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Full text of "Storia di Crema"

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STORIA  DI  CREMA 


STORIA 


DI  CREMA. 


PER 


FRANCESCO  SFORZA  RENVENUTI 


La  storia  è  quadro,  canto,  giudizio. 
Tommaseo. 


VOLUME    PRIMO 


MILANO 

COI  TIPI  DI  GIUSEPPE  BERNARDONI  DI  GIO. 

1859, 


Digitized  by  the  Internet  Archive 
in  2013 


http://archive.org/details/storiadicrema01sfor 


$4 


PREFAZIONE 


Un  tempo  correva  fra  gli  scrittori  la  moda  delle 
lettere  dedicatorie,  ora  sciorinansi  prefazioni:  delle 
ime  e  delle  altre  deplorabile  l'abuso.  Nei  secoli  tras- 
corsi ben  di  rado  stampatasi  un  opuscolo  che  non 
fosse  inaugurato  al  nome  di  qualche  gran  baccalare  : 
ordinariamente  era  un  cavaliere  di  schietta  nobiltà 
con  lunga  coda  di  titoli,  perocché  gli  uomini  di  let- 
tere cercavano  protettori  nel  patriziato,  quasi  con- 
fidassero ,  portati  sulle  spalle  di  un'  Eccellenza ,  di 
raggiungere  più  sicuri  la  meta  dell'immortalità. 
L'illustre  mecenate  ambiva  incensi  che  la  gentilizia 
vanità  solleticassero,  e  gli  scrittori  lo  satollavano  di 
lodi,  baje,  adulazioni.  Quante  favole  s'innestarono 
all'albero  delle  genealogie!  quante  si  sono  raccon- 
tate imprese  d'  eroi  fantasticati  !  tutte  fole  per  divi- 
nizzare la  culla  del  nobilissimo  mecenate.  Per  tal 
modo  gli  scrittori,  devoti  all'oro  ed  alle  insegne  dei 
blasoni,  tradivano  il  sacro  ministero  della  letteratura, 
macchiando  le  prime  pagine  dell'  opera  loro  con 
isguaiate  menzogne. 

Nell'età  nostra,  alle  ampollose  dediche  gli  autori 
sostituirono  lunghissime  prefazioni ,  esponendosi  al 
pericolo ,  col  discorrere  stemperatamente  del  proprio 
lavoro ,  di  adulare  sé  medesimi.  Fu  progresso  ?  Ad 


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—  6  — 

altri  il  pronunciarne  sentenza.  Io  profitterò  del 
moderno  vezzo  delle  prefazioni  per  dire  brevemente 
da  quali  eccitamenti  fui  sedotto  a  compilare  e  pub- 
blicare la  storia  di  Crema. 

La  compilai  per  deliziarmi  nello  studio  della  sto- 
ria ,  beato  di  spaziare  coli'  immaginazione  nei  secoli 
che  furono,  assidermi  sulle  tombe  dei  padri  nostri, 
interrogarli  e  ridirne  gli  anni  che  gioirono  fra  lo 
splendore  della  gloria  e  i  molti  stentati  nel  dolore. 
Glorie  e  sventure  sono  la  corona  dei  popoli  incivi- 
liti, degli  Italiani  principalmente.  Mi  rammentai 
come  un  forte  ingegno  C1)  dalla  cattedra  di  Pavia 
raccomandasse  alla  gioventù  lo  studio  della  storia 
dicendo:  Italiani,  io  vi  esorto  alle  storie ,  perchè 
niun  popolo  più  di  voi  può  mostrare  né  più  ca- 
lamità da  compiangere ,  né  più  errori  da  evitare , 
oiè  più  virtù  che  vi  facciano  rispettare ,  ne  pnv 
grandi  anime  degne  d'essere  liberate  dall'oblivione. 

Pubblico  il  mio  lavoro ,  confidando  ne  possa  tor- 
nar gradito  il  subietto  a  chi  si  diletta  di  storia  na- 
zionale. Non  V  è  palmo  di  terra  in  Lombardia  che 
non  abbiali  consacrato  memorie  d' illustri  fatti ,  di 
lunghe  sofferenze,  di  magnanimi  sagrifici.  Nondi- 
meno è  pur  forza  confessare,  che  poche  sono  le 
storie  delle  città  italiane,  mentre  ne  abbondano  le 
cronache.  Senza  essere  irriverenti  alla  fama  di  tanti 
benemeriti  cronisti ,  i  quali  ci  hanno  tramandato  gli 
avvenimenti  che  segnalarono  epoche  a  noi  lontane, 
si  può  negare  il  nome  di  storie  a  libri  ove  narransi 

(1)  Ugo  Foscolo,  Discorso  sull'ufficio  della  letteratura. 


i  Gatti  nudamente .  Bensa  dimostrarne  le  origini ,  i 
rapporti,  Le  conseguenze:  ove  protagonista  è  la  terra, 
non  i  cittadini  ohe  la  popolarono,  e  si  discorre 
,i  sazietà  dei  pochi  clic  v'ebbero  impero,  scarsa- 
mente dei  moli  issimi  che  lo  subirono. 

Crema  onorano  due  egregi  scrittori  delle  sue  me- 
morie, Pietro  Terni  ed  Aleniamo  Fino.  Vasta  e  la 
cronaca  lasciataci  dal  primo,  eleganti  ed  eruditi  i 
lavori  del  Fino,  che  assunse  di  compendiare  il  Terni. 
Si  può  dire  che  le  cronache  dell'uno  e  dell'altro 
tocchino  l' altezza  della  storia  ?  No  certamente. 
Leggendo  Terni  e  Fino  tu  non  impari  ancora  a 
ben  conoscere  l'indole  del  popolo  cremasco  nei  di- 
versi tempi ,  la  sua  vita  agitata  e  vigorosa  neh"  età 
dei  Comuni,  l'influenza  ch'esercitò  sul  di  lui  ca- 
rattere il  governo  della  biscia  viscontea,  e  quello 
del  leone  di  san  Marco  :  tu  ignori  tuttavia  con  quanta 
importanza  nel  medio  evo  abbia  pesato  sui  politici 
avvenimenti  di  Lombardia  la  piccola  terra  di  Cre- 
ma ,  grande  per  1'  ardimento  di  una  popolazione 
calda  della  propria  indipendenza  e  di  tutte  le  ita- 
liane passioni.  Oltredichè  la  cronaca  del  Terni , 
ancora  inedita ,  ebbe  scarso  numero  di  lettori ,  co- 
munque importantissima:  e  del  Fino  non  è  a  tacersi 
come  le  opere  sue,  fuori  di  Crema,  rimangono  a'  no- 
stri giorni  polverose  nella  libreria  di  qualche  dotto  : 
colpa  dell'  autore ,  che  ad  uno  stile  pulito  non  seppe 
accoppiare  ampiezza  divedute,  e  con  gretto  muni- 
cipalismo impicciolì  il  soggetto  de'  suoi  lavori.  Non 
discorreremo  del  Canobbio ,  del  Cogrossi ,  del  Tin- 
tori e  del  Padre  Zucchi ,  che  pure  trattarono  argo- 


menti  di  storia  creuiasca:  basterà  lodare  la  nobile 
loro  intenzione  di  voler  illustrare  la  terra  natale  pro- 
seguendo od  ampliando  il  racconto  del  Terni  e  del 
Fino  :  per  così  gentile  pensiero  perdoneremo  ad  essi 
la  noja  che  recano  coi  loro  scritti,  e  la  tormentata 
pazienza  con  cui  gli  abbiamo  scorsi  onde  pescarvi 
qua  e  là  qualche  raro  giojello.  Giuseppe  Racchetti, 
con  diligente  ed  erudito  lavoro,  aggiunse  alla  cro- 
naca del  Fino  delle  annotazioni ,  che  però  non  com- 
piscono quello  del  Fino  in  guisa  da  renderlo  per- 
fetto. Né  si  attribuisca  importanza  storica  a  quanto 
sulle  Cose  Cremasche  scrisse  e  pubblicò  recente- 
mente il  mio  buon  genitore:  egli  non  pretende  a  vanto 
d'istoriografo ,  ed  imbizzarrì  novellando  talora  sopra 
casi  attinti  alla  cronaca  del  Fino ,  talora  sopra  il  no- 
me dei  villaggi  cremaschi. 

Queste  considerazioni  m'invogliarono  a  pubbli- 
care il  mio  lavoro ,  di  cui  protesto  aver  già  raccolto 
lauto  compenso  nelle  dolcissime  fatiche  del  compi- 
larlo. E  se  non  mi  venne  fatto  di  svolgere  il  tema 
propostomi  con  quella  larghezza  di  cognizioni  e  di 
idee  che  a  buon  diritto  1'  età  nostra  esige  da  chi  si 
applica  al  culto  della  storia  ,  sarò  nondimeno  sod- 
disfatto se  ad  altri  più  robusti  ingegni  avrò  indi- 
cata la  via  di  far  meglio  (*). 


(1)  Una  storia  di  Crema  sappiamo  che  venne  scritta,  per  commis- 
sione del  conte  Luigi  Tadini,  dall'abate  Bettoni,  bergamasco,  pro- 
fessore di  belle  lettere  nel  ginnasio  di  Crema.  Il  lavoro  del  Bettoni  si 
voleva  dedicare  all'imperatore  Francesco  I,  nell'occasione  ch'egli 
visitò  la  città  nostra  l' anno  1816.  Ma  prima  di  pubblicarlo  fu  dato  da 
esaminare  ad  una  colta  commissione  di  cittadini ,  i  quali  ne  impedi- 
rono la  stampa. 


STORIA  DI  CREMA 


CAPITOLO    PRIMO 


SOMMARIO 

Irruzioni  dei  Barbari  in  Italia.  —  Origine  di  Venezia  e  di  Crema.  —Vicende 
naturali  del  terreno  cremasco.  —  II  Iago  Gerundo,  l'Adda,  il  Serio  e  l'Oglio. 
—  Riassunto  delle  vicende  geologiche  alle  quali  andò  soggetto  il  terreno 
cremasco.  —  Quali  furono  i  primi  abitatori  del  territorio  cremasco  ?  — 
Congetture  intorno  agli  Umbri,  agli  Etruschi ,  ai  Cenomani.  —  Non  par 
verosimile  l'opinione  dei  cronisti  cremasela  che  il  territorio  di  Crema  sia 
rimasto  deserto  d'abitatori  tino  al  secolo  terzo  dell'era  cristiana.  —  Isola 
Mosa.  —  Castello  dei  Conti  di  Palazzo  in  riva  al  Tormo.  —  Fondazione 
di  Crema  e  vicende  che  Tacconi pagnarono.  —  Cremete.  —  Errore  d'alcuni 
scrittori  cremonesi  e  lodigiani  che  attribuiscono  alle  città  loro  la  fonda- 
zione di  Crema.  —  Discrepanti  opinioni  sull'origine  di  Crema.  —  L'opi- 
nione del  Terni  da  noi  adottata  sembra  la  più  verosimile.  —  Crema  dal- 
l'anno 602  all'anno  1009  non  ha  storia:  per  quali  ragioni.  —  Isola  Ful- 
cheria,  e  disparità  d'opinioni  sulla  sua  estensione. 

Isella  storia  italiana  un'epoca  delle  più  sciagurate  è 
quella  delle  invasioni  dei  Barbari,  epoca  di  rapine,  di  san- 
gue, di  distruzione.  Tu  vedi  crollarvi  l'edificio  della  civiltà 
romana,  sfasciarsi  l'impero  dei  Cesari,  abbattuto  da  orde 
di  popoli  feroci,  i  quali  come  nembo  di  locuste  calarono 
sulle  nostre  contrade  a  devastarle.  Difendersi  dalle  aggres- 
sioni di  quelle  torme  barbariche  non  potevano,  e  quasi  di- 


—  10  — 
resti  non  volessero  gli  abitanti  della  straziata  penisola:  tanto 
erano  mutale  le  condizioni,  tanto  infemminiti  gli  animi 
negli  eredi  delle  glorie  romane.  E  ne  fu  colpa  la  turpe  po- 
litica dei  successori  di  Augusto,  i  quali  coll'arte  dei  despoti 
disarmarono,  abbrutirono,  calpestarono  un  popolo  eroico, 
per  virtù  guerresche  e  cittadine  terrore  e  ammirazione  del 
mondo.  Col  corrompersi  dei  costumi ,  in  Roma  fu  ammor- 
bata la  libertà,  e  vi  perì  la  repubblica:  col  pessimo  governo 
degli  imperatori  si  consumarono  le  forze  vitali  dell'  itala 
nazione,  e  i  Barbari  vi  distrussero  l'impero.  I  popoli  della 
nostra  penisola  patirono  con  indifferenza  che  i  Barbari 
sfrondassero  la  potenza  dei  Cesari:  popoli  che  un  duro  e 
scompiglialo  regime  aveva  trasformati  in  un  gregge  d'op- 
pressi ;  popoli  immiseriti  da  gravezze  enormi ,  dal  deperi- 
mento dell'agricoltura ,  delle  arti ,  del  commercio,  avevano 
perduto  que'  forti  sentimenti  di  patria  che  formarono  la 
religione,  la  gloria,  la  grandezza  degli  avi.  Quindi,  spetta- 
colo doloroso!  più  volle  furono  veduti  i  Barbari  sorpren- 
dere e  saccheggiare  città  cospicue,  nel  mentre  i  loro  abi- 
tanti, coronati  la  fronte  di  ghirlande,  assistevano  e  plau- 
divano  ai  giuochi  del  Circo  <11.  I  Barbari  trovando  o  nis- 
suna  o  fiacca  resistenza,  raddoppiavano  l'audacia,  il  furore, 
ed  imbestiavano  spaventosamente,  rapinando,  uccidendo, 
incendiando. 

Non  è  nostro  disegno  discorrere  ampiamente  le  miserie 
che  afflissero  la  penisola  italiana  pel  corso  di  ben  sette  se- 
coli, in  cui  vi  s'  avvicendarono  le  irruzioni  dei  Barbari  : 
solamente  ci  fa  mestieri  rammentare  quanto  spavento  ar- 
recassero ai  nostri  padri  quelle  aggressioni  di  popoli  stra- 
nieri che  con  animo  efferato  mettevano  ogni  cosa  a  san- 
gue e  a  fuoco. 


(1)  Sjsmondi.  Della  cadula  dell'impero  romano. 


—  li  — 

Durante  il  calamitoso  perìodo  delle  invasioni,  molle  fa- 
miglie e  spesso  intere  popolazioni  fuggivano  dal  suolo  es- 
tivo, lasciando  ogni  cosa  più  caramente  diletta,  per  cercare 
o  fabbricarsi  altrove  un  tetto  ospitale  elio  le  proteggesse 
dagli  oltraggi  degli  immani  aggressori.  E  i  miseri  di  buon 
grado  s'acconciavano  ad  abitare  in  luoghi  deserti  e  selvag- 
gi, parche  questi  promettessero  loro  maggior  sicurezza. 
Così  ai  tempi  di  Aitila  ripararono  alle  lagune  dell'Adriatico 
gli  abitanti  dei  vicini  paesi,  e  sorse  Venezia. 

Un  secolo  appresso  calò  in  Italia  Alboino  re  dei  Lon- 
gobardi. Gepidi,  Sassoni,  Bavari,  Germani  ingrossavano 
le  sue  falangi:  non  un  esercito,  scrive  Sismondi,  via  un'in- 
tera nazione  discese  nel  568  le  Alpi  del  Frinii.  Alboino 
possedeva  tutte  le  doti  di  un  barbaro:  la  fama  dell'indole 
sua  feroce  lo  aveva  preceduto  in  Italia,  e  qui  egli  la  con- 
fermava con  l'atroce  voto  di  passare  a  fìl  di  spada  lutti 
gli  abitanti  di  Pavia  che  osavano  fargli  coraggiosa  resisten- 
za. La  discesa  d'Alboino  sparse  quindi  immenso  terrore 
nelle  popolazioni  dell'Italia  settentrionale,  che  ne  prono- 
sticarono calamità  spaventose.  Scamparne  divenne  il  pen- 
siero, l'ansia  delle  moltitudini,  e  perciò  moltiplicarono  le 
emigrazioni.  Allora  le  città  marittime,  situate  sulle  coste 
dell'Adriatico  e  del  Mediterraneo,  accolsero  copia  di  pro- 
fughi :  allora  molte  famiglie  bergamasche,  bresciane,  cre- 
monesi, lodigiane  rifugiarono  in  mezzo  ad  una  vasta  pa- 
lude che  era  tra  l'Olio,  il  Serio  e  l'Adda,  ed  ebbe  origine 
Crema. 

Crema  non  è  dunque  città  molto  antica;  posteriore  di 
circa  un  secolo  a  Venezia:  Venezia  e  Crema,  monumenti 
di  sventure  italiane.  Sorte,  l'una  fra  le  lagune  marine  del- 
l'Adriatico, l'altra  nella  Regona  innondata  dal  Serio  e  dal- 
l'Acida ,  ci  rammentano  colla  loro  origine  un'epoca  di  sco- 
raggiamenti e  tribolazioni,  ci  rammentano  famiglie  deso- 
late  che  fuggirono  dal  ferro  distruttore,  dal  volto  abborrilo 
di  stranieri  oppressori. 


—  12- 
Posto  adunque  che  la  città  nostra  avesse  principio  ai 
tempi  dell'invasione  longobarda,  e  che  venisse,  come  di- 
remo, edificata  Tanno  570,  dobbiamo  indagare  in  quale 
condizione  si  trovasse  il  suolo  cremasco  prima  della  discesa 
di  Alboino.  Quali  ne  furono  le  vicende  naturali?  quali  i 
primi  abitatori?  Ecco  due  quesiti  di  non  lieve  importanza: 
il  primo  meno  difficile  a  sciogliersi  per  le  nozioni  che  sul 
terreno  lombardo  ci  porgono  gli  eruditi  nelle  scienze  geo- 
logiche; difficilissimo  il  secondo,  perchè  nella  scarsezza  di 
antiche  memorie  e  tradizioni  ci  è  forza  ricorrere  a  con- 
getture. 

Nell'opera  lodatissima  che  il  dottor  Carlo  Cattaneo  pub- 
blicò intorno  alla  Lombardia,  leggiamo:  «  I  primi  uomini 
»  che  si  sparsero  per  questa  terra  transpadana,  vi  si  avven- 
»  nero  in  due  ben  dissimili  regioni  di  pari  ampiezza,  l'uria 
»  montuosa,  l'altra  campestre...  La  regione  campestre,  arida 
»  e  sassosa  nella  parte  superiore  ,  più  sotto  era  piena  di 
»  scaturigini  e  di  ghiare  aquidose,  interrotta  da  dorsi  di  bo- 
»  sco,  asciutta  ed  aprica  lungo  gli  alti  greti  dei  maggiori  fiu- 
»  mi, ma  in  preda  alle  libere  inondazioni  nelle  basse  rcgo- 
»  ne,  e  fra  le  curve  dei  loro  serpeggiamenti (0.»  Ed  in  preda 
alle  libere  innondazioni  era  appunto  nei  tempi  primitivi 
quella  regione  eh1  ora  diciamo  territorio  cremasco  ,  una 
delle  più  basse  che  fosse  nel  vasto  bacino  della  Lombardia. 
Vi  scorrevano  sopra  rigogliose  e  sfrenate  le  acque  di  tre 
fiumi,  l'Adda,  il  Serio  e TOglio  :  cadendo  precipitose  da 
terreno  più  elevato,  distaccarono  dai  monti  grossi  maci- 
gni ,  che  stritolati  e  travolti  nel  loro  corso ,  formarono 
ghiaja  e  sabbia  che  sono  la  base  del  terreno  cremasco.  A 
questa  base  i  fiumi  medesimi  sovrapposero  materie  più  mi- 
nute e  strali  di  terra  vegetali  trasportati  nelle  alluvioni  : 
ond'è  che  il  nostro  terreno   è  qualificato  dai  geologi    ter- 

(1)  Carlo  Cattaneo.  Notizie  naturali  e  civili  sulla  Lombardia. 


—  \7>  — 
reno  di  trasporto.  Si  osservò  che  il  fondo  del  nostro  snolo 
contiene  minerali  di  varie  sorta  assai  diversi  fra  di  loro,  le 

Cave  dei  quali  sono  sparse  per  lungo  tratto  nelle  catene 
delle  Alpi  Rezie  l  :  si  osserva  eziandio  la  fertilità  dell'agro 
cremasco  essere  maggiore  nella  parte  meridionale,  inferiore 
d'assai  a  settentrione  :  dal  che  si  argomentò  elio  le  parti- 
celle più  sottili  e  leggiere  portatevi  dai  fiumi,  rimanendo  a 
lungo  sospese,  si  depositassero  le  ultime  nell'  attraversare 
questo  spazio. 

L'Adda,  il  Serio  e  l'Oglio,  che  prima  vagando  sbrigliati  si 
diffondevano  largamente  sul  terreno  cremasco,  «  nel  volger 
»  dei  secoli  corrosero  coi  loro  filoni  il  foudo,  e  lo  infossarono 
»  sotto  quello  degli  stagni  circostanti,  nello  stesso  tempo  che 
»  colle  inondazioni  colmavano  di  materie  i  luoghi  più 
»  bassi  W.  »  Allora  emersero  dalle  acque  dei  dorsi  di  ter- 
reno in  forma  d' isoielle,  i  quali  ci  sono  ancora  designati 
dall'ineguale  superficie  del  nostro  suolo,  sparso  di  rialti  a 
Chievc,  a  Moscazzano,  a  Montodine,  a  Ripalta  ed  in  altri 
luoghi. 

S'ignora  in  qual' epoca  e  quale  dei  tre  fiumi  sia  stato  il 
primo  a  comporsi  un  letto  stabile  :  nondimeno  possiamo 
accertare  che  l'Adda,  ai  tempi  dell'invasione  longobarda,  e 
per  circa  sette  secoli  dopo ,  ingombrava  ancora  colle  sue 
innondazioni  lungo  tratto  di  terreno,  formando  a  ponente 
del  territorio  cremasco  un  vastissimo  stagno  che  le  crona- 
che accennano  sovente  col  nome  di  Mare  o  Lago  Gerundo. 
Non  istupirti  se  i  nostri  padri  concedettero  il  nome  di  mare 
ad  uno  stagno;  altri  stagni,  altre  paludi  troverai,  a  cui, 
come  osserva  il  Tasso,  di  mar  non  fu  negato  il  nome.  Ti 
sovvenga  fra  gii  altri  del  mare  di  Tiberiade,  celebre  nelle 
sacre  carte.  Del  mare  o  lago  Gerundo  hanno  discorso  non 

(i)  Racchetti.  Annotazioni  al  lib.  I  deM'Alemanio  Fino. 
(2)  Cattaneo.  Sull'agro   lodigiano  e  sul  cremasco.   Discorso  stampato  nel 
Politecnico,  voi.  I. 


—  u  — 

pochi  cronisti,  e  particolarmente  lodigiani,  ma  con  notizie 
imperfette,  varie  e  fra  loro  discordi ,  intrecciandovi  non 
di  rado  qualche  cosa  di  favoloso  :  onde  non  se  ne  può  con 
esattezza  stabilire  i  serpeggiamenti,  i  confini,  l'estensione. 
Quantunque  scomparso  da  circa  sei  secoli,  il  lago  Gerundo 
indica  ancora  le  sue  tracce,  nei  rialti  del  suolo  a  lui  cir- 
costanti, e  nelle  ghiaje  o  gere,  le  quali  diedero  il  nome  di 
Gera  d'Adda  ai  paesi  ch'egli  ricopriva  delle  sue  acque.  Un 
antico  cronista  lodigiano  (*)  narra,  che  ai  piedi  del  colle 
Eghezzone,  ov'è  situata  la  moderna  Lodi,  scorgevansi  un 
tempo  cinque  torri,  a  guardia  del  porlo,  per  coloro  che 
navigavano  sul  lago  Gerundo  :  di  simili  torri  altra  sorgeva 
presso  Rivolta  Secca,  altra  presso  Pandino  ai  confini  del 
Cremasco.  E  dalle  cronache  di  Crema  raccogliamo  che  la 
villa  di  Chieve  i2,  era  posta  in  riva  del  lago,  e  che  in  detta 
villa  si  trovarono  certe  colonne  di  rovere  con  le  catene  di 
ferro  cui  si  legavano  le  navi.  Se  quindi  Chieve  giaceva  alla 
riva  di  levante,  ed  il  colle  Eghezzone  a  quella  di  ponente, 
il  mare  o  lago  Gerundo  fra  Chieve  e  Lodi  alìargavasi  circa 
sette  miglia.  Il  dottor  Carlo  Cattaneo,  nel  suo  eruditissimo 
discorso  intorno  all'agro  cremasco  ,  toccando  del  lago  Ge- 
rundo scrive:  «  11  labbro  dei  varj  suoi  bacini  vien  dise- 
»  guato  a  ponente  dall'alta  riva  destra  dell'Adda  ,  ed  a  le- 
»  vante  da  un  elevato  scaglione  che  dalla  foce  del  Brembo 
»  serpeggia  per  Pandino  e  Chieve  sino  alla  foce  del  Serio  (3).  » 
Sembra  adunque  che  il  lago  Gerundo  fiancheggiasse  tutta 
l'estremità  occidentale  del  terreno  cremasco,  e  stabilisse  il 
confine  divisorio  fra  l'agro  nostro  e  il  lodigiano:  sembra 
altresì  che  egli  serpeggiasse  anche  dentro  il  territorio  no- 
li) Vincenzo  Sabbia,  abate  olivetano,  nelle  Memorie  di  Lodi. 

(2)  Vuoisi  che  Chieve  abbia  preso  il  nome  dalle  chiavi  con  le  quali  as- 
sicuraronsi  le  barche  approdate  alla  riva  di  questa  villa.  Vedi  Fino,  nel  lib.  I 
della  Storia  di  Crema. 

(3)  Vedi  il  Politecnico,  voi.  1. 


—  tu  — 

stro  inoltrandovi  si  Gn  quasi  al  centro,  giacché  si  preten- 
dono tracce  Indora  visibili  del  lago  Gerundo  le  paludi  che 
a'  nostri  giorni  l'orinano  i  cosi  detti  Itosi  di  Crema   '  . 

I  larghi  stagni  del  lago  Gerundo  impregnavano  l'aria  di 
insalubri  esalazioni ,  sicché  ne  soffrivano  gli  abitatori  dei 
vicini  paesi.  I  Lodigiani,  ond'essere  preservali  dalle  infezioni 
dell'aria,  eressero  già  un  tempio,  dedicandolo  alla  dea  Me- 
lìte,  la  quale  ebbe  culto  anche  sul  Cremonese.  Tacilo  narra 
che  quando  Cremona  fu  distrutta,  restò  in  piedi  il  solo 
tempio  di  Me/ite,  quasi  proietto  dalla  dea.  Ciò  in  tempi  pa- 
gani. Dopo  che  il  cristianesimo  ebbe  atterrate  le  are  degli 
dei  falsi  e  bugiardi,  invalse  nei  Lodigiani  la  credenza  che  i 
miasmi  delle  vicine  paludi  derivassero  da  un  serpente  di 
smisurata  grandezza,  il  quale  annidando  nel  mare  Gerun- 
do W  appestava  V  aria  col  suo  alito.  A  Lodi  ,  nel  mezzo 
della  vòlta  della  chiesa  di  S.  Cristoforo,  ora  soppressa,  pen- 
zolava ancora,  sul  finire  del  secolo  scorso,  una  costola  di 
straordinaria  lunghezza,  la  quale  dicevasi  del  pestifero 
serpe  che  abitò  nel  lago  Gerundo.  L'appesero  in  quel  sacro 
recinto  i  Padri  Olivetani  a  guisa  di  voto,  per  la  memoria 
del  gran  mostro  ucciso  i3).  E  i  Padri  Olivetani  lasciarono 
che  iì  popolo  si  bevesse  nella  chiesa  loro  la  favola  del  ser- 
pente, onde  accrescere  la  divozione  a  S.  Cristoforo  cui  i 
Lodigiani  si  professavano  debitori  d'aver  purgata  l'aria  mal- 
sana delle  paludi ,  uccidendovi  il  serpe.  Quella  costola  , 
lunga  ben  sette  piedi,  era  di  un  cetaceo  ,  e  si  raccolse  in- 
fatti sul  suolo  lodigiano  in  seguilo  ad  una  grande  innonda- 
zione  dell'Adda  i4). 


(i)  Cattaneo.  Politecnico,  voi.  I. 

(2)  Villanuova,  nella  storia  di  Lodi,  pone  all'anno  1299  la  comparsa  di 
un  pestifero  drago  nel  mare  Gerundo. 

(3)  Filiberto  Villani  ,  nel  poema  intitolato    Federico  Barbarossa.    Vedi  le 
annotazioni  al  poema  medesimo. 

(4)  »La  detta  costola,  dopo  la  soppressione  della  chiesa  di  S.Cristoforo,  fu 
ritirata  dal  dottor  Villa  di  Lodi.  •  Nuta  del  Vignati  nelle  Storie  lodigiane. 


—  16  — 

Il  lago  Gerundo  si  prosciugò  col  cessare  i  gravi  straripa- 
menti dell'Adda.  E  fu  opera  lenta,  né  la  vogliate  tutta  at- 
tribuire all'  aversi  l'Adda  approfondito  naturalmente  il  suo 
letto:  vi  cooperò  l'umana  industria,  imbrigliando  e  diri- 
gendo il  corso  del  fiume  con  arginature,  agevolando  con 
tagli  arditi  Io  scolo  delle  paludi,  e  finalmente  sottraendo 
all'Adda  col  mezzo  di  numerosi  canali  una  massa  perenne 
e  considerevole  d'acqua. 

In  alcuni  luoghi  del  territorio  cremasco  scorgonsi  ben 
distinte  le  orme  che  lasciò  l'Adda  ritirandosi:  scorgesi 
com'essa  siasi  ritirata  in  tre  periodi.  «Ciò  apparisce», 
osserva  Raccheti!  t1),  «a  Caselelto  Ceredano ,  dove  sono 
»  formati  tre  piani,  il  primo  delle  alte  campagne  a  livello  del 
»  territorio  cremasco;  il  secondo,  quello  su  cui  è  piantato  il 
»  villaggio;  e  il  terzo  assai  più  spazioso,  il  quale  quasi  tutto 
»  nel  secolo  XIV  era  ancora  palude,  e  di  poco  anche  nel  se- 
»  colo  XVI  aveva  migliorato.  » 

Il  Serio  e  TOglio,  che  in  tempi  remotissimi  entrando  am- 
bidue  nel  territorio  ^remasco  erano  a  settentrione  assai 
più  vicini  fra  di  loro,  scavaronsi  anch'essi  il  letto:  la  cor- 
rente dell'Oglio  piegò  verso  oriente,  scendendo  direttamente 
a  metter  capo  nel  Po:  il  Serio  si  compose  il  suo  alveo  ove 
oggidì  è  il  canale  del  Serio  Morto.  Se  non  che  il  Serio,  per 
la  poca  profondità  del  suo  letto  e  le  frequenti  alluvioni, 
mantenne  fino  al  secolo  XI  il  suolo  cremasco  ingombro  di 
paludi.  Sul  principiare  del  secolo  XI,  Masano,  signore  di 
Crema,  assumendosi  di  prosciugare  le  paludi,  narrasi  che 
voltasse  il  corso  del  Serio,  facendolo  passare  assai  più  vici- 
no alla  città ,  che  prima  n'era  lontano  circa  due  miglia.  È 
questa  una  notizia  riferitaci  dal  Temila.  «Né  ciò»,  aggiunse 
Raccheta  i31 ,  «sembra  contraddire  alle  tracce  che  il  Serio 

(1)  Annotazioni  al  primo  libro  della  storia  di  Alemanio  Fino. 

(2)  Pietro  Tep.ni.  Storia  di  Crema,  inedita. 

(3)  Idem. 


—  17  — 

..  lasciò  sul  terreno,  imperciocché  uu  abbassamento  notabile 
».  seguita  la  costa  che  si  chiama  Dossi  d'Izano,  e  prosegue  da 
■  Ripalta  Arpina  fin  presso  a  Castelleone,  apparendo  avesse 

..  il  Serio  allora  foce  nell'Alida  poco  sopra  Pizzighettone.  Al- 
>'  Irò  argomento  per  creder  al  Terni   si    è,  che  non  trovasi 
»  memoria  essere  siala  fondata  Crema  in  riva  al  fiume.» 
Noteremo  finalmente,  che  le  lagune  del  cremasco  non  si 

formavano  solamente  per  le  espansioni  dei  fiumi  Serio  , 
Adda  ed  Oglio;  ad  alimentarle  concorrevano  le  inesauste 
sorgenti  che  slendonsi  fra  l'Adda  e  l'Oglio ,  fra  le  quali 
quelle  di  Fornuovo  ,  riputale  le  più  doviziose  di  tutta  la 
Lombardia. 

Epilogando  quanto  dicemmo  (ed  è  ben  poca  cosa)  intorno 
alle  vicende  naturali  del  nostro  territorio,  finiremo  conchiu- 
dendo ,  che  la  storia  geologica  del  terreno  cremasco  può 
ripartirsi  in  tre  grandi  epoche.  Vepoca  rimotissìma,  ossia 
dei  tempi  primitivi,  in  cui  il  terreno  cremasco  era  tutto 
immerso  nelle  acque  che  sopra  vi  mescolavano  il  Serio  , 
TOglio  e  l'Adda  ;  Y epoca  di  mezzo,  ove  i  tre  fiumi  solcan- 
dosi il  letto  tra  le  materie  portate  colle  loro  alluvioni  si 
separarono  e  discoprirono  una  parte  del  suolo  cremasco , 
lasciandone  un'altra  tuttavia  ingombra  d'ampie  paludi; 
Vepoca  moderna;  ossia  dell'umana  industria,  che  reagì  sulla 
natura  limacciosa  del  terreno  cremasco,  e  continuandovi  i 
prosciugamenti  lo  ridusse  a  poco  a  poco  all'attuale  stato  di 
floridissima  vegetazione.  Quantunque  riesca  impossibile 
precisare  il  punto  di  partenza  e  ia  lunghezza  di  queste  tre 
epoche,  tuttavia  ci  si  allacciano  alla  mente  assai  ben  di- 
stinte fra  di  loro  per  le  trasfigurazioni  che  operarono  sul 
nostro  terreno.  INella  prima  tu  vedi  tre  fiumi  associare  la 
massa  delle  loro  acque,  e  sotto  forma  di  un  vastissimo  tor- 
rente correre  indomati  e  padroneggiare  una  profonda  vai- 
lata;  nella  seconda  tu  scorgi  in  mezzo  a  larghi  stagni  e  li- 
macciose paludi  colmeggiare  delle  isoletle  quasi  inaccessibili, 

2 


—  18  — 
4  i  loro  dorsi  inverdire  di  folte  boscaglie  ;  nella  terza ,  e 
paludi  e  stagni  vanno  mano  mano  scomparendo  :  tu  am- 
miri la  potenza  dell'uomo  che  infrena  le  forze  dei  fiumi,  t 
capricci  dei  torrenti  straripanti  ;  vedi  i  pantani  convertirsi 
in  prati  ridenti  d'erbe  e  di  fiori,  vedi  lussureggiare  le  spi- 
che ed  il  gelso,  ed  agitarsi  un  popolo  d'agricoltori,  ove 
prima  il  rospo  gracidava  solitario  fra  carici  e  palustri  canne. 
A' nostri  giorni  l'agro  cremasco  cede  in  densità  di  popola- 
zione alla  sola  provincia  di  Milano,  e  ragguaglia  il  quadru- 
plo della  popolazione  media  della  Francia  (*). 

Quando  il  terreno  cremasco  incominciò  ad  essere  abita- 
to? A  quale  stirpe  appartenevano  coloro  che  per  i  primi 
furono  balestrali  in  mezzo  alle  sue  sabbie  e  a' suoi  pantani? 
Sono  problemi  da  far  inarcare  le  ciglia  dei  più  dotti  nelle 
storie  e  nelle  antichità  italiane.  Tuttavia  ci  proveremo,  se 
non  a  togliere,  a  diradare  almeno  le  tenebre  che  sul  nostro 
suolo  s'addensano  nell'età  più  remote,  adulandoci  con  le 
ricerche  e  con  gli  studj  che  fecero  intorno  alle  origini  dei 
popoli  lombardi  non  pochi  benemeriti  scrittori. 

E  primieramente  ,  affermiamo  impossibile  l'accertare  in 
qual  tempo  il  terreno  cremasco  abbia  incominciato  a  spar- 
gersi d'abitatori,  giacché  bisognerebbe  poter  prima  stabi- 
lire in  qual'epoca  esso  diventò  abitabile.  Noi  dicemmo  già, 
che  nell'età  primitiva  era  lutto  coperto  dalle  acque:  dicem- 
mo altresì  ignorarsi  in  qual  tempo  i  fiumi,  coll'approfondirsi 
il  letto,  vi  si  ritirarono.  Senza  dunque  pretendere  d'indicare 
il  secolo  in  cui  sorsero  sul  territorio  nostro  i  primi  tuguri, 
ci  limiteremo  a  supporre  che  i  primi  ad  abitarlo  venissero 
quando  le  acque  ritirandosi  ne  lasciarono  asciutta  una  parte 
e  vi  permisero  la  vegetazione.  Che  se  poi  ricorriamo  alia 
storia  delle  genti  stabilite  fra  l'Adda  e  il  Mincio  prima  del- 
l'impero romano,  noi,  seguendone  colla  mente  le  varie  di* 

(1)  Cattando,  Discorso  sull'agro  cremasco.  Polikcnico,  voi.  I. 


—  19  — 
ramazioni,  investigandone  le  vicende,  i  costumi,  le  tracce 

che  lasci  nono  nei  nomi,  noi  dialetti,  nello  tradizioni  dei 
paesi ,  potremo  scoprire  alcuni  indizi  probabili  intorno  al- 
l'epoca oil  alla  Stirpe  dolio  famiglie  elio  por  lo  primo  anni- 
darono sul  nostro  suolo:  potremo  aggiungere  qualche  pe- 
regrino Gore  alle  storie  cremasene  del  Terni  e  del  Fino,  i 
quali  le  età  precedenti  la  fondazione  di  Crema  lasciarono 
inesplorate. 

La  Lombardia  ne'  tempi  primitivi,  per  l'indole  del  suo 
terreno  basso  in  gran  parte  e  paludoso  ,  ebbe  scarsissi- 
mi abitatori.  Vi  erravano  qua  e  là  tribù  segregale  di  po- 
poli selvaggi,  i  quali  dagli  antichi  scrittori  ci  vengono  indi- 
cali col  nome  assai  proprio  di  Aborigeni ,  ossia  popolazioni 
indigene.  Noi  opiniamo  che  nissuna  di  quelle  tribù  di 
Aborigeni  abbia  mai  posto  piede  sul  territorio  cremasco  : 
imperocché  la  vita  loro  risalendo  a'tempi  antichissimi,  è  pro- 
babilissimo che  il  suolo  cremasco  giacesse  ancora  immerso 
nelle  acque.  Ma  quand'anche  una  parte  ve  ne  fosse  già  la- 
sciata a  secco,  è  nondimeno  a  credersi  che  nissuna  di  quelle 
tribù  selvaggie  vi  piantasse  la  sua  sede,  sapendo  che  i  no- 
stri Aborigeni,  al  pari  degli  altri  popoli  primitivi,  preferivano 
di  abitare  sopra  terreni  elevali.  Le  tradizioni  più  antiche 
sia  dell'Europa,  sia  dell'Asia,  e'  ^istruiscono  come  a  loro 
fossero  saere  le  cime  de'  monti ,  ove  ergevano  templi,  con- 
sumavano sagrifìej,  persuasi  d'essere  più  vicini  al  cielo,  e 
che  più  presto  salisse  ai  Numi  il  suono  dei  religiosi  canti , 
e  il  profumo  degli  olocausti. 

Dopo  gli  Aborigeni,  i  più  antichi  abitatori  della  Lombar- 
dia menzionati  nelia  storia  sono  ì  Liguri ,  i  quali  narrasi 
che,  discesi  dalle  Alpi,  ponessero  stanza  sull'  una  e  Y  altra 
riva  del  Po  l11.  Le  memorie   dei  Liguri    rimontano  a  due 

(1)  Gabriele  Rosa,  Genli  stabilite  fra  VAckla  e  il  Mincio  prima  cUlVimpe.ro 
romano. 


—  20- 
mila  g  più  anni  innanzi  l'era  cristiana,  e  si  confondono  con 
quelle  degli  Aborigeni.  D'un'età  tanto  rimola  non  essendovi 
tradizioni  né  traccia  di  sorla  nel  territorio  nostro,  non  osere- 
mo ancora  figurarcelo  abitato;  quindi  ci  guarderemo  dal 
trasportare  a  furia  di  congetture  una  colonia  di  Liguri  sul 
terreno  cremasco. 

Circa  tredici  secoli  prima  di  Cristo,  gli  Umbri,  gente  che 
vuoisi  d'origine  Celta,  respinsero  i  Liguri  al  di  là  del  Tici- 
no, ed  occuparono  tutta  la  valle  del  Po  che  chiamarono 
Isumbria  (Bassa  Umbria).  Non  iscarseggiano  memorie  degli 
Umbri  nella  storia  italiana  :  si  sa  che  tennero  la  Valle  Pa- 
dana per  tre  secoli ,  cedendola,  dopo  lunga  ed  accanita 
guerra,  agli  Etruschi.  Nelle  storie  lodigianc  leggemmo: 
«  Credonsi  pure  memorie  Umbre  il  nome  di  Mombrione  al 
»  colle  di  S.  Colombano  e  di  Ombriano  ad  una  terra  sulla  si- 
»  nistra  dell'Adda  presso  Crema:  in  alcune  antiche  memorie 
»  si  è  trovalo  il  primo  col  nome  di  MonsOmbronus  ;  ed  il 
»  secondo,  che  anticamente  era  bosco,  Lucus  Umbranus  (*).» 
Da  queste  parole  noi  siamo  ben  lungi  dall' inferire  la  cer- 
tezza che  Ombriano  abbia  avuto  origine  e  nome  da  una  co- 
lonia di  Umbri;  però  non  ommellercmo  di  osservare  che 
anche  nelle  cronache  cremasche  una  favolosa  tradizione 
adombrò  l'antichità  e  l'origine  d'Ombriano,  mentre  di  quasi 
tutte  le  altre  terre  del  Cremasco  non  vi  è  motto  che  ac- 
cenni il  loro  principio,  od  un'esistenza  anteriore  all'era 
cristiana.  Aleniamo  Fino  nella  prima  delle  sue  Seriane 
narra:  «  Dove  oggidì  si  vede  la  bella  ed  amenissima  villa 
»  di  Ombriano  ,  di  begli  edilìzi  e  di  vaghi  giardini  ripiena, 
»  era,  secondo  il  Terni,  una  gran  selva,  la  quale  chiamavasi 
»  Ombra  di  Giano,  da  Giano  per  avventura  primo  re  d'Italia, 
»  ovvero  da  Giano  III,  figliuolo  di  Jubal  (come  vogliono  alcu- 
»  ni  ),  fondatore  di  Milano.  Pigliò  il  loco  tal  nome  dal  detto 

(])  Vignati.  Storie  lodigiane. 


—  31  — 

»  signore,  perciocché  egli,  affaticatosi  dietro  le  cucco,  qui 
»  spesso  soleva  riposarsi  invitato  dalla  vaghezza  dei  chiari 
»  fonti  e  dalla  amenità  delle  fresche  ombre.»  Adunque,  se- 
condo le  cronache  nostre,  Ombriano  avrebbe  derivalo  il  nome 

da  ombre  e  ila  Giano,  e  secondo  altre,  dagli  Umbri,  popoli  che 
vennero  dal  centro  dell'Italia  a  stabilirsi  nella  valle  del  Po, 
cacciandone  i  Liguri.  Fra  queste  due  opinioni,  l'aspetto  del 
verisimile  è  senza  dubbio  nella  seconda;  se  non  che,  ben 
ponderate  e  l'una  e  l'altra,  mentre  discordano  nello  spie- 
gare l'etimologia  del  nome  Ombriano,  si  ravvicinano  in  al- 
tri punti,  e  pare  che  concorrano  a  produrci  risultati  quasi 
conformi  di  slorica  verosimiglianza.  L'origine  d'Ombriano, 
sia  che  tu  l'attribuisca  a  Giano,  sia  agli  Umbri,  risale  seni- 
lire  all'epoca  medesima,  vale  a  dire  alla  Trojana.  E  depu- 
rando da  ciò  che  sa  di  favoloso  l'opinione  dei  cronisti  ere- 
maschi,  rendesi  ancor  più  manifesto  ch'essa,  anziché  di- 
struggere, è  puntello  all'opinione  contraria.  E  infatti  quel 
dire  che  il  re  Giano  dcliziavasi  di  venir  cacciando  in   una 
selva  del  nostro  territorio,  è  un  confessare   che  una  parte 
del  terreno  cremasco  fosse  già  accessibile  tredici  secoli  prima 
di  Cristo:  quindi  accresce  probabilità  che  gli  Umbri,  a  quel- 
l'epoca padroni  delle  non  lontane  vallale  del  Po,  vi  pene- 
trassero, invitati  anch'essi  dalla  vaghezza  dei  chiari  fonti 
e  dalla  amenità  delle  fresche  ombre.  Si  dirà  :  Sono  sogni 
mitologici  quelli  del  Terni  e  del  Fino  che  menano  Giano  re 
del  Lazio  a  caccia  in  una  foresta  del  territorio  cremasco  : 
ma  essi  coi  loro  sogni  ci  attestano,  se  non  altro,  essere  Om- 
briano fra  le  terre  più  antiche  del  cremasco,  giacché  il  fa- 
voleggiare sull'origine  di  un  paese  è,  se  non  prova,  indizio 
per  lo  meno  dell'antichità  del  medesimo.   Si  dirà   che  per 
adagiare  sul  terreno  cremasco  una  colonia  di   Umbri,  noi 
affaticammo  la  mente  di  congetture;  ma  dov'è  lo   storico 
che  spingendosi  nel  bujo  di  lontanissimi  tempi  non  cerchi 
lume  dalle  congetture?  Le  quali  per  chi  vola  fra  lo  spazio 


—  22  — ■ 
delle  età  oscure  e  favolose,  tante  volte  somigliano  alle  ali  di 
Icaro:  ma  giovano  tuttavia,  perchè  istruiscono  e  invogliano 
gli  ingegni  a  vestirne  eli  più  robuste. 

Vinti  gli  Umbri,  nei  paesi  fra  le  Alpi  ed  il  Po  fondarono 
citlà  e  colonie  gli  Etruschi,  popolo  induslre,  colto,  civiliz- 
zatore. Di  loro  non  trovasi  memoria  nelle  cronache  crema- 
sene. Mai  un  frantume  di  vaso  etrusco,  osserva  Raccheti!, 
si  rinvenne  coi  tanti  scavi  fatti  al  terreno  cremasco.  Ep- 
pure gli  Etruschi ,  narra  Plutarco!1),  possedevano  nella 
valle  Traspadana  dicioifo  belle  e  grandi  città,  e  resero  fe- 
raci i  piani  lombardi,  e  gli  arrichirono  d'opere  d'arte,  e 
di  quanto  è  necessario  alle  lautezze  della  vila.  Purché  ci 
si  conceda  essere  verosimile,  come  dimostrammo,  che  gli 
Umbri  occupassero  un  lembo  del  terreno  cremasco,  non  è 
più  un'ipotesi  troppo  ardita  il  supporre  che  anche  gli 
Etruschi  vi  collocassero  qualche  colonia,  essi  che  arginando 
il  Po  e  raccogliendone  in  canali  le  acque,  sembra  che  ri- 
volgessero l'operosa  intelligenza  a  migliorare  la  condì- 
dizione  delle  pianure  transpadane ,  naturalmente  palu- 
stri^. 

Intorno  a  sei  secoli  innanzi  l'era  volgare  calarono  in  Ita- 
lia i  Galli  ed  i  Cenomani,  due  razze  diverse  di  popoli,  che 
in  masse  sterminate  migrarono  nel  suolo  italiano.  I  Galli  si 
diffusero  dalle  Alpi  sino  al  Po  ed  all'Adda,  i  Cenomani 
dall'Adda  al  Mincio.  Perciò  il  terreno  cremasco  segnava 
l'estremità  occidentale  dei  paesi  occupati  dai  Cenomani,  ed 
il  lago  Gerundo  era  il  confine  divisorio  fra  le  due  stirpi 
galla  e  cenomana.  Non  vogliamo  assicurare  che  i  Cenomani 
ponendo  le  loro  sedi  nel  suolo  bresciano  e  bergamasco  si 
estendessero  anche  sul  cremasco  :  nondimeno  ciò  è  proba- 
bile per  due  argomenti  che  desumiamo  l'uno  dalla  storia, 
l'altro  dallo  studio  dei  dialetti  lombardi. 


(!)  Plutarco.    Vita  di  Camillo. 

(2)  Rosa.    Genti  stabilite  fra  VAdda  e  il  Mincio. 


Tolomeo,  descrivendo  le  città  e  i  paesi  dei  Cenotfiani, 
accenna  un  luogo  col  nomo  di  Fortini  diugnntorum,  col- 
locandolo fra  Bergamo  e  Brescia.  Fra  Leandro  Alberti,  nel- 
l' opera  sua  intorno  air  Italia,  pone  questo  Foro  nel  silo 

ove  presentemente  sorge  Crema.  L'opinione  dell'  Alberti, 
comunque  da  parecchi  scrittori  adottata,  ebbe  non  pochi 
che  la  smentirono,  e  fra  questi  il  Ruscelli,  il  quale  tradu- 
cendo  Tolomeo,  mette  il  Foro  dei  Diogonli  ove  ora  ù  Piz- 
zighettone.  Noi  non  vogliamo  abbracciare  uè  ciecamente , 
né  interamente  l'opinione  dell'Alberti;  tuttavia  non  ci  per- 
suade abbastanza  quella  del  Fino,  il  quale,  senza  andar 
ricercando  se  il  Foro  dei  Diogonli  fosse  a  Crema  o  piutto- 
sto a  Pizzighettone,  asserisce  che  non  poteva  essere  a  Cre- 
ma per  la  qualità  del  sito  di  quei  tempi  A\  Forse  clic 
nissuna  parte  del  terreno  cremasco  fosse  ancora  abitabile 
ai  tempi  della  repubblica  romana?  Non  lo  crediamo  per  te- 
stimonianza del  Fino  medesimo,  il  quale  soggiunge  :  «  Fra 
»  le  lagune  c'erano  alcune  isolette ,  e  fra  le  altre  una  mag- 
»  giore  di  tutte  detta  foMosa.  »  Adunque  non  ci  par  strano 
supporre  che  i  Cenomani  siensi  sparsi  in  alcune  di  queste 
isolette  ;  non  ci  par  strano  che  il  Forum  Diucjuntorum 
abbia  esistito  sul  terreno  cremasco,  se  non  all'isola  Mosa, 
in  qualche  altra.  Ci  si  obietterà  che  Forum  significava  luogo 
di  mercato,  e  non  esser  verosimile  sorgesse  un  luogo  di 
mercato  in  mezzo  a  paludi.  Risponderemo,  che  i  primi 
centri  mercantili  sorsero  quasi  tutti  in  riva  o  presso  le 
grandi  acque;  onde  poteva  benissimo  esservi  un  foro  an- 
che in  un'  isoletla  del  terreno  cremasco,  per  la  vicinanza 
dell'Adda  e  del  Serio,  il  quale  ne' tempi  antichi,  avverte 
Cattaneo  2) ,  era  pur  esso  navigabile.  Direni  piuttosto  col 
Maffei,  che  il  Foro  dei  Diogonti  era  di  così  lieve  impor- 
tanza, che  se  ne  smarrì  col  volger  degli  anni  ogni  traccia  (3;; 

(i)  Fino.    Le  Sericine. 

(2)  Politecnico ,  volume  I. 

(3)  Maffei.     Yerona  illustrala. 


—  24  - 
ma  finché  non  ci  vien  provato  ov'esso  fosse,   se  a  Crema, 
se  a  Pizzigheltone  o  a  Fornuovo  ,  ci  si  permetta  congettu- 
rare eh1  abbia  esistito  in  un  lembo  del  terreno  cremasco. 

A  render  probabile  che  i  Cenomani  abitassero  il  suolo 
di  Crema,  dicemmo  di  possedere  altro  argomento  negli 
studi  sui  dialetti.  L'idioma  è  tenace  monumento  dell'ori- 
gine dei  vari  popoli,  giacché  la  pronuncia  ne  scopre  la  dif- 
ferenza degli  stipiti.  «  Quand'anche,  scrive  Biondelli ,  una 
»  nazione  venga  costretta  da  una  forza  prevalente  a  cangiare 
»  il  proprio  dialetto,  conserva  sempre  pressoché  intatta  la 
»  nativa  pronuncia.  »  I  dotti  delle  antichità  italiane  osserva- 
rono che  i  paesi  ove  i  Galli  posero  le  loro  sedi  si  distin- 
guono ancora  da  quelli  popolati  da  Cenomani  per  l'uso  di 
pronunciare  la  n  nasale,  proprietà  particolare  della  pronun- 
cia celtica,  introdotta  dai  Galli  nelle  terre  da  loro  occupa- 
te. Infatti  ci  accorgiamo  che  il  vezzo  dei  suoni  nasali  cessa 
alla  sinistra  sponda  dell'Adda,  appunto  ove  il  fiume  divi- 
deva i  Galli  dai  Cenomani.  Oltre  di  che  il  Biondelli  dimostra 
doversi  «  il  dialetto  cremasco,  benché  men  scabro,  riguar- 
dare per  un  subdialelto  del  bergamasco  (*)»,  al  quale  è 
pure  affine  il  bresciano.  Quindi  colla  teoria  dei  dialetti  ven- 
gono considerati  siccome  appartenenti  ad  una  medesima 
razza  i  Bergamaschi,  i  Bresciani  ed  i  Cremaschi:  e  le  terre 
di  Brescia  e  di  Bergamo  vennero  quasi  tutte  popolate  da 
prole  cenomana. 

Ma  non  è  il  dialetto  soltanto  che  accenni  lo  stipite  co- 
mune fra  le  popolazioni  di  Bergamo,  di  Brescia,  di  Crema: 
lo  accenna  armonia  d'indole  e  di  costumi:  lo  accennano  le 
fraterne  simpatie  onde  veggiamo  così  di  frequente  nell'i- 
storia Bresciani,  Cremaschi  e  Bergamaschi  stringersi  in  al- 
leanza ed  accomunare  le  sorti  loro  sotto  il  medesimo  ves- 
sillo. Chi  risalisse  alle  origini  delle  popolazioni  di  Lombar- 

(i)  Bernardino  Biondelli.    Saggio  mi  Dialetti  Gallo-Italici. 


—  90  — 
dia,  non  di  rado  scoprirebbe  nella  diversità  delle  razze  il 
segreto  di  certe  antipatie  municipali  e  degli  odj  che,  ali- 
mentali di  oltraggi  e  di  sangue,  letalmente  tra  paese  e 
paese  inveterarono.  La  storia  c'istruisce  come  i  Galli  ed  i 
Cene-mani,  d'origine  diversi,  sieno  stati  fra  di  loro  nemici. 
Ai  tempi  romani,  l'Adda  separava  due  popoli  che  oslcggia- 
ronsi  aspramente,  lungamente  :  e  ali  odj  ira  le  due  razze 
ripullularono  nel  medio  evo,  quando  Bresciani  e  Crema- 
sebi  battagliarono  accanili  conlro  Cremonesi  e  Lodigiani  :  e 
fino  a'  noslri  giorni  osserviamo  a  malincuore  che  il  Cre- 
masco  serba  ancora  dell'astio  al  Lodigiano.  Questa  secolare 
avversione,  abbarbicatasi  nella  terra  nostra  verso  gente  li- 
mitrofa d'origine  gallica,  sembra  quasi  un  fidecommesso , 
tramandato  per  lunga  scric  di  generazioni  dai  Cenomani  ai 
loro  nipoti:  come  ci  sembra  chiaro  indizio  del  comune 
stipite  quel!'  intendersi  fra  di  loro  Bresciani,  Cremaschi  e 
Bergamaschi,  quell'associare  d'interessi,  quel  frequente  ri- 
cambiarsi d'alleanze  e  d'ajuti,  in  mezzo  alle  gravi  e  svariale 
vicende  in  cui  Tonda  dei  secoli  travolse  le  terre  di  Lom- 
bardia. 

Dei  Cenomani  non  v'è  parola  nelle  cronache  cremasene. 
Raccogliamo  dalla  storia  che  essi  allearonsi  coi  Romani,  e 
gli  soccorsero  a  domare  i  Galli:  raccogliemmo  eziandio 
dalle  cronache  lodigiane ,  che  verso  Tanno  224  prima  di 
Cristo,  un  esercito  di  Romani  entrando  a  combattere  nei 
paesi  dei  Galli,  varcò  l'Adda  a  poca  distanza  del  territorio 
cremasco  ^l 

Da  quanto  abbiamo  coi  nostri  ragionamenti  conghieltu- 
rato,  apparisce  che  ci  scostammo  dall'opinione  del  Terni , 
del  Fino  e  del  Racchetti,  i  quali  affermano  che  il  terreno 
cremasco,  a  motivo  dell'ampie  paludi,  si  mantenne  disabi- 


(1)  Vuoisi  che  ripassassero    t'Adda  nelle  vicinanze  di  Cavenago.    Vedi    li 
Storie  lodigiane  del  Vignati. 


—  26  — 
tato  fino  al  secondo  o  terzo  secolo  dell'era  cristiana.  Ci 
scostammo  da  loro,  non  potendo  così  di  leggieri  persuader- 
ci, che  un  terreno  dell'ampiezza  di  74  miglia  geografiche 
quadrate  rimanesse  per  più  di  quaranta  secoli  un  deserto, 
a  rimprovero  dell'inerzia  dell'uomo  che  trascurava  di  farne 
suo  prò  fertilizzandolo.  Gli  stagni  che  lo  circondavano 
avranno  bensì  impedito  che  vi  si  addensasse  una  popola- 
zione numerosa  ,  ma  non  che  vi  annidassero  alcune  colo- 
nie,  profittando  degli  emersi  rialti  di  terreno,  ove  i  frutti 
naturali  avranno  invitato  gli  abitanti  dei  vicini  paesi  a  rac- 
coglierli,  a  rendere  coir  industria  men  selvaggio  il  nostro 
suolo,  a  spargerlo  di  casolari.  Né  l'industria  agricola  igno- 
ravano i  primi  popoli  che  discesero  in  Lombardia  :  gli 
Etruschi ,  fra  gli  altri,  erano  peritissimi  nell'arte  idraulica, 
nel  disseccar  paludi,  e  furono  i  primi  ad  introdurre  in  Lom- 
bardia i  prati  artificiali,  onde  Polibio  l*)  vantò  l'antica  flo- 
ridezza della  valle  padana.  Seguendo  l'opinione  degli  scrit- 
tori cremasela,  noi  avremmo  dovuto  incominciare  il  nostro 
racconto  riducendo  una  storia  di  quattro  mila  anni  che 
precedettero  l'era  cristiana  a  descrizioni  di  animali  erranti 
sopra  un  terreno  che  mai  né  orma  né  arte  d'uomo  si  degnò 
di  solcare:  avremmo  dovuto  limitarci  a  dipingere  tra  le  fo- 
reste ed  i  pantani  del  cremasco,  i  porci,  i  cinghiali,  i  cervi, 
i  lupi  ed  altri  moltissimi  animali  che  in  tempi  antichi  s'at- 
truppavano  sui  piani  della  selvaggia  e  paludosa  Lombardia. 
Noi  invece  fra  l'ululare  dei  lupi  vaganti  nell'isola  Mosa'21, 
fra  gli  slagni  popolati  da  una  canora  miriade  di  ranocchi, 
siamo  andati  col  lume  della  storia  in  cerca  di  volti  uma- 
ni: studiammo  d'indovinare  quali  saranno  stati  i  primi 
uomini  a  bagnare  di  sudori  e  di  lagrime  il  nostro  terreno, 

(t)  Polibio  scriveva  circa  due  secoli  prima  di  Strabone. 

(2)  L'isola  Mosa  era  detta  anche  Dosso  dell'Idolo:  ed  Alemanio  Fino  pre- 
tende che  la  parola  Idolo,  significasse  Ludolo,  per  i  molti  lupi  che  erravano 
intorno  all'isola. 


—  27  — 
n  procacciarsi  alimento  e  sicurezza  fra  le  paludi  che  lo  re- 
cingevano. E  se  anelli1  le  arrischiate  indù/ioni  ci  avessero 
s\iati  dal  verosimile,  siami)  tuttavia  lieti  d'aver  preferita 
all'opinione  dei  cronisti  cremaseli i,  quella  di  un  robusto  e 
dottissimo  ingegno  moderno  ,  il  quale  ragionando  sul  l'ori- 
gine di  Crema,  sciasse:  «Prima  dell'epoca  longobarda 
»  nissuna  storia  rammenta  il  nome  di  Crema:  però  né  il 
»  nome  è  di  quei  tempi,  né  il  paese  poteva  essere  rimasto 
»  senza  borgate  fino  all'anno  570,  al  quale  si  attribuisce  la 
»  fondazione  di  Cremai11.» 

Dall'epoca  dell'impero  romano  incominciano  anche  le 
cronache  di  Crema  a  rappresentarci  sul  terreno  cremasco 
dei  luoghi  abitali.  Ci  descrivono  l'isola  Mosa  situata  fra  bo- 
schi, e  quasi  nel  centro  del  territorio  nostro,  al  dir  del 
Terni  così  amena,  «  che  gli  occhi  non  si  saziavan  di guar- 
»  dare,  e  delle  Muse  e  non  della  Mosa  si  doveva  domandare.  » 
Quest'  isola  «  faceva  due  corna,  l'uno  verso  levante,  l'altro 
»  verso  ponente,  ov'era  un  luogo  più  altetto  del  rimanente, 
»  ameno  e  piacevole  molto  a  riguardare  che  chiamavasi  il 
»  Dosso  dell'  Idolo  (*).  »  Sopra  il  Dosso  ci  dipingono  una 
modesta  chiesuoletta  che  intitolavasi  S.a  Maria  della  Mosa, 
ovvero  in  Palude,  e  questa  chiesuoletta  il  Terni  conghiet- 
turò  venisse  edificata  da  alcuni  cristiani  rifugiatisi  tra  le 
nostre  paludi  per  sottrarsi  alle  persecuzioni  di  Diocleziano. 
Nell'anno  1547,  erigendosi  in  Crema  il  nuovo  palazzo  del 
Comune,  si  scoperse  una  sepoltura,  sulla  quale  Fino  ci  at- 
testa ch'era  scolpito  l'anno  ola.  Questa  sepoltura  portante 
la  data  dell' anno  515,  e  quel  chiamarsi  Dosso  dell'Idolo 
il  luogo  ove  in  appresso  fu  edificato  il  tempietto  di  S.a  Ma- 
ria in  Palude,  avrebbero  dovuto  ingenerare  almeno  il  dub- 
bio che  un'aggregazione  d'  uomini  popolasse  l' isola  Mosa 


(1)  Carlo  Cattaneo.   Notizie  su  Lodi  e  Crema.  —  Politecnico  ,  Voi.  I. 

(2)  Fino.   Storia  di  Crema. 


—  28  — 
mollo  prima  dell'anno  515.  Le  cronache  invece,  cangiando 
arbitrariamente  la  parola,  dissero  che  per  Idolo  devesi  in- 
tendere Ludolo,  ossia  «Isola  del  Ludolo  dal  ludolar  dei 
»  lupi  che  spesso  nei  boschi  vicini  si  udivano  (*).»  Ed  il  Bac- 
chetti, dalla  scoperta  sepoltura  indicante  l'anno  518,  trae 
uno  degli  argomenti  per  istabilire  che  «  infino  al  secondo 
»  o  terzo  secolo  la  terra  di  Crema  non  ebbe  abitanti  (2).»  Ma 
se  essa  era  asilo  ai  morti  fin  dal  515,  non  si  potrebbe  in- 
vece tener  verosimile  che  lo  fosse  ai  vivi  già  da  parecchi 
secoli  innanzi?....  Non  vogliamo  ritornare  sul  combattere 
le  loro  opinioni;  gioverà  tuttavia  aggiungere,  a  quanto  ab- 
biam  detto,  un'osservazione  che  desumiamo  dalla  storia  de- 
gli ultimi  tempi  dell' impero  romano.  La  Lombardia,  durante 
il  governo  degli  ultimi  imperatori,  era  ridotta  ad  uno  stato 
di  squallore  deplorando.  I  balzelli  enormi,  le  soperchierie 
dei  governatori,  il  disordine  nella  pubblica  amministrazione 
avevano  gettata  la  miseria  fra  le  popolazioni.  «  La  Cisalpi- 
»  na,  che  nei  primi  due  secoli  dell'era  cristiana  era  diventata 
»  il  paese  più  ubertoso  del  mondo  per  ogni  maniera  di  pro- 
li dotti  possibili,  poco  per  volta  diventò  spopolala  e  sfruttata: 
»  subentrò  il  pascolo  alcollivo,ed  abbandonate  le  opere  mec- 
»  caniche  ajutanti  l'agricoltura,  caddero  i  ponti  ed  i  muri  di 
»  sostegno  ai  ronchi,  si  turarono  i  canali  d'irrigazione,  si 
»  ruppero  gli  argini,  crebbero  quindi  le  innondazioni,  gli 
»  stagni,  le  paludi,  generando  la  mal'aria,  le  malattie  e  le 
»  pesti.  E  lo  squallore  andò  a  tale,  che  nel  587  S.  Ambrogio  , 
»  descrivendo  alcuni  luoghi  intorno  al  Po  sul  modanese,dice 
»  ch'ivi  non  rimanevano  più  che  cadaveri  di  città  *31.»  Da 
quesla  lagrimevole  pittura  di  paesi  ch'erano  i  meglio  uber- 
tosi e  coltivati,  si  può  arguire  la  miserabile  condizione  del 


(1)  Fino.   Storia  di  Crema. 

(2)  Bacchetti.   Annotazione  prima  alla  Storia  del  Fino. 

(3)  Gabriel  Rosa.    1  Feudi  ed  i  Communi  della  Lombardia. 


—  29  — 
nostro  nei  secoli  terzo,  quarto  e  quinto.  Se  ci»'»  non  ostante 
il  terreno  cremasco  fu  in  que1  secoli  accessibile  a  non  po- 
chi fuggiaschi  che,  al  dir  del  Terni,  vi  posero  dimora,  ci  si 
permetta  supporre  con  più  forte  argomento  ch'esso  non  sia 
rimasto  inospite  in  epoche  anteriori,  quando  nei  paesi  cir- 
convicini, agricoltura,  arii  e  industria  prosperavano. 

Noteremo  finalmente,  che  sopra  un  lembo  occidentale  de! 
terreno  cremasco  sorgeva  in  riva  al  Tornio  un  castello,  pri- 
ma ancora  che  venisse  Crema  edificata.  Ciò  asseriscono  le 
cronache  nostre,  dicendo  che  Cremetc,  nobil  uomo,  da  cui 
vuoisi  prendesse  nome  la  città  nostra ,  era  «  signore  di 
»  Palazzo  Pignano,  castello  aque' tempi  di  qualche  nome  0.» 
Un  castello  a  Palazzo  Pigliano,  un  tempietto  sul  dorso 
dell'isola  Mosa,  ecco  i  soli  edifici  che  le  nostre  cronache  ci 
dipingono  fra  vaste  paludi  e  boschi  selvaggi,  prima  della 
invasione  longobarda;  ma  intorno  a  quel  castello  si  sarà 
aggruppato  un  branco  di  coloni  o  di  schiavi,  obbedienti  al 
loro  signore,  e  nella  chiesuola  di  S.a  Maria  della  Mosa 
uno  stuolo  di  cristiani  avrà  inneggiato  alla  madre  del  divin 
Redentore  :  onde  ajulandoci  colla  fantasia,  noi  senz1  offen- 
dere il  vero  della  storia,  possiam  figurarci  quel  castello  e 
quel  tempietto  coronati  di  capannucce  e  modesti  abituri;  pos- 
siamo, per  testimonianza  del  Terni  medesimo,  affermare  che 
la  nostra  terra  natale,  quando  all'epoca  d'Alboino  accolse  i 
profughi  dei  vicini  paesi,  non  era  affatto  deserta. 

Ora  verremo  discorrendo  della  fondazione  di  Crema,  nar- 
randola nel  modo  e  all'epoca  che  la  dissero  avvenuta  le 
cronache  del  Terni  e  del  Fino. 

Quando  Alboino  calò  in  Italia,  presi  da  spavento,  ripara- 
rono all'isola  Mosa  molti  nobili  delle  terre  vicine.  Penetra- 
rono nell'isoletta  navigandone  le  lagune  sopra  barchette,  che 
poi  ritirate  sulla  riva  di  Chieve   assicurarono  con  chiavi , 

(i)  Alemanio  Fino.  Storia  di  Cre.na. 


—  50  — 
acciocché  nissuno  ne  usasse  senza  licenza.  Dapprima  arri- 
deva ai  rifugiali  speranza  che  la  pace  rifiorisse  in  Lombar- 
dia, e  di  poter  ancora  senza  pericolo  ritornare  con  le  loro 
famiglie  a  gioire  il  soggiorno  delle  terre  native  :  ma  ben 
presto  sfiduciati,  vedendo  che  le  armi  dei  Longobardi  non 
quietavano,  risolsero  di  stabilire  la  loro  dimora  nell'iso- 
letta  che  tanto  opportunamente  prestavasi  a  guardarli  dal- 
l'ire degli  invasori  longobardi.  Narrasi  che  ai  quindici  di 
agosto  dell'anno  570,  giorno  dell'Assunzione  di  Maria  Ver- 
gine (*.),  tutti  i  rifugiati  si  raccogliesscro  a  consiglio  nel 
tempietto  di  S.a  Maria  della  Mosa,  ed  ivi  di  comune  ac- 
cordo deliberassero  d'erigere  una  cittadella  sul  terreno 
ospitale  che  li  aveva  ricoverati.  Tanto  cocente  ferveva  in 
essi  la  brama  di  provvedersi  un  tetto  ove  poter  con  sicu- 
rezza annidare  le  loro  famiglie,  che  tosto  per  maggior  di- 
fesa nel  giorno  susseguente  (16  agosto  570)  si  diede  mano 
alla  costruzione  di  una  rocchetta,  innalzandola  a  levante 
dell'isola,  e  questa  rocchetta  vuoisi  che  da  Cremete  ,  uno 
dei  rifugiali,  pigliasse  il  nome  di  Crema. 

Il  lettore  s'invoglierà  di  sapere  chi  fosse  Cremete,  e  per- 
chè mai  dal  suo  assumesse  il  nome  la  città  nostra.  11  Terni 
narra:  Cremes  o  Cremete  era  conte  e  cavaliere*  3  il  più 
onorato  e  riverito  fra  quanti  avean  cercato  rifugio  nell'  i- 
sola  Mosa.  Prosegue  il  nostro  cronista  congetturando  che 
egli  provenisse  non  da  Parasso,  come  vogliono  alcuni ,  ma 
dal  vicino  palazzo  o  castello,  ch'egli  possedeva  magnifico  in 
riva  al  Tonno,  ove  appunto  a' nostri  giorni  è  la  villa  detta 
di  Palazzo  Pigliano.  E  per  accreditare  questa  sua  opinione, 
il  Terni  narra  d'aver  raccolto  in  un'antica  cronachetta,  che 
al  luogo  ov'è  situata  la  Villa  di  Palazzo  sorgeva  «  un  nobile 


(1)  L'Alemanio  Fino  nella  Seriana  XXV  dice  che  la  deliberazione  presa 
addì  15  agosto  dell'anno  570  fu  uno  dei  molivi  per  cui  la  cattedrale  di  Cre- 
ma è  dedicata  all'Assunzione  di  Maria  Vergine  col  titolo  di  S.  Maria  magslore. 


—  5]  — 
i  castello  e  bellissimo  palazzo  del  conte  Cremete  in  cui  rice- 
■  vette  il  re  dei  Longobardi  onorificentissimamente»  :  il  qual 
castello  esisteva  ancora  nel  1360,  come  il  Terni  medesimo 
ebbe  modo  di  leggere  sopra  un  istrumento  rogato  in  quel- 
l'anno, e  ch'egli  citò  nel  primo  libro  della  sua  storia.  Indo- 
vinare di  qual'origine  fosse  Cremele,  se  barbara  o  romana, 
non  è  agevol  cosa;  ma  giacché  le  cronache  ce  lo  rappre- 
sentano quale  splendido  signorotto  di  un  castello  situalo  ai 
confinì  occidentali  del  territorio  nostro,  ci  si  permetta  sup- 
porre ch'egli  discendesse  da  uno  di  quei  veterani,  ai  quali 
gì1  imperatori  di  Roma  concedettero  il  libero  dominio  di 
terreni  vacanti,  ossìa  deserti,  affinchè  li  coltivassero  e  pos- 
sedessero franchi  d'ogni  gravezza  i1*.  Però  non  figuriamoci 
in  Cremcic  un  feudatario  nel  vero  senso  di  questa  parola, 
che  nei  beneficj  militari  concessi  dai  Cesari  ai  veterani  non 
vi  era  riserva  di  diretto  dominio  all'impero,  oltre  di  che 
i  feudi  in  Italia  originarono  sotto  la  dominazione  dei 
Longobardi.  Né  ci  torni  strano  che  il  Terni  attribuisca  a 
Cremete  il  titolo  di  conte,  imperocché  ai  tempi  di  Cremete 
non  era  nuovo  questo  titoio:  lo  dispensarono  per  i  primi 
gl'imperatori  di  Roma;  comites  (compagni)  si  chiamavano 
le  persone  scelte  a  formare  la  comitiva  a  cavallo  degl'im- 
peratori, e  conti  palatini  quelli  destinati  alla  cura  della  ca- 
mera e  del  palazzo  imperiale.  Diciamo  di  non  far  le  me- 
raviglie  udendo  nominare  un  conte  nel  secolo  sesto,  del 
resto  noi  non  vogliam  garantire  che  Cremele  fosse  real- 
mente conte,  e  ben  poco  importerebbe  se  non  lo  era.  Pro- 
babilmente Cremele ,  dal  suo  castello  in  riva  al  Tornio 
estendeva  il  dominio  sulle  terre  circostanti ,  ed  anche  sul- 
l'isola Mosa;  quindi  allorché  questa  divenne  ricovero  a  molti 
emigrati,  essi  riconobbero  Cremete  per  loro  capo,  e  Crema 


(1)  «  Veterani  vacantes  terras  accipiant,  easque  perpetuo  habeant  immu- 
ne*. »  Codex  Teodosianus  ,  lib.  7,  cap.  20. 


—  32  — 

intitolarono  dal  suo  nome  la  Rocchetta,  poi  quel  gruppo  di 
edifici  ch'eressero  col  di  lui  soccorso  sul  terreno  del  loro 
asilo,  Per  queste  ragioni,  e  non  altrimenti,  ci  sembra  vero- 
simile che  Cremete  si  assumesse  fra  i  rifugiati  un'autorità 
di  primate,  che  dal  suo  togliesse  il  nome  la  nuova  cittadel- 
la, e  che  ivi  giungesse,  egli  già  conte  di  Palazzo,  a  farsi 
riverire  come  signore  di  Crema  da  persone  che  ospitò  ne' 
suoi  dominj  (4). 

L'edificazione  di  Crema  fu  un  lavoro  di  circa  venticinque 
anni:  incomincialo  ai  sedici  d'agosto  del  570,  recossi  a  ter- 
mine Fanno  594.  Nel  decorso  di  questi  venticinque  anni, 
gl'infelici  che  la  fabbricavano  vennero  travagliali  da  una 
sequela  di  disastri.  Primo  di  tutti  li  minacciò  da  vicino  la 
guerra,  quando  Longino,  esarca  di  Ravenna,  unitosi  a  Lo- 
tario re  d'Ungheria,  assediò  Milano,  onde  ricuperare  al- 
l'impero d'oriente  il  perduto  regno  d'Italia;  poi  gli  afflisse 
la  pestilenza,  diffusasi  nel  585  per  tutta  l'Italia;  indi  la 
fame  (591)  prodotta  da  lunga  siccità  e  da  nembi  di  locuste 
che  le  messi  consumarono.  Perfino  gli  elementi  sembrava 
cospirassero  col  ferro  degli  invasori  a  martoriare  le  misere 
contrade  d'Italia.  L'anno  584  avvenne  nella  penisola  «tale 
»  diluvio,  che  a  Verona  l'Adige  arrivò  fino  alle  più  alte  fine- 
»  stre  di  S.  Zeno,  ed  a  Roma  il  Tevere  soverchiò  le  mura 
»  della  citlà  l*)-.  »  Ora  pensate  quanto  il  territorio  nostro, 
d'acque  abbondantissimo, rimanesse  danneggiato  dalle  stem- 
perale piogge  di  quell'anno  :  nondimeno  di  tutti  i  mali  che 
accennammo,  il  più  micidiale  nella  terra  nostra  fu  la  fame 
del  591,  tanto  che  molti  ne  perirono,  e  si  dovettero  in 
quell'anno  sospendere  le  costruzioni. 


(1)  SulF  etimologia  della  parola  Crema,  vedi  l'articolo  nella  Nota   posta 
in  line  del  capitolo. 

(2)  Non  ci  rendiamo  risponsabili  che  in  queste  parole  non  vi  sia  dell'esa- 
gerazione :  le  togliemmo  dalla  storia  del  Fino ,  il  quale  copiolle  dal  Terni. 


,ì.) 


Compiutasene  l'edificazione,  e  fortificata  air  intorno  di 
bastioni»  la  nuova  cittadella  comprendeva  uno  spazio  di 
terreno  assai  breve;  le  roggie  Crema  e  Bino,  che  oggidì 
scorrono  dentro  la  città ,  allora  servivano  esternamente  di 
fosse  alle  mura.  Ma  non  andò  guari  che  si  senti  il  bisogno 
di  aggrandirla ,  e  fu  quando  il  re  de' Longobardi  Agilulfo 
distrusse  Cremona,  minacciando  con  barbaro  editto  la  pena 
capitale  a  chi  avesse  soltanto  consigliato  di  rialzarla (0.  Non 
pochi  Cremonesi,  dopo  l'eccidio  della  città  loro,  migrarono  a 
Crema,  onde  accresciutasene  la  popolazione,  fu  d'uopo  ag- 
giungere a  Crema  dei  sobborghi.  Tre  ne  sorsero  in  men  di 
due  anni  regnando  Agilulfo,  l'uno  verso  levante,  che  si 
chiamò  di  S.  Benedetto;  l'altro  verso  occidente,  di  S.  Sepol- 
cro; e  il  terzo,  di  S.  Pietro,  fra  levante  e  settentrione.  L'e- 
migrazione di  molte  famiglie  cremonesi  nella  terra  nostra, 
all'  epoca  appunto  che  vi  si  era  appena  fabbricata  la  nuova 
cittadella ,  porse  a  taluni  argomento  per  asserire  dover 
Crema  la  sua  origine  ai  Cremonesi.  Sostenitore  di  questa 
opinione  era  certo  abate  Zava  cremonese,  maestro  d'umane 
lettere  in  Crema,  ond'ebbe  ad  accapigliarsi  col  nostro  Alenia- 
mo Fino,  il  quale  non  sopportando  che  il  Zava  ne' suoi 
scritti  appellasse  Crema  figliuola  di  Cremona,  gli  rispose  in 
versi  ed  in  prosa,  combattendolo  con  penna  invelenita  da 
municipalismo.  Noi,  alieni  dai  mescolarci  in  quistioni  pue- 
rili, e  men  suscettivi  di  velleità  municipali,  perdoneremo  al 
Zava  ed  a'  suoi  seguaci  d'essere  caduti  in  errore:  perdone- 
remo eziandio  a  certi  scrittori  lodigiani,  che  pure  preten- 
dono aver  Lodi  su  Crema  dei  diritti  di  maternità.  Disse 
fondatori  di  Crema  i  Lodigiani,  il  Villauuova  istoriografo  di 
Lodi  :  e  Filiberto  Villani,  poeta,  bevutasi  l'opinione  del  Vil- 
lauuova suo  concittadino,  e  quella  del  Zava,  le  conciliò  fra 
di  loro  in  Parnaso  cantando: 

1,1)  Campi.   Storia  di  Cremona. 


—  54  — 

li  Lodigiano  ni  Cremonese  unito 

Spinse  dai  tetti  suoi  pallida  tema  : 

E  fra  paludi  in  più  sicuro  sito 

Fugge  del  crudo  re  (1)  la  rabbia  estrema; 

Ed  allor  fra  lugurj  e  in  ermo  lito 

Ebbe  poscia  natal  la  nobil  Crema  (2). 

Vero  è  che  il  Terni ,  il  Fino  ed  il  Sigonio  dicono  fondatori 
di  Crema  molti  nobili  venuti  dalle  vicine  città  e  castella  ; 
ma  quando  si  volesse  abbracciare  letteralmente  quest'opi- 
nione, dovremmo  riconoscere  quali  progenitori  del  popolo 
cremasco  anche  i  Bresciani  ed  i  Bergamaschi,  e  con  più 
forte  motivo,  perochè  il  nostro  dialetto  ha  moltissima  affinità 
con  quello  di  Bergamo  e  di  Brescia,  poca  col  cremonese, 
nissuna  col  lodigiano.  Se  non  che  noi  siamo  tenaci  nell'av- 
viso, che  prima  ancora  dell' invasione. longobarda  il  suolo 
cremasco  formicolasse  d'abitatori,  onde  crediamo  che  colle 
emigrazioni  dell'anno  570 ,  la  popolazione  vi  aumentasse 
di  molto,  ma  non  che  i  profughi  ponessero  essi  soli  le  fon- 
damenta d'una  città  in  ermo  lilo. 

Terni,  Fino  e  Sigonio  ascrivono  all'anno  60c2  la  morte 
di  Cremele,  ed  a  lui  concedono  trentadue  anni  di  governo 
nella  terra  di  Crema,  signoreggiando  i  Longobardi.  Di  qual 
natura  fu  il  regime  di  Cremete?  Nelle  cronache  non  è  detto. 
Giuseppe  Bacchetti  suppone  ch'egli  abbia  governalo  con  leggi 
non  romane  ma  de' barbari,  e  che  abbia  figurato  nel  novero 
dei  duchi  longobardi.  Ma  a  noi  non  venne  mai  fatto  di  tro- 
var Crema  nominata  fra  i  trentacinque  ducati  nei  quali  i 
Longobardi  ripartirono  in  Italia  le  provincie  conquistate. 
D'altronde  non  possiamo  persuaderci  che  Cremete  arri- 
vasse ad  essere  uno  dei  duchi,  sapendo  che  coloro  i  quali 


(1)  Alboino. 

(2)  Federico  Barharossa  ,  poema  di  Filiberto  Villani. 


—  «).)  — 
iole  autorità  s'arrogarono,  erano  tutti  ufficiali  superiori  del? 
l'esercito  d'Alboino  e  suoi  compagni  di  trionfi.  Perciò  pro- 
pendiamo a  supporre  che  Cremete  sia  staio  uno  dei  pochi 

nobili  romani,  cui  i  Longobardi  rispettarono  la  \ita  e  lo 
proprietà,  torso  in  compenso  d'essersi  culi  loslo  e  sponta- 
neamente  sottoposto  co1  suoi  poderi  e  co' suoi  coloni  alla 
devozione  de' nuovi  conquistatori.  Giacché  vuoisi  clic  Cre- 
mete abbia  governato  nel  circondario  cremasco,  è  più  vero- 
simile ch'egli  governasse  non  in  qualità  di  duca  ma  di 
gastaldo,  confermandolo  i  Longobardi  nell'amministrazione 
e  godimento  delle  terre  ch'egli  già  dominava  prima  della 
loro  invasione,  e  conferendone  a  lui  il  diritto  di  giustizia 
civile  e  criminale  sopra  gli  abitanti.  Sappiamo  che  tale  di- 
ritto i  Longobardi  sulle  terre  conquistate  concedevano  ai 
gastaldi ,  pretendendone  in  ricambio  che  prestassero  ser- 
vigi militari  al  sovrano  l*). 

Le  cronache  nostre  sono  a  Cremete  larghe  d'encomj: 
ne  lodano  il  governo,  ne  attribuiscono  a  mitezza  quell'af- 
fluire  di  tante  famiglie  cremonesi  alla  nuova  cittadella,  cer- 
candovi asilo.  Forse  ch'egli,  quantunque  nato  e  cresciuto 
signore,  possedeva  quelle  generose  doti  che  talvolta  infio- 
rano i  ceppi  a  chi  è  condannato  di  obbedire  mutamente. 
Cremete  pose  molto  amore  ed  accorgimento  nel  migliorare 
le  condizioni  del  limaccioso  terreno  cremasco ,  sia  rego- 
lando il  corso  delle  acque,  sia  tagliando  selve,  acciocché 
il  suolo  divenisse  più  atto  all'arte  agricola  e  alla  costru- 
zione degli  edifici.  11  Terni,  magnificando  Cremete,  scrisse 
con  linguaggio  mitologico,  «  che  al  bene  della  (erra  nostra 
»  vigilante,  alle  aque  incominciò  a  poner  leggi,  a  Cerere  e  a 
»  Bacco  dedicando  quello  che  diNeptuno  era  in  possesso.  » 
Durante  il  suo  governo,  vuoisi  che  sieno  venuti  a  visitare 
la  terra  nostra  la  regina  Teodolinda  con  Autari  suo  sposo 

(1)  Rosa  ,  l  Feudi  e  i  Comuni  dalla  Lombardia. 


—  56  — 

e  re  Agilulfo,  che  Cremele  festeggiò  con  isplendide  acco- 
glienze nel  suo  castello  di  Palazzo  Pignano. 

Il  professor  Zava,  che  già  citammo,  volendo  far  derivare 
Crema  da  Cremona ,  negò  che  il  fondatore  di  Crema  sia 
stato  Cremete ,  negò  perfino  eh1  egli  abbia  mai  esistilo. 
L'Àlcmanio  Fino,  in  una  delle  sue  Passeggiale,  rispose  alle 
negative  del  Zava  con  le  seguenti  parole:  «  Voi  mi  dite 
»non  v'è  memoria,  non  v'é  vestigio  alcuno  di  questo  Crc- 
»  mete  :  sapete  perchè?  volete  ch'io  ve  lo  dica?  l'avrete  poi 
»  a  male?  Ve  lo  dirò  fuori  dei  denti.  Nei  tempi  di  Federico 
»  imperatore,  i  vostri  Cremonesi  ci  abbruciarono  tulio  <*'. 
»  Si  è  nondimeno  dai  padri  nei  figli  di  mano  in  mano  pas- 
»  sando,  mantenuta  questa  verità ,  che  generalmente  tutta 
»  la  patria  nostra  così  crede  e  così  tiene  (essere  slato  Cre~ 
»  mete  il  fondatore  di  Crema).  Se  non  credete  a  me,  anda- 
»  tevene  nell'archivio  di  questa  nostra  Comunità  ,  che  vi  si 
»  rappresenterà  questo  Cremele  signorilmente  vestito,  con 
»  lettere  che  dicono  : 

»  Crema  a  Cremete  condita  sub  Alboino 

LONGOBARDORUM   ReGE.» 

Quantunque  narrando  della  fondazione  di  Crema  noi  ci  at- 
tenemmo all'  opinione  del  Terni ,  rispettando  così  la  più 
volgare  tradizione  dei  nostri  padri ,  non  taceremo  che  sul- 
l'origine di  Crema  v'ha  discrepanza  di  pareri  fra  gli  antichi 
scrittori.  Alcuni  pretendono  che  Lodi  e  Crema  avessero  in- 
sieme principio,  mila  quattrocento  ottanlanove  anni  innanzi 
Cristo,  da  certi  popoli  venuti  da  Laodicea  e  da  Cremna , 
ambedue  città  dell'Asia,  rovinate  da  un  re  Cirino  per  ven- 
dicare la  morte  di  certo  re  Aminta  :  dicono,  che  micrali  in 
Italia  i  cittadini  di  Cremna  edificassero  Crema,  e  Lodi  quelli 

(1)  Allude  alla  distruzione  di  Crema  ai  tempi  di  Barlarossa,  alla  quale  i 
Cremonesi  presero  una  gran  parte. 


—  <)/    — 

di  Laodicea.  Di  L&odicoa,  città  nella  Galazia,  accenna  To- 
lomeo, ed  anche  ili  Cremna  che  pone  nella  Panfilia.  Questa 

opinione  che  assillile  alcun  elio  di  verosimile  dai  nomi  delle 
città,  è  confutata  da  Pietro  Terni,  contraddetta  dalle  istorie 
lo  ili  izi  a  ne. 

Altri  scrittori  fanno  Crema  originare  dalla  distruzione 
di  Parasse,  città  antichissima,  che  vuoisi  fabbricata  in  riva 
al  Tornio  da  un  Trojano,  poco  dopo  la  venuta  d'Enea  in 
Italia.  Ma  su  questo  punto  sono  disparate  le  opinioni.  Si- 
gonio  scrive  che  Parasso  distrussero  i  Milanesi,  Tanno  1047, 
per  avere  i  suoi  abitanti  prestato  soccorso  ai  Pavesi.  Al- 
berti, Moriggia  ed  altri  cronisti  affermano  invece  che  la 
distruzione  di  Parasso  avvenne  nel  951  ,  per  ordine  del- 
l'arcivescovo di  Milano,  essendo  i  Parassini  infetti  d'eresia. 
Chi  dice  che  i  Parassini  quando  videro  la  terra  loro  incen- 
diala, vi  edificassero  a  poca  distanza  una  città,  che  per 
rammemorare  l'incendio  di  Parasso,  Crema  domandarono,  da 
cremare  (abbruciare);  chi  dice,  esistesse  già  Crema  quando 
s'incendiò  Parasso,  e  che  i  Parassini  rifugiandovisi ,  dopo 
l'eccidio  della  patria  loro,  non  fecero  che  ampliarla.  Il  Terni 
credette  di  troncare  ogni  quistione  su  Parasso  asserendo 
non  aver  mai  esistito  una  città  di  questo  nome,  e  che  i  cro- 
nisti confusero  Parasso  con  Palazzo,  o  sia  col  castello  si- 
tuato in  riva  al  Tornio,  ove  signoreggiava  Cremete,  prima 
ancora  della  fondazione  di  Crema.  Ma  questa  soluzione  del 
Terni  non  ci  appaga  gran  fatto:  forse  a  quel  pio  gentil- 
uomo dettavala  timore,  che  si  radicasse  l'opinione  sostenuta 
da  molti  cronisti,  abbia  avuto  la  città  nostra  origine  da 
una  nidiata  d'eretici,  l'anno  951.  Che  Parasso  abbia  esi- 
stito, e  i  Milanesi  l'abbruciassero,  è  asserzione  ripetuta  in 
parecchie  cronache,  né  sappiamo  con  quali  argomenti  si 
possa  confutare.  Ove  poi  sorgesse  Parasso,  se  in  riva  al 
Tornio  e  nel  territorio  nostro,  od  altrove,  è  quistione  molto 
ardua  a  sciogliersi,  quistione  che  il  Terni  non  che  definire, 


—  38  — 
ha  rabbuiata  ancor  più,  asserendo  che  gli  scrii  (ori  confu- 
sero Parasso  con  Palazzo,  villa  del  Cremasco.  Ma  giacché 
il  Terni  pretende  sieno  caduti  in  errore  non  pochi  scrittori 
scambiando  Parasso  con  Palazzo,  noi  diremo  francamente, 
che  ci  pare  s'apponga  al  falso  anche  il  Terni,  il  quale  sul 
terreno  ove  oggidì  giace  la  villa  di  Palazzo,  vede  in  tempi 
antichi  nulla  più  di  un  castello  magnifico  in  cui  dominava 
Cremete,  e  che,  a  suo  avviso,  diede  il  nome  di  Palazzo  al 
villaggio,  e  di  Conti  di  Palazzo  ai  signori  cui  quel  castello 
apparteneva.  Che  l'odierna  Palazzo  fosse  un  tempo  bor- 
gata di  qualche  importanza,  e  non  consistesse  tutta  nei 
Castello  o  Palazzo  di  Cremete,  lo  accennano  anche  le  cro- 
nache nostre,  e  vi  sono  indizi  a  persuadercene.  «Ci  sono», 
scrive  il  Fino,  «le  fondamenta  di  grossissime  mura  dietro  il 
»  fiume  Torino:  ci  sono  i  marmi  e  le  sepolture  trovatevi 
»  nel  lavorare  i  campi:  c'è  un'antica  porta  di  Pavia,  delta 
»  Porta  Palazzese:  c'è  l'antica  chiesa  di  Palazzo,  la  quale 
»  ha  ragion  di  conferire  diversi  benefici.  »  Da  questi  e  da 
altri  argomenti  che  vi  si  potrebbero  aggiungere,  doveva  il 
Terni  congetturare  che  anticamente  sulla  terra  di  Palazzo 
si  estollesse  non  un  castello  soltanto,  ma  una  grossa  borga- 
ta, o  forse  una  piccola  città.  La  quale  però,  quand'anche 
fosse  Parasso,  come  vogliono  alcuni,  non  polrebbesi  ancora 
inferire  che  da  Parasso  abbia  Crema  avuto  l'origine,  es- 
sendo Parasso  stata  distrutta  in  epoca  posteriore  alla  fon- 
dazione di  Crema.  A  noi,  come  al  Muratori  ed  al  Giulini, 
sembra  più  verosimile  l'opinione  di  coloro  che  dicono  non 
che  i  Parassini  edificassero  Crema ,  ma  che  rifugiandovisi 
l'ampliarono. 

Del  resto,  lasceremo  a  menti  più  sagaci  e  più  riposate 
l'indagare  quale  sia  stata  la  vera  origine  di  Crema.  Noi 
preferimmo  l'opinione  del  Terni  e  del  Fino,  non  che  la  te- 
niamo incontrastabile,  ma  come  quella  che  ha  colore  di  ve- 
rosimile, e  perchè  l'adottò  anche  il  Sigonio;  e  Muratori  la 


—  89  — 

disse  basata  sopra  non  incongruenti  congetture ,  ed  i1 
nosiii  giorni  venne  riportata  da  Cesare  Canta  nella  sua 
Storia  degli  Italiani.  Osserveremo  che  l'opinione  da  noi  se- 
guila, e  ci  sembra  la  più  accreditala  ira  idi  eraditi,  emanò 

dalla  penna  di  Pietro  Terni:  da  lui  la  tolse  Aleniamo  Fino, 
e  dal  Fino  il  Sigonio:  il  Terni  però  non  ignorava  le  opi- 
nioni contrarie  alla  sua;  che  anzi  le  esaminò  combattendo- 
le, e  fu  abbastanza  giudizioso  e  modesto  scrivendo:  «penso 
»  che  la  mia  opinione  sia  la  vera,  nondimeno  ciascuno  pi* 
»  gli  quella  che  meglio  li  parerà  ,  che  forse  con  più  per- 
»  spieace  intelletto  che  a  me  non  è  concesso ,  il  vero  tra- 
»  mite  troverà  e  senza  intoppo  t1'.  » 

Dal  G0W2  all'anno  1009,  cioè  pel  lungo  spazio  di  quattro 
secoli ,  le  cronache  di  Crema  non  ci  offrono  della  città  no- 
stra alcuna  particolare  notizia.  Espongono  solamente  come 
essa  abbia  subito  le  sorli  degli  altri  paesi  lombardi,  servendo 
successivamente  ai  molti  e  diversi  padroni  che  si  avvicen- 
darono il  dominio  delle  provincie  transpadane.  Spenta  con 
Desiderio  la  dominazione  dei  Longobardi,  Crema  fu  signo- 
reggiala prima  da  Carlo  Magno  e  dalla  dinastia  franca  detta 
dei  Carlovingi,  poi  dai  molli  principi  che  si  dispularono  il 
reame  d'Italia;  finalmente  da  Ottone  il  Sassone,  che  inco- 
ronato a  Pavia  re  de'  Longobardi  nel  951  ,  e  imperatore  a 
Roma  nel  961,  incorporò  l'Italia  all'impero  di  Germania. 
Se  le  cronache  di  Crema  difettano  di  memorie  rapporto 
agli  avvenimenti  dei  quattro  secoli  succennati,  ne  dobbiamo 
accagionare  l'ignoranza  onde  fu  intenebrala  quell'età  scia- 
guralissima,  ignoranza  che  portò  una  maledizione  di  ste- 
rilità su  tutta  la  storia  del  medio  evo.  Della  dominazione 
longobarda  e  delle  successive  fino  al  risorgimento  dei  Co- 
muni italiani  non  possediamo  che  poche  e  mal  abborracciate 
cronache,   vergale  le  più  nelle  canoniche  e  nei  monasteri, 

(1)  Pietro  Termi.  Hisloria  di  Crema.  Inedita. 


—  M  — 
ultimo  rifugio  degli  studj ,  da  frati  iuesperli  dei  viluppi 
della  politica,  i  quali  nel  pacifico  cerchio  del  loro  con- 
vento s'occupavano  piuttosto  d'una  cometa  o  di  un'eclissi, 
che  non  delle  guerre  dei  principi  e  delle  sofferenze  de'  po- 
poli. Fatale  rozzezza  dei  tempi  che  frodò  la  storia  del 
popolo  italiano  di  pagine  importantissime!  Amalfi,  Gaeta  e 
Napoli,  città  gloriose  che  in  quell'età  durissima  raccolsero 
le  primizie  della  libertà  italiana,  che  precorsero  lo  sviluppo 
delle  scienze  giuridiche  e  del  commercio  marittimo,  an- 
ch' esse  non  tramandarono  che  poche  ed  incerte  memorie 
in  ricordo  dell'antica  grandezza. 

Perciò  qual  meraviglia  se  nel  bujo  di  secoli  ignorantissi- 
mi, Crema,  allora  piuttosto  borgata  che  città,  è  affatto  priva 
d'ogni  slorica  luce!  Rassegniamoci  adunque  ad  ignorare  le 
vicende,  la  condizione  sociale  di  tante  generazioni  nudrite 
sul  nostro  suolo  nativo,  nel  lungo  intervallo  decorso  dal 
settimo  all'undecimo  secolo.  Quelle  generazioni  passarono 
sul  terreno  cremasco,  siccome  le  nubi  sorvolanti  sopra  il 
loro  capo,  non  lasciando  alcun  vestigio  che  le  rammentasse 
ai  nipoti:  caddero  nel  sepolcro,  come  goccie  d'acqua  nel- 
l'oceano. Se  vero  fosse  f aforisma  di  Montesquieu:  Beati  i 
popoli  che  non  hanno  storia,  dovremmo  rallegrarci  di  tro- 
vare nelle  cronache  di  Crema  una  così  vasta  lacuna.  Ma 
non  possiamo  supporre  beatitudine  in  generazioni  vissute 
fra  la  barbarie  e  le  tempestose  vicende  dei  primi  secoli  del 
medio  evo:  quindi  teniamo  che  i  Cremaschi  avranno  an- 
ch'essi delle  comuni  sventure  sopportata  la  loro  parte,  forse 
men  grave  che  a  tanti  altri,  perchè  l'abitare  in  terra  piccola 
e  d'oscuro  nome,  talvolta  gli  avrà  difesi  da  mali  peggiori. 

Ai  tempi  di  Grimoaldo  re  de'  Longobardi ,  le  cronache 
fanno  menzione  per  la  prima  volta  di  un'isola  Fulcheria, 
dicendo  che  quel  re  vi  eresse  un  tempio  dedicandolo  a 
S.  Alessandro  (*).  È  fuor  d'ogni  dubbio  che  sotto  il  nome 

(1)  Historia  quadripartita  di  Bergamo,  di  Fra  Celestino  da  Bergamo. 


—  »!  — 

d'isola  Fulcheria  o  di  Fulcherio  si  comprendesse  il  terri- 
torio cremasco,  ma  non  è  ben  accertato  se  tulio,  o  sola- 
mente quella  parie  chiusa  fra  il  Serio  e  V  Adda.  È  puro 
contesa  fra  gli  scrittori  so  risola  Fulcheria  abbracciasse 
tutta  la  Ghiaradadda  :  lo  negano  Giulini  e  -Guidone  Fer- 
iali (*\  lo  ammettono  il  Campi  ed  il  Menila.  A  sostegno 
delle  difformi  opinioni  cilaronsi  documenti  e  diplomi  impe- 
riali, dai  quali  apparisce  clic  il  nome  d'isola  Fulcheria  usa- 
vasi  ancora  nei  secoli  un  decimo  e  duodecimo  ad  indicare 
terreno  cremasco.  Ma  gli  allegali  diplomi,  non  che  schiarire, 
offuscano  la  quìstione,  non  potendosi  ben  comprendere  se 
gli  imperatori  germani  che  V  isola  Fulcheria  infeudarono 
ora  a  un  gentiluomo,  ora  a  un  Comune,  intendessero  in- 
feudarla tutta  intera,  o  soltanto  in  una  parte.  Giuseppe 
Racchctti  spese  sull'isola  Fulcheria  una  lunga  ed  assai 
erudita  dissertazione  (*),  e  confutando  il  Giulini  che  dall'i- 
sola vuol  esclusa  la  Ghiaradadda,  sembra  che  ne  tiri  per 
conclusione,  «  esser  l'isola  Fulcheria  una  porzione  del  cre- 
»  masco ,  quella  cioè  posta  alla  destra  del  Serio  con  la 
»  Ghiaradadda  di  più.»  Ma  a  noi  pare  che  l'isola  Fulcheria 
si  estendesse  ancor  più,  e  lo  desumiamo  da  documenti.  Leg- 
gesi  nella  cronaca  di  Bergamo  ^) ,  che  Grimoaldo  re  dei 
Longobardi  donò  a  S.  Giovanni,  vescovo  di  Bergamo,  la 
terra  dì  Fara  posta  nell'isola  Fulcheria.  Due  sono  i  paesi 
col  nome  di  Fara,  situati  a  poca  distanza  dal  territorio 
cremasco:  l'uno  presso  Pontirolo  in  riva  all'Adda,  l'al- 
tro presso  Covo.  A  quale  dei  due  accenna  la  cronaca  di 
Bergamo?  o  a  Fara  presso  Pontirolo,  e  veggasi  qual  lungo 
tratto  di  terreno  l'isola  Fulcheria  comprendesse  verso  nord- 
ovest: o  a  Fara  presso  Covo,  ed   allora  risulterebbe  che 


(4)  Guidone  Ferrari.    Lettere  Lombarde. 

(2)  Annotazione  terza  a!  libro  primo  della  storia  di  Alemanio  Fino. 

(3)  Historia  quadripartita  di  Bergamo,  di  Fra  Celestino  da  Bergamo. 


—  42  — 
l'isola  Fulcheria  estendevasi  anche  olire  la  riva  sinistra 
del  Serio,  a  meno  che  questo  fiume  racchiudesse  a  que' 
tempi  anche  Fara  nell'isola.  Leggemmo  pure  un  diploma  di 
Federico  Barharossa  riportato  per  intero  dal  Campi  nella 
sua  storia  di  Cremona,  diploma  che  al  Racchetti  passò  in- 
osservalo, e  che  potrehhe  risolvere  la  quistione  se  altri 
diplomi  pure  d'imperatori  non  la  intorbidassero.  Il  diploma 
di  Federico  contiene  rinvestitura  della  contea  dell'isola 
Fulcheria  fatta  a  certo  Tinto  de'Tinli  Musogatta, architetto 
ed  ingegnere  famoso,  che  servì  Barharossa  e  nell'edifica- 
zione di  Lodi  e  noli'  assedio  di  Crema.  Federico  nell'inve- 
stitura si  espresse  colle  seguenti  parole:  «...  notum  faci- 
»  mus  universis  per  Italiani  imperii  nostri  fidelibus,  lam 
»  prsesentibus  quam  fuluris  ,  qualiler  fìdeli  nostro  Tinto 
»  cremonensi  qui  dicitur  Musa  de  Gatta,  prò  magnis  et 
»  praeclaris  ejus  ohsequiis  liane  graliam  indulsimus ,  quod 
»  eum  de  comitalu  insula  Fulcheria  ,  sìcul  in  terminis 
»  istis  contmetur *3  vìdelicet  de  Picighetone  usque  ad  Pon- 
»  tirolum,  sicut  est  infra  Ahduam  et  Serium,  quidquid  ad 
»  nostrum  jus  pertinet  per  rectum  pheudum  jure  comitatus 

»  investivimus » 

Arguendo  1'  estensione  dell'  isola  Fulcheria  dalle  parole 
che  usò  Barharossa  in  questo  diploma,  l'isola  Fulcheria  da 
settentrione  a  mezzodì  s'allungherebbe  per  tutta  la  linea 
dell'Adda  da  Pontirolo  a  Pizzighettone.  Perciò  sarebbero 
incorsi  in  errore,  e  Giulini  che  vuol  esclusa  dall'isola  la 
Ghiaradadda,  e  l'egregio  ingegner  Lombardini  (*),'  circoscri- 
vendo l'isola  Fulcheria  ad  alcuni  paesi  del  Cremasco  si- 
tuati fra  il  Serio,  l'Adda  ed  il  Tormo.  Vero  è  che  anch'essi 
appoggiano  la  loro  opinione  ad  un  diploma  imperiale  con 
cui  Enrico  VI   cedette  ai  Cremonesi  i  suoi  diritti  sull'  i- 


(1)  Elia  Lombardini.    Staio  idrografico    naturale.    Capitolo    IV   dell'opera 
Notizie  naturali  e  civili  sulla  Lombardia. 


—  «3  — 
sola  Fulcheria:  però  in  quel  diploma  non  è  detto  che  En- 
rico VI  abbia  voluto  cedere  ai  Cremonesi  l'isola  Fulcheria 
tutta  intera:  pare  anzi  ch'egli  col  nominare  i  paesi  Ml  sui 
quali  cadeva  la  cessione,  abbia  voluto  rispettare  le  giuris- 
dizioni territoriali  che  altri  possedevano  sul  rimanente  del- 
l'isola Fulcheria. 

Porremo  fine  a  questo  capitolo  che  comprende  l'epoca 
prima  e  la  più  oscura  della  storia  di  Crema.  Lo  compi- 
lammo con  fatica  ,  brancolando  nel  bujo  dei  secoli  barba- 
ri, pur  desiderosi  di  cogliere  fra  notizie  incerte  e  cronache 
digiune,  se  non  il  vero,  qualche  cosa  almeno  che  al  vero 
si  rassomigliasse.  Ora  passeremo  col  racconto  alla  splen- 
dida età  dei  Comuni,  ove  ci  chiamano  grandiosi  avveni- 
menti, ove  la  piccola  Crema  giganteggia  nella  storia  per 
sublimi  esempi  di  fortezza ,  ove  il  generoso  ardimento  dei 
Cremaschi  aggiunse  una  gemma  a  quella  corona  di  glorie 
che  posa  immortale  sul  capo  all'  Italia. 

(i)  Riporteremo  il  diploma  d'Enrico  VI  fra  i  documenti  che  vanno  ag- 
giunti al  capitolo  IV. 


—  44  — 
NOTE 

Dispareri  sulla  derivazione  del  nome  Crema. 

Lungi  dal  voler  arzigogolare  con  pretese  da  filologo  sull'etimologia 
della  parola  Crema,  ci  stringeremo  a  raccogliere  le  disparate  opinioni 
degli  scrittori  intorno  l'origine  di  questa  denominazione  alla  città 
nostra. 

Alcuni  vogliono  darci  a  bere  che  Crema  prese  questo  nome  perchè 
fondata  dagli  abitanti  di  Cremna  ,  città  della  Panfilia,  quando  migra- 
rono in  Italia  circa  mila  cinquecento  anni  innanzi  l' era  volgare. 
Altri  affermano  :  Crema  deriva  dal  verbo  latino  e  rema  re  (abbruciare  ), 
e  s'applicò  tal  nome  alla  città  dai  Parassini,  i  quali  dopo  che  videro 
la  città  loro  incendiata ,  un'altra  ne  fabbricarono  a  poca  distanza  (  la 
nostra  ) ,  e  vollero  ch'essa  serbasse  nel  nome  memoria  della  patria 
incendiata.  Crema  pretendono  sincope  di  Cremona  certi  scrittori  cre- 
monesi ,  ascrivendo  ai  Cremonesi  d'aver  per  i  primi  popolata  la  città 
nostra  nell'epoca  dei  Longobardi.  Aleniamo  Fino  ci  narra  come  certo 
Gabbiano,  che  fu  suo  precettore,  gl'insegnasse  esser  Crema  voce  greca 
derivata  da  xjosuor,  che  in  lingua  italiana  equivale  a  negozio  o  mercato:  e 
il  Gabbiano,  volendo  in  qualche  modo  dar  colore  di  verosimile  alla  sua 
opinione,  l'appoggiava  a  Tolomeo,  rammentando  come  anticamente 
sul  terreno  di  Crema  sorgesse  il  Forum  Diuguntorum  (luogo  di  mer- 
cato dei  Diogunti).  Ne  volete  delle  altre?  Carlo  Denina,  nella  sua 
operetta  scritta  in  francese  e  intitolata  :  Quadro  storico ,  statistico 
e  morale  dell'alta  Italia,  ci  dice:  «Crema  dev'essere  d'antica  celtica, 
n  o  teutonica  fondazione,  e  forse  anche  illirica,  a  giudicarne  dal  nome, 
n  il  quale  in  sostanza  è  quello  di  Kremsir  in  Moravia  e  di  Cremini , 
n  parte  principale  della  città  di  Mosca.  «  Ed  a  questa  asserzione  del 
Denina ,  l'anonimo  che  ne  tradusse  l'opera  notò:  «Si  poteva  anche 
n  dire  di  radice  tosca  o  dell'antica  lingua  italica,  poiché  Crema  ha  la 
n  medesima  radice  che  Cremerà  fiume  d'Etruria,  e  dell'  antico  verbo 
r>  cremare.  » 

La  più  volgare  tradizione  del  popolo  cremasco  è  che  Crema  pi- 
gliasse nome  da  Cremes  o  Cremete  ,  il  quale  ne  lo  si  vuol  fondatore 
all'epoca  d'Alboino  re  de'  Longobardi  :  quantunque  Carlo  Cattaneo  , 
spargendo  dubbi  sull'origine  che  attribuiscono  a  Crema  le  sue  crona- 
che, abbia  scritto:  «  Prima  dell'epoca  longobarda  nissuna  storia  ram- 
t>  menta  il  nome  di  Crema  ;  però  né  il  suo  nome  è  di  que'  tempi,  né  il 
»  paese  poteva  essere  rimasto  senza  borgate  fino  all'anno  570  » . 


—  49  — 


CAPITOLO   SECONDO 


PRIMA    EPOCA    DEL    GOVERNO    MUNICIPALE, 


SOMMARIO. 

Conni  intorno  all'origine  ed  allo  spirilo  dei  Comuni  lombardi.  —  Conti, 
marchesi,  vescovi  che  nel  secolo  undecimo  esercitarono  in  Crema  giurisdi- 
zioni feudali.  —  Origine  in  Crema  dei  Padri  Umiliati.  —  Guerra  fra  Cre- 
masela e  Cremonesi  scoppiata  l'anno  4098.  —  I  Cremasela  vogliono  ren- 
dersi indipendenti  da  Cremona.  —  È  a  credersi  che  il  reggimento  Comu- 
nale preesistesse  in  Crema  all'anno  1098.  —  Discordie  fra  i  Municipj  lom- 
bardi. —  Loro  alleanze.  —  Crema  confederata  a  Milano.  —  I  Cremasela 
prendono  parte  coi  Milanesi  alla  distruzione  di  Lodi.  —  Combattono  pei 
Milanesi  contro  i  Comaschi  e  sono  disfatti  in  Valcuvia.  — Giovanni  da 
Crema  cardinale  di  S.  Grisogono.  —  Importanti  ufflcj  che  a  lui  affidarono 
i  Pontefici.  —  I  Cremasela  si  sottraggono  dalla  giuristizione  del  vescovo 
di  Cremona.  —  Battaglie  accanite  dei  Cremonesi,  contro  i  Cremasela  e  i 
Milanesi.  —  I  Cremonesi  sconfitti  ripetutamente.  —  Lotario  imperatore 
di  Germania  assedia  Crema  per  consiglio  dei  Cremonesi  :  ed  é  costretto  a 
levar  l'assedio.  —  Lettera  del  vescovo  di  Costanza,  legato  imperiale,  ai 
Cremasela  —  Alcune  considerazioni  intorno  all'indole  del  governo  muni- 
cipale di  Crema  all'  epoca  dell'imperatore  Corrado  III.  —  Federico  Barba- 
rossa  succede  a  Corrado  nel  trono  di  Germania.  —  Suoi  disegni  sull'Italia. 
—  Sicherio  a  Milano.  —  Prima  discesa  di  Federico  in  Italia.  —  Pace  con- 
chiusa  fra'  Milanesi  e  l'imperatore,  nella  quale  sono  compresi  anche  i 
Cremasela.  —  Ambasciatori  di  Federico  che  intimano  ai  Cremasela  di 
abbattere  le  loro  fortificazioni:  come  fossero  accolti  Cremasela  e  Milanesi 
contro  i  Lodigiani.  —  Federico  Barbarossa  ordina  l'assedio  di  Crema.  — 
I  Cremonesi  corrono  per  i  primi  ad  assediarla. 


Nel  secolo  decimo,  colla  cacciata  degli  Ungheri,  cessò 
in  Italia  il  flagello  delle  irruzioni  barbariche,e  fin  d'allora  in- 
cominciavano già  a  svolgersi  gli  elementi  che  adularono  il 
risorgimento    dei  Comuni    lombardi.   Andava   maturando 


—  46  — 

Tela  gloriosa  che  avrebbe  costretto  le  superbe  torri  dei  ba- 
roni ,  sparse  per  le  campagne,  a  piegarsi  davanti  lo  spirito 
vivificatore  delle  città  murate,  l'età  gloriosa  che  all'  anar- 
chia feudale  sostituì  le  assemblee  generali  dei  cittadini,  alle 
milizie  dei  signorotti  le  fanterie  popolari  serrale  intorno  ai 
loro  carrocci.  Gli  Ungheri,  popoli  semi-selvaggi,  erano  così 
imbestialiti  nel  depredare,  che  nulla  risparmiavano,  non  pat- 
teggiavano con  alcuno  ,  tempestando  indistintamente  e  i 
grandi  feudatarj ,  e  i  vulghi  sparsi  intorno  ai  loro  castelli. 
Perciò  a  fronte  di  que' Barbari  trovandosi  uguali  e  magnati, 
e  plebe,  il  supremo  bisogno  della  propria  difesa  consigliò 
e  gli  uni  e  l'  altra  a  trovar  modo  di  salvarsi.  Felicissimo 
chi  poteva  riparare  in  luoghi  fortificati  :  quindi  nelle  città 
si  ristoravano  le  mure  diroccale,  se  ne  ergevano  di  nuove. 
1  bisogni  generali  di  difesa ,  richiedendo  provvedimenti  cui 
non  bastavano  i  governi  ed  i  feudatarj  colle  loro  forze  or- 
dinarie ,  posero  le  armi  in  mano  non  solamente  dei  citta- 
dini plebei ,  ma  eziandio  dei  coloni.  Così  le  infime  classi 
del  popolo  ,  calpestate  dal  feudalismo  ,  incominciarono  ad 
educarsi  nell'esercizio  delle  armi,  e  adoprandole  contro  gli 
Ungheri  si  procacciavano  l'attitudine  a  giovarsene  in  ap- 
presso per  emanciparsi  dai  signorotti  che  le  opprimevano. 

A  scalzare  in  Lombardia  l'edificio  feudale,  sulle  cui  ro- 
vine dovevano  risorgere  i  Comuni,  cooperò  Ottone  il  Sas- 
sone, primo  degli  imperatori  germanici  che  cinse  la  corona 
d'Italia  (951).  Ottone,  temendo  la  potenza  dei  grandi  feu- 
datari, ne  smembrò  le  vaste  Marche  e  Contee,  creò  in  Italia 
una  più  debole  aristocrazia,  dei  conti  rurali,  e  colle  spoglie 
dei  magnati  arricchì  principalmente  il  clero.  Allora  i  vesco\i 
in  Lombardia  vennero  infeudati  d'estesissimi  possedimenti, 
al  pastorale  congiunsero  la  bilancia  e  la  spada  ;'  ed  alcuni 
portavano  sul  petto  la  croce  ,  simbolo  d'umiltà,  e  dentro  il 
cuore  ambizioni  e  sentimenti  baronali. 

Sul  principio  del  secolo  un  decimo  la  feudalità  in  Italia, 


—  M  — 
a  forzi  di  subfeudazioni,  si  divise  in  ire  ordini,  dei  ma- 
gnati, dei  valvassori ,  dei  valvassini  :  tre  specie  di  signori , 
l'ima  all'altra  sottomessa  per  fendali  ragioni.  Di  questa  gc- 
rarchia  però ,  V  online  supremo  ossia  dei  magnati ,  che 
componevasi  dei  feudatarj  più  polenti  ,  non  si  teneva  sog- 
getto che  al  solo  re  od  imperatore.  Per  t;ile  divisione  mol- 
tiplicali e  accavallatisi  i  feudi,  pensale  come  vivesse  il  po- 
polo, condannato  a  portare  sul  collo  una  piramide  di  ma- 
gnati,  valvassori  e  valvassini:  tuttavia  dall' essersi  T  auto- 
rità feudale  spezzala  in  tre  ordini,  la  condizione  del  popolo 
vantaggiava.  Non  v'era,  nò  esservi  poteva,  concordia  Ira 
quelle  tre  classi  dell1  aristocrazia,  quindi  le  inferiori,  onde 
sostenere  le  loro  ragioni  contro  le  più  forti ,  ricorrevano 
per  ajulo  al  popolo  ,  e  il  popolo  impugnale  le  armi  fiaccò 
l'orgoglio  dell'alia  nobiltà  feudale  che  finì  col  divenir  cit- 
tadina e  ,  mutando  ambizioni ,  cercò  farsi  scala  del  favor 
popolare  per  conseguire  nel  Comune  le  prime  magistrature. 
Quando  sul  trono  di  Germania  agli  Ottoni  successero 
gli  Arrighi ,  scoppiò  la  famosissima  lotta  del  papato  col- 
l' impero  ,  lotta  che  accelerò  lo  sviluppo  dei  Comuni  lom- 
bardi. 1  vescovi,  dalla  voce  terribile  del  monaco  Ildebrando 
accusati  di  simonia,  perdevano  la  riverenza,  la  sommessione 
del  popolo,  memore  che  un  tempo  l'elezione  dei  vescovi  era 
di  suo  diritto.  E  per  verità,  dappoiché  questo  diritto  si  ar- 
rogarono gl'imperatori,  i  vescovi,  piuttosto  che  pastori  d'a- 
nime ,  apparivano  donzelli  della  corte  germanica.  Anche 
il  bagliore  del  nome  imperiale  s' offuscò  in  faccia  al  volgo, 
quando  Enrico  III  diede  a'  suoi  cortigiani  lo  scandalo  di 
presentarsi  scalzo  e  vestito  di  ruvido  sacco  ai  piedi  di  papa 
Gregorio  VII,  implorando  umilmente  perdono.  Per  tal  modo 
il  popolo  si  spaslojava  di  servili  idee  l'intelletto,  nel  mentre 
rinvigoriva  il  braccio  col  maneggio  delle  armi,  entrando  an- 
ch'esso nella  lolla  a  combattere  per  la  causa  più  generosa, 
quella  del  papato.  I  Lombardi,  in  mezzo  all'asprissima  ten- 


—  48  — 
zone  della  tiara  con  lo  scettro,  agguerrendosi  nella  milizia, 
e  procacciatisi  la  coscienza  dei  proprj  diritti ,  s'  apersero 
il  varco  ad  emanciparsi  dal  giogo  feudale:  e  frenata  prima 
l'aristocrazia  laicale,  non  indugiarono  poi  a  svincolarsi  eia 
quella  dei  vescovi. 

Spettacolo  stupendo  !  Sul  principiare  del  secolo  duode- 
cimo le  città  di  Lombardia  reggevansi  a  comune,  ed  ordi- 
navano liberamente  i  loro  statuti,  inspirali  dalle  tradizioni 
romane,  da  antichissime  consuetudini  che  il  ferro  dei  Bar- 
bari non  valse  ad  estirpare  onninamente  (]\  Spettacolo  più 
stupendo  ancora  ,  se  riflettiamo  che  il  cielo  a  que'  nostri 
Comuni  affidava  la  missione  di  spargere  per  V  universo  i 
veri  beni  dell' incivilimento,  stenebrando  l'intelletto  a  na- 
zioni che  dormivano  ancora  fra  catene  il  sonno  dell'igno- 
ranza. Notisi  però  che  i  Comuni  di  Lombardia  non  erano 
affatto  indipendenti ,  imperocché  riconoscevano  su  di  loro 
l'alto  dominio  dell'impero  germanico. 

Quell'agitarsi  nel  terreno  lombardo  di  tanti  municipii  o 
repubblichette,  che  si  governavano  separatamente  con  par- 
ticolari statuti,  lamentarono  alcuni  scrittori,  siccome  causa 
che  impedì  all'Italia  d'unificarsi  in  un  compatto  corpo  po- 
litico. Eppure  quelle  forme  municipali  si  confacevano  mi- 
rabilmente all'  indole  degli  Italiani  ,  alle  antiche  tradizioni 
dei  loro  padri.  L' Italiano  fu  dalla  natura  privilegialo  di 
uno  spirito  che  è  ricco  di  forze  morali  ,  quanto  è  ricca  e 
bella  la  materia  che  lo  circonda.  Perciò  meglio  degli  altri 
popoli  egli  è  dominalo  dal  sentimento  della  propria  perso- 
nalità, e  sente  profondo  il  bisogno  di  svilupparla,  di  espan- 
derla,  non  soltanto  come  uomo,  ma  come  cittadino.  Una 

(1)  Dagli  studj  del  Savigny  sulla  legislazione  romana,  da  quelli  intorno 
all'origine  ed  allo  sviluppo  dei  municipj  italiani  pubblicati  dal  Pagnoncelli, 
dal  Rosa  e  da  P.  Emiliani  Giudici  acquista  maggior  fondamento  l'opinione 
del  Muratori ,  che  certe  forme  di  reggimento  comunale  si  conservassero  nelle 
città  italiane  anche  durante  le  invasioni  dei  Barbari. 


—  19  — 

patria,  alla  quale  consacrar  con  amore  le  generose  Iaculi;. 
dello  spirito ,  una  patria  nel  cui  recinto  fosse  concesso  a 
tutti  i  cittadini  di  operare  per  lei,  di  grandeggiare  coir  in- 
telletto o  col  braccio,  fu  l'aspirazione  dei  nostri  avi  ap- 
pena riebbero  la  coscienza  dei  loro  naturali  diritti.  Ed  una 
patria  si  composero  nel  Comune.  Oltre  di  che  a  preferire 
questa  forma  di  reggimento  aiutarono  le  memorie  giammai 
spente,  le  tracce  ancora  superstiti  dei  gloriosi  tempi  romani, 
quando  la  nostra  penisola  l'ormava  un  gruppo  di  municipi 
che  Roma,  da  cui  dipendevano,  affratellò  con  politica  libe- 
rale alla  sua  repubblica  ,  sicché  essi  come  specchi  riflette- 
vano in  piccole  dimensioni  V  immagine  della  repubblica 
metropoli  [ì\  Le  città  italiane  ordinandosi  a  Comune  vol- 
lero un  governo  ove  potesse  campeggiare  F  individualità 
di  ciascun  cittadino,  e  lo  ebbero;  vollero  diventare  una 
potenza,  e  lo  furono.  Firenze,  Milano,  Genova,  Pisa,  Ve- 
nezia, son  nomi  che  nella  storia  del  medio  evo  significano 
non  soltanto  città,  ma  uno  Stalo  :  poderose  repubblichelle, 
le  quali,  \  iv  ificatc  dallo  spirito  di  libertà,  travagliavano  so- 
vente le  grandi  monarchie. 

Crema,  anch'essa,  con  un  palmo  di  terra,  rappresentò, 
benché  piccolissima,  una  sovranità,  uno  Slato,  quando  Pa- 
rigi e  Londra  ,  grandiose  metropoli ,  non  erano  che  vaste 
prigioni  di  un  popolo  servo.  Ed  ecco  il  motivo  per  cui  la 
storia  di  tante  illustri  città  della  Francia  può  scriversi 
scrivendo  quella  delle  dinastie  che  le  dominarono:  nell'Ita- 
lia invece  ciascuna  terra  ha  i  suoi  fasti  particolari,  perchè 
nella  nostra  penisola ,  moltissime  città  nel  breve  ambito 
del  loro  territorio  furono  regine.  Geograficamente  conside- 
rala, la  repubblichetta  di  Crema  formava  un  punto  micro- 
scopico; ma  quanto  fosse  robusta  la  vita  ond'era  animata, 
lo  seppe  Federico  Barbarossa  che  per  domarla  consumò 

(l)  P.  Emiliani-Giudici.  Storia  politica  dei  Municipi  Italiani. 


—  50  — 

sette  mesi  d'assedio,  adoperando  tutte  le  forze  dell'Impero 
germanico ,  ed  altre  pure  considerevoli  di  città  lombarde 
pugnanti  sotto  il  suo  vessillo. 

Abbiamo  premessi  questi  brevi  cenni  intorno  ai  Comuni 
lombardi  per  dire  quali  elementi  a  noi  sembra  sieno  concorsi 
più  efficacemente  al  loro  sviluppo:  ne  pretendiamo  d'avere 
in  così  pocbe  parole  risolta  una  quislione  gravissima  so- 
pra cui  stillarono  e  ancora  stilleranno  il  cervello  eruditis- 
simi scrittori.  Ora  ripiglicremo  il  filo  del  nostro  racconto  m. 

Sino  alla  fine  del  secolo  undecimo,  Crema  è  nella  storia 
un  nome  oscuro  :  il  suo  popolo  non  vi  ha  ancora  movi- 
mento, non  comparisce,  come  quello  d'altre  terre  lom- 
barde, a  combattere  la  feudalità  laicale  ed  ecclesiastica. 
Quindi  per  avere  del  secolo  undecimo  notizie  intorno  alla 
terra  nostra,  ricorreresti  invano  alle  storie  generali  o  par- 
ziali di  Lombardia,  ti  è  d'uopo  frugare  nelle  cronache. 
Svolgendole,  trovammo  documenti  che  attestano  non  poche 
investiture  feudali  del  terreno  cremasco  ,  documenti  che 
indicano,  e  non  con  sufficiente  chiarezza,  i  frequenti  tra- 
passi delie  ragioni  feudali  sul  territorio  nostro  dall'  uno 
ali' altro  signore. 

Nell'anno  1009  figura  signore  di  Crema  certo  Masano, 
francese  d'origine,  e  che  in  una  vecchia  pergamena  ->  è 
detto  vir  probus.  Onde  venisse  a  lui  l' investitura  della 
contea  di  Crema,  il  Terni  non  dice.  L'abate  Cesare  Tin- 
tori ,  nelle  sue  Memorie  Cremasche  „  così  racconta  di  lui  : 
«  Masano  venne  in  Italia  nel  987  da  Francia  ,  e  fu  da  Ot- 
»  tone  III,  forse  in  premio  del  suo  valore,  essendo  suo  ge- 

(1)  Chi  bramasse  conoscere  le  disparate  opinioni  di  celebri  scrittori  sull'o- 
rigine e  sviluppo  dei  Comuni  italiani  ,  legga  un'erudita  nota  che  il  profes- 
sore Antonio  Zoncada  aggiunse  alla  sua  traduzione  dell'opera  di  Guizot:  Sto- 
ria dell'Incivilimento  in  Europa. 

12)  Antica  scrittura,  che  Alemanio  Fino  riportò  nella  terza  delle  sue  Se- 
rione,  la  quale  fu  cavata  da  un  libro  del  monastero  di  S.  Sepolcro  de'  frati 
d' Astino  di  bergamasca. 


—  81  — 
m  nerale,  fatto  signore  di  Crema  e  di  Lodi,  e  di  molte  altre 
»  terre,  comò  consta  per  tre  bellissimi  privilegi  con  bolla 

»  d'oro,  spedili  dal  medesimo  Cesare,  con  sotto  il  dì  2G 
i  aprilo,  l'altro  ai  tredici  di  giugno,  e  il  tèrzo  a1  .*>  settem- 
»  bre  1000,  nei  quali,  oltre  ciò  conferma,  et  quatenus  opus 
»  ttf,  dichiara  signori  e  signore,  baroni  e  baronesse,  conti 

»  e  contesso  ,  tutti  quelli  che  sono  nati  e  nasceranno  in 
»  perpetuo  da  detta  casa  de' Camisani  <*>  » .  Ove  il  Tintori 
abbia  velluti  questi  privilegi  non  ci  ha  significato.  Le  cro- 
nache nostre  attribuiscono  a  Masano  molte  buone  qualità: 
egli  dolce  di  cuore,  egli  premuroso  sopratutto  di  assodare 
il  terreno  cremasco  ,  e  renderlo  atto  alla  coltivazione  ,  da 
paludoso  cir  era  tuttavia  in  molte  parti  ,  specialmente  a 
settentrione.  Impiegò  nel  prosciugar  paludi  le  braccia  di 
moltissimi  coloni,  ai  quali  nel  mentre  lavoravano,  volendo 
egli  procacciare  più  comoda  abitazione,  fabbricò  delle  case 
che  furono  poi  dette  le  cà  di  Masano ,  onde  è  derivato  il 
nome  di  Camisano  al  sito  ove  quelle  case  furono  edificate, 
e  di  conti  di  Camisano  ai  discendenti  di  Masano. 

Masano  del  feudale  dominio  di  Crema  venne  spogliato 
per  sospetto  di  fellonia  da  Corrado  I,  quando  quell'impe- 
ratore scese  in  Italia  a  domare  parecchie  città  che  gli  si 
erano  ribellate  (1128).  Ritornando  in  Germania  menò  seco 
ostaggi  e  prigioni  molti  Lombardi  :  fra  questi ,  tre  Crema- 
sebi,  uno  de' Carobbi,  l'altro  de'  Pieranici ,  il  terzo  de' Ba- 
gnolo :  i  quali,  come  ottennero  da  Enrico  III  la  grazia  di 
rimpatriare,  istituirono  in  Crema  l'ordine  degli  Umiliali, 
fondandovi  tre  monasteri  (1046).  S'appone  quindi  al  falso 
il  Giulini  asserendo  che  istitutori  del  famosissimo  ordine 
dei  PP.  Umiliati  furono  a  quell'epoca  i  soli  Milanesi,  e  che 
da  Milano  quell'ordine  si  diffuse  in  appresso  per  le  altre 
contrade  d'Italia. 


(i)  Le  Memorie  Cremasche  del  Tintori  si  conservano  inedite  nella  libreria 
del  Seminario  di  Crema. 


—  52  — 

La  famiglia  dei  conti  di  Camisano,  quantunque  spogliata 
della  signoria  di  Crema  ,  esercitò  tuttavia  per  molti  anni 
ancora  nel  territorio  nostro  prerogative  feudali,  fra  le  altre 
il  diritto  di  fare  5  ordinare,  giudicare  duelli (i).  Il  cano- 
nico Lupi ,  benemerito  raccoglitore  di  antiche  pergamene  , 
pretende  che  i  conti  di  Camisano  rampollassero  dalla  fa- 
miglia dei  conti  di  Bergamo:  il  che  non  può  conciliarsi  coi 
documenti  che  fanno  provenire  Masano  dalla  Francia,  in 
epoca  che  i  conti  di  Bergamo  erano  già  potenti  signori  in 
Lombardia.  Forse  il  Lupi  fu  indotto  in  errore  dallo  sco- 
prire che  alcuni  rami  della  famiglia  dei  conti  di  Bergamo 
nel  secolo  undecimo  si  trapiantarono  sul  territorio  crema- 
sco  acquistandovi  larghi  possedimenti  e  conservando  il 
titolo  di  conti (2). 

«Scacciato  Masano  (1028),  Crema  all'  imperiai  obbe- 
»  dienza  ritorna ,  ma  da  sé  medesima  si  governa  come  fa- 
»  cevano  le  altre  città  tutte.  »  Sono  parole  del  Terni ,  le 
quali  se  egli  non  avesse  buttate  lì  così  nudamente,  senz'al- 
cun  lume  di  storico  documento,  ci  tornerebbero  preziosis- 
sime, come  quelle  che  proverebbero  essersi  il  governo  mu- 
nicipale in  Lombardia  già  sviluppato  prima  della  metà  del 
secolo  undecimo:  proverebbero  altresì,  che  Crema  reggevasi 
a  comune  fin  dal  1028.  Se  non  che  leggemmo  documenti 
(forse  dal  Terni  ignorati),  i  quali  rivelano  che  addosso  ai 
Cremasela  pesarono  ancora  signorie  feudali  posteriormente! 
all'anno  1028. 

V'ha  un  diploma  dell'imperator  Enrico  III  il  quale  nel  1040 
concede  al  vescovo  di  Bergamo  la  giurisdizione  temporale  su 
tutto  il  contado  bergamasco  fino  agli  estremi  di  lui  con- 
fini (3)  ,  diploma  da  cui  apprendiamo  che  in  allora  ilcon- 

(1)  Pietro  TeriNi.  Storia  di  Crema. 

\2)  Lupus.  Codex  Diplomaticus. 

(3)  Pagnoncelli.  Dell'origine  dei  Governi  Municipali  in  Italia  :  Vedi  i  Do- 
cumenti A.  —  Avvertiamo  il  lettere  che  alla  line  di  ciascnn  capitolo  po- 
nemmo documenti  e  note  che  servono  come  di  corredo  e  schiarimento  al  no- 
stro racconto. 


tado  ili  Bergamo,  estendendosi  su  tutta  la  Ghiara  d'Adda 
e  fin  anche  su  parte  della  provincia  cremonese,  compren- 
deva il  territorio  cremasco.  Ma  non  andò  guari  che  il  ter- 
ritorio nostro  cangiò  signore:  prima  del  1058  tenevalo  con  ra- 
gion feudale  il  marchese  Bonifacio  ili  Toscana.  Questo  barone 
famosissimo  per  isfondate  ricchezze,  che  dai  pozzi  traeva  vino 
con  secchi  d'argento,  che  faceva  con  chiodi  d'argento  ferrare 
i  cavalli  * , incorporò  alle  sue  numerosissime  signorie  l'isola 
Fulcheria,  di  cui  Crema  era  la  capitale.  Come  l'isola  Ful- 
eheria  cadesse  in  potere  del  marchese  Bonifacio,  nessuna 
cronaca  ce  lo  chiarisce,  non  sa  darne  ragione  neppure  il 
Lupi  (*  :  tuttavia  sappiamo  che  il  marchese  moriva  nel  lOoIi, 
e  Tanno  medesimo  moriva  runico  suo  figlio  maschio,  Fe- 
derico. Mancatagli  la  successione  mascolina  ,  la  signoria 
dell'isola  Fulcheria  ritornò  libera  alla  Camera  imperiale: 
infatti  l'imperatore  Enrico  III,  morto  il  figlio  del  marchese 
Bonifacio,  disponeva  dell'isola  Fulcheria,  donandola  ad 
Upaldo  vescovo  di  Cremona  (3Ì.  Nondimeno  la  conlessa 
Beatrice,  vedova  del  marchese  Bonifacio,  trovò  modo  di  ri- 
tenere tutti  i  feudi  del  marito  a  nome  della  figlia  Matilde , 
che  fu  poi  l'eroina  dei  secoli  di  mezzo,  celebre  per  virile 
coraggio,  per  estesissimi  dominj,  per  isviscerata  devozione 
a  Gregorio  VII  ed  alla  causa  del  papato.  La  contessa  Ma- 
tilde tenne  la  signoria  dell'isola  Fulcheria  fino  al  1098,  nel 
qual  anno  ne  fece  donazione,  non  al  vescovo  soltanto,  ma  al 
vescovo  ed  al  Comune  di  Cremona  (4). 

Mostrammo  in  pochi  periodi  la  sequela  dei  conti,  ve- 
scovi, marchesi,  che  pel  corso  di  circa  cento  anni  esercita- 
rono sul  territorio  di  Crema  giurisdizioni  feudali.  Ora  vi 
diremo  che  nel  mentre  que'  magnati  si  paleggiavano  con 

(1)  Bettinelli.  Del  Risorgimento  d'Italia. 

(2)  Lupi.  Codex  Diplomaticus  Bergomensis. 

(3)  GiULiNi.  Storia  di  Milano,  Parte  IV. 
{'*)  Vedi  i  Documenti  B. 


—  o4 

investiture  la  signoria  del  nostro  terreno,  esso  fecondava 
sermi  di  libertà:  diremo  ch'entro  le  mura  di  Crema  fremeva 
già  nel  popolo  quello  spirito  di  emancipazione,  che  poi  lo 
spinse  animosamente  a  spazzare  la  sua  terra  d'ogni  ingom- 
bro feudale.  11  sole  di  libertà,  levandosi  nel  secolo  decimo- 
primo  ad  irraggiare  i  paesi  di  Lombardia,  doveva  pur  be- 
nedire di  novella  vita  anche  il  popolo  cremasco;  Crema, 
sono  parole  d'uno  storico  Tedesco  {ì\fu  tra  le  prime  città 
che  venne  a  libertà  per  forza  delle  armi. 

L'anno  medesimo  in  cui  la  contessa  Matilde  donò  il  Co- 
mitato dell'  isola  Fulchcria  al  vescovo  ed  al   Comune   di 
Cremona,  i  Cremaschi  uscirono  dalla  loro  cittadella  serrati 
in    ordine    di    battaglia,  e    si  azzuffarono  coi  Cremonesi. 
D'allora  ebbe  principio  fra  Cremona  e  Crema  una  guerra 
asprissima,  la  quale  avvampò,  benché  interrotlamente,  per 
più  d'un  secolo,  travagliando  cotanto  i  Cremonesi,  che  nelle 
cronache  loro  confessano  d'esserne  rimasti  fritti.  Svolgi  le 
cronache  lombarde  del  medio  evo,  e  t'incontrerà  più  d'una 
volta  di  veder  Crema,  con  immagine  grottesca  ma  signifi- 
cante, qualificala  Frixorium  CremonensiumW  (padella  dei 
Cremonesi).  È  adunque  nel  1098  quando  i  Cremaschi  ti  si 
affacciano  la  prima  volta  sulle  scene  della  storia  lombarda, 
e  come  riscossi  all'improvviso  da  lunghissimo  sonno,  li  si 
presentano  innanzi  pieni  d'ardimento,  avventandosi  contro 
un  nemico,  senza  misura  di  loro  più  poderoso.  Perchè  im- 
pugnarono le  armi?  perchè  le  rivoltarono  contro  i  Cremo- 
nesi? per  riscattarsi,  per  ispezzare  a  colpi  di  spada  i  ceppi 
onde  con  un  tratto  di  penna   aveali  gravati  la    contessa 
Matilde,  conferendo  ai  Cremonesi  con  un  diploma  la  si- 


(i)  Enrico  Leo.  Vicende  della  Cosliluzione  delle  cillà  lombarde.  Tradu- 
zione di  Cesare  Balbo. 

(2)  Qui  veramente  frixorium  dovrebbesi  tradurre  flagello,  ma  che  si 
adoperasse  per  significar  padella,  lo  attesta  il  Terni  che  ne  dà  anche  le  ra- 
gioni. 


gnoria  delf  isola  Fulcheria.  Queir  infausto  diploma  della 
contessa,  scrive  Giulini,  è  stalo  il  pomo  d'oro  clic  destò  e 
mantenne  per  tatto  il  secolo  seguente  una  perpetua  di- 
scordia fra  le  città  lombarde  (*).  Non  vogliamo  correre  col 
nostro  racconto  troppo  veloci:  prima  di  passare  al  secolo 
duodecimo  sostiamo  per  un  istante  ancora  sull'undccimo 
facendovi  alcune  considerazioni. 

Ove  attinsero  i  Crcmaschi  il  consiglio,  le  forze,  T  ardi- 
mento di  romper  guerra  ai  Cremonesi?  Compressi  giù  da 
secoli  sotto  il  giogo  feudale,  come  hanno  potuto  apparec- 
chiarsi a  fronteggiare  coraggiosamente  un  popolo  che  in 
potenza  sovrastava  loro  di  lunga  mano?  Dire  che  i  Crema- 
scià  nel  1098  sorsero  a  guerreggiare  i  Cremonesi  perchè 
sospinti  da  uno  spirito  irresistibile  e  quasi  estemporaneo 
d'indipendenza,  sarebbe  uno  spiegare  lo  scopo  della  lor  ri- 
volta piuttosto  che  le  vie  per  le  quali  furono  condotti  a 
consumarla.  Un'idea,  e  meglio  ancora  un  forte  bisogno  d'in- 
dipendenza, può  maturare  una  rivoluzione,  ma  non  è  ab- 
bastanza per  attuarla:  ci  vuole  un  centro  ove  il  pensiero 
dell'emancipazione  si  raccolga,  si  fomenti,  si  espanda,  ove 
consigliare  e  disporre  i  mezzi  per  conseguirla,  ed  ordinare 
le  milizie  destinate  a  combattere  per  lo  scopo  propostosi, 
ed  eleggere  i  capi  che  devono  amministrare  e  dirigere  la 
guerra;  insomma,  sei  Cremaschi  nel  1098  non  avessero 
avuto  che  un'idea,  una  smania  in  corpo  di  emanciparsi, 
senza  un  asilo  ove  fecondare  quest'idea  ed  apparecchiarsi 
a  recarla  in  effetto,  sarebbero  essi  usciti  dalla  loro  citta- 
della raccolti  in  ordinate  schiere,  col  proposito  unanime 
di  guadagnarsi  l'indipendenza,  battendo  i  Cremonesi?  Que- 
sti riflessi  ci  portano  a  credere  con  un  illustre  scrittore  mo- 
derno l2>,  che  il  Comune,  siccome  in  altre  terre  lombarde, 


(1)  Storia  di  Milano. 

(2)  Pagnongiìlli.  Dell'Origine  dei  Governi  Municipali  in  Italia. 


—  56  — 
così  in  Crema  preesistesse  all'anno  1098;  che  una  specie  di 
reggimento  comunale  tutelasse  in  parte  la  città  nostra  an- 
che durante  la  signoria  del  marchese  Bonifacio  e.  della 
contessa  Matilde;  che  il  popolo  vi  fosse  già  addestrato  nelle 
armi,  e  già  da  tempo  sospirasse  il  giorno  di  adoperarle  non 
più  sotto  il  vessillo  de1  suoi  baroni,  ma  contro  di  loro  a 
rendenzione  della  propria  indipendenza. 

Che  i  Cremaschi  a  tenzonare  coi  Cremonesi  incomincias- 
sero l'anno  1098,  ce  lo  attesta  una  cronachetta  dì  Cremona 
pubblicata  dal  Muratori  U\  e  ch'essi  combattessero  contro 
Cremona  per  emanciparsene,  ce  lo  attesteranno  moltissimi 
scrittori  versanti  sulle  vicende  dei  Comuni  lombardi.  Ora 
accenneremo  come  nella  lotta  fra  Cremona  e  Crema  s'im- 
pigliassero tanti  altri  Comuni,  e  perchè  il  Giulini  abbia 
detto  che  la  concessione  della  contessa  Matilde  ai  Cremo- 
nesi fu  il  pomo  della  discordia  fra  le  città  di  Lombardia. 

Sul  principiare  del  secolo  duodecimo  la  Lombardia,  come 
dicemmo,  formicolava  di  repubblichette,  tante  quanli  erano 
i  Comuni.  Fiorenti  e  balde  di  giovinezza,  temperate  al  soffio 
d'aure  democratiche,  si  agitavano  rigogliose,  con  esuberanza 
di  vita,  gelosissime  della  propria  libertà,  e  sopratutto  fer- 
venti di  una  bellicosa  esaltazione.  Soprastava  loro  l'alto 
dominio  dell'impero  germanico,  ch'esse  non  disconosceva- 
no, e  finché  gl'imperatori  stavano  lungi  dall'Italia,  non  fa- 
stidivano. Imbevute  delle  tradizioni  romane ,  non  potevano 
spastoiarsi  dall'idea  di  un  imperatore;  tenevano  quasi  neces- 
saria un'autorità  suprema  che  sanzionasse  i  loro  privilegi 
municipali  strappali  dalle  mani  del  feudalismo,  e  che  se- 
desse siccome  moderatrice  dei  particolari  diritti  di  ciascuna. 

Per  quella  contraddizione  che  è  nelle  umane  passioni, 
mentre  ogni  municipio  era  tenerissimo  della  propria  libertà, 
non   rispettava  l'altrui:  l'uno  ingelosiva  dell'altro;  quale 

(i)  Cronachetta  di  Siccardo,  vescovo  di  Cremona. 


—  :;7  — 

temeva  ili  venir  soperchiato  dal  vicino;  quale,  sentendosi 
più  forte,  soperchiava  difatti:  e  contendevano  talvolta  per  un 
palmo  di  terra,  e  spessissimo  percuotevansi  1  un  l'altro,  in- 
sanguinandosi in  modo  nefando.  Non  isciuperemo  declama- 
zioni per  imprecare  a  (incile  funeste  discordie  municipali; 
le  deplorarono  a  sazietà  scrittori,  i  quali  nella  vigorosa 
e  splendida  età  dei  Comuni  pare  che  non  veggano  altro  in 
Italia  che  fratricidi  e  scompiglio.  Noi  consigliamo  chi  legge 
storie  lombarde  del  medio  evo  ad  osservare  da  un  canto 
i  livori  municipali  e  piangere,  ma  d'altro  canto  a  fissare  lo 
sguardo  sullo  svolgersi  dell'incivilimento  e  della  morale 
grandezza  degli  Italiani,  ed  ammirare. 

Delle  repubhlichellc  lombarde,  per  copia  di  popolazione, 
di  ricchezze  e  di  vetuste  glorie,  grandeggiavano  Milano  e 
Pavia:  questa,  già  sede  prediletta  dei  re  longobardi;  quella, 
già  capitale  degl'Insubri  e  della  Gallia  Cisalpina,  prima  e 
più  antica  residenza  arcivescovile  di  tutta  Lombardia.  Quindi 
nacque  fra  di  loro  rivalità  d'interessi  e  d'ambizioni,  motivo 
di  nimicizia  gravissima,  implacabile.  Milano  era  accerchiata 
dal  territorio  di  sette  repubblichetle,  Como,  Novara,  Pavia, 
Cremona,  Lodi,  Bergamo  ,  Crema;  sei  di  queste,  allo  scopo 
della  comune  sicurezza  e  per  equilibrare  la  soverchiante 
potenza  dei  Milanesi,  eransi  fra  di  loro  confederate;  Crema 
fu  la  sola  che  strinse  alleanza  con  Milano  'n.  Piccolissima 
repubblichetta,  Crema  s'accorse  che  da  sola  non  bastava  a 
resistere  contro  Cremona,  ostinatissima  nelle  sue  pretese 
sull'isola  Fulcheria;  smaniosi  d'indipendenza  e  in  pari  tempo 
bisognosi  del  patrocinio  di  una  città  potente  che  nell'ardua 
lotta  contro  Cremona  li  soccorresse,  i  Cremaschi  invoca- 
rono la  protezione  dei  Milanesi,  ed  essi  gliela  consentirono 
di  buon  grado,  perchè  loro  sapeva  male  che  Cremona,  una 
delle  primarie  città  di  Lombardia ,  ampliasse  maggiormente 

(i)  Sismondi.  Storia  delle  Repubbliche  Italiane. 


_  58  — 
colla  signoria  dell'isola  Fulcheria  le  sue  giurisdizioni.  Ed 
ecco   per  reciproco  interesse  annodarsi  fra  Milano  e  Cre- 
ma un'alleanza  che  fu  operosa,  schietta,  indissolubile  per 
tutto  il  secolo  decimosecondo. 

Ma  se  dall'un  canto  Milano,  collo  scopo  di  fiaccare  Cre- 
mona, assumeva  il  prolettorato  della  città  nostra,  dall'altro 
le  città  nemiche  dei  Milanesi  tolsero  a  favoreggiare  i  Cre- 
monesi, e  in  questa  guisa  la  guerra  che  i  Cremaschi  so- 
stenevano per  isferrarsi  dal  giogo  cremonese,  porse  occa- 
sione ad  altre  città  di  sfogare  il  veleno  delle  loro  ire  ed 
invidie  municipali.  Pei  Cremonesi  parteggiarono  aperta- 
mente Lodigiani  e  Pavesi;  con  Milano  affratellaronsi  Bre- 
sciani e  Piacentini;  Crema  si  può  dire  che  per  tutto  il 
secolo  decimosecondo  figura  nell'istoria  come  figlia  adottiva 
dei  Milanesi;  essi  ne  presero  cura  solerte,  affettuosa,  ze- 
landone l'indipendenza,  difendendola  robustamente  da'  suoi 
nemici.  Laonde  nel  secolo  duodecimo  la  storia  di  Crema 
s'intreccia  con  tenacissimi  nodi  a  quella  della  capitale  lom- 
barda; Milano  e  Crema,  due  nomi  che  nelle  memorie  di 
un'epoca  per  gl'Italiani  grave  di  avvenimenti,  si  accoppiano, 
rifulgono  belli  di  glorie  e  di  sventure. 

Minuti  dettagli  intorno  alle  guerre  che  avvamparono  fra 
Cremona  e  Crema  abbiamo  cercalo  indarno  nelle  cronache, 
le  quali  ne  tramandarono  [cenni  troppo  brevi.  Il  Campi 
all'anno  1100  notò  i1),  «  dopo  molte  contese  ed  uccisioni 
»  dall'una  e  l'altra  parte  la  guerra  terminò  conchiuden- 
»  dosi  la  pace  sotto  le  seguenti  condizioni,  che  il  fiume 
»  che  passa  per  mezzo  Salvirola  fosse  il  termine  dei  con- 
»  fini,  in  modo  che  verso  Cremona  fosse  dei  Cremonesi,  e 
»  dall'altra  parte  dei  Cremaschi.  »  Ed  il  Fiamma,  al- 
l'anno 1102,  ci  narra:  «  i Cremaschi  fatti  più  arditi  si  por- 
»  tarono  più  d'una  volta  ad  attaccare  i  loro  nemici  Cre- 

(I)  Storia  di  Cremona. 


—  89  — 
->  nooesi,  »  dal  che  non  possiamo  desumer  altro  fuorché 
la  breve  durata  della  paco  stipulatasi  nel  1100. 

Nell'anno  1111  i  Milanesi  assaltarono  Lodi,  lo  presero, 
lo  distrussero,  Gli  abitanti  furono  riparliti  in  sci  borgate, 
sottoposti  dai  vincitori  a  leggi  durissimo.  Dell'infelice  Lodi 
non  rimase  che  un  mucchio  di  rovine  nel  luogo  chiamalo 
poi  Lodi -Vecchio  :  lagfimevole  monumento  dei  feroci  odj 
municipali  !  K  fuor  d'ogni  dubbio  che  i  Cremaschi,  alleali 
dei  Milanesi,  presero  parte  all'eccidio  di  Lodi.  Noi  dicono 
le  cronache  nostre,  ma  è  notato  in  un'antica  cronaca  ma- 
noscitla  di  Lodi-Vecchio,  allegata  da  un  istoriografo  lodi- 
giano  (*).  Olire  di  che  leggiamo  nel  Bardi  (2l,  che  Lodi- 
giani e  Cremaschi  eran  nemici  fin  dall'anno  1104,  nimi- 
eizia  che  doveva  avere  ben  profonde  radici,  essendo  i  Lo- 
digiani alleati  coi  Cremonesi,  ed  i  Cremaschi  coi  Milanesi. 

Sotto  il  vessillo  di  Milano,  i  Cremaschi  pugnarono  di  nuovo 
poco  anni  appresso,  quando  l'arcivescovo  Giordano  spinse 
i  Milanesi  ad  accanita  guerra  contro  i  Comaschi,  perchè 
questi  avevano  scacciato  dalla  loro  città  Pandolfo  Carcano, 
vescovo  scismatico.  Como  dovette  soccombere  dopo  aver 
dato  memorandi  esempi  di  coraggio,  e  dopo  dieci  anni  di 
ferissima  guerra;  onde  un  Comasco  di  que' tempi,  verseg- 
giando latinamente  le  sventure  della  sua  patria,  paragonò 
la  guerra  di  Como  a  quella  di  Troja  (3>.  Le  legioni  crema- 
sene durante  la  guerra  furono  nell'anno  1127  mandate  dai 
Milanesi  alla  difesa  di  Castelnuovo  in  Valcuvia,  e  là  per 
avere  voluto  braveggiare  incapparono  incautamente  negli 
agguati  dei  Comaschi  e  furono  disfatte.  Crema  deplorò  la 
perdita  di  moltissimi  suoi  figli:  tanti,  caduti  prigioni,  ven- 
nero cacciati  nelle  carceri  di  Como,  ove  stettero  mantenuti 


(1)  Defendente  Lodi,  nel  settimo  de'  suoi  Discorsi  storici. 

(2)  Bardi.  Cronologia. 

(3)  Vedi  Documento  C. 


—  60  — 
a  spese  dei  Milanesi ,  finché  la  guerra  decenne  finì  schiac- 
ciando i  Comaschi. 

A  quest'epoca  levò  molto  grido  un  illustre  cittadino  cre- 
masco,  Giovanni  da  Crema  cardinale  di  S.  Grisogono.  Molto  • 
egli  si  adoperò  col  senno  e  colla  spada  in  difesa  della  corte 
pontificia,  quando  appunto  era  travagliata  dagli  imperatori 
di  Germania,  e  dallo  scisma  di  Burdino  antipapa.  Il  cardinal 
Giovanni,  prelato  guerriero,  per  ordine  di  Calisto  II,  affrontò 
con  grosso  esercito  l'antipapa  che  moveva  verso  Roma  ad 
eccitarvi  turbolenze  (1122);  lo  aggredì  a  Sutri ,  e  dopo 
una  lotta  ostinata,  riesci  ad  averlo  nelle  mani  e  condurlo 
prigioniero  a  Roma.  «  Il  misero  Burdino,  coperto  di  pelli 
»  ferine  ancor  sanguinanti,  fu  posto  a  rovescio  sopra  un 
»  camello  con  la  coda  in  mano  a  guisa  di  freno  e  fu  tratto 
»  a  Roma  dietro  al  trionfante  pontefice  che  con  quell'inu- 
»  tile  crudeltà,  scusata  solo  dalla  barbarie  dei  tempi,  ram- 
»  mentova  i  costumi  pagani ,  cotanto  riprovati  dalla  mite 
»   religione  di  Cristo  (*).  » 

Nell'anno  1116  il  cardinal  Giovanni  accompagnava  da 
Roma  a  Milano  Guidone  da  Clivio  arcivescovo  milanese. 
Ministro  dei  fulmini  ecclesiastici,  il  cardinale  salì  col  l'arcive- 
scovo il  pulpito  della  chiesa  metropolitana  di  Milano,  e 
pubblicò  la  scomunica  contro  l'imperatore  Enrico  V. 

Nell'anno  1125  papa  Onorio  II  conferiva  al  cardinal  Gio- 
vanni un  incarico  importantissimo  :  lo  inviò  in  Inghilterra 
a  presiedere  un  concilio  ,  collo  scopo  di  riformarvi  i  de- 
pravati costumi  del  clero.  Ma  questa  volta  il  cardinal  Gio- 
vanni, soccombendo  all'umana  fralezza,  anziché  corrispon- 
dere in  degno  modo  alla  fiducia  che  in  lui  aveva  posto  il 
pontefice,  tradì  vergognosamente  lo  scopo  della  sua  mis- 
sione. Dopo  aver  convocato  un  sinodo  a  Londra,  dichia- 
randovi solennemente  in  pubblica  arringa  essere  un'enor- 

(1)  P.  Emiliani-Giudici.  Storia  Politica  dei  Municipi  Italiani. 


—  61  — 
mena  imperdonabile  che  il  sacerdote  ardisca  toccare  l'ostia 
comic  rata  con  mani  impudiche,  e  appena  alzato  dal  fianco 
di  una  prostituta  (titolo  con  cui  il  cardinale  onorò  le  ino- 
lili degli  ecclesiastici),  gli  uffiziali  di  polizia  di  nottetempo 
colsero  il  cardinal  Giovanni  in  un  postribolo  fra  le  carezzo 
d'una  cortigiana.  Figuratevi  quanto  scalpore  menasse  que- 
sto caso  in  Inghilterra!  quanto  se  ne  ridesse  e  giovasse  il 
clero  che  non  voleva  rinunciare  ai  piaceri  del  talamo!  Il 
sinodo  si  sciolse,  e  il  cardinale  dovette  lesto  lesto  abban- 
donare F Inghilterra.  Il  Ciacconio,  scrivendo  la  vita  dei 
pontefici  e  dei  cardinali,  s'adoperò  nel  sostenere  esser  tutte 
calunnie  di  storici  scismatici  le  voci  che  accusarono  il  car- 
dinal Giovanni  d'aver  proceduto  con  tanto  vitupero  nella 
sua  missione  d'Inghilterra.  Ma  si  può  rispondere  al  huon 
Ciacconio  che  anche  scrittori  non  scismatici  narrano  il 
turpe  caso  del  cardinal  Giovanni;  ed  a  persuaderci  ancora 
meglio  che  quel  cardinale  nell'ardua  virtù  della  continenza 
non  era  più  forte  di  Salomone  e  di  Davidde  ,  possediamo 
una  lettera  di  S.  Bernardo,  il  quale  scrive  al  cardinale 
rallegrandosi  della  sua  penitenza  e  conversione  ^K  Peni- 
tenza? E  di  qual  peccalo,  se  non  allude  a  quello  per  cui  il 
povero  cardinale  era  divenuto  la  favola  dell'  Inghilterra, 
lo  scandalo  del  mondo  cattolico? 

Nell'anno  1129  il  cardinal  Giovanni  ricompare  in  Lom- 
bardia, adunando  a  Pavia  un  concilio  di  vescovi  suffraga- 
nei  della  metropolitana  di  Milano.  In  quel  concilio  la  corte 
pontifìcia  raggiunse  lo  scopo  di  colpire  d'anatema  l'arcive- 
scovo Anselmo,  e  punirlo  d'aver  incoronato  re  d'Italia 
Corrado ,  competitore  del  già  re  Lotario  :  oltre  di  che  nel 
medesimo  concilio,  Pavesi,  Novaresi,  Cremonesi  e  loro 
vescovi,  presieduti  da  Giovanni  cardinal  legato,   dichiara- 


ci) Questa  lettera  di  S.  Bernardo  venne  riportata  dairAleraaniu  Fino,  nella 
Sericina  veiitesimaseconda.  Vedila  nel  Documento  D. 


-62  — 

rono  la  guerra  ai  Milanesi,  perchè  proteggevano  il  castello 
di  Crema  (*)  ;  prova  evidente  che  al  cardinal  Giovanni  non 
importava  né  punto  né  poco  dell'  indipendenza  della  sua 
terra  nativa. 

Venne  dal  cardinal  Giovanni  redifìcata  in  Roma  la  sua 
chiesa  di  S.  Grisogono,  ove  pose  un'iscrizione  in  marmo 
riportata  dall'Àlemanio  Fino,  dalla  quale  apparisce  come 
Giovanni  nascesse  in  Crema  da  Ulrico  e  da  Ratilde,  e  ve- 
nisse ordinato  cardinale  dal  pontefice  Pasquale  II.  In  quel- 
l'iscrizione non  è  accennato  di  quale  famiglia  fosse  il  car- 
dinal Giovanni  da  Crema  ,  ed  anche  il  Terni  lo  ignorava. 
Per  mollo  tempo  contesero  il  vanto  d'averlo  generalo,  i 
Gambazocco,  i  Civerchi,  i  Mandoii ,  antichissime  prosapie 
cremasene.  L'Alemanio  Fino,  nella  quarta  delle  sue  Soria- 
ne, si  pavoneggia  d'aver  finalmente  scoperto  essere  il  car- 
dinal Giovanni  da  Crema  purissimo  sangue  della  famiglia 
dei  conti  di  Camisano:  e  questa  notizia  dice  averla  attinta 
in  un'antichissima  scrittura  avuta  dal  canonico  Cimalovo. 
E  qui  noteremo  che  fra  i  cortigiani  del  cardinal  Giovanni 
eravi  un  Almerico  Cimalovo,  altro  gentiluomo  cremasco, 
che  nell'impresa  contro  l'antipapa  Burdino  diede  saggi  di 
valore.  Combattendo  sotto  le  mura  di  Sutri  ,  Almerico  uc- 
cise don  Carlo,  nipote  dell'antipapa,  della  qual  prodezza 
ebbe  da  papa  Calisto  in  premio ,  oltre  gran  somma  d'oro , 
un  bellissimo  corsiero  ed  un'  armatura  di  gran  pregio  2). 

Nel  1115  si  riaccesero  le  ostilità  fra  Cremaschi  e  Cre- 
monesi, ed  in  quell'anno,  se  dobbiamo  prestar  fede  ad 
una  cronachetta  cremonese,  Crema  fu  presa  dai  Cremonesi 
il  dì  di  S.  Alessandro  <3'.  È  nondimeno  a  supporsi,  quan- 
tunque quella  cronachetta  noi  dica,   che  i  Cremonesi    non 


(1)  Giulint.  Storia  di  Milano. 

(2)  Aleìianio  Fino.  Scelta  degli  Uomini  di  pregio  lisciti  da  Crema. 

(3)  Antica  Cronachetta  cremonese  citata  dal  Giulini. 


—  63  — 
abbiano  potuto  tener  lungamente  in  soggezione  la  nostra 
cittadella.  Nel  1129  ì  Cremaschi  si  ribellarono  aperta" 
inaiteli  Cremona:  così  narrano  antiche  cronache,  e  af- 
fermano ('ampi,  Glutini  o  Sismondi.  Noi  vedemmo  clic  i 
Cremaschi  incominciarono  a  romper  il  freno  dei  Cremonesi 
(in  dall'anno  10(.)8:  nel  1129  essi  osarono  ancor  più ,  si 
sottrassero  alla  spirituale  giurisdizione  del  vescovo  ili  Cre- 
mona, per  sottoporsi  a  quella  di  Milano.  Fu  un  tratto  ar- 
dimentoso di  politica,  perchè  i  Cremaschi  volendo  pure 
isbarazzarsi  d'ogni  dipendenza  verso  Cremona,  rendevano 
in  questo  modo  più  stretti  i  nodi  dell'alleanza  milanese. 
I  Cremonesi,  inferociti  più  che  mai,  Tanno  1130  invasero 
con  numerosissime  schiere  il  territorio  cremasco:  le  nostre 
legioni,  assottigliale  dai  disastri  toccati  tre  anni  prima  in 
Valcuvia,  erano  troppo  deboli  per  resistere  a  quel  torrente: 
quando  i  Milanesi  accorsero  in  ajulo  della  città  nostra,  e 
respinsero  valorosamente  i  Cremonesi.  Questi ,  indignati 
della  fallita  impresa,  colsero  l'occasione  nel  1133  della  ve- 
nuta del  re  Lotario  in  Italia  per  consigliarlo  a  romper 
guerra  ai  Cremaschi.  Li  assecondava  Lotario  ,  e  nel  no- 
vembre 1155  strinse  Crema  d'assedio.  I  Cremaschi  si  di- 
fendevano gagliardamente  (*\  quando,  o  fosse  per  l'inver- 
nale stagione  disacconcia  alle  operazioni  di  guerra,  o  fosse 
per  timore  dei  Milanesi  e  dei  Bresciani  che  si  apparecchia- 
vano a  venire  in  soccorso  di  Crema,  il  re  Lotario,  dopo  un 
mese,  levò  prudentemente  l'assedio  (*\ 

Nel  1159  i  Cremonesi  ripigliarono  le  ostilità  contro  Cre- 
ma. I  Milanesi,  sempre  pronti  a  volare  colle  loro  schiere 
in  ajuto  dei  Cremaschi,  fronteggiarono  le  milizie  di  Cre- 
mona presso  Rivoltella,  v'accesero  una  battaglia  sanguino- 
sissima, e  riportarono  clamorosa  vittoria.  La  battaglia  di 


(1)  Terni.  Storia  di  Crema. 

(2)  Gidlini.  Storia  di  Milano. 


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Rivoltella  recò  alla  città  di  Cremona  desolazione  e  lagrime 
non  poche,  u  I  Cremonesi  (scrisse  il  loro  istoriografo  (*)  )  , 
n  non  solamente  furono  costretti  a  ritirarsi,  ma  rotli  presso 
i»  Rivoltella,  infinità  ne  rimasero  morti  e  molli  prigioni  n. 
Correndo  Tanno  1146,  l'imperatore  Corrado,   costretto 
per  forti  motivi  a  differire  la  progettata  discesa   in    Italia, 
vi  mandò  il  vescovo  eli  Costanza  qual  suo  legato  con  ampia 
facoltà  di  rendere  giustizia  agli  oppressi,  specialmente  alle 
chiese,  e  sottoporre  al  bando  tutti  i  ribelli  l*).  Ricorse  al 
legalo  imperiale  il  vescovo  di  Cremona  riclamando  contro 
i  Cremaschi,  perchè  oltre  non  volersi  sottomettere  alla  sua 
giurisdizione,  favorivano  alcuni  suoi  vasalli  che  gli  si  erano 
ribellati.   Il  legato  spedì  una  lettera  ai  Cremaschi    ammo- 
nendoli all'obbedienza,  e  dirigendo  le  sue  parole  ai  conso- 
li, ai  conti  e  al  popolo  di  Crema.  Nella  medesima  lettera  il 
legalo,  significando  prossima  la  venula  dell'imperatore  in 
Italia,  si  rivolgeva  particolarmente  ai  conli  affinchè  si  dis- 
ponessero a  compire  in  tale  occasione  i  loro  obblighi.  Que- 
sta lettera  0)  ci  è  un  prezioso  documento ,  perchè  manife- 
sta di  quali  elementi  fosse  allora   costituito  il  municipale 
governo  di  Crema.  Componevasi  dei  consoli,  dell'assemblea 
del  popolo  ,  e  dei  conti ,  i  quali  mantenendo  delle  speciali 
prerogative,  e  partecipando  col  popolo  al   governo  di  Cre- 
ma, lo  rendevano,  ad  avviso  del  Giulini,  meno  democratico 
che  negli  altri  Comuni.  «  Le  città  che  avevano  vescovo  più 
«  presto  esclusero  i  loro  antichi  conti,  e  ridussero  al  nulla 
«  la  loro  autorità.  Ne' luoghi  che  non  avevano  vescovi,  i  conti 
»  ritennero  più   lungamente   alcuna  parte  dei  loro  antichi 
»  diritti.  Così  i  conti  di  Crema  e  dell'isola  Fulcheria  di 


(1)  Campi.  Storia  di  Cremona. 
(2j  Giulini.  Storia  di  Milano. 
(3)  Vedi  la  lettera  nel  Documento  E. 


—  68  — 
■  cui  Crema  era  cupo,  ancora  dimoravano  in  quel  castello, 
»  od  avevano  almen  parie  in  quel  governo (*)  ». 

L'osservazione  del  Giulini  non  è  fuor  di  proposilo:  con- 
ferma ciò  che  abbiano  già  notalo  intorno  ai  conti  di  Caini- 
snno,  i  quali  tuttoché  spogliali  del  dominio  di  Crema,  con- 
servarono ancora  dei  privilegi  feudali.  E  qui  avvertiremo 
che  oltre  i  conti  di  Gamisano,  altre  famiglie  v'erano  nel 
distretto  eremasco,  le  quali  insieme  al  titolo  di  conte  gode- 
vano vasti  possedimenti.  Per  dirne  alcune,  nomineremo  i 
conti  di  Palazzo,  i  conti  d'Azzano,  i  conti  di  Capralba,  i 
conti  d'Offanengol^,  famiglie  che  quasi  tutte,  ad  opinione 
del  Lupi,  diramavano  dai  conti  di  Bergamo.  Che  tutti  que- 
sti conti  esercitassero  entro  le  mura  di  Crema,  come  nelle 
terre  da  loro  possedute,  privilegi  feudali  ,  non  osiamo  ac- 
certare :  però  non  sarebbe  strano  eh'  essi  si  fossero  arro- 
gate anche  nel  recinto  di  Crema  delle  prerogative ,  e  che 
il  popolo  vi  si  fosse  rassegnato.  Forse  i  Cremaschi  li  sop- 
portavano in  pace,  considerando  che  avevano  ai  fianchi  un 
nemico  ben  più  molesto  e  più  potente  dei  conti,  aveano  Cre- 
mona, incocciata  nel  volere  che  la  terra  nostra  le  si  profes- 
sasse vassalla.  Non  è  dunque  meraviglia  che  il  popolo  erema- 
sco, sempre  o  minacciato  o  assalito  dai  Cremonesi,  non  abbia 
pensato  a  purgare  il  suo  Comune  d'ogni  elemento  aristo- 
cratico. Non  trovammo  mai  in  alcuna  cronaca  che  a  que1 
tempi  sorgessero  in  Crema,  come  altrove,  dei  rancori  fra 
nobili  e  popolani:  ond'è  verosimile  che  il  popolo  eremasco 
accarezzasse  i  suoi  conti ,  e  si  compiacesse  di  associarseli 
nel  governo  della  patria,  col  politico  intendimento  di  afle- 
zionarli  al  Comune,  e  perchè  avessero  maggiore  stimolo  di 
unire  le  loro  forze  contro  V  implacabile  Cremona.  Senza 

(1)  Giulini.  Storia  di  Milano. 

(2)  I  conti  d'Offanengo  ebbero  la  loro  investitura  feudale  dal  vescovo  di 
Bergamo.  L'atto  d'investitura  leggesi  nel  Codice  Diplomatico  del  Lupi,  ed  ha 
la  data  dell'anno  ilio. 


—  66  — 
perderci  in  congetture  ,  a  noi  basti  V  aver  rilevato  dalla 
lettera  del  messo  imperiale,  come  il  popolo  cremasco  nel 
recinto  del  suo  municipio  fruisse  anch'esso  dei  diritti  di 
sovranità:  ciò  è  una  prova  di  più  a  persuaderci  che  il  no- 
stro Comune  fin  d'allora  reggevasi  con  forme  repubblicane. 

L'anno  1152  morì  Corrado  III,  e  la  diela  di  Franco- 
forte destinava  la  corona  a  suo  nipote  Federico  Barbaros- 
sa  duca  di  Svevia.  L'elezione  di  Federico,  congiunto  per 
sangue  alla  Casa  di  Svevia  ed  a  quella  di  Baviera,  tron- 
cava le  quistioni  tra  le  due  famiglie  guelfe  e  ghibelline, 
rassodava  la  pace  e  l'unione  dell'impero  germanico.  Nuovi 
destini  maturavano  per  gì'  Italiani.  Sulla  fronte  severa  del 
novello  imperatore  potevi  scorgere  un  mal  celato  pensiero, 
una  nube  eh'  esser  doveva  alle  città  lombarde  apportatrice 
di  rovinosa  tempesta.  Federico  ,  nel  bollor  degli  anni  gio- 
vanili ,  cupido  di  gloria  ,  valoroso  nelle  armi ,  volse  dal 
trono  germanico  uno  sguardo  sull'Italia:  vide  quel  con- 
citato movimento  di  tante  repubblichette  ,  sorte  a  libertà 
tra  le  discordie  e  lo  scompiglio  dell'Impero,  ne  poteva  an- 
dargli a  grado.  Barbarossa ,  uomo  di  sperticata  ambizione, 
voleva  far  rinascere  nel  suo  nome  la  grandezza  di  Carlo 
Magno  ,  voleva  che  i  popoli  si  prostrassero  davanti  la  po- 
destà dell'  impero  :  ma  questo  aveva  in  Italia  perduto  al- 
quanto del  suo  prestigio,  ed  era  agevole  comprendere -che 
se  i  Comuni  procedevano  innanzi  del  medesimo  passo,  non 
avrebbero  tardato  a  disconoscere  affatto  qualunque  supre- 
mazia di  re  stranieri  in  Italia.  Barbarossa  ,  il  quale  mercè 
la  riunione  delle  fazioni  alemanne  sapeva  di  poter  disporre 
di  tutte  le  forze  della  Germania,  divisò  di  valicare  le  Alpi 
per  ricevere  in  Italia  le  due  corone,  per  dar  saggi  della  sua 
prodezza,  per  richiamare  con  le  armi  a  divozione  dell'Im- 
pero i  Municipj. 

Precursore  dei  suoi  disegni  capitò  in  Lombardia  certo 
conte  Sicherio:  lo  inviava  Barbarossa  ai  Milanesi,  intiman- 


—  69  — 
ilo  loro  l'on  imperiosa  lettera  di  rendere  i  rapiti  privilegi 
ai  Lodigiani,  i  quali,  ad  onor  il<*l  vero,  la  repubblica  di 
Milano  malmenò  barbaramente.  Sicherio  lesse  il  dispaccio 
imperiale  nell'assemblea  del  popolo:  i  Milanesi  a  * j 1 1 e  1 1 e 
superbe  intimazioni  montarono  sulle  furie,  strapparono  di 
mano  a  Sicherio  il  dispaccio,  lo  calpestarono  urlando  e 
maledicendo  a  Federico  e  a  tulli  i  Barbari.  Sicherio  do- 
vette fuggire,  e  fu  prodigio  che  tra  la  bufera  dell' infuriata 
moltitudine  abbia  trovato  modo  di  salvarsi. 

Neil* ottobre  del  1154  Federico  scendeva  per  la  prima 
volta  in  Italia  con  un  esercito  clic  mai  più  poderoso  vi 
auvan  condotto  i  suoi  antecessori.  Accampatosi  presso  Pia- 
cenza, adunò  a  Roncaglia,  secondo  l'antica  costumanza,  i 
Comizj  del  regno  d'Italia.  V  intervennero  i  consoli  di  tutte 
le  citta:  Federico  aveva  dichiarato  di  voler  giudicare  le  con- 
tese de'  suoi  sudditi  italiani  :  perciò  Lodigiani  e  Comaschi 
vi  apersero  1'  animo  loro  ,  dolendosi  delle  prepotenze  dei 
Milanesi.  Barbarossa  ebbe  campo  allora  di  scoprire  le  fa- 
zioni e  le  simpatie  di  tutte  le  città  lombarde.  Conobbe 
come  fervesse  nimicizia  acerbissima  fra  Milanesi  e  Pavesi, 
e  questi  fossero  più  deboli ,  perchè  non  rimanevano  loro 
ad  alleate  che  le  città  di  Cremona  e  di  Novara  ,  essendo 
Lodi  e  Como  ridotte  in  servitù  dei  Milanesi.  Pei  Milanesi 
parteggiavano  Cremaschi,  Bresciani,  Piacentini,  Tortonesi, 
Astigiani.  Quindi  Federico,  pensando  che  a  lui  conveniva 
avversare  la  fazione  più  forte,  spenta  la  quale  tornavagli 
agevole  domare  la  più  debole  ,  diebiarossi  favorevole  ai 
Pavesi.  Da  quel  momento,  Crema  per  essere  la  protetta  e 
l'amica  dei  Milanesi  incontrò  l'odio  dell'imperatore:  se  ne 
rallegrarono  i  Cremonesi,  vedendo  che  albeggiava  il  sospi- 
rato giorno  di  sfogare  sulla  nostra  cittadella  le  loro  vendette. 

Nel  1155  ritornò  Barbarossa  in  Germania,  dopo  aver 
distrutto  Rosate,  Trecate  e  Galliate,  posto  a  sacco  Chicli 
ed  Àsti,  ruinata  Tortona  che  gli  oppose  un'  eroica  resisten- 


—  68  — 
za,  e  ricevula  a  Roma  la  corona  dell'Impero  per  mano  di 
Adriano  IV.  I  Milanesi  profittarono  della  partenza  di  Fede- 
rico onde  soccorrere  nei  paliti  disastri  i  loro  confederati , 
ed  osteggiare  le  città  che  si  erano  dichiarate  partigiane  del- 
l' imperatore.  Milanesi  e  Cremaschi  campeggiarono  allora 
contro  i  Pavesi  per  ben  due  volte,  ma  sempre  con  succes- 
so poco  felice. 

Nel  luglio  del  1158.  Federico  scende  di  nuovo  in  Italia 
seguito  da  cento  mila  combattenti.  In  quest'  anno ,  narra 
il  Fino,  Barbarossa  si  pose  con  l'esercito  sotto  Crema , 
avendo  dichiaralo  i  Cremaschi  ribelli  all'Impero  per  es- 
sere confederati  coi  Milanesi  e  coi  Bresciani:  veduta  poi 
l'  impresa  difficile  pili  che  non  pensava,  mutando  pen- 
siero, levò  le  genti  da  Crema,  ed  andò  sotto  Milano.  Di 
questo  primo  tentativo  d'  assedio  non  fanno  alcuna  men- 
zione parecchi  cronisti,  che  pure  hanno  riferito  dettagliata- 
mente le  imprese  della  seconda  spedizione  di  Federico  in 
Italia:  non  ne  dice  parola  neppure  il  Giulini,  che  da  sto- 
rico diligentissimo  seguì  ogni  piccolo  movimento  di  Barba- 
rossa  in  Lombardia  (*). 

Primi  a  sperimentare  lo  sdegno  dell'imperatore  nel  1158 
furono  i  Bresciani ,  alleali  dei  Milanesi  e  dei  Cremaschi. 
Brescia  per  aver  osato  fare  qualche  resistenza  a  Federico, 
vide  tutto  il  suo  territorio  devastato  dalle  truppe  impe- 
riali ,  e  pagò  grossa  somma  onde  evitare  disastri  peggiori. 
L'imperatore  dimorò  alcuni  giorni  nel  territorio  di  Brescia, 
ove  tenne  una  dieta  guerriera  emanando  lessi  sulla  disci- 
plina  militare:  poi  correva  impaziente  ad  assalire  Milano. 
Ma  vi  fu  trattenuto  dai    giureconsulti ,  facili  smaltitori  di 


(1)  Che  Barbarossa  abbia  cinta  d'assedio  Crema  prima  dell'ottobre  del  H58 
ne  fa'  fede  l'atto  con  cui  dichiarò  i  Cremaschi  ribelli  dell'Impero;  ma  da  quel- 
l'atto apparirebbe  che  pose  Crema  al  bando  dell'Impero,  dopo  averne  tentato 

'assedio,  mentre  le  parole  del  Fino  ci  menano  a  supporre  il  contrario.  Vedi 

ij  Documento  F. 


—  69  — 
pandette  e  digesti ,  schifosa  razza  che  alla  cori»4  imperiale 
teneva  bottega  di  sofismi  e  di  adula/ioni.  A  que1  tempi  era 
politica  di  principi  l'accarezzarli.  Come  i  Pontefici  servi- 
vansi  dei  teologi  e  delle  scomuniche,  così  gì1  imperatori,  a 
sostenere  le  loro  proteso,  adoperarono  lo  spade  e  i  giuro- 
consulti.  Federico,  prima  di  gettarsi  in  un'impresa,  soleva 
consultarne  gli  oracoli  ,  e  quei  togati  gli  rispondevano,  già 
s'intende,  sempre  cortigianescamente.   Stupravano  le  ideo 
più   verginali  ,   più  sante   del  diritto  ,  sformandole  quanto 
bisognasse  per  accomodarle  alla  gigantesca  ambizione  del- 
l'imperatore. I  giureconsulti  questa  volta  fecero  osservare 
a  Federico  che  prima  di  combattere ,  si  dovevano  citare 
rei  una ,  due ,  o  almeno  una  volta  sola ,  assegnando  loro 
un  tonnine  perentorio  a  comparire,  non  potendosi  profferir 
sentenza  contro  gli  assenti,  né  eseguir  castigo  senza  sen- 
tenza l\   Li  ascoltò  Barbarossa  che  conosceva  ben  adden- 
tro le  imposture  del  regnare,  e  fingendosi  scrupoloso  delle 
formalità  giuridiche,  citò  a  presentarsi  avanti  il  suo  tribu- 
nale Milanesi  e  loro  alleati.  Non  mancarono  gli  ambascia- 
tori di  Milano  e  di  Crema  di  recarsi  al  campo  imperiale 
per   maneggiarvi  la  pace ,  ma  infruttuosamente.   Federico 
anelava  la  guerra:  adempite  le  formalità  di  procedura  a 
lui  suggerite  dai  giuristi,  pose  al  bando  dell'Impero  Mi- 
lano e  Crema  (*),  indi,  coll'approvazione  dei  dottori  in  legge, 
spinse  il  suo  esercito  contro  Milano. 

Sotto  le  mura  dell1  ardimentosa  capitale  puguavano  da 
forti  assediali  ti  ed  assediati,  quando  s'interpose  fra  i  com- 
battenti il  conte  di  Biandrate,  e  riesci  mediatore  di  pace 
fra'  Milanesi  e  l'imperatore.  Della  conchiusa  pace  uno  dei 
capitoli  risguardava  i  Cremaschi  :  Federico  dichiarò  di  as- 
solvere in  piena  curia  Milanesi  e  Cremaschi  dal  bando  dol- 


ci) Giunsi.  Storia  di  Milano. 
(2)  Vedi  il  Documento  F. 


— ■  70  — 

l 'impero,  e  che  li  accoglieva  nelle  sue  grazie,  purché  pa- 
gassero un  emenda  di  centoventi  marche,  la  qual  somma, 
ad  avviso  del  Giulini,  corrisponderebbe  a  circa  setlanla- 
cinque  mila  lire  di  Milano. 

Nel  mentre  Federico  intraprendendo  l'assedio  di  Milano 
accampava  sulle  rive  del  Lambro,i  Lodigiani,  che  per  fuggir 
l'ira  bestiale  dei  Milanesi  si  erano  ricoverati  a  Pizzighettone, 
presentaronsi  supplichevoli  all'imperatore  implorando  una 
patria,  un  luogo  ove  poterla  riedificare.  Ed  avevano  ra- 
gione. Federico  li  accolse  benignamente,  donò  loro  l'altura 
di  Monteghezzone  in  riva  all'Adda,  e  fece  porre  in  sua  pre- 
senza la  prima  pietra  dell'odierna  Lodi. 

L'anno  istesso  (1158)  dopo  conchiusa  la  pace  coi  Mila- 
nesi, Barbarossa  apriva  una  dieta  in  Roncaglia,  scopo  della 
quale  determinare  le  regalie  competenti  all'  alto  dominio 
dell'impero  sulle  città  italiane,  e  decidere  le  controversie 
ancora  pendenti  fra  i  municipj.  Federico  piantava  il  suo 
tribunale  con  apparali  guerreschi,  con  pompe  regali,  per 
imporre  sulle  fantasie  come  in  uno  spettacolo  teatrale.  In- 
torno al  suo  seggio  nereggiava  un  branco  di  giureconsulti  : 
erano  ventiquattro,  ci  duole  il  dirlo,  lutti  italiani,  fra  i 
quali  quattro  famosi  per  ingegno  e  per  dottrina  ^l  Pala- 
dini della  causa  imperiale,  armati  di  cavilli,  audaci  nel 
soQsmo,  formavano,  per  così  dire,  il  caroccio  dell'imperatore. 
Fu  in  quel  congresso  che  i  giureconsulti  proclamarono  Bar- 
barossa successore  d'Augusto  e  padrone  del  mondo,  onde 
egli, per  sentenza  dei  giuristi,  poteva  di  buon  diritto  palleg- 
giare a  suo  piacere  il  globo  con  la  croce  sopra,  simbolo 
dell'  universale  signoria.  Fu  in  quel  congresso  che  Fe- 
derico udendo  i  municipj  lombardi  piatire  l'un  contro 
l'altro,  lanciò  agli  Italiani  sorridendo  e  in  tuono  ironico 
queste  memorande  parole:  Come  mai,  voi  Italiani  che  siete 

(1)  Bulgaro,  Martino  Gossia,  Jacopo  ed  Ugo  da  Porla  Ravegnana. 


-  71  — 

Ira  luiti  i  più  eruditi  nella  scienza  del  diritto,  nì  trovate 
Minile  discordi  e  inviluppati  nei  litici?  binarissimo  rim* 
provero,  ma  giusto,  pur  troppa  !  L'esito  di  quella  dieta  fu 
che  Barbarossa,  ebbro  della  sua  ambizione,  e  palpalo  a 
meraviglia  da  una  lurba  di  adulatori,  condannava  alla  ser- 
vitù dell'impero  i  Comuni  lombardi,  né  si  teneva  obbligato 
di  mantenere  ai  Milanesi  ed  ai  Cremaschi  i  palli  che  aveva 
poc'anzi  giurati  nella  pace  stipulata  a  Milano.  Non  lardò  a 
significare  i  disegni  clic  volgeva  nell'animo.  Volle  che  in 
tulli  i  municipj  sedesse  un  podeslà  imperiale  per  annullarvi 
l'autorità  ebe  esercitavano  i  consoli;  promise  ai  Cremonesi, 
ricevendone  in  dono  quindici  mila  marche  d'oro,  che  avrebbe 
fallo  smantellare  le  mura  di  Crema,  del  che  s'indignarono 
fortemente  i  Milanesi  (*). 

Nel  gcnnajo  dell'anno  1159  entravano  in  Crema  gli  am- 
basciatori di  Federico,  intimando  ai  Cremaschi  di  abbattere 
le  loro  fortificazioni  e  ricolmarne  le  fosse.  Pensate  come 
dovea  esser  accolto  il  comande  imperiale  da  una  popola- 
zione guerriera,  che  venerava  nelle  sue  mura  grinespugnati 
baluardi  della  propria  libertà.  L'ira  acciecò  i  Cremaschi; 
non  badarono  all'inviolabilità  onde  voglionsi  privilegiate  le 
persone  degli  ambasciatori,  e  tolsero  a  maltrattarli,  tanto 
che  se  non  erano  lesti  a  fuggire,  si  trovarono  a  un  pelo  di 
rimaner  vittime  del  furor  popolare.  Confessiamolo,  i  nostri 
padri  amavano  la  libertà  altamente;  essi  tenevansi  nel  di 
lei  amplesso  ben  fortunati  e  forti  se  furono  tanto  audaci  da 
bistrattare  i  messi  imperiali,  provocando  lo  sdegno  di  po- 
tentissimo monarca,  che  avea  l'orgoglio  di  credersi  padrone 
del  mondo. 

Nell'aprile  dell'anno  medesimo  (1159)  i    Milanesi,  di- 
chiarati ribelli  dell'impero,  rompono  guerra  ai  Lodigiani,  i 
quali  avevano  già  recinta  la  loro  città  di  fortificazioni.  Di- 
fi)  Giuliju.  Storia  di  Milano. 


—  72  — 
visando  di  prender  Lodi  con  strategico  inganno,  giovaronsi 
del  soccorso  dei  Cremaschi.  Spedirono  le  milizie  di  Crema 
ad  assalire  Lodi  dal  lato  orientale,  confidando  che  i  Lodi- 
giani accorressero  tutti  a  difendersi  da  quel  lato,  sicché 
essi  intanto  avrebbero  potuto  più  facilmente  espugnare  la 
città,  attaccandola  di  sorpresa  da  un'altra  parte.  Ma  i  Lodi- 
giani, avvedutisi  delle  insidie  nemiche,  si  difesero  virilmente 
da  ogni  parte,  onde  i  Milanesi  ed  i  Cremaschi,  dopo  un 
accanito  combattimento  che  durò  dall'alba  a  mezzogiorno, 
furono  costretti  a  ritirarsi. 

Federico,  memore  della  oltraggiosa  accoglienza  cb'ebbero 
in  Crema  i  suoi  ambasciatori,  informato  degli  ajuti  prestati 
dai  Cremaschi  ai  Milanesi  contro  i  Lodigiani,  deliberò  l'ec- 
cidio di  Crema.  Dopo  aver  pronunciato  sentenza  favorevole 
ai  Cremonesi  sulle  pretese  ch'essi  vantavano  nel  territorio 
nostro,  ordinò  alle  legioni  di  Cremona  che  stringesser  Crema 
d'assedio.  Ubbidirono  prontamente  e  con  giubilo  i  Cremonesi 
al  cenno  di  Barbarossa;  addì  7  di  luglio  (1159)  accampa- 
rono sotto  le  mura  di  Crema. 


/o 


DOCUMENTI 


Documento  A. 

Brano  di  un  diploma  dell'anno  1040  con  cui  Enrico  II  esteso  la  giu- 
risdizione del  vescovo  di  Bergamo  sopra  tutto  il  contado  di  Bergamo 
fino  agli  estremi  di  lui  confini,  Crema  compresa. 

u  Concedimus  Comitatum  ejusdem  civitatis  in  omnibus  ad  se  per- 
»  tinentibus ,  tam  infra  civitatem ,  quamque  et  foris  donec  compleatur 
»  terminus  suus.  Finis  vero  hujus  Comitatus,  si  cut  ad  aures  nostras 
»  deci  aratura  est ,  est  ita.  Prima  in  valle  qua?  dicitur  Valletellina -,  se- 
»  cunda  autem  usque  in  ripa  fluminis ,  quod  vocatur  Adda  :  tertia  sci- 
»  licet  ad  Olii  fluminis  illius  loci  decurrentes;  quarta  quoque  usque  ad 
»  curtem,  qua3  dicitur  Casale  Bottanum  ». 

Questo  diploma  si  conserva  in  originale  nell'archivio  della  cattedrale 
di  Bergamo.  Il  brano  da  noi  riportato  citossi  dal  Pagnoncelli  nella  sua 
opera  Dell'antica  origine  e  continuazione  dei  governi  municipali  in 
Italia. 

Documento  B. 

Diploma  con  cui  la  contessa  Matilde  concedette  al  Comune  ed  al 
vescovo  di  Cremona  il  comitato  dell' isola  Fulcheria,  riportato  dal- 
l' Ughelli  nell'Italia  Sacra,  ove  tratta  dei  vescovi  cremonesi. 

u  Una  dies  Sabathi  in  Kal.  jannuarii,  praesentia  bonorum  hominum, 
»  quorum  nomina  subter  leguntur,  per  fustis  quem  in  suis  tenebat  mani- 
»  bus  comitissa  Mathikla,  filia  quondam  Bonifacii  Marchionis,  infra 
r>  Cast  rum  Platinai  investivit  liomines  Cremona?,  scilicet  G-ottifredus 
»  de  Bellusco,  et  Moricius  seu  Cremoxano  Aldaini  a  parte  S.  Maria? 
»  Cremonensis  Ecclesia?,  seu  ad  communum  ipsius  Cremona?  civitatis 
»  de  totu  comitatu  Isola?  Fulkeri,  omnia  et  ex  omnibus  quantum  ad 
»  suprascriptam  comitissam  pertinet  de  ipso  comitatu,  in  nomine  benefi- 
■  cii,  tali  vero  ordine,  quod  capitanei  ipsius  Ecclesia?  debent  servire  ad 
»  illam  Mathildain  comitissam  donec  episcopus  venerit  infra  ipsum  epi- 


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scopatimi,  sciliect  Cremonensis  Ecclesia?,  qua?  cum  suis  Capitaneis, 
seu  aliorum  caeterorum  militum  bene  serviat,  et  si  capitanei  illius 
cìvitatis  servire  noluerint,  crateri  houiines  ipsius  civitatis  serviant 
per  praenominatum  beneficimi),  et  illa  ecclesia?  sancta?  Maria?,  etistum 
communum  supradictum  comitatum:  ine antea  debeat  in  per- 
petuimi nomine  beneficii,  ut  suprascriptum  est,  sine  contradictione 
supradictfB  comitissa?  Mathildae,  seu  suorumheredum  velsuccessorum. 
Factum  est  hoc  anno  ab  Incanì.  Dom.  1098.  Ind.  6.  » 


Documento  C. 

Brano  del  poema  del  poeta  Cumano,  ove  tocca  della  sconfitta  dei 
Cremaschi  nella  guerra  dei  Milanesi  contro  Como. 

u  Tunc  Mediolanenses 

r>  Distribuunt  acies,  dant  ad  praecepta  cohortes 
»  Dant  ad  presentes,  absentes  jussa  Cremenses 
«  Ad  Cumas  tendant,  castrumque  novum  tueantur. 
»  His  monitia  structi  discedunt  denique  cuncti, 
r>  Simtque  domum  laeti  victores  reversi. 
»  Nec  mora  ferventes  haec  jussa  implere  Cremenses 
n  Se  sua  cuncta  parant,  ad  praelia  tendere  mandant , 
»  Festinant  omnes,  non  qua?  ventura  caventes. 
ti  Ad  Cumas  veniunt,  acies  ad  praelia  ducunt. 
n  Plurima  ferventes  exornant  bella  Cremenses, 
»  Nulla  dies,  et  nulla  quies  sine  Marte  feroci. 
n  Contendunt  transire  truces  ad  bella  ruentes, 

n  Perque  dies  aliquot  non  cessant hostes 

r>  Impugnare  suos  (  nequeunt  bene  noscere  mores  ) 
n  Hsecque  dies  faciunt  omnes,  sine  fine  superbi. 
n  Quodque  vident  cives,  qui  sunt  ex  more  sagaces, 
r>  Deducunt  equites,  peditesque  in  valle  sedentes, 
»  Nocte  struunt  latebras  caute  sine  murmure  tecti 
n  Dumque  dies  terris  resplendit  reddita,  solis 

»  Orbita  consurgens, caput  extulit  undis, 

n  Descendunt  de  monte,  truces  ad  bella  ruentes. 

»  At  contra  gnari  cives  restare,  parati 

»  Procedunt  omnes ,  veniunt  ex  urbe  potentes , 

»  Committunt  dexteris,  fractis  sonat  aether  ab  hastis, 

»  Ensis  ab  ense  sonat,  miles  prò  milite  clamat*, 


\t  cito  CumensoB  perturbani  acriter  hoatea, 
\t(«>llunr  animosi  Bternunl  per  oorpora  campoa, 
n  [ncumbunt,  Bternunt  equitea,  et  ubique  potentea 
a  Detruncant  peditea,  calcaut  pedibus  fugientea. 
-  \t  cito  cedentea,  cito  danl  sua  terga  Cremen 
••  Concua8Ì  terrore  pavent,  fcurbaque  quoque  langueut, 
n  Dum  sua  t'astra  petunt,  equitea  fugientibua  obatant, 
r  Celati  latebria  faerant  qui  valle  retecti, 
»  Iamque  diu  Qlorum  predantea,  castra  tenebant. 
n  Efaac  poatquam  noacunt  bìuiu]  omnea  arma  relinquunt 
m  Omnia  ,  coguntur,  nequeunt  evadere,  circum 
n  Partibua  a  cunctia  infesti  stant  inimici, 
«  Se  sua  cuncta  feris  cito  tune  reddunt  inimicia, 
••  Inde  capistrati  fortem  ducuntur  ad  urbem, 
n  Carceribua  tristcs  dantur  sua  facta  gementes. 
»  Dum  inediolanenses  captos  esse  cremenses 
»  Cognoscunt ,  illos  etiam  quoque  carcere  strictos  , 
»  Has  geminant  voces  eheu,  eheuque  dolentes 
n  Deplorant  socios  tam  forti  Marte  peremptos,  j: 

»  Deplorant  illos  in  .carcere  compede  strictos , 
»  Deflebant  predas,  et  abillis  esse  retractas, 
n  Deflent  illorum  combustaque  castra  virorum. 
»  Omnia  dimittunt,  combustaque  castra  relinquunt, 
»  Sumptus  ad  meestos  mittunt  in  carcere  clausos.  » 
'Tolto  dall'opera  Rerum  italicarum  del  Muratori,  Voi.  III.) 

Documento  D. 

Lettera  di  S.  Bernardo  a  Giovanni  da  Crema  cardinale  di  S.  Grisogono. 

a  Ad  Joannem  cremensem  cardinalem  presbyterum. 
»  Diìectionem  et  dignationem  qua  me  amplecti  a  vobis  nullius  di- 
guitatis  homuncio  sensi,  in  seternum  non  obliviscar  pcenitentiam  et 
conversionem  vestram,  de  qua  jam  Angelis  collsetatus  sum  et  condele- 
ctatus,  dignos  facere  fructos  opto  jugiter  et  oro  frequenter.  Et  nunc 
maxime  ipsos  vestra  illa  Gallicana  Ecclesia  mecum  expectat,  credo 
non  intempestivos.  Interest  vestrae  pariter  et  meae  famee  ut  non  con- 
fundar  in  vobis.  Sic  ergo  clareat  omnibus  zelus  apud  vos  veritatis 
j  ustitiasque,  ut  fervor  contra  iuterfectores ,  clericorum  et  instigatores 
eorum,  ut  non  me  pigeat  gloriatimi  fuisse  de  vobis.  » 
(Tratta  dalle  Seriane  di  M.  Alemanio  Fino.) 


-76  — 


Documento  E. 

Lettera  del  vescovo  di  Costanza,  legato  dell' imperator  Corrado,  ai 
Cremaschi  (1146). 

«  Ego  Costantinensis  Episcopus  ,  et  Domni  Chonradi  [jRomanorum 
r>  Regis  Legatus,  Consulibus  et  Comitibus,  oinnique  Populo  Cremensi 
»  salutem. 

n  Notum  vobis  fieri  volumus,  quia  Dominus  noster  ex  latere  suo  nos  in 
»  partes  istas  dirigens ,  tocius  Italici  regni  negotia  ad  honorem  suum 
»  jure  tractanda  nobis  commisit,  nosque  omnibus  oppressis,  et  praecipue 
r>  Ecclesiis  j  ustitiam  facere,  treguam  rìrmiter  servare,  et  omnes,  qui  in 
»  Regno  isto  captivi  tenentur,  liberare,  et  quosque  rebelles,  et  nostris, 
»  immo  Domni  Regis  mandatis  repugnantes,  ejus  banno  subjicere,  et 
n  fideles  ejus  de  adventu,  et  servitio  suo  diligenter  commonere  praecepit. 
»  Noveritis  praeterea,  quia  vir  venerabilis  frater  noster  0.  Cremonensis 
»  Episcopus  nobis  conquestus  est  de  Trecho  de  Bonato  etfratribusejus, 
«  et  de  Girardo  de  Colonia,  nec  non  et  de  filiis  Alberti  Gonzonis,  et  de 
»  Mantegatio  de  Caravajo,  qui  et  homo  et  j  uratus  Episcopi  est.  Qui  omnes 
»  et  terras  Ecclesiae  et  possessiones  inj  uste  detinent,  nec  ab  eis  j  ustitiam 
»  consequi  potest.  Insuper  idem  Mantegatius  homines  Ecclesiae  infestare 
»  non  cessat.  Ea  propter  ex  parte  Domni  Regis,  et  nostra,  Unlversitati 
»  vcstrce  mandamus  atque  praecipimus,  ut  praenominatos  viros  Cremo- 
n  nensi  Episcopo  ante  adventum  Domni  Regis  nostri  plenamj  ustitiam 
n  facere  coherceatis.  Ipsum  quoque  Mantegatium  ab  infestatione  homi- 
n  num  Ecclesiae  cessare  faciatis,  alioquin  autem,  quia  his  consentitis 
n  et  criminis  et  damnationis  illorum  vos  ipsos  participes  efficitis;  fo- 
ri cientes  enim  et  consentientes  pari  poena  puniendi  sunt.  De  caetero 
v  autem  vobis  Comitibus  qui  Domni  Regis  et  Vassalli  et  fideles  estis , 
?»  ex  parte  sua  praecipimus,  ut  de  adventu  et  servicio  ejus  vos  diligen- 
ti tissime  praaparetis.  Vobis  quoque  nihilominus  praecipimus  ut  Guidri- 
n  sium  de  Fornovo  eidem  Donino  Episcopo  justitiam  facere  cogatis, 
»  et  tam  ipsum  Guidrisium,  quamque  et  omnes  alios,  qui  quondam  Cas- 
?»  tellani  et  habitatores  fuerunt  locorum  Episcopi,  vel  faciatis  eos  reverti 
n  et  habitare  in  iisdem  locis,  sicut  ipsi  olim  et  antecessores  eorum  fe- 
n  cerunt,  vel  omnia  quae  habent  in  eisdem  locis  relinquere.  Si  autem 
»  nihil  horum  fecerint ,  aut  ipsi  Episcopo  eos  in  laudamento  Curiae 
n  illius  justitiam  facere  cogatis,  aut  a  vobis  eosomninoabjiciatis;  allo- 
n  quin  banno  Domni  Regis  subjiciemini  in  mille  libras  auri. 


-  Ego  Girardui  Qotariua  hujus  exempli  autenticum  vidi,  et  legi,  et 
h  fideliter  esemplavi.  » 

(Tratta  dal  volume  EV  delle  Antichità  italiane  del  medioevo)  dell'a* 
bate  Lodovico  Muratori.) 

Documento  F. 

Atto  con  cui  Federico  Barbarossa  poso  i  CremaBChi   al   bando  del- 
l'impero. 

u  Federicos  Dei  gratia  Bomaaorum  imperator  et  semper  Augustus: 
n  Notimi  esse  credimus  universis  imperii  Fidelibus  quocl  ex  divina 
n  Providentia  super  omnes  mortales  ad  hoc  .constituti  sumus  ut  fide- 
n  libila  et  benemerentibus  de  nobis  digna  premia  respondeamus,  et  se- 
n  cundum  justitiam  hostibus  imperii  justas  pcenas  infligamus  •,  ea  pro- 
n  pter  cum  ob  rebellione  Cremensium  ipsum  castrum  Crema?  obsedisse- 
n  mas,  et  cum  Principibus  nostris,  die  quadam  sub  papilione  Ducis 
n  Heurici  conscedisemus ,  concilio  et  judicio  principimi  nostrorum  et 
n  omnium  Lombardorum  qui  nobiscum  aderant,  ipsos  Cremenses  hostes 
n  imperii  judicamus  et  de  ipsis  tales  leges  promulgavimus;  quoniam 
«  Crema  et  omnes  Cremenses  sub  nostro  sunt  banno  positi  statuimus, 
n  et  imperiali  auctoritate  nostra  confirmamns,  ut  omnes  tam  Cremenses 
n  quam  Mediolanenses  seu  Brixienses  seu  ceteras  undequaque  sint  per- 
ii some,  quse  in  tempore  hoc  in  Crema  sunt  tam  feudum  quam  aloclium 
»  totum  amittant,  et  feudum  ad  dominos  revertatur,  et  domini  aclmodo 
»  liberam  habeant  potestatem  feudum  intermittendi  nostra  auctoritate 
n  ac  tenendi  et  quiete  possidendi.  Nos  vero  et  personas  eornm  pu- 
»  blicavimus,  illi  enim  qui  sunt  de  ecclesiarum  familiis  et  feudum  et 
»  aìlodium  amittant,  et  eorum  domini  nostra  auctoritate  intrent  et 
»  teneant,  liberorum  verum  allodia  ad  nos  spectare  decrevimus  ;  factum 
»  est  hoc  anno  Dominicse  Incarnationis  millesimo  centesimo  quinqua- 
»  gesiino  octavo,  indictione  nona,  die  Veneris  quas  fuit  decimo  quarto 
»  Kalendas  Octobris.  » 
(Tratto  dalla  Storia  di  Crema  di  M.  Pietro  Terni.) 


—  70 


CAPITOLO  TERZO 


ASSEDIO    E    DISTRUZIONE    DI    CREMA. 


SOMMARIO. 


Porle  posizione  di  Crema.  —  Indole  bellicosa  ed  ardita  de' suoi  abitanti.  — 
Come  a  quo'  tempi  si  organizzassero  le  milizie  nei  Comuni  lombardi.  — 
Cremonesi,  Pavesi  e  Lodigiani,  alleati  di  Federico  Barbarossa  contro 
(Ironia.  —  Milanesi,  Bresciani  e  Piacentini  alleati  dei  Cremascbi.  —  Arrivo 
di  Barbarossa  sotto  Crema.  —  1  Milanesi  sconfitti  a  Landriano.  —  Come 
intorno  a  Crema  si  disponesse  l'esercito  di  Federico.  —  Fallito  tentativo 
dei  Milanesi  die  volevano  divergere  le  forze  imperiali  dall'assedio  di  Cre- 
ma. —  Il  castello  di  legno  dei  Cremonesi.  —  Tre  sortite  degli  assediati, 
l'ultima  con  prospero  successo.  —  Soccorso  prestato  dai  Lodigiani  a  Bar- 
barossa. —  Suo  barbaro  stratagemma  per  impedire  die  i  Cremascbi  re- 
spingessero le  macelline  d'assedio.  —  Stupendo  e  feroce  coraggio  dei  Crema- 
sebi.  —  Bappresaglie  crudelissime.  —  Tentativi  dei  Cremascbi  per  ab- 
bruciare una  macchina  d'assedio  a  Barbarossa.  —  Marchisio  ,  ingegnere 
dei  Cremaschi ,  diserta  al  campo  nemico  ,  prestando  i  suoi  servigi  a  Bar- 
barossa. —  Assalto  generale  die  Barbarossa  diede  a  Crema  ,  e  vigorosi 
fatti  che  lo  segnalarono.  —  Crema  è  ridotta  al  punto  di  doversi  arren- 
dere. —  Il  duca  di  Sassonia  ed  il  patriarca  d'Aquileja  entrano  coi  Crema- 
sebi  in  trattative  di  pace.  —  Capitolazione.  —  I  Cremascbi  sgombrane 
dalla  loro  cittadella.  —  Atto  generoso  di  Federico.  —  Crema  è  saccheg- 
giata dall'esercito  imperiale.  —  Per  qual  motivo  i  soldati  v'appiccassero  il 
fuoco.  —  Disperazione  dei  Cremascbi  ,  vedendo  ardere  la  patria.  —  Ven- 
dette esercitate  dai  Cremonesi.  —  Allegrezza  e  millanteria  di  Barbarossa 
significando  a' varj  principj  la  presa  di  Crema.  —  Importanza  ch'ebbe 
l'assedio  di  Crema  nei  politici  avvenimenti  di  Lombardia.  —  Come  alla 
caduta  di  Crema  abbia  cooperalo  la  morte  del  pontefice  Adriano  IV. 

Crema  era  a  que'  tempi  un  castello  fortissimo.  Udiamone 
brevemente  descritta  la  posizione  da  uno  scrittore  aleman- 
no, contemporaneo  e  parente  di  Federico  Barbarossa:  «Crema 


-80  — 

»  era  situala  in  luogo  piano  e  campestre,  assai  ben  difeso 
»  per  opera  di  mano  e  benefìcio  di  natura,  girandole  attor- 
»  no  da  un  lato  una  palude.  Oltre  le  ampie  e  profonde 
»  fosse  d'  acque  abbondantissime ,  la  circondavano  duplici 
»  ed  eccelse  mura,  onde  poteva  respingere  facilmente  ogni 
»  aggressione  e  sorpresa  di  nemico.  »  Così  Radevico  di  Fri- 
singa  nella  sua  cronaca  Ialina  (0;  ed  il  Voigt,  altro  aleman- 
no ,  scrivendo  della  lega  lombarda ,  v'  aggiunse  :  «  Crema 
»  non  era  men  forte  ed  inespugnabile  per  le  sue  mura,  che 
»  per  il  coraggio  e  la  risolutezza  de/ suoi  cittadini2).»  E 
qui  dobbiamo  dire,  ad  onore  del  vero,  che  il  popolo  cre- 
masco  nel  secolo  dodicesimo,  per  ardimento  e  perizia  nelle 
armi  levò  V  ammirazione  di  quanti  scrittori  nazionali  e  ol- 
tremontani hanno  discorso  di  quell'epoca  memoranda. 

Ad  educare  nei  Cremaschi  Y  indole  bellicosa  giovò  V  al- 
leanza milanese,  spingendoli  più  volte  a  combattere  fuori 
del  loro  territorio  ;  ma  più  ancora  valse  a  rinfocarla  Y  a- 
more  della  propria  indipendenza,  di  cui  i  padri  nostri  fu- 
rono tenerissimi.  Entusiasmo  era  a  que'  tempi  l'affetto  del 
luogo  natale ,  santo  e  religioso  dovere  di  ciascun  cittadino 
mantenervi  colle  armi  inviolata  quella  libertà  di  cui  gode- 
vano. Militi  tutti  del  proprio  Comune  ,  la  guerra  formava 
allora  un  episodio  della  vita  dell'uomo,  come  l'amore.  Ogni 
cittadino  fin  dalla  fanciullezza  abituavasi  agli  esercizi  mili- 
tari ,  a  trar  a  segno ,  a  portar  V  armatura  :  quando  squillo 
di  tromba  o  tocco  di  campana  annunciava  sovrastare  alla 
patria  grave  pericolo,  tutti,  dai  diciotto  ai  sessantanni, 
raccoglievansi  sulla  piazza  sotto  il  vessillo  dei  loro  consoli, 
impazienti  di  scagliarsi  contro  l'inimico:  unico  ordine,  com- 
battere: unica  regola,  non  iscostarsi  dalla  bandiera.  Vince- 
vano? Li  vedevi  ritornare  al  domestico  focolare,  superbi 

(1)  Muratori.  Rerum  italicarum,  voi.  VI. 

(2)  Voigt.  La  lega  lombarda.  Traduzione. 


—  81  — 

tlclia  salvezza  e  gloria  del  loro  Comune:  deponevano  le 
armi  per  affaticare  di  nuovo  le  robuste  braccia  neil1  arte 
onde  traevano  sostentamento.  Morivano?  La  patria  con  pub- 
bliche cerimonie  onorava  la  memoria  dei  figli  perduti  ,  e 
sulle  tombe  dei  valorosi  rinfiammava  nell'animo  dei  super- 
stiti Iodio  ai  nemici,  e  sentimenti  di  generosa  emulazione. 
Sembra  incredibile:  pine  con  queste  milizie  comunali  ven- 
nero più  volte  respinti  i  fortissimi  eserciti  degli  Enrichi  e 
dei  Federichi ,  composti  dal  fiore  dei  cavalieri  Franconi , 
Sassoni,  Svevi:  nelle  terre  italiane  si  ammirarono  prodigi 
di  valore  e  di  coraggio,  e  Crema  aveva  difeso  per  ben  ses- 
santanni In  propria  libertà,  in  onta  dei  Cremonesi  e  di 
chi  li  sussidiavo. 

Ma  oramai  siam  giunti  col  nostro  racconto  a  tal  punto 
in  cui  i  Cremonesi  confidavano  di  satollare  la  sospirata  ven- 
detta, e  recare  in  elìcilo  i  diritti  che  da  tanti  anni  vanta- 
vano su  Crema  Sapevano  li  avrebbero  fiancheggiati  ari 
oste  ben  agguerrita  e  forte  di  Germani ,  le  milizie  pavesi, 
l'alleanza  dei  Lodigiani,  e  meglio  ancora  Barbarossa,  mo- 
narca potentissimo,  Serse  del  medio  evo,  d'indole  ardimen- 
tosa, e  contro  i  nemici  inflessibile. 

Quando  i  Cremonesi  vennero  per  i  primi  a  cinger  Crema 
d'assedio,  i  Cremaschi  avevano  già  approvigionata  la  loro 
cittadella,  ed  accolti  i  sussidj  milanesi  e  bresciani.  Milano 
vi  spedì  il  console  Manfredo  Dugnano  con  quattrocento 
fanti  ed  altri  militi  stipendiati,  fra  i  quali  Obizzone  da 
Madrignano  ,  Old  rado  Bescapè  e  Gasparo  Menclotto.  Né 
men  generosa  la  belligera  Brescia  ,  sempre  pronta  ad  ac- 
correre ove  sventoli  bandiera  di  libertà,  volle  esporre  sulle 
mura  di  Crema,  in  segno  d'amicizia,  un  drappello  de' suoi 
campioni.  Anche  Piacenza  in  quest'occasione  fornì  ai  Cre- 
maschi vettovaglie  ed  alcuni  militi,  motivo  per  cui  Barba- 
rossa  la  sfolgorò  del  suo  sdegno  dichiarandola  ribelle  del- 
l'Impero. Così  in  quel  difficilissimo  istante,  in  cui  la  libertà 

6 


—  82  — 
dei  tomuni  pericolava ,  si  conobbe  quali  ancora  la  caldeg- 
giassero fra  i  Lombardi  ;  ed  i  Cremaschi,  stretti  con  loro 
per  santissimo  voto  di  libertà,  si  disponevano,  con  ardore 
senza  pari,  a  raccogliere  fra  gli  stenti  dell'assedio  le  palme 
dei  valorosi. 

Attendavano  sotto  le  mura  di  Crema  già  da  otto  giorni 
i  Cremonesi,  quando  ai  15  luglio  (1159)  loro  si  congiunse 
l' imperatore  con  esercito  poderosissimo.  Se  non  che  Fede- 
rico ,  fatto  consapevole  che  i  Milanesi  mandavano  verso 
l'Adda  novelli  sussidj  ai  Cremaschi,  si  allontanò  dal  cam- 
po: seguito  da  duecento  Tedeschi,  recossi  a  Lodi,  vi  adunò 
le  milizie  lodigiane ,  e  con  queste  e  col  rinforzo  delle  pa- 
vesi sfilò  verso  Landriano.  Ivi  con  l'arte  d'astuto  condot- 
tiero tira  i  Milanesi  negli  agguati ,  li  sorprende  col  mezzo 
di  un'imboscata,  li  rompe,  e  molti  ne  manda  prigionieri  a 
Pavia.  Lieto  di  quest'impresa,  Barbarossa  ritorna  sotto 
Crema  a'  suoi  accampamenti ,  ove  a'  19  di  luglio  lo  rag- 
giungono la  consorte  Beatrice  ed  Enrico  duca  di  Sassonia 
che  menarono  altre  schiere  dalla  Germania. 

Sulle  mura  di  Crema  sventolavano  le  insegne  lombarde, 
difese  da  un  pugno  di  cittadini  con  la  patria  in  cuore: 
all'intorno  della  cittadella  erano  schierati  con  Barbarossa 
Pavesi,  Cremonesi,  e  numerosi  armenti  di  milizie  feu- 
dali, calate  d'oltremonte.  L'esercito  degli  assedianti  era 
scompartito  e  disposto  colf  ordine  seguente  :  il  fratello 
dell'  imperatore ,  duca  Corrado,  accampava  colle  sue  le- 
gioni alla  Porta  d'  Ombriano  ;  il  nipote  ,  duca  Federico , 
tra  la  Porta  suddetta  e  quella  di  Pianengo;  il  sopraggiunlo 
duca  di  Sassonia  fra  Porta  Pianengo  e  quella  di  Serio  ,  e 
con  lui  erano  i  Pavesi;  rimpelto  alla  Porla  Ripalta  stavano 
i  Cremonesi,  e  poco  dopo  vi  spiegò  le  sue  tende  l'impera- 
tore, cedendo  la  posizione,  che  prima  teneva  oltre  il  Serio, 
a  Guelfo  duca  di  Baviera,  che  venne  ultimo  dalla  Germania 
ad  ingrossare  V  esercito  imperiale.  Oltre  queste  poderose 


—  83  — 
schiere,  formicolava  sotto  le  mure  di  Crema  copia  di  men- 
dicanti, detti  per  derisione  i  lìi^li  d'Arnaldo,  i  quali  con 
^;i>si  molestavano  gli  assediati,  finché  i  balestrieri  crema- 
seli fecero  di  loro  sanguinoso  macello.  Crema  era  dunque 
in  ogni  parte  accerchiata  e  chiusa  con  fitte  legioni  dall'ini- 
mico: impossibile  ogni  comunicazione  con  Milano  e  con 
Brescia,  vana  la  speranza  di  novelli  soccorsi:  stretti  da 
durissimo  assedio,  i  Cremaschi  non  potevano  confidare  che 
nel  valore  delle  proprie  braccia ,  nell'  eroismo  dei  patriot- 
tici sentimenti. 

I  Milanesi,  che  zelavano  la  difesa  di  Crema,  avvisando 
essere  in  questa  l'interesse  comune  della  libertà  lombarda, 
cercano  divergere  dall'assedio  parte  delle  forze  imperiali. 
Al  quale  scopo  assediano  Mancrbio  sul  lago  di  Como ,  oc- 
cupato dagli  Alemanni ,  ma  li  costringe  a  ritirarsi  il  conte 
Gosvino  ,  che  Federico  mandò  con  un  corpo  di  truppe  in 
soccorso  di  Manerbio. 

Assediatiti  ed  assediati  avevano  abbondantemente  prov- 
\ eduli  quanti  istromenti  di  guerra  occorrevano  a  quell'e- 
poca per  l'espugnazione  e  la  difesa  di  una  fortezza.  I  Cre- 
maschi,  di  briccole  ({ì,  mangani  ed  altri  bisognevoli  uten- 
sili di  guerra  erano  forniti  a  dovizia,  ed  avevano  acquar- 
tierato parte  delle  loro  milizie  nella  piazza,  il  maggior  nu- 
mero nelle  case  presso  le  mura  ,  onde  poterne  più  facil- 
mente invigilare  la  difesa.  Nel  campo  imperiale,  per  l'ap- 
parecchio delle  macchine  d'assedio  si  distinsero  i  Cremo- 
nesi. L'odio  ferocissimo  nutrito  contro  i  Cremaschi  sublimò 
il  loro  ingegno:  fabbricarono  un  castello  di  legno  tanto  alto 
che  soverchiava  le  mura  di  Crema,  quasi  volessero  simbo- 
leggiare in  quello  l'altezza  del  loro   sdegno,    della   ven- 


(t)  Briccola,  macchina  militare  antica  da  scagliar  pietre  e  altro  negli  as- 
sedj.  Mangani,  macchine  ehe  servivano  al  medesimo  riso.  Talvolta  con  questi 
lanciavansi  uomini  e  bestie.  Rapporto  alle  briccole,  rammenteremo  un  verso 
del  Malmautile  :  L'asino  che  fa  in  Siena  briccolato, 


detta  cui  anelavano.  Lo  descrive  il  Fino  con  le  seguenti  pa- 
parole(1):  «  Era  questo  castello  fatto  in  quadro  colle  ruote 
»  sotto ,  per  poterlo  condurre  agevolmente  ove  fosse  biso- 
»  gno.  Due  solai  aveva,  l'uno  sopra  l'altro.  Il  primo  era  di 
»  braccia  trenta  per  ogni  quadralo  ,  allo  poco  più  delle 
»  mura  di  Crema.  Nel  mezzo  di  questo  v'  era  il  secondo 
»  solaio,  d'assai  minor  grandezza,  in  forma  di  lorricella 
»  che  scopriva  tutta  la  terra;  in  questo  stavano  gli  arcieri 
»  che  ferivano  quelli  che  andavano  per  le  contrade  di  Cre- 
»  ma.  Neil1  altro  poi  si  rinchiudevano  quei  che  battevano 
»  le  mura  e  gettavano  i  ponti  per  entrar  nella  terra.  Fu 
»  F  altezza  di  questo  castello  braccia  settanta.  »  Tutti  i 
vecchi  cronisti  convengono  che  in  niun  assedio  si  era  mai 
prima  d'  allora  veduta  una  macchina  di  tanta  mole  e  di 
forme  così  gigantesche.  Ci  voleva  proprio  1'  ubbriachezza 
di  un  odio  italiano  e  municipale  per  ispirarne  ai  Cremo- 
nesi f  ammirata  invenzione  ! 

Quantunque  un  esercito  fortissimo  assiepasse  al  di  fuori 
le  mura,  non  s'astengono  i  Crcmaschi  dal  tentare  con  ar- 
rischialo valore  delle  sortite.  Un  dì  fra  gli  altri,  escono  sul- 
l'albeggiare  da  Porta  Ombriano,  attaccano  il  fuoco  nel  man- 
gano dell'  imperatore ,  difendendosi  virilmente  contro  gli 
Alemanni.  Ma  in  ajuto  di  questi  sopraggiunte  le  schiere 
del  conte  Ottone,  del  conte  Roberto  di  Basvilla,  e  d'altri 
duci,  i  Cremaschi ,  incalzati  dall'impeto  di  tanti  nemici, 
sono  costretti  a  ritirarsi,  e  lo  fanno  con  disordine  e  preci- 
pizio, sicché  molti  cadono  nelle  fosse  e  vi  rimangono  affo- 
gali. Quattro  dei  nostri  furono  presi  dall'inimico,  il  quale 
fece  orribile  strazio  delle  loro  carni.  I  Cremaschi,  appena 
rientrati  nella  fortezza,  pio  e  doloroso  ufficio  praticarono. 
Volendo  dare  onorevole  sepoltura  ai  cadaveri  degli  anne- 
gali ,  tolsero  a  pescarli  con  uncini  di  ferro  ,  girando  con 

(1)  Alemanio  Fino.  Storia  di  Crema. 


.)  — 
barchette  attorno  alle  fosse  delle  loro  trincee.  I  ricuperati 
cadaveri  furono  sepolti  dalle  madri  e  dalle  sorelle,  che  ter- 
gevansi   di  nascosto  le  lagrime,  per  non  ammollire  con  lo 
spettacolo  delle  loro  angosce  il  coraggio  dei  combattenti. 

Pochi  giorni  appresso  ÌCremaschi  escono  la  seconda  volta 
da  Porta  Ombri  a  uo,  assaltano  gl'imperiali,  e  uccidendone 
buon  numero,  li  costringono  a  ripiegare  verso  Porla  Pia- 
nengO.  Quivi  un  Tedesco,  di  nome  Furio,  fermatosi  sopra  un 
ponte,  resiste  ai  Cremaschi  con  l'audacia  dell'Orazio  roma- 
no; onde  gli  Alemanni  che  accampavano  negli  altri  lati 
ebbero  agio  di  accorrere  in  soccorso  dei  compagni  soccom- 
benti. Allora  i  nostri,  per  non  cimentarsi  contro  forze  che 
di  troppo  li  soperchiavano,  con  bell'ordine  si  ritirarono. 
«  Per  tal  fatto  fu  quel  ponte  detto  Ponte  Furio,  e  fino  al 
»  dì  d'oggi  dicesi  quella  contrada  corrottamente  PonfureU).» 

Coronata  di  più  felice  successo  fu  la  terza  sortita  che  fe- 
cero i  Cremaschi  nel  mentre  Barbarossa  gioiva  i  conjugali 
amplessi  a  S.  Bassiano  sul  cremonese,  ove  l'imperatrice, 
scostandosi  dal  campo,  avea  posto  il  suo  soggiorno.  ÌCrema- 
schi, saputa  l'assenza  di  Federico,  assalirono  l'inimico, 
combattendo  vigorosissimamente  fino  a  notte  innollrata. 
D  entrambe  le  parli  moltissimi  i  morti  ed  i  feriti;  ma  que- 
sta volta  ebbero  la  peggio  gl'imperiali  :  ne  perì  un  numero 
ragguardevole  e  le  acque  correvano  rosse  del  loro  sangue. 

Ritornato  Federico  agli  accampamenti,  informato  della 
rotta  toccata,  lui  assente,  alle  sue  truppe,  ne  indispettisce 
fieramente,  si  strugge  di  riparare  la  vergogna  de'  suoi  ves- 
silli. Ad  espugnar  Crema,  aveva  fatto  costruire  due  gatti  (-) 

(1)  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  Gatto,  «  istromento  bellico  antico  da  percuotere  le  muraglie,  che  avea 
»  il  capo  in  forma  di  gatto,  come  l'ariete.  »  Cosi  l'Alberti.  1  gatti  fatti  co- 
struire dal  Barbarossa  ci  vengono  descritti  dal  Fino  in  questo  modo  :  «  Era 
•  questa  macchina  assai  lunga  ed  alta  si  che  i  soldati  vi  potevano  star  sotto 
»  in  piedi  agiatamente.  Era  il  suo  coperchio  di  travi  poste  in  colmigna,  nella 
»  foggia  che  soglionsi  fare  i  tetti  delle  case.  Aveva  poi  le  ruote  sullo  ,  di 
»  nvjdo  che  con  agevolezza  si  conduceva  ove  fosse  bisogno.  » 


—  So- 
di maravigliosa  grandezza;  ma  l'uso  n'era  di  scarso  profìtto, 
non  potendoli  accostare  quanto  bisognava  alle  mura,  per 
l'ampie  fosse  ond' erano  circondate.  Barbarossa  s'accorge 
che  per  valersi  delle  sue  macchine  convien  otturare  almen 
parte  delle  fosse,  ardua  impresa,  essendo  tutte  alquanto 
larghe  e  profonde.  Recatosi  a  Lodi,  chiede  con  modi  gentili 
in  pubblica  adunanza  a  quei  cittadini  che  a  lui  fornissero 
quante  botti  potevano.  I  Lodigiani,  compreso  lo  scopo  del- 
l'inchiesta, riputandosi  avventurosi  di  sovvenire  ai  bisogni 
dell'imperatore,  conducono  sotto  le  mura  di  Crema  meglio 
di  quanto  aveva  Federico  domandalo;  vi  portarono  oltre 
duecento  e  più  botti,  due  mila  carra  di  fascine.  Buttaronsi 
in  una  delle  fosse,  per  riempirla,  e  botti  e  fascine,  e  sopra 
gran  quantità  di  terra;  così  Federico,  mercè  lo  zelante  ser- 
vigio dei  Lodigiani,  ottenne  l'intento  di  rendere  una  parte 
del  terreno  più  acconcia  al  movimento  delle  sue  macchine, 
e  di  poterle  innoltare  fin  sotto  i  baluardi  nemici. 

Ricolmata  la  fossa,  ordina  ben  tosto  alle  sue  squadre  di 
avvicinarsi  coi  gatti  e  col  castello  di  legno  alle  mura  di 
Crema,  per  espugnarle.  Gli  assediali  vedono  le  torri  di  Fe- 
derico muoversi  minacciose  contro  di  loro;  non  isbigotti- 
scono,  anzi,  ardire  e  forza  raddoppiando,  dan  mano  ai 
bellici  istrumenli,  e  con  briccole  e  mangani  tolgono  a  ber- 
sagliare furiosamente  di  pietre  e  sassi  il  castello,  che  gi- 
ganteggiando si  avanzava,  forte  di  numerosi  combattenti. 
Gl'imperiali,  non  s'aspettando  grandine  così  impetuosa  di 
sassi  e  pietre,  s'arrestano  spaventati  nel  mezzo  della  spia- 
nala fossa:  Barbarossa  vedendo  le  sue  torri  sostare  fulmi- 
nate dai  colpi  nemici,  freme,  infuria,  imbeslia.  Tenendo 
presso  di  sé  ostaggi  e  prigionieri  molti  giovani  cremaschi  e 
milanesi,  ne  fa  legare  ignudi  più  di  venti  intorno  al  castello 
di  legno,  presumendo  che  gli  assediati  smetterebbero  dal 
tempestarlo  vedendovi  appese  persone  caramente  dilette. 
L'inaudito  e  barbaro  stratagemma  pone  i  Cremaschi  nella 


-  87  — 
l»iù  dolorosa  alternativa.  1  forti  sentimenti  di  libertà  lottano 

nel  onoro  dodi  assediati  coi  pietosi  istinti  di  padre  e  di 
fratello;  salvando  i  parenti  perdono  la  patria;  uccidendoli,  la 
difendono.  Terribile  coni  insto!  nondimeno  prevalse  amore 
di  libertà;  la  torre  di  Federico,  ricoperta  di  martiri  lom- 
bardi, accostossi  alle  imiru  di  Crema,  e  destre  lombarde, 
sfolgorandola  a  colpi  di  pietre,  la  costrinsero  ad  indietreg- 
giare, maledetta  per  generosi  fratricidii.  La  notizia  di  que- 
gli infelici  macellati  dai  loro  fratelli  levò  in  Italia  un  «rido 
d'orrore  e  di  commiserazione.  I  Tedeschi  ne  rimasero  slu- 
pefati,  ed  accusarono  i  Cremascbi  di  cannibali:  giudicherà 
reterna  Giustizia  se  quel  sangue  sparso  spietatamente  ab- 
bia lordato  le  mani  degli  uccisori,  o  piuttosto  di  chi  espose 
gli  sventurati  all'immane  supplizio.  L'alemanno  Radevico 
di  Fiisinga  narra  come  gli  assediali  rompessero  in  urli 
disperali  nel  mentre  a  prò  della  patria  consumavano  l'or- 
rendo sagrificio;  narra  come  a  compierlo  li  spingesse  la 
voce  di  un  vecchio,  il  quale  dalle  mura  di  Crema  rivolgen- 
dosi ai  miseri  che  pendavano  legati  intorno  al  castello,  gridò: 
Fortunati  coloro  che  muojono  per  la  patria  e  per  la  li- 
bertà! Non  temete  la  morte  che  può  sola  ormai  rendervi 
liberi.  Se  foste  giunti  all'età  nostra  non  l'avreste  voi  di- 
sprezzata come  noi  faciamo?  Voi  felici  che  morite  prima 
di  temere,  come  noi  altri ,  l'infamia  delle  nostre  spose, 
e  non  udite  le  grida  dei  vostri  figli  che  implorano  pietà! 
Oh  ci  sia  dato  di  seguirvi  ben  tosto,  e  non  rimanga  al- 
cuno dei  nostri  vecchi  seduto  sopra  le  ceneri  di  Crema. 
Possano  chiudersi  i  nostri  occhi,  prima  di  vedere  la  santa 
patria  caduta  nelle  empie  mani  dei  Cremonesi  e  dei  Pa- 
vesi i1).  Generosi  accenti,  che  basterebbero  essi  soli  ad  im- 
mortalare la  terra  di  chi  li  ha  proferiti!  La  voce  di  quel 


(I)  Quesle  parole  il  Sismondi  nella  Storia  delle  repubbli-che  italiane  tolse 
alla  cronaca  del  tedesco  Radevico  Frisiugeuse, 


—  88  — 
vecchio,  sclama  uno  storico  moderno,  è  tal  voce  che  non 
avrà   altrove  un   eco,  perchè   essa  sola  ha   riempito  il 
mondo  (*). 

Barbarossa  fece  arretrare  la  lorre,  percbè,  conquassata 
dalle  enormi  pietre,  temeva  minasse  e  sdiacciasse  i  guer- 
rieri eli' erano  dentro.  Furono  slaccati  i  prigionieri,  nove 
dei  quali  (cinque  cremaschi  e  quattro  milanesi)  furono  tro- 
vali morti,  due  feriti;  dieci  e  più  rimasero  prodigiosamente 
incolumi.  Di  molti  le  cronache  ci  conservarono  i  nomi,  e 
noi  li  diremo  a  chi  piacesse  notarli  nel  martirologio  della 
libertà  italiana.  Morii  dei  Milanesi  furono:  Codemaglio  Pu- 
slerla,  Enrico  Landriano,  Pagnerio  Lampugnano,  ed  ii  figlio 
di  Busone  di  San  Blalore:  prole  tulli  di  nobilissime  fami- 
glie; dei  Cremaschi:  Truco  de  Bonati,  il  prete  Caluschi,  Aimo 
Gabbiano,  e  due  altri  dei  quali  non  sono  ricordati  i  nomi. 
Feriti:  Alberto  Rosso  di  Crema  e  Giovanni  Caraffa.  Quelli  che 
dalla  lorre  furono  levati  incolumi  erano:  Negro  Grasso,  Squar- 
zaparte  Busnate,  e  Ugone  Crusla,  Milanesi;  Arrigo  Bianco, 
Alberto  Zuffo,  Pozzo  Berondo,  ed  alcuni  altri  Cremaschi. 

Or  narreremo  a  quali  eccessi  di  furore  spinse  gli  asse- 
diati Tamara  consapevolezza  dei  commessi  fratricidi!.  I  Cre- 
maschi pigliano  alcuni  prigionieri  nemici ,  e  coi  mangani 
lancianli  vivi  oltre  le  mura.  Ne  caddero  due  ai  piedi  di 
Federico,  ond'egli  infuriato  fa  tosto  impiccare  in  faccia  al 
nemico  due  prigionieri  cremaschi.  Gli  assediati  incrude- 
lendo nelle  rappresaglie,  ne  impiccano  altrettanti  degli  im- 
periali. Barbarossa  allora,  non  permettendo  che  i  Cremaschi 
lo  vincessero  nella  ferocia,  comanda  sieno  innalzate  tante 
forche  quanti  erano  i  prigionieri  che  aveva  in  suo  potere, 
e  tutti  li  condanna  all'ultimo  supplizio.  I  vescovi,  i  prelati 
che  stavano  nel  campo  imperiale,  tentano  con  pietose  parole 
addolcire  l'animo  di  Federico  affinchè  rivocasse  il  disumano 

(1)  Tosti.  Storia  della  lega  Lombarda  pubblicata  nel  Ì848. 


—  89  — 
comando.  Ma  Federico,  che  non  voleva  aver  innalzate  tutte 
quelle  forche  invano,  \i  fece  appiccare  nove  prigionieri.  Né 
9ono  queste  le  sole  barbarie  che  adombrano  d1  infausta  ri- 
nomanza gli  eroici  fatti  dell'assedio  di  Crema.  Leggiamo  nel 
Fumagalli  '  :  «  Gli  assedianti  si  presero  qualche  volta  il 
»  barbaro  divertimento  ili  giuocare  a  palla  colle  teste  recise 
»  dal  busto  de^li  uccisi  nemici;  a  tal  segno  erano  inviperiti 
»  gl'imperiali  contro  i  bravi Cremaschi ,  perchè  tenevanli 
»  troppo  lungamente,  contro  ogni  aspettazione,  occupali 
a  in  quell'assedio.  »  E  da  Cosimo  Bartoli  l*)  raccogliamo: 
■  i  Cremaschi  squartavano  quei  soldati  ch'essi  avevano  fatti 
»  prigioni  degli  imperiali,  e  li  impiccavano  a  quarti  in 
»  varj  luoghi  ai  merli  delle  mura.  »  Di  tali  orribili  rappre- 
saglie v'hanno  scrittori  che  imputano  tutto  l'obbrobrio  ai 
Cremaschi.  scagionandone  Barbarossa;  ma  ognun  sa  che  una 
invereconda  adulazione  ai  polenti  spinge  non  di  rado  gli 
storici  a  sfarfallare,  oltraggiando  i  deboli  con  giudizii  as- 
surdi od  iniqui. 

Federico,  inaspritosi  oltremodo  pei  falliti  tentativi,  medita 
un  nuovo  assallo.  Fa  tappezzare  le  sue  torri  con  panni  di 
Inna  e  cuoj  bagnati  onde  ammortire  i  colpi  delle  pietre, 
poi  le  sospinge  la  terza  volta  contro  le  mura  di  Crema. 
Come  vi  si  accostarono,  gli  imperiali  che  stavano  nel  gatto 
al  coperto  dei  colpi  nemici  si  danno  con  travi  appuntate 
di  ferro  alle  estremità  a  percuotere  nella  muraglia,  con  tanto 
impeto  che  ne  crollano  più  di  venti  braccia  in  lunghezza. 
I  Cremaschi  riparano  solleciti  ai  guasti  del  ruinato  bastione, 
fortificandolo  con  gran  barricata  di  terra  e  di  legna:  indi  per 
un  ampio  cavo  sotterraneo  da  lor  operato,  e  che  si  estendeva 
fin  sotto  i  piedi  del  nemico,  irrompono  nel  campo  impe- 
ri-ale coll'intenzione  d'incendiarvi  ì\ gatto.  Escono  allora  dal 


(i)  Antichità  lombarde. 

(2)  Storia  di  Federico  Barbarossa. 


—  90  — 
gatto  e  dal  castello  di  legne  gl'imperiali  ad  azzuffarsi  col- 
l'inimico:  pugnano  con  accanimento  Alemanni  e  Cremaschi, 
finché  questi,  avvertendo  il  pericolo  che  il  nemico  penetrasse 
in  Crema  per  la  via  del  cavo  medesimo  ondassi  erano  usciti, 
si  ritirano  nella  fortezza  e  otturano  il  cavo  immediatamente. 
Gli  assediati  non  deponevano  tuttavia  il  pensiero  di  ap- 
piccare il  fuoco  al  gatto  dell'imperatore,  ma  avendo  speri- 
mentato quanto  pericoloso  fosse  arrischiare  a  tale  scopo  delle 
sortile,  nuovi  mezzi  praticarono.  «  Il  di  adunque  dell' Epi- 
»  fania  (1160),  ascesi  su  una  macchina  di  legno,  posta  nel 
»  luogo  ove  era  slata  ruinala  la  muraglia,  acceso  il  fuoco 
»  coi  mantici  in  molte  botti  che  avevano  apparecchiate 
»  piene  di  secche  legne,  di  zolfo,  di  lardo,  d'olio  e  di  pece 
»  liquida,  gettaronle  sopra  il  gatto  con  un  ponte  di  legno, 
»  il  quale  stendevasi  oltre  le  mura  meglio  di  dieci  braccia: 
»»  onde  si  appiccò  in  modo  il  fuoco  nel  gatto  ove  trovavasi 
»  allora  l'imperatore, che  da  terza  fino  a  vespero  ebbero  che 
»  fare  a  spegnerlo  (*).»  Barbarossa  corse  allora  pericolo  di 
rimaner  abbruciato,  ma  il  Cielo  decretava  che  dovesse  piut- 
tosto morire  annegato,  bagnandosi  in  un  ruscello  dell'Asia. 
Erano  più  di  sei  mesi  che  Federico  travagliava  nell'asse- 
dio di  Crema:  le  sue  truppe  lamentavano  i  rigori  del  verno 
e  gli  stenti  durati  infruttuosamente.  Pensale  quanto  si  ro- 
desse Federico  d'aver  sprecato  tempo,  sangue  e  stratagemmi 
d'ogni  genere  nell'assedio  di  piccola  terra  ch'egli  presume- 
va gli  si  dovesse  arrendere  al  primo  affacciarvisi  del  suo 
esercito.  Questa  volta  i  Cremaschi ,  come  già  i  Tortonesi , 
ed  in  appresso  gli  abitanti  d'Ancona  e  di  Alessandria,  in- 
segnarono all'imperatore  che  i  baluardi  più  difficili  a  supe- 
rarsi sono  i  petti  di  cittadini  risoluti  a  viver  liberi  o  morire. 
Conosciute  le  usate  arti  impotenti  ad  acquistargli  vittoria, 
Barbarossa  va  fantasticando  nuove  macchinazioni  :   deluso 

(1)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  01  — 
dallo  forze  del  suo  esercito  e  dolio  gite  macchine,  ricorre 
por  vincere  al   parlilo  della  corruzione.  Sapendo  essere 
il  danaro  sul  cuor  de*  malvagi  onnipotente  |  cerca  nelle 
schiere  nemiche  un  traditore:  lo  ritrova.  Dirigeva  la  difesa 
di  Croma  certo  Marchesi  o  Marchisio,  ingegnere  peritissimo 
quant' altro  mai  Bell'apparecchio  dolio  macchine  di  guerra. 
Anima  di  Tango,  l'oro  di  Federico  la  comperò,  trascinan- 
dola a  farsi    parricida   del  terreno   natale.   Di   nottetempo 
Marchisio  calò  dalle  mura  di  Crema   nel  campo  nemico: 
le  tenebre  protessero  queir  infame  diserzione  ,  clic  poi  la 
storia  palesando  all'universo  doveva  far  passare  all'obbrobrio 
delle  più  tarde  generazioni.  Marchisio,  presentatosi  a  Fe- 
derico ,  ricevette  dalle  mani  imperiali  lauta  somma  di  da- 
naro ,  ed  un  bellissimo  destriero ,  prezzo  della  patria  ven- 
duta. Il  di  lui  tradimento  punse  i  Cremaschi  d'ira  e  di  do- 
lore acerbissimo:  fulminarono  contro  Marchisio  la  pena  ca- 
pitale, promettendo  cento  lire  di  moneta  vecchia  a  chi  l'ucci- 
desse, duecento  a  chi  lo  consegnasse  vivo  nelle  loro  mani. 
L'ingegnere,  per  consumare  il  delitto  in  modo  corrispon- 
dente  all'  ineffabile  sua    nerezza  ,    svelò  a  Barbarossa  la 
condizione  ed  i  disegni  dei  Cremaschi,  e  come  penuriassero 
di  viveri ,  e  quanti  generosi  cittadini  avesse  già  mietuto  il 
ferro  tedesco.  Indi  udendo  Federico  deliberato   a   nuovo 
assalto,  costruì  un  castello  di  legno  che  per  forma  e  gran- 
dezza pareggiava  quello  dei  Cremonesi.  «  Aveva  un  ponte 
»  lungo  quaranta  braccia  e  largo  sei,  fallo  in  maniera  che 
»  quando  si  gettasse,  s'avesse  a  distendere  fuori  del  castello 
»  venti  braccia  ,  altrettante  rimanendone  sul  castello  per 
»  contrappeso i1)  ».  Marchisio  consiglia  Barbarossa  a  collo- 
care sulle  torri  del  castello  i  migliori  soldati,  affinchè  do- 
minando le  mura  costringessero  gli  assediati  a  lasciare  la 
difesa ,  nel  mentre  dal  primo  piano  altri  valorosi  gettereb- 

(i)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  92  — 
bero  il  ponte  sulle  mura.  Federico  plaudisce  ali1  opera  ed 
ài  suggerimenti  del  rinnegato,  e  fiducioso  più  che  mai  della 
vittoria,  dispone  un  assalto  generale.  Pone  il  duca  Corrado 
ed  il  conte  Palatino  con  le  loro  schiere  nel  castello  dei 
Cremonesi,  e  in  quel  di  Marchisio  molti  signori  tedeschi  e 
lombardi  con  eletto  drappello  di  prodi.  Scompartito  tutto 
intorno  alle  mura  di  Crema  il  rimanente  delle  milizie,  or- 
dina a  queste  che  appena  udissero  il  segnale  della  battaglia, 
scalassero  i  bastioni. Per  rendere  i  soldati  più  animosi  nel- 
l'assalto ,  Barbarossa  non  trascurò  di  arringarli  con  parole 
ampollosamente  guerresche,  inebbriandoli  con  l'idea  del- 
l' onor  nazionale  ,  con  promesse  di  vendetta  e  di  gloria. 
Lesgonsi  in  Pietro  Terni  i  bellicosi  sentimenti  dei  quali 
Federico  invasò  V  animo  delle  sue  truppe  :  solforica  elo- 
quenza di  capitano  ardimentoso  ,  indignalissimo  che  una 
piccola  cittaduzza  da  sette  mesi  arrestasse  il  corso  ai  voli 
trionfali  dell'aquila  imperiale.  I  Cremaschi  dalle  mura  scor- 
gevano il  formidabile  apparecchio  dell'inimico  che  all'este- 
nuata patria  l'ora  estrema  minacciava.  Ben  avevano  questa 
volta  motivo  d'impallidire  per  lo  spavento,  ma  gl'incorag- 
giava  carità  del  luogo  nativo,  e  a  disperata  difesa  si  pre- 
pararono. 

Suono  strepitoso  di  bellici  istromenti  accenna  nel  campo 
di  Federico  il  segnale  dell'  assalto.  La  torre  dei  Cremonesi 
e  quella  di  Marchisio  si  spingono  sotto  le  mura  di  Crema  : 
le  schiere  alemanne  che  i  bastioni  circuivano ,  appoggiate 
le  scale,  s'accingono  a  superare  le  trincee  nemiche.  I  Cre- 
maschi accorrono  tutti  alle  mura  ,  palladio  delia  loro  li- 
bertà ,  risoluti  di  lasciarvi  la  vita  prima  che  la  spada.  Dal 
castello  dei  Cremonesi  il  duca  Corrado  getta  il  ponte  ,  lo 
passa,  s'innoltra  sui  bastioni,  animando  i  suoi  soldati  a  se- 
guirlo ,  ad  entrare  nella  cittadella.  Uno  di  loro,  l'alfiere 
Bertoldo  d'Arar,  con  audacissimo  salto,  dalle  mura  slan- 
ciasi in  Crema:  nella  destra  aveva  il  vessillo  imperiale,  in 


—  93  — 

cuore  la  Gducia  che  i  commilitoni  imitando  il  suo  esempio 
eli  verrebbero  dietro.  Ma  il  coraggioso  Tedesco  rimane  solo 
in  mezzo  a  stuolo  d'inviperiti  nemici  che  gli  si  addensano 
intorno:  si  difende  con  disperato  valore,  poi  cade  morto 

per  mille  ferite.  In  soldato  Cremasco  straccia  la  pelle  dal 
capo  al  cadavere  di  Bertoldo   e   ne  fa  barbaro  ornamento 

del  proprio  elmo:  altri  s'impadroniscono  dello  stendardo 
impeciale,  e  imbaldanziti  come  di  vittoria  ,  lo  portano  in 
segno  di  lesta  intorno  alle  mura  dell'assalita  cittadella, 
ove  eombaltevasi  con  islraordinaria  gagliardia,  con  indici- 
bile accanimento.  Sembrava  battaglia  dì  giganti,  non  d'uo- 
mini. Ottone,  conte  palatino  di  Baviera,  distinguevasi  con 
prove  stupende  di  coraggio:  respinto  più  volle  dai  Cre- 
masebi  ,  si  ostina  tuttavia  a  voler  salire  le  mura  con  le 
scale.  L'esito  della  battaglia  pendeva  ancora  incerto;  quando 
i  Cremascbi  coi  mangani  lanciando  grossissime  pietre  ,  e 
percuotendo  instancabilmente  il  castello  dei  Cremonesi,  rie- 
scono a  spezzarne  il  ponte  da  un  lato:  caso  agli  assediali 
favorevolissimo.  Per  la  rottura  del  ponte  il  duca  Corrado 
e  quanti  gli  furono  seguaci  sulle  mura,  si  veggono  separati 
dal  castello  onderano  usciti,  pericoloso  il  rientrarvi,  dif- 
ficile ebe  dal  castello  medesimo  altri  accorressero  per  soc- 
correrli. 11  coraggio  vien  meno  agli  Alemanni,  si  raddoppia 
nei  Cremascbi  che  investono  il  duca  furiosamente,  lo  feri- 
scono e  ne  costringono  i  compagni  alla  ritirata.  Molli  ripa- 
rano nel  castello  di  Marchisio,  ove,  quantunque  si  fosse  get- 
talo il  ponte,  si  combalte  men  vigorosamente:  altri,  incalzati 
dalle  spade  cremasche,  per  poterne  più  lestamente  scampare 
sallano  dalle  mura  nelle  fosse.  Federico  quando  seppe  ferito 
il  fratello  Corrado,  e  vide  i  suoi  soldati  fuggendo  preci- 
pitarsi nelle  acque,  ed  il  vessillo  imperiale  sventolare  sui 
bastioni  in  pugno  ai  Cremascbi,  diffidò  della  vittoria,  ordinò 
all'esercito  di  cessare  1*  assalto  e  raccogliersi  nelle  torri. 


—  94  — 

Tale  fu  T  esito  (0  di  un  assalto  in  cui  Federico  aveva 
impiegato  tutte  le  forze  del  suo  esercito,  l'oro  della  corru- 
zione, l'ingegno  e  l'arte  di  un  traditore.  Ma  questa  volta  i 
Cremaschi  pagarono  la  difesa  delle  mura  con  gravissima 
effusione  di  sangue,  e  la  battaglia,  comunque  non  sortisse 
l' effetto  che  Barbarossa  si  riprometteva ,  arrecò  agli  asse- 
diati lutti  e  danni  irreparabili.  I  Cremaschi  rimasero  incon- 
solabili e  scoraggiati  numerando  i  prodi  che  avevano  per- 
duti in  quest'ultimo  combattimento.  Aggiungi  che  gl'impe- 
riali rintanali  nelle  loro  torri  non  desistevano  pur  anco  dal 
molestare  gli  assediati  colle  frecce,  e  da  esperti  balestrieri, 
quanti  Cremaschi  scorgevano  altrettanti  ne  colpivano. 

Siccome  il  più  delle  volle  avviene  in  simili  strettezze , 
discrepavano  le  opinioni  e  i  sentimenti  degli  assediali.  I 
più  ardimentosi  preferivano  morire  colla  spada  in  pugno 
piuttosto  che  arrendersi  e  abbandonare  la  patria  a  discre- 
zione di  Federico.  Altri  riputavano  sconsiderata  temerità 
persistere  nella  difesa,  ritenevano  imminente  il  trionfo  del 
nemico,  e  nella  immaginazione  dipingendosi  gli  orribili  di- 
sastri che  menerebbe  in  Crema  qualora  v'entrasse  nell'im- 
peto della  vittoria,  consigliavano  a  cercar  mezzi  efficaci  di 
placare  l' imperatore.  Ai  primi  il  coraggio  adombrava  i  pe- 
ricoli, ai  secondi  i  pericoli  eran  forse  pretesto  per  masche- 
rare la  debolezza  dell'  animo  loro.  Né  è  a  tacersi  che  gli 
assediali,  per  quanto  riferisce  il  Terni,  difettavano  di  vet- 
tovaglie, e  che  alcuni,  resi  vili  dalla  paura,  disertarono  al 
campo  nemico.  Nondimeno  ciò  che  dall'  arrendersi  faceva 
ripugnanti  anche  i  meno  arditi,  era  la  feroce  inimicizia  dei 


(i)  Nel  descrivere  quest'ultimo  assalto  ci  siamo  scostali  un  poco  dal  Sis- 
mondi  che  in  questo  punto  copiò  il  Fiisinga  ,  troppo  parziale  a  Barbarossa. 
Noi  invece  seguimmo  il  Morena,  lodigiano  e  favorito  dell'imperator  Barbaros- 
sa, due  argomenti  da  togliere  il  sospetto  ch'egli  abbia  scritto  con  parsi  alita 
ai  Cremaschi.  Vedi  la  storia  del  Morena  nel  Muratori,  Rerum  Ualicarum, 
volume  VI. 


—  90  — 
Cremonesi ,  giacché  lotti  prevedevano  clic  se  Crema  ca- 
desse in  balia  di  Tede i'i co,  i  Cremonesi  vi  arrecherebbero 
i  guasti  e  le  offese  maggiori,  ('osa  dolorosissima  dover  dire 
che  l'Italiano  a  que'tempi  paventava  la  vendetta  dei  fratelli 
più  che  l'ira  dello  straniero,  per  quanto  grande  essa  fosse. 

Non  ignoravasi  nel  campo  imperiale  la  miserevole  con- 
dizione cui  erano  ridotti  gli  assediali,  e  l'esercito  di  Fede- 
rico avrebbe  avuto  motivo  di  consolarsene,  se  i  travagli  pa- 
liti in  sette  mesi  di  guerra  faticosissima  non  lo  avessero 
tanto  spossalo  da  augurarsi,  più  ebe  la  vittoria,  il  riposo. 
Erano  nell'accampamento  imperiale  il  duca  di  Sassonia,  e 
Pellegrino  patriarca  dJ  Àquileja  ,  gravissimi  personaggi ,  i 
quali  con  pesato  consiglio  misurarono  la  condizione  degli 
assedianli  e  degli  assediali  :  considerando  che  por  fine  alle 
ostilità  conveniva  oramai  sì  agli  uni  ,  sì  agli  altri ,  colsero 
I1  occasione  matura  per  annodare  trattative  di  accomoda- 
mento. Chieggono  agli  assediati  un  colloquio  e  l'ottengono. 
I  Cremaschi  mandano  ad  abboccarsi  col  duca  e  col  patriarca 
due  de' più  ragguardevoli  concittadini,  Giovanni  de  Medici 
ed  Alboino  de  Bonati.  Il  patriarca  d'Aquileja,  ch'era  facondo 
e  gentil  parlatore,  prende  a  favellare  agli  ambasciatori  cre- 
maschi con  amorevoli  parole:  loro  rivela  l'animo  di  Fede- 
rico, inflessibile  nel  volere  ad  ogni  costo  la  resa  di  Crema, 
e  quali  durezze  le  sovrastavano  se  venisse  pigliata  per  forza 
d'armi.  Indi  consiglia  i  Cremaschi  ad  arrendersi,  questo 
persuadendo  siccome  unico  mezzo  di  salvare  la  vita  alle 
consorti  e  ai  figli,  mitigare  lo  sdegno  di  Barbarossa,  meri- 
tarsi dalla  sua  clemenza  men  gravose  condizioni.  Commossi 
gli  ambasciatori  alle  parole  del  patriarca  ,  reprimendo  a 
stento  il  dolore  che  celavano  in  petto  ,  risposero  :  «  Non 
»  aver  Crema  prese  le  armi  contro  Federico,  ma  bensì  con- 
»  irò  i  Cremonesi ,  risoluta  di  non  servire  che  a  Dio  e  al- 
»  l'imperatore (*);  che  credeva  d'aver  fatto  conoscere  come 

(1)  Se  a  taluno  sembrassero  disdicevoli  all'  alterezza  dei  nostri  padri  le 
parole  :  non  vogliamo  servire  che  a  Dio  e  all'imperatore,   gli  rammenteremo 


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»  preferiva  la  morie  ad  un'ingiusta  schiavitù;  che  l'alleanza 
»  dei  Cremaschi  coi  Milanesi  non  aveva  avuto  altro  scopo 
»  che  quello  di  liberarsi  dalla  servitù;  che  avevano  mante- 
»  mito  la  libertà  finché  Dio  lo  permise,  ma  che  ora  erano 
»  sforzati  a  riguardare  come  segno  dell'ira  celeste  la  di- 
»  sperala  situazione  in  cui  si  trovavano.  » 

Il  patriarca  e  il  duca  di  Sassonia  rilevando  dalle  parole 
degli  ambasciatori  essere  gli  animi  dei  Cremaschi  alla  pace 
inchinevoli,  ne  informano  V imperatore.  Il  Medici  ed  il  Bo- 
llati, rientrati  in  Crema,  riportano  ai  concittadini  il  collo- 
quio tenuto  col  patriarca;  radunano  il  popolo  a  consiglio, 
e  chiedono  che  sui  destini  della  patria  deliberasse.  All'adu- 
nanza popolare,  modellata  a  stile  repubblicano,  convengono 
cittadini  d'ogni  classe,  non  che  Milanesi  e  Bresciani  siccome 
alleati.  I  Cremaschi  in  quel  congresso  esaminano  seriamente 
tutti  i  mali  ed  i  pericoli  ond' erano  incalzali:  scoprono  nel 
seno  della  patria  ferite  profonde,  insanabili:  vano  il  conli- 
nuarle  soccorso  cogli  indomiti  petti  :  necessità  inesorabile 
l'arrendersi,  invocando  da  Federico  pace  e  clemenza.  Come 
accade  sovente  che  nei  maggiori  disastri  baleni  al  cuore 
umano  un  raggio  confortatore  di  speranza  ,  i  Cremaschi 
confidavano  che  coli' arrendersi  e  chiedere  dimessi  il  per- 
dono, avrebbero  piegato  l'imperatore  a  concedere  soppor- 
tabili condizioni.  Consuete,  funeste  illusioni  dei  deboli! 
Vengono  di  nuovo  incaricati  il  Medici  e  il  Bonati  perchè  si 
rechino  a  stipulare  i  patti  della  resa  con  Barbarossa.  Gli 
ambasciatori,  giunti  al  cospetto  di  Federico,  gli  si  inginoc- 


clie  a  que'  tempi,  come  scrive  Emiliani  Giudici,  «l'idea  dell'impero  perso- 
li nificata  nei  Cesari,  era  venerata  dai  popoli  con  un  culto  continuato  e  tia- 
»  dizionale,  che  le  vicissitudini  di  tanti  secoli  non  avevano  potuto  estinguere.  « 
A  noi  le  parole  dei  due  ambasciatori  cremaschi  sembrano  dignitosissime  ,  e 
ci  piace  d'averle  tolte  da  uno  scrittore  alemanno,  il  quale  scriveva  delle  im- 
prese di  Federico  per  commissione  del  medesimo.  Vedi ,  Radevico  di  Fkisinga, 
Rerum  italicatum,  volume  VI. 


—  97  — 
chimo  innanzi  pregando  pace  e  clemenza,  e  nel  dichiarare 
la  resa  di  Crema  ,  implorano  che  non  sia  data  la  patria 
loro  in  balia  dei  Cremonesi.  Esultò  Federico  vedendosi  ai 
piedi  supplicanti,  nemici  che  resistei  loro  alle  sue  forze  con 
indomabile  ferocia:  loro  acconsenlc  la  pace  sotto  le  seguenti 
condizioni  accettale  dagli  ambasciatori  :  che  i  Cremasela 
sgombrassero  dalla  città  con  le  mogli  e  coi  figliuoli,  portan- 
dosi iu  collo  in  una  sola  volta  quelle  masserizie  che  potes- 
sero ;  che  le  milizie  sussidiarie  di  Milano  e  di  Brescia 
uscissero  da  Crema  senz'  armi  e  senza  salmerie  :  che  a 
tulli  senza  riserva  fosse  libero  di  recarsi  ove  più  loro 
piacesse. 

Chi  potrà  dire  la  desolazione  dei  Cremasela  quando  sep- 
pero dagli  ambasciatori  le  condizioni  imposte  da  Federico 
alla  pace?  Rimaner  orfani  della  terra  natale,  abbandonarla 
alle  vendette  del  nemico,  e  ramingar  dispersi,  mendicando 
un  tetto  da  ricoverare,  era  sventura  incomparabile  a  citta- 
dini che  persette  mesi  avevano  con  magnanimi  sforzi  difeso 
il  vessillo  della  libertà.  Levasi  un  lamento  universale  :  cia- 
scuno sente  l'animo  trafitto,  nell'istante  di  doversi  acco- 
miatare dalle  proprie  abitazioni.  Imprecano  alla  durissima 
necessità  i  giovani  animosi,  ai  quali  non  basta  il  cuore  di 
separarsi  dalle  mura  consagrate  col  loro  sangue,  e  dalla 
memoria  dei  consumati  sagrifici. 

Ai  27  di  gennajo  (1160),  due  giorni  dopo  la  seguita  ca- 
pitolazione,  gì'  imperiali  s'impadroniscono  delle  porte  di 
Crema.  Barbarossa  prefigge  agli  abitanti  il  termine  di 
un'ora,  e  la  Porta  Pianengo  per  isgombrare  dalla  cittadella. 
Spettacolo  lagrimevole  !  1  cittadini  col  volto  pallido  di  se- 
vera mestizia,  colla  disperazione  nel  cuore,  fuggono  dalle 
loro  case,  affannandosi  di  seco  trasportare  quanto  possede- 
vano di  più  prezioso.  Vedevi  il  dorso  dei  fuggenti  incur- 
varsi sotto  pesi  esorbitanti  :  trattavasi  nel  breve  spazio  di 
un'ora,  e  coli' unico  soccorso  dei  propri  omeri,  di  scemare 

7 


—  98  — 
al  nemico  il  pasto  della  vendetta.  In  quell'orribile  istante, 
i  sentimenti  di  umanità  favellano  anch'essi  imperiosamente 
al  cuore  degli  infelici:  donne  trafelate,  ansanti,  si  strasci- 
nano a  stento  portando  sulle  braccia  i  teneri  fanciullelti 
che  atterrili  si  avvinghiano  al  collo  materno  :  infermi , 
vecchi  cadenti  si  aggrappano  alle  spalle  dei  giovani  più 
vigorosi ,  che  agli  averi  preferiscono  di  salvare  le  persone 
dei  padri  e  dei  fratelli:  scorrono  grosse  lagrime  dagli  occhi 
di  tutti ,  mestissimo  addio  alla  patria  agonizzante.  Le  vie 
di  Crema  riboccano  di  fuggenti  che  traggono  in  massa  a 
Porta  Pianengo.  Mano  mano  che  alla  designata  porta  si 
avvicinano,  i  drappelli  dei  cittadini  ingrossano,  s'accalcano, 
urtansi  a  vicenda.  Fosse  impazienza  d'  uscire ,  o  piuttosto 
troppo  grave  la  soma  ond'eran  carichi  gli  omeri  degli  in- 
felici, avvenne  che  molti  sboccando  dalla  Porla  Pianenso 
stramazzarono  sul  ponte.  Stava  spettatore  di  quella  scena 
compassionevole  Federico,  e  le  cronache  narrano  che  im- 
pietosito sollevasse  i  caduti  colle  sue  mani.  Barbarossa  , 
comunque  d'animo  efferato  verso  coloro  che  gli  osavano 
resistenza  ,  non  era  sfornilo  di  certe  doli  cavalleresche , 
retaggio  comune  dei  valorosi.  Forse  in  quel  momento  com- 
prese in  quale  abisso  di  miserie  avesse  gettato  un  popolo  ar- 
dito, castigandolo  troppo  severamente  della  difesa  libertà, 
e  le  sue  mani  si  piegarono  a  un  segno  eli  clemenza,  reso 
meritamente  a  nemici  che  aveva  piuttosto  domali  che  viòli. 
Vuoisi  che  circa  venti  mila  persone  uscissero  da  Crema 
in  quel  funestissimo  giorno  (*).  I  patrizi,  i  facoltosi  cittadini 
riliraronsi  nelle  ville  ove  possedevano  terre  e  castelli;  la 
misera  plebe ,  destinata  nelle  calamità  a  sopportare  dei  mali 

(1)  Non  è  perciò  a  credersi  che  allora  sommasse  a  venti  mila  il  numero 
<lella  popolazione  di  Crema.  Tuttavia,  considerato  che  durante  l'assedio  vi 
orano  in  Crema  dei  Milanesi  e  dei  Bresciani ,  e  che  gli  abitanti  del  contado 
«;ostumavano  riparare  entro  le  fortezze,  non  è  strano  che  nell'assediata  citta- 
della si  trovassero  circa  venti  mila  persone,  come  asseriscono  Radevico  di  Fri- 
singa,  Pietro  Terni  ed  Alemanio  Fino. 


-  99  — 
la  soma  piò  grave,  non  sapeva  ove  riparare;  le  tenebre  so- 
vrastavano, e  la  consigliarono  o  trattenérsi  nei  dintorni  di 
Crema.  Moltissimi,  por  difendersi  dai  rigori  della  notte  in- 
vernale, presero  asilo  nella  vicina  chiesa  di  S.  Pietro. 

Spopolata  la  cittadella,  Federico  sbriglia  il  suo  esercito 
che  impetuosamente  corre  al  saccheggio.  Cremonesi  e  Lo- 
digiani sono  i  primi  ad  irrompere  in  Crema,  si  spandono  nei 
principali  quartieri,  invadono  le  ease,  mettono  o  ruba  ogni 
cosa.  Crema  era  troppo  angusta  per  satollare  la  rabbiosa 
cupidigia  di  un'oste  numerosissima;  le  falangi  clic  prime  vi 
irruppero, avendo  in  un  baleno  innondale  tulle  le  abitazioni, 
le  ultime  capitarono  troppo  lardi  per  potervi  con  profitto 
esercitare  gli  artigli.  Quindi  nella  soldatesca  insorgono  que- 
rele, gelosie,  tumulti.  Gli  ultimi  venuti  riclamano  con  be- 
stemmie la  loro  parte  del  bollino,  e  molli  di  loro  trovan- 
dosi a  mani  vuote,  indispettiscono  così  bestialmente  che  per 
vendetta  appiccano  il  fuoco  alle  case,  godendosi  del  pericolo 
cui  esponevano  i  commilitoni  che  dentro  vi  depredavano. 
L'incendio  si  dilata  rapidamente,  globi  di  fuoco  si  innalzano 
dal  tetto  degli  edifici,  uno  spaventoso  chiarore  rompe  d'im- 
proviso  l'oscurità  della  notte. 

Come  potremo  descrivere  la  disperazione  del  popolo  cre- 
masco,  che  dalla  vicina  chiesa  di  S.  Pietro  vede  la  patria 
incendiarsi?  Quelle  fiamme  gigantesche,  orribili,  divoravano 
l'ostello  de' suoi  padri,  asilo  delle  domestiche  affezioni, 
santo  per  la  memoria  di  lunghi  affanni  sopportati  serena- 
mente, di  tante  dolcezze  fruite  in  seno  della  libertà,  vi- 
vendo l'operosa  vita  del  cittadino.  Udiva  gli  urli  del  feroce 
nemico  gavazzante  tra  il  fuoco  e  le  rovine,  nel  tripudio  della 
vendetta  e  del  saccheggio.  L'  animo  non  regge  agli  infelici, 
condannati  ad  essere  spettatori  inermi  del  supplizio  orrendo 
della  patria;  nelle  volle  della  chiesa  di  S.  Pietro  risuonano 
gridi  acutissimi,  gemiti  prolungali,  voci  disperate.  I  miseri, 
soprafalli  da  dolore  insopportabile,  si  percuotono  i  petti,  e 


—  100  — 
battono  da  forsennati  le  mani  con  tanto  strepilo,  che  la 
chiesa  in  ricordo  di  quella  notte  sciaguralissima  fu  detta 
S.  Pietro  in  Baltiditis  ('). 

Le  fiamme  in  quella  notte  avevano  consunta  gran  parte 
della  cittadella;  nel  giorno  che  seguì,  gl'imperiali  rovina- 
rono il  resto.  E  perchè  lo  spettacolo  della  distruzione  non 
rimanesse  incompiuto,  vengono  atterrate  le  mura,  le  fosse 
ricolmate.  I  Cremonesi,  non  ancora  soddisfatti,  sfogano  la 
loro  vendetta  sulle  chiese;  il  furore  alemanno  le  aveva  ri- 
sparmiate, essi  con  vandalica  empietà  le  adeguarono  al 
suolo.  Barbarossa  donò  tulle  le  armature  dei  Cremaschi  ai 
suoi  Lodigiani,  onorevole  compenso  delle  boti  che  a  lui, 
durante  l'assedio,  somministrarono.  Le  truppe  di  Federico 
nel  distruggere  Crema  e  i  suoi  fortissimi  bastioni  spesero  cin- 
que giorni,  e  prima  di  partire  abbiuciarono  tutte  le  macchine 
d'assedio  che  all'imperatore  erano  costate  più  di  due  mila 
marche  d'argento.  Nel  giorno  di  S.  Biagio,  3  di  febbrajo  1160, 
Barbarossa  marciò  trionfalmente  coli' esercito  alla  volta  di 
Lodi  :  di  Crema  non  riwanevano  che  le  ceneri  _,  e  la  me- 
moria di  una  virtù  che  sola  basterebbe  a  glorificare  tutta 
una  gente  C2). 

Con  lettera  che  le.  cronache  ci  conservarono  (3) ,  Federico 
annunciò  a  diversi  principi  la  presa  di  Crema,  rallegran- 
dosene come  di  una  gran  vittoria,  e  vantandosi  di  essersi 
mostrato  temperante  e  modesto  nel  trionfo,  perchè  nella 
capitolazione  avea  concessa  ai  miseri  Cremaschi  la  vita. 
Ringraziamo  Barbarossa  che  con  questa  lettera  confessò 
ed  insegnò  al  mondo  in  cosa  consisteva  la  clemenza  dei 
principi. 

L'assedio  di  Crema  è  uno  splendido  episodio  nell'epopea 
della  storia  italiana  dei  secoli  di  mezzo.  L'Italiano  che  vi- 

(1)  Aleniamo  Fino  e  il  Terni  nella  storia  di  Crema. 

ri)  Tosti.  Storia  della  lega  lombarda. 

[$)  Vedi  la  lettera  dell'  impera  tur  Barbarossa  nei  Documenti. 


—  101  — 

sitasse  palmo  a  palmo  la  su;i  torni  por  venerarvi  con  sante 
pellegrinaggio  i  monumenti  dolio  avite  glorie,  cercherà  nei 
piani  lombardi  le  tracco  dolio  antiche  mina  di  Crema  per 
inchinarvisi  devoto,  corno  il  Greco  alle  Termopili.  Pio  gli 
stranieri  pagarono  largo  tributo  d* ammirazione  ai  Croma- 
seli'!, glorificando  nelle  loro  storie  la  magnanima  resistenza 
che  i  padri  nostri  opposero  a  Barbarossa  Udite  come  in 
poche  parole  compendiò  i  fatti  dell1  assedio  di  Crema  un 
illustre  scrittore  tedesco  l  :  «  Per  ben  selle  mesi  in  quel* 
»  l'assedio  si  vide  un  tale  avvicendarsi  di  zuffe,  di  stragi,  di 
»  rapine  e  di  saccheggi;  un  tale  ardore  di  crudeltà  e  della 
»  più  barbara  ferocia;  così  eroiche  prodezze,  e  così  prodi- 
»  giosi  sforzi  nell'esercito  imperiale,  a  petto  alla  più  ferma 
•  resistenza  e  al  più  indomalo  animo  negli  assediali;  una 
»  così  smisurata  rabbia  da  tutte  due  le  parli;  una  così  esem- 
»  piare  sofferenza  di  tutte  le  miserie  e  di  tutte  le  privazioni 
»  negli  assedianti  a  petto  delle  più  compassionevoli  amba- 
»  sce,  delle  infermità  e  della  fame  negli  assediati,  che  dav- 
»   vero  non  si  vide  in  nessun  assedio  del  medio  evo.  » 

V'hanno  di  quelli  che  misurano  i  generosi  impulsi  di  una 
popolazione  colle  dottrine  del  tornaconto,  e  che  dall'esito 
giudicano  gli  avvenimenti.  Costoro  accuseranno  il  popolo 
cremasco  d'insana  temerità  per  aver  resistilo  con  forze  dis- 
uguali ad  un  esercito  poderosissimo,  esponendo  la  patria 
ad  inevitabile  rovina.  Ben  diversamente  la  storia  italiana 
giudicò  l'arditezza  dei  Cremaschi:  «  Crema,  »  scrisse  Bal- 
bo (*) ,  «  generosa  cittaduzza,  sagrificando  sé  stessa  avea 
»  consunte  le  forze,  e  ciò  ch'era  più  allora,  il  tempo  del- 
»  l'imperatore.  »  Infatti  subito  dopo  l'assedio  Federico  fu 
costretto  licenziare  l'esercito  perchè  i  baroni  germani,  rifiniti 
dagli  stenti  durali  in  sette  mesi,  riclamavano  il  riposo  dei 


(1)  Voigt.  La  lega  lombarda. 

[2)  Compendio  della  storia  d'Italia. 


—  102  — 
nativi  casleìli.  Barbarossa  rimase  quindi  in  Italia  debol- 
mente sussidiato  da  scarse  falangi,  composte  la  maggior 
parte  degli  Italiani  cbe  la  sua  causa  favoreggiavano.  For- 
zato a  far  guerra  guerriala,  fu  dai  Milanesi  battuto  in  varie 
fazioni,  né  riuscì  a  schiacciare  Milano  che  nel  1162  dopo 
aver  allestito  in  Germania  altro  floridissimo  esercito.  L'o- 
stinata resistenza  dei  Cremaschi  ottenne  dunque  l'effetto 
di  ritardare  due  anni  la  caduta  di  Milano,  e  con  essa  la  ser- 
vitù di  tutta  Lombardia  al  Tedesco.  Né  tanto  ci  scosteremmo 
dal  vero  asserendo,  che  i  selle  mesi  dell'assedio  di  Crema 
risparmiarono  ai  Lombardi  due  anni  di  ceppi  durissimi. 

Noteremo  finalmente  che  forse  Crema  non  sarebbe  caduta 
se  la  morte  non  avesse  rapito  Adriano  IV.  Questo  pontefice, 
come  vide  Barbarossa  che  per  aver  in  pugno  l'Italia  ado- 
peravasi  nel  distruggere  la  libertà  dei  Comuni,  paventò  per 
l'indipendenza  della  Chiesa,  e  formò  segretamente  una  lega 
coi  Milanesi,  Bresciani,  Cremaschi  e  Piacentini  (*),  mentre 
appunto  Barbarossa  attendava  sotto  Crema.  11  pontefice  pro- 
metteva a  queste  città,  che  dopo  quaranta  giorni  avrebbe 
scagliato  contro  T imperatore  i  fulmini  del  Vaticano,  volendo 
rovinarlo  con  la  politica  e  colle  armi  de1  suoi  predecessori. 
Della  lega,  comunque  ordita  segretamente,  si  sparse  voce 
nell'esercito  imperiale  accampato  sotto  Crema,  e  già  molti 
dei  Cremonesi  là)  per  isfuggir  l'ira  pontificia  disponevansi 
ad  abbandonare  gli  accampamenti.  Ma  la  morte,  cogliendo 
Adriano  nel  settembre  1159,  spense  nella  sua  destra  la 
folgore  ch'egli  avea  apparecchiata  onde  abbattere  la  superba 
cervice  di  Federico. 

il)  Sir  Raul. 

(2)  Tristano  Calchi.  Lib.  IX. 


103  — 


DOCUMENTI 


Documento  A. 

Lettera   con   cui  Federico   Barba  rossa  significò  a  varj   principi   la 
presa  di  Crema. 

«  Federìcua  Dei  grafia  Romanorum  impcrator  et  semper  Augustus. 
n  Scirc  credimus  prudentiam  vestram,  quod  tantum  divinai  gratia?  do- 

-  num,  ad  laudem  et  gloriam  nominis  Christi,  honori  nostro  tam  evi- 

-  dentei-  collatura,  occultari  vel  abscondi  tamquam  res  privata  non  po- 

-  Test.  Quod  ideo  dilectioni  vestree,  ac  desiderio  significamus ,  ut  sicut 
*  charissimos  et  fldeles  vos  participes  honoris  et  gaudiorum  habeamus. 
«  Proxiraa  siquidem  die  post  conversionem  S.  Pauli,  pienam  victoriam 
»  de  Crema  nobisDeus  eontulit.  Sicque  gloriose  ex  ipsa  triumphavimus, 
n  quod  tamen  misera?  genti,  qua?  in  ea  fuit,  vitam  concessimus.  Leges 
n  enim  tam  divina?,  quam  humanae  summam  semper  clementiam  in  Prin- 
»  cipe  esse  debere  testantur.  » 

(Questa  lettera  venne  pubblicata  dal  Fino  nella  settima  delle  sue 
Sericine.) 


—  108  — 


CAPITOLO  QUARTO 


VICENDE  DEI    CREMASCIU  DALLA  DISTRUZIONE    DI   CREMA 
FINO  ALLO  SCORCIO  DEL  SECOLO  XII. 


SOMMARIO. 

Cremaschi  osteggiano  ancora  Federico  Barbarossa  presso  l'Adda.  —  Ove  ri- 
fugiassero i  nobili  ed  il  popolo  di  Crema  dopo  l'eccidio  della  patria.  — 
Federico  Barbarossa  concede  ai  Cremonesi  la  giurisdizione  del  Cremasco.— 
Scisma  nella  Chiesa  Cattolica.  —  Il  cardinal  Guido  da  Crema,  eletto  an- 
tipapa, assume  il  nome  di  Pasquale  III.  —  Per  quali  molivi  l'imperatore 
fomentasse  lo  scisma  della  Chiesa.  —  Vicende  e  morte  dell'antipapa  Guido 
da  Crema.  —  Orribile  condizione  delle  terre  lombarde,  dopo  che  Barba- 
rossa,  distrutta  Milano,  le  ridusse  in  servitù.  —  Lega  lombarda.  —  Se  i 
Cremaschi  abbiano  partecipato  alla  lega,  e  perchè  non  figurino  nella  sto- 
ria fra  i  collegati.  —  Tenacissimo  odio  dei  Cremonesi  verso  i  Cremaschi. — 
Vittoria  degli  alleati  lombardi  a  Legnano.  —  Suoi  effetti.  —  Quando  Cre- 
ma sia  risorta  dalle  rovine  ed  adii  debba  il  suo  risorgimento.—  Federico 
Barbarossa  recasi  a  Crema  ove  disegna  di  propria  mano  il  circuito  delle 
mura  che  si  dovevano  rifabbricare,  e  concede  ai  Cremaschi  dei  privilegi 
che  ne  assicurano  la  libertà.  —  I  Cremonesi  indignatissimi  per  la  rico- 
struzione di  Crema  :  loro  sconfitta.  —  L' isola  Fulcheria  dichiarata  una 
regalia  dell'  impero.  —  Enrico  VI  successo  a  Barbarossa  cede  ai  Cremo- 
nesi la  signoria  di  Crema  e  dell'isola  Fulcheria.  —  Sorgono  fra  le  città 
di  Lombardia  due  leghe:  l' una  dei  Cremonesi,  l'altra  dei  Milanesi:  la 
seconda  si  fa  patrocinatrice  dei  Cremaschi  e  della  loro  libertà.  —  1  Cre- 
monesi vengono  sconfitti  ripetutamente.  —  Enrico  VI  dopo  aver  confer- 
mata ai  Cremonesi  in  modo  solenne  la  feudale  investitura  del  territorio 
cremasco,  incarica  Giovanni  de  Lilla  perchè  ne  gli  metta  in  possesso.  — 
Giovanni  de  Lilla  pone  al  bando  dell'impero  i  Milanesi  ,  i  Bresciani  ed  i 
Cremaschi.  —  I  Milanesi  nel  congresso  di  Bormida  cercano  di  far  rivivere 
la  lega  lombarda  :  a  quel  congresso  intervengono  anche  i  Cremaschi.  — 
Enrico  VI  soggiornando  a  Milano  pacifica  i  Milanesi  coi  Cremonesi  :  la  li- 
bertà dei  Cremaschi  non  vien  più  molestata.  —  Novità  operatesi  nella  ri- 


—  106  — 

costruzione  di  Crema.  —  Suddivisione  della  cittadella  in  ventisette  Vici- 
nanze. —  Costituzione  della  repubblichetta  cremasca.  —  Assemblea  popo- 
lare, consoli,  podestà,  consoli  minori,  cancelliere.  —  I  conti  di  Camisano 
ed  altri  conti.  —  Famiglie  cremasche  di  possidenti  cbe  formavano  la  no- 
biltà minore.  —  Leggi.  —  Disuguaglianze  sociali.  — •  Prezzo  vilissimo  cui 
si  vendevano  i  terreni  nel  distretto  cremasco. 


Barbarossa  spianando  le  torri  ed  i  bastioni  di  Crema, 
non  ne  aveva  ancor  prostrato  l'animo  fortissimo  degli  abi- 
tanti. Pochi  mesi  dopo  l'eccidio  della  loro  cittadella,  i  Cre- 
masclii  accorrono  colle  armi  in  soccorso  dei  Milanesi  che 
osteggiavano  Federico  ed  ai  quali  premeva  rifare  a  Ponti- 
rolo  il  ponte  sull'Acida ,  distrutto  dagli  imperiali.  Coll'effi- 
cace  sussidio  dei  nostri,  i  Milanesi  rifecero  quel  ponte: 
ne  assunse  la  custodia  certo  conte  Enrico  da  Crema  ,  il 
quale  recatosi  con  legioni  cremasche  e  milanesi  a  Dovera 
sul  lodigiano,  la  saccheggiò!1). 

Nell'aprile  dell'anno  medesimo  (1160),  narra  Muratori, 
«  i  Milanesi  mandarono  cento  cavalieri  a  Crema,  la  quale 
»  cominciò  eli  nuovo  a  rialzare  la  testa  e  ad  essere  ria- 
»  bitala  l2).  Le  parole  «  cominciò  a  rialzare  la  testa  »  usate 
dal  Muratori,  vanno  intese  in  senso  alquanto  ristretto,  al- 
trimenti discorderebbero  coi  fatti.  Dopo  la  distruzione  di 
Crema ,  i  più  facoltosi  de'  suoi  cittadini  ricoverarono  nel 
contado  ,  chiudendosi  nei  loro  castelli  :  la  plebe ,  non  sa- 
pendo ove  rifugiarsi  ,  ritornò  fra  le  deserte  ruine  della 
patria  e  vi  compose  alla  meglio  delle  capannucce  e  dei 
lugurii  per  abitarvi.  Crema  non  risorse  ,  non  rialzò  la 
testa  che  nel  1185,  venticinque  anni  dopo  la  sua  rovina. 

(1)  Giulini.  Storia  di  Milano. 

(2)  Annali  a"  Italia.  «L'anno  1160  un  orribile  incendio  devastò  molli 
»  quartieri  della  città  di  Milano  ,  e  parecchi  del  popolo  milanese,  perdute  le 
»  case  loro,  si  rifugiarono  a  Crema,  ove  fra  le  rovine  si  composero  la  loro 
»  abitazione.  »  Ciò  raccogliamo  dalla  Storia  della  lega  lombarda  raccontata 
da  Luigi  Tosti. 


—  107  — 

Federico  Barba  rossa ,  schiacciata  (ironia  ,  accontentò  i 
Cremonesi  concedendo  loro  la  giurisdizione  della  (erra  no- 
stra. Fino  racconta:  *I  Cremonesi,  desiderosi  di  averci 
■  sodo  il  loro  dominio,  comperarono  da  Federico  la  giuri- 
»  sdizione  di  Crema  per  sedici  mila  lire  ,  dandogliene  alla 
»  mano  dieci  mila,  ed  il  rimanente  poi  alla  Pasqua.  i{)  » 
Ciò  narrano  anche  il  Giolini  e  il  Campi ,  ma  con  diverse 
circostanze.  Giulini  scrisse  :  «  A  li  i  lo  del  mese  di  giugno 
»  delPanno  1162  i  Cremonesi  ottennero  altresì  dall'impc- 
»  nitore  irli  avanzi  della  distrutta  Crema  ,  ma  egli  volle 
»  ritenere  per  sé  tutto  il  territorio  di  essa  che  era  buono 
»  e  fruttifero  (*)  .»  Ed  il  Campi  :  «  Federico  favorì  i  Cre- 
»  monesi  di  un  bellissimo  privilegio  ,  facendo  loro  libero 
»  dono,  e  sottoponendo  loro  del  tutto  Crema  col  suo  terri- 
»  torio ,  e  promettendo  di  non  lasciarla  mai  riedificare 
»  senza  il  loro  consenso.  I3)  »  Da  queste  differenti  asser- 
zioni di  tre  autorevoli  scrittori  non  possiamo  inferire  con 
certezza  ,  se  i  Cremonesi  ottenessero  da  Federico  la  si- 
gnoria di  tutto  il  territorio  cremasco ,  0  soltanto  del  suolo 
ove  prima  sorgeva  la  città  nostra;  non  possiamo  parimenti 
accertare  se  Barbarossa  tal  privilegio  cedesse  ai  Cremonesi 
gratuitamente,  oppure  se  abbia  lucrato  sugli  avanzi  dell'in- 
felice cittadella  e  sulle  sorti  del  suo  popolo,  mercanteggian- 
dolo come  si  farebbe  di  un  armento  macellabile.  Comunque 
sia  camminato  quel  negozio,  Federico  rese  ancor  più  amara 
la  condizione  dei  poveri  Cremaschi ,  i  quali  all'infortunio 
d'aver  perduta  la  patria,  un  altro  aggiunsero  non  men 
grave  ,  1'  esser  condannati  al  vassallaggio  dell'  abbonata 
Cremona. 

À  quest'epoca  (1162)  l'unità  della  chiesa  cattolica,  mi- 


tri Storia  di  Crema. 

(2)  Storia  di  Milano. 

(3)  Storia  di  Cremona. 


—  108  — 
nacciata  dallo  scisma  ,  pericolava.  Tre  antipapi  lottarono 
l'uno  dopo  l'altro  con  Alessandro  III,  uno  dei  quali,  Guido 
da  Crema  cardinale  di  S.  Calisto,  che  poi  si  arrogò  il  nome 
di  Pasquale  III.  Morto  Adriano  IV  (1  settembre  1159),  i 
cardinali  convennero  nella  chiesa  di  S.  Pietro  per  eleggere 
un  nuovo  papa  ,  ed  a  maggioranza  di  suffragi  gridarono 
pontefice  Rolando,  cancelliere  di  S.  Chiesa,  che  poi  si  no- 
minò Alessandro  III.  Se  non  che  due  cardinali ,  Guido  da 
Crema  e  Giovanni  di  S.  Martino,  discrepando  dagli  altri, 
proclamarono  successore  di  Adriano  il  cardinale  Ottaviano 
di  S.  Cecilia.  Quest'Ottaviano  spasimava  di  salire  al  soglio 
pontificio  ,  e  lo  assecondavano  nelle  ambiziose  sue  mire 
tre  ministri  imperiali ,  come  quelli  che  sapevano  quanto 
Ottaviano  dasse  nel  genio  a  Barbarossa.  Ottaviano  uden- 
dosi gridar  pontefice  da  due  cardinali,  strappò  con  singo- 
lare impudenza  il  manto  pontificio  dalle  spalle  a  Rolando, 
ed  indossandolo  furiosamente  ,  proclamò  esser  egli  il  vero 
papa.  I  ministri  imperiali  tolsero  a  proleggerlo,  sostenendo 
doversi  a  lui  la  tiara  e  non  a  Rolando  ,  sicché  in  Roma 
pullularono  due  fazioni,  l'una  delle  quali,  benché  più  de- 
bole, parteggiava  per  Ottaviano.  Rolando,  o  direni  meglio 
Alessandro  III,  dolendosi  amaramente  dello  scandalo  avve- 
nuto nella  sua  elezione,  e  sapendo  che  il  provocatore,  co- 
munque lontano,  n'era  stato  Federico,  cercò  di  ammonirlo 
con  modi  urbani,  acciocché  riparasse  l'onta  ond'era  offesa 
la  Chiesa  di  Cristo.  Inviò  a  Crema  due  legali  con  lettere  a 
Barbarossa,  il  quale  trovavasi  in  que'  giorni  occupato  nel- 
l'assedio della  nostra  cittadella.  «  Federico,  caldo  com'era 
»  di  sangue  italiano  sparso  bestialmente  ,  non  solo  non 
»  volle  degnarsi  di  leggere  le  papali  epistole ,  ma  stando 
»  già  sull'appendere  uomini  alle  forche,  voleva  appendervi 
»  anche  i  due  legati.  Se  non  che  frappostisi  il  duca  guelfo  e 
»  quel  di  Sassonia,  stornatolo  dallo  scellerato  consiglio,  con 


—  109  — 
»  aspro  e  superbo  parole  ribatto  indietro  i  messaggi  (0,  a 

Appena  domata  Crema .  Barbarossa  adunò  in  Pavia  un 
coacilìabolo  di  prelati  suoi  aderenti,  e  da  questi  fece  rico- 
noscere quid  vero  pontefice  il  cardinale  Ottaviano,  che  s'in- 
titolò Vittore  III.  Nell'anno  1164,  Vittore  finiva  i  suoi 
giorni  a  Lucca,  sorpreso  da  angosciosa  morie  clic  i  fautori 
di  Alessandro  III  attribuirono  a  punizione  del  ciclo. 

In  secondo  conciliabolo  di  prelati  avversi  a  papa  Ales- 
sandro III  surrogò  al  morto  antipapa  Guido  da  Crema, 
cardinale  di  S.  Calisto,  clic  addì  26  aprile  del  1164,  senza 
tanto  scrupoleggiare  nell'osservanza  degli  antichi  riti,  rice- 
vette la  consacrazione  dal  vescovo  di  Liegi ,  ed  adottò  il 
nome  eli  Pasquale  III.  Annunciata  a  Federico  reiezione  del 
novello  antipapa,  ne  fu  lieto,  e  colFintento  di  fomentare  lo 
scisma,  riconobbe  Guido  da  Crema  qual  vero  pontefice. 

Per  quale  motivo  V  imperator  Barbarossa  incaloravasi 
tanto  a  mantener  nella  Chiesa  cattolica  lo  scisma?  Non  è 
difficile  indovinarlo.  Federico  era  calato  dalle  Alpi  per  li- 
bidine d'impero,  per  calpestare  la  libertà  che  fioriva  rigo- 
gliosamente nei  Comuni  lombardi ,  per  ridurre  gì'  Italiani 
poco  men  che  schiavi  del  soglio  imperiale.  Previde  che  lo 
avrebbero  ajutalo  nelFimpresa  gli  odj  municipali  delle  città 
lombarde,  la  divozione  verso  l'impero  di  alcuni  signorotti 
italiani,  ma  paventava  la  politica  della  Corte  romana,  con- 
sapevole quanto  avesse  per  lunghi  anni  avversalo  le  ambi- 
zioni degli  imperatori.  Recatosi  la  prima  volta  a  Roma  , 
Barbarossa  ebbe  festosa  accoglienza  e  la  corona  dell'impero 
da  Adriano  IV.  Avresti  detto  che  in  quel  momento  tiara  e 
scettro  si  annodassero  con  vincoli  di  perenne  fratellanza; 
ma  Federico  ed  Adriano  si  erano  abbracciati  non  per  im- 
pulso di  reciproca  simpatia,  bensì  per  soffocare  nel  loro 


(I)  Vedi  la  magnifica  opera  del  padre  Luigi  Tosti.  Istoria  della  lega  lom- 
barda. 


—  110  — 

amplesso  le  minacciose  dottrine  del  famoso  Arnaldo  da 
Brescia.  Morto  Adriano,  Barbarossa  si  maneggiò  perchè  il 
cardinal  Rolando,  di  cui  già  conosceva  l'indole  altera,  non 
salisse  a  timoneggiare  la  nave  di  Pietro:  fallito  il  tentativo, 
prese  a  proteggere  l'antipapa  Ottaviano  ,  e  i  di  lui  parti- 
giani. Federico  vedeva  a' suoi  ambiziosi  disegni  un  ostacolo 
nella  potenza  papale  ,  sostenuta  da  principj  indeclinabili , 
forte  per  la  simpatia  dei  popoli  ,  e  le  credenze  di  tutto 
Torbe  cattolico.  Atterrarla  era  impresa  troppo  arrischiata; 
amicarsela,  costava  sagrifici  insopportabili  a  lui  che  voleva 
ampliare,  non  isminuire  le  prerogative  eia  dignità  dell'im- 
pero. Prevedendo  inevitabile  il  cozzo  tra  la  sua  polilica  e 
quella  della  Corte  romana,  Federico  s'appigliò  al  partito 
di  scompigliare  la  Chiesa  coll'introdurvi  lo  scisma.  In  que- 
sta guisa  dividendola,  sperò  d'indebolirlo,  di  screditarla. 
Perciò,  morto  Ottaviano,  premeva  all'imperatore  di  opporre 
ad  Alessandro  IH  un  altro  antipapa;  un  fantoccio  col  manto 
pontifìcio  che  ubbidisse  ad  ogni  suo  talento,  e  cui  in  pre- 
mio della  servilità  prometteva  di  collocare  sulla  sede  di 
Pietro,  cacciando  Alessandro  III  da  Roma.  Un  Cremasco  , 
già  cardinale,  fu  il  personaggio  che  Federico  destinava  a 
far  da  spauracchio  ad  Alessandro  III ,  e  che  per  quattro 
anni  dovea  recitare  per  conto  dell'imperatore  la  parte  bu- 
rattinesca dell'antipapa. 

Guido  da  Creila  fu  eletto  cardinal  diacono  da  Eugenio  III, 
poi  cardinal  prete  col  titolo  di  S.  Calisto  da  Adriano  IV 
nel  1158.  Fornito  di  non  volgari  talenti,  ebbe  dalla  Corte 
romana  missioni  onorevolissime:  lo  inviava  Adriano  IV  alla 
Dieta  di  Roncaglia  nel  1152  qual  legato  pontificio,  indi 
all'assemblea  tenuta  dall'imperatore  a  Bologna  nell'aprile 
del  1157,  affinchè,  qual  rappresentante  la  Corte  romana, 
vi  risolvesse  alcune  differenze  fra  la  Chiesa  e  l'Impero.  Ma 
poi  l'ambizione  lo  accecò:  morto  Adriano  IV,  Guido  diser- 
bava la  causa  delia  Chiesa  per  servire  a  Barbarossa  :  votò 


—  1 1 1  — 
due  volle  io  favore  dell'antipapa  Muore  e  dopo  là  di  lui 
morie  lo  sedusse  vaghezza  di  salire  il  irono  pou  tifi  ciò , 
portalo  sullo  braccia  di  un  imperatore.  Federico  imbaldanzì 
d'aver  trovato  in  Guido  un  profittevole  istrumento  della 
sua  politica  :  recatosi  in  Germania  nel  1 1  Go,  pretese  che  i 
vescovi  ed  i  predali  Io  riconoscessero  qual  vero  pontefice. 
E  perchè  non  tutti  vi  acconsentivano,  Barbarossa  vi  cosili n- 
geva  i  riluttanti  colla  forza,  tanlo  che  in  Germania  si  riac- 
cesero le  faville  delle  discordie  guelfe  e  ghibelline.  Convocala 
a  Virlzburg  una  diela,  Barbarossa  ottenne  finalmente  che 
i  vescovi  germani  dichiarassero  con  decreto  «  essere  valida 
»  la  elezione  di  Pasquale  III,  doversi  a  lui  giurare  costante 
»  fedeltà,  doversi  alla  sua  morte  surrogargli  un  prelato  del 
»  suo  partito,  ed  alla  morte  di  Barbarossa  conferire  la  co- 
»  rona  a  quel  principe  che  la  causa  di  Pasquale  III  soste- 
»  nesso.  lO»  Federico,  bramando  che  il  partito  di  Pasqua- 
le HI  si  rafforzasse  anche  in  Italia,  vi  mandò  con  grosso 
esercito,  Cristiano  arcivescovo  di  Magonza,  e  Rinaldo  arci- 
vescovo di  Colonia:  due  prelati  guerrieri  e  ribaldi  che,  per 
servire  Barbarossa,  prodigarono  oro  a  corrompere,  usarono 
minacce,  e  talvolta  posero  a  ferro  e  a  fuoco  le  città  che 
mantenevansi  fedeli  ad  Alessandro  III. 

Nell'anno  1165  venne  il  destro  a  Barbarossa  di  cano- 
nizzare Carlo  Magno.  Istigalo  da  Enrico  re  d'Inghilterra, 
aprì  a  tale  scopo  nel  dicembre  una  corte  plenaria  ad  Aquis- 
grana.  Diseppellito  il  cadavere  dell'eroe,  fu  celebrala  solen- 
nemeute,  con  l'autorizzazione  di  Pasquale  III,  la  sacra  ce- 
rimonia (27  dicembre  1165).  Da  quel  giorno  Carlo  Magno 
incominciò  ad  essere  venerato  con  pubblico  culto  in  alcune 
chiese  particolari  ,  e  comunque  la  di  lui  canonizzazione 
avvenisse  per  sanzione  di  un  antipapa,  i  legittimi  pontefici 
non  vi  si  opposero  <*). 

(1)  Voigt.  Della  lega  lombarda. 

(2)  Muratori.  Annali  d' Italia. 


-  112  — 

Nel  1167,  il  nostro  Guido,  cui  tardava  di  assidersi  sopra 
il  soglio  pontificio,  da  Viterbo,  ove  dimorava,  mandò  am- 
basciatori a  Federico  rammentandogli  la  fatta  promessa  , 
sollecitandolo  a  romper  guerra  ad  Alessandro  HI.  Barbaros- 
sa  sfilò  con  poderoso  esercito  alla  volta  di  Roma,  la  prese 
con  sanguinosissimo  assalto,  e  forzò  Alessandro  III  a  rifu- 
giarsi nel  Coliseo,  allora  fortezza  della  potentissima  fami- 
glia Frangipane.  Insignoritosi  di  Roma,  l'imperatore,  per 
amicarsi  i  grandi  ed  il  popolo  protestava  ,  che  se  Ales- 
sandro rinunciasse  alla  tiara ,  egli  avrebbe  costretto  Pa- 
squale a  seguirne  l'esempio,  e  quindi  si  porrebbe  fine  alio 
scisma  coli' elezione  di  un  novello  pontefice.  Parole  più 
astute  che  sincere ,  giacché  Federico  ben  prevedeva  che 
Alessandro  rigetterebbe  la  sua  proposta:  infatti  quel  pon- 
tefice fu  tal  uomo  da  lasciare  Roma  in  preda  dell'antipapa, 
piuttoslochè  abdicare  i  suoi  legittimi  diritti  alla  cattedra  di 
S.  Pietro.  Così  compironsi  gli  ambiziosi  voti  di  Guido  da 
Crema,  giunto  a  pavoneggiarsi  in  Roma  sul  trono  ponti- 
fìcio del  suo  rivale.  Lo  proteggevano  le  ali  della  vittoriosa 
aquila  imperiale,  e  l'ottenuto  trionfo  moltiplicargli  in  Roma 
il  numero  dei  partigiani. 

Nel  giorno  primo  d'agosto,  l'antipapa  celebrò  con  grande 
sfarzo  nella  chiesa  di  S.  Pietro;  durante  la  messa  pose  in 
capo  la  corona  a  Federico  ed  alla  di  lui  consorte  Beatrice. 
Questa  seconda  incoronazione  di  Federico,  riferita  dal  Mo- 
rena, dal  Calchi  e  dal  Fino,  è  messa  in  dubbio  dal  Terni, 
negata  da  altri  storici.  Noi  conveniamo  coi  primi,  che  sia 
avvenuta,  ma  non  ometteremo  di  rammentare  come  i  re 
usassero  a  que' tempi  di  farsi  incoronare  parecchie  volte, 
specialmente  dopo  riportate  luminose  vittorie.  Perciò  non 
devesi  confondere  questa  vanità  principesca  degli  scorsi  se- 
coli colla  formale  pompa  della  prima  e  vera  incoronazione 
con  cui  si  riconoscevano  nei  re  gli  attributi  sovrani.  La  co- 
rona dell'impero  era  già  stata  conferita  a  Barbarossa  da 
Adriano  IV. 


Pasquale  IH  profanò  in  Roma  la  sedi4  pontificia  per 
quattordici  mesi  ;  nel  venti  settembre  11(>8  morì.  Discor- 
dano le  asserzioni  dei  cronisti  intorno  alla  sua  morie.  Ale- 
niamo Fino  dice  che  venne  ucciso  sulla  piazza  di  S.  Pietro 
nell'anno  1175  (*):  errore  ^Tossissimo.  Scrittori  più  antichi 
del  Tino  e  parziali  per  Alessandro  111,  narrano  che  morì 
impenitente  Tanno  11(58,  colio  da  orribile  malattia  con  cui 
piacque  al  cielo  di  fulminarlo  in  punizione  de1  suoi  peccati. 
Più  moderato  il  Ciacconio  nella  sua  storia  dei  Pontefici, 
circostanziò  la  morte  dell'antipapa  Pasquale  con  le  seguenti 
parole  :  fistoloso  cancro  percussus,  infelicem  spiritimi  in 
sciamate  cxalavit.  II  dottissimo  Muratori,  rifuggendo  dal 
sagriiìcarc  la  verità  al  fanatismo  dei  partiti ,  dice  seccamente 
che  Pasquale  lini  in  Roma  i  suoi  giorni  nel  20  settembre 
del  1168  P\  Se  prestiam  fede  all'Alemanni  Fino,  Guido 
da  Crema,  come  il  cardinal  Giovanni  di  S.Grisogono,  fu  Un 
rampollo  dell'illustre  famiglia  dei  conti  di  Camisano  l3). 

Intanto  che  le  mene  ambiziose  di  Barbarossa  e  dell'an- 
tipapa Guido  da  Crema  travagliavano  la  Chiesa  cattolica, 
le  città  di  Lombardia  gemevano  nell'immane  oppressione  dei 
commissari  imperiali.  Federico,  distrutta  Milano  nel  1162, 
aveva  annientata  la  libertà  dei  Comuni.  Ritornando  in  Ger- 
mania, lasciò  al  governo  delle  terre  lombarde  podestà  scelti 
da  lui,  parte  Tedeschi,  parte  Italiani.  I  primi  non  sapevano 
né  punto  né  poco  la  favella  dei  popoli  affidali  al  loro  go- 
verno, e  tornava  loro  inutile  il  saperla,  perchè  essendosi  pro- 
posti di  succhiare  ai  governati  sangue  e  sostanze,  si  face- 
vano intendere  meglio  con  le  fruste  e  coi  capestri.  I  se- 
condi appartenevano  a  quella  razza  di  vili,  i  quali,  come 
scrive  Cesare  Cantù,  vendutisi  ai  nemici  della  patria,  vo- 


(i)  Fino,  nella  Scelta  degli  uomini  di  pregio  usciti  da  Crema. 
(2)  Annali  d' Italia. 
{%)  Fino,  nelle  Seriane. 

8 


—  114  - 

gliono  farsi  perdonare  la  colpa  d'essere  Italiani  (l).  Le 
enormezze  che  commisero  quei  podestà  o  commissarj  im- 
periali levano  nella  storia  un  grido  di  esecrazione;  sareb- 
bero quasi  incredibili,  se  non  ci  venissero  narrate  da  scrit- 
tori alemanni  e  dagli  stessi  fautori  di  Barbarossa  (2) ,  i  quali 
però  ne  vogliono  scagionare  Y imperatore,  dicendo  che  ne 
era  inconsapevole.  I  nomi  di  Pietro  Cunin,  di  Rinaldo  ar- 
civescovo di  Colonia,  d'Arnaldo  Barbavara,  e  d'altri  po- 
destà che  tiraneggiarono  la  Lombardia  in  que'  tempi  scia- 
guratissimi,  saranno  eternamente  infami:  spogliavano,  con- 
taminavano, martirizzavano  i  poveri  Lombardi  trattandoli 
bestialmente,  perchè  consideravanli  piuttosto  giumenti  che 
uomini.  Moltiplicarono  spaventosamente  le  contribuzioni. 
Or  sotto  il  titolo  del  porco  a  S.  Martino,  or  dell'agnello 
a  Pasqua,  imponevano  balzelli  incomportabili;  le  castagne, 
le  noci,  il  fieno,  perfino  i  pescatori  sull'incerto  provento 
delle  reti,  erano  colpiti  d'imposta.  Tempestati  più  di  tutti 
ne  furono  i  Milanesi  ed  i  Cremaschi  :  a  questi  non  lascia- 
vano che  scarsissima  parte  dei  prodotti  delle  loro  terre  (3). 
Podestà  di  Crema  era  certo  Lamberto  Vignati,  lodigiano; 
forse  dissanguava  i  miseri  Cremaschi  per  libidine  di  ven- 
detta, sfogando  in  tal  modo  il  veleno  degli  odj  municipali. 
Non  crediate  però  toccassero  più  benigne  sorli  a  quelle  città 
che  si  dimostrarono  fedelissime  alleate  dell'imperatore;  i 
podestà  non  facevano  distinzione;  dapprima  sembrava  le 
accarezzassero,  ma  perchè  avevano  ben  adunchi  gli  arti- 
gli, quelle  carezze  non  tardarono  poi  a  far  sangue. 
Tante-  durezze  consentiva  la  Provvidenza  per  ritemprare 


(1)  Storia  universale. 

(2)  Voigt.  Storia  della  lega  lombarda.  —  Acerbo  Morena,  Storie  lodigiani 

(3)  «  .  .  .  Mediolanenses ,  qurbus  de  omnium  terrarum  suarum  fructibus  , 
non  nisi  solummodo  tertium  de  tertio  relinquebant,  alque  Hem  Cremenses, 
quibus  omnium  terrarum  suarum  terlium,  ac  si  ipsi  domini  eorum  fuis- 
seut,  poni t us  omnir.o  auferebant.  »  Morena.  Ili&ior.  Rerum  laudensium. 


—  ilìJ  — 

-li  Mini  dei  Lombardi  alla  scuola  della  sventura,  volendo 
prepararli  al  bacio  della  fratellanza,  a  generose  imprese, 
a  glorie  immortali.  (ìli  Italiani  avevano  abusalo  della  pro- 
speriti, odiandosi  a  vicenda  e  dilaniandosi;  ci  voleva  la  sferza 
di  quegli  inesorabili  ministri  perché  imparassero  ad  amarsi, 
perchè  cercassero  colla  concordia  di  sollevarsi  dal  fango  in 
cui  erano  prostrati.  Le  città  italiane  s'accorsero  ben  presto 
d'aver  comperate  le  fraterne  vendette  col  tesoro  della  li- 
bertà ;  vergognarono  del  passalo,  se  ne  pentirono,  e  per 
frangere  i  ceppi  che  le  opprimevano,  si  congiunsero  sorelle 
in  un  amplesso,  onde  nacque  la  lega  lombarda.  Fallo  me- 
morando, iride  splendidissima,  foriera  ai  popoli  italiani  di 
novello  risorgimento! 

1  Crcmaschi  presero  parte  nella  lega?  Ne  interrogammo 
le  cronache  di  Crema,  e  nulla  ci  rivelarono  intorno  a  que- 
sto punto  della  storia  nostra  importantissimo.  Ricorremmo 
ad  altre  fonti,  e  vi  abbiamo  attinte  le  notizie  che  ora  ci  fa- 
remo a  narrare. 

L'idea  della  lega  lombarda  s'accese  per  un»ardenlissimo 
desiderio ,  o  direni  meglio,  per  un  bisogno  imperiosissimo 
di  uscire  dalla  servitù,  che  le  nefandezze  dei  podestà  im- 
periali rendevano  non  che  obbrobriosa,  insopportabile.  Pen- 
sate adunque  se  questa  idea  non  doveva  risplendere  in  petto 
ai  Cremaschi;  essi,  al  pari  dei  Milanesi,  calpestati  brutal- 
mente da  feroce  tirannia,  essi  che  sospiravano  di  riacquistare 
la  patria  caduta,  e  ne  veneravano  le  sante  ruine  con  la 
mente  calda  ancora  della  gioita  libertà,  frementi  d'avere  speso 
invano  a  difenderla  un  eroico  coraggio.  Era  dunque  natu- 
rale che  i  Cremaschi  cercassero  d'entrar  nella  lega,  e  furono 
tra  i  primi  a  parteciparvi.  Ciò,  benché  non  è  detto  nelle 
cronache  di  Crema,  noi  asseveriamo  appoggiandoci  all'au- 
torità del  Muratori,  il  quale  scrive  che  in  quella  famosissima 
lega  sensim  confluerunt  Veneti,  Bononienses,  Mutinenses, 
Regienses,  Parmenses,  Piacentini,  Cremenses,  Cremonen- 


—  116  — 

ses>  ComenscSj  Novarienscs,  Vercellenses,  Astenses,  aliiqui 
proceres  ac  populi  (0. 

È  abbastanza  noto  come  la  lega  lombarda  avesse  culla 
in  un  congresso  tenuto  da  parecchie  città  italiane  a  Pon- 
tida  (7  aprile  1167).  Là,  nella  chiesa  di  S.  Jacopo  innanzi 
agli  altari,  i  Lombardi  si  strinsero  la  destra  in  segno  di 
riconciliazione  e  d'amore  :  là  giurarono  sulle  spade  che  si 
sarebbero  scambievolmente  ajutati  per  risorgere  a  libertà; 
e  le  loro  fronti  si  rasserenarono,  e  i  cuori  palpitarono  d'i- 
neffabile gioja  nella  fiducia  di  redimere  la  patria.  Giammai 
nel  tempio  del  Signore  proruppe  da  umane  labbra  sacra- 
mento più  puro,  più  generoso;  Dio  l'accolse,  e  dal  suo 
secsio  d'amore  lo  benediva. 

Che  i  Cremaschi  intervenissero  al  congresso  di  Pontida, 
lo  attesta  Cosimo  Barloli  colle  seguenti  parole:  «  1  Milanesi 
»  insieme  coi  Cremaschi,  Bergamaschi,  Bresciani,  Manlo- 
»  vani,  Ferraresi,  e  molle  altre  terre,  convenuti  alli  7  aprile 
»  nel  Bergamasco  nella  chiesa  di  S.  Jacopo  in  Pontida,  con- 
»  sigiarono  i  casi  loro  (-).» 

INell' adunanza  di  Pontida  s'udì  risuonare  la  voce  di  un 
chiarissimo  gentiluomo  milanese,  Pinamonte  Vimercati  3),  il 
quale  con  robusti  argomenti  rappresentò  la  necessità  di  ri- 
costruire e  fortificare  Milano.  Pinamonte  favellava  con  sen- 
timenti italiani  ad  un  congresso  d'Italiani,  che  le  comuni 
sventure  ribattezzavano  con  dottrine  di  fratellanza,  e  la  sua 
parola  penetrò  nel  cuore  di  tulli;  poco  appresso  Bergamaschi, 
Bresciani,  Cremonesi  ed  altri  Lombardi  accorrevano  a  rie- 
dificare l'infelice  Milano. 

Un  più  efficace  argomento  a  persuadere  che  i  Cremaschi 
furono  tra  i  primi  a  prender  parte  nella  lega,  lo  desumiamo 
dal  fatto  ch'ora  veniamo  a  narrare. 


il)  Antiquilatis  italicce  medii  cevi.  Dissertano  quadragesima  octava,  p.  2G0. 
(2)   Vita  di  Federico  Barbarossa. 

3)  Da  questo  insigne   gentiluomo  milanese    rampollò  la  nobile   famiglia 
Vimercati  di  Crema. 


—  117  — 

Premeva  ai  confederati  «li  tirare  Della  loro  alleanza  i  ri- 
luttanti Lodigiani.  Finché  Lodi  parteggiava  per  Federico^ 
Milanesi  avevano  ragioni  d'inquietarsi,  polendo  l'imperatore 
giovarsi  di  questa  città  per  intercettare  i  viveri  a  Milano, 
costretta  dalle  sofferte  devastazioni  a  provvedersene  Cuori 
del  suo  territorio.  Ogni  arie  praticarono  i  confederati  onde 
smovere  i  Lodigiani  dal  partito  imperiale,  ma  infruttuosa- 
mente. Erano  legati  a  Barbarossa  per  vivissimo  sentimento 
di  gratitudine;  egli  strappolli  dall'artiglio  dei  Milanesi,  egli 
ricostruiva  la  citlà  loro  ricolmandoli  di  beneficj.  Perciò  sem- 
brava ai  Lodigiani  fosse  nera  perfìdia  cospirare  contro  il  loro 
benefattore.  Riescile  ineflicaci  le  amichevoli  persuasioni!,  i 
confederati  per  conquistar  l'alleanza  dei  Lodigiani  ricorsero 
alle  armi:  con  poderoso  esercito  assediarono  Lodi,  lo  affa- 
marono, e  lo  costrinsero  ad  arrendersi  e  far  parte  della  lega 
addì  28  maggio  U67.  I  Cremascbi  prestarono  il  loro  brac- 
cio agli  alleati,  combattendo  anch'essi  contro  Lodi;  e  le 
cronache  narrano  che  accampatisi  a  Selva  Greca,  molesta- 
rono con  replicate  scaramucce  gli  assediati  i*).  Se  Crema 
diede  mano  ai  confederati  per  mettere  a  dovere  i  Lodigiani, 
apparisce  luminosamente  ch'essa  fu  tra  le  prime  citlà  ad  as- 
sociarsi nella  lega  lombarda. 

Nel  mentre  i  Cremascbi  pugnavano  contro  Lodi,  militava 
sotto  le  insegne  nemiche  un  loro  concittadino,  Lantelmo 
Greppi  l2),  che  Barbarossa  stipendiò  capitano  delle  sue  mi- 
lizie con  altro  Cremasco,  Gilberto  dei  conti  di  Camisano. 
Lantelmo  Greppi  venne  con  un  pugno  di  soldati  in  soccorso 
dei  Lodigiani,  ma  troppo  tardi;  Lodi  aveva  già  capitolato 
coi  confederati,  ond'egli  dovette  ritirarsi  a  Pavia,  città  che 
mantenevasi  ancora  fedelissima  all'imperatore. 


(i)  Terni  e  Fino  nella  Stoì'ia  di  Crema. 

(2)  Da  questo  Lantelmo    Greppi    pretende  il  Terni  sia  derivata  la  celebre 
famiglia  cremasca  dei  Benzoni. 


—  118  — 

Ora  ci  rimane  a  scoprire  per  quale  motivo  i  Cremaseli!, 
comunque  prendessero  parte  alle  prime  imprese  della  lega 
lombarda,  non  figurano  poi  nei  trattati  che  la  confederazione 
stipulò  con  Federico.  Perchè  al  celebre  trattato  della  pace 
di  Costanza  intervennero  rappresentanti  di  tutte  le  terre 
collegate,  e  non  i  Cremaschi?  Alcuni  preziosissimi  docu- 
menti pubblicali  dal  Muratori  ne  chiariscono  la  ragione. 

Bisogna  innanzi  tutto  rammentare,  che  negli  anni  della 
lega  lombarda,  Crema  era  un  mucchio  di  rovine,  fra  le 
quali  il  popolo,  come  dicemmo,  aveva  foggiali  i  suoi  abi- 
turi. Ci  sovvenga  eziandio  come  Barbarossa  nel  1162  conce- 
desse a  Cremona  la  feudale  giurisdizione  sulla  terra  di  Cre- 
ma. Ora,  i  Cremonesi,  mal  comportando  le  vessazioni  dei 
ministri  imperiali,  si  erano  buttali  anch'essi  nella  alleanza 
lombarda,  riconciliandosi  con  le  città  rivali,  ma  non  per  que- 
sto rinunziarono  all'odioso  privilegio  di  tener  Crema  sotto 
il  loro  dominio.  Conseguentemente  non  potevano  acconsen- 
tire che  i  Cremaschi,  loro  vassalli ,  cospirassero  insieme  ai 
collegati  per  risorgere  a  libertà.  Anzi  vollero  rimanesse 
Crema  prostrata  nelle  sue  rovine,  ed  il  suo  popolo  nel  vas- 
sallaggio cui  Barbarossa  l'aveva  condannato,  cedendone  a 
loro  la  giurisdizione.  Quindi  a  meglio  guarentirsi  che  i  Cre- 
maschi non  troverebbero  modo  di  francarsi  dalla  loro  di- 
pendenza, i  Cremonesi  pretesero  che  le  cillà  della  lega  lom- 
barda promettessero  con  giuramento  l'osservanza  delle  se- 
guenti condizioni:  condizione  prima;  che  né  i  Cremaschi, 
né  altri  avrebbero  Crema  rifabbricata,  o  eretti  castelli  nel 
terreno  situato  fra  l'Adda  e  TOglio,  senza  licenza  del  go- 
verno di  Cremona:  condizione  seconda;  che  qualora  senza 
il  permesso  dei  Cremonesi  venisse  Crema  rialzata,  le  città 
della  lega  accorrerebbero  colle  armi  in  sussidio  dei  Cremo- 
nesi onde  schiacciarla  la  seconda  volta:  condizione  terza; 
che  le  città  collegate  non  permetterebbero  asilo  o  ricovero 


-  119  — 
ai  Crem ascili,  o  a  qualsifosse altro  che  imprendesse  a  com- 
battere per  la  libertà  dei  Cremaschi   f  . 

Queste  vergognose  condizioni  i  Cremonesi  richiesero  alla 
società  lombarda  in  un  congresso  tenuto  a  Modena  Tan- 
no 1173,  e  d'osservarle  promisero  le  città  della  lega  onde 
mantenersi  fedele  Cremona,  la  quale  pareva  che  nella  giu- 
rata alleanza  vacillasse.  Infelicissima  Crema!  Ecco  i  pietosi 
riguardi  che  a  lei  toccarono  in  un  congresso  d'Italiani  nei 
giorni  famosissimi  che  inspiravansi  con  idee  di  fratellanza  ; 
ecco  il  guiderdone  dell'eroica  difesa,  dei  sopportati  disastri, 
del  sangue  profuso  per  resistere  al  comune  nemico!  Davvero 
è  mostruosa  la  rahbia  pertinace  che  i  Cremonesi  serbarono 
verso  Crema;  davvero  ch'essi  nel  congresso  di  Modena  mac- 
chiarono una  pagina  luminosissima  della  storia  italiana,  con 
un  trailo  inverecondo  di  municipale  egoismo:  tanto  più  ab- 
bominevole,  perchè  nudrito  in  epoca  la  quale  ahbellivasi 
di  fraterna  concordia,  delle  speranze  di  una  comune  liber- 
tà. Uno  storico  moderno,  rammentando  le  condizioni  che  i 
Cremonesi,  alio  scopo  di  tener  il  piede  sul  collo  ai  Crema- 
schi, imposero  alla  società  lombarda  nel  congresso  di  Mo- 
dena, prorompe  in  queste  memorande  parole:  Duole  nel- 
l'anima, ma  così  è:  noi  non  abbiamo  venti  anni  di  storia 
compiutamente  bella  di  vera  concordia  in  tutti  i  secoli 
moderni.  Il  fatto  è;  sappiamo  vederlo  e  confessarlo  per 
non  rifarlo  mai  più,  fi). 

La  lega  lombarda,  della  quale  era  capo  Alessandro  III, 
non  tardò  a  raccogliere  dall'  associazione  delle  sue  forze 
i  desiderali  frutti  di  libertà.  Colla  battaglia  di  Legnano, 
avvenuta  nel  29  maggio  del  1176,  si  compirono  i  trionfi  e 
i  voti  delle  città  alleate.  A  Legnano  Federico  Barbarossa 

(,i)  Vedi  Juramentum  Coiisulum  quarumdam  civitalum  Lombardia!  conti  a 
Federicnm  J  imperalorem  anno  1Ì73  ,  nelle  Antichità  italiane  dJ  medio  evo 
de!  Muratori,  voi.  4.° 

(2)  Balbo.  Compendio  della  Storia  d' Italia. 


—  120  — 
imparò  che  gl'Italiani  sono  domabili  finché  discordi,  ma 
non  se  insorgono  tutti  con  un  cuor  solo,  a  combattere  le 
battaglie  della  patria  e  della  libertà.  I  successori  di  Bar- 
barossa  profittarono  della  lezione;  così  ne  avessero  dal 
canto  loro  profittato  gli  Italiani!  Dalla  vittoria  di  Legnano, 
i  Lombardi  conseguirono  una  tregua  di  sei  anni  stipulala 
a  Venezia  coiTimperatore,  indi  la  pace  di  Costanza,  singo- 
lare esempio  di  un  trattato  conchiuso  tra  sudditi  e  sovra- 
no. I  confederali  vi  oltenero  lutto  quanto  desideravano, 
non  però  V indipendenza,  perchè  le  loro  aspirazioni  non 
erano  mai  salite  a  tanto  ;  ottennero  fossero  riconosciute 
intere,  intangibili,  efficaci,  e  come  di  diritto,  quelle  libertà 
che  prima  non  godevano  che  di  fatto. 

I  Cremaschi,  pel  trattalo  di  Costanza,  migliorarono  le 
loro  sorti?  Non  ancora.  Poco  dopo  la  famosa  battaglia  di 
Legnano  i  Cremonesi,  staccatisi  per  i  primi  dall'alleanza 
lombarda,  patteggiarono  separatamente  colf  imperatore,  il 
quale  prodigò  a  Cremona  novelli  privilegi,  riconfermando 
gli  antichi.  Correndo  Tanno  1185,  Barbarossa  inviò  legati 
in  Lombardia  acciocché  iniziassero  trattative  di  pace  colle 
città  italiane.  Convennero  in  varj  congressi  i  rappresentanti 
delle  nostre  terre  ed  i  legati  imperiali,  e  di  mutuo  accordo 
tracciarono  i  patti  in  base  ai  quali  si  doveva  conchiudere 
il  solenne  trattato  di  pace.  Il  Muratori  disotterrò  dagli  ar- 
chivi alcune  convenzioni  che  in  quell'occorrenza  le  città  ita- 
liane stipularono  coi  legati  dell'imperatore,  in  una  delle 
quali  i  Cremonesi  ribadirono  il  chiodo  in  petto  ai  miseri 
Cremaschi.  Vi  si  leggono  le  seguenti  parole:  sarà  lecito 
alle  città  di  trincerarsi  con  fortezze,  mantenere  gli  antichi 
castelli,  ristorarli  e  innalzarne  di  nuovi,  salve  però  le 
convenzioni  su  questo  punto  stipulate  fra  ì  Cremonesi  e 
le  altre  città,  e  salvi  specialmente  i  patti  di  non  riedifi- 
care  Crema,  né  alcun  castello  nel  territorio  che  è  fra 


—  121  — 

l'Adda  e  lùglio,  comi'  si  contiene  nei  privilegi  che  ni  Ùrc* 

moneti  acconsentirono   le  ella  e   l' imperatore    '  . 

Due  mesi  dopo,  addì  93  giugno  1183,  si  celebrò  in  Co- 
stanza il  famosissimo  trattato  di  pace,  in  cui  nissiin  cenno 

si  fece  di  Crema  e  del  suo  territorio.  11  capitolo  ventunesimo 

dichiarò;  rimaner  /'ertile  (alle  quelle  concai- ioni  clic  le 
città  della  lega  arecano  fra  di  loro  stipulale  (*).  Consc- 
guentemente i  Cremonesi  ritennero  confermala  a  loro  la  giu- 
risdizione su  Crema,  con  tutte  le  condizioni  clic  in  propo- 
sito avevan  loro  promesso  di  mantenere  le  città  della  lega 
lombarda  nel  congresso  di  Modena  Tanno  1175.  Quindi  il 
trattato  di  Costanza  non  isparsc  della  sua  benefica  luce  al- 
cun raggio  sul  terreno  cremasco.  I  vicini  paesi  rimbaldan- 
ziti festeggiavano  le  ricuperate  franchigie;  Crema  gemeva 
ancora  i  perduti  giorni  della  sua  libertà,  la  catastrofe  mi- 
seranda dell'irrcparata  caduta,  la  barbara  condanna  che  le 
inibiva  di  potersi  rialzare  dalle  ruine.  Ma  la  Provvidenza, 
clic  tien  conto  delle  lagrime  degli  oppressi,  affrettava  ai 
Cremaschi  il  giorno  della  loro  redenzione. 

Nell'agosto  dell'anno  susseguente  al  trattato  di  Costanza 
(1184),  Federico  ritornava  in  Italia,  non  più  menando  po- 
derose coorli  a  sterminio  di  città  e  castelli,  ma  con  volto 
serenato  da  sentimenti  di  pace,  coli1  animo  volonteroso  di 
annodare  amichevoli  relazioni  in  Lombardia.  Vero  è  però 
che  nel  capo  mulinava  ancora  ambiziozi  disegni,  ed  era 
venuto  in  Italia  per  trattarvi  il  matrimonio  del  figlio  Enrico 
con  Costanza,  l'erede  più  prossima  della  Casa  Normanna 
regnante  in  Palermo.  L'eroe  della  Germania  non  ismetteva 
il  pensiero  di  aggrandire  l'impero,  e  non  volendo  più  ar- 
rischiarsi cogli  Italiani  nel  periglioso  gioco  delle  armi,  spe- 
culava con  un  matrimonio.  Costanza  nasceva  da  Rogiero  I 

(1)  Muratori.  Antichità  italiane  del  medio  evo. 

il)  Pacta  inter  civitates  societatis  quondam  facta,  nihilominus  firma  et  rata 
permaneant. 


—  122  — 

re  di  Sicilia,  ed  era  zia  di  Guglielmo  allora  regnante,  il 
quale,  comunque  ammogliato,  non  lasciava  speranza  di 
prole,  onde  la  Casa  Svcva  confidava  che  Enrico  impalmando 
Costanza,  potesse  un  giorno  beccarsi  il  regno  delle  due  Si- 
cilie. I  Milanesi  questa  volta  ospitarono  Federico  con  lutti 
i  cavallereschi  riguardi  che  a  popolo  generoso  suole  inspi- 
rare, dopo  la  vittoria,  la  persona  del  nemico  vinto  e  ri- 
conciliato. 

Fu  una  gara  di  cortesie.  Milano  pompeggiava  di  benevo- 
lenza, di  festose  dimostrazioni  a  Barbarossa;  questi  usava 
ogni  modo  per  ricambiarle  ;  riciproche  le  carezze ,  perchè 
reciproco  il  bisogno  di  una  stabile  amicizia.  Premeva  ai  Mi- 
lanesi di  ricuperare  ed  ampliare  i  loro  diritti  territoriali: 
a  Barbarossa  importava  di  assecondarli  ed  amicarseli,  per 
giovarsene  all'uopo,  fosse  contro  il  pontefice  nelle  differenze 
sui  contrastati  beni  della  contessa  Matilde,  fosse  contro  i 
Siciliani,  se  avvenisse  ch'essi ,  morto  il  re  Guglielmo,  rifiu- 
tassero di  riconoscere  la  sovranità  di  Enrico,  principe  stra- 
niero. I  Milanesi  accorgendosi  che  lutto  potevano  sull'animo 
di  Barbarossa,  moltiplicarono  le  inchieste; si  ricordarono  di 
Crema, loro  fedelissima  consorte  nelle  patite  sventure,  e  chie- 
sero di  poterla  rifabbricare.  L'imperatore  vi  acconsentì,  come 
leggesi  in  un  diploma  importantissimo,  vergato  addì  11  feb- 
braio 1185,  col  quale  Barbarossa  confermò  e  accrebbe  ai 
Milanesi  molti  privilegi.  La  concessione  di  rifabbricar  Crema 
vi  è  espressa  con  le  seguenti  parole  e  condizioni  :  «  Noi 
»  (Federico)  di  buona  fede  e  senza  frode  ci  adopreremo 
»  acciochè  Crema  venga  riedificata,  nel  lasso  di  tempo  che 
»  stabiliranno  i  consoli  di  Milano  insieme  al  Consilio  di  loro 
»  Credenza,  per  il  potere  che  abbiamo  in  Lombardia,  nella 
»  Marca  e  nella  Romagna.  Noi  poi  vi  daremo  opera  in  que- 
»  sto  modo,  raccomandando,  esortando,  comandando  alle 
»  persone,  città  e  luoghi  della  Lombardia,  della  Marca  e 
»  della  Romagna,  sotto  debito  di  giuramento  e  di  fedeltà, 


—  133  — 
che  pubblicamente,  e  privatamente,  e  di  buona  fedo,  pre- 
stino in  ciò  efficace  consiglio  ed  ajuto,  Che  Be  nel  termine 
stabilito  possedessimo  nella  Lombardia,  nella  Marca  e 
nella  Romagna  una  fona  maggiore  di  quella  che  presen- 
temente abbiamo,  noi  di  buona  lede  l'adopreremo  a  darvi 
esecuzione.  Che  se  noi  potessimo  fare  nei  termini  pre- 
scritti, ci  obblighiamo  a  darvi  compimento  giusta  il  pre- 
detto modo,  appena  che  lo  potremo,  (ino  a  che  la  rifab- 
bricazione sia  finita.  Che  se  qualche  persona  o  città  avrà 
l'arroganza  d'impedire  (e  con  queste  parole  alludeva  ai 
Cremonesi)  che  una  tal  cosa  si  faccia,  noi  glielo  proibi- 
remo per  l'obbligo  di  giuramento  e  di  fedeltà  con  cui  sono 
a  noi  legali.  Che  se  in  onta  di  ciò  si  opponessero,  noi  li 
porremo  al  bando  dell'impero,  finché  abbiano  data  una 
congrua  soddisfazione.  Che  se  tardassero  a  dare  la  ri- 
chiesta soddisfazione,  noi  comanderemo  alle  vicine  città, 
località  e  persone  che  pel  giuramento  e  la  fedeltà  che  a 
noi  devono ,  lor  facciano  guerra.  Similmente  faremo  giu- 
rare al  re  Enrico  nostro  figlio,  nel  termine  che  i  consoli 
di  Milano  prefiggeranno,  che  manterrà  Crema  di  buona 
fede,  come  noi  abbiamo  giurato  in  buona  fede  di  mante- 
nerla. Più  vi  aggiungiamo,  che  se  mai  fossimo  oltremonte, 
manderemo  messaggi  e  lettere  favorevoli  acciocché  venga 
prestato  il  dello  ajuto,  tolti  gli  impedimenti,  qualora  ne 
fossimo  richiesti. 

»  Nel  presente  diploma  abbiamo  creduto  di  scrivere  anche 
la  forma  del  patto  e  del  giuramento  che  i  Milanesi  deb- 
bono fare  a  noi  ed  al  figliuol  nostro ,  re  dei  Romani.  — 
Procureranno,  e  ciò  in  buona  fede  e  senza  frode,  accioc- 
ché noi  e  il  predetto  figliuol  nostro  manteniamo  l'impero 
in  Lombardia,  nella  Marca  e  nella  Romagna,  e  special- 
mente le  terre  della  contessa  Matilde.  Più,  ci  aduleranno 
in  buona  fede  a  ricuperare  anche  le  possessioni,  le  rega- 
lie, i  diritti  e  le  ragioni  che  noi  per  avventura  perdessimo 


—  124  — 
»  nelle  predette  terre,  cioè  in  Lombardia,  nella  Marca  e 
»  nella  Romagna,  e  nominativamente  in  quanto  alle  terre 
»  della  contessa  Matilde,  e  ciò  contro  tutte  le  città,  i  luo- 
»  ghi  e  le  persone  di  Lombardia,  della  Marca  e  della  Ro- 
»  magna  ;  colla  restrizione ,  che  se  noi  e  il  nostro  figlio  re 
»  Enrico  qualche  volta  (il  che  non  ci  permetteremo)  vo- 
»  lessimo  mancare  alle  concessioni  o  alle  promesse  fatte  alle 
»  persone,  alle  città,  o  luoghi  della  Società  (Lombarda) , 
»  come  è  contenuto  nel  tenore  della  pace  (di  Costanza),  i 
»  Milanesi  non  sieno  per  questo  giuramento  tenuti  ad  aju- 
»  larci...  (0» 

Molli  illustri  personaggi  sottoscrissero  il  diploma  impe- 
riale; ultimi  a  porre  il  loro  nome  furono  Domerto  Benzone, 
Rogiero  de  Osio  e  Benzo  Bonsignori,  consoli  cremasela. 

Federico  Barbarossa  possedeva  il  senno  dell'uomo  di 
stato,  ed  era  più  astuto  di  una  volpe  diplomatica.  Lucrava 
beneficando;  quando  credevi  allargasse  la  destra  a  conces- 
sioni, egli  con  profettevolissimi  patti  avvantaggiava  gl'inte- 
ressi dell1  impero.  Dalle  parole  del  riferito  diploma  appari- 
sce, a  quali  importantissime  condizioni  vincolasse  i  Milanesi, 
nel  mentre  permetteva  loro  la  riedificazione  di  Crema  Que- 
sta, insieme  ad  altre  concessioni,  fece  per  accaparrarsi  l'al- 
leanza di  Milano,  e  servirsene  nella  probabile  eventualità 
di  una  guerra  col  pontefice  o  coi  Siciliani.  Concludiamo: 
Crema  dovette  il  suo  risorgimento  ai  Milanesi  che  lo  do- 
mandarono, ed  a  Federico  Barbarossa  che  per  le  sue  mire 
politiche  vi  accondiscese. 

È  dunque  falso  che  Barbarossa  abbia  ordinata  la  rico- 
struzione di  Crema,  onde  punire  i  Cremonesi  del  non  aver 
mandati  ambasciatori  a  Milano  a  rallegrarsi  dell' incorona- 
zione e  delle  nozze  del  suo  figlio  Enrico.  Ciò  asserirono 


(ì)  Vedi  il  diploma  nell'opera  del  Puricelli,   intitolata  Monumenta  Basi- 
lica; aììibrosiance. 


—  125  — 
Galvano  Fiamma  e  Donato  Bossio  che  trassero  nel  mede- 
simo errore  Terni,  Fino  ed  alcuni  altri  cronisti,  errore  che 
originò  dall'avere  spostatigli  avvenimenti  dall'ordine  crono- 
logico in  cui  li  dovevano  collocare.  Il  Fiamma,  e  coloro  clic 
lo  seguirono  troppo  confidentemente,  posero  l'incoronazione 
e  le  nozze  del  re  Enrico  air  anno  1184,  mentre  si  celebra- 
rono unitamente  a  Milano  addì  27  gennajo  del  118G,  come 
provano  Muraioli  e  Giulini  colla  testimonianza  di  molti  cro- 
nisti contemporanei  a  quell'avvenimento  il).  Perciò  quan- 
do si  celebrarono  le  nozze  di  re  Enrico,  l'imperatore 
aveva  già  acconsentila  la  ricostruzione  di  Crema,  e  già  da 
parecchi  mesi  se  ne  praticavano  i  lavori.  È  però  vero  che 
i  Cremonesi  si  astennero  dall' intervenire  alle  feste  nuziali, 
e  fu  appunto  una  dimostrazione  del  loro  dispetto,  offesi  ed 
indignali  ch'erano  profondamente  perchè  Barbarossa,  ad 
istanza  di  Milano  e  senza  loro  consenso,  avesse  ridonato  ai 
miseri  Cremaschi  la  patria. 

I  Cremaschi  diedero  mano  a  rialzare  la  cittadella,  tre 
mesi  circa  dopo  che  Barbarossa  vi  aveva  con  solenne  istro- 
mento  acconsentilo.  L'imperatore  volle  inaugurare  la  rico- 
struzione di  Crema  con  is'arzoso  cerimoniale  ;  addì  7  mag- 
gio del  1185  recossi  nella  terra  nostra  seguito  da  un  codazzo 
d'illustri  personaggi,  fra  i  quali  il  figlio  Enrico,  il  genero 
marchese  di  Monferrato,  i  consoli  e  l'arcivescovo  di  Milano. 
Federico  si  compiacque  designare  di  propria  mano  il  cerchio 
delle  nuove  mura;  lo  allargò  per  comprendervi  gli  attigui 
borghi,  volendo  che  la  risorgente  cittadella  acquistasse  mag- 
giore estensione.  Fu  quello  pei  Cremaschi  un  giorno  di  così 
viva  esultanza,  che  è  più  facile  figurarsi  che  descrivere. 
S'inalberarono  gli  stendardi  imperiali,  intrecciati  alle  in- 
segne di  Milano,  Brescia,  Bergamo,  Piacenza,  tutte  città 


(1)  Muratori  negli  Annali  d'Ilalia,  e  Giulini  nella  Storia  di  Milano. 


—  126  - 
amiche  dei  Cremasela  (*).  Sul  volto  di  Barbarossa  splendeva 
un  sorriso  di  affabilità ,  di  benevolenza;  onde  i  Cremaschi 
in  quel  giorno  dimenticavano  i  paliti  oltraggi,  lo  strazio  or- 
rendo che  aveva  fatto  della  loro  terra  e  dei  loro  figliuoli. 
Il  marchese  di  Monferrato,  per  darci  anch' egli  un  segno 
di  simpatia,  donò  il  suo  stemma  al  nostro  Comune:  rap- 
presenta un  cimiero  con  due  corna  di  cervo  nella  corona, 
con  un  braccio  nel  mezzo  che  sostiene  una  spada,  ed  è 
ancora  oggidì  lo  stemma  della  città  di  Crema. 

Cinque  giorni  appresso  (12  maggio),  l'imperatore  con 
pubblico  istromento  sanciva  la  libertà  del  popolo  cremasco, 
investendolo  dei  feudali  privilegi  che  appartenevano  già  ai 
conti  di  Camisano,  prima  che  per  sospetto  di  fellonia  ve- 
nissero spogliati  del  dominio  di  Crema.  Neil' istromento  fi- 
gurano quali  testimoni  parecchi  cittadini  cremaschi;  Caglata 
Guinzoni,  Castello  de  Castelli,  Acursio  de  Vigoni,  Gruenzio 
Dondoni  e  Zilio  Benzoni,  giudici  di  Crema;  un  Isacco  de' 
Ginoldi ,  podestà  di  Crema;  Pielrobuono  Cusatro  e  Rodolfo 
de  Caglata,  notari,  e  molli  altri  Milanesi  e  Bresciani.  Ac- 
cettarono rinvestitura  delle  comunali  franchigie  cinque  cit- 
tadini rappresentanti  del  popolo  cremasco,  ed  erano:  Ben- 
zone  ed  Alessio  de  Sabini,  Ottone  Gambazocco,  Nero  de 
Rivoltella  ed  Alberto  di  S.  Vi>At2). 

Ad  ajulare  i  nostri  padri  nella  riedificazione  di  Crema, 
vennero  molti  Piacentini  e  Milanesi;  s'incominciarono  i  la- 
vori recingendo  il  suolo  della  cittadella  con  fosse  e  con  trin- 


(i)  Le  insegne  del  nostro  Comune  sembra  che  fin  d'allora  fossero  di  colore 
bianco  e  rosso  come  le  milanesi.  Ciò  desumiamo  dal  Terni  ,  il  quale  vaga- 
mente rammentò  il  giorno  della  riedificazione  di  Crema  con  le  seguenti  pa- 
role :  «  Augurio  veramente  dai  cieli  quaggiù  regolato,  che  in  giorno  di  Mar- 
»  te,  solennità  di  S.  Vittore,  con  le  insegne  di  ardente  sincerità,  con  la 
»  spata  in  mano  fosse  la  terra  nostra  riedificata.  1  Cremaschi  per  memoria  di 
»  quello  gratissimo  giorno  tolsero  per  patrono  S.  VUture.  » 

12)  Vedi  il  Documento  alla  lettera  A. 


—  187  - 
oee,  onde  potersi  difendere  da  qualsivoglia  aggressione.  E 
fu  provvido  consiglio,  giacché  pensale  come  i  Cremonesi 
strepitassero  vedendosi  ghermito  il  terreno  ch'essi  presu- 
mevano poter  a  buon  diritto  tiranneggiare  perpetuamente. 
L'ira  che  li  rodeva,  manifestarono  con  aporie  e  replicate 
dimostrazioni  a  Barbarossa,  tanto  eh* egli  deliberò  rispon- 
dere con  le  armi  alle  dispettose  dimostrazioni.  Nella  pri- 
mavera delFanno  1186,  l'imperatore  fattosi  condottiero 
delle  milizie  bresciane,  milanesi,  piacentine  e  cremasene, 
invose  il  territorio  di  Cremona,  prese  non  poche  terre  e 
castella,  e  trovata  resistenza  in  Castel  Manfredo,  lo  asse- 
diò, lo  distrusse.  Allora  i  Cremonesi  s'affrettarono  a  chieder 
pace  a  Federico,  la  quale  ottennero  per  opera  del  loro  ve- 
scovo Siccardo,  che  lasciò  scritto  nella  sua  cronachelta: 
Anno  Domini  MCLXXXVI ,  ìmperator  quoddam  Castrimi 
Cremonensium  quod  Manfredi  nomine  vocabatur,  omnìno 
dextruxit.  Sed  alidore  Domino }  per  meum  minislerium 
fada  est  Inter  imperatorem  et  cives  meos  reconcilialio  'M 
Cremona,  la  fedelissima  alleata  dell1  imperatore ,  che  se 
ne  giovò  a  schiacciare  Milano  e  Crema  ,  chi  avrebbe  pen- 
sato dovesse  poi  venir  domata  dalle  legioni  milanesi  e  cre- 
masene capitanate  dallo  stesso  imperatore?  Non  crediate 
perciò  fosse  sincera  ed  abbia  durato  lungo  tempo  la  tene- 
rezza della  Casa  Sveva  verso  i  Cremaschi.  Nell'anno  1188 
Federico  propose  da  giudicare  a'  suoi  ministri  se  l'isola  Ful- 
cheria  appartenesse  ai  Cremaschi  o  fosse  una  regalia  del- 
l' impero.  Dicemmo  già  -]  che  non  ci  venne  fatto  di  poter 
determinare  con  esattezza  l'estensione  di  quest'isola,  tante 
volle  rammentata  nelle  cronache  lombarde  :  è  nondimeno 
certo  che  abbracciava  lungo  tratto  del  territorio   cremasco, 


(I)  Presero  uà  obbaglio  il  Terni  ed  il  Fino  che  anticiparono  d'alcuni  anni 
questa  sconfitta  de'  Cremonesi. 

(i)  Vedi  il  capitolo  primo  di  questa  storia. 


—  m  — 

e  che  la  città  nostra  n  era  la  capitale.  Quando  Federico 
Barbarossa  V  anno  1160  donò  l'isola  Fulcheria  a  Tinto  de 
Tinti ,  celebre  architetto  cremonese  ,  ne  designava  il  con- 
fine settentrionale  a  Pontirolo ,  il  meridionale  a  Pizzighet- 
tone.  I  ministri  scelti  da  Federico  per  decidere  se  V  isola 
Fulcheria  dovesse  considerarsi  come  proprietà  dei  Crema- 
schi ,  o  piuttosto  una  regalia  dell1  impero,  non  esitarono  a 
giudicarla  regalia  imperiale,  e  nominarono,  quali  formanti 
parte  dell'isola,  venti  villaggi  del  Cremasco  situati  tra 
l'Adda  e  il  Serio!1).  Per  questa  sentenza,  Barbarossa  rito- 
glieva ai  Cremaschi  la  giurisdizione  di  una  buona  parie 
del  loro  territorio,  egli  che  due  anni  prima  aveva  concesso 
con  formale  scrittura  al  nostro  Comune  la  signoria  di  tutto 
il  distretto  cremasco  e  sue  pertinenze.  Vero  è  che  Federico 
impartendo  ai  Cremaschi  la  signoria  del  loro  territorio 
avea  taciuto  dell'isola  Fulcheria,  ma  essendo  questa  com- 
presa nel  territorio  nostro  occorreva  forse  di  farne  parola? 
Diresti  quasi  che  Federico  omettesse  pensatamente  di  no- 
minarla, per  tenersi  in  serbo  un  cavillo  con  cui  appropriar- 
sela in  appresso.  Fatto  è  che  i  Cremaschi,  saputa  la  sentenza 
dei  ministri  imperiali,  l'ebbero  per  un  gioco  di  perfidia; 
indignatisi  altamente,  erano  per  sollevare  all'imperatore  le 
loro  rimostranze,  se  non  ne  fossero  stali  distolti  dai  Milanesi. 
Morto  Federico  Barbarossa  (111)0),  e  successogli  nel  trono 
il  tìglio  Enrico,  questi  perfidiò  ai  Cremaschi  più  sfacciata- 
mente ancora  del  genitore.  Cedette  Crema  e  tutto  il  suo  ter- 
ritorio in  feudo  ai  Cremonesi ,  con  un  diploma  che  dalla 
Germania  spedì  a  Cremona  [*h  Novella  servitù  sovrastava  ai 
Cremaschi ,  ma  anche  questa  volta  sorsero  campioni  della 
loro  libertà  i  Milanesi.  Nel  mentre  Enrico  VI  violava  in 
Italia  le  promesse  falle  dal  genitore  con  solenni  trattati , 


(1)  Vedi  il  Documento  B. 

(2)  Vedi  il  Documento  C. 


—  129  — 
Milano  e  Cremona  annodarono  in  Lombardia  due  leghe  fra 
di  loro  nemiche:  Cremona,  aderendo  alla  tortuosa  politica 
dell'imperatore;  Milano,  volendo  si  mantenessero  intatte  le 
franchigie  concesso  da  Barbarossa  ai  singoli  Comuni.  Coi  Cre- 
monesi associavansi  Lodigiani,  Comaschi,  Pavesi  e  Berga- 
maschi; eoi  Milanesi,  i  Bresciani  ed  i  Cremaschi.  Si  Nonne 
alle  anni.  Nell'anno  11  Di  i  Bresciani  ruppero  i  Cremonesi 
in  una  sanguinosissima  battaglia,  che  le  cronache  lombarde 
chiamarono  della  mala  morie,  perchè  quasi  tutte  le  milizie 
di  Cremona  vi  perirono,  quali  trucidate,  quali  affogate 
nell'Oidio.  E  nell'anno  medesimo  Cremaschi  e  Milanesi, 
invaso  il  territorio  bergamasco ,  vi  espugnarono  Corte- 
nuova ,  arsero  Romano,  e  parecchi  altri  paesi.  Fiaccati  da 
tanti  disastri,  i  Cremonesi  non  poterono  nell'anno  1192 
far  valere  sul  terreno  cremasco  i  feudali  diritti  ond' erano 
investiti  dall'imperatore  Enrico  VI.  Nell'anno  successivo 
(1195)  i  Cremonesi,  ristorate  le  forze  loro,  tentano  la  ri- 
scossa: unitisi  coi  Lodigiani,  irrompono  nel  territorio  di 
Milano;  ma  i  Milanesi  corrono  solleciti  ad  affrontare  presso 
l'Adda  l'inimico,  lo  vincono,  ed  abbelliscono  la  vittoria  fa- 
cendo copioso  numero  di  prigionieri. 

Nel  giugno  dell'anno  119o  l'imperatore  Enrico  VI  tro- 
vandosi a  Como,  per  assecondare  i  Cremonesi  confermò 
loro  con  solenne  cerimonia  l'investitura  del  feudo  di  Crema. 
Sulla  piazzetta  vicina  a  Porta  Torre  consegnò  colle  proprie 
Etani  ai  deputati  di  Cremona  la  lancia  ed  il  gonfalone:  indi 
recatosi  alla  piazza  del  duomo,  dichiarò  pubblicamente  d'a- 
ver conferita  ai  Cremonesi  la  signoria  di  Crema  e  dell'isola 
Fulcheria  (l).  Poco  dopo,  Enrico  abbandonando  la  Lom- 
bardia, incaricò  Giovanni  Lilla  d'Aquisgrana  di  portarsi  a 
Cremona ,  e  mettere  quel  Comune  in  possesso  della  giuri- 
sdizione di  Crema  e  dell'isola  Fulcheria.  Ma  tutte  queste 

(4)  Vedi  il  Docuraent.j  D. 


—  130  - 

formalità,  per  quanto  sembrassero  minacciose,  non  valsero 
ad  intimorire  i  Cremaschi  :  tenerissimi  della  loro  libertà, 
forti  dell'alleanza  con  Milano  e  con  Brescia,  ricusarono  di 
piegar  il  collo  ai  Cremonesi:  onde  Giovanni  Lilia,  non  sa- 
pendo in  qual  altro  modo  ridurli  all'obbedienza  dei  Cre- 
monesi, fulminò  il  bando  dell'impero  contro  i  Cremascbi 
e  contro  i  Milanesi  ed  i  Bresciani  loro  alleati (ll.  Allora  Mi- 
lano s'accorse,  come  per  voler  sostenere  la  libertà  dei  Cre- 
massi corresse  pericolo  di  dover  cozzare  con  Enrico  VI  : 
risoluta  nondimeno  d'affrontarne  lo  sdegno,  ed  assumere 
la  difesa  delle  minacciate  franchigie  dei  Comuni  Lombardi, 
pensò  di  fortificarsi  con  poderose  alleanze  Nel  luglio  del 
1195  si  cercò  di  far  rivivere  la  lega  lombarda:  convocossi 
un  congresso  a  Bormida,  ove  Milano,  Brescia  e  Crema  rin- 
novarono i  giuramenti  di  reciproco  soccorso  con  Verona, 
Mantova,  Modena,  Bologna,  Faenza,  Reggio,  Padova,  Pia- 
cenza e  Gravedona  i2).  In  questo  modo  Milanesi,  Cremascbi 
e  Bresciani  provvedevano  alla  sicurezza  della  minacciata 
libertà  lombarda:  prepar  avansi ,  ove  occorresse,  a  guer- 
reggiare un  imperatore  che  in  Ilalia  si  era  reso  schifoso  e 
per  le  spergiurate  promesse,  e  per  gli  atroci  supplizi  coi 
quali  insanguinò  la  Sicilia. 

Nel  settembre  dell'anno  medesimo  (1195)  Milanesi  e  Cre- 
monesi si  azzuffarono  di  nuovo  presso  l'Oglio,  in  una  terra 
della  l'Albera:  anche  questa  volta  la  vittoria  arrise  ai  Mi- 
lanesi. Nell'anno  successivo  (1196)  Enrico  VI  ritornato  in 
Lombardia,  soggiornava  a  Milano:  fece  buon  viso  ai  Mila- 
nesi, mostrando  d'essersi  dimenticalo  come  il  suo  ministro 
Giovanni  de  Lilla  gli  avesse  un  anno  innanzi  posti  al  bando 
dell'impero,  insieme  coi  Cremaschi  e  coi  Bresciani.  Ma  vo- 
lendo pur  giovare  in  qualche  modo  alla  sua  favorita  Cre- 

(4)  Vedi  il  Documento  E. 

(2)  Annali  dy  Italia  del  Muratori. 


-  18!  — 
mona.  Melasse  con  lusinghiere  parole  i  Milanesi  a  renderle 
i  prigionieri.  Da  quell'anno  cessarono  per  un  po' di  tempo 
le  ostilità  fra  Milanesi  e  Cremonesi,  e  Crema,  scrive  il  Giu- 
lia! (*),  restò  nella  sua  prima  libertà. 

Vedemmo  quanto  sangue  costò  ai  Cremonesi  la  perti- 
nacia di  voler  la  terra  nostra  sottoposta  al  loro  dominio,  e 
come  fallissero  i  loro  tentativi  per  gli  efficaci  soccorsi  clic 
ci  prestarono  i  Milanesi  :  ora  torneremo  sul  discorso  della 
riedificazione  di  Crema  ,  e  toccheremo  del  modo  con  cui 
era  costituito  il  suo  politico  regime. 

II  pensiero  di  Barbarossa  di  serrare  nel  recinto  delle 
nuove  mura  gli  attigui  borghi,  avvantaggiò  d'ampiezza  la 
risorgente  cittadella  ,  dilatandola  in  ogni  parte  fuorché  a 
settentrione.  Quivi  il  suolo,  essendo  allora  coperto  da  vasta 
palude,  impedì  di  allargare  il  circuito  delle  mura.  Furono 
i  Veneziani,  sul  finire  del  secolo  decimoquinlo,  che  aggran- 
dirono Crema  anche  dalla  parte  settentrionale ,  compren- 
dendo nella  città  quello  spazio  di  terreno  ch'ora  si  vede 
oltre  la  roggia  Crema,  dai  monastero  vecchio  di  Santa 
Chiara  fino  alla  Porta  Ombriano  [*\ 

Primo  lavoro  dei  Cremaschi  fu,  come  dicemmo,  di  mu- 
nire la  terra  loro  di  fosse  e  di  trincee  che  li  schermissero 
dagli  assalii  dei  Cremonesi,  i  quali  infatti  non  ommisero  di 
molestare  i  nostri  padri  nel  mentre  lavoravano  rifabbri- 
cando le  loro  abitazioni,  sicché  tratto  tratto  erano  costretti 
ad  interrompere  i  lavori  per  impugnare  la  spada  e  difen- 
dersi. ISel  1190  s'incominciò  a  cinger  Crema  con  grossis- 
sima  muraglia  dì  cinque  teste  \3' ,  opera  gravissima  che 
richiedette  a  compirla  nove  anni.  L'anno  1199  Crema 
aveva  rialzate  le  robuste  sue  mura,  ed  era  bello  vederle 
coronate  all'intorno  di  venti  e  una  lorricelle  o  torrioni, 

(1/  Storia  di  Milano. 

(2)  Fino  ,  Storia  di  Crema. 

«3;  Pietro  Terni.  Storia  di  Crema. 


—  13c2  — 

costruiti  alla  foggia  di  que'  tempi  :  a  ciascun  torrione  fu 
imposto  un  nome ,  quale  rammentava  i  più  clamorosi  av- 
venimenti dell'  assedio ,  quale  toglievasi  dalle  famiglie  che 
vi  tenevano  davvicino  le  loro  abitazioni  (n.  «Fabbricarono 
»  ancora  a  man  destra  della  Porta  di  Serio  alcuni  molini 
»  cinti  di  muro  e  di  fosse,  per  assicurarli  dai  Cremonesi 
»  che  molte  volte  gli  dettero  il  foco  e  saccheggiarono.  Ed 
»  aggiunsero  una  porla  più  di  quelle  che  prima  avevano , 
»  che  di  Ponte  Fario  fu  domandata  ,  ma  non  era  Porta 
»  principale  ,  anzi  era  sottoposta  alla  Porta  di  Pianengo , 
»  e  si  domandava  Posteria  &).  » 

Prima  ancora  che  la  fabbrica  delle  mura  venisse  recata 
a  termine,  i  quattro  quartieri  della  cittadella,  formati  dalle 
quattro  porte  principali,  vennero  suddivisi  in  altri  più  pic- 
coli ,  che  si  domandarono  Vicinanze  :  sommavano  a  venti- 
sette ,  ciascuna  assunse  un  nome  ,  la  maggior  parte  quello 
delle  famiglie  più  ragguardevoli  che  vi  abitavano.  La  Porla 
Ombriano  comprendeva  quattro  Vicinanze  che  nominaronsi 
degli  Spoldi,  dei  Fabbri,  dei  Bonsignori,  dei  Pojani.  Delle 
Vicinanze  di  Porta  Pianengo,  ch'erano  sei,  tre  presero  il 
nome  dai  Caglali ,  dai  Guinzoni ,  dai  Beccaria.  Così  fra  le 
Vicinanze  di  Porta  Serio  contavansi  quelle  dei  Civerchi , 
Altieri,  Conti  di  Palazzo,  Draghi,  Barni ,  Guaruieri.  A 
Porta  Ripalta  v'erano  le  Vicinanze  dei  Meleguli,  dei  Gan- 
diui,  dei  Terni,  dei  Conti  di  Qffanengo ,  dei  Toli ,  degli 
Spoldi ,  e  dei  capitani  di  Rivoltella.  Le  altre  sette  Vici- 
nanze furono  chiamate  S.  Michele ,  Ponfure ,  Borgo  di  so- 
pra, Borgo  di  sotto  ,  il  Castelletto  e  la  Piazzai3).  Vedrassi 
in   appresso  per  quale  scopo  venisse  la  nuova  cittadella 

L    .  (1)  Pietko  Terni.  Storia  di  Crema. 

(2)  Idem. 

(3)  Di  quelle  Vicinanze  a'  nostri  giorni  conservano  ancora  i  nomi  alcune 
contrarle  ,  quali  sono  le  contrade  dei  Toli ,  degli  Spoldi ,  dei  cittadini  di  01- 
faueugo  ,  dei  Civerchi,  di  Ponfure,  di  S.  Michele  e  il  vicolo  dei  Bonsignori. 


1,).)     

scompartita  in  tanti  piccoli  quartieri  :  ora  facciamoci  a  ra- 
gionare del  suo  politico  ordinamento. 

Si  rammenti  innanzi  tutto  che  il  trattato  di  Costanza 
determinò  e  restrinse  i  diritti  della  supremazia  imperiale, 

ma  non  assolse  all'aito  i  Lombardi  dalla  dipendenza  verso 
l'impero  germanico.  Le  prerogative  degli  imperatori  si 
ridussero  ad  un  annuo  tributo  indeterminato,  ad  una  con- 
tribuzione detta  paraiìca  da  riscuotersi  al  loro  primo  venire 
in  Italia,  all'  improntare  col  nome  di  essi  le  monete  e  gli 
istrumenli,  al  difillo  di  confermare  i  magistrati  e  giudicare 
in  appello.  Del  resto,  veniva  assicurala  ai  Comuni  la  facoltà 
di  eleggere  i  magistrati ,  far  leggi  ,  munire  castelli  ,  con- 
chiuder guerra  e  pace ,  imporsi  tributi.  Mancò  allora  , 
come  sempre,  agli  Italiani  la  suprema  condizione,  V  indi- 
pendenza :  nondimeno  i  Comuni  profittarono  delle  accon- 
sentile larghezze  per  ordinarsi  in  repubblichette,  foggiando 
ognuna  separatamente  e  con  mirabile  varietà  la  propria 
costituzione. 

In  Crema  la  libertà  rifiorì  due  anni  dopo  il  trattato  di 
Costanza.  Accennammo  come  il  nostro  Comune  sia  stato 
investito  di  tutti  i  privilegi  che  un  tempo  possedevano  nel 
distretto  nostro  i  conti  di  Camisano,  e  come  Federico  Bar- 
barossa  ne  vergasse  il  diploma  d' investitura  addì  dodici 
maggio  del  11 80.  Da  quel  giorno  i  Cremaschi,  dopo  venti- 
cinque anni  di  servitù,  ripigliarono  il  libero  regime  della 
loro  terra  :  e  dipendendo  dall'  impero  poco  meglio  che  di 
nome  ,  modellarono  il  governo  della  patria  con  forme  re- 
pubblicane. Duolci,  che  per  difetto  di  memorie  non  ci  ven- 
ne fallo  di  conoscere  minutamente  le  istituzioni  che  i  Cre- 
maschi adottarono  nel  riordinare  a  repubblichelta  il  loro 
Comune  :  riferiremo  quel  poco  che  abbiamo  potuto  raggra- 
nellare nella  cronaca  del  Terni ,  ricorrendo  in  pari  tempo 
alla  storia  di  altre  città  lombarde  dove  giovasse  a  chiarire 
la  nostra. 


—  154  — 

Crema  reggevasi  con  governo  popolare.  I  municipi  ita- 
liani ,  quantunque  si  ordinassero  con  varietà  di  costitu- 
zioni ,  accordavansi  però  tulli  nel  riconoscere  la  suprema 
signoria  nell'assemblea  dei  cittadini,  la  quale  radunavasi 
a  suon  di  trombe  o  di  campana  :  vi  intervenivano  plebei 
insieme  e  nobili,  sommanti  talvolta  a  più  centinaja  o  mi- 
gliaia, i  quali  decidevano  a  voti  della  pace,  della  guerra, 
delle  alleanze  t1'.  Era  un  trionfo  delle  dottrine  democra- 
tiebe,  radicatesi  nel  governo  dei  Comuni  prima  ancora  che 
imperasse  Barbarossa.  Vedemmo  durante  l'assedio  di  Crema 
che  i  nostri  ambasciatori ,  prima  di  trattare  con  Federico 
la  pace  ,  comunicarono  al  popolo  il  colloquio  tenuto  col 
patriarca  d'Aquileja,  e  lo  consultarono  in  assemblea  sul 
partito  da  prendersi.  Il  popolo  cremasco  aveva  dunque 
parte  fin  d'allora  al  governo  della  patria,  associavasi  coi 
nobili  nel  reggerne  i  destini,  ed  è  mirabile  come  fra  le  due 
classi  non  rimanga  memoria  di  dissidj,  in  epoca  che  negli 
altri  Comuni  i  nobili  e  i  plebei  cozzarono  fra  di  loro  lunga- 
mente, aspramente.  Forse  che  il  popolo  di  Crema  per  vir- 
tuosa mansuetudine  e  santo  amore  di  patria  abbonisse  dai 
civili  sconvolgimenti,  o  piuttosto  perchè  i  nobili  nella  terra 
nostra  erano  meno  superbi  e  meo  prepotenti ,  pochi  es- 
sendo coloro  che  fruivano  larghe  prerogative  feudali.  La 
famiglia  dei  conti  di  Camisano  è  la  sola  che  nel  distretto 
cremasco  abbia  esercitalo  poderose  giurisdizioni  feudali ,  e 
che  siasi  mantenuta  potente  pel  lungo  tratto  di  circa  quat- 
tro secoli.  Vero  è  che  oltre  i  conti  di  Camisano  \Mì  v'erano 
nel  territorio  nostro  i  conti  di  Palazzo,  i  conti  di  Tortino, 
i  conti  di  Capralba,  i  conti  d'Ofìanengo,  i  conti  d' Azzano. 

(1)  G.  Cantù.  Sloria  universale. 

(2)  Apprendiamo  dalle  nostre  cronache  che  quando  a  Crema  dicevasi  i 
Conti  s' intendeva  accennare  ai  Conti  di  Camisano  :  a  questi  bastava  il  solo 
titolo  per  distinguerli  ;  tanto  dunque  erano  superiori  di  grado  e  di  potenza  a 
tutti  gli  altri  conti. 


—  ì:>;>  — 

i  conti  di  ('usalo,  i  capitani  di  Rivoltella:  ma  non  v'ha 
cenno  nella  storia  eh1  essi  si  rendessero  potenti.  Oltre  di 
che  molti  di  questi  conti,  lasciando  i  loro  castelli,  s'erano 
ridotti  ad  abitare  in  Crema,  ove  dimezzavano  col  popolo 
la  sovranità  del  Comune  e  l'onore  dello  prime  magistra- 
ture. Aggiungasi  che  a  fianco  di  queste  famiglie  di  conti, 
molle  altre  erano  sorte  in  Crema  di  possidenti  spettabili, 
le  quali  costituivano  la  nobiltà  minore,  ed  ebbero  grande 
ingerenza  nel  governo  del  Comune.  Per  non  accennarle 
tutte,  elicci  riescirebbe  impossibile,  ci  restringeremo  a 
rammentare  i  Benzoni ,  i  Castelli,  i  Gambazzocco,  i  Cau- 
dini, i  Cristiani,  i  Martinengo,  j  Caglati,  i  Toli,  gli  Spoldi, 
i  Fabbri,  i  Corte,  i  Medici,  i  Bonati ,  i  Civcrchi ,  i  Gogbi , 
gli  Osio,  i  Bassi,  i  Meleguli,  i  Guinzoni,  gli  Alfieri,  i  Bon- 
signori  :  famiglie  di  grave  autorità  nel  Com-une  di  Crema 
fin  dal  principio  del  secolo  decimosccondo,  ed  alle  quali 
in  appresso  si  aggiunsero  altre  non  poche  di  nobili  fuoru- 
sciti venuti  a  Crema  da  diverse  parli  d'Italia'1'.  Tutte  le 
succennate  famiglie  entravano  con  quelle  dei  conti  e  col 
popolo  a  formare  il  Concilio  generale  dei  cittadini,  od  as- 
semblea del  Comune,  in  cui  era  riposta  la  sovranità  della 
nostra  repubblichetta. 

Ad  esempio  di  Roma  antica,  le  repubbliche  italiane  eleg- 
gevano per  primi  magistrati  i  consoli ,  varj  di  numero  e 
scelti  per  suffragi.  Quali  delle  città  ne  contavano  due,  quali 
più:  Crema  ne  aveva  tre,  incaricati,  come  scrive  il  Terni, 
di  reggere  la  terra  ed  amministrare  ragione.  Oltre  i  tre 
consoli,  il  Terni  scopre  da  una  vecchia  scrittura  che  nel- 


(i)  Vennero  a  stabilirsi  in  Croma  i  Zurla  da  Napoli,  i  Gregori  da  Terni, 
i  Gennari  da  Napoli,  i  Clavelli  dalla  Romagna,  i  Benvenuti  da  Firenze,  i 
Vimereati  da  Milano,  gli  Oidi  dal  Lodigiano ,  i  Verdelli  dal  Bergamasco  :  e 
più  tardi  i  Bernardi  da  Piacenza,  i  Dattarino  da  Nola,  i  Tadini  dal  Berga- 
masco, i  Braguti  da  Bergamo,  i  Griffoni  da  S.  Angelo  di  Romagna,  e  parec- 
chie altre. 


—  m  — 

Tanno  1190  v'erano  a  Crema  due  podestà  (ì] ,  ai  quali 
sembra  venisse  affidata  la  speciale  amministrazione  della 
giustizia.  Forse  in  Crema,  come  in  altre  città,  si  volle  ripa- 
rare lo  sconcio  che  i  consoli  concentrassero  nelle  loro  mani 
l'amministrazione  del  Comune  e  la  giustizia:  a  Milano,  oltre 
i  consoli  maggiori,  nominavansi  i  consoli  di  giustizia,  i  primi 
destinati  al  Comune,  i  secondi  ai  giudizj. 

Certo  è  che  nelle  costituzioni  delle  repubbliche  lombarde 
nulla  v'era  di  stabile.  Lo  straniero ,  fomentando  e  mante- 
nendo destramente  le  scissure  fra  cillà  e  città,  impediva  che 
i  Comuni  ottenessero  la  quiete  interna,  quindi  che  formas- 
sero una  durevole  struttura  dei  loro  governi.  E  peggio  an- 
cora procedettero  i  negozi  dei  Comuni  coll'introdurvisi  le 
gelosie  fra  nobili  e  plebei,  poi  quelle  malaugurate  parti  di 
guelfi  e  ghibellini ,  che  le  città  con  intestine  discordie  la- 
ceravano. Scompigliale  da  fazioni  inferocite,  implacabili,  le 
repubblichelte  italiane  rendevano  immagine  dell'infermo, 
che  non  trovando  posa  sopra  alcun  fianco,  col  continuo  ri- 
volgersi or  da  questo  or  da  quel  lato  cerca  schermo  al  suo 
dolore;  perciò  mutavano  replicatamene  le  loro  costituzioni, 
e  sempre  cercavano  di  rifoggiare  con  nuovi  ingegni  il  go- 
verno. Né  andò  guari  che  a  .capo  dello  Stato  moltissime  città 
italiche  posero  un  podestà,  affidandogli  il  potere  esecutivo: 
magistratura  che  quando  fu  loro  imposta  da  Barbarossa, 
esse  abborrirono  e  disdegnarono.  Ma  poi  la  risguardarono 
quasi  un  istituzione  benefica,  e  quasi  un  unico  rimedio  a 
reprimere  i  tumulti  cittadini.  Il  podestà  doveva  essere  /b- 
rasticro  (adopero  il  vocabolo  di  quel  tempo),  cioè  di  città 
italiana  libera  ed  amica  ;  aveva  potere  illimitato,  o,  come 
lo  chiamarono,  di  sangue;  innanzi  d'entrare  in  ufficio  do- 
veva giurare  d'uscirne  dopo  un  anno,  né  partirsi  dalla  città 
se  prima  non  si  fosse  sottoposto  al  sindacato  dei  magistrali 

(1)  Terni.  Storia  di  Crema,  lib,  3.° 


-  137  — 
del  Comune.  Anche  a  Crema  si  creò  questa  carica  di  no 
podestà  forestiero,  sembra  però  non  così  presto;  il  Terni 
notò  IVrcivallo  Mandcllo,  Milanese,  podestà  ili  Crema  Tan- 
no i^Si,  Federico  de  Guazioni  Tanno  1507,  e  vari  altri  nel 
secolo  decimoqaarto,  prima  che  la  città  nostra  cadesse  in 
potere  ilei  Visconti. 

Sul  finire  del  secolo  decimosecondo,  oltre  i  tre  consoli 
maggiori,  v'erano  in  Crema  ventisene  consoli  minori,  che 
a'  nostri  giorni  si  direbbero  capitani  della  guardia  cittadina. 
Minacciali  continuamente  dalle  scorrerie  dei  Cremonesi, 
dovettero  i  Cremaseli*!  provvedere  alla  sicurezza  della  loro 
cittadella.  Ne  organizzarono  la  difesa  suddividendola,  come 
dimostrammo,  in  ventisette  Vicinanze,  e  deputando  a  cia- 
scuna Vicinanza  un  nobile  per  capo,  col  nome  di  console 
minore.  Quando  per  aggressione  di  nemici  la  patria  era  in 
pericolo,  gridavasi  all'armi,  ed  allora  ciascuno  dei  venti- 
selle  consoli  minori  doveva  raccogliere  il  popolo  della  sua 
Vicinanza,  guidarlo  alle  mura,  guarnire  i  ventun  torrioni, 
le  quattro  Porte,  la  Posteria  di  Ponfure,  la  piazza.  Prov- 
vida e  sapiente  istituzione!  come  quella  che  educava  tutti 
i  cittadini  alle  armi-,  ed  affidava  alla  custodia  del  popolo  il 
palladio  della  sua  libertà,  acciochè  lo  difendesse  coi  vigorosi 
petti,  e  col  sagrificio  del  proprio  sangue.  I  consoli  minori 
crearonsi  subito  dopo  che  fu  Crema  riedificata,  ma  non 
sappiamo  fino  a  qual  tempo  sieno  durali  a  tutelare  colTuf- 
ficio  loro  la  sicurezza  della  nostra  cittadella. 

Altra  magistratura  della  repubblichelta  cremasca  era  il 
cancelliere,  che  ripartiva  le  imposte  del  Comune  sui  citta- 
dini delle  quattro  Porte  ;  verso  la  metà  del  secolo  decimo- 
terzo era  cancelliere  Ternino  Terni,  cui  successe  Manfredo, 
anch' egli  de'  Terni. 

Le  cronache  cremasene  non  accennano  con  quali  leggi 
si  amministrasse  giustizia;  nel  silenzio  dei  cronisti,  cre- 
diamo di  non  iscostarci  gran  fatto  dal  vero  asserendo  che 


—  158  — 
i  Cremaschi  a  que'  tempi  si  regolavano  con  le  consuetudini, 
le  quali  formulavansi  e  venivano  sanzionate  nelle  ordinanze 
municipali,  ed  erano  un  bizzarro  accozzamento  di  leggi  ro- 
mane e  di  barbariche.  Però  le  romane  prevalevano  sulle 
barbariche,  avvegnacchè  i  Comuni  si  studiassero  d'accomo- 
dare la  loro  legislazione  allo  spirilo  di  libertà  ond' erano 
originati.  Noteremo  come  i  governi  municipali,  per  quanto 
s'informassero  a  democrazia,  non  avevano  spianata  ogni  dis- 
uguaglianza fra  i  diversi  celi  di  persone:  i  feudatarj  e  il 
clero  avevano  leggi  e  fori  speciali,  né  tenevansi  obbligati 
ad  obbedire  alle  ordinanze  del  Comune;  e  le  plebi  dei  vil- 
laggi, a  differenza  di  quelle  delle  città,  non  avevano  voce 
nelle  pubbliche  deliberazioni,  anzi  durava  ancora  sul  finire 
del  secolo  decimosecondo  lo  sconcio  dei  servi  della  gleba  l-*>. 
Nel  seno  stesso  del  Comune  alcune  famiglie  mantenevano 
ancora  delle  prerogative  che  accennavano  a  prevalenza; 
così  in  Crema  i  conti  di  Camisano,  tuttoché  spogliali  degli 
antichi  poteri  feudali,  avevano  il  diritto  d'entrare  in  città 
per  una  porta  di  loro  uso  esclusivo,  praticatasi  in  uno  dei 
torrioni.  I  conti  di  Camisano,  scrive  il  Terni,  ebbero  la  po- 
steria nelle  mura,  segno  di  maggiore  autoritade.  Insomma, 
i  Comuni  lombardi,  anche  dopo  il  trattato  di  Costanza,  per 
quante  franchigie  avessero  conseguito  ,  non  raggiunsero  tut- 
tavia né  la  piena  libertà  politica,  né  la  piena  libertà  civile. 
Non  la  civile,  avvegnacchè  non  vi  fosse  l'uguaglianza  di 
tutti  i  cittadini  innanzi  alla  legge  che  il  Comune  emanava; 
non  la  politica,  imperocché,  come  già  avvertimmo,  non 
si  erano  onninamente  francali  dalla  dipendenza  verso  l'im- 
pero. 

(1)  Il  Terni  riportò  un  istromento  dell'anno  1187  con  cui  certo  Visconte 
vendette  vasti  poderi  sul  Cremasco  :  vi  si  legge  come  il  venditore  cedendo  ai 
compratori  le  sue  terre  con  tutte  le  annesse  ragioni,  si  riservava  il  diritto  sui 
vassali  :  prceter  vassalos  quos  non  vendimus  imo  nobis  reservamus.  —  Storta 
di  Crema,  lib.  3.° 


—  189  — 

Prima  di  proseguire  col  nostro  racconto,  diremo  corno 
Pietro  Terni  ci  ubbia  nella  su;i  cromica  conservati  parecchi 
ìsii'omcnii  risguardanti  vendite  fatte  di  poderi  e  pezzi  di  terra 
nel  distretto  cremasco,  dai  quali  apprendiamo  come  per 
tenuissimo  prezzo  s  alienassero  i  terreni  nella  seconda  metà 
del  secolo  duodecimo.  L'anno  1170  comperassi  un  prato  a 
Rivoltella  di  pertiche  nove  e  nove  tavole  per  trenlacinque 
soldi  imperiali;  Tanno  1179  uno  di  Rivoltella  comperò  per- 
tiche 20  di  terra  per  soldi  40  imperiali;  un  conte  d'Azzano 
nel  1190  comperò  pertiche  40  in  Azzano  per  lire  quattro 
e  un  soldo  imperiali.  E  due  altri  islromenti  riportò  il  Terni, 
ove,  quantunque  dalle  espressioni  non  apparisca  abbastanza 
determinata  l'estensione  dei  poderi  che  si  alienavano,  tut- 
tavia vi  si  scorge  che  per  poche  lire  imperiali  si  vendettero 
latifondi  vastissimi  (*\  Avvertite  che  la  lira  imperiale,  se- 
condo il  ragguaglio  che  ne  fece  il  dottor  Carlo  Cattaneo, 
rappresentava  allora  nominalmente  una  quantità  di  metallo 
corrispondente  a  ventidue  franchi  circa ,  e  il  soldo  e  il  da- 
naro erano  in  proporzione  come  adesso.  Si  badi  però,  sog- 
giunge il  Cattaneo,  che  il  metallo  a  que  tempi  aveva,  in 
confronto  delle  altre  merci,  un  valore  assai  grande  (*), 


(i)  Terni.  Storia  di  Crema,  lib.  3.° 

(2)  Carlo  Cattaneo.    Discorso  sull'agro  lodigiano  e  cremasco    inserito    nel 
Politecnico. 


—  140  — 


DOCUMENTI 


Documento  A. 

Atto  solenne  con  cui  Federico  Barbarossa  concede  ai  Cremaschi  la 
libertà,  redatto  in  Crema  il  12  maggio  dell'  anno  1185. 

«  In  nomine  Domini  Patris  etFilii  et  Spiritus  Sancti,  amen,  anno 
»  ejusdem  millesimo  centesimo  octuagesimo  quinto  die  XII  maij,indictio- 
j»  ne  III,  inpraesentia  Gualphredi  de  Turricella,  et  Arvisii  Vesilicensis 
»  Judicum  Curia?  Imperatoris  Federici ,  et  Jamphosii  Oliva?  et  Ducis 
n  Avoritii  Saxoniche  militum,  et  Conciliarum  Curia?  Imperatoris  cum  li- 
n  gno  quod  in  sua  tenebat  manu.  Federicus  Dei  gratia  Romanorum 
»  Imperator  et  semper  Augustus  investivit  dominos  Benzonum  et  Ale- 
»  xium  de  Sabino  et  Ottonem  Gambazochen,  et  Nigrum  de  Rivoltella,  et 
»  Albertum  deS.  Vito,  omnes  de  Crema,  ad  partenti  et  utilitatem  Commu- 
»  nis,  et  universitatis  hominum  Castri  de  Crema,  beneficii  nomine,  nomi- 
»  native  de  omnibus  honoribus,  et  omnibus  directis,  et  juribus,  et  actio- 
n  nibus  ,  et  rationibus  ,  comunantiis  ,  piscationibus  ,  usibus  aquarum  , 
»  aqueductibus ,  advocariis  Ecclesia?  seu  Ecclesiarum,  et  duelli  facien- 
»  dis  et  ordinandis,  et  judicandis,  et  omnibus  decimis  et  juribus,  et 
»  actionibus  pertinentibus  comitibus  de  Camisano  in  castro ,  et  ca  stro 
»  et  muro,  et  nomine  illius  Castri,  et  de  omnibus  terris  cultivatis  et 
»  inculti vatis ,  et  stantibus  in  dicto  Castro  de  Crema ,  et  extra  illud 
«Castrimi  infinita,  et  territorium  dicti  Castri  de  Crema,  et  ejus  finita 
»  nomina  benefitii,  quas  res  tenebant  Comites  de  Camisano,  vel  eorum 
t>  antecessores ,  illas  videlicet  res  spectantes  ,  et  omnia  j  ura  qua?  spe- 
»  ctare  dignoscentur  regaria?  Imperatoris,  et  de  omnibus  terris  cultivatis, 
»  et  ineultivatis  ,  et  honoribus  et  juribus  pertinentibus  Comitibus  de  Ca- 
»  misano,  et  territorio  et  finita  Castri  de  Crema,  et  de  omnibus  emanci- 
«  pationibus  seu  manumissionibus  faciendis,  et  consentendo,  et  auctori- 
*  tatem  prestando  eis  faciendis ,  et  de  omnibus  hasreditatibus,  et  illorum 
n  qui  defuncti  fuerint  in  Castro,  et  extra  Castrum  de  Crema,  et  ejusjuris- 


—  141  — 

-  dictionè,  et  de  omnibus,  hsereditatibm  et  Buccessionibus  sino  logitinio 
»  bserede  interibunt,  et  in  consentiendo  mulieribus  et  minoribua  in  re- 
«  bus  sxii^  alienandis  onm  militate,  in  consulta  mnlierìbxui  faciendia. 

-  Ita  ut  ammodo  in  antea,  Cfommune  et  unÌYereitas*etbomines  Castri  de 

-  Crema  qui  nune  rant,  et  prò  temporibus  erunt,  habeant,  teneant  et 
r  possideant  beneficiario  nomine  omnia  pra&dicta,  et  omnia  alia  jura 

-  spectantia  dictia  Comitibos  Camisani  regariaa  imperatoria  in  eo  Ca- 
stro et  ("anta  et  territorii  Creme,  cum  ipsi  juraverint fidelitatem  ipsi 
«  Domino  Imperatori,  et  omnibus  aliisfuturis  Imperatoribus,  et  Bimiliter 

•  fidelitatem  tacere  debent  universi  bomines  mine,  et  prò  temporibus 
n  babitaverint  in  piantato  Castro  CremaB,  nullius  juris  seu  investituris, 
p  factis  et  faciendis  in  Comitibus  de  Camisano,  vel  eorum  antecessori- 
»  bus  vel  successoribus  inutilis,  iueficax,  et  nullius  momenti  et  eficacia3 
n  sit ,  et  esse  debeant  irrita  et  cassa,  et  hoc  factum  est  quia  elicti  Co- 
r  mites  de  Camisano  non  observaverunt  fidelitatem  Imperiali  Majesta- 
»  ti,  et  contra  fidelitatem  venerunt  et  fecerunt,  quia  sic  inter  eos  pla- 
»  cuit  et  conventum.  Actum  est  hoc  felieiter  in  praedieto  Castro  de 
r>  Crema  super  fossato  illius  Castri  et  ab  hoc  fuerunt  rogati  Eogerius 
r.  Vesconte,  Paganus  de  la  Turre,  Ugo  de  Camerano  de  civitate  Me- 
»  diolani  •  Gotio  de  Gambara  et  Bonapas  Zaba  de  Brixia  rogati  tes- 
»  tes,  etc,  etc.  ». 

(Questo  documento,  conservatoci  dal  Terni,  venne  per  la  prima 
volta  pubblicato  dal  Bacchetti  nelle  annotazioni  al  libro  I  della  Storia 
di  A.  Fino.) 

Documento  D. 

Il  Giulini  ci  riportò  la  sentenza  dei  ministri  imperiali  che  giudica- 
rono l'isola  Fulcheria  una  regalia  dell'impero,  e  quei  ministri  espres- 
sero la  loro  decisione  con  le  seguenti  parole: 

«  Credit  Dominus  imperator  ,  et  veruna  est,  quod  insula  Fulcherii 
»  cum  omnibus  suis  pertinentis   est   Regalia.  Et  credit  quod  post  de- 

*  structionem  Cremai  dominus  Imperator  habuit  et  tenuit  ernia  hoc  or- 
»  dine,  habendo  plenam  jurisdictionem  et  dominium  locorum  infascri- 
«  ptorum,  videlicet  :  Azanum,  Torlinum,  Palatium,  Mons,  Vallianum, 
n  Bagnolum,  Clevum  utrumque,  Placianum,  salve  jure  Laudensium  quod 
n  habent  in  Placiano,  Capregnanega ,  Credaria,  Roveretum,  Mosca- 
»  cianum,  Monstodunum,  Gomedum,  Rivoltella  et  Rivolta,  Umbrianum, 
»  Sanctus  Laurentius,  et  Sanctus  Andreas,  et  totum  hoc  quod  est  extra 
r>  fossatum  et  suburbium  Crenaas.  »  —  Tanto  basta,  soggiunge  Giulini, 
a  provare  con  evidenza  che  l'isola  di  Fulcherio  altro  non  era  che  una 


—  U2  — 

parte  del  territorio  di  Crema  qui  minutamente  descritta,  e  che  in  essa 
non  entravano  le  terre  possedute  dai  Milanesi  fra  1'  Adda  e  l'Olio.  Ma 
noi  al  capitolo  primo  del  nostro  racconto  dicemmo  già  come  Federico 
Barbarossa,  infeudando  l'anno  1160  l'isola  di  Fulcherio  all'architetto 
cremonese  Tinto  de  Tinti,  ponesse  a  confine  dell'isola  medesima  Pon- 
tirolo  a  settentrione  ed  a  mezzodì  Pizzighettone. 


Documento    C. 

Riportiamo  il  diploma  con  cui  Enrico  VI  cedette  ai  Cremonesi  i 
suoi  diritti  imperiali  sopra  Crema  e  l' isola  Fulcheria,  il  qual  diploma 
togliemmo  dal  tomo  quanto  delle  Antichità  italiane  del  medio  evo 
del  Muratori. 

*  In  nomine  sanetoe  et  individuai  Trinitatis.  Henricus  Sextus  cli- 
»  vina  favente  clementia  Romanorum  Imperato:*  et  semper  Augustus. 
n  Eminentia  majestatis  Impera toriaa  cum  omnium  sibi  famulantium  ob- 
»  sequiis  digna  semper  beneficiorum  impensione  consuevit  respondere, 
**  ad  eos  tamen  uberiorem  liberalitatis  suai  muniflcentiam  consuevit  ex- 
n  tendere,  quos  pra3  aliis  purioris  fidei  ac  fcrventioris  devotionis  costantia 
n  sibi  propensius  et  intensius  reddit  commendatos.  Ea  propter  noverit 
n  universorum  fidelium  Imperli  tam  praesens  oetas  quam  successimi  po- 
»  steritas,  quod  nos  fidem  puram  et  devotionem  sedulam  dilectorum  fi- 
n  delium  nostrorum  civium  Cremonensium  nostra?  at  patris  nostris  Fri- 
»  derici  felicis  memoriae  Romanorum  Imperatoris  in  vietissimi  exhibitas 
»  celsitudini,  diligenti  circumspectionis  oculo  intuentes,  eis  et  Communi 
«  eorum  damus  et  concedimus  et  confirmamus  omnia  jura  qua?  habe- 
n  mus,  et  nobis  et  Imperio  pertiner.t  in  Castro,  vel  prò  Castro  Cremai 
«  et  ejus  pertincntiis,  sive  in  censu  librai  auri,  sive  in  expeditionibus , 
n  sive  in  jurisdictione  seu  districtu,  et  in  aliis  quibuscumque ,  et  loca 
»  universa  et  jara,  quae  habemus,  et  ad  nos  pertinent  in  Insula  Ful- 
»  kerii ,  et  in  aliis  locis  et  pertinentiis,  quae  habeat  vel  habuit ,  tene- 
»  bat  vel  tenuit  proememoratum  Commune  Cremonensium  et  Cremo- 
»  nenses  ante  reaedificationem  Cremai  citra  Serium  et  ultra  Serium:  et 
»  ea  quae  tenuit  secundum  quod  praememoratus  Pater  noster  illa  eis 
"  dedit  et  concessit  per  suum  privilegium  :  quae  omnia  loca  inferius 
n  scripta  sunt ,  sive  praedicta  j  ura  consistant  in  placitis,  bannis ,  fodris, 
n  collectis,  molendinis,  vadismolendinorum,  piscationibus,  venationibus, 
»  aucupationibus,  pascuis,  herbaticis,  terris  ,  aquis  ,  redditibus  terra- 
»  rum,  vel  aliis  obventionibus,  sive  in  expeditionibus  faciendis,  et  sicut 


—  1  45  — 

-  antedictua  Pater  noater  per  se  habuii  vel  per  Baofl  Nuntioe,  aive  in  qui- 

-  baacnmque  aliia.  Item  daraus  eia,  oedimua  et  mandamua  omnia  j  ara  et 

-  at/tioiu's,  qiue  baberaua  et  nobiBet  Imperio pertinent  nomine  prtedicto 

-  rum  omnium.  Va  damua  eifl  Lieentiam  et  parabolam  auctoritate  «o- 

-  atri  intronai  in  tezmtam,  privilegia  omnia  apud  Papienses  deposita, 

-  pertinentia  ad  Cremam,  Insalano  Fulkerii  et  ad  alia  loca  infrascri- 

-  pta,  quaa  ois  reddi  fecimua,  privilegio  noatro,  ut  eamdem  vini  lia- 
••  beant  et  firmitatem,  qnam  ab  initio  babuerunt,  confirmamna,  caaaan- 
••  bea  scriptum,  quod  Cremenaea  se  de  praedictia  habere  dicont  :  propo- 

■  Dentea  et  eonfitentea,  neque  noe,  neque aspe dictum  Patrem nostrum 

■  eis  hoc  umquam  conceasiase.  Ad  haec  prememoratia  Cremonenaibua 

-  lieentiam  damua  in  praedictia  locia  castra  et  munitionea  facere  ubi- 
li dunque  voluerint  inter  Aduam  et  Oleum,  et  incepta  refìcere  et  me- 
n  liorare.  Nomina  locorum,  de  quibus  mentio  praehabita  est,  sunt  haec  : 

-  Azanum,  Farinatum,  Capfalba,  Campesego,  Terzolascus,  Seregna- 
»  num,  Albernegum,  Pianengum,  Vageranum  :  et  hasc  sunt  ultra  Se- 
"  riunì.  Gabianum ,  Vidolascus ,  Casale  Runcengum ,  Camisianum, 
»  Botajanum,  Offanengum  unum  et  aliud ,  Fossanum,  Suave,  Ma- 
li deguanum  :  haec  sunt  citra  Serium  versus  Cremonam.  Ha3e  autem 
»  sunt  loca  in  Insula  Fulkerii  constituta  :  Falazum ,  Pignanum, 
a  Montes,  Vajnmn,  Bagnoli,  Clevus,  Cavregnanega,  Palazanum, 
»  Credaria,  Roveretum,  Muscazanus ,  Moutodanus,  Rivoltella,  Ri- 
a  volta ,  Umbrianus  :  base  sunt  in  Vavre.  Cremosianus ,  Trescore , 
r>  Casaletum,  Bordenacium ,  Quintauus,  Piranega  et  Torlinus.  Ha3c 
a  omnia  loca,  et  eis  pertinentia  cum  aliis,  qua?  praescripta  sunt ,  prae- 
n  dictibus  Cremonenaibua  et  eorum  (Communi  damus ,  concedimus , 
»  et  prieseutis  pagina?  scripto  roboramus.  Statuentes,  et  Imperiali  edi- 
n  cto  saneientes,  ut  neque  Archiepiscopi  aliquis,  neque  Episcopus, 
»  neque  Dux,  neque  Marchio,  neque  Comes,  nec  Capitaueus,  nec  Val- 

■  vassoi*,  neque  Rector  aliquis,  aut  Potestas  aliqua,  aut  Commune 
n  civitatis  aliquod,  aut  aliqua  denique  persona  parva  vel  magna,  sa3- 
a  cularis  vel  ecclesiastica  huic  Pracmaticae  sanctioni  nostra?  obviare , 
a  aut  aliquo  temeritatis  ausu  infringere  praesumat ,  aut  saspius  dictos 
a  Cremonenses,  et  eorum  Commune  in  omnibus,  qua?  dieta  sunt,  aliquo 
•'  Ueaionia  modo  perturbare  aut  molestare  attemptet.  Quod  qui  fecerit , 
r>  in  ultionem  tenieritatis  sua?  sexaginta  libras  auri  puri  componat,  medie- 
v  tatem  Camera?,  partem  residuam  personis  injuriam  passis.  Ceterum 
y>  ad  majorem  hujus  rei  evidentiam,  ac  firmius  et  stabilius  hujus  do- 
»  nationis  ,  concessionis  et  confirmationis  munimentum ,  fidelea  nostros 
a  Oddonem  de  Comite,  et  Albertum  Struxium  de  universis,  qua?  praame- 
»  morata  sunt,  nomine  Communis  Cremona?  investivimus,  et  hoc  ipsum 


—  144  — 

»  scriptum  nostrum  autenticnm  majestatis  nostrae  Bulla  aurea  jussimus 
»  communiri.  Cujus  rei  testes  sunt  Conradus  Maguntinas  sedis  Archie* 
»  piscopus ,  Henricus  Wormaciensis  Episcopus ,  Bertramus  Metensis 
»  Episcopus,  Hermannus  Monaseriensis  Episcopus ,  Baldewinus  Tra- 
»  jectensis  Episcopus,  Conradus  Dux  de  Rotemberc,  Comes  Albertus 
r>  de  Tagesberc ,  Comes  Sigebertus  de  Alsatia,  Bertoldus  de  Kuneges- 
n  bere,  Robertus  de  Durne,  Marquardus  Dapifer  de  Annewilre,  Hein- 
»  ricus  Pincerna  de  Lutra,  et  Conradus  de  Pizowithono. 

»  Acta  sunt  ha3canno  ab  Incarnatione  Domini  MCLXXXXII,  indi- 
«  ctione  X,  regnante  Domino  Henrico  Romanorum  Imperatore  Serenis- 
»  simo,  anno  regni  ejus  XXXII,  Imperii  vero  primo.» 

Documento   D, 

Diploma  con  cui  l'imperatore  Enrico  VI  conferma  ai  Cremonesi 
l'investitura  di  Crema  e  dell'  isola  Fulckeria  e  ne  gì'  immette  solen- 
nemente in  possesso. 

«  In  nomine  Domini  nostri  Jesu  Christi.  Anno  Dominicas  Incarna- 
»  tionis  MCXCV,  die  MartTs  ,  qui  fuit  sextus  intrante  mense  Junii , 
»  indictìone  XIII,  in  civitate  Cumana ,  in  Foro  Communis  praodictae 
»  civitatis,  non  multum  longe  a  palacio  Cumani  Episcopi,  seu  justa 
»  ipsum  palacium,  et  in  praesentia  Alberti  de  C'arcano ,  et  Jacobi  de 
n  Turri,  et  Bertari  de  Carrobio,  et  Martini  Fice,  et  Arialdi  de  Rivo, 
»  Cumanorum  civium,  et  Anzelii  de  Burgo  et  Roberti  Johannis  majoris 
»  de  Cremona  :  Dominus  Henricus,  Dei  gratia  Romanorum  Imperator, 
»  et  Rex  Siciliae  et  semper  Augustus,  dixit  aperto  hore ,  Investituram 
»  quam  fecerat  de  Crema  cum  Vexillo  et  Lancea,  ipsa  die  extra  portara 
»  de  Turri  prasdictaa  civitatis  'Ciunana?,  in  manum  Girardi  de  Johanne- 
y>  bono  et  Talamacii  de  Gaiboldis  et  Oddonis  de  Medolago,  Consulum 
»  civitatis  Cremonaa  ad  partem  Episcopatus  et  Communis  de  Cremona, 
»  se  ipsam  Investituram  fecisse  de  Crema  et  Insula  Folcherii,  cum  om- 
»  nibus  locis  et  territoriis  et  juribus  et  pertinentiis  eormn  in  integrum, 
n  prò  ut  continetur  in  privilegio  de  Cremona.  Et  ibi  continuo  dixit,  se 
»  prcecipere  Misso  suo,  ut  vice  sui  ponere  debeat  suprascriptum  Girar- 
»  dum,  vel  alium  Nuntium  recipientem  ex  parte  Episcopatus  et  Com- 
»  munis  de  Cremona,  in  possessionem  de  Crema  et  Insula  Folcherii , 
»  et  cum  omnibus  locis  et  territoriis  et  juribus  et  pertinentiis  eorum , 
»  prò  ut  supra  legitur ,  quia  sic  ei  placuit.  Et  ibi  interfuerunt  quam- 
»  plures  homines  Cunianas  civitatis  et  aliarum  civitatum  Italiaa  et  alia- 
»  rum  Proviutiarum. 

»  Ego  Amizo  Notarius  et  Judex  interfui  et  scripsi.  « 

(Tolto  dal  volume  IV  delle  Antichità  italiane  del  medio  evo  del 
Muratori.) 


—  U5  — 

Pori  MENTO   E 

Atto  ool  quale  Giovanni  de  Lflo  de  Asia,  legato  dell'imperatore 
Enrico  VI,  BOttopone  al  bando  dell'impero  Cremaachi,  Milanesi  e  Die 

soiani. 

w  Anno  ab  Encarnatione  Domini  nostri  Jesu  Christi  millesimo cen- 

■  tarìmo  nonageaimo,  indictione  tertiadecima,  die  Mercuri]  XIII  in- 
r  tirante  Jnnio,  in  Cremona,  in  publica  conciono  maxima,  Domnua 
-  Johannes  Lilode  Asia,  Missus  etCamerarius  Domini  Henrici  Impe- 

■  ratoris  ezeellentissimi  atque  b vietissimi,  posuit  et  misit  in  banno 
»?  Domini  Henrici  Imperatoria  Cremenses  et  Mediolanenses  et  Brixien- 
r>  ses,  et  omnes  alios  homines  qui  consilium  et  adjutorium  Cremensibus 
«  dederunt.  Et  ideo  misit  eos  Cremenses  in  bannnm  Domini  Impera- 
li toris,  quia  prohiberunt  prssdictum  Johannem  Missum  Domini  Im- 

■  peratoris  ire  ad  dandom  tenutam  Cremonensibua  de  Castro  Cremai, 
?»  guarnito  et  disguarnito,  et  virtute,  et  loeis  et   pertinentiis  :   et   quia 

■  noluerunt  obedire  praeceptis  prajdicti  Missi  Domini  Imperatoris. 
r  Ibique  fuerc  rogati  testes  comes  Lantehims,  Comes  Albcricus,  Co- 
r  ines  Girardus  de  Camixano,  Comes  Vibertus,  Guazo  de  Albrigoni- 
>»  bus ,  Guiscardus  de  Coniolo  de  Bergamo  ;  Comes  Albertus  de  Mar- 
»»  tinengo. 

»  Ego  Ubertns  Sacri  Palatii  Xotarius  intermi,  et  praecepto  supra- 
»  scripti  Domini  Johannis  Missi  invitissimi  Imperatoris  liane  cartani 
v  scripsi.  » 

(Tolto  dal  volume  IV  delle  Antichità  italiane  del  medio  evo  del 
Muratori.) 


10 


-  147  — 


CAPITOLO  QUINTO 


SECONDA   EPOCA    DEL    GOVERNO    MUNICIPALE. 


SOMMARIO. 

Crema  incendiata.  —  La  libertà  dei  Cremasela  viene  rassicurata  per  un  di- 
ploma di  Ottone  IV.  —  Altro  privilegio  di  Federico  II  ai  Cremaschi.  — 
Minute  guerre  dei  Comuni  fra  di  loro  :  i  Cremasela  parteggiano  ancora 
pei  Milanesi.  —  Guelfi  e  ghibellini:  origine,  movimento,  carattere  delle 
due  fazioni.  —  Crema  fu  citta  guelfa;  per  quali  ragioni.  —Famiglie  cre- 
masene divise  tra  guelfi  e  ghibellini.  —  l  Cremaschi  partecipano  alla  lega 
ordita  in  Lombardia  contro  Federico  II.  —  Sventure  dei  Collegali.  — 
Spinella  de' Medici,  capitano  delle  milizie  cremasche ,  soccorre  i  Mi- 
lanesi che  battagliavano  contro  Lodigiani  e  Pavesi.  —  Interregno  in  Ger- 
mania :  dissidii  e  turbolenze  in  Italia.  —  Prevalenza  della  fazione  ghi- 
bellina, sostenuta  da  Ezzelino  da  Romano.  —  Oberto  Pelavicino,  signore 
di  Cremona,  s'impadronisce  di  Crema.  —  Quanti  anni  durasse  il  governo 
del  Pelavicino  in  Crema.  —  Guelfi  e  ghibellini  che  si  osteggiano.— Ven- 
dette dei  guelfi  quando  rientrarono  in  Crema  coll'ajuto  delle  armi  torriane. 
—  I  ghibellini  espellono  i  guelfi  da  Crema,  ove  si  fa  proclamare  signore 
il  marchese  di  Monferrato.  —  Concordia  di  mille  anni,  stabilitasi  a  Milano 
tra  guelfi  e  ghibellini.  —  Rifabbrica  del  duomo  di  Crema.  —  I  guelfi 
espulsi  di  bel  nuovo  da  Crema  :  pace  di  S.  Colombano.  —  Il  guelfismo 
sì  rende  in  Crema  più  forte  :  i  Cremaschi  osteggiano  Matteo  e  Galeazzo 
Visconti.  —  Lega  contro  Matteo  Visconti  alla  quale  prende  parte  Ventu- 
rino  Renzoni.  —  1  Torriani  ricuperano  la  signoria  di  Milano  :  Venturino 
Renzoni  è  creato  capitano  del  populo  milanese.  —  Imprese  di  Venturino. — 
Enrico  VII  discende  in  Italia  e  viene  incoronalo  a  Milano.  —  Sua  politica 
per  riordinare  nelle  città  lombarde  la  pace.  —  Rinfiammansi  a  Crema 
l'ire  delle  fazioni:  Venturino  Renzoni  ,  capo  dei  guelfi,  discaccia  i  conti 
di  Fornuovo.  —  Superbo  conlegno  di  Venturino  Renzoni  ,  per  cui  si  pro- 
caccia la  nimicizia  di  Enrico  VII.  —  I  guelfi  cremaschi,  costretti  ad  esu- 
lare, s'uniscono  con  Guglielmo  Cavalcabue,  capo  dei  guelfi  Cremonesi.  — 
1  guelfi  si  fortificano  a  Soncino,  ove  sono  assediati  dal  conte  Ombergo  , 
generale  dell' imperatore.  —  Fine  miserabile  del  Cavalcabue  e  di  Ventu- 
rino Renzoni.  —  Cenni  sulle  virtù  militari  di  Venturino  Renzoni,  e  sulla 


—  148  — 

supremazia  ch'egli  esercitò  tra'  suoi  concittadini.  —  Morte  di  Enrico  VI!; 
anarchia  di  poteri  in  Italia.  —  Crema  si  assoggetta  al  protettorato  della 
Santa  Chiesa,  che  allora  risiedeva  in  Avignone.  —  I  guelfi  prevalgono  in 
Crema  sulla  nemica  fazione.  —  Rompesi  la  guerra  fra  i  Cremaschi  ed  i 
Visconti  di  Milano:  Pagano  Della  Torre,  patriarca  d'Aquileja,  é  mandato 
dal  pontefice  in  ajuto  dei  guelfi.  —  Galeazzo  Visconti  è  costretto  a  riti- 
rare le  sue  truppe  dall'assedio  che  avea  posto  a  Crema.  —  Nuove  zufTe 
fra  guelfi  e  ghibellini,  fra  i  Cremaschi  ed  i  Visconti.  —  Discesa  in  Italia 
di  Lodovico  il  Bavaro.  —  Lettera  di  Giovanni  XXIII  ai  Cremaschi,  con  la 
quale  rammenta  loro  di  avere  scomunicato  il  bavaro  imperatore.  — 
Crema  si  sottopone  volontariamente  a  Giovanni  re  di  Boemia.  —  Chi 
fosse  Giovanni  di  Boemia,  e  perché  si  diede  a  lui  la  balia  di  molte  città 
lombarde.  —  Come  il  re  boemo  perdesse  in  Italia  le  avute  signorie.  — 
Crema  figura  ancora  sottomessa  al  prottetorato  dei  pontefici.  —  Morto  Gio- 
vanni XXIII,  i  Cremaschi  si  assoggettano  ad  Azzo  Visconti.  —  Le  crona- 
che cremasene  narrano,  che  Azzo  Visconti  cedesse  la  signoria  di  Crema 
ai  Cremonesi,  e  che  questi  la  tenessero  per  tre  anni:  ciò  sembra  con- 
traddire con  altre  cronache.  —  Finisce  l'epoca  repubblicana  della  città  di 
Crema  :  considerazioni  in  proposilo.  —  Quando  i  Cremaschi  compilassero 
i  loro  statuti  municipali.  —  Cosa  in  generale  contenessero  gli  statuti  delle 
città  lombarde. 


L'anno  1205  Crema  bruciò  la  seconda  volta.  Fu  caso  o 
vendetta  di  nemici  ?  Le  cronache  cremasene  noi  dicono  W. 

Nel  1211,  imperando  Ottone  IV,  i  Cremaschi,  temendo 
nuove  molestie  dai  Cremonesi ,  perchè  non  era  ancora  ri- 
vocata  la  concessione  che  aveva  loro  fatta  del  territorio 
nostro  Enrico  VI,  pregarono  l'imperatore  a  riconoscere  la 
libertà  di  cui  godevano  ed  a  confermarla  con  sovrano  re- 
scritto. Ottone,  aderendo  ai  voti  dei  Cremaschi,  dichiarò 
con  un  diploma  &)  :  non  essere  Crema  con  tutto  il  suo  ter- 
ritorio dipendente  che  dall'impero:  annullata  qualunque 
investitura  ne  avessero  fatto  i  suoi  antecessori;  multalo  di 

<1)  Il  Fiameni,  nella  storia  di  Castelleone,  scrive:  «  L'anno  1204  fu  ab- 
»  bruciata  Crema  con  stratagemma  :  non  sapendosi  da  chi  ,  i  Cremaschi  so- 
•  penavano  essere  stati  i  luughi  vicini  dei  Cremonesi  causa  del  suo  incendio, 
»  pero  i  Caslelleonesi  stettero  con  gli  occhi  aperti  temendo  qualche  riscatto.  • 

(2)  Vedi  il  Documento  A. 


—  110  - 
cento  lire  d'oro  chiunque  si  arrogasse  diritti  giurisdizionali 
sul  terreno  cremasco.  Nel  medesimo  diploma  Ottone  esigeva 
che  i  Cremaschi  rinnovassero  il  giuramento  di  fedeltà  al- 
l'impero, pagassero  l'annuo  tributo  di  una  marea  d'oro  in 
ricognizione  dell'imperiale  supremazia,  non  istringessero 
alleanze  con  chi  si  fosse  senza  l' approvazione  degli  impe- 
ratori; di  più,  riservavasi  il  diritto  di  confermare  annual- 
mente l'autorità  dei  consoli  eletti  dal  popolo.  Così  Ottone  IV 
annientava  ogni  pretesa  dei  Cremonesi  o  d'altri  sul  nostro 
distretto.  I  Cremaschi  ne  tripudiarono  per  l'allegrezza,  e 
per  (re  giorni  fecero  tanti  fuochi  che  a  vederli  da  lungi 
purea  che  la  città  un'altra  volta  ardesse  il\ 

Federico  II,  successo  nell'impero  ad  Ottone  IV  (1214), 
concedette  anch' egli  amplissimi  privilegi  ai  Cremaschi;  e 
diede  loro  autorità  di  punire  i  malfattori  senza  che  v'in- 
tervenisse il  vicario  imperiale  ®\ 

Sul  principiare  del  secolo  decimoterzo  duravano  ancora  le 
gare  fra  le  città  di  Lombardia ,  né  si  può  ben  spiegarne  i 
particolari  motivi., Dalla  metà  del  secolo  dodicesimo  allo 
scorcio  del  tredicesimo,  l'Italia  settentrionale  non  ebbe  sto- 
rici contemporanei  :  nissuno  ci  ha  rivelato  minutamente 
le  impetuose  passioni  che  agitavano  quelle  discordi  repub- 
blichette,  e  quale  politica  adottassero  le  loro  assemblee,  i 
loro  magistrati.  Appena  troviamo  indicati  sopra  magre  cro- 
nachette  (quasi  tutte  vergate  da  monaci)  il  luogo  e  l'anno 
in  cui  seguì  la  tale  o  la  tal'altra  battaglia,  e  qualche  volta 
con  discordanze  nei  nomi  e  nelle  date.  Rapporto  alle  vi- 
cende della  città  nostra,  noi,  investigando  nelle  opere  del 
Muratori,  raccogliemmo,  che  i  Cremaschi  erano  ancora  al- 
leati dei  Milanesi  nel  1216  ;  che  ai  50  di  settembre  dell'anno 
medesimo  Milanesi  e  Cremaschi  incrociarono  le  armi  coi 


(1)  P.  Terni.  Storia  di  Crema. 
(8    Fino.  Storia  di  Crema. 


—  150  — 

Parmigiani  sul  Piacentino;  che  nel  1218,  Milanesi,  Gre- 
maschi ,  Lodigiani  ed  altri  alleati  accesero  un  sanguinoso 
conflitto  a  Gihello  presso  il  Po  con  Cremonesi,  Reggiani, 
Modenesi  e  Parmigiani.  Questa  fu  una  battaglia  combattuta 
con  singolare  accanimento  da  mezzogiorno  fino  a  mezza- 
notte, e  ne  uscirono  con  trionfo  i  Cremonesi  w. 

Durante  il  regno  di  Federico  II,  l'Italia  fu  ammorbata 
dalle  fazioni  guelfe  e  ghibelline  che,  moltiplicando  le  civili 
contese  spensero  in  non  molti  anni  la  libertà  dei  Comuni. 
Crema,  esempio  di  cittadina  concordia  fino  verso  la  metà 
del  secolo  tredicesimo,  divenne  anch'essa  campo  di  risse 
civili:  guelfi  e  ghibellini  per  più  di  due  secoli  la  scombu- 
jarono.  Incominceremo  adunque  dal  narrare  brevemente 
l'origine,  il  movimento,  il  carattere  di  queste  due  sciagu- 
rate fazioni. 

Ebbero  origine  e  nome  in  Germania  dalla  rivalità  dei 
duchi  di  Baviera  coi  duchi  di  Svevia,  potentissime  famiglie 
che  disputaronsi  la  corona  dell'impero  e  la  portarono  a 
vicenda.  Nell'anno  1125  Lotario  duca  di  Sassonia,  quando 
fu  eletto  al  trono  di  Germania,  cedette  il  ducato  di  Sassonia 
con  molli  altri  possedimenti  al  genero  Enrico  duca  di  Ba- 
viera. Ne  contrastò  la  cessione  Federico  il  Losco  duca  di 
Svevia,  onde  sorse  la  discordia  tra  le  due  case.  Pullularono 
in  Germania  partigiani  dell'una  e  dell'altra,  e  siccome 
Guelfo  era  il  nome  di  famiglia  della  casa  di  Enrico  di  Ba- 
viera, guelfi  si  dissero  i  suoi  fautori,  ghibellini  quelli  che 
parteggiavano  colla  casa  sveva,da  Gibelingh,  castello  che  i 
duchi  svevi  possedevano  nella  diocesi  di  Àugusburgo.  «  II 
fi  primo  grido  di  guerra  coi  nomi  di  guelfo  e  ghibellino  si 
*i  udì  nella  battaglia  di  Vinsbergh  in  Germania  (1137),  bat- 
»  taglia  che  diede  la  corona  a  Corrado  li  di  Svevia,  ossia 
♦i  dei  ghibellini  ^2).  n 

(1)  Muratori.  Annali  ci'  Italia. 

\2)  Gabriel  Rosa.  I  feudi  ed  i  comuni. 


—  151  — 

Dorava  a  quo' tempi  fra  il  papato  e  l'impero  la  gran  con- 
tesa intorno  alle  investiture  dei  beni  ecclesiastici,  contesa 
rincrudita  con  immenso  coraggio  da  Gregorio  VII.  I  Pon- 
tefici,  nella  (Serissima  lotta  colf  impero,  avendo  osteggiato 
la  casa  sveva  ossia  dei  ghibellini,  e  protetta  la  casa  lincila 
dei  duchi  di  Baviera,  ne  derivò  che  della  Chiesa  si  dices- 
sero fautori  i  guelfi,  nemici  i  ghibellini. 

Se  consideriamo  le  l'azioni  guelfe  e  ghibelline  quali  ori- 
ginarono in  Germania,  esprimenti  cioè  la  rivalila  di  due 
principesche  famiglie,  la  parte  guelfa  si  ramificò  ben  to- 
sto anche  in  Italia  per  la  parentela  dei  marchesi  di  To- 
scana coi  duchi  di  Baviera,  sicché  dapprincipio  la  fazion 
guelfa  in  Italia  dinolavasi  col  nome  di  marchesca.  Se  poi 
nel  conflitto  delle  due  fazioni  consideriamo  la  parte  che  vi 
presero  i  pontefici,  osteggiando  la  casa  sveva  o  ghibellina, 
allora  assumono  colore  di  guelfismo  tutte  quelle  città  lom- 
barde che  nel  secolo  dodicesimo,  con  a  capo  Alessandro  III, 
si  confederarono  contro  Federico  Barbarossa,e  conseguen- 
temente chiameremo  ghibellini  quei  Comuni  e  quei  signo- 
rotti italiani  che  ajutarono  Barbarossa  nell' opprimere  le 
terre  lombarde.  Ma  \eramcnte  questi  nomi  di  guelfo  e 
ghibellino  non  si  adottarono  in  Italia  a  distinguere  due 
nemiche  fazioni  che  sull'  incominciare  del  secolo  decimo- 
terzo, allora  appunto  che  in  Germania  le  parti  guelfe  e 
ghibelline  spegnevansi.  Risorte  con  più  feroce  accanimento 
le  inimicizie  dei  pontefici  contro  la  casa  sveva  quando  re- 
gnò Federico  li,  gl'Italiani  si  divisero  in  due  partiti:  il 
guelfo,  ossia  dei  pontefici;  il  ghibellino,  ossia  degli  imperatori. 

Qual'era  lo  scopo  delle  due  fazioni?  I  guelfi  rappresenta- 
vano la  resistenza  all'assolutismo  imperiale,  non  già  per 
eliminarlo  interamente  e  sostituirvi  una  schietta  indipen- 
denza italiana,  bensì  per  restringerlo  e  subordinarlo  all'au- 
torità del  papato.  Volevano  innalzare  a  maggior  gloria  d'in- 
dipendenza il  gonfalone  del  proprio  Comune;  volevano,  nel 


—  132  — 
centro  delle  loro  repubblichelle ,  sviluppare  le  acquisite 
libertà  con  forme  democratiche,  e  credevano  raggiungerne 
l'intento,  attemperando  la  supremazia  dell'impero  con  quella 
del  papato.  Quesla  febbre  di  democrazia,  queste  aspirazioni 
a  rendersi  meno  dipendenti  dalla  suprema  autorità  dell'im- 
pero, ripugnavano  ai  ghibellini;  le  accusavano  siccome  pro- 
vocatrici di  tumulti  popolari,  siccome  ostacolo  a  obesi  fon- 
dasse in  Italia  un  governo  abbastanza  robusto  da  renderla 
concorde  al  di  dentro,  rispettala  al  di  fuori.  Agognando 
così  il  buon  ordine  e  la  stabilità  di  un  governo  forte  in 
Italia,  i  ghibellini  studiavansi  di  consolidare  nella  nostra 
penisola  la  potenza  dei  re  di  Germania,  e  volevano  con 
questi  risuscitare  il  cadavere  dell'impero  romano.  Insomma, 
i  guelfi,  avversando  lo  straniero,  miravano  all'indipendenza 
italiana  senza  averne  concepito  un'  idea  perfetta,  e  per  con- 
seguirla si  sottomettevano  di  buon  grado  all'arbitrato  dei 
pontefici;  i  ghibellini  invece  tendevano  ad  unificare  l'Italia 
sotto  la  forma  di  una  poderosa  monarchia.  Non  e' impan- 
ceremo a  sentenziare  quale  dei  due  partiti  fosse  il  mi- 
gliore ,  imperocché  bisognerebbe  conoscere  ben  addentro  le 
disordinate  condizioni  degli  Italiani  in  que'  tempi:  ci  basterà 
riportare  in  proposito  il  giudizio  di  un  chiarissimo  scrittore 
moderno:  u  I  guelfi  ideando  la  teocrazia  si  mostrarono  più 
n  immaginosi,  probi  ed  utopisti;  i  ghibellini,  più  reali  e 
m  pratici,  ricordavano  che  le  società  sono  fatte  d'uomini 
»  e  per  uomini;  lo  spirito  democratico  dei  primi  declinava 
»»  alla  insolenza  individuale  e  alla  sregolatezza;  l'idea  orga- 
m  natrice  degli  altri  li  portava  alla  forza  e  alla  tirannide  (i).  » 
Alla  fazione  dei  ghibellini  s'accostarono  i  nobili  più  po- 
tenti che  ambivano  ricuperare  prerogative  feudali,  e  ante- 
ponevano di  obbedire  ad  un  imperatore  piuttosto  che  ad  un 
governo  di  borghesi.  Il  guelfìsmo  era  sostenuto  dalla  nobiltà 

(1)  Cesare  Cantù.  Storia  degli  Italiani. 


—  153  — 
minore  e  dalla  borghesia,  specialmente  dei  commercianti  e 
industriali:  la  plebe  serviva,  come  è  suo  costume,  ad  ambo 
i  partiti,  seguendo  chi  sapeva  meglio  guadagnarsela  con 
lusinghiere  parole,  e  pagarla  con  prommesse  di  protezione. 
Quindi  mal  non  s'appongono  coloro  i  quali  scorgono  nel 
partito  ghibellino  una  rea/ione  dell'abbattuta  aristocrazia 
feudale  contro  lo  spirito  popolare  e  commerciale  dei  mu- 
nicipi che  T  avevano  domata.  L'elemento  democratico  in- 
fatti si  era  sviluppalo,  più  clic  in  altre  città,  a  Firenze  ed 
a  Milano,  e  l'una  e  l'altra  furono   eminentemente  guelfe. 

Ma  col  volger  degli  anni  andò  tralignando  l'indole  dei 
parliti  guelfi  e  ghibellini;  questi  nomi  non  significavano  più 
Chiesa  ed  Impero:  erano  vessilli  di  sangue  che  nei  Comuni 
s'inalberavano  da  poderose  famiglie  quando  volevano  com- 
piere atroci  vendette,  o  salire  al  potere  calpestando  cada- 
veri di  liberi  cittadini. 

Crema  fu  città  guelfa  :  la  sua  storia  ne  rende  splendida 
testimonianza.  Dopo  aver  resistito  eroicamente  al  più  formi- 
dabile degli  imperatori  svevi ,  i  Cremaseli  associaronsi  nel- 
l' alleanza  che  parecchie  città  lombarde  formarono  contro 
Enrico  VI  (1195),  indi  a  quella  giurata  dalle  città  guelfe 
contro  Federico  II:  ed  ancora  sul  principiare  del  secolo 
decimoquarto,  il  guelfismo,  rappresentato  in  Lombardia  dalla 
famiglia  milanese  dei  Torriani,  trovò  sostegno  nei  Benzoni, 
antesignani  dei  guelfi  cremaschi. 

Non  è  difficile  comprendere  per  quali  motivi  abbia  in 
Crema  prevalso  il  guelfismo.  Disdegnosi  di  servitù,  i  Cre- 
maschi abborrivano  la  dinastia  sveva ,  come  quella  che  sa- 
grificò  ripetutamente  la  loro  indipendenza  all'ambizione  dei 
Cremonesi.  E  per  emanciparsi  dal  giogo  feudale  di  Cremo- 
na, per  difendersi  dalle  continue  aggressioni,  avendo  biso- 
gno di  un  forte  alleato,  Crema  ricorse  e  si  affratellò  a  Mi- 
lano, alla  cospicua  metropoli  che  in  quell'epoca  era  la 
rocca  dei  guelfi  e  della  libertà  in  Lombardia.  I  nostri  pa- 


—  \U  — 
dri  adunque  furono  guelfi,  perchè  importava  loro  assaissimo 
di  mantenersi  liberi.  Oltre  di  che  avvertiremo  che  la  fa- 
zione ghibellina  prese  più  salde  radici  nei  paesi  dove  gran- 
deggiavano famiglie  poderose  per  vasti  possedimenti ,  su- 
perbe per  la  memoria  delle  antiche  prerogative  feudali.  Di 
queste  magnatizie  famiglie,  le  quali  coll'aderire.  all'impero 
sognavano  di  far  rifiorire  la  potenza  e  la  gloria  dei  loro 
castelli,  una  sola  annidava  nel  territorio  cremasco  ed  era 
dei  conti  di  Camisano.  Le  altre  che  a  Crema  rappresen- 
tavano il  patriziato,  erano  pressoché  tutte  famiglie  di  pos- 
sidenti, la  cui  nobiltà  non  traeva  l'origine  da  un  diploma 
imperiale,  che  avesse  loro  concesso  il  privilegio  di  poter 
opprimer  legalmente  un  contado.  La  nobiltà  cremasca  at- 
tingeva il  suo  splendore  non  dalla  robustezza  delle  sue 
torri  feudali,  non  dal  numero  de' suoi  vassalli,  bensì  dal 
suffragio  popolare  che  le  affidava  le  prime  magistrature  del 
Comune,  e  meglio  ancora  dai  vigorosi  petti  con  i  quali  essa, 
ove  sorgesse  il  bisogno,  difendeva  la  libertà  dei  concittadini. 
E  qui  noteremo  di  volo  che  è  particolar  vanto  delle  città 
italiane  possedere  moltissime  prosapie  la  cui  nobiltà  ebbe 
un'origine  tanto  generosa;  è  questa  un'osservazione  che 
non  isfuggì  alla  penna  di  Cesare  Cantù  e  di  Carlo  Catta- 
neo (0:  così  balenasse  qualche  volta  al  pensiero  di  certi  pa- 
trizi indecorosamente  vanitosi ,  e  ne  togliessero  esempio  di 
virtù  cittadine  ! 

La  fazione  ghibellina  incominciò  ad  allignare  nel  terreno 
cremasco  verso  la  metà  del  secolo  decimoterzo;  ne  spiega- 
rono il  vessillo  i  conti  di  Camisano,  i  quali  coli' opulenza 
e  colle  numerose  clientele  di  loro  famiglia  procacciaronsi 
non  pochi  partigiani.  Capi  dei  guelfi  s'elevarono  i  Benzoni, 
famiglia  anch'essa  doviziosa  e  molto  riverita  in  Crema,  per- 
chè già  da  tempo  vi  occupava  le  più  onorifiche  magistra- 

(i)  Cesare  Cantù.  Storia  degli  Italiani.  Carlo  CattaìNeo.  Archivio  storico. 


—  tra  — 

uno.  Le  famiglie  nobili  si  divisero  in  (lue  partiti:  quali  ai 
dissero  guelfe,  e  favoreggiarono  i  Benzoni;  quali  ghibelline, 

e  si  unirono  ai  conti  ili  Camisano.  Nel  corso  della  storia  di 
Croma  appariscono  lineilo  le  famiglie  Viinereali ,  /urla, 
Terni,  Verdelli,  Goghi,  Alandoli,  Alfieri,  Piacenzi,  Marchi, 
Cusatri,  Benvenuti,  Gennarj,  Monticelli,  Della  Noce,  Marti- 

nengo,  Medici,  Patrini,  Obizi,  Castelli,  Braguti,  Hobalti,  e 
i  conti  di  Capralba.  Ghibelline  le  famiglie  de1  Guinzoni,  Gam- 
bazocco,  Tintori,  Guarini,  Bernardi,  Figati,  Alcbini,  Fre- 
cavalli,  Pojani,  Passerotti,  Scecbi,  Bassi,  Gandini,  Cristiani. 
Non  era  però  raro  il  caso  di  diserzioni  dall'uno  all'altro 
partito,  e  che  dell' istessa  famiglia  alcuni  s'attnippassero 
coi  guelfi,  altri  coi  ghibellini. 

Ripigliando  il  filo  del  nostro  racconto,  ci  trasporteremo 
ai  tempi  di  Federico  II  per  iscoprire  come  si  atteggiasse  la 
politica  dei  Crcmaschi,  a  fronte  dei  gravi  sconvolgimenti  che 
travagliarono  la  Lombardia,  imperando  il  nipote  di  Bar- 
barossa. 

Nel  1226  Milano  fece  rivivere  la  lega  lombarda,  alla  quale 
si  accostarono  le  città  guelfe  che  abbonivano  la  casa  sveva: 
scopo  della  lega,  guerreggiare  la  fazion  ghibellina  e  Fede- 
rico II,  cui  i  Milanesi  avevano  rifiutata  la  corona  d'Italia. 
I  deputati  delle  città  che  entravano  nella  nuova  alleanza 
convennero  a  S.  Zenone  sul  mantovano,  ove  nel  giorno  2 
di  maggio  (1226),  valendosi  di  un  capitolo  del  trattato  di 
Costanza  che  permetteva  ai  Comuni  di  formare  alleanze  in- 
dipendentemente dall'approvazione  imperiale,  rinnovarono 
i  patti  della  prima  lega  lombarda.  I  Cremaschi  non  inter- 
vennero a  quel  congresso,  forse  che  simulassero  di  rispet- 
tare la  condizione,  loro  imposta  da  Ottone  IV,  di  non  fare 
alleanze  senza  il  consentimento  degli  imperatori;  nondimeno 
le  cronache  di  quei  tempi  c'istruiscono  che  la  città  nostra 
si  mantenne  fedele  al  partito  antimperiale,  o  come  dicevasi 
allora  volgarmente  in  Italia,  partito  guelfo.  Le  simpatie  dei 


—  156  - 
popoli,  quando  è  il  cuore  che  le  governa,  non  mutano  facil- 
mente. Gli  animi  dei  Cremaschi  non  potevano  così  presto 
riconciliarsi  con  la  casa  sveva;  l'ira  di  Federico  Barbarossa 
li  ave*va  solcati  con  piaga  profonda  troppo  perch'essi  se  ne 
dimenticassero.  L'eccidio  di  Crema  da  lui  operato,  lasciò  nel 
popolo  rimembranze  dolorosissime, incancellabili:  i  più  vec- 
chi dei  magistrati  che  nei  tempi  di  Federico  II  reggevano 
il  nostro  Comune,  aveano,  fanciulli,  assistilo  al  supplizio 
della  patria;  i  più  giovani  erano  prole  dei  forti  che  sangue 
e  vita  immolarono  per  difendere  la  terra  natale.  Ed  i  se- 
polcri dei  martiri  della  patria  crescono  sempre  copiosa 
messe  d'ira  e  di  abborrimento  verso  le  famiglie  degli  op- 
pressori, eredità  che  le  generazioni  dei  vinti  conservano 
inviolata,  e  succedendosi  trasmettono  quasi  fedecommesso  ai 
più  tardi  nepoti.  Era  dunque  da  aspettarsi  che  i  Cremaschi 
si  accomunassero  con  le  città  delle  lega  guelfa  per  isfogare 
l'acerbissimo  odio  contro  la  casa  sveva;  infatti,  dalle  cro- 
nache nostre,  e  da  lettere  di  Onorio  III^  apprendiamo 
aver  Crema  aderito  alla  fazione  del  pontefice  e  delle  città 
guelfe,  comunque  non  fosse  intervenuta  a  S.  Zenone,  a  giu- 
rare i  patti  dell'alleanza. 

I  Cremaschi  insieme  ai  collegati  presero  le  armi  contro 
Federico  II  nel  1257,  anno  che  volse  infausto  alla  nuova 
lega  lombarda.  Addì  27  di  novembre  l'imperatore  assaliva 
d'improvviso  le  milizie  dei  confederati  presso  Cortenuova, 
e  scompigliavale  dopo  ostinatissima  pugna,  togliendo  ai  Mi- 
lanesi il  carroccio.  Sbigottite  pel  disastro  di  Cortenuova, 
parecchie  città  della  lega  si  sottoposero  volontarie  all'impe- 
ratore che ,  imbaldanzito  della  vittoria  ,  inlimava  al  popolo 
milanese  di  arrendersi  a  discrezione.  Milano  alla  superba 
intimazione  di  Federico  rispose  con  sentimenti  spartani,  e 
non  che  arrendersi,  disponevasi  a  soccorer  Brescia,  stretta 

(1)  Muratori.  Annali  d'Italia. 


—  187  — 
dall'  imperatore  con  barbaro  Bssedio.  Ad  onta  dello  sven- 
ture toccale  alla  lega  guelfa,  i  Cremaschi  perseverarono 
Dell'alleanza  dei  Milanesi  e  dei  Bresciani:  in  Crematosi 
raccolsero  e  si  riordinarono  le  sperperate  milizie  dei  colle- 
gati, che  dalla  città  nostra  corsero  poi  a  devastare  il  terri- 
torio di  Bergamo  onde  impedire  che  i  Bergamaschi  sussi- 
diassero Federico  nel  mentre  osteggiava  i  Bresciani.  Bre- 
scia, difesa  al  di  dentro  dal  coraggio  eroico  di  una  popola- 
zione guerriera,  aiutata  al  di  fuori  dai  Milanesi,  si  liberò 
dall'  assedio  di  Federico  dopo  circa  quattro  mesi  di  stu- 
penda rcsitenza. 

Correva  Tanno  1245,  quando  al  17  di  luglio  InnocenzoII, 
con  F  autorità  che  i  PonteGci  da  alcuni  secoli  s'arrogavano, 
depose  lo  scomunicalo  Federico  II  dall'impero.  Lo  svevo, 
per  ottenere  il  perdono  papale,  tentò  ogni  mezzo  ma  infrut- 
tuosamente :  il  vicario  di  Cristo  fu  inesorabile,  quindi  Fe- 
derico II  moriva  in  Pilglia  nel  1250  senza  aver  potuto  le- 
varsi di  dosso  l'anatema. 

Nell'anno  medesimo  (1250)  Crema  era  ancora  l'alleata 
dei  Milanesi.  Guerreggiavano  questi  contro  Lodigiani  e 
Pavesi,  e  presso  Lodi  Vecchio  si  trovarono  chiusi  da  ogni 
lato  dalle  falangi  nemiche.  Era  diffìcile  e  pericolosa  d'as- 
sai la  situazione  dei  Milanesi ,  e  perchè  non  rimaneva 
loro  aperta  alcuna  via  da  potersi  ritirare  ,  e  perchè  i  ne- 
mici li  soperchiavano  di  forze.  Si  era  già  acceso  il  combat- 
timento ,  allorché  in  soccorso  dei  Milanesi  giunsero  le  mi- 
lizie di  Crema,  guidate  da  Spinella  de  Medici,  concittadino 
nostro  ,  uomo  assai  celebre  nelle  armi  \%.  V  improvviso 
arrivo  del  Medici  pose  tanto  sgomento  Dell'  animo  dei  ne- 
mici che,  cessando  il  combattere,  si  ritirarono  issofatto:  e  i 


(1)  Fino.  Storia  di  Cì'ema. 

(1)  Giulini.  Storia  di  Milano.  Di  Spinella  de  Medici  fanno  onorevole  men- 
zit ne  anche  il  Curio,  Il  Terni  e  il  Fino. 


—  138  - 
Milanesi,  liberati  dal  periglioso  cimento,  senza  patire  al- 
cuna molestia  poterono  far  ritorno  alla  propria  città. 

Dopo  la  morte  di  Federico  II  vi  fu  un  interregno  di 
venti  e  più  anni  :  la  Germania  trascurò  i  suoi  interessi  in 
Italia ,  e  per  ben  settant1  anni  non  furono  veduti  venire 
nelle  terre  lombarde  imperatori  a  riclamare  i  loro  diritti 
di  supremazia.  Avrebbero  potuto  in  questo  tempo  le  no- 
stre repubblicbette  emanciparsi  totalmente  dalla  dipen- 
denza imperiale ,  e  rassodare  sopra  più  salde  basi  le  loro 
costituzioni.  Ci  pesa  il  dirlo:  gì' Italiani  banno  così  bell'oc- 
casione turpemente  sprecala.  Quando  mancò  la  necessità 
di  difendersi  dalle  pretese  dello  straniero,  essi  rivolsero 
contro  di  sé  medesimi  le  armi  ancora  ammaccate  dalle 
ascie  tedesebe,  insozzando  di  sangue  cittadino  il  santuario 
della  patria.  Furori  di  parti  guelfe  e  ghibelline ,  contese 
qua  e  là  divampanti  fra  nobili  e  plebei  ,  stemperate  ambi- 
zioni di  famiglie  prepotenti  acceselo  nelle  contrade  ita- 
liane il  fuoco  della  civile  discordia  :  ne  conseguirono  tu- 
multi popolari,  risse  sanguinose,  incendj,  esilii,  confische 
di  beni ,  scene  deplorabili  da  far  ridere  la  Germania  ,  se 
anch'essa  in  allora  non  avesse  avuto  in  casa  sua  serii 
motivi  da  piangere.  Finora  nel  corso  del  nostro  racconto 
mostrammo  come  per  egoismi  e  gelosie  municipali  duellas- 
sero i  Comuni  fra  di  loro:  ora  ci  toccherà  vedere  la  feroce 
insania  dei  parliti  spingere  Y  un  contro  V  altro  abilanti 
dello  stesso  Comune,  e  gli  odj  civili  nutrirsi  di  spietate 
vendette,  e  gl'interessi  della  libertà  sagriflcati  al  trionfo 
di  una  fazione.  Nel  tempestare  delle  civili  discordie,  citta- 
dini ambiziosi  si  arrogarono  nei  Comuni  poteri  illimitati; 
il  popolo  non  vi  si  opponeva ,  perocché  ,  spossato  dalle 
continue  turbolenze ,  finiva  col  preferire  al  procelloso  go- 
verno delle  fazioni  il  letargo  della  servitù  e  Y  obbedire  ad 
un  solo.  Originò  nel  secolo  decimoterzo  la  potenza  di  pa- 
recchie famiglie  sorte  a  dominare  in  varie  parti  d'Italia.  Si 


-  189  — 
(torti  deHe  oìtìIì  dissensioni  sgabello  ni  poterò  gli  Estensi, 
gli  Eizelini,  i  Pelavicioo,  i  Torrioni,  i  Visconti,  ed  altri, 
verificandosi  allora,  come  sempre,  la  sentenza  di  un  mo- 
derno Scrittore:  popolo  diviso  e  immoderato  è  buon  con- 
cio da  ingrassar  tiranni  '  . 

Verso  la  metà  del  secolo  deeimotcrzo  era  già  sparsa  nel 
suolo  cremaste  la  funesta  zizzania  delle  fazioni  guelfe  e 
ghibelline.  L'anno  12o8  prevalevano  in  Lombardia  le  forze 
dei  ghibellini  :  ne  era  sostenitore  Ezzelino  da  Romano  , 
animo  effe  r  a  Lo ,  mostro  di  barbarie,  che  la  storia  chiamò 
flagello  dell' uman  genere.  Ezzelino  aveva  un  allealo  in 
Oberto  Pclavicino ,  signore  di  Cremona  e  di  Piacenza ,  il 
quale  essendo  anch' egli  caldissimo  ghibellino  e  vago  di 
conquiste ,  soccorreva  colle  armi  Ezzelino  per  isparlire 
con  lui  i  frutti  delle  vittorie.  Ben  potete  figurarvi  come, 
per  conseguire  i  loro  ambiziosi  disegni,  questi  capi -parte 
s' adoprassero  scaltramente  a  soffiare  nel  fuoco  delle  civili 
discordie  che  già  divorava  le  città  lombarde.  Con  tali  arti 
Ezzelino  era  riuscito  ad  allargare  la  sua  autorità  da  Pa- 
dova a  Brescia,  e  divisava  di  stendere  il  feroce  artiglio  fin 
sopra  Milano.  I  Cremaschi  avevano  motivo  di  spaventarsi 
vedendo  P  immane  Ezzelino  ampliare  le  sue  conquiste  e 
maneggiarsi  per  impadronirsi  di  Brescia  :  nò  alla  di  lui 
crescente  grandezza  poteva  formar  di  contrappeso  la  città 
di  Milano,  perchè  lacerata  internamente  anch'essa  da  fa- 
zioni; Martino  Della  Torre,  che  vi  signoreggiava,  era  in- 
tento a  tenere  in  briglia  la  nobiltà,  contro  la  quale  egli, 
come  sostegno  del  popolo,  dovea  continuamente  cozzare. 

Per  siffatte  condizioni  Crema  versava  in  grave  pericolo, 
ed  il  partito  ghibellino  vi  prevaleva  :  quando  «  Uberto  Pe- 
»  lavicino,  signore  di  Cremona  e  di  Piacenza,  per  il  mezzo 
»  di  Buoso  di  Dovera ,  entrò  nel  mese  di  luglio  in  Crema 

(i)  N.  Tommaseo,  nel  suo  libro,  II  Duca  d'Atene. 


—  160  — 
»  con  le  genti  Cremonesi  e  cinquecento  fanti  della  Marca, 
»  e  pigliate  le  torri  e  fortezze ,  costrinse  il  popolo  crema- 
»  sco  a  giurargli  obbedienza  (1)  » .  11  Muratori  asserisce  , 
che  il  Pelavicino  fu  cbiamato  in  Crema  dai  Benzoni ,  e  col 
Muratori  si  accorda  il  Figati,  dicendo  che  nel  1258  Uberto 
Pelavicino  si  impadronì  di  Crema  per  opera  dei  Benzoni  &). 
Il  Fino  scrive,  che  i  Benzoni  e  loro  partigiani  consentirono 
all'entrata  del  Pelavicino.  Noi,  ad  onta  dell'autorità  del 
Muratori  e  del  Figati,  propendiamo  Dell'accogliere  piuttosto 
in  istretto  senso  l'espressione  del  Fino,  cioè  che  i  Benzoni, 
conosciuta  la  debolezza  della  loro  fazione ,  consentissero 
alla  signoria  del  Pelavicino  ,  ma  non  fosse  opera  loro  il 
procacciargliela.  Altrimenti  ci  tornerebbe  difficile  spiegare 
come  i  Benzoni ,  che  nel  seguito  della  nostra  storia  ci  si 
appalesano  costantemente  propugnatori  e  capi  del  guel- 
fismo  in  Crema ,  vi  abbiano  introdotto  il  marchese  Oberto. 
Nondimeno  qualche  arguto  ingegno  potrebbe  conciliare  la 
cosa,  dicendo  che  i  Benzoni ,  tutto  che  guelfi  ,  diedero  la 
patria  loro  in  balia  di  un  ghibellino  cremonese  per  sot- 
trarla al  pericolo  di  vederla  calpestata  da  un  tiranno  ben 
più  scellerato  qual  era  Ezzelino  da  Bomano. 

Oberto  Pelavicino,  fatto  signore  di  Crema ,  vi  discacciò 
i  guelfi  ,  vi  pose  a  podestà  un  patrizio  milanese  della  fa- 
miglia Mandelloi3).  Nell'anno  successivo  (1259)  fu  bandita 
in  Lombardia  la  crociala  contro  Ezzelino  da  Bomano  :  il 
marchese  Oberto,  rompendo,  per  sofferte  frodi,  l'amicizia 
d'Ezzelino,  si  congiunse  ai  guelfi,  disponendosi  a  guer- 
reggiare il  suo  antico  allealo.  E  perchè  si  temeva  che  Ez- 
zelino venisse  da  Brescia  ad  accampare  coli' esercito  sotto 
Crema,  il  Pelavicino  fu  sollecito  nel  fornire  la  nostra  citta- 
fi)  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  MuiiAToui.    Annali  d'  Italia.    —  Ippolito  Figati.  Cronachetta  cremasca 
manoscritta. 

(,3)  Giuliki.  Storia  di  Milano. 


—  164  — 
della  ili  grosso  presidio:  Ezzelino,  passato  l'Oglio  a  Pala/ 
zuolo,  portò  invece  la  guerra  oel  territorio  milanese.,  ed 
affrontatosi  col   nemico  a  Cassano,  rimase   mortalmente 
ferito. 

Nell'anno  12G0,  il  marchese  Oberto,  cui  Martino  Della 
Torre  a\ea  concessa  per  cinque  anni  la  balia  di  Milano, 
aggregò  le  milizie  di  Crema  con  le  sue  di  Cremona  ,  di 
Milano  e  di  Brescia,  e  le  mosse  contro  i  Piacentini  che  idi 
si  erano  ribellali'11.  La  vittoria  avendo  sorriso  alle  armi 
del  Pelavicino  ,  i  Piacentini  gli  dovettero  ripiegare  il  capo. 

Come  ed  in  qual  giorno  sia  cessata  in  Crema  la  signoria 
del  Pelavicino  non  si  può  con  esaltezza  determinare  :  le 
cronache  nostre  gli  attribuiscono  sci  anni  di  dominio . 
quindi  sarebbe  slato  spodestato  Panno  medesimo  (1264) 
in  cui  Filippo  Della  Torre  lo  costrinse  a  deporre  la  signo- 
ria di  Milano. 

11  marchese  Oberto  mancò  di  vita  Panno  12G9,  ridallo, 
dopo  la  signoria  di  tante  città,  in  assai  basso  stalo  l1).  1 
guelii  che  P abbonavano  ,  si  sforzano  di  paragonarlo  per 
empietà  e  barbarie  ad  Ezzelino  :  narrano  che  morì  scomu- 
nicato e  impenitente.  La  cronaca  di  Piacenza  invece,  dopo 
averlo  encomiato  per  affabilità  e  prudenza  d'animo,  ci  at- 
testa che  il  marchese  morì  con  grande  esemplarità  fra  le 
braccia  dei  religiosità. 

Le  cronache  non  ci  raccontano  in  qual  modo  il  Pelavi- 
cino abbia  Crema  governata.  11  Terni  ci  ha  riportali  alcuni 
documenti  dai  quali  scopriamo  che  all'epoca  del  suo  do- 
minio (1261)  i  cittadini  facevano  in  Crema  separatamente 
i  loro  consigli  e  statuti  per  ogni  Porta.  Se  dunque  per- 
me  Uè  vasi  ai  cittadini  di  radunarsi  in  separati  consigli ,  e 
dettare  gli  statuti  pel  proprio  quartiere,  argomentiamo  che 

(i)  Mcf.atoiu.  Annali  <V  Italia. 

[%)  Ctonie.  Placent.  Turno  XVI  Rerum  italkarum  del  Muratori. 

il 


—  162  — 
il  marchese  Oberto  non  abbia  esercitato  nella  città  nostra 
un  potere  assoluto:  vacando  allora  l'impero,  forse  egli  si 
arrogò  in  Crema  queir  autorità    di    supremo  dominio  che 
apparteneva  agli  imperatori. 

Spentala  signoria  del  Pelavicino, Crema  riebbe  la  libertà, 
se  pure  è  degno  di  questo  nome  lo  stato  di  una  repubbli- 
clietla  sempre  fortuneegianle  nell'  anarchia  delle  fazioni. 
Nel  1*275  cessò  in  Germania  l'interregno  col!' elezione  di 
Rodolfo  d'Àbsburgh,  il  quale  non  scese  mai  in  Italia  ,  non 
curandosi  gran  fatto  di  sostenervi  le  prerogative  imperiali. 
Due  anni  dopo  l'assunzione  al  trono  di  Rodolfo,  vennero  a 
Crema  un  suo  cancelliere  ed  un  legato  pontiGcio,  richieden- 
do, come  in  altre  città,  che  il  popolo  giurasse  obbedienza  ai 
precetti  della  Chiesa  e  fedeltà  all'  imperatore  (n.  La  mis- 
sione dei  due  legati  avea  per  iscopo  di  ammorzare  l'ire  dei 
partili  guelfi  e  ghibellini,  ma  fu  indarno,  perchè  sciagura- 
tamente divamparono  in  Crema  ed  altrove  per  molti  anni 
ancora. 

La  storia  di  Crema  negli  ultimi  trent'anni  del  secolo  de- 
cimoterzo, quale  ci  viene  rappresentala  dalle  cronache,  può 
stringersi  tutta  in  queste  parole:  guelfi  e  ghibellini  che  im- 
placabilmente si  osteggiano.  Quindi,  anziché  porci  sott'occhi 
quadri  svariati,  ci  riproduce  continuamente  le  slesse  vicis- 
situdini :  un  ostinato  accapigliarsi  dei  due  partiti,  e  avvi- 
cendate espulsioni,  e  ripetuti  ma  sempre  fallili  accordi,  e 
qualche  tirannello,  che,  ben  pasciuto  dell'aura  popolare  della 
sua  fazione  e  del  sangue  dell'avversaria,  giunge  a  padro- 
neggiare con  illimitato  potere  e  l'uno  e  l'altro  partito.  Dav- 
vero che  la  mente  nostra  si  stanca  di  rimanere  spettatrice 
di  un  dramma  il  quale  si  intreccia  unicamente  di  risse 
fraterne,  ed  ove  spesse  volte  non  puoi  comprendere  cosi 
a  un  tratto  i  viluppi  che  nascevano  dalla  sregolata  politica 

(1}  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  163  —    • 

dello  due  fazioni  ■' ,  Bieche  li  sorprendi  vedendo  i  Milanesi 
talvolta  alleali,  tal'altra  nemici  dei  Cremaschi;  e  Cremonesi 
e  Lodigiani,  un  lempo  ostinati  nemici  dei  Cremaschi,  unirsi 
poi  a  questi  sotto  la  bandiera  or  guelfa  or  ghibellina.  A  schia- 
rimento dei  fatti  clic  ci  accingiamo  a  narrare  premetteremo 
un'osservazione.  Le  sorli  dei  due  partili  fluttuavano  in 
Crema  continuamente,  e  Tessere  favorevoli  piuttosto  all'uno 
che  all'altro,  dipendeva  non  di  rado  dalle  vicende  di  Milano. 
Là  si  contrastavano  il  primato  due  famiglie,  i  Della  Torre 
ed  i  Visconti,  guelfi  i  primi,  ghibellini  i  secondi.  I  Milanesi, 
comunque  credessero  di  vivere  ancora  repuhblicamente,  in 
realtà  non  combattevano  più  per  la  libertà  e  gloria  del  loro 
Comune,  ma  per  decidere  se  avrebbero  obbedito  piuttosto 
ad  un  Visconti  che  ad  un  Della  Torre.  Nelle  sanguinose 
gare  di  quelle  due  famiglie,  le  quali  ambivano  ben  più  vasto 
dominio  che  il  milanese,  i  ghibellini  di  Lombardia  s'allearono 
coi  Visconti ,  i  guelfi  coi  Torriani ,  e  secondo  che  la  sorte 
delle  armi  Visconti  o  Torriani  favoreggiava,  ora  l'una  ora 
r  altra  delle  due  fazioni  prevaleva. 

Nell'anno  1277  Napo  Delia-Torre,  essendo  stato  sconfitto 
a  Desio  dall'arcivescovo  Ottone  Visconti,  dovette  cedere  a 
lui  la  signoria  di  Milano.  Ma  poi  volendo  i  Torriani  ricu- 
perare la  perduta  grandezza  ,  s' unirono  a  Lodi  con  altri 
Milanesi  fuorusciti,  disponendosi  a  guerreggiare  il  Visconti. 
1  guelfi  (-)  di  Crema ,  trovandosi  in  queir  anno  discacciati 
dalla  città  loro,  s'accoppiarono  aneli' essi  alle  milizie  dei 

(1)  Paolo  Emiliani  Giudici  scrive:  «  La  Storia  di  Lombardia  in  cotesti  anni 
»  procede  così  arruffona  sicché  riesce  impossibile  trovare  un  sito  comune  cui 
•  riannodare  gl'innumerevoli  fatti  che  la  compungono.»  —  Storia  politica 
dei  Municipi  italiani. 

(2)  Le  Cronache  di  Crema  asseriscono  che  i  guelfi  erano  esuli  dalla  patria 
fin  dal  giorno  in  cui  ne  li  aveva  discacciati  il  marchese  Pelavicino  ;  il  che 
<i  sembra  incredibile,  perocché  nei  venti  anni  che  trascorsero  dal  1258  al 
1278  non  mancarono  in  Lombardia  occasioni  propizie  al  guelfismo  per  riva- 
lere e   rifarsi  dei  patiti  disastri. 


—  164  — 

Torriani  ,  e  dopo  avere  con  ripetute  scorrerie  devastalo 
varie  terre  del  Milanese,  entrarono  a  forza  in  Crema  (1278). 
Sitibondi  di  vendetta,  appiccarono  il  fuoco  alle  case  dei 
principali  ghibellini,  e  perchè  soffiò  d'improvviso  un  impe- 
tuosissimo vento  ,  le  fiamme  si  dilatarono  orribilmente  ,  e 
buona  parte  della  nostra  cittadella  rimase  incendiata.  Non 
soddisfatti  del  guasto  arrecato  alla  patria ,  i  guelfi  espul- 
sero da  Crema  i  ghibellini:  solita  rappresaglia;  ma  il  trionfo 
dei  guelfi  non  ebbe  in  Crema  lunga  durata:  tre  anui  dopo 
prevalsero  ancora  i  ghibellini. 

L'arcivescovo  Ottone  Visconti,  allo  scopo  di  reprimere  i 
suoi  nemici  e  consolidarsi  in  potere,  aveva  affidato  il  go- 
verno di  Milano  al  marchese  di  Monferrato,  con  facoltà  di 
far  guerra  e  pace.  Essendo  l'arcivescovo  nel  1281  trava- 
gliato dai  guelfi  di  Cremona,  il  marchese,  per  abbatterli, 
divisò  di  valersi  di  Buoso  di  Dovera,  ghibellino  cremonese, 
e  dare  a  questi  la  signoria  di  Crema  acciocché  potesse  con 
forze  maggiori  offendere  Cremona.  Ma  poi,  com'ehbe  aquar- 
lierati  nella  terra  nostra  ottocento  militi  con  Buoso  di  Do- 
vera, il  marchese  di  Monferrato  entrò  con  altre  legioni  in 
Crema  e  vi  si  fece  proclamare  signore.  Allora  i  ghibellini 
cremaschi  fuorusciti,  divenuti  animosi,  ritornarono  a  Crema, 
festeggiando  la  novella  signoria  del  marchese:  i  guelfi  accor- 
gendosi che  non  soffiava  per  essi  aura  proprizia,  fuggirono 
dalle  case  loro  e  ricoverarono  a  Castelleone.  Ivi  avevano 
raccolte  le  forze  loro  i  guelfi  di  Crema ,  di  Lodi  e  di  Cre- 
mona :  il  marchese  di  Monferrato  minacciava  tratto  tratto 
di  assalirli,  e  s'era  piantato  cogli  accampamenti  a  poca  di- 
stanza da  Castelleone;  ma  furono  minacce  dalle  quali  non 
conseguì  verun  fatto  d'armi:  il  marchese  nel  luglio  dei  1282 
ritiravasi  colle  sue  truppe  a  Milano.  Intanto  i  guelfi,  col 
mezzo  dei  loro  deputati,  trattavano  di  pacificarsi  coll'arci- 
vescovo  Ottone  Visconti ,  cui  pure  premeva  di  venire  ad 
un  accordo  coi  cuelfi  ,  ed  anche  di  liberarsi  dalla   soece- 


—  169  — 
zinne  del  marchese  ili  Monferrato  0.  Stipulossi,  a  Milano 
una  paco  cui  s'ingiunse  per  condizione,  dovesse  ogni 
città  ili  Lombardia  scacciare  i  fuorusciti,  obbligandoli  per 
tal  modo  a  restituirsi  alle  case  loro.  Mercè  quel  imitato 
(1282)  Crema  liberassi  dalla  signoria  del  marchese  di  Mon- 
ferrato, e  vide  nel  suo  grembo  riunirsi  guelfi  e  ghibellini: 
avevano  sembianze  di  riconciliati,  ma  nel  segreto  dell'animo 
vagheggiavano  nuove  occasioni  per  venire  alle  mani  e  so- 
perchiarsi. 

Torceremo  per  un  istante  lo  sguardo  da  queste  ringhiose 
fazioni  per  rivolgerlo  ad  un'opera  di  religioso  decoro,  di 
pubblico  ornamento,  la  quale  si  incominciò  a  Crema  allora 
appunto  che  sembravano  composti  a  pace  gli  animi  dei 
guellì  e  dei  ghibellini.  Intendo  parlare  della  rifabbrica  della 
cattedrale,  chei  nostri  padri  intrapresero  l'anno  1284,  fosse 
che  la  vetustà  dell' antico  duomo  la  rendesse  necessaria, 
fosse  che  i  Cremaschi,  sull'esempio  delle  città  vicine,  vo- 
lessero con  più  splendido  edifìcio  dimostrare  la  ricchezza  e 
i  religiosi  sentimenti  del  loro  Comune.  È  degno  di  osserva- 
zione come  nei  paesi  lombardi,  tra  le  faville  delle  cittadine 
discordie,  s'  agitasse  uno  spirito  vivificatore  delle  scienze, 
delle  arti,  dell'industria  :  è  mirabile  dover  gli  Italiani  al 
tumultuoso  secolo  decimoterzo,  le  mura  delle  città3  i  templi 
aperti  a  lutto  il  popolo,  i  canali  che  inafftano  e  rendono 
ubertoso  il  suolo  lombardo  ia).  Convien  dire  che  i  Lom- 
bardi, governandosi  con  forme  repubblicane  acquistassero 
tale  esuberanza  di  vita  che,  per  quanta  ne  sciupassero  a 
rodersi  l'un  l'altro,  pure  ne  avanzava  loro  ancora  a  suffi- 
cienza da  prendersi  un'  amorosa  cura  della  loro  terra  ,  ed 
abbellirla  con  opere  grandiose ,  le  quali  profittavano  non 
solamente  al  lustro    del  Comune  ,  ma  all'  interesse  ed  al 


(lì  Giclini.  Storia  di  Milano. 

(2)  Parole  del  Sismondi  nella  sua  Opera  delle  Repubbliche  italiane. 


—  166  — 
maggior  agio  di  tutti  i  cittadini.  Singolare  contraddizione 
di  que'  tempi  !  compromettere  con  replicati  tumulti  la  li- 
bertà del  Comune ,  e  rendere  più  sontuosi  i  palazzi  ove 
nobili  e  plebei  volevano  mantenersi  rettori  dei  destini  della 
patria:  inalberare  le  insegne  della  discordia  civile,  ed  eri- 
gere tempj  a^  Dio  della  pace  e  dell'amore;  divisi  gli  animi  se 
trattavasi  di  dare  uno  stabile  ordinamento  al  governo  della 
città,  uniti  qualora  si  proponesse  un  disegno,  quantunque 
dispendioso  ,  che  fruttasse  un  vantaggio  comune  ,  od  un 
maggior  decoro  al  suolo  natale  ! 

1  Cremonesi  ristorarono  la  loro  cattedrale,  ed  innalzarono 
il  celebre  Torrazzo  Tanno  1284,  e,  forse  per  ispirilo  di 
emulazione,  Tanno  medesimo  balenò  ai  Cremaschi  il  pen- 
siero di  rifabbricare  il  duomo.  Ma  T opera  dei  nostri  padri 
non  fu  così  presto  recata  a  termine:  principiala  nel  1284, 
compivasi  nel  1541:  è  probabile  la  interrompessero  le  rina- 
scenti dissensioni  fra  i  cittadini  e  la  mancanza  del  denaro, 
giacché  raccogliamo  dal  Terni  che  il  solo  campanile  costò 
più  eli  dodici  mila  ducati.  Ed  avvertite  ,  che  la  torre  della 
nostra  cattedrale  non  fu  allora  portata  alT  altezza  cui  la 
vediamo  oggidì,  perocché  venne  elevata  a  maggior  sommità 
nel  1604,  come  attesta  il  Canobioi^.  Si  rammenti  eziandio 
che  T interno  del  nostro  duomo  subì  col  volgere  degli  anni 
variazioni  non  poche,  e  venne  interamente  riformato  Tanno 
1776  con  disegno,  il  quale,  a  dir  vero,  mal  risponde  al  vago 
stile  della  facciata  e  dell'  ardito  campanile.  La  maestosa 
facciata  conserva  ancora  l'architettura  gotica  che  gl'Italiani 
usavano  nei  tempi  delle  loro  repubblichette:  ci  rammenta 
ch'erano  mani  di  liberi  cittadini  che  la  costrussero,  e  liberi 
cittadini  che,  raccolti  in  assemblea,  ne  decretarono  la  spesa: 
ci  rammenta  insomma  che  la  rifabbrica  del  nostro  duomo  fu 
un  pensiero  del  popolo i2,  il  quale  signoreggiando  nella  pro- 

(1)  Proseguimento  calla  Storia  dell'ALEMANio  Fino. 

(2)  L'Alemanio  Fino  in  una  delie  sue  Sericine  smentisce  l'opinione  di  co- 
loro che  asserirono  esser  stata  la  rifabbrica  del  nostro  duomo  opera  dei  soli 
guelfi. 


—  1()7  — 
pria  terra,  volle  render  più  leggiadra  la  casa  di  Dio,  ove 
ricorreva  per  consolazioni  nella  sventura*  ove  benedivasi 
il  gonfalone  del  Comune,  ove  festeggiavano  le  vittorie  della 
patria.  Essendosi  la  rifabbrica  compiuta  dopo  clic  la  biscia 
viscontea  ebbe  divoratala  nostra  repubblichelta ,  si  lece 
effigiare  sulla  lacciaia  del  tempio  l'immagine  di  S.  Ambro- 
gio (*),  il  patrono  della  metropoli  lombarda.  Ma  queir  im- 
magine nel  decorso  di  non  molti  anni  consumavasi ,  come 
la  potenza  e  V  orgoglio  dei  signori  che  da  Milano  ci  domi- 
navano. 

Merita  una  particolare  attenzione  la  porta  maggiore  del 
duomo  ,  perocché  quei  pochi  marmi  scolpiti  che  formano 
eli  stipili  e  l'arco,  non  sono  lavori  del  secolo  decimoterzo, 
bensì  d'un'epoca  assai  anteriore ,  e  ci  ricordano  le  scul- 
ture onde  fregiavansi  le  principali  basiliche  d'Italia  [nel 
settimo  e  ottavo  secolo.  Forse  che  al  nuovo  duomo  si  è 
voluto  rimettere  la  porta  maggiore  del  vecchio  :  nei  qual 
caso,  osserva  Racchetai2),  quei  pochi  marmi,  benché  roz- 
zamente scolpili,  ci  attestano  quanto  dovesse  essere  gran- 
dioso il  tempio  cui  una  volta  davano  l'ingresso. 

La  pace  stabilitasi  a  Milano  nel  1282,  quantunque  s'in- 
titolasse Concordia  per  mille  anni,  ne  durò  meno  di  quat- 
tro. I  ghibellini  insorsero  di  nuovo  l'anno  1286  ed  espulsero 
da  Crema  la  fazione  avversaria.  I  guelfi  esularono  per  circa 
otto  anni,  finché  venne  loro  fatto  di  rimpatriare  mediante 
un  trattato  di  pace  che  a  S.  Colombano  conchiusero  con 
Matteo  Visconti  i  deputati  di  Brescia,  di  Lodi  e  di  Crema 
(1295).  Da  quest'epoca  il  partito  guelfo  abbarbicossi  nel 
suolo  cremasco  e  lodigiano  con  più  salde  radici,  ed  ebbe 
non  poca  parte  negli  avvenimenti  che  seguirono  in  Lom- 

(i)  Quando  il  Terni  scriveva  la  sua  Cronaca,  di  questa  pittura  non  esi- 
stevano che  poche  tracce. 

(2)  Bacchetti  in  una  delle  sue  annotazioni  alla  Storia  del  Fino.  Versando 
quest'annotazione  sulle  fabbriche  e  su  gli  edifei  della  città  nostra  ,  è  di  non 
lieve  importanza. 


—  168  — 
bardia:  congiuntosi  ai  Torriani,  cospirò,  armeggiò  per  im- 
pedire F ingrandimento  di  Matteo  Visconti. 

Quando  Matteo  Visconti  mandò  ambasciatori  in  varie 
terre,  richiedendo  che  riconoscessero  in  lui  1'  autorità  di 
vicario  imperiale  statagli  conferita  dall'imperatore  Adolfo, 
Lodi  e  Crema  vi  si  rifiutarono:  ed  unitesi  in  lega  coi  Tor- 
riani e  con  quanti  guelfi  erano  nelle  città  vicine,  si  propo- 
sero di  far  guerra  al  Visconti.  Nel  1299  rompesi  la  pace  di 
S.  Colombano  :  i  guelfi  di  Lodi  e  di  Crema  campeggiano 
contro  il  signore  di  Milano.  Quantunque  fossero  i  guelfi 
sussidiati  dai  Cremonesi,  dai  Bergamaschi,  e  dal  marchese 
d'Este,  le  sorli  delle  armi  prosperavano  ai  Milanesi,  ed 
erano  già  per  accampare  sotto  Crema  (*),  quando  Matteo 
Visconti  giudicò  opportuno  venire  ad  un  accordo,  che  fu 
poi  conchiuso  col  mezzo  di  quattro  arbitri.  Per  la  parte  di 
Milano  si  nominarono  arbitri  Ubertino  Visconti  ed  il  conte 
di  Cortenuova  ;  per  la  parte  di  Crema,  Giovanni  Greppi  e 
Serenano  Guinzoni. 

Due  anni  dopo  (1501)  i  Cremaschi  ripigliano  le  armi 
contro  Matteo  Visconti,  cogliendo  pretesto  di  proteggere  le 
famiglie  Bongi  e  Rivoli  che  Matteo  aveva  discacciate  da 
Bergamo.  I  Cremaschi  insieme  coi  Lodigiani  e  Cremonesi 
assaliscono  Bergamo:  respinti  dalle  truppe  milanesi  che  lo 
presidiavano,  s'uniscono  poco  dopo  alle  milizie  del  conte 
Langosco,  pavese,  il  quale  osteggiava,  aGariasco,  Galeazzo 
figlio  di  Matteo  Visconti' 


2Ì 


Intanto  a  rovina  di  Matteo  Visconti  ordiva  fortissima  lega 
Alberto  Scotto  signore  di  Piacenza  :  gli  si  confederarono 
tutti  i  guelfi  più  potenti  di  Lombardia,  e  fra  questi  Ventu- 
rino  Benzoni ,  che  alcune  cronache  qualificarono  signore 
di  Crema,  forse  per  la  somma  ingerenza  ch'egli  vi  esercitò 
e  come  capo  di  parte  guelfa,  e  come  guerriero  di  splendida 

(i  )  Giulini,  Storia  di  Milano. 
(2)  Idem. 


—  169  — 
fuma  io  Lombardia.  Minacciato  da  tanti  nemici  (e  non  po- 
chi eontro  di  lui  congiuravano  anche  in  Milano),  Malico 
Visconti  dovette  discendere  ad  umiliantissime  condizioni , 
rinunziare  il  dominio  di  Milano,  richiamarvi  i  banditi,  e 
dopo  aver  tentato  invano  «li  riaversi  coll'ajuto  dei  ghibellini, 
esulare  dalla  terra  che  aveva  per  varj  anni  signoreggiato. 
Ne  esultarono  i  Oemasclii  e  tutte  le  città  guelfe.  Napo 
Della  Torre,  caduto  il  Visconti,  ricuperò  a  Milano  fra  gli 
applausi  del  popolo  la  perduta  grandezza  :  ed  il  nostro 
Ventui'ino  Benzoni,  Tanno  1505,  venne  eletto  capitano  del 
popolo  milanese:  carica  insigne,  che  a  lui  ben  si  addiceva 
e  come  guerriero  d'alta  riputazione,  e  come  sviscerato 
fautore  di  parte  guelfa  e  dei  Torriani.  Durante  V  anno  del 
suo  capitanato,  Venlurino  distrusse  il  borgo  di  Lomazzo , 
ed  altri  luoghi  nel  territorio  di  Como  ,  perchè,  dicono  le 
cronache  l,  s'erano  fatti  nido  di  sicarj. 

La  cacciata  del  Visconti  affievolì,  non  ispense  la  fazione 
ghibellina:  quindi  nuove  cospirazioni,  nuove  turbolenze 
acitarono  le  terre  di  Lombardia.  Guido  Della  Torre  nel- 
Tanno  1509  fece  imprigionare  l'arcivescovo  Cassone  suo 
nipote,  il  quale,  d'accordo  coi  ghibellini,  contro  di  lui 
congiurava.  Essendosi  intromessi  molti  potenti  personaggi, 
fra  i  quali  Pagano  Della  Torre  vescovo  di  Parma  e  Ventu- 
rino  Benzoni  ,  T  arcivescovo  dopo  venticinque  giorni  fu 
scarcerato  W.  Abborracciossi  in  pari  tempo  fra  guelfi  e  ghi- 
bellini un  trattato  di  pace,  cui  Venturino  Benzoni  intervenne 
a  nome  dei  Cremaschi.  Ma  anche  questa  pace  non  dovea 
partorire  i  desiderati  effetti  :  poco  dopo,  riaccendendosi  i 
vecchi  rancori,  i  ghibellini  furono  espulsi  da  Crema  e  vi 
rimasero  fino  alla  venuta  di  Enrico  VII  in  Italia. 

Correva  l'anno  1511  quando  Enrico  di  Lucemburgo  im- 
peratore  di  Germania  volle  che  gl'Italiani,  dopo  sessan- 
ta) Vedi  le  Storie  di  Milano  del  Como  e  del  Giulini. 
(2)  Giulim.  Storia  di, Milano. 


—  170  — 
l'anni,  rivedessero  ancora  una  discesa  imperiale,  e  la  ce- 
rimonia dell'incoronazione,  per  molto  tempo  da1  suoi  ante- 
cessori trascurata.  La  notizia  della  sua  venuta  piacque  ai 
ghibellini ,  non  dispiacque  ai  guelfi  ,  perocché  Enrico  ,  ai 
signori  Lombardi  che  andarono  in  Asti  ad  incontrarlo , 
aveva  promesso  non  avrebbe  fatte  distinzioni  fra  guelfi  e 
ghibellini  ,  anzi  essere  intento  suo  di  rappalumarli.  Guido 
Della  Torre,  signore  di  Milano,  fu  il  solo  cui  la  discesa  di 
Enrico  VII  non  garbasse ,  ed  era  disposto  a  contrastargli 
l'entrata  in  Milano,  se  i  guelfi  non  ne  lo  avessero  sconsi- 
gliato. L'incoronazione  di  Enrico  VII  seguì  in  Milano  nel 
gennajo  del  1511,  festeggiala  da  guelfi  e  ghibellini,  presenti 
gli  ambasciatori  di  tutti  i  Comuni  lombardi,  fra  gli  evviva 
del  popolo,  cui  piacendo  ogni  genere  di  novità  fu  graditis- 
simo spettacolo  questo ,  smesso  da  molti  anni ,  di  un  mo- 
narca straniero  che  in  S.  Ambrogio  veniva  coronato  re 
d'  Italia. 

Enrico  volle  far  rivivere  nei  paesi  lombardi  1'  autorità 
dell'impero  che  vi  era  scaduta  alquanto;  volle  estirparvi 
1'iniluenza  di  certe  famiglie  che  il  favore  dei  partili  aveva 
rese  ollremodo  polenti:  quindi  pose  nei  Comuni  dei  vicarj 
imperiali,  e  comandò  che  vi  si  richiamassero  i  banditi  di 
qualsiasi  fazione.  Allora  fu  messo  a  Crema  podestà  Ottone 
Soresina  ,  vicario  imperiale,  e  rimpatriarono  i  ghibellini, 
fra  i  quali  la  famiglia  dei  conti  di  Fornuovo.  Ma  ciò,  an- 
ziché rassettare  in  Crema  la  quiete,  fu  cagione  di  nuove 
turbolenze.  I  conti  di  Fornuovo  domandarono  che  venis- 
ser  loro  restituiti  i  beni  stali  tolti  ad  essi  quand'erano  fuo- 
rusciti: il  che  fu  seme  di  novelle  discordie.  I  guelfi  levansi 
a  tumulto,  impugnano  le  armi,  e  Venturino  Benzoni,  loro 
capo,  scaccia  da  Crema  i  conti  di  Fornuovo.  Ottone  Sore- 
sina, come  vide  rinascere  i  subbugli,  fuggì  da  Crema,  e 
andò  ad  informarne  l'imperatore;  il  quale  per  ricomponi 
la  pace  manda  nella  città  nostra  Guglielmo  Pusterla  e  Ca- 


—  171  — 
\  abbino  Monta,  patrizi  milanesi.  A  quegli  si  strìngono  at- 
torno  molli  Cremaschi,  pregando  ('Ih1  venisse  in  Crema 
rimesso  Ottone  Soresina  con  I*  autorità  di  vicario  impe- 
riale: ma  vi  si  oppone  tenacissimamente  Ventanno  Ben- 
zoni, protestando  ch'egli  aveva  in  riverenza  l'imperatore, 
ma  non  avrebbe  mai  palilo,  che  un  forassero  nemico  della 
sua  /azione  avesse  ad  essergli  superiore  '  .  Indignato  En- 
rico del  superilo  contegno  di  Venimmo,  lo  chiama  a  sé, 
e  non  essendo  comparso,  lo  condanna  al  bando  con  tulli 
i  suoi  partigiani.  Venturino  Benzoni  provossi ,  ma  troppo 
tardi,  a  placare  l'animo  dell1  imperatore  col  mandargli  in 
segno  di  sommessione  le  chiavi  della  città  nostra:  costretto 
ad  esulare,  rifugiossi  con  tulli  i  suoi  fautori  presso  Guglielmo 
Cavalcabue ,  capo  dei  guelfi  cremonesi.  11  Benzoni  ed  il 
Cavalcabue,  accomunate  le  forze  loro,  entrano  in  Solicino 
ove  i  terrazzani  avevano  discaccialo  il  governatore  impe- 
riale. Sotto  le  mura  di  Solicino  accampava  poco  appresso 
il  conte  Ombergo  generale  dell'imperatore,  per  domare  i 
guelfi  di  Cremona  ,  di  Bergamo  e  di  Crema  che  vi  si 
erano  dentro  fortificali.  Pugnavano  sotto  il  \essillo  del 
generale  tedesco  i  ghibellini ,  frementi  di  vendetta.  I  Son- 
cinaschi  si  difendevano  valorosamente:  ma  poi,  come  sep- 
pero essere  state  tagliate  a  pezzi  le  genti  che  venivano  da 
Cremona  in  loro  soccorso,  si  scoraggiarono,  e  lasciate  le  di- 
fese ritiraronsi  nelle  proprie  abitazioni.  Allora  non  rimaneva 
altro  partito  al  Benzoni  ed  al  Cavalcabue  che  tentare  una 
sortita;  l'arrischiarono,  e  fu  per  essi  l'estrema  rovina.  Il 
Cavalcabue  dovette  arrendersi  al  generale  tedesco  che  gli 
disse:  Tu  d'ora  innanzi  non  cavalcherai  più  né  destriero 
né  bueì*),  e  con  un  colpo  di  mazza  lo  stese  morto  a  terra. 
Venturino  Benzoni,  caduto  in  potere  dei  ghibellini  crema- 
schi, supplicò  invano  che  gli  risparmiassero  la  vita:  Na- 

(i)  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  Sismondi.  Storia  delle  repubbliche  italiane.  —  Muratori.  Annali  d'Italia. 


—  172  — 
zaro  Guinzoni,  uno  uV  capi  fra  i  ghibellini  di  Crema  ,  lo 
fece  strangolare  (1312). 

Questa  fine  lagrimevole  ebbe  Venturini)  Benzoni,  riputatisi 
simo  in  Crema  e  fuori  pe'  suoi  talenti  militari,  e  per  avere 
con  altri  potentissimi  signori  timoneggiala  la  fazion  guelfa 
di  Lombardia.  Ven turino,  fu  non  solamente  capitano  del 
popolo  milanese,  ma  gonfaloniere  di  Santa  Chiesa:  regalato 
da  papa  Clemente  V  di  un  palazzo  in  Avignone,  fatto 
esente  con  tutta  la  sua  discendenza  dalle  decime  ecclesia- 
stiche (4).  Quantunque  le  nostre  cronache  non  dicano  espres- 
samente che  Venlurino  Benzoni  era  signore  di  Crema,  pure, 
col  narrarne  le  gesta,  ci  palesano  abbastanza  chiaro  ch'egli 
teneva  fra  i  suoi  concittadini  il  primato.  Ce  lo  attesta  l'al- 
tera risposta  con  cui  ricusò  di  accettare  in  Crema  il  vica- 
rio imperiale,  e  l'atto  di  sommessione  col  quale  consegnava 
poco  dopo  nelle  mani  dell'imperatore  le  chiavi  della  città 
nostra.  Pongasi  mente  come  i  Benzoni  in  Crema  primeg- 
giassero fin  dall' incominciare  del  secolo  decimo  quarto, 
giacché  questa  supremazia  della  famiglia  di  Venlurino  ve- 
dremo rinascere  e  confermarsi  sul  principiare  del  secolo 
decimoquinto. 

L'imperatore  Enrico  VII  fece  abbattere  le  mura  di  Cre- 
ma in  dispregio  dei  guelfi ,  ma  non  osiamo  accertare  se 
prima  o  dopo  la  cacciata  dei  Benzoni.  Enrico  morì  nel  1513 
a  Bonconvenlo  ed  alcuni  sparsero  voce  che  fosse  stato  av- 
velenato nell'ostia  da  un  reverendo  frate  domenicano. 

Dopo  la  morte  di  Enrico  VII  vi  fu  in  Italia  tale  anarchia 
di  poteri  che  riesce  difficile  l'accertare  da  quale  signoria 
Crema  dipendesse  nel  periodo  di  18  anni  che  decorsero 
dalla  morte  di  Enrico  alla  venuta  di  Giovanni  di  Boemia. 
In  Germania  due  fazioni  nemiche  avevano  in  separate  as- 
semblee eletto  ad  imperatore,  l'una  Federico  d'Austria,  l'al- 
ti) Il  Terni  nella  sua  Cronaca  ne  riportò  la  Bolla  pontificia. 


ira  Lodovico  ili  Baviera.  Papa  Clemente  V  che  risiedeva  in 

Avignone,  saputa  la  morie  (li  Enrico  VII,  pubblicò  una 
bolla,  proclamando  appartenere  a  lui  il  diritto  di  succe- 
dere all'  imperatore  nella  vacanza  dell'  impero  (*),  e  con 
altra  bolla  conferì  a  Roberto  re  ili  Napoli  il  (itolo  di  vica- 
rio imperiale  in  tutta  Italia.  Ma  questo  titolo  pretendeva  in 
Lombardia  Matteo  Visconti,,  come  quello  ebe  essendosi  ri- 
messo nella  signoria  di  Milano  coli' espellervi  i  Torriani  , 
era  stato  nel  1315  eletto  dall'imperatore  suo  luogotenente. 
In  mezzo  a  tanti  pretendenti,  clic  moltiplicando  scissure  e 
turbolenze  laceravano  l'Italia,  pare  che  Crema,  perseverando 
ad  essere  città  cucila,  si  assoggettasse  al  prolettorato  del 
pontefice.  Tuttavia  leggiamo  negli  Annali  del  Muratori  che 
nel  1315  Crema  era  in  potere  di  Matteo  Visconti,  e  che 
Tanno  medesimo  gli  fu  ritolta  da  Naranzio  Guinzoni,  e  poi 
da  Soncino  Benzoni  (*).  A  que'  tempi  in  Crema  i  Guinzoni 
erano  fra  i  capi  del  partito  ghibellino,  e  del  contrario  i 
Benzoni:  gli  uni  e  gli  altri  gareggiavano  per  avere  in  balia 
la  nostra  cittadella.  Ciò  sappiamo  per  testimonianza  delle 
cronache  nostre,  le  quali,  tacendo  che  Naranzio  Guinzoni 
e  Soncino  Benzoni  s'insignorissero  successivamente  di  Cre- 
ma spogliandone  il  Visconti,  narrano  :  «  Nel  1315  furono 
*  scacciati  fuori  di  Crema  i  conti  di  Camisano,  ed  i  Guin- 
«  zoni  capi  dei  ghibellini,  dai  Benzoni  e  loro  aderenti  i3).  » 
Le  vicende  che  seguirono  in  Crema  dall'anno  1515  al  1355, 
in  cui  i  Visconti  vi  presero  slabile  dominio,  ci  porgono  ar- 
gomento a  credere  avere  la  città  nostra  aderito  alle  pretese 
dei  pontefici  che  allora  tenevano  la  sede  in  Avignone  :  ce 
ne  persuade  ancor  più  il  sapere  come  i  pontefici  si  ado- 
perassero a  sussidiare  i  guelfi  cremaschi  nelle  guerre  che 
dovettero  sostenere  contro  Matteo  e  Galeazzo  Visconti. 


(i)  Sismondi.  Storia  delle  repubbliche  italiane.  Capitolo  XXIX. 

(2)  Murahoeu.  Annali  d'Italia.  Vedine  l'indice,  ove  Soncino  Benzoni  figura 
signore  di  Crema. 

(3)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  174  — 
Leggiamo  nelle  cronache  milanesi  che  Matteo  Visconti 
guerreggiò  i  Cremaschi  nel  1319.  Vincitore  nei  primi  com- 
battimenti, i  nostri  gli  chiesero  una  tregua  e  diedero  ostag- 
gi; ma  poi  sconfissero  i  Milanesi  a  Vailate  i1),  sicché  il  Vi- 
sconti dovette  smettere  il  disegno  d'insignorirsi  di  Crema. 
Papa  Giovanni  XXIII,  premuroso  di  soccorrere  i  guelfi , 
mandò  a  Crema  nel  1321  Pagano  della  Torre,  patriarca  di 
Aquileja,  con  cento  uomini  d'armi  :  altre  settecento  lancie, 
ai  preghi  del  pontefice,  vennero  nella  città  nostra  da  Bre- 
scia e  da  Cremona.  I  ghibellini  cremaschi  intanto  si  raccol- 
sero a  Piacenza  dove  trovavasi  Galeazzo  Visconti  figlio  di 
Matteo,  il  quale,  formato  un  grosso  esercito  di  ghibellini 
ed  affidatane  la  condona  a  Ponzone  Ponzoni  e  Verguzio 
Laudi,  venne  a  porre  l'assedio  a  Crema.  Le  spire  della  bi- 
scia viscontea  recingevano  le  mura  della  nostra  cittadella, 
ma  il  patriarca  Della  Torre  l'aveva  così  ben  guernita  che  il 
Visconte  si  sforzò  invano  d'impadronirsene.  II  patriarca,  im- 
baldanzito d'essersi  difeso  virilmente  nell'assedio  che  durò 
un  mese,  volle  fare  delle  scorrerie  sul  territorio  di  Soncino, 
ove  scontratosi  coi  nemici  toccò  una  disfatta  con  grave 
perdita  dei  Cremaschi  e  delle  sue  genti. 

Tralasceremo  di  ridire  i  guasti  che  quando  i  guelfi, 
quando  i  ghibellini  arrecavano  nel  nostro  contado  e  nelle 
terre  circonvicine:  noteremo  soltanto  che  negli  anni  1322 
e  1323  le  due  fazioni  inviperirono  più  che  mai,  e  continua- 
rono a  guerreggiarsi  aspramente.  Il  pontefice  avea  man- 
dato a  capitanare  la  fazion  guelfa  Raimondo  da  Cardona, 
avventuriere  catalano:  i  Cremaschi,  guidati  da  luir  battaglia- 
rono di  nuovo  contro  Galeazzo  Visconti  ed  ebbero  la  peggio. 
Nel  1322  Lodovico  di  Baviera,  trionfando  dell'emulo  suo 
Federico  d'Austria ,  occupa  il  soglio  imperiale  di  Germa- 
nia. Due  anni  dopo  viene  scomunicato  per  molte  ragioni  da 
Giovanni  XXIII,  che  lo  dichiara  decaduto  dal  trono  e  proi- 
bì) Giulivi.  Storia  di  Milano. 


—  175  — 
bisce  li  fedeli  d'aver  con  lai  relazione  di  sorta.  Il  pontefi- 
ce nel  1327  ricordò  ai  Cremaschi  lo  scagliato  anatema  con 
lettera  particolare  che  diresse  al  Consiglio  ed  al  Comune  di 
Cremo,  e  con  la  quale  esortavali  a  non  dar  ricetto  o  soc- 
corso a  Lodovico  perchè  avrebbero  offeso  Dio,  la  sua  per- 
sona e  la  Santa  Chiesa  '.  Discese  Tanno  medesimo  (1327) 
Lodovico  in  Italia,  cinse  a  Milano  la  corona  di  ferro,  ma 
non  è  dello  che  sia  passato  sul  territorio  nostro.  Durante 
il  suo  regno,  nel  gennajo  del  1551,  Crema  si  sottopose  vo- 
lonlariamenle  a  Giovanni  di  Boemia  (*\  Chi  era  Giovanni 
di  Boemia?  Perchè  i  Cremaschi  gli  si  sottoposero  sponta- 
neamente? Lo  diremo  in  breve  onde  medio  chiarire  a 
quali  strettezze  la  peste  delle  fazioni  avesse  in  que'  tempi 
condotto  gli  Italiani. 

Giovanni  4\  Boemia  nasceva  da  Enrico  VII;  era  principe 
valorosissimo,  amatore  di  giostre  e  di  tornei,  galante,  disin- 
teressato, di  un'indole  eminentemente  cavalleresca.  Es- 
sendogli grave  governare  gli  Stali  di  Boemia  ricevuti  dal 
genitore,  ne  affidò  il  regime  a'  suoi  ministri.  Amicissimo  di 
Lodovico  il  Bavaro,  e  riverente  al  pontefice,  avversava  il 
parteggiare  sia  pei  guelfi,  sia  pei  ghibellini  ,  anzi  ambiva  i 
dissidj  conciliare,  e  credeva  fosse  a  lui  dato  dal  ciclo  il 
glorioso  compito  di  farsi  il  pacificatore  dell'  Europa.  A  tale 
scopo  intraprese  frequenti  viaggi,  visitò  le  corti  straniere, 
scorrendo  l'Europa  a  cavallo  colla  celerità  di  un  corriere. 
Simpatico  per  gentilezza  nei  modi,  eloquenza  nel  discorso, 
disinteresse  e  fama  di  prode  ,  ovunque  era  accolto  grazio- 
samente e  con  onore. 

Nel  1550  Giovanni  di  Boemia,  per  combinare  il  matri- 
monio di  Carlo  suo  figlio  con  la  figlia  del  duca  del  Tirolo, 
trovavasi  a  Trento:  colà  i  Bresciani  gli  mandarono  amba- 

(i)  La  lettera  del  pontefice  è  riportata  per  intero  nella  Cronaca  del  Terni. 

(2)  Il  Fino  non  fa  cenno  di  questa  spontanea  dedizione  a  Giovanni  di 
Boemia:  il  Corio  scrive  che  avvenne  addi  26  di  gennajo:  Muratori,  Terni, 
Giulini  e  Gantù,  senza  dirne  il  giorno,  concordarlo  perù  Dell'ammetterla. 


—  176  — 
sciatori  offerendogli  la  signoria  del  loro  slato,  ed  invocando 
protezione  contro  Mastino  Della  Scala  che  duramente  li  tra- 
vagliava. Il  re  boemo  accettò  l'offerta,  giubilante  di  cogliere 
un'occasione  da  figurare  anche  in  Italia  qual  Nestore  che 
mette  pace  fra  i  contendenti.  Fattosi  mediatore  fra  i  Bre- 
sciani e  lo  Scaligero,  persuase  questi  a  cessare  le  ostilità, 
sicché  i  Bresciani,  ottenuta  la  pace,  assettarono  le  cose  loro. 
Poco  dopo  seguirono  l'esempio  dei  Bresciani,  Bergamo,  Cre- 
ma, Pavia,  Cremona,  Reggio,  Modena,  Parma,  Novara;  lo 
stesso  Azzone  Visconti  offrì  a  Giovanni  la  signoria  di  Mi- 
lano e  intitolossi  suo  vicario. 

Non  è  a  maravigliarsi  che  un  pensiero  comune  gittasse 
guelfi  e  ghibellini  nelle  braccia  del  re  boemo:  le  città  lom- 
barde, affrante  dal  lungo  tumultuare  delle  fazioni ,  anela- 
vano la  quiete.  Oltre  di  che  ambedue  le  fazioni  erano  as- 
sai mal  soddisfatte  della  condotta  dei  loro  capi.  Il  pon- 
tefice Giovanni  XXIII  infamavasi  sempre  più  collo  scan- 
daloso contegno  della  „sua  corte  in  Avignone ,  colle  ac- 
cesissime pretensioni  di  voler  signoreggiare  in  Italia ,  con 
la  viltà  e  cupidigia  dei  ministri  che  inviava  nella  nostra  pe- 
nisola a  sostenere  la  causa  guelfa.  Né  meno  schifoso  era 
divenuto  ai  ghibellini  il  loro  capo  Lodovico  il  Bavaro,  il 
quale  nella  tua  discesa  in  Italia  si  rese  abbominato  per 
avarizia,  per  crudeltà,  e  peggio  ancora  perfidiando  barba- 
ramente verso  i  più  caldi  suoi  partigiani.  Ciò  spiega  ab- 
bastanza chiaramente  come  i  due  partiti  per  un  istante  si 
rannodassero  e  concedessero  la  balia  delle  città  loro  a 
Giovanni  di  Boemia. 

Ma  non  durò  lungo  tempo  la  signoria  di  Giovanni  di 
Boemia  nelle  terre  lombarde.  1  Fiorentini  ingelosirono  della 
sua  estemporanea  grandezza,  e  come  quelli  che  in  affari  di 
politica  erano  meglio  degli  altri  perspicaci ,  concepirono 
sospetto  ch'egli,  profittando  della  sua  riputazione,  ago- 
gnasse di  farsi  l'arbitro  di  tutta  Italia.  Perciò  ordirono  con- 
tro di  lui  una  lega  poderosa,  la  quale  rompendo  guerra  al 


—  177  - 
re  Giovanni  di  Boemia,  lo  costrinse  bell'ottobre  de]  l">r) 
ad  abbandonare  l'Italia,  rimettendovi  rumi  dopo  l'altra 
tutte  le  avute  signorie.  Non  dicono  le  cronache  da  qual 
giorno  sia  cessata  in  ("roma  la  sovranità  del  re  di  Boemia: 
tuttavia  da  alcuni  documenti  riportati  dal  Terni  desumiamo 
che  nel  I33w2  era  nella  città  nostra  podestà,  a  nome  del 
pontefice,  un  bolognese  di  nome  Matteo  Tencatazzi:  laonde 
è  a  credersi  che  i  Gremaschi  in  queir  anno  fossero  già  ri- 
tornati sotto  il  prottcloralo  della  santa  Chiesa. 

Correndo  l'anno  1555  papa  Giovanni  XXIII  morì,  e 
Crema  si  sottopose  ad  Azzo  Visconti  signore  di  Milano ,  il 
quale  cedette  il  dominio  della  città  nostra  ai  Cremonesi  , 
che  lo  tennero  lino  al  1538.  Così  narrano  le  cronache  del 
Terni  e  del  Fino,  aggiungendovi  che  i  Cremonesi  fabbri- 
carono una  rocchetta  presso  la  Porta  Serio,  e  che  ai  Cre- 
masela dispiacque  tanto  il  vedersi  di  nuovo  sotto  i  Cremo- 
nesi, che  molti  ciò  non  potendo  sofferire  si  assentarono  (*). 
Ma  questo  triennale  dominio  dei  Cremonesi  sulla  città  no- 
stra non  trovammo  accennato  in  verun'altra  cronaca  di 
que'  tempi  :  anzi  pare  inconciliabile  con  quanto  intorno 
alle  imprese  di  Azzo  Visconti  scrissero  il  Giulini  ed  il  Mu- 
ratori. Negli  Annali  d'Italia  leggesi  che  Azzo  Visconti,  dopo 
aver  fatto  l'acquisto  di  Lodi  (155o),  minaciò  l'assedio  alla 
nobil  terra  di  Crema,  e  questo  bastò  perchè  quel  popolo 
nel  dì  18  ottobre  gli  mandasse  le  chiavi -W.  E  rapporto  a 
Cremona,  Antonio  Campi,  appoggiandosi  all'autorità  di 
Giacomo  Radenasco,  asserisce  (3)  che  nell'anno  1355  anche 
i  Cremonesi  avevano  data  ad  Azzo  Visconti  la  signoria 
della  loro  città:  laonde,  quand'anche  si  voglia  ammettere  lo 
strano  caso  che  sia  stala  Crema  ceduta  ai  Cremonesi,  sa- 
rebbe pur  sempre  un  errore  l'affermare  col  Terni  e  col 
Fino,  che  non  poterono  i  Cremonesi  signoreggiarci  lungo 

(i)  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  Annali  d'Italia  del  Muratori. 

(3)  Campi.  Storia  di  Cremona. 

12 


—  178  — 
tempo,  perciocché  Vanno  1338  il  Visconti  s'insignorì 
eziandio  di  Cremona  CO.  La  città  di  Cremona  cadde  in  po- 
tere del  Visconti  fanno  medesimo  che  la  nostra  :  anzi  tre 
mesi  prima,  giacche,  se  vuoisi  prestar  fede  al  Radenasco, 
Cremona  si  assoggettò  al  Visconti  nel  luglio  del  1335. 

Adunque  nell'anno  1335  i  Cremaschi  perdettero  la  so- 
vranità del  loro  Comune  e  per  sempre  :  scomparve  la  re- 
puhhlichella  di  Crema  con  molle  altre  ond'era  prima  sboc- 
concellato il  suolo  di  Lombardia.  L'epoca  storicamente  più 
luminosa  del  nostro  Comune,  possiam  dire  d'averla   tras- 
corsa: taluno  per  avventura  se  ne  rallegrerà,  sperando  di 
vedere  composta  a  vita  più  regolata  e  tranquilla  la  città 
nostra  sotto  il  dominio  dei  Visconti  e  dei  signori  che  a  loro 
sono  succeduti.  Chi  alla  voluttà  del  sentirsi  cittadini  e  so- 
vrani nella  terra  nalale  preferisce  il  sonnecchiare  all'ombra 
di  un  trono,  fra  catene  indorate  qua  e  là  da  coloro,  che  nel 
mentre  le  impongono,  hanno  l'accorgimento  di  renderle  più 
sopportabili,  se  ne  rallegri  pure  che  ne  avrà  ben  d'onde. 
Noi  siamo  lontanissimi  dallo  sconoscere  i   mali  che  trava- 
gliarono la  nostra  terra  nativa  quando  formava  anch'  essa 
un  piccolo  Stato  :  noi  abbiamo  svelate  le  piaghe  che  l'insa- 
nia dei  partiti  aperse  nel  seno  della   patria  quando   reg- 
gevasi  con  forme  repubblicane.   Nondimeno    preghiamo  a 
riflettere,  che  il  secolo  tredicesimo  non  fu  solamente  un'e- 
poca di  tumulti  e  di  fratricidi,  ma  che  da  un  suolo  bagnato 
di  sangue  cittadino  germogliarono  colla  civiltà  in  Lombar- 
dia,   le  arti,  le  scienze,  l' industria.  Di  sociali  infermità 
qua!  è  il  secolo  che  non  abbondi  ?  La  quistione  riducesi  a 
saper  pesare  imparzialmente  lutti  i  beni  e  tutti  i  mali  che 
accompagnarono  un'  eia,  e  conoscere  da  qual  parte    tra- 
bocchi la  bilancia.  E  se  ai  tempi   delle  repubblichette  feb- 
bricitanti di  libertà  tu  fremi  d'orrore  contando  le  vittime  tru- 
cidate dal  furore  dei  partiti ,   rammentati  quanta    umana 
carne  macellarono  poi  le  ambizioni  dei  principi,  le  guerre 

(i)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  171)  — 
per  interessi  di  dinastie.  Non  è  punto  esagerata  la  sentenza 
di  moderno  scrittore,  il  quale  disse:  «  Capricci  di  re, 
»  puntigli  di  ministri,  guerre  dinastiche,  ambizioni  napo- 
»  Iconiche  io  qualche  anno  scialacquarono  il  decuplo  di 
■  sangue  e  di  danaro  che  non  in  secoli  tutte  le  battaglie 
»  dei  Comuni  italiani  i  .  »  lui  è  stoltezza  queir  accusare 
che  tanno  alcuni  la  libertà  siccome  genitrice  delle  civili  di- 
scordie che  deturparono  l'epoca  delle  repubbliche  italiane: 
libertà  intera  gl'Italiani  non  avevano  conseguita,  e  troppo 
erano  imperfetti  i  loro  politici  ordinamenti,  motivo  dei  con- 
tinui subbugli  e  delle  rinascenti  dissensioni.  «  Ma  per 
»  quanto  tali  scompigli  disgustino  » ,  osserva  il  conte  di 
Montalembert,  «  come  non  cedere  all'ammirazione  eccitata 
»  dallo  spettacolo  dell' immensa  energia  morale  e  fisica, 
»  dell'ardente  patriotismo,  delle  profonde  convinzioni,  stam- 
»  palo  nella  storia  di  tutte  le  innumerevoli  repubbliche 
»  ond'  era  coperto  il  suolo  italiano?  Tu  rimani  stupefatto 
»  all'incredibile  fecondità  di  monumenti ,  d'istituzioni,  di 
»  fondazioni,  d'uomini  grandi  d'ogni  genere,  guerrieri,  poe- 
»  li,  artisti  r2 ,  che  si  veggono  germogliare  in  ciascuna  delle 
»  città  italiane  oggi  deserte  e  spopolale.  Certo  giammai,  dai 
»  bei  secoli  dell'antica  Grecia  in  poi,  non  si  era  veduto  un 
»  sì  potente  sviluppo  dell'umana  volontà,  un  sì  meraviglioso 
»  valore  attribuito  all'uomo  ed  alle  opere  sue,  tanta  vita  su 
»  così  breve  campo  (3).  » 

Queste  ultime  parole  dell'illustre  francese,  tanta  vita  su 
così  breve  campo,  ponno  applicarsi  particolarmente  a  Cre- 
ma, ove  i  generosi  sforzi  fatti  da  una  popolazione,  poca  ma 
ardita,  nel  difendere  la  sua  libertà  contro  i  Cremonesi,  gli 
imperatori,  ed  infine  contro  la  sorgente  grandezza  dei  Vi- 
sconti ,  ci  rammentano  i  forti  esempi  delle  antiche  città 
della  Grecia. 

(1)  Cesare  Cantù.  Storia  degli  Italiani. 

(2)  Vedi  alla  lettera  B  una  nota  ove   si  fa  cenno  di    tre   giuristi   crema- 
tili del  secolo  decimoterzo. 

(3)  Sono  osservazioni  sulP  Italia  del  medio  eco  del  conte  di  Montalembert 
nella  sua  opera  :  Storia  di  S.  Elisabetta  regina  d'Ungheria. 


—  180  — 

Le  cronache  del  Terni  e  del  Fino,  nel  mentre  registra- 
rono le  più  clamorose  vicende  onde  segnalossi  in  Crema 
l'epoca  municipale,  non  ne  offrono  alcuna  notizia  rapporto 
a  costumi,  all'industria,  allo  sviluppo  degli  interessi  mate- 
riali: quindi  non  possiamo  farne  un  quadro  come  avremmo 
desiderato,  a  meno  che  ragionando  della  città  nostra  non 
volessimo  ripetere  ciò  che  in  proposilo  molti  storici  hanno 
detto  delle  città  vicine.  Del  che  ci  asteniamo ,  riflettendo 
che  le  storie  di  Milano,  di  Brescia,  di  Como  ed  altre  pos- 
sono bensì  sparger  luce  su  quella  di  Crema,  ma  non  ri- 
trarne  al  vero  le  materiali  condizioni,  sendochè  ogni  Co- 
mune lombardo  ebbe  il  suo  particolare  sviluppo,  e  per  così 
dire  una  distinta  fìsonomia. 

Prima  di  por  fine  al  discorrere  dei  tempi  repubblicani 
rammenteremo  che  i  Cremaschi  Fanno  1309  collezionarono 
i  loro  statuti  municipali.  Sventuratamente,  di  questa  prima 
collezione  dei  vecchi  statuti  non  esiste  più  alcuna  copia  : 
sappiamo  che  l'abate  Tintori  ne  fece  indarno  ricerca  Fino 
dal  principio  del  secolo  scorso.  Dalla  cronaca  del  Terni , 
che  ne  riportò  l'introduzione,  raccogliesi  come  quegli  sta- 
tuti incominciassero  commemorando  le  franchigie  concesse 
al  nostro  Comune  dagli  imperatori  Federico  I,  Ottone  IV  e 
Federico  II  :  commemoravano  altresì  il  nome  degli  illustri 
cittadini  cremaschi  ai  quali  vennero  consegnate  alcunecopie 
dei  diplomi  imperiali  come  in  deposito,  acciocché  custodis- 
sero quei  preziosi  documenti  sui  quali  fondavasi  la  libertà 
della  nostra  repubblichetta.  Col  procedere  degli  anni ,  i 
vecchi  statuti  cremaschi  subirono  modificazioni  non  poche: 
riformaronsi  l'anno  1561  signoreggiando  i  Visconti ,  poi 
nell'anno  1450  dopo  che  la  città  nostra  cadde  sotto  il  do- 
minio dei  Veneziani ,  ed  ancora  nell'anno  1534  t1).  Mano 
mano  che  le  condizioni  dei  tempi  e  del  governo  mutavano, 

(1)  Degli  Statuti,  ossia  Municipalia  Crema? ,  pubbliearonsi  tre  edizioni, 
runa  a  Brescia  Tanno  1482,  l'altra  a  Venezia  coi  tipi  Pincio  l'anno  1537, 
una  terza  a  Crema  coi  tipi  Carcano  l'anno  1723. 


—  181  — 
senlivasi  la  necessità  di  correggerli  e  ripulirli,  acciocché 
meglio  si  conformassero  alle  variate  circostanze. 

diaccilo  non  ci  è  dato  ili  esporre  le  particolari  disposi- 
zioni dei  vecchi  statuii  di  Crema  compilati  Tanno  1309,  ci 
Stringeremo  a  dire  cosa  in  generale  contenessero  gli  statuii 
delle  repnbblicbette  lombarde,  i  quali  sebbene  differissero 
nelle  singole  nonne,  avevano  però  tutti  fra  di  loro  un  co- 
lore di  rassomiglianza. 

«  Il  codice  degli  statuti  conteneva  le  leed  costitutive  del 
«  governo ,  i  diritti  e  le  consuetudini  universali  a  tutta  la 
»  cittadinanza:  le  leggi  criminali  che  assicuravano  la  pub- 
»  blica  pace,  le  leggi  civili  ch'erano  una  mescolanza  del 
»  diritto  barbarico  e  del  romano,  il  quale  in  talune  città 
»  prevaleva  maggiormente  che  in  altre,  e  in  tutte  poi  ten- 
»  deva  a  predominare  nei  tribunali ,  e  fare  sparire  i  ve- 
»  stigi  delle  consuetudini  barbariche,  o  trasformarle  adat- 
»  tandole  all'indole  di  quello:  le  leggi  fiscali,  le  leggi  sani- 
»  tarie,  le  censorie  ,  ovvero  di  costumi,  e  quelle  di  polizia 
»  cittadina  e  rurale:  le  marittime,  le  internazionali:  e  i 
i»  provvedimenti  peculiari,  o  per  meglio  dire,  fatti  per  una 
»  peculiare  circostanza  (*).  » 

Prima  del  trattato  di  Costanza ,  ben  poche  città  italiane 
si  erano  curate  di  raccogliere  e  ridurre  in  iscritto  i  loro 
statuti  (2)  ;  se  ne  occuparono  dopo  quel  famoso  trattato , 
profittando  della  facoltà  che  loro  vi  era  stata  concessa.  Gli 
statuti  delle  città  lombarde  sono  un  pascolo  graditissimo , 
un  tesoro  per  gli  eruditi  che  amano  conoscere  ben  adden- 
tro le  istituzioni ,  i  costumi ,  le  credenze  degli  Italiani  nei 
secoli  del  medio  evo:  noi  lamentiamo  di  non  aver  potuto 
gettare  lo  sguardo  sui  vecchi  statuti  di  Crema,  che  tanto  ci 
avrebbero  giovato  per  delineare  nel  nostro  racconto  la  vita 
politica  e  morale  del  popolo  cremasco  nell'età  per  lui  la 
più  feconda  di  sventure  e  di  glorie. 

(i)  Emiliani-Giudici.  Storia  politica  dei  Municipi  italiani. 
(2)  Si  vogliono  precedenti  alla  pace  di  Gostanza  gli  statuti  di  Mantova,  di 
Pistoja  e  di  Pisa. 


—  182  — 


DOCUMENTI  E  NOTE 


A. 

Privilegio  di  Ottone  IV  a  favore  dei  Cremaschi  : 
tratto  dal  Terni. 

u  In  nomine  sanctcc  et  individua?  Trinitatis,  Otto  quartus  Romano- 
»  rum  Imperator  et  semper  augustus,  quod  in  tempore  fit,  tempore  de- 
»  fluente  evanescit ,  et  ideo  facto  hominum  non  imprudenter  human  a 
»  solertia  scribere  consuevimus  :  Inde  est  quod  attendentes,  et  memoriter 
«  tenentes  ficlem  ac  devotionem  fidelium  nostrorimi  Cremensium:  quam 
»  circa  nostrum  Imperium,  et  nos  semper  habuerunt,  et  in  posterum  se 
n  habituros  non  dubitamus:  Justis  eorum  petitionibus  duximus  con- 
»  descendentiam  :  ea  propter  largimus  et  concedimus  eis  omnes  pos- 
r>  sessiones  et  jura,  et  consuetudines  quas  habebant  in  castro  Crema?, 
»  et  burgo  et  villa,  et  in  aliis  locis  circumstantibus ,  et  in  terris  et 
«  in  aquis  qui  habebant  et  tenebant  ante  guerram  domini  Federici 
r>  Imperatoris  diva?  memoria?,  per  annum  vel  infra  XXX  annos  antea 
r>  regalibus  investientes  beneficiis  imperiali  auctoritate  nostra  hoc  ipsis 
v  statuimus,  et  concedimus  ut  tam  per  aquam  quam  per  terram  libe- 
»  rum  habeant  navigandi,  comeandique  facultatem  :  Ita  ut  nec  tribu- 
j>  tum  nec  teloneum  alicui  debeant ,  nec  albergariam ,  postremo  ne 
»  alicui  subj  aceant  exactioni ,  Imperialibus  solumodo  pra?ceptis  obno- 
«  xij ,  denique  volumus  ut  omnino  securi  foris ,  ei  infra  locum  in  pace 
n  degant  ab  omni  infestatione  immunes,  retinentes  ipsum  locum  Cremte 
«  Imperio  nostro  :  ita  ut  nec  nobis ,  nec  successoribus  nostris  alienare 
n  ullo  modo  liceat,  sed  semper  sub  nostra  protectione  constituti  securi 
»  remaneant.  Statuimus  insuper  ut  nullus  Dux,  Comes,  nec  aliqua  ci- 
7)  vitas  habeat  ibi  jurisdictionem,  vel  districtum  nisi  Nos  tantum,  et 
«  nostri  successores ,  et  prò  suprascriptis  concessionibus ,  et  in  reten- 
n  tione,  et  tuitione  ipsorum  dabunt  singulis  annis  ab  istis  kalendis 
n  Martii  in  antea  in  signum  subjectionis  marchiam  unam  auri,  solven- 
»  dum  nobis  vel  certo  nuntio  nostro  Mediolani  :  omnes  quoque  homi- 
*  nes  de  Crema  a  XXXV  annis  usque  ad  LXX  jurare  debeant  nobis 


—  185  — 

ìbus  nostris,  et  in  Sacramento  fidelitatfs  ad- 
ii diiviit  quod  non  \ retabunt  sed  dabunl  Castrum  de  Crema  uobis  <•: 

■  sucoesnoribus  m  pace  et  in  guerra  si  requisitum  faerit,  lima  jara 
••  lumi  qood  non  facient  aliquam  Bpecialem  ;  cum  aliqna  ci 

••  \iratiun  vel  persona,  absque  consensu  nostro:  Consules  etiam  quos 
print,  vel  unus  nomine  aliorum   recipere  debeat  investiturani 

-  Consolati»  a  nobis,   vel  a  nuntio  nostro  si  fuerimus  in  Lombardia 

-  BÌngulia  annis.  Cassamus  quoque  et  irritimi  deducimus  omnes  oouces- 
n  siones,  et  data,  et  Bcrìpta  .si  qua  feoimus  et  nostri  anteeessores,  de 

-  ipso  loco  Creme,  vel  de  pessessionibus ,  ve!  de  consuétudinibus,  et 
wjuribus,  seu  jurisdictionibus  Cremensium.  PrsBcipiendoque  sancimus 
»  ut  nulla  persona  sscularis,  vel  ecclesiastica,  vel  civitaa  nulla  voi 

-  Podestas  in  praedictia  omnibus  cos  molestare,  voi  desvestire  praesu- 
r  mant  Quod  si  quia  aliqua  occasione,  vel  ausu  temerario  tacere  tem- 

■  ptaverit  contimi  libras  suri  purissimi  componat,  medietatem  Camera? 
*  nostra^  et  aliam  medietatem  ipsis  Cremensibus.   Hujus  N.  facti   et 

■  concessionis  testes. 

«  Petrus  Pratfeetus  urbis,  et  Joannes  ejus  filius  ,  Gulielmus  Mar- 
ti cbio   Montisferati ,  Thomas  Comes  Sabauda; ,    Gulielmus  Marchio 

-  Malaspina,  Tulinus  de  Romano,  SalingueriadeFeraria,  etaliiquam- 
»  plures.  Datum  apud  Laudani  per  manum  Conradi  Spirensis  Episcopi 
n  Imperialis  Aulae  Canccllarius.  Nono  kalendas  februarij  anno  MCCXII 
r>  Indict.  XV  Imperli  nostri  anno  tertio  feliciter.  Amen.  » 

Nota 
B. 

Che  all'  epoca  dei  Munlcipj  le  città  italiane  sieno  state  feconde 
d'uomini  chiarissimi  nelle  armi ,  nelle  scienze,  nelle  lettere,  nelle  arti, 
è  verità  che  ninno  ci  contrasta.  Crema  si  distinse  anch'  essa  siccome 
madre  di  un  popolo  guerriero,  animosissimo ,  amatore  sviscerato  della 
propria  libertà.  Ci  è  però  forza  confessare  che  le  cronache  cremasene 
nell'età  dei  Comuni  non  ci  offrono  esempj  di  personaggi  che  ab- 
biano levato  grido  di  sé  per  opere  d'ingegno  :  fosse  che  i  padri  nostri, 
occupati  indefessamente  nella  difesa  del  loro  Comune  ,  trascurassero 
la  coltura  delle  scienze  e  delle  arti  belle ,  o  forse  che  per  ornarsene  lo 
spirito  difettassero  nella  piccola  Crema  i  mezzi  e  gli  eccitamenti.  Tut- 
tavia non  vogliamo  ommettere  di  notare  il  nome  di  due  giurisperiti 
cremaschi,  Lorenzo  da  Crema,  e  Lanfranco  da  Crema,  comunque  di 
loro  non  vi  sia  alcun  cenno  nelle  cronache  nostre. 


—  184  — 

In  un  articolo  dell'Antologia  di  Firenze  leggesi  :  «  Lanfranco  da 
»  Crema  fu  di  quei  professori  che  nell'anno  1203  emigrarono  da  Bolo- 
3»  gna  al  nuovo  studio  di  Vicenza.  Tornò  poi  a  Bologna  e  vi  morì 
»  canonico  nell'anno  1229.11  Savigny  si  accosta  al  Diploratazio  contro 
■n  il  Sarti  a  credere  che  fosse  lettore  di  ambo  le  leggi ,  per  motivo 
»  delle  glosse  che  ne  ha  veduto  in  molti  manoscritti  parigini  dei  Di- 
n  gesti ,  ove  si  riferiscono  le  dichiarazioni  di  Lanfranco,  le  quali  pon- 
n  gono  fuor  d'ogni  dubbio  che  fu  civilista  ,  come  le  citazioni  dell'  O- 
»  stiense  lo  dimostrano  canonista.  E  così  Lanfranco  sarebbe  un  anti- 
»  chissimo  esempio  dell'unione  delle  due  facoltà  nello  stesso  lettore  e 
«  scrittore  »  (1). 

E  Lorenzo  da  Crema  è  menzionato  dal  Giannone  nella  sua  Storia 
del  regno  di  Napoli ,  siccome  uno  dei  principali  glossatori  del  decreto 
di  Graziano.  Lorenzo  da  Crema  fioriva  verso  il  1220,  e  Guido  Pan- 
ciroìi  lo  dice  maestro  di  Tancredo. 

Altro  egregio  giureconsulto  del  medio  evo  fu  Alberto  Gandino , 
resosi  chiaro  con  un'  opera  intitolata  De  Maleficiis.  Donato  Calvo  e 
Girolamo  Tiraboschi  lo  dicono  Bergamasco  ;  ma  d'esser  egli  nato  Cre- 
masco,  oltre  che  ne  dà  prove  il  Fino,  lo  confessò  egli  medesimo  nell'o- 
pera sua.  È  incerta  l'epoca  in  cui  visse.  Se  crediamo  al  Tintori, 
vivea  circa  il  1303  coetaneo  di  Dino  ;  altri  lo  vogliono  del  secolo  de- 
cimoquinto. L'  opera  sua  De  Maleficiis  fu  stampata  la  prima  volta  a 
Venezia  Tanno  1491. 


(i)  Antologia  di  Firenze,  16  aprile  1833,   in  un  articolo  sulla  Storia    del 
diritto  romano  del  Savigny. 


CAPITOLO  SESTO 

CREMA    SOTTO   IL   DOMINIO   DEI   VISCONTI. 


SOMMARIO. 


a Z?  T, ?.      7  Luchi"° e  G!ovanni  TiscoMi  •—• 

M  ri  h  r  f  FraiTOSrani  a  trema.-  chiesa  da  ]oro  fabbricata.  - 
Morto  d,  Luch.no:  suo  carattere.  -  L'arcivescovo  Giovanni  Visconti  viene 
comunical  ,,(nlerdet(o  su  tMte  ^  ^^       suodomi,.oJ'M;c  e 

G  anZ°  e  rab°  ViSC°n,Ì  dh"d0"°  **  "  l0ro  '  d<"»iDÌ  ^L'arcivescovo 
Giovano,.  -  Crema  cado  in  po.ere  di  Bernabò.  -  Giovanni  d'Oleggio- 
«a  nmm  coi  fienai  di  Crema:  sciagure  Ce  a  jnesu  ne  consegua 
12;  Zi  2°  T  a"'eSÌgli°  ,Um  COl0ro  eh'e™">  ^sanguinei  od 

Zi,  ri  7"  "  eatMCe  M'a  SCa'a'  m0?lie  a  B""ab»  ^onti, 
iene  „,  e  ma  ia  sua  corte.  -  Pestilenza.  -  I  Cremaschi  eleggono  à 
»  trono  della  terra  loro  S.  Pantaleo,*.  _  Fesla  v0(iva  ,  s  ^J^ 
d  annuate  oblazione  cui  sono  obbligati   gli    abitanti   di   Crema       suo 

Vi  con         T  "gi°rn0  4°  di  giUS™'  -  «"»«•*  *   «ernabo 

m,  nJ  ,re2'0ne;  '  CaSle"°  '"  P0rla  0n)briano-  ~  c">°  Risconti, 
Hgho  d,  Bernabò,  ttene  il  regime  di  Crema.  _  La  torre  detta  il  Paradis 

lere  r  r,'  ~  Ga'°aZZ0  C°me  *  V'"Ù  S^lia  "»  2io  »««"  lei 
potere  Carlo  fugge  da  Crema.  -  Gasparino  e  Gherardino  Alchini  sca- 
vano  .canale  che  da  loro  prese  nome  di  roggia  Alchina.  -  Galeazzo 
gè  è  r,ta  Oa»'-Pera.ore  Venceslao.  -  Risorgono  le  fazioni 
guelfe  e  gh.belhne,  e  prendono  le  armi.  -  Convegno  ad  Offanengo  dei 
cap,  dell'uno  e  deb- altro  partito.  -  Tradimento  di  Rinaldo  conte  di  Ca 

:;,;:  fere  »»*>««.  -  m*»***  *«  „»  BiJS.  _ 

Morte  do   duca  G,an  Galeazzo  Visconti,   che  nel  testamento  lascia  Crema 

Pao  o  B  „  SU°  T°  adU"e™°-  -  Trama  dei  gWbellini  "  «-*" 
Paolo  Renzo,,,  e  Marco.to  Vimercati.  -  Sfascio  della  signoria  dei  Viscon- 

Vib^r  ,i„,Tbel,ro  ?  Gab,ieii°-  - Guerre  in  cr°ma  tra  «««>• 

gn.bellini.  -  Gentilino  Scardo,  venuto  da  Bergamo  in  ajuto  dei  ghibel- 

13 


—  186  — 

lini,  occupa  il  castello  di  Porta  Ombriano,  e  vien  ferito  da  una  spingarda. 
—  I  guelfi  trionfano  :  Gabrino  Fondulo ,  cremonese ,  li  consiglia  a  far 
strage  degli  sgominali  ghibellini  :  Paolo  Benzoni  vi  si  oppone.  —  Feroci 
rappresaglie  tra  guelfi  e  ghibellini,  le  quali  finiscono  con  la  vittoria  dei 
guelfi. 


Crema,  ingojata  dalla  serpe  viscontea,  perdette  la  politica 
libertà,  ma  le  fazioni  vi  si  tranquillarono,  cosa  da  molti 
desidcratissima.  Per  quanto  un  governo  dispotico  sia  un 
letto  di  procuste  per  le  popolazioni  condannate  a  soppor- 
tarlo, esse  nondimeno  vi  si  adagiano  con  minor  rammarico 
dopo  che  sperimentarono  da  lunghi  anni  le  procelle  d'una 
abusata  libertà.  Quando  in  un  paese,  commercio,  agricol- 
tura, industria  progrediscono,  al  cullo  della  libertà  quello 
associasi  dei  materiali  interessi  :  le  operose  popolazioni  in- 
vocano sopratutto  pace  e  sicurezza  ,  preziosissimi  benefic] 
che  mal  seppero  guarentire  le  repubblichette  italiane,  mo- 
tivo principalissimo  della  loro  rovina.  Non  ci  fa  meraviglia 
che  il  popolo  milanese,  una  volta  così  baldo  della  sua  li- 
bertà, si  acconciasse  poi  a  servire  i  Visconti;  stanco  dello 
civili  turbolenze,  dell'esser  giuoco  alle  gare  dei  partiti,  alle 
ambizioni  e  soperchierie  dei  grandi,  preferì  la  tirannia 
d'un  solo  a  quella  di  molti:  riputò  non  così  grave  il  flagello 
del  dominio  visconteo,  come  quello  che  pesava  su  tutti,  e 
con  maggior  forza  sulle  primarie  famiglie  patrizie,  infrenan- 
done le  ambizioni. 

Il  governo  dei  Visconti  mantenne  in  Crema  le  forme  re- 
pubblicane ,  o  direni  meglio  le  apparenze  ,  giacché  le  rese 
insignificanti:  v'era  ancora  il  podestà  e  il  gran  concilio  dei 
cittadini;  ma,  privi  del  potere  politico,  non  esercitavano 
che  l'amministrativo,  vincolati  anche  in  questo  dall'arbitrio 
del  principe  che  poteva  ogni  sua  voglia,  sia  nell'  imporre 
gravezze,  sia  nel  rendere  giustizia.  Quindi,  spenta  l'antica 
sovranità  municipale,  non  ne  restavano  ai  Cremaschi   che 


-  187  - 
le  reliquie  nei  nomi  e  Degli  ordini  delle  magistrature,  reli 
quie  che  i  Visconti  accortamente  rispettarono,  sapendo  <li< 
il  popolo  le  mille  volte  è  più  devoto  ai  nomi  che  alla  realtà 
«Mie  coso,  onde  lo  si  può  facilmente  illudere  ed  acquietare 
con  dei  fantasmi. 

Aizone,  primo  dei  Visconti  ch'ebbe  la  signoria  di  Cre- 
ma, morì  nel  1539:  il  consiglio  generale  dei  Milanesi  ali 
surrogò  nel  potere  Luchino,  e  siccome  poco  ben  promet- 
teva per  la  sgovernata  sua  gioventù,  consumala  a  correre 
avventure  fra  i  libertini,  gli  diedero  a  compagno  il  fratello 
Giovanni,  vescovo  e  signore  di  Novara.  Ma  Luchino  Visconti 
quando  si  trovò  al  potere,  eliminò  con  astuzie  e  prepo- 
tenze il  fratello,  che  «  prete,  credenzone,  e  voglioso  di  go  - 
»  dorsi  i  vantaggi  di  una  ricca  fortuna  e  di  una  rara  avve- 
»  nenza,  abbandonò  ad  esso  ogni  pubblica  cura  u).  » 

Durante  la  signoria  di  Luchino ,  i  Cremaschi  videro  nel 
1541  recarsi  a  termine  la  fabbrica  del  duomo,  incomincia- 
ta, come  accennammo,  nei  1284:  videro  i  frati  francescani 
stabilirsi  a  Crema  ponendo  il  loro  convento  in  una  casa 
presso  s.  Michele,  ch'ebbero  in  dono  dalla  famiglia  Benzo- 
ni  :  videro  poi  fabbricarsi  da  loro  nel  1579  la  chiesa  di 
s.  Francesco,  dopo  che  i  frali  ottennero  da  Urbano  V  la 
chiesa  parrocchiale  di  s.  Michele  co' suoi  beni,  acconsen- 
tendovi i  Benzoni,  che  di  quella  chiesa  godevano  il  patro- 
nato. Correndo  Tanno  1548  l'Italia  venne  desolata  da  cru- 
delissima pestilenza:  questa  volta  fu  gran  ventura  per  Cre- 
ma formar  parte  della  signoria  viscontea,  perocché  Lu- 
chino con  saggi  provvedimenti  preservò  i  suoi  Stati  dal 
morbo  ^). 

Luchino  morì  improvvisamente  nel  1549  ,  e  come  pare, 
avvelenato  dalla  consorte.  Questo  principe,  comunque  fiero, 
dissoluto,  impostore,  non  era  all'alto  privo  di  buone  quali 

(1)  Cesare  C.vntù  nella  Margherita  Pmlerla. 


—  188  - 
tà,  tanto  è  vera  la  sentenza  del  Machiavello,  nissun  uomo 
tutto  è  malvagio.  Alcuni  ne  lodarono  il  governo  per  aver 
purgato  i  suoi  Stali  dai  ladri,  frenato  le  prepotenze  dei 
feudatari,  costretti  i  nobili  al  pari  dei  plebei  a  sopportare 
le  pubbliche  gravezze,  trattali  indistintamente  colle  stesse 
leggi  e  guelfi  e  ghibellini.  Era  infatti  sua  politica  spianare 
le  sommità ,  comprimere  e  grandi  e  piccoli  dì  qualunque 
partito  sotto  il  rigido  livello  dell'obbedienza:  ma  forse  ciò 
non  faceva  per  amore  di  giustizia  ,  sibbene  per  timore  di 
perdere  il  potere,  pauroso  com'  era  che  i  grandi  e  le  fa- 
zioni ne  lo  potessero  traboccare.  La  quiete  interna  da  lui 
conservata  ne'  suoi  dominii  fu  salutata  ed  inneggiata  col 
nome  di  pace:  lo  che  prova  come  i  Lombardi,  affranti  dal- 
l'assiduo tempestare  delle  fazioni,  smezzassero  a  chiamar 
pace  la  servitù. 

Spento  Luchino,  cominciò  a  governare  l'arcivescovo  Gio- 
vanni,  che  durante  la  vita  del  fratello  non  potè  mai  inge- 
rirsi nei  pubblici  affari.  Nell'anno  1550  l'arcivescovo  com- 
però da  Giovanni  Pepoli  la  citlà  di  Bologna  per  ducenlo 
mila  fiorini  d'oro.  Il  pontefice,  allegando  diritti  su  Bologna, 
chiese  al  Visconti  che  a  lui  venisse  restituita;  e  perchè  non 
fu  ascollato,  scomunicò  l'arcivescovo  co1  suoi  tre  nipoti,  e 
pose  l'interdetto  sulle  diciotto  citlà  che  componevano  la 
signoria  del  Visconti  (2).  Perciò  anche  la  città  nostra,  quan- 
tunque guelfa  e  costantemente  affezionata  alla  santa  Sede, 
videsi  compresa  nell'interdetto  papale,  punita  per  la  colpa 
del  suo  principe,  per  la  sventura  d'essere  costretta  a  ser- 
vire un  Visconti.  Non  crediamo  però  che  i  Cremaschi  siensi 
accorati  gran  fatto  d'aver  incontrata  l'ira  pontificia:  ana- 
temi ,  scomuniche  ,  interdetti,  piovevano  allora  troppo  di 


^i)  Verri.  Storia,  di  Milano. 
(2)  Idem, 


—  189  - 
fregiente  sul  cupo  dei  fedeli*,  onde  Bcemavasi  alquanto  nel- 
l'animo loro  fa  riverenza  delle  sente  eli/avi. 

L'arcivescovo  Visconti  morì  nell'ottobre  1354;  aveva  an* 
ch'egli,  conio  tuiti  di  sua  famiglia,  il  canchero  nell'ossa  di 
una  sconfinata  ambizione;  nondimeno  splendido,  liberale, 
protettore  dei  letterati,  trovò  scrittori  che  di  lodi  lo  ricol- 
marono. I  suoi  tre  nipoti  Malico,  Galeazzo  e  Bernabò  fra- 
telli ,  si  ripartirono  la  signoria.  Degli  stati  dell'arcivescovo 
toccò  a  Matteo  la  parte  meridionale,  l'occidentale  a  Galeaz- 
zo, a  Bernabò  l'orientale:  Milano  e  Genova  rimasero  indi- 
vise in  potere  comune.  Crema  fu  assegnala  alla  porzione 
di  Bernabò,  tiranno  famigeratissimo ,  tenore  de'  suoi  po- 
poli, per  animo  efferato  a  niuno  secondo  fuori  che  al  fra- 
tello Galeazzo.  Poco  appresso  Galeazzo  e  Bernabò,  per 
maggior  comodità  di  divisione,  uccisero  il  fratello  Matteo, 
ed  i  suoi  Stati  si  appropriarono. 

Erano  a  quest'epoca  i  Beuzoni  di  Crema  imparentali  con 
Giovanni  Visconti  d'Oleggio,  facinoroso,  ambiziosissimo, 
che  in  molte  cronache  figura  qual  figliuolo  dell'arcivescovo 
Visconti.  Giovanni  d'Oleggio,  ripudialo  l'abito  ecclesiastico, 
ammogliossi  con  Antonia  sorella  di  Paganino  Benzoni.  Si- 
tibondo di  grandezza,  destreggiossi  con  tortuosa  politica  e 
con  militari  imprese  finché  riesci,  dominando  Bernabò,  ad 
usurpare  la  signoria  di  Bologna.  Ma  conoscendo  troppo 
difficile  conservarla,  trattava  di  cederla  al  cardinale  Àl- 
bronoz,  legato  pontificio ,  per  riceverne  in  ricambio  la  si- 
gnoria di  Fermo.  Bernabò,  agognando  ricuperare  Bologna, 
pensò  di  sventare  quelle  trattative,  e  ricorse  ai  Benzoni, 
come  quelli  ch'eran  legati  di  parentela  coll'Oleggiano,  in- 
caricandoli di  recarsi  a  Bologna ,  e  là  negoziare  col  loro 
parente,  acciocché  quella  città  a  lui,  non  al  pontefice,  fosse 
resa.  I  Benzoni  s'addossarono  l'incarico,  e  adoperaronsi 
presso  Giovanni  d'Oleggio  per  adempire  ai  desiderj  di 
Bernabò  ;  ma  l'opera  loro  andò  fallita,  e  Bologna  nel  1559 


—  Ì90  — 
i'u  ceduta  al  cardinal  legato.  Bernabò  montò  sulle  furie , 
incolpò  i  Benzoni  della  perdita  di  Bologna,  e  volle  su  di 
loro  sfogare  Tira  sua.  Espulse  dagli  Stati  di  Milano  la  fa- 
miglia Benzoni:  confiscò  i  beni  a  Quarantino  Benzoni,  re- 
galandone parte  ad  Antoniotto  Piacenzi;  nò  di  queste  se- 
vere punizioni  appagandosi,  estese  la  pena  del  bando  a 
quanti  erano  in  Crema  consanguinei  od  affini  dei  Benzoni. 
Se  lamentassero  d'esulare  persone  alle  quali  imputavasi  a 
delitto  Tessere  parenti  dei  Benzoni,  non  me  lo  domandate. 
Gl'infelici  stancarono  di  preghiere  Bernabò  acciocché  rivo- 
casse  l'iniqua  condanna,  ed  egli  finalmente  gli  esaudiva  nel 
novembre  del  1560  permettendo  loro  di  ripatriare. 

Apparisce  dal  Terni,  che  nel  1560  teneva  in  Crema  la 
sua  corte  Beatrice  della  Scala,  moglie  di  Bernabò,  sopra- 
nominata la  Regina,  forse  per  il  suo  maestoso  contegno, 
secondo  i  Veronesi,  o  per  la  sua  boria,  come  pretendono 
gli  storici  milanesi  (l\ 

Nel  1561  un'orribile  pestilenza  assottigliava  la  popola- 
zione della  Lombardia;  colpa  in  parte  di  Bernabò  che  pro- 
cedendo ben  diversamente  da  Luchino,  ommise  ogni  cau- 
tela per  tenerla  lontana  dai  suoi  dominj.  A  Milano  peri- 
rono più  di  settanlamila  persone.  «  Crema  (narra  il  Terni) 
»  a  tale  estremo  era  ridotta,  che  più  non  si  trovava  chi,  nel 
»  disperato  caso,  degli  infermi  cura  togliesse  :  tutti  infettali 
»  erano,  né  l'uno  all'altro  poteva  dar  soccorso  ®).  »  Racco- 
gliamo dai  nostri  cronisti  che  s'incominciò  in  quel  luttuo- 
sissimo anno  a  venerare  dai  Crcmaschi  s.  Pantaleone  qual 
protettore  della  loro  città.  «11  glorioso  Redentore  (prose- 
»  gue  il  Terni),  volendo  i  miracoli  del  santo  martire  al 
3»  mondo  manifestare,  la  mente  aperse  dei  poveri  ammalati 
»  perchè  ricorrere  dovessero  a  s.  Pantaleone.  Uniti  insieme 


(1)  Pompeo  Litta.  Famiglie  celebri  italiane. 
\±)  Terni.  Storia  di  Crema. 


—  191  — 
*  Blenni  di  loro  il  meglio  che  poterono,  fecero  voto  al  gto 
»  rioso  santo  di  ateune  ammali  oblationi ,  e  lo  tolsero  per 

patrono,  che  prima  avevano  s.  Antonio,  s.  Sebastiano  o 
»  s.  Vittoriano.  Patto  il  voto,  subito,  nei  decimo  giorno  di 
»  Bugno  rimase  la  terra  talmente  dulia  malvagia  sorto  libc- 
»  rata,  che  pare  che  dal  vento  fosse  lo  contagio  levato. 
»  Dicesi  che  il  santo  protettore  fu  veduto  in  aere  sopra  la 
>  terra  con  la  mano  distesa,  come  nel  succilo  maggiore  la 
■  Comunità  scolpito  mostra:  ha  vula  la  grazia,  ordinarono  le 
»  processioni  annuali  nel  giorno  della  libera/ione,  che  fu 
»  ai  dicci  di  zugno,  di  tutte  le  arti  ed  huomini  di  Crema 
»  e  del  territorio  come  fino  ai  giorni  nostri  si  costuma  (*)». 
Perchè  mai  i  Cremaschi  che  avevano  già  a  patroni  della 
terra  loro  i  santi  Antonio,  Vittoriano  e  Sebastiano,  in- 
vocarono di  preferenza  il  patrocinio  di  s.  Pantaleonc  on- 
d'essere  dalla  peste  liberali?  I  cronisti  noi  dicono,  ci  sia 
dunque  lecito  congetturarlo.  Leggesi  nel  Terni  che  prima 
ancora  dell'anno  1361  era  in  Crema  un  ospedale  detto  di 
s.  Pantaleonc:  è  probabilissimo  ch'ivi  molti  degli  appestati 
ricoverassero,  e  che  vedendo  ogn'arte  umana  inefficace  a 
procacciar  loro  guarigione,  ricorressero  al  santo  protettore 
del  luogo  ove  giacevano  infermi.  Forse  il  sapere  che  questo 
santo  fu  dotto  in  medicina,  accrebbe  nei  miseri  la  fiducia 
di  risanare  invocandolo,  e  rese  più  confidente  e  fervoroso 
il  voto  che  a  lui  consacrarono. 

Negli  statuti  di  Crema,  oltre  allo  stabilirsi  la  festa  da 
farsi   annualmente  in  onore  di  s.  Pantaleonc ,  venne  pure 

(1)  Terni.  Storia  di  Crema.  —  Nel  libro  V  della  Storia  di  Crema  del- 
l'Aleniamo Fino  leggesi  :  «  Correndo  1'  anno  1485  si  aggrandì  il  coro  del 
»  duooo.  Trovossi  allora  nel  rimuovere  l'aliare  grande  una  cassettina  d'avo- 
»  rio  piena  di  6ante  reliquie,  fra  le  quali  vi  era  un  pezzo  del  capo  di  san 
»  Pantaleone  nostro  protettore,  onde  fecesi  poi  quella  testa  d'argento  la  quale 
»  viene  portata  in  processione  nella  solennità  del  detto  santo».  Chi  bramasse 
più  estese  notizie  intorno  al  santo  patrono  della  città  nostra,  ne  legga  la  vita 
scritta  e  pubblicata  dal  prevosto  don  Cesare  Tensini. 


—  192  — 
determinata  la  misura  dell'oblazione  al  santo  ,  alla  quale 
erano  obbligati,  ricorrendo  il  giorno  lo  giugno,  tutti  gli 
abitanti  la  città  e  il  territorio  di  Crema.  Furono  tassati  di 
un'offerta  in  danaro  i  corpi  collegiali  dei  dottori,  dei  me- 
dici, dei  notaj,  dei  mercanti,  tutti  i  consoli  delle  arti  e  dei 
mestieri,  non  cbe  i  consoli  delle  ventisette  Vicinanze  in  cui 
consideravasi  ancora  ripartita  la  città ,  e  i  consoli  delle 
quarantaquattro  ville  cbe  componevano  il  territorio  cre- 
masco. 

Sudditi  a  Bernabò  Visconti ,  i  Cremascbi  divisero  con 
altre  terre  lombarde  la  soma  di  servire  a  tristissimo 
principe.  Bernabò  non  conosceva  limiti  alla  sua  podestà, 
superbo  a  segno  cbe  un  giorno  fatto  ingiuocchiare  in- 
nanzi a  sé  l'arcivescovo  di  Milano  ,  gli  disse  :  «  Non  sai 
»  tu,  poltrone,  che  in  tutti  i  miei  Stati  io  sono  e  papa 
»e  imperatore?  »  Lui  signoreggiando,  moltiplicarono 
enormemente  le  contribuzioni:  fra  carichi  or  dinar j  e 
slraordinarj  riscuoteva  ogni  anno  da'  suoi  Stati  cento 
sessanta  mila  fiorini  d'oro  ll).  Guelfi  e  ghibellini  rimasero 
in  Crema,  come  altrove,  muti  e  trepidanti  per  la  paura, 
avendo  Bernabò  minacciato  con  editto  il  taglio  della  lingua 
a  chiunque  osasse  chiamarsi  guelfo  o  ghibellino.  I  ponte- 
fici lo  sfolgorarono  di  scomuniche  :  è  sazievolmente  noto  in 
quanto  sprezzo  avesse  Bernabò  le  maledizioni  papali ,  ed 
in  qual  barbaro  modo  complimentasse  sul  ponte  di  Mele- 
gnano  i  nunzj  pontificj  che  a  lui  recavano  la  scomunica. 
Nel  1572  Gregorio  XI  scioglieva  i  sudditi  di  Bernabò  dal 
giuramento  di  fedeltà:  niuno  però  ardì  farglisi  ribelle,  che 
non  bastava  a  rialzare  gli  animi,  prostrati  dal  terrore,  una 
bolla  pontifìcia.  Bernabò  fortificò  Bergamo,  Brescia,  Cre- 
mona, Lodi,  Pizzighettone,  Pontremoli:  a  Crema  nel  1370 
eresse  il  castello  d'Ombriano,  che  poi  i  Veneziani  atterra- 
ti) Vbrri.  Storia  di  Milano. 


—  193  — 
rono.  Questo  fu  innalzato  a  lato  dalla  Porta Ombriano,  sul 

terreno  ove  da  tre  secoli  e  mezzo  sorge  la  casa  dei  Terni: 
però  estendersi  fino  alla  chiesa  della  Trinità,  comprcu- 
dando  l'ortaglia  dell'ora  soppresso  convento  dì  B.  Monica  : 
era  bellissimo ,  in  forma  di  palazzo  ])iù  che  di  for- 
tezza |t). 

1  figli  di  Bernabò  Visconti  non  dirazzavano  dagli  avi; 
libertini,  scioperali,  rotti  ad  ogni  sorla  di  ribalderia.  La 
madre  loro  Regina  della  Scala,  per  sollevarli  dal  brago  dei 
vi/j ,  consigliò  il  marito  di  metterli  a  parte  del  sovrano 
potere,  riputando  questo  un  mezzo  cflìcace  da  infrenarne 
le  sregolatezze.  Bernabò  accondiscese  la  moglie:  ripartì  tra 
i  figli  i  suoi  dominj,  loro  affidandone  il  governo  in  qualità 
di  luogotenenti.  Nella  divisione,  Crema ,  Parma  e  borgo 
s.  Donino  toccarono  al  figlio  Carlo  ,  cui  piacque  stabilire 
nella  città  nostra  la  sua  dimora.  V'entrò  nel  gennajo  del 
4379,  richiese  dai  cittadini  il  giuramento  di  fedeltà,  ed 
elesse  per  abitazione  il  nuovo  castello  d'Ombriano.  Verso 
la  parte  occidentale  del  medesimo  sorgeva  una  torre  in 
amenissima  posizione  :  Carlo  Visconti  adornolla  di  vaghi 
dipinti,  e  come  quello  che  solazzavasi  in  amorose  tresche, 
ne  fece  ara  di  voluttà,  ove  i  riti  di  Venere  sfacciatamente 
celebrava.  Quella  torre  fu  poi  chiamata  del  Paradiso  >  per 
rammentare  i  piaceri  sultanici,  onde  si  deliziava  il  principe 
che  l'abitò.  Atterrata  poi  dai  Veneziani,  trasferì  questo  no- 
me al  vicino  torrione  delle  mura,  il  quale  era  detto  an- 
cora del  Paradiso  ai  tempi  del  Terni  e  del  Fino. 

Carlo  Visconti,  con  inverecondo  contegno  occupandosi 
assai  più  di  femmine  che  del  governo  della  nostra  terra , 
si  rese  ai  Cremaschi  abbominevole.  Quando  Galeazzo  conte 
di  Virtù,  nel  1385,  spogliò  con  tradimento  lo  zio  Bernabò 
del  potere ,  Carlo  lesto  lesto  fuggì  da  Crema  con  la  moglie, 

(1)  Terni.  Storta  di  Crema. 


—  494  — 
paventando  non  tanto  del  cugino  Galeazzo  quanto  le  ven- 
dette dei  Cremaschi. 

Gian  Galeazzo  nel  sei  maggio  1585  rapì  la  signoria  allo 
zio  e  suocero  Bernabò  con  nerissima  perfidia:  pure  era  di- 
venuta così  mostruosa  in  Italia  la  tirannia  di  Bernabò,  che 
niuno  levossi  a  difendere  le  sue  ragioni  e  quelle  della  sua 
prole.  Quindi  Gian  Galeazzo,  conte  di  Virtù  ,  potè  senza 
verun  contrasto  incorporare  i  dominj  dello  zio  ai  proprj 
che  dal  padre  avea  redati;  la  potenza  dei  Visconti,  in  lui 
concentratasi,  più  che  mai  giganteggiava. 

Crema  si  arrese  a  Gian  Galeazzo  cinque  giorni  dopo  Mi- 
lano, meno  la  rocca  che  a  lui  si  diede  poco  dopo,  come  la 
cittadella  di  Bereamo  ed  altre  fortezze. 

Nel  1590,  per  opera  dei  fratelli  Gasparino  eGherardino, 
figli  di  Fermo  Alenino,  fu  scavata  la  roggia  che  da  loro 
prese  nome  d'Alchina,  la  quale  irrigando  buona  parte  del 
territorio  cremasco,  vi  accrebbe  fertilità  e  valore.  Le  con- 
dizioni materiali  del  nostro  suolo  miglioravano,  le  sorti  po- 
litiche andavano  sempre  più  peggiorando.  Gian  Galeazzo 
trovò  modo  di  conficcare  più  saldamente  il  chiodo  della  ser- 
vitù nel  petto  dei  sudditi.  Finora  i  Visconti  sulla  scena  po- 
litica d'Italia  comparivano  quali  usurpatori  :  base  della  loro 
signoria  era  l'adesione  dell'  assemblea  popolare  in  Milano, 
illegittima  rappresentanza  foggiata  a  senno  loro,  ov'essi  in- 
fluenzavano coi  raggiri,  coli' oro  e  col  fascino  della  loro 
grandezza.  Gian  Galeazzo  volle  radicare  la  potenza  della 
sua  famiglia  sopra  più  sicuro  terreno,  imbrancarsi  coi  mo- 
narchi, perpetuare  la  sovranità  nei  suoi  discendenti.  Fece 
luccicare  cento  mila  fiorini  d'oro  sugli  occhi  del  bisognoso 
imperatore  Venceslao,  domandando  ch'erigesse  la  di  lui  si- 
gnoria in  ducato ,  e  lui  ne  investisse  col  titolo  di  duca 
trasferibile  a'  suoi  discendenti.  L'imperatore,  aderendo  al 
Visconti,  gli  concedette  il  titolo  di  duca,  nominò  le  venticin- 
que città  (Crema  fra  queste)  che  dovevano  comporre  il  du- 


—  195  — 

culo.  Per  tal  modo  la  città  nostra  divenne  una  delle  gemme 
alla  ilucal  corona  dei  Visconti,  mercanteggiata  eolle  più 

cospicue  lene  di  Lombardia  da  no  imperatore,  in  onta  dei 
diplomi  di  Federico  BarbarOSSa  e  di  Ottone  IV,  che  libera 

la  dichiararono. 

L'investitura  del  nuovo  duca  venne  solennizzata  a  Milane» 
addì  93  settembre  del  1395  con  leste  sontuosissime.  Gian 
Galeazzo  vi  profuse  favolose  somme  di  danaro,  oro  cavato 
dalle  viscere  dei  sudditi.  In  tulle  le  eiltà  dello  Sialo  si 
fecero  trionfi  e  fuochi  (*)  ;  segni  d'esultanza  prodigali  dalle 
popolazioni,  che  per  divertirsi  celebravano  con  gli  evviva 
i  funerali  della  loro  libertà. 

Assunto  Gian  Galeazzo  al  ducalo,  si  ridestarono  in  pa- 
recchie terre  le  discordie  guelfe  e  ghibelline,  da  sessantanni 
assopite.  Sul  Bergamasco  rinvelenirono  prima  che  altrove, 
perocché  il  Visconti,  come  leggesi  nelle  cronache  milanesi, 
permise  nel  1592  ai  guelfi  e  ghibellini  della  città  e  vesco- 
vato di  Bergamo  di  potersi  a  vicenda  offendere  tanto  ne- 
gli averi  che  nelle  persone  W.  Né  andò  guari  che  anche  a 
Crema,  guelfi  e  ghibellini  affilarono  di  nuovo  le  spade  per 
ìstraziarsi  a  vicenda.  Sparsasi  nel  1598  la  falsa  voce  che  il 
duca  Gian  Galeazzo  era  morto,  i  guelfi  di  Crema  e  quelli 
dei  vicini  paesi  tennero  un'adunanza  in  Oflanengo;  poi, 
raccolte  le  forze  loro,  entrarono  nel  Bergamasco,  ove  pre- 
sero una  villa  abitata  dai  ghibellini,  menando  stragi,  sacco 
e  ruine.  I  ghibellini  infierirono  anch'essi:  quei  di  Crema, 
unitisi  coi  Soardi  di  Bergamo,  abbruciarono  Fara,  castello 
del  Bergamasco  posseduto  dai  guelfi.  Capi  del  partito  guelfo 
erano  in  Crema  i  Benzoni  e  i  Yimercali;  dell'avversario,  i 
conti  di  Camisano.  Nell'anno  medesimo  (1598)  vi  fu   un 


(1)  Terni.  Storia  di  Crema. 

(2)  Cronaca  milanese,   riportata  dal  Muratori  nella  raccolta  Rerum  itali- 
carum. 


—  196  - 

convegno  a  Ricengo  in  casa  di  Nicolò  Vimercali,  ove  s'ab- 
boccarono i  capi  dell'una  e  dell'altra  fazione,  fra  i  quali 
Compagno  Benzoni  e  Rinaldo  dei  conti  di  Camisano.  I  loro 
discorsi  versarono  sul  modo  di  venire  ad  una  riconcilia- 
zione, e  dopo  lunghe  e  calde  dispute  i  due  parliti  si  giura- 
rono la  pace.  Rinaldo  dei  conti  di  Camisano  in  quel  con- 
vegno pompeggiò  di  generose  parole ,  protestando  che  vo- 
leva anch'egli  per  alcuni  giorni  essere  guelfo.  Ma  poiché 
ebbe  ottenuto  licenza  di  entrare  in  Crema ,  spergiurò  la 
data  fede ,  v'irruppe  a  mano  armala  co'  suoi  partigiani  , 
sorprese  e  colse  tulli  i  guelfi  in  una  rete.  Rinaldo  volle 
consumare  barbaramente  l'iniquo  tradimento:  mandò  sulle 
forche  cinque  guelfi,  ed  altri  duecento  parie  in  prigione , 
parte  in  esiglio.  Contavansi  fra  i  duecento,  venti  Benzoni, 
nove  Zurla ,  sette  Vimercali,  sei  Terni.  Non  sembra  però 
che  il  conte  di  Camisano  e  il  partito  ghibellino  abbiano 
goduto  lungo  tempo  in  Crema  il  sopravento:  benché  ciò 
non  dicano  le  nostre  cronache ,  lo  desumiamo  dagli  avve- 
nimenti che  narreremo  in  appresso. 

L'anno  susseguente  (1599)  è  nella  storia  segnalato  dai 
pellegrinaggi  dei  così  detti  Penitenti  Bianchi.  Erauo  com- 
pagnie di  persone  divote,  coperto  il  volto  di  bianche  len- 
zuola scendenti  fino  ai  piedi;  con  in  mano  un  crocifisso,  e 
recitando  lo  Stabat  Mater ,  scorrevano  processionalmente 
le  contrade  d'Italia  inculcando  ai  popoli  pace,  carità,  pe- 
nitenza. Fleury,  scrittore  di  storia  ecclesiastica,  attribuisce 
l'origine  dei  Penitenti  Bianchi  ad  alcuni  impostori  venuti 
dalla  Scozia,  l'uno  dei  quali,  narra,  si  spacciasse  per  il  pro- 
feta Elia  ritornato  in  terra  ad  annunziare  il  finimondo. 
Altri  storici  discorrono  con  riverenza  di  questi  pellegrini  : 
tutti  concordano  nel  dire,  che  ovunque  passavano  accen- 
devano nelle  popolazioni  un  religioso  entusiasmo,  e  che  i 
loro  drappelli  s'ingrossavano  mano  mano  che  in  Italia  in- 
noltravansi.    «  Passarono  per  Crema  (  scrive  Terni),  sulla 


-  197  - 
»  line  di  settembre  di  tanto  e  tale  Damerò,  che  si  stupirono 
»  k»  politi,  e  dui  Cremtsehi  furono  accompagnati  fino  a  Ca- 
»  siigliene.  »  Momentanei  ma  salutari  effetti  produssero  nei 
popoli  le  pietose  parole  dei  Penitenti  Bianchi  :  lo  Btesso 
Fleury  è  costretto  a  confessale,  che  in  \ irlù  delle  loro  pre- 
diche si  spense  un'infinità  di  lunghe  e  mortali  inimicizie. 
Non  possiamo  accertare  ch'essi  predicassero  il  finimondo; 
però  che  i  popoli  lo  credessero  vicino  non  meravigliamo. 
Si  getti  un  rapido  sguardo  sulle  condizioni  d'  Europa  in 
queir  epoca  :  quale  cumulo  di  miserie  la  martoriava,  quasi 
flagelli  precursori  del  finale  giudizio!  La  peste  mieteva  in 
parecchi  Stati  molte  migliaja  di  vittime!  dall'oriente  Ta- 
merlano  e  Bajazelte  minacciavano  sovvertire  il  mondo  col 
furore  dell'armi  mussulmane;  in  Francia  un  rementecato; 
un  imperatore  pusillanime  in  Germania;  l'Italia  a  scompiglio 
per  guerre  civili,  soperchieric  di  tirannelli,  e  particolarmente 
per  le  mene  amhiziose  del  perfidissimo  duca  Gian  Galeaz- 
zo: a  tutto  ciò  aggiungete  uno  scisma  nella  chiesa  cattolica 
che  il  contegno  della  corte  di  Roma  infiammava  con  dolore 
e  scandalo  dei  fedeli.  Il  luttuoso  spettacolo  di  tanti  mali 
porgeva  argomento  da  condurre  i  popoli  nel  Umore  dei 
prossimo  finimondo,  da  infervorarli  a  penitenza,  invogliarli 
a  divoti  pellegrinaggi.  Tre  mesi  durarono  in  Italia  le  pro- 
cessioni dei  Bianchi  Penitenti,  ospitati  ovunque  dalle  popo- 
lazioni con  ardore  di  religioso  entusiasmo  :  seguivate  so- 
spettoso e  vigile  l'occhio  dei  principi ,  paurosi  che  sotto 
coperta  di  religione ,  trame  politiche  nascondessero.  Giunte 
a  Viterbo  in  Romagna ,  papa  Bonifacio,  che  le  avversava 
fece  il  loro  capo,  siccome  eretico,  abbruciare. 

Nel  1402  moriva  il  duca  Gian  Galeazzo  Vìscouti,  por- 
tando nel  sepolcro  il  disegno  d'insignorirsi  di  tutta  Italia, 
che  a  lui  contrastò  la  guelfa  politica  della  repubblica  fio- 
rentina ,  o  forse  quella  fatalità  che  impedì  a  tanti  d'  effet- 
tuare il  medesimo  disegno.  A  Milano  si  resero  al  defunto 


-  198  — 
duca  esequie  splendidissime ,  ove  intervennero  ambascia- 
tori cremaschi  t*)  insieme  a  quelli  di'  altre  quarantacinque 
città  suddite  al  Visconti. 

Gian  Galeazzo,  tuttoché  ingolfato  in  politici  intrighi  e 
guerresche  intraprese,  tuttoché  cercasse  tratto  tratto  di 
allucinare  il  mondo  con  le  subdole  arti  del  santocchio  , 
sollazzavasi  con  drude,  e  morendo  lasciò  tìgli  adulterini, 
uno  dei  quali  nato  da  Agnese  Manlegazza  per  nome  Ga- 
briello. A  questi  Gian  Galeazzo  donò  nel  suo  testamento  la 
signoria  di  Pisa  e  di  Crema:  il  rimanente  de'  suoi  dominj 
assegnò  in  disuguali  porzioni  ai  due  figli  legittimi  Giovanni 
Maria,  primogenito,  e  Filippo  Maria.  E  per  essere  i  figli 
ancora  in  minor  età,  ne  affidò  la  tutela  a  Caterina  Visconti 
loro  madre,  e  a  diecisettc  personaggi,  fra  i  quali  i  più  fa- 
mosi condottieri  che  avevano  a  lui  prestato  nelle  guerre 
importantissimi  servigi. 

I  Cremaschi,  dovendo  rendere  omaggio  al  nuovo  prin- 
cipe, eleggono  quattro  ambasciatori  da  inviare  a  Milano, 
due  guelfi  e  due  ghibellini:  guelfi,  Paolo  Benzoni  e  Mar- 
cotto  Vimcrcati,  capi  della  loro  fazione,  il  parlilo  ghibel- 
lino, calcolando  quanto  a  lui  tornerebbe  profittevole  sba- 
razzarsi per  sempre  di  questi  due  autorevoli  personaggi , 
propose  giocar  loro  un  mal  tiro ,  ed  assassinarli  sulla  via 
quando  fossero  incamminati  alla  volta  di  Milano.  Ma  una 
donna  guelfa  maritata  ad  un  ghibellino  svelò  la  trama , 
onde  resine  consapevoli  il  Benzoni  ed  il  Vimercati,  si  po- 
sero in  viaggio  separatamente,  facendosi  precedere  a  non 
molti  passi  da  una  spia.  Erano  appena  entrati  nel  Lodi- 
giano  ,  quando  la  spia,  scoprendo  persone  armate  che  sta- 
vano in  agguato,  ne  diede  il  convenuto  segnale  ai  due 
ambasciatori,  i  quali  ben  tosto  retrocessero  verso  Crema. 
1  guelfi  furono  del  turpe  attentato  indignatissimi,  nondi- 

(1)  Corio.  Storia  di  Milano. 


—  199  — 
meno  deliberarono  protrarre  il  giorno  della  vendetta ,   ri- 
flettendo non  essere  ancora  opportuno  il  momento.  Il  Ben 
/.cui  e  il  Vimercati  nella  seguente  notte  rifecero  il  viaggio 
e  giunsero  a  Milano,  scortati  però  da  uomini  d'armi  e  per 
altra  strada. 

Per  la  reggenza  di  una  donna,  per  le  rapine  dei  corti 
giani  e  condottieri  scelti  da  Gian  Galeazzo  a  fiancheggiare 
la  debole  età  de'  suoi  figliuoli,  la  grandezza  dei  Visconti 
sfasciarsi.  Se  ne  rallegravano  i  popoli  di  Lombardia,  desi 
derosi  d'aimnigliorarc  le  sorli  loro,  e  perchè  s'erano  piutto- 
sto adattali  che  addomesticati  al  regime  visconteo,  quan- 
tunque Gian  Galeazzo  avesse  cercato  di  abbagliarli  con 
sontuosissime  feste,  collo  sfarzo  di  una  corte  splendidis- 
sima, coll'affettare  sentimenti  religiosi,  innalzando  templi 
di  meravigliosa  bellezza.  D'altronde  nò  i  forni  di  Monza  , 
né  le  enormi  gabelle  erano  argomenti  da  spegnere  nei  po- 
poli la  ricordanza  della  perduta  libertà.  Perciò  sotto  la 
reggenza  di  Caterina  Visconti,  a  Milano  i  cittadini  comin- 
ciarono a  tumultuare;  in  altre  terre  del  ducalo  guelfi  e 
ghibellini,  ribellatisi,  conlendevansi  la  prevalenza.  Ovunque 
insorgevasi  a  calpestare  la  biscia  viscontea;  ma  nel  mentre 
si  anelava  a  libertà,  i  partiti  tornavano  a  inviperire,  ed  a 
lordarsi  di  sangue  citladino  :  turbolenze  e  scompigli  deso- 
lavano di  bel  nuovo  le  terre  lombarde.  In  molte  città  l'in- 
furiare dei  partiti  spianò  agli  ambiziosi  la  via  di  farsi  ti- 
rannelli  della  patria  loro,  sottentrando,  coll'ajulo  della  fa- 
zione prevalente,  al  dispotismo  dei  Visconti.  I  Cremaschi , 
profittando  della  lontananza  di  Gabriello  Visconti  loro  si- 
gnore, che  soggiornava  a  Pisa,  gli  si  ribellano  ;  quindi  la 
città  nostra,  poco  dopo  la  morte  di  Gian  Galeazzo,  tornò 
libera,  o  direm  meglio,  nell'anarchia  delle  fazioni. 

ÌNel  1405,  i  guelfi  cremaschi,  ai  quali  tardava  di  vendicare 
le  offese  ricevute,  traggono  le  spade  e  assalgono  i  ghibel- 
lini :  questi  trovandosi  inferiori  di  forze  e  di  numero  si  ri- 


—  200  — 
fugiano  nel  castello  di  Ombriano,  né  potendo  provvederlo 
di  vettovaglie  sufficienti  onde  resistervi  lungo  tempo,  man- 
dano per  soccorso  a  Gentilino  Soardo,  bergamasco,  il  quale 
di  notte  tempo  viene  a  congiungersi  con  loro,  menando  della 
soldatesca.  I  guelfi,  poste  a  sacco  le  abitazioni  dei  nemici, 
accampano  nella  piazza,  vi  si  fortificano  asserragliando  tutte 
le  vie  che  metteano  a  quella,  tranne  le  due  di  Serio  e  di 
Ombriano  che  munirono  di  cancelli  di  ferro.  I  ghibellini 
per  recar  guasti  al  nemico  avevano  scorso  il  territorio  cre- 
masco  incendiando  le  case  de1  guelfi,  tanto  da  forsennati , 
che  a  Capralba  il  fuoco  divorò  anche  le  case  dei  ghibellini. 
Spaventati  dal  furore  nemico,  i  guelfi  pregano  d'ajuto  il  si- 
gnore di  Cremona,  che  mandò  loro  ben  tosto  Gabrino  Fon- 
duto con  buona  milizia  e  quattro  spingarde,  specie  d'arti- 
glieria di  que'  tempi.  Tre  delle  spingarde  collocaronsi  in 
piazza  a  difesa  dei  cancelli,  l'altra  Antoniolo  Marchi,  rom- 
pendo i  muri  di  parecchie  case,  riuscì  di  trasportare  nella 
chiesa  della  SS.  Trinità,  rimpetto  al  castello,  senza  che  i 
ghibellini  se  ne  avvisassero.  Operato  nella  porta  della  chiesa 
un  pertugio  che  mirava  appunto  sul  ponte  del  castello  , 
Antoniolo  Marchi  poteva  a  suo  bell'agio  offendere  colla 
spingarda  i  ghibellini,  ogni  qualvolta  sul  ponte  gli  si  affac- 
ciassero. Infatti  un  giorno  che  Gentilino  Soardo  volle  uscire 
colla  sua  gente  dal  castello,  venne  da  un  colpo  di  spin- 
garda ferito  in  una  coscia  e  costretto  a  ritirarsi.  I  guelfi, 
vedutolo  cadere  a  terra, supponendolo  morto,  salirono  giu- 
bilanti sui  campanili  per  osservare  cosa  i  nemici  risolves- 
sero fare  nel  doloroso  caso  ;  ma  nulla  poterono  scoprire 
della  loro  costernazione.  I  ghibellini,  disperando  della  gua- 
rigione del  Soardo  ,  la  cui  ferita  rincrudiva  sempre  più  , 
deliberarono  di  trasportarlo  a  Bergamo.  I  guelfi  ,  veduti  i 
nemici  sgombrare  dalla  Rocca  di  Ombriano,  ne  scalano  la 
muraglia,  e  se  ne  impadroniscono.  Accompagnato  il  Soardo 
sul  suolo  bergamasco ,  i   ghibellini  ritornano  alla  volta  di 


—  c201  — 
Crema,  credendo  poter  rientrare  nella  rocca;  ma  irnvan- 
dola  occupata  dai  nemici ,  si  abbandonano  scoraggiati  a 
precipitosa  fuga.  Allora  Gabrino  Fonduto  siimelo  i  guelfi 

ad  inseguirli,   e  COn  la  spada  alla  mano  finire  il  hallo  ^  : 

ma  \i  si  oppose  Paolo  Benzoni,  uno  fra  i  primi  e  più  rispet- 
tabili personaggi  della  su;»  fazione.  —  La  vittoria,  disse  Paolo 
Benzoni,  ci  venne  dal  cielo,  serbiamola  immacolata;  i  ne- 
mici hanno  già  perduto  tulio  ,  perchè  ogni  loro  ricchezza 
è  nelle  nostre  mani:  ora  colf  inseguirli  e  col  tagliarli  a 
pezzi  noi  offenderemmo  la  divina  clemenza  che  tanta 
grazia  ci  ha  donato  (*).  —  Alle  quali  parole  Cabrino  l'on- 
dulo rispose,  che  se  la  vittoria  avesse  arriso  ai  nemici,  essi 
non  avrebbero  certamente  risparmiato  con  tanta  mitezza  il 
sangue  dei  guelfi  ;  che  a  lui  sembrava  follìa  l'astenersi  dallo 
sterminarli,  mentre  il  cielo  ne  porgeva  l'occasione;  che 
giorno  verrebbe  in  cui  i  guelfi  si  pentirebbero  dell'  usata 
clemenza;  ch'egli  tuttavia  non  voleva  insistere  nella  sua 
opinione,  perchè  era  venuto  a  Crema  a  farvi  il  talento  dei 
guelfi  e  non  il  proprio.  11  consiglio  di  Gabrino  sembrerà  a 
taluni  assennato  e  maturo,  siccome  quello  che  è  più  con- 
forme alle  leggi  di  opportunità  e  di  guerra  :  noi  tuttavia 
ammireremo  l'animo  generoso  di  Paolo  Benzoni ,  che  non 
volle  colla  strace  dei  ghibellini  macchiarsi  di  sangue  citta- 
dino:  raro  esempio  di  moderazione  in  tempi  ove  non  sa- 
tollavano a  così  buon  mercato  le  vendette  delle  fazioni. 

I  ghibellini  di  Crema,  rifugiatisi  a  Bergamo,  stringono  al- 
leanza coi  ghibellini  fuorusciti  di  Brescia  e  di  Cremona,  e 
volendo  ripigliare  le  ostilità,  eleggono  loro  capitani  Rolando 
Pelavicino  e  Pietro  Gambara  :  muovono  verso  Solicino,  lo 
occupano  corrompendovi  il  castellano:  poi,  sitibondi  di  ven- 
detta, si  gettano  sul   territorio  cremasco.    Allora  i  guelfi 


(1)  Terni.  Storia  di  Crema 

(2)  Idem, 

u 


—  202  — 
spianano  tutte  le  torri  ed  i  castelli  dei  ghibellini  onde  im- 
pedire ch'essi  trovassero  luoghi  da  potervisi  dentro  fortifi- 
care. Fanno  i  ghibellini  atroce  rappresaglia,  le  case  dei  ne- 
mici abbattendo,  saccheggiando:  ammazzano  quanti  guelfi 
loro  capitavan  nelle  mani,  lasciandone  i  cadaveri  insepolti. 
Queste  bestiali  reazioni  rammentarono  a  Paolo  Benzoni  le 
parole  del  Fondulo:  verrà  giorno  che  vi  pentirete  della 
usata  clemenza.  Ma  anche  questa  volta  la  vittoria  toccò 
ai  guelfi,  i  quali  essendosi  confederati  ai  Lodigiani,  fini- 
rono col  rompere  e  discacciare  i  ghibellini  dal  territorio 
eremasco, 


~-  203 


CAPITOLO      SETTIMO 


IL    1MH1IMO    DEI    IIKNZOM. 


Si  ►MMAHIO. 

U  ritta  di  Lombardia  in  potere  dei  tirannelli.  —  Paolo  e  Bartolomeo  fratelli 
Beiizoni  si  fanno  proclamare  signori  di  Crema.  —  Se  possa  dirsi  ch'essi 
usurpassero  il  dominio  di  Crema.  —  I  Benzoni  fanno  guerra  ai  ghibellini 
e  ne  riportano  vittoria.  —  Pestilenza  :  ne  muojono  entrambi  i  Benzoni.  — 
Testamento  di  Bartolomeo  Benzoni.  —  Giorgio  Benzoni  s'impadronisce  di 
Crema.  —  Si  combatte  l'opinione  dell'Aleniamo  Fino,  il  quale  nega  che 
Giorgio  Benzoni  si  usurpasse  il  dominio  dì  Crema.  -~  Lite  fra  Giorgio 
Benzoni  e  l'abbazia  di  Cereto.  —  Provvedimenti  di  (ìiorgio  Benzoni 
per  guarentirsi  la  signoria  di  Crema.  —  Castelli  edificati  dal  Benzoni 
nel  territorio  cremasco.  —  Giorgio  Benzoni  insignito  della  nobiltà  vene- 
ta. —  Politica  e  maneggi  di  Giorgio  Benzoni  per  mantenersi  in  potere. 
—  L' imperatore  di  Germania  conferma  a  Giorgio  Benzoni  la  signoria  di 
Crema  e  di  Pandino.  —  Giorgio  Benzoni  riconosce  per  supremo  signore  il 
duca  di  Milano  Filippo  Visconti,  e  riceve  da  lui  il  dominio  di  Crema  e  di 
Pandino  a  titolo  di  feudo.  —Patti  imposti  al  Benzoni  nell'investitura  del 
feudo  di  Crema  e  di  Pandino.  —  Giorgio,  divenuto  feudatario,  assume  il 
titolo  di  conte.  —  Zelo  con  cui  Giorgio  Benzoni  si  adopera  per  conser- 
varsi in  favore  del  duca  di  Milano.  —  Ribalderie  dei  figli  di  Giorgio 
Benzoni.  —  1  nemici  di  Giorgio  Benzoni  tramano  la  sua  rovina.  —  Gior- 
gio fugge  da  Crema,  e  ne  perde  per  sempre  la  signoria.  —  Carattere  di 
Giorgio    Benzoni.  —  Monete   da  lui  fatte  coniare. 

La  nissuna  sicurezza  delle  persone  e  degli  averi  era  di- 
venuto un  male  insopportabile,  e  doveva  in  Crema  gene- 
rare i  medesimi  effetti  politici  che  in  altre  città  lombarde, 
ove  all'anarchia  delle  fazioni  sottentrò  la  signoria  dei  tiran- 
nelli. Dominavano  a  Lodi  i  Vignati,  a  Boriiamo  i  Scardi,  i 


—  204  — 
Cavalcabó  a  Cremona,   i  Busca  a  Como,  Landi  e  Scolti  a 
Piacenza:  a  Crema,  volgendo  le  stesse  vicissitudini,  signo- 
reggiarono i  Benzoni. 

Correva  il  giorno  dodici  di  novembre  dell'anno  1405: 
tocchi  di  campana  chiamano  i  cittadini  di  Crema  al  palazzo 
del  Comune  per  raccogliersi  in  concilio  generale.  V'accor- 
rono i  sindaci  della  Comunità  e  più  di  duecento  venti  cit- 
tadini fra  nobili  e  plebei  ;  due  notaj,  presenti  a  quell'adu- 
nanza, rogano  un  islromento  dal  quale  apparisce  che  in  quel 
giorno  il  popolo  di  Crema  abdicò  la  millantata  sovranità 
conferendola  ai  fratelli  Paolo  e  Bartolomeo  Benzoni  i*. 
Sciolta  l'adunanza,  seguono  le  feste  e  le  ovazioni  ai  nuovi 
signori:  un  pomposo  corteggio  di  gentiluomini  che  pavoneg- 
giandosi accompagnano  cavalcando  per  la  città  i  due  fra- 
telli :  uno  sventolare  di  bandiere  collo  stemma  del  Comune, 
cui  intrecciarci  due  stocchi  e  due  scettri,  simboli  di  signo- 
ria: schiamazzi  di  plebe,  giubilante  d'aver  acquistati  nuovi 
padroni,  e  suoni  e  fuochi  per  tre  notti  continuati. 

La  nuova  signoria  dei  Benzoni  fu  da  molli  scrittori  qua- 
lificata usurpazione;  tale  infatti  poteva  giudicarsi  in  con- 
fronto di  Gabriello  Visconti,  al  quale  competeva  per  testa- 
mento paterno  la  signoria  di  Crema,  cui  non  aveva  rinun- 
cialo comunque  dimorasse  a  Pisa.  Ma  a  noi  sorge  dubbio 
che  il  potere  dei  Benzoni  non  abbia  avuto  titolo  di  legitti- 
mità neppure  in  faccia  del  popolo  cremasco.  Varie  circo- 
stanze,  parte  notale  dal  Terni  medesimo,  parte  desunte 
dallo  scrupoloso  esame  dell' istromento  rogalo  in  Crema 
addì  12  novembre  1405,  concorrono  nell'avvalorare  il  no- 
stro dubbio. 

È  particolarmente  da  avvertirsi  die  i  cittadini  interve- 
nuti all'adunanza,  e  sottoscritti  nell'istromenlo  del  12  no- 


ti) Vedi  A  nei  Documenti.  l'istrumcnto   d'elezione  dei  fratelli  Benzeni   a 
«ignori  di  Crema. 


—  109  — 
vombiv  1405,  erano  lutti  guelfi,  partigiani  di  Paolo  Benzoni 

loro  capo:  non  un  nome  \i  leggiamo  di  notorie  famiglie 
ghibelline,  quali  furono  a  que!  tempi  i  conti  di  Camisano 
i  Gambazocco,  i  Guinzoni,  i  Tintori,  i  Passerotti,  i  Freca- 
\alli,  i  Gaadini,  i  Piacenzi,  i  Bassi,  i  Cristiani,  i  Bernardi, 
gli  Alchini.  Supposto  adunque  che  l'elezione  dei  Benzoni 
alla  signoria  di  Crema  sia  avvenuta  in  quell'adunanza,  non 
ora  il  generale  suffragio  dei  cittadini  eremaschi,  ma  la  fa- 
zion  guelfa  che  diede  ai  fratelli  Benzoni  il  dominio  di  (Ironia. 
Riesce  strano  al  Terni  come  nell'adunanza  del  12  novem- 
bre venissero  eletti  due  signori,  non  uno:  a  schiarirne  la 
ragione,  il  nostro  cronista  s'induce  a  credere  che  Bartolo- 
meo e  Paolo  Benzoni  ottenessero  nello  scrutinio  parità  di 
suffragi.  Ma  dall'islromento  non  apparisce  che  reiezione 
venisse  fatta  mediante  scrutinio,  onde  si  potrebbe  conget- 
turare che  i  due  fratelli  Benzoni  siano  stali  innalzati  al  do- 
minio di  Crema  per  acclamazione.  Considerando  poi  come 
i  Benzoni  in  Crema  fossero  già  i  capi  della  fazion  guelfa, 
a  que' giorni  trionfante,  forse  non  andò  lungi  dal  vero  Giu- 
seppe Racchetti  asserendo  che  i  fratelli  Benzoni  prima  s'ar- 
rogarono il  dominio  di  Crema,  poi  si  fecero  proclamare  si- 
gnori da  un'adunanza  di  cittadini  ove  e  sindaci  e  consiglieri 
erano  già  istrutti  di  quanto  dovevano  dire(l\ 

Noi  ci  accostiamo  all'opinione  del  Racchetti, anche  perchè 
la  storia  di  tulli  i  popoli  c'insegna,  essere  vecchia  astuzia  dei 
potenti  adombrare  eolle  apparenze  della  legalità  le  loro  ra- 
pine e  soperchicrie.  Ci  si  permetta  adunque  di  sparger  dubbj 
sulla  legittimità  del  dominio  dei  Benzoni,  che  che  ne  dica 
in  contrario  nelle  sue  Sericine  i'Àlemanio  Fino,  il  quale, per 
cortigianeria  ai  patrizi,  soventi  volte  la  verità  o  finge  di 
non  vedere  o  si  sforza  di  oppugnare:  quindi  non  combat- 
teremo la  taccia  di  usurpatori  che  scrittori  non  cremaschi 

^l)  Racchetti.  Annotazioni  alla  Storia  dell' Alemanio  Fino. 


—  206  — 
adossarono  ai  Benzoni,  giacché  e  il  Terni  che  tali  fossero 
lo  lascia  travedere  (*)„  ed  il  Bacchetti  lo  dice  scopertamente. 

Assunti  alla  signoria  di  Crema,  i  Benzoni  pensano  a  re- 
golarne il  regime:  creano  Nicolò  Alfieri  castellano  della 
rocca  d'Ombriano,  e  podestà  Giovanni  Cigala  :  estendono  il 
loro  dominio  sulla  terra  di  Pandino,  né  sappiamo  in  qual 
modo.  Indi  si  adoperano  per  difendersi  dalle  aggressioni  dei 
ghibellini  che  occupavano  Soncino,  Castiglione,  Bomanengo: 
fatta  alleanza  col  signore  di  Cremona,  sostenitore  anch'esso 
di  parte  guelfa,  apparecchiatisi  a  guerreggiare  i  ghibellini 
fuorosciti  che  si  arrovellavano  vedendo  Crema  in  potere  di 
due  guelfi.  Né  andò  guari  che  i  ghibellini  cremaschi  indussero 
Francesco  Soardo,  signore  di  Bergamo,  ad  osteggiare  i  Ben- 
zoni. Il  Soardo  invase  il  territorio  Cremasco  e  vi  menò 
guasti:  ma  poi  fu  sconfitto  dal  Cavalcano  presso  Pizzighet- 
tonc  e  dai  Benzoni  sotto  le  mura  di  Crema,  ove  le  sue  mi- 
lizie presero  la  fuga,  ed  egli,  combattendo  virilmente,  rimase 
ucciso  sul  campo.  Dopo  questo  fatto  i  Benzoni  confiscarono 
ì  beni  a  quanti  ghibellini  cremaschi  s'erano  mossi  col  Soardi 
a  guerreggiarli. 

Nel  1405  Tire  delle  fazioni  calmaronsi;  altro  flagello  e 
più  terribile  entrò  a  desolare  il  suolo  cremasco,  la  pesti- 
lenza. Mieteva  a  centinaja  senza  distinzione  e  guelfi  e  ghi- 
bellini, condannando  ad  abbracciarsi  sotterra  e  nella  me- 
desima fossa,  cittadini  che  non  potevano  vivere  uniti  sotto 
il  tetto  comune  della  patria  loro.  Colpiti  dalla  pestilenza, 
morirono  Paolo  e  Bartolomeo  Benzoni,  che  per  scamparne 
s'erano  ritirali  nel  castello  d'Ombriano. 

A  Paolo  succedeva  nel  dominio  di  Crema  l'unico  figlio 
Bizzardo.  Bartolomeo  lasciava  con  testamento  la  signoria 
a'  suoi  figli  Daniele,  Greppo,  Trippino  ,  ancora  fanciulli,  nati 
per  legittime  nozze  da  Caterina  Crivelli,  milanese:  ed  a 

(I)  Vedi  i!  Documento  B. 


—  CJ07  — 
loro,  se  morivano  intestali  o  senza  prole,  sostituiva  Slocìno, 
Paganino  e  Giacomino,  figli  di  Compagno  Beatoti!,  e  niz- 
zardo figlio  di  Paolo.  Nel  testamento,  Bartolomeo  provvide 

air  immatura  olà  della  prole,  nominandole  latori  la  \edo\a 
Caterina, Socino  Bemoni,  Giovanni  rigala  podestà  di  Crema, 
Francesco  Ardilo,  Francesco  Vimercali,e  Paiono  della  Noce. 

Volle  Bartolomeo  che  il  suo  cadavere  venisse  sepolto  in 

duomo  all'aliare  di  S.  Donalo,  ordinando  che  quell'altare 
assumesse  il  nome  di  S.  Martino  onde  rammemorare  il 
giorno  della  sua  elezione  a  signore  di  Crema.  Pose  (ine  al 
testamento  raccomandando  l'anima  a  Dio,  il  corpo  ai 
vermi,  i  filinoli  al  popolo  di  Crema  e  di  Pandino. 

Clic  a  Bartolomeo  e  Paolo  Benzoni  dovessero  succedere 
nel  dominio  di  Crema  i  loro  figli,  era  stalo  già  stabilito  nel- 
rislromcnto  d'investitura  rogalo  il  dodici  novembre  1403. 
Nondimeno  nell'anno  stesso  in  cui  seguì  la  morte  di  Paolo 
e  Bartolomeo,  troviamo  Crema  in  podestà  di  Giorgio,  an- 
ch'esso dei  Benzoni,  congiunto  in  parentela  coi  defunti  do- 
minatori. Finora  questo  personaggio  figurò  una  sol  volta 
nelle  cronache  cremasene^,  e  fu  nell'anno  1598  fra  i  venti 
Benzoni  che  Rinaldo  conte  di  Camisano  discacciò  con  al- 
tri guelfi  da  Crema.  Come  Giorgio  abbia  potuto  spogliare 
del  dominio  i  tutelati  fanciulli  suoi  cugini,  chiamali  alla  si- 
gnoria di  Crema  e  di  Pandino  e  per  testamento  paterno  e 
per  istabilito  ordine  di  successione,  il  Terni  non  sa  dire. 
Né  può  dubitarsi  che  tulli  quattro  i  fanciulli  Benzoni  mo- 
rissero poco  dopo  i  loro  genitori,  perocché  di  Rizzardo,  figlio 
di  Paolo,  sappiamo  che  invecchiò  e  finì  i  suoi  giorni  a  Cre- 
mona con  numerosa  discendenza.  Ci  è  dunque  forza  sospet- 
tare che  col  raggiro,  e  non  altrimenti,  abbia  Giorgio  strap- 
pala a'  suoi  parenti  la  signoria  di  Crema  e  di  Pandino.  Né 
vale  a  quietarci  un  islromenlo  pubblicato  dalfAlemanioFino, 

(lì  Terni.  Storia  di  Crema. 


—  208  — 
ove  apparirebbe  ebe  Giorgio  venisse  eletto  signore  da  un 
eoncilio  tenuto  in  Crema  il  giorno  24  settembre  dell'an- 
no 1405  (i):  niente  di  più  probabile  che  Giorgio  Benzoni 
con  quell'adunanza  del  concilio  dei  cittadini  abbia  saputo 
adonestare  un'usurpazione;  tanto  più  che  se  egli  avesse 
avuto  buone  e  incontrastate  ragioni  al  dominio  di  Crema, 
non  gli  sarebbe  bisognato  di  ricorrere  ad  un'assemblea  di 
concittadini  per  farsi  proclamare  signore. 

Salito  al  potere,  Giorgio,  che  aveva  bene  adunchi  gli  ar- 
tigli, cominciò  col  ghermirsi  una  porzione  dei  beni  dell'abba- 
zia di  Cereto,  appropriandosi  tutti  quelli  che  erano  nel  ter- 
ritorio di  Crema.  I  frati  Sciamarono  alla  Santa  Sede,  e  papa 
Gregorio  XII  con  lettera  W  ammoniva  il  Benzoni  a  resti- 
tuire i  beni  tolti  all'abbazia,  a  non  contaminarsi  le  mani  ra- 
pinando ai  frati,  rammentandogli  che  i  beni  ecclesiastici 
appartengono  a  Dio.  Giorgio  non  rispose  al  pontefice,  ma 
incaricò  nel  1407  Giacomo  Foppa,  suo  oratore  presso  di- 
verse Corti,  di  scolparlo  innanzi  a  Gregorio  XII,  e  di  ado- 
perarsi a  persuaderlo  ch'egli  i  beni  dell'abbazia  non  usurpava 
ma  teneva  a  buon  diritto  (3).  Ignorasi  come  finisse  questa 
vertenza  tra  i  frati  di  Cereto  e  Giorgio  Benzoni;  è  però  da 
credersi  che  l'abbazia  sia  stata  reintegrata  ne'  suoi  possedi- 
menti, perocché  nessuno  dei  principi  successi  al  Benzoni 
profittò  del  sopruso  da  lui  tentato,  per  millantar  ragioni  so- 
pra quei  beni  abbaziali. 

Giorgio  sentì  la  necessità  di  tener  ben  guardati  i  suoi 
dominj.  Adombravasi  di  molti  e  ambiziosissimi  lirannelli  che 
signoreggiavano  nelle  città  vicine,  e  più  ancora  dei  Visconti, 
poiché  Gian  Maria  duca  di  Milano  vedeva  assai  di  malocchio 

(1)  Vedi  il  Documento  C,  ov'é  riportato  queir  istromenlo. 

(2)  La  lettera  leggesi  nel  Cadice  Allocchio ,  pregevole  raccolta  d' antichi 
documenti  relativi  a  cose  cremasene. 

(3)  Racchetti,  nella  sua  opera  manoscritta  ove  tratta  della  storia  genea- 
logica delle  famiglie  nobili  di  Crema. 


—  309  — 
sottratte  al  ducalo  tante  città  già  possedute  da  Gian  Galeazzo 

suo  padre.  La  grandezza  dei  Benzoni  in  Crema  era  naia 
dallo  sfascio  di  quella  dei  Visconti ,  e  Giorgio,  che  ben  lo 
sapca,  struggevasi  continuamente  del  timore  che  le  forze 
dei  minorenni  Gian  Maria  e  Filippo  Visconti  rinvigorendo 
lo  trabalzassero  dal  potere.  Quindi  pensò,  misurò,  adoperò 
tutti  i  mezzi  che  a  lui  sembravano  i  più  acconci  per  gua- 
rentirsi la  signoria  di  Crema  e  di  Pandino.  Appena  assunto 
al  potere,  avea  cangiati  i  castellani  delle  rocche  di  Serio  e 
di  Ombriano,  i  contestabili  delle  porle  e  il  podestà,  me- 
more dell'assioma:  a  nuovi  dominatori,  uomini  nuovi.  Poi 
strinse  alleanza  con  Pandolfo  Malatcsla,  signore  di  Brescia, 
e  con  Giovanni  Vignali,  signore  di  Lodi,  guelli  ambedue,  i 
quali  verso  il  duca  di  Milano  rappresentavano  la  medesima 
parte  di  usurpatori  che  il  signore  di  Crema.  Premendogli 
annodare  amichevoli  relazioni  con  altri  principi  fuori  di 
Lombardia,  mandò  Nicolino  Mandello,  oratore  al  re  di  Pu- 
glia: e  perchè  non  fosse  assalito  dai  Visconti,  chiese  ed  ot- 
tenne una  tregua  di  quattro  mesi  dal  duca  di  Milano,  la 
quale  scaduta  addì  lo  dicemhre  del  1406,  venne  per  al- 
trettanti mesi  rinnovata. 

Nel  1407  avvampando  la  guerra  in  varie  parti  d'Italia, 
Giorgio  Benzoni  si  mostra  indefesso  nel  provvedere  alla 
difesa  del  suo  dominio:  essendo  i  danari  i  nervi  della 
guerra  ed  i  custodi  della  pace  (*),  egli  per  tesoreggiare  vende 
parte  dei  beni  slati  confiscali  ai  ghibellini,  e  parte  affitta 
per  riscuoterne  le  rendite.  A  maggior  sicurezza  della  pro- 
pria persona  forma  una  compagnia  di  cavaleggieri,  desti- 
nati a  seguirlo  quando  cavalcava:  a  maggior  difesa  del  ter- 
ritorio cremasco  fortifica  Montodine,Ripalta  Arpina,  Palazzo 
e  Scannabue.  In  tredici  mesi  sorgono  due  torri  gigantesche, 
l'una  a  Montodine,  l'altra  a  Rivoltella  de'Guarini,  dalla 

(i)  Sentenza  di  Camillo  Porzio  nel  libro  La  congiura  dei  baroni. 


—  210  — 
sommità  delle  quali  si  poteva  scoprire  da  lungi  un'aggres- 
sione di  nemici.  Per  tal  modo  nel  territorio  cremasco,  ca- 
stelli, torri,  bicocche  moltiplicarono.  Presentemente, avvez- 
zati a  tener  conto  della  forza  terribile  e  distruggitrice  dei 
cannoni ,  ci  sembra  strano  come  valessero  questi  deboli 
ripari  a  sfidare  l'assalto  di  nemiche  falangi.  Ma  convien 
rammentare,  che  quantunque  l'artiglieria  fosse  già  in  uso 
nei  tempi  che  discorriamo,  non  era  tuttavia  l'arte  degli 
assedj  di  molto  avanzata.  Le  bombarde  e  le  spingarde  ado- 
pera vansi  contro  i  combattenti,  non  contro  le  mura,  igno- 
randosi ancora  l'arte  di  battere  una  fortezza  regolarmente 
per  aprirvi  la  breccia,  e  di  atterrarla  a  forza  di  colpi  con- 
tinuati e  irreparabili.  Ogni  villaggio  potevasi  adunque  fa- 
cilmente ridurre  a  fortezza,  e  difendere  vigorosamente  dagli 
slessi  contadini:  non  così  a'  nostri  giorni,  che,  perfezionatasi 
la  scienza  delle  artiglierie,  le  popolazioni  s'arrendono  ben 
presto  quando  si  parli  loro  con  la  bocca  dei  cannoni. 

Giorgio  Benzoni  nomina  i  castellani  ai  luoghi  da  lui  for- 
tificati: fa  larga  provvisione  di  artiglierie,  picche,  lance  e 
arnesi  da  guerra,  quali  richiedeva  l'uso  di  quei  tempi.  Ed 
essendo  nel  1407  Facino  Cane  in  lotta  con  Ottobuono  Terzo 
per  la  signoria  di  Piacenza,  manda  a  quest'ultimo  soccorsi. 
Nel  settembre  dell'anno  medesimo  (1407)  i  Veneziani  insi- 
gniscono Giorgio  Benzoni  con  tutti  i  suoi  discendenti  della 
nobiltà  veneta  t*):  raro  e  splendidissimo  privilegio.  La  re- 
pubblica di  Venezia  ne  onorò  Giorgio  Benzoni ,  come  quella 
che  spasimando  d'estendere  le  sue  conquiste  in  terraferma, 
comprendeva  quanto  importava  gratificarsi  il  signore  di 
Crema,  per  giovarsene  nel  preveduto  caso  di  dover  romper 
guerra  al  duca  di  Milano. 

Nell'anno  seguente  (1408),  Giorgio  chiede  al  duca  di 
Milano  un'altra  tregua  di  tre  auni  e  due  mesi,  la  quale  gli 

(i)  Vedi  nocumento  D. 


—  *n  — 

rieo  consentila ,  essendo  allora  il  (lue;»  travagliato  alquanto 
da  Estore  Visconti,  Pacino  Cane  e  Ottobuono  Terzo.  In- 
tanlo  Pandolfo  Malatesta  avendo  comperata  da  Giovanni 
Soardila  signorìa  di  Bergamo  per  trenta  mila  ducati,  Gior- 
gio, timoroso  dell* accresciuta  potenza  del  vicino  ti ran nello, 
affrettasi  a  fortificare  Misano,  ed  introduce  in  Crema  arma- 
iuoli forestieri  che  avessero  continuamente  a  fabbricare  armi. 

Nel  1410  le  vicende  politiche  di  Lombardia  ciano  stra- 
namente avviluppate:  nuovi  timori  tormentano  Giorgio  ten- 
zoni, e  nuove  fortezze  s'innalzano  a  Sergnano,  Pianengo, 
Ricengo,  Caseletto  e  Madignano.  Mutansi  d'improvviso  tutti 
i  castellani  e  contestabili  delle  porte  ,  e  con  nuova  tassa 
vengono  i  Crcmaschi  molestali  nelle  finanze.  Giorgio  non 
trascurava  mezzi  sia  per  mantenere,  sia  per  legittimare  il 
suo  dominio  ch'estendeva  sulle  terre  di  Crema,  Pandino, 
Misano  ed  Agnadello.  Oltre  al  guarnire  il  territorio  da  lui 
posseduto,  oltre  restorcere  dai  sudditi  somme  ingenti,  te- 
nea  ambasciatori  presso  le  corti  tanto  dei  vicini,  quanto  dei 
lontani  signori  e  monarchi.  E  per  iscroccare  in  Crema  fama 
di  pio  e  religioso  sovrano,  non  mancò  di  accarezzare  i  preti, 
egli  che  avea  cominciato  a  signoreggiare  spogliando  i  frati. 
Il  duomo  di  Crema  fu  da  lui  abbellito  con  nuova  ancona, 
opera  di  Rinaldo  da  Spino:  vi  si  collocò  dentro  un  nuovo 
battisterio  ,  atterrato  l'antico  ch'era  in  una  chiesuoletta  ag- 
giunta al  lato  settentrionale  della  facciata:  allarsossi  la  ca- 
nonica  per  uso  e  comodità  maggiore  del  clero. 

Nel  1412,  cinque  patrizi  milanesi  uccisero  il  duca  Gian 
Maria  Visconti ,  non  si  sa  bene  se  nella  chiesa  di  S.  Got- 
tardo o  in  una  sala  di  corte  che  a  quella  conduceva.  Esul- 
tarono i  Milanesi  dell'assassinio  di  questo  principe  imbecille 
e  ferocissimo  che  faceva  sbranare  i  sudditi  da  mastini  appo- 
sitamente educati  a  procacciargli  un  così  disumano  diverti- 
mento :  Giorgio  Benzoni  sperò  che  la  morte  di  Gian  Maria 
dovesse  apportare,  nelle  politiche  vicende  di  Lombardia, 


—  212  — 

cangiamenti  a  lui  favorevoli,  ma  fu  deluso.  À  Gian  Maria 
successe  nel  ducato  Filippo  Maria  di  lui  fratello,  che  non 
dirazzava  dagli  avi  in  perfidia  e  tenebrosa  politica,  e  che 
in  poco  tempo  seppe  rassettare  la  sconcertata  grandezza 
del  ducalo. 

A  quest'epoca  Pandolfo  Malalesla  essendo  venuto  alle 
armi  contro  Cabrino  Fondulo,  signore  di  Cremona,  Gior- 
gio Benzoni  sussidiò  Gabrino  di  vettovaglie.  Del  che  Pan- 
dolfo aspramente  indignatosi,  irruppe  colle  sue  milizie  nel 
territorio  cremasco,  tolse  al  Benzoni  il  castello  di  Ofl'anengo 
e  ne  affidò  la  custodia  a  Martino  di  Faenza ,  capitano  di 
mollo  grido.  Sgomentatosi  non  poco  il  Benzoni  per  la  per- 
dita di  un  castello  distante  tre  sole  miglia  da  Crema,  can- 
giò per  la  terza  volta  lutti  i  castellani  dei  luoghi  fortificati, 
i  custodi  alle  porte  di  Crema,  ed  affretlossi  a  stabilire  col 
duca  Filippo  altra  tregua  di  un  anno.  Non  per  questo  tran- 
quillossi  l'animo  di  Giorgio:  agitalo  dal  timore  di  perdere 
la  signoria,  cercava  continuamente  l'amicizia  di  principi 
e  signoroni  che  lo  spalleggiassero.  Inviò  di  nuovo  amba- 
sciatori al  duca  di  Milano,  al  signore  di  Mantova,  a  quello 
di  Cremona,  all'imperatore.  Altra  volta  avea  mandalo  alla 
corte  imperiale  Pantaleone  Zurla;  ora  vi  manda  un  Ghe- 
rardo degli  Abbondi,  coli'  incarico  di  procacciargli  dall'im- 
peratore la  conferma  del  suo  dominio  di  Crema  e  di  Pan- 
dino  :  la  quale  ottenne  nel  14-15  sborsando  trecento  e 
settanta  ducali.  Ma  quantunque  l'imperatore  avesse  rico- 
nosciuti i  diritti  di  sovranità  che  il  Benzoni  esercitava  nelle 
terre  di  Crema  e  di  Pandino,  non  isgombrarono  dall'animo 
di  Giorgio  inquietudini  e  timori.  Giorgio  Benzoni  s'accor- 
geva che  il  suo  nemico  naturale,  e  di  tutti  il  più  terribile, 
era  il  duca  di  Milano  ;  onde  per  amicarselo  risolvette  di 
venire  con  Filippo  Visconti  ad  una  transazione,  e  rimettere 
parte  di  quella  sovranità  che  si  era  arrogata  sulle  terre  di 
Crema  e  di  Pandino.  Dopo  avervi  per  nove  anni  signoreg- 


—  943  — 
ninto  con  podestà  assoluta,  Giorgio,  rinunciando  alla  sua 
indipendenza,  deliberò  d'offrire  la  signoria  di  Crema  e  di 

Pandino  al  duca  Filippo  Visconti,  acciocché  la  ricevesse  in 

feudo,  e  lui  ne  investisse  con  tutte  lo  prerogative  di  un 
feudatario.  Siffatta  proposta,  Giorgio  Benzoni  lece  al  duca 
Filippo  col  mezzo  ili  darlo  Benzoni  e  «li  prete  Ottolino  Ci- 
gnoni, inviati  appositamente  a  Milano:  e  il  duca  di  .Milano, 
cogli  oratori  del  Benzoni,  stipulò  nel  castello  di  Pavia,  addì 
31  luglio  1414,  il  seguente  accordo: 

«  Che  il  Bcnzonc  fosse  vassallo  del  duca  e  de' suoi  sue- 
»  cessoli. 

»  Che  il  duca  desse  in  feudo  Crema,  Pandino,  Misano 
»  ed  Agnadello  con  tutte  le  giurisdizioni  loro  al  Benzonc 
»    ed  a'  suoi  successori  legittimi  maschi. 

»  Che  in  riconoscimento  del  feudo,  in  ogni  guerra  di 
»  Lombardia,  per  sei  mesi  ogni  anno,  il  Benzoni  e  suoi  di- 
»   scendenti  dessero  al  duca  e  suoi  eredi  cento  cavalli  pagali. 

»  Che  ogni  anno  nel  di  della  Circoncisione  egli  desse  al 
»   duca  un  corsiero  del  prezzo  di  duecento  ducati  d'oro. 

»  Ch'egli  accettasse  in  Crema  le  genti  del  duca  ogni  volta 
»   che  fosse  bisogno. 

»  Ch'  egli  facesse  giurare  fedeltà  al  duca  da  lutti  i  ca- 
»  stellani  di  Crema  e  di  Pandino,  promettendo  di  non  la- 
»  sciarli  senza  consentimento  del  duca.  E  mancando  esso 
»  in  cosa  veruna,  avessero  a  lasciar  le  rocche  in  mano  del 
»   duca,  ed  egli  rimanesse  privo  d'ogni  sua  ragione. 

»  Ch'egli  non  potesse  mutare  i  castellani  senza  il  con- 
»   sentimento  del  duca. 

»  Che  i  castellani  non  potessero  accettare  nei  castelli 
»   tante  genti  né  del  duca  né   del  Benzoni ,  che  potessero 

•  far  loro  violenza  o  soperchierie;  riservando,  se  prima  o 

*  l'un  o  l'altro  non  mancasse  di  quanto  avesse  promesso. 
»   Che  il  Benzoni  non  potesse  far  lega,  pace ,  né  tregua 

»   con  alcuno  che  fosse  nemico  del  duca  ,    né  in   maniera 


—  2U  — 
»   veruna  favoreggiarlo,  avvenga  che  di  ragione  o  per  patio 
»   gli  fosse  obbligato. 

»  Che  non  dovesse  accettar  banditi,  fuorosciti,  o  tradi- 
»  tori  del  suo  ducato;  oppure,  capitandogli  nelle  mani, 
»  dovesse  mandarli  al  duca ,  massime  quando  fossero  di 
»   quelli  che  uccisero  il  duca  Gian  Maria  suo  fratello. 

»  Ch'egli  mantenesse  tutte  le  fedi  e  salvacondotti  fatti 
dal  duca. 

»  Che  il  duca  fosse  obbligato  a  dare  al  Benzoni  tutti  i 
»  suoi  ribelli,  ogni  volta  che  gli  venissero  alle  mani,  ovvero 
»   far  che  da'  suoi  ufficiali  venissero  puniti. 

»  Che  il  Benzoni  facesse  confermare  dal  popolo  di  Crema 
»  tutti  questi  capitoli ,  e  gli  facesse  giurar  per  istrumenlo 
»   di  servar  tutto  quello  che  a  veri  sudditi  si  conviene. 

»  Che  il  duca  non  fosse  obbligalo  ad  alcuna  delle  sud- 
»  dette  cose,  se  il  Benzoni  fra  otto  giorni  non  facesse  con- 
»  fermare  e  giurare,  ed  eseguire  quanto  si  è  detto  di  so- 
»   pra  (*) .  » 

L'osservanza  di  questi  capitoli  fu  da  Giorgio  Benzoni  giu- 
rata in  Crema,  presente  Giovanni  Corvino  ,  segretario  del 
duca  di  Milano;  anche  i  castellani  giurarono  fedeltà,  come 
i  capitoli  medesimi  richiedevano.  Pochi  giorni  appresso,  il 
Benzoni  recatosi  alla  corte  di  Filippo  Visconti,  vi  fu  accollo 
onorevolmente  ed  investito  col  titolo  di  conte  del  feudo  di 
Crema  e  di  Pandino,  trasferibile  a  tutta  la  sua  discendenza 
mascolina.  Pralicaronsi  nell'investitura  tutte  le  solennità 
di  consuetudine  in  simili  occasioni,  e  insieme  al  titolo  di 
conte  fu  concesso  al  Benzoni  tiC  inquartai* e  nello  stemma 
un  leone  rampante  con  la  spada  ignuda  fra  le  branche. 

Divenuto  feudatario  del  duca  di  Milano ,  Giorgio  cinse 
Pandino  di  un  nuovo  rifosso:  ricuperato  nel  gennajo  del 
1415  il  castello  dWanengo,  lo  spianò  acciocché  non  po- 

(I)  Fjno.  Storia  di  Crema. 


—  J18  — 

lesse  più  nuocere  a  Crema.  Il  Benzoni,  non  dimenticandosi 
mai  ch'egli  col  diventar  conte  era  por  divenuto  vassallo  del 
iluca  di  Milano,  si  dimostrò  sempre  zelantissimo  neir adem- 
pire i  patti  che  a  Filippo  Visconti  lo  stringevano.  E  tanto 
più  scrupoleggiava  nelf  osservarli ,  vedendo  come  il  duca 
col  braccio  di  Francesco  Carmagnola,  valorosissimo  con- 
dottiero, andasse  mano  [nano  riacquistandole  terre  che 
sfacciata  rapacità  di  tutori  aveva  sottratte  al  ducato  durante 
l'infausta  minorità  del  fratello  Gian  Maria.  Il  conte  Gior- 
gio, consapevole  essere  i  ghibellini  protetti  dal  duca,  ostentò 
loro  benevolenza,  rendendo  a  molli  i  beni  confiscali.  Nelle 
guerre  prosperamente  sostenute  da  Filippo  Visconti  con- 
tro Gabrino  Fondulo,  signore  di  Cremona,  contro  Pandolfo 
Malatesta,  signore  di  Brescia,  e  contro  i  Genovesi,  il  Ben- 
zoni  sussidiava  il  duca  con  numerosa  copia  di  danaro  e  di 
milizie.  Campeggiò  egli  stesso  nell'esercito  ducale,  sotto  Bre- 
scia, insieme  col  proprio  figlio  Venlurino:  a  combattere 
i  Genovesi  mandò  Benzonc  Bcnzoni  con  alcuni  drap- 
pelli di  fanteria.  Quando  nell'anno  1420  Filippo  Visconti 
comperò  da  Gabrino  Fondulo  la  signoria  di  Cremona, 
il  conte  Giorgio  sovveniva  al  duca  mille  e  novecento  fio- 
rini d'oro;  e  tanto  fervorosamente  il  Benzoni  si  adoperava 
per  mantenersi  in  grazia  del  duca  e  sopperirne  i  bisogni 
da  lasciare  che  i  Cremaseli!  strillassero  nel  mentre  li  dissan- 
guava con  replicati  balzelli. 

Giorgio  Benzoni  aveva  quattro  figli:  Venlurino,  Nicolao, 
Antonio  e  Guido ,  gli  ultimi  due  illegittimi.  Tenevano  in 
Crema  corte  separata  dal  padre:  baldi  per  giovinezza,  or- 
gogliosi di  poter  primeggiare  fra  i  gentiluomini,  trascorre- 
vano sovente  in  lascivie  e  soperchierie ,  quasi  credessero, 
perchè  figli  del  signore  di  Crema,  potersi  togliere  impune- 
mente ogni  capriccio.  Ma  ben  presto  nelF  animo  di  molti 
patrizj  cremaschi  avvampò  l'ira  dei  patiti  oltraggi  e  i  talami 
Molati  riclamarono  vendetta. 


—  216  — 
Le  famiglie  Vimercati,  Verdello,  Cusatri,  ed  alcune  altre, 
tuttoché  guelfe  e  già  partigiane  dei  Bcnzoni,  non  volendo 
sopportar  più  a  lungo  le  insolenze  dei  figli  del  conte,  me- 
ditarono di  balzar  dal  potere  il  loro  genitore.  Mandano  se- 
cretamenteCremaschino  Vimercati,  Giovanni  Ardito  e  Bian- 
co Caravaggio  a  Milano,  ove  abboccàronsi  con  alcuni  dei 
Tintori  e  dei  Patrini,  fuorusciti  cremasebi,  nemicissimi  del 
Benzoni.  Questi  assumono  di  farsi  istromenti  della  comune 
vendetta,  e  trovano  modo  di  accusare  al  duca  il  conte 
Giorgio  di  fellonia,  imputandolo  di  avere,  in  onta  ai  giu- 
rati doveri,  prestato  soccorso  al  signore  di  Cremona.  Fi- 
lippo Visconti,  che,  ricuperale  le  ci  Uà  di  Bergamo,  Cremona 
e  Brescia,  agognava  di  rendere  all'assoluto  suo  dominio 
anche  il  territorio  di  Crema,  prestò  facile  orecchio  agli  ac- 
cusatori. Senza  punto  indagare  se  veramente  il  conte  Gior- 
gio fosse  reo  di  fellonia,  spedì  ordine  al  costellano  della 
rocca  di  Ombriano,  che  ai  venticinque  di  gennajo  (1425) 
consegnasse  il  castello  al  duca  di  Milano.  Ed  i  nemici  del 
Benzoni,  per  consumare  in  modo  atroce  la  loro  vendetta, 
tramarono  di  uccidere  nella  notte  del  giorno  medesimo  il 
conte  e  i  suoi  figliuoli.  Orrenda  fine  sovrastava  al  signore 
di  Crema:  il  caso  ne  lo  scampò.  Essendosi  il  conte  addì  24 
dì  gennajo  recato  alla  rocca  di  Ombriano  ,  il  castellano 
gliene  ricusò  l'ingresso:  onde  Giorgio,  ch'era  già  per  in- 
dole sospettoso,  adombrossi  di  quell'ostile  e  strano  proce- 
dere del  castellano.  Preso  da  subito  e  invincibile  timore, 
quasi  la  mente  gli  fosse  presaga  di  quanto  contro  di  lui 
cospiravasi,  fuggì  da  Crema  la  notlc  medesima  che  prece- 
dette il  mattino  del  giorno  25  gennajo  1425.  Lo  seguirono 
nella  fuga  i  quattro  figli,  i  suoi  servitori,  Antonio  Marchi  e 
Bosso  Guarini  :  la  consorte  del  conte  Giorgio,  ch'era  Am- 
brosia Corio,  gentildonna  milanese,  rimase  a  Crema.  Gior- 
gio Benzoni  col  suo  seguito  s'incamminò  alla  volta  di  xMan- 
tova:  indi  recatosi  a  Venezia  vi  fu  accolto  onorevolmente  , 
ed  offri  la  sua  spada  in  servigio  della  repubblica.  Così  sai- 


•.andò  hi  vita  perdette  per  sempre  It  signoria  di  Crema  6 
di  Pandino  cheavea  tenuto,  per  nove  anni,  con  podestà  as- 
soluta ,  e  intorno  a  dicci  qaal  feudatario  e  vassallo  del  duca 
di  Milano. 

Giorgio  Benzoni  figura  storicamente  nella  schiera  dei 
tirannelli  lombardi  che  dopo  la  morte  del  potentissimo  Gian 
Galeaxzo  Visconti  ghermirono  un  lembo  del  suo  manto  du- 
cale: usurpatori  tutti,  la  più  parte  scelleratissimi,  vermi 
sorti  dal  cadavere  di  Gian  Galeazzo  a  rodere  i  popoli  ili 
Lombardia.  Giorgio  era  dei  meno  schifosi,  comunque  Sa- 
verio Bettinelli^)  dica  che  i  Benzoni  di  Crema  non  furono 
migliori  degli  altri  tirannucci.  Il  signore  di  Crema  non  mac- 
chiarono gli  atroci  delitti  che  Gabrino  Fonduto  signore  di 
Cremona  ed  altri  tirannelli:  può  dirsi  essere  stato  il  Ben- 
zoni sitibondo  di  potere  e  di  danaro,  non  di  sangue.  Oro 
necessitava  per  sostenere  V  incerta  e  vacillante  signoria  ; 
oro  ad  erigere,  custodire,  approvvigionare  castelli  ;  oro  per 
abbonirsi  l'imperatore  e  il  duca  di  Milano;  e  d'oro  lo  sa- 
tollarono i  Cremaseli!,  i  quali  alla  fin  dei  conti  non  ebbero 
gran  fatto  a  rallegrarsi  d'aver  per  sovrano  un  concittadino. 
Il  Terni,  con  documenti,  ci  palesa  un'astuzia  di  Giorgio 
Benzoni  :  rapiva  ai  ghibellini  ribelli  le  sostanze ,  poi  le  do- 
nava a'  suoi  partigiani,  obbligandoli  a  sposare  una  donzella 
ghibellina  delle  famiglie  cui  i  beni  confiscava.  In  questa 
guisa  otteneva  il  doppio  intento,  di  meglio  gratificarsi  co- 
loro che  lo  favoreggiavano,  coli'  arricchirli ,  e  di  rendere 
meno  odioso  Tatto  con  il  quale  assegnava  loro  le  spoglie 
dei  propri  nemici. 

Fra  gli  attributi  sovrani  dal  Benzoni  esercitati,  quello  non 
trascurò  di  battere  moneta.  Le  monete,  sia  d'oro  sia  d'ar- 
gento ,  portavano  da  un  lato  improntata  V  arma  Benzona 
col  moto  Iute  Domino  i~),  dall'altro  l'immagine  d'esso  Ben- 
zoni con  lettere  che  dicono    Georgìus  Benzonus  domimi* 

(i)  Bettinelli.  Del  risorgimento  d' Italia. 

(2)  Aleinanio  Fino.    Scelta  degli  uomini  di  pregio  usciti  da  Crema. 

13 


—  218  - 
Cremce.  Le  monete  fatte  coniare  dal  Benzoni  sono  ramme- 
morate dall'Argelati  nell'opera  De  monelis  italicis^). 

Giorgio  Benzoni  mostrò  singoiar  destrezza  nel  mante- 
nersi per  diecinove  anni  in  signoria ,  onde  Crema  fu  l'ul- 
tima delle  venti  città  che  Filippo  Visconti  ricuperò  al  du- 
cato. Forse,  accarezzando  il  duca,  Giorgio  avrebbe  potuto 
più  a  lungo  durare  nella  contea  di  Crema  e  di  Pandino,  se 
lo  sfrenato  libertinaggio  de'  suoi  figli  non  avesse  offerto 
motivo  ai  sudditi  e  pretesto  al  duca  per  rovinarlo. 

Il  governo  dei  Benzoni  durò  in  Crema  circa  vent'un  an- 
ni: come  vi  procedessero  internamente  i  negozi  del  Comune 
le  cronaebe  non  rivelano  ;  questo  soltanto  desumiamo  dal 
Fino  (-) ,  che  signoreggiando  Giorgio  Benzoni  fu  in  Crema 
podestà  Enrico  Zurla.  La  signoria  dei  Benzoni  segnò  nella 
città  nostra  un'epoca  di  assodalo  trionfo  per  la  fazion  guelfa, 
quindi  i  ventun'anni  del  loro  reggimento  volsero  ai  Crema- 
sebi  senza  vampe  di  cittadine  discordie,  senza  tumulti.  Il 
partito  guelfo  erasi  in  Crema  abbarbicato  con  salde  radici, 
aderendovi  moltissime  famiglie  patrizie  delle  più  cospicue:  i 
Benzoni,  col  blandirlo,  col  farsene  gli  antesignani,  si  edifica- 
rono un  soglio,  salirono  a  quella  vertiginosa  altezza  ove  per 
chi  porta  il  cuore  roso  dal  verme  dell'ambizione,  è  dolcissima 
cosa  vedersi  da  tutto  un  popolo  ossequiati,  temuti,  obbediti. 
Fin  dall'anno  1210  un  Ve n turino,  pure  dei  Benzoni,  capo 
dei  guelfi,  primeggiava  in  Crema  procedendovi  con  princi- 
pesca ambizione,  onde  era  tradizionale  nella  famiglia  Ben- 
zoni la  smania  d' inebbriarsi  alla  tazza  del  potere,  e  farsi 
della  fazion  guelfa  sgabello  al  supremo  comando.  E  qui  no- 
teremo che  il  guelfismo,  e  prima  e  dopo  il  dominio  dei 
Benzoni,  prevalendo  in  Crema  agli  sforzi  ed  ai  brevi  trionfi 
dell'avversaria  fazione,  governò  quasi  sempre  le  sorti  poli- 
tiche della  città  nostra. 

(1)  Una  moneta  di  Giorgio  Benzoni  è  posseduta  in  Crema  dal  signor  Gio- 
vanni Schiavini. 

(2)  Alemanio  Fino.  Scelta  degli  Uomini  di  pregio  usciti  da  Crema. 


2l'.l 


DOCUMENTI  E  NOTE 


L' istromento  con  cui  i  fratelli  Benzoni  furono  eletti  a  signori  ili 
(rema  ci  fu  conservato  dal  Terni,  pubblicato  dal  Fino  nella  Se- 
rial» Ottava,  ed  è  il  seguente: 

«  In  nomine  Altissimi  Creatoris  et  beati  S.  Pantaleonis  populi  Cre- 

■  menata  Protectoris,  totiusque  Curia?  ceelestis.  Anno  Domini  millesimo 
••  -madringentesimo  tertio,  indictione  undecima,  die  duodecimo  novem- 

■  bria ,  in  Crema ,  in  Palatio  Communis  Crema3,  pra?sentibus  Domino 
-  Jacobo  de  Fundulis,  et  D.  Bartholoma?o  de  Vulpiano,  utriusque  ju- 
h  ris  Doctoribus,  de  terra  Soncini,  habitantibus  in  Crema,  D.  Paloto 
"  de  Nuce,  et  Cornino  de  Loto  Notario  de  Crema,  prò  testibus  vocatis 
»  et  rogatis.  Pro  secundo  notario  interfuit  Andreas  Martinengus  No- 
»  tarius.  Convocato  et  congregato  Consilio  generali  Terra?  Crema?,  et 

■  districtus,  in  Palatio  prsedicto,  sono  campanarum,  et  voce  pra?conis, 
»  more  solito,  in  pnesentia  nobilium  et  egregiorum  Dominorum,  Ser- 

■  gnani,  Paulini  q.  C.  Beli,  Alberti,  Joannis  et  Corradini  de  Benzo- 
»  uibus  de  Crema,  et  de  eorum  consensi!  et  voluntate.  In  quo  quidem 
»  Consilio  aderant  D.Franciscus  de  Arditis.  Anselmus  de  Bianco,  Za- 
«  netus  de  Verdellis,  Hieronymus  Mandula,  Franciscus  de  Brambilla, 
«  Dominicus  de  Alferis ,  Focus  de  Tado ,  Manfredus  de  Bencio ,  Sin- 
»  dici  communis  hominum,  et  universitatis  Terra?  Crema?  et  districtus, 
»  et  etiam  infrascripti  de  ipso  Consilio  generali,  videlicet: 

Aloysius,  et  Gabianus  de  Cheto. 

Antonius  de  Castellis.  Amadus  Baraca. 

Joannes,  Gofredus, 

Janinus,  et  Marius,  et 

Cremascus  de  Vimercato.  Antonius  de  Alfieris. 

Jacobus,  Zanetus  de  Benvenuto. 

Andreolus,  Comes  Polinus  de  Capralba. 

Petrus,  et  Dominicus, 


220  — 


Betinus  7 

Jacobus, 

Bartholinus,  et 

Antonius  de  Paveris. 

Joannes  de  Urgnano. 

Joannes  de  Mazolo. 

Aloysius,  et 

Cremaschinus  de  Plaza. 

Christopliorus, 

Andreas, 

Cominus, 

Paganinus, 

Antonius,  et 

Petrus  de  Martinengo. 

Scalvatus  de  Lotero. 

Bartholinus,  et 

Christopliorus  de  Magistris. 

Petrazolus  de  Almenno. 

Antonius  et 

Christopliorus  de  Guarinis. 

Jacobus,  et 

Andreas  de  Gogò. 

Bassianus  de  Robato. 

Joannes  de  Nembro. 

Zaninus  de  Bonadis. 

Antonius  de  Ferrariis. 

Zanus, 

Cominus,  et 

Faccus  de  Carulanis. 

Guidila  de  Hoxio. 

Antonius, 

Galvanus, 

Franciscus,  et 

Pantaleon  de  Zenariis. 

Greppus  de  Palotis. 

Betinus  de  Zurlis. 

Bodus  de  Berolgara. 

Nucius  de  Nuce. 

Bernardus  de  Benciis. 

Cominus, 

Niger, 

Thomasius,  et 

Paulus  de  Benellis. 


Zanonus  de  Levexellis. 
Fachinus  de  Valle. 
Cerutus  de  Muto. 
Petrus  Zanus  de  Mandola. 
Thomasius  de  Bentifaciis. 
Bartholomseus  de  Cacalupis» 
Arrigus  de  Loto. 
Theminus  de  Inzolis. 
Joannolus  de  Antiocho. 
Christophorus  de  Montanariis. 
Perinus  de  Gattis. 
Cominus  de  Ubertis. 
Betinus  de  Frassis. 
Pecinus  de  Tajata. 
Zucca  de  Albrigono. 
Marchinus  de  Calcagno. 
Pascanus  de  Pennariis. 
Petrus  de  Hendena. 
Joanninus  de  Prata. 
Guidinus  de  Alchisiis. 
Belebos  de  Cesta. 
Cominus  de  Pandino. 
Thomasinus  de  Tajacanis. 
Pantaleon  de  Roate. 
Zaninus  de  Bianco. 
Bartholinus  de  Marco. 
Antonius  de  Bajardo. 
Zanetus  de  Paratico. 
Guilielmus  de  Guardavalle. 
Tonollus  de  Dolzonis. 
Bartholinus  de  Soncino. 
Gosmerius  de  Vereniga. 
Thomasius  de  Brigata. 
Paxius  de  Sojariis. 
Pecinus  de  Parrò. 
Thomasius  de  Vailato. 
Gerardus  de  Mazano. 
Guilielmus  de  Belanda. 
Thadseus  de  Licinis. 
Betinus  de  Stradati*. 
Pecinus  de  Conca. 
Cometus  de  Fogheriis. 
Thomasius  de  Torniolk-. 


—  22i  — 

Potrai  de  Vidalo.  Nioolane  de  Medida. 

Bartholinna  de  Oleariia.  Thomaaina  de  Bragotia. 

Arrieas  de  Patrinia.  Thomaaina, 

Faceva  de  Textio.  Antonina,  et 

Continua  de  Anlitis.  Criatophorna  de  Dentiboa. 

Marena  de  Ohio.  Joanninua  de  Bfontioellia. 

Franciacna  de  Afarconia.  Joanninua  <!<•  Bota. 

Ottolinua  de  Fabria.  Zàliolua  de  'Terno. 

Zaninue  de  Facchia.  Faecus  de  Oriolis. 

Cominua,  et  Bernardus  de  Guarda. 

Antonina  de  Verdello.  Mizzotus  de  Finello. 

Thomasius  de  Einboldo.  Thomasius  de  Pilatis,  et 

Comiuus  de  Tortis.  Maphaeus  de  Garoco. 
Zaninnfl  de  Vavaxoriis. 

Qui  è  d'avvertire  (sono  parole  di  A.  Fino),  che  in  questa  elezione 
intervennero  non  solo  i  nobili  e  quelli  che  ordinariamente  sono  del 
Consiglio,  come  oggi  si  usa  di  fare,  ma  vi  si  trovarono  eziandio  molti 
del  popolo,  il  che  si  vede  dalle  seguenti  parole  dell'  istromento  : 

u.  Qui  omnes  Consiliarii  superius  nominati  faciebant  duas  partes  dicti 
»  Consilii.  In  quo  quidem  Consilio  aderant  quasi  omnes  de  populo 
»  Crema3.  Dicti  Syndici,  suo,  et  Syndicario  nomine  ;  et  Consiliarii  suo 

*  nomine  i  et  vice  ipsius  populi,  et  omnes  alii  de  populo  suo  nomine, 
»  et  vice  ipsius  populi,  et  aliorum  de  populo;  prò  quinus  de  rato  pro- 

*  mittunt;  ibidem  unanimiter,  et  concorditer  congregati  prò  infraseripta 
»  electione  Dominorum  pertractanda ,  et  explicanda,  diutina  inter  se 
»  deliberatione  matura  habita  colloquio  et  traetatu;  considerantes  se 
»  liberos  nullum  Dominum  supra  caput  habere  Rectorem,  tandem  prò 
»  utilitate,  et  communi  commodo  totius  Populi,  praefati,  de  ipsorum 

*  sponte,  libere,  et  ex  certa  scientia,  nullo  metu,  nulla  coactione,  nul- 

■  loque  imperio,  adhibitis,  sed  ultroneis  et  spontaneis  motibus,  haben- 
»  tes  oculos  ad  plures,  sed  inter  eaeteros,  ad  infrascriptos  Magnificos 
»  Dominos  sibi  utiliores,  et  magis  idoneos,  Spiritus  Sancti  divina  gra- 
»  tia  elegerunt,  et  creaverunt,  et  ordinaverunt,  et  statuerunt,  eligunt, 
»  constituunt,  creant,  et  faciunt  Magnificos  Dominos  Bartholomaeum  I. 

■  U.  D.  et  Paulum  fratres,  et  filios  q.  spectabilis ,  et  potentis,  ac  ma- 
»  gnifici  Viri  Domini  Paganini  de  Benzonibus  de  Crema,  olim  anti- 
n  quos  et  nobiles,  ae  famosos  et  strenuos  in  ipsa  parentela  de  Benzo- 
li nibus,  et  utrunque  eorum  in  soìidum,  ibidem  ipsos,  et  diu  renitentes, 
*»  tandem  precibus,  et  suasionibus  ipsorum  eligentium,  recipientes  et 
»  acceptantes,  considerata  potius  utilitate  ipsorum  eligentium,  quaia 


—  222  — 

*  elcctorum,  in  Dominos  imiversales  et  generales  terra?  Crema?  ,  et 
"  districtus  ipsorum  eligentium,  et  omnium  aliornm  de  Po-pulo  Cre- 
»  mas,  et  districtus,  et  totius  ipsius  Populi  Cremai,  et  districtus  :  Dan- 
»  tes,  et  transferentes  in  ipso  Dominos  ,  et  utrumque  eornm  in  solidum, 
»  Dominium  universale ,  generale ,  tutelam ,  et  gubernationem  ipsius 
r>  Terrai  Crema? ,  et  districtus ,  et  fortaliciorum  ipsius  Terra?  Crema1, 
n  et  districtus ,  personarum ,  et  Iiominum  ipsius  Terra?  Cremai,  et  dis- 
n  trictus,  merum  et  mixtum  Imperium,  omniraodam  Jurisdictionem,  et 
»  gladii  potestatem  personarum,  et  Iiominum  ipsius  Terrai  Cremai  et 
«  districtus,  et  in  ipsas  personas  et  homines,  et  in  Terram  ac  districtum 
»  praefatum,  et  omnia  regalia  ipsius  Populi,  communitatis,  et  hominuin 
»  Terrse  Crema?,  et  districtus-,  Et  cum  omnimoda  potestate,  et  pleni- 
n  tudine  potestatis  largiore,  et  ampliore,  et  majore,  qua?  dari,  et  trans- 
«  ferri  possit.  Et  in  signum  possessionis,  seu  quasi  possessus  praefati 

*  Dominii,  et  de  proesenti  volentes  eos  introduceri  in  posscssum,  seu 
p  quasi  possessum  Terra?  Crema?,  et  districtus,  et  personarum,  et  homi- 
r>  num  suprascriptorum,  eisdem  pra?sentibus  tradidere  proefati  Syndeci, 
»  nomine,  et  vice  totius  populi  Crema?,  ipsorum  nominimi,  et  consilii, 
»  virgas,  seu  bacchettas,  unam  cuilibet  ipsorum,  et  signum  rectitudi- 
yj  nis,  et  justitia?  manutenenda? ,  et  exercenda?:  ensem  nudum  cuilibet, 
»  in  signum  fortitudinis ,  et  terrorem  malorum ,  et  laudem  bonorum  : 
»  Braverium,  seu  Confanonum,  seu  vexillum  cum  Armis,  seu  insigni- 
»  bus  communis  Crema?  depictis,  in  congregationem,  et  regulationem, 
»  et  reductum  populi  Crema?,  hominum  et  personarum  ipsius:  claves 
«  portarum,  et  hominum  fortaliciarum  ipsius  Terra?  Crema?,  et  distri- 
»  ctus,  in  signum  perfecti  quasi  possessus  pra?dictorum ,  liberi  aditus, 
■»  et  exitus ,  et  custodia?  ipsius  Terra?  Crema? ,  et  districtus,  et  fortali- 
y>  ciarum  pra?dictarum.  Adhibitis  etiam  omnibus  aliis  solemnitatibus , 
r  qua?  in  pra?dictis,  et  circa  pra?dicta  de  jure  et  consuetudine  Dominii 
»  usitata?  et  requisita?  sunt,  et  servali  consueverunt.  Quibus  sic  peractis, 
»  pra?fati  Magnifici  Domini  (licet  diu  rogati)  tandem  suscepere  pra?fa- 
"  tum  Dominium,  et  omnia,  promittentes  solemniter  se  juste  tracturos 
»  homines,  et  personas  praedictas,  et  se  j  ustitiam  reddituros  unicuique; 
n  et  facturos,  et  curaturos  in  omnibus,  et  per  omnia,  prout  in  talibus 
r>  requirit  ordo  juris,*et  bona  consuetudo.  Et  ad  omnium  praedictorum 
»  affirmationem ,  et  robur,  pra?fati  de  Consilio,  omnes  alii  de  populo 
»  pra?dicto,  corporaliter  tactis  scripturis,  et  Evangeliis  in  manibus  pra?- 
?»  fatorum  Dominorum,  et  cujuslibet  eorum,  juraverunt  ad  Sanerà  Dei 
»  Evangelia-,  et  Sacramentum  fidelitatis  pra?stiterunt,  recipientes  suo 
v  nomine,  et  nomine  filiorum  suorum  legitimorum,  et  ex  eis  legitime 
»  descendentium  masculorum,  etha?redum  ipsorum  in  hac  forma-  Quia 


—  223  — 

pitMniaerunt,  et  jureverunt  ad  Bancta  Dei  Evangelia  eorporalitei 

•  tiirtis  seripturia,  pn>  se,  Buiaque  hseredibna  in  perpetuimi  quod  ab 
••  bacfeora  in  antea  erunt  fidelos  prsfatorum  Dominorum,  et  :id  eonun 
••  majoriamef  BÌgnoriam  Btabunt,ei  nunquam  erunt  in  facto;  necoon- 
••  silio,  quod  ipsi  Domini  vitam,  rei  membrum  amittant,  ve!  in  perso- 

•  nk  recipiant  aliquam  IsBsionem,  iqjuriam,  vel  eontumeliam,  vel  quod 

-  mala  eaptione  capiantur,  vel  quod  aliquem  honorem,  v<xl  regalia, 

-  quem,  vel  quae  nunc  habent,  vel  in  antea  habebunt,  amittant  I't  li 
••  Boiverent,  voi  audierint,  aliquem,  vel  aliquoa,  quam  praefatoa  Domi* 

-  noe,  quicquam  velie  boere,  pio  posse  suo  impediant. Et  si  impedire 

-  neqniverint,  eia  qnam  cito  poteront,  nunciabunt  Et  bì  quod  scrii 

-  tum  eiadem  prsefati  Domini  manifesta  verint,  illud  sino  prasfatorum 

•  Dominoram  licentia  nulli  pandent,  vcl  quod  pandatur  facient.  Scd 

•  si  oonaflium,  vel  auxilinm  auum  postulaverint,  illud  bona  fide  prav 

-  fatis  Dominia  impendent.  Ncc  unquam  personis  ipaorum  aliquid  scìcn- 
■  ter  facient,  quod  ad  prrefatorum  Dominorum  pertineat  injuriam,  vel 

-  jacturam.  Ac  etiam  juravorunt  incolume,  tutum,  honestum,  utile, 

-  tarilo,  et  possibile  ipsorum  Dominorum,  et  ipsis  Dominis.  Ac  etiam 

-  juravcrunt,  et  jurant  in  omnibus,  et  per  omnia,  prout  forma  talis 
«  j  Tiramenti  requirit,  etc.  * 


11. 


A  Messer  Pietro  Terni  non  isfuggì  una  circostanza,  emergente  dal 
testamento  di  Bartolomeo  Benzoni,  dalla  quale  può  inferirsi  che  i 
fratelli  Benzoni  s'arrogarono  la  signoria  di  Crema  un  giorno  innanzi 
a  quello  in  cui  nell'adunanza  dei  cittadini  celebrossi  il  solenne  istru- 
mento  di  loro  elezione.  Riporteremo  le  parole  del  Terni:  «  E  perchè 
»  trovo  varietade  nel  giuorno,  che  nel  testamento  di  Bartolameo  si  pro- 
»  testa  che  fu  fatto  signore  al  giorno  di  S.  Martino  che  è  a  11  di  no- 
»  vembrio,  et  lo  Istromento,  perchè  fossero  un  poco  cadute  le  lettere, 
*  parevami  chel  dicesse  die  duodecimo,  giudico  che  la  electione  si  fa- 
»  cesse  al  giuorno  di  S.  Martino  et  che  poi  fiisse  il  giuorno  seguente 
»  stipulato  lTnstrumento....  » 

C. 

L'i  strumento  d'elezione  di  Giorgio  Benzoni,  quale  ci  è  riportato  dal 
Fino  nella  Seriana  Nona,  è  il  seguente: 

u  M.  CCCC.  V.  Indie.  XIII.  XXIV.  Septembris. 

»  In  Christi  nomine,  et  Virginis  Mariae  matris  ejus,  ac  Beati  Pan- 
»  taleonis  protectoris  nostri,  etc. 


—  224  — 

n  Convocato  et  congregato  Consilio  generali  communis,  et  hominum» 
ae  universitatis  Terrse  Crema?,  sono  campanarum,  uti  moris  est,  su- 
per Palatio  Communis  Crema?,  una  cum  Antonio  Guarino  Syndico 
Communis  Cremse,  nomine,,  et  vice  communis  Crema?,  prò  infrascripto 
negocio,  et  prò  communi  bono,  et  utilitate  totius  universitatis  dieta? 
Terra?  Crema?,  in  quo  quidem  Consilio  aderant  infrascripti,  videlicet  : 


Sergnanus, 

Paganinus, 

Albertus, 

Sominus, 

Joannes, 

Antoniolus, 

Simoninus, 

Nicolaus,  et 

Joanninus  de  Benzonibus. 

Antonius  de  Cusano. 

Jacobus, 

Paulus,  et 

Joannes  de  Alferiis. 

Hieronymus,  et 

Petrus  Joannes  de  Mandulis. 

Ottolinus  de  Cignonibus. 

Dompetrus  de  Gaetanis. 

Palotus, 

Socius,  et 

Nux  de  Nuce. 

Andreas, 

Antonius  de  Martinengo. 

Cominus  de  Terno. 

Stephanus  de  Pocpagnis. 

Andra?olus, 

Paulus,  et 

Petrus  Paulus  de  Benellis. 

Zonus  de  Vairano. 

Jacobus  de  Gogò. 

Guidinus  de  Boxio. 

Joannes  Mazolus. 

Marchinus  Cazulanus. 

Bernardus  de  Benciis. 

Antonius,  et 

Cristophorus  de  Marco. 


Betinus, 

Cominus,  et 

Joannes  de  Loteriis. 

Joannetus,  et 

Joannes  de  Benvenutis. 

Bassianus  de  Robattis. 

Riccardus. 

Bartholoma?us, 

Antonius, 

Thomas, 

Marcus, 

Guilielmus, 

Bartholomaeus    dictus     Quarte- 

ria,  et 
Zurlinus  de  Zurlis. 
Cbristophorus  de  Mazano. 
Joannes  de  Fabris. 
Marcus  de  Calcagno. 
Jacobus,  et 

Christopliorus  de  Bianco. 
Girardus,  et 
Nicolaus  de  Lolo. 
Joanninus  de  Rota. 
Franeiscus, 
Petrinus,  et 

Paganinus  de  Mazaborris. 
Tonolus  de  Monte. 
Mutus  de  Biolchino. 
Bassus  de  Ubertis, 
Zinus  de  Valdemagna. 
Zinus  Pedracagna. 
Christophorus  Gattus. 
Pelatus  de  Capriolo. 
Jacobus,  et 
Joannes  de  Catana?is» 


225 


Gtasmerufl  >!<>  Vesanica. 
Staphanua  Maccus. 
Joanninus  de  Bariate. 
Betinua,  et 

Amadeus  de  Cornallis. 
Franciacua  de  Botajano. 
Gfoorghu  de  Dulcibtu. 
Pantaleon  Cuaatrua. 
Teminua  Luxella. 
NIcolaua  de  Medicia. 

Antonius. 

Bartolettus,  et 

Bassianus  do  Bremasco. 
Grathia  Solanna. 

Marcus,  et 

Christophorus  de  Guarneriis. 
Bartholottus  de  Bartholottis. 
Pecinus  de  Valle. 
Antonius  de  Sambuscita. 
Antonius,  et 
Franciscus  de  Zenariis. 
Andreas  de  Placentia. 
Antonius  Guarinus. 
Marcottus. 
Cremaschinus,  et 
Christophorus  de  Vimercato. 
Joannetus  Tajacanus. 
Petrus  de  Tirabellis. 
Jacobus  Foppa. 
Franciscus  Cacalupus. 
Antonius,  et 
Stephanus  de  Dentibus. 
Petrus,  et 
Jacobus  Bellavita. 
Pantaleon  de  Rovate. 
Bartholomaeus  a  Faba. 
Zilianus  de  Cremona. 
Guidinus  de  Vailato. 
Antonius  Torniola. 
Tonolus  de  Tajata. 
Thomas  Vavassorus. 
Joannes  Brina. 
Busca  Arrigolus. 
Palotus  de  Palotis. 


Battami,  et 

Christophorua  Eduainapui 
CominuB  Sabadinua. 
Joanninua,  et 
Joannetua  de  Nerubro. 
Joannes,  et 

Varimpertua  de  Rumano. 
Betinua  de  rinnovo. 
Paganinna  de  Paratico. 
Bassianna  Bolzanua. 
Stephanua  de  Locadello. 
Franciscus  de  Gheto. 
Pantaleon  Ferrarius. 
Zambonetus, 
Gardenalus, 
Venturinus,  et 
Joanninus  de  Costa. 
Venturinus  de  Licinis. 
Christophorus  Guercius. 
Marius  de  S.  Pellegrino. 
Ghisius,  et 
Pigocius  de  Endena. 
Joannes  Bravius. 
Georgius,  et 
Bassianus  Maricondus. 
Toninus  de  Vidalo. 
Massinus  Passera. 
Guilielmus  de  Boncio. 
Bernardus  de  Rossettis. 
Cominzolus,  et 
Antonius  de  Verdello. 
Bartholinus  Piapanus. 
Marius  de  Manariis. 
Guilielmus  de  Castroleone. 
Franciscus  de  Soncino. 
Joanninus  de  Concorrevo. 
Jacobus  Carellus. 
Perinus  de  Matto. 
Bernardus  de  Marcarinis. 
Pavarinus  Pavarus. 
Tonolus  de  Fregasiis. 
Arricus  Patrinus. 
Bertonus  Mangiavinus. 
Joanninus  Furnarius. 


—  226  — 

»  Ipsi  omnes  unaniiniter,  et  concorditer ,  nemine  discrepante,  suo 
«  nomine ,  et  vice  totius  universitatis  dictae  Teme  Cremae ,  invocata 
»  Spiritus  Sancti  gratia,  et  Beati  Pantaleonis  protectoris  nostri,  omni 
»  modo,  quo  melius  potuerunt  et  possunt,  fecerunt,  constituerunt,  crea- 
»  verunt,  nominaverunt ,  ordinaverunt ,  faciunt,  constituunt,  creant, 
»  nominant,  et  ordinant  magnificum  et  potentem  D.  D.  Georginm  de 
n  Benzonibus,  Dominum  Pandini,  pra?sentem,  et  acceptantem  in  suum 
r>  et  dictae  Communitatis,  ac  dictae  Terrae  Cremae  verum  et  generalem 
n  Dominum,  et  Rectorem  dictae  Terree  Cremae,  et  dictae  Communitatis, 
n  cum  omni  auctoritate  et  balia  opportuna  et  necessaria  :  consignando 
«  et  dando  sibi  ibidem  ferulam  dictae  dominationis ,  et  claves  Castro- 
n  rum  et  portarum  et  fortaliciarum:  Et  pennonum  dictae  Communita- 
n  tis  dictae  Terrae,  in  signum  veri  Dominij  et  possessus:  Et  alia  di- 
»  cendo  et  faciendo,  quae  in  praedictis  fuerunt  necessaria.  Et  insuper 
"  ipsi  omnes  suo,  et  dicto  nomine  juraverunt  in  manibus  praelibati  Do- 
»  mini,  quod  erunt  perpetuo  fideles  subditi  et  servitores  praelibati 
n  D.  Georgii.  Et  quo  nullo  tempore  dicent',  facient,  nec  tractabunt 
«  verbo,  nec  opere  quiequam  contra  ejus  personam,  honorem,  nec 
»  statimi  praelibati  Domini.  Et  si  quid  senserint  tractari  contra  ejus 
»  personam,  et  statum,  in  continenti  sibi  manifestabunt  toto  posse.  Et 
»  alia  dixerunt  et  fecerunt  quae  in  talibus  fieri  consueverunt.  Qui 
n  D.  Georgius  acceptans  praedicta  promisit  ipsis  subditis,  et  servito- 
*  ribus  suis,  quae  ipsos  bene,  et  diligentes  suo  posse  reget,  defendet  et 
»  salvabit,  gubernabit,  et  jura  ministrabit:  salvo  quae  possit  gratias 
n  facere  ad  ejus  beneplacitum,  et  alia  dicet,  et  faciet,  quae  dicere,  et 
«  facere  tenentur  Domini  subditis,  et  servitoribus  suis.  Et  rogaverunt 
»  me  Notarium,  ut  conficerem  instrumentum.  Testes,  Ghidinus  Inver- 
ai sus,  Morius  Man  aria,  Guilielminus  Boncius,  Guido  Mandula,  Joan- 
«  ninus  Amizonus,  Pinoxius  Pisacaput,  Lardinus  Canevarius,  prò  se- 
»  cundo  notano  Joanninus  Rainerius.  » 


D. 


Riportiamo  la  Ducale  con  cui  a  Giorgio  Benzoni  fu,  conferita  la  no- 
biltà veneta. 

u  Michiel  Steno  per  grazia  di  Dio  Duce  di  Venezia,  etc.  A  tutti  e 
»  cadauni  tanto  amici  quanto  fedeli,  e  tanto  presenti  quanto  futuri, 
n  quelli  che  il  presente  Privilegio  doveranno  vedere,  salute  et  affetto 
»  di  sincera  dilezione. 

n  La  Duca!  Eccellenza  solita  molto  celebramente  conservarsi  negli 


—  227  — 

•  uffici  ili  Liberalità,  attende  tanto  maggiormente  prevenire  con  bonori 
••  le  persone  magnifiche  6  chiare  per  dignità  di  gradone  quelle  ampliar 

••   con  durali  lavori,  quanto  al  dogato  DOStrO  con  fede   <li  devozione  e 

n  con  le  opere  si  dimostrano: (  nulo  il  Magnifico  e  Potente  signóri  riorgio 
n  Bensoni  di  Cremai  ete.  Signore  assoluto,  essendo  stato  di  continuo 
••  strettissimo  e  perfettissimo  amico  del  dominici  nostro,  Biccome  per 

n  lodevoli  e  notabili  effetti  lia  dimostrato,  llahbiamo  voluto  essere  pa- 
li lese  a  tutti  et  cadauni  così  presenti  eome  futuri,  che  osservata  ogni 

-  necessaria  solennità  di  legge  et  ragione  delli  Conseglì  et  Ordini 
n  nostri,  il  prefitto  Giorgio  con  suoi  figlivoli  ed  eredi  al  numero  e  del 

-  numero  del  nostro  M  a  ingioi*  Conscglio  habbiamo  tatto  e  faccino,  e  de 
m  Nobili  del  nostro  Maggior  Conscglio   in  Venezia  e  fuori  in  qualsi- 

-  voglia  loco  esser  volcino  et  esser  trattato  quello  con  sincera  benivo- 

-  lenza,  abbracciandolo  Noi  con  le  braccia  d'amore,  e  fermamente  de- 
li liberando  che  il  prefato  magnifico  signor  Giorgio  et  suoi  figliuoli  et 

■  eredi,  in  Venezia  e  fuori  et  in  qualsivoglia  luoco  compiutamente 
»  usino  e  godano  le  medesime  libertà,  beneficj,honori  ed  immunità  che 
n  godano  altri  Cittadini  et  Nobili  nostri  del  nostro  Maggior  Conse- 

■  glio.  A  Noi  ancora  il  predetto  Magnifico  signor  Giorgio  solennemente 
»  alli  Santi  Dei  Evangelj  per  suo  idoneo  procuratore  ha  dato  il  dovuto 

■  giuramento  di  fedeltà.  In  fede  delle  quali  cose  tutte  et  evidenza  più 

■  compiuta   abbiamo   comandato  essere  fatto  il  presente  Privilegio  et 

■  munitolo  con  la  nostra  bolla  d'oro  pendente. 

n  Dato  nel  nostro  Ducal  Palazzo,  l'anno  dall'Incarnazione  di  nostro 

■  Signore  MCCCCVII  del  mese  d'ottobre  giorno  XXIII  della  prima 
n  Indizione.  » 


—  c229  - 


CAPITOLO    OTTAVO 

VICENDE    DI    CREMA    DAL    GIORNO  IN  CUI  RICADDE  SOTTO  IL  DOMINIO 
DEI  VISCONTI  A  QUELLO  IN  CUI  SE  NE   INSIGNORIRONO  I  VENEZIANI. 


SOMMARIO. 

Col  ristabilirsi  della  signoria  Viscontea  in  Crema ,  i  ghibellini  ricuperano  le 
sostanze  die  avevano  perduto.  —  Testamento  di  Tomaso  Vi  mercati  che 
fonda  in  Crema  un  convento  di  frati  agostiniani.  —  Guerra  fra  i  Vene- 
ziani e  il  duca  Filippo  Visconti.  Francesco  Carmagnola,  generalissimo 
della  veneta  repubblica,  offre  in  isposa  la  sua  figlia  a  Venturino,  figlio 
di  Giorgio  Benzeni  ,  il  quale  si  oppone  a  queste  nozze.  —  Si  confiscano 
i  beni  a  Giorgio  Benzeni  :  altri  Benzoni  ed  alcuni  guelfi  sono  banditi.  — 
Il  figlio  del  castellano  della  Rocca  Serio  promette  di  consegnar  ai  Vene- 
ziani la  rocca  :  la  trama  del  figlio  del  castellano  viene  scoperta  al  duca 
Filippo  dal  Carmagnola  :  importanza  che  hanno  le  parole  colle  quali  il 
Terni  raccontò  questo  caso.  —  Il  Carmagnola  si  vendica  dei  Benzoni  : 
Venturino  cade  prigione  del  duca  di  Milano.  —  Supplizio  del  Carmagnola 
a  Venezia.  —  Come  Venturino  Benzoni,  per  la  sua  prodezza,  siasi  liberato 
dal  carcere  ,  e  procacciata  la  benevolenza  di  Filippo  Visconti.  —  Borso 
d' Este  ottiene  il  dominio  di  Crema  in  pegno  di  stipendj  che  a  lui  dovea 
pagare  il  duca  Filippo.  —  Nasce  a  Crema  il  famosissimo  Gian  Giacopo 
Trivulzio.  —  Nuove  ostilità  fra  i  Veneziani  ed  il  duca  di  Milano:  soffe- 
renze dei  Cremasela  per  l'insolente  procedere  delle  truppe  viscontee.  — 
Il  conte  Paolo  Segizzo  provvede  Crema  di  biade  e  viene  salutato  padre 
della  patria.  —  Morte  di  Filippo  Visconti:  concessione  ch'egli  fece  ai 
Cremaschi  del  canale  detto  volgarmente  Boggia  Comuna.  —  Pretendenti 
al  ducato  di  Milano:  vi  si  proclama  la  repubblica  di  Sant'Ambrogio.  — 
Crema  divien  suddita  della  nuova  repubblica  che  manda  a  governarla, 
col  titolo  di  commissario,  Gasparo  Vimercati.  —  1  Veneziani  rompono 
guerra  alla  repubblica  di  Milano  :  grosso  presidio  de'  Milanesi  in  Crema. — 
Vittorie  de' Veneziani  ;  timori  dei  ghibellini  cremaschi  di  dover  soggiacere 


—  230  — 

alla  signoria  veneta.  —  Come  Gasparo  Vimercati  procedesse  ostilmente 
verso  i  guelfi,  e  con  quale  stratagemma  li  discacciasse  da  Crema.  — 
Giovanni  Alchini  getta  sulle  fiamme  il  Crocifisso  del  duomo  ;  i  Cremaschi 
vengono  con  turpe  epigramma  detti  brusa-Cristi.  —  Se  Giovanni  Alchini 
fosse  veramente  bergamasco,  come  vorrebbe  il  Fino.  —  I  Veneziani  scon- 
fitti ripetutamente  dai  Milanesi,  cercano  di  guadagnarsi  Francesco  Sforza, 
generalissimo  della  repubblica  di  Milano.  —  Diserzione  dello  Sforza ,  patti 
mediante  i  quali  si  congiunse  coi  Veneziani  onde  schiacciare  la  repub- 
blica di  Sant'Ambrogio.  —  Crema  assediata  dai  Veneziani.  —  Gli  asse- 
diati fanno  un'ardimentosa  sortita  ed  inchiodano  le  artiglierie  a  Sigis- 
mondo Malalesta  condottiero  dell'esercito  veneziano.  Levasi  dai  Veneti 
l'assedio  a  Crema,  ma  poco  dopo  lo  si  rimette.  —  Carlo  Gonzaga  tradi- 
sce i  Milanesi  ed  entra  in  trattative  con  Francesco  Sforza.  -  Oratori 
cremaschi  inviati  da  Gasparo  Vimercati  allo  Sforza  per  indurlo  ad  assu- 
mer egli  la  signoria  di  Crema  :  lo  Sforza  si  mantiene  fedele  ai  patti  che 
lo  stringevano  ai  Veneziani.  ~  1  Cremaschi  mandano  sei  ambasciatori  a 
trattare  la  resa  di  Crema  con  Andrea  Dandolo,  provveditore  dell'esercito 
veneziano.  —  Addì  16  di  settembre  dell'anno  1449  la  repubblica  veneta 
s'impossessa  di  Crema.  —  Gasparo  Vimercati,  scacciato  da  Crema,  perorò 
a  Milano  a  favore  del  conte  Francesco  Sforza ,  il  quale  fu  proclamata 
duca  di  Milano. 


La  fuga  del  Bcnzoni  ,  ristabilendo  in  Crema  il  dominio 
visconteo,  riempì  i  ghibellini  di  gioja  e  di  baldanza:  i 
fuorusciti  ritornarono  alle  case  loro.  Ed  ecco  sorgere  nella 
città  nostra  nuovi  litigi,  riclamando  i  ghibellini  i  beni,  dei 
quali  furono  spogliali,  e  eh'  erano  in  parte  dai  guelfi  pos- 
seduti. 11  duca  Filippo ,  che  addì  28  gennajo  1423  aveva 
assunto  il  dominio  di  Crema,  vi  mandò  a'  24  di  febbrajo 
Franchino  Castiglioni,  acciochè  qual  arbitro  inappellabile 
risolvesse  le  contese  fra  i  guelfi  e  i  ghibellini.  Franchino 
Castiglioni  nel  23  marzo  1423  pronunciò  sentenza,  con  cui 
reintegrando  i  ghibellini  nel  possesso  delle  perdute  sostan- 
ze, ne  condannava  alla  restituzione,  sia  il  Comune,  di 
quella  porzione  di  beni  che  furono  confiscati  e  venduli, 
sia  i  guelfi,  di  tutte  le  sostanze  che  si  erano  appropriate,  o 
col  consenso  del  Benzoni,  o  arbitrariamente.  Fra  i  moltis- 
simi ghibellini  che  riebbero  i  loro  beni,  mercè  la  sentenza 


—  HI  — 
del  Castiglione  sono  nella  cronaca  del  Terni  nominati  : 
Antonio  ed  Antonello  Gambazocco,  Bartolomeo,  Filippino  e 
Lucia  Bernardi,  Giovanni  Pojani,  Stefano  Quaino,  Petrino 
Guinzoni,  Graziolo  Ga arino,  Fermo  Cristiani,  Cristoforo 
Gandino,  Giacomo  Tintori,  Manfredo  «lei  conti  di  Camiaa- 
no ,  Pietro  Bolzoni,  Ponzetto  bichini,  Matteo  e  Stefano 
Orioli,  Cornino  dei  Bassi,  e  molli  altri  cittadini  cremaselo, 
tulli  nomi  clic  non  appariscono  fra  i  sottoscritti  ai  due 
istromenti,  ove  pretenderebbe  il  Tino  che  il  suffragio  uni- 
versale dei  concittadini  abbia  conferito  ai  Benzoni  la  signo- 
rìa di  Crema.  Pietro  Terni  notò,  che  non  vennero  condan- 
nali, a  rendere  ai  ghibellini  gli  usurpali  beni,  i  guelfi  più 
ricchi  e  più  potenti,  perchè  temuti,  e  perchè  sempre  ai 
cardili  macri  offendono  le  mosche  '*). 

A  quest'epoca,  altra  controversia  ferveva  in  Crema,  oc- 
casionala dal  testamento  di  un  Gioan  Tomaso  Vimercati  , 
il  quale  avea  istituito  erede  universale  delle  sue  sostanze 
i  frali  di  Sant'Agostino  della  provincia  di  Lombardia  ,  con 
obbligo  che  fondassero  in  Crema  un  monastero  di  frali 
Osservanti.  Il  Vimercati,  narra  Terni,  fece  tale  disposi- 
zione a  scarico  dell'anima  del  padre  e  dell'avo  suo,  pub- 
blici usuraia  .  Un  Fra  Martino  era  venuto  da  Milano  con 
incarico  degli  Agostiniani  a  tor  possesso  dell'eredità, 
quando  a  contrastarla  insorsero  il  duca  Filippo  ,  preten- 
dendo devoluti  al  fisco  i  beni  Vimercati,  perchè  origina- 
vano da  pubbliche  usure,  e  Francesco,  Cristoforo  e  Cre- 
maschino  Vimercati,  come  quelli  ch'erano  congiunti  in  pa- 
rentela col  defunto  Gioan  Tomaso.  La  contesa  finì  vittorio- 
samente pei  frati,  che  ridussero  il  duca  ed  i  parenti  del 
loro  benefattore  a  smettere  ogni  pretesa.  Gli  Agostiniani 
intendevano  porre  il  convento  nella  casa  di  Tomaso  Vimer- 


(.1)  Terni.  Storia  di  Crema. 
(-2)  Idem. 


—  232  — 
cati ,  com'egli  stesso  avea  disposto  nel  testamento,  ma  ne 
ìi  impedirono  i  Domenicani,  adducendo  che  la  casa  Vi- 
mercati  era  troppo  vicina  al  loro  convento.  Fu  per  questo 
motivo  che  nel  1439  fra  Rocco  de  Porzi  di  Pavia,  compe- 
rate alcune  case  della  famiglia  Pandini,  istituì  il  convento 
nel  luogo  ove  a'  nostri  giorni  leggesi  Caserma  dì  sant'Ago- 
stìno.  Discorrendo  di  questi  frati,  non  ommetteremo  di 
rammentare  ciò  che  ne  scrisse  Alemanio  Fino  :  «  Vivevano 
»  in  principio  con  tanta  purità  che  molte  madri  e  sorelle 
»  dei  frati,  fattesi  pinzochere,  abitarono  con  essi  loro  per 
»  parecchi  anni.  Parendo  poi  che  fosse  cosa  pericolosa  lo 
»  stare  uomini  e  donne  insieme  mescolati,  furono  separati 
»  dal  beato  Giorgio  da  Crema  (*). 

Nel  1425  il  generale  conte  Francesco  Carmagnola,  ca- 
duto in  disgrazia  del  duca  Filippo  Visconti,  offerse  l'invitta 
spada  in  servigio  della  veneta  repubblica,  e  volendo  sguai- 
narla contro  il  duca  Filippo  che  lo  pagò  di  n erissima  in- 
gratitudine, indusse  la  repubblica  a  romper  guerra  al  Vi- 
sconti. Le  ostilità  fraDucheschi  e  Veneziani  incominciarono 
nelle  terre  bresciane  :  generalissimo  della  repubblica  era  il 
conte  Carmagnola,  e  fra  i  valenti  condottieri  del  suo  eser- 
cito segnalavansi  Giorgio  e  Venturino  Benzoni.  Il  Carma- 
gnola aveali  in  molta  stima  :  tanto  simpatizzava  con  Ven- 
turino, che  gli  offrì  in  isposa  Lucina  sua  figlia.  Ma  Giorgio 
vi  si  oppose  dicendo,  macchiarsi  la  chiarezza  del  sangue 
Benzoni  se  Venturino  impalmava  la  figlia  del  Carmagnola, 
cui,  benché  salito  in  altissima  riputazione,  il  conte  Giorgio 
non  perdonava  l'oscurità  dei  natali.  Adontatosene  il  Car- 
magnola, meditò  vendicarsi  dei  Benzoni,  che  prima  amava 
e  pregiava  tanto. 

Il  duca  di  Milano,  come  seppe  che  Giorgio  col  figlio  Ven- 
turino s'era  accomodato  ai  servigi  de'  suoi  nemici,  lo  punì 

(i)  Fino.    Storia  di  Crema. 


—  233  — 
come  ribollo,  confiscandogli  tutti  i  beni.  Poi  nel  1436,  ca 
(luta  Brescia  in  potere  dei  Veneziani ,  furono  espulsi  da 
(ironia  tutti  i  Benioui,  o  relegali  in  varj  paesi:  confinati  in 
diversi  luoghi  anche  molti  guelfi,  fra  i  quali  Francescano 
Terni  e  Sergnano  Alfieri:  un  Corradino  Vimercati  ebbe 
rincarico  d'invigilarli,  acciocché  gli  assegnali  confini  non 
trascorressero. 

Correva  voce  clic  i  Veneziani,  presa  Brescia  e  disfalli  a 
M acalò  i  Duchesclii,  inlcndessero  accampare  sotto  Crema. 
Tale  diceria  giunse  in  Croma  all'orecchio  del  figlio  del  ca- 
stellano della  Rocca  Serio,  e  toslo  spedì  segretamente  un 
mosso  a  Giorgio  Bonzoni  significandogli  ch'egli  avea  modo 
di  consegnargli  la  Rocca  guardata  dal  padre ,  e  che  gliela 
avrebbe  effettivamente  consegnata,  purché  gli  si  promet- 
tesse di  fargli  sposare  una  vedova  gentildonna  cremasca , 
per  la  quale  spasimava  d'amore,  senza  speranza  di  poterne 
conseguire  la  mano.  Ci  preme  riferire  colle  parole  del 
Terni  gli  effetti  che  scaturirono  da  questa  proposta  fatta 
a  Giorgio  Benzoni  dal  figlio  del  castellano.  «  Giorgio,  avuto 
»  il  messo,  si  ricorre  a  Pietro  Loredano  e  Fantino  Mi- 
«chele  provveditori  veneziani  dell'esercito,  e  il  lutto 
»  li  conta  offrendosi  con  li  suoi  compagni  di  notte  fare 
»  l'effetto.  Li  provveditori  senza  il  capitano  Carmagnola 
»  non  li  volsero  dar  licenza,  anzi  dimandarono  tempo 
»  di  parlare  a  lui,  e  sapendo  l'odio  che  portava  a  Gior- 
»  gio,  finsero  che  il  messo  fosse  venuto  a  loro,  ma  del 
»  matrimonio  non  gli  fecero  motto.  Il  Carmagnola  ,  che 
»  sagace  era,  del  tratto  si  avvede,  e  tolse  tempo  di 
»  pensare  un  poco,  acciò  non  fosse  una  trapola  meltuta 
»  per  fargli  scorno;  e  perchè  col  duca  di  Milano  segre- 
»  tamente  si  intendeva,  la  notte  al  duca  dà  notizia,  co- 
»  me  il  castellano  della  Rocchetta  di  Crema  faceva  tradi- 
»  mento.  11  castellano  dal  conte  Guido  Torello  fu  preso,  et 
»  a  Milano  condutto  fu  da  grandissimi  tormenti  crucciato  : 

16 


—  234  — 
»  nondimeno  non  potè  confessare  ciò  che  non  sapeva,  per- 
»  che  il  figliolo  giovinetto  era  traditore,  non  egli  i1^  » 

Abbiamo  voluto  riportare  colle  parole  del  Terni  questo 
fntto,  giudicandolo  di  non  lieve  importanza,  perochè  scio- 
glierebbe il  problema  storico:  Se  il  Carmagnola  abbia  real- 
mente tradita  la  veneta  repubblica  ,  o  se  fu  nequizia  dei 
Veneziani  il  decapitarlo.  Qualora  si  conceda  al  Terni  essere 
stato  il  Carmagnola,  e  non  altri,  che  palesò  al  duca  Filip- 
po, ordirsi  in  Crema  una  cospirazione  contro  di  lui,  ri- 
marrebbe luminosamente  provato  che  il  Carmagnola  man- 
teneva segrete  relazioni  col  duca  di  Milano ,  quindi  scol- 
pata la  repubblica  dell'accusa  che  molti  le  avventarono  di 
aver  barbaramente  immolata  alla  sua  tenebrosa  politica  la 
testa  d'uno  dei  più  celebri  condottieri  italiani.  L'autorità 
del  Terni  certamente  può  offrire  un  argomento  di  più  a 
coloro  che  difendono  la  condotta  della  repubblica  verso  il 
Carmagnola:  non  sappiamo  però  se  basterà  ad  assolvere  i 
Veneziani,  riflettendo  che  il  nostro  cronista  narrava  un  caso 
avvenuto  già  da  cent'anni,  e  scriveva,  dominando  in  Cre- 
ma la  repubblica  di  S.  Marco,  alla  quale  egli  come  guelfo 
e  come  suddito  dimostrò  affezione  e  riverenza. 

Nell'anno  1450  ferveva  ancora  la  guerra  fra  il  duca  di 
Milano  e  i  Veneziani.  li  conte  Carmagnola,  pertinace  nel 
disegno  di  rovinare  i  Benzoni  perchè  gli  avevano  stolta- 
mente i  bassi  natali  rinfacciato,  gli  espone  ai  maggiori  pe- 
ricoli delle  battaglie,  sperando  vi  perdessero  la  vita,  o  al- 
meno la  fama  che  si  erano  procacciata  d'ardimentosi  capi- 
tani. Combattendo  i  due  eserciti  nel  territorio  cremonese 
(1451), il  Carmagnola,  perchè  battuto,  ritirandosi  a  Casal- 
maggiore,  affida  a  Venturino  Benzoni  la  custodia  di  Fonta- 
nella, piccolo  forte,  ordinandogli  di  non  cederla  ai  nemici 
senza  il  suo  consentimento.  Le  truppe  del  duca  assaltano 

(1)  Pistko  Turni.  Storia  di  Crema. 


—  933  — 
Fontanella,  Ventanno  Benzoni  la  difende  ostinatamene 
ma  i  terrazzani  defezionando  dal  vessillo  di  S. Marco  ren- 
dono vani  i^li  sforzi  di  Venturino:  Fontanella  cade  in  po- 
tere dei  Dncheschi,  e  Venturino,  fatto  prigioniero,  vien  con- 
dotto a  Crema  lutto  coperto  di  catene.  Non  è  a  dirsi  la  de 
colazione  della  di  lui  madre,  e  l'allegrezza  dei  ghibellini 
eremaschi,  allorché  seppero  Venturino  prigioniero  del  duca. 
1  ghibellini  nella  loro  fantasia  già  pregustavano  la  gioja  di 
sederne  la  testa  rotolare  sul  palco,  e  perchè  di  questo 
omento  spettacolo  non  fallisse  loro  la  speranza,  s'adope- 
rarono nella  corte  di  Filippo  Visconti  con  accuse  e  con 
istigazioni.  Ma  alle  vendelle  ghibelline  fu  scudo  del  proprio 
figlio  Ambrosio  a  Benzoni,  la  quale,  come  già  notammo,  na- 
sceva dalla  famiglia  Corìo  di  Milano.  Coll'inilucnza  de1  suoi 
parenti  potè  salvare  a  Venturino  la  vita,  inducendo  Filippo 
Visconti  a  convertire  la  pena  di  morte  in  quella  del  car- 
cere :  Venturino  Benzoni  fu  rinchiuso  per  diciotto  mesi  nei 
Forni  di  Monza,  poi  coi  ferri  ai  piedi  in  una  torre  di 
Milano. 

Peggior  sorte  subiva  nell'anno  susseguente  (1455)  il 
conte  Carmagnola.  Tirato  dal  consiglio  dei  Dieci  con  arti- 
fìziose  arti  a  Venezia ,  vi  fu  imprigiouato ,  messo  alla  tor- 
tura, e  decapitato  sulla  piazza  di  S.  Marco.  La  cupa  poli- 
tica dei  Veneziani  lo  condannò  alla  pena  capitale  con  mi- 
sterioso processo.  Le  tenebre  in  cui  Venezia  ha  voluto 
ravvolgere  il  processo  del  Carmagnola,  forse  più  che  la  con- 
dotta politica  di  questo  valorosissimo  capitano,  porgono  a 
molti  efficace  argomento  per  compiangere  nel  conte  la  vit- 
tima d' un'iniqua  aristocrazia.  Eppure  se  prestiam  fede  ai 
cronisti  eremaschi  (per  tacere  dei  Veneziani),  è  fuor  di 
dubbio  che  il  conte  Carmagnola  abbia  tradita  la  veneta 
repubblica.  Noi,  che  che  ne  dicano  molti  autorevoli  scrittor  , 
dubitiamo  ancora  dell1  innocenza  del  Carmagnola;  e  men- 
tre detestiamo  le  forme  processuali  con  cui  la  repubblica 


—  236  — 
io  ha  condannato,   non   ci  possiamo  convincere  che  fosse 
iniqua  la  sentenza  con  la  quale  fu  punito  come  traditore. 

Durò  tre  anni  la  prigionia  di  Venturino  Benzoni  :  ora 
narreremo  come  a  lui  nel  1455  arridesse  la  capricciosa 
fortuna,  coronando  la  sua  prodezza,  quand'egli  meno  se 
l'aspettava,  di  ricchezze  ed  onori. 

Il  duca  Filippo  teneva  a  Milano  prigioniero  Alfonso  di 
Arragona  detto  il  Magnanimo,  vinto  nella  battaglia  di 
Ponza,  e  traltavalo  con  singolare  amorevolezza. col  decoro 
che  addicevasi  a  tanto  personaggio.  Piaceva  al  duca  intrat- 
tenere l'illustre  prigioniero  con  pubblici  spetiacoii,  e  fra  gli 
altri  ordinò  una  giostra  cui  presero  parte  i  più  valenti  ca- 
valieri italiani.  Filippo  ambiva  persuadere  Alfonso  che  i 
migliori  giostratori  cran  lutti  cavalieri  del  suo  ducato,  ma 
l'esito  della  giostra  nel  primo  e  secondo  giorno  non  corri- 
spose alla  millanteria  del  duca:  gli  onori  ed  i  trionfi  fu- 
rono di  don  Carlo  Gonzaga.  Filippo  non  potè  dissimulare 
a' suoi  famigliari  il  dispetto  che  ne  sentiva,  onde  Bonicio 
Corio,  zio  di  Venturino  Benzoni ,  ragionando  col  duca,  colse 
l'occasione  di  dirgli  ch'egli  conosceva  un  giovane  cavaliero 
cremasco,  il  quale,  ove  gli  si  permettesse  d'entrar  nella 
giostra,  n'uscirebbe  certamente  vincitore.  Filippo  domandò 
al  Corio  chi  fosse  questo  prode  cremasco ,  e  Bonicio  gli 
spiatellò  il  nome  del  carcerato  suo  nipote.  Allora  il  duca 
ordinò  che  Venturino  Benzoni  venisse  tolto  dai  carcere,  e 
differì  la  terza  giostra  tanto  che  bastasse  a  Venturino  per 
ristorare  le  affievolite  forze,  e  provvedersi  di  un  buon  de- 
striero. 

Nel  giorno  prefisso ,  Venturino  presentasi  alla  giostra , 
pieno  d'ardimento,  di  giovami  fidanza  nel  proprio  valore, 
altero  della  fiducia  che  in  lui  ponea  Filippo  Visconti.  Vuol 
provare  al  mondo  che  tre  anni  di  prigionia  non  hanno 
svigorito  il  suo  braccio,  spera  con  un  colpo  di  lancia  can- 
cellare nell'animo  del  duca  la  memoria  del  passato,  e  gua- 


—  M7  — 
degnarne  i  favori.  Per  accondiscendere  il  desiderio  di  Filip 
pò,  cimentasi  con  Carlo  Gonzaga,  il  trionfatore  dello  gio 
sire  antecedenti,  Nei  primi  Bcontri  i  due  cavalieri  si  mo- 
strano pari  di  destrezza  e  di  forza,  ma  poi  Venturino  in- 
calza l'avversario  furiosamente,  lo  percuote  con  terribile 
colpo  di  lancia  Dell'elmo  ,  e  lo  rovescia  tramortito  sul  ter- 
reno. Gli  spettatori  scoppiano  in  fragorosi  applausi,  Ven- 
tanno è  salutato  vincitore  della  giostra.  La  gioja  sfavillò 
sul  volto  di  Filippo  Visconti,  inorgoglito  che  gli  onori  della 
giostra  questa  volta  toccassero  a  un  cavaliere  del  suo  du- 
cato, che  un  Cremasco  avesse  trionfato  del  trionfatore  man- 
tovano. Venturino  raccolse  della  sua  prodezza  nobilissimo 
guiderdone  :  il  duca  creollo  capitano  della  sua  corte,  lo 
rimise  in  possesso  dei  beni  confiscati ,  gli  regalò  un  palazzo 
in  Milano,  e  gli  ottenne  in  isposa  Àgnesina  degli  Asinari, 
figlia  di  Percivallo,  signore  di  Boldesco  e  di  molti  castelli 
nel  territorio  Astigiano. 

Non  volsero  così  propizie  le  sorti  agli  altri  Benzoni  ed 
ai  guelfi  che  furono  scacciati  da  Crema  Tanno  14-26.  Essi 
per  ben  quindici  anni  dovettero  sospirare  la  patria  lonta- 
na ,  tanto  più  da  compiangersi  perchè  sapevano  le  case 
loro  abitate  dalla  soldatesca  del  duca  che  vi  metteva  ogni 
cosa  a  ruba  ed  a  guasto.  Finalmente  nel  1441,  dopo  con- 
chiusa la  pace  fra  i  Veneziani  ed  il  duca  Filippo,  venne 
concesso  a  Giovanni  Benzoni  ed  a  molti  guelfi  di  ripatriare. 

Nell'anno  medesimo  (1441),  narra  il  Fino,  «  agli  undici 
u  d'ottobre,  Borso  d'Este  (per  che  cagione  non  so)  ebbe  di 
»  volere  del  duca  Filippo  il  dominio  di  Crema,  dalle  fortezze 
»  in  fuori,  e  fecesi  giurare  fedeltà  dai  Cremaschi  (*).  »  Ciò 
che  Alemanio  Fino  ignorava ,  a  noi  rivelano  gli  istoriografi 
della  cospicua  famiglia  degli  Estensi.  Raccogliamo  dal  Lu- 
tacene Borso  d'Este,  potentissimo  cavaliero,  godeva  i 

(i)  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  Luta.  Famiglie  celebri  italiane. 


—  238  - 
favori  del  duca  di  Milano,  e  che  aveva  per  Filippo  combat- 
tuto contro  i  Veneziani.  Nel  1441  fu  creato  prefetto  della 
corte  ducale,  e  ricevette  Crema,  meno  le  rocche,  in  pegno 
di  stipendi  di  cui  era  verso  il  duca  creditore.  Borso  però 
restituì  poco  appresso  Crema  al  Visconti,  quando  ricevette 
da  Filippo  in  donazione  il  feudo  di  Castelnuovo  nel  territo- 
rio tortonese. 

Nel  1444  trovandosi  in  Crema  Antonio  Triulzio.,  com- 
missario ducale,  il  caso  volle  che  sua  moglie  partorisse 
nella  città  nostra  Gian  Giacopo  Triulzio,  personaggio  ce- 
lebratissimo  nell1  istoria  del  secolo  decimoquinto   (*). 

La  pace  conchiusa  dai  Veneziani  con  Filippo  Visconti 
Tanno  1441  è  violata  nel  1446  dal  duca  Filippo  che  vo- 
lea  spogliare  il  conte  Francesco  Sforza,  suo  genero,  della 
signoria  di  Cremona,  concessagli  da  Filippo  stesso  in  dote 
di  Bianca  sua  figliuola.  Ripigliate  le  ostilità,  Michele  Atten- 
dolo,  generale  dei  Veneziani,  rompe  l'esercito  di  Filippo 
Visconti,  conquista  rapidamente  tutte  le  terre  poste  fra 
F  Oglio  e  l'Adda,  meno  Crema,  ove  il  duca  manda  grosso 
presidio.  La  città  nostra  trovasi  miseramente  angustiata: 
di  fuori  la  minaccia  l'oste  veneta  alla  distanza  di  poche  mi- 
glia ;  di  dentro  è  innondata  da  numerosissime  truppe  di 
presidio,  sottoposta  all'arbitrio  di  Carlo  Gonzaga  cui  n'era 
affidato  il  comando.  I  guelfi  vengono  travagliati  da  nuove 
persecuzioni.  Essendosi  scoperta  in  Crema  una  cospira- 
zione a  favore  dei  Veneziani ,  ordita  da  tre  individui  che 
furono  immediatamente  impiccati,  i  ghibellini  ne  profittano 
per  accusare  la  fazione  avversaria,  e  col  sostegno  di  Otto- 
lino  Zoppi  commissario  e  di  Matteo  Albertini  podestà ,  so- 
spingono Carlo  Gonzaga  ad  espellere  i  guelfi   da    Crema. 

(i)  Pietro  Terni  fu  cancelliere  del  marchese  Gian  Giacopo  Triulzio  ,  e  a 
ìui  dedicò  la  sua  Storia  di  Crema,  allegando  fra  le  altre  ragioni,  ch'egli  con- 
sacrava al  Triulzio  il  suo  lavoro,  perchè  essendo  il  marchese  nato  a  Crema, 
consideravalo  come  suo  concittadino.  Il  Terni,  nella  sua  Storia,  ci  narra  ezian- 
dio che  Gian  Giacopo  Triulzio  fu  battezzato  nella  cattedrale  di  Crema,  e  no- 
mina le  persone  che  lo  levarono  dal  sacro  fonte. 


—  939  — 
Duo  mila  cinquecento  cittadini  Bono  condannati  ad  abban- 
donare la  terra  natale:  i  primi  che  ne  uscirono,  essendo 

viali  riconosciuti  per  sudditi  del  duca,  furono  dai  Vene- 
ziani arrestati,  onde  gK  altri  guelfi,  per  non  cader  prigio 
nieri,  ricusavano  di  partirete  Crema.  Ma  ?e  li  costrinse 
Carlo  Gonzaga,  pubblicando  un  proclama,  ove  minacciava 
di  considerale  i  guelfi  come  ribelli,  e  confiscar  loro  i  beni 
qualora  entro  due  giorni  non  passassero  al  di  là  dell'Adda. 
Alloro  i  meschini  dovettero  loro  malgrado  sgombrare  da 
Croma  ,  e  lasciare  case  e  famiglie  a  discrezione  della  sol- 
datesca viscontea,  la  quale  se  ne  impossessò  con  un  proce- 
dere sfacciatamente  rapace  e  licenzioso.  Narra  il  Terni,  che 
le  famiglie  dei  banditi  rimaste  a  Crema  erano  costrette 
abitare  nei  luoghi  più  abietti  e  limosinare  dai  soldati  un 
tozzo  di  pane  per  nutrirsi.  In  alcune  case  operaronsi  de- 
gli artificiosi  nascondigli  nei  luoghi  più  segreti,  ed  ivi  le 
madri  celavano  con  le  robe  più  preziose  anche  le  figlie  , 
unico  mezzo  per  difenderne  il  tesoro  del  verginal  pudore. 
«Oh  quante  amare  lacrime  (sclama  il  nostro  cronista) 
»  si  doveano  spargere ,  e  più  assai  di  quelle  che  io  dico , 
»  quando  le  povere  donne  vedevano  mariti,  figliuoli  e  fra- 
»  telli  confinati ,  le  figliuole  tra  muri  peggio  che  in  carcere 
»  serrate ,  la  roba  dai  cani  dissipare  cum  grande  loro  di- 
»  saggio ,  e  cum  parole  villane  da  villani  essere  oltrag- 
»  giate,4).  » 

I  banditi  ricorsero  al  duca,  rappresentandogli  la  condi- 
zione deploranda  delle  famiglie  e  case  loro,  acciocché  im- 
pietosisse, e  a  tanta  miseria  riparasse.  Filippo  ammonì  con 
lettere  i  capitani  a  cessare  i  villaneschi  trattamenti ,  ma 
sempre  infruttuosamente.  Informato  il  duca  che  alle  sue 
rimostranze  non  badavasi ,  e  che  i  disordini  della  soldate- 
sca moltiplicavansi,  levò  bellamente  da  Crema  il  commis- 
ti) Terni.  .Stona  di  Crema. 


—  240  — 
sario,  che  n'era  la  cagion  principale,  sostituendovi  Gia- 
como da  Lonato.  Ma  perchè  sempre  più  gravi  divenivano  i 
pericoli  della  guerra  e  le  minacce  dei  Veneziani,  mandò  a 
Crema  Ottaviano  Visconti  ed  Angelo  Lavelli  con  le  loro 
compagnie,  aggiungendovi  pc^o  dopo  altri  duecento  fanti. 
Questa  copia  strabocchevole  di  soldati  accantonati  in  pic- 
cola terra  generò  penuria  di  viveri.  La  fame ,  spaventoso 
flagello,  sovrastava  al  popolo  di  Crema  già  da  mille  travagli 
martoriato:  quando  Paolo  Segizzo  dei  conti  di  Premollo, 
ricco  gentiluomo,  mandò  suo  figlio  Raimondo  a  far  incetta 
di  biade  nelle  terre  del  ducato.  Raimondo  ne  comperò  e 
condusse  in  Crema  buona  quantità  ,  le  quali  valsero  a  sfa- 
mare il  popolo  ,  e  meritarono  al  conte  Paolo  Segizzo  il 
nome  di  padre  della  patria. 

Anche  Giacomo  da  Lonato  non  seppe  o  non  volle  infre- 
nare l'eccessiva  licenza  della  soldatesca,  perciò  il  duca  Fi- 
lippo, l'anno  1447,  a  lui  sorrogava  Giacomo  Piccinino,  il 
quale  rimase  a  Crema  per  breve  tempo,  imperochè  nell'ago- 
sto dell'anno  medesimo  Filippo  Visconti  morì,  senza  suc- 
cessione mascolina. 

Spentasi  con  Filippo  Maria  la  linea  dei  duchi  Visconti, 
finì  a  Crema  la  signoria  dei  duchi  di  Milano.  Filippo  morì 
illacrimato,  per  l'indole  sua  cupa,  diffidente,  malvagia. 
Dominò  a  Crema  con  potere  assoluto  ventiquattro  anni,  la- 
sciando ai  Cremaschi  un  retaggio  di  dolorose  memorie  pei 
travagli  che  sopportarono  durante  la  sua  guerra  coi  Ve- 
neziani. 

Crema  è  debitrice  a  Filippo  Visconti  di  una  benefica 
concessione  che  avvantaggiò  la  condizione  agricola  di 
buona  parte  del  nostro  territorio.  Nei  primi  anni  del  suo 
dominio  in  Crema,  Filippo  Visconti,  ad  istanza  di  un  abate 
di  Cereto,  consentì  alla  città  nostra  il  diritto  di  estrarre 
dal  fiume  Adda  a  Cassano  una  ragguardevole  quantità 
d'acqua  che  servisse  ad  irrigare  per   lungo   tratto   il   ter- 


—  341  — 

reno  eromasco,  ond'ebbe  orìgine  il  cernale  Ritorto t  detto 
volgarmente  roggia  Comuna,  la  quale,  partendo  da  Cassano, 
attraversa,  con  direzione  da  settentrione  a  mezzodì,  il  nostro 
territorio,  mettendo  foce  nel  fiume  Serio  a  Montodine. 
Questo  prezioso  diritto  d'estrar  acqua  dall'Adda,  concesso 
ai  Cremaschi  da  Filippo  Visconti,  fu  io  seguito  riconosciuto 
dai  principi  che  successero  nel  ducalo  di  Milano  ai  Visconti. 
1  Veneziani,  quand'acquistarono  nel  1441)  la  città  nostra, 
ci  confermarono,  nella  fatta  capitolazione,  la  proprietà  della 
roggia  Connina,  e  di  tulle  le  altre  che  sono  ancora  di  ra- 
gione della  Comunità  di  Crema  i1). 

Morto  Filippo  Visconti  senza  legittima  discendenza ,  il 
ducato  di  Milano  a  chi  toccava?  Molti  invogliarono  di  così 
pingue  eredità:  Francesco  Sforza,  Alfonso  re  di  Napoli,  la 
casa  d'Orléans,  gli  imperatori  di  Germania,  e  perfino  un 
duca  di  Savoja.  Il  conte  Sforza  aspirava  alla  successione  di 
Filippo  Visconti  per  avere  sposala  una  sua  bastarda;  ma 
il  ducato  di  Milano  essendo  stalo  concesso  ai  Visconti 
in  feudo  mascolino,  nessuna  femmina,  o  discendente  o 
marito  di  femmine,  poteva  arrogarslo  :  conseguente- 
mente né  lo  Sforza,  né  la  casa  d'Orléans,  la  quale  preten- 
deva il  ducato  per  parte  di  Valentina  Visconti,  sorella 
dell'ultimo  duca.  Il  re  di  Napoli  produceva  un  testamento, 
a  favor  suo,  di  Filippo  Visconti:  ma  avea  questi  la  facoltà 
di  disporre  con  testamento  del  ducato,  come  se  si  trattasse 
d'una  proprietà  che  si  può  lasciare  liberamente?  Gl'impe- 
ratori di  Germania  volevano  appropriarsi  il  ducato  di  Mi- 
lano considerandolo  come  un  feudo  vacante,  devoluto  al 
loro  supremo  dominio.  Per  verità  che  tutti  questi  pretendenti, 
con  le  loro  speciose  ragioni,  non  valutavano  una  ragione 
più  forte,  quella  che  militava  contro  ogni  principesca  am- 
bizione. Risaliamo  alle  origini:  chi  affidò  la  sovranità  ai  primi 
Visconti?  Fu  il  popolo  di  Milano,  quando  questa  città,  ben- 

(1)  Intorno  al  Ritorto,  o  roggia  Comuna,  scrisse    un   assai   erudito   libro 
l'ingegnere  Carlo  Donati:  venne  stampato  l'anno  1852. 


-  242  — 

che  dipendente  dall'impero,  godea,  al  pari  di  tante  altre 
italiane,  le  franchigie  di  libertà  riconosciute  dall' istesso 
imperator  Barbarossa  nel  trattato  di  Costanza.  Or  dunque 
collo  spegnersi  dei  Visconti,  la  sovranità  ritornava  di  buon 
diritto  al  popolo,  e  la  repubblica  diventava  la  forma  legit- 
tima di  governo,  per  tutte  le  terre  del  ducalo  che  prima 
reggevansi  a  Comune. 

Quattro  patrizi  milanesi,  un  Triulzio,  un  Cotta,  un  Lam- 
pugnani,  un  Bossi,,  eccitarono  i  concittadini  a  rivendicare 
la  perduta  libertà,  e  siccome  non  pochi  dei  Visconti  ave- 
vano con  mostruosa  tirannide  reso  abbominevole  il  dominio 
di  un  solo,  venne  ben  tosto  a  Milano  proclamata  la  Re- 
pubblica di  S.Ambrogio.  Repubblica  non  vuol  dir  libertà  :  più 
volte  è  manto  all'egoismo  di  pochi,  e  la  storia  ce  ne  istruisce 
con  frequentissimi  esempi.  I  Milanesi,  nel  mentre  inalbera- 
vano l'insegna  repubblicana,  vollero  mantener  suddite  della 
loro  repubblica  le  terre  che  appartenevano  al  ducato:  lo 
che  spinse  parecchie  città  a  ribellarsi  a  Milano,  e  fu  non 
ultima  cagione  della  rovina  della  repubblica  ambrosiana. 
Premeva  alla  nuova  repubblica  di  conservare  il  dominio 
di  Crema,  come  quella  che,  essendo  ben  fortificata,  le  po- 
teva servire  di  antemurale  contro  i  Veneziani,  allora  in- 
capriccili  d'estendere  le  loro  conquiste  di  terra-ferma. 
Quindi  i  Milanesi,  nel  giorno  due  di  settembre  (1447), 
mandarono  a  Crema  Gasparo  Vimercati  (*)  con  amplissimi 
poteri,  acciochè  la  governasse  in  nome  e  quale  commissario 
della  loro  repubblica.  Nell'ottobre,  avendo  i  Milanesi  ri- 
chiesto che  i  Cremaschi  giurassero  loro  fedeltà,  Gasparo 
Vimercati  inviò  Guido  Parati,   Antonio  Pojani,  Giacomo  e 

(1)  Pi  Gaspare  Vimercati ,  il  Racchetti,  nella  sua  storia  genealogica  delle 
famiglie  nobili  cremasene,  scrisse  :  «  Quantunque  milanese,  ebbe  per  bisa- 
«  volo  quel  Pietro  Vimercati ,  che  fu  uno  dei  consorti,  i  quali  eressero  1'  o- 
»  spedale  degli  infermi  in  Porta  Ripalta.  Nella  lettera  scritta  dai  Presidi  del 
»  governo  milanese  ai  Cremaschi  è  chiamalo  uomo  assai  pratico  di  Crema 
»  per  avervi  lungamente  dimorato ,  quasi  volendo  significare,  vostro  con- 
»  cittadino •. 


-  w  — 

Tomaso  Vimercati  e  Cristoforo  Martinengo,  :i  Milano,  ove 

prestai ono  il  giuramento  alla  repubblica  ambrosiana,  in 
nomo  del  popolo  cremasco. 

I  guelfi,  per  aver  molato  padrone,  confidando  volgessero 
in  meglio  le  sorti  loro,  ritornarono  a  Crema:  memori  però 
di  quanto  avevano  sofferto  sono  la  dominazione  dei  signori 
di  Milano,  non  aggradivano  gran  fatto  il  governo  dei  Mila- 
nesi, ed  avrebbero  preferito  quello  dei  Veneziani.  Non  così 
i  ghibellini,  che  avendo  goduto  favori  e  prolezione  dai  du- 
chi di  Milano,  mostravansi  ancora  caldissimi  partigiani  dei 
Milanesi  e  della  nuova  repubblica.  Funesta  discrepanza  di 
simpatie  che  dovea  partorire  in  Crema  novelli  rivolgimenti. 

I  Veneziani,  profittando  degli  scompigli  in  cui  la  morte 
di  Filippo  Visconti  gettò  la  Lombardia ,  non  tardarono  ad 
assalire  i  Milanesi.  Questi  offersero  con  laute  condizioni  la 
condotta  del  loro  esercito  al  conte  Francesco  Sforza,  quan- 
tunque non  ne  ignorassero  le  ambizioze  mire  di  beccarsi 
gli  Stati  del  suocero.  Era  un  tratto  di  politica,  forse  per 
amicarsi  il  conte,  o  meglio  per  impedire  che  quel  valorosis- 
simo duce  entrasse  a  combattere  nelle  file  nemiche.  Lo 
Sforza  accettò  il  comando  delle  truppe  milanesi,  sebbene 
mal  comportasse  di  servire  a  coloro  sui  quali  meditava  d'im- 
perare. La  repubblica  ambrosiana  stipendiò  parecchi  altri 
condottieri  di  mollo  grido  (a  que' tempi  ve  n'era  dovizia), 
fra  i  quali  Venturino  Benzoni,  capitano  delle  lance  spezzate, 
e  Guido  suo  fratello.  Anche  i  Veneziani  adoperaronsi  nel- 
l' assoldare  capitani  di  molta  riputazione,  e  tentarono  di 
condurre  al  partito  loro  i  due  fratelli  Piccinini  che  milita- 
vano pei  Milanesi.  Promisero  ai  Piccinini  che  avrebbero 
partecipato  nelle  future  conquiste  della  repubblica  ,  ed  a! 
maggiore  d'età  offrirono  la  signoria  di  Cremona,  quella  di 
Crema  al  minore  <*). Con  questo  procederei  Veneziani  spe- 
culavano su  Crema  prima  ancora  d'averla  conquistata. 

{{)  Sismondi.  Storia  delle  repulblicìie  italiane. 


—  244  — 

Crema  venne  dai  Milanesi  presidiata  con  tal  copia  di  mi- 
lizie che  le  forze  del  suo  piccolo  territorio  non  comporta- 
vano. Avendo  i  Cremaschi  riclamato  per  essere  alleviati  dal 
peso  soverchio  di  una  soldatesca  numerosissima,  la  repub- 
blica di  Milano  rispose  loro  con  inzuccherate  parole,  con 
promesse  di  futuri  provvedimenti  ;  ma  premendo  ai  Mila- 
nesi di  tener  ben  guardata  la  sinistra  sponda  dell'Adda,  i 
fatti  non  corrisposero  alle  parole. 

Il  conte  Francesco  Sforza  in  quattro  mesi  avea  riportato 
segnalate  vittorie ,  e  tolte  ai  Veneziani  molte  importanti 
posizioni,  onde  la  repubblica  veneta  mostravasi  inchine- 
vole alla  pace.  L'avrebbero  di  buon  grado  accettata  i  Mi- 
lanesi, che  ne  avevano  di  bisogno  onde  assettare  il  nuovo 
governo,ma  lo  Sforza,  pe' suoi  fini,  seppe  attraversare  ogni 
via  di  amichevole  componimento.  Voleva  che  la  repubblica 
di  S.  Ambrogio  si  logorasse  con  lunga  guerra,  e  schiacciare 
la  libertà  del  popolo  milanese  sui  campi  di  battaglia ,  ove 
l'invitta  sua  mano  coronavala  d'allori.  Nondimeno  si  sparse 
voce  che  la  pace  verrebbe  conchiusa  e  Crema  sarebbe  ce- 
duta ai  Veneziani.  I  ghibellini  cremaschi  se  ne  sgomenta- 
rono; scrissero  alla  repubblica  di  Milano,  supplicando  non 
li  volesse  abbandonare.  Con  amorevolissima  lettera  del  2 
febbrajo  (1448)  i  rettori  della  repubblica  ambrosiana  ri- 
spondevano ai  ghibellini  dichiarando,  conoscere  abbastanza 
quanto  la  terra  di  Crema  giovasse  a  difesa,  stabilimento 
e  conservatone  dello  Stato  del  excellentissimo  Milano  3  e 
ringraziando  i  ghibellini  cremaschi,  chiamavanli  cari  e  fedeli 
fig li  della  rep ubblica. 

Rifiutala  ai  Veneziani  la  pace,  i  due  eserciti  apparecchiansi 
a  riprendere  le  offese:  Gasparo  Vimercati  cangia  i  castel- 
lani delle  rocche  di  Serio  e  di  Ombriano ,  dubbioso  della 
loro  fedeltà:  entrato  poi  in  sospetto  che  in  Crema  covas- 
sero trame  a  favore  dei  Veneziani,  fa  impiccare  il  barbiere 
Oneta  sulla  più  alta  torre  del  castello  di  Serio.  Oltredichè 


—  MB  — 
meditava  ili  scacciare  da  Crema  lutti  i  guelfi;  ma  questi  aven 
.lo  già  provato  quanto  su  di  gale  il  pane  dell'esilio,  aveau 
protostato  apertamente  che  avrebbero  preferito  morire , 
piuttosto  che  dipartirsi  dalla  terra  natale.  Gasparo  Vimer 
raii.  riputando  pericoloso  in  quei  momenti  espellere  i  guelfi 
dalla  città  con  la  violenta,  volendo  pur  conseguire  il  suo 
seopo,  ricorre  a  uno  stratagemma.  Finge  aver  ricevuti  cic- 
ali ordini  da  Milano,  e  pubblica  nel  marzo  1448  un  pro- 
clama, ove  comandava  die  tutti  gli  uomini  di  Crema  dai 
quindici  ai  settantanni  si  radunassero  fuori  della  Porla 
Ombriano.  Ne  adduceva  a  motivo  doverli  passare  in  rasse- 
gna, perchè  la  repubblica  milanese  volca  sapere  quante 
persone  fossero  in  Crema  atte  ai  servigi  militari.  Nel  giorno 
e  nell'ora  stabilita,  quasi  intera  la  popolazione  maschile  di 
Crema,  obbediente  al  proclama  del  Vimercati ,  trovavasi 
raccolta  fuori  di  Porta  Ombriano  a  pochi  passi  dalle  mura: 
quando  Giovanni  Tintori,  salito  sul  rivellino  della  Porta 
gridò:  Chi  è  ghibellino  rientri  in  Crema.  I  guelfi,  inconsa- 
pevoli dell'ordito  inganno,  non  si  erano  quasi  accorti  della 
voce  del  Tintori  :  intanto,  i  ghibellini  essendo  frettolosa- 
mente rientrali,  si  levò  il  ponte,  ed  i  guelfi  rimasero  fuori 
della  città.  Figuratevi  Tira,  la  desolazione,  la  vergogna  dei 
guelfi  vedendosi  con  tanta  perfidia  ingannati,  udendo  dal- 
l'alto delle  mura  le  risate  e  le  beffe  dei  ghibellini ,  e  1  ge- 
miti delle  madri,  consorti,  sorelle,  che  con  affannose  grida 
lamentavano  il  tradimento.  Nondimeno  dovettero  rasse- 
gnarsi ad  abbandonare  il  terreno  nativo,  tanto  più  che  nel 
giorno  medesimo  i  ghibellini  con  un  proclama  minacciarono 
la  forca  ai  pochi  guelfi  rimasti  in  Crema,  se  non  vi  sgom- 
bravano nel  brevissimo  tempo  in  cui  brucerebbe  una  can- 
deletta di  cera,  posta  da  Francesco  Ghideletto  sulla  fac- 
ciata del  duomo. 

Sopraggiunse  la  notte.  I  ghibellini,  moltiplicale  le  guar- 
die alle  mura,  paventando  che  i  guelfi  tentassero  di  sca- 


--246  — 
larle,  si  ridussero  nella  piazza   del  duomo.  Un'intempe- 
ranza di  buon  umore  traspariva  in  essi  dai  modi  e  dalle 
parole,  più  del  consueto  verbosi,  sghignazzanti,  smargias- 
soni.  Essendo  la  notte  alquanto  fredda,  molti  entrarono  nel 
duomo,  v'accesero  un  bel  fuoco  nel  mezzo,  e   intorno    a 
quello  scaldandosi  allegramente,  ragionavano  del  bel  gioco 
con  cui  si  erano  sbarazzati  dei  guelfi.  Antonio  Passerotto, 
fanatico  ghibellino,  prese  a    dire:    «Or  sì   che  possiamo 
»  discorrere  liberamente,  e  senza  temere  che  qualche  guelfo 
»  traditore  ci  ascolti,  giacche  panni  che  dei  guelfi  nissuno  a 
»  Crema  sia  rimasto  ,  ad  eccezione  dei  fanciulli  (*).  »    Al- 
lora Giovanni  Alchini,  altro  ghibellino,  sollevando  lo  sguar- 
do sopra  un  crocifìsso  di  legno,  appeso  ad  un'inferriata  che 
in    quell'epoca   attraversava   la    chiesa,   disse:    «Eccone 
»  là    uno   ancora  di  guelfi,  ma  vi  resterà  per  poco(2'.  » 
È  da  notarsi  che  l'immagine  del  crocifisso  aveva  la  lesta 
piegata  sulla  spalla  destra,  uno  dei  molti  segui  che  i  guelfi 
usavano  per  distinguersi  dai  ghibellini.  L'Alchinì  strappò 
dall'inferriata  la  sacra  immagine,  e  con  atto  di  spregio  la 
buttò  tra  le  fiamme.  Di  quell'atto  alcuni  risero,  altri  fre- 
mettero d'indignazione    quasi  inorriditi,   vedendo   oltrag- 
giata l'immagine  del  divin  «Redentore,  e  s'affrettarono  a  le- 
vare dalle  fiamme  il  crocifìsso  che  già  ad  ardere  incomin- 
ciava. Sorge  allora  fra  i  ghibellini  un  gravissimo  alterco  : 
chi  rimbrotta  aspramente   l'Alchini  accusandolo  di  sacrile- 
gio, chi  con  eloquenza  da  postribolo  ne  assumeva  le  difese. 
Profanavano  il  sacro  recinto  parole  oscene,  insolenti,  bac- 
cano da  taverna:    i  ghibellini  fra  di   loro  abbaruffandosi, 
eran  già  per  metter  mano  alle  spade,  quando   il  podestà, 
udito  l'insolito  rumore,  discese  dal  vicino  palazzo  muni- 
cipale, e  con  autorevoli  parole  ricompose   negli    animi    la 
pace. 


(1)  Terni.  Storia  di  Crema. 
[i)  Idem. 


—  247  — 
L'empietà  dell'Alchini  divulgossi  in  Crema  ed  altrove: 
Fama  volai .  se  trattasi  di  turpitudini;  sovente  podagrosa, 
se  tl'a/ioni  oneste  ed  esemplari.  In  tempi  che  i  municipi 
lombardi,  rosi  da  reciproca  invidia,  non  trascuravano  occa- 
sioni per  denigrarsi  a  vicenda,   il  fatto  dell'Alchini   forni 
argomento  di  calunniare  i  Cremaschi,  i  quali  furono  delti 
con  turpissimo  epigramma  brusa-cristi.  Non  isprecheremo 
inchiostro  a  provare  che  i  cittadini  Cremaschi  non  erano 
tutti  Alchini ,  da  meritarsi  l'obbrobrio  di  tale  appellativo  : 
rammenteremo  soltanto,  come  TAlemanio  Fino  abbia  scritto 
una  delle  sue  Seriane,   per  far  credere   essere    Giovanni 
Alchini  bergamasco  e  non  cremasco.  Il  Fino,  pio  sacerdo- 
te, cercò  purgare,  dall'immeritato  vitupero  di  un'empietà, 
l'onore  del  nome  cremasco  :  sia  lode  al  suo  buon  volere. 
Ma  l'Alchini  era  veramente  bergamasco?  Noi    ne  dubitia- 
mo, e  L'osiamo  dire  francamente.   Nega  il   Fino  che   l'Al- 
chini fosse  cremasco,  appoggiandosi  all'autorità  del  Terni: 
noi,  esaminato  l'autografo  di  Pietro  Terni,  vi  scorgemmo 
che  al  nome  di  Giovanni  Alchini  vennero  inserite  le  parole 
Brambìloso  dì  Bergamasca,   le  quali  per  diversità    d'in- 
chiostro e  di  calligrafia  lasciano  dubitare  sieno  state   ag- 
giunte da  estranea  mano.  Sappiamo  d'altronde    aver  esi- 
stito in  Crema  la  famiglia  Alchini,  che  diede  nome  al  ca- 
nale da  lei  scavato,  come  il  Terni  ci  attesta,  comunque  ciò 
abbia  il  Fino  astutamente  taciuto.  Trovammo  parimenti  nel 
Terni  un  Ponzetto  degli  Alchini,  nel  numero  dei  ghibellini 
cui  per  sentenza  del  Castiglioni  vennero  nel   14*25  resti- 
tuiti i  beni    confiscati  :    il   che    prova    come  la    casa  Al- 
ebina  esistesse    in    Crema   nella  prima    metà    del  secolo 
decimoquinto,   e,   ciò  che  più  importa,  fosse   delle    ghi- 
belline. Osserveremo   finalmente  che   il  Fino  ,  nel  mentre 
si  sforza  di  provare  essere  Giovanni    Alchini  bergamasco  , 
sembra  non  ne  sia  egli  stesso  del  tutto  convinto,  prorom- 
pendo nelle  seguenti  parole:  «  ma  quando  egli  (l'Alchini) 


—  248  — 
»  fosse  ancora  slato  Cremasco,  ciò  che  importerebbe?  Si  sa 
»  che  tra'  buoni  se  ne  trovano  sempre  mescolati  de'  cat- 
»  tivi  ({).  »  E  con  queste  parole  il  Fino  sollevossi  per  un 
istante  da  quel  gretto  municipalismo,  peste  dei  secoli  pas- 
sati, per  cui  gli  scrittori  s'accapigliavano  da  forsennati  di- 
sputando sulla  culla  di  un  uomo  famigerato  per  virtù  o  per 
delitti:  non  sono  forse  ugualmente  Italiani  il  Cremasco,  il 
Lodigiani),  il  Cremonese,  il  Bergamasco,  figli  tutti  dell' i- 
stessa  madre ,  benedetti  da  un  sole  d'amore,  fratelli  per  la 
melodia  dell' istesso  linguaggio,  per  l'uniformità  dell'indole 
temprata  dalla  natura  a  forti  passioni?  Che  importerebbe, 
ripeleremo  col  Fino,  che  l'Alchini  fosse  piuttosto  Cremasco 
che  Bergamasco?  Le  azioni  d'un  uomo  solo,  per  quanto 
malvagio  ,  non  bastano  a  caratterizzare  ed  infamare  tutta 
intera  una  città,  una  popolazione  (-).  Ed  a  noi,  credere  che 
l'Àlchino  brusa-cristi  fosse  Cremasco  ,  è  assai  men  grave 
del  leggere  nell'istorie  italiane  cornei  padri  nostri,  fra  l'ire 
municipali,  accostumassero  provocarsi  a  vicenda  con  nomi 
d'improperio,  con  insolenti  epigrammi  che  aizzavano  e 
mantenevano  la  fraterna  rabbia  di  città  fra  di  loro  vicine. 
1  fecciosi  epiteti  di  busleconi ,  scortica- santi,  brusa-cristi, 
non  che  le  goffe  maschere  degli  arlecchini ,  dei  brighella 
e  dei  pantaloni,  ci  farebbero  rider  meno,  se  si  pensasse 
alla  loro  origine,  a  quante  lagrime,  e  quante  vergogne  ci 
hanno  costato  ! 

Giovanni  Alchini,  relegato  pochi  anni  dopo  a  Vicenza  dai 
Veneziani,  vi  morì  miseramente.  Fu  trovato  una  mat- 
tina morto  abbruciato  nel  letto  (3)  :  caso  che  i  nostri 
cronisti  narrarono  con  certa  compiacenza,  arguendone  la 
vendetta  del  cielo  contro  l'empio  ghibellino  che  bruciava 


\i)  Alemanio  Fino,  nelle  Serianc. 

(2)  Vedi  in  fine  al  capitolo  la  nota  Sullo  spirito  religioso  de'  Cremaschi. 

(3)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  249  — 
rimangine  del  Crocifisso,  immemori  come  il  divin  Redon' 

tore  dicesse  de' suoi  persecutori  :  perdonate  ii  loro  perchè 

twn  sanno  (jìicl  che  (anno. 

[Nel  settembre  del  1448  i  Milanesi,  condoni  dallo  Sforza, 
riportarono  a  Caravaggio  una  memoranda  vittoria  contro 
l'esercito  veneziano,  dopo  la  quale  la   repubblica  veneta 

iniziò  delle  segrete  trattative  rollo  Sforza  per  indurlo  a 
disertare  il  vessillo  dei  Milanesi  ,  a  prestare  il  suo  valoro- 
sissimo braccio  in  sostegno  del  leone  di  s.  Marco.  Ed  ai 
dieeiolto  di  ottobre  dell'anno  medesimo  stipulossi  fra  il 
conte  Sforza  ed  i  Veneziani  un  trattato  con  cui  blandi vansi 
le  ambizioni  del  conte  e  quelle  insieme  della  repubblica 
veneta.  Questa  prometteva  ajutarc  lo  Sforza  nel  compire  i! 
vagheggiato  disegno  d'insignorirsi  degli  Stali  del  di  lui  suo- 
cero Filippo  Visconti  :  lo  Sforza  dal  canto  suo  obbligavasi 
di  cedere  alla  repubblica  di  Venezia  tutti  i  paesi  occupati 
dai  Milanesi  nei  terrilorj  di  Bergamo  e  Brescia  ,  e  di  ri- 
nunziare ai  Veneziani  i  diritti  clic  i  Visconti  possedettero 
sul  Cremasco  e  sulla  Chiara  d'Adda.  Con  questo  trattato  il 
conte  Sforza  s'univa  ai  Veneziani  per  rovinare  la  repub- 
blica di  Milano:  fu  nera  perfidia,  ma  famigliarissima  al 
secolo  decimoquinto,  quando,  come  scrive  Machiavelli, 
i  grandi  uomini  si  vergognavano  di  perdere,  non  di  gua- 
dagnare coli" inganno.  Crema  adunque  e  la  Gbiara  d'Adda 
costituivano  il  compenso  ebe  lo  Sforza  doveva  dare  ai  Ve- 
neziani ,  in  ricambio  dei  soccorsi  ch'essi  a  lui  prestereb- 
bero, mentre  egli  imprendeva  di  schiacciare  la  libertà  mi- 
lanese per  salire  sul  trono  dei  Visconti. 

1  ghibellini  cremaschi ,  fatti  consapevoli  del  tenore  della 
convenzione  formatasi  tra  lo  Sforza  e  i  Veneziani,  scrivono 
di  nuovo  ai  reggitori  della  repubblica  milanese,  caldamente 
supplicando  di  non  cedere  Crema  ai  Veneziani.  IN' ebbero 
in  risposta  un'affettuosissima  lettera  del  10  novembre,  nella 
quale  ia  repubblica  di  Milano  versava  il  miele  d'una   ma- 

17 


—  250  — 
terna  tenerezza  parlando  ai  Cremaschi  colle  seguenti 
espressioni:  «  Credete,  o  carissimi  nostri,  che  ogni  nostro 
»  pensiero,  stadio  e  cura  è  conservare  la  vostra  terra,  la 
»  quale  abbiamo  come  l'occhio  diritto,  e  sappiamo  molto 
»  bene  che  è  la  prima  chiave  di  questa  nostra  città  ,  e 
»  quella  la  quale  è  colonna  e  fermezza  di  questo  Stato,  e 
»  tutti  quanti  voi  cittadini,  noi  non  abbiamo  manco  cari 
»  che  noi  stessi  C*).  » 

Nel  primo  gennajo  del  1449  dovendosi  in  Crema,  secondo 
antichissima  consuetudine,  rinnovare  il  Consiglio  generale 
dei  cittadini,  Gasparo  Vimercali  abolì  tale  istituzione,  ed 
al  Consiglio  generale  del  Comune  surrogò  dieci  cittadini 
scelli  a  suo  capriccio.  Continuavano  intanto  i  Veneziani  di 
concerto  con  lo  Sforza  ad  osteggiare  i  Milanesi:  Tre  viglio, 
Caravaggio  ed  altre  terre  di  Chiara  d'Adda  s'erano  arrese 
a  Venezia  cui  sorridevano  le  sorti  delle  armi.  Nondimeno 
Crema  resisteva,  come  quella  .ch'era  abitata  da  soli  ghibel- 
lini,  nemicissimi  del  nome  veneziano,  e  guernita  da  nu- 
merosissima soldatesca.  Ai  Cremaschi  accresceva  coraggio 
il  trovarsi  ben  fortificati,  essendo  allora  la  città  nostra 
dal  lato  settentrionale  cinta  ancora  da  vasta  palude,  e  di- 
fesa dagli  altri  tre  con  robuste  mura  cui  scorrevano  ai 
piedi  profonde  fosse,  d'acque  abbondantissime  (2).  Nel  feb- 
braio (1441))  venne  ad  assediarla  l'esercito  dei  Veneziani: 
ne  era  condottiero  Sigismondo  Malatesta ,  provveditore 
Jacopo  Loredano.  Malatesta  accampò  nel  pacselto  di  San 
Bartolomeo  dei  morti,  alla  distanza  di  circa  un  miglio  da 
Crema.  Militavano  sotto  il  suo  comando  i  guelfi  cremaschi, 
impazienti  di  ritornare  al  tetto  nativo  e  vendicarsi  dei 
ghibellini.  Narreremo  colle  parole  slesse  del  Terni  alcune 


(1)  Terni.  Storia  di  Crema.  » 

(2)  Simonetta.  Vita  di  Francesco  Sforza  :  nella  raccolta  Rerum  italicarum 
«tèi,  Muratori- 


-  asi  — 

circostante  di  quell'assedio,  perchè  rivelano  come  Dell'anno 
ili'.)  bamboleggiasse  ancora  Tarlo  d'usare  le  artiglierie. 
»«  Le  venete  artiglierie  che  sopra  il  dosso  di  s.  Bartolomeo 
»  erano,  fra  la  Porla  ili  Serto  e  di  Rivolta,  la  muraglia 
»  crudelmente  battono  con  balotte  di  pietra  \  i %  n  grosse 
»  dell'abbrazzare  d'un  uomo.Dinnanzi  alle  artiglierie  ch'era 
»  un  ponte  di  travamenti  che  si  levava  e  s'abassava   per 

•  sicurezza  dei  bombardieri,  coprendo  e  discoprendo  I  ar- 
»  liglieria  a  suo  piacere.  I  Cremaschi  sopra  il  campanile  di 
»  S.  Jacopo  le  guardie  tengono  clic  la  campana  suonavano 
»  quando  s'accorgevano  del  levar  del  ponte,  e  che  le  ar- 
»  liglierie  effocare  volevano  acciocché  quelli  di  dentro  si 
»  ritirassero  in  sicuro  luogo.  Si  usavano  ancora  a  questi 
»  tempi  alcune  artiglierie  corte  con  grande  larghezza  di 
»  canna  che  si  piantavano  colla  hocca  verso  il  cielo,  e  sta- 
»  vano  come  un  mortaio,  e  appunto  mortari  si  domanda- 

•  vano;  la  pietra  con  furore  sì  allo  gettavano,  quale  ca- 
»  dendo  sopra  i  letti  della  ciltadc,  grande  rovina  face- 
»  vano(').  »  Durante  l'assedio,  Gasparo  Vimercati,  essendo 
infermo  nelle  gambe  ,  scorreva  per  la  città  a  cavallo  ,  ob- 
bligando ciascun  cittadino  a  portar  terra  da  riparare  i 
guasti  delle  artiglierie;  pena  la  forca  agli  inobbedienti. 

Tempestavano  orribilmente  le  artiglierie  veneziane,  non 
lasciando  per  lutto  il  giorno  riposo  agli  assediati.  Questi 
tuttavia  serbansi  imperterriti,  ed  un  bel  dì  con  ardimentosa 
sortita  si  scagliano  nel  campo  nemico,  ruinano  le  macchine 
d'assedio,  ed  inchiodano  al  Malatesta  le  artiglierie.  Vuoisi 
che  sia  questo  il  primo  esempio  di  artiglierie  inchiodate  al 
nemico,  ed  alcuni  cronisti  milanesi  ne  attribuiscono  il  vanla 
a  Gasparo  Vimercati,  siccome  quegli  che  essendo  governa- 
tore di  Crema,  comandava  le  milizie  degli  assediali.  Sigis- 
mondo Malatesta,  consideralo  il  danno  e  lo  scompiglio  ar- 
ci) Tersi.  Storia  di  Crema. 


—  252  — 
recato  nel  suo  campo,  attendò  l'esercito  veneziano  a  mag- 
giore distanza  da  Crema,  e  s'occupò  nel  riparare  i  guasti 
sofferti  fabbricando  nuove  macchine  d' assedio (O.  Intanto 
i  Milanesi  mandano  a  rinforzo  dei  Cremaschi  Carlo  Gon- 
zaga e  Francesco  Piccinini ,  i  quali  non  appena  avevano 
passato  l'Adda,  che  il  Malatesta,  preso  da  timore,  ritirò  le 
schiere  veneziane  a  Fontanella  sul  Cremonese.  Del  levato  as- 
sedio dolgonsi  i  guelfi  cremaschi:  rallegratisi  i  ghibellini,  man- 
dano Giovanni  Della  Noce  con  grosso  drappello  in  sussidio 
ai  Milanesi  per  combattere  lo  Sforza  nella  valle  di  Lugano. 

A  quest'epoca  Venturino  e  Guido  fratelli  Benzoni ,  che 
militavano  per  la  repubblica  di  Milano,  tolsero  da  quella 
congedo,  e  s'acconciarono  ai  servigi  di  Venezia  che  affidò 
loro  la  custodia  di  Bergamo. 

Non  andò  guari  che  Sigismondo  Malatesta  rinnovò  l'as- 
sedio di  Crema:  nell'agosto  (1449;  le  truppe  veneziane  ac- 
campavano sulla  diritta  strada  che  è  fra  Crema  ed  Ombria - 
no.  Il  Malatesta  fa  scavare  un  canale,  che  fu  poi  detto  la 
Marchcsca,  onde  deviare  le  acque  delle  fosse  che  ricinge- 
vano le  mura  di  Crema;  indi  s'apparecchia  con  ogni  sforzo 
a  ridurre  la  città  nostra  in  potere  de'  Veneziani,  sapendo 
quanto  l'agognassero.  Questa  volta  gli  assediali  mostravano 
nel  difendersi  un  inconsueto  scoraggiamento,  perchè  avendo 
scoperto  che  il  Vimercati  erasi  abboccato  col  Malatesta  in 
una  chiesetta  che  allora  sorgeva  in  riva  al  Serio,  sospetta- 
vano d'essere  traditi.  Né  s'apponevano  ai  falso  :  un  tradi- 
mento erasi  infatti  ordito  per  opera  di  Carlo  Gonzaga,  ge- 
nerale dei  Milanesi,  il  quale,  disgustatosi  colla  repubblica 
di  Milano  ch'egli  ambiva  di  signoreggiare,  trattò  segreta- 
mente un  accordo  con  Francesco  Sforza.  Carlo  Gonzaga 
promise  dare  Lodi  e  Crema  allo  Sforza,  e  questi  a  lui  la 
signoria  di  Tortona  con  altri  vantassi  W.  Ed  agevole  riesci 

(1)  Giovanni  Simonetta.   Vita  di  Francesco  Sforza. 

(2)  Muratori.  Annali  d'Italia. 


—  953  — 
al  Gonzaga  mantenere  la  promessa ,  peroché  essendo  egli 
allora  il  comandante  supremo  dell'esercito  milanese  ,  lt\ ò 

(Lillo  ci  ita  ili  Lodi  e  Crema  le  truppe  di  presidio,  onde  i 
Crcmaschi  sguerniti  di  milizie  non  potevano  resistere  a 
lungo  contro  i  Veneziani  che  sempre  più  li  stringevano. 

Quantunque  necessitati  ad  arrendersi,  i  ghibellini  cretna- 
sclìi  persistevano  ancora  nel  non  voler  BOtloporsi  ai  Vene- 
ziani ;  perciò,  consigliati  da  Gasparo  Vimcrcali ,  mandano 
Cristoforo  Cristiani  ed  Agostino  Martinengo,  oratori  al  conte 
Sforza,  pregandolo  d'assumer  egli  la  signoria  di  Crema. 
I  due  oratoli  non  ommisero  argomenti  per  indurre  lo  Sforza 
ad  appagare  il  loro  desiderio:  dimostrarono  che  a  lui  solo, 
siccome  genero  ed  erede  dell'ultimo   dei  Visconti ,  compe- 
teva la  signoria  di  Crema;   che  volendo  pur  dominare  nel 
ducato  di  Milano,  gli  tornerebbe  pericoloso  cedere  ai  Ve- 
neziani Crema,  fortezza  di  tanta  importanza.  Ma  lo  Sforza 
questa  volta  sfoggiò  una  lealtà  superiore  all'  indole    sua. 
Rispose  agli  oratori  cremaschi,  che  per  quanto  gli  suonas- 
sero graditi  i   sentimenti  di  simpatia  e  di  divozione  di  cui 
l'onoravano,  pur  non  gli  bastava  l'animo  di  mancare  di 
fede  alla  repubblica  di  Venezia  cui  avea  promesso   di  ce- 
dere Crema  e  la  Ghiara  d'Adda:  quindi  congedando  amo- 
revolmente gli  oratoli,    persuadevali  a  darsi  nelle  braccia 
della  repubblica  di  S.  Marco.  Strano  contrasto!  nel  mentre 
il  conte  Sforza  pompeggiava  di  lealtà  verso   i    Veneziani, 
questi  ordirono  segretamente   coi    Milanesi    una  lega  per 
rovinarlo;  della  quale  se  avesse  sospettato,    «certamente 
(scrive  un  cronista  bresciano  )  che  lo  Sforza  non  avrebbe 
»  ceduto  così  bonariamente  Crema  ai  Veneziani  (4).  » 

I  ghibellini  cremaschi,  profondamente  addolorati  che  lo 
Sforza  ricusasse  la  signoria  di  Crema,  e  caduti  d'ogni  spe- 
ranza pel  tradimento  del  Gonzaga,  elessero  sei  oratori  che 

(1)  Cristoforo  Dasoldo.  Storie  bresciane. 


—  254  — 
inviarono  nel  campo  del  Malalesta  ove  fa  trattata  la  resa 
di  Crema  con  Andrea  Dandolo,  allora  provveditore  dell'e- 
sercito veneziano  (*).  Il  Dandolo,  con  Sigismondo  Malatesta 
ed  un  codazzo  di  celebri  condottieri,  entrò  trionfalmente  in 
Crema:  ed  era  il  giorno  16  di  settembre  dell'  anno  1449  , 
memorando,  perchè  incominciò  nel  territorio  nostro  il  do- 
minio veneto,  durato  per  più  di  tre  secoli,  fino  al  28  marzo 
del  1797.  Pochi  giorni  prima  che  i  Veneziani  s'imposses- 
sassero di  Crema,  la  plebe,  fomentata  da  perversi  cittadini, 
in  quei  momenti  di  anarchia  e  confusione  che  sogliono 
precedere  le  grandi  catastrofi  politiche,  abbruciò  tutte  le 
scritture  eh'  erano  nel  nostro  palazzo  municipale.  Quanti 
preziosissimi  documenti  irreparabilmente  perduti!  Se  ne 
rammenti  il  lettore,  e  ci  sarà  indulgente  se  non  ci  venne 
fatto  di  completare  la  storia  di  Crema  con  lo  studio  di  sta- 
tuti ed  ordinanze  municipali ,  le  quali  avrebbero  con  evi- 
denza rilevato  le  condizioni,  i  costumi,  l'indole  del  popolo 
cremasco  nei  tempi  che  precedettero  la  veneta  domina- 
zione. 

A  Gasparo  Vimercati,  che  avea  per  due  anni  governato  in 
Crema  dispoticamente  ,  toccò  miglior  sorte  ch'egli  non  si 
aspettasse.  Quando  il  Dandolo  entrò  nella  città  nostra,  egli 
si  nascose  nella  casa  dei  Secchi,  paventando  Tira  del  popolo 
che  gridavagli  morte.  Ma  poi  i  Cremaseli!  s'accontentarono 
di  spogliarlo  d'ogni  cosa,  fin  della  camicia,  e  di  scacciarlo, 
con  sommo  di  lui  scorno,  nudo  da  Crema. 

Gasparo  Vimercati,  nel  febbrajo  del  susseguente  anno 
(1450)  ,  trovandosi  in  Milano,  arringava  i  cittadini  sulla 
piazza  di  S.  Maria  della  Scala  acciocché  si  arrendessero  allo 
Sforza,  il  quale  con  crudelissimo  assedio  affamava  la  capi- 


ci) Gli  ambasciatori  furono:  Agostino  Marlinengo,  Cristoforo  Cristiani, 
Antonio  de*  Conti ,  Agostino  Ciriolo,  Tomaso  Vimercati  e  Bartolomeo  Gan> 
bazocco. 


—  258  — 
tale  drll;»  Lombardia,  Le  parole  del  Vimercali  ottennero 
l'intento:  il  popolo  milanese,  stremato  dalla  fame,  rinunciò 
ajzli  splendidi  sogni  di  libertà,  ed  aperse  le  porle  al  conte 
Francesco  Sfori?  ,  cbe  fa  Deiranno  medesimo  proclamato 
duca  di  Milano.  Leone  formidabile  sui  campi  di  battaglia, 
volpo  astutissima  in  politica,  Francesco  Sforza  nato  dagli 
Attcmlolo,  già  contadini  di  Cotignola,  raggiunse  la  moia 
de'  suoi  ambiziosi  disegni.  Talvolta,  quest'uomo  di  straor- 
dinario ingegno,  meravigliava  egli  slesso  d1  essere  salito 
così  in  alto.  Un  giorno  disse  a  Paolo  Giovio,  lo  storico  :  di 
tutte  queste  grandezze  onde  mi  vedi  circondato  ,  io  sono 
debitore  ai  rami  di  una  quercia  che  tennero  sospesa  la 
marra  del  mio  avolo  U). 


(i)  SiSMORDl.  Storia  delle  repubbliche  italiane.  —  Sull'origine  dogli  Sforza, 
Cesare  Cantù  nella  sua  Storia  di  Milaìio  scrisse:  «  Un  villano  di  Cotignola 
.  nella  Romagna  stava  zappando,  quando  udì  passar  un  tamburino  di  quei 
»  che  andavano  ad  ingaggiare  soldati  per  le  bande  mercenarie.  Imbizzarrito  di 

•  cambiare  stato  ,  getta  la  sua  zappa  s'un  albero  ,  risoluto  di  rimanere  colà 
»  se  ricadesse;  se  no  andar  soldato.  La  zappa  s'impigliò  fra  i  rami,  e  il  vil- 

•  lano  l'ebbe  per  segno  di  porsi  al  soldo:  dal  suo  valore  fu  detto  lo  Sforza, 

•  e  divenne  famoso  condottiero.  »    Questo  villano  di  Cotignola  fu  V  avolo  del 
<*onte  Francesco  Sforza,  che  sali  al  ducato  di  Milano. 


—  256  - 
NOTA 

Spirito  religioso  dei  Cremaschi. 


Guardatevi  dal  giudicare  il  carattere  morale  di  un  paese  lombardo 
dagl'improperj  che  le  città  nostre  palleggiavansi  in  tempi  di  sciagurate 
discordie  municipali.  La  calunnia  fu  sempre  l' arma  di  cui  si  valsero 
gl'Italiani  per  meglio  rodersi  l'un  l'altro,  gl'Italiani,  dei  quali  la  discor- 
dia, scrive  Cantù,  è  il  peccato  originale,  e  si  baciano  coi  denti  mentre 
dovrebbero  serrarsi  e  durare  in  un  amplesso  di  fratellanza.  Ancora 
oggidì  suonano  sulle  labbra  del  popolo  quell'epigrammatiche  litanie  ai 
Lombardi  che  finiscono  eoi  due  versi,  ne  volete  di  più  tristi?  i  Crema- 
schi brusa-cristi.T&  siccome  una  sentenza,  saggia o stolta  che  sia, quando 
è  invecchiata  e  divenuta  popolare,  ha  la  ventura  di  procacciarsi  fede 
di  proverbio,  così  fra  i  Lombardi  divenne  proverbiale  la  taccia  ai  Cre- 
maschi  di  brusa-cristi  :  tanto  che  udimmo  persone  le  quali,  ignorando 
la  storia  dei  padri  nostri,  se  ne  figuravano  un  branco  di  sacrileghi, 
sprezzatori  di  religione,  empiamente  immorali.  Eppure  basta  gittare 
uno  sguardo  sulle  Cronache  cremasene  per  convincersi  che  in  ogni 
età  si  mantenne  vivissimo  in  Crema  lo  spirito  religioso  :  prezioso  germe 
il  quale,  ove  non  traligni  in  superstizioni  od  in  virtù  di  parata,  ma 
venga  sapientemente  innestato  all'albero  della  civiltà  e  del  progresso, 
può  dar  frutti  di  sospirata  prosperità  sociale. 

Quante  volte  i  Cremaschi  attinsero  dalla  religione  conforti  nei  giorni 
luttuosi  di  pubbliche  calamità!  quante  volte  le  feste  cittadine  abbelli- 
rono con  un  pensiero  di  religione,  intrecciandolo,  qual  fiore  peregrino, 
alla  corona  delle  gioje  comuni!  Ti  rammenta  il  giorno  7  maggio 
del  1185,  quando  i  Cremaschi,  per  concessione  fatta  da  Barbarossa  ai 
Milanesi ,  posero  mano  a  ricostruire  la  loro  città  che  da  venticinque 
anni  giaceva  nelle  rovine:  nel  mentre,  rifacendo  l'ostello  dei  padri  loro, 
inebbriavali  l'ineffabile  gioja  di  racquistare  patria  e  libertà  ,  vollero 
Crema  affidare  ad  un  Santo  che  ne  tutelasse  l' avvenire  :  e  perchè  in 
quel  dì  ricorreva  la  festa  di  S.  Vittoriano,  lo  tolsero  a  patrono  della 
rinascente  cittadella.  Tre  secoli  dopo,  Eenzo  Ceri,  mercè  un  ardimen- 
toso assalto,  fugò  gli  Sforzechi,  i  quali  con  durissimo  assedio  strìnge- 
van  Crema,  stremata  da  fame  e  pestilenza.  Tripudiando  per  la  vittoria 


—  9157  - 
da  Renan  riportata,  i  Cremaschi  vollero  perpetuarne  la  memoria  i 
votarono  una  processione  annuale  a  s.  Zefierino,  essendo  la  rotta  de* 
gli  Sforseschi  avvenuta  il  dì  in  cui  celebravasi  la  Pesta  di  qnesto  santo. 
Da  pestilenss  desolatrici  fu  il  suolo  otemasoo  flagellato  pie  d'una 
volta,  e  dei  mali  che  ne  offrirono,  «iella  fiducia  cui  cui  si  rivolsero  al 
Cielo  por  esserne  liberati,  i  padri  nostri  lasciarono  religiosi  monumenti. 
Infierendo  la  peate  invocarono  a  patrono  della  città  loroS.  Pantaleone 

l'anno  lio'l  ;  otto  anni  prima  in  pari  frangente  avevano  eletto  a  pro- 
tettore s.  Sebastiano,  prendendo  parte  nel  generale  Consiglio  di  vene- 
rarne il  giorno  con  festa,  ed  offrire  Ogni  anno  al  di  lui  altare  un  tri- 
buto di  divozione.  Preservati  dalla  pestilenza  dell'  anno  1500,  i  ('re- 
maschi in' resero  grazie  a  S.  Hocco,  cui  innalzarono  poi  una  chiesuola: 
cessata  la  peste  del  1G30,  trasportarono  nel  duomo  l'immagine  della 
Madonna  del  Popolo(l), fabbricandole  un'apposita  cappella  ov'è  tenuta 
ancora  oggidì  in  grande  venerazione.  Ed  una  particolare  divozione  i 
Cremaschi  professarono  sempre  all'immagine  di  Gesù  Crocifisso  che 
venerasi  nel  duomo  (è  la  medesima  che  l'empio  ghibellino  gittò  tra 
le  fiamme)  e  delle  grazie  che  ne  ricevettero,  fanno  ancora  tre  volte 
l'anno  con  solenni  feste  commemorazione. 

Altra  peste  non  meno  micidiale  ai  Cremaschi  furono  nel  secolo  do 
cimo  terzo  le  discordie  guelfe  e  ghibelline,  onde  la  città  nostra  sanguinò 
lungo  tempo  per  ostinate  vendette,  per  deplorandi  fratricidj.  Eppure 
mal  s'apporrebbe  chi  per  avventura  credesse  avessero  i  Cremaschi,  in 
que'  tempi  di  risse  civili,  spento  nel  sangue  dei  fratelli  ogni  pensiero 
di  religione.  Fu  allora  che  risolsero  di  rifabbricare  il  duomo,  profon- 
dendovi ingenti  somme,  opera  decorosa  alla  città  nostra  e  della  quale? 
poi  guelfi  e  ghibellini  si  contesero  l'onore. 

Volete  altri  efficacissimi  argomenti  onde  persuadervi  dello  spirito 
religioso  che  nelle  scorse  età  animava  la  città  nostra?  Numeratene  le 
chiese  ed  i  conventi.  Dipingetevi  nella  fantasia  Crema  quale,  osservata 
al  di  fuori,  presentavasi  allo  sguardo  del  viaggiatore,  or  son  cinquan- 
t'anni:  vi  colpirà  meraviglia  contemplando  entro  breve  recinto  una 
selva  di  campanili,  torreggiane  l'un  presso  l'altro  e  quasi  uniti  in  un 
fascio,  i  quali  sembravano  tanti  inni,  da  una  popolazione  divota  levati 
concordemente  al  Cielo  per  cantare  le  glorie  del  Signore.  Percorrete 
le  vie  di  Crema  cercandovi  le  vestigia  dei  soppressi  conventi  :  ove  a 
nostri  giorni  trovate  lezzo  di  caserma,  apprenderete  che  un  tempo  sal- 
meggiavano pie  corporazioni  di  religiosi;  apprenderete  che  nel  secolo 
scorso  gli  avi  nostri  ospitavano  nella  terra  loro  tanti  ordini  religiosi 
da  formarne  diecisette  monasteri:  e  trentacinque  chiese  fregiavano  una 

(1)  Oggidì  è  volgarmente  detta  la  Mudonna  Dc-bass, 


—  258  — 

città  che  vantava  poco  più  di  otto  mila  abitanti.  Svolgete  le  cronache: 
vi  diranno  che  i  ricchi ,  sebbene  allora  più  scostumati  di  molto ,  quei 
monasteri  impinguavano  con  laute  elargizioni,  e  pompeggiavano  in 
donativi  per  rendere  più  sontuose  le  chiese.  E  il  popolo,  ch'era  d'assai 
più  ringhioso  e  manesco  d'oggidì,  sberrettavasi  dinanzi  ad  un  frate, 
affluiva  copioso  e  con  frequenza  alle  sacre  funzioni ,  associato  in  reli- 
giose confraternite.  Come  tacciare  di  brusa-cristi  una  città,  ove  è  rive- 
rita tradizione  che  siasi  veduto  S.  Pantaleone  comparire  fra  le  nubi  e 
stendere  le  mani  in  atto  di  protezione  sopra  Crema  quand'essa  era 
da  crudelissima  peste  devastata?  Come  accusare  d'irreligiosi  i  Crema- 
schi,  che  al  grido  di  una  miracolosa  apparizione  della  Vergine  Maria 
a  Caterina  degli  liberti ,  fecero  spontaneamente  tante  e  così  ricche 
oblazioni  che  invece  di  un  oratorio,  com' erasi  progettato,  elevossi  un 
santuario  magnifico  sul  luogo  ove  dicesi  apparisse  la  Regina  dei  Cieli?.... 
Davvero  che  le  cronache  cremasene  olezzano  per  ogni  dove  d'esempi 
di  religiosa  pietà:  scorrendole,  forse  potrete  incolpare  qualche  volta  i 
Cremaschi  di  cieca  superstizione,  di  mancanza  di  fede  giammai.  E  giac- 
ché siamo  sull'allegare  fatti,  non  ne  taceremo  uno  che  vien  proprio  a 
cappello  per  chiarire  l'indole  religiosa  del  popolo  cremasco  sullo  scorcio 
del  secolo  passato,  quantunque  fosse  di  più  rotti  costumi  che  il  nostro. 

L'anno  1799  quando,  cacciati  i  Francesi,  per  la  prima  volta  occupa- 
rono la  città  nostra  i  Tedeschi,  la  popolazione  cremasca  li  accolse 
con  istemperate  dimostrazioni  d'allegrezza.  Volete  sapere  una  delle 
ragioni  per  cui  festeggiossi  cotanto  il  comparire  dell'aquila  bicipide? 
Perchè  i  Francesi,  calati  in  Italia,  nel  mentre  prommettevano  ai  popoli 
libertà  e  uguaglianza,  rubarono  argenterie  alle  chiese,  svillaneggia- 
rono il  clero,  ostentarono  disprezzo  a  tutto  che  sapesse  di  religione. 
Se  quei  lupi  forastieri  che  vantavansi  Giacobini  non  avessero  adden- 
tata la  religione,  che  è  il  patrimonio  del  popolo,  oppure  se  con  le  arti 
famigliari  ai  despoti  si  fossero  mascherati  di  divota  santimonia,  forse 
non  avrebbero  sollevati  in  Italia  tanti  nemici  alle  loro  bandiere,  e  i 
Tedeschi  non  sarebbero  stati  salutati  a  Crema  e  in  altre  terre  come 
liberatori. 

I  fatti  sopraccennati  accozzammo  per  dimostrare  che  stoltamente  af- 
fìbbiossi  ai  Cremaschi  il  sopranome  di  brusa-cristi.  A  nettarci  di  così 
nera  accusa  crediamo  gioveranno  i  fatti  addotti  più  assai  dei  pietosi 
sforzi  dell'Aleniamo  Fino,  il  quale  vuol  darci  a  bere  che  Giovanni  Ai- 
chini  fosse  Bergamasco  e  non  Cremasco.  Conchiuderemo,  affermando 
in  onore  del  vero,  essere  lo  spirito  religioso  un  retaggio  che  il  popoLo 
cremasco  non  ha  mai  dissipato,  e  che  ancora  oggidì  risplende  ne'  cuori 
con  vivissima  luce,  quantunque  a  contaminarla  sembra  cospirino  e  mi- 
scredenti con  superbo  indifferentismo,  e  ipocriti  con  ma  1  velate  sozzure. 


239    - 


CAPITOLO  NONO 


VICENDE  DI  CREMA  DAL  PRINCIPIO  DEL  GOVERNO  VENETO 
FINO   ALL'EPOCA   DELLA    LEGA   DI    CAMBRAI. 


SOMMARIO. 

Gioja  dei  guelfi  per  essere  Crema  caduta  in  potere  dei  Veneziani.  —  Brevi 
cenni  sul  modo  con  cui  la  repubblica  di  Venezia  trattava  i  paesi  conqui- 
stati. —  Vengono  confermati  ai  Cremascbi  i  patti  della  capitolazione.  — 
Altri  privilegi  concessi  a  Crema.  —  Tentativi  dei  Cremascbi  per  ottenere 
il  vescovado.  —  Come  venisse  formato  il  Concilio  generale  dei  cittadini. — 
Fondazione  del  Collegio  dei  Notaj  e  pubblica  lettura  di  giurisprudenza  in 
Crema.  —  Persecuzioni  ai  ghibellini.  —  Guerra  fra  i  Veneziani  e  il  duca 
Francesco  Sforza.  —  Stato  dei  Cremaschi  durante  la  guerra;  loro  entu- 
siasmo e  coraggio  per  mantenersi  soggetti  a  Venezia.  —  Come  i  Veneziani 
fossero  disposti  a  ceder  Crema  al  duca  Francesco  Sforza,  e  come  essa  ri- 
manesse ai  Veneziani  per  opera  di  Bartolomeo  Colleoni.  —  Pace  di  Lodi. 
—  Nuove  persecuzioni  dei  guelfi  contro  i  ghibellini;  un  frate  domenicano 
compone  a  pace  le  due  fazioni.  —  II  governo  della  repubblica  veneta 
troppo  biasimato  da  alcuni  scrittori,  e  da  altri  lodato  troppo.  —  Distin- 
zione che  è  da  farsi  fra  i  diversi  sudditi  della  repubblica  veneta  riguardo 
al  modo  ond'erano  trattati.  —  Uomini  di  pregio  che  fiorirono  in  Crema 
durante  il  secolo  decimoquinto,  quali  nelle  armi,  quali  per  dottrina.  — 
Guerra  fra  i  Veneziani  e  il  duca  d'Este.  —  Compagno  Benzoni  è  fatto 
nobile  veneziano.  —  Scorrerie  degli  Sforzeschi  sul  territorio  cremasco,  — 
Bartolino  Terni  al  presidio  di  Crema:  assalto  notturno  con  cui  egli  mette 
in  iscompiglio  gli  Sforzeschi.  —  Riedificazione  delle  mura  di  Crema.  — 
Origine  del  tempio  diSanta  Maria  della  Croce,  per  la  miracolosa  apparizione 
della  Vergine  Maria  a  Caterina  degli  Uberti.  —  Carlo  Vili  re  di  Francia 
scende  in  Italia:  come  i  Veneziani  si  diportassero  verso  di  lui.— Battaglia 
del  Taro.—  Scopronsi  a  Crema  importanti  documenti  ch'erano  in  pos- 
sesso di  un  soldato  stradiotto.  — Bernardino  da  Feltre  predica  in  Crema.-- 


—  260  — 

Istituzione  in  Crema  del  Monte  di  Pietà.  —  Generose  offerte  che  i  Cre- 
maschi  fanno  al  Monte  di  Pietà  con  bizzarre  e  pubbliche  rappresenta- 
zioni. —  Considerazioni  sulla  prosperità  della  città  di  Crema  nel  secolo 
decimoquinto.  —  Lega  fra  i  Veneziani  e  Luigi  XII  re  di  Francia,  il  quale 
scende  in  Italia.  —  I  Veneziani  acquistano  Cremona  e  la  Ghiara  d'  Adda  : 
la  provincia  cremasca  viene  ampliata.  —  Socino  Benzoni  :  sue  gesta  mi- 
litari ,  e  come  facesse  prigioniero  il  cardinal  Ascanio  Sforza.  —  Nimicizia 
fra  Socino  Benzoni  e  il  podestà  Gradenigo.  —  Come  Socino  Benzoni  ve- 
nisse processato  e  condannato  dai  Veneziani ,  e  per  quali  misfatti.  — 
Quando  Socino  Bezoni  fu  assolto  dalla  pena. 


La  nuova  dominazione  dei  Veneziani  sollevò  in  Crema 
gli  animi  dei  guelfi  a  gioja  clamorosa,  stemperata  ,  tanto 
che  il  Dandolo  cercò  moderarne  le  dimostrazioni,  acciocché 
non  nascessero  disordini.  Dei  governi  ch'erano  allora  in 
Lomhardia,  il  veneto  si  confaceva  meglio  degli  altri  alle 
idee  ed  ai  voti  dei  guelfi,  fazione  la  quale,  come  dicemmo 
le  mille  volle,  in  Crema  prevaleva.  Venezia  nelle  sue  con- 
quiste di  terra  ferma  tolse  ad  imitare  la  generosa  politica 
dei  Romani,  lasciando  ai  paesi  occupati  quasi  intero  l'e- 
sercizio delle  loro  leggi,  modificandole  solo  secondo  lo  spi- 
rito aristocratico  proprio  :  perciò  i  sudditi  di  terra  ferma 
governavansi  colle  norme  delle  costituzioni  municipali 
sancite  dal  suffragio  dei  loro  padri  e  da  consuetudini  inve- 
terate. Questo  procedere  del  governo  veneto  riguardo  ai 
paesi  conquistati  gli  conciliava  la  simpatia  dei  popoli,  par- 
ticolarmente dei  guelfi,  come  quelli  che  già  da  tempo  erano 
i  più  caldi  propugnatori  delle  municipali  franchigie.  Né 
i  guelfi  s'apposero  al  falso  confidando  avrehhe  Venezia 
trattata  Crema  con  la  liberalità  che  gli  altri  paesi  da  lei 
conquistati.  Quando  i  Cremaschi  s'arresero  al  provveditore 
Dandolo,  gli  proposero  i  capitoli  della  dedizione  della  terra 
loro,  con  i  quali  si  riservavano  dei  privilegi  che  nell'ordi- 
namento politico,  amministrativo  e  finanziario  del  Comune 
godevano  fino  dall'epoca  della  loro  repubblichetta.  1  capitoli 
erano  ventinove:  il   Dandolo  li  accettò  con    riserva  della 


—  261  — 
suprema  sanzione  del  senato.  Nel  nano  del  successivo 
anno  (1450),  onde  conseguirne  la  desiderala  confermai  i 
Cremaschi  inviarono  a  Veneiia  olio  oratori:  Luigi  Vimer- 
cati,  Giacomo  /urla,  Pantaleoue  Cusadro,  Giovanni  Ben 
zoni,  Luigi  Bernardi,  Rodolfo  Alfieri,  GolGno  Guinzoni  e 
Venturino  Gambazocco,  In  quell'occasione  Luigi  Vimercati, 
dolio  parlatore,  recitò  innanzi  al  senato  un  discorso  la- 
tino, encomiando  con  mellifluo  siile  il  governo  di  S.  .Marco, 
benedicendo  la  ventura  che  avea  reso   Crema  suddita    di 
Venezia.  Ed  il  senato  assecondò  i  voli  dei  Cremaschi,  confer- 
mando, con  lievissime  modificazioni,  i  capitoli  della  loro  de- 
dizione, meno  il  ventisettesimo  che  risguardava    la   libe- 
razione dal  bando  di  un  malfattore*1).  L'anno  slesso  (1450) 
ai  già  sanzionali  capitoli  ne  furono   aggiunti  altri   cinque, 
fra  i  quali  la  conferma  dell'antico  diritto  di  fare  ogni  anno 
a  Crema  otto  giorni  di  fiera  con  esenzione  alle  merci  d'o- 
gni dazio;  il  permesso  di  cavare  un    canale   d'acqua  dal 
fiume  Oglio  per  l'irrigazione  di  terreni  situali   nel   nostro 
territorio  ;   la  concessione  di  formare  in  Crema,  sull'esem- 
pio di  altre  città  del  dominio  veneto,  un  collegio  di  giuri- 
sti, importantissima  istituzione  che  aveva  la  facoltà  della 
giudicatura  ed  esimeva  i  Cremaschi  dal  ricorrere    in  ap- 
pellazione ai  collegi  delle  vicine  consuddite  città  -'.    Oltre 
di  che  una  ducale  dell'anno   medesimo  conferì  a  Crema  il 
titolo  di  città,  ammettendola  a  fruire,  come  tutte  le  altre 
del  veneto  dominio,   le  prerogative  provenienti  da  questo 
titolo  3 .  E  siccome  con  l'articolo  decimo  della  capitolazione 
erasi  ampliala  la  giurisdizione  della  provincia  cremasca,  ri- 
componendola  dei  paesi  che  vi  erano  uniti  l'anno  1405, 

(1)  Vedi  nel  documento  A  i  patti  della  dedizione  di  Crema,  e  come  venis- 
sero dal  senato  veneto  accettati. 

(-2)  Ronna.  Zibaldoni  cremaschi.  Tomo  III. 

(3)  Vedi  nel  documento  B  la  ducale  con  cui  i  Veneziani  eressero  Crema  a 
citta. 


—  262  — 
così  il  Concilio  generale  di  Crema  nominava  dal  suo  grem- 
bo i  rettori  alle  podeslarie  di  Solicino,  Antegnate,  Roma- 
nengo,  Covo,  Mozzanica,  Trigolo  e  Fontanella!1). 

Ma  aflìnchè  Crema  potesse  figurare  come  città  al  pari 
delle  altre,  e  fosse  nella  sua  giurisdizione  affatto  indi- 
pendente, bisognava  che,  anche  come  diocesi,  facesse 
da  sé,  quindi  escludervi  i  diritti  di  podestà  ecclesia- 
stica che  vi  esercitavano  i  vescovi  di  Cremona,  di  Piacen- 
za, di  Lodi.  Ciò  non  si  poteva  conseguire  se  non  coir  as- 
sentimento del  Sommo  Pontefice  ed  erigendo  a  Crema  un 
vescovato  che  raccogliesse  sotto  di  sé  l'ecclesiastica  giu- 
risdizione di  tutto  il  territorio  nostro.  I  Crcmaschi  smania- 
vano di  sottrarsi  dalla  spirituale  dipendenza  dei  vescovi  di 
Piacenza,  di  Cremona  e  di  Lodi,  perciò  mandarono  oratori 
a  Venezia  ed  a  Roma  supplicando  di  porre  un  vescovo  a 
Crema.  Venezia  rispose  che  dal  canto  suo  vedrebbe  assai 
di  buon  grado  Crema  innalzala  a  città  vescovile,  e  che  si 
adoprerebbe  presso  la  corte  di  Roma  onde  procacciarle 
quest'onore,  ma  i  pontefici  ricusarono  sempre,  fino  all'anno 
1579,  d' insti tuire  nella  città  nostra  un  vescovado,  ad  onta 
delle  caldissime  e  replicate  istanze  dei  Cremaschi,  che  per 
averlo  incominciarono  a  maneggiarsi  Tanno  14-51. 

Avendo  i  Veneziani  acconsentilo  che  la  città  nostra  si 
reggesse  colle  norme  de'suoi  statuti  municipali  e  che  gl'in- 
teressi del  Comune  venissero  amministrali  dal  Comune 
medesimo  (sotto  però  la  sorveglianza  del  rettore  veneto), 
manleneva  non  poca  importanza  il  Consiglio  generale  dei 
cittadini,  siccome  quello  che  rappresentava  il  municipio,  a 
cui  era  confermato  il  diritto  di  conferire  le  cariche  comu- 
nali ,  e  che,  per  cosi  dire,  diveniva  quasi  depositario  e  cu- 
stode dei  riconosciuti  privilegi  municipali.  Il  provveditore 

(1)  Vedi  nell'archivio  municipale  di  Crema  i  libri  delle  provvisioni  e  parti 
prese  dal  Consiglio  generale  dei  cittadini  negli  anni  1452,  1423.. 


—  263  — 
Orsatto  Giustiniani,  sollenlralo  iu  Crema  al  Dandolo, 
quaudo,  sul  finire  del  1449,  trattassi  di  riordinare  il  Con- 
siglio generale,  lo  compose  di  cento  cittadini.  E  nel  succes- 
sivo anno  Antonio  Marcello,  alno  provveditore,  per  ade- 
rire al  desiderio  del  popolo  cremasco,  accrebbe  di  duecento 
il  numero  dei  consiglieri.  Ma  ritornato  provveditore  a  ('re- 
ma nel  1489  Andrea  Dandolo,  «  vedendo  la  confusione  che 
■  per  il  gran  numero  \i  si  faceva,  di  trecento  consiglieri 
»  che  orano  ridusseli  al  numero  di  sessanta  e  scoiseli  a 
«  modo  suoU)*  :  riforma  che  il  senato  sanzionò. 

Altra  nuova  istituzione  Venezia  approvò  nella  città  no- 
stra Tanno  Uo5,  il  Collegio  dei  Notai,  i  quali  nella  prima 
elezione  furono  in  numero  di  sedici.  Quali  ne  fossero  le 
attribuzioni,  e  come  il  collegio  si  dividesse  in  due  sessio- 
ni,  civile  e  criminale,  accenneremo  più  innanzi  nel  capi- 
tolo quattordicesimo  ,  ove  ci  siam  proposti  di  discorrere 
ampiamente  del  modo  con  cui  vennero  i  Crcniaschi  gover- 
nali dalla  veneta  repubblica.  Qui  diremo  clic  il  Collegio 
dei  Notai  Tanno  I4GG  venne  dispensalo  da  un'imposta, 
sotto  condizione  che  mantenesse  a  sue  spese  un  pubblico 
lettore  di  giurisprudenza.  E  la  pubblica  lettura  delle  leggi 
«  si  mantenne  in  Crema  per  due  secoli  e  più,  con  profitto 
»  degli  uditori  che  in  giurisprudenza  divennero  eccel- 
»  lenti  (*).  » 

I  Veneziani  seppero  assettare  nella  città  nostra  un  poli- 
tico ordinamento  da  render  paghi  i  cittadini,  ma  non  com- 
porne  gli  animi,  troppo  dal  livore  delle  fazioni  esacerbati  e 
di  vendette  sitibondi.  I  guelQ ,  imbaldanziti  più  che  mai 
della  prolezione  che  loro  concedeva  il  nuovo  governo,  vo- 
levano rifarsi  ad  usura  dei  danni  e  degli  oltraggi  ricevuti 
dalla  nemica  fazione.  Spinto  dalle  loro  istigazioni,  il  prov- 
veditore Giustiniani  Tanno  1450  confinò  parecchi  ghibel- 

(1)  Fino.  Storia  di  Crema. 
(2.)  Ro.nna  ,  nei  Zibaldoni. 


—  264  — 
lini:  poi,  continuando  i  guelfi  nelle  querele  e  nei  liti- 
gi, il  provveditore  Marcello,  stanco  di  sentirne  le  rimo- 
stranze, ordinò  (14-51)  che  andassero  a  far  valere  le  loro 
ragioni  nei  paesi,  ove  i  ghibellini  erano  stati  confinati.  Del 
qual  ordine  i  guelfi  indispettiti  provocarono  da  Venezia 
una  ducale  con  cui  imponevasi  a  lutti  i  ghibellini  fuoruscili 
di  ripatriare,  sotto  pena  d'essere  considerali  come  ribelli  : 
crudelissimo  gioco  davvero  per  i  poveri  ghibellini,  prima 
condannati  ad  esulare,  poi  a  far  ritorno  in  patria  per  es- 
servi malmenali  dai  guelfi  più  potenti  di  loro.  Né  andò 
guari  che  furono  di  bel  nuovo  sbandili  da  Crema  ed  in  co- 
piosissimo numero,  perchè  nel  bando  si  compresero  mol- 
tissime famiglie  di  conladini  :  ciò  avvenne  Tanno  1452  per 
ordine  del  provveditore  Dandolo,  che  volle  compiacere  ai 
guelfi,  sebbene  egli,  a  pretesto  dell'ordine  emanato,  addu- 
cesse la  guerra  che  in  quell'anno  s'accese  in  Lombardia  fra 
i  Veneziani  e  il  duca  Francesco  Sforza. 

Non  era  a  presumersi  potessero  mantenersi  in  pace  i 
Veneziani  col  nuovo  duca  di  Milano,  gli  uni  intalentali  dal 
doge  Foscari  a  conquisle,  l'altro  portalo  dal  valore  e  dal- 
l'ambizione sul  trono  dei  Visconti.  Vero  è  che  i  Veneziani 
avevano  ajutato  lo  Sforza  a  salire  il  trono  dei  Visconti,  ma 
poi  se  n'erano  pentiti.  La  tortuosa  politica  di  Venezia  che 
prima  favoreggiò  lo  Sforza,  poi  cospirò  contro  di  lui, onde 
impedire  che  schiacciasse  la  repubblica  di  Milano,  fu  da 
molti  scrittori  caldamente  riprovata.  Se  la  repubblica  di 
Venezia ,  osserva  Sismondi ,  si  fosse  fin  da  principio  colle- 
gata a  quella  di  Milano,  se  queste  due  avessero  tirato  nella 
loro  alleanza  i  Fiorentini,  i  Genovesi  e  gli  Svizzeri,  sareb- 
besi  formala  nell'Italia  settentrionale  una  confederazione 
di  repubbliche  da  impedire  il  futuro  ingrandimento  delle 
vicine  monarchie,  da  opporsi  robustamente  alle  eterne 
pretensioni  degli  oltremontani  sulla  nostra  penisola  *).  Ma 

(1)  SiswoNDf.  Storia  delle  repubbliche  italiane. 


—  268  — 
l'idei  di  affratellarsi  per  resistere  allo  straniero  ed  essere 
l'egida  dell'italiana  indipendenza,  non  balenò  ai  nostri  go 
verni  d'allora,  monarchici  o  repubblicani  che  fossero:  sviati 

da  una  politica  immiserita  dall'egoismo,  non  miravano  che 
a  guerreggiarsi  a  vicenda  per  sovrastare  fono  all'aldo, onde 

snervironsi   poi  tanto  elio  darlo  Vili  re  (li  Trancia,  sul  li- 
nire  del  secolo  decimoquinlo,  si  vantò  d'aver  attraversata 

col  suo  esercito  ditta  l'Italia  senza  colpo  ferire. 

Prima  ancora  che  i  Veneziani  intimassero  la  guerra  al 
duca  Sforza  (lo  che  avvenne  nella  primavera  del  1452), 
Andrea  Dandolo,  prevedendola,  operò  in  Crema  i  necessari 
provvedimenti:  «  Fece  nettare  le  fosse,  allargandole  più 
•  che  primi  non  erano:  rifece  la  muraglia  diroccata  per 
»  i  colpi  d'artiglieria:  ristorò  il  torrione  della  Chiusa,  il 
»  quale  fu  da  indi  in  poi  dello  di  S.  Marco:  principiò  i 
»  rivellini  delle  porle,  di  quello  di  Serio  in  fuori C1).  »  E 
qui  si  noli  che  il  castello  di  Ombriano  era  slato  in  Crema 
spianato  Tanno  innanzi  per  ordine  della  veneta  repubblica, 
o  parte  del  terreno  venduto  alle  monache  di  Santa  Monica, 
e  ridotto  ad  uso  del  loro  convento.  Quando  le  ostilità  fra 
i  Veneziani  e  gli  Sforzeschi  iucominciarono ,  furono  posti 
a  presidiar  Crema  Matteo  e  Garone  da  Capua ,  Bellino  e 
Rosso  da  Calcinalo,  con  le  loro  compagnie  di  fanti,e  Paolo 
e  Giannuccio  da  Ramano  con  alcune  squadre  di  cavalleria. 

La  guerra  fra  Venezia  e  il  duca  di  Milano  (1452-U55), 
fu  combattuta  poco  lungi  dal  territorio  nostro,  sul  suolo 
bresciano  e  sul  bergamasco.  Quantunque  le  sorli  dell'armi 
fortuneggiassero  ,  volgevano  però  meno  propizie  ai  Vene- 
ziani che  agli  Sforzeschi.  Crema  non  venne  dalle  truppe 
ducali  attaccata,  tuttavia  ebbe  a  sopportare  travagli  e  spese 
non  poche.  Mentre  i  Cremaschi  alzavano  foli  fe\orosi  pel 
trionfo  dei  Veneziani,   i  ghibellini  fuoruscili  combattevano 


i,  Fino.  Storia  di  Crema. 

18 


—  266  — 

nell'esercito  del  duca,  maneggiandosi  a  lutto  potere  affin- 
chè gli  Sforzeschi  ponessero  assedio  a  Crema.  I  Cremaschi, 
quando  inlesero  che  le  sorti  della  guerra  piegavano  in  fa- 
vore dello  Sforza,  trepidarono,  paventando  di  venir  assa- 
lili, tanto  più  che  Matteo  da  Capua,  colla  sua  compagnia, 
si  era  allontanalo  dalla  città  nostra.  Mandarono  ambascia- 
tori a  Venezia,  scrissero  ai  provveditori  del  campo  vene- 
ziano domandando  sussidj  di  truppe  e  di  vettovaglie,  ma  le 
istanze  dei  Cremaschi  venivano  accolte  freddamente  :  esse 
conseguirono  soltanto  di  chiamare  Guido  Bcnzoni  da  Ber- 
gamo, ove  gli  era  affidata  la  custodia  della  città,  e  surro- 
garlo a  Matlco  da  Capua  nel  comando  degli  uomini  d'armi 
che  presidiavano  Crema.  I  ghibellini,  vedendo  che  le  vit- 
torie arridevano  al  duca,  il  quale  avea  tolto  ai  Veneziani 
molti  paesi  fra  l'Oglio  e  l'Adda,  non  ebbero  più  alcun  ri- 
tegno nel  palesare  la  loro  allegrezza  ,  tanto  che  furono 
dalla  venda  repubblica  dichiarati  ribelli,  e  i  loro  beni  do- 
nali alia  nostra  Comunità. 

Nell'inverno  del  1454,  Venezia,  atterritasi  perchè  Mao- 
metto II,  presa  Costantinopoli  e  disfallo  barbaramente 
l'impero  greco,  rendevasi  minaccioso  a  tutta  la  cristianità, 
deliberò  di  venire  a  trattative  di  pace  con  Francesco  Sfor- 
za ,  il  .quale,  penuriando  di  danaro,  non  era  lontano  dal- 
l'acccttarla.  Certo  fra  Simonella  da  Camino  ,  agostiniano  , 
dello  fra  Bastone  ,  crasi  assunto  l'incarico  di  paciere:  più 
d'una  volta  fu  visto  passare  per  Crema  travestito,  nel  men- 
tre andava  segretamente  a  Milano  proponendo  al  duca  la 
pace  a  nome  dei  Veneziani  ^.  Questi  domandavano  allo 
Sforza,  oltre  la  signoria  di  Cremona,  che  loro  si  restituis- 
sero i  paesi  da  lui  conquistati  nel  Bergamasco  e  nel  Bre- 
sciano, e  che  le  rive  del  Po  e  dell'Adda  formassero  il  Con- 


ti) Cristoforo  Dasoldo.  Storie  bresciane,  nel  voi.  XXI   Rerum  ilaUcarum 
del  Muratori. 


—  867  — 
fine  dei  due  Stali.  Il  duca,  ben  lungi  dall'àccousentire  a 
imìic  cessioni,  ridomandava  ai  Veneziani  Crema,  Bergamo 
e  Brescia,  siccome  quelle  che  forma  va  n  parie  del  ducato 
di  Filippo  Visconti  suo  suocero.  Per  comporre  un  accordo 
ira  le  parli  belligeranti  essendosi  intromesso  il  Pontefice  , 
eorse  voce  ch'egli  proponesse  ai  Veneziani  di  ceder  Crema 
al  duca  di  Milano.  Del  che  s1  accorarono  sommamente  i 
Cremaschi,  «  e  come  impazzili  per  soverchio  dolore  e  di- 
»  sperali,  al  podestà  domandarono  le  chiavi  della  terra,  di - 
•  eendo  che  ancorché  la  Signoria  volesse  restituir  Crema, 
»  loro  con  il  proprio  sangue  gliela  volevano  conservare  (*>.» 
11  podestà,  commosso  dall'immensa  devozione  dei  Cremaschi 
verso  la  repubblica,  consegnò  loro  le  chiavi  della  terra  e 
del  castello  :  essi,  affidala  la  guardia  del  castello  ad  Olto- 
lino  Fabri,  si  disposero  con  ispartano  ardimento  alla  di- 
fesa. Tanto  entusiasmo  di  tenerezza  per  la  veneta  repub- 
blica,  tanto  coraggio  dei  Cremaschi  spiegansi  facilmente. 
I  guelfi  paventavano  le  vendette  dei  ghibellini,  i  nobili 
preferivano  un  governo  d'arislocrali  ad  uno  monarchico;  il 
popolo  astiava  l'idea  di  un  padrone  milanese,  memore  delle 
vessazioni  viscontee  e  pago  di  mantenere  sotto  il  regime 
dei  Veneziani  le  vestigio  della  sua  antica  repubbiichetla. 

1  Veneziani  si  erano  già  rassegnati  a  ceder  Crema  al 
duca,  e  l'avrebbero  forse  perduta  per  sempre  se  non  era 
Bartolomeo  Colleoni,  celebratissimo  condottiero  bergama- 
sco. Militava  il  Colleoni,  colle  valorose  sue  bande,  nell'eser- 
cito Sforzesco,  ed  il  Concilio  dei  Dieci  aveagli  progettato 
ch'egli  colla  sua  compagnia  trovasse  pretesti  di  introdursi 
a  Crema,  l'occupasse,  indi  al  duca  Sforza  la  consegnasse. 
Dal  che  comprenderete  come  i  Veneziani  fossero  disposti  a 
ceder  Crema;  ma  vedendone  i  cittadini  risoluti  a  voler  vi- 
vere e  morire  per  S.  Marco,   desideravano  e  procuravano 

(1)  Fimo.  Storia  di  Crema. 


—  268  -~ 
con  astuzia  che  un  altro,  non  essi,  la  mettesse  in  potere 
del  duca.  Avvenne  che  il  Colleoni  disertò  improvvisamente 
dalle  insegne  sforzesche  alle  veneziane ,  e  non  che  farsi 
istrumenlo  della  dedizione  di  Crema  al  duca  di  Milano, 
seppe  dissuadere  la  repubblica  dal  cedere  la  città  nostra, 
rappresentando  al  senato  i  gravissimi  danni  che  derivereb- 
bero a  Venezia,  qualora  lo  Sforza  s'impadronisse  di  una 
città  così  ben  fortificala  ed  in  posizione  tanto  importante. 
D'altro  canto,  la  diserzione  del  Colleoni,  peritissimo  condot- 
tiero e  capo  di  numerose  bande,  sminuì  le  pretese  dello 
Sforza,  sicché  finalmente  fu  conchiusa  la  pace  e  pubblicata 
a  Lodi  addì  nove  d'aprile  1454-.  Nel  trattalo,  che  leggesi 
nella  preziosissima  raccolta  del  Muratori!1),  il  duca  di  Mi- 
lano si  conservò  la  Chiara  d'Adda  :  rimasero  dei  Veneziani 
Brescia,  Bergamo  e  Crema.  Un  capitolo  di  quel  trattato  ris- 
guarda  Crema  e  suo  territorio  ed  è  formolalo  con  le  se- 
guenti parole:  « Hem  si  sono  convenute  e  concordate  le 
»  dette  parti,  nomlnibus  quibus  saprà,  che  Crema,  la  quale 
»  tiene  presentemente  l' illustrissima  signoria  di  Venezia, 
»  rimanga  ad  essa  signoria  con  tutte  le  possessioni,  premi- 
v  nenze  ,  ragioni  e  giurisdizioni.  E  che  nò  per  la  detta  si  • 
»  gnoria,  nò  per  Cremaschi,  né  altri  per  sé,  ante  Adda 
»  ove  entra  il  Serio,  non  si  possa  imporre  nò  riscuotere 
»  dazio  né  gravezza  alcuna.  E  per  levare  ogni  occasione  di 
»  scandali,  si  dichiara  che  le  mura  della  fortezza,  ed  ogni 
»  altra  fortezza  di  Cereto,  sieno  rovinate  e  spianate  per 
»  tutto  il  presente  mese,  rimanendo  salda  ed  illesa  la 
»  chiesa  ed  abadia,  ovvero  monastero,  e  non  si  possa  mu- 
»  rare  delta  fortezza,  erigere  né  rifare,  intendendo  che  la 
»  Bastia,  e  il  luogo  ove  è  posta  colle  sue  possessioni,  acque 
»  ed  altri  beni  spettanti  ad  essa  abadia,  seu  monastero  di 
»  Cereto  che  sono  nel  territorio  di  Crema  e  giurisdizione  di 

(1)  Rerum  italicarum,  Voi.  XVI. 


—  2f>9  — 
»  Crema,  la  giurisdizione  e  dominio  resti  ad  essa  illnsiiis 
»  sima  signoria  di  Venezia  per  la  giurisdizione  di  Crema  » . 
Fra  i  cancellieri  lineali  che  sottoscrissero  quel  trattato,  leg« 
gesi  il  nome  di  Antonio  figlio  di  Giacomo  dei  Robetti  di 
Crema. 

Col  trattato  di  Lodi  i  Veneziani  rassodarono  i  loro  do- 
minj  in  Lombardia:  (ironia  giubilò  di  non  essere  caduta 
fra  le  spire  della  biscia  viscontea  e  di  poter  adagiarsi  tran- 
quillamente sotto  le  ali  del  leone  di  S.  Marco.  Non  per  que- 
sto migliorarono  così  tosto  le  sorti  dei  fuoruscili  ghibellini, 
bersaglio  per  due  anni  ancora  a  terribili  e  schifose  perse- 
cuzioni. La  fazion  guelfa  di  Crema  attraversava  loro  qua- 
lunque via  tentassero  onde  procacciarsi  il  perdono  della 
repubblica  veneta,  ansiosi  conV  erano  di  poter  ripalriare 
ed  essere  reintegrati  nel  possesso  dei  loro  beni.  Radunatisi 
sul  territorio  di  Brescia,  i  ghibellini  avevan  promesso  mille 
ducali  a  certi  Bresciani  che  assicuravanli  d'ottener  loro 
dalla  repubblica  la  liberazione  del  bando.  I  guelfi,  come 
furono  consapevoli  di  tali  maneggi,  mandarono  a  Venezia 
Agostino  Benvenuti  dottore  e  cavaliero,Venlurino  Benzoni, 
Rodolfo  Alfieri,  Fetrino  Toli  e  Francesco  Rigoso,  doman- 
dando al  senato  la  conferma  di  quindici  capitoli,  ove  pro- 
ponevasi  di  mantenere  i  ghibellini  fuori  di  Crema  e  trat- 
tarli come  ribelli.  1  ghibellini  allora  si  rivolsero  diretta- 
mente al  senato  implorando  grazia  ;  ma  il  Consilio  dei 
Dieci,  prima  di  concederla,  interpellò  il  Consiglio  generale 
di  Crema,  il  quale,  essendo  composto  di  guelfi,  vi  si  oppose. 
Nondimeno  i  guelfi,  temendo  che  i  Veneziani  alla  fine  si  pie- 
gassero e  restituissero  ai  ghibellini  i  beni  loro  tolti  e  donali 
al  Comune  di  Crema,  adoperaronsi  nel  febbrajo  del  Hoo, 
acciocché  quei  beni  venissero  incamerati,  contenti  di  ce- 
derli al  fisco  veneto,  piuttosto  che  renderli  a  compatriota 
che  detestavano.  Con  questi  e  con  tanti  altri  abbomincvoli 
esempi,  la  storia  c'insegna,  le  più  tiranniche  persecuzioni 


—  270  - . 
essere  quelle  con  cui  si  sfogano  Tire  dei  partili  e  gii  odii  fra 
concittadini. 

L'opera  santa  di  pacificare  in  Crema  guelfi  e  ghibellini, 
era  serbata  all'efficace  modestia  di  un  frate,  all'armi  pie- 
tose dell'evangelica  parola.  L'anno  145G  essendo  venuto 
nella  città  nostra  certo  fra  Giovanni  Battista,  novarese, 
dell'Ordine  dei  Predicatori,  seppe  con  tanta  eloquenza  in- 
culcare il  più  difficile  dei  doveri  cristiani,  perdonare  ai  ne- 
mici, che  i  guelfi,  smesso  l'inveteralo  odio,  nel  Consiglio 
generale  del  27  giugno  chiesero  alla  signoria  di  Venezia, 
fosse  concesso  ai  ghibellini  di  ripatriare  e  riavere  i  loro 
beni.  Notate:  un  fra  Simonetta  da  Cammino  maneggiò  la 
pace  fra  i  Veneziani  e  il  duca  di  Milano,  un  fra  Giovali 
Battista  da  Novara  riuscì  a  conciliare  i  guelfi  coi  ghibellini 
cremaschi:  ci  è  forza  confessare  che  !c  tonache,  tanto  vili- 
pese e  canzonate  dai  filosofi  del  secolo  decimoltavo,  pure, 
in  tempi  ben  diversi  dai  nostri,  valevano  sovente  a  qual- 
che cosa. 

Le  cronache  cremasene,  dal  trattato  di  Lodi  all'anno 
1482,  non  ci  porgono  avvenimenti  di  slorica  importanza: 
motivo,  la  pace  che  durò  in  Lombardia  ])ev  lo  spazio  di 
circa  trentanni.  I  Cremaschi  di  questo  trentennio  di  pace 
profittarono,  onde  rendere  nella  provincia  loro  l'agricol- 
tura e  l'industria  più  prosperose.  Il  Consiglio  generale  dei 
cittadini,  con  provvisione  dell'anno  1456,  promise  esenzioni 
di  tasse  personali  e  privilegi  ai  foraslieri  che  venissero  a 
lavorare  i  terreni  cremaschi ,  a  coltivare  pascoli  incolti  e 
boschi,  non  che  ai  mercanti  ed  ai  nobili  che  si  portassero 
ad  abitare  in  Crema.  E  molti,  non  soltanto  dai  vicini  ma 
da  lontani  paesi,  vennero  a  domiciliarsi  nella  nostra  pro- 
vincia, condoni  dalle  promesse  del  municipio  cremasco., 
allettati  dalla  speranza  di  laute  speculazioni  agricole  od  in- 
dustriali, e  meglio  ancora  dalla  mitezza  e  liberalità  co» 
cui  i  Veneziani  trattavano  le  città  conquistate. 


-  271   — 

Quantunque  ci  siamo  proposti  di  parlare  diffusamente 
più  innanzi,  ni  in  apposito  capitolo,  del  modo  <on  cui  i 
Veneziani  governarono  Crema,  tuttavia  qui  ci  affrettiamo 
d*avvertire  il  lettore,  che  sul  politico  regime  della  veneta 
repubblica  si  è  discorso  largamente  da  scrittori  del  secolo 
nostro,  ma  quasi  sempre  con  intemperanza  o  <li  biasimo  o 
«li  lode.  Calunniarono  Venezia  gli  adulatori  di  Napoleone , 
onde  giustificare  il  vergognoso  trattato  di  Campo  Formio; 
la  ricopersero  d*  improperi  gl'idolatri  delie  idee  democra- 
tiche, i  quali  volendo  trasportare  il  governo  dei  popoli  dal 
palazzo  in  piazza,  era  naturale  maledissero  un  regime  di 
arìstocrati  che  durò  pel  corso  di  tanti  secoli,  e  diede  al 
mondo  frequenti  esempj  di  senno  e  di  fermezza.  Altri  scrii- 
tori  invece,  i  quali  in  fatto  di  libertà  non  ci  vedevano 
così  addentro  come  i  filosofanti  del  secolo  decimotlavo ,  o 
che  astiavano  la  rapace  ambizione  dell' eroe  di  Marengo,  si 
dimostrano  caldissimi  ammiratori  della  serenissima  repub- 
blica: Carlo  Botta,  fra  questi,  propone  il  governo  di  Vene- 
zia a  modello  di  civile  sapienza,  ne  deplora  in  tuono  ele- 
giaco la  caduta  ,  il  turpe  mercato  che  della  sovrana  del- 
l'Adriatico fece  il  Console  francese.  Forse  volgeranno  molti 
anni  ancora  prima  che  si  pronunci  un  riposato  ed  impar- 
ziale giudizio  intorno  alla  veneta  aristocrazia  :  a  noi  basti 
intanto  l'avvertire  il  lettore  acciochò  diffidi  del  pari,  e  di 
chi  l'ha  servilmente  adulata,  e  di  chi  ne  fece  argomento 
di  poetiche  menzogne  e  d'ingiuriose  invettive. 

Qui  pure  torna  opportuno  rammentare  la  distinzione  che 
dello  Stalo  Veneto  fece  uno  storico  chiarissimo!4),  classifi- 
cando i  popoli  che  obbedivano  al  governo  di  S.  Marco  in 
tre  categorie.  La  repubblica  veneta,,  scrive  Sismondi,  era 
in  certo  guai  modo  composta  eli  tre  nazioni,  dei  Vene* 
zkmij  dei  popoli  di  terra- ferma  e  dei  Levantini.  Di  que- 

(1)  Sismondi.  Sloria  delle  repubbliche  italiane. 


-  272  — 
•ste  tre  nazioni,  V  insigne  scrittore  dimostrò,  come  fosse 
ben  differente  la  politica  condizione:  migliore  quella  dei 
popoli  di  terra-ferma.  Infatti  gli  abitanti  di  Venezia,  per- 
chè il  governo  di  tutta  la  repubblica  inlilolavasi  dalla  città 
loro,  si  risguardavano  siccome  i  dominatori,  e  se  ne  tene- 
vano; ma  per  verità,  i  cittadini  veneziani  erano  politica- 
mente divisi  in  padroni  e  servi,  pochi  i  primi,  moltissimi 
i  secondi.  Le  famiglie  patrizie  avevano  arrogato  a  sé  tutti 
i  poteri  sovrani,  e  n'erano  tanto  gelose  e  superbe  da  non 
sopportare  che  il  popolo  di  Venezia  neppur  pensasse  di 
prender  parte  al  governo  della  repubblica.  E  perchè  non 
gli  venisse  il  destro  d'ingerirsi  negli  affari  di  Slato  o  di 
censurare  il  procedere  di  chi  comandava,  addormentavano 
le  menti  dei  cittadini  con  pubblici  e  clamorosi  sollazzi ,  e. 
tratto  tratto  spaurivano  col  mistero  di  atroci  processi.  I  Le- 
vantini ,  ossia  i  popoli  delle  provincie  di  Levante  soggetti 
alla  repubblica,  erano  i  peggio  trallali  :  il  governo  veneto 
sagrificavali  ai  commerciali  interessi  di  Venezia,  opprimen- 
doli barbaramente.  Le  cose  camminavano  in  diverso  modo 
pei  sudditi  di  terra-ferma  :  a  questi  lasciavasi  che  si  go- 
vernassero coi  dettami  dei  loro  antichi  e  particolari  statu- 
ti; a  questi  la  repubblica  era  stata  liberale  di  privilegi  che 
tutelavano  le  proprietà,  l'industria,  le  finanze  dei  singoli 
Comuni;  a  questi  fu  concesso  di  rappresentare  ancora  nel 
loro  interno  ordinamento  un'immagine,  benché  sbiadita  , 
delle  spente  repubblichelte  lombarde.  Aggiungi,  che  il  go- 
verno veneto  vi  proteggeva  l'industria,  e  teneva  il  clero 
assai  bene  imbrigliato  ;  aggiungi,  che  i  Visconti  ed  altri 
lirannucci  avean  naturata  nei  popoli  di  Lombardia  1'  abi- 
tudine dell'obbedire,  cui  si  adattarono  per  bisogno  di  quella 
quiete  che  non  godettero  costituiti  in  repubblichelte  : 
quindi  ti  sarà  facile  rimaner  persuaso,  che  se  i  Cremaschi, 
i  Bergamaschi,  i  Bresciani  ed  altri,  dell'esser  sudditi  a  Ve- 
nezia non  avevano  motivi  per  gloriarsi,  ne  avevano  però  a 


—  273  — 
sufficienza  per  accontentarsi.  Ne  sia  prova  la  fedeltà  eh  essi 
per  più  di  trecento  anni  professarono  alle  insegne  di  S.  Mar- 
co; ne  sia  prova  il  non  aver  mai  invogliato,  iin<»  allo  scor 
cii)  del  secolo  decimottavo,  di  prender  parte  a  Venezia  nel 
supremo  potere:  imperocché  essi,  come  osserva  Sismondi, 
risguardavansi  non  Veneziani,  ma  Cremaschi  ,  Bresciani , 
Bergamaschi.  Ed  ancora  oggidì  le  citta  ex-venete  risentono, 
più  delle  altre,  le  idee  dell' antico  municipalismo,  sono  le 
piò  altere  delle  glorie  del  loro  Comune,  e  restringono  so- 
vente l'amore,  gì' interessi,  il  nome  di  patria  nel  circuito 
delle  mura  che  le  recingono. 

Prima  di  balzare  col  nostro  racconto  alla  fine  del  secolo 
decimoquinto,  e  dire  le  guerre  che  vi  scoppiarono,  ram- 
menteremo alcuni  egregi  personaggi  che  per  valor  militare 
o  per  dottrina  onorarono  la  città  nostra  nel  corso  di  que- 
sto secolo. 

Oltre  Venturi  no  e  Guido  Benzoni,  valentissimi  condot- 
tieri che  resero  importanti  servigi  ora  alla  repubblica  di 
Milano,  ora  a  quella  di  Venezia,  rammenteremo  Nicolò 
Yimercati  che  militò  lungamente  sotto  Braccio  da  Montone 
e  fu  assoldato  condottiero  di  fanti  e  di  cavalli  dalla  repub- 
blica fiorentina:  Giovanni  Frecavalli ,  che  il  duca  Filippo 
Visconti  elesse  collaterale  generale  di  tutto  il  suo  Stato: 
Francesco  ,  Giacomo  ,  Bartolomeo  e  Tomaso  Braguti  che 
servirono  il  famoso  general  Colleoni  nelle  sue  imprese  guer- 
resche, e  vennero  da  lui  rimeritati  con  militari  onorificen- 
ze: Bernardo  ed  Antonio  Guoghi,  dei  quali  il  primo,  com- 
battendo neir  esercito  veneziano,  destreggiossi  nel  1449 
acciocché  la  città  nostra  venisse  in  potere  della  repubbli- 
ca; il  secondo  ebbe  da  Nicolò  Piccinino  la  condotta  di  cento 
cavalli,  il  vicariato  di  tutti  i  castelli  posti  nella  Valle  di 
Taro,  e  morì  in  Alessandria  governatore.  Come  guerrie- 
ro ,  merita  sopra  tutti  singoiar  menzione  Giovanni  Delia- 
Noce,  nato  anch'egli  patrizio  da  famiglia,  che  dicesi  estinta 


—  274  - 
in  Crema  nel  secolo  decimosetlimo.  La  Corte  di  Napoli  fu 
il  teatro  delle  sue  giovanili  avventure.  Di  lui,  ch'era  bellis- 
simo della  persona,  invaghì  la  famosa  regina  di  Napoli, 
Giovanna  II.a ,  i  favori  della  quale  fruttarono  al  cavalier 
cremasco  ricchezze,  onori,  ed  insieme  l'invidia  dei  baroni 
napoletani.  Morta  Giovanna  Il.a  nel  1455  il  Delia-Noce  trovò 
protezione  nel  successole  re  Alfonso  I,  il  quale  lo  mandò 
ambasciatore  al  duca  di  Milano  nel  1443,  poi  luogotenente 
del  viceré  Antonio  Centelia  in  Calabria,  ove  Giovanni  si 
distinse  tanto  nelle  armi,  ch'ebbe  dal  re  Alfonso  in  guider- 
done cinque  castelli.  Ma  il  Delia-Noce  si  palesò  perfida- 
mente ingrato  ai  favori  compartitigli.  Quando  il  Cen- 
telia si  ribellò  al  re  Alfonso  ,  Giovanni  seguì  le  parti  dei 
ribelli,  onde  Alfonso,  domata  la  ribellione,  lo  fece  catturare. 
Processato  e  convinto  di  tradimento,  Giovanni  Delia-Noce 
fu  ad  un  pelo  di  lasciare  la  testa  sul  patibolo,  se  non  era 
l'ambasciatore  del  duca  di  Milano  che  gli  ottenne  dal  re 
Alfonso  grazia  e  libertà.  Ritornato  in  Lombardia,  i  Crema- 
sebi  Tanno  1440  lo  inviarono  con  buon  nerbo  di  milizie 
in  soccorso  della  repubblica  milanese,  travagliala  alquanto 
dalle  armi  di  Francesco  Sforza.  Spenta  la  repubblica  di 
Milano,  Giovanni  Delia-Noce  passò  al  servizio  dello  Sforza, 
il  quale  lo  creò  condottiero  di  cavalli.  Scoppiata  la  guerra 
fra  i  Veneziani  e  il  duca  Francesco  Sforza  (1452),  Giovanni 
fu  accusato  di  mantener  segrete  pratiche  col  marchese  di 
Monferrato,  nemico  anch'egli  dello  Sforza,  quindi  il  duca 
di  Milano  lo  fece,  siccome  traditore,  appiccare  a  Cremona 
nel  settembre  dell'anno  1452.  Giovanni  Delia-Noce,  amo- 
reggiando, combattendo  da  valoroso,  perfidiando  all'occor- 
renza ,  recitò  molto  bene  la  parte  di  cavaliere  di  ventura  ; 
ma  assai  men  fortunato  di  tanti  altri,  finì  nelle  mani  del 
carnefice  una  carriera  che  aveva  incominciata,  invidialissi- 
mo,  tra  le  braccia  voluttuose  d'una  regina. 

Per  dottrina  si  distinsero  Beltramino  Cusadro ,  dottore 


hi  legge,  che  i  marchesi  di  Mantova  e  i  duchi  di  Ferrara 
onorarono  d'importantissimi  incarichi  valendosi  dell'opera 
sua  por  isbrogliare  viluppi  diplomatici  e  contese  <!i  confini; 
Agostino  e  Bernardino  Monelli,  tenuti  in  gran  pregio  dal 
re  d%Ungheria ,  ove  pei  loro  talenti  furono  innalzali  alle 
principali  cariche  dello  Stato  :  Agostino  Precavalli,  che  levò 
grido  d'uomo  enciclopedico,  dolio  in  Glosofia,  io  istoria,  in 
medicina,  il  quale  scrisse  una  cronachella  latina  dellecose 
più  notabili  avvenute  nel  inondo  dalla  nascila  di  Cristo  ai- 
Panno  1iiS,  od  un  discorso,  rimasto  inedito,  sui  pianeti  e 
sulla  fisionomia  dell'uomo;  Francesco  Pallini,  notaio,  ac- 
carezzato nelle  Corti  di  varj  principi,  di  re  Alfonso  I  d'Ar- 
ragona,  di  Francesco  Foscari  doge  di  Venezia  ,  di  papa 
Eugenio  IV  e  di  Filippo  Visconti ,  per  i  quali  essendosi 
adoperalo  assai  destramente  in  affari  di  politica,  fu  rimeri- 
tato con  isplendide  ricompense. 

Né  ommetteremo  di  far  menzione  di  frate  Agostino  Ca- 
zulo,  che  abbracciò  l'istituto  di  S.  Agostino  Tanno  1441. 
Oltr' essere  predicatore  di  grido,  fu  anche  scrittore  di  varie 
opere,  fra  le  quali,  di  un  libro  Ialino  sull'origine  dei  frati 
osservanti  la  regola  di  S.  Agostino.  Bianca  Maria  Sforza , 
duchessa  di  Milano,  avealo  in  gran  pregio,  consultavalo  in 
affari  in  Slato  e  lo  mandò  ambasciatore  a  papa  Paolo  II. 
Il  P.  Agostino  Cazulo  cooperò  in  Crema  alla  fondazione  del 
monastero  di  S.  Monica,  e  un  altro  di  vergini  ne  istituì  a 
Tortona,  sotto  il  titolo  di  S.  Simone.  Fu  egli  che  nel  1447 
fece  erigere  la  chiesa  di  S.  Giovan  Battista  a  Crederà,  ove 
gli  Agostiniani  possedevano  i  beni  loro  lasciali  per  testa- 
mento di  Tommaso  Vimercati:  morì  l'anno  1495.  Altro  dei 
Cazuli,  di  nome  Bartolomeo,  frate  anch'esso  agostiniano  , 
onorò  l'ordine  suo,  morendo  in  odore  di  santità  nel  secolo 
medesimo. 

Parecchi  cittadini  cremaschi,  nel  secolo  decimoquinto, 
occuparono  in  Crema  e  fuori  cospicue  cariche:  fra  questi 


—  276  - 
Pantalcone  Zurla,  da  modesto  frate  francescano  innalzalo 
l'anno  1415  vescovo  di  Secca  nel  regno  di  Napoli;  Erasmo 
Bernardi,  fatto  vescovo  Ariense  da  Alessandro  IV;  Agostino 
Benvenuti,  cavaliere  e  giureconsulto,  stato  podestà  di  Cre- 
mona, e  il  primo  lettore  di  giurisprudenza  in  Crema  i1';  e 
Francesco  Vimercati,  anch' egli  dottore  e  cavaliere,  podestà 
a  Mantova,  a  Lucca,  a  Firenze. 

Nel  maggio  del  1482  i  Veneziani,  alleatisi  col  pontefice 
Sisto  IV,  ruppero  guerra  ad  Ercole  d'Este  duca  di  Ferrara, 
allegando  l'infrazione  di  certi  loro  diritti  giurisdizionali  nei 
dominj  estensi.  Era  un  pretesto  col  quale  Venezia  palliava 
il  disegno,  concertalo  col  pontefice,  di  annichilire  la  potenza 
di  Casa  d'Este  per  ispartirne  poi  fra  di  loro  gli  Stali.  Nella 
lega  contro  il  duca  di  Ferrara  associaronsi  il  marchese  di 
Monferrato,  la  repubblica  genovese,  e  Pietro  De  Rossi  conte 
di  S.  Secondo.  Parteggiavano  per  gli  Estensi  il  duca  di  Mi- 
lano, i  Fiorentini,  Ferdinando  re  di  Napoli,  il  marchese  di 
Mantova,  e  Giovanni  Bentivoglio,  capo  della  repubblica  bo- 
lognese. Per  tal  modo  l'Italia  si  divise  in  due  grandi  leghe, 
e  la  guerra  minacciava  di  estendersi  su  lutti  i  punti  della 
penisola.  Crema,  essendo  fortezza  di  molla  importanza, 
posta  ai  confini  del  dominio  veneto,  correva  pericolo  d'es- 
sere assalita  dal  duca  di  Milano,  perciò  vi  fu  messo  a  pre- 
sidiarla Faccenda  Sanse\  crino,  figlio  naturale  di  Roberto 
che  avea  la  condona  dell'esercito  veneziano.  Le  sorti  della 
guerra  arridevano  ai  Veneziani,  tanto  che  il  pontefice  adom- 
brandosi dei  vantaggi  ch'essi  riportavano  negli  Stati  Esten- 
si, staccossi  improvvisamente  dall'alleanza  della  repubblica, 
ed  a  deporre  le  armi  la  consigliava.  Alle  insinuazioni  del 
pontefice  Venezia  non  piegò,  ond'egli  in  un  impeto  d'ira 
violentissima  sfolgorò  contro  la  repubblica  l'interdetto.  Non 


(1)  Vedi  nell'archivio  municipale  di  Crema   le  parti   prese   dal   Consiglio 
dei  cittadini  l'anno  J  4 6 6 . 


per  questo  i  Veneziani  cessarono  le  ostilità  contro  gli  Esteti 
si,  e  in  onta  ili  Sisto  IV  risolvettero  di  continuare  anche 
ila  ioli  la  guerra. 

(ili  alleali  del  duca  ili  Ferrara,  nell'anno  successivo  (1483), 
affine  di  abbattere  la  baldanza  dei  Veneziani,  tennero  i  Cre- 
mona un  congresso,  ove  deliberarono  sul  modo  ili  ado- 
perare di  concerto  le  forze  loro,  e  volendo  pur  disto- 
gliere il  marchese  ili  Monferrato  dall'alleanza  veneta,  an- 
nodarono con  lui  segrete  pratiche. Ma  il  Senato  ili  Venezia 
ne  fu  reso  consapevole  per  mezzo  ili  Compagno  Benzoni,  pa- 
trizio cremaseo  che  aveva  un  figliuolo  ili  nome  Francesco, 
irate  minori laoo,  alquanto  pregiato  e  favolilo  nella  corte 
del  marchese  di  Monferrato.  Il  frate  scoprì  le  brighe  dei 
nemici  di  Venezia  e  ne  informò  il  genitore,  che  aflYcttossi 
di  denunziarle  al  senato.  Compagno  Benzoni,  di  quest'im- 
portante servigio  reso  alla  repubblica,  venne  guiderdonato 
con  un  annuo  assegno  di  cinquecento  ducali  e  con  la  no- 
biltà \  anela,  che  fu  concessa  a  lui  e  a  lutti  i  suoi  di- 
scendenti. 

Sapeva  male  ai  Cremaschi  che  Venezia  si  ostinasse  nella 
guerra  contro  il  duca  di  Ferrara  ed  i  suoi  alleali,  paven- 
tandone funeste  conseguenze.  Non  eh'  essi  di  paventarle 
avessero  buoni  argomenti,  ma  superstiziosi  com'erano  i 
padri  nostri,  presagivano  a  sé  stessi  gravi  disastri  da  quella 
guerra,  perchè  un  fulmine  avea  a  Crema  percossa  la  torre 
del  duomo,  e  perchè  sul  governo  di  Venezia  pesava  V in- 
terdetto pontificio.  I  Veneziani,  prevedendo  il  pericolo  che 
gli  Sforzeschi  invadessero  il  territorio  cremasco,  non  tras- 
curarono gli  opportuni  provvedimenti  a  maggior  sicurezza 
della  città  nostra.  Marino  Leoni,  allora  podestà  in  Crema, 
ail'orzò  con  nuovi  ripari  le  trincee  eh'  erano  intorno  a 
Crema,  ed  entrato  in  sospetto  che  alcuni  cittadini  delle 
più  illustri  famiglie  ghibelline  cospirassero  contro  Vene- 
zia,  di  notte  tempo  li  chiamò  al  suo   palazzo,  e  senz'ai- 


—  278- 
cuna  formalità  di  processo  li  fece  deportare.  Avendo  poi  i 
fratelli  Sanseveriho  disertato  dalle  bandiere  di  S.  Mar- 
co, vennero  a  Faccenda  Sanseverino  sostituiti  nel  presidio 
di  Crema  il  cavaliere  Bartolino  Terni  con  quattrocento 
fanti,  Francesco  Griffoni,  comunque  trilustre  giovinetto,  con 
trecento,  e  Giovanni  Antonio  Scariotto  con  quattrocento 
cavalli. 

Il  duca  di  Milano,  o  per  dir  meglio,  Lodovico  Sforza 
che  reggeva  a  nome  del  nipote  minorenne,  violò  ostilmente 
i  confini  dello  Stato  veneziano,  mirando  principalmente  a 
conquistare  le  terre  del  Bergamasco  e  del  Bresciano.  Quan- 
tunque gli  Sforzeschi  facessero  la  guerra  assai  fiaccamente, 
nondimeno  il  nostro  territorio  venne  molestato  da  frequenti 
scorrerie.  Cadde  in  potere  degli  Sforzeschi  la  torre  di  Gab- 
biano, alla  cui  difesa  la  vedova  di  Matteo  Griffoni  avea  po- 
sto certo  Monlemaglio.  Avendo  egli  quella  torre  ceduta  ai 
nemici  senz'opporre  alcuna  resistenza,  il  podestà  di  Crema 
rimprocciò  aspramente  la  vedova  Griffoni  perchè  ne  avesse 
affidato  la  guardia  a  vilissimo  soldato:  ed  ella,  per  gli  amari 
rimproveri  del  podestà  e  per  la  cessione  della  torre  di  Gab- 
biano, accorossi  tanto  che  ne  morì. 

Gli  Sforzeschi,  scorrendo  sul  nostro  contado,  sconlraronsi 
più  d'una  volta  colle  milizie  che  presidiavano  Crema:  av- 
vennero delle  scaramuccie  ove  parecchi  soldati  del  duca  di 
Milano  rimasero  prigionieri.  Narrano  le  nostre  cronache 
come  Marcolino  e  Guarino,  figli  naturali  di  Matteo  Griffoni, 
si  compiacessero  d'imbizzarrire  barbaramente  nel  marto- 
riare i  prigionieri.  «  Marcolino  Griffoni  ad  alcuni  appiccava 
»  lo  spago  ai  denti  e  legavalo  ad  una  freccia  di  balestra  di 
»  modo  tale  che,  scaricandosi  la  balestra,  se  gli  svelleva  il 
»  dente  di  bocca.  Ad  alcuni  altri,  stesi  su  una  tavola  colla 
»  pancia  insù,  pendendogli  il  capo  giù  della  tavola,  metteva 
»  calcina  viva  sfiorata  nelle  narici,  tormento  pel  vero  molto 
»  crudele  ed  intollerabile  ^lh  »  A  Marcolino  Griffoni  venne 

(1)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  271)  — 
poi  commessa  la  guardia  del  castello  di  Misano  io  Ghiara 

d'Aihla  preso   agli  Sforzeschi  :   Marcolino  lo   pose  a  sacco  e 

se  oe  lornò  a  trema  ricco  di  bollino. 

La  guerra  degli  alleati  del  duca  di  Ferrara  conico  la 
repubblica  veneta,  quantunque  continuasse  (ino  air  agosto 
del  1484,  fu  sul  terreno  lombardo  combattuta  assai  mol- 
lemente: i  l'aiti  d'arme  più  clamorosi  succedettero  negfi 
Slati  Estensi  e  nel  Napolitano  con  vantaggio  dei  Veneziani. 
Le  scorrerie  degli  Sforzeschi  nel  territorio  cremasco  sono 
di  questa  guerra  minuti  enisodj  die  alla  storia  passarono 
inosservati.  Noi,  tacendo  ili  parecchi,  non  possiamo  ommet- 
tere  di  rammentale  un'ardita  impresa  di  Barlolino  Terni , 
il  cui  nome  grandeggia  ancora  nella  memoria  del  popolo 
cremasco,  il  quale  udimmo  sovente  raffigurarci  in  Barlolino 
Terni  un  eroe,  sebbene  non  fosse  che  un  prode  e  corag- 
gioso capitano. 

Era  una  nolle  di  giugno  dell'anno  1484:  truppe  sfor- 
zesche s' accostarono  improvvisamente  sotto  Crema.  Un 
grosso  drappello,  schieratosi  rimpetto  alla  Porta  Ombriano, 
provocava  con  ingiuriose  paiole  i  Cremaschi  ad  uscir  fuori 
e  venire  a  battaglia  :  altri  drappelli  si  erano  nascostamente 
appostali  alle  altre  porle  della  città ,  sperando  assalire  di 
sorpresa  le  nostre  milizie,  qualora  \i  sboccassero,  per  ri- 
spondere colle  armi  ai  nemici  che  le  provocavano.  Barto- 
lino  Terni,  capitano  sagace  quanto  ardimentoso,  accortosi 
del  tiro  insidioso  che  a  lui  giocavano  gli  Sforzeschi,  risol- 
vette di  respingerli,  ma  irrompendo  da  Crema  per  una  via 
eh1  essi,  non  conoscendo,  avean  lasciato  sgombra  d'insidie, 
e  per  tal  guisa  farsi  aggressore  contro  coloro  che  pensavano 
di  aggredirlo.  Era  a  quei  tempi  nella  parte  settentrionale  di 
Crema  un  luogo  detto  le  Torrette,  ove  per  un  canale,  passando 
sopra  barche,  polevasi  uscir  fuori  della  città.  Cartolino  Terni 
con  quanti  soldati  erano  in  Crema,  con  gran  copia  di  trombe 
e  di  tamburi,  sboccò  per  questa  via,  e  si  spinse  contro  gli 


—  280  - 
Sforzeschi  quand'  essi  men  se  V aspettavano,  sollevando  nel 
silenzio  di  quella  notte  colle  trombe  e  coi  tamburi  un  fra- 
gore spaventoso.  Intanto  i  cittadini  accorrevano,  con  grande 
apparecchio  di  lumi  e  strepito  d'armi,  sulle  mura,  fingendo 
di  voler  calare  il  ponte  della  Porla  Ombriano  per  gettarsi 
addosso  alle  schiere  nemiche.  Quello  strepito  infernale  di 
bellici  istrumenti,  queir  improvviso  apparire  ed  agitarsi 
fra  le  tenebre  di  tante  fiaccole  accese,  avean,  per  dir  vero, 
del  teatrale:  ma  sull'animo  degli  Sforzeschi  produssero  un 
effetto  ben  diverso;  le  loro  fantasie  rimasero  colpite  di  ter- 
rore. Dal  bagliore  di  tanti  lumi,  da  tante  armi,  trombe  e 
tamburi  strepitanti,  gli  Sforzeschi ,  centuplicando  nell'im- 
maginazione il  numero  dei  nemici,  argomentarono  che  i 
Cremaschi  piombassero  loro  addosso  ad  ischiacciarli  con 
forze  poderosissime,  perciò  si  abbandonarono  a  precipitosa 
fuga.  Quarantaquattro  caddero  prigionieri  nelle  mani  dei 
Cremaschi:  Cartolino  Terni  il  giorno  successivo  liberavali, 
facendoli  uscire  di  Crema  disarmali  e  con  una  bacchetta 
in  mano,  fra  le  risale  e  le  beile  della  popolazione. 

La  guerra  dei  Veneziani  col  duca  di  Ferrara  cessò  Tan- 
no 14-86  mediante  il  trattato  di  pace  del  7  agosto,  obbli- 
gandosi il  duca  d'Este  di  reintegrare  i  Veneziani  nel  pos- 
sesso delle  loro  ìriurisdizioni  sul  Ferrarese,  e  di  ceder  loro 
il  Polesine  con  lutto  il  territorio  di  Rovigo. 

L'anno  1487  il  podestà  Bernardo  Barbarigo  propose  ai 
nostro  Concilio  generale  di  rifare  le  mura  di  Crema,  eccil- 
lando  con  isfarzosi  argomenti  la  Comunità  a  sostenere  il 
terzo  della  spesa.  La  proposta  del  Barbarigo  fu  rifiutata, 
non  volendo  i  Cremaschi,  conformemente  a  quanto  avevan 
chiesto  Fanno  1440  nei  palio  ventunesimo  della  capitolazione, 
che  la  città  loro  sopportasse  parte  alcuna  della  spesa.  Ma 
il  podestà  con  astuti  raggiri  conseguì  l'intento  di  recinger 
Crema  di  nuove  fortificazioni  ed  accollare  al  Comune  il 
terzo  dell'ingente  somma  d'oro  che  a  sì  grand'opera  richie- 


—  sai  — 

devisi.  Il  giorno  24  maggio  del  1488  s' incominciò  i  dar 
mano  all'eresione  delle  nuove  mura.  Precedettero  ai  lavori 
k  solennità  eh* erano  di  costume:  il  clero  iniziò  la  fabbrica 
inni  religiose  cerimonie,  cantando  messa  in  duomo  e  bene 
dicendo  sci  pietre:  delle  quali  il  podestà,  con  bianco  grem- 
biale e  cazzuola  in  mano,  poso  le  primo  duo,  la  terza  il 
prevosto  del  duomo,  la  quarta  Lionardo  Zurla,  siccome  ini- 
ziano (Va  i  provveditori  della  città:  le  ultime  duo  vennero 
poslo  runa  da  Gian  Antonio  Terni,  vicario  in  Cicilia  del 
vescovo  di  Cremona,  l'altra  da  Andrea  Robatti,  vicario  del 
vescovo  di  Piacenza.  La  fabbrica  durò  ventanni  e  costò 
circa  centoventimila  ducati:  né  men  tempo  e  men  danaro 
bisognava  a  compire  quest'opera  ammiratissima  ,  per  la 
quale  alcuni  scrittori  del  secolo  decimosesto,  descrivendo 
l'Italia,  posero  Crema  fra  i  paesi  meglio  fortificali  della 
nostra  penisola  (*).  Collo  ricostruzione  delle  mura  scom- 
parve quella  palude  clic  prima  cingeva  la  città  nostra  dal 
Iato  settentrionale,  ed  cralc  di  naturale  difesa.  L'Alcmanio 
Fino  scrive  :  «  Era  già  falla  la  nuova  muraglia  dattorno 
»  Crema,  da  verso  tramontana  in  fuori,  quando  Pietro  Lo- 
»  redano,  allora  podestà  della  terra,  per  dar  esito  alle  acque 
»  delle  vicine  paludi,  le  quali  impedivano  la  fabbrica,  fece 
»  cavare  il  vaso  del  Trevacone,  sopra  cui  fece  tre  bellis- 
»  simi  ponti,  i  quali  furono  poi  per  le  guerre  in  parte  ro- 
»  vinati.  Non  si  cavò  questo  vaso  né  vi  si  fecero  sopra  i 
»  ponti  che  si  spendè  meglio  di  dieci  mila  ducati.  » 

Correndo  Fanno  1490,  il  tragico  caso  di  Caterina  degli 
liberti ,  piissima  donna,  diede  origine  al  tempio  di  S.  Ma- 
ria della  Croce,  bellissimo  fra  quanti  adornano  il  suolo 
cremasco.  Caterina ,  figlia  di  Bartolomeo  degli  Ubarti  cit- 
tadino cremasco,  erasi  maritata  con  Bartolomeo  Contaglio, 

(i)  Sansovino  nel  suo  libro  intitolato:  Delle  pili  noblìi  ciltà  d'Haliti,  i!i<r 
che  erari  tre  le  maggiori  fortezze  della  nostra  penisola:  Barletta  in  Romagna, 
Prato  in  Toscana,  Crema  in  Lombardia. 

19 


—  282  — 
bergamasco,  il  quale  mostra  vasi  fieramente  indignalo  coi 
parenti  della  consorte  perchè  indugiavano  a  pagargliene  la 
dote.  11  Contaglio,  uom  rotto  ad  ogni  sorta  di  ribalderie, 
era  incorso  nella  pena  del  bando,  per  cui  Calerina  viveva 
in  Crema,  lungi  dal  marito,  nella  casa  de'  suoi  fratelli.  Un 
giorno  Bartolomeo  venne  inaspettato  a  visitarla,  ed  addu- 
cendo  d'essere  stato  liberato  dal  bando,  disse  alla  moglie 
che  la  volea  condurre  a  Bergamo.  StìlF imbrunire  del  gior- 
no o  aprile  (1490)  il  Contaglio  usciva  da  Crema  per  la 
Porta  Pianengo,  togliendosi  la  moglie  sulla  groppa  del  suo 
cavallo.  Giunto  a  mezzo  miglio  fuori  della  città,  in  un  campo 
detto  dei  Novelletti,  ove  incrociavansi  tre  strade,  l'una  delle 
quali  menava  a  Pianengo,  Bartolomeo  Contaglio  ferma  im- 
provvisamente il  cavallo,  ne  discende  e  costringe  la  moglie 
a  fare  lo  stesso.  Poi,  strappali  a  lei  con  violenza  gli  anelli 
che  portava  nelle  dita,  mette  mano  alla  spada,  e  vibra 
sulla  moglie  colpi  brutali ,  lacerandone  il  corpo  con  ben 
quattordici  ferite.  Lordo  dell'  immanissimo  assassinio  ,  lo 
scellerato  fugge  lasciando  Caterina  semiviva  sul  terreno, 
tutta  immersa  nel  proprio  sangue.  Narrasi  che  l'infelice,  fra 
gli  spasimi  delle  crudelissime  ferite,  trovandosi  in  mezzo 
alle  tenebre,  in  luogo  deserto  e  priva  d'ogni  umano  soccorso, 
pregasse  d'aiuto  la  Vergine  Maria,  cui  professava  teneris- 
sima divozione.  Narrasi  che  la  Madre  del  Divin  Redentore, 
ascoltando  la  preghiera  della  sua  fedelissima  serva,  sia  ap- 
parsa a  Caterina  sotto  sembianze  di  una  poverella,  e  la  con- 
ducesse ad  un  vicino  casolare  ove  la  meschina  fu  amorosa- 
mente ospitata  da  un'onesta  famiglia  di  conladini.  Nel  giorno 
successivo  Caterina  degli  liberti  moriva,  santa  dei  patiti  do- 
lori e  di  pia  rassegnazione. 

Per  la  città  nostra  e  pei  vicini  paesi  divulgossi  l'atroce 
caso  di  Caterina,  divulgossi  eziandio  la  voce  che  la  Vergine 
Maria  apparisse  a  confortarne  gli  ultimi  istanti.  Immensa 
moltitudine  di  persone,  spinta  da  religiosa  fede,  accorse  sul 


—  aa  — 

rampo  dei  Novelletti  per  cercarvi  e  baciare  le  orme  «l i \ in** 
della  Madre  del  Redentore.  Né  andò  guari  che  ai  aparse  la 
l'ama  di  nuovi  celesti  prodìgi,  i  quali  dicevansi  avvenuti  sul 
campo  medesimo  dei  Novelletti  per  l'implorato  soccorso 
della  Vergine  Maria,  quindi  rendevasi  ognor  più  generale  e 
più  salila  la  fede  nella  miracolosa  apparizione  della  Regina 
de' Cieli  a  Caterina  degli  Uberli:  il  nostro  podestà  Nicolò 
Friuli ,  che  dapprima  se  ne  dimostrava  incredulo,  finì  col 
rimaner  anch'  esso  persuaso  del  miracolo.  I  moltiplicati 
prodigi  accrebbero  venerazione  al  luogo  che  n'era  stalo  il 
teatro,  e  generosissime  vi  piovevano  le  offerte  dei  divoti. 
Raccoltasi  dalle  fatte  oblazioni  somma  d'oro  copiosissima  , 
si  pensò  ad  erigere  sul  campo  dei  Novelletti  un  magnifico 
tempio  che  perpetuasse  la  memoria  della  miracolosa  ap- 
parizione della  Madre  dei  tribolati  a  Caterina  liberti  :  fu 
perciò  eletta  una  commissione  la  quale  presiedesse  alla  fab- 
brica del  nuovo  tempio:  la  componevano  Francesco  Yimcr- 
cali  dottore  e  cavaliere,  Andrea  Martinengo,  Pagano  Ben- 
zoni,  Cristoforo  Benvenuti,  Giacomo  Zurla  e  Antonio  Ma- 
razzi,  non  che  i  tre  provveditori  della  città,  ed  il  vicario 
del  vescovo  (\i  Cremona  Gioan  Antonio  Terni.  L'edificazione 
del  tempio  fu  incominciata  addì  17  luglio  del  14-95  con  di- 
segno di  Giovanni  Batacchio  architetto  lodigiano,  e  recata 
a  compimento  Fanno  1500  da  Gio.  Antonio  Montanaro,  in- 
gegnere cremasco  i*). 

Nel  1494  Carlo  Vili,  re  di  Francia,  istigalo  principal- 
mente da  Lodosico  Sforza,  scese  col  suo  esercito  in  Italia 
per  far  valere,  qual  successore  della  Casa  d'Anjou,  diritti 
che  millantava  sul  regno  di  Napoli.  La  repubblica  veneta , 
ben  loutana  dall'adottare  una  politica  nazionale  al  cospetto 


(1)  Intorno  al  miracolo  ed  all'erezione  del  tempio  di  S.  Maria  della  Croce, 
chi  per  avventura  bramasse  raccogliere  minute  notizie,  legga  l'erudito  libro 
che  pubblicò  in  proposito  il  nostro  vesco\o  Antonio  Ronna. 


—  284  — 

di  un  monarca  forastiero  e  vago  di  conquiste,  s'era  dichia- 
rata neutrale.  Ma  dopo  che  il  re  de'  Francesi  ebhe  trascorsa 
T Italia  ed  occupato  senza  contrasti  il  reame  di  Napoli,  i 
potentati  italiani  insospettirono  ch'egli  nel  bacio  della  for- 
tuna fantasticasse  d'impadronirsi  di  tutta  la  penisola.  Lo- 
dovico il  Moro  mutò  politica,  e  i  Veneziani  gli  si  allearono, 
obbligandosi  di  allestire  un  grosso  esercito  da  sventare  gli 
ambiziosi  disegni  del  re  Carlo  Vili.  La  repubblica  allora 
stipendiò  capitani  di  molto  grido  per  affidar  loro  la  con- 
dotta di  numerosa  cavalleria:  fra  questi  gli  annali  veneti  <*) 
ci  menzionano  due  cremaschi,  Angelo  Francesco  Griffoni  e 
Socino  Benzoni,  condottiero  l'uno  di  ottanta,  l'altro  di  cin- 
quanta cavalli.  Ambedue  combatterono  la  battaglia  del  Taro, 
sulla  quale  contendono  ancora  gli  storici  a  chi  sia  toccata 
la  vittoria.  Vero  è  però  che  la  repubblica,  quantunque  su- 
pcriore di  forze  ai  Francesi,  vi  perdette  un  buon  numero 
di  soldati,  e  che  le  indisciplinale  milizie  de' suoi  stradiolli, 
più  che  al  combattere,  attesero  a  bottinare.  Fra  i  valorosi 
guerrieri  della  veneta  repubblica  si  distinse  in  quella  bat- 
taglia il  nostro  concittadino.  Lodovico  Virae reati,  il  quale  vi 
riportò  tredici  ferite,  onde  nell'esercito  veneziano  si  meritò 
il  grado  di  capitano,  che  mantenne  con  onore  fino  agli  ul- 
timi anni  di  sua  vita. 

Pochi  giorni  dopo  la  battaglia  del  Taro  capitò  a  Crema 
un  soldato  stradiotto  menando  un  carriaggio  depredato  ai 
Francesi,  sopra  il  quale  si  trovò  un  forziere  contenente 
scritture  che  appartenevano  al  re  di  Francia  (2.  Fra  queste 
Domenico  Benedetti,  allora  podestà  di  Crema,  scoperse 
una  bolla  apostolica  di  papa  Alessandro  VI  indirizzala  al 
re  Carlo  Vili,  con  cui  n'encomiava  il  disegno  di  scendere 
in  Italia  e  promettevagli    vettovaglie  e   libero  passo  negli 


(i)    Malipieri.  Annali  veneti  pubblicati  nell'Archivio  storico  del  Vieusseux. 
(2)  Idem. 


—  988  — 
Stali  della  Chiesa.  Vi  si  rinvennero  eziandio  lettere  durali  di 
Domenico  Trevisan  e  di  Antonio  Loredano  spedile  al  re 
di  Francia;  documenti  latti  coi  «piali  Carlo  Vili  poteva 
pastificare  la  sua  venula  in  Italia.  Pur  troppo  quest'in- 
vasione di  Francesi  fu  provocata  da  governi  italiani  :  colpa 
per  essi  incancellabile,  se  consideriamo  quanti  gravissimi 
mali  ei  ha  costato;  incancellabile,  abbenchè  coloro  clic  la 
commiscro  se  ne  pentissero  dappoi,  cil  accorgendosi  clic 
con  improvvida  politica  compromettevano  la  nazionale  in- 
dipendenza abbiano  per  un  istante  accomunale  le  forze 
loro  onde  smorbare  l'Italia  dallo  straniero. 

L'anno  1493  la  nostra  Comunità  chiamò  in  Crema  a  pre- 
dicare Bernardino  da  Feltre,  il  benemerito  promotore  del- 
l'istituzione  dei  Monti  di  Pietà.  Il  santo  monaco  predicò 
da  un  terrazzino,  nella  pubblica  piazza,  come  allora  costu- 
mavano gli  ordini  religiosi  (l\  Però  il  Monte  di  Pietà  ebbe 
in  Crema  principio  tre  anni  dopo  a  persuasione  di  frate 
Michele  d'Aquis  dell'ordine  dei  Zoccolanti  ^)  (1496).  In 
que'  tempi,  quando  i  poveri  bisognavano  di  danaro  onde 
soddisfare  alle  necessità  della  vita  ,  erano  costretti  ricor- 
rere per  prestazioni  agli  Ebrei ,  i  quali  speculavano  bar- 
baramente sui  venerandi  cenci  delle  classi  più  sofferenti. 
Sia  lode  ai  frati  zoccolanti  che  spesero  la  parola  del  Van- 
gelo a  sollievo  del  povero,  che  per  liberarlo  dall'op- 
pressione di  quelle  arpie  persuasero  i  Comuni  ad  istituire 
i  Monti  di  Pietà.  E  sia  pur  lode  ai  Cremaschi  che  uno  ne 
fondarono  nella  città  loro  con  isplendido  esempio  d'animo 
liberale.  Affinchè  tutti  condonativi  concorressero  a  fon- 
dare il  pio  Istituto,  furono  invitati  i  cittadini  a  fare  pub- 
blicamente le  loro  offerte;  ed  essendo  quattro  le  porte 
della  città  nostra,  si  considerò  la  popolazione  siccome  di- 

(i)  Vedi  nel  documento  C,  un  brano  di  predica  che  il  santo  da  Feltre  re- 
citò sulla  piazza  di  Crema. 
(2)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  286  — 
visa  in  quadro  quartieri ,  e   venne  stabilito  che  ciascuna 
porta  o  quartiere  in  giorni   determinali  facesse  separata- 
mente le  sue  oblazioni.  Sorse  quindi  nobilissima  gara  fra  i 
cittadini  delle  diverse  porte,  e  le  ultime  a  recare  l'offerta 
procurarono  con  ricchezza  e  copia  di  donativi  di  superare 
in  generosità  le  prime.  Sontuosi ,   di  vario  genere ,   e  biz- 
zarri furono  i  doni,  ma  più  bizzarro  ancora  l'apparalo  con 
cui  vennero  portati  al  luogo  ove  si  raccoglievano.  Erano 
tempi  nei  quali  pigliavasi  d'ogni    cosa  pretesto  a  feste  cit- 
tadine, a  pubblici  spettacoli,  tempi  ove  le  fantasie  delizia- 
vansi  di  colpire  lo  sguardo  delle  moltitudini  con  isfarzosc 
e  strane  rappresentazioni.  I  Cremaschi  praticarono  un'opera 
di  carità  con  pubbliche  mascherate  di  tal  sorta  che  a'  no- 
stri giorni  non  sarebbero  tollerate  neppure  in  carnovale. 
I  cittadini  di  ciascuna  porta  recarono  le  offerte  loro  sopra 
carri  trionfali,  addobbati  magnificamente,  seguiti  da  un  co- 
dazzo di  cavalieri  con  abili  sfolgoranti  e  di  vario  costume. 
Sopra  i  carri  tu  vedevi  simboleggiate,  come  in  un  teatrone 
scene  più  sublimi  del  Vecchio   e  del  Nuovo  Testamento, 
con  le  quali  si  mescolavano  gli   scherzi  e  le  lascivie  della 
mitologia.  Vedevi  comparire  la  Beata  Vergine,  il  Redentore, 
gli  Apostoli,  S.  Pantaleone,  poi  il   giovinetto  Paride  colle 
tre  Dee  ignude,  ed  Apollo  con  le  nove   Muse:  qui  fantasie 
pagane  attinte  nei  sogni  d'Omero  e  d'Ovidio,  là  i  misteri 
della  divina  redenzione,  e  i  miracoli  dei  santi:   l'Olimpo  e 
il  Golgota ,  Venere  e  Maria.  Questo  inverecondo  e  strano 
accozzamento  delle  immagini  pagane   colle  più  venerate 
della  cristiana  religione  ci  palesano  i  costumi  di  quell'età 
corrotta  e  ad  un  tempo  superstiziosa,  ci  attesta  una  ricru- 
desccnza  del  paganesimo,  per  cui  gli  ingegni  nelle  arti  e 
nelle  pubbliche  rappresentazioni  fornicavano  con  le  idee 
mitologiche  anche  nei  soggetti  i  più  severi,  i  più  santi.  Ti 
risovvenga  come  sul  finire  del  secolo  decimoquinto  il  nudo 
abbondasse   sull'austera    maestà  delle  tombe,  e  fin  nelle 


—  i>S7  — 
cappelle  dei  pontefici;  ti  risovvenga  come  si  ponessero  I** 
tre  Gratis  ignudo  nella  sacrestia  dd  Duomo  di  Siena,  e 
poi  non  li  prenderà  meraviglia  leggendo  il  Terni  ove  sono 
minatamente  descritte  le  varie  rappresentazioni  eolle  quali 
i  nostri  padri  sbizzarrirono,  pompeggiando  in  larghezze, 
per  istituire  in  Crema  il  Monto  ili  Pietà  ^4).  Le  varie  offerte 
produssero  una  somma  di  dodici  milae  cento  ventidue  Uro, 
la  quale  aumentossi  Tanno  1505,  quando  ai  conforti  di 
frale  Giacomo  di  Padova,  del? Ordine  pure  dei  zocco- 
lanti, con  mille  belli'  rappresentazioni  si  fecero  molle 
altre  ricchissime  offerte11'.  Quindi  il  nostro  Monte  c!i  Pietà 
in  pochi  anni  fi  trovò  avere  trenta  mila  lire:  impinguò 
in  appresso  coi  beni  lasciatigli  da  Michele  Cerri  che  nomi- 
nola suo  erede  universale,  e  con  altri  moltissimi  legali  di 
benefattori. 

Merita  considerazione  la  copia  d'oro  che  i  Cremasela 
profusero  nel  corso  di  pochi  anni.  Nel  menlre  concorre- 
vano per  una  terza  parte  all'ingente  spesa  della  ricostru- 
zione delle  mura,  fondossi  nella  terra  nostra  il  magnifico 
tempio  di  S.  Maria  della  Croce  ed  il  Monte  di  Pietà,  e  quasi 
contemporaneamente  sorsero  in  Crema  altri  sontuosi  edi- 
fìci. Fu  ingrandita  la  piazza,  abbellendola  dell'arco  che  si 
chiama  volgarmente  Torrazzo,  il  quale  vuoisi  fosse  costrui- 
to (3)  sotto  la  direzione  del  famoso  architetto  Bramante.  E 
a  pochi  passi  della  piazza  Socino  Benzoni  innalzava  un 
palazzo;  un  altro,  Cristoforo  Benvenuti  nella  contrada  dei 
conti  di  Offanengo  ,4\  ed  un  altro  ancora  il  cavalier  Bario- 
lino  Terni   sull'area  dello  spianato  castello  d'Ombriano, 


(1)  Terni.  Storia  di  Crema. 
($)  Fino.  Storia  di  Crema. 

(3)  Raccheto.  Annotazioni  alia  Storia  dell'Alemanio  Fino. 

(4)  Questo  palazzo,  di  cui  accenna  il  Crescenzi  nel  Presidio  romano,  fu  in 
proprietà  della  famiglia  dello  scrittore  di  questa  storia  fino  al  1837,  in  cui 
venne  demolito.  Il  palazzo  eretto  da  Socino  Benzoni  é  ratinale  casa  Martini. 


—  288  — 
parte  della  quale  il  nostro  Comune  donò  a  quel  valoroso. 
Crema  adornavasi  a  un  tratto  di  palazzi,  di  tempi?,  di  mura 
robustissime,  di  pie  istituzioni:  e  i  forestieri  agognavano 
la  cittadinanza  cremasca  e  molti  venivano  a  domiciliarsi 
sul  nostro  suolo.  Fu  intorno  alla  metà  del  secolo  decimo- 
quinto che  si  piantarono  in  Crema  molte  cospicue  fami- 
glie,  i  Griffoni  venuti  dalla  Romagna,  i  Datlarini  prove- 
nienti dal  Napolitano,  i  Tadini  e  gli  Amani,  ambedue  pro- 
sapie bergamasche,  ed  un  ramo  dei  marchesi  Pallavicino 
di  Cremona,  ed  un  ramo  dei  Soardi  di  Bergamo,  e  i  Gui- 
doni venuti  da  Padova,  e  i  Figati  e  i  Cotta  da  Milano.  Ciò 
ti  porge  fortissimo  argomento  a  conghietturare  che  nei 
primi  cinquantanni  del  veneto  dominio  fosse  ben  prospe- 
rosa la  condizione  di  Crema.  Quantum  mutala  ab  Ma!! 
A' nostri  giorni  i  palazzi  vi  si  demoliscono,  tante  facoltose 
famiglie  vi  disertano,  e  la  popolazione  va  ognor  più  de- 
crescendo !! 

A  Carlo  Vili  era  successo  nel  trono  di  Francia  Lui- 
gi XII  (1498),  il  quale,  perchè  discendeva  da  Valentina 
Visconti,  smaniava  di  togliere  a  Lodovico  Sforza  il  ducato 
di  Milano.  I  Veneziani,  che  pochi  anni  prima  avevano  guer- 
reggiato Carlo  Vili,  sottoscrivono  nel  febbrajo  del  1449 
il  trattato  di  Blois  con  cui  riconoscono  i  vantati  diritti  di 
Luigi  XII  sul  Milanese,  si  obbligano  a  spalleggiarlo  con  1509 
cavalli  e  4000  pedoni  nella  conquista  del  ducato,  e  si  fanno 
promettere  in  ricambio  Cremona  e  la  Ghiara  d'Adda.  Con 
questo  trattato  Venezia  e  Luigi  XII  spartivansi  i  possedi- 
menti di  Lodovico  Sforza  innanzi  di  conquistarli,,  e  la  re- 
pubblica di  S.  Marco,  agognando  al  misero  acquisto  di 
Cremona  e  della  Ghiara  d'Adda,  si  rese  per  la  seconda 
volta  complice  di  un'invasione  francese  in  Italia. 

Nell'agosto  del  1499  le  truppe  venete,  di  conserva  con 
le  Francesi,  irrompono  nel  territorio  Milanese:  Socino  Ben- 
zoni,  condottiero  di  cavalleggeri  veneziani,  passa  l'Adda  a 


—  289  — 
guano  e  t'impadronisce  di  Lodi.-  Luigi  XII,  compiuta  io 
tenti  giorni  la  conquista  del  ducalo  di  Milano,  cede  alla 
repubblica  veneta  Cremona  e  la  Gbiara  d'Adda.  I  Veneziani, 
con  tali  acquisti  ampliati  i  loro  confini,  allargano  la  giuri- 
sdizione della  provincia  cremasca,  aggiùngendovi  Pandino 
e  la  parte  orientale  ilei  Lodigiano,  onde  i  Cremasela  man- 
darono Gottifredo  Alfieri  vicario  a  Dovcra. 

Da  quest'epoca  incomincia  ad  occupare  un  posto  impor- 
tante nella  storia  di  Crema  Socino  Benzoni.  Ricco  e  su- 
perbo patrizio,  peritissimo  nelle  armi,  militava  condottiero 
ili  cavalli  sotto  le  insegne  di  S.  Marco.  Pugnò  nella  balta- 
glia  del  Taro,  fu  mandato  dai  Veneziani  in  soccorso  di  Pisa 
guerreggiata  dai  Fiorentini,  e  nel  1 499  guazzò,  come  di- 
cemmo, il  fiume  Adda  ed  imposscssossi  di  Lodi.  L'an- 
no 1500  Socino,  trovandosi  colla  sua  compagnia  di  caval- 
leggeri  a  Piacenza,  vi  fece  prigioniero  il  cardinale  Ascanio 
Sforza,  vescovo  di  Cremona,  che  vi  si  era  rifugiato  abban- 
donando Milano  dopo  che  il  fratel  suo  Lodovico  il  Moro 
cadde  in  potere  dei  Francesi.  Con  Ascanio  erano  molti  no- 
bili milanesi  delle  più  cospicue  famiglie  ghibelline,  e  non 
pochi  prelati  del  corteggio  del  cardinale  medesimo:  traditi 
da  Corrado  Landi,  che  gli  aveva  ospitati  in  un  suo  castello, 
caddero  tutti  nelle  mani  di  Socino  Benzoni  che  tanti  illu- 
stri prigionieri  ricevette  dal  Landi  in  consegna  a  nome  del 
re  di  Francia.  Socino  menò  i  prigionieri  a  Crema,  ove  il 
cardinale  Ascanio  fu  chiuso  nel  palazzo  di  Ottaviano  Vi- 
mercati,  gli  altri  in  castello.  Il  Benzoni  ricevette  da  Vene- 
zia una  lettera  ducale  con  cui  gli  si  inculcava  di  tenere 
ben  guardato  il  cardinale  siccome  prigioniero  d'altissima 
importanza.  L'abate  Gioan  Antonio  Terni  si  adoperò  in 
quell'occasione  per  sovvenire  di  danaro  e  di  biancherie  il 
cardinale  (di  cui  egli  era  vicario  in  Crema),  ed  offrì  a  Soci- 
no venticinque  mila  ducati ,  purché  lasciasse  fuggire  gli 
altri  prigionieri  :  ma  il  Benzone,  sperandone  maggior  te- 


—  290  — 
glia,  non  volle  fai'  nulla  (*).  Avendo  il  cardinal  Ascanio 
ricusate  le  generose  offerte  del  suo  vicario,  questi  impiegò 
trecento  ducali  nel  fornir  d'abili  gli  altri  prigionieri,  i  quali 
si  trovavano  assai  male  in  arnese,  essendo  stati  derubati 
d'ogni  cosa  quando  fuggirono  da  Milano  :  v'eran  fra  gli  al- 
tri dei  vescovi  senza  cappa  ed  in  farsetto  (2) . 

I  prigionieri  dimorarono  in  Crema  breve  tempo:  si  ordinò 
a  Socino  Benzoni  di  condurli  a  Venezia,  ove  appena  ar- 
rivali, l'ambasciatore  francese  domandò  al  senato  che  a 
lui  si  consegnasse  il  cardinale  Ascanio,  mostrando  lo  scritto 
con  cui  Socino,  quando  lo  catturò  a  Piacenza,  dichiarò  di 
farlo  prigioniero  a  nome  del  re  di  Francia.  L'ambasciatore 
francese  avendo  usato  nella  sua  inchiesta  parole  superbe 
e  minacciose,  la  repubblica  cedettegli  non  soltanto  il  car- 
dinale, ma  tutti  gli  altri  prigionieri:  ed  a  Socino  Benzoni 
diede  nuove  dimostrazioni  di  fiducia,  aggiungendo  cento 
lancio  ai  cento  cavalleggeri  di  cui  era  condottiero. 

Fin  qui  Socino  Benzoni  avca  menata  una  vita  splendida 
e  avventurosa:  a  lui  cospicui  gradi  nella  milizia,  a  lui  for- 
tunati successi  e  fama  di  valoroso  nelle  battaglie,  a  lui  co- 
pia di  ricchezze  avite  e  chiarissimi  natali.  Ma  la  capric- 
ciosa fortuna  non  indugiò  a  farglisi  avversa.  L'anno  1504 
venne  a  Crema  podestà  Gian  Paolo  Gradenigo ,  uom  su- 
perbo, vendicativo  e  nimicissimo  del  Benzoni  per  acerbe 
parole  che  Socino  e  il  Gradenigo  si  palleggiarono  a  Pisa, 
quando  trovaronsi  in  quella  città ,  l'uno  qual  duce  di  ca- 
valleggeri, l'altro  qual  provveditore  delle  milizie  veneziane. 
Ambidue  eran  gentiluomini  temperati  con  lo  stile  di  quei 
tempi,  non  dimenticavano,  non  perdonavano  un  accento, 
un  atto  che  sapesse  d'oltraggio.  Quindi  il  Gradenigo,  tro- 
vandosi a  Crema  podestà,  si  valse  dell'occasione  che  sog- 


(1)  Alemanio  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  P.  Term.  Storia  di  Crema. 


—  991  — 
giornava  puro  a  Crema  Socino  co* suoi  Boldati,  ondo  isfo 
pire  contro  di  lui  il  veleno  dell'ira  non  ancora  sbollila, 
d'un;!  vendetta  lungamente  anelata.  Cominciò  col  sindar 
carne  severamente  il  contegno,  col  circondarsi  de1  suoi  ne- 
mici, che  molti  no  aveva  a  Crema  il  Benzoni,  particolar- 
mente fra  i  nobili,  fosse  che  l'invidiassero  perchè  riputalo 
e  potente,  fosso  che  l'avessero  in  abbominio  perchè  orgo- 
glioso e  prepotente.  Né  mancarono  appigli  ai  nomici  del 
Benzoni  da  involgerlo  in  un  processo  criminale.  Il  Grade- 
nigo  accusò  segretamente  Socino  divari  misfatti,  ed  il  Con- 
cilio dei  Dieci  mandò  a  Crema  un  suo  segretario,  Viccnzo 
Guidetto,  acciocché  col  più  profondo  mistero  istituisse  un 
processo  sulla  condotta  del  Benzoni.  La  comparsa  d'un  se- 
gretario del  Concilio  dei  Dieci,  non  conoscendosene  il  mo- 
tivo, avea  scompigliati  di  meraviglia  e  di  terrore  gli  animi 
dei  Cremaschi.  Come  il  Guidetto  ebbe  compito  il  suo  tene- 
broso processo,  la  Signoria  scrisse  a  Crema  una  lettera  con 
la  quale  chiamavansi  a  Venezia  Socino  Benzoni  e  Lodovico 
Vimcrcati,  e  nella  lettera  dicevasi,  per  cose  importantissime 
allo  Stalo.  Con  Socino  chiamossi  il  Vimercati,  perchè  es- 
sendo egli  condottiero  di  cinquant' uomini  d'armi,  il  Ben- 
zoni credesse  che  si  trattasse  d'affari  di  guerra,  e  non  en- 
trasse in  sospetto  del  vero  motivo  per  cui  lo  si  tirava  a 
Venezia.  Arrivatovi,  Socino  venne  tosto  cacciato  in  carcere, 
indi  gli  si  lessero  i  punti  d'accusa  risultanti  dal  processo 
contro  lui  compilato.  Lo  s'incolpava  di  commessi  omicidi, 
di  abuso  di  potere,  e  sopralutto  di  un  atto  di  sovranità  da 
lui  esercitato  ne'  suoi  poderi,  per  avervi  fatto  piantar  delle 
forche  sopra  un'alta  catasta  di  legna.  Socino  Benzoni  non 
seppe,  o  come  apparisce  dal  Terni,  non  potè  difendersi 
dalle  colpe  che  gli  si  adossavano:  se  per  lui  non  interce- 
devano presso  il  Concilio  dei  Dieci  i  parenti  di  sua  mo- 
glie, ch'era  dei  Martinengo  di  Brescia,  correva  pericolo  d'es- 
sere condannato  nel  capo.  Venne  invece  pronunciata  sen~ 


—  292  — 
lenza  che  lasciava  in  arbitrio  di  Socino  medesimo  la  scella 
della  pena  fra  queste  tre:  o  cinque  anni  di  carcere,  o  dieci 
di  confine  a  Candia,  o  quindici  pure  di  confine  a  Padova. 
Preferita  quest'ultima,  Socino  portossi  con  la  sua  famiglia 
a  Padova.  I  sopraggiunti  avvenimenti  politici  diminuirono 
poi  al  Benzoni  la  durata  della  pena,  essendone  stato  assolto 
Fanno  1509,  allorché  la  famosissima  lega  di  Cambrai  mi- 
nacciò d'eccidio  la  veneta  repubblica. 

Ci  è  mestieri  discorrere  un  po'  diffusamente  di  questa 
lega,  perochè  forma  un'epoca  di  circa  otto  anni,  calamitosa 
per  la  città  nostra,  feconda  nella  storia  italiana  di  tristis- 
simi e  importanti  avvenimenti. 


993 


DOCUMENTI. 


Documento.   A 

Capitoli  in  Adoptione  Domi m 'j  V.  li. 

*  Venendo  all'obbedienza  e  divozione  della  Repubblica  Veneta  li 

■  huomini  di  Crema,  et  promettendo  di  dare  la  terra  alla  sudettaEe- 
»  pubblica,  sono  stati  dimandati  l'infrascritti  privilegi!  et  capitoli,  so- 

■  pra  i  quali  è  stato  risposto  come  segue: 

»  I.  Che  tutti  gli  habitanti  in  Crema  sieno  salvi  et  illesi  negli  averi 

-  e  nelle  persone,  nonostante  alcune  vendite,  donationi,  alienationi , 

-  e  altra  translatione  fatta  a  pregiudizio   di  essi,  ne  etiandio  alcuno 

-  ordine  o  preseritione ,  ovvero  altra  cosa  in  contrario.  —  Tutto  ciò  li 
••  vion  eoi: cesso. 

»  II.  Che  tutti  li  delitti  commessi  per  qualsivoglia  persona  di  Crema 
»  o  suo  territorio  da  qui  indietro  sieno  perdonati  et  absolti. —  Si  con- 
é  cede  come  dimandano. 

n  III.  Che  per  qualsivoglia  danno,  demolizione  di  chiese,  case,  fatte 
»  dal  giorno  presente  in  dietro  non  puossa  essere  convenuta  la  Com- 
»  munita  né  altra  persona.  —  Si  conceda  come  dimandano. 

a  IV.  Che  ogni  persona  della  terra  et  suo  distretto  forastieri  e  sol- 
n  dati  habitanti  in  essa  debbano  essere  salvi  nelli  baveri,  et  volendo 
»  partire,  loro  sia  concesso  salvacondotto.  —  Se  li  concede  anche  que- 
r  sto,  riservatili  ribelli,  quali  doveranno  in  termine  di  giorni  quindici 
n  partir  dalla  terra ,  li  altri  poi  volendo  partire  li  sia  termine  un  mese, 
n  eccettuato  il  commissario  et  referendario ,  de'  quali  si  dirà  più  abasso. 

<•  V.  Che  gli  Ebrei  habitanti  in  Crema  siano  salvi  nelle  persone,  e 

*  per  li  pegni  che  riavessero  appresso  loro,  et  sieno  trattati  come  li 
n  cittadini  di  Crema.  —  Se  li  concede  questo  quinto  Capitolo  con  la 
»  condizione  più  abasso  notata. 

r>  VI.  La  sale  che  si  venderà  in  Crema  sia  venduta  a  quel  prezzo  si 

*  venderà  negli  altri  luoghi  della  Serenissima  Repubblica.  —  Nel  fatto 
n  del  sale  saranno  trattati  li  Cremaschi  conforme  li  Bergamaschi. 


-  294.  — 

»  VII.  Che  tutti  gli  habitanti  in  Crema  e  suo  Distretto  sieno  esenti 
»  dall' Imbotadi  di  biade,  vino,  fieno  per  anni  venti  avvenire,  et  in 
»  perpetuo  sieno  esenti  di  taglie,  prestiti,  sussidj,  imposizioni,  angarie 
ned'  ogni  altro  aggravio  reale  e  personale.  —  Questo  fu  rimesso  alla 
»  benignità  della  Serenissima  Repubblica. 

»  Vili.  La  Roggia  Comune ,  con  tutte  le  sue  ragioni  di  acque,  fon- 
»  tanili,  siano  con  piena  ragione  et  in  perpetuo  degli  uomini  di  Crema. 
n  —  Se  li  concede  cimi  onere  et  honore. 

»  IX.  Che  per  li  ruolini,  folle,  reseghe  goduti  dalla  Comunità  per 
n  il  passato,  non  puossa  la  Comunità  essere  astretta  ad  alcun  paga- 
»  mento  d'affìtto,  nemeno  per  case  de' rettori,  soldati,  et  officiali.  — 
n  Ciò  tutto  si  concede  per  il  passato,  purché  non  sia  di  pregiudizio  per 
«  l'avvenire,  et  circa  alle  case  dei  rectori  ed  officiali  della  Repubblica, 
n  si  proceda  dalla  Comunità  conforme  è  decente:  così  anche  per  li  sol- 
»  dati  che  di  tempo  in  tempo  si  manderanno  per  custodia  di  quella  terra. 

n  X.  Che  sia  reintegrata  la  giurisdizione  di  Crema  sottoponendole 
»  tutti  quei  luoghi  che  li  sono  stati  sottoposti  l'anno  1403  indietro. — 
n  II  che  fu  concesso. 

»  XI.  Non  habbino  luogo  in  Crema  li  datii  della  macina  del  Panno- 
»  lino  e  delli  capicij.  —  Li  vien  concesso  di  godere  in  ciò  quello  go- 
n  devano  sotto  la  Repubblica  Milanese. 

r>  XII.  Che  siano  pagati  dal  principe  li  castellani,  portinari,  pode- 
»  sta,  guardadori  del  campanile,  servitori,  massaroli,  trombetti  della 
n  Comunità,  et  il  capcllano  solito,  et  il  principe  manterrà  li  ponti  di 
»  Crema  et  circa  di  essa.  —  Li  fu  risposto  che  li  castellani ,  portinari , 
»  et  tutti  gli  offiziaìi  et  guardador  del  campanile  che  saranno  eletti 
t>  dal  principe,  dal  medesimo  anche  saran  pagati ,  et  del  capellano  non 
»  si  parli,  et  per  le  spese  dei  ponti  si  osservi  quello  che  perii  passato 
r>  si  è  fatto. 

n  XIII.  La  Comunità  di  Crema  né  alcuno  particolare  puossa  essere 
»  molestato  per  debiti  avesse  contratto  con  la  Camera  Fiscale  da  qui 
»  in  dietro.  —  Li  vien  concesso. 

iì  XIV.  Che  tutte  le  esenzioni  concesse  a  chisisia  in  pregiudizio  della 
»  Commuta  sieno  nulle,  e  per  l'avvenire  non  sene  faccia,  et  caso  che 
»  il  principe  ne  facesse,  sia  tenuto  reintegrare  il  danno  della  Comunità. 
»  Così  se  il  medesimo  confiscasse  o  per  qualsivoglia  modo  apprendesse 
r>  beni  in  Cremasca,  quelli  sieno  tenuti  agli  aggravj  della  Comunità.— 
»  Il  che  li  vien  concesso. 

»  XV.  Non  puossa  la  Comunità  et  huomini  di  Crema  essere  costretta 
r>  a  dare  ai  soldati  masserizie  di  casa,  strame,  legne,  ovvero  danaro  al - 
n  cuno. —  Il  che  se  li  concede,  massime  ciò  non  praticandosi  in  luoco 
n  alcuno  della  Repubblica. 


—  398  — 

-  XVI.  Li  offisij  soliti  dispensarsi  dal  Consiglio  di  Cremi  perii 

■  sut<>,  iiano  anche  dal  moderno  per  l'avvenire  dispensati.    -  Si  con 

-  cede  con  che  si  faccia  alla  presenza  del  Rettore  che  per  tempo  .sarà. 
n  XVII.  Le  sentenze,  condanne,  confiacazioni  che  si  faranno  in 

-  Crema  si  faccino  in  conformità  delli  statuti  «li  essa.     Si-  li  concede 

■  ili  praticar  il  consueto]  et  circa  li  Statuti  et  provvisione  ae  li  promette 
r  intiera  esecuzione. 

■  XVIII.  Puoeaa  in  caso  di  bisogno  la  Comunità  metter  addizioni 

-  som-a  dazi  et  pedaggi.       Li  vien  concesso. 

n  XIX.  Che  li  saldati  che  saranno  alla  guardia  di  Crema  o  suo  ter- 
n  ritorio  debbano  vivere  del  proprio,  et  non  a  spese  degli  uomini  di 

-  Crema.  —  Se  li  concede  tutto  ciò,  essendo  mente  del  principe  che  li 

-  suoi  stipendiati  vivine  delle  loro  paghe  et  non  di  quello  dei  sudditi. 
r  XX.  Che  si  puossa  ammazzare  dagli  uomini  di  Crema  et  suo  Di- 

-  stretto  qualsivoglia  bestia  et  dividerla  in  quarto  senza  pagamento  di 
r  dazio  d'alcuna  serre.  —  11  che  li  si  concede. 

■  XXI.  Non  sia  tenuta  la  Comunità  alla  refazione  delle  mura,  nò  u 

*  fare  altra  fortificazione  alla  terra. —  Le  mura  rovinate  dall'esercito 
»  veneziano  siano  rifatte  a  spese  della  Repubblica,  circa  poi  all'avve- 
ri sire  resti  l'arbitrio  alla  medesima. 

r>  XXII.  Li  beneficj  ecclesiastici  non  siano  dati  a  forastieri ,  ina  a 
»  soli  Cremaschi,  et  caso  fossero  dati  a  forastieri,  siano  questi  tenuti 
«  habitare  in  Crema  et  suo  territorio.-»- Li  si  concede  anche  questo,  ri- 
r  servati  però  da  questo  li  nobili  et  cittadini  veneziani. 

n  XXIII.  Le  mercanzie  che  saranno  condotte  in  Crema  da  altra 
r  parte  che  dal  Distretto  paghino  quello  che  pagano  quelle  di  Lodi,  e 
n  l' istesso  ancora  paghino  quelle  che  si  caveranno  da  Crema.  —  Li  fu 
fi  risposto  dovesse  in  ciò  eseguirsi  quello  che  si  era  praticato  per  il  pas- 
»  sato  essendo  clie  il  principe  si  haveva  adossato  l'obbligo  di  pagar  li 
n  castellani  et  altri  officiali. 

n  XXIV.  Si  puossa  dagli  uomini  cremaschi  estraere  biade  e  vini 
r  dalle  terre  del  Serenissimo  Dominio  senza  divieto  alcuno  o  datio  per 

*  il  vivere  loro.  —  Se  li  concede  per  due  anni,  dovendo  sperare  d'es- 

*  sere  sempre  dal  principe  bene  trattati. 

»  XXV.  Presti  il  principe  alla  Comunità  some  due  milla  furmento 
h  per  seminare  con  obbligo  di  restitutione.  —  Se  li  promette  some  mille 
»  in  Brescia,  con  obbligo  alla  Comunità  di  condurle  in  qua  a  sue  spese, 
r-  dovendo  sperare  nel  resto  nella  benignità  del  principe. 

n  XXVI.  Che  li  Cremaschi  sieno  trattati  come  li  Bresciani  circa  alle 
»  mercanzie  che  levano  da  Venezia,  ovvero  in  quella  città  conducono. — 
n  Se  li  concede  quello  che  dimandano ,  et  saranno  trattati  come  citta- 
«  dini  veneziani. 


—  296  — 

»  XXVII.  Che  Stefano  da  Vicenza  habitante  in  Crema,  bandito  per 
»  homicidio  dalla  sua  patria ,  sia  liberato  dal  bando,  massime  havendo 
»  la  pace.  —  Havendo  la  Repubblica  uso  in  contrario ,  nega  assoluta- 
ci mente  questo  Capitolo.  Volendo  in  ogni  tempo  e  luogo  servare  la 
»  debita  giustizia,  puossa  ben  detto  Stefano  abitare  in  Crema. 

»  XXVIII.  Puossa  cadaun  Cremasco  andar  ad  habitare  in  altri  pae- 
»  si ,  non  però  inimici ,  con  il  condurre  senza  datio  o  pedaggio  tutte  le 
»  sue  robbe,  et  puossa,  benché  assente,  godere  et  alienare  li  beni  ha- 
»  vesse  in  Crema  o  territorio.  —  Se  li  concede  il  tutto,  purché  vadano 
»  con  licenza  del  rettore  che  sarà  per  tempo ,  et  che  il  commissario  et 
»  referendario  debbano  avanti  al  partire  pagare  tutti  li  loro  debiti,  et 
»  satisfare  quelli  a  quali  avessero  rotti  li  salvacondotti,  et  il  restante 
»  sia  in  arbitrio  del  Magnifico  Sigismondo  (Malatesta)  et  Provveditore, 
»  et  li  Hebrei  paghino  le  spese  dei  presenti  Capitoli  et  de  trombetti. 

»  XXIX.  Che  li  Capitoli  che  saranno  concessi  dalla  Serenissima 
»  Signoria  debbano  essere  posti  in  autentica  forma  et  sigillati. —  Il  che 
»  si  concede  ». 

Uanno  1450  si  aggiùngono  novi  Capitoli. 

«  I.  Che  sia  concessa  alla  Comunità  di  Crema  un  Collegio  di  Giu- 
»  risti  conforme  agli  altri  luoghi  del  serenissimo  dominio. —  Si  concede. 

n  II.  Che  le  cause  civili,  sì  in  prima  istanza  che  in  apellazione  ed 
«  in  elezione  di  giudice  confidente,  si  pratichi  quello  che  si  fa  in  Brescia. 
»  —  Si  concede. 

r>  III.  Che  li  huomini  di  Crema  puossano  a  loro  spese  cavare  un  ca  - 
»  naie  d'acqua  dal  fiume  Oglio  per  servizio  delle  loro  terre.  —  Se  li 
»  concede  quanto  dimandano,  purché  non  sia  in  pregiudizio  d'alcuno. 

r>  IV.  Sia  concesso  alla  Comunità  di  fare  ogni  anno  otto  giorni  di 
r,  fiera,  quattro  avanti  S.  Michele  et  quattro  dopo,  che  sia  libera  ed 
»  esente  d'ogni  datio  e  pedaggio.  —  Se  li  concede,  purché  si  faccia 
n  fuori  di  Crema. 

n  V.  Che  non  sia  corsa  alcuna  prescrizion  di  tempo  a  quelli  Crema- 
»  schi  absenti  per  esilio  o  altra  causa  dall'anno  1400  in  qua.  —  Il  che 
«  si  concede  »  (1). 


(1)  Qjrsti  e  i  primi  ventinove  capitoli  furono  tolti  dal  Registro  primo  delle 
islenti  nella  Cancelleria  della  città  di  Crema. 


—  997  — 

Dori  MINIO     />'. 

Ducale  con  citi  t* erìge  Crema  in  città.  1  U50,  Sfebbrato  in  Pregadi. 

«  Cam  fedelissima  Comunità*  nostra  Cremaa  per  ejua  oratorem  cum 
-  multa  inatantia  Nobis  fecerit  supplicare  quod  dignaremur  intercedere 

■  et  instare  ;ì pml  Summum  Pontificem  ut  illa  terra  creareturper  ejua 
p  Banctitatem  et  efficeretur  civitas  et  episcopali  dignitate  decoraretur, 

■  Noaque,  per  quantum  ad  temporale  Bpectat,  idem  faceremua  et  in 
r  temporalibus  civitatemeonstitueremus,  faciatqne  prò  Nobis  in  rcista 
»  Communitati  predictaa  oomplacere. 

»  Vadit  pars,  quod  per  quantum  ad  temporale  spoetai  et  perquan- 
«  timi  est  arbitrii  et  fori  Nostri,  Terra praedicta  creeturet  fiat  civitas, 
r  quodeatque  jurisdietionibus  et  privilegiis  quibus  gaudent  et  de  jure 
"  gaudere  debent  alue  civitates,  fiantque  et  formentur  circa  hoc  scri- 
v  pturse  et  privilegia  opportuna,  et  observentur  debita}  et  convenientes 
»  solemnitates. 

»  Et  hoc  idem  permittatur  instandum  et  procurandum  apud  Summ. 
*  Pont.  Oratori  Nostro  in  Curain  profecturo. 

»  HlEllONYMUS  Pulverinus,  Due.  Not.  r. 

Documento  C. 

Nell'Archivio  della  nobile  Casa  Tensini  di  Crema  trovammo  un 
brano  di  predica  che  il  beato  Bernardino  da  Feltre  recitò  in  Crema  , 
brano  che  dicesi  tolto  dal  Capitolo  XV  della  Vita  del  beato  Bernar- 
dino. Noi  abbiamo  voluto  collocare  questo  brano  di  predica  fra  i  docu- 
menti, perch'esso  ci  rivela  iu  poche  parole  ad  evidenza  le  dottrine  che 
il  beato  Bernardino  spargeva  nei  popoli  sul  modo  con  cui  voleva  si 
trattassero  gli  Ebrei.  Le  parole  sono  le  seguenti: 

u  Io  però,  se  degli  Ebrei  devo  parlare,  dirò  quel  che  dico  in  tutte 
»  le  altre  città ,  che  per  quanto  ciascuno  ha  cura  dell'anima  sua,  niuno 
a  debba  offendere  alcun  Ebreo,  o  nella  persona  o  nelle  facoltà  o  in 
»  qualunque  altro  modo  :  poiché  anche  i  Giudei  debbono  essere  trattati 
»  con  giustizia,  con  cristiana  pietà  et  amorevolezza,  essendo  ancor  essi 
«  della  nostra  natura  et  humanità  :  quia  oportet  eos  prò  sola  humani- 
»  tate  f or  eri.  Così  ho  sempre  detto  in  ogni  città;  così  anche  dico  in 
»  Crema  e  prego  e  supplico  d'essere  esaudito,  perchè  così  si  conviene. 
*  così  comandano  i  sonimi  pontefici,  così  richiede  la  cristiana  carità. 

20 


—  298  — 

Ma  è  pur  vero  che  le  leggi  canoniche  espressamente  proibiscono  l'as- 
sidua domestichezza  e  famigliarità  con  gli  Ebrei,  il  farsi  medicare  da 
loro,  l'andare  ai  loro  conviti:  eppure  qui  in  Crema  Leone  Ebreo  ha 
tenuto  corte  bandita  otto  giorni  continui  per  le  nozze  di  suo  figliuolo, 
e  tanti  e  tanti  sono  stati  a'  suoi  conviti ,  alle  sue  feste ,  a'  suoi  balli , 
a'  suoi  giuochi  :  e  ognuno  oggi  liberamente  nelle  sue  infermità  si  serve 
di  medici  ebrei:  come  posso  io  tacere  e  passar  sotto  silenzio  queste 
cose?  come  posso  essere  predicatore  di  verità  e  dissimulare  quelle 
offese  di  Dio  e  delle  leggi  canoniche  ?  Le  usure  degli  Ebrei  non  solo 
non  son  moderate,  ma  tanto  eccessive  si  veggono,  che  svenano  e 
smidollano  i  poverelli  :  ed  io  che  vivo  di  limosina ,  e  mangio  il  pane 
de'  poveri;  sarò  un  muto  cane  in  questo  luogo  di  verità?  Latrano  i 
cani  per  quelli  che  li  pascono,  et  io  pasciuto  dai  poveri  vedrò  depre- 
dare le  loro  sostanze  e  ammutirò?  Latrano  i  cani  per  i  loro  padroni, 
ed  io  non  debbo  latrare  per  Cristo?  Dico  et  debbo  dire  che  tu  av- 
verta, o  Crema,  agli  obblighi  che  t' impongono  i  Sommi  Pontefici * 


-  399  - 


CAPITOLO    DECIMO 

CREMA    CADUTA    IN    POTERE    M    LUIGI    XII    RE    I)!    FRANCIA 
POI   RIACQUISTATA    DAI    VENEZIANI. 


SOMMARIO. 


Scopo  della  lega  di  Cambra!.  —  Potenza  dei  Veneziani  sul  principiare  del 
secolo  decimosesto.  —  Come  nel  trattato  di  Cambrai  gli  alleati  si  spartissero 
i  possedimenti  della  veneta  repubblica,  ed  a  qual  monarca  venisse  Crema 
assegnata.  —  La  repubblica  veneta  provvede  alla  difesa  de'  suoi  Stati.  — 
A'ien  condonata  la  pena  del  bando  a  Socino  Benzoni ,  e  mandalo  a  Crema 
condottiero  di  fanti  e  con  incarico  di  stipendiar  gente  d'armi. —  Preparativi 
di  difesa  che  si  fanno  a  Crema.  —  Nicolò  Orsini,  conte  di  Pitigliano,  e  Bar- 
tolomeo Alviano  degli  Orsini,  nominati  entrambi  generali  supremi  dell'e- 
sercito veneziano.  —  Con  quale  pretesto  il  redi  Francia  cercò  di  legittimare 
la  sua  improvvisa  Inimicizia  contro  AVnezia.  —  Discrepanza  fra  i  due  generali 
dell'esercito  veneto  sul  piano  di  guerra  da  adottarsi.  —  I  Francesi  attaccano 
le  truppe  veneziane:  interdetto  che  Giulio  II  scagliò  contro  Venezia.  —  Bat- 
taglia d'Agnadello,  detta  anche  di  Vallate ,  e  piena  rotta  dell' esercito  vene- 
ziano. —  Funeste  conseguenze:  sgomento  dei  Cremaschi.  —  Un  araldo  del 
re  di  Francia  viene  ad  in  limare  ai  Cremaschi  d'  arrendersi  a  Lodovico  XII.  — 
In  Crema  radunasi  il  consiglio  generale  dei  cittadini  per  deliberare  se  o  no 
debbasi  ceder  la  ciltà  nostra  ai  Francesi.  —  Discussioni  nel  Consiglio  che 
sciogliesi  senza  aver  nulla  deliberalo.  —  Come  Socino  Benzoni  inducesse  i 
suoi  concittadini  ad  arrendersi  al  re  Lodovico  XII,  e  mettesse  la  terra  nostra 
in  possesso  dei  Francesi.  —  Il  re  di  Francia  conferma  i  capitoli  che  i  Cre- 
maschi gli  propongono  nella  loro  dedizione.  —  Quadro  bellissimo  del  Civer- 
chio  derubato  al  Comune  di  Crema  e  spedito  in  Francia.  —  Soggiorno  di 
Lodovico  XII  in  Crema.  —  Scoppiano  nella  città  nostra  discordie  fra  guelfi 
e  ghibellini:  i  ghibellini-, •  protetti  dal  governo  francese,  hanno  la  preva- 
lenza. —  Monsignor  di  Durazzo ,  governatore  francese  in  Crema ,  ordina  la 
consegna  delle  armi.  —  Bernardino  Bonzi,  barcajuolo,  vien  preso.,  pco£e&- 


—  300  — 

salo  e  squartato  perchè  trasportava  nella  sua  barca  delle  armi  da  Milano  a 
Venezia.  —  Savia  politica  dei  Veneziani  durante  l'occupazione  francese  nei 
loro  Stati.  —  Le  sorti  della  veneta  repubblica  incominciano  a  rialzarsi.  — 
Giulio  li  leva  l'interdetto  a  Venezia  e  si  stacca  dall'alleanza  francese.  — 
Socino  Benzoni,  che  militava  sotto  le  insegne  del  re  di  Francia . ,  vien  preso 
dagli  stradiotti  ,  e  decapitato  a  Padova  come  ribelle  della  repubblica.  —  Ca- 
rattere di  Socino  Benzoni.  —  Lodovico  XII,  re  di  Francia,  divien  segno  all'  ira 
di  Giulio  II.  —  Brescia,  Bergamo  ed  altre  terre  rialzano  il  vessillo  di  s.  Marco. 
—  A  Crema  il  castellano  dei  Francesi  teme  di  una  sommossa  ,  e  condanna 
al  bando  duecento  guelfi.  —  Sacco  di  Brescia  e  battaglia  di  Baverina.—  Smem- 
bramento dell'esercito  francese  in  Italia.  —  Crema  ed  altri  luoghi  fortificati, 
rimangono  i  soli  in  Lombardia  in  potere  del  re  di  Francia.  —  Benedetto 
Crivelli  e  Girolamo  da  Napoli,  capitani,  vengono  in  ajuto  dei  Francesi  a 
presidiar  Crema  con  seicento  e  più  fanti,  e  quattro  pezzi  d'artiglieria.  — 
Tentativo  di  sommossa  in  Crema  che  andò  fallito.  —  Penuria  di  viveri  nella 
città  nostra;  come  barbaramente  il  governatore  francese  cercò  di  ripararvi.— 
Quanto  a  difesa  de'  suoi  concittadini  si  adoperasse  Filippo  Clavelli.  —  I  Cre- 
maschi ,  essendo  stati  espulsi  da  Crema,  si  apparecchiano  a  stringere  la  citta 
loro  d'assedio  onde  potervi  rientrare.  —  Benzo  Ceri ,  valoroso  capitano,  vien 
mandato  dalla  repubblica  veneta  in  soccorso  dei  Cremaschi.  —  Il  governa- 
tore francese  trovasi  in  Crema  ridotto  a  durissime  strettezze  per  mancanza 
di  viveri.  —  Guido  Pace  Bernardi,  pessimo  cittadino,  consiglia  il  governa- 
tore francese  a  resistere  ad  ogni  costo.  —  Benedetto  Crivelli  uccide  Gerolamo 
da  Napoli  per  fare  egli  solo  un  vantaggioso  traffico  della  dedizione  di  Crema; 
come  entrasse  in  trattative  per  la  cessione  di  Crema  prima  con  Benzo  Ceri, 
poi  col  duca  di  Milano,  e  la  cedesse  poi  a  Renzo  Ceri  condottiero  della  re- 
pubblica veneta.  —  Patti  della  dedizione.  —  In  qual  modo  Guido  Pace  Ber- 
nardi siasi  sottratto  alla  vendetta  dei  Cremaschi. 

Correva  il  dicembre  dell'anno  1508.  Rappresentanti  delle 
corti  di  Francia  e  di  Germania  erano  congregati  a  Cam- 
brai,  e  credeasi  per  runico  oggetto  di  pacificare  i  Paesi 
Bassi  air  Imperatore  Massimiliano;  quando,  ai  dieci  del 
mese  leste  indicato,  oltre  un  trattato  risguardante  la  pace 
col  duca  di  Gheldria,  un  altro  segretamente  ne  stipularono. 
E  di  molto  maggiore  importanza,  perocché  con  questo  or- 
di  vasi  una  lega  europea  allo  scopo  d'annientare  la  veneta 
repubblica,  di  ridurre  Venezia ,  come  disse  il  maresciallo 
Chaumont,  a  non  occuparsi  che  della  pesca.  Vero  è  che 
al  trattalo  di  Cambiai  del  dicembre   1508  non  interven- 


—  301  — 
nero  che  idue  plenipotenziari  di  Francia  e  d'Austria:  que- 
sii  pere  si  tenevano  sicuri  della  ratiGca  degli  altri  principi, 
la  *i uaU*  infatti  segui  pochi  mesi  dopo.  Il  progetto  di  una 
coalizzaiìone  delle  poterne  europee  ondo  abbattere  Vene- 
zia fu  proposto  dal  pontefice  Giulio  li  Gn  dui  1504 ('^ :  e 
s'erano  già  in  proposito  fra  di  loro  accordati  Luigi  XII  re 
di  Francia,  e  Ferdinando  il  Cattolico  re  di  Spagna,  nell'ab- 
boccamento di  Savona.  Altre  volle  si  erano  vedute  confede- 
razioni di  monarchi  europei  quando  zelo  ed  entusiasmo  di 
religione  spinsero  la  cristianità  alle  crociate;  ma  per  interessi 
politici,  per  disfare  uno  Slato  indipendente,  è  questo  nell'i- 
storia il  primo  esempio.  Quali  cause  inimicavano  a  Vene- 
zia tutte  le  principali  Corti  d'Europa?  La  grandezza  cui 
era  salila  in  mcn  d'un  secolo,  gli  acquisti  dilatati  in  terra 
ferma  a  pregiudizio  degli  altrui  diritti  o  pretese,  l'ingerenza 
non  poca  ch'esercitava  in  Italia  ed  altrove,  con  la  pro- 
sperila del  commercio,  la  copia  delle  ricchezze,  l'accorgi- 
mento della  sua  temuta  aristocrazia.  Queste  erano  le  colpe 
di  Venezia.  Il  suo  alato  leone,  spinto  da  un'ambiziosa  po- 
litica, avea  spiegato  voli  ardimentosi  e  fortunati:  quindi 
mal  tollerandone  il  terribile  ruggito,  monarchi  che  sma- 
niavano di  dominare  in  Italia,  deliberarono  d'ucciderlo.  Se 
poi  aggiungete  che  gli  alleati  volevano  arricchire  colle  spo- 
glie della  repubblica,  e  si  erano  già  intesi  fra  di  loro  sul 
modo  di  spartirsela,  non  vi  sembrerà  più  strano  che  Fran- 
cia, Spagna,  Germania  e  Roma  cospirassero  insieme  per 
distruggere  la  potenza  dei  Veneziani.  Prima  d'indicarvi 
quali  provincie  possedute  dalla  veneta  repubblica  il  trat- 
tato di  Cambrai  assegnasse  con  progetto  divisionale  a  cia- 
scuno degli  alleati,  ci  è  necessario  toccare  della  grandezza 
veneziana  all'epoca  in  cui  per  disfarla  si  disponevano  l'ire 
di  re  stranieri  e  le  folgori  papali. 

(I)  LùiGH.  Codex  Diplomaticus. 


—  502  — 
Venezia  avea  nel  1500  ampliati  in  Lombardia  i  suoi  do- 
minj,  coll'acquisto  di  Cremona  e  della  Gera  d'Adda  ce- 
dutale da  Luigi  XII,  allora  di  lei  alleato:  possedeva  Ravenna, 
Faenza  e  Rimini,  nel  centro  della  Romagna:  Otranto,  Brin- 
disi, Trani  e  Taranto  nel  regno  eli  Napoli:  dominava  l'isola 
di  Candia  ed  altre  di  minor  conto  nella  Grecia,  oltre  le 
costiere  della  Dalmazia,  e  l'isole  di  Cipro,  Corfù,  Zante  e  Ce- 
falonia.  Questi  dominj,  qua  e  là  sparsi,  favorivano  a  me- 
raviglia la  navigazione  dei  Veneziani,  ond'essi,  come  scrive  il 
Denina,  scorrevano  da  padroni  V Adriatico  quasi  proprio 
canale.  Floridissimo  quindi  il  commercio:  dilatavasi  dai 
porti  d'Inghilterra  a  quelli  del  mar  Nero  e  dell'Egitto  (*\ 
L'esercito  di  mare,  numerosissimo  e  ben  equipaggiato;  i  ma- 
rinari, dei  migliori  di  tutl'Europa;  l'Arsenale,  una  mera- 
viglia; le  ciurme,  superiori  a  quelle  delle  galee  dei  Cava- 
lieri Gerosolimitani.  La  prosperità  del  commercio  e  le  bene 
ammiuislrate  finanze  impinguavano  l'erario  della  repub- 
blica, la  quale  poteva,  in  caso  di  guerra ,  assoldare  un 
grosso  esercito  di  terra;  e  siccome  pagava  le  milizie  pun- 
tualmente e  meglio  d'ogn'altro  Stato,  accorrevano  sotto  le 
bandiere  di  S.  Marco  i  più  segnalati  condottieri.  Oltre  tutti 
questi  materiali  elementi,  vantando  la  fedeltà  e  simpatia 
de' suoi  popoli,  Venezia  gareggiava  colle  maggiori  potenze 
d'Europa.  Con  meno  di  tre  milioni  di  sudditi,  con  un  ter- 
ritorio che  non  pareggiava  la  decima  parte  della  Francia, 
della  Spagna  e  della  Germania,  avea  trionfalmente  combat- 
tuti or  Mussulmani,  or  Francesi,  or  Tedeschi:  e  per  quante 
imperfezioni  avesse  il  di  lei  politico  reggimento ,  Venezia 
era  allora  in  Europa  il  modello  dei  governi  inciviliti,  la  sa- 
tira vivente,  dice  Sismondi,  degli  altri  Stati  più  corpu- 
lenti, ma  meno  ricchi,  men  vigorosi.  La  lega  di  Cambrai 

(1)  Tentori.  Saggio  sulla  storia  civile,  politica  ed  ecclesiastica  della  repubblica 

veneta. 


—  7)07»  — 

millantava  essere  suo  scopo  render  giustizia  alla  santa  sede 
apostolica,  al  santo  romano  impero,  alla  casa  d'Austria,  ai 

duchi  (li  Milano,  ai  re  di  Napoli  ed  a  molti  altri  principi, 
verso  ai  quali  accusavasi  Venezia  d'usurpazioni;  i  monai 
chi  alleati    protestavano  essere  noti  solo  utile  ed  onore- 
vole, ma  anche  necessario  di  chiamar  tutti  ad  una  giù 

sta  vendetta,  per  {spegnere,  ({naie  incendio  comune , 
l'insaziabile  cupidigia  dei  Veneziani  '  .  Ma  questi ,  piut- 
tosto clic  ragioni ,  erano  pretesti  con  i  quali  i  confederati 
cercavano  palliare  le  ingorde  loro  intenzioni;  pretesti  da 
rammentarti  la  nota  favola  del  lupo  e  della  pecora.  Nel 
trattato,  i  monarchi  s'erano  divisi  i  possedimenti  della  rc- 
puhblica,  a  norma  delle  loro  pretese,  nel  modo  seguente- 
Lodovico  XII,  vantandosi  crede  dei  Visconti,  ripeteva  tutte 
le  provincie  già  appartenenti  al  ducato  di  Milano:  Massi- 
miliano, come  successore  degl'imperatori  germanici,  ap- 
propriavasi  Treviso,  Padova,  Verona,  Vicenza;  come  au- 
striaco, Roveredo  e  il  Friuli.  La  santa  sede  riclamava  Ra- 
venna, Rimini  e  Cesena,  terre  che  i  tirannelli  avean  tolte 
alla  Chiesa,  Cesare  Borgia  ai  tirannelli,  i  Veneti  al  Borgia. 
Assegnaronsi  a  Ferdinando  di  Spagna  re  di  Napoli,  l'isole 
di  Brindisi,  Trani  ed  Otranto,  con  altre  che  i  Veneziani 
ricevettero  in  pegno  da  Ferdinando  II:  al  duca  di  Savoja 
l'isola  di  Cipro,  agli  Estensi  ed  ai  Gonzaga  le  terre  già 
da  loro  un  tempo  dominate,  ed  al  re  d'Ungheria,  qualora 
prendesse  parte  nella  lega,  le  città  della  Dalmazia  e  della 
Schiavonia. 

Crema  adunque  fu  nel  trattalo  di  Cambrai  assegnata  al 
re  dei  Francesi,  con  Cremona,  Brescia,  Bergamo  e  la  Gera 
d'Adda.  Ma  come  mai  queste  città  che,  al  pari  di  Verona, 
Vicenza,  Padova,  Treviso,  dipendevano  un  tempo  dall'im- 
pero germanico,  si  cedevano  dall'imperatore  Massimiliano 

(ì)Sismoxdi.  Storia  delle  repubbliche  ilaliane. 


—  504  — 
al  re  di  Francia?  Unicamente  perchè  Lodovico  XII  le  pre- 
tendeva, comunque  tali  cessioni  ripugnassero  ai  principi 
dei  cosidetti  imprescrittibili  diritti  della  loro  legittimità  , 
che  i  sovrani  d'Europa,  per  la  prima  volta,  sfoderarono  in 
quel  memorando  trattato.  Cominciò  allora  la  versatile  po- 
litica dei  gabinetti  a  sancire  gl'imprescrittibili  diritti  di  cia- 
scun sovrano,  senza  badare  a  contraddizioni,  purché  venis- 
sero appagate  le  cupidigie  dei  singoli  contraenti.  Fu  così 
dato  il  primo  esempio  del  modo  con  cui  la  diplomazia 
avrebbe  svolte  le  teorie  di  diritto  pubblico ,  e  quindi  rim- 
pastate a  suo  capriccio  le  nazionalità  d'Europa  a  furia  di 
trattati. 

Quando  il  senato  di  Venezia  scoprì  la  lega  formatasi  oc- 
cultamente a  Cambrai  ,  non  sapremmo  dire  se  rimanesse 
colpita  più  da  spavento  o  da  meraviglia.  Davvero  che  a 
stupirne  aveva  molti  e  fortissimi  motivi.  E  primieramente, 
un'amicizia  di  più  anni  stringeva  al  re  di  Francia  la  ve- 
neta repubblica,  che  per  lui  avea  combattuto,  onde  conser- 
vargli lo  Slato  di  Milano:  strana  poi  l'alleanza  di  Lodovico 
con  Massimiliano  dopo  le  offese  fatte  dai  Francesi  all'im- 
pero ,  e  Vodio  particolare  esercitato  dal  re  di  Francia 
contro  V imperatore  (*l.  E  più  ancora  era  inesplicabile  che 
si  fosse  associato  con  monarchi  stranieri  Giulio  II,  egli  che 
Barbari  appellava  gli  oltramontani  invasori  della  nostra  pe- 
li isola,  egli  che  avea  manifestati  generosi  sentimenti  rivolti 
alla  grandezza  e  libertà  italiana. 

Appena  la  Signoria  di  Venezia  seppe  quale  orribile  tem- 
pesta le  sovrastasse  maneggiossi  per  istrappare  dalla  lega 
l'imperatore  Massimiliano:  riesciti  inefficaci  i  suoi  tenta- 
tivi, si  apparecchiò  alla  difesa,  fidando  nelle  proprie  ric- 
chezze, nel  Cielo,  e  in  quelle  forti  virtù  che  d'ordinario, 
come  osserva  l2)  Dubos ,  non  si  trovano  che  nelle  repuh- 

(1)  Paruta.  Discorsi  politici. 

(2)  Dubos.  Della  lega  di  Cambrai. 


—  508  — 
bliche.  Armano  i  Veneziani  a  tutta  fretta,  assoldando  quanti 
più  potevano  e  capitani  e  genti  d'armi,  concedendo  la  li- 
brila a  tutti  i  banditi  che  promettessero  di  servire  la  re 
pubblica  a  spese  loro  per  un  tempo  determinato.  In  que- 
st'occasione Socino  Benzoni  riacquistò  la  simpatia  del  se- 
nato che  ila  Padova  lo  mandò  a  Crema  con  trecento  fanti 
e  gran  copia  di  danaro  acciocché  stipendiasse  gente  (ranni. 
Socino  venne  accolto  da'  suoi  concittadini  con  tale  una 
dimostrazione  di  giubilo  e  d'onore,  che  il  podestà  se  n'a- 
dombrò, e  del  suo  comparire  fu  piuttosto  conturbalo  che 
lieto.  In  breve,  sotto  le  insegne  di  S.  Marco  radunaronsi 
circa  cinquanta  mila  uomini,  e  capitani  di  molto  grido,  fra 
i  quali  Crema  vantava  Gian  Paolo  Griffoni  S.  Angelo. 

Oltre  il  Benzoni,  vennero  mandali  a  presidiar  Crema  ot- 
tocento fanti  con  Marco  d' A  rimini  e  cento  cavalleggeri  con 
Rizzino  d'Asola.  A  quei  tempi  la  città  nostra  era  al  di 
fuori  coronata  tutta  all'intorno  di  piccoli  borghi,  adorni  di 
vaghi  cdiiìcj  e  d'amenissimi  giardini:  e  case  e  giardini  ed 
anche  i  ruolini  posti  lungo  le  fosse  fra  Porta  Serio  e  Porta 
Ripalta  si  distrussero  in  pochi,  giorni  onde  formare  d'in- 
torno a  Crema  una  spianala  lunga  un  tiro  d'artiglieria.  I 
Crcmaschi  videro  con  gran  dolore  tale  distruzione,  singo- 
larmente coloro  cui  venivano  atterrati  edificj  di  loro  pro- 
prietà: ma  era  forza  rassegnatisi,  e  persuadersi  che  si  av- 
vicinavano tempi  calamitosi. 

I  Veneziani  affidarono  il  comando  generale  del  loro  eser- 
cito a  Nicolò  Orsino  conte  di  Pitigliano,  ed  a  Bartolomeo 
Alviano,  anch'egli  degli  Orsini,  due  delle  migliori  spade  che 
fossero  allora  in  Italia.  E  fu  errore  gravissimo  questo  di 
ripartire  il  comando  generale  delle  truppe  su  due  persone, 
in  momenti  difficilissimi,  ove  a  ben  governarle  richiedevasi, 
non  che  il  senno,  la  robusta  e  assoluta  volontà  di  un  solo. 

II  re  di  Francia,  nel  mentre  affrettava  la  discesa  del  suo 
esercito  in  Italia ,  mendicava  un  pretesto  che  lo  giustifi- 


—  o06  — 
casse  d'aver  infranta  l'alleanza  che  da  varj  anni  l'univa 
colla  repubblica  di  Venezia  :  ed  un  pretesto,  il  più  bugiardo, 
trovò  il  di  lui  ministro  cardinale  d'Àmbois.  L'ambasciatore 
veneto  sentì  rimproverarsi  acerbamente  dal  cardinale,  per- 
chè la  repubblica  facesse  afforzare  l'abbadia  di  Cerelo  al 
confine  cremasco,  ciò  che  espressamente  era  proibito  nel 
trattato  conchiuso  tra  Venezia  e  lo  Sforza  nell'anno  1454. 
La  fortificazione  dell'abbadia  di  Cerelo  era  un  sogno  del 
cardinale.  Così  aggiungendo  alla  perfìdia  la  più  sfacciata 
menzogna  ,  Luigi  XII  calò  in  Italia  qualificandosi  non  ag- 
gressore, ma  per  buone  ragioni  nemico  della  repubblica  ve- 
neziana. Giulio  II,  primo  a  progettare  la  lega  di  Cambrai, 
fu  l'ultimo  a  ratificarla,  perchè  ne  lo  trattenne  la  speranza, 
andatagli  delusa,  che  i  Veneziani  si  sarebbero  affrettati  a 
rendergli  Faenza,  Rimini  e  Ravenna. 

Le  truppe  veneziane  intanto  stavano-  radunale  alle  rive 
dell'  Oglio,  ove  sorse  discrepanza  sul  piano  di  guerra  fra  i 
due  condottieri,  l'AIvìano  e  il  Pitigliano  :  ambo  di  chiaris- 
simo nome,  ma  il  primo,  giovane,  impetuoso, audacissimo: 
l'altro,  vecchio,  prudentissimo,  calcolatore.  L'Alviano  vuole 
si  campeggi  nel  territorio  nemico,  giltarsi  sul  ducalo  di  Mi- 
lano, innanzi  che  il  re  di  Francia  vi  raccogliesse  tutte  le 
sue  schiere,  e  là  sollevare  contro  Lodovico  le  popolazioni 
ed  assalire  i  Francesi  mano  mano  che  scenderebbero  dalle 
Alpi.  S'oppone  a  tale  progetto  il  Pitigliano,  riputandolo 
meglio  temerario  che  ardimentoso:  vuol  neppure  che  si  di- 
fenda la  linea  dell'Adda,  propone  accampare  l'esercito  al- 
l'Oglio  presso  gli  Orzi,  lasciando  però  ben  guernite  Cre- 
mona, Crema,  Bergamo  e  Brescia.  Procedendo  in  questo 
modo,  il  Pitigliano  rimprometlevasi  che  l'ardore  francese, 
terribile  cotanto  nei  primi  assalti,  sbollirebbe  nell'assedio 
di  quelle  città,  nel  mentre  i  Veneziani  potrebbero  all'uopo 
accostarsi  alle  medesime  soccorrendole  e  molestando  il  ne- 
mico alle  spalle.  Diresti  il  Pitigliano  educato  alla  scuola  di 


—  507  - 
Fabio,  l'Alviano  imitatore  di  Scipione,  il  quale  trionfò  dei 
Cartaginesi,  spingendo  arditamente  in  Àfrica  l'esercito 
romano.  I  due  progetti  dei  veneti  condottieri,  matura- 
mente considerati ,  erano  del  pari  apprezzabili:  il  sona- 
to, tacciando  l'Alviano  di  soverchia  audacia,  di  timidezza 
il  Pitigliano,  ripudiò  entrambi,  ed  ap pigi iossi  ad  un  partito 
di  mozzo,  necessariamente  cattivo,  e  perché  deliberato  da 
un  Consiglio  d'uomini  digiuni  di  scienza  militare, e  perchè 
nei  oasi  estremi,  i  parlili  estremi  ottengono  d'ordinario  il 
miglior  successo.  Il  senato  ordina  ai  generali  di  condurre 
l'esercito  in  riva  all'Adda,  e  difendere  la  Chiara  d'Adda, 
prescrivendo  che  non  dovessero  venire  a  battaglia  decisiva 
se  non  costretti  da  ineluttabile  necessità ,  o  quando  si  of- 
frisse loro  favorevolissima  l'occasione. 

È  il  quindicesimo  giorno  dell'aprile  del  1509  già  appro- 
pinquato all'Adda  l'esercito  veneziano,  quando  i  Francesi, 
passato  il  fiume  a  Cassano,  rompono  la  guerra.  Continue 
fazioni  commcltonsi:  viene  presa  e  ripresa  Rivolta,  Trevi- 
glio  incendiato  iniquamente.  Appena  il  pontefice  ebbe 
notizia  dì  queste  prime  ostilità,  fulminò  contro  la  Signoria 
di  Venezia  l'interdetto ,  in  cui  però  lasciava  ancora  un 
termine  ai  Veneziani  per  ravvedersi  e  restituire  alla  Chiesa 
quanto  tenevano  nel  di  lei  territorio _,  non  che  tutti  i  frutti 
cherìaveanpercetti,  scorso  il  qual  termine  Giulio  II  dichia- 
rava, che  se  i  Veneziani  persistevano  inobbedienti,  egli 
co\Y  apostolica  autorità  assoggettava  all'interdetto  non  solo 
Venezia*  ma  tutte  le  terre  da  lei  dominate,  non  che  quelle 
che  concedessero  asilo  ad  un  Veneziano  i{).  Fiere  e  spa- 
ventose minacce!  ma  insufficienti  a  conseguire  lo  scopo  de- 
siderato, perocché  e  principi  e  popoli  vi  si  erano  da  lungo 
tempo  addimesticati.  A  sfolgorare  la  grandezza  dei  Vene- 
ziani, non  le  bolle  papali,   bastarono  i  Francesi  con  una 

(i)  Sisjiondi.  Storia  delle  repubbliche  italiane. 


—  508  — 
sola  battaglia.  È  famosissima  la  campai  giornata  d'Agna- 
dello,  o  come  la  dicono  alcuni  storici,  battaglia  di  Vailate: 
ivi  a'  15  di  maggio  una  gran  parte  dell'esercito  veneziano 
venne  distrutta,  l'Alviano  fatto  prigioniero.  Di  questa  me- 
moranda rotta  contendesi  nel  dar  la  colpa  chi  all' Alviano, 
per  isconsigliata  impazienza  di  cimentarsi  coll'inimico,  chi 
al  Pitigliano  per  non  essere  accorso  sollecitamente  colle 
sue  schiere  in  ajuto  dcll'Àlviano,  chi  al  tradimento  di  Ja- 
copo Secco ,  che  combatteva  fra  i  primi  capitani  nell'eser- 
cito della  repubblica.  Qualunque  fosse  la  vera  causa  di 
tanta  sconfìtta,  i  Veneziani  ne  risentirono  funestissime, 
irreparabili  conseguenze.  11  conte  di  Pitigliano  ritirasi  a 
tutta  fretta  col  rimanente  dell'esercito  verso  Brescia:  sfi- 
duciato il  generale,  disordinate  le  schiere  dallo  spavento, 
moltiplicano  le  diserzioni,  assottigliando  deplorabilmente  le 
forze  della  repubblica. 

La  battaglia  d'Agnadello  (o  di  Vailate,  se  più  vi  piace) 
fu  in  parte  combattuta  sul  territorio  di  Crema  t*)  :  quindi 
i  Cremaschi  ne  poterono  conoscere  e  misurare  i  gravissimi 
danni,  essi  che  ricoverarono  strabocchevole  numero  di  fe- 
riti, che  videro  disertate  le  campagne,  le  acque  rosseggiane 
del  sangue  dei  vinti,  e  seppellirono  i  cadaveri  che  la  ra- 
pace ingordigia  dei  Francesi  lasciò  nudi  sul  campo.  Pen- 
sate adunque  quanto  sgomento  apportasse  in  Crema  la 
rotta  dei  Veneziani,  e  quanto  trepidassero  i  cittadini  nel- 
l'amarissima  incertezza  delle  proprie  sortii  Aggiungete  che, 
due  giorni  dopo  la  battaglia  d'Aguadello,  s'  udì  proclama- 


(i)  t  Nella  mcmorabil  giornata  d'Agnadello  Luigi  XII  vedendosi  vincitore 
»  balzò  da  cavallo,  e  si  prostrò  sul  campo  del  suo  trionfo  per  render  grazie 
»  al  Dio  degli  eserciti.  Breve  tempo  appresso  egli  fece  erigere  nello  stesso 
»  luogo  una  cappella  alla  SS.  Vergine  sotto  il  nome  di  S.  Maria  della  Vit- 
•  toria».  Ciò  sta  scritto  nella  Storia  universale  della  Chiesa  dell'Henrion.  La 
cappelletta  della  Madonna  della  Vittoria  esiste  ancora,  e  trovasi  su  terreno 
cremasco:  è  uno  dei  tre  oratorj  soggetti  alla  parrocchia  di  Palazzo. 


—  809  — 
re  dovessero,  sotto  pena  di  forcai  sgombrare  da  Crema  e 
seguire  i  provveditori  dell'esercito  veneziano  tutte  le  tnip« 
pc  di  presidio,  ad  eccezionedi  una  compagnia  di  150  fanti 
di  Marco  d*À  rimi  ni.  1  cittadini  pregarono  il  podestà  accioc- 
ché facesse  ri vocare  queir  ordine ,  chiesero  altri  soldati  a 
custodire  la  loro  cittadella  ,  ma  fu  invano:  collo  loro  pre- 
ghiere questo  soltanto  conseguirono,  che  vennero  distri- 
buite al  popolo  alcune  armi  e  poche  munizioni.  Crema 
adunque,  in  momenti  di  tanto  pericolo,  aveva  a  tutta  difesa 
150  fanti,  ed  un  popolo  mal  provveduto  d'anni  e  sco- 
raggialo. 

I  Francesi,  profittando  della  vittoria,  con  istupcnda  ce- 
lerità occupano  non  poche  terre  dei  Veneziani,  inseguono 
sul  Bresciano  lo  scompigliato  esercito  della  repubhlica:  sci 
giorni  dopo  la  battaglia  d'Agnadello,  Lodovico  XII  erasi  di 
già  impadronito  dei  paesi  al  di  qua  del  Mincio,  meno  Cre- 
ma e  le  rocche  di  Cremona  e  di  Pizzighcltone. 

Suir albeggiare  del  giorno  20  maggio,  un  araldo  del  re 
di  Francia,  accompagnato  da  un  trombettiere,  presentasi 
sotto  le  mura  di  Crema:  con  segno  di  tromba  avvisati  i 
cittadini  del  suo  arrivo,  intima  loro  o  di  arrendersi  al  re 
entro  tre  ore,  o  di  aspellarsi  il  sacco  e  lo  sterminio.  L'a- 
raldo alloggiò  nel  monastero  di  S.  Bernardino,  a  mezzo 
miglio  fuori  di  Crema,  ove  andarono  ad  abboccarsi  con  lui 
Socino  Benzoui  e  Pietro  Fontana,  i  quali  rientrati  in  Cre- 
ma fecero  che  dai  nostri  provveditori  fu  fatta  al  regio 
araldo  onorata  provvisione  del  vivere  sintanto  die  quivi 
dimorasse  {.  Occupavano  in  quei  giorni  a  Crema  la  carica 
di  provveditori  Gioan  Battista  Guogo,  Alessandro  Benzoni 
e  Goltifredo  Alfieri. 

Era  scoccata  fora  terribile  in  cui  i  Cremaschi  doveano 
risolvere  o  di  darsi  al  re  di  Francia,  o  di  difendersi  dispe- 

(i)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  510  — 
ratamente.  Radunasi  il  Consiglio  generale  per  deliberare 
sul  partito  da  scegliere.  In  quell'adunanza  sorge  primo  a 
favellare  il  podestà  Pesaro:  parlò  con  voce  commossa,  con 
generosi  accenti.  Incominciò  commiserando  la  difficile  con- 
dizione in  cui  si  trovavano  i  Cremaschi,  protestando  che  a 
liberameli  desiderava  poter  seguire  l'esempio  di  Curzio 
Romano,  che  la  patria  salvò  gittandosi  in  una  voragine  di 
fuoco.  Indi  consigliava  i  Cremaschi  a  non  iscoraggiarsi 
troppo:  rammentassero  i  forti  esempi  e  la  costanza  dei  loro 
progenitori,  né  si  arrendessero  così  ad  un  tratto  al  suono 
di  una  trombetta  francese.  Finiva  lasciando  i  Cremaschi 
arbitri  di  scegliere  quel  partito  riputassero  il  più  conve- 
niente. Dopo  il  podestà  prese  a  parlare  il  provveditore 
Gottifredo  degli  Alfieri.  Esposti  brevemente  i  doveri  che 
stringevano  Crema  al  governo  veneziano,  ed  i  gravissimi 
disastri  che  a  lei  sovrastavano  se  i  Cremaschi  si  risolves- 
sero di  mantenersi  fedeli  alla  repubblica,  provalo  essere 
male  l'arrendersi,  resistere  impossibile,  pose  fine  al  suo 
discorso  dicendo:  conclusione  del  parlar  mio  non  v aspet- 
tale, perchè  nulla  trovo  di  buono  2).  Ultimo  a  favellare  fu 
Socino  Renzoni ,  per  isplendore  di  natali  e  di  fortune,  per 
valore  e  fama  d'illustri  imprese  militari,  il  primo  fra  i  cit- 
tadini cremaschi.  Cominciò  il  suo  discorso  encomiando  le 
generose  parole  del  podestà,  affermando  non  dovere  i  Cre- 
maschi macchiarsi  di  villa,  coll'arrendersi  troppo  facilmente 
ad  un  re  forastiero.  Ma  poi,  rinvigorita  la  voce  e  l'eloquen- 
za ,  dimostrò  esser  impossibile  a  Crema  difendersi  contro 
le  armi  vittoriose  di  Lodovico  :  penuria  di  viveri,  difetto  di 
soldati,  d'artiglierie,  di  munizioni  :  l'esercito  della  repub- 
blica troppo  lontano  per  venir  in  soccorso  a  Crema  :  i 
Francesi  impetuosissimi,  invincibili  quando  la  fortuna  pro- 
tegge le  loro  insegne.  E  siccome  Socino  ragionava  con  uno 

(2.)  Terni.  Storia  di  Crema. 


—  511  — 
scopo  premeditato,  non  si  trovò  smarrito  come  I*  Alfieri 
Del  tirare  la  conclusióne  al  suo  disdorso  :  contraddicendo  ai 
sentimenti  sfoggiati  Dell'esordio,  disse  chiaro  e  netto,  che 
il  non  arrendersi  al  re  di  Francia  era  un  volersi  anne- 
gare ad  orchi  aperti (*),  e  che  tale  sacrificio  non  polca  la 
repubblica  esigere  da  sudditi  a  lei  carissimi.  Nondimeno 
il  Benzoni,  onde  tenere  per  poco  ancora  celato  ai  concit- 
tadini ciò  che  volgeva  in  animo,  pronunciò  per  ultime,  in 
tuono  eroico,  le  seguenti  parole:  Fate  s  o  concittadini, 
quello  che  vi  pure,  ch'io  son  pronto  a  vivere  e  a  morire 
con  poti*). 

Dopo  il  discorso  del  Benzoni  levasi  nel  Consiglio  un  gran 
mormorio:  si  discute,  si  alterca  fra  i  consiglieri,  ma  gli 
animi  rimangono  tuttavia  oscillanti  sul  partito  da  adottarsi. 
Mirahile  che  non  preferissero  di  arrendersi,  avendo  Socino 
esposte  minutamente  tutte  le  circostanze  che  toglievano 
qualunque  speranza  di  una  efficace  resistenza.  È  forza  con- 
fessare che  i  Cremaschi  nutrivano  ancora  in  petto  una 
scintilla  dell'  antico  valore,  né  potevano  così  docilmente 
sottomettersi  alla  necessità  di  vedere  un  re  forastiero  im- 
padronirsi della  loro  cittadella  senza  colpo  ferire.  Lieti  di 
un  governo  mite  e  nazionale,  ripugnava  a  molti  di  dover 
chinare  la  fronte  a  nuovi  comandi,  in  favella  straniera,  di 
padroni  nuovi.  Il  podestà,  osservando  come  gli  animi  dei 
consiglieri  riluttassero  dal  venire  ad  una  risoluzione,  pro- 
pose fosse  differita  all'indomani  la  votazione:  prima  si  can- 
tasse in  duomo  messa  solenne  allo  Spirito  Santo,  acciocché 
dal  divino  raggio  illuminati,  potessero  con  più  maturo  giu- 
dizio i  destini  della  patria  deliberare.  La  proposta  del  po- 
destà fu  accolta  di  buon  grado,  essendo  della  natura  del- 
l'uomo cogliere  pretesti  onde  differire  quei  duri  momenti 

{l\  Terni.  Storta  di  Crema, 
(a)  Idem. 


—  512  — 
in  cui  ci  è  forza  decidersi  ad  un  passo  difficile  e  doloroso. 

Mentre  nel  pubblico  palazzo  agitavansi  le  sorti  di  Crema, 
la  plebe,  visto  lo  slagno  alquanto  intorbidato ,  cerca  pe- 
scarvi dentro,  sfogando  le  sue  vendette  contro  chi  rincari- 
vaie  il  sale,  e  contro  chi  succhiavate  il  sangue  con  usure. 
Ammutinatasi  in  piazza,  minaccia  saccheggiare  le  case  de- 
gli ebrei  e  il  magazzino  del  sale  :  Socino  Benzoni  pensa 
a  sedarla  :  ne  dà  l'incarico  a  tre  ragguardevoli  patrizi , 
Guido  Benzoni,  Evangelista  Zurla  ed  Agostino  Benvenuti, 
i  quali  montati  a  cavallo ,  con  amorevoli  parole  la  distol- 
sero dall'altuare  le  desiderate  vendette. 

Nel  giorno  medesimo,  poche  ore  dopo  sciolto  il  Consiglio 
generale,  s'udirono  d'improvviso  i  trombettieri  del  Comune 
scorrere  le  vie  di  Crema,  e  richiamare  i  consiglieri  a  radu- 
narsi di  bel  nuovo  nel  duomo.  Onde  veniva  ai  consiglieri 
quel  richiamo  inaspettato?  Fingono  ignorarlo  i  nostri  cro- 
nisti ,  ma  dal  complesso  dei  fatti  apparisce  quasi  fuori  di 
ogni  dubbio  che  fu  opera  di  Socino  Benzoni.  Accorrono 
i  consiglieri  a  raccogliersi  nel  duomo,  e  con  essi  gran  folla 
di  popolo  ,  curiosa  di  sapere  cosa  vi  si  trattasse.  Questa 
volta  il  primo  che  favellò  in  quell'adunanza  fu  Socino  Ben- 
zoni, il  quale,  rivolta  ai  consiglieri  la  parola,  disse  loro,  si 
affrettassero  a  risolvere  sui  destini  della  patria,  che  le  con- 
dizioni del  paese  non  soffrivano  indugio,  e  lo  Spirito  Santo 
poteva  illuminare  tanto  alla  sera  quanto  alla  mattina.  Dopo 
molti  e  caldissimi  dibattimenti  si  venne  finalmente  alla  con- 
clusione di  arrendersi  al  re  di  Francia.  Nondimeno  fu  pro- 
posto che  niun  Francese  potesse  entrare  in  Crema,  se  pri- 
ma il  re  non  avesse  sottoscritta  una  capitolazione  che  i  cit- 
tadini gli  avrebbero  presentata;  la  quale  proposta  fu  ac- 
colta da  quell'adunanza  per  acclamazione.  Socino  allora, 
rivolgendosi  al  popolo  che  si  era  affollato  nel  duomo,  dis- 
segli  con  voce  robusta:  «  Cittadini,  abbiamo  risoluto  di  ce- 
»  dere  la  città  nostra  al  re  di  Francia ,  ma  noi  faremo  se 


—  aia  — 
prima  voi  puro  non  ci  manifestate  la  vostra  volontà;  apri- 
»  levi  rannno  lìberamente,  che  il  Consiglio  nulla  vuol  ope- 
rare senta  il  vostro  consentimento.  »  Coi)  tali  scaltrissime 
parole,  il  più  illusile  dei  patrizi  eremaschi  adulava  in  quel- 
l'istante il  popolo:  e  il  popolo  prontamente  rispose  urlan- 
do, Francia ,  Francia.  Imparino  certi  politicizzanti ,  che 
vorrebbero  sempre  il  suffragio  popolare  giudice  nello  cose 
più  gravi  della  patria,  imparino  come  il  popolo  accondi- 
scenda facilmente  a  chi  su  imporgli  còl  prestigio  di  un 
nome,  o  blandirlo  eoa  carezze  adulatriei.  Questo  del  po- 
polo eremasiCQ  che  Fa  eco  a  un  Benzeni,  non  è  clic  un  esem- 
pio dV  più  volgari:  ne  troverete  di  più  stupendi  nelle  sto- 
rie della  repubblica  fiorentina  ,  onde  non  vi  sembrerà 
stiano  clic  frate  Savonarola,  amicissimo  della  libertà,  la- 
sciasse per  ricordo  ai  suoi  concittadini ,  clic  chi  ricorre  al 
sii'] ragia  popolare  vuole  appropriarsi  ed  usurpare  lo 
Stato. 

Fra  le  grida  clamorose  del  popolo,  i  consiglieri  eleggono 
sei  oratori  per  inviarli  a  patteggiare  col  re.,  i  quali  furono 
Panlalcone  Caldero,  Gioan  Pelrino  Terni,  Giacomo  Zurla, 
Annibale  Vimercati,  Pietro  Verdelli,  Giannino  Piacenzi. 
Mentre  questi,  insieme  coi  provveditori,  slavano  formando 
i  patti  della  capitolazione,  Socino  Benzeni  e  Pietro  Fontana 
introducono  a  Crema  l'araldo  del  ree  lo  menano,  quasi  in 
trionfo,  per  le  contrade  ripetendo  le  grida  Francia  Francia. 
Allora  anche  i  meno  sagaci  compresero  die  Socino  Ben- 
zeni già  da  tempo  aveva  meditato  di  consegnare  Crema  al 
re  di  Francia:  allora  rivelossi  per  quale  motivo  Socino,  nel 
giorno  successivo  alla  rotta  d'Agnadcllo,  ricusasse  di  ospi- 
tare in  Crema  molli  fuggitivi  dell'esercito  veneziano  i  quali, 
errando  poi  sbandati,  perirono  per  mano  dei  Francesi  0:  tul- 
lavia  nissuno  osò  rinfacciare  al  Benzoni  l'ambidestra  con- 

1 1    Luigi  Da  Ponto.  Lettere  storiche. 

21 


—  314  — 

dotta,  poiché  in  que'  momenti  sarebbe  stato,  più  che  in- 
tempestivo, pericoloso.  «  Parve  in  quel  dì  (scrive  il  Fino) 
»  che  venisse  a  vero  il  presagio  di  un  certo  Luigi  di  Ma- 
»  jorica  astrologo,  il  quale  trovandosi  in  Crema  nel  1506, 
»  e  non  essendo  allora  ancor  finita  la  nuova  muraglia,  l'a- 
»  strologo  ebbe  a  dire  che  i  Veneziani  tenessero  lunga  più 
»  che  potessero  quella  fabbrica,  perchè  finita  che  fosse  per- 
»   derebbero  la  terra,  ed  il  nemico  loro  entrerebbe  per  la 
»  porta  settentrionale  li),  »  La  fabbrica  delle  mura  infatti 
era  compiuta  da  pochissimo  tempo,  e  l'araldo  francese  en- 
trò in  Crema  per  la  Porta  Pianengo.  Somigliante  esempio 
di  pronostico  avveralo  leggiamo  nelle  lettere  di  Luigi  Da 
Porto:  il  quale  ai  primi  d'aprile  del  1 509  scrisse  d'aver  udito  a 
Venezia  un  astrologo  bergamasco  dire  all'Alviano:  «  Signore 
»  tu  t'  accingi   a  far  la  guerra  contro  lo  re  di  Francia  in 
»  Lombardia,  dove  un  buon  asinelio  ti  converrà  aver  sotto 
»  se  tu  vorrai  campare.  »  L'Alviano,  quando  si  trovò  fatto 
prigioniero  dei  Francesi ,  forse  si  sarà  risovvenuto  delle 
parole  dell'astrologo. 

Socino  Benzoni,  chiamati  a  se  i  provveditori,  si  recò  con 
loro  e  coli' araldo  al  palazzo  del  Comune,  ove  disse  al  po- 
destà essere  Crema  caduta  in  potere  del  re  di  Francia, 
perciò  gliene  consegnasse  le  chiavi  delle  porte.  11  Pesaro 
rispose  francamente,  non  aver  egli  consentito  alla  resa  di 
Crema,  chi  voleva  le  chiavi  se  le  pigliasse.  Il  Benzoni  al- 
lora, impadronitosi  delle  chiavi,  pose  a  guardia  delle  porte, 
in  nome  del  re  di  Francia,  alcuni  cittadini  suoi  partigiani  : 
poi,  montato  a  cavallo,  se  ne  va  coli' araldo  al  castello,  e 
fa  intendere  al  castellano  che  si  arrendesse,  né  aspettasse 
d'esservi  forzato.  Esitò  il  castellano,  interpellò  il  podestà 
sulla  condotta  da  tenersi ,  ed  avendone  ricevuto  per  tutta 
risposta  di  governarsi  a  suo  talento,  consegnò  il  di  seguente 

^1)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  3121  - 

la  rocca  il  Benzoni,  fatte  prima  alcune  proteste  in  iscriito. 
Nel  giorno  medesimo  (22  maggio  |  Socino  e  i  sci  oratori 
cremaschi  partirono  per  Brescia, ove  il  re  di  Francia  li  ac- 
colse molto  amorevolmente,  ed  affidò  al  Benzoni  la  con- 
dotta di  SS  lance  e  SO  arcieri.  I  capitoli  della  dedizione 
non  furono  però  così  presto  ratificati,  opponendosi  i  ghi<- 
hellini  cremaschi  ad  uno  die  gli  escludeva  dell'appartenere 
al  Consiglio  generale  del  Comune.  Ma  anche  questo  venne 
alla  line  confermato.  A  tenore  della  capitolazione,  furono 
lasciati  liberi  tutti  gli  ufficiali  veneti,  ciò  che  fa  meraviglia, 
perocché  Lodovico  in  ogni  capitolazione  richiedeva  restas- 
sero prigioni  i  gentiluomini  veneti,  onde  poterli  poi  taglieg- 
giare spietatamente,  e  ridurli  nell'impotenza  di  soccorrere 
colle  loro  privale  sostanze  all'erario  della  repubblica.  Il  po- 
polo cremasco ,  nella  capitolazione  fu  sollevato  dalla  lassa 
sulla  macina  del  grano  :  ma  avendo  gli  oratori  detto  al  re 
che  questa  tassa  fruttava  all'erario  soli  novecento  ducali, 
scopertosi  in  appresso  che  importava  una  somma  maggiore, 
fu  condannato  il  Comune  a  pagare  all'erario  francese  il  di 
più  ch'erasi  taciuto  dagli  oratori.  Il  podestà  Pesaro  non  sof- 
ferse da  parte  dei  Francesi  alcuna  molestia:  restò  nondi- 
meno prigioniero  per  un  anno  in  Crema  a  richiesta  di  Gian 
Maria  Frecavallo,  che  volle  coli' arresto  guarentirsi  di  una 
somma  a  lui  prestata. 

11  re  pose  in  Crema  a  governatore  Bernardo  Ricaudo, 
francese,  a  podestà  Pier  Antonio  Casali,  milanese,  a  castel- 
lano altro  francese  dello  Gaudet.  Nel  palazzo  municipale 
di  Crema  adornava  la  sala  del  Consiglio  un  grandissimo 
quadro  in  tela,  rappresentante  S.  Marco  con  ai  fianchi  la 
Giustizia  da  un  lato,  la  Temperanza  dall'  altro,  egregio  la- 
voro di  Vincenzo  Civerchio  pittore  cremasco.  Piacque  tanto 
al  governatore  questo  quadro,  che,  spogliatone  il  Comune,  lo 
mandò,  siccome  molto  pregevole  dipinto,  in  Francia. 

Addì  27  giugno  (1509)  il  re  Lodovico  passò  da  Cremona 


—  516  — 
a  Crema.  Il  Terni  ne  descrive  la  solenne  entrala:  Andrea 
Clavelli,  vicario  pel  vescovo  di  Piacenza,  che  lo  accoglie  alle 
porte  benedicendolo:  il  clero  che  in  gran  pompa  gli  va  in- 
contro processionalmente:  Socino  Benzoni  e  Agnolo  Fran- 
cesco Sant'Angelo,  che  camminando  ai  fianchi  del  re  lo  ac- 
compagnano in  duomo,  ove  i  preti  rinnovano  le  cerimonie 
delle  benedizioni,  e  il  re  gettasi  in  ginocchio  pregando  quel 
Dio  che  nelle  sacre  carte  esalta  gli  ùmili,  e  minaccia  bal- 
zare dal  trono  i  potenti.  Lodovico  XII  fermossi  in  Crema 
due  giorni ,  alloggiando  nel  palazzo  di  Socino  Benzoni  (*), 
innalzato  di  fresco  ed  addobbato  regalmente.  La  città  nostra 
fece  l'offerta  al  re  di  un  bacino  e  di  un  boccale  d'argento, 
ed  egli  creò  cavalieri  cinque  patrizi,  Compagno,  figlio  di 
Socino,  Alessandro  e  Guido  Benzoni,  Giacomo  Zurla,  ed 
Alessandro  Benvenuti,  tutti  parenti  e  partigiani  di  Socino 
Benzoni. 

Non  appena  parlilo  Lodovico  XII  da  Crema,  vi  nacquero 
contese  fra  i  guelfi  e  i  ghibellini.  Coll'occupazione  dei  Fran- 
cesi si  erano  risvegliati  in  Lombardia  gli  antichi  rancori  fra 
le  due  fazioni.  Quantunque  in  altri  luoghi  prevalessero  i 
ghibellini,  a  Crema  ebbero  dapprima  il  soprawento  i  guelfi, 
essendo  lor  capo  Socino  Benzoni,  principalissimo  istromento 
della  dedizione  di  Crema  al  re  di  Francia.  I  ghibellini  crema- 
sebi  riclamavano  fortemente  contro  il  capitolo  che  li  esclu- 
deva dal  Consiglio  e  dall'amministrazione  del  Comune:  ne 
sostennero  gagHardameute  le  ragioni  Lorenzo  Mozzanica  e 
Anton  Maria  Pallavicino, finché  i  ghibellini  conseguirono  che 
fossero  relegati  a  Grenoble  i  capi  dell'  avversaria  fazione. 
Toccò  quesla  pena  a  Pantaleone  Caldero,  al  cavalier  Giaco- 
mo, a  Francesco  dei  Zurla,  ed  a  Pietro  Verdelli.  Vennero 
pure  confinati  a  Milano  Angelo  Francesco  Griffoni  S.Ange- 
Io,  perchè  avea  il  figlio  Gian  Paolo  condottiero  nell'esercito 

(1)  L*  udicrno  palazzo  Martini. 


—  317  — 
Venezia  do,  ed  Agostino  Viraercati  per  essere  un  uora  mal- 
vagio, aito  o  fabbricare  ogni  mai  effetto  '  .  Soci  no  BeBzoni, 
come  quello  che  godeva  i  favori  del  fé  ili  Francia» fa  bella- 
mente con  Le  sur  genti  mandato  altrove.  Placaronsi  poco 
appresso  Pire  ghibelline,  disponendosi  che  dei  sessanta  con- 
siglieri, componenti  il  Consiglio  generale  di  Crema,  qua- 
ranta fossero  guelfi,  venti  ghibellini,  e  lo  cariche  del  Co- 
mune si  ripartissero  in  ugual  proporzione  agli  uni  ed  agli 
altri:  quindi  dea  tre  provveditori,  due  per  sei  mesi  dovean 
essere  guelfi  ed  uno  ghibellino;  e  per  gli  altri  sei,  due  ghi- 
bellini ed  uno  guelfo. 

Mu  laro  usi  in  Crema,  dopo  alcuni  mesi,  le  persone  del 
Castellano,  del  podestà,  dei  capitani  alle  porle,  del  gover- 
natole. Al  Ricaudo,uomo  lodalissimo  dal  Terni,  venne 
surrogato  monsignor  di  Durazzo  o  Duras,  parimenti  fran- 
cese. 11  nuovo  governatore  ordinò  con  proclama  ai  Cre- 
masehi,  ch'entro  due  giorni  consegnassero  tutte  le  armi  in 
castello,  sollo  pena  di  ribellione.  In  onta  al  proclama,  ber- 
nardino Bonzi,  barcajuolo,  fu  collo  nel  mentre  trasportava 
armi  da  Milano  a  Venezia  :  arrestato  e  messo  alla  tortura , 
confessò  il  fatto ,  accusando  di  complicità  cinque  dei  più 
ragguardevoli  patrizi  cremaschi,  Socino  e  Venturino  Ben- 
zoni,  Antonio  Terni  prolonotario ,  Santo  Robalto  e  Bene- 
detto Caravaggio:  i  quali,  ad  eccezione  di  Socino,  furono 
sostenuti  in  castello,  poi  liberati,  essendosene  scoperta  nei 
processi  l'innocenza.  Bernardino  Bonzi  venne  squartato, 
e  furono  appiccati  Giovanni  Albergoni  e  Vittore  della  Por- 
ta, veronese,  perch'erano  sulla  barca  del  Bonzi,  quando 
Bernardino  fu  preso  colle  armi  che  trasportava. 

Dopo  la  rotta  d'Agnadcllo  sfasciossi  in  men  d'un  mese 
la  potenza  dei  Veneziani:  quindici  giorni  bastarono  a  Lo- 
dovico XII  per  occupare  le  provincie  della  repubblica  as- 

(1)  Tenni.  Storia  di  Crema. 


—  518  — 
segnatele  nel  trattato  di  Cambrai.  Il  senato  veneto,  costretto 
a  lasciare  in  preda  dei  nemici  i  suoi  Stati  continentali,  ri- 
dotto al  solo  dominio  delle  lagune,  si  pentì,  scrive  Luigi 
Da  Porto,  d'aver  avuta  vaghezza  d'alcun  impero  in  terra 
ferma  £*).  Memoranda  è  la  politica  che  Venezia  adottò  in 
quelle  strettezze:  sciolse  i  sudditi  di  terra  ferma  dal  giu- 
ramento di  fedeltà,  permettendo  che  a  fronte  dell'inimico 
agissero  a  loro  talento,  e  s'acconciassero  col  re  di  Fran- 
cia, patteggiando  nel  modo  che  riputavano  più  conveniente. 
L'aristocrazia  veneta  volle  ai  suoi  popoli  risparmiare  sagrifici 
troppo  gravi,  ed  in  tal  guisa,  nell'ora  dell'estremo  pericolo 
mantenersi  la  loro  simpatia.  Che  che  ne  dica  il  conte  Daru, 
il  popolo  si  dimostrò  più  che  mai  devoto  alle  insegne  del 
leone,  anche  in  quei  tempi  per  la  repubblica  veneta  cala- 
mitosissimi. Mentre  un  Benzoni ,  un  Gambara  di  Brescia, 
un  Trissino  di  Vicenza,  patrizi,  avean  consegnata  la  loro 
terra  natale  a  un  re  straniero,  i  contadini  della  marca  Tre- 
vigiana lasciavansi  impiccare  dai  Francesi  gridando  :  Viva 
S.  Marco  l». 

Lodovico  XII  aveva  ferito  profondamente,  ma  non  ucciso, 
il  veneto  leone:  quindi  non  andò  guari  ch'egli  incominciò 
a  rialzarsi  dalla  sua  caduta.  Andrea  Grilti,  nell'ottobre 
del  1509,  riacquistava  a  Venezia  le  città  di  Padova  e  di 
Vicenza:  intanto  la  lega  di  Cambrai,  composta  di  elementi 
affatto  eterogenei ,  indebolivasi.  Se  ne  distaccò  pel  primo 
Giulio  II,  il  quale,  ricuperate  le  terre  e  le  giurisdizioni  che  i 
Veneziani  teneano  nella  Romagna,  levò  alla  repubblica  l'in- 
terdetto, s'adombrò  delle  conquiste  di  Lodovico  XII,  si 
propose  di  risciacquare  l'Italia  dai  Francesi.  Onde  solle- 
vare nemici  contro  Lodovico  XII,  destreggiossi  coi  re  di 
Spagna  e  d'Inghilterra,  e  per  avere  soldati  che  le  sue  mire 

(1)  Lettere  storiche. 

(2)  Guicciardini.  Storia  d'Italia. 


—  r>ii)  — 
secondassero,  si  rivolse  alla  Svizzera,  a  quei  monti  dove 
sono  accumulati  la  neve  ed  il  valore ,  e  donde  rotolano 

sulla  Lombardia   la   valanga  e  il  mercenario    '  .    Perciò   i 

Veneziani,  ripigliato  coraggio,  continuavano  a  guerreggiare 
animosi  contro  Lodovico  XII  e  Massimiliano  imperatore. 

Socino  Bcnzoni  militava  *-oi  Francesi,  quando  ai  ventuno 
di  luglio  del  lì) lo,  mentre  Irovavasi  fra  Este  e  Monlagnana 

a  sollecitar  la  vettovaglia  del  campo  francese,  fu  sorpreso 
da  uno  stuolo  di  Stradiotti,  che  lo  ferirono  e  menarono  a 
Padova  prigioniero.  Andrea  Grilli  ordinò  venisse  immedia- 
tamente appiccato,  e  lo  fu  nel  giorno  medesimo  sulla  piazza 
dei  Signori.  Se  crediamo  al  Terni,  mentre  il  carnefice  ese- 
guiva la  sentenza  «  per  ben  due  volle  quella  piazza  corse 
»  a  rumore,  non  senza  qualche  periglio  della  ciltade.  — 
»  Non  era  egli  appena  morto ,  che  giunse  un  trombetta 
»  francese  con  lettere  di  Chiamonte,  luogotenente  del  re  e 
»  del  Triulcio,  i  quali  scrivevano  al  Gritti  ch'egli  non  fa- 
»  cesse  al  Denzoni,  se  non  quanto  per  ragione  di  guerra 
»  vi  si  richiedeva;  protestandogli  ch'ove  altri  termini  usas- 
»  se,  eglino  farebbono  lo  stesso  a  ciascuno  del  campo  ve- 
»  neziano  che  capitasse  loro  nelle  mani:  ai  quali  fu  rispo- 
»  sto  dal  Gritti,  d'aver  per  debito  di  giustizia  fatto  morire 
»  il  Benzoni,  e  quando  andasse  loro  nelle  mani  alcun  Ve- 
»  neziano  ch'avesse  fatto  al  re  quello  ch'egli  aveva  fatto  ai 
»  signori  veneziani ,  gli  facessero  il  peggio  che  sapessero, 
»  ch'egli  non  se  ne  dorrebbe  giammai!2).»  Così  finì  ignomi- 
niosamenle,  per  mano  del  carnefice,  il  più  famigerato  e  po- 
teute  cittadino  cremasco  che  la  storia  ci  offre  nel  secolo 
decimo  sesto.  Prode,  ambizioso,  destro,  vendicativo,  soper- 
chiatore,  Socino  possedeva  tutte  le  doti  che  procacciarono 
grandezza  e  celebrità  non  invidiabile  ai  più  superbi  pa- 


(!)  Cesare  Cantù.  Storta  universale. 
(2)  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  520  - 
trizi  de' suoi  tempi.  Nato  dai  Benzoni,  forse  le  memorie 
de'  suoi  padri  lo  invogliarono  a  cercare  in  Crema  i  primi 
onori ,  e  rialzare  la  grandezza  della  sua  famiglia,  col  met- 
tersi a  capo  della  fazione  guelfa.  Chi  ambisce  il  potere  non 
iscrupoleggia  sui  mezzi  di  conseguirlo  :  Socino  parteggiò 
per  un  re  straniero,  perfidiando  alla  veneta  repubblica  che 
aveagli  perdonate  colpe  non  espiale  ,  che  pose  in  lui  sin- 
golare fiducia  affidandogli  la  custodia  della  terra  natale  in 
momenti  di  gravissimi  pericoli.  Volle  Socino  imitare  gli 
avi  primeggiando  in  Crema  al  par  di  loro  ,  e  gli  toccò  la 
dcploranda  fine  di  Venturino  Benzoni,  di  cui  egli  ritraeva 
l'indole  superba,  l'ardimento  ed  il  valore.  Tutti  gli  storici, 
perfino  i  nemici  di  Venezia,  s'accordano  nell'  accusar  So- 
cino traditore:  il  buon  Muratori  scrisse  che  la  veneta  re- 
pubblica ebbe  il  Iorio  di  fidarsi  troppo  di  lui({):  quindi 
noi,  contro  la  testimonianza  di  tanti  scrittori  accreditati, 
non  oseremo  assumere  le  difese  di  Socino,  e  non  gridere- 
mo all'ingiustizia  di  Andrea  Gritti,  che  appena  l'ebbe  nelle 
mani  lo  consegnò  al  carnefice  '.-'. 

Giulio  II  inferocito  nell'odio  contro  i  Francesi,  strug- 
gendosi di  scacciarli  d'Italia,  stringe  una  lega,  che  fu  detta 
Santa  ,  coi  Veneziani,  col  re  di  Spagna  e  col  re  d'Inghil- 
terra (ottobre  1511):  perciò  a  Lodovico  XII  non  rimanea 
degli  alleati  di  Cambrai  che  l'imperatore  Massimiliano,  della 
cui  amicizia,  oltre  aver  molivi  di  sconfìdare ,  poteva  gio- 
varsi ben  poco.  Massimiliano  ,  quantunque  principe  guer- 
riero, era  tal  uomo  che  vagheggiava  continuamente  gran- 
diosi disegni  senza  né  saperli ,  né  poterli  mai  effettuare  : 
colpa  della  sua  sconsideratezza  e  di  una  stupenda  prodi- 
galità, per  cui  difettava  sempre  di  danaro  eoa  ebe  pagare 


(i). Annali  d'Italia. 
(2)  Socino  Benzoni  trovò  a'  nostri    giorni  un    difensore  in  Giuseppe   Ran- 
chetti: vedi  le  sue  Annotaziani  alla  Storia  dell'Aleniamo  Fina 


—  321  — 
le  sue  (ruppe.  Nel  febbraio  del  1M2  Venezia,  per  epera 
del  eonie  Luigi  Àvogadro,  ricuperò  Brescia:  ae  giubilarono 
lii  lerre  lombarde  eh' ciano  siale  suddite  alla  repubblica 
avendo  in  men  ili  ire  anni  sperimentalo  cosa  Neramente 
l'osse  il  flagello  delle  anni  ^Maniere.  SulT esempio  di  Bre- 
scia rialzarono  l'insegna  di  S Marco,  Bergamo,  Orzi-nuovi, 
Orzi-veccbi,  e  tutti  i  castelli  del  Bresciano.  I  Cremascbi 
sospiravano  anch'essi  di  rompere  il  i^iogo  forestiere  per  ri- 
tornare  in  grembo  alla  regina  delle  lagune,  e  I* avrebbero 
osato  se  i  Veneziani  si  l'ossero  affrettati  di  mandar  loro 
soccorsi.  Essendosi  il  Durano  recato  in  Francia ,  Crema 
era  allora  governata  dal  castellano,  il  quale,  accortosi  come 
nella  città  nostra  serpeggiassero  faville  d'insurrezione,  cre- 
dette poterle  ammorzare  confinando  duecento  guelfi  a  lui 
denunciali  come  sospetti  da  Guido  Pace  Bernardi,  pessimo 
cittadino,  e  unnicissimo  del  nome  veneziano.  Alcuni  frati 
di  S.  Francesco,  due  fratelli  Benzoni  ,  due  Terni,  Carlo 
Benvenuti,  Gio.  Angelo  Verdelli  e  prete  Lazzarino  da  Co- 
logno  furono  i  primi  ad  essere  scacciati  da  Crema.  Ma  al- 
cuni di  loro  vi  furon  tosto  rimandati  dal  maresciallo  di 
Francia  Gian  Giacopo  Trivulzio,  il  quale  da  Lodi  scrisse  al 
castellano  una  lettera  ove  ammonivalo  a  non  usare  simili 
rigori,  atti  a  provocare  una  rivolta  piullostochè  a  prevenir- 
la. 11  castellano  profittò  del  consiglio,  e  s'astenne  dall'es- 
pellere,  come  avea  divisato,  gli  altri  guelfi  da  Crema. 

Nell'anno  1512  le  armi  francesi  segnalaronsi  con  due 
vittoriosi  fatti;  la  ripresa  di  Brescia  che  Gastone  di  Foix, 
comandante  l'esercito,  mandò  a  guasto  e  a  sangue,  e  l'ac- 
canitissima battaglia  di  Ravenna.  Furono  trionfi  che  a  Lo- 
dovico XII  costarono  quanto  una  disfatta,  imperocché  col 
sacco  di  Brescia  i  soldati,  arricchitisi ,  disertavano  per  la 
smania  di  ripatriare:  e  colla  battaglia  di  Ravenna  la  Fran- 
cia perdette  Gastone  di  Foix,  valorosissimo  condottiero, 
morto  pugnando,  nel   fiore  degli  anni  e  delle  sue  glorie. 


—  522  — 
Intanto  Giulio  II ,  papa  guerriero ,  infuriava  sempre  più 
per  discacciare  dall'  Italia  i  Francesi ,  giovandosi  dell1  al- 
leanza con  Venezia  e  con  Spagna,  e  degli  Svizzeri  che  piom- 
bati sulla  Lombardia  vi  proclamarono  duca  Massimiliano 
Sforza  figlio  di  Lodovico  il  Moro.  L'imperatore  Massimiliano 
ordinò  ai  suoi  Tedeschi  di  abbandonare  il  campo  francese; 
così  anch'egli  smascheravasi  in  faccia  a  Lodovico  XII,  cui 
s'erano  l'un  dopo  l'altro  convertiti  in  nemici  gli  alleati  di 
Cambrai.  Il  generale  La  Palisse,  sostituito  a  Gastone  nel 
comando  dell'esercito  francese ,  vedendosi  troppo  debole  a 
fronte  di  tanti  nemici,  si  ritirò  in  Francia  con  parte  del- 
l'esercito (giugno  1512),  parte  lasciandone  a  guarnire  i 
luoghi  fortificati  ,  unico  avanzo  delle  conquiste  che  Lodo- 
vico avea  fatte  in  Lombardia.  Allora  ritornò  dalla  Francia 
monsignor  Durazzo  a  ripigliare  il  governo  di  Crema,  a  di- 
fendervi il  possesso  di  Lodovico  XII,  che,  a  dir  vero,  pe- 
ricolava alquanto  :  imperocché  Bergamo  aveva  schiuse  le 
porte  ai  Veneziani,  Cremona  era  in  potere  degli  Svizzeri, 
e  a  S.  Martino  sul  Cremonese  accampavano  le  schiere  della 
repubblica  veneta  con  Paolo  Capello  e  Cristoforo  Moro, 
provveditori.  Vennero  nella  città  nostra  ad  afforzare  il  pre- 
sidio francese  Benedetto  Crivelli,  milanese,  con  cinquecento 
fanti,  e  certo  Girolamo  da  Napoli  con  cento  cinquanta  fanti 
e  quattro  pezzi  d'artiglieria.  L'ingrossata  guarnigione,  e  lo 
scorrere  che  facevano  i  nemici  di  Francia  sul  territorio 
nostro  depredando,  cagionarono  in  Crema  penuria  di  vi- 
veri, onde  il  Crivello  ed  il  Napolitano  andavano  susurrando 
a  monsignor  Durazzo  doversi  in  Crema  diminuire  le  boc- 
che col  discacciarvi  i  cittadini;  ma  il  governatore  non  volle 
in  quel  momento  adottare  un  così  odioso  partilo. 

Addì  7  giugno  (1512)  alcuni  drappelli  veneziani  s'acco- 
starono sull' albeggiare  alle  mura  di  Crema,  verso  Porta 
Ombriano  :  erano  guidati  da  Gian  Paolo  Griffoni ,  capitano 
della  repubblica:  gl'inviava  il  provveditore  Capello,  d'intel- 


—  313  — 
ligenia  con  Girolamo  Benvenuti  e  Pietro  Mono ,  i  quali 
avevano  divisato  di  sollevare  in  quel  giorno  il  popolo  ere- 
mascè  contro  i  Francesi.  Stelle  il  Griffoni  nascoste  co' suoi 

soldati  a  pochi  passi  dulie  mura  pei"  ben  sedici  ore,  aspet- 
tando che  la  sommossa  dei  Cremaseli*!  ijli  porgesse  favore- 
vole occasione  di  menare  le  mani;  ma  non  vedendo  segni 
d'alcun  movimento,  ritornò  al  campo  veneziano  pei'  la  via 
di  Castellconc.  I  Francesi  si  accorsero  di  quella  misteriosa 
apparizione  del  Griffoni,  ed  il  sospetto  di  segrete  macchi- 
nazioni entrò  Dell'  animo  del  governatore  e  dei  capitani. 
Allora  il  Durazzo,  spargendo  voce  nel  popolo  che  i  Vene- 
ziani intendevano  stringer  Crema  d'assedio,  raduna  nel 
palazzo  del  Comune  il  Consiglio  generale  de1  cittadini,  ove, 
siccome  parlava  assai  male  l'italiano,  aprì  il  suo  pensiero 
per  bocca  di  Girolamo  da  Napoli.  Il  quale  disse  nettamente 
ai  consiglieri  averli  il  governatore  radunati,  onde  manife- 
star loro  le  urgenze  della  patria;  essere  Crema  minacciala 
d'assedio,  e  non  aver  con  che  vivere  per  più  di  quindici 
giorni:  suggerissero  provvedimenti. 

Primo  dei  consiglieri  a  favellare  fu  il  dott.  Filippo  Clavelli, 
uno  dei  tre  provveditori,  dicitore  bellissimo,  gentiluomo 
di  tutte  virtù  cittadine  adorno:  col  suo  discorso  proponeva 
al  Durazzo,  facesse  scortare  dalla  soldatesca  i  cittadini,  ed 
essi,  ad  onta  che  il  nemico  scorresse  il  territorio,  usci- 
rebbero da  Crema,  e  vi  rientrerebbero  portando  sulle  spalle 
quante  vettovaglie  abbisognavano.  Lodò  il  Durazzo  il  modo 
eloquente  con  cui  s'espresse  il  Clavelli,  ma  di  concedere  le 
sue  milizie  a  scortare  fuor  di  Crema  i  cittadini  non  accon- 
sentiva. Allora  Francesco  dei  conti  di  Camisano,  uom  cieco 
e  settuagenario,  ruppe  in  questi  accenti:  ben  starebbe  che 
tutti  coloro  che  non  hanno  da  mangiare  sgombrassero  da 
Crema,  perchè  in  tal  maniera  rimarrebbe  sgravata  la  terra. 

La  proposizione  del  conte  di  Camisano  piacque  a  Giro- 
lamo da  Napoli,  accordandosi  col  disegno  ch'egli   già  da 


—  524  — 
tempo  mulinava  in  cervello,  onde  rivoltosi  al  Durazzo  scla- 
mò :  ben  dice  il  proverbio ,  consiglio  che  non  sa  di  vecchio 
nulla  vale  :  questo  vecchio  gentiluomo  proferì  sante  pa- 
role: si  cacci  il  popolo  fuori  di  Crema  e  sparirà  il  peri- 
colo di  morire  affamata1".  Ma  Filippo  Clavelli,  ripigliando 
prontamente  la  parola,  fece  osservare,  aver  detto  il  conte 
che  bene  sarebbe  se  quelli  che  non  avevano  da  mangiare 
volessero  uscir  fuori,  ma  non  di  cacciarli  a  forza,  perocché 
e  ricchi  e  poveri  eran  disposti,  da  virtuosi  cittadini,  a  vo- 
ler o  tulli  assieme  vivere,  o  tutti  assieme  morire.  Luigi 
Palrini ,  altro  dei  consiglieri ,  comprendendo  a  che  miras- 
sero i  Francesi,  levossi  in  piedi,  e  lanciò  loro  queste 
brevi  e  risolute  parole:  «  Signori ,  o  che  siele  polenti  di 
»  combattere  il  nemico,  o  no:  se  vi  dà  l'animo  di  poter  re- 
»  sistergli,  andiamo  fuori  a  malgrado  di  chi  non  vuole,  e 
»  conduciamo  nella  terra  biade  ed  altre  cose  al  vivere  bi- 
»  sognevoli;  ma  se  ai  nemici  siete  inferiori,  saranno  vane  le 
»  fatiche  nostre:  perchè  sebbene  i  conladini  volessero  con- 
»  durre  le  biade  in  Crema,  sarà  loro  vietato  dai  nemici.  E 
»  sarebbe  pur  meglio,  vedendoci  ridotti  alle  strette,  che 
»  pigliaste  qualche  partilo  ,  perchè  alla  fine  vi  sarete  co- 
»  stretti:  e  se  indugiale,  non  potrete  forse  ottenere  ciò 
»  che  adesso  vi  sarebbe  concesso.  »  Alle  franche  parole 
del  Patrini  il  governatore  non  rispose  altro  che  in  modo 
brusco  e  misterioso,  bien,  bien.  I  consiglieri  mormorando 
fra  di  loro,  assai  malcontenti,  levaronsi  Fun  dopo  l'altro: 
l'adunanza  fu  sciolta  senza  conchiuder  nulla.  Cosa  ne  se- 
guisse, riferiremo  colle  parole  medesime  del  Fino,  il  quale 
su  questo  tratto  della  storia  cremasca  si  diffuse  più  del 
consueto:  «  Fu  tra  il  governatore  e  gli  altri  capi  francesi 
»  ordinalo  di  mandarci  fuori  tutti  quel  giorno  istesso.  Fatte 
»  adunque  sul  tardi  serrar  le  porte  della  terra ,   e  postavi 

(i)  Terni.  Storia  di  Crema. 


—  52;i  - 
»  buona  guàrdia  colle  artiglierie  cariche,  ridussero  i!  rima 
»  manente  delle  loro  genti  d'attorno  le  piazza  con  quattro 

■  cannoni  appresso  il  palagio:  fingendo  tutto  ciò  fere  per- 
i  che  aspettassero  il  nemico*  Fatte  queste  cose,  lece  il  Du- 
»  razjo  per  cosa  importantissima  (  come  egli  diceva),  ri- 
»  chiamare  il  Consìglio.  Laonde  ninnatisi,  oJtre  quelli  che 
»  erano  di  Consiglio,  infiniti  cittadini  alla  piazza,  si  ridus- 
»  scio  nel  duomo,  aspettando  entello  ch'avesse  a  seguire. 

»  Ascesi  i  prow  editori  con  altri  nobili  in  palazzo,  lro\a- 
m  cono  clic  il  governatore  si  poneva  Tainie  indorso  ,  il 
»  quale  diedegli  sempre  buone  parole  lineile  (senz'altro 
»  consiglio  fere,  avendo  fìnto  ciò  per  congregare  i  cittadini 
»  nella  piazza),  egli  scese  di  palagio.  Dove  montato  su  un 

■  cavallo  che  v'era  parecchialo, cominciò  minaccevolmente 
»  a  gridare  fuori  fuori,  villcn!  Il  che  udendo,  Filippo 
»  Clavelli  gittate-sedi  a'  piedi,  cominciò  caldissimamente  a 
»  pregarlo  che  ad  un  popolo  sì  fedele,  di  cui  egli  non  avea 
»  ragione  di  dolersi,  non  volesse  far  questo  torto.  E  se  pure 
»  alcuni  ci  fossero  de' cattivi,  quelli  solo  castigasse,  e  non 
»  volesse  fare  che  per  quelli  tutti  gli  altri  andassero  rarnin- 
»  ghi.  E  dove  pur  fosse  alfine  risoluto  di  cacciarli  fuori , 
»  almeno  desse  lor  tempo  lino  alla  vegnente  mattina,  acciò 
»  potessero  dar  qualche  ordine  alle  cose  loro.  Ma  non  po- 
»  terono  mai  i  preghi  del  Clavello,  per  caldi  ed  affettuosi 
»  che  fossero,  aver  luogo  nella  ferigna  durezza  del  duris- 
»  simo  Durazzo,  il  quale  acceso  di  quel  naturale  precipi- 
»  toso  furor  francese,  sfoderala  la  spada,  gli  spinse  il  ca- 
»  vallo  adosso  ,  sfidando  tuttavia  con  oriioiiliosa  voce  : 
>'  Fuori  fuori,  miteni  Gli  altri  Francesi,  veduto  il  gover- 
»  natore  con  la  spada  ignuda  in  mano,  vollero  coi  cavalli 
»  entrar  nel  duomo  por  uccidere  lutti  quei  Cremasela  che 
»  vi  si  erano  ritirali  entro.  Ma  dicesi  che  gli  cadderono 
»  sotto  i  cavalli  sulle  porte  della  chiesa,  non  permettendo 
»  il  Signore  che  una  tanta  seellerasrsine   fosse   commessa 


—  326  — 

»  nel  suo  tempio.  Cacciati  finalmente  fuori  tutti  quelli  che 
»  allora  si  trovarono  alla  piazza,  fece  subilo  il  Durazzo  far 
»  bando,  sotto  pena  della  forca,  che  tutti  i  Cremaschi  da' 
»  quindici  anni  fino  ai  sessanta  dovessero  incontanente 
»  uscire  da  Crema.  Né  contento  del  bando,  indi  a  poco 
»  mandò  soldati  per  le  case  a  vedere  se  alcuno  ci  fosse  ri- 
»  masto.  Di  maniera  che  dei  Cremaschi  non  restarono  in 
»  Crema  se  non  donne,  putti,  giovanetti,  vecchi  decrepiti, 
ti  et  alcuni  per  parlicolar  grazia  concessagli.  Tralascio 
»  quelli  che  per  bisognevoli  servigi  della  terra  vi  furono 
»  rattenuti!1'.  » 

La  cronaca  del  Terni  ci  narra  che  moltissimi,  prima  di 
sgombrare  da  Crema,  gitlarono  nelle  latrine  i  pochi  viveri 
che  ancora  possedevano,  acciocché  i  Francesi  non  se  ne 
giovassero  :  ci  narra  eziandio  che  le  milizie  del  Durazzo 
scorrevano  per  Crema  colle  spade  sguainate  e  ferivano 
nelle  spalle  quanti  Cremaschi  trovavano  sopra  vie  che  non 
conducessero  direttamente  alle  porte  della  città:  atti  feroci 
con  i  quali  i  Francesi  rinfocarono  nell'animo  dei  padri  no- 
stri l'odio  all'oppressione  straniera. 

I  Cremaschi,  come  si  \idero  espulsi  dalla  terra  natale, 
sentirono  prepolente  il  bisogno  di  riguadagnare  la  sicu- 
rezza e  la  pace  del  domestico  tetto  :  né  v'era  altro  mezzo 
che  impugnare  le  armi,  cingere  d'assedio  la  propria  città, 
scacciarvi  lo  straniero  che  ne  li  avea  discacciati.  Laonde 
si  disposero  a  combattere,  ordinandosi  in  milizie.,  ed  asso- 
ciandosi ai  Veneziani,  i  quali  accampando  a  poche  miglia 
da  Crema,  mandarono  al  governo  delle  nostre  genti  An- 
drea Civerani  con  alcune  bande  di  cavalleggeri.  Dapprima 
i  Cremaschi  s'erano  rifugiati  a  Monlodine,  fortificandovisi 
con  bastioni,  sbarre,  tagliamene  di  strade  :  di  là  tratto 
tratto  scorrevano  sulle  ville  più  vicine  a  Crema,  per   ta- 

(1)  Fino.  Stoiìa  di  Crema. 


—  517  — 
gliarvi  Dei  campi  le  biade  già  inalare,  affinchè  non  venis- 
sero dai  Francesi  depredate.  Ma  poi  si  ridussero  ad  Oro- 
briano.   I  Francesi  intanto,  non  arrischiandosi  lare  dello 
sortile,  cominciavano  in  (-rema  a  patir  difetto  (li  vettova- 
glie: la  lame  minacciava  di  ridurli  a  mal  partito,  quando 
un   rinnegato  cremasco,  certo   Bernardo  Dolera,  indicò 
loro  il  modo  di  foraggiare  conducendoli  per  inusitati  sen- 
tieri a  Madignano,  villa  non  guardata  dai  nostri,  ove,  tro- 
vate  cinquecento  some  di  grano,   i  Francesi  le   trasporta- 
rono a  Crema.  Indispettirono  i    nostri    che  il    nemico    col 
rifornirsi  di  viveri  l'osse  in  condizione  di  resistere  ancora 
per  qualche  tempo,  onde  rinfiammando  gli  spirili  bellicosi, 
propongono  l'are  ogni  sforzo  per  snidarlo  da  Crema.  Adu- 
natisi a  consiglio,  eleggono  otto  cittadini  dei  meglio  assen- 
nati, che  alle  bisogne  della  guerra  provvedessero:  furono 
eletti  Angelo  Gridoni,  Ottaviano  Vimercali,  Guido  ed  Ales- 
sandro Benzoni,  Alessandro  Benvenuti,  cavalieri,  Filippo 
Clavelli  e  Gian  Petrino  Terni,  ambedue  dottori,  e  Francesco 
Zurla  detto  Vicino.  Creali  questi  savi  di  guerra,  impongono 
la  tassa  di  un  soldo  e  mezzo  per   pertica   su  tutti    i    ter- 
reni del  cremasco,  onde  procacciarsi  danaro   da   pagare   i 
soldati  :  ingrossano  le  loro  schiere  chiamando  da  Bergamo 
Maffeo  Cagnolo  con   150   fanti,  e  levando  da  Val   Trom- 
pia  150  archibugieri.  Ordinate  ed  accresciute  per  tal  modo 
le  milizie,  formaronsi  due  campi,  Funo  ad  Ombriano,  l'al- 
tro a  S.  Bernardino,  governato  il  primo  da  Andrea  Civerano 
provveditore  veneto,  il  secondo  da  Angelo  Francesco  Grif- 
foni: intendente  pagatore  del  campo  d'Ombriauo  era  Belo 
Benvenuti;  di   quello  di   S.  Bernardino,  Francesco  Zurla. 
E  affinchè  le  milizie  dell'uno  e  dell'altro  campo  potessero 
all'occorrenza  riunirsi  ed  ajutarsi  vicendevolmente,  gitta- 
ronsi  due  ponti  sopra  il  Serio  in  diversa  posizione,  e  a 
poca  distanza  da  Crema.  Contro  i  Francesi  aveva  prese  le 
armi  anche  una  moltitudine  di  conladini  che  attendavano  a 


—  328  - 
Campagnola,  capitanati  da  certo  frale  Agostino  Giliolo  fran- 
cescano, non  meno  alto  a  maneggiar  V  armi  che  i  libri, 
cui  slava  meglio  in  capo  l'elmo  che  il  cappuccio  (*).  II  quale 
nelle  bisogne  di  quella  guerra  s'adoperò  tanto  ardimentosa- 
mente, che  il  senato  di  Venezia  ne  lo  rimerilò  promettendogli 
un'aspettativa  sul  vescovado  di  Nova  in  Dalmazia.  Per  me- 
glio dirigere  i  Cremaschi  nelle  loro  operazioni  d'assedio, 
la  repubblica  veneta  inviò  ai  nostri  accampamenti  Renzo 
Ceri,  gentiluomo  romano  di  casa  Orsini,  capitano  generale 
delle  fanterie  veneziane,  ripulatissimo  per  virtù  militari. 
Renzo  fece  erigere  due  bastioni,  l'uno  oltre  il  ponte  del  Se- 
rio presso  la  strada  che  mena  ad  Oflanengo,  l'altro  sulla 
riva  destra  del  Travacone  rimpelto  a  Porta  Ripalta:  proibì, 
pena  la  forca,  che  alcun  Crcmasco  s'accostasse  alle  mura 
dell'assediala  ci  Uà,  temendo  vi  fossero  di  quelli  che  nasco- 
stamente fornissero  vettovaglie  ai  Francesi  :  e  perchè  tal 
divieto  venisse  scrupolosamente  osservato ,  pose  guardie 
notturne  e  spioni,  scegliendoli  fra  i  soldati  del  suo  segui- 
to. Ma  questi  permetlevansi  di  fare  ciò  che  dovevano  im- 
pedire ad  altri:  ed  i  Francesi,  col  mezzo  loro,  introdussero 
più  volle  dei  viveri  in  Crema  pagandoli  con  vesti  e  cappe 
derubale  nelle  case,  poiché  di  danaro  scarseggiavano  de- 
plorabilmente "2l.  Il  Durazzo  trovavasi  ridotto  in  tali  stret- 
tezze, che  per  pagare  le  sue  milizie  dovette  spigolare  undici 
mila  lire  dai  pochi  Cremaschi  limasti  in  città,  e  vendere, 
se  crediamo  al  Darù^3,  tutto  il  suo  vasellame.  Nondimeno 
v'  era  ancora  in  Crema  un  gentiluomo  d'animo  tanto  mal- 
vagio ed  avverso  al  nome  veneziano ,  che  stimolava  il  go- 
vernatore a  durare  in  quelle  miserie  anziehè  cedere  la  terra 
alla  repubblica.  Questi  era  Guido  Pace   Bernardi.  Un   bel 


(1    Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  Terni.  Stona  di  Crema. 

(3)  Dahu.  Storia  di   Venezia. 


-    339  — 
giorno  (  19  Agosto)  che  i  Francesi  con  una  Boriila  tolsero 
ai  nostri  statini  falconetti»  Guido  Pace  Bernardi  andò  a  con- 
gratularsene, coinè  di  una  splendida  vittoria,  col  Durazzo: 
t  Monsignore,  dissegli,  se  possiamo  resistere  ancora  per  tre 
mesi,  non  ci  arrenderemo  mai  pia  a  questi  beohie  traditori 
Veneziani  {  :  che  imporla  la  scarsezzza  del  danaio  e  dei 
viveri?  Noi  mangeremo  i  nostri  cavalli  prima  che  cedere, 
e  quand'anche  vi  fossimo  costretti,  ci  daremo  piuttosto  al 
dica  di  Milano  o  air  imperatore,  che  ai  Veneziani.»  Ed  il 
Durazzo  con  una  smargiassata  alla   francese,  gli   rispo^-  : 
«Ben  dite,  messere,  noi  mangeremo  piuttosto  i  figliuoli  che 
ceder  Crema  ai  Veneziani  (*).»  Intanto  la  penuria  dei  viveri 
facendosi  pei  Francesi  sempre  più  spaventosa,  il  governa- 
tore ai  ±1  d'agosto  mandò  fuori  di  Crema  anche  i  medici, 
gli  speziali,  i  macellari,  e  quanti   altri,  pochissimi   eccet- 
tuati, vi  aveva  dapprima  trattenuti.  Nel  mentre   uscivano 
dalle  porte,  Bernardo  Dolera   invogliossi   di  seguirli   per 
buon  tratto  di  cammino,  colla  scellerata  intenzione  di  spiare 
negli   accampamenti   dei  Cremaschi  e  rendersi  ancor  più 
benemerito  dei  Francesi:  ma  questa  volta  mal  capitò  T  in- 
fame: i  Cremaschi  scopertolo  e  riconosciuto,  lo  presero,  e 
con  furiosa  tempesta  di  sassate  gli  spezzarono  il  capo. 

Angelo  Griffoni  Sant'Angelo,  misurando  la  deplorabile 
condizione  cui  era  ridotto  il  Durazzo,  pensò  fosse  venuto 
il  momento  opportuno  per  tentarne  V animo,  e  persuaderlo 
alle  trattative  della  resa:  ottenuto  un  salvacondotto,  mandò 
in  Crema  Antonio  Berso  ad  abboccarsi  col  governatore.  La 
comparsa  di  quel  messo  svegliò  gelosia  vivissima  fra  i  due 
comandanti  la  guarnigione  francese,  Benedetto  Crivello  e 
Girolamo  da  Napoli.  Ambedue,  come  videro  che  ceder  Crema 
diveniva  una  necessità  ineluttabile,  si  erano  proposti  nel  se- 


(i)  Terni.  Storia  di  Crema. 
(S)  Idem. 

92 


—  530  — 
greto  dell'animo  di  far  loro  prò  della  cessione,  consegnando 
Crema  a  chi  li  pagasse  meglio,  fosse  il  duca  di  Milano,  fosse 
la  repubblica  di  Venezia.  Benedetto  Crivello,  che  desiderava 
l'are  da  solo  e  tutto  per  sé  quel  traffico,  indovinando  come 
il  Napolitano  macchinasse  il  medesimo  disegno,  risolse  di 
ucciderlo.  Addì  7  settembre ,  il  Crivello  colpì  Girolamo  da 
Napoli  di  uif  archibugiata,  poi  ne  fece  spezzare  il  capo  da 
due  alabardieri.  V  atroce  fatto  compivasi  in  pieno  giorno 
sulle  mura  di  Crema,  presente  il  Durazzo  che  assisteva  a 
certi  lavori  intorno  il  rivellino  di  Porta  Nuova.  Benedetto 
Crivello  seppe  con  iscallrc  parole  convincere  il  Durazzo, 
aver  egli  eseguita  un'opera  santa  e  profittevole  al  caso  loro, 
uccidendo  il  Napolitano,  ed  il  governatore  ne  rimase  così 
bene  persuaso,  che  a  lui  affidò  le  chiavi  della  Porta  Nuova. 
Allora  il  Crivello  incominciò  a  trattare  segretamente  con 
Bonzo  Ceri,  e  gli  offrì  con  patti  onerosissimi  la  cessione  di 
Crema.  Il  generale  veneziano  non  volle  così  di  leggieri  ac- 
comodarsi alle  esorbitanti  pretese  del  Crivello,  onde  questi , 
mutalo  consiglio,  sperò  e  cercò  un  miglior  compratore  nel 
duca  di  Milano.  Era  allora  agente  del  duca  Massimiliano  il 
vescovo  di  Lodi ,  figlio  naturale  del  duca  Galeazzo  Sforza. 
11  Crivello  scrisse  al  vescovo  significandogli  in  quali  angu- 
stie fosse  Crema,  che  tenerla  più  a  lungo  era  impossibile, 
ch'egli  poteva,  e  lo  farebbe  di  buon  grado,  consegnarla 
al  duca  di  Milano.  Frattanto  consigliava  il  vescovo  a  man- 
dare verso  Crema  sufficiente  numero  di  milizie,  alle  quali 
egli  darebbe,  sotto  determinate  condizioni,  la  città,  schiu- 
dendo loro  la  Porta  Nuova,  di  cui  teneva  le  chiavi.  Per  in- 
tendersi cogli  Sforzeschi,  Benedetto  Crivello  scrvivasi  di 
Lucia,  figlia  di  Matteo  Bravi,  onesta  donzella,  cui  promise 
cinquecento  ducati  quando  si  maritasse.  Lucia  usciva  di  na- 
scosto fuor  di  Crema,  e  portava  le  lettere  del  Crivello  a  un 
suo  cugino,  milanese,  che  abitava  ai  Sabbioni.  1  Cremaschi 
la  videro  più  di  una  fiala  passare  vicino  ai  loro  accampa- 


—  :r>i  — 
mentì,  ma  conoscendoli)  di  buona  famiglia  e  d'intemerati 
costumi.,  erano  lontani  dal  sospettarla  uh  cicco  istrumento 
delle  trame  del  Crivello.  La  veda  un  giorno  camminar 
letta  un  uomo  d'armi  di  Renzo  Ceri,  esc  ne  insospettii 
ferma  la  ragaiza  >ui  due  piedi,  l'interroga,  ed  ella  nel  ri- 
spondere impallidisce, turbasi,  si  confonde.  Il  soldato  divieti 
più  saldo  nel  sospetto:  mette  le  mani  addosso  alla  donzella, 
e  frugandole  sotto  le  vesti,  \i  trova  dei  dispacci:  li  to- 
glie a  Lucia ,  e  li  consegua  a  Renzo  Ceri.  Quei  dispacci 
scoprirono  a  Renzo  le  macchinazioni  del  Crivello,  I* >  av- 
visarono del  pericolo  d'essere  assalito  alle  spalle  dalle 
milizie  dei  duca  di  Milano:  quindi  il  generale  veneto  non 
indugiò  a  riprendere  col  Crivello  le  trattative  per  la  resa 
di  Crema,  ed  annui  a  tutte  le  offertegli  condizioni,  comun- 
que prima  le  avesse,  perchè  troppo  ingorde,  ricusale.  1  palli 
della  cessione  di  Crema  proposti  da  Benedetto  Crivello,  ed 
accettati  da  Renzo  Ceri  per  la  repubblica  di  Venezia, 
furono  i  seguenti:  «Desse  il  Crivello  Crema  ai  signori 
»  Veneziani.  Dessero  i  Signori  al  Crivello  mille  ducali 
»  d'entrata  sul  Padovano,  con  una  casa  in  Padova  per  suo 
»  albergo.  Dessergli  per  un  suo  nipote  ottocento  ducali 
»>  d' entrata  di  benefìcj  di  Chiesa  nel  Cremasco,  nel  Berga- 
»  masco,  o  nel  Bresciano.  Dessergli  una  compagnia  di  fanti 
»  pagali  alla  francese,  e  ducali  cento  per  la  sua  persona: 
»  ed  i  danari  delie  paghe  fossero  dati  a  ini  nelle  mani, 
»  come  gli  erano  dati  dal  re.  Dessergli  alla  mano  per  detti 
»  cinquecento  fanti,  mille  e  cinquecento  ducati  d'oro  per 
»  una  paga  servita  in  Crema.  Dessergli  al  presente  un'ai- 
»  tra  paga  di  servire  al  mòdo  francese,  e  ducati  cento  per 
»  sé  di  provvisione  al  mese,  come  di  sopra.  Dessergli  sette 
»  mila  ducati  d'oro,  prima  ch'egli  desse  loro  nelle  mani 
y  le  porte  della  terra.  Concedessergli  tutto  il  sale  pubbli- 
»  co,  che  si  trovava  avere  in  Crema  il  salmajo  francese. 
»  Fosserdi  donati  tutti  i  beni  di  Guido  Pace  Bernardi  fatto 


—  om  — 

»  ribelle  della  signoria  eli  Venetia ,  e  di  più  gli  fosse  date 
»  a  discrezione  la  persona  di  esso  Guido  con  tutta  la  fa- 
»  miglia.  Fosse  fatto  un  salvacondotto  a  monsignor  Durazzo 
»  dai  signori  Venetiani  e  da  tulla  la  Lega,  acciò  eh'  egli 
»  potesse  andar  sicuro  in  Francia  ,  e  tenesse  la  rocca  di 
»  Crema  nelle  mani  finché  gli  fosse  portato  il  salvacon- 
»  dotto:  dando  però  egli  un  suo  figliuolo  per  ostaggio  [ì\  » 

Questi  patti  Renzo  Ceri  con  sollecitudine  significò  al  se- 
nato di  Venezia,  dal  quale  furono  sanzionati.  Premeva  co- 
tanto alla  repubblica  di  ricuperare  la  città  di  Crema,  clic, 
ben  lungi  dal  riputar  ingorde  le  condizioni  imposte  dal 
Crivelli,  lo  rimunerò  d'onorificenze  e  donativi  oltre  i  pat- 
tuiti nella  capitolazione.  A  Benedetto  Crivelli  fu  conferita 
la  nobiltà  veneta,  e  si  profuse  danaro  a  tutti  coloro  che  si 
erano  con  lui  maneggiali  per  consegnar  Crema  ai  Veneziani. 
Renzo  Ceri  prese  possesso  della  città  nostra  a  nome  della 
repubblica  il  giorno  9  di  settembre  (anno  1512).  Nel  giorno 
medesimo  Santo  Robatto,  cittadino  cremasco  e  capitano  del 
duca  di  Milano,  giungeva  a  Bagnolo  menando  10,000  Sviz- 
zeri, col  disegno  d'entrare  in  Crema  secondo  le  trattative 
che  il  Crivello  aveva  poco  prima  intavolate  col  vescovo  di 
Lodi.  Ma  poi,  come  il  Robatto  seppe  esser  Crema  stata  ce- 
duta ai  Veneziani,  si  ritirò  colle  sue  truppe  oltre  l'Adda. 

Qui  ci  torna  in  acconcio  avvertire  che  il  conte  Daru  (*) 
cadde  in  errore  asserendo  aver  la  repubblica  veneta  rigua- 
dagnata la  città  nostra  corrompendo  con  venticinque  mila 
ducati  il  governatore  Durazzo.  Smentiscono  l'asserzione  del 
Daru  le  cronache  cremasene ,  e  il  Guicciardini  nella  sua 
Storia  d'Italia,  ove  toccando  della  resa  di  Crema  ai  Vene- 
ziani, afferma  aver  bensì  il  Durazzo  acconsentito  alle  ne- 
goziazioni  del  Crivello   con  Renzo  Ceri ,  ma  forzato  dalie 


(1)  Alema.mo  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  Sloria  della  Repubblica  di  Venezia. 


—   ODO   — 

imperiose  circostanze,  non  già  perché  egli  abbia  lucrato 
rolla  dedizione. 

Vedemmo  esservi  nella  capitolazione  un  pano  col  quale 
Benedetto  Crivelli  domandava  gli  si  cedessero  a  discrezioni 
la  persona  1  la  famiglia  e  i  beni  di  Guido  Pace  Bernardi. 
Questo  patto,  elio  a  taluni  por  avventura  può  sembrar  stra- 
no, fu  incluso  nella  capitolazione  acconsentendovi  lo  stesso 
Bernardi, al  quale  non  rcsta\a  altra  via  per  fuggire  la  ven- 
detta dei  eonciltadini  che  abbandonarsi,  con  quanto  avea 
di  più  caro,  nelle  braccia  di  Benedetto  Crivelli.  Infatti,  su- 
bito dopo  la  capitolazione  e  prima  che l  Ocmaschi  rientras- 
sero in  Crema,  Guido  Bernardi  chiese  al  Crivello  d'essere 
carcerato  con  la  moglie  e  col  figlio ,  e  che  i  suoi  beni  ve- 
nissero sequestrati  ^ll  Ed  il  Crivello  lo  accontentò:  e  per- 
chè in  questo  modo  salvava  al  Bernardi  la  vita,  si  pagò 
poi  lautamente  sulle  sostanze  di  Guido  Pace  il  beneficio.  I 
Cremaschi,  appena  rientrati  nella  città  loro,  andarono  in 
traccia  del  Bernardi,  smaniosi  di  sfogare  sul  malvagio  con- 
cittadino il  furore  della  loro  vendetta:  guai  a  Guido  Pace 
se  l'avessero  potuto  cogliere!  essi  volevano  finirlo,  e  porre 
sul  di  lui  sepolcro  un  epitaffio  obbrobrioso,  che  avean  già 
scritto,  e  mandato  al  Bernardi  perchè  lo  leggesse,  quindici 
giorni  prima  della  resa  di  Crema  M.  Guido  Pace  rimase  in 
carcere  per  più  di  un  anno  :  ne  uscì  dopo  aver  rimesso 
buona  parte  del  suo  patrimonio.  I  Cremaschi,  che  avevano 
giuralo  di  sguazzare  nel  sangue  della  famiglia  di  Guido 
Bernardi,  perdonavangli  generosamente  le  offese,  rispar- 
miando così  la  vita  ad  un  abbominato  concittadino ,  ed  a 
sé  stessi  la  voluttà  e  la  turpitudine  di  una  cruenta  ven- 
detta. 

(1)  Terni.  Storia  di  Crema. 

(2)  L'epitaffio  è  riportato  nella  Cronaca  del  Terni,  e  rompcnevasi  ii  parole 
«refill  amen  le  infami  per  Guidu  Bernardi  e  la  «li  lui  famiglia. 


3  ».> 


CAPITOLO    DECIMOPRIMO 

I\KNZO   CERI    IN    CREMA,    E    BUA    VALOROSA    DIFESA. 

SOMMARIO. 

1  Crenasehi,  per  liberarsi  da  Benedetto  Crivelli,  pagano  mille  e  quattrocento 

ducati.—  Ambasciatori  cremascbi  mandali  a  Venezia,  e  fatti  prigionieri  a 
Verona. —  La  Città  di  Crema  è  tutta  ingombra  delle  milizie  di  Renzo  Ceri: 
i  cittadini  se  ne  lagnano.  —  Per  quali  motivi  la  repubblica  di  Venezia  te- 
nesse in  Crema  un  grosso  presidio.  —  Preparativi  di  difesa  operali  in  Crema 
da  Renzo  Ceri.  —  La  repubblica  veneta  si  rivolge  per  alleanza  a  Luigi  IX 1 1 
re  dei'  Francesi.  —  Lega  conchiusa  tra  Venezia  e  Trancia.  —  Renzo  Ceri 
esce  da  Crema,  fornisce  di  vettovaglie  il  castello  di  Cremona,  e  riacquista 
alla  repubblica  Bergamo  e  Brescia.  —  L'esercito  francese  è  disfallo  dagli 
Svizzeri  alla  Riotla.  —  Gravissime  conseguenze  die  ne  derivano  alla  repub- 
blica di  s.  Marco:  Padova,  Treviso,  e  Crema  sono  le  sole  città  che  ancora 
rimangono  in  potere  dei  Veneziani.  —  Imprese  di  Renzo  Ceri.  —  I  Veneziani 
sono  sconfitti  nei  dintorni  di  Vicenza.  —  Arrogante  conlegno  delie  milizie  di 
Renzo  Ceri  in  Crema.  —  Come  i  Cremascbi  si  adoperassero  per  abbonirsi 
le  truppe  di  presidio.  —  La  pestilenza  invade  la  città  di  Crema.—  Agostino 
rinvenuti  assalta  e  saccbeggia  Castiglione  sul  lodigiano.  —  Scorrerie  di  ne- 
mici sul  territorio  cremasco:  Marc'Antonio  Fiatino  e  Silvio  Savello  respinti 
da  Renzo  Ceri.  —  Prospero  Colonna  e  Silvio  Savello  pongono  assedio  a 
Crema.  —  Il  pontefice  Leone  X  s'intromette  per  pacificare  Venezia  con  l'im- 
peratore d'Austria  ,  ma  inutilmente.  —  Renzo  Ceri  rinunzia  al  grado  con- 
feritogli di  governatore  generale  dell'esercito  veneziano. —  Come  fossero 
disposte  intorno  a  Crema  le  schiere  degli  assediami.  —  La  Cbiesa  di  s.  Maria 
della  Croce  fortificata  dai  Cremaschi.  —  Infelicissima  condizione  di  Crema  « 
del  suo  territorio.  —  La  pesle  infierisce:  infieriscono  nella  rapacità  e  nel- 
l'arroganza le  truppe  di  Renzo  Ceri  in  Crema.  —  Operosa  carità  dei  Pia- 
centini verso  i  Cremaschi.  —  Paris  Scolti  salutalo  padre  del  popolo  crema- 
sco. —  Renzo  Ceri,  ridotto  in  tali  strettezze  da  non  poter  più  lungamente 
resistere  ai  nemici,  risolve  di  assaltarli.  —  Ballaglia  di  Ombriano  e  rotta 
del  campo  Sforzesco,  —  Fuga  del  Savello:  Prospero  Colonna  si  ritira  a  Ro- 


—  556  — 

manengo.  —  Allegrezze  dei  Cremaschi  per  la  riportata  vittoria.  —  Pochi 
giorni  dopo  la  rotta  degli  Sforzeschi  cessa  in  Crema  la  pestilenza.  —  Voto 
dei  Cremaschi.  —  Caratteri  d'analogia  fra  l'assedio  di  Crema,  sostenuto  da 
ftenzo  Ceri ,  e  quello  in  cui  i  Cremaschi  resistettero  a  Federico  Barbarossa. — 
Ultime  imprese  di  Renzo  Ceri  in  Crema.  —  Come  sia  passato  dal  servizio 
dei  Veneziani  a  qaelì'o  della  Santa  Sede.  —  Trattato  di  Noyon.  —  La  re- 
pubblica veneta  ricupera  quasi  lutti  i  suoi  dominj.  —  Elogi  che  si  fecero  a 
Venezia  per  la  politica  che  seppe  mantenere  durante  gli  otto  anni  della  guerra 
suscitatale  dalla  lega  di  Cambrai,  —  Allegrezza  dei  sudditi  Veneziani  pel 
trionfo  della  repubblica. 


Benedetto  Crivelli,  tuttoché  avesse  ceduta  Crema  ai  Ve- 
neziani, occupava  ancora  colle  sue  milizie  la  Porta  Nuova, 
risoluto  di  non  abbandonarla,  se  prima  non  gli  venisse  in- 
teramente pagata  la  somma  dei  settemila  ducati  a  lui  pro- 
messi nella  capitolazione.  I  Cremaschi,  conosciutane  l'in- 
dole venale,  desideravano  torselo  dagli  occhi,  tanto  più  che 
sapevano  non  essere  gli  Svizzeri  per  anco  allontanali  dalla 
riva  destra  dell'Adda  :  quindi  sborsarono  al  Crivello  per 
conto  della  repubblica  mille  e  quattrocento  ducati,  i  quali 
mancavano  a  compire  la  somma  dovutagli  a  norma  della 
capitolazione.  Allora  Benedetto  Crivello  sgombrò  da  Crema 
colla  sua  gente  d'armi  ed  andosscne  a  Venezia,  ove  il  se- 
nato lo  accolse  festosamente,  onorificenlissimamente. 

I  Cremaschi,  giubilanti  d'essere  ritornati  sotto  la  tutela 
del  leone  di  S.  Marco,  inviarono  quattro  ambasciatori  a 
Venezia,  perchè  a  nome  del  Comune  vi  rendessero  P  o- 
maggio  di  sudditanza,  e  domandassero  la  conferma  dei  loro 
privilegi  municipali.  Gli  ambasciatori  eletti  a  tale  missione 
furono:  il  cavalier  Bartolino  Terni,  il  dottor  Petrino  Terni, 
Guido  Benzoni  dottore  e  cavaliere,  e  Pietro  Verdelli.  Pas- 
sando per  Verona  vennero  tutti  quattro  fatti  prigionieri  dai 
Tedeschi,  ad  onta  che  in  quei  giorni  durasse  la  tregua  fra 
l'imperatore  e  la  veneta  repubblica.  Era  una  rappresaglia, 
avendo  i  Veneziani  presi  alcuni  Tedeschi  sulla  riva  di  Salò. 
31  dottor  Petrino  Terni,  il  Benzoni  ed  il  Verdelli  furono  ben 


presto  liberali,  e  proseguirono  il  loro  viaggio:  il  caf.  Barlo- 
lino  Terni  rimase  chiuso  ael  Castel  Vecchio  di  Verona  per 
ben  ottantasei  giorni,  Gnchè  potè  riscattarsi  pagando  quat- 
trocento ducati  che  il  Comune  di  (-rema  gli  rimborsò. 

I  Cremaschi  avevano  ospitate  le  milizie  di  Renzo  Ceri 
nelle  proprie  case,  trattandole  con  fraterna  amorevolezza: 
però  credevasi  non  avrebbero  indugiato  ad  allontanarsi 
da  Crema.  Ma  Renzo  Ceri  era  ben  lungi  dal  volerne  sguer- 
nire la  città  nostra,  e  ne  aveva  le  sue  buone  ragioni.  Erano 
allora  in  Crema,  tra  fanti  e  cavalli,  circa  due  mila  soldati  : 
conlavansi  fra  i  capitani  Maffeo  Cagnolo,  Silvestro  da  Pe- 
rugia, Antonio  Pictrasanla ,  Andrea  Delia-Matrice,  An- 
dreazzo  Gravina,  Baldassarc  da  Romano  e  Cristoforo  Alba- 
nese. Non  andò  guari  che  i  Cremaschi  incominciarono  a 
querelarsi  perchè  tanta  soldatesca  era  mantenuta  a  tutte 
loro  spese,  ed  ingombrava  le  loro  abitazioni:  ne  fecero  ri- 
mostranze a  Renzo  Ceri,  ed  egli  sollevolli  dal  peso  del 
mantenimento,  a  condizione  però  che  il  Comune  sommi- 
nistrasse mensilmente  alle  truppe  mille  carra  di  legna , 
e  trecento  cinquanta  di  strame  l1 .  Altre  e  più  gravose 
condizioni  dovette  aggiungere  poco  appresso  onde  soddisfare 
i  bisogni  e  le  pretese  della  soldatesca. 

Per  quale  motivo  il  governo  di  Venezia  teneva  in  Crema 
così  grosso  presidio  con  tanta  molestia  dei  cittadini  ?  È  a 
sapersi  che  la  repubblica  spasimava  di  ricuperare  tutti  i 
suoi  possedimenti  di  terra  ferma  perduti  colla  battaglia 
d'Agnadello:  quali  erano  allora  occupati  dagli  Imperiali, 
quali  dai  Francesi,  quali  dagli  Svizzeri  a  nome  del  duca  di 
Milano.  Volendo  quindi  ripiantare  le  insegne  di  S.  Marco 
sulle  terre  dì  Brescia ,  di  Cremona  e  della  Ghiaradadda , 
Venezia  profittò  del  riacquisto  di  Crema ,  per  farla  centro 
delle  sue  operazioni  militari,  e  presidiolla  con  buon  nerbo 

(1)  Tkrki.  Storia  di  Crema. 


—  538  — 
di  milizie,  affidate  a  Renzo  Ceri,  condottiero  ripulatissimo. 
Vero  è  che  la  repubblica  veneta  partecipava  ancora  alla 
così  delta  Lega  Santa  formata  da  Giulio  II,  ma  il  senato 
diffidava  alquanto  dei  suoi  alleati.  E  con  giusti  molivi,  pe- 
rocché il  pontefice  e  gli  Spagnuoli  s'erano  già  inlesi  fra  di 
loro  onde  impedire  che  Venezia  risorgesse  dai  paliti  disa- 
stri poderosa  come  prima  della  battaglia  d'AgnadelIo.  Giu- 
lio li  si  era  confederato  a  Venezia  non  perchè  le  nutrisse 
simpatia,  ma  per  odio  sommo  ai  Francesi:  dopo  che  Lui- 
gi XII  fu  cacciato  d'Italia,  poco  importavagli  che  l'impera- 
tore od  altri  ghermissero  alla  repubblica  una  parie  de' suoi 
antichi  possedimenti.  Erano  scorsi  due  mesi  dal  riacquisto 
di  Crema,  allorché  Venezia  vide  smascherarsi  la  perfidia  de' 
suoi  alleali.  L'esercito  veneziano  aveva  cinto  Brescia  d'asse- 
dio: i  Francesi,  che  vi  tenevano  ancora  un  debole  presidio, 
stavano  per  arrendersi,  quando,  sopraggiunto  il  viceré  Gar- 
dena co' suoi  Spagnuoli,  pretese  gli  si  consegnasse  quella 
città,  e  tanto  si  maneggiò,  che  l'Aubigny,  governatore  fran- 
cese, cedette  Brescia  a  lui  e  non  ai  Veneziani  (15  novem- 
bre 1512).  Né  qui  s'arrestarono  le  pretese  del  Cardona, 
che  altre  ne  sfoderava  sopra  Bergamo  e  Crema,  quantunque 
fossero  già  ritornate  in  potere  della  repubblica.  In  questo 
modo  spergiuravansi  sfacciatamente  a  danno  di  Venezia  i 
patti  della  lega  santa:  ma  di  che  non  è  capace,  sclama  il 
buon  Muratori,  la  smoderata  avidità  e  ambizione  d  alcuni 
principi?  (*) 

Renzo  Ceri,  veduto  il  mal  tiro  che  alla  repubblica  gio- 
cavano i  di  lei  alleali,  pensò  a  meglio  fortificare  Crema , 
avvisando  quanto  fosse  un'  importante  posizione,  e  quanto 
premesse  al  governo  di  Venezia  di  conservarla.  Fece  ro- 
vinare i  borghi,  nel  mentre  i  Cremaschi  andavano  rifacen- 
doli: abbassò  le  mura  del  castello  distruggendone  le  mer- 

C-C/ 

{{')  Muratori.  Annali  d'Italia. 


Ialino,  (ul  afforzolle,  ove  occorreva,  di  terrapieni.  I  Cremaschi 
deploravano  nel  segreto  dell'animo  tanti  costosi  preparativi 
di  guerra,  ma  ancor  più  si  lamentavano  per  le  sconfinate 
pretese  delle  troppe  che  presidiavano  la  loro  città.  A  sba- 
razzarsene almeno  di  una  palle,  composero  quattro  com- 
pagnie di  terrazzani  (sommavano  a  circa  mille  uomini),  e  le 
offersero  a  Renzo  ('eri  in  cambio  di  altrettanti  àt  SUOÌ  sol- 
chili: Renzo  accettò  l'offerta,  ma  a  rinforzo  e  non  iiià  in 
cambio  delle  sue  milizie. 

Intanto  la  repubblica  veneta  negoziava  la  pace  con  lini 
ponitore  Massimiliano  d'Austria.  Entrò  in  quelle  negozia- 
zioni Giulio  II ,  e  propose  ai  Veneziani  di  cedere  a  Massimi- 
liano Verona  e  Vicenza,  rilenendo  Padova  e  Treviso,  coll'o- 
nere  di  un  annuo  censo  da  pagarsi  alla  corte  cesarea.  11 
governo  veneto,  comunque  dissangualo  da  tre  anni  di  guerra 
disastrosissima,  rifiuta  sdegnosamente  le  proposte  del  pon- 
tefice: vuol  riguadagnare  tulle  le  perdute  provincie  di  terra 
ferma,  e  conoscendo  difficilissima  impresa  domare  da  solo  la 
cupidigia  e  l'invidia  de'  suoi  nemici,  cerca  un  alleato  in  Luigi 
re  di  Francia.  Stranissimo  e  impreveduto  mutamento  di 
cose!  Pochi  mesi  innanzi,  Venezia  guerreggiava  contro  Fran- 
cia, ora  ricorre  a  lei  per  alleanza.  La  lega  venne  infatti 
combinala,  e  la  conchiuse  per  la  repubblica  Andrea  Grilli 
ch'era  in  Francia  prigioniero,  e  chi  scese  dalle  Alpi  in  Italia 
promettitore  di  trionfi  alla  nuova  alleanza  fu  FAlviano,  il 
coraggioso  generale  che  da  tre  anni  scontava  nelle  prigioni 
francesi  la  colpa  del  suo  troppo  ardimento.  Base  dell'  al- 
leanza fra  Luigi  XII  e  la  repubblica  fu  il  trattalo  altra  volta 
conchiuso  (1499)  tra  Francia  e  Venezia,  con  cui  promelte- 
vansi  ai  Veneziani  (olire  tulle  le  loro  provincie  di  terra 
ferma)  Cremona  e  la  Ghiaradadda,  e  al  re  de' Francesi 
tutto  il  rimanente  del  ducalo  di  Milano  (*). 

(i)  Sismondi.  Storia  delle  Repubbliche  llaliane. 


—  540  — 

Questi  patti  vengono  sottoscritti  segretamente  a  Blois,  il 
giorno  24  marzo  dell'anno  1513.  Luigi  XII,  cui  delle  con- 
quiste fatte  in  Italia  non  avanzavano  che  i  castelli  di  Mi- 
lano, di  Trezzo,  di  Cremona,  e  la  Lanterna  ossia  Finale  di 
Genova,  allestisce  un  poderoso  esercito  sotto  il  comando  di 
Lodovico  della  Tremouille  per  ispedirlo  in  Italia  all'ago- 
gnato riacquisto  del  ducato  di  Milano.  Ne  figurava  allora 
signore  il  duca  Massimiliano  Sforza,  principe  dappoco,  a  cui 
l'imperatore  avea  conferita  l'investitura  del  ducato,  com- 
prendendovi anche  Bergamo,  Brescia  e  Crema;  questa  volta 
vantando  la  corte  Germanica  su  dette  città  le  antiche  ra- 
gioni di  supremo  dominio. 

La  lega  tra  Francia  e  Venezia  è  pubblicala  nel  mese  di 
maggio  (1515).  Il  senato  veneto  per  mostrarsi  zelante  nel- 
l'adcmpirne  le  condizioni,  e  operoso  amico  di  re  Luigi,  or- 
dina che  sia  tosto  vettovagliato  il  castello  di  Cremona  pre- 
sidiato tuttavia  dai  Francesi.  Ne  assume  l' impresa  Renzo 
Ceri:  esce  da  Crema,  si  scontra  a  Soresina  colle  schiere  di 
Alessandro  Sforza,  le  volge  in  fuga,  e  giunge  vittorioso  in 
Cremona  a  fornire  di  viveri  i  Francesi,  che,  difettandone, 
erano  in  procinto  d'arrendersi.  Ritornato  a  Crema,  lo  si  in- 
carica di  prender  Brescia  tenuta  dagli  Spagnuoli:  Renzo  si 
muove  di  bel  nuovo  colle  sue  bande,  e  appena  arrivato  sotto 
le  mura  di  Brescia,  gli  si  aprono  a  lui  le  porte:  gli  Spa- 
gnuoli si  ritirano  nel  castello.  Anche  Bergamo  vuol  darsi 
ai  Veneziani,  e  chiama  Renzo  Ceri  in  suo  soccorso:  egli  vi 
accorre,  se  ne  impadronisce,  e  vi  inalbera  le  insegne  della 
repubblica. 

Ma  tali  acquisti  operali  rapidamente  col  braccio  di  Renzo 
Ceri,  non  andò  guari  che  la  repubblica  fu  costretta  ad  ab- 
bandonare. Nel  giuguo  dell'anno  medesimo  (1513)  l'eser- 
cito di  Luigi  XII,  calando  in  Italia,  fu  sconfitto  dagli  Sviz- 
zeri alla  Riotta  sul  Novarese:  i  Francesi,  scompigliati  in 
quella  rovinosa  battaglia,  rivalicarono  a  tutta  fretta  le  Alpi. 


—  541  - 
Saputa  la  disfatta  dell'esercito  francese,  il  viceré Cardona 
spinge  i  suoi  S paga uoli  ad  occupare  le  terre  che  la  repub- 
blica veneta  aveva  riguadagnate.  Renzo  Ceri,  accorgendosi 
che  le  forte  non  uli  bastavano  per  difendere  in  un  tempo 
Brescia,  Bergamo  e  Cremona,  lasci;»  che  il  Cardona  se  uè 
impossessi,  e  si  ritira  collo  suo  milizie  entro  le  mura  di 
Crema. 

La  rolla  chi4  toccò  all'esercito  di  Luigi  XII  sul  Novarese 
fu  davvero  una  grave  sciagura  pei  Veneziani:  si  videro  ira- 
boccali  in  tristissima  condizione:  si  trovarono  soli  a  com- 
battere contro  Spagnuoli,  Tedeschi,  Svizzeri  e  Sforze- 
schi, tulli  congiurati  per  rovinarli.  L'Alviano,  generale  della 
repubblica,  conoscendo  impossibile  fronteggiare  in  campo 
aperto  contro  tanti  nemici,  ritirasi  a  Padova,  mandando 
Gian  Paolo  Baglio™,  con  una  parte  dell'esercito,  a  guar- 
dar Treviso.  Chiusi  l'Alviano  in  Padova,  Gian  Paolo  Ba- 
glio™ in  Treviso,  Renzo  Ceri  in  Crema  ,  queste  tre  cillà 
soltanto  erano  sul  finire  di  giugno  (1515)  in  potere  dei 
Veneziani  :  il  resto  della  terra  ferma  lasciato  in  preda  a 
nemici  devastatori. 

Renzo  Ceri  non  istette  a  Crema  inoperoso:  con  frequenti 
scorrerie  assalendo  e  depredando  nemici  nelle  terre  vicine, 
meritossi  fama  d'accorto  e  coraggioso  capitano.  Tolse  per  ben 
due  volte  agli  Spagnuoli  la  città  di  Bergamo,  la  quale  poi 
venne  occupala  da  Cesare  Ferramosca  e  Silvio  Savello,  ca- 
pitani del  duca  di  Milano.  Una  volta  Renzo  Ceri,  ladroneg- 
giando a  danno  dei  ladri,  riuscì  a  derubare  i  commissari 
spagnuoli  d'un1  ingente  somma  di  danaro  che  il  viceré  Car- 
dona aveva  smunto  dai  Bergamaschi  taglieggiandoli  barba- 
ramente. Di  lutto  quanto  bottinava,  Renzo  servivasi  per  pa- 
gare le  sue  truppe,  le  quali  garrivano  continuamente,  fino  a 
levare  in  Crema  dei  tumulti,  perchè  non  si  provvedesse  ab- 
bastanza lautamente  ai  loro  bisogni.  Essendo  il  territorio 
cremasco  circondato  da  Spagnuoli  e  Sforzeschi,  Renzo  Ceri 


—  542  — 
non  poteva  scegliere  mezzo  più  acconcio  da  satollare  le  sue 
milizie  che  gettarsi  sul  terreno  guardato  dall' inimico,  e  de- 
predarlo. Ed  egli  appunto  s'appigliò  a  questo  partito,  degno 
della  sua  scaltrezza  e  del  suo  ardimento.  Ai  19  di  giu- 
gno (1515)  esce  colle  milizie  da  Crema,  ed  arso  primiera- 
mente Spino,  irrompe  in  Pandino  ,  lo  saccheggia  e  vi  fa 
prigioniero  il  conte  Guido  Sanseverino:  ritornato  a  Crema, 
divide  fra' suoi  soldati  la  preda.  1  terrazzani  di  Caslelleone, 
sapulo  il  sacco  di  Pandino,  s'affrettano  a  stringere  con 
Renzo  un  accordo,  e  mandano  a  Crema  da  vendersi  settanta 
carradi  vino  e  cento  some  di  grano. 

Intanto  le  sorli  della  veneta  repubblica  peggioravano  più 
che  mai:  nei  dintorni  di  Vicenza  gli  Spagnuoli  ruppero  con 
battaglia  sanguinosissima  l'esercito  dell'Alviano:  vi  perirono 
molli  segnalali  capitani  della  repubblica,  e  molti  vennero 
fatti  prigioni.  Crema  vi  deplorò  la  perdita  di  Gian  Paolo 
Griffoni,  mortalmente  ferito,  e  Santo  Robatto,  uno  fra  i 
valorosi  che  vi  rimasero  prigionieri  (*).  Dopo  la  scondita 
toccata  all'Àlviano,  Prospero  Colonna,  condottiero  di  bande 
spaglinole,  venne  in  Lombardia,  proponendosi  d'imbrigliarvi 
l'audacia  di  Renzo  Ceri:  acquartierò  prima  in  Soresina,poi 
a  Romanengo.  Non  per  questo  Renzo  s'  astenne  dall'  av- 
venturarsi in  arrischiate  imprese ,  trascorrendo  con  istu- 
pendo  coraggio  le  terre  occupate  dai  nemici.  Riporteremo 
la  sua  spedizione  di  Calcinate  nel  Bergamasco,  e  quella  di 
Ouinzano  nel  territorio  di  Brescia  colle  parole  medesime 
di  Daniele  Barbaro.  «  Tanta  fu  la  virtù  del  signor  Renzo 
»'  Ceri,  che  olire  al  conservare  valorosamente  Crema,  spesse 
»  fiate  egli  usciva  anche  fuori,  ovvero  mandava  a  far  dei 
»  danni  ai  nemici.  Un  dì  fra  gli  altri  si  recò  molta  gloria, 
»  che  avendo  notizia  come  a  Calcinate  nel  Bergamasco,  mi- 


(i)  Damele  Barbaro.  Storia  veneta.  XdVArchivio  storico  Italiano,  stampalo 
in  Firenze  dal  Vieusseux. 


—  r>r>  — 
ulia  %  «mi  li  lontano  da  Crema,  alloggiava  con  cinquanta 
uomini  d'armi  e  cento  cavalleggeri  Cesare  Ferraraosca, 
deliberò  di  spogliarli  tulli.  Ai  c2  di  novembre  in  tempo 
di  notte,  mandò  fuori  Marcello  Astallo  con  ima  bando 
di  cavalli,  e  Silvestro  Narni,  e  Baldassare  da  nomano 
colle  loro  compagnie  di  fanti,  e  giunte  innanzi  giorno  n 
Calcinate,  le  genti  a  cavallo  presero  ambe  le  porle,  e  i 
fanti,  scalale  le  mura  di  entrali  arditamente,  presero 
Perramosca  con  quaranta  uomini  (ranni  e  tutti  quei  cento 
cavalleggieri :  coi  quali,  e  con  molle  altre  robe  predate, 
vincitori  in  Crema  se  ne  tornarono.  Nò  stelle  Renzo  punì») 
quieto,  che  due  giorni  dopo,  avendo  inleso  che  le  genti 
darmi  del  conte  Sansevcrino  stavano  alloggiate  a  Quin- 
zano  di  Bresciana,  oltre  20  miglia  da  Crema  lontano,  mandò 
altra  banda  di  cavalli  e  di  fanti  per  spogliarle.  Ma  per- 
chè nel  luogo  di  Trigolo  nel  Cremonese  si  trovava  buon 
numero  di  cavalli  nemici  ,  mandò  nclT  istesso  tempo  a 
quella    volta    venti  cavalli   con   olio  tamburi.    Due   ore 
avanti  giorno,  ad  un  miglio  presso  la  terra,   essi  tamburi 
diedero  ali' arme  con  tanto  strepito,  che  tutto  il  paese 
si  mise  in  fuga,  e  le  genti  di  Trigolo  impaurite,  murando 
le  porle,  si  preparavano  alla  dilesa.  In  quel  mezzo  tempo 
le  altre  nostre  genti,  entrale  in  Quinzano,  presero  qua- 
rantadue uomini  d'arme  del  conte  Sanseverino  col  loro 
luogotenente,  ed  altri  dieci  del  signor  Prospero  Colonna, 
e  con  questa  nuova  vittoria  fecero  a  Crema  ritorno.  Quel- 
l' istesso  giorno  alcuni  fanti  usciti  da  Crema  presero  Lo- 
dovico Malatesla  ed  Agostino  Soardi,  cittadini  bergama- 
schi ribelli  della  repubblica,  e  condussero  nella  terra  due- 
cento carra  di  legne,  paglia  e  iìeno  tolte  nel  Lodigiauo, 
delle  quali  cose  i  nostri  avevano  estremo  bisogno.  Pro- 
cedevano queste  onorevoli  operazioni  dalla  rara  virtù  e 
prudenza  di  quell'illustre  capitano,  e  dalla  singolare  fede 
di  quei  popoli,  i  quali  prestavano  ogni  favore  alle  nostre 


—  544  — 
»  genti,  palesando  gli  andamenti  dei  nemici.»  Prosegue  il 
cronista  veneto  encomiando  i  zelanti  servigi,  la  stupenda  fe- 
deltà della  popolazione  cremasca  verso  la  repubblica,  nar- 
rando come  il  senato  si  onorasse  e  compiacesse  di  sudditi 
tanto  devoti.  E  per  verità  le  amarezze,  gli  stenti,  i  sagrificj 
di  ogni  genere  che  i  Cremaschi  sopportarono  per  ben  quat- 
tordici mesi  durante  la  difesa  di  Renzo  Ceri,  ci  offrono  un 
modello  di  bellissima  lealtà  e  coraggiosa  rassegnazione. 

Dicemmo  quanto  pesasse  ai  Cremaschi  la  soldatesca  di 
Renzo  Ceri,  la  quale,  oltre  essere  numerosissima,  preten- 
deva alloggio  e  mantenimento  a  modo  suo,  con  quell'arro- 
ganza che  è  famigliare  al  soldato  in  tempo  di  guerra,  ove 
crede  poter  fare  ogni  suo  talento.  Succedevano  di  frequente 
contese  e  sanguinose  risse  tra  soldati  e  cittadini,  e  la  peg- 
gio toccava  sempre  ai  cittadini,  giacché  le  soperchierie  dei 
soldati  passavano  impunite.  Renzo,  per  aderire  in  qualche 
modo  ai  riclami  della  cittadinanza,  dispose  che  gli  alloggi 
militari  venissero  ripartili  nelle  case  dei  cittadini  in  pro- 
porzione dell'estimo  di  cui  godeva  ciascun  proprietario. 

Il  Comune  di  Crema  dal  canto  suo  non  trascurava  prov- 
vedimenti per  abbonire  la  soldatesca.  Dopo  la  battaglia  di 
Vicenza,  essendosi  i  nemici  della  repubblica  sparsi  per  tutte 
le  provincie  lombarde,  era  divenuto  assai  malagevole  tras- 
portare danaro  da  Venezia  a  Crema,  sicché  Renzo  trova- 
vasi  di  sovente  in  procinto  di  dover  ritardare  le  paghe 
alle  sue  milizie.  Il  Consiglio  di  Crema  promise  un  lauto 
premio  a  chi  sapesse  con  lutto  suo  rischio  portare  danari 
da  Venezia,  ed  adescati  da  tale  promessa,  non  mancarono 
gli  ardimentosi  che  fecero  dalla  metropoli  fluire  in  Crema 
un  poco  d'oro.  Nondimeno  per  le  bisogna  della  guerra,  e  per 
pagare  le  truppe ,  Renzo  Ceri  si  trovò  necessitalo  di  ricor- 
rere ai  Cremaschi  per  imprestiti  e  sovvenzioni  fin  di  sto- 
viglie e  di  formaggio.  1  cittadini,  non  che  rifìularvisi,  offri- 
vano lutto  quanto  potevano:  fra  gli  altri  il  cavalier  Barto- 


—  348  — 
lino  Terni  prestò  egli  solo  ire  mila  ducati ,  ponendo  per 
condizione  che  non  gli   venissero  restituiti  che   a   guerra 

finita.  A  furia  di  prestiti,  Renzo  In  poco  tempo  spillò  dalla 
popola/ione  cremasea  ottanta  mila  ducati  :  tuttavia  i  suoi 
soldati  non  ismclle\ano  il  vezzo  di  derubare  nelle  case  dei 

cittadini,  e  chi  amministrava  le  finanze  dell'erario  appro- 
priava^ quei  proventi  che  la  repubblica  aveva  assegnati  ai 

cittadini  onde  compensarli  dei  prestili  fatti. 

Tracotanza  di  soldati,  carezza  di  viveri,  scarsità  di  da- 
naro ,  ecco  tre  maledizioni  che  travagliavano  crudelmente 
la  città  nostra:    ma  quasi  non   bastassero    a  desolarne   la 
popolazione,  un'altra  se  ne  aggiunse  più  spaventosa  e  ir- 
reparabile, la  pestilenza.  Sviluppossi  nel  giugno  del  1515, 
e  mano  mano  andò  dilatandosi  orribilmente  nell'anno  suc- 
cessivo. 1  Cremaseli*!,  onde  arrestare  quel  flagello   stermi- 
natore, si  rivolsero  confidenti  al  ciclo  con  preghiere,  e  vo- 
tarono l'erezione  d'un  tempietto  da  dedicarsi  a  S.  Rocco > 
ma  tutto  fu  invano.  Pietro  Terni,  stalo  testimonio  a  tante 
calamità,  narrandole  sclama  con  accenti  di  profondo  do- 
lore :  «  0  poverella  Crema,  dove  per  conseguir  pietà  farai 
•  ricapito,  se  il  mondo,   se  il  cielo,  se  la  giustizia  ti  voi 
»  tano  le  spalle?  A  lacrime,  a  patientia  ed  a  morire  dispo- 
»  dìIì,  solo  rifugio  alli  tuoi  innumerevoli  guaK11.»  Eppure 
il  cumulo  di  tante  sventure   non  aveva    prostrati  onnina- 
mente gli  animi  dei  Cremaschi:  i  quali  sentendosi  ribollire 
nel  sangue  il  bellicoso  spirilo  degli  avi,   più  cruna    volta 
uscivano  anch'essi,  sull'esempio  di  Renzo  Ceri,  dalla  città 
per  affrontare  nemici  e  depredarli.  Pietro  Terni  narra  co- 
me Agostino  Benvenuti  .prendesse  e  saccheggiasse  Casti- 
glione, lerra  in  allora  fortificata  del  Lodigiano.  «  La  notte 
»  della  domenica  che  precede  il  giorno  di   carnovale  del 
»  1514,   Agostino  Benvenuto,  cittadino  nostro  >   con  fanti 

(I)  Tep.ni.  Storia  di  Crema, 

23 


—  34G  — 
»  duecento  ii>  battaglione  e  con  le  picche,  traversata  l'Adda 
»  a  guazzo,  Castione  oppidulo  lodigiano  assalta  innanzi  gior- 
»  no,  nelfhora  appunto  che  le  sentinelle  mutavano:  e  con 
»  tanto  impeto  di  tamburi,  gridi  e  foco,  ammazzati  li  custo- 
»  di,  entra,  che  in  fuga  tutte  le  genti  si  metterono  ;  la 
»  compagnia  degli  Sforzeschi,  di  sessanta  uomini  d'arme, 
»  spoglia,  l'oppidulo  saccheggia,  ed  a  cavallo  tutti  quasi  li 
»  fantaccini  rilornarono  a  Crema.  » 

Anche  i  nemici  facevano  delle  scorrerie  nel  territorio 
nostro.  Marcantonio  Filelino,  gentiluomo  romano,  esce  da 
Pandino  con  uno  stuolo  di  Sforzeschi ,  e  giurando  che 
avrebbe  toccate  le  mura  di  Crema,  arriva  fino  ad  Ombria- 
mo. Quivi  Renzo  Ceri  con  una  banda  di  cavalleggicri  lo  as- 
salisce ,  e  dopo  lunga  scaramuccia  lo  fa  prigioniero  con 
tutti  i  suoi  soldati.  Condotto  a  Crema,  il  Filelino  infuriò  cosi 
pazzamente  d'essere  caduto  nelle  mani  dell'inimico,  che 
ricusò  ostinatamente  di  prender  cibo  e  bevanda,  nò  per- 
mise gli  si  medicasse  una  ferita  riportata  combattendo  , 
onde  in  meno  di  tre  giorni  morì  da  disperato.  Poco  appresso, 
Silvio  Savello,  altro  dei  condottieri  del  duca  Massimiliano 
Sforza,  entra  nel  territorio  cremasco  con  trecento  fanti, 
trenta  uomini  d'armi,  e  quaranta  cavalleggeri,  proponen- 
dosi di  vendicare  la  morte  del  Filelino.  Si  azzuffa  colle  mi- 
lizie di  Renzo  Ceri  presso  Crespialica,  combatte  vigorosa- 
mente, ma  alla  fine  è  costretto  a  ritirarsi  lasciando  moi-, 
tissimi  de1  suoi ,  quali  prigionieri,  quali  a  morder  la  polve 
sul  campo,  quali  annegati  nelle  acque  del  Tormo. 

Questi  fatti,  onorevoli  per  Renzo  Ceri,  succedevano  ncl- 
l'aprile  del  1514:  venuto  il  maggio,  Prospero  Colonna  e 
Silvio  Savello  risolvono  di  stringere  Crema  con  durissimo 
assedio,  ed  accampano  colle  loro  genti  a  due  miglia  dalle 
mura. 

Prima  di  narrare  le  forti  e  calamitose  vicende  di  questo 
assedio,  che  durò  per  ben  quattro  mesi,  non  ammetteremo 


(li  accennare  comi*  il  pontefice  Leone  \  ,  successo  a  Gii 
lio  II,  abbia  i ti  que1  giorni  leniate  di  ricomporre  a  pace 
l'Italia.  Eletto  arbitro  a  giudicare  le  gravi  controvento  ir.» 
l'imperatore  Massimiliano  e  la  repubblica  di  Venezia,  Leone  \ 
ehiese  ai  due  potentati  elio  a  lui  si  consegnassero  come  m 
pegno  Vieeoia  e  Crèma,  lino  a  tanto  ch'egli  avrebbe  de- 
ciso quale  delle  due  dovessero  i  Veneziani  cedere  all'  im- 
peratore, il  quale  instava  principalmente  per  aver  C  reni  a. 
Le  parti  contendenti  aderirono  a  questa  propósta,  tuttavia 
le  pratiche  di  Leone  X  valsero  a  nulla:  il  pontefice  avendo 
scoperto  gl'intrighi  del  plenipotenziario  imperiale,  smise, 
come  impossibile,  l'impresa  di  rappattumarti  i  Veneziani 
con  l:  imperatore  {). 

Nel  mentre  pendevano  a  Roma  delle  trattative  sulle  sorli 
politiche  della  città  nostra,  Renzo  Ceri  persistette  con  sin- 
goiar destrezza  a  difenderla  dai  nemici  della  repubblica.  Il 
senato  veneto,  ammirando  le  sue  virtù  militari,  lo  aveva, 
sul  Unire  dell'anno  1515,  innalzalo  al  grado  di  governatore 
ceneraio  dell'esercito  della  repubblica  :  onore  che  Renzo 
Ceri  rifiutò  ,  preferendo  di  rimanere  a  Crema,  scelta  da  lui 
a  teatro  delle  sue  glorie,  ed  ove,  come  scrive  Muratori  - , 
aveva  preso  gusto  a  depredare  nemiei. 

Siamo  arrivali  col  nostro  racconto  a  giorni  di  spaven- 
tosa desolazione,  comunque  immortalassero  Renzo  Ceri 
che  seppe  mantener  Crema  ai  Veneziani,  in  onta  delle  armi 
sforzesche  che  l'assediavano,  e  fra  gli  orrori  della  fame  e 
di  una  pestilenza  sterminatrice.  Prospero  Colonna,  con 
circa  tre  mila  fanti  accampava  ad  Oifanengo:  Silvio  Savello, 
con  altrettanti,  ad  Omhriano  :  Cesare  Ferramosca,  con  gros- 
so stuolo  tra  cavalli  e  fanti,  erasi  posto  alla  torre  di  Pia- 
nengo.  Minacciato  da  tre  lati ,  Renzo  Ceri  apparecchiasi  a 
vigorosa  difesa:  ordina  sieno  atterrate  quante  casce  piante 

(1)  Vedi  le  storie  di  Venezia  del  Daru ,  dell'Ariano  e  di  Daniele  Barbata. 
(%}  Annali  d'Italia. 


—  548  — 
erano  fra  Crema  e  S.  Maria  della  Croce,  onde  potervi  gio- 
care liberamente  colle  sue  artiglierie.  Accorgendosi  che  la 
chiesa  di  S.  Maria  della  Croce  diveniva  un  punto  strate- 
gico importantissimo,  per  impedire  che  i  nemici  la  occu- 
passero, vi  manda  buon  numero  di  contadini  e  di  soldati. 
1  quali,  scrive  il  Fino,  «  fortificarono  in  modo  quella  chiesa 
»  che  non  ci  era  rimedio  da  espugnarla.  Avevano  murate 
»  le  porte  di  fuori,  e  ripieno  di  terra  e  di  travi  lutto  quel 
»  vacuo  ch'è  di  dentro  fino  al  fondo  della  chiesa;  acciochè, 
»  quando  pur  fossero  entrali  a  forza  i  nemici,  non  vi  si 
»  potessero  nascondere,  né  ripararsi  dai  colpi  di  quelli  che 
»  fossero  alla  sommità  del  tempio.  A  questo  fine  avevano 
»  parimenti  murata  la  cappella  grande.  E  per  un  usciolo 
»  si  entrava  nella  sotterranea  cappella,  dove,  fatlo  un  buco 
»  nel  vòlto,  si  ascendeva  con  scala  di  mano  nella  cappella 
»  di  sopra.  Indi  per  la  chiozzuola  salivano  alla  sommità 
»  della  chiesa,  dove  avevano  comparliti  intorno  quaranta 
»  archibugi,  coi  quali  facevano  giocar  largo  ai  nemici,  ol- 
»  tre  che  erano  ancora  ajutati  dall'artiglieria  del  castello.» 
Cesare  Ferramosca  provossi  replicatameli  te  a  pigliar  quella 
chiesa  d'assalto,  profittando  talvolta  del  bujo  della  notte , 
ma  vi  fu  sempre  respinto. 

I  nemici  con  frequenti  scorrerie  metlono  il  territorio 
crcmasco  a  sacco  ed  a  guasto:  disertale  le  biade  nei  cam- 
pi; incendiati  non  pochi  cascinaggi  a  Monlodine  e  a  Carni- 
sano  ;  ridotte  ad  uso  e  a  discrezione  delle  truppe  sforze- 
sche tutte  le  case  in  Offanengo  ed  Ombriano.  1  conladini, 
presi  da  terrore,  fuggono  dai  villaggi,  riparano  col  loro  be- 
stiame sotto  le  mura  di  Crema,  o\e  formano  capannucce 
di  paglia  per  albergarvi.  Ivi  i  meschini  ripromeltevansi 
maggior  sicurezza,  perchè  le  loro  capanne  erano  protette 
dalle  artiglierie  di  Renzo  Ceri,  oltre  di  che  separavanli  dal 
nemico  le  aeque  del  Serio  e  del  Travacone.  Vuoisi  che  gli 
assediati,   fra  quelli  che  erano  dentro    e   quelli  fuori   di 


—  349  — 
Cremi,    sommassero    a    trentaseimila  persone  0),  I   rnnia 
dini,  per  meglio  assicurarsi  nello   loro  capanne ,  avevano 

fortificata  la  sinistra  sponda    del  Travaconc:    infelicissimi  ! 

Nel  mentre  schermi  va  usi  degli  oltraggi  di  soldatesche  fero- 
ci, si  attirarono  sul  capo  calamita  senza  confronto  peggiori. 

1  viveri  penuriando,  si  trovarono  martoriati  dalla  lame,  nò 
andò  guari  che  fra  i  disagi  e  gli  stenti  di  quell'addensata 

moltitudine  serpeggiò  la  pestilenza,  mietendo  vittime  a  cen- 
ti naj  a. 

I  Cremaseli»,  rinserrali  entro  le  mura  della  città  loro, 
sono  ridotti  in  condizione  non  meno  luttuosa.  Niuna  legge 
infrena  la  rapacità,  la  violenza  delle  milizie  di  Renzo  Ceri: 
spogliano  le  case  dei  cittadini,  uccidono  chi  s'oppone  alle 
loro  prepotenze:  inesorabili  alle  miserie,  ai  pianti  di  una 
straziata  popolazione,  gì' inebbria  la  voluttà  di  poter  im- 
punemente satollare  qualunque  più  brutale  appetito.  Tanto 
iniquamente  procedeva  quel  tristo  soldarume  verso  citta- 
dini, i  quali  al  mantenimento  delle  truppe  tributavano  ogni 
mese  quaranta  lire  per  ogni  soldo  d'estimo  (*)!  Ribalda  la 
minuta  soldatesca,  ma  più  ribaldi  ancora  i  loro  capi.  Spa- 
ventoso per  infami  soprusi  era  il  nome  di  certo  Jacopo 
Micinello,  capitano  romano.  La  famiglia  Benvenuti  ricusò 
di  alloggiarlo  nelle  proprie  case:  preferì  di  acquartierarvi 
novanta  fanti,  piuttosto  che  Micinello  con  tre  suoi  famigli. 
Pensi  ognuno  (soggiunge  il  Terni)  a  che  eravamo  ridotti 
quando  un  uomo  ne  beveva  il  sangue  per  trenta. 

La  pestilenza  ond'  era  Crema  orribilmente  infetta  non 
tratteneva  il  soldato  dal  porre  le  mani  devastatrici  nelle 
case  dei  cittadini.  Anziché  spegnersi,  la  libidine  del  depre- 
dare, sconoscendo  i  pericoli  del  contagio,  si  rinfocava. 
Nelle  abitazioni  dove  giacevano  moribondi  gli  appestati , 
derelitti  dai  parenti  e  d'ogni  umano  soccorso,  irrompeva 

(i)  Terni.  Stona  di  Crema. 
(2)  Idem. 


—  550  — 
il  soldato;  ghermiva  ai  miseri  le  vesti,  le  suppelletlili ,  e 
fin  le  ammorbale  lenzuola,  poi,  come  bottino  fatto  nel 
campo  nemico  ,  le  trasportava  quasi  in  trionfo  ne1  suoi  al- 
loggiamenti. Più  il  morbo  incrudeliva,  men  si  vegliava  a 
reprimerlo:  abbandonavano  f  ufficio  loro  le  autorità  dele- 
gale a  provvedere  le  necessarie  precauzioni,  ed  il  servizio 
da  prestarsi  agli  appestati  :  ne  sfuggivano  il  letto  perfino  i 
più  stretti  congiunti;  onde,  per  uno  spietato  egoismo,  gli 
infermi  eran  condannati  a  morire  senza  poter  rivolgere 
l'ultimo  sguardo  sul  volto  di  persone  caramente  dilette. 
Intanto  i  becchini,  esercitando  all'ingrosso  il  loro  mestie- 
re, cacciavano  e  vivi  e  morti  sotterra,  ingordi  brutalmente 
di  spartirsene  le  spoglie.  Uno  fra  gli  alivi,  detto  il  Furia- 
no,  rubò  tanto,  che  cessala  la  peste,  condusse  a  Venezia 
lenzuola  per  mille  ducati  (ì].  Quattordici  mesi  durò  in  Cre- 
ma la  pestilenza,  e  ne  perirono  intorno  a  sedici  mila.  Lo 
sterminio  s'accrebbe  a  più  doppj  nell'estate  del  1514:  ove 
maggiori  i  disagi,  gli  all'anni,  gli  stenti,  più  copiosa  e  or- 
renda la  strage  del  morbo  crudelissimo ,  il  quale  si  estese 
principalmente  nei  conladini,  nella  plebe  della  città  ,  e  in 
particola^'  modo  nelle  giovani  da  marito,  talmente  che  ap- 
pena la  semente  ne  rimase^.  Le  famiglie  signorili  e  la 
soldatesca  pagarono  al  morbo  distruggitore  lenuissimo  tri- 
buto. Quando  la  moria  era  divenuta  cotanto  spaventosa 
da  rapire  un  centinajo  di  persone  al  giorno,  quattrocento 
de'  più  facoltosi  cittadini  trovarono  modo  d'uscire  da  Cre- 
ma travestili  quali  da  frati ,  quali  da  conladini.  Attra- 
versando un  suolo  sparso  di  nemici ,  passarono  al  di  là 
del  territorio  cremasco:  soldati  spagnuoli,  corrotti  dal  da- 
naro, scortavano  in  luogo  di  sicurezza  i  fuggitivi.  Alcuni 
rifugiarono  a  Piacenza,   altri   a  Lodi,  ove  incorrevano  iu 


(1)  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  Terni.  Storia  di  Crema 


—  091    — 

mioNi  perìcoli,  perchè  se  erano  ghibellini  venivano  amorosa 
mente  ospitali*;  se  guelfi,  imprigionali  e  coatrotti  i  riscattarsi 
pagando  laute  somme.  Piacenza,  signoreggiandovi  il  parlilo 
guelfo,  confortò  d'operosi  amicizia  gl'infelici  Cremasohi  : 
più  d  una  volta  spedi  loro  spezierie  per  gl'infermi,  vetto- 
vaglie per  gli  affamali.  Paris  Scotti,  gentiluomo  piacentino 
ile'  piu  ragguardevoli-,  si  meritò  a  Crema  l'invidiabile  epi- 
teto di  patire  ilei  popolo,  sovvenendolo  ili  viveri  che  me- 
nava egli  slesso  per  recondite  strade,  sOdando  il  pericolo 
ili  venir  sorpreso  daga]  inimici.  Gli  Sforzeschi  si  vendica- 
rono di  lui  bruciando  una  villa  di  sua  proprietà  :  ne  lo 
compensò  la  repubblica  di  Venezia  con  un  assegno  annuo 
di  seicento  ducali. 

Lasceremo  il  discorrere  di  fame  e  di  peste:  chi  ne  bra- 
masse più  minute  descrizioni  e  atroci  episodj,  ricorra  alla 
cronaca  di  Pietro  Terni. 

Renzo,  nell'agosto  (1514),  trovandosi  privo  di  danaro, 
pou  mano  agli  argenti  del  Monte  di  pietà  ed  a  quelli  della 
chiesa  di  S.  Maria  della  Croce:  batte  monete  del  valore  ili 
quindici  soldi  milanesi  dette  pctaccliic,  le  quali  non  ave- 
vano altro  impronto  fuorché  l'immagine  di  S.  Marco  da  un 
lato.  Né  poteva  fare  altrimenti  onde  sedare  le  sue  truppe: 
cotanto  strepitarono  pel  ritardo  degli  slipendj,  che,  a  cal- 
marle, Renzo  volle  che  il  provveditore  Coniarmi  promet- 
tesse di  abbandonar  Crema  a  loro  discrezione,  qualora  en- 
tro un  termine  stabilito  non  ricevessero  le  paghe1'.  Vene- 
zia, sapendo  la  fedelissima  Crema  balestrata  in  un  abisso 
di  miserie ,  fu  tocca  di  pietà  e  di  riconoscenza  verso  una 
popolazione  così  duramente  martoriata.  //  Concilio  dei 
Dieci  decretò  un  dono  ai  Cremasela  di  diecimila  ducati 
in  tanti  sali,  con  promessa  di  rimunerarli  ancora  in  altre 
cose  maggiori,  e  confortandoli  a  perseverare,  perchè  il  re 
di  Francia  manderebbe  tosto  in  Italia  le  sue  genti  W. 

{{)  Damele  Barbari* 
(2)  Idem. 


—  552  — 

Intanto  gli  Sforzeschi  rallegravansi  contando  le  lagrime,  i 
patimenti  degli  assediati,  e  tenevan  per  fermo  di  guadagnar 
Crema  senza  arrischiarsi  ad  assaltarla,  perchè  Renzo  sa- 
rebbe suo  malgrado  necessitato  a  cederla.  Infatti  era  im- 
possibile che  Renzo  potesse  durare  più  a  lungo ,  lottando 
contro  mali  insuperabili:  egli  stesso  se  ne  accorse,  e  in 
quegli  estremi  consultò  sé  medesimo  sul  partito  da  prendere. 
Nelle  inspirazioni  della  sua  mente  ardimentosa  gli  balenò 
un  disegno,  che  riconobbe  audacissimo;  pure,  trovandosi  in 
disperate  condizioni,  risolse  di  eseguirlo. 

Un  contadino,  detto  Baruffo,  aveva  rivelato  a  Renzo 
Ceri  il  modo  ond'erano  disposti  ad  Ombriano  gli  accampa- 
menti del  Savello.  Per  meglio  accertarsene,  Renzo  sull'im- 
brunire del  giorno  24-  agosto  (1514)  manda  fuori  di  Cre- 
ma il  capitano  Andrea  Matrice,  travestito  da  contadino,  e 
poscia,  com'ebbe  minute  informazioni  intorno  all' ordina- 
mento del  campo  nemico,  deliberò  di  assaltarlo. 

A  due  ore  di  notte  del  25  agosto,  le  genti  di  Renzo  Ceri 
escono  da  Crema,  dividendosi  in  varj  drappelli.  Andrea  Ma- 
trice ,  con  settecento  fanti  e  quattrocento  contadini  ben 
armati,  s'incammina  alla  volta  dei  Mosi;  Antonio  Pietrasanta 
e  Baldassare  da  Romano  con  le  loro  compagnie  prendono 
la  via  dei  Sabbioni,  ove  i  nemici  avevano  eretto  un  bastione 
presso  la  chiesuola  di  S.  Lorenzo  (*);  Giacomo  Micinello, 
scortato  da  cento  cavalleggieri,  si  dirige  verso  Capergnanica. 
Renzo,  col  podestà  Contarmi,  rimane  alla  custodia  della 
Porta  Ombriano ,  collocando  fuori  di  Porta  Serio  non  lungi 
dal  castello  gli  uomini  d'armi,  onde  impedissero  che  Pro- 
spero Colonna  accorresse  in  ajuto  del  Savello. 

Era  poco  più  di  mezzanotte,  quando  Andrea  Matrice,  cui 
affidossi  la  parte  più  difficile  di  quella  spedizione,  girando 

(1)  Di  questa  chiesuola  ora  non  esistono  più  tracce:  sorgeva  presso  la  cascina 
detta  la  Vakarenga  ,  e  il  terreno  ov'  era  situala  manlicue  ancora  il  nome  di 
a,  l4erenz$.. 


attorno  allo  pahuli  dei  Mosi,  arrivò  nello  vicinanze  di  Ba- 
gnolo. Vi  sosta  un  breve  istante,  fa  un'arringa  alle  truppe, 
stimolandole  a  comportarsi  valorosamente,  poi  le  conduce 

sulla  strada  che  mona  (la  Lodi  a  (ironia,  sGiando  verso  Om- 
briano, a  tergo  degli  accampamenti  nemici. Andrea  Matrice, 
tolti  a  compagni  quattro  capitani  dei  più  animosi,  s'innoltra 
eoa  essi  fin  dove  orano  le  primo  sentinelle  sforzesche,  pre- 
cedendo di  non  molti  passi  le  suo  fanterie  che  gli  tenevano 
dietro  silenziosamente.  Le  sentinelle  nemiche  avendo  gri- 
dato: Gin  va  là?  il  Matrice  rispose:  Duca,  Duca;  e  spac- 
ciandosi por  un  messaggero  che  veniva  da  Lodi  portatore 
d'importantissimi  dispacci  al  Savello,  diede  loro  certi  con- 
trassegni di  sente  che  nel  giorno  medesimo  era  venuta  nel 
campo  sforzesco.  Ingannando  in  questo  modo  le  sentinelle, 
appena  gli  venne  fatto  di  accostarsi  a  loro,  se  ne  sbarazzò 
ammazzandone  l'una  con  un  colpo  di  scure,  l'altra  con  una 
partigiana.  Il  Matrice  si  spinge  innanzi ,  trova  le  seconde 
sentinelle  che  dormivano,  e  le  uccide.  Indi  levate  le  sbarre, 
s'accosta  alla  torre  di  Ombriano  '■*),  lontana  dagli  accam- 
pamenti sforzeschi  un  tiro  d'arco,  e  costodita  da  numerosa 
guardia.  11  torreggiano,  accortosi  d'un  insolito  calpestio  che 
rompeva  il  silenzio  della  notte,  grida  alle  guardie  di  stare 
all'erta,  ma  fu  invano:  le  guardie  dormivano  tanto  sapori- 
tamente che  il  Matrice  e  i  suoi  quattro  compagni  ebbero 
agio  di  farne  un  macello  prima  che  si  risvegliassero.  Come 
si  trovò  sotto  la  torre  di  Ombriano,  Andrea  Matrice  fermossi 
alcuni  minuti  aspettando  d'essere  raggiunto  dalle  sue  fan- 
terie ,  poi  con  gagliardissimo  impeto  assalì  il  campo  degli 
Sforzeschi,  lanciando  nelle  loro  tende,  con  pentole  e  trombe 
di  legno,  certi  fuochi  lavorati  che  vi  produssero  un  incendio 
spaventevole.   Gli  Sforzeschi ,  riscuotendosi  dal   profondo 

(1)  Questa  torre  venne,  come  tante  altre  del  territorio  cremasco,  distrutta. 
Perù  i  terrazzani  d'Ombriauo  chiamano  ancora  col  nome  di  Torre  il  sito  ove 
estollevasi. 


-  di- 
sonno, s'alzano  furiosamente  dai  loro  giacìgli,  vedono  le 
fiamme  invadere  i  loro  attendamenti ,  e  poco  lungi  sfolgo- 
rare le  spade  nemiche:  un  subito  terrore  li  padroneggia, 
che  non  s'aspettavano  d'esser  attaccali  in  quell'ora  e  così 
da  vicino.  Lo  scompiglio  del  campo  sforzesco ,  gli  urli ,  il 
fragore,  le  fiamme  accrescevano  spavento  nell'animo  degli 
assaliti.  Silvio  Savello,  montato  a  cavallo,  s'affanna  indarno 
d'incoraggiare  i  suoi  fanti  italiani  a  pigliar  l'armi  e  com- 
battere; essi,  più  che  nel  vigor  delle  braccia  fidando  nella 
velocità  delle  proprie  gambe,  cercano  salvezza  nella  fuga; 
vi  si  abbandonano  lutti  precipitosamente  per  diverse  vie, 
quali  a  piò  scalzi,  quali  in  camicia  (*).  Ben  diversamente  si 
diportarono  gli  Svizzeri:  serratisi  insieme  olire  l'acqua  Ai- 
china  ,  ove  avevano  gli  alloggiamenti,  incominciano  a  far 
testa,  combattendo  tanto  robustamente,  che  i  nostri  per 
ben  due  volte  rincularono.  Il  Micinello,  che  era  a  Capcrgna- 
nica,  come  seppe  che  i  nostri  due  volte  avevano  indietreg- 
gialo, volò  a  Crema  co'  suoi  cavalleggieri,  e  narrò  a  Renzo 
che  le  sue  milizie  erano  in  piena  rotta.  Intanto  il  Matrice, 
riguadagnando  terreno,  giunge  a  impossessarsi  delle  arti- 
glierie dei  nemici,  e  le  rivolta  conlro  di  loro,  nel  mentre  i 
contadini  incalzavano  furiosamente  da  un  lato.  Il  combatti- 
mento fu  accanilo,  sanguinosissimo,  e  fini  con  totale  disfatta 
degli  Svizzeri.  Ne  fu  orribile  il  macello,  pochissimi  vi  scam- 
parono ,  perocché  né  lagrime  né  croci  con  le  braccia  gli 
giovavano,  ma  come  porci  erano  scannati  l2).  Silvio  Sa- 
vello fuggì  a  cavallo  verso  Lodi,  e  vuoisi  per  la  strada  di 
Capergnanica;  lui  fortunato!  che  il  Micinello  aveva  abban- 
donato il  suo  posto  per  farsi  messaggero  di  una  falsa  no- 
vella, altrimenti  sarebbe  caduto  in  potere  di  Renzo. 

In  quella  notte  memoranda  i  nostri  trionfarono   in  pari 
tempo  ad  Ombriano  ed  ai  Sabbioni,  ove  presso  S.  Lorenzo 

(i)  Tbhni.  Storia  di  Crema. 
(2)  Idem. 


—  550  — 

slava  trincerata  l'avanguardia  do!  campo  nemico,  composta 
di  soldati  tedeschi  e  spagnuoli.  Attaccati  improvvisamente  da 
Baldaasare  da  Romano  e  Antonio  Pietrasauta,  si  difesero 
virilmente,  Gnché  in  :»j  n  tt>  dei  nostri  sopraggi  misero  i  con 
ladini  che  menando  le  mani  con  istraordinaria  gagliardia 
li  costrinsero  ad  arrendersi  a  discrezione. 

Si  domanderà  come  mai  in  quella  notte  Prospero  Colonna 
sia  rimasto  immobile  ad  Offanengo  senza  mandar  soccorsi 
al  Savello.  Le  cronache  cremasene  affermano  clic  il  Colonna 
s'illuse;  vedendo  Ira  le  tenebre  un  incendio  lontano,  giu- 
dicò fosse  opera  di  Silvio  Savello  che  avesse  abbruciate  le 
capannello  dei  contadini  poste  in  riva  del  Travaconc.  Cre- 
dette che  i  nostri  fossero  stati  gli  assaliti  e  non  gli  assali- 
tori ,  e  ne  aveva  motivo,  giacché  Renzo  ,  onde  condurlo 
in  inganno,  fece  in  quella  notte  suonare  a  stormo  le  cam- 
pane della  ciltà,  e  tuonare  dalle  mura  le  artiglierie.  Ora 
pensale  la  meraviglia  e  lo  sgomento  del  Colonna  quando 
seppe  distrutto  il  campo  d'Ombriano,  fugato  il  Savello, 
disfattene  le  milizie.  Caduto  dell'animo,  si  pone  sulle  difese, 
aspettando  che  i  nemici  attaccassero  anche  lui  per  compire 
luminosamente  il  loro  trionfo.  Difatli  i  Cremaschi  volevano 
ad  ogni  costo  si  piombasse  addosso  al  Colonna,  ma  Renzo 
ne  li  distolse,  dicendo  ch'era  un  voler  sprecar  sangue,  pe- 
rocché il  Colonna,  anche  senza  costringerlo,  non  avrebbe  in- 
dugiato a  ritirarsi;  e  indovinò:  pochi  giorni  appresso,  Pro- 
spero Colonna  se  ne  andò  colle  sue  truppe  a  Romanengo. 

La  stemperala  allegrezza  dei  Cremaschi  per  la  disfalla 
del  Savello  è  più  facile  immaginarsi  che  descrivere.  Leg- 
giamo nel  Fino  che,  venuta  la  mattina  del  26  agosto,  tutta 
Crema  ,  per  così  dire,  andò  ad  Ombriano.  Risorti  a  no- 
vella vita,  i  Cremaschi  sboccano  dalle  porte  della  città  loro 
come  da  scoperchialo  avello,  tutti  smaniosi  di  vedere  la 
distruzione  del  campo  sforzesco,  quasi  volessero  persua- 
dersi coi  propri   occhi  che  i  nemici  vi  erano  stati  volti  in 


—  556  — ■ 
fuga  e  sconfitti.  Accorrono  in  frotta  ad  Ombriano  persone 
d'ogni  età,  d'ambo  i  sessi,  e  storpi,  e  infermi,  e  frali,  e  per- 
fin  monache il).  Quali  portavano  canestri  pieni  di  frutte , 
quali  barili  e  fiaschi  di  vino  ,  con  che  imbandirono  la  più 
gioconda  colazione  del  mondo  (2Ì,  seduli  fra  gli  avanzi  dello 
tende  nemiche,  in  mezzo  a  cadaveri  non  ancor  freddi  e  lesle 
recise ,  e  membra  qua  e  là  sparse  di  Tedeschi ,  Svizzeri , 
Spagnuoli.  Commovente  spettacolo!  Vedevi  la  gioja  rifiorire 
su  volti  falli  lividi  e  scarni  dai  lunghi  patimenti,  e  con  mu- 
tua effusione  di  tenerezza  abbracciarsi  soldati  e  cittadini , 
liberatori  e  liberali,  e  i  brindisi  le  mille  volte  replicarsi  alla 
salute  della  patria,  di  Renzo  Ceri,  della  repubblica.  In  quel 
momento,  fra  quelle  baldorie  come  poteano  i  Cremaschi  ram- 
mentarsi che  ancora  li  flagellava  un  morbo  terribile,  il  quale 
aveva  cacciati  nel  sepolcro  mollissimi  dei  loro  congiunti  ed 
amici?  Chi  rifletteva  che  l'addensarsi  di  tanta  gente  nel  me- 
desimo luogo  accresceva  il  pericolo  del  contagio?  Eppure, 
ad  onta  che  si  affittisse  in  Ombriano  una  straordinaria  mol- 
tiludine  di  persone,  e  tripudiando  vi  si  mescolassero  i  sani 
cogli  infermi,  da  quel  giorno  la  pestilenza,  anziché  infierire 
maggiormente  ,  andò  mano  mano  in  Crema  decrescendo. 
Dove  prima  di  tal  giorno  morivano  fino  a  cent' ottanta 
persone,  in  meno  di  quindici  giorni,  o  fosse  per  la  inolia 
allegrezza,  oppure  che  Dio  ci  volesse  fare  due  grazie  as- 
sieme, tutta  la  terra  fa  risanata  l3). 

I  Cremaschi,  ascrivendo  a  grazia  celeste  il  vedersi  ad  un 
tempo  liberati  e  dal  duro  assedio  e  dal  morbo  crudelissimo, 
votarono  una  processione  da  farsi  in  perpetuo  ogni  anno  il 
dì  26  agosto  :  il  voto  si  osserva  ancora  a' nostri  giorni. 
Renzo  Ceri,  per  dimostrare  che  anch' egli  riconosceva  dal 
Cielo  la  riportata  vittoria,  appese  alla  cappella  della   Beala 

(i)  Terni.  Sloria  di  Crema. 

(2)  Idem. 

(3)  A.  Fino.  Storia  di  Crema. 


—  5:>7  — 
Vergine  in  duomo  tre  stendardi  tòlti  agli  Sforzeschi  e  quat- 
tro pozzi  d'artiglieria;  Botto  questi  trofei  leggetesi  la  se- 
guente iscrizione:  Obsidione  Levali  Parta  Victoria  Po- 
steri* Monumentum  Futura  ,  Ad  Fastigio  Diva  Virginia 
Spolia  Prafiximus.  Anno  mcxiiii. 

I  contadini,  ch'ebbero  gran  parte  in  quella  vittoria,  la 
macchiarono  poi  con  atti  di  sevizie.  Scorrendo  le  campagne 
diedero  la  caccia  si  soldati  sforzeschi  che  vi  si  trovavano 
quali  sbandali ,  quali  nascosti ,  e  li  trucidarono  barbara- 
mente. Più  nefanda  senza  pari  fu  la  condotta  del  Mici- 
nello:  dopo  esser  fuggito  da  Capergnanica  per  recare  al 
(ieri  una  falsa  novella,  saputa  la  disfatta  dei  nemici,  ritorno 
vers'Ombriano  e  lunghesso  la  via  quanti  incontrava  conla- 
dini carichi  di  bottino,  altrettanti  ne  uccideva  per  ispogliarli. 

La  battaglia  d'Ombriano  è  il  più  clamoroso  fatto  d'armi 
che  segnalasse  in  Italia  Tanno  lol4.(d>.  La  difesa  di  Renzo 
Ceri  e  quella  dei  Cremascbi  contro  Federico  Barbarossa 
sono  due  avvenimenti  che  menano  della  città  nostra  scal- 
pore nei  fasti  della  storia  italiana.  Quantunque  d'epoche  fra 
di  loro  lontani,  pure,  se  ben  vi  riflettiamo,  s'annodano  per 
caratteri  di  somiglianza.  L'anno  1159  i  Cremascbi  resistet- 
tero eroicamente  contro  Federico  Barbarossa  per  non  sot- 
tostare ai  giogo  di  Cremona,  per  odio  all'imperatore  che  la 
proteggeva,  perchè  volevano  viver  liberi  o  morire.  Un  ar- 
dentissimo  zelo  d'indipendenza  sospinse  allora  i  nostri  padri 
a  dare  esempi  imperituri  di  coraggio  e  di  nobilissimi  sagri- 
licj.  Nel  1514-  i  Cremaschi  non  erano  men  teneri  della  di- 
gnità del  loro  Comune,  e  volendo  che  dell'antica  libertà  vi 
si  conservassero  almeno  le  reliquie,  sopportarono  con  sin- 
golare annegazione  patimenti  d'  ogni  sorta ,  piuttosto  che 
cedere  alle  pretese  del  duca  di  Milano  e  dell'imperator  Mas- 
similiano suo  alleato,  piuttosto  che  disertare  il  vessillo  della 

(i)  Muratori.  Annali  d'Italia. 


—  358  — 
venda  repubblica  la  quale  nelle  terre  conquistate  rispettava 
franchigie  e  statuti  municipali.  Sempre  amantissimi  di  liber- 
tà, si  può  dire  che  i  Cremasela  nel  secolo  undeciino  ne  di- 
fesero la  vita,  e  nel  decimosesto  quel  simulacro  che  ancora 
mantenevano  e  veneravano  all'ombra  del  governo  vene- 
ziano. Nell'assedio  del  1159,  come  in  quello  del  1514,  armi 
italiane  cozzarono  con  armi  ed  ambizioni  straniere,  e  fu 
guelfo  il  colore  delle  insegne  che  sventolarono  sulle  torri  di 
Crema.  Né  sapremmo  dire  se  maggiori  sventure  l'uno  o  l'altro 
assedio  accompagnassero:  giudichi  il  lettore  quale  sia  slato 
più  orribile  flagello,  la  pestilenza  mietendo  nel  1514-  circa 
quindici  mila  persone,  o  l'ira  di  Barbarossa  co' suoi  barbari 
stratagemmi,  colle  sue  impiccagioni,  coll'abbandonare  Crema 
a  discrezione  dell'esercito  che  la  ridusse  in  un  mucchio  di  ro- 
vine. Qui  noi  non  ommetteremo  dinolare,che  l'assedio  soste- 
nulo  da  Renzo  Ceri  è  nell'istoria  l'ultimo  ch'abbia  travagliato 
la  città  nostra,  e  che  fu  sul  terreno  d'Ombriano  l'anno  1514 
l'ultima  volta  che  il  popolo  cremasco  ,  entrando  nelle  file 
veneziane,  pugnò  per  l'interesse  del  proprio  Comune.  D'al- 
lora in  poi  la  politica  di  Venezia,  pensatamente  molle  e 
coll'estcro  e  nell'interno,  tolse  ai  sudditi  le  occasioni,  non 
che  le  forze  ove  ne  fosse  stato  d'uopo,  di  far  rivivere  le 
virtù  guerriere  per  le  quali  i  nostri  padri  furono  temuti  ed 
ammirati  nella  splendida  e  tempestosa  età  dei  municipj.  La 
vita  guerresca  del  popolo  cremasco,  popolo  che  nel  medio 
evo  fu  arditamente  bellicoso,  finisce  coli' anno  1514:  la 
sua  necrologia  può  scriversi  col  sangue  degli  Sforzeschi 
vinti  in  Ombriauo.  Nondimeno  ,  proseguendo  col  nostro 
racconto,  dimostreremo  che  le  virtù  militari  non  fuggirono 
dal  terreno  cremasco  col  Savello:  se  non  che  l'ardimento 
ed  il  valore,  una  volta  patrimonio  della  nostra  popolazione, 
vedremo  divenir  prerogativa  di  pochi  cittadini,  la  più  parte 
patrizi,  i  quali,  educati  alla  milizia,  coronarono  di  palme  i 
loro  stemmi,  pugnando  chi  per  la  repubblica  di  Venezia,  chi 
in  servizio  d'altri  potentati. 


—  359  — 

Li  signoria  ili  Venetta  guiderdonò  largamente  parecchie 
famiglie  nostre  pei  servigi  prestati  e  i  danni  sofferti  durante 
la  difesa  ili  Renio  Ceri.  Fra  gli  altri,  cencedette  a  messer 
Francesco  Griffoni,  in  riparaiione  di  danni,  la  metà  dell'af- 
fitto delle  botteghe  delia  fiera  di  Crema,  lu  guai  metà  sola- 
mente importava  quattrocento  (inatti  l'anno:  l'altra  metà 
cedette  a  Paolo  Scodi;  ed  a  Paris  Scolli,  olire  l'assegno  ili 
seicento  ducati ,  affidò  la  condotta  ili  100  cavalleggeri  ' 

Renzo  lece  spianine  il  monastero  ili  S.  Bernardino  (fuori 
ili  Poila  Serio)  fortificato  da  Prospero  Colonna:  spianollo 
affinchè  i  nemici  non  vi  potessero  più  accampare.  Indi,  in- 
formalo come  il  Colonna  ad  impedire  le  seminagioni  del 
frumento  spargesse  molli  de' suoi  soldali  nei  dintorni  del 
Cremasco,  spedì  il  capitano  Àndreazzo  alla  volta  di  Casti- 
glione per  sorprendervi  di  notte  tempo  gli  Spagnuoli  elu- 
si erano  colà  ritirali.  Il  Ceri  avea  disposto  questa  spedi- 
zione con  tanta  astuzia  da  poter  cogliere  nella  rete  il  Co- 
lonna colle  sue  truppe;  nondimeno  il  suo  disegno  andò 
fallito.  Il  capitano  Àndreazzo  trovò  prelesto  di  mandarlo 
a  vuoto,  perchè  temeva,  col  disfare  il  Colonna,  di  por  fine 
alla  guerra:  ciò  che  a  lui,  soldato  di  ventura,  non  garbava 
punto  ,  volendo  si  continuasse  a  menar  le  mani,  onde  go- 
dere ancora  per  qualche  tempo  gli  stipendi  della  repubblica. 

Renzo,  progettando  di  ritogliere  Bergamo  agli  Spagnuoli, 
fece  venire  a  Crema  un  rinforzo  di  mille  cinquecento  fami 
condotti  dal  conte  Bartolomeo  di  Villa  Chiara:  poi  spedì  al 
riacquisto  di  Bergamo  il  capitano  Maffeo  Cagnolo.  Questi 
ruppe  presso  Verdello  circa  duecento  fanti  spagnuoli,  entrò 
vittorioso  in  Bergamo,  e  vi  costrinse  i  nemici  a  ritirarsi  nella 
rocca.  Allora  marciarono  verso  Bergamo  Raimondo  di  Car- 
dona  viceré  di  Spagna,  e  Prospero  Colonna,  i  quali  scori- 


li) Pamele  Barbaro.    Storte   Veneziane.   Nuli' Archivio  storico   Italiana  del 
Yieusàeux. 


—  360  — 
traronsi  nel  cammino  con  Nicolò  Scollo,  Andrea  Matrice, 
e  Savaslo  Narni,  mandali  da  Renzo  Ceri  in  soccorso  del 
Cagnolo.  Le  milizie  venete  colle  spagnuole  si  mescolarono 
le  mani,  e  questa  volta  ai  capitani  di  Renzo  Ceri  toccò  san- 
guinosa sconfitta.  Il  conte  Nicolò  Scotti  fu  preso,  condotto 
prigioniero  a  Milano,  e  per  ordine  del  duca  decapitato.  Renzo 
Ceri,  accorgendosi  di  non  poter  conservare  il  possesso  di 
Bergamo,  capitolò  i*1,  riconsegnando  agli  Spagnuoli  quella 
città  che  dovette  pagare  ottanta  mila  ducali  d'oro  per  evi- 
tare il  saccheggio. 

Sul  principiare  dell'anno  1515  un'estrema  carestia  tra- 
vagliava ancora  la  citlà  nostra.  Informatone  il  governo  di 
Venezia,  deliberò  e  scrisse  di  mandar  fuori  di  Crema  i 
citladini ,  questo  riputando,  comunque  odioso,  il  partito 
più  acconcio  per  provvedere  ai  bisogni  della  guarnigione 
che  volevasi  pur  mantenere  in  grosso  numero  a  presidiar 
Crema.  Avventurosamente  però  i  riclami  fortissimi  dei  cit- 
tadini ,  e  un  poco  di  vettovaglie  portate  nella  città  nostra, 
valsero  ad  impedire  che  si  desse  in  Crema  esecuzione  alle 
lettere  ducali  pervenute  dal  governo  di  Venezia  al  nostro 
podestà. 

Renzo  Ceri,  l'anno  1515  soggiornò  ancora  nella  città 
nostra  per  nove  mesi,  né  vi  rimase  ozioso:  uscì  da  Crema 
nel  luglio  e  pose  a  sacco  la  terra  di  Castiglione:  poco  dopo 
prese  Lodi  e  la  consegnò  ai  Francesi ,  alleati  della  repub- 
blica., Ma  poi,  nutrendo  dei  rancori  coli' Alviano,  generalis- 
simo dei  Veneziani,  entrò  in  trattative  con  Leone  X  per 
accomodarsi  ai  servigi  della  Santa  sede.  La  qual  cosa  come 
seppero  Giorgio  Emo  e  Domenico  Mocenigo ,  provveditori 
del  campo  veneziano ,  vennero  a  Crema  e  Io  licenziarono. 
Allora  Renzo  Ceri  se  ne  andò  a  Piacenza,  ove  fu  onorevol- 


(i)  Se  ti  piace,  puoi  leggere  nella  storia  d'AIemauio  Fino  i  patti  di  quella 
capitolazione. 


—  SAI  - 
fattole  accollo  (la  Lorenzo  Medici,  nipote  del  papa  Leone  X, 
che  militava  con  genti  pontificie  e  spagnuole  a  favore  del 

duca  di  Milano.  Il  Medici  alììdò  subilo  a  Renzo  Ceri  la  con- 
dona di  duecento  uomini  d'armi  e  di  duecento  cavalleggcri. 

Nell'anno  medesimo  (1515)  Francesco  I,  successo  sul 
nono  di  Francia  a  Luigi  XII,  proclamatosi  duca  di  Milano, 
scese  in  Italia  e  ruppe  idi  Svizzeri  nella  battaglia  di  Mele- 
gnano  Morto  nell'anno  successivo  Ferdinando  il  Cattolico, 
re  di  Spagna,  fu  chiamato  a  succedergli  Carlo  d'Austria, 
celeberrimo  nell'istoria  col  nome  di  Carlo  V,  i!  quale  aftrcl- 
tossi  a  stringer  pace  colla  Francia,  onde  segui  il  trattato 
di  Pfoyon  cui  aderiva  l'imperatore  Massimiliano  clic  restituì, 
suo  malgrado,  Verona  ai  Veneziani.  Per  tal  modo  nel  1517, 
cessando  la  guerra  suscitata  dalla  lega  di  Cambra! ,  la  pace 
ristabiliva^  in  Italia;  e  Venezia,  dopo  aver  combattuto  otto 
anni  contro  i  principali  potentati  d'Europa,  ricuperava 
quasi  tutti  i  dominj  che  aveva  perduti. 

Meravigliosa  davvero  la  politica  che  la  repubblica  di 
S.  Marco  mantenne  in  otto  anni  di  fìerissima  lotta ,  in 
mezzo  ai  più  spaventosi  disastri  che  l'avversa  fortuna  mol- 
tiplicava, quasi  congiurasse  coi  monarchi  d'Europa  ad  an- 
nichilire la  potenza  veneziana.  Ed  è  strano,  osserva  Robcr- 
ston  t*),  come  durante  la  guerra  «Venezia  prelevasse  tali 
»  somme  che  anche  a'  nostri  giorni  si  direbbero  favolose. 
»  Quando  il  re  di  Francia  pagava  il  quaranta  per  cento  sul 

■  denaro  che  toglieva  a  prestito;  quando  Massimiliano  d'Au^ 
»  stria  era  detto  V  imperatore  senza  quattrini,  perchè  cer- 
»  cava  indarno  chi  gliene  sovvenisse,  i  Veneziani  trovarono 

■  al  cinque  per  cento  tutto  Toro  che  ad  essi  necessitava.  » 
Perfino  gli  scrittori  sistematicamente  avversi  al  nome  vene- 
ziano, ammirano  la  calma,  la  fermezza,  la  sapienza  che 
guidarono  il  senato  di  Venezia  nelle  più  terribili  strettezze 

(4)  Steri*  di  Carlo  W% 


—  o<>2  — 
nelle  quali  si  vide  precipitato  dalla  lega  di  Cambrai,  nonché 
la  prontezza  con  cui  riparava  celeramente  ai  più  gravi  sini- 
stri. «Ciò  che  torna  a  maggior  gloria  di  quella  repubblica, 
«  (scrive  Darul1»),  si  è  la  concordia  che  in  sette  anni  di  av- 
»  versila  non  mai  divise  gli  animi  dei  governanti  ». 

Ora  figuratevi  quanto  si  rallegrassero  pel  trattato  di 
Noyon  le  terre  ritornate  suddite  a  Venezia.  Simpatizzavano 
già  col  regime  della  repubblica  prima  della  iega  di  Cambrai; 
ora  poi  che  avevano  sperimentate  le  durezze  dei  governi 
stranieri,  ora  che  Venezia  risorgeva  dai  sofferti  disastri  ir- 
raggiata dalle  politiche  virtù  de'suoi  rettori,  dalla  gloria  dei 
trionfati  pericoli,  idoleggiavano  le  bandiere  di  S.  Marco:  i 
sudditi  con  omaggi  di  affettuosa  riverenza  si  prostravano 
all'alato  Leone  fino  ad  adularlo,  fino  a  dire  che  in  Italia 
sarebbe  durato  immortale  !  !  ! 

ii)  Sloi-ia  di  Venezia. 


—  ,"()->  — 


CAPITOLO   DEC1MOSECONDO, 

VICENDE    :»l    CREMA 
PI   tSONAUGI   CHE   i.v   ILLUSTRARONO   NEL   SECOLO  DECIMOSESTO. 


SOMMARIO. 

Carlo  d'Ausilia  eletto  imperatore  :  sua  rivalità  con  Francesco  l  re  di  Fran- 
ila! —  Alleanze  conchiuse  dai  Veneziani  durante  la  guerra  fra  Carlo  V  n 
Francesco  l.  —  In  mezzo  alle  calamità  che  quella  ferocissima  guerra  apportò 
in  Italia,  Crema  fu  tra  i  paesi  meno  disgraziati.—  Pace  di  Bologna,  cui 
prendon  parte  anche  i  Veneziani.  —  Dalla  pace  di  Bologna  tino  ali1  anno 
1580  la  storia  di  Crema  è  slerilissima  di  avvenimenti.  —  Erezione  del  ve- 
scovato in  Crema  :  come  fosse  governata  spiritualmente  la  provincia  cre- 
masea  prima  dell'anno  1580.  —  Molli  egregi  Cremaseli]  si  distinsero  nel 
secolo  decimosesto,  quali  nelle  lettere,  quali  nella  pittura,  quali  nelle  armi.  — 
Scrittori:  Nicolò  Amanio,  Gian  Paolo  Amanio,  Pietro  Terni,  Alemanio  Fino, 
Michele  Benvenuti,  Giorgio  Benzoni ,  Antonio  Meli,  Cristoforo  Torniola ,  ed 
alcuni  altri.  —  Pittori:  Vincenzo  Civerehi,  Carlo  Urhini,  Giovanni  da  Monie, 
Aurelio  Buso.  —  Guerrieri:  Gian  Paolo  Griffoni ,  Santo  Robatti,  Prospero 
Fracavalli,  Mario  Benvenuti,  Gabriel  Tadini  (  detto  anche  Martinengo),  Fran- 
eesco  Terni,  Bartolino  Terni  (il  giovane),  Lodovico  Vimercati  (il  giovane), 
Evangelista  Zurla  (il  giovane),  David  Noce,  Scipione  Piacenzi ,  Natale  Sca- 
letta, e  molti  altri  che  presero  parte  nella  guerra  di  Cipro  combattendo 
sotto  le  insegne  di  s.  Marco  contro  gli  Ottomani. 

La  pace  composta  col  trattalo  di  Noyon  durò  breve  tem- 
po. Morto  f  imperatore  Massimiliano  (1519),  contendono 
la  corona  imperiale  Carlo  d'Austria  e  Francesco  re  dì 
Francia,  Fuuo  e  l'altro  brigando  e  prodigando  danari  per 
ottenerla.  Viene  conferita  a  Carlo,  che,  assunto  il  nome 
ui  Carlo  V,  possedendo  vastissimi  dominj  in  Europa,  Africa 
ed  America,  potè  vantarsi  che  ne'suui  Stati  mai  non  Ira- 


—  ofì&  

montasse  il  sole.  Per  rivalila  d'ambizioni  e  d'interessi  sorse 
Ira  Carlo  V  e  Francesco  I  una  vivissima  gelosia,  quindi 
una  guerra  ferocissima  di  circa  nove  anni,  la  quale  scom- 
pigliò l'Italia,  divenuta  teatro  di  ambizioni  e  tirannie  stra- 
niere. 

I  Veneziani,  durante  la  guerra  tra  Carlo  V  e  Francesco  I, 
mantennero  una  politica  alquanto  circospelta  e  pieghevole 
a  norma  delle  circostanze,  mirando  sopratutto  a  conservare 
i  loro  dominj  di  terra  ferma.  Quando  principiarono  le  osti- 
lità (1521),  parteggiavano  ancora  per  Francia,  e  la  soccor- 
sero, quantunque  adoperassero  in  modo  di  esporre  il  meno 
possibile  nei  pericoli  delle  battaglie  le  insegne  di  S.  Marco. 
Scacciati  i  Francesi  di  Lombardia,  i  Veneziani  aderirono 
nel  1525  ad  una  lega  con  Carlo  V,  avendoli  il  senatore 
Cornaro  persuasi  essere  minor  male  per  la  repubblica  la 
vicinanza  di  uno  Sforza,  cui  l'imperatore  avea  promesso  il 
ducalo  di  Milano,  che  quella  del  re  Francesco,  o  dell'im- 
peratore medesimo.  Ma  allorché  Francesco  I  scese  in  Italia 
con  poderoso  esercito  (1524),  risvegliaronsi  nella  repubblica 
le  antiche  simpatie  per  Francia,  le  quali  s'accrebbero  ancor 
più  dopo  la  memoranda  battaglia  di  Pavia  (febbrajo  1525), 
ove  Francesco  I,  rotto  e  fatto  prigioniero,  disse  aver  per- 
duto ogni  cosa  fuorché  l'onore.  1  Veneziani,  intimoriti  al- 
lora dei  prosperosi  successi  delle  armi  imperiali,  paven- 
tando che  Carlo  V  volesse  insignorirsi  di  tutta  Italia,  s'ap- 
pigliarono per  un  istante  ad  una  politica  nazionale,  come 
i  Fiorentini  nei  secoli  antecedenti  a  tutela  dell'indipendenza 
italiana.  Il  giorno  22  maggio  del  1526  si  formò  a  Cognac 
una  lega,  delta  Santa,  tra  la  repubblica  veneia,  il  ponte- 
fice, la  Francia,  e  Francesco  Maria  Sforza,  proponendosi 
di  por  freno  ai  voli  audaci  dell'aquila  imperiale,  e  di  as- 
sodare lo  Sforza  nel  ducalo  di  Milano. 

Ci  dilungheremmo  di  troppo,  se  imprendessimo  a  nar- 
rare, come  la  guerra  combattuta  in  Italia  dopo  la  lega  di 


un-  desolasse  il  Milanese,  la  Romagna,  il  Napolitan 

il  inomlo  raccapricciò,  perchè   nel    meriggio    «Iella  civiltà, 

le  soldatesche  imperiali,  gli  Spagnuoli  principalmente,  die- 
dero la  li  esempi  di  efferata  crudeltà  da  vincere  in  para* 
gone  i  tempi  spaventosi  d'Aitila  e  d'Alarico.  Nel  1.'>C29  col 
trattato  di  Barcellona  e  coir  appuntamento  de/Ir  (((ime  « 

Cambrai,  darlo  e  Francesco  si  acconciarono:  e  nel  iliccm- 
bre  dell'anno  medesimo,  colla  mediazione  di  Clemente  VII 
>i  pacificarono  coir  imperatore  anche  i  Veneziani,  ai  quali 
vennero  assicurali  i  loro  possedimenti  di  terraferma. 

Nel  periodo  di  circa  nove  anni  dell'  atrocissima  guerra 
ira  Carlo  V  e  Francesco  I,  toccò  al  territorio  cremasco  la  sua 
parie  di  mali,  non  però  tanti  e  così  gravi  da  reggere  al 
confronto  dei  crudelissimi  che  patirono  le  vicine  città  del 
ducato  milanese.  Fino  scrive:  u  Fu  per  questa  guerra  non 
»  poco  danneggiato  il  Cremasco,  perciocché  di  quando  in 
>  quando  vi  trascorrevano  i  nemici.  F  un  giorno  avvenne 
»  che  essendosi  scoperti  dalla  banda  di  Lodi  certi  cavalli, 
»  e  dato  sospetto  di  qualche  tradimento,  si  gridò  allarme: 
■  e  corse  tutto  il  popolo  armato  alle  porte  a  difesa  della 
-  terra.  E  perchè  Riccino  d'Asola,  capitano  di  cavalleg- 
»  geri,  udito  lo  strepito,  voleva  entrar  nella  porta  d'Om- 
»  briano,  faltosegli  all'incontro  con  gran  numero  del  po- 
»  polo  Giannino  Piacenzi,  gli  disse  arditamente  che  ci  se  ne 
<»  andasse  pur  co1  suoi  soldati  attorno  le  mura:  perchè  egli 
»  coi  Cremaschi  soli  voleva  guardare  la  porta.  Di  maniera 
»  che  volendovi  pur  entrare  l'Asolano,  e  tuttavia  opponen- 
»  dosegli  il  Piacenzi  col  popolo,  fu  per  nascere  non  poco 
i>  disordine  nella  terra,  e  vi  nasceva  di  sicuro  se  il  Foscolo 
»  (il  podestà),  postosi  di  mezzo,  non  avesse  acchetata  la 
»  cosa,  ordinando  che  questi  e  quelli  stessero  alla  guardia 
«  della  porta  (i)  ti.  Pubblicatasi  la  lega  che   i  Veneziani 

(i)  Fiso.  Storia  di  Crema. 


—  5G6  - 
Fanno  1525  strinsero  con  Carlo  V,  furono  mandati  fuori 
di  Crema  lutti  coloro  che  parteggiavano  pei  Francesi.  E 
nell'anno  1524,  ai  cinque  d'ottobre,  si  tenne  una  dieta 
ad  Olfanengo  in  casa  di  Sanlo  Roballi,  patrizio  cremasco, 
ove  intervennero  i  più  cospicui  personaggi  di  que' tempi: 
vi  si  trovarono  il  viceré  di  Spagna,  il  duca  di  Borbone  fuor- 
uscito di  Francia,  il  marchese  di  Pescara,  stipendiati  dal- 
l'imperatore: il  duca  d'Urbino,  generale  allora  dei  Vene- 
ziani, il  duca  di  Milano,  e  Girolamo  Morone  governatore 
dello  Stalo  milanese.  Vuoisi  che  s' intendessero  fra  di  loro 
sul  modo  di  condurre  la  guerra  contro  Francesco  re  di 
Francia.  Nel  1525  era  governatore  in  Crema  Malatesta  Ba- 
glioni  di  Perugia,  generale  dei  Veneziani,  quando  la  repub- 
blica, dopo  la  famosa  battaglia  di  Pavia,  staccandosi  da 
Carlo  V,  si  ricongiunse,  mediante  la  lega  di  Cognac,  alla 
Francia.  Il  Buglioni ,  accordatosi  prima  segretamente  con 
Lodovico  Vistarino,  illustre  e  valoroso  Lodigiano,  uscì  da 
Crema  con  tre  mila  e  più  soldati,  e  passata  l'Adda  sopra 
barche  di  nottetempo  a  Cavenago ,  prese  la  città  di  Lodi 
con  ardimentoso  assalto,  togliendola  agli  Spaglinoli  che  la 
governavano  disumanamente  (1526). 

Anno  calamitoso  a  Crema  fu  il  1528.  Vi  si  appiccò  la 
pestilenza,  e  molti  ne  perivano.  Tuttavia  i  Cremaschi,  me- 
mori della  strage  più  orribile  che  menò  nel  1514,  questa 
chiamavano  morbetto.  In  altri  paesi  d'Italia  fu  delta  mal- 
ma  zuc co ,  perocché  era  una  febbre  pestilenziale,  nel  cui 
empito  ed  ardore  molti  divenendo  furiosi ,  si  andavano 
a  gittar  giù  dalle  finestre,  oppure  nei  pozzi  e  nei  fiumi 
senza  che  ì  medici  vi  trovassero  rimedio  i1). 

Nell'anno  medesimo  i  lanzichenecchi,  scesi  dal  Tirolo  in 
aiuto  degl'Imperiali,  attraversarono  il  territorio  cremasco 
abbruciando  Montodine,  Crederà,  Moscazzano ,  Rubbiano 

U  J  Mcn.vroBi.  Annali  d'Italia. 


—  567  — 
r  Ciselello.  Questi  disastri  ci  venivano  da  soldatesche  ne 

miche  della  Francia,  e  della  repubblica  sua  alleala:  ma  poi 
i  Cremaschi  ne  soffersero  di  peggiori  per  opera  dei  Tran 
ersi  e  dei  Veneziani  medesimi.  Ai  dodici  di  agosto  (1558) 
passò  con  grosso  esercito  sol  territorio  eremasco  monsignor 
di  S.  Polo,  generale  francese  -  sfilando  verso  Ceretò,  e  nel 
giorno  successivo  il  duca  d'Urbino,  condottiere  dei  Vene 
ztani,  menando  circa  nove  mila  soldati.  1/  uno  e  Tallio 
posero  a  sacco  le  ville  del  Crema sco,  diportandosi  peggio 
assai  dei  lanzichenecchi,  perocché,  scrive  Terni,  quelli  con 
tema ,  e  questi  liberamente  discorrevano,  e  i  lanzicliencechi 
abbruciando  le  ville  almeno  lassavano  dietro  le  ceneri,  e 
questi  fino  le  ceneri  ed  i  carboni  dei  focolari  portavano 
i'ia({\  Quasi  non  bastassero  tali  devastazioni  a  rovinare  il 
territorio  nostro,  Paolo  Nani,  provveditore  dell'esercito  ve- 
neto, permise  alle  truppe,  che  difettavano  di  vettovaglie,  di 
provvedersene  scorrendo  pel  contado  eremasco:  quindi  fi- 
guratevi le  espilazioni,  le  rapine,  i  saccheggi  che  dovettero 
soffrire  gli  abitanti  delle  nostre  campagne! 

Ciò  nondimeno  osiamo  ripetere,  che  durante  la  guerra  dì 
Carlo  V  contro  gli  alleati  di  Cognac,  la  terra  nostra,  a 
fronte  degl'infortuni  orribili  che  straziarono  molle  altre, 
fu  tra  le  avventurose.  N'  è  prova  l'udire  dal  Terni  che  a 
que'  tempi  una  moltitudine  di  Milanesi,  Lodigiani,  Piacen- 
tini, Cremonesi,  delle  più  cospicue  famiglie,  fuggendo  la 
ferocia  degli  Spagnuoli,  ricoverarono  a  Crema  come  in 
luogo  di  sicurezza,  ed  ove  vennero  accolti  fraternamente. 
Lo  slesso  duca  Francesco  Sforza,  che  gli  Spagnuoli  assedia- 
rono nel  suo  castello  di  Milano,  come  trovò  modo  d'uscir- 
ne, rifugiossi  a  Crema  e  vi  soggiornò  alcuni  mesi,  ospitato 
splendidamente  nel  palazzo  di  Sermone  Vimercati.  Che 
più?  Intanto  che  nei  vicini  paesi  ferveva  una  guerra  de- 
li) Ter.ni.  Storia  di  Crema. 


—  568  — 
vastatrice,  i  Cremasela  abbellivano  la  eiltà  loro  con  nuovi 
edifici,  rinnovarono  il  palazzo  del  Comune  (1525),  eres- 
sero V  ospedal  grande  di  S.  Maria  Siella,  e  nel  carnovale 
del  1526  sollazzaronsi  con  suntuosissimi  banchetti  e  dram- 
matiche rappresentazioni  [i\  Davvero  che  in  quegli  anni, 
calamatosissimi  all'  Italia,  i  Cremaschi  ebbero  motivo  di 
benedire  la  sorte  cui  piacque  serbarli  sudditi  a  Venezia. 

L'anno  1529  slipulavansi  gli  accordi  fra  Carlo  V  e  Fran- 
cesco I  :  i  popoli  italiani,  sfiniti  da  lunga  e  orrenda  guerra, 
se  ne  rallegrarono.  Infelicissimi!  Cessava,  è  vero,  per  loro 
il  supplizio  di  brutali  maltrattamenti,  ma  in  quell'anno, 
abbracciatisi  a  Bologna  il  pontefice  Clemente  VII  con  l'im- 
peratore Carlo  V,  soffocavano  nell'amplesso  l'indipendenza 
italiana. 

La  repubblica  di  Venezia,  accorgendosi  che  le  guerre  ave- 
vano logoralo  alquanto  le  sue  forze,  s'accomodò  anch'essa 
a  Bologna  con  Carlo  V ,  e  d'  allora  in  poi  rivolse  tutta  la 
sua  politica  nel  conservare  la  pace.  Adottando  una  neutra- 
lità armata,  schivò  dal  mescolarsi  nelle  nuove  contese  che 
insorsero  tra  Carlo  V  e  Francesco  re  di  Francia.  Però  non 
potè  scansare  dal  sostener  guerra  col  Turco  ,  e  le  bat- 
taglie combattute  nel  secolo  decimoscsto  palesarono  che 
l'antico  valore  delle  ilolle  veneziane  non  era  ancor  morto. 

Dalla  pace  di  Bologna  (1529)  scema  d'interesse  la  storia 
delle  città  venete,  di  Crema  particolarmente,  non  offrendo 
più,  fino  allo  scorcio  del  secolo  decimottavo,  spettacoli  cla- 
morosi di  guerre,  di  straniere  invasioni,  di  politici  rivol- 
gimenti. Scorrete  la  storia  di  Crema  dell'Aleniamo  Fino; 
egli  dell'età  sua  non  ha  altro  a  dirci,  che  la  successione 
dei  podestà  in  ordine  cronologico,  e  i  pubblici  spettacoli 
con  i  quali  fesleggiavasi  a  Crema  l'arrivo  di  un  provveditore 
di  terra  ferma,  e  le  ambascerie  che  il  Comune  inviava  alla 

(ì)  Vedi  le  Cronache  del  Terni  e  del  Fino. 


—  3W  — 
dominatile  per  far  omaggio  a  un  nuovo  doge,  eie  feste  che 
replicavansi  annualmente  il  giorno  tli  s.  Eufemia,  più  «li 

inde  sontuosa  quella  dell' anno  1549,  compiendosi  il  cen 
(esimo  anno  dacché  i  Cremaschi  ciano  passati  sotto  la  fc- 
Ucìssììììu  ombra  del  leone  d'oro   •>.  La  più  notevole  delle 
eose  che  il  Fino  ha  narrate  intorno  a  Crema  dell'epoca  sua, 
è  l'erezione  del  \eseovalo,  che  i  padri  nostri  anelavano  già 

da  tempo  e  conseguirono  nell'anno  1580. 

Prima  del  1580  tre  vescovi  esercitavano  nella  provincia 
cremasca  la  spirituale  giurisdizione,  quelli  di  Piacenza,  di 
Cremona,  di  Lodi.  La  città  di  Crema  era  sottoposta  al  vescovo 
piacentino,  meno  il  borgo,  che,  quantunque  nel  recinto 
della  città,  obbediva  al  vescovo  di  Cremona.  11  contado  cre- 
masco  apparteneva  in  parte  alla  diocesi  cremonese  (s* ,  in 
parte  alla  piacentina:  i  vescovi  di  Lodi  restringevano  la 
loro  autorità  ecclesiastica  sopra  poche  terre  del  Cremasco, 
perspicienti  la  provincia  lodigiana.  1  nostri  padri  strugge- 
vansi  del  desiderio  di  formare  della  provincia  loro  una 
diocesi  indipendente.  Fin  da  quando  cadde  sotto  il  dominio 
veneto,  Crema  domandò  alla  repubblica  d'essere  conside- 
rata come  città,  e  l'erezione  di  un  vescovato.  Con  una  du- 
cale dell'  otto  febbrajo  1450  la  repubblica  acconsentiva 
fosse  Crema  considerata  città,  e  partecipasse  ai  privilegi 
delle  altre  città  venete,  ma  ciò  unicamente  nei  rapporti 
temporali:  in  quanto  concerneva  gli  spirituali,  la  repub- 
blica, dal  canto  suo,  prometteva  si  sarebbe  intromessa  di 
buon  grado  a  procacciarle  dalla  sede  romana  la  chiesta 
erezione  del  vescovato  is).  Nel  successivo  anno  (1451)  i  Cre- 
maschi inviarono  un  oratore  a  Roma,  implorando  dal  som- 
mo pontefice  che  innalzasse  il  loro  Comune  a  città  vesco- 
vile,  ma   i    loro  voti  non  furono    esauditi.    Replicarono 

(1)  Alemanio  Fino.  Storia  di  Crema. 

(2)  Vedi  in  proposito  l'articolo  sul  Vescovato  nell'Appendice  a  questa  storia. 

(3)  Vedi  la  Ducale  nei  Documenti ,  Lettera  B,  al  Capitolo  IX. 


le  istanze  nel  secolo  decimosesto:  Tanno  1545  mandarono 
oratore  a  Roma  il  conte  Fortunato  Benzoni,  proponendo  a 
vescovo  di  Crema  Leonardo  Benzoni,  che  era  molto  in  fa- 
vore di  papa  Giulio  III,  e  dal  quale  fu  poi  eletto  vescovo  di 
Volturno,  città  dell' Aquileja:  pel  medesimo  negozio  del 
vescovato,  Tanno  1561 ,  incaricarono  il  loro  concittadino 
Gian  Paolo  Amanio  vescovo  d'Anglone:  e  nel  1563  spedi- 
rono a  Venezia  due  ambasciatori,  Michele  Benvenuti  e  Gian 
Francesco  Zurla,  i  quali  vi  si  adoperarono  a  tulTuomo  per 
ottenere  a  Crema  il  seggio  vescovile.  La  repubblica  vi  ade- 
riva, ma  sempre  le  difficoltà  sorgevano  a  Roma,  ove  forte- 
mente vi  si  opponevano  i  vescovi  di  Piacenza  e  di  Cremo- 
na ,  non  volendo  perdere  un  palmo  di  terreno  delle  loro 
diocesi. 

L'anno  1578  venne  a  Crema  in  qualità  di  visitatore  apo- 
stolico Gian  Ballista  Castelli  vescovo  di  Rimini:  ordinò  pa- 
recchie riforme  in  cose  ecclesiastiche,  poi  scoprendo  come 
Tessere  il  territorio  nostro  sottoposto  a  tre  diverse  diocesi 
producesse  non  pochi  disordini,  incoraggiò  la  Comunità  a 
rinnovare  in  Roma  le  pratiche  per  conseguire  il  vescovato. 
Monsignor  Castelli  non  ommise  di  significare  con  lettere  al 
pontefice  la  convenienza  di  dare  a  Crema  una  sedia  vesco- 
vile, e  papa  Gregorio  XIII ,  che  allora  sedeva  sul  Irono 
pontifìcio,  ne  rimase  convinto.  Venuto  a  morte  in  quei  dì 
monsignor  Federici  vescovo  di  Lodi,  Gregorio  XIII,  nel 
conferire  quel  vescovato,  si  riservò  la  parte  del  Cremasco 
ch'era  sottoposta  alla  diocesi  lodigiana.  Vacando  poco 
appresso,  per  la  morte  di  monsignor  Amanio,  la  prepositura 
in  Crema  dei  SS.  Giacomo  e  Filippo,  che  aveva  un  reddito 
di  circa  mille  ducali,  s'astenne  dal  conferirla,  con  inten- 
zione di  applicarla  come  parte  di  dote  al  nuovo  vescovato. 
«  Inteso  il  buon  animo  del  pontefice  per  mezzo  di  Quirino 
»  Zorla  dottore,  allora  abitante  nella  corle  di  Roma,  fu 
»   dalla  Comunità  preso  partito  di  donare  il  palagio  nuovo 


-  :>7i  — 

»  congiunto  alla  Canonica  per  abitazione  dd  nuovo  vesco- 
»  vo.  Provveditori  della  terra  erano  allora  il  cavaliere  Giti 
»  lin  Benioni  dottore,  il  cavalier  Cosmo  Benvenuti,  ed  \u 

■  lidio  Martinengo,  i  quali  mollo  caldi  si  mostrarono  nel 
-  maneggio  di  questo  negozio  '  » .  Finalmente  Gregorio  XIII, 
con  bolla  dell' undici  aprile  1380,  elevò  Crema  a  città  ve- 
scovile -  ,  e  per  quella  bolla  il  nostro  Comune  pagò  sei 
ceiiio  cinquanta  scudi.  Il  primo  vescovo  di  Crema  fu  Giro- 
lamo Diede,  gentiluomo  veneziano  e  primicerio  di  Padova: 
venne  eletto  dal  pontefice  il  giorno  21  novembre  del  1580, 
e  fece  il  solenne  ingresso  in  Crema  addì  diecinove  di  mas- 
ilio  dell'anno  successivo.  Lo  slcsso  Gregorio  XIII,  avendo 
poi  innalzala  nel  \oS"2  la  chiesa  vescovile  di  Bologna  in 
chiesa  arcivescovile,  sollomise  a  questa  la  chiesa  Crema- 
seli, che  rimase  suflYaganca  di  Bologna  fino  all'anno  1855  (3> . 
Nel  secolo  deeimoseslo  Crema  produsse  molli  egregi  per- 
sonaggi che  l'illustrarono  quali  per  dottrina:  quali  nella 
pittura,  quali  nelle  armi.  Si  distinsero  per  dottrina:  Nicolò 
Amanio,  Gio  Paolo  Amanio,  Pietro  Terni,  Aleniamo  Fino, 
Giorgio  Benzoni,  Michele  Benvenuti,  Antonio  Meli,  Cristo- 
foro Torniola  :  nella  pittura:  Vincenzo  Civerchi ,  Aurelio 
Buso,  Carlo  Urbino,  Giovanni  da  Monte;  e  nelle  armi:  Ga- 
briel Tadini  sopra  tutti,  oltre  non  pochi  allri,  alcuni  dei 
quali  incontrammo  già  nel  corso  del  nostro  racconto. 

Nicolò  Amanio.  Nacque  sul  finire  del  secolo  ^decimoquinto 
da  nobilissima  famiglia  venuta  da  Bergamo  a  stabilirsi  in 
Crema  l'anno  14oo.  Esercitò  l'ingegno  nelle  severe  disci- 
pline della  giurisprudenza,  e  vi  tesoreggiò  dottrina,  ripu- 
tazione, onori.  Chiamato  nel  lo20  a  Cremona  per  animi- 
ti» Fino.  Storia  di  Cremo. 

i    Vedi  la  Bulla  pontifìcia  riportala  in  fine  dell'Appendice. 
(3)  Vedi  l'operetta  del  professor  don  Vincenzo  Barbati  sullo  Stalo  e  Diocesi  ài 
Crema  in  riguardo  allo   spirituale,  e  l'articoli»   sul    vescovado  di  Crema  nel- 
l'Appendice a  questa  storia. 


—  572  — 
nislrare  giustizia  negli  Stati  Pallavicini,  ottenne  la  citta- 
dinanza cremasca  ([)  con  uno  speciale  privilegio  che  a  lui 
concesse  Francesco  I  re  di  Francia,  allora  duca  di  Milano. 
Più  cospicua  magistratura  occupò  Tanno  1524  in  Milano, 
essendovi  stato  eletto  podestà  dal  duca  Francesco  Maria 
Sforza. 

Nicolò  Amanio  ristoravasi  dalle  fatiche  del  giureconsulto 
coir  applicarsi  alla  poesia:  verseggiò,  e  i  dotti  del  suo  se- 
colo lo  salutarono  poeta.  Matteo  Bandello,  rammentandolo 
più  d'una  volta  nelle  sue  Novelle,  lo  ricolma  di  lodi:  lo 
chiama  virtuoso  dottore  di  leggi  e  poeta  eccellente,  il  quale 
nelle  composizioni  delle  rime  vulgari  fu  in  esprimere  gli 
affetti  amorosi,  a  questa  nostra  età,  senza  pari.  L'Ario- 
sto fa  menzione  di  Nicolò  Amanio  nell'ultimo  canto  del  suo 
poema:  il  Crescimbeni,  nella  storia  della  volgar  poesia, 
disse  egregie  le  rime  dell'Amanio:  Giraldi  (-)  ne  encomia  il 
buon  gusto,  e  particolarmente  una  canzone  scritta  da  Ni- 
colò in  morte  di  un  suo  figliuolo:  Muratori,  nella  sua  opera 
Della  perfetta  poesia,  ristampò  uno  dei  migliori  sonetti  del- 
l'Amanio, prendendone  ad  esaminare  le  bellezze  ed  i  di- 
fetti. Ma  come  mai  le  rime  di  Nicolò  Amanio  ebbero  nei 
secoli  passati  tanti  ammiratori,  ed  oggidì  sono  dimenticale? 
La  storia  dell'  italiana  letteratura  ce  ne  spiega  la  ragione. 

Nel  secolo  decimosesto  il  culto  della  poesia  erasi  diffuso 
in  ogni  classe  di  persone.  S'arrampicavano  sulle  vette  di 
Parnaso  principi,  cardinali,  cavalieri,  magistrati  ;  sonetleg- 
giando,  canzoneggiando,  quasi  tulli  proponevansi  a  modello 
le  Rime  di  Francesco  Petrarca.  Per  vezzo  d'imitazione,  per 
seguire  l'andazzo  del  secolo,  fin  gl'ingegni  più  austeri  pia- 
gnucolavano d'amore,  stemperandosi  in  rimale  spasmodie. 
E  fu  allora  che  monsignor  Della  Casa,   il  cardinal  Bembo, 


(1)  Il  privilegio  è  riportato  dall'Ansi  nell'  opera  Cremona  litterala. 

(2)  Gibaldi  .  ne!  libro  De  Poctis  nostrorum  lemporum. 


—  ò7ò  — 
e  il  nostro  giureconsulto  Amanìo,  per  tacere  di  tanti  altri, 
con  l'amoroso  cinguettare  credettero  di  poter  sfrondare  al 
Petrarca  l'alloro,  e  cingersene  la  fronte.  Ma  sgraziatamente 
le  Rime  dei  petrarchisti  del  cinquecento  non  erano  che 
variazioni  più  0  mono  eleganti  (lolle  melodie  che  sgorgarono 
dal  cuore  del  cantOT  di  Laura.  Nò  potevano  essere  altri- 
menti sonetti  e  canzoni  clic  da  gelate  fantasie  estorceva  la 
serviìe  imitazione  di  un  gran  poeta.  Nondimeno,  porcile 
molti  petrarchisti  erano  peritissimi  ncll'  uso  dell'italiana 
tavella,  perchè  sapevano  disporre  i  rubacchiati  pensieri  con 
tale  arti  tizio  di  stile  da  rendere  il  verso  armonioso  e  fra- 
grante ,  le  rime  loro  si  divulgarono  nel  mondo  letterario, 
ebbero  ammiratori  nei  dotti  e  furono  per  più  di  due  secoli 
battezzate  Gori  di  poesia.  Rammenteremo  come  Giuseppe 
Barelli,  per  aver  detto  e  provato  che  il  cardinal  Bembo  era 
poeta  dozzinale  ,  fosse  costretto  a  fuggire  da  Venezia  onde 
sottrarsi  allo  sdegno  delle  Eccellenze  Venete.  La  Dio  mer- 
cè, ne* tempi  nostri  l'idolatria  a  certi  nomi  di  letterati  che 
a  buon  mercato  acquistaronsi  fama  di  poeti  è  cessata:  è  in- 
franto lo  scettro  che  nel  regno  della  letteratura  usurpa- 
ronsi  petrarchisti  ed  arcadi:  ora  una  critica  più  sapiente, 
comunque  severa  a  molti  ,  distingue  i  poeti  dai  verseg- 
giatori: 

Son  come  i  cigni  anche  i  poeti  rari  : 
Poeti  che  non  sien  del  nome  indegni. 

Così  cantava  l'Ariosto  fin  dal  secolo  decimosesto,  e  noi, 
ad  onta  ch'egli  abbia  posto  Nicolò  Amanio  in  un  fascio  coi 
più  famigerati  ingegni  dell'età  sua,  diciamo  francamente,  che 
LAmanio,  petrarchista  anch'esso  come  il  Bembo,  fu  piut- 
tosto verseggiatore  che  poeta.  Né  ci  perderemo  a  dimo- 
strare per  quali  caratteri  i  poeti  si  distinguono  dai  verseg- 
giatori; chi  si  diletta  di  leggere  componimenti  in  versi, 
pongasi,  leggendoli,  la  mano  al  cuore,  e  i  bàttili  più  o  mcn 


—  574  - 
frequenti  gì' insegneranno  la  differenza.  L' Amanio,  come 
facitore  di  versi,  non  era  certamente  degli  inferiori  del  suo 
secolo,  che  l'uso  dell'italiana  favella  ben  conosceva,  e  dotto 
ha  lo  stile,  benché  troppo  artificioso.  E  questi  sono  i  pregi 
per  i  quali  lo  fecero  lodalissimo  il  Bandello,  il  Giraldi,  il 
Crescimbeni.  Ma  siccome  ali1  insceno  dell'Amamo  mancava 
quel  fuoco  divino  che  vivifica  il  pensiero  ed  i  sentimenti , 
come  il  raggio  celeste  animò  la  statua  di  Prometeo,  cosi 
le  sue  rime  caddero  nel  sepolcro  dell'  oblio. 

I  pochi  che  le  hanno  lette  diranno  se  noi  abbiamo  giu- 
dicato rettamente  le  rime  di  Nicolò  Amanio,  le  quali  l'abate 
Solerà,  con  gentile  pensiero,  raccolse  e  pubblicò  lanno  1848 
per  offrirle  qual  mazzo  di  rose  ad  un  amico  che  andava 
a  nozze. 

GianPaolo  Amanio.  —Nacque  dalfistessa  famiglia  e  quasi 
coetaneo  di  Nicolò.  Gian  Battista  Mazzucchelli  lo  ha  notato 
fra  gli  scrittori  italiani,  qualificandolo  poeta  volgare.  Da  una 
lettera  che  Gian  Paolo  scrisse  a  Bernardo  Tasso  nel  1554 
può  congetturarsi  ch'egli  già  da  quell'anno  fosse  ai  servigi 
del  cardinal  di  Ferrara ,  il  quale  lo  tenne  in  grande  esti- 
mazione, e  l'ebbe  in  Boma  per  suo  segretario.  Occupò  in 
Crema  la  prcpositura  dei  SS.  Giacomo  e  Filippo,  e  i  suoi 
concittadini  aveano  posto  in  lui  tanta  riverenza  che,  ma- 
neggiandosi per  ottenere  da  Boma  il  vescovato,  lo  desi- 
gnavano pastore  della  loro  Diocesi.  Fallirono  i  progetti  dei 
Cremaschi,  impediti,  come  dicemmo,  dai  vescovi  di  Piacenza 
e  di  Cremona;  nondimeno  a  Gian  Paolo  le  virtù,  la  dot- 
trina, l'ingegno  avevan  procacciata  altra  sede  vescovile: 
Tanno  1560,  scrive  TUghelli  (*),  Gian  Paolo  Amanio  fu 
eletto  vescovo  d'Anglone,  città  della  Basilicata  nel  regno  di 
Napoli.  Pio  IV,  conoscendo  i  talenti  di  Gian  Paolo,  e  la  sua 
destrezza  nel  disimpegno  degli  affari  ecclesiastici,  Io  in- 
viò al  Concilio  di  Trento,  al  quale  si  sottoscrisse. 

(1)  Ugiielli.  Italia  sacra. 


-  wu  - 

L'Amamo,  dopo  essere  st;it<>  molti  anni  ad  Anglone nella 
sua  residenza  vescovile,  rinunciò  al  pastorale  per  ritornare 
;\  Crema,  bramoso  di  morire  nella  terra  che  aveva  salutato 
coi  primi  vagiti.  Ma  la  sorte  non  glielo  consenti:  recatosi 
a  Roma  per  affari  suoi,  \i  fu  colto  dalla  mori"  il  di  1T>  di  no- 
vembre del  1579.  Fu  seppellito  nella  chiesa  di  Sinnesio  , 
iena  della  diocesi  d'A nglone,  nella  cappella  della  Conver- 
sione di  S.  Paolo,  in  un  sarcofago  fatto  da  lui  costruire, 
con  la  seguente  iscrizione.  D.  0.  li.  lo:  Paulus   Amami  < 

CeEMENSIS,    EPISCOPUS    AnGOLONENSIUM    ÌEUT    Sili!    ET    SUCCESSO- 

U1BLS  suis  Episcopis  M.D....  j) 

Alemanio  Fino  a  Gian  Paolo  A  man  io  largheggiò  di  lodi: 
narra  com'egli  nella  poesia  latina  e  nella  volgare  scrivesse 
fin  da  giovinetto  mollo  leggiadramente.  Intorno  agli  scrini 
di  Gian  Paolo  Amanio,  il  Mazzucchelli  ci  porge  le  seguenti 
notizie:  «Poche  sue  rime  si  hanno,  per  quanto  a  noi  sia 
»  noto,  alle  slampe.  Alcune  se  ne  trovano  nel  libro  terzo  delle 
»  rime  di  diversi,  stampale  a  Venezia  nel  lòoO.  Cinque  suoi 
»  sonetti  si  leggono  nel  primo  volume  delle  rime  scelte  da 
»  diversi  autori ,  stampate  in  Venezia  prezzo  Gabriel  Giolito 
»  De  Ferrari  nel  loGo,  e  due  di  essi  nel  primo  volume 
»  della  Raccolta  del  Gobbi!  Inoltre  alcuni  suoi  versi  latini 
»  si  leggono  tra  gli  elogi  degli  uomini  illustri  della  Liguria 
»  d'Uberto  Foglietta  appiè  di  quello  di  ftoscio  Doria  -  » . 

Pietro  Terni.  —  Cittadino  benemerito  a  Crema,  come  que- 
gli che  per  il  primo  ne  compilò  una  storia,  incominciando 
dalla  di  lei  origine,  e  condueendola  fin  all'anno  1553.  Nac- 
que nel  1476  addì  lo  di  marzo  da  facoltosa  e  nobile  fami- 
glia: ebbe  a  genitori  Gianbattista  e  Maddalena  Zurla.  Gio- 

(1)  Ugfelli.  Italia  sacra.  La  morte  di  Gio.  Paolo  Amanio  che  noi  ponemmo 
all'  anno  1579  per  seguire  l'Alemanio  Fino,  è  dall'Ughelli  posta  all'anno  1580. 
Di  Gio.  Paolo  Amanio  fa  cenno  anche  il  Tiraboschi  nella  sua  Storia  della  let- 
teratura italiana. 

{%)  Mazzucchelli.  Degli  Scrittori  Italiani. 


-  376  - 
Vinello,  studiò  giurisprudenza,  e  fu  parecchi  anni  cancel- 
liere del  maresciallo  Gian  Giacopo  Trivulzioa  cui  è  dedicala 
la  sua  storia  di  Crema.  Sui  quarantanni  rimpatriò,  ed  am- 
mogliatosi con  INìcolina  Benvenuti ,  ebbe  nove  figli.  Ecco 
tutlo  quanto  abbiamo  potuto  raccogliere  intorno  alla  vita 
di  Pietro  Terni,  che  il  Fino  troppo  seccamente  notò  tra  gli 
uomini  di  pregio  usciti  da  Crema. 

Giacché  pochissimo  ci  venne  fatto  di  poter  dire  intorno 
la  vita  di  messer  Pietro,  ci  allargheremo  discorrendo  dell'o- 
pera sua,  e  perchè  ancora  inedita  e  perchè  adorna  di  pregi 
non  volgari. 

Pietro  Terni,  accingendosi  a  narrare  la  storia  di  Crema, 
assumeva  un  arduo  lavoro.  Era  nuovo  il  subielto,  niuno 
l'avea  trattato  prima  di  lui  :  oltredichè  gl'incendi  e  le  guerre* 
col  distruggere  più  d'una  volta  in  Crema  l'archivio  muni- 
cipale, avevano  essiccate  le  fonti  migliori  cui  attingere  le  no- 
tizie della  più  grave  importanza.  Aggiungasi,  che  a'suoi  tempi 
giacevano  ignorate  tanle  preziose  cronache,  le  quali  arric- 
chirono le  biblioteche  nei  secoli  posteriori.  À  fronte  di  questi 
ostacoli  Pietro  Terni  compiva  il  suo  lavoro,  adoperando  accu- 
rate ricerche  e  infaticabile  diligenza.  Studiò  i  migliori  aulori 
che  scrissero  sulle  vicende  d'Italia,  rovistò  negli  archivj  di 
private  famiglie  e  in  quelli  della  città  di  Milano:  profittò  di 
alcune  cronachette  versanti  sulle  vicende  di  Crema ,  e 
raccozzò  diplomi  e  documenti  dei  quali  ha  impreziosito 
l'opera  sua. 

Erudito  ed  assennalo  è  il  primo  libro,  in  cui  messer 
Pietro  discorre  dell'origine  di  Crema.  Esposte  le  disparale 
opinioni  di  varj  scrittori  accreditati,  egli  rifiuta  quante 
aveano  men  colore  di  probabilità,  per  appigliarsi  ad  una  la 
quale  toglie  a  Crema  molti  secoli  di  favolosa  esistenza  ma 
che  ha  le  sembianze  del  verosimile.  E  l'opinione  del  Terni 
venne  poi  adottala  dal  Fino  e  dal  Sigonio,  e  Lodovico  Mu- 
ratori la  giudicò  basata  sopra  non  incongruenti  congetture. 


-  r>77  - 

ISftilla  ci  riferisce  intorno  a  Crema  dall'epoca  di  Agilulfo  i« 
dei  Longobardi  fino  a  quella  di  Enrico  HI  imperatore  di 
Germania;  ma  chi  oserebbe  fargliene  colpa?  La  storia  di 
quei  quattro  secoli  è  tenebrosa  per  città  ben  più  cospicue 

che  non  la  nostra:  e  Torse  messer  Pietro  avrà  faticato  cer- 
cando notizie  di  Crema,  ma  indarno. 
Ampia  e  vivacissima  è  la  descrizione  dell'assedio  con  cui 

Federico  Barba  rossa  cinse  Crema  Tanno  1159.  Pietro  Ter- 
ni ,  conosciuta  l' importanza  di. questa  famosissima  pagina 
della  storia  lombarda,  si  piacque  di  tratteggiarla  diffusa- 
mente, narrando  i  fatti  più  minuti,  e  lumeggiandoli  con  im- 
maginazione e  con  affetto.  Non  così  le  vicende  ili  Crema 
nei  sessantanni  che  precedettero  l'assedio  e  nei  quaranta 
che  scorsero  dopo:  ivi  accennò  troppo  laconicamente  le  ni- 
micizie  acerbissime  fra  Cremaschi  e  Cremonesi,  senza  chia- 
rirne le  cause,  senza  dimostrare  quanto  hanno  influito  nelle 
discordie  e  nella  politica  delle  altre  città  lombarde.  11  Terni, 
mano  mano  che  si  accosta  col  suo  racconto  ad  epoche  a  lui 
più  vicine,  si  allarga  nell'esposizione  degli  avvenimenti: 
dell'età  in  cui  visse  ,  narrò  e  le  cose  degne  d'essere  ram- 
memorate, ed  anche  aneddoti  di  famiglie  e  di  concittadini, 
sicché  talora^  meglio  che  storico,  lo  diresti  novelliere. 

Sommo  pregio  di  Pietro  Terni  è  di  avere  scritto  la  storia 
di  Crema  francamente,  schiettamente,  con  nobiltà  di  senti- 
menti. Nato  patrizio,  non  usò  al  patriziato  cortigianerie: 
di  parecchie  nobili  famiglie  narrò  cose  da  pungerne  la  va- 
nità gentilesca,  tanto  che  il  Fino  compendiando  il  lavoro 
del  Terni,  le  ommise.  Devoto  ai  governo  di  S.  Marco,  pure 
Hon  s'astiene  talvolta  dal  rimproverarne  i  procedimenti. 
Dello  storico,  messer  Pietro  possedeva  la  coscienza  ed  il 
coraggio,  venerande  prerogative,  che  mancano  in  tanti  inge- 
gni più  robusti,  più  illuminati  che  non  fosse  il  nostro  Terni. 

Sommo  difetto  del  Terni  è   la  forma  del   suo  lavoro!1). 

\i)  Vedi  i  Documenti.  Leltera  A. 

2I> 


—  378  — 
Impura  la  lingua,  rozzo  lo  stile,  quando  troppo  dimesso, 
quando  infronzolalo  di  soverchie  metafore:  alcune  volte 
scorretta  la  sintassi.  Fa  meraviglia  che  messer  Pietro  tras- 
curasse cotanto  l'arte  del  bello  scrivere,  nel  mentre  pro- 
fessavasi  ammiratore  ed  amico  di  Nicolò  Amanio,  e  viveva 
nell'età  che  segnalarono  Bembo,  Machiavelli,  Guicciardini. 
Egli  cercò  discolparsene  ,  ed  udite  con  quale  argomento: 
«Perchè  sono  di  nazione  lombarda,  iscusomi  se  il  mio  ra- 
»  gionare  saprà  di  lombardo  e  non  di  tosco,  perchè  non  mi 
»  è  parso  tanto  dal  mio  domestico  parlare  dislongarmi,  che 
»  dalle  fasce  e  materne  mamme  ho  riportato,  per  rimboc- 
»  carmi  parole  forastiere  che  non  sia  per  lombardo  rico- 
»  nosciuto,  e  con  la  mia  voce  falsare  gli  accenti  di  quella 
»  tanto  onorata  provincia  che  Dio  e  la  natura  mi  hanno 
»  concessa fl>  ».  Giuseppe  Racchelti  trova  lo  stile  del  Terni 
uguale  perfettamente  a  quello  che  adoperò  Bernardino  Co- 
rio  scrivendo  la  storia  di  Milano'"2):  infatti  della  somiglianza 
avvene  molta,  e  sembrano  quasi  due  gocce  dell' istessa 
fonte:  però  il  Cronacista  cremasco,  d'immaginazione  assai 
più  calda,  seppe  colorire  il  racconto  meglio  del  Corio  e  ren- 
derlo più  vivace,  più  saporoso  (*\ 

Se  gli  scritti  fossero  regola  infallibile  a  giudicare  l'animo 
dello  scrittore  ,  diremmo  messer  Pietro  Terni  cittadino  di 
tutta  onestà,  religioso,  amantissimo  della  sua  terra  natale. 
Questi  nobilissimi  sentimenti  ingemmano  le  pagine  del  suo 
lavoro  ,  e  rifulgendo  fra  la  rozzezza  dello  stile,  accrescono 
autorità  all'opera  sua,  riverenza  alla  di  lui  memoria.  Pietoso 
verso  le  classi  popolane,  sovente  ne  deplora  le  miserie,  i 
patiti  disastri;  con  parole  che  s'innalzano  a  poesia,  piange 
non  di  rado  sulle  sventure  della  patria,  piange,  egli  agiato 

(1)  Introduzione  alla  sua  storia. 

(2)  Racchetti,  nella  sua  Opera  inedita,   in  cui  -t*£tta  delle  nobili  famiglie 
cremasene. 

i3ì  Vedi  la  Nota  B. 


-  579  — 
a  patrìzio ,  sui  dolori  della  plebe.  Insomma ,  considerata 
come  cronaca  non  come  storia,  l'opera  del  Torni,  benché 
disabbellita  da  idiotismi,  da  sgrammaticature,  da  stilè  troppo 
negletto,  merita  d* essere  collocata  tra  le  migliori,  perché 
scrilta  con  senno  e  con  alleilo,  perche  li  erudisce  con  no- 
zioni e  documenti  clic  risguardtuo  i  costumi,  la  morale,  e 
talvolta  la  pubblica  economia  di  un  paese  lombardo  nei  se- 
coli del  medio  evo   '  . 

Al  smanio  l  ino  -  '.  —  A  Pietro  Terni  la  fatica  di  compi- 
lale il  primo  una  storia  di  Crema,  ad  Alemanio  Fino  toccò 
la  rinomanza  d'istoriografo  cremasco.  Intorno  alla  sua  sita, 
poche  notizie  abbiamo  potuto  raggranellare.  Era  sacerdo- 
te ,  dimorò  alcuni  anni  a  Brescia,  poi  a  Padova  ed  a  Ve- 
nezia, ove  si  maneggiò,  non  sappiamo  per  quali  inierèss  . 
con  ambasciatori  di  corti  estere,  e  con  le  alte  magistrature 
delia  repubblica.  Ritornato  a  Crema,  venne  posto  custode 
al  tempio  di  S.  Maria  della  Croce,  e  fu  allora  che  menando 
vita  tranquilla,  in  mediocri  fortune,  attese  ad  illustrare  la 
città  nostra  coi  suoi  lavori  intorno  alla  storia  di  Crema. 
L'anno  1578  ottenne  ricca  prebenda  nella  cattedrale  di 
Crema;  ve  lo  nominarono,  com'egli  scrive,  il  cavalier  Cos- 
mo, Alessandro  e  Cristoforo  Benvenuti  per  diritto  di  pa- 
tronato3. La  famiglia  Fino  era  orionda  da  Bergamo,  lo 
che  trasse  in  errore  il  padre  Donato  Calvi,  che  collocò  il 
nostro   Fino  fra  gli   scrittori  bergamaschi.  Morì  nelfotto- 


(f)  Essendo  estinto  il  ramo  della  famiglia  Terni  in  messer  Pietro,  il  di  lui 
autografo  passò  nella  famiglia  dei  conti  Clavelli  :  spentasi  anche  questa  fami- 
glia, passò  per  eredità  nella  casa  Benvenuti  che  attualmente  lo  possiede.  Al- 
cuni posseggono  in  Crema  la  copia  dell'  autografo. 

(2)  In  varie  cronache  l'AIemanio  Pino  figura  tra  f  letterali  bergamaschi  : 
s'  ^gli  sia  nato  a  Bergamo  o  a  Crema  non  sappiamo  :  certo  é  che  la  di  lui 
famiglia,  quantunque  un  ramo  se  uè  trapiantasse  a  Crema,  annoveravasi  fra 
le  patrizie  bergamasche. 

(3)  Vedi  la  sua  operetta  sugli  uomini  di  pregio  usciti  da  Crema  ,  ove  fu 
menzione  di  Michele  Benvenuti  il  vecchio. 


—  580  — 
tobrc  del  1584,  come  desunse  Tubale  Solerà  da  annotazioni 
esistenti  presso  la  curia  vescovile  di  Crema. 

Molti  scritti  il  Fino  pubblicò  in  prosa  ed  in  versi:  quelli 
che  gli  procacciarono  maggior  rinomanza  versano  sulla  sto- 
ria di  Crema.  Gian  Battista  Terni,  figlio  di  Pietro,  deside- 
rando far  istampare  il  manoscritto  di  suo  padre,  lo  diede 
a  rivedere  ad  Alemanio  Fino,  che  sconsigliò  Gian  Battista 
dal  renderlo  di  pubblica  ragione.  Pure  non  bastando  l'animo 
ad  Alemanio  di  defraudare  interamente  i  suoi  concittadini 
di  quel  prezioso  lavoro,  imprese  egli  a  compendiarlo.  Com- 
posti, sulle  tracce  del  Terni,  sette  libri  della  storia  di  Cre- 
ma ,  il  Fino  li  pubblicò,  e  furono  così  ben  accolti  da' suoi 
concittadini,  che  in  un  consiglio  tenuto  nelgennajo  del  1567 
lo  incaricarono  di  proseguire  F opera  sua,  assegnandogli  il 
Comune  un  compenso  di  ventiquattro  scudi.  Allora  il  Fino 
aggiunse  ai  sette  altri  due  libri;  un  terzo  lasciò,  morendo, 
incompiuto,  e  venne  pubblicato  poi  dal  suo  nipote  ftuma 
Pompilio  Fino,  il  quale  lo  accrebbe  di  notizie  intorno  a 
Crema  fino  all'anno  1586. 

Che  Alemanio  Fino  sia  stato  uom  dotto  e  colto  scrittore 
apparisce  dal  complesso  delle  sue  opere;  nondimeno  è  pur 
vero  che  i  suoi  dieci  libri  sulla  storia  di  Crema  lasciano 
molto  a  desiderare,  e  non  formano  che  una  bella  cronaclietta, 
come  la  qualificò  Carlo  Cattaneo  {M.  Arido  lavoro,  quantun- 
que politissimo  nello  stile,  ci  tramandò  il  Fino  col  suo  com- 
pendio della  storia  di  Crema.  Diciamo  arido,  perchè  non 
risponde  all'importanza  del  subietto,  e  perchè  poteva  con  la 
stessa  brevità  renderlo  meno  incompleto,  più  ameno,  più 
istruttivo.  Ma  per  meglio  conoscerne  i  difetti,  oltreché  biso- 
gna rammentarsi  dei  tanti  doveri  che  incombono  allo  sto- 
rico, è  pur  necessario  aver  esaminato  l'opera  del  Terni,  e 
raffrontare  fra  di  loro  i  due  cronisti. 

(i)  IVel  discorso  sull'Agro  ciemasco  e  ìudigiano ,  pubblicato  nel  Politecnico, 


—  381  — 
Pietro  Temi  nella  sua  opera  tacque  molte  noii/.ie  ris- 
giardanli  casi  importantissimi ,  ed  altre  ne  riferisce  che 
•io  valevano  la  pena  d'essere  notate.  Fino  tralasciò  que- 
ste, e  saviamente,  ma  a  quelle  non  supplì,  comò  avrebbe 
poluto  e  dovuto  faro,  da  uomo  <|ual  crii  studioso  ed  erudito. 
Terni  racconta  con  sincerità  ammirabile  e  virtù  e  ribalde- 
rie de'  suoi  concittadini,  dicendone  i  nomi  spiatellatamentc. 
Il  Tino  non  ebbe  altrettanto  coraggio,  eh  e  pure  indispen- 
sabile allo  storico  se  non  vuol  rinnegare  l'alta  sua  mis- 
sione. Timoroso  d'offuscare  i  l'asti  di  gentilizie  famiglie,  si 
rese  colpevole  di  non  poche  ommissioni  ,  tacendo  tutto 
quanto  puzzava  di  malvagità,  e  che  potesse  far  aggrottare 
le  ciglia  del  patriziato  cremasco.  Nell'Alemanio  la  riverenza 
ai  cospicui  casati  trasmodò  più  volte  fino  alla  piaggeria, 
del  che  non  crediamo  basti  a  scolparlo  la  non  facoltosa 
condizione  in  cui  trovavasi,  e  che  forse  lo  spingeva  a  gua- 
dagnarsi dei  mecenati  nella  classe  dei  nobili.  Oltre  a  ciò 
il  Fino  peccava  di  municipalismo,  vizio  comune  agli  seri- 
tori  di  quell'età.  Così  a  mo'  d'esempio,  nominando  Marchi- 
sio, il  tristo  che  per  Toro  di  Barbarossa  tradì  la  terra  na- 
tale, s'astiene  dal  dirlo  cremasco;  né  mai  accenna  la  fa- 
miglia cremasca  e  ghibellina  degli  Alchini,  spesso  menzio- 
nata dal  Terni:  quasi  temesse,  col  pronunciarne  il  nome, 
di  avvalorare  la  fama  divulgatasi  d'  un  Alchini  cremasco 
ehe  abbruciò  il  crocifisso  del  duomo.  E  a  questo  cancro 
del  municipalismo  è  forse  d'attribuirsi  un  altro  difetto  del 
Fino,  il  quale  nel  suo  racconto  ben  di  rado  esce  fuori 
delle  mura  di  Crema  per  cercare  altrove  le  cause  di  tante 
vicende  nelle  quali  fu  avvolta  la  città  nostra:  né  ti  spiega 
quali  rapporti  di  politici  interessi  fossero  tra  Crema  e  gli 
altri  municipj  di  Lombardia.  Perchè  il  popolo  cremasco  fu 
guelfo,  piuttosto  che  ghibellino?  Perchè  per  più  di  cento 
anni  la  sua  libertà  venne  astiata  dai  Cremonesi,  e  favorita 
caldamente  dai  Milanesi?  Questi  e  vari  altri  quesiti  di  pari 


—  382  — 
importanza  a  te  non  isvolge  la  storia  del  Fino:  chi  la  leg- 
gesse digiuno  di  storia  lombarda,  non  può  comprendervi 
tutti  i  fatti  nella  loro  ampiezza ,  né  impararvi  abbastanza 
la  storia  di  Crema.  11  Fino  pare  s'accorgesse  d'aver  abboz- 
zato Be'  suoi  dieci  libri  un  magro  compendio,  e  ad  incol- 
parlo pubblicò  le  Seriane,  brevi  discorsi  sopra  vari  argo- 
gomenti  di  storia  cremasca,  i  quali  aggiunse  come  appen- 
dice al  compendio  fatto  sulla  cronaca  del  Terni.  Le  Sericine 
palesano  come  il  Fino  avesse  tesoreggiato  di  erudizione 
nello  studio  delle  storie  italiane:  sarebbero  il  lavoro  più 
pregevole  dell'Aleniamo,  se  in  alcune  non  avesse  con  in- 
gegnoso velo  adombrata  la  verità  per  ismania  di  accarez- 
zare borie  patrizie  e  velleità  municipali.  Certo  professor 
Zava  di  Cremona  sorse  oppugnatore  di  alcuni  punti  delle 
Sericine:  le  difese  il  Fino  con  assai  calore,  pubblicando 
contro  il  Zava  tre  lettere  che  intitolò  Passeggiale .  ove  è 
molta  arguzia,  molta  vivezza  e  spontaneità  di  stile.  —  Altra 
operetta  di  subietto  storico  scrisse  il  Fino,  intitolandola 
Scelta  degli  uomini  di  pregio  usciti  da  Crema,  della  quale 
è  commendevole  il  pensiero  più  che  l'esecuzione.  Ivi  sono 
raccolti  in  bell'ordine  i  nomi  di  molti  ragguardevoli  perso- 
naggi, ma  con  cenni  troppo  brevi  sulla  vita  e  sulle  opere 
loro,  onde  non  servono  che  siccome  indice  dei  fatti  che 
onorano  la  memoria  dei  più  illustri  Cremasela  *'. 

Le  opere  del  Fino  sulla  storia  di  Crema,  ad  onta  delle 
mende  che  vi  riscontrammo  e  che  appariscono  senza  ajuto 
di  una  critica  microscopica,  furono  ricercate,  lette  e  avute 
in  conto  di  irrefragabili  testimonianze  da  egregi  scrittori 
di  storie  italiane.  Messere  Aleniamo  è  stalo  il  primo,  e  pos- 
siam  dire  l'unico  ,  il  quale  pubblicasse  un  ordinato  rac- 
conto di  storia  cremasca,  e    questa  fu   sua  ventura:   era 

(i)  Veggasi  nella  biografia  dell'Aleniamo  Fino,  scritta  dall'abate  Solerà,  e 
da  lui  premessa  nella  ristampa  delle  opere  del  Fino  intorno  a  Crema  ,  l'elenco 
di  tutti  gli  scritti  dell'Aleniamo  Fino  .  pubblicati  in  diversi  anni. 


—  383  — 

tra  i  forbiti  scrittori  ilei  cinquecento  nell'uso  dell'italiani 

tawlla,  e  questa  è  la  maggior  sua  lode,  che  a  lui  valse  la 
ripetanone  di  letterato,  e  l'amicizia  di  molti  ilo  iti  dell'età 
sua.  UTiraboschi,  col  dire  un  ottimo  storico  ebbe  Crema  in 

AlcìmtmD  Fine  '  ,  alludeva  principalmente  al  suo  merito 
di  castigato  ed  erudito  scrittore.  INon  sappiamo  se  i  pregi 
dello  stile  basteranno  a  preservare  il  nome  d'Àlemanio  Fino 

dal  tarlo  dei  secoli;  certo  è  che  noi  lavori  dell'umano  in- 
gegno, in  letteratura  particolarmente,  la  forma,  se  non  è 
lutto,  è  mollo.  Vedemmo  nel  santuario  della  letteratura 
accalcarsi  e  glorificarsi  uno  stuolo  di  mediocrissimi  inge- 
gni, cui  unico  vanto  fu  l'arte  dello  scrivere  purgato  ed 
elegante,  quindi  in  fatto  di  riputazioni  letterarie  sarebbe 
errore  applicarvi  l'antica  proverbio:  non  è  l'abito  che  fa 
il  monaco. 

Michele  Benvenuti  il  giovine  (*>.  — È  menzionato  dal 
Mazzucbelli  fra  gli  scrittori  italiani.  Di  lui  Alemanio  Fino 
scrisse:    «  Onoratissimo    e    compilo   gentiluomo   è  stato 

•  all'età  nostra  Michele  Benvenuti,  il  quale,  mandato  più 
»  volte  ambasciatore  a  Venezia,  gratissimo  fu  sempre  a 
»  quei  signori.  Tra  le  altre  cose,  fanno  fede  della  sua  elo- 

*  quenza  due  bellissime  orazioni  da  lui  fatte  l'una  nell'anno 
»  centesimo  dopo  l'acquisto  di  Crema  fatto  dai  Veneziani, 
»  l'altra  nella  creazione  del  Doge  Trevisan ,  da  cui  egli  fu 
»  poi  fatto  cavaliere  v3>.  »  In  queste  due  orazioni,  che  Fino 
giudicò  bellissime,  noi  trovammo  pompose  parole  più  che 
robusta  eloquenza  :  pur  non  vi  manca  certo  qual  artificio 
oratorio,  erudizione  e  pulitezza  di  stile.  I  discorsi  d'occa- 
sione ben  di  rado  s'innalzano  al  di  sopra  della  mediocrità. 

(1)  Storia  della  Letteratura  Italiana. 

(2)  Alemanio  Fino  Io  chiama  Michele  il  giovine,  per  distinguerlo  d'un  altro 
Benvenuti  dello  stesso  nome,  che  pure  annoverò  fra  gli  uomini  di  pregio  usciti 
da  Crema. 

(3)  Fino.  Scelta  degli  nomini  di  pregio. 


—  584  — 
Michele  Benvenuti  recitava  i  suoi  a  nome  di  sudditi  che 
dovevano  glorificare  i  loro  sovrani:  l'argomento  non  era 
dei  più  acconci  ad  inspirare  vigorosa  e  sublime  eloquenza. 
Oltre  a  queste  due  orazioni,  puoi  leggere  stampata  di  Mi- 
chele Benvenuti  una  lettera  a  Pietro  Aretino,  nella  raccolta 
di  lettere  scritte  a  quel  famosissimo  ribaldo,  della  cui  ami- 
cizia vantaronsi,  come  di  una  gran  ventura,  i  dotti,  i  prin- 
cipi, i  più  insigni  cavalieri  e  predati  del  suo  secolo. 

Nel  carnovale  dell'anno  1554,  tra  i  molti  pubblici  spet- 
tacoli che  si  diedero  in  Crema  «  si  recitò  in  piazza  la  com- 
»  media  degli  Ingannati ,  la  quale ,  come  da  sé  sia  bella 
tr  ed  ingegnosa,  piacque  molto  per  i  personaggi  di  conto 
»  che  la  recitavano,  fra  i  quali  fu  il  cavalier  Michele  Ben- 
»  venuti  che  vi  fece  il  prologo.  Nove  anni  dopo,  nella  casa 
»  del  cavalier  Michele  rappresentossi  X Eunuco  di  Terenzio, 
»  fatto  volgare  da  messer  Cristoforo  Benvenuto,  gentiluomo 
»  nel  ve-ro>  letterato  e  giudizioso  ({).  » 

Giorgio  Benzoni.  —  Viveva  nella  metà  del  secolo  decimo- 
sesto. Lo  dice  cremasco  Gian  Battista  Mazzucheli ,  co- 
munque alcuni  lo  vogliano  nativo  di  Venezia  ,  ove  si  era 
trapiantato  un  ramo  della  famiglia  Benzoni  di  Crema.  Oltre 
alcuni  sonetti,  l'uno  dei  quali  in  morte  di  Gaspara  Stam- 
pa, Giorgio  Benzoni  «  scrisse  e  pubblicò  le  vite  di  Fran- 
»  cesco  Donato,  Marcantonio  Trevisan  ,  e  Francesco  Ve- 
/>  niero,  dogi  di  Venezia,  tradotte  in  lingua  volgare  da  Lo- 
»  dovico  Domenichi,  e  dedicò  con  una  bellissima  lettera  a 
»  monsignor  Giovanni  Della  Casa  le  rime  di  Benedetto 
»  Varchi  (-'.  Di  questo  scrittore,  il  quale,  fosse  nato  a  Vene- 
zia oppure  a  Crema,  era  pur  sempre  rampollo  della  famiglia 
Benzoni,  patrizia  cremasca,  fa  cenno  anche  il  Cicogna  nella 
sua  opera  delle  iscrizioni  venete. 


(1)  Fino.  Storia  di  Crema. 

(&)  Uazzjuchjsuj..  Degli  scrittori  italiani. 


-  588  — 

Amomo  Mbli.  —  Frale  agostiniano:  scrisse,  ad  istigazioni 
di  Lucrezia  Borgia,  duchessa  di  Ferrara,  no  trattato  sopra 
l'orazione  domenicale,  ed  un  libro  in  lingua  Ialina  col  ti- 
tolo, Scala  dèi  Paradisa.  Onesto  fu  dal  vescovo  Zane  (lì 
Brescia  dato  a  rivedere  ad  un  monaco  camaldolese  che 
lo  giudicò  libro  divino.  Anche  il  Canoino  asserisce  che  la 
Scala  del  Paradiso  di  Antonio  Meli  «  è  opera  in  realtà 
»  più  divina  che  umana,  mercè  la  profondissima  teologia 
»  di  cui  essa  è  ricolma  (*).  »  Certo  fra  Girolamo  Grate,  cre- 
monese, preso  pur  egli  delle  hellezzc  di  questo  libro  ,  ac- 
ciocché meglio  si  divulgasse,  ne  fece  e  pubblicò  V  anno 
1614  la  versione  in  italiano.  Alcune  altre  opere  compose 
Antonio  Meli,  versanti  sopra  subietti  di  teologia  e  di  di- 
ritto canonico. 

Cristoforo  Torniola.  —  Chiaro  giureconsulto,  e,  se  cre- 
diamo al  Cogrossi  i-*,  l'oracolo  de'  suoi  tempii  che  sali  in 
gran  riputazione  colla  copia  e  saviezza  de'  suoi  scritti  le- 
gali. Moriva  Tanno  1591,  e  venne  sepolto  nella  chiesa  della 
SS.  Trinità  ove  leggevasi  la  seguente  iscrizione  scolpita  in 
marmo  : 

d.  o.  M. 

CRISTOPHORO    TORNIOL.E    J.    C. 

VIRO    PERILLl'STRl 

FIDE    OMNI    ET    JUSTITIV 

SPECTANDO 

EDITIS    ATQUE    EDEND1S 

JURIS    PRUDENTI/E    VOLUMINIBUS 

ADMIRANDO 

CUJUS    SAPIENTIA    AD   CONSULENDUM 

VIRTUS    AD    PROMERENDUM 


fi)  C  anobio.   Proscgnimento  della  storia  di  Crema. 
(2)  Fasti  storici  della  città  di  Crema. 


—  386  — 

SUPERFUIT 

H0N0R  VEL  ULTRO  SE  OBLATUS 

DEFECIT 

AD    D1GNTTATEM 

ANGELUS    FRANCIS    JUR.    ITEM   FILIL'S 

MUNUS    HOC 

PIETATIS    ET    OBSERVANTI.*: 

F. 

FASCES   INTERIM  LAURìEQ. 

SUBMITTITUB. 

QUID    ENIM    HIC    LACRIMA? 

£TATEM    ILLE    CEP1T    ANNO   MDXYI 

PR1DIE    KAL.    MART. 

PERFECIT    MDXIl 

VII    RAL.    OCTOB 

Àgli  scrittori  dei  quali  parlammo  testò  ,  aggiungeremo  i 
nomi  di  Pantaleone  Caldero,  Mercurio  Concoreggio  e  Tra- 
jano  Secco,  essendo  anch'essi  annoverati  fra  gli  scrittori 
cremaschi  del  cinquecento  nella  Scelta  degli  uomini  di 
pregio  usciti  da  Crema{ì\  Però  non  ci  fermeremo  a  di- 
scorrere delle  opere  loro,  perchè  essendo  affatto  dimenti- 
cate, abbiamo  argomento  per  credere  che  essi  non  sieno 
stati  uomini  d'alto  ingegno,  e  di  quella  riputazione  nelle 
lettere  che  loro  attribuisce  rÀIemanio  Fino.  Pantaleone 
Caldero  è  accennato  anche  dal  Tiraboschi  fra  gli  scrittori 
di  giurisprudenza,  non  già  fra  gl'insigni,  sì  bene  fra  i  non 
molto  illustri  giureconsulti  dei  quali  abbonda  il  secolo 
decimo  sesto  (*). 

Vincenzo  Civerchi.  —  Fra  gli  egregi  pittori  della  scuola 
lombarda  occupa  nella  storia  onorevolissimo  posto  Vincenzo 
Civerchi,  detto  anche  Verchio,    e   il  Vecchio  da  Crema. 

(i)  Alemanio  Fino. 

(2)  Tiraboschi.  Storia  della  letteratura  italiana. 


—  587  — 
Ignorasi  l'anno  in  cui  nacque  e  quello  in  cui  mori,  nondi 
meno  sappiamo  che  dipinse  nella  prima  nieià  del  secolo 
decimosesto.  Vincenzo  Civerchi  apri  a  Milano  scuola  di  pit- 
turo, e  n'uscirono  molti  valenti  allievi.  Avendo  dimorato 
lungo  tempo  nella  capitale  lombarda  ed  essendo  suc- 
cesso nella  scuola  B  Leonardo  da  Vinci,  il  Lomazzo  erronea- 
mente lo  collocò  fra  i  pittori  milanesi1.  Cadde  in  somi- 
gliante eri-ore  Giorgio  Vasari,  dicendolo  pittore  bresciano. 
Vero  òche  Civerchio,  scrivendo  sopra  alcuni  quadri  il  pro- 
prio nome,  appellossi  Vicentius  Civerchius  de  Crema  civis 
Brixim,  ma  con  raggiungere  Civis  Brixicc ,  voleva  ram- 
mentare l'onore  ricevuto  dai  Bresciani  che  lo  ascrissero 
alla  loro  cittadinanza.  Prova  irrefragabile  che  tosse  nativo 
di  Crema  ci  porge  messer  Pietro  Terni  di  lui  contempora- 
neo, il  quale,  narrando  nella  sua  storia  d'aver  pranzalo 
con  Vincenzo  Civerchi,  lo  chiama  suo  concittadino.  Vin- 
cenzo era  forse  un  rampollo  dell'antichissima  famiglia  Ci- 
verchi che  ancora  esisteva  in  Crema  Tanno  1740  (-). 

Non  pochi  scrittori  resero  a  Vincenzo  Civerchi  omaggio 
d'ammirazione  e  di  lodi.  Stefano  Ticozzi  dice  che  nelle  fi- 
gure fu  studialo  assai,  e  profondamente  conobbe  le  leggi 
della  prospettiva  ^\  Paolo  Lomazzo  encomia  singolarmente 
i  dipinti  a  fresco  nella  chiesa  di  S.  Eustorgio  in  Milano  , 
ove  Civerchi  istoriò  la  vita  di  S.  Pietro  martire,  dipinti  che 
i  frati  domenicani  ricopersero  barbaramente  di  bianco, 
onde  accrescer  luce  alla  cappella,  sicché  non  ne  rimasero 
che  i  pennoni  della  cupola.  Fra  Pellegrino  Orlandi  (4| 
narra  che  Vincenzo  Civerchi  valse  molto  non  solo  nella  pit- 
tura a  olio  e  a  fresco,  ma  ancora  nelV  ardii  lettura  e  nel- 


(i)  Gio.  Paolo  Lomazzo.  Trattato  dell'  arte  della  pittura,  architettura  e  scol- 
tura. 
(2)  Tintori.  Memorie  cremasche. 
(3;  Ticozzi.  Dizionario  dei  pittori. 
(4)  Abbecedario  pittorico  di  fra  Pellegrino  Antonio  Orlandi. 


—  588  — 
l'intaglio.  Ed  il  Ridolfi  pretende  sia  opera  del  Civerchi 
Vhwenzione  dell'  ornamento  e  dell'intaglio  (0.  Giorgio  Va- 
sari giudicò  il  nostro  Civerchi,  valentuomo  nei  lavori  a 
fresco  (~\  e  Vasari  stilicava  alquanto  la  lode  ai  pittori  della 
scuola  lombarda  ,  lo  che  c'incoraggia  a  dire  che  il  Civerchi 
fosse  veramente  un  artista  d'alia  riputazione. 

Narrammo  già  che  un  quadro  bellissimo  del  Civerchi, rap- 
presentante S.  Marco  con  ai  fianchi  la  Giustizia  e  la  Tem- 
peranza, adornava  la  sala  del  nostro  palazzo  municipale,  e 
che  i  Francesi  ce  lo  involarono  l'anno  1509(3,  Ora  diremo 
quali  altri  lavori  vengono  attribuiti  al  pennello  del  Civer- 
chi dal  Ronna  e  dal  Racchelti  (*>. 

È  opera  del  Civerchi  il  quadro  che  trovasi  a  Lovcrc 
nella  galleria  Tadini,  ove  è  figurata  la  Vergine  col  bambino, 
seduta  in  trono  sopra  un  basamento  di  marmo  ed  avente 
S.  Lorenzo  al  lato  destro,  e  S.  Stefano  al  sinistro:  del  Ci- 
verchi il  quadro  de' santi  Sebastiano,  Rocco  e  Cristoforo 
che  vedesi  nella  Cattedrale  di  Crema  ,  stalo  dipinto  l'an- 
no 1515  per  ventinove  ducati  d'oro.  Altro  quadro  del  Ci- 
verchi troverai  nella  sala  del  nostro  Monte  di  Pietà,  qua- 
dro in  tela  di  gran  dimensione  che  rappresenta  la  morte 
della  Vergine  Maria.  Vedrai  due  quadri,  ove  è  trattato  il 
medesimo  subietto,  anch'essi  del  Civerchi,  l'uno  nella  chiesa 
di  S.  Giacomo  in  Crema,  l'altro  nella  galleria  Tadini  a  Lo- 
vere:  rappresentano  il  battesimo  di  Cristo  per  mano  di 
S.  Giovanni  Battista.  È  pure  lavoro  del  Civerchi  la  parte 
inferiore  del  quadro  dell'assunzione  di  Maria  che  sta  nel 
coro  del  nostro  duomo  ^5). 

(1)  Ridolfi.  Storia  dei  pittori  veneti. 

(2)  Vasari.  Le  Yite  dei  Pittori. 

(3)  Vedi  il  Capitolo  X  di  questa  storia. 

(4)  Ronna,  nei  Zibaldoni  cr emaschi;  Racchetti,  nella  sua  opera  inedita  che 
tratta  delle  famiglie  nobili  di  Crema,  e  contiene  biografìe  dei  più  illustri  Cre- 
maschi. 

(5)  Sono  del  Civerchi  gli  Apostoli  estatici:  l'Assunta  è  dell'  Urbini.  Questo 
quadro  è  stato  cosi  disposto  ed  unito  dal  pittore  Piccinardi ,  anch'esso  cre- 
masco ,  ma  di  vaglia  mediocre. 


-  389  — 
Di  pitturo  a  Fresco  il  Civérchi  n'esegui  io  Crema  parecchie, 
per  commissione  quali  del  Comune,  quali  di  privale  fami- 
glie. Dipinsi'  negli  archetti  delle  sale  terrene  del  palazzo 
comunale  molti  ritratti  d'illustri  Cremaschi.  Conservansi 

ancora  alcune  sue  pitture  a  Tresco  in  una  sala  di  casa  Vi- 
mercali,  ed  in  un'altra  di  casa  Zurla,  le  quali  per  la  ras 
somiglianza  nel  colorito  e  nel  diségno  non  ammettono  dub- 
bio d'essere  due  lavori  del  medesimo  pennello.  Vuoisi  che 
i  dipinti  in  casa  Zurla  sieno  t'ultimo  lavoro  elio  il  Civérchi 
eseguì  in  Crema,  e  si  ascrivono  all'anno  1510  '*). 

A  modo  degli  artisti  de1  suoi  tempi  il  Civérchi,  dicemmo, 
fu  anche  architetto  e  scultore.  Della  sua  perizia  nello  scol- 
pire in  legno  ci  fa  testimonianza  una  statua  di  S.  Pania- 
leone,  posseduta  dall'abate  D.  Felice  Battami. 

Carlo  Urbim.  —  Quando  sia  nato  e  quando  morto,  ignorasi: 
fioriva  intorno  alla  metà  del  secolo  decimosesto  e  viveva 
ancora  nell'anno  I080.  Nelle  storie  dei  pittori  è  annoverato 
fra  gli  eccellenti  del  suo  secolo.  Lo  encomiarono  il  Lomazzo, 
il  Lanzi,  l'Orlandi,  il  Ridolfi,  i  quali  s'accordano  nel  quali- 
ficarlo grazioso,  facile  disegnatore,  gentile  nel  colorilo , 
dotto  nelle  prospettive.  Vuoisi  che  abbia  dipinto  in  com- 
pagnia di  Bernardino  Campi.  Si  distinse  nel  tratteggiare  ar- 
gomenti storici:  un  lavoro,  lodalissimo  dal  Ridolfi,  eseguì 
in  Crema  Tanno  looo  nella  sala  del  palazzo  Pretorio,  ove 
dipinse  la  battaglia  d'Ombriano ,  ossia  la  rolla  del  campo 
sforzesco  a'tempi  di  Renzo  Ceri.  Si  sa  che  abbandonò  Crema, 
perchè  indispettito  coi  padri  domenicani,  i  quali,  volendo 
far  dipingere  nella  loro  chiesa  la  cappella  della  Vergine  del 
Rosario,  a  lui  preferirono  certo  Uriele,  meschinissimo  pit- 
tore cremouese.  Domiciliatosi  a  Milano,  vi  levò  grido  del 
suo  ingegno,  ed  a  lui  piovettero  copiosamente  le  Commis- 
ti) Dei  dipinti  che  sono  in  casa  Zurla  parlo  diffusamente  in  un  opuscolo  il 
professore  d.  Basilio  Ravelli. 


—  31)0  — 
sioni.  Dei  lavori  che  eseguì  in  Milano,  sono  dagli  storici 
rammentati  i  suoi  affreschi  a  S.  Lorenzo,  le  pitture  alla 
Passione j  e  la  bella  tavola  a  S.  Maria  presso  S.  Celso, 
rappresentante  nostro  Signore  die  approssimandosi  il  co- 
minciamento  della  sua  passione,  prende  congedo  dalla  Ma- 
dre. Quest'ultima  è  opera  di  tal  merito  che,  a  giudizio  del 
Lanzi,  non  teme  la  vicinanza  dei  migliori  Lombardi  di 
quei  tempi. 

In  Crema  diede  non  pochi  saggi  del  suo  ingegno  dipin- 
gendo sia  a  fresco ,  sia  ad  olio.  Ma  delle  opere  sue  peri- 
rono molte  per  la  demolizione  delle  chiese  di  S.  Agostino 
e  S.  Caterina,  e  colla  rifabbrica  di  quella  di  S.  Benedetto, 
ove  eizli  nel  circuito  e  sulla  volta  del  coro  aveva  Usurati  i 
Crocesignati,  togliendone  il  pensiero  dall'Apocalisse.  Yedesi 
ancora  nella  chiesa  di  S.  Bernardino  sull'areone  del  pre- 
sbitero, opera  sua,  l'annunciazione  di  Maria.  Sotto  il  por- 
tico di  casa  Zurla  rappresentò  diversi  fatti  della  Gerusa- 
lemme liberata  del  Tasso,  pitture  di  molto  pregio,  ma  gua- 
ste dall'età,  e  peggio  ancora  dalla  mano  sacrilega  che  le 
ha  restaurate.  Altro  bellissimo  affresco  era  sulla  porta  del- 
d'Ospizio  dei  Trovatelli ,  ove  l'Urbini  effigiò  la  Carità  cri- 
stiana: una  donna  seduta  e  intenta  nel  dar  nutrimento  a 
parecchi  fanciulli.  Lo  perdemmo  nel  1858,  quando  quel- 
l'ospizio fu  convertito  in  caserma.  Carlo  Urbini  ornò  dei 
suoi  quadri  varie  chiese  di  Crema  U).:ne  vedrai  in  duomo, 
a  S.  Giacomo,  a  S.  Carlo,  a  S.  Benedetto,  a  S.  Bernardino. 
Quello  a  S.  Carlo,  ove  effigiò  la  Vergine  col  bambino,  S.  Giu- 
seppe e  S.  Giovannino,  è  giudicato  fra  i  suoi  migliori.  Al- 

(1)  Nel  duomo,  oltre  la  figura  della  Vergine  Assuma,  vedi  alcuni  miracoli 
di  s.  Pantaleone  :  in  s.  Giacomo,  il  quadro  nel  coro,  dell'apostolo  in  alto  di  ri- 
cevere da  G.  C.  la  sua  missione:  in  s.  Bernardino  la  pala  rappresentante  s.  Gi- 
rolamo nel  deserto,  e  s.  Francesco  in  atto  di  ricevere  le  stimate  :  in  S.  Bene- 
detto la  pala  della  ss.  Trinità,  opera  non  finita.  Nella  chiesa  ora  distrutta  di 
s.  Agostino  eravi  dell'Urbini  la  tavola  di  G.  G.  portalo  al  sepolcro,  con  la  Beau 
Vergine  ,  le  Marie  ed  altre  figure. 


-  :>9i  — 
in  due  quadri  dell' Urbini  trovanti  s  Loverc  nella  galleria 
l\nlmi,  ed  no  terze  a  Milano  oelia  galleria  di  Brera. 

Discepolo  a  Carlo  fu  il  di  lui  nipote  Vittoriano  Urbiui, 
valente  pittore  anch!esso,  ma  che  per  la  scarsità  de  suoi 
lavori  non  raggiunse  la  fama  dello  zio.  Di  Vittoriano,  unica 
opera  che  ci  limane  è  il  quadro  rappresentante  il  Padre 
Eterno,  che  dipinse  per  la  chiesa  di  S.  linceo,  ed  oggidì 
vedesi  nella  galleria  Tadini. 

Giovanni  Da  Montb,  —  È  tradizione  si  chiamasse  Da  Mon- 
te, perchè  nato  nella  villa  di  questo  nome.  Fu  scolaro  di 
Tiziano:  il  Torre  e  il  Lomazzi)  lo  pongono  tra  i  più  insigni 
pittori  milanesi  del  secolo  dccimoseslo.  Ne\V Abbecedario 
pittorico  dell'Orlandi  leggesi :  «  dipinse  in  Milano  con  forza 
»  tale  e  fondamento  di  sapere  clic  le  opere  sue  rapirono 
»  l'attenzione  dei  primi  maestri  non  solo  a  contemplarle, 
•  ina  ancora  ad  imitarle.  Occorse  a  questo  pittore  che,  ol- 
»  tenuto  dai  deputati  alla  chiesa  di  S.  Celso  di  dipingere 
»  la  tavola  della  Risurrezione  di  Nostro  Signore,  a  forza 
»  d'impegni  gli  fu  levala  la  commissione  da  Antonio  Campi. 
»  Sdegnato  per  la  mancanza  di  parola,  pregò  quei  signori 
»  a  concedergli  almeno  il  gradino  di  quell'altare,  nel  quale 
»  dipinse  a  chiaro  e  oscuro  sì  vaghe  e  spiritose  figurine, 
»  che  superò  e  mortificò  con  quelle  il  Campi.  Non  passa 
»  forestiere  dilettante  per  quella  città  che  non  vada  a  con- 
»  siderarlc  » . 

Le  cronache  cremasche  non  ci  olirono  alcuna  notizia  in- 
torno alla  sua  vita;  delle  opere  sue  una  sola  si  sa  che  ese- 
gui a  Crema ,  ed  era  un  affresco  a  chiaroscuro  sopra  la 
lacciaia  d'  una  piccola  casa  nella  piazza  di  S.  Domenico  , 
distinto  in  due  quadri ,  l'uno  dei  quali  rappresentava  il 
trionfo  di  Ciocie;  l'altro,  più  guasto  dal  tempo,  non  lasciava 
più  vedere  che  alcuni  corpi  d'uomini  nudi.  Ma  sventura- 
tamente anche  questa  pittura  andò  perduta  Tanno  1859, 
quando  s'è  creduto  di  abbellire  in  altro  modo  l'esterno  di 
quella  casa. 


—  592  — 

Aurelio  Buso.  —  Egregio  pittore  che  meritò  gii  elogi  di 
Raffaello  d'Urbino  (*\  Ebbe  a  maestri  Polidoro  da  Caravag- 
gio e  Maturino,  ai  quali  egli  ajutò  in  molti  lavori  che  ese- 
guirono a  Roma.  Il  Ridolfi  osserva  che  il  Buso  nelle  opere 
sue  riprodusse  i  concetti  de1  suoi  maestri,  non  che  di  Ra- 
faello  e  di  Giulio  Romano.  Dalle'  storie  degli  artisti  liguri 
raccogliamo  esservi  parecchie  opere  del  Buso  a  Genova:  a 
Crema  poche  ne  eseguì,  pochissime  salvaronsi  dall'  oltrag- 
gio degli  anni  e  dall'ignoranza  struggilrice  di  chi  le  posse 
deva.  Dipinse  il  Convito  degli  Dei  sopra  la  vòlta  di  una 
sala  in  casa  Zurla,  ed  altra  magnifica  sala,  nella  casa  ora  di 
proprietà  Stramezzi,  dove  ritrasse  al  naturale  una  bellis- 
sima Venere.  Lasciò  un  fregio  con  molli  corpi  d'  uomini  , 
di  donne,  di  fanciulli  ed  altri  ornamenti  nel  palazzo  Ben- 
zoni,  oggidì  ricovero  dei  trovatelli,  ed  altro  fregio  di  put- 
tini  nella  casa,  una  volta  de'  Vimercati,  poi  dei  Gridoni 
S.  Angelo,  in  Moscazzano.  S'attribuiscono  al  Buso  alcune 
pitture  quasi  deperite  in  casa  Ricci:  ivi  figurò  in  un  gruppo 
il  trionfo  d'Anfitrite,  e  due  donne  di  grandezza  quasi  al  na- 
turale portanti  lo  stemma  dell'estinta  famiglia  Goghi.  Peri- 
rono gli  affreschi  del  Buso  ch'erano  sul  torrazzo  in  piazza, 
il  ratto  delle  Sabine  che  dipinse  a  chiaroscuro  sulla  fac- 
ciata della  casa  Gambazocco,  e  i  sei  quadri  ripartiti  sulle 
pareli  della  soppressa  chiesa  di  S.  Giuseppe,  i  quali  rap- 
presentavano la  vita  di  Maria  Vergine.  Un  quadro  d'Au- 
relio Buso  conservasi  tuttora  nella  galleria  Tadini  a  Lo- 
vere  (2). 

Vuoisi  che  Aurelio  Buso  morisse  circa  l'anno  1620  (3\ 

(1)  Orlandi.  Abbecedario  pittorico. 

(2)  Rappresenta  Ja  fuga  della  Vergine  in  Egitto. 

(3)  Tieozzi.  Dizionario  dei  pittori,  ove  accenna,  oltre  Aurelio  Buso,  un  Au- 
relio Busso  o  Bussi ,  pure  Cremasco  ,  e  contemporaneo  del  Buso.  Ma  di  que- 
st'  altro  Aurelio  Bussi  o  Busso  che  si  voglia,  non  trovammo  alcuna  memoria 
nelle  cronache  cremasche  nò  altrove,  sicché  noi  riteniamo  non  abbia  mai  esi- 
stito. Forse  che  avendo  trovato  il -cognome  d'Aurelio  Buso  scritto  ora  con  una 
era  con  due  s,  il  Ticozzi  credette  erroneamente  fiorissero  in,  Crema  contempo- 
raneamente due  pittori  d'  egual  nome  e  Ui  somigliante  cognome. 


—  393  — 

\u  poverissimo  sialo,  ridotte,  per  guadagnarsi  il  vitto,  i  di 
ptngere  farle  da  tarocchi. 

Nel  seeolo  deeimoseslo  Crema  è  siala  feconda  <F uomini 
tho  illustrarono  per  virtù  militari.  Sul  principiare  di  que- 
sto seeolo  Tedenimo,  animosissimo  guerriero,  Socino  ten- 
zoni, e  viveva  ancora  Bartelino  Temi,  cui  la  repubblica 

di  Venezia  affidò  la  guardia  del  castello  di  Cremona  Tan- 
no 1501,  dappoiché  Luigi  Xll  re  di  Francia  ebbe  ceduta  per 
convenzione  Cremona  ai  Veneziani.  Cartolino  morì  nel  1518, 
vissuti  87  anni  di  vita  sobria  ed  operosa,  lasciando  ai  con- 
cittadini l'esempio  di  una  fervidissima  devozione  al  governo 
di  Venezia,  di  non  comune  ardimento  nella  difesa  della 
terra  natale. 

Durante  la  guerra  suscitala  dalla  lega  di  Cambrai,  se- 
gnalossi  fra  le  schiere  veneziane  Gioan  Paolo  Griffoni  S.  An- 
gelo, menzionato  dai  cronisti  veneti  quale  una  delle  migliori 
spade  stipendiate  dalla  repubblica.  Condottiero  di  cavalli , 
prese  parte  in  molte  fazioni,  distinguendosi  per  prodezza  e 
singolare  affezione  ai  vessilli  della  repubblica.  L'anno  1512, 
trovandosi  sul  Cremonese  col  provveditore  Paolo  Capello, 
tentò  di  toglier  Crema  ai  Francesi,  sorprendendola  con  no- 
vecento fanti,  impresa  che  a  lui  andò,  come  dicemmo,  fal- 
lila. Nella  famosa  battaglia  di  Vicenza,  combattendo  valoro- 
samente sotto  i  comandi  delFAlviano,  riportò  ventiquattro 
ferite  che  lo  condussero  al  sepolcro  (*). 

Contemporaneo  di  Gio.  Paolo  Griffoni  fu  Santo  Robalto, 
capitano  di  molto  grido.  Pugnò  nella  battaglia  d'Agnadello 
ed  a  Vicenza  tra  le  file  veneziane.  Men  fedele  di  Gio.  Paolo 
Griffoni  verso  la  repubblica,  locò  il  braccio  or  a  questa, or 
al  duca  di  Milano,  cui  servì  condottiero  di  cinquant'uomini 

(i)  Di  Gian  Paolo  Griffon i,  oltre  i  cronisti  cremaschi,  fanno  onorevole  men- 
zione il  Malipiero,  il  Barbaro,  il  Paruta  nelle  storie  venete,  e  Luigi  da  Porto 
nelle  sue  lettere. 

26 


—  594  — 
d'arme  e  di  cento  celate.  A  Milano  procacciossi  tanta  ripu- 
tazione che  vi  fu  elevato  senatore  e  capitano  di  giustizia. 

Nelle  guerre  accese  da  Carlo  V.  in  Europa,  gli  stendardi 
imperiali  trovarono  alcuni  seguaci  nel  patriziato  cremasco. 
Combatterono  in  Germania  contro  i  principi  protestanti  ri- 
belli a  Cario  V,  Prospero  Fracavalli,  condottiero  di  trecento 
eavalli,  Mario  Benvenuti,  duce  di  corazzieri,  ed  Ettore  di  lui 
fratello,  capitano  di  cavalleria  nella  legione  di  Nicolò  Scotto. 
Prospero  Fracavalli  morì  pugnando  sotto  Telinga ,  ed  an- 
corché venisse  sepolto  ad  Ultz,  si  volle  ricordare  a  Crema 
la  di  lui  memoria  ergendogli  un  monumento  nella  chiesa 
di  S.  Domenico.  Mario  Benvenuti  combattè  per  gli  Impe- 
riali in  Germania  e  ad  Aqui  (*\  città  del  Monferrato,  ove 
essendo  posto  a  governatore,  si  difese  fortemente  contro  i 
Francesi. 

Ma  fra  tutti,  il  più  celebrato  per  talenti  militari  e  gene- 
rosi fatti  d'armi  fu  il  cavaliere  Gabriele  Tadini.  Le  gesta  di 
questo  insigne  Cremasco  vogliono  essere  narrale  diffusa- 
mente e  non  per  brevi  cenni:  laonde  riporteremo  la  dili- 
gente biografia  che  di  lui  scrisse  Giuseppe  Racchetti  l*\ 

«  Nacque  Gabriele  nel  castello  di  Martinengo,  da  Michele 
»  Tadino  verso  il  147o.  Della  sua  infanzia  e  della  sua  gio- 
»  venlù  non  è  rimasta  altra  memoria  se  non  che  attese  as- 
»  siduamente  allo  studio  delle  matematiche.  Anzi,  di  buon 
»  ora  dedicossi  al  mestiere  delle  armi,  ed  entrò  al  servizio 
»  della  repubblica  veneta,  sotto  il  cui  dominio  era  nato,  e 
»  conforme  all' inclinazione  sua,  fu  all'artiglieria  destinato, 
»  nuove  ed  incerte  essendone  ancora  a  quei  tempi  le  disci- 
»  pline:  fervorosamente  del  pari  attese  a  lulla  quanta  è 
»  vasta  l'arte  delle  fortificazioni.  Non  andò  guari  che,  cono- 

(1)  Attingemmo  questa  notizia  da  un  diploma  con  cui  Leopoldo  I  impe- 
ratore d'Austria,  concedette  alla  famiglia  Benvenuti  il  titolo  di  conte  del  sacro 
rumano  impero. 

(2)  Vedi  le  Annotazioni  alla  storia  dell'Aleniamo  Fino. 


-  39$  — 
vi  mio  il  sonalo  quanto  egli  valesse,  accordogli  i  prioci- 
»  pali  comandi:  ansi,  per  timore  che,  istigato  da  altri  so- 
»  vrani,  mancasse  al  servizio  suo,  lo  mandò  in  Candia. 

-  Ma  appunto  a  quel  tempo  Solimano  imperatole  dei  Tur- 
»  clii,  padrone  già  della  Siria,  della  Giudea,  dell'Arabia, 

»  dell* Egitto    e   della    Mesopolamia,   prcparavasi     contro    i 

»  cristiani.  L'anno  1522  spedì  cosini  una   flotta  nel  Medi- 

•  terraneo,  la  (piale,  dopo  varie  imprese,  piombò  Onalmente 
»  sopra  Rodi.  Il  gran  Mastro  di  Rodi,  Valerio  Isle-Adam, 
»  atterrito  da  quella  sorpresa,  nei  frequenti  consigli  tenuti 
»  eoi  cavalieri  venne  informato  da  Antonio  Bosio  del  va- 
»  loro  e  della  perizia  di  Gabriele,  per  cui,  voglioso  di  averlo 
»  a  presidio  dell'isola,  mandò  il  Bosio  stesso  in  Candia 
i  all'ammiraglio  veneziano  Domenico  Tmisan  ed  al  gene- 
»  rale  di  terra,  acciocché  lo  soccorressero  in  tanto  pericolo 
»  coi  loro  legni,  e  gli  mandassero  il  Tadino  per  rifare  ed 
»  accrescere  le  fortificazioni.  Ma  nulla  il  Bosio  ottenne,  es- 
»  scndogli  risposto,  che  senza  ordine  espresso  della  repub- 
»  blica  non  era  permesso  loro  di  mancare  alla  pace  che 
»  durava  tuttavia  tra  i  Veneziani  ed  i  Turchi,  nò  potere 
»  accordargli  il  Tadino,  acciocché  non  fosse  pretesto  al  sul- 
»  tano  di  rompere  con  essi  la  guerra.  Irritato  il  Bosio  da 
»  tale  risposta,  furtivamente  trattò  col  Tadino,  e  lo  indusse 
»  a  fuggire  la  notte  con  due  suoi  compagni  che  vollero  se- 
»  guitarlo:  ma  uscita  la  nave  dal  porto,  non  avendo  fatto 
»  ancora  lungo  viaggio,  incontrò  fiera  burrasca,  per  cui  gli 
»  fu  forza  approdare  all'isola,  tenendosi  però  all'ancora  in 
»  luogo  nascoso.  Il  giorno  appresso,  accortisi  i  Veneziani 
»  della  mancanza  dei  tre  fuggitivi,  tosto  i  generali  mancla- 
»  rono  due  triremi  in  cerca  della  nave  del  Bosio,  e  pubhli- 
»  carono  nell'isola  che  se  vi  fossero  ancora  nascosti,  ve- 
»  nissero  tosto,  sotto  pena  di  morte  a  chi  noi  facesse,  tra  - 
»  dotti  al  loro  tribunale.  Le  triremi  fecero  il  giro  tutto  al- 
»  l'intorno,  ma  la   nave  rodiotta,  nascondendosi  fra  gli 


—  596  — 
»  scogli ,  non  venne  scoperta.  La  notte  appresso  essendo 
»  cessato  il  vento  potè  far  vela  per  Rodi  ove  giunse  felice- 
»  mente,  e  ingannata  la  vigilanza  dei  Turchi,  riuscì  d'en- 
>•  trare  in  porto.  Giunto  appena  ,  chiese  Gahriele  al  gran 
»  Mastro  d'essere  ascritto  nella  religione,  il  quale,  con 
»  nuovo  esempio,  creduto  alla  sua  asserzione  in  ciò  chedeb- 
»  bono  gli  altri  formalmente  provare,  non  solo  il  fece  ca- 
»  valicre  ma  gran  croce  ;  inoltre  promettendogli  il  primo 
»  luogo  di  dignità  che  sarebbe  vacato.  Lo  creò  generale  di 
»  tutto  il  presidio,  ed  assegnogli  mille  duecento  ducati  d'oro 
»  di  stipendio.  I  Turchi  intanto  speravano  d'espugnare  la 
»  fortezza  con  le  mine,  e  ne  prepararono  quindici:  ciò  venne 
»  a  notizia  di  Gabriele,  che  tosto  con  grande  silenzio  quin- 
»  dici  conlramine  fece  scavare,  alle  quali  dando  improvvi- 
»  samcnte  il  fuoco,  tutti  i  loro  lavori  in  un  momento  di- 
»  strusse. 

»  La  fortezza  di  Rodi  avea  cinque  gran  baluardi  dalla 
»  parte  di  terra,  dove  appariva  in  forma  rotonda  col  nome 
»  ciascuno  delle  diverse  lingue  che  n'  erano  a  difesa  :  e 
»  verso  il  mare  formava  una  mezza  luna,  sui  colli  della 
»  quale  ai  bei  tempi  della  Grecia  poggiavano  i  piedi  del 
»  celebre  colosso ,  fra  le  cui  gambe  passavano  le  navi.  I 
»  Turchi  adunque  tutta  in  terra  la  cinsero  col  loro  eser- 
»  cito,  e  rivolle  le  batterie  contro  i  baluardi  degl'Inglesi  e 
»  dei  Francesi,  cominciarono  a  fulminarli:  ma  Gabriele, 
»  del  pari  con  altre  batterie,  al  di  dentro  ne  fece  grande 
»  strage:  ed  uscito  poscia  la  notte,  piombando  su  quelli 
»  che  s'erano  avvicinati  alle  fosse,  attaccò  fiera  zuffa  nella 
»  quale  fìngendo  di  ritirarsi  trasse  il  nemico  sotto  il  can- 
»  none  della  fortezza,  e  colà  interamente  Io  sbaragliò.  At- 
»  territi  gl'infedeli  di  questo  primo  fatto,  vedendo  aver 
>>  essi  tanta  gente  perduta,  inlanto  che  dei  nemici  pochis- 
»?  simi  erano  i  morti,  cominciarono  ad  ammulinarsi,  sicché 
»  mandatone  notizia  al  sultano,  deliberò  egli  slesso  trasfe- 


—  397  — 
rirsi  all'  assedio*  Al  suo  arrivi),  avendo  condotta  gran 
eopia  d'esercito,  Bieche  dicevasi  essersi  sialo  a  quei 
campo  trecento  mila  combattenti,  ogni  tumulto  cessò,  ed 
egli  fé1  dar  principio  a  battere  le  mura.  (ìii  assediati  non 
erano  più  di  cinque  mila,  ma  gente  coraggiosa  tutta  e 
Iorio  sì  che  risolutamente  si  difendeva.  Terribile  guasto 
davano  alla  (erra  le  bombarde  dei  Turchi,  rovinando  edi- 
lì/j  ed  uccidendo  gente  per  tutto,  onde  il  Tadini  faceva 
slare  sentinelle  Bull' altissima  torre  di  S.Giovanni,  le 
quali  con  certi  segnali  avvisandone  la  guarnigione  al  mo- 
mento dello  scoppiale,  cercava  ognuno  alla  meglio  met- 
tersi in  salvo.  Noi  tempo  medesimo  i  Turchi  costruirono 
una  strada   coperta   e   giunsero  al  muro  esteriore  della 
l'ossa,  del  quale  stando  a  difesa  e  circondando  i  forti, 
impedivano  coi  colpi  loro  ai  Cristiani  di  comparir  sui  ba- 
stioni: ed  a  questo  trovò  riparo  il  Tadino  col   collocare 
batterie  da  traversi,  le  quali  ai  fianchi  ferendo,  sebbene 
da  lontani  punti,  pure  valsero  a  farli  affatto  sgombrare. 
Allora  i  Turchi  diressero  i  loro  sforzi  al  bastione  dei  Te- 
deschi, e  fatti  forti  argini  con  praticci  e  terra,  cercarono 
d'espugnarlo,  e  tosto  tali  lavori  dal  cannone  del  forte 
vennero  pienamente  distrutti,  sicché  dovettero  abbando- 
narne il   pensiero  :  lo  stesso  accadde  loro  alla   torre   di 
S.  Nicola.  Ma  non  perciò  cessavano  i  Turchi  dall'  assa- 
lire, ed  ai  torrioni  degli  Inglesi,  degli  Spagnuoli  e  degli 
Italiani  ad  un  punto  voltarono  le  armi,  e  con  tanta  vio- 
lenza d'artiglieria,  che  in  poco  tempo,  rovinate  le  mura, 
caddero  ad  ispianare  la  fossa,  sicché  restava  aperto  l'a- 
dito per  entrare  nella  fortezza:  al  quale  pericolo  mirando 
Gabriele,  avvisò  che  agli  estremi  mali  si  vogliono  estremi 
rinredj,  on(^c  con  pochi  scelti,  quella  via  a  sé  stesso  ren- 
dendo  proficua,  uscì  dalle  mura,  e,  sorprese  le  senti- 
nelle nemiche,  entrò  negli  accampamenti,  pei  quali  sbi- 
gottiti i  soldati,  invece  che  difendersi,  si  diedero  precipi- 


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tosamcnte  alla  fuga:  ond'egli  ritornò  ai  suoi  con  molli 
prigionieri,  non  avendo  perduto  che  un  uomo  solo.  Ciò 
mise  in  costernazione  i  nemici,  sicché  Solimano  vedendo 
non  cavare  profitto  da  quella  maniera  di  guerra,  ad  altro 
volse  il  pensiero,  stringendo  la  terra  di  stretto  assedio, 
e  provandosi  con  le  mine  se  superarla  potesse.  In  prima 
rese  generale  l'assalto,  indi  per  ben  due  volle  fece  im- 
peto sul  bastione  degl'Inglesi,  ed  ambedue  le  volte  venne 
respinto.  Mustafà  suo  visir  combatteva  da  quella  parte, 
e  già  molli  Turchi  montavano  le  mura,  quando  Gabriele 
essendovi  accorso ,  dispose  alcuni  piccioli  cannoni  sulla 
maggior  sommità,  e  prestamente  \\  fece  precipitare.  Al- 
lora assaltossi  il  bastione  degl'Italiani,  indi  quello  degli 
Spagnuoli,  ma  sempre  inutilmente,  sicché  dovettero  i  Tur- 
chi con  grande  perdita  ritirarsi.  Morirono  di  loro  cinque 
mila  contro  gl'Inglesi,  sette  mila  contro  gl'Italiani,  e  tre 
mila  contro  gli  Spagnuoli.  Ma  Solimano,  disposto  l'eser- 
cito a  guisa  d'arco,  tutta  circondò  la  fortezza,  onde  su 
d'ogni  punto,  con  ugual  furore  combattere.  Per  molle  ore 
durò  il  conflitto,  assai  pericoloso  per  i  Cristiani,  pochi  a 
difendere  un  circuito  sì  vasto:  onde  Tadini,  correndo  da 
un  luogo  all'altro,  riparava  ai  danni  presenti  col  muo- 
vere schiere;  preveniva  i  futuri,  provvedendo  dei  migliori 
duci  i  posti  più  pericolosi;  e  dove  animando  a  combattere 
perchè  il  cimento  lo  richiedeva,  dove  raffrenando  l'ardire 
soverchio  per  risparmiare  soldati,  giunse  a  sostenersi 
con  sì  grand'arte  che  non  potendo  in  luogo  alcuno  pe- 
netrare i  nemici,  rintuzzarono  quel  primo  ardore:  ond'e- 
gli allora,  e  con  la  forza  delle  artiglierie,  e  con  lo  sca- 
gliare dei  bitumi  ardenti,  ed  altri  artificiali  fuochi  che  giù 
dall'alto  insieme  ai  sassi  incessantemente  cadevano,  li 
ridusse  loro  malgrado  a  suonare  a  raccolta  onde  non  pe- 
rir tutti  sotto  quelle  mura.  Raccontasi  che  in  tale  fatto 
d'armi  ventimila  Turchi  morissero. 


—  399  — 
»  A  ule  scondita  tanto  Solimano  p' afflisse,  che  dispe- 
ralo quasi  si  aascose  nella  sua  inula  senza  voler  più 

mostrarsi  ai  soldati,  e  Colà,  non  curandosi  perfino 
dolio  suo  più  geniali  mollezze,  slavasi  col  capo  ve- 
lato, come  è  costume  dei  Turchi  nelle  loro  traversie,  e 
comproso  da  tale  tristezza,  che  i  suoi  più  fidi  n'avevano 

spavento.  Ma  lilialmente,  risoluto  di  tornarsene  a  casa, 
già  la  flotta  ottomana  orasi  appressata  al  lido,  già  si 
strappavano  le  tendo,  e  sulle  navi  trasportavansi  farmi 
e  le  munizioni  con  grande  contento  di  lutti  i  Turchi  clic 
risguardavano  quella  terra  come  la  lor  sepoltura.  Ma  la 
perfidia  di  un  soldato  cpiroto  fece  sì  che  Solimano  cam- 
biasse del  suo  proposilo,  poiché  gli  fu  rivelato  essere  gli 
assediali  ridotti  agli  estremi,  mancanti  di  viveri,  di  muni- 
zioni da  guerra,  pochi  ed  infermi,  e  per  sopra  più  anche 
mal  sicuri  della  fede  dei  cittadini,  onde  non  poteva  a 
meno  che  al  primo  assalto  fossero  per  cedere.  Da  questa 
speranza  rianimati  i  Barbari,  tornarono  agli  assalti,  e 
Muslafà,  già  destinalo  al  governo  della  Siria,  prima  di  par- 
tire assalì  nuovamente  il  baluardo  degli  Inglesi  per  tre 
giorni  di  seguito,  destinandovi  i  veterani  dei  Mammelu- 
chi,  ma  sempre  respinto  perde  la  speranza  di  poter  con- 
quistarlo. Dall'  altra  parte  il  pascià  Pirro  tentò  con  le 
mine  il  vallo  degl'Italiani  senza  potere  egli  pure  cavarne 
proGtto  alcuno.  Finalmente  combattendo  Gabriele  al  ba- 
luardo degli  Spagnuoli,  mentre  tendeva  a  costruire  nuove 
difese,  poiché  il  nemico  era  di  già  entrato,  colto  il  Salhato 
H  ottobre  da  una  palla  d'archibugio  nell'occhio,  del 
quale  poi  rimase  cieco  per  tutta  la  vita,  fu  costretto  a 
ritirarsi.  E  qui  il  Terni  osserva  che  losco  al  pari  d'An- 
nibale, Antigono,  Filippo  Macedone  e  Sartorio,  così  al 
pari  d'essi  meritò  fama  d'ottimo  capitano. 
»  Perduto  il  bastione,  quantunque  anche  senza  di  lui 
assai  valorosamente  combattuto  avessero  i  suoi  compagni, 


—  400  — 
»  giovarono  i  ripari  già  costrutti  a  trattenere  il  nemico,  sic- 
»  che  egli  fu  in  tempo  a  riaversi  tanto  per  poter  accorrere 
»  a  ricostruirne  di  nuovi,  tosto  dopo  che  quelli  erano  stati 
»  spianati.  Né  questa  conquista  dei  Turchi  costò  loro  poco 
»  sangue,  imperciocché  più  e  più  migliaja  d'uomini  ebbero 
»  a  lasciarvi  la  vita. 

»  Ma  sì  i  cristiani  quanto  gl'infedeli  trovavansi  ridotti 
»  agli  estremi,  mancanti  di  tulio,  e  quasi  insin  di  corag- 
»  gio,  quando  il  gran  Mastro  chiamò  a  consiglio  il  gene- 
»  ràle  di  terra  Tadini  e  l'ammiraglio  della  flotta.  Voleva 
»  questi  che  si  cedesse  alla  fine,  asserendo  non  essere  più 
»  possibile  di  sostenersi,  e  Tadini  invece,  con  sue  ragioni, 
»  sforzavasi  di  provare  che  in  pochi  dì  i  Turchi  sarebbero 
»  siati  costretti  di  levare  l'assedio.  La  disputa  fu  lunga  e 
»  più  calda  alquanto  che  non  si  convenisse,  onde  l'ammi- 
»  raglio,  che  da  queslo  aveva  rilevato  in  che  confidasse  e 
»  di  che  temesse  il  Tadini ,  fece  gettare  nel  campo  otto- 
*  mano  una  lettera  legata  a  una  freccia,  nella  quale  sugge- 
»  riva  a  Solimano  che  facesse  costruire  un  altissimo  argine 
»  al  monte  Filoremo  dalla  parte  della  torre  di  S.  Nicola,  il 
»  quale  superasse  le  mura,  e  in  cima  a  cui  posta  la  più 
»  grossa  artiglieria,  tutta  la  citta  dominando,  potrebbe  in 
»  breve  distruggerla.  Ciò  in  una  notte  da  Solimano  fu  fatto 
»  mettendo  al  lavoro  lutto  l'esercito,  e  alla  mattina  quando 
»  sene  avvide  il  Tadini,  losto  lasnossene  col  gran  Maestro, 
»  dicendogli  che  l'ammiraglio  gli  aveva  traditi,  e  tanto  il 
»  tradimento  apparve  chiaro  e  venne  provato,  che  senza 
»  ritardo  alcuno  fu  il  perverso  ammiraglio  condotto  a  morte. 

»  Prima  però  di  incominciare  a  distruggere  la  città  mandò 
»  Solimano  alcuni  araldi  ad  inlimare  la  resa,  promettendo 
»  onorevoli  patti.  Allora  il  gran  Mastro,  radunato  numeroso 
»  consiglio  ,  permise  a  ciascheduno  dire  il  proprio  parere. 
»  Pochi  sostennero  doversi  seguitare  la  guerra,  i  più  invece 
ì  ne  mostrarono  la  impossibilità,  e  Tadini  fra  quest'ultimi, 


dicendo  che  perla  storia  B'eragià  fallo  abbastanza,  trop- 
»  pò  por  la  difesa  di  un1  isola  che  si  vicina  ai  loro  mor- 
»  tali  oemici,  anche  superata  la  presente  fortuna,  sarebbe 
»  presto  cailuia  in  loro  poterò.  Di  essi  per  nulla  curarsi  i 

*  prìncipi  cristiani  e  rimanersene  indifferenti  spettatori  di 
»  un  conflitto  da  cui  pareva  dipendesse  soltanto  la  sorte 
»  dei  cavalieri,  e  che  perduto,  sarebbero  diventati  i  Turchi 
»  padróni  di  tulio  il  mare  Mediterràneo.  Ma  se  a  riparare 
»  tanto  male  non  avevano  allesi  coloro  cui  spellava,  come 
»  poter  più  i  cavalieri  impedirlo?  Morii  la  maggior  parie,  i 
»  pochi  rimasti,  forili,  stanchi,  senza  soldati.  Non  più  munì- 
»  Eioni  da  bocca,  non  più  da  guerra.  Perdute  le  vecchie 
»  trincee,  non  rimaner  che  i  nuovi  ripari  deholi  ed  imper- 
»  ietti,  e  per  soprappiù  le  bocche  dei  nemici  cannoni,  non 
»  già  oltre  i  valli  e  le  fosse,  ma  vedersi  rivolle  al  capo. 
»  Nondimeno  offrire  Solimano  la  pace:  perchè  ricusarla? 
»  Per  morire  inutilmente  fra  quelle  rovine  e  perdere  così 
»  la  speranza  di  poter  in  nuovi  incontri  giovarsi  del  valore 
»  dei  superstiti? 

»  Dopo  quel  consiglio  avendo  il  gran  Mastro  deliberato 
»  di  arrendersi,  ne  successe  quella  capitolazione  coi  Turchi 
»  tanto  celebre  in  tutte  le  storie  d'Europa.  Ma  perchè  il 
»  Tadini  era  dai  Turchi  più  che  qualsiasi  altro  cristiano 
»  odialo,  temendosi  di  loro  perfidia,  fu  tenuto  nascosto  fino 
»  al  momento  della  partenza;  ed  imbarcato  cogli  altri,  toc- 
»  cata  appena  Candia,  volle  egli  tosto  condursi  a  Roma. 
»  Colà  dal  sommo  pontefice  Adriano  VI  fu  non  poco  ono- 
rato, indi  dal  suo  successore  Clemente  VII  venne  con- 
»  cesso  all'imperatore  Carlo  V,  il  quale  ad  onorevoli  patti 
»  nelle  sue  milizie  Io  accolse. 

»  Sparsa  la  fama  del  favore  che  Cesare  a  Gabriele  accor- 
»  dava,  il  gran  Mastro  di  Rodi  con  tutto  l'ordine  dei  cava- 

*  lieri  lo  incaricò  d'intercedere  presso  di  lui  acciocché  ve- 
»  nisse  altra  sede  assegnala  al  suo  ordine;  onde  egli  andatone 


—  402  — 
«  come  ambasciatore  al  sovrano,  ottenne  l'isola  di  Malta 
»  della  quale  in  breve  i  cavalieri  presero  possesso,  e  per  pre- 
»  miare  il  Tadini  fu  a  lui  conferito  il  Priorato  di  Barletta 
»  nell'anno  1525.  Lo  creò  indi  Carlo  V  generale  di  tutta 
»  la  sua  artiglieria,  e  per  lungo  tempo  si  conservarono  nel 
»  castello  di  Milano  parecchi  cannoni  su  cui  era  scolpito  il 
»  suo  nome. 

»  Con  tale  incarico  fu  mandato  dalT  imperatore  a  varie 
»  guerre,  e  finalmente  a  quella  di  Genova,  ove  Cesare  Fre- 
»  goso,  soccorso  dalle  armi  di  Francia,  mirava  a  soggiogare 
»  la  patria.  Colà,  messo  al  comando  di  tutte  le  forze  austria- 
»  che,  fu  sorpreso  la  notte  del  18  agosto  1627  dal  Fregoso 
»  e  fatto  prigioniero ,  nel  quale  incontro  perde  anche  suo 
»  fratello  per  nome  Girolamo,  ed  un  cugino,  Fabrizio,  i  quali 
»  valorosamente  combattendo  rimasero  morti ,  o  forse  solo 
»  gravemente  feriti;  imperciocché  il  Terni  racconta  che  en- 
»  trambi  morirono  in  Crema,  e  furono  sepolti  in  S.  Domenico 
»>  negli  antichi  monumenti  della  famiglia.  Gabriele,  condotto 
»  nella  rocca  di  Cremona  ,  dovette  riscattarsi  al  prezzo  di 
»  quattro  mila  ducati  d'oro,  e  dodici  mila  forse  d'argento, 
»  come  attesta  il  Terni  che  propriamente  viveva  a  quei  tempi. 

»  Dopo  di  ciò  pare  che  affatto  rinunciasse  al  mestiere 
»  delle  armi,  e  trasferitosi  a  Venezia,  morì  nel  1545,  o,  se- 
»  condo  altri,  nel  1544,  e  venne  sepolto  in  un  avello  di 
»  marmo  nella  chiesa  dei  SS.  Giovanni  e  Paolo.  In  onore  di 
»  lui  fu  battuta  una  medaglia  ove  egli  è  effigiato  con  lunga 
»  barba,  in  abito  di  cavaliere  gerosolimitano,  a  cui  sta  in- 
»  torno  questa  leggenda:  Gabriel  Tadinus  Bergomas  Eques 
*  Hierosolimilanus,  Cwsaris  tormentorum  prcefectus  genc- 
»  raliSj  ed  al  rovescio  sono  quattro  cannoni  sulle  ruote  col 
n  motto  Ubi  ratio,  ibi  fortuna  profuga  MDXXXVH  (*). 

(I)  Tintori.  Memorie  cremasche.  Dall'epoca  si  vede  che  la  medaglia  fu  bal- 
lata circa  sette  anni  prima  della  sua  morte. 


—  403  — 

■  Chi  volesse  da  questa  medaglia  giudicare  In  patria  «li 
■  Gabriele  Tadini ,  ci  converebbe  din*  che  fosse  Bergama- 
»  sco,  ma  gioverà  qui  avvertire  alcune  cose  le  quali  non  a 
»  indi  cederanno  in  pensiero,  lo  non  so  dove  né  per  com- 
»  missione  «li  chi  venisse  la  medaglia  coniala ,  perchè  in 
»  nissun  luogo  tale  notizia  trovai,  ina  se  i  Bergamaschi  cb- 
»  boro  parte  nel  rendere  a  lui  quest1  onore  ,  certo  clic  lo 
»  dovevano  chiamar  Bergamasco,  ed  anche  con  ragione  per- 
»  che  nel  territorio  loro  era  nato.  Se  il  Tadini  medesimo 
»  prestò  il  suo  assenso  pei"  le  parole  della  leggenda,  sarebbe 
»  prova  questa  amar  egli  d'esser  così  chiamalo;  ma  nell'una 
»  supposizione  e  nell'altra,  sarebbe  parimenti  vero  altresì, 
*  senza  distruggere  l'esposto  nella  medaglia,  clf  egli  era  figlio 
»  di  padre  cremasco,  che  nacque  per  caso  in  territorio  limi- 
»  trofo,  e  che  la  sua  famiglia  non  mai  abitò  in  Bergamo, 
»  nò  ebbe  cittadinanza  in  quella  città  se  non  per  quanto 
»  si  spetta  a  poderi  e  case  di  sua  ragione  ch'erano  in  quel 
»  territorio. 

»  Racconta  Fra  Celestino  nella  sua  Storia  quadripartita 
»  di  Bergamo,  che  durante  la  guerra  fra  Carlo  V  ed  i  Fran- 
»  cesi,  passando  questi  da  Marlinengo,  non  vi  fecero  danno 
»  alcuno  per  rispetto  alla  patria  di  Gabriele,  n 

A  quanto  scrisse  il  Bacchetti  del  cavalier  Tadini  aggiun- 
geremo un'avvertenza.  Gabriele  Tadini,  chiarissimo  perso- 
naggio, la  cui  memoria  basterebbe  ad  illustrare  il  nome 
di  una  città,  d'una  famiglia,  è  generalmente  conosciuto 
nella  storia  non  come  Cremasco,  e  neppure  come  Tadini. 
Sia  ch'egli,  frate  Maltese,  sull'esempio  d'altri  ordini  reli- 
giosi, costumasse  di  chiamarsi  col  nome  del  paese  ove  nac- 
que, benché  casualmente,  sia  che  parecchi  scrittori  abbiano 
troppo  facilmente  scambiato  il  nome  del  luogo  ov'ebbe  ì 
natali  con  quello  della  sua  famiglia,  fatto  è  che  in  varie 
cronache  noi  trovammo  attribuite  ad  un  Gabriel  Martinengo 
le  valorose  sesta  del   nostro  Gabriel  Tadini.   Ed  anche  ai 


—  404  — 
nostri  giorni  l'eruditissimo  Cesare  Cantù,  nella  sua  Storia 
Universale,  toccando  della  presa  di  Rodi,  chiamò  Marti- 
nengo  il  valente  ingegnere  che  ne  diresse  la  difesa.  Cosi 
vien  frodata  la  famiglia  cremasca  dei  Tadini  di  un  lustro 
che  le  appartiene,  così  potrebbe  taluno  per  avventura  cre- 
dere che  il  valoroso  difensore  di  Rodi  sia  stalo  un  ram- 
pollo dell'illustre  famiglia  Martinengo  di  Brescia,  la  quale 
di  prodi  non  ha  mai  scarseggialo.  Strana  combinazione! 
Bergamo  e  Brescia  contendono,  senza  volerlo,  a  Crema  l'o- 
nore di  conlare  tra  suoi  cittadini  un  uomo  che  fu  tra  i  più 
insigni  guerrieri  ed  architetti  militari  del  suo  secolo!'1) 

Con  Gabriel  Tadini  si  distinse  nell'ordine  gerosolimitano 
Francesco  Terni.  Militò  anch'egìi  nell'assedio  di  Rodi,  e  fu 
accolto  nell'ordine  dei  Giovanniti  per  aver  date  prove  di 
coraggio  e  di  valore,  corseggiando.  Fa  testimonianza  di  sua 
prodezza  l'esser  egli  slato  ammesso  agli  onori  dell'ordine 
maltese,  per  affigliarsi  al  quale  richieggonsi  rigorose  prove 
d'incorro  Uà  e  generosa  nobiltà.  Desumiamo  dalle  genealogie 
che  Francesco  nacque  dal  sacerdote  Gian  Antonio  Terni, 
vicario  in  Crema  del  vescovo  di  Piacenza.  Carissimo  al  gran 
Mastro  della  religione  maltese  Giovanni  d'Omodes,  il  cava- 
lier  Francesco  Terni  ottenne  la  croce  grande,  il  priorato 
delle  sette  fonti  di  Pisa  ed  altri  privilegi. 

Quasi  contemporaneo  del  cavalier  Francesco  fu  Cartolino, 
(detto  il  Giovine),  anch'egìi  de'  Terni,  nipote  dell'altro  valo- 
roso Bartolino.  Buttossi  nella  carriera  militare,  servendo  pri- 
mieramente i  Veneziani  nella  legione  del  conte  Troilo  Scollo: 
poi  s'acconciò  al  servizio  di  Carlo  IX  re  di  Francia,  quando 
quel  reame  era  travaglialo  dagli  Ugonotti.  Cotanto  si  distinse 
guerreggiando  gli  Ugonotti ,  che  procacciossi  V  amicizia  di 
monsignor  d'Angiò,  fratello  del  re,  e  l'ordine  cavalleresco 
di  S.  Michele,  uno  dei  più  agognati  nel  regno  di  Francia  , 

(1)  Un  ritratto  di  Gabriel  Tadini'  falt0  per  mano  del  celebre  Tiziano,  tro- 
vasi a  Lovere  nella  galleria  Tadini. 


—  408  — 
come  quello  che  i  re  '  solevano  conferire  b  principi  fbraatieri, 
quando  intendevate  dar  loro  mi  segno  di  benevolenza.  Il 
cavalier  Bertolino  morì  alla  corte  del  re  di  Francia,  ma  non 
si  sa  in  quel  anno. 

Por  falli  d'armi  segnalaronsi  altri  valorosi  Cremtóchi  nella 
seconda  metà  del  secolo  decimosesto,  allorché  la  veneta  re- 
pubblica dovette  sostenere  aspra  guerra  contro  Selim  ini  - 
Doratore  dei  Mussulmani.  Successo  a  Solimano  (1566),  Selim 
invogliossi  d'acquistare  l'isola  di  Cipro  spogliandone  i  Ve- 
neziani. Più  duna  volta,  lenendo  in  mano  un  vasto  nicchie!' 
di  Cipro,  prima  di  vuotarlo  fu  udito  dire:  (jucsto  vino  noi 
boi  (osto  in  Cipro  beve  remo  -'.  E  per  conseguire  il  suo 
disegno,  Selim  non  indugiò  molto  a  romper  guerra  ai  Ve- 
neziani, scagliando,  senza  alcun  giusto  motivo,  contro  la  re- 
pubblica le  forze  poderose,  e  il  fanatismo  della  sua  armata, 
sitibonda  di  sangue  cristiano. 

Memoranda  è  nella  storia  d'  Europa  la  guerra  del  regno 
di  Cipro  (1570-1571)  e  per  l'eroica  difesa  di  Famagosta,  e 
per  la  vittoria  dei  cristiani  nella  battaglia  navale  di  Lepanto. 
Ti  rapisce  d'ammirazione  l'indomita  costanza  con  cui  a  Fa- 
magosta un  debole  presidio  di  Veneziani  respinse  replica- 
tornente  gli  assalti  furibondi  di  un'oste  numerosissima:  e 
dopo  che  i  Turchi  per  capitolazione  occuparono  quella 
città,  tu  fremi  d'orrore  vedendo,  dall'immane  perfìdia  di  Mu- 
stafà,  scorticarsi  vivo  il  provveditore  Bragadino,  ridursi  in 
servitù  o  trucidarsi  tanti  dei  generosi  che  col  Bragadino  s'e- 
rano immortalati  nell'ardimentosa  difesa. 

ISella  guerra  del  regno  di  Cipro  pugnarono  con  onore 
non  pochi  Cremaschi,  quali  a  INicosia,  quali  a  Famagosta, 
quali  a  Lepanto:  ne  perirono  parecchi,  lagrimati  in  patria 
siccome  campioni  e  martiri  della  cristianità. 

il)  Cosi   narrano  di  quest'Ordine  il  Corio  nella  storia  di  Milano  e  il  Sar>- 
sovino  nella  storia  degli  Ordini  cavallereschi. 
(2)  Botta.  Storia  d'Italia, 


—  406  — 

Quando  giunse  notizia  aver  Selim  intimala  guerra  ai  Ve- 
neziani ,  Crema  volle  manifestare  la  sua  devozione  alla  re- 
pubblica, e  verso  una  causa  cbe  Sentimenti  di  religione 
sublimavano  nei  cristiani.  Tre  mila  scudi  la  città  nostra 
mandò  in  dono  al  serenissimo  doge,  e  tra  i  gentiluomini 
sorse  nobilissima  gara  di  soccorrere  colla  spada  alla  repub- 
blica, alcuni  entrando  nelle  milizie,  altri  seguendole  volon- 
tariamente a  proprie  spese.  Servirono  Dell'armata  veneziana 
Evangelista  Zurla  col  figlio  Leonardo  ed  il  nipote  Rutiliano 
Zurla,  Giovanni  Estorc  Marinoni,  il  conte  Lodovico  Vimer- 
cati,  Natale  Scaletta,  Giacomo  Calderuolo,  Scipione  ed  An- 
tonio Piacenzi,  David  Noce,  il  conte  Nicolò  Benzoni,  Anto- 
nio Ghisi,  Annibale  e  Cristoforo  Albanesi,  Pompeo  Meleguli. 
Fra  quelli  clic  andarono  volontari  a  combattere  per  la  re- 
pubblica, menando  seco  gente  d'arme  a  loro  spese,  le  cro- 
nacbe  cremascbe  ricordano  il  conte  Camillo  Griffoni  San- 
t'Angelo, e  il  conte  Mario  di  lui  fratello,  Girolamo  Vimercali, 
Giovan  Francesco  Monticelli,  Onorio  Balbetti,  e  cinque  fra- 
telli Benvenuti,  Orazio,  Ascanio,  Massimiliano,  Agostino, 
Alfonso. 

Lodovico  Vimercati  (il  Giovane)!1).  —  Capitano  riputaiis- 
simo.  La  veneta  repubblica  l'onorò  d'importanti  incarichi 
creandolo  governatore  a  Zara,  poi  colonnello  di  tutta  la  mi- 
lizia del  Friuli.  Nella  guerra  contro  Selim,  Lodovico  com- 
battè col  grado  di  colonnello  sulla  galera  di  Girolamo  Zane, 
generale  dei  Veneziani:  il  quale  lo  ebbe  in  tanta  stima  cbe 
essendo  Lodovico  venuto  a  morte  a  Corfù ,  volle  che  gli  si 
celebrassero  suntuose  esequie  a  spese  dell'erario,  e  si  er- 
gesse alla  di  lui  memoria  un  sepolcro  di  marmo  colla  se- 
guente iscrizione: 


(i)  Così  chiamato  dal  Fino  per  distinguerlo  dall' altro  Lodovico  pure  da' "Vi- 
mercati, che  si  distinse  uell'  armi  circa  un  secolo  prima. 


-  ;o7  — 

LUDOVICO      \  INIMICATI 

CREMBRStj    COHORTUM    DUCTORI    AC   IMPERATORIA 

QUAMIRBMIS    MILITI  M    PR  AFBCTO,    FIDE    ET 

mutiti:  MILITARI    pr.-eciplo 

BIBRONIMUS    EANItiS     IPS1LS    CLASS1S     IMPERA TOR, 

IN    RE1PURLIC.E    (IRATITUDINIS    TESTIMON1UÉ 

.I-RE    PCBLICO    MONTMLNTUM    HOC 

FACIENDUM    CCRAVIT. 

Evangelista  Zurla  (il  Giovane)  !>  —  Portandosi  a  com- 
battere nel  regno  di  Cipro,  tolse  a  compagni  d'armi  il  figlio 
Leonardo,  ed  il  nipote  Rutiliano.  Evangelista  fu  sopracomile 
di  una  galera ,  grado  onorevolissimo  di  cui  ordinariamente 
erano  privilegiati  i  soli  nobili  veneziani.  Veleggiando  da 
Venezia  a  Coriù  per  unirsi  all'armata,  prese  agli  Ottomani 
una  fusta.  Pugnò  fortemente  nella  battaglia  di  Lepanto  ove 
conquistò  una  galera  di  Fano  di  ventollo  bandii.  Ritiratosi 
dopo  la  vittoria  a  Corfù,  vi  fu  colto  da  febbre  pestilenziale 
e  ne  morì  in  dieci  giorni.  Lo  seppellirono  nella  cbiesa  prin- 
cipale della  cittadella  con  grandissimi  onori.  Evangelista 
Zurla  avea  nella  battaglia  di  Lepanto  tolte  ai  Turcbi  molte 
insegne,  le  quali  mandate  a  Crema  furono  appese  alla  eap- 
pella della  Madonna  in  duomo  2\ 

David  Noce.  —  Nella  guerra  di  Cipro  fu  maestro  di  campo 
a  Famagosta:  il  suo  valore  rifulse  in  molte  segnalate  fazioni 

(1)  Detto  il  giovane  per  distinguerlo  d'altro  Evangelista  Zurla,  che  milito 
anch'esso  per  la  repubblica  di  Venezia,  venturiero,  con  quindici  cavalloggeri 
pagati  del  suo,  nella  guerra  contro  Luigi  XII  re  di  Francia.  Alemamo  Fino. 
Scelta  degli  uomini  di  pregio. 

{•2)  L'anno  1578  venuto  a  Crema  monsignor  Castelli,  visitatore  apostolico  , 
fece  levare  dalle  chiese  tutte  le  bandiere  che  vi  erano  appese:  solamente  nel 
duomo,  per  ispecial  grazia,  furono  rimessi  i  trofei  appesi  alla  cappella  della 
Madonna  dopo  la  vittoria  di  Ombriano  dell'anno  1514,  e  le  insegne  conqui- 
state dal  Zurla  nella  battaglia  di  Lepanto. 


—  408  — 
a  difesa  di  quella  città,  finché  nel  terzo  assalto  che  diedero 
ì  Turchi  ai  9  di  luglio  1571  lasciò  la  vita  combattendo  sul 
bastione  dell'arsenale.  David  Noce,  prima  ancora  della  guerra 
di  Cipro,  si  era  esercitato  nella  milizia,  combattendo  con  ono- 
revoli gradi  nelle  legioni  dc'più  insigni  condotf  cri  di  quell'età. 

Scipione  Piacenzi. —  Dopo  essersi  illustrato  militando  per 
la  corte  di  Francia ,  passò  a  servire  sotto  le  bandiere  di 
S.  Marco,  ed  ebbe  dalla  repubblica  il  governo  di  varie  città. 
Perì  a  Famagosta,  coi  forti  che  s'immortalarono  in  quell'as- 
sedio. Lo  aveva  seguilo  a  Famagosta  Emilia  Zurla  di  lui 
consorte,  la  quale,  d'animo  virile  e  intrepido,  non  poco 
s'adoperò  con  altre  donne  alla  difesa  di  quella  travagliata 
fortezza.  Oltre  ai  pietosi  ufììci  di  soccorrere  i  feriti,  e  for- 
nire rinfreschi  ai  soldati  stanchi  del  combattere,  Emilia  si 
prestò  sui  bastioni  di  Famagosta,  fra  il  tempestare  delle 
palle  mussulmane,  a  portar  terra  da  riparare  i  guasti  delle 
mura,  scrollate  dalle  artiglierie  nemiche.  E  formò  una  com- 
pagnia di  donne  che  per  coraggio  gareggiavano  coi  sol- 
dati ({):  era  un  drappello  d'eroine  cui  precedeva  un  religioso 
greco, il  quale  portando  inalberato  il  segno  della  redenzione, 
rinfocava  in  quei  petti  femminili  l'ardimento  e  il  valore  - . 

Natale  Scaletta.  —  Spese  tutta  la  vita  fra  le  armi.  Co- 
minciò la  sua  carriera  nel  1551,  alfiere  del  capitano  Seba- 
stiano Picenardo  ,  con  cui  egli  combattè  all'  assedio  di 
Musso,  fortezza  sul  lago  di  Como.  Prese  parte  nelle  guerre 
fra  Carlo  V  e  Francesco  I:  trovossi  in  Germania  sotto  le 
insegne  imperiali,  quando  Carlo  V  guerreggiava  i  principi 
protestanti,  poi  nella  battaglia  della  Mirandola,  carissimo  a 
Giovanni  da  Monte,  nipote  del  pontefice  Giulio  III.  Final- 
mente accomodossi  ai  servigi  della  veneta  repubblica,  dalla 
quale  ebbe  titolo  di  colonnello,  e  posto  di  governatore  a 
Candia,  Famagosta,  Bergamo,  Brescia.  Durante  la  guerra 

(1)  Fino.  Storia  di  Crema.  Libro  decimo. 

(2)  Butta.  Storia  d'Ilalia. 


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di  Cipro,  dello  governatore  a  Corfù,  dopo  indio  imprese 
fatte  contro  il  Turco,  Natale  Scaletta  mori  innanzi  che  se 
guisse  la  giornata  navale  di  Lepanto   ■  , 

Minor  t'ama  levarono  gli  altri  Cremaschi,  che  pure  lian 
combattuto  nella  guerra  di  Cipro.  Nondimeno  sappiamo  che 
Giacomo  Calderuolo  In  capitano  a  Corfù,  Pompeo  Meleguli 
lancia-spezzata  ili  Gerolamo  Martinengo;  che  pugnarono  a 
Nicosia  col  inailo  di  capitano  il  conte  Nicolò  Benzoni,  Au- 
nihale  e  Cristoforo  Albanesi ,  e  clic  Antonio  Piacenzi  tro- 
vossi  a  Famagosta,  durante  l'assedio,  con  una  compagnia 
di  cento  fanti.  Dai  cinque  fratelli  Benvenuti,  tre  lasciarono 
la  vita  a  Famagosta,  uno  la  perdette  naufragando:  Orazio, 
latto  prigioniero  dai  Turchi,  si  riscattò  dopo  cinque  anni, 
e  fu  il  solo  che  potè  rimpatriare  -.  Gian  Francesco  Monti- 
celli morì  anch'esso  combattendo  nella  difesa  di  Famagosla. 

L'esempio  di  tanti  illustri  cittadini,  che  da  Crema  accor- 
sero in  lontane  regioni  a  spargere  il  sangue  per  la  repub- 
blica di  Venezia,  ci  attesta  come  lo  spirito  battagliero  non 
fosse  ancora  spento  nel  secolo  decimosesto:  i  patrizi  singo- 
larmente educavansi  alle  armi,  e  coglievano  di  buon  grado 
le  occasioni  per  rendersi  benemeriti  di  un  governo  che  loro 
attalentava,  perchè  aristocratico  e  nazionale.  Oltre  di  che, 
le  guerre  contro  il  Turco  assumendo  il  carattere  d'una 
crociata,  riscaldavano  maggiormente  la  fantasia  di  chi  era 
destro  nel  maneggiare  la  spada,  ripromettendosi  glorie  ter- 
rene e  celesti  coli' impugnarla  in  difesa  della  cristianità. 

(1)  Fino.  Libro  X  della  Storia  di  Crema  [e  nella  Scelta  degli  Uomini  di 
pregio. 

(8)  Di  questi  cinque  fratelli  fa  onorevole  menzione  una  Ducale  diretta  a 
Mario  Benvenuti  l'anno  1646  la  quale  il  Cannobio  riportò  nel  suo  Proseguimento 
alla  storia  di  Crema. 


TI 


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DOCUMENTI 


Documento  A 

Ad  esempio  dello  stile  rozzo  e  scorretto  di  messer  Pietro  Terni , 
riportiamo  un  brano  della  sua  cronaca,  ov' egli  narra  le  inique  estor- 
sioni che  fecero  in  Crema  i  podestà  Loredani.  Da  questo  brano  il  let- 
tore apprenderà  come  il  nostro  cronista,  quantunque  suddito  di  Venezia 
e  devoto  a  quella  repubblica ,  pure  narrava  francamente  i  pessimi  modi 
coi  quali  talvolta  erano  trattati  i  Creinaschi  dai  podestà  che  la  repub- 
blica inviava  a  governare  la  città  nostra. 

«  Marcho  Foschari  ai  14  di  Ottobrio  (1528)  a  Crema,  a  giunge  dal  Se- 
n  nato  di  Vcnetia  mandato  a  fare  processo  contro  di  Andrea  Laure- 
»  dano  che  fu  Potestà  di  Crema  et  bora  di  Bressa,  et  contro  Lucha 
»  Lauredano  in  que'  tempi  Potestà  di  Crema,  per  le  estortioni  per  loro 
"  fatto  ai  Cremaschi,  et  molti  furono  esaminati,  siche  il  processo  fu  di 
n  ll(Jo  foglij  ;  ambi  furono  per  dinari  fatti  (Podestà)  come  vi  ho  detto. 
»  Era  Lucha  Lauredano  di  etade  d'anni  circa  55,  senza  pelo  in  barba 
?»  come  femina,  largo  di  gotte,  palidissimo,  mai  rideva,  colerico  oltre 
»  modo,  biastematore  crudelissimo,  a  ognuno  facilmente  diceva  viila- 
»  nie,  et  a  tirar  il  danaro  solicito  e  vigilante.  Mettevano  questi  due 
ji  Lauredani  il  Calmiero  sopra  la  biava,  cosa  nela  terra  nostra  inusi- 
»  tata,  et  la  facevano  vendere  lire  20  la  soma,  quando  tra  vicini  età 
»  Bergamo  era  40  e  50  lire  venduta:  et  tuta  la  fecero  portare  dentro, 
•'  cusì  che  neanche  le  semenze  et  il  vivere  gli  rimasero:  ne  a  tale  ef- 
»  fetto  gl'indusse  la  compassione  de  poveretti  che  nela  Terra  erano,  ma 
n  il  sfrenato  desìo  di  menare  le  mani ,  et  di  crassarsi  nel  poverello  san- 
»  gue  de'  Cremaseli! ,  come  vedrete.  Mettuto  il  Calmedro  fanno  prohi- 
-  bitione  sotto  pene  gravissime  che  alcuno  non  venda  biave  uè  grossa, 
»  ne  piccola,  senza  sua  licentia,  per  il  che  era  bisogno  a'  poveretti  stare 
»  due  ovvero  tre  giuorni  a  battere  ala  porta  et  pregare  che  fatto  gii 
»  fosse  el  bolettino,  che  più  di  danno  era  il  tempo  perduto,  che  non 
n  valeva  due  staroli,  come  diceino  noij,  di  fermento  o  di  miglio.  Fatti 
»  pur  quando  a  loro  piaceva  gli  bolettini ,  facevano  comandar  le  biave 


-  4M   — 

p  >vi.u-  in  piana  per  vendere  dove  B  loro  piaceva ,  tolendo  B  tale 

-  slatto  1<%  pia  triste  per  serbar  le  migliori  &  loro  guadagni,  peroni)  più 

-  Bpaaaamento  e  maggiore  precio  havevano  in  riaiimn  Inoro;  <*t  tm ;<  ai 

-  ooaaignava  ad  imo  solo  che  la  venderai  perchè  anche  Ib  libertade 

-  tolta  era  :il  patrone  «li  poterla  dare  a  chi  li  holettfcn  havessero.  [Jnde 

-  tanta  calcha  per  haver  la  biava  quivi  so  radunava  che  tutoil  giuorno 
••  molti  eonsumavano,  nand  che  poteasero bavere  il  grano,  DÒjpnrvo 

-  Levano  che  pei  L'Anime  de' Morti  bì  deste  per  elemosina  pane,  accio- 

-  che  eli  maggior  quantitade  russerò  mancanti.  Scrissero  a  principio  b 

-  dasonno  le  biave  ohe  havevano,  et  se  gli  contadini  ad  ogni  richiesta 

-  loro  non  le  consegnavano,  erano  brnschainente  condannati  et  diate* 

-  miti,  perchè  nanche  dil  suo  senza  pena  mangiare  lecito  gli  era.  Vc- 

■  tarono  poi  a  Contadini  elie  non  vegnesseno  nela  Terra  acciò  non  man- 
n  glasserò  di!  pane  ad  effetto  che  maggiore  quantitade  ili  mandar  via 
n  gli  rimanesse,  et  tacevano  il  mercato  il  sabato  fori  dele  porte  et  se 
»  alcuno  portava  fuori  di  la  Terra  pane  gli  era  tolto,  anche  che  uno 

-  solo  ne  avesse,  et  ale  donne  coronavano  quando  ussire  solevano  dalla 
<•  Terra  fin  dove  non  è  licito  ad  ognuno  porre  mano,  cum  tante  la- 

■  errine  tal  lior  de' poveretti  elio  carichi  de  figliuoletti  erano,  che  mo- 
li revano  di  fame,  che  i  sassi  averebbero  pianto:  benché  gli  Ufficiali 
«  più  duri  et  crudeli  sempre  diventavano,  che  tuto  il  paese  era  dispe- 
»  rato,  et  questo  facevano  per  darlo  a  quatro  o  cinque  contrabandieri 
»  ohe  lo  conducevano  là  dove  maggior  precio  si  sosteneva,  età  Pote- 
n  stati  davano  quatro  o  tre  ducati  la  soma,  et  sempre  come  vi  ho  detto 
»  il  più  bello  era  mandato  via,  et  il  granaio  mandato  in  piazza  auso 
»  dei  compratori  a  lire  20  la  soma ,  siche  e  poveri  e  richi  erano  ingan- 
b  nati,  et  tuti  ad  un  tratto  si  lamentavano.  Di  notte  li  contrabandieri 
»  lo  oondueevano  de  fuore ,  ovvero  di  giuorno  sotto  specie  ohe  linosa 
»  fosse ,  et  Lucha  Lauredano  a  Jacopo  Boschirolo,  contadino,  molte 
»  volte,  come  si  diceva,  dette  le  chiavi  di  la  Terra  a  ciò  ohe  asuopia- 

*  cere  potesse  ussire,  talmenti  che  fino  a  Pavia  et  a  Milano  ne  fu  eon- 
»  dotto,  cimi  le  bolette  ohe  faceva  Giovan  Andrea  Vimereato  detto 
»  Moschetto  ne  la  Terra  di  Rivolta  Secca  cum  il  sugello  dil  Podestà 
»  Andrea  Loredano,  et  molti  ne  furono  eondotti  uno  giuorno  per  li  Ca- 
»  valli  liggeri  di  Farvarello  capitano  de  Venitiani  a  Cassano  dal  Prov- 

*  veditore,  che  presi  furono  nel  Borgo  di  Porta  Renza  de  Milano  a 
»  S1»  Gregorio  cum  le  bolette  di  Andrea  Loredano.  Usavano  anche 
»  una  crudeltade  nonpiùodita,  et  massimamente  Lucha  Loredano  che 
»  ai  tempi  dil  raccolto,  quando  gli  contadini  per  dubio  di  la  guerra 
»  ogni  giuorno  conducevano  dentro,  siccome  le  battevano  le  biave,  fa- 
»  ceva  serare  le  porte  nanci  l'ora  consueta,   et  taìhora  a  bore  21,  et 


—  412  — 

'•  la  matina  quanti  villani  si  trovavano  ne  la  terra  erano  mettuti  in  pri- 

«  gione,  et  pellati  fino  sul  vivo,  come  quelli  che  venuti  erano  dentro  a 

»  mangiar  il  pane  contro  le  pvoclame  fatte ,  cosa  veramente  più  che 

n  crudele  fino  al  diavolo  odiosa » 

Sopra  una  carta  di  Gioan  Battista  Terni,  lo  scrittore  delle  Memorie 
Annuali  di  Crema,  leggesi:  Pietro  Temi  Vanno  1546  dopo  aver  scritto 
la  sua  Istoria,  scrisse\a  Genealogia  delle  nobili  famiglie  di  Crema,  e 
ne  conta  21  di  antiche  e  14  di  nuove.  Di  questa  seconda  opera  di  M. 
Pietro ,  che  noi  crediamo  smarrita ,  Gioan  Battista  Terni  sulla  carta 
medesima  riportò  alcuni  brani  scritti  latinamente,  i  quali  riguardano 
l'origine  di  parecchie  famiglie  nobili  cremasene. 


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UNIVERSITY  OF  ILLINOIS-URBANA 
945.26  SF57S     C001  v.1 
Storia  di  Crema. 


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