, le mistiche gioie del paradiso, i terrori
dell' inferno, erano il tema comune de' predicatori e rap-
[)resentazioni nelle chiese su per le piazze, sotto il no-
me di misteri, feste, moralità. È rimasta memoria di una
visione dell' inferno, con la quale Gregorio VII quando
era predicatore atterriva l' immaginazione de' suoi udi-
tori : ed è visione di un fantastico e di una crudezza di
colori che mette il brivido. In Morra, mio paese nativo,
ricordo che nella festa della Madonna, quando la pro-
cessione è giunta sulla piazza, comparisce 1' Angiolo, che
fa r annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione dell'An-
giolo, che allora apriva la rappresentazione, annunziando
l'argomento. È nota la grande rappresentazione dell'al-
tro mondo in Firenze, che, rottosi il ponte di legno sul-
r Arno, costò la vita a molte persone.
Questa materia religiosa, che ispirò tanti capilavori di
pittura e di scultura e di architett^ura, era efficacissima
fonte di poesia, congiungendo in sé il fantastico e 1' affetto,
il divino e l'umano, e nelle sue gradazioni dallo inferno al
paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito. La sua
tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal gros-
so senso popolare, che paganizzava e umanizzava tutto.
In questa storia religiosa, il cui proprio teatro è l' altra
vita, a cui questa è preparazione, 1' uomo mescolava le
sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le sue
opinioni, i suoi amori. Maria era 1' anello che giungeva
la terra al cielo, e il devoto le parla con tutta familia-
rità, e le ricorda che la è stata pur donna. Jacopone dice:
Ricevi, donna, nel tuo grembo bello
Le mie lagiime amare.
Tu sai che ti son prossimo e fratello,
E tu noi puoi negale.
Lei implora il Trovatore nel suo colpevole amore, a lei
si raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scelle-
rate spedizioni. Maria, Gesù, i Santi, gli Angioli, Luci-
— 38 —
fero non bastano ; l' immaginazione popolare personifica
le virtù, e ne fa un corteggio di figure allegoriche alla
Divinità, rappresentandole con ogni libertà, come fa Ja-
copone, e come si vede ne' bassirilievi e in tante opere
di scoltura e di pittura. E come il paganesimo ne' suoi
ultimi tempi era interpretato allegoricamente, anche le
figure pagane entrano in questo mondo, torte dal senso
letterale, e volte a significato generale., come Giove, Plu-
tone, Amore, Apollo, le Muse, Caronte. Come il Papa
aspirava a far sua tutta la terra, la storia religiosa as-
sorbiva in sé tutt' i tempi e tutte le storie. In questa
mescolanza universale, opera di una immaginazione pri-
mitiva e ancor rozza non hai luce uguale e non fusione
di tinte : domina un fondo oscuro , il sentimento di un
di là della vita, di un infinito non rappresentabile, su-
periore alla forma, che riempie lo spazio di grandi om-
bre : e quelle mescolanze di divino e di terreno, di an-
tico e di moderno , di serio e di comico non sono ben
fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in luogo di ar-
monizzare producono un' impressione irresistibile di con-
trasto, di cose che cozzano. Quel difetto di luce è il go-
tico, e quel difetto di armonia è il grottesco ; e però il
gotico e il grottesco sono le primo forme artistiche di
quel mondo, com' è nella sua prima ingenuità, non an-
cora vinto e domato dall' arte. Il sublime del gotico si
sente nel giudizio universale di Jacopone, dove la veduta
di Dio ti circonda, senza che tu lo veda, chiarissimo al
sentimento , inaccessibile all' immaginazione. Il peccatore
vede suonar le trombe, turbati i venti, l' aria immobile,
e i fiumi fermarsi, e il mare muggire, e il fuoco volare
per r aria ; dappertutto si sente inseguito dalla veduta
di Dio, ma non lo guarda, non gli dà forma : non è una
immagine, è un sentimento senza forma, che riempie della
sua ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto
di due versi stupendi , che sono veri decasillabi , sotto
— 39 —
apparenza di endecasillabo, pieni di movimento e di ar-
monia :
Che la veduta di Dio mi circonda,
E in ogni loco paura mi desta.
È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi
ombre di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Jaco-
pone è il grottesco, una mescolanza delle cose più di-
sparate, senza nessun senzo di convenienza e di armonia :
il che, se fatto con intenzione, è comico ; fatto con rozza
ingenuità,. è grottesco. Trovi il plebeo, l'indecente, il dis-
gustoso misto coi più gentili affetti; ciò che è pure il
carattere del Santo con le sue estasi e le sue strava-
ganze. E questo in Jacopoue non è già un contrasto che
celi alte intenzioni artistiche, ma rozza natura, cosi di-
scorde e mescolata, come si trova nella realtà. Ecco il
principio del cantico 48 :
0 Signor, per cortesia
Mandami la malsania ;
A me la febbre quartana,
La continua e la terzana ;
A me venga mal di dente,
Mal di capo e mal di ventre,
Mal de occhi e doglia di fianco
La postema ai lato manco.
La poesia di Jacoppne è proprio il contrario di quella
de* Troivatori. In questi è poesia astratta e convenzio-
nale e uniforme, non^ penetrata di alcuna realtà. In Ja-
copone è realtà ancora naturale, non ancora spiritualiz-
zata air arte ; è materia greggia, tutta discorde, che ti
da alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico.
Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e
di prima impressione spunta la vita morale, un certo
modo di condursi con regola e prudenza, e anch'essa è
nella sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o
— 40 —
filosofia, è pura esperienza e tradizione, nella forma di
motto 0 proverbio, che riassume la sapienza degli avi.
Il motto rimato è la più antica forma di poesia nel no-
stro volgare. Ecco alcuni motti antichissimi :
Ancella donnea,
Se Donna follea,
In terra di lite
Non poner la vite.
Uomo che ode, vede e tace
Si vuol viver in pace.
Chi parla rado
Tenuto è a grado..
Dì questa fatta sono una filza di motti ammassati da
Jacopone in un suo carme, una specie di catechismo a
uso della vita, illustrati brevemente da qualche imma-
gine 0 paragone, ora goffo, ora egregio di concetto e
di forma. Sulla vanità della vita dice :
Lo fior la mane è nato
La sera il vei seccato.
Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia , che la
elegante traduzione dello stesso concetto fcitta dal Po-
liziano, la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata :
Fresca è la rosa di mattino : e a sera
Ella ha perduta sua bellezza altera.
I motti di Jacopone sono pensieri morali espressi per
esempio e per immagini, come fa l'immaginazione po-
polare, e nella loro brevità e succo è il principale at-
trattivo.
Ove temi pericolo,
Non fare spesso posa.
Sappi di polver tollere
La pietra preziosa,
E da uom senza grazia
— 41.—
Parola graziosa:
Dal folle sapienza,
E dalla spina rosa
Prende esempio da bestia
Chi ha niente ingegnosa
Vediamo bella immagine
Fatta con vili deta :
- Vasello bello ed utile
Tratto da sozza creta ;
Pigliam dai laidi vei'mini
La p leziosa seta,
Vetro da laida cenere,
E da rame moneta.
Non dimandare agli uomini
Che lor nega natura :
E non pregar la scimia
Di bella portatura,
Ne il bue, né V asino
Di dolce parladnra.
Quel che non si conviene,
Ti guarda di non fare :
Né messa ad uomo laico,.
Né al prete saitare ;
Non dece spada a femmina,
Né ad uom lo filare.
Non piace se in suo loco
Non ponesi la cosa :
Innanzi che ti calzi,
Guardi da qual pie è Y uosa
Se leggi, non far punto
Dove non è la posa ;
Dov' è piana la lettera,
Non fare oscura glosa.
In ogni cosa al prossimo
Ti mostra mansueto:
Da nimistate guardati,
Se vuoi viver quieto.
-^ 42 —
A quel modo confoi-mati
Che trovi nel paese :
Al Genovese, in Genova,
Ed in Siena al Sanese.
Uomo che spesso volgesi,
Da tuo consiglio caccia :
Se vedi volpe^ correpe,
Non dimandar la traccia :
Non ti sforzare a prendere
Più che non puoi con traccia;
Che nulla porta a casa
Chi la montagna abbraccia.
Quando puoi esser umile,
Non ti dimostrar forte:
Il muro tu non rompere,
Se aperte soii le porte.
Con Signore non prendere,
Se tu puoi, quisti'one ;
Ch' ei ti ruba ed ingiuria
Per piccola cagione,
E tutti gli altri gridano •
Messere ha la ragione.
Uomo senz' amicizia
Castello è senza mura.
Quella è buona amicizia,
Che d'ogni tempo dura:
Povertà non la parte,
Né nulla ria ventura
Quel che tu dice in camera,
Non dire in ogni loco :
A piaga metti ungento.
Non vi mettere il foco.
E cosi hai motto a motto , spesso senz' altro legame
che il caso, qual più, qual meno felice, in quella forma
sentenziosa ed esemplata, che è propria dell' immagina-
zione popolare , prima ancora che nasca la favola e il
— 43 —
racconto. E trovi certo più gusto in queste prime rozze
informazioni così piene della vita e del sentire comune,
che ne' sonetti e canzoni morali in forma più artificiosa,
ma contorta e scolastica di Onesto e Semprebene e al-
tri trovatori.
Questi uomini con tanti proverbi! in bocca e con tanta
divozione alla Madonna e a' Santi, con l' immaginazione
piena di leggende e avventure cavalleresche, avevano nei
piccolo spazio del Comune una vita politica ancora più
vivace e concentrata , che non è oggi allargata com' è
diffusa in qu^gl' immensi spazii che si chiamano regni.
Certo, i costumi si pulivano, come la lingua; ma reU-
gione e cavalleria, misteri e romanzi, se colpivano le im-
maginazzioni, poco bastavano a contenere e regolare le
passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte muni-
cipali. Questa vita era troppo leale, troppo appassionata,
e troppo presente, perchè potesse esser vista con la se-
renità e la misura dell' arte. Si manifesta con la forma
grossolana dell' ingiuria, appena talora rallegrala da qual-
che lampo di spinto. Un esempio è il verso :
Quando r asino raglia, un guelfo nasce.
Questa forma primitiva dell' odio politico, amara an-
che nel motteggio e nell' epigramma e cosi sventurata-
mente feconda tra noi anche ne' tempi più civili, non esce
mai dalle quattro mura del comune , con particolari e
allusioni così personaU, che manca con la chiarezza ogni
interesse: prova ne sieno i sonetti di Rustico. Certo, in
questo antico esempio di satira politica vedi il volgare
condotto a tutta la sua perfezione, e ci senti uno spi-
rito e una vivacità propria delF acuto ingegno fiorentino.
Ma che interesse volete voi che prendiamo per Donna
Gemma e Messer Fastello e Messer Messerino e Ser Cer-
biolino, con quel suo parlare sotto figura per allusioni,
che non ne comprendiamo un' acca ? Ciò che è meraraenta
— 44 —
personale, muore con la persona. Il cornane sembra un
castello incantato, dove 1' uomo entrando ignori tutto ciò
che vive e si muove al di fuori. Nessun vestigio de' grandi
avvenimenti di cui l' Italia era stata ed era il teatro ;
niente che accennasse ad alcuna partecipazione alle grandi
discussioni tra papato e impero, tra guelfi e ghibellini,
o rivelasse un sentimeuto politico elevato e nazionale, al
di sopra della cerchia del comune. Tutto è piccolo, tutto
va a finire là, nella piccola maldicenza sulla piazza del
comune. Di ciò che si passava in Italia, appena un' om-
bra trovi in un sonetto di Orlandino Orafo, eco delle
preocupazioni e ansietà pubbliche, quando Carlo d' An-
giò andava ad investire Re Manfredi in Benevento. Ma
ciò che preoccupa Orlandino, non è il risultato politico
e nazionale della lotta, ma la grande strage che ne verrà:
Ed avverrà tra lor fera battaglia,
E fìa sanfaglia — tal, che molta gente
Sarà dolente — chi che ne abbia gioja.
E molti buon destrier coverti a maglia,
In quella taglia — saran per niente^
Qual fìa perdente — allor convien che muoja.
A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa
impressione, è la lotta in sé stessa co' suoi accidenti. Lo
diresti uno spettatore posto fuori de' pericoli e delle pas-
sioni de' combattenti, che contempla avido di emozioni i
varii casi della pugna.
Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi varii
aspetti religioso, morale, politico, spicca più, perchè in
evidente contrasto con la precoce coltura scientifica, di-
venuta il principale interesse di quel tempo. La scienza
era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipita-
vano a guardare. Ma la scienza era come il Vangelo,
che s' imparava e non si discuteva. A quel modo che
— 45 —
trojani, roinani, franchi e saraceni, santi e cavalieri erano
nell'immaginazione un mondo solo; Aristotile, Platone,
Tommaso e Bonaventura, erano una sola scienza. Il mag-
giore studio era sapere, e chi sapeva più, era più am-
mirato ; nessuno domandava quanta concordia e profon-
dità era in quel sapere. Perciò venne a grandissima fama
Ser Brunetto Latini. Il suo Tesoro e il Tesoretto furono
per lungo tempo maraviglia della genti, stupite che un
uomo potesse saper tanto, ed esporre in verso Aristo-
tele e Tolomeo. Di che nessuno oggi saprebbe più nulla,
se Dante non avesse eternato l'uomo e il suo libro in
quei versi celebri:
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
' NpI quale io vivo ancora.
La scienza in Brunetto è materia così rozza e greg-
gia, com' è la vita religiosa in Jacopone e la vita po-
litica in Rustico. Il suo studio è di cacciar fuori tutto
quello che sa, cosi crudamente come gli è venuto dalla
scuola, e senza farlo passare a traverso del suo pensiero.
Ciò che dice, gli pare cosi importante, e pareva così im-
portante a' suoi contemporanei , eh' egli non chiede al-
tro, e nessuno chiedeva altro a lui. Quella sua enciclo-
pedia non è che prosa rimata.
Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante,
che compirono i loro studii nell' Università di Bologna,
dalla quale usci pure Cino da Pistoja. Si sente in tutti
e tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore si scioglie dalle
tradizioni cavalleresche, e diviene materia di teologia e
di filosofìa. Si discute sulla sua origine, su' suoi feno-
meni e sul suo significato. Nella sua apparenza volgare
esso adombra quella forza che move il sole e !e stelle,
il poeta lascia al volgo il senso letterale, e cerca un sopra
senso, il senso teologico e filosofico, di cui quello sia il
velo. Il lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza
— 46 —
il fenomeno amoroso, e cerca dietro di quello la scienza.
L'esistente non è per lui che un velo del pensiero, una
forma dell'essere; Gino da Pistoja chiama Arrigo di Lus-
semburgo forma del bene : Il corpo è un velo dello spi-
rito ; la donna è la forma di ogni perfezione morale e
intellettuale; spiritualismo religioso e idealismo platonico
si fondono e fanno una sola dottrina. L' allegoria , che
era già prima la forma naturale di una coltura poco avan-
zata, diviene una forma fissa del pensiero teologico e fi-
losofico, disposizione dello spirito aiutata dall'uso invalso
di cercare il senso allegorico a spiegazione della mito-
logia e del senso letterale biblico. Ma il pensiero eser-
citato nelle lotte scolastiche era già tanto vigoroso che
poteva anco bastare a sé stesso ed avere la sua espres-
sione diretta. Perciò nella poesia entra non solo l'alle-
goria, mail nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragio-
namento e da tutt'i precedenti scolastici. Gino, Cavalcanti
€ Dante erano tra' più dotti e sottili disputatori che fos-
sero mai usciti dalla scuola di Bologna. La loro mente
robusta era stata educata a guardare in tutte le cose
il generale e 1' astratto, e a svilupparlo col sussidio della
logica e della rettorica. Prima di esser poeti sono scien-
ziati. Anche verseggiando, ciò che ammirano i contem-
poranei, è la loro scienza.
Gino maestro di Franceso Petrarca e del sommo Bar-
tolo, fu dottissimo giureconsulto. Il suo cemento sopra
i primi nove libri del Codice fu la maraviglia di quella
età. Ristoratore del diritto romano , aperse nuove vie
alla scienza, e non fu uomo, come dice Banolo , che più
di lui desse luce alla civil giurisprudenza. L' amore di
Selvaggia lo fece poeta, ma non potè mutare la sua mente.
In luogo di rappresentare i suoi sentimenti, come poeta,
egli li sottopone ad analisi , come critico, e ne ragiona
sottilmente. Posto fuori della natura e nel campo della
astrazione, ogni limite del reale si perde, e quella stessa
^ 47 —
sottigliezza che legava insieme i concetti più disparati e no
traeva argomentazioni e conclusioai fuori di ogni realtà
e di ogni senso comune, creava ora una scolastica poe-
tica, 0 per dirla col suo nome, una rettorica ad uso dello
amore, piena di figure e di esagerazioni, dove vedi com-
parire gli spiritelli d' amore che vanno in giro e i so-
spiri che parlano. In luogo di persone vive, abbondano
le personificazioni. In un suo sonetto de' raegho condotti
e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella sua
donna è posta la salute, meta sì alta, che avanza ogni
sforzo d' intelletto , e però non resta altro che morire.
Questo è rettorica, non solo per la strana esagerazione
del concetto, ma per il modo dell' esposizione scolastico
e dottrinale.
Questa donna che andar mi fa pensoso,
Porta sul viso la virtù d' Amore :
La qual fa disvegliare altrui nel coro
Lo spirito gentil che v' è nascoso.
\ Ella m' ha fatto tanto pauroso,
iPoscia eh' io vidi quel dolce Signore
j Negli occhi suoi con tutto il suo valore,
j Che io le vo presso e riguardar non V oso ;
E quando avvien che quei begli occhi miri,
Io veggio in quella parte la salute,
Ove lo mio intelletto non può gire.
AUor si strugge sì la mia salute,
Che r alma, onde si movono i sospiri,
S' acconcia per voler dal cor partire.
Una così strana esagerazione non può essere scusata
che dall' impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui
non ce n' è vestigio ; ed hai invece una specie di tema
astratto, che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio
di rettorica. La prima quartina ò una maggiore di sii-
- 48 —
logismo; intelletto, animo, core, sospiri, virtù di onore
e spirito gentile, sono le sottili distinzioni e astrazioni
delle scuole. Esule ghibellino, si levò a grande speranza,
quando seppe della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e
quando seppe della sua morte, scrisse una canzone. Quale
materia di poesia! dove dovrebbero comparire le speranze, i
disinganni, le illusioni e i dolori dell' esule. Ma è invece
una esposizione a modo di scienza sulla potenza della
morte, e l' immortalità della virtù. Ancora più astratta
e arida è la Canzone sulla natura d' amore di Guido Ca-
valcanti, dottissimo di filosofìa e di rettorica; la qual
canzone fu tenuta miracolo da' contemporanei.
Adunque, la vita religiosa, morale e politica era ap-
pena nella sua prima formazione, e la splendida vita che
raggiava da Bologna era anch' essa materia greggia ,
pretta vita scientifica, messa in versi.
Siamo alla seconda metà del dugento. La Sicilia, mal-
grado la sua Nina, è già nell' ombra. I due centri della
vita italiana sono Bologna e Firenze , V una centro del
movimento scientifico, V altra centro dell' arte. Neil' una
prevaleva il latino, la lingua de' dotti ; nell' altra preva-
leva il volgare, la lingua dell' arte.
L'impulso scientifico partito da Bologna, traendosi ap-
presso anche la poesia , dava il bando alla superficiale
galanteria de' Trovatori : il pubblico domandava cose e
non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una
scuola poetica conforme a quella. Il tempo de' poeti spon-
tanei e popolari finisce per sempre.
Il nuovo poeta scrive con intenzione. Più che poeta^
egli è lume di scienza ; si chiamò Brunetto Latini, l' en-
ciclopedico, Cino, il primo giureconsulto dell' età, Caval-
canti, filosofo prestantissimo, Dante, il primo dottore e
disputatore de' tempi suoi. Scrivono versi per bandire la
verità, spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello
spirito e della natura. La poesia è per loro un ornamento.
— 49 —
la bella vest^-della verità o della filosofìa, uso amoroso
di sapienza come dice Dante nel Convito. Ci è dunque
in loro una doppia intenzione. Ci è una intenzione scien-
tifica. Ma ci è pure una intenzione artistica, di ornare e di
abbellire. L' artista comparisce accanto allo scienziato.
Questo doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli.
È in Toscana massime in Firenze che si forma questa
coscienza dell' arte. Il volgare, venuto già a grande per*
fezidne^, èra parlato e scritto con una proprietà e una
grazia, di cui non era esempio in nessuna parte d'Ita-
lia. Se i poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti
incolti e rozzi non piacevano a Firenze, A lungo andare
non vi poterono essere tollerati Guittone e Brunetto, e
sorgeva la nuova scuola, la quale se a Bologna signi-
ficava scienza, a Firenze significava arte.
Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è
già notato in Gino. Egli scrive con manifesta intenzione
di far rime polite e leggiadre, e cerca non solo la pro-
prietà, ma anche la venustà del dire. Aveva animo gen-
tile e aJBfettuoso, e orecchio musicale. Se a lui manca la
evidenza e l'efficacia, virtù della forza, non gli fa di-
fetto la melodia e 1' eleganza, con una certa vena di te-
nerezza. Fu il precursore del grajode jjux^^d^^^^ Fran-
cesco Petrarca.
Ecco un esempio della sua maniera:
Poiché saziar non posso gli occhi miei
^ Di guardare a Madonna il suo bel viso,
Mirarol tanto fiso '
Oh' io diverrò beato lei guardando.
A guisa di Angel che di sua natura
Stando su in altura
Divien Beato sol vedendo Iddio;
Così essendo umana orlatura
Guardando la figura
De Sbnotis - Lett. Ital. Voi. I. 4
— 50 —
Di questa donna, che tiene il cor mio,
Potrei beato divenir qui io.
Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della
sua Donna, che ispirò le tre sorel'e del Petrarca, il quale
ne imitò anche la fine, che è piena di grazia :
Or se prendete a noia
Lo mio amor, occhi d' amor rubegli
Foste per comun ben stati men begli.
Agli occhi della forte mia nemica
Fa, Canzon che tu dica :
Poi che veder voi stessi non possete.
Vedete in altri almen quel che voi siete.
E ci ha pure parecchi sonetti, dove Gino in luogo di
filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con
semplicità il suo stato, e sono teneri ed affettuosi. Meno
apparisce dotto, e più si rileva artista.
La coscienza artistica si mostra in Gino nelle qualità
tecniche ed esteriori della forma. La sua principale indu-
stria è di sviluppare gli elementi musicali della Ungua e
del verso, né fino a quel tempo la lingua sonò si dolce
in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo po-
lito, da cui sia rimossa ogni asprezza e disuguaglianza.
Ma qualità più serie e più profonde si rivelano in Guido
Cavalcanti. Anche in lui la perfezion tecnica è somma,
anzi in lui è scienza. Innamorato della lingua natia, pose
ogni studio a dirozzarla, e fissarla, e scrisse una gra-
matica e un'arte del dire. Egli, nota Filippo Villani, di-
lettandosi degli studii rettorici, essa arte in composizioni
di rime volgari elegantemente ed artificiosamente tra-
dusse. Di che si vede, quanta impressione dovè fare su' con-
temporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuo-
vo artificio spiegato come scienza e applicato come arte.
— ol-
eosi Guido divenne il capo della nuova scuola, il crea-
tore del nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli :
Così ha tolto r uno all' altro Guido
La gloria della lingua.
Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui
lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti:
sostanza era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Vir-
gilio, parendogli dice il Boccaccio, la filosofia, siccome,
ella è, da mollo più che, la poesia. Sottilissimo dialet-
tico, come lo chiama Lorenzo de' Medici, introduce nella
poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche , e mira
a questo, non solo di dir bene, ma dir cose importanti.
I contemporanei studiarono la sua Canzone dell' amore,
come si fa un trattato filosofico , e ne fecero comenti,
come si soleva di Aristotele e di san Tommaso : anche
più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Cosi
Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso ed
elegante dicitore, ma come sommo filosofo.
Questo voleva Guido e questo ottenne, questo gli bastò
ad acquistare ii primo posto fra i contemporanei. Salu-
tavano in lui lo scienziato e 1' artista.
Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito
della scienza perchè la divulgò, non perchè vi lasciasse
alcuna sua orma propria. E fu artefice più che artista,
inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della
forma: vanto non piccolo, ma che tocca la sola super-
ficie dell' arte.
La gloria di Guido fu là , dov' egli non cercò altro
che un sollievo e uno sfogo dell' animo. Fu là, eh' egU
senza volerlo e saperlo si rivelò artista e poeta. Vi sono
uomini che i contemporanei ed essi medesimi sono inca-
paci di apprezzare. Guido era più grande eh' egli stesso
e i suoi contemporanei non sapevano.
Guido è il primo poeta italiano, degno di questo nome,
f
— 52 —
/ perchè è il primo che abbia >1 senso e T affetto del reale.
Le vuote generalità de' Trovatori, divenute poi un con-
tenuto scientifico e rettorico, sono in lui cosa viva, perchè,
quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni
■e i sentimenti dell' anima. La poesia che prima pensava
e descriveva, ora narra e rappresenta, non al modo sem-
plice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e fi-
nitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata da
.Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette,
egregiamente caratterizzate che gli cavano di bocca il
suo segreto d' amore. Là è una pastorella che incontra
nel boschetto, e ti abbozza una scena d' amore colta dal
vero. Sono gli stessi concetti de' trovatori, ma realizzati,
non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati
nella loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, senti-
menti, cioè a dire vita e azione. Sentj^ là dentro l' anima
dello scrittore, ora lieta e serena che si esprime con una
grazia ineffabile come nelle ballate delle forosette e della
pastorella , ora penetrata di una malinconia che si ef-
fonde con dolcezza negli amabili sogni dell' immaginazione
e nella tenerezza dell' affetto , come nella ballata , che
«
scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il presenti-
mento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la ret-
torica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro , natu-
rale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento
e r espressione. Il poeta non pensa a gradire, a cercare
effetti, a fare impressioni con le sottigliezze della dot-
trina e della rettorica: scrive sé stesso, come si sente
in un certo stato dell'animo, senz' altra pretensione che
di sfogarsi , di espandersi , segnando la via nella quale
Dante fece tanto cammino. I posteri poterono applicare
a lui quello che Dante disse di sé :
Io mi son un, che quando
Amor mi spira, noto e a quel modo
Ch' ai detta dentro, vo significauTlo.
— 53 —
Il che non avvenne di Lentino, di Guittone, rimasti al
di qua del dolce siti nuovo, perchè esagerarono i sen-
timenti, andarono al di là della natura, per gradire, pia-
cere a' lettori.
E qual più a gradire oltre si mette,
Nou vede più dall'uno all'altro stile.
Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli,
il fabbro fu Gino, il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola
non era altro che una coscienza più chiara dell' arte. La
filosofìa perse sola fu stimata insufficiente, e si richiese
la forma. Guittone d' Arezzo non fu più apprezzato, quan-
tunque di filosofia ornatissimo y grave e sentenzioso,
come dice Lorenzo de' Medici , 'perchè gli mancava lo
stile, alquanto ruvido e severo , né di alcun dolce lume
di eloquenza acceso. Anche Benvenuto da Imola chiama
nude le sue parole e lo commenda per le gravi sentenze
ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo senso,
il senso della forma.
A quel tempo fra tante feroci gare politiche la lette-
ratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i più
diversi aspetti. Dante da Majano era un'eco de' Trova-
tori, con la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto, Or-
biciani da Lucca erano poeti dotti ma rozzi, come i Bo-
lognesi Onesto eSemprebene. Ma già il culto della formp,
l'amore del bello stile si sente in parecchi poeti. Dino
Frescobaldi, Rustico di Fihppo , Guido Novello, Lapo
Gianni, Cecco d'Ascoli sono il corteggio, nel quale emerge
la figura di Guido Cavalcanti.
Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accom -
pagnò quello di Dante Alighieri, legati insieme da una
amicizia che non si ruppe se non per morte. Parvero le
Nuove Rime , e fu tale l' impressione eh' ei sah subito
accanto a Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il pro-
blema di esprimere le profondità della scienza in bella
— 54 —
forma : ultimo segno a cui si mirava. Perciò ebbe molta
voga la sua canzone :
Donne, che avete intelleto d'amore;
e ancora più 1' altra :
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di
Bologna mira poetando a divulgare la scienza , usando
modi piani e aperti alla intelligenza comune. Nella can-
zone, dove esorta la donna a dispregiare uomo che da
sé virtù fatta ha lontana, dice-
Ma perchè il mio dire util vi sia,
Discenderò del tutto
In parte ed in costrutto
Più lieve, perchè men grave s'intenda;
Che rado sotto benda
Parola oscura giugne allo intelletto ;
Perchè parlar con voi si vuole aperto.
E quanto pure è costretto a celare sotto benda i suoi
concetti, aggiunge un comento in prosa e dichiara egli
medesimo la sua dottrina. Tale è il comento che fa alla
canzone :
Voi che intendendo il terzo ciel movete ;
e parendogli che senza quel comento la canzone, presa
in sé stessa, rimanga fuori dell' intelligenza volgare, fi*
nisce così :
Canzone, io credo che saranno radi
Color che tua ragion intendan bene,
Tanto lor parli faticosa e forte :
Onde se per ventura egli addiviene.
Che tu dinanzi da persone vadi,
Che non ti pajan d' essa bene accorte ;
AUor ti priego che ti riconforte,
— oo
Dicendo lor: diletta mia novella:
Ponete mente almen com'io son bella.
C era dunque nell' intenzione di Dante di bandire i
veri della scienza ora nella forma diretta dal ragiona-
mento, ora sotto il velo dell' allegoria, ma in modo che
la poesia quando anche non fosse compresa da' più, avesse
un valore in sé stessa, fosse bella e dilettasse. Era la
teoria della nuova scuola nella sua più alta espressione,
una coscienza artistica più chiara e più sviluppata. Il
rispetto della verità scientifica è tale, che Dante si do-
manda, come essendo Amore non sostanza, ma accidente,
possa egli farlo ridere e parlare, come fosse persona. E
adduce a sua difesa, che i rimatori, che fanno versi in
volgare hanno gli stessi privilegi de poeti, nome che dà
a' latini, i quah, come Virgilio, Ovidio, Lucano, Orazio,
diedero moto e parole alle cose inanimate : il che egli
chiama rimare sotto vesta di figura o di colore ret-
torico, qualificando rimatori stolti quelli che domandati
non sapessero dinudare le loro parole da cotal vesta.
Onde si vede che Dante e Cavalcanti, eh' egli qui chiama
il suo primo amico, spregiavano e questi rimatori stolti,
che usavano rettorica vuota di contenuto *, e quelli che
ti davano un contenuto scientifico nudo, senza rettorica.
Qui è tutta la nuova scuola poetica, rimasa per molti
secoli r ultima parola della critica italiana : ciò che il Tasso
chiamò coìidire il vero in molli versi.
Con queste teorie, con queste abitudini della mente
parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume
di rettorica, concetti coloriti. Di tal natura è la Canzono
sulla gentilezza o nobiltà :
Le dolci rime d'amor ch'i' solfa.
1 Dice cosi : questo mio primo amico ed io uè sapemo bone di quelli
che così rimano stoltamente.
— 56 -^
e r altra :
Amor, tu vedi ben che questa donna,
dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta
gli effetti che sul suo animo produce lo studio della fi-
losofia. I fenomeni dell' amore e della natura sono spie-
gati scientificamente, più che rappresentati, com'è l'in-
verno nella canzone :
Io son venuto al punto della rota,
e come è l' amore nella canzone :
Amor che muovi tua virtù dal cielo;
0 come è la bellezza nella canzone :
Amor che nella mente mi ragiona.
Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessi-
bile e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Lar-
ghezza, Temperanza, germane d' amore, che cacciate dal
mondo vanno mendicando.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
Come persona discacciata e stanca,
Cui tutta gente manca,
E cui virtute e nobiltà non vale.
Tempo fu già, nel quale,
Secondo il lor parlar, furon dilette ;
Or sono a tutti in ira ed in non cale.
Qui il poeta non ragiona ma narra e rappresenta. Il
concetto scientifico è vinto dalla vivacità della rappre-
sentazione e dalla elevatezza del sentimento. Il colore
rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza.
In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra
forza e vivacità e ricchezza di concetti e di colori che
i due Guidi. Egli fu il suo proprio cementatore, avendo
nella vita Nuova e nel Convito spiegata 1' occasione, il
— 57 —
concetto , la forma delle sue poesie. E quanto alia parte
tecnica, all'uso della lingua, del verso e della rima, nel
suo libro de Vulgari eloquio mostra che ne intendeva
tutt'i più riposti artificii. I contemporanei trovavano in
queste poesie il perfetto esempio della loro scuola poe-
tica: la maggior dottrina sotto la più leggiadra veste
rettorica.
Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s* era
ita finora elaborando, con maggior varietà e con più chiara
coscienza. Il Dio di questo mondo è Amore, prima con .
le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni della gio-/
vanezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo filoso-
fico. Amore non può operare che ne' cuori gentih : per-
ciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi. Gentilezza
non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da virtù. E
però le virtù sono suore d'amore e fanno star lucente
il suo dardo finché sono onorate in terra. Ma la virtù
è in pochi, e l'amore è perciò di pochi vivanda. V ob-
bietto dell' amore è la bellezza , non il hello di fuori,
le parti nude, ma il dolce pomo, concesso solo a chi ^
amico di virtù. La bellezza non si mostra se non a chi
la intende: amore è chiamato dagli antichi intendanza,
e Dante non dice sentire amore, ma avere intelletto
d' amore. Ad appagare l' amore basta il vedere, la con-
templazione. Vedere è amore, amore è intendere.
E chi la vede, e non se n' innamora,
D'amor non averà mai intelletto.
Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:
Voi che intendendo il terzo ciel movete.
Dio move 1' universo pensando :
Costei pensò chi mosse 1' universo.
Nò altro è amore nell' uomo che nova inlelligenza.
/
— 58 —
che lo tira su^ lo avvicina alla prima intelligenza. La
donna, esemplare della bellezza, è nobile intelletto,
. 0 nobile intelletto ;
Oggi fu Tanno che nel ciel partisti.
La donna è perciò il viso della conoscenza , la bella
faccia della scienza, che invaghisce V uomo e sveglia in
lui nova intelligenza, lo fa intendere. La donna dunque
è la scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella
apparenza : e questo è la bellezza, il dolce pomo consen-
tito a pochi. Intendere è amore , e amore è operare
come s' intende ; perciò filosofia è uso amoroso di sa-
pienza , scienza divenuta azione mediante l' amore. La
virtù non è altro che sapienza, vivere secondo i dettati
della scienza. Perciò l' amante è chiamato saggio : e la
donna è saggia prima di esser bella :
iBeltade appare in saggia donna pui
«Che piace agli occhi.
La beltà non è eiltro che 1' apparenza della saggezza,
sì che piaccia e innamori di sé.
Con questo mistÌGÌsmo filosofico si accordava il misti-
cismo religioso , secondo il quale il corpo è velo dello
spirito, e la bellezza è la luce della verità , la faccia di
Dio, somma Intelligenza, contemplazione degli Angioli, e
dei Santi. Dio, gli angioli, il Paradiso rappresentano an-
che qui la loro parte. Teologia e filosofia si danno la
mano. '
È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella
sua integrità e con cosi perfetta coscienza. È l' idealismo
di quel tempo, con la sua forma naturale, 1' allegoria. Ag-
giungi r opera della immaginazione , che dà alle figure
tanta vivacità di colorito, ed hai T ultimo segno di per-
fezione che si poteva allora desiderare.
^ 50 -^
III.
LA LIRICA DI DANTE
Fin qui giunge la coscienza di Dante Se gli domandi
più in là, ti risponde come Raffaello: noto, quando amor
7nì spira: ubbidisco all'ispirazione. E appunto, se vogliam
trovar Dante , dobbiamo cercarlo qui, fuori della sua
coscienza, nella spontaneità della sua ispirazione. Innanzi
tutto, Dante ha la serietà e la sincerità dell' ispirazione.
Chi legge la Vita Nuova, non può mettere in dubbio la sua
sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo
di astronomia e di cabala, di filosofìa e di rettorica, di
Ovidio e di Virgilio, di poeti e di rimatori, ma tutto
questo non è la costanza del libro, ci entra come colo-
rito e ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito dello stu-
dente, ci è un cuore puro e nuovo, tutto aperto alle ira-
pressioni, facile alle adorazioni e alle disperazioni, ed una
fervida immaginazione che lo tiene alto da terra e va-
gabonda nel regno de' fantasmi. L* amore per la bella fan-
ciulla, involta di drappo sanguigno, eh' egli chiama Bea-
trice, ha tutt' i caratteri di un primo amore giovanile,
nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che
nei cuore. Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a
ideale celeste, che a realtà distinta, e che produca effetti
propdi. Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di que-
sto amore. Beatrice mori angiolo, prima che fosse donna^
e r amore non ebbe tempo di divenire una passione, come
si direbbe oggi, rimale un sogno ed un sospiro Appunto
perchè Beatrice ha cosi poca realtà e personalità, esiste
più nella mente di Dante, che fuori di quella, ed ivi coe-
siste e si confonde con l'ideale del trovatore, l'ideale del
filosofo e del cristiano: mescolanza fatta con perfetta buona
fede, e p.'rciò grottesca certo, ma non falsa e non con-
— GO -
venzionale. Queste che presso gli altri sono astrattezze
scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo del
quadro , sono non il quadro , ma contorni e accessorii.
Il quadro è Beatrice, non cosi reale che tiri e chiuda in
sé r amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul
suo cuore e sulla sua immaginazione. Non ci è proprio
l'amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello in-
cidente anche minimo del suo amore si sente mosso a
scrivere sé stesso in un sonetto o in una canzone. Quando
il suo animo è tranquillo, fa capolino il dottore, il re-
tore, e il rimatore ; ma quando il suo animo è veracemente
commosso, Dante gitta via il suo berretto di dottore,
e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poeti-
che, e ubbidisce all'ispirazione. Allora é Beatrice, solo
B eatrice, che occupa la sua mente, e le sue impressioni,
appunto perchè immediate e sincere, sono quasi pure di
ogni mescolanza. Il suo amore si rileva schietto come lo
sente, più adorazione e ammirazione, che appassionato
amore di donna. Tale è il sonetto :
Tanto gentile e tanto onesta pare.
E tale è la ballata, ove con la grazia e l'ingenuità
di una fanciulla scesa pur ora di cielo cosi parla Bea-
trice :
Io mi son pargoletta bella e nova,
E son venuta per mostrarmi a vui
Dalle bellezze e loco, dond'io fui.
Io fui del cielo e tornerovvi ancora,
Per dar della mia luce altrui diletto;
E chi mi vede e non se ne innamora,
D'amor non averà mai intelletto.
Ciascuna stella negli occhi mi piove
Della sua luce e della sua virtute:
.- 61 —
Le mie bellezze sono al mondo nove,
Perocché di lassù mi son venute.
Questo non è allegoria, e non è concetto scientifico:
0 per dir meglio ci è 1* allegoria e ci è il concetto scien-
tifico , ma profondato ed obbJiato in questa creatura ,
perfettamente realizzato , conforme a quel primo ideale
della donna che apparisce all' immaginazione giovanile.
Se nell'espressione di quésta ingenua ammirazione trovi
qualche reminiscenza di repertorio e qualche preoccupa-
zione scientifica, senti un accento di verità puro ed au-
tonomo neir espressione del dolore, la vera Musa di que-
sta lirica. Perchè infine questa breve storia d' amore ha
rari intervalli di gìoja serena e contemplativa ; la morte
del padre di Beatrice, il suo dolore, il presentimento della
sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro^
il motivo tragico della poesia. Finché Beatrice vive è un
secreto del cuore che il poeta s' industria con ogni più
sottile arte di custodire; la storia è poco interessante,
intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni ; ma quando
quell'ideale della giovinezza minaccia di scomparire, quando
scompare, al poeta manca con quello il fondamento della
sua vita, e si sente solo e si sente morire insieme con
quello. Ne nasce una situazione nuova nella storia della
nostra poesia: l'amore appena nato, simile ancora a' pri-
mi fuggevoli sogni della giovanezza, che acquista la sua
realtà presso alla tomba ed oltre la tomba. L' amore si
rivela nella morte. Là perde quell' aria fattizia e con-
venzionale, che gli veniva da' trovatori e della scienza.
Là non è più concetto, né allegoria, ma è sentimento e
fantasia. Quell' amore che in vita della donna non si' è
J potuto ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta e
■ pura espressione, ora che Beatrice muore. A questa si-
tuazione si rannoda la parte più eletta e poetica di que-
sta lirica. Poi vengono sentimenti più temperati ; il poeta
— 62 —
si consola cantando la loda della morta; Beatrice, ita
nel cielo, diviene la Verità, la cara immagine sotto la
quale il poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia
della Sapienza. Non hai più la Vita Nuova hai il Convito-
L' amore non è più un sentimento individuale ; ma è il
principio della vita divina e umana. Beatrice nella sua
gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo, il dolce no-
me che il poeta dà al suo amore , alla filosofia. Ma la
filosofìa non è in Dante astratta scienza : è Sapienza, cioè
a dire pratica della vita ; con che orgoglio si profess;i
amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù, che ti
fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue, e
ti dà la vera nobiltà, che ti viene da te e non dagli altri.
Intendere è per lui il principio del fare ; e la forza che
dà attività all' intelletto ed efficacia alla volontà è l' amore.
In questa triade è l'unità della vita; l'uno non può star
senza 1' altro. Or tutto questo in Dante non è mera spe-
culazione, ne vanità scientifica; ma è vero amore, ma
è un sentimento morale cosi profondo ed efficace, come
è la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto Y uomo»
e si addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa se-
rietà e sincerità di sentimento fa penetrare fra tante sot-
tili e scolastiche speculazioni una elevatezza morale, tanto
più poetica, quanto meno espressa, ma che si sente nel
tono, nel colorito, nello stile. Tale è la sublime risposta
di Amore alle sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta
in sé medesimo ;
L' esilio che m' è dato onor mi tegno ;
€ questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria
quanta è nella canzone sulla vera gentilezza. La quale
elevatezza morale non è disgiunta in lui da un certo or-
gogHo direi aristocratico del sentirsi solo con pochi pri-
vilegiato da Dio alla sapienza : cosi alto ha collocato lo
ideale della scienza e della virtù..
— 63 —
Elli son quasi Dei
Quei che han tal grazia fuor di tutt' i rei ;
Che solo Dio. air anima la dona.
Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e
talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine
degli uomini bestie che somigliano uomo. E dove non
è virtù, non è amore, e non dovrebbe esser bellezza :
onde esorta le donne a partirla da loro :
Che la beltà che Amore in voi consente,
A. virtù solamente
Formata fu dal suo decreto antico,
Contro lo qual fallate.
lo dico a voi 'che siete innamorate.
Che se beltate a voi
Fu data e virtù a noi,
Ed a costui di due potere un farà,
Voi non dovreste amare,
Ma coprir quanto di beltà vi è dato,
Poiché non è virtù, eh' era tuo segno.
Lasso ! a che dicer vegno ?
Dico che bel disdegno
Sarebbe in donna di ragion lodato
Partir da se beltà per s o commiato.
Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto
dell'amore, che fa uno di due, unisce bellezza e virtù.
Ma questo concetto è per Dante cosa vivente , è Y ani-
ma del mondo, l' unità della vita. E poiché vede bellezza,
e non trova virtù, sente nella vita una scissura, una di-
scordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento dì
immaginazione cosi nuovo e originale, quel desiderare
nella donna e sperar poco un atto di bel disdegno^ per
il quale dica: poiché nell'uomo non è virtù, cesso di
esser bella, cesso di amare. Dante si crede obbligato ad
argomentare , ad esporre il suo concetto in forma dot-
trinale, e qui è il suo torto, qui è la forma che lo cer-
— 64 —
tifica di quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la
sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è
il sentimento che sveglia nel poeta' la contraddizione tra
quel concetto e la realtà. Lasso! a che dicer vegno?
Il poeta sente la vanità de' suoi desiderii, e che il mondo
andrà sempre a quel modo.
Come r amore si afferma nella morte, cosi la filosofia
si afferma nella sua morte, cioè nella sua contraddizione
con la vita. Qui trovi un sentimento chiaro e vivo del-
l'unità della vita, fondata nella concordia dell'intendere
e dell' atto o come si direbbe oggi dell' ideale e del reale,
e insieme il dolore della scissura, che mette il poeta in
uno stato di ribellione contro l'uomo caduto in servo
di signore, già signore di sé, ora servo delle sue incli-
nazioni animali. Ma il sentimento di questa contraddi-
zione non uccide 1' entusiasmo e la fede, come ne' poeti
moderni ; 1' anima del poeta è ancora giovane, piena di
una fede robusta, che il disinganno nobilita e fortifica:
e però il dolore del disaccordo non lo conduce alla ne-
gazione della filosofia anzi alla sua glorificazione, ad un
più ardente amore della derelitta, fiero di possederla e
amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio
tra la gregge degli uomini.
Adunque, il primo carattere di questo mondo lirico è
la sua verità psicologica. Se e' è negli accessorii alcun
che di fattizio e di convenzionale, il fondo è vero, è la
sincera espressione di quello che si passa nell' animo del
poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita
seriamente. La vita è la filosofia, la verità realizzata, e
la poesia è la voce e la faccia della verità. Amico della
filosofia, con orgoglio non minore si chiama poeta il ban-
ditore del vero. Filosofo e poeta, si sente come investito
di una missione , di una specie di apostolato laicale , e
parla dal tripode alla moltitudine, con 1' autorità e la si-
curezza di chi possiede la verità.
— 65 —
Ma il sentimento che move questo mondo lirico così
serio e sincero non rimane puramente individuale o su-
biettivo ; anzi la parte personale e contingente appena si
mostra: esso è 1' accento lirico dell' umanità a quel tempo
la sua forma di essere, di credej'e, di sentire e di espri-
mersi. Queir angeletta scesa dal cielo , che non giunge
ad esser donna, breve apparizione, che ritorna al cielo
in bianca nuvoletta, seguita dagli Angioli che le cantano
Osanna , ma rimase in terra , come luce della verità ,
della quale l'amante si fa Apostolo, è tutto il romanzo re-
ligioso e filosofico di queir età ; è la vita che ha la sua
verità nell' altro mondo, e che qui non è che Beatrice ,
fenomeno, apparenza, velo della eterna verità. Se la terra
è un luogo di passaggio e di prova , la poesia è al di là
della terra, nel regno della verità. Beatrice comincia a
vivere quando muore.
Un mondo così mistico e spiritualista nel concetto, cos
dottrinale nella forma, se può essere allegoricamente
rappresentato dalla scultura, se trova nella pittura e nella
musica le sue movenze, le sue sfumature, il suo indefi-
nito, è difficilissimo a rappresentare con la parola. Per-
chè la parola è analisi, distinzione, precisione, e non può
rappresentare che un contenuto ben determinato, e nei
suoi momenti successivi, più che nella sua unità. Ana-
lizzate questo mondo e vi svanisce dinanzi, come realtà
0 vita : r analisi vi porta irresistibilmente al discorso, al
ragionamento, alla forma dottrinale, che è la negazione
dell' arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna
di questo mondo è la scienza, come concetto e come for-
ma, la pura scienza, non penetrata ancora nella vita e
divenuta fatto. È vero che per Dante la scienza dee es-
sere non astratto pensiero, ma realtà. Se non che il ma le
è appunto in questo dee essere. Perchè, prendendo a
fondamento non quello che è, ma quello che dee essere,
la sua poesia è ragionamento, esortazione, non rappre-
so SanctÌB — Leu Itul. Vul. I. 5
-- 60 ^
Gentazione, se non in forma allegorica, che aggiunge una
nuova difficoltà ad un contenuto cosi in sé stesso astruso e
scientifico.
I contemporanei sentirono la difficoltà e credettero vin-
cerla con la rettoria , ornando quei concetti di vaghi
fiori. Anche Dante credeva rendere poetica la filosofia,
dandole una bella faccia. Certo, questo era un progresso ;
ma siamo ancora al limitare dell' arte, nel regno dell' im-
maginazione. GuiniceUi, Gino, Cavalcanti non possono at-
tirare la nostra attenzione , e neppur Dante , ancorché
dotato di un' immaginazione cosi potente. Anzi egli rie^
sce meno di questi suoi predecessori nell' arte dell' or-
nare e del colorire, perchè quelli vi pongono il massimo
studio, non essendo il mondo da essi rappresentato che
un gioco d' immaginazione, dove a Dante quel mondo è
lui stesso , parte del suo essere , e che ha la sua impor-
tanza in sé stesso: ond' egli è sobrio, severo, schivo del
gradire, e spesso nudo sino alla rozzezza. E non corre
agli ornamenti, come mezzo rettorico e a fine di ornare
e di lisciare, ma per rendere palpabile ed evidente il suo
concetto.
Ma Dante vince in gran parte la difficoltà appunto per
questo, che quel mondo è vita della sua vita « anima
della sua anima. Esso opera non pure sulla sua mente,
ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in
quel mondo non è però sufficiente a farne un poeta. La
fede è la base, il sottinteso, la condizione preliminare e
necessaria della poesia, ma non è la poesia. Il poeta dee
essere un credente, ma non ogni credente è poeta ; può
essere un Santo, un Apostolo, un Filosofo. Dante non fu
il santo, né il filosofo del suo mondo; fu il poeta. La
fede svegliò le mirabili facoltà poetiche che avea sortito
da natura.
Dante ha in supremo grado la principale facoltà di un
poeta, la fantasia, che non si vuol confondere con l' im-
laaginazione, facoltà molto inferiore. L' immaginazione ti
dà r ornato e il colore, liscia la superflue, il suo mag-
giore sforzo e di offrirti un simulacro di vita nell'alle-
goria e nella personificazione. La fantasia è facoltà crea-
trice, intuitiva e spontanea, è la vera Musa, il Deus
in nohis, che possiede il segreto della vita, e te la co-
glie a volo anche nelle sue più fuggevoli apparizioni, e
te ne dà Y impressione e il sentimento. L' immaginazione
è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: pulchra spe-
cies , sed cerehì^um non hahet: l'immagine è il fine
ultimo in cui ci adagia. La fantasia lavora al di dentro,
e non ti coglie il di fuori , se non come espressione e
parola della vita interiore. L' immaginazione è 1' analisi,
e più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più
le fugge il sostanziale , quel tutto insieme , in cui è la
vita. La fantasia è sintesi: mira all'essenziale, e di un
tratto solo ti suscita le impressioni e i sentimenti di per-
sona viva e te ne porge l'immagine. La creatura del-
l' immaginazione è l' immagine finita in sé stessa e opaca;
la creatura della fantasia è il fantasma , figura abboz-
zata e trat^parente, che si compie nel tuo spirito. L' im-
maginazione ha molto del meccanico, è comune alla poe-
sia e alla prosa, a' sommi e a' mediocri; la fantasia è
essenzialmente organica, ed ò privilegio di pochissimi che
son detti Poeti.
Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo secolo,
così mistico e spirituale , resiste a tutti gli sforzi della
immaginazione. In balìa di questo esso non è che un
inondo rettorico e artificiale, di bella apparenza, ma
freddo e astratto nel fondo. Tale è il mondo di Guini-
lli, di Cavalcanti e di Gino. L' organo naturale di que-
sto mondo è la fantasia, e la sua formale il fantasma.
Il suo primo e solo poeta è Dante, perchè Dante ha l' i-
— GS ^
strumento atto a generarlo, è la prima fantasia del mondo
moderno.
Dante non accarezza l'immagine, non vi s'indugia so-
pra, se non quando essa è lume che come paragone dia
una faccia al suo concetto. Sia d' esempio la sua canzono
all'Amore:
Amor che movi tua virtù dal cielo,
Come il sol lo splendore.
Che là s' apprende più lo suo valore.
Dove più nobiltà suo raggio trova.
Ed barami in foco acceso:
Come acqua per chiarezza foco accenae.
È sua beltà del tuo valor conforto.
In quanto piadicar si puote afifetto
Sopra degno sop-getto,
In guisa eh' è al sol raggio di foco;
Lo qual non dà a lui, né to* virtute;
Ma fallo in alto loco
Neir effetto parer di più salute.
Queste immagini non sono il concetto esso medesimo;
ma paragoni atti a lumeggiarlo. È la maniera del Guinicelli.
Costui se pavoneQfgia, e vi spiega un lusso e una pom-
pa che passa il segno e affoga il concetto nell' immagine.
Dante è più severo perchè il concetto non gli è indiffe-
rente e non te ne distrae, anzi per troppo amore a quello
spesso te Io porge nudo e irsuto com' è la natura. Ma
egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il suo
romanzo , la sua storia intima. Il concetto allora , non
che abbia bi^^ogno di essere illuminato da una immagine
tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo l' im-
magine. In quest'opera di trasformazione si rivela la fan-
tasia. Pìgmahone non è più una statua di marmo; mei
riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona. La donna
— G9 —
astratta e anonima del Trovatore, divenuta innanzi alla
filosofia un' idea platonica, V esemplare di ogni bellezza e
di ogni virtù, eccola qui persona viva: è Beatrice, quella
angeletta scesa dal cielo che annunzia alle genti il suo
arrivo e racconta la sua bellezza:
Ciascuna stella negli occhi mi piove
Della sua grazia e della sua virtute.
Ma questo lavoro di trasformazione non va così in-
nanzi, che il concetto sia come seppellito e dimenticato
neir immagine, miracolo dell' arte greca ; né questo av-
viene per manco di calore e di fantasia. Dante è così
immedesimato con quel suo mondo intellettuale e mistico,
che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può ma-
terializzarlo. In questa dissonanza può capitare 1' artista,
a cui il contenuto sia indifferente , e che intenda alla
perfezione del modello, non il Poeta che ha un culto per
il suo mondo e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il
suo limite. Dante non può paganizzare quel mondo dello
spirito, appunto perchè esso è il suo spirito, il suo mondo
il suo modo di sentire e di concepire. La sua immagine è
ricordevole e trascendente, e appena abbozzata è già scor-
porata, fatta impressione e sentimento. Non descrive: non
può fissare e determinare l' immagine, come quella a cui
r intelletto non giunge. Gli sta innanzi un non so che,
luce intellettuale, superiore all' espressione, visibile non
in sé stessa ma nelle sue impressioni. Perciò esprime non
(juello che ella è , ma quello che pare. Ciò che è più
chiaro innanzi alla sua immaginazione, non è il corpo ,
ma lo spir ito, non ò V immagine, ma il suo parere, V im-
pressione:
Ciò eh' ella par, quando un poco sorrido,
Non si può dicer, nò tenere a mente:
Si è no- 0 miracolo e gentile.
— 70 —
Ed avea seco umiltà si verace,
Che parea che dicesse: io sono in pu.Cw
E par che dalla sua labbia si mova
Uno spirto soave e pien d' amore,
Che va dicendo all'anima: sospira.
Questi ultinai tre versi sono la chiusa mirabile di un
sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Bea-
trice, e non fa 'che esprimere impressioni. Beatrice non
la vedi mai. Ella è come Dio, nel santuario. Non la vedi,
ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di
lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta
non è là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e
nel pianto delle donne che gli sono intorno, che la udi-
rono, e non osarono di guardarla:
Che qual 1' avesse voluta mirare,
Saria dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
Ogni lingua divien tremando muta
E gli occhi non V ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non
descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna pa-
rola e nessun atto, non restano che due immagini^ del
nascere e del morire, F angeletta scesa di cielo, che
torna al cielo bianca nuvoletta. Dante non vede lei mo-
rire. La vede in sogno, e già morta, e quando le donne
la coprian di un velo. Ma se della morte non ci è l'im-
magine, ce n' è il vivo sentimento.
. . . Morte assai dolce ti tesano:
Tu dèi ornai esser gentile, i
Poi che tu sei nella mia donna stata,
E dèi aver pietate e non disdegno.
Vieni: che si desideroso vegno
— 71 —
D' esser de' tuoi eh' io ti somiglio in fede.
Vieni, che il cor ti chiede.
L'universo muore con Beatrice:
Ed esser mi parea non so in qual loco,
E veder donne andar per via disciolte,
Qual lagrimando, e qual traendo guai.
Che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco
Turbar lo sole ed apparir la stella,
E pianger egli ed ella ;
Cader gli augelli volando per 1' are,
E la terra tremare:
E uom m' apparve scolorito e fioco.
Dicendomi: che fai? non sai novella?
^lorta è la dunna tua eh' era sì bella.
Si bella ! Questa è T immagine. Gli basta chiamarla
bella; chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini, essi
soli indifferenti in tanto dolore :
Che non piangete, quando voi passate
Per lo suo mezzo la città dolente ?
Se voi restate per volere udire,
Certo lo core de' sospir mi dice
Che lacrimando ne uscirete poi.
Ella ha perduta la sua Beatrice:
E le parole che uom di lei può dire.
Hanno vii'tù di far piangere altrui.
La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli
altri, in quello che fa sentire. L' immagine è immedia-
tamente trasformata in sentimento. E questa immagine
spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama il fan-
tasma, esistente più nella immaginazione dei lettore, che
nella espressione del poeta. Ciascuno si fa una Beatrice
a sua maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo
— 72 —
nel regno mi^sicale dell' indefinito. Beatrice ò un révc y
un sogno, una visione. La stessa sua morte è un sogno,
0, come dice Dante, una fantasia, accompagnata di [)ar-
ticolari patetici e drammatici, perchè il poeta è vittima
de' suoi fantasmi, e vive entro a quel mondo e ne sente
e riflette tutte le impressioni. Beatrice muore , perchè
questa vita nojosa
KoD era degna di sì gentil cosa,
e tornata gloriosa nel cielo, diviene spiriluiX hcUczza
grande, che spande per lo cielo luce d' amore e fa la
maraviglia degli Angioli. Questa bellezza spirituale, o,
come dice Dante alti'ove, luce intellettual piena d' a-
raore, è il mondo lirico realizzato nell' altra vita, dove
il fantasma sparisce, e la verità ti si porge nel suo splen-
dore intellettuale, pura intelligenza, bellezza spirituale ,
scorporata. Il fantasma, quella mezza realtà a contorni
vaghi e indecisi, più visibile nelle impressioni e ne' sen-
timenti che nelle immagini, non era che il presentim-MUo,
il velo, la forma preparatoria di questo regno del puro
spirito, era l'ombra dello spirito. Ora la luce intellet-
tuale dissipa ogni ombra: non hai niente più d'indeciso,
niente più di corporeo: sei nel regno della fìbsofia, dove
tutto è precisione e dommatismo, tu Ilo è posto con chia-
rezza, e discorso a modo degli scolastici. E poiché la
filosofia non è potuta divenire virtù, poiché in terra essa
è proscritta, rimane una realtà puramente scientifica e
dottrinale. L'impressione ultima è che la terra è il re-
gno delle ombre e de' fantasmi, la selva dell' ignoranza
e del vizio, la tragedia che ha per sua inevitabile fine
la morte e il dolore, e che la realtà, 1' eterna e divina
Commedia, è nell' altro mondo.
Né prima, nò poi, fu immaginato un mondo lirico cosi
vasto nel suo ordito^ così profondo nella sua concezione.
— 73 —
oo^ì coerente nelle sue parti, cosi armonico nelle sue
forme, così personale e a un tempo cosi umano. Esso è
r accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni
e nelle sue visioni, la voce dell' umanità a quel t< mpo.
Il ministero di questo mondo religioso-tìlosofico è la Morte
gentile, come passaggio dall' ombra alla luce, dal fan-
tasma i Ila realtà, dalla tragedia alla commedia, o, co-
me dice Dante alla pace. La morte è il principio della
vita, è la trasfigurazione. Perciò il vero centro di questa
lirica, la sua vera voce poetica, è il Sogno della morte
di Beatrice, là dove sono in presenza questa vita e l'al-
tra, e mentre il sole piange, e la terra trema ^ gli An-
gioli cantano osanna e Beatrice par che dica: Io sono
in pace. Ci è la terra co' suoi dolori e il Cielo con le su
estasi, il mondo lirico nel momento misterioso della su
unità. Non credo che la lirica del medio evo abbia prò
dotto niente di simile a questo sogno di Dante, di una
rara perfezione per chiarezza d'intuizione, per fusione
di tinte, per profondità di sentimento, per correzione di
condotta e di disegno, per semplicità e verità di espres-
sione.
Ma se questo mondo logicamente è uno e concorde,
esteticamente è scisso, perchè non è insieme terra e cielo,
ma è ora l'uno, ora l'altro, imperfetti ambidue. Il fan-
tasma è spesso simile più ad un' allegoria, che ad una
realtà, ed è stazionario, senza successione e senza svi-
luppo, senza storia. La realtà è pura scienza, in forma
scolastica. Si può dire che quando in questo mondo co-
mincia la realtà, allora appunto muore la poesia, s'ina-
ridisce la fantasia e il sentimento. È un difetto organico
di questo mondo, che resiste a tutti gli sforzi dell' arte,
resiste a Dante.
D' altra parte Dante vi si mostra più poeta che arti-
sta. Quel modo è per lui cosa troppo seria, perchè possa
contemplarlo col sereno istinto dell' arte. Poco a lui im-
— 74 —
porta che la superficie sia scabra, purché ci sia sotto qual-
che cosa che si mova. Perciò è sempre evidente, spesso
arido e rozzo. L' ItaHa ha già il suo poeta; non ha an-
cora il suo artista.
IV.
LA PROSA.
Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla
formazione del volgare, non minore opera vi diedero i
bei favt^llatori, o favoleggiatori. Favella viene da l'ahella,
favoletta, e perciò le lingue moderne furon dette favelle,
lingue de' favoleggiatori. Costoro nelle corti e ne' castelli
raccontavano novelle, come i rimatori poetavano d'amore.
Così gl'inizii della nostra hngua furono,
Versi d'amore e prose da romanzo.
Come i versi, così le prose aveano già tutto un re-
pertorio venuto dal di fuori. I rimatori attingevano nel
codice d'amore; i novellatori o favellatori attingevano
ne' romanzi dalla Tavola^ rotonda o di Carlomagno. Il
cavahere errante era il tipo convenzionale degli uni e
degli altri.
Questa letteratura non produsse altro che traduzioni,
come sono i Conti di antichi Cavalieri, la Tavola rotonda,
e i Reali di Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il Re
Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno , Orlando erano
gli eroi dell' immaginazione popolare. Oggi ancora i can-
tastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di fatti
maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo. Anche la
storia romana prese questa forma. Un codice antico ha
per titolo: Lucmw tradotto in prosa, ed è la versione
del Ghilio Cesare, romanzo in versi rimati di Jaques
de Foresi. La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata
con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca. Ci-
— 75 —
cerone, mastro di rettorica e buono chierico, così co-
mincia una sua aringa a Pompeo: «Li Re e Conti e
Baroni e 1' altro popolo ti richieggono e. pregano che
tu non metta la cosa' a indugio ». E non è meraviglia
che anche nelle cronache penetri questa vita cavallere-
sca. Si leggono non senza diletto i Diurnali , o come
oggi si direbbe, giornali di Matteo Spinelli, la più an-
tica cronaca italiana, non solo per la semplicità e na-
turalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al
volgare, ma per la vaghezza de' fattarelli, che pare un
favellatore e non uno storico. Di maggior mole è la sto-
ria di Firenze di Ricordano Malespini, che dagli inizii
della città si stende sino al 1282. Quando narra fatti con-
temporanei, testimonio veridico ed esatto , né la sua
fede guelfa lo induce ad alterare i fatti. Ma quando esce
da' suoi tempi, ti trovi nell! infanzia della coltura. Ana-
cronismi ed errori geografici sono accoppiati con la più
grossolana credulità nelle favole più assurde, improntate
di tutto il maraviglioso de' romanzi cavallereschi. Dice
che la Chiesa di san Pietro fu fondata ai tempi di Ot-
taviano, quando san Pietro e Cristo stesso non erano
ancora nati; che la mattina di Pentecoste fu celebrata
la messa nella chiesa della canonica di Fiesole al tempo
di Catilina; che il tempio di san Giovanni in Firenze fu
fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da pisare
0 pesare, Lucca da luce, e Pistoja da pistolenzia: narra
gli amori di Catilina con la Regina Belisea, figlia del Re
Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Bèlisea, e
pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.
In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza
e incerta, desinenze goffe o dure, sgrammaticature fre-
quenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito: non ci
è ancora 1' io, la personalità dello scrittore.
Come la poesia, così la prosa cavalleresca poco attecchì
in Italia. Non solo non ci fu nessun romanzo originale,
— 76 —
ma noppiire alcuna imitazione. Tutto quel maravìgìioso
è riprodotto con quella stessa aridità e indifferenza, che
senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoven-
tissimi, come la morte di Manfredi, o di Bondelmonte.
Come r uomo inculto parla assai meglio che non scrive,
è a presumere che i novellatori raccontassero le loro fa-
volette con una vivacità d'immaginazione e di affetto, che
non trovi nei racconti e nelle cronache. Ci è una rac-
colta di novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi
e appunti, anzi che vere narrazioni^ simili a quegli ar-
gomenti che si danno a' giovanetti per esercizio di scri-
vere. Il libro fu detto fiore del parlar gentile: e ve-
ramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che
stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto
racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più tardi. Ma
se la lingua è assai più schietta e moderna che non è
ne' Conti di antichi Cavalieri ^ ne' romanzi di quel tempo,
e in tutti la stessa aridità. Ci è il fatto ne' suoi punti
essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari
che gli danno colore, e senza le impressioni e i senti-
menti che gli danno interesse. Pure, quando il fatto è
semplice e breve, e non richiede arte, basta a conseguire
r effetto quella naturalezza e quel candore pieno di ve-
rità che è nel racconto. Eccone un esempio:
« Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che
quando era garzone, si avea in compagnia dodici gar-
zoni di sua etade. Quando lo re Currado favellava, li
maestri che gli erano dati a guardia, non batteano lui,
ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui. E
quei dicea: perchè non battete me, che mia è la colpa?
Diceano h maestri : perchè tu sei nostro signore. Ma noi
battiamo costoro per te, onde assai ti dee dolere^ se tu
hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe. E
perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di
fallire per la pietà di coloro ».
— 77 —
Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popo-
lare tra noi, e non divenne un lavoro d' arte, la ragione
è che una materia tanto poetica si mostrò quando lin-
gua e arte erano ancora nell'infanzia, e rimasa fuori
della vita e dei costumi riuscì un frivolo passatempo >
come fu della poesia cavalleresca. Trattata da illet-
terati questa materia non potò svilupparsi e formarsi ,^
sopravvenuto in breve tempo il risorgimento dei classici
e il rifiorire delle scienze, che trasse a sé 1' animo dello
classi colte. Quantunque chierico significasse ancora uomo
dotto, e da' pergami e dalle cattedre si parlasse ancora
latino, ed in latino si scrivessero le opere scientifiche»
già il laicato usciva dalle università vigoroso ed istrutto»
con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella
sua forza. Se il chierico tendeva a restringere in pochi
la dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spi-
rito laicale tendeva difi'onderla, a volgarizzarla, a furia
patrimonio comune. La libertà municipale, aprendo la vita
pubbhca a tutte le classi, costituiva in modo stabile un
laicato colto e operoso, a cui non bastava più il latino,
e che, formato nelle scuole, superbo della sua scienza,
in quotidiana comunione con le altre classi, aveva già
un complesso d'idee comuni, che costituivano la biso
della coltura. Erano nuove forze che entravano in azione
e davano un indirizzo proprio alla vita italiana. A quella
gente quei romanzi e quei racconti doveano sembrare
trastullo di oziosi, spasso di plebe. Le idee religiose così
come venivano bandite dal pergamo non doveano aver
molta grazia a' loro occhi ; quella semplicità e rozzezza di
esposizione dovea poco gradire a quegli uomini, che tutto
codificavano e sillogizzavano. Certo non fu perciò estinta
la razza dei novellatori e de' predicatori ; ma lo spirito
della classe colta se ne allontanò, e i conti de' cavalieri
e le vite de' santi rimasero occupazione di uomini sem-
plici e inculti, senza eco e senza sviluppo. La società
— 78 —
mirava a divulgare la scienza, a difTondere le utili co-
gnizioni, a far sua tutta la cultura passata, profana o
sacra. I suoi eroi furono Virgilio, Ovidio, Livio, Cicero-
ne, Aristotile, Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio, San-
to Agostino e San Tommaso. Il volgare divenne V istru-
mento naturale di questa coltura. I poeti bandivano la
scienza in verso : i prosatori traslatavano dal latino gli
scrittori classici, i moralisti e i filosofi. Era un movi-
mento di erudizione e di assimilazione delF antichità, che
darò parecchi secoli, e che ebbe una grande azione sulla
nostra letteratura.
La materia, a cui più volentieri si volgevano i tra-
duttori, era T etica e la retorica, 1' arte del ben fare e
r arte del ben dire. Una delle più antiche versioni è il
Libro di Caio, o Volgarizzamento del Libro dei co-
stumi, opera scritta in distici latini e divisa in quattro
libri. L'opera ebbe tanta voga, che se ne fecero tre ver-
sioni, ed è spesso citata dagli scrittori. Né è maraviglia:
perchè ivi la morale è nella sua forma più popolana, es-
sendo ciascuna regola del ben vivere chiusa in un di-
stico, a guisa di motto o proverbio, o sentenza, facile a
tenere in memoria. Ecco un esempio:
Virtutem priraam esse puto, compescere lingunm:
Proximus ,ille Deo est, qui scit ratione tacere.
Ed è tradotto egregiamente cosi:
« Costringere la lingua credo che sia la prima ver-
tude: quelli è prossimo di Dio, che sa tacere a ragione».
Esercizio utilissimo a' giovani sarebbe il raff'ronto delle tre
versioni, che ti mostra la lingua ne' diversi stati della sua
formazione. Laterza versione, pubblicata dal Manni,haper
compagna T^/zca di Aristotile eia i?(?//or/c^ di Tullio. Que-
sta rettorica di Tullio è il Fiore di Eetlorica, attribuito a
Frate Guidotto da Bologna, e ad altri con più verisimi-
frlianza a Bono Giamboni^ e che comincia cosi: Qui coìnin-
— 79 —
eia ìa RelloiHca nuova di Tullio, Irnslatala da gram^
malica in volgare per' frale Guidoito da Bologna. Che
importanza avesse la rettorica, e quali miracoli potea pro-
durre, si vede da queste parole del traduttore: « Fu uno
nobile e vertudioso nomo, cittadino nato di Capova del
regno di Puglia, il quale era fatto abitante della nobile
città di Roma, che avea nome Marco Tullio Cicerone, lo
quale fu maestro e trovatore della grande scienza di
Rettorica, la quale avanza tutte le altre s^ienzìe, per la
bisogna di tutto giorno parlare nelle valenti cose, sic-
come in far leggi e piati civili e cherminali, e nelle cose
cittadine, siccome in fare batta^^lie. ed ordinare schiere,
e confortare cavalieri nelle vicende degl* imperii, regni e
principati, e governare popoli e regni e cittadi e ville,
e strane e diverse genti, come conversano nel gran cer-
chio del mappamondo della terra». Il libro è dedicato a
Re Alanfredi, il quale vi potrà avere sufficiente a adorno
ammacslramento a dire in piuvico e in privato. Ac-
canto a Cicerone compariva il grande poeta Virgilio : il
quale Virgilio si trasse tutto il costruì 'o dello inten-
dimento della rettorica, e ne fece chiara diìnostran-
za. Il frate, cercando le magne virtudi di Cicerone, ag-
giunge: si mi mosse talento di volere alquanti mem-
bri del Fiore di rettorica volgarizzare di latino in no-
stra lingua, siccome appartiene allo mestiere de laici,
volgarmente. Onde pare che il tradurre volgarmente, in
volgare, era mestiere dei laici, scrivendo i chierici in
latino. Queste citazioni sono il ritratto del tempo. Ci si
vede la grande impressione che facea su quelle menti
Virgilio e Cicerone, d' arme maraviglioso cavaliere,
frarxo di coraggio, armato dì grande senno, fornito
di scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le
cose, E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della
scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben
dire in pubblico e in priviito bastasse imparare le re-
- 80 —
gole dell'Etica e della Rettorica. Né si re^nvano in vol-
gare le opere sole dell'Antichità, ma anche le contem-
poraiieo scritte in latino. Cito fra gli altri il volgarizza-
mento fatto da Soffredi del Grazia, notajo pistoiesp, dei
trattati di morale, dottissima opera di Albertano da Bre-
scia, scritta in prifrione. Il primo trattato, della di-
lezione di Dio e del prossimo e della forma della
vila onesta, è composto 1' anno 1238. L' opera levò tal
grido, che fu tradotta in francese ed in inglese, e vera-
mente ci è lì dentro raccolta tutta la dottrina del tempo
intorno all' onesto vivere, sacra e profana. L' impulso fu
tale che gli uomini più chiari si volsero a tradurre o
compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale,
di fìsica , di medicina. Ristoro di Arezzo scrivea sulla
composizione della ferra; Cavalcanti scrivea una gram-
matica e una rettorica; Ser Brunetto traduceva il trat-
tato de Inventione di Cicerone, e parecchie orazioni di
Sallustio e di Livio, e sotto nome di Fiore di filosofi e
di molti savi raccoglieva i detti e i fatti degU antichi
filosofi, Pitagora, Democrito, Socrate, Epicuro, Teofra-
sto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone. Ecco i
fiori di Plato:
« Plato fue grandissimo savio e cortese, m parole, e
disse queste seutenzie:
In amistade, né in ffde non ricevere uomo follo: più
leggermente si passa 1' odio de' fohi e dei malvagi, che la
loro compa:rnia.
A neuno uomo ti fare troppo compagno. L'uomo è cosa
troppo singolare; non puote sofferire suo pare, de' suoi
maggiori hae invidia, de' suoi minori hae disdegno, a' suoi
iguaii non leggermente s' accorda.
Quelh sono pessimi e maliziosi nimici, che sono nella
fronte allegri e nel cuore tristi ». .
Secondo la rettorica di quel tempo si diceva Fiore
quel raccogliere il megUo degli antichi e offrirlo al pub-
— 81 —
blico come un bel mazzetto. E sì diceva anchn Ginr-
dino, come spiegava Bono Giamboni nel suo Giardino
di Consolazione, versione del latino : e chiaìnasì que-
sto Giardino di Consolazione, imperò che siccome nel
giardino altri si consola, e trova molti fiori e frutti,
cosi in questa opera si trovano molti e begli detti, li
quali V anima del divoto leggitore indolcirà e conso-
lerà. In effetti questo bel libro, dov' è molta semplicità
e grazia di dettato, è una descrizione de' vizi e delle vir-
tù, con sopra ciascuna materia i detti de' Savii e de' Santi
Padri, tanto che si può veramente dire dell' autore: Il
più bel fior ne colse. Ecco il capìtolo dell' ebrietade :
« Ebrietade, secondo che dice Sauto Agostino, è vile
sepoltura della ragione e furore della mente. Anche di-
ce: l'ebrietà è lusinghiere dominio, dolce veleno, soave
peccato. Anche dice : la ebrietà molti ne ha guasti, to-
glie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno,
accende alla lussuria , mai non tiene segreto , induce a
male parole. Santo Basilio dice: l'ebro, quando per^sa
bere, si è beùto : come lo pesce con grande desiderio in-
ghiottisce r esca nella sua gola e non sente 1' amo ; cosi
r ebro, bevendo il vino , riceve in sé nemico senza ra-
gione. E santo Paolo dice : non t' inebriare di vino, im-
però che di vino esce lussuria ».
Né solo Fiore, o Giardino, ma si diceva pure Tesoro
0 Convito , quasi mostra di ricche pietre preziose, o di
elettissime vivande. Brunetto che scrisse il Fiore, avea
già scritto il Tesoro, in romanzo o lingua francesca.
come piii dilettevole e più comune che tutti gli altri
linguaggi, e voltato poi in volgare da Bono Giamboni.
Il Tesoro é il Cosmos di quel tempo, V universalità della
scienza, come s'insegnava nelle scuole, la Somma o il
Compendio del sapere, e per dirla con le parole di Bru-
netto , un arnia di mele tratta di diversi fiori, un
estratto di tutC i membri di filosofia in una somma
K. De Sanctis — Lett. Ital. Voi. I. 0
— 82 —
hrevemente. Prende capo dalla filosofia siccome radice
di cui crescono titite le scienze, ed è descrizione di Dio,
dell' uomo, della natura. Segue Y etica, o filosofia prati-
ca, e poi la rettorica, ciie ha come appendice la politi-
ca, 0 r arte di ben governare gli stati. È il disegno di
una prima Facoltà universitaria^ che prepara con que-
sti studi i giovani alle scienze speciali. Questa vasta com-
pilazione, di cui non era esempio, parve una maraviglia.
Ma più importanti erano i Trattati speciali, dove gU
scrittori mostravano qualche originalità, come furono i
tre Trattati di Albertano, e il famoso trattato De re-
gimine Principum di Egidio Colonna, dottissimo patri-
zio napolitano, volgarizzato da un toscano.
Il luogo che tenev^a la Fede , venne occupato dalla
Filosofia. Non che la filosofia negasse la fede, anzi era
proprio di quel tempo aver fede in tutto quello che era
scritto ; ma sotto quella forma s' afi'ermava la società
colta, e si distingueva da' semplici e dagl' ignoranti. Il
luogo comune di tutte le invenzioni era l'eterno Giob-
be , 1' uomo colpito dall' avversità che maledice prima
alla vita, e trova poi rimedio e consolazione nella fi-
losofia , ovvero nello studio della scienza , nella visione
delle opere divine e umane. Questo spiega la grande po-
polarità del libro di Boezio, della Consolazione, fon-
dato appunto su questa base, dove la filosofia è rappre-
sentata in sembianza di donna , in tale abito e in sì
mar avig Uosa potenzia, che cresceva quando le piaceva,
tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle
e sopra al cielo, e poggiava a monte e a valle. Tale
è pure la visione di Ser Brunetto Latini nel Tesoretto,
eh' è visione delle cose umane, secondo il corso stabi-
lito a ciascheduna:
Io le vidi ubbidire,
Finire e incominciare,
Morire e ingeutìiartì.
— 83 —
La stessa base ha il libro, Introduzione alle viriUy
di Bono Giamboni. E un giovine, caduto di buono luo-
go in malvagio staio, che narra di sé in questo modo:
« Seguitando il lamento che fece Giobbe , cominciai a
maledire 1' ora e il die che io nacqui e venn' in questa
misera vita, e il cibo cJie in questo mondo m' avea nu-
tricato e governato. E pienamente lattando con guai e
gran sospiri, i quali venieno della profondità del mio petto,
fra me medesimo dissi : Dio onnipotente, perchè mi fa-
cesti tu vivere in questo miserò mondo, acciocch' io pa-
tissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche e sostenessi
cotante pene ? Perchè non mi uccidesti nel ventre della
madre mia , o incontanente che nacqui non mi desti tu
la morte ? Facestilo tu per dare di me esempio alle genti,
che neuna miseria d' uomo potesse nel mondo più mon-
tare ? Lamentandomi duramente nella profondità di una
oscura notte nel modo che avete udito di sopra, e di-
rottamente piangendo, m' apparve di sopra al capo una
figura, che disse: Figliuolo mio, forte mi maraviglio, che
essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, perciocché stai
sempre col capo chinato, e guardi le oscure còse della
terra, laonde sei infermato e caduto in pericolosa ma-
lattia. Ma se tu dirizzassi il capo e guardassi il cielo e
le dilettevoli cose del cielo considerassi, come dee fare
uomo naturalmente, e di ogni tua malattia saresti pur-
gato, e vedresti la malizia de' tuoi reggimenti, e sare-
stine dolente. Or non ti ricorda di quello che disse Boe-
zio : che, conciossiacosaché tutti gli altri animali guardino
la terra, e seguitino le cose terrene per natura, solo al-
l' uomo è dato a guardare il cielo , e le celestiali cose
contemplare e vedere ? Quando la boce ebbe parlato, si
riposò una pezza, aspettando se alcuna cosa rispondessi
o dicessi ; e vedendo che stava mutolo , e di favellare
nessuno sembiante facea, si rappressò verso me, e prese
i ghironi del suo vestimento, e forbimmi ^Yi occhi i quali
— 84 —
erano di molte lacrime gravati per duri pianti eh' io avea
fatto. Allora apersi gli occhi, e guardaimi dintorno e vidi
appresso di me una figura bellissima e piacente, quanto
più innanzi fue possibile alla natura di fare. E delia detta
figura nascea una luce tanto grande e profonda, che ab-
bagUava gli occhi di coloro che guardare la volieno :
sicché poche persone la poteano fermamente mirare. E
della detta kice naseeano sotto grandi e maravigliosi
splendori che alluminavano tutto il mondo. E io vedendo
la detta figura cosi bella e lucente, avvegna che avessi
dallo incominciamento paura, m'assicurai tostamente, pen-
sando che cosa rea non potea cosi chiara luce generare.
Cominciai a guardar la figura tanto fermamente, quanto
la dolcezza del mio viso poteva sofierire. E quando l'ebbi
assai mirata, conobbi certamente eh' era la Filosofia, nelle
cui magioni avea lungamente dimorato. Allora incominciai
a favellare e dissi: Maestro delle virtudi, che vai tu fa-
cendo in tanta profondità di notte per le magioni dei
servi tuoi ? ».
Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la
Filosofia, il cui costrutto è questo : che la vita terrestre
è vita di prova; e la vera vita è in cielo se però poy^i
in pace le pene e le tribulazioni di questo mondo, chi
vuole essere verace figliuolo di Dio, e no?i bastardo,
pensando, che se egli sarà compagno di Dio nelle
passioni, sarà suo compagno nelle consolazioni. La
filosofìa finisce con questo lamento : « 0 umana genera-
zione, quanto se' piena di vanagloria, e hai gh occhi della
mente, e non vedi ! Tu ti rallegri delle ricchezze e della
gloria del mondo, e di compiere i desiderii della carne,
che possono bastare quasi per uno momento di tempo ,
perchè poco basta la vita dell' uomo : e queste sono ve-
racemente la morte tua, perchè meritano nell' altro mondo
molte pene eternaH. E della povertà e delle tribulazioni
del mondo ti turbi e lamenti, che poco tempo possono
—.80 —
durare: e queste sono veracemente la tua vita, perchè
se si comportano in pace meritano nell'altro mondo molta
gloria perpetuale. Disse uno savio: quello che ne diletta
nel mondo, è cosa di momento, e quello che ne tormenta
neir altro, durerà ma' sempre ». E segue, citando i detti
dell'Apostolo, di san Pietro, e di Salomone.
Questo era il tema comune delle prediche, salvo che
qui il predicatore è la Filosofìa, che si fa interprete di
Dio, e cita Salomone e san Pietro e i Santi Padri. Que-
sto concetto è l' idea fondamentale della leggenda, una
storia fantastica, la cui base è il peccatore condannato
0 redento. In queste leggende Dio e il demonio sono g\i
attori principali ; Dio, che co' suoi Angioli e le sue virtù
tira r anima, alla rinunzia de' beni terrestri e alla con*
templazione delle cose celesti, e il demonio che la tiene
stretta e affezionata alla terra. L' uomo, mosso dalle na-
turali inchnazioni, vende 1' anima al demonio pur d' es-
ser felice in terra, e lo spettacolo finisce nelle tenebre
e nel fuoco dell' Inferno. Ma spesso la tragedia si solve
nella commedia, cioè nel trionfo e nel gaudio dell' ani-
ma, quando, ajutata dalla divina grazia, sa riscattarsi
dal demonio e acquistare il Paradiso. Questa lotta tra
Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi,
che nella Introduzione alle Virtù del Giamboni la Filo-
sofia mostra al suo servo , perchè in quella immagine
fortifichi la sua fede. Questa è pure la base della leg-
genda del Dottore Fausto, che vendè l'anima al diavolo,
leggenda cosi popolare al medio evo, e resa immortale
da Goethe. E questo è anche il concetto del mondo li-
rico dantesco, dove Beatrice diviene la Filosofia, e le
gioie e i dolori dell'amore terrestre svaniscono nella con-
templazione intellettuale della Scienza.
Così il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso con-
cetto, esposto in prosa e in poesia. Brunetto, Giamboni
e Dante s'incontrano nella stessa idea, o per dir megho
— 86 —
era questa l' idea comune, elaborata in tutto il medio evo,
e che sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e
distinta, consapevole di sé. Ma in prosa non trovò quel-
r adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo
lirico. Mancò la leggenda^ come era mancata la novella,
e mancò il romanzo religioso o spirituale, com' era man-
cato il romanzo cavalleresco. Lo scrittore è più intento
a raccogliere che a produrre. Fra tanti fiori e Giardini
e Tesori manca Y albero della vita, 1' anima impressio-
nata e fatta attiva che produca. Ci è un lavoro di tra-
duzione e di compilazione, non ci è ancora un lavoro di
assimilazione, e tanto meno di produzione. Le ricchezze
son tante, che tutta 1' attività dello spirito è consumata
a raccoglierle, anzi che a crearne di nuove. Senti una
stanchezza a leggere queste traduzioni. o compilazioni,
dove niente è affermato senza un tpse diocit, o piutto-
sto ipse dixerunty tante e cosi accumulate sono le ci-
tazioni. E non ci è tregua, non digressioni, non varietà
in questi Giardini, dove hai innanzi un cicerone insop-
portabile, sempre con la stessa voce e lo stesso tuono-
Nessun movimento d'immaginazione o di affetto; nes-
sun vestigio di narrazione o descrizione ; l' esposizione
didattica, il trattato, riempie l' intelletto, e t' uccide l'ani-
ma. L' espressione più chiara del secolo furono i dottis-
simi Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e com-
pilatori infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le
opere avanti accennate , ha tradotto pure le storie di
Paolo Orosio, Y Arte della Guerra di Flavio Vegezio e
la Forma di onesta vita di Martino Dumesse.
La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltà, è
di aver preparato il secolo appresso, lasciandogh in ere-
dità una ricca messe di cognizioni fatte volgari, e la lin-
gua e la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel
tradurre fu un esercizio utilissimo, che diede forma e
stabilità alla nuova lingua, e quella pieghevolezza ed. evi-
— 87 —
denza che viene dalla necessità di rendere con esattezza
il pensiero altrui. Principe de' traduttori fu Bono Giam-
boni, così terso e fresco che molte pagine con lievi cor-
rezioni si direbbero scritte oggi, sopratutto dove sono
descrizioni di animali o di virtù e di vizi.
In queste prose didattiche non ci è di arte neppure la
intenzione. Ai contemporanei di Gino, di Gavalcanti, di
Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare as-
sai povera cosa. E si venne confermando 1' opinione che
il volgare non fosse buono che a dire di amore, e che
le materie gravi si dovessero trattare in latino, come co-
stumavano gli scrittori di polso.
V.
I MISTERI E LE VISIONI.
Al punto a cui siamo giunti, ci si porge chiara l' im-
m-àgine del secolo decimoterzo. Due sono le fonti di quella
letteratura primitiva : la cavalleria e le sacre scritture.
L' eroe della cavalleria , il cavaliere , è V uomo che si
sforza di reahzzare in terra la verità e la giustizia, di
cui è immagine la donna, suo culto e amore. La sua
vita è attiva, piena di avventure e di fatti maravigliosi.
Senti la sua presenza nella più antica lirica, nelle no-
velle, ne' romanzi e nelle cronache. Ma la cavalleria, ve-
nutaci di fuori, con gli stranieri che occupavano il no-
stro suolo, non prese radice, non si sviluppò non produsse
alcuna opera originale , rimase stazionaria. Perdette il
suo carattere serio e quasi religioso e restò un puro gioco
d'immaginazione, che si mescola come colorito e acces-
sorio in tutte le storie, sacre e profane. Di ben altra
efficacia era l' idea religiosa, penetrata ne' sentimenti e
ne' costumi, e nelle istituzioni, compagna dell'uomo in
tutti gli stati della vita. L' eroe cristiano è chiamato pure
Cavaliere, il Cavaliere di Cristo, ma è un eroe contem-
plativo, il cui tipo è il Frate, il Romito, il Santo. Come
il Cavaliere errante, anche lui rinunzia ed ha a vile i
beni terrestri, ma la vita dell'uno è militante, quella
dell' altro è contemplante; ci è in fondo la stessa idea,
di cui l'uno è il soldato, 1' altro è il sacerdote. Certo,
questi due tipi entrano spesso 1' un nell' altro, e il Frate
diviene il Templario o il Cavaliere di Malta, soldato della
Fede, e il Cavaliere errante finisce romito e penitente.
Ma il cavaliere, gittandosi nelle più strane avventure,
dimentica e fa dimenticare il cielo, attirata 1' attenzione
dal maraviglioso delle opere, sì che destano uguale cu-
riosità e interesse le gesto de' cristiani e de' saracini,
eia rappresentazione rimane terrena. L'altro al contra-
rio, passando la vita ne' digiuni, nella povertà,- nella ca-
stità, e nell'orazione, 6i tien sempre viva innanzi l' imma-
gine dell' altro mondo, e perciò questa vita contemplativa
è schiettamente rehgiosa ; anzi è ivi la perfezione, ivi il
più alto ideale. La passione dell' anima è 1' esser legata
al corpo, alla carne, e la sua beatitudine o santificazione
è sciogliersi da quella e star con Cristo : al che è via
la contemplazione e la preghiera. Nelle tre allegorie sul-
r anima pubblicate dal Palermo è detto : ogni bene e
virtù, qualunque vogli, è buono in sé medesimo, ma
la preghiera solamente trae a sé tutte le altre virtii^
In queste allegorie compariscono tre esseri, che sono i
tre gradi della santificazione: Umano, Spoglia e Rin^
nova. Dapprima Y anima, impacciata dal terrestre, dal-
l' limano, non può scorgere il vero, che sotto figura, nel
sensibile. Il secondo essere, Spoglia, è la virtù che monda
e purga l'anima dagh ajBfetti terrestri, insino a che viene
Riìinova, luce mentale, che rinnova V anima in tutto
e mostra la verità senz' ombra e senza figura. Que-
sti tre gradi di santificazione comprendono tutta la vita
— 89 —
del cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e rella carne,
non vede che un barlume del Vero, e non giunge all'ulti-
ma luce mentale, all' ultimo grado, se non purificandosi
e mondandosi della parte terrestre. Anch' egli ha le sue
battaglie, ma col demonio e con la carne, ch'egli macera
e mortifica d' ogni maniera, e le sue armi sono la con-
templazione e la preghiera. Il maraviglioso di questa vita
non è solo ne' miracoH, ma in quella forza di volontà
che trae 1' uomo a vincere tutti gli affetti e le inclina-
zioni naturali, com' è in Santo Alessio, il tipo più com-
movente di questi cavalieri di Cristo. La creazione del
mondo, il peccato originale, le. profezie, la venuta di Cri-
sto, la sua passione, morte e trasfigurazione, l'anticristo
e il giudizio universale sono 1' epopea, il fondo storico a
cui si annodano tante vite di Santi. E questa storia del-
l' umanità era tutt' i giorni innanzi al popolo, nella pre-
dica, nella confessione, nella messa, nelle feste. La messa
non è altro che una rappresentazione simbolica di que-
sta storia , un vero dramma senza che ce ne sia Y in-
tenzione, rappresentato dal prete e da' Fedeli. Ogni atto
che fa il prete, è pieno di significato, è rappresenta-
zione mimica. La prima parte della messa è epica o nar-
rativa ; è il Verbum Dei, V esposizione che comprende
le profezie e il Vangelo, e finisce con la predica. La se-
conda parte è drammatica, è l'azione, il Sacrificmm,
V adempimento delle profezie. La terza parte è lirica, co-
me nelle risposte de' Fedeli (il coro) al Prete o quando
due Cori si alternano nel canto, e negl' inni, e nelle pre-
ghiere : ciò che ha luogo principalmente nella Messa can-
tata. Aggiungi le immagini de' Santi e i fatti dell' antico
e nuovo Testamento in quelle cappelle, in quelle finestre
variopinte , in quelle cupole , e quelle grandi ombre , e
quelle moli restringentisi sempre più e terminate da croci
slanciate verso il cielo, ed avrai l' immagine e V effetto
musicale di questo stacco dalla terra, di questo volo del-
— 90 —
l'anima a Dio, Dopo l'è vangelo, il Predicatore talora,
per fare più effetto sull' immaginazione, esponeva la sua
storia sotto forma di rappresentazione, come si fa in parte
anche oggi ne' Quaresimali. I monaci e i preti rappre-
sentavano il fatto , e il predicatore aggiungeva le sue
spiegazioni e considerazioni. Era una rappresentazione li-
turgica, cioè legata al culto, parte del culto, detta Di-
vozione o Mistero. Di tal natura sono due Divozioni, che
si rappresentavano il giovedì e il venerdì santo, e sono
piuttosto due atti di una sola rappresentazione^ che due
rappresentazioni distinte. La prima comincia col banchetto
che Cristo ebbe in casa di Lazzaro, sei giorni avanti Pa-
squa, e che qui è il giovedì santo. Cristo viene da Ge-
rusalemme ; Maria con Maddalena e Marta gli va incon-
tro. Maria prega il figlio di non tornare a Gerusalemme,
perchè vogliono la sua morte. Cristo risponde dover ub-
bidire al Padre: pur si conforti, che niente farà che non
lo dica a lei. Alla fine del banchetto Cristo scopre a Mad-
dalena che dee ire a Gerusalemme, dove patirà il sup-
plizio della croce e le raccomanda la Madre. Cristo esce.
Sopraggiunge Maria che ha visto il figlio turbato, e la
prega a svelarle quello che il figlio le ha detto. Mad-
dalena tace. E la madre va a Cristo tutta in lagrime,
e dice :
Dimmelo, figlio, dimmelo a me,
Perchè stai tanto affannato?
Amara me, piena di sospiri,
Perchè a me lo hai celato?
De gran dolore se spezzano le vene,
E de la doglia, Fighe, m' esce il fiato.
Che t' amo, o figlio, con perfetto core,
Dimmelo a me, o dolce Signore.
Cristo dice che pel riscatto del mondo d^e ire a morte ,
e Maria sviene. Tornata in sé, e lamentandosi racco-
manda il figlio a Giuda che risponde in modo equivoco:
— 91 —
So quello che ho a fare. Poi si volge a Pietro, che pro-
mette difendere il figlio contro tutto il mondo. Giunti a
una porta della città, Maria non vuol separarsi dal fi-
glio, ma quando non lo vede più e sa che per un' altra
porta è entrato in Gerusalemme, fa pietosi lamenti in-
nanzi al popolo :
0 figlio mio, tanto amoroso,
0 figlio mio, dove sei tu andato/
0 figlio mio, tanto grazioso,
Per qual porta sei tu entrato ?
0 figlio mio, assai dilettoso,
Tu sei partito tanto sconsolato.
Ditemi, donne, per amor di Dio,
Dove è andato il figlio mio ?
Segue il racconto secondo la Bibbia. Le parole di Cri-
sto tolte al Vangelo sono dette in latino. E la Divozione
finisce con la prigionia di Cristo.
La Divozione del venerdì Santo racconta la passione
e la morte di Cristo. Il Predicatore interrompe la rap-
presentazione con le sue spiegazioni, e fa cenno quando
si ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte.
Mentre Cristo prega pe' suoi nemici, ella dice alla croce:
Inclina li tuoi rami, o croce alta,
Dona riposo a lo tuo Creatore ;
Lo corpo precioso ja si spianta ;
Lassa la tua forza e lo tuo vigore.
Cristo la raccomanda a Giovanni, che inginocchian-
dosi e baciandole i piedi cerca racconsolarla. Ma essa
abbraccia la croce e si lamenta :
0 figlio mio, figlio amoroso,
Come mi lassi sconsolata I
0 figlio mio tanto precioso,
Come rimango trista, addolorata I
— 92 —
Lo tuo capo è tutto spinoso,
E la tua faccia di sangue bagnata,
AJtri per te non voglio per figlio,
0 dolce fiato e amoroso giglio.
Quando Cristo muore, Maddalena gli sta a' piedi, al
capo Giovanni, Maria nel mezzo. E bacia il corpo di
Cristo, gli occhi, le guance, la bocca, i fianchi, le mani,
C071 le quali henediva il mondo, i piedi su' quah Mad-
dalena sparse tante lagrime.
Queste rappresentazioni erano antichissim*e , e si scri-
vevano in latino, come il Ludus Paschalis, rappresen-
tazione di Pasqua, dove è messo in azione l'Anticristo.
Le due Divozioni avanti discorse non sono probabilmente
che versioni o imitazioni di opere più antiche, rimase
nella tradizione. Tale era pure la Rappresentazione del
Nostro Signore Gesù Cristo, che ebbe luogo a Padova
nel 1243, e il Ludus Christi, una Trilogia rappresen-
tata dal Clero in Cividale negli ultimi due giorni di mag-
gio il 1298. Nella Pentecoste e ne' tre seguenti giorni
il Capitolo di questa città in presenza del Vescovo e del
Patriarca di Aquilea diede questa serie di rappresenta-
zioni: la Creazione di Adamo ed Eva, la Profezia o T an-
nunzio, la nascita, morte e risurrezione di Cristo , la di-
scesa dello Spirito Santo, l'Anticristo, e la venuta dì Cri-
sto nel giudizio universale. Era tutta l'epopea biblica,
fatta evidente e sensibile dalla musica, dal canto, dalle
scene, dalla mimica e dalla parola. Tale era pure la Pas-
sione rappresentata a Roma nel Coliseo il venerdì santo
dalla Compagnia del Gonfalone nel 1264.
Queste rappresentazioni, di cui i Preti erano attori e
attrici, avevano tutto il carattere di solennità o feste o
cerimonie religiose. Il diavolo vi ha pure la sua parte
di tentatore, ma parla in modo serio e semplice, se-
condo la sua natura, e non ha niente di grottesco e di
— 93 —
ridicolo, Chiuse nel recinto delle Chiese, de' Conventi e
delle Curie vescovili, rimangono tradizionali e immobili,
senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon in
parte nelle feste del contado.
La naoralità di queste rappresentazioni era che il fi-
ne dell' uomo è nelF altra vita, o come si diceva, è la sal-
vazione dell' anima, che per conseguire questo fine si ha
a imitare Cristo, soffrire in questo mondo per godere
nell' altro. Perciò l' ideale, 1' eroico o come si diceva la
perfezione della vita era il dispregio de' beni di questo
mondo, la resistenza a tutte le inchnazioni naturaU e il
vivere in ispirito nell' altro mondo con la contemplazione
e la preghiera. Questa è la vita de' Santi, della quale si
dava anche rappresentazione a' Fedeli. E tra le più an-
tiche è una ancora inedita, che ha per titolo : d' uno Mo-
naco che andò a servizio di Dio, probabilmente reci-
tata a Monaci da Monaci in un convento. L' eroe è que-
sto monaco, un giovinetto che resiste alle lacrime della
Madre, alle querele del padre, alle tentazioni del com-
pare, e si rende frate nel deserto, dove è accolto come
' figlio da un romito. Ma ivi prove più dure l' attendano.
Mentre egli va a raccogliere per il pasto radici, frutta,
castagne e noci, il Romito prega, e mosso da curiosità,
chiede a Dio qual luogo spetti al suo Novizio in para-
diso, e un angiolo risponde che sarà dannato. Non per-
ciò della notizia si turba il giovinetto, anzi risponde tran-
quillo che continuerà ad amare e servire Dio. Invano il
demonio lo tenta , dicendogli che ha guastato V amor
naturale^ e che il meglio sarà tornare in casa del pa-
dre, che forse Dio gli avrà misericordia. Il giovinetto
con gli scongiuri fuga il demonio, e rimane fermo nella
sua risoluzione. Allora 1' angiolo annunzia al romito che
egU è salvo. E il Monaco e il Romito intuonano il Te
Beum 0 una Lauda. Neil' epilogo o commiato sono esor-
tati gli spettatoli a castigare la carne e a pensare alia
— 94 —
vita eterna. Anima della rappresentazione è l'invitta fede
del giovane monaco, che la preghiera e la contempla-
zione è la più sicura guardia contro il peccato e la ten-
tazione della carne , e che si giunge alla santificazione
col rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in Dio.
Questo concetto è espresso in una forma scolastica nel
canto del Monaco, di cui ecco alcuni brani:
L' anima sensitiva che s' inchina
Nel mondo a tutto quel che la diletta.
Apprezza poco la legge divina.
L'alma piena di fede e semplicetta
Spesso si leva pura a contemplare
Quel ben che veramente la diletta.
E quando a quel più intenta esser le part5
Allor dal grave corpo è sì costretta,
Che giuso afflitta le convien tornare,
E umile e isdegnosa piange e dice:
Deh! chi mi sturba esser felice?
Quell'anima gentile è sempre viva,
E vive Iddio in lei per unione,
E tutta sta nella contemplativa.
E gode tutta ; e s' ella ha passione,
È per esser legata al corpo tristo,
Dal qual desia disciorsi e star con Cristo.
Ci è una rappresentazione, intitolata, Commedia del-
V anima, che è una storia ideale della vita de' Santi, una
specie di logica, dove sono le idee fondamentali della
santificazione, 1' ossatura e lo scheletro di tutte le vite
de' Santi. L' anima esce pura dalle mani di Dio e a sua
immagine. Dio la contempla con amore, dicendo:
Quando io risguardo quella creatura,
Che air immagine mia io ho formata,
E eh' io la veggo immaculata e pura
Starmi dinanzi, la m' è accetta e grata:
— 95 —
Ma r ha bisogno d' una buona cura.
La quale a custodirla sia parata ;
E percliè ha in sé l' immagine di Dio,
Vo' che la guardi un Angel santo e pio.
Ma il demonio invidioso che si vii cosa abbia a fruire
quel regno, del qual esso è 'privato, si apparecchia a
darle battaglia. L' angelo custode conforta 1' anima e le
presenta la Memoria, l'Intelletto e la Volontà: le sue
votenzie. L'Intelletto parla dopo la Memoria e dice:
10 sono di te la seconda potenzia
E il nome mio è detto Inteliigenzia.
La mia quiete si sta nel verbo eterno,
E quivi sempre debbo esser saziato :
Però che in questo esilio io non discerno
Com' io sarò in quel regno beato.
Allora io sarò sazio in sempiterno,
E quivi il mio obbietto arò trovato,
Fermandomi in quel razzo rilucente,
Che senza quello inquieta è la mia mente.
Lievati sopra te tutta in fervore,
E guarda un po' del Ciel queir ornamento,
Vedrailo circondato di splendore.
Poi pensa, anima mia, quel che v' è drento
Lascia un po' star le cose esteriore,
Se Tuoi aver di quello intendimento:
Per questo i Santi tutti innamorati
11 mondo disprezzorno, pompe e stati.
1S la Volontà dice:
Io son la Volontà che ho a fruire
Quel ben che ha dichiarato l' intelletto,
E in quel fermando tutto il mio desire,
Perchè creata sono a quest' effetto.
E perchè V occhio corporal non vede.
Credendo ho da seguir con pura fede.
— 93 —
L' Intelletto dice alla Volontà :
A te si appartien sol deliberare
Di far quel che ti è mostro fedelmente ;
L' ufìzio tuo è sempremai d' amare
E unirti con Dio perfettamente.
E la Volontà risponde :
Nella tua spera io. m'ho sempre a guardare,
Benché la mostri un po' con pura mente ;
Quand'io sarò nella gloria beata,
Ciascuna cosa mi fia dichiarata.
L' anima confortata alza la preghiera a Dio, e l'Angelo
custode aggiunge :
Dagli, Signore, un'ardente fiammella,
Che la difenda dal Drago feroce :
Tu sai che l'è nel corpo incarcerata,
E non può a te senza te esser grata.
Cioè a dire non bastano le tre potenzie naturali, Me-
moria, Intelligenzia, Volontà, perchè l'anima piaccia al
Signore ; ci vuole anche la sua grazia, l' ardente fiam-
mella che dee cacciare il Drago, il demonio. E Dio manda
ad assisterla le virtù teologiche, Fede vestita di colore
celeste, con una croce nella mano destra e nella sinistra
un calice e suvvi la patena. Speranza vestita di verde,
con gli occhi fissi al cielo e le mani giunte. Carità ve-
stita di rosso, con un parvolino per mano. Intanto il de-
monio chiama l' Eresia, la Disperazione, la Sensualità e
tutte le sue forze capitanate dall' Odio. Le tre Virtù in-
torniano r anima. La Fede dice dell' esser suo, e S. Gio-
vanni Crisostomo celebra la sua potenza. Ma l'Infedeltà
con acri parole la rampogna ;
Ei vien da levità chi crede presto.
Tu ne sei ita quasi che per terra,
E puossi dir che la fede è mancata;
Uomini grandi e dotti ti fan guerra.
Chi t'esaltò, or t'ha perseguitata:
Va nel Levante e in tutto 1' Occidente,
E guarda di noi dua chi ha più gente.
Allora la Speranza viene in soccorso :
Leva su gli occhi alla città superna
Ch' è fabbricata senza ingegno umano.
Ma l'anima teme, pensando la sua debolezza:
Come io digiuno un dì, io son sì bianc^,
Che par che un curandajo m'abbi imbiancato;
Io mi starei a dormir sur una panca,
E il corpo vuole un letto sprimacciato.
La speranza le pone avanti 1' esempio de' Santi e so-
prattutto di Santo Agostino,
Quando diceva orando: Signor mio,
Questo mio cor non si può consolare:
Tu solo sei quel che lo puoi quietare.
Allora r assale la Disperazione e dice :
Pensa che la giustizia ara il suo loco;
E tu hai fatti assai ben di peccati:
0, tu dirai: io non vo' disperarmi,
Perchè Dio è parato a perdonarmi.
Ma l'anima risponde allo scherno, cacciandola da se:
E tu va via, bestiaccia maledetta.
Segue un' altra disputa tra la Carità, della quale San
Paolo celebra le lodi, e l'Odio, in cui spunta 1' ombra di
un carattere, qualche cosa di simile a un Capitano millan-
tatore.
Voltati in qua, porgimi un po' 1' orecchio,
E non guardar eh' io sia canuto e vecchio,
De Sanctis — Leti Ital. Voi. 1. 7
— 98 —
Guardami un pò* s' io sono un bel vecchiardo,
E per antichità tutto canuto,
Neil' operar son giovane e gagliardo,
A ricordar l' ingiuria molto astuto,
Nel mio discorrer non son pigro o lardo,
Conosco tutte le persone al fiuto;
Subito che tu pigli qualche sdegno,
In un momento io vi fo su disegno.
La Carità ti esorta a perdonare,
Ed io ti dico: non lo voler fare.
Il perdonar vien da poltroneria
E d' animo eh* è pien di debolezza;
E chi t' ingiuria e dice villania,
Quando che tu sopporti, e' vi si avvezza:
Prendigli il cambio a ognun, sia eh, si sia.
Mettigli al collo una grossa cavezza,
Non lasciar mai la vendetta a chi resta,
E a chi fosse, dagli in su la testa.
Io venni qui con una spada in mano
Per istar teco e messimi 1' elmetto,
lo son del Satanasso capitano,
Ottengo volentier quel ch'io prometto:
Quando io veggo per terra il sangue umano,
Mi genera a vederlo un gran diletto,
E tengo sempre il mio cavai sellato
Per esser presto presto in ogni lato.
0 quante brighe, o quante occisioni
Son per me fatte in città e in castella:
Ho buon affar nelle religioni.
Me ne vo pe' Conventi in ogni cella.
Metto r un 1' altro in gran divisioni.
Facendo mormorar di chi favella.
Poi mi metto in cammino e in poche ore
Mi trovo in corte di qualche signore.
L' ultima battaglia è tra il senso o la sensualità e la
Ragione. L'anima pregando si sente sopraffatta dal corpo :
— 99 —
Io ti vorrei, Signor, sempre servire.
Ma questo corpo m' è sempre molesto ;
Ohe s'io voglio vegliare e' vuol dormire
Ogni po' di disagio lo fa mesto,
E comincia di fatto a impallidire:
La sensualità che vede questo
Mi dice: tu vorrai volar senz'ale,
E dare un buon guadagno allo spedale.
E la Sensualità così invocata le dice beffando :
Tu vorresti ire al ciel cosi vestita :
Io ti vo' dire il ver senza rispetto :
A me pare che tu ti sia smarrita,
Faresti meglio a picchiarti un po' il petto:
Non vorresti patir caldo, né gielo,
E calzata e vestita andare in cielo.
Ma ecco la Ragione dire all' anima :
Deh dimmi, anima mia, che hai tu avuto.
Io m' era appunto appunto addormentata.
E saputo il fatto, dice della sua nemica :
Ella è una bestiaccia sì insolente.
Bisogna non lasciar punto la briglia:
Battila spesso senza discrezione,
E non gli mostrar mai compassione
Ma che dovevo fare ? dice V anima.
Dovevi tutta aprirti nelle braccia,
A pigliare una mazza tanto grossa.
Ohe rompessi la carne e tutte 1' ossa.
La sensualità non se ne spaventa, e dopo uno scambio
di villanie aggiunge :
Questa Ragiono è sol l' ipocrisia,
E non sa appena dir V ave Maria.
— 100 —
E m* incresce di te che hai questo sprone,
Bisognerà che tu te lo cavassi.
Deh fa a mio modo, piglia un buon mattone.
Dagli nel capo che tu lo fracassi.
La sta il di e la notte inginocchione
Col collo torto e dice pissi passi:
Piglia qualche piacer, deh fa a mio modo.
Che a dargli un po' di spasso gli è dovuto.
La Ragione è vinta e l'anima cede. Ella desidera una
ghirlanda con un nodo,
Come di quelle eh' io ho già veduto.
E il demonio aggiunge:
Fatti un bel tocco di velluto rosso
E una zimarra per tenere in dosso.
Cosi la Ragione è impotente senza la Grazia. Compa-
risce Dio stasso:
Voltati a me, non mi far resistenza,
Ch'io t' ho aspettato e aspetto a penitenza.
L'anima pentita del mal pensiero risponde:
Non merito da te essere udita
Pe' miei gravi pensieri, iniqui e stolti :
Io ho la tua bontà tanto schernita,
Ch' io non son degna che tu mi ti volti,
E senza te io son come smarrita,
Nessun non trovo che il mio cor conforti :
Se tu. Signor, che hai per me il sangue sparso.
Non mi soccorri, ogni rim e dio è scarso.
Allora Dio le manda in soccorso le virtù cardinali. Pru-
denza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Misericordia, Po-
vertà, Pazienza, Umiltà. Ciascuna parla di sé, citando
talora questo o quel passo della Bibbia. Ecco alcuni
brani :
— 101 — .
Prudenza — Io ti conforto che tu sia prudente
In tutte r opre tue come il serpente.
l^cmperanza — Terrai la via del mezzo in ogni cosa,
E sarà la tua mente graziosa
Fortezza — Tullio dice di me questa parola,
Che ognun venga a imparare alla mia scuola.
Che la fortezza ancor rapisce il cielo,
♦ Lo dice san Matteo nell' Evangelo.
Giustizia — Dice David con la sua voce amena:
Di Giustizia è la destra di Dio piena.
Misericordia — MerC'^, mercè, o Giustizia divina,
Abbi pietà dell' alma pellegrina,
Perdona volentieri a chiunche erra,
Che son richiusi in un vaso di terra.
E questo vaso è sì pericoloso,
jNel quale sta rinchiusa questa gioia.
Mentre che 1' alma resta in questa vita,
Di lacci trova presi tutti i {)assi:
Però bisogna a lei il divino ajuto,
Che senza quello ogni cosa è perduto.
Povertà — Io son la Povertà, o città mia.
Che non so chi mi voglia in compagnia,
E son quella virtù che da' potenti
Son rifiutata e mandata al profondo:
Ison è nessun che di me si contenti.
Eziandio que' che han lasciato il mondo.
Ognun va dreto a' ricchi e bei presenti,
Ma io di mendicar non mi vergogno,
Perchè gli è di me scritto nel Vangelo:
Quel che mi segue ara il regno del cielo.
Pazienza — 0 popul mio, io son la Pazienzia;
Che più non ho chi mi dia udienzia.
0 degna Povertà, virtù perfetta.
Che tanto fusti accetta al Verbo eterno,
Felice a quella che ti sta suggetta,
Nel Ciel sarà felice in sempiterno,
Che non si può godere in questa vita,
E il Paradiso avere alla partita.
— 102 —
Povertà — . . . . M' affliorpfo e doglio
Che la perfez'on quasi è mancata,
Non è più il tempo de* padri pascati,
Ch' erano pover, vili e disprezzati.
Pazienza — Chi pensa andare al Ciel per altra via.
Che per patir, si troverà ingannato.
Gesù diletto figliuol di Maria
ì^e ha dato esempio e a tutti ha insegnato.
Per dimostrarci che s' avea a patire,
Elesse su la Croce di morire.
Umiltà — L' Umiltade son io, fratei diletti,
Oggi non e' è nessun che mi raccetti.
Vestitevi di Cristo, o genti stolte,
Non vi avvedete voi che il tempo vola?
Non entra in paradiso alcun difetto.
Non v' entra quel che a Dio non è soggetto.
Andiam cercando, care mie sorelle,
Per tutto il mondo un po' nostra ventura:
Se nel gregge di Cristo una di quelle
Ci ricevessi con la mente pura.
Perchè noi siam vestite poverelle,
Non vorrei gli facessimo paura:
Ch' oggidì le virtù non son richieste,
Ma fassi onore a chi ha le belle veste.
L^ anima contrita e fortificata alza un canto a Dio:
A te mi do. Signor clemente e pio,
E voglio a te servir tutt' i miei anni,
Altro che te non bramo e non desio.
Io ho fuggito il mondo pien d' affanni,
Dove si trova sol doglia e mestizia,
Ben è infelice chi veste suo' panni.
Ei mostra nel principio la letizia,
E di dover donar pace e riposo:
Di poi non dà se non pianto e tristizia.
0 mondo cieco, falso e tenebroso,
Che hai tanti amatori in questa vita,
— 103 —
E non mostri il velen che hai drento ascoso
Per dolenti poi farli alla partita.
Colpita da grave infermità dice:
0 m' è venuto tanto male addosso
Che più star ritta niente non posso.
Che vuol dir questo ? ei mi manca la vita.
Gesù Gesù, dolce Signore, aita.
Intorno alla morente fanno l' ultima battaglia 1' angiolo
e il demonio. Gli argomenti dell' angiolo si possono ri-
durre in questi tre versi :
Umana cosa è cascare in errore,
E angelica cosa il rilevarsi,
Sol diabolica cosa è star nel vizio.
Dio accoglie 1' anima e pronunzia il suo giudizio :
E questa è la mia ultima sentenzia,
Che la venghi a fruir la mia presenzia.
E r angiolo dice :
Partite tutti: la sentenza è data:
Sonate per dolcezza una calata.
E il coro accompagna l' anima al cielo con questo
canto:
0 felice Alma, che dal corpo sciolta
E per amor congiunta col tuo Dio,
La vita t' è donata e non t' è tolta,
Sei fatta ricca di un prezzo sì pio,
E con veste si bella e nuziale
Al convito starai celestiale.
Cosi finisce questa rappresentazione, detta Comme^
dia, perchè si conchiude con la salvazione e non con
la perdizione dell' anima. E detta anche misterio^ per la
sua natura allegorica. È uno degli antichissimi misteri
— 101 —
liturgici, ritoccato, ripulito, rammodernato e fatto laico
a' tempi di Lorenzo de' Medici e forse più in là, a giudi-
care dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di
formazione artistica, come nelle figure del demonio, del-
l' odio, della sensualità, della povertà, e da un certo non
so che befiardo e grottesco, che svela poca serietà e un-
zione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la trama
è moderna, la stoffa è antica , e ricorda il duello del
senso e della ragione, cosi comune negli scritti volgari
che apparvero prima, e la battaglia de' vizii e delle virtù
del Giamboni, e le tre allegorie cristiane. Anzi questa
Commedia dell' anima non è se non le tre allegorie messe
in rappresentazione. Là trovi tre gradi di santificazione.
Umano, Spoglia e Rinnova. E anche qui 1' anima è prima
combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci, perchè umana
cosa è cascare in errore, poi fa la sua penitenza , si
spogha e si monda della scoria del peccato, e così a Dio
si rimarita, come dice Dante, o, come dice il nostro au-
tore, sta al convito celestiale con veste bella e nuziale.
Questi tre gradi aveano la loro formazione Hturgica nel-
' Inferno, Purgatorio e Paradiso, che erano appunto il
senso, l'umano puro, abbandonato a sé stesso, lo Spo-
gha 0 la penitenza che purga o monda 1' anima, e il Rin-
novamento 0 la luce mentale, la beatitudine. Questo era
il concetto delle rappresentazioni che avevano a materia
l' altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni
Villani, che ebbe luogo a Firenze. L' altro mondo era la
storia, 0 come si diceva la commedia dell' anima, la quale
non potea giungere a redimersi dall' umanità, dal corpo,
dalla carne, dall' inferno, se non con la penitenza puri-
ficandosi e purgandosi, e cosi contrita e confessa dive-
niva leggiera, saliva al Cielo. Questa Commedia spiri-
tuale dell' anima, di cui ho voluto dare un sunto possi-
bilmente esatto, è il Codice di quel secolo, il contenuto
astratto e generale, particolarizzato nelle vite, nelle leg-
— 105 —
grande, ne' Trattati e nplla Lirica, Spiritus inixis aJif. Lo
spirito che alita per entro a quelle prose e a quelle poe-
sie è la Commedia dell' anima.
Ma in tante prose e in tante poesie non ci è ancora
un vero lavoro d' individuazione e di formazione. Il con-
tenuto rimane nella sua astratta semplicità, innominato
e impersonale, l'anima. Essendo il suo fondamento la
contemplazione, e non l'azione, o un'azione negativa, la re-
sistenza agi' istinti e agli affetti naturali nen penetra nella
vita, non ne assume tutte le forme, non diventa la so-
cietà. Certo, queir azione negativa e molto poetica, e il
sublime religioso, e tocca il cuore, quando è rappresen-
tata con semplicità e unzione. Ma in questo contrasto
tra il sentimento religioso e la natura, ciò che move più
è il grido della natura, come ne' lamenti della madre di
Santo Alessio o di Santa Eugenia, o nel dolore d' Isacco
nel Sacrifizio di Ahraam, che all'annunzio della sua
morte chiama la madre :
0 santa Sara, madre di pietade,
Se fussi in questo loco, io non morrei.
Tutta è r anima mia trista e dolente
Per tal precetto, sono in agonia:
Tu mi dicesti già che tanta gente
Nascer doveva della carne mia.
Il gaudio volge in dolor si cocente,
Che di star ritto non ho più balìa.
S'egli è possibil far contento Dio,
Fa eh' io non mora, o dolce padre mio.
Quantunque questo non sia che uno de' lati più angu-
sti e solitarii della vita umana, così ricca e varia nei
suoi aspetti, pure offre contrasti e gradazioni, che lo ren-
dono capacissimo di un grande sviluppo artistico. Ma in
quel suo albore la letteratura ha lo stesso carati ^re che
mostra nella decadenza, la naturalità o materialità del
contenuto. Tante vite e storie e leggende e visioni stuz-
— 103 —
zìcavano la curiosità con la varietà e novità (hgìì acci-
denti, e si attendeva più allo spettacoloso, a colpire l' im-
maginazione con apparizioni nuove e meravigliose, che
a lavorarle e svilupparle. Mancava la virtù di mettersi
gli oggetti a distanza e trasformarli, la realtà anche
nuda era per sé stessa maravigliosa e bastava ad otte-
nere r effetto, operando in modo semplice e immediato
sullo scrittore e su' lettori.
Oltreché, siccome il contenuto riposava su di una dot-
trina liturgica, stabilita e inalterabile, poco era accomo-
dato da una rappresentanzione libera e artistica, anche
quando usciva dalia Chiesa e dal Convento ed era ma-
neggiato da' laici, come fu anche de' Misteri. Impadronirsi
di quel contenuto, cacciarlo dalla sua generalità, dargli
corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione. Lo
spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per
via di esempli, di sentenze e di allegorie, come si vedea
nella ibbia. Il reale , il concreto non avea valore se
non come figura della dottrina. E^^co ad esempio in che
modo è nella Commedia dell'Anima figurato il paradiso:
In su quel monte dove sta il Signore,
V è una fontana traboccante e bella,
Che sempre getta un mirabi) liquore.
D' oro e d' argento v' è la sua cannella,
Le sponde di smeraldi e d' oro fine,
E tutta la Città circonda quella,
Salite al monte, o alme peregrine,
Salite al monte, e lassù troverete
Soprabbondanti le grazie divine,
Le ultime parole spiegano la figura. Quella è la fon-
tana della divina Grazia. Con questa tendenza lo scrit-
tore sta contento alla semplice personificazione e gli pare
di aver fatto assai a dare una immagine che renda chia-
ro e sensibile iì suo concetto. Oltre a ciò, 1' uomo colto.
— 107 —
schivo delle forme semplici e volgari dell' umile credente»
mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scien-
titìco, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa
Fede ragionata e sillogizzata fa la Filosofia , fighuola
di Dio. Lo studio del secolo è di allegorizzare e dimo-
strare, anziché di rappresentare; è di chiarire quel con-
tenuto , lumeggiarlo , volgarizzarlo , ragionarlo , anziché
coglierlo in azione e nel!' atto della vita. Perciò 1' opera
letteraria tiene dell' allegoria e del trattato, e ciò che è
mera rappresent izione, rimane neh' infanzia. Mai non ti
senti ben fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con
tali caratteri, passioni e cos tumi, anzi lo scrittore ti par
quasi estraneo alla società e alle sue lotte , e dimora
nell'astratta e monotona generalità della sua contempla-
zione. E quando pur scende a rappresentare la vita, ti
senti d' un tratto balzato nel regno de* misteri, delle leg-
gende^ e delle visioni nell' altro mondo.
La visione é in effetti la forma naturale di questo con-
tenuto, quando si vuol rappres entarlo. La vita e la realtà
è il senso, la carne, il peccato, e lo scrittore o guarda
è passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla, rap-
presentandola non quale appare in terra, ma quale é nel-
r altro mondo. La rappresentazione è dunque la visione
della realtà, come sarà dopo la morte, e là si spazia e
si diletta l' immaginazione. E se il Mistero é Commedia,
ed ha per conclusione la santificazione e la beatitudine,
la Visione é spesso pittura delle pene infernah, lasciate
alla libera immaginazione de' predicatori, de' vescovi, dei
frati , de' Santi Padri , che col terrore operavano sullo
rozze immaginazioni. Laghi di zolfo, valli di fuoco o di
ghiaccio, botti d' acqua bollente, rettili, vermi , dragoni
da' denti di fuoco, demoni armati di lance, di fruste, di
martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri
tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchio-
dati al suolo con tanti chiodi che non pare la carne»
— 108 —
0 sospesi per le unghie in mezzo al zolfo, o menati e
rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a cerchi ros-
seggianti, o infìssi a spiedi giganteschi che i demonii ir-
rugiadano da' metalli fusi, ecco la rea'tà delle visioni,
rappresentata co'più vivi colori. I tre monaci che si met-
tono in viaggio per iscoprire il paradiso terrestre, dopo
quaranta giorni di cammino attraversano l' inferno. « E
veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti
pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel
lago e stridere, come di mirabili popoli che piagnessero
e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti altis-
simi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene
di cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle
quah eran confìtte neh' un monte e T altre due nell'altro; ^
e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava si fortemente
che si udiva bene quaranta migha da lungi. E vengono
in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro,
nel quale vedono una femmina nuda laidissima e scapi-
gliata in volto e compresa tutta da un dragone gran-
dissimo , e quando efìa volea aprire la bocca per par-
lare 0 per gridare, quel dragone le mettea il capo in
bocca e mordeale crudelmente la lingua; e i capelU di
quella femmina erano grandi infino a terra». Nella vita
di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone:
« Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con
isvariati colori, e la barba ed i capelli pareano d' oro, e
i denti suoi parevano di ferro, e gh occhi acuti e lu-
centi come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava
la hngua, e parea che per le mani e per la bocca git-
tasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo ». Tra le visioni è
celebre il Purgatorio di San Patrizio di Frate Alberico,
e quella d' Ildebrando, poi Gregorio VIL che predicando
innanzi a Papa Niccolò III narra di un Conte ricco, e
insieme onesto, ciò che è proprio un miracolo in questa
gente, egU dice. Questo Conte morto dieci anni innanzi
— 109 —
fu visto da un santo uomo ratto in ispirito starsi al
sommo d' una scala lunghissima, che erge vasi illesa tra
le tiamme e si perdeva giù nell' inferno. Su ciascuno sca-
lino stava uno degli antenati del Conte, con quest' ordine,
che quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva
occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti
gli altri scendevano di un grado verso 1' abisso dove tutti
r uno appresso V altro si sarebbero riuniti. E chiedendo il
santo uomo come fosse dannato il Conte, che avea la-
sciata in terra buona fama di sé, si udì una voce rispon-
dere: Uno degli antenati, di cui il Conte è T erede in de-
cimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella
Chiesa di Metz ; e per questo delitto tutti costoro sono
involti nella stessa dannazione. Questa pena, che colpisce
un' intera generazione, è molto poetica, mostrando V in-
ferno nel sublime d' un lontano indeterminato, messo co-
stantemente innanzi all' immaginazione de' condannati, che
a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi
caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue
vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che
ei sentano l' inferno.
Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa
questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa
sostanziale, è il peccato ; che la virtù è negazione della
vita terrena, e contemplazione dell' altra; che la vita non
è la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera
realtà è non quello che è, ma quello che dee essere; ed
è perciò la scienza, o la verità; come concetto, e come
contenuto, è 1' altro mondo, T Inferno, il Purgatorio e il
Paradiso, il mondo conforme alla verità e alia giustizia.
Appunto perchè l' individuo è pulvis et umbra, e la
realtà è pura scienza ed un di là della vita, questo mondo
resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di formazione.
Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un
po' di calore, e non ci vive se non come figura e imina-
— 110 —
gine dell' amore divino. La dorma, come donna, è pec-
cato, essa diviene una specie di medium che lega 1' uomo
a Dio.
Il maggior grado di realtà, a cui q^iesto mondo sia
pervenuto, è nella Lirica di Dante. La donna di quel
secolo acquista il suo nome e la sua forma, è Beatrice,
la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l'ani-
ma nella commedia spirituale , breve apparizione , tor-
nata cosi presto in Cielo tra' canti degli angioli. La sua
vita terrena è quasi non altro che nascere e morire. La
sua vera vita comincia dopo la morte, neh' altro mondo.
Ivi è luce mentale o intellettuale, verità e scienza. Fi-
losofia. Ma non è filosofia incarnata, mondo vivente, dove
l'idea di Dio e del vero sia perfettamente realizzata; è
pura scienza, incapace di rappresentazione, nella sua forma
scolastica di trattato e di esposizione. E scienza non an-
cora realizzata, non ancora corpo; è idea^ non è visione,
è didattica, non è commedia o rappresentazione. Hai mi-
steri e visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè un
mondo vivente nel suo insieme e ne' suoi aspetti , dove
sia realizzato quel concetto teologico e filosofico dell'uma-
nità, comune al secolo, e rimasto ancora nella sua astra-
zione dottrinale.
Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando una hngua
già formata, molta varietà di forme metriche, una poe-
tica, una rettorica, una filosofia, ed un concetto della
vita ancora didattica e allegorico, con rozzi tentativi di
formazione e individuazione. Il suo primo individuo poe-
tico è Beatrice, il presentimento e 1' accento hrico di un
mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora
fuori deUa vita.
— Ili —
VI. ^'
IL TRECENTO.
Qnollo elle il secolo precedente concepì e proparò, fu
realizzato in questo secolo detto aureo. I posteri com-
presero sotto questo nome tutto un periodo letterario,
dove si trovano mescolati dugentisti e quattrocentisti. E
in verità le notizie cronologiche sono si scarse e incerte,
che non è facile assegnare di ciascuno scrittore 1' età,
seguire strettamente V ordine del tempo. Al nostro scopo
è più utile seguire il cammino del pensiero e della forma
nel suo sviluppo, senza violare le grandi divisioni cro-
nologiche, ma senza cercare una precisione di date, che
ci farebbe sciupare il tempo in confetture e supposizioni
di poco interesse.
Questo secolo s' apre con un grande atto, il Giubileo,
Pontefice Bonifazio ottavo. Tutta la Cristianità concorse
a Roma, d' ogni età, d'ogni sesso, di ogni ordine e coa;
dizione, per ottenere il perdono de' peccati e guadagnar-
si la salute eterna. Tutti animava lo stesso concetto
espresso^osi variamente in tante prose e poesie, la ma-
ledizione del mondo e della carne , la vanità de' beni e
delle cure terrestri e la vita cercata al di là della vita.
Il nuovo secolo cominciava, consacrando in modo tanto
solenne il pensiero comune nella varietà della coltura. I
preti e i frati soprastavano nella riverenza pubblica, non
solo pel carattere religioso, ma per la dottrina, tenuta
loro privilegio, tanto che il Villani loda di scienza Dante,
aggiungendo : benché laico^ e i dotti uomini, benché laici,
erano detti chierici. Tutta la società italiana , raccolta
colà dallo stesso fine, rendeva una viva immagine di quel
pensiero comune e di quella varia cultura. Vedevi i con-
— 112 —
templati , i romiti , i solitai'ii del deserto e della cella
col corpo macero da' digiuni, da' cilizii e dalle vigilie, ri-
tratti viventi de' misteri e delle leggende. C erano gii
umili di spirito, animati da schietto sentimento religioso
e che tenevano la scienza come cosa profana, e ci erano
i dotti, i predicatori e confessori, il cui testo era la
Bibbia e i Santi Padri. Vedevi gli scolastici e gli eruditi,
teologi e filosofi, che univano in una comune ammira-
razione i classici e i santi padri, disputatori sottili di tutte
le cose e anche delie cose di feje, parlanti un latino di
uso e di scuola, vibrato, rapido, vivace, dove sentivi il
volgare destinato a succedergli, amici della fi osofìa con
quello stesso ardore di fede, che gli altri si professavano
servi del Signore, ma di una filosofia non ripugnante alla
Fede, anzi sostegno, illustrazione e ragione di quella^
confortata da sillogismi e da sostanze e da citazioni, dove
trovi spesso Tullio accanto a san Paolo. Alteri della loro
scienza e del loro latino: spregiatori del volgare, da co-
storo uscivano que' trattati, que' comenti, quelle Somme,
quelle Storie, che empivano di maraviglia il mondo. Ac-
canto a questi Veggenti della fede e della filosofia , a
questa vita dello spirito trovi la vita attiva e temporale,
affraieiluti dallo stesso pensiero i signori e i tirannetti
feudali e i Priori e gli anziani delle repubbliche, il ca-
valiere de' romanzi e il mercatante delle cronache. Là,
appiè del Coliseo, un ardito negoziante. Giovanni Villani
pensò che la sua Fiorenza, figliuola di Roma, era non
meno degna di avere una storia, e la scrisse. Fra tanto
splendore e potf^nza del chiericato, lo spregiato laico co-
minciava a levare la testa, e pensava all' antica Roma e
a Firenze, figliuola di Roma. Là molte amicizie si strin-
sero, molte piici si fecero come avviene in certi grandi
momenti della storia umana ; sparirono guelfi e ghibel-
lini, ottimati e popolari, baroni e vassalli, stretti tutti
ad una sola bandiera: uno Dio, uno Pupa, uno Impo-
— 113 —
ratore. Là il Papato ebbe T ultimo suo gran giorno ,
l'ultimo sogno di monarchia universale, rotto per sem-
pre dallo schiaffo di Anagni.
Il giubileo ci dà una immagine di quello che dovea
essere la letteratura nel secolo decimoquarto. Ebbe dal
secolo antecedente la sua materia, i suoi istrumenti e il
suo concetto, del quale il giubileo fu una così splendida
manifestazione. Ma quel concetto, rimaso nella sua astra-
zione intellettuale e allegorica , con così scarsi inizii di
rappresentazione ne' misteri e nelle visioni, ancora senza
nome altro che di Beatrice, breve apparizione, svaporata
subito nelle astrattezze della scienza, ebbe nel trecento
la sua vita, e venne a perfetta individuazione e forma-
zione : questo fu il carattere e la gloria di quel secolo.
L'uomo, che dovea dare il suo nome al secolo, avea
già trentatrè anni, avea creato Beatrice, e volgea nella
mente non so che più ardito , che dovesse abbracciare
tutta l'umanità. Tenzonava nel suo capo il filosofo e il
poeta : ci era il Convito e ci era la Commedia. Ma per
apprezzare più degnamente quella vasta sintesi che ne
uscì, è bene preceda l'analisi, studiando la fisonomia del
secolo negl' ingegni più modesti che non conobbero di
tutto quel mondo, se non questa o quella parte.
E e' incontriamo dapprima nella letteratura claustrale,
ascetica, mistica, religiosa, continuazione in prosa di Fra
Jacopone , ma in una prosa piena di poesia. Domenico
Cavalca, l'Autore de' Fioretti, Guido da Pisa, Bartolo-
meo da san Concordio, Jacopo Passa vanti, Giovanni dalle
Celle non sono scrittori astratti e impersonah, come quelU
del secolo innanzi, ma, anche volgarizzando, senti che
quegli uomini prendono viva partecipazione a quello che
scrivono , e vivono là dentro , e ci lasciano l' impronta
del loro carattere e della loro fisonomia intellettuale e
morale. Usciamo dalle astrattezze de' trattati e delle rac-
colte sotto nome di Fiori, Giardini, e Tesori, ed entriamo
De Sanctis — Leu. Itul. Voi. I. 8
— 114 —
nella realtà della vita, nel vero giardino dell'arte. Per-
chè questi uomini non ragionano , non disputano , e di
rado citano: la loro dottrina va poco al di là della Bibbia
e de' santi Padri : ma narrano quel medesimo che si rap-
presentava ne' misteri , vite, leggende e visioni, e sono
narrazioni più vive e schiette, che non i Misteri del quat-
trocento , raffazzonamenti degli antichi , con più liscio >
ma dove desideri la purità e semplicità delle prime ispi-
razioni.
Gli scrittori son tutti frati, ed hanno le qualità degli
uomini solitarii, il candore, l'evidenza, e l'affetto. Hanno
r ingenuità di un fanciullo che sta con gli occhi aperti
a sentire, e più i fatti sono straordinarii e maravigliosi,
più tende V orecchio e tutto si beve : qualità spiccatis-
sima ne' Fioretti di san Francesco, il più amabile e caro
di questi hbri fanciulleschi. L' immaginazione concitata
dalla solitudine presenta gli oggetti cosi vivi e proprii,
che vengon fuori di un getto, non solo figurati, ma ani-
mati e coloriti, caldi ancora dell' impressione fa tta^ sullo
scrittore. Nel quale l'affetto è tanto più vivace e impe-
tuoso e Urico, quanto la sua vita è più astinente e com-
pressa : quasi vendetta della natura, che grida più alto,
dove ha più contrasto. Non ci è in queste prose alcuna
intenzione artistica, nessun vestigio di studio, o di sforzo,
o di esitazione, o di scelta ; manca soprattutto il nesso,
la distribuzione , la gradazione. Ma si conseguono tutti
gli effetti dell'arte che nascono da movimenti sinceri e
gagliardi dell' immaginazione e dell'affetto, e n'escon pa-
gine animate, e potenti assai più sul tuo spirito che non
tanti romanzi moderni. Cito fra l'altro la storia di Abraam
romito, che prende veste e costume di cavaliere mon-
dano, e mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne
per convertire la sua nipote Maria. Il suo incontro con
Maria nella taverna, gli allettamenti lascivi di costei, la
sua sorpresa e vergogna quando nel bel cavaliere scopre
— 115 —
il suo zio, e i rimproveri affettuosi di lui e le grida stra-
zianti e disperate della bella pentita sono una vera scena
drammatica, alla quale non trovi niente comparabile nel
teatro italiano. In queste Vite del Cavalca, che sono tra-
duzioni, ma per la freschezza e spontaneità del dettato
e per la commossa partecipazione del frate sono cosa ori-
ginale, il concetto del secolo, uscito dalle astrattezze teo-
logiche e scolastiche, prende carne, acquista una esistenza
morale e materiale. Il santo è esso medesimo il concetto
divenuto persona , e la sua rappresentazione ti offre il
nuovo mondo morale aperto al cristiano fatto attivo e
divenuto storia , la storia del Santo. Cardine di questo
mondo morale è la realtà della vita nell'altro mondo, e
la guerra a tutti gì' istinti e affetti terreni , 1' astinenza
e la pazienza, il sustine et ahstine ; e però le sue virtù
non esprimono altro che la vittoria dell'uomo sopra sé
stesso, sulla sua natura : indi 1' umiltà, il perdono delle
offese, la povertà, la castità, l'ubbidienza. Se la vittoria
fosse preceduta dalla lotta, lo spettacolo sarebbe sublime:
ma il più sovente il santo entra in iscena ch'è già santo
e nell'esercizio quieto delle sue cristiane virtù, interrotto
a volte dalle tentazioni del demonio cacciato via da scon-
giuri e segni di croce: ciò che ò grottesco più che su-
blime. Il santo è troppo santo, perchè la sua vita possa
offrirti una vera contraddizione e battaglia tra il cielo
e la natura ; ciò che rende cosi drammatica la vita di
Agostino e di Paolo. Qui hai racconti uniformi, infinite
ripetizioni, rarissimi contrasti, e spesso provi noia e stan-
chezza. La musa di queste cristiane virtù non è la forza,
e non è l' azione, ma è un certo languir d' amore, una
effusione di teneri e dolci sentimenti, liriche aspirazioni
0 l estasi e orazioni, un impetuoso prorompere degli af-
fetti naturah tosto sedato e riconciliato, il sacrificio igno-
rato e oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena
(l)po la morte. Una delle vile più interessanti e popò-
— 116 —
lari è quella di santo Alessio, che abbandona la nobile
casa paterna e la sposa il dì delle nozze, e va peregri-
nando e limosinando, e dopo molti anni tornato in patria,
serve non conosciuto in casa del padre, e non si scopre
alla madrA r» alla sDosa. e i servi gli danno le guanciate,
e lui umile e paziente. Questa vittoria sulla natura non
fa effetto, perchè in Alessio non ci è 1' homo sum, non
ci è lotta, non la coscienza del sacrifizio, parendo a lui
naturale e facile esercizio di virtù quello che a noi uo-
mini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile. L' inna-
turale è in lui natura : perfezione ascetica, ma non ar-
tistica. L' interesse comincia, quando la natura fa sentire
il suo grido, e col suo contrasto sublima il santo; quando^
saputo il fatto, il Pontefice con infinita moltitudine traendo
a venerare il servo spregiato, si odono tra la folla que-
ste grida: prestatemi la via, datemi loco, fate che io vegga
il figliuol mio, quello che ha succiato le mammelle mie.
E ragionando col cuore di madre , la donna accusa il
figlio e lo chiama senza cuore, e poi nel suo dolore lo
glorifica e ricorda che i servi gU davano le guanciate.
Scene simili non sono scarse in queste vite : ricorderò la
madre di Eugenia e Maria Maddalena, eloquentissima
nelle sue lagrime.
Una vera intenzione artistica si scorge nello Specchio
di penitenza di Jacopo Passavanti, una raccolta di pre-
diche ridotte in forma di trattati morah, accompagnati
con leggende e visioni dell'altro mondo. Il frate mira a
fare effetto, inducendo a penitenza i fedeli con la viva
rappresentazione de'vizii e delle pene. La musa del Ca-
valca è l'amore, e la sua materia è il paradiso, che tu
pregusti in quello spirito di carità e di mansuetudine, che
comunica alla prosa tanta soavità e morbidezza di colo-
rito. La musa del Passavanti è il terrore e la sua ma-
teria è il vizio e r inferno, rappresentato meno nel suo
grottesco e nella sua mitologia , che nel suo carattere
— 117 —
limano, corno il rimorso è il grido della coscienza. In-
tralciato e monotono nel discorso, il suo stile è rapido,
liquido , pittoresco nel racconto. Diresti che provi vo-
luttà a spaventare e tormentare 1' anima : cerca imma-
gini, accessorii, colori, come istrumento della tortura, e
ti lascia sgomento e assediato da fantasmi. Il periodo
spesso ben congegnato, svelto e libero, la cura de' nessi
e de' passaggi, la distribuzione degli accessorii e de* co-
lori, r intelligenza delle gradazioni, un sentimento di ar-
monia cupo che accompagna lo spettacolo, fanno del Pas-
savanti l'artista di questo mondo ascetico.
Ma ecco fra tante vite di Santi il Santo in persona,
scrittore e pittore di sé medesimo , Caterina da Siena.
Abbandonata la madre e i fratelli, resasi monaca, mace-
rato il corpo co' cilizii e digiuni, vive una vita di estasi
e di visioni, e scrive in astrazione, anzi detta con una
lucidità di spirito maravigliosa. Scrive a Papi, a principi
a re e regine , come alla madre , a' fratelli , a frati e
suore, dall' altezza della sua santità, con lo stesso tono
di amorevole superiorità. Nelle più intricate faccende
prende il suo partito risolutamente, consigliando e quasi
comandando quella condotta, che le pare conforme alla
dottrina di Cristo. Ho detto pare, e dovrei dire : è ; per-
chè nessun dubbio o esitazione è nel suo spirito, e le dot-
trine più astruse e mentali le sono chiare e sicure come
le cose che vede e tocca. Ha la visione dell'astratto, e
lo rende come corpo, anzi fa del corpo la luce e la faccia
di quella. Indi un linguaggio figurato e metaforico, spesso
sazievol(\ talora continuato sino all'assurdo. È un po' il
fare bibUco ; un po' vezzo de' tempi ; ma è pure forma
naturale della sua mente. Vivendo in ispirito , le cose
dello spìrito le si affacciano palpabili e visibili come ma-
teria , e così come vede Cristo e Angioli , vede le ideo
e i pensieri. È una ragione spirituale , divenutale per
lungo uso così familiare, che ne ha fatto il suo mondo
— 118 —
e il suo corpo. Questa chiarezza d' intuizione, accompa-
gnata con la squisita sensibilità e la perfetta sincerità
della fede le fanno trovare forme delicate e peregrine ,
degne di un artista. Ma le spesse ripetizioni , 1' esposi-
zione didattica, queir incalzare di consigli, di esortazioni
e di precetti senza tregua o riposo rendono il libro sa-
zievole e monotono.
In queste lettere di Caterina quel mondo morale rap»
presentato nelle vite, nelle estasi, nelle visioni de' Santi,
è sviluppato come dottrina in tutta la sua rigidità asce-
tica. È il codice d'amore della cristianità. La perfezione
è morire a sé stesso , secondo la sua frase energica ,
morire alla volontà, alle inclinazioni, agli affetti umani^
sino all' amore de' figli , e tutto riferire a Dio , di tutto
fare olocausto a Dio. Il suo amore verso Cristo ha tutte
le tenerezze di un amore di donna, che si sfoga a quel
modo , lei inconscia. L' ultima frase di ogni sua lettera
è : Annegatevi, bagnatevi nel sangue di Cristo. Ardente
è la sua carità pel prossimo : Amatevi , amatevi, grida
la Santa, e predica pace, concordia, umiltà, perdono, voce
inascoltata. La Regina Giovanna rispondea alla Santa con
riverenza, e continuava la vita immonda. Lo scisma giun-
geva al sangue nelle vie di Roma. Più alto e puro era
r ideale delia santa, meno era efficace sugli uomini. La
sua vita si può compendiare in due parole : amore e
morte. Celebre è la sua lettera sul condannato a morte,
da lei assistito negli ultimi momenti. « Teneva il capo
suo sul petto mio. Io allora sentivo un giubilo e un odore
del sangue suo; e non era senza l'odore del mio, il quale
io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù ». Il san-
gue di Cristo la esalta , la inebbria di voluttà. Ad una
serva di Dio scrive : « Inebriatevi del sangue, saziatevi
del sangue, vestitevi del sangue ». Sudare sangue, tras-
formarsi nel sangue, bere l'affetto e l'amore nel san-
gue, sono immagini di questo lirismo. Della cella si fa
— 119 —
un cielo , e vi gusta il tene degV immortali , ohum-
binandola Dio di un gran fuoco d'amore. Nella estasi
0 visione o esaltazione di mente, è gittata giù, e le pare
come se T anima sia partita dal corpo. Il corpo pareva
quasi venuto meno. Le membra del corpo, dice Caterina,
si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco.
E altrove : « Nel corpo a me non pareva essere, ma ve-
devo il corpo mio come se fosse stato un altro ». Questi
ardori di anima , queste illuminazioni di mente , questi
martirii d*amore sono espressi con una semplicità ed evi-
denza, che testimoniano la sua sincerità. L'anima inna
morata e ansietata d'amore, affogata dal desiderio cro-
ciato 0 della croce, annegata la propria volontà nel-
l'amore del dolce e innamorato Verbo, vive nel corpo,
come fosse fuori di quello. Posto il suo amore al di là
della vita, vive morendo, dimorando con la mente al di
là della vita. Ma questa morte spirituale non l'appaga;
muojo e non posso morire , dice la Santa. Gli ultimi
giorni furono battaglie con le dimonia e colloquii con
Cristo , e a trentatrò anni finì la vita , consumata dal
desiderio.
La Comìnedia dell' anima è ora pienamente realiz-
zata nel suo aspetto religioso, come espressione lettera-
ria. Quell'anima ora ha un nome, è una persona, Alessio,
Eugenia, Caterina. Il demonio e la carne sono un mondo
pieno di vita ne' racconti del Passavanti. Quelle virtù
allegoriche che escono in processione sulla scena sono le
opere, le volontà, le passioni e i pensieri de' santi. E la
divina commedia, la trasfigurazione e la glorificazione del-
l'anima, la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo
trai canti degli angioli, vi sono estasi, rapimenti dell'a-
nima, colloquii con Dio, mistica unione con Cristo, e dopo
la morte la santificazione, o la contemplazione nel!' eterna
luce. Quel concetto è uscito dall'astrattezza della scienza
— 120 —
e della allegoria, dalla sua vuota generalità, e si è in-
carnato, è divenuto uomo.
La prosa italiana in questa letteratura acquista evi-
denza, colorito, caldezza di affetto, in un andar semplice
e naturale , specialmente quando vi si esprimono senti-
menti dolci e ingenui. E perfetto esemplare di stile cri-
stiano, guasto dì poi. Alla sua perfezione manca un più
sicuro nesso logico, maggiore sobrietà e scelta di acces-
sori!, ed una formazione grammaticale e meccanica più
corretta. Con lievi correzioni molti brani possono para-
gonarsi a ciò che di più perfetto è nella prosa moderna.
L'imitazione di Cristo è certo prosa superiore, scritta
in tempo di maggior coltura. Ci è una maggiore virilità
intellettuale, una logica più stretta, e pura di quella pe-
danteria scolastica che inseguiva i frati fino nel Convento.
Ma non è superiore, quanto a quelle qualità organiche,
dove è il segreto della vita, la schiettezza dell'ispira-
zione e il calore dell' affetto : e spesso in quella prosa »
mirabile di precisione e di proprietà , desideri T energia
e r intuizione di Caterina.
Né questa prosa era già fattura di un solo, o di po-
chi, perchè la trovi anche ne'minori, che scrivevano delle
cose dello spirito. Citerò una lettera di un discepolo di
Caterina , che annunzia la sua morte. « Credo che tu
sappi come la nostra reverendissima e carissima mamma
se ne andò in paradiso domenica, addì 29 di aprile (1380);
lodato ne sia il Salvatore nostro, Gesù Cristo crocifisso
benedetto. A me ne pare essere rimaso orfano, però che
di lei avevo ogni consolazione, e non mi posso tenere di
piangere. E non piango lei, piango me, che ho perduto
tanto bene. Non potevo fare maggiore perdita , e tu il
sai. Della mamma si vuol fare allegrezza e festa, quanto
che è per lei ; ma di quelli suoi e di quelle che sono ri-
masi in questa misera vita , è da piangere e da avere
compassione grandissima. Con nessuna persona mi so dare
— 121 -
dolore, quanto che con teco, che mi fusti cagione di ac-
quistare tanto bene. Prendo alcuno conforto, perchè nel
mio cuore è rimasa e incarnata la mamma nostra assai
più che non era in prima; e ora me la pare ben cono-
scere. Che noi miseri ne avevamo tanta copia che non
la conoscevamo e non eravamo degni della sua presen -
zia. Carissimo fratello, io sono fatto tanto smemoriato
del bene che ho perduto, ch'io ti scrivo anfanando. E
però di ciò non ti scrivo più ». Lo stesso stile è in Gio-
vanni dalle Celle, Stefano Maconi e altri frati. Ecco in
che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni
particolari della fine di Caterina. « Nella domenica svenne,
e perde il vigore di sanità , mantenutole dalla forza dello
spirito, e che non pareva scemarsi per inedia. Il dì poi,
un altro svenimento la lasciò lungamente come morta:
se non ch<^ risentitasi, stette in piede come se nulla fosse.
Cominciò la quaresima con le solite pratiche, esercizio a
lei di consolazioni angosciose. Ogni mattina, dopo la co-
lezione, le è forza rimettersi, sfinita, a letto. Di là a
due ore usciva a San Pietro un buon miglio di strada,
e li stava orando infine a vespro. Cosi fino alla terza
domenica di quaresima, quando il male la spossò. E per
otto settimane giacque, senza potere alzare il capo, tutta
dolori. A ogni nuovo spasimo, alzando il capo, ne rin-
graziava Iddio lieta. Alla domenica innanzi l'Ascensione,
il corpo non era omai più che uno scheletro, nel mezzo
in giù senza moto, ma nel volto raggiante la vita. De-
bole; un alito di respiro; pareva il fine; e le fu data la
estrema unzione».
Questa ecctUenza di dettato trovi pure ne' volgarizza-
menti de' classici o di romanzi e storie allora in voga,
come sono i volgarizzumenti di Livio e di Sallustio, i
Fatti di Enea, gli Ammaestramenti degli antichi voltati
da Bartolomeo da San Concordie con un nerbo ed una
vigoria degna del traduttore di Sallustio. È una prosa
— 122 —
adulta, spedita, calda, immaginosa, spesso colorita, con
tutto r andare di lingua viva e parlata, già nel suo fiore.
I romanzi operavano sul popolo non meno vivamente
che la letteratura spirituale. Nella sua immaginazione si
confondea il cavaliere di Cristo e il Cavaliere di Carlo-
magno, e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio
e i fatti di Enea, e gli amori di Lancillotto e Ginevra.
Caterina trae dalla cavalleria molte sue immagini. Chiama
Cristo un dolce cavaliere, cavaliere dolcemente armato;
chiama la Redenzione un torneo della morte colla vita.
Ma la letteratura cavalleresca rimase stazionaria e non
produsse alcun lavoro originale. Le traduzioni sono fatte
senza intenzione seria, in prosa scarna e trascurata, po-
sto il diletto nel maraviglioso de' fatti. Agli stessi tra-
duttori è materia frivola, buona per passare il tempo, e
non vi partecipano, non sentono colà dentro il loro mondo
e la loro vita.
Accanto a questo mondo dello spirito e dell'immagi-
nazione e' era il mondo reale, il mondo della carne o della
vita terrena, come si dicea, che si potea maledire, ma
non uccidere. Era la cronaca, memoria di per dì de' fatti
che succedevano, inanime come il dizionario, o come la
lista delle spese. Quelli che ne scrivevano con qualche
intenzione artistica, la dettavano in latino e la chiama-
vano Storia. Latini erano anche i trattati scientifici e i
lavori propriamente d' arte. Quella letteratura spirituale
e cavalleresca rimanea circoscritta al popolo ed era te-
nuta in poco conto da' dotti. Costoro spregiavano il vol-
gare, come buono solo a dir d' amore e di cose frivole,
e le gravi faccende della vita le trattavano in latino. Di
questi illustre per ingegno, per coltura e per patriotti-
smo fu Albertino Mussato, coronato poeta in Padova,
sua patria. Abbiamo di lui molte opere, alcune ancora
inedite. Scrisse in quattordici libri De gestis Henrici VII
Caesaris, e anche De gestis Italicorum posi mortem
— 123 —
Henrìcì VII, in dodici libri, de' quali alcuni sono in versi
esametri. Fece epistole, egloghe, elegie, e due tragedie,
VAchilleis e VEccerinis. Quest' ultima rappresenta la ti-
rannide di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del
demonio, e la vittoria de' Comuni collegati contro di lui.
È narrazione, più che azione, come ne' Misteri, un nar-
rare serrato e nervoso, le cui impressioni patetiche e mo-
rali sono espresse dal Coro. Sotto a quel latino ossuto
e asciutto palpita 1' anima del medio evo. Sentì una so-
cietà ancor rozza, selvaggia negli odii e nelle vendette,
senza misura nelle passioni, poco riflessiva, di propor-
zioni epiche anche in forma drammatica. Il carattere
di Ezzelino non è sviluppato in modo che n' esca fuori
un personaggio drammatico. EgU rimane ravvolto nel
suo manto epico, come Farinata. È figlio del demonio,
e lo sa e se ne gloria, e opera come genio del male,
con piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni colos-
V)ssaU. Invoca il padre, e dice:
« Nulla tremiscet sceleribus fidens manus;
Annue Satan, et filium talem proba ».
E quest' uomo rimane cosi intero e tutto di un pezzo :
manca 1' analisi, senza di cui non è dramma. Il concet-
to della tragedia è più morale che -politico, quantun-
que il fatto sia altamente politico , rappresentando la
lotta tra i comuni liberi e i tirannetti feudali. Certo,
in Mussato e' è il guelfo e ci è il padovano , che l' i-
spira e 1' appassiona. Ma il motivo tragico è affatto mo-
rale. Ezzehno è punito non perchè offende la libertà, ma
perchè opera scelleratamente, e qui gladio ferii, gladio
perii: ciò che è in bocca al Coro la conclusione del
fatto :
Consors operum
Meritum sequitur quisqne suorum ».
— 124 —
È il concetto ascetico dell'inferno ai^plìcato anrhe alla
vita terrestre. Questa nella sua prima apparizione lette
raria è ancora nella sua generalità morale, non è svi-
luppata nei suoi interessi, ne' suoi fini, nelle sue passioni
e nelle sue idee politiche : di che solo può nascere il
dramma. Il senso del reale era ancora troppo scarso ,
perchè il dramma fosse possibile. Non ci è il sentimento
collettivo, non il partito e non la società: ci è l' indivi-
duo appena analizzato, rappresentato buono o cattivo e
retribuito secondo le opere, forma elementare della vita
reale. Il feroce e il grottesco delle pene infernah hanno
qui un riscontro nelle immani crudeltà di EzzeHno e nella
immane punizione.
Questo concetto morale, ancorché non ancora pene-
trato e sviluppato in tutti gli aspetti della vita, pure
non è più un motto, un proverbio, un ammaestramento,
un fabula docet, una esposizione didattica in prosa o in
verso, come nel secolo scorso, ma la vita in atto, con.
tutt' i caratteri della personalità, cosi nella vita contem-
plativa, come nella vita attiva, così nel Carbonajo del
Passavanti, come nell' Ezzelino del Mussato.
Onori straordinarii furono conferiti al Mussato, tenuto
pari a' classici, quando i classici erano ancora così poco
noti. Anche Venezia ebbe i suoi latinisti, che scrissero
la sua storia , Andrea Dandolo e Martin Sanuto. Nel-
r Italia settentrionale abbondano le cronache latine. Il
volgare vi si era poco sviluppato. E dappertutto teolo-
gia, filosofia, giurisprudenza , medicina era insegnata e
trattata in latino. Scrissero le loro opere in questa lin-
gua Marsiho da Padova, Gino da Pistoja, Bartolo e
Baldo.
Ma in Toscana il Malespini avea già dato 1' esempio
di scrivere la cronaca in volgare. E Dino Compagni se-
guì r esempio, scrivendo in volgare i fatti di Firenze dal
1270 al 1312. Attore e spettatore, prende una viva par-
tecìpazione a quello che narra, e schizza con mano si-
cura immortali ritratti. Non è questa una cronaca, una
semplice memoria di fatti : tutto si move, tutto è rappre-
sentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri^
intenzioni, è a tutto lo seri il ore è presente, si mescola
in tutto, esprime altamente le sue impressioni e i suoi
giudizi. Così è uscita di sotto alla sua penna una storia
indimenticabile.
Questa storia è una immane catastrofe, da lui preve-
duta e non potuta impedire. E non si accorge che di
quella catastrofe cagione non ultima fu lui. 0 piutto-
sto ne ha un' oscura coscienza , quando con quel tale
8671710 di poi dice : oh se avessi saputo ! Ma chi pote-
va pensare ? Ma Dino peccò per soverchia bontà d' a-
nimo ; gH altri peccarono per malizia , e Dino li fla-
gella a sangue. Era Bianco; ma più che Bianco, era
onesto uomo e patriota. Gli parea che que' Neri e quei
Bianchi, quei Donati, e quei Cerchi, non fossero divisi
da altro che da gara d' uffici, e gli parea che partendo
ugualmente gh uffici quelle discordie avessero a cessare.
Gli parea pure che tutti amassero la città, come facea
lui, e fossero pronti per la sua libertà e il suo decoro
a fare il sacrificio de' loro odii e delle loro cupidigie. E
gU parea che uomo di sangue regio non potesse men-
tire né spergiurare, e che nessuno potesse mancare alle
promesse, quando fossero messe in carta. E anche que-
sto gli parea, che gli amici stessero saldi intorno a lui
e che ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire.
Che cosa non parea al buon Dino? E con queste opi-
nioni si mise al governo della repubblica. È la prima
volta che si trova in presenza la morale com' era in A.1-
bertano Giudice e come fu poi in Caterina, la morale
de' libri e la morale del mondo. La contraddizione balza
fuori con tutta V energia di una prima impressione. Il
brav' uomo al contatto del mondo reale cade di disinganno
— 126 —
in disinganno, e ciascuna volta rivela la sua ingenuità con
un accento di maraviglia e d'indignazione. Immaginatevelo
alle prese con Bonifazio Vili, Carlo di Vaiois, e Corso
Donati, ciò che di più astuto e violento era a quel tempo.
L* energia del sentimento morale offeso è il secreto della
sua eloquenza. Qui non ci è nessuna intenzione letteraria;
la narrazione procede rapida, naturale, sino alla rozzez-
za. Vi è un materiale crudo e accumulato e mescolato,
senza ordine o scelta o distribuzione; ignota è l'arte del
subordinare e del graduare; mancano i passaggi e le
giunture; il fatto è spesso strozzato; spesso il colorito è
un po' risentito e teso: difetti di composizione gravi. Pure
le qualità essenziali che rendono un libro immortale ,
stanno qui dentro, la sincerità dell' ispirazione, 1' energia
e la purità del sentimento morale, la compiuta perso-
nalità dello scrittore e del tempo, la maraviglia, l' indi-
gnazione, il dolore, la passione del cronista, che comu-
nica a tutto moto e vita.
In tempi meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la sua
cronaca di Firenze sino al 1318, continuata dal fratello
Matteo e dal nipote Filippo. Mira a dar memoria de' fatti,
pigliandoli dove li trova, e spesso copiando o compen-
diando i cronisti che lo precessero. Sono nudi fatti, rac-
colti con scrupolosa diligenza, anche i più minuti e fa-
miliari, della vita fiorentina, come le derrate , i drappi,
le monete, i prestiti : materiale prezioso per la storia. Ma
questa cruda realtà, scompagnata dalla vita anteriore
che la produce, è priva di colorito e di fisonomia e rie-
sce monotoira e sazievole.
La cronaca di Dino e le tre cronache de' Villani com-
prendono il secolo. La prima narra la caduta de' Bianchi,
le altre raccontano il regno de' Neri. Tra' vinti erano Dino
e Dante. Tra' vincitori erano i Villani. Questi raccontano
con quieta indifferenza ^ come facessero un inventario.
Quelli scrivono la storia col pugnale. Chi si appaga della
— 127 —
superficie, legga il Villani. Ma chi vuol conoscere le pas-
sioni, i costumi, i caratteri, la vita interiore da cui escono
i fatti, legga Dino.
Finora non abbiamo creduto necessario di entrare nel
vivo della storia, perchè gli scrittori , o ascetici, o ca-
vallereschi 0 didattici scrivono come segregati dal mondo.
Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che rac-
conta sono i fatti suoi, parte della sua vita, e la sua
Cronaca è lo specchio del tempo, non nelle regioni astratte
della scienza o nel fantastico della cavalleria e dell' a-
scetica, ma nella realtà della vita pubblica.
I partiti che straziavano Firenze con nomi venuti da
Pistoja erano detti i Neri e i Bianchi, gli uni capitanati
dai Donati e gli altri da' Cerchi, famiglie potentissime di
ricchezza e di aderenze. Dante sperò di poter pacificare
la città, mandando in esilio i due più potenti e irrequieti
capi delle due fazioni, Corso Donati e Guido Cavalcanti-
Venuto malato, il Cavalcanti fu richiamato, ma non Corso
Donati: di che si menò molto scalpore, massime che Dante
era Bianco e amico del Cavalcanti.
I Neri erano guelfi puri, e si appoggiavano sui popolani
e sul Papa, vicino influente, e centro di tutti gì' intrighi
e le cospirazioni guelfe. Bonifazio Vili, venuto dopo il
giubileo in maggior superbia , avea chiamato a sé con
molte promesse Carlo di Valois, detto per dispregio senza
terra, e mandato a Firenze sotto colore di pacificare la
città, ma col proposito di ristorarvi la parte Nera. Qui
comincia il dramma, esposto con si vivi colori dal no-
stro Dino nel libro secondo.
Dante si lasciò persuadere di andare Legato a Roma.
Si dice, abbia detto: Se io vado, chi resta? Restò il povero
Dino. Certo, l'opera di Dante sarebbe stata più utile a
Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversarii. A
Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e non
concluse nulla.
— 128 —
Dino comincia il racconto con stile concitato. Sembra
un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra
0 Gerosolima :
« Levatevi , o malvagi cittadini , pieni di scandali , e
pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e disten-
dete le vostre malizie. Non penate più : andate e met-
tete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete il
sangue de' vostri fratelli ; spogliatevi della fede e dello
amore; nieghi l'uno all'altro ajuto e servigio. Credete
voi che la giustizia di Dio sia venuta meno ? Pur quella
del mondo rende una per una. Non v' indugiate, o mi-
seri : che più si consuma un dì nella guerra, che molti
anni non si guadagna in pace, e piccola è quella favilla
che a distruzione mena un gran regno ».
Qui non ci è l'uomo politico. Ci è la realtà vista da
un aspertto puramente morale e religioso, come gli asce-
tici ; il concetto è lo stesso ; la materia è diversa. Con-
siderata così, la realtà riesce al buon Dino altro che non
pensava, e in luogo di riconoscere il suo errore, se la
prende con la realtà e la maledice. I suoi errori nascono
dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose, si
che divenne il trastullo degli uni e degli altri, perdette
lo stato e fu calunniato , come avviene a' vinti. Allora
prende la penna, e li maledice tutti, Neri e Bianchi, rac-
contando i fatti con tale ingenuità che se le male pas.
sioni degli altri son manifeste, non è raen chiara la sua
soverchia bontà.
Mentre gli Ambasciatori armeggiano con Bonifazio ,
largo promettitore, purché sia ubbidita la sua volontà,
furono in Firenze eletti i nuovi Signori , e Dino fu di
quelU. Piacque la scelta, perchè uomini non sospetti e
buoni, e senza baldanza, e avevano volontà di acco-
munare gli uffici, dicendo: questo è Vuliimo rimedio.
Questo è il giudizio che porta Dino di sé e de' colleghi-
Ma i loro avversarli n' ebbono speranza, perchè h co-
— 129 —
nosceano uomini deboli e pacifici y i quali sotto spezie
di pace credeano leggiermente di poterli ingannare.
Che buono Dino ! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.
I Neri a quattro e a sei insieme, preso accordo fra
loro, li andavano <i visitare e diceano : Voi siete buoni
uomÌ7ii e di tali uvea bisogno la nostra città. Voi ve-
dete la discordia de' cittadini vostri; a noi la con-
viene pacificare, o la città perirà. Voi siete quelli che
avete la balia, e noi a ciò fare vi profferiamo l'avere
e le persone di buono e leale animo. E benché di cosi
false profferte dubitassero, credendo che la loro ma-
lizia coprissero con falso parlare, pure Dino per coni-
messione de' suoi compagni rispose : « Cari e fedeli cit-
tadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri, e
cominciar vogliamo a usarle : e richieggiamvi che voi
ci consigliate, e pogniate V animo a guisa che la no-
stra città debba posare ». Che scellerati! e che buoni
uomini ! Non si può megho rappresentare la malizia de-
gli uni e r innocenza degli altri. Scrivendo dopo i fatti,
Dino si picchia il petto , e dice il mea culpa: E così
perdemmo il primo tempo , perchè non ardimmo a
chiudere h porte né a cessare l'udienza, ai cittadini.
Demmo loro intendimento di trattar pace, quando si
convenia arrotare i ferrila.
Poiché si trattava la pace , i Bianchi smessero dalle
offese, e i Neri presero baldanza. E Dino confessa que-
sto primo effetto della sua bontà : « la gente, che tenea
co' Cerchi, ne prese viltà, dicendo: non è a darsi fatica,
che pace sarà. E i loro avversarii pensavano pur di com-
piere le loro malizie ! ».
La voce che Bonifazio Vili si fosse chiarito contrario
a' Cerchi, e che Carlo di Valois veniva in Firenze, do-
vea aver tanto imbaldanzito i Neri, che a costoro pareva
un atto di debolezza e di paura quello che in Dino era
ispirato da sincero amore di concordia. E quelle prati^
De S&nctiB -Lett. Ual. Voi. I. 0
^ 130 —
che di pace spacciavano covare sotto un tradimento. La
forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza
morale passava gli avversarii, più audaci , e confidenti
in vicina vittoria. Già ci era un' altra aria in città. Non
pur gì' indifferenti, ma anche noti seguaci de' Cerchi mu-
tavano lingua. Sicché Foratore di Carlo riferi che la
parte de Donati era assai innalzata e la parte dei
Cerchi era assai abbassata, veggendo come dopo le sue
parole molti dicitori si levarono in pie affocati pjer
dire e magnificare messer Carlo,
Dino, volendo negare l' ingresso a Carlo e non osando
prender su di sé la cosa, essendo la novità grande, si ri-
mise al suffragio de' suoi concittadini. Fu un plebiscito
fatto dal debole e che riusci in favore dei forti: solito
costume de' popoU, e il buon Dmo noi sapea. I soh for-
nai si mostrarono uomini, dicendo che 7iè ricevuto, né
onorato fusse, perchè venia per distruggere la città.
Dino credette trovare il rimedio , chiedendo a Carlo
lettere bollate, che non acquisterebbe ninna giurisdi-
zione, né occuperebbe ninno onore della città né per
titolo d' imperio^ né per altra cagione , né le leggi
della città muterebbe, né V uso. Dmo pensava che Carlo
non farebbe la lettera, e provvide (^.he il passo gli fosse
negato e vietata la vivandi. Ma la lettera venne, e « io
la vidi e fecila copiare , e quando fu venuto , io lo
domandai se di sua volontà era scritta. Rispose : si
certamente "», Ora che Dino ha la lettera in tasca, può
viver sicuro.
E gli viene un santo e onesto pensiero , immaginando:
questo signore verrà, e tutt' i cittadini troverà divisi:
-il che grande scandalo ne seguirà. Onde li rauna nella
Chiesa di S. Giovanni , e loro fa un fervorino , perchè
sopra quel sacrato fonte onde trassero il santo bat-
tesimo, giurino buona e perfetta pace. Le parole di Dino
sono di quella eloquenza semplice e commovente che vitno
~ 131 —
<ln] cuore. In quei tempi di lotte così accese il sentimento
della concordia era tanto più vivo negli animi buoni e
onesti, da Albertano a Caterina. E non so che in Ca-
terina si trovino parole nella loro semplicità così affet-
tuose come queste di Dino : « Signori, perchè volete voi
confondere e disfare una cosi buona città ? Contro a chi
volete pugnare ? contro a' vostri fratelli ? Che vittoria
avrete? non altro che pianto ».
Tutti giurarono; e Dino aggiunge con amarezza: i
malvagi cittadini che di tenerezza mostravano lacri--
me, e baciavano il libro, furono i principali alla di-
struzione della città. Povero Dino ! e si affligge il bravo
uomo e si pente, e di quel sacramento molte lacrime
sparsi, pensando quante anime ne sono dannate per
la loro malizia.
Carlo venne, e dietrogli, dicendo che vernano a ono -
rare il sigiiore, lucchesi, perugini, e Caute d' Agobbio e
molti alcri, a sei e dieci per volta, tutti avversarii dei
Cerchi : ciascuno si mostrava amico, Dino fece il ponte
d' oro al nemico che entra, contro il proverbio. E Carlo
ebb<^ in Firenze 1200 cavalli.
Che fa Dino ? Sceglie quaranta cittadini di amendue
le parti, perchè provveggano alla salvezza della terra.
C.ò che ci era negli animi, è qui scolpito in pochi tratti.
« Quelli che avevano reo proponimento, non parlavano ;
gli altri aveano perduto il vigore. Baldino Falconieri^
u(»m vile, dicea: Signori, io sto bene, perchè non dor-
raia sicuro ». Lapo Saltarelli, per riamicarsi il papa, in-
giuria la Signoria, e tiene in casa nascosto un confinato.
Albertano del -Giudice monta in ringhiera, e biasima i
Signori. Pare coraggio civile, ed è villa e diserzione. I
nemici tacciono. Gli amici ingiuriano, per farsi grazia.
Cominciano i tradunenti. 7 Priori scrissero al papa se-
cretamenlc. ; ma tutto seppe la parte nera, perocché
quelli che giurarono credenza non la iennono.
— 132 —
Alfine Dino si risolve ad accomunare gli uffici, par-
lando umilmente e con grande tenerezza dello scampo
della città. Ma era troppo tardi. I Neri non volevano
parte, ma tutto.
« E Noffo Guidi parlò e disse : Io dirò cosa che tu
mi terrai crudele cittadino. E io li dissi che tacesse : e
pur parlò, e fu di tanta arroganza, che mi domandò che
mi piacesse far la loro parte nell' ufficio maggiore che
l'altra; che tanto fu a dire, quanto disfà l'altra parte,
e me porre nel luogo di Giuda. E io li risposi che in-
nanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei figliuoli a
mangiare ai cani».
Carlo volea in mano i Signori^ e li facea spesso in-
vitare a mangiare. E quelli si ricusavano, adducendo che
la legge li costringea che fare non lo potevano ; ma era,
perchè stimavano che contro a loro volontà li avrebbe
ritenuti. Un giorno disse che in Santa Maria Novella
fuori della terra volea parlamentare, e che piacesse alla
Signoria esservi. Dino vi mandò tre soli de' compagni,
a quali niente disse, come colui che non volea par-
lare, ma si uccidere.
« Molti cittadini si dolsono con noi di quella andata,
parendo loro che ahdassono al martirio. E quando furono
tornati, lodavano Dio, che da morte gli avea scampati ».
Volevano, se la Signoria vi fosse ita tutta, ucciderli
fuori della porta e correre la terra per loro, E Dino
che facea ?
G' è un brano stupendo, che è una pittura. Vedi co-
me Dino passava i giorni ; la sua incapacità e i suoi af-
fanni. « I Signori erano stimolati da ogni parte. I buoni
diceano che guardassero bene loro, e la loro città. I rei
li contendeano con quistioni. E tra le domande e le ri-
sposte il dì se ne andava. I baroni di messer Carlo gli
occupavano con lunghe parole. E cosi viveano coi) af-
fanno».
— 133 —
Un rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: Fate
fare processione , e del pericolo cesserà gran parte,
E Dino fece la processione, e molti lo schernirono, di-
cendo che meglio era arrotare i ferri, E Dino con-
chiude, parlando di sé e de' coUeghi : niente giovò, per^
che usarono modi pacifici, e voleano essere repenti
e forti. Niente vale Vumiltà contro la grande mali:^ia.
Tutto ti è messo sott' occhio, come in una rappresen-
tazione drammatica. Vedi i Neri in istrada, corrompere,
far gente, mostrar la loro potenza. Diceano:
« Noi abbiamo un signore in casa , il papa è nostro
protettore ; gli avversarii nostri non sono guerniti né da
guerra , né da pace ; danari non hanno ; i soldati non
sono pagati».
E misero in ordine tutto ciò che a guerra bisognava,
invitati molti villani d' attorno e tutti gli sbanditi. I Neri
si armavano ; i Bianchi no, perché era contro la legge,
e Dino minacciava di punirli. E ora che scrive a scol-
parsi nota che fu per avarizia , perché fece dire a' Cer-
chi: Fornitevi, e ditelo agli amici vostri.
I Neri, conoscendo i nemici loro vili e che aveano
perduto il vigore, vengono a' ferri. I Medici lasciano per
morto Orlandi, un valoroso popolano. Si grida a' Priori:
voi siete traditi, armatevi.
Ecco finalmente sventolare sulle finestre il gonfalone
di giustizia. Molti vanno nascosamente dal lato di parte
nera. Ma traggono alla Signoria i soldati che non erano
corrotti, e altre genti, e amici a pie e a cavallo. Era il
momento di operare con vigore. Ma i Signori non usi
a guerra erano occupati da molti che voleano essere
uditi, e in poco stante si fé 7iotte. Il Podestà non si
fé' vivo. Il capitano non si mosse, come uomo piti atto
a riposo e a pace che a guerra. La rannata gente
non consigliò. Il giorno finì: e non si concluse nulla,
— 134 —
e la gpnte stanca se né andò , e cìascnno pensò a so
stesso. E Dino cosa faceva ? Dava udienza.
I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone
parole. Li Spini diceano alli Scali : « Deh ! perchè fac-
ciamo noi cosi ? Noi siamo pure amici e parenti e tutti
guelfi; noi non abbiamo altra intenzione che di levarci
la catena di collo, che tiene il popolo a voi e a noi. E
saremo maggiori che noi non siamo. Mercè per Dio, sia-
mo una cosa, come noi dovemo essere ». Quelli che ri-
ceveano.tali parole, s' ammollavano nel cuore, e i loro
seguaci invilirono. 1 ghibellini, credendosi abbandonati,
si smarrirono, e gli sbanditi si avvicinavano alla città.
Come farli entrare? Carlo instava presso la Signoria,
perchè si desse a lui la guardia della città e delle porte:
che farebbe de' malfattori aspra giustizia. E sotto que-
sto nascondea la sua malizia , nota 1' arguto Dino. Ma
r arguto Dino gli dà la guardia delle porte d' Oltrarno!
Bisogna proprio sentir lui:
« Le chiavi gli furono negate, e le porte di Oltrarno
gli furono raccomandate, e levati ne furono i fiorentini
e furonvi messi i francesi. E il cancelliere e il mahscalco
di messer Carlo giurarono nelle mani a me Dino rice-
verle per lo comune. E mai credetti che un tanto Si-
gnore e della casa reale di Francia rompesse la sua fede:
perchè non passò piccola parte della notte che per la
porta che noi gli demmo in guardia , die' 1' entrata a
molti sbanditi ».
Fatta la breccia, entrano gli altri. E i signori, venuta
meno tutta labro speranza, deliberarono quando i villani
fossero venuti in loro soccorso, prendere la difesa. Che
era quel prender tempo e non risolversi degli animi de-
boli. Furono vinti senza combattere. Tutti si gettarono là
dov' era la forza.
« I malvagi villani gli abbandonarono. I famigli li tra-
dirono. Molti soldati si volsono a servire i loro avver-
— 135 —
sari. Il Podestà andava procurando in aiuto di messer
Carlo ».
Carlo manda i suoi a' Priori, per occupare il giorno
e il loro proponimento con lunghe parole. Giuravano
che il loro Signore si tenea tradito, e che farebbe la ven-
detta grande. Tenete per fermo che se il nostro Si-
gnore non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro
modo, fateci levare la testa. E ora che scrive, Dino ag-
giunge : E non giurò messer Carlo il vero, perchè Corso
Donati di sua saputa venne ».
Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare
il comune, ma ad un patto, che si dieno a lui in cu-
stodia i più potenti uomini delle due parti. E Dino consente.
« I Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con te-
menza. Messer Carlo li fece guardare, i Neri lasciò partire,
ma i Bianchi ritenne presi quella notte senza paglia e
senza materasso, come uomini micidiali».
Qui Dino non ne può più e prorompe:
« 0 buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ov' è la
fede della real casa di Francia, caduta per mal consi-
glio non temendo vergogna? o malvagi consiglieri, che
avete il sangue di cosi alta corona fatto non soldato , ma
assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando
della sua fede, e falsando il nome della real casa di
Francia ! ».
L' indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo.
Come pensare che il sangue di san Luigi , un Real di
Francia, fosse spergiuro e assassino ?
Quando non ci era più il rimedio, si corse al rimedio,
Dino fa sonare la campana grossa, che era un chiamare
alle armi. Ma nessuno uscì. La gente sbigottita non
trasse di casa i Cerchi. Non usci uomo a cavallo, né
a pie armato.
Anche il cielo vi si mescola. Apparisce una croce ver-
m glia sopra il palagio de' Priori.
— 130 -~
« Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la
vidi, potemmo comprendere che Dio era fortemente cruc-
ciato contro la nostra città » .
La città per sei giorni fu messa a ruba. In pochi toc-
chi ti sta innanzi il quadro.
« Gh uomini che teneano i loro avversari si nascon-
deano per le case de' loro amici. L' uno nimico offendea
l'altro ; le case si cominciavano ad ardere, le ruberie si
faceano, e fiiggivansi gli arnesi alle case degl' impotenti.
I Neri potenti domandavano danaro a' Bianchi; marita-
vansi le fanciulle a forza; uccideansi uomini, e quando
una casa ardea forte , messer Carlo domandava : che
fuoco è quello? E eragli risposto che era una capanna,
quando era un ricco palazzo ».
I Priori, moltiplicando il mal fare, e non avendo rime»
dio, lasciarono il priorato. E venne al governo la par-
te nera.
Dino fu il Pier Sederini di quel tempo, e fu a sé stesso
il suo Machiavelli. Nessuno può dipingerlo megho che
non fa egli medesimo.
In questa maravigliosa cronaca non ci è una parola
di più. Tutto è azione, che corre senza posa sino allo
scioglimento. Ma è azione, dove pajon fuori caratteri e
passioni. Un motto, un tratto è un carattere. Carlo, dopo
di aver tratto da' fiorentini molti danari, va a Roma e
chiede danari a Bonifazio. Ma io ti ho mandato alla fonte
dell'oro, risponde il Papa. È una risposta, che è un ri-
traUo dell' uno e dell' altro. I discorsi sono sostanziosi,
incisivi, non meno pittoreschi : vedi personaggi vivi , con
la loro natura e i loro intendimenti, e fanno più effetto
che non le studiate e classiche orazioni, venute poi. Uomo
d' impressione più che di pensiero. Dino intuisce uomini
e cose a prima vista, e ne rende la fìsonomia che non la
puoi dimenticare. Di Bonifazio VIII dice:
« Fu di grande ardire e alto ingegno , e guidava la
— 137 —
Chiesa a suo modo, e abbassava chi non li consentia ».
Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto :
« Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano,
ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo,
piacevole parlatore ; adorno di belli costumi, sottile d' in-
gegno, coU'animo sempre intento a mal fare, col quale
molti masnadieri si raunavano, e gran seguito avea, molte
arsioni e molte ruberie fece fare: molto avere guadagnò
e in grande altezza salì. Costui fu messer Corso Donati
che per sua superbia fu chiamato il Barone, che, quando
passava per la terra, molti' gridavano : Viva il Barone.
E parea la terra sua. La vanagloria il guidava e molti
servigi facea».
La stessa sicurezza è nella rappresentazione della cosa.
Rapido, arido, tutto fatti, che balzan fuori coloriti dalle
sue vivaci impressioni, dalla sua maraviglia, dalla sua
indignazione. Una cosa soprattutto lo colpisce, che molte
lingue si cambiarono in pochi giorni. Non vi si sa ras-
segnare, e li chiama ad uno ad uno, e ricorda loro quello
che diceano e quello che erano. Il mutarsi dell'animo se-
condo gH eventi non gU potea entrare.
« Donato Alberti, dove sono le tue arroganze, che ti
nascondesti in una vile cucina ? 0 messer Lapo Salte-
relli, minacciatore e battitore de' rettori che non ti ser-
viano nelle tue quistioni, ove ti armasti ? in casa i Pulci,
stando nascoso. 0 messer Manetto Scali, che volevi es-
ser tenuto sì grande e temuto, ove prendesti le armi ?
0 voi popolani, che desideravate gli ufficii e succiavate
gli onori, e occupavate i palagi de' rettori, ove fu la vo-
stra difesa? nelle menzogne, simulando e dissimulando,
biasimando gli amici e lodando i nemici, solamente per
campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra città ».
I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e ingenerose
sono da lui rappresentati con lo stesso accento di ma-
raviglia, come di cose non viste mai, e svegliano nel
— 138 —
s^io animo onesto una indignazione eloquente. Ed è da
questi sentimenti, che è uscito questo capolavoro di de-
scrizione :
« Molti nelle rie opere divennero grandi, i quali avanti
nominati non erano, e nelle crudeli opere regnando cac-
ciarongli molti cittadini e feciongli rubelli, e sbandeggia-
rono neir avere e nella persona. Molte magioni guasta-
rono, e molti ne puniano, secondo che tra loro era or-
dinato e scritto. Niuno ne campò che non fosse punito.
Non valse parentado, né amistà; né pena si potea mi-
nuire, né cambiare a coloro a cui determinate erano.
Nuovi matrimonii niente valsero, ciascuno amico divenne
nimico; i fratelli abbandonavano l'un l'altro, il figliuolo,
il padre, ogni amore, ogni umanità si spense. Patto, pietà
né mercé in niuno mai si trovò. Chi più dicea : muojano,
muojano i traditori, colui era il maggiore ».
Tra' proscritti fu Dante. Condannato in contumacia, non
rivide più la sua patria. Ira, vendetta, dolore, disdegno,
ansietà pubbliche e private, tutte le passioni che posson-o
covare nel petto di un uomo, lo accompagnarono nel-
r esilio.Chi ha vista l' indignazione di Dino , può misu-
rare quella di Dante.
Il Priorato fu il principio della sua rovina, com' egli
dice, ma fu anche il principio della sua gloria. Non era
uomo politico ; mancavagli flessibilità e arte di vita ; era
tutto un pezzo, come Dino. Priore, volle procurare una
concordia impossibile, e non riuscì che a farsi ingannare
da' Neri in Firenze e da Bonifazio in Roma. Esule, non
valse a mantenere quella preminenza che era debita al
suo ingegno e alla sua virtù, si lasciò soverchiare dai
più audaci arrischiati , e non potendo impedire e non
volendo accettare molti disegni , si segregò e si fece
parte p?r sé stesso. Toltosi alle faccende pubbhche, ri-
piegatasi in sé, sviluppò tutte le sue forze intellettive e
poetiche.
— 130 -^
Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore
allo studio che la vista ne fu debilitata. Finisce la Vita
J\uova con la speranza di dire di lei quello che non
fu mai deffo di alcuno. E fece di questo suo primo e
solo amore la bellissima e onestissima figlia dell' Im-
peratore dell universo, alla quale Pitagora pose nome
filosofia. Frutti di questi nuovi studi furono le sue can-
zoni allegoriche e scientifiche.
Tra questi studi nacque la seconda Beatrice, luce spi-
rituale, unità ideale, r amore che congiunge insieme in-
telletto e atto, scienza e vita. Intelletto, amore, atto, era
questa la trinità, che fu il suo secondo amore, la sua
filosofia. Beatrice divenne un simbolo, e la poesia vanì
nella scienza.
Quei mondo hrico, che a noi pare troppo astratto, parve
poco spiritudle ai contemporanei, che chiamavano sen-
sensuale quel primo amore di Dante, e poco intendevano
questo suo secondo amore. E Dante per cessare da sé
l'infamia e per mostrare la dottrina nascosa sotto figura
di allegoria, volle illustrare e cementare le sue canzoni
egli medesimo.
Era iottissimo. Teologia, filosofia, storia, mitologia, giu-
risprudenza, astronomia, tìsica, matematica, rettorica, poe-
tica, di tutto lo scibile avea notizia e non superficiale :
perchè di tutto parlò con (chiarezza e con padronanza della
materia. Il disegno ^li si allargò : al poeta tenne dietro
lo scienziato : e pensò di chiudere in quattordici trattati,
quante erano le canzoni, tutta la scienza nella sua ap-
plicazione alla vita morale. Un lavoro simile, che Bru-
netto chiamò Tesoro, altri chiamavano Fiore, o Giar-
dino, egli chiamò Convito, quasi mensa dov'è imbandito
il pane degli angeli, il cibo della sapienza. Brunetto avea
scritto il Tesoro in francese, gli altri trattavano la scienza
in latino. La prosa volgare era tenuta poco acconcia a
questa materia, massime dopo l'infelice versione dell'Etica
— 140 —
di Aristotile , fatta da un tal Taddeo , celebro medico,
nominato l' Ippocratista. Bisogna vedere quante sottili
ragioni adduce Dante per scusarsi di scrivere in volgare.
Celebra il latino, come perpetuo e non corruttibile, e
perchè molte cose manifesta concepute nella menfe^
che il volgare non può, e perchè il volgare seguita uso e
il latino arte: onde il latino h piit hello, piii virtuoso e
più nobile. Ma appunto per questo il comento latino non
sarebbe stato suggetto alle canzoni scritte in volgare, ma
sovrano, e il comento per sua natura è servo e non si-
gnore, e dee ubbidire e non comandare. Ora il latino non
può ubbidire, perchè comandatore e sovrano del volgare.
Oltreché, come può il latino comentare il volgare, non
conoscendo il volgare ? E che il latino non è conoscente
de' volgare, si vede: che uno abituato di latino non di"
stingue, s'egli è d' Italia, lo volgare provenzale dal te-
desco. Ecco le opinioni, le forme e le sottigliezze della
scuola. Questa novità di scrivere di scienza in volgare,
che è come dare a' convitati biado e non formento, gli
pare cosi grande che a difendersene spende otto capitoli,
modello di barbarie scolastica. Lasciando stare le sotti-
gliezze, la sostanza è questa, ch'egli usa il volgare di si,
perchè loquela propria, e de suoi generanti e suo in-
troducitore nello studio del latino , e perciò nella via
di scienza che è V ultima perfezione. Scrisse in volgare
le rime, il volgare usò deliberando, interpretando e qui-
stionando : dal principio della vita ebbe con esso beni-
volenza e conversazione ; il volgare è l' amico suo, dal
quale non si sa dividere. Coloro fanno vile lo parlare
italico e prezioso quello di Provenza, che per iscusarsi
del non dire o dire male accusano e incolpano la mate-
ria, cioè lo volgare proprio. La plebe, o come dice egli,
le popolari persone cadono nella fossa di questa falsa
opinione per poca discrezione : per che incontra che
molte volte gridano : Viva la loro morte e Muoia la
— 141 —
la loro vita, purché alcuno cominci, e sono da chia-
mare pecore e non uomini. Gli altri vi caggiano per
vanità o per vanagloria, o per invidia o per pusillani-
mità. Questo disamare lo volgare proprio e pregiare lo
altrui, gli pare un adulterio, conchiudendo con queste
sdegnose parole : « e tutti questi cotali sono gli abbomi-
nevolì cattivi d' Italia, che hanno a vile questo prezioso
volgare, lo quale se è vile in alcuna cosa, non è se non
in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adul-
teri ». E però egli scrive questo comento in volgare, per
fargli avere in alio e palese quella hontade che ha in
potere e occulto, mostrando che la sua virtù si manife-
sta anche in prosa, senza le accidentali adornezze della
rima e del ritmo, come donna bella per naturai bellez-
za e non per gli adornamenti dell' azzimare e delle
vestimenta, e che altissimi e novissimi concetti convenien-
temente, sufficientemente e acconciamente, quasi come
per esso latino ^ vi si esprimono. E finisce con queste
profetiche parole : « Questa sarà luce nuova, sole nuovo,
il quale surgerà, ove T usato tramonterà»,
Tanta veemenza nell' accusare, tanto ardore nel ma-
gnificare può fare intendere quanto radicata e sparsa era
r opinione degl'infiniti ciechi, com' egli li chiama, che te-
nevano il volgare inetto alla prosa. E non ottenne V in-
tento. Il latino continuò a prevalere : egli medesimo, la-
sciato a mezza via il Convito, trattò in latino la retto-
rica e la politica , che insieme con 1' etica era la ma-
teria ordinaria dei trattati scientifici.
Il libro de Vulgari eloquio non è un fior di Éetto-
rica, quale si costumava allora, un accozzamento di re-
gole astratte cavate dagli antichi, ma è vera critica ap-
plicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati. La
base di tutto 1' edifizio èia lingua nobile, antica, corti-
giana, illustre, che è dappertutto e non è in alcuna parte,
di cui ha voluto dare esempio nel Convito. Questo ideale
— 142 —
parlare italico è illustre, in quanto si scosta dagli ele-
menti locali, ove prendono forma i dialetti, e si accosta
alla maestà e gravità dei latino, la lingua modello. Vo-
leva egli far del volgare quello che era il latino, non
k lingua delle persone popolari, ma la lingua perpetua
e incorruttibile degli uomini colti. S(igno assai simile a
quello di una lingua universale, fondata co' procedimenti
artificiali della scienza. Scegliere il medio di qua e di
là e far cosa una e perfetta , sembra cosa facile e assai
conforme alla logica, ma è contro natura. Le lingue, come
le nazioni, vanno all'unita per processi lenti e storici;
e non per fusioni preconcette , ma per graduale assor-
bimento e conquista degli elementi inferiori. Il ghibellino
che dispreggiava i dialetti comunali e voleva un parlare
comune italico, di cui abbozzava l' immagine, ti rivelava
già lo scrittore della Monarchia.
Il trattato, de Manarchia, è diviso in tre libri. Nel
primo dimostra la perfetta forma di governo essere mo-
narchia: nel secondo prova questa perfezione essere in-
carnata neir impero romano, sospeso, non cessato, per-
chè preordinato da Dio. Nel terzo stabilisce le relazioni
tra r impero e il sacerdozio, 1' unico imperatore e l'u-
nico papa.
L' eccellenza della monarchia è fondata sull' unità di
Dio. Uno Dio, uno Imperatore. Le oligarchie e le demo-
crazie sono polizie oblique, gouerni per accidente, reg-
gimenti difettivi. Fin qui tutti erano d' accordo, guelfi e
ghibeUini. Non ci erano due filosofìe ; le premesse erano
comuni ai due partiti.
E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spi-
rito e il corpo e la preminenza di quello, base della fi-
losofia cristiana. E ne inferivano che nella società sono
due poteri, lo spirituale e il temporale, il Papa e l' Im-
pe atore. Il contrasto era tutto nelle conseguenze.
Se lo spirito è superiore al corpo , duuv^ue, conchiu-
— 143 —
flrva r>'M:i Tazio Vili, il papa è superiore all'imperatore.
* 11 put.eie ^pirituale, die' egli , ha il diritto d' insciLuire
il potere temporale , e di giudicarlo , se non è buono ,
E rh\ l'esiste, resiste all'ordine stesso di Dio, a m(»no
cW f'gìi non immagini, come i Manich'^i, due p:'incipii, ciò
cli<; sentenziammo errore ed eresia. Adunque ogni uomo
<iee essere sottoposto al pontefice romano, e noi dichia-
riamo che questa sottomissione è necessaria per la salute
dell'anima».
Filosofìa chiara, semplice, popolare, irresistibile per il
<'arattere indiscusso delle premesse consentite da tutti e
per r evidenza delle conseguenze. Quando lo spirito era
il sostanziale e il corpo in sé stesso era il peccato , e
non valea se non come apparenza o organo dello spi-
nto, cos' altro potevano essere i re e gl'Imperatori , che
erano il potere temporale, se non gì' investiti dal Papa,
gh esecutori della sua volontà ? I guelfi , che , salve le
iranchigie comunaH , ammettevano premesse e conse-
guenze, erano detti la parte di santa chiesa.
Dante ammetteva le premesse, e per fuggire alla con-
seguenza suppone che spirito e materia fossero ciascuno
con sua vita propria, senza ingerenza, nell'altro, e da
questa ipotesi deduce l'indipendenza de' due poteri, amen-
due organo di Dio sulla terra, di dritto divino, con gli
stessi privilegi, due soli, che indirizzano l'uomo, l'uno
per la via di Dio, 1' altro per la via del mondo , 1' uno
per la celeste, 1' altro per la terrena felicità. Perciò il
Papa non può unire i due reggimenti in sé, congiungere
il pastorale e la spada ; anzi come vero servo di Dio e
immagine di Cristo, dee dispregiare i beni e le cure dì
questo mondo, e lasciare a Cesare ciò che è di Cesare.
L' imperatore dal suo canto dee usar riverenza al Papa,
appunto per la preminenza dello spirito sul corpo; e poi-
ché il popolo é corrotto e usurpatore , e la società è
viziosa e anarchica, il suo uffizio è di ridurre il moudj
— 144 —
a giustizia e concordia, ristaurando V impero della legge.
Né è a temere che sia tiranno, perchè nella stessa sua
onnipotenza troverà il freno a sé stesso : perciò rispet-
terà le franchigie de' comuni e l'indipendenza delle na-
zioni. Questa era l'utopia dantesca o piuttosto ghibellina.
Dante ne ha fatto un sistema e ne è stato il filosofo.
Scendendo alla applicazioni, Dante mostra nel secondo
libro che la monarchia romana fu di tutte perfettissima.
La sua storia risponde alle tre età dell'uomo. Neil' in-
fanzia ebbe i re : adulta, e rettasi a popolo, con geste
maravigliose, una serie di miracoh che attestano la sua
missione provvidenziale, si apparecchiò alla età virile,
ordinandosi a monarchia sotto Augusto, che san Tom-
maso chiama Vicario di Cristo, e che Dante, seguendo
la tradizione virgiliana, dice discendente da Enea fonda-
tore dell'impero, per disegno divino. E fu a quel tempo
che nacque Cristo, e fu suddito dell' impero e compi
r opera della redenzione delle anime , mentre Augusto
componeva il mondo in perfetta pace.
Da queste premesse storiche Dante conchiude che Roma
per dritto divino dee essere la capitale del mondo, e che
giustizia e pace non può venire in terra se non con la
ristaurazione dell' impero romano, la monarchia prede-
stinata, di cui la più bella parte, il giardino, era l' Italia.
In apparenza, questo era un ritorno al passato, ma ci
era in germe tutto l'avvenire : ci era l' affrancamento dai
laicato , e 1' avviamento a più larghe unità. I guelfi si
tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di là del
comune vedi la nazione, e al di là della nazione l' uma-
nità, la confederazione delle nazioni. Era un' utopia che
segnava la via della storia.
Guelfi e ghibellini aveano comune le persuasione che
la società era corrotta e disordinata , e chiedevano il
paciere. La selva, immagine della corruzione, è un punto
di partenza comune a Brunetto guelfo, e a Dante ghi-
— 145 -^
bellino. I gnelfì chiamavano paciere nelle loro discordie
un legato del Papa, come Carlo di Valois, che giostrò
con la lancia di Giuda, come dice Dante. I ghibellini
invocavano l'imperatore. E credesi che Dante abbia scritto
questo trattato per agevolare la via all'Imperatore Ar-
rigo VII , di Lucemburgo, sceso a pacificare V Italia , e
morto al principio dell' impresa, glorificato da Dante, ce-
lebrato da Mussato, lacrimato da Gino. Non avevano an-
cora imparato e guelfi e ghibellini, che chiamar pacieri
è mettersi a discrezione altrui, e che metter l'ordine e
salvar la società dalle fazioni è antico pretesto di tutt'i
conquistatori.
Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse
appunto ad Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo in-
sieme le sue opere latine, di cui la più originale è quella
De vulgari eloquio, e unendovi il Convito, si può avere
un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.
Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo. Nò la
filosofia fu la sua vocazione , lo scopo a cui volgesse
tutte le forze dello spirito. Fu per lui un dato, un punto
di partenza. L' accettò come gli veniva dalla scuola , e
ne acquistò una piena notizia. Seppe tutto, ma in nes-
suna cosa lasciò un'orma del suo pensiero, posto il suo
studio meno in esaminare che in imparare. Accoglie qual-
siasi opinione anche più assurda, e gran parte degli er-
rori e de' pregiudizi di quel tempo. Cita con uguale rive-
renza Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio, scrittori
pagani e cristiani. La citazione è un argomento. Il suo
filosofare ha i difetti dell'età. Dimostra tutto, anche quello
che non è controverso ; dà pari importanza a tutte le qui-
stioni. Ammassa argomenti di ogni qualità, anche i più
puerili ; spesso non vede la sostanza della quìstione , e
si perde in minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo
scolastico e le infinite distinzioni. Pure se fra tanti viot-
toli ti regge ire sino alla fine , troverai nella sua Mo-
De Sanotis — Lett Ttal. Voi. I. 10
— 146 —
narrliia un* ampiezza ed unità di disegno ed una concér-
danza di parti, cìie ti fa indovinare il grande architetto
deli' altro mondo.
1 difetti delle opere latine sono comuni al Convito, e
gì' intralciano lo stile, e gì' impediscono queir andamento
naturale e piano del discorso, che potea renderlo acces-
sibile agi' illetterati, a' quali era destinato. La sua teo-
ria della hngua illustre lo allontana da quello andare soave
e semplice della prosa volgare, e quando gli altri vol-
garizzano il latino, egli latinizza il volgare, cercando no-
biltà e maestà nelle perifrasi, ne' contorcimenti e nelle
inversioni. Usa una lingua ibrida, non itaUana e non la-
tina, spogliata di tutte le movenze e attitudini vivaci del
dialetto, e lontana da quella dignità e misura, che am-
mira nel latino, e a cui tende con visibile e infelice sforzo.
Se la natura gli avesse concesso un più squisito senso
artistico, avrebbe forse potuto essere fondatore della
prosa. Ma gU manca la grazia, e senti la rozzezza nello
sforzo della eleganza. Salvo qualche raro intervallo, che
la passione lo scalda e lo fa eloquente , la sua prosa ,
come la sua lirica, fa desiderare 1' artista.
Vocazione di Dante non fu la filosofia, e non fu la prosa.
Quello eh' egli cercava, non potè realizzarlo come scienza
e come prosa.
Che cerchi? gh domandò un frate. Rispose: Pace. E que-
sto cercavano tutt'i contemporanei. Pace era concordia del
regno terrestre col regno celeste, dell'anima con Dio, il re-
gno di Dio sulla terra. Advemat regnum tuum. Pace ve-
ra quaggiù non può essere; vera pace è in Dio, nel mondo
celeste ; Beatrice morendo parea che dicesse : Io sono in
pace. La vita è una prova, un tirocinio, per accostarsi
quanto si può all' ideale celeste, e meritarsi l'eterna pace.
Lo scopo della vita è la salvazione dell' anima, la pace
dell* anima nel mondo celeste. Vivere è morire alla terra
per vivere in cielo. La vita è la storia dell' anima, è un
— 147 -
tìftslero. Uscita pura dalle mani di Dio che la vagheg-
gia, è sottoposta quaggiù al male e al dolore, e non può
tornare nella patria, che purificata di ogni macula ter-
restre. Per giungere a pace bisogn a passare per tre gradi,
personificati ne' tre esseri, Umano, Spoglia e Rinnova,
€ a* quali rispondono i tre mondi, inferno, purgatorio e
paradiso. Il mistero e la storia finisce al primo grado,
quando 1' anima sopraffatta dall' umano e vinta nella sua
battaglia col demonio , viene in potere di questo , è la
tragedia dell'anima, la tragedia di Fausto, prima che
Goethe, ispirato da Dante, lo avesse riscattato. Ma quando
r anima vince le tentazioni del demonio, e si spoglia e
si purga dell' umano, hai la sua glorificazione nell'eterna
pace : hai b commedia dell' anima. Questo è il mistero,
ora tragedia, ora commedia, secondo che prevale l'umano
o il divino, il terrestre o il celeste, che giace in fondo
a tutte le rappresentazioni e a tutte le leggende di guel-
r età. Messo in iscena era detto rappresentazione ; nar-
rato era leggenda o vita ; esposto in figura, era allego-
ria ; rappresentato in modo diretto e immediato, era visio-
ne; anzi le due forme si compenetravano, e spesso l'allego-
ria era una visione, e la visione era allegoria. Allego-
rie, visioni, leggende, rappresentazioni erano diverse for-
me di questo mistero dell' anima, del quale i teologi erano
i filosofi, e i predicatori erano gli oratori, che aggiun-
gevano spesso alla dottrina 1' esempio, qualche leggenda
0 visione, com' è nello Specchio di vera penitenza.
Il mistero dell' anima era in fondo tutta una metafi-
sica religiosa, che comprendeva i più delicati e sostan-
ziali problemi della vita , e produceva una civiltà a so
conforme. Ci entrava l' individuo e la società, la filoso-
fia e la letteratura.
La letteratura volgare in senso prettamente religioso si
stende per due secoU da Francesco di Assisi e Jacoponesino
a Caterina. L'allegoria dell' anima, la rappresentazione del
— 148 —
g'ovane monaco, T Introduzione alle virtù, la Commedia
dell'anima sono in forma letteraria la teoria di questo
mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge la sua
perfezione dottrinale, ed acquista la sua individuazione
0 realtà storica ne' Fioretti, nelle leggende, e nelle vi-
sioni del Cavalca e del Passavanti.
Ma questa letteratura era senza eco nella classe coita
da cui esce l'impulso della vita intellettuale. Dante spre-
giava il latino della Bibbia, come privo di dolcezza e di
armonia. Quello scrivere così alla buona e come si parla
era tenuto barbarie o rozzezza. Vagheggiavano una for-
ma di dire illustre e nobile, prossima alla maestà del
latino, della quale Dante die nel Convito un saggio poco
felice. Né potea piacere quella semphcità di ragionamento
con tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano
dalle scuole con tanta filosofia in capo, con tanta eru-
dizione sacra e profana. Ma se avevano in poco conto
quella letteratura, giudicata povera e rozza, non era di-
verso il concetto che essi avevano della vita. I teologi
filosofavano e i filosofi teologizzavano. La rivelazione ri-
maneva integra nelle sue basi essenziali, ammesse come
assiomi indiscutibiH. Tali erano 1' unità e personalità di
Dio, r immortalità dello spirito, e lo scopo della vita ol-
tre terreno.
Ma se il concetto era lo stesso , la materia era più
ampia, abbracciando la coltura, oltre la Bibbia e i Santi
Padri, quanto del mondo antico era noto, e la forma era
più libera , paganizzando sotto lo scudo dell'allegoria, e
voltando il hnguaggio cristiano nelle formole di Aristo-
tile e Platone.
Il regno di Dio chiamavano regno della filosofia. E
realizzare il regno di Dio era conformare il mondo ai
dettati della filosofia, unificare intelletto è atto. Il me-
diatore era l'Amore, principio delle cose divine e umane,
e non l'amore sensuale, ch'era peccato, ma un amore
— 149 —
intellettuale, l'amore della filosofia. Il frutto dell' amore è
la sapienza , che non è puro intelletto , ma intelletto e
atto congiunti , la virtù. Il regno di Dio in terra era
dunque il regno della virtù, o come dicevano, della giu-
stizia e della pace. A realizzare questo regno erano istru-
menti i due Soli, i due organi di Dio, il Papa e l'Im-
peratore. La politica era 1' arte di realizzare questo re-
gno della giustizia e della pace , rendendo gli uomini
virtuosi e felici. Il criterio politico era puramente etico,
come s' è visto in Albertano Giudice^ in Egidio Colonna ,
in Mussato, in Dino Compagni. All' afifettuazione di que-
sto regno etico concorreva la tradizione virgiliana; per-
chè Virgilio era un testo non meno rispettabile che la
Bibbia. E si attendeva la monarchia predestinata da Dio,
la ristorazione dell' impero romano.
In questi due secoli abbiamo due letterature quasi pa-
rallele, e persistenti l' una accanto all' altra, una schiet-
tamente religiosa, chiusa nella vita contemplativa, cir-
coscritta alla Bibbia e a' Santi Padri, e che ha per risul-
tato inni e cantici e laude, rappresentazioni , leggende,
visioni, e 1' altra che vi tira entro tutto lo scibile e lo
riduce a sistema filosofico, e abbraccia varii aspetti della
vita, e dà per risultato somme, enciclopedie, trattati, cro-
nache e storie, sonetti e canzoni. Tra queste due lettera-
ture erra la novella e il romanzo, eco della cavalleria,
rimasti senza seguito, e senza sviluppo, quasi cosa pro-
fana e frivola.
GU uomini istrutti si studiavano di render popolare la
cultura, specialmente nella sua parte più accessibile e
pratica, l'etica e la morale. Indi le tante versioni e
raccolte di precetti etici sotto nomi di Fiori , Giardini,
Tesori , Ammaestramenti. Un tentativo di questo ge-
nere fu il Tesoretto.
Nella prima parte della Lirica dantesca hai la storia
ideale della Santa, nella sua purezza soppresso il demo-
— 150 —
nio e le tentazioni della carne. È il mistero dell' anima
cosi come è rappresentato nella Commedia dell' anima.
L' anima che uscita pura dalle mani di Dio , dopo breve
pellegrinaggio ritorna in cielo bellezza spirituale^ o luce
intellettuale, è Beatrice, e Beatrice è la Santa della gente
colta, è la Donna platonica e innominata de' poeti bat-
tezzata e santificata.
Nella seconda parte Beatrice è la filosofìa, che riceve
la sua esplicazione dottrinale nelle Canzoni e nel Con-
vito. La poesia va a metter capo nella pura scienza, nel-
r esposizione scolastica di un mondo morale, dell'Etica.
La letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali,
e monotone di Caterina ; il suo difetto ingenito è 1' astra-
zione dell'ascetismo. La letteratura dotta va a finire nelle
sottigliezze scolastiche del Convito ; il suo difetto intrin-
seco è r astrazione della scienza. Tutte e due hanno una
malattia comune, 1' astrazione, e la sua conseguenza let-
teraria, r allegoria.
Ma il mondo di Dante non pò tea rimaner chiuso in
questi limiti, o piuttosto non era questo il suo mondo
naturale e geniale, conforme alle qualità del suo spirito
e del suo genio, e ci sta a disagio. La sua forza non è
r ardore della ricerca e della investigazione, che è il ge-
nio degli spinti speculativi. La scienza è per lui un dom-
ma, il cervello rimane passivo in quelle scolastiche espo-
sizioni. Avea troppa immaginazione, perchè potesse ri-
maner neir astratto, e studia più a figurarlo e colorirlo,
che a discuterlo e interrogarlo. La fantasia creatrice, il
vivo sentimento della realtà, le passioni ardenti del pa-
triota disingannato e ofi'eso, le ansietà della vita pub-
blica e privata, non poteano avere appagamento in quella
regione astratta della scienza che pur gli era tanto cara.
Sentiva il bisogno meno di esporre che di realizzare. E
volle realizzare questo regno della scienza o regno di Dio
che tutti cercavano, farne un mondo vivente.
— 151 —
II mondo è una selva oscura, corrotto dal vizio e dal-r
r ignoranza. Rimedio è la scienza, secondo i cui prin-
cipi! dovrebb' esser conformato. La scienza è il mondo
ideale, non qual è, ma quale dee essere. Questo idealo
si trova realizzato nell' altra vita, nel regno di Dio con-
forme alla verità e alla giustizia. Perciò ad uscir dalla
selva non ci è che una via , la contemplazione e la vi-
sione dell' altra vita. Per questa via V anima, superate
le battaglie del senso, e purificatasi, ha la sua pace, 1»
sua eterna Commedia, la beatitudine.
Da questo concetto semplice e popolare usci la con-
templazione 0 visione, detta la Commedia, rappresenta-
zione allegorica del regno di Dio^ il Mistero dell' anima
0 la Commedia dell'anima.
VII.
LA COMMEDIA.
Chi mi ha seguito, vede che la divina Commedia non
è un concetto nuovo, né originale, né straordinario, sorto
nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo
maravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto
di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le for-
me letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, Trat-
tati, Tesori, Giardini, sonetti e canzoni. L' allegoria del-
l' anima e la Conimedia dell' anima sono gli schizzi, le
categorie, i lineamenti generali di questo concetto.
Nel Convito la sostanza è l' Etica, che Dante cerca di
rendere accessibile agl'illetterati, esponendola in prosa
volgare. Qui il problema è' rovesciato. La sostanza sono
le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al Mi-
stero dell'anima, il concetto di tutt' i misteri e di tutte le
leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la col-
tura di quel tempo. Con questa felice ispirazione, pigliando
— 152 —
a base della coltura le tradizioni e le forme popolari,
riunisce le due letterature, che si contendevano il campo,
intorno al comune concetto che la ispirava , il mistero
dell' anima. La rappresentazione e la leggenda esce dalla
sua rozza volgarità e si alza a' più alti concepimenti della
scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si
fa mistero e leggenda. Indi l' immensa popolarità di que-
sto libro che gì' illetterati accettavano nel senso lette-
rale, e i dotti cementavano come un libro di scienza,
come la Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in
quei versi quel medesimo che sentiva nelle prediche,
nelle divozioni e rappresentazioni, né meraviglia che qual-
cuno guardando Dante con quella faccia pensosa e come
alienata, dicesse : Costui par veramente uscito ora dal-
li' Inferno. Gli eruditi si affannavano a cercare il senso
de' versi strani, e il Boccaccio iniziava quella serie di
cementi che spesso in luogo di squarciare il velo lo fanno
più denso.
In ejBfetti la divina Commedia è una visione dell'altro
mondo allegorica. Cristianamente, la visione e la con-
templazione dell'altra vita è il dovere del credente, la
perfezione. 11 santo vive in ispirito nell'altro mondo; le
sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita^
a cui sospira. Dante accetta questa base ascetica, po-
polarissima : contemplare e vedere 1' altro mondo è la
via della salvazione. Per campare dalla selva del vizio e
dell' ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa, vede
in ispirito l' altro mondo e narra quello che vede. Que-
sto è il motivo ordinario di tutte le visioni, è la storia
di tutt' i santi, è il tema di tutt' i predicatori, è la let-
tera della Commedia, visione dell' altro mondo, come via
a salute. Ma la visione è allegoria. L'altro mondo è al-
legoria e immagine di questo mondo, è in fondo la sto-
iTia 0 il mistero dell' anima ne' suoi tre stati, detti nella
Allegoria dell' anima Umano, Spoglia, Rinnova, che ri-
— 153 —
spendono a' tre raondi^ Inferno, Purgai orlo e Paradiso.
È r anima intenebrata dal senso, nello stato puramente
umano, che spogliandosi e mondandosi della carne si rin-
nova, ritorna pura e divina. Questa allegoria era popo-
lare e comune non meno che la lettera. Ciascuno vedeva
un po' r altro mondo con 1' occhio di questo mondo, con
le sue passioni e interessi. I predicatori, sopratutto nella
descrizione delle pene infernali, cercavano immagini delle
passioni terrene. Il mistero dell' an ima era la base di tutt
le invenzioni, la leggenda delle leggende. L' uomo, ca-
duto neir errore e nella miseria, che finisce o vendendo
l'anima al demonio, o purgandosi e salvandosi, era il
fondamento di tutte le storie pop olari , come s' è visto
neir Introduzione alle Virtù e nella Commedia dell'anima.
La Commedia delV anima è l' an ima uscita dalle mani
di Dio pura, che in terra combatte le sue battaglie con
la carne e col demonio, e vince assis tita dalla grazia di
Dio. Vizi e Virtù combattono , come gli Dei di Omero,
intorno all' anima ; le Virtù vincono e 1' anima è salva.
Neil' Introduzione alle Viriii è un giovane caduto in
miseria, a cui apparisce confortai ri ce la Filosofia, sua
maestra e signora, e gli mostra la battaglia de' Vizi e
delle Virtù; e il giovane, spregiando i beni terrestri, si
leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice
di Boezio, così popolare, e di Dante a cui dopo la morte
di Beatrice apparve questa nobilissima figlia dell' Impe-
ratore dell' universo, facendolo suo amico servo. Il vi-
zio e r ignoranza, la conversione per opera di Dìo o della
filosofia, la redenzione e. beatificazione, visione di Dio e
della scienza, era il luogo comune delle due letterature,
de' semplici e degli uomini colti . E Dante fonde insieme
le due f)rme, e tira nella sua allegoria filosofia e teo-
logia, ragione e grazia, Dio e Scienza, e fa un mondo
armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo. L' anima
neir inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora
— 154 —
dal terreno, ha guida il lume naturale, la Ragione o la
Filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia
di Dio: fatta libera o monda o leggiera, ha nel para-
diso maestra la grazia o la teologia, luce intellettuale,
che le mostra la scienza senza velo, o Dio nella sua es-
senza.
Perchè V altro mondo è allegorico, figura dell' anima
nella sua storia, il poeta è sciolto da' vincoli liturgici e
religiosi e spazia nel mondo libero dell' immaginazione.
Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adope-
ra alla sua costruzione tutt' i materiali della scienza, sacra
e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano, me-
scolando insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero,
figure classiche e cristiane. Cosi ha realizzato quel mondo
universale della coltura, tanto desiderato dalle classi colte
e fino allora tentato invano, cristiano nel suo spirito e
nella sua letteratura, ma dove già penetra da tutte le
parti il mondo antico. M*'SColanza che in molti contem-
poranei pare strana e grottesca, legittimata qui dall' al-
legoria, che concede al poeta libertà di forme , eh' egli
creda più acconce a significare i suoi concetti. Il mondo
pagano e la scienza profana sono qui materiali di co-
struzione, usati a edificare un tempio cristiano, a quel
modo che colonne egizie e greche si veggono talora nelle
costruzioni moderne divenire simbolo e figure de' nuovi
tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione gi-
gantesca prendon parte tutte le età e tutte le forme,
fuse insieme e battezzate, penetrate da un solo concetto,
il concetto cristiano.
L' ordito è semplicissimo : è la storia o mistero del-
l' anima nella sua espressione elementare, come si trova
nella rappresentazione della Commedia dell'anima ; e l'hai
già tutta e chiara innanzi fin dal primo canto, Dante nel
giorno del Giubileo , quando Bonifazio facea mostra di
tutta la sua possanza, il mondo cristiano si raccoglieva
— 155 —
intorno a lui, si trova smarrito in una selva oscura, e
sta per soggiacere all'assalto delle passioni, figurate nella
lonza, il leone e la lupa, quando a camparlo dal luogo
selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco a contemplare
r inferno e il purgatorio, ove, confessati i suoi falli, gui-
dato da Beatrice, sale in Paradiso e di luce in luce giunge
alla faccia di Dio. Allegoricamente, Dante è 1' anima, Vir-
gilio è la Ragione, Beatrice è la Grazia, e l'altro mondo
è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale,
è r Etica realizzata, questo mondo quale dee essere se-
condo i dettati della filosofia e della morale , il mondo
della giustizia e della pace, il regno di Dio.
Dante è 1' anima non solo come individuo, ma comò
essere collettivo, come società umana, o umanità. Como
r individuo, così la società è corrotta e discorde, e non
può aver pace se non instaurando il regno della giu-
stizia 0 della legge , riducendosi dall' arbitrio dei molti
sotto uiiico moderatore. E qui entra la tradizione virgi-
liana: la monarchia prestabilita da Dio, fondata da Au-
gusto, dihvjendente di Enea, e Roma per diritto divino
capo del mondo. Questo concetto politico non è in-
truso e soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso con-
cetto etico, applicato all' individuo e alla società.
È tale la medesimezza che la stessa allegoria si può
interpretare in un senso puramente etico, per rispetto
air individuo, e* in un senso poUtico, per rispetto alla so-
cietà. E non è perciò maraviglia che la stessa materia si
presti con tanta docilità alle più diverse interpretazioni.
Se r allegoria ha reso possibile a Dante una illimi-
tata libertà di forme, gli rende d'altra parte impossibile la
loro formazione artistica. Dovendo la figura rappresen-
tare il figurato , non può essere persona libera e indi-
pendente, come richiede 1' arte , ma semplice personifi-
cazione 0 segno d' idea, sicché non contenga se non i trat-
ti soli che hanno relazione all' idea, a quel modo che il vero
— 156 —
paragone non esprime di sé stesso se non quello solo che
sia immagine della cosa paragonata. L' allegoria dunque
allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie
!a vita propria e personale , ne fa il segno o la cifra di
un concetto a sé estrinseco. Hai due realtà distinte, l'una
fuori dell' altra, V una figura e adombramento dell'altra,
perciò amen^ue incompiute e astratte. La figura, dovendo
significare non sé stessa, ma un altro, non ha niente di
organico , e diviene un accozzamento meccanico mostruo-
so, il cui significato è fuori di sé, com' è il Grifone del
Purgatorio, 1' Aquila del Paradiso, e il Lucifero e Dante
<ìon le sette P incise sulla fronte.
La poesia non s' era ancora potuta scioghere dalla al-
legoria. Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea
guerr i non solo agi' idoU, ma anche alla poesia, tenuta
lenocinlo e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era
filosofia 0 storia: la verità poetica non era compresa. La
poesia era stimata un tessuto di menzogne, e poeta e
mentitore, come dice il Boccaccio, eri la stessa cosa; i
versi erano chiamati, come dice san Girolamo, cibo del
diavolo. La poesia perciò non fu accettata se non come
simbolo e veste del vero: l'allegoria fu una specie di sal-
vacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini. Erano
detti poeti solenni, a distinzione de' popolari, i dotti che
esprimevano in poesia la dottrina sotto figura, o in forma
diretta. Dante finisce la poesia banditrice del vero, sotto
il velame della favola ascoso, di modo che il lettore
solto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato par-
lare trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti. La
poesia è in sé una bella menzogna, che non ha alcun
valore, se non come figura del vero.
Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l'in-
fluenza de' nostri lirici, Dante lavora sopra idee astratte;
trova una serie di concetti, e poi ti forma una serie cor-
rispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a que-
— 157 —
sto processo, a correre al generale. Il campo ordinano
della filosofia scolastica era 1' Ente con tutte le altre ge-
neralità, e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti,
anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la
Proposizione generale. Ora quel mondo di concetti è la
maggiore dell' altro mondo.
Quali sieno questi concetti, io dirò, quasi con le stesse
parole di Dante:
La patria dell* anima è il cielo, e come dice Dante, di-
scende in noi da altissimo abitacolo. Essa partecipa della
natura divina.
L' anima uscendo dalle mani di Dio, è semplicetta, sa
nulla; ma ha due facoltà innate, la ragione e T appetito,
la virtù che consiglia, e l'esser mobile ad ogni cosa che
piace, V esser presta ad amare ^
L' appetito (affetto, amore) la tira verso il bene *. Ma
nella sua ignoranza non sa discernere il bene, segue la
sua falsa immagine, e s'inganna. LMgnoranza genera l'er-
rore, e r errore genera il male *.
Il male o il peccato è posto nella materia, nel piacere
sensuale ^.
Il bene è posto nello spirito, il sommo Bene è Dio, puro
spirito *.
L'uomo dunque per esser felice, dee contrastare alla
carne, e accostarsi al sommo Bene , a Dio. A questo fine
Esce di mano a lui che la vagheggia
L'anima semplicetta che sa nulla... (Purg. XVI)
Innata yi è la virtù che consiglia...
L' anima eh' è creata, ad amar presta.
Ad ogni cosa è mobile che piace. (Pnrg. XVIII)
2 Ciascun confusamente un bene appreude. (Porg. XVII)
3 Immagini di ben seguendo false. (Purg. XXX)
4 Re {wesenti cose
Col falso lor piacer volser miei passi. (P«rg. XXXI)
5 Solo il peccato è quel che la disfranca
E falla dissimile al sommo Bene. (Par. VII).
— 158 —
gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce
il suo libero arbitrio e la moralità delle sue azioni ^
La ragione per mezzo della filosofìa ci dà la cono-
scenza del bene e del male. Lo studio della filosofìa è
perciò un dovere, è via al bene, alla moralità. La mo-
ralità è la bellezza della filosofia (Convito) : è 1' Etica,
Regina delle Scienze, il primo cielo cristallino.
A filosofare è necessario amore. L' amore (appetito)
può esser sementa di bene e di male secondo l'oggetto
a cui si volge. Il falso amore è appetito non cavalcato
dalla ragione. Il vero amore è studio della filosofia ,
unimento spirituale delV anima con la cosa amata.
Filosofia à amistanza e sapienza, amicizia dell'anima
con la sapienza. Nelle nature inferiori l'amore è sensibile
dilettazione. Solo l'uomo, come natura razionale, ha amo-
re alla verità e alla virtù (alla filosofia) (Convito).
Ciò è vera felicità, che per contemplazione della verità
sì acquista (Convito).
In questi concetti si trova il succo della morale an-
tica. Già i filosofi pagani aveano mostrato la filosofia
come unico porto fra le tempeste della vita ; esser filo-
sofo significava e significa anche oggi resistere alle pas-
sioni ed a' piaceri, vincer se stesso, serbar l' eguaglianza
dell' anima nelle umane vicissitudini.
Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.
L' umanità per il peccato d' origine cadde in servitù
dei sensi (del male o del peccato), e la ragione e 1' a-
more non furono più sufficienti a salvarla. La ragione
andava a tentoni , e menava all' errore : i filosofi an-
davan e non sapevan dove, l'amore rimaso senza ret-
Questo è il principio, là onde si piglia
Cagion di meritare in voi...
CoJor che ragionando andaro al fondo,
S' accorser d' està innata libertade,
Però moralità lasciaro al mondo. (Purg XVIII).
— 159 —
tore divenne appetito sensuale. Era necessaria una re-
denzione soprannaturale. Dio si fece uomo e redense
r umanità offrendosi vittima espiatoria per lei (Par. VII).
Mediante questo sacrifìcio, la ragione è stata a\«valo-
rata dalla fede, 1' amore avvalorato dalla grazia, la filo-
sofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.
Redenta 1' umanità ciascun uomo ha acquistato la virtù
dì salvarsi con l'aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e
dalla fede, fortificato dall'amore e dalla grazia, può afi'ran-
carsi da' sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio, al
sommo Bene.
Questo rammino della materia o del peccato sino allo
spirito 0 al bene comprende tutto il circolo della morale
o etica. La conoscenza della morale (naturale e rivelata,
filosofia e teologia) e perciò necessaria a salute.
La morale è il Nosce te ipsum, la conoscenza di sé
stesso. L' uomo si trova in questa vita in uno de' tre
stati, di cui tratta la morale , stato di peccato, stato di
pentimento, stato di grazia.
L'altro mondo è figura della morale. L'inferno è figura
del male o del vizio : il paradiso è figura del bene o della
virtù; il Purgatorio è il passaggio dall'uno all' altro stato
mediante il pentimento e la penitenza. L'altro mondo è
perciò figura de* diversi stati ne' quali 1' uomo si trova
in questa vita ^
La rappresentazione dell'altro mondo è dunque un*e-
tica applicata, una storia morale dell' uomo, com' egli la
trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di so il
suo inferno e il suo paradiso.
Il viaggio neir altro mondo è figura dell'anima nel suo
cammino a redenzione. Ed è Dante stesso che fa questo
viaggio.
1 Poeta agit de inferno isto, in quo, peregrinami o ut viatores mererl
et demereri {lossamus (Lettera a (Jan Grande).
— 160 —
Si trova in una selva oscura (stato d' ignoranza e di
errore, la selva erronea del Convito), vede il dilettoso
colle, principio e cagione di tutta gioja (la beatitudine),
illuminata dal sole che mena dritto altrui per ogni calle
(la Scienza), ma tre fiere (la carne , gli appetiti sensuali)
gli tengono il passo. L'uomo da sé non può salire il calle,
non può giungere a salute; viene dunque il Deus ex
machina, y l'ajuto soprannaturale. Si richiede non solo
ragione, ma fede, non solo amore, ma grazia. Virgilio
(ragione e amore) lo guida insino a che confesso e pen-
tito e purgato d' ogni macula terrena succede Beatrice
(ragione sublimata a fede, amore sublimato a grazia).
Con questo ajuto esce dallo stato d' ignoranza e di er-
rore (la selva), e prende il cammino della scienza (l'al-
tro mondo, il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima
r inferno (l'anima nello stato del male) e conosce il male
nella sua natura, nelle sue specie, ne' suoi effetti (vedi
canto XI). Entra allora in purgatorio (pentimento ed espia-
zione), dove ancor Tive la memoria e l' istinto del male,
e conosciuto il suo stato^ pentito e mondo, diventa libero
(dalla carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto
allo stato d' innocenza , nel quale era 1' uomo avanti il
peccato d' origine, e vede il paradiso terrestre, e vede
Beatrice (fede e grazia). Con la sua guida sale in paradiso
(!' anima nello stato di beatitudine ) di grado in grado
si leva sino alla conoscenza e amore (contemplazione bea-
tifica) di Dio, del sommo Bene, e in questa mistica con-
giunzione dell' umano e del divino si riposa (è beato).
La redenzione della società ha luogo nello stesso modo
che degl' individui. La società serva della materia è anar-
chia, discordia, sviata dall' ignoranza e dall' errore. E co-
me l'uomo non può ire a pace, se non vincala carne ed
ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi a
concordia , se non presti ubbidienza ad un supremo mo-
— 161 —
deratore (l' imperatore) che faccia regnare la legge (la
ragione), guida e freno dell' appetito ^
Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di
quel tempo, metafìsica, morale, politica, storia, fisica,
astronomia ec.
Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia ,
è il problema dell'umana destinazione che si trova in fondo
a tutte le religioni e a tutte le filosofie, il mistero del-
l'anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte le
sue forme. Il problema è posto ed è sciolto cristiana-
mente. L'umanità ha perduto, ed ha racquistato il pa-
radiso; questa storia epica di Milton è 1' antecedente del
problema. L'umanità ha racquistato il paradiso, cioè cia-
scuno uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in che
modo? qual è la via di salvazione? La Commedia è la
risposta a questa domanda, la soluzione del problema.
Il cristianesimo ne' primi tempi di fervore rispondea:
L'uomo si salva, imitando Cristo che ha salvato 1' uma-
nità, si salva con l'amore. Bisogna volger le spalle alla
vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare.
Di qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante
chiama eccellentissima, e simile alla vita divina. Il che
dovea menar dritto alla visione estatica, alla comunione
tra r anima e Dio, al misticismo, tanta parte della let-
teratura volgare. Gli uomini stanchi del mondo cerca-
vano pace e obblio nei monasteri, e nutrivano l'anima
del pensiero della morte, della meditazione dell' altra vita;
1 Orane quod boDum est, per hoc est bonum, quod in uno consistit..
Malum pluralìtas principatuum ; unus ergo princeps (De Monarchia).
Di picciol bene in pria sente sapore,
Quivi s' inganna e dietro a esso corre.
Se guida o fren non torce il suo umore.
Onde convenne leggi per fren porre.
Convenne rege aver che discernesse
Della vera cittade almen la torre.
Le leggi son ; ma chi pou mano ad esse ?
F. De Sanctis — Lett. Itul. Voi. I. 11
— 162 —
i santi padri esortano spesso i fedeli a volger la mente
air altro mondo ; anche oggi le prediche, i libri ascetici,
i libri di preghiera non sono che un continuo memento
mori; è famoso il pensa, anima mia, frase formida-
bile, a cui il lettore vede già in aria venir dietro il giu-
dizio universale e le fiamme dell' inferno. Se le cose àA
quaggiù sono caduche , e nulla promission rendono
intera, se il significato serio della vita e nell' altro mon-
do, se là e il vero, è la realtà; T Iliade, il poema della
vita è la Commedia, la storia dell' altro mondo.
In quei primi tempi la scienza non è necessaria a sa-
lute, anzi i cristiani menavano vanto della loro igno-
ranza : beati pauperes spiritu» Avendo per avversari,
gli uomini più dotti , del paganesimo , rispondevano ex
abundantia cordìs, con la sicurezza e 1' eloquenza della
fede, la loro lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori
semplici , che spesso umiliava 1' orgoglio di una scienza
vota e arida, non bastò più appresso. Aristotele domi-
nava nelle scuole, la scienza si era introdotta nella teo-
logia e ne avea fatto un cumulo di sottigliezze, lo stesso
misticismo avea preso forme scientifiche, divenuto asce-
tismo, scienza della santificazione, in Agostino, Bernardo
e Bonaventura. L'amore dunque prende un contenuto,
diviene scienza^ e la loro unità è la filosofia, uso amoroso
di sapienza.
La scienza però non contraddice, non annulla, anzà for-
tifica e dimostra lo stesso concetto della vita. Anche per
Dante la santificazione è posta nella contemplazione; l'og-
getto della contemplazione è Dio ; la beatitudine è la vi-
sione di Dio; al sommo della scala de' Beati mette i con-
templanti, non gli operanti ; ma per giungere all' unione
con Dio, non basta volere, bisogna sapere , ci vuole la
sapienza che è amore e scienza, unità del pensiero e della
vita. Perciò Virgilio non può esser ragione, che non sia
anche amore, e Beatrice non può esser fede, che non sia
— 1G3 —
anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a un tempo;
ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del vo-
lere. L'intelletto è in cima della scala; Y amore dee es-
sere inteso, se ne dee avere intelletto.
Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di di-
stanza il problema si rlpresenta, ma i termini sono mu-
tati. Il punto di partenza non è più V ignoranza, la selva
oscura, ma la sazietà e vacuità della scienza, 1' insullì-
cienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva.
La sapiente Beatrice si trasforma nell' ignorante e inge-
nua Margherita ; e Fausto non contempla ma opera; anzi
' il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio
della scienza, e il rimedio che cerca e ribattezzarsi nelle
fresche onde della vita. Ma al tempo di San Tommaso la
ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da
lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto più confidente,
quanto meno esperta della misura di sé e delle cose; le
si domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci
^ la pietra filosofale del mondo morale, la felicità. Lo scopo
<ìella scienza non era speculativo solamente ma pratico.
Neir ordine speculativo era già conseguito il suo scopo,
divenuta per Dante un libro chiuso, di cui tutte le pa-
gine sono scritte. Ma la scienza dee operare anche sul-
la volontà, menare a virtù e felicità. E se questo mi-
racolo non era ancora avvenuto, se la realtà era tanto
disforme alla scienza, doveasene recare la cagione secondo
Dante e i contemporanei all' ignoranza. Bisognava dun-
que volgarizzare la scienza ; darle uno scopo morale, driz-
zarla all' opera. Indi V importanza che ebbe 1' etica e la
retLorica, la scienza de' costumi e 1' arte della persuasione.
I tentativi fatti, compreso il Convito, furono infelici.
Trattandosi di verità da esporre e non da cercare, manca
lo spirito e 1' ardore scientifico, manca in tutti, anche in
Dante. La stessa esposizione non è libera, predeterminata
da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea uscire
— 164 —
una letteratura filosofica, quella forma, propria degli uo-
mini meditativi, che ti rivela non solo l'idea, ma come
in te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti
che r accompagnano, pregna di altre idee, le quali per
la potenza comprensiva della parola intravvedi, ancora
senza contorni, mobili, nasciture. Qui sta la vita supe-
riore della forma filosofica, generata immediatamente dal
travaglio del pensiero, che mette immoto tutte le altre
facoltà, compresa l'immaginazione. In quei tentativi il
contenuto scientifico ci sta, non nel punto che tu lo trovi
e vi metti sopra la mano, ma già trovato, divenuto nello
spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e grezzo
dalla scuola. La terra si manifesta m.eglio al coltivatora
che al proprietario. Dante sa di avere i tali fondi, ma
non ci va, non entra in comunione con quelli, non vive
della vita de' campi, non li lavora, li conosce sulla carta»
Rimane una proprietà astratta, senza effettiva possessione,
senza assimilazione, un mio che non è me, non è fatto
parte dell' anima mia. Non ci è investigazione , e non ci
è passione, dico la passione che è generata da un amo-
roso lavoro intellettuale. Il filosofo fora la superficie e
si seppellisce nel mondo sotterraneo , dove, come dice
Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma
qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i
frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza, con esso
xe sue prove e il suo linguaggio; si che, ferme e intan-
gibiU le parti superiori della scienza, non rimane libera
che r ultima e più bassa operazione dell' intelletto, disti".-
guere e sottilizzare.
Essendo la scienza base di tutto 1' edificio, ne seguitò
quella falsa poetica di cui è detto. La letteratura so-
lenne e dotta divenne un istrumento della scienza , un
modo di volgarizzarla. E tenne due vie, 1' esposizione di-
retta 0 allegorica. Né altro fu l' intendimento di Dante
nella rappresentazione dell' altro mondo. Come qua' filosofi.
— 165 —
che sotto xìCfocie di Utopia costruiscono un mondo dova
sia realizzato il loro sistema. Dante costruisce un mondo
allegorico della scienza, dove pur trova modo di esporla
in forma diretta nelle sue parti sostanziali.
Egli ha aria di dire : Volete salvarvi 1' anima? venite
appresso a me nell' altro mondo ; ivi impareremo dalla
bocca de* morti la filosofia morale, la scienza della sal-
vazione. E i morti parlano ed espongono la scienza , so-
prattutto in Paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in
vere cattedre o pulpiti. Né la scienza è solo nelle parole
de' morti, ma anche nella costruzione e rappresentazione
dell'altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in forma
allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a' suoi
fantasmi, e dice: Bada che tu non passeggi per curio-
sità , per osservare e dipingere ; il tuo scopo è V inse-
gnamento della scienza per la salute dell' anima ; non ti
dimenticare della scienza. E la poetica gli soggiunge:
Pensa che tutte le tue invenzioni, belle che sieno e ma-
ravigliose, sono né più né meno che sciocche bugie, quando
non rendono odore di scienza ; la poesia è un velo sotto
il quale si dee nascondere la dottrina. Ond' è che il poe-
ta costringe la stessa realtà a produrre un contenuto
scientifico: dietro la realtà ci é la scienza, come dietro
r ombra ci è il corpo: qui la scienza é il corpo, e la realtà
è r ombra, ombrifero prefazio del vero, anzi è meno
che ombra, perchè nell' ombra ci é pure l' immagine del
corpo. È r alfabeto della scienza, come la parola é del
pensiero, un alfabeto composto non di lettere, ma di og-
getti, ciascuno segno della tale e tale idea.
Questi erano i concetti, e queste le forme , a cui lo
spirito era giunto. Perciò quel concetto fondamentale del-
l' età, il mistero dell'anima o dell'umana destinazione, non
era ancora realizzato, come arte; perchè l'arte è realtà
Vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in sé stessa,
— 16G —
e qui la scienza in luogo di calare nel reale ed obbìiar-
visi, lo tira e lo scioglie in sé.
Il mistero dell' anima era dunque o rozza e greggia
realtà nella letteratura popolare, o trattato e allegoria
nella letteratura dotta e solenne.
Dante s' impadroni di questo concetto e tentò realiz-
zarlo come arte. Ma ci si mise con le stesse intenzioni
e con le stesse forme. Prese quella rozza realtà degli
ascetici, e volle farne l'ombrifero prefazio del vero, l'al-
legoria della scienza. Da questa intenzione non potea uscir
r arte.
Neppure V esposizione della scienza in forma diretta è
arte. Il poeta che vuole esporre la scienza, e vuol pur
fare una poesia, si propone un problema assurdo, voler
dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo.
La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento este-
riore, non penetra l'idea, non se l'incorpora; l'idea ri-
mane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in que-
sto assunto tutte le forze della sua immaginazione ; nessuna
più di lui ha saputo con tanta potenza assahre la scienza
nel proprio campo e farle forza ; ma questo connubio
della poesia e della scienza, eh' egli chiama nel Convito
un eterno matrimonio^ non è uno di due, è un eterna
due. La poesia può farle preziosi doni, può vestirla son-
tuosamente, ingemmarla, girarle attorno carezzevole, può
abbigliarla, non possederla. E la possiede allora sola-
mente, quando non la vede più fuori di sé, perchè è di-
venuta la sua vita e anima, la realtà.
L' allegoria è una prima forma provvisoria dell* arte.
È già la realtà, che però non ha valore in sé stessa^
ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori
di sé, nel figurato, oggetto o concetto che sia. E poiché
nel figurato ci é qualche cosa che non è nella figura, e
nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato ,
la realtà divenuta allegorica vi é necessariamente gua-
-. 167 —
sta e mn'ilata. 0 il poeta le attribuisce qualità non sue,
ma del figurato, come il veltro che si ciba di sapienza e di
virtude , o che esprime di lei solo alcune parti, e non
perchè sue, ma perchè si riferiscono al figurato , come
il Grifone del Purgatorio. In tutti e due i casi la realtà
non ha vita propria, o per dir meglio non ha vita alcu-
na; l'interesse è tutto nel figurato, nel pensiero. Ora o
il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio
di maniera che ti si afiaccino più sensi, e tu rimani so-
speso e raffi'eddato; o è chiaro, e lo hai innanzi nella
sua generalità, senza carattere poetico. La selva è fi-
gura della vita terrena. E la vita terrena, appunto per-
chè figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per
Cui e in cui è vita, generale e immobile come un con-
cetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier
delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanz»
senza che mai sen rivesta ; e non propriamente suo per-
chè quel corpo singolare, che chiamasi figura, serve a
due padroni , è sé ed un altro ^ è insieme lettera e fi-
gura, un coì'po a due anime , rappresentato in guisa, che
prima paja sé stesso, la selva, e considerato attentamente
mostri in se le orme di un altro. Talora la figura fa di-
menticare il figurato; talora il figurato strozza la figura.
Per lo più nel senso letterale penetrano particolari estra-
nei che lo turbano e lo guastano , e per volerci procu-
rare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.
Adunque in queste forme non ci è ancora arte. La
realtà ci sta o come immagine del pensiero astratto ed
estrinseco, o come figura di un figurato parimente astrat-
to ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due ter-
mini. Il pensiero non è calato nell' immagine, il figurato
non è calato nella figura. Hai forme iniziali dell' arte ;
non hai ancor a 1' arte.
Dante si è messo all' opera con queste forme e con
queste intenzioni. Se 1' allegoria gli ha dato abilità a in-
— 168 —
grandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano
tutta la coltura, mitologia, scienza e storia, ha d' altra
parte viziato nelF origine questo vasto mondo , toglien-
dogli la libertà e spontaneità della vita , divenuto un
pensiero e una figura, una costruzione a priori^ intellet-
tuale nella sostanza, allegorica nella forma.
E se la Commedia fosse assolutamento in questi ter-
mini, sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Qua-
d riregio poi, grottesca figura d' idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta vi-
veva un mondo concreto e reale, la cui base era la sto-
ria del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione
letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri,
nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea
avuta già tutta una letteratura. Era la letteratura degli
uomini semplici, poveri di spirito. A costoro la via a sa-
lute era la contemplazione non di esseri allegorici, figu-
rativi della scienza ma reali, Dio, la Vergine, Cristo^gli
Angioh, i Santi, V inferno, il purgatorio, il paradiso, ciò
che essi chiamavano Y altra vita, non figura di questa,
anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità. Il con-
templante o il veggente era il santo, il profeta, 1' apo-
stolo, banditore della parola di Dio. Dante, amico della
filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo
il filosofo, ma il profeta e l' apostolo, rivelandolo e pre-
dicandolo agU uomini ; diviene il missionario dell' altro
mondo, ed è san Pietro che gh apre la bocca e lo in-
vesta della sacra missione:
Apri la bocca
E non nasconder quel eh' io non nascondo.
Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta,
era per lui una cosa così seria, come per tutt' i credenti,
seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col lin-
guaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza
— 169 —
ma la scienza non lo dissolveva anzi lo illustrava e lo
confermava. Supporre che esso fosse una figura, una forma
trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un
anacronismo, è un correre sino a Goethe. La scienza pe*
netra in questo mondo come ragionamento o come alle-
goria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero , a
quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la
natura così V altro mondo è per Dante più che figura, è
vivace e seria realtà, che ha in sé stessa il suo valore
e il suo significato.
Né quel mondo cristiano rimane nella sua generalità
religiosa com' è ne' cantici, nelle prediche e ne' misteri e
leggende. Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva,
e si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione re-
ligiosa nel dispregio de' beni terreni, i credenti da Fran-
cesco d' Assisi a Caterina non poteano vedere con animo
quieto i costumi licenziosi de' chierici e de' frati, la cor-
ruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni
giorno, il Papa divenuto sovrano temporale e dominato
da fini e interessi terreni, in tresca adultera co' Re. Su
questo punto i santi sono così severi, come Dante; più
avean fede, e maggiore era l' indignazione. Venendo più
al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo
il Bello contro l'Imperatore, ciò che Dante chiama un
adulterio, inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i
Bianchi, instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era allora la
Chiesa, fatta meretrice del Re di Francia, che la trasse
poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aiz-
zatrice di tutte le discordie civili. Come potere e inte-
resse temporale, era essa non solo radice e causa della
corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione
stabile delle nazioni e massime d' Italia in quella unità
civile 0 imperiale, che rendea immagine dell'unità del
regno di Dio. A questo mondo guasto contrapponevano
la purezza de' tempi evangelici e primitivi e il vivere ri-
— 170 —
posato e modesto delle città, prima che vi entrasse la
corruzione e la licenza de' costumi, di cui la Chiesa dava
il mal esempio.
Come si vede, il mondo politico entrava per qiipsta
via nel mondo cristiano, e ne facea parte sostanziale. La
politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi ;
era un' appendice dell' etica e della rettorica. E come vita
reale il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ri-
cordava un' immagine pura in tempi più antichi, una spe-
cie di età dell' oro della vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante
una contemplazione astratta e filosofica. Mescolato nella
vita attiva, egli era giudice e parte. Offeso da Bonifa-
zio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra spe-
ranze e timori, fra gli affetti più contrarii, odio e amore,
vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione, con
l'occhio sempre volto alla patria che nondovea più vedere,
in quella catastrofe italiana e' era la sua catastrofe, le suo
opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell'età
e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue
meditazioni, le sue fantasie mandano sangue. Non è Ome-
ro, contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la
sua personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto
quel mondo, di cui era insieme 1' apostolo e la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme
e ne' concetti dell' età, volea costruire un mondo etico o
scientifico in forma allegorica, come entra in quel mondo,
iion vi trova più la figura. Simile a quel pittore che s' in-
ginocchia innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi nel-
r immaginazione la figura nella persona del Santo , eglj
cerca la figura e trova una realtà piena di vita, trova
sé stesso.
Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano afferma che poeta
vuol dire profeta, banditore del vero. Sublime ignorante,
non sapea dov' era la sua grandezza. Era poeta e si ri-
— 171 —
bella air allegoria. La favola, ciò ch'egli chiama bella
menzogna, lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia in die-
tro come innamorato, né sa creare a metà, arrestarsi
a mezza via. Nel caldo dell' ispirazione non gli è possibi-
le starsi col secondo senso innanzi, e formar figure mozze,
che vi rispondono appuntino, partic olare con particolare,
accessorio con accessorio, come riesce a' mediocri. La
realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene sé stessa;
il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti
particolari. Indi la disperazione de' cementatori : egli fece
il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Per metter d'accordo la sua poetica con la sua poesia,
Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee es-
sere indipendente dall' allegorico , di modo che sia intel-
hgibile per sé stesso. Con questa scappatoia si è salvato
dalle strette dell'allegoria, ed ha conquistato la sua li-
berta d'ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue
creature. Sia pure l' altro mondo figura della scienza;
ma è prima e innanzi tutto l' alerò mondo, e Virgilio è
Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se
d' alcuna cosa ci dogliamo , è quando il secondo senso
vi si ficca dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.
Sicché nella Commedia come in tutt' i lavori d' arte, si
ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo eftet-
tivo , ciò che il poeta ha voluto , e ciò che ha fatto.
L' uomo non fa quello che vuole, ma quello che può. Il
poeta si mette all' opera con la poetica, le forme, le idee
e le preoccupazioni del tempo ; e meno è artista, più il
suo mondo intenzionale è reso con esattezza. Vedete Bru-
netto e Prezzi. Ivi, tutto è chiaro, logico e concorde: la
realtà e una mera figura. Ma se il poeta è artista, scoj)-
pia la contraddizione, vien fuori non il mondo della sua
intenzione ma il mondo dell' arte.
Come r argomento siasi affacciato a Dante non è chia-
ro. Le memorie scerete del genio non sono scritte an-
— 172 —
Cora e mal si può indovinare da quello che è espresso
quello che è preceduto nello spirito d' un autore. È dif-
ficile far la geologia di un lavoro d'arte, trovare nel de-
finitivo le traccie del provvisorio. È probabile che la Com-
media sia stata vagamente concepita fin dalla giovinez.
za, ad imitazione di quelle commedie dell' anima , di quelle
visioni dell' altra vita, cosi in voga : e che dapprima il
poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla
rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse
de' frammenti e anche de' canti furono scritti prima che
un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente.
Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente dram-
matico, il tempo de' tentennamenti, del silenzioso conten-
dere con sé stesso, degli abbozzi, del va e vieni, storia
intima del poeta. Il quale, quando gli si mostra 1' argo-
mento , vede per prima cosa dissolversi quella parte di
realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa di
vapori guardata da alto, dove gii alberi, i campaniU, i
palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a
frammenti. Chi non ha la forza di uccidere la realtà,
non ha la forza di crearla. Ma sono frammenti già pe-
netrati di virtù attrattiva, amorosi, che si cercano, si
congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della
nuova vita a cui sono destinati. La creazione comincia
veramente, quando quel mondo tumultuario e frammen-
tario trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora esce
dall' inimitato che lo rende fluttuante e prende una forma
stabile; allora nasce e vive , cioè si sviluppa gradata-
mente secondo la sua essenza. Ora il mondo dantesco
trovò la sua base nella idea morale.
La idea morale non è concetto arbitrario ed estrin-
seco all'argomento, è insito nell'altro mondo, è il suo con-
cetto; perchè senza di quella 1' altro mondo non ha ra-
gion d' essere. La base dunque è vera , e nell' argomento;
e se difetto e' è, il difetto è nella natura dell' argomento.
— 173 —
Ma Dante meditandovi sopra, e non come poeta, ma come
filosofo, valicò r argomento. Non è contento che la ci
sia, ma la mostra e la spiega. E non si contenta nep-
pure di questo. Quella idea diviene la filosofia, tutto un
sistema di concetti ben coordinato, e non è più la base,
il senso interiore dell' altro mondo, a quel modo che lo
spirito è nella natura, ma è essa il contenuto, essa l'ar-
gomento, essa lo scopo. Così quella vivace realtà si va
ad evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro di-
viene un insegnamento morale-politico sotto il velo del-
l' altro mondo. 11 poeta spontaneo e popolare si volta nel
poeta dotto e solenne. Descrivere V altro mondo così alla
semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo
passatempo, la maniera de' narratori volgari. La letter?
ci è, ma è per i profani , per gli uomini semplici , che
non vedono di là dell' apparenza. Ma egli scrive per gli
iniziati, per gì' intelletti sani, e loro raccomanda di non
fermarsi alla corteccia, di guardare di là ! È tutti si son
messi a guardare di là.
Cosi sono nati due mondi danteschi , uno letterale e
apparente, 1' altro occulto, la figura e il figurato. E poi-
ché l'interesse è in questo senso occulto, in questo di là,
i dotti si son messi a cercarlo. L' hanno cercato, e non
r hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture
esce infine il buon senso , esce Voltaire e dice : GÌ' ita-
liani lo chiamano divino ; ma è una divinità occulta; pochi
intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre,
perchè nessuno lo legge. E Voltaire vuol dire : Abbiamo
sudato parecchi secoli per capirti: e poiché non ti vuoi
far capire, statti con Dio. E vuol dire ancora : Ne vai
poi la pena ? è una falsa divinità quella che rimane na-
scosta. Pure né il veto del Voltaire valse ad arrestare
le ricerche, né il suo disprezzo ad intiepidire 1' ammira-
zione. Con nuovo ardore italiani e stranieri si misero a
interpretare questo Giano a due. facce o piuttosto a duo
— 174 —
mondi, r uno visibile e V altro invisibile; ciascuno si provò
ad alzare un lembo del velo di cui si e ravvolto il Dio.
Ma nò acutezza d'ingegno, né copia di doitrina, né pro-
fonda conoscenza di quei tempi , né studio paziente delle
altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e
delle congetture. Gli antichi interpreti dissentivano nei
particolari; il dissenso de' moderni è più profondo; hai
interi sistemi che si confutano a vicenda. Oggi ancora
non si pubblica un Dante in Germania che non ci si ap-
picchino nuove spiegazioni; non puoi le^'gere una critica
della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un pelago
di quistioni. Dante è divenuta un nome che spaventa,
irto di sillogismi e soprasensi, e spes so sei ridotto a do-
mandarti: Qaal é il vero Dante ? Poiché ciascun cemen-
tatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e pas-
sioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un
apostolo di libertà, di umanità, di nazi onalità , chi un pre-
cursore di Lutero, chi un santo Padre. Cercano Dante
dove non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi di-
fetti, e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta
cercandolo colà e non vel trovando , si sia affrettato a
conchiudere: dunque Dante non esiste ? Io ne con chiudo.
Poiché non é là, cerchiamolo altrove. La giandtzza del
Dio non è nel santuario, ma là dove si mostra con tanta
}>ompa al di fuori. A forza di cercar marav iglie in un
mondo ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano
innanzi. Parlando a coro della dignità della Ci mmedia e
de' veri e del senso arcano , si é data una impoi tanza
fattizia a questo mondo intellettuale ali egorico , se non
fosse per altro, per la fatica che ci si è spesa. Se Dante
tornasse in vita, sentendo a dire che Beatrice é 1' ere-
sia 0 la sua anima, che le arpie sono i monaci domeni-
cani, che Lucifero é il Papa, che il suo vocabolario è
un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono
affibbiati, potrebbe a più d' uno tirargU le orecchie e dire:
Cotesto ar^ri non ci misi io. Ma gli si potrebbe rispon-
dere: vostra colpa: perchè non siete stato più chiaro?
Ci avete promessa un' allegoria : perchè non ci avete data
un' allegoria? La vostra figura non risponde appuntino
al figurato: perchè 1' avete fatta si bella? perchè le avete
data tanta realtà ? In tanta ricchezza di particolari dove
0 come trovare 1' allegoria ? E qual maraviglia che la
stessa figura significhi una per me e una per voi ? qual
maraviglia che nella stessa figura si trovi di che pro-
vare la verità di tre o quattro interpretazioni ? E ci fosse
solo un senso! Ma ci fate sapere che oltre all'allegori-
co, ci è il senso morale e l'analogico: dove trovare il
bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo
dello spirito : ma il peccatore fa di cappello allo spirito
e adora la carne. E anche voi gridate, che i versi sono
un velo della dottrina; e come il peccatore, piantate lì
il figurato^ e correte appresso alla figura, e la fate cosi
impolpata, cosi- corpulenta, che è un velo denso e fitto,
di là dal quale non si vede nulla, e perciò si vede tutto,
quello che intendete voi e quello che intendiamo noi. Se
dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco messa
tra voi e noi che ci toghe la vostra vista , se il vostro
poema è divenuto un immenso geroglifico, un mondo igno-
to , alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti
Colombi, di chi è la colpa ? Non forse della vostra poca
logica, che altro intendete e altro fate? Rimproveri che
sono un elogio.
Cosi è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che
non intendeva. Ciascuno è quello che è, anche a suo di-
spetto, anche volendo essere un altro. Dante è poeta e
avvili pato in combinazioni astratte, trova mille aper-
ture per farvi penetrare l' aria e la luce. Tratto ad una
falsa concezione dal mezzo dei tempi, valica T argomento
e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi
la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne
— 176 —
vuol fare la figura de' suoi concetti. Ma come attinge il
reale ivi sente sé stesso, ivi genera, ivi l' ingegno trova
la sua materia ; queste figure prendono corpo, acquistano
una vita propria ; e le direste creature libere e indipen-
denti, se quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa
attaccata come una palla di piombo, impacciando a volta
a volta i loro movimenti. Cosi quel mondo internazio-
nale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissi-
pando innanzi alla luce del mondo reale, solo rimasta
vivo. Tutto l'altro è l'astratto di quel mondo, è il lavoro
oltrepassato, non è la Commedia, è il suo di là, la sua
nebbia, che pur penetra qua e là e lascia delle grandi
ombre , che gì' interpreti dilatano e trasformano in una
Sola e vasta ombra. A quel modo che i geologi scoprono
i vestigi di forme imperfette , che attestano la lenta e
progressiva formazione dolla materia; qui si discernono
i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale, allego-
rico, scissi, isolati, steriU, più o meno tollerabili, seconda
ia maggiore o minore abilità dell'esposizione, inviluppati
in una forma più alta , alla quale il genio sospinse il
poeta attraverso gli errori della sua poetica. I quali fram-
menti sono i fossili della Commedia, morti già da gran
tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura;
e se la loro morte non ha potuto seco involgere il ri*
manente, gli è che il vero lovoro è in questo rimanente,,
dotato di una vita cosi fresca e tenace, che distende un
po' di sua luce anche sulle parti morte. Quel contenuto
astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entra-
to; spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe più.
Che cosa è dunque la Commedia ? È il medio evo rea-
lizzato, come arte, malgrado l'autore e malgrado i con-
temporanei. E guardate che gran cosa è questa ! Il me-
dio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario
dell' arte. La religione era misticismo, la filosofia scolasti-
cismo. L' una scomunicava l' arte, abbruciava le imma-
— 177 —
gini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L'altra
viveva di astrazioni e di forinole , e di citazioni , driz-
zando r intelletto a sottilizzare intorno a' nomi e alle va-
cue generalità che si chiamavano essenze. Gli spiriti erano
tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a
realizzare: ciò che è proprio il contrario dell'arte. Nei
poeti semplici trovi il reale rozzo , senza formazione ,
come ne' misteri, nelle visioni, nelle leggende. Ne' poeti
solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o fi-
gurativa e allegorica. L' arte non era nata ancora. C'era
la figura ; non o' era la realtà nella sua libertà e per-
sonalità.
Dante raccoglie da' misteri la commedia dell' anima ,
e fa di questa storia il centro di una sua visione dell' al-
tro mondo. Tutta questa rappresentazione non è che senso
letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono fi-
gure e non persone ; ma ciò che è attivo nel suo spirito,
lo porta verso la figura e non verso il figurato. La sua
natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teo«lo-
giche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di
fantasmi, e lo costringe a concretare, a materializzare,
a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile,
anche Dio. Quel mondo letterale lo ammalia, lo perse-
guita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la
sua forma definitiva; e non è più lettera, ma è spirito,
non è più figura, ma è realtà, è un mondo in se com-
piuto e intelligibile, perfettamente realizzato. Visione e
allegoria, trattato e leggenda, cronache , storie, laude ,
inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme lettera-
rie e tutta la cultura dell' età sta qui dentro inviluppata
e vivificata, in questo gran mistero dell' anima o dell'u-
manità, poema universale , dove si riflettono tutt' i po-
poli e tutti i secoli che si chiamano il medio evo.
Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddi-
zione tra r intenzione del poeta e la sua opera, non ò
P. De Saactìs. — Lett. Ital. Voi. I. 12
— 178 ^
compiutamente armonico, non è schietta poesia. La falsa
coscienza poetica disturba 1' opera di quella geniale spon-
taneità ; e vi gitta dentro un tentennare, un non so che
di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e cru-
dezza di colori. Il pensiero , ora nella sua crudità scola-
stica, ora abbellito d' immagini che pur non bastano a
vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le
sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri orien-
tali che la schietta bellezza greca, personificazioni astratte,
anzi che persone conscie e libere. Preoccupato del se-
condo senso che ha in mente, spesso gli escono parti-
colari estranei alla figura, che turbano e distruggono il
lettore e gli rompono V illusione. La presenza perenne di
un altro senso che aleggia al di sopra della rappresen-
tazione ed introducevisi a quando a quando, ne turba la
chiarezza e 1' armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna
volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità
e riesce intralciato e torbido. Non è un tempio greco; è
un tempio gotico, pieno di grandi ombre , dove contrar/
elementi pugnano, non bene armonizzati. Or rozzo, or
dehcato. Ora poeta solenne, or popolare. Ora perde di
vista il vero e si abbandona a sottigliezze ; ora lo intui-
sce rapidamente, e lo esprime con semplicità. Ora rozzo
cronista, ora pittore finito. Ora si perde nelle astrattez-
ze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita. Qui
cade in puerilità, là spicca il volo a sopraumane altezze.
Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce del-
l' immagine. E mentre teologizza, scoppia la fiamma del
sentimento. Talora ti trovi innanzi ad una fredda alle-
goria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro tre-
mare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere,
talora la sua audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo,
dove si rifletteva tutta V esistenza^ com' era allora. I con-
trari elementi che fermentavano in una società ancora
nello stato di formazione, contendevano in lui. E senza
— 179 —
cue ne avesse coscienza. Se guardi alle sue aspirazioni,
tutto è armonia. Filosofo, pensa il regno della scienza e
della virtù. Cristiano , contempla il regno di Dio. Pa«
triota, sospira al regno della giustizia e delia pace. Poeta^
vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armo-
nia, lo bello stile; il suo autore è Virgilio. Maggiore era
la barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo
armonico e concorde. Ma il poeta è inviluppato egli me-
desimo in quella rozza realtà e in quelle forme discordi ;
e ne sente la puntura, e gli manca la serenità dell'ar-
tista. E gli esce dalla fantasia un mondo deli' arte in
gran parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le
scabrosità di una materia non perfettamente doma.
Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in sé stes-
so e interroghiamolo. Perchè un argomento non è /a-
òula rasa, dove si può scrivere a genio, ma è marmo
già incavato e lineato, che ha in sé il suo concetto e
le leggi del suo sviluppo. La più grande qualità del ge-
nio è d* intendere il suo argomento , e diventare esso,
risecando da sé tutto ciò che non è quello. Bisogna inna-
morarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la
sua coscienza. E parimente il critico, in luogo di porsi in-
nanzi regole astratte, e giudicare con lo stesso criterio la
Commedia e l' Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee
studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, inda-
gare la sua natura che contiene in sé virtualmente la
sua poetica, cioè le leggi organiche della sua formazio-
ne, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo
stile. Che cosa è l'altro mondo?
È il problema dell' umana destinazione sciolto, è il mi-
stero dell' anima spiegato, è la fine della storia umana,
il mondo perfetto, l'eterno presente, l' immutabile neces-
sità. Nella natura non ci è più accidente, neh' uomo non
ci è più libertà. La natura è predeterminata e fissata
secondo una logica preconcetta, secondo l'idea morale.
— 180 —
Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza
è tatt' uno. L' uomo non ha più libero arbitrio; è li, fis-
sato e immobilizzato, come natura. Ogni azione è ces-
sata ; ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è sciolto,
patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi. Non c'è più
successione, né sviluppo, non principio e non fine: manca
il racconto e manca il dramma. L' individuo scompare
nel genere. Il carattere, la personalità, non ha modo di
manifestarsi. Eterno dolore, eterna gioja, senza eco, senza
varietà, senza contrasto né gradazione. Non ci é epo-
pea, perchè manca 1' azione ; non ci è dramma, perchè
manca la libertà : la hrica è l' immutabile e monotona
espressione di una sola aria ; rimane 1' esistenza nella
sua immobile estrinsechezza , descrizione della natura e
deh' uomo.
Che cosa è dunque l' altro mondo per rispetto all'ar-
te? È visione,, contemplazione, descrizione, una storia
naturale.
Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero ,
perché ivi dentro è rappresentata la Commedia o reden-
zione dell' anima nel suo pellegrinaggio dall' umano al di-
vino, da Fiorenza in popol giusto e sano. Ci hai dun-
que r apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro
mondo, i cui attori sono Dante, Virgilio, Catone, Sta-
zio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san Ber-
nardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come alle-
gorica è la commedia dell' anima. Dico apparenza di un
dramma, perchè la santificazione nasce non dall'operare
ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e
gli altri .mostrano, insegnano. Il dramma dunq^ie sva-
nisce nella contemplazione.
Questo mondo cosi concepito era il mondo de' misteri
e delle leggende, divenuto mondo teologico scolastico in
mano a' dotti. Dante lo ha realizzato, gli ha dato T esi-
stenza dell' arte, ha creato quella natura e queir uomo.
"- 181 —
E se il suo mondo non è perfettamente artistico, il di-
fetto non è in lui, ma in quel mondo, dove l'uomo è
natura e la natura è scienza, e da cui è sbandito 1' ac-
cidente e la libertà, i due grandi fattori della vita reale
e dell' arte.
Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita rea-
le, vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da
quelle forme e da queir allegoria. Ma Dante , entrando
nel regno de' morti, vi porta seco tutte le passioni de' vi-
vi, si trae appresso tutta la terra. Dimentica di essere
un simbolo o una figura allegorica, ed è Dante, la piti
potente individualità di quel tempo, nella quale è com-
pendiata tutta l'esistenza, com'era allora, con le sue astrat-
tezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose,
con la sua civiltà e la sua barbarie. Alla vista e alle
parole di un uomo vivo le anime rinascono per un istan-
te, risentono l'antica vita, ritornano uomini; nell'eterno
ricomparisce il tempo ; in seno dell' avvenire vive e si
muove r Italia, anzi l'Europa di quel secolo. Cosi la poe-
sia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eter-
nità, umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene
umano e terreno, con la propria impronta dell' uomo e
del tempo. Riapparisce la natura terrestre, come oppo-
sizione, 0 paragone, o rimembranza. Riapparisce l'acci-
dente e il tempo, la storia e la società nella sua vita
esterna ed interiore ; spunta la tradizione virgiliana ,
con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabi-
lita, ed entro a questa magnifica cornice hai come qua-
dro la storia del tempo, Bonifazio Vili, Roberto, Filip-
po il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i Donati, la nuo-
va e r antica Firenze, la storia d' Italia e la sua storia,
le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le
sue predilezioni.
Così la vita s* integra , 1' altro mondo esce dalla sua
astrazione dottrinale e mistica, cielo e terra si mesco-
— 182 - H
lano , sìntesi vivente di questa raraensa comprensione
Dante, spettatore, attore e giudic» . La vita guardata dal-
l'altro mondo acquista nuove atti.idini, sensazioni e ira-
pressioni. L' altro mondo guardato dalla terra veste le
sue passioni e i suoi interessi. E ii' è uscita una conce-
zione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo.
Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza d' azione^
che si succedono, si avvicendano, s' incrociano, si cora-
penetrano, si spiegano e s' illuminano a vicenda, in per-
petuo ritorno l'uno nell'altro. La loro unità non è in un
protagonista, né in un' azione, né in un fine astratto ed
estraneo alla materia; ma è nella stessa materia; unità
interiore e impersonale, vivente indivisibile unità orga-
nica, i cui momenti si succedono nello spirito del poeta,
non come meccanico aggregato di parti separabili , ma
penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, coni' è
la vita. Questa energica e armoniosa unità è nella na-
tura stessa de' due mondi, materialmente distinti, ma una
cosa neir unità della coscienza. Cielo e terra sono ter-
mini correlativi, 1' uno non è senza 1' altro; il puro reale
ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta
seco il suo ideale ; ogni uomo porta seco il suo inferno
e il suo paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti
gli Dei d' Olimpo : lo scettico può abolire l' inferno, non
può abolir la coscienza. Appunto perchè i due mondi
sono la vita stessa nelle sue due facce, in seno a que-
sta unità si sviluppa il più vivace dualismo, anzi anta-
gonismo : r altro mondo rende i corpi ombre, ombre gli
affetti e le grandezze e le pompe , ma in quelle ombre
freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano d' im-
precazioni terrene fino le tranquille volte del cielo. Gli
uomini con esso le loro passioni e vizi e virtù riman-
gono eterni, come statue , in quell' attitudine , in quella
espressione d' odio, dì sdegno, di amore, che sono stati
colti dall'artista ; ma mentre 1' altro mondo eterna la ter-
— 183 —
ra, trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto
r immagine dell' infinito, ne scopre il vano e il nulla: gli
uomini sono gli stessi in un diverso teatro, che è la loro
ironia. Questa unità e dualità uscente dall'imo stesso della
situazione balena al di fuori nelle più varie forme, ora
in un' apostrofe, ora in un discorso, ora in un gesto , ora
in un' azione, ora nella natura, era nell' uomo, in questa
unità penetra la più grande vari età, né è facile trovare
un lavoro artistico , in cui il limite sia così preciso e
così largo. Niente è nell'argomento che costringa il poeta
a preferire il tal personaggio, il tal tempo, la tale azio-
ne; tutta la storia, tutti gli aspetti sotto a' quali si è mo-
strata r umanità, sono a sua scelta; e può abbandonarsi
a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni, e può in-
tramettere nello scopo generale fini particolari, senza che
ne scapiti 1' unità. Il che dà al suo universo compiuta
realità poetica, veggendosi nella permanente unità tutto
ciò che sorge e dalia libertà dell' umana persona e dal-
l'accidente, e moversi con vario gioco tutt' i contrasti, e il
necessario congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.
Adunque che poesia è codesta ? Ci è materia epica ,
e non è epopea ; ci è una situazione lirica e non è liri-
ca: ci è un ordito drammatico, e non è dramma. È una
di quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere enci-
clopedie, bibbie nazionaU, non questo o quel genere, ma
il Tutto, che contiene nel suo grembo ancora involute
tutta la materia e tutte le forme poetiche, il germe di
ogni sviluppo ulteriore. Perciò nessun genere di poesia
vi ò distinto ed esplicato ; l'uno entra nell'altro, 1' uno si
compie neir altro. Come i due mondi sono in modo im-
medesimati, che non puoi dire: qui è V uno, e qui è l'al-
tro ; cosi i diversi generi sono fusi di maniera, che nes-
suno può segnare i confini che fi dividono, né dire: que-
sto è assolutamente epico, e questo è drammatico.
È il contenuto universale, di cui tutte le poesie non
— 184 —
sono che frammenti, il poema sacro, V eterna geometria
e r eterna logica della creazione incarnata ne' tre mondi
cristiani, la città di Dio, dove si riflette la città dell' uo-
mo in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal tempo,
la sfera immobile del mondo teologico, entro di cui si
movono tempestosamente tutte le passioni umane.
L' idea che anima la vasta mole e genera la sua vita
e il suo sviluppo, è il concetto di salvazione, la via che
conduce V anima dal male al bene, dall' errore al vero,
dall'anarchia alla legge ^ dal moltiplice all' uno. È il con-
cetto cristiano e moderno dell' unità di Dio sostituita alla
pluralità pagana. Questo concetto se fosse solo un di
fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pen-
siero, 0 rappresentato in forma allegorica , come figu-
rato , non basterebbe a generare un' opera d' arte. Ma
qui è non solo il di fuori, ma il di dentro, non solo il
significato e la scienza di quel mondo, opera di filosofo
e di critico, ma principio attivo, com'è nell' uomo e nella
natura, che costruisce e forma quel mondo, e gli dà una
storia e uno sviluppo. Questo principio attivo se nella
sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o la
virtù 0 la legge, come realtà viva e operosa, è lo spi-
rito , che ha per suo contrario la materia o la carne ,
dove sta come in una prigione o in un vasello da cui
si sforza di uscire. La vita è perciò un antagonismo, una
battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio.
E la sua storia è la progressiva vittoria dello spirito, la
costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive,
il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi
sino a Dio, assoluto spirito, la Verità, la Bontà, l'Unità,
r ultimo Ideale. Il concetto dantesco, lo spirito che abita
per entro al suo mondo, è dunque la progressiva disso-
luzione delle forme , un costante salire di carne a spirito ,
r emancipazione della materia e del senso mediante l'e-
spiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il di-
— 185 —
vino, r inferno e il paradiso posta e sciolta. Omero tra-
sporta gli Dei in terra e li materializza; Dante trasporta
gli uomini neir altro mondo e li spiritualizza. La materia
vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre:
i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla
memoria ; la terra stessa è una rimembranza che ti flut-
tua avanti come una visione; il reale^ il presente è l' infini-
to spirito; tutto l'altro è vanità che par persona. Questo
assottigliamento è progressivo; il velo si fa sempre più
trasparente. L' inferno è la sede della materia , il domi-
nio della carne e del peccato ; il terreno vi è non solo
in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica
i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si con-
tinua neir altro mondo e s' immobilizza in quelle anime
incapaci di pentimento; peccato eterno, pena eterna. Nel
purgatorio cessano le tenebre, e ricomp arisce il sole, la
luce dell' intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza
penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spi-
rito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto pos-
sesso di sé, alla salvazione. Nel paradiso l'umana persona
scomparisce, e tutte le forme si scio Igono ed alzano nella
luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione
s' idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell' assoluto
spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento.
Tutta cessa
Mia visione e ancor mi distilla
Nel cor lo dolce che nacque da essa.
Cosi la neve al sol si disigilla;
Cosi al vento nelle foglie lievi
Si perdea la sentenzia di Sibilla.
Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la
storia ; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco ,
ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale
e storico della vita, sotto tutte le forme, in tutte le qui-
-- 186 —
stioni che si affacciano al poeta , in religione, in filosofia,
in politica, ^in morale , e così si concreta e compie in
tutti gl'indirizzi della vita. In religione è il cammino dalla
lettera allo spirito, dal simbolo all' idea, dal vecchio al
nuovo testamento; nella scienza dall' ignoranza e dall'er-
rore alla religione e dalla ragione alla rivelazione ; in
morale dal male al bene , dall' odio all' amore mediante
l'espiazione; in pohtica dall' anarchia all'unità. Sottoposto
alle condizioni di spazio e di tempo , diventa storia, il
tale uomo, il tale popolo, il tale secolo. In religione vi
sta innanzi la Chiesa romana , il Papato , che il poeta
vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricon-
durre al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza
volgare e la scienza della verità in paradiso ; in morale
vi stanno innanzi le passioni, le discordie, le colpe e i
vizii della barbara età, dalle quali vi sentite a poco a
poco allontanare nel vostro cammi no verso il sommo
Bene; in politica è l'Italia anarchica e sanguinosa che
il poeta aspira a comporre a pace e concordia nell' u-
nità dell' impero. Così un solo conce tto penetra il tutto,
come forma, come pensiero e come storia. Mai più vasta e
concorde comprensione non era uscita da mente di uomo.
Alcuni ci vedono dentro 1' altro mondo, e il resto è una
intrusione e quasi una profanazione ; Edgard Quinet ri-
mane choquè t veggendo come le passioni del poeta lo
inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo
politico, di cui quello sia la rappresentazione sotto figura.
Chiamano questo poema o religioso, o politico, o dida-
scalico 0 morale ; lo riducono a que relè di cattolici e
protestanti, a dispute di guelfi e ghibelUni. Guardano
non dall' alto del monte, dalla pianura, e prendono per
il tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro
cammino. Ciascuno si fabbrica un piccolo mondo, e dice:
questo è il mondo di Dante. E il mondo di Dante con-
— 187 —
tiene tutti quei mondi iu so. È il mondo universale del
medio evo realizzato dall' arte.
Questa immensa materia si forma e si sviluppa se-
condo il concetto in tre mondi, de' quali l'inferno e il
paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spi-
rito, odio e amore , e il purgatorio è il termine medio
o di passagf^io: tre mondi, dei quali la letteratura non
offriva che povere e rozze indicazioni, e che escono dalla
fantasia dantesca vivi e compiuti.
L' inferno è il regno del male , la morte dell' anima e
il dominio della carne, il caos; esteticamente è il brutto.
Dicesi che il brutto non sia materia d'arte, e che l'arte
sia rappresentazione del bello. Ma è arte tutto ciò che
vive e niente è nella natura che non possa essere nel-
r arte. Non è arte quello solo che ha forma difettiva o
in sé contraddittoria , cioè l' informe o il deforme o il
difforme: e perciò non è arte il confuso, l'incoerente, il
dissonante, il manierato, il concettoso, 1' allegorico, l'a-
stratto, il generale, il particolare: tutto questo non è
vivo, è abbozzo o aborto d'artisti impotenti. L' altro, bello
o brutto che si chiami in natura, esteticamente è sem-
pre bello.
In natura il brutto è la materia abbandonata a' suoi
istinti, senza freno di ragione: e ne nasce una vita che
ripugna alla coscienza morale e al senso estetico. Alla
sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato
sé stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice:
tu sei brutto. Più il suo senso morale ed estetico è svi-
luppato , e più la sua impressione è gagliarda , più lo
vede vivo e vero innanzi all'immaginazione. Perciò non
pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo, anzi lo
pone in evidenza e lo ritrae coi suoi pi'oprii colori.
Il brutto è elemento necessario così nella natura, corno
nell'arte; perché la vita ò generata appunto da questa
contraddizione tra il vero e il falso, il bene e il mah,
— 188 —
il bello e il brutto. Togliete la contraddizione, e la vita
si cristallizza. Verità così palpabile che le immaginazioni
primitive posero della vita due principii attivi , il bene
e il male, 1' amore e 1' odio, Dio e il demonio : antago-
nismo che si sente in tutte le grandi concezioni poeti-
tiche. Perciò il brutto così nella natura, come nell'arte
ci sta con lo stosso dritto che il bello, e spesso con mag-
giori effetti, per la contraddizione che scoppia nell'anima
del poeta. Il bello non è che sé stesso; il brutto è se
stesso e il suo contrario, ha nel suo grembo la contrad-
dizione, perciò ha vita più ricca, più feconda di situa-
zioni drammatiche. Non è dunque maraviglia che il brutto
riesca spesso neh' arte più interessante e più poetico. Me-
fistofele è più interessante di Fausto, e l' inferno è più
poetico del paradiso.
Dante concepisce l' inferno, come la depravazione del-
l' anima, abbandonata alle sue forze naturali , passioni ,
voglie, istinti, desiderii, non governati dalla ragione, o
<ìair intelletto, contraddizione eh' egli esprime con l'ener-
gia di uomo offeso nel suo senso morale:
le genti dolorose *^
Che hanno perduto il ben dell' intelletto.
Che lìbito fé' licito in sua legge.
Che la ragion somn:iettono al talento.
L'anima è dannata in eterno per la sua eterna impe-
nitenza; peccatrice in vita, peccatrice ancora nello in-
ferno, salvo che qui il peccato è non in fatto, ma in
desiderio. Onde neh' inferno la vita terrena è riprodotta
tal quale, essendo il peccato ancor vivo, e la terra an-
cora presente al dannato. Il che dà all' inferno una vita
piena e corpulenta, la quale spiritualizzandosi negli altri
due mondi diviene povera e monotona. Gli è come un
andare dall' individuo alla specie e dalla specie al ge-
nere. Più ci avanziamo, e più i' individuo si scarna e si
— 189 —
generalizza. Questa è certo perfezione cristiana e mo-
rale; ma non è perfezione artistica. L' arte come la na-
tura è generatrice, e le sue creature sono individui, non
specie 0 generi , non tipi o esemplari ; sono res , non
species rerum. Perciò T inferno ha una vita più ricca l.
e piena, ed è de' tre mondi il più popolare. Aggiungi che
la vita terrena o infernale è colta dal poeta nel viva
stesso della realtà in mezzo a cui si trova, essendo essa
la rappresentazione epica della barbarie, nella quale il
rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita
trabocca al di fuori. Dante stesso è un barbaro, un eroico
barbaro, sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo, libera
ed energica natura. Al contrario la vita negli altri due
mondi non ha riscontro nella realtà, ed è di pura fan-
tasia, cavata dall' astratto del dovere e del concetto, e
ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e con-
templativa.
Essendo l' inferno il regno del male o della materia
in sé stessa e ribelle allo spirito , la legge che regola
la sua storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi
dello spirito, insino alla sua estinzione, alla materia as-
soluta.
Il suo punto di partenza è l'indifferente, l'anima priva
di personalità e di volontà, il negligente. Il carattere qui
è il non averne alcuno. In questo ventre del genere u-
mano non è peccato, né virtù, perchè non è forza ope-
rante ; qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il pre-
ludio di esso. Ma se , moralmente considerati , i negli-
genti tengono il più basso grado nella scala de' dannati,
e pajono a Dante sciauraii più che peccatori , il con-
cetto morale rimane estrinseco alla poesia, e non serve
che a classificare i dannati. Altri sono i criterii del poe-
ta. La morale pone i negligenti sul Hmitare dell' inferno,
la poesia li pone più giù dell' ultimo scellerato, che Dante
stima più di questi mezzi uomini. E la poesia é d'accordo
— 190 -
con la tempra energica del gran poeta e de' suoi con-
temporanei. A quegli uomini vestiti di ferro anima e
corpo questi esseri passivi e insignificanti doveano ispi-
rare il più alto dispregio. E il dispregio fa trovare a
Dante frasi roventi. Sono uomini che vìssero senza in-
famia e senza lode , anzi non far mai vivi. La loro
pena è di essere stimolati continuamente^, essi che non
sentirono stimolo alcuno nel mondo. La pena è minima,
eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono così vinti
nel duolo, che lacrimano e gettano le alte strida, che
fanno tumultuare 1' aria come la rena quando il turbo
spira. A' loro piedi è la loro immagine, il verme. Turba
infinita, senza nome: appena accenna ad un solo, e senza
nominarlo, colui che fece per viltate il gran rifiuto.
Il loro supplizio è la coscienza della loro viltà, il sen-
tirsi dispregiati, cacciati dal cielo e dall' inferno. Ritratto
immortale, e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono ri-
masti proverbiali. Esseri poetici, appunto perchè assolu-
tamente prosaici, la negazione della poesia e della vita:
onde nasce il sublime negativo degli ultimi tre versi:
V Fama di loro il mondo esser non lassa
Misericordia e giustizia gli sdegna.
Non ragioniam di lor ; ma guarda e passa.
Se i negligenti non sono neh' inferno, perchè mancò
loro la forza del bene e del male, gì' innocenti e i vir-
tuosi non battezzati non sono in paradiso perchè mancò
loro la fede, sono nel Limbo. E anche qui il concetto
teologico ci sta per memoria , per semplice classificazio-
ne. La poesia nasce da altre impressioni e da altri cri-
terio Il valore poetico dell' uomo non è nella sua mora-
lità e nella sua fede, ma nella sua energia vitale; non
è una idea, ma una forza il personaggio poetico. Per-
ciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime
negativo, la negazione della forza, il non esser vivo. E
— 191 —
perciò qui nel Limbo la mancanza di fede è un semplice
accessorio, e l'interesse è tutto nel valore intrinseco del-
l' uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso
criterio poetico e dà ad alcuni un luogo distinto non per
la loro maggiore bontà, ma per la fama che loro acqui-
stò in terra la grandezza dell' ingegno e delle opere.
L' onorata nominanza,
Che di lor suona su nel vostro mondo,
Grazia acquista nel elei che si gli avanza.
Concetto poco ascetico e pòco ortodosso ; ma Dio si fa
poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un Pan-
teon di uomini illustri. E chi vuol trovare le impres-
sioni di Dante, quando alzava questo magnifico tempio
della storia e della cultura antica, e le impressioni che
ne dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue im-
pressioni quando giovinetto su' banchi della scuola gli si
affacciarono le meraviglie di questo mondo greco-latino.
Aristotile^ Omero, Virgilio, Cesare, Bruto, ciascuno di
questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava!
Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti carat-
teristici che segnano i protagonisti, il Signore dell'al-
tissimo canto , e il maestro di color che sanno. E
colui che a quella vista si sente esaltare in sé stesso e
s' incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo
poeta de' tempi nuovi, sesto tra tanto senno, e non è il
Dante dell'altro mondo, ma Dante Alighieri. Ecco ciò che
rende il Limbo cosi interessante, come il mondo de' ne-
gligenti, due concezioni originalissime uscite da un pro-
fondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime
ne' secoli. Molti tratti sono ancora oggi in bocca del
popolo.
Come r inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel
canto XI il poeta stesso, architetto e flloèofo delle sue
costruzioni. Qujl regno del malo è partito in tre mondi,
— 192 —
rispondenti alle tre grandi categorie del delitto: la in-
continenza e violenza, la malizia, e la fredda premedi-
tazione. Ciascuna di queste categorie si divide in generi
e specie, in cerchi e gironi. Il concetto etico di questa
scala de' delitti è che dove è più ingiuria, è più colpa, e
l'ingiuria non è tanto nel fatto quanto nell'intenzione.
Perciò la malizia e la frode è più colpevole della incon-
tinenza e violenza, e la fredda premeditazione de' tradi-
tori è più colpevole della malizia. Indi la storica evolu-
zione dell' inferno dove da' meno colpevoli , gì' inconti-
nenti, si passa alla città di Dite, sede de' violenti, e poi
si scende in Malebolge, e di là nel pozzo dei traditori.
Questo è r inferno scientifico o etico. Ma non è ancora
r inferno poetico.
La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in
natura vivente. L' ordine scientifico presenta una serie
di concetti astratti, il poetico una serie di figure , di fatti,
e d' individui: il primo una serie di delitti, il secondo una
serie non solo d' individui colpevoli, ma di tali e tali in-
dividui. Dividere in categorie significa considerare in un
gruppo d' indvidui non quello che ciascuno ha di proprio,
ma quello che ha di comune col gruppo a cui appar-
tiene. Così una classificazione è possibile, una esatta ri-
duzione a generi e specie. Ma la poesia ritorna 1' indivi-
duo nella sua libera personalità, e lo considera non come
essere morale, ma come forza viva e operante. E più
in lui è vita , più è poesia. Perciò , se l' inferno, come
mondo etico, è il successivo incattivirsi d^llo spirito, si
che alla violenza, comune all' uomo, e all' animale, suc-
cede la malizia, male proprio delV uomo, e alla malizia
la fredda premeditazione, questo concetto poeticamente
rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione.
Come natura vivente o come forma, l'inferno è la morte
progressiva della natura, la vita è il moto che manca
a poco a poco sino alla compiuta immobilità, alla materia
— 193 —
dove insieme con la vita muore la poesÌP. Indi la storia
dell' inferno.
Dapprima la situazione è tragica; il motivo è la pas-
sione^ dove la vita si manifesta in tutta la sua violenza;
perchè la passione raccoglie tutte le forze interiori, di-
stratte e sparpagliate nell' uso quotidiano della vita, in-
torno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista
la coscienza della sua libertà infinita. Preso per sé stesso
lo spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e
non può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio
fare eh' esso non creda, non senta, e non voglia quello
che crede , sente e vuole. Non vi è donnicciuola , cosi
vile, che non si senta forza infinita, quando è stretta
dalla passione. Io ti amo, e ti amerò sempre, e se dopo
morte si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con te in in-
ferno, che senza te in paradiso. Queste sono le eloquenti
bestemmie che traboccano da un cuore appassionato, e
che rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Fran-
cesca.
Ma quando la passione vuole realizzarsi, s' intoppa in
un altro infinito, nell'ordine generale delle cose, di cui
si sente parte e innanzi a cui è un fragile individuo. E
n' esce la tragica collisione tra la passione e il Fato, l'uo-
mo e Dio, il peccato. Nella vita né la passione, né il
fato sono nella loro purezza, la passione ha le sue fiac-
chezze e oscillazioni; il fato talora è il caso, o l'espres-
sione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in
cui intoppa il protagonista. Ma nell' inferno l'anima è iso-
lata dal fatto, ed è pura passione e puro carattere, per-
ciò inviolabile e onnipotente, e il Fato è Dio, come eterna
giustizia é legge morale: onde la prima parte dell' inferno,
ove incontinenti e violenti, esseri tragici e appassionati,
mantengono la loro passione di rincontro a Dio, è la tra-
gedia delle tragedie, 1' eterna collisione ueilo sue epiche
proporzioni.
F. De duiicùti. — Leu. lul. Voi. I. 18
— 194 —
Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso
concetto. La natura infernale non è ancora laida e brut-
ta; anzi balzan fuori tutt' i caratteri che la rendono un
sublime negativo, l'eternità, la disperazione, le tenebre.
L' Eterno è sublime, perchè ti mostra undOS sempre
allo stesso punto, per quanto tu ti avvicini; la dispera-
zione è sublime perchè ti mostra un fine non possibile
a raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è su-
blime, come annullamento della forma e morte della fan-
tasia, per quella stessa ragione che è sublime la morte, il
male, il nulla. Leggete la scritta sulla porta dell' inferno.
Ne' primi tre versi è l'eterno immobile che ripete sé stes-
so, dolore, dolore e dolore, quel luogo, quel luogo e
quel luogo, per me , e per me , insino a che in ultimo
r eterno risuona nella coscienza del colpevole come di-
sperazione:
Uscite di speranza voi che entrate.
La luce, il dolce lome, rende sublimi le tenebre, morte
del sole e delle stelle e dell' occhio, come è V aer senza
stelle, e il loco d' ogni luce muto, e quel ficcar lo viso
al fondo e non discernere alcuna cosa. Certo l'eter-
nità, le tenebre e la disperazione sono caratteri comuni
a tutto l'inferno; ma solo qui sono poesia, quando l'in-
ferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione
nella gagliardia e freschezza delle prime impressioni.
Appresso diventano spettacolo ordinario, come è il sole,
visto ogni giorno.
E Dante che parte da principii preconcetti nelle sue
costruzioni scientifiche, quando è tutto nel realizzare e
formare i suoi mondi, opera con piena spontaneità, ab-
bandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è il primo
apparire dell' inferno, e come ci si sente la prima im-
pressione, come si vede il poeta esaltato, turbato dalla
sua visione, assediato di forme, di fanta^^mi, impazienti
^ 195 —
dì venire alla luce. In quel diverse voci, orribili faveL (/
le ec. non ci è solo il grido de' negligenti; ci è li tutto
r interno, che manda il suo primo grido. Quel canto del
sublime è una sola nota musicale variamente graduata,
è l'eterno, il tenebroso, il terribile, l' infinito dell'inferno
che invade e ispira il poeta e vien fuori co' vivi colori
della prima impressione, è il vero canto del regno dei
morti, della moria gente, è 1' albero della vita , che il
poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa e
ne toglie la speranza :
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
E ne toglie le stelle :
Risonavan per 1' aer senza stelle.
E ne toglie il tempo:
Facevano un tumulto il qual s'aggira
Sempre in queir aria senza tempo tinta.
E ne toglie il cielo:
Non isperate mai veder lo cielo.
E ne toglie Dio:
Ch' hanno perduto il ben dello intelletto.
Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza
contorni, cerchio, loco, null'altro: la diresti natura vuota,
se non la riempissero 1' eternità e le tenebre e la morte
e la disperazione. Nel regno de' violenti prende una forma.
Si esce dal sublime : si entra nel belio negativo. Incontri
tutto ciò che è figura, ordine, regolarità, proporzione in
terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città, la città
di Dite. Vedi selve, laghi, sepolcri; e 1' effetto poetico
— 196 —
nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti
gli accessorii che la rendono bella in terra.
Non frondi verdi, ma di color fosco:
Non rami schietti, ma nodosi e involti:
Non pomi v' eran, ma stecchi con tosco.
La natura spogliata della sua vita, del suo cielo, della
sua luce, delle sue speranze è un sublime che ti gitta
neir animo il terrore ; la natura spogliata della sua bel-
lezza è un bello negativo , pieno di strazio e di malin-
conia. È la natura snaturata, depravata, a immagine del
peccato : con la virtù se n' è ita la bellezza, sua faccia.
Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita
nelle pene. Perchè il concetto nella natura sta immobile
come neir architettura e nella coltura ; dove nelle pene
acquista ogni varietà di attitudini e di movenze. Le pene
sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la vio-
lenza della passione. In quella natura eterna e tenebrosa
ode un mugghio come fa mar 'per tempesta , e il ro-
vescio della grandine^ e il cozzo delle moltitudini : moti
disordinati, violenti, come i moti dell' animo. Vedi tombe
ardenti, laghi di sangue, alberi che piangono e parlano,
la natura sforzata e snaturata dal peccatore. GU strani
accozzamenti producono 1' effetto del maravigUoso e del
fantastico, ma il fantastico è presto vinto e ti pigHa il
raccapriccio e V orrore. Il poeta prende in troppa serietà
il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorpren-
derci con colpi di scena: tocca e passa, e non vuol fare
effetto sulla tua immaginazione, vuol colpire la tua co-
scienza. Dove il fantastico è più sviluppato, è nella selva
de' suicidi; ma anche h vien subito la spiegazione, eia
maravigha dà luogo ad una profonda tristezza.
Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività, non
è ancora anima. Un primo grado di questa forma è nel
demonio. Cielo e inferno sono stati sempre popolati di
— 197 —
leo^ioni angeliche e sataniche, che riempiono l' intervallo
tra r uomo e Dio,- tra I' uomo e Satana. E la storia del
bene e del male che si sviluppa nella nostra anima, un
progressivo iiidiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di
forme secondo le religioni e le civiltà, i demonii hanno
\)LH' base i diversi gradi del male, e per forma il gigan-
tesco e il mostruoso, il puro terrestre , il bestiale giunto
all'umano, e spesso preponderante, come nella stìnge,
nella chimera, in Cerbero. Il demonio di Dante non ha
più la sua storia, come in terra, spirito tentatore ac-
canto all'uomo e ribelle e rivale di Dio. Qui è immo*
bilizzato come V uomo, la sua storia è finita; cosa gli re-
sta ? Soffrire e far soffrire , vittima e carnefice a un
tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato che
fi Igeila nell'uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele, che
combattono contro di Dio e contro 1' uomo , erano com-
piute persone poetiche. Altra è qui la situazione e altro
è il demonio. Esso è il vinto di Dio, e meno che uomo,
perchè non è dell' uomo, che una sua parte sola, il pec-
cato. E piuttosto tipo, specie, simbolo, che persona. È il
più basso gradino nella scala degli esseri spirituali, lo
spirito tra 1' umano e il bestiale, in cui l' intelletto è an-
cora istinto e la volontà è ancora appetito. Figure vive
e mobili della colpa ma figure, semplice esteriorità: non
carattere, non passione, non inteUigenza, non volontà.
Fra gl'incontinenti e i violenti il demonio è tragico e
serio ; è azione mimica e tutta esterna, passione tradotta
in moti e gesti, senza la parola, salvo brevi impreca-
zioni. La natura ti dà figura e colore: qui la figura si
muove, e il colore si anima , è la figura in azione. Il
poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane,
e le ha rifatte e rinnovate. Come a costruire il suo in-
ferno toglie alla terra le sue forme, e strappandole dal
circolo loro assegnato le compon diversamente e ti cri a
una nuova natu/a; così ad esprimere lo spirito toghe
— 198 —
dalla mitologia tutte le forme demoniacne, Minos, Ca-
ronte, Cerbero, Fiuto, Gerione, le Arpie, le Furie, e le
trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere, spo-
gliate di concetto, di vita e di religione, e le ricrea, le
battezza ; impressovi sopra il suo pensiero e la sua re-
ligione. Il demonio meno lontano dall' uomo è Caronte,
in cui vien fuori V apparenza di un carattere: impaziente,
rissoso, manesco, che grida e batte. Il poeta si è ben
guardato di sviluppare il comico che è in questo carat-
tere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non
fa dissonanza con la solennità della natura infernale, dove
si trova collocata. Minos è il giudizio rappresentato in
modo affatto esteriore e plastico, e rapido come saetta:
Dicono e odono e poi son giù volte.
Le altre figure sono schizzi, appena disegnati; inge-
gnoso è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle
più belle ottave dell'Ariosto.
Noi concepiamo oramai la costruzione de' singoU canti.
Il poeta comincia col porci innanzi la natura del luogo
e la qualità della pena ; il demonio ora precede, ora vien
subito dopo, poi vedi peccatori presi insieme e misti, non
ancora l'individuo, ma 1' uomo collettivo, gruppi di mezzo
a' quali spesso si stacca l'individuo e tira la tua attenzione.
I gruppi sono 1' espressione generale del sentimento che
riempie i peccatori nella società infernale; sono la pa-
rentela del delitto, dove trovi nello stesso lago di san-
gue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada
Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.
Come nella natura e nel demonio, cosi ne' gruppi 1' a-
spetto è dapprima severo e tragico. Essi esprimono il
sublime dello spirito , la disperazione. L' uomo ha bisogno
di avere innanzi a sé qualche cosa cui tenda; al pen-
siero succede pensiero ; il cuore vive quando da senti-
mento germoglia sentimento ; 1' uomo vive quando è in
— 199 —
un' onda assidua di pensieri e di sentimenti ; la dispera-
zione è ranniiUamento della vita morale, la stagnazione
del pensiero e del sentimento, la morte , il nulla , il caos,
le tenebre dello spirito, un sublime negativo. Come il
sublime, delle tenebre è nella luce che muore, il sublime
della disperazione è nella morte della speranza:
Nulla speranza li conforta mai
Non che di posa, ma di minor pena.
L'espressione estetica della disperazione è la bestem-
mia, violenta reazione dell' anima, innanzi a cui tutto muo-
re, e che nel suo annichilamento involge 1' universo .
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
L' umana specie e il luogo e il tempo e il seme
Di lor semenza e di lor nascimenti.
La passione trasforma la faccia dell'uomo abitualmente
tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia
negli occhi ; momento fuggevole che Dante coglie e rende
eterno ne' suoi gruppi. Gli avari stanno col pugno chiu-
so, gì' irosi si lacerano le membra: violenza di moti ap-
passionati, niente che sia basso o vile; puoi abborrirli,
non puoi disprezzarli.
Immaginate una piramide. Nella larghissima base ve-
dete la natura infernale. Più su è il demonio, figura be-
stiale in faccia umana, bestia talora in tutto, mai in tutto
uomo. Alzate ancora 1' occhio e vedete gruppi nella vio-
lenza della passione. È la stessa idea che si sviluppa e
si spiritualizza, insino a che da questo tripUce fondo si
eleva sulla cima la statua, l' individuo libero, l' idea nella
sua individuale realtà, e più che l' idea, sé stesso nella
sua libertà. È di mezzo a quella folla confusa, a quei
gruppi che escono i grandi uomini dell' inferno o piutto-
sto della terra; è da questa triplice base dell' eternità
— 200 —
che esce fuori il tempo e la storia e V Italia e più che
altri Dante come uomo e come citta<ìin().
L'inferno degl' incpntinenti e de' violenti è il regno
delle grandi figure poetiche. Qui trovi come in una gal-
leria di personaggi eroici Francesca, Farinata, Caval-
canti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Capaneo, Dante
il Fato, Dio e la Fortuna. Sono in presenza forze co-
lossali, la energia della passione e la serenità del Fato.
Qui è Francesca eternamente unita al suo Paolo, là è
la Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e
beata si gode. Ora ti percote il suono della divina giu-
stizia che in eterno rimbomba; ora ti stupisce Capaneo
che tra le fiamme oppone sé a tutte le folgori di Giove.
Su questo fondo tragico s' innalza la libera persona uma-
na e vi si spiega in tutta la ricchezza delle sue facoltà.
Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e scolastiche e
prendiamo possesso della realtà. La donna non è più
Beatrice, il tipo realizzato de' trovatori, fluttuante ancora
tra r idea e la realtà; qui acquista carattere, storia, pas-
sioni, una ricca e vivace personalità è Francesca da Ri-
mini, la prima donna del mondo moderno. L'uomo non
è più il santo con le sue estasi e le sue visioni; qui ha
la sua patria, il suo uffizio, il suo partito, la sua fami-
glia, le sue passioni e il suo carattere; è Farinata, è
Cavalcanti, è Brunetto, è Pier delle Vigne, è Dante Ali-
ghieri, alla cui fiera natura Virgilio applaude:
Alma sdegnosa.
Benedetta colei che in te s' incinse !
L' inferno dà loro una realtà più energ'ca , creando
nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura
per le nuove radici del suo legno. Farinata dice:
Ciò mi tormenta più che questo letto.
— :^0i —
Air annunzio della morte del figlio. Cavalcanti
Supin ricadde e più non parve fuori.
Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel quale si sento
vivere ancora. Capaneo può dire: qual io fui vivo, tal
son morto. E Francesca ricorda il tempo felice nella mi-
seria. L' inferno è il loro piedistello, sul quale si ergono
col petto e con la fronte, affermando la loro umanità.
Nascono situazioni e forme novissime che danno rilievo
alle figure e a' sentimenti.
Questo mondo tragico dove l'impeto della passione e
la violenza del carattere mette in gioco tutte le forze
della vita, ha la sua perfetta espressione in questi grandi
individui rimasti così vivi e giovani e popolari , come
Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia, della
epopea ^ delln tragedia. E ora quale contrasto ! Lascia-
mo appena le falde dilatate di foco e la rena che s' in-
fiamma come esca sotto fucile, e ci troviamo in una poz-
zanghera che fa zuffa con gli occhi e col naso. Lasciamo
i tragici demonii dell' antichità, i centauri e le arpie, e
incontriamo diavoli con le corna e armati di frusta, e
vilissimi uomini che alle prime percosse scappano senza
aspettar le seconde né le terze. In luogo di Capaneo con
la fronte levata, il primo che vediamo ha gli occhi bassi,
vergognoso di mostrarsi: e Dante, così riverente e pie-
toso sinora e anche sdegnoso, diviene maligno e sarca-
stico e compone per la prima volta il labbro ad un sor-
riso sardonico. Chiama salse pungenti quel letamajo ,
che dagli uman privati par ea mosso.\]vi altro lo sgrida:
Perchè sei tu bi ingordo di riguardar più me che gli al-
tri brutti? E Dante che lo vede col capo lordo , tanto
che non paroa s' era laico o cherco , gli ricorda cru-
delmente di averlo veduto in terra co' capelli asciutti.
E quegli esprime il suo dolore, battendosi la zucca. Tutto
è mutato, natura, demonio e uomo, immagini e stile. Ca-
— 202 —
diamo in pieno plebeo. Chi sono questi uomini? Sono
adulatori e meretrici dannati alla stessa pena: gli uni
vendono 1' anima , le altre vendono il corpo. Sentite che
noi passiamo in un altro mondo, nel mondo de' fraudo-
lenti.
Esteticamente, il mondo de' fraudolenti è la prosa della
vita , precipitata dal suo piedistallo ideale , e divenuta
volgarità. È la passione che si muta in vizio; il carat-
tere che diviene abitudine; la forza che diviene malizia.
La passione è poetica , perchè ha virtù di concitare tutte
le forze dell' animo, si eh' elle prorompano di fuori libe-
ramente : il vizio è la passione fatta abitudine , ripeti-
zione degli stessi atti, un fare perchè si è fatto : è 1' ar-
tista divenuto artefice, 1' arte divenuta mestiere. L'uomo
appassionato spiritualizza la sua azione, ci mette dentro
sé stesso, ma nel vizioso l'anima è sonnolenta, la sua
azione è stupida materia, atto meccanico a cui lo spi-
rito rimane estraneo. La passione produce il carattere,
la forte volontà che è la stessa passione in continua-
zione ; il vizio ha compagna la fiacchezza e bassezza del-
l' anima, non essendo altro la bassezza che l'abdicazione
e r apostasia della propria anima. I grandi caratteri si-
curi di sé hanno a loro istrumento la forza, impetuosi
fino all' imprudenza, semplici fino alla credulità; gli animi
fiacchi hanno a loro istrumento la malizia, coscienza della
loro impotenza, e, pipistrelli notturni, assaltano alle spalle,
e non osano guardare in viso.
In questo mondo il di fuori è mutato, perchè mutato
è il di dentro, ove non trovi più caratteri e passioni, ma
vizio, bassezza e malizia, lo spirito oscurato e materia-
lizzato, la dissoluzione della vita. A quei cerchi indeter-
minati, a quella città rosseggiante di Dite, nomi e figure
terrene, succede un non so che , una cosa senza nome,
che il poeta chiama bizzarramente Malebolge, una na-
tura sformata e in dissoluzione, ripe scoscese, scogU mo-
— 203 —
bili che fanno da ponticelli , e giù valloni paladosi, dove
le acque finora impetuose e correnti stagnano e si pu-
trefanno, valloni angusti, bolgie, valigie, borse, che strin-
gendosi più e più vanno in un pozzo: natura piccola, in
rovina e putrefazione. Al demonio mitologico iroso e ap-
passionato succede il diavolo cornuto, essere grottesco,
0 piuttosto i diavoli che vanno in frotte, e si mescolano
in ignobili parlari con la gente più abbietta, e canzonano
e sono canzonati, maliziosi, bugiardi , plebei , osceni. Al
vivo movimento delle bufere e delle grandini e delle fiam-
me succede la materia in decomposizione, quanti strazi
di carne umana ti offrono i campi di battaglia, e quante
malattie ti offre lo spedale. Tali la natura, il demonio, le
pene. Vedi ora 1' uomo. La faccia umana è rimasta finora
inviolata ; innanzi all' immaginazione la passione inver-
miglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell'anima
pare nella faccia dell' uomo che si leva diritto dalla cin-
tola in su. Qui la faccia umana sparisce: hai caricature
e sconciature di corpi. Uomini cacciati in una buca, capo
in giù, piedi in su; volti travolti in su le spalle, si che
il pianto scende giù per le reni; visi, occhi e corpi im-
bacuccati e incappucciati; musi umani fuor della pegola
a modo di ranocchi ; corpi altri smozzicati , accismati ,
altri marciti e imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici. Di
questa figura umana deturpata e contraffatta V immagine
più viva è Bertram dal Bormio, il cui busto si fa lan-
terna del suo capo che porta pesol per le chiome. In que-
sto mondo prosaico e plebeo, che comincia con Taide e
finisce con mastro Adamo, la materia ovvero la parte
bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul doman-
darci. Costoro sono uomini o bestie? Non sono ancora
bestie, e 1' uomo già muore in loro :
Che non è nero ancor e il bianco muore.
Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana ; e
— 204 —
la più profonda concezione di Malebolge è questa tra-
sformazione dell' uomo in bestia, e della bestia in uomo:
hanno 1' appetito e l' istinto della bestia , hanno la co-
scienza dell' uomo. Si sanno uomini e sono bestie ; e qui
è la pena, nella coscienza umana che loro è rimasta.
La forma estetica di questo mondo è la commedia, rap-
presentazione de' difetti e de' vizii. Fra tanta fiacchezza
della personalità il grande uomo , l' individuo, è gittato
neir ombra, e vien su il descrittivo, l'esteriorità. Nell'in-
ferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide, l' inte-
resse principale è negU attori che prendono la parola;
qui è un gregge muto visto da lontano ; Virgilio dice a
Dante: Vedi la Mirra, vedi Giasone, vedi Manto. Ap-
pena è so qualche epiteto ti segua in fronte alcuno dei
più grandi personaggi, come si fa di Giasone:
E per dolor non par lacrima spanda.
Prima dite: il canto di Francesca, di Farinata, di Ser
Brunetto Latini ; ora dite : il canto dei ladri, de' falsa-
rli, dei truffatori : vi sono gruppi, non individui ; vi è il
descrittivo, manca il drammatico. Manca la grandezza
negli attori, e manca la pietà negli spettatori. La figura
umana così torta, che il pianto degli occhi bagnava le
natiche , cava a Dante lacrime ; 1' homo sum si sente
colpito in lui; ma Virgilio lo sgrida:
Ancora sei tu degli altri sciocchi?
Qui vive la pietà, quand' è ben morta.
Abbonda il descrittivo ; l' immaginazione di Dante è cosi
robusta, che avendo a fare con oggetti cosi fuori della
natura, non che sentirsi impacciata, pare che scherzi:
con tanta facilità e spontaneità esprime le più varie e
strane attitudini : la fiamma parla come lingua d' uomo;
le zanche piangono e fremono. Il più grande sforzo della
— 205 —
immaginazione umana è la trasformazione di uomini in
bestie, nel canto XXV, quantunque la soverchia minu-
tezza generi sazietà.
Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in
cui si sviluppa con più chiara coscienza il concetto di Ma-
lebolge. Un lato serio di questo concetto è lo spirito che
varca il limite assegnatogli. Se la ragione potesse ve-
der tutto , meslier non era partorir Maria. L' espe-
rienza avea le sue colonne d' Ercole ; la ragione aveva
pure le sue colonne. Questo concetto qui è serio, non è
sublime, né tragico ; perchè 1' uomo che con la temerità
oraziana sforza la natura, e qui non dirimpetto a Dio
come Prometeo e Capaneo, ma colpito e soggiogato, senza
che in lui paja vestigio di ribellione , di orgoglio e di
violenza :
Dove vai,
Anfiarao ? perchè lasci la guerra?
E non restò di rovinare a valle,
Fino a Minòs che ciascheduno afferra.
L' uomo di Orazio è subhme, perchè lo vedi nell'opera,
senti in lui la voluttà del frutto proibito, malgrado Dio
e la Natura. Anfiarao è un puro nome ; sublime di ter-
rore è quel suo precipitare a valle, mostrandocelo suc-
cessivamente inabissarsi, ma il grottesco vien subito dupo:
Mira che ha fatto petto delle spalle:
Perchè volle veder troppo davante.
Di rietro guarda e fa ritroso calle.
Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle
acque per giudizio di Dio, come a lui piacque. Pure uu
po' dell' audacia di Ulisse è ancora in Dante , che gli
mette in bocca nobili parole, e ti fa sentire quali* ardente
curiosità del sapere che invadeva i contemporanei. Ti par
di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene virtù.
— 206 —
Se la logica ghibellina pone in inferno 1' autore dell'ag-
guato contro Troja, radice dell'impero sacro romano,
la poesia alza una statua a questo precursore di Colombo,
che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi, e dice
a' compagni :
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Ulisse è il grand' uomo solitario di Malabolge. È una pi-
ramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da
tutt' i lati, traendosi appresso il lordo, Y osceno, il di-
sgustoso : lo spirito, divenuto malizia, è qui decaduto, de-
gradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse
stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fa-
sciata dalle fiamme. Siamo in un mondo comico.
La regina delle forme comiche è la caricatura, il di-
fetto colto come immagine e ideahzzato. Al che si richiede
che il personaggio operi ingenuamente e brutalmente, co-
me non avesse coscienza del suo difetto, a quel modo
che si vede in Sancio Panza e in don Abbondio, eccel-
lenti caratteri comici. I dannati di Malabolge sono cot^ì
fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli, come i diavoli nel
canto XXII, rissosi, abbietti, vanitosi, bassamente feroci
ne' loro atti. Così sono i ladri, i truflatori, i barattieri,
plebe in cui il vizio è così connaturato che non se ne ac-
corge più. Tale è Nicolò III vano del suo papale am-
manto, che crede Dante venuto nell' inferno apposta per
veder lui. TaU sono pure Sinone e maestro Adamo. Essi
si mostrano nella loro naturalezza, e possono essere rap-
presentati nella forma diretta e immediata, isolando il
difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un con-
tro-modello, r immagine opposta a quel tipo, a quel mo-
dello di perfezione che ciascuno ha in mente : qui è la
caricatura. Le concezioni di Dante sono di un comico pie-
— 207 —
beo della più bassa lega : sia esempio la rissa tra Sinone
e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco, l'infimo grado
del comico. Quest' uomo, così possente creatore d' imma-
gini neir inferno tragico, qui si sente arido, freddo in un
mondo non suo. Le situazioni sono comiche, ma il co-
mico è rozzamente formato, e non è artistico , non ha
la sua immagine che è la caricatura, né la sua impres-
sione che è il riso. Due persone in rissa cadono in un
lago d' acqua bollente che U divide. Situazione comica,
se mai ce ne fu. Il poeta dice :
Lo caldo schermidor subito fue.
Espressione vivace , ma che non sveglia nessuna imma-
gine e ti lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel mo-
vimento, quella smorfia che fanno quando si sentono scot-
tare e si sciolgono. La pancia di mastro Adamo che sotto
il pugno di Sinone sonò come fosse un tamburo , è una
felice caricatura; ma è una freddura il dire:
E Mastro Adamo gli percosse il volto
Col braccio suo che non parve men duro.
Manca spesso a Dante la caricatura , e i suoi versi più
comici non fanno ridere. Perchè a fare la caricatura bi-
sogna fermare l'immaginazione nell'oggetto comico, spas-
sarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contro-modello. Dante
non ha questo sublime obblio comico, non ha indulgenza,
né amabilità. Teme di sporcarsi tra quella gente , e se
ode, se ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci sta, se
ne scusa; ah fera compagnia ì ma in chiesa co' santi
e in taverna co' ghiottoni. Il suo riso é amaro; di sotto
alla facezia spunta il disdegno; e spesso nella mano la
sferza gli si muta in pugnale.
Il riso muore, quando il personaggio comico ha co-
scienza del suo vizio, e non che sentirne vergogna vi si
pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non
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sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo
proprio artista, che si orna del suo difetto come di un
manto reale , e se ne incorona e se ne fa un' aureola ,
atteggiandosi e situandosi nel modo più acconcio a dire :
miratemi; più acconcio a dare spicco al suo vizio. La
"bestia non cela il suo vizio, e non arrossisce ; il rossore è
proprio della faccia umana. L' uomo consapevole del suo
difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia
umana e dicesi sfacciato o sfrontato. Qui la caricatura
uccide sé stessa, il comico giunto alla sua ultima punta
si scioglie ; e n' esce un sentimento di supremo disgusto
e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abbie-
zione predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto
un sentimento che tocca quasi V orrore. Qui Dante è nel
suo campo. Il suo eroe è Vanni Pucci. Mastro Adamo
è come animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni
Fucci ha avuto la coscienza e l'ha soffocata; sono i due
estremi nella scala del vizio; l'uno non è mai salito fino
all' uomo ; l'altro è passato per l' uomo ed è ricaduto nella
bestia. Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e
scegUe le circostanze più acconcie a darvi risalto:
Vita bestiai mi piacque e non umana,
Siccome a mul eh' io fui. Son Vanni Fucci
Bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
Ecco r uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo di Male-
bolge, r umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.
Ma r umano non muore mai in tutto. L' uomo diviene
bestia, ma la bestia torna uomo. E con senso profondo
Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci sco-
perto ladro gitta il rossore della vergogna :
E di trista vergogna sì dipìnse.
L' uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergo-
gna, in luogo di mostrarlo al naturale, ciò che produce
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la caricatura cerca occultarlo sotto contraria apparenza:
il poltrone fa il bravo. Nasce il contrasto tra V essere e
il parere : la situazione divien comica, e la sua forma è
r ironia. Lo spettatore indulgente e che vuole spassarsi
a sue spese fìnge di crederlo e di secondarlo ; accetta
come seria 1' apparenza che si dà, anzi la carica ancora
di più; fa il bravo, ed egli lo chiama un Orlando; ma
accompagnando le parole di un cotale ammiccar d' occhi
che esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce
in falsetto, di un riso equivoco, che vuol dire : io ti co-
nosco. Perciò r essenziale dell' ironia non è nell' imma-
gine , ma nel sottinteso : è il riflesso che succede allò
spontaneo ; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma
delicata, perchè lo spettatore alla vista del difetto ^he
altri cerca di mascherare , non sente collera , non gli
strappa la maschera dal viso, anzi se la mette egli stesso
e serba una compostezza e una pulitezza, equivoca ne' mo
vimenti e ne' gesti. Forma di tempi civili , assai rara
nelle età barbare e nelle poesie primitive. Dante, acci-
gliato, brusco, tutto di un pezzo, com' è ne' suoi ritratti,
ha troppa bile e collera, e non è buono né alla carica-
tilra, né all'ironia. Ma dalla sua fantasia d'artista è
uscita una di quelle creazioni, che sono le grandi sco-
perte nella storia dell' arte , un mondo nuovo : il nero
Cherubino, che strappa a san Francesco l'anima di Guido
da Montefeltro, é il padre di Mefistofele. Egli crea il dia-
volo, gli dà il suo concetto e la sua funzione. Il diavolo
è l'ironia incarnata; non ci è uomo tanto briccone che
il diavolo non sia più briccone di lui, e capite che non
è disposto a guastarsi la bile per le bricconerie degli uo-
mini. L' uomo può ingannare un altro uomo, ma non può
ficcarla al diavolo, perchè il diavolo nel suo senso poe-
tico è lui stesso, la sua coscienza che risponde con un'alta
risata a' suoi sofismi , e gli fa il contro -sillogismo, e gli
dice beffandolo :
F. De Sauctis. — Lett. Ital. Vul. I. 14
- 210 —
Forse
Tu non sapevi ch'io loico fossi!
Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto
è sublime quando offende il nostro senso morale ed este-
tico e ci gitta in violenta reazione. Scoppia la collera,
r indignazione, l'orrore : il comico è immediatamente sof-
focato. Quando veggo un difetto rivelarsi all' improvviso,
uso la caricatura. Quando veggo un difetto che cerca
mascherarsi, prendo la maschera anch' io e uso V ironia.
Ma quando quel difetto mi offende, mi sfida, mi provoca,
si mette dirimpetto a me come contraddizione al mio intir
mo senso, la mia coscienza cosi audacemente negata e con-
traddetta reagisce : io strappo al vizio la maschera e lo
mostro qual è, nella sua laida nudità. La caricatura e
r ironia si risolvono in una forma superiore, il sarcasmo,
la porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rien-
triamo nella grande poesia.
Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma per
morire ; nasce la caricatura , ed è guastata ; spunta la
maschera ed è strappata. E la morte viene da questo che
nella forma sarcastica del brutto ci è l'idea che l'uccide, il
suo contrario. Nel canto de' simoniaci il sarcasmo fa la sua
splendida apparizione. Il comico muore sotto l'ira di Dante.
L' antitesi tra quello che è di fuori e quello che è nella
sua anima scoppia in ravvicinamenti innaturali, come cal-
cando i tuoni e sollevando i pravi. Dio d' oro e d'ar-
gento; e spesso in parole a doppio contenuto , che è la
immagine del sarcasmo. Tale è la parola rimasa prover-
biale, con che è qualificata la servilità della Chiosa. Pa-
rimente chiama adulterio la simonia, e idolatria 1' ava-
rizia, parole, nelle quaU entrano come elementi la santità
del matrimonio e il vero Dio; in una sola immagine e' è
il brutto e ci è l'idea che lo condanna.
Ma il sarcasmo dee purificare e consumare sé stesso.
— 211 —
Finche rimane nel particolare e nel personale, il linguag-
gio è acre, bilioso ; hai Giovenale e Menzini. Il poeta ,
non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee
spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare Y orizzonte, es-
sere eloquente, voce di verità, espressione impersonale
della coscienza. Certo, in quel canto de' simoniaci vive
immortale la vendetta dell' uomo ingannato che anticipa
a Bonifazio l' inferno, e del ghibellino e del cristiano che
vede nel papato temporale una pietra d' inciampo e di
scandalo. Ma i sentimenti e le passioni personali se hanno
ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua
fantasia , non penetrano nella rappresentazione. Bisogna
sapere la storia per indovinare i terribili incentivi del-
l' alta creazione. Ciò che qui senti, è la convinzione, la
buona fede del poeta, la sincerità e l' impersonaUtà della
sua collera : onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta
magnificenza d' immagini e di concetti. Prima Dante è in
collera con Niccolò, pinto in pochi tratti vano, piccolo,
col cervello e co' sensi nel piede. E comincia col tu, e
V assale corpo a corpo, con ironia amara che si trasfor-
ma nel pugnale del sarcasmo:
E guarda ben la mal tolta moneta
Oh' esser ti fece contro Carlo ardito.
Ma nel pendio dell'ingiuria si contiene d'un tratto,
passaggio meritamente ammirato; la piccola persona di
Nicolò scomparisce ; sottentra il voi, i papi, il papato;
le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di ener-
gia, e da ultimo la collera svanisce in una certa tri-
stezza pura di ogni stizza; è deplorare, non è più uà
inveire :
Ahi Costantin, di quanto mal fu matre
Non la tua conversion, ma quella dote
Che da te prese il primo ricco patrel
— 212 —
Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici
concezione delle più originali, dove il comico è posto ed
è sciolto. Poco felice nel maneggio delle forme comiche,
il poeta è insuperabile, quando se ne sviluppa, mutato
il riso in collera, come nella sua invettiva, nella pena
di Bertram dal Bormio, nella rappresentazione di Vanni
Fucci. Rimane un fondo comico che aspetta ancora il sua
artista. Pure m quella materia appena formata vive im-
mortale il suo nero cherubino.
Nel pozzo de' traditori la vita scende di un grado più
giù: r uomo bestia diviene 1' uomo ghiaccio, 1' essere pe-
trifìcato, il fossile. In questo regresso dell' inferno, in que-
sto cammino a ritroso dell' umanità siamo giunti a quei
formidabili inizii del genere umano, regao della materia
stupida, vuota di spirito, il puro terrestre, rappresentato
ne' giganti, figli della terra, nella loro lotta contro Giove,
natura celeste e spirituale, inferiore di forza fìsica, ma
armato del fulmine :
Cui Giove
Minaccia ancor dal cielo quando tuona.
Con questo mito concorda la storia biblica degli an-
geli ribelli. Qui all' ingresso trovi i giganti ; alla fine Lu-
cifero: mitologia e bibbia si mescolano, espressioni della
stessa idea. La lotta è finita ; i giganti sono incatenati;
Lucifero e immenso e stupido carname, il gradino infi-
mo nella scala de' demoni. Il gigantesco è la poesia della
materia; ma qui, vuoto e inerte, è prosa. Tra' giganti
e Lucifero stanno i dannati fìtti nel ghiaccio. Le acque pu-
tride di Malebolge , ventate dalle enormi ah di Lucifero,
si agghiacciano, s' indurano, diventano mare di vetro , di
dentro a cui traspariscono come festuche i traditori con-
tro i congiunti nella Caina, contro la patria nell'Ante-
nora, contro gli amici nella Tolomea, e contro i bene-
fattori nella Giudecca.La pena è una, ma graduata secondo
^ 213 —
il delitto. Il movimento si estingue a poco a poco , la vita
si va petrificando, finché cessa in tutto la lacrima, la
parola e il moto. L'immagine più schietta di questo mondo
cristallizzato è il teschio dell'Arcivescovo Ruggieri, ina-
nimato e immobile sotto i denti di Ugolino.
L' Ugolino è una delle più straordinarie e interessanti
fantasie. È per lui che la vita e la poesia entra in que-
sto mare morto, dove la natura e il demonio e 1' uomo
è materia stupida e senza interesse. Come concetto mo-
rale, il tradimento è la colpa più grave ; ma qui manca
r organo della colpa, il grido della coscienza sembra ag-
ghiacciato insieme col colpevole. Questo grido può uscire
dal petto concitato di Dante, spettatore, come è già av-
venuto in Malebolge , dove l' invettiva di Dante risolve
il comico. Qui ci è di meglio. Tra questi esseri petrifi-
cati Dante gitta il suo Ugolino ghiacciato come gU al-
tri, come traditore egli pure, ma col capo sul capo di
Ruggieri, perchè insieme egU è il suo tradito, e il suo
carnefice. E la vittima che qui alza il grido contro il
traditore, e gli sta eternamente co' denti sul capo^ sa-
ziando in quello il suo odio , istrumento inconscio della
vendetta di Dio. Cosi è nato T Ugolino, il personaggio
più ricco, più moderno, più popolare di Dante, dove 1' a-
nalisi è più profonda e più sviluppata, nelle sue straor-
dinarie proporzio-ni cosi umano e vero.
Prendete ora una carta topografica dell'inferno, e guar-
date questa piramide capovolta, a forma d' imbuto. Ve-
dete r immensa base alla cima, senza figura altra che di
cerchi, fra le tenebre eterne, e poi quei cerchi prendon
figura di città rosseggiante di fiamme, e la città di bol-
gia putrida e puzzolenta , e la bolgia di pozzo entro il
quale è petrificata la natura; in cima V infinito, alla fine
il tristo buco sopra il qual pontan tutte le altre rocce ;
e voi avete cosi l' immagine visibile di questo inferno
estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo entu-
-. 214 —
sìa^^mo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario, il
feroce, V orribile, finché da' più bassi fondi della società
sale su il laido, l'abbietto e il plebeo. Questa decompo-
sizione e depravazione successiva della vita è 1' inferno.
L' inferno è l'uomo compiutamente realizzato come in-
dividuo, nella pienezza e- libertà delle sue forze. E può
misurare la grandezza dell' opera , chi vede gli abbozzi
di Dino Compagni o lo scarno Ezzelino, o le rozze for-
mazioni de' misteri e delle leggende. L' individuo era an-
cora astratto e impigliato nelle formole, nelle allegorie
e neir ascetismo. In quelle vuote generalità ci è la donna
e l'uomo, come genere, come simbolo, come l'anima;
manca l' individuo. E manca tanto, che spesso non ha un
nome, ed è la mia donna, o un giovine, un santo uomo.
Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo dell'arte
fra tante liriche e leggende. Dante volea scrivere il mi-
stero dell'anima; si cacciò tra allego rie e formole, ed ecco
uscirgli dalla fantasia V individuo, valente e possente, nel
rigoglio e nella gioventù della forza, spezzato il nocciolo
dove lo avea chiuso il medio evo. I pittori disegnavano
santi e cupole ; i filosofi fantasticavano suU' ente; i hrici
platonizzavano; gli ascetici contemplavano e pregavano;
Dante pensava l'inferno; e là tra' furori della carne e l'in-
furiar delle passioni trovava la stofi'a di Adamo, l'uomo
com'è impastato, con la sua grandezza e con la sua mi-
seria , e non descritto , ma rappresentato e in azione ^
e non solo ne' suoi atti, mai ne' suoi motivi più intimi.
Così apparve suU' o rizzonte poetico Francesca, Farinata,
Cavalcanti, la Fortuna, Pier delle Vigne , Brunetto, Ca-
paneo, Ulisse, Vanni Fucci, il nero Cherubino, Niccolò III,
e Ugolino. Tutte le corde del cuore umano vibrano. Vedi
attorno a questa schiera d' immortali , turba infinita di
popolo nella maggior varietà di attitudini , di forme , di
sentimenti, di carattere, che ti passano avanti, alcuni ap-
pena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati in fronte
— 215 —
di qualche frase indimenticabile, che li eterna, come Tai-
de, iMosca, Giasone, Omero , Aristotile , papa Celestino,
Bonifazio, Clemente, Bruto, Bocca degU Abati, Bertram
dal Bormio.
Nel regno de' morti si sente per la prima volta la vita
nel mondo moderno. Come è bella la luce, il dolce lume, a (\
Cavalcanti! Quanta malinconia è 'in quella selva de' sui-
cidi, spogliata del verde! Come è commovente Brunetto,
che raccomanda a Dante il suo Tesoro, e Pier delle Vi-
gne che gli raccomanda la sua memoria ! Come ride quel
giardino del peccato innanzi a Francesca ! Col vivo sen-
timento della dolce vita, della bella natura, e accompa-
gnato il sentimento della famiglia. Quel padre che cade
supino, udendo la morte del figlio, e Ugolino che dan-
nato a morire di fame guarda nel viso a' figliuoli, e An-
s Imuccio che gli domanda: che hai? e Gaddo che gli
dice: perchè non mi ajuti? sono scene solitarie della poe-
sia italiana. Ciascuno è in una situazione appassionata. I
sentimenti spinti alla punta idealizzano e ingrandiscono
gli oggetti. Tutto è colossale, e tutto è naturale. E in
mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più vivente di / J
tutti, pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, ven-
dicativo, feroce, col suo elevato sentimento morale, col
suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa,
col suo dispregio del vile e dell' ignobile, alto sopra tanta
plebe, C0.SÌ ingegnoso nelle sue vendette, cosi eloquente \
nelle sue invettive.
Queste grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed
epiche come statue, attendono l'artista che le prenda
per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia
esseri drammatici. E 1' artista non fu un italiano ; fu
Shak^ispeare.
Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta in quella
età della vita che le passioni si scoloriscono e l'esperienza
0 il disiganno tolgono le illusioni, e scemata la parte
— 216 —
attiva e personale, Y uomo si sente generalizzare, si sente
più come genere che come individuo. Spettatore più che
attore, la vita si manifesta in lui non come azione, ma
come contemplazione artistica, filosofica, religiosa. In quella
calma delle passioni e de' sensi era posto l' ideale antico
del Savio, 1' ideale nuovo del Santo, fuso insieme in quel
Catone, che Dante chiama nel Convito anima nobihssi-
ma e la più perfetta immagine di Dio in terra. Catone
è il savio antico, pinto come i filosofi , con quella sua
lunga barba, in quella calma e gravità della sua deco-
rosa vecchiezza:
De^^no di tanta riverenza in vista,
Che più non dee a padre alcun figliuolo.
Ma è qualcosa di più; è il savio battezzato e santi-
ficato, con la fronte radiante, illuminata dalla grazia, si
che pare un sole. Virgilio non comprende questo savio
cristianizzato, e parla al Catone di sua conoscenza, ri-
cordando la sua virtù, la sua morte per la libertà, la
sua Marzia. E il nuovo Catone risponde : Marzia, che piac-
que tanto agli occhi miei, non mi move più; ma se donna
del cielo ti guida, non ci è mestier lusinga:
Bastiti ben che per lei mi richieggo.
Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo
doppio ideale è reahzzato, il mondo di Catone o della li-
bertà, dove lo spirito si svildppa dalla carne e cerca la
sua libertà:
Libertà va cercando eh' è si cara,
Come sa chi per lei vita rifiuta.
Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma,
altro stile. Non è più F Ihade , è V Odissea , è un nuovo
poema. Paragonare inferno e purgatorio, e maravigUarsi
che qui non sieno le bellezze ammirate c^^à gU è come
— 217 —
maravigliarsi che il Purgatorio sia purgatorio e non in
ferno. 0 se pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa,
maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiu-
tamente dimenticare V antico sé stesso , le sue abitudini
di concepire, di disporre, di colorire, e seppellito in que-
sto nuovo mondo ricrearsi l'ingegno e la fantasia a quella
immagine, e con tanta spontaneità che pare non se ne
accorga : obblio dell' anima nella cosa , il secreto della
vita, dell' amore e del genio.
L' inferno è il regno della carne che scende con co-
stante regresso sino a Lucifero. Il purgatorio è il regno
dello spirito che sale di grado in grado sino al Para-
diso. È là che si sviluppa il mistero, la commedia del-
l' anima, la quale dall' estremo del male si riscote e si
sente e mediante 1' espiazione e il dolore si purifica e si
salva. Onde con senso profondo il purgatorio esce dal-
l' ultima bolgia infernale, e Lucifero , principe delle te-
nebre, è quello stesso per le spalle del quale Dante sa-
lendo esce a riveder le stelle.
Ci è un avanti -purgatorio , dove la carne fa la sua
ultima apparizione. Il suo potere non è più al di dentro ;
r anima è già libera : della carne non resta che la mala
abitudine. Gradazione finissima e altamente comica, dalla
quale è uscito l' immortale ritratto di Belacqua, carica-
tura felicissima nella figura, ne' movimenti, nelle parole,
e tanto più comica quanto più Belacqua si sforza di ri-
maner serio, usando un' ironia che si volge contro di lui.
Questo avanti-purgatorio è quasi una transizione tra
r inferno e il purgatorio ; il peccato vi è e non v' è; è
ancora nell'abitudine, non è più nell'anima; il demonio
ci sta sotto la forma del serpente d' Eva, involto tra le
erbe e i fiori, cacciato via da due Angioli dallo vesti e dalle
ah di color verde, simbolo della speranza. Comparisce
per scomparire, quasi per far testimonianza che se ne va
dalla scena per sempre. Innanzi alla porta del purgato-
— 218 —
rio scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne
gran parte di poesia se ne va.
L'anima non appartiene più alla carne, ma V ha avuta
una volta sua padrona e se ne ricorda. La carne non è
più una realtà come nell' inferno , ma una ricordanza. Nei
sette gironi, rispondenti a' sette peccati mortali, le ani-
me ricordano le colpe per condannarle ; ricordano le virtù
per compiacersene.
Quel ricordare le colpe non è se non T inferno che ri-
comparisce in purgatorio per esservi giudicato e condan-
nato ; quel ricordare le virtù non è se non il paradiso
che preluce in purgatorio per esservi desiderato e va-
gheggiato : r inferno ci sta in rimembranza ; il paradiso
ci sta in desiderio. Carne e spirito non sono una realtà;
la tirannia della carne è una rimembranza; la hbertà
dello spirito è un desiderio.
Poiché la realtà non è più in presenza, ma in imma-
ginazione, essa vi sta non come azione rappresentata e
drammatica, ma come immagine dello spirito, a quel modo
che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle cose
non presenti, e pingiamo al di fuori quello spettro della
mente. Questa realtà dipinta vien fuori nelle pareti e nei
bassi riUevi del Purgatorio. Neil' Inferno e nel Paradiso
non sono pitture, perchè ivi la realtà è natura vivente,
è r originale, di cui nel purgatorio hai il ritratto. Inferno
e paradiso sono in purgatorio , ma in pittura , come il
passato e l'avvenire delle anime, non presente agli oc-
chi, ma all' immaginativa. Quelle pitture sono il loro me
mento, lo spettacolo di quello che furono, di quello che
sarannno, che le stimola, mette in attività la loro mente,
si che ricordano altri esempli e si affinano, si purgano.
Siamo dunque fuori della vita. Le passioni tornano in-
nanzi alle anime, ma non sono più le loro passioni, sono
fuori di esse, contemplate in sé o in altri con 1' occhio
dell' uomo pentito. Anche le virtù sono estrinseche alle
— 219 —
anime, contemplate al di fuori come esempli e ammae-
stramenti. Le anime sono spettatrici, contemplanti, non
attrici. Passioni buone o cattive non sono in presenza e
in azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in
intagli e pitture.
Questa concezione così semplice e vera nella sua pro-
fondità è la pittura e la scoltura , V arte dello spazio ,
idealizzata nella parola e fatta poesia. Perchè il poeta
non dipinge, ma descrive il dipinto. La parola non può
riprodurre lo spazio che successivamente, e perciò è inef-
ficace a darti la figura, come fa il pennello e lo scarpello.
Né Dante si sforza di dipingere, entrando in una gara
assurda col pittore. Ma compie e idealizza il dipinto, mo-
strando non la figura, ma la sua espressione e impres-
sione : dinanzi all' immaginazione la figura diviene mo-
bile, acquista sentimento e parola. Le aguglie di Trajano
in vista si movono al vento ; la vedovella è atteggiata
di lagrime e, di dolore; nell'attitudine di Maria si legge :
Ecce Anelila Dei; V angiolo intagliato in atto soave non
sembrava immagine che tace :
Giurato si saria eh' ei dicesse Ave.
Davide ballando sembra più e meno che Re; e gh sta
di contro Micol, che ammirava,
Siccome donna dispettosa e trista.
Erano i tempi di Giotto; e parevano maravigliosi quei
primi tentativi dell' arte. Quest' alto ideale pittorico di
Dante fa presentire i miracoli del peimello italiano. Il
poeta aveva innanzi all'immaginazione figure animate,
parlanti, dipinte da Colui, che mai non vide cosa nuova,
ben più vivaci che non gliele potevano offrire i suoi con-
temporanei.
Più in là il dipinto sparisco ; senza aiuto di senso, por
— 220 —
sua sola virtù lo, spirito intuisce il bene e il male, ri-
corda i buoni e i cattivi esempli, vede da sé stesso e
in sé stesso. La realtà non solo non ha la sua esistenza,
come cosa sensata, il sensibile, ma neppure come figu-
rativa, in pittura ; diviene una visione diretta dello spi-
rito, che opera già libero e astratto dal senso. Nasce
un'altra forma dell'arte, la visione estatica. L'anima
vede farsi dentro di sé una luce improvvisa, nella quale
pullulano immagini sopra immagini come bolle d' acqua
che gonfiano e sgonfiano , e l' universo visibile si dile-
gua innanzi a questa luce interiore , di modo che il suono
di mille trombe non basterebbe a rompere la contem-
plazione. Dante trova forme nuove ed energiche ad es-
primere questo fenomeno. Le immagini piovono nell'alta
fantasia ; la mente è si ristretta
Dentro di sé, che di fuor non venia
Cosa che fosse allor da lei ricetta.
L'immaginativa ne rw&a di fuori, si che uom non s'ac-
corge :
Perchè d* intorno suonin mille tube.
L» anima volta in estasi ficca gh occhi nelF immagine
con ardente affetto :
Come dicesse a Dio: D'altro non calme.
Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di
Santo Stefano, un quadro a contrasto, dove tra la folla
inferocita che grida : martira martira , è la figura del
Santo, la persona già aggravata dalla morte e china
verso terra, ma gh occhi al cielo preganti pace e per-
dono; è il soprastare dell'anima nell' abbandono del corpo.
Siamo dunque in piena vita contemplativa. Il processo
della santificazione si sviluppa. Neil' inferno i tumulti e
le tempeste della vita reale appassionata dal furore dei
sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi,
— 221 —
in quel mondo de' misteri e delle estasi, così popolare;
nel mondo di Girolamo, di Francesco d'Assisi e di Bo-
naventura, dove la pittura attingea le sue ispirazioni.
Nella visione estatica lo spirito ha già un primo grado
di santificazione, ha conquistato la sua libertà dal senso,
ha già il suo paradiso; ma è un paradiso interiore, im-
magine e desiderio , e non sarà realtà , paradiso reale ,
se non quando quella luce e quelle immagini vedute dallo
spirito entro di sé sieno fuori di sé, sieno cose, e non
immagini. Il purgatorio è il regno delle immagini, uno
spettro dell' inferno, un simulacro del paradiso.
Nella visione estatica la spirito è attivo e conscio: nel
sogno é passivo e inscio ; è una forma di divisione su-
periore, non solo senza opera del senso, ma senza opera
dello spirito; è visione divina, prodotta da Dio. Perciò
il sogno sa le novelle anzi che il fatto sia, e l' anima
Alle sue vision quasi è divina.
Nel sogno si rivela il significato delle visioni e della
apparenze del purgatorio. Che cosa significano quelle
pitture e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il
regno dell' intelletto e del vero , dove il senso è spo-
gliato delle sue belle e piacevoli apparenze; e mostrato
qual é, brutto e puzzolento. L' apparenza é una Sirena :
Io son, cantava, io son dolce Sirena,
Che i marinari in mezzo al mar dismago,
Tanto son di piacere a sentir piena.
Ma una donna Santa, la Verità, fende i drappi; e la mo
stra qual è, femmina balba e scialba, e mostra il ventre :
Quel mi svegliò col puzzo che ne usciva.
Vinto il senso e V apparenza, si presenta a Dante in
sogno r immagine della vita , non quale pare , ma qual
— 222 —
è, ]a vera vita a cui sospira e che cerca nel suo pel-
legrinaggio. E vede la vita nella prima delle due sue
forme, la vita attiva, lo affaticarsi nelle buone opere per
giungere alla beatitudine della vita contemplativa. La si-
rena è rozzamente abbozzata; manca a Dante il senso
della voluttà; senti nel verso stesso non so che intral-
ciato e stanco. Lia è una delle sue più fresche creazioni,
personaggio tipico così perfetto nel suo genere, come la
Fortuna. La sua felicità non è ancora beatitudine, come
è della suora^ che vive guardando Dio, il suo miraglio ;
ma appunto perciò è più interessante e poetica, più umana,
più vicina a noi questa bella fanciulla, che va tutta lieta
pel prato, e coglie fiori, e se ne fa ghirlanda e si mira
allo specchio. Tale è la prima immagine che il giovine
incontra sovente ne' suol sogni !
L' ultima forma sotto la quale si presenta la realtà
è la visione simbolica, dove la forma non significa più
sé stessa, ma un' altra cosa. Il purgatorio finisce tra' sim-
boli; è il paradiso che si offre all' anima sotto figura.
Cristo è un grifone, è il carro su cui sta è la Chiesa^
e Dante ha una serie di strane visioni, che rappresentano
simbolicamente la storia della Chiesa.
Cosi la realtà corpulenta e tempestosa dell' inferno si
va diradando è sottilizzando per trasformarsi nella vera
realtà, lo spirito o il paradiso. Questo processo di carne
a spirito è il purgatorio, dove la forma diviene pittura,
estasi, sogno, simbolo. Il simbolo già, non è più forma,
ma puro spirito, lavoro intellettuale. Sotto la figura ci
è la nuova e vera realtà, pronta a svilupparsene e com-
parire essa direttamente.
L' uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a que-
sto stato dell' anima. Il suo carattere è la calma interiore,
assai simile alla tranquilla gioia dell' uomo virtuoso che
nella miseria terrena sulle ali della fede e della speranza
alza lo spirito al paradiso. Le ombre sono contente nel
— 223 —
fuoco; gli affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro
d'inquietudine e d' impazienza. Ne nasce un mondo idil-
lico, che ricorda l'età dell'oro, dove tutto è pace e affetto,
e dove si manifestano con effusione le pure gioie dell'arte,
i dolci sentimenti dell'amicizia. In questo mondo di pit-
ture e scolture Dante si è coronato di artisti, Casella
Sordello, Guido Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Ar-
naldo Daniello, Oderisi, Stazio, e ne ha cavato episodii
commoventi^ che fanno vibrare le fibre più deHcate del
e iore umano. Ricorderò il suo incontro con Casella, e il
ritratto di Sordello, e i cari ragionamenti dell' arte con
Guinicelli e Buonagiunta, l' incontro di Stazio e Virgilio.
E un lato della vita nuova, pur così vero in tempi che
la vita intima della famiglia, dell' arte e dell' amicizia era
un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita
pubblica. Come tocca il core l'amicizia di Dante e di Fo-
rese, fratello di Corso Donati, il principale nemico di
Dante, e quel domandar eh' egli fa di Piccarda I I movi-
menti improvvisi dell'affetto e della maraviglia sono colti
con tanta felicità che rimangono anche oggi vivi nel po-
polo, come è r 0 lungo e roco delle anime che veggon
l'ombra di Dante, o il paragone delle pecorelle, e la calma
di Sordello a guisa di leon quando si posa, mutata
subito in un sì vivace impeto di affetto, e Stazio che
corre incontro a Virgilio per abbracciarlo, obliando di es-
sere un' ombra, e il cerchio dell' anime intorno a Dante,
quasi obliando d' ire a farsi belle, e Casella che se ne
spicca e si gitta tra le braccia di Dante:
0 ombre vane, fuor che nell* aspetto!
Tro volte dietro a lei le mani avvìnsi,
E tante mi tornai con esse al petto.
Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio
chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, al-
l' arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile
— 224 —
a' profani, è il mondo rappresentato nel purgatorio. Le
ricordanze de' casi anche più tristi sono pure di amarezza,
raddolcite dalle speranze dell'ultimo giorno. Manfredi non
ha una ingiuria per i suoi nemici, chiede perdono, ed ha
già perdonato.
Io mi rendei
Piangendo a quei che volentier perdona.
Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più
strazianti della sua morte con una calma e una serenità,
che diresti indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il
sentimento espresso in questi versi:
Nel nome di Maria finii, e quivi
Caddi, e rimase la mia carne sola.
Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore il
suo tempio domestico. Come è caro quel Forese con quel
Nella mia,
La vedovella mia che tanto amai !
E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che
si sono dimenticati di lui, e Manfredi vuol essere ricor-
dato a Costanza, e Jacopo a' suoi Fanesi, che pregassero
per lui ; la sola Pia non ha alcun nome nel suo santua-
rio domestico, e non ha che Dante che possa ricordarsi
di lei:
Ricordati di me, che son la Pia.
Questo mondo così affettuoso è penetrato di malinco-
nia, sentimento nuovo, che avrà tanta parte nella poe-
ria moderna, e generato qui, nel purgatorio. Questo sen-
timento ti prende a udir la Pia, così delicata nella soli-
tudine del suo core; eppure non era sola, e ricorda la
gemma, pegno d' amore. La tenerezza e delicatezza dei
sentimenti dispone V animo alla malinconia : perchè ma-
— 225 —
linconia non è se non dolce dolore, dolore raddolcito da
immagini care e tenere. Richiede perciò anime raccolte
che vivano in fantasia, sieno pensose, non distratte dal
mondo, chiuse nella loro intimità. La malinconia è il frutto
più delicato di questo mondo intimo. Come ti va al core
queir ora che incomincia i tristi lai la rondinella, presso
alla mattina, e quella squilla di lontano.
Che pare il giorno pianger che si muore,
e queir ora della sera che i naviganti partono e s'intene-
riscono pensando
Lo di che han detto a* cari amici : Addio !
Qui Dante gitta via l' astronomia che rende spesso cosi
aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le
dolcezze di una Natura malinconica. Tra le scene più in-
time, più penetrate di malinconia, è il suo incontro con
Casella. Cominciano espansioni di affetto. Nel primo im-
peto corrono ad abbracciarsi. Casella dice:
Così com' io t' amai
Nel mortai corpo, cosi t' amo sciolta.
Dante risponde : Casella mio ! E lo prega a voler cana-
tare, come faceva in vita, che col canto gU acquietava
r anima, e ora Y anima sua è cosi affannata. E Casella
canta una poesia di Dante, e Dante e Virgilio e le anime
fanno cerchio, rapite, dimentiche del purgatorio, sgridate
da Catone. Ma se Catone non perdona, perdonano le Muse.
Quest' obho del purgatorio , questa musica che ci ricon-
duce alle care memorie della vita, la terra che scende
nell'altro mondo e si impossessa delle anime, si che obliano
di essere ombre e vogliono abbracciare ^i amici, e pen-
dono dalla bocca di Casella , questo è poesia. Ci si sente
qua dentro la malinconia dell'esilio, l'uomo che giovine
ancora desiderava con la sua Bice e i suoi amici e le
De Sanotig - Lett. Ital.4Vol. I. 15
— 226 —
loro donne ritrarsi in un' isola e farne il santuario dei
suoi ajBTetti e obliarvi il mondo.
E e' è la malinconia propria del purgatorio, quel ve-
dere di là con mutati occhi le grandezze e gli affetti ter-
reni, quel disabbellirsi della vita, quel cadere di tutte le
illusioni.
Non è il mondan rumore altro che un fiato
Di vento, che or vien quinci e or vien quindi,
E muta nome perchè muta lato.
Una delle figure più interessanti è Adriano. AH' ultimo
della grandezza dice:
Vidi che là non ,si chetava il core,
Né più salir poteasi in quella vita :
Perchè di questa in me s' accese amore.
Questo Papa disilluso ha lunga e mala parentela, e sono
tutti morti per lui, eccetto la buona Alagia:
E questa sola m' è di là rimasa.
Quest' ultimo verso è pregno di malinconia.
Questa calma filosofica che fa guardare dall' alto del
purgatorio la vita e ne scopre il vano a il nulla, restringe
il circolo della personaUtà e della realtà terrena. Gli in-
dividui appariscono e spariscono, appena disegnati; hanno
la bellezza, ma anche la monotonia e l' immobihtà della
calma. Sono uomini che discutono e conversano in una
sala, più che uomini agitati e appassionati. I grandi in-
dividui storici, le grandi creature della fantasia scom-
pariscono.
Più che negU individui la vita si manifesta nei gruppi:
la vita qui è meno individuo, che genere. La comune
anima ha la sua espressione nel canto . Neil' inferno non
ci son cori ; perchè non vi è l' unità dell' amore. L'odio
è solitario; l'amore è simpatia e armonia; la musica e
997
il canto conseguono i loro effetti nella misurata varietà
delle voci e degl' istrumenti. Qui le anime sono esseri
musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, as-
sorte in uno stesso spirito di carità:
Una parola era in tutto e un modo, L-
Sicché parea tra esse ogni concordia.
Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e
inni, espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera,
di letizia, di lodi al Signore. Quando giungono al purga-
torio le odi cantare: In eccito Israel de Egipto. Giun-
gono nella valle, ed ecco intonare il Salve Regina. La
sera odi T inno: Te lucis ante terminum Rerum crea-
tor poscimus. Entrando nel Purgatorio, risuona il Te
Deum. Sono i salmi e gì' inni della chiesa, cantati se-
condo le varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime
parole. Ti par d' essere in Chiesa e udir cantare i Fe-
deU. Quei canti latini erano allora nella bocca di tutti,
erano cantati da tutti in chiesa ; il primo verso bastava
a ricordarli. Il poeta ha creduto bastar questo ad accen-
dere ne' petti l' entusiasmo religioso. E forse bastava al-
lora, quando quei versi suscitavano tante rimembranze
e immagini della vita religiosa. La poesia qui non è nella
rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi. Un
nome, una parola bastava in certi tempi a produrre tutto
r effetto : con quei tempi se ne va la loro poesia, e re-
stano cosa morta. Molte parti del poema dantesco, aride
liste di nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche,
allora così vive, oggi son morte. E tutta questa lirica
del purgatorio è cosa morta. Perchè Dante non crea dal
suo seno quei sentimenti, 'ma li trova belli e scritti nei
canti latini, e si contenta di dirne le prime parole. Pure
la situazione delle anime purganti è altamente lirica; la
loro personalità non è individuale, ma collettiva, e l'espres-
sione di quella comune anima svegliatasi in loro ò T onda
— 228 —
canora de* sentimenti. Qui mancò la vena e la forza al
gran poeta, e si rimise a Davide di quello ch'era suo
compito. Più che visioni e simboli e dipinti, la vita del pur-
gatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza,
di amore, di queir incendio interiore che rende le anime
affettuose, concordi in uno stesso spirito di carità. Ha
saputo còsi ben dipingerle queste aninà^g~^ardenti , che
s'incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate su versa
il cielo!
Li veggio d' ogni parte farsi presta
Ciascun' ombra, e baciarsi una con una,
Senza restar, contente a breve festa.
Cosi per entro loro schiera bruna
S' ammusa V una con V altra formica,
Forse a spiar lor via e lor fortuna.
E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i
loro sentimenti, non solo il vago e l' indeterminato, ma
anche il proprio e il successivo, ed essere il Davide del
suo purgatorio, lo mostra il suo paternostro, rimaso canto
solitario.
Le fuggitive apparizioni degli angeh sono quasi imnja-
gine anticipata del paradiso nel luogo della speranza. In
essi non è alcuna subbiettività : sono forme eteree ve-
stite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell'estasi,
e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine»
Tal che parea beato per iscritto. »
Verdi come foglietto pur mo' nate
Erano in veste, che da verdi penne
Percosse traean dietro e ventilate. »
Ben discernea in lor la testa bionda,
Ma nelle facce V occhio si smarria,
Come virtù che a troppo si confonda.. »
A noi venia la creatura bella
Bianco-vestita, e nella faccia quale
Par tremolando mattutina stella »•
— 229 —
]\Tolto per la pittura, poco per la poesia. Manca la pa-
rola, manca la personalità. Ci è il corpo dell'angiolo;
non ci è 1* angiolo. Nelle dolci note , tra quelle forme
d* angioli, 1' anima s' infutura, gusta le primizie del pia-
cere eterno. Di che prende qualità la natura del pur-
gatorio, una montagna, scala al paradiso, in principio
faticosa a salire.
E quando uom più va su, e men fa male.
Però quando ella ti parrà soave
Tanto che il su andar ti sia leggiero,
Come a seconda giù 1' andar con nave,
Allor sarai al fin d' esto sentiero.
Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa
dal sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco. La
prima impressione della luce uscendo dall' inferno, cava
a Dante questa bella immagine:
Dolce color d' orientai zaffiro
Che s' accoglieva nel sereno aspetto
Dell' aer puro infìno al primo giro,
Agli occhi mìei ricominciò diletto.
La natura è 1' accordo musicale e la voce di quel di den-
tro : qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un
solo universo hrico. Scena stupenda è nel canto settimo,
maravigliosa consonanza tra le ombre sedute, quete, che
cantano Salve Regina, e la vista allegra del seno er-
boso e fiorito dove stanno:
Non avea pur natura ivi dipinto,
Ma di soavità di mille odori
Mi faceva un incognito, indistinto.
Salve Regina in sul verde e in su' fiori
Quindi seder cantando anime vidi.
Le anime piangono e cantano; e il luogo alpestre è lieto
di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha
'.»
— 230 —
termine^ quando V anima si leva con libera volontà a mi-
glior soglia, tolte le schiume della coscienza , con pura
letizia. Cosi come nell'inferno si scende sino al pozzo
ghiacciato della morte , nel purgatorio si sale sino al
paradiso terrestre, immagine terrena del paradiso, dove
l'anima è monda del peccato o della carne, è rifatta bella
e innocente. Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusin-
ghi l'immaginazione; riso di cielo, canti di uccelli, va-
ghezza di fiori, e tremolar di fronde e mormorare di
acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con
tale austera misura, che non dà luogo a mollezza ed eb-
brezza di sensi, né il diletto turba la calma.
Il purgatorio è il centro di questo mistero o comme-
dia dell'anima; è qua che il nodo si scioglie. Dante più
che spettatore, è attore. Uscito dall' inferno, appena al-
l'ingresso del purgatorio, l'Angiolo incide sulla sua fronte
sette P, che sono i sette peccati mortali, che si pur-
gano ne' sette giorni. Da un girone all' altro una P scom-
parisce dalla fr-onte, finché van via tutte, e puro e rin-
novellato giunge al paradiso terrestre. Passa da uno stato
nell'altro in sonno, cioè a dire per virtù della grazia,
senza sua coscienza. È Lucia, nemica di ciascun cru-
dele, che lo pigha dormente e sognante , e lo conduce
in purgatorio. Cosi la storia intima dell' anima, i suoi
errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti, sono sto-
ria esterna e simbolica; il dramma è strozzato nella sua
culla. Là crisi del dramma, il punto in cui il nodo si
scioglie, è il pentimento, Tanima che si riconosce, e caccia
via da sé il peccato, e si pente e si vergogna e ne fa
confessione. A questo punto il dramma si fa umano^ e
ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che
ha fatto qui; ma una storia intima, personale, dramma-
tica dell' anima, com' è il Faust^ non era possibile in
tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.
Qui tutt' i lersonaggi del dramma si trovano a fronte.
— 231 —
Di qua Dante , Virgilio , Stazio ; di là Beatrice con gli
Angioli : in mezzo al rio che li divide , bipartito in due
fiumi, Lete, l'obblio, ed Eunoè, la forza. Nell'uno 1' a-
nima si spoglia della scoria del passato ; nell' altra at-
tìnge virtù di salire alle stelle.
L' alto fato di Dio sarebbe rotto
Se Lete si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata senz' alcuno scotto
Di pentimento che lagrime spanda.
Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto
del pentimento, e le passa all' altra riva, rifatte nell' an-
tico stato d'innocenza. E lo specchio dell' anima rinno-
vellata è Matilde, che danza e sceglie fiori, in sembian-
za ancora umana celeste creatura , con l' ingenua gio-
condità di fanciulla, con la leggerezza di una Silfide, col
pudico sguardo di vergine; il viso radiante di luce. Tale;
era Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento
di Matilde, il nunzio del paradiso terrestre.
La scena, dove questo mistero dell* anima si scioglie,
ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero litur-
gico, una di quelle sacre rappresentazioni che si face-
vano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e
ambulante di processione : sette candelabri , che a di-
stanza parevano sette alberi d'oro, e dietro gente ve-
stita di bianco che canta Osanna, e le fiammelle lascia-
no dietro di sé lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo
di luce sfila lu processione. Ecco a due a due i profeti
e i patriarchi dell'antico testamento, sono ventiquattro
seniori coronati di gìglio,
Tutti cantavano: Benedetta tue
Nelle figlie di Adamo, e benedette
Sieno in eterno le bellezze tue.
Segue la chiesa in figura di carro trionfale, a due ruoto
— 232 —
(i due testamenti), tra quattro animali (i quattro van-
geli), tirato da un Grifone, simbolo di Cristo ; a destra
Fede, Speranza e Carità; a sinistra Prudenza, Giustizia,
Fortezza e Temperanza, vestite di porpora; dietro due
vecchi, san Luca, e san Paolo, e dietro a loro quattro
in umile paruta, forse gli scrittori dell' epistole, e solo e
dormente san Giovanni dall'Apocalisse.
E diretro da tutti un veglio solo
Venir dormendo colla faccia arguta.
Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia
la rappresentazione. Virgilio guarda attonito, non meno
che Dante. Il senso di quella processione allegorica gli
sfugge. La missione del savio pagano è finita. Hai in-
nanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo co' suoi Pro-
feti e Patriarchi, co' suoi evangelisti e apostoli, co' suoi
libri santi.
Fermata la processione, una canta e gli altri ripeto-
no : Veni, Sponsa, de Libano, e sul carro si leva la mol-
titudine di angioli che cantano e gittano fiori.
Tutti dicèn : benedicius qui venis^
E fior gittando di sopra e dintorno,
Manibus o date lilla plenis.
Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido
velo, cinta d' oliva, sotto verde manto , vestita di colore
di fiamma; appare come la Madonna nelle processioni,
sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli. Dante
non la vede, ma la sente : è Beatrice.
Quest' apoteosi di Beatrice, questo primo apparire della
sua Donna ancora velata fra tanta gloria scioglie l' im-
maginazione dalla rigidità de' simboli e de' riti, e le dà
le libere ah dell' arte. Il dramma si fa umano; spuntano
le immagini e i sentimenti.
— 233 —
Io vidi già nel cominciar del giorno
La parte orientai tutta rosata,
E l'altro ciel di bel sereno, adorno •
E la faccia del Sol nascere ombrata,
Sicché per temperanza di vapori
L' occhio la sostenea lunga fiata :
Cosi dentro una nuvola di fiori,
Che dalle mani angeliche saliva
E ricadeva giù dentro e di fuori,
Sovra candido vel, cinta di oliva
Donna m' apparve sotto il verde manto,
Vestita di color di fiamma viva.
L' apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui
r astrattezza del sinabolo è superata. Ti senti innanzi ad
un' anima d' uomo. Quella donna è la sua Beatrice, V a-
more della sua prima giovinezza; e Virgilio è il dolcis-
simo padre che sparisce, quando più ne aveva bisogno,
quando era proprio come un fantolino in paura che si
volge alla mamma, e si volge, e non lo vede più e lo
chiama tre volte per nome nella mente sbigottita. Il mi-
stero liturgico si trasforma in un dramma moderno.
E lo spirito mio che già cotanto
Tempo era stato che alla sua presenza
Non era di stupor tremando afi'ranto,
Senza degli occhi aver più conoscenza,
Per occulta virtù che da lei mosse,
D' antico amor senti la gran potenza.
Tosto che nella vista mi percosse
L' alta virtù che già m' avea trafitto,
Prima eh' io fuor di puerizia fosse,
Volsimi alla sinistra, col respitto
Col quale il fantolin corre alla mamma,
Quando ha paura o quando egli è aiflitto,
Per dicer a Virgilio: Men che dramma
Di sangue m' è rimaso, che non tremi :
Conosco i sogni dell' antica fiamma.
— 234 —
Ma Virgilio ne avea lasciati scemi
Di sé, Virgilio dolcissimo padre,
Virgilio, a cai per mia salute dièmi.
Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per
introdurre in iscena Beatrice :
Dante, perchè Virgilio se ne vada,
Non pianger anco, non piangere ancora,
Che pianger ti convien per altra spada.
Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chia-
ma per nome.
Guardami ben : ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti ai ascendere al monte ?
Non sape' tu che qui è 1' uom felice?
E gli occhi cadono nella fontana, e non sostenendo la pro-
pria vista, cadono suU' erba :
Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
Ma veggendomi in esso, io trassi all' erba :
Tanta vergogna mi gravò la fronte.
Qui è la prima volta e sola che un' azione è rappre-
sentata nel suo cammino e nel suo svolgimento , come
in un mistero, e Dante vi rivela un ingegno dramma-
tico superiore. I più intimi e rapidi movimenti dell'ani-
mo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono
perfettamente disegnati; gli Angioli fanno coro e inter-
vengono. La scena è rapida, calda, piena di movimenti
e di gradazioni fine e profonde. La vergogna di Dante
senza lagrime e sospiri giunge a poco a poco sino al
pianto dirotto. Dapprima sta li più attonito che com-
punto, ma quando gli Angioli nel loro canto hanno aria
di compatirgh, come se dicessero : Donna perchè lo stem-
pre? scoppia il piano. Quello che non potè il rimpro-
vero, ottiene ii compatimento. Gradazione vera e prò-
— 235 —
fonda e rappresentata con rara evidenza d* immagino.
Instando Beatrice: di, di, se questo è vero, tra con-
fusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un tale
si dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:
Al quale intender fur mestier le viste.
I sentimenti dell' animo scoppiano con tanta ingenuità e
naturalezza, che rasentano il grottesco ; quando Beatrice
dice : Alza la barba , il nostro dottore con linguaggio
della scuola riflette :
E quando per la barba il viso chiese,
Ben conobbi il velen dell' argomento.
II berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo
di Dante fra le lagrime e i sospiri, e dà a questa magni-
fica storia del cuore un colorito locale.
Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatri-
ce. Qui non ci è dialogo : è lei che parla : le risposte di
Dante sono le sue emozioni. Pure non ci è monotonia,
né declamazione; tutto esce da una situazione vera e
finalmente analizzata. Regalmente proterva, la sua se-
verità è raddolcita poi dal canto degli AngioU. Beatrice
non parla più a Dante ; parla agli Angioli e narra loro
la storia di Dante. La situazione diviene meno appassio-
nata, ma più elevata; mai la poesia non si era alzata a
un linguaggio si nobile; lo spiritualismo cristiano trovava
la sua musa:
Quando di carne a spirto era salita,
E bellezza e virtù cresciuta m' era,
Fui io a lui meii cara e men gradita
E torso i passi suoi per via non vera,
Immagini di ben seguendo false,
Che nulla proraission rendono intera.
Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale,
— 236 —
stringente, implacabile nella sua logica. È una sola idea
sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante
una risposta. Sei uomo, hai la barba: come potesti pre-
ferire a me le cose fallaci della terra, o pargoletta, o
altra vanità per si breve uso ? E quando Dante potè
formare la voce, viene la risposta:
le presenti cose
Col falso lor piacer volser miei passi,
Tosto che il vostro viso si nascose.
Come si vede , è 1' antica lotta tra il senso e la ra-
gione che qui ha il suo termine; è la vita tragica del-
l' anima fra gli errori e le battaglie del senso che qui
si scioglie in commedia, cioè in lieto fine, con la vitto-
ria dello spirito. L' idea è più che trasparente, è mani-
festata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma la
idea è calata nella realtà della vita e produce una vera
scena drammatica^ con tale fusione di terreno e di ce-
leste, di passione e di ragione, di concreto e di astratto,
che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi il
dramma spagnuolo.
Dante pentito, tuffato nel fiume Lete, è menato a Bea-
trice dalle Virtù, sue ancelle:
Noi Sem qui Ninfe; e in ciel semo stelle;
Pria che Beatrice discendesse al mondo.
Fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti agli occhi suoi.
E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che
possa rendere quello che Dante vede, quello che sente :
0 splendor di viva luce eterna,
Chi pallido si fece sotto V ombra
Si di Parnasso, e bevve in sua cisterna,
Che non paresse aver la mente ingombra,
Tentando a render te, qual tu paresti
— 231 —
Là dove armonizzando il del ti adombra.
Quando nell' aere aperto ti solvesti ?
Compiuta la rappresentazione, ricomincia la proces^
sione sino all' albero della vita, dove, antitesi a questa
chiesa gloriosa di Cristo, apparisce in visione allegorica
la Chiesa terrena, trafìtta dall' impero, travagliata dal-
l' eresia, corrotta dal dono di Costantino, smembrata da
Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del Re
di Francia. Concetto stupendo, questo apparire della vita
terrena nelF ultimo del purgatorio, germogliata dall' al-
bero infausto del peccato di Adamo. Il terreno appari-
sce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in
realtà ma in ricordanza. Siamo già alla soglia del Pa-
radiso.
Cosi finisce questa processione dantesca, una delle con-
cezioni più grandiose del poema, anzi in sé sola tutto
un poema, dove ci vediamo sfilare davanti tutt' i grandi
personaggi della Chiesa celeste, immagine anticipata del
regno di Dio, un' apoteosi del cristianesimo, entro di cui
si rappresenta il più alto mistero liturgico, la commedia
dell' anima. "^^
Questa processione do"V% far molta impressione in quei
tempi delle processioni, de' misteri e delle allegorie, quan-
do gh angeli, le virtù e i vizii, e Cristo e Dio stesso
entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere litur-
gico e simbolico^ che qui scema in gran parte la bel-
lezza della poesia; Questo difetto nuoce soprattutto nella
rappresentazione della chiesa terrena, dove 1' aquila, la
volpe e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoli-
scono un concetto cosi magnifico^ una storia cosi inte-
ressante.
Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il me
appare nella Città di Dio, di santo Agostino, e ne man-
— 238 —
tovano Sordello, e sentendo Virgilio esser di Mantova,
esce dalla sua calma di leone :
o Maritavano,
Io son Sordello, E 1' un 1' altro abbracciava.
E Dante pensa alla sua Firenze, dove
r un r altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.
Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contra-
sto impetuoso, eloquente, e n' esce una poesia tutta cose,
dove si riflettono i più diversi movimenti dell' animo, il
dolore, lo sdegno, la pietà, V ironia, una calma tristezza.
Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza. Quan-
do la vita si disabbella ai nostri sguardi, quando le vol-
giamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degli affetti
domestici tra la famiglia e gli amici , nelle opere del-
l' arte e del pensiero, il purgatorio ci s' illumina di viva
luce e diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte de-
licate bellezze, una gran parte di noi. Fu il libro di La-
mennais, il Balbo, di Schlosser.
Viene il Paradiso. Altro concetto, altra vita, altre
forme.
Il paradiso è il regno dello spirito, venuto a libertà
emancipato dalla carne o dal senso, perciò il sopra sen-
sibile, 0 come dice Dante, il trasumanare, il di là dal-
l' umano. È quel regno della filosofia , che Dante volea
realizzare in terra, il regno della pace, dove intelletto,
amore e atto sono una cosa. Amore conduce lo spirito
al supremo intelletto, e il supremo intelletto è insieme
supremo atto. La Triade è insieme unità . Quando l'uomo
è alzato dall' amore fino a Dio, hai la congiunzione del-
l' umano e del divino, il sommo bene, il Paradiso.
Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta,
è una forma della vita umana. Ci è nel nostro spirito
- 239 —
un dì là, ciò che dicesi il sentimento dell' infinito, la cui
esistenza si rivela più chiaramente alle nature elevate.
L* arte antica avea materializzato questo di là, uma*
nando il cielo; e la filosofìa partendo dalle più diverse
direzioni era giunta a questa conclusione pratica , che
r ideale della saggezza e perciò della felicità è posto nella
eguaglianza dell' anima, ciò che dicevasi apatia, affran-
camento dalle passioni e dalla carne: pagana tranquil-
lità che vedi nelle figure quiete e serene e semplici del-
l' arte greca.
Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del
limbo :
Parlavan rado con passi soavi :
Sembianza avean né trista né lieta.
Virgilio n' è il tipo più puro, le cui impressioni vanno
<li rado al di là di un sospiro, o di un movimento tosto
represso. Questa calma è la fìsonomia del purgatorio, il
carattere più spiccato di quelle anime , dove V aspira-
zione al cielo è senza inquietudine, sicuro di salirvi quan-
dochessia. Ma già in quelle anime penetra un elemento
nuovo, r estasi, il rapimento, la contemplazione ; ci sta
Catone, ma irradiato di luce.
Col cristianesimo s' era restaurato nello spirito que-
sto inquieto di là, e divenne in breve molta parte della
vita, anzi la principale occupazione della vita. E si svi-
luppò un' arte e una letteratura conforme. Chi vede gli
ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San
Marco e di San Giovanni Laterano, o le facce estatiche
de' Santi consumati dal fervore divino ha imlianzi stam-
pato il tipo di questo uomo nuovo. Quel di là, il cele-
ste, il divino, appare su quelle facce, come appare nella
Città di Dio di santo Agostino , e nella Dieta salutis
di san Bonaventura. A questa immagine avea composta
— 240 —
la sua Gerusalemme celeste Frate Giacomino da Ve-
rona nel secolo decimoterzo.
Questo di là, intraveduto nelle estasi, ne' sogni nelle
visioni, nelle allegorie del Purgatorio, eccolo qui nella
sua sostanza, è il Paradiso. Il quale intraveduto nella
vita ha una forma, e può essere arte; ma non si con-
cepisce come veduto ora nella sua purezza, come regno
dello spirito, possa avere una rappresentazione. Il para-
diso può essere un canto lirico, che contenga non la de-
scrizione di cosa che è al di sopra della forma, ma la
vaga aspirazione dell' anima « a non so che divino », ed
anche allora V obbietto del desiderio, pur rimanendo un
incognito indistinto, ricove la sua bellezza da immagini
terrene, come \i^ Asjpir azione e nel Pellegrino di Schil-
ler e in questi bei versi del purgatorio, imitati dal Tasso :
Chiamavi il cielo e intorno vi si gira.
Mostrandovi le sue bellezze eterne.
Per render artistico il Paradiso, Dante ha immagi-
nato un paradiso umano, accessibile al senso e all'im-
maginazione. In paradiso non e' è canto , e non luce e
non riso , ma essendo Dante spettatore terreno del para-
diso, lo vede sotto forme terrene :
Per questo la scrittura condescende
A vostra facultade, e mani e piedi
Attribuisce a Dio e altro intende.
Cosi Dante ha potuto conciliare la teologia e 1' arte.
Il paradiso teologico è spirito, fuori del senso e dell' im-
maginazione , e dell'intelletto; Dante gli dà parvenza
umana e lo rende sensibile ed intelligibile. Le anime ri-
dono, cantano, ragionano come uomini. Questo rende il
paradiso accessibile all' arte.
Siamo all' ultima dissoluzione della forma. Corpulenta
e materiale neh' inferno, pittorica e fantastica nel pur-
— 211 —
gatorio, qui è lirica e musicale, immodiata parvenza dello
spirito , assoluta luce senza contenuto , fascia e cerchio
dello spirito non esso spirito. Il purgatorio come la terra,
riceve la luce dal sole e dalle stelle , e queste 1' hanno
immediatamente da Dio, sicché le anime purganti, come
gli uomini, veggono il Sole, e nel Sole intravvedono Dio,
offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di
luce; ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce
che move da lui senza mezzo:
Lume che a lui veder ne condiziona.
Adunque il paradiso è la più spirituale manifestazione
di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che
luce , di tutti gli affetti non altro che amore , di tutt' i
sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gh atti non
altro che contemplazione. Amore , beatitudine , contem-
plazione prendono anche forma di luce; gli spiriti si scal-
dano ai raggi d' amore ; la beatitudine o letizia sfavilla
negli occhi e fiammeggia nel riso ; e la verità è sicco-
me in uno specchio dipinta nel cospètto eterno:
Luce intellettual, piena d' amore,
Amor di vero ben pien di letizia,
Letizia che trascende ogni dolzore.
Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la
luce; l'ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.
Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progres-
so , come r inferno e il purgatorio. È una progressiva
manifestazione dello spirito o di Dio in una forma sem-
pre più sottile sino al suo compiuto sparire, manifesta-
zione ascendente di Dio che risponde a' diversi ordini o
gradi di virtù. Sali di stella in stella, come di virtù in
virtù, sino al cielo empireo, soggiorno di Dio.
Ad esprimere queste gradazioni unica forma è la luce.
Perciò non hai qui, come nell'inferno o nel purgatorio,
D* Sanotis — I.eU. Ita). Vol.I. 16
— 242 —
differenze qualitative , ma unicamente quantitative , un
più e un meno. Prima la luce non è così viva che celi
la faccia umana; più si sale e più la luce occulta le forme
come in un santuario. Come è la luce, cosi è il riso di
Beatrice, un crescendo superiore ad ogni determinazione;
la fantasia formando non può seguire l'intelletto che di-
stingue. Bene il poeta vi adopera l'estremo del suo in-
gegno, conscio della grandezza e difficoltà dell' impresa:
L'acqua che io prendo giammai non si corse;
Minerva spira e conducemi Apollo,
E nuove Muse mi dìmostran l'Orse.
Dapprima caldo di questo mondo , sua fattura , allet-
tato dalla novità o dal maravighoso de' fenomeni che gli
si affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine ;
poi quasi stanco diviene arido e da in sottigliezze ^ ; ma
lo vedi rivelarsi e poggiare più e più a inarrivabile al-
tezza, sereno, estatico; diresti che la difficoltà lo alletti,
la novità lo rinfranchi, l'infinito lo esalti.
Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, im-
mobile e che tutto move, centro dell'universo. Ivi sono
gli spiriti, ma secondo i gradi de' loro meriti e della loro
beatitudine appariscono ne' nove cieli che girano intorno
alla terra. La Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte,
Giove, Saturno, le stelle fisse e il Primo mobile. Ne' primi
sette cieli che sono i sette pianeti , ti sta avanti tutta
1 Ecco esempi di aridità e di sottigliezze:
e quale io allor vidi
Negli occchi santi amor, qui l'abbandono, (e. XVIII.)
E gli occhi avea di letizia si pieni,
Che passar mi convien senza costrutto, (e. XXXIII.)
E tal nella sembianza sua divenne
Qual diverrebbe Giove, s'egli e Marte
Fossero augelli e cambiasser penne, (e. XXVII.)
Poscia tra esse un lume si schiari,
Si che se il cancro avesse un tal cristallo.
Il verno avrebbe un mese di un sol di. (e. XXV.)
— 213 —
la vita tprrpna. Tua luna è una speno di avantì-parn-
diso. I negligenti aprono l'inferno e il purgatorio, e a-
prono anche il paradiso. E i negligenti del paradiso sono
i manchevoli non per volontà propria, ma per violenza
altrui. Il loro merito non è pieno , perchè mancò loro
quella forza di volontà che tenne Lorenzo sulla grata e
fé Muzio severo alla sua mano. Perciò in loro rimane
ancora un vestigio della terra, la faccia umana. In Mer-
curio, Venere, il Sole, Marte, Giove hai le glorie della
vita attiva, i legislatori, gli amanti, i dottori, i martiri,
i giusti. In Saturno hai la corona, e la perfezione della
vita , i contemplanti. Percorsi i diversi gradi di virtù ,
■comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della
beatitudine. Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo,
nel primo Mobile il trionfo degli Angioli, e nell' empireo
la visione di Dio, la congiunzione dell' umano e del di-
vino, dove s' acqueta il desiderio.
Questa storia del paradiso secondo i diversi gradi cìl
beatitudine ha la sua forma ne' diversi gradi di luce.
La luce, veste e fascia delle anime, è la sola super-
stite di tutte le forme terrene, e non è vera forma, ma
semplice parvenza e illusione dell' occhio mortale. Essa
è la stessa beatitudine, la letizia dell'anime, che prende
quell'aspetto agU occhi di Dante:
La mia letizia mi tien celato,
• Che mi raggia d' intorno e mi nasconde^
Quasi animai dì sua seta fasciato.
Queste parvenze dell' interna letizia si atteggiano , si
determinano, si configurano ne' più diversi modi, e non
sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che
pajon fuori in quelle forme. E n'esce la Natura del pa-
radiso, luce diversamente atteggiata e configurata, che
ha aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio, or di
costellazione , ora di scala , con viste nuove e raaravi-
gliose. Queste combinazioni di luce non sono altro che
— 244 —
gruppi d' anime , che esprimono i loro pensieri co' loro
moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili le parvenze
di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la na-
tura terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più
delicati , e ne fa lo specchio della natura celeste. Così
rientra la terra in paradiso , non come sostanziale , ma
come immagine , parvenze delle parvenze celesti. È la
terra che rende amabile questo paradiso di Dante; è il
sentimento della natura che diffonde la vita tra queste
combinazioni ingegnose e simboliche. La terra ha pure
la sua parte di paradiso, ed è in quei fenomeni che ineb-
briano, innalzano l'animo e lo spongono alla tenerezza e
all' amore : trovi qui tutto che in terra è di più eterno,
di più sfumato, di più soave. E come l'impressione este-
tica nasce appunto da questo profondo sentimento delia
V natura terrestre, avviene che il lettore ricorda il para-
gone, senza quasi più sapere a che cosa si riferisca. Questi
paragoni di Dante sono le vere gemme del paradiso:
Come a raggio di sol che puro mei
Per fratta nube, già prato di fiori
Vider coverti "d' ombra gi occhi miei;
Vid'io così più turbe di splendori
Fulgorato di su da' raggi ardenti,
Senza veder principio di fulgori, (e. XXIII.*
Siccome il Sol che si cela egli stessi
Per troppa luce, quando il caldo ha rose
Le temperanze de' vapori spessi.
Per più letizia si mi si nascose
Dentro al suo raggio la figura santa
E cosi chiusa chiusa mi rispose, (e. V. )
Come l'augello, intra l'amate fronde,
Posato al nido de' suoi dolci nati,
La notte che le cose ci nasconde,
Che per veder gli aspetti desiali
E per trovar lo cibo onde gli pasca,
In che i gravi labori gli son grati,
— 245 —
Previene il tempo in su l'aperta frasca,
E con ardente affetto il sole aspetta,
Fiso guardando pur se l'alba nasca, (e. XXXIII.)
conae orologio che ne chiami
Nell'ora che la sposa di Dio surge
A mattinar lo sposo perchè l'ami;
Che runa parte e l'altra tira ed urge,
Tintin sonando con sì dolce nota,
che il ben disposto spirito d'amor turge. (e. X.)
. . . e cantando vanio
Come per acqua cupa cosa grave, {o.. III.)
Qual lodoletta che in aere si spazia,
Prima cantando e poi tace contenta
Dell'ultima dolcezza che la sazia, (e. XX.)
Pareva a me che nube ne coprisse
Lucida, spessa, solida e pulita.
Quasi adamante che lo Sol ferisse.
Per entro sé l'eterna Margherita
Ne ricevette, com'acqua recepe
Raggio di luce, rimanendo unita, (e. II,)
Siccome schiera di api che s'infiora
Una fiata, ed una si ritorna
Là dove suo lavoro s'insapora, (e. XXXI.)
E vidi lume in forma di riviera,
Fulvido di fulgore, intra due rive,
Dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
E d'ogni parte si mettèn ne'fiori.
Quasi rubin che oro circonscrive.
Poi come inebbriate dagli odori
Riprofondavan sé nel miro gurge;
E s'una entrava, un'altra ne uscia fuori, (e. XXX.)
Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità
e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze
di tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante. Siamo
nell'empireo. La virtù visiva e stanca, ma si raccende
alle parole di beatrice, sì, che gli appare la riviera di
— 240 —
luce, e fortificata, la vista in quella riviera, in quei fiori
inebrianti, in quell'oro, in quei rubini, in quelle vive fa-
ville Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo de-^
lirio del loro tripudio. Ma in verità gli scanni de' beati
sono meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil
.primavera.
Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un presso
a poco, un quasi, un come, fiocca e corta al concetto.
'Questa impotenza della forma produce un sublime ne-
gativo che Dante esprime con l'energia intellettuale di,
•chi ha vivo il sentimento dell'infinito;
appressando sé al sua desire
Nastro intelletto si profonda tanto
Che dietro la memoria non può ire.
ogni minor natura
È corto ricettacolo a quel Bene
Che non lia fine e so in sé misura.
nella giustizia sempiterna
La vista che riceve il vostro mondo,
Com'occhio per lo mare, entro s'interna;
Che benché dalla proda veggia il fondo,
In pelago noi vede; e nondimeno
Egli è, ma cela lui l'esser profondo.
La letizia che move le anime e trascende ogni dol-
zore, non è se non beatitudine. E rende beate le anime
l'entusiasmo dell'amore e la chiarezza intellettiva, o come
dice Dante luce intelleitual piena d* amore. Esse hanna
allegro il cuore e allegra la mente. Nel cuore è perenne
desiderio e perenne appagamento. Nella mente la verità
sta come dipinta.
La luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dà
la parvenza , ma non il sentimento e non il pensiero.
Spuntano perciò due altre forme , il canto e la visione
intellettuale.
Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è
— 247 —
amore, ardore di desiderio placato sempre non saziato
mai, infinito come lo spirito. Stato lirico e musicale, che
ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La me-
desimezza del sentimento spinto sino all'entusiasmo ge-
nera la comunione delle anime; la persona non è l'in-
dividuo, ma il gruppo, come è delle moltitudini nei grandi
giorni della vita pubblica. I gruppi qui non sono Cori,
che accompagnino e compiano 1' azione individuale, ma
sono la stessa individualità diffusa in tutte le anime, e
se vogliamo chiamarli Cori, sono il Coro di personaggi,
invisibili e muti, di Cristo, di Maria e d'Iddio. Ecco il
Coro di Maria:
Per entro il cielo scese una facella,
Formata in cerchio a guisa di corona,
b) cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque melodia più dolce suona
Quaggiù e più a sé l'anima tira,
Parrebbe nube che squarciata tuona,
Comparata al suonar di quella lira,
Onde si coronava il bel zaffiro.
Dal quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
Io sono amore angelico che giro
L*alta letizia che spira dal ventre
Che fu albergo del nostro disiro;
E girerommi, donna del ciel, mentre
Che seguirai tuo figlio e farai dia
Più la sfera superna, perchè li entre.
Cosi la circulata melodia
Si sigillava, e tutti gli altri lumi
Facèn sonar lo nome di Maria.
E come fantolin che invèr la mamma
Tende le braccia, poi che il latte prese,
Per l'animo che infin di fuor s'infiamma;
Ciascun di quei cantori in su si stese
Con la sua cima si che l'alto affetto
Ch'egli aveano a Maria, mi fu palese.
— 248 —
.indi rimaser lì nel mio cospetto,
Regina Coeli cantando si dolce
Che mai da me non si partì il diletto.
Quella facella è Tangiolo Gabriele, e il Coro è ange-
lico. Angioli e Beati sono penetrati dello stesso spirito,
hanno vita comune, se non che negli angioli la virtù è
innocenza e la letizia è irreflessa : plenitudine volante
tra'Beati e Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni
bei tratti: è un andare e venire nel modo abbandonato
e allegro della prima età, tripudianti e folleggianti con
una espansione che il poeta chiama arte e gioco :
Qual è quell'angel che con tanto gioco
Guarda negli occhi la nostra regina,
Innamorato sì che par di fuoco?
L'amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta
sodalizi a. I loro moti sono danze, le loro voci sono canti:
ma in quali' accordo di voci , in quel turbine di movi-
menti la personalità scompare; è una musica in cui i di-
versi suoni si confondono e si perdono in una sola me-
lode. Non ci è differenza di aspetto, ma per dir cosi una
faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico
del paradiso, ma è la sua parte fiacca, perchè il poeta,
contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici,
non ha avuta hbertà e attività di spirito da creare la
lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti
€ gh affetti del celeste sodalizio. E dove poteva giunge-
re, lo mostra la preghiera di San Bernardo , che è un
vero Inno alla Vergine, e l'Inno a san Francesco d'As-
sisi e l'Inno a San Domenico, nella loro semphcità an-
che un po' rozza tutto cose e più schietti che i magni-
loquenti inni moderni.
I canti delle anime sono vuoti di contenuto , voci e
non parole, musica e non poesia: è tutto una sola onda
di luce di melodia e di voce, che ti porta seco:
— 219 —
Al padre, al figlio, allo spirito santo
Cominciò gloria tutto il paradiso,
Tal che m' inebbriava il dolce canto.
Ciò che io vedeva, mi sembrava un riso
Dell'universo, perchè mia ebbrezza
Entrava per V udire e per lo viso.
0 gioia! 0 ineffabile allegrezza!
0 vita intera d' amore e di pace !
0 senza brama sicura ricchezza!
È rarmonia universale, l'inno della creazione. La luce,
vincendo la corporale impenetrabilità, e frammischiando
i suoi raggi , 'esprime anche al di fuori questa compe-
netrazione delle anime , l' individualità sparita nel mare
dell'essere. Il poeta, signore, anzi tiranno della lingua,
forma ardite parole a significare questa medesimezza amo-
rosa degli esseri nell'essere: inciela, imparadisa, india,
inaiassi, immei, inlei, s'infutura, s'///wm; delle quali
voci alcune dopo lung o obblio rivivono. La redenzione
dell'anima è la sua progressiva emancipazione dall'egoi-
smo della coscienza ; la sua individualità non le basta ;
si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla
idealità nella \ita universale. Questo è il carattere della
vita in Paradiso. Non solo sparisce la faccia umana, ma
in gran parte anche la personalità. Vivono gli uni ne-
gli altri e tutti in Dio.
Questo vanire delle forme e della stessa personalità
l'iduce il paradiso a una corda sola, a lungo andare mo-
notona , se non vi penetrasse la terra e con la terra
altre forme ed altre passioni. La terra penetra come
contrapposto a questa vita d' amore e di pace. È vita
d'odio e di vana scienza, e provoca le collere e i sar-
casmi de' Celesti.
Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente
poetici. Accolto noi sole gloriosamente allato a Beatrice
si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure terrestri •
— -^50 —
0 insensata cura de' mortali ,
Quanto son difettivi sillogismi
Quei che ti fanno in basso batter 1' ali 1
Chi dietro a juia , e chi ad aforismi
Son giva, e chi seguendo sacerdozio,
E chi regnar per forza o per sofismi,
E chi rubare, e chi civil negozio;
Chi nel diletto della carne involto
S' affaticava e chi si dava all' ozio.
Un altro momento di alta poesia è quando il poeta
dall'alto delle stelle fisse guarda alla terra:
e vidi il nostro globo
Tal ch'io sorrisi del suo vii sembiante.
La terra che ci fa lanlo feroci , veduta dal cielo gli
pare un'ajuola. Il concetto abbellito e allargato dal Tasso
ha qui una severità di esecuzione quasi ieratica. Il Poeta
si sente già cittadino del cielo, e guarda così di passata
e con appena un sorriso a tanta viltà di sembiante, vol-
gendone immediatamente Y occhio , e mirando in Bea-
trice :
L'aiuola che ci fa tanto feroci ,
Volgendomi io con gli eterni Gemelli,
Tutta m'apparve da' colli alle foci :
Poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli."
Pure è quest'aiuola che desta nel seno de'Beati varietà
di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde.
Accanto all' inno spunta la satira in tutte le sue gra-
dazioni, il frizzo, la caricatura, l'ironia, il sarcasmo. Qual
frizzo, che l'allusione di Carlo Martello, cosi pungente
nella sua generalità :
E fanno Re di tal, che è da sermone !
Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta
— 251 —
nel maneggio della caricatura e dell' ironia, frustando i
predicatori plebei di quel tempo:
Ora si va con motti e con iscede
A predicare, e pur che ben si rida.
Gonfia il cappuccio e più non si richiede.
Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi
e della gloria dell' antica Roma con fiere minacce ai
guelfi, nemici dell'aquila imperiale. Papi e monaci sono
i più assaliti. S. Tommaso, dette le lodi di san France-
sco, riprende i francescani, e san Benedetto i benedet-
tini, e san Pietro il Papa. Tutt' i re di quel tempo man-
dano sangue sotto il flagello di Dante. Non si può at-
tendere da' Santi alcuna indulgenza alle umane fralezze.
La satira è acerba; la sua musa è l'indignazione, e la
sua forma ordinaria è l' invettiva. Le forme comiche sono
uccise in sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo. Il sar-
casmo non è qui né un pensiero , né un tratto di spi-
rito, ma pittura viva del vizio, con parole anche gros-
solane, come cloaca , che mettano in vista il laido e il
disgustoso. Il vizio é colto non in una forma generale e
declamatoria, ma là, in quegli uomini, in quel tempo,
sotto quelli aspetti, con pienezza di particolari ed esat-
tezza di colorito : capilavori di questo genere sono la pit-
tura de' benedettini e l'invettiva di san Pietro.
Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è al-
tro se non l' antitesi che é in terra tra i buoni e i cat-
tivi, e per scendere al particolare, tra l'età dell'oro e del
cristianesimo e i tempi degeneri del poeta ; é il presente
condannato dal passato, é il passato messo in risalto dal
suo contrasto con la corruzione presente. Ci erano i be-
nedettini, ma ci era stato san Benedetto; ci era Boni-
fazio ^ Clemente, ma ci era stato san Pietro, e Lino e
Cleto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano. Gli uomini di
^ì
— 252 —
queir aurea età più illustri per santità e per scienza sono
qui raccolti, come in un panteon ; è il mondo eroico cri-
stiano, succerluto a quel mondo eroico pagano stato de-
scritto nel Limbo, e di cui Giustiniano fa il panegirico
in Paradiso.
Questa età dell' oro collocata nel passato e messa a
confronto con la tristizia di quei tempi ha ispirato a
Dante una delle scene più interessanti , ed è la pittura
dell'antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida,
uno de' suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insie-
me: vedi l'ideale dell'età dell'oro e della domestica fe-
licità con tanta semplicità di costumi, con tanta mode-
stia di vita, e di rincontro vedi il villano di Agubbio e
le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa
scena di famiglia prende proporzioni epiche ; Dante si fa
egh medesimo il suo piedestallo. Nella predizione che Cac-
ciaguida gli fa del suo esiUo è tanta malinconia e tanto
affetto , che ben si pare la profonda tristezza del vec-
chio e stanco poeta. L' esilio non è rappresentato ne' pa-
timenti materiali : Dio riserba dolori più acuti ai magna-
nimi, lasciare ogni cosa diletta più caramente e doman-
dare il pane all'insolente pietà degli estranei: questo
strazio di tanti miseri vive qui immortale ne' versi di-
venuti proverbiaH del più misero e del più grande. Ma
è un dolore virile; tosto rileva la fronte, e dall'alto del suo
ingegno e della sua missione poetica vede a' suoi piedi
tutt'i potenti della terra.
La letizia delle anime non è solo amore, ma visione
intellettuale. La luce, il riso non sono altro che mani-
festazione del loro perfetto vedere: perciò la luce è detta
intellettuale. Beatrice spiega cosi il suo riso a Dante:
S'io ti fiammeggio nel caldo d'amore
Di là dal modo che in terra si vede,
Sicché degli occhi tuoi vinco il valore,
— 253 —
Non ti maravigliar; ciò cho procedo
Da perfetto veder, che come apprende,
Cosi nel bene appreso move il piede.
La beatitudine è la contemplazione, e la contemplaziono
è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le
anime non investigano, non discutono e non dimostrano,
ma veggono e descrivono la verità, non come idea, ma
come natura vivente. In terra ci è l'apparenza del ve-
ro , e perciò diversità di sistemi fìlosolici , come spiega
Beatrice:
Voi non andate giù per un sentiero
Filosofando: tanto vi trasporta
L'amor dell'apparenza e il suo pensiero.
In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto eter-
no ; in Dio è legato con amore in un volume ciò che
per l'universo si squaderna: vedere Dio è vedere la ve-
rità. E non è visione solo di cose, ma di pensieri e di
desiderii. I Beati vedono il pensiero di Dante, senza che
egli lo esprime.
La scienza com'era concepita a* tempi di Dante, spo-
sata dalla Teologia, avea una forma concreta e indivi-
duale, materia contemplabile e altamente poetica. Un Dio
personale, che immobile motore produce amando l'idea
esemplare dell' universo , pura intelligenza e pura luce,
che penetra e risplende in una parte più o meno in
un' altra sino alle ultime contingenze : gli astri dove si
affacciano i Beati, influenti sulle umane sorti e governati
(la intelligenze da cui spira il moto e la virtù de' loro
giri; il cielo empireo centro di tutt'i cerchi cosmici e sog-
giorno della pura luce; l'universo, splendore della divi-
nità, dove appare squadernato ciò che in Dio è un vo-
lume ; r ordine e 1' accordo di tutto il Creato dalle in-
fime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli Angioli;
la caduta dell' uomo per il primo peccato e il suo ri-
scatto per l'incarnazione e la passione del Verbo; la ve-
— 254 —
rilà rivelata, oscura all'intelletto, visibile al nìnre , av-
valorato dalla fede , confortato dalla speranza , infiam-
mato dalla carità ^; in questa scienza della creazione il
pensiero è talmente concretato e incorporato, che il poeta
può contemplarlo come cosa vivente, come natura. Per-
ciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che
una descrizione, come di cosa che si vede e non si di-
mostra. Il perfetto vedere de'Beati è privilegio di Dante;
nessuno gli sta del pari nella forza e chiarezza della vi-
sione. Spinto dommatico, credente e poetico, predica dal
paradiso la verità assoluta, e non la pensa, la scolpisce.
Diresti che pensi con 1' immaginazione , aguzzata dalla
grandezza e verità dello spettacolo. Nascono ardite me-
tafore e maravigliose comparizioni. L'accordo della pre-
scienza col libero arbitrio è una delle concezioni più dif-
ficih e astruse; ma qui non è una concezione, è una vi-
sione, uno spetttacolo: così potente è questa immagina-
isione dantesca:
La contingenza che fuor del quaderno
Della vostra materia non si stende,
Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
Se non come dal viso in che si specchia
Nave che per corrente giù, discende.
Da indi, si come viene ad orecchia
Dolce armonia da organo, mi viene
A vista il tempo che ti si apparecchia.
Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dal-
l' alto del paradiso, da cui dechina via via fino alle ul-
time conseguenze, forma contemplativa e dommatica, anzi
che discorsiva e dimostrativa e propria della poesia, pre-
sentando air immaginazione vasti orizzonti in una so!^
comprensione:
1 Vedi i canti XTlI, II, XXX, XXXlII, X, XXVIII e XXlX, XXVlI
VII, XIV, XXV, XXVI.
Guardando nel suo figlio con l'Amore
Che r una e l'altro eternalmente spira
Lo primo e ineffabile Valore,
Quanto per mente e per occhio si gira,
Con tant' ordine fé' ch'esser non puote
Senza gustar di lui chi ciò rimira.
Questa forma poetica della scienza, questa visione in-
tellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a
molta perfezione. È un certo modo di situare l'oggetto
e metterlo in vista, si che 1' occhio dell' immaginazione
lo comprenda tutto. Se ci è cosa che ripugna a questa
forma, è lo scolasticismo con la barbarie delle sue for-
raole e le sue astrazioni ; ma l' imaginazione vi fa pe-
netrare l'aria e la luce: miracolo prodotto dalle due grandi
potenze della mente dantesca, la virtù sintetica e la virtù
formativa. Veggasi la stupenda descrizione che fa Bea-
trice del moto degli astri di poco inferiore alla storia
del processo creativo, il capolavoro di questo genere.. Qui
la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar
d'occhio, con si stretta e rapida concatenazione che tutto
il creato ti sta innanzi come una sola idea semplice. Ci
sono concetti difficilissimi ad esprimersi , come 1' unità
della luce nella sua diversità, e l'imperfezione della na-
tura, che non ti dà mai reahzzato l'ideale. I concetti qui
non sono astrazioni, ma forze vive, gli attori della crea-
zione , la luce , il cielo , la natura , e non hai un ragio-
namento; hai una storia animata, con una chiarezza e
vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura
vere persone poetiche:
Ciò che non nasce e ciò che può morire
Non è se non splendor di quell'idea,
Che partorisce amando il nostro Sire.
Che quella viva luce che si mea
Dal suo Lucente, che non si disuna
Da lui, nò dall'amor che in lor s'intrea;
— 25() —
Per sua bontate il suo raggiare aduna
Quasi specchiato in nuove sussistenze,
Eternalmente rimanendosi una.
Queste tre terzine sono una meraviglia di chiarezza e
di energia in dir cosa difficilissima. Né minor potenza di
intuizione trovi nella fine quando paragonando l'ideale
alla cera del sugello, aggiunge:
Ma la Natura la dà sempre scema,
Similemente operando all'artista,
Che ha l' abito dell' arte e man che trema.
Ed anche la mano di Dante trema, che fra tante bel-
lezze ci è non poca scoria. Non di rado vedi non il poeta,
ma il dottore che esce dall'università di Parigi pieno il
capo di tesi e di sillogismi. Molte quistioni sono troppo
speciali, altre sono infarcite di barbarie scolastica defi-
nizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni. E questo è
non per difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio.
A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della
poesia, e se ne vanta, e sì beffa di quelli che lo hanno
sin qui seguito in piccola barca. Tornate indietro , egli
dice; che il mio libro è per soli quei pochi che possono
gustare il pan degU Angioli: e sono i Filosofi e i dottori
suoi pari. Perciò il paradiso è poco letto e poco gustato.
Stanca soprattutto la sua monotomia, che par quasi una
serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.
La visione intellettuale è la beatitudine. L'esposizione
della scienza riesce in cantici e inni, le ultime parole del
veggente si confondono con gli osanna del cielo;
Finito questo, l'alta corte santa
Risuonò per le spere: Un Dio lodiamo,
Nella melode che lassù si canta.
Siccome io taqui, un dolcissimo canto
Risonò per lo cielo, e la mia donna
Dicea con gli altri; Santo, Santo, Santo,
— 257 —
Così è sciolto questo mistero dell'anima. Adombrato
ne' simboli e allegorie del purgatorio , qui il mistero è
svelato, e la divina commedia dell'anima, il suo india rs
neir eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio, sì che
sale come rivo « se di alto monte scende giuso ad imo »
è l'amore, è Beatrice, che all'alto volo gli veste le piu-
me. Beatrice è in sé il compendio del paradiso, lo spec-
chio dove quello si riflette ne' suoi mutamenti. Puoi di-
pingerla , quando prega Virgilio , o quando realmente
proterva rimprovera l'amante ; ma qui è spiritualizzata
tanto^ che è indarno opera di pennello. La stessa parola
non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza
trasmutabile, se non ne'suoi effetti su Dante e su'Celesti.
Ecco uno de' più bei luoghi :
Quivi la donna mia vid' io sì lieta, ^ ,
Come nel lume di quel ciel si mise,
Che più lucente se ne fé' il pianeta ;
E se la stella si eambiò e rise,
Qual mi fec' io, che pur per mia natura
Trasmutabile son per tutte guise !
Come in peschiera che è tranquilla e pura
Traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
Per modo che lo stimin lor pastura ;
Si vivi' io ben più di mille splendori
Trarsi ver noi, ed in ciascun s*udia:
Ecco chi crescerà li nostri ardori.
Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l'anima. L'amore
è T)u. dcato: nulla resta più di sensuale. Dante che nel pur-
gatorio senti il tremore dell' antica fiamma, qui ode Bea-
trice con un sentimento assai vicino alla riverenza. Quan-
do ella si allontana, ei non manda un lamento : ogni parte
terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole sono af-
fettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome nel
piccolo cenno che gli fa Beatrice, l'amore dell'uomo come
ombra si dilegua nell'amore di Dio, ella lo ama in Dio :
D» SanotiB - Leu. Ual. Voi. I. H
— 258 —
Così orai, e quella sì lontana,
Come parea, sorrise e riguarJoramls
Poi si tornò alla eterna fontana.
Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre
"a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo scotto
del pentimento , così non può ne' Gemelli o stelle fisse
contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua
fede. Allora san Pietro lo incorona poeta, e poeta vuol
dire banditore della verità: San Pietro gli dice :
E non nasconder quel eh* io non nascondo.
Cosi la commedia ha la sua consacrazione e la sua mis-
sione. È la verità bandita dal cielo, della quale Dante si
fa l'apostolo e il profeta : è il poema sacro. Con quella
stessa coscienza della sua grandezza che si fé' sesto fra
cotanto senno , qui si pone accanto a san Pietro e se
ne fa l'interprete, congiungendo in sé le due corone, il
Savio e il Santo, l'antica e la nuova civiltà, il filosofo
e il teologo.
Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato. Dante
si sente oramai vicino a Dio. Avea già contemplata la
Divinità nella sua umanità , il Dio-uomo. Il trionfo di
Cristo, la festa dell' Incarnazione , sembra reminiscenza
di funzioni ecclesiastiche, co' suoi principaU attori. Cristo,
la Vergine, Gabriello. Cristo e la Vergine sono come nel
Santuario, invisibili ; la festa è tutta fuori di loro e in-
torno a loro. Succede il trionfo degU Angioh, e poi nel-
r Empireo il trionfo di Dio.
L' empireo è la città di Dio, il convento de' Beati, il
proprio e vero paradiso. Beatrice raggia si, che il poeta
si concede vinto^ più che tragedo e comico superato dal
suo tema, e desiste dal seguir più dietro a sua bellezza
poetando,
Come all' ultimo suo ciascun artista.
— 259 —
Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile
Lo creatore a quella creatura
Che solo ìq lui vedere ha la sua pace.
La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa,
le cui bianche foglie si distendono per l'infinito spazio
e sono gli scanni de' Beati. San Bernardo spiega e de-
scrive il inaraviglioso giardino. Il punto che più splende
è là dove sono gli occhi da Dìo diletti e veney^ati, dove
è la Vergine e gli angioli. Quel punto è la pacifica ori-
fianama del paradiso, la bandiera della pace. Il giardino,
la rosa, l'orifiamma sono immagini graziose, ma inade-
guate. Queste metafore non valgono la stupenda terzi-
na, dove san Bernardo è rappresentato in forma umana
e intelligibile :
Diffuso era per gli occhi e per le gene
Di benigna letizia, in atto pio,
Quale a tenero padre si conviene.
Il parJtìiso, appunto perchè paradiso, non puoi deter-
minarlo troppo e descriverlo, senza impiccolirlo. La sua
forma adeguata è il sentimento, l'eterno tripudio: ciò che
è ben colto in quella plenitudine volante di angeli, che
diffondono un po' di vita tra quella calma. Il vero signi-
ficato lirico del paradiso è nell'Inno di Dante a Beatri-
ce e neir Inno di san Bernardo alla Vergine, ne'quali è
il paradiso guardato dalla terra con sentimenti e impres-
sioni di uomo. I beati stessi diventano interessanti, quando
tra quella luce vedi spuntare visi a carità sitavi e atti
ornati di tutte onestadi , o quando chiudon le mani
implorando la Vergine.
Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui
r universo, e poi la Trinità, e poi T Incarnazione, con-
giunzione dell'umano e del divino, in cui si acqueta
desiderio, il destro e il velle^
Siccome ruota eh' eguahuente è mossa.
— 260 —
Dante vede, ma è visione, di cui hai le parole, e non
la forma ; ci è l' intelletto, non ci è più V immaginazione,
divenuta un semplice lume, un barlume. La forma spa-
risce ; la visione cessa quasi tutta ; sopravvive il senti-
mento :
quasi tutta cessa
Mia visione, e ancor mi distilla
Nel cor lo dolce che nacque da e§sa
Cosi la neve al sol si disigilla;
Così al vento nelle foglie lievi
Si perdea la sentenzia di Sibilla.
L' immaginazione morendo manda in questi bei versi
l'ultimo raggio. All'alta fantasia manca la possa; e in-
sieme con la fantasia muore la poesia.
Così finisce la storia dell' anima. Di forma in forma,
di apparenza in apparenza, ritrova e riconosce sé stessa
in Dio, pura intelligenza, puro amore e puro atto. Ed è
in questa concordia che V anima acqueta il suo deside-
rio, trova la pace. Neil' inferno signoreggia la^ateria
anarchica : le sue forme ricevono d'ogni sorte differenze,
spiccate, distinte, corpulente e personali. Nel purgatorio
la materia non è più la sostanza , ma un momento : lo
spirito acquista coscienza di sua forza , e contrastando
e soffrendo conquista la sua hbertà : la realtà vi è in
immaginazione, rimembranza del passato, da cui si spri-
giona , aspirazione all' avvenire a cui si avvicina ; onde
le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell' im-
maginativa anzi che obbietti reali : pitture, sogni, visioni
estatiche , simboU e canti. Nel paradiso lo spirito già
libero di grado in grado s' india ; le differenze qualitative
si risolvono, e tutte le forme svaporano nella semplicità
della luce , nella incolorata melodia musicale , nel puro
pensiero. Quel regno della pace che tutti cercavano, quel
regno di Dio, quel regno della filosofia, quel di tó, tor-
mento e amore di tanti spiriti, è qui realizzato. Il con-
— 201 —
cetto della nuova civiltà di cui avevi qua e là oscuri e
sparsi vestigi, è qui compreso in una immensa unità,
che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la col-
tura e tutta la storia. E chi costruisce così vasta mole,
ci mette la serietà dell' artista, del poeta, del filosofo e
del cristiano. Consapevole della sua elevatezza morale e
della sua potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti
stimoli all'opera , la patria, la posterità, 1' adempimento
di quella sacra missione che Dio affida all' ingegno, acuti
stimoli nei quaU sono purificati altri motivi meno nobili,
r amor della parte , la vendetta , le passioni dell'esule :
ci è là dentro nella sua sincerità tutto 1' uomo, ci è quel
d'Adamo e ci è quel di Dio. A poco a poco quel mondo
della fantasia diviene parte del suo essere, il suo com-
pagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro
della memoria, 1' eco de' suoi dolori, delle sue speranze,
e delle sue maledizioni. Nato a immagine del mondo c-he
gli era intorno , simbolico , mistico e scolastico , quel
mondo si trasforma e si colora e s' impolpa della sua
sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto. La sua
mente sdegna la superficie, guarda nell'intimo midollo,
e la sua fantasia ripugna all' astratto, a tutto dà forma.
Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il
carattere del suo genio. E non solo l'oggetto gli si pre-
senta con la sua forma, ma con le sue impressioni e i
suoi sentimenti. E n' esce una forma, che è insieme im-
magine e sentimento, immagine calda e viva, sotto alla
quale vedi il colore del sangue, il movere d^lla passione.
Vj con l'immagine tutto è detto, e non vi s' indugia e
non la sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e
sdegna gli accessorii. A conseguire 1' effetto spesso gli
basta una sola parola comprensiva, che ti offre un gruppo
d' immagini e di sentimenti, e spesso, mentre la parola
dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, 1' armo-
nia del verso ne esprime il sentimento. Tutto è succo;
— 262 —
tutto è cose, cose intere nella loro vivente unità , non
decomposte dalla riflessione e dall' analisi. Per dirla con
Dante, il suo mondo è un volume non squadernato. È
un mondo penoso, ritirato in sé, poco comunicativo, come
fronte annuvolata da pensiero in travaglio. In quelle pro-
fondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispi-
razioni e nuovi pensieri. Là vive involto ancora e no-
doso e pregno di misteri quel mondo, che sottoposto al-
l'analisi umanizzato e idealizzato, si chiama oggi lette-
ratura moderna.
Vili.
IL CANZONIERE.
Dante mori nel 1321. La sua commedia riempie di se
tutto il secolo. I contemporanei la chiamarono Divina,
quasi la parola sacra , il libro dell' altra vita, o come
diceano, il libro dell' anima. Un tale Trombetta, quattro-
centista, la mette fra le opere sacre e i libri dell' anima
da siiidiarsi in quaresima, come le vite de' Santi Pa-
dri, la vita di san Girolamo. Il popolo cantava i suoi
versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua
fantasia. I dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle
favole, quantunque alcuni austeri, come Cecco d' Ascoli,
quel velo non ce 1' avrebbero voluto. E Fazio degli liberti
credè di far cosa più degna, rimovendo ogni velo ed
esponendoci arida scienza nel suo Dittamondo , Dieta
mundi.
L' impressione non fu puramente letteraria. Ammira-
vano la forma squisita, ma tenevano il libro più che poe-
sia. Vedevano là entro il libro della vita o della verità, e
ben presto fu spiegato e comentato , come la Bibbia e
come Aristotile , accolto con la stessa serietà con la
quale era stato concepito.
Gscurissimo in molti particolari, e per le allusioni pò-
— 2G3 —
litiche e storiche e pel senso allegorico, il libro nel suo
insieme è così chiaro e semplice, che si abbraccia tutto
di un solo sguardo. La scienza della vita o della crea-
zione è colta ne' suoi tratti essenziah e rappresentata con
perfetta chiarezza e coesione. L' armonia intellettuale di-
viene cosa viva nell' architettura, cosi coerente e signi-
ficativa nelle grandi linee, così accurata ne' minimi par-
ticolari. L' immaginazione anche più pigra concepisce
di un tratto inferno, purgatorio e paradiso. Il pensiero
nuovo, mistico e spiritualista , lunga elaborazione dei
secoH, compariva qui perfettamente armonizzato e pie-
no di vita. In questo mondo intellettuale e dommati-
co , così ben rispondente alla coscienza universale , si
sviluppava la storia o il mistero dell' anima nella più
grande varietà delle forme, si che vi si rifletteva tut-
ta la vita morale nel suo senso più serio e più eleva-
to. Il sentimento della famiglia , la viva impressione
della natura, 1' amor della patria, un certo senso d' or-
dine di unità, di pace interiore che fa contrasto al di-
sordine e alla hcenza di quei costumi pubblici e privati,
la virtù dell'indignazione, il disprezzo di ogni viltà e
volgarità, la virilità e la fierezza della tempra, 1' aspi-
razione ad un ordine di cose ideale e superiore , il vi-
vere in ispirito e in contemplazione, come staccato dalla
terra, il sentimento della giustizia e del dovere, la pro-
fessione delia verità, piaccia o non piaccia, con l'occhio
volto a' posteri, e quella fede congiunta con tanto amore,
queir accento di convinzione , quella coscienza che ha il
poeta della sua personalità, della sua grandezza- e della
sua missione, tutto questo appartiene a ciò che di più
nobile ed elevato è nella natura umana. Anche quel non
so che scabro e rozzo e quasi selvaggio eh' è nella su-
perficie rendeva l' immagine di quell'eroica e ancor bar-
bara giovinezza del mondo moderno.
Ma r impressione prodotta dalla Commedia rimaneva
— 264 ^
circoscritta nell' Italia centrale. La scuola del nuovo stile
non avea fatto ancora sentire la sua azione nelle rima-
nenti parti d' Italia, dove la lingua dominante era sem-
pre il latino scolastico ed ecclesiastico. Malgrado l'esem-
pio di Dante, non era ancora stabilito che in rima si po-
tesse scrivere d' altro che di cose d' amore. E in questa
sentenza era anche Gino da Pistoja, solo superstite di
quella scuola immortale, dalla quale era uscita la Com-
media. Compariva sulla scena la nuova generazione.
Lo studio de' classici, la scoperta de' nuovi capilavori,
una maggior^ pulitezza nella superficie della vita, la fine
delle lotte politiche col trionfo de' guelfi, la maggior dif-
fusione della coltura sono i tratti caratteristici di questa
nuova situazione. La situazione si fa più levigata, il gu-
sto più corretto , sorge la coscienza puramente letteraria,
il culto della forma per sé stessa. Gli scrittori non pen-
sarono più a render le loro idee in quella forma più viva
e rapida che si offrisse loro innanzi; ma cercarono la
bellezza e l'eleganza della forma. Dimesticatisi con Livio,
Cicerone, Virgilio, parve loro barbaro il latino di Dante;
ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano
state r ammirazione della forte generazione scomparsa,
e non poterono tollerare il latino degli Scolastici e della
Bibbia. Intenti più alla forma che al contenuto, poco loro
importava la materia, pur che lo stile ritraesse della clas-
sica eleganza. Cosi sorsero i primi puristi e letterati in
Italia, e capi furono Francesco Petri|rca e Giovanni Boc-
caccio.
Nel Petrarca si manifesta energicamente questo carat-
tere della nuova generazione. Fece lunghi e faticosi viaggi
per iscoprire le opere di Varrone, le storie di Plinio, la
seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e due
sue orazioni. Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua Ube-
rai ita là prima versione di Omero e di parecchi scritti
di Platone. Scopritore instancabile di codici, emendava,
— 2G5 —
postillava^ copiava : copiò tutto Terenzio. In questa in-
tima latniliai'ità co' più grandi sci'ictori deirantichità gre-
co-latina tutto quel tempo di poi che fu detto il medio
evo, gli apparve una lunga barbarie, di Dante' stesso ebbe
assai poca stima; gli stranieri chiamava barbari; gl'ita-
liani chiamava latin sangue gentile; voleva una ristau-
razione dell' antichità , e che non fosse ancora fattìbile,
ne accagiona la corruttela de' costumi. Era Petracco e
si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e li
chiamò Socrati e Lelii, ed essi sbattezzarono lui e lo chia-
marono Cicerone. Conchiuse la sua vita scrivendo epi-
stole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano, a Tito Livio,
^ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co' quali viveva in ispi-
rito, e poco innanzi di morire, scrisse una lettera alla
Posterità, alla quale raccomanda la sua memoria.
( Cosi appariva l'aurora del Rinnovamento. L' Italia vol-
geva le spalle al medio evo, e dopo tante vicissitudini
ritrovava se stessa, e si affermava popolo romano e la-
tino. Questo proclamava Cola da Rienzo dall'alto del Cam-
pidoglio. Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti ; gli sco-
lastici cessero il campo agh eruditi e a' letterati; la teologia
fu segregata dagli studii di coltura generale e divenne
scienza de' chierici ; la filosofìa conquistò il primato in
tutto lo scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le leg-
gende, i miti, i misteri, separati dal tronco in cui vi-
vevano, divennero forme puramente letterarie e d'imi-
tazione ; tutto quel mondo teologico, mistico nel concetto,
scolastico e allegorico nelle forme , fu tenuto barbarie
da uomini che erano già in grado di gustare Virgilio e
Omero.
Questa nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si
sente romana e latina e si pone nella sua personalità di
rincontro agli altri popoli, tutti stranieri e barbari, ispira
al giovine Petrarca la sua prima canzone. Qui non ci è
più il guelfo 0 il ghibellino, non il romano o il fioren-
— 26(5 —
tino ; e' è r Italia che si sente ancora regina delle na-
zioni; ci è r italiano che parla con l'orgoglio di una razza
superiore, e ricorda Mario come se fosse vivuto 1' altro
jeri, e quella storia fosse la sua storia; ci è la viva im-
pressione di quel mondo classico sul giovine poeta, che
ivi trova i suoi antenati, e cerca di nuovo queir Italia
potente e gloriosa, Y Itaha di Mario. L' orgoglio nazio-
nale e l'odio de' barbari è il motivo della canzone, lo
spirito che vi alita per entro. Vi compariscono già tutte
le qualità di un grande artista. La chiarezza e lo splen-
dore dello stile, la fusione delle tinte, F arte de' chiaro-
scuri, la perfetta levigatezza e armonia della dizione, la
sobrietà nel ragionamento, la misura ne' sentimenti, un
dolce calore che penetra dappertutto senza turbare l'equi-
librio e la serenità e 1' eleganza deljajforma , fanno di
questa canzone uno de' lavori più finiti dell'arte. L'Italia
ha avuto il suo poeta; ora ha il suo artista.
In questa risurreziorieiieU' antica Italia è naturale che
la Hngua latina fosse stimata non solo Ungua de' dotti,
ma hngua nazionale, e che la storia di Roma dovesse
sembrare agi' italiani la loro propria storia. Da queste opi-
nioni usci l'Africa, che al Petrarca dovè parere la vera
Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in quella
lotta ultima, nella quale Roma, vincendo Cartagine, si
apriva la via alla dominazione universale. Questo poema
rispondeva così bene alla coscienza pubblica, che Pe-
t ar.;u fu incoronato principe de' poeti, ed ebbe tal grido
e tali onori che nessun uomo ha avuto mai. Nuovo Vir-
gilio, voile emulare anche a Cicerone, accettando volen-
tieri legazioni che dessero occasione di recitare pubbliche
orazioni. Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sem-
pre in latino: lavori molto apprezzati da' contemporanei
ma tosto dimenticati, quando cresciuta la coltura e raf-
finato li gusto, parve il suo latino così barbaro , come
barbaro era parso a lui il latino di Dante, e de' Mussati,
— 2G7 —
de' Lovati, e de' Boriati tenuti a' tempi loro quasi redi-
vivi Orazii e Virgili!.
Ma la lingua latina potea così poco rivivere conae l'Ita-
lia latina. Il latino scolastico avea pure alcuna vita, per-
chè lo scrittore sforzava la lingua e 1' ammodernava &
ci mettea sé stesso. Ma il latino classico non potea pro-
durre che un puro lavoro d' imitazione. Lo scrittore piena
di riverenza verso l'alto modello non pensa ad appro-
priarselo e trasformarlo, ma ad avvicinarvisi possibil-
men.te. Tutta la sua attività è volta alla frase classica ,
che gli sta innanzi nella sua generalità, spoglia di tutte le
idee accessorie che suscitava ne' contemporanei, e dove è
il più fino e il più intimo dello stile. Perciò schiva il par-
ticolare e il proprio, corre volentieri appresso le peri-
frasi e le circonlocuzioni, è arido nelle immagini, povero
di colori, scarso di movimenti interni, e dice_jion quanto
o come_gli sgorga dal di dentro, ma ciò che può ren-
dersi in quellajforma e secondo quel modello : difetti vi-
sibili ncW Africa. Cosi si formò una coscienza puramente
letteraria, lo studio della forma in sé stessa con tutti gli
artificii e i lenocinli della rettorica: ciò che fu detto ele-
ganza, forma scelta e nobile; maniera di scrivere arti-
ficiosa, che pare anche nelle sue canzoni pohtiche, come
quella a Cola da Rienzo, opera più di letterato che di
poeta, e perciò pregiata molto, finché in Italia dui ò que-
sta coscienza artiticiale.
In verità il Petrarca era tutt' altro che romano o la-
tino, come pur voleva parere: potè latinizzare il suo
nome, ma non la sua anima. Lo scrittore latino è tutto al
di fuori, ne' fatti e nelle cose, è tutto vita attiva e virile;
diresti non abbia il tempo di piegarsi in sé e interrogarsi.
Al Petrarca sta male 1' abito di Cicerone ; anche i con-
temporanei a sentirlo battevano le mani e ridevano. Non
sentivano 1' uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano.
L'uomo c'era, ma più simile all'anacoreta e al santa
— 2G8 —
che a Livio e a Cicerone, più inclinato alle fantasie e alle
estasi, che all' azione. Natura contemplativa e solitaria,
la vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione;
la sua vera vita fu al di dentro di sé; il solitario di Val-
chiusa fu il poeta di sé stesso , Dante alzò Beatrice nel-
r universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli
calò tutto r universo in Laura, e fece di lei e di sé il
suo mondo. Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.
Pare un regresso ; pure è un progresso. Questo mondo
è più piccolo, é appena un frammento della vasta sintesi
dantesca, ma è un frammento divenuto una compiuta e
ricca totalità, un mondo pieno, concreto, sviluppato, ana-
lizzato, ricerco ne' più intimi recessi. Beatrice, sviluppata
-dal simbolo e dalla scolastica, qui è Laura nella sua e hia-
rezza e personalità di donna; l'amore, scioltosi dalle uni-
verse cose entro le quali giaceva inviluppato, qui non è
concetto, né simbolo, ma sentimento; e l'amante che oc-
cupa sempre la scena, ti dà la storib. della sua anima,
instancabile esploratore di sé stesso. In questo lavoro
analitico psicologico la realtà pare sull' orizzonte chiara
e schietta, sgombra di tutte le nebbie, tra le qnall era
stata ravvolta. Usciamo infine da' miti, da' simboli, dalle
astrattezze teologiche e scolastiche, e siamo in piena luce
nel tempio dell' umana coscienza. Nessuna cosa oramai
si pone di mezzo tra 1' uomo e noi. La sfinge é scoperta:
r uomo è trovato.
Gli è vero che la teoria rimane la stessa. La donna
è scala al Fattore ; l'amore é il principio delle universe
cose ; ma tutto questo è accessorio , è il covenuto ; la
sostanza del libro é la vicenda assidua de' fenomeni più
delicati del cuore umano. Cresciuto in Avignone fra le
tradizioni provenzali e le corti d' amore, quando France-
sco da Barberino avea già pubblicato i Documenti d'Amore
e i Reggimenti delle Donne, raccolta di tutte le leggi e
costumanze galanti, egli attinge nello stesso arsenale, e
— 2G9 -
spaccia la stessa rettorica, allegorie, concetti, sottigliezze,,
spiritose galanterie. Soprattutto tiene molto a questo che
tutto il mondo sappia non essere il suo amore sensuale,
ma amicizia spirituale, fonte di virtù. Dante chiama in-
tamia r accusa di avere espresso il suo amore troppo
sensualmente, e a cessare da sé V infamia trasformò Bea-
trice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche. Ma le
continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non con-
vincono nessuno ; perchè è il corpo di Laura, non come
la bella /accia della Sapienza , ma come corpo , che gli
scalda l' immaginazione. Laura è modesta, casta, gentile, '
ornata di ogni virtù ; ma sono qualità astratte , non è
qui la sua poesia. Ciò che move l' amante e ispira il poeta,
(è Laura da' capei biondi, dal collo di latte, dalle guance
^infocate , da' sereni occhi , dal dolce viso, la quale egli
situa e atteggia in mille maniere e ne cava sempre un
nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un bel paesag-
gio, il verde del campo, la pioggia de'fiori, l'acqua che
mormora, fatta la Natura eco di Laura,
Questo sentimento delle belle forme, della bella donna
e della bella J^atura, puro di ogni turbamento, è la Musa
del Petrarca. Diresti Laura un modello, del quale il pit-
tore sia innamorato, non come uomo, ma come pittore,
intento meno a possederlo, che a rappresentarlo. E Laura
è poco più che un modello, una bella forma serena, po-
sta li per essere contemplata e distinta, creatura pitto-
rica, non interamente poetica: non è la tale donna nel
tale e tale stato dell' animo , ma è la Donna , non vela
0 simbolo di qualcos' altro, ma la donna, come bella. Non
ci è ancora V individuo ; ci è il genere. In quella quie-
tudine dell' aspetto , in quella serenità della forma ci è
r ideale femminile ancora divino, sopra le passioni, fuori
degli avvenimenti, non tocco da miseria terrena, che il
poeta crederebbe profanare, calandolo in terra e facen-
dolo creatura umana. La chiama una Dea, ed è una Dea;
— 270 ^
non è ancor donna. Sta ancora sul piedistallo di statua;
non è scesa in mezzo agli uomini, non si è umanata. Co-
loro i quali vogliono leggere nell'anima di questo essere
muto e senza espansione e cercarvi il suo segreto, fanno
il contrario di quello che volle il poeta, cercano la donna
dov' egli vedea la Dea. Certo a' nostri occhi Laura dee
parere una forma monotona, e anche talora insipida; ma
chi si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverà in
Laura la creatura più reale che il medio evo poteva
produrre.
La vita di Laura diviene umana appunto allora cha
è morta ed è fatta creatura celeste. Qui 1' amore non
può aver niente più di sensuale ; è 1' amore di una morta,
viva in cielo, e può liberamente spandersi. Non vedi più
i capei d' oro, e le rosee dita e il bel piede , dal quale
r erbetta verde e i fiori di color mille desiderano d'esser
tocchi. Pure questa Laura non dipinta è più bella, e so-
prattutto più viva, perchè meno alteì^a, meno Dea e più
donna, quando apparisce all'amante, e siede sulla sponda
del suo letto , e gli asciuga gli occhi con quella mano
tanto desiata ; e salendo al cielo fra gli Angioh si volge
indietro come aspetti qualcuno ; e nella suprema beati-
tudine desidera il bel corpo e l'amante, ed entra con lui
in dolci colloqui. Così il mistero di Laura si scioglie nel-
r altro mondo , come è nella Commedia : tutte le con-
traddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del reale ,
tolta di mezzo la carne, divenuta creatura libera dell' im-
maginazione. Laura par fuori con chiarezza, acquista un
carattere, dove ci è la Santa, e ci è soprattutto la donna.
Esseri taciturni e indefiniti, mentre vivono, Beatrice e
Laura cominciano a vivere, appunto quando muojono.
E il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In vita di
Laura, sorge l'opposizione tra il senso e la ragione, tra
la carne e lo spirito. Questo concetto fondamentale del
medio evo, se nel Petrarca è purificato deUa sua forma
— 271 —
simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo credo
cristiano e filosofico. L' opposizione era sciolta teorica-
mente con l'amicizia platonica o spirituale, legame d'ani-
mo, puro di ogni concupiscenza ; dalla quale astrazione
non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita, senza
sangue , dove non trovi ne 1' amante , né 1' amata , né
l'amore. Vi sono momenti nella vita del Petrarca abba-
stanza tranquilli e prosaici, perchè egli si possa dare a
questo spasso. Allora riproduce la scuola de* Trovatori
con tutt' i suoi difetti ; in una forma eletta e vezzosa ,
ohe U pallia. E vi trovi il convenzionale , il manierato,
le regole e le sottigliezze del Codice d' amore , soprat-
tutto concettoso , dotato com' era di uno spirito acuto.
Non coglie sé stesso nel momento della impressione; la
impressione è passata, e se la mette dinanzi e la spiega,
come critico o filosofo : hai un di là dell'impressione, la
impressione generalizzata e spiegata , come è nella più
parte de' suoi sonetti in vita di Laura ; antitesi, freddure,
sottighezze, ragionamenti, in forma pretensiosa e civet-
tuola. Allora tutto è chiaro ; tutto è spiegato con Pla-
tone e col codice d'amore; hai il solito contenuto hrico
allora in voga sulla donna, sull' amore , pomposamente
abbigliato. Trovi un maraviglioso artefice di verso, un
ingegno colto, ornato, acuto, elegante; non trovi ancora
il poeta e non l'artista. Ma nel momento delle impres-
sioni , tra le sue irrequietezze e agitazioni , circuito di
fantasmi, par fuori la sua personalità ; trovi il poeta e
l'artista. Quello che sente è in opposizione con quello cho
crede. Crede che la carne è peccato ; che il suo amore
è spirituale ; che Laura gli mostra la via che al ciel
conduce ; che il corpo è un velo dello spirito. E se in
questo credo trovasse ogni suo appagamento, avremmo
Dante e Beatrice. Ma non vi si appaga; l'educazione clas-
sica e r istinto dell'artista si ribella contro queste astra-
zioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno
— 272 —
spìrito nuovo, il senso del reale e del concreto, cosi svi-
luppato ne' pagani. Non vi si appaga l'artista, e non vi
si appaga l'uomo ; perchè si sente inquieto, non ben si-
curo di quello che crede e vuol far credere, e sente il
morso del senso, e tutte le ansietà di un amore di donna.
Scoppia fuori la contraddizione, o il mistero. Il suo amore
non è cosi possente che lo metta in istato di ribellione
verso le sue credenze, né la sua fede è cosi possente che
uccida la sensualità del suo amore. Nasce un fluttuar
continuo di riflessioni contraddittorie , un si ed uu no ,
un voglio e non vogUo.
Io medesmo non so quel che mi voglia.
Nasce il mistero dell' amore, che ti offre le più diverse
apparenze, senza che il poeta giunga ad averne chiara
conoscenza :
Se amor non è, che dunque è quel che io sento
Ma s'egli è amor, per Dio che cosa e quale?
Manca ai Petrarca la forza di sciogliersi da questa
contraddizione, e più vi si dimena, più vi s' impiglia. Il
Canzoniere in vita di Laura è la storia delle sue con-
traddizioni. Ora gU pare che contraddizione non ci sia, e
unisce in pace provvisoria cielo e terra, ragione e senso,
gli occhi che mostrano la via del cielo e gli occhi alfin
dolci tremanti.
Ultima speme de* cortesi amori
Sono i suoi momenti di sanità e di forza, di entusia-
smo più artistico che amoroso, dal quale escono le vi-
vaci descrizioni del bel corpo, e le tre canzoni sorelle.
Ora si sente inquieto, e si lascia ir dietro alla corrente
delle impressioni e delle immagini, e vede il meglio e al
peggio s'appiglia, come conchiude nella canzone
r Yo pensando e nel pensier m'assale.
dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione . e il
senso, la ragione che parla e il senso che morde. E ci
son pure momenti che la ragione piglia il di sopra, e si
volge a Dio, e si confessa, e fa proposito di svellere dal
suo cuore il falso dolce fuggitivo,
Che il mondo traditor può dare altrui.
Non e' è dunque nel Canzoniere una storia, un andar
graduato da un punto all' altro ; ma è un vagar conti-
nuo tra le più contrarie impressioni, secondo le occasioni
0 lo stato deir animo in questo o quel momento della
vita. Non ci è storia, perchè nell'anima non ci è una
forte volontà, né uno scopo ben chiaro; perciò è tutta
in balia d' impressioni momentanee, tirata in opposte di-
rezioni. Di che nasce un difetto d' equilibrio, la discor-
dia 0 la scissura interiore. Il reale comparisce la prima
volta nell'arte, condannato, maledetto, chiamato il falso
dolce fuggitivo, pur desiderato, di un desiderio vago che
si appaga solo in immaginazione, debolmente contrad-
detto e debolmente secondato. Minore è la speranza, più
vivo è il desiderio, il quale, mancatagli la realtà, si ap-
paga in immaginazione. Nasce una vita di sogni, di estasi,
di fantasie, di quello che l'animo desidera , non con la
speranza di conseguirlo , anzi con la coscienza di non
conseguirlo mai. Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli
piace sognare,
E più certezza averne fora il peggio.
Perchè se per averne più certezza, rompe il corso del-
l' immaginazione, sopraggiunge il disinganno. Cosi vive
in fantasia, fabbricandosi godimenti interrotti spesso dalla
riflessione con un : hai lasso ! in un flutto perenne d' il-
lusioni e disillusioni. Il disaccordo interno è appunto in
questo^," nella immaginazione che costruisce e nella ri-
De Sanotis — Leu. Ital. Voi. I. 18
— 274 —
flessione che distrugge: malattia dello spirito, nata ap-
punto dair esagerazione dello spiritualismo , lo spirito non
è sano, perchè a forza di segregarsi dalla natura e dal
senso si trova alfine di rincontro e ribelle 1' immagina-
zione, e r immaginazione non è sana, perchè ha di rin-
contro a sé e ribelle la riflessione, che in un attimo le
dissipa i suoi castelli incantati. Lo spirito rimane pura
riflessione o ragione astratta, e non ha forza di sotto-
porsi la volontà, per il contrasto che trova nell' imma-
ginazione. L'immaginazione rimane pura immaginazione,
e non ha forza sulla volontà, non lavora a realizzare i
suoi dolci fantasmi per il contrasto che trova nella ri-
flessione. Se una delle due forze potesse soggiogar l'al-
tra, nascerebbe 1' equilibrio e la salute ; ma le due forze
lottano senza alcun risultato, non si giunge mai a un
virile : io voglio ; ci è al di dentro il sì e il no in eterna
tenzone; perciò la vita non esce mai al di fuori in un
risultato, in un' azione, rimane pregna di pensieri e im-
mam'nazioni tutta al di dentro :
*&■
In questi pensier, lasso,
Tienmi dì e notte il Signor nostro, Amore.
Lo spirito consuma sé stesso in un fantasticare inu-
tile e in una inutile riflessione. È punito là dove ha pec-
cato. Ha voluto assorbir tutto in sé e ora si trova solo,
e si ciba di sé stesso ed è egli medesimo il suo avol-
tojo. Stanco, svogliato, disgustato di una realtà a cui si
sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle
al mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne
fa il suo eremo , e rimane solo con sé stesso a fanta-
sticare, solo e pensoso, incalzato dal suo interno avoltojo:
Solo e pensoso i più deserti campi
Vo misurando a passi tardi e lenti.
Da questa situazione sono uscite le due^più profonde
cajizoni dermpfTio "èvòT^'^i^^ nota, l'altra assai
popolare, amendue poco studiate, T una che incomincia:
Di pensierein__£ensier, di monte in monte;
Taltra che incomincia:
Chiare, fresche e dolci acgLue.
Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza
della sua malattia , di questa attività interna inutile e
oziosa, una specie di lenta consunzione dello spirito, im-
potente ad uscir da sé e attingere il reale, avremmo la
tragedia dell'anima, come Dante ne concepì la comme-
<lia, una tragedia, nella quale il medio evo avrebbe ri-
conosciuto la sua impotenza e la sua condanna; tra' do-
lori della contraddizione vedremmo il misticismo morire,
spuntare 1' alba della realtà , il senso o il corpo , pro-
scritto e dichiarato il peccato, ripigUare la parte che gli
tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza vi-
rilità. Gli manca la forza che abbondò a Dante d' idea-
lizzarsi nell' universo; e rimanendo chiuso nella sua in-
dividualità, gli manca pure ogni forza di resistenza: sì
che la tragedia si risolve in una fl<'bile elegia. Il poeta
si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in la-
menti. Acuto più che profondo non guarda negli abissi
del suo male e si contenta descriverne i fenomeni con-
densati in immagini e in sentenze rimaste proverbiali.
Tenero e impressionabile, capace più di emozioni, che di
]).issioni, non dimora lungamente nel suo dolore, che vien
]' resto r alleviamento, lo scoppio delle lacrime e de' la-
laenti. Artista più che poeta, è disposto a consolarsi fa-
cilmente, quando l' immaginazione abbia virtù di offrir-
gli un simulacro di quella realtà di cui sente la priva-
zione:
— 276 —
In tante parti e si bella la veggio,
Che se V error durasse^ altro non chieggio.
La famiglia., la patria, ia natura;, 1' amore soao per i!
poeta, com' ej;a IDante, cose reali:, clie riempiono la vita
e -le (làimw muq -soopo. Per il Petrarca sono principal-
mente jmateria 'di Tap|)resentazione : l'immagine per lui
vale la >cosa. Ma 'Come ci è insieme in lui la coscienza
che ò T iiiaMnagiiae, e nion la cosa, la sua soddisfazione
non è -intenij, ca è ili fai^do un sentimento della propria
inajpotei/i/za^ «ci è i|Mast«; non potendo avere la realtà, mi
a|>j)iig.o (de«l sjaa simulacro. Onde nasce un sentimento ele-
gT;aeF"^teg~;^iw^Ìi7malincoma sentimento di tutte le
anime ìeiaèii^^ «clii iioh^ lèggono lungamente allo strazio,
e non ©sano guardare in viso il loro male, e si creano
amabili fantasmi e dolci illusioni. Manca al suo strazio
r elevata coscienza della sua natura eia profondità del
sentimento. Ci è anzi in luì la tendenza a dissimular-
selo, cercaado scampo nella benefica immaginazione. La
fìsonomia di questo stato del suo spirito è scolpita nella
canzone
Chiare, fresche e dolci acque,
cielo fosco e funebre che a poco a poco si rasserena nei
più cari diletti dèli' immaginazione, insino a che da ul-
timo divien luce di paradiso:
Costei per fermo nacque in paradiso.
H poeta è cosi attirato in questo mondo fabbricatogli
dall' immaginazione, che quando si riscuote, domanda :
Qui come venn' io, o quando ?
Il suo obblio, il suo sogno era stato così tenace, così
simile alla realtà, che gli pareva essere in cielo, non là
dov' era. Questa dolce malinconia è la verità della sua
ispirazione, è il suo genio. Quando si sforza di uscirne,
spunta spesso il retore : le sue collere, le sue ammira-
— 277 —
zioni non sono senza una esagerazione e ricercatezza, che
rivelano lo sforzo. Ma quando vi s' immerge e vi si an-
nega, la sua forma acquista il carattere della verità con-
giunta con la grandezza, è un modello di semplicità e
naturalezza.
Gli è che Natura, negandogli le grandi convinzioni e
3e grandi passioni e lo sguardo profando di Dante , ne
aveva fatto un artista finito. L'immagine appaga in luì
non solo 1' artista, ma tutto l'uomo. Senza patria, senza
famiglia, senza un centro sociale in mezzo a cui viva
altro che letterario, ritirato nella solitudine dello studio
e nell'intimo commercio degU antichi, la verità e la se-
rietà della sua vita è tutta in queste espansioni esteti-
che, come la vita del Santo è nelle sue estasi e contem-
plazioni. Dante è sbandito da Firenze, ma la sua anima
è sempre colà. Il Petrarca è costretto a dimostrare la
sua italianità :
Non è questo il terrea eh' io toccai prima ?
A Dante non fa bisogno di rettorica. Si sente italiano,
e ne ha tutte le passioni, e ne senti il fremito e il tu-
multo nella sua poesia. Ciò che al contrario ti colpisce
nel mondo personale e solitario del Petrarca è la pri-
vazione della realtà, e un desiderio di essa scemo di
forza che si appaga ne' docili sogni dell' immaginazione.
Tutto converge noli' immaginazione; tutto gli si offre
come un sensibile : il pensiero e il sentimento sono in lui
contemplazione estetica, bella forma. Ciò che l'interessa,
non è entusiasmo intellettuale , né sentimento morale o
patriottico, ma la contemplazione per sé stessa, in quanto
è bella, un sentimento puramente estetico. Laura piange :
egli dice: quanto son b(^lle'quene''làcrime ! Laura muo-
re; egli dice:
Morte bella pa :ì nel suo bel viso.
Fantastica sulla sua morte. Ed ecco Laura che prega
sulla sua fossa, •
Asciugandosi gli occhi col bel velo.
La bellezza per Dante è apparenza simbolica, la bella
faccia della sapienza : dietro a quella ci sta la vita nella
sua serietà, vita intellettuale e morale. Qui la bellezza,
emancipata dal simbolo, si pone per sé stessa, sostan-
ziale, libera, indipendente, quale si sia il suo contenuto,
sia pure indifferente, o frivolo o repugnante. Il conte-
nuto, già così astratto e scientifico , anzi scolastico , qui
pare per la prima volta essenzialmente come bellezza
schietta, realtà artistica. Al Petrarca non basta che l'im-
magine sia viva, come bastava a Dante; vuole che sia
bella. Ciò che move il suo cervello a sviluppare e for-
mare l'immagine, non è l'idea, come storia, o filosofia,
0 etica, ma è il piacere estatico che in lui s' ingenera
della sua contemplazione.
Questo sentimento della bella forma è cosi in lui con-
naturato, che penetra ne' minimi particolari deh' elocu-
zione, della lingua e del verso. Dante anche nei più mi-
nuti particolari di esecuzione guarda il di dentro, e non
lo perde mai di vista, perchè è il di dentro che l'ap-
passiona; il Petrarca rimane volentieri al di fuori, e non
resta che non 1' abbia condotto all' ultima perfezion tec-
nica. Nelle immagini, ne' paragoni, nelle idee non cerca
novità e originalità, anzi attinge volentieri ne' classici e
ne' trovatori , intento non a cercare o trovare, ma a dir
megho ciò che è stato detto da altri. L' obbiettivo della
sua poesia non è la^cosa, ma l'immagine, il modo di
rappresentarla.lS''reca a tanta finitezza 1' espressione che
la hngua , 1' elocuzione , il verso finora in uno stato di
continua e progressiva formazione acquistano una forma
fìssa e definitiva, divenuta il modello de' secoli posteriori.
La lingua poetica è anche oggi, quale il Petrarca ce la
— 279 —
lasciò , né alcuno gli è entrato innanzi negli artifici del
verso e dell' elocuzione. Quel tipo di una lingua illustre
che Dante vagheggiava nella prosa, il Petrarca lo ha
realizzato nella poesia, dalla quale è sbandito il rozzo,
il disarmonico, il Volgare, il grottesco e il gotico, eie-
nienti che pur compariscono nella Commedia. E una forma
bella non solo per rispetto all' idea , ma per sé stessa,
aulica, aristocratica, elegante^, melodiosa. La parola vale
non solo, come segno, ma come parola. Il verso è non
solo armonia, o rispondenza con quel di dentro, ma me-
lodia, elemento musicale in se stesso.
Ma questa bella forma non è un puro artificio tec-
nico 0 meccanico, una vuota sonorità, anzi vien fuori da
una immaginazione appassionata e innamorata, che ha
il S'IO riposo, il suo ultimo fine in sé stessa. È una im-
maginazione chiusa in sé, non trascendente, che di rado
si alza a fantasia o a sentimento, anzi rifugge dal fan-
tasma, e tende spesso a produrre immagini finite , ben
contornate, chiare e fisse. E se vi si appagasse, sarebbe
poesìa assolutamente pagana e plastica. Ma il grande
artista ne' momenti anche più geniah della produzione
sente come un vuoto, qualche cosa che gU manchi, e
non è soddisfatto, ed è malinconico. Che gli manca 'f
Gii manca, com' è detto, il possesso e il godimento e
la serietà e la forza della vita reale. Come artista si
sente incompiuto ; come immaginazione si sente isolato;
vivereJaiiiunaginazione gli piace; pur sente che là non
è la_vita^_e_vi trova sollievo, non appagamento. Questo
sentimento del vuoto che penetra ne' più cari diletti del-
l' immaginazione, e li tronca bruscamente, questa imma-
ginazione che appunto perchè si sente immaginazione e
non realtà, produce le sue creature con la lacrima del
desiderio negli occhi, questo desiderio inestinguibile che
pullula dal seno stesso dell' arte e la chiarisce ombra e
simulacro, e non coaa viva, sono il fondo originalo o
— 280 —
moderno della poesìa petrarchesca. L' immagine nasce
trista, perchè nasce con la coscienza di essere immagine,
^ e non cosa, e lo strazio di questa coscienza è raddol-
' cito, perchè non ci essendo la cosa, ci à V immagine, e
cosi bella, così attraente. Situazione piena di misteri, di
contraddizioni e di chiaroscuri, che genera quel non so
che dolce amaro, detto malinconia, un sentirsi consu-
ltare e struggere dolcemente :
Che dolcemente mi consuma e strugge.
La malinconia è la Musa cristiana, è il male di Dante
e de' più eletti spiriti di quel tempo. Ma la malinconia
del Petrarca e della nuova generazione che gli stava
attorno è già di un' altra natura e accenna a tempi
nuovi.
La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso
del medio evo, che poneva il fine della vita in un di là
della vita , nella congiunzione dell' umano e del divino,
che è la base della divina Commedia. Le anime del pur-
gatorio sono malinconiche, perchè sospirano appresso ad
un Bene , di cui hanno innanzi la sola immagine nelle
pitture, ne' sìmboh , nelle visioni estatiche. Quei godi-
menti dell' immaginativa aguzzano più il desiderio. Non
basta loro l' immagine ; vogliono la realtà ; e questo vo-
lere raddolcito alla presenza d^^l simulacro genera la loro
malinconia. Sono prive del paradiso, ma lo veggono in
immaginazione, e sperano di salirvi quando che sia: per-
ciò sono contente nel fuoco. La condizione delle anime
purganti è molto simile a quella degli uomini nella vita
terrena : è lo stesso tarlo che li rode. La vita corporale
è un velo, un simulacro di quel di là che la fede e la
scienza offriva chiarissimo all' intelletto e all' immagi-
nazione; perciò la vita corporale era in sé stessa il pec-
cato 0 la carne, l' inferno, il vasello o la prigione, dove
r anima vive malinconica : il giorno della morte è per
— 281 —
r anima il giorno della vita e della libertà. Non che pro-
fondarsi nel reale, e cercare di assimilarselo, l'anima
tende a separarsene, e vivere in ispirito o in immagi-
nazione, fabbricandosi un simulacro di quel di là a cui
spera di giungere: indi la tendenza all' ascetismo, alla
solitudine, all' estasi e al misticismo. Questa era la ma-
linconia di Caterina quando dicea: rauojo, e non posso
morire.
La stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Pe-
trarca. Anch' egli cerca fabbricarsi ombre e simulacri di
Laura, anch' egli cerca 1' obblio e il riposo ne sogni del-
l'immaginazione. Quando la santa e il poeta s' incontra-
rono in Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto
parenti di spirito. Il poeta aveva la stessa inclinazione
alla solitudine, alla contemplazione, al raccoghmento, al-
l' estasi, alla malinconia. E se guardiamo all' apparenza,
e' era in tutti e due le stesse credenze e le stesse aspi-
razioni. Quel muojo e non posso morire corrisponde bene
a questo grido del poeta:
Aprasi la prigione ov' io son cliinso,
E che '1 cammino a tal vista mi serra.
Ikia qui fiutate la rettorica, e là avete 1' espressione nuda
ed energica di un sentimento che investe tutta 1' anima
e consuma la santa a trentatrè anni. Questa concentra-
zione ed unità delle forze intorno ad un punto solo, in
che è la serietà della vita , mancò al Petrarca. Il suo
mondo è pur quello di Caterina e di Dante , mondato
della sua scorza scolastica e simbolica, ridotto in forma
più chiara e artistica, ma pur quello. Se non che questo
mondo mistico non lo possiede tutto, e sovrano e in-
discusso nella mente non tira a sé tutte le forze della
vita. È in lui visibile una dispersione e distrazione di for-
ze, come di uomo tirato di qua e di là da contrarie cor-
renti, che vorrebbe pigliar la sua via e non se ne sente
-~ 282 —
la forza, e vaga in balia dei flutti scontento e riluttante.
La bella unità di Dante, che vedeva la vita nell' armo-
nia dell' intelletto e deli' alto mediante 1' amore, è rotta.
Qui ci è scompiglio interiore, ribellione, contraddizione;
E veggio il meglio ed al peggior m' appiglio.
La malinconia di Caterina è l' impazienza del morire,
di unirsi con Cristo ; la malinconia di Dante è la disso-
nanza fra il mondo divino e la selva oscura, la vita ter-
rena, malinconia piena di forza e di speranza, che si
scioglie neir azione. La malinconia del Petrarca è la co-
scienza della sua interna dissonanza, e della sua impo-
tenza a conciliarla, malinconia insanabile, perchè il malo
non è nell'intelletto, è nella volontà non certo ribelle,
ma debole e contraddittoria. Per palliare la dissonanza
esce in mezzo la sofìstica e la rettorica, con le più sma-
glianti frasi, con le più sottiU distinzioni; intervalli di
tregua, che fanno risorgere più acuta la coscienza del
male. Gli è che il medio evo è già nel suo petto in fer-
mentazione, penetrato di altri elementi, senza che egli
abbia una distinta coscienza di questo nuovo stato; ac-
canto al cristiano ascetico ci è 1' erudito, il letterato, lo
artista, il pagano , l' uomo di mondo con tutti gì' istinti
e le tendenze naturali, ch^ vogliono farsi valere. Si forma
^ in lui un essere contraddittorio, come ne' tempi di tran-
^ sizione , che non è ancora 1' uomo nuova, e non è più
r uomo antico, i
La malinconia del Petrarca non è dunque più la ma-
linconia del med'o evo, di un mondo formato e trascen-
dente, che rende quaggiù malinconico lo spirito "per il
suo legame a quel corpo, ma è la maUnconia di un mondo
nuovo che oscuro ancora alla coscienza si sviluppa in
seno al medio evo e ci sta a disagio, e tende a sprigio-
narsene , e non ha la forza per la resistenza che trova
neir intelletto. L' intelletto appartiene al medio evo, alle
— 483 —
cui dottrine ha tolta la ruvida scorza, non la sostanza. .
Quel mondo nuovo, plastico, pagano, reazione della na- 1
tura contro il misticismo, è ancora così debole, cosi poco
lineato, che V intelletto può condannarlo e maledirlo, o
assimilarselo con una sofistica apparenza di conciliazione,
e se cacciato dalla vita reale riapparisce nelF immagi-
nazione, può penetrare anche colà e dirgli: tu non sei che
un fantasma.
Se in vita di Laura questo sentimento nuovo che sorge,
più vicino air uomo e alla natura, è dissimulato co' più
ingegnosi sofismi, quasi peccato che si cerchi di pallia-
re, dopo h morte di Laura purificato e trasformato si
manifesta con più energia. Beatrice morta diviene per
Dante la scienza, la voce di quel mondo di là, ov' era
lo scopo della vita. La storia di Beatrice è sviluppo di
idee e di dottrine nella Lirica e nella Commedia. Il suo
riso è luce intellettuale, raggio dell' intelletto. La storia
di Laura è profondamente umana e reale, eco de' più de-
licati sentimenti, delle più tenere emozioni, delie più vi-
vaci impressioni che colpiscono 1' uomo in terra.
La poesia in vita di Laura è dominata dall' intelletto,
da una riflessione sofistica e rettorica che altera la pu-
rità de' sentimenti, e sottilizza le immagini, e raffredda
le impressioni , e con vani sforzi di conciliazione mette
più in vista quel si e quel no che battagliavano nella
debole volontà delJape^^. In morte di Laura ogni bat-
taglia cessa e non^i è più vestigio di sofismi e di ret-
torica , perchè la conciliazione cercata finora così in-
gegnosamente e non conseguita è già avvenuta per la
natura delle cose. Laura morta diviene libera creatura
dell' immaginazione , non più persona autonoma e resi-
stente, ma docile fjintasma. Il poeta ne fa la sua crea-
tura, può darle alTetti e pensieri, quali gli piaccia : può
piangerla, vederla, parlare seco, vivere seco in ispirito.
La situazione è semi>lice e umana. È la donna amuta,
— 284 —
sparita dalla terra, che ti apparisce in sogno e ti asciu-
ga gli occhi e ti prende per mano e ti parla: consola-
zioni malinconiche , interrotte da una lagrima , quando
ti svegli. Dante si asciuga presto la lacrima , e si getta
fra le onde agitate dell'esistenza, e si rifa un ideale e lo
chiama Beatrice. A lui manca il tempo di piangere, per-
chè tiene nel suo petto due secoli, ed ha la forza di com-
prenderli e realizzarli. Il Petrarca giunge qui, che è già
stanco e disgustato dell' esistenza, vi giunge con V ani-
ma di solitario e di romito, e non ha altra forza che di
piangere :
Ed io son un di quei che il pianger giova.
Piange la fine delle illusioni, il vacuo dell' esistenza,
il perire di tutte le cose :
Veramente siam noi polvere ed ombra.
Cosi dopo vane speranze e vani timori, quest' anima te-
nera e impressionabile rinunzia alla lotta, e si abbando-
na, e si separa da un mondo, dove invano erasi sfor-
zata di penetrare, e si ritira nella solitudine della sua
immaginazione con Laura, chiamando partecipe de' suoi
lamenti 1' usignuolo, e il vago augelletto, e la valle e il
bosco e r aura e 1' onda. La scissura interna dà kogo
ad una calma elegiaca; il cuore stanco si riconcilia con
l'intelletto. Il passato, cagione di gioje e di affanni, gli
pare un sogno; la vita gU pare insipida; vivere è un bre-
ve sonno; morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti; quando
gli occhi si chiudono, allora si aprono neh' eterno lume;
il mondo cristiano, non contraddetto mai dal suo intel-
letto, ora penetra nel suo cuore, gli appare come un
mondo nuovo, che dipinge con accenti di meraviglia:
Come va il mondo ! or mi diletta e piace
Quel che più mi dispiacque ; or veggio e sento-
€be per aver sJute ebbi tormento
E breve guerra per eterna pace
— 285 —
Ecco in che moda raj^resenta. questo nuovo stàirma
suo inno alla Vergine:
Da poi cb*io nacqui in: su la riva d'Arno,
Cercando or q.iiesta,. ora qu«ir altra parte,
KoQ è stata mia. vfta altro^ che affanno.
Mortai bellezza, atti e parole m' hanno
Tutta ingombrata, l»* alma,
Non tardar r eh* ito son forse all' ultimo anno,
I dì miei più correnti che saetta
Fra miserie e peccati
Sonsene andati ; e sol morte ne aspetta.
Quest' uomo che gitta sul passato lo sguardo del disin-
ganno , che chiama la sua vita miseria e peccato , che
vede gli anni fuggiti con tanta rapidità senza alcun frutto,
ben si promette di fare un altro canzoniere alla Vergi-
ne , ma è troppo tardi. Ornai son stanco ! grida. E se
ne' Trionfi cerca d'ingrandire il suo orizzonte, e uscire
da sé e contemplare V umanità ; ciò che ne' suoi versi ha
ancora qualche interesse, è il suo passato che i vecchi
hanno il privilegio di evocare, rifirne qualche fram-
mento ; è soprattutto il sogno di Laura , tanto imitato
da noi.
Chi legge il Canzoniere, non può non ricevere questa
impressione, di un mondo astratto, rettorico, sofìstico,
quale fu foggiato da' Trovatori, dove appariscono senti-
menti più umani e reali e forme più chiare e rilevate,
0 se vogliamo guardare più alto di un mondo mistico-
scolastica oltreumano, ammesso ancora dall' intelletto, ma
repulso dal cuore e condannato dall' immagina/Jone. So
guardiamo alla riforma, quel mondo ha perduto il suo a-
spetto simbolico-dottrinale, che lo teneva al di là della vita
e dell'arte, e si è umanizzato, è divenuto immagine e sen-
timento ; il tempio gotico si è trasformato in un bel tem-
pietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luca
-" 286 -~
eguale, con perfetta simetria, ispirata da Venere, dea
della bellezza e della grazia. Il grottesco, il gotico gli
angoli, lo punte, le ombre, l' indefinito, il dissonante, il
prolisso, il superfluo, il volgare, il difforme/ tutto è cac-
ciato via da questo tempio dell'armonia, maraviglia di
arte, che chiude un secolo e ne annunzia un altro. L'ar-
tista gode; l'uomo è scontento. Perchè sotto a questa
bella forma cosi levigata e pulita vive un povero core
d' uomo, nutrito di desiderii e d' immagini, a cui lo tira
la natura, da cui lo allontana la ragione, senza la forza
di uscire dalla contraddizione e senza la ferma volontà
di reahzzarle. L' uomo è minore dell' artista. L' artista
non posa che non abbia data 1' ultima finitezza al suo
idolo ; r uomo non osa di guardarsi , e abbozza i moti
del proprio cuore, e salta nelle più opposte direzioni, quasi
tema di fermarsi troppo, di esser costretto a volere e a
risolversi. Perciò quella bella superfìcie riman fredda; non
ha al di sotto profondità di esplorazione, o energia dì
volontà e di convinzione. La situazione poteva esser tra-
gica, rimane elegiaca; poesia di un' anima debole e te-
nera, che si effonde malinconicamente in dolci lamenti,
assai contenta, quando possa vivere in immaginazione e
fantasticare ; 1' uomo svanisce neh' artista. Gli è che a
quest' uomo mancava quella fede seria e profonda nel pro-
prio mondo, che fece di Caterina una Santa, e di Dante
un poeta. Quel mondo giace nel suo cervello già decom-
posto e in fermentazione, mescolato con altre Divinità.
Ciò che di più serio si move nel suo spirito, il senti-
mento dell' arte congiunto con 1' amore deli' antichità e
dell' erudizione. È in abbozzo 1' immagine anticipata dei
secoh seguenti di cui fu l' idolo. L' arte si afferma come
arte, e prende possesso della vita.
Cosi il medio evo, quando appena cominciava a svi-
lupparsi negh altri popoli, presso di noi per una pre-
coce cultura si dissolveva prima che avesse potuto espii-
— 287 —
carsi in tutti gli aspetti deli' arte e produrre a forma
drammatica. Dante che dovea essere il principio di tutta
una letteratura, ne fu la fine. Quel mondo così perfetto
al di fuori e al di dentro scisso e fiacco ; è contempla-
zione d' artista, non più fede e sentimento. Questa disso-
nanza, tra una forma così finita e armonica e un con-
tenuto così debole e contraddittorio ha la sua espressione
ne' sentimenti che prevalgono a' tempi di transizione^ la
mahnconia, la tenerezza, la delicatezza, il molle e volut-
tuoso fantasticare. E l' illustre malato , abbandonato ai
flutti di questo doppio mondo, di un mondo che se ne va
e di un mondo che se ne viene e che con tanta dolcezza
e grazia rappresenta una contraddizione a sciogher la
quale gli manca la coscienza e la forza , è Francesco
Petrarca.
IX.
IL DECAMEROxNE
Se ora apri il Becamercne, letta appena la prima
novella^ gli è come un cascar dalle nuvole, e un doman-
darti col Petrarca: «Qui come venn' io o quando?»
Non è una -evoluzione, ma è una catastrofe, o una ri-
voluzione , che da un dì all' altro ti presenta il mondo
mutato. Qui trovi il medio evo e non solo negato, ma
canzonato.
Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi
secoh, con questa differenza, c^e ^l Molière te ne fa ve-
nire disgusto e ribrezzo , con l' intenzione di concitare
gli uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si
spassa con l' intenzione meno d' irritarti contro l'ipocrita,
che di farti ridere a spese del suo confessore e de' cre-
duU frati e della credula plebe. Perciò V arma del Mo-
lière è r ironia sarcastica ; r arma del Boccaccio è l'al-
legra caricatura. Per giungere a queste forme e a questa
— 288 — .
intenzioni bisogna andare fino a Voltaire. Giovanni Boc-
caccio sotto un certo aspetto fu il Voltaire del seccia
decimoquarto.
Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli gua-
stò e corruppe lo spirito italiano. Egli medesimo in vec-
chiezza fu preso dal rimorso e finì chierico, condannando
il suo libro. Ma quel libro non era possibile se nello spi-
rito italiano non fosse già entrato il guasto , se guasto
s' ha a dire. Ove le cose, di cui ride il Boccaccio, fos-
sero state venerabili, poniamo pure eh' egli avesse po-
tuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita in-
dignazione. Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere
a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle
anime, parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel
loro segreto, e fu applauditissimo con tanto successo
che il buon Passavanti se ne spaventò e vi oppose corno
antitodo lo Specchio di penitenza. Il Boccaccio fu dun-
que la voce letteraria di un mondo, quale era già con-
fusamente avvertito nella coscienza. G' era un segreto ,
egli lo indovinò, e tutti batterono le mani. Questo fatto
in luogo di essere maledetto, merita di essere studiato.
Il carattere del medio evo è la trascendenza, un di là
oltreumano ed oltre naturale, fuori della natura e del-
l' uomo, il genere e la specie fuori delF individuo, la ma-
teria e la forma fuori della loro unità, l'intelletto fuori
dell'anima, la perfezione e la virtù fuori della vita, la
legge fuori della cosciènza, lo spirito fuori del corpo, e
lo scopo della vita fuori del mondo. La base di questa
teologia filosofica è l'esistenza degh universali. Il mondo
fu popolato di esseri o intelligenze, sulla cui natura molto
si disputò : sono esse idee divine ? Sono generi e specie
reali? sono specie intelligibiU ? Questo edificio gemeva
già sotto i colpi dei nominalisti, cioè di quelli che ne-
gavano r esistenza de' generi e delle specie , e li chia-
mavano puri nomi , e dicevano esistere solo il singolo,.
— 289 ^
r individuo. Sulla loro bandiera era scritto un motto di-
venuto così popolare : Non bisogna moltiplicare enti senza
necessità. ;:iu;i [Ili j
L'ascetismo' 'èra il frutto naturale di un mondo teo-
cratico spinto air esagerazione. La vita quaggiù perdeva
la sua serietà e il suo valore. L' uomo dimorava con lo
spirito neir altra vita. E la cima della perfezione fu posta
neir estasi, nella preghiera e nella contemplazione.
Cosi nacque la letteratura teocratica, cosi nacquero
le leggende, l misteri, le visioni, le allegorie : così nac-
que la commedia, il poema dell'altra vita.
Il pensiero non aveva intimità, non calava nell' uomo
e nella natura, ma se ne teneva fuori, tutto intorno alla
natura e alla qualità degli Enti, che erano le stesse forze
umane e naturali sciolte dall' individuo ed esistenti per
sé stesse. Le astrazioni dello spirito divennero esseri vi-
venti. E perchè le astrazioni, frutto dell'intelletto ine^
sauribile nelle sue distinzioni e suddistinzioni, sono in-
finite , questi esseri moltiplicarono nell' acuto intelletto
degli scolastici. Coma il mondo scolastico fu popolato dì
esseri astratti, così il mondo poetico fu popolato di es-
seri allegorici, 1' uomo, V anima , la donna , 1' amore, le
virtù, i vizii. Non erano persone, come le pagane divi-
nità; erano semplici personificazioni.
Il sentimento, come frutto di inclinazioni umane e na-
turali, era peccato. Le passioni erano scomunicate. La
poesia era madre di menzogne. Il teatro cibo del diavolo.
La novella e il romanzo generi di letteratura profani.
Tutto questo si chiamava il senso, e il luogo comune
di questo mondo ascetico era la lotta del senso con la
ragione, da fra Guittone a Francesco Petrarca. Il sen-
timento reietto come senso e costretto ad esser ragione,
strappato dal cuore umano , divenne anch' esso un uni-
versale, un fatto esteriore, ora simbolico, ora scolastico,
0, come si diceva, platonico. Il padre dei sentimenti, l'a-
De SanotiB — Leu. Hai. Voi. I. l)
— 290 —
more, divenne un fatto filosofico, forza unitiva, unità
dell' intelletto e dell' atto. Cosi nacque la lirica platonica
dal Guinicelli al Petrarca. Il senso e l' immaginazione si
ribellavano contro questo platonismo. Ed è in questa ri-
bellione, ancoraché poco scrutata e poco accentuata, che
è la grandezza della lirica petrarchesca. Rappresentare i
moti del cuore e della immaginazione nella loro natura-
lezza e intimità era vietato. E colui che più gustò di
questo frutto proibito, fu il Petrarca.
L' immaginazione era un istrumento dell' intelletto, de-
stinata a creare forme e simboli di concetti astratti. Lo
sa il povero Dante. Nessuno ebbe mai l'immaginazione
cosi torturata. E nacquero forme simboliche e intellet-
tuah, nella cui generalità scomparve l' individuo con la
sua personalità. Erano forme tipiche, generi e specie, an-
ziché r individuo. La regina delle forme, la donna, non
potè sottrarsi a questa invasione degli universali, e ri-
mase un ideale più divino che umano, bella faccia, ma
I faccia della sapienza, più amata che amante, e amata
1 meno come donna, che come scala alle cose celesti. Così
nacquero Beatrice e Laura.
Certo, a nessuno è lecito parlare con poca riverenza
di questo mondo dell' autorità che segna un momento
interessantissimo nella storia dello spirito umano, e che
ha pure il suo fondamento nella vita. L' illuminismo o il
misticismo, la visione estatica, é un portato naturale dello
spirito della sua alienazione dal corpo, ciò che dicevasi
vivere in astrazione : momento di concitazione e di en-
tusiasmo, che r uomo pare più che uomo, e sembra in
lui parli un Dio o un demonio. Perciò quell' entusiasmo
fu detto furore divino o estro, qualità de' profeti e dei
poeti , che sono tutt' uno per Dante. Questa elevazione
dell' anima in sé stessa, e al di sopra de' limiti ordinarli
della vita reale, è il lato eroico dell' umanità, il privi-
legio della giovinezza, la condizione di tutte le società
^ 291 —
primitive, quando, cessati i bisogni materiali, vi si sve-
glia lo spirito. Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e
le ricchezze e i piaceri, è degno di stima.
Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non
può aver durata. L' arte, la coltura, la conoscenza e la
esperienza della vita lo modificano e lo trasformano.
' L' arte, impossessandosi di questo mondo , lo umaniz-
za, lo accosta all' uomo e alla natara, lo mescola di al-
tri elementi, vi fa penetrare le passioni e i furori del
senso. Non ci hai ancora equilibrio ; non ci hai qualche
<;osa che sia la vita nella sua intimità, insieme paradiso
e inferno; ma già di rincontro al paradiso hai V inferno,
di rincontro a Beatrice hai Francesca da Rimini, e di
rincontro a Dante, simbolo dell' umanità, hai Dante Ali-
ghieri, r individuo in tutta la sua personalità. Nel Can~
zoniere quel mondo si spoglia pure le sue forme natie,
teologiche, scolastiche, allegoriche, e prende aspetto più
umano e naturale.
E se fosse durato ancora un pezzo nella coscienza, non
è dubbio che 1' arte vi si sarebbe compiutamente svilup-
pata, e come la divisione e la leggenda divenne la com-
media, come Selvaggia divenne Beatrice, e Beatrice Laura
dal seno de' misteri sarebbe uscito il dramma , e molti
generi di letteratura ancora iniziaU e abbozzati già nella
Commedia sarebbero venuti a maturità, come l' inno e la
satira. Ma già quel mondo nel Canzoniere non ha più
il calore dell' entusiasmo e delia fede, e in quelle forme
cosi eleganti lascia una parte della sua sostanza. Il sen-
timento religioso, morale, politico vive fiaccamente nella
coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto ò occupato
dall' arte.
Questo infiacchirsi della coscienza, questo culto della
bella forma fra tanta invasione di antichità greco-roma-
na sono i due fatti caratteristici della nuova generazio-
ne, che succede all' età virile e credente e appassionata
— 292 —
di Dante. Quegli uomini non si appassionano più per le.
dottrine, e non cercano il vero sotto i versi strani ; la
bella veste li appaga. I loro studii non hanno più a gui*
da l'investigazione della verità, ma l'erudizione; c'è il
sapere per il sapere, come l'arte per 1' arte. I fiori, i
giardini, i conviti, i tesori, dove la sapienza sacra e pr'o-
fana era usata a scopo morale, danno luogo a raccolte
semplicemente storiche ed erudite. Ci sono ancora gli sco-
lastici che chiamano il Petrarca un insipient/e, ma le Iopoì
querele si sperdono nel plauso universale , che pone il
Petrarca accanto a Virgilio. E codesto Virgilio non è
più il mago, precursore del cristianesimo, e neppure il
savio che tutto seppe, ma è il dolce ed elegante poeta.
Dante s' incorona da sé in paradiso poeta, profeta e apo-
stolo ; i contemporanei incoronano nel Petrarca 1' autore
dell'Africa, della nuova Eneide. La coltura e 1' arte sonO;
i nuovi idoU dello spirito itahano. :
Ma la coltura e 1' arte non è il naturale fiorire di un;
mondo interiore, anzi è accompagnata con V infiacchirsi
della coscienza, e si pone già per sé stessa, come uà,
fatto estrinseco che abbia il suo valore in sé e sia, a. un^
tempo mezzo e scopo. È una coltura e un' arte formale
non riscaldata abbastanza dal contenuto. Ci è li dentro
lo stesso mondo di Dante, ma e' é come ragione in lotta
col sentimento e con l' immaginazione, lotta fiacca e in-
concludente; scemato è il vigore della fede e della volontà.
GU è che quel mondo mistico, fiori della natura e
dell' uomo appunto per la sua esagerazione, non poteva
avere alcun riscontro con la realtà. Ebbe la sua età del-
l' oro evocata da Dante con tanta malinconia; ma a lungo
andare dovea rimaner pura teoria, ammessa per tradi-
zione e per abitudine e contraddetta nella vita pratica.
Più al^.o era il modello , più visibile era la contraddi-
zione e più scandalosa. Nel secolo di Dante e di Cate-
rina grandi sono i lamenti e le invettive per la corrut-,
— 293 —
tela de' costumi, e specialmente ne' papi e ne' chierici che
con l'esempio contraddicevano alle loro dottrine. Queste
invettive divennero il luogo comune della letLeralura, e
ne odi !•' eco un po' retto ricà ' ne' versi eleganti del Pe-
trarca condro 1' avara Babilonia. Ma lo spettacolo dive-
nuto abituale e generale non moveva più indignazione;
e mentre Caterina ammohiva, e il Petrarca satireggiava,
il mondo continuava sua via. Al lato al misticismo ve -
devi il cinismo. Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna
di Napoli.
La corruttela de' costumi non era negazione ardita delle
dottrine cristiane, anzi tutti si tenevano buoni cristiani,
ed erano zelantissimi contro gU eretici, e molti faceva-
no all' ultimo penitenza. Ma era qualche cosa di peggio
era indifferenza, un oscurarsi del senso morale. Quel mondo
viveva ancora nell' intelletto,- non ^i^edutó e non combat-
tuto, ozioso, senza alcuna effiòa^iia su* sentimenti e sulle
azioni. " • ^ - ■
In questa condizione degli spiri ti, la col tura, do vèà ave-
re un effetto deleterio. La parte leggendaria, fantàstica,
miracolosa di quel mondo dovea parere a quegl' ingegni
cosi svegliati cosa così pòco seria, come le prediche dei
Frati contraddette dalla vita. Sparisce quel candore in-
fantile di fede anche nelle cose più assurde, che tanto
ci alletta negli àcrittoH antecedenti. Le classi colte co-
minciano a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso della
sua credulità. E^sser credente era prima un titolo di glo-
ria de' più forti ingegni. Essere incredulo diviene ora in-
dizio di animo colto.
D'altra parte la maggiore coltura, i generando un più
vivo sentimento della natura e dòli' uomo, dovea affret-
tare la rovina di un mondo così astratto e còsi estrin-
secò alla vita. Il reale disconosciuto dovea prender la sua
rivincita; la natura troppo compressa dovea reagire a
sua volta. Così di rinconti'O a quello spiritualismo esa-
— 291 —
gerato sorgeva una reazione inevitabile, il naturalismo e
il realismo nella vita pratica.
Indi è che la coltura, in luogo di calare in quel mondo
e modificarlo, e trasformarlo, e riabilitarlo, nella co-
scienza, come fu più tardi in Germania, si collocò addi-
rittura fuori di esso, e lasciata la coscienza vuota, im-
piegò la sua attività ne' piaceri dell' erudizione e dell' arte.
Così quel mondo si trovò fuori della coscienza, senza
lotta intellettuale, anzi rimanendo ozioso padrone del-
l' intelletto. Ci erano anche allora i liberi pensatori, so-
prattutto ne' conventi , ma erano sforzi isolati, scuciti ;
una lotta più seria era stata iniziata da' ghibellini ; ma
la rotta di Benevento e il trionfo durevole de' guelfi avea
posto fine alla discussione e all' esame. Gli uomini ama-
vano meglio scoprire e postillare manoscritti, e nelle cose
di fede lasciar dire il Papa, e vivere a modo loro.
Questo fu il naturale effetto della vittoria guelfa. Fi-
nirono le lotte e le discussioni; successe l'indifferenza
religiosa e pohtica, fra tanto fiorire di coltura, di eru -
dizione, di arte, di commerci e d' industrie. Ci erano tutti
i segni di un grande progresso: una più esatta cono-
f scenza dell' antichità, un gusto più fine e un sentimento
artistico più sviluppato, una disposizione meno alla fede,
che alla critica e all'investigazione, minor violenza di
passioni, maggiore eleganza di forme : l' idolo di questa
società dovea essere il Petrarca, nel quale riconosceva
e incoronava sé stessa. Ma sotto a quel progresso v'era
il germe di una incurabile decadenza ^ l' infiacchimento
delia coscienza.
Il Canzoniere j posto tra quei due mondi , senza es -
ser nò l' uno né 1' altro, cosi elegante al di fuori , cosi
fiacco e discorde al di dentro^ è 1' ultima voce lettera-
ria, rettorica ed elegiaca, di un mondo che si oscurava
rioUa coscienza. I contemporanei applaudivano alla bella
— 295 —
forma, e non cercavano e non si appassionavano pel con-
tenuto, come avveniva con la Commedia.
Quel mondo, divenuto letterario .e artistico, anche un
po' rettorico e convenzionale, non rispondeva più alle con-
dizioni reali della vita italiana. Quel misticismo, quell'e-
stasi dello spirito, che si rivela un' ultima volta con tanta
malinconia e tenerezza nel Petrarca, era in aperta rot-
tura con le tendenze e le abitudini di una società colta,
erudita, artistica, dedita a' godimenti e alle cure mate-
riali, ancora nell' intelletto cristiana non scettica, e non
materialista, ma nella vita già indifferente e incuriosa
degli alti problemi dell' umanità. Il linguaggio era lo stesso,
ma dietro alla parola non ci era più la cosa. Questo era
il segreto di tutti, quel qualche cosa non avvertito e non
definito, ma che pure si manifestava con tanta chiarezza
nella vita pratica. E colui che dovea svelare il segreto
e dargli una voce letteraria, non usciva già dalle scuo-
le, usciva dal seno stesso di una società che dovea così
bene rappresentare.
Tutti i grandi scrittori erano usciti dall' Università di
Bologna, Guinicelli, Gino, Cavalcanti, Dante , Petrarca.
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il
Petrarca, e otto prima della morte di Dante, non pie-
namente avendo imparato grammatica, come scrive
Filippo Villani, volendo e costringendolo il padre per ca-
gione di guadagno, fu costretto ad attendere all' ab-
baco, e per la medesima cagione a peregrinare.
Il padre era un mercante fiorentino, e alla mercatura
indirizzò il figlio. Quando i giovani appena cominciavano
i loro studii nella Università, il nostro Giovanni faceva ,
come si direbbe oggi, il commesso viaggiatore, in servi-
zio del padre, e il suo libro era la pratica e la cono-
scenza del mondo. Girando di città in città, si mostrava
più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che al-
l' esercizio della mercatura . e più uomo di spirito e di
ì
immaginazione che uomo d' affari. Era chiamato il poeta.
Venuto in NapoH a ventitré anni, menava vita signo-
rile, bazzicava in corte, usava co' gentiluomini, spendeva
largamente, amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava. Di-
cesi che alla vista della tomba di Virgilio rimase pen-
soso e senti la sua vocazione poetica. Fatto è che il buon
.padre, visto che non se ne potea cavare un mercante,
pensò farne un giureconsulto, e lo mise a studiare i ca-
noni, con gran rincrescimento del giovane che chiama
sciupato il tempo, mosso a fare il mercante e ad impa-
rare i canoni. Finalmente, libero di sé, si gittò agli studi!
letterarii, e come portava il tempo, si die al latino e al
greco, e si empi il capo di mitologia e di storia greca
e romana. E' menava la vita, mezzo tra gli studii e i
piaceri, spesso viaggiando, non più a mercatare , ma a
cercar manoscritti. Narrasi che a' 7 aprile del 1341 siasi
nella chiesa di San Lorenzo invaghito di Maria, figlia
naturale di re Roberto : certo nella corte spensierata e
licenziosa della Regina Giovanna non potè prender lezione
di buon costume né di amori platonici. E volse lo stu-
dio e r ingegno a rallegrare col suo spirito la corte e
la sua non ingrata Maria, che con nome poetico chiamò
Fiammetta. Il Petrarca non era ancora comparso suU' o-
rizzonte : tutto era pieno di Dante , e tra' suoi più ap-
passionati era il nostro poeta. Frutto della sua ammi-
razione fu la Vita di Dante, uno de' suoi lavori giovanih.
Ma egli poteva ammirarlo, non comprenderlo; perchè lo
spirito di Dante non era in lui. Formatosi fuori della scuo-
la, aheno da ogni seria cultura scolastica e ascetica,
profano, anzi che mistico ne' sentimenti e nella vita, si
foggiò un Dante a sua immagine. Chi vuol conoscere le
opinioni e i sentimenti del nostro giovane , legga quel
hbro e vi troverà già la stoffa, da cui usci il Decame-
rone. Nessuna originalità e profondità di p ^nsiero, nes-
suna sottigliezza di argomentazione ; tutto vi è dimostra-
— 297 —
to, anche le più comuni verità, ma il fondamento della
dimostrazione non è nell' intelletto, è nella memoria; non
hai innanzi un pensatore, né un disputatore; ma un eru-
dito. Vuol mostrare l'ingratitudine di Firenze verso Dante,
ed ecco uscir fuori Solone, il cui petto uno umano tem^
pio di divina sapienza fu reputato, e la Siria, la Ma-
cedonia , la grega e la romana repubbUca , e Atene, e
Argo, e Smirne, e Pilos, e 'Chios, e Gefelon, e Mantova,
e Sulmona, e Venosa, e Aquino. « Tu sola,] conchiude
il poeta, quasi i Camilli, i Publii, i Torquati, Fabrizii,
Catoni, Fabii, Scipioni in te fossero, avendoti lasciato il
tuo antico cittadino Claudiano cader dalle mani, non hai
avuta del presente poeta cura, ma T hai da 1?e scacciato ,
sbanditolo, privatolo, se tu avessi potuto, del tuo sppran*
nome ». Volendo parlar di Dante, comincia ab ovo, dalla
prima fondazione di Firenze, spesso lascia h Dante ed
esce in lunghe digressioni, tra le quali è notabile quella
sulla natura della poesia. Secondo lui, il linguaggio poe-
tico fu trovato per porgere sacrate lusinghe jìWa. divi-
nità, con parole lontane da ogni altro plebeo o pubblico
stile di parlare, e sotto legge di certi numeri compo-
ste, per le quali alcuna dolcezza si sentisse e caccias-
sesì il rincrescimento e la noja, I poeti imitarono dello
Spirito Santo le vestigie: perchè come nella Divina Scrit-
tura, la quale teologia appelliamo, quando con figura
di alcuna storia, quando col senso di alcuna visione,
si mostra V alto mistero della Incarnazione del Verbo
divino, la vita di quello , le cose occorse nella sua mor-
te, e la resurrezione vittoriosa; cosi i poeti, quando
con finzioni di varii Iddìi, quando con trasmutazioni
di uomini in varie forme, quando con leggiadre per-
suasioni ne dimostrano le ragioni delle cose e gli effetti
delle virtù e dei vizii. Poi spiega ciò che lo Spirito Santo-
velie mostrare nel rogo di Mosè, nella visione di Nabucco-
donosor, nelle lamentazioni di Geremia, e ciò che i poeti
— 298 —
vollero mostrare in Saturno, Giove, Giunone, Nettuno
e Plutone, nelle trasformazioni di Ercole in Dio e di
Licaone in lupo, e nella bellezza degli Elisi e nell' oscu-
rità di Dite. E ribattendo quelli che chiamano i poeti an-
tichi uomini insensati, inventori di favole a ninna ve-
rilà convenienti, conclude che la Teologia e la Poesia
quasi una cosa si posson dire , anzi che la Teologia
ninna altra cosa è che una poesia d' Iddio, e poetica
finzione. L'erudito poeta non si arresta qui^ e ci re-
gala la favola di Dafne, amata da Febo e in lauro con-
vertita per darci spiegazione , perchè i poeti avevano la
corona d' alloro. Di quello che fu il mondo interiore di
Dante, qui non è alcun vestigio; invece il mondo esterno
vi è sviluppato fino all' aneddoto , fino al pettegolezzo.
Ci si vede uno spirito curioso e profano che cerca il
maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani ,
disposto a spiegarli con la supcrficiahtà di un erudito e
di un uomo di mondo, o del secolo, come si diceva al-
lora. Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un
sogno attribuito alla madre di Dante, e vi fa pompa di
\ tutta la sua erudizione. Sotto il suo sguardo profano Bea-
trice perde tutta la sua idealità , e T amore di Dante ,
jscacciato dalle sue regioni ascetiche e platoniche e sco-
lastiche, acquista una tinta romanzesca. Il nostro Gio-
vanni non si fa capace, come Dante a nove anni abbia
potuto amare Beatrice. Il caso gli pare strano, e ne cerca
diverse spiegazioni. Forse fu conformità di compres-
sioni e di costumi; forse anche influenza da cielo. Ma
queste spiegazioni non lo appagano, e si ferma in que-
st' altra , che cava dall'esperienza. Dante, secondo lui,
vide Beatrice in una festa il primo di maggio , quando
la dolcezza del cielo riveste de suoi ornamentila terra,
e tutta per la varietà de* fiori mescolati fra le verdi
fronde la fa ridente, e per esperienza veggiamo nelle
feste per la dolcezza de' suoni, per la generale alle-
— 299 --
grezza, per la delicatezza de* cibi e de' vini gli animi
eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti
ampliarsi e divenire atti a poter leggermente esser
presi da qualunque cosa che piace. Dante dunque amò
fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo
maturo ; i cibi e i vini delicati e 1' allegrezza generale,
ecco ciò che dispose il suo animo all'amore. Beatrice era
per Dante angeletta bella e nova, senza contorni e senza
determinazioni, scesa di cielo a mostrare le bellezze e le
virtù che le piovono dalle stelle. Tutto questo non entra
al Boccaccio, il quale vuol pure spiegarsi, come la po-
tè parere un' angioletta, e si foggia nella profana imma-
ginazione una bella immagine di fanciulla e la descriva
così : « assai leggiadretta secondo 1' usanza fanciullesca,
e ne' suoi atti gentili e piacevole molto , con costumi
e con parole assai più gravi e modeste che il suo pic-
colo tempo non richiedeva ; ed oltre a questo avea le
fattezze del volto delicate molto e ottimamente disposte
e piene, oltre alla bellezza, di tanta onestà e vaghezza,
che quasi un' angioletta era riputata da molti». Ecco
un' angioletta di carne ; eccoci dalle mistiche altezze di
Dante caduti in piena fisiologia e notomia. Dante amò,
perche tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad amare,
e Beatrice parea quasi un' angioletta, perchè era fatta
cosi e cosi. Beatrice muore a ventiquattro anni, il nostro
biografo non se ne maraviglia, perchè un poco di soper-
chio di freddo o di caldo noi abbiamo, ci conduce alla
morte. I parenti e gli amici per consolare Dante gli die-
dero moglie. « Oh menti cieche, o tenebrosi intelletti ! »
esclama il nostro scapolo e nemico dell' amore regolato.
« Qual medico , egli aggiunge , s' ingegnerà di cacciare
r acuta febbre col fuoco, o il freddo delle midolla delle
ossa col ghiaccio o con la neve ? certo niun altro se non
colui, il quale con nuova moglie crederà le amorose tri-
bolazioni mitigare». E qui da uomo esperto della mate-
— 300 —
ria parla della natura e de' fenomeni dell' amore e dol-
' l'indole delle donne, e delle noje e degli affanni de' ma-
riti e compiange il povero Dante. Dipinge con tocchi si-
curi, e in certi punti è eloquente, perchè qui è in casa
sua: udite questo periodo: «Possiamo pensare, quanti
dolori nascondono le camere, lì quali da fuori, da chi tion
ha occhi la cui perspicacia trapassa le mura , sono ri-
putati diletti». Ma Dante secondo ch'egli narra dtmén^
ticò presto moghe e Beatrice , e si die all' amore dèlie
donne: ciò che l' indusse al gran viaggio nell'altro mondo,
óve se ne fece cosi aspramente rimproverare da Beatrice,
li quale amore non pare poi un così gran peccato al no-
stro scapolo; « Chi sarà trai mortali giusto giudice a con-
dannarlo? non io». Ed ecco venire innanzi l'erudito, e
citare parecchi casi di uomini illustri vinti dalle donne,
Giove, Ercole, Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode.
Ti par di assistere a una parodia. Eppure niente è più
serio. Il giovane è pieno di ammirazione verso Dante che
chiama un Iddio fra gU uomini, e crede con questa vita
riparare alla ingratitudine di Firenze e alzargli un mo-
numento.
La Vita di Dante è una rivelazione. Qui dentro si ma-
nifesta r autore in tutta la sua ingenuità e spontaneità :
vi trovi il nuovo uomo che si andava formando in Ita-
lia. Mette in un fascio mondo sacro e profano. Bibbia e
mitologia, teologia e poesia; la teologia è una poesia di
Dio, una finzione poetica. Questa strana mescolanza era
già comune al secolo ; Dante stesso ne dava esempio. Ma
dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo
universo e -lo battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio
sbattezza tutto 1' universo e lo materializza. In teoria
ammette la religione, e parla con riverenza della teolo-
gia che ci fa conoscere la divina essenza e le aitile se-
parate intelligenze. Ma in pratica questo mondo dello
spirito rimane perfettamente estraneo alla sua intelligenza
-=^_ 301 —
e al suo cuore. Misticismo, platonicismo , scolasticismo,:
tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per lui. Non ,
solo questo mondo gli rimane estraneo come coltura, ma ^
ancora più come sentimento. E gli manca non solo il ,
sentimento religioso, ma fino quella certa elevatezza mo-
rale che talora ne fa le veci. Spento 0' in lui il cristiano,
e anche il cittadino. Non gli è mai venuto in mente che ,
servire la patria e dare a lei l' ingegno e le sostanz.e , e
la vita è un dovere: cosV ^^tret^Pi, OOm,? ^ iJpi^pYveclere,
al proprio sostentamento. Dietro al cittadino' comincia ai
comparire il buon borghese che anaa la sua patria, ma j
a patto non igli dia molto fastidio , e lo lasci attendere ]
alla sua industria, e non lo tiri per forza di casa 0 di'
bottega. De' guelli e ghibeUini è perduta la memoria, tanto
che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato. E
non si persuade come Dante siesi potuto mescolare nelle
pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla sua vanità,
ed ha quasi l' aria di dirgU: ben ti sta.' Non voglio dire
con questo che il Baccaccio fosse uomo dispregiatore
della religione 0 della virtù o della patria; sciolto era
di costumf^,pure, tutti i doveri comuni della vita U adem-
piva con la stessa puntuaUtà e diligenza degli altri , 6
molte legazioni gli furono commesse da' suoi concittadini.
Ma l'età eroica era passata; la nuova generazione non
comprendeva più le lotte e le passioni de' padrij il ca-
rattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora
volgarità, e non è più grandezza; della religione, della
libertà, dell'uòmo antico c'erano ancora le forme, ma
lo spirito ev,Si ito. DI vita pubblica qualche apparenza era
anpora in Toscana,, secie, ideila cultura ; nelle altre parti
era vita di corte. L* erudizione, 1' arte, gli affari, i pia-
ceri costituivano il fopdo di questa nuova società bor-
ghese e mezzana, della q^uale ritratto era il Boccaccio,
gioviale, cortigiano, erudito, artista.' Se la malinconia
dell' estatico Petrarca' ti presentava un simulacro del-
— 302 —
ruomo antico, la spensierata giovialità del Boccaccio
è r ingresso nel mondo a voce alta e beffarda della ma-
teria 0 della carne, la maledetta, il peccato ; è il primo
riso di una società più colta e più intelligente, disposta
a burlarsi dell'antica; è la natura e l'uomo che pure
ammettendo 1' esistenza di separate intelligenze, non ne
tien conto, e fa di sé il suo mezzo e il suo scopo.
Questo tempo fu detto di transizione. Vivevano insieme
nel seno degli uomini due mondi, il passato nelle sue
forme, se non nel suo spirito, ed un mondo nuovo che
si affermava come reazione a quello, fondato sulla realtà
presa in sé stessa e vuota di elementi ideali. Erano in
presenza il misticismo con le sue forme ricordevoli del
mondo soprannaturale, e il puro naturalismo. Ma il mi-
sticismo, indebolito già nella coscienza, era divenuto abi-
tuale e tradizionale, applaudito nel Petrarca non come
il mondo sacro, ma come un mondo artistico e lettera-
rio. 11 naturalismo al contrario sorgeva allora in piena
concordia con la vita pratica e coi sentimenti, con tutti
gli allettamenti della novità. Questo mutamento nello spi-
rito dovea capovolgere la base della letteratura. Il ro-
manzo e la novella, rimasti generi di scrivere volgari
e scomunicati, presero il sopravvento. Al mondo lirico
con le sue estasi, le sue visioni, e le sue leggende, il
suo entusiasmo, succede il mondo epico o narrativo , con
le sue avventure, le sue feste, le sue descrizioni, i suoi
piaceri e le sue mahzie. La vita contemplativa si fa at-
tiva; l'altro mondo sparisce dalla letteratura; l'uomo non
vive più in ispirito fuori del mondo, ma vi si tuffa e
sente la vita e gode la vita. Il celeste e il divino sono
proscritti dalla coscienza, vi entra l'umano e il naturale.
La base della vita non è più quello che dee essere ; ma
(quello che è; Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne
apre un altro.
Mettiamo ora il pie in questo mondo del Boccaccio.
— 303 —
Che vi troviamo? Opere latine di gran mole, una specie
di dizionario storico, ove hai tutte le antiche forme mi-
tologiche usate dai poeti, e con le loro spiegazioni alle-
goriche, e i fatti degli uomini illustri e delle celebri don-
ne, libri tradotti in francese, in tedesco, in inglese, in
ispagnuoìo, in italiano, di cui si fecero moltissime edi-
zioni, accolti con infinito favore, da' contemporanei, come
una nuova rivelazione dell'antichità. Prima ci erano le
enciclopedie, e i fiori e i giardini, ove si raccoglieva ciò
che gli antichi pensarono in filosofia, in etica, in retto-
ri ca; il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi imma-
ginarono , quello che operarono. Al mondo del puro pen-
siero succede il mondo dell' immaginazione e dell'azione.
Vediamolo ora all' opera. Quest' uomo che ha pieno il
capo di tanta erudizione greca e latina, che ammira Dante,
perchè ha saputo molto bene imitare Virgilio, Ovidio, Sta-
zio e Lucano , e a cui di fi )rentino è rimasto 1' amore
del bello idioma, e il sentimento dell' arte, è insieme i]
trovatore e il giullare della Coite, rallegrata dalle sue
facezie, e dai suoi racconti, è l'erede della gaia scienza,
sa a menadito romanzi francesi, italiani e provenzali, e
scrive per sollazzarsi e per sollazzare. Ci erano in lui
parecchi uomini non ben fusi, 1' erudito, 1' artista, il tro-
vatore, il letterato e 1' uomo di mondo.
Ecco uscirgli dall' immaginazione il Filocolo, Il titolo
greco, come più tardi è il Filostrato , e come sarà il
Decamerone. La materia è tratta da un romanzo spa-
gnuolo, ed è gli amori di Florio e Biancofiore. Ma si
tratta della Spagna pagana, al tempo di Roma pagana,
quando già vi penetrava il cristianesimo. La materia ò
tale che il giovane autore vi può sviluppare tutte le sue
tendenze. Ai giovani innamorati e alle amorose donzelle
consacra « i nuovi versi y i quaU egli dice loro, non vi
porgeranno i crudeU incendimenti dell'antica Troja, né
le sanguinose battaglie di Farsaglia, ma udirete i pie-
— 304 —
tosi avvenimenti dell'innamorato Florio e della sua Bian-
cofiore, i quali vi fieno graziosi molto». Probabilmente
i -giovani vaghi e le donne innamorate avrebbero desi-
derato una storia di amore più breve meno dotta. Ma
come resistere alla tentazione? Il giovine ci ficca dentro
tutta la mitologia, e ad ogni menoma occasione esce fuori
con la storia greca e romana. Giulia, uccisole il marito,
neir ultima disperazione, parlando all' uccisore, cita Ecuba
e Cornelia. Né la mitologia ci sta a pigione, come sem-
plice colerito, ma è la vera macchina del racconto, come
in Omero e Virgilio. E se Giove, Pluto, Venere, Pal-
lade e Cupido fossero personaggi vivi avremmo un grot-
tesco non dispiacevole, ma sono personificazioni ampollose
e rettoriche, formate dalla memoria, non dall' immagi-
nazione. Ancora, visto che teologia e poesia sono una
stessa cosa, la teologia è paganizzata, e Dio diviene Giove,
e Lucifero diviene Pluto : sì che pagani e cristiani, ini-
micandosi a morte, usano le stesse forme e adorano gli
stessi Iddii. Macchinismo vuoto che s' intramette dapper-
tutto, e guasta il linguaggio naturale del sentimento in-
troducendo ne' fatti e nelle passioni un' espressione arti-
ficiale e metaforica. Volendo dire giovani innamorati si
dice : « i quali avete la vela della barca della vaga mente
dirizzato a' venti che muovono dalle dorate penne ven-
tilanti del giovane tìghuolo di Citerea». L'avvicinarsi
della sera è espresso così: «I disiosi cavalh del Sole
caldi per lo diurno affanno si bagnavano nelle marine
acque d' occidente ». Altrove è detto : « L' aurora aveva
rimossi i notturni fuochi, e Febo avea già rasciutte le
brinose erbe ». Nasce uno stile pomposo e freddo, che
invano 1' autore cerca incalorire con le figure rettoriche,
in cui è maestro. Spesseggiano le interrogazioni, le escla-
mazioni, le personificazioni, le apostrofi; il sentimento si
sviluppa dalle cose e si pone per sé stesso in una forma
a pjllosa e pretensiosa. Il prode Leho è ucciso sul cara-
pò di battaglia; e il poeta vi recita su questa magni-
fica tirata rettorica: «Oh misera fortuna, quanto sono
i tuoi movimenti vani e fallaci nelle mondane cose ! Ove
sono i molti tesori che tu con ampie mani gli avevi
dati ? Ove i molti amici ? Ove la gran famiglia ? Tu gli
hai con subito giramento tolte tutte queste cose, e il
suo corpo senza sepoltura morto giace negli strani campi.
Almeno gli avessi tu concedute le romane lacrime, e le
tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i mo-
rienti occhi, ( V ultimo onore della sepoltura gli avesse
potuto fare». Giulia sviene; gli spiriti suoi vagabon-
di pare che vadano per lo vicino aere, e il poeta fa
una lunga apostrofe a Lelio che lei semiviva abbando-
na , e dice di Amore : « Deh ! quanto Amore si portò
villanamente tra voi^ avendovi tenuti insieme con la
sua virtù tanto tempo caramente congiunti, e ora, nel-
r ultimo partimento non consenti che voi vi avessi in-
sieme baciati o almeno salutati ». I personaggi fanno
spesso lunghe orazioni con tutti gli artifìcii della retto-
rica, com' è la parlata di Pluto a' ministri infernali, imi-
tata dal Tasso. Spesso la sensualità si scopre tra le la-
crime. Giulia si straccia i capeUi e si squarcia le vesti;
il giovane deplora quello sconcio tirare che traeva i
biondi capelli dell'usato modo e ordine, e aggiunge: « I
vestimenti squarciati mostravano le colorite membra che
in prima solevanA nascondere ». Non mancano qua e colà
tratti affettuosi , e anche modi e forme di dire semplici ,
efficaci ; ma rimane il più spesso fuori dell' uomo e della
natura, inviluppato in perifrasi, circonlocuzioni, aggettivi,
orazioni, descrizioni e citazioni; ci si sente una viva ten-
denza al reale guastata dalla rettorica e dall'erudizione.
Accampandosi nel mondo antico , e portandovi preten-
sioni erudite e rettoriche, la letteratura se da una parte
si emancipava da quel mondo teologico-scolastico che
sorgeva come barriera tra l'arte e la natura, s'intop-
De Sanotis — Leu. Ital. Voi. I. SU
— 306 -^
pava dall' altra in una nuova barriera, un mondo mito-
logico-rettorico.
II successo del Filocolo alzò 1' animo del giovane a più
alto volo. Pensò qualche cosa, come 1' Eneide, e scrisse
la Teseide. Ma niente era più alieno della sua natura,
che il genere eroico , niente più lontano dal secolo che
il suono della tromba. Qui hai assedil, battaglie, 'con-
giure di Dei e di uomini, pompose descrizioni , artificiosi
discorsi , tutto lo scheletro e 1' apparenza di un poema
eroico; ma nel suo spirito borghese non entra alcun sen-
timento di vera grandezza, e Teseo, e Arcita, e Palemone
e Ippolito ed Emilia non hanno di epico che il manto.
Il suo spirito è disposto a veder le cose nella loro mi-
nutezza, ma più scende nei particolari, più 1' oggetto gli
si sminuzza e scioglie sì che ne perde il sentimento e
l'armonia. Le armi, i modi del combattere, i sacrifizii,
le feste, tutta 1' esteriorità è rappresentata con la dili-
genza e la dottrina di un erudito; ma dov' è 1' uomo? e
dov' è la natura? Dei suoi personaggi carichi di emblemi
e di medaglie antiche si è perduto la memoria. Ecco un
campo di battaglia. Egli vede con molta chiarezza i fe-
nomeni che ti presenta, ma è la chiarezza di un natu-
ralista, scompagnata da ogni movimento d'immagina-
zione; ci è l'immagine, manca il fantasma, que' sottin-
tesi e que' chiaroscuri , che ti danno il sentimento e la
musica delle cose:
Dopo il crudele dispietato assalto
Orribile per suoni e per fedite,
Li fatto prima sopra il rosso smalto,
Si dileguaron le polveri trite;
Non tutte, ma tal parte, che da alto
Ed ancora da bas<o eran sentite
Parimente e vedute di costoro
Le opere e il marziale aspro lavoro.
È un' ottava prosaica, dove un fenomeno comunissimo
— o07 —
e sminuzzato con la precisione e distinzione di un ana-
tomico, non dì un poeta. Il Tasso tutto condensa in un
verso solo che ti prosenta in unica immagine il campo
di battaglia:
Lfi polve inc^ombra ciò che al sangue avanza.
La stessa prosaica maniera trovi neh' ottava seguente :
Il sangue quivi de' corpi versato
K de* cavalli ancor similemente,
Aveva tutto quel campo inaffiato,
Onde attuttata s' era veramente
E la polvere e il fumo: imbragacciato
Di sangue era ciascun destrier corrente,
0 qualunque uomo vi fosse caduto,
Benché a cavai poi fosse rivenuto.
Qui il sangue è talmente analizzato negli oggetti, e con-
giunto con particolari così vuoti e insignificanti, che se
ne perde l' impressione. Alla grande maniera, sobria, ra-
pida, densa, di Dante, del Petrarca, succede il prolisso,
il diluito e il volgare. Chi ricorda descrizioni simili nel-
r Ariosto e nel Tasso, vi troverà le stesse cose, ma vive
e mobili, piene di sentimento e di significato. Nel canto
duodecimo descrive la bellezza di Emilia da' capelU fino
alle anche, anzi fino a' piedi, e non si content-i di pas-
sare a rassegna tutte le parti del corpo, che di ciascuna
fa minuta descrizione, e non solo nel quale, ma nel quanto,
si che pare un geometra misuratore. Delle cigha dice:
Più che altra cosa
Nerissime e sottil, neJle qua' lata
Bianchezza si vedea lor dividendo,
Né il debito passavan sé estendendo.
Ecco un' ottava similmente prosaica su' ('apelli
Dico che li suoi crini parean d' oro.
Non per treccia ristretti, ma soluti,
K pettinali si cho infra loro
— 308 —
Non n' era un torto, e cadean sostenuti
Sopra li candidi omeri, né foro
Prima, né poi sì bei giammai veduti:
Né altro sopra quelli ella portava,
Che una corona che assai si stimava.
Ottave e versi soffrono malattia di languore: così pro-
cede il suono fiacco e sordo.
La Teseide è indirizzata a Fiammetta, e copertamente
e sotto nomi greci espone una vera storia d' amore. Ma
la gravità del soggetto, e le intenzioni letterarie soper-
chiarono r autore e lo tirarono in un mondo epico pel
quale non. era nato. Meglio riusci nel FilostratOy dove
lo scheletro greco e troiano esattamente riprodotto nelLi
sua superficie è penetrato di una vita tutta moderna.
L'allusione non è in questo o quel fatto, come nella
Teseide, ma è nello spirito stesso del racconto. I lan-
guori di Troilo, gli artificii di Pandaro, che è il mez-
zano, le resistenze sempre più deboli di Griselda^ le gra-
dazioni voluttuose di un amore fortunato, le arti e le
lusinghe di Diomede presso Griselda, la sua vittoria e
le disperazioni di Troilo , questo non è epico e non è
cavalleresco, se non solo ne' nomi de' personaggi, è una
pagina tolta alla storia secreta della corte napoletana ,
è il ritratto della vita borghese, collocata di mezzo fra
la rozza ingenuità popolana e l' ideale vita feudale o ca-
valleresca. Qui per la prima volta 1' amore, squarciato
il velo platonico, si manifesta nella sua realtà ed auto-
nomìa, separato da' suoi antichi compagni, 1' onore e il
sentimento religioso; e non è già amore popolano, ma
borghese, cioè a dire raffinato, pieno di tenerezze e di
languori, educato dalla coltura e dall'arte. Mancati tutti
gli altri sentimenti della vita pubblica e religiosa , non
rimane altra poesia che de^a vita privata. La quale è
vii prosa, quando il fine del vivere non è che il gua-
dagno ; ed è nobilitata dall' amore, vivere tra' godimenti
— 309 —
di amore, con l'animo lontano da ogni cupidigia di onori
e di ricchezze, questo è l' ide ale della vita privata, nella
quale la parte seria e prosaica è rappresentata dal mer-
cante. È un ideale che il Boccaccio trova nella sua pro-
pria vita, quando volse le spalle alla mercatura, e si die
a' piacevoli studii e ali' amore. Descritti in morbidissime
ottave i voluttuosi ardori di Troilo e Gris eida, il poeta,
calda ancora l'immaginazione, così prorompe:
Dell ! pensin qui gli dolorosi avari,
Che biasiman chi è innamorato,
E chi, come fan essi, a far denari
In alcun modo non si è lutto dato,
E guardin se tenendoli ben cari
Tanto piacer fu mai a lor prestato,
Quanto ne presta amore in un sol punto
A cui egli è con ventura congiunto.
Ei diranno di sì, ma mentiranno ;
E questo amor dolorosa pazzia
Con risa e con ischerni chiameranno*
Senza veder che sola un* ora fia
Quella che sé e i danari perderanno,
Senza aver gioia saputo che sia
Nella lor vita : Iddio gli faccia tristi,
Ed agli amanti doni i loro acquisti.
Ottave sconnesse e saltellanti, assai inferiori alle bel-
lissime che precedono ; i! poeta sa meglio descrivere che
ragionare ; pure ci senti per entro un po' di calore, e la
conclusione è felicissima; è un modo subito e vivace di
immaginazione come di rado gì' incontra.
Sotto aspetto epico questo racconto è una vera no-
vella con tutte le situazioni divenute il luogo comune
delle storie d' amore, i primi ardenti desiri, l'intramessa
di un amico pietoso, e le ritrosie della donna, le raffi-
nate voluttà del godimento, la separazione degli amanti,
le promesse e i giuramenti e gli svenimenti della donna,
•^ 310 —
la sua fragilità e i lamenti e i furori del tradito amante.
Sotto vernice antica spunta il mondo interiore del Boc-
caccio , una mollezza sensuale dell' immaginazione con-
giunta con una disposizione al comico e al satirico. La
infedeltà di Griseida lo fa uscire in questo ritratto della
donna :
Giovine donna è mobile, e vogliosa
È negli amanti molti, e sua bellezza
Estima più che allo specchio, e pomposa
Ha vanagloria di sua giovinezza;
La qual quanto piacevole e vezzosa
È più, cotanto più seco V apprezza :
Virtù non sente, né conoscimento,
Volubil sempre come foglia al ¥ento.
A Beatrice e Laura succede Griselda; all' amore plato-
nico r amore sensuale ; al volo dell' anima verso la sua
patria, il cielo, succede il tripudio del corpo. La rea-
zione è compiuta. A Dante succede il Boccaccio.
La contraddizione prende quasi aria di parodia incon-
scia neW Amorosa visione. La Commedia è imitata nel
suo disegno e nel suo meccanismo. Anche il Boccaccio
ha la sua visione. Anch' egli incontra la bella donna, che
dee guidarlo all' altura , che è principio e cagion di
tutta gioia, via a salute e pace. Ma dove nella Com-
media si va di carne a spirito, sino al sommo bene, in
cui l'umano è compiutamente divinizzato o spiritualizzato^
dove nella Commedia il sommo Bene è scienza, e con-
templazione ; qui il fine della vita è 1' umano e la scienza
è il principio, e l'ultimo termine è l'amore, e la fine
del sogno è in questi versi :
Tutto stordito mi riscossi allora,
E strinsi a me le braccia, e mi credea
Infra esse Madonna averci ancora.
Il Paradiso del Boccaccio è un tempio dell' umanità.
-^ 311 —
un nobile castello, che ricorda il Limbo dantesco, ricco
di sale splendide e storiate, come sono le pareti del pur-
gatorio. Ed è tutta la storia umana, che ti viene in-
nanzi in quelle pitture. Dante invoca le Muse, 1' alto in-
gegno; il Boccaccio invoca Venere:
0 somma, o graziosa Intelligenza,
Che movi il terzo cielo, o santa Dea,
Metti nel petto mio la tua potenza.
Una scala assai stretta mena al castello, e sulla pic-
cola porta è questa scritta :
questa
Piccola porta mena a via di vita.
Posta che paia nel salir molesta:
Riposo eterno da cotal salita :
Dunque salite su senza esser lenti:
L' animo vinca la carne impigrita.
Eccoci nella prima sala. E vi son pinte le sette scienze,;
e via via schiere di filosofi e poi di poeti, a quel modo
che fa Dante nel Limbo. Tutto il canto quinto è consa-
crato a Virgilio e a Dante, del quale dice:
Costui è Dante Alighier fiorentino,
Il qual con eccellente stil vi scrisse
11 sommo Ben, le Pene, e la gran Morte:
Gloria fu delle Muse, mentre visse
Né qui rifiutan d' esser sue consorte.
Dalla sala delle Muse si passa nella Sitla della Gloria.
E ti bhlano innanzi moltitudine di uomini venuti in fa-
ma, quasi un quadro della storia del mondo. Da Saturno
e Giove scendi all' età de' giganti e degli eroi, poi giungi
agli uomini e alle donne illustri di Grecia e di Roma,
in ultimo viene la cavalleria ne' suoi due circoli di Ar-
turo e Carlomagno, sino all' ultimo cavaliere, Federico II,
e rocchio si stende a Carlo v i Puglia, Cori-adino, Rug-
-- 312 —
gerì di Loria e Manfredi. Il poeta dà libero corso alla
sua vasta erudizione, intento più a raccogliere esempli
che a lumeggiarli: sicché nessuno de' suoi personaggi è
giunto a noi cosi vivo, come è l'Omero e l'Aristotile
del Limbo dantesco, e l'Omero del Petrarca.
Siamo infine nella sala di Amore e Venere. E come
innanzi la storia, qui vien fuori la mitologia, e senti le
prodezze amorose di Giove, Marte, Bacco e Pluto ed Er-
cole. Poi vengono gli amori di Giasone, Teseo, Orfeo,
Achille, Paride, Enea, Lancillotto.
Scienza, gloria, amore, ecco la vita quando non vi si
intrometta la Fortuna , e colpisca Cesare o Pompeo nel
sommo della felicità. Percorsi i circoli della vita, comin-
cia il tripudio, 0 la beatitudine; e non sono già le danze
della luce sante nel trionfo di Cristo o degli Angeli, ma
le voluttose danze di un paradiso maomettano, o le danze
delle ninfe napoletane a Baia. Il poeta s'innamora , e
mentre in sogno si tuffa negli amorosi diletti e tiene fra
le braccia la donna, si sveglia, e la sua guida gli dice :
ciò che porse
Il tuo dormire alia tua fantasia
Tutto averai.
E mentre la visione si dilegua, ella lo raccomanda al Sir
di tutta pace, all' Amore.
Con le stesse forme e con lo stesso disegno di Dante
il Boccaccio riesce a un concetto della vita affatto op-
posto, alla glorificazione della carne, nella quale è il ri-
poso e la pace. La Dì orna Commedia qui è cavata fuori
del soprannaturale in cui Dante aveva inviluppata V uma-
nità e sé stesso e il suo tempo , ed é umanizzata, tra-
sformata in un real castello, sede della coltura e dell'a-
more. Se non che il Boccaccio non vide che quelle forme
contemplative e allegòriche, naturale involucro di un
mondo mistico e soprannaturale, mal si attagliavano a
— 313 —
quella vita tutta attiva e terrena, ed erano disformi al
suo genio, superficiale ed esterno, privo di ogni profon-
dità ed idealità : perciò riesce monotono, prolisso e vol-
gare. Oggi, a tanta distanza c'è difficile a concepire, come
non abbia trovato subito il suo genere, che è la rap-
presentazione della vita nel suo immediato, sciolta da ogni
involucro non solo teologico e scolastico, ma anche mi-
tologico e cavalleresco. Ma lento è il processo dell'uma-
nità anche nell' individuo, che passa per molte prove e
tentennamenti prima di trovare sé stesso. Il Boccaccio,
amico delle Muse, stima co' suoi contemporanei che le
cose volgari non possono fare un uomo letterato, e che
si richiedono più alti studii. E gli alti studii sono il la-
tino e il greco, la conoscenza dell' antichità. Il suo mag-
gior titolo di gloria era l'ampia erudizione, che lo ren-
deva superiore a Dante ed anche al suo Silvano, il
Petrarca. Trova innanzi a sé forme consacrate e ammi-
rate, le forme epiche di Virgilio e Stazio, le forme li-
riche di Dante e di Silvano, e in quello forme vuol rea-
hzzare un mondo prosaico che gli si mova de atro. Nei
suoi primi lavori salta fuori tutto il suo mondo greco-
romano, mitologico e storico, con grande ammirazione,
de' contemporanei. Gli amori di Troilo e Griselda, d'Ar-
cita e Palemone passarano le Alpi e fecondarono l' imma-
ginazione di Chaucer; i quadri storici e mitologici della
sua visione ispirarono molti Saggi e molti Tempii ad'
r umanità. Chi legge i Reali di Francia e tante scarne
traduzioni di romanzi francesi allora in voga può con-
cepire che gran miracolo dovè parere la Teseide, i! Fi-
lostrato e il Filocolo. Anche nelle sue Rime si vede
l'uomo nuovo alle pi'ese con f)rme vecchie. Vi trovi
il solito repertorio, l' innamoramento, i sospiri, i desiri,
i pentimenti , il volgersi a Dio e alla Madonna , ma la
bella unità lirica del mondo di Dante e del Petrarca è
rotta, ed ogni idealità è scomparsa. Dietro alle stesse
— 314 —
forme è nn diverso contenuto che mal vi si adagia. La
donna in nome è ancora un' angioletta, ma che angiolo!
Ella sta non raccolta e modesta nella sua ingenuità in-
fantile, come Bice; o nella sua casta dignità, come Laura;
ma alV ombra di niille arbori fronzuti, in obito leg-
giadro e gentilesco tende lacci coìi gli occhi vaghi e col
cianciar donnesco. Hai la donna vezzosa e civettuola
della vita comune, ed un amante distratto, che ora esala
sospiri profani in forme platoniche e tradizionali, ora pianta
li la sua angioletta , e si sfoga contro i suoi avversarli,
e ragiona della morte e della fortuna, o inveisce contro
le donne:
Elle donne non son, mQjdoglìa altrui,
Senza pietà, senza fé, senz' amore,
Liete del mal di chi più lor credette.
Perchè meglio si comprenda questa dis armonia tra for-
me convenzionali e un contenuto nuovo, guardiamo que-
sto sonetto:
Sulla poppa sedea d' una barchetta,
Che il mar segando presta era tirata,
La donna mia con altre accompagnata,
Cantando or una, or altra canzonetta.
Or questo lito ed or quest' isoletta,
Ed ora questa ed or quella brigata
Di donne visitando, era mirata
Qual discesa dal elei nuova angioletta.
Io che seguendo lei vedeva farsi
Da tutte parti incontro a rimirarla
Gente, vedea come miracol novo:
Ogni spirito mio in me destarsi
Sentiva, e con Amor di commendarla
Vago non vedea mai il ben eh' io provo.
II sonetto comincia bene, in forma disinvolta e fresca,
ancoraché per la parte tecnica un po' trascurata. In quelle
giovanette che cantano a mare, e vanno a visitare le
— 315 — .
amiche e sono ammirate dalla gente, vedi una scena tutta
napolitana, e ti corre innanzi Baia, sede di secrete de-
lizie che destano le furie gelose del poeta ^ Ma questa
bella scena alla fine si guasta , col solito Spirito e col
solito Amore vago di commendare, e riesce in una fred-
dura. Chi vuol vedere un sonetto affatto moderno, dove
r autore si è sciolto da ogni involucro artificiale, e ti co-
glie in atto la vita di Baia con le sue soavità e le licenze,
senta questo :
Intorno ad una fonte in un pratello
Di verdi erbette pieno e di bei fiori,
Seccano tre angiolette, i loro amori
Forse narrando; ed e ciascuna il bello
Viso adombrava un verde ramoscello
Che i capei d' or cingea, al qual di fuori
E dentro insieme, due vaghi colori
Avvolgeva un soave venticello.
E dopo alquanto 1' una alle due disse,
Com* io udii: Deh! se per avventura
Di ciascuna J' amante or qui venisse,
Fuggiremo noi quinci per paura?
A cui le due risposer: chi fuggisse.
Poco savia sarla con tal ventura.
Qui senti il Boccaccio in quella sua mescolanza di sen-
suale e malizioso. Gli scherzi del venticello sono abboz-
zati con r anima di un Satiro che divora con gli occhi
la preda , e la chiusa cinica cosi inaspettata ti toglie a
ogni idealità e ti gitta nel comico. Qui il Boccaccio trova
sé stesso. Fu chiamato Giovanni della tranquillità per
quella sua spensierata giovialità , che lo tenea lontano
da ogni esagerazione delle passioni, e tiravalo nel gtjdi-
mento e nel gusto della vita reale. E quantunque si do-
glia dell' epiteto come d' una ingiuria e lo rifiuti sdegno-
1 Perir possa il tuo nome, Hai», o il loco (Sonetto IVV
- 316 —
samente, pure è là il suo genio e la sua gloria, e non
dove sfoggia in forme rettoriche sentimoito ed erudizione.
Fu chiamato anche uomo di vetro, per una cotal sua mo-
bilità d' impressioni e di risoluzioni, di cui sono esempio
le Rime, dove invano cerchi 1' unità organica deJ Can-
zoniere, e un disegno qualunque, avvolto il poeta dalie
onde delle impressioni e della vita reale e de' suoi studi
e reminiscenze classiche. Pure tra molte volgarità trovi
un elevato sentimento dell' arte, o, com' egli dice, l'amor
delle Muse, che lo trae d' inferno, come chiama la terra
deserta dalle Muse. Vidi, egli canta:
una ninfa uscire
D' un lieto bosco, e verso me vetiire
Co' crin ristretti da verde corona.
A me venuta disse : Io son colei.
Che fo di chi rai segue il nomo eterno,
E qui venuta sono ad amar presta:
Lieva su, vieni; ed io già dì costei
Acceso, mi levai; ond'io d'inferno
Uscendo, entrai neh' amorosa festa.
Da questo elevato sentimento dell'arte è uscito il sonetto
sopra Dante, scritto con una gravità e vigore di stile
così insueto, che farebbe quasi dubitare sia cosa sua :
Dante Alighieri son, Minerva oscura
D' intelligenza e d' arte, nel cui ingegno
L' eleganza materna aggiunse al segno,
Che si tien gran miracol di natura.
L' alta mia fantasia pronta e sicura
Passò il tartareo e poi il celeste regno,
E il nobil mio volume feci degno
Di temporale e spiritai lettura.
Fiorenza gloriosa ebbi per madre.
Anzi matrigna a me pietoso figlio.
Colpa di lingue scellerate e ladre.
— 317 —
Ravenna furami albergo del mio esigilo;
Ed ella ha il corpo, e 1' aima il sommo Padre,
Presso cui invidia non vince consiglio.
La stessa disparità tra le forme e il contenuto troviamo
nella Fiaynmeita e nel Corbaccio o Laberinto d'amore..
Sono due generi nuovi e pel contenuto affatto moderni.!
La Fiammetta è un romanzo intimo e psiculogico, dovei
una giovane amata è abbandonata narra ella medesima
la sua storia, rivelando con la più fina analisi le sue im-
pressioni. Il Corl>accio è la satira d^^l sesso femminile
fatta dal vendicativo scrittore^ canzonato da una donna.
La scelta di questi argomenti è felicissimo. L'autore volge
le spalle al medio evo e inizia la letteratura moierna.
Di un mondo mistico- teologico- scolastico non è più al-
cun vestigio. Oramai tocchiamo terra: siamo in cospetto
dell' uomo e della natura. Abbiamo una pagina di storia;^
intima dell'anima umana, colta in una forma seriaediretta\
nella Fiammetta^ in una forma negativa e satirica nel Cor-
taccio. La letteratura non è più trascendente , ma im-
manente, cioè a dire vede l'uomo e la natura in sé stessa,
e non in forme estrinseche (3 separate, mitologiche e al-
legoriche. Ma il Boccaccio non sa trovare le forme con-
venienti a questo contenuto. Per rappresentarlo nella sua
verità non aveva che a mettersi in immediata comunione
con. quello ed esprimere le sue impressioni cosi naturali
e fresche come gli venivano. Ma s'accosta a questo mondo
con l'animo preoccupato dall'erudizione, dalla storia, dalla
mitologia e dalla rettorica, e lo vede, lo dipinge a tra-
verso di queste forme. L' impressione giungendo nel suo
spirito vi è immediatamente falsificata, né si riconoscono
più dietro a quel denso involucro, che se non è teologico -
scolastico, é pur qualche cosa di più strano, è nùtologico-
rettorico. Nasce una nuova trascendenza, la cui radico
non è nel naturale sviluppo del pensiero religioso e filo-
sofico, come r antico, ma nell'avviamento classico preso
— 318 — .
dalla coltura. Fiammetta abbandonata da Panfilo, prima
di fare i. suoi lamenti vuol vedere come in Virgilio si la-
menta Bidone abbandonata, pensando che a lei non è
lecito di lamentarsi in altra guisa. E se vuol consolarsi,
cercando compagni al suo dolore, ti fa un trattato di
storia antica, narrando tutti i casi infelici di amore de-
gli antichi Idilii ed eroi. E se sogna, cerca in Ovidio la
spiegazione de' sogni. Vuol dire che sente vergogna di
palesare ì suoi godimenti amorosi ? E ti definisce la ver-
gogna e ragiona lungamente de' suoi effetti sulle donne .
Vuol esprimere gioia, speranza, timore, dolore, ira, ge-
losia? E analizza ciascuno di questi sentimenti, facendo
tesoro di tutti i luoghi topici registrati da Aristotile. Bi-
sogna vedere con che diligenza il Sansovino nota tutti i
luoghi etici e patetici, e le imitazioni e le erudizioni della
Fiammetta, a guida de' maestri e degli scolari. Dante,
Minerva oscura , potè spesso tra le nebbie delle sue al-
legorie attingere il mondo reale, perchè era artista , e
se è scolastico, non è mai rettorico: il Boccaccio non può
distrigarsi da quel mondo artificiale e coglier la natura,
perchè gli manca ogni serietà di vita interiore nel pen-
siero e nel sentimento, e vi supplisce con le esagera-
zioni e le amplificazioni. Che dirò delle sue descrizioni
cosi minute, come le sue analisi, e tutte di seconda mano,
non ispirate dall' impressione immediata della natura ?
Veggasi il suo inverno e la primavera e V autunno, e
tutte le sue descrizioni della bellezza virile e femminile,
fatte con la squadra e col compasso. Cosi gli è venuto
scritto un romanzo prolisso, noioso, in guisa che a sen-
tir quegli eterni lamenti della Fiammetta che aspetta Pan-
filo, siamo tentati di dire: Panfilo torna presto! che non
la sentiamo più.
Più conforme al suo genio è il Cordacelo, satira delle
donne. Ma come il burlato è lui, le risa sono a sue spese,
specialmente quando si lamenta che una donna abbia pò-
— 319 —
futo farla a lui, che pure è un letterato. Vi mostra egli
così poco spìriti ^ come nella lettera a Nicolò Acciajoli,
che il Petrarca grecizzando chiamava Simonide , dove
leva le alte strida, perchè invitato alla corte di Napoli gli
sia toccata quella cameraccia e quel lettaccio, ed esce in
vituperii, in minacce, in pettegolezzi resi ancora più ri-
dicoli da quella forma ciceroniana. Come qui minaccia e
vitupera e inveisce alla latina, cosi nel Corhaccio sa-
tireggia con la storia, co' luoghi comuni degli antichi
poeti, narrando fatti o allegorie e ammassando noiosi ra-
gionamenti. L' ordito è semplicissimo. Il Boccaccio, bef-
fato da una donna, si vuole uccidere, ma il timore del-
l' Inferno ne lo tiene, e pensa più saviamente a vivere
e a vendicarsi , non col ferro, ma come i letterati fanno
con concordare di rime o distender di prose. Fra
questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel
Laberinto d'amore, o Valle incantata, una specie di
selva dantesca , dove gli appare un' ombra ed è il ma-
l'ito della donna, che nel purgatorio espia la troppa
pazienza avuta con lei. Costui gli espone tutte le cat-
tive qualità delle donne a cominciare dalla sua. E quando
si è bene sfogato, lo conduce sopra di un monte* altissi-
mo, onde vede il Laberinto metter capo nell' inferno. Que-
sta vista guarisce il Boccaccio del mal concetto amore.
Come si vede la satira non è rappresentazione artistica,
ma esposizione in forma di un trattato di morale de' vizii
femminili. Nondimeno trovi qua e là dei bei motti, e no-
vellette graziose e descrizioni vivaci dei costumi delle
donne con 1' uso felicissimo del dialetto fiorentino, com' è
la dorma in chiesa, che incomincia una dolente filza di
pale mostri, dall' una mano neU altra e dall' altra nel-
V una trasmutandogli senza mai dirne ninno, o la
donna che con le sue gelosie non dà tregua al marito, e
di ciarlare mai non resta, mai non molla, mai non fi-
na, dalle, dalle, dalle dalla mattina infina alla sera, e
— 320 —
la notte ancora non sa restare. Nelle sue gelose querele
si rivela il vero genio del Boccaccio, una forza comica ac-
compagnata con vera felicità di espressione attinta in un
dialetto cosi vivace e già maturo , pieno di scorciatoie, di
frizzi, di motti, di grazie. Citiamo alcuni brani: « Credi tu
eh' io sia abbagliata, e eh' io non sappia a cui tu vai die-
tro? a cui tu vogli bene ? e con cui tutto il dì favelli ?
Misera me, che è cotanto tempo ch'io ci venni, e pur una
volta ancora non mi dicesti: Amor mio, ben sia venuta.
Ma alla croce di Dio, eh' io farò di quelle a te che tu fai
a me. Or son io cosi sparuta? Non son io cosi bella, come
la cotale? ma sai che ti dico, chi due bocche bacia, l' una
convien che puzzi. Fatti costà, se Iddio m' aiuti, tu non
mi toccherai, va dietro a quelle di cui tu sei degno, che
certo tu non eri degno di aver me , e fai bene ritratto di
quello che tu sei, ma a fare a fare sia ». Questa è lin-
gua già degna di Plauto, e il Corbaccio è sparso di co-
tali scene, degne di colui che aveva già scritto il De-
canierone.
Fra tanti peccati che il marito tradito e l'amante burla-
to attribuiscono alla donna e' è pur questo, che le sue ora-
zioni e i suoi paterìios tri sono i romanzi franceschi y
e tutta si stritola quando legge Lancillotto o Tristano
nelle camere segretamente. E anche legge la canzone
dell' indovinello, e quella di Florio e di Biancefiore e
simili altre cose assai. Sono preziose rivelazioni sulla
letteratura profana e proibita, allora in voga. Ma se pec-
cato e' è il maggior peccatore era il Boccaccio per l'ap-
punto, che per piacere alle donne scrivea romanzi. Pure
è lecito credere eh' elle leggevano con più gusto la nuda
storia francesea di Florio e Biancefiore, che l'imitazione
letteraria fatta dal Boccaccio, detta Filocolo, dove Bian-
cefiore [Blaìichefleur) è chiamata all'italiana Bianco-
fiore. Alle donne caleva poco di mitologia e storia an-
tica, e se tanta erudizione e artificio rettorico poteva
— 321 —
parere cosa mirabile al suo maestro di greco, Pilato, e
a' latinisti e grecisti che erano allora i letterati, le donne,
che cercavano ne' libri il piacer loro, facevano de' suoi
scritti poca stima, e ciò che peggio era, per lui Aristo-
tile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri illustri
uomini creduti suoi amici e domestici, come fango scal-
pitavano e schernivano. In verità, le donne col loro senso
naturale erano migliori giudici in letteratura che Leon-
zio Pilato e tutti i dotti.
Quelli che chiamarono tranquillo il nostro Giovanni,
espressero un concetto più profondo che non pensavano.
La tranquillità è appunto il carattere del nuovo conte-
nuto eh' egli cercava sotto forme pagane. La letteratura
del medio evo è tutt' altro che tranquilla; anzi il suo gpnio
è l'inquietudine, un carcere continuo, il di là senza spe-
ranza di attingerlo. Il suo uomo è sospeso da terra con
gli occhi in alto, accesi di desiderio. L'uomo del Boc-
caccio è al contrario assiso, in ozio idilUco, con gli oc-
chi volti alla madre terra, alla quale domanda e dalla
quale ottiene l'appagamento. Ma al Boccaccio non piace
esser chiamato tranquillo^ inconsapevole che la sua forza
è h dov' è la sua natura. E si prova nel genere eroico e
cavalleresco, e nelle Confessioni della Fiammetta tenta
un genere lirico-tragico. Tentativi infeUci di uomo che
non trova ancora la sua via. L' indefinito è negato a lui,
che descrive la natura con tanta minutezza di analisi. Il
sospiro è negato a lui che numera ad uno ad uno i fe-
nomeni del sentimento. L' eroico e il tragico non può al-
lignare in un' anima idillica e sensuale. E quando vi si
prova, riesce falso e rettorico. Perciò non gli riesce an-
cora di produrre un mondo, cioè una totalità organica,
armonica e concorde. Nel suo mondo epico- tragico- ca-
valieresco penetra uno spirito eterogeneo e dissolvente,
che rende impossibile ogni formazione artistica, il natu-
ralismo pagano, spirito invitto perchè è il solo che vive
Ce Sanctis — Leu. Ital- Voi. I. 81
— 322 —
al di dentro di lui, il solo che si possa dire il suo mondo
interiore. E quando gli riesce di coglierlo nella sua sem-
plicità e verità , come gli si move al di dentro , allora
trova sé stesso e diviene artista. Questo mondo, gittato
come frammento discorde e caotico ne' suoi romanzi epici
e tragici, par fuori in tutta la sua purezza nel Ninfale
Fù'solano e nel Ninfale di Ameio,
Qui r autore volgendo le spalle alla cavalleria e ai
tempi eroici, rifa con l'immaginazione i tempi idillici delle
antiche favole e dell'età dell'oro, quando le Deità scen-
devano amicamente nella terra popolata di Ninfe, di pa-
stori, di fauni e di satiri. La mitologia non è qui ele-
mento errante fuori di posto in mondo non suo, è lei
tutto il mondo.
Questo mondo mitologico primitivo è un inno alla Na-
tura. Nel Ninfale fiesolano la ninfa sacra a Diana, vinta
dalla natura, manca al suo voto, ed è trasmutata in
fonte. L' animo del racconto è il dolce peccato, nel quale
cadono Africo e Mensola non per corruzione o deprava-
zione di cuore, ma per l'irresistibile forza della natura
nella piena semplicità ed innocenza della vita: sì che, sa-
puto il fatto, ne viene compassione alla stessa Diana. Indi
il poco sopraggiunge Atalante, e con la guida del figlio
della colpa, nato da Mensola, distrugge gli asili sacri a
Diana, e .marita le Ninfe per forza, ed edifica Fiesole ed
introduce la civiltà e la coltura. Così il mondo mitolo-
gico perisce con le sue selvatiche istituzioni, e comincia
il viver civile conforme alle leggi della natura e dello
amore.
Il racconto è diviso in sette parti o canti ed è in ot-
tava rima. L'autore non costretto a gonfiare le gote né
a raffinare i sentimenti si fa cullare dolcemente dalla sua
immaginazione in questo mondo idillico, e descrive pae-
saggi e scene di famiglia e costumi pastoraU con una fa-
cilità che spesso è negligenza , non è mai affettazione o
— 323 —
esagerazione. La tromba è mutata nella zampogna, suono
più umile, ma uguale e armonioso: Fottava procede piana
e naturale, talora troppo rimessa ; e non mancano di bei
versi imitativi. Africo e Mensola debbono dividersi, che
l'ora è tarda, e il poeta dice:
partir non si sanno
Ma or si partono, or tornano, or vanno.
Altrove dice :
Sempre mirandosi avanti ed intorno,
Se Mensola vedea, poneva mente.
Frequente è in lui T uso dello sdrucciolo in mezzo al verso,
e queir entrare de' versi 1' uno nell' altro, che slega e in-
toppa le sue ottave eroiche, ma dà a queste ottave idil-
liche un aspetto di naturalezza e di grazia. Il suo pe-
riodo poetico saltellante e imbrogliato nella Teseide qui
è corrente e spedito, assai prossimo al hnguaggio na-
turale e famihare :
Ella lo vide prima che lui lei,
Perchè a fuggir del campo ella prendea:
Africo la sentì gridare omei,
K poi guardando fuggir la vedea :
E infra so disse ; per certo costei
È Mensola; e poi dietro le correa;
E si la prega, e per nome la chiama,
Dicendo : aspetta quel che tanto t' ama.
Africo dorme: e il padre dice alla moglie, Alimena:
0 cara sposa,
Nostro fìgliuol mi pare addormentato,
E molto ad agio in sul letto si posa,
Sì che a destarlo mi parria peccato 1
E forse gli saria cosa gravosa
Se io r avessi del sonno svegliato.
— 324 —
E tu di* vero, diceva Alimena,
Lasciai posare e non gli dar più pena.
Manca il rilievo : per soverchia naturalezza si casca nei
triviale e nel volgare. Più tardi verrà il grande artista,
che calerà in questo mondo della natura e dell' amore
appena sbozzato e pur ora uscito alla luce , e gli darà
r ultima e perfetta forma.
Simile di disegno, ma in più larghe proporzioni è il
Ninfale d'Ameto. È il trionfo della natura e dell' amore
sulla barbarie de' tempi primitivi. E il barbaro qui non
è la Ninfa, sacrata a Diana, che per violenza di natura
rompe il voto, ma è il pastore abitatore della foresta
co' Fauni e le Driadi, che scendendo al piano lascia la
alpina ferità e prende abito civile. Il luogo della scena
comincia in Fiesole, negli antichissimi tempi detta Co-
rito, quando vi abitavano le Ninfe e non era venuto an-
cora Atalante a cacciarle via e introdurvi costumi umani.
Cosi l'Ameto si collega col Ninfale Fiesolano. Il pastore
Ameto erra e caccia su pel monte e per la selva, quando un
dì affaticato giunge co' suoi cani al piano, presso il Mu-
gnone, e riposando e trastullandosi co' cani, gU giunge
all' orecchio un dolce canto, e guidato dalla melodia sco-
pre più giovanetto intorno alla bellissima Lia. Sono Ninfe,
non sacrate a Diana, ma a Venere. Lia racconta nella
sua canzone la storia di Narciso; bellissimo è crudo cac •
datore, che rifiutando il caro amore delle donne, e in-
namorato della sua immagine fu convertito in fiore. Ametr»
parte pensoso , recando seco l' immagine di Lia. Venuta
la primavera, torna al piano, e cerca e chiama Lia^ de >
scrivendo la sua bellezza e offrendole doni:
Tu sei lucente e chiara più che il vetro,
E assai dolce più ch'uva matura,
Nel cuor ti sento, ond' io sempre t' impetro,
E siccome la palma inver 1' altura
— 325 —
Sì stende, cosi tu, vieppiù vezzosa,
Che il giovanetto agnel ne la pasturo.
E sei più cara assai e graziosa,
Che le fredde acque a' corpi faticati,
0 che le fiamme a' freddi, o ch'altra cosa.
E i tuoi capei più volte ho simigliati
Di Cerere a le paglie secche o bionde,
Dintorno crespi al tuo capo legati.
Vieni, eh' io serbo a te giocondo dono.
Che io ho colti fiori in abbondanza,
Agli occhi bei, d' odor soave e buono.
E siccome suol esser mia usanza.
Le ciriege ti serbo, e già per poco
Non si riscaldan por la tua distanza.
Con queste, bianche e rosse come fuoco
Ti serbo gelse, mandorle e susine.
Fra volo e buzzacchioni in questo loco.
Belle peruzze e fichi senza fine,
E di tortore ho preso una nidata,
Le più belle del mondo e piccoline.
Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio
traggono pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto trova'
la sua Lia fra bellissime Ninfe, delle quali contempla le
bellezze parte a parte, fatto giudice esperto e amoroso.
E tutti fan cei'chio a un pastore che canta le lodi di Ve-
nere, e di Amore. Sopravvengono altre Ninfe, le quali
non umane pensava, ma Dee^ e contempla, rapito cele-
sti bellezze e di pastore si sente divenuto amante ; di-
cendo: «Io usato di seguire bestie, amore poco avanti
da me non saputo seguendo, non so come mi conver-
tirò in amante seguendo donne ». Le belle Ninfe gli sie-
dono intorno ed egli scioglie un inno a Giove, e canta
la sua conversione. Questi sono gli antecedenti del ro-
manzo, sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze fera-
rainili in quella forma minuta e stancante che ò il vez-
— 326 —
zo dell' autore. Lia propone, che ciascuna Ninfa canti la
sua storia e canti la Deità reverita da lei, acciocché
oziose come le mìsere fanno non passino il chiaro
giorno. Sedute in cerchio e posto in mezzo Ameto, co-
me loro presidente o antistite, cominciano i loro racconti^
Sono sette Ninfe, Mopsa, Emilia, Adiona, Acrimonia, Aga-
pes, Fiammetta e Lia, ciascuna consacrata a una divi-
nità, Pallade, Diana, Pomena, Bellona, Venere, delle quali
si cantano le lodi. Ne' racconti delle Ninfe vedi la vit-
toria dell' amore e delia natura sulla ferina salvatichezza
degli uomini, e aU'ozio bestiale tener dietro le arti di Pal-
lade, di Diana, di Astrea, di Pomena, e di Bellona , la
cultura e 1' umanità. Ti vedi innanzi svilupparsi tutto il
mondj della coltura, e cominciare da Atene, ed in ul-
timo posare in Etruria, dove 1' autore con giusto orgo-
gho pone il principio della cultura. Da ultimo apparisce
luce una e trina, entro la quale guardando Ameto, Mopsa
gli occhi asciugandoU da queìh levò l'oscura caligine, si
che nella triforme ravvisa la celeste e santa Venere,
madre di amore puro e intellettuale. Tuffato nella fonte
da Lia, gittati i panni selvaggi, e lavato di ogni lordura,
si sente dibruto fatto uomo, e vede chi sieno le Ninfe,,
le quali pili all'occhio che all' intelletto erano piaciute,
e ora all' intelletto piacciono più che all' occhio, di-
scerne quali sieno i tempi e quali le Dee di cui can-
tano, e chenti sieno i loro amori , e non poco in sé
si vergogna de' concupiscevoli pensieri avuti. Le Ninfe,
le quali non sono altro che le scienze e le arti della vita
civile, tornano alla celeste patria, e Ameto canta la sua
redenzione dallo stato selvaggio.
Questo disegno evidentemente è uscito da una testa
giovaiiile: ancora sotto l'azione di tutti i diversi ele-
menti di quella coltura. Palpabili sono le reminiscenze
della Divina Cemìnedia. Lia e Fiammetta ricordano Ma-
tìi'e e Beatrice. Il concetto nella sua sostanza è dan-
— 327 —
tesco ; e 1' emancipazione dell' uomo, il quale, percorse le
vie del senso e dell' amore sensuale, è dalla scienza in-
nalzato all' amore di Dio. Anche la forma allegorica è
dantesca, non essendo quelle apparizioni che simboli di
concetti, e fìguie di quelle separate intelligenze che pre-
siedono alle stelle e regolano i modi dell' animo. Tutto
questo si trova inviluppato in un mondo mitologico, che
è la sua negazione , animato da un naturaHsmo spinto
sino alla licenza. Apuleio e Longo contendono con Dante
nei cervello dello scrittore. Il romanzo, che nell'intenzione
dovrebbe essere spirituale, è nel fatto soverchiato da un
vivo sentimento della bella natura e de' piaceri amorosi.
Si vede il giovane che sta con Dante in astratto, ma ha
pieno il capo di mitologia, di ronàanzi greci e france-
schi, di avventure licenziose, e fa di tutto una mesco-
lanza. Se qualche cosa in questa noiosa lettera ti allet-
ta, è dove lo scrittore si abbandona alla sua natura,
com'è la comica descrizione che Acrimonia fa del suo
vecchio marito, nel quale intravvedi già il povero dot-
tore, a cui Paganino rubò la moglie, e com' è qua e là
qualche pittura e stnlimento idillico. Pure in un mondo
così dissonante e scordato si sviluppa chiaramente un
entusiasmo giovanile per la coltura e 1' umanità. Ci si
sente il secolo che scuote da se la rozza baibarie, e
s' incammina fidente verso un mondo più colto e polito.
Ameto si spoglia il ruvido abito del medio evo, e gui-
dato dalle Muse prende aspetto gentile e umano. Le om-
bre del misticismo si diradano nel tempio di Venere. Danto
canta la redenzione dell' anima neh' altro mondo. Il Boc-
caccio canta la fine della barbarie e il regno della col-
tura. È lo spirito nuovo, da cui più tardi uscirà Lorenzo
de' Medici e Poliziano.
Gittando ora un solo sguardo su questi lavori, si pos-
sono raccogliere con chiarezza caratteri della nuova cui*
tura. Le teorie in astratto rimangono lo stesse^ e il Boc-
— 328 —
caccio pensa come Dante. Ma nel fatto lo spirito abbandona
in cielo e si raccoglie in terra; perde la sua idealità e
la sua inquietudine, e diviene tranquillo, calato tutto e
soddisfatto nella materia della sua contemplazione. A un
mondo lirico di aspirazioni indefinite espresso nella vi-
sione e neir estasi succede un mondo epico, che ha nei
fatti umani e naturali il suo principio e il suo termine.
Il poeta in luogo d' idealizzare realizza, cioè a dire fugge
le forme sintetiche e comprensive che gittano lo spirito
in un di là da esse, e cerca una forma nella quale la
immaginazione si trovi tutta e si riposi. Non ci è più
il forse e il parere^ non una forma appena abbozzata
quasi velo di qualcos' altro, ma una forma terminata e
chiusa in sé e corpulenta, nella quale 1' oggetto è minu-
tamente analizzato nelle singole parti: alla terzina suc-
cede r analitica ottava. Rimangorit) ancora le terzine, e
le visioni e le allegorie, i sonetti e le canzoni, ma come
forme prettamente convenzionali e d' imitazione, sciolte
dallo spirito che le ha generate: il passato per lungo
tempo si continua come morta forma in un mondo mu-
tato. Succedono forme giovani e nuove, più conformi a
un contenuto epico. Sul mondo inquieto delle allegorie
e delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo pa-
gano, con le sue deità umanizzate, con la sua natura
animata, col suo vivo sentimento della bellezza, con la
sua disinteressata contemplazione artistica. Queste ten-
denze non trovano soddisfazione in un contenuto eroico
e cavalleresco, perchè la serietà di una vita eroica e
cavalleresca è ita via insieme col medio evo, e non è
più nella coscienza , e non può essere altro che imita-
zione letteraria e artificio rettorico. Più conveniente a
quelle forme è la vita idillica, ne' cui tranquilU ozii, nella
cui semplicità e chiarezza V anima agitata dalle lotte po-
litiche e turbata dalle ombre di un mondo trascendente
si raccoglie come in un porto e si riposa. L' idillio è la
— 329 —
prima forma nella quale si manifesta questa nuova ge-
nerazione , fiacca e stanca , pur colta ed erudita , che
chiama barbara la generazione passata, e celebra i nuovi
tempi della coltura e dell'umanità, invocando Venere e
Amore.
Specchio di questa società nelle sue fluttuazioni, nelle
sue imitazioni, nelle sue tendenze è il Boccaccio. I suoi
tentennamenti e le sue dissonanze provengono dalla coe-
sistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi , vivi
e morti, mescolati. Un doppio involucro, mistico e mito-
logico , circonda come una nebbia questo mondo della
natura.
Fra questi tentennamenti si andò formando il Deca-
merone. Il Boccaccio lascia qui cavalleria , mitologia >
allegoria, e tutto il suo mondo classico, tutte le sue re-
miniscenze dantesche, e si chiude nella sua società, e ci
vive e ci gode, perchè ivi trova sé stesso, perchè vive
anche lui di quella vita comune. Par cosi facile attin-
gere la società in questa forma diretta e immediata, pur
si vede quanto laboriosa gestazione è necessaria, perchè
esca alla luce il mondo del tuo spirito.
Quel mondo esisteva prima del Becamerone. In Italia
abbondavano romanzi e novelle e canzoni latine, canti
licenziosi. Le donne, come abbiam visto, leggevano se-
cretamente tra loro questi libri profani , e i novellatori
intrattenevano le liete brigate con racconti piacevoli e
licenziosi. Il fondo comune de' romanzi erano le avven-
ture de' cavalieri della Tavola rotonda e di Carlomagno.
Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero
di questi eroi ed eroine , Artù , Lancillotto , Galeotto ,
Isotta la bionda, Chedino, Palamides, Lionello, Tristano,
Orlando, Uliviero, Rinaldo, Guttifrè, Roberto Guiscardo,
Federico Barbarossa, Federico IL Egli medesimo scrisse
romanzi per far piacere alle donne, e rifatto il romanzo
di Florio e Biancofiore, cercò un teatro più conforme ai
— 330 —
suoi studii classici ne' tempi eroici e primitivi delle gre-
che tradizioni. Pure le novelle doveano riuscire più po-
polari e più gradite, perchè più conformi a' tempi e a' co.
stumi. E se ne affazzonavano o inventav a no di ogni sorta
serie e comiche, morah e oscene, variate e abbellite dai
novellatori secondo i gusti dell 'uditorio. La novella era
dunque un genere vivente di lettera tura, lasciato in balìa
dell' immaginazione e come materia profana e frivola ,
trascurata dagli uomini colti. Rivale della novella era
la leggenda coi suoi miracoli e le sue visioni. Gli uomini
colti si tenevano alter in una regione loro propria e la-
sciavano a' frati i Fioretti di san Francesco e la vita del
beato Colombino, e a' buontemponi la semplicità di Calan-
drino e le avventure galanti di Alatiel.
In questo mondo profano e frivolo entrò il Boccac-
cio, con non altro fine che di scrivere cose piacevoli e
far cosa grata alla donna che glie ne avea data com-
missione. E raccolse tutta quella materia informe e roz-
za, trattata da illetterati, e ne fece il mondo armonico
dell' arte.
Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle quaU il
Boccaccio ha attinte le sue novelle. E molti credono si
tolga qualche cosa alla sua gloria, quando sia dimostrato
che la più parte de' suoi racconti non sono sua inven-
zione, quasi che il merito dell'artista fosse neh' inven-
tare, e non piuttosto nel formare la materia. Fatto è che
la materia cosi nella Commedia e nel Canzoniere, come
nel Decamerone, non uscì dal cervello di un uomo, anzi
fu il prodotto di una elaborazione collettiva, passata per
diverse forme insino a che il genio non l'ebbe fissata e
fatta eterna.
Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto diversi
nomi, ma non e' era la novella, e tanto meno il Novel-
liere, in cui i singoli racconti fossero composti ad unità
e divenissero un mondo organico. Questo organismo vi
^ 331 —
spirò dentro il Boccaccio e di racconti diversi di tempi»
di costumi e di tendenze fece il mondo vivente del suo
tempo^ la società contemporanea, della quale egli aveva
tutte le tendenze nel bene e nel male.
Non è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la
società da un punto elevato e ne scopre le buone e cat-
tive parti con perfetta e severa coscienza. È un artista
che si sente uno con la società in mezzo a cui vive, a
la dipinge con quella mezza coscienza che hanno gli uo-
mini fluttuanti fra le mobili impressioni della vita senza
darsi la cura di raccogliersi e analizzarle. Qualità che
lo distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca ,
spiriti raccolti, ed estatici. Il Boccaccio è tutto nel mondo
di fuori tra' diletti e gli ozii e le vicissitudini della vita
e vi è occupato e soddisfatto, e non gli avviene mai di
piegarsi in sé, di chinare il capo pensoso. Le rughe del
pensiero non hanno mai traversata quella fronte e nes-
sun' ombra è calata sulla sua coscienza. Non a caso fu
detto Giovanni della tranquillità. Sparisce con lui dalla
nostra letteratura l'intimità, il raccoglimento, l'estasi,
la inquieta profondità del pensiero, quel vivere dello spi-
T'ito in sé, nutrito di fantasmi e di misteri. La vita sale
sulla superficie e vi si liscia e vi si abbellisce. Il mondo
dello spirito se ne va : viene il mondo della natura.
Questo mondo superficiale , appunto perchè vuoto di
forze interne e spirituali , non ha serietà di mezzi e di
scopo. Ciò che lo move, non è Dio, nò la scienza, non
l'Amore unitivo dell'intelletto e dell'atto, la grande base
del medio evo; ma è l' istinto o l' inclinazione naturale :
vera e violenta reazione contro il misticismo. Ti vedi
innanzi una lieta brigata, che cerca dimenticare i mali
e le noie della vita , passando le calde ore della gior-
nata in piacevoli racconti. Era il tempo della peste , e
gU uomini con la morte innanzi si sentivano sciolti da
ogni freno e si abbandonavano al carnevalo della loro
^ 332 —
immaginazione. Di questo carnevale il Boccaccio aveva
r immagine della Corte ove avea passati i suoi più bei
giorni, attingendo le sue ispirazioni in quel letame, sul
quale le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori. Un con-
gegno simile trovi già nell'Ameto, un decamero ne pa-
storale : se non che ivi i racconti sono allegorici e preor-
dinati ad un fine astratto : non e' è lo spirito della Di-
vina Commedia, ma ce n' è l'ossatura. Qui al contra-
rio i racconti non hanno altro fine che di far passare il
tempo piacevolmente, e sono veri mezzani di piacere e
d' amore , il vero Principe Galeotto , titolo italiano del
Novelliere, velato pudicamente da un titolo greco. I per-
sonaggi evocati neir immaginazione da diversi popoli e
tempi appartengono allo stesso mondo, vuoto al di den-
tro, corpulento al di fuori. Personaggi, attori, spettatori
e scrittore , sono un mondo solo , il cui carattere è la
vita tutta al di fuori , in una tranquilla spensieratezza.
Questo mondo è il teatro de' fatti umani abbandonati
al libero arbitrio e guidati ne' loro effetti dal caso. Dio
0 la Provvideuza ci sta di nome , quasi per un tacito
accordo nelle, parole di gente caduta nella più profonda
indifferenza religiosa, politica e morale. E non c'è neppure
quella intima forza delle cose, che crea la logica degli
avvenimenti e la tiecessità del loro cammino; anzi l'at-
trattivo del racconto è proprio nell'opposto, mostrando
le azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un
fine affatto contrario a quello che ragionevolmente si pò-
tea presupporre. Nasce una nuova specie di maraviglioso,
generato non dall' intrusione nella vita di forze oltrena-
turali sotto forma di visioni o miracoli, ma da uno straor-
dinario concorso di accidenti non possibiU ad essere pre-
veduti e regolati. L' ultima impressione è che signore del
mondo è il caso. Ed è appunto nel vario giuoco delle in-
clinazioni e delle pa^tìioni degli uomini sottoposte ai mu-
— 333 —
tabilì accidenti della vita che è qui il Deus eoo machi-
na, il Dio di questo mondo.
E poiché la macchina è il maraviglioso, T imprevisto,
il fortuito, lo straordinario, T interesse del racconto non
è nella moralità degli atti, ma nella loro straordinarietà
di cause e di effetti. Non già che il Boccaccio sconosca
il mondo morale e religioso, ed alteri le nozioni comuni
intorno al bene od al male, ma non è questo di che si
preoccupa e che lo appassiona. Poco a lui rileva che i)
fatto sia virtuoso o vizioso ; ciò che importa è che possa
stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli acci-
denti e dei caratteri. La virtù posta qui a fare effetto
suir immaginazione manca di sempl icità e di misura e di-
viene anch' essa un istrumento del maraviglioso , con-
dotta ad una esagerazione, che scopre nell'autore il vuoto
della coscienza ed il difetto di senso morale. Esempio no-
tabile è la Griselda, il personaggio più virtuoso di quel
mondo. La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti
i sentimenti della natura e la sua personalità e il suo li-
bero arbitrio. L'autore, volendo foggiare una virtù straor-
dinaria, che colpisca di ammirazione gli uditori, cade in
quel misticismo contro di cui si ribella e che mette in
gioco, collocando 1' ideale della virtù femminile nell'ab-
dicazione della personalità , a quel modo che secondo
r ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito e lo
spirito è assorbito da Dio. Si rinnova il sacrificio di A-
bramo, e il Dio che mette la natura a cosi crudel pro-
va , è qui il marito. Similmente la virtù in Tito e Gi-
sippo è collocata cosi fuori del corso naturale delle cose,
che non ti alletta come un esempio, ma ti stupisce come
un miracolo. Ma virtù eccezionali e spettacolose sono
rare apparizioni, e ciò che spesso ti occorre, e la virtù
tradizionale di tempi cavallereschi e feudali , una certa
generosità e gentilgizza di re, di principi, di marchesi i
reminiscenze di storie cavalieresche ed eroiche in tempi
— 334 —
borghesi. La qual virtù è in questo che il principe usa
la sua potenza e protezione dei minori , e soprattutto
degli uomini valenti d' ingegno e di studii e poco favo-
riti dalla fortuna, come furono Primasso e Bergami-
no, verso i quali si mostrarono magnifici l'abate di Cli-
gny e Can Grande della Scala. Così è molto commen-
dato il primo Carlo d'Angiò, il quale, potendo rapire e
sforzare due bellissime fanciulle, figliuole di un ghibelli-
no, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle. La
virtù in questi potenti signori e di non fare malvagio
uso della loro forza, anzi di mostrarsi liberali e cortesi.
Già cominciava in quel mondo a parer fuori una classe
di letterati, che viveva alle spese di questa virtù, cele-
brando con giusto cambio una magnificenza, della quale
assaporavano gli avanzi. L' anima altera di Dante mai
vi si piegava, né gh fu ultima cagione d'amarezza quel
mendicare la vita a frusto a frusto e scendere e salire
per le altrui scale. Ma i tempi non erano più all'eroica,
e il Petrarca si lasciava dotare e mantenere da' suoi me-
cenati, e il Boccaccio vivea de' rilievi della corte di Na-
poh , comicamente imbestiato , quando il mantenimento
non era dicevole a un par suo, disposto da' buoni o dai
cattivi cibi al panegirico o alla satira. Tale è il tipo di
ciò che in questo mondo boccaccevole è chiamato la virtù,
una liberalità e gentilezza d'animo, che dalle castella pe-
netra nelle città e fino ne' boschi asilo de' masnadieri ,
della quale sono esempio Natan, e il Saladino, e Alfonso,
e Ghino di Tacco, e il negromante di Ansaldo. Questo
se non è propriamente senso morale, è pur senso di gen-
tilezza, che raddolcisce i costumi e spoglia la virtù del
suo carattere teologico e mistico, posto nell'astinenza e
nella sofferenza, le dà aspetto piacevole, più conforme ad
una società colta e allegra. Vero è che siccome il caso,
regolatore di questo mondo, ne fa di ogni maniera, ta-
lora l'allegria che vi domina è funestata da tristi acci-
— 335 —
denti, che turbano il bel sereno. Ma è una nuvola im-
provvisa, la quale presto si scioglie e rende più cara la
vista del sole, o come dice la Fiammetta , è una fiera
materia, data a temperare alquanto la letizia. Volendo
guardare più profondamente in questo fenomeno, osser-
viamo che la gioia ha poche corde, e sarebbe cosa mo-
notona, noiosa e perciò poco gioiosa, come avviene spesso
ne' poemi idillici, se il dolore non vi si gttasse entro con
le sue corde più varie e più ricche d'armonia, traen-
dosi appresso un corteggio di vivaci passioni, 1' amore,
la gelosia, 1' odio lo sdegno, l' indignazione. Il dolore ci
sta qui non per sé, ma come istru mento della gioia, stuz-
zicando l'anima, tenendola in sospensione e in agitazio-
ne, insino a che per benignità della fortuna o del caso
comparisce d'improvviso il sereno. E quando pure il fatto
sorta trista fine , com' è in tutti i racconti della gior-
nata quarta, l'emozione è superficiale ed esterna, esa-
lata e raddolcita in descrizioni , discorsi e riflessioni , e
non condotta mai sino allo strazio, com' è nel fiero do-
lore di Dante. Sono fugaci apparizioni tragiche in que-
sto mondo della natura e dell'amore, provocate appunto
dalla collisione della natura e dell'amore non con un prin*
cipio elevato di morahtà, ma con la virtù cavalleresca,
il punto d'oìiore. Di che bellissimo esempio, oltre il Ger-
bino, è il Tancredi, che testimone della sua onta uccide
l'amante della figliuola, e mandale il cuore in una coppa
d'oro: la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella
si bee e così» muore. Il motivo della tragedia è il punto
d' onore , perchè ciò che move Tancredi è 1' onta rice-
vuta, non solo per l'amore della figliuola, ma ancora più
per l'amore ccJlocato in un uomo di umile nazione. Ma
la figliuola dimostra vittoriosamente al padre la legitti-
mità del suo amore e della sua scelta, invocando le leggi
della natura e il concetto della vera nobiltà posta non
nel sangue, ma nella virtù • e l'ultima impressione è la
— 336 —
condanna del Padre indarno pentito e piangente sul morta
corpo della figliuola, il quale apparisce non come giusto
vendicatore del suo onore offeso, ma come ribelle verso
la natura e l'amore. L' effetto estetico è la compassione
verso il padre e la figliuola, T una di alto animo, 1' al-
tro umano e di benigno ingegno, vittime tutti e due non
per difetto proprio, ma per le condizioni del mondo in
mezzo a cui vivono. La conclusione ultima è la riven-
dicazione delle leggi della natura e dell' amore verso gli
ostacoli in cui s' intoppano. Sicché la tragedia è qui il
suggello e la riprova del mondo boccaccevole , e il do-
lore fugace che vi fa la sua comparsa, presentato nella
sua forma più mite e tenera, vicina alla compassione, è
come il condimento della gioia, a lungo andare insipida,
quando sia abbandonata a sé stessa.
La base della tragedia è mutata. Non é più il terrore
che invade gli spettatori incontro a un Fato incompren-
sibile che si manifesta nella catastrofe, come nei greci,
e neppure 1' espiazione per le leggi di una giustizia su-
periore, come neir inferno dantesco; ma è il mondo ab-
bandonato alle sue forze naturali e cieche, nel cui con-
flitto rimane l'amore come una specie di diritto superiore,
incontro a cui tutti hanno torto. La natura che nel mondo
dantesco è il peccato , qui è la legge , ed ha contro di
sé non un mondo religioso e morale , di cui non è ve-
stigio, ancorché ammesso in astratto e in parola, ma la
società come si trova ordinata in quel complesso di leggi,
di consuetudini che si chiamano 1' onore. Il conflitto è
tutto però al di fuori nell' ordine de' fatti prodotti dal
diverso urto di queste forze e terminati dalla benignità
o malvagità del caso o della fortuna; e non sale a vera
opposizione interna che sviluppi le passioni e i caratteri.
Il poeta non è un ribelle alle leggi sociaU e tanto meno
un riformatore ; prende il mondo com' é, e se le sue sim-
patie sono per le vittime dell'amore, non biasima per-
— 337 —
ciò coloro che dall' onore sono mossi ad atti crudeli, an-
ch' essi degni di stima , vittime anch' essi. Così esalta
Gerbino che volle romper la fede data dal re, suo zio,
anzi che mancare alle leggi dell' amore ed esser tenuto
vile; ma non biasima il re che lo fece uccidere, volendo
anzi senza nipote rimanere, eh' essere tenuto re senza
fede. Ne nasce in mezzo all' agitazione dei fatti esteriori
una calma interna, una specie di equilibrio, dove 1' emo-
zione non penetra se non quanto è necessario a ravvi-
vare e variare 1' esistenza. Perciò in questo mondo bor-
ghese e indifferente e naturale la tragedia rimane esteriore
e superficiale, naufragata qui come un frammento gal-
leggiante nella vastità delle onde. Il movimento non ha
radice nella coscienza, nelle forti convinzioni e passioni
stimolate dal contrato, ma si scioglie in un giuoco di
immaginazione, in una contemplazione artistica de' varii
casi della vita, che sorprendano e attirino la tua atten-
zione. Per dirla con un solo vocabolo comprensivo, virtù
e vizi qui non hanno altro significato che di avventure,
ovvero casi straordinarii tirati in iscena dal capriccio del
caso. Gli uditori non vi prendono altro interesse che di
trovarvi materia a passare il tempo con piacere ; e del
loro piacere è mezzana la stessa virtù e lo stesso dolore.
Un mondo, il cui Dio è il caso, e il cui principio di-
rettivo è la natura, non è solo spensierato e allegro, ma
è anche comico. Già quel non prendere in nessuna se-
rietà gli avvenimenti e farne un giuoco di pura immagi-
nazione, quell'intreccio capriccioso de' casi, quell' equìH-
brio interno che si mantiene sereno tra le più crudeli
vicissitudini , sono «il terreno naturale su cui germina il
comico. Un' allegrezza vuota d' intenzione e di significato
è cosa insipida, è appunto quel riso che abbonda nella
bocca degli stolti. Perchè il riso abbia malizia o intel-
hgenza, dee avere una inlenzioue e un significato, dee
De SanctJB — L«tt. Ital. Voi K 22
— 338 —
esser comico. E il comico dà a questo mondo la sua fi-
sonomia e la sua serietà.
Questa società è essa medesima una materia comica,
perchè niente è più comico, che una società spensierata
e sensuale, da cui escono i tipi di Don Gróvanni e di
Sancio Panza. Ma è una società che rappresentava a quel
tempo quanto di più intelligente e colto era nel mondo ,
e ne avea coscienza. Una società siffatta aveva il pri-
vilegio di esser presa sul serio da tutto il mondo e di
poter ridere essa di tutto il mondo. In effetti due cose
serie sono in questa novella, V apoteosi dell'ingegno e
della dottrina che si fa riconosc ere e rispettare da' più
potenti signori, e una certa alte rezza borghese che prende
il suo posto nel mondo e si prò clama nobile al pari dei
baroni e de' conti. Questi sono i caratteri di quella classe
a cui apparteneva il Boccaccio, istruita, intelligente, che
teneva sé civile e tutto 1' altro barbarie. E il comico qui
nasce appunto da questo: è la caricatura che l'uomo in-
telligente fa delle cose e degli uomini posti in uno strato
inferiore della vita intellettuale. La società colta aveva
innanzi a sé i frati ed i preti;, o come dice il Boccaccio,
le cose cattoUche, orazioni, confessioni, prediche^ digiuni,
mortificazioni della carne, visioni e miracoli; e dietro stava
la plebe con la sua sciocchezza e la sua credulità. So-
pra questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio
fa sonare la sferza.
Materia del comico è dunque 1' efficacia delle orazioni,
come il paternostro di san Giù liano, il modo di servire
Dio nel deserto, la vita pratica de' fr^ati , dei preti e delle
monache in contraddizione con le loro prediche , 1' arte
della santificazione insegnata a fra Puccio, i miracoh e
le apparizioni de' santi;, come 1' apparizione dell'angelo
Gabriello, e la semplicità della plebe, trastullo dei furbi.
Visibile soprattutto é la reazione della carne contro gli
eccessivi rigori di un clero che proscriveva il teatro e
— 339 —
la lettura de' romanzi, e predicava i digiuni e i cilizi co-
iti ' la via al paradiso. È una reazione che si annunzia
naturalmente con la licenza e il cinismo. La carne sco-
municata si vendica, e chiama meccanici i suoi maldi-
centi, cioè gente che giudica grossamente secondo 1' opi-
nione volgare. Così il mondo dello spirito in quelle sue
forme eccessive è divenuto per questa ^enle il mondo
volgare. È immaginabile con che voluttà la carne, dopo
la lunga compressione di sfoghi, con che dehzia ti pon-
ga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti, scegliendo
i modi e le frasi più scomunicate, e talora volgendo a
senso osceno frasi e immagini sacre. È il mondo pro-
fano in aperta ribellione, che ha rotto il freno e fa la
caricatura al padrone, cadutogli di sella. Su questo fondo
comico s' intreccia una grande varietà di accidenti, di cui
sono gli eroi i due protagonisti immortah di tutte le com-
medie , chi burla e chi si fa burlare, i furbi e i gonzi,
€ di questi i più martoriati e i più innocenti, i mariti.
E fra tanti accidenti si sviluppa una grande ricchezza di
caratteri comici , de' quali alcuni sono rimasti veri tipi,
come il cattivello di Calandrino e lo scolare vendicativo
che sa dove il diavolo tien la coda. I caratteri scrii sono
piuttosto singolarità che tipi, individui perduti nella mi-
nutezza ed eccezionalità della loro natura, come Griselda,
Tito, il conte di Anguersa, madama Beritola, Ginevra e
la Salvestra, e l' Isabetta e la figlia di Tancredi. Ma i
caratteri comici sono la parte viva e intima e sentita
di questo mondo, e riflettono in sé fisonomie universali
che incontrate neh' uso comune della vita, come compar
Pietro, e maestro Simone, e Fra Puccio, e il frate mon-
tone, e il giudice squasimodeo, e Monna Belcolore, e To-
fano, e Gianni Lotteringhi, tutte le varietà, perchè in-
finita è la turba degli stolti. Così questo mondo spen-
sierato e gioviale si disegna , prende contorni, acquista
una l^sonomia, diviene la Couunedia umana.
— 340 —
Ecco, a così breve distanza, la Commedia e 1' Anti-
commedia, la Divina Commedia e la sua parodia , la
commedia umana! e sullo stesso suolo e nello stesso tempo
Passavanti, Cavalca, Caterina da Siena, voci dell' altro
mondo, soverchiate dall' alto e profano riso di Giovanni
Boccaccio. La gaia scienza esce dal suo sepolcro col suo
riso incontaminato ; i trovatori e i novellatori spenti dai
ferri sacerdotali tornano a vita e ripigliano le danze e
lo gioiose canzoni nella guelfa Firenze; la novella e il
romanzo, proscritti, proscrivono alla lor volta e riman-
gono padroni assoluti della letteratura. Certo, questo mu-
tamento non viene improvviso, come appare un moto di
terra; lo spirito laicale è visibile in tutta la letteratura
e si continua con tradizione non interrotta, come s' è vi-
sto, insino a che nella Divina Commedia prende ardi-
tamente il suo posto e si proclama anch' esso sacro e di
diritto divino, e Dante laico assume tono di sacerdote e,
di apostolo. Ma Dante il fa con tanta industria che tutto
r edificio stia in piedi e la base rimanga salda. La sua
Commedia è una riforma; la commedia del Boccaccio è
una rivoluzione , dov-e tutto V edifìcio crolla e sulle sue
rovine escono le fondamenta di un altro.
La Divina Commedia usci dal numero de' libri viventi,
e fu interpretata come un libro classico, poco letta, poco
capita, pochissimo gustata, ammirata sempre. Fu divina,
ma non fu viva. E trasse seco nella tomba tutti quei
generi di letteratura, i cui germi appaiono così vivaci e
vigorosi ne' suoi schizzi immortali, la tragedia, il dram-
ma, r inno, la laude, la leggenda, il mistero. Insieme pe-
rirono il sentimento della famiglia e della natura, e della
patria, la fede in un mondo superiore, il raccoghmento
e r intimità , le caste gioie dell' amicizia e dell' amore ,
r ideale e la serietà della vita. In questo immenso mondo,
crollato prima di venire a maturità e produrre tutti i
suoi frutti, ciò che rimase fecondo, fu Malebolge, il re*
— 341 -~
gno della malizia, la sede della umana commedia. Quei
Malabolge che Dante gitta nel loto, e dove il riso è so-
verchiato dal disgusto e dalla indignazione, eccolo qui
<5he mena sulla terra la sua ridda infernale, abbigliato
^alle Grazie, e si proclama esso il vero paradiso, corno
capì don Felice, e non capì il povero frate Puccio. In
effetti qui il mondo è preso a rovescio. Commedia per
Dante è la beatitudine celeste. Commedia pel Boccaccio
è la beatitudine terrena, la quale tra gli altri piaceri dà
anche questo, di passare la malinconia spassandosi alle
spalle del cielo. La carne si trastulla, e chi ne fa le spese,
è lo spirito.
Se la reazione contro uno spiritualismo esagerato e
lontanissimo della vita pratica fosse venuta da lotta vi-
vaci nelle alte regioni dello spirito, il movimento sarebbe
stato più lento e più contrastato, come negli altri popoli,
ma insieme più fecondo. Il contrasto avrebbe fortificata
la fede negli uni e le convinzioni negli altri, e generata
una letteratura piena di vigore e di sostanza, alla quale
non sarebbe mancata né la passione di Lutero, né 1' e-
loquenza di Bossuet, né il dubbio di Pascal, né le forme
letterarie possibili solo dove la vita interiore è forte e
sana. Così il movimento sarebbe stato insieme negativo
e positivo, il distruggere sarebbe stato insieme T edifi-
care. Ma le audacie del pensiero punite inesorabilmente,
troncata col sangue Y opposizione ghibellina , rimaso il
papato arbitro e vicino e sospettoso e vigile, quel mondo
rehgioso così corrotto ne* costumi, come assoluto nelle
dottrine e grottesco nelle forme, al contatto con una col-
tura cosi rapida e con lo spirito fatto adulto e maturo
dello studio degli antichi scrittori, non potè esser preso
sul serio dalla gente colta che pure é quella che ha in
mano l' indirizzo della vita nazionale. Nacque a questo
modo la scissura tra la gente colta e tutto il rimanente
della società che pure era la gran maggioranza, rimasa
— 342 —
passiva e inerte in mano al prete di Varlungo, a donno
Gianni, a frate Rinaldo e a frate Cipolla. Sicché per la
gente istruita quel mondo divenne il mondo del volgo ,
o de' meccanici, e saperne ridere era segno di coltura:
ne ridevamo anche i chierici che volevan esser tenuti
uomini colti. Così coesistevano Tjana accanto_air altra
due società distinte, senza troppo molestarsi. La hberf à
del pensiero era negata; vietato mettere in dubbio la
dottrina astratta, ma quanto alla pratica era un altro
affare, si viveva e si lasciava vivere trastullandosi tutti
e sollazzandosi nel nome di Dio e di Maria. Gli stessi
predicatori ne davano esempio, cercando di divertire il
pubblico con motti e ciance ed iscede, cosa che al buon
Dante muoveva Io stomaco, e che faceva ridere il Boc-
caccio scrivendo nella conclusione del suo Novelliere :
« Se le prediche de' frati per rimorder delle lor colpe gli
uomini il più oggi piene di motti e di ciance e di scede
si veggono, estimai che quegU medesimi non stesser male
nelle mie novelle, scritte per cacciar la maHnconia delle
femmine ». L'indignazione di Dante era caduta: soprav-
venne il riso, come di cose oramai comuni. Non si move
la bile se non in quelli che credono e veggono profa-
nata la loro credenza ne' fatti, è la bile de' santi e di
tutti gli uomini di coscienza. Ma quella colta società,
vuota di senso religioso e morale , non era disposta a
guastarsi la bile per i difetti degU uomini. Le sfacciate
donne fìoreniine qui allettano e lasciviano e fanno qica-
dri viventi, come si dice e si fa oggidì. Il traffico delle
cose sacre, occasione allo scisma della credente Germa-
nia , e che Dante nella nobile ira sua chiama adulterio ,
qui è materia di amabili frizzi, senza fiele e senza mali-
zia. La confessione suggerisce l' idea di equivoci molto
ridicoh, ne' quali sono i laici e le laiche, che la fanno
a' preti, uomini tondi e grossi, come si mostra nel con-
fessore di ser Ciappelletto, e nel frate Bestia, carattere
— 343 —
comico de' meglio disegnati. Il foggiar miracoli, come quel
di Masetto 1' ortolano, e del mal capitato Martellino, o
di frate Alberto, o di frate Cipolla, il fabbricar santi e
renderli miracolosi, come è di ser Ciappelletto, è rap-
presentato con r allegoria comica di gente colta e in-
credula. Profanazioni simili fanno ridere, perchè le cose
profanate non ispirano più riverenza.
Questa società tal q^uale, sorpresa calda calda neir atto
della vita, è trasportata nel Decamerone : quadro im-
menso della vita in tutte le sue varietà di caratteri e
di accidenti i più atti a destare la maraviglia, sul quale
spicca Malebolge tirato dall' inferno e messo sul prosce-
nio, il mondo sensuale e licenzioso della furberia e della
ignoranza, entro cui si move senza mescolarvisi un mondo
colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di tempi
cavallereschi, vestito un po' alla borghese, spiritoso, ele-
gante, ingegnoso, gentile, di cui il più bel tipo è Fede-
rigo degli Alberighi. Gli abitanti naturali di questo mondo
sono preti e frati e contadini e artigiani e umili borghesi
e mercatanti, con un corteggio femminile corrispondente,
e le alte risa plebee di questo perpetuo carnevale co-
prono le donne e i cavalieri, le armi e gh amori, le cor-
tesie e le imprese di quel mondo dello spirito, della col-
tura, dell'ingegno e della eleganza, allegro anch'esso»
ma di un' allegrezza costumata e misurata, magnifico ne-
gli atti, avvenente nelle forme, e nel parlare e ne' modi
decoroso. Questi due mondi, le cui varietà si perdono nello
sfondo del quadro, vivono insieme, producendo un' im-
pressione unica e armonica di un mondo spensierato e
superficiale , tutto al di fuori nel godimento della vita,
menato in qua e in là da' capricci della fortuna.
Questo doppio mondo cosi armonizzato nelle sue va-
rietà riceve la sua intonazione dall' autore e dalla lieta
brigata che lo introduce in iscena. L' autore e suoi no-
vellatori appartengono alla classe colta e intelligente. Essi
— 344 —
invocano spesso Dio, parlano della chiesa con rispetto_^
osservano tutte le forme religiose, fanno vacanza il ve-
nerdì, perchè in quel giorno il nostro Signore per la no-
stra vita mori, cantano canzoni platoniche e allegori-
che , e menano vita allegra , ma costumata e quale a
gentili persone si richiede. Lo spirito, 1' eleganza, la col-
tura, le muse rendono questa società amabile , come oggi
si riscontra ne' circoH più eleganti. Specchio suo è ouel
mondo della cortesia, reminiscenza feudale abbellita dalla
coltura e dallo spirito, alla cui immagine si dipinge la
colta e ricca borghesia. E come quel mondo feudale avea
i suoi buffoni e giullari, questa società ha anch' essa chi
la rallegri. E i suoi giullari e buffoni sono quell' infinito
mondo che le si schiera innanzi, preti, frati, contadini,
artigiani, di cui prendono spasso, traendo piacere cosi
dai babbei come dai furbi. In questo comico non ci è
punto una intenzione seria e alta, come correggere i pre-
giudizii, assaUre le istituzioni, combattere l'ignoranza,
moralizzare^ riformare: nel che sta la superiorità del co-
comico di Rabelais e di Montaigne, che è la reazione del
buon senso contro un mondo artificiale e convenzionale.
Lì il riso è serio, perchè lascia qualche cosa nella co-
scienza; qui il riso è per il riso, per passare mahnconia,
per cacciare la noja. Quel mondo plebeo è guardato co-
me fa un pittore il modello, senz' altra intenzione che di
pigliare i contorni e i lineamenti e mettere in vista ciò
che può meglio trastullare la nobile brigata. Neil' im-
menso naufragio sopravviveva la coscienza letteraria e
il sentimento artistico fortificato dallo spirito e dalla col-
tura : ed è da quella coscienza che sono usciti questi ca-
polavori, i modelU ideahzzati a uso e piacere di una so-
cietà intelligente e sensuale dal geniale artista, idolo delle
giovani donne a cui sono intitolati.
L' ideale comico rimasto come il suggello dell' immor-
talità su questi modelli è nella rappresentazione diretta
— 345 —
di questa società, così com'è, nella sua ignoranza e nella
sua malizia messa al cospetto di una società intelligente,
che sta lì a bella posta per applaudire e batter le mani.
Il motivo comico non esce dal mondo morale, ma dal
mondo intellettuale. Sono uomini colti che ridono alle
spalle degli uomini incolti che sono i più. Perciò il ca-
rattere dominante che rallegra la scena è una certa sem-
plicità di spirito di nature inculte^ messe in risalto quando
si trova a contatto con la furberia: ciò che costituisce
il fondo del carattere sciocco. Con la millanteria è con-
giunta spesso la credulità , la vanità, la malinconia, la
volgarità de' desiderii. La furberia dà il rilievo a questo
carattere, si che lo metta in vista nel suo aspetto ridi-
colo. Ma la furberia è anch' essa comica, non certo allo
sciocco, ma agi' intelligenti uditori che la comprendono.
Cosi i due attori concorrono ciascuno per la parte sua
a produrre il riso. Qui è il fondamento della commedia
boccaccevole. Si vede la coltura in quel suo primo fio-
rire mostrar coscienza di se, volgendo in gioco l' igno-
ranza e la malizia delle classi inferiori. Il comico ha più
sapore quando i beffatti sono quelli che ordinariamente
beffano, quando cioè i furbi che burlano i semplici, sono
alla lor volta burlati dagl' intelligenti , com' è il confes-
sore burlato dalla sua penitenteTl
Il comico talora vien fuori per un improvviso motto
0 facezia, che illumina tutta una situazione, e provoca
il riso di un tratto e irresistibilmente : ciò che oggi si
direbbe un tratto di spirito. Sono brevi novelle, il cui sa-
pore, come nel Sonetto, è tutto nella chiusa. Di questo
genere è la novella del giudeo, che guardando a Roma
la corruzione cristiana si converte al cristianesimo. La
chiusa sopraggiunge così improvvisa e così disforme alle
premesse, che V effetto è grande. E ce n' è parecchie al-
tre di questo stampo, e non molto felici, perchè V au-
tore lavora sopra un motto già trovato e noto. Tali sono
— 346 —
le novelle della Marchesana di Monferrato, di Guglielmo
Borsiere e di Maestro Alberto. Questi fuochi incrociati di
motti e di frizzi che brillano con tanto splendore ne' circoli
eleganti e bastano ad acquistarti riputazióne di uomo di
spirito, sono la parte più appariscente, ma più elementare
dello spirito. La fucina dove si fabbricavano motti, facezie,
proverbi, epigrammi, frizzi, era la scuola de' trovatori e
della gaia scienza. Moltissimi di questi motti si erano già
accasati nel dialetto fiorentino, e con molti altri usciti dal-
l'immaginazione di un popolo cosi svegliato o arguto. Il
Decamerone ne è seminato. Ma questi motti, appunto per-
chè entrati già nel corpo della lingua, non sono altro che
parole e frasi, un dizionario morto, e raccoglierli. e infilarli
come fa il Burchiello, non è da uomo di spirito. Sono i co-
lori del comico , non sono il comico esso medesimo. Sono
il patrimonio già acquistato dello spirito nazionale, e per-
ciò mancanti di quella freschezza e di queir imprevisto
che è la qualità essenziale dello spirito ; né possono con-
seguire un effetto estetico se non associandosi a qualche
cosa di nuovo e d' inaspettato, trovato allora allora che
ti vengono sotto la penna. Ciò fa che il Burchiello è insi-
pido e il Boccaccio è spiritoso; perchè per il Boccaccio i
motti e i frizzi non sono scopo a sé stessi, ma un semplice
mezzo di stile, il colorito.
Lo spirito nel suo senso elevato è nel comico quello che
il sentimento è nel serio^ una facoltà artistica. E come il
sentimento, così lo spirito è un grande condensatore, dando
una velocità di percezione che ti faccia cogliere di un
tratto sotto contrarie apparenze il simile o il dissimile.
Dove la sagacia giunge per via di riflessione , lo spirito
giunge di un salto e intuitivamente. T figli di Ugolino nel-
r esaltazione del sentimento dicono: Tu ne vestisti questo
misere carni e tu le spoglia. Qui il sentimento opera nel
serio quello che nel comico lo spirito; congiunge improv-
visamente e in una sola frase idee e immagini diverse.
— 347 —
Ma per giungere a quosta produzione geniale è necessario
che lo spirito sia anch' esso un sentimento, il sentimento
del ridicolo, cioè a dire stando in mezzo al suo mondo ne
provi tutte le emozioni, e ci viva entro e ci si spassi, pi-
gliandovi lo stesso interesse che altri piglia nelle cose più
serie della vita. Pure 1' emozione dee esser quella di uno
spettatore intelligente, anzi che di un attore mescolato in
mezzo a' fatti, sì che tu guardi quella calma e prontezza
di animo, che ti tenga superiore allo spettacolo: ond' è
che il vero uomo di spirito fa ridere, e non ride, lui. È
questa calma superiore che rende lo spinto padrone del
suo mondo e glielo fa foggiare a sua guisa, annodando
le fila, sviluppando i caratteri, disegnando le figure , di-
stribuendo i colori.
Lo spirito del Boccaccio è meno nell' intelletto che Del-
l' immaginazione , meno nel cercar rapporti lontani che
nel produrre forme comiche. Lo studio che i suoi an-
tecessori pongono a spiritualizzare, lui lo pone a incor-
porare. E cerca l'effetto non in questo o quel tratto,
ma neir insieme nella massa degU accessorii tutti stretti
come una falange. Gli antecessori fanno schizzi: egli fa
descrizioni. Quelli cercano l'impressione più che l'og-
getto; egh si chiude e si trincera nell' oggetto e lo per-
corre e rivolta tutto. Perciò spesso hai più il corpo e
meno l'impressione; più sensazione che sentimento; più
immaginazione che fantasia; più sensuahtà che voluttà.
Mancano 1 profumi a' suoi fiori, mancano i raggi alla sua
luce. È una luce opaca, per troppa densità e ripetizione
di sé stessa. Questa maniera nelle cose serie è insop-
portabile come nel Filocolo e nell'Amato con quelle in-
terminabili descrizioni e orazioni, dove ti senti come are-
nato e che non vai innanzi. E ti offende anche talora
nel Decamerone, quando per esempio si fa parlare Tita
0 la figliuola di Tancredi con tutte le regole della ret-
torica e della logica. Ma nel comico questa maniera ò
— 348 —
una delle sue forme più naturali, e la prima a compa-
rire neir arte dopo quella esplosione rudimentale di motti
e di proverbi. Perchè il comico è il regno del finito e
del senso, e le prime sue impressioni sono singolarizzate
nelle minute pieghe degli oggetti, dove nel serio le pri-
me impressioni ti danno allegorie e personificazioni, for-
me generalizzate neh' intelletto. Questa prima forma del
comico è la caricatura.
La quale è la rappresentazione diretta dell' oggetto ,
fatta in modo che sia messo in vista il suo lato difet-
toso e ridicolo. Certo, basterebbe metterti sott' occhio il
difetto, e lasciarti indovinare tutto il resto. Un solo tratto
di spirito illumina tutto il corpo e te lo presenta all' im-
maginazione. Ma il Boccaccio non se ne contenta, e co-
me fa il pittore ti disegna tutto il corpo, scegliendo e
distribuendo in modo gli accessorii e i colori , che ne
venga maggior luce sul lato difettoso. Di che nasce che
il ridicolo non rimane isolato su quel punto, ma si spande
su tutta r immagine, di cui ciascuna parte concorre al-
l' effetto, apparecchiando, graduando, e producendo una
specie di crescendo nella scuola del comico. Il riso, per-
chè vi sei ben preparato e disposto, di rado ti viene im-
provviso e irresistibile, come in quei brevi tratti che ti
presentano rapporti inaspettati , anzi spesso più che riso
è una gioia uguale che ti tiene in uno stato di pacata
soddisfazione. Non ti senti eccitato ; ti senti appagato.
Non ridi , ma hai la faccia spianata e contenta , e ti
si vede il riso sotto le guance, non tale però che deb-
ba per forza scattar fuori in quella forma contratta e
convulsa. Il quale effetto nasce da questo che 1' autore
non ti presenta una serie di rapporti usciti dall' intel-
letto, ma una serie di forme uscite dall' immaginazione.
E sono forme piene, carnose, togate, minutamente di-
segnate. L' autore come obbliato in questo mondo del-
l' immaginazione ha aria di non aggiungervi niente del
— 349 —
suo, egli che ne è il mago. E tu ci stai dentro come in-
cantato. L' autore non si distrae mai, non mette il capo
fuori per fare una smorfia che provochi il riso, non tratta
il suo argomento, come cosa frivola, e piglia e lascia e
torna. Quella è la sua idea fissa, e lo incalza e lo tiene
e tiraselo appresso, e non gli dà fiato, se non sia uscita
tutta fuori. E tu non ti distrai, ti senti come dondolato
deliziosamente nella tua contemplazione , né il riso che
talora ti coglie t' interrompe, che subito ti ci rituffi en-
tro e corri e corri, e il corso è finito, e tu corri an-
cora dolcemente naufragato. Ma non è il mondo orien-
tale, dove r immaginazione, quasi fatta ebbra dall' oppio,
salta fremente dalle braccia dell' amore pe' vasti campi
dell' infinito, e ti fa provare quel sentimento che dicesi
voluttà e che è l' infinito nel senso , quel vago e inde-
finito e musicale che tra gli abbracciamenti ti rivela Dio.
Questo è un mondo prettamente sensuale, chiuso e ap-
pagato in forme precise e rotonde, da cui niente è che
ti stacchi e ti rapisca in alte regioni. Appunto perchè
questi fiori non mandano profumi, e queste luci non git-
tano raggi, tu hai sensazioni e non sentimenti, immagi-
nazione e non fantasia, sensualità e non voluttà. Il réve
scompare. L' estasi non tiene più assorti i tuoi sguardi.
Hai trovato il tuo paradiso in quella realtà piena e attraen-
te. Diresti che la carne in questo suo primo riapparire nel
mondo ti si sveli nel suo tripudio tutta nuda, ed empia di
lusinghe e di vezzi il tuo paradiso. Perciò la forma di
questo paradiso è cinica, anche più dove un senso iro-
nico di modestia è una civetteria che riaccende il senso.
Poiché la forma di questo mondo è la caricatura, uscita
da una immaginazione abbondante, mmuta disegnatrice,
hai innanzi non punte e rialzi, ma 1' oggetto intero nello
sue più fine gradazioni. Breve ne' preliminari e nella di-
pintura astratta di personaggi, l'autore alza subito il
sipario e ti trovi in piena azione che si movono e par-
— 350 —
lano. E già fin da' primi lineamenti ti balza innanzi il
motivo comico, che ti si sviluppa a poco a poco per via
di gradazioni 1' una entrata nelle altre con effetto cre-
scente. Il Boccaccio vi spiega quella qualità che i Fran-
cesi mirando alla forza nel suo calore e nella sua faci-
lità chiama verve ^ e noi chiamiamo brio mirando alla
forza nella sua allegra genialità. Di che maraviglioso
esempio è la novella di Alibech, e l'altra di ser Ciap-
pelletto. A render più piccante la caricatura serve l' iro-
nia, che qui è forma non sostanziale ma accessoria. Ed
è un'apparente bonomia, un'aria d' ingenuità, con la
quale il narratore fa il pudico e lo scrupoloso, e non vuol
credere, e pur crede, e si fa la croce con un sogghigno.
Questa ironia è come una specie di sale comico che rende
più saporito il riso a spese del paternostro di San Giu-
liano e de'miracoli di ser Ciappelletto.
Essendo base di questo mondo la descrizione, cioè l'og-
getto non ne' suoi raggi e ne' suoi profumi, cioè a dire
nelle sue impressioni, ma nel suo corpo singolarizzato ed
individuato, ha bisogno di forme piene e ricche, e cosi
nascono le due forme della nuova letteratura, l'ottava
rima nella poesia, e il periodo nella prosa.
Abbiamo già vista la nona rima svilupparsi con ma-
gnificenza orientale nel poema l' Inlelligenza. L' ottava
rima non è inventata dal Boccaccio, come non' è sua in-
venzione il periodo. Ma è lui che le dà un corpo e l' in-
tonazione. Prima di lui 1' ottava rima è un accozzamento
slegato e fortuito, dove diversi oggetti sono ficcati in-
sieme a caso, che potrebbero assai bene star da sé. Stanno
li dentro oggetti nudi, non ci è un solo oggetto svilup-
pato e addobbato. L' ottava rima è un meccanismo, non
è ancora un organismo. Il Boccaccio ha fatto dell' ot-
tava una totalità organica , ed è Y oggetto che si svi-
luppa a poco a poco nelle suo gradazioni. Ben trovi nei
suoi poemi ottave felici; ma in generale elle sono impi-
— 351 —
gliate, mal costruite, e in sul più bello ti cascano. Nel
genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idil-
lico ti riesce volgare e abbandonato. Gli è che l'ottava
neir ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni è la
maggiore idealità della forma poetica, e richiede un' at-
tività geniale che manca al Boccaccio errante in un mondo
artificiale e convenzionale. Il difetto è tutto al di dentro
nell'anima; ciò che freddamente è concepito, nasce de-
bole e mal congegnato e non ci vale artifìcio.
Qui al contrario 1' autore è a casa sua: pinge un mon-
do, in cui vive, a cui partecipa con la più grande sim-
patia, e tutto in esso , gitta via ogni involucro artifi-
ciale. Ci è in lui qualche cosa più che il letterato, ci è
r uomo che vi guazza entro e vi si dimena e vi si stro-
fìm. e vi lascivia. E n' esce una forma, che è quel mondo
esso medesimo, di cnii sente gli stimoli nella carne e nel-
r immaginazione. Così è venuta fuori quella forma di
prosa, che si chiama il periodo boccaccevole.
A quel tempo il grande movimento letterario che a-
veva il suo centro a Firenze si era di poco allargato
fuori di Toscana. La restaurazione dell' antichità che pre-
sentava all'immaginazione nuovi orizzonti, il mondo greco
che allora spuntava appena, involto in quel vago chia-
roscuro che accresce le illusioni, tirava a sé 1' atten-
zione. La lingua di Dunte non era ancora hngua italia-
na ; la chiamavano idioma fiorentino. La lingua era sem-
pre il latino, nò era mutata 1' opinione che di sole cose
frivole e amorose si potesse scrivere in latino volgare,
come si chiamavano i dialetti. 11 Boccaccio dice di so
che scrive in idioma fiorentino, e quelli che usavano -il
volgare dice che scrivevano in latino volgare. Il tipo di
perfezione era sempre il latino , e l' ideale vagheggiato
dalla classe et'udita era un volgare nobile o illustre, se-
condo quel modello configurato, un volgare alzato a quella
stessa perfezione di forma. Queato tentò Dante nel Con-
— 352 —
Vito, con piena fede che il volgare fosse acconcio ad
esprimere le più gravi speculazioni della scienza non al-
trimenti che il latino, e quello scolastico latino volgare
0 volgare latino, nudo e tutto ossa e nervi, parve per
la prima volta magnificamente addobbato nelle larghe
pieghe della toga romana. Ma la pece scolastica s' era
appiccata anche a Dante, e quella barbarie delle scuole
sta cosi in quelle ampie forme a disagio, come un con-
tadino vestito à festa in abito cittadinesco. Non ci è fu-
sione, ci è punte e contrasti.
Il Boccaccio non era uscito dalle scuole, e quando più
tardi studiò filosofia e un po' anche teologia, il suo spi-
rito era già formato neh' esperienza della vita comune,
neir uso del suo volgare e nello studio de' classici. Come
il Petrarca, ha in abbominio gli scolastici, ne' quali vede
proprio il contrario di quella elegante coltura greca e
romana, vede la barbarie e la rozzezza. Regnano nel suo
spirito Divinità, Virgilio e Oyidio e Livio e Cicerone^ e
non ci è bibbia che tenga, e non ci è San Tommaso.
Quando vuol dipingere alcun lato serio, morale o scien-
tifico , del suo mondo , la sua imitazione è un artificio
esterno e meccanico, perchè ha più immaginazione che
sentimento e più intelletto che ragione. La sua forma e
decorosa, nobile, spesso disimpacciata, ma troppo uguale
e placida, e talora ti fa sonnacchiare. Il periodo è un
rumor d' onde u'niforme , mosse faticosamente da mare
stanco e sonnolento. Manca V ispirazione, supplisce la ret-
torica e la logica. Il che avviene, perchè il Boccaccio,
separato dalle immagini e gittato nel vago del sentimente
0 neir astratto del discorso , perde il piede e va giù*
Tratta le idee come fossero corpi, e analizza e minuteg-
gia che è uno sfinimento. Le idee sono luoghi comuni
annacquati in un viavai di piccoli e oziosi accessorii, di-
stinzioni, riserve, condizioni, se, ma, avvegnaché e con-
ciossiacosaché. Uno studio soverchio di esattezza , una
— 353 —
notomìa minuta di ogni pensieruzzo mette pii in vista
la volgarità e insipidezza dell'idea. La forma si stacca
visibilmente dalla cosa, e appare un meccanismo inge-
gnoso, lavorato accuratamente e sempre quello. Cosa c'è
sotto? Il luogo comune. Questo fu chiamato più tardi
forma letteraria. E non c'è cosa più contraria alla scienza,
che è parola e non frase, e mal si riconosce nelle circon-
locuzioni, nelle perifrasi e ne' pleonasmi. In questo arti-
fìcio ci è un progresso ; ci è queir arte de' nessi e delle
gradazioni, che mancava alla prosa, e rivela uno spirito
adulto, educato dai classici. Ma ci è il difetto opposto,
un volere di ogni idea fare una catena cominciata e ter-
minata in sé, ciò che è un pantano, e non acqua cor-
rente. Il Boccaccio odia gli scolastici; ma il suo periodo
non è che sillogismo mascherato, una frase generica, come
umana cosa e aver compassione degli afflitti, che per
molti andirivieni riesce in qualche volgare moraUtà. 11-
formulario è divenuto un meccanismo ben congegnato; ma
il fojado è lo stesso. Vedi lo scolastico vestito a nuovo
e ];)il alla moda. Se 1' ampio giro del periodo boccacce-
vole è una catena artificiale dove la scienza perde la sua
i^ftmplicità ed elas ticità e la sua libertà di movimento, non
è meno assurdo nell' espressione del sentimento, la forza
più libera e indisciplinabile dello spirito che spezza tutti
i legami della logica e sbalza fuori con rapidità. I bru-
schi e tragici movimenti dell' animo qui sono come cri-
stallizzati tra congiunzioni, parentesi e ragionamenti. Manca
ogni subbiettività : ti è difficile guardare al di dentro nella
Coscienza, i casi sono straordinari, i fatti interessanti, le
situazioni drammatiche, e non ti viene la lagrima, e non
ti senti commosso, perchè V anima non si manifesta che
in frasi comuni e rigirate. Veggasi la novella di madama
Beritola, e 1' altra del conte d' Anguersa, ove tra' più pie-
tosi accidenti e mutazioni della fortuna non si muta la
forma, sempre attillata e guantata. Pure qua e là si sento
De SanctlB-Lett. Ital. Voi. I. 23
— 354 —
una certa non dirò commozione, ma emozione di una im-
maginazione calda, e n'escono movimenti sentimentali,
come nelle ultime parole della figliuola di Tancredi e in
alcuni tratti della Griselda.
Questa forma di periodo che si affa così poco alla
scienza e al sentimento, dove appare un mero meccani-
smo foggiato alla latina, acquista senso e moto, quando
il teatro della vita è nell' immaginazione , cioè a dire
quando l'autore si trova nel vivo dell'azione, non con
idee e sentimenti, ma con oggetti innanzi ben determi-
nati. Tale è la descrizione della peste, o del combatti-
mento di Gerbino. Perchè il fatto non è come l' idea, uno
e semplice, ma come il corpo, è un multiplo, un insieme
di circostanze e di accessorii. Questo insieme è il perio-
do, il quale nella sua evoluzione è ciò che in pittura si
chiama un quadro. Aggruppare le circostaazO; subordi-
narle, coordinarle intorno ad un centro, ombreggiare, lu-
meggiare, è arte somma nel Boccaccio. La descrizione,
quando sta per sé, in astratto e separata dall' azione, non
riscalda abbastanza l' immaginazione o riesce fronzatj^a^
com' è spesso nelle introduzioni. Ma quando ci è qualche
cosa che si move e cammina, e rassomiglia ad un'azio-
ne, r immaginazione si mette in moto anche lei, e assi-
ste pacata allo spettacolo, disegnando e facendo quadri
in quelle larghe forme che si chiamano periodi. Questa
maniera di narrare a quadri non è certo 1' andamento
naturale dell' azione, che perde V impeto e 1' attrito, ar-
restata ne' suoi movimenti più rapidi dall' occhio tran-
quillo di una immaginazione disegnatrice. E perciò non
è maniera conveniente alla storia, e non è prosa, ma è
arte in forma prosaica , e narrazione poetica. Que' qua-
dri e periodi ti danno non pur 1' ordine e il legame e il
significato de' fatti, ma le movenze, le attitudini, le gra-
dazioni : onde nasce quell' effetto d' insieme che dicesi fi-
sonomia o ospressione.
— 355 —
Ma dove il periodo boccaccevole diviene una creazione
sili generis, un organismo vivente, è nel lato comico e
sensuale del suo mondo. E non già che vi adoperi mag-
giore artitìcio 0 finezza; ma è che qui ci è la musa, vale
a dire tutto un mondo interiore, la malizia, la sensua-
lità, la mordacità, un vero sentimento comico e sensua-
le. Ed è questa sentimentalità la sola che la natura ab-
bia concessa al Boccaccio, che penetra in quei flessuosi
giri della forma e ne fa le sue corde. Il suo periodo è
una linea curva che serpeggia o guizza ne' più Hbidi-
nosi avvolgimenti, con rientrature, e spezzamenti, e spo-
stamenti, e riempiture, e sono vezzi e grazie^ o civette-
rie di stile che ti pongono innanzi non pur lo spettacolo
nella sua chiarezza prosaica, ma il suo motivo sentimen-
tale e musicale. Quelle onde sonore, quelle pieghe am-
pie della forma latina, piena di gravità e di decoro, dove
si sente la maestà e la pompa della vita pubblica, tra-
sportata dal foro nelle pareti di una vita privata oziosa
e sensuale, diventano i lubrici volteggiamenti del pia-
cere stuzzicato dalla malizia. In bocca a Tito, a Gisip-
po, senti la rettorica imitazione di un mondo fuori della
coscienza, l'aria è pur quella ma cantata da un bor-
ghese, che non ne ha il sentimento e sbaglia spesso il
motivo. Qui al contrario, in questo mondo erotico e ma-
lizioso, hai la stess' aria penetrata da un altro motivo
che la soggioga e se 1' assimila; e quelle forme magnilo-
quenti che arrotondivano la. bocca degli oratori, arro-
tondiscono il vizio e gli danno gli ultimi linimenti e al-
lettamenti. I latini neir espressione del comico gittavano
via le armi pesanti e vestivano alla leggiera; il Boccac-
cio concepisce come Plauto, e scrive come Cicerone. Puro
il suo con 'epiie è cosi vivo e vero che Cicerone si tra-
sforma nella sua immaginazione in una Sirena vezzosa
che tutta in sé si spezza e si dimena. Ma spesso, tutto
dentro nel soggetto, gitta via i viluppi e i contorcimenti,
— 356 —
e salta fuori snello, rapido, diritto, incisivo. Maestro di
scorciatoie e di volteggiamenti, la sua immaginazione co-
vata da un sentimento vero spazia come padrona tra
forme antiche e moderne e le fonde e ne fa il suo mon-
do, e vi lascia sopra il suo stampo. Sarebbe insopporta-
bile questo mondo e profondamente disgustoso, se l'arte
non vi avesse profuse tutte le sue veneri, inviluppando
la sua nudità in quelle ampie forme latine, come in un
velo agitato da venti lascivi. L' arte è la sola serietà del
Boccaccio, solo che lo renda meditativo fra le orgie del-
l' immaginazione, e gli corrughi la fronte nella più sfre-
nata licenza, come avveniva a Dante e al Petrarca nelle
loro più alte e pure ispirazioni. Di che è uscito uno stile
dove si trovano fusi i varii uomini che vivevano in lui,
il letterato, 1' erudito, 1' artista, il e ortigiano, Y uomo di
studio e di mondo, uno stile cosi personale, così intimo
alla sua natura e al suo secolo, che F imitazione non è
possibile, e rimane monumento sohtario e colossale fra
tante contraffazioni.
Che cosa manca a questo mondo ?
Mondo della natura e del senso, gli manca quel sen-
timento della natura e quel profumo voluttuoso^ che gli
darà il Poliziano,
Mondo della commedia, gli manca quell'alto sentimento
comico nelle sue forme umoristic he e capricciose che gli
darà Y Ariosto.
E che cosa è questo mondo?
È il mondo cinico e malizioso della carne, rimasto nelle
basse sfere della sensualità e della cari catura spesso buf-
fonesca , inviluppato leggiadramente nelle grazie e nei
vezzi di una forma piena di civetteria, un mondo plebeo
che fa le fiche allo spirito, grossolano ne' sentimenti, rag-
gentilito e imbellettato dall' immaginazione , entro del
quale si move elegantemente il mondo borgese dello
spirito e della coltura con reminiscenze cavalleresche.
— 357 —
È la nuova Commedia, non la divina, ma la terrestre
Commedia. Dante si avvolge nel suo lucco , e sparisce
dalla vista. Il medio evo con le sue visioni, le sue leg-
gende, i suoi misteri, i suoi terrori e le sue ombre e le
sue estasi è cacciato dal Tempio dell' arte. E vi entra
rumorosamente il Boccaccio e si tira appresso per lungo
tempo tutta Y Italia.
L'ULTIMO TRECENTISTA.
L'ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti,
r uomo discolo e grosso. Di mezzana coltura, d' ingegno
poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di
poca iniziativa JL originalità, jna di molta semplicità e na-
turalezza, era nella sua mediocrità la vera eco del tem-
po. Gli facea cerchio la turba de' rimatori , ripetizione
stanca del passato, il lucchese Guinigi e Matteo da S. Mi-
niato, e Antonio da Ferrara, e Filippo Albizi, e Giovanni
d'Amerigo, e Francesco degli Organi, e Benuccio da Or-
vieto, e Antonio da Faenza, e Astorre pur da Faenza,
e Antonio Cocco, e Angelo da san Geminiano, e Andrea
Malavolti e Antonio Piovano, e Giovanni da Prato, e
Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de' Be-
nedetti, che lo chiama Eros gentile e parecchi altri. E
nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti, eam-
biando lodi con lodi. Ultime voci de' trovatori italiani.
^Luoghi comuni e forma barbara annunziano un mondo
\ tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenci mo-
rali e religiosi , ma insipidi e freddi come un' ave maria
ripetuta moccanicamente tutt'i giorni. Per questo lato
il Sacchetti continua il passato, la, perchè gli altri fan-
no, pensa così, perchè gli altri cosi pensano, piglia il
mondo come lo trova, senza darsi la pena di esainmarlo.
Questa è la sua parte morta. Ma ci è una parte viva,
— 358 —
quella a cui partecipa, e che suona nel suo spirito, quella
in cui apparisce la sua personalità. Ed è appunto quel
mondo di cui il Boccaccio è cosi vivace espressione.
Franco è il vero uomo della tranquillità. Il Boccaccio
sdegnava 1* epiteto, e talora voleva sonare la tromba o
rappresentare azioni e passioni eroiche. Franco non ha
pretensioni, e si mostra com' è ed è contento di esser cosi.
E uomo stampato all' antica, in tempi corrotti, buon cri-
stiano e insieme nemico degl' ipocriti e mal disposto
verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, aheno
dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace^ ma senza
fiele, modesto estimatore di sé e lontanissimo di mettersi
allato a' grandi poeti di quel tempo, che erano secondo
lui i contemporanei Zanobi da Strada, il Petrarca e il
Boccaccio. QuaU erano i desiderii del nostro brav' uomo?
Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più con-
tento uomo del mondo, quando in villa o in città potea
darsi buon tempo fra le allegre brigate, motteggiando,
novellando, sonetteggiando. Ci è in lui dell' idillico e del
comico. Ama la villa, perchè in città
Mal vi si dice, e di ben far vi è caro;
e nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la
freschezza dell' aura campestre, come è quella così briosa
delle donne che givano cogliendo fiori per un boschetto,
e l'altra delle montanine, di una grazia cosi ingenua.
In città è un burlone pieno il capo di motti^di facezie»
di fattereUi, e te li snocciola come gli escono, con tutto
il sapore del dialetto , e con un' aria di bonomia che ne
accresce 1' effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono molto
al di sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo, di
un andare svelto e allegro, dove non mancano pensieri
galanti e gentili: dietro il poeta senti 1' uomo che ci pi-
glia gusto e vi si sollazza, e sta già con l' immaginazione
— 359 —
nella lieta brigata dove i versi saranno cantati, tra musica e
ballo. Veggasi la ballata del pruno, e il madrigale del falcone.
(Te novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso
mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e dome-
stico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aned-
doti, pettegolezzi vengon fuori , bassa vita popolana in
forma popolana. Alcuni le pregiano più che il Decame-
rone, per lo stile semplice e naturale e rapido, non privo
di malizia e di arguzia fiorentina. Ma la naturalezza del
Sacchetti è quella dell' uomo a cui le Muse sono avare
de' loro doni. Non è artista, e neppure d' intenzione. Gli
manca ogni sorta d'ispirazione. Quel mondo con tanta
magnificenza organizzato nel Decamerone è qui un ma-
teriale grezzo, appena digrossato. Perciò delle sue tre-
cento novelle si ricorda appena qualche aneddoto ; nessun
personaggio è rimasto vivo.
Il Sacchetti soppravvisse al secolo. Nel suo buon umore
ci è una nota malinconica, che all' ultimo manda più lu-
gubre suono. Non piace al brav' uomo un mondo, in cui
chi ha più danari, vale più, e grida che vertU con pe^
cunia non si acquista, e che gentilezza e virtù son
nella mota. Dipinge al vivo gli avvocati de' suoi tempi:
Legge civile e ragion canonica
Apparan ben; ma nel mal spesso rnsano:
Difendono i ladroni, e gli altri accusano.
Chi ha danari e chi più piiote scusnno:
Tristo a colui che con costor s' incronica,
Se non empie lor man sotto la tonica.
Ora se la piglia con le vecchie. Ora è lutto stizzoso per
le nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi.
Grida contro la turba de' rimatori e de' cantatori:
Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
Tal compitar non sa che fa ballate,
Tosto volendo cho sieno intonato.
— 360 —
Cosi del canto avvien, senz' alcun' arte
Mille Marchetti veggio in ogni parte,
E quando muore il Boccaccio, copioso fonte di eleganze,
«sciama :
Ora è mancata ogni poesia,
E vote son le case di Parnaso.
S' io piango, o grido, che miracol fìa,
Pensando che un sol e' era rimaso
Giovan Boccaccio, ora è di vita fore ?
. . Quel duol che mi punge
È che niun riman, né alcun viene,
Che dia segno di spese
A confortar, che io salute aspetti, -
Perchè in virtù non è chi si diletti. \
Sarà virtù giammai più in altrui? '
0 starà quanto medicina ascosta,
Quando anÈi cinquecento perde il corso?
Chi fia in quella etate,
Forse vedrà rinascer tal semenza;
Ma io ho pur temenza.
Che prima non risuoni 1' alta tromba.
Che si farà sentir per ogni tomba.
Ne' numeri ciascuno ha mente pronta,
Dove iroltiplicando s' apperecchia
Sempre tirare a so con la man destra.
E le meccaniche arti
Abbraccia chi vuol èsser degno ed alto.
Ben veggio giovanetti assai salire
Non con virtù, perdiè la curan poco.
Ma tutto adopran in corporea vesta,
giammai non cercan loco
Dove si faccia delle Muse festa.
Come deggio sperar che surga Dante,
Che già chi il sappia legger non si trova?
E Giovanni che è morto ne fé' scola.
— 361 —
Tutte le profezie che disson sempre
Fra il sessanta e V ottanta essere il mondo
Pieno di varii e fortunosi giorni,
Vi don che si dovean perder le tempre
Di ciascun valoroso e gire al fondo
E questo è quel che par che non soggiorna
E s'egli è alcun che guardi,
Gli studii in forni vede già conversi.
Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è
r elogio funebre del trecento, pronunziato dal più can-
dido e simpatico de' suoi scrittori, l'ultimo trecentista.
Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo
malinconico indietro e gli si affaccia la grande figura di
Dante, e 1' Africa col suo alto poeta, e Giovan Boccacci
non col suo festevole Decamerone, ma co' dotti e magni
volumi latini, de* Tiri illustri, delle donne chiare, e il
terzo.
Bucolica, il quarto monti e fiumi,
Il quinto degl' Iddìi e lor costumi.
Oìmè! Dante è morto. Morto è Boccacci. Petrarca muore.
Chi rimane ? E T ultimo trecentista guarda intorno e ri-
sponde: Nessuno. Ricorda le infauste profezie, nunzie di
di sciagure fra il sessanta e 1' ottanta, e gli pare venuto il
finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre grandi
e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi,
è perita per sempre? o risurgerà dopo cinquecento anni,
come fu della medicina? o non verrà prima il giudizio
finale? Il mondo è dato all'abaco, e alle arti meccani-
che: nuda è V adorna scuola da tutte sue parti,
Non si trova fenestra
Che valor dentro chiuda.
La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a' sol-
lazzi e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le Muse,
— 362 —
e non ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono
mutati in forni. Il poeta accomiata la canzone in questo
modo :
Orfana, trista, sconsolata e cieca,
Senza conforto e fuor d' ogni speranza,
Se alcun giorno t' avanza,
Come tu puoi, ne va peregrinando,
E di' al cielo : io mi ti raccomando.
Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo. Il
dugento finisce con Gino e Cavalcanti e Dante già adulti
e chiari , finisce come un' aurora entro cui si vede già
brillare la vita nuova, una nuova era. Il trecento fini-
sce come un tristo tramonto, cosi tristo e oscuro che il
buon Franco pensa: chi sa se tornerà il sole?
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Pe-
trarca, intuona anche lui un poetico Lamento. Piangono
intorno al grand' uomo Grammatica, Rettorica, Storia, Fi-
losofia, e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso
Virgilio, Ovidio, Giovenale e Stazio,
Lucrezio, Persio, Lucano e Orazio
E Gallo.
E Pallass Minerva venuta dall' angelico regno conserva
la sua corona. In ultimo della mesta processione spunta
r autore col suo nome, cognome, e soprannome :
È Anton de' Beccar, quel da Ferrara,
Che poco sa ma volentieri impara.
È anche mi brav' uomo costui, vede anche luì tutto nero:
Del mondo bandita è concordia e pace :
Per V universo la discordia trona :
Sommerso è ogni bene ;
L'amor di Dio ha bando;
E parmi che la Fé vada mancando.
— 3G3 —
Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri >
dove non trovi alcuna profondità di vista e non forza
di mente o di sentimento. Pur vi trovi, ancorché in for-
ma pedantesca, la fisonomia del secolo negli ultimi giorni
della sua esistenza.
Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla
Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli ar-
dori del Petrarca e rattristò le ultime ore di Franco
Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a
Caterina da Siena. Perchè quella forza, contraddetta e
negata nella vita, occupava ancora l'intelletto, e tra la
orgie di una borghesia arricchita e gaudente comparirà
talora come un rimorso, e chiamerà gli uomini alla pe-
nitenza.
La fede va mancando, grida il ferrarese. E gli studii
si convertono in forni, nota il fiorentino. Non si potea
megho dipingere la fisonomia che andava prendendo il
secolo, e che comunicava alla nuova generazione. Pos-
siamo disegnarla in brevi tratti.
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze ,
cosi nelle altre parti d' Italia la borghesia si costituisce,
si ordina, diviene una classe importante per industrie,
per commerci, per intelligenza e per coltura. E lo stacco
si fa profondo tra la plebe e la classe colta. La coltura
non è privilegio di pochi, ma si allarga e si difi'onde, e
fa del popolo italiano il più civile d' Europa.
La vita pubblica e la vita religiosa rimane staziona-
ria fra r universale indifferenza. Continuano le stesse for-
me, ma sciolte dallo spirito che le rendea venerabiU ,
quelle persone, quei riti e quel linguaggio appariscono
cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete
brigate.
La vita privata viene su. Ed è vita socievole, spen-
sierata, condita dallo spirito. Gli uomini si uniscono in
compagnie o brigate non per discutere, ma pi^r sollaz-
— 364 —
zarsi , in città e in villa. E si sollazzano a spese delle
classi inculte. Trovatori, cantori e novellatori non sono
più il privilegio delle castella e delle corti. L' allegria
feudale si spande ancho nelle case de' ricchi borghesi, e
i racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro
piaceri , e in una forma spesso licenziosa e cinica. La
licenza del linguaggio era il solletico dell' allegria.
Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice,
profana e pagana. Le novelle e i romanzi tennero il cam-
po. L' allegra vita della città si specchiava in forme li-
riche svelte e graziose, rispetti, strombetti, frottole, bal-
late e madrigali. D' allegra vita de' campi avea pur le
sue forme, le cacce e gì' idillii. L' anima di questa let-
teratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.
La forma dello spirito comico è la caricatura pene-
trata di un' ironia maliziosa, ma non maligna. La forma
idillica è la descrizione della bella natura penetrata di
una molle sensualità. Traspare da tutta questa lettera-
tura una certa quiete e tranquillità interiore , come di
gente spensierata e soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre que-
sto mondo allegro della natura.
Il misticismo perisce, ma ben vendicato^ traendosi ap-
presso religione, moralità, patria, famiglia, ogni sempli-
cità e dignità di vita. Vengono nuovi ideali: la voluttà
idillica e 1' allegoria comica. Sono le due divinità della
nuova letteratura.
Ma come 1' antica letteratura vede i suoi ideali attra-
verso un involucro allegorico scolastico, così la nuova
non può trovare sé stessa se non attraverso lo involu-
cro del mondo greco-latino.
La vita del Boccaccio è in compendio la vita lettera-
ria italiana, come si andrà sviluppando. Comincia sco-
pritore instancabile di manoscritti, e tutto mitologia e
storia greca e romana. Non è ancora un artista, e un
— 365 —
erudito. La sua immaginazione erra in Atene e in Troia.
Tenta questo e quel genere, e non trova mai sé stesso.
Quel mondo è come un denso velo che muta il colore
degli oggetti e gliene toglie la vista immediata. Imita
Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e platoneggia come
il buon Sacchetti. Scrive magni volumi latini, ammira-
zione dei contemporanei. E si scopre artista, quando git-
tato via tutto questo bagaglio, scrive per sollazzo, ab-
bandonato alla genialità dell' umore. Dove cerca il pia-
cere, trova la gloria.
Questa vita ne' suoi tentennamenti, nelle sue imita-
zioni, nelle sue pedanterie, ne' suoi ideali, è la storia della
nuova letteratura.
XI.
LE STANZE.
Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco -latino
si presenta alle immaginazioni, come una specie di Pom-
pei, che tutti vogliono visitare e studiare. L' Italia ritro-
va i suoi antenati, e i Boccacci si moltiplicano, l'im-
pulso dato da lui e dal Petrarca diviene una febbre, o
per dir meglio quella tale corrente elettrica che in certi
momenti investe tutta una società e la riempie dello stesso
spirito. Quella stessa attività che gittava 1' Europa cro-
ciata in Palestina, e più tardi spingendola verso le Indie
le farà trovare l'America, tira ora gì' Italiani a dissep-
pellire il mondo civile rimasto per cosi lungo tempo sotto
le ceneri della barbarie. Quella lingua era la lingua loro,
e quel sapere era il loro sapere ; agi' Italiani pareva a-
vere racquistato la conoscenza e il possesso di sé stessi,
essere rinati alla civiltà. E la nuova èra fu chiamata il
rinasdìnenio. Nò questo era un sentimento che sorgeva
improvviso. Per lunga tradizione Roma era capitale del
mondo, gli stranieri erano barbari, gì' Italiani erano sem-
— 366 —
pre gli antichi Romani , erano sangue latino , e, la loro
lingua era il latino, e la lingua parlata era chiamata il
latino volgare, un latino usato dal volgo. Questo senti-
mento legato in Dante con le sue opinioni ghibelline ispi-
rava più tardi 1' Africa , e latinizzava anche le facezie
del Boccaccio. Ora diviene il sentimento di tutti e dà la
sua impronta al secolo. La storia ricorda con gratitu-
dine g\i Aurispi, i Guarini, i Filelfi, i Bracciolini, che fu-
rono i Colombi di questo mondo nuovo. Gli scopritori
sono insieme professori e scrittori. Dopo le lunghe pe-
regrinazioni in oriente e in occidente vengono le letture,
i comenti, le traduzioni. Il latino è già così diffuso, che
i classici greci si volgono in latino^ perchè se ne abbia
notizia, come i dugentisti volgevano in volgare i latini.
Pullulano latinisti e grecisti: la passione invade anche
le donne. Grande stimolo è non solo la fama, ma il gua-
dagno. Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si strin-
gono intorno alle corti, e si disputano i rilievi ringhian-
do. Sorgono centri letterarii nelle grandi città : a Roma,
a Napoli , a Firenze , più tardi a Ferrara intorno agli
Estensi. E quei centri si organizzano e diventano Acca-
demie. Sorge la Pontaniana a Napoli, 1' accademia pla-
tonica a Firenze, quella di Pomponio Leto e di Platina
a Roma. Illustri greci, caduta Costantinopoli, traggono
a Firenze, Gemistio spiega Piatone a' mercatanti fioren-
tini, Marsilio Ficino, il traduttare di Platone, lo predi-
cava dal pulpito, come la Bibbia. Pico della Mirandola,
morto a trentun anno, stupisce l' Italia con la sua dot-
trina, ed oltrepassando il mondo greco, cerca in Oriento
la culla della civiltà.
I caratteri di questa cultura sono palpabili.
Innanzi tutto ti colpisce la sua universalità. Il centro
del movimento non è più solo Bologna e Firenze. Pa-
dova gareggia con Bologna. Il mezzodì dopo lungo sonno
prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panor-
— 3G7 —
niia fa già presentire il Fontano e il Sannazzaro. Roma
è il convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalità
di Nicolò V. La coltura acquista una fisonomia nazio-
nale, diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle
classi colte, ed atteggiato alla latina, si scosta dagli ele-
menti locali e municipali, e prende aria italiana.
Ma è r Italia de' letterati, col suo centro di gravità
nelle corti. Il movimento è tutto sulla superfìcie, e non
viene dal popolo e non cala nel popolo. 0 per dir me-
glio popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche; man-
cata è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica. Hai
plebe infinita, cenciosa e superstiziosa , la cui voce è co-
perta dalla romorosa gioia delle corti e de' letterati, esa-
lata in versi latini. A' letterati fama, onori e quattrini;
a' principi incensi, tra il fumo dei quali sono giunti a
noi Papa Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre
<lella patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e Leone
decimo e i duchi di Este, I letterati facevano come i ca-
pitani di ventura; servivano chi pagava meglio; il ne-
mico dell' oggi diveniva il protettore del dimani. Erranti
per le corti, si vendevano all' incanto.
Questa fiacchezza e servilità di carattere accompa-
gnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e
politica di cui vediamo gli albori fin da' tempi del Boc-
caccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito
sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi ap-
pare cinismo. Una certa ipocrisia e' è, quando si ha ad
esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto
alla rappresentazione della vita , ti è innanzi nella sua
nudità. È una letteratura senza veH, e più sfacciata in
latino che in volgare.
Ne nasce 1* indifferenza del contenuto. Ciò che importa
non è cosa s' ha a dire , ma come s' ha a dire. I più
sono secretarii di principi, pronti a vestire del loro la-
tino concetti altrui. La bella unità della vita, come Dante
— 368 —
1* aveva immaginata, la concordia amorosa dell' intelletto
e dell' atto, è rotta. Il letterato non ha obbligo di avere
delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la vita. Il
pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale
esso sia : a lui spetta dargli la veste. Il suo cervello è
un ricco emporio di frasi, di sentenze, di eleganze; il suo
orecchio è pieno di cadenze e di armonie; forme vuote
e staccate da ogni contenuto. Cosi nacg.ue il letterato
e la forma letteraria.
Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si
cercava negli antichi la scienza. Il movimento era è pu-
ramente letterario : si cerca negli antichi la forma. Sorge
la critica circondata di grammatiche e di rettoriche; il
gusto si raffina: gU scrittori antichi non sono più con-
fusi in una eguale adorazione: si giudicano, si classifi-
cano , pigliano posto. Questi lavori filologici ed eruditi
sono la parte più seria e più durevole di questa coltu-
ra. Spiccano fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla. Il
titolo ti dà già la fisonomia del secolo.
Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, coi
suoi varii centri in tutta Italia , sono una certa stan-
chezza di produzione, r inerzia del pensiero, l'imitazione
; delle forme antiche come modelli assoluti, l'uomo e la
natura guardati attraverso di quelle forme. È una nuova
trascendenza, il nuovo involucro. Lo scrittore non dice
quello che pensa o immagina o sente perchè non e l' im-
magine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio e di
Virgilio. Vede il mondo non nella sua vista immediata;
ma come si tro\ a rappresentato da' classici, a quel modo
che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di
San Tommaso.
Ma non ci è guscio che tenga incontro all' arte. Dante
potè spesso rompere quel guscio, perchè era artista. E
se in questa coltura fossero elementi serii di vita intel-
lettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio che ve-
— 369 —
dremmo venire il grande artista, destinato a farne smen-
tire il suono pur tra queste forme latine. Ciò che ferve
neir intimo seno di una società , tosto o tardi vien su ,
e spezza ogni involucro. Si dà colpa al latino, che que-
sto non sia avvenuto. E se il medio evo non ha potuto
sviluppare tra noi tutte le sue forme , se il mondo in-
teriore della coscienza s'è infiacchito, la colpa è de' clas-
sici , che paganizzarono la vita e le lettere ! La verità
è che i classici di questo fatto sono innocentissimi. Certo,
il mondo di Omero e di Virgilio, di Tucidide e di Livio,
non è un mondo fiacco e frivolo. E se i latinisti non
poterono riprodurre che l'esterno meccanismo, e se sotto
a quel meccanismo ci è il vuoto, gli è che il vuoto era
nell'anima loro, e nessuno dà ciò che non ha. Un cuore
pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme più
artificiali e più ripugnanti.
Leggete questi latinisti. Cosa e' è lì dentro che viva
e si mova ? Lo spirito del Boccaccio che aleggia in quei
versi e in quelle prose : la quiete idillica e il sale co-
mico , in una forma elegante e vezzosa. Questo studio
dell'eleganza nelle forme accompagnato co' tranquilli ozi
della villa e i sollazzevoli convegni della città era in
iscorcio tutta la vita del letterato.
Così quando il secolo era travagliato da mistiche astra-
zioni e da disputazioni sottili, il. latino fu scolastico. E
ora che il naturalismo idillico e comico del Boccaccio
è il vero e solo mondo poetico, il latino è idillico, dico
il latino artistico e vivo. La grande orchestra di Dante
è divenuta già nel Petrarca la flebile elegia. In questo
latino elegante il dolore è elegiaco, e il piacere è idil-
lico. La vita è tutta al di fuori, è un riso della natura
e dell'anima, la stessa elegia è un rapimento voluttuoso
de' sensi. Sulle rive di Mergellina il Fontano canta gli
Amori e i Bagni di Baia, ora tutto vezzeggiativi e lan-
guori, ora motteggevole e faceto. Mergdlina, Posillipo,
De SanotiB — Lct Itul. Voi. 1. 21
— 370 —
Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono dalla sua
immaginazione pagana Ninfe vezzose, e allegrano le nozze
della sua Lepidina. La crassa sensualità è vaporizzata
fra le grazie dell' immaginazione e i deliziosi profumi del-
l' eleganza. La sua Musa , come la sua colomba , fugit
insulsos et parum venustos , odit sorditiem , nega i
suoi doni a quelli che sono illepidi aique inelegantes^
e gaudet nitoì^e, e rassomiglia alla sua puella, di cui
nessuna vivit mundior elegantiorve. Spinto di eleganza,
questo è il mondo poetico di una borghesia colta e con-
tenta , che cantava i suoi ozi , e passava il tempo tra
Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni e le cacce e
gh amori. Ne senti l'eco tra le delizie di Baia e tra le
villette di Fiesole. Il Fontano scrivea la Lepidina tra i
susurri della cheta marina ; il Poliziano scrivea il Ru-
sticus tra le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e
due ispiratrice è la bella natura campestre, con più im-
maginazione nel Fontano, con più sentimento nel Foli-
zìano. Fiace la cernia ninfa Fosilipo, e la candida Mer-
gellina, e quel voler esser uccello per cascarle in grembo
è un bel tratto galante, una sensualità dell' immagina-
zione. Il Fontano è figurativo, tutto vezzi e tutto spi-
rito ; il Poliziano è più sempUce, più vicino alla natura,
e te ne dà 1' impressione :
€ Hic resonat blando tibi pinus amata susurro ;
Hic vaga ooniferis insibilat aura cupressis :
Hic scatebris salit et bullantibus incita venis
Pura coloratos interstrepit unda lapillos ».
Questo latino maneggiato con tanta sveltezza, modu-
lato con tanta grazia, non cade nel vuoto, come Ungua
morta, e questi canti non sono lavori di pura erudizione
e imitazione. Lorenzo Valla chiama il latino la lingua
nostra; nessuna cosa di qualche importanza non si scri-
/ vea se non in latino; e metteasi a fuggire il volgare
— 371 —
quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto. Dante
stesso era detto poeta da calzolai e da fornai. Non pa-
reva impossibile continuare il latino, come i greci conti-
nuavano il greco , parlare la lingua universale , la lin-
gua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti
gli uomini istrutti.
Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a
Firenze, dove il volgare avea messo salde radici, illu-
strato da tanta gloria, né potea parer vergogna scrivere
nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe colta
nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo
minuto erano ancora il popolo, con una comune fisono-
mia. Grandissima l'ammirazione de'classici: frequentissimi
gli studii del Landino , del Crisoloro , del Poliziano ; si
udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico ; si
disputava di Platone e di Aristotile, discussioni erudite,
senza conclusione e serietà pratica ; si applaudiva al Po-
liziano, quando cantava la bellezza o la morte dell'Al-
biera, o gli occhi di Lorenzo, purus apollinei sideris
nitor^ come fossero gli occhi di Laura. Ma insieme sì
difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo
spiegava Dante e il Landino sponeva il Petrarca, e Leo-
nardo Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino
antico com' era parlato a Roma , e Lorenzo de' Medici
preferiva il Petrarca a'poeti latini, chiamava unico Dante,
celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di Gino,
e di Cavalcanti , e di altri minori scrivea le lodi con
acume e maturità di giudizio. Ci erano gli oppositori, i
grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropo-
sitato, un ignorante, rerum omnium ignarum, e che
scrivea così male il latino. Ma in Firenze non attecchi-
vano. Cristoforo^^Iiajidino nel suo studio, dove spiegava
a un tempo Dante e Virgilio , pigliando ad esporre il
Petrarca , insegnava non esser la lingua toscana al di
sotto della latina , e non altrimenti che quella doversi
— 372 —
sottoporre a regole di grammatica e di rettorica. Certo»
il vezzo del latino introduceva nel volgare caduto in mano
a' pedanti vocaboli e frasi e giri , di cui si sentono gli
effetti fino nella prosa del Machiavelli ; ma niu.lla barbara
mescolanza per la sua esagerazione divenne ridicola, e
non potè alterare le forme del volgare, così come erano
state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel
popolo. Né l'uso fu mai intermesso ; e Lionardo scrivea
in volgare la vita di Dante e del Boccaccio, e in vol-
gare Feo Belcari scrivea le vite de' Santi e le rappre-
sentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti,
le frottole, le cacce, le ballate, tutt'i generi di lirica po-
polare legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e
privati, le mascherate, le giostre, le serenate, le rappre-
sentazioni, i giuochi, le sfide. Non era cosa facile gua-
stare o sopraffare una lingua legata così intimamente
con la vita.
La forza della lingua volgare era appunto in questo,
che rifletteva la vita pubblica e privata, divenuta parte
inseparabile d*lla società nelle sue usanze e ne' suoi sen-
timenti. Onde se gli uomini colti, trasportati dalla cor-
rente comune, scrìvevano in latino per procacciarsi fama,
nell'uso vario della vita adoperavano il volgare, condotto
oramai al suo maggior grado di grazia e di finezza, par-
lato e scritto bene generalmente. Un gran mutamento
era però avvenuto nella letteratura volgare. Il mondo
ascetico mistico scolastico del secolo passato non era po-
tuto risorgere di sotto a'colpi del Petrarca e più del Boc-
caccio, ed era tenuto rozzo e barbaro^ e continuava la
sua vita, come un mondo fatto abituale e convenzionale
a cui è straniera l'anima. Al contrario era in uno stato
di produzione e di sviluppo il mondo pjrofano , la gaia
scienza, e dava i suoi colori anche alle cose sacre. Le
Laude erano intonate come i rispetti, e i misteri acqui-
stavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi al-
— 'ól'ó —
lora in voga. La Siella ricorda in molte parti le avven-
ture della bella sventurata Zinevra , set anni andata
tapinando per lo mondo. Spesso c'entra il comico e il
buffonesco, e ti par d'essere in piazza e sentir le ciane
che si accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leg-
genda tende alla novella.
La leggenda è un racconto maraviglioso animato da
uno spirito mistico o ascetico, con le sue estasi, le sue
visioni, i suoi miracoli. Ci è al di sotto la fede che fa
muovere i monti, e ti tiene al di sopra de' sensi . anzi
sforza i sensi e dà loro le ali dell'immaginazione. Que-
sto mondo miracoloso dello spirito fatto cosi palpabile
come fosse corpo e rappresentato senza alcuno artificio
che lo renda verisimile, anzi con la più grande ingpuuità,
(ssendo quelle verità incontrastate pel narratore e pei
lettori. Questa impressione ti fanno le leggende del Pas-
savanti e le vite del Cavalca.
Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappre-
sentazioni o misteri di questo secolo. Sono antiche rap-
presentazioni, messe a nuovo, intonacate, imbiancate, a
i:so di un pubblico più colto. Santo Abraam , Alessio ,
Abramo, Eugenio e Maddalena, i santi e i padri e i ro-
miti del Cavalca ti sfilano innanzi. Con la natia rozzezza
è ita via anche la semplicità e l'unzione e ogni senti-
mento liturgico e ascetico. Il miracolo ci sta corno jvìiracolo,
cioè a dire come una macchina del maraviglioso, a qn(4
modo che è la Fortuna nelle novelle del Boccaccio. 11
motivo drammatico e l'effetto che fanno sugli spettatori
certe grandi mutazioni e improvvisi nello stato de' per-
.'^onaggi morale o materiale; perciò non gradazioni, non
ombre, non sfumature, i contorni sono chiari e decisi;
1\ 'è tutta esteriore e superficiale e si ferma solo,
quando una mutazione improvvisa provoca esplosioni li-
riche di gioia, di dolore, di meraviglia. Ci è quella lirica
superiiciale e quella chiarezza epica che è propria del
— 374 --
Boccaccio. La lirica è sacra di nome; e non ha quella
elevazione dell'anima verso un mondo superiore, che
senti in Dante e in Caterina, ci è la preghiera, non e' è
il sentimento. L' azione è pedestre e borghese , di una
prosaica chiarezza , non animata dal sentimento , non
trasformata dall' immaginazione. È il mondo dantesco ve-
stito alla borghese, i cui accenti di dolore sono elegia,
le cui mistiche gioie sono idillii, mancato è il senso del
terribile e del sublime, mancata è l'indignazione e T in-
vettiva: se alcuna serietà rimane ancora in queste spet-
tacolose rappresentazioni, apparecchiata con tanta pompa
di scene e di decorazioni, è reminiscenza ed eco di un
mondo indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le con-
fraternite che a grandi spese davano di queste rappre-
sentazioni; ma i fratelli non erano più i contemporanei
di Dante, e non gh autori e non gli spettatori. Si anda-
va alle rappresentazioni, come alle feste carnascialesche,
per sollazzarsi. E si sollazzavano , come si conviene a
gente colta e artistica, co' piaceri dello spirito e dell'im-
maginazione. Il mistero era per essi un- piacevole eser-
cizio dell'immaginazione, una ricreazione dello spirito.
Con la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e
superficiale il dramma era così poco possibile come la
tragedia e l' eloquenza sacra, o come rifare la visione o
la leggenda. Se quelle rappresentazioni fra tanto Hscio
e intonaco rimasero stazionarie , e non poterono mai
acquistare la serietà e profondità di un vero mondo dram-
matico , fu perchè mancò all' Italia un ingegno dram-
matico, come affermano alcuni, quasi l'ingegno fosse un
frutto miracoloso, generato senza radici, e venuto espres-
samente dal cielo. 0 fu, come affermano altri, perchè il
latino attirò a sé gli uomini colti e il mistero fu tra-
scurato come cosa del popolo, quasi che autori de' misteri
non fossero gli uomini più colti di quel tempo, o il latino
che non potè uccidere il volgare potesse uccidere l' ani-
— 375 —
ma di una nazione, quando un'anima ci fosse stata. La
verità è che il povero latino non potè uccider nulla per-
chè nulla ci era , niuna serietà di sentimento religioso,
politico, morale, pubblico, da cui potesse uscire il dram-
ma. Quel mondo spensierato e sensuale non ti potea dare
che l'idillico e il comico; e in tanto fiorire della coltura,
con tanta disposizione ed educazione artistica, non potea
produrre che un mondo simile a sé, un mondo di pura
immaginazione. Il mistero è un aborto , è una materia
sacra che non dice più nulla alla mente ed al cuore ,
senza alcuna serietà di motivi, e trasformata da uomini
colti da puro giuoco d' immaginazione : dove angioH e
demoni, paradiso e inferno hanno così poca serietà come
Apollo e Diana e Plutone. La serietà e solennità della
materia era in flagrante contraddizione con quella forma
tutta senso e tutta superficie, e con quel mondo spensie-
rato e allegro della pura immaginazione idillico-comico-
elegiaco. Il mistero ci fu, quale poteva realizzarlo l' Italia
in questa disposizione dello spirito, e ci fu l'ingegno,
quale poteva essere allora l'ingegno italiano. Quel mi-
stero fu l'Orfeo, e quell'ingegno fu Angiolo Poliziano.
Il Poliziano è la più spiccata espressione della lette-
ratura in questo secolo. Ci è già l'immagine schietta
del letterato, fuori di ogni partecipazione alla vita pub-
blica; vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o mo-
rale , cortigiano , amante del quieto vivere , e che al-
terna le ore tra gli studi e i lieti ozii. Ebbe in Lorenzo
un protettore, un amico e divenne la sua ombra, il suo
compagno ne' sollazzi pubblici e secreti. Cominciò la vita,
voltando l' iliade in latino , grecista e latinista sommo.
Dettava epigrammi latini con la facilità di un improv-
visatore. Si traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare
Omero e Virgilio. E non si ammirava l'erudito , ma )
l'uomo di gusto e il poeta, che ispirato vi aggiungeva
le sue emozioni e le sue impressioni e i suoi carmi. 11
— 376 —
suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il compen-
dio di questa vita tranquilla e placida , spenta a qua-
rant'anni.
II Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma
nella piena indifferenza di ogni contenuto. Il tempio era
vuoto: vi entrò Apollo, e lo empì d'immagini e di ar-
monie. Il mondo antico s'impossessò subito di un'anima,
dove ogni vestigio del medio evo era scomparso. Il Boc-
caccio sentì che è ancora medio evo , e lo vedi alle
prese co' canoni e le scienze sacre e le forme dantesche;
il vecchio e il nuovo Adamo combattono in lui , come
nel Petrarca: erano tempi di transizione. Nel Poliziano
tutto è concorde e deciso; non ci è più lotta. Teologia,
scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme
e nel suo contenuto , di cui vedevi" ancora la memoria
prosaica nelle laude e nei misteri, è un mondo in tutto
estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è per
lui lajDarbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua
anima: non ve lo trova. Il sentimento della bella forma,
già così grande nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è
tutto; e quel mondo della bella forma, appresso al quale
correvano faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin
da' primi anni, e il mondo suo, e ci vive come fosse nato
là dentro, e ne ha non solo la conoscenza ma il gusto.
Questo era la coltura, l'umanità, il risorgimento, orgo-
gUo di una società erudita, artistica, idillica, sensuale,
quale il Boccaccio l' avea abbozzata, e che ora si spec-
chia nel Poliziano, come nel suo modello ideale. Perchè
questa generazione, caduta così basso, fiacca di tempra
e vuota di coscienza, aveva pure la sua idealità, il suo
divino , ed era l' orgoglio della coltura , il sentimento
della forma. Le sue mascherate, le cacce le serenate, le
giostre, le feste, tanta parte di quella vita oziosa e al-
legra, erano nobiUtate dalle arti dello spirito e da'pia>
ceri dell'immaginazione. E se il Cardinale Gonzaga, rien-
— 377 —
trando nella patria^ bandisce pubbliche feste e cerca nella
poesia il loro ornamento e decoro, il giovane Poliziano
' ]cli scrive in due giorni V Orfeo. E che cosa è l'Orfeo?
Come gli venne in mente Orfeo ? Giovanni Boccaccio nel
Ninfale e nell' Ameto canta la fine della barbarie , e il
regno della coltura o dell'umanità. Il rozzo Ameto edu-
cato dalle Arti e dalle Muse apre l'animo alla bellezza
e all'amore , e di bruto si sente fatto uomo. Atalante
trasforma il bosco di Diana in città, e vi marita le nin-
fe, e v'introduce costumi civili. Orfeo è il grande pro-
tagonista di questo regno della coltura, venuto dall'an-
tichità giovine e glorioso ne' carmi di Ovidio e di Vir-
gilio. Questo fondatore dell' umanità col suono della lira
e con la dolcezza del canto mansuefa le fiere e gli uo- ,
mini e impietosisce la morte, e incanta l'inferno. È ii
trionfo dell'arte e della coltura su'rozzi istinti della na-
tura, consacrato dal martirio^, quando, sforzando le leggi
naturali, è dato in balìa all'ebbro furore delle Baccanti.
Dopo lungo obblio nella notte della seconda barbarie, Or-
feo rinasce tra le feste della nuova civiltà, inaugurando
il regno dell'umanità, o per dir meglio dell'umanismo.
Questo è il mistero del secolo , è l' ideale del risorgi-
mento. Le sacre rappresentazioni cacciate dalle città me-
nano vita oscura nei contadi, e cadono in così profondo
obblio che giacciono ancora polverose nella biblioteca.
L'Orfeo è un mondo di pura immaginazione. I misteri
avevano la loro radice in un mondo ascetico, fatto tra-
dizionale e convenzionale, pur sempre reale per una gran
parte degli spettatori. Qui tutti sanno che Orfeo , le
Driadi, le Baccanti, le Furie, Plutone e il suo inferno
sono creature dell'immaginazione. A quel modo che nelle
giostre i borghesi camuffati da Cavalieri riproducevano
il mondo cavalleresco, i nuovi Ateniesi dovevano pro-
vare una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi
co' loro costumi e abiti le ombre del mondo antico. Che
— 378 —
entusiasmo fu quello, quando Baccio Ugolini,, vestito da
Orfeo e con la cetra in mano, scendeva il monte, can-
tanto in magnifici versi latini le lodi del cardinale ! Re-
deunt saturnia regna. Sembravano ritornati i tempi di
Atene a Roma ; salutavano con immenso grido di ap-
plauso Orfeo , nunzio alle genti della nuova era , della
nuova civiltà. Nel medio evo si dicea: vivere in ispirilo^
ed era il ratto dell'anima alienata da' sensi in un mondo
superiore. Ciò che una volta ispirava il sentimento re-
ligioso , oggi ispira il sentimento dell' arte, la sola reli-
gione sopravvissuta, e si vive in immaginazione. I ric-
chi , a quel modo che decorano i palagi degli avi, de-
corano con r arte i loro piaceri.
E che decorazione è quest' Orfeo ! dove sotto forme
antiche vive e si move quella società idealizzata ne-
Tanima armoniosa del poeta. È un mondo mobile e su-
perficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo sguardo,
il fantasma ti fugge : la parola è come ebbra e si esala
nel suono e nel canto: il pensiero è appena iniziale, in-
calzato dalle onde musicali : la tragedia è una elegia ,
l'inno è un idillio; e n'esce un mondo idiliico-elegiaco,
penetrato di un dolce lamento, che non ti turba, anzi
ti lusinga e ti accarezza, insino a che questo bel mondo
dell' arte ti si disfà come nebbia , e ti svegli violente-
mente tra il furore e 1' ebbrezza dei sensi. Il canto di
Aristeo, il coro delle Driadi, il ditirambo delle Baccanti
sono le tre tappe di questo mondo incantato , la cui
quiete idillica penetrata di flebile e molle elegia si scio-
ghe nel disordine bacchico. La lettura non basta a darne
I un'adeguata idea. Bisogna aggiungervi gli attori e le de-
corazioni e il canto e la musica e l'entusiasmo e l'eb-
brezza di una società che ci vedea una cosi viva imma-
gine di sé stesso. Il suo ideale, il suo Orfeo è una lieve
apparizione, ondeggiante tra' più dehcati profumi a cui
se troppo ti accosti , ti fuggirà come Euridice. È un
— 379 —
mondo che non ha altra serietà, se non quella che gli
dà r immaginazione; le passioni sono emozioni, gli avve-
nimenti sono apparizioni , i personaggi sono ombre ; la
vita danza e canta, e non si ferma e non puoi fissarla.
La stessa leggerezza penetra nelle forme, flessibili, va-
riamente modulate, e come tutta un'orchestra di metri,
entrati gli uni negli altri in una sola armonia. Il set-
tenario rammorbidisce l'endecasillabo; la ballata dà le
ali all'ottava; le rime si annodano ne' più voluttuosi in-
trecci; ora è il dialetto nella sua grazia, ora è la Ungua
nella sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida
corsa, là il tronco ti arresta e ti culla; con una facihtà
e un brio che pare il poeta giuochi con i suoi stru-
menti.
Così Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque ;
così divenne il nunzio del risorgimento. Le edizioni mol-
tiplicarono; penetrò dalle corti nel contado; se ne fe-
cero imitazioni; comparve la Historia e favola d'Orfeo;
e anche oggi nelle valli toscane ti giunge la melodia
di Orfeo dalla dolce lira, una storia in ottava rima.
Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora
nel mondo moderno, segnacolo e vessillo del secolo.
L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra le fe-
ste di Firenze nacquero le Stanze. Quel mondo borghese
della cortesia, cosi ben dipinto nel Decamerone, ripro-
ducea nelle sue giostre il mondo profano de' romanzi e
delle novelle, la cavalleria. I poeti celebrano a suon di
tromba le gloriose pompe e i fieri ludi di questi mer-
canti improvvisati cavalieri e vestiti all'eroica; non ci
era più la realtà; ce n'era l'immaginazione. Le giostre
erano in fondo una rappresentazione teatrale, e i gio-
stranti erano attori che rappresentavano i personaggi
de' romanzi, spettacolo continuato oggi nelle corse, con
questo progresso che gli attori sono i cavalli. Ridicoli
sono i poeti che narrano le alto jeste de' giostranti come
— 381 -^
e ti tiene in una dolce malinconia; non sei nel regno dei
misteri e delle ombre, nel regno musicale del sentimento ;
sei nel regno dell'immaginazione. Venere è nuda ; Iside
ha alzato il velo. Non hai più gli schizzi di Dante, hai
i quadri dei Boccaccio; non hai più la faccia di Giotto,
hai la figura del Perugino ; non hai più il terzetto nel
suo raccoglimento , hai 1' ottava rima nella sua espan-
sione. Ci è quel sentimento idillico e sensuale che ispirò
il Boccaccio, e di cui senti la fragranza nella Lepidina
e nel Rusticus : l'anima sta come rilassata in dolce ri-
poso , non fantasticando ma figurando parte a parte e
disegnando , quasi voglia assaporare goccia a goccia i
suoi piaceri. E non è la descrizione minuta, anatomica,
spesso ottusa, del Boccaccio ; ohe mentre la natura ti si
ofi're distinta come un bel paesaggio, non sai onde o come
ti giungono mormorii, concenti, note, come la voce di
una divinità nascosta nel suo grembo. La sensualità fil-
trata fra tanta dolcezza di note lascia in fondo la sua
parte grossolana ed esce fuori purificata ; e non è la
musa civettuola del Boccaccio, è la casta Musa del Par-
naso , che copre la sua nudità e vi gitta sopra il suo
manto verginale. Nel Boccaccio è la carne che accende
l'immaginazione; nel Poliziano l'immaginazione è come
un crogiuolo, dove l'oro si affina. La sensuale e vol-
gare Griseide si spoglia in quel crogiuolo la sua parte
terrea, e diviene la gentile Simonetta, bellezza nuda, svi-
luppata da ogni velo allegorico dantesco e petrarche-
sco, a contorni precisi e finiti, pur divina nella sua realtà:
Neir atto regalmente è mansueta,
E pur col ciglio le tempeste acqueta.
Tra il poeta e il suo mondo non ci è comunione di-
retta; ci stanno di mezzo Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio,
Ovidio, che gli prestano le loro immagini e i loro colori.
Ma egli ha iin gusto cosi fine e un sentimento della forma
— 380 —
fossero Orlando e Carlomagno; con le frasi ampollose
de' romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge,
le divise, gli stemmi, gli scontri con una serietà frigola.
Anche Giuliano de' Medici fece la sua giostra, e divenne
r eroe di quel poemetto , che i posteri hs^nno chiamato
le Stanze.
Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare
le gloriose imprese,
Si che i gran nomi e i fatti egregi e soli
Fortuna o morte^ o tempo non involi.
Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati. E che
cosa è rimasto? Le stanze: forme vaganti, di cui nes-
suno cerca il legame, ciascuna compiuta in sé. Nella gio-
vine mente del poeta non ci è il romanzo , ci è Stazio
e Claudiano con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euri-
pide ; ci è Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio
con la sua Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura ;
ci è tutto un mondo d'immagini fluttuanti, sciolte, dis-
seminate come le stelle nel cielo all'occhio semplice del
pastore. Questo è il mondo che vien fuori in un legame
artificiale e meccanico ; delle cui fila interrotte nessuno
si cura ; perchè la giostra non è il motivo di questo
mondo ; è la semplice occasione. La sua unità non è in
un'azione frivola e incompiuta, debole trama. La sua
unità è in so stesso, nello spirito che lo move, ed è quel
vivo sentimento della natura e della bellezza che dal
Boccaccio in qua è il mondo della coltura.
La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la
casa di Venere, il giardino d'Amore, gl'intagli, non sono
già episodi, sono questo mondo esso medesimo nella sua
sostanza, animato da un solo soffio. Sono 1' apoteosi di
Venere e d' Amore , della bella Natura , la nuova Di-
vinità.
E la Natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso
. — 382 —
cosi squisito che ciò che riceve esce con la sua stampa
come una nuova creazione. Ci è nel suo spirito una gra-
zia che ingentilisce il volgare naturalismo del suo tempo,
e una delicatezza che gli fa cogliere del suo mondo il più
bel fior. L'insignificante, il rozzo, il plebeo, non entra
nella sua immaginazione ; ciò che sta lì dentro, è tutto
elegante e profumato^ e non cessa che non l'abbia reso
con r ultima finitezza. Le sue reminiscenze mitologiche
e classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo :
gli sta innanzi Venere , Diana e la tale e tale frase di
Ovidio 0 di Virgilio ; ma il suo spirito va al di là della
frase, attinge le cose nella loro vita, e le rende con evi-
denza e naturalezza. Perciò, raro connubio, l'eleganza
in lui non è mai rettorica e si accompagna con la na-
turalezza, perchè ha delle cose una impressione propria
e schietta. La mammola, la rosa, l'ellera, la vite, il mon-
tone, la capra, gli uccelli, le aurette, l'erba e il fiore,
tutto si anima e si configura e prende le più vaghe e
gentili abitudini innanzi a questa immaginazione idiUica.
Ciò che prova non è sensualità^ è voluttà, sensazione al-
zata a sentimento, che fonde il plastico e te ne fa sen-
tire la musica interiore. Ottiene potentissimi efi*etti con
la massima semplicità de' mezzi, spesso col solo allogare
gli oggetti, ora aggruppando, ora distinguendo, e tutto
animando, come persone vive. Tale è la mammoletta ver-
ginella, con gli occhi bassi e vergognosa, e l'ellera che
va carpone co' piedi storti, o l'erba che si maraviglia
della sua bellezza , bianca, cilestre , pallida e vermiglia.
Il sentimento che n^esce non ha virtù di tirarti dalle cose
e lanciarti in infiniti spazii ; anzi ti chiude nella tua con-
templazione e vi ti tiene appagato, come fosse quella tutto
il mondo , e non pensi di uscirne , e la guardi parte a
parte nella grazia della sua varietà. Perchè il motivo del-
l'ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascen-
dente e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo.
— 383 —
e non come un bel velo, una bella apparenza, ma ter-
minato e tranquillo in sé stesso, quale si mostra nel pe-
riodo e neir ottava, le due forme analitiche e descrittive
del Boccaccio, divenute la base della nuova letteratura.
L' ottava del Boccaccio diffusa, pedestre, insignificante,
qui si fissa, prende una fisonomia. Ciascuna stanza è un
piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di
rapida apparizione, ma ti sta riposata innanzi come un
modello e ti mostra le sue bellezze. Non è un periodo
congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista
emerga tra minori figure ; ma è come una serie dove ti
vedi sfilare avanti le parti ad una ad una di quel pic-
colo mondo. Diresti che in questa bella natura tutta è
interessante , e non ci è principale ed accessorio , ma-
niera di ottava accomodata al genio di un uomo che non
ammette l' insignificante e l' indifferente , e tutto vuole
sia oro e porpora. Perciò non hai fusione, ma successio-
ne, che è la cosa come ti si spiega innanzi, prima che
il tuo spirito la scruti e la trasformi. La stanza non ti
dà l'insieme, ma le parti ; non ti dà la profondità, ma la
superficie , quello che si vede. Pure le parti sono cosi
bene scelte e la serie è ordita con una gradazione così
intelligente , che all' ultimo te ne viene l' insieme , pro-
dotto non dalla descrizione, ma dal sentimento. Vuol de-
scrivere la primavera e ti dà una serie di fenomeni ;
Zefiro già di bei fioretti adorno
Avea ai monti tolta ogni pruina :
Avea fatto al suo nido già ritorno
La stanca rondinella peregrina ;
Risonava la selva intorno intorao
Soavemente all' ora mattutina :
E la ingegnosa pecchia al primo albore
Giva predando or uno or altro fiore.
Questi fenomeni sono cosi bene scelti, legati con tanto
— 384 —
accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni così
freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo,
e te ne viene non all'occhio ma all'anima l'insieme, ed
è quel senso d'intima soddisfazione, che ti dà la prima-
vera, la voluttà della natura. In Dante non ci è voluttà,
ma ebrezza : cosi è trascendente. Nel Boccaccio non ci
è voluttà , ma sensualità. La voluttà è la Musa della
nuova letteratura, è l'ideale della carne o del senso , è
il senso trasportato neil' immaginazione e raffinato , di-
venuto sentimento. Qui è una voluttà tutta idillica, un
godimento della Natura senz'altro fine che il godimento,
con perfetta obblivione di tutto l'altro ; senti le prime e
fresche aure di questo mondo della natura assaporato
da un' anima , il cui universo era la villetta di Fiesole
illuminata e abbellita da Teocrito e da Virgilio. Da que-
sta doppia ispirazione, un intimo godimento della natura
accompagnato con un sentimento puro e delicato della
forma e della bellezza, sviluppato ed educato dai classici,
è uscito il nuovo ideale della letteratura, l'ideale delle
stanze, una tranquillità e soddisfazione interiore piena di
grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza ed ele-
ganza della forma ; ciò che possiamo chiamare in due pa-
role : voluttà idillica. Il contenuto di questo ideale è l'età
dell'oro e la vita* campestre, con tutto il corteggio della
mitologia, ninfe, pastori, fauni, satiri, driadi, divinità ce-
lesti e campestri, in una scala che dal più puro e più
delicato va sino al lascivo ed al licenzioso. La forma è
il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musi-
cali, quale apparisce nell'Orfeo e nelle Stanze, i due mo-
delli di questa letteratura, che iniziata nel Boccaccio an-
drà fino al Metastasio.
La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio
del gabinetto, ma è lo spirito stesso della società, come
si andava atteggiando, colto nelle costumanze e feste pub-
bliche. Centro di questo movimento è Lorenzo de' Medici,
— 385 —
col suo coro di dotti e di letterati, il Ficiiio, il Pico, i fra-
telli Pulci, il Poliziano, il Rucellai, il Benivieiii, e tutti
gli accademici. La letteratura vien fuori tra danze e fe-
ste e conviti.
Lorenzo non avea la coltura e l' idealità del Poliziano.
Avea molto spirito e molta immaginazione, le due qualità
della colta borghesia italiana. Era il più fiorentino tra' fio-
rentini, non della vecchia stampa s'intende. Cristiano e
platonico in astratto e a scuola, in realtà epicureo e in-
differente, sotto abito signorile popolano e mercante dai
motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole,
mezzo tra' piaceri dello spirito e del corpo , usando a
chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, al-
ternando orgie notturne e disputazioni accademiche, cor-
rotto e corruttore. Era classico di coltura, toscano di ge-
nio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto.
Maneggiava il dialetto con quella facilità che governava il
popolo, lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e
secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze. Chi
comprende 1' uomo, è padrone dell' uomo. Portò a grande
perfezione la nuova arte dello stato, quale si richiedeva
a quella società, divenute le feste e la stessa letteratura
mezzi di governo. Alla violenza succedeva la malizia, più
efficace : il pugnale del Bandini uccise un principe, non
il principato; la corruzione medicea uccise il popolo; o
per dire più giusto, Lorenzo non era che lo stesso po-
polo studiato, compreso e realizzato, l'uno degno dell'al-
tro. Tal popolo, tal principe. Quella corruzione era an-
cora più pericolosa, perchè si chiamava civiltà, ed era
vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.
Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il
Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico,
con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla
de' rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale
Be SanctiB — Leu Ital Voi. 1. 25
— 386 —
de' sonetti e delle canzoni. Ce n' erano a dozzina, e in
tutte le parti d' Italia ; l'uomo colto esordiva col sonetto,
uso giunto fino a' tempi nostri. Molti canzonieri uscirono
in questo secolo ; appena è se oggi si ricordi Giusto dei
Conti e il Benivieni. Continuare il Petrarca dovea signi-
ficare realizzarlo, sviluppare quell'elemento sensuale, idil-
lico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico, e
che è l'elemento nuovo. Ma il povero Petrarca era ma-
lato, e i sonettisti esalano sospiri poetici dall'anima vuota
e indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere : imma-
gini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e cam-
pati in aria, senza base. Non e' è più un mondo organico,
ma un accozzamento fortuito e monotono di forme di-
venute convenzionali. Manca l' immaginazione e la ma-
linconia e r estasi, i veri fattori del mondo petrarchesco:
restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello spi-
rito, congiunta l'insipidezza con le vuote sottigliezze, co-
me nelle rime tanto celebrate del Ceo, del Notturno, del
Serafino, del Sasso, del Cornazzano, del Tibaldeo. Lo-
renzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita
nuovUy e narra il suo innamoramento, con le occasioni
e le spiegazioni de' suoi sonetti, in una prosa grave e
ampia alla maniera latina, pur disinvolta e franca. An-
che nel suo Canzoniere appariscono forme e idee con-
venzionali ; anche vi domina lo spirito, di cui avea si gran
dovizia. Ma e' è lì una sua impronta ; ci è un sentimento
idillico e una vivacità d' immaginazione che al cuna volta
ti rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza. Non ci
è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione; ma
e' è versi assai belli e qua e là paragoni, immagini, con-
cetti che ti fermano.
Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate
e inalterabili, dove nessuno osa mettere una mano pro-
fana. Rimangono perciò immobili, senza sviluppo. Il nuovo
spirito si fa via nella nuova forma, 1' ottava rima o la
— 387 —
stanza. Vi apparisce l'amore idillico-elegiaco, proprio del
tempo ; la forma condensata del Petrarca si scioglie e si
effonde ne' magnifici giri dell' ottava; non più concetti e
sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni.
Anche dove il concetto è dantesco, come nelle stanze del
Benivieni che, lasciato il primo casto amore e corso ap-
presso alla sirena, si sente trasformato in lonza, la for-
ma è lussureggiante e vezzosa, e più simile a sirena che
a casta donna. Modello di questo genere è la Selva di
Amore di Lorenzo, composizione a stanze d' un fare largo
e abbondante, alquanto sazievole, il cui difetto è appunto
il soverchio naturalismo, una realtà minuta, osservata e
riprodotta esattamente ne' suoi caratteri esterni, non fatta
dall' arte mobile e leggiera, non idealizzata. Tra le sue
più ammirate descrizioni è quella dell' età dell' oro, dove
è patente questo difetto. Vedi l' uomo in villa che tutto
osserva, e anima con 1' immaginazione la natura senza
averne il sentimento. Ci è 1' osservatore , manca 1' ar-
tista.
Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti
che gU occhi della sua donna producono sulla natura.
La soverchia esattezza nuoce all' illusione e addormenta
r immaginazione. Veggasi questa ottava :
Siccome il cacciator eh' i cari figli
Astutamente al fero tigre fura ;
E benché inoanzi assai campo gli pigli,
La fera più veloce di natura
Quasi già il giunge e insanguina gli artigli;
Ma veggendo la sua propria figura
Nello specchio che trova in su Ja rena,
Crede sia il figlio e il corso suo raffrena.
Ci si vede un uomo che in un fatto cosi pieno di con-
citazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e os-
fc;3rva e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza , ma
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nonne riproduce il sentimento; c'è l'esattezza, manca
il calore e l'armonia. Veggasi ora Y artista, il Poliziano:
Qual tigre a cui dalla pietrosa tana
Ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
Rabbiosa il segue per la selva ircana,
Che tosto crede insanguinar gli artigli :
Poi resta di uno specchio ali* ombra vana,
All' ombra che i suo* nati par somigli ;
E mentre di tal vista s' innamora
La sciocca, il preda tor la via divora.
Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano;
ma si paragoni. Ciò che in Lorenzo è naturalismo, è idea-
lità nel Poliziano. Neil' uno è il di fuori abbellito dalla
immaginazione, V altro nel di fuori ti fa sentire il di den-
tro. Lorenzo dice:
Eranvi rose candide e vermiglie :
Alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
Stretta prima, poi par si apra e scompiglie:
Altra più giovinetta si dislega
Appena dalla boccia: eravi ancora
Chi le sue chiuse foglie ali* aer nìega:
Altra cadendo a pie il terreno infiora.
Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e con
proprietà rara di vocaboli. Vedete ora nel Poliziano que-
ste rose animarsi come persone vive; ne senti la fra-
granza, la grazia, la freschezza :
Questa di verdi gemme s' incappella ;
Quella si mostra allo sportel vezzosa;
L' altra che in dolce foco ardea pur ora,
Languida cade e il bel pratello infiora.
In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boc-
caccio nel Ninfale dava l'esempio, il poeta non è obbli-
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gato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche
fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui, e in luogo
di chiudersi nella natura e ne' fenomeni dell' amore fino
alle più raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi
dalla qualità degU avvenimenti e dalla natura e condi-
zioni dei personaggi che introduce sulla scena. La donna
cala dalle nubi e acquista una storia umana. Come son
care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa
e non vi trova il suo amore !
Qui r aspettai, e quinci pria lo scorsi.
Quinci sentii Y andar de* leggier piedi,
E quivi la man timida li porsi;
Qui con tremante voce dissi: Or siedi;
Qui volle allato a me soletto porsi:
E quivi interamente me li diedi.
0 sospirar che di ambo i petti uscia !
0 mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
Che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lasciommi piena di disio.
Quando già presso al giorno disse: Addio.
V Ambra, il Corinto, Venere Marte, la Nencia
sono poemetti di questo genere. Soprastà per calore ed
evidenza di rappresentazione l'Ambra, graziosa invenzione
ispirata da Ovidio e dal Boccaccio. Ma il capolavoro e
la Nencia, che pare una pagina del Decamerone. Qui Lo-
renzo lascia la mitologia, e gli amori sentimentaU e idil-
lici, ed entra nel vivo della società, rappresentando gli
amori di Vallerà e Nencia, due contadini, con un tono
equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e sco-
pre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta
Firenze fu piena della Nencia ; era la città che metteva
in caricatura il contado. L' idillio vi si accompagna con
quel sale comico, che si ^ente nel prete di Vai'luugo e
— 390 —
Monna Belcolore, e che è la vera genialità di Lorenzo:
basta ricordare i Beoni, Chi ama i paragoni, ragguagU
la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di con-
tadine. Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado:
la caricatura è sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella
Nencia hai V idealità comica : una caricatura fatta con
brio e con grazia, con un'aria perfetta di bonomia e di
sincerità. Nella Brunetlincu del Poliziano hai il ritratto
ideale della contadina, rimossa ogni intenzione comica.
È la Venere del contado con morbidezza di tinte assai
ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione
ed eleganza del disegno. Notabile è soprattutto la ve-
rità del colorito e la perfetta realtà.
Tra le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lo-
renzo andar per le vie, come Re Manfredi, sonando e
cantando tra' suoi letterati. Il poeta della Nencia qui è
nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella società
licenziosa e burlevole. La trasformazione è compiuta:
giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione. I Beoni
0 il Simposio è una parodia della Divina Commedia e
dei Trionfi non pur nel disegno, ma nelle frasi: le sa-
cre immagini dell'Alighieri sono torte a significare le scon-
cezze e turpitudini dell' ebbrezza. Tra questi passatempi
poetici è da porre la Caccia col Falcone, fatti frivoli e
insignificanti, ma raccontati con lepore e con grazia in
stanze sveltissime , con tutt' i sali e le vivezze del dia-
letto. Così si passava allegramente il tempo:
E così passo, compar, lieto il tempo,
Con mille rime in zucchero ed a tempo ».
Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di
costumi.
Lo stesso spirito è nelle ballate e ne' canti carnascia-
leschi; una sensualità illuminata dall'allegria e dall'umor
comico. Il mondo convenzionale de' trovatori è ito via ,
— 39i —
e insieme il suo vocabolario. Ti senti in mezzo a un po-
polo festevole e motteggiatore, che ha rotto il freno e
si dà baha. Un' allegria spensierata e Hcenziosa è il mo-
tivo di (juesti canti : V amore non è un affetto , ma un
divertimento , un modo di stare allegri. Il motto comune
è la brevità della vita, V orrore della vecchiezza, il do-
vere di coglier la rosa mentre è fiorita, quel tale : eda-
mics et bibamus : post morlem nulla voluptas. Aggiungi
la caricatura de' predicatori di morale e delle cose sacre,
com'è la confessione di Lorenzo, e la sua preghiera a
Dio contro i mal parlanti. In questo mondo rappresen-
tato dal vero e nell'atto della vita, così di fuga e tra
le impressioni, non hai concetti raffinati, ma pittura vi-
vace di costumi e di sentimenti, com' è l'ansia dell'aspet-
tare nella canzone:
Io non so qual maggior dispetto sia
Che aspettar quel che il cor brama e desia;
0 il dispetto contro i gelosi:
Non mi dolgo di te, né di me stessi,
Che so mi aiuteresti stu potessi ;
0 quel volere e disvolere della donna nella canzonetta
sulla pazzia, e nell'altra, tirata giù tutta di un fiato,
così rapida e piena di cose :
Ei convien ti dica il vero
Una volta, dama mia.
Questo carnevale perpetuo si manifesta ne' canti e trionfi
carnescialeschi in tutta la sua licenza. Uscivano di car-
novale, come si costuma anche oggi , carri magnifica-
mente addobbati, ora rappresentazioni mitologiche, com'è
il Trionfo di Bacco e Arianna co' suoi satiri e Sileno e
Mida, ora corporazioni di arti e mestieri, com' è il canto
— 392 —
de* cialdoni, o de' calzolai, o delle ^filatrici, o de' beri-
cuocolai, ora pitture sociali come il canto delle fan-
ciulle 0 delle giovani donne, o de' romiti, o de' poveri.
Il motivo generale è l'amor licenzioso, stuzzicato spesso
da equivoci e allusioni che mettono in moto l' immagi-
nazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e
portato in trionfo. La rappresentazione della vita e dei
costumi e delle condizioni sociali e 1' allegra caricatura,
che sono 1' anima di questo genere di letteratura, com'è
nel carnevale di Goethe, si perdono ne' bassi fondi della
oscenità plebea. Cosa ora possono essere le sue Laude^
se non parodie ? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
In questa pozzanghera finirono le serenate, le matti-
nate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli strambotti,
le cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a
mano de' letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sac-
chetti perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie nei sonetti
plebei del Canonico Franco e suoi pari, che non avevano
neppure l' arguzia e la festività di Lorenzo.
Il popolo era meno corrotto de' suoi letterati. Ne' suoi
Canti non trovavi certo l'amore platonico e ascetico e
i concetti raffinati, ma neppure gli equivoci osceni di Lo-
renzo e le brutture del Franco.
La più schietta voce di questa letteratura popolare è
Angelo Poliziano. Rado capita negli equivoci. Scherza,
motteggia, ma con urbanità e decenza, come nei suoi con-
sigU alle donne :
Io vi vo* donne, insegnare
Come voi dobbiate fare;
e nel ritratto della vecchia, e in quella ballata grazio-
sissima :
Donne mie, voi non sapete
Che io ho il mal che avea quel prete.
— 393 —
Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle
montanine di Franco Sacchetti, massime quando il fondo
è idillico, come nella ballata dell'augelletto e nell' altra :
Io mi travai, fanciulle, un bel mattino
Di mezzo giorno, in un verde giardino.
Nelle sue canzoni e canzonette , nelle sue Lettere e nei
suoi Rispetti non trovi novità d' idee o d' immagini o di
situazioni , e neppure un' impronta personale e subbiet-
tiva, come nel Petrarca. Ci trovi il segretario del popolo,
che traduce in forme eleganti il repertorio comune dei
canti popolari dall' un capo all' altro d' Italia. Perciò non
hai qui la freschezza e originalità delle stanze idilliche;
spesso ci senti la fretta e la distrazione, come di chi scriva
di fuga e per occasione. Vedi ritornare le stesse idee con
lievi mutamenti, com' è il fuggire del tempo e il coglier
la rosa fiorita. Il dizionario delle idee popolari è piccolo
volume, 0 non s' ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle
poche idee si aggirano intorno a situazioni generiche e sem-
plici, come sono la bellezza del damo o della dama ; la ge-
losia, la dipartita, 1' attendere, lo sperare, l' incitare, la
disperazione e i pensieri di morte, le dichiarazioni e le
disdette. Sono 1' espressione di un essere collettivo, non
del tale e tale individuo. E cosi sono nel Poliziano. I no-
mi mutano, secondo 1' argomento, come la dipartita e la
ritornata, e anche secondo il tempo, come la serenata o
il notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse.
Sono per lo più stanze in rime variamente alternate, co-
me nelle ballate e ne' rispetti, fatte svelte e leggiere nelle
canzonette , ove domina il settenario o l'ottonario. Spesso
non hai che un solo motivo variamente modulato e con
graziose ripigliate, come fosse un trillo o un gorgheggio :
E crederei, s' io fossi entro la fossa
Risuscitare al suon dì vostra gola;
— 394 —
Crederei, quando io fussi nell' inferno,
Sentendo voi, volar nel regno eterno.
La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano. Ci si vede
il cervello in riposo, fra onde musicali, e come viene la
idea, non corre a un' altra, ma ci si ferma e la trattiene
deliziosamente nell'orecchio, finché non le abbia data tutta
la sua memoria. Questo palpare e accarezzare l' idea, com-
piuta già come idea, ma non ancora compiuta come suono,
è proprio della poesia popolare, povera d'idee, ricca d' im-
magini e di suoni. La parola è nel popolo più musica che
idea. Ciò che si diceva allora: cantare a aria c^dX si
fosse il contenuto , o come dice un poeta , siccome ti
frulla. Cosi cantavasi Crocifisso a capo chino ^ una
Lauda, con la stess' aria di una canzone oscena.
Tra queste impressioni nacque la canzone di maggio,
il saluto della primavera:
Ben venga Maggio,
E il gonfalon selvaggio,
cantata dalle villanelle, che venivano a Firenze, anche
due secoh dopo, come afferma il Guadagnoli. Vi si nota la
fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca, con-
giunta con una perspicuità che la rende accessibile anche
alle classi inculte. Se Lorenzo esprime della vita popolare
il lato faceto e sensuale, coi>rafia di chi partecipa a quella
vita, ed è pur disposto a pigliarne spasso; il Poliziano
anche nelle sue più frivole apparenze le gitta addosso
un manto di porpora, elegante spesso, gentile e grazioso
sempre. Alla idealità del Poliziano si accosta alquanto
solo il Trionfo di Bacco e Arianna.
Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario dei
canti popolari , sparsi in tutta Italia non solo in dialetto,
ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi
— 395 —
versi, come: 0 crudel donna , che lasciato m' hai — Giù
per la villa lunga La bella se ne va — Chi vuol l'anima
salvare Faccia bene a' pellegrini ec. Vi si mescolavano
laude, racconti e poemetti spirituali con le stesse into-
nazioni. Li portavano ne' più piccoli paesi i rapsodi o
poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o man-
dola in collo, che vivevano di quel mestiere. E si chia-
mavano cantastorie, quando i loro canti erano roman-
zetto 0 romanze, racconti di strane avventure intercalati
di buffonerie e motti licenziosi. Questa letteratura pro-
fana e proibita a* tempi del Boccaccio, come s' è visto,
era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed ele-
ganti. Erano alla moda romanzi franceschi con le loro
traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In
questo secolo moltiplicarono co' rispetti e le ballate an-
che i romanzi. Della cavalleria si vedeva l' immagine sfar-
zosa nelle corti, e alcuna lontana reminiscenza ne da-
vano le compagnie di ventura. CavaUere e cavallo era
ancora il tipo della storia, l' ideale eroico celebrato nelle
giostre, e riflesso ne' romanzi. Se ne scrivevano in dia-
letto e in volgare. Tra gli altri che venner fuori, sono
degni di nota l'Aspraraonte, l'Innamoramento di Carlo,
r Innamoramento di Orlando , Rinaldo, la Trebisonda, i
Fioretti de' Paladini, il Persiano, la Tavola rotonda, il Tro-
iano, la Vita di Enea, la vita di Alessandro di Macedonia,
il Teseo, il Pompeo romano, il Ciriffo Calvaneo. Il mag-
giore attrattivo era la libertà delle invenzioni; si empi-
vano le carte di fole e di sogni, come dice il Petrarca:
e chi le dicea più grosse , era stimato più. Questo ele-
mento fantastico penetrò anche ne' misteri, come nello
laude era penetrato il canto popolare. Le rappresenta-
zioni presero una tinta romanzesca; l'effetto non poten-
dosi più trarre da un sentimento religioso che faceva
difetto, si cercava nella varietà e nel maraviglioso degli
accidenti, com' è il S. Giovanni e Paolo di Lorenzo.
— 396 —
Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati
della società, e dalle corti scendeva fino ne' più umili
villaggi e di là risaliva alle corti. La plebe aveva i suoi
cantastorie, la Corte aveva i suoi novellatori. E non si
contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi dalle *
cronache e dalle tradizioni, ma vi aggiungevano del loro
non solo nel colorito e negli accessorii, ma nella inven-
zione. Il Boccaccio recitava i s:oi romanzi a corte e
tra liete brigate, come immagino fossero recitate le sue
novelle. Il suo Florio, il Teseo, il Troilo lasciarono poco
durevole vestigio, perchè argomenti poco popolari e gua-
sti dall' erudizione e dalla mitologia. Ma l' impulso da luì
dato fu grande, e la ballata, la novella, il romanzo, ciò
che chiamasi letteratura profana, divennero l'impronta del
secolo, da Franco Sacchetti a Lorenzo dei Medici. La ca-
valleria propriamente detta avea per suo centro gh eroi
della Tavola rotonda e i paladini di Carlo Magno. In an-
tico la Tavola rotonda avea molta popolarità, e Tristano
e Isotta tennero per qualche tempo il primato. Il Boc-
caccio nell'Amorosa visione cita gli eroi principali di que-
ste tradizioni normanne, come nomi già noti e volgari.
Ma la Francia era più nota, e i romanzi franceschi più
diffusi, e Carlo Magno avea un certo legame con l' Ita-
lia, come un eroe religioso, protettore del Papa e vin-
citore dei saracini, e precursore delle Crociate. Era già
comparso 1' Innamoramento di Orlando, E Matteo Bo-
jardo ci die 1' Orlando innamorato, una vasta tela in
sessantanove canti, interrotta dalla morte.
Il Bojardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte
estense, divenuta un centro letterario importante accanto
a Napoli, Roma e Firenze. Ivi la letteratura nasceva
pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze. Il Bojardo,
uomo coltissimo, dotto di greco e di latino, studiosissimo
di Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movi-
mento impresso dal Boccaccio alla letteratura toscana.
— 397 —
Ne' suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non
so che astratto e rigido, come di uomo ben composto
negli atti e nella persona, pure impacciato. È in lui una
serietà di motivi che in quel secolo della parodia si può
chiamare un anacronismo. Gli piace recitare i suoi canti
tra liete brigate, e averne le lodi; ma i passatempi e
gli scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe pro-
fanare i suoi eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la
serietà d' Omero, e fu salutato allora 1' Omero italiano.
Certo, non crede alle sue favole, e non ci credono i suoi
colti uditori, e la comune incredulità scappa fuori alcuna
volta in quache tratto ironico; ma questo riso della col-
tura a spese della cavalleria non è il motivo, è un ac-
cessorio fuggevole del racconto. Cosa dunque aveva più
di serio la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo
non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le
feste delle corti. Quelle forme erano cosi vuote, come
le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni sentimento eroi-
co e religioso, anzi negato e parodiato. Invano si studia
il Bojardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le
serie proporzioni di un' epopea.
Il mondo omerico è un organismo vivente, dove sen^
timenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono perfetta-
mente realizzati e armonizzati; il mondo cavalleresco,
mancati tutt' i suoi motivi interiori , è qui sotto forme
epiche il mondo plebeo dell' immaginazione, un maravi-
glioso sciolto dalle leggi dello spazio e del tempo, senza
serietà di scopo e di mezzi, tra castelU incantati e colpi
di spada. Come Elena neh* Iliade , qui è Angelica che
move intorno a sé Europa e Asia; salvo che Elena è
un semplice antecedente, rimasto ozioso nel racconto, e
AngeUca è la vera motrice dell' immensa macchina , è il
maraviglioso in permanenza, la Maga. Il miracolo con-
tinua; non lo fanno i Santi; lo fanno i maghi e le ma-
ghe. E il miracolo non è la macchina o V istrumento .
— 398 —
ma è fine a sé stesso. Voglio dire che il miracolo non
è un mezzo per conseguire uno scopo serio, e sviluppare
un' azione interessante, come nelle leggende e ne' primi-
tivi poemi cavallereschi animati dalla fede ; non essendo
nel mondo del Bojardo altra serietà che il miracolo stesso,
il fine di sorprendere gli uditori con la straordinarietà
degli avvenimenti. I motivi delle azioni non sono a cer-
care nella serietà di un mondo religioso, morale, eroico,
divenuto convenzionale e tradizionale, come il mondo
cristiano , ma nel libero gioco delle passioni e de* carat-
teri sotto r influsso di potenze occulte. Onde nasce un
mondo pieno di vivacità e di mobilità, dove tutte le forze
dell'individuo non frenate da leggi e da autorità supe-
riori si sviluppano nel pieno rigoglio della natura, e pro-
ducono effetti così maravigliosi come le stregonerie e
gì' incanti. Orlando e Rinaldo ti fanno maravigliare non
meno che Malagigi e Angelica. Un mondo cosi essen-
zialmente fantastico e insieme cosi poco serio per il poeta
e per gli uditori è in fondo quel mondo della cortesia
calato dal Boccaccio in mezzo alla borghesia e fatto mo-
derno, e ritirato dal Bojardo alle sue aure natie. Il fer-
rarese ha creduto renderlo cosa seria, dandogli forma
nobile e decorosa , purgata dalle licenze e da' disordini
de' romanzi plebei ; ma è appunto quest' apparenza di se-
rietà che toglie attrattivo al suo racconto. Ne' romanzi
plebei il maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti
e ingenui uditori; ma i colti signori e cavalieri, alla
cui presenza recitava il Bojardo i suoi canti, non pote-
vano vedere in quei fantastici racconti che un puro giuoco
d' immaginazione , disposti a spassarsi della plebe , che
faceva gli occhioni e apriva la bocca. Quel mondo dun-
que non poteva divenire borghese, se non trasportato
neir immaginazione , e accompagnato da un sogghigno.
E tutte e due queste condizioni mancano nell' Oi'lando
innamorato. Il Bojardo ha molta vena inventiva; avve-
^ 399 --
nimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna; certo
non è tutta' cosa sua ; raccoglie di qua e di là ; trova
innanzi a sé un immenso materiale agglomerato da' se-
coli : ma quella materia la fa sua , scegliendo , combi-
nando, padroneggiandola. Il suo intento , direi quasi la
sua vanità, è di sorprendere gli uditori con la ricchezza
e varietà de' suoi intrecci, menandoseli appresso tra le
più strane avventure. Ma al Bojardo mancano tutte le
grandi qualità dell' artista, e soprattutto quelle due che
sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo, la
immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora lo scherzo;
ma rimane un tentativo abortito : non ha brio, non fa-
cilità, non grazia. Gli manca lo spirito e gli manca an-
cora quell'alta immaginazione artistica che si chiama fan-
tasia. Vede chiaro; disegna preciso, come fosse un mondo
storico; e appunto perciò in un mondo cosi fantastico
rimane pedestre e minuto, e non ti sottrae al reale, non
ti ruba i contorni, non ti tira per forza in una regione
incantata. A questo grande inventore di magie la Natura
negò la magia più desiderabile, la magia dello stile. Le
più originali concezioni, le più interessanti situazioni ti
cascano sul più bello; sei nel fantastico e ti trovi nel
volgare; e Angelica ti si trasforma in una donnicciuola,
e Orlando in un babbeo. Il che avviene senza intenzione
comica, unicamente per la soverchia crudezza de' colori,
a cui mancano le gradazioni e le mezze tinte. Così quel
mondo che nella sua intima natura dovea essere fanta-
stico e comico , ti riesce spesso nella rappresentazione
prosaico e volgare. Non una sola situazione , non una
figura è rimasta viva. Dicesi che il nobil conte facesse
suonare a festa le campane del villaggio, quando gli venne
trovato il nome di Rodamonte, quasi l' importanza fosse
ne' nomi o ne' fatti. E non è Rodamonte, che è rimasto
vivo, è Rodomonte.
Se il Bojardo recitava i suoi canti a' signori ferraresi,
— 400 —
Luigi Pulci rallegrava le feste e ì conviti di Lorenzo,
recitando le stanze del suo Morgante. Qui ritroviamo la
fìsonomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni dal
Burcgiello sgangherato e senza remi, come lo chiama
Battista Alberti, sino a Lorenzo dei Medici. Il Pulci di-
scende' in diritta lìnea dal Boccaccio e dal Sacchetti, e
ne sviluppa le tendenze con più energia che non il Po-
liziano e non Lorenzo.
Piglia il romanzo come lo trova per le vie, un miscu-
glio di santo e di profano , di buffonesco e di serio. E
non pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente più
gli ripugna che la tromba. Ti dà un mondo rimpiccinito,
fatto borghese, gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno
perduta la loro aureola, e ti camminano innanzi semplici
mortali. Niente è più volgare che Carlo o Gano. Carlo
è un rimbambito; Gano è un birbante destituito di ogni
grandezza ; volgare lui, volgari i suoi intrighi. Rinaldo
è un ladrone di strada; Ulivieri è un cacciatore di donne
e la sua Meridiana non è in fondo che una femminella.
Di caratteri e passioni non è a far parola, è un mondo
superficiale e mobilissimo, e voi di pala in frasca, e non
ti raccapezzi. Gano trama la rovina de' Paladini; Fori-
sena si gitta dalla finestra; Babilonia rovina; Carlo è
scoronato da Rinaldo ; tutti questi grandi avvenimenti
scappan fuori appena abbozzati, come non fossero opera
di uomini, ma di qualche bacchetta magica, rappresen-
tati con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito ,
con la quale Morgante si mangia un elefante e sfracella
il capo a una balena. È la cavalleria com' era concepita
e trasformata dalla plebe. Il cantastorie è in fondo un
giullare, o piuttosto un buffone plebeo che abbassa quel
mondo al suo livello e de' suoi uditori , e invocati gra-
vemente Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a' suoi
lazzi e ti fa sbellicar dalle risa. Il buffone, personaggio
accessorio ne' racconti e nelle commedie, è qui il perso-
— 401 —
naggio principale, è lo spirito stesso del racconto. La
parte più seria del romanzo è certo la morte di Orlando ;
e anche lì quanti lazzi! Ecco il principio della grande
battaglia :
Chi vuol lesso Macon, chi l'altro arrosto;
Ognun volea del nemico far torte;
Dunque vegnamo alla battaglia tosto,
Sì eh' io non tenga in disagio la morte,
Che colla falce minaccia ed accenna
Ch' io muova presto le lance e la penna.
Neir inferno si fa gran festa, che attendono i pagani;
Lucifero trangugiava a ciocche le anime che ipiovean
de seracini e san Pietro attende le anime de' cristiani:
E perchè Pietro a la porta è pur vecchio,
Credo che molto quel giorno s'affanna,
E converrà ch* egli abbi buon orecchio,
Tanto gridavan quelle anime : Osanna,
Ch'eran portate dagli angeli in cielo:
Sicché la barba gli sudava e il pelo.
I campi di battagha svegliano immagini tolte ad im-
prestito da' macellai e da' cucinieri, i colpi di spada sono
in modo cosi grossolano asagerati che la morte stessa
diviene ridicola; i miracoli sono cosi strani e cosi cari-
cati che perdono ogni serietà, come è Orlando morto^
trasformato in colomba, che si posa sulla spalla di Tur-
pino e gli entra in bocca con tutte le penne.
Se il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo
e sciocco, avremmo il grottesco, com' è ne* romanzi pri-
mitivi. Ma qui il buffone è un uomo colto, che parla a
un colto uditorio, e non è il buffone, ma fa il buffone,
oontraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede. Sic-
ché ci troviamo in quella stessa disposizione di animo,
I)« SanctiB — Leu. Ital. Voi. I. S6
— 402 ~-
che ispirò la Belcolore e la Nencia; è il borghese che
si spassa alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla finta
serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse, chia-
ma in testimonio Tarpino, o dove nelle cose più gravi
fa boccacce e t' esce fuori con una smorfia e si burla del
suo argomento e de' suoi personaggi. La parodia è an-
cora comica, perchè dissimulata con molta cura, di rado
rilevata , e posta il più sovente nella natura stessa del
fatto senza alcuno artificio di forma, come è Morgante
che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino,
o Margutte che scoppia dalle risa e muore. E riderà in
eterno, nota l'angiolo Gabriello, trasformato l' individuo
in tipo. La rappresentazione è anch'essa conforme a que-
sta parodia plebea. La plebe non analizza e non descrive;
ma ha l' intuito sicuro e la percezione viva, e coglie ciò
che vede alfe naturale e così in grosso, e non ci si fer-
ma, e passa oltre. La forma qui è tutta esteriore e ra-
pida; si movono insieme le lance e la penna; l'autore
mentre move la penna vede le lance moversi, vede quello
che scrive; le figure si staccano dal fondo, e ti balzano
innanzi vivide, e tu le cogU in una sola girata d' occhio.
L'ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco; è
un incalzare di versi senza posa, frettolosi, poco curati,-
gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro è
un verso solo. Al che aiuta il dialetto maneggiato mae-
strevolmente, soprattutto per la proprietà de' vocaboli.
Tutto è plebeo: azioni, passioni e Hnguaggio. Un capo-
lavoro di questa vita plebea è il sacco di Sarragozza, col
supplizio di Gano e di Marsilio. E io voglio fare il boia,
dice l'Arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illu-
minano tutta una situazione. La risposta di Rinaldo a
Marsilio, che vuol farsi cristiano all' ultima ora, è quale
potrebbe suonare in bocca di un becero.
Il romanzo è una commedia, che contro l' intenzione
dell'autore si vohe in tragedia. Ma la trai^edia è da burla,
— 403 —
e non ce n' è il sentimento. Lo spirito del racconto è il
basso comico, un comico vuoto e spensierato, che im-
putridisce nelle acque morte di un' immaginazione volgare
e non si alza a fantasia. Maggiore spirito è in Lorenzo
e nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe , e non
sono plebe , e la guardano alcun poco dall' alto. iVla il
Pulci, ancorché uomo colto, per i sentimenti e le incli-
nazioni è plebe, e a forza di rappresentare la parte del
buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale. Per-
ciò gU mancano tutte le alte qualità di un artista co-
mico: la grazia, la finezza, la profondità dell' ironia, e ti
riesce spesso grossolano, superficiale, inculto e negletto
anche nella forma. Ha non solo la grossolanità, ma an-
che r angustia di una immaginazione plebea^ non essen-
doci ne' suoi personaggi molta ricchezza di carattere, quella
varietà di movenze, di sentimenti e d' istinti che fa del-
l' uomo un piccolo mondo. Rinaldo, Orlando, Olivieri, A-
stolfo, Sansonetto, Ricciardetto, i paladini sono tutti a
uno stampo, e non ci è differenza in loro chf; della forza.
Malagigi è insignificante. Gano, Falserone, Bianciardino,
Marsilio, Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salmcorno, tutti
i pagani sono esseri superficiali, e spesso puri nomi. I
più accarezzati, dall'autore sono i due personaggi del suo
cuore, Morgante e Margutte. Morgante è lo scudiere di
Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del racconto.
Non è il cavaliere, è lo scudiere, 1' eroe di questa storia
plebea, il cui spirito penetra dappertutto e si continua
anche dopo la sua morte. Morgante rappresenta il luto
eroico e cavalleresco della plebe, ghiotto , millantatore,
ignorante, di poca msjlizia, ma buono, fedele e corag-
gioso. Il suo battaglio ò l'emulo di Durindana. Margutte
è la plebe nella sua degenerazione e corruzione, igno-
bile, beffardo, ladro fraudolento, assai vicino all' animale.
Questi due esseri accoppiati insieme si compiono e si spie-
gano. Se ci fosse maggiore stacco tra queste ligure voi-
— 404 —
gari e i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sa-
rebbe la vera parodia, come è di Sancio Panza e don
Chisciotte. Ma lo spirito plebeo penetra ancora fra' ca-
valieri e Margutte e Morgante sono non una parte, ma
il tutto, r alto modello a cui più o meno è informata la
storia, intitolata a buona ragione il Morgante.
Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cor-
nuto di Dante che già riceve una prima trasformazione
nel suo nero cherubino, il bravo loico che ha tutta l'aria
di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed è
un buon compagnone. Come il nero cherubino arieggia
agli scolastici, Astarotte è il nuovo spirito del secolo,
motteggiatore, ironico, e libero pensatore, che fa il teo-
logo e l'astrologo, e spiega la bibbia a modo suo, e bat-
tezza asini Dionisio e Gregorio; che ognuno erra
A voler giudicare il ciel di terra.
Astarotte, che è stato un serafino e de'principah, sa molte
cose, che non sanno i poeti, i filosofi e i morali , e dice
la verità, e non fa come gh spiriti folletti che si aggi-
rano per r aria e ingannano gli uomini, facendo parere
quel che non è:
Chi si diletta ir gli uomini gabbando ;
Chi si diletta di filosofìa;
Chi venire i tesori rivelando;
Chi del futuro dir qualche bugia.
Vedesi la filosofia messa a fascio con 1' astrologia e le
altre arti di gabbare gli uomini.
Ma Astarotte promette di dire la verità, e tiene la pro-
messa, come un diavolo d' onore :
Che gentilezza è bene anche in inferno.
E sa la verità non per ragione, ma per esperienza, come
— 405 —
di cose che vede e tocca, confermaodole anche con Tau-
torità della Scrittura. Dove ci vuol ragione, come nella
quistione della prescienza, la quale l'umano, gente av-
volge di tanti errori^ dice: noi so: però no7i ti rispondo.
I\Ia quanto a' fatti, afferma ardito e sicuro. E afferma,
che salvo i giudei e i saracini, piacciono a Dio quelli
che osservano la loro religione, come fecero gli antichi
romani, su' quaU piovve tanta grazia celeste; che al di
là delle colonne d'Ercole è l'altro emisperio, abitato co-
me questo, e ben vi si può ire; che quella gente è parte
della famiglia di Adamo , anche essa redenta, altrimenti
Dio sarebbe stato partigiano ; che gli animali pinti nel
padigUone di Luciano non sono tutti, e compie la lista
descrivendo un gran numero di animali poco noti. Ri-
naldo, avido di imparare^ si propone di lanciarsi pe' mari
ignoti e scoprire il nuovo mondo rilevato da Astarotte:
la poesia indovina Cristoforo Colombo , o piuttosto la
scienza, perchè il dotto Astarotte era in fondo il celebre
Toscanelli, amico e suggeritore del Pulci.
Questa concezione è una delle più serie della nostra
letteratura e delle megUo disegnate e sviluppate del Mor-
gante. Ci è lì il secolo nelle sue intime tendenze non an-
cora ben chiare, che volge le spalle alle forme scolastiche
e alle contemplazioni ascetiche^ e diffida de' ragionamenti
astratti , e si gitta avido nella esplorazione della natura
e deli' uomo. Il mondo gli si allarga innanzi , e mentre
gli uni ricalcano le vie della storia, e rifanno Atene e
Roma, gli altri lasciando teologia, filosofìa, e astrologia,
e fatture e altre opinioni sciocche, mostre ingannevoli
degli spiriti folletti, percorrono la terra in tutt' i versi
e già sono con T immaginazione al di là dell' oceano. Il
secolo comincia a prender possesso della terra; la sto-
ria naturale, la fisica, la nautica, la geografia prendono il
posto delle quistioni sugli Enti e suU' esistenza de' ge-
iieraU;i fatti e l'esperienza occupano le menti più che
— 406 -^
i ragionamenti sottili. Aggiungi l' ironia, quel prender le
cose così alla leggiera, e sdrucciolandovi appena, quel-
l'aria già scettica e miscredente, ancoraché non ci sia
ancora negazione e scetticismo, e avrai V immagine del
secolo, il ritratto di Astàrotte. Ma l'autore sembra quasi
non accorgersi della stupenda concezione, e abborraccia
dappertutto anche qui. Gli manca la coscienza seria e
intelligente delle nuove vie, nelle quali entra il secolo;
gU manca queir elevatezza d' animo che rende eloquente
r uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi orizzonti.
L'Ulisse di Dante è sublime; il suo Rinaldo e insigni-
ficante. E r Astàrotte riesce l'eco volgare e confusa di
un secolo ancora inconsapevole di sé.
Il Pulci, il Bojardo, il Pohziano, Lorenzo, il Fontano,
e tutti gli eruditi e i rimatori di quell'età non sono che
frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato
di preparazione, senza sintesi.
Ci é un uomo che per la sua universalità parrebbe
volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pit-
tore, architetto, poeta erudito, filosofo e letterato, fio-
rentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna,
cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Fi-
renze accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo, caro ai
papi, a Giovan Francesco signore di Mantova, a Lionello
d' Este, a Federigo di Montefeltrò, celebrato da' contem-
poranei come uo7no dottissimo e di miracoloso inge-
gno, vir ingenii elegantis, acerrimi judicii, exquisitis-
simaeque doctinnae, dice il Poliziano. Destrissimo nelle
arti cavalleresche, compi i suoi studi a Bologna dalle
lettere sino alle leggi, datosi poi con ardore alle mate-
matiche e alla fìsica. Deesi a lui la facciata di Santa Ma-
ria Novella, la cappella di san Pancrazio, il palazzo Ruc-
cellai, la Chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Fran-
cesco in Rimini. Sono s^oi trovati la camera ottica, il;
roticelo de' pittori, e l'istrumento per misurare la prò-
— ^107 —
fondita del mare, detto bolide albertiana. Nelle sue Pia-
cevolezze matematiche trovi non pochi problemi di molto
interesse, e nei suoi libri dell' Aì^chiteitura , che gli pro-
cacciarono il nome di Vitruvio moderno, hai cenni di pa-
recchie invenzioni o fatte o intravedute. I suoi Rudi-
menti e i suoi Elementi di pittura, e la sua statua con-
tengoLO preziosi insegnamenti tecnici di queste arti.
Fu cosi pratico del latino, che un suo scherzo comico
scritto a venti anni e intitolato Philodomios venne da
tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittor latino, e
da Alberto d' Eyb a Carlo Marsuppini, professore di ret-
torica a Firenze e segretario della repubblica. E non
minor pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso , ad-
destratosi anche nel maneggio del dialetto, quando con
Cosimo de' Medici e gU altri sbanditi fu richiamato in
Firenze. Ne'suoi Intercenali o intrattenimenti della cena,
ne' suoi Apologhi^ nel suo Momo scritto a Roma il 1451,
dove rappresenta sé stesso, piacevoleggia con urbanità.
Scrisse i soUti sonetti e canzoni : e chi non ne scrivea
allora ? o chi non ne scrisse poi ? Meglio riuscirono le
sue Egloghe^ e le sue Elegie, amorosi idilli, come era
la voga dal Boccaccio in qua. Era in voga anche Pla-
tone, e platonizzò. Ma al suo ingegno così pratico, così
lontano dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo
platonico, che facea andare in visibilio il suo amico Fi-
cino, e lo segui come artista ne' suoi dialoghi della Tran-
quillila dell' animo, e della Famiglia, il cui terzo libro
fu lungo tempo attribuito al Pandolfìni, e del Teogenio
0 della vita civile e rusticana. Tali sono pure l' Eca-
tomfxlea^X'à Beifìra, la Cena di famiglia, la Sofrone,
la Deiciarchia, 11 dialogo è la sua maniera prediletta,
un certo discorrere alla familiare e alla buona, cosi alieno
dalle prdanterie scolastiche, e che trovi anche dove parla
uno solo, come nelle sue Efebie, nella sua epistola sul-
l'Amore, nella sua Amiria» Chi misura V ingegno dalla
— 408 —
quantità delle opere e dalla varietà delle cognizioni, dee
tenerlo ingegno così miracoloso come fu tenuto a quel
tempo. Certo, egli fu l'uomo più colto del .^uo tempo e
r immagine più compiuta del secolo nelle sue tendenze.
Battista ha già tutta la fìsonomia dell' uomo nuovo ,
come si andava elaborando in Italia. La scienza, sve-
stite le sue forme convenzionali, è in lui amabile e fa-
miliare. Lascia le discussioni teologiche e ontologiche.
Materia delle sue investigazioni è la morale e la fìsica
con tutte le sue attinenze, cioè T uomo e la natura, così
coni' è secondo 1' esperienza, il nuovo regno delia scienza.
È un artista, perchè non solo studia e comprende, ma
contempla, vagheggia^ ama 1' uomo e la natura. Anima
idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ri-
tirato nella pace e nell' affetto della famigha, abitante in
ispirito più in villa che in città, non curante di ricchezze
e di onori , vuoto di ogni cupidigia e ambizione , si formò
una filosofia conforme, di cui è base V aurea mediocri-
tas, una moderazione ed eguaglianza d'animo, che ti
tenga fuori di ogni turbazione. Il suo amore della na-
tura campestre non ha nulla di sentimentale e d' inde-
finito, che t'induca a fantasticare; anzi tutto è disegnato
partitamente con la sagacia di un osservatore intelli-
gente, e con r impressione fresca di uomo, che se ne
senta ricreare 1' occhio e riposare 1' anima. E non è la
natura in sé stessa che lo alletta, com' è ne' quadretti
di genere del Poliziano, ma è l'uomo nella natura; il
paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi
muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e
tranquillità , dov' è posto V ideale della felicità. Il vero
protagonista è perciò l'uomo , com' era concepito allora,
sottratto alle tempeste della vita pubblica, che cerca
pace e riposo nel seno della famiglia e tra' campi, tutto
alle sue faccende e a' suoi onesti diletti. Ma è insieme
r uomo colto e civile e umano, che disputa e ragiona.
— 409 —
nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno, por-
gendo utili ammaestiamenti intorno all' aite della vita.
La quale arte si può ridurre in questa sentenza , che
r uomo dee tener lontane da sé le passioni e le turba-
zioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose.
Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace
che Dante cercava nell'altro mondo, e che Battista ti
offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato
dagli antichi morahsti, e che Lorenzo Valla chiama ar-
gutamente la Voluttà. Il concetto ascetico che 1' uomo
non può conseguire vera felicità in terra è alieno dal
quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si
occupa della terra. Battista non ti dà una filosofia con
deduzioni rigorose; non cessa di essere un buon cristiano
e riverente alla religione, e non sospetta egH e non so-
spettavano i contemporanei, a quaU pericolose conse-
guenze traeva quello indirizzo. Non è il filosofo ; è l'ar-
tista e il pittore della vita, come gli si porgeva. I suoi
ragionamenti non movono da principii filosofici, ma dalle
sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli della storia,
e soprattutto dalla sua esperienza della vita. Il suo uomo
non è un' astrazione, un' idea formata da concezioni an-
ticipate, ma è preso dal vero nella vita pratica, co' suoi
costumi e le sue inclinazioni. Finge e descrive più che
non ragiona, e non è un descrivere letterario o rettorico,
ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli
occhi il modello e n' è vivamente impressionato. Onde
riesce pittore di costumi e di scene di famiglia, o cam-
pestri, 0 civih, impareggiabile. E non hai già la vuota
esteriorità , come spesso è in Lorenzo ; ma dentro è il
nuovo ideale dell' uomo savio e felice, che par fuori nella
calma decorosa e composta de' lineamenti, a cui fa spesso
da contrapposto la faccia disordinata dell' uomo sregolato
e turbato. È 1' onesto borghese idealizzato, che succede al
tipo ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghebO
— 410 —
purgato ed emendato, toltagli 1' aria beffarda e licenziosa.
Di questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista, di
cui suprema virtù era la pazienza delle ingiurie anche più
gravi e de' mali più stringenti della \ìta; profervoriim im-
petum paciencia frangébat, dice di sé: ottimo rimedio a
non guastarsi il sangue. Questa pazienza o uguaglianza
dell'animo è la genialità della nuova letteratura^ impressa
sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del Po-
liziano, e del nostro Battista , e che gì' innamora dello
forme terse e riposate, il cui interno equilibrio si man'fe-
sta nella bellezza e nella grazia. Questo amore della bella
forma, non solo in sé tecnicamente, ma come espressione
dell' interna tranquillità é la Musa di Battista. Scrivendo
di sé, dice: praccipiiam et singularem'voluptatem ca-
piehat speciandis rebus, in quibus aliquod esset spe-
cimen formae ac decits. Senes praeditos dignitate aspec-
tus et integros atqiie valentes iteruyn atquc iterimi de-
mirahafur, deìitinsque natiirae S'^se cenerari praedi-
cabat. Quicquid ingenio esset honnnum cum quadam.
effectiaim elegantìa.idprope dioinura dicebat. GemmiSy
floribus, ac locis praesertim. amoenis visendis, 7ion~
numqiiam ex aegrìtudine in bonam valetudinem rediif.
Quest'uomo che alla vista della bella natura si sente tor-
nar sano, che sta h a contemplare 1' aspetto decoroso di
una vecchiezza sana e intera, che chiama divina l'opera
elegante dell' ingegno, e sente voluttà a contemplare le
belle forme, aggiunge a questa squisita idealità un senso
così profondo del reale, che gU rende familiari gli arcani
della natura e anche della storia, come mostrò nelle lettere
a Paolo Toscanelli, dove predice con molta sagacia parec-
chi avvenimenti, le future sorti di principi e di pontefici,
e i moti delle città. Indi é che nelle sue pitture trovi pre-
cisione tecnica, verità di colorito e grande espressione; è
una realtà finita ed evidente, che mostra nelle sue forire
impressioni, e sentimenti. Veggasi nel governo della Fa-
— 411 —
miglia la pittura della vita villica, e la descrizione del con-
vito, e quella maravigliosa scena di famiglia, dove Agnolo,
reggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata, dice:
« tristo a me; e ove t' imbrattasti così il viso? forse t'ab-
battesti a qualche padella in cucina ? laveraiti, che que-
st' altri non ti dileggino. Ella m' intese e lagrimò. Io le
die' luogo eh' ella si lavasse le lagrime e il liscio. » Dello
stesso genere è la pittura de' giuocatori nella Cena di fa-
miglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della
vita quieta e felice di Genipatro, nel quale intravvedi Bat-
tista. « Truovomi ancora per la età riverito, pregiato,
riputato; consigliansi meco ; odonmi come padre; ricor-
danmi, lodanmi in suoi ragionamenti; approvano, seguono
i miei ammonimenti ; e se cosa mi manca , vedomi presso
al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella
forse a me fusse, qual certo ella non è, grave. Nulla
truovo ancora in vita che mi dispiaccia, e questo mi co-
nosco oggidì più felice che mai, poi che in cosa ninna
a me stesso dispiaccio. G-odo testé qui ragionando con
voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e
commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono,
e ricordandomi la mia ben trascorsa vita e investigando
fra me cose sottili e rare, sono felice. E parmi abitare
fra gì' Iddii, quando io investigo e ritruovo il sito e forze
in noi de' cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità vi-
versi senza cura alcuna di queste cose caduche e fra-
gili della fortuna, con 1' animo libero da tanta contagione
del corpo, e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in
solitudine, parlarsi con la natura maestra di tante ma-
raviglie ; seco disputando della cagi(^ne, ragione , modo
e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo
e lodando il padre e procreatore di tanti beni ». Parti
udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e dell'ami-
cizia, e delle lettere, e dell' uomo felice ; sentì in questo
Tcogenio quella superiorità dell' intelligenza sulla forza
— 412 —
e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie e ìa roz-
zezza plebea, quella beatitudine dell' uomo ritirato nello
studio, nella famiglia, ne' campi, quello ardore delle sco-
perte , quel culto dell' arte , che è la fìsonomia del se-
colo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pa-
gine della Tranquillità dell" animo, ove Battista pinge
maravigliosamente sé stesso. NeirEcatomfilea ti arrestano
ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, come
è la pittura degli amanti troppo giovani, e troppo vec-
chi, e dell' amore degli nomini che fioriscono in età fer-
ma e matura: pittura che ha ispirato le belle ottave
dell'Ariosto. De' vagheggini perditempo dice: «Farmi poca
prudenzia amare questi oziosi e incerti, i quali per di-
sagio di faccende fanno 1' amore suo quasi esercizio e
arte, e con sue parrucchine, frastagli, ricamuzzi e livree,
segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per
tutto discorrono: — fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli, però
che questi non amano , ma cosi logorano passeggiando
il dì non seguendo voi, ma fuggendo tedio ». La storia
dell' amore e della gelosia di Ecatomfìla sembra un bel
frammento di un romanzo fisiològico perduto, e per fi-
nezza e verità di osservazione è molto innanzi alla Fiam-
metta del Boccaccio , la cui imitazione è visibile nella
Ecatomfilea, e più nella Deifira, e nella Epistola di un
fervente amante, pianti e querele amatorie, dove il
buon Battista, uscendo della sua natura, come il Boc-
caccio, dà nella rettorica. Per trovare il grande scrit-
tore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come
neir Epistola sopra 1' amore, reminiscenza del Corbaccio,
e la pittura delle donne e 1' altra dell' amante, pari alle
più belle del Corbaccio. E per finirla vedi nella Tran-
quillità delV animo, la descrizione del Duomo di Firenze,
con tanta idealità nella massima precisione degli acces-
sorii. « Questo tempio ha in sé grazia e maestà , e mi
diletta eh' io veggo in questo tempio giunta una graci-
— 413 —
lità vezzosa con una sodezza robusta e piena: tale che
da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità,
e dall' altra parte comprendo che ogni cosa qui è fatta
a perpetuità. Qui senti in queste voci il sacrificio e in
questi, quali gli antichi chiamavano misteri, una soa-
vità maravìgliosa. Ei possono in me questi canti ed inni
della chiesa quello a che fine ci dicono che furono tro-
vati: troppo m'acquietano da ogni altra perturbazione
d' animo, e coramuovonmi a certa non so quale io la chia-
mi lentezza d' animo piena di riverenza verso di Dio. E
qual cuore sì bravo si trova che non mansueti sé stesso,
quando ei sente su bello ascendere e poi discendere quelle
intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine?
AfFermovi questo che mai sento in quei misteri e ceri-
monie funerali invocare da Dio ajuto alle nostre mise-
rie umane, che io non lacrimi». Come son vere queste
impressioni ! e con quanta feUcità rese ! Gracilità vezzo-
sa, lentezza d' animo sono forme nuove, pregne d' idea-
lità. Il sentimento religioso, cacciato dalla coscienza, si
trasforma in sentimento artistico, e move V animo, come
architettura e come musica.
Pittore egregio, Battista non è del pari felice, quando
ragiona, o quando narra. I suoi ragionamenti non sono
originali e non profondi, e sembrano uscire più dalla me-
moria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora
de' Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esteriorità ,
lontana assai dal suo modello, il Boccaccio.
Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealità
che il Poliziano poi raggiunse nella poesia. Amendue
maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono
dal plebeo rozzo e licenzioso e mirano a dare alla forma
un aspetto signorile ed elegante. Come il Poliziano va-
gheggiò una Poesia illustre , cosi Battista continua la
prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente è su di
lui r influsso che esercita la prosa latina e la maniera
— 414 —
del Boccaccio. Ne' suoi trattati e dialoghi trovi prette
voci latine, come bene est, etiam , idest, praesertim. ,
e parole e costruzioni e giri latini, come proibire e vie-
tare, e participii presenti e infiniti con costruzione la-
tina, e nffìrmare, asseguire, conditore di leggi, dut-
tore, valitudine, e moltissimi altri vocaboli. Anche nel
collocamento delle parole e nell' intreccio del periodo la-
tineggia. Ma non è un barbaro, che ti faccia strane me-
scolanze ; anzi è uno spirito colto ed elegante, che ha
nella mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un
parlare di gentiluomo, se non con la latina maestà, certo
con gravità elegante ed urbana. E come è ui toscano,
anzi un fiorentino, la latinità è temperata dalla vivezza
e grazia paesana. Se guardiamo ai trecentisti , il con-
gegno del periodo, T arte de' nessi e de' passaggi, una
più stretta concatenazione d'idee, una più intelligente
di>^tribuzioae degli accessorii, una più salda ossatura ti
mostra qui una prosa più virile e uno spirito più col-
tivato, fatto maturo dalla educazione classica. Pure se
per queste qualità Battista avanza i trecentisti è infe-
riore al Boccaccio, e rimane molto al di qua dalla per-
fezione. La prosa non è nata ancora: ci è una prosa di
arte, dove lo scrittore è più intento alla forma> che alle
cose, e mira principalmente all'eleganza, alla grazia e
alla sonorità. Come arte, i ritratti del Battista sono ciò
che la prosa ti dà di più compito in questo secolo. Ma
sono frammenti, e tutti quasi vogliono gli ultimi tocchi,
e nessuno si può dir cosa perfetta, come è un quadro
del Poliziano.
Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa in-
tera, come il Decamerone, fra le trentacinque sue opere.
Rimangono di bei frammenti, quadri staccati. Il secolo
finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che
lo riassume e lo comprende ne' suoi tratti sostanziali. Se
bassi a dir secolo un' età sviluppata e compiuta in sé in
' — 415 —
tutte le sue gradazioni, come un individuo, il primo se-
colo comprende il dugento e il trecento, il cui libro fon-
damentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia
col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi
nel cinquecento. Il Petrarca è la transizione dell' uno al-
l' altro.
Il quattrocento è un secolo di gestazione ed elabora-
zione. E il passaggio dall'età eroica all'età borghese,
dalla società cavalleresca alla società civile, dalla fede
e dalla autorità al libero esame, dall' ascetismo e sim-
bolismo allo studio diretto della natura e dell' uomo, dalla
barbarie scolastica alla coltura classica. Hai un muta-
mento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo
non si rende ben conto. Hai perciò un immenso reper-
torio di forme e di concetti; hai frammenti; manca il li-
bro; hai r analisi; manca la sintesi. Il secolo ha tendenze
varie e spiccate ; ma non ne ha la coscienza. Nella sua
coscienza ci è questo solo chiaro e distinto, che la per-
fezione e ne' classici, e che a quel modello bisogna con-
formarsi: onde lo studio della eleganza, della bella forma
in qualsivoglia contenuto. Perciò il grande uomo del se-
colo per confessione dei contemporanei fu Angiolo Poli-
ziano, che nelle Stanze si accostò più a quell'ideale classico.
Ma questo grande movimento, che più tardi si mani-
festò in Europa come lotta religios a, fu in Italia gene-
ralmente indifìferenza religiosa, morale e politica, con la
apoteosi della coltura e dell' arte. Il suo Dio è Orfeo, e
il suo ideale è l' idìllio, sono le Stanze. L' eleganza e il
decoro delle forme è accompagnato con la licenza dei
costumi, ed uno spirito beffardo,, di cui i frati, i preti
e la plebe fanno le spese. Non era una borghesia che si
andava formando: era una borghesia che già aveva avuta
la sua storia, e fra tanto fiore di coltura e d'arte si
dissolveva sotto le apparenze di una vita prospera e al-
legra. A turbare i baccanali sorse sullo scorcio del se-
— 416 — ,
colo frate Geronimo Savonarola, e parve P ombra scura
e vindice del medio evo che riapparisse improvviso nel
mondo tra frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boc-
caccio, Pulci, Poliziano, Lorenzo, e gli altri peccatori,
e rovescia il carro di Bacco e di Arianna, e ritta sul
carro della Morte tende la mano minacciosa e con voce
nunzia di sciagure grida agli uomini : Penitenza! Peni-
tenza I tra questo canto de' morti :
Dolor, pianto penitenza
Ci tormentan tutta via:
Questa morta compagnia
Va gridando; penitenza.
Fummo già come voi sietoS
Voi sarete come noi:
Morti Siam, come vedete ;
Cosi morti vedrem voi:
E di là non giove poi
Dopo il mal far penitenza.
La borghesia gaudente e scettica chiamò quella gente
i piagnoni, e quella gente pretese dal suo frate qualche
miracolo, e poiché il miracolo non fu potuto fare, si volse
contro al frate. Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco
era fra una borghesia colta e incredula e una plebe igno-
rante e superstiziosa. Su questi elementi non poteva edi-
ficar nulla il frate. Voleva ella restaurare la fede e i
buoni costumi facendo guerra a' libri , a' dipinti e alle
feste, come se questo fosse la causa e non 1' effetto del
male. Il male era nella coscienza, e nella coscienza non
ci si può metter niente per forza. Ci vogliono secoli,
prima che si formi una coscienza collettiva; e formata
che sia, non si disfà in un giorno. Chi mi ha seguito,
e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata que-
sta coscienza italiana, può giudicare qual criterio e quanta
buon senso fosse nell'impresa del frate. Nella storia c'è
— 417 —
r impossibile, come nella natura. E il frate, che voleva
rimbarbarire l'Italia per guarirla, era alle prese con Tim-
possibile.
Savonarola fu una breve apparizione. L' Italia ripigliò
il suo cammino, piena di confidenza nelle sue forze, or-
gogliosa della sua civiltà. Quaranta anni di pace, la lega
medicea tra Napoli, Firenze e Milaao, l' invenzione della
stampa , la digestione già fatta del mondo latino, 1' ap-
parizione e lo studio del mondo greco, la vista in lon-
tananza del mondo orientale, l'audacia delle navigazioni
e l'ardore delle scoperte, e tanto splendore e gentilezza
di corti a Napoli, a Firenze, a Qrbino, a Mantova, a
Ferrara, tanta prosperità e agiatezza e allegria della vita,
tanta diffusione ed eleganza della coltura e amore del-
l' arte avevano ravvivate le forze produttive indebolite
nella prima metà del secolo, e creato un movimento cosi
efficace di civiltà, che non potè essere impedito o trat-
tenuto dalle più grandi catastrofi. Spuntava già la nuova
generazione intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al
Poliziano. E i giovani si chiamavano Nicolò Machiavelli,
Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto, Leonardo da
Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni, tutta una
falange predestinata a compiere l'opera dei padri. L'un
secolo s' intreccia talmente nell'altro, che non si può dire
dove finisca l'uno, dove l'altro cominci. Sono una con-
tinuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso
ideale.
XII.
IL CINQUECENTO
Di questo ideale , di cui adombra i lineamenti Gio-
vanni Boccaccio, non hai finora che segni, indizi, fram-
menti. Il suo lato positivo è una sensualità nobilitata
dalla coltura e trasformata nel culto della forma come
De SanotiB-Lett. lUiI. Voi. 1. H
— 418 —
forma, il regno solitario dell' arte nell' anima tranquilla
e idillica: di che trovi l'espressione filosofica nell'acca-
demia platonica, massime nel Ficino e nel Pico, e V e-
spressione letteraria nell'Alberti e nelPoliziano, a cui con
pari tendenza, ma con minore abilità tecnica e artistica,
si avvicina il Boiardo. Il protagonista di questo mondo
nuovo è Orfeo, e il suo modello più puro e perfetto sono
le Stanze. Accanto al Poliziano, pittore della natura, sta
Battista Alberti, pittore dell'uomo. Attorno a questi due
spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici, rappresenta-
zioni pastorali e mitologiche : la beata Italia in quegli
anni di pace e di prosperità s' interessava alle sorti di
Cefalo, e agli amori di Ergasto e di Corimbo. Le acca-
demie, le feste, le colte brigate erano un'Arcadia lette-
raria, alla quale in quel vuoto e ozio degli spiriti il pub-
blico prendeva una viva partecipazione. A Napoli, a Fi-
renze, a Ferrara si vivea tra novelle, romanzi ed eglo-
ghe. Gli uomini , già cospiratori , oratori , patrioti , ora
vittime, ora carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori. E
mi spiego r infinito successo che ebbe V Arcadia del San-
nazzaro, la quale parve ai contemporanei l'immagine più
pura e compiuta di quell' ideale idillico. Ma di questo
Virgilio napolitano non è rimasta viva che qualche sen-
tenza fehcemente espressa, come :
L' invidia, fìgliuol mio, sé stessa macera.
Peggiora il mondo e peggiorando invetera.
Né della sua Arcadia è oggi la lettura cosa tollerabile,
e per la rigidità e artifìcio della prosa monotona nella
sua eleganza, e p^r un cotal vuoto e rilassatezza di azio-
•ne e di sentimexito, che esprime a maravigha quell'ozio
interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella
^placidità e tranquillità della vita, dove ponevano l'ideale
della felicità.
— 419 —
Il lato negativo di questo ideale era il comico, una sen-
sualità licenziosa e allegra e beffarda, che in nome della
terra metteva in caricatura il cielo, e rappresentava col
piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni ,
le malizie, le dabbenaggini, i costumi e il linguaggio delle
classi meno colte. Da questa coltura sensuale, cinica e
spiritosa usci quell' epiteto i piagnoni, che fu a Savo-
narola più mortale della scomunica papale. I canti car-
nascialeschi sono il tipo del genere ; il suo poeta è il Boc-
caccio; il suo storico è il Sacchetti ; il suo istrione è il
Pulci; il suo centro è Firenze. A questo lato negativo
si congiunge il Pomponazzo, che spezza ogni legame tra
cielo e terra, negando l' immortalità dell' anima. Era il
vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di
una società indifierente e materialista che si battezzava
platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva
il suo Papa, il suo Alessandro VI, che cosi bene la rap-
presentava, e non poteva perdonare al Pomponazzo di
dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella medesima
non si aveva fatta ancora la domanda : Cosa sono ? e
dove vado?
Questa società tra balli e feste e canti e idillii e ro-
manzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e co-
stretta a svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il Pon-
tano bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava
la sampogna, e la monarchia disparve, come per intrin-
jseca rovina , al primo urto dello straniero. Carlo Vili
correva e conquistava Itaha col gesso. Trovava un po-
polo che chiamava lui un barbaro , nel pieno vigore
delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma
vuota r anima e fiacca la tempra. Francesi , spagnuoli,
svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono T Itaha, insino a
che caduta con fine eroica Firenze, cesse tutta in mano
dello straniero. La lotta durò un mezzo secolo, e fu in
questi cinquant' anni di lotta che Y Italia sviluppò tutte
— 420 —
le sue forze , e attinse queir ideale che il quattrocento
le aveva lasciato in eredità.
All' ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e l'A-
riosto, come all' ingresso del trecento trovammo Dante.
Machiavelli aveva già trentun anno, e ventisei ne aveva
l'Ariosto. E sono i dae grandi nei quali quel movimento
letterario si concentra e si riassume, attingendo l'ultima
perfezione.
Gittando un' occhiata sull' insieme , è patente il pro-
gresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il greco
è generalmente noto , e non ci è uomo colto che non
iscriva corretto ed anche elegante in Ungua volgare, che
oramai si comincia a dire senz' altro hngua italiana. Ma
fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli ele-
menti locali e nativi e si avvicina al latino producendo
così quella forma comune di Unguaggio che Dante chia-
mava aulica e illustre. I letterati, sdegnando i dialetti e
vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino
la perfezione e il modello , secondo 1' esempio già dato
dal Boccaccio e da Battista Alberti, atteggiarono la lin-
gua alla latina. E non pur la hngua, ma lo stile, mi-
rando alla gravità, al decoro, all'eleganza, con grave
scapito della vivacità e della naturalezza. Questo con-
cetto della lingua e dello stile , creazione artificiosa e
puramente letteraria, ebbe seguito anche in Toscana, come
si vede ne' mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche
ne' sommi, come nel Guicciardini e fino talora nel Ma-
chiaveUi. La quale forma latina di scrivere sposata nel
Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e al brio del dialet*'
to, così nuda e astratta ha la sua espressione pedan-
tesca negli Asolarli del Bembo , e giunse a tutto quel
grado di perfezione , di cui è capace nel Galateo del
Casa e nel Cortigiano del Castighone. Ma in Toscana
quella forma artificiale di lingua è di stile incontrò dap-
prima viva resistenza , e sentì negU scrittori il sapore
— 421 -
del dialetto, quella non so quale attività, che nasce dal-
l' uso vivo , e che ti fa non solo parlare ma sentire e
concepire a quella maniera, come si vede nelle Novelle
del Lasca , ne' Capricci del Bottaio e nella Circe del
Gelli, neW Asino d'oro e ne' Discorsi degli Animali di
Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e là un
sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole,
come non mancano fra gli altri italiani uomini d'inge-
gno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza e alla gra-
zia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Strac-
cioni , nelle Lettere , nel Dafni e Cloe. La lotta durò
un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune
e illustre^ che battezzavano Hngua italiana, cioè a dire
tra la forma popolare o viva, ed una forma convenzio-
nale e letteraria. Anche in Toscana, gli uomini colti non
si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona,
come faceva il Lasca e Benvenuto CeUini, ma avevano
innanzi un tipo prestabilito, e cercavano una forma no-
bile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio
e lo stacco si fece sempre più profondo tra essa e il
popolo.
Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d'Italia spun-
tavano sonetti e canzoni. Le ballate, i rispetti, gli stor-
nelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono
a poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini
e donne. La posterità ha dimenticati i petrarchisti , e
appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche
epiteto di lode il Casa , il Costanzo , Vittoria Colonna ,
Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capi-
tanati da Pietro Bembo , boccaccevole e petrarchista ,
tenuto allora principe della prosa e del verso.
Certo , prose e versi erano nel loro meccanismo di
una buona fattura, e l'ultimo prosatore o rimatore scri-
vea più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrit-
tori de' secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene, e
— 422 ~
tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben
sonante, moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt'i
generi. Comparvero commedie , tragedie, poemi, satire,
orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi. Il
Trissino scrivea l' Italia liberata e la Sofonisba , Luigi
Alamanni faceva il Giovenale e Monsignor della Casa
contraffaceva Cicerone. Ai misteri successero commedie
e tragedie, con magnifica rappresentazione. E non solo
le forme del dire latine, ma anche la mitologia s' incor-
porava nella lingua , e si giurò per Iddìi immortali , e
Apollo, le Muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno,
Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri, divennero luoghi co-
muni in prosa ed in verso. Sapere il latino non era più
un merito ; tutti lo sapevano, come oggi il francese , e
mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo, o per
maggiore efficacia. Ci erano gì' improvvisatori, che nelle
Corti li su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie,
come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito qual-
che scudo 0 qualche bicchiero di buon vino, che Leo-
ne X dava annacquato al suo Archipoeta, un improv-
visatore di distici , quando il distico mal riusciva. E ci
erano anche non pochi, che conoscevano ottimamente il
latino e lo scrivevano con rara perfezione, come il San-
nazzaro, il Fracastoro e il Vida, i cui poemi latini sono
ciò che di più elegante sìesi scritto in quella lingua nei
tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.
Latinisti e rimatori erano le due più grosse schiere
de' letterati. Nelle loro opere l' importante è la frase, un
certo artificio di espressione, che riveli nell'autore col-
tura e conoscenza de' classici. I lettori non meno colti
ed eruditi rimanevano ammirati, trovando nel loro libro
le orme dei Boccaccio o del Petrarca , di Virgilio o di
Cicerone. Pareva questa imitazione il capolavoro dell'in-
gegno. E mi spiego come uomini assai mediocri furono
potuti tenere in cosi gran pregio, quali Pietro Bembo»
— 423 —
il capo -scuola, e Monsignor Guidiccioni, e Bernardo Tasso
e simili, noiosissimi. Ma la frase in tanta insipidezza del
fondo non poteva essere sufficiente alimento all'attività
di una borghesia così svegliata ed eccitata, che decorava
la sua sensualità e il suo ozio co' piaceri dello spirito.
Salse piccanti si richiedevano, fatti maravigliosi e straor-
dinarii, intrecciati in modo che stimolassero la curiosità
e tenessero viva 1' attenzione. L' intrigo diviene la base
delle novelle, de' romanzi, delle commedie e delle trage-
die , un intrigo cosi avviluppato che è assai vicino al
garbuglio. Si cerca ne' fatti il nuovo e lo strano , che
stuzzichi r immaginazione, il buffonesco e 1' osceno nella
commedia, il mostruoso e l'orribile nella tragedia. Dal-
l'una parte ci è la frase , vacua sonorità , dall' altra il
fatto , il vacuo fatto uscito dal caso ; e come la frase
oltrepassa l'eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo,
o leziosa e civettuola, come nel Firenzuola o nel Caro,
così il fatto per voler troppo stuzzicare diviene osceno
0 mostruoso , e sempre assurdo. Il realismo abbozzato
dal Boccaccio, sviluppato nel quattrocento, corre ora a
passo accelerato alle ultime conseguenze, la dissoluzione
morale e la depravazione del gusto. Ci è nella società
itahana una forza ancora intatta , che in tanta corru-
zione la mantiene viva, ed è nel pubblico 1' amore e la
stima della coltura , e negli artisti e letterati il culto
della bella forma, il sentimento dell'arte. In quella forma
letteraria e accademica vedevano gì' italiani una tradu-
zione della lingua viva, il parlare quotidiano idealizzato,
secondo quel modello dove ponevano la perfezione ed
eran larghi non pur di lodi ma di quattrini e di onori
a questi artefici della forma. I centri letterarìi moltipli-
carono ; comparvero nuove accademie ; e le più piccole
corti divennero convegni di letterati, i più oscuri prin-
cipi volevano il segretario che ponesse in bello stile le
loro lettore , e letterati e artisti che li divertissero. Il
— 424 —
centro principale fu a Roma , nella corte di Lpone X ,
dove convenivano d'ogni parte novellatori, improvvisa-
tori, buffoni, latinisti, artisti e letterati, come già presso
Federico IL Anche i Cardinali avevano segretarii e pa-
rassiti di questa risma ; anche i ricchi borghesi, come il
Conte Garabara di Brescia, il Chigi, i Sauli a Genova, i
Sanseverino a Milano. Intorno a Domenico Veniero in Ve-
nezia si aggruppavano Bernardo Tasso, Trifon Gabriele,
il Trissino , il Bembo, il Navagero , Speron Speroni ; a
Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il vecchio
Sannazzaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia. Da questi noti
s' indovini la caterva de' minori. Pensioni, donativi, im-
pieghi, abbazie, canonicati, era la manna che piovea sul
loro capo. E e' era anche la gloria, onorati, festeggiati,
divinizzati, e senza discernimento, confusi i sommi e i me-
diocri. Furono chiamati divini con Michelangelo e l'Ario-
sto Pietro Aretino, e il Bembo, e Bernardo Accolti, detto
anche l'Unico. Costui, fatto Duca, usciva con un cor-
teggio di prelati e guardie Svizzere, dove giungeva s' il-
luminavano le città, si chiudevano le botteghe, si traeva
ad udire i suoi versi dimenticati : tanti onori non furono
fatti al Petrarca. I Letterati acquistarono coscienza della
loro importanza; pitocchi e adulatori, divennero insolenti,
e si posero in vendita, e la loro storia si può riassumere
in quel motto di Benvenuto Cellini : Io servo a chi mi
paga. Come si facevano statue, quadri, tempii per com-
missioni, cosi si facevano storie, epigrammi, satire, so-
netti a richiesta, e spesso l' ingiuria era via a vendere
a più caro prezzo la lode. In quest'aria viziata g'i uo-
mini anche meno corrotti divenivano servili e ciarlatani
per far valere la merce. Non ci è immagine più stra-
ziante che vedere l' ingegno appiè della ricchezza, e udir
Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente VII, e
l'Ariosto gridare al suo Signore che non aveva di che
rappezzarsi il manto, e veder Michelangelo, quando, darei
— 425 —
tempi costretto. Eroi dipinse a cui fu campo il letfo^
sdegnose parole di Alfieri. Soverchiavano i me'diocri con
r audacia , la ciarlataneria, l' intrigo e la bassezza , ora
addentandosi, ora strofinandosi, temuti e corteggiati. Vec-
chia storia ; ed è a credere che la cosa fosse pure così
a' tempi di Federigo o di Roberto. Se non che allora la
dottrina era merce rara , e richiedeva molta fatica ad
acquistarla; dove ora la coltura ed il sapere era diffuso,
e lo scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero
meccanismo facile a imparare, che teneva luogo d' ispi-
razione, e per la somiglianza esteriore confondeva nella
stessa lode sommi e mediocri. Dì grandi uomini è pieno
quel secolo, se si dee stare a' giudizii de' contemporanei.
Francesco Arsilli nella sua elegia , De poetis urhanis,
ti dà la lista di cento poeti latini nella sola corte di
Leone X, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimen-
ticati. Bernardo Tasso, il Rucellai, l'Alamanni, il Gio-
vio, lo Scaligero, il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco,
€ altri infiniti furono tenuti cime d' uomini che oggi nes-
suno più legge. Pure ne' più, anche ne' mediocrissimi, era
viva la fede nella loro arte e lo studio di rendervisi per-
fetti. Venale era il Giovio e ossequioso cortigiano era
Bernardo Tasso, ma quando prendevano la penna e' era
qualche cosa nel loro animo che li nobilitava, ed era lo
studio della perfezione, il prendere sul serio il loro me-
stiere.
Quest' era la sola forza, la sola virtù rimasta intatta.
La corruzione e la grandezza del secolo non era merito o
colpa di principi o letterati, ma stava nella natura stessa
del movimento, ond' era uscito, che ora si rivelava con
tanta precisione, generato non da lotte intellettuali e no-
vità di credenze, come fu in altri popoli, ma da una pro-
fonda indifferenza religiosa, politica, morale, accompagnato
con la diffusione della coltura, il progresso delle forze
intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è il germe
— 426 —
della vita, e qui è il germe della morte; qui è la sua
grandezza e la sua debolezza.
Questo movimento è già come in miniatura tutto rac-
colto presso il Boccaccio , il quale se riproduce con vi-
vacità le apparenze non ne ha coscienza, e non sa qual
mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche
caricature. Del qual mondo nuovo appariscono i fram-
menti dal Sacchetti al Pulci, che ne fissano il lato ne-
gativo e comico, mentre il suo ideale trasparisce già nel-
l'Alberti, nel Boiardo, nel Poliziano. La violenta rea-
zione del Savonarola non fa che accrescere forza e ce-
lerità al movimento e dargli coscienza di sé. Il secola
decimosesto nella sua prima metà non è che questo me-
desimo movimento scrutato profondamente, rappresen-
tato nel suo insieme, e condotto per le varie sue forme
sino al suo esaurimento. È la sintesi che succede al-
l' analisi.
Quale il lato positivo di questo movimento ? È l'ideale
della forma amata e studiata con forma, indifferente di
contenuto.
E qual è il suo lato negativo ? È appunto l' indiffe-
renza del contenuto, una specie di eccletismo negli uni^
come Raffaello, Vinci, Michelangelo, il Ficino , il Pico,
che abbracciano ogni contenuto, perchè ogni contenuto
appartiene alla coltura, all'arte e al pensiero, eccletismo
accompagnato negli altri da una satira allegra e senza
fiele di quei principii e forme e costumi del passato an-
cora in credito presso le classi inculte.
Ciò che è divino in questo movimento è Y ideale della
forma, o per trovare una frase più comprensiva è la col-
tura presa in sé stessa e deificata. Il lato comico e ne-
gativo non è esso medesimo che una rivelazione della
coltura.
Il Limbo di Dante e l'amorosa Visione del Boccaccio
fanno già presentire quest'orgoglio di un' età nuova, che
— 427 —
comprendeva e glorificava tutta la coltura. Orfeo an~
nunzia al suono della lira la nuova civiltà, che ha la
sua apoteosi nella Scuola di Atene, ispirazione dantesca
di Raffaello, rimasta così popolare, perchè ivi è 1' anima
dpi secolo, la sua sintesi e la sua divinità. Questa Scuola
d* Atene con i tre quadri compagni, che comprendono
nel loro sviluppo storico teologia, poesia e giurisprudenza^
è il poema della coltura , di così larghe proporzioni, come
il Paradiso di Dante, aggiuntovi il Limbo. Il quadro di-
viene una vera composizione, come lo vagheggiava Dante
ne' suoi dipinti del Purgatorio: il suo santo Stefano e il
suo Davide hanno un riscontro nel Cenacolo, nella Sa-
cra famiglia, nella Trasfigurazione, nel Giudizio, poemi
sparsi qua e là di presentimenti drammatici. Il pittore
vagheggia la bellezza nella forma come l'Alberti o il
Poliziano, e studia possibilmente a non alterare con troppo
vivaci commozioni la serenità e il riposo dei lineamenti:
perciò riescono figure epiche anzi che drammatiche. Quel
non so che tranquillo e soddisfatto , che senti nelle stanze
del Poliziano, e ti avvicina più al riposo della natura
che all' agitazione d;ella faccia umana, quella pace tran-
quilla senz' alcun' affanno è 1' impronta di queste belle
forme; salvo che quella pace non è già simile a quella
che nel cielo india^ un ideale musicale, come Beatrice e
Laura, ma vien fuori da uno studio del reale ne' suoi
più minuti particolari. Senti che il pittore ha innanzi un
modello accuratamente studiato e contemplato con amore,
che nella sua immaginazione si compie, e prende quella
purezza e riposo di forma, che RaiTaello chiamava una
certa idea. In questa certa idea ci entra pure alcun
poco il classico, il convenzionale e la scuola; difetti ap-
pena visibiU ne' lavori geniali, usciti da una sincera ispi-
razione, dove domina il sentimento della bellezza e lo
studio del reale. Cosi nacquero le Madonne del secolo,
nella cui fisonomia non è l' inquietudine, 1' astrazione e
— 428 —
V estasi della santa, ma la ingenua e idillica tranquillità
della verginità e dell' innocenza.
Queste facce si vanno sempre più realizzando, insìno
a che nella immaginazione veneziana di Tiziano pigliano
una forma quasi voluttuosa.
La stessa larghezza di concezione nella purezza e sem-
plicità de' lineamenti trovi nell'architettura: il gotico è
debellato dal Brunelleschi; si collega insieme 1' ardito e
il semplice. Michelangiolo e Palladio. Chi ricordi in che
guisa l'Alberti rappresenta il duomo di Firenze può con-
cepire il San PietrOj la vasta mole, che è il medio evo
nella sua materia e il mondo nuovo ne' suoi motivi, la
vera e profonda sintesi di tutto quel gran movimento, la
che ti offriva nell' apparenza lo stesso mondo del passato,
quelle forme, quei nomi, quei costumi, que' concetti e
quella materia, pure sostanzialmente trasformato ne' suoi
motivi, uscito dalla coscienza, e divenuto un puro ideale
artistico, l'ideale della forma. Questa materia antica pene-
trata di uno spirito nuovo nella sua vasta comprensione
epica, dove trovi fusi tutti gli elementi della nuova ci-
viltà, ti dà anche la letteratura neìV Orlando Furioso,
La Scuola di Atene, il San Pietro, l'Orlando Furioso
sono le tre grandi sintesi del secolo.
L'Orlando Furioso ti dà la nuova letteratura sotto il
suo duplice aspetto positivo e negativo. E un mondo
vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali, un mondo
paro dell'arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo
dell' immaginazione 1' ideale della forma. L' autore vi si
travagha con la più grande serietà, non ad altro inteso
che a dare alla sua materia 1' ultima perfezione, cosi nel-
r insieme come ne' più piccoli particolari. Il poeta non
ci è più, ma ci è 1' artista che continua il Petrarca, il
Boccaccio, il Poliziano, e chiude il ciclo dell' arie nella
poesia. Ma poiché in fine questo mondo così bello, edi-
ficato con tanta industria, non è che un giuoco d' irama-
— 429 —
gìnazione, vi penetra un' ironia superiore, che se ne burla.
e vi si spassa sopra col più allegro umore. La parte
plebea che nel Decamerone occupa il proscenio, qui giace
ne' bassi fondi, con la sua oscenità e la sua buifoneria,
e sorge a galla il mondo della cortesia e del valore, nei
suoi più bei colori, ma accompagnato da questo sentimento^
che è un bel sogno: la realtà si fa valere e disfà il castella
incantato. È la visione severa di un' anima ricca che si
effonde in amabili fantasie, elegiaca nelle sue turbazioni,.
idillica nelle sue gioie , con non altro fine e non altra
serietà che la produzione artistica. Nelle arti figurative,.
la produzione è accompagnata con un perfetto obbho del-
l'anima nella sua creatura; Raffaello è tutto intero nella,
sua opera^ e non guarda mai fuori, e realizza la sua idea
con quella serietà con la quale Dante costruisce 1' altro
mondo. L' ideale della forma, che si esprime con tanta
serietà nelle arti, non ha ancora la coscienza che essa
è mera forma , mero giuoco d' immaginazione. Ma qui
r arte si manifesta e si sente pura arte , e sa che il
mondo reale non è quello, e accompagna con un sorriso
la sua produzione. In questo sorriso, in questa presenza
e coscienza del reale tra le più geniali creazioni è il lata
negativo dell' arte, il germe della dissoluzione e della
morte.
Intorno a questo mondo ariostesco pullulano poemi e
romanzi e novelle. Lascio stare il Girone e V Avarchide
dell'Alamanni, prette imitazioni, senza alcuna serietà.
Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il Tris-
sino e Bernardo Tasso. A tutti e due spiacque il sor-
riso ariostesco. Orlando e Rinaldo parvero al Trissino,
non altrimenti che al Duca d' Este, delle corbellerie, fole
e capricci di cervello ozioso. Cercando nella storia le
sue ispirazioni e in Omero il suo modello, scrisse Ylla-
Ha liberata da Goti. Nella sua intenzione dovea essere
un poema eroico e serio, come 1' iliade, che chiamasse
— 430 —
r Italia ad alti e virili propositi. Ma il Trissino non era
che un erudito, non poeta e non patriota, e non potea
trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua
anima , e nemmeno nella sua arida immaginazione. Di
eroico non e' è nel suo poema che le armi e le divise :
manca 1' uomo. La sua punizione fu il silenzio e la di-
menticanza, e il poveruomo, non volendo recarne la colpa
a difetto d' ingegao , se la piglia con V argomento , e
prorompe :
Sia maledetta 1' ora e il giorno, quando
Presi la penna e non cantai d'Orlando.
Ma l'argomento cavalleresco non valse a salvare dal
naufragio Bernardo Tasso, che nel suo Floridante e nel
suo Amadigi, più noto, vagheggiò una rappresentazione
epica più conforme a' precetti dell'arte, e lontana da ciò
<5h'egli diceva hcenza ariostesca. Non piacque al pubblico,
ma piacque a Speron Speroni, come il Girone era pia-
ciuto al Varchi. E il pubblico avea ragione: che non s'in-
tendeva di Aristotile e di Omero, e non potea pigliare sul
serio gli eroi cavallereschi, si chiamassero Orlando o Ama-
digi. Bernardo è tutto fiori e tutto mele, così artificiato
e prolisso lui, come il Trissino negletto e arido, tutti e
due noiosi. Piacque invece l' Orlando innamorato rifatto
dal Berni, dove la soverchia e uniforme serietà del testo
è temperata da forme ed episodii comici, appiccativi dal
Berni. Ma il comico non passa la buccia e non penetra
neir intimo stesso di quel mondo e non lo trasforma, e
il Berni mi fa l'effetto di quel bufi'one nelle commedie,
posto lì per far ridere il pubblico co' suoi lazzi, mentre
gU attori accigliati conservano la lor posa tragica.
Scrivere romanzi diviene un mestiere ; 1' epopea ario-
stesca è smembrata, e i suoi episodii diventano romanzi.
Sei ne scrive Lodovico Dolce tra' quali Le prime im-
— 431 —
prese di Orlando. Il Brusantini ferrarese canta Angelica
Innamorata, il Bernia canta Rodomonte , il Pescatore
Ruggiero, e Francesco de' Lodovici Carlo Magno. R; iman-
zi con la stessa facilità composti, applauditi e dimenti-
cati. Accanto agi' imitatori del Petrarca e dei Boccaccio
sorgono gli imitatori dell'Ariosto.
Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega
con r idilio, e nel suo lato negativo con la satira e la
novella.
Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l' idillio è la
vera Musa della poesia italiana, la materia nella quale
lo spinto realizza l' ideale della pura forma, 1' arte come
arte. In quella grande dissoluzione sociale la poesia la-
scia le città e trova il suo ideale ne' campi, tra ninfe e
pastori fuori della società, o piuttosto in una società
primitiva e spontanea.
Là trovi queir equilibrio interiore, quella calma e ri-
poso della figura, quella perfetta armonia de' sentimenti
e delle impressioni, che chiamavano l' ideale della bellezza
o della bella forma. Questo spiega la grande popolarità
delle Stanze, dove questo ideale si vede realizzato con
grande perfezione. Sono imitazioni la Ninfa Tiberina del
Molza e il Tirsi del Castiglione. Nella Ninfa Tiberina
hai di belle stanze : Euridice in fuga con alle spalle 1' in-
namorato Euristeo è cosi dipinta:
La sottil gonna in preda a' venti resta.
E col crine ondeggiando indietro torna.
Ella più che aura o più che strale presta
Per r odorata selva non soggiorna,
Tanto che il lito prende snella e mesta,
Fatto per la paura assai più adorna.
Esce Aristeo la vaga selva anch' egli,
È la man per avergli entro i capegli.
Tre volte innanzi la man destra spinse
Per pigliar delle chiome il largo invito ,
— 432 —
Tre volte il vento solaraente strinse,
E restò lasso senza fin schernito.
Maniera corretta , e nulla più. Manca in queste stanze
il movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la vo-
luttà idillica del Poliziano. La stessa parca lode è a fare
dei due poemi idillici, le Api del Rucellai e la Coltiva-
zione dell'Alamanni. Ci è la naturalezza, manca il sangue.
L* idillio fu la moda dell' Italia ne' suoi anni di pace
e di prosperità. Era il riposo voluttuoso di una borghe-
sia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita
privata , fra ozi e piaceri eleganti. Ora tra il rumore
delle armi, fra tante avventure e agitazioni della vita
sottentra il romanzo cavalleresco. L' idillio cessa di es-
sere un genere vivo, e va a raggiungere il platonismo
e il petrarchismo. Gli angeli e il paradiso , Giove e Apollo
le piagge apriche e i vaghi coUi, i languori di Tirsi e
le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e n'esce un va-
sto repertorio di luoghi comuni, dove attingono poeti e
poetesse: che di poetesse fu anche fecondo il secolo.
Il quattrocento ondeggiava tra l' idillio e il carnevale:
ozio di villa e ozio di città. La quiete idillica era il solo
ideale superstite nella morte di tutti gli altri, presso una
società sensuale e cinica^ la cui vita era un carnevale
perpetuo. Celebri diventano il carnevale di Venezia e il
carnevale di Roma. I canti carnascialeschi fanno il giro
d' Itaha. La buffoneria , 1' equivoco osceno , lo scherzo
grossolano diventano un elemento importante della let-
teratura in prosa e in verso, l' impronta dello spirito ita-
liano. Le accademie sono il semenzaio di lavori simili.
Esse rassomigliano quelle Uete brigate di buontemponi
e fannulloni, che ispirarono il Decamerone, modello del
genere. Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellet-
tuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i più
frivoli argomenti, tanto più ammirati per la vivacità dello
— 433 -
spirito e r eleganza delle forme, quanto la materia è più
volgare. Strani sono i nomi di queste accademie e di que-
sti accademici, come lo Impastato, il Raggirato, il Pro-
paginato, lo Smarrito ecc. E recitano le loro dicerie, o
come dicevano, cicalate sull' insalata, sulla torta, sulla
ipocondria, inezie laboriose. Simili cicalate fatte in verso
erano dette capitoli ; il Casa canta la gelosia : il Varchi
le ova sode ; il Molza i fichi : il Mauro la bugia ; il Caro
il naso lungo ; si cantano le cose più volgari e anco più
turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene, al modo
di Lorenzo, il maestro del genere. Il carnevale dalla
piazza si ritira nelle accademie, e diviene più attillato,
ma anche più insipido. Tra queste accademie era quella
dei Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro, il Casa,
il Molza, il Berni tra prelati e monsignori. Il Berni piacque
fra tutti., e si disputavano i suoi capitoli, e se li passavano
di mano in mano.
Francesco Berni, maestro e padre del burlesco stile,
detto poi bernesco, è 1' eroe di questa generazione, erede
di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo, nella sua sensualità
ornata dalla coltura e dall' arte. Nella sua ammirazione
per questo primo e vero trovatore dello stile burlesco,
il Lasca dice :
Non sia chi mi ragioni di Burchiello;
Chò saria proprio come comparare
Caron dimonio all' Agnol Gabriello.
Buontempone, amico del suo comodo e del dolce far
niente la sua divinità è 1' ozio più che il piacere :
Cacce, musiche, feste, suoni e balli,
Ginochi, nessuna sorte di piaceri
Troppo il movea
Onde il suo sonno bene era in iacore
Nudo, lungo, disteso ; e il suo diletto
Era il non far mai nulla e starsi in letto.
De Sanctis — Leu Ital. Voi. I. C3
— 434 —
Ma il pover uomo è costretto a lavorare per guada-
gnarsi la vita, e fa il segretario, come tutti quasi i
letterati di quel tempo, a' servigi di questo e quel car-
dinale :
Aveva sempre in seno o sotto il braccio
Dietro e innanzi di lettere un fastella,
E scriveva e stillavasi il cervelìo.
Dietro a' capricci del suo padrone, una volta non ne
può più, che ha sonno, e dee stare lì a guardarlo gio-
care la primiera :
Può far la nostra donna eh' ogni sera
Io abbia a stare a mio marcio dispetto
Infino alle undici ore, e andarne a letto
A petizioD di chi gioca a primiera?
Direbbon poi costoro: ei si dispera,
E a' maggiori di sé non ha rispetto:
Corpo di . . . io r ho pur detto,
Hassi a vegliar la notte intera intera?
La morte di Papa Leone gitta il terrore tra' letterati,
che vedono mancare la mangiatoia, e più quando il suc-
cessore è Adriano Vlspagnuolo, oltramontano, avaro, con-
tadino, e non so quanti altri epiteti gli appicca nella sua
indignazione il Berni:
Pur quando io sento dire oltramontano,
Vi fo sopra una chiusa col verzino,
Idest nemico del sangue italiano.
Era in fondo un brav' uomo, senza fiele, un buon com-
pagnone, col quale si passava piacevolmente un quarto
d'ora, anima tranquilla e da canonico, vuota di ambi-
zioni, e di cupidigie, e di passioni e anche d' idee. Sapea
di greco, e più di latino, e fece anche lui i suoi bravi
versi latini e i suoi sonetti petrarcheschi, come portava
— 435 —
il tempo. Scrivea il più spesso a sfog amento di cer~
vello, il maggior suo passatempo. Non cercava T ele-
ganza, per fuggire fatica , e gli veniva il sudor della
morte, quando si dovea ine iter la giornea e rispondere
per le consonanze o per le rime a lettere eleganti. Lo
scrivere stesso gli era fatica. A vivere avemo sino alla
morte, dice al Bini, a dispetto di chi non vuole, e il
vantaggio è vivere allegramente, come conforto a fcir voi,
attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per
Roma , e scrivendo sof)rattutto il manco che potete :
quia haec est Victoria guae vincit mundùm ». Si quali-
fica asciutto di parole , poco cerimonioso e intrigato
in servitii : oitimQ scuse alla sua pigrizia. E quando lo
assediano, e lo tormentano e si dolgono che non risponda,
e non li arai e li dimentichi, gli viene la stizza:
Perchè m' ammazzi con le tue querele,
Priuli mio, perchè ti duoli a torto,
Che sai che amo più te che l'orso il miélef
Sai che nel mezzo del petto ti porto
Serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
Più che non son le radici nell'orto:
Se ti lamenti perchè non ti ho scritto...
E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia e la let-
tera finisce con un eccetera. Benedetta pigrizia, che lo
fa parlare come gli viene alla bocca, e gli fa scriver
lettere, che sono un zucchero di tre cotte, intarsiate di
Ijrevi motti lathii per vezzo, le più saporite e semplici
e disinvolte in quel tempo de' segretarii che se ne scris-
sero tante e cosi sudate! E non bastava che dovesse
river lettere per forza, che volevano da lui anche i
capitoli e i sonetti con la coda. Fateci un capitolo sulla
primiera ! « Compare, scrive il poveruomo, io non ho po-
tuto tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori
(jucsto benedetto capitolo e commento della primiera, e
— 430 —
siate certo che l' ho fatto, non perchè mi consumassi di
andare in istampa, né per immortalarmi come il cava-
her Casive, ma per fuggire la fatica mia e la malevo-
lenza di molti che domandandomelo e non lo avendo, mi
volevano mal di morte. Avendogliel a dare, mi biso-
gnava 0 scriverlo o farlo scrivere; e 1' uno e F altro non
mi piaceva troppo per non mi affaticare e non m'obbh-
gare». Eccolo dunque costretto a fare il capitolo, e poi
a stamparlo ; eccolo immortale a suo dispetto. E scrisse
sulle anguille, i cardi, la peste, le pesche, la gelatina, e
sopra Aristotile, il quale
Ti fa con tanta grazia un argomento,
Che te lo senti andar per la persona
Fino al cervello e rimanervi drente.
Cosi venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vi-
vono eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso
e ameno. Il successo fu grande. Dicono, perchè era fio-
Tentino, e maneggiava assai bene la lingua. Ed è un dir
poco. Il vero è che il Berni ha una intuizione immediata
e netta delle cose, che rende vive e fresche con facilità
e con brio. Tra lui e la cosa non ci è nessun mezzo, o
imitazione, o artifìcio di stile, o repertorio; egli l'attinge
direttamente, secondo l' immagine che gU si presenta nei
cervello. E V immagine è la cosa stessa in caricatura ,
guardata cioè da un punto che la scopra tutta nel suo
aspetto comico. Il quale aspetto balza improvviso innanzi
alla nostra immaginazione, perchè non esce fuori a pezzi
e a bocconi da una descrizione, ma ti sta tutto avanti
per virtù di somiglianze o di contrasti inaspettati. Tale
è la pittura di maestro Guazzai etto, e la mula di Flo-
rimonte , e la bellezza della sua donna , contraffazione
della Laura petrarchesca. In questi ritratti a rapporti
non hai niente che stagni o langua; hai una produzione
— 437 —
continua, che ti tien desto e ti sforza a ire innanzi in-
sino a che il poeta trionfalmente ti accomiata :
Ora eccovi dipinta
Una figura arabica un* arpia,
Un uom fuggito dalla notomia.
Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa
in caricatura plebe e frati; e anche il Berni ci si prova
nella Catrìna e nel Mogliazzo, imitazioni caricate di par-
lari e costumi plebei, inferiori per grazia e spontaneità
alla Nencia. Ma la materia ordinaria del Berni è la ca-
ricatura della borghesia, in mezzo a cui viveva. Non è
più la coltura che ride dell' ignoranza e della rozzezza ;
è la coltura che ride di sé stessa; la borghesia fa la sua
propria caricatura. Il protagonista non è più il catti-
vello di Calandrino, ma è il borghese vano, poltrone,
adulatore, stizzoso, sensuale e letterato, la cui immagine
è lo stesso Berni, che mena in trionfo la sua poltrone-
ria e sensualità. L' attrattivo è appunto nella perfetta
buona fede del poeta che ride de' difetti propri e degli
altrui, come di fragiUtà perdonabili e comuni, delle quali
è da uomo di poco spirito pigharsi collera. li guasto
nella borghesia era già cosi profondo, e tanto era oscu-
rato il senso morale , che non si sentiva il bisogno del-
l' ipocrisia, e si mostravano servili e sensuah uomini per
altre parti commendevoli ; com'erano moltissimi lette-
rati e il nostro Berni, il dabbene e genlt'le Bevnì, dice
il Lasca , che si dipinge a quel modo con piena tran-
quillità di coscienza, e non pensa punto che glie ne possa
venire dispregio. Quando certi vizii diventano comuni a
tutta una società, non generano più disgusto e sono raa-
;^nifica materia comica, e possono stare insieme con tutte
le qualità di un perfetto galantuomo. Il Berni è poltrone
e sensuale e cortigiano, e non lo dissimula, ciò che fa-
rebbe ridere a sue spese, anzi lo mette in evidenza, co-
— 438 —
gliendone V aspetto comico, come fa un uomo di spirito,
che non crede per questo ne scapiti la sua riputazione.
Questa credenza o perfetta buona fede lo mette in una
situazione netta e schiettamente comica, si eh' egU con-
templa e vagheggia il suo difetto senz' alcuna preoccu-
pazione di biasimo e con perfetta libertà di artista. È
sottinteso che in questi ritratti berneschi non è alcuna
profondità o serietà di motivi; appena la scorza è in-
cisa; ci è la borghesia spensierata e allegra che non ha
avuto ancora tempo di guardarsi in seno, ed è tutto al
di fuori, nella superficie delle cose. Questa superficialità
e spensieratezza è anch' essa comica , è parte inevita-
bile del ritratto. Perciò la forma comica sale di rado
sino all'ironia e rimane semplice caricatura, un movi-
mento e calore d'immaginazione, com'è generalmente
ne' comici italiani, a cominciare dal Boccaccio. Dove non
è immaginazione artistica, il comico non si sviluppa, ed
il difetto rimane prosaico, e perciò disgustoso, come è
in tutti gli scrittori di proposito oso<3ni. Ne' ritratti del
Derni entra anche V osceno , ingrediente di obbligo a
quel tempo ; ma non è lì che attinge la sua ispirazione,
non vi si piace e non vi si avvoltola. Ciò che l' ispira,
non è il piacere dell' osceno, o la seduzione del vizio, ma
è un piacere tutto d' immaginazione e dà. artista , che
senti nel brio e nella facilità dello stile, e che mettendo
in moto il cervello gli fa trovare tanta novità di forme,
d' immagini e di ravvicinamenti, come è il ritratto della
sua cameriera, e 1' altro, un vero capolavoro, della sua
famiglia. Ecco perchè il Berni è tanto superiore a' suoi
imitatori ed emuU, freddamente osceni e buffoni. Pure la
buffoneria oscena diviene l'ingrediente de' banchetti, delle
accademie e delle conversazioni e invade la letteratura,
quasi condimento e salsa dello spirito : la statua di Pa-
squino diviene 1' emblema della coltura. Ci erano capitoli
e sonetti: sorgono poemi interi berneschi, com' è la Vt(a
— 439 —
di Mecenate del Caporali, di una naturalezza spesso in-
sipida e volgare, e il suo Yingrjio al Parnaso^ e la Gi^
gantea dell'Arrighi, e la Nanea del Grazzini, o i Nani
vincitori de' giganti. Di tanti poeti berneschi si nomina
oggi appena il Caporali. Nondimeno questa lirica berne-
sca è la sola viva in questo secolo. Gli stessi poeti pe-
trarcheggiando annoiano, e si fanno leggere piacevoleg-
giando ; perchè i loro sospiri d' amore escono da un re-
pertorio già vecchio di concetti e di frasi, e non. corri-
spondono allo stato reale della società e della loro ani-
ma ; dove in quel piacevoleggiare ci è il secolo, ci è loro,
e non ci è ancora modelli o forme convenzionali, e qual-
che cosa dee pnr venire dal loro cervello.
I canti carnascialeschi, come i rispetti e le ballate e le
serenate, erano legati con la vita pubblica ; ora il circolo
della vita si restringe; la vita letteraria è nelle accade-
mie e tra' convegni privati. Per le piazze si aggirano an-
cora i cantastorie, e si sentono canzoni plebee. Ma la
coltura se ne allontana e la trovi in corte o nell' acca-
demia, 0 nelle conversazioni, centri di allegria spensie-
rata e licenziosa ; però da gnnte colta, che sa di greco
e di latino, che ammira le belle forme, e cerca ne' suoi"
divertimenti l'eleganza, o come dicevasi, il bello stile.
Vi si recitavano capitoli, sonetti, poemi burleschi, poemi
di cavalleria e novelle. Come però l'arte è una merce
rara e la produzione era infinita, il pubblico diveniva
meno severo, e pur d'esser divertito non mirava tanto
pel sottile nel modo. In sostanza questa borghesia spen-
sierata e oziosa era sotto forme così Hnde vera plebe,
mossa dagli stessi istinti grossolani e superficiali, la cu-
riosità, la buffoneria, la sensualità, e quando quest' istinti
orano accarezzati,. accettava tutto, anche il mediocre, an-
che il pessimo : il che era segno manifesto di non lon-
tana decadenza.
Questa letteratura comica o negativa si sviluppa in
— 440 —
modo prodigioso. Accanto a' capitoli e a' romanzi molti-
plicano le novelle. Il cantastorie diviene l'eroe della boi-
ghesia. E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo, il De-
camerone. Il petrarchismo era una poesia di transizione,
che in questo secolo è un cosi strano anacronismo, come
l'imitazione di Virgilio odi Cicerone. Ma il Decamerone
portava già ne' suoi fianchi tutta questa letteratura, era
il germe che produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il
Berni, l'Ariosto e tutti gli altri.
Quasi ogni centro d' Itahaha il suo Decamerone. Ma-
succio recita le sue novelle a Salerno, il Molza scrive
a Roma il suo Decamerone, e il Lasca le sue Cene a Fi-
renze, e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommili, o cento
Favole, e Antonio Mariconda a Napoh le sue Tì^e gior-
nate^ e Sabadino a Bologna le sue Porr elane, e quat-
tordici novelle scrive il milanese Ortensio Landò, e Fran-
cesco Straparola scrive in Venezia le sue Tredici piace-
voli notti, e Matteo Bandelle il suo novelhere , e le
sue diciassette novelle il Parabosco. A Roma si stam-
pano le novelle del Cadamosto^ da Lodi, e di Monsignor
Brevio da Venezia. A Mantova si pubblicano le novelle
• di Ascanio de' Mori, mantovano, e a Venezia escono in
luce le sei giornate di Sebastiano Erizzo, e le dugento
novelle di Celio Malespini , gentiluomo fiorentino , e i
Giunti a Firenze pubblicano i Trai tenimenii ài ^c\\Aone
BargagU. Aggiungi la Giulietta di Luigi da Porto vi-
centino, e r Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.
Tutti questi scrittori, dal quattrocentista Masuccio sino
al Bargagli che tocca il seicento, si professano discepoli
e imitatori del Boccaccio. Chi se ne appropria lo spirito
e chi le invenzioni anche e la maniera. I Toscani, presso
1 quah il Boccaccio è di casa, scrivono con più libertà,
e ci hanno una grazia e gentilezza di dire loro propria,
che copre la grossolanità de' sentimenti e de' concetti: talo
è il Lasca, e il Firenzuola nelle novelle inserite ne' suoi
— 441 —
Discorsi degli animali, e nel suo Asino d'oro. Gli al-
tri procedono più timidi, e riescono pesanti come il Gi-
raldi e il Brevio e il Bargagli, o scorretti e trascurati,
come il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto. Il
linguaggio è quell' italiano comune che già si usava dalla
classe colta nello scrivere e talora anche nel parlare ,
tradotto in una forma artificiosa e alla latina che dice-
vasi letteraria, e solcato di neologismi, barbarismi, lati-
nismi, e parole e frasi locali, salvo ne' più colti, come è il
Molza, per speditezza e festività vicino a' toscani.
Quel bel mondo della cortesia che nel Decamerone
tiene si gran parte , rifuggitosi ne' poemi cavallereschi,
scompare dalla novella. E neppure ci è quello stacco tra
borghesia e plebe, quella coscienza di una coltura su-
periore, che si manifesta nella caricatura della pleb \ quel-
r allegrezza comica a spese delle superstizioni e de' pre-
giudizi frateschi e plebei, che tanto ti alletta nelle novelle
fiorentine e fino nella Nencia. Questo mondo interiore
scompare anch' esso. La novella attinge tutta la società
ne' suoi vizi, nelle sue tendenze , ne' suoi accidenti, con
nessun altro scopo che d' intrattenere le brigate con rac-
conti interessanti. L' interesse è posto nella novità e stra-
ordinarietà degli accidenti, come sono i mutamenti im-
provvisi di fortuna, o burle ingegnose, per far danari o
possedere 1' amata, o casi maravigliosi di vizi o di virtù.
Re, principi, cavaheri, dottori, mercanti, malandrini, scroc-
coni, tutte le classi vi sono rappresentate e tutt' i ca-
ratteri, comici e seni, e tutte le situazioni, dalla pura
storia sino al più assurdo fantastico. Sono migliaia di no-
velle, arsenale ricchissimo, dove hanno attinto Shakeo-
speare, Molière e altri stranieri.
La più parte di queste novelle sono aridi temi, ma-
gri scheletri in forma affettata insieme e scorretta. Lo
interessai. te è stimolare la curiosità del pubblico, e le suo
— 442 —
tendenze licenziose e volgari. Perciò hai da una parte
il comico e dall' altra il fantastico.
Nel comico, salvo i toscani, ne' quali supplisce la gra-
zia del dialetto, i novellieri mostrano pochissimo spirito.
Una delle novelle meglio condotte è la scimia del Ban-
dello, la quale si abbiglia co' panni di una vecchia morta,
e par dessa, e spaventa quelli di casa. II fatto è in se
comico, ma l'esposizione è arida e superficiale, e i sen-
timenti e le impressioni comiche ci sono appena abboz-
zate. C è una novella dì Francesco Straparola assai spi-
ritosa d' invenzione, dove si racconta il modo che tenne
un marito per rendere ubbidiente la moglie, e la sciocca
imitazione fattane dal fratello, novella che suggerì al Mo-
lière la Scuoia dei mariti. Ma di spiritoso non e' è che
r invenzione, forse neppur sua: così triviale e abborrac-
ciata è r esposizione. Un villano che fa la scuola ad un
astrologo è anche un bel concetto del Landò, ma scarso
di trovati e situazioni comiche. Pure il Landò è scrit-
tor vivace e rapido, e nelle descrizioni efficace e pitto-
resco. Il villano predice la pioggia; ma l'astrologo vedo
il cielo sereno. « Alzato il viso, guatava d' ogni intorno,
e diligentemente ogni cosa contemplando, s' avvide es-
sere il cielo tutto bello, il sole temperato, il monte netto
da nuvoU, e appresso s'accorse che l'austro nel soffiare
era dolcissimo , e cominciò attentamente a considerare,
in qual segno fosse il sole e in qual grado, che cosa stes^-e
nel mezzo del cielo, e qual segno stessegli in dritta li-
nea opposto. Nò potendo in verun modo conoscere che
pioggia dovesse dal cielo cadere, al villano rivolto disse
con ira e con isdegno: Dio e la Natura potrebbono far
piovere, ma la Natura sola non lo potrebbe fare ». So-
pravvenuta più tardi pioggia dirottissima, descrive le sue
rovine e i suoi effetti in questo modo : «Rovinarono torri,
sbarbicaronsi molte querce, caddero beUissimi palagi, tre-
mò tutta la riviera dell'Adige, parve che il cielo cadesse,
— 443 —
e che tutta la macchina mondana fosse per disciogUersi ».
Tutta la novella è scritta in questa prosa spedita e ani-
mata e si legge volentieri, ma il sentimento comico vi
fa difetto, né vi supplisce una lingua poetica e senza co-
lore locale. Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non
di spirito 0 di coltura o di arte, ma di lingua, essendo
il dialetto toscano, ricco di sali e di frizzi e di motti e
di modi comici, un istrumento giù formato e recato a
perfezione dal Boccaccio al Berni. Materia ordinaria <Iel
Lasca è la semplicità degli uomini to7tdi e grossi fatta
giuoco de' tristi e degli scrocconi. È la novella ne' ter-
mini che r aveva lasciata il Boccaccio. Il suo Calandriua
è Gian Simone o Gasparri , rigirati e beffati da scroc-
coni, che si prevalgono della loro creduhtà. 11 Boccac-
cio mette in iscena preti e frati, il Lasca astrologi, guar-
dando meno alle superstizioni religiose , che alle credenze^
popolari neir orco, tregenda e versiera, negli spiriti e
ne' diavoli. Oggi abbiamo i magnetisti e gli spiritisti; al-
lora e' erano i maghi o ^Xi astrologi, con la stessa pre-
tensione di conoscere l'avvenire e di guarire gì' infermi,
e conoscere i fatti altrui, e farti comparire i moiti o le
persone lontane: materia inesausta di ridicolo, non al-
trimenti che i miracoh de' frati. Se il Boccaccio mette in
gioco il mondo soprannaturale della religione, il Lasca
si beffa del mondo soprannaturale della scienza. Il fan-
tastico regna ancora qua e colà in Itaha ; ma a Firenze
era morto sotto l'ironia del Boccaccio, del Sacchetti, di
Lorenzo e del Pulci, né i piagnoni poterono risuscitarlo.
Il nostro Lasca non ha lo spirito e la finezza del Boc-
caccio, non ha ironia ed è grossolano nelle sue carica-
ture, ma è facile, pieno di brio e di vena, evidente, e
trova nel dialetto immagini e forme comiche belle e pronte,,
senza che si dia la pena di cercarle. Ecco magnifica pit-
tura dell' astrologo Zoroastro : « Era uomo di tientasei
in quarant' anni, di grande e di ben fatta perdona, di
— 444 —
colore ulivigno, nel viso burbero e di fiera guardatura,
con barba nera arruffata e lunga infino al petto, ghiri-»-
bizzoso molto e fantastico, aveva dato opera all' alchi-
mia, era ito dietro e andava tuttavia alla via degl'incanti;
aveva sigilli, caratteri, fìlattiere, pentacoli, campane, boc-
che e fornelli di varie sorte da stillare erba, terra, me-
talli, pietre e legni ; aveva ancora carta non nata, occhi
di lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di pesce
colombo, ossa di morti, capestri d' impiccati , pugnali e
spade che avevano ammazzato uomini, la chiavicola e il
coltello di Salomone, e erba e semi colti a varii tempi
della luna e sotto varie costellazioni , e mille altre fa-
vole e chiacchiere da far paura agli sciocchi; attendeva
all'Astrologia, alla Fisonoraia, alla Chiromanzia e cento
altre baiacce ; credeva molto nelle streghe, ma soprat-
tutto agli spiriti andava dietro, e con tutto ciò non aveva
inai potuto vedere né fare cosa che trapassasse V ordine
della natura, benché mille scerpelloni e novellacce in-
torno a ciò raccontasse e di farle credere s' ingegnasse
alle persone ; e non avendo nò padre, né madre, e assai
benestante essendo gli conveniva stare il più del t^mru>
solo in casa, non trovando ppr la paura né .serva, né
famiglio che volesse star seco, e di questo infra sé me-
ra vighosamt^ntegodea, e praticando poco, andando a casa,
con la barba avviluppata senza mai pettinarsi, sudicio
sempre e sporco, era tenuto dalla plebe per un gran fi-
losofo e negromante ». È un periodo interminabile, tirato
giù felicemente, dove, come in un quadro, ti sta dinanzi
tutta la persona, in una ricchezza di accessorii espressi
con una proprietà di vocaboli, che si può trovar solo in
un fiorentino. Struggersi d' amore è un sentimento serio
che il Lasca traduce in comico^ aggiungendovi le imma-
gini del dialetto : « la farò in modo innamorar di voi ,
eh' ella non vegga altro Dio e si consumi e strugga dei
fatti vostri, come il sale neh' acqua, e verrà dietro, più
— 445 —
che i pecorini al pane insalato». Parlando del banchetto
che tenne l'astrologo con i suoi compagni di giunteria,
10 Scheggia, il Pilucca e il Monaco, alle spese del can-
dido Gian Simone, dice; « e fecero uno scotto da pre-
lati, con quel vino che smagUava ». Se il Lasca dee molto
al dialetto, ha pure un pregio proprio che lo mette ac-
canto al Berni, una intuizione chiara e viva delle cose,
che te le dà scolpite in rilievo. Tale è i! viaggio per aria
del Monaco, come Zoroastro dà a credere al dabben Si-
mone: «Zoroastro si stese in terra boccone, e di>:se non
so che parole, e rittosi in piede e fatto du'^ tomboh si
arrecò da un canto del cerchio inginocchioni, e guar-
dando fìsso nel vaso, disse: Il Monaco nostro ha già ria-
vuto il resto , e vassene con l' insalata verso Pellicce-
ria per andarsene a casa; ma in questo istante io l'ho
fatto invisibilmente alzare ai diavoli da terra: oh eccolo
eh' egli è già sopra il vescovado; oh che gli vien bene,
egli è già sopra la Piazza di Madonna; oh ora egli ò
sopra la vecchia di Santa Maria Novella; testé entra in
Gualfonda ; oh eccolo a mezza la strada; oh egli è g'à
presso a meno di cinquanta braccia ; oli eccolo, eccola
già rasente alla finestra; or ora sarà nel cerchio in pia-
nelle, in mantello, in cappuccio, e con l' insalata e con
le radici in mano : e subito, messo un grandissimo strido,
cominciò ad urlare, quanto gliene usciva dalla gola».
11 nostro speziale, che colui che chiamavano il Lasca nella
accademia degli Umidi era appunto lo speziale Anton Ma-
ria Grazzini, dipinge con tanto rilievo gli oggetti, per-
chè \ì vede chiarissimi nell' immaginazione, e non si ha
a travagliare intorno alla forma, e non v' usa alcuno ar-
tificio, scrive parlando. Nò è meno evidente e parlante
nel dialogo. Simone, passata la paura e uscitogli tutto
r amore di corpo, non vuol più dare all' astrologo i ven-
ticinque fiorini promessogli. E dice allo Scheggia « Io ti
giuro sopra la fede mia che mi ò uscito Lutto V amor di
— 446 —
corpo, e della vedova non mi curo più niente. Oh che
vecchia paura ebb' io per un tratto ! e mi si arricciano
i capelli, quando vi ci penso, sicché pertanto licenzia e
ringrazia Zoroastro. Lo Scheggia, udite le di colui pa-
role, diventò piccino piccino, e pai-endogli rimaner scor-
nato, disse: Oimè, Gian Simone, che è quello che voi
mi dite ? Guardate che il negromante non si crucri. Che
diavol di pensiero è il vostro ? Voi an late cercando Ma-
ria per Ravenna; io dubito fortemente, come Zoroastro
intenda questo di voi, eh' egli non si adiri tenendosi uc-
cellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco: bella
cosa e da uomini dabbene mancar di parola ! Tanto è,
Gian Simone, egli non è da correrla così a furia : s'egli
vi fa diventar qualche animalaccio, voi avrete fatto poi
una bella l'accenda. Colui era già per la paura diventato
nel viso un panno lavato; e rispondendo allo Scheggia,
disse : per lo sangue di tutt' i diavoU che fo giuro d'as-
sassino, che domattina la prima cosa, io me ne voglio
andare agli Otto, e contare il caso, e poi farmi bello e
lodare, e non so chi mi tiene che non vada ora. Tosto
che lo Scheggia sentì ricordare gli Otto, diventò nel
viso di sei colori, e fra sé disse : Qui non è il tempo da
battere in camicia, facciamo che il diavolo non andasse
a processione; e a colui rivolto, dolcemente prése a fa-
vellare e disse : Voi ora, Gian Simone, entrate bene nel-
r infinito, e non vorrei per mille fiorini d' oro in beneficio
vostro, che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto.
Or non sapete che 1' ufficio degli Otto ha potere sopra
gli uomini , e non sopra demonii ? Egli ha mille modi
di farvi, quando voglia gliene venisse, capitar male, che
non si saprebbe mai ». Cosa manca al Lasca ? La mano
che trema. Scioperato, spensierato, balzano, vispo e svelto,
ci è in lui la stofi'a di un grande scrittor comico ; ma
gli manca il culto e la serietà deh' arte , e abbraccia e
tira giù come viene, e lascia a mezzo le cose, e si arresta
— 447 —
alla superfi-cie, naturale e vivace sempre, spesso insipido,
grossolano e trascurato, massime nell'ordito e nel disegno.
Questo basso comico, plebeo e buffonesco, ne' confini
della semplice caricatura^ perciò superiìciale ed esteriore,
ritratto di una borghesia colta, piena di spirito e d' im-
maginazione, e insieme spensierata e tranquilla, ha la
sua sorgente colà stesso onde usci il Morgan te, e poi i ca-
pitoli e i sonetti del Derni, è il bernesco nell' arte, buffo-
neria ingentilita dalla grazia e alzata a caricatura, ma-
niera sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca ,
infiltratasi nel dialetto e rimasta forma toscana. Nelle al-
tre parti d' Italia la buffoneria è senza grazia, spesso ca-
ricata troppo, e lontana da quel brio tutto spontaneità
e naturalezza, che senti nel Berni e nel Lasca. Tra' più
sgraziati è il Parabosco.
Col comico va congiunto il fantastico. Il novelliere, in
luogo di guardare nella vita reale e studiarvi i carat-
teri, i costumi, i sentimenti, cerca combinazioni tali di
accidenti che solletichino la curiosità. Per questa via dal
nuovo si va allo strano, e dallo strano al fantastico, al
soprannaturale e all' assurdo. Cosi una borghesia scet-
tica, che ride de' miracoli, che si beffa del soprannatu-
rale religioso a non vuol sentire a parlare di misteri e di
leggende, come forme barbare, sente poi a bocca aperta
racconti di fate, di maghi , di animali parlanti, che ten
gano desta la sua curiosità. Il Mariconda narra con se-
rietà rettorica i casi di Aracne, di Piramo e Tisbe e al-
tre favole mitologiche. E con la stessa serietà Francesco
Straparola raccoglie nelle sue Notti le più sbardellate
invenzioni di quel tempo, saccheggiando tutt' i novellieri,
Apuleio, Brevio, soprattutto il napolitano Girolamo Mor-
lino, autore di ottanta novelle in latino. Ivi trovi il fan-
tastico spinto all' ultimo limite dell' assurdo. Vedi un
anello trasformato in un bel giovane, pesci e cavalli o
falconi e bisce e gatte fatate che fanno maraviglie, o
— 448 —
satiri, e uomini salvatici, o in forma porcile, e morti
risuscitati, e asini e leoni in conversazione, e fate e ne-
gromanti e astrologi. Queste ch'egli chiama favole, si
accompagnano con altri racconti osceni o faceti, e come
egli dice, ridicolosi, e sono le solite burle fatte alla
gente semplice e grossa, o com' egli dice materiale. Il
pretesto è uno scopo di volgare morale o prudenza, un
fabula docet, ma in fondo V autore mira a render pia-
cevoli le sue Notti, eccitando il riso o movendo la cu-
riosità. Non mostra alcuna intenzione letteraria , salvo
nelle descrizioni, una goffa imitazione del Boccaccio; chia-
ma egli medesimo- ^«550 e dimesso il suo stilo e dice
che le invenzioni non son sue, ma suo è il modo di rac-
contarle. Non hai qui dunque contorcimenti , lenocinli ,
artificii, eleganze; è un narrare alla buona e a corsa,
in quella lingua comune italiana, di forma più latina che
toscana, mescolata di parole venete, bergamasche e an-
che francesi, come follare (foulerj per calpestare. Non
si ferma sul descrivere o particolareggiare, non bada ai
colori, salta le gradazioni, va diritto e spedito,- cercando
r effetto nelle cose, più che nel modo di dirle. E le cose,
non importa se di lui o di altri, contengono spesso con-
cetti molto originali, come Nerino, lo studente portoghe-
se, che .fa le sue confidenze amorose al suo maestro Bru-
nello , eh' egh non sa essere i^ marito della sua bella,
onde Molière trasse il pensiero della sua École des fem-
mes; o 1' asino che coi suoi vanti la fa al leone, o i ber-
gamaschi che con la loro astuzia la fanno ai dottori fio-
rentini ; 0 la vendetta dello studente burlato dalle donne;
0 Flaminio che va in cerca della morte ; o le nozze del
diavolo. Il successo fu grande ; si fecero in poco tempo
del libro più di venti edizioni; e di molte favole è rima-
sta anche oggi memoria. L' osceno , il ridicolo il fanta-
stico era il cibo del tempo: poi quella forma scorretta,
imperfetta, ma senza frasche e spedita soprattutto nel
— 449 —
vìvo del racconto dovea rendere il libro di più facile let-
tura alla moltitudine che non gii Ecatommiti del Giraldi,
e le novelle dell' Erizzo e del Bargagli, di una forma
artificiata e noiosa. Ma il successo durò poco. Anche la
Filenia del Franco fu tenuta pari al Decamerone, e di-
menticata subito. Manca 'allo Straparola il calore della
produzione, e ti riesce prosaico e materiale anche nel
più vivo di una situazione comica, o nel maggiore allet-
tamento dell'oscenità, o ne' movimenti più curiosi del
fantastico, come di uomini uccisi e rifatti vivi. Narra il
miracolo con quella indifferenza, che i casi quotidiani
della vita ; e mi rassomiglia un uomo divenuto per la
lunga consuetudine frigido e ottuso, che non ha più pas-
sioni, ma vizii. Chi vuol vederlo, paragoni le sue Nozze
del diavolo col Belfegor del Machiavelli, argomento
simile, e il suo studente vendicativo col famoso studente
del Boccaccio. E vedrà che a lui manca non meno il ta-
lento comico, che la virtù informativa. Ma che importa?
Non mira che a stuzzicare la sensualità e la curiosità'
e chi si contenta, gode. E per meglio avere l'uno e 1' al-
tro intento, aggiunge al racconto un enigma o indovi-
nello in verso, osceno di apparenza, e spiegato poi al-
trimenti che suona a prima udita. Cosi oggi i cervel-
li oziosi per fuggir la noia fanno o sciolgono sciarade
e rebus. Il fantastico era il cibo de' cervelli oziosi, non
meno che 1' enigma, o i tanti poemi cavallereschi. L'arte
era divenuta mestiere ; e pur di sentire fatti nuovi e stra-
ni, non si cercava altro. Ristorare il fantastico in mezzo
a una borghesia scettica e sensuale era vana impresa.
Nelle antiche leggende senti il miracolo, e senti il ma-
raviglioso ne' romanzi antichi di cavalleria : ora manca
r ingenuità e la semplicità, e 1' arte non può riprodurre
il fantastico che con un ghigno ironico, volgendolo in
gioco. Perciò la sola novella fantastica che si possa chia-
mare lavoro d' arte, è il Belfegor, il diavolo accompa-
Pe Sanotii - Lett. Ital. Voi. I. ÌH
— 450 —
gnato dal sorriso machiavellico. Cosa ha di vivo il diavolo
borghese e volgare dello Straparola, o la sua Teodosia,
che è la leggenda messa in taverna?
Se una ristorazione del fantastico non era possibile,
come poteva aversi una ristorazione del tragico? Ma ci
furono anche novelle tragiche con la stessa intonazione
del Decamerone , anzi della Fiammetta. E sono quelle
che potevano essere, fior di rettorica. D'immaginazione
ce n'era molta, ma di sentimento non ce n'era favilla.
Cosa di eroico o di affettuoso o di nobile poteva essere
tra quelle corti e quelle accademie, ciascuno sei pensi.
Chi desideri esempli di questa rettorica, vegga la Giu-
lietta di Luigi da Porto, o nel Bandello i monologhi di
Adelasia e Aleramo , o nell' Erizzo i lamenti di Re Al-
fonso sulla tomba di Ginevra. Come a svegliare i ro-
mani ci voleva la vista del sangue; a muovere quella bor-
ghesia sonnolenta e annoiata si va sino al più atroce e
al più volgare. La figliuola di Re Tancredi nel Boccac-
cio è una nobile creatura, ma sono mostri volgari la Ro-
smonda del Bandello, o l'Orbecche del Giraldi, che pur
non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono e non ti
agitano, per il freddo artificio della forma. Tra gli eleganti
elegantissimo è il Bargagli, che sceglie forme nobili e so-
lenni anche dove è in fondo cosa da ridere, come è la sua
Lavinella, situazione comica in forma seria, anzi oratoria.
Ciò che rimane di vivo in questa letteratura, non è
il fantastico, e non il tragico, ma un comico, spesso osceno
e di bassa lega e superficiale, che non va al di là della
caricatura e talora è più nella qualità del fatto che nei
colori. Alcuna volta ci è pur sentore di un mondo più
gentile, soprattutto nell' Erizzo e nel Bandello, come è
la novella di costui della reina Anna ; ma in generale
come nelle corti anche più civiH sotto forme decorose e
amabili giace un fondo licenzioso e grossolano, la no-
vella è oscena e plebea in contrasto grottesco con uno
— 451 —
stile nobile e maestoso, puro artificio meccanico. E uu
comico che a forza di ripetizione si esaurisce e diviene
sfacciato e prosaico. Il capitolo muore col Derni e la no-
vella col Lasca.
È il Decamerone in putrefazione. Il difetto del capi-
tolo è di cercare i suoi mezzi comici più nelle combi-
nazioni astratte dello spirito che nella rappresentazione
viva della realtà ; è lo stesso difetto del petrarchismo ; il
Petrarca del capitolo è Francesco Berni, e i petrarchi-
sti sono i suoi imitatori, che a forza di cercar rapporti
o combmazioni escono in freddure e sottigliezze. Il di-
fetto della novella è la sensualità prosaica e la vana cu-
riosità; senza ideali e senza colori e in una forma spesso
pedantesca e sbiadita. E capitolo e novella hanno poi un
difetto comune, la superficialità, quel lambire appena la
esteriorità dell' esistenza e non cercare più addentro, come
se il mondo fosse una serie di apparenze fortuite, e non
ci fosse uomo e non ci fosse natura. Essendo tutto un
giuoco d' immaginazione, a cui rimane estraneo il cuore
e la mente , la forma comica nella quale si dissolve è
la caricatura degradata sino alla pura buffoneria. Lo spi-
rito volge in giuoco anche quel giuoco d' immaginazione,
intorno a cui si travagliarono con tanta serietà il Boc-
caccio, il Sacchetti il Magnifico, il Poliziano, il Pulci, il
Berni, il Lasca, divenuto nel Furioso il mondo organico
dell' arte italiana, e traduce l' ironia ariostesca in aperta
buffoneria, avvolgendo in una clamorosa risata tutti gli
idoli dell' immaginazione, antichi e nuovi. La nuova arte,
uscita dalla dissoluzione religiosa, politica e morale del
medio evo, e rimasta nel vuoto innamorata di solo sé stes-
sa, come Narciso, va a morire per mano di un frate sfra-
tato, di Teofilo Folengo, muore ridendo di tutto e di so
stessa. La Maccaronea del Folengo chiude questo ciclo
negativo e comico dell' arte italiana^
Ma ci era anche un lato positivo. Mentre ogni spo-
— 452 —
ciò di contenuto è messa in giuoco, e l'arte cacciata
anche dal regno deirimmaglnazione si scopre vuota forma,
un nuovo contenuto si va elaborando dall'intelletto ita-
liano, e penetra nella coscienza e vi ricostruisce un mondo
interiore, ricrea una fede non più religiosa , ma scienti-
fica, cercando la base non in un mondo sopra naturale
e sopra umano, ma al di dentro stesso dell' uomo e della
natura. Pomponazzo negando l'esistenza degli universali,
rigettando i miracoli , proclamando mortale 1' anima , e
spezzando ogni legame tra il cielo e la terra pose ob-
biettivo della scienza l'uomo e la natura. Platonici e ari-
stotelici per diverse vie proclamavano 1' autonomia della
scienza, la sua indipendenza dalla teologia e .dal dogma.
La Chiesa lasciava Ubero il passo a tutta quella lette-
ratura frivola e oscena e a tutta quella vita licenziosa,
della quale era esempio la corte di Leone, ma non po-
tea veder senza inquietudine questo risvegliarsi dell* in-
telHgenza nelle scuole; il materialismo pratico, l' indiffe-
renza religiosa era spettacolo vecchio; ma la spaventava
quel materialismo alzato a dottrina, e V indifferenza di-
venuta aperta negazione, con quella ipocrita distinzione
di cose vere secondo la fede , e false secondo la scien-
za. Il concilio lateranense testimonia la sua inquietudine.
Leone X proclama eresia quella distinzione, proibisce V in-
segnamento di Aristotile, e sottopone i libri alla censura
ecclesiastica. A che prò? Il materialismo era il motto
del secolo. Leone X stesso era un materialista, come fu
Lorenzo con tutto il suo platonismo. Né altro erano il
Pulci, il Derni, il Lasca, e gli altri letterati, ancoraché
si guardassero di dirlo. Alcuni manifestavano con fran-
chezza la loro opinione, come Simone Porta ^ Lazzaro
Bonamico, Giulio Cesare Scaligero, Simone Porzio, An-
drea Cesalpino, Sperou Speroni, e quel professore Cremo-
nino da Cento che. fé' porre sulla sua tomba: Hicjacet
Cremonìnus totus. Quando gli studenti avevano innanzi
^ ^53 —
un professore nuovo, e lo vedevano nicchiare, gli dice-
vano subito: Cosa pensate deU' anim;i^
Quando il materialismo apparve, la società era già ma-
terializzata. Il materialismo non fu il principio, fu il ri-
sultato. Fino a quel punto il dogma era stato. sempre la
base della fìlosotia e il sue passaporto. Era un sottin-
teso che la ragione non poteva contraddire alla fede, e
quando contraddizione appariva, si cercava il compro-
messo, la conciliazione. Cosi poterono lungamente vivere
insieme Cristo e Platone, Dio e Giove: tutta la coltura
era unificata nell'arte e nel pensiero, e non si cercava
con quanta logica e coesione e con quanta buona fede.
In nome della cultura si paganizzavano le forme catto-
liche anche da' più pii, come ne' loro poemi sacri face-
vano il Saunazzai'^ e il Vida^ si paganizzò anche san Pie-
tro, e paganizzava anche Leone X. Tutto questo era
arte, era civiltà, e non solo non era impedito, anzi pro-
mosso e incoraggiato; farvi contro non si poteva senza
aver taccia di barbaro e incolto. E si tollerava pure Pa-
squino, voglio dire quella buffoneria universale le cui mag-
giori spese le facevano preti, frati, vescovi e cardinali.
In quella corruzione cosi vasta soprattutto nel Clero
era il caso di dire: petwmsque damusque vicissim ; e
tutti ridevano, e primi i beffati. Di cose di religione non
si parlava, e quando era il caso le si faceva di berret-
to, se ne o.*::5ervavano le forme e il linguaggio per l'an-
tica abitudine senza darvi alcuna importanza. Sotto \\
manto dell' indifferenza ci era la negazione. In quel vuoto
immenso non rimaneva altro in piedi, che la coltura come
coltura e 1' arte come arte. Ed era appunto la negaziuna
che appariva nell' arte sotto forma comica , e formava
il suo contenuto. Che cosa èra quell' arte? Era il ri-
tratto dello spirito italiano. Era la contemplazione dj
una forma perfetta nella indifferenza o negazione del con-
tt'iiuio. La società vagh<'ggiava noli' arte se btebsa.
— 454 -
Ma era una società spensierata e accademica che non
si era ancora guardata al di dentro, non si avea fatto
il suo esame di coscienza. E quando per la prima volta
gitta l'occhio entro di sé e domanda: Che sono dunque?
onde vengo? ove vado? la risposta non poteva essere
altra che questa: Sono corpo: vengo dalla terra e torno
alla terra, V alma parens, la gran madre antica. Qu-^sta
risposta dapprimi fa rabbrividire: sembra una scoperta,
ed è un risultato. E invade le università e si attira i
fulmini del Concilio. Zitto! grida la borghesia gaudente
e spensierata che non volea esser turbata nel suo alto
sonno. E la cosa rimase h. Intus ut libet, foris ut moris,
diceva Cremonino. Credete come volete, ma parlate corno
parlano. E le audacie dnl Vallo e del Pompouazzo si per-
dettero nel rumore de' baccana'i. Ci eri la cosa, ma non
si voleva la parola. Materialismo era in tutto, njlla vita,
nelle lettere, nelle sue applicazioni alla mirale, alla po-
litica, all' uomo e alla natura. Ma non si chiamava ma-
terialismo. Si chiamava coltura, arte, erudizione, civiltà,
bellezza, eleganza: ipocrisia in alcuni, in altri corta in-
telligenza. Cosi si viveva tutti in buon accordo e alle-
gramente, e quando veniva la bile ci era lo sfogatoio ,
permesso di dir male de' preti e anche del papa, e di ab-
bandonarsi a tutt' i piaceri corporali, and indo a m3ssa,
facendosi il segno della croce e gridando contro gli ere-
tici, e specialriiente contro i signori luterani che con le
l()ro malinconie teologiche minacciavano il mondo di una
nuova barbarie. Pigliare sul serio la teologia! questo
per i nostri letterati era un tornare indietro di due secoli.
Fu appunto in quel tempo che Lutero, spaventato come
Savonarola alla vista di sì vasta corruttela italiana ,
proclamò la riforma, e regalò al mondo una teologia pur-
gata ed emendata. Se innanzi al Papato fu un eretico^
alla borghesia italiana apparve un barbaro, come Savo-
narola. E ia verità la sua teologia era in una vera con-
— 4oj —
traddizinne con la civiltà italiana , avendo per base la
reintegrazione dello spirito e l' indifferenza delle forme,
cioè a dire negando quella sola divinità che era rimasta
viva nella coscienza italiana, il culto della forma e del-
l'arte. Una riforma religiosa non era pù p()>sil)ilH in un
paese coliissimo, avvezzo da liuigo tempo a riden^ di
quella corruttela, che moveva indigi!;»ziore in Gm mania,
e. che uvea già cancellato nel suo pensiero il Ci* I • dal
1 bro dell' esistenza. L'Italia avea già valica l'età te.)-
iogica, e non credeva più che alla scienza, e dovea sti-
mare i Lutero e i Calvino come de' nuovi scolastici. Per-
ciò la Riforma non potè attecchire fra nd e rimase estra-
nea alla nostra coltura, che si sviluppava con mezzi suoi
proprii. Affrancata già dalla teologia, e abbracciando in un
solo amplesso tntr,e le religioni e tutta la coltura, l'I-
tdia del Pico e del Pomponazzo, assisa sulle rovine de]
medio evo, non j)()tea chiedere le base del nuovo edifi-
cio alla teol()gia, ma alla scienza. E il suo Lutero fu Ni- '
colò ÌNlachiavelli.
11 Machiavelli è la coòcieiiza e il pensiero del secolo,^
la società ehe guarda in sé e s' interroga, e si conosce;
è la negazione })iù profonda del medio evo, e insieme
1' affermazione più chiara de' nuovi temj)i ; è il materia-
lismo dissinmlato come dottrina, e annnesso nel fatto e ^
presente in tutte le sue applicazioni alla vita. o
Non bisogna dimonticare che la nuova civiltà italiana
è una reazione contro il misticismo e l'esagerato spiri-
tualismo religioso, e per usare vocaboh propi'i, contro
l'ascetismo, il simbolismo e lo scolasticismi): ciò che di-
cevasi il medio evo. La l'eazlone si presentò da una parte
come dissoluzione o negazione: di che venne l'elemento
comico V. negativo che dal Decamerone va sino alla INlac-
caronea. Ma insi« me ci era un lato positivo, ed: era una
tendenza a considerare Y uomo e la natura in sé stessei
risecando dalla vita tutti gli elementi soprauiuaiii e so-
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prannaturali , un naturalismo aiutato potentemente dal
culto de' classici e dal progresso delF iiiterigen/a e delia
coltura.: Onde venne quella tranquillila idea e della ii.-^o-
nomia, quello studio del reale e del pUist'co , quella iini-
l^tezza dei contorni, quel sentimento idillico della natn'a
e dell' uomo, che die nuova vita alle arti delio s{>azio, e
che senti ne' ritratti dell'Alberti, nelle Stanze, nel Fu-
rioso e fino negli scherzi del Derni. Qu* feto era il lati>
positivo del materialismo italiano, un andar più da{ presso
al reale ed alla esperienza, dato bando a tutte le ni b-
bie teologiche e scolastiche che pai'vero astrazioni. Il
pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo e in quello
che negava e in quello che uffei'mava è il Mach;aveir.
^ Il concetto del Machiavelli e questo, che bi&ogna con-
siderare le cose nella loro verità effettuale, cioè come
son poste dall' esperienza ed osserva te dall' intelletto : che
era proprio il rovescio del sillogismo e la base dottri-
nale del medio evo capovolta : concetto ben altrimenti
rivoluzionario che non è quel ritorno al puio spirilo della
Riforma e che sai'à la leva da cui usrirà la sciin/a mo-
derna.
Questo concetto applicato all' uomo ti dà il Principe
e i Discorsi, e la Storia di Firenze e i Dialfjr/ /ti ìsuihi
milizia. E il Machiavelli non ha bisogno di dimOitrailo:
te lo dà come evidente. Era la parola del secolo ch'egli
trovava e che tutti riconoscevano.
Così nasce la scienza dell'uomo, non quale può o dee
essere, ma quale è; dell'uomo non solo come individuo,
ma come essere collettivo, classe, popolo, società, uma-
nità. L'obbiettivo della scienza diviene la conoscenza del-
l' uomo, il nosce te ipsum, questo primo motto de la scienza
quando si emancipa dal soprannaturale e pone la sua in-
dipendenza. Tutti gU universali del medio evo fcCon)[a-
riscono. La divina Commedia diviene la commedia umana
9 si rappresenta in terra, si chiama storia, politica, Ilio-
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sofia della storia, la scienza nuova. La scienza della na
tura si sviluppa più tardi. Non si crede più al miracolo,
ma si crede ancora all' astrologia. Attendete ancora un
poco , e il concetto del Machiavelli applicato alla natura
vi darà Galileo e V illustre coorte dei naturalisti.
Non è il caso di disputare sulla verità o falsità delle
dottrine. Non fo una storia e meno un trattato di filo-
sofìa. Scrivo la storia delle lettere. Ed è mio obbligo
notare ciò che si move nel pensiero italiano ; perchè quello
solo è vivo nella letteratura, che è vivo nella coscienza
Da quel concetto esce non solo la scienza moderna
ma anche la prosa. Come nella scienza ci aveva ancora
molta parte T immaginazione, la fede, il sentimento; cosi
nella prosa erano penetrati elementi etici, rettorie!, poe
tici, chiusi in quella forma convenzionale boccaccevole
che dicevasi forma letteraria, ed era già divenuta 7na-
mera, iiii V^rc' meccanismo. Ma il Machiav^»Jjj spezza
questo involucro, e crea il modello ideale della prosa,
tutta cose e intelletto, sottratta possibilmente all' influsso
dell'immaginazione o del sentimento, di una struttura
solida sotto un' apparente sprezzatura.
E da quel concetto dovea uscire anche un nuovo cri-
terio della vita e perciò dell'arte. L'uomo e lanatuia
hanno nel medio evo la loro base fuori di sé, nell'altra
vita; le loro forze motrici sono personificate sotto nome
di universali ed hanno un' esistenza separata. Questo con-
cetto della vita genera la Divina Commedia. La mac-
china della storia ò fuori della storia ed è detta la Prov-
videnza. Questa macchina è nel mondo boccaccesco il
caso, la fortuna. Non ci è più la Provvidenza, e non ci
è ancora la scienza. Il maraviglioso non è più detto mi-
racolo, anzi del miracolo si fanno bette ; ma è dcìtto in-
trigo, nodo, accidente straordinario. Le passioni, i carot-
teri, le idee non sono forze che regolano il mondo, f^r-
pratTatte da questo nuovo fato, la volubile e capi ice o».i
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fortuna. Il Machiavelli insorge e contro la fortuna, e
contro la Provvidenza, e cerca nell' uomo stesso le forze
0 le leggi che lo conducono. Il suo concetto è che il
mondo è quale Io facciamo noi, e che ciascuno è a sé
stesso la sua provvidenza e la sua fortuna. Questo con-
cetto dovea profondamente trasformar V arte.
La poesia italiana usciva dal medio evo libera da ogni
ingombro allegorico e scolastico, ma insieme vuota di
ogni contenuto, forma pura. 11 suo vero contenuto e ne-
gativo, cioè a dire il ridere del suo contenuto, consi-
derarlo come un giuoco d'immaginazione, un esercizio
dello spirito. Questo doppio elemento dell'arte è detto
dal Cecchi il ridicolo e il grupposo, intendendo per grup-
poso il nodo, l'intreccio, la varietà e novità de' casi. Di
questo maraviglioso perseguitato dal ridicolo ti dà il Ma-
chiavelli splendido esempio nel suo Belfegor. La novella,
il romanzo, la commedia sono il teatro naturale di que-
sta poesia, la divina Commedia dell' arte nuova. Ma nel
concetto del MachiavelU la vita non è una farsa della
Provvidenza, e non è il giuoco capriccioso della fortuna,
ma è regolata da forze o da leggi umane e naturali. Per-
ciò la base dell'arte non è 1' avventura e l' intrigo, ma
il carattere; e se volete vedere quello che sarà, guar-
date quali sono gh attori, e quali le forze che mettono
in giuoco. L' arte non può starsi contenta alla semplice
esteriorità, e presentare gli avvenimenti come un ac-
cozzo fortuito di casi straordinarii, ma dee forare le su-
perficie e cercare al di dentro dell' uomo quelle cause
che sembrano provvidenziali o casuali. Cosi T arte non e
un vano e ozioso gioco d'immaginazione, ma è rappresen-
tazione seria della vita nella sua realtà non suio este-
riore, ma interiore. E quest' arte che cerca la sua base
nella scienza dell' uomo, ti dà la Mandrogc^ra e la Sto-
ria di Firenze, e più tardi la Stona d Italia dei Guic-
ciardini, e i suoi Ricordi.
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A questo modo si realizza questa grand' epoca, detta
il Risorgimento, che dal Boccaccio si stende sino alla se-
conda metà del secolo decimosesto. Da una parte, mancati
tutti gì' ideali, religioso, politico, morale, e non rimasta
nella coscienza altra cosa salda che 1* amore della col-
tura e dell' arte, il contenuto non ha alcun valore in sé
stesso, e diviene una materia qualunque trattata a libito
dall' immaginazione , che ne fa la sua creatura e spesso
anche il suo gioco, un gioco che ha la sua idealità nel-
r ironia ariostesca, e trova la sua dissoluzione nella cari-
catura della. Maccaronea. Mentre T arte produce i suoi
miracoli nella piena indifferenza del contenuto, come pura
arte, un nuovo contenuto si forma e penetra nella co-
scienza, uno studio dell' uomo e della natura che cerca
la sua base nell'esperienza, e non nell'immaginazione e
nelle vane agitazioni. Questo senso profondo del reale
ti crea la scienza e la prosa, e ti segna nella Mandra-
gora un nuovo indirizzo dell' arte.
Se dunque vogliamo studiar bene questo secolo, dob-
biamo cercarne i segreti ne' due grandi, che ne sono la
sintesi, Ludovico Ariosto e Niccolò Machiavelli. l
FINE DEL PRIMO VOLUME.
INDICE
I. I Siciliani , pag. \
H. I Toscani » 19
IH. La Lirica di Dante » 59
IV. La Prosa » 74
V. I Misteri e le Visioni » 87
VL II Trecento » 1 il
VII. La Commedia . . . , > 151
VIIL II Canzoniere » 262
IX. Il Decamerone , . . . » 287
X. L' ultimo trecentista » 357
Xr. Le Stanze » 365
XII. Il Cinquecento » 417
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