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STORIA DI CREMA
STORIA
DI CREMA.
PER
FRANCESCO SFORZA RENVENUTI
La storia è quadro, canto, giudizio.
Tommaseo.
VOLUME PRIMO
MILANO
COI TIPI DI GIUSEPPE BERNARDONI DI GIO.
1859,
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in 2013
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$4
PREFAZIONE
Un tempo correva fra gli scrittori la moda delle
lettere dedicatorie, ora sciorinansi prefazioni: delle
ime e delle altre deplorabile l'abuso. Nei secoli tras-
corsi ben di rado stampatasi un opuscolo che non
fosse inaugurato al nome di qualche gran baccalare :
ordinariamente era un cavaliere di schietta nobiltà
con lunga coda di titoli, perocché gli uomini di let-
tere cercavano protettori nel patriziato, quasi con-
fidassero , portati sulle spalle di un' Eccellenza , di
raggiungere più sicuri la meta dell'immortalità.
L'illustre mecenate ambiva incensi che la gentilizia
vanità solleticassero, e gli scrittori lo satollavano di
lodi, baje, adulazioni. Quante favole s'innestarono
all'albero delle genealogie! quante si sono raccon-
tate imprese d' eroi fantasticati ! tutte fole per divi-
nizzare la culla del nobilissimo mecenate. Per tal
modo gli scrittori, devoti all'oro ed alle insegne dei
blasoni, tradivano il sacro ministero della letteratura,
macchiando le prime pagine dell' opera loro con
isguaiate menzogne.
Nell'età nostra, alle ampollose dediche gli autori
sostituirono lunghissime prefazioni , esponendosi al
pericolo , col discorrere stemperatamente del proprio
lavoro , di adulare sé medesimi. Fu progresso ? Ad
545645
— 6 —
altri il pronunciarne sentenza. Io profitterò del
moderno vezzo delle prefazioni per dire brevemente
da quali eccitamenti fui sedotto a compilare e pub-
blicare la storia di Crema.
La compilai per deliziarmi nello studio della sto-
ria , beato di spaziare coli' immaginazione nei secoli
che furono, assidermi sulle tombe dei padri nostri,
interrogarli e ridirne gli anni che gioirono fra lo
splendore della gloria e i molti stentati nel dolore.
Glorie e sventure sono la corona dei popoli incivi-
liti, degli Italiani principalmente. Mi rammentai
come un forte ingegno C1) dalla cattedra di Pavia
raccomandasse alla gioventù lo studio della storia
dicendo: Italiani, io vi esorto alle storie , perchè
niun popolo più di voi può mostrare né più ca-
lamità da compiangere , né più errori da evitare ,
oiè più virtù che vi facciano rispettare , ne pnv
grandi anime degne d'essere liberate dall'oblivione.
Pubblico il mio lavoro , confidando ne possa tor-
nar gradito il subietto a chi si diletta di storia na-
zionale. Non V è palmo di terra in Lombardia che
non abbiali consacrato memorie d' illustri fatti , di
lunghe sofferenze, di magnanimi sagrifici. Nondi-
meno è pur forza confessare, che poche sono le
storie delle città italiane, mentre ne abbondano le
cronache. Senza essere irriverenti alla fama di tanti
benemeriti cronisti , i quali ci hanno tramandato gli
avvenimenti che segnalarono epoche a noi lontane,
si può negare il nome di storie a libri ove narransi
(1) Ugo Foscolo, Discorso sull'ufficio della letteratura.
i Gatti nudamente . Bensa dimostrarne le origini , i
rapporti, Le conseguenze: ove protagonista è la terra,
non i cittadini ohe la popolarono, e si discorre
,i sazietà dei pochi clic v'ebbero impero, scarsa-
mente dei moli issimi che lo subirono.
Crema onorano due egregi scrittori delle sue me-
morie, Pietro Terni ed Aleniamo Fino. Vasta e la
cronaca lasciataci dal primo, eleganti ed eruditi i
lavori del Fino, che assunse di compendiare il Terni.
Si può dire che le cronache dell'uno e dell'altro
tocchino l' altezza della storia ? No certamente.
Leggendo Terni e Fino tu non impari ancora a
ben conoscere l'indole del popolo cremasco nei di-
versi tempi , la sua vita agitata e vigorosa neh" età
dei Comuni, l'influenza ch'esercitò sul di lui ca-
rattere il governo della biscia viscontea, e quello
del leone di san Marco : tu ignori tuttavia con quanta
importanza nel medio evo abbia pesato sui politici
avvenimenti di Lombardia la piccola terra di Cre-
ma , grande per 1' ardimento di una popolazione
calda della propria indipendenza e di tutte le ita-
liane passioni. Oltredichè la cronaca del Terni ,
ancora inedita , ebbe scarso numero di lettori , co-
munque importantissima: e del Fino non è a tacersi
come le opere sue, fuori di Crema, rimangono a' no-
stri giorni polverose nella libreria di qualche dotto :
colpa dell' autore , che ad uno stile pulito non seppe
accoppiare ampiezza divedute, e con gretto muni-
cipalismo impicciolì il soggetto de' suoi lavori. Non
discorreremo del Canobbio , del Cogrossi , del Tin-
tori e del Padre Zucchi , che pure trattarono argo-
menti di storia creuiasca: basterà lodare la nobile
loro intenzione di voler illustrare la terra natale pro-
seguendo od ampliando il racconto del Terni e del
Fino : per così gentile pensiero perdoneremo ad essi
la noja che recano coi loro scritti, e la tormentata
pazienza con cui gli abbiamo scorsi onde pescarvi
qua e là qualche raro giojello. Giuseppe Racchetti,
con diligente ed erudito lavoro, aggiunse alla cro-
naca del Fino delle annotazioni , che però non com-
piscono quello del Fino in guisa da renderlo per-
fetto. Né si attribuisca importanza storica a quanto
sulle Cose Cremasche scrisse e pubblicò recente-
mente il mio buon genitore: egli non pretende a vanto
d'istoriografo , ed imbizzarrì novellando talora sopra
casi attinti alla cronaca del Fino , talora sopra il no-
me dei villaggi cremaschi.
Queste considerazioni m'invogliarono a pubbli-
care il mio lavoro , di cui protesto aver già raccolto
lauto compenso nelle dolcissime fatiche del compi-
larlo. E se non mi venne fatto di svolgere il tema
propostomi con quella larghezza di cognizioni e di
idee che a buon diritto 1' età nostra esige da chi si
applica al culto della storia , sarò nondimeno sod-
disfatto se ad altri più robusti ingegni avrò indi-
cata la via di far meglio (*).
(1) Una storia di Crema sappiamo che venne scritta, per commis-
sione del conte Luigi Tadini, dall'abate Bettoni, bergamasco, pro-
fessore di belle lettere nel ginnasio di Crema. Il lavoro del Bettoni si
voleva dedicare all'imperatore Francesco I, nell'occasione ch'egli
visitò la città nostra l' anno 1816. Ma prima di pubblicarlo fu dato da
esaminare ad una colta commissione di cittadini , i quali ne impedi-
rono la stampa.
STORIA DI CREMA
CAPITOLO PRIMO
SOMMARIO
Irruzioni dei Barbari in Italia. — Origine di Venezia e di Crema. —Vicende
naturali del terreno cremasco. — II Iago Gerundo, l'Adda, il Serio e l'Oglio.
— Riassunto delle vicende geologiche alle quali andò soggetto il terreno
cremasco. — Quali furono i primi abitatori del territorio cremasco ? —
Congetture intorno agli Umbri, agli Etruschi , ai Cenomani. — Non par
verosimile l'opinione dei cronisti cremasela che il territorio di Crema sia
rimasto deserto d'abitatori tino al secolo terzo dell'era cristiana. — Isola
Mosa. — Castello dei Conti di Palazzo in riva al Tormo. — Fondazione
di Crema e vicende che Tacconi pagnarono. — Cremete. — Errore d'alcuni
scrittori cremonesi e lodigiani che attribuiscono alle città loro la fonda-
zione di Crema. — Discrepanti opinioni sull'origine di Crema. — L'opi-
nione del Terni da noi adottata sembra la più verosimile. — Crema dal-
l'anno 602 all'anno 1009 non ha storia: per quali ragioni. — Isola Ful-
cheria, e disparità d'opinioni sulla sua estensione.
Isella storia italiana un'epoca delle più sciagurate è
quella delle invasioni dei Barbari, epoca di rapine, di san-
gue, di distruzione. Tu vedi crollarvi l'edificio della civiltà
romana, sfasciarsi l'impero dei Cesari, abbattuto da orde
di popoli feroci, i quali come nembo di locuste calarono
sulle nostre contrade a devastarle. Difendersi dalle aggres-
sioni di quelle torme barbariche non potevano, e quasi di-
— 10 —
resti non volessero gli abitanti della straziata penisola: tanto
erano mutale le condizioni, tanto infemminiti gli animi
negli eredi delle glorie romane. E ne fu colpa la turpe po-
litica dei successori di Augusto, i quali coll'arte dei despoti
disarmarono, abbrutirono, calpestarono un popolo eroico,
per virtù guerresche e cittadine terrore e ammirazione del
mondo. Col corrompersi dei costumi , in Roma fu ammor-
bata la libertà, e vi perì la repubblica: col pessimo governo
degli imperatori si consumarono le forze vitali dell' itala
nazione, e i Barbari vi distrussero l'impero. I popoli della
nostra penisola patirono con indifferenza che i Barbari
sfrondassero la potenza dei Cesari: popoli che un duro e
scompiglialo regime aveva trasformati in un gregge d'op-
pressi ; popoli immiseriti da gravezze enormi , dal deperi-
mento dell'agricoltura , delle arti , del commercio, avevano
perduto que' forti sentimenti di patria che formarono la
religione, la gloria, la grandezza degli avi. Quindi, spetta-
colo doloroso! più volle furono veduti i Barbari sorpren-
dere e saccheggiare città cospicue, nel mentre i loro abi-
tanti, coronati la fronte di ghirlande, assistevano e plau-
divano ai giuochi del Circo <11. I Barbari trovando o nis-
suna o fiacca resistenza, raddoppiavano l'audacia, il furore,
ed imbestiavano spaventosamente, rapinando, uccidendo,
incendiando.
Non è nostro disegno discorrere ampiamente le miserie
che afflissero la penisola italiana pel corso di ben sette se-
coli, in cui vi s' avvicendarono le irruzioni dei Barbari :
solamente ci fa mestieri rammentare quanto spavento ar-
recassero ai nostri padri quelle aggressioni di popoli stra-
nieri che con animo efferato mettevano ogni cosa a san-
gue e a fuoco.
(1) Sjsmondi. Della cadula dell'impero romano.
— li —
Durante il calamitoso perìodo delle invasioni, molle fa-
miglie e spesso intere popolazioni fuggivano dal suolo es-
tivo, lasciando ogni cosa più caramente diletta, per cercare
o fabbricarsi altrove un tetto ospitale elio le proteggesse
dagli oltraggi degli immani aggressori. E i miseri di buon
grado s'acconciavano ad abitare in luoghi deserti e selvag-
gi, parche questi promettessero loro maggior sicurezza.
Così ai tempi di Aitila ripararono alle lagune dell'Adriatico
gli abitanti dei vicini paesi, e sorse Venezia.
Un secolo appresso calò in Italia Alboino re dei Lon-
gobardi. Gepidi, Sassoni, Bavari, Germani ingrossavano
le sue falangi: non un esercito, scrive Sismondi, via un'in-
tera nazione discese nel 568 le Alpi del Frinii. Alboino
possedeva tutte le doti di un barbaro: la fama dell'indole
sua feroce lo aveva preceduto in Italia, e qui egli la con-
fermava con l'atroce voto di passare a fìl di spada lutti
gli abitanti di Pavia che osavano fargli coraggiosa resisten-
za. La discesa d'Alboino sparse quindi immenso terrore
nelle popolazioni dell'Italia settentrionale, che ne prono-
sticarono calamità spaventose. Scamparne divenne il pen-
siero, l'ansia delle moltitudini, e perciò moltiplicarono le
emigrazioni. Allora le città marittime, situate sulle coste
dell'Adriatico e del Mediterraneo, accolsero copia di pro-
fughi : allora molte famiglie bergamasche, bresciane, cre-
monesi, lodigiane rifugiarono in mezzo ad una vasta pa-
lude che era tra l'Olio, il Serio e l'Adda, ed ebbe origine
Crema.
Crema non è dunque città molto antica; posteriore di
circa un secolo a Venezia: Venezia e Crema, monumenti
di sventure italiane. Sorte, l'una fra le lagune marine del-
l'Adriatico, l'altra nella Regona innondata dal Serio e dal-
l'Acida , ci rammentano colla loro origine un'epoca di sco-
raggiamenti e tribolazioni, ci rammentano famiglie deso-
late che fuggirono dal ferro distruttore, dal volto abborrilo
di stranieri oppressori.
— 12-
Posto adunque che la città nostra avesse principio ai
tempi dell'invasione longobarda, e che venisse, come di-
remo, edificata Tanno 570, dobbiamo indagare in quale
condizione si trovasse il suolo cremasco prima della discesa
di Alboino. Quali ne furono le vicende naturali? quali i
primi abitatori? Ecco due quesiti di non lieve importanza:
il primo meno difficile a sciogliersi per le nozioni che sul
terreno lombardo ci porgono gli eruditi nelle scienze geo-
logiche; difficilissimo il secondo, perchè nella scarsezza di
antiche memorie e tradizioni ci è forza ricorrere a con-
getture.
Nell'opera lodatissima che il dottor Carlo Cattaneo pub-
blicò intorno alla Lombardia, leggiamo: « I primi uomini
» che si sparsero per questa terra transpadana, vi si avven-
» nero in due ben dissimili regioni di pari ampiezza, l'uria
» montuosa, l'altra campestre... La regione campestre, arida
» e sassosa nella parte superiore , più sotto era piena di
» scaturigini e di ghiare aquidose, interrotta da dorsi di bo-
» sco, asciutta ed aprica lungo gli alti greti dei maggiori fiu-
» mi, ma in preda alle libere inondazioni nelle basse rcgo-
» ne, e fra le curve dei loro serpeggiamenti (0.» Ed in preda
alle libere innondazioni era appunto nei tempi primitivi
quella regione eh1 ora diciamo territorio cremasco , una
delle più basse che fosse nel vasto bacino della Lombardia.
Vi scorrevano sopra rigogliose e sfrenate le acque di tre
fiumi, l'Adda, il Serio e TOglio : cadendo precipitose da
terreno più elevato, distaccarono dai monti grossi maci-
gni , che stritolati e travolti nel loro corso , formarono
ghiaja e sabbia che sono la base del terreno cremasco. A
questa base i fiumi medesimi sovrapposero materie più mi-
nute e strali di terra vegetali trasportati nelle alluvioni :
ond'è che il nostro terreno è qualificato dai geologi ter-
(1) Carlo Cattaneo. Notizie naturali e civili sulla Lombardia.
— \7> —
reno di trasporto. Si osservò che il fondo del nostro snolo
contiene minerali di varie sorta assai diversi fra di loro, le
Cave dei quali sono sparse per lungo tratto nelle catene
delle Alpi Rezie l : si osserva eziandio la fertilità dell'agro
cremasco essere maggiore nella parte meridionale, inferiore
d'assai a settentrione : dal che si argomentò elio le parti-
celle più sottili e leggiere portatevi dai fiumi, rimanendo a
lungo sospese, si depositassero le ultime nell' attraversare
questo spazio.
L'Adda, il Serio e l'Oglio, che prima vagando sbrigliati si
diffondevano largamente sul terreno cremasco, « nel volger
» dei secoli corrosero coi loro filoni il foudo, e lo infossarono
» sotto quello degli stagni circostanti, nello stesso tempo che
» colle inondazioni colmavano di materie i luoghi più
» bassi W. » Allora emersero dalle acque dei dorsi di ter-
reno in forma d' isoielle, i quali ci sono ancora designati
dall'ineguale superficie del nostro suolo, sparso di rialti a
Chievc, a Moscazzano, a Montodine, a Ripalta ed in altri
luoghi.
S'ignora in qual' epoca e quale dei tre fiumi sia stato il
primo a comporsi un letto stabile : nondimeno possiamo
accertare che l'Adda, ai tempi dell'invasione longobarda, e
per circa sette secoli dopo , ingombrava ancora colle sue
innondazioni lungo tratto di terreno, formando a ponente
del territorio cremasco un vastissimo stagno che le crona-
che accennano sovente col nome di Mare o Lago Gerundo.
Non istupirti se i nostri padri concedettero il nome di mare
ad uno stagno; altri stagni, altre paludi troverai, a cui,
come osserva il Tasso, di mar non fu negato il nome. Ti
sovvenga fra gii altri del mare di Tiberiade, celebre nelle
sacre carte. Del mare o lago Gerundo hanno discorso non
(i) Racchetti. Annotazioni al lib. I deM'Alemanio Fino.
(2) Cattaneo. Sull'agro lodigiano e sul cremasco. Discorso stampato nel
Politecnico, voi. I.
— u —
pochi cronisti, e particolarmente lodigiani, ma con notizie
imperfette, varie e fra loro discordi , intrecciandovi non
di rado qualche cosa di favoloso : onde non se ne può con
esattezza stabilire i serpeggiamenti, i confini, l'estensione.
Quantunque scomparso da circa sei secoli, il lago Gerundo
indica ancora le sue tracce, nei rialti del suolo a lui cir-
costanti, e nelle ghiaje o gere, le quali diedero il nome di
Gera d'Adda ai paesi ch'egli ricopriva delle sue acque. Un
antico cronista lodigiano (*) narra, che ai piedi del colle
Eghezzone, ov'è situata la moderna Lodi, scorgevansi un
tempo cinque torri, a guardia del porlo, per coloro che
navigavano sul lago Gerundo : di simili torri altra sorgeva
presso Rivolta Secca, altra presso Pandino ai confini del
Cremasco. E dalle cronache di Crema raccogliamo che la
villa di Chieve i2, era posta in riva del lago, e che in detta
villa si trovarono certe colonne di rovere con le catene di
ferro cui si legavano le navi. Se quindi Chieve giaceva alla
riva di levante, ed il colle Eghezzone a quella di ponente,
il mare o lago Gerundo fra Chieve e Lodi alìargavasi circa
sette miglia. Il dottor Carlo Cattaneo, nel suo eruditissimo
discorso intorno all'agro cremasco , toccando del lago Ge-
rundo scrive: « 11 labbro dei varj suoi bacini vien dise-
» guato a ponente dall'alta riva destra dell'Adda , ed a le-
» vante da un elevato scaglione che dalla foce del Brembo
» serpeggia per Pandino e Chieve sino alla foce del Serio (3). »
Sembra adunque che il lago Gerundo fiancheggiasse tutta
l'estremità occidentale del terreno cremasco, e stabilisse il
confine divisorio fra l'agro nostro e il lodigiano: sembra
altresì che egli serpeggiasse anche dentro il territorio no-
li) Vincenzo Sabbia, abate olivetano, nelle Memorie di Lodi.
(2) Vuoisi che Chieve abbia preso il nome dalle chiavi con le quali as-
sicuraronsi le barche approdate alla riva di questa villa. Vedi Fino, nel lib. I
della Storia di Crema.
(3) Vedi il Politecnico, voi. 1.
— tu —
stro inoltrandovi si Gn quasi al centro, giacché si preten-
dono tracce Indora visibili del lago Gerundo le paludi che
a' nostri giorni l'orinano i cosi detti Itosi di Crema ' .
I larghi stagni del lago Gerundo impregnavano l'aria di
insalubri esalazioni , sicché ne soffrivano gli abitatori dei
vicini paesi. I Lodigiani, ond'essere preservali dalle infezioni
dell'aria, eressero già un tempio, dedicandolo alla dea Me-
lìte, la quale ebbe culto anche sul Cremonese. Tacilo narra
che quando Cremona fu distrutta, restò in piedi il solo
tempio di Me/ite, quasi proietto dalla dea. Ciò in tempi pa-
gani. Dopo che il cristianesimo ebbe atterrate le are degli
dei falsi e bugiardi, invalse nei Lodigiani la credenza che i
miasmi delle vicine paludi derivassero da un serpente di
smisurata grandezza, il quale annidando nel mare Gerun-
do W appestava V aria col suo alito. A Lodi , nel mezzo
della vòlta della chiesa di S. Cristoforo, ora soppressa, pen-
zolava ancora, sul finire del secolo scorso, una costola di
straordinaria lunghezza, la quale dicevasi del pestifero
serpe che abitò nel lago Gerundo. L'appesero in quel sacro
recinto i Padri Olivetani a guisa di voto, per la memoria
del gran mostro ucciso i3). E i Padri Olivetani lasciarono
che iì popolo si bevesse nella chiesa loro la favola del ser-
pente, onde accrescere la divozione a S. Cristoforo cui i
Lodigiani si professavano debitori d'aver purgata l'aria mal-
sana delle paludi , uccidendovi il serpe. Quella costola ,
lunga ben sette piedi, era di un cetaceo , e si raccolse in-
fatti sul suolo lodigiano in seguilo ad una grande innonda-
zione dell'Adda i4).
(i) Cattaneo. Politecnico, voi. I.
(2) Villanuova, nella storia di Lodi, pone all'anno 1299 la comparsa di
un pestifero drago nel mare Gerundo.
(3) Filiberto Villani , nel poema intitolato Federico Barbarossa. Vedi le
annotazioni al poema medesimo.
(4) »La detta costola, dopo la soppressione della chiesa di S.Cristoforo, fu
ritirata dal dottor Villa di Lodi. • Nuta del Vignati nelle Storie lodigiane.
— 16 —
Il lago Gerundo si prosciugò col cessare i gravi straripa-
menti dell'Adda. E fu opera lenta, né la vogliate tutta at-
tribuire all' aversi l'Adda approfondito naturalmente il suo
letto: vi cooperò l'umana industria, imbrigliando e diri-
gendo il corso del fiume con arginature, agevolando con
tagli arditi Io scolo delle paludi, e finalmente sottraendo
all'Adda col mezzo di numerosi canali una massa perenne
e considerevole d'acqua.
In alcuni luoghi del territorio cremasco scorgonsi ben
distinte le orme che lasciò l'Adda ritirandosi: scorgesi
com'essa siasi ritirata in tre periodi. «Ciò apparisce»,
osserva Raccheti! t1), «a Caselelto Ceredano , dove sono
» formati tre piani, il primo delle alte campagne a livello del
» territorio cremasco; il secondo, quello su cui è piantato il
» villaggio; e il terzo assai più spazioso, il quale quasi tutto
» nel secolo XIV era ancora palude, e di poco anche nel se-
» colo XVI aveva migliorato. »
Il Serio e TOglio, che in tempi remotissimi entrando am-
bidue nel territorio ^remasco erano a settentrione assai
più vicini fra di loro, scavaronsi anch'essi il letto: la cor-
rente dell'Oglio piegò verso oriente, scendendo direttamente
a metter capo nel Po: il Serio si compose il suo alveo ove
oggidì è il canale del Serio Morto. Se non che il Serio, per
la poca profondità del suo letto e le frequenti alluvioni,
mantenne fino al secolo XI il suolo cremasco ingombro di
paludi. Sul principiare del secolo XI, Masano, signore di
Crema, assumendosi di prosciugare le paludi, narrasi che
voltasse il corso del Serio, facendolo passare assai più vici-
no alla città , che prima n'era lontano circa due miglia. È
questa una notizia riferitaci dal Temila. «Né ciò», aggiunse
Raccheta i31 , «sembra contraddire alle tracce che il Serio
(1) Annotazioni al primo libro della storia di Alemanio Fino.
(2) Pietro Tep.ni. Storia di Crema, inedita.
(3) Idem.
— 17 —
.. lasciò sul terreno, imperciocché uu abbassamento notabile
». seguita la costa che si chiama Dossi d'Izano, e prosegue da
■ Ripalta Arpina fin presso a Castelleone, apparendo avesse
.. il Serio allora foce nell'Alida poco sopra Pizzighettone. Al-
>' Irò argomento per creder al Terni si è, che non trovasi
» memoria essere siala fondata Crema in riva al fiume.»
Noteremo finalmente, che le lagune del cremasco non si
formavano solamente per le espansioni dei fiumi Serio ,
Adda ed Oglio; ad alimentarle concorrevano le inesauste
sorgenti che slendonsi fra l'Adda e l'Oglio , fra le quali
quelle di Fornuovo , riputale le più doviziose di tutta la
Lombardia.
Epilogando quanto dicemmo (ed è ben poca cosa) intorno
alle vicende naturali del nostro territorio, finiremo conchiu-
dendo , che la storia geologica del terreno cremasco può
ripartirsi in tre grandi epoche. Vepoca rimotissìma, ossia
dei tempi primitivi, in cui il terreno cremasco era tutto
immerso nelle acque che sopra vi mescolavano il Serio ,
TOglio e l'Adda ; Y epoca di mezzo, ove i tre fiumi solcan-
dosi il letto tra le materie portate colle loro alluvioni si
separarono e discoprirono una parte del suolo cremasco ,
lasciandone un'altra tuttavia ingombra d'ampie paludi;
Vepoca moderna; ossia dell'umana industria, che reagì sulla
natura limacciosa del terreno cremasco, e continuandovi i
prosciugamenti lo ridusse a poco a poco all'attuale stato di
floridissima vegetazione. Quantunque riesca impossibile
precisare il punto di partenza e ia lunghezza di queste tre
epoche, tuttavia ci si allacciano alla mente assai ben di-
stinte fra di loro per le trasfigurazioni che operarono sul
nostro terreno. INella prima tu vedi tre fiumi associare la
massa delle loro acque, e sotto forma di un vastissimo tor-
rente correre indomati e padroneggiare una profonda vai-
lata; nella seconda tu scorgi in mezzo a larghi stagni e li-
macciose paludi colmeggiare delle isoletle quasi inaccessibili,
2
— 18 —
4 i loro dorsi inverdire di folte boscaglie ; nella terza , e
paludi e stagni vanno mano mano scomparendo : tu am-
miri la potenza dell'uomo che infrena le forze dei fiumi, t
capricci dei torrenti straripanti ; vedi i pantani convertirsi
in prati ridenti d'erbe e di fiori, vedi lussureggiare le spi-
che ed il gelso, ed agitarsi un popolo d'agricoltori, ove
prima il rospo gracidava solitario fra carici e palustri canne.
A' nostri giorni l'agro cremasco cede in densità di popola-
zione alla sola provincia di Milano, e ragguaglia il quadru-
plo della popolazione media della Francia (*).
Quando il terreno cremasco incominciò ad essere abita-
to? A quale stirpe appartenevano coloro che per i primi
furono balestrali in mezzo alle sue sabbie e a' suoi pantani?
Sono problemi da far inarcare le ciglia dei più dotti nelle
storie e nelle antichità italiane. Tuttavia ci proveremo, se
non a togliere, a diradare almeno le tenebre che sul nostro
suolo s'addensano nell'età più remote, adulandoci con le
ricerche e con gli studj che fecero intorno alle origini dei
popoli lombardi non pochi benemeriti scrittori.
E primieramente , affermiamo impossibile l'accertare in
qual tempo il terreno cremasco abbia incominciato a spar-
gersi d'abitatori, giacché bisognerebbe poter prima stabi-
lire in qual'epoca esso diventò abitabile. Noi dicemmo già,
che nell'età primitiva era lutto coperto dalle acque: dicem-
mo altresì ignorarsi in qual tempo i fiumi, coll'approfondirsi
il letto, vi si ritirarono. Senza dunque pretendere d'indicare
il secolo in cui sorsero sul territorio nostro i primi tuguri,
ci limiteremo a supporre che i primi ad abitarlo venissero
quando le acque ritirandosi ne lasciarono asciutta una parte
e vi permisero la vegetazione. Che se poi ricorriamo alia
storia delle genti stabilite fra l'Adda e il Mincio prima del-
l'impero romano, noi, seguendone colla mente le varie di*
(1) Cattando, Discorso sull'agro cremasco. Polikcnico, voi. I.
— 19 —
ramazioni, investigandone le vicende, i costumi, le tracce
che lasci nono nei nomi, noi dialetti, nello tradizioni dei
paesi , potremo scoprire alcuni indizi probabili intorno al-
l'epoca oil alla Stirpe dolio famiglie elio por lo primo anni-
darono sul nostro suolo: potremo aggiungere qualche pe-
regrino Gore alle storie cremasene del Terni e del Fino, i
quali le età precedenti la fondazione di Crema lasciarono
inesplorate.
La Lombardia ne' tempi primitivi, per l'indole del suo
terreno basso in gran parte e paludoso , ebbe scarsissi-
mi abitatori. Vi erravano qua e là tribù segregale di po-
poli selvaggi, i quali dagli antichi scrittori ci vengono indi-
cali col nome assai proprio di Aborigeni , ossia popolazioni
indigene. Noi opiniamo che nissuna di quelle tribù di
Aborigeni abbia mai posto piede sul territorio cremasco :
imperocché la vita loro risalendo a'tempi antichissimi, è pro-
babilissimo che il suolo cremasco giacesse ancora immerso
nelle acque. Ma quand'anche una parte ve ne fosse già la-
sciata a secco, è nondimeno a credersi che nissuna di quelle
tribù selvaggie vi piantasse la sua sede, sapendo che i no-
stri Aborigeni, al pari degli altri popoli primitivi, preferivano
di abitare sopra terreni elevali. Le tradizioni più antiche
sia dell'Europa, sia dell'Asia, e' ^istruiscono come a loro
fossero saere le cime de' monti , ove ergevano templi, con-
sumavano sagrifìej, persuasi d'essere più vicini al cielo, e
che più presto salisse ai Numi il suono dei religiosi canti ,
e il profumo degli olocausti.
Dopo gli Aborigeni, i più antichi abitatori della Lombar-
dia menzionati nelia storia sono ì Liguri , i quali narrasi
che, discesi dalle Alpi, ponessero stanza sull' una e Y altra
riva del Po l11. Le memorie dei Liguri rimontano a due
(1) Gabriele Rosa, Genli stabilite fra VAckla e il Mincio prima cUlVimpe.ro
romano.
— 20-
mila g più anni innanzi l'era cristiana, e si confondono con
quelle degli Aborigeni. D'un'età tanto rimola non essendovi
tradizioni né traccia di sorla nel territorio nostro, non osere-
mo ancora figurarcelo abitato; quindi ci guarderemo dal
trasportare a furia di congetture una colonia di Liguri sul
terreno cremasco.
Circa tredici secoli prima di Cristo, gli Umbri, gente che
vuoisi d'origine Celta, respinsero i Liguri al di là del Tici-
no, ed occuparono tutta la valle del Po che chiamarono
Isumbria (Bassa Umbria). Non iscarseggiano memorie degli
Umbri nella storia italiana : si sa che tennero la Valle Pa-
dana per tre secoli , cedendola, dopo lunga ed accanita
guerra, agli Etruschi. Nelle storie lodigianc leggemmo:
« Credonsi pure memorie Umbre il nome di Mombrione al
» colle di S. Colombano e di Ombriano ad una terra sulla si-
» nistra dell'Adda presso Crema: in alcune antiche memorie
» si è trovalo il primo col nome di MonsOmbronus ; ed il
» secondo, che anticamente era bosco, Lucus Umbranus (*).»
Da queste parole noi siamo ben lungi dall' inferire la cer-
tezza che Ombriano abbia avuto origine e nome da una co-
lonia di Umbri; però non ommellercmo di osservare che
anche nelle cronache cremasche una favolosa tradizione
adombrò l'antichità e l'origine d'Ombriano, mentre di quasi
tutte le altre terre del Cremasco non vi è motto che ac-
cenni il loro principio, od un'esistenza anteriore all'era
cristiana. Aleniamo Fino nella prima delle sue Seriane
narra: « Dove oggidì si vede la bella ed amenissima villa
» di Ombriano , di begli edilìzi e di vaghi giardini ripiena,
» era, secondo il Terni, una gran selva, la quale chiamavasi
» Ombra di Giano, da Giano per avventura primo re d'Italia,
» ovvero da Giano III, figliuolo di Jubal (come vogliono alcu-
» ni ), fondatore di Milano. Pigliò il loco tal nome dal detto
(]) Vignati. Storie lodigiane.
— 31 —
» signore, perciocché egli, affaticatosi dietro le cucco, qui
» spesso soleva riposarsi invitato dalla vaghezza dei chiari
» fonti e dalla amenità delle fresche ombre.» Adunque, se-
condo le cronache nostre, Ombriano avrebbe derivalo il nome
da ombre e ila Giano, e secondo altre, dagli Umbri, popoli che
vennero dal centro dell'Italia a stabilirsi nella valle del Po,
cacciandone i Liguri. Fra queste due opinioni, l'aspetto del
verisimile è senza dubbio nella seconda; se non che, ben
ponderate e l'una e l'altra, mentre discordano nello spie-
gare l'etimologia del nome Ombriano, si ravvicinano in al-
tri punti, e pare che concorrano a produrci risultati quasi
conformi di slorica verosimiglianza. L'origine d'Ombriano,
sia che tu l'attribuisca a Giano, sia agli Umbri, risale seni-
lire all'epoca medesima, vale a dire alla Trojana. E depu-
rando da ciò che sa di favoloso l'opinione dei cronisti ere-
maschi, rendesi ancor più manifesto ch'essa, anziché di-
struggere, è puntello all'opinione contraria. E infatti quel
dire che il re Giano dcliziavasi di venir cacciando in una
selva del nostro territorio, è un confessare che una parte
del terreno cremasco fosse già accessibile tredici secoli prima
di Cristo: quindi accresce probabilità che gli Umbri, a quel-
l'epoca padroni delle non lontane vallale del Po, vi pene-
trassero, invitati anch'essi dalla vaghezza dei chiari fonti
e dalla amenità delle fresche ombre. Si dirà : Sono sogni
mitologici quelli del Terni e del Fino che menano Giano re
del Lazio a caccia in una foresta del territorio cremasco :
ma essi coi loro sogni ci attestano, se non altro, essere Om-
briano fra le terre più antiche del cremasco, giacché il fa-
voleggiare sull'origine di un paese è, se non prova, indizio
per lo meno dell'antichità del medesimo. Si dirà che per
adagiare sul terreno cremasco una colonia di Umbri, noi
affaticammo la mente di congetture; ma dov'è lo storico
che spingendosi nel bujo di lontanissimi tempi non cerchi
lume dalle congetture? Le quali per chi vola fra lo spazio
— 22 — ■
delle età oscure e favolose, tante volte somigliano alle ali di
Icaro: ma giovano tuttavia, perchè istruiscono e invogliano
gli ingegni a vestirne eli più robuste.
Vinti gli Umbri, nei paesi fra le Alpi ed il Po fondarono
citlà e colonie gli Etruschi, popolo induslre, colto, civiliz-
zatore. Di loro non trovasi memoria nelle cronache crema-
sene. Mai un frantume di vaso etrusco, osserva Raccheti!,
si rinvenne coi tanti scavi fatti al terreno cremasco. Ep-
pure gli Etruschi , narra Plutarco!1), possedevano nella
valle Traspadana dicioifo belle e grandi città, e resero fe-
raci i piani lombardi, e gli arrichirono d'opere d'arte, e
di quanto è necessario alle lautezze della vila. Purché ci
si conceda essere verosimile, come dimostrammo, che gli
Umbri occupassero un lembo del terreno cremasco, non è
più un'ipotesi troppo ardita il supporre che anche gli
Etruschi vi collocassero qualche colonia, essi che arginando
il Po e raccogliendone in canali le acque, sembra che ri-
volgessero l'operosa intelligenza a migliorare la condì-
dizione delle pianure transpadane , naturalmente palu-
stri^.
Intorno a sei secoli innanzi l'era volgare calarono in Ita-
lia i Galli ed i Cenomani, due razze diverse di popoli, che
in masse sterminate migrarono nel suolo italiano. I Galli si
diffusero dalle Alpi sino al Po ed all'Adda, i Cenomani
dall'Adda al Mincio. Perciò il terreno cremasco segnava
l'estremità occidentale dei paesi occupati dai Cenomani, ed
il lago Gerundo era il confine divisorio fra le due stirpi
galla e cenomana. Non vogliamo assicurare che i Cenomani
ponendo le loro sedi nel suolo bresciano e bergamasco si
estendessero anche sul cremasco : nondimeno ciò è proba-
bile per due argomenti che desumiamo l'uno dalla storia,
l'altro dallo studio dei dialetti lombardi.
(!) Plutarco. Vita di Camillo.
(2) Rosa. Genti stabilite fra VAdda e il Mincio.
Tolomeo, descrivendo le città e i paesi dei Cenotfiani,
accenna un luogo col nomo di Fortini diugnntorum, col-
locandolo fra Bergamo e Brescia. Fra Leandro Alberti, nel-
l' opera sua intorno air Italia, pone questo Foro nel silo
ove presentemente sorge Crema. L'opinione dell' Alberti,
comunque da parecchi scrittori adottata, ebbe non pochi
che la smentirono, e fra questi il Ruscelli, il quale tradu-
cendo Tolomeo, mette il Foro dei Diogonli ove ora ù Piz-
zighettone. Noi non vogliamo abbracciare uè ciecamente ,
né interamente l'opinione dell'Alberti; tuttavia non ci per-
suade abbastanza quella del Fino, il quale, senza andar
ricercando se il Foro dei Diogonli fosse a Crema o piutto-
sto a Pizzighettone, asserisce che non poteva essere a Cre-
ma per la qualità del sito di quei tempi A\ Forse clic
nissuna parte del terreno cremasco fosse ancora abitabile
ai tempi della repubblica romana? Non lo crediamo per te-
stimonianza del Fino medesimo, il quale soggiunge : « Fra
» le lagune c'erano alcune isolette , e fra le altre una mag-
» giore di tutte detta foMosa. » Adunque non ci par strano
supporre che i Cenomani siensi sparsi in alcune di queste
isolette ; non ci par strano che il Forum Diucjuntorum
abbia esistito sul terreno cremasco, se non all'isola Mosa,
in qualche altra. Ci si obietterà che Forum significava luogo
di mercato, e non esser verosimile sorgesse un luogo di
mercato in mezzo a paludi. Risponderemo, che i primi
centri mercantili sorsero quasi tutti in riva o presso le
grandi acque; onde poteva benissimo esservi un foro an-
che in un' isoletla del terreno cremasco, per la vicinanza
dell'Adda e del Serio, il quale ne' tempi antichi, avverte
Cattaneo 2) , era pur esso navigabile. Direni piuttosto col
Maffei, che il Foro dei Diogonti era di così lieve impor-
tanza, che se ne smarrì col volger degli anni ogni traccia (3;;
(i) Fino. Le Sericine.
(2) Politecnico , volume I.
(3) Maffei. Yerona illustrala.
— 24 -
ma finché non ci vien provato ov'esso fosse, se a Crema,
se a Pizzigheltone o a Fornuovo , ci si permetta congettu-
rare eh1 abbia esistito in un lembo del terreno cremasco.
A render probabile che i Cenomani abitassero il suolo
di Crema, dicemmo di possedere altro argomento negli
studi sui dialetti. L'idioma è tenace monumento dell'ori-
gine dei vari popoli, giacché la pronuncia ne scopre la dif-
ferenza degli stipiti. « Quand'anche, scrive Biondelli , una
» nazione venga costretta da una forza prevalente a cangiare
» il proprio dialetto, conserva sempre pressoché intatta la
» nativa pronuncia. » I dotti delle antichità italiane osserva-
rono che i paesi ove i Galli posero le loro sedi si distin-
guono ancora da quelli popolati da Cenomani per l'uso di
pronunciare la n nasale, proprietà particolare della pronun-
cia celtica, introdotta dai Galli nelle terre da loro occupa-
te. Infatti ci accorgiamo che il vezzo dei suoni nasali cessa
alla sinistra sponda dell'Adda, appunto ove il fiume divi-
deva i Galli dai Cenomani. Oltre di che il Biondelli dimostra
doversi « il dialetto cremasco, benché men scabro, riguar-
dare per un subdialelto del bergamasco (*)», al quale è
pure affine il bresciano. Quindi colla teoria dei dialetti ven-
gono considerati siccome appartenenti ad una medesima
razza i Bergamaschi, i Bresciani ed i Cremaschi: e le terre
di Brescia e di Bergamo vennero quasi tutte popolate da
prole cenomana.
Ma non è il dialetto soltanto che accenni lo stipite co-
mune fra le popolazioni di Bergamo, di Brescia, di Crema:
lo accenna armonia d'indole e di costumi: lo accennano le
fraterne simpatie onde veggiamo così di frequente nell'i-
storia Bresciani, Cremaschi e Bergamaschi stringersi in al-
leanza ed accomunare le sorti loro sotto il medesimo ves-
sillo. Chi risalisse alle origini delle popolazioni di Lombar-
(i) Bernardino Biondelli. Saggio mi Dialetti Gallo-Italici.
— 90 —
dia, non di rado scoprirebbe nella diversità delle razze il
segreto di certe antipatie municipali e degli odj che, ali-
mentali di oltraggi e di sangue, letalmente tra paese e
paese inveterarono. La storia c'istruisce come i Galli ed i
Cene-mani, d'origine diversi, sieno stati fra di loro nemici.
Ai tempi romani, l'Adda separava due popoli che oslcggia-
ronsi aspramente, lungamente : e ali odj ira le due razze
ripullularono nel medio evo, quando Bresciani e Crema-
sebi battagliarono accanili conlro Cremonesi e Lodigiani : e
fino a' noslri giorni osserviamo a malincuore che il Cre-
masco serba ancora dell'astio al Lodigiano. Questa secolare
avversione, abbarbicatasi nella terra nostra verso gente li-
mitrofa d'origine gallica, sembra quasi un fidecommesso ,
tramandato per lunga scric di generazioni dai Cenomani ai
loro nipoti: come ci sembra chiaro indizio del comune
stipite quel!' intendersi fra di loro Bresciani, Cremaschi e
Bergamaschi, quell'associare d'interessi, quel frequente ri-
cambiarsi d'alleanze e d'ajuti, in mezzo alle gravi e svariale
vicende in cui Tonda dei secoli travolse le terre di Lom-
bardia.
Dei Cenomani non v'è parola nelle cronache cremasene.
Raccogliamo dalla storia che essi allearonsi coi Romani, e
gli soccorsero a domare i Galli: raccogliemmo eziandio
dalle cronache lodigiane , che verso Tanno 224 prima di
Cristo, un esercito di Romani entrando a combattere nei
paesi dei Galli, varcò l'Adda a poca distanza del territorio
cremasco ^l
Da quanto abbiamo coi nostri ragionamenti conghieltu-
rato, apparisce che ci scostammo dall'opinione del Terni ,
del Fino e del Racchetti, i quali affermano che il terreno
cremasco, a motivo dell'ampie paludi, si mantenne disabi-
(1) Vuoisi che ripassassero t'Adda nelle vicinanze di Cavenago. Vedi li
Storie lodigiane del Vignati.
— 26 —
tato fino al secondo o terzo secolo dell'era cristiana. Ci
scostammo da loro, non potendo così di leggieri persuader-
ci, che un terreno dell'ampiezza di 74 miglia geografiche
quadrate rimanesse per più di quaranta secoli un deserto,
a rimprovero dell'inerzia dell'uomo che trascurava di farne
suo prò fertilizzandolo. Gli stagni che lo circondavano
avranno bensì impedito che vi si addensasse una popola-
zione numerosa , ma non che vi annidassero alcune colo-
nie, profittando degli emersi rialti di terreno, ove i frutti
naturali avranno invitato gli abitanti dei vicini paesi a rac-
coglierli, a rendere coir industria men selvaggio il nostro
suolo, a spargerlo di casolari. Né l'industria agricola igno-
ravano i primi popoli che discesero in Lombardia : gli
Etruschi , fra gli altri, erano peritissimi nell'arte idraulica,
nel disseccar paludi, e furono i primi ad introdurre in Lom-
bardia i prati artificiali, onde Polibio l*) vantò l'antica flo-
ridezza della valle padana. Seguendo l'opinione degli scrit-
tori cremasela, noi avremmo dovuto incominciare il nostro
racconto riducendo una storia di quattro mila anni che
precedettero l'era cristiana a descrizioni di animali erranti
sopra un terreno che mai né orma né arte d'uomo si degnò
di solcare: avremmo dovuto limitarci a dipingere tra le fo-
reste ed i pantani del cremasco, i porci, i cinghiali, i cervi,
i lupi ed altri moltissimi animali che in tempi antichi s'at-
truppavano sui piani della selvaggia e paludosa Lombardia.
Noi invece fra l'ululare dei lupi vaganti nell'isola Mosa'21,
fra gli slagni popolati da una canora miriade di ranocchi,
siamo andati col lume della storia in cerca di volti uma-
ni: studiammo d'indovinare quali saranno stati i primi
uomini a bagnare di sudori e di lagrime il nostro terreno,
(t) Polibio scriveva circa due secoli prima di Strabone.
(2) L'isola Mosa era detta anche Dosso dell'Idolo: ed Alemanio Fino pre-
tende che la parola Idolo, significasse Ludolo, per i molti lupi che erravano
intorno all'isola.
— 27 —
n procacciarsi alimento e sicurezza fra le paludi che lo re-
cingevano. E se anelli1 le arrischiate indù/ioni ci avessero
s\iati dal verosimile, siami) tuttavia lieti d'aver preferita
all'opinione dei cronisti cremaseli i, quella di un robusto e
dottissimo ingegno moderno , il quale ragionando sul l'ori-
gine di Crema, sciasse: «Prima dell'epoca longobarda
» nissuna storia rammenta il nome di Crema: però né il
» nome è di quei tempi, né il paese poteva essere rimasto
» senza borgate fino all'anno 570, al quale si attribuisce la
» fondazione di Cremai11.»
Dall'epoca dell'impero romano incominciano anche le
cronache di Crema a rappresentarci sul terreno cremasco
dei luoghi abitali. Ci descrivono l'isola Mosa situata fra bo-
schi, e quasi nel centro del territorio nostro, al dir del
Terni così amena, « che gli occhi non si saziavan di guar-
» dare, e delle Muse e non della Mosa si doveva domandare. »
Quest' isola « faceva due corna, l'uno verso levante, l'altro
» verso ponente, ov'era un luogo più altetto del rimanente,
» ameno e piacevole molto a riguardare che chiamavasi il
» Dosso dell' Idolo (*). » Sopra il Dosso ci dipingono una
modesta chiesuoletta che intitolavasi S.a Maria della Mosa,
ovvero in Palude, e questa chiesuoletta il Terni conghiet-
turò venisse edificata da alcuni cristiani rifugiatisi tra le
nostre paludi per sottrarsi alle persecuzioni di Diocleziano.
Nell'anno 1547, erigendosi in Crema il nuovo palazzo del
Comune, si scoperse una sepoltura, sulla quale Fino ci at-
testa ch'era scolpito l'anno ola. Questa sepoltura portante
la data dell' anno 515, e quel chiamarsi Dosso dell'Idolo
il luogo ove in appresso fu edificato il tempietto di S.a Ma-
ria in Palude, avrebbero dovuto ingenerare almeno il dub-
bio che un'aggregazione d' uomini popolasse l' isola Mosa
(1) Carlo Cattaneo. Notizie su Lodi e Crema. — Politecnico , Voi. I.
(2) Fino. Storia di Crema.
— 28 —
mollo prima dell'anno 515. Le cronache invece, cangiando
arbitrariamente la parola, dissero che per Idolo devesi in-
tendere Ludolo, ossia «Isola del Ludolo dal ludolar dei
» lupi che spesso nei boschi vicini si udivano (*).» Ed il Bac-
chetti, dalla scoperta sepoltura indicante l'anno 518, trae
uno degli argomenti per istabilire che « infino al secondo
» o terzo secolo la terra di Crema non ebbe abitanti (2).» Ma
se essa era asilo ai morti fin dal 515, non si potrebbe in-
vece tener verosimile che lo fosse ai vivi già da parecchi
secoli innanzi?.... Non vogliamo ritornare sul combattere
le loro opinioni; gioverà tuttavia aggiungere, a quanto ab-
biam detto, un'osservazione che desumiamo dalla storia de-
gli ultimi tempi dell' impero romano. La Lombardia, durante
il governo degli ultimi imperatori, era ridotta ad uno stato
di squallore deplorando. I balzelli enormi, le soperchierie
dei governatori, il disordine nella pubblica amministrazione
avevano gettata la miseria fra le popolazioni. « La Cisalpi-
» na, che nei primi due secoli dell'era cristiana era diventata
» il paese più ubertoso del mondo per ogni maniera di pro-
li dotti possibili, poco per volta diventò spopolala e sfruttata:
» subentrò il pascolo alcollivo,ed abbandonate le opere mec-
» caniche ajutanti l'agricoltura, caddero i ponti ed i muri di
» sostegno ai ronchi, si turarono i canali d'irrigazione, si
» ruppero gli argini, crebbero quindi le innondazioni, gli
» stagni, le paludi, generando la mal'aria, le malattie e le
» pesti. E lo squallore andò a tale, che nel 587 S. Ambrogio ,
» descrivendo alcuni luoghi intorno al Po sul modanese,dice
» ch'ivi non rimanevano più che cadaveri di città *31.» Da
quesla lagrimevole pittura di paesi ch'erano i meglio uber-
tosi e coltivati, si può arguire la miserabile condizione del
(1) Fino. Storia di Crema.
(2) Bacchetti. Annotazione prima alla Storia del Fino.
(3) Gabriel Rosa. 1 Feudi ed i Communi della Lombardia.
— 29 —
nostro nei secoli terzo, quarto e quinto. Se ci»'» non ostante
il terreno cremasco fu in que1 secoli accessibile a non po-
chi fuggiaschi che, al dir del Terni, vi posero dimora, ci si
permetta supporre con più forte argomento ch'esso non sia
rimasto inospite in epoche anteriori, quando nei paesi cir-
convicini, agricoltura, arii e industria prosperavano.
Noteremo finalmente, che sopra un lembo occidentale de!
terreno cremasco sorgeva in riva al Tornio un castello, pri-
ma ancora che venisse Crema edificata. Ciò asseriscono le
cronache nostre, dicendo che Cremetc, nobil uomo, da cui
vuoisi prendesse nome la città nostra , era « signore di
» Palazzo Pignano, castello aque' tempi di qualche nome 0.»
Un castello a Palazzo Pigliano, un tempietto sul dorso
dell'isola Mosa, ecco i soli edifici che le nostre cronache ci
dipingono fra vaste paludi e boschi selvaggi, prima della
invasione longobarda; ma intorno a quel castello si sarà
aggruppato un branco di coloni o di schiavi, obbedienti al
loro signore, e nella chiesuola di S.a Maria della Mosa
uno stuolo di cristiani avrà inneggiato alla madre del divin
Redentore : onde ajulandoci colla fantasia, noi senz1 offen-
dere il vero della storia, possiam figurarci quel castello e
quel tempietto coronati di capannucce e modesti abituri; pos-
siamo, per testimonianza del Terni medesimo, affermare che
la nostra terra natale, quando all'epoca d'Alboino accolse i
profughi dei vicini paesi, non era affatto deserta.
Ora verremo discorrendo della fondazione di Crema, nar-
randola nel modo e all'epoca che la dissero avvenuta le
cronache del Terni e del Fino.
Quando Alboino calò in Italia, presi da spavento, ripara-
rono all'isola Mosa molti nobili delle terre vicine. Penetra-
rono nell'isoletta navigandone le lagune sopra barchette, che
poi ritirate sulla riva di Chieve assicurarono con chiavi ,
(i) Alemanio Fino. Storia di Cre.na.
— 50 —
acciocché nissuno ne usasse senza licenza. Dapprima arri-
deva ai rifugiali speranza che la pace rifiorisse in Lombar-
dia, e di poter ancora senza pericolo ritornare con le loro
famiglie a gioire il soggiorno delle terre native : ma ben
presto sfiduciati, vedendo che le armi dei Longobardi non
quietavano, risolsero di stabilire la loro dimora nell'iso-
letta che tanto opportunamente prestavasi a guardarli dal-
l'ire degli invasori longobardi. Narrasi che ai quindici di
agosto dell'anno 570, giorno dell'Assunzione di Maria Ver-
gine (*.), tutti i rifugiati si raccogliesscro a consiglio nel
tempietto di S.a Maria della Mosa, ed ivi di comune ac-
cordo deliberassero d'erigere una cittadella sul terreno
ospitale che li aveva ricoverati. Tanto cocente ferveva in
essi la brama di provvedersi un tetto ove poter con sicu-
rezza annidare le loro famiglie, che tosto per maggior di-
fesa nel giorno susseguente (16 agosto 570) si diede mano
alla costruzione di una rocchetta, innalzandola a levante
dell'isola, e questa rocchetta vuoisi che da Cremete , uno
dei rifugiali, pigliasse il nome di Crema.
Il lettore s'invoglierà di sapere chi fosse Cremete, e per-
chè mai dal suo assumesse il nome la città nostra. 11 Terni
narra: Cremes o Cremete era conte e cavaliere* 3 il più
onorato e riverito fra quanti avean cercato rifugio nell' i-
sola Mosa. Prosegue il nostro cronista congetturando che
egli provenisse non da Parasso, come vogliono alcuni , ma
dal vicino palazzo o castello, ch'egli possedeva magnifico in
riva al Tonno, ove appunto a' nostri giorni è la villa detta
di Palazzo Pigliano. E per accreditare questa sua opinione,
il Terni narra d'aver raccolto in un'antica cronachetta, che
al luogo ov'è situata la Villa di Palazzo sorgeva « un nobile
(1) L'Alemanio Fino nella Seriana XXV dice che la deliberazione presa
addì 15 agosto dell'anno 570 fu uno dei molivi per cui la cattedrale di Cre-
ma è dedicata all'Assunzione di Maria Vergine col titolo di S. Maria magslore.
— 5] —
i castello e bellissimo palazzo del conte Cremete in cui rice-
■ vette il re dei Longobardi onorificentissimamente» : il qual
castello esisteva ancora nel 1360, come il Terni medesimo
ebbe modo di leggere sopra un istrumento rogato in quel-
l'anno, e ch'egli citò nel primo libro della sua storia. Indo-
vinare di qual'origine fosse Cremele, se barbara o romana,
non è agevol cosa; ma giacché le cronache ce lo rappre-
sentano quale splendido signorotto di un castello situalo ai
confinì occidentali del territorio nostro, ci si permetta sup-
porre ch'egli discendesse da uno di quei veterani, ai quali
gì1 imperatori di Roma concedettero il libero dominio di
terreni vacanti, ossìa deserti, affinchè li coltivassero e pos-
sedessero franchi d'ogni gravezza i1*. Però non figuriamoci
in Cremcic un feudatario nel vero senso di questa parola,
che nei beneficj militari concessi dai Cesari ai veterani non
vi era riserva di diretto dominio all'impero, oltre di che
i feudi in Italia originarono sotto la dominazione dei
Longobardi. Né ci torni strano che il Terni attribuisca a
Cremete il titolo di conte, imperocché ai tempi di Cremete
non era nuovo questo titoio: lo dispensarono per i primi
gl'imperatori di Roma; comites (compagni) si chiamavano
le persone scelte a formare la comitiva a cavallo degl'im-
peratori, e conti palatini quelli destinati alla cura della ca-
mera e del palazzo imperiale. Diciamo di non far le me-
raviglie udendo nominare un conte nel secolo sesto, del
resto noi non vogliam garantire che Cremele fosse real-
mente conte, e ben poco importerebbe se non lo era. Pro-
babilmente Cremele , dal suo castello in riva al Tornio
estendeva il dominio sulle terre circostanti , ed anche sul-
l'isola Mosa; quindi allorché questa divenne ricovero a molti
emigrati, essi riconobbero Cremete per loro capo, e Crema
(1) « Veterani vacantes terras accipiant, easque perpetuo habeant immu-
ne*. » Codex Teodosianus , lib. 7, cap. 20.
— 32 —
intitolarono dal suo nome la Rocchetta, poi quel gruppo di
edifici ch'eressero col di lui soccorso sul terreno del loro
asilo, Per queste ragioni, e non altrimenti, ci sembra vero-
simile che Cremete si assumesse fra i rifugiati un'autorità
di primate, che dal suo togliesse il nome la nuova cittadel-
la, e che ivi giungesse, egli già conte di Palazzo, a farsi
riverire come signore di Crema da persone che ospitò ne'
suoi dominj (4).
L'edificazione di Crema fu un lavoro di circa venticinque
anni: incomincialo ai sedici d'agosto del 570, recossi a ter-
mine Fanno 594. Nel decorso di questi venticinque anni,
gl'infelici che la fabbricavano vennero travagliali da una
sequela di disastri. Primo di tutti li minacciò da vicino la
guerra, quando Longino, esarca di Ravenna, unitosi a Lo-
tario re d'Ungheria, assediò Milano, onde ricuperare al-
l'impero d'oriente il perduto regno d'Italia; poi gli afflisse
la pestilenza, diffusasi nel 585 per tutta l'Italia; indi la
fame (591) prodotta da lunga siccità e da nembi di locuste
che le messi consumarono. Perfino gli elementi sembrava
cospirassero col ferro degli invasori a martoriare le misere
contrade d'Italia. L'anno 584 avvenne nella penisola «tale
» diluvio, che a Verona l'Adige arrivò fino alle più alte fine-
» stre di S. Zeno, ed a Roma il Tevere soverchiò le mura
» della citlà l*)-. » Ora pensate quanto il territorio nostro,
d'acque abbondantissimo, rimanesse danneggiato dalle stem-
perale piogge di quell'anno : nondimeno di tutti i mali che
accennammo, il più micidiale nella terra nostra fu la fame
del 591, tanto che molti ne perirono, e si dovettero in
quell'anno sospendere le costruzioni.
(1) SulF etimologia della parola Crema, vedi l'articolo nella Nota posta
in line del capitolo.
(2) Non ci rendiamo risponsabili che in queste parole non vi sia dell'esa-
gerazione : le togliemmo dalla storia del Fino , il quale copiolle dal Terni.
,ì.)
Compiutasene l'edificazione, e fortificata air intorno di
bastioni» la nuova cittadella comprendeva uno spazio di
terreno assai breve; le roggie Crema e Bino, che oggidì
scorrono dentro la città , allora servivano esternamente di
fosse alle mura. Ma non andò guari che si senti il bisogno
di aggrandirla , e fu quando il re de' Longobardi Agilulfo
distrusse Cremona, minacciando con barbaro editto la pena
capitale a chi avesse soltanto consigliato di rialzarla (0. Non
pochi Cremonesi, dopo l'eccidio della città loro, migrarono a
Crema, onde accresciutasene la popolazione, fu d'uopo ag-
giungere a Crema dei sobborghi. Tre ne sorsero in men di
due anni regnando Agilulfo, l'uno verso levante, che si
chiamò di S. Benedetto; l'altro verso occidente, di S. Sepol-
cro; e il terzo, di S. Pietro, fra levante e settentrione. L'e-
migrazione di molte famiglie cremonesi nella terra nostra,
all' epoca appunto che vi si era appena fabbricata la nuova
cittadella , porse a taluni argomento per asserire dover
Crema la sua origine ai Cremonesi. Sostenitore di questa
opinione era certo abate Zava cremonese, maestro d'umane
lettere in Crema, ond'ebbe ad accapigliarsi col nostro Alenia-
mo Fino, il quale non sopportando che il Zava ne' suoi
scritti appellasse Crema figliuola di Cremona, gli rispose in
versi ed in prosa, combattendolo con penna invelenita da
municipalismo. Noi, alieni dai mescolarci in quistioni pue-
rili, e men suscettivi di velleità municipali, perdoneremo al
Zava ed a' suoi seguaci d'essere caduti in errore: perdone-
remo eziandio a certi scrittori lodigiani, che pure preten-
dono aver Lodi su Crema dei diritti di maternità. Disse
fondatori di Crema i Lodigiani, il Villauuova istoriografo di
Lodi : e Filiberto Villani, poeta, bevutasi l'opinione del Vil-
lauuova suo concittadino, e quella del Zava, le conciliò fra
di loro in Parnaso cantando:
1,1) Campi. Storia di Cremona.
— 54 —
li Lodigiano ni Cremonese unito
Spinse dai tetti suoi pallida tema :
E fra paludi in più sicuro sito
Fugge del crudo re (1) la rabbia estrema;
Ed allor fra lugurj e in ermo lito
Ebbe poscia natal la nobil Crema (2).
Vero è che il Terni , il Fino ed il Sigonio dicono fondatori
di Crema molti nobili venuti dalle vicine città e castella ;
ma quando si volesse abbracciare letteralmente quest'opi-
nione, dovremmo riconoscere quali progenitori del popolo
cremasco anche i Bresciani ed i Bergamaschi, e con più
forte motivo, perochè il nostro dialetto ha moltissima affinità
con quello di Bergamo e di Brescia, poca col cremonese,
nissuna col lodigiano. Se non che noi siamo tenaci nell'av-
viso, che prima ancora dell' invasione. longobarda il suolo
cremasco formicolasse d'abitatori, onde crediamo che colle
emigrazioni dell'anno 570 , la popolazione vi aumentasse
di molto, ma non che i profughi ponessero essi soli le fon-
damenta d'una città in ermo lilo.
Terni, Fino e Sigonio ascrivono all'anno 60c2 la morte
di Cremele, ed a lui concedono trentadue anni di governo
nella terra di Crema, signoreggiando i Longobardi. Di qual
natura fu il regime di Cremete? Nelle cronache non è detto.
Giuseppe Bacchetti suppone ch'egli abbia governalo con leggi
non romane ma de' barbari, e che abbia figurato nel novero
dei duchi longobardi. Ma a noi non venne mai fatto di tro-
var Crema nominata fra i trentacinque ducati nei quali i
Longobardi ripartirono in Italia le provincie conquistate.
D'altronde non possiamo persuaderci che Cremete arri-
vasse ad essere uno dei duchi, sapendo che coloro i quali
(1) Alboino.
(2) Federico Barharossa , poema di Filiberto Villani.
— «).) —
iole autorità s'arrogarono, erano tutti ufficiali superiori del?
l'esercito d'Alboino e suoi compagni di trionfi. Perciò pro-
pendiamo a supporre che Cremete sia staio uno dei pochi
nobili romani, cui i Longobardi rispettarono la \ita e lo
proprietà, torso in compenso d'essersi culi loslo e sponta-
neamente sottoposto co1 suoi poderi e co' suoi coloni alla
devozione de' nuovi conquistatori. Giacché vuoisi clic Cre-
mete abbia governato nel circondario cremasco, è più vero-
simile ch'egli governasse non in qualità di duca ma di
gastaldo, confermandolo i Longobardi nell'amministrazione
e godimento delle terre ch'egli già dominava prima della
loro invasione, e conferendone a lui il diritto di giustizia
civile e criminale sopra gli abitanti. Sappiamo che tale di-
ritto i Longobardi sulle terre conquistate concedevano ai
gastaldi , pretendendone in ricambio che prestassero ser-
vigi militari al sovrano l*).
Le cronache nostre sono a Cremete larghe d'encomj:
ne lodano il governo, ne attribuiscono a mitezza quell'af-
fluire di tante famiglie cremonesi alla nuova cittadella, cer-
candovi asilo. Forse ch'egli, quantunque nato e cresciuto
signore, possedeva quelle generose doti che talvolta infio-
rano i ceppi a chi è condannato di obbedire mutamente.
Cremete pose molto amore ed accorgimento nel migliorare
le condizioni del limaccioso terreno cremasco , sia rego-
lando il corso delle acque, sia tagliando selve, acciocché
il suolo divenisse più atto all'arte agricola e alla costru-
zione degli edifici. 11 Terni, magnificando Cremete, scrisse
con linguaggio mitologico, « che al bene della (erra nostra
» vigilante, alle aque incominciò a poner leggi, a Cerere e a
» Bacco dedicando quello che diNeptuno era in possesso. »
Durante il suo governo, vuoisi che sieno venuti a visitare
la terra nostra la regina Teodolinda con Autari suo sposo
(1) Rosa , l Feudi e i Comuni dalla Lombardia.
— 56 —
e re Agilulfo, che Cremele festeggiò con isplendide acco-
glienze nel suo castello di Palazzo Pignano.
Il professor Zava, che già citammo, volendo far derivare
Crema da Cremona , negò che il fondatore di Crema sia
stato Cremete , negò perfino eh1 egli abbia mai esistilo.
L'Àlcmanio Fino, in una delle sue Passeggiale, rispose alle
negative del Zava con le seguenti parole: « Voi mi dite
»non v'è memoria, non v'é vestigio alcuno di questo Crc-
» mete : sapete perchè? volete ch'io ve lo dica? l'avrete poi
» a male? Ve lo dirò fuori dei denti. Nei tempi di Federico
» imperatore, i vostri Cremonesi ci abbruciarono tulio <*'.
» Si è nondimeno dai padri nei figli di mano in mano pas-
» sando, mantenuta questa verità , che generalmente tutta
» la patria nostra così crede e così tiene (essere slato Cre~
» mete il fondatore di Crema). Se non credete a me, anda-
» tevene nell'archivio di questa nostra Comunità , che vi si
» rappresenterà questo Cremele signorilmente vestito, con
» lettere che dicono :
» Crema a Cremete condita sub Alboino
LONGOBARDORUM ReGE.»
Quantunque narrando della fondazione di Crema noi ci at-
tenemmo all' opinione del Terni , rispettando così la più
volgare tradizione dei nostri padri , non taceremo che sul-
l'origine di Crema v'ha discrepanza di pareri fra gli antichi
scrittori. Alcuni pretendono che Lodi e Crema avessero in-
sieme principio, mila quattrocento ottanlanove anni innanzi
Cristo, da certi popoli venuti da Laodicea e da Cremna ,
ambedue città dell'Asia, rovinate da un re Cirino per ven-
dicare la morte di certo re Aminta : dicono, che micrali in
Italia i cittadini di Cremna edificassero Crema, e Lodi quelli
(1) Allude alla distruzione di Crema ai tempi di Barlarossa, alla quale i
Cremonesi presero una gran parte.
— <)/ —
di Laodicea. Di L&odicoa, città nella Galazia, accenna To-
lomeo, ed anche ili Cremna che pone nella Panfilia. Questa
opinione che assillile alcun elio di verosimile dai nomi delle
città, è confutata da Pietro Terni, contraddetta dalle istorie
lo ili izi a ne.
Altri scrittori fanno Crema originare dalla distruzione
di Parasse, città antichissima, che vuoisi fabbricata in riva
al Tornio da un Trojano, poco dopo la venuta d'Enea in
Italia. Ma su questo punto sono disparate le opinioni. Si-
gonio scrive che Parasso distrussero i Milanesi, Tanno 1047,
per avere i suoi abitanti prestato soccorso ai Pavesi. Al-
berti, Moriggia ed altri cronisti affermano invece che la
distruzione di Parasso avvenne nel 951 , per ordine del-
l'arcivescovo di Milano, essendo i Parassini infetti d'eresia.
Chi dice che i Parassini quando videro la terra loro incen-
diala, vi edificassero a poca distanza una città, che per
rammemorare l'incendio di Parasso, Crema domandarono, da
cremare (abbruciare); chi dice, esistesse già Crema quando
s'incendiò Parasso, e che i Parassini rifugiandovisi , dopo
l'eccidio della patria loro, non fecero che ampliarla. Il Terni
credette di troncare ogni quistione su Parasso asserendo
non aver mai esistito una città di questo nome, e che i cro-
nisti confusero Parasso con Palazzo, o sia col castello si-
tuato in riva al Tornio, ove signoreggiava Cremete, prima
ancora della fondazione di Crema. Ma questa soluzione del
Terni non ci appaga gran fatto: forse a quel pio gentil-
uomo dettavala timore, che si radicasse l'opinione sostenuta
da molti cronisti, abbia avuto la città nostra origine da
una nidiata d'eretici, l'anno 951. Che Parasso abbia esi-
stito, e i Milanesi l'abbruciassero, è asserzione ripetuta in
parecchie cronache, né sappiamo con quali argomenti si
possa confutare. Ove poi sorgesse Parasso, se in riva al
Tornio e nel territorio nostro, od altrove, è quistione molto
ardua a sciogliersi, quistione che il Terni non che definire,
— 38 —
ha rabbuiata ancor più, asserendo che gli scrii (ori confu-
sero Parasso con Palazzo, villa del Cremasco. Ma giacché
il Terni pretende sieno caduti in errore non pochi scrittori
scambiando Parasso con Palazzo, noi diremo francamente,
che ci pare s'apponga al falso anche il Terni, il quale sul
terreno ove oggidì giace la villa di Palazzo, vede in tempi
antichi nulla più di un castello magnifico in cui dominava
Cremete, e che, a suo avviso, diede il nome di Palazzo al
villaggio, e di Conti di Palazzo ai signori cui quel castello
apparteneva. Che l'odierna Palazzo fosse un tempo bor-
gata di qualche importanza, e non consistesse tutta nei
Castello o Palazzo di Cremete, lo accennano anche le cro-
nache nostre, e vi sono indizi a persuadercene. «Ci sono»,
scrive il Fino, «le fondamenta di grossissime mura dietro il
» fiume Torino: ci sono i marmi e le sepolture trovatevi
» nel lavorare i campi: c'è un'antica porta di Pavia, delta
» Porta Palazzese: c'è l'antica chiesa di Palazzo, la quale
» ha ragion di conferire diversi benefici. » Da questi e da
altri argomenti che vi si potrebbero aggiungere, doveva il
Terni congetturare che anticamente sulla terra di Palazzo
si estollesse non un castello soltanto, ma una grossa borga-
ta, o forse una piccola città. La quale però, quand'anche
fosse Parasso, come vogliono alcuni, non polrebbesi ancora
inferire che da Parasso abbia Crema avuto l'origine, es-
sendo Parasso stata distrutta in epoca posteriore alla fon-
dazione di Crema. A noi, come al Muratori ed al Giulini,
sembra più verosimile l'opinione di coloro che dicono non
che i Parassini edificassero Crema , ma che rifugiandovisi
l'ampliarono.
Del resto, lasceremo a menti più sagaci e più riposate
l'indagare quale sia stata la vera origine di Crema. Noi
preferimmo l'opinione del Terni e del Fino, non che la te-
niamo incontrastabile, ma come quella che ha colore di ve-
rosimile, e perchè l'adottò anche il Sigonio; e Muratori la
— 89 —
disse basata sopra non incongruenti congetture , ed i1
nosiii giorni venne riportata da Cesare Canta nella sua
Storia degli Italiani. Osserveremo che l'opinione da noi se-
guila, e ci sembra la più accreditala ira idi eraditi, emanò
dalla penna di Pietro Terni: da lui la tolse Aleniamo Fino,
e dal Fino il Sigonio: il Terni però non ignorava le opi-
nioni contrarie alla sua; che anzi le esaminò combattendo-
le, e fu abbastanza giudizioso e modesto scrivendo: «penso
» che la mia opinione sia la vera, nondimeno ciascuno pi*
» gli quella che meglio li parerà , che forse con più per-
» spieace intelletto che a me non è concesso , il vero tra-
» mite troverà e senza intoppo t1'. »
Dal G0W2 all'anno 1009, cioè pel lungo spazio di quattro
secoli , le cronache di Crema non ci offrono della città no-
stra alcuna particolare notizia. Espongono solamente come
essa abbia subito le sorli degli altri paesi lombardi, servendo
successivamente ai molti e diversi padroni che si avvicen-
darono il dominio delle provincie transpadane. Spenta con
Desiderio la dominazione dei Longobardi, Crema fu signo-
reggiala prima da Carlo Magno e dalla dinastia franca detta
dei Carlovingi, poi dai molli principi che si dispularono il
reame d'Italia; finalmente da Ottone il Sassone, che inco-
ronato a Pavia re de' Longobardi nel 951 , e imperatore a
Roma nel 961, incorporò l'Italia all'impero di Germania.
Se le cronache di Crema difettano di memorie rapporto
agli avvenimenti dei quattro secoli succennati, ne dobbiamo
accagionare l'ignoranza onde fu intenebrala quell'età scia-
guralissima, ignoranza che portò una maledizione di ste-
rilità su tutta la storia del medio evo. Della dominazione
longobarda e delle successive fino al risorgimento dei Co-
muni italiani non possediamo che poche e mal abborracciate
cronache, vergale le più nelle canoniche e nei monasteri,
(1) Pietro Termi. Hisloria di Crema. Inedita.
— M —
ultimo rifugio degli studj , da frati iuesperli dei viluppi
della politica, i quali nel pacifico cerchio del loro con-
vento s'occupavano piuttosto d'una cometa o di un'eclissi,
che non delle guerre dei principi e delle sofferenze de' po-
poli. Fatale rozzezza dei tempi che frodò la storia del
popolo italiano di pagine importantissime! Amalfi, Gaeta e
Napoli, città gloriose che in quell'età durissima raccolsero
le primizie della libertà italiana, che precorsero lo sviluppo
delle scienze giuridiche e del commercio marittimo, an-
ch' esse non tramandarono che poche ed incerte memorie
in ricordo dell'antica grandezza.
Perciò qual meraviglia se nel bujo di secoli ignorantissi-
mi, Crema, allora piuttosto borgata che città, è affatto priva
d'ogni slorica luce! Rassegniamoci adunque ad ignorare le
vicende, la condizione sociale di tante generazioni nudrite
sul nostro suolo nativo, nel lungo intervallo decorso dal
settimo all'undecimo secolo. Quelle generazioni passarono
sul terreno cremasco, siccome le nubi sorvolanti sopra il
loro capo, non lasciando alcun vestigio che le rammentasse
ai nipoti: caddero nel sepolcro, come goccie d'acqua nel-
l'oceano. Se vero fosse f aforisma di Montesquieu: Beati i
popoli che non hanno storia, dovremmo rallegrarci di tro-
vare nelle cronache di Crema una così vasta lacuna. Ma
non possiamo supporre beatitudine in generazioni vissute
fra la barbarie e le tempestose vicende dei primi secoli del
medio evo: quindi teniamo che i Cremaschi avranno an-
ch'essi delle comuni sventure sopportata la loro parte, forse
men grave che a tanti altri, perchè l'abitare in terra piccola
e d'oscuro nome, talvolta gli avrà difesi da mali peggiori.
Ai tempi di Grimoaldo re de' Longobardi , le cronache
fanno menzione per la prima volta di un'isola Fulcheria,
dicendo che quel re vi eresse un tempio dedicandolo a
S. Alessandro (*). È fuor d'ogni dubbio che sotto il nome
(1) Historia quadripartita di Bergamo, di Fra Celestino da Bergamo.
— »! —
d'isola Fulcheria o di Fulcherio si comprendesse il terri-
torio cremasco, ma non è ben accertato se tulio, o sola-
mente quella parie chiusa fra il Serio e V Adda. È puro
contesa fra gli scrittori so risola Fulcheria abbracciasse
tutta la Ghiaradadda : lo negano Giulini e -Guidone Fer-
iali (*\ lo ammettono il Campi ed il Menila. A sostegno
delle difformi opinioni cilaronsi documenti e diplomi impe-
riali, dai quali apparisce clic il nome d'isola Fulcheria usa-
vasi ancora nei secoli un decimo e duodecimo ad indicare
terreno cremasco. Ma gli allegali diplomi, non che schiarire,
offuscano la quìstione, non potendosi ben comprendere se
gli imperatori germani che V isola Fulcheria infeudarono
ora a un gentiluomo, ora a un Comune, intendessero in-
feudarla tutta intera, o soltanto in una parte. Giuseppe
Racchctti spese sull'isola Fulcheria una lunga ed assai
erudita dissertazione (*), e confutando il Giulini che dall'i-
sola vuol esclusa la Ghiaradadda, sembra che ne tiri per
conclusione, « esser l'isola Fulcheria una porzione del cre-
» masco , quella cioè posta alla destra del Serio con la
» Ghiaradadda di più.» Ma a noi pare che l'isola Fulcheria
si estendesse ancor più, e lo desumiamo da documenti. Leg-
gesi nella cronaca di Bergamo ^) , che Grimoaldo re dei
Longobardi donò a S. Giovanni, vescovo di Bergamo, la
terra dì Fara posta nell'isola Fulcheria. Due sono i paesi
col nome di Fara, situati a poca distanza dal territorio
cremasco: l'uno presso Pontirolo in riva all'Adda, l'al-
tro presso Covo. A quale dei due accenna la cronaca di
Bergamo? o a Fara presso Pontirolo, e veggasi qual lungo
tratto di terreno l'isola Fulcheria comprendesse verso nord-
ovest: o a Fara presso Covo, ed allora risulterebbe che
(4) Guidone Ferrari. Lettere Lombarde.
(2) Annotazione terza a! libro primo della storia di Alemanio Fino.
(3) Historia quadripartita di Bergamo, di Fra Celestino da Bergamo.
— 42 —
l'isola Fulcheria estendevasi anche olire la riva sinistra
del Serio, a meno che questo fiume racchiudesse a que'
tempi anche Fara nell'isola. Leggemmo pure un diploma di
Federico Barharossa riportato per intero dal Campi nella
sua storia di Cremona, diploma che al Racchetti passò in-
osservalo, e che potrehhe risolvere la quistione se altri
diplomi pure d'imperatori non la intorbidassero. Il diploma
di Federico contiene rinvestitura della contea dell'isola
Fulcheria fatta a certo Tinto de'Tinli Musogatta, architetto
ed ingegnere famoso, che servì Barharossa e nell'edifica-
zione di Lodi e noli' assedio di Crema. Federico nell'inve-
stitura si espresse colle seguenti parole: «... notum faci-
» mus universis per Italiani imperii nostri fidelibus, lam
» prsesentibus quam fuluris , qualiler fìdeli nostro Tinto
» cremonensi qui dicitur Musa de Gatta, prò magnis et
» praeclaris ejus ohsequiis liane graliam indulsimus , quod
» eum de comitalu insula Fulcheria , sìcul in terminis
» istis contmetur *3 vìdelicet de Picighetone usque ad Pon-
» tirolum, sicut est infra Ahduam et Serium, quidquid ad
» nostrum jus pertinet per rectum pheudum jure comitatus
» investivimus »
Arguendo 1' estensione dell' isola Fulcheria dalle parole
che usò Barharossa in questo diploma, l'isola Fulcheria da
settentrione a mezzodì s'allungherebbe per tutta la linea
dell'Adda da Pontirolo a Pizzighettone. Perciò sarebbero
incorsi in errore, e Giulini che vuol esclusa dall'isola la
Ghiaradadda, e l'egregio ingegner Lombardini (*),' circoscri-
vendo l'isola Fulcheria ad alcuni paesi del Cremasco si-
tuati fra il Serio, l'Adda ed il Tormo. Vero è che anch'essi
appoggiano la loro opinione ad un diploma imperiale con
cui Enrico VI cedette ai Cremonesi i suoi diritti sull' i-
(1) Elia Lombardini. Staio idrografico naturale. Capitolo IV dell'opera
Notizie naturali e civili sulla Lombardia.
— «3 —
sola Fulcheria: però in quel diploma non è detto che En-
rico VI abbia voluto cedere ai Cremonesi l'isola Fulcheria
tutta intera: pare anzi ch'egli col nominare i paesi Ml sui
quali cadeva la cessione, abbia voluto rispettare le giuris-
dizioni territoriali che altri possedevano sul rimanente del-
l'isola Fulcheria.
Porremo fine a questo capitolo che comprende l'epoca
prima e la più oscura della storia di Crema. Lo compi-
lammo con fatica , brancolando nel bujo dei secoli barba-
ri, pur desiderosi di cogliere fra notizie incerte e cronache
digiune, se non il vero, qualche cosa almeno che al vero
si rassomigliasse. Ora passeremo col racconto alla splen-
dida età dei Comuni, ove ci chiamano grandiosi avveni-
menti, ove la piccola Crema giganteggia nella storia per
sublimi esempi di fortezza , ove il generoso ardimento dei
Cremaschi aggiunse una gemma a quella corona di glorie
che posa immortale sul capo all' Italia.
(i) Riporteremo il diploma d'Enrico VI fra i documenti che vanno ag-
giunti al capitolo IV.
— 44 —
NOTE
Dispareri sulla derivazione del nome Crema.
Lungi dal voler arzigogolare con pretese da filologo sull'etimologia
della parola Crema, ci stringeremo a raccogliere le disparate opinioni
degli scrittori intorno l'origine di questa denominazione alla città
nostra.
Alcuni vogliono darci a bere che Crema prese questo nome perchè
fondata dagli abitanti di Cremna , città della Panfilia, quando migra-
rono in Italia circa mila cinquecento anni innanzi l' era volgare.
Altri affermano : Crema deriva dal verbo latino e rema re (abbruciare ),
e s'applicò tal nome alla città dai Parassini, i quali dopo che videro
la città loro incendiata , un'altra ne fabbricarono a poca distanza ( la
nostra ) , e vollero ch'essa serbasse nel nome memoria della patria
incendiata. Crema pretendono sincope di Cremona certi scrittori cre-
monesi , ascrivendo ai Cremonesi d'aver per i primi popolata la città
nostra nell'epoca dei Longobardi. Aleniamo Fino ci narra come certo
Gabbiano, che fu suo precettore, gl'insegnasse esser Crema voce greca
derivata da xjosuor, che in lingua italiana equivale a negozio o mercato: e
il Gabbiano, volendo in qualche modo dar colore di verosimile alla sua
opinione, l'appoggiava a Tolomeo, rammentando come anticamente
sul terreno di Crema sorgesse il Forum Diuguntorum (luogo di mer-
cato dei Diogunti). Ne volete delle altre? Carlo Denina, nella sua
operetta scritta in francese e intitolata : Quadro storico , statistico
e morale dell'alta Italia, ci dice: «Crema dev'essere d'antica celtica,
n o teutonica fondazione, e forse anche illirica, a giudicarne dal nome,
n il quale in sostanza è quello di Kremsir in Moravia e di Cremini ,
n parte principale della città di Mosca. « Ed a questa asserzione del
Denina , l'anonimo che ne tradusse l'opera notò: «Si poteva anche
n dire di radice tosca o dell'antica lingua italica, poiché Crema ha la
n medesima radice che Cremerà fiume d'Etruria, e dell' antico verbo
r> cremare. »
La più volgare tradizione del popolo cremasco è che Crema pi-
gliasse nome da Cremes o Cremete , il quale ne lo si vuol fondatore
all'epoca d'Alboino re de' Longobardi : quantunque Carlo Cattaneo ,
spargendo dubbi sull'origine che attribuiscono a Crema le sue crona-
che, abbia scritto: « Prima dell'epoca longobarda nissuna storia ram-
t> menta il nome di Crema ; però né il suo nome è di que' tempi, né il
» paese poteva essere rimasto senza borgate fino all'anno 570 » .
— 49 —
CAPITOLO SECONDO
PRIMA EPOCA DEL GOVERNO MUNICIPALE,
SOMMARIO.
Conni intorno all'origine ed allo spirilo dei Comuni lombardi. — Conti,
marchesi, vescovi che nel secolo undecimo esercitarono in Crema giurisdi-
zioni feudali. — Origine in Crema dei Padri Umiliati. — Guerra fra Cre-
masela e Cremonesi scoppiata l'anno 4098. — I Cremasela vogliono ren-
dersi indipendenti da Cremona. — È a credersi che il reggimento Comu-
nale preesistesse in Crema all'anno 1098. — Discordie fra i Municipj lom-
bardi. — Loro alleanze. — Crema confederata a Milano. — I Cremasela
prendono parte coi Milanesi alla distruzione di Lodi. — Combattono pei
Milanesi contro i Comaschi e sono disfatti in Valcuvia. — Giovanni da
Crema cardinale di S. Grisogono. — Importanti ufflcj che a lui affidarono
i Pontefici. — I Cremasela si sottraggono dalla giuristizione del vescovo
di Cremona. — Battaglie accanite dei Cremonesi, contro i Cremasela e i
Milanesi. — I Cremonesi sconfitti ripetutamente. — Lotario imperatore
di Germania assedia Crema per consiglio dei Cremonesi : ed é costretto a
levar l'assedio. — Lettera del vescovo di Costanza, legato imperiale, ai
Cremasela — Alcune considerazioni intorno all'indole del governo muni-
cipale di Crema all' epoca dell'imperatore Corrado III. — Federico Barba-
rossa succede a Corrado nel trono di Germania. — Suoi disegni sull'Italia.
— Sicherio a Milano. — Prima discesa di Federico in Italia. — Pace con-
chiusa fra' Milanesi e l'imperatore, nella quale sono compresi anche i
Cremasela. — Ambasciatori di Federico che intimano ai Cremasela di
abbattere le loro fortificazioni: come fossero accolti Cremasela e Milanesi
contro i Lodigiani. — Federico Barbarossa ordina l'assedio di Crema. —
I Cremonesi corrono per i primi ad assediarla.
Nel secolo decimo, colla cacciata degli Ungheri, cessò
in Italia il flagello delle irruzioni barbariche,e fin d'allora in-
cominciavano già a svolgersi gli elementi che adularono il
risorgimento dei Comuni lombardi. Andava maturando
— 46 —
Tela gloriosa che avrebbe costretto le superbe torri dei ba-
roni , sparse per le campagne, a piegarsi davanti lo spirito
vivificatore delle città murate, l'età gloriosa che all' anar-
chia feudale sostituì le assemblee generali dei cittadini, alle
milizie dei signorotti le fanterie popolari serrale intorno ai
loro carrocci. Gli Ungheri, popoli semi-selvaggi, erano così
imbestialiti nel depredare, che nulla risparmiavano, non pat-
teggiavano con alcuno , tempestando indistintamente e i
grandi feudatarj , e i vulghi sparsi intorno ai loro castelli.
Perciò a fronte di que' Barbari trovandosi uguali e magnati,
e plebe, il supremo bisogno della propria difesa consigliò
e gli uni e l' altra a trovar modo di salvarsi. Felicissimo
chi poteva riparare in luoghi fortificati : quindi nelle città
si ristoravano le mure diroccale, se ne ergevano di nuove.
1 bisogni generali di difesa , richiedendo provvedimenti cui
non bastavano i governi ed i feudatarj colle loro forze or-
dinarie , posero le armi in mano non solamente dei citta-
dini plebei , ma eziandio dei coloni. Così le infime classi
del popolo , calpestate dal feudalismo , incominciarono ad
educarsi nell'esercizio delle armi, e adoprandole contro gli
Ungheri si procacciavano l'attitudine a giovarsene in ap-
presso per emanciparsi dai signorotti che le opprimevano.
A scalzare in Lombardia l'edificio feudale, sulle cui ro-
vine dovevano risorgere i Comuni, cooperò Ottone il Sas-
sone, primo degli imperatori germanici che cinse la corona
d'Italia (951). Ottone, temendo la potenza dei grandi feu-
datari, ne smembrò le vaste Marche e Contee, creò in Italia
una più debole aristocrazia, dei conti rurali, e colle spoglie
dei magnati arricchì principalmente il clero. Allora i vesco\i
in Lombardia vennero infeudati d'estesissimi possedimenti,
al pastorale congiunsero la bilancia e la spada ;' ed alcuni
portavano sul petto la croce , simbolo d'umiltà, e dentro il
cuore ambizioni e sentimenti baronali.
Sul principio del secolo un decimo la feudalità in Italia,
— M —
a forzi di subfeudazioni, si divise in ire ordini, dei ma-
gnati, dei valvassori , dei valvassini : tre specie di signori ,
l'ima all'altra sottomessa per fendali ragioni. Di questa gc-
rarchia però , V online supremo ossia dei magnati , che
componevasi dei feudatarj più polenti , non si teneva sog-
getto che al solo re od imperatore. Per t;ile divisione mol-
tiplicali e accavallatisi i feudi, pensale come vivesse il po-
polo, condannato a portare sul collo una piramide di ma-
gnati, valvassori e valvassini: tuttavia dall' essersi T auto-
rità feudale spezzala in tre ordini, la condizione del popolo
vantaggiava. Non v'era, nò esservi poteva, concordia Ira
quelle tre classi dell1 aristocrazia, quindi le inferiori, onde
sostenere le loro ragioni contro le più forti , ricorrevano
per ajulo al popolo , e il popolo impugnale le armi fiaccò
l'orgoglio dell'alia nobiltà feudale che finì col divenir cit-
tadina e , mutando ambizioni , cercò farsi scala del favor
popolare per conseguire nel Comune le prime magistrature.
Quando sul trono di Germania agli Ottoni successero
gli Arrighi , scoppiò la famosissima lotta del papato col-
l' impero , lotta che accelerò lo sviluppo dei Comuni lom-
bardi. 1 vescovi, dalla voce terribile del monaco Ildebrando
accusati di simonia, perdevano la riverenza, la sommessione
del popolo, memore che un tempo l'elezione dei vescovi era
di suo diritto. E per verità, dappoiché questo diritto si ar-
rogarono gl'imperatori, i vescovi, piuttosto che pastori d'a-
nime , apparivano donzelli della corte germanica. Anche
il bagliore del nome imperiale s' offuscò in faccia al volgo,
quando Enrico III diede a' suoi cortigiani lo scandalo di
presentarsi scalzo e vestito di ruvido sacco ai piedi di papa
Gregorio VII, implorando umilmente perdono. Per tal modo
il popolo si spaslojava di servili idee l'intelletto, nel mentre
rinvigoriva il braccio col maneggio delle armi, entrando an-
ch'esso nella lolla a combattere per la causa più generosa,
quella del papato. I Lombardi, in mezzo all'asprissima ten-
— 48 —
zone della tiara con lo scettro, agguerrendosi nella milizia,
e procacciatisi la coscienza dei proprj diritti , s' apersero
il varco ad emanciparsi dal giogo feudale: e frenata prima
l'aristocrazia laicale, non indugiarono poi a svincolarsi eia
quella dei vescovi.
Spettacolo stupendo ! Sul principiare del secolo duode-
cimo le città di Lombardia reggevansi a comune, ed ordi-
navano liberamente i loro statuti, inspirali dalle tradizioni
romane, da antichissime consuetudini che il ferro dei Bar-
bari non valse ad estirpare onninamente (]\ Spettacolo più
stupendo ancora , se riflettiamo che il cielo a que' nostri
Comuni affidava la missione di spargere per V universo i
veri beni dell' incivilimento, stenebrando l'intelletto a na-
zioni che dormivano ancora fra catene il sonno dell'igno-
ranza. Notisi però che i Comuni di Lombardia non erano
affatto indipendenti , imperocché riconoscevano su di loro
l'alto dominio dell'impero germanico.
Quell'agitarsi nel terreno lombardo di tanti municipii o
repubblichette, che si governavano separatamente con par-
ticolari statuti, lamentarono alcuni scrittori, siccome causa
che impedì all'Italia d'unificarsi in un compatto corpo po-
litico. Eppure quelle forme municipali si confacevano mi-
rabilmente all' indole degli Italiani , alle antiche tradizioni
dei loro padri. L' Italiano fu dalla natura privilegialo di
uno spirito che è ricco di forze morali , quanto è ricca e
bella la materia che lo circonda. Perciò meglio degli altri
popoli egli è dominalo dal sentimento della propria perso-
nalità, e sente profondo il bisogno di svilupparla, di espan-
derla, non soltanto come uomo, ma come cittadino. Una
(1) Dagli studj del Savigny sulla legislazione romana, da quelli intorno
all'origine ed allo sviluppo dei municipj italiani pubblicati dal Pagnoncelli,
dal Rosa e da P. Emiliani Giudici acquista maggior fondamento l'opinione
del Muratori , che certe forme di reggimento comunale si conservassero nelle
città italiane anche durante le invasioni dei Barbari.
— 19 —
patria, alla quale consacrar con amore le generose Iaculi;.
dello spirito , una patria nel cui recinto fosse concesso a
tutti i cittadini di operare per lei, di grandeggiare coir in-
telletto o col braccio, fu l'aspirazione dei nostri avi ap-
pena riebbero la coscienza dei loro naturali diritti. Ed una
patria si composero nel Comune. Oltre di che a preferire
questa forma di reggimento aiutarono le memorie giammai
spente, le tracce ancora superstiti dei gloriosi tempi romani,
quando la nostra penisola l'ormava un gruppo di municipi
che Roma, da cui dipendevano, affratellò con politica libe-
rale alla sua repubblica , sicché essi come specchi riflette-
vano in piccole dimensioni V immagine della repubblica
metropoli [ì\ Le città italiane ordinandosi a Comune vol-
lero un governo ove potesse campeggiare F individualità
di ciascun cittadino, e lo ebbero; vollero diventare una
potenza, e lo furono. Firenze, Milano, Genova, Pisa, Ve-
nezia, son nomi che nella storia del medio evo significano
non soltanto città, ma uno Stalo : poderose repubblichelle,
le quali, \ iv ificatc dallo spirito di libertà, travagliavano so-
vente le grandi monarchie.
Crema, anch'essa, con un palmo di terra, rappresentò,
benché piccolissima, una sovranità, uno Slato, quando Pa-
rigi e Londra , grandiose metropoli , non erano che vaste
prigioni di un popolo servo. Ed ecco il motivo per cui la
storia di tante illustri città della Francia può scriversi
scrivendo quella delle dinastie che le dominarono: nell'Ita-
lia invece ciascuna terra ha i suoi fasti particolari, perchè
nella nostra penisola , moltissime città nel breve ambito
del loro territorio furono regine. Geograficamente conside-
rala, la repubblichetta di Crema formava un punto micro-
scopico; ma quanto fosse robusta la vita ond'era animata,
lo seppe Federico Barbarossa che per domarla consumò
(l) P. Emiliani-Giudici. Storia politica dei Municipi Italiani.
— 50 —
sette mesi d'assedio, adoperando tutte le forze dell'Impero
germanico , ed altre pure considerevoli di città lombarde
pugnanti sotto il suo vessillo.
Abbiamo premessi questi brevi cenni intorno ai Comuni
lombardi per dire quali elementi a noi sembra sieno concorsi
più efficacemente al loro sviluppo: ne pretendiamo d'avere
in così pocbe parole risolta una quislione gravissima so-
pra cui stillarono e ancora stilleranno il cervello eruditis-
simi scrittori. Ora ripiglicremo il filo del nostro racconto m.
Sino alla fine del secolo undecimo, Crema è nella storia
un nome oscuro : il suo popolo non vi ha ancora movi-
mento, non comparisce, come quello d'altre terre lom-
barde, a combattere la feudalità laicale ed ecclesiastica.
Quindi per avere del secolo undecimo notizie intorno alla
terra nostra, ricorreresti invano alle storie generali o par-
ziali di Lombardia, ti è d'uopo frugare nelle cronache.
Svolgendole, trovammo documenti che attestano non poche
investiture feudali del terreno cremasco , documenti che
indicano, e non con sufficiente chiarezza, i frequenti tra-
passi delie ragioni feudali sul territorio nostro dall' uno
ali' altro signore.
Nell'anno 1009 figura signore di Crema certo Masano,
francese d'origine, e che in una vecchia pergamena -> è
detto vir probus. Onde venisse a lui l' investitura della
contea di Crema, il Terni non dice. L'abate Cesare Tin-
tori , nelle sue Memorie Cremasche „ così racconta di lui :
« Masano venne in Italia nel 987 da Francia , e fu da Ot-
» tone III, forse in premio del suo valore, essendo suo ge-
(1) Chi bramasse conoscere le disparate opinioni di celebri scrittori sull'o-
rigine e sviluppo dei Comuni italiani , legga un'erudita nota che il profes-
sore Antonio Zoncada aggiunse alla sua traduzione dell'opera di Guizot: Sto-
ria dell'Incivilimento in Europa.
12) Antica scrittura, che Alemanio Fino riportò nella terza delle sue Se-
rione, la quale fu cavata da un libro del monastero di S. Sepolcro de' frati
d' Astino di bergamasca.
— 81 —
m nerale, fatto signore di Crema e di Lodi, e di molte altre
» terre, comò consta per tre bellissimi privilegi con bolla
» d'oro, spedili dal medesimo Cesare, con sotto il dì 2G
i aprilo, l'altro ai tredici di giugno, e il tèrzo a1 .*> settem-
» bre 1000, nei quali, oltre ciò conferma, et quatenus opus
» ttf, dichiara signori e signore, baroni e baronesse, conti
» e contesso , tutti quelli che sono nati e nasceranno in
» perpetuo da detta casa de' Camisani <*> » . Ove il Tintori
abbia velluti questi privilegi non ci ha significato. Le cro-
nache nostre attribuiscono a Masano molte buone qualità:
egli dolce di cuore, egli premuroso sopratutto di assodare
il terreno cremasco , e renderlo atto alla coltivazione , da
paludoso cir era tuttavia in molte parti , specialmente a
settentrione. Impiegò nel prosciugar paludi le braccia di
moltissimi coloni, ai quali nel mentre lavoravano, volendo
egli procacciare più comoda abitazione, fabbricò delle case
che furono poi dette le cà di Masano , onde è derivato il
nome di Camisano al sito ove quelle case furono edificate,
e di conti di Camisano ai discendenti di Masano.
Masano del feudale dominio di Crema venne spogliato
per sospetto di fellonia da Corrado I, quando quell'impe-
ratore scese in Italia a domare parecchie città che gli si
erano ribellate (1128). Ritornando in Germania menò seco
ostaggi e prigioni molti Lombardi : fra questi , tre Crema-
sebi, uno de' Carobbi, l'altro de' Pieranici , il terzo de' Ba-
gnolo : i quali, come ottennero da Enrico III la grazia di
rimpatriare, istituirono in Crema l'ordine degli Umiliali,
fondandovi tre monasteri (1046). S'appone quindi al falso
il Giulini asserendo che istitutori del famosissimo ordine
dei PP. Umiliati furono a quell'epoca i soli Milanesi, e che
da Milano quell'ordine si diffuse in appresso per le altre
contrade d'Italia.
(i) Le Memorie Cremasche del Tintori si conservano inedite nella libreria
del Seminario di Crema.
— 52 —
La famiglia dei conti di Camisano, quantunque spogliata
della signoria di Crema , esercitò tuttavia per molti anni
ancora nel territorio nostro prerogative feudali, fra le altre
il diritto di fare 5 ordinare, giudicare duelli (i). Il cano-
nico Lupi , benemerito raccoglitore di antiche pergamene ,
pretende che i conti di Camisano rampollassero dalla fa-
miglia dei conti di Bergamo: il che non può conciliarsi coi
documenti che fanno provenire Masano dalla Francia, in
epoca che i conti di Bergamo erano già potenti signori in
Lombardia. Forse il Lupi fu indotto in errore dallo sco-
prire che alcuni rami della famiglia dei conti di Bergamo
nel secolo undecimo si trapiantarono sul territorio crema-
sco acquistandovi larghi possedimenti e conservando il
titolo di conti (2).
«Scacciato Masano (1028), Crema all' imperiai obbe-
» dienza ritorna , ma da sé medesima si governa come fa-
» cevano le altre città tutte. » Sono parole del Terni , le
quali se egli non avesse buttate lì così nudamente, senz'al-
cun lume di storico documento, ci tornerebbero preziosis-
sime, come quelle che proverebbero essersi il governo mu-
nicipale in Lombardia già sviluppato prima della metà del
secolo undecimo: proverebbero altresì, che Crema reggevasi
a comune fin dal 1028. Se non che leggemmo documenti
(forse dal Terni ignorati), i quali rivelano che addosso ai
Cremasela pesarono ancora signorie feudali posteriormente!
all'anno 1028.
V'ha un diploma dell'imperator Enrico III il quale nel 1040
concede al vescovo di Bergamo la giurisdizione temporale su
tutto il contado bergamasco fino agli estremi di lui con-
fini (3) , diploma da cui apprendiamo che in allora ilcon-
(1) Pietro TeriNi. Storia di Crema.
\2) Lupus. Codex Diplomaticus.
(3) Pagnoncelli. Dell'origine dei Governi Municipali in Italia : Vedi i Do-
cumenti A. — Avvertiamo il lettere che alla line di ciascnn capitolo po-
nemmo documenti e note che servono come di corredo e schiarimento al no-
stro racconto.
tado ili Bergamo, estendendosi su tutta la Ghiara d'Adda
e fin anche su parte della provincia cremonese, compren-
deva il territorio cremasco. Ma non andò guari che il ter-
ritorio nostro cangiò signore: prima del 1058 tenevalo con ra-
gion feudale il marchese Bonifacio ili Toscana. Questo barone
famosissimo per isfondate ricchezze, che dai pozzi traeva vino
con secchi d'argento, che faceva con chiodi d'argento ferrare
i cavalli * , incorporò alle sue numerosissime signorie l'isola
Fulcheria, di cui Crema era la capitale. Come l'isola Ful-
eheria cadesse in potere del marchese Bonifacio, nessuna
cronaca ce lo chiarisce, non sa darne ragione neppure il
Lupi (* : tuttavia sappiamo che il marchese moriva nel lOoIi,
e Tanno medesimo moriva runico suo figlio maschio, Fe-
derico. Mancatagli la successione mascolina , la signoria
dell'isola Fulcheria ritornò libera alla Camera imperiale:
infatti l'imperatore Enrico III, morto il figlio del marchese
Bonifacio, disponeva dell'isola Fulcheria, donandola ad
Upaldo vescovo di Cremona (3Ì. Nondimeno la conlessa
Beatrice, vedova del marchese Bonifacio, trovò modo di ri-
tenere tutti i feudi del marito a nome della figlia Matilde ,
che fu poi l'eroina dei secoli di mezzo, celebre per virile
coraggio, per estesissimi dominj, per isviscerata devozione
a Gregorio VII ed alla causa del papato. La contessa Ma-
tilde tenne la signoria dell'isola Fulcheria fino al 1098, nel
qual anno ne fece donazione, non al vescovo soltanto, ma al
vescovo ed al Comune di Cremona (4).
Mostrammo in pochi periodi la sequela dei conti, ve-
scovi, marchesi, che pel corso di circa cento anni esercita-
rono sul territorio di Crema giurisdizioni feudali. Ora vi
diremo che nel mentre que' magnati si paleggiavano con
(1) Bettinelli. Del Risorgimento d'Italia.
(2) Lupi. Codex Diplomaticus Bergomensis.
(3) GiULiNi. Storia di Milano, Parte IV.
{'*) Vedi i Documenti B.
— o4
investiture la signoria del nostro terreno, esso fecondava
sermi di libertà: diremo ch'entro le mura di Crema fremeva
già nel popolo quello spirito di emancipazione, che poi lo
spinse animosamente a spazzare la sua terra d'ogni ingom-
bro feudale. 11 sole di libertà, levandosi nel secolo decimo-
primo ad irraggiare i paesi di Lombardia, doveva pur be-
nedire di novella vita anche il popolo cremasco; Crema,
sono parole d'uno storico Tedesco {ì\fu tra le prime città
che venne a libertà per forza delle armi.
L'anno medesimo in cui la contessa Matilde donò il Co-
mitato dell' isola Fulchcria al vescovo ed al Comune di
Cremona, i Cremaschi uscirono dalla loro cittadella serrati
in ordine di battaglia, e si azzuffarono coi Cremonesi.
D'allora ebbe principio fra Cremona e Crema una guerra
asprissima, la quale avvampò, benché interrotlamente, per
più d'un secolo, travagliando cotanto i Cremonesi, che nelle
cronache loro confessano d'esserne rimasti fritti. Svolgi le
cronache lombarde del medio evo, e t'incontrerà più d'una
volta di veder Crema, con immagine grottesca ma signifi-
cante, qualificala Frixorium CremonensiumW (padella dei
Cremonesi). È adunque nel 1098 quando i Cremaschi ti si
affacciano la prima volta sulle scene della storia lombarda,
e come riscossi all'improvviso da lunghissimo sonno, li si
presentano innanzi pieni d'ardimento, avventandosi contro
un nemico, senza misura di loro più poderoso. Perchè im-
pugnarono le armi? perchè le rivoltarono contro i Cremo-
nesi? per riscattarsi, per ispezzare a colpi di spada i ceppi
onde con un tratto di penna aveali gravati la contessa
Matilde, conferendo ai Cremonesi con un diploma la si-
(i) Enrico Leo. Vicende della Cosliluzione delle cillà lombarde. Tradu-
zione di Cesare Balbo.
(2) Qui veramente frixorium dovrebbesi tradurre flagello, ma che si
adoperasse per significar padella, lo attesta il Terni che ne dà anche le ra-
gioni.
gnoria delf isola Fulcheria. Queir infausto diploma della
contessa, scrive Giulini, è stalo il pomo d'oro clic destò e
mantenne per tatto il secolo seguente una perpetua di-
scordia fra le città lombarde (*). Non vogliamo correre col
nostro racconto troppo veloci: prima di passare al secolo
duodecimo sostiamo per un istante ancora sull'undccimo
facendovi alcune considerazioni.
Ove attinsero i Crcmaschi il consiglio, le forze, T ardi-
mento di romper guerra ai Cremonesi? Compressi giù da
secoli sotto il giogo feudale, come hanno potuto apparec-
chiarsi a fronteggiare coraggiosamente un popolo che in
potenza sovrastava loro di lunga mano? Dire che i Crema-
scià nel 1098 sorsero a guerreggiare i Cremonesi perchè
sospinti da uno spirito irresistibile e quasi estemporaneo
d'indipendenza, sarebbe uno spiegare lo scopo della lor ri-
volta piuttosto che le vie per le quali furono condotti a
consumarla. Un'idea, e meglio ancora un forte bisogno d'in-
dipendenza, può maturare una rivoluzione, ma non è ab-
bastanza per attuarla: ci vuole un centro ove il pensiero
dell'emancipazione si raccolga, si fomenti, si espanda, ove
consigliare e disporre i mezzi per conseguirla, ed ordinare
le milizie destinate a combattere per lo scopo propostosi,
ed eleggere i capi che devono amministrare e dirigere la
guerra; insomma, sei Cremaschi nel 1098 non avessero
avuto che un'idea, una smania in corpo di emanciparsi,
senza un asilo ove fecondare quest'idea ed apparecchiarsi
a recarla in effetto, sarebbero essi usciti dalla loro citta-
della raccolti in ordinate schiere, col proposito unanime
di guadagnarsi l'indipendenza, battendo i Cremonesi? Que-
sti riflessi ci portano a credere con un illustre scrittore mo-
derno l2>, che il Comune, siccome in altre terre lombarde,
(1) Storia di Milano.
(2) Pagnongiìlli. Dell'Origine dei Governi Municipali in Italia.
— 56 —
così in Crema preesistesse all'anno 1098; che una specie di
reggimento comunale tutelasse in parte la città nostra an-
che durante la signoria del marchese Bonifacio e. della
contessa Matilde; che il popolo vi fosse già addestrato nelle
armi, e già da tempo sospirasse il giorno di adoperarle non
più sotto il vessillo de1 suoi baroni, ma contro di loro a
rendenzione della propria indipendenza.
Che i Cremaschi a tenzonare coi Cremonesi incomincias-
sero l'anno 1098, ce lo attesta una cronachetta dì Cremona
pubblicata dal Muratori U\ e ch'essi combattessero contro
Cremona per emanciparsene, ce lo attesteranno moltissimi
scrittori versanti sulle vicende dei Comuni lombardi. Ora
accenneremo come nella lotta fra Cremona e Crema s'im-
pigliassero tanti altri Comuni, e perchè il Giulini abbia
detto che la concessione della contessa Matilde ai Cremo-
nesi fu il pomo della discordia fra le città di Lombardia.
Sul principiare del secolo duodecimo la Lombardia, come
dicemmo, formicolava di repubblichette, tante quanli erano
i Comuni. Fiorenti e balde di giovinezza, temperate al soffio
d'aure democratiche, si agitavano rigogliose, con esuberanza
di vita, gelosissime della propria libertà, e sopratutto fer-
venti di una bellicosa esaltazione. Soprastava loro l'alto
dominio dell'impero germanico, ch'esse non disconosceva-
no, e finché gl'imperatori stavano lungi dall'Italia, non fa-
stidivano. Imbevute delle tradizioni romane , non potevano
spastoiarsi dall'idea di un imperatore; tenevano quasi neces-
saria un'autorità suprema che sanzionasse i loro privilegi
municipali strappali dalle mani del feudalismo, e che se-
desse siccome moderatrice dei particolari diritti di ciascuna.
Per quella contraddizione che è nelle umane passioni,
mentre ogni municipio era tenerissimo della propria libertà,
non rispettava l'altrui: l'uno ingelosiva dell'altro; quale
(i) Cronachetta di Siccardo, vescovo di Cremona.
— :;7 —
temeva ili venir soperchiato dal vicino; quale, sentendosi
più forte, soperchiava difatti: e contendevano talvolta per un
palmo di terra, e spessissimo percuotevansi 1 un l'altro, in-
sanguinandosi in modo nefando. Non isciuperemo declama-
zioni per imprecare a (incile funeste discordie municipali;
le deplorarono a sazietà scrittori, i quali nella vigorosa
e splendida età dei Comuni pare che non veggano altro in
Italia che fratricidi e scompiglio. Noi consigliamo chi legge
storie lombarde del medio evo ad osservare da un canto
i livori municipali e piangere, ma d'altro canto a fissare lo
sguardo sullo svolgersi dell'incivilimento e della morale
grandezza degli Italiani, ed ammirare.
Delle repubhlichellc lombarde, per copia di popolazione,
di ricchezze e di vetuste glorie, grandeggiavano Milano e
Pavia: questa, già sede prediletta dei re longobardi; quella,
già capitale degl'Insubri e della Gallia Cisalpina, prima e
più antica residenza arcivescovile di tutta Lombardia. Quindi
nacque fra di loro rivalità d'interessi e d'ambizioni, motivo
di nimicizia gravissima, implacabile. Milano era accerchiata
dal territorio di sette repubblichetle, Como, Novara, Pavia,
Cremona, Lodi, Bergamo , Crema; sei di queste, allo scopo
della comune sicurezza e per equilibrare la soverchiante
potenza dei Milanesi, eransi fra di loro confederate; Crema
fu la sola che strinse alleanza con Milano 'n. Piccolissima
repubblichetta, Crema s'accorse che da sola non bastava a
resistere contro Cremona, ostinatissima nelle sue pretese
sull'isola Fulcheria; smaniosi d'indipendenza e in pari tempo
bisognosi del patrocinio di una città potente che nell'ardua
lotta contro Cremona li soccorresse, i Cremaschi invoca-
rono la protezione dei Milanesi, ed essi gliela consentirono
di buon grado, perchè loro sapeva male che Cremona, una
delle primarie città di Lombardia , ampliasse maggiormente
(i) Sismondi. Storia delle Repubbliche Italiane.
_ 58 —
colla signoria dell'isola Fulcheria le sue giurisdizioni. Ed
ecco per reciproco interesse annodarsi fra Milano e Cre-
ma un'alleanza che fu operosa, schietta, indissolubile per
tutto il secolo decimosecondo.
Ma se dall'un canto Milano, collo scopo di fiaccare Cre-
mona, assumeva il prolettorato della città nostra, dall'altro
le città nemiche dei Milanesi tolsero a favoreggiare i Cre-
monesi, e in questa guisa la guerra che i Cremaschi so-
stenevano per isferrarsi dal giogo cremonese, porse occa-
sione ad altre città di sfogare il veleno delle loro ire ed
invidie municipali. Pei Cremonesi parteggiarono aperta-
mente Lodigiani e Pavesi; con Milano affratellaronsi Bre-
sciani e Piacentini; Crema si può dire che per tutto il
secolo decimosecondo figura nell'istoria come figlia adottiva
dei Milanesi; essi ne presero cura solerte, affettuosa, ze-
landone l'indipendenza, difendendola robustamente da' suoi
nemici. Laonde nel secolo duodecimo la storia di Crema
s'intreccia con tenacissimi nodi a quella della capitale lom-
barda; Milano e Crema, due nomi che nelle memorie di
un'epoca per gl'Italiani grave di avvenimenti, si accoppiano,
rifulgono belli di glorie e di sventure.
Minuti dettagli intorno alle guerre che avvamparono fra
Cremona e Crema abbiamo cercalo indarno nelle cronache,
le quali ne tramandarono [cenni troppo brevi. Il Campi
all'anno 1100 notò i1), « dopo molte contese ed uccisioni
» dall'una e l'altra parte la guerra terminò conchiuden-
» dosi la pace sotto le seguenti condizioni, che il fiume
» che passa per mezzo Salvirola fosse il termine dei con-
» fini, in modo che verso Cremona fosse dei Cremonesi, e
» dall'altra parte dei Cremaschi. » Ed il Fiamma, al-
l'anno 1102, ci narra: « i Cremaschi fatti più arditi si por-
» tarono più d'una volta ad attaccare i loro nemici Cre-
(I) Storia di Cremona.
— 89 —
-> nooesi, » dal che non possiamo desumer altro fuorché
la breve durata della paco stipulatasi nel 1100.
Nell'anno 1111 i Milanesi assaltarono Lodi, lo presero,
lo distrussero, Gli abitanti furono riparliti in sci borgate,
sottoposti dai vincitori a leggi durissimo. Dell'infelice Lodi
non rimase che un mucchio di rovine nel luogo chiamalo
poi Lodi -Vecchio : lagfimevole monumento dei feroci odj
municipali ! K fuor d'ogni dubbio che i Cremaschi, alleali
dei Milanesi, presero parte all'eccidio di Lodi. Noi dicono
le cronache nostre, ma è notato in un'antica cronaca ma-
noscitla di Lodi-Vecchio, allegata da un istoriografo lodi-
giano (*). Olire di che leggiamo nel Bardi (2l, che Lodi-
giani e Cremaschi eran nemici fin dall'anno 1104, nimi-
eizia che doveva avere ben profonde radici, essendo i Lo-
digiani alleati coi Cremonesi, ed i Cremaschi coi Milanesi.
Sotto il vessillo di Milano, i Cremaschi pugnarono di nuovo
poco anni appresso, quando l'arcivescovo Giordano spinse
i Milanesi ad accanita guerra contro i Comaschi, perchè
questi avevano scacciato dalla loro città Pandolfo Carcano,
vescovo scismatico. Como dovette soccombere dopo aver
dato memorandi esempi di coraggio, e dopo dieci anni di
ferissima guerra; onde un Comasco di que' tempi, verseg-
giando latinamente le sventure della sua patria, paragonò
la guerra di Como a quella di Troja (3>. Le legioni crema-
sene durante la guerra furono nell'anno 1127 mandate dai
Milanesi alla difesa di Castelnuovo in Valcuvia, e là per
avere voluto braveggiare incapparono incautamente negli
agguati dei Comaschi e furono disfatte. Crema deplorò la
perdita di moltissimi suoi figli: tanti, caduti prigioni, ven-
nero cacciati nelle carceri di Como, ove stettero mantenuti
(1) Defendente Lodi, nel settimo de' suoi Discorsi storici.
(2) Bardi. Cronologia.
(3) Vedi Documento C.
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a spese dei Milanesi , finché la guerra decenne finì schiac-
ciando i Comaschi.
A quest'epoca levò molto grido un illustre cittadino cre-
masco, Giovanni da Crema cardinale di S. Grisogono. Molto •
egli si adoperò col senno e colla spada in difesa della corte
pontificia, quando appunto era travagliata dagli imperatori
di Germania, e dallo scisma di Burdino antipapa. Il cardinal
Giovanni, prelato guerriero, per ordine di Calisto II, affrontò
con grosso esercito l'antipapa che moveva verso Roma ad
eccitarvi turbolenze (1122); lo aggredì a Sutri , e dopo
una lotta ostinata, riesci ad averlo nelle mani e condurlo
prigioniero a Roma. « Il misero Burdino, coperto di pelli
» ferine ancor sanguinanti, fu posto a rovescio sopra un
» camello con la coda in mano a guisa di freno e fu tratto
» a Roma dietro al trionfante pontefice che con quell'inu-
» tile crudeltà, scusata solo dalla barbarie dei tempi, ram-
» mentova i costumi pagani , cotanto riprovati dalla mite
» religione di Cristo (*). »
Nell'anno 1116 il cardinal Giovanni accompagnava da
Roma a Milano Guidone da Clivio arcivescovo milanese.
Ministro dei fulmini ecclesiastici, il cardinale salì col l'arcive-
scovo il pulpito della chiesa metropolitana di Milano, e
pubblicò la scomunica contro l'imperatore Enrico V.
Nell'anno 1125 papa Onorio II conferiva al cardinal Gio-
vanni un incarico importantissimo : lo inviò in Inghilterra
a presiedere un concilio , collo scopo di riformarvi i de-
pravati costumi del clero. Ma questa volta il cardinal Gio-
vanni, soccombendo all'umana fralezza, anziché corrispon-
dere in degno modo alla fiducia che in lui aveva posto il
pontefice, tradì vergognosamente lo scopo della sua mis-
sione. Dopo aver convocato un sinodo a Londra, dichia-
randovi solennemente in pubblica arringa essere un'enor-
(1) P. Emiliani-Giudici. Storia Politica dei Municipi Italiani.
— 61 —
mena imperdonabile che il sacerdote ardisca toccare l'ostia
comic rata con mani impudiche, e appena alzato dal fianco
di una prostituta (titolo con cui il cardinale onorò le ino-
lili degli ecclesiastici), gli uffiziali di polizia di nottetempo
colsero il cardinal Giovanni in un postribolo fra le carezzo
d'una cortigiana. Figuratevi quanto scalpore menasse que-
sto caso in Inghilterra! quanto se ne ridesse e giovasse il
clero che non voleva rinunciare ai piaceri del talamo! Il
sinodo si sciolse, e il cardinale dovette lesto lesto abban-
donare F Inghilterra. Il Ciacconio, scrivendo la vita dei
pontefici e dei cardinali, s'adoperò nel sostenere esser tutte
calunnie di storici scismatici le voci che accusarono il car-
dinal Giovanni d'aver proceduto con tanto vitupero nella
sua missione d'Inghilterra. Ma si può rispondere al huon
Ciacconio che anche scrittori non scismatici narrano il
turpe caso del cardinal Giovanni; ed a persuaderci ancora
meglio che quel cardinale nell'ardua virtù della continenza
non era più forte di Salomone e di Davidde , possediamo
una lettera di S. Bernardo, il quale scrive al cardinale
rallegrandosi della sua penitenza e conversione ^K Peni-
tenza? E di qual peccalo, se non allude a quello per cui il
povero cardinale era divenuto la favola dell' Inghilterra,
lo scandalo del mondo cattolico?
Nell'anno 1129 il cardinal Giovanni ricompare in Lom-
bardia, adunando a Pavia un concilio di vescovi suffraga-
nei della metropolitana di Milano. In quel concilio la corte
pontifìcia raggiunse lo scopo di colpire d'anatema l'arcive-
scovo Anselmo, e punirlo d'aver incoronato re d'Italia
Corrado , competitore del già re Lotario : oltre di che nel
medesimo concilio, Pavesi, Novaresi, Cremonesi e loro
vescovi, presieduti da Giovanni cardinal legato, dichiara-
ci) Questa lettera di S. Bernardo venne riportata dairAleraaniu Fino, nella
Sericina veiitesimaseconda. Vedila nel Documento D.
-62 —
rono la guerra ai Milanesi, perchè proteggevano il castello
di Crema (*) ; prova evidente che al cardinal Giovanni non
importava né punto né poco dell' indipendenza della sua
terra nativa.
Venne dal cardinal Giovanni redifìcata in Roma la sua
chiesa di S. Grisogono, ove pose un'iscrizione in marmo
riportata dall'Àlemanio Fino, dalla quale apparisce come
Giovanni nascesse in Crema da Ulrico e da Ratilde, e ve-
nisse ordinato cardinale dal pontefice Pasquale II. In quel-
l'iscrizione non è accennato di quale famiglia fosse il car-
dinal Giovanni da Crema , ed anche il Terni lo ignorava.
Per mollo tempo contesero il vanto d'averlo generalo, i
Gambazocco, i Civerchi, i Mandoii , antichissime prosapie
cremasene. L'Alemanio Fino, nella quarta delle sue Soria-
ne, si pavoneggia d'aver finalmente scoperto essere il car-
dinal Giovanni da Crema purissimo sangue della famiglia
dei conti di Camisano: e questa notizia dice averla attinta
in un'antichissima scrittura avuta dal canonico Cimalovo.
E qui noteremo che fra i cortigiani del cardinal Giovanni
eravi un Almerico Cimalovo, altro gentiluomo cremasco,
che nell'impresa contro l'antipapa Burdino diede saggi di
valore. Combattendo sotto le mura di Sutri , Almerico uc-
cise don Carlo, nipote dell'antipapa, della qual prodezza
ebbe da papa Calisto in premio , oltre gran somma d'oro ,
un bellissimo corsiero ed un' armatura di gran pregio 2).
Nel 1115 si riaccesero le ostilità fra Cremaschi e Cre-
monesi, ed in quell'anno, se dobbiamo prestar fede ad
una cronachetta cremonese, Crema fu presa dai Cremonesi
il dì di S. Alessandro <3'. È nondimeno a supporsi, quan-
tunque quella cronachetta noi dica, che i Cremonesi non
(1) Giulint. Storia di Milano.
(2) Aleìianio Fino. Scelta degli Uomini di pregio lisciti da Crema.
(3) Antica Cronachetta cremonese citata dal Giulini.
— 63 —
abbiano potuto tener lungamente in soggezione la nostra
cittadella. Nel 1129 ì Cremaschi si ribellarono aperta"
inaiteli Cremona: così narrano antiche cronache, e af-
fermano ('ampi, Glutini o Sismondi. Noi vedemmo clic i
Cremaschi incominciarono a romper il freno dei Cremonesi
(in dall'anno 10(.)8: nel 1129 essi osarono ancor più , si
sottrassero alla spirituale giurisdizione del vescovo ili Cre-
mona, per sottoporsi a quella di Milano. Fu un tratto ar-
dimentoso di politica, perchè i Cremaschi volendo pure
isbarazzarsi d'ogni dipendenza verso Cremona, rendevano
in questo modo più stretti i nodi dell'alleanza milanese.
I Cremonesi, inferociti più che mai, Tanno 1130 invasero
con numerosissime schiere il territorio cremasco: le nostre
legioni, assottigliale dai disastri toccati tre anni prima in
Valcuvia, erano troppo deboli per resistere a quel torrente:
quando i Milanesi accorsero in ajulo della città nostra, e
respinsero valorosamente i Cremonesi. Questi , indignati
della fallita impresa, colsero l'occasione nel 1133 della ve-
nuta del re Lotario in Italia per consigliarlo a romper
guerra ai Cremaschi. Li assecondava Lotario , e nel no-
vembre 1155 strinse Crema d'assedio. I Cremaschi si di-
fendevano gagliardamente (*\ quando, o fosse per l'inver-
nale stagione disacconcia alle operazioni di guerra, o fosse
per timore dei Milanesi e dei Bresciani che si apparecchia-
vano a venire in soccorso di Crema, il re Lotario, dopo un
mese, levò prudentemente l'assedio (*\
Nel 1159 i Cremonesi ripigliarono le ostilità contro Cre-
ma. I Milanesi, sempre pronti a volare colle loro schiere
in ajuto dei Cremaschi, fronteggiarono le milizie di Cre-
mona presso Rivoltella, v'accesero una battaglia sanguino-
sissima, e riportarono clamorosa vittoria. La battaglia di
(1) Terni. Storia di Crema.
(2) Gidlini. Storia di Milano.
— 64 —
Rivoltella recò alla città di Cremona desolazione e lagrime
non poche, u I Cremonesi (scrisse il loro istoriografo (*) ) ,
n non solamente furono costretti a ritirarsi, ma rotli presso
i» Rivoltella, infinità ne rimasero morti e molli prigioni n.
Correndo Tanno 1146, l'imperatore Corrado, costretto
per forti motivi a differire la progettata discesa in Italia,
vi mandò il vescovo eli Costanza qual suo legato con ampia
facoltà di rendere giustizia agli oppressi, specialmente alle
chiese, e sottoporre al bando tutti i ribelli l*). Ricorse al
legalo imperiale il vescovo di Cremona riclamando contro
i Cremaschi, perchè oltre non volersi sottomettere alla sua
giurisdizione, favorivano alcuni suoi vasalli che gli si erano
ribellati. Il legato spedì una lettera ai Cremaschi ammo-
nendoli all'obbedienza, e dirigendo le sue parole ai conso-
li, ai conti e al popolo di Crema. Nella medesima lettera il
legalo, significando prossima la venula dell'imperatore in
Italia, si rivolgeva particolarmente ai conli affinchè si dis-
ponessero a compire in tale occasione i loro obblighi. Que-
sta lettera 0) ci è un prezioso documento , perchè manife-
sta di quali elementi fosse allora costituito il municipale
governo di Crema. Componevasi dei consoli, dell'assemblea
del popolo , e dei conti , i quali mantenendo delle speciali
prerogative, e partecipando col popolo al governo di Cre-
ma, lo rendevano, ad avviso del Giulini, meno democratico
che negli altri Comuni. « Le città che avevano vescovo più
« presto esclusero i loro antichi conti, e ridussero al nulla
« la loro autorità. Ne' luoghi che non avevano vescovi, i conti
» ritennero più lungamente alcuna parte dei loro antichi
» diritti. Così i conti di Crema e dell'isola Fulcheria di
(1) Campi. Storia di Cremona.
(2j Giulini. Storia di Milano.
(3) Vedi la lettera nel Documento E.
— 68 —
■ cui Crema era cupo, ancora dimoravano in quel castello,
» od avevano almen parie in quel governo (*) ».
L'osservazione del Giulini non è fuor di proposilo: con-
ferma ciò che abbiano già notalo intorno ai conti di Caini-
snno, i quali tuttoché spogliali del dominio di Crema, con-
servarono ancora dei privilegi feudali. E qui avvertiremo
che oltre i conti di Gamisano, altre famiglie v'erano nel
distretto eremasco, le quali insieme al titolo di conte gode-
vano vasti possedimenti. Per dirne alcune, nomineremo i
conti di Palazzo, i conti d'Azzano, i conti di Capralba, i
conti d'Offanengol^, famiglie che quasi tutte, ad opinione
del Lupi, diramavano dai conti di Bergamo. Che tutti que-
sti conti esercitassero entro le mura di Crema, come nelle
terre da loro possedute, privilegi feudali , non osiamo ac-
certare : però non sarebbe strano eh' essi si fossero arro-
gate anche nel recinto di Crema delle prerogative , e che
il popolo vi si fosse rassegnato. Forse i Cremaschi li sop-
portavano in pace, considerando che avevano ai fianchi un
nemico ben più molesto e più potente dei conti, aveano Cre-
mona, incocciata nel volere che la terra nostra le si profes-
sasse vassalla. Non è dunque meraviglia che il popolo erema-
sco, sempre o minacciato o assalito dai Cremonesi, non abbia
pensato a purgare il suo Comune d'ogni elemento aristo-
cratico. Non trovammo mai in alcuna cronaca che a que1
tempi sorgessero in Crema, come altrove, dei rancori fra
nobili e popolani: ond'è verosimile che il popolo eremasco
accarezzasse i suoi conti , e si compiacesse di associarseli
nel governo della patria, col politico intendimento di afle-
zionarli al Comune, e perchè avessero maggiore stimolo di
unire le loro forze contro V implacabile Cremona. Senza
(1) Giulini. Storia di Milano.
(2) I conti d'Offanengo ebbero la loro investitura feudale dal vescovo di
Bergamo. L'atto d'investitura leggesi nel Codice Diplomatico del Lupi, ed ha
la data dell'anno ilio.
— 66 —
perderci in congetture , a noi basti V aver rilevato dalla
lettera del messo imperiale, come il popolo cremasco nel
recinto del suo municipio fruisse anch'esso dei diritti di
sovranità: ciò è una prova di più a persuaderci che il no-
stro Comune fin d'allora reggevasi con forme repubblicane.
L'anno 1152 morì Corrado III, e la diela di Franco-
forte destinava la corona a suo nipote Federico Barbaros-
sa duca di Svevia. L'elezione di Federico, congiunto per
sangue alla Casa di Svevia ed a quella di Baviera, tron-
cava le quistioni tra le due famiglie guelfe e ghibelline,
rassodava la pace e l'unione dell'impero germanico. Nuovi
destini maturavano per gì' Italiani. Sulla fronte severa del
novello imperatore potevi scorgere un mal celato pensiero,
una nube eh' esser doveva alle città lombarde apportatrice
di rovinosa tempesta. Federico , nel bollor degli anni gio-
vanili , cupido di gloria , valoroso nelle armi , volse dal
trono germanico uno sguardo sull'Italia: vide quel con-
citato movimento di tante repubblichette , sorte a libertà
tra le discordie e lo scompiglio dell'Impero, ne poteva an-
dargli a grado. Barbarossa , uomo di sperticata ambizione,
voleva far rinascere nel suo nome la grandezza di Carlo
Magno , voleva che i popoli si prostrassero davanti la po-
destà dell' impero : ma questo aveva in Italia perduto al-
quanto del suo prestigio, ed era agevole comprendere -che
se i Comuni procedevano innanzi del medesimo passo, non
avrebbero tardato a disconoscere affatto qualunque supre-
mazia di re stranieri in Italia. Barbarossa , il quale mercè
la riunione delle fazioni alemanne sapeva di poter disporre
di tutte le forze della Germania, divisò di valicare le Alpi
per ricevere in Italia le due corone, per dar saggi della sua
prodezza, per richiamare con le armi a divozione dell'Im-
pero i Municipj.
Precursore dei suoi disegni capitò in Lombardia certo
conte Sicherio: lo inviava Barbarossa ai Milanesi, intiman-
— 69 —
ilo loro l'on imperiosa lettera di rendere i rapiti privilegi
ai Lodigiani, i quali, ad onor il<*l vero, la repubblica di
Milano malmenò barbaramente. Sicherio lesse il dispaccio
imperiale nell'assemblea del popolo: i Milanesi a * j 1 1 e 1 1 e
superbe intimazioni montarono sulle furie, strapparono di
mano a Sicherio il dispaccio, lo calpestarono urlando e
maledicendo a Federico e a tulli i Barbari. Sicherio do-
vette fuggire, e fu prodigio che tra la bufera dell' infuriata
moltitudine abbia trovato modo di salvarsi.
Neil* ottobre del 1154 Federico scendeva per la prima
volta in Italia con un esercito clic mai più poderoso vi
auvan condotto i suoi antecessori. Accampatosi presso Pia-
cenza, adunò a Roncaglia, secondo l'antica costumanza, i
Comizj del regno d'Italia. V intervennero i consoli di tutte
le citta: Federico aveva dichiarato di voler giudicare le con-
tese de' suoi sudditi italiani : perciò Lodigiani e Comaschi
vi apersero 1' animo loro , dolendosi delle prepotenze dei
Milanesi. Barbarossa ebbe campo allora di scoprire le fa-
zioni e le simpatie di tutte le città lombarde. Conobbe
come fervesse nimicizia acerbissima fra Milanesi e Pavesi,
e questi fossero più deboli , perchè non rimanevano loro
ad alleate che le città di Cremona e di Novara , essendo
Lodi e Como ridotte in servitù dei Milanesi. Pei Milanesi
parteggiavano Cremaschi, Bresciani, Piacentini, Tortonesi,
Astigiani. Quindi Federico, pensando che a lui conveniva
avversare la fazione più forte, spenta la quale tornavagli
agevole domare la più debole , diebiarossi favorevole ai
Pavesi. Da quel momento, Crema per essere la protetta e
l'amica dei Milanesi incontrò l'odio dell'imperatore: se ne
rallegrarono i Cremonesi, vedendo che albeggiava il sospi-
rato giorno di sfogare sulla nostra cittadella le loro vendette.
Nel 1155 ritornò Barbarossa in Germania, dopo aver
distrutto Rosate, Trecate e Galliate, posto a sacco Chicli
ed Àsti, ruinata Tortona che gli oppose un' eroica resisten-
— 68 —
za, e ricevula a Roma la corona dell'Impero per mano di
Adriano IV. I Milanesi profittarono della partenza di Fede-
rico onde soccorrere nei paliti disastri i loro confederati ,
ed osteggiare le città che si erano dichiarate partigiane del-
l' imperatore. Milanesi e Cremaschi campeggiarono allora
contro i Pavesi per ben due volte, ma sempre con succes-
so poco felice.
Nel luglio del 1158. Federico scende di nuovo in Italia
seguito da cento mila combattenti. In quest' anno , narra
il Fino, Barbarossa si pose con l'esercito sotto Crema ,
avendo dichiaralo i Cremaschi ribelli all'Impero per es-
sere confederati coi Milanesi e coi Bresciani: veduta poi
l' impresa difficile pili che non pensava, mutando pen-
siero, levò le genti da Crema, ed andò sotto Milano. Di
questo primo tentativo d' assedio non fanno alcuna men-
zione parecchi cronisti, che pure hanno riferito dettagliata-
mente le imprese della seconda spedizione di Federico in
Italia: non ne dice parola neppure il Giulini, che da sto-
rico diligentissimo seguì ogni piccolo movimento di Barba-
rossa in Lombardia (*).
Primi a sperimentare lo sdegno dell'imperatore nel 1158
furono i Bresciani , alleali dei Milanesi e dei Cremaschi.
Brescia per aver osato fare qualche resistenza a Federico,
vide tutto il suo territorio devastato dalle truppe impe-
riali , e pagò grossa somma onde evitare disastri peggiori.
L'imperatore dimorò alcuni giorni nel territorio di Brescia,
ove tenne una dieta guerriera emanando lessi sulla disci-
plina militare: poi correva impaziente ad assalire Milano.
Ma vi fu trattenuto dai giureconsulti , facili smaltitori di
(1) Che Barbarossa abbia cinta d'assedio Crema prima dell'ottobre del H58
ne fa' fede l'atto con cui dichiarò i Cremaschi ribelli dell'Impero; ma da quel-
l'atto apparirebbe che pose Crema al bando dell'Impero, dopo averne tentato
'assedio, mentre le parole del Fino ci menano a supporre il contrario. Vedi
ij Documento F.
— 69 —
pandette e digesti , schifosa razza che alla cori»4 imperiale
teneva bottega di sofismi e di adula/ioni. A que1 tempi era
politica di principi l'accarezzarli. Come i Pontefici servi-
vansi dei teologi e delle scomuniche, così gì1 imperatori, a
sostenere le loro proteso, adoperarono lo spade e i giuro-
consulti. Federico, prima di gettarsi in un'impresa, soleva
consultarne gli oracoli , e quei togati gli rispondevano, già
s'intende, sempre cortigianescamente. Stupravano le ideo
più verginali , più sante del diritto , sformandole quanto
bisognasse per accomodarle alla gigantesca ambizione del-
l'imperatore. I giureconsulti questa volta fecero osservare
a Federico che prima di combattere , si dovevano citare
rei una , due , o almeno una volta sola , assegnando loro
un tonnine perentorio a comparire, non potendosi profferir
sentenza contro gli assenti, né eseguir castigo senza sen-
tenza l\ Li ascoltò Barbarossa che conosceva ben adden-
tro le imposture del regnare, e fingendosi scrupoloso delle
formalità giuridiche, citò a presentarsi avanti il suo tribu-
nale Milanesi e loro alleati. Non mancarono gli ambascia-
tori di Milano e di Crema di recarsi al campo imperiale
per maneggiarvi la pace , ma infruttuosamente. Federico
anelava la guerra: adempite le formalità di procedura a
lui suggerite dai giuristi, pose al bando dell'Impero Mi-
lano e Crema (*), indi, coll'approvazione dei dottori in legge,
spinse il suo esercito contro Milano.
Sotto le mura dell1 ardimentosa capitale puguavano da
forti assediali ti ed assediati, quando s'interpose fra i com-
battenti il conte di Biandrate, e riesci mediatore di pace
fra' Milanesi e l'imperatore. Della conchiusa pace uno dei
capitoli risguardava i Cremaschi : Federico dichiarò di as-
solvere in piena curia Milanesi e Cremaschi dal bando dol-
ci) Giunsi. Storia di Milano.
(2) Vedi il Documento F.
— ■ 70 —
l 'impero, e che li accoglieva nelle sue grazie, purché pa-
gassero un emenda di centoventi marche, la qual somma,
ad avviso del Giulini, corrisponderebbe a circa setlanla-
cinque mila lire di Milano.
Nel mentre Federico intraprendendo l'assedio di Milano
accampava sulle rive del Lambro,i Lodigiani, che per fuggir
l'ira bestiale dei Milanesi si erano ricoverati a Pizzighettone,
presentaronsi supplichevoli all'imperatore implorando una
patria, un luogo ove poterla riedificare. Ed avevano ra-
gione. Federico li accolse benignamente, donò loro l'altura
di Monteghezzone in riva all'Adda, e fece porre in sua pre-
senza la prima pietra dell'odierna Lodi.
L'anno istesso (1158) dopo conchiusa la pace coi Mila-
nesi, Barbarossa apriva una dieta in Roncaglia, scopo della
quale determinare le regalie competenti all' alto dominio
dell'impero sulle città italiane, e decidere le controversie
ancora pendenti fra i municipj. Federico piantava il suo
tribunale con apparali guerreschi, con pompe regali, per
imporre sulle fantasie come in uno spettacolo teatrale. In-
torno al suo seggio nereggiava un branco di giureconsulti :
erano ventiquattro, ci duole il dirlo, lutti italiani, fra i
quali quattro famosi per ingegno e per dottrina ^l Pala-
dini della causa imperiale, armati di cavilli, audaci nel
soQsmo, formavano, per così dire, il caroccio dell'imperatore.
Fu in quel congresso che i giureconsulti proclamarono Bar-
barossa successore d'Augusto e padrone del mondo, onde
egli, per sentenza dei giuristi, poteva di buon diritto palleg-
giare a suo piacere il globo con la croce sopra, simbolo
dell' universale signoria. Fu in quel congresso che Fe-
derico udendo i municipj lombardi piatire l'un contro
l'altro, lanciò agli Italiani sorridendo e in tuono ironico
queste memorande parole: Come mai, voi Italiani che siete
(1) Bulgaro, Martino Gossia, Jacopo ed Ugo da Porla Ravegnana.
- 71 —
Ira luiti i più eruditi nella scienza del diritto, nì trovate
Minile discordi e inviluppati nei litici? binarissimo rim*
provero, ma giusto, pur troppa ! L'esito di quella dieta fu
che Barbarossa, ebbro della sua ambizione, e palpalo a
meraviglia da una lurba di adulatori, condannava alla ser-
vitù dell'impero i Comuni lombardi, né si teneva obbligato
di mantenere ai Milanesi ed ai Cremaschi i palli che aveva
poc'anzi giurati nella pace stipulata a Milano. Non lardò a
significare i disegni clic volgeva nell'animo. Volle che in
tulli i municipj sedesse un podeslà imperiale per annullarvi
l'autorità ebe esercitavano i consoli; promise ai Cremonesi,
ricevendone in dono quindici mila marche d'oro, che avrebbe
fallo smantellare le mura di Crema, del che s'indignarono
fortemente i Milanesi (*).
Nel gcnnajo dell'anno 1159 entravano in Crema gli am-
basciatori di Federico, intimando ai Cremaschi di abbattere
le loro fortificazioni e ricolmarne le fosse. Pensate come
dovea esser accolto il comande imperiale da una popola-
zione guerriera, che venerava nelle sue mura grinespugnati
baluardi della propria libertà. L'ira acciecò i Cremaschi;
non badarono all'inviolabilità onde voglionsi privilegiate le
persone degli ambasciatori, e tolsero a maltrattarli, tanto
che se non erano lesti a fuggire, si trovarono a un pelo di
rimaner vittime del furor popolare. Confessiamolo, i nostri
padri amavano la libertà altamente; essi tenevansi nel di
lei amplesso ben fortunati e forti se furono tanto audaci da
bistrattare i messi imperiali, provocando lo sdegno di po-
tentissimo monarca, che avea l'orgoglio di credersi padrone
del mondo.
Nell'aprile dell'anno medesimo (1159) i Milanesi, di-
chiarati ribelli dell'impero, rompono guerra ai Lodigiani, i
quali avevano già recinta la loro città di fortificazioni. Di-
fi) Giuliju. Storia di Milano.
— 72 —
visando di prender Lodi con strategico inganno, giovaronsi
del soccorso dei Cremaschi. Spedirono le milizie di Crema
ad assalire Lodi dal lato orientale, confidando che i Lodi-
giani accorressero tutti a difendersi da quel lato, sicché
essi intanto avrebbero potuto più facilmente espugnare la
città, attaccandola di sorpresa da un'altra parte. Ma i Lodi-
giani, avvedutisi delle insidie nemiche, si difesero virilmente
da ogni parte, onde i Milanesi ed i Cremaschi, dopo un
accanito combattimento che durò dall'alba a mezzogiorno,
furono costretti a ritirarsi.
Federico, memore della oltraggiosa accoglienza cb'ebbero
in Crema i suoi ambasciatori, informato degli ajuti prestati
dai Cremaschi ai Milanesi contro i Lodigiani, deliberò l'ec-
cidio di Crema. Dopo aver pronunciato sentenza favorevole
ai Cremonesi sulle pretese ch'essi vantavano nel territorio
nostro, ordinò alle legioni di Cremona che stringesser Crema
d'assedio. Ubbidirono prontamente e con giubilo i Cremonesi
al cenno di Barbarossa; addì 7 di luglio (1159) accampa-
rono sotto le mura di Crema.
/o
DOCUMENTI
Documento A.
Brano di un diploma dell'anno 1040 con cui Enrico II esteso la giu-
risdizione del vescovo di Bergamo sopra tutto il contado di Bergamo
fino agli estremi di lui confini, Crema compresa.
u Concedimus Comitatum ejusdem civitatis in omnibus ad se per-
» tinentibus , tam infra civitatem , quamque et foris donec compleatur
» terminus suus. Finis vero hujus Comitatus, si cut ad aures nostras
» deci aratura est , est ita. Prima in valle qua? dicitur Valletellina -, se-
» cunda autem usque in ripa fluminis , quod vocatur Adda : tertia sci-
» licet ad Olii fluminis illius loci decurrentes; quarta quoque usque ad
» curtem, qua3 dicitur Casale Bottanum ».
Questo diploma si conserva in originale nell'archivio della cattedrale
di Bergamo. Il brano da noi riportato citossi dal Pagnoncelli nella sua
opera Dell'antica origine e continuazione dei governi municipali in
Italia.
Documento B.
Diploma con cui la contessa Matilde concedette al Comune ed al
vescovo di Cremona il comitato dell' isola Fulcheria, riportato dal-
l' Ughelli nell'Italia Sacra, ove tratta dei vescovi cremonesi.
u Una dies Sabathi in Kal. jannuarii, praesentia bonorum hominum,
» quorum nomina subter leguntur, per fustis quem in suis tenebat mani-
» bus comitissa Mathikla, filia quondam Bonifacii Marchionis, infra
r> Cast rum Platinai investivit liomines Cremona?, scilicet G-ottifredus
» de Bellusco, et Moricius seu Cremoxano Aldaini a parte S. Maria?
» Cremonensis Ecclesia?, seu ad communum ipsius Cremona? civitatis
» de totu comitatu Isola? Fulkeri, omnia et ex omnibus quantum ad
» suprascriptam comitissam pertinet de ipso comitatu, in nomine benefi-
■ cii, tali vero ordine, quod capitanei ipsius Ecclesia? debent servire ad
» illam Mathildain comitissam donec episcopus venerit infra ipsum epi-
— 74 —
scopatimi, sciliect Cremonensis Ecclesia?, qua? cum suis Capitaneis,
seu aliorum caeterorum militum bene serviat, et si capitanei illius
cìvitatis servire noluerint, crateri houiines ipsius civitatis serviant
per praenominatum beneficimi), et illa ecclesia? sancta? Maria?, etistum
communum supradictum comitatum: ine antea debeat in per-
petuimi nomine beneficii, ut suprascriptum est, sine contradictione
supradictfB comitissa? Mathildae, seu suorumheredum velsuccessorum.
Factum est hoc anno ab Incanì. Dom. 1098. Ind. 6. »
Documento C.
Brano del poema del poeta Cumano, ove tocca della sconfitta dei
Cremaschi nella guerra dei Milanesi contro Como.
u Tunc Mediolanenses
r> Distribuunt acies, dant ad praecepta cohortes
» Dant ad presentes, absentes jussa Cremenses
« Ad Cumas tendant, castrumque novum tueantur.
» His monitia structi discedunt denique cuncti,
r> Simtque domum laeti victores reversi.
» Nec mora ferventes haec jussa implere Cremenses
n Se sua cuncta parant, ad praelia tendere mandant ,
» Festinant omnes, non qua? ventura caventes.
ti Ad Cumas veniunt, acies ad praelia ducunt.
n Plurima ferventes exornant bella Cremenses,
» Nulla dies, et nulla quies sine Marte feroci.
n Contendunt transire truces ad bella ruentes,
n Perque dies aliquot non cessant hostes
r> Impugnare suos ( nequeunt bene noscere mores )
n Hsecque dies faciunt omnes, sine fine superbi.
n Quodque vident cives, qui sunt ex more sagaces,
r> Deducunt equites, peditesque in valle sedentes,
» Nocte struunt latebras caute sine murmure tecti
n Dumque dies terris resplendit reddita, solis
» Orbita consurgens, caput extulit undis,
n Descendunt de monte, truces ad bella ruentes.
» At contra gnari cives restare, parati
» Procedunt omnes , veniunt ex urbe potentes ,
» Committunt dexteris, fractis sonat aether ab hastis,
» Ensis ab ense sonat, miles prò milite clamat*,
\t cito CumensoB perturbani acriter hoatea,
\t(«>llunr animosi Bternunl per oorpora campoa,
n [ncumbunt, Bternunt equitea, et ubique potentea
a Detruncant peditea, calcaut pedibus fugientea.
- \t cito cedentea, cito danl sua terga Cremen
•• Concua8Ì terrore pavent, fcurbaque quoque langueut,
n Dum sua t'astra petunt, equitea fugientibua obatant,
r Celati latebria faerant qui valle retecti,
» Iamque diu Qlorum predantea, castra tenebant.
n Efaac poatquam noacunt bìuiu] omnea arma relinquunt
m Omnia , coguntur, nequeunt evadere, circum
n Partibua a cunctia infesti stant inimici,
« Se sua cuncta feris cito tune reddunt inimicia,
•• Inde capistrati fortem ducuntur ad urbem,
n Carceribua tristcs dantur sua facta gementes.
» Dum inediolanenses captos esse cremenses
» Cognoscunt , illos etiam quoque carcere strictos ,
» Has geminant voces eheu, eheuque dolentes
n Deplorant socios tam forti Marte peremptos, j:
» Deplorant illos in .carcere compede strictos ,
» Deflebant predas, et abillis esse retractas,
n Deflent illorum combustaque castra virorum.
» Omnia dimittunt, combustaque castra relinquunt,
» Sumptus ad meestos mittunt in carcere clausos. »
'Tolto dall'opera Rerum italicarum del Muratori, Voi. III.)
Documento D.
Lettera di S. Bernardo a Giovanni da Crema cardinale di S. Grisogono.
a Ad Joannem cremensem cardinalem presbyterum.
» Diìectionem et dignationem qua me amplecti a vobis nullius di-
guitatis homuncio sensi, in seternum non obliviscar pcenitentiam et
conversionem vestram, de qua jam Angelis collsetatus sum et condele-
ctatus, dignos facere fructos opto jugiter et oro frequenter. Et nunc
maxime ipsos vestra illa Gallicana Ecclesia mecum expectat, credo
non intempestivos. Interest vestrae pariter et meae famee ut non con-
fundar in vobis. Sic ergo clareat omnibus zelus apud vos veritatis
j ustitiasque, ut fervor contra iuterfectores , clericorum et instigatores
eorum, ut non me pigeat gloriatimi fuisse de vobis. »
(Tratta dalle Seriane di M. Alemanio Fino.)
-76 —
Documento E.
Lettera del vescovo di Costanza, legato dell' imperator Corrado, ai
Cremaschi (1146).
« Ego Costantinensis Episcopus , et Domni Chonradi [jRomanorum
r> Regis Legatus, Consulibus et Comitibus, oinnique Populo Cremensi
» salutem.
n Notum vobis fieri volumus, quia Dominus noster ex latere suo nos in
» partes istas dirigens , tocius Italici regni negotia ad honorem suum
» jure tractanda nobis commisit, nosque omnibus oppressis, et praecipue
r> Ecclesiis j ustitiam facere, treguam rìrmiter servare, et omnes, qui in
» Regno isto captivi tenentur, liberare, et quosque rebelles, et nostris,
» immo Domni Regis mandatis repugnantes, ejus banno subjicere, et
n fideles ejus de adventu, et servitio suo diligenter commonere praecepit.
» Noveritis praeterea, quia vir venerabilis frater noster 0. Cremonensis
» Episcopus nobis conquestus est de Trecho de Bonato etfratribusejus,
« et de Girardo de Colonia, nec non et de filiis Alberti Gonzonis, et de
» Mantegatio de Caravajo, qui et homo et j uratus Episcopi est. Qui omnes
» et terras Ecclesiae et possessiones inj uste detinent, nec ab eis j ustitiam
» consequi potest. Insuper idem Mantegatius homines Ecclesiae infestare
» non cessat. Ea propter ex parte Domni Regis, et nostra, Unlversitati
» vcstrce mandamus atque praecipimus, ut praenominatos viros Cremo-
n nensi Episcopo ante adventum Domni Regis nostri plenamj ustitiam
n facere coherceatis. Ipsum quoque Mantegatium ab infestatione homi-
n num Ecclesiae cessare faciatis, alioquin autem, quia his consentitis
n et criminis et damnationis illorum vos ipsos participes efficitis; fo-
ri cientes enim et consentientes pari poena puniendi sunt. De caetero
v autem vobis Comitibus qui Domni Regis et Vassalli et fideles estis ,
?» ex parte sua praecipimus, ut de adventu et servicio ejus vos diligen-
ti tissime praaparetis. Vobis quoque nihilominus praecipimus ut Guidri-
n sium de Fornovo eidem Donino Episcopo justitiam facere cogatis,
» et tam ipsum Guidrisium, quamque et omnes alios, qui quondam Cas-
?» tellani et habitatores fuerunt locorum Episcopi, vel faciatis eos reverti
n et habitare in iisdem locis, sicut ipsi olim et antecessores eorum fe-
n cerunt, vel omnia quae habent in eisdem locis relinquere. Si autem
» nihil horum fecerint , aut ipsi Episcopo eos in laudamento Curiae
n illius justitiam facere cogatis, aut a vobis eosomninoabjiciatis; allo-
n quin banno Domni Regis subjiciemini in mille libras auri.
- Ego Girardui Qotariua hujus exempli autenticum vidi, et legi, et
h fideliter esemplavi. »
(Tratta dal volume EV delle Antichità italiane del medioevo) dell'a*
bate Lodovico Muratori.)
Documento F.
Atto con cui Federico Barbarossa poso i CremaBChi al bando del-
l'impero.
u Federicos Dei gratia Bomaaorum imperator et semper Augustus:
n Notimi esse credimus universis imperii Fidelibus quocl ex divina
n Providentia super omnes mortales ad hoc .constituti sumus ut fide-
n libila et benemerentibus de nobis digna premia respondeamus, et se-
n cundum justitiam hostibus imperii justas pcenas infligamus •, ea pro-
n pter cum ob rebellione Cremensium ipsum castrum Crema? obsedisse-
n mas, et cum Principibus nostris, die quadam sub papilione Ducis
n Heurici conscedisemus , concilio et judicio principimi nostrorum et
n omnium Lombardorum qui nobiscum aderant, ipsos Cremenses hostes
n imperii judicamus et de ipsis tales leges promulgavimus; quoniam
« Crema et omnes Cremenses sub nostro sunt banno positi statuimus,
n et imperiali auctoritate nostra confirmamns, ut omnes tam Cremenses
n quam Mediolanenses seu Brixienses seu ceteras undequaque sint per-
ii some, quse in tempore hoc in Crema sunt tam feudum quam aloclium
» totum amittant, et feudum ad dominos revertatur, et domini aclmodo
» liberam habeant potestatem feudum intermittendi nostra auctoritate
n ac tenendi et quiete possidendi. Nos vero et personas eornm pu-
» blicavimus, illi enim qui sunt de ecclesiarum familiis et feudum et
» aìlodium amittant, et eorum domini nostra auctoritate intrent et
» teneant, liberorum verum allodia ad nos spectare decrevimus ; factum
» est hoc anno Dominicse Incarnationis millesimo centesimo quinqua-
» gesiino octavo, indictione nona, die Veneris quas fuit decimo quarto
» Kalendas Octobris. »
(Tratto dalla Storia di Crema di M. Pietro Terni.)
— 70
CAPITOLO TERZO
ASSEDIO E DISTRUZIONE DI CREMA.
SOMMARIO.
Porle posizione di Crema. — Indole bellicosa ed ardita de' suoi abitanti. —
Come a quo' tempi si organizzassero le milizie nei Comuni lombardi. —
Cremonesi, Pavesi e Lodigiani, alleati di Federico Barbarossa contro
(Ironia. — Milanesi, Bresciani e Piacentini alleati dei Cremascbi. — Arrivo
di Barbarossa sotto Crema. — 1 Milanesi sconfitti a Landriano. — Come
intorno a Crema si disponesse l'esercito di Federico. — Fallito tentativo
dei Milanesi die volevano divergere le forze imperiali dall'assedio di Cre-
ma. — Il castello di legno dei Cremonesi. — Tre sortite degli assediati,
l'ultima con prospero successo. — Soccorso prestato dai Lodigiani a Bar-
barossa. — Suo barbaro stratagemma per impedire die i Cremascbi re-
spingessero le macelline d'assedio. — Stupendo e feroce coraggio dei Crema-
sebi. — Bappresaglie crudelissime. — Tentativi dei Cremascbi per ab-
bruciare una macchina d'assedio a Barbarossa. — Marchisio , ingegnere
dei Cremaschi , diserta al campo nemico , prestando i suoi servigi a Bar-
barossa. — Assalto generale die Barbarossa diede a Crema , e vigorosi
fatti che lo segnalarono. — Crema è ridotta al punto di doversi arren-
dere. — Il duca di Sassonia ed il patriarca d'Aquileja entrano coi Crema-
sebi in trattative di pace. — Capitolazione. — I Cremascbi sgombrane
dalla loro cittadella. — Atto generoso di Federico. — Crema è saccheg-
giata dall'esercito imperiale. — Per qual motivo i soldati v'appiccassero il
fuoco. — Disperazione dei Cremascbi , vedendo ardere la patria. — Ven-
dette esercitate dai Cremonesi. — Allegrezza e millanteria di Barbarossa
significando a' varj principj la presa di Crema. — Importanza ch'ebbe
l'assedio di Crema nei politici avvenimenti di Lombardia. — Come alla
caduta di Crema abbia cooperalo la morte del pontefice Adriano IV.
Crema era a que' tempi un castello fortissimo. Udiamone
brevemente descritta la posizione da uno scrittore aleman-
no, contemporaneo e parente di Federico Barbarossa: «Crema
-80 —
» era situala in luogo piano e campestre, assai ben difeso
» per opera di mano e benefìcio di natura, girandole attor-
» no da un lato una palude. Oltre le ampie e profonde
» fosse d' acque abbondantissime , la circondavano duplici
» ed eccelse mura, onde poteva respingere facilmente ogni
» aggressione e sorpresa di nemico. » Così Radevico di Fri-
singa nella sua cronaca Ialina (0; ed il Voigt, altro aleman-
no , scrivendo della lega lombarda , v' aggiunse : « Crema
» non era men forte ed inespugnabile per le sue mura, che
» per il coraggio e la risolutezza de/ suoi cittadini2).» E
qui dobbiamo dire, ad onore del vero, che il popolo cre-
masco nel secolo dodicesimo, per ardimento e perizia nelle
armi levò V ammirazione di quanti scrittori nazionali e ol-
tremontani hanno discorso di quell'epoca memoranda.
Ad educare nei Cremaschi Y indole bellicosa giovò V al-
leanza milanese, spingendoli più volte a combattere fuori
del loro territorio ; ma più ancora valse a rinfocarla Y a-
more della propria indipendenza, di cui i padri nostri fu-
rono tenerissimi. Entusiasmo era a que' tempi l'affetto del
luogo natale , santo e religioso dovere di ciascun cittadino
mantenervi colle armi inviolata quella libertà di cui gode-
vano. Militi tutti del proprio Comune , la guerra formava
allora un episodio della vita dell'uomo, come l'amore. Ogni
cittadino fin dalla fanciullezza abituavasi agli esercizi mili-
tari , a trar a segno , a portar V armatura : quando squillo
di tromba o tocco di campana annunciava sovrastare alla
patria grave pericolo, tutti, dai diciotto ai sessantanni,
raccoglievansi sulla piazza sotto il vessillo dei loro consoli,
impazienti di scagliarsi contro l'inimico: unico ordine, com-
battere: unica regola, non iscostarsi dalla bandiera. Vince-
vano? Li vedevi ritornare al domestico focolare, superbi
(1) Muratori. Rerum italicarum, voi. VI.
(2) Voigt. La lega lombarda. Traduzione.
— 81 —
tlclia salvezza e gloria del loro Comune: deponevano le
armi per affaticare di nuovo le robuste braccia neil1 arte
onde traevano sostentamento. Morivano? La patria con pub-
bliche cerimonie onorava la memoria dei figli perduti , e
sulle tombe dei valorosi rinfiammava nell'animo dei super-
stiti Iodio ai nemici, e sentimenti di generosa emulazione.
Sembra incredibile: pine con queste milizie comunali ven-
nero più volte respinti i fortissimi eserciti degli Enrichi e
dei Federichi , composti dal fiore dei cavalieri Franconi ,
Sassoni, Svevi: nelle terre italiane si ammirarono prodigi
di valore e di coraggio, e Crema aveva difeso per ben ses-
santanni In propria libertà, in onta dei Cremonesi e di
chi li sussidiavo.
Ma oramai siam giunti col nostro racconto a tal punto
in cui i Cremonesi confidavano di satollare la sospirata ven-
detta, e recare in elìcilo i diritti che da tanti anni vanta-
vano su Crema Sapevano li avrebbero fiancheggiati ari
oste ben agguerrita e forte di Germani , le milizie pavesi,
l'alleanza dei Lodigiani, e meglio ancora Barbarossa, mo-
narca potentissimo, Serse del medio evo, d'indole ardimen-
tosa, e contro i nemici inflessibile.
Quando i Cremonesi vennero per i primi a cinger Crema
d'assedio, i Cremaschi avevano già approvigionata la loro
cittadella, ed accolti i sussidj milanesi e bresciani. Milano
vi spedì il console Manfredo Dugnano con quattrocento
fanti ed altri militi stipendiati, fra i quali Obizzone da
Madrignano , Old rado Bescapè e Gasparo Menclotto. Né
men generosa la belligera Brescia , sempre pronta ad ac-
correre ove sventoli bandiera di libertà, volle esporre sulle
mura di Crema, in segno d'amicizia, un drappello de' suoi
campioni. Anche Piacenza in quest'occasione fornì ai Cre-
maschi vettovaglie ed alcuni militi, motivo per cui Barba-
rossa la sfolgorò del suo sdegno dichiarandola ribelle del-
l'Impero. Così in quel difficilissimo istante, in cui la libertà
6
— 82 —
dei tomuni pericolava , si conobbe quali ancora la caldeg-
giassero fra i Lombardi ; ed i Cremaschi, stretti con loro
per santissimo voto di libertà, si disponevano, con ardore
senza pari, a raccogliere fra gli stenti dell'assedio le palme
dei valorosi.
Attendavano sotto le mura di Crema già da otto giorni
i Cremonesi, quando ai 15 luglio (1159) loro si congiunse
l' imperatore con esercito poderosissimo. Se non che Fede-
rico , fatto consapevole che i Milanesi mandavano verso
l'Adda novelli sussidj ai Cremaschi, si allontanò dal cam-
po: seguito da duecento Tedeschi, recossi a Lodi, vi adunò
le milizie lodigiane , e con queste e col rinforzo delle pa-
vesi sfilò verso Landriano. Ivi con l'arte d'astuto condot-
tiero tira i Milanesi negli agguati , li sorprende col mezzo
di un'imboscata, li rompe, e molti ne manda prigionieri a
Pavia. Lieto di quest'impresa, Barbarossa ritorna sotto
Crema a' suoi accampamenti , ove a' 19 di luglio lo rag-
giungono la consorte Beatrice ed Enrico duca di Sassonia
che menarono altre schiere dalla Germania.
Sulle mura di Crema sventolavano le insegne lombarde,
difese da un pugno di cittadini con la patria in cuore:
all'intorno della cittadella erano schierati con Barbarossa
Pavesi, Cremonesi, e numerosi armenti di milizie feu-
dali, calate d'oltremonte. L'esercito degli assedianti era
scompartito e disposto colf ordine seguente : il fratello
dell' imperatore , duca Corrado, accampava colle sue le-
gioni alla Porta d' Ombriano ; il nipote , duca Federico ,
tra la Porta suddetta e quella di Pianengo; il sopraggiunlo
duca di Sassonia fra Porta Pianengo e quella di Serio , e
con lui erano i Pavesi; rimpelto alla Porla Ripalta stavano
i Cremonesi, e poco dopo vi spiegò le sue tende l'impera-
tore, cedendo la posizione, che prima teneva oltre il Serio,
a Guelfo duca di Baviera, che venne ultimo dalla Germania
ad ingrossare V esercito imperiale. Oltre queste poderose
— 83 —
schiere, formicolava sotto le mure di Crema copia di men-
dicanti, detti per derisione i lìi^li d'Arnaldo, i quali con
^;i>si molestavano gli assediati, finché i balestrieri crema-
seli fecero di loro sanguinoso macello. Crema era dunque
in ogni parte accerchiata e chiusa con fitte legioni dall'ini-
mico: impossibile ogni comunicazione con Milano e con
Brescia, vana la speranza di novelli soccorsi: stretti da
durissimo assedio, i Cremaschi non potevano confidare che
nel valore delle proprie braccia , nell' eroismo dei patriot-
tici sentimenti.
I Milanesi, che zelavano la difesa di Crema, avvisando
essere in questa l'interesse comune della libertà lombarda,
cercano divergere dall'assedio parte delle forze imperiali.
Al quale scopo assediano Mancrbio sul lago di Como , oc-
cupato dagli Alemanni , ma li costringe a ritirarsi il conte
Gosvino , che Federico mandò con un corpo di truppe in
soccorso di Manerbio.
Assediatiti ed assediati avevano abbondantemente prov-
\ eduli quanti istromenti di guerra occorrevano a quell'e-
poca per l'espugnazione e la difesa di una fortezza. I Cre-
maschi, di briccole ({ì, mangani ed altri bisognevoli uten-
sili di guerra erano forniti a dovizia, ed avevano acquar-
tierato parte delle loro milizie nella piazza, il maggior nu-
mero nelle case presso le mura , onde poterne più facil-
mente invigilare la difesa. Nel campo imperiale, per l'ap-
parecchio delle macchine d'assedio si distinsero i Cremo-
nesi. L'odio ferocissimo nutrito contro i Cremaschi sublimò
il loro ingegno: fabbricarono un castello di legno tanto alto
che soverchiava le mura di Crema, quasi volessero simbo-
leggiare in quello l'altezza del loro sdegno, della ven-
(t) Briccola, macchina militare antica da scagliar pietre e altro negli as-
sedj. Mangani, macchine ehe servivano al medesimo riso. Talvolta con questi
lanciavansi uomini e bestie. Rapporto alle briccole, rammenteremo un verso
del Malmautile : L'asino che fa in Siena briccolato,
detta cui anelavano. Lo descrive il Fino con le seguenti pa-
parole(1): « Era questo castello fatto in quadro colle ruote
» sotto , per poterlo condurre agevolmente ove fosse biso-
» gno. Due solai aveva, l'uno sopra l'altro. Il primo era di
» braccia trenta per ogni quadralo , allo poco più delle
» mura di Crema. Nel mezzo di questo v' era il secondo
» solaio, d'assai minor grandezza, in forma di lorricella
» che scopriva tutta la terra; in questo stavano gli arcieri
» che ferivano quelli che andavano per le contrade di Cre-
» ma. Neil1 altro poi si rinchiudevano quei che battevano
» le mura e gettavano i ponti per entrar nella terra. Fu
» F altezza di questo castello braccia settanta. » Tutti i
vecchi cronisti convengono che in niun assedio si era mai
prima d' allora veduta una macchina di tanta mole e di
forme così gigantesche. Ci voleva proprio 1' ubbriachezza
di un odio italiano e municipale per ispirarne ai Cremo-
nesi f ammirata invenzione !
Quantunque un esercito fortissimo assiepasse al di fuori
le mura, non s'astengono i Crcmaschi dal tentare con ar-
rischialo valore delle sortite. Un dì fra gli altri, escono sul-
l'albeggiare da Porta Ombriano, attaccano il fuoco nel man-
gano dell' imperatore , difendendosi virilmente contro gli
Alemanni. Ma in ajuto di questi sopraggiunte le schiere
del conte Ottone, del conte Roberto di Basvilla, e d'altri
duci, i Cremaschi , incalzati dall'impeto di tanti nemici,
sono costretti a ritirarsi, e lo fanno con disordine e preci-
pizio, sicché molti cadono nelle fosse e vi rimangono affo-
gali. Quattro dei nostri furono presi dall'inimico, il quale
fece orribile strazio delle loro carni. I Cremaschi, appena
rientrati nella fortezza, pio e doloroso ufficio praticarono.
Volendo dare onorevole sepoltura ai cadaveri degli anne-
gali , tolsero a pescarli con uncini di ferro , girando con
(1) Alemanio Fino. Storia di Crema.
.) —
barchette attorno alle fosse delle loro trincee. I ricuperati
cadaveri furono sepolti dalle madri e dalle sorelle, che ter-
gevansi di nascosto le lagrime, per non ammollire con lo
spettacolo delle loro angosce il coraggio dei combattenti.
Pochi giorni appresso ÌCremaschi escono la seconda volta
da Porta Ombri a uo, assaltano gl'imperiali, e uccidendone
buon numero, li costringono a ripiegare verso Porla Pia-
nengO. Quivi un Tedesco, di nome Furio, fermatosi sopra un
ponte, resiste ai Cremaschi con l'audacia dell'Orazio roma-
no; onde gli Alemanni che accampavano negli altri lati
ebbero agio di accorrere in soccorso dei compagni soccom-
benti. Allora i nostri, per non cimentarsi contro forze che
di troppo li soperchiavano, con bell'ordine si ritirarono.
« Per tal fatto fu quel ponte detto Ponte Furio, e fino al
» dì d'oggi dicesi quella contrada corrottamente PonfureU).»
Coronata di più felice successo fu la terza sortita che fe-
cero i Cremaschi nel mentre Barbarossa gioiva i conjugali
amplessi a S. Bassiano sul cremonese, ove l'imperatrice,
scostandosi dal campo, avea posto il suo soggiorno. ÌCrema-
schi, saputa l'assenza di Federico, assalirono l'inimico,
combattendo vigorosissimamente fino a notte innollrata.
D entrambe le parli moltissimi i morti ed i feriti; ma que-
sta volta ebbero la peggio gl'imperiali : ne perì un numero
ragguardevole e le acque correvano rosse del loro sangue.
Ritornato Federico agli accampamenti, informato della
rotta toccata, lui assente, alle sue truppe, ne indispettisce
fieramente, si strugge di riparare la vergogna de' suoi ves-
silli. Ad espugnar Crema, aveva fatto costruire due gatti (-)
(1) Fino. Storia di Crema.
(2) Gatto, « istromento bellico antico da percuotere le muraglie, che avea
» il capo in forma di gatto, come l'ariete. » Cosi l'Alberti. 1 gatti fatti co-
struire dal Barbarossa ci vengono descritti dal Fino in questo modo : « Era
• questa macchina assai lunga ed alta si che i soldati vi potevano star sotto
» in piedi agiatamente. Era il suo coperchio di travi poste in colmigna, nella
» foggia che soglionsi fare i tetti delle case. Aveva poi le ruote sullo , di
» nvjdo che con agevolezza si conduceva ove fosse bisogno. »
— So-
di maravigliosa grandezza; ma l'uso n'era di scarso profìtto,
non potendoli accostare quanto bisognava alle mura, per
l'ampie fosse ond' erano circondate. Barbarossa s'accorge
che per valersi delle sue macchine convien otturare almen
parte delle fosse, ardua impresa, essendo tutte alquanto
larghe e profonde. Recatosi a Lodi, chiede con modi gentili
in pubblica adunanza a quei cittadini che a lui fornissero
quante botti potevano. I Lodigiani, compreso lo scopo del-
l'inchiesta, riputandosi avventurosi di sovvenire ai bisogni
dell'imperatore, conducono sotto le mura di Crema meglio
di quanto aveva Federico domandalo; vi portarono oltre
duecento e più botti, due mila carra di fascine. Buttaronsi
in una delle fosse, per riempirla, e botti e fascine, e sopra
gran quantità di terra; così Federico, mercè lo zelante ser-
vigio dei Lodigiani, ottenne l'intento di rendere una parte
del terreno più acconcia al movimento delle sue macchine,
e di poterle innoltare fin sotto i baluardi nemici.
Ricolmata la fossa, ordina ben tosto alle sue squadre di
avvicinarsi coi gatti e col castello di legno alle mura di
Crema, per espugnarle. Gli assediali vedono le torri di Fe-
derico muoversi minacciose contro di loro; non isbigotti-
scono, anzi, ardire e forza raddoppiando, dan mano ai
bellici istrumenli, e con briccole e mangani tolgono a ber-
sagliare furiosamente di pietre e sassi il castello, che gi-
ganteggiando si avanzava, forte di numerosi combattenti.
Gl'imperiali, non s'aspettando grandine così impetuosa di
sassi e pietre, s'arrestano spaventati nel mezzo della spia-
nala fossa: Barbarossa vedendo le sue torri sostare fulmi-
nate dai colpi nemici, freme, infuria, imbeslia. Tenendo
presso di sé ostaggi e prigionieri molti giovani cremaschi e
milanesi, ne fa legare ignudi più di venti intorno al castello
di legno, presumendo che gli assediati smetterebbero dal
tempestarlo vedendovi appese persone caramente dilette.
L'inaudito e barbaro stratagemma pone i Cremaschi nella
- 87 —
l»iù dolorosa alternativa. 1 forti sentimenti di libertà lottano
nel onoro dodi assediati coi pietosi istinti di padre e di
fratello; salvando i parenti perdono la patria; uccidendoli, la
difendono. Terribile coni insto! nondimeno prevalse amore
di libertà; la torre di Federico, ricoperta di martiri lom-
bardi, accostossi alle imiru di Crema, e destre lombarde,
sfolgorandola a colpi di pietre, la costrinsero ad indietreg-
giare, maledetta per generosi fratricidii. La notizia di que-
gli infelici macellati dai loro fratelli levò in Italia un «rido
d'orrore e di commiserazione. I Tedeschi ne rimasero slu-
pefati, ed accusarono i Cremascbi di cannibali: giudicherà
reterna Giustizia se quel sangue sparso spietatamente ab-
bia lordato le mani degli uccisori, o piuttosto di chi espose
gli sventurati all'immane supplizio. L'alemanno Radevico
di Fiisinga narra come gli assediali rompessero in urli
disperali nel mentre a prò della patria consumavano l'or-
rendo sagrificio; narra come a compierlo li spingesse la
voce di un vecchio, il quale dalle mura di Crema rivolgen-
dosi ai miseri che pendavano legati intorno al castello, gridò:
Fortunati coloro che muojono per la patria e per la li-
bertà! Non temete la morte che può sola ormai rendervi
liberi. Se foste giunti all'età nostra non l'avreste voi di-
sprezzata come noi faciamo? Voi felici che morite prima
di temere, come noi altri , l'infamia delle nostre spose,
e non udite le grida dei vostri figli che implorano pietà!
Oh ci sia dato di seguirvi ben tosto, e non rimanga al-
cuno dei nostri vecchi seduto sopra le ceneri di Crema.
Possano chiudersi i nostri occhi, prima di vedere la santa
patria caduta nelle empie mani dei Cremonesi e dei Pa-
vesi i1). Generosi accenti, che basterebbero essi soli ad im-
mortalare la terra di chi li ha proferiti! La voce di quel
(I) Quesle parole il Sismondi nella Storia delle repubbli-che italiane tolse
alla cronaca del tedesco Radevico Frisiugeuse,
— 88 —
vecchio, sclama uno storico moderno, è tal voce che non
avrà altrove un eco, perchè essa sola ha riempito il
mondo (*).
Barbarossa fece arretrare la lorre, percbè, conquassata
dalle enormi pietre, temeva minasse e sdiacciasse i guer-
rieri eli' erano dentro. Furono slaccati i prigionieri, nove
dei quali (cinque cremaschi e quattro milanesi) furono tro-
vali morti, due feriti; dieci e più rimasero prodigiosamente
incolumi. Di molti le cronache ci conservarono i nomi, e
noi li diremo a chi piacesse notarli nel martirologio della
libertà italiana. Morii dei Milanesi furono: Codemaglio Pu-
slerla, Enrico Landriano, Pagnerio Lampugnano, ed ii figlio
di Busone di San Blalore: prole tulli di nobilissime fami-
glie; dei Cremaschi: Truco de Bonati, il prete Caluschi, Aimo
Gabbiano, e due altri dei quali non sono ricordati i nomi.
Feriti: Alberto Rosso di Crema e Giovanni Caraffa. Quelli che
dalla lorre furono levati incolumi erano: Negro Grasso, Squar-
zaparte Busnate, e Ugone Crusla, Milanesi; Arrigo Bianco,
Alberto Zuffo, Pozzo Berondo, ed alcuni altri Cremaschi.
Or narreremo a quali eccessi di furore spinse gli asse-
diati Tamara consapevolezza dei commessi fratricidi!. I Cre-
maschi pigliano alcuni prigionieri nemici , e coi mangani
lancianli vivi oltre le mura. Ne caddero due ai piedi di
Federico, ond'egli infuriato fa tosto impiccare in faccia al
nemico due prigionieri cremaschi. Gli assediati incrude-
lendo nelle rappresaglie, ne impiccano altrettanti degli im-
periali. Barbarossa allora, non permettendo che i Cremaschi
lo vincessero nella ferocia, comanda sieno innalzate tante
forche quanti erano i prigionieri che aveva in suo potere,
e tutti li condanna all'ultimo supplizio. I vescovi, i prelati
che stavano nel campo imperiale, tentano con pietose parole
addolcire l'animo di Federico affinchè rivocasse il disumano
(1) Tosti. Storia della lega Lombarda pubblicata nel Ì848.
— 89 —
comando. Ma Federico, che non voleva aver innalzate tutte
quelle forche invano, \i fece appiccare nove prigionieri. Né
9ono queste le sole barbarie che adombrano d1 infausta ri-
nomanza gli eroici fatti dell'assedio di Crema. Leggiamo nel
Fumagalli ' : « Gli assedianti si presero qualche volta il
» barbaro divertimento ili giuocare a palla colle teste recise
» dal busto de^li uccisi nemici; a tal segno erano inviperiti
» gl'imperiali contro i bravi Cremaschi , perchè tenevanli
» troppo lungamente, contro ogni aspettazione, occupali
a in quell'assedio. » E da Cosimo Bartoli l*) raccogliamo:
■ i Cremaschi squartavano quei soldati ch'essi avevano fatti
» prigioni degli imperiali, e li impiccavano a quarti in
» varj luoghi ai merli delle mura. » Di tali orribili rappre-
saglie v'hanno scrittori che imputano tutto l'obbrobrio ai
Cremaschi. scagionandone Barbarossa; ma ognun sa che una
invereconda adulazione ai polenti spinge non di rado gli
storici a sfarfallare, oltraggiando i deboli con giudizii as-
surdi od iniqui.
Federico, inaspritosi oltremodo pei falliti tentativi, medita
un nuovo assallo. Fa tappezzare le sue torri con panni di
Inna e cuoj bagnati onde ammortire i colpi delle pietre,
poi le sospinge la terza volta contro le mura di Crema.
Come vi si accostarono, gli imperiali che stavano nel gatto
al coperto dei colpi nemici si danno con travi appuntate
di ferro alle estremità a percuotere nella muraglia, con tanto
impeto che ne crollano più di venti braccia in lunghezza.
I Cremaschi riparano solleciti ai guasti del ruinato bastione,
fortificandolo con gran barricata di terra e di legna: indi per
un ampio cavo sotterraneo da lor operato, e che si estendeva
fin sotto i piedi del nemico, irrompono nel campo impe-
ri-ale coll'intenzione d'incendiarvi ì\ gatto. Escono allora dal
(i) Antichità lombarde.
(2) Storia di Federico Barbarossa.
— 90 —
gatto e dal castello di legne gl'imperiali ad azzuffarsi col-
l'inimico: pugnano con accanimento Alemanni e Cremaschi,
finché questi, avvertendo il pericolo che il nemico penetrasse
in Crema per la via del cavo medesimo ondassi erano usciti,
si ritirano nella fortezza e otturano il cavo immediatamente.
Gli assediati non deponevano tuttavia il pensiero di ap-
piccare il fuoco al gatto dell'imperatore, ma avendo speri-
mentato quanto pericoloso fosse arrischiare a tale scopo delle
sortile, nuovi mezzi praticarono. « Il di adunque dell' Epi-
» fania (1160), ascesi su una macchina di legno, posta nel
» luogo ove era slata ruinala la muraglia, acceso il fuoco
» coi mantici in molte botti che avevano apparecchiate
» piene di secche legne, di zolfo, di lardo, d'olio e di pece
» liquida, gettaronle sopra il gatto con un ponte di legno,
» il quale stendevasi oltre le mura meglio di dieci braccia:
»» onde si appiccò in modo il fuoco nel gatto ove trovavasi
» allora l'imperatore, che da terza fino a vespero ebbero che
» fare a spegnerlo (*).» Barbarossa corse allora pericolo di
rimaner abbruciato, ma il Cielo decretava che dovesse piut-
tosto morire annegato, bagnandosi in un ruscello dell'Asia.
Erano più di sei mesi che Federico travagliava nell'asse-
dio di Crema: le sue truppe lamentavano i rigori del verno
e gli stenti durati infruttuosamente. Pensale quanto si ro-
desse Federico d'aver sprecato tempo, sangue e stratagemmi
d'ogni genere nell'assedio di piccola terra ch'egli presume-
va gli si dovesse arrendere al primo affacciarvisi del suo
esercito. Questa volta i Cremaschi , come già i Tortonesi ,
ed in appresso gli abitanti d'Ancona e di Alessandria, in-
segnarono all'imperatore che i baluardi più difficili a supe-
rarsi sono i petti di cittadini risoluti a viver liberi o morire.
Conosciute le usate arti impotenti ad acquistargli vittoria,
Barbarossa va fantasticando nuove macchinazioni : deluso
(1) Fino. Storia di Crema.
— 01 —
dallo forze del suo esercito e dolio gite macchine, ricorre
por vincere al parlilo della corruzione. Sapendo essere
il danaro sul cuor de* malvagi onnipotente | cerca nelle
schiere nemiche un traditore: lo ritrova. Dirigeva la difesa
di Croma certo Marchesi o Marchisio, ingegnere peritissimo
quant' altro mai Bell'apparecchio dolio macchine di guerra.
Anima di Tango, l'oro di Federico la comperò, trascinan-
dola a farsi parricida del terreno natale. Di nottetempo
Marchisio calò dalle mura di Crema nel campo nemico:
le tenebre protessero queir infame diserzione , clic poi la
storia palesando all'universo doveva far passare all'obbrobrio
delle più tarde generazioni. Marchisio, presentatosi a Fe-
derico , ricevette dalle mani imperiali lauta somma di da-
naro , ed un bellissimo destriero , prezzo della patria ven-
duta. Il di lui tradimento punse i Cremaschi d'ira e di do-
lore acerbissimo: fulminarono contro Marchisio la pena ca-
pitale, promettendo cento lire di moneta vecchia a chi l'ucci-
desse, duecento a chi lo consegnasse vivo nelle loro mani.
L'ingegnere, per consumare il delitto in modo corrispon-
dente all' ineffabile sua nerezza , svelò a Barbarossa la
condizione ed i disegni dei Cremaschi, e come penuriassero
di viveri , e quanti generosi cittadini avesse già mietuto il
ferro tedesco. Indi udendo Federico deliberato a nuovo
assalto, costruì un castello di legno che per forma e gran-
dezza pareggiava quello dei Cremonesi. « Aveva un ponte
» lungo quaranta braccia e largo sei, fallo in maniera che
» quando si gettasse, s'avesse a distendere fuori del castello
» venti braccia , altrettante rimanendone sul castello per
» contrappeso i1) ». Marchisio consiglia Barbarossa a collo-
care sulle torri del castello i migliori soldati, affinchè do-
minando le mura costringessero gli assediati a lasciare la
difesa , nel mentre dal primo piano altri valorosi gettereb-
(i) Fino. Storia di Crema.
— 92 —
bero il ponte sulle mura. Federico plaudisce ali1 opera ed
ài suggerimenti del rinnegato, e fiducioso più che mai della
vittoria, dispone un assalto generale. Pone il duca Corrado
ed il conte Palatino con le loro schiere nel castello dei
Cremonesi, e in quel di Marchisio molti signori tedeschi e
lombardi con eletto drappello di prodi. Scompartito tutto
intorno alle mura di Crema il rimanente delle milizie, or-
dina a queste che appena udissero il segnale della battaglia,
scalassero i bastioni. Per rendere i soldati più animosi nel-
l'assalto , Barbarossa non trascurò di arringarli con parole
ampollosamente guerresche, inebbriandoli con l'idea del-
l' onor nazionale , con promesse di vendetta e di gloria.
Lesgonsi in Pietro Terni i bellicosi sentimenti dei quali
Federico invasò V animo delle sue truppe : solforica elo-
quenza di capitano ardimentoso , indignalissimo che una
piccola cittaduzza da sette mesi arrestasse il corso ai voli
trionfali dell'aquila imperiale. I Cremaschi dalle mura scor-
gevano il formidabile apparecchio dell'inimico che all'este-
nuata patria l'ora estrema minacciava. Ben avevano questa
volta motivo d'impallidire per lo spavento, ma gl'incorag-
giava carità del luogo nativo, e a disperata difesa si pre-
pararono.
Suono strepitoso di bellici istromenti accenna nel campo
di Federico il segnale dell' assalto. La torre dei Cremonesi
e quella di Marchisio si spingono sotto le mura di Crema :
le schiere alemanne che i bastioni circuivano , appoggiate
le scale, s'accingono a superare le trincee nemiche. I Cre-
maschi accorrono tutti alle mura , palladio delia loro li-
bertà , risoluti di lasciarvi la vita prima che la spada. Dal
castello dei Cremonesi il duca Corrado getta il ponte , lo
passa, s'innoltra sui bastioni, animando i suoi soldati a se-
guirlo , ad entrare nella cittadella. Uno di loro, l'alfiere
Bertoldo d'Arar, con audacissimo salto, dalle mura slan-
ciasi in Crema: nella destra aveva il vessillo imperiale, in
— 93 —
cuore la Gducia che i commilitoni imitando il suo esempio
eli verrebbero dietro. Ma il coraggioso Tedesco rimane solo
in mezzo a stuolo d'inviperiti nemici che gli si addensano
intorno: si difende con disperato valore, poi cade morto
per mille ferite. In soldato Cremasco straccia la pelle dal
capo al cadavere di Bertoldo e ne fa barbaro ornamento
del proprio elmo: altri s'impadroniscono dello stendardo
impeciale, e imbaldanziti come di vittoria , lo portano in
segno di lesta intorno alle mura dell'assalita cittadella,
ove eombaltevasi con islraordinaria gagliardia, con indici-
bile accanimento. Sembrava battaglia dì giganti, non d'uo-
mini. Ottone, conte palatino di Baviera, distinguevasi con
prove stupende di coraggio: respinto più volle dai Cre-
masebi , si ostina tuttavia a voler salire le mura con le
scale. L'esito della battaglia pendeva ancora incerto; quando
i Cremascbi coi mangani lanciando grossissime pietre , e
percuotendo instancabilmente il castello dei Cremonesi, rie-
scono a spezzarne il ponte da un lato: caso agli assediali
favorevolissimo. Per la rottura del ponte il duca Corrado
e quanti gli furono seguaci sulle mura, si veggono separati
dal castello onderano usciti, pericoloso il rientrarvi, dif-
ficile ebe dal castello medesimo altri accorressero per soc-
correrli. 11 coraggio vien meno agli Alemanni, si raddoppia
nei Cremascbi che investono il duca furiosamente, lo feri-
scono e ne costringono i compagni alla ritirata. Molli ripa-
rano nel castello di Marchisio, ove, quantunque si fosse get-
talo il ponte, si combalte men vigorosamente: altri, incalzati
dalle spade cremasche, per poterne più lestamente scampare
sallano dalle mura nelle fosse. Federico quando seppe ferito
il fratello Corrado, e vide i suoi soldati fuggendo preci-
pitarsi nelle acque, ed il vessillo imperiale sventolare sui
bastioni in pugno ai Cremascbi, diffidò della vittoria, ordinò
all'esercito di cessare 1* assalto e raccogliersi nelle torri.
— 94 —
Tale fu T esito (0 di un assalto in cui Federico aveva
impiegato tutte le forze del suo esercito, l'oro della corru-
zione, l'ingegno e l'arte di un traditore. Ma questa volta i
Cremaschi pagarono la difesa delle mura con gravissima
effusione di sangue, e la battaglia, comunque non sortisse
l' effetto che Barbarossa si riprometteva , arrecò agli asse-
diati lutti e danni irreparabili. I Cremaschi rimasero incon-
solabili e scoraggiati numerando i prodi che avevano per-
duti in quest'ultimo combattimento. Aggiungi che gl'impe-
riali rintanali nelle loro torri non desistevano pur anco dal
molestare gli assediati colle frecce, e da esperti balestrieri,
quanti Cremaschi scorgevano altrettanti ne colpivano.
Siccome il più delle volle avviene in simili strettezze ,
discrepavano le opinioni e i sentimenti degli assediali. I
più ardimentosi preferivano morire colla spada in pugno
piuttosto che arrendersi e abbandonare la patria a discre-
zione di Federico. Altri riputavano sconsiderata temerità
persistere nella difesa, ritenevano imminente il trionfo del
nemico, e nella immaginazione dipingendosi gli orribili di-
sastri che menerebbe in Crema qualora v'entrasse nell'im-
peto della vittoria, consigliavano a cercar mezzi efficaci di
placare l' imperatore. Ai primi il coraggio adombrava i pe-
ricoli, ai secondi i pericoli eran forse pretesto per masche-
rare la debolezza dell' animo loro. Né è a tacersi che gli
assediali, per quanto riferisce il Terni, difettavano di vet-
tovaglie, e che alcuni, resi vili dalla paura, disertarono al
campo nemico. Nondimeno ciò che dall' arrendersi faceva
ripugnanti anche i meno arditi, era la feroce inimicizia dei
(i) Nel descrivere quest'ultimo assalto ci siamo scostali un poco dal Sis-
mondi che in questo punto copiò il Fiisinga , troppo parziale a Barbarossa.
Noi invece seguimmo il Morena, lodigiano e favorito dell'imperator Barbaros-
sa, due argomenti da togliere il sospetto ch'egli abbia scritto con parsi alita
ai Cremaschi. Vedi la storia del Morena nel Muratori, Rerum Ualicarum,
volume VI.
— 90 —
Cremonesi , giacché lotti prevedevano clic se Crema ca-
desse in balia di Tede i'i co, i Cremonesi vi arrecherebbero
i guasti e le offese maggiori, ('osa dolorosissima dover dire
che l'Italiano a que'tempi paventava la vendetta dei fratelli
più che l'ira dello straniero, per quanto grande essa fosse.
Non ignoravasi nel campo imperiale la miserevole con-
dizione cui erano ridotti gli assediali, e l'esercito di Fede-
rico avrebbe avuto motivo di consolarsene, se i travagli pa-
liti in sette mesi di guerra faticosissima non lo avessero
tanto spossalo da augurarsi, più ebe la vittoria, il riposo.
Erano nell'accampamento imperiale il duca di Sassonia, e
Pellegrino patriarca dJ Àquileja , gravissimi personaggi , i
quali con pesato consiglio misurarono la condizione degli
assedianli e degli assediali : considerando che por fine alle
ostilità conveniva oramai sì agli uni , sì agli altri , colsero
I1 occasione matura per annodare trattative di accomoda-
mento. Chieggono agli assediati un colloquio e l'ottengono.
I Cremaschi mandano ad abboccarsi col duca e col patriarca
due de' più ragguardevoli concittadini, Giovanni de Medici
ed Alboino de Bonati. Il patriarca d'Aquileja, ch'era facondo
e gentil parlatore, prende a favellare agli ambasciatori cre-
maschi con amorevoli parole: loro rivela l'animo di Fede-
rico, inflessibile nel volere ad ogni costo la resa di Crema,
e quali durezze le sovrastavano se venisse pigliata per forza
d'armi. Indi consiglia i Cremaschi ad arrendersi, questo
persuadendo siccome unico mezzo di salvare la vita alle
consorti e ai figli, mitigare lo sdegno di Barbarossa, meri-
tarsi dalla sua clemenza men gravose condizioni. Commossi
gli ambasciatori alle parole del patriarca , reprimendo a
stento il dolore che celavano in petto , risposero : « Non
» aver Crema prese le armi contro Federico, ma bensì con-
» irò i Cremonesi , risoluta di non servire che a Dio e al-
» l'imperatore (*); che credeva d'aver fatto conoscere come
(1) Se a taluno sembrassero disdicevoli all' alterezza dei nostri padri le
parole : non vogliamo servire che a Dio e all'imperatore, gli rammenteremo
— 96 —
» preferiva la morie ad un'ingiusta schiavitù; che l'alleanza
» dei Cremaschi coi Milanesi non aveva avuto altro scopo
» che quello di liberarsi dalla servitù; che avevano mante-
» mito la libertà finché Dio lo permise, ma che ora erano
» sforzati a riguardare come segno dell'ira celeste la di-
» sperala situazione in cui si trovavano. »
Il patriarca e il duca di Sassonia rilevando dalle parole
degli ambasciatori essere gli animi dei Cremaschi alla pace
inchinevoli, ne informano V imperatore. Il Medici ed il Bo-
llati, rientrati in Crema, riportano ai concittadini il collo-
quio tenuto col patriarca; radunano il popolo a consiglio,
e chiedono che sui destini della patria deliberasse. All'adu-
nanza popolare, modellata a stile repubblicano, convengono
cittadini d'ogni classe, non che Milanesi e Bresciani siccome
alleati. I Cremaschi in quel congresso esaminano seriamente
tutti i mali ed i pericoli ond' erano incalzali: scoprono nel
seno della patria ferite profonde, insanabili: vano il conli-
nuarle soccorso cogli indomiti petti : necessità inesorabile
l'arrendersi, invocando da Federico pace e clemenza. Come
accade sovente che nei maggiori disastri baleni al cuore
umano un raggio confortatore di speranza , i Cremaschi
confidavano che coli' arrendersi e chiedere dimessi il per-
dono, avrebbero piegato l'imperatore a concedere soppor-
tabili condizioni. Consuete, funeste illusioni dei deboli!
Vengono di nuovo incaricati il Medici e il Bonati perchè si
rechino a stipulare i patti della resa con Barbarossa. Gli
ambasciatori, giunti al cospetto di Federico, gli si inginoc-
clie a que' tempi, come scrive Emiliani Giudici, «l'idea dell'impero perso-
li nificata nei Cesari, era venerata dai popoli con un culto continuato e tia-
» dizionale, che le vicissitudini di tanti secoli non avevano potuto estinguere. «
A noi le parole dei due ambasciatori cremaschi sembrano dignitosissime , e
ci piace d'averle tolte da uno scrittore alemanno, il quale scriveva delle im-
prese di Federico per commissione del medesimo. Vedi , Radevico di Fkisinga,
Rerum italicatum, volume VI.
— 97 —
chimo innanzi pregando pace e clemenza, e nel dichiarare
la resa di Crema , implorano che non sia data la patria
loro in balia dei Cremonesi. Esultò Federico vedendosi ai
piedi supplicanti, nemici che resistei loro alle sue forze con
indomabile ferocia: loro acconsenlc la pace sotto le seguenti
condizioni accettale dagli ambasciatori : che i Cremasela
sgombrassero dalla città con le mogli e coi figliuoli, portan-
dosi iu collo in una sola volta quelle masserizie che potes-
sero ; che le milizie sussidiarie di Milano e di Brescia
uscissero da Crema senz' armi e senza salmerie : che a
tulli senza riserva fosse libero di recarsi ove più loro
piacesse.
Chi potrà dire la desolazione dei Cremasela quando sep-
pero dagli ambasciatori le condizioni imposte da Federico
alla pace? Rimaner orfani della terra natale, abbandonarla
alle vendette del nemico, e ramingar dispersi, mendicando
un tetto da ricoverare, era sventura incomparabile a citta-
dini che persette mesi avevano con magnanimi sforzi difeso
il vessillo della libertà. Levasi un lamento universale : cia-
scuno sente l'animo trafitto, nell'istante di doversi acco-
miatare dalle proprie abitazioni. Imprecano alla durissima
necessità i giovani animosi, ai quali non basta il cuore di
separarsi dalle mura consagrate col loro sangue, e dalla
memoria dei consumati sagrifici.
Ai 27 di gennajo (1160), due giorni dopo la seguita ca-
pitolazione, gì' imperiali s'impadroniscono delle porte di
Crema. Barbarossa prefigge agli abitanti il termine di
un'ora, e la Porta Pianengo per isgombrare dalla cittadella.
Spettacolo lagrimevole ! 1 cittadini col volto pallido di se-
vera mestizia, colla disperazione nel cuore, fuggono dalle
loro case, affannandosi di seco trasportare quanto possede-
vano di più prezioso. Vedevi il dorso dei fuggenti incur-
varsi sotto pesi esorbitanti : trattavasi nel breve spazio di
un'ora, e coli' unico soccorso dei propri omeri, di scemare
7
— 98 —
al nemico il pasto della vendetta. In quell'orribile istante,
i sentimenti di umanità favellano anch'essi imperiosamente
al cuore degli infelici: donne trafelate, ansanti, si strasci-
nano a stento portando sulle braccia i teneri fanciullelti
che atterrili si avvinghiano al collo materno : infermi ,
vecchi cadenti si aggrappano alle spalle dei giovani più
vigorosi , che agli averi preferiscono di salvare le persone
dei padri e dei fratelli: scorrono grosse lagrime dagli occhi
di tutti , mestissimo addio alla patria agonizzante. Le vie
di Crema riboccano di fuggenti che traggono in massa a
Porta Pianengo. Mano mano che alla designata porta si
avvicinano, i drappelli dei cittadini ingrossano, s'accalcano,
urtansi a vicenda. Fosse impazienza d' uscire , o piuttosto
troppo grave la soma ond'eran carichi gli omeri degli in-
felici, avvenne che molti sboccando dalla Porla Pianenso
stramazzarono sul ponte. Stava spettatore di quella scena
compassionevole Federico, e le cronache narrano che im-
pietosito sollevasse i caduti colle sue mani. Barbarossa ,
comunque d'animo efferato verso coloro che gli osavano
resistenza , non era sfornilo di certe doli cavalleresche ,
retaggio comune dei valorosi. Forse in quel momento com-
prese in quale abisso di miserie avesse gettato un popolo ar-
dito, castigandolo troppo severamente della difesa libertà,
e le sue mani si piegarono a un segno eli clemenza, reso
meritamente a nemici che aveva piuttosto domali che viòli.
Vuoisi che circa venti mila persone uscissero da Crema
in quel funestissimo giorno (*). I patrizi, i facoltosi cittadini
riliraronsi nelle ville ove possedevano terre e castelli; la
misera plebe , destinata nelle calamità a sopportare dei mali
(1) Non è perciò a credersi che allora sommasse a venti mila il numero
<lella popolazione di Crema. Tuttavia, considerato che durante l'assedio vi
orano in Crema dei Milanesi e dei Bresciani , e che gli abitanti del contado
«;ostumavano riparare entro le fortezze, non è strano che nell'assediata citta-
della si trovassero circa venti mila persone, come asseriscono Radevico di Fri-
singa, Pietro Terni ed Alemanio Fino.
- 99 —
la soma piò grave, non sapeva ove riparare; le tenebre so-
vrastavano, e la consigliarono o trattenérsi nei dintorni di
Crema. Moltissimi, por difendersi dai rigori della notte in-
vernale, presero asilo nella vicina chiesa di S. Pietro.
Spopolata la cittadella, Federico sbriglia il suo esercito
che impetuosamente corre al saccheggio. Cremonesi e Lo-
digiani sono i primi ad irrompere in Crema, si spandono nei
principali quartieri, invadono le ease, mettono o ruba ogni
cosa. Crema era troppo angusta per satollare la rabbiosa
cupidigia di un'oste numerosissima; le falangi clic prime vi
irruppero, avendo in un baleno innondale tulle le abitazioni,
le ultime capitarono troppo lardi per potervi con profitto
esercitare gli artigli. Quindi nella soldatesca insorgono que-
rele, gelosie, tumulti. Gli ultimi venuti riclamano con be-
stemmie la loro parte del bollino, e molli di loro trovan-
dosi a mani vuote, indispettiscono così bestialmente che per
vendetta appiccano il fuoco alle case, godendosi del pericolo
cui esponevano i commilitoni che dentro vi depredavano.
L'incendio si dilata rapidamente, globi di fuoco si innalzano
dal tetto degli edifici, uno spaventoso chiarore rompe d'im-
proviso l'oscurità della notte.
Come potremo descrivere la disperazione del popolo cre-
masco, che dalla vicina chiesa di S. Pietro vede la patria
incendiarsi? Quelle fiamme gigantesche, orribili, divoravano
l'ostello de' suoi padri, asilo delle domestiche affezioni,
santo per la memoria di lunghi affanni sopportati serena-
mente, di tante dolcezze fruite in seno della libertà, vi-
vendo l'operosa vita del cittadino. Udiva gli urli del feroce
nemico gavazzante tra il fuoco e le rovine, nel tripudio della
vendetta e del saccheggio. L' animo non regge agli infelici,
condannati ad essere spettatori inermi del supplizio orrendo
della patria; nelle volle della chiesa di S. Pietro risuonano
gridi acutissimi, gemiti prolungali, voci disperate. I miseri,
soprafalli da dolore insopportabile, si percuotono i petti, e
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battono da forsennati le mani con tanto strepilo, che la
chiesa in ricordo di quella notte sciaguralissima fu detta
S. Pietro in Baltiditis (').
Le fiamme in quella notte avevano consunta gran parte
della cittadella; nel giorno che seguì, gl'imperiali rovina-
rono il resto. E perchè lo spettacolo della distruzione non
rimanesse incompiuto, vengono atterrate le mura, le fosse
ricolmate. I Cremonesi, non ancora soddisfatti, sfogano la
loro vendetta sulle chiese; il furore alemanno le aveva ri-
sparmiate, essi con vandalica empietà le adeguarono al
suolo. Barbarossa donò tulle le armature dei Cremaschi ai
suoi Lodigiani, onorevole compenso delle boti che a lui,
durante l'assedio, somministrarono. Le truppe di Federico
nel distruggere Crema e i suoi fortissimi bastioni spesero cin-
que giorni, e prima di partire abbiuciarono tutte le macchine
d'assedio che all'imperatore erano costate più di due mila
marche d'argento. Nel giorno di S. Biagio, 3 di febbrajo 1160,
Barbarossa marciò trionfalmente coli' esercito alla volta di
Lodi : di Crema non riwanevano che le ceneri _, e la me-
moria di una virtù che sola basterebbe a glorificare tutta
una gente C2).
Con lettera che le. cronache ci conservarono (3) , Federico
annunciò a diversi principi la presa di Crema, rallegran-
dosene come di una gran vittoria, e vantandosi di essersi
mostrato temperante e modesto nel trionfo, perchè nella
capitolazione avea concessa ai miseri Cremaschi la vita.
Ringraziamo Barbarossa che con questa lettera confessò
ed insegnò al mondo in cosa consisteva la clemenza dei
principi.
L'assedio di Crema è uno splendido episodio nell'epopea
della storia italiana dei secoli di mezzo. L'Italiano che vi-
(1) Aleniamo Fino e il Terni nella storia di Crema.
ri) Tosti. Storia della lega lombarda.
[$) Vedi la lettera dell' impera tur Barbarossa nei Documenti.
— 101 —
sitasse palmo a palmo la su;i torni por venerarvi con sante
pellegrinaggio i monumenti dolio avite glorie, cercherà nei
piani lombardi le tracco dolio antiche mina di Crema per
inchinarvisi devoto, corno il Greco alle Termopili. Pio gli
stranieri pagarono largo tributo d* ammirazione ai Croma-
seli'!, glorificando nelle loro storie la magnanima resistenza
che i padri nostri opposero a Barbarossa Udite come in
poche parole compendiò i fatti dell1 assedio di Crema un
illustre scrittore tedesco l : « Per ben selle mesi in quel*
» l'assedio si vide un tale avvicendarsi di zuffe, di stragi, di
» rapine e di saccheggi; un tale ardore di crudeltà e della
» più barbara ferocia; così eroiche prodezze, e così prodi-
» giosi sforzi nell'esercito imperiale, a petto alla più ferma
• resistenza e al più indomalo animo negli assediali; una
» così smisurata rabbia da tutte due le parli; una così esem-
» piare sofferenza di tutte le miserie e di tutte le privazioni
» negli assedianti a petto delle più compassionevoli amba-
» sce, delle infermità e della fame negli assediati, che dav-
» vero non si vide in nessun assedio del medio evo. »
V'hanno di quelli che misurano i generosi impulsi di una
popolazione colle dottrine del tornaconto, e che dall'esito
giudicano gli avvenimenti. Costoro accuseranno il popolo
cremasco d'insana temerità per aver resistilo con forze dis-
uguali ad un esercito poderosissimo, esponendo la patria
ad inevitabile rovina. Ben diversamente la storia italiana
giudicò l'arditezza dei Cremaschi: « Crema, » scrisse Bal-
bo (*) , « generosa cittaduzza, sagrificando sé stessa avea
» consunte le forze, e ciò ch'era più allora, il tempo del-
» l'imperatore. » Infatti subito dopo l'assedio Federico fu
costretto licenziare l'esercito perchè i baroni germani, rifiniti
dagli stenti durali in sette mesi, riclamavano il riposo dei
(1) Voigt. La lega lombarda.
[2) Compendio della storia d'Italia.
— 102 —
nativi casleìli. Barbarossa rimase quindi in Italia debol-
mente sussidiato da scarse falangi, composte la maggior
parte degli Italiani cbe la sua causa favoreggiavano. For-
zato a far guerra guerriala, fu dai Milanesi battuto in varie
fazioni, né riuscì a schiacciare Milano che nel 1162 dopo
aver allestito in Germania altro floridissimo esercito. L'o-
stinata resistenza dei Cremaschi ottenne dunque l'effetto
di ritardare due anni la caduta di Milano, e con essa la ser-
vitù di tutta Lombardia al Tedesco. Né tanto ci scosteremmo
dal vero asserendo, che i selle mesi dell'assedio di Crema
risparmiarono ai Lombardi due anni di ceppi durissimi.
Noteremo finalmente che forse Crema non sarebbe caduta
se la morte non avesse rapito Adriano IV. Questo pontefice,
come vide Barbarossa che per aver in pugno l'Italia ado-
peravasi nel distruggere la libertà dei Comuni, paventò per
l'indipendenza della Chiesa, e formò segretamente una lega
coi Milanesi, Bresciani, Cremaschi e Piacentini (*), mentre
appunto Barbarossa attendava sotto Crema. 11 pontefice pro-
metteva a queste città, che dopo quaranta giorni avrebbe
scagliato contro T imperatore i fulmini del Vaticano, volendo
rovinarlo con la politica e colle armi de1 suoi predecessori.
Della lega, comunque ordita segretamente, si sparse voce
nell'esercito imperiale accampato sotto Crema, e già molti
dei Cremonesi là) per isfuggir l'ira pontificia disponevansi
ad abbandonare gli accampamenti. Ma la morte, cogliendo
Adriano nel settembre 1159, spense nella sua destra la
folgore ch'egli avea apparecchiata onde abbattere la superba
cervice di Federico.
il) Sir Raul.
(2) Tristano Calchi. Lib. IX.
103 —
DOCUMENTI
Documento A.
Lettera con cui Federico Barba rossa significò a varj principi la
presa di Crema.
« Federìcua Dei grafia Romanorum impcrator et semper Augustus.
n Scirc credimus prudentiam vestram, quod tantum divinai gratia? do-
- num, ad laudem et gloriam nominis Christi, honori nostro tam evi-
- dentei- collatura, occultari vel abscondi tamquam res privata non po-
- Test. Quod ideo dilectioni vestree, ac desiderio significamus , ut sicut
* charissimos et fldeles vos participes honoris et gaudiorum habeamus.
« Proxiraa siquidem die post conversionem S. Pauli, pienam victoriam
» de Crema nobisDeus eontulit. Sicque gloriose ex ipsa triumphavimus,
n quod tamen misera? genti, qua? in ea fuit, vitam concessimus. Leges
n enim tam divina?, quam humanae summam semper clementiam in Prin-
» cipe esse debere testantur. »
(Questa lettera venne pubblicata dal Fino nella settima delle sue
Sericine.)
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CAPITOLO QUARTO
VICENDE DEI CREMASCIU DALLA DISTRUZIONE DI CREMA
FINO ALLO SCORCIO DEL SECOLO XII.
SOMMARIO.
Cremaschi osteggiano ancora Federico Barbarossa presso l'Adda. — Ove ri-
fugiassero i nobili ed il popolo di Crema dopo l'eccidio della patria. —
Federico Barbarossa concede ai Cremonesi la giurisdizione del Cremasco.—
Scisma nella Chiesa Cattolica. — Il cardinal Guido da Crema, eletto an-
tipapa, assume il nome di Pasquale III. — Per quali molivi l'imperatore
fomentasse lo scisma della Chiesa. — Vicende e morte dell'antipapa Guido
da Crema. — Orribile condizione delle terre lombarde, dopo che Barba-
rossa, distrutta Milano, le ridusse in servitù. — Lega lombarda. — Se i
Cremaschi abbiano partecipato alla lega, e perchè non figurino nella sto-
ria fra i collegati. — Tenacissimo odio dei Cremonesi verso i Cremaschi. —
Vittoria degli alleati lombardi a Legnano. — Suoi effetti. — Quando Cre-
ma sia risorta dalle rovine ed adii debba il suo risorgimento.— Federico
Barbarossa recasi a Crema ove disegna di propria mano il circuito delle
mura che si dovevano rifabbricare, e concede ai Cremaschi dei privilegi
che ne assicurano la libertà. — I Cremonesi indignatissimi per la rico-
struzione di Crema : loro sconfitta. — L' isola Fulcheria dichiarata una
regalia dell' impero. — Enrico VI successo a Barbarossa cede ai Cremo-
nesi la signoria di Crema e dell'isola Fulcheria. — Sorgono fra le città
di Lombardia due leghe: l' una dei Cremonesi, l'altra dei Milanesi: la
seconda si fa patrocinatrice dei Cremaschi e della loro libertà. — 1 Cre-
monesi vengono sconfitti ripetutamente. — Enrico VI dopo aver confer-
mata ai Cremonesi in modo solenne la feudale investitura del territorio
cremasco, incarica Giovanni de Lilla perchè ne gli metta in possesso. —
Giovanni de Lilla pone al bando dell'impero i Milanesi , i Bresciani ed i
Cremaschi. — I Milanesi nel congresso di Bormida cercano di far rivivere
la lega lombarda : a quel congresso intervengono anche i Cremaschi. —
Enrico VI soggiornando a Milano pacifica i Milanesi coi Cremonesi : la li-
bertà dei Cremaschi non vien più molestata. — Novità operatesi nella ri-
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costruzione di Crema. — Suddivisione della cittadella in ventisette Vici-
nanze. — Costituzione della repubblichetta cremasca. — Assemblea popo-
lare, consoli, podestà, consoli minori, cancelliere. — I conti di Camisano
ed altri conti. — Famiglie cremasche di possidenti cbe formavano la no-
biltà minore. — Leggi. — Disuguaglianze sociali. — • Prezzo vilissimo cui
si vendevano i terreni nel distretto cremasco.
Barbarossa spianando le torri ed i bastioni di Crema,
non ne aveva ancor prostrato l'animo fortissimo degli abi-
tanti. Pochi mesi dopo l'eccidio della loro cittadella, i Cre-
masclii accorrono colle armi in soccorso dei Milanesi che
osteggiavano Federico ed ai quali premeva rifare a Ponti-
rolo il ponte sull'Acida , distrutto dagli imperiali. Coll'effi-
cace sussidio dei nostri, i Milanesi rifecero quel ponte:
ne assunse la custodia certo conte Enrico da Crema , il
quale recatosi con legioni cremasche e milanesi a Dovera
sul lodigiano, la saccheggiò!1).
Nell'aprile dell'anno medesimo (1160), narra Muratori,
« i Milanesi mandarono cento cavalieri a Crema, la quale
» cominciò eli nuovo a rialzare la testa e ad essere ria-
» bitala l2). Le parole « cominciò a rialzare la testa » usate
dal Muratori, vanno intese in senso alquanto ristretto, al-
trimenti discorderebbero coi fatti. Dopo la distruzione di
Crema , i più facoltosi de' suoi cittadini ricoverarono nel
contado , chiudendosi nei loro castelli : la plebe , non sa-
pendo ove rifugiarsi , ritornò fra le deserte ruine della
patria e vi compose alla meglio delle capannucce e dei
lugurii per abitarvi. Crema non risorse , non rialzò la
testa che nel 1185, venticinque anni dopo la sua rovina.
(1) Giulini. Storia di Milano.
(2) Annali a" Italia. «L'anno 1160 un orribile incendio devastò molli
» quartieri della città di Milano , e parecchi del popolo milanese, perdute le
» case loro, si rifugiarono a Crema, ove fra le rovine si composero la loro
» abitazione. » Ciò raccogliamo dalla Storia della lega lombarda raccontata
da Luigi Tosti.
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Federico Barba rossa , schiacciata (ironia , accontentò i
Cremonesi concedendo loro la giurisdizione della (erra no-
stra. Fino racconta: *I Cremonesi, desiderosi di averci
■ sodo il loro dominio, comperarono da Federico la giuri-
» sdizione di Crema per sedici mila lire , dandogliene alla
» mano dieci mila, ed il rimanente poi alla Pasqua. i{) »
Ciò narrano anche il Giolini e il Campi , ma con diverse
circostanze. Giulini scrisse : « A li i lo del mese di giugno
» delPanno 1162 i Cremonesi ottennero altresì dall'impc-
» nitore irli avanzi della distrutta Crema , ma egli volle
» ritenere per sé tutto il territorio di essa che era buono
» e fruttifero (*) .» Ed il Campi : « Federico favorì i Cre-
» monesi di un bellissimo privilegio , facendo loro libero
» dono, e sottoponendo loro del tutto Crema col suo terri-
» torio , e promettendo di non lasciarla mai riedificare
» senza il loro consenso. I3) » Da queste differenti asser-
zioni di tre autorevoli scrittori non possiamo inferire con
certezza , se i Cremonesi ottenessero da Federico la si-
gnoria di tutto il territorio cremasco , 0 soltanto del suolo
ove prima sorgeva la città nostra; non possiamo parimenti
accertare se Barbarossa tal privilegio cedesse ai Cremonesi
gratuitamente, oppure se abbia lucrato sugli avanzi dell'in-
felice cittadella e sulle sorti del suo popolo, mercanteggian-
dolo come si farebbe di un armento macellabile. Comunque
sia camminato quel negozio, Federico rese ancor più amara
la condizione dei poveri Cremaschi , i quali all'infortunio
d'aver perduta la patria, un altro aggiunsero non men
grave , 1' esser condannati al vassallaggio dell' abbonata
Cremona.
À quest'epoca (1162) l'unità della chiesa cattolica, mi-
tri Storia di Crema.
(2) Storia di Milano.
(3) Storia di Cremona.
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nacciata dallo scisma , pericolava. Tre antipapi lottarono
l'uno dopo l'altro con Alessandro III, uno dei quali, Guido
da Crema cardinale di S. Calisto, che poi si arrogò il nome
di Pasquale III. Morto Adriano IV (1 settembre 1159), i
cardinali convennero nella chiesa di S. Pietro per eleggere
un nuovo papa , ed a maggioranza di suffragi gridarono
pontefice Rolando, cancelliere di S. Chiesa, che poi si no-
minò Alessandro III. Se non che due cardinali , Guido da
Crema e Giovanni di S. Martino, discrepando dagli altri,
proclamarono successore di Adriano il cardinale Ottaviano
di S. Cecilia. Quest'Ottaviano spasimava di salire al soglio
pontificio , e lo assecondavano nelle ambiziose sue mire
tre ministri imperiali , come quelli che sapevano quanto
Ottaviano dasse nel genio a Barbarossa. Ottaviano uden-
dosi gridar pontefice da due cardinali, strappò con singo-
lare impudenza il manto pontificio dalle spalle a Rolando,
ed indossandolo furiosamente , proclamò esser egli il vero
papa. I ministri imperiali tolsero a proleggerlo, sostenendo
doversi a lui la tiara e non a Rolando , sicché in Roma
pullularono due fazioni, l'una delle quali, benché più de-
bole, parteggiava per Ottaviano. Rolando, o direni meglio
Alessandro III, dolendosi amaramente dello scandalo avve-
nuto nella sua elezione, e sapendo che il provocatore, co-
munque lontano, n'era stato Federico, cercò di ammonirlo
con modi urbani, acciocché riparasse l'onta ond'era offesa
la Chiesa di Cristo. Inviò a Crema due legali con lettere a
Barbarossa, il quale trovavasi in que' giorni occupato nel-
l'assedio della nostra cittadella. « Federico, caldo com'era
» di sangue italiano sparso bestialmente , non solo non
» volle degnarsi di leggere le papali epistole , ma stando
» già sull'appendere uomini alle forche, voleva appendervi
» anche i due legati. Se non che frappostisi il duca guelfo e
» quel di Sassonia, stornatolo dallo scellerato consiglio, con
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» aspro e superbo parole ribatto indietro i messaggi (0, a
Appena domata Crema . Barbarossa adunò in Pavia un
coacilìabolo di prelati suoi aderenti, e da questi fece rico-
noscere quid vero pontefice il cardinale Ottaviano, che s'in-
titolò Vittore III. Nell'anno 1164, Vittore finiva i suoi
giorni a Lucca, sorpreso da angosciosa morie clic i fautori
di Alessandro III attribuirono a punizione del ciclo.
In secondo conciliabolo di prelati avversi a papa Ales-
sandro III surrogò al morto antipapa Guido da Crema,
cardinale di S. Calisto, clic addì 26 aprile del 1164, senza
tanto scrupoleggiare nell'osservanza degli antichi riti, rice-
vette la consacrazione dal vescovo di Liegi , ed adottò il
nome eli Pasquale III. Annunciata a Federico reiezione del
novello antipapa, ne fu lieto, e colFintento di fomentare lo
scisma, riconobbe Guido da Crema qual vero pontefice.
Per quale motivo V imperator Barbarossa incaloravasi
tanto a mantener nella Chiesa cattolica lo scisma? Non è
difficile indovinarlo. Federico era calato dalle Alpi per li-
bidine d'impero, per calpestare la libertà che fioriva rigo-
gliosamente nei Comuni lombardi , per ridurre gì' Italiani
poco men che schiavi del soglio imperiale. Previde che lo
avrebbero ajutalo nelFimpresa gli odj municipali delle città
lombarde, la divozione verso l'impero di alcuni signorotti
italiani, ma paventava la politica della Corte romana, con-
sapevole quanto avesse per lunghi anni avversalo le ambi-
zioni degli imperatori. Recatosi la prima volta a Roma ,
Barbarossa ebbe festosa accoglienza e la corona dell'impero
da Adriano IV. Avresti detto che in quel momento tiara e
scettro si annodassero con vincoli di perenne fratellanza;
ma Federico ed Adriano si erano abbracciati non per im-
pulso di reciproca simpatia, bensì per soffocare nel loro
(I) Vedi la magnifica opera del padre Luigi Tosti. Istoria della lega lom-
barda.
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amplesso le minacciose dottrine del famoso Arnaldo da
Brescia. Morto Adriano, Barbarossa si maneggiò perchè il
cardinal Rolando, di cui già conosceva l'indole altera, non
salisse a timoneggiare la nave di Pietro: fallito il tentativo,
prese a proteggere l'antipapa Ottaviano , e i di lui parti-
giani. Federico vedeva a' suoi ambiziosi disegni un ostacolo
nella potenza papale , sostenuta da principj indeclinabili ,
forte per la simpatia dei popoli , e le credenze di tutto
Torbe cattolico. Atterrarla era impresa troppo arrischiata;
amicarsela, costava sagrifici insopportabili a lui che voleva
ampliare, non isminuire le prerogative eia dignità dell'im-
pero. Prevedendo inevitabile il cozzo tra la sua polilica e
quella della Corte romana, Federico s'appigliò al partito
di scompigliare la Chiesa coll'introdurvi lo scisma. In que-
sta guisa dividendola, sperò d'indebolirlo, di screditarla.
Perciò, morto Ottaviano, premeva all'imperatore di opporre
ad Alessandro IH un altro antipapa; un fantoccio col manto
pontifìcio che ubbidisse ad ogni suo talento, e cui in pre-
mio della servilità prometteva di collocare sulla sede di
Pietro, cacciando Alessandro III da Roma. Un Cremasco ,
già cardinale, fu il personaggio che Federico destinava a
far da spauracchio ad Alessandro III , e che per quattro
anni dovea recitare per conto dell'imperatore la parte bu-
rattinesca dell'antipapa.
Guido da Creila fu eletto cardinal diacono da Eugenio III,
poi cardinal prete col titolo di S. Calisto da Adriano IV
nel 1158. Fornito di non volgari talenti, ebbe dalla Corte
romana missioni onorevolissime: lo inviava Adriano IV alla
Dieta di Roncaglia nel 1152 qual legato pontificio, indi
all'assemblea tenuta dall'imperatore a Bologna nell'aprile
del 1157, affinchè, qual rappresentante la Corte romana,
vi risolvesse alcune differenze fra la Chiesa e l'Impero. Ma
poi l'ambizione lo accecò: morto Adriano IV, Guido diser-
bava la causa delia Chiesa per servire a Barbarossa : votò
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due volle io favore dell'antipapa Muore e dopo là di lui
morie lo sedusse vaghezza di salire il irono pou tifi ciò ,
portalo sullo braccia di un imperatore. Federico imbaldanzì
d'aver trovato in Guido un profittevole istrumento della
sua politica : recatosi in Germania nel 1 1 Go, pretese che i
vescovi ed i predali Io riconoscessero qual vero pontefice.
E perchè non tutti vi acconsentivano, Barbarossa vi cosili n-
geva i riluttanti colla forza, tanlo che in Germania si riac-
cesero le faville delle discordie guelfe e ghibelline. Convocala
a Virlzburg una diela, Barbarossa ottenne finalmente che
i vescovi germani dichiarassero con decreto « essere valida
» la elezione di Pasquale III, doversi a lui giurare costante
» fedeltà, doversi alla sua morte surrogargli un prelato del
» suo partito, ed alla morte di Barbarossa conferire la co-
» rona a quel principe che la causa di Pasquale III soste-
» nesso. lO» Federico, bramando che il partito di Pasqua-
le HI si rafforzasse anche in Italia, vi mandò con grosso
esercito, Cristiano arcivescovo di Magonza, e Rinaldo arci-
vescovo di Colonia: due prelati guerrieri e ribaldi che, per
servire Barbarossa, prodigarono oro a corrompere, usarono
minacce, e talvolta posero a ferro e a fuoco le città che
mantenevansi fedeli ad Alessandro III.
Nell'anno 1165 venne il destro a Barbarossa di cano-
nizzare Carlo Magno. Istigalo da Enrico re d'Inghilterra,
aprì a tale scopo nel dicembre una corte plenaria ad Aquis-
grana. Diseppellito il cadavere dell'eroe, fu celebrala solen-
nemeute, con l'autorizzazione di Pasquale III, la sacra ce-
rimonia (27 dicembre 1165). Da quel giorno Carlo Magno
incominciò ad essere venerato con pubblico culto in alcune
chiese particolari , e comunque la di lui canonizzazione
avvenisse per sanzione di un antipapa, i legittimi pontefici
non vi si opposero <*).
(1) Voigt. Della lega lombarda.
(2) Muratori. Annali d' Italia.
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Nel 1167, il nostro Guido, cui tardava di assidersi sopra
il soglio pontificio, da Viterbo, ove dimorava, mandò am-
basciatori a Federico rammentandogli la fatta promessa ,
sollecitandolo a romper guerra ad Alessandro HI. Barbaros-
sa sfilò con poderoso esercito alla volta di Roma, la prese
con sanguinosissimo assalto, e forzò Alessandro III a rifu-
giarsi nel Coliseo, allora fortezza della potentissima fami-
glia Frangipane. Insignoritosi di Roma, l'imperatore, per
amicarsi i grandi ed il popolo protestava , che se Ales-
sandro rinunciasse alla tiara , egli avrebbe costretto Pa-
squale a seguirne l'esempio, e quindi si porrebbe fine alio
scisma coli' elezione di un novello pontefice. Parole più
astute che sincere , giacché Federico ben prevedeva che
Alessandro rigetterebbe la sua proposta: infatti quel pon-
tefice fu tal uomo da lasciare Roma in preda dell'antipapa,
piuttoslochè abdicare i suoi legittimi diritti alla cattedra di
S. Pietro. Così compironsi gli ambiziosi voti di Guido da
Crema, giunto a pavoneggiarsi in Roma sul trono ponti-
fìcio del suo rivale. Lo proteggevano le ali della vittoriosa
aquila imperiale, e l'ottenuto trionfo moltiplicargli in Roma
il numero dei partigiani.
Nel giorno primo d'agosto, l'antipapa celebrò con grande
sfarzo nella chiesa di S. Pietro; durante la messa pose in
capo la corona a Federico ed alla di lui consorte Beatrice.
Questa seconda incoronazione di Federico, riferita dal Mo-
rena, dal Calchi e dal Fino, è messa in dubbio dal Terni,
negata da altri storici. Noi conveniamo coi primi, che sia
avvenuta, ma non ometteremo di rammentare come i re
usassero a que' tempi di farsi incoronare parecchie volte,
specialmente dopo riportate luminose vittorie. Perciò non
devesi confondere questa vanità principesca degli scorsi se-
coli colla formale pompa della prima e vera incoronazione
con cui si riconoscevano nei re gli attributi sovrani. La co-
rona dell'impero era già stata conferita a Barbarossa da
Adriano IV.
Pasquale IH profanò in Roma la sedi4 pontificia per
quattordici mesi ; nel venti settembre 11(>8 morì. Discor-
dano le asserzioni dei cronisti intorno alla sua morie. Ale-
niamo Fino dice che venne ucciso sulla piazza di S. Pietro
nell'anno 1175 (*): errore ^Tossissimo. Scrittori più antichi
del Tino e parziali per Alessandro 111, narrano che morì
impenitente Tanno 11(58, colio da orribile malattia con cui
piacque al cielo di fulminarlo in punizione de1 suoi peccati.
Più moderato il Ciacconio nella sua storia dei Pontefici,
circostanziò la morte dell'antipapa Pasquale con le seguenti
parole : fistoloso cancro percussus, infelicem spiritimi in
sciamate cxalavit. II dottissimo Muratori, rifuggendo dal
sagriiìcarc la verità al fanatismo dei partiti , dice seccamente
che Pasquale lini in Roma i suoi giorni nel 20 settembre
del 1168 P\ Se prestiam fede all'Alemanni Fino, Guido
da Crema, come il cardinal Giovanni di S.Grisogono, fu Un
rampollo dell'illustre famiglia dei conti di Camisano l3).
Intanto che le mene ambiziose di Barbarossa e dell'an-
tipapa Guido da Crema travagliavano la Chiesa cattolica,
le città di Lombardia gemevano nell'immane oppressione dei
commissari imperiali. Federico, distrutta Milano nel 1162,
aveva annientata la libertà dei Comuni. Ritornando in Ger-
mania, lasciò al governo delle terre lombarde podestà scelti
da lui, parte Tedeschi, parte Italiani. I primi non sapevano
né punto né poco la favella dei popoli affidali al loro go-
verno, e tornava loro inutile il saperla, perchè essendosi pro-
posti di succhiare ai governati sangue e sostanze, si face-
vano intendere meglio con le fruste e coi capestri. I se-
condi appartenevano a quella razza di vili, i quali, come
scrive Cesare Cantù, vendutisi ai nemici della patria, vo-
(i) Fino, nella Scelta degli uomini di pregio usciti da Crema.
(2) Annali d' Italia.
{%) Fino, nelle Seriane.
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gliono farsi perdonare la colpa d'essere Italiani (l). Le
enormezze che commisero quei podestà o commissarj im-
periali levano nella storia un grido di esecrazione; sareb-
bero quasi incredibili, se non ci venissero narrate da scrit-
tori alemanni e dagli stessi fautori di Barbarossa (2) , i quali
però ne vogliono scagionare Y imperatore, dicendo che ne
era inconsapevole. I nomi di Pietro Cunin, di Rinaldo ar-
civescovo di Colonia, d'Arnaldo Barbavara, e d'altri po-
destà che tiraneggiarono la Lombardia in que' tempi scia-
guratissimi, saranno eternamente infami: spogliavano, con-
taminavano, martirizzavano i poveri Lombardi trattandoli
bestialmente, perchè consideravanli piuttosto giumenti che
uomini. Moltiplicarono spaventosamente le contribuzioni.
Or sotto il titolo del porco a S. Martino, or dell'agnello
a Pasqua, imponevano balzelli incomportabili; le castagne,
le noci, il fieno, perfino i pescatori sull'incerto provento
delle reti, erano colpiti d'imposta. Tempestati più di tutti
ne furono i Milanesi ed i Cremaschi : a questi non lascia-
vano che scarsissima parte dei prodotti delle loro terre (3).
Podestà di Crema era certo Lamberto Vignati, lodigiano;
forse dissanguava i miseri Cremaschi per libidine di ven-
detta, sfogando in tal modo il veleno degli odj municipali.
Non crediate però toccassero più benigne sorli a quelle città
che si dimostrarono fedelissime alleate dell'imperatore; i
podestà non facevano distinzione; dapprima sembrava le
accarezzassero, ma perchè avevano ben adunchi gli arti-
gli, quelle carezze non tardarono poi a far sangue.
Tante- durezze consentiva la Provvidenza per ritemprare
(1) Storia universale.
(2) Voigt. Storia della lega lombarda. — Acerbo Morena, Storie lodigiani
(3) « . . . Mediolanenses , qurbus de omnium terrarum suarum fructibus ,
non nisi solummodo tertium de tertio relinquebant, alque Hem Cremenses,
quibus omnium terrarum suarum terlium, ac si ipsi domini eorum fuis-
seut, poni t us omnir.o auferebant. » Morena. Ili&ior. Rerum laudensium.
— ilìJ —
-li Mini dei Lombardi alla scuola della sventura, volendo
prepararli al bacio della fratellanza, a generose imprese,
a glorie immortali. (ìli Italiani avevano abusalo della pro-
speriti, odiandosi a vicenda e dilaniandosi; ci voleva la sferza
di quegli inesorabili ministri perché imparassero ad amarsi,
perchè cercassero colla concordia di sollevarsi dal fango in
cui erano prostrati. Le città italiane s'accorsero ben presto
d'aver comperate le fraterne vendette col tesoro della li-
bertà ; vergognarono del passalo, se ne pentirono, e per
frangere i ceppi che le opprimevano, si congiunsero sorelle
in un amplesso, onde nacque la lega lombarda. Fallo me-
morando, iride splendidissima, foriera ai popoli italiani di
novello risorgimento!
1 Crcmaschi presero parte nella lega? Ne interrogammo
le cronache di Crema, e nulla ci rivelarono intorno a que-
sto punto della storia nostra importantissimo. Ricorremmo
ad altre fonti, e vi abbiamo attinte le notizie che ora ci fa-
remo a narrare.
L'idea della lega lombarda s'accese per un»ardenlissimo
desiderio , o direni meglio, per un bisogno imperiosissimo
di uscire dalla servitù, che le nefandezze dei podestà im-
periali rendevano non che obbrobriosa, insopportabile. Pen-
sate adunque se questa idea non doveva risplendere in petto
ai Cremaschi; essi, al pari dei Milanesi, calpestati brutal-
mente da feroce tirannia, essi che sospiravano di riacquistare
la patria caduta, e ne veneravano le sante ruine con la
mente calda ancora della gioita libertà, frementi d'avere speso
invano a difenderla un eroico coraggio. Era dunque natu-
rale che i Cremaschi cercassero d'entrar nella lega, e furono
tra i primi a parteciparvi. Ciò, benché non è detto nelle
cronache di Crema, noi asseveriamo appoggiandoci all'au-
torità del Muratori, il quale scrive che in quella famosissima
lega sensim confluerunt Veneti, Bononienses, Mutinenses,
Regienses, Parmenses, Piacentini, Cremenses, Cremonen-
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ses> ComenscSj Novarienscs, Vercellenses, Astenses, aliiqui
proceres ac populi (0.
È abbastanza noto come la lega lombarda avesse culla
in un congresso tenuto da parecchie città italiane a Pon-
tida (7 aprile 1167). Là, nella chiesa di S. Jacopo innanzi
agli altari, i Lombardi si strinsero la destra in segno di
riconciliazione e d'amore : là giurarono sulle spade che si
sarebbero scambievolmente ajutati per risorgere a libertà;
e le loro fronti si rasserenarono, e i cuori palpitarono d'i-
neffabile gioja nella fiducia di redimere la patria. Giammai
nel tempio del Signore proruppe da umane labbra sacra-
mento più puro, più generoso; Dio l'accolse, e dal suo
secsio d'amore lo benediva.
Che i Cremaschi intervenissero al congresso di Pontida,
lo attesta Cosimo Barloli colle seguenti parole: « 1 Milanesi
» insieme coi Cremaschi, Bergamaschi, Bresciani, Manlo-
» vani, Ferraresi, e molle altre terre, convenuti alli 7 aprile
» nel Bergamasco nella chiesa di S. Jacopo in Pontida, con-
» sigiarono i casi loro (-).»
INell' adunanza di Pontida s'udì risuonare la voce di un
chiarissimo gentiluomo milanese, Pinamonte Vimercati 3), il
quale con robusti argomenti rappresentò la necessità di ri-
costruire e fortificare Milano. Pinamonte favellava con sen-
timenti italiani ad un congresso d'Italiani, che le comuni
sventure ribattezzavano con dottrine di fratellanza, e la sua
parola penetrò nel cuore di tulli; poco appresso Bergamaschi,
Bresciani, Cremonesi ed altri Lombardi accorrevano a rie-
dificare l'infelice Milano.
Un più efficace argomento a persuadere che i Cremaschi
furono tra i primi a prender parte nella lega, lo desumiamo
dal fatto ch'ora veniamo a narrare.
il) Antiquilatis italicce medii cevi. Dissertano quadragesima octava, p. 2G0.
(2) Vita di Federico Barbarossa.
3) Da questo insigne gentiluomo milanese rampollò la nobile famiglia
Vimercati di Crema.
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Premeva ai confederati «li tirare Della loro alleanza i ri-
luttanti Lodigiani. Finché Lodi parteggiava per Federico^
Milanesi avevano ragioni d'inquietarsi, polendo l'imperatore
giovarsi di questa città per intercettare i viveri a Milano,
costretta dalle sofferte devastazioni a provvedersene Cuori
del suo territorio. Ogni arie praticarono i confederati onde
smovere i Lodigiani dal partito imperiale, ma infruttuosa-
mente. Erano legati a Barbarossa per vivissimo sentimento
di gratitudine; egli strappolli dall'artiglio dei Milanesi, egli
ricostruiva la citlà loro ricolmandoli di beneficj. Perciò sem-
brava ai Lodigiani fosse nera perfìdia cospirare contro il loro
benefattore. Riescile ineflicaci le amichevoli persuasioni!, i
confederati per conquistar l'alleanza dei Lodigiani ricorsero
alle armi: con poderoso esercito assediarono Lodi, lo affa-
marono, e lo costrinsero ad arrendersi e far parte della lega
addì 28 maggio U67. I Cremascbi prestarono il loro brac-
cio agli alleati, combattendo anch'essi contro Lodi; e le
cronache narrano che accampatisi a Selva Greca, molesta-
rono con replicate scaramucce gli assediati i*). Se Crema
diede mano ai confederati per mettere a dovere i Lodigiani,
apparisce luminosamente ch'essa fu tra le prime citlà ad as-
sociarsi nella lega lombarda.
Nel mentre i Cremascbi pugnavano contro Lodi, militava
sotto le insegne nemiche un loro concittadino, Lantelmo
Greppi l2), che Barbarossa stipendiò capitano delle sue mi-
lizie con altro Cremasco, Gilberto dei conti di Camisano.
Lantelmo Greppi venne con un pugno di soldati in soccorso
dei Lodigiani, ma troppo tardi; Lodi aveva già capitolato
coi confederati, ond'egli dovette ritirarsi a Pavia, città che
mantenevasi ancora fedelissima all'imperatore.
(i) Terni e Fino nella Stoì'ia di Crema.
(2) Da questo Lantelmo Greppi pretende il Terni sia derivata la celebre
famiglia cremasca dei Benzoni.
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Ora ci rimane a scoprire per quale motivo i Cremaseli!,
comunque prendessero parte alle prime imprese della lega
lombarda, non figurano poi nei trattati che la confederazione
stipulò con Federico. Perchè al celebre trattato della pace
di Costanza intervennero rappresentanti di tutte le terre
collegate, e non i Cremaschi? Alcuni preziosissimi docu-
menti pubblicali dal Muratori ne chiariscono la ragione.
Bisogna innanzi tutto rammentare, che negli anni della
lega lombarda, Crema era un mucchio di rovine, fra le
quali il popolo, come dicemmo, aveva foggiali i suoi abi-
turi. Ci sovvenga eziandio come Barbarossa nel 1162 conce-
desse a Cremona la feudale giurisdizione sulla terra di Cre-
ma. Ora, i Cremonesi, mal comportando le vessazioni dei
ministri imperiali, si erano buttali anch'essi nella alleanza
lombarda, riconciliandosi con le città rivali, ma non per que-
sto rinunziarono all'odioso privilegio di tener Crema sotto
il loro dominio. Conseguentemente non potevano acconsen-
tire che i Cremaschi, loro vassalli , cospirassero insieme ai
collegati per risorgere a libertà. Anzi vollero rimanesse
Crema prostrata nelle sue rovine, ed il suo popolo nel vas-
sallaggio cui Barbarossa l'aveva condannato, cedendone a
loro la giurisdizione. Quindi a meglio guarentirsi che i Cre-
maschi non troverebbero modo di francarsi dalla loro di-
pendenza, i Cremonesi pretesero che le cillà della lega lom-
barda promettessero con giuramento l'osservanza delle se-
guenti condizioni: condizione prima; che né i Cremaschi,
né altri avrebbero Crema rifabbricata, o eretti castelli nel
terreno situato fra l'Adda e TOglio, senza licenza del go-
verno di Cremona: condizione seconda; che qualora senza
il permesso dei Cremonesi venisse Crema rialzata, le città
della lega accorrerebbero colle armi in sussidio dei Cremo-
nesi onde schiacciarla la seconda volta: condizione terza;
che le città collegate non permetterebbero asilo o ricovero
- 119 —
ai Crem ascili, o a qualsifosse altro che imprendesse a com-
battere per la libertà dei Cremaschi f .
Queste vergognose condizioni i Cremonesi richiesero alla
società lombarda in un congresso tenuto a Modena Tan-
no 1173, e d'osservarle promisero le città della lega onde
mantenersi fedele Cremona, la quale pareva che nella giu-
rata alleanza vacillasse. Infelicissima Crema! Ecco i pietosi
riguardi che a lei toccarono in un congresso d'Italiani nei
giorni famosissimi che inspiravansi con idee di fratellanza ;
ecco il guiderdone dell'eroica difesa, dei sopportati disastri,
del sangue profuso per resistere al comune nemico! Davvero
è mostruosa la rahbia pertinace che i Cremonesi serbarono
verso Crema; davvero ch'essi nel congresso di Modena mac-
chiarono una pagina luminosissima della storia italiana, con
un trailo inverecondo di municipale egoismo: tanto più ab-
bominevole, perchè nudrito in epoca la quale ahbellivasi
di fraterna concordia, delle speranze di una comune liber-
tà. Uno storico moderno, rammentando le condizioni che i
Cremonesi, alio scopo di tener il piede sul collo ai Crema-
schi, imposero alla società lombarda nel congresso di Mo-
dena, prorompe in queste memorande parole: Duole nel-
l'anima, ma così è: noi non abbiamo venti anni di storia
compiutamente bella di vera concordia in tutti i secoli
moderni. Il fatto è; sappiamo vederlo e confessarlo per
non rifarlo mai più, fi).
La lega lombarda, della quale era capo Alessandro III,
non tardò a raccogliere dall' associazione delle sue forze
i desiderali frutti di libertà. Colla battaglia di Legnano,
avvenuta nel 29 maggio del 1176, si compirono i trionfi e
i voti delle città alleate. A Legnano Federico Barbarossa
(,i) Vedi Juramentum Coiisulum quarumdam civitalum Lombardia! conti a
Federicnm J imperalorem anno 1Ì73 , nelle Antichità italiane dJ medio evo
de! Muratori, voi. 4.°
(2) Balbo. Compendio della Storia d' Italia.
— 120 —
imparò che gl'Italiani sono domabili finché discordi, ma
non se insorgono tutti con un cuor solo, a combattere le
battaglie della patria e della libertà. I successori di Bar-
barossa profittarono della lezione; così ne avessero dal
canto loro profittato gli Italiani! Dalla vittoria di Legnano,
i Lombardi conseguirono una tregua di sei anni stipulala
a Venezia coiTimperatore, indi la pace di Costanza, singo-
lare esempio di un trattato conchiuso tra sudditi e sovra-
no. I confederali vi oltenero lutto quanto desideravano,
non però V indipendenza, perchè le loro aspirazioni non
erano mai salite a tanto ; ottennero fossero riconosciute
intere, intangibili, efficaci, e come di diritto, quelle libertà
che prima non godevano che di fatto.
I Cremaschi, pel trattalo di Costanza, migliorarono le
loro sorti? Non ancora. Poco dopo la famosa battaglia di
Legnano i Cremonesi, staccatisi per i primi dall'alleanza
lombarda, patteggiarono separatamente colf imperatore, il
quale prodigò a Cremona novelli privilegi, riconfermando
gli antichi. Correndo Tanno 1185, Barbarossa inviò legati
in Lombardia acciocché iniziassero trattative di pace colle
città italiane. Convennero in varj congressi i rappresentanti
delle nostre terre ed i legati imperiali, e di mutuo accordo
tracciarono i patti in base ai quali si doveva conchiudere
il solenne trattato di pace. Il Muratori disotterrò dagli ar-
chivi alcune convenzioni che in quell'occorrenza le città ita-
liane stipularono coi legati dell'imperatore, in una delle
quali i Cremonesi ribadirono il chiodo in petto ai miseri
Cremaschi. Vi si leggono le seguenti parole: sarà lecito
alle città di trincerarsi con fortezze, mantenere gli antichi
castelli, ristorarli e innalzarne di nuovi, salve però le
convenzioni su questo punto stipulate fra ì Cremonesi e
le altre città, e salvi specialmente i patti di non riedifi-
care Crema, né alcun castello nel territorio che è fra
— 121 —
l'Adda e lùglio, comi' si contiene nei privilegi che ni Ùrc*
moneti acconsentirono le ella e l' imperatore ' .
Due mesi dopo, addì 93 giugno 1183, si celebrò in Co-
stanza il famosissimo trattato di pace, in cui nissiin cenno
si fece di Crema e del suo territorio. 11 capitolo ventunesimo
dichiarò; rimaner /'ertile (alle quelle concai- ioni clic le
città della lega arecano fra di loro stipulale (*). Consc-
guentemente i Cremonesi ritennero confermala a loro la giu-
risdizione su Crema, con tutte le condizioni clic in propo-
sito avevan loro promesso di mantenere le città della lega
lombarda nel congresso di Modena Tanno 1175. Quindi il
trattato di Costanza non isparsc della sua benefica luce al-
cun raggio sul terreno cremasco. I vicini paesi rimbaldan-
ziti festeggiavano le ricuperate franchigie; Crema gemeva
ancora i perduti giorni della sua libertà, la catastrofe mi-
seranda dell'irrcparata caduta, la barbara condanna che le
inibiva di potersi rialzare dalle ruine. Ma la Provvidenza,
clic tien conto delle lagrime degli oppressi, affrettava ai
Cremaschi il giorno della loro redenzione.
Nell'agosto dell'anno susseguente al trattato di Costanza
(1184), Federico ritornava in Italia, non più menando po-
derose coorli a sterminio di città e castelli, ma con volto
serenato da sentimenti di pace, coli1 animo volonteroso di
annodare amichevoli relazioni in Lombardia. Vero è però
che nel capo mulinava ancora ambiziozi disegni, ed era
venuto in Italia per trattarvi il matrimonio del figlio Enrico
con Costanza, l'erede più prossima della Casa Normanna
regnante in Palermo. L'eroe della Germania non ismetteva
il pensiero di aggrandire l'impero, e non volendo più ar-
rischiarsi cogli Italiani nel periglioso gioco delle armi, spe-
culava con un matrimonio. Costanza nasceva da Rogiero I
(1) Muratori. Antichità italiane del medio evo.
il) Pacta inter civitates societatis quondam facta, nihilominus firma et rata
permaneant.
— 122 —
re di Sicilia, ed era zia di Guglielmo allora regnante, il
quale, comunque ammogliato, non lasciava speranza di
prole, onde la Casa Svcva confidava che Enrico impalmando
Costanza, potesse un giorno beccarsi il regno delle due Si-
cilie. I Milanesi questa volta ospitarono Federico con lutti
i cavallereschi riguardi che a popolo generoso suole inspi-
rare, dopo la vittoria, la persona del nemico vinto e ri-
conciliato.
Fu una gara di cortesie. Milano pompeggiava di benevo-
lenza, di festose dimostrazioni a Barbarossa; questi usava
ogni modo per ricambiarle ; riciproche le carezze , perchè
reciproco il bisogno di una stabile amicizia. Premeva ai Mi-
lanesi di ricuperare ed ampliare i loro diritti territoriali:
a Barbarossa importava di assecondarli ed amicarseli, per
giovarsene all'uopo, fosse contro il pontefice nelle differenze
sui contrastati beni della contessa Matilde, fosse contro i
Siciliani, se avvenisse ch'essi , morto il re Guglielmo, rifiu-
tassero di riconoscere la sovranità di Enrico, principe stra-
niero. I Milanesi accorgendosi che lutto potevano sull'animo
di Barbarossa, moltiplicarono le inchieste; si ricordarono di
Crema, loro fedelissima consorte nelle patite sventure, e chie-
sero di poterla rifabbricare. L'imperatore vi acconsentì, come
leggesi in un diploma importantissimo, vergato addì 11 feb-
braio 1185, col quale Barbarossa confermò e accrebbe ai
Milanesi molti privilegi. La concessione di rifabbricar Crema
vi è espressa con le seguenti parole e condizioni : « Noi
» (Federico) di buona fede e senza frode ci adopreremo
» acciochè Crema venga riedificata, nel lasso di tempo che
» stabiliranno i consoli di Milano insieme al Consilio di loro
» Credenza, per il potere che abbiamo in Lombardia, nella
» Marca e nella Romagna. Noi poi vi daremo opera in que-
» sto modo, raccomandando, esortando, comandando alle
» persone, città e luoghi della Lombardia, della Marca e
» della Romagna, sotto debito di giuramento e di fedeltà,
— 133 —
che pubblicamente, e privatamente, e di buona fedo, pre-
stino in ciò efficace consiglio ed ajuto, Che Be nel termine
stabilito possedessimo nella Lombardia, nella Marca e
nella Romagna una fona maggiore di quella che presen-
temente abbiamo, noi di buona lede l'adopreremo a darvi
esecuzione. Che se noi potessimo fare nei termini pre-
scritti, ci obblighiamo a darvi compimento giusta il pre-
detto modo, appena che lo potremo, (ino a che la rifab-
bricazione sia finita. Che se qualche persona o città avrà
l'arroganza d'impedire (e con queste parole alludeva ai
Cremonesi) che una tal cosa si faccia, noi glielo proibi-
remo per l'obbligo di giuramento e di fedeltà con cui sono
a noi legali. Che se in onta di ciò si opponessero, noi li
porremo al bando dell'impero, finché abbiano data una
congrua soddisfazione. Che se tardassero a dare la ri-
chiesta soddisfazione, noi comanderemo alle vicine città,
località e persone che pel giuramento e la fedeltà che a
noi devono , lor facciano guerra. Similmente faremo giu-
rare al re Enrico nostro figlio, nel termine che i consoli
di Milano prefiggeranno, che manterrà Crema di buona
fede, come noi abbiamo giurato in buona fede di mante-
nerla. Più vi aggiungiamo, che se mai fossimo oltremonte,
manderemo messaggi e lettere favorevoli acciocché venga
prestato il dello ajuto, tolti gli impedimenti, qualora ne
fossimo richiesti.
» Nel presente diploma abbiamo creduto di scrivere anche
la forma del patto e del giuramento che i Milanesi deb-
bono fare a noi ed al figliuol nostro , re dei Romani. —
Procureranno, e ciò in buona fede e senza frode, accioc-
ché noi e il predetto figliuol nostro manteniamo l'impero
in Lombardia, nella Marca e nella Romagna, e special-
mente le terre della contessa Matilde. Più, ci aduleranno
in buona fede a ricuperare anche le possessioni, le rega-
lie, i diritti e le ragioni che noi per avventura perdessimo
— 124 —
» nelle predette terre, cioè in Lombardia, nella Marca e
» nella Romagna, e nominativamente in quanto alle terre
» della contessa Matilde, e ciò contro tutte le città, i luo-
» ghi e le persone di Lombardia, della Marca e della Ro-
» magna ; colla restrizione , che se noi e il nostro figlio re
» Enrico qualche volta (il che non ci permetteremo) vo-
» lessimo mancare alle concessioni o alle promesse fatte alle
» persone, alle città, o luoghi della Società (Lombarda) ,
» come è contenuto nel tenore della pace (di Costanza), i
» Milanesi non sieno per questo giuramento tenuti ad aju-
» larci... (0»
Molli illustri personaggi sottoscrissero il diploma impe-
riale; ultimi a porre il loro nome furono Domerto Benzone,
Rogiero de Osio e Benzo Bonsignori, consoli cremasela.
Federico Barbarossa possedeva il senno dell'uomo di
stato, ed era più astuto di una volpe diplomatica. Lucrava
beneficando; quando credevi allargasse la destra a conces-
sioni, egli con profettevolissimi patti avvantaggiava gl'inte-
ressi dell1 impero. Dalle parole del riferito diploma appari-
sce, a quali importantissime condizioni vincolasse i Milanesi,
nel mentre permetteva loro la riedificazione di Crema Que-
sta, insieme ad altre concessioni, fece per accaparrarsi l'al-
leanza di Milano, e servirsene nella probabile eventualità
di una guerra col pontefice o coi Siciliani. Concludiamo:
Crema dovette il suo risorgimento ai Milanesi che lo do-
mandarono, ed a Federico Barbarossa che per le sue mire
politiche vi accondiscese.
È dunque falso che Barbarossa abbia ordinata la rico-
struzione di Crema, onde punire i Cremonesi del non aver
mandati ambasciatori a Milano a rallegrarsi dell' incorona-
zione e delle nozze del suo figlio Enrico. Ciò asserirono
(ì) Vedi il diploma nell'opera del Puricelli, intitolata Monumenta Basi-
lica; aììibrosiance.
— 125 —
Galvano Fiamma e Donato Bossio che trassero nel mede-
simo errore Terni, Fino ed alcuni altri cronisti, errore che
originò dall'avere spostatigli avvenimenti dall'ordine crono-
logico in cui li dovevano collocare. Il Fiamma, e coloro clic
lo seguirono troppo confidentemente, posero l'incoronazione
e le nozze del re Enrico air anno 1184, mentre si celebra-
rono unitamente a Milano addì 27 gennajo del 118G, come
provano Muraioli e Giulini colla testimonianza di molti cro-
nisti contemporanei a quell'avvenimento il). Perciò quan-
do si celebrarono le nozze di re Enrico, l'imperatore
aveva già acconsentila la ricostruzione di Crema, e già da
parecchi mesi se ne praticavano i lavori. È però vero che
i Cremonesi si astennero dall' intervenire alle feste nuziali,
e fu appunto una dimostrazione del loro dispetto, offesi ed
indignali ch'erano profondamente perchè Barbarossa, ad
istanza di Milano e senza loro consenso, avesse ridonato ai
miseri Cremaschi la patria.
I Cremaschi diedero mano a rialzare la cittadella, tre
mesi circa dopo che Barbarossa vi aveva con solenne istro-
mento acconsentilo. L'imperatore volle inaugurare la rico-
struzione di Crema con is'arzoso cerimoniale ; addì 7 mag-
gio del 1185 recossi nella terra nostra seguito da un codazzo
d'illustri personaggi, fra i quali il figlio Enrico, il genero
marchese di Monferrato, i consoli e l'arcivescovo di Milano.
Federico si compiacque designare di propria mano il cerchio
delle nuove mura; lo allargò per comprendervi gli attigui
borghi, volendo che la risorgente cittadella acquistasse mag-
giore estensione. Fu quello pei Cremaschi un giorno di così
viva esultanza, che è più facile figurarsi che descrivere.
S'inalberarono gli stendardi imperiali, intrecciati alle in-
segne di Milano, Brescia, Bergamo, Piacenza, tutte città
(1) Muratori negli Annali d'Ilalia, e Giulini nella Storia di Milano.
— 126 -
amiche dei Cremasela (*). Sul volto di Barbarossa splendeva
un sorriso di affabilità , di benevolenza; onde i Cremaschi
in quel giorno dimenticavano i paliti oltraggi, lo strazio or-
rendo che aveva fatto della loro terra e dei loro figliuoli.
Il marchese di Monferrato, per darci anch' egli un segno
di simpatia, donò il suo stemma al nostro Comune: rap-
presenta un cimiero con due corna di cervo nella corona,
con un braccio nel mezzo che sostiene una spada, ed è
ancora oggidì lo stemma della città di Crema.
Cinque giorni appresso (12 maggio), l'imperatore con
pubblico istromento sanciva la libertà del popolo cremasco,
investendolo dei feudali privilegi che appartenevano già ai
conti di Camisano, prima che per sospetto di fellonia ve-
nissero spogliati del dominio di Crema. Neil' istromento fi-
gurano quali testimoni parecchi cittadini cremaschi; Caglata
Guinzoni, Castello de Castelli, Acursio de Vigoni, Gruenzio
Dondoni e Zilio Benzoni, giudici di Crema; un Isacco de'
Ginoldi , podestà di Crema; Pielrobuono Cusatro e Rodolfo
de Caglata, notari, e molli altri Milanesi e Bresciani. Ac-
cettarono rinvestitura delle comunali franchigie cinque cit-
tadini rappresentanti del popolo cremasco, ed erano: Ben-
zone ed Alessio de Sabini, Ottone Gambazocco, Nero de
Rivoltella ed Alberto di S. Vi>At2).
Ad ajulare i nostri padri nella riedificazione di Crema,
vennero molti Piacentini e Milanesi; s'incominciarono i la-
vori recingendo il suolo della cittadella con fosse e con trin-
(i) Le insegne del nostro Comune sembra che fin d'allora fossero di colore
bianco e rosso come le milanesi. Ciò desumiamo dal Terni , il quale vaga-
mente rammentò il giorno della riedificazione di Crema con le seguenti pa-
role : « Augurio veramente dai cieli quaggiù regolato, che in giorno di Mar-
» te, solennità di S. Vittore, con le insegne di ardente sincerità, con la
» spata in mano fosse la terra nostra riedificata. 1 Cremaschi per memoria di
» quello gratissimo giorno tolsero per patrono S. VUture. »
12) Vedi il Documento alla lettera A.
— 187 -
oee, onde potersi difendere da qualsivoglia aggressione. E
fu provvido consiglio, giacché pensale come i Cremonesi
strepitassero vedendosi ghermito il terreno ch'essi presu-
mevano poter a buon diritto tiranneggiare perpetuamente.
L'ira che li rodeva, manifestarono con aporie e replicate
dimostrazioni a Barbarossa, tanto eh* egli deliberò rispon-
dere con le armi alle dispettose dimostrazioni. Nella pri-
mavera delFanno 1186, l'imperatore fattosi condottiero
delle milizie bresciane, milanesi, piacentine e cremasene,
invose il territorio di Cremona, prese non poche terre e
castella, e trovata resistenza in Castel Manfredo, lo asse-
diò, lo distrusse. Allora i Cremonesi s'affrettarono a chieder
pace a Federico, la quale ottennero per opera del loro ve-
scovo Siccardo, che lasciò scritto nella sua cronachelta:
Anno Domini MCLXXXVI , ìmperator quoddam Castrimi
Cremonensium quod Manfredi nomine vocabatur, omnìno
dextruxit. Sed alidore Domino } per meum minislerium
fada est Inter imperatorem et cives meos reconcilialio 'M
Cremona, la fedelissima alleata dell1 imperatore , che se
ne giovò a schiacciare Milano e Crema , chi avrebbe pen-
sato dovesse poi venir domata dalle legioni milanesi e cre-
masene capitanate dallo stesso imperatore? Non crediate
perciò fosse sincera ed abbia durato lungo tempo la tene-
rezza della Casa Sveva verso i Cremaschi. Nell'anno 1188
Federico propose da giudicare a' suoi ministri se l'isola Ful-
cheria appartenesse ai Cremaschi o fosse una regalia del-
l' impero. Dicemmo già -] che non ci venne fatto di poter
determinare con esattezza l'estensione di quest'isola, tante
volle rammentata nelle cronache lombarde : è nondimeno
certo che abbracciava lungo tratto del territorio cremasco,
(I) Presero uà obbaglio il Terni ed il Fino che anticiparono d'alcuni anni
questa sconfitta de' Cremonesi.
(i) Vedi il capitolo primo di questa storia.
— m —
e che la città nostra n era la capitale. Quando Federico
Barbarossa V anno 1160 donò l'isola Fulcheria a Tinto de
Tinti , celebre architetto cremonese , ne designava il con-
fine settentrionale a Pontirolo , il meridionale a Pizzighet-
tone. I ministri scelti da Federico per decidere se V isola
Fulcheria dovesse considerarsi come proprietà dei Crema-
schi , o piuttosto una regalia dell1 impero, non esitarono a
giudicarla regalia imperiale, e nominarono, quali formanti
parte dell'isola, venti villaggi del Cremasco situati tra
l'Adda e il Serio!1). Per questa sentenza, Barbarossa rito-
glieva ai Cremaschi la giurisdizione di una buona parie
del loro territorio, egli che due anni prima aveva concesso
con formale scrittura al nostro Comune la signoria di tutto
il distretto cremasco e sue pertinenze. Vero è che Federico
impartendo ai Cremaschi la signoria del loro territorio
avea taciuto dell'isola Fulcheria, ma essendo questa com-
presa nel territorio nostro occorreva forse di farne parola?
Diresti quasi che Federico omettesse pensatamente di no-
minarla, per tenersi in serbo un cavillo con cui appropriar-
sela in appresso. Fatto è che i Cremaschi, saputa la sentenza
dei ministri imperiali, l'ebbero per un gioco di perfidia;
indignatisi altamente, erano per sollevare all'imperatore le
loro rimostranze, se non ne fossero stali distolti dai Milanesi.
Morto Federico Barbarossa (111)0), e successogli nel trono
il tìglio Enrico, questi perfidiò ai Cremaschi più sfacciata-
mente ancora del genitore. Cedette Crema e tutto il suo ter-
ritorio in feudo ai Cremonesi , con un diploma che dalla
Germania spedì a Cremona [*h Novella servitù sovrastava ai
Cremaschi , ma anche questa volta sorsero campioni della
loro libertà i Milanesi. Nel mentre Enrico VI violava in
Italia le promesse falle dal genitore con solenni trattati ,
(1) Vedi il Documento B.
(2) Vedi il Documento C.
— 129 —
Milano e Cremona annodarono in Lombardia due leghe fra
di loro nemiche: Cremona, aderendo alla tortuosa politica
dell'imperatore; Milano, volendo si mantenessero intatte le
franchigie concesso da Barbarossa ai singoli Comuni. Coi Cre-
monesi associavansi Lodigiani, Comaschi, Pavesi e Berga-
maschi; eoi Milanesi, i Bresciani ed i Cremaschi. Si Nonne
alle anni. Nell'anno 11 Di i Bresciani ruppero i Cremonesi
in una sanguinosissima battaglia, che le cronache lombarde
chiamarono della mala morie, perchè quasi tutte le milizie
di Cremona vi perirono, quali trucidate, quali affogate
nell'Oidio. E nell'anno medesimo Cremaschi e Milanesi,
invaso il territorio bergamasco , vi espugnarono Corte-
nuova , arsero Romano, e parecchi altri paesi. Fiaccati da
tanti disastri, i Cremonesi non poterono nell'anno 1192
far valere sul terreno cremasco i feudali diritti ond' erano
investiti dall'imperatore Enrico VI. Nell'anno successivo
(1195) i Cremonesi, ristorate le forze loro, tentano la ri-
scossa: unitisi coi Lodigiani, irrompono nel territorio di
Milano; ma i Milanesi corrono solleciti ad affrontare presso
l'Adda l'inimico, lo vincono, ed abbelliscono la vittoria fa-
cendo copioso numero di prigionieri.
Nel giugno dell'anno 119o l'imperatore Enrico VI tro-
vandosi a Como, per assecondare i Cremonesi confermò
loro con solenne cerimonia l'investitura del feudo di Crema.
Sulla piazzetta vicina a Porta Torre consegnò colle proprie
Etani ai deputati di Cremona la lancia ed il gonfalone: indi
recatosi alla piazza del duomo, dichiarò pubblicamente d'a-
ver conferita ai Cremonesi la signoria di Crema e dell'isola
Fulcheria (l). Poco dopo, Enrico abbandonando la Lom-
bardia, incaricò Giovanni Lilla d'Aquisgrana di portarsi a
Cremona , e mettere quel Comune in possesso della giuri-
sdizione di Crema e dell'isola Fulcheria. Ma tutte queste
(4) Vedi il Docuraent.j D.
— 130 -
formalità, per quanto sembrassero minacciose, non valsero
ad intimorire i Cremaschi : tenerissimi della loro libertà,
forti dell'alleanza con Milano e con Brescia, ricusarono di
piegar il collo ai Cremonesi: onde Giovanni Lilia, non sa-
pendo in qual altro modo ridurli all'obbedienza dei Cre-
monesi, fulminò il bando dell'impero contro i Cremascbi
e contro i Milanesi ed i Bresciani loro alleati (ll. Allora Mi-
lano s'accorse, come per voler sostenere la libertà dei Cre-
massi corresse pericolo di dover cozzare con Enrico VI :
risoluta nondimeno d'affrontarne lo sdegno, ed assumere
la difesa delle minacciate franchigie dei Comuni Lombardi,
pensò di fortificarsi con poderose alleanze Nel luglio del
1195 si cercò di far rivivere la lega lombarda: convocossi
un congresso a Bormida, ove Milano, Brescia e Crema rin-
novarono i giuramenti di reciproco soccorso con Verona,
Mantova, Modena, Bologna, Faenza, Reggio, Padova, Pia-
cenza e Gravedona i2). In questo modo Milanesi, Cremascbi
e Bresciani provvedevano alla sicurezza della minacciata
libertà lombarda: prepar avansi , ove occorresse, a guer-
reggiare un imperatore che in Ilalia si era reso schifoso e
per le spergiurate promesse, e per gli atroci supplizi coi
quali insanguinò la Sicilia.
Nel settembre dell'anno medesimo (1195) Milanesi e Cre-
monesi si azzuffarono di nuovo presso l'Oglio, in una terra
della l'Albera: anche questa volta la vittoria arrise ai Mi-
lanesi. Nell'anno successivo (1196) Enrico VI ritornato in
Lombardia, soggiornava a Milano: fece buon viso ai Mila-
nesi, mostrando d'essersi dimenticalo come il suo ministro
Giovanni de Lilla gli avesse un anno innanzi posti al bando
dell'impero, insieme coi Cremaschi e coi Bresciani. Ma vo-
lendo pur giovare in qualche modo alla sua favorita Cre-
(4) Vedi il Documento E.
(2) Annali dy Italia del Muratori.
- 18! —
mona. Melasse con lusinghiere parole i Milanesi a renderle
i prigionieri. Da quell'anno cessarono per un po' di tempo
le ostilità fra Milanesi e Cremonesi, e Crema, scrive il Giu-
lia! (*), restò nella sua prima libertà.
Vedemmo quanto sangue costò ai Cremonesi la perti-
nacia di voler la terra nostra sottoposta al loro dominio, e
come fallissero i loro tentativi per gli efficaci soccorsi clic
ci prestarono i Milanesi : ora torneremo sul discorso della
riedificazione di Crema , e toccheremo del modo con cui
era costituito il suo politico regime.
II pensiero di Barbarossa di serrare nel recinto delle
nuove mura gli attigui borghi, avvantaggiò d'ampiezza la
risorgente cittadella , dilatandola in ogni parte fuorché a
settentrione. Quivi il suolo, essendo allora coperto da vasta
palude, impedì di allargare il circuito delle mura. Furono
i Veneziani, sul finire del secolo decimoquinlo, che aggran-
dirono Crema anche dalla parte settentrionale , compren-
dendo nella città quello spazio di terreno ch'ora si vede
oltre la roggia Crema, dai monastero vecchio di Santa
Chiara fino alla Porta Ombriano [*\
Primo lavoro dei Cremaschi fu, come dicemmo, di mu-
nire la terra loro di fosse e di trincee che li schermissero
dagli assalii dei Cremonesi, i quali infatti non ommisero di
molestare i nostri padri nel mentre lavoravano rifabbri-
cando le loro abitazioni, sicché tratto tratto erano costretti
ad interrompere i lavori per impugnare la spada e difen-
dersi. ISel 1190 s'incominciò a cinger Crema con grossis-
sima muraglia dì cinque teste \3' , opera gravissima che
richiedette a compirla nove anni. L'anno 1199 Crema
aveva rialzate le robuste sue mura, ed era bello vederle
coronate all'intorno di venti e una lorricelle o torrioni,
(1/ Storia di Milano.
(2) Fino , Storia di Crema.
«3; Pietro Terni. Storia di Crema.
— 13c2 —
costruiti alla foggia di que' tempi : a ciascun torrione fu
imposto un nome , quale rammentava i più clamorosi av-
venimenti dell' assedio , quale toglievasi dalle famiglie che
vi tenevano davvicino le loro abitazioni (n. «Fabbricarono
» ancora a man destra della Porta di Serio alcuni molini
» cinti di muro e di fosse, per assicurarli dai Cremonesi
» che molte volte gli dettero il foco e saccheggiarono. Ed
» aggiunsero una porla più di quelle che prima avevano ,
» che di Ponte Fario fu domandata , ma non era Porta
» principale , anzi era sottoposta alla Porta di Pianengo ,
» e si domandava Posteria &). »
Prima ancora che la fabbrica delle mura venisse recata
a termine, i quattro quartieri della cittadella, formati dalle
quattro porte principali, vennero suddivisi in altri più pic-
coli , che si domandarono Vicinanze : sommavano a venti-
sette , ciascuna assunse un nome , la maggior parte quello
delle famiglie più ragguardevoli che vi abitavano. La Porla
Ombriano comprendeva quattro Vicinanze che nominaronsi
degli Spoldi, dei Fabbri, dei Bonsignori, dei Pojani. Delle
Vicinanze di Porta Pianengo, ch'erano sei, tre presero il
nome dai Caglali , dai Guinzoni , dai Beccaria. Così fra le
Vicinanze di Porta Serio contavansi quelle dei Civerchi ,
Altieri, Conti di Palazzo, Draghi, Barni , Guaruieri. A
Porta Ripalta v'erano le Vicinanze dei Meleguli, dei Gan-
diui, dei Terni, dei Conti di Qffanengo , dei Toli , degli
Spoldi , e dei capitani di Rivoltella. Le altre sette Vici-
nanze furono chiamate S. Michele , Ponfure , Borgo di so-
pra, Borgo di sotto , il Castelletto e la Piazzai3). Vedrassi
in appresso per quale scopo venisse la nuova cittadella
L . (1) Pietko Terni. Storia di Crema.
(2) Idem.
(3) Di quelle Vicinanze a' nostri giorni conservano ancora i nomi alcune
contrarle , quali sono le contrade dei Toli , degli Spoldi , dei cittadini di 01-
faueugo , dei Civerchi, di Ponfure, di S. Michele e il vicolo dei Bonsignori.
1,).)
scompartita in tanti piccoli quartieri : ora facciamoci a ra-
gionare del suo politico ordinamento.
Si rammenti innanzi tutto che il trattato di Costanza
determinò e restrinse i diritti della supremazia imperiale,
ma non assolse all'aito i Lombardi dalla dipendenza verso
l'impero germanico. Le prerogative degli imperatori si
ridussero ad un annuo tributo indeterminato, ad una con-
tribuzione detta paraiìca da riscuotersi al loro primo venire
in Italia, all' improntare col nome di essi le monete e gli
istrumenli, al difillo di confermare i magistrati e giudicare
in appello. Del resto, veniva assicurala ai Comuni la facoltà
di eleggere i magistrati , far leggi , munire castelli , con-
chiuder guerra e pace , imporsi tributi. Mancò allora ,
come sempre, agli Italiani la suprema condizione, V indi-
pendenza : nondimeno i Comuni profittarono delle accon-
sentile larghezze per ordinarsi in repubblichette, foggiando
ognuna separatamente e con mirabile varietà la propria
costituzione.
In Crema la libertà rifiorì due anni dopo il trattato di
Costanza. Accennammo come il nostro Comune sia stato
investito di tutti i privilegi che un tempo possedevano nel
distretto nostro i conti di Camisano, e come Federico Bar-
barossa ne vergasse il diploma d' investitura addì dodici
maggio del 11 80. Da quel giorno i Cremaschi, dopo venti-
cinque anni di servitù, ripigliarono il libero regime della
loro terra : e dipendendo dall' impero poco meglio che di
nome , modellarono il governo della patria con forme re-
pubblicane. Duolci, che per difetto di memorie non ci ven-
ne fallo di conoscere minutamente le istituzioni che i Cre-
maschi adottarono nel riordinare a repubblichelta il loro
Comune : riferiremo quel poco che abbiamo potuto raggra-
nellare nella cronaca del Terni , ricorrendo in pari tempo
alla storia di altre città lombarde dove giovasse a chiarire
la nostra.
— 154 —
Crema reggevasi con governo popolare. I municipi ita-
liani , quantunque si ordinassero con varietà di costitu-
zioni , accordavansi però tulli nel riconoscere la suprema
signoria nell'assemblea dei cittadini, la quale radunavasi
a suon di trombe o di campana : vi intervenivano plebei
insieme e nobili, sommanti talvolta a più centinaja o mi-
gliaia, i quali decidevano a voti della pace, della guerra,
delle alleanze t1'. Era un trionfo delle dottrine democra-
tiebe, radicatesi nel governo dei Comuni prima ancora che
imperasse Barbarossa. Vedemmo durante l'assedio di Crema
che i nostri ambasciatori , prima di trattare con Federico
la pace , comunicarono al popolo il colloquio tenuto col
patriarca d'Aquileja, e lo consultarono in assemblea sul
partito da prendersi. Il popolo cremasco aveva dunque
parte fin d'allora al governo della patria, associavasi coi
nobili nel reggerne i destini, ed è mirabile come fra le due
classi non rimanga memoria di dissidj, in epoca che negli
altri Comuni i nobili e i plebei cozzarono fra di loro lunga-
mente, aspramente. Forse che il popolo di Crema per vir-
tuosa mansuetudine e santo amore di patria abbonisse dai
civili sconvolgimenti, o piuttosto perchè i nobili nella terra
nostra erano meno superbi e meo prepotenti , pochi es-
sendo coloro che fruivano larghe prerogative feudali. La
famiglia dei conti di Camisano è la sola che nel distretto
cremasco abbia esercitalo poderose giurisdizioni feudali , e
che siasi mantenuta potente pel lungo tratto di circa quat-
tro secoli. Vero è che oltre i conti di Camisano \Mì v'erano
nel territorio nostro i conti di Palazzo, i conti di Tortino,
i conti di Capralba, i conti d'Ofìanengo, i conti d' Azzano.
(1) G. Cantù. Sloria universale.
(2) Apprendiamo dalle nostre cronache che quando a Crema dicevasi i
Conti s' intendeva accennare ai Conti di Camisano : a questi bastava il solo
titolo per distinguerli ; tanto dunque erano superiori di grado e di potenza a
tutti gli altri conti.
— ì:>;> —
i conti di ('usalo, i capitani di Rivoltella: ma non v'ha
cenno nella storia eh1 essi si rendessero potenti. Oltre di
che molti di questi conti, lasciando i loro castelli, s'erano
ridotti ad abitare in Crema, ove dimezzavano col popolo
la sovranità del Comune e l'onore dello prime magistra-
ture. Aggiungasi che a fianco di queste famiglie di conti,
molle altre erano sorte in Crema di possidenti spettabili,
le quali costituivano la nobiltà minore, ed ebbero grande
ingerenza nel governo del Comune. Per non accennarle
tutte, elicci riescirebbe impossibile, ci restringeremo a
rammentare i Benzoni , i Castelli, i Gambazzocco, i Cau-
dini, i Cristiani, i Martinengo, j Caglati, i Toli, gli Spoldi,
i Fabbri, i Corte, i Medici, i Bonati , i Civcrchi , i Gogbi ,
gli Osio, i Bassi, i Meleguli, i Guinzoni, gli Alfieri, i Bon-
signori : famiglie di grave autorità nel Com-une di Crema
fin dal principio del secolo decimosccondo, ed alle quali
in appresso si aggiunsero altre non poche di nobili fuoru-
sciti venuti a Crema da diverse parli d'Italia'1'. Tutte le
succennate famiglie entravano con quelle dei conti e col
popolo a formare il Concilio generale dei cittadini, od as-
semblea del Comune, in cui era riposta la sovranità della
nostra repubblichetta.
Ad esempio di Roma antica, le repubbliche italiane eleg-
gevano per primi magistrati i consoli , varj di numero e
scelti per suffragi. Quali delle città ne contavano due, quali
più: Crema ne aveva tre, incaricati, come scrive il Terni,
di reggere la terra ed amministrare ragione. Oltre i tre
consoli, il Terni scopre da una vecchia scrittura che nel-
(i) Vennero a stabilirsi in Croma i Zurla da Napoli, i Gregori da Terni,
i Gennari da Napoli, i Clavelli dalla Romagna, i Benvenuti da Firenze, i
Vimereati da Milano, gli Oidi dal Lodigiano , i Verdelli dal Bergamasco : e
più tardi i Bernardi da Piacenza, i Dattarino da Nola, i Tadini dal Berga-
masco, i Braguti da Bergamo, i Griffoni da S. Angelo di Romagna, e parec-
chie altre.
— m —
Tanno 1190 v'erano a Crema due podestà (ì] , ai quali
sembra venisse affidata la speciale amministrazione della
giustizia. Forse in Crema, come in altre città, si volle ripa-
rare lo sconcio che i consoli concentrassero nelle loro mani
l'amministrazione del Comune e la giustizia: a Milano, oltre
i consoli maggiori, nominavansi i consoli di giustizia, i primi
destinati al Comune, i secondi ai giudizj.
Certo è che nelle costituzioni delle repubbliche lombarde
nulla v'era di stabile. Lo straniero , fomentando e mante-
nendo destramente le scissure fra cillà e città, impediva che
i Comuni ottenessero la quiete interna, quindi che formas-
sero una durevole struttura dei loro governi. E peggio an-
cora procedettero i negozi dei Comuni coll'introdurvisi le
gelosie fra nobili e plebei, poi quelle malaugurate parti di
guelfi e ghibellini , che le città con intestine discordie la-
ceravano. Scompigliale da fazioni inferocite, implacabili, le
repubblichelte italiane rendevano immagine dell'infermo,
che non trovando posa sopra alcun fianco, col continuo ri-
volgersi or da questo or da quel lato cerca schermo al suo
dolore; perciò mutavano replicatamene le loro costituzioni,
e sempre cercavano di rifoggiare con nuovi ingegni il go-
verno. Né andò guari che a .capo dello Stato moltissime città
italiche posero un podestà, affidandogli il potere esecutivo:
magistratura che quando fu loro imposta da Barbarossa,
esse abborrirono e disdegnarono. Ma poi la risguardarono
quasi un istituzione benefica, e quasi un unico rimedio a
reprimere i tumulti cittadini. Il podestà doveva essere /b-
rasticro (adopero il vocabolo di quel tempo), cioè di città
italiana libera ed amica ; aveva potere illimitato, o, come
lo chiamarono, di sangue; innanzi d'entrare in ufficio do-
veva giurare d'uscirne dopo un anno, né partirsi dalla città
se prima non si fosse sottoposto al sindacato dei magistrali
(1) Terni. Storia di Crema, lib, 3.°
- 137 —
del Comune. Anche a Crema si creò questa carica di no
podestà forestiero, sembra però non così presto; il Terni
notò IVrcivallo Mandcllo, Milanese, podestà ili Crema Tan-
no i^Si, Federico de Guazioni Tanno 1507, e vari altri nel
secolo decimoqaarto, prima che la città nostra cadesse in
potere ilei Visconti.
Sul finire del secolo decimosecondo, oltre i tre consoli
maggiori, v'erano in Crema ventisene consoli minori, che
a' nostri giorni si direbbero capitani della guardia cittadina.
Minacciali continuamente dalle scorrerie dei Cremonesi,
dovettero i Cremaseli*! provvedere alla sicurezza della loro
cittadella. Ne organizzarono la difesa suddividendola, come
dimostrammo, in ventisette Vicinanze, e deputando a cia-
scuna Vicinanza un nobile per capo, col nome di console
minore. Quando per aggressione di nemici la patria era in
pericolo, gridavasi all'armi, ed allora ciascuno dei venti-
selle consoli minori doveva raccogliere il popolo della sua
Vicinanza, guidarlo alle mura, guarnire i ventun torrioni,
le quattro Porte, la Posteria di Ponfure, la piazza. Prov-
vida e sapiente istituzione! come quella che educava tutti
i cittadini alle armi-, ed affidava alla custodia del popolo il
palladio della sua libertà, acciochè lo difendesse coi vigorosi
petti, e col sagrificio del proprio sangue. I consoli minori
crearonsi subito dopo che fu Crema riedificata, ma non
sappiamo fino a qual tempo sieno durali a tutelare colTuf-
ficio loro la sicurezza della nostra cittadella.
Altra magistratura della repubblichelta cremasca era il
cancelliere, che ripartiva le imposte del Comune sui citta-
dini delle quattro Porte ; verso la metà del secolo decimo-
terzo era cancelliere Ternino Terni, cui successe Manfredo,
anch' egli de' Terni.
Le cronache cremasene non accennano con quali leggi
si amministrasse giustizia; nel silenzio dei cronisti, cre-
diamo di non iscostarci gran fatto dal vero asserendo che
— 158 —
i Cremaschi a que' tempi si regolavano con le consuetudini,
le quali formulavansi e venivano sanzionate nelle ordinanze
municipali, ed erano un bizzarro accozzamento di leggi ro-
mane e di barbariche. Però le romane prevalevano sulle
barbariche, avvegnacchè i Comuni si studiassero d'accomo-
dare la loro legislazione allo spirilo di libertà ond' erano
originati. Noteremo come i governi municipali, per quanto
s'informassero a democrazia, non avevano spianata ogni dis-
uguaglianza fra i diversi celi di persone: i feudatarj e il
clero avevano leggi e fori speciali, né tenevansi obbligati
ad obbedire alle ordinanze del Comune; e le plebi dei vil-
laggi, a differenza di quelle delle città, non avevano voce
nelle pubbliche deliberazioni, anzi durava ancora sul finire
del secolo decimosecondo lo sconcio dei servi della gleba l-*>.
Nel seno stesso del Comune alcune famiglie mantenevano
ancora delle prerogative che accennavano a prevalenza;
così in Crema i conti di Camisano, tuttoché spogliali degli
antichi poteri feudali, avevano il diritto d'entrare in città
per una porta di loro uso esclusivo, praticatasi in uno dei
torrioni. I conti di Camisano, scrive il Terni, ebbero la po-
steria nelle mura, segno di maggiore autoritade. Insomma,
i Comuni lombardi, anche dopo il trattato di Costanza, per
quante franchigie avessero conseguito , non raggiunsero tut-
tavia né la piena libertà politica, né la piena libertà civile.
Non la civile, avvegnacchè non vi fosse l'uguaglianza di
tutti i cittadini innanzi alla legge che il Comune emanava;
non la politica, imperocché, come già avvertimmo, non
si erano onninamente francali dalla dipendenza verso l'im-
pero.
(1) Il Terni riportò un istromento dell'anno 1187 con cui certo Visconte
vendette vasti poderi sul Cremasco : vi si legge come il venditore cedendo ai
compratori le sue terre con tutte le annesse ragioni, si riservava il diritto sui
vassali : prceter vassalos quos non vendimus imo nobis reservamus. — Storta
di Crema, lib. 3.°
— 189 —
Prima di proseguire col nostro racconto, diremo corno
Pietro Terni ci ubbia nella su;i cromica conservati parecchi
ìsii'omcnii risguardanti vendite fatte di poderi e pezzi di terra
nel distretto cremasco, dai quali apprendiamo come per
tenuissimo prezzo s alienassero i terreni nella seconda metà
del secolo duodecimo. L'anno 1170 comperassi un prato a
Rivoltella di pertiche nove e nove tavole per trenlacinque
soldi imperiali; Tanno 1179 uno di Rivoltella comperò per-
tiche 20 di terra per soldi 40 imperiali; un conte d'Azzano
nel 1190 comperò pertiche 40 in Azzano per lire quattro
e un soldo imperiali. E due altri islromenti riportò il Terni,
ove, quantunque dalle espressioni non apparisca abbastanza
determinata l'estensione dei poderi che si alienavano, tut-
tavia vi si scorge che per poche lire imperiali si vendettero
latifondi vastissimi (*\ Avvertite che la lira imperiale, se-
condo il ragguaglio che ne fece il dottor Carlo Cattaneo,
rappresentava allora nominalmente una quantità di metallo
corrispondente a ventidue franchi circa , e il soldo e il da-
naro erano in proporzione come adesso. Si badi però, sog-
giunge il Cattaneo, che il metallo a que tempi aveva, in
confronto delle altre merci, un valore assai grande (*),
(i) Terni. Storia di Crema, lib. 3.°
(2) Carlo Cattaneo. Discorso sull'agro lodigiano e cremasco inserito nel
Politecnico.
— 140 —
DOCUMENTI
Documento A.
Atto solenne con cui Federico Barbarossa concede ai Cremaschi la
libertà, redatto in Crema il 12 maggio dell' anno 1185.
« In nomine Domini Patris etFilii et Spiritus Sancti, amen, anno
» ejusdem millesimo centesimo octuagesimo quinto die XII maij,indictio-
j» ne III, inpraesentia Gualphredi de Turricella, et Arvisii Vesilicensis
» Judicum Curia? Imperatoris Federici , et Jamphosii Oliva? et Ducis
n Avoritii Saxoniche militum, et Conciliarum Curia? Imperatoris cum li-
n gno quod in sua tenebat manu. Federicus Dei gratia Romanorum
» Imperator et semper Augustus investivit dominos Benzonum et Ale-
» xium de Sabino et Ottonem Gambazochen, et Nigrum de Rivoltella, et
» Albertum deS. Vito, omnes de Crema, ad partenti et utilitatem Commu-
» nis, et universitatis hominum Castri de Crema, beneficii nomine, nomi-
» native de omnibus honoribus, et omnibus directis, et juribus, et actio-
n nibus , et rationibus , comunantiis , piscationibus , usibus aquarum ,
» aqueductibus , advocariis Ecclesia? seu Ecclesiarum, et duelli facien-
» dis et ordinandis, et judicandis, et omnibus decimis et juribus, et
» actionibus pertinentibus comitibus de Camisano in castro , et ca stro
» et muro, et nomine illius Castri, et de omnibus terris cultivatis et
» inculti vatis , et stantibus in dicto Castro de Crema , et extra illud
«Castrimi infinita, et territorium dicti Castri de Crema, et ejus finita
» nomina benefitii, quas res tenebant Comites de Camisano, vel eorum
t> antecessores , illas videlicet res spectantes , et omnia j ura qua? spe-
» ctare dignoscentur regaria? Imperatoris, et de omnibus terris cultivatis,
» et ineultivatis , et honoribus et juribus pertinentibus Comitibus de Ca-
» misano, et territorio et finita Castri de Crema, et de omnibus emanci-
« pationibus seu manumissionibus faciendis, et consentendo, et auctori-
* tatem prestando eis faciendis , et de omnibus hasreditatibus, et illorum
n qui defuncti fuerint in Castro, et extra Castrum de Crema, et ejusjuris-
— 141 —
- dictionè, et de omnibus, hsereditatibm et Buccessionibus sino logitinio
» bserede interibunt, et in consentiendo mulieribus et minoribua in re-
« bus sxii^ alienandis onm militate, in consulta mnlierìbxui faciendia.
- Ita ut ammodo in antea, Cfommune et unÌYereitas*etbomines Castri de
- Crema qui nune rant, et prò temporibus erunt, habeant, teneant et
r possideant beneficiario nomine omnia pra&dicta, et omnia alia jura
- spectantia dictia Comitibos Camisani regariaa imperatoria in eo Ca-
stro et ("anta et territorii Creme, cum ipsi juraverint fidelitatem ipsi
« Domino Imperatori, et omnibus aliisfuturis Imperatoribus, et Bimiliter
• fidelitatem tacere debent universi bomines mine, et prò temporibus
n babitaverint in piantato Castro CremaB, nullius juris seu investituris,
p factis et faciendis in Comitibus de Camisano, vel eorum antecessori-
» bus vel successoribus inutilis, iueficax, et nullius momenti et eficacia3
n sit , et esse debeant irrita et cassa, et hoc factum est quia elicti Co-
r mites de Camisano non observaverunt fidelitatem Imperiali Majesta-
» ti, et contra fidelitatem venerunt et fecerunt, quia sic inter eos pla-
» cuit et conventum. Actum est hoc felieiter in praedieto Castro de
r> Crema super fossato illius Castri et ab hoc fuerunt rogati Eogerius
r. Vesconte, Paganus de la Turre, Ugo de Camerano de civitate Me-
» diolani • Gotio de Gambara et Bonapas Zaba de Brixia rogati tes-
» tes, etc, etc. ».
(Questo documento, conservatoci dal Terni, venne per la prima
volta pubblicato dal Bacchetti nelle annotazioni al libro I della Storia
di A. Fino.)
Documento D.
Il Giulini ci riportò la sentenza dei ministri imperiali che giudica-
rono l'isola Fulcheria una regalia dell'impero, e quei ministri espres-
sero la loro decisione con le seguenti parole:
« Credit Dominus imperator , et veruna est, quod insula Fulcherii
» cum omnibus suis pertinentis est Regalia. Et credit quod post de-
* structionem Cremai dominus Imperator habuit et tenuit ernia hoc or-
» dine, habendo plenam jurisdictionem et dominium locorum infascri-
« ptorum, videlicet : Azanum, Torlinum, Palatium, Mons, Vallianum,
n Bagnolum, Clevum utrumque, Placianum, salve jure Laudensium quod
n habent in Placiano, Capregnanega , Credaria, Roveretum, Mosca-
» cianum, Monstodunum, Gomedum, Rivoltella et Rivolta, Umbrianum,
» Sanctus Laurentius, et Sanctus Andreas, et totum hoc quod est extra
r> fossatum et suburbium Crenaas. » — Tanto basta, soggiunge Giulini,
a provare con evidenza che l'isola di Fulcherio altro non era che una
— U2 —
parte del territorio di Crema qui minutamente descritta, e che in essa
non entravano le terre possedute dai Milanesi fra 1' Adda e l'Olio. Ma
noi al capitolo primo del nostro racconto dicemmo già come Federico
Barbarossa, infeudando l'anno 1160 l'isola di Fulcherio all'architetto
cremonese Tinto de Tinti, ponesse a confine dell'isola medesima Pon-
tirolo a settentrione ed a mezzodì Pizzighettone.
Documento C.
Riportiamo il diploma con cui Enrico VI cedette ai Cremonesi i
suoi diritti imperiali sopra Crema e l' isola Fulcheria, il qual diploma
togliemmo dal tomo quanto delle Antichità italiane del medio evo
del Muratori.
* In nomine sanetoe et individuai Trinitatis. Henricus Sextus cli-
» vina favente clementia Romanorum Imperato:* et semper Augustus.
n Eminentia majestatis Impera toriaa cum omnium sibi famulantium ob-
» sequiis digna semper beneficiorum impensione consuevit respondere,
** ad eos tamen uberiorem liberalitatis suai muniflcentiam consuevit ex-
n tendere, quos pra3 aliis purioris fidei ac fcrventioris devotionis costantia
n sibi propensius et intensius reddit commendatos. Ea propter noverit
n universorum fidelium Imperli tam praesens oetas quam successimi po-
» steritas, quod nos fidem puram et devotionem sedulam dilectorum fi-
n delium nostrorum civium Cremonensium nostra? at patris nostris Fri-
» derici felicis memoriae Romanorum Imperatoris in vietissimi exhibitas
» celsitudini, diligenti circumspectionis oculo intuentes, eis et Communi
« eorum damus et concedimus et confirmamus omnia jura qua? habe-
n mus, et nobis et Imperio pertiner.t in Castro, vel prò Castro Cremai
« et ejus pertincntiis, sive in censu librai auri, sive in expeditionibus ,
n sive in jurisdictione seu districtu, et in aliis quibuscumque , et loca
» universa et jara, quae habemus, et ad nos pertinent in Insula Ful-
» kerii , et in aliis locis et pertinentiis, quae habeat vel habuit , tene-
» bat vel tenuit proememoratum Commune Cremonensium et Cremo-
» nenses ante reaedificationem Cremai citra Serium et ultra Serium: et
» ea quae tenuit secundum quod praememoratus Pater noster illa eis
" dedit et concessit per suum privilegium : quae omnia loca inferius
n scripta sunt , sive praedicta j ura consistant in placitis, bannis , fodris,
n collectis, molendinis, vadismolendinorum, piscationibus, venationibus,
» aucupationibus, pascuis, herbaticis, terris , aquis , redditibus terra-
» rum, vel aliis obventionibus, sive in expeditionibus faciendis, et sicut
— 1 45 —
- antedictua Pater noater per se habuii vel per Baofl Nuntioe, aive in qui-
- baacnmque aliia. Item daraus eia, oedimua et mandamua omnia j ara et
- at/tioiu's, qiue baberaua et nobiBet Imperio pertinent nomine prtedicto
- rum omnium. Va damua eifl Lieentiam et parabolam auctoritate «o-
- atri intronai in tezmtam, privilegia omnia apud Papienses deposita,
- pertinentia ad Cremam, Insalano Fulkerii et ad alia loca infrascri-
- pta, quaa ois reddi fecimua, privilegio noatro, ut eamdem vini lia-
•• beant et firmitatem, qnam ab initio babuerunt, confirmamna, caaaan-
•• bea scriptum, quod Cremenaea se de praedictia habere dicont : propo-
■ Dentea et eonfitentea, neque noe, neque aspe dictum Patrem nostrum
■ eis hoc umquam conceasiase. Ad haec prememoratia Cremonenaibua
- lieentiam damua in praedictia locia castra et munitionea facere ubi-
li dunque voluerint inter Aduam et Oleum, et incepta refìcere et me-
n liorare. Nomina locorum, de quibus mentio praehabita est, sunt haec :
- Azanum, Farinatum, Capfalba, Campesego, Terzolascus, Seregna-
» num, Albernegum, Pianengum, Vageranum : et hasc sunt ultra Se-
" riunì. Gabianum , Vidolascus , Casale Runcengum , Camisianum,
» Botajanum, Offanengum unum et aliud , Fossanum, Suave, Ma-
li deguanum : haec sunt citra Serium versus Cremonam. Ha3e autem
» sunt loca in Insula Fulkerii constituta : Falazum , Pignanum,
a Montes, Vajnmn, Bagnoli, Clevus, Cavregnanega, Palazanum,
» Credaria, Roveretum, Muscazanus , Moutodanus, Rivoltella, Ri-
a volta , Umbrianus : base sunt in Vavre. Cremosianus , Trescore ,
r> Casaletum, Bordenacium , Quintauus, Piranega et Torlinus. Ha3c
a omnia loca, et eis pertinentia cum aliis, qua? praescripta sunt , prae-
n dictibus Cremonenaibua et eorum (Communi damus , concedimus ,
» et prieseutis pagina? scripto roboramus. Statuentes, et Imperiali edi-
n cto saneientes, ut neque Archiepiscopi aliquis, neque Episcopus,
» neque Dux, neque Marchio, neque Comes, nec Capitaueus, nec Val-
■ vassoi*, neque Rector aliquis, aut Potestas aliqua, aut Commune
n civitatis aliquod, aut aliqua denique persona parva vel magna, sa3-
a cularis vel ecclesiastica huic Pracmaticae sanctioni nostra? obviare ,
a aut aliquo temeritatis ausu infringere praesumat , aut saspius dictos
a Cremonenses, et eorum Commune in omnibus, qua? dieta sunt, aliquo
•' Ueaionia modo perturbare aut molestare attemptet. Quod qui fecerit ,
r> in ultionem tenieritatis sua? sexaginta libras auri puri componat, medie-
v tatem Camera?, partem residuam personis injuriam passis. Ceterum
y> ad majorem hujus rei evidentiam, ac firmius et stabilius hujus do-
» nationis , concessionis et confirmationis munimentum , fidelea nostros
a Oddonem de Comite, et Albertum Struxium de universis, qua? praame-
» morata sunt, nomine Communis Cremona? investivimus, et hoc ipsum
— 144 —
» scriptum nostrum autenticnm majestatis nostrae Bulla aurea jussimus
» communiri. Cujus rei testes sunt Conradus Maguntinas sedis Archie*
» piscopus , Henricus Wormaciensis Episcopus , Bertramus Metensis
» Episcopus, Hermannus Monaseriensis Episcopus , Baldewinus Tra-
» jectensis Episcopus, Conradus Dux de Rotemberc, Comes Albertus
r> de Tagesberc , Comes Sigebertus de Alsatia, Bertoldus de Kuneges-
n bere, Robertus de Durne, Marquardus Dapifer de Annewilre, Hein-
» ricus Pincerna de Lutra, et Conradus de Pizowithono.
» Acta sunt ha3canno ab Incarnatione Domini MCLXXXXII, indi-
« ctione X, regnante Domino Henrico Romanorum Imperatore Serenis-
» simo, anno regni ejus XXXII, Imperii vero primo.»
Documento D,
Diploma con cui l'imperatore Enrico VI conferma ai Cremonesi
l'investitura di Crema e dell' isola Fulckeria e ne gì' immette solen-
nemente in possesso.
« In nomine Domini nostri Jesu Christi. Anno Dominicas Incarna-
» tionis MCXCV, die MartTs , qui fuit sextus intrante mense Junii ,
» indictìone XIII, in civitate Cumana , in Foro Communis praodictae
» civitatis, non multum longe a palacio Cumani Episcopi, seu justa
» ipsum palacium, et in praesentia Alberti de C'arcano , et Jacobi de
n Turri, et Bertari de Carrobio, et Martini Fice, et Arialdi de Rivo,
» Cumanorum civium, et Anzelii de Burgo et Roberti Johannis majoris
» de Cremona : Dominus Henricus, Dei gratia Romanorum Imperator,
» et Rex Siciliae et semper Augustus, dixit aperto hore , Investituram
» quam fecerat de Crema cum Vexillo et Lancea, ipsa die extra portara
» de Turri prasdictaa civitatis 'Ciunana?, in manum Girardi de Johanne-
y> bono et Talamacii de Gaiboldis et Oddonis de Medolago, Consulum
» civitatis Cremonaa ad partem Episcopatus et Communis de Cremona,
» se ipsam Investituram fecisse de Crema et Insula Folcherii, cum om-
» nibus locis et territoriis et juribus et pertinentiis eormn in integrum,
n prò ut continetur in privilegio de Cremona. Et ibi continuo dixit, se
» prcecipere Misso suo, ut vice sui ponere debeat suprascriptum Girar-
» dum, vel alium Nuntium recipientem ex parte Episcopatus et Com-
» munis de Cremona, in possessionem de Crema et Insula Folcherii ,
» et cum omnibus locis et territoriis et juribus et pertinentiis eorum ,
» prò ut supra legitur , quia sic ei placuit. Et ibi interfuerunt quam-
» plures homines Cunianas civitatis et aliarum civitatum Italiaa et alia-
» rum Proviutiarum.
» Ego Amizo Notarius et Judex interfui et scripsi. «
(Tolto dal volume IV delle Antichità italiane del medio evo del
Muratori.)
— U5 —
Pori MENTO E
Atto ool quale Giovanni de Lflo de Asia, legato dell'imperatore
Enrico VI, BOttopone al bando dell'impero Cremaachi, Milanesi e Die
soiani.
w Anno ab Encarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo cen-
■ tarìmo nonageaimo, indictione tertiadecima, die Mercuri] XIII in-
r tirante Jnnio, in Cremona, in publica conciono maxima, Domnua
- Johannes Lilode Asia, Missus etCamerarius Domini Henrici Impe-
■ ratoris ezeellentissimi atque b vietissimi, posuit et misit in banno
»? Domini Henrici Imperatoria Cremenses et Mediolanenses et Brixien-
r> ses, et omnes alios homines qui consilium et adjutorium Cremensibus
« dederunt. Et ideo misit eos Cremenses in bannnm Domini Impera-
li toris, quia prohiberunt prssdictum Johannem Missum Domini Im-
■ peratoris ire ad dandom tenutam Cremonensibua de Castro Cremai,
?» guarnito et disguarnito, et virtute, et loeis et pertinentiis : et quia
■ noluerunt obedire praeceptis prajdicti Missi Domini Imperatoris.
r Ibique fuerc rogati testes comes Lantehims, Comes Albcricus, Co-
r ines Girardus de Camixano, Comes Vibertus, Guazo de Albrigoni-
>» bus , Guiscardus de Coniolo de Bergamo ; Comes Albertus de Mar-
»» tinengo.
» Ego Ubertns Sacri Palatii Xotarius intermi, et praecepto supra-
» scripti Domini Johannis Missi invitissimi Imperatoris liane cartani
v scripsi. »
(Tolto dal volume IV delle Antichità italiane del medio evo del
Muratori.)
10
- 147 —
CAPITOLO QUINTO
SECONDA EPOCA DEL GOVERNO MUNICIPALE.
SOMMARIO.
Crema incendiata. — La libertà dei Cremasela viene rassicurata per un di-
ploma di Ottone IV. — Altro privilegio di Federico II ai Cremaschi. —
Minute guerre dei Comuni fra di loro : i Cremasela parteggiano ancora
pei Milanesi. — Guelfi e ghibellini: origine, movimento, carattere delle
due fazioni. — Crema fu citta guelfa; per quali ragioni. —Famiglie cre-
masene divise tra guelfi e ghibellini. — l Cremaschi partecipano alla lega
ordita in Lombardia contro Federico II. — Sventure dei Collegali. —
Spinella de' Medici, capitano delle milizie cremasche , soccorre i Mi-
lanesi che battagliavano contro Lodigiani e Pavesi. — Interregno in Ger-
mania : dissidii e turbolenze in Italia. — Prevalenza della fazione ghi-
bellina, sostenuta da Ezzelino da Romano. — Oberto Pelavicino, signore
di Cremona, s'impadronisce di Crema. — Quanti anni durasse il governo
del Pelavicino in Crema. — Guelfi e ghibellini che si osteggiano.— Ven-
dette dei guelfi quando rientrarono in Crema coll'ajuto delle armi torriane.
— I ghibellini espellono i guelfi da Crema, ove si fa proclamare signore
il marchese di Monferrato. — Concordia di mille anni, stabilitasi a Milano
tra guelfi e ghibellini. — Rifabbrica del duomo di Crema. — I guelfi
espulsi di bel nuovo da Crema : pace di S. Colombano. — Il guelfismo
sì rende in Crema più forte : i Cremaschi osteggiano Matteo e Galeazzo
Visconti. — Lega contro Matteo Visconti alla quale prende parte Ventu-
rino Renzoni. — 1 Torriani ricuperano la signoria di Milano : Venturino
Renzoni è creato capitano del populo milanese. — Imprese di Venturino. —
Enrico VII discende in Italia e viene incoronalo a Milano. — Sua politica
per riordinare nelle città lombarde la pace. — Rinfiammansi a Crema
l'ire delle fazioni: Venturino Renzoni , capo dei guelfi, discaccia i conti
di Fornuovo. — Superbo conlegno di Venturino Renzoni , per cui si pro-
caccia la nimicizia di Enrico VII. — I guelfi cremaschi, costretti ad esu-
lare, s'uniscono con Guglielmo Cavalcabue, capo dei guelfi Cremonesi. —
1 guelfi si fortificano a Soncino, ove sono assediati dal conte Ombergo ,
generale dell' imperatore. — Fine miserabile del Cavalcabue e di Ventu-
rino Renzoni. — Cenni sulle virtù militari di Venturino Renzoni, e sulla
— 148 —
supremazia ch'egli esercitò tra' suoi concittadini. — Morte di Enrico VI!;
anarchia di poteri in Italia. — Crema si assoggetta al protettorato della
Santa Chiesa, che allora risiedeva in Avignone. — I guelfi prevalgono in
Crema sulla nemica fazione. — Rompesi la guerra fra i Cremaschi ed i
Visconti di Milano: Pagano Della Torre, patriarca d'Aquileja, é mandato
dal pontefice in ajuto dei guelfi. — Galeazzo Visconti è costretto a riti-
rare le sue truppe dall'assedio che avea posto a Crema. — Nuove zufTe
fra guelfi e ghibellini, fra i Cremaschi ed i Visconti. — Discesa in Italia
di Lodovico il Bavaro. — Lettera di Giovanni XXIII ai Cremaschi, con la
quale rammenta loro di avere scomunicato il bavaro imperatore. —
Crema si sottopone volontariamente a Giovanni re di Boemia. — Chi
fosse Giovanni di Boemia, e perché si diede a lui la balia di molte città
lombarde. — Come il re boemo perdesse in Italia le avute signorie. —
Crema figura ancora sottomessa al prottetorato dei pontefici. — Morto Gio-
vanni XXIII, i Cremaschi si assoggettano ad Azzo Visconti. — Le crona-
che cremasene narrano, che Azzo Visconti cedesse la signoria di Crema
ai Cremonesi, e che questi la tenessero per tre anni: ciò sembra con-
traddire con altre cronache. — Finisce l'epoca repubblicana della città di
Crema : considerazioni in proposilo. — Quando i Cremaschi compilassero
i loro statuti municipali. — Cosa in generale contenessero gli statuti delle
città lombarde.
L'anno 1205 Crema bruciò la seconda volta. Fu caso o
vendetta di nemici ? Le cronache cremasene noi dicono W.
Nel 1211, imperando Ottone IV, i Cremaschi, temendo
nuove molestie dai Cremonesi , perchè non era ancora ri-
vocata la concessione che aveva loro fatta del territorio
nostro Enrico VI, pregarono l'imperatore a riconoscere la
libertà di cui godevano ed a confermarla con sovrano re-
scritto. Ottone, aderendo ai voti dei Cremaschi, dichiarò
con un diploma &) : non essere Crema con tutto il suo ter-
ritorio dipendente che dall'impero: annullata qualunque
investitura ne avessero fatto i suoi antecessori; multalo di
<1) Il Fiameni, nella storia di Castelleone, scrive: « L'anno 1204 fu ab-
» bruciata Crema con stratagemma : non sapendosi da chi , i Cremaschi so-
• penavano essere stati i luughi vicini dei Cremonesi causa del suo incendio,
» pero i Caslelleonesi stettero con gli occhi aperti temendo qualche riscatto. •
(2) Vedi il Documento A.
— 110 -
cento lire d'oro chiunque si arrogasse diritti giurisdizionali
sul terreno cremasco. Nel medesimo diploma Ottone esigeva
che i Cremaschi rinnovassero il giuramento di fedeltà al-
l'impero, pagassero l'annuo tributo di una marea d'oro in
ricognizione dell'imperiale supremazia, non istringessero
alleanze con chi si fosse senza l' approvazione degli impe-
ratori; di più, riservavasi il diritto di confermare annual-
mente l'autorità dei consoli eletti dal popolo. Così Ottone IV
annientava ogni pretesa dei Cremonesi o d'altri sul nostro
distretto. I Cremaschi ne tripudiarono per l'allegrezza, e
per (re giorni fecero tanti fuochi che a vederli da lungi
purea che la città un'altra volta ardesse il\
Federico II, successo nell'impero ad Ottone IV (1214),
concedette anch' egli amplissimi privilegi ai Cremaschi; e
diede loro autorità di punire i malfattori senza che v'in-
tervenisse il vicario imperiale ®\
Sul principiare del secolo decimoterzo duravano ancora le
gare fra le città di Lombardia , né si può ben spiegarne i
particolari motivi., Dalla metà del secolo dodicesimo allo
scorcio del tredicesimo, l'Italia settentrionale non ebbe sto-
rici contemporanei : nissuno ci ha rivelato minutamente
le impetuose passioni che agitavano quelle discordi repub-
blichette, e quale politica adottassero le loro assemblee, i
loro magistrati. Appena troviamo indicati sopra magre cro-
nachette (quasi tutte vergate da monaci) il luogo e l'anno
in cui seguì la tale o la tal'altra battaglia, e qualche volta
con discordanze nei nomi e nelle date. Rapporto alle vi-
cende della città nostra, noi, investigando nelle opere del
Muratori, raccogliemmo, che i Cremaschi erano ancora al-
leati dei Milanesi nel 1216 ; che ai 50 di settembre dell'anno
medesimo Milanesi e Cremaschi incrociarono le armi coi
(1) P. Terni. Storia di Crema.
(8 Fino. Storia di Crema.
— 150 —
Parmigiani sul Piacentino; che nel 1218, Milanesi, Gre-
maschi , Lodigiani ed altri alleati accesero un sanguinoso
conflitto a Gihello presso il Po con Cremonesi, Reggiani,
Modenesi e Parmigiani. Questa fu una battaglia combattuta
con singolare accanimento da mezzogiorno fino a mezza-
notte, e ne uscirono con trionfo i Cremonesi w.
Durante il regno di Federico II, l'Italia fu ammorbata
dalle fazioni guelfe e ghibelline che, moltiplicando le civili
contese spensero in non molti anni la libertà dei Comuni.
Crema, esempio di cittadina concordia fino verso la metà
del secolo tredicesimo, divenne anch'essa campo di risse
civili: guelfi e ghibellini per più di due secoli la scombu-
jarono. Incominceremo adunque dal narrare brevemente
l'origine, il movimento, il carattere di queste due sciagu-
rate fazioni.
Ebbero origine e nome in Germania dalla rivalità dei
duchi di Baviera coi duchi di Svevia, potentissime famiglie
che disputaronsi la corona dell'impero e la portarono a
vicenda. Nell'anno 1125 Lotario duca di Sassonia, quando
fu eletto al trono di Germania, cedette il ducato di Sassonia
con molli altri possedimenti al genero Enrico duca di Ba-
viera. Ne contrastò la cessione Federico il Losco duca di
Svevia, onde sorse la discordia tra le due case. Pullularono
in Germania partigiani dell'una e dell'altra, e siccome
Guelfo era il nome di famiglia della casa di Enrico di Ba-
viera, guelfi si dissero i suoi fautori, ghibellini quelli che
parteggiavano colla casa sveva,da Gibelingh, castello che i
duchi svevi possedevano nella diocesi di Àugusburgo. « II
fi primo grido di guerra coi nomi di guelfo e ghibellino si
*i udì nella battaglia di Vinsbergh in Germania (1137), bat-
» taglia che diede la corona a Corrado li di Svevia, ossia
♦i dei ghibellini ^2). n
(1) Muratori. Annali ci' Italia.
\2) Gabriel Rosa. I feudi ed i comuni.
— 151 —
Dorava a quo' tempi fra il papato e l'impero la gran con-
tesa intorno alle investiture dei beni ecclesiastici, contesa
rincrudita con immenso coraggio da Gregorio VII. I Pon-
tefici, nella (Serissima lotta colf impero, avendo osteggiato
la casa sveva ossia dei ghibellini, e protetta la casa lincila
dei duchi di Baviera, ne derivò che della Chiesa si dices-
sero fautori i guelfi, nemici i ghibellini.
Se consideriamo le l'azioni guelfe e ghibelline quali ori-
ginarono in Germania, esprimenti cioè la rivalila di due
principesche famiglie, la parte guelfa si ramificò ben to-
sto anche in Italia per la parentela dei marchesi di To-
scana coi duchi di Baviera, sicché dapprincipio la fazion
guelfa in Italia dinolavasi col nome di marchesca. Se poi
nel conflitto delle due fazioni consideriamo la parte che vi
presero i pontefici, osteggiando la casa sveva o ghibellina,
allora assumono colore di guelfismo tutte quelle città lom-
barde che nel secolo dodicesimo, con a capo Alessandro III,
si confederarono contro Federico Barbarossa,e conseguen-
temente chiameremo ghibellini quei Comuni e quei signo-
rotti italiani che ajutarono Barbarossa nell' opprimere le
terre lombarde. Ma \eramcnte questi nomi di guelfo e
ghibellino non si adottarono in Italia a distinguere due
nemiche fazioni che sull' incominciare del secolo decimo-
terzo, allora appunto che in Germania le parti guelfe e
ghibelline spegnevansi. Risorte con più feroce accanimento
le inimicizie dei pontefici contro la casa sveva quando re-
gnò Federico li, gl'Italiani si divisero in due partiti: il
guelfo, ossia dei pontefici; il ghibellino, ossia degli imperatori.
Qual'era lo scopo delle due fazioni? I guelfi rappresenta-
vano la resistenza all'assolutismo imperiale, non già per
eliminarlo interamente e sostituirvi una schietta indipen-
denza italiana, bensì per restringerlo e subordinarlo all'au-
torità del papato. Volevano innalzare a maggior gloria d'in-
dipendenza il gonfalone del proprio Comune; volevano, nel
— 132 —
centro delle loro repubblichelle , sviluppare le acquisite
libertà con forme democratiche, e credevano raggiungerne
l'intento, attemperando la supremazia dell'impero con quella
del papato. Quesla febbre di democrazia, queste aspirazioni
a rendersi meno dipendenti dalla suprema autorità dell'im-
pero, ripugnavano ai ghibellini; le accusavano siccome pro-
vocatrici di tumulti popolari, siccome ostacolo a obesi fon-
dasse in Italia un governo abbastanza robusto da renderla
concorde al di dentro, rispettala al di fuori. Agognando
così il buon ordine e la stabilità di un governo forte in
Italia, i ghibellini studiavansi di consolidare nella nostra
penisola la potenza dei re di Germania, e volevano con
questi risuscitare il cadavere dell'impero romano. Insomma,
i guelfi, avversando lo straniero, miravano all'indipendenza
italiana senza averne concepito un' idea perfetta, e per con-
seguirla si sottomettevano di buon grado all'arbitrato dei
pontefici; i ghibellini invece tendevano ad unificare l'Italia
sotto la forma di una poderosa monarchia. Non e' impan-
ceremo a sentenziare quale dei due partiti fosse il mi-
gliore , imperocché bisognerebbe conoscere ben addentro le
disordinate condizioni degli Italiani in que' tempi: ci basterà
riportare in proposito il giudizio di un chiarissimo scrittore
moderno: u I guelfi ideando la teocrazia si mostrarono più
n immaginosi, probi ed utopisti; i ghibellini, più reali e
m pratici, ricordavano che le società sono fatte d'uomini
» e per uomini; lo spirito democratico dei primi declinava
»» alla insolenza individuale e alla sregolatezza; l'idea orga-
m natrice degli altri li portava alla forza e alla tirannide (i). »
Alla fazione dei ghibellini s'accostarono i nobili più po-
tenti che ambivano ricuperare prerogative feudali, e ante-
ponevano di obbedire ad un imperatore piuttosto che ad un
governo di borghesi. Il guelfìsmo era sostenuto dalla nobiltà
(1) Cesare Cantù. Storia degli Italiani.
— 153 —
minore e dalla borghesia, specialmente dei commercianti e
industriali: la plebe serviva, come è suo costume, ad ambo
i partiti, seguendo chi sapeva meglio guadagnarsela con
lusinghiere parole, e pagarla con prommesse di protezione.
Quindi mal non s'appongono coloro i quali scorgono nel
partito ghibellino una rea/ione dell'abbattuta aristocrazia
feudale contro lo spirito popolare e commerciale dei mu-
nicipi che T avevano domata. L'elemento democratico in-
fatti si era sviluppalo, più clic in altre città, a Firenze ed
a Milano, e l'una e l'altra furono eminentemente guelfe.
Ma col volger degli anni andò tralignando l'indole dei
parliti guelfi e ghibellini; questi nomi non significavano più
Chiesa ed Impero: erano vessilli di sangue che nei Comuni
s'inalberavano da poderose famiglie quando volevano com-
piere atroci vendette, o salire al potere calpestando cada-
veri di liberi cittadini.
Crema fu città guelfa : la sua storia ne rende splendida
testimonianza. Dopo aver resistito eroicamente al più formi-
dabile degli imperatori svevi , i Cremaseli associaronsi nel-
l' alleanza che parecchie città lombarde formarono contro
Enrico VI (1195), indi a quella giurata dalle città guelfe
contro Federico II: ed ancora sul principiare del secolo
decimoquarto, il guelfismo, rappresentato in Lombardia dalla
famiglia milanese dei Torriani, trovò sostegno nei Benzoni,
antesignani dei guelfi cremaschi.
Non è difficile comprendere per quali motivi abbia in
Crema prevalso il guelfismo. Disdegnosi di servitù, i Cre-
maschi abborrivano la dinastia sveva , come quella che sa-
grificò ripetutamente la loro indipendenza all'ambizione dei
Cremonesi. E per emanciparsi dal giogo feudale di Cremo-
na, per difendersi dalle continue aggressioni, avendo biso-
gno di un forte alleato, Crema ricorse e si affratellò a Mi-
lano, alla cospicua metropoli che in quell'epoca era la
rocca dei guelfi e della libertà in Lombardia. I nostri pa-
— \U —
dri adunque furono guelfi, perchè importava loro assaissimo
di mantenersi liberi. Oltre di che avvertiremo che la fa-
zione ghibellina prese più salde radici nei paesi dove gran-
deggiavano famiglie poderose per vasti possedimenti , su-
perbe per la memoria delle antiche prerogative feudali. Di
queste magnatizie famiglie, le quali coll'aderire. all'impero
sognavano di far rifiorire la potenza e la gloria dei loro
castelli, una sola annidava nel territorio cremasco ed era
dei conti di Camisano. Le altre che a Crema rappresen-
tavano il patriziato, erano pressoché tutte famiglie di pos-
sidenti, la cui nobiltà non traeva l'origine da un diploma
imperiale, che avesse loro concesso il privilegio di poter
opprimer legalmente un contado. La nobiltà cremasca at-
tingeva il suo splendore non dalla robustezza delle sue
torri feudali, non dal numero de' suoi vassalli, bensì dal
suffragio popolare che le affidava le prime magistrature del
Comune, e meglio ancora dai vigorosi petti con i quali essa,
ove sorgesse il bisogno, difendeva la libertà dei concittadini.
E qui noteremo di volo che è particolar vanto delle città
italiane possedere moltissime prosapie la cui nobiltà ebbe
un'origine tanto generosa; è questa un'osservazione che
non isfuggì alla penna di Cesare Cantù e di Carlo Catta-
neo (0: così balenasse qualche volta al pensiero di certi pa-
trizi indecorosamente vanitosi , e ne togliessero esempio di
virtù cittadine !
La fazione ghibellina incominciò ad allignare nel terreno
cremasco verso la metà del secolo decimoterzo; ne spiega-
rono il vessillo i conti di Camisano, i quali coli' opulenza
e colle numerose clientele di loro famiglia procacciaronsi
non pochi partigiani. Capi dei guelfi s'elevarono i Benzoni,
famiglia anch'essa doviziosa e molto riverita in Crema, per-
chè già da tempo vi occupava le più onorifiche magistra-
(i) Cesare Cantù. Storia degli Italiani. Carlo CattaìNeo. Archivio storico.
— tra —
uno. Le famiglie nobili si divisero in (lue partiti: quali ai
dissero guelfe, e favoreggiarono i Benzoni; quali ghibelline,
e si unirono ai conti ili Camisano. Nel corso della storia di
Croma appariscono lineilo le famiglie Viinereali , /urla,
Terni, Verdelli, Goghi, Alandoli, Alfieri, Piacenzi, Marchi,
Cusatri, Benvenuti, Gennarj, Monticelli, Della Noce, Marti-
nengo, Medici, Patrini, Obizi, Castelli, Braguti, Hobalti, e
i conti di Capralba. Ghibelline le famiglie de1 Guinzoni, Gam-
bazocco, Tintori, Guarini, Bernardi, Figati, Alcbini, Fre-
cavalli, Pojani, Passerotti, Scecbi, Bassi, Gandini, Cristiani.
Non era però raro il caso di diserzioni dall'uno all'altro
partito, e che dell' istessa famiglia alcuni s'attnippassero
coi guelfi, altri coi ghibellini.
Ripigliando il filo del nostro racconto, ci trasporteremo
ai tempi di Federico II per iscoprire come si atteggiasse la
politica dei Crcmaschi, a fronte dei gravi sconvolgimenti che
travagliarono la Lombardia, imperando il nipote di Bar-
barossa.
Nel 1226 Milano fece rivivere la lega lombarda, alla quale
si accostarono le città guelfe che abbonivano la casa sveva:
scopo della lega, guerreggiare la fazion ghibellina e Fede-
rico II, cui i Milanesi avevano rifiutata la corona d'Italia.
I deputati delle città che entravano nella nuova alleanza
convennero a S. Zenone sul mantovano, ove nel giorno 2
di maggio (1226), valendosi di un capitolo del trattato di
Costanza che permetteva ai Comuni di formare alleanze in-
dipendentemente dall'approvazione imperiale, rinnovarono
i patti della prima lega lombarda. I Cremaschi non inter-
vennero a quel congresso, forse che simulassero di rispet-
tare la condizione, loro imposta da Ottone IV, di non fare
alleanze senza il consentimento degli imperatori; nondimeno
le cronache di quei tempi c'istruiscono che la città nostra
si mantenne fedele al partito antimperiale, o come dicevasi
allora volgarmente in Italia, partito guelfo. Le simpatie dei
— 156 -
popoli, quando è il cuore che le governa, non mutano facil-
mente. Gli animi dei Cremaschi non potevano così presto
riconciliarsi con la casa sveva; l'ira di Federico Barbarossa
li ave*va solcati con piaga profonda troppo perch'essi se ne
dimenticassero. L'eccidio di Crema da lui operato, lasciò nel
popolo rimembranze dolorosissime, incancellabili: i più vec-
chi dei magistrati che nei tempi di Federico II reggevano
il nostro Comune, aveano, fanciulli, assistilo al supplizio
della patria; i più giovani erano prole dei forti che sangue
e vita immolarono per difendere la terra natale. Ed i se-
polcri dei martiri della patria crescono sempre copiosa
messe d'ira e di abborrimento verso le famiglie degli op-
pressori, eredità che le generazioni dei vinti conservano
inviolata, e succedendosi trasmettono quasi fedecommesso ai
più tardi nepoti. Era dunque da aspettarsi che i Cremaschi
si accomunassero con le città delle lega guelfa per isfogare
l'acerbissimo odio contro la casa sveva; infatti, dalle cro-
nache nostre, e da lettere di Onorio III^ apprendiamo
aver Crema aderito alla fazione del pontefice e delle città
guelfe, comunque non fosse intervenuta a S. Zenone, a giu-
rare i patti dell'alleanza.
I Cremaschi insieme ai collegati presero le armi contro
Federico II nel 1257, anno che volse infausto alla nuova
lega lombarda. Addì 27 di novembre l'imperatore assaliva
d'improvviso le milizie dei confederati presso Cortenuova,
e scompigliavale dopo ostinatissima pugna, togliendo ai Mi-
lanesi il carroccio. Sbigottite pel disastro di Cortenuova,
parecchie città della lega si sottoposero volontarie all'impe-
ratore che , imbaldanzito della vittoria , inlimava al popolo
milanese di arrendersi a discrezione. Milano alla superba
intimazione di Federico rispose con sentimenti spartani, e
non che arrendersi, disponevasi a soccorer Brescia, stretta
(1) Muratori. Annali d'Italia.
— 187 —
dall' imperatore con barbaro Bssedio. Ad onta dello sven-
ture toccale alla lega guelfa, i Cremaschi perseverarono
Dell'alleanza dei Milanesi e dei Bresciani: in Crematosi
raccolsero e si riordinarono le sperperate milizie dei colle-
gati, che dalla città nostra corsero poi a devastare il terri-
torio di Bergamo onde impedire che i Bergamaschi sussi-
diassero Federico nel mentre osteggiava i Bresciani. Bre-
scia, difesa al di dentro dal coraggio eroico di una popola-
zione guerriera, aiutata al di fuori dai Milanesi, si liberò
dall' assedio di Federico dopo circa quattro mesi di stu-
penda rcsitenza.
Correva Tanno 1245, quando al 17 di luglio InnocenzoII,
con F autorità che i PonteGci da alcuni secoli s'arrogavano,
depose lo scomunicalo Federico II dall'impero. Lo svevo,
per ottenere il perdono papale, tentò ogni mezzo ma infrut-
tuosamente : il vicario di Cristo fu inesorabile, quindi Fe-
derico II moriva in Pilglia nel 1250 senza aver potuto le-
varsi di dosso l'anatema.
Nell'anno medesimo (1250) Crema era ancora l'alleata
dei Milanesi. Guerreggiavano questi contro Lodigiani e
Pavesi, e presso Lodi Vecchio si trovarono chiusi da ogni
lato dalle falangi nemiche. Era diffìcile e pericolosa d'as-
sai la situazione dei Milanesi , e perchè non rimaneva
loro aperta alcuna via da potersi ritirare , e perchè i ne-
mici li soperchiavano di forze. Si era già acceso il combat-
timento , allorché in soccorso dei Milanesi giunsero le mi-
lizie di Crema, guidate da Spinella de Medici, concittadino
nostro , uomo assai celebre nelle armi \%. V improvviso
arrivo del Medici pose tanto sgomento Dell' animo dei ne-
mici che, cessando il combattere, si ritirarono issofatto: e i
(1) Fino. Storia di Cì'ema.
(1) Giulini. Storia di Milano. Di Spinella de Medici fanno onorevole men-
zit ne anche il Curio, Il Terni e il Fino.
— 138 -
Milanesi, liberati dal periglioso cimento, senza patire al-
cuna molestia poterono far ritorno alla propria città.
Dopo la morte di Federico II vi fu un interregno di
venti e più anni : la Germania trascurò i suoi interessi in
Italia , e per ben settant1 anni non furono veduti venire
nelle terre lombarde imperatori a riclamare i loro diritti
di supremazia. Avrebbero potuto in questo tempo le no-
stre repubblicbette emanciparsi totalmente dalla dipen-
denza imperiale , e rassodare sopra più salde basi le loro
costituzioni. Ci pesa il dirlo: gì' Italiani banno così bell'oc-
casione turpemente sprecala. Quando mancò la necessità
di difendersi dalle pretese dello straniero, essi rivolsero
contro di sé medesimi le armi ancora ammaccate dalle
ascie tedesebe, insozzando di sangue cittadino il santuario
della patria. Furori di parti guelfe e ghibelline , contese
qua e là divampanti fra nobili e plebei , stemperate ambi-
zioni di famiglie prepotenti acceselo nelle contrade ita-
liane il fuoco della civile discordia : ne conseguirono tu-
multi popolari, risse sanguinose, incendj, esilii, confische
di beni , scene deplorabili da far ridere la Germania , se
anch'essa in allora non avesse avuto in casa sua serii
motivi da piangere. Finora nel corso del nostro racconto
mostrammo come per egoismi e gelosie municipali duellas-
sero i Comuni fra di loro: ora ci toccherà vedere la feroce
insania dei parliti spingere Y un contro V altro abilanti
dello stesso Comune, e gli odj civili nutrirsi di spietate
vendette, e gl'interessi della libertà sagriflcati al trionfo
di una fazione. Nel tempestare delle civili discordie, citta-
dini ambiziosi si arrogarono nei Comuni poteri illimitati;
il popolo non vi si opponeva , perocché , spossato dalle
continue turbolenze , finiva col preferire al procelloso go-
verno delle fazioni il letargo della servitù e Y obbedire ad
un solo. Originò nel secolo decimoterzo la potenza di pa-
recchie famiglie sorte a dominare in varie parti d'Italia. Si
- 189 —
(torti deHe oìtìIì dissensioni sgabello ni poterò gli Estensi,
gli Eizelini, i Pelavicioo, i Torrioni, i Visconti, ed altri,
verificandosi allora, come sempre, la sentenza di un mo-
derno Scrittore: popolo diviso e immoderato è buon con-
cio da ingrassar tiranni ' .
Verso la metà del secolo deeimotcrzo era già sparsa nel
suolo cremaste la funesta zizzania delle fazioni guelfe e
ghibelline. L'anno 12o8 prevalevano in Lombardia le forze
dei ghibellini : ne era sostenitore Ezzelino da Romano ,
animo effe r a Lo , mostro di barbarie, che la storia chiamò
flagello dell' uman genere. Ezzelino aveva un allealo in
Oberto Pclavicino , signore di Cremona e di Piacenza , il
quale essendo anch' egli caldissimo ghibellino e vago di
conquiste , soccorreva colle armi Ezzelino per isparlire
con lui i frutti delle vittorie. Ben potete figurarvi come,
per conseguire i loro ambiziosi disegni, questi capi -parte
s' adoprassero scaltramente a soffiare nel fuoco delle civili
discordie che già divorava le città lombarde. Con tali arti
Ezzelino era riuscito ad allargare la sua autorità da Pa-
dova a Brescia, e divisava di stendere il feroce artiglio fin
sopra Milano. I Cremaschi avevano motivo di spaventarsi
vedendo P immane Ezzelino ampliare le sue conquiste e
maneggiarsi per impadronirsi di Brescia : nò alla di lui
crescente grandezza poteva formar di contrappeso la città
di Milano, perchè lacerata internamente anch'essa da fa-
zioni; Martino Della Torre, che vi signoreggiava, era in-
tento a tenere in briglia la nobiltà, contro la quale egli,
come sostegno del popolo, dovea continuamente cozzare.
Per siffatte condizioni Crema versava in grave pericolo,
ed il partito ghibellino vi prevaleva : quando « Uberto Pe-
» lavicino, signore di Cremona e di Piacenza, per il mezzo
» di Buoso di Dovera , entrò nel mese di luglio in Crema
(i) N. Tommaseo, nel suo libro, II Duca d'Atene.
— 160 —
» con le genti Cremonesi e cinquecento fanti della Marca,
» e pigliate le torri e fortezze , costrinse il popolo crema-
» sco a giurargli obbedienza (1) » . 11 Muratori asserisce ,
che il Pelavicino fu cbiamato in Crema dai Benzoni , e col
Muratori si accorda il Figati, dicendo che nel 1258 Uberto
Pelavicino si impadronì di Crema per opera dei Benzoni &).
Il Fino scrive, che i Benzoni e loro partigiani consentirono
all'entrata del Pelavicino. Noi, ad onta dell'autorità del
Muratori e del Figati, propendiamo Dell'accogliere piuttosto
in istretto senso l'espressione del Fino, cioè che i Benzoni,
conosciuta la debolezza della loro fazione , consentissero
alla signoria del Pelavicino , ma non fosse opera loro il
procacciargliela. Altrimenti ci tornerebbe difficile spiegare
come i Benzoni , che nel seguito della nostra storia ci si
appalesano costantemente propugnatori e capi del guel-
fismo in Crema , vi abbiano introdotto il marchese Oberto.
Nondimeno qualche arguto ingegno potrebbe conciliare la
cosa, dicendo che i Benzoni , tutto che guelfi , diedero la
patria loro in balia di un ghibellino cremonese per sot-
trarla al pericolo di vederla calpestata da un tiranno ben
più scellerato qual era Ezzelino da Bomano.
Oberto Pelavicino, fatto signore di Crema , vi discacciò
i guelfi , vi pose a podestà un patrizio milanese della fa-
miglia Mandelloi3). Nell'anno successivo (1259) fu bandita
in Lombardia la crociala contro Ezzelino da Bomano : il
marchese Oberto, rompendo, per sofferte frodi, l'amicizia
d'Ezzelino, si congiunse ai guelfi, disponendosi a guer-
reggiare il suo antico allealo. E perchè si temeva che Ez-
zelino venisse da Brescia ad accampare coli' esercito sotto
Crema, il Pelavicino fu sollecito nel fornire la nostra citta-
fi) Fino. Storia di Crema.
(2) MuiiAToui. Annali d' Italia. — Ippolito Figati. Cronachetta cremasca
manoscritta.
(,3) Giuliki. Storia di Milano.
— 164 —
della ili grosso presidio: Ezzelino, passato l'Oglio a Pala/
zuolo, portò invece la guerra oel territorio milanese., ed
affrontatosi col nemico a Cassano, rimase mortalmente
ferito.
Nell'anno 12G0, il marchese Oberto, cui Martino Della
Torre a\ea concessa per cinque anni la balia di Milano,
aggregò le milizie di Crema con le sue di Cremona , di
Milano e di Brescia, e le mosse contro i Piacentini che idi
si erano ribellali'11. La vittoria avendo sorriso alle armi
del Pelavicino , i Piacentini gli dovettero ripiegare il capo.
Come ed in qual giorno sia cessata in Crema la signoria
del Pelavicino non si può con esaltezza determinare : le
cronache nostre gli attribuiscono sci anni di dominio .
quindi sarebbe slato spodestato Panno medesimo (1264)
in cui Filippo Della Torre lo costrinse a deporre la signo-
ria di Milano.
11 marchese Oberto mancò di vita Panno 12G9, ridallo,
dopo la signoria di tante città, in assai basso stalo l1). 1
guelii che P abbonavano , si sforzano di paragonarlo per
empietà e barbarie ad Ezzelino : narrano che morì scomu-
nicato e impenitente. La cronaca di Piacenza invece, dopo
averlo encomiato per affabilità e prudenza d'animo, ci at-
testa che il marchese morì con grande esemplarità fra le
braccia dei religiosità.
Le cronache non ci raccontano in qual modo il Pelavi-
cino abbia Crema governata. 11 Terni ci ha riportali alcuni
documenti dai quali scopriamo che all'epoca del suo do-
minio (1261) i cittadini facevano in Crema separatamente
i loro consigli e statuti per ogni Porta. Se dunque per-
me Uè vasi ai cittadini di radunarsi in separati consigli , e
dettare gli statuti pel proprio quartiere, argomentiamo che
(i) Mcf.atoiu. Annali <V Italia.
[%) Ctonie. Placent. Turno XVI Rerum italkarum del Muratori.
il
— 162 —
il marchese Oberto non abbia esercitato nella città nostra
un potere assoluto: vacando allora l'impero, forse egli si
arrogò in Crema queir autorità di supremo dominio che
apparteneva agli imperatori.
Spentala signoria del Pelavicino, Crema riebbe la libertà,
se pure è degno di questo nome lo stato di una repubbli-
clietla sempre fortuneegianle nell' anarchia delle fazioni.
Nel 1*275 cessò in Germania l'interregno col!' elezione di
Rodolfo d'Àbsburgh, il quale non scese mai in Italia , non
curandosi gran fatto di sostenervi le prerogative imperiali.
Due anni dopo l'assunzione al trono di Rodolfo, vennero a
Crema un suo cancelliere ed un legato pontiGcio, richieden-
do, come in altre città, che il popolo giurasse obbedienza ai
precetti della Chiesa e fedeltà all' imperatore (n. La mis-
sione dei due legati avea per iscopo di ammorzare l'ire dei
partili guelfi e ghibellini, ma fu indarno, perchè sciagura-
tamente divamparono in Crema ed altrove per molti anni
ancora.
La storia di Crema negli ultimi trent'anni del secolo de-
cimoterzo, quale ci viene rappresentala dalle cronache, può
stringersi tutta in queste parole: guelfi e ghibellini che im-
placabilmente si osteggiano. Quindi, anziché porci sott'occhi
quadri svariati, ci riproduce continuamente le slesse vicis-
situdini : un ostinato accapigliarsi dei due partiti, e avvi-
cendate espulsioni, e ripetuti ma sempre fallili accordi, e
qualche tirannello, che, ben pasciuto dell'aura popolare della
sua fazione e del sangue dell'avversaria, giunge a padro-
neggiare con illimitato potere e l'uno e l'altro partito. Dav-
vero che la mente nostra si stanca di rimanere spettatrice
di un dramma il quale si intreccia unicamente di risse
fraterne, ed ove spesse volte non puoi comprendere cosi
a un tratto i viluppi che nascevano dalla sregolata politica
(1} Fino. Storia di Crema.
— 163 — •
dello due fazioni ■' , Bieche li sorprendi vedendo i Milanesi
talvolta alleali, tal'altra nemici dei Cremaschi; e Cremonesi
e Lodigiani, un lempo ostinati nemici dei Cremaschi, unirsi
poi a questi sotto la bandiera or guelfa or ghibellina. A schia-
rimento dei fatti clic ci accingiamo a narrare premetteremo
un'osservazione. Le sorli dei due partili fluttuavano in
Crema continuamente, e Tessere favorevoli piuttosto all'uno
che all'altro, dipendeva non di rado dalle vicende di Milano.
Là si contrastavano il primato due famiglie, i Della Torre
ed i Visconti, guelfi i primi, ghibellini i secondi. I Milanesi,
comunque credessero di vivere ancora repuhblicamente, in
realtà non combattevano più per la libertà e gloria del loro
Comune, ma per decidere se avrebbero obbedito piuttosto
ad un Visconti che ad un Della Torre. Nelle sanguinose
gare di quelle due famiglie, le quali ambivano ben più vasto
dominio che il milanese, i ghibellini di Lombardia s'allearono
coi Visconti , i guelfi coi Torriani , e secondo che la sorte
delle armi Visconti o Torriani favoreggiava, ora l'una ora
r altra delle due fazioni prevaleva.
Nell'anno 1277 Napo Delia-Torre, essendo stato sconfitto
a Desio dall'arcivescovo Ottone Visconti, dovette cedere a
lui la signoria di Milano. Ma poi volendo i Torriani ricu-
perare la perduta grandezza , s' unirono a Lodi con altri
Milanesi fuorusciti, disponendosi a guerreggiare il Visconti.
1 guelfi (-) di Crema , trovandosi in queir anno discacciati
dalla città loro, s'accoppiarono aneli' essi alle milizie dei
(1) Paolo Emiliani Giudici scrive: « La Storia di Lombardia in cotesti anni
» procede così arruffona sicché riesce impossibile trovare un sito comune cui
• riannodare gl'innumerevoli fatti che la compungono.» — Storia politica
dei Municipi italiani.
(2) Le Cronache di Crema asseriscono che i guelfi erano esuli dalla patria
fin dal giorno in cui ne li aveva discacciati il marchese Pelavicino ; il che
<i sembra incredibile, perocché nei venti anni che trascorsero dal 1258 al
1278 non mancarono in Lombardia occasioni propizie al guelfismo per riva-
lere e rifarsi dei patiti disastri.
— 164 —
Torriani , e dopo avere con ripetute scorrerie devastalo
varie terre del Milanese, entrarono a forza in Crema (1278).
Sitibondi di vendetta, appiccarono il fuoco alle case dei
principali ghibellini, e perchè soffiò d'improvviso un impe-
tuosissimo vento , le fiamme si dilatarono orribilmente , e
buona parte della nostra cittadella rimase incendiata. Non
soddisfatti del guasto arrecato alla patria , i guelfi espul-
sero da Crema i ghibellini: solita rappresaglia; ma il trionfo
dei guelfi non ebbe in Crema lunga durata: tre anui dopo
prevalsero ancora i ghibellini.
L'arcivescovo Ottone Visconti, allo scopo di reprimere i
suoi nemici e consolidarsi in potere, aveva affidato il go-
verno di Milano al marchese di Monferrato, con facoltà di
far guerra e pace. Essendo l'arcivescovo nel 1281 trava-
gliato dai guelfi di Cremona, il marchese, per abbatterli,
divisò di valersi di Buoso di Dovera, ghibellino cremonese,
e dare a questi la signoria di Crema acciocché potesse con
forze maggiori offendere Cremona. Ma poi, com'ehbe aquar-
lierati nella terra nostra ottocento militi con Buoso di Do-
vera, il marchese di Monferrato entrò con altre legioni in
Crema e vi si fece proclamare signore. Allora i ghibellini
cremaschi fuorusciti, divenuti animosi, ritornarono a Crema,
festeggiando la novella signoria del marchese: i guelfi accor-
gendosi che non soffiava per essi aura proprizia, fuggirono
dalle case loro e ricoverarono a Castelleone. Ivi avevano
raccolte le forze loro i guelfi di Crema , di Lodi e di Cre-
mona : il marchese di Monferrato minacciava tratto tratto
di assalirli, e s'era piantato cogli accampamenti a poca di-
stanza da Castelleone; ma furono minacce dalle quali non
conseguì verun fatto d'armi: il marchese nel luglio dei 1282
ritiravasi colle sue truppe a Milano. Intanto i guelfi, col
mezzo dei loro deputati, trattavano di pacificarsi coll'arci-
vescovo Ottone Visconti , cui pure premeva di venire ad
un accordo coi cuelfi , ed anche di liberarsi dalla soece-
— 169 —
zinne del marchese ili Monferrato 0. Stipulossi, a Milano
una paco cui s'ingiunse per condizione, dovesse ogni
città ili Lombardia scacciare i fuorusciti, obbligandoli per
tal modo a restituirsi alle case loro. Mercè quel imitato
(1282) Crema liberassi dalla signoria del marchese di Mon-
ferrato, e vide nel suo grembo riunirsi guelfi e ghibellini:
avevano sembianze di riconciliati, ma nel segreto dell'animo
vagheggiavano nuove occasioni per venire alle mani e so-
perchiarsi.
Torceremo per un istante lo sguardo da queste ringhiose
fazioni per rivolgerlo ad un'opera di religioso decoro, di
pubblico ornamento, la quale si incominciò a Crema allora
appunto che sembravano composti a pace gli animi dei
guellì e dei ghibellini. Intendo parlare della rifabbrica della
cattedrale, chei nostri padri intrapresero l'anno 1284, fosse
che la vetustà dell' antico duomo la rendesse necessaria,
fosse che i Cremaschi, sull'esempio delle città vicine, vo-
lessero con più splendido edifìcio dimostrare la ricchezza e
i religiosi sentimenti del loro Comune. È degno di osserva-
zione come nei paesi lombardi, tra le faville delle cittadine
discordie, s' agitasse uno spirito vivificatore delle scienze,
delle arti, dell'industria : è mirabile dover gli Italiani al
tumultuoso secolo decimoterzo, le mura delle città3 i templi
aperti a lutto il popolo, i canali che inafftano e rendono
ubertoso il suolo lombardo ia). Convien dire che i Lom-
bardi, governandosi con forme repubblicane acquistassero
tale esuberanza di vita che, per quanta ne sciupassero a
rodersi l'un l'altro, pure ne avanzava loro ancora a suffi-
cienza da prendersi un' amorosa cura della loro terra , ed
abbellirla con opere grandiose , le quali profittavano non
solamente al lustro del Comune , ma all' interesse ed al
(lì Giclini. Storia di Milano.
(2) Parole del Sismondi nella sua Opera delle Repubbliche italiane.
— 166 —
maggior agio di tutti i cittadini. Singolare contraddizione
di que' tempi ! compromettere con replicati tumulti la li-
bertà del Comune , e rendere più sontuosi i palazzi ove
nobili e plebei volevano mantenersi rettori dei destini della
patria: inalberare le insegne della discordia civile, ed eri-
gere tempj a^ Dio della pace e dell'amore; divisi gli animi se
trattavasi di dare uno stabile ordinamento al governo della
città, uniti qualora si proponesse un disegno, quantunque
dispendioso , che fruttasse un vantaggio comune , od un
maggior decoro al suolo natale !
1 Cremonesi ristorarono la loro cattedrale, ed innalzarono
il celebre Torrazzo Tanno 1284, e, forse per ispirilo di
emulazione, Tanno medesimo balenò ai Cremaschi il pen-
siero di rifabbricare il duomo. Ma T opera dei nostri padri
non fu così presto recata a termine: principiala nel 1284,
compivasi nel 1541: è probabile la interrompessero le rina-
scenti dissensioni fra i cittadini e la mancanza del denaro,
giacché raccogliamo dal Terni che il solo campanile costò
più eli dodici mila ducati. Ed avvertite , che la torre della
nostra cattedrale non fu allora portata alT altezza cui la
vediamo oggidì, perocché venne elevata a maggior sommità
nel 1604, come attesta il Canobioi^. Si rammenti eziandio
che T interno del nostro duomo subì col volgere degli anni
variazioni non poche, e venne interamente riformato Tanno
1776 con disegno, il quale, a dir vero, mal risponde al vago
stile della facciata e dell' ardito campanile. La maestosa
facciata conserva ancora l'architettura gotica che gl'Italiani
usavano nei tempi delle loro repubblichette: ci rammenta
ch'erano mani di liberi cittadini che la costrussero, e liberi
cittadini che, raccolti in assemblea, ne decretarono la spesa:
ci rammenta insomma che la rifabbrica del nostro duomo fu
un pensiero del popolo i2, il quale signoreggiando nella pro-
(1) Proseguimento calla Storia dell'ALEMANio Fino.
(2) L'Alemanio Fino in una delie sue Sericine smentisce l'opinione di co-
loro che asserirono esser stata la rifabbrica del nostro duomo opera dei soli
guelfi.
— 1()7 —
pria terra, volle render più leggiadra la casa di Dio, ove
ricorreva per consolazioni nella sventura* ove benedivasi
il gonfalone del Comune, ove festeggiavano le vittorie della
patria. Essendosi la rifabbrica compiuta dopo clic la biscia
viscontea ebbe divoratala nostra repubblichelta , si lece
effigiare sulla lacciaia del tempio l'immagine di S. Ambro-
gio (*), il patrono della metropoli lombarda. Ma queir im-
magine nel decorso di non molti anni consumavasi , come
la potenza e V orgoglio dei signori che da Milano ci domi-
navano.
Merita una particolare attenzione la porta maggiore del
duomo , perocché quei pochi marmi scolpiti che formano
eli stipili e l'arco, non sono lavori del secolo decimoterzo,
bensì d'un'epoca assai anteriore , e ci ricordano le scul-
ture onde fregiavansi le principali basiliche d'Italia [nel
settimo e ottavo secolo. Forse che al nuovo duomo si è
voluto rimettere la porta maggiore del vecchio : nei qual
caso, osserva Racchetai2), quei pochi marmi, benché roz-
zamente scolpili, ci attestano quanto dovesse essere gran-
dioso il tempio cui una volta davano l'ingresso.
La pace stabilitasi a Milano nel 1282, quantunque s'in-
titolasse Concordia per mille anni, ne durò meno di quat-
tro. I ghibellini insorsero di nuovo l'anno 1286 ed espulsero
da Crema la fazione avversaria. I guelfi esularono per circa
otto anni, finché venne loro fatto di rimpatriare mediante
un trattato di pace che a S. Colombano conchiusero con
Matteo Visconti i deputati di Brescia, di Lodi e di Crema
(1295). Da quest'epoca il partito guelfo abbarbicossi nel
suolo cremasco e lodigiano con più salde radici, ed ebbe
non poca parte negli avvenimenti che seguirono in Lom-
(i) Quando il Terni scriveva la sua Cronaca, di questa pittura non esi-
stevano che poche tracce.
(2) Bacchetti in una delle sue annotazioni alla Storia del Fino. Versando
quest'annotazione sulle fabbriche e su gli edifei della città nostra , è di non
lieve importanza.
— 168 —
bardia: congiuntosi ai Torriani, cospirò, armeggiò per im-
pedire F ingrandimento di Matteo Visconti.
Quando Matteo Visconti mandò ambasciatori in varie
terre, richiedendo che riconoscessero in lui 1' autorità di
vicario imperiale statagli conferita dall'imperatore Adolfo,
Lodi e Crema vi si rifiutarono: ed unitesi in lega coi Tor-
riani e con quanti guelfi erano nelle città vicine, si propo-
sero di far guerra al Visconti. Nel 1299 rompesi la pace di
S. Colombano : i guelfi di Lodi e di Crema campeggiano
contro il signore di Milano. Quantunque fossero i guelfi
sussidiati dai Cremonesi, dai Bergamaschi, e dal marchese
d'Este, le sorli delle armi prosperavano ai Milanesi, ed
erano già per accampare sotto Crema (*), quando Matteo
Visconti giudicò opportuno venire ad un accordo, che fu
poi conchiuso col mezzo di quattro arbitri. Per la parte di
Milano si nominarono arbitri Ubertino Visconti ed il conte
di Cortenuova ; per la parte di Crema, Giovanni Greppi e
Serenano Guinzoni.
Due anni dopo (1501) i Cremaschi ripigliano le armi
contro Matteo Visconti, cogliendo pretesto di proteggere le
famiglie Bongi e Rivoli che Matteo aveva discacciate da
Bergamo. I Cremaschi insieme coi Lodigiani e Cremonesi
assaliscono Bergamo: respinti dalle truppe milanesi che lo
presidiavano, s'uniscono poco dopo alle milizie del conte
Langosco, pavese, il quale osteggiava, aGariasco, Galeazzo
figlio di Matteo Visconti'
2Ì
Intanto a rovina di Matteo Visconti ordiva fortissima lega
Alberto Scotto signore di Piacenza : gli si confederarono
tutti i guelfi più potenti di Lombardia, e fra questi Ventu-
rino Benzoni , che alcune cronache qualificarono signore
di Crema, forse per la somma ingerenza ch'egli vi esercitò
e come capo di parte guelfa, e come guerriero di splendida
(i ) Giulini, Storia di Milano.
(2) Idem.
— 169 —
fuma io Lombardia. Minacciato da tanti nemici (e non po-
chi eontro di lui congiuravano anche in Milano), Malico
Visconti dovette discendere ad umiliantissime condizioni ,
rinunziare il dominio di Milano, richiamarvi i banditi, e
dopo aver tentato invano «li riaversi coll'ajuto dei ghibellini,
esulare dalla terra che aveva per varj anni signoreggiato.
Ne esultarono i Oemasclii e tutte le città guelfe. Napo
Della Torre, caduto il Visconti, ricuperò a Milano fra gli
applausi del popolo la perduta grandezza : ed il nostro
Ventui'ino Benzoni, Tanno 1505, venne eletto capitano del
popolo milanese: carica insigne, che a lui ben si addiceva
e come guerriero d'alta riputazione, e come sviscerato
fautore di parte guelfa e dei Torriani. Durante V anno del
suo capitanato, Venlurino distrusse il borgo di Lomazzo ,
ed altri luoghi nel territorio di Como , perchè, dicono le
cronache l, s'erano fatti nido di sicarj.
La cacciata del Visconti affievolì, non ispense la fazione
ghibellina: quindi nuove cospirazioni, nuove turbolenze
acitarono le terre di Lombardia. Guido Della Torre nel-
Tanno 1509 fece imprigionare l'arcivescovo Cassone suo
nipote, il quale, d'accordo coi ghibellini, contro di lui
congiurava. Essendosi intromessi molti potenti personaggi,
fra i quali Pagano Della Torre vescovo di Parma e Ventu-
rino Benzoni , T arcivescovo dopo venticinque giorni fu
scarcerato W. Abborracciossi in pari tempo fra guelfi e ghi-
bellini un trattato di pace, cui Venturino Benzoni intervenne
a nome dei Cremaschi. Ma anche questa pace non dovea
partorire i desiderati effetti : poco dopo, riaccendendosi i
vecchi rancori, i ghibellini furono espulsi da Crema e vi
rimasero fino alla venuta di Enrico VII in Italia.
Correva l'anno 1511 quando Enrico di Lucemburgo im-
peratore di Germania volle che gl'Italiani, dopo sessan-
ta) Vedi le Storie di Milano del Como e del Giulini.
(2) Giulim. Storia di, Milano.
— 170 —
l'anni, rivedessero ancora una discesa imperiale, e la ce-
rimonia dell'incoronazione, per molto tempo da1 suoi ante-
cessori trascurata. La notizia della sua venuta piacque ai
ghibellini , non dispiacque ai guelfi , perocché Enrico , ai
signori Lombardi che andarono in Asti ad incontrarlo ,
aveva promesso non avrebbe fatte distinzioni fra guelfi e
ghibellini , anzi essere intento suo di rappalumarli. Guido
Della Torre, signore di Milano, fu il solo cui la discesa di
Enrico VII non garbasse , ed era disposto a contrastargli
l'entrata in Milano, se i guelfi non ne lo avessero sconsi-
gliato. L'incoronazione di Enrico VII seguì in Milano nel
gennajo del 1511, festeggiala da guelfi e ghibellini, presenti
gli ambasciatori di tutti i Comuni lombardi, fra gli evviva
del popolo, cui piacendo ogni genere di novità fu graditis-
simo spettacolo questo , smesso da molti anni , di un mo-
narca straniero che in S. Ambrogio veniva coronato re
d' Italia.
Enrico volle far rivivere nei paesi lombardi 1' autorità
dell'impero che vi era scaduta alquanto; volle estirparvi
1'iniluenza di certe famiglie che il favore dei partili aveva
rese ollremodo polenti: quindi pose nei Comuni dei vicarj
imperiali, e comandò che vi si richiamassero i banditi di
qualsiasi fazione. Allora fu messo a Crema podestà Ottone
Soresina , vicario imperiale, e rimpatriarono i ghibellini,
fra i quali la famiglia dei conti di Fornuovo. Ma ciò, an-
ziché rassettare in Crema la quiete, fu cagione di nuove
turbolenze. I conti di Fornuovo domandarono che venis-
ser loro restituiti i beni stali tolti ad essi quand'erano fuo-
rusciti: il che fu seme di novelle discordie. I guelfi levansi
a tumulto, impugnano le armi, e Venturino Benzoni, loro
capo, scaccia da Crema i conti di Fornuovo. Ottone Sore-
sina, come vide rinascere i subbugli, fuggì da Crema, e
andò ad informarne l'imperatore; il quale per ricomponi
la pace manda nella città nostra Guglielmo Pusterla e Ca-
— 171 —
\ abbino Monta, patrizi milanesi. A quegli si strìngono at-
torno molli Cremaschi, pregando ('Ih1 venisse in Crema
rimesso Ottone Soresina con I* autorità di vicario impe-
riale: ma vi si oppone tenacissimamente Ventanno Ben-
zoni, protestando ch'egli aveva in riverenza l'imperatore,
ma non avrebbe mai palilo, che un forassero nemico della
sua /azione avesse ad essergli superiore ' . Indignato En-
rico del superilo contegno di Venimmo, lo chiama a sé,
e non essendo comparso, lo condanna al bando con tulli
i suoi partigiani. Venturino Benzoni provossi , ma troppo
tardi, a placare l'animo dell1 imperatore col mandargli in
segno di sommessione le chiavi della città nostra: costretto
ad esulare, rifugiossi con tulli i suoi fautori presso Guglielmo
Cavalcabue , capo dei guelfi cremonesi. 11 Benzoni ed il
Cavalcabue, accomunate le forze loro, entrano in Solicino
ove i terrazzani avevano discaccialo il governatore impe-
riale. Sotto le mura di Solicino accampava poco appresso
il conte Ombergo generale dell'imperatore, per domare i
guelfi di Cremona , di Bergamo e di Crema che vi si
erano dentro fortificali. Pugnavano sotto il \essillo del
generale tedesco i ghibellini , frementi di vendetta. I Son-
cinaschi si difendevano valorosamente: ma poi, come sep-
pero essere state tagliate a pezzi le genti che venivano da
Cremona in loro soccorso, si scoraggiarono, e lasciate le di-
fese ritiraronsi nelle proprie abitazioni. Allora non rimaneva
altro partito al Benzoni ed al Cavalcabue che tentare una
sortita; l'arrischiarono, e fu per essi l'estrema rovina. Il
Cavalcabue dovette arrendersi al generale tedesco che gli
disse: Tu d'ora innanzi non cavalcherai più né destriero
né bueì*), e con un colpo di mazza lo stese morto a terra.
Venturino Benzoni, caduto in potere dei ghibellini crema-
schi, supplicò invano che gli risparmiassero la vita: Na-
(i) Fino. Storia di Crema.
(2) Sismondi. Storia delle repubbliche italiane. — Muratori. Annali d'Italia.
— 172 —
zaro Guinzoni, uno uV capi fra i ghibellini di Crema , lo
fece strangolare (1312).
Questa fine lagrimevole ebbe Venturini) Benzoni, riputatisi
simo in Crema e fuori pe' suoi talenti militari, e per avere
con altri potentissimi signori timoneggiala la fazion guelfa
di Lombardia. Ven turino, fu non solamente capitano del
popolo milanese, ma gonfaloniere di Santa Chiesa: regalato
da papa Clemente V di un palazzo in Avignone, fatto
esente con tutta la sua discendenza dalle decime ecclesia-
stiche (4). Quantunque le nostre cronache non dicano espres-
samente che Venlurino Benzoni era signore di Crema, pure,
col narrarne le gesta, ci palesano abbastanza chiaro ch'egli
teneva fra i suoi concittadini il primato. Ce lo attesta l'al-
tera risposta con cui ricusò di accettare in Crema il vica-
rio imperiale, e l'atto di sommessione col quale consegnava
poco dopo nelle mani dell'imperatore le chiavi della città
nostra. Pongasi mente come i Benzoni in Crema primeg-
giassero fin dall' incominciare del secolo decimo quarto,
giacché questa supremazia della famiglia di Venlurino ve-
dremo rinascere e confermarsi sul principiare del secolo
decimoquinto.
L'imperatore Enrico VII fece abbattere le mura di Cre-
ma in dispregio dei guelfi , ma non osiamo accertare se
prima o dopo la cacciata dei Benzoni. Enrico morì nel 1513
a Bonconvenlo ed alcuni sparsero voce che fosse stato av-
velenato nell'ostia da un reverendo frate domenicano.
Dopo la morte di Enrico VII vi fu in Italia tale anarchia
di poteri che riesce difficile l'accertare da quale signoria
Crema dipendesse nel periodo di 18 anni che decorsero
dalla morte di Enrico alla venuta di Giovanni di Boemia.
In Germania due fazioni nemiche avevano in separate as-
semblee eletto ad imperatore, l'una Federico d'Austria, l'al-
ti) Il Terni nella sua Cronaca ne riportò la Bolla pontificia.
ira Lodovico ili Baviera. Papa Clemente V che risiedeva in
Avignone, saputa la morie (li Enrico VII, pubblicò una
bolla, proclamando appartenere a lui il diritto di succe-
dere all' imperatore nella vacanza dell' impero (*), e con
altra bolla conferì a Roberto re ili Napoli il (itolo di vica-
rio imperiale in tutta Italia. Ma questo titolo pretendeva in
Lombardia Matteo Visconti,, come quello ebe essendosi ri-
messo nella signoria di Milano coli' espellervi i Torriani ,
era stato nel 1315 eletto dall'imperatore suo luogotenente.
In mezzo a tanti pretendenti, clic moltiplicando scissure e
turbolenze laceravano l'Italia, pare che Crema, perseverando
ad essere città cucila, si assoggettasse al prolettorato del
pontefice. Tuttavia leggiamo negli Annali del Muratori che
nel 1315 Crema era in potere di Matteo Visconti, e che
Tanno medesimo gli fu ritolta da Naranzio Guinzoni, e poi
da Soncino Benzoni (*). A que' tempi in Crema i Guinzoni
erano fra i capi del partito ghibellino, e del contrario i
Benzoni: gli uni e gli altri gareggiavano per avere in balia
la nostra cittadella. Ciò sappiamo per testimonianza delle
cronache nostre, le quali, tacendo che Naranzio Guinzoni
e Soncino Benzoni s'insignorissero successivamente di Cre-
ma spogliandone il Visconti, narrano : « Nel 1315 furono
* scacciati fuori di Crema i conti di Camisano, ed i Guin-
« zoni capi dei ghibellini, dai Benzoni e loro aderenti i3). »
Le vicende che seguirono in Crema dall'anno 1515 al 1355,
in cui i Visconti vi presero slabile dominio, ci porgono ar-
gomento a credere avere la città nostra aderito alle pretese
dei pontefici che allora tenevano la sede in Avignone : ce
ne persuade ancor più il sapere come i pontefici si ado-
perassero a sussidiare i guelfi cremaschi nelle guerre che
dovettero sostenere contro Matteo e Galeazzo Visconti.
(i) Sismondi. Storia delle repubbliche italiane. Capitolo XXIX.
(2) Murahoeu. Annali d'Italia. Vedine l'indice, ove Soncino Benzoni figura
signore di Crema.
(3) Fino. Storia di Crema.
— 174 —
Leggiamo nelle cronache milanesi che Matteo Visconti
guerreggiò i Cremaschi nel 1319. Vincitore nei primi com-
battimenti, i nostri gli chiesero una tregua e diedero ostag-
gi; ma poi sconfissero i Milanesi a Vailate i1), sicché il Vi-
sconti dovette smettere il disegno d'insignorirsi di Crema.
Papa Giovanni XXIII, premuroso di soccorrere i guelfi ,
mandò a Crema nel 1321 Pagano della Torre, patriarca di
Aquileja, con cento uomini d'armi : altre settecento lancie,
ai preghi del pontefice, vennero nella città nostra da Bre-
scia e da Cremona. I ghibellini cremaschi intanto si raccol-
sero a Piacenza dove trovavasi Galeazzo Visconti figlio di
Matteo, il quale, formato un grosso esercito di ghibellini
ed affidatane la condona a Ponzone Ponzoni e Verguzio
Laudi, venne a porre l'assedio a Crema. Le spire della bi-
scia viscontea recingevano le mura della nostra cittadella,
ma il patriarca Della Torre l'aveva così ben guernita che il
Visconte si sforzò invano d'impadronirsene. II patriarca, im-
baldanzito d'essersi difeso virilmente nell'assedio che durò
un mese, volle fare delle scorrerie sul territorio di Soncino,
ove scontratosi coi nemici toccò una disfatta con grave
perdita dei Cremaschi e delle sue genti.
Tralasceremo di ridire i guasti che quando i guelfi,
quando i ghibellini arrecavano nel nostro contado e nelle
terre circonvicine: noteremo soltanto che negli anni 1322
e 1323 le due fazioni inviperirono più che mai, e continua-
rono a guerreggiarsi aspramente. Il pontefice avea man-
dato a capitanare la fazion guelfa Raimondo da Cardona,
avventuriere catalano: i Cremaschi, guidati da luir battaglia-
rono di nuovo contro Galeazzo Visconti ed ebbero la peggio.
Nel 1322 Lodovico di Baviera, trionfando dell'emulo suo
Federico d'Austria , occupa il soglio imperiale di Germa-
nia. Due anni dopo viene scomunicato per molte ragioni da
Giovanni XXIII, che lo dichiara decaduto dal trono e proi-
bì) Giulivi. Storia di Milano.
— 175 —
bisce li fedeli d'aver con lai relazione di sorta. Il pontefi-
ce nel 1327 ricordò ai Cremaschi lo scagliato anatema con
lettera particolare che diresse al Consiglio ed al Comune di
Cremo, e con la quale esortavali a non dar ricetto o soc-
corso a Lodovico perchè avrebbero offeso Dio, la sua per-
sona e la Santa Chiesa '. Discese Tanno medesimo (1327)
Lodovico in Italia, cinse a Milano la corona di ferro, ma
non è dello che sia passato sul territorio nostro. Durante
il suo regno, nel gennajo del 1551, Crema si sottopose vo-
lonlariamenle a Giovanni di Boemia (*\ Chi era Giovanni
di Boemia? Perchè i Cremaschi gli si sottoposero sponta-
neamente? Lo diremo in breve onde medio chiarire a
quali strettezze la peste delle fazioni avesse in que' tempi
condotto gli Italiani.
Giovanni 4\ Boemia nasceva da Enrico VII; era principe
valorosissimo, amatore di giostre e di tornei, galante, disin-
teressato, di un'indole eminentemente cavalleresca. Es-
sendogli grave governare gli Stali di Boemia ricevuti dal
genitore, ne affidò il regime a' suoi ministri. Amicissimo di
Lodovico il Bavaro, e riverente al pontefice, avversava il
parteggiare sia pei guelfi, sia pei ghibellini , anzi ambiva i
dissidj conciliare, e credeva fosse a lui dato dal ciclo il
glorioso compito di farsi il pacificatore dell' Europa. A tale
scopo intraprese frequenti viaggi, visitò le corti straniere,
scorrendo l'Europa a cavallo colla celerità di un corriere.
Simpatico per gentilezza nei modi, eloquenza nel discorso,
disinteresse e fama di prode , ovunque era accolto grazio-
samente e con onore.
Nel 1550 Giovanni di Boemia, per combinare il matri-
monio di Carlo suo figlio con la figlia del duca del Tirolo,
trovavasi a Trento: colà i Bresciani gli mandarono amba-
(i) La lettera del pontefice è riportata per intero nella Cronaca del Terni.
(2) Il Fino non fa cenno di questa spontanea dedizione a Giovanni di
Boemia: il Corio scrive che avvenne addi 26 di gennajo: Muratori, Terni,
Giulini e Gantù, senza dirne il giorno, concordarlo perù Dell'ammetterla.
— 176 —
sciatori offerendogli la signoria del loro slato, ed invocando
protezione contro Mastino Della Scala che duramente li tra-
vagliava. Il re boemo accettò l'offerta, giubilante di cogliere
un'occasione da figurare anche in Italia qual Nestore che
mette pace fra i contendenti. Fattosi mediatore fra i Bre-
sciani e lo Scaligero, persuase questi a cessare le ostilità,
sicché i Bresciani, ottenuta la pace, assettarono le cose loro.
Poco dopo seguirono l'esempio dei Bresciani, Bergamo, Cre-
ma, Pavia, Cremona, Reggio, Modena, Parma, Novara; lo
stesso Azzone Visconti offrì a Giovanni la signoria di Mi-
lano e intitolossi suo vicario.
Non è a maravigliarsi che un pensiero comune gittasse
guelfi e ghibellini nelle braccia del re boemo: le città lom-
barde, affrante dal lungo tumultuare delle fazioni , anela-
vano la quiete. Oltre di che ambedue le fazioni erano as-
sai mal soddisfatte della condotta dei loro capi. Il pon-
tefice Giovanni XXIII infamavasi sempre più collo scan-
daloso contegno della „sua corte in Avignone , colle ac-
cesissime pretensioni di voler signoreggiare in Italia , con
la viltà e cupidigia dei ministri che inviava nella nostra pe-
nisola a sostenere la causa guelfa. Né meno schifoso era
divenuto ai ghibellini il loro capo Lodovico il Bavaro, il
quale nella tua discesa in Italia si rese abbominato per
avarizia, per crudeltà, e peggio ancora perfidiando barba-
ramente verso i più caldi suoi partigiani. Ciò spiega ab-
bastanza chiaramente come i due partiti per un istante si
rannodassero e concedessero la balia delle città loro a
Giovanni di Boemia.
Ma non durò lungo tempo la signoria di Giovanni di
Boemia nelle terre lombarde. 1 Fiorentini ingelosirono della
sua estemporanea grandezza, e come quelli che in affari di
politica erano meglio degli altri perspicaci , concepirono
sospetto ch'egli, profittando della sua riputazione, ago-
gnasse di farsi l'arbitro di tutta Italia. Perciò ordirono con-
tro di lui una lega poderosa, la quale rompendo guerra al
— 177 -
re Giovanni di Boemia, lo costrinse bell'ottobre de] l">r)
ad abbandonare l'Italia, rimettendovi rumi dopo l'altra
tutte le avute signorie. Non dicono le cronache da qual
giorno sia cessata in ("roma la sovranità del re di Boemia:
tuttavia da alcuni documenti riportati dal Terni desumiamo
che nel I33w2 era nella città nostra podestà, a nome del
pontefice, un bolognese di nome Matteo Tencatazzi: laonde
è a credersi che i Gremaschi in queir anno fossero già ri-
tornati sotto il prottcloralo della santa Chiesa.
Correndo l'anno 1555 papa Giovanni XXIII morì, e
Crema si sottopose ad Azzo Visconti signore di Milano , il
quale cedette il dominio della città nostra ai Cremonesi ,
che lo tennero lino al 1538. Così narrano le cronache del
Terni e del Fino, aggiungendovi che i Cremonesi fabbri-
carono una rocchetta presso la Porta Serio, e che ai Cre-
masela dispiacque tanto il vedersi di nuovo sotto i Cremo-
nesi, che molti ciò non potendo sofferire si assentarono (*).
Ma questo triennale dominio dei Cremonesi sulla città no-
stra non trovammo accennato in verun'altra cronaca di
que' tempi : anzi pare inconciliabile con quanto intorno
alle imprese di Azzo Visconti scrissero il Giulini ed il Mu-
ratori. Negli Annali d'Italia leggesi che Azzo Visconti, dopo
aver fatto l'acquisto di Lodi (155o), minaciò l'assedio alla
nobil terra di Crema, e questo bastò perchè quel popolo
nel dì 18 ottobre gli mandasse le chiavi -W. E rapporto a
Cremona, Antonio Campi, appoggiandosi all'autorità di
Giacomo Radenasco, asserisce (3) che nell'anno 1355 anche
i Cremonesi avevano data ad Azzo Visconti la signoria
della loro città: laonde, quand'anche si voglia ammettere lo
strano caso che sia stala Crema ceduta ai Cremonesi, sa-
rebbe pur sempre un errore l'affermare col Terni e col
Fino, che non poterono i Cremonesi signoreggiarci lungo
(i) Fino. Storia di Crema.
(2) Annali d'Italia del Muratori.
(3) Campi. Storia di Cremona.
12
— 178 —
tempo, perciocché Vanno 1338 il Visconti s'insignorì
eziandio di Cremona CO. La città di Cremona cadde in po-
tere del Visconti fanno medesimo che la nostra : anzi tre
mesi prima, giacche, se vuoisi prestar fede al Radenasco,
Cremona si assoggettò al Visconti nel luglio del 1335.
Adunque nell'anno 1335 i Cremaschi perdettero la so-
vranità del loro Comune e per sempre : scomparve la re-
puhhlichella di Crema con molle altre ond'era prima sboc-
concellato il suolo di Lombardia. L'epoca storicamente più
luminosa del nostro Comune, possiam dire d'averla tras-
corsa: taluno per avventura se ne rallegrerà, sperando di
vedere composta a vita più regolata e tranquilla la città
nostra sotto il dominio dei Visconti e dei signori che a loro
sono succeduti. Chi alla voluttà del sentirsi cittadini e so-
vrani nella terra nalale preferisce il sonnecchiare all'ombra
di un trono, fra catene indorate qua e là da coloro, che nel
mentre le impongono, hanno l'accorgimento di renderle più
sopportabili, se ne rallegri pure che ne avrà ben d'onde.
Noi siamo lontanissimi dallo sconoscere i mali che trava-
gliarono la nostra terra nativa quando formava anch' essa
un piccolo Stato : noi abbiamo svelate le piaghe che l'insa-
nia dei partiti aperse nel seno della patria quando reg-
gevasi con forme repubblicane. Nondimeno preghiamo a
riflettere, che il secolo tredicesimo non fu solamente un'e-
poca di tumulti e di fratricidi, ma che da un suolo bagnato
di sangue cittadino germogliarono colla civiltà in Lombar-
dia, le arti, le scienze, l' industria. Di sociali infermità
qua! è il secolo che non abbondi ? La quistione riducesi a
saper pesare imparzialmente lutti i beni e tutti i mali che
accompagnarono un' eia, e conoscere da qual parte tra-
bocchi la bilancia. E se ai tempi delle repubblichette feb-
bricitanti di libertà tu fremi d'orrore contando le vittime tru-
cidate dal furore dei partiti , rammentati quanta umana
carne macellarono poi le ambizioni dei principi, le guerre
(i) Fino. Storia di Crema.
— 171) —
per interessi di dinastie. Non è punto esagerata la sentenza
di moderno scrittore, il quale disse: « Capricci di re,
» puntigli di ministri, guerre dinastiche, ambizioni napo-
» Iconiche io qualche anno scialacquarono il decuplo di
■ sangue e di danaro che non in secoli tutte le battaglie
» dei Comuni italiani i . » lui è stoltezza queir accusare
che tanno alcuni la libertà siccome genitrice delle civili di-
scordie che deturparono l'epoca delle repubbliche italiane:
libertà intera gl'Italiani non avevano conseguita, e troppo
erano imperfetti i loro politici ordinamenti, motivo dei con-
tinui subbugli e delle rinascenti dissensioni. « Ma per
» quanto tali scompigli disgustino » , osserva il conte di
Montalembert, « come non cedere all'ammirazione eccitata
» dallo spettacolo dell' immensa energia morale e fisica,
» dell'ardente patriotismo, delle profonde convinzioni, stam-
» palo nella storia di tutte le innumerevoli repubbliche
» ond' era coperto il suolo italiano? Tu rimani stupefatto
» all'incredibile fecondità di monumenti , d'istituzioni, di
» fondazioni, d'uomini grandi d'ogni genere, guerrieri, poe-
» li, artisti r2 , che si veggono germogliare in ciascuna delle
» città italiane oggi deserte e spopolale. Certo giammai, dai
» bei secoli dell'antica Grecia in poi, non si era veduto un
» sì potente sviluppo dell'umana volontà, un sì meraviglioso
» valore attribuito all'uomo ed alle opere sue, tanta vita su
» così breve campo (3). »
Queste ultime parole dell'illustre francese, tanta vita su
così breve campo, ponno applicarsi particolarmente a Cre-
ma, ove i generosi sforzi fatti da una popolazione, poca ma
ardita, nel difendere la sua libertà contro i Cremonesi, gli
imperatori, ed infine contro la sorgente grandezza dei Vi-
sconti , ci rammentano i forti esempi delle antiche città
della Grecia.
(1) Cesare Cantù. Storia degli Italiani.
(2) Vedi alla lettera B una nota ove si fa cenno di tre giuristi crema-
tili del secolo decimoterzo.
(3) Sono osservazioni sulP Italia del medio eco del conte di Montalembert
nella sua opera : Storia di S. Elisabetta regina d'Ungheria.
— 180 —
Le cronache del Terni e del Fino, nel mentre registra-
rono le più clamorose vicende onde segnalossi in Crema
l'epoca municipale, non ne offrono alcuna notizia rapporto
a costumi, all'industria, allo sviluppo degli interessi mate-
riali: quindi non possiamo farne un quadro come avremmo
desiderato, a meno che ragionando della città nostra non
volessimo ripetere ciò che in proposilo molti storici hanno
detto delle città vicine. Del che ci asteniamo , riflettendo
che le storie di Milano, di Brescia, di Como ed altre pos-
sono bensì sparger luce su quella di Crema, ma non ri-
trarne al vero le materiali condizioni, sendochè ogni Co-
mune lombardo ebbe il suo particolare sviluppo, e per così
dire una distinta fìsonomia.
Prima di por fine al discorrere dei tempi repubblicani
rammenteremo che i Cremaschi Fanno 1309 collezionarono
i loro statuti municipali. Sventuratamente, di questa prima
collezione dei vecchi statuti non esiste più alcuna copia :
sappiamo che l'abate Tintori ne fece indarno ricerca Fino
dal principio del secolo scorso. Dalla cronaca del Terni ,
che ne riportò l'introduzione, raccogliesi come quegli sta-
tuti incominciassero commemorando le franchigie concesse
al nostro Comune dagli imperatori Federico I, Ottone IV e
Federico II : commemoravano altresì il nome degli illustri
cittadini cremaschi ai quali vennero consegnate alcunecopie
dei diplomi imperiali come in deposito, acciocché custodis-
sero quei preziosi documenti sui quali fondavasi la libertà
della nostra repubblichetta. Col procedere degli anni , i
vecchi statuti cremaschi subirono modificazioni non poche:
riformaronsi l'anno 1561 signoreggiando i Visconti , poi
nell'anno 1450 dopo che la città nostra cadde sotto il do-
minio dei Veneziani , ed ancora nell'anno 1534 t1). Mano
mano che le condizioni dei tempi e del governo mutavano,
(1) Degli Statuti, ossia Municipalia Crema? , pubbliearonsi tre edizioni,
runa a Brescia Tanno 1482, l'altra a Venezia coi tipi Pincio l'anno 1537,
una terza a Crema coi tipi Carcano l'anno 1723.
— 181 —
senlivasi la necessità di correggerli e ripulirli, acciocché
meglio si conformassero alle variate circostanze.
diaccilo non ci è dato ili esporre le particolari disposi-
zioni dei vecchi statuii di Crema compilati Tanno 1309, ci
Stringeremo a dire cosa in generale contenessero gli statuii
delle repnbblicbette lombarde, i quali sebbene differissero
nelle singole nonne, avevano però tutti fra di loro un co-
lore di rassomiglianza.
« Il codice degli statuti conteneva le leed costitutive del
« governo , i diritti e le consuetudini universali a tutta la
» cittadinanza: le leggi criminali che assicuravano la pub-
» blica pace, le leggi civili ch'erano una mescolanza del
» diritto barbarico e del romano, il quale in talune città
» prevaleva maggiormente che in altre, e in tutte poi ten-
» deva a predominare nei tribunali , e fare sparire i ve-
» stigi delle consuetudini barbariche, o trasformarle adat-
» tandole all'indole di quello: le leggi fiscali, le leggi sani-
» tarie, le censorie , ovvero di costumi, e quelle di polizia
» cittadina e rurale: le marittime, le internazionali: e i
i» provvedimenti peculiari, o per meglio dire, fatti per una
» peculiare circostanza (*). »
Prima del trattato di Costanza , ben poche città italiane
si erano curate di raccogliere e ridurre in iscritto i loro
statuti (2) ; se ne occuparono dopo quel famoso trattato ,
profittando della facoltà che loro vi era stata concessa. Gli
statuti delle città lombarde sono un pascolo graditissimo ,
un tesoro per gli eruditi che amano conoscere ben adden-
tro le istituzioni , i costumi , le credenze degli Italiani nei
secoli del medio evo: noi lamentiamo di non aver potuto
gettare lo sguardo sui vecchi statuti di Crema, che tanto ci
avrebbero giovato per delineare nel nostro racconto la vita
politica e morale del popolo cremasco nell'età per lui la
più feconda di sventure e di glorie.
(i) Emiliani-Giudici. Storia politica dei Municipi italiani.
(2) Si vogliono precedenti alla pace di Gostanza gli statuti di Mantova, di
Pistoja e di Pisa.
— 182 —
DOCUMENTI E NOTE
A.
Privilegio di Ottone IV a favore dei Cremaschi :
tratto dal Terni.
u In nomine sanctcc et individua? Trinitatis, Otto quartus Romano-
» rum Imperator et semper augustus, quod in tempore fit, tempore de-
» fluente evanescit , et ideo facto hominum non imprudenter human a
» solertia scribere consuevimus : Inde est quod attendentes, et memoriter
« tenentes ficlem ac devotionem fidelium nostrorimi Cremensium: quam
» circa nostrum Imperium, et nos semper habuerunt, et in posterum se
n habituros non dubitamus: Justis eorum petitionibus duximus con-
» descendentiam : ea propter largimus et concedimus eis omnes pos-
r> sessiones et jura, et consuetudines quas habebant in castro Crema?,
» et burgo et villa, et in aliis locis circumstantibus , et in terris et
« in aquis qui habebant et tenebant ante guerram domini Federici
r> Imperatoris diva? memoria?, per annum vel infra XXX annos antea
r> regalibus investientes beneficiis imperiali auctoritate nostra hoc ipsis
v statuimus, et concedimus ut tam per aquam quam per terram libe-
» rum habeant navigandi, comeandique facultatem : Ita ut nec tribu-
j> tum nec teloneum alicui debeant , nec albergariam , postremo ne
» alicui subj aceant exactioni , Imperialibus solumodo pra?ceptis obno-
« xij , denique volumus ut omnino securi foris , ei infra locum in pace
n degant ab omni infestatione immunes, retinentes ipsum locum Cremte
« Imperio nostro : ita ut nec nobis , nec successoribus nostris alienare
n ullo modo liceat, sed semper sub nostra protectione constituti securi
» remaneant. Statuimus insuper ut nullus Dux, Comes, nec aliqua ci-
7) vitas habeat ibi jurisdictionem, vel districtum nisi Nos tantum, et
« nostri successores , et prò suprascriptis concessionibus , et in reten-
n tione, et tuitione ipsorum dabunt singulis annis ab istis kalendis
n Martii in antea in signum subjectionis marchiam unam auri, solven-
» dum nobis vel certo nuntio nostro Mediolani : omnes quoque homi-
* nes de Crema a XXXV annis usque ad LXX jurare debeant nobis
— 185 —
ìbus nostris, et in Sacramento fidelitatfs ad-
ii diiviit quod non \ retabunt sed dabunl Castrum de Crema uobis <•:
■ sucoesnoribus m pace et in guerra si requisitum faerit, lima jara
•• lumi qood non facient aliquam Bpecialem ; cum aliqna ci
•• \iratiun vel persona, absque consensu nostro: Consules etiam quos
print, vel unus nomine aliorum recipere debeat investiturani
- Consolati» a nobis, vel a nuntio nostro si fuerimus in Lombardia
- BÌngulia annis. Cassamus quoque et irritimi deducimus omnes oouces-
n siones, et data, et Bcrìpta .si qua feoimus et nostri anteeessores, de
- ipso loco Creme, vel de pessessionibus , ve! de consuétudinibus, et
wjuribus, seu jurisdictionibus Cremensium. PrsBcipiendoque sancimus
» ut nulla persona sscularis, vel ecclesiastica, vel civitaa nulla voi
- Podestas in praedictia omnibus cos molestare, voi desvestire praesu-
r mant Quod si quia aliqua occasione, vel ausu temerario tacere tem-
■ ptaverit contimi libras suri purissimi componat, medietatem Camera?
* nostra^ et aliam medietatem ipsis Cremensibus. Hujus N. facti et
■ concessionis testes.
« Petrus Pratfeetus urbis, et Joannes ejus filius , Gulielmus Mar-
ti cbio Montisferati , Thomas Comes Sabauda; , Gulielmus Marchio
- Malaspina, Tulinus de Romano, SalingueriadeFeraria, etaliiquam-
» plures. Datum apud Laudani per manum Conradi Spirensis Episcopi
n Imperialis Aulae Canccllarius. Nono kalendas februarij anno MCCXII
r> Indict. XV Imperli nostri anno tertio feliciter. Amen. »
Nota
B.
Che all' epoca dei Munlcipj le città italiane sieno state feconde
d'uomini chiarissimi nelle armi , nelle scienze, nelle lettere, nelle arti,
è verità che ninno ci contrasta. Crema si distinse anch' essa siccome
madre di un popolo guerriero, animosissimo , amatore sviscerato della
propria libertà. Ci è però forza confessare che le cronache cremasene
nell'età dei Comuni non ci offrono esempj di personaggi che ab-
biano levato grido di sé per opere d'ingegno : fosse che i padri nostri,
occupati indefessamente nella difesa del loro Comune , trascurassero
la coltura delle scienze e delle arti belle , o forse che per ornarsene lo
spirito difettassero nella piccola Crema i mezzi e gli eccitamenti. Tut-
tavia non vogliamo ommettere di notare il nome di due giurisperiti
cremaschi, Lorenzo da Crema, e Lanfranco da Crema, comunque di
loro non vi sia alcun cenno nelle cronache nostre.
— 184 —
In un articolo dell'Antologia di Firenze leggesi : « Lanfranco da
» Crema fu di quei professori che nell'anno 1203 emigrarono da Bolo-
3» gna al nuovo studio di Vicenza. Tornò poi a Bologna e vi morì
» canonico nell'anno 1229.11 Savigny si accosta al Diploratazio contro
■n il Sarti a credere che fosse lettore di ambo le leggi , per motivo
» delle glosse che ne ha veduto in molti manoscritti parigini dei Di-
n gesti , ove si riferiscono le dichiarazioni di Lanfranco, le quali pon-
n gono fuor d'ogni dubbio che fu civilista , come le citazioni dell' O-
» stiense lo dimostrano canonista. E così Lanfranco sarebbe un anti-
» chissimo esempio dell'unione delle due facoltà nello stesso lettore e
« scrittore » (1).
E Lorenzo da Crema è menzionato dal Giannone nella sua Storia
del regno di Napoli , siccome uno dei principali glossatori del decreto
di Graziano. Lorenzo da Crema fioriva verso il 1220, e Guido Pan-
ciroìi lo dice maestro di Tancredo.
Altro egregio giureconsulto del medio evo fu Alberto Gandino ,
resosi chiaro con un' opera intitolata De Maleficiis. Donato Calvo e
Girolamo Tiraboschi lo dicono Bergamasco ; ma d'esser egli nato Cre-
masco, oltre che ne dà prove il Fino, lo confessò egli medesimo nell'o-
pera sua. È incerta l'epoca in cui visse. Se crediamo al Tintori,
vivea circa il 1303 coetaneo di Dino ; altri lo vogliono del secolo de-
cimoquinto. L' opera sua De Maleficiis fu stampata la prima volta a
Venezia Tanno 1491.
(i) Antologia di Firenze, 16 aprile 1833, in un articolo sulla Storia del
diritto romano del Savigny.
CAPITOLO SESTO
CREMA SOTTO IL DOMINIO DEI VISCONTI.
SOMMARIO.
a Z? T, ?. 7 Luchi"° e G!ovanni TiscoMi •—•
M ri h r f FraiTOSrani a trema.- chiesa da ]oro fabbricata. -
Morto d, Luch.no: suo carattere. - L'arcivescovo Giovanni Visconti viene
comunical ,,(nlerdet(o su tMte ^ ^^ suodomi,.oJ'M;c e
G anZ° e rab° ViSC°n,Ì dh"d0"° ** " l0ro ' d<"»iDÌ ^L'arcivescovo
Giovano,. - Crema cado in po.ere di Bernabò. - Giovanni d'Oleggio-
«a nmm coi fienai di Crema: sciagure Ce a jnesu ne consegua
12; Zi 2° T a"'eSÌgli° ,Um COl0ro eh'e™"> ^sanguinei od
Zi, ri 7" " eatMCe M'a SCa'a' m0?lie a B""ab» ^onti,
iene „, e ma ia sua corte. - Pestilenza. - I Cremaschi eleggono à
» trono della terra loro S. Pantaleo,*. _ Fesla v0(iva , s ^J^
d annuate oblazione cui sono obbligati gli abitanti di Crema suo
Vi con T "gi°rn0 4° di giUS™' - «"»«•* * «ernabo
m, nJ ,re2'0ne; ' CaSle"° '" P0rla 0n)briano- ~ c">° Risconti,
Hgho d, Bernabò, ttene il regime di Crema. _ La torre detta il Paradis
lere r r,' ~ Ga'°aZZ0 C°me * V'"Ù S^lia "» 2io »««" lei
potere Carlo fugge da Crema. - Gasparino e Gherardino Alchini sca-
vano .canale che da loro prese nome di roggia Alchina. - Galeazzo
gè è r,ta Oa»'-Pera.ore Venceslao. - Risorgono le fazioni
guelfe e gh.belhne, e prendono le armi. - Convegno ad Offanengo dei
cap, dell'uno e deb- altro partito. - Tradimento di Rinaldo conte di Ca
:;,;: fere »»*>««. - m*»*** *« „» BiJS. _
Morte do duca G,an Galeazzo Visconti, che nel testamento lascia Crema
Pao o B „ SU° T° adU"e™°- - Trama dei gWbellini " «-*"
Paolo Renzo,,, e Marco.to Vimercati. - Sfascio della signoria dei Viscon-
Vib^r ,i„,Tbel,ro ? Gab,ieii°- - Guerre in cr°ma tra «««>•
gn.bellini. - Gentilino Scardo, venuto da Bergamo in ajuto dei ghibel-
13
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lini, occupa il castello di Porta Ombriano, e vien ferito da una spingarda.
— I guelfi trionfano : Gabrino Fondulo , cremonese , li consiglia a far
strage degli sgominali ghibellini : Paolo Benzoni vi si oppone. — Feroci
rappresaglie tra guelfi e ghibellini, le quali finiscono con la vittoria dei
guelfi.
Crema, ingojata dalla serpe viscontea, perdette la politica
libertà, ma le fazioni vi si tranquillarono, cosa da molti
desidcratissima. Per quanto un governo dispotico sia un
letto di procuste per le popolazioni condannate a soppor-
tarlo, esse nondimeno vi si adagiano con minor rammarico
dopo che sperimentarono da lunghi anni le procelle d'una
abusata libertà. Quando in un paese, commercio, agricol-
tura, industria progrediscono, al cullo della libertà quello
associasi dei materiali interessi : le operose popolazioni in-
vocano sopratutto pace e sicurezza , preziosissimi benefic]
che mal seppero guarentire le repubblichette italiane, mo-
tivo principalissimo della loro rovina. Non ci fa meraviglia
che il popolo milanese, una volta così baldo della sua li-
bertà, si acconciasse poi a servire i Visconti; stanco dello
civili turbolenze, dell'esser giuoco alle gare dei partiti, alle
ambizioni e soperchierie dei grandi, preferì la tirannia
d'un solo a quella di molti: riputò non così grave il flagello
del dominio visconteo, come quello che pesava su tutti, e
con maggior forza sulle primarie famiglie patrizie, infrenan-
done le ambizioni.
Il governo dei Visconti mantenne in Crema le forme re-
pubblicane , o direni meglio le apparenze , giacché le rese
insignificanti: v'era ancora il podestà e il gran concilio dei
cittadini; ma, privi del potere politico, non esercitavano
che l'amministrativo, vincolati anche in questo dall'arbitrio
del principe che poteva ogni sua voglia, sia nell' imporre
gravezze, sia nel rendere giustizia. Quindi, spenta l'antica
sovranità municipale, non ne restavano ai Cremaschi che
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le reliquie nei nomi e Degli ordini delle magistrature, reli
quie che i Visconti accortamente rispettarono, sapendo <li<
il popolo le mille volte è più devoto ai nomi che alla realtà
«Mie coso, onde lo si può facilmente illudere ed acquietare
con dei fantasmi.
Aizone, primo dei Visconti ch'ebbe la signoria di Cre-
ma, morì nel 1539: il consiglio generale dei Milanesi ali
surrogò nel potere Luchino, e siccome poco ben promet-
teva per la sgovernata sua gioventù, consumala a correre
avventure fra i libertini, gli diedero a compagno il fratello
Giovanni, vescovo e signore di Novara. Ma Luchino Visconti
quando si trovò al potere, eliminò con astuzie e prepo-
tenze il fratello, che « prete, credenzone, e voglioso di go -
» dorsi i vantaggi di una ricca fortuna e di una rara avve-
» nenza, abbandonò ad esso ogni pubblica cura u). »
Durante la signoria di Luchino , i Cremaschi videro nel
1541 recarsi a termine la fabbrica del duomo, incomincia-
ta, come accennammo, nei 1284: videro i frati francescani
stabilirsi a Crema ponendo il loro convento in una casa
presso s. Michele, ch'ebbero in dono dalla famiglia Benzo-
ni : videro poi fabbricarsi da loro nel 1579 la chiesa di
s. Francesco, dopo che i frali ottennero da Urbano V la
chiesa parrocchiale di s. Michele co' suoi beni, acconsen-
tendovi i Benzoni, che di quella chiesa godevano il patro-
nato. Correndo Tanno 1548 l'Italia venne desolata da cru-
delissima pestilenza: questa volta fu gran ventura per Cre-
ma formar parte della signoria viscontea, perocché Lu-
chino con saggi provvedimenti preservò i suoi Stati dal
morbo ^).
Luchino morì improvvisamente nel 1549 , e come pare,
avvelenato dalla consorte. Questo principe, comunque fiero,
dissoluto, impostore, non era all'alto privo di buone quali
(1) Cesare C.vntù nella Margherita Pmlerla.
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tà, tanto è vera la sentenza del Machiavello, nissun uomo
tutto è malvagio. Alcuni ne lodarono il governo per aver
purgato i suoi Stali dai ladri, frenato le prepotenze dei
feudatari, costretti i nobili al pari dei plebei a sopportare
le pubbliche gravezze, trattali indistintamente colle stesse
leggi e guelfi e ghibellini. Era infatti sua politica spianare
le sommità , comprimere e grandi e piccoli dì qualunque
partito sotto il rigido livello dell'obbedienza: ma forse ciò
non faceva per amore di giustizia , sibbene per timore di
perdere il potere, pauroso com' era che i grandi e le fa-
zioni ne lo potessero traboccare. La quiete interna da lui
conservata ne' suoi dominii fu salutata ed inneggiata col
nome di pace: lo che prova come i Lombardi, affranti dal-
l'assiduo tempestare delle fazioni, smezzassero a chiamar
pace la servitù.
Spento Luchino, cominciò a governare l'arcivescovo Gio-
vanni, che durante la vita del fratello non potè mai inge-
rirsi nei pubblici affari. Nell'anno 1550 l'arcivescovo com-
però da Giovanni Pepoli la citlà di Bologna per ducenlo
mila fiorini d'oro. Il pontefice, allegando diritti su Bologna,
chiese al Visconti che a lui venisse restituita; e perchè non
fu ascollato, scomunicò l'arcivescovo co1 suoi tre nipoti, e
pose l'interdetto sulle diciotto citlà che componevano la
signoria del Visconti (2). Perciò anche la città nostra, quan-
tunque guelfa e costantemente affezionata alla santa Sede,
videsi compresa nell'interdetto papale, punita per la colpa
del suo principe, per la sventura d'essere costretta a ser-
vire un Visconti. Non crediamo però che i Cremaschi siensi
accorati gran fatto d'aver incontrata l'ira pontificia: ana-
temi , scomuniche , interdetti, piovevano allora troppo di
^i) Verri. Storia, di Milano.
(2) Idem,
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fregiente sul cupo dei fedeli*, onde Bcemavasi alquanto nel-
l'animo loro fa riverenza delle sente eli/avi.
L'arcivescovo Visconti morì nell'ottobre 1354; aveva an*
ch'egli, conio tuiti di sua famiglia, il canchero nell'ossa di
una sconfinata ambizione; nondimeno splendido, liberale,
protettore dei letterati, trovò scrittori che di lodi lo ricol-
marono. I suoi tre nipoti Malico, Galeazzo e Bernabò fra-
telli , si ripartirono la signoria. Degli stati dell'arcivescovo
toccò a Matteo la parte meridionale, l'occidentale a Galeaz-
zo, a Bernabò l'orientale: Milano e Genova rimasero indi-
vise in potere comune. Crema fu assegnala alla porzione
di Bernabò, tiranno famigeratissimo , tenore de' suoi po-
poli, per animo efferato a niuno secondo fuori che al fra-
tello Galeazzo. Poco appresso Galeazzo e Bernabò, per
maggior comodità di divisione, uccisero il fratello Matteo,
ed i suoi Stati si appropriarono.
Erano a quest'epoca i Beuzoni di Crema imparentali con
Giovanni Visconti d'Oleggio, facinoroso, ambiziosissimo,
che in molte cronache figura qual figliuolo dell'arcivescovo
Visconti. Giovanni d'Oleggio, ripudialo l'abito ecclesiastico,
ammogliossi con Antonia sorella di Paganino Benzoni. Si-
tibondo di grandezza, destreggiossi con tortuosa politica e
con militari imprese finché riesci, dominando Bernabò, ad
usurpare la signoria di Bologna. Ma conoscendo troppo
difficile conservarla, trattava di cederla al cardinale Àl-
bronoz, legato pontificio , per riceverne in ricambio la si-
gnoria di Fermo. Bernabò, agognando ricuperare Bologna,
pensò di sventare quelle trattative, e ricorse ai Benzoni,
come quelli ch'eran legati di parentela coll'Oleggiano, in-
caricandoli di recarsi a Bologna , e là negoziare col loro
parente, acciocché quella città a lui, non al pontefice, fosse
resa. I Benzoni s'addossarono l'incarico, e adoperaronsi
presso Giovanni d'Oleggio per adempire ai desiderj di
Bernabò ; ma l'opera loro andò fallita, e Bologna nel 1559
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i'u ceduta al cardinal legato. Bernabò montò sulle furie ,
incolpò i Benzoni della perdita di Bologna, e volle su di
loro sfogare Tira sua. Espulse dagli Stati di Milano la fa-
miglia Benzoni: confiscò i beni a Quarantino Benzoni, re-
galandone parte ad Antoniotto Piacenzi; nò di queste se-
vere punizioni appagandosi, estese la pena del bando a
quanti erano in Crema consanguinei od affini dei Benzoni.
Se lamentassero d'esulare persone alle quali imputavasi a
delitto Tessere parenti dei Benzoni, non me lo domandate.
Gl'infelici stancarono di preghiere Bernabò acciocché rivo-
casse l'iniqua condanna, ed egli finalmente gli esaudiva nel
novembre del 1560 permettendo loro di ripatriare.
Apparisce dal Terni, che nel 1560 teneva in Crema la
sua corte Beatrice della Scala, moglie di Bernabò, sopra-
nominata la Regina, forse per il suo maestoso contegno,
secondo i Veronesi, o per la sua boria, come pretendono
gli storici milanesi (l\
Nel 1561 un'orribile pestilenza assottigliava la popola-
zione della Lombardia; colpa in parte di Bernabò che pro-
cedendo ben diversamente da Luchino, ommise ogni cau-
tela per tenerla lontana dai suoi dominj. A Milano peri-
rono più di settanlamila persone. « Crema (narra il Terni)
» a tale estremo era ridotta, che più non si trovava chi, nel
» disperato caso, degli infermi cura togliesse : tutti infettali
» erano, né l'uno all'altro poteva dar soccorso ®). » Racco-
gliamo dai nostri cronisti che s'incominciò in quel luttuo-
sissimo anno a venerare dai Crcmaschi s. Pantaleone qual
protettore della loro città. «11 glorioso Redentore (prose-
» gue il Terni), volendo i miracoli del santo martire al
3» mondo manifestare, la mente aperse dei poveri ammalati
» perchè ricorrere dovessero a s. Pantaleone. Uniti insieme
(1) Pompeo Litta. Famiglie celebri italiane.
\±) Terni. Storia di Crema.
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* Blenni di loro il meglio che poterono, fecero voto al gto
» rioso santo di ateune ammali oblationi , e lo tolsero per
patrono, che prima avevano s. Antonio, s. Sebastiano o
» s. Vittoriano. Patto il voto, subito, nei decimo giorno di
» Bugno rimase la terra talmente dulia malvagia sorto libc-
» rata, che pare che dal vento fosse lo contagio levato.
» Dicesi che il santo protettore fu veduto in aere sopra la
> terra con la mano distesa, come nel succilo maggiore la
■ Comunità scolpito mostra: ha vula la grazia, ordinarono le
» processioni annuali nel giorno della libera/ione, che fu
» ai dicci di zugno, di tutte le arti ed huomini di Crema
» e del territorio come fino ai giorni nostri si costuma (*)».
Perchè mai i Cremaschi che avevano già a patroni della
terra loro i santi Antonio, Vittoriano e Sebastiano, in-
vocarono di preferenza il patrocinio di s. Pantaleonc on-
d'essere dalla peste liberali? I cronisti noi dicono, ci sia
dunque lecito congetturarlo. Leggesi nel Terni che prima
ancora dell'anno 1361 era in Crema un ospedale detto di
s. Pantaleonc: è probabilissimo ch'ivi molti degli appestati
ricoverassero, e che vedendo ogn'arte umana inefficace a
procacciar loro guarigione, ricorressero al santo protettore
del luogo ove giacevano infermi. Forse il sapere che questo
santo fu dotto in medicina, accrebbe nei miseri la fiducia
di risanare invocandolo, e rese più confidente e fervoroso
il voto che a lui consacrarono.
Negli statuti di Crema, oltre allo stabilirsi la festa da
farsi annualmente in onore di s. Pantaleonc , venne pure
(1) Terni. Storia di Crema. — Nel libro V della Storia di Crema del-
l'Aleniamo Fino leggesi : « Correndo 1' anno 1485 si aggrandì il coro del
» duooo. Trovossi allora nel rimuovere l'aliare grande una cassettina d'avo-
» rio piena di 6ante reliquie, fra le quali vi era un pezzo del capo di san
» Pantaleone nostro protettore, onde fecesi poi quella testa d'argento la quale
» viene portata in processione nella solennità del detto santo». Chi bramasse
più estese notizie intorno al santo patrono della città nostra, ne legga la vita
scritta e pubblicata dal prevosto don Cesare Tensini.
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determinata la misura dell'oblazione al santo , alla quale
erano obbligati, ricorrendo il giorno lo giugno, tutti gli
abitanti la città e il territorio di Crema. Furono tassati di
un'offerta in danaro i corpi collegiali dei dottori, dei me-
dici, dei notaj, dei mercanti, tutti i consoli delle arti e dei
mestieri, non cbe i consoli delle ventisette Vicinanze in cui
consideravasi ancora ripartita la città , e i consoli delle
quarantaquattro ville cbe componevano il territorio cre-
masco.
Sudditi a Bernabò Visconti , i Cremascbi divisero con
altre terre lombarde la soma di servire a tristissimo
principe. Bernabò non conosceva limiti alla sua podestà,
superbo a segno cbe un giorno fatto ingiuocchiare in-
nanzi a sé l'arcivescovo di Milano , gli disse : « Non sai
» tu, poltrone, che in tutti i miei Stati io sono e papa
»e imperatore? » Lui signoreggiando, moltiplicarono
enormemente le contribuzioni: fra carichi or dinar j e
slraordinarj riscuoteva ogni anno da' suoi Stati cento
sessanta mila fiorini d'oro ll). Guelfi e ghibellini rimasero
in Crema, come altrove, muti e trepidanti per la paura,
avendo Bernabò minacciato con editto il taglio della lingua
a chiunque osasse chiamarsi guelfo o ghibellino. I ponte-
fici lo sfolgorarono di scomuniche : è sazievolmente noto in
quanto sprezzo avesse Bernabò le maledizioni papali , ed
in qual barbaro modo complimentasse sul ponte di Mele-
gnano i nunzj pontificj che a lui recavano la scomunica.
Nel 1572 Gregorio XI scioglieva i sudditi di Bernabò dal
giuramento di fedeltà: niuno però ardì farglisi ribelle, che
non bastava a rialzare gli animi, prostrati dal terrore, una
bolla pontifìcia. Bernabò fortificò Bergamo, Brescia, Cre-
mona, Lodi, Pizzighettone, Pontremoli: a Crema nel 1370
eresse il castello d'Ombriano, che poi i Veneziani atterra-
ti) Vbrri. Storia di Milano.
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rono. Questo fu innalzato a lato dalla Porta Ombriano, sul
terreno ove da tre secoli e mezzo sorge la casa dei Terni:
però estendersi fino alla chiesa della Trinità, comprcu-
dando l'ortaglia dell'ora soppresso convento dì B. Monica :
era bellissimo , in forma di palazzo ])iù che di for-
tezza |t).
1 figli di Bernabò Visconti non dirazzavano dagli avi;
libertini, scioperali, rotti ad ogni sorla di ribalderia. La
madre loro Regina della Scala, per sollevarli dal brago dei
vi/j , consigliò il marito di metterli a parte del sovrano
potere, riputando questo un mezzo cflìcace da infrenarne
le sregolatezze. Bernabò accondiscese la moglie: ripartì tra
i figli i suoi dominj, loro affidandone il governo in qualità
di luogotenenti. Nella divisione, Crema , Parma e borgo
s. Donino toccarono al figlio Carlo , cui piacque stabilire
nella città nostra la sua dimora. V'entrò nel gennajo del
4379, richiese dai cittadini il giuramento di fedeltà, ed
elesse per abitazione il nuovo castello d'Ombriano. Verso
la parte occidentale del medesimo sorgeva una torre in
amenissima posizione : Carlo Visconti adornolla di vaghi
dipinti, e come quello che solazzavasi in amorose tresche,
ne fece ara di voluttà, ove i riti di Venere sfacciatamente
celebrava. Quella torre fu poi chiamata del Paradiso > per
rammentare i piaceri sultanici, onde si deliziava il principe
che l'abitò. Atterrata poi dai Veneziani, trasferì questo no-
me al vicino torrione delle mura, il quale era detto an-
cora del Paradiso ai tempi del Terni e del Fino.
Carlo Visconti, con inverecondo contegno occupandosi
assai più di femmine che del governo della nostra terra ,
si rese ai Cremaschi abbominevole. Quando Galeazzo conte
di Virtù, nel 1385, spogliò con tradimento lo zio Bernabò
del potere , Carlo lesto lesto fuggì da Crema con la moglie,
(1) Terni. Storta di Crema.
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paventando non tanto del cugino Galeazzo quanto le ven-
dette dei Cremaschi.
Gian Galeazzo nel sei maggio 1585 rapì la signoria allo
zio e suocero Bernabò con nerissima perfidia: pure era di-
venuta così mostruosa in Italia la tirannia di Bernabò, che
niuno levossi a difendere le sue ragioni e quelle della sua
prole. Quindi Gian Galeazzo, conte di Virtù , potè senza
verun contrasto incorporare i dominj dello zio ai proprj
che dal padre avea redati; la potenza dei Visconti, in lui
concentratasi, più che mai giganteggiava.
Crema si arrese a Gian Galeazzo cinque giorni dopo Mi-
lano, meno la rocca che a lui si diede poco dopo, come la
cittadella di Bereamo ed altre fortezze.
Nel 1590, per opera dei fratelli Gasparino eGherardino,
figli di Fermo Alenino, fu scavata la roggia che da loro
prese nome d'Alchina, la quale irrigando buona parte del
territorio cremasco, vi accrebbe fertilità e valore. Le con-
dizioni materiali del nostro suolo miglioravano, le sorti po-
litiche andavano sempre più peggiorando. Gian Galeazzo
trovò modo di conficcare più saldamente il chiodo della ser-
vitù nel petto dei sudditi. Finora i Visconti sulla scena po-
litica d'Italia comparivano quali usurpatori : base della loro
signoria era l'adesione dell' assemblea popolare in Milano,
illegittima rappresentanza foggiata a senno loro, ov'essi in-
fluenzavano coi raggiri, coli' oro e col fascino della loro
grandezza. Gian Galeazzo volle radicare la potenza della
sua famiglia sopra più sicuro terreno, imbrancarsi coi mo-
narchi, perpetuare la sovranità nei suoi discendenti. Fece
luccicare cento mila fiorini d'oro sugli occhi del bisognoso
imperatore Venceslao, domandando ch'erigesse la di lui si-
gnoria in ducato , e lui ne investisse col titolo di duca
trasferibile a' suoi discendenti. L'imperatore, aderendo al
Visconti, gli concedette il titolo di duca, nominò le venticin-
que città (Crema fra queste) che dovevano comporre il du-
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culo. Per tal modo la città nostra divenne una delle gemme
alla ilucal corona dei Visconti, mercanteggiata eolle più
cospicue lene di Lombardia da no imperatore, in onta dei
diplomi di Federico BarbarOSSa e di Ottone IV, che libera
la dichiararono.
L'investitura del nuovo duca venne solennizzata a Milane»
addì 93 settembre del 1395 con leste sontuosissime. Gian
Galeazzo vi profuse favolose somme di danaro, oro cavato
dalle viscere dei sudditi. In tulle le eiltà dello Sialo si
fecero trionfi e fuochi (*) ; segni d'esultanza prodigali dalle
popolazioni, che per divertirsi celebravano con gli evviva
i funerali della loro libertà.
Assunto Gian Galeazzo al ducalo, si ridestarono in pa-
recchie terre le discordie guelfe e ghibelline, da sessantanni
assopite. Sul Bergamasco rinvelenirono prima che altrove,
perocché il Visconti, come leggesi nelle cronache milanesi,
permise nel 1592 ai guelfi e ghibellini della città e vesco-
vato di Bergamo di potersi a vicenda offendere tanto ne-
gli averi che nelle persone W. Né andò guari che anche a
Crema, guelfi e ghibellini affilarono di nuovo le spade per
ìstraziarsi a vicenda. Sparsasi nel 1598 la falsa voce che il
duca Gian Galeazzo era morto, i guelfi di Crema e quelli
dei vicini paesi tennero un'adunanza in Oflanengo; poi,
raccolte le forze loro, entrarono nel Bergamasco, ove pre-
sero una villa abitata dai ghibellini, menando stragi, sacco
e ruine. I ghibellini infierirono anch'essi: quei di Crema,
unitisi coi Soardi di Bergamo, abbruciarono Fara, castello
del Bergamasco posseduto dai guelfi. Capi del partito guelfo
erano in Crema i Benzoni e i Yimercali; dell'avversario, i
conti di Camisano. Nell'anno medesimo (1598) vi fu un
(1) Terni. Storia di Crema.
(2) Cronaca milanese, riportata dal Muratori nella raccolta Rerum itali-
carum.
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convegno a Ricengo in casa di Nicolò Vimercali, ove s'ab-
boccarono i capi dell'una e dell'altra fazione, fra i quali
Compagno Benzoni e Rinaldo dei conti di Camisano. I loro
discorsi versarono sul modo di venire ad una riconcilia-
zione, e dopo lunghe e calde dispute i due parliti si giura-
rono la pace. Rinaldo dei conti di Camisano in quel con-
vegno pompeggiò di generose parole , protestando che vo-
leva anch'egli per alcuni giorni essere guelfo. Ma poiché
ebbe ottenuto licenza di entrare in Crema , spergiurò la
data fede , v'irruppe a mano armala co' suoi partigiani ,
sorprese e colse tulli i guelfi in una rete. Rinaldo volle
consumare barbaramente l'iniquo tradimento: mandò sulle
forche cinque guelfi, ed altri duecento parie in prigione ,
parte in esiglio. Contavansi fra i duecento, venti Benzoni,
nove Zurla , sette Vimercali, sei Terni. Non sembra però
che il conte di Camisano e il partito ghibellino abbiano
goduto lungo tempo in Crema il sopravento: benché ciò
non dicano le nostre cronache , lo desumiamo dagli avve-
nimenti che narreremo in appresso.
L'anno susseguente (1599) è nella storia segnalato dai
pellegrinaggi dei così detti Penitenti Bianchi. Erauo com-
pagnie di persone divote, coperto il volto di bianche len-
zuola scendenti fino ai piedi; con in mano un crocifisso, e
recitando lo Stabat Mater , scorrevano processionalmente
le contrade d'Italia inculcando ai popoli pace, carità, pe-
nitenza. Fleury, scrittore di storia ecclesiastica, attribuisce
l'origine dei Penitenti Bianchi ad alcuni impostori venuti
dalla Scozia, l'uno dei quali, narra, si spacciasse per il pro-
feta Elia ritornato in terra ad annunziare il finimondo.
Altri storici discorrono con riverenza di questi pellegrini :
tutti concordano nel dire, che ovunque passavano accen-
devano nelle popolazioni un religioso entusiasmo, e che i
loro drappelli s'ingrossavano mano mano che in Italia in-
noltravansi. « Passarono per Crema ( scrive Terni), sulla
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» line di settembre di tanto e tale Damerò, che si stupirono
» k» politi, e dui Cremtsehi furono accompagnati fino a Ca-
» siigliene. » Momentanei ma salutari effetti produssero nei
popoli le pietose parole dei Penitenti Bianchi : lo Btesso
Fleury è costretto a confessale, che in \ irlù delle loro pre-
diche si spense un'infinità di lunghe e mortali inimicizie.
Non possiamo accertare ch'essi predicassero il finimondo;
però che i popoli lo credessero vicino non meravigliamo.
Si getti un rapido sguardo sulle condizioni d' Europa in
queir epoca : quale cumulo di miserie la martoriava, quasi
flagelli precursori del finale giudizio! La peste mieteva in
parecchi Stati molte migliaja di vittime! dall'oriente Ta-
merlano e Bajazelte minacciavano sovvertire il mondo col
furore dell'armi mussulmane; in Francia un rementecato;
un imperatore pusillanime in Germania; l'Italia a scompiglio
per guerre civili, soperchieric di tirannelli, e particolarmente
per le mene amhiziose del perfidissimo duca Gian Galeaz-
zo: a tutto ciò aggiungete uno scisma nella chiesa cattolica
che il contegno della corte di Roma infiammava con dolore
e scandalo dei fedeli. Il luttuoso spettacolo di tanti mali
porgeva argomento da condurre i popoli nel Umore dei
prossimo finimondo, da infervorarli a penitenza, invogliarli
a divoti pellegrinaggi. Tre mesi durarono in Italia le pro-
cessioni dei Bianchi Penitenti, ospitati ovunque dalle popo-
lazioni con ardore di religioso entusiasmo : seguivate so-
spettoso e vigile l'occhio dei principi , paurosi che sotto
coperta di religione , trame politiche nascondessero. Giunte
a Viterbo in Romagna , papa Bonifacio, che le avversava
fece il loro capo, siccome eretico, abbruciare.
Nel 1402 moriva il duca Gian Galeazzo Vìscouti, por-
tando nel sepolcro il disegno d'insignorirsi di tutta Italia,
che a lui contrastò la guelfa politica della repubblica fio-
rentina , o forse quella fatalità che impedì a tanti d' effet-
tuare il medesimo disegno. A Milano si resero al defunto
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duca esequie splendidissime , ove intervennero ambascia-
tori cremaschi t*) insieme a quelli di' altre quarantacinque
città suddite al Visconti.
Gian Galeazzo, tuttoché ingolfato in politici intrighi e
guerresche intraprese, tuttoché cercasse tratto tratto di
allucinare il mondo con le subdole arti del santocchio ,
sollazzavasi con drude, e morendo lasciò tìgli adulterini,
uno dei quali nato da Agnese Manlegazza per nome Ga-
briello. A questi Gian Galeazzo donò nel suo testamento la
signoria di Pisa e di Crema: il rimanente de' suoi dominj
assegnò in disuguali porzioni ai due figli legittimi Giovanni
Maria, primogenito, e Filippo Maria. E per essere i figli
ancora in minor età, ne affidò la tutela a Caterina Visconti
loro madre, e a diecisettc personaggi, fra i quali i più fa-
mosi condottieri che avevano a lui prestato nelle guerre
importantissimi servigi.
I Cremaschi, dovendo rendere omaggio al nuovo prin-
cipe, eleggono quattro ambasciatori da inviare a Milano,
due guelfi e due ghibellini: guelfi, Paolo Benzoni e Mar-
cotto Vimcrcati, capi della loro fazione, il parlilo ghibel-
lino, calcolando quanto a lui tornerebbe profittevole sba-
razzarsi per sempre di questi due autorevoli personaggi ,
propose giocar loro un mal tiro , ed assassinarli sulla via
quando fossero incamminati alla volta di Milano. Ma una
donna guelfa maritata ad un ghibellino svelò la trama ,
onde resine consapevoli il Benzoni ed il Vimercati, si po-
sero in viaggio separatamente, facendosi precedere a non
molti passi da una spia. Erano appena entrati nel Lodi-
giano , quando la spia, scoprendo persone armate che sta-
vano in agguato, ne diede il convenuto segnale ai due
ambasciatori, i quali ben tosto retrocessero verso Crema.
1 guelfi furono del turpe attentato indignatissimi, nondi-
(1) Corio. Storia di Milano.
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meno deliberarono protrarre il giorno della vendetta , ri-
flettendo non essere ancora opportuno il momento. Il Ben
/.cui e il Vimercati nella seguente notte rifecero il viaggio
e giunsero a Milano, scortati però da uomini d'armi e per
altra strada.
Per la reggenza di una donna, per le rapine dei corti
giani e condottieri scelti da Gian Galeazzo a fiancheggiare
la debole età de' suoi figliuoli, la grandezza dei Visconti
sfasciarsi. Se ne rallegravano i popoli di Lombardia, desi
derosi d'aimnigliorarc le sorli loro, e perchè s'erano piutto-
sto adattali che addomesticati al regime visconteo, quan-
tunque Gian Galeazzo avesse cercato di abbagliarli con
sontuosissime feste, collo sfarzo di una corte splendidis-
sima, coll'affettare sentimenti religiosi, innalzando templi
di meravigliosa bellezza. D'altronde nò i forni di Monza ,
né le enormi gabelle erano argomenti da spegnere nei po-
poli la ricordanza della perduta libertà. Perciò sotto la
reggenza di Caterina Visconti, a Milano i cittadini comin-
ciarono a tumultuare; in altre terre del ducalo guelfi e
ghibellini, ribellatisi, conlendevansi la prevalenza. Ovunque
insorgevasi a calpestare la biscia viscontea; ma nel mentre
si anelava a libertà, i partiti tornavano a inviperire, ed a
lordarsi di sangue citladino : turbolenze e scompigli deso-
lavano di bel nuovo le terre lombarde. In molte città l'in-
furiare dei partiti spianò agli ambiziosi la via di farsi ti-
rannelli della patria loro, sottentrando, coll'ajulo della fa-
zione prevalente, al dispotismo dei Visconti. I Cremaschi ,
profittando della lontananza di Gabriello Visconti loro si-
gnore, che soggiornava a Pisa, gli si ribellano ; quindi la
città nostra, poco dopo la morte di Gian Galeazzo, tornò
libera, o direm meglio, nell'anarchia delle fazioni.
ÌNel 1405, i guelfi cremaschi, ai quali tardava di vendicare
le offese ricevute, traggono le spade e assalgono i ghibel-
lini : questi trovandosi inferiori di forze e di numero si ri-
— 200 —
fugiano nel castello di Ombriano, né potendo provvederlo
di vettovaglie sufficienti onde resistervi lungo tempo, man-
dano per soccorso a Gentilino Soardo, bergamasco, il quale
di notte tempo viene a congiungersi con loro, menando della
soldatesca. I guelfi, poste a sacco le abitazioni dei nemici,
accampano nella piazza, vi si fortificano asserragliando tutte
le vie che metteano a quella, tranne le due di Serio e di
Ombriano che munirono di cancelli di ferro. I ghibellini
per recar guasti al nemico avevano scorso il territorio cre-
masco incendiando le case de1 guelfi, tanto da forsennati ,
che a Capralba il fuoco divorò anche le case dei ghibellini.
Spaventati dal furore nemico, i guelfi pregano d'ajuto il si-
gnore di Cremona, che mandò loro ben tosto Gabrino Fon-
duto con buona milizia e quattro spingarde, specie d'arti-
glieria di que' tempi. Tre delle spingarde collocaronsi in
piazza a difesa dei cancelli, l'altra Antoniolo Marchi, rom-
pendo i muri di parecchie case, riuscì di trasportare nella
chiesa della SS. Trinità, rimpetto al castello, senza che i
ghibellini se ne avvisassero. Operato nella porta della chiesa
un pertugio che mirava appunto sul ponte del castello ,
Antoniolo Marchi poteva a suo bell'agio offendere colla
spingarda i ghibellini, ogni qualvolta sul ponte gli si affac-
ciassero. Infatti un giorno che Gentilino Soardo volle uscire
colla sua gente dal castello, venne da un colpo di spin-
garda ferito in una coscia e costretto a ritirarsi. I guelfi,
vedutolo cadere a terra, supponendolo morto, salirono giu-
bilanti sui campanili per osservare cosa i nemici risolves-
sero fare nel doloroso caso ; ma nulla poterono scoprire
della loro costernazione. I ghibellini, disperando della gua-
rigione del Soardo , la cui ferita rincrudiva sempre più ,
deliberarono di trasportarlo a Bergamo. I guelfi , veduti i
nemici sgombrare dalla Rocca di Ombriano, ne scalano la
muraglia, e se ne impadroniscono. Accompagnato il Soardo
sul suolo bergamasco , i ghibellini ritornano alla volta di
— c201 —
Crema, credendo poter rientrare nella rocca; ma irnvan-
dola occupata dai nemici , si abbandonano scoraggiati a
precipitosa fuga. Allora Gabrino Fonduto siimelo i guelfi
ad inseguirli, e COn la spada alla mano finire il hallo ^ :
ma \i si oppose Paolo Benzoni, uno fra i primi e più rispet-
tabili personaggi della su;» fazione. — La vittoria, disse Paolo
Benzoni, ci venne dal cielo, serbiamola immacolata; i ne-
mici hanno già perduto tulio , perchè ogni loro ricchezza
è nelle nostre mani: ora colf inseguirli e col tagliarli a
pezzi noi offenderemmo la divina clemenza che tanta
grazia ci ha donato (*). — Alle quali parole Cabrino l'on-
dulo rispose, che se la vittoria avesse arriso ai nemici, essi
non avrebbero certamente risparmiato con tanta mitezza il
sangue dei guelfi ; che a lui sembrava follìa l'astenersi dallo
sterminarli, mentre il cielo ne porgeva l'occasione; che
giorno verrebbe in cui i guelfi si pentirebbero dell' usata
clemenza; ch'egli tuttavia non voleva insistere nella sua
opinione, perchè era venuto a Crema a farvi il talento dei
guelfi e non il proprio. 11 consiglio di Gabrino sembrerà a
taluni assennato e maturo, siccome quello che è più con-
forme alle leggi di opportunità e di guerra : noi tuttavia
ammireremo l'animo generoso di Paolo Benzoni , che non
volle colla strace dei ghibellini macchiarsi di sangue citta-
dino: raro esempio di moderazione in tempi ove non sa-
tollavano a così buon mercato le vendette delle fazioni.
I ghibellini di Crema, rifugiatisi a Bergamo, stringono al-
leanza coi ghibellini fuorusciti di Brescia e di Cremona, e
volendo ripigliare le ostilità, eleggono loro capitani Rolando
Pelavicino e Pietro Gambara : muovono verso Solicino, lo
occupano corrompendovi il castellano: poi, sitibondi di ven-
detta, si gettano sul territorio cremasco. Allora i guelfi
(1) Terni. Storia di Crema
(2) Idem,
u
— 202 —
spianano tutte le torri ed i castelli dei ghibellini onde im-
pedire ch'essi trovassero luoghi da potervisi dentro fortifi-
care. Fanno i ghibellini atroce rappresaglia, le case dei ne-
mici abbattendo, saccheggiando: ammazzano quanti guelfi
loro capitavan nelle mani, lasciandone i cadaveri insepolti.
Queste bestiali reazioni rammentarono a Paolo Benzoni le
parole del Fondulo: verrà giorno che vi pentirete della
usata clemenza. Ma anche questa volta la vittoria toccò
ai guelfi, i quali essendosi confederati ai Lodigiani, fini-
rono col rompere e discacciare i ghibellini dal territorio
eremasco,
~- 203
CAPITOLO SETTIMO
IL 1MH1IMO DEI IIKNZOM.
Si ►MMAHIO.
U ritta di Lombardia in potere dei tirannelli. — Paolo e Bartolomeo fratelli
Beiizoni si fanno proclamare signori di Crema. — Se possa dirsi ch'essi
usurpassero il dominio di Crema. — I Benzoni fanno guerra ai ghibellini
e ne riportano vittoria. — Pestilenza : ne muojono entrambi i Benzoni. —
Testamento di Bartolomeo Benzoni. — Giorgio Benzoni s'impadronisce di
Crema. — Si combatte l'opinione dell'Aleniamo Fino, il quale nega che
Giorgio Benzoni si usurpasse il dominio dì Crema. -~ Lite fra Giorgio
Benzoni e l'abbazia di Cereto. — Provvedimenti di (ìiorgio Benzoni
per guarentirsi la signoria di Crema. — Castelli edificati dal Benzoni
nel territorio cremasco. — Giorgio Benzoni insignito della nobiltà vene-
ta. — Politica e maneggi di Giorgio Benzoni per mantenersi in potere.
— L' imperatore di Germania conferma a Giorgio Benzoni la signoria di
Crema e di Pandino. — Giorgio Benzoni riconosce per supremo signore il
duca di Milano Filippo Visconti, e riceve da lui il dominio di Crema e di
Pandino a titolo di feudo. —Patti imposti al Benzoni nell'investitura del
feudo di Crema e di Pandino. — Giorgio, divenuto feudatario, assume il
titolo di conte. — Zelo con cui Giorgio Benzoni si adopera per conser-
varsi in favore del duca di Milano. — Ribalderie dei figli di Giorgio
Benzoni. — 1 nemici di Giorgio Benzoni tramano la sua rovina. — Gior-
gio fugge da Crema, e ne perde per sempre la signoria. — Carattere di
Giorgio Benzoni. — Monete da lui fatte coniare.
La nissuna sicurezza delle persone e degli averi era di-
venuto un male insopportabile, e doveva in Crema gene-
rare i medesimi effetti politici che in altre città lombarde,
ove all'anarchia delle fazioni sottentrò la signoria dei tiran-
nelli. Dominavano a Lodi i Vignati, a Boriiamo i Scardi, i
— 204 —
Cavalcabó a Cremona, i Busca a Como, Landi e Scolti a
Piacenza: a Crema, volgendo le stesse vicissitudini, signo-
reggiarono i Benzoni.
Correva il giorno dodici di novembre dell'anno 1405:
tocchi di campana chiamano i cittadini di Crema al palazzo
del Comune per raccogliersi in concilio generale. V'accor-
rono i sindaci della Comunità e più di duecento venti cit-
tadini fra nobili e plebei ; due notaj, presenti a quell'adu-
nanza, rogano un islromento dal quale apparisce che in quel
giorno il popolo di Crema abdicò la millantata sovranità
conferendola ai fratelli Paolo e Bartolomeo Benzoni i*.
Sciolta l'adunanza, seguono le feste e le ovazioni ai nuovi
signori: un pomposo corteggio di gentiluomini che pavoneg-
giandosi accompagnano cavalcando per la città i due fra-
telli : uno sventolare di bandiere collo stemma del Comune,
cui intrecciarci due stocchi e due scettri, simboli di signo-
ria: schiamazzi di plebe, giubilante d'aver acquistati nuovi
padroni, e suoni e fuochi per tre notti continuati.
La nuova signoria dei Benzoni fu da molli scrittori qua-
lificata usurpazione; tale infatti poteva giudicarsi in con-
fronto di Gabriello Visconti, al quale competeva per testa-
mento paterno la signoria di Crema, cui non aveva rinun-
cialo comunque dimorasse a Pisa. Ma a noi sorge dubbio
che il potere dei Benzoni non abbia avuto titolo di legitti-
mità neppure in faccia del popolo cremasco. Varie circo-
stanze, parte notale dal Terni medesimo, parte desunte
dallo scrupoloso esame dell' istromento rogalo in Crema
addì 12 novembre 1405, concorrono nell'avvalorare il no-
stro dubbio.
È particolarmente da avvertirsi die i cittadini interve-
nuti all'adunanza, e sottoscritti nell'istromenlo del 12 no-
ti) Vedi A nei Documenti. l'istrumcnto d'elezione dei fratelli Benzeni a
«ignori di Crema.
— 109 —
vombiv 1405, erano lutti guelfi, partigiani di Paolo Benzoni
loro capo: non un nome \i leggiamo di notorie famiglie
ghibelline, quali furono a que! tempi i conti di Camisano
i Gambazocco, i Guinzoni, i Tintori, i Passerotti, i Freca-
\alli, i Gaadini, i Piacenzi, i Bassi, i Cristiani, i Bernardi,
gli Alchini. Supposto adunque che l'elezione dei Benzoni
alla signoria di Crema sia avvenuta in quell'adunanza, non
ora il generale suffragio dei cittadini eremaschi, ma la fa-
zion guelfa che diede ai fratelli Benzoni il dominio di (Ironia.
Riesce strano al Terni come nell'adunanza del 12 novem-
bre venissero eletti due signori, non uno: a schiarirne la
ragione, il nostro cronista s'induce a credere che Bartolo-
meo e Paolo Benzoni ottenessero nello scrutinio parità di
suffragi. Ma dall'islromento non apparisce che reiezione
venisse fatta mediante scrutinio, onde si potrebbe conget-
turare che i due fratelli Benzoni siano stali innalzati al do-
minio di Crema per acclamazione. Considerando poi come
i Benzoni in Crema fossero già i capi della fazion guelfa,
a que' giorni trionfante, forse non andò lungi dal vero Giu-
seppe Racchetti asserendo che i fratelli Benzoni prima s'ar-
rogarono il dominio di Crema, poi si fecero proclamare si-
gnori da un'adunanza di cittadini ove e sindaci e consiglieri
erano già istrutti di quanto dovevano dire(l\
Noi ci accostiamo all'opinione del Racchetti, anche perchè
la storia di tulli i popoli c'insegna, essere vecchia astuzia dei
potenti adombrare eolle apparenze della legalità le loro ra-
pine e soperchicrie. Ci si permetta adunque di sparger dubbj
sulla legittimità del dominio dei Benzoni, che che ne dica
in contrario nelle sue Sericine i'Àlemanio Fino, il quale, per
cortigianeria ai patrizi, soventi volte la verità o finge di
non vedere o si sforza di oppugnare: quindi non combat-
teremo la taccia di usurpatori che scrittori non cremaschi
^l) Racchetti. Annotazioni alla Storia dell' Alemanio Fino.
— 206 —
adossarono ai Benzoni, giacché e il Terni che tali fossero
lo lascia travedere (*)„ ed il Bacchetti lo dice scopertamente.
Assunti alla signoria di Crema, i Benzoni pensano a re-
golarne il regime: creano Nicolò Alfieri castellano della
rocca d'Ombriano, e podestà Giovanni Cigala : estendono il
loro dominio sulla terra di Pandino, né sappiamo in qual
modo. Indi si adoperano per difendersi dalle aggressioni dei
ghibellini che occupavano Soncino, Castiglione, Bomanengo:
fatta alleanza col signore di Cremona, sostenitore anch'esso
di parte guelfa, apparecchiatisi a guerreggiare i ghibellini
fuorosciti che si arrovellavano vedendo Crema in potere di
due guelfi. Né andò guari che i ghibellini cremaschi indussero
Francesco Soardo, signore di Bergamo, ad osteggiare i Ben-
zoni. Il Soardo invase il territorio Cremasco e vi menò
guasti: ma poi fu sconfitto dal Cavalcano presso Pizzighet-
tonc e dai Benzoni sotto le mura di Crema, ove le sue mi-
lizie presero la fuga, ed egli, combattendo virilmente, rimase
ucciso sul campo. Dopo questo fatto i Benzoni confiscarono
ì beni a quanti ghibellini cremaschi s'erano mossi col Soardi
a guerreggiarli.
Nel 1405 Tire delle fazioni calmaronsi; altro flagello e
più terribile entrò a desolare il suolo cremasco, la pesti-
lenza. Mieteva a centinaja senza distinzione e guelfi e ghi-
bellini, condannando ad abbracciarsi sotterra e nella me-
desima fossa, cittadini che non potevano vivere uniti sotto
il tetto comune della patria loro. Colpiti dalla pestilenza,
morirono Paolo e Bartolomeo Benzoni, che per scamparne
s'erano ritirali nel castello d'Ombriano.
A Paolo succedeva nel dominio di Crema l'unico figlio
Bizzardo. Bartolomeo lasciava con testamento la signoria
a' suoi figli Daniele, Greppo, Trippino , ancora fanciulli, nati
per legittime nozze da Caterina Crivelli, milanese: ed a
(I) Vedi i! Documento B.
— CJ07 —
loro, se morivano intestali o senza prole, sostituiva Slocìno,
Paganino e Giacomino, figli di Compagno Beatoti!, e niz-
zardo figlio di Paolo. Nel testamento, Bartolomeo provvide
air immatura olà della prole, nominandole latori la \edo\a
Caterina, Socino Bemoni, Giovanni rigala podestà di Crema,
Francesco Ardilo, Francesco Vimercali,e Paiono della Noce.
Volle Bartolomeo che il suo cadavere venisse sepolto in
duomo all'aliare di S. Donalo, ordinando che quell'altare
assumesse il nome di S. Martino onde rammemorare il
giorno della sua elezione a signore di Crema. Pose (ine al
testamento raccomandando l'anima a Dio, il corpo ai
vermi, i filinoli al popolo di Crema e di Pandino.
Clic a Bartolomeo e Paolo Benzoni dovessero succedere
nel dominio di Crema i loro figli, era stalo già stabilito nel-
rislromcnto d'investitura rogalo il dodici novembre 1403.
Nondimeno nell'anno stesso in cui seguì la morte di Paolo
e Bartolomeo, troviamo Crema in podestà di Giorgio, an-
ch'esso dei Benzoni, congiunto in parentela coi defunti do-
minatori. Finora questo personaggio figurò una sol volta
nelle cronache cremasene^, e fu nell'anno 1598 fra i venti
Benzoni che Rinaldo conte di Camisano discacciò con al-
tri guelfi da Crema. Come Giorgio abbia potuto spogliare
del dominio i tutelati fanciulli suoi cugini, chiamali alla si-
gnoria di Crema e di Pandino e per testamento paterno e
per istabilito ordine di successione, il Terni non sa dire.
Né può dubitarsi che tulli quattro i fanciulli Benzoni mo-
rissero poco dopo i loro genitori, perocché di Rizzardo, figlio
di Paolo, sappiamo che invecchiò e finì i suoi giorni a Cre-
mona con numerosa discendenza. Ci è dunque forza sospet-
tare che col raggiro, e non altrimenti, abbia Giorgio strap-
pala a' suoi parenti la signoria di Crema e di Pandino. Né
vale a quietarci un islromenlo pubblicato dalfAlemanioFino,
(lì Terni. Storia di Crema.
— 208 —
ove apparirebbe ebe Giorgio venisse eletto signore da un
eoncilio tenuto in Crema il giorno 24 settembre dell'an-
no 1405 (i): niente di più probabile che Giorgio Benzoni
con quell'adunanza del concilio dei cittadini abbia saputo
adonestare un'usurpazione; tanto più che se egli avesse
avuto buone e incontrastate ragioni al dominio di Crema,
non gli sarebbe bisognato di ricorrere ad un'assemblea di
concittadini per farsi proclamare signore.
Salito al potere, Giorgio, che aveva bene adunchi gli ar-
tigli, cominciò col ghermirsi una porzione dei beni dell'abba-
zia di Cereto, appropriandosi tutti quelli che erano nel ter-
ritorio di Crema. I frati Sciamarono alla Santa Sede, e papa
Gregorio XII con lettera W ammoniva il Benzoni a resti-
tuire i beni tolti all'abbazia, a non contaminarsi le mani ra-
pinando ai frati, rammentandogli che i beni ecclesiastici
appartengono a Dio. Giorgio non rispose al pontefice, ma
incaricò nel 1407 Giacomo Foppa, suo oratore presso di-
verse Corti, di scolparlo innanzi a Gregorio XII, e di ado-
perarsi a persuaderlo ch'egli i beni dell'abbazia non usurpava
ma teneva a buon diritto (3). Ignorasi come finisse questa
vertenza tra i frati di Cereto e Giorgio Benzoni; è però da
credersi che l'abbazia sia stata reintegrata ne' suoi possedi-
menti, perocché nessuno dei principi successi al Benzoni
profittò del sopruso da lui tentato, per millantar ragioni so-
pra quei beni abbaziali.
Giorgio sentì la necessità di tener ben guardati i suoi
dominj. Adombravasi di molti e ambiziosissimi lirannelli che
signoreggiavano nelle città vicine, e più ancora dei Visconti,
poiché Gian Maria duca di Milano vedeva assai di malocchio
(1) Vedi il Documento C, ov'é riportato queir istromenlo.
(2) La lettera leggesi nel Cadice Allocchio , pregevole raccolta d' antichi
documenti relativi a cose cremasene.
(3) Racchetti, nella sua opera manoscritta ove tratta della storia genea-
logica delle famiglie nobili di Crema.
— 309 —
sottratte al ducalo tante città già possedute da Gian Galeazzo
suo padre. La grandezza dei Benzoni in Crema era naia
dallo sfascio di quella dei Visconti , e Giorgio, che ben lo
sapca, struggevasi continuamente del timore che le forze
dei minorenni Gian Maria e Filippo Visconti rinvigorendo
lo trabalzassero dal potere. Quindi pensò, misurò, adoperò
tutti i mezzi che a lui sembravano i più acconci per gua-
rentirsi la signoria di Crema e di Pandino. Appena assunto
al potere, avea cangiati i castellani delle rocche di Serio e
di Ombriano, i contestabili delle porle e il podestà, me-
more dell'assioma: a nuovi dominatori, uomini nuovi. Poi
strinse alleanza con Pandolfo Malatcsla, signore di Brescia,
e con Giovanni Vignali, signore di Lodi, guelli ambedue, i
quali verso il duca di Milano rappresentavano la medesima
parte di usurpatori che il signore di Crema. Premendogli
annodare amichevoli relazioni con altri principi fuori di
Lombardia, mandò Nicolino Mandello, oratore al re di Pu-
glia: e perchè non fosse assalito dai Visconti, chiese ed ot-
tenne una tregua di quattro mesi dal duca di Milano, la
quale scaduta addì lo dicemhre del 1406, venne per al-
trettanti mesi rinnovata.
Nel 1407 avvampando la guerra in varie parti d'Italia,
Giorgio Benzoni si mostra indefesso nel provvedere alla
difesa del suo dominio: essendo i danari i nervi della
guerra ed i custodi della pace (*), egli per tesoreggiare vende
parte dei beni slati confiscali ai ghibellini, e parte affitta
per riscuoterne le rendite. A maggior sicurezza della pro-
pria persona forma una compagnia di cavaleggieri, desti-
nati a seguirlo quando cavalcava: a maggior difesa del ter-
ritorio cremasco fortifica Montodine,Ripalta Arpina, Palazzo
e Scannabue. In tredici mesi sorgono due torri gigantesche,
l'una a Montodine, l'altra a Rivoltella de'Guarini, dalla
(i) Sentenza di Camillo Porzio nel libro La congiura dei baroni.
— 210 —
sommità delle quali si poteva scoprire da lungi un'aggres-
sione di nemici. Per tal modo nel territorio cremasco, ca-
stelli, torri, bicocche moltiplicarono. Presentemente, avvez-
zati a tener conto della forza terribile e distruggitrice dei
cannoni , ci sembra strano come valessero questi deboli
ripari a sfidare l'assalto di nemiche falangi. Ma convien
rammentare, che quantunque l'artiglieria fosse già in uso
nei tempi che discorriamo, non era tuttavia l'arte degli
assedj di molto avanzata. Le bombarde e le spingarde ado-
pera vansi contro i combattenti, non contro le mura, igno-
randosi ancora l'arte di battere una fortezza regolarmente
per aprirvi la breccia, e di atterrarla a forza di colpi con-
tinuati e irreparabili. Ogni villaggio potevasi adunque fa-
cilmente ridurre a fortezza, e difendere vigorosamente dagli
slessi contadini: non così a' nostri giorni, che, perfezionatasi
la scienza delle artiglierie, le popolazioni s'arrendono ben
presto quando si parli loro con la bocca dei cannoni.
Giorgio Benzoni nomina i castellani ai luoghi da lui for-
tificati: fa larga provvisione di artiglierie, picche, lance e
arnesi da guerra, quali richiedeva l'uso di quei tempi. Ed
essendo nel 1407 Facino Cane in lotta con Ottobuono Terzo
per la signoria di Piacenza, manda a quest'ultimo soccorsi.
Nel settembre dell'anno medesimo (1407) i Veneziani insi-
gniscono Giorgio Benzoni con tutti i suoi discendenti della
nobiltà veneta t*): raro e splendidissimo privilegio. La re-
pubblica di Venezia ne onorò Giorgio Benzoni , come quella
che spasimando d'estendere le sue conquiste in terraferma,
comprendeva quanto importava gratificarsi il signore di
Crema, per giovarsene nel preveduto caso di dover romper
guerra al duca di Milano.
Nell'anno seguente (1408), Giorgio chiede al duca di
Milano un'altra tregua di tre auni e due mesi, la quale gli
(i) Vedi nocumento D.
— *n —
rieo consentila , essendo allora il (lue;» travagliato alquanto
da Estore Visconti, Pacino Cane e Ottobuono Terzo. In-
tanlo Pandolfo Malatesta avendo comperata da Giovanni
Soardila signorìa di Bergamo per trenta mila ducati, Gior-
gio, timoroso dell* accresciuta potenza del vicino ti ran nello,
affrettasi a fortificare Misano, ed introduce in Crema arma-
iuoli forestieri che avessero continuamente a fabbricare armi.
Nel 1410 le vicende politiche di Lombardia ciano stra-
namente avviluppate: nuovi timori tormentano Giorgio ten-
zoni, e nuove fortezze s'innalzano a Sergnano, Pianengo,
Ricengo, Caseletto e Madignano. Mutansi d'improvviso tutti
i castellani e contestabili delle porte , e con nuova tassa
vengono i Crcmaschi molestali nelle finanze. Giorgio non
trascurava mezzi sia per mantenere, sia per legittimare il
suo dominio ch'estendeva sulle terre di Crema, Pandino,
Misano ed Agnadello. Oltre al guarnire il territorio da lui
posseduto, oltre restorcere dai sudditi somme ingenti, te-
nea ambasciatori presso le corti tanto dei vicini, quanto dei
lontani signori e monarchi. E per iscroccare in Crema fama
di pio e religioso sovrano, non mancò di accarezzare i preti,
egli che avea cominciato a signoreggiare spogliando i frati.
Il duomo di Crema fu da lui abbellito con nuova ancona,
opera di Rinaldo da Spino: vi si collocò dentro un nuovo
battisterio , atterrato l'antico ch'era in una chiesuoletta ag-
giunta al lato settentrionale della facciata: allarsossi la ca-
nonica per uso e comodità maggiore del clero.
Nel 1412, cinque patrizi milanesi uccisero il duca Gian
Maria Visconti , non si sa bene se nella chiesa di S. Got-
tardo o in una sala di corte che a quella conduceva. Esul-
tarono i Milanesi dell'assassinio di questo principe imbecille
e ferocissimo che faceva sbranare i sudditi da mastini appo-
sitamente educati a procacciargli un così disumano diverti-
mento : Giorgio Benzoni sperò che la morte di Gian Maria
dovesse apportare, nelle politiche vicende di Lombardia,
— 212 —
cangiamenti a lui favorevoli, ma fu deluso. À Gian Maria
successe nel ducato Filippo Maria di lui fratello, che non
dirazzava dagli avi in perfidia e tenebrosa politica, e che
in poco tempo seppe rassettare la sconcertata grandezza
del ducalo.
A quest'epoca Pandolfo Malalesla essendo venuto alle
armi contro Cabrino Fondulo, signore di Cremona, Gior-
gio Benzoni sussidiò Gabrino di vettovaglie. Del che Pan-
dolfo aspramente indignatosi, irruppe colle sue milizie nel
territorio cremasco, tolse al Benzoni il castello di Ofl'anengo
e ne affidò la custodia a Martino di Faenza , capitano di
mollo grido. Sgomentatosi non poco il Benzoni per la per-
dita di un castello distante tre sole miglia da Crema, can-
giò per la terza volta lutti i castellani dei luoghi fortificati,
i custodi alle porte di Crema, ed affretlossi a stabilire col
duca Filippo altra tregua di un anno. Non per questo tran-
quillossi l'animo di Giorgio: agitalo dal timore di perdere
la signoria, cercava continuamente l'amicizia di principi
e signoroni che lo spalleggiassero. Inviò di nuovo amba-
sciatori al duca di Milano, al signore di Mantova, a quello
di Cremona, all'imperatore. Altra volta avea mandalo alla
corte imperiale Pantaleone Zurla; ora vi manda un Ghe-
rardo degli Abbondi, coli' incarico di procacciargli dall'im-
peratore la conferma del suo dominio di Crema e di Pan-
dino : la quale ottenne nel 14-15 sborsando trecento e
settanta ducali. Ma quantunque l'imperatore avesse rico-
nosciuti i diritti di sovranità che il Benzoni esercitava nelle
terre di Crema e di Pandino, non isgombrarono dall'animo
di Giorgio inquietudini e timori. Giorgio Benzoni s'accor-
geva che il suo nemico naturale, e di tutti il più terribile,
era il duca di Milano ; onde per amicarselo risolvette di
venire con Filippo Visconti ad una transazione, e rimettere
parte di quella sovranità che si era arrogata sulle terre di
Crema e di Pandino. Dopo avervi per nove anni signoreg-
— 943 —
ninto con podestà assoluta, Giorgio, rinunciando alla sua
indipendenza, deliberò d'offrire la signoria di Crema e di
Pandino al duca Filippo Visconti, acciocché la ricevesse in
feudo, e lui ne investisse con tutte lo prerogative di un
feudatario. Siffatta proposta, Giorgio Benzoni lece al duca
Filippo col mezzo ili darlo Benzoni e «li prete Ottolino Ci-
gnoni, inviati appositamente a Milano: e il duca di .Milano,
cogli oratori del Benzoni, stipulò nel castello di Pavia, addì
31 luglio 1414, il seguente accordo:
« Che il Bcnzonc fosse vassallo del duca e de' suoi sue-
» cessoli.
» Che il duca desse in feudo Crema, Pandino, Misano
» ed Agnadello con tutte le giurisdizioni loro al Benzonc
» ed a' suoi successori legittimi maschi.
» Che in riconoscimento del feudo, in ogni guerra di
» Lombardia, per sei mesi ogni anno, il Benzoni e suoi di-
» scendenti dessero al duca e suoi eredi cento cavalli pagali.
» Che ogni anno nel di della Circoncisione egli desse al
» duca un corsiero del prezzo di duecento ducati d'oro.
» Ch'egli accettasse in Crema le genti del duca ogni volta
» che fosse bisogno.
» Ch' egli facesse giurare fedeltà al duca da lutti i ca-
» stellani di Crema e di Pandino, promettendo di non la-
» sciarli senza consentimento del duca. E mancando esso
» in cosa veruna, avessero a lasciar le rocche in mano del
» duca, ed egli rimanesse privo d'ogni sua ragione.
» Ch'egli non potesse mutare i castellani senza il con-
» sentimento del duca.
» Che i castellani non potessero accettare nei castelli
» tante genti né del duca né del Benzoni , che potessero
• far loro violenza o soperchierie; riservando, se prima o
* l'un o l'altro non mancasse di quanto avesse promesso.
» Che il Benzoni non potesse far lega, pace , né tregua
» con alcuno che fosse nemico del duca , né in maniera
— 2U —
» veruna favoreggiarlo, avvenga che di ragione o per patio
» gli fosse obbligato.
» Che non dovesse accettar banditi, fuorosciti, o tradi-
» tori del suo ducato; oppure, capitandogli nelle mani,
» dovesse mandarli al duca , massime quando fossero di
» quelli che uccisero il duca Gian Maria suo fratello.
» Ch'egli mantenesse tutte le fedi e salvacondotti fatti
dal duca.
» Che il duca fosse obbligato a dare al Benzoni tutti i
» suoi ribelli, ogni volta che gli venissero alle mani, ovvero
» far che da' suoi ufficiali venissero puniti.
» Che il Benzoni facesse confermare dal popolo di Crema
» tutti questi capitoli , e gli facesse giurar per istrumenlo
» di servar tutto quello che a veri sudditi si conviene.
» Che il duca non fosse obbligalo ad alcuna delle sud-
» dette cose, se il Benzoni fra otto giorni non facesse con-
» fermare e giurare, ed eseguire quanto si è detto di so-
» pra (*) . »
L'osservanza di questi capitoli fu da Giorgio Benzoni giu-
rata in Crema, presente Giovanni Corvino , segretario del
duca di Milano; anche i castellani giurarono fedeltà, come
i capitoli medesimi richiedevano. Pochi giorni appresso, il
Benzoni recatosi alla corte di Filippo Visconti, vi fu accollo
onorevolmente ed investito col titolo di conte del feudo di
Crema e di Pandino, trasferibile a tutta la sua discendenza
mascolina. Pralicaronsi nell'investitura tutte le solennità
di consuetudine in simili occasioni, e insieme al titolo di
conte fu concesso al Benzoni tiC inquartai* e nello stemma
un leone rampante con la spada ignuda fra le branche.
Divenuto feudatario del duca di Milano , Giorgio cinse
Pandino di un nuovo rifosso: ricuperato nel gennajo del
1415 il castello dWanengo, lo spianò acciocché non po-
(I) Fjno. Storia di Crema.
— J18 —
lesse più nuocere a Crema. Il Benzoni, non dimenticandosi
mai ch'egli col diventar conte era por divenuto vassallo del
iluca di Milano, si dimostrò sempre zelantissimo neir adem-
pire i patti che a Filippo Visconti lo stringevano. E tanto
più scrupoleggiava nelf osservarli , vedendo come il duca
col braccio di Francesco Carmagnola, valorosissimo con-
dottiero, andasse mano [nano riacquistandole terre che
sfacciata rapacità di tutori aveva sottratte al ducato durante
l'infausta minorità del fratello Gian Maria. Il conte Gior-
gio, consapevole essere i ghibellini protetti dal duca, ostentò
loro benevolenza, rendendo a molli i beni confiscali. Nelle
guerre prosperamente sostenute da Filippo Visconti con-
tro Gabrino Fondulo, signore di Cremona, contro Pandolfo
Malatesta, signore di Brescia, e contro i Genovesi, il Ben-
zoni sussidiava il duca con numerosa copia di danaro e di
milizie. Campeggiò egli stesso nell'esercito ducale, sotto Bre-
scia, insieme col proprio figlio Venlurino: a combattere
i Genovesi mandò Benzonc Bcnzoni con alcuni drap-
pelli di fanteria. Quando nell'anno 1420 Filippo Visconti
comperò da Gabrino Fondulo la signoria di Cremona,
il conte Giorgio sovveniva al duca mille e novecento fio-
rini d'oro; e tanto fervorosamente il Benzoni si adoperava
per mantenersi in grazia del duca e sopperirne i bisogni
da lasciare che i Cremaseli! strillassero nel mentre li dissan-
guava con replicati balzelli.
Giorgio Benzoni aveva quattro figli: Venlurino, Nicolao,
Antonio e Guido , gli ultimi due illegittimi. Tenevano in
Crema corte separata dal padre: baldi per giovinezza, or-
gogliosi di poter primeggiare fra i gentiluomini, trascorre-
vano sovente in lascivie e soperchierie , quasi credessero,
perchè figli del signore di Crema, potersi togliere impune-
mente ogni capriccio. Ma ben presto nelF animo di molti
patrizj cremaschi avvampò l'ira dei patiti oltraggi e i talami
Molati riclamarono vendetta.
— 216 —
Le famiglie Vimercati, Verdello, Cusatri, ed alcune altre,
tuttoché guelfe e già partigiane dei Bcnzoni, non volendo
sopportar più a lungo le insolenze dei figli del conte, me-
ditarono di balzar dal potere il loro genitore. Mandano se-
cretamenteCremaschino Vimercati, Giovanni Ardito e Bian-
co Caravaggio a Milano, ove abboccàronsi con alcuni dei
Tintori e dei Patrini, fuorusciti cremasebi, nemicissimi del
Benzoni. Questi assumono di farsi istromenti della comune
vendetta, e trovano modo di accusare al duca il conte
Giorgio di fellonia, imputandolo di avere, in onta ai giu-
rati doveri, prestato soccorso al signore di Cremona. Fi-
lippo Visconti, che, ricuperale le ci Uà di Bergamo, Cremona
e Brescia, agognava di rendere all'assoluto suo dominio
anche il territorio di Crema, prestò facile orecchio agli ac-
cusatori. Senza punto indagare se veramente il conte Gior-
gio fosse reo di fellonia, spedì ordine al costellano della
rocca di Ombriano, che ai venticinque di gennajo (1425)
consegnasse il castello al duca di Milano. Ed i nemici del
Benzoni, per consumare in modo atroce la loro vendetta,
tramarono di uccidere nella notte del giorno medesimo il
conte e i suoi figliuoli. Orrenda fine sovrastava al signore
di Crema: il caso ne lo scampò. Essendosi il conte addì 24
dì gennajo recato alla rocca di Ombriano , il castellano
gliene ricusò l'ingresso: onde Giorgio, ch'era già per in-
dole sospettoso, adombrossi di quell'ostile e strano proce-
dere del castellano. Preso da subito e invincibile timore,
quasi la mente gli fosse presaga di quanto contro di lui
cospiravasi, fuggì da Crema la notlc medesima che prece-
dette il mattino del giorno 25 gennajo 1425. Lo seguirono
nella fuga i quattro figli, i suoi servitori, Antonio Marchi e
Bosso Guarini : la consorte del conte Giorgio, ch'era Am-
brosia Corio, gentildonna milanese, rimase a Crema. Gior-
gio Benzoni col suo seguito s'incamminò alla volta di xMan-
tova: indi recatosi a Venezia vi fu accolto onorevolmente ,
ed offri la sua spada in servigio della repubblica. Così sai-
•.andò hi vita perdette per sempre It signoria di Crema 6
di Pandino cheavea tenuto, per nove anni, con podestà as-
soluta , e intorno a dicci qaal feudatario e vassallo del duca
di Milano.
Giorgio Benzoni figura storicamente nella schiera dei
tirannelli lombardi che dopo la morte del potentissimo Gian
Galeaxzo Visconti ghermirono un lembo del suo manto du-
cale: usurpatori tutti, la più parte scelleratissimi, vermi
sorti dal cadavere di Gian Galeazzo a rodere i popoli ili
Lombardia. Giorgio era dei meno schifosi, comunque Sa-
verio Bettinelli^) dica che i Benzoni di Crema non furono
migliori degli altri tirannucci. Il signore di Crema non mac-
chiarono gli atroci delitti che Gabrino Fonduto signore di
Cremona ed altri tirannelli: può dirsi essere stato il Ben-
zoni sitibondo di potere e di danaro, non di sangue. Oro
necessitava per sostenere V incerta e vacillante signoria ;
oro ad erigere, custodire, approvvigionare castelli ; oro per
abbonirsi l'imperatore e il duca di Milano; e d'oro lo sa-
tollarono i Cremaseli!, i quali alla fin dei conti non ebbero
gran fatto a rallegrarsi d'aver per sovrano un concittadino.
Il Terni, con documenti, ci palesa un'astuzia di Giorgio
Benzoni : rapiva ai ghibellini ribelli le sostanze , poi le do-
nava a' suoi partigiani, obbligandoli a sposare una donzella
ghibellina delle famiglie cui i beni confiscava. In questa
guisa otteneva il doppio intento, di meglio gratificarsi co-
loro che lo favoreggiavano, coli' arricchirli , e di rendere
meno odioso Tatto con il quale assegnava loro le spoglie
dei propri nemici.
Fra gli attributi sovrani dal Benzoni esercitati, quello non
trascurò di battere moneta. Le monete, sia d'oro sia d'ar-
gento , portavano da un lato improntata V arma Benzona
col moto Iute Domino i~), dall'altro l'immagine d'esso Ben-
zoni con lettere che dicono Georgìus Benzonus domimi*
(i) Bettinelli. Del risorgimento d' Italia.
(2) Aleinanio Fino. Scelta degli uomini di pregio usciti da Crema.
13
— 218 -
Cremce. Le monete fatte coniare dal Benzoni sono ramme-
morate dall'Argelati nell'opera De monelis italicis^).
Giorgio Benzoni mostrò singoiar destrezza nel mante-
nersi per diecinove anni in signoria , onde Crema fu l'ul-
tima delle venti città che Filippo Visconti ricuperò al du-
cato. Forse, accarezzando il duca, Giorgio avrebbe potuto
più a lungo durare nella contea di Crema e di Pandino, se
lo sfrenato libertinaggio de' suoi figli non avesse offerto
motivo ai sudditi e pretesto al duca per rovinarlo.
Il governo dei Benzoni durò in Crema circa vent'un an-
ni: come vi procedessero internamente i negozi del Comune
le cronaebe non rivelano ; questo soltanto desumiamo dal
Fino (-) , che signoreggiando Giorgio Benzoni fu in Crema
podestà Enrico Zurla. La signoria dei Benzoni segnò nella
città nostra un'epoca di assodalo trionfo per la fazion guelfa,
quindi i ventun'anni del loro reggimento volsero ai Crema-
sebi senza vampe di cittadine discordie, senza tumulti. Il
partito guelfo erasi in Crema abbarbicato con salde radici,
aderendovi moltissime famiglie patrizie delle più cospicue: i
Benzoni, col blandirlo, col farsene gli antesignani, si edifica-
rono un soglio, salirono a quella vertiginosa altezza ove per
chi porta il cuore roso dal verme dell'ambizione, è dolcissima
cosa vedersi da tutto un popolo ossequiati, temuti, obbediti.
Fin dall'anno 1210 un Ve n turino, pure dei Benzoni, capo
dei guelfi, primeggiava in Crema procedendovi con princi-
pesca ambizione, onde era tradizionale nella famiglia Ben-
zoni la smania d' inebbriarsi alla tazza del potere, e farsi
della fazion guelfa sgabello al supremo comando. E qui no-
teremo che il guelfismo, e prima e dopo il dominio dei
Benzoni, prevalendo in Crema agli sforzi ed ai brevi trionfi
dell'avversaria fazione, governò quasi sempre le sorti poli-
tiche della città nostra.
(1) Una moneta di Giorgio Benzoni è posseduta in Crema dal signor Gio-
vanni Schiavini.
(2) Alemanio Fino. Scelta degli Uomini di pregio usciti da Crema.
2l'.l
DOCUMENTI E NOTE
L' istromento con cui i fratelli Benzoni furono eletti a signori ili
(rema ci fu conservato dal Terni, pubblicato dal Fino nella Se-
rial» Ottava, ed è il seguente:
« In nomine Altissimi Creatoris et beati S. Pantaleonis populi Cre-
■ menata Protectoris, totiusque Curia? ceelestis. Anno Domini millesimo
•• -madringentesimo tertio, indictione undecima, die duodecimo novem-
■ bria , in Crema , in Palatio Communis Crema3, pra?sentibus Domino
- Jacobo de Fundulis, et D. Bartholoma?o de Vulpiano, utriusque ju-
h ris Doctoribus, de terra Soncini, habitantibus in Crema, D. Paloto
" de Nuce, et Cornino de Loto Notario de Crema, prò testibus vocatis
» et rogatis. Pro secundo notario interfuit Andreas Martinengus No-
» tarius. Convocato et congregato Consilio generali Terra? Crema?, et
■ districtus, in Palatio prsedicto, sono campanarum, et voce pra?conis,
» more solito, in pnesentia nobilium et egregiorum Dominorum, Ser-
■ gnani, Paulini q. C. Beli, Alberti, Joannis et Corradini de Benzo-
» uibus de Crema, et de eorum consensi! et voluntate. In quo quidem
» Consilio aderant D.Franciscus de Arditis. Anselmus de Bianco, Za-
« netus de Verdellis, Hieronymus Mandula, Franciscus de Brambilla,
« Dominicus de Alferis , Focus de Tado , Manfredus de Bencio , Sin-
» dici communis hominum, et universitatis Terra? Crema? et districtus,
» et etiam infrascripti de ipso Consilio generali, videlicet:
Aloysius, et Gabianus de Cheto.
Antonius de Castellis. Amadus Baraca.
Joannes, Gofredus,
Janinus, et Marius, et
Cremascus de Vimercato. Antonius de Alfieris.
Jacobus, Zanetus de Benvenuto.
Andreolus, Comes Polinus de Capralba.
Petrus, et Dominicus,
220 —
Betinus 7
Jacobus,
Bartholinus, et
Antonius de Paveris.
Joannes de Urgnano.
Joannes de Mazolo.
Aloysius, et
Cremaschinus de Plaza.
Christopliorus,
Andreas,
Cominus,
Paganinus,
Antonius, et
Petrus de Martinengo.
Scalvatus de Lotero.
Bartholinus, et
Christopliorus de Magistris.
Petrazolus de Almenno.
Antonius et
Christopliorus de Guarinis.
Jacobus, et
Andreas de Gogò.
Bassianus de Robato.
Joannes de Nembro.
Zaninus de Bonadis.
Antonius de Ferrariis.
Zanus,
Cominus, et
Faccus de Carulanis.
Guidila de Hoxio.
Antonius,
Galvanus,
Franciscus, et
Pantaleon de Zenariis.
Greppus de Palotis.
Betinus de Zurlis.
Bodus de Berolgara.
Nucius de Nuce.
Bernardus de Benciis.
Cominus,
Niger,
Thomasius, et
Paulus de Benellis.
Zanonus de Levexellis.
Fachinus de Valle.
Cerutus de Muto.
Petrus Zanus de Mandola.
Thomasius de Bentifaciis.
Bartholomseus de Cacalupis»
Arrigus de Loto.
Theminus de Inzolis.
Joannolus de Antiocho.
Christophorus de Montanariis.
Perinus de Gattis.
Cominus de Ubertis.
Betinus de Frassis.
Pecinus de Tajata.
Zucca de Albrigono.
Marchinus de Calcagno.
Pascanus de Pennariis.
Petrus de Hendena.
Joanninus de Prata.
Guidinus de Alchisiis.
Belebos de Cesta.
Cominus de Pandino.
Thomasinus de Tajacanis.
Pantaleon de Roate.
Zaninus de Bianco.
Bartholinus de Marco.
Antonius de Bajardo.
Zanetus de Paratico.
Guilielmus de Guardavalle.
Tonollus de Dolzonis.
Bartholinus de Soncino.
Gosmerius de Vereniga.
Thomasius de Brigata.
Paxius de Sojariis.
Pecinus de Parrò.
Thomasius de Vailato.
Gerardus de Mazano.
Guilielmus de Belanda.
Thadseus de Licinis.
Betinus de Stradati*.
Pecinus de Conca.
Cometus de Fogheriis.
Thomasius de Torniolk-.
— 22i —
Potrai de Vidalo. Nioolane de Medida.
Bartholinna de Oleariia. Thomaaina de Bragotia.
Arrieas de Patrinia. Thomaaina,
Faceva de Textio. Antonina, et
Continua de Anlitis. Criatophorna de Dentiboa.
Marena de Ohio. Joanninua de Bfontioellia.
Franciacna de Afarconia. Joanninua <!<• Bota.
Ottolinua de Fabria. Zàliolua de 'Terno.
Zaninue de Facchia. Faecus de Oriolis.
Cominua, et Bernardus de Guarda.
Antonina de Verdello. Mizzotus de Finello.
Thomasius de Einboldo. Thomasius de Pilatis, et
Comiuus de Tortis. Maphaeus de Garoco.
Zaninnfl de Vavaxoriis.
Qui è d'avvertire (sono parole di A. Fino), che in questa elezione
intervennero non solo i nobili e quelli che ordinariamente sono del
Consiglio, come oggi si usa di fare, ma vi si trovarono eziandio molti
del popolo, il che si vede dalle seguenti parole dell' istromento :
u. Qui omnes Consiliarii superius nominati faciebant duas partes dicti
» Consilii. In quo quidem Consilio aderant quasi omnes de populo
» Crema3. Dicti Syndici, suo, et Syndicario nomine ; et Consiliarii suo
* nomine i et vice ipsius populi, et omnes alii de populo suo nomine,
» et vice ipsius populi, et aliorum de populo; prò quinus de rato pro-
* mittunt; ibidem unanimiter, et concorditer congregati prò infraseripta
» electione Dominorum pertractanda , et explicanda, diutina inter se
» deliberatione matura habita colloquio et traetatu; considerantes se
» liberos nullum Dominum supra caput habere Rectorem, tandem prò
» utilitate, et communi commodo totius Populi, praefati, de ipsorum
* sponte, libere, et ex certa scientia, nullo metu, nulla coactione, nul-
■ loque imperio, adhibitis, sed ultroneis et spontaneis motibus, haben-
» tes oculos ad plures, sed inter eaeteros, ad infrascriptos Magnificos
» Dominos sibi utiliores, et magis idoneos, Spiritus Sancti divina gra-
» tia elegerunt, et creaverunt, et ordinaverunt, et statuerunt, eligunt,
» constituunt, creant, et faciunt Magnificos Dominos Bartholomaeum I.
■ U. D. et Paulum fratres, et filios q. spectabilis , et potentis, ac ma-
» gnifici Viri Domini Paganini de Benzonibus de Crema, olim anti-
n quos et nobiles, ae famosos et strenuos in ipsa parentela de Benzo-
li nibus, et utrunque eorum in soìidum, ibidem ipsos, et diu renitentes,
*» tandem precibus, et suasionibus ipsorum eligentium, recipientes et
» acceptantes, considerata potius utilitate ipsorum eligentium, quaia
— 222 —
* elcctorum, in Dominos imiversales et generales terra? Crema? , et
" districtus ipsorum eligentium, et omnium aliornm de Po-pulo Cre-
» mas, et districtus, et totius ipsius Populi Cremai, et districtus : Dan-
» tes, et transferentes in ipso Dominos , et utrumque eornm in solidum,
» Dominium universale , generale , tutelam , et gubernationem ipsius
r> Terrai Crema? , et districtus , et fortaliciorum ipsius Terra? Crema1,
n et districtus , personarum , et Iiominum ipsius Terra? Cremai, et dis-
n trictus, merum et mixtum Imperium, omniraodam Jurisdictionem, et
» gladii potestatem personarum, et Iiominum ipsius Terrai Cremai et
« districtus, et in ipsas personas et homines, et in Terram ac districtum
» praefatum, et omnia regalia ipsius Populi, communitatis, et hominuin
» Terrse Crema?, et districtus-, Et cum omnimoda potestate, et pleni-
n tudine potestatis largiore, et ampliore, et majore, qua? dari, et trans-
« ferri possit. Et in signum possessionis, seu quasi possessus praefati
* Dominii, et de proesenti volentes eos introduceri in posscssum, seu
p quasi possessum Terra? Crema?, et districtus, et personarum, et homi-
r> num suprascriptorum, eisdem pra?sentibus tradidere proefati Syndeci,
» nomine, et vice totius populi Crema?, ipsorum nominimi, et consilii,
» virgas, seu bacchettas, unam cuilibet ipsorum, et signum rectitudi-
yj nis, et justitia? manutenenda? , et exercenda?: ensem nudum cuilibet,
» in signum fortitudinis , et terrorem malorum , et laudem bonorum :
» Braverium, seu Confanonum, seu vexillum cum Armis, seu insigni-
» bus communis Crema? depictis, in congregationem, et regulationem,
» et reductum populi Crema?, hominum et personarum ipsius: claves
« portarum, et hominum fortaliciarum ipsius Terra? Crema?, et distri-
» ctus, in signum perfecti quasi possessus pra?dictorum , liberi aditus,
■» et exitus , et custodia? ipsius Terra? Crema? , et districtus, et fortali-
y> ciarum pra?dictarum. Adhibitis etiam omnibus aliis solemnitatibus ,
r qua? in pra?dictis, et circa pra?dicta de jure et consuetudine Dominii
» usitata? et requisita? sunt, et servali consueverunt. Quibus sic peractis,
» pra?fati Magnifici Domini (licet diu rogati) tandem suscepere pra?fa-
" tum Dominium, et omnia, promittentes solemniter se juste tracturos
» homines, et personas praedictas, et se j ustitiam reddituros unicuique;
n et facturos, et curaturos in omnibus, et per omnia, prout in talibus
r> requirit ordo juris,*et bona consuetudo. Et ad omnium praedictorum
» affirmationem , et robur, pra?fati de Consilio, omnes alii de populo
» pra?dicto, corporaliter tactis scripturis, et Evangeliis in manibus pra?-
?» fatorum Dominorum, et cujuslibet eorum, juraverunt ad Sanerà Dei
» Evangelia-, et Sacramentum fidelitatis pra?stiterunt, recipientes suo
v nomine, et nomine filiorum suorum legitimorum, et ex eis legitime
» descendentium masculorum, etha?redum ipsorum in hac forma- Quia
— 223 —
pitMniaerunt, et jureverunt ad Bancta Dei Evangelia eorporalitei
• tiirtis seripturia, pn> se, Buiaque hseredibna in perpetuimi quod ab
•• bacfeora in antea erunt fidelos prsfatorum Dominorum, et :id eonun
•• majoriamef BÌgnoriam Btabunt,ei nunquam erunt in facto; necoon-
•• silio, quod ipsi Domini vitam, rei membrum amittant, ve! in perso-
• nk recipiant aliquam IsBsionem, iqjuriam, vel eontumeliam, vel quod
- mala eaptione capiantur, vel quod aliquem honorem, v<xl regalia,
- quem, vel quae nunc habent, vel in antea habebunt, amittant I't li
•• Boiverent, voi audierint, aliquem, vel aliquoa, quam praefatoa Domi*
- noe, quicquam velie boere, pio posse suo impediant. Et si impedire
- neqniverint, eia qnam cito poteront, nunciabunt Et bì quod scrii
- tum eiadem prsefati Domini manifesta verint, illud sino prasfatorum
• Dominoram licentia nulli pandent, vcl quod pandatur facient. Scd
• si oonaflium, vel auxilinm auum postulaverint, illud bona fide prav
- fatis Dominia impendent. Ncc unquam personis ipaorum aliquid scìcn-
■ ter facient, quod ad prrefatorum Dominorum pertineat injuriam, vel
- jacturam. Ac etiam juravorunt incolume, tutum, honestum, utile,
- tarilo, et possibile ipsorum Dominorum, et ipsis Dominis. Ac etiam
- juravcrunt, et jurant in omnibus, et per omnia, prout forma talis
« j Tiramenti requirit, etc. *
11.
A Messer Pietro Terni non isfuggì una circostanza, emergente dal
testamento di Bartolomeo Benzoni, dalla quale può inferirsi che i
fratelli Benzoni s'arrogarono la signoria di Crema un giorno innanzi
a quello in cui nell'adunanza dei cittadini celebrossi il solenne istru-
mento di loro elezione. Riporteremo le parole del Terni: « E perchè
» trovo varietade nel giuorno, che nel testamento di Bartolameo si pro-
» testa che fu fatto signore al giorno di S. Martino che è a 11 di no-
» vembrio, et lo Istromento, perchè fossero un poco cadute le lettere,
* parevami chel dicesse die duodecimo, giudico che la electione si fa-
» cesse al giuorno di S. Martino et che poi fiisse il giuorno seguente
» stipulato lTnstrumento.... »
C.
L'i strumento d'elezione di Giorgio Benzoni, quale ci è riportato dal
Fino nella Seriana Nona, è il seguente:
u M. CCCC. V. Indie. XIII. XXIV. Septembris.
» In Christi nomine, et Virginis Mariae matris ejus, ac Beati Pan-
» taleonis protectoris nostri, etc.
— 224 —
n Convocato et congregato Consilio generali communis, et hominum»
ae universitatis Terrse Crema?, sono campanarum, uti moris est, su-
per Palatio Communis Crema?, una cum Antonio Guarino Syndico
Communis Cremse, nomine,, et vice communis Crema?, prò infrascripto
negocio, et prò communi bono, et utilitate totius universitatis dieta?
Terra? Crema?, in quo quidem Consilio aderant infrascripti, videlicet :
Sergnanus,
Paganinus,
Albertus,
Sominus,
Joannes,
Antoniolus,
Simoninus,
Nicolaus, et
Joanninus de Benzonibus.
Antonius de Cusano.
Jacobus,
Paulus, et
Joannes de Alferiis.
Hieronymus, et
Petrus Joannes de Mandulis.
Ottolinus de Cignonibus.
Dompetrus de Gaetanis.
Palotus,
Socius, et
Nux de Nuce.
Andreas,
Antonius de Martinengo.
Cominus de Terno.
Stephanus de Pocpagnis.
Andra?olus,
Paulus, et
Petrus Paulus de Benellis.
Zonus de Vairano.
Jacobus de Gogò.
Guidinus de Boxio.
Joannes Mazolus.
Marchinus Cazulanus.
Bernardus de Benciis.
Antonius, et
Cristophorus de Marco.
Betinus,
Cominus, et
Joannes de Loteriis.
Joannetus, et
Joannes de Benvenutis.
Bassianus de Robattis.
Riccardus.
Bartholoma?us,
Antonius,
Thomas,
Marcus,
Guilielmus,
Bartholomaeus dictus Quarte-
ria, et
Zurlinus de Zurlis.
Cbristophorus de Mazano.
Joannes de Fabris.
Marcus de Calcagno.
Jacobus, et
Christopliorus de Bianco.
Girardus, et
Nicolaus de Lolo.
Joanninus de Rota.
Franeiscus,
Petrinus, et
Paganinus de Mazaborris.
Tonolus de Monte.
Mutus de Biolchino.
Bassus de Ubertis,
Zinus de Valdemagna.
Zinus Pedracagna.
Christophorus Gattus.
Pelatus de Capriolo.
Jacobus, et
Joannes de Catana?is»
225
Gtasmerufl >!<> Vesanica.
Staphanua Maccus.
Joanninus de Bariate.
Betinua, et
Amadeus de Cornallis.
Franciacua de Botajano.
Gfoorghu de Dulcibtu.
Pantaleon Cuaatrua.
Teminua Luxella.
NIcolaua de Medicia.
Antonius.
Bartolettus, et
Bassianus do Bremasco.
Grathia Solanna.
Marcus, et
Christophorus de Guarneriis.
Bartholottus de Bartholottis.
Pecinus de Valle.
Antonius de Sambuscita.
Antonius, et
Franciscus de Zenariis.
Andreas de Placentia.
Antonius Guarinus.
Marcottus.
Cremaschinus, et
Christophorus de Vimercato.
Joannetus Tajacanus.
Petrus de Tirabellis.
Jacobus Foppa.
Franciscus Cacalupus.
Antonius, et
Stephanus de Dentibus.
Petrus, et
Jacobus Bellavita.
Pantaleon de Rovate.
Bartholomaeus a Faba.
Zilianus de Cremona.
Guidinus de Vailato.
Antonius Torniola.
Tonolus de Tajata.
Thomas Vavassorus.
Joannes Brina.
Busca Arrigolus.
Palotus de Palotis.
Battami, et
Christophorua Eduainapui
CominuB Sabadinua.
Joanninua, et
Joannetua de Nerubro.
Joannes, et
Varimpertua de Rumano.
Betinua de rinnovo.
Paganinna de Paratico.
Bassianna Bolzanua.
Stephanua de Locadello.
Franciscus de Gheto.
Pantaleon Ferrarius.
Zambonetus,
Gardenalus,
Venturinus, et
Joanninus de Costa.
Venturinus de Licinis.
Christophorus Guercius.
Marius de S. Pellegrino.
Ghisius, et
Pigocius de Endena.
Joannes Bravius.
Georgius, et
Bassianus Maricondus.
Toninus de Vidalo.
Massinus Passera.
Guilielmus de Boncio.
Bernardus de Rossettis.
Cominzolus, et
Antonius de Verdello.
Bartholinus Piapanus.
Marius de Manariis.
Guilielmus de Castroleone.
Franciscus de Soncino.
Joanninus de Concorrevo.
Jacobus Carellus.
Perinus de Matto.
Bernardus de Marcarinis.
Pavarinus Pavarus.
Tonolus de Fregasiis.
Arricus Patrinus.
Bertonus Mangiavinus.
Joanninus Furnarius.
— 226 —
» Ipsi omnes unaniiniter, et concorditer , nemine discrepante, suo
« nomine , et vice totius universitatis dictae Teme Cremae , invocata
» Spiritus Sancti gratia, et Beati Pantaleonis protectoris nostri, omni
» modo, quo melius potuerunt et possunt, fecerunt, constituerunt, crea-
» verunt, nominaverunt , ordinaverunt , faciunt, constituunt, creant,
» nominant, et ordinant magnificum et potentem D. D. Georginm de
n Benzonibus, Dominum Pandini, pra?sentem, et acceptantem in suum
r> et dictae Communitatis, ac dictae Terrae Cremae verum et generalem
n Dominum, et Rectorem dictae Terree Cremae, et dictae Communitatis,
n cum omni auctoritate et balia opportuna et necessaria : consignando
« et dando sibi ibidem ferulam dictae dominationis , et claves Castro-
n rum et portarum et fortaliciarum: Et pennonum dictae Communita-
n tis dictae Terrae, in signum veri Dominij et possessus: Et alia di-
» cendo et faciendo, quae in praedictis fuerunt necessaria. Et insuper
" ipsi omnes suo, et dicto nomine juraverunt in manibus praelibati Do-
» mini, quod erunt perpetuo fideles subditi et servitores praelibati
n D. Georgii. Et quo nullo tempore dicent', facient, nec tractabunt
« verbo, nec opere quiequam contra ejus personam, honorem, nec
» statimi praelibati Domini. Et si quid senserint tractari contra ejus
» personam, et statum, in continenti sibi manifestabunt toto posse. Et
» alia dixerunt et fecerunt quae in talibus fieri consueverunt. Qui
n D. Georgius acceptans praedicta promisit ipsis subditis, et servito-
* ribus suis, quae ipsos bene, et diligentes suo posse reget, defendet et
» salvabit, gubernabit, et jura ministrabit: salvo quae possit gratias
n facere ad ejus beneplacitum, et alia dicet, et faciet, quae dicere, et
« facere tenentur Domini subditis, et servitoribus suis. Et rogaverunt
» me Notarium, ut conficerem instrumentum. Testes, Ghidinus Inver-
ai sus, Morius Man aria, Guilielminus Boncius, Guido Mandula, Joan-
« ninus Amizonus, Pinoxius Pisacaput, Lardinus Canevarius, prò se-
» cundo notano Joanninus Rainerius. »
D.
Riportiamo la Ducale con cui a Giorgio Benzoni fu, conferita la no-
biltà veneta.
u Michiel Steno per grazia di Dio Duce di Venezia, etc. A tutti e
» cadauni tanto amici quanto fedeli, e tanto presenti quanto futuri,
n quelli che il presente Privilegio doveranno vedere, salute et affetto
» di sincera dilezione.
n La Duca! Eccellenza solita molto celebramente conservarsi negli
— 227 —
• uffici ili Liberalità, attende tanto maggiormente prevenire con bonori
•• le persone magnifiche 6 chiare per dignità di gradone quelle ampliar
•• con durali lavori, quanto al dogato DOStrO con fede <li devozione e
n con le opere si dimostrano: ( nulo il Magnifico e Potente signóri riorgio
n Bensoni di Cremai ete. Signore assoluto, essendo stato di continuo
•• strettissimo e perfettissimo amico del dominici nostro, Biccome per
n lodevoli e notabili effetti lia dimostrato, llahbiamo voluto essere pa-
li lese a tutti et cadauni così presenti eome futuri, che osservata ogni
- necessaria solennità di legge et ragione delli Conseglì et Ordini
n nostri, il prefitto Giorgio con suoi figlivoli ed eredi al numero e del
- numero del nostro M a ingioi* Conscglio habbiamo tatto e faccino, e de
m Nobili del nostro Maggior Conscglio in Venezia e fuori in qualsi-
- voglia loco esser volcino et esser trattato quello con sincera benivo-
- lenza, abbracciandolo Noi con le braccia d'amore, e fermamente de-
li liberando che il prefato magnifico signor Giorgio et suoi figliuoli et
■ eredi, in Venezia e fuori et in qualsivoglia luoco compiutamente
» usino e godano le medesime libertà, beneficj,honori ed immunità che
n godano altri Cittadini et Nobili nostri del nostro Maggior Conse-
■ glio. A Noi ancora il predetto Magnifico signor Giorgio solennemente
» alli Santi Dei Evangelj per suo idoneo procuratore ha dato il dovuto
■ giuramento di fedeltà. In fede delle quali cose tutte et evidenza più
■ compiuta abbiamo comandato essere fatto il presente Privilegio et
■ munitolo con la nostra bolla d'oro pendente.
n Dato nel nostro Ducal Palazzo, l'anno dall'Incarnazione di nostro
■ Signore MCCCCVII del mese d'ottobre giorno XXIII della prima
n Indizione. »
— c229 -
CAPITOLO OTTAVO
VICENDE DI CREMA DAL GIORNO IN CUI RICADDE SOTTO IL DOMINIO
DEI VISCONTI A QUELLO IN CUI SE NE INSIGNORIRONO I VENEZIANI.
SOMMARIO.
Col ristabilirsi della signoria Viscontea in Crema , i ghibellini ricuperano le
sostanze die avevano perduto. — Testamento di Tomaso Vi mercati che
fonda in Crema un convento di frati agostiniani. — Guerra fra i Vene-
ziani e il duca Filippo Visconti. Francesco Carmagnola, generalissimo
della veneta repubblica, offre in isposa la sua figlia a Venturino, figlio
di Giorgio Benzeni , il quale si oppone a queste nozze. — Si confiscano
i beni a Giorgio Benzeni : altri Benzoni ed alcuni guelfi sono banditi. —
Il figlio del castellano della Rocca Serio promette di consegnar ai Vene-
ziani la rocca : la trama del figlio del castellano viene scoperta al duca
Filippo dal Carmagnola : importanza che hanno le parole colle quali il
Terni raccontò questo caso. — Il Carmagnola si vendica dei Benzoni :
Venturino cade prigione del duca di Milano. — Supplizio del Carmagnola
a Venezia. — Come Venturino Benzoni, per la sua prodezza, siasi liberato
dal carcere , e procacciata la benevolenza di Filippo Visconti. — Borso
d' Este ottiene il dominio di Crema in pegno di stipendj che a lui dovea
pagare il duca Filippo. — Nasce a Crema il famosissimo Gian Giacopo
Trivulzio. — Nuove ostilità fra i Veneziani ed il duca di Milano: soffe-
renze dei Cremasela per l'insolente procedere delle truppe viscontee. —
Il conte Paolo Segizzo provvede Crema di biade e viene salutato padre
della patria. — Morte di Filippo Visconti: concessione ch'egli fece ai
Cremaschi del canale detto volgarmente Boggia Comuna. — Pretendenti
al ducato di Milano: vi si proclama la repubblica di Sant'Ambrogio. —
Crema divien suddita della nuova repubblica che manda a governarla,
col titolo di commissario, Gasparo Vimercati. — 1 Veneziani rompono
guerra alla repubblica di Milano : grosso presidio de' Milanesi in Crema. —
Vittorie de' Veneziani ; timori dei ghibellini cremaschi di dover soggiacere
— 230 —
alla signoria veneta. — Come Gasparo Vimercati procedesse ostilmente
verso i guelfi, e con quale stratagemma li discacciasse da Crema. —
Giovanni Alchini getta sulle fiamme il Crocifisso del duomo ; i Cremaschi
vengono con turpe epigramma detti brusa-Cristi. — Se Giovanni Alchini
fosse veramente bergamasco, come vorrebbe il Fino. — I Veneziani scon-
fitti ripetutamente dai Milanesi, cercano di guadagnarsi Francesco Sforza,
generalissimo della repubblica di Milano. — Diserzione dello Sforza , patti
mediante i quali si congiunse coi Veneziani onde schiacciare la repub-
blica di Sant'Ambrogio. — Crema assediata dai Veneziani. — Gli asse-
diati fanno un'ardimentosa sortita ed inchiodano le artiglierie a Sigis-
mondo Malalesta condottiero dell'esercito veneziano. Levasi dai Veneti
l'assedio a Crema, ma poco dopo lo si rimette. — Carlo Gonzaga tradi-
sce i Milanesi ed entra in trattative con Francesco Sforza. - Oratori
cremaschi inviati da Gasparo Vimercati allo Sforza per indurlo ad assu-
mer egli la signoria di Crema : lo Sforza si mantiene fedele ai patti che
lo stringevano ai Veneziani. ~ 1 Cremaschi mandano sei ambasciatori a
trattare la resa di Crema con Andrea Dandolo, provveditore dell'esercito
veneziano. — Addì 16 di settembre dell'anno 1449 la repubblica veneta
s'impossessa di Crema. — Gasparo Vimercati, scacciato da Crema, perorò
a Milano a favore del conte Francesco Sforza , il quale fu proclamata
duca di Milano.
La fuga del Bcnzoni , ristabilendo in Crema il dominio
visconteo, riempì i ghibellini di gioja e di baldanza: i
fuorusciti ritornarono alle case loro. Ed ecco sorgere nella
città nostra nuovi litigi, riclamando i ghibellini i beni, dei
quali furono spogliali, e eh' erano in parte dai guelfi pos-
seduti. 11 duca Filippo , che addì 28 gennajo 1423 aveva
assunto il dominio di Crema, vi mandò a' 24 di febbrajo
Franchino Castiglioni, acciochè qual arbitro inappellabile
risolvesse le contese fra i guelfi e i ghibellini. Franchino
Castiglioni nel 23 marzo 1423 pronunciò sentenza, con cui
reintegrando i ghibellini nel possesso delle perdute sostan-
ze, ne condannava alla restituzione, sia il Comune, di
quella porzione di beni che furono confiscati e venduli,
sia i guelfi, di tutte le sostanze che si erano appropriate, o
col consenso del Benzoni, o arbitrariamente. Fra i moltis-
simi ghibellini che riebbero i loro beni, mercè la sentenza
— HI —
del Castiglione sono nella cronaca del Terni nominati :
Antonio ed Antonello Gambazocco, Bartolomeo, Filippino e
Lucia Bernardi, Giovanni Pojani, Stefano Quaino, Petrino
Guinzoni, Graziolo Ga arino, Fermo Cristiani, Cristoforo
Gandino, Giacomo Tintori, Manfredo «lei conti di Camiaa-
no , Pietro Bolzoni, Ponzetto bichini, Matteo e Stefano
Orioli, Cornino dei Bassi, e molli altri cittadini cremaselo,
tulli nomi clic non appariscono fra i sottoscritti ai due
istromenti, ove pretenderebbe il Tino che il suffragio uni-
versale dei concittadini abbia conferito ai Benzoni la signo-
rìa di Crema. Pietro Terni notò, che non vennero condan-
nali, a rendere ai ghibellini gli usurpali beni, i guelfi più
ricchi e più potenti, perchè temuti, e perchè sempre ai
cardili macri offendono le mosche '*).
A quest'epoca, altra controversia ferveva in Crema, oc-
casionala dal testamento di un Gioan Tomaso Vimercati ,
il quale avea istituito erede universale delle sue sostanze
i frali di Sant'Agostino della provincia di Lombardia , con
obbligo che fondassero in Crema un monastero di frali
Osservanti. Il Vimercati, narra Terni, fece tale disposi-
zione a scarico dell'anima del padre e dell'avo suo, pub-
blici usuraia . Un Fra Martino era venuto da Milano con
incarico degli Agostiniani a tor possesso dell'eredità,
quando a contrastarla insorsero il duca Filippo , preten-
dendo devoluti al fisco i beni Vimercati, perchè origina-
vano da pubbliche usure, e Francesco, Cristoforo e Cre-
maschino Vimercati, come quelli ch'erano congiunti in pa-
rentela col defunto Gioan Tomaso. La contesa finì vittorio-
samente pei frati, che ridussero il duca ed i parenti del
loro benefattore a smettere ogni pretesa. Gli Agostiniani
intendevano porre il convento nella casa di Tomaso Vimer-
(.1) Terni. Storia di Crema.
(-2) Idem.
— 232 —
cati , com'egli stesso avea disposto nel testamento, ma ne
ìi impedirono i Domenicani, adducendo che la casa Vi-
mercati era troppo vicina al loro convento. Fu per questo
motivo che nel 1439 fra Rocco de Porzi di Pavia, compe-
rate alcune case della famiglia Pandini, istituì il convento
nel luogo ove a' nostri giorni leggesi Caserma dì sant'Ago-
stìno. Discorrendo di questi frati, non ommetteremo di
rammentare ciò che ne scrisse Alemanio Fino : « Vivevano
» in principio con tanta purità che molte madri e sorelle
» dei frati, fattesi pinzochere, abitarono con essi loro per
» parecchi anni. Parendo poi che fosse cosa pericolosa lo
» stare uomini e donne insieme mescolati, furono separati
» dal beato Giorgio da Crema (*).
Nel 1425 il generale conte Francesco Carmagnola, ca-
duto in disgrazia del duca Filippo Visconti, offerse l'invitta
spada in servigio della veneta repubblica, e volendo sguai-
narla contro il duca Filippo che lo pagò di n erissima in-
gratitudine, indusse la repubblica a romper guerra al Vi-
sconti. Le ostilità fraDucheschi e Veneziani incominciarono
nelle terre bresciane : generalissimo della repubblica era il
conte Carmagnola, e fra i valenti condottieri del suo eser-
cito segnalavansi Giorgio e Venturino Benzoni. Il Carma-
gnola aveali in molta stima : tanto simpatizzava con Ven-
turino, che gli offrì in isposa Lucina sua figlia. Ma Giorgio
vi si oppose dicendo, macchiarsi la chiarezza del sangue
Benzoni se Venturino impalmava la figlia del Carmagnola,
cui, benché salito in altissima riputazione, il conte Giorgio
non perdonava l'oscurità dei natali. Adontatosene il Car-
magnola, meditò vendicarsi dei Benzoni, che prima amava
e pregiava tanto.
Il duca di Milano, come seppe che Giorgio col figlio Ven-
turino s'era accomodato ai servigi de' suoi nemici, lo punì
(i) Fino. Storia di Crema.
— 233 —
come ribollo, confiscandogli tutti i beni. Poi nel 1436, ca
(luta Brescia in potere dei Veneziani , furono espulsi da
(ironia tutti i Benioui, o relegali in varj paesi: confinati in
diversi luoghi anche molti guelfi, fra i quali Francescano
Terni e Sergnano Alfieri: un Corradino Vimercati ebbe
rincarico d'invigilarli, acciocché gli assegnali confini non
trascorressero.
Correva voce clic i Veneziani, presa Brescia e disfalli a
M acalò i Duchesclii, inlcndessero accampare sotto Crema.
Tale diceria giunse in Croma all'orecchio del figlio del ca-
stellano della Rocca Serio, e toslo spedì segretamente un
mosso a Giorgio Bonzoni significandogli ch'egli avea modo
di consegnargli la Rocca guardata dal padre , e che gliela
avrebbe effettivamente consegnata, purché gli si promet-
tesse di fargli sposare una vedova gentildonna cremasca ,
per la quale spasimava d'amore, senza speranza di poterne
conseguire la mano. Ci preme riferire colle parole del
Terni gli effetti che scaturirono da questa proposta fatta
a Giorgio Benzoni dal figlio del castellano. « Giorgio, avuto
» il messo, si ricorre a Pietro Loredano e Fantino Mi-
«chele provveditori veneziani dell'esercito, e il lutto
» li conta offrendosi con li suoi compagni di notte fare
» l'effetto. Li provveditori senza il capitano Carmagnola
» non li volsero dar licenza, anzi dimandarono tempo
» di parlare a lui, e sapendo l'odio che portava a Gior-
» gio, finsero che il messo fosse venuto a loro, ma del
» matrimonio non gli fecero motto. Il Carmagnola , che
» sagace era, del tratto si avvede, e tolse tempo di
» pensare un poco, acciò non fosse una trapola meltuta
» per fargli scorno; e perchè col duca di Milano segre-
» tamente si intendeva, la notte al duca dà notizia, co-
» me il castellano della Rocchetta di Crema faceva tradi-
» mento. 11 castellano dal conte Guido Torello fu preso, et
» a Milano condutto fu da grandissimi tormenti crucciato :
16
— 234 —
» nondimeno non potè confessare ciò che non sapeva, per-
» che il figliolo giovinetto era traditore, non egli i1^ »
Abbiamo voluto riportare colle parole del Terni questo
fntto, giudicandolo di non lieve importanza, perochè scio-
glierebbe il problema storico: Se il Carmagnola abbia real-
mente tradita la veneta repubblica , o se fu nequizia dei
Veneziani il decapitarlo. Qualora si conceda al Terni essere
stato il Carmagnola, e non altri, che palesò al duca Filip-
po, ordirsi in Crema una cospirazione contro di lui, ri-
marrebbe luminosamente provato che il Carmagnola man-
teneva segrete relazioni col duca di Milano , quindi scol-
pata la repubblica dell'accusa che molti le avventarono di
aver barbaramente immolata alla sua tenebrosa politica la
testa d'uno dei più celebri condottieri italiani. L'autorità
del Terni certamente può offrire un argomento di più a
coloro che difendono la condotta della repubblica verso il
Carmagnola: non sappiamo però se basterà ad assolvere i
Veneziani, riflettendo che il nostro cronista narrava un caso
avvenuto già da cent'anni, e scriveva, dominando in Cre-
ma la repubblica di S. Marco, alla quale egli come guelfo
e come suddito dimostrò affezione e riverenza.
Nell'anno 1450 ferveva ancora la guerra fra il duca di
Milano e i Veneziani. li conte Carmagnola, pertinace nel
disegno di rovinare i Benzoni perchè gli avevano stolta-
mente i bassi natali rinfacciato, gli espone ai maggiori pe-
ricoli delle battaglie, sperando vi perdessero la vita, o al-
meno la fama che si erano procacciata d'ardimentosi capi-
tani. Combattendo i due eserciti nel territorio cremonese
(1451), il Carmagnola, perchè battuto, ritirandosi a Casal-
maggiore, affida a Venturino Benzoni la custodia di Fonta-
nella, piccolo forte, ordinandogli di non cederla ai nemici
senza il suo consentimento. Le truppe del duca assaltano
(1) Pistko Turni. Storia di Crema.
— 933 —
Fontanella, Ventanno Benzoni la difende ostinatamene
ma i terrazzani defezionando dal vessillo di S. Marco ren-
dono vani i^li sforzi di Venturino: Fontanella cade in po-
tere dei Dncheschi, e Venturino, fatto prigioniero, vien con-
dotto a Crema lutto coperto di catene. Non è a dirsi la de
colazione della di lui madre, e l'allegrezza dei ghibellini
eremaschi, allorché seppero Venturino prigioniero del duca.
1 ghibellini nella loro fantasia già pregustavano la gioja di
sederne la testa rotolare sul palco, e perchè di questo
omento spettacolo non fallisse loro la speranza, s'adope-
rarono nella corte di Filippo Visconti con accuse e con
istigazioni. Ma alle vendelle ghibelline fu scudo del proprio
figlio Ambrosio a Benzoni, la quale, come già notammo, na-
sceva dalla famiglia Corìo di Milano. Coll'inilucnza de1 suoi
parenti potè salvare a Venturino la vita, inducendo Filippo
Visconti a convertire la pena di morte in quella del car-
cere : Venturino Benzoni fu rinchiuso per diciotto mesi nei
Forni di Monza, poi coi ferri ai piedi in una torre di
Milano.
Peggior sorte subiva nell'anno susseguente (1455) il
conte Carmagnola. Tirato dal consiglio dei Dieci con arti-
fìziose arti a Venezia , vi fu imprigiouato , messo alla tor-
tura, e decapitato sulla piazza di S. Marco. La cupa poli-
tica dei Veneziani lo condannò alla pena capitale con mi-
sterioso processo. Le tenebre in cui Venezia ha voluto
ravvolgere il processo del Carmagnola, forse più che la con-
dotta politica di questo valorosissimo capitano, porgono a
molti efficace argomento per compiangere nel conte la vit-
tima d' un'iniqua aristocrazia. Eppure se prestiam fede ai
cronisti eremaschi (per tacere dei Veneziani), è fuor di
dubbio che il conte Carmagnola abbia tradita la veneta
repubblica. Noi, che che ne dicano molti autorevoli scrittor ,
dubitiamo ancora dell1 innocenza del Carmagnola; e men-
tre detestiamo le forme processuali con cui la repubblica
— 236 —
io ha condannato, non ci possiamo convincere che fosse
iniqua la sentenza con la quale fu punito come traditore.
Durò tre anni la prigionia di Venturino Benzoni : ora
narreremo come a lui nel 1455 arridesse la capricciosa
fortuna, coronando la sua prodezza, quand'egli meno se
l'aspettava, di ricchezze ed onori.
Il duca Filippo teneva a Milano prigioniero Alfonso di
Arragona detto il Magnanimo, vinto nella battaglia di
Ponza, e traltavalo con singolare amorevolezza. col decoro
che addicevasi a tanto personaggio. Piaceva al duca intrat-
tenere l'illustre prigioniero con pubblici spetiacoii, e fra gli
altri ordinò una giostra cui presero parte i più valenti ca-
valieri italiani. Filippo ambiva persuadere Alfonso che i
migliori giostratori cran lutti cavalieri del suo ducato, ma
l'esito della giostra nel primo e secondo giorno non corri-
spose alla millanteria del duca: gli onori ed i trionfi fu-
rono di don Carlo Gonzaga. Filippo non potè dissimulare
a' suoi famigliari il dispetto che ne sentiva, onde Bonicio
Corio, zio di Venturino Benzoni , ragionando col duca, colse
l'occasione di dirgli ch'egli conosceva un giovane cavaliero
cremasco, il quale, ove gli si permettesse d'entrar nella
giostra, n'uscirebbe certamente vincitore. Filippo domandò
al Corio chi fosse questo prode cremasco , e Bonicio gli
spiatellò il nome del carcerato suo nipote. Allora il duca
ordinò che Venturino Benzoni venisse tolto dai carcere, e
differì la terza giostra tanto che bastasse a Venturino per
ristorare le affievolite forze, e provvedersi di un buon de-
striero.
Nel giorno prefisso , Venturino presentasi alla giostra ,
pieno d'ardimento, di giovami fidanza nel proprio valore,
altero della fiducia che in lui ponea Filippo Visconti. Vuol
provare al mondo che tre anni di prigionia non hanno
svigorito il suo braccio, spera con un colpo di lancia can-
cellare nell'animo del duca la memoria del passato, e gua-
— M7 —
degnarne i favori. Per accondiscendere il desiderio di Filip
pò, cimentasi con Carlo Gonzaga, il trionfatore dello gio
sire antecedenti, Nei primi Bcontri i due cavalieri si mo-
strano pari di destrezza e di forza, ma poi Venturino in-
calza l'avversario furiosamente, lo percuote con terribile
colpo di lancia Dell'elmo , e lo rovescia tramortito sul ter-
reno. Gli spettatori scoppiano in fragorosi applausi, Ven-
tanno è salutato vincitore della giostra. La gioja sfavillò
sul volto di Filippo Visconti, inorgoglito che gli onori della
giostra questa volta toccassero a un cavaliere del suo du-
cato, che un Cremasco avesse trionfato del trionfatore man-
tovano. Venturino raccolse della sua prodezza nobilissimo
guiderdone : il duca creollo capitano della sua corte, lo
rimise in possesso dei beni confiscati , gli regalò un palazzo
in Milano, e gli ottenne in isposa Àgnesina degli Asinari,
figlia di Percivallo, signore di Boldesco e di molti castelli
nel territorio Astigiano.
Non volsero così propizie le sorti agli altri Benzoni ed
ai guelfi che furono scacciati da Crema Tanno 14-26. Essi
per ben quindici anni dovettero sospirare la patria lonta-
na , tanto più da compiangersi perchè sapevano le case
loro abitate dalla soldatesca del duca che vi metteva ogni
cosa a ruba ed a guasto. Finalmente nel 1441, dopo con-
chiusa la pace fra i Veneziani ed il duca Filippo, venne
concesso a Giovanni Benzoni ed a molti guelfi di ripatriare.
Nell'anno medesimo (1441), narra il Fino, « agli undici
u d'ottobre, Borso d'Este (per che cagione non so) ebbe di
» volere del duca Filippo il dominio di Crema, dalle fortezze
» in fuori, e fecesi giurare fedeltà dai Cremaschi (*). » Ciò
che Alemanio Fino ignorava , a noi rivelano gli istoriografi
della cospicua famiglia degli Estensi. Raccogliamo dal Lu-
tacene Borso d'Este, potentissimo cavaliero, godeva i
(i) Fino. Storia di Crema.
(2) Luta. Famiglie celebri italiane.
— 238 -
favori del duca di Milano, e che aveva per Filippo combat-
tuto contro i Veneziani. Nel 1441 fu creato prefetto della
corte ducale, e ricevette Crema, meno le rocche, in pegno
di stipendi di cui era verso il duca creditore. Borso però
restituì poco appresso Crema al Visconti, quando ricevette
da Filippo in donazione il feudo di Castelnuovo nel territo-
rio tortonese.
Nel 1444 trovandosi in Crema Antonio Triulzio., com-
missario ducale, il caso volle che sua moglie partorisse
nella città nostra Gian Giacopo Triulzio, personaggio ce-
lebratissimo nell1 istoria del secolo decimoquinto (*).
La pace conchiusa dai Veneziani con Filippo Visconti
Tanno 1441 è violata nel 1446 dal duca Filippo che vo-
lea spogliare il conte Francesco Sforza, suo genero, della
signoria di Cremona, concessagli da Filippo stesso in dote
di Bianca sua figliuola. Ripigliate le ostilità, Michele Atten-
dolo, generale dei Veneziani, rompe l'esercito di Filippo
Visconti, conquista rapidamente tutte le terre poste fra
F Oglio e l'Adda, meno Crema, ove il duca manda grosso
presidio. La città nostra trovasi miseramente angustiata:
di fuori la minaccia l'oste veneta alla distanza di poche mi-
glia ; di dentro è innondata da numerosissime truppe di
presidio, sottoposta all'arbitrio di Carlo Gonzaga cui n'era
affidato il comando. I guelfi vengono travagliati da nuove
persecuzioni. Essendosi scoperta in Crema una cospira-
zione a favore dei Veneziani , ordita da tre individui che
furono immediatamente impiccati, i ghibellini ne profittano
per accusare la fazione avversaria, e col sostegno di Otto-
lino Zoppi commissario e di Matteo Albertini podestà , so-
spingono Carlo Gonzaga ad espellere i guelfi da Crema.
(i) Pietro Terni fu cancelliere del marchese Gian Giacopo Triulzio , e a
ìui dedicò la sua Storia di Crema, allegando fra le altre ragioni, ch'egli con-
sacrava al Triulzio il suo lavoro, perchè essendo il marchese nato a Crema,
consideravalo come suo concittadino. Il Terni, nella sua Storia, ci narra ezian-
dio che Gian Giacopo Triulzio fu battezzato nella cattedrale di Crema, e no-
mina le persone che lo levarono dal sacro fonte.
— 939 —
Duo mila cinquecento cittadini Bono condannati ad abban-
donare la terra natale: i primi che ne uscirono, essendo
viali riconosciuti per sudditi del duca, furono dai Vene-
ziani arrestati, onde gK altri guelfi, per non cader prigio
nieri, ricusavano di partirete Crema. Ma ?e li costrinse
Carlo Gonzaga, pubblicando un proclama, ove minacciava
di considerale i guelfi come ribelli, e confiscar loro i beni
qualora entro due giorni non passassero al di là dell'Adda.
Alloro i meschini dovettero loro malgrado sgombrare da
Croma , e lasciare case e famiglie a discrezione della sol-
datesca viscontea, la quale se ne impossessò con un proce-
dere sfacciatamente rapace e licenzioso. Narra il Terni, che
le famiglie dei banditi rimaste a Crema erano costrette
abitare nei luoghi più abietti e limosinare dai soldati un
tozzo di pane per nutrirsi. In alcune case operaronsi de-
gli artificiosi nascondigli nei luoghi più segreti, ed ivi le
madri celavano con le robe più preziose anche le figlie ,
unico mezzo per difenderne il tesoro del verginal pudore.
«Oh quante amare lacrime (sclama il nostro cronista)
» si doveano spargere , e più assai di quelle che io dico ,
» quando le povere donne vedevano mariti, figliuoli e fra-
» telli confinati , le figliuole tra muri peggio che in carcere
» serrate , la roba dai cani dissipare cum grande loro di-
» saggio , e cum parole villane da villani essere oltrag-
» giate,4). »
I banditi ricorsero al duca, rappresentandogli la condi-
zione deploranda delle famiglie e case loro, acciocché im-
pietosisse, e a tanta miseria riparasse. Filippo ammonì con
lettere i capitani a cessare i villaneschi trattamenti , ma
sempre infruttuosamente. Informato il duca che alle sue
rimostranze non badavasi , e che i disordini della soldate-
sca moltiplicavansi, levò bellamente da Crema il commis-
ti) Terni. .Stona di Crema.
— 240 —
sario, che n'era la cagion principale, sostituendovi Gia-
como da Lonato. Ma perchè sempre più gravi divenivano i
pericoli della guerra e le minacce dei Veneziani, mandò a
Crema Ottaviano Visconti ed Angelo Lavelli con le loro
compagnie, aggiungendovi pc^o dopo altri duecento fanti.
Questa copia strabocchevole di soldati accantonati in pic-
cola terra generò penuria di viveri. La fame , spaventoso
flagello, sovrastava al popolo di Crema già da mille travagli
martoriato: quando Paolo Segizzo dei conti di Premollo,
ricco gentiluomo, mandò suo figlio Raimondo a far incetta
di biade nelle terre del ducato. Raimondo ne comperò e
condusse in Crema buona quantità , le quali valsero a sfa-
mare il popolo , e meritarono al conte Paolo Segizzo il
nome di padre della patria.
Anche Giacomo da Lonato non seppe o non volle infre-
nare l'eccessiva licenza della soldatesca, perciò il duca Fi-
lippo, l'anno 1447, a lui sorrogava Giacomo Piccinino, il
quale rimase a Crema per breve tempo, imperochè nell'ago-
sto dell'anno medesimo Filippo Visconti morì, senza suc-
cessione mascolina.
Spentasi con Filippo Maria la linea dei duchi Visconti,
finì a Crema la signoria dei duchi di Milano. Filippo morì
illacrimato, per l'indole sua cupa, diffidente, malvagia.
Dominò a Crema con potere assoluto ventiquattro anni, la-
sciando ai Cremaschi un retaggio di dolorose memorie pei
travagli che sopportarono durante la sua guerra coi Ve-
neziani.
Crema è debitrice a Filippo Visconti di una benefica
concessione che avvantaggiò la condizione agricola di
buona parte del nostro territorio. Nei primi anni del suo
dominio in Crema, Filippo Visconti, ad istanza di un abate
di Cereto, consentì alla città nostra il diritto di estrarre
dal fiume Adda a Cassano una ragguardevole quantità
d'acqua che servisse ad irrigare per lungo tratto il ter-
— 341 —
reno eromasco, ond'ebbe orìgine il cernale Ritorto t detto
volgarmente roggia Comuna, la quale, partendo da Cassano,
attraversa, con direzione da settentrione a mezzodì, il nostro
territorio, mettendo foce nel fiume Serio a Montodine.
Questo prezioso diritto d'estrar acqua dall'Adda, concesso
ai Cremaschi da Filippo Visconti, fu io seguito riconosciuto
dai principi che successero nel ducalo di Milano ai Visconti.
1 Veneziani, quand'acquistarono nel 1441) la città nostra,
ci confermarono, nella fatta capitolazione, la proprietà della
roggia Connina, e di tulle le altre che sono ancora di ra-
gione della Comunità di Crema i1).
Morto Filippo Visconti senza legittima discendenza , il
ducato di Milano a chi toccava? Molti invogliarono di così
pingue eredità: Francesco Sforza, Alfonso re di Napoli, la
casa d'Orléans, gli imperatori di Germania, e perfino un
duca di Savoja. Il conte Sforza aspirava alla successione di
Filippo Visconti per avere sposala una sua bastarda; ma
il ducato di Milano essendo stalo concesso ai Visconti
in feudo mascolino, nessuna femmina, o discendente o
marito di femmine, poteva arrogarslo : conseguente-
mente né lo Sforza, né la casa d'Orléans, la quale preten-
deva il ducato per parte di Valentina Visconti, sorella
dell'ultimo duca. Il re di Napoli produceva un testamento,
a favor suo, di Filippo Visconti: ma avea questi la facoltà
di disporre con testamento del ducato, come se si trattasse
d'una proprietà che si può lasciare liberamente? Gl'impe-
ratori di Germania volevano appropriarsi il ducato di Mi-
lano considerandolo come un feudo vacante, devoluto al
loro supremo dominio. Per verità che tutti questi pretendenti,
con le loro speciose ragioni, non valutavano una ragione
più forte, quella che militava contro ogni principesca am-
bizione. Risaliamo alle origini: chi affidò la sovranità ai primi
Visconti? Fu il popolo di Milano, quando questa città, ben-
(1) Intorno al Ritorto, o roggia Comuna, scrisse un assai erudito libro
l'ingegnere Carlo Donati: venne stampato l'anno 1852.
- 242 —
che dipendente dall'impero, godea, al pari di tante altre
italiane, le franchigie di libertà riconosciute dall' istesso
imperator Barbarossa nel trattato di Costanza. Or dunque
collo spegnersi dei Visconti, la sovranità ritornava di buon
diritto al popolo, e la repubblica diventava la forma legit-
tima di governo, per tutte le terre del ducalo che prima
reggevansi a Comune.
Quattro patrizi milanesi, un Triulzio, un Cotta, un Lam-
pugnani, un Bossi,, eccitarono i concittadini a rivendicare
la perduta libertà, e siccome non pochi dei Visconti ave-
vano con mostruosa tirannide reso abbominevole il dominio
di un solo, venne ben tosto a Milano proclamata la Re-
pubblica di S.Ambrogio. Repubblica non vuol dir libertà : più
volte è manto all'egoismo di pochi, e la storia ce ne istruisce
con frequentissimi esempi. I Milanesi, nel mentre inalbera-
vano l'insegna repubblicana, vollero mantener suddite della
loro repubblica le terre che appartenevano al ducato: lo
che spinse parecchie città a ribellarsi a Milano, e fu non
ultima cagione della rovina della repubblica ambrosiana.
Premeva alla nuova repubblica di conservare il dominio
di Crema, come quella che, essendo ben fortificata, le po-
teva servire di antemurale contro i Veneziani, allora in-
capriccili d'estendere le loro conquiste di terra-ferma.
Quindi i Milanesi, nel giorno due di settembre (1447),
mandarono a Crema Gasparo Vimercati (*) con amplissimi
poteri, acciochè la governasse in nome e quale commissario
della loro repubblica. Nell'ottobre, avendo i Milanesi ri-
chiesto che i Cremaschi giurassero loro fedeltà, Gasparo
Vimercati inviò Guido Parati, Antonio Pojani, Giacomo e
(1) Pi Gaspare Vimercati , il Racchetti, nella sua storia genealogica delle
famiglie nobili cremasene, scrisse : « Quantunque milanese, ebbe per bisa-
« volo quel Pietro Vimercati , che fu uno dei consorti, i quali eressero 1' o-
» spedale degli infermi in Porta Ripalta. Nella lettera scritta dai Presidi del
» governo milanese ai Cremaschi è chiamalo uomo assai pratico di Crema
» per avervi lungamente dimorato , quasi volendo significare, vostro con-
» cittadino •.
- w —
Tomaso Vimercati e Cristoforo Martinengo, :i Milano, ove
prestai ono il giuramento alla repubblica ambrosiana, in
nomo del popolo cremasco.
I guelfi, per aver molato padrone, confidando volgessero
in meglio le sorti loro, ritornarono a Crema: memori però
di quanto avevano sofferto sono la dominazione dei signori
di Milano, non aggradivano gran fatto il governo dei Mila-
nesi, ed avrebbero preferito quello dei Veneziani. Non così
i ghibellini, che avendo goduto favori e prolezione dai du-
chi di Milano, mostravansi ancora caldissimi partigiani dei
Milanesi e della nuova repubblica. Funesta discrepanza di
simpatie che dovea partorire in Crema novelli rivolgimenti.
I Veneziani, profittando degli scompigli in cui la morte
di Filippo Visconti gettò la Lombardia , non tardarono ad
assalire i Milanesi. Questi offersero con laute condizioni la
condotta del loro esercito al conte Francesco Sforza, quan-
tunque non ne ignorassero le ambizioze mire di beccarsi
gli Stati del suocero. Era un tratto di politica, forse per
amicarsi il conte, o meglio per impedire che quel valorosis-
simo duce entrasse a combattere nelle file nemiche. Lo
Sforza accettò il comando delle truppe milanesi, sebbene
mal comportasse di servire a coloro sui quali meditava d'im-
perare. La repubblica ambrosiana stipendiò parecchi altri
condottieri di mollo grido (a que' tempi ve n'era dovizia),
fra i quali Venturino Benzoni, capitano delle lance spezzate,
e Guido suo fratello. Anche i Veneziani adoperaronsi nel-
l' assoldare capitani di molta riputazione, e tentarono di
condurre al partito loro i due fratelli Piccinini che milita-
vano pei Milanesi. Promisero ai Piccinini che avrebbero
partecipato nelle future conquiste della repubblica , ed a!
maggiore d'età offrirono la signoria di Cremona, quella di
Crema al minore <*). Con questo procederei Veneziani spe-
culavano su Crema prima ancora d'averla conquistata.
{{) Sismondi. Storia delle repulblicìie italiane.
— 244 —
Crema venne dai Milanesi presidiata con tal copia di mi-
lizie che le forze del suo piccolo territorio non comporta-
vano. Avendo i Cremaschi riclamato per essere alleviati dal
peso soverchio di una soldatesca numerosissima, la repub-
blica di Milano rispose loro con inzuccherate parole, con
promesse di futuri provvedimenti ; ma premendo ai Mila-
nesi di tener ben guardata la sinistra sponda dell'Adda, i
fatti non corrisposero alle parole.
Il conte Francesco Sforza in quattro mesi avea riportato
segnalate vittorie , e tolte ai Veneziani molte importanti
posizioni, onde la repubblica veneta mostravasi inchine-
vole alla pace. L'avrebbero di buon grado accettata i Mi-
lanesi, che ne avevano di bisogno onde assettare il nuovo
governo,ma lo Sforza, pe' suoi fini, seppe attraversare ogni
via di amichevole componimento. Voleva che la repubblica
di S. Ambrogio si logorasse con lunga guerra, e schiacciare
la libertà del popolo milanese sui campi di battaglia , ove
l'invitta sua mano coronavala d'allori. Nondimeno si sparse
voce che la pace verrebbe conchiusa e Crema sarebbe ce-
duta ai Veneziani. I ghibellini cremaschi se ne sgomenta-
rono; scrissero alla repubblica di Milano, supplicando non
li volesse abbandonare. Con amorevolissima lettera del 2
febbrajo (1448) i rettori della repubblica ambrosiana ri-
spondevano ai ghibellini dichiarando, conoscere abbastanza
quanto la terra di Crema giovasse a difesa, stabilimento
e conservatone dello Stato del excellentissimo Milano 3 e
ringraziando i ghibellini cremaschi, chiamavanli cari e fedeli
fig li della rep ubblica.
Rifiutala ai Veneziani la pace, i due eserciti apparecchiansi
a riprendere le offese: Gasparo Vimercati cangia i castel-
lani delle rocche di Serio e di Ombriano , dubbioso della
loro fedeltà: entrato poi in sospetto che in Crema covas-
sero trame a favore dei Veneziani, fa impiccare il barbiere
Oneta sulla più alta torre del castello di Serio. Oltredichè
— MB —
meditava ili scacciare da Crema lutti i guelfi; ma questi aven
.lo già provato quanto su di gale il pane dell'esilio, aveau
protostato apertamente che avrebbero preferito morire ,
piuttosto che dipartirsi dalla terra natale. Gasparo Vimer
raii. riputando pericoloso in quei momenti espellere i guelfi
dalla città con la violenta, volendo pur conseguire il suo
seopo, ricorre a uno stratagemma. Finge aver ricevuti cic-
ali ordini da Milano, e pubblica nel marzo 1448 un pro-
clama, ove comandava die tutti gli uomini di Crema dai
quindici ai settantanni si radunassero fuori della Porla
Ombriano. Ne adduceva a motivo doverli passare in rasse-
gna, perchè la repubblica milanese volca sapere quante
persone fossero in Crema atte ai servigi militari. Nel giorno
e nell'ora stabilita, quasi intera la popolazione maschile di
Crema, obbediente al proclama del Vimercati , trovavasi
raccolta fuori di Porta Ombriano a pochi passi dalle mura:
quando Giovanni Tintori, salito sul rivellino della Porta
gridò: Chi è ghibellino rientri in Crema. I guelfi, inconsa-
pevoli dell'ordito inganno, non si erano quasi accorti della
voce del Tintori : intanto, i ghibellini essendo frettolosa-
mente rientrali, si levò il ponte, ed i guelfi rimasero fuori
della città. Figuratevi Tira, la desolazione, la vergogna dei
guelfi vedendosi con tanta perfidia ingannati, udendo dal-
l'alto delle mura le risate e le beffe dei ghibellini , e 1 ge-
miti delle madri, consorti, sorelle, che con affannose grida
lamentavano il tradimento. Nondimeno dovettero rasse-
gnarsi ad abbandonare il terreno nativo, tanto più che nel
giorno medesimo i ghibellini con un proclama minacciarono
la forca ai pochi guelfi rimasti in Crema, se non vi sgom-
bravano nel brevissimo tempo in cui brucerebbe una can-
deletta di cera, posta da Francesco Ghideletto sulla fac-
ciata del duomo.
Sopraggiunse la notte. I ghibellini, moltiplicale le guar-
die alle mura, paventando che i guelfi tentassero di sca-
--246 —
larle, si ridussero nella piazza del duomo. Un'intempe-
ranza di buon umore traspariva in essi dai modi e dalle
parole, più del consueto verbosi, sghignazzanti, smargias-
soni. Essendo la notte alquanto fredda, molti entrarono nel
duomo, v'accesero un bel fuoco nel mezzo, e intorno a
quello scaldandosi allegramente, ragionavano del bel gioco
con cui si erano sbarazzati dei guelfi. Antonio Passerotto,
fanatico ghibellino, prese a dire: «Or sì che possiamo
» discorrere liberamente, e senza temere che qualche guelfo
» traditore ci ascolti, giacche panni che dei guelfi nissuno a
» Crema sia rimasto , ad eccezione dei fanciulli (*). » Al-
lora Giovanni Alchini, altro ghibellino, sollevando lo sguar-
do sopra un crocifìsso di legno, appeso ad un'inferriata che
in quell'epoca attraversava la chiesa, disse: «Eccone
» là uno ancora di guelfi, ma vi resterà per poco(2'. »
È da notarsi che l'immagine del crocifisso aveva la lesta
piegata sulla spalla destra, uno dei molti segui che i guelfi
usavano per distinguersi dai ghibellini. L'Alchinì strappò
dall'inferriata la sacra immagine, e con atto di spregio la
buttò tra le fiamme. Di quell'atto alcuni risero, altri fre-
mettero d'indignazione quasi inorriditi, vedendo oltrag-
giata l'immagine del divin «Redentore, e s'affrettarono a le-
vare dalle fiamme il crocifìsso che già ad ardere incomin-
ciava. Sorge allora fra i ghibellini un gravissimo alterco :
chi rimbrotta aspramente l'Alchini accusandolo di sacrile-
gio, chi con eloquenza da postribolo ne assumeva le difese.
Profanavano il sacro recinto parole oscene, insolenti, bac-
cano da taverna: i ghibellini fra di loro abbaruffandosi,
eran già per metter mano alle spade, quando il podestà,
udito l'insolito rumore, discese dal vicino palazzo muni-
cipale, e con autorevoli parole ricompose negli animi la
pace.
(1) Terni. Storia di Crema.
[i) Idem.
— 247 —
L'empietà dell'Alchini divulgossi in Crema ed altrove:
Fama volai . se trattasi di turpitudini; sovente podagrosa,
se tl'a/ioni oneste ed esemplari. In tempi che i municipi
lombardi, rosi da reciproca invidia, non trascuravano occa-
sioni per denigrarsi a vicenda, il fatto dell'Alchini forni
argomento di calunniare i Cremaschi, i quali furono delti
con turpissimo epigramma brusa-cristi. Non isprecheremo
inchiostro a provare che i cittadini Cremaschi non erano
tutti Alchini , da meritarsi l'obbrobrio di tale appellativo :
rammenteremo soltanto, come TAlemanio Fino abbia scritto
una delle sue Seriane, per far credere essere Giovanni
Alchini bergamasco e non cremasco. Il Fino, pio sacerdo-
te, cercò purgare, dall'immeritato vitupero di un'empietà,
l'onore del nome cremasco : sia lode al suo buon volere.
Ma l'Alchini era veramente bergamasco? Noi ne dubitia-
mo, e L'osiamo dire francamente. Nega il Fino che l'Al-
chini fosse cremasco, appoggiandosi all'autorità del Terni:
noi, esaminato l'autografo di Pietro Terni, vi scorgemmo
che al nome di Giovanni Alchini vennero inserite le parole
Brambìloso dì Bergamasca, le quali per diversità d'in-
chiostro e di calligrafia lasciano dubitare sieno state ag-
giunte da estranea mano. Sappiamo d'altronde aver esi-
stito in Crema la famiglia Alchini, che diede nome al ca-
nale da lei scavato, come il Terni ci attesta, comunque ciò
abbia il Fino astutamente taciuto. Trovammo parimenti nel
Terni un Ponzetto degli Alchini, nel numero dei ghibellini
cui per sentenza del Castiglioni vennero nel 14*25 resti-
tuiti i beni confiscati : il che prova come la casa Al-
ebina esistesse in Crema nella prima metà del secolo
decimoquinto, e, ciò che più importa, fosse delle ghi-
belline. Osserveremo finalmente che il Fino , nel mentre
si sforza di provare essere Giovanni Alchini bergamasco ,
sembra non ne sia egli stesso del tutto convinto, prorom-
pendo nelle seguenti parole: « ma quando egli (l'Alchini)
— 248 —
» fosse ancora slato Cremasco, ciò che importerebbe? Si sa
» che tra' buoni se ne trovano sempre mescolati de' cat-
» tivi ({). » E con queste parole il Fino sollevossi per un
istante da quel gretto municipalismo, peste dei secoli pas-
sati, per cui gli scrittori s'accapigliavano da forsennati di-
sputando sulla culla di un uomo famigerato per virtù o per
delitti: non sono forse ugualmente Italiani il Cremasco, il
Lodigiani), il Cremonese, il Bergamasco, figli tutti dell' i-
stessa madre , benedetti da un sole d'amore, fratelli per la
melodia dell' istesso linguaggio, per l'uniformità dell'indole
temprata dalla natura a forti passioni? Che importerebbe,
ripeleremo col Fino, che l'Alchini fosse piuttosto Cremasco
che Bergamasco? Le azioni d'un uomo solo, per quanto
malvagio , non bastano a caratterizzare ed infamare tutta
intera una città, una popolazione (-). Ed a noi, credere che
l'Àlchino brusa-cristi fosse Cremasco , è assai men grave
del leggere nell'istorie italiane cornei padri nostri, fra l'ire
municipali, accostumassero provocarsi a vicenda con nomi
d'improperio, con insolenti epigrammi che aizzavano e
mantenevano la fraterna rabbia di città fra di loro vicine.
1 fecciosi epiteti di busleconi , scortica- santi, brusa-cristi,
non che le goffe maschere degli arlecchini , dei brighella
e dei pantaloni, ci farebbero rider meno, se si pensasse
alla loro origine, a quante lagrime, e quante vergogne ci
hanno costato !
Giovanni Alchini, relegato pochi anni dopo a Vicenza dai
Veneziani, vi morì miseramente. Fu trovato una mat-
tina morto abbruciato nel letto (3) : caso che i nostri
cronisti narrarono con certa compiacenza, arguendone la
vendetta del cielo contro l'empio ghibellino che bruciava
\i) Alemanio Fino, nelle Serianc.
(2) Vedi in fine al capitolo la nota Sullo spirito religioso de' Cremaschi.
(3) Fino. Storia di Crema.
— 249 —
rimangine del Crocifisso, immemori come il divin Redon'
tore dicesse de' suoi persecutori : perdonate ii loro perchè
twn sanno (jìicl che (anno.
[Nel settembre del 1448 i Milanesi, condoni dallo Sforza,
riportarono a Caravaggio una memoranda vittoria contro
l'esercito veneziano, dopo la quale la repubblica veneta
iniziò delle segrete trattative rollo Sforza per indurlo a
disertare il vessillo dei Milanesi , a prestare il suo valoro-
sissimo braccio in sostegno del leone di s. Marco. Ed ai
dieeiolto di ottobre dell'anno medesimo stipulossi fra il
conte Sforza ed i Veneziani un trattato con cui blandi vansi
le ambizioni del conte e quelle insieme della repubblica
veneta. Questa prometteva ajutarc lo Sforza nel compire i!
vagheggiato disegno d'insignorirsi degli Stali del di lui suo-
cero Filippo Visconti : lo Sforza dal canto suo obbligavasi
di cedere alla repubblica di Venezia tutti i paesi occupati
dai Milanesi nei terrilorj di Bergamo e Brescia , e di ri-
nunziare ai Veneziani i diritti clic i Visconti possedettero
sul Cremasco e sulla Chiara d'Adda. Con questo trattato il
conte Sforza s'univa ai Veneziani per rovinare la repub-
blica di Milano: fu nera perfidia, ma famigliarissima al
secolo decimoquinto, quando, come scrive Machiavelli,
i grandi uomini si vergognavano di perdere, non di gua-
dagnare coli" inganno. Crema adunque e la Gbiara d'Adda
costituivano il compenso ebe lo Sforza doveva dare ai Ve-
neziani , in ricambio dei soccorsi ch'essi a lui prestereb-
bero, mentre egli imprendeva di schiacciare la libertà mi-
lanese per salire sul trono dei Visconti.
1 ghibellini cremaschi , fatti consapevoli del tenore della
convenzione formatasi tra lo Sforza e i Veneziani, scrivono
di nuovo ai reggitori della repubblica milanese, caldamente
supplicando di non cedere Crema ai Veneziani. IN' ebbero
in risposta un'affettuosissima lettera del 10 novembre, nella
quale ia repubblica di Milano versava il miele d'una ma-
17
— 250 —
terna tenerezza parlando ai Cremaschi colle seguenti
espressioni: « Credete, o carissimi nostri, che ogni nostro
» pensiero, stadio e cura è conservare la vostra terra, la
» quale abbiamo come l'occhio diritto, e sappiamo molto
» bene che è la prima chiave di questa nostra città , e
» quella la quale è colonna e fermezza di questo Stato, e
» tutti quanti voi cittadini, noi non abbiamo manco cari
» che noi stessi C*). »
Nel primo gennajo del 1449 dovendosi in Crema, secondo
antichissima consuetudine, rinnovare il Consiglio generale
dei cittadini, Gasparo Vimercali abolì tale istituzione, ed
al Consiglio generale del Comune surrogò dieci cittadini
scelli a suo capriccio. Continuavano intanto i Veneziani di
concerto con lo Sforza ad osteggiare i Milanesi: Tre viglio,
Caravaggio ed altre terre di Chiara d'Adda s'erano arrese
a Venezia cui sorridevano le sorti delle armi. Nondimeno
Crema resisteva, come quella .ch'era abitata da soli ghibel-
lini, nemicissimi del nome veneziano, e guernita da nu-
merosissima soldatesca. Ai Cremaschi accresceva coraggio
il trovarsi ben fortificati, essendo allora la città nostra
dal lato settentrionale cinta ancora da vasta palude, e di-
fesa dagli altri tre con robuste mura cui scorrevano ai
piedi profonde fosse, d'acque abbondantissime (2). Nel feb-
braio (1441)) venne ad assediarla l'esercito dei Veneziani:
ne era condottiero Sigismondo Malatesta , provveditore
Jacopo Loredano. Malatesta accampò nel pacselto di San
Bartolomeo dei morti, alla distanza di circa un miglio da
Crema. Militavano sotto il suo comando i guelfi cremaschi,
impazienti di ritornare al tetto nativo e vendicarsi dei
ghibellini. Narreremo colle parole slesse del Terni alcune
(1) Terni. Storia di Crema. »
(2) Simonetta. Vita di Francesco Sforza : nella raccolta Rerum italicarum
«tèi, Muratori-
- asi —
circostante di quell'assedio, perchè rivelano come Dell'anno
ili'.) bamboleggiasse ancora Tarlo d'usare le artiglierie.
»« Le venete artiglierie che sopra il dosso di s. Bartolomeo
» erano, fra la Porla ili Serto e di Rivolta, la muraglia
» crudelmente battono con balotte di pietra \ i % n grosse
» dell'abbrazzare d'un uomo.Dinnanzi alle artiglierie ch'era
» un ponte di travamenti che si levava e s'abassava per
• sicurezza dei bombardieri, coprendo e discoprendo I ar-
» liglieria a suo piacere. I Cremaschi sopra il campanile di
» S. Jacopo le guardie tengono clic la campana suonavano
» quando s'accorgevano del levar del ponte, e che le ar-
» liglierie effocare volevano acciocché quelli di dentro si
» ritirassero in sicuro luogo. Si usavano ancora a questi
» tempi alcune artiglierie corte con grande larghezza di
» canna che si piantavano colla hocca verso il cielo, e sta-
» vano come un mortaio, e appunto mortari si domanda-
• vano; la pietra con furore sì allo gettavano, quale ca-
» dendo sopra i letti della ciltadc, grande rovina face-
» vano('). » Durante l'assedio, Gasparo Vimercati, essendo
infermo nelle gambe , scorreva per la città a cavallo , ob-
bligando ciascun cittadino a portar terra da riparare i
guasti delle artiglierie; pena la forca agli inobbedienti.
Tempestavano orribilmente le artiglierie veneziane, non
lasciando per lutto il giorno riposo agli assediati. Questi
tuttavia serbansi imperterriti, ed un bel dì con ardimentosa
sortita si scagliano nel campo nemico, ruinano le macchine
d'assedio, ed inchiodano al Malatesta le artiglierie. Vuoisi
che sia questo il primo esempio di artiglierie inchiodate al
nemico, ed alcuni cronisti milanesi ne attribuiscono il vanla
a Gasparo Vimercati, siccome quegli che essendo governa-
tore di Crema, comandava le milizie degli assediali. Sigis-
mondo Malatesta, consideralo il danno e lo scompiglio ar-
ci) Tersi. Storia di Crema.
— 252 —
recato nel suo campo, attendò l'esercito veneziano a mag-
giore distanza da Crema, e s'occupò nel riparare i guasti
sofferti fabbricando nuove macchine d' assedio (O. Intanto
i Milanesi mandano a rinforzo dei Cremaschi Carlo Gon-
zaga e Francesco Piccinini , i quali non appena avevano
passato l'Adda, che il Malatesta, preso da timore, ritirò le
schiere veneziane a Fontanella sul Cremonese. Del levato as-
sedio dolgonsi i guelfi cremaschi: rallegratisi i ghibellini, man-
dano Giovanni Della Noce con grosso drappello in sussidio
ai Milanesi per combattere lo Sforza nella valle di Lugano.
A quest'epoca Venturino e Guido fratelli Benzoni , che
militavano per la repubblica di Milano, tolsero da quella
congedo, e s'acconciarono ai servigi di Venezia che affidò
loro la custodia di Bergamo.
Non andò guari che Sigismondo Malatesta rinnovò l'as-
sedio di Crema: nell'agosto (1449; le truppe veneziane ac-
campavano sulla diritta strada che è fra Crema ed Ombria -
no. Il Malatesta fa scavare un canale, che fu poi detto la
Marchcsca, onde deviare le acque delle fosse che ricinge-
vano le mura di Crema; indi s'apparecchia con ogni sforzo
a ridurre la città nostra in potere de' Veneziani, sapendo
quanto l'agognassero. Questa volta gli assediali mostravano
nel difendersi un inconsueto scoraggiamento, perchè avendo
scoperto che il Vimercati erasi abboccato col Malatesta in
una chiesetta che allora sorgeva in riva al Serio, sospetta-
vano d'essere traditi. Né s'apponevano ai falso : un tradi-
mento erasi infatti ordito per opera di Carlo Gonzaga, ge-
nerale dei Milanesi, il quale, disgustatosi colla repubblica
di Milano ch'egli ambiva di signoreggiare, trattò segreta-
mente un accordo con Francesco Sforza. Carlo Gonzaga
promise dare Lodi e Crema allo Sforza, e questi a lui la
signoria di Tortona con altri vantassi W. Ed agevole riesci
(1) Giovanni Simonetta. Vita di Francesco Sforza.
(2) Muratori. Annali d'Italia.
— 953 —
al Gonzaga mantenere la promessa , peroché essendo egli
allora il comandante supremo dell'esercito milanese , lt\ ò
(Lillo ci ita ili Lodi e Crema le truppe di presidio, onde i
Crcmaschi sguerniti di milizie non potevano resistere a
lungo contro i Veneziani che sempre più li stringevano.
Quantunque necessitati ad arrendersi, i ghibellini cretna-
sclìi persistevano ancora nel non voler BOtloporsi ai Vene-
ziani ; perciò, consigliati da Gasparo Vimcrcali , mandano
Cristoforo Cristiani ed Agostino Martinengo, oratori al conte
Sforza, pregandolo d'assumer egli la signoria di Crema.
I due oratoli non ommisero argomenti per indurre lo Sforza
ad appagare il loro desiderio: dimostrarono che a lui solo,
siccome genero ed erede dell'ultimo dei Visconti , compe-
teva la signoria di Crema; che volendo pur dominare nel
ducato di Milano, gli tornerebbe pericoloso cedere ai Ve-
neziani Crema, fortezza di tanta importanza. Ma lo Sforza
questa volta sfoggiò una lealtà superiore all' indole sua.
Rispose agli oratori cremaschi, che per quanto gli suonas-
sero graditi i sentimenti di simpatia e di divozione di cui
l'onoravano, pur non gli bastava l'animo di mancare di
fede alla repubblica di Venezia cui avea promesso di ce-
dere Crema e la Ghiara d'Adda: quindi congedando amo-
revolmente gli oratoli, persuadevali a darsi nelle braccia
della repubblica di S. Marco. Strano contrasto! nel mentre
il conte Sforza pompeggiava di lealtà verso i Veneziani,
questi ordirono segretamente coi Milanesi una lega per
rovinarlo; della quale se avesse sospettato, «certamente
(scrive un cronista bresciano ) che lo Sforza non avrebbe
» ceduto così bonariamente Crema ai Veneziani (4). »
I ghibellini cremaschi, profondamente addolorati che lo
Sforza ricusasse la signoria di Crema, e caduti d'ogni spe-
ranza pel tradimento del Gonzaga, elessero sei oratori che
(1) Cristoforo Dasoldo. Storie bresciane.
— 254 —
inviarono nel campo del Malalesta ove fa trattata la resa
di Crema con Andrea Dandolo, allora provveditore dell'e-
sercito veneziano (*). Il Dandolo, con Sigismondo Malatesta
ed un codazzo di celebri condottieri, entrò trionfalmente in
Crema: ed era il giorno 16 di settembre dell' anno 1449 ,
memorando, perchè incominciò nel territorio nostro il do-
minio veneto, durato per più di tre secoli, fino al 28 marzo
del 1797. Pochi giorni prima che i Veneziani s'imposses-
sassero di Crema, la plebe, fomentata da perversi cittadini,
in quei momenti di anarchia e confusione che sogliono
precedere le grandi catastrofi politiche, abbruciò tutte le
scritture eh' erano nel nostro palazzo municipale. Quanti
preziosissimi documenti irreparabilmente perduti! Se ne
rammenti il lettore, e ci sarà indulgente se non ci venne
fatto di completare la storia di Crema con lo studio di sta-
tuti ed ordinanze municipali , le quali avrebbero con evi-
denza rilevato le condizioni, i costumi, l'indole del popolo
cremasco nei tempi che precedettero la veneta domina-
zione.
A Gasparo Vimercati, che avea per due anni governato in
Crema dispoticamente , toccò miglior sorte ch'egli non si
aspettasse. Quando il Dandolo entrò nella città nostra, egli
si nascose nella casa dei Secchi, paventando Tira del popolo
che gridavagli morte. Ma poi i Cremaseli! s'accontentarono
di spogliarlo d'ogni cosa, fin della camicia, e di scacciarlo,
con sommo di lui scorno, nudo da Crema.
Gasparo Vimercati, nel febbrajo del susseguente anno
(1450) , trovandosi in Milano, arringava i cittadini sulla
piazza di S. Maria della Scala acciocché si arrendessero allo
Sforza, il quale con crudelissimo assedio affamava la capi-
ci) Gli ambasciatori furono: Agostino Marlinengo, Cristoforo Cristiani,
Antonio de* Conti , Agostino Ciriolo, Tomaso Vimercati e Bartolomeo Gan>
bazocco.
— 258 —
tale drll;» Lombardia, Le parole del Vimercali ottennero
l'intento: il popolo milanese, stremato dalla fame, rinunciò
ajzli splendidi sogni di libertà, ed aperse le porle al conte
Francesco Sfori? , cbe fa Deiranno medesimo proclamato
duca di Milano. Leone formidabile sui campi di battaglia,
volpo astutissima in politica, Francesco Sforza nato dagli
Attcmlolo, già contadini di Cotignola, raggiunse la moia
de' suoi ambiziosi disegni. Talvolta, quest'uomo di straor-
dinario ingegno, meravigliava egli slesso d1 essere salito
così in alto. Un giorno disse a Paolo Giovio, lo storico : di
tutte queste grandezze onde mi vedi circondato , io sono
debitore ai rami di una quercia che tennero sospesa la
marra del mio avolo U).
(i) SiSMORDl. Storia delle repubbliche italiane. — Sull'origine dogli Sforza,
Cesare Cantù nella sua Storia di Milaìio scrisse: « Un villano di Cotignola
. nella Romagna stava zappando, quando udì passar un tamburino di quei
» che andavano ad ingaggiare soldati per le bande mercenarie. Imbizzarrito di
• cambiare stato , getta la sua zappa s'un albero , risoluto di rimanere colà
» se ricadesse; se no andar soldato. La zappa s'impigliò fra i rami, e il vil-
• lano l'ebbe per segno di porsi al soldo: dal suo valore fu detto lo Sforza,
• e divenne famoso condottiero. » Questo villano di Cotignola fu V avolo del
<*onte Francesco Sforza, che sali al ducato di Milano.
— 256 -
NOTA
Spirito religioso dei Cremaschi.
Guardatevi dal giudicare il carattere morale di un paese lombardo
dagl'improperj che le città nostre palleggiavansi in tempi di sciagurate
discordie municipali. La calunnia fu sempre l' arma di cui si valsero
gl'Italiani per meglio rodersi l'un l'altro, gl'Italiani, dei quali la discor-
dia, scrive Cantù, è il peccato originale, e si baciano coi denti mentre
dovrebbero serrarsi e durare in un amplesso di fratellanza. Ancora
oggidì suonano sulle labbra del popolo quell'epigrammatiche litanie ai
Lombardi che finiscono eoi due versi, ne volete di più tristi? i Crema-
schi brusa-cristi.T& siccome una sentenza, saggia o stolta che sia, quando
è invecchiata e divenuta popolare, ha la ventura di procacciarsi fede
di proverbio, così fra i Lombardi divenne proverbiale la taccia ai Cre-
maschi di brusa-cristi : tanto che udimmo persone le quali, ignorando
la storia dei padri nostri, se ne figuravano un branco di sacrileghi,
sprezzatori di religione, empiamente immorali. Eppure basta gittare
uno sguardo sulle Cronache cremasene per convincersi che in ogni
età si mantenne vivissimo in Crema lo spirito religioso : prezioso germe
il quale, ove non traligni in superstizioni od in virtù di parata, ma
venga sapientemente innestato all'albero della civiltà e del progresso,
può dar frutti di sospirata prosperità sociale.
Quante volte i Cremaschi attinsero dalla religione conforti nei giorni
luttuosi di pubbliche calamità! quante volte le feste cittadine abbelli-
rono con un pensiero di religione, intrecciandolo, qual fiore peregrino,
alla corona delle gioje comuni! Ti rammenta il giorno 7 maggio
del 1185, quando i Cremaschi, per concessione fatta da Barbarossa ai
Milanesi , posero mano a ricostruire la loro città che da venticinque
anni giaceva nelle rovine: nel mentre, rifacendo l'ostello dei padri loro,
inebbriavali l'ineffabile gioja di racquistare patria e libertà , vollero
Crema affidare ad un Santo che ne tutelasse l' avvenire : e perchè in
quel dì ricorreva la festa di S. Vittoriano, lo tolsero a patrono della
rinascente cittadella. Tre secoli dopo, Eenzo Ceri, mercè un ardimen-
toso assalto, fugò gli Sforzechi, i quali con durissimo assedio strìnge-
van Crema, stremata da fame e pestilenza. Tripudiando per la vittoria
— 9157 -
da Renan riportata, i Cremaschi vollero perpetuarne la memoria i
votarono una processione annuale a s. Zefierino, essendo la rotta de*
gli Sforseschi avvenuta il dì in cui celebravasi la Pesta di qnesto santo.
Da pestilenss desolatrici fu il suolo otemasoo flagellato pie d'una
volta, e dei mali che ne offrirono, «iella fiducia cui cui si rivolsero al
Cielo por esserne liberati, i padri nostri lasciarono religiosi monumenti.
Infierendo la peate invocarono a patrono della città loroS. Pantaleone
l'anno lio'l ; otto anni prima in pari frangente avevano eletto a pro-
tettore s. Sebastiano, prendendo parte nel generale Consiglio di vene-
rarne il giorno con festa, ed offrire Ogni anno al di lui altare un tri-
buto di divozione. Preservati dalla pestilenza dell' anno 1500, i ('re-
maschi in' resero grazie a S. Hocco, cui innalzarono poi una chiesuola:
cessata la peste del 1G30, trasportarono nel duomo l'immagine della
Madonna del Popolo(l), fabbricandole un'apposita cappella ov'è tenuta
ancora oggidì in grande venerazione. Ed una particolare divozione i
Cremaschi professarono sempre all'immagine di Gesù Crocifisso che
venerasi nel duomo (è la medesima che l'empio ghibellino gittò tra
le fiamme) e delle grazie che ne ricevettero, fanno ancora tre volte
l'anno con solenni feste commemorazione.
Altra peste non meno micidiale ai Cremaschi furono nel secolo do
cimo terzo le discordie guelfe e ghibelline, onde la città nostra sanguinò
lungo tempo per ostinate vendette, per deplorandi fratricidj. Eppure
mal s'apporrebbe chi per avventura credesse avessero i Cremaschi, in
que' tempi di risse civili, spento nel sangue dei fratelli ogni pensiero
di religione. Fu allora che risolsero di rifabbricare il duomo, profon-
dendovi ingenti somme, opera decorosa alla città nostra e della quale?
poi guelfi e ghibellini si contesero l'onore.
Volete altri efficacissimi argomenti onde persuadervi dello spirito
religioso che nelle scorse età animava la città nostra? Numeratene le
chiese ed i conventi. Dipingetevi nella fantasia Crema quale, osservata
al di fuori, presentavasi allo sguardo del viaggiatore, or son cinquan-
t'anni: vi colpirà meraviglia contemplando entro breve recinto una
selva di campanili, torreggiane l'un presso l'altro e quasi uniti in un
fascio, i quali sembravano tanti inni, da una popolazione divota levati
concordemente al Cielo per cantare le glorie del Signore. Percorrete
le vie di Crema cercandovi le vestigia dei soppressi conventi : ove a
nostri giorni trovate lezzo di caserma, apprenderete che un tempo sal-
meggiavano pie corporazioni di religiosi; apprenderete che nel secolo
scorso gli avi nostri ospitavano nella terra loro tanti ordini religiosi
da formarne diecisette monasteri: e trentacinque chiese fregiavano una
(1) Oggidì è volgarmente detta la Mudonna Dc-bass,
— 258 —
città che vantava poco più di otto mila abitanti. Svolgete le cronache:
vi diranno che i ricchi , sebbene allora più scostumati di molto , quei
monasteri impinguavano con laute elargizioni, e pompeggiavano in
donativi per rendere più sontuose le chiese. E il popolo, ch'era d'assai
più ringhioso e manesco d'oggidì, sberrettavasi dinanzi ad un frate,
affluiva copioso e con frequenza alle sacre funzioni , associato in reli-
giose confraternite. Come tacciare di brusa-cristi una città, ove è rive-
rita tradizione che siasi veduto S. Pantaleone comparire fra le nubi e
stendere le mani in atto di protezione sopra Crema quand'essa era
da crudelissima peste devastata? Come accusare d'irreligiosi i Crema-
schi, che al grido di una miracolosa apparizione della Vergine Maria
a Caterina degli liberti , fecero spontaneamente tante e così ricche
oblazioni che invece di un oratorio, com' erasi progettato, elevossi un
santuario magnifico sul luogo ove dicesi apparisse la Regina dei Cieli?....
Davvero che le cronache cremasene olezzano per ogni dove d'esempi
di religiosa pietà: scorrendole, forse potrete incolpare qualche volta i
Cremaschi di cieca superstizione, di mancanza di fede giammai. E giac-
ché siamo sull'allegare fatti, non ne taceremo uno che vien proprio a
cappello per chiarire l'indole religiosa del popolo cremasco sullo scorcio
del secolo passato, quantunque fosse di più rotti costumi che il nostro.
L'anno 1799 quando, cacciati i Francesi, per la prima volta occupa-
rono la città nostra i Tedeschi, la popolazione cremasca li accolse
con istemperate dimostrazioni d'allegrezza. Volete sapere una delle
ragioni per cui festeggiossi cotanto il comparire dell'aquila bicipide?
Perchè i Francesi, calati in Italia, nel mentre prommettevano ai popoli
libertà e uguaglianza, rubarono argenterie alle chiese, svillaneggia-
rono il clero, ostentarono disprezzo a tutto che sapesse di religione.
Se quei lupi forastieri che vantavansi Giacobini non avessero adden-
tata la religione, che è il patrimonio del popolo, oppure se con le arti
famigliari ai despoti si fossero mascherati di divota santimonia, forse
non avrebbero sollevati in Italia tanti nemici alle loro bandiere, e i
Tedeschi non sarebbero stati salutati a Crema e in altre terre come
liberatori.
I fatti sopraccennati accozzammo per dimostrare che stoltamente af-
fìbbiossi ai Cremaschi il sopranome di brusa-cristi. A nettarci di così
nera accusa crediamo gioveranno i fatti addotti più assai dei pietosi
sforzi dell'Aleniamo Fino, il quale vuol darci a bere che Giovanni Ai-
chini fosse Bergamasco e non Cremasco. Conchiuderemo, affermando
in onore del vero, essere lo spirito religioso un retaggio che il popoLo
cremasco non ha mai dissipato, e che ancora oggidì risplende ne' cuori
con vivissima luce, quantunque a contaminarla sembra cospirino e mi-
scredenti con superbo indifferentismo, e ipocriti con ma 1 velate sozzure.
239 -
CAPITOLO NONO
VICENDE DI CREMA DAL PRINCIPIO DEL GOVERNO VENETO
FINO ALL'EPOCA DELLA LEGA DI CAMBRAI.
SOMMARIO.
Gioja dei guelfi per essere Crema caduta in potere dei Veneziani. — Brevi
cenni sul modo con cui la repubblica di Venezia trattava i paesi conqui-
stati. — Vengono confermati ai Cremascbi i patti della capitolazione. —
Altri privilegi concessi a Crema. — Tentativi dei Cremascbi per ottenere
il vescovado. — Come venisse formato il Concilio generale dei cittadini. —
Fondazione del Collegio dei Notaj e pubblica lettura di giurisprudenza in
Crema. — Persecuzioni ai ghibellini. — Guerra fra i Veneziani e il duca
Francesco Sforza. — Stato dei Cremaschi durante la guerra; loro entu-
siasmo e coraggio per mantenersi soggetti a Venezia. — Come i Veneziani
fossero disposti a ceder Crema al duca Francesco Sforza, e come essa ri-
manesse ai Veneziani per opera di Bartolomeo Colleoni. — Pace di Lodi.
— Nuove persecuzioni dei guelfi contro i ghibellini; un frate domenicano
compone a pace le due fazioni. — II governo della repubblica veneta
troppo biasimato da alcuni scrittori, e da altri lodato troppo. — Distin-
zione che è da farsi fra i diversi sudditi della repubblica veneta riguardo
al modo ond'erano trattati. — Uomini di pregio che fiorirono in Crema
durante il secolo decimoquinto, quali nelle armi, quali per dottrina. —
Guerra fra i Veneziani e il duca d'Este. — Compagno Benzoni è fatto
nobile veneziano. — Scorrerie degli Sforzeschi sul territorio cremasco, —
Bartolino Terni al presidio di Crema: assalto notturno con cui egli mette
in iscompiglio gli Sforzeschi. — Riedificazione delle mura di Crema. —
Origine del tempio diSanta Maria della Croce, per la miracolosa apparizione
della Vergine Maria a Caterina degli Uberti. — Carlo Vili re di Francia
scende in Italia: come i Veneziani si diportassero verso di lui.— Battaglia
del Taro.— Scopronsi a Crema importanti documenti ch'erano in pos-
sesso di un soldato stradiotto. — Bernardino da Feltre predica in Crema.--
— 260 —
Istituzione in Crema del Monte di Pietà. — Generose offerte che i Cre-
maschi fanno al Monte di Pietà con bizzarre e pubbliche rappresenta-
zioni. — Considerazioni sulla prosperità della città di Crema nel secolo
decimoquinto. — Lega fra i Veneziani e Luigi XII re di Francia, il quale
scende in Italia. — I Veneziani acquistano Cremona e la Ghiara d' Adda :
la provincia cremasca viene ampliata. — Socino Benzoni : sue gesta mi-
litari , e come facesse prigioniero il cardinal Ascanio Sforza. — Nimicizia
fra Socino Benzoni e il podestà Gradenigo. — Come Socino Benzoni ve-
nisse processato e condannato dai Veneziani , e per quali misfatti. —
Quando Socino Bezoni fu assolto dalla pena.
La nuova dominazione dei Veneziani sollevò in Crema
gli animi dei guelfi a gioja clamorosa, stemperata , tanto
che il Dandolo cercò moderarne le dimostrazioni, acciocché
non nascessero disordini. Dei governi ch'erano allora in
Lomhardia, il veneto si confaceva meglio degli altri alle
idee ed ai voti dei guelfi, fazione la quale, come dicemmo
le mille volle, in Crema prevaleva. Venezia nelle sue con-
quiste di terra ferma tolse ad imitare la generosa politica
dei Romani, lasciando ai paesi occupati quasi intero l'e-
sercizio delle loro leggi, modificandole solo secondo lo spi-
rito aristocratico proprio : perciò i sudditi di terra ferma
governavansi colle norme delle costituzioni municipali
sancite dal suffragio dei loro padri e da consuetudini inve-
terate. Questo procedere del governo veneto riguardo ai
paesi conquistati gli conciliava la simpatia dei popoli, par-
ticolarmente dei guelfi, come quelli che già da tempo erano
i più caldi propugnatori delle municipali franchigie. Né
i guelfi s'apposero al falso confidando avrehhe Venezia
trattata Crema con la liberalità che gli altri paesi da lei
conquistati. Quando i Cremaschi s'arresero al provveditore
Dandolo, gli proposero i capitoli della dedizione della terra
loro, con i quali si riservavano dei privilegi che nell'ordi-
namento politico, amministrativo e finanziario del Comune
godevano fino dall'epoca della loro repubblichetta. 1 capitoli
erano ventinove: il Dandolo li accettò con riserva della
— 261 —
suprema sanzione del senato. Nel nano del successivo
anno (1450), onde conseguirne la desiderala confermai i
Cremaschi inviarono a Veneiia olio oratori: Luigi Vimer-
cati, Giacomo /urla, Pantaleoue Cusadro, Giovanni Ben
zoni, Luigi Bernardi, Rodolfo Alfieri, GolGno Guinzoni e
Venturino Gambazocco, In quell'occasione Luigi Vimercati,
dolio parlatore, recitò innanzi al senato un discorso la-
tino, encomiando con mellifluo siile il governo di S. .Marco,
benedicendo la ventura che avea reso Crema suddita di
Venezia. Ed il senato assecondò i voli dei Cremaschi, confer-
mando, con lievissime modificazioni, i capitoli della loro de-
dizione, meno il ventisettesimo che risguardava la libe-
razione dal bando di un malfattore*1). L'anno slesso (1450)
ai già sanzionali capitoli ne furono aggiunti altri cinque,
fra i quali la conferma dell'antico diritto di fare ogni anno
a Crema otto giorni di fiera con esenzione alle merci d'o-
gni dazio; il permesso di cavare un canale d'acqua dal
fiume Oglio per l'irrigazione di terreni situali nel nostro
territorio ; la concessione di formare in Crema, sull'esem-
pio di altre città del dominio veneto, un collegio di giuri-
sti, importantissima istituzione che aveva la facoltà della
giudicatura ed esimeva i Cremaschi dal ricorrere in ap-
pellazione ai collegi delle vicine consuddite città -'. Oltre
di che una ducale dell'anno medesimo conferì a Crema il
titolo di città, ammettendola a fruire, come tutte le altre
del veneto dominio, le prerogative provenienti da questo
titolo 3 . E siccome con l'articolo decimo della capitolazione
erasi ampliala la giurisdizione della provincia cremasca, ri-
componendola dei paesi che vi erano uniti l'anno 1405,
(1) Vedi nel documento A i patti della dedizione di Crema, e come venis-
sero dal senato veneto accettati.
(-2) Ronna. Zibaldoni cremaschi. Tomo III.
(3) Vedi nel documento B la ducale con cui i Veneziani eressero Crema a
citta.
— 262 —
così il Concilio generale di Crema nominava dal suo grem-
bo i rettori alle podeslarie di Solicino, Antegnate, Roma-
nengo, Covo, Mozzanica, Trigolo e Fontanella!1).
Ma aflìnchè Crema potesse figurare come città al pari
delle altre, e fosse nella sua giurisdizione affatto indi-
pendente, bisognava che, anche come diocesi, facesse
da sé, quindi escludervi i diritti di podestà ecclesia-
stica che vi esercitavano i vescovi di Cremona, di Piacen-
za, di Lodi. Ciò non si poteva conseguire se non coir as-
sentimento del Sommo Pontefice ed erigendo a Crema un
vescovato che raccogliesse sotto di sé l'ecclesiastica giu-
risdizione di tutto il territorio nostro. I Crcmaschi smania-
vano di sottrarsi dalla spirituale dipendenza dei vescovi di
Piacenza, di Cremona e di Lodi, perciò mandarono oratori
a Venezia ed a Roma supplicando di porre un vescovo a
Crema. Venezia rispose che dal canto suo vedrebbe assai
di buon grado Crema innalzala a città vescovile, e che si
adoprerebbe presso la corte di Roma onde procacciarle
quest'onore, ma i pontefici ricusarono sempre, fino all'anno
1579, d' insti tuire nella città nostra un vescovado, ad onta
delle caldissime e replicate istanze dei Cremaschi, che per
averlo incominciarono a maneggiarsi Tanno 14-51.
Avendo i Veneziani acconsentilo che la città nostra si
reggesse colle norme de'suoi statuti municipali e che gl'in-
teressi del Comune venissero amministrali dal Comune
medesimo (sotto però la sorveglianza del rettore veneto),
manleneva non poca importanza il Consiglio generale dei
cittadini, siccome quello che rappresentava il municipio, a
cui era confermato il diritto di conferire le cariche comu-
nali , e che, per cosi dire, diveniva quasi depositario e cu-
stode dei riconosciuti privilegi municipali. Il provveditore
(1) Vedi nell'archivio municipale di Crema i libri delle provvisioni e parti
prese dal Consiglio generale dei cittadini negli anni 1452, 1423..
— 263 —
Orsatto Giustiniani, sollenlralo iu Crema al Dandolo,
quaudo, sul finire del 1449, trattassi di riordinare il Con-
siglio generale, lo compose di cento cittadini. E nel succes-
sivo anno Antonio Marcello, alno provveditore, per ade-
rire al desiderio del popolo cremasco, accrebbe di duecento
il numero dei consiglieri. Ma ritornato provveditore a ('re-
ma nel 1489 Andrea Dandolo, « vedendo la confusione che
■ per il gran numero \i si faceva, di trecento consiglieri
» che orano ridusseli al numero di sessanta e scoiseli a
« modo suoU)* : riforma che il senato sanzionò.
Altra nuova istituzione Venezia approvò nella città no-
stra Tanno Uo5, il Collegio dei Notai, i quali nella prima
elezione furono in numero di sedici. Quali ne fossero le
attribuzioni, e come il collegio si dividesse in due sessio-
ni, civile e criminale, accenneremo più innanzi nel capi-
tolo quattordicesimo , ove ci siam proposti di discorrere
ampiamente del modo con cui vennero i Crcniaschi gover-
nali dalla veneta repubblica. Qui diremo clic il Collegio
dei Notai Tanno I4GG venne dispensalo da un'imposta,
sotto condizione che mantenesse a sue spese un pubblico
lettore di giurisprudenza. E la pubblica lettura delle leggi
« si mantenne in Crema per due secoli e più, con profitto
» degli uditori che in giurisprudenza divennero eccel-
» lenti (*). »
I Veneziani seppero assettare nella città nostra un poli-
tico ordinamento da render paghi i cittadini, ma non com-
porne gli animi, troppo dal livore delle fazioni esacerbati e
di vendette sitibondi. I guelQ , imbaldanziti più che mai
della prolezione che loro concedeva il nuovo governo, vo-
levano rifarsi ad usura dei danni e degli oltraggi ricevuti
dalla nemica fazione. Spinto dalle loro istigazioni, il prov-
veditore Giustiniani Tanno 1450 confinò parecchi ghibel-
(1) Fino. Storia di Crema.
(2.) Ro.nna , nei Zibaldoni.
— 264 —
lini: poi, continuando i guelfi nelle querele e nei liti-
gi, il provveditore Marcello, stanco di sentirne le rimo-
stranze, ordinò (14-51) che andassero a far valere le loro
ragioni nei paesi, ove i ghibellini erano stati confinati. Del
qual ordine i guelfi indispettiti provocarono da Venezia
una ducale con cui imponevasi a lutti i ghibellini fuoruscili
di ripatriare, sotto pena d'essere considerali come ribelli :
crudelissimo gioco davvero per i poveri ghibellini, prima
condannati ad esulare, poi a far ritorno in patria per es-
servi malmenali dai guelfi più potenti di loro. Né andò
guari che furono di bel nuovo sbandili da Crema ed in co-
piosissimo numero, perchè nel bando si compresero mol-
tissime famiglie di conladini : ciò avvenne Tanno 1452 per
ordine del provveditore Dandolo, che volle compiacere ai
guelfi, sebbene egli, a pretesto dell'ordine emanato, addu-
cesse la guerra che in quell'anno s'accese in Lombardia fra
i Veneziani e il duca Francesco Sforza.
Non era a presumersi potessero mantenersi in pace i
Veneziani col nuovo duca di Milano, gli uni intalentali dal
doge Foscari a conquisle, l'altro portalo dal valore e dal-
l'ambizione sul trono dei Visconti. Vero è che i Veneziani
avevano ajutato lo Sforza a salire il trono dei Visconti, ma
poi se n'erano pentiti. La tortuosa politica di Venezia che
prima favoreggiò lo Sforza, poi cospirò contro di lui, onde
impedire che schiacciasse la repubblica di Milano, fu da
molti scrittori caldamente riprovata. Se la repubblica di
Venezia , osserva Sismondi , si fosse fin da principio colle-
gata a quella di Milano, se queste due avessero tirato nella
loro alleanza i Fiorentini, i Genovesi e gli Svizzeri, sareb-
besi formala nell'Italia settentrionale una confederazione
di repubbliche da impedire il futuro ingrandimento delle
vicine monarchie, da opporsi robustamente alle eterne
pretensioni degli oltremontani sulla nostra penisola *). Ma
(1) SiswoNDf. Storia delle repubbliche italiane.
— 268 —
l'idei di affratellarsi per resistere allo straniero ed essere
l'egida dell'italiana indipendenza, non balenò ai nostri go
verni d'allora, monarchici o repubblicani che fossero: sviati
da una politica immiserita dall'egoismo, non miravano che
a guerreggiarsi a vicenda per sovrastare fono all'aldo, onde
snervironsi poi tanto elio darlo Vili re (li Trancia, sul li-
nire del secolo decimoquinlo, si vantò d'aver attraversata
col suo esercito ditta l'Italia senza colpo ferire.
Prima ancora che i Veneziani intimassero la guerra al
duca Sforza (lo che avvenne nella primavera del 1452),
Andrea Dandolo, prevedendola, operò in Crema i necessari
provvedimenti: « Fece nettare le fosse, allargandole più
• che primi non erano: rifece la muraglia diroccata per
» i colpi d'artiglieria: ristorò il torrione della Chiusa, il
» quale fu da indi in poi dello di S. Marco: principiò i
» rivellini delle porle, di quello di Serio in fuori C1). » E
qui si noli che il castello di Ombriano era slato in Crema
spianato Tanno innanzi per ordine della veneta repubblica,
o parte del terreno venduto alle monache di Santa Monica,
e ridotto ad uso del loro convento. Quando le ostilità fra
i Veneziani e gli Sforzeschi iucominciarono , furono posti
a presidiar Crema Matteo e Garone da Capua , Bellino e
Rosso da Calcinalo, con le loro compagnie di fanti,e Paolo
e Giannuccio da Ramano con alcune squadre di cavalleria.
La guerra fra Venezia e il duca di Milano (1452-U55),
fu combattuta poco lungi dal territorio nostro, sul suolo
bresciano e sul bergamasco. Quantunque le sorli dell'armi
fortuneggiassero , volgevano però meno propizie ai Vene-
ziani che agli Sforzeschi. Crema non venne dalle truppe
ducali attaccata, tuttavia ebbe a sopportare travagli e spese
non poche. Mentre i Cremaschi alzavano foli fe\orosi pel
trionfo dei Veneziani, i ghibellini fuoruscili combattevano
i, Fino. Storia di Crema.
18
— 266 —
nell'esercito del duca, maneggiandosi a lutto potere affin-
chè gli Sforzeschi ponessero assedio a Crema. I Cremaschi,
quando inlesero che le sorti della guerra piegavano in fa-
vore dello Sforza, trepidarono, paventando di venir assa-
lili, tanto più che Matteo da Capua, colla sua compagnia,
si era allontanalo dalla città nostra. Mandarono ambascia-
tori a Venezia, scrissero ai provveditori del campo vene-
ziano domandando sussidj di truppe e di vettovaglie, ma le
istanze dei Cremaschi venivano accolte freddamente : esse
conseguirono soltanto di chiamare Guido Bcnzoni da Ber-
gamo, ove gli era affidata la custodia della città, e surro-
garlo a Matlco da Capua nel comando degli uomini d'armi
che presidiavano Crema. I ghibellini, vedendo che le vit-
torie arridevano al duca, il quale avea tolto ai Veneziani
molti paesi fra l'Oglio e l'Adda, non ebbero più alcun ri-
tegno nel palesare la loro allegrezza , tanto che furono
dalla venda repubblica dichiarati ribelli, e i loro beni do-
nali alia nostra Comunità.
Nell'inverno del 1454, Venezia, atterritasi perchè Mao-
metto II, presa Costantinopoli e disfallo barbaramente
l'impero greco, rendevasi minaccioso a tutta la cristianità,
deliberò di venire a trattative di pace con Francesco Sfor-
za , il .quale, penuriando di danaro, non era lontano dal-
l'acccttarla. Certo fra Simonella da Camino , agostiniano ,
dello fra Bastone , crasi assunto l'incarico di paciere: più
d'una volta fu visto passare per Crema travestito, nel men-
tre andava segretamente a Milano proponendo al duca la
pace a nome dei Veneziani ^. Questi domandavano allo
Sforza, oltre la signoria di Cremona, che loro si restituis-
sero i paesi da lui conquistati nel Bergamasco e nel Bre-
sciano, e che le rive del Po e dell'Adda formassero il Con-
ti) Cristoforo Dasoldo. Storie bresciane, nel voi. XXI Rerum ilaUcarum
del Muratori.
— 867 —
fine dei due Stali. Il duca, ben lungi dall'àccousentire a
imìic cessioni, ridomandava ai Veneziani Crema, Bergamo
e Brescia, siccome quelle che forma va n parie del ducato
di Filippo Visconti suo suocero. Per comporre un accordo
ira le parli belligeranti essendosi intromesso il Pontefice ,
eorse voce ch'egli proponesse ai Veneziani di ceder Crema
al duca di Milano. Del che s1 accorarono sommamente i
Cremaschi, « e come impazzili per soverchio dolore e di-
» sperali, al podestà domandarono le chiavi della terra, di -
• eendo che ancorché la Signoria volesse restituir Crema,
» loro con il proprio sangue gliela volevano conservare (*>.»
11 podestà, commosso dall'immensa devozione dei Cremaschi
verso la repubblica, consegnò loro le chiavi della terra e
del castello : essi, affidala la guardia del castello ad Olto-
lino Fabri, si disposero con ispartano ardimento alla di-
fesa. Tanto entusiasmo di tenerezza per la veneta repub-
blica, tanto coraggio dei Cremaschi spiegansi facilmente.
I guelfi paventavano le vendette dei ghibellini, i nobili
preferivano un governo d'arislocrali ad uno monarchico; il
popolo astiava l'idea di un padrone milanese, memore delle
vessazioni viscontee e pago di mantenere sotto il regime
dei Veneziani le vestigio della sua antica repubbiichetla.
1 Veneziani si erano già rassegnati a ceder Crema al
duca, e l'avrebbero forse perduta per sempre se non era
Bartolomeo Colleoni, celebratissimo condottiero bergama-
sco. Militava il Colleoni, colle valorose sue bande, nell'eser-
cito Sforzesco, ed il Concilio dei Dieci aveagli progettato
ch'egli colla sua compagnia trovasse pretesti di introdursi
a Crema, l'occupasse, indi al duca Sforza la consegnasse.
Dal che comprenderete come i Veneziani fossero disposti a
ceder Crema; ma vedendone i cittadini risoluti a voler vi-
vere e morire per S. Marco, desideravano e procuravano
(1) Fimo. Storia di Crema.
— 268 -~
con astuzia che un altro, non essi, la mettesse in potere
del duca. Avvenne che il Colleoni disertò improvvisamente
dalle insegne sforzesche alle veneziane , e non che farsi
istrumenlo della dedizione di Crema al duca di Milano,
seppe dissuadere la repubblica dal cedere la città nostra,
rappresentando al senato i gravissimi danni che derivereb-
bero a Venezia, qualora lo Sforza s'impadronisse di una
città così ben fortificala ed in posizione tanto importante.
D'altro canto, la diserzione del Colleoni, peritissimo condot-
tiero e capo di numerose bande, sminuì le pretese dello
Sforza, sicché finalmente fu conchiusa la pace e pubblicata
a Lodi addì nove d'aprile 1454-. Nel trattalo, che leggesi
nella preziosissima raccolta del Muratori!1), il duca di Mi-
lano si conservò la Chiara d'Adda : rimasero dei Veneziani
Brescia, Bergamo e Crema. Un capitolo di quel trattato ris-
guarda Crema e suo territorio ed è formolalo con le se-
guenti parole: « Hem si sono convenute e concordate le
» dette parti, nomlnibus quibus saprà, che Crema, la quale
» tiene presentemente l' illustrissima signoria di Venezia,
» rimanga ad essa signoria con tutte le possessioni, premi-
v nenze , ragioni e giurisdizioni. E che nò per la detta si •
» gnoria, nò per Cremaschi, né altri per sé, ante Adda
» ove entra il Serio, non si possa imporre nò riscuotere
» dazio né gravezza alcuna. E per levare ogni occasione di
» scandali, si dichiara che le mura della fortezza, ed ogni
» altra fortezza di Cereto, sieno rovinate e spianate per
» tutto il presente mese, rimanendo salda ed illesa la
» chiesa ed abadia, ovvero monastero, e non si possa mu-
» rare delta fortezza, erigere né rifare, intendendo che la
» Bastia, e il luogo ove è posta colle sue possessioni, acque
» ed altri beni spettanti ad essa abadia, seu monastero di
» Cereto che sono nel territorio di Crema e giurisdizione di
(1) Rerum italicarum, Voi. XVI.
— 2f>9 —
» Crema, la giurisdizione e dominio resti ad essa illnsiiis
» sima signoria di Venezia per la giurisdizione di Crema » .
Fra i cancellieri lineali che sottoscrissero quel trattato, leg«
gesi il nome di Antonio figlio di Giacomo dei Robetti di
Crema.
Col trattato di Lodi i Veneziani rassodarono i loro do-
minj in Lombardia: (ironia giubilò di non essere caduta
fra le spire della biscia viscontea e di poter adagiarsi tran-
quillamente sotto le ali del leone di S. Marco. Non per que-
sto migliorarono così tosto le sorti dei fuoruscili ghibellini,
bersaglio per due anni ancora a terribili e schifose perse-
cuzioni. La fazion guelfa di Crema attraversava loro qua-
lunque via tentassero onde procacciarsi il perdono della
repubblica veneta, ansiosi conV erano di poter ripalriare
ed essere reintegrati nel possesso dei loro beni. Radunatisi
sul territorio di Brescia, i ghibellini avevan promesso mille
ducali a certi Bresciani che assicuravanli d'ottener loro
dalla repubblica la liberazione del bando. I guelfi, come
furono consapevoli di tali maneggi, mandarono a Venezia
Agostino Benvenuti dottore e cavaliero,Venlurino Benzoni,
Rodolfo Alfieri, Fetrino Toli e Francesco Rigoso, doman-
dando al senato la conferma di quindici capitoli, ove pro-
ponevasi di mantenere i ghibellini fuori di Crema e trat-
tarli come ribelli. 1 ghibellini allora si rivolsero diretta-
mente al senato implorando grazia ; ma il Consilio dei
Dieci, prima di concederla, interpellò il Consiglio generale
di Crema, il quale, essendo composto di guelfi, vi si oppose.
Nondimeno i guelfi, temendo che i Veneziani alla fine si pie-
gassero e restituissero ai ghibellini i beni loro tolti e donali
al Comune di Crema, adoperaronsi nel febbrajo del Hoo,
acciocché quei beni venissero incamerati, contenti di ce-
derli al fisco veneto, piuttosto che renderli a compatriota
che detestavano. Con questi e con tanti altri abbomincvoli
esempi, la storia c'insegna, le più tiranniche persecuzioni
— 270 - .
essere quelle con cui si sfogano Tire dei partili e gii odii fra
concittadini.
L'opera santa di pacificare in Crema guelfi e ghibellini,
era serbata all'efficace modestia di un frate, all'armi pie-
tose dell'evangelica parola. L'anno 145G essendo venuto
nella città nostra certo fra Giovanni Battista, novarese,
dell'Ordine dei Predicatori, seppe con tanta eloquenza in-
culcare il più difficile dei doveri cristiani, perdonare ai ne-
mici, che i guelfi, smesso l'inveteralo odio, nel Consiglio
generale del 27 giugno chiesero alla signoria di Venezia,
fosse concesso ai ghibellini di ripatriare e riavere i loro
beni. Notate: un fra Simonetta da Cammino maneggiò la
pace fra i Veneziani e il duca di Milano, un fra Giovali
Battista da Novara riuscì a conciliare i guelfi coi ghibellini
cremaschi: ci è forza confessare che !c tonache, tanto vili-
pese e canzonate dai filosofi del secolo decimoltavo, pure,
in tempi ben diversi dai nostri, valevano sovente a qual-
che cosa.
Le cronache cremasene, dal trattato di Lodi all'anno
1482, non ci porgono avvenimenti di slorica importanza:
motivo, la pace che durò in Lombardia ])ev lo spazio di
circa trentanni. I Cremaschi di questo trentennio di pace
profittarono, onde rendere nella provincia loro l'agricol-
tura e l'industria più prosperose. Il Consiglio generale dei
cittadini, con provvisione dell'anno 1456, promise esenzioni
di tasse personali e privilegi ai foraslieri che venissero a
lavorare i terreni cremaschi , a coltivare pascoli incolti e
boschi, non che ai mercanti ed ai nobili che si portassero
ad abitare in Crema. E molti, non soltanto dai vicini ma
da lontani paesi, vennero a domiciliarsi nella nostra pro-
vincia, condoni dalle promesse del municipio cremasco.,
allettati dalla speranza di laute speculazioni agricole od in-
dustriali, e meglio ancora dalla mitezza e liberalità co»
cui i Veneziani trattavano le città conquistate.
- 271 —
Quantunque ci siamo proposti di parlare diffusamente
più innanzi, ni in apposito capitolo, del modo <on cui i
Veneziani governarono Crema, tuttavia qui ci affrettiamo
d*avvertire il lettore, che sul politico regime della veneta
repubblica si è discorso largamente da scrittori del secolo
nostro, ma quasi sempre con intemperanza o <li biasimo o
«li lode. Calunniarono Venezia gli adulatori di Napoleone ,
onde giustificare il vergognoso trattato di Campo Formio;
la ricopersero d* improperi gl'idolatri delie idee democra-
tiche, i quali volendo trasportare il governo dei popoli dal
palazzo in piazza, era naturale maledissero un regime di
arìstocrati che durò pel corso di tanti secoli, e diede al
mondo frequenti esempj di senno e di fermezza. Altri scrii-
tori invece, i quali in fatto di libertà non ci vedevano
così addentro come i filosofanti del secolo decimotlavo , o
che astiavano la rapace ambizione dell' eroe di Marengo, si
dimostrano caldissimi ammiratori della serenissima repub-
blica: Carlo Botta, fra questi, propone il governo di Vene-
zia a modello di civile sapienza, ne deplora in tuono ele-
giaco la caduta , il turpe mercato che della sovrana del-
l'Adriatico fece il Console francese. Forse volgeranno molti
anni ancora prima che si pronunci un riposato ed impar-
ziale giudizio intorno alla veneta aristocrazia : a noi basti
intanto l'avvertire il lettore acciochò diffidi del pari, e di
chi l'ha servilmente adulata, e di chi ne fece argomento
di poetiche menzogne e d'ingiuriose invettive.
Qui pure torna opportuno rammentare la distinzione che
dello Stalo Veneto fece uno storico chiarissimo!4), classifi-
cando i popoli che obbedivano al governo di S. Marco in
tre categorie. La repubblica veneta,, scrive Sismondi, era
in certo guai modo composta eli tre nazioni, dei Vene*
zkmij dei popoli di terra- ferma e dei Levantini. Di que-
(1) Sismondi. Sloria delle repubbliche italiane.
- 272 —
•ste tre nazioni, V insigne scrittore dimostrò, come fosse
ben differente la politica condizione: migliore quella dei
popoli di terra-ferma. Infatti gli abitanti di Venezia, per-
chè il governo di tutta la repubblica inlilolavasi dalla città
loro, si risguardavano siccome i dominatori, e se ne tene-
vano; ma per verità, i cittadini veneziani erano politica-
mente divisi in padroni e servi, pochi i primi, moltissimi
i secondi. Le famiglie patrizie avevano arrogato a sé tutti
i poteri sovrani, e n'erano tanto gelose e superbe da non
sopportare che il popolo di Venezia neppur pensasse di
prender parte al governo della repubblica. E perchè non
gli venisse il destro d'ingerirsi negli affari di Slato o di
censurare il procedere di chi comandava, addormentavano
le menti dei cittadini con pubblici e clamorosi sollazzi , e.
tratto tratto spaurivano col mistero di atroci processi. I Le-
vantini , ossia i popoli delle provincie di Levante soggetti
alla repubblica, erano i peggio trallali : il governo veneto
sagrificavali ai commerciali interessi di Venezia, opprimen-
doli barbaramente. Le cose camminavano in diverso modo
pei sudditi di terra-ferma : a questi lasciavasi che si go-
vernassero coi dettami dei loro antichi e particolari statu-
ti; a questi la repubblica era stata liberale di privilegi che
tutelavano le proprietà, l'industria, le finanze dei singoli
Comuni; a questi fu concesso di rappresentare ancora nel
loro interno ordinamento un'immagine, benché sbiadita ,
delle spente repubblichelte lombarde. Aggiungi, che il go-
verno veneto vi proteggeva l'industria, e teneva il clero
assai bene imbrigliato ; aggiungi, che i Visconti ed altri
lirannucci avean naturata nei popoli di Lombardia 1' abi-
tudine dell'obbedire, cui si adattarono per bisogno di quella
quiete che non godettero costituiti in repubblichelte :
quindi ti sarà facile rimaner persuaso, che se i Cremaschi,
i Bergamaschi, i Bresciani ed altri, dell'esser sudditi a Ve-
nezia non avevano motivi per gloriarsi, ne avevano però a
— 273 —
sufficienza per accontentarsi. Ne sia prova la fedeltà eh essi
per più di trecento anni professarono alle insegne di S. Mar-
co; ne sia prova il non aver mai invogliato, iin<» allo scor
cii) del secolo decimottavo, di prender parte a Venezia nel
supremo potere: imperocché essi, come osserva Sismondi,
risguardavansi non Veneziani, ma Cremaschi , Bresciani ,
Bergamaschi. Ed ancora oggidì le citta ex-venete risentono,
più delle altre, le idee dell' antico municipalismo, sono le
piò altere delle glorie del loro Comune, e restringono so-
vente l'amore, gì' interessi, il nome di patria nel circuito
delle mura che le recingono.
Prima di balzare col nostro racconto alla fine del secolo
decimoquinto, e dire le guerre che vi scoppiarono, ram-
menteremo alcuni egregi personaggi che per valor militare
o per dottrina onorarono la città nostra nel corso di que-
sto secolo.
Oltre Venturi no e Guido Benzoni, valentissimi condot-
tieri che resero importanti servigi ora alla repubblica di
Milano, ora a quella di Venezia, rammenteremo Nicolò
Yimercati che militò lungamente sotto Braccio da Montone
e fu assoldato condottiero di fanti e di cavalli dalla repub-
blica fiorentina: Giovanni Frecavalli , che il duca Filippo
Visconti elesse collaterale generale di tutto il suo Stato:
Francesco , Giacomo , Bartolomeo e Tomaso Braguti che
servirono il famoso general Colleoni nelle sue imprese guer-
resche, e vennero da lui rimeritati con militari onorificen-
ze: Bernardo ed Antonio Guoghi, dei quali il primo, com-
battendo neir esercito veneziano, destreggiossi nel 1449
acciocché la città nostra venisse in potere della repubbli-
ca; il secondo ebbe da Nicolò Piccinino la condotta di cento
cavalli, il vicariato di tutti i castelli posti nella Valle di
Taro, e morì in Alessandria governatore. Come guerrie-
ro , merita sopra tutti singoiar menzione Giovanni Delia-
Noce, nato anch'egli patrizio da famiglia, che dicesi estinta
— 274 -
in Crema nel secolo decimosetlimo. La Corte di Napoli fu
il teatro delle sue giovanili avventure. Di lui, ch'era bellis-
simo della persona, invaghì la famosa regina di Napoli,
Giovanna II.a , i favori della quale fruttarono al cavalier
cremasco ricchezze, onori, ed insieme l'invidia dei baroni
napoletani. Morta Giovanna Il.a nel 1455 il Delia-Noce trovò
protezione nel successole re Alfonso I, il quale lo mandò
ambasciatore al duca di Milano nel 1443, poi luogotenente
del viceré Antonio Centelia in Calabria, ove Giovanni si
distinse tanto nelle armi, ch'ebbe dal re Alfonso in guider-
done cinque castelli. Ma il Delia-Noce si palesò perfida-
mente ingrato ai favori compartitigli. Quando il Cen-
telia si ribellò al re Alfonso , Giovanni seguì le parti dei
ribelli, onde Alfonso, domata la ribellione, lo fece catturare.
Processato e convinto di tradimento, Giovanni Delia-Noce
fu ad un pelo di lasciare la testa sul patibolo, se non era
l'ambasciatore del duca di Milano che gli ottenne dal re
Alfonso grazia e libertà. Ritornato in Lombardia, i Crema-
sebi Tanno 1440 lo inviarono con buon nerbo di milizie
in soccorso della repubblica milanese, travagliala alquanto
dalle armi di Francesco Sforza. Spenta la repubblica di
Milano, Giovanni Delia-Noce passò al servizio dello Sforza,
il quale lo creò condottiero di cavalli. Scoppiata la guerra
fra i Veneziani e il duca Francesco Sforza (1452), Giovanni
fu accusato di mantener segrete pratiche col marchese di
Monferrato, nemico anch'egli dello Sforza, quindi il duca
di Milano lo fece, siccome traditore, appiccare a Cremona
nel settembre dell'anno 1452. Giovanni Delia-Noce, amo-
reggiando, combattendo da valoroso, perfidiando all'occor-
renza , recitò molto bene la parte di cavaliere di ventura ;
ma assai men fortunato di tanti altri, finì nelle mani del
carnefice una carriera che aveva incominciata, invidialissi-
mo, tra le braccia voluttuose d'una regina.
Per dottrina si distinsero Beltramino Cusadro , dottore
hi legge, che i marchesi di Mantova e i duchi di Ferrara
onorarono d'importantissimi incarichi valendosi dell'opera
sua por isbrogliare viluppi diplomatici e contese <!i confini;
Agostino e Bernardino Monelli, tenuti in gran pregio dal
re d%Ungheria , ove pei loro talenti furono innalzali alle
principali cariche dello Stato : Agostino Precavalli, che levò
grido d'uomo enciclopedico, dolio in Glosofia, io istoria, in
medicina, il quale scrisse una cronachella latina dellecose
più notabili avvenute nel inondo dalla nascila di Cristo ai-
Panno 1iiS, od un discorso, rimasto inedito, sui pianeti e
sulla fisionomia dell'uomo; Francesco Pallini, notaio, ac-
carezzato nelle Corti di varj principi, di re Alfonso I d'Ar-
ragona, di Francesco Foscari doge di Venezia , di papa
Eugenio IV e di Filippo Visconti , per i quali essendosi
adoperalo assai destramente in affari di politica, fu rimeri-
tato con isplendide ricompense.
Né ommetteremo di far menzione di frate Agostino Ca-
zulo, che abbracciò l'istituto di S. Agostino Tanno 1441.
Oltr' essere predicatore di grido, fu anche scrittore di varie
opere, fra le quali, di un libro Ialino sull'origine dei frati
osservanti la regola di S. Agostino. Bianca Maria Sforza ,
duchessa di Milano, avealo in gran pregio, consultavalo in
affari in Slato e lo mandò ambasciatore a papa Paolo II.
Il P. Agostino Cazulo cooperò in Crema alla fondazione del
monastero di S. Monica, e un altro di vergini ne istituì a
Tortona, sotto il titolo di S. Simone. Fu egli che nel 1447
fece erigere la chiesa di S. Giovan Battista a Crederà, ove
gli Agostiniani possedevano i beni loro lasciali per testa-
mento di Tommaso Vimercati: morì l'anno 1495. Altro dei
Cazuli, di nome Bartolomeo, frate anch'esso agostiniano ,
onorò l'ordine suo, morendo in odore di santità nel secolo
medesimo.
Parecchi cittadini cremaschi, nel secolo decimoquinto,
occuparono in Crema e fuori cospicue cariche: fra questi
— 276 -
Pantalcone Zurla, da modesto frate francescano innalzalo
l'anno 1415 vescovo di Secca nel regno di Napoli; Erasmo
Bernardi, fatto vescovo Ariense da Alessandro IV; Agostino
Benvenuti, cavaliere e giureconsulto, stato podestà di Cre-
mona, e il primo lettore di giurisprudenza in Crema i1'; e
Francesco Vimercati, anch' egli dottore e cavaliere, podestà
a Mantova, a Lucca, a Firenze.
Nel maggio del 1482 i Veneziani, alleatisi col pontefice
Sisto IV, ruppero guerra ad Ercole d'Este duca di Ferrara,
allegando l'infrazione di certi loro diritti giurisdizionali nei
dominj estensi. Era un pretesto col quale Venezia palliava
il disegno, concertalo col pontefice, di annichilire la potenza
di Casa d'Este per ispartirne poi fra di loro gli Stali. Nella
lega contro il duca di Ferrara associaronsi il marchese di
Monferrato, la repubblica genovese, e Pietro De Rossi conte
di S. Secondo. Parteggiavano per gli Estensi il duca di Mi-
lano, i Fiorentini, Ferdinando re di Napoli, il marchese di
Mantova, e Giovanni Bentivoglio, capo della repubblica bo-
lognese. Per tal modo l'Italia si divise in due grandi leghe,
e la guerra minacciava di estendersi su lutti i punti della
penisola. Crema, essendo fortezza di molla importanza,
posta ai confini del dominio veneto, correva pericolo d'es-
sere assalita dal duca di Milano, perciò vi fu messo a pre-
sidiarla Faccenda Sanse\ crino, figlio naturale di Roberto
che avea la condona dell'esercito veneziano. Le sorti della
guerra arridevano ai Veneziani, tanto che il pontefice adom-
brandosi dei vantaggi ch'essi riportavano negli Stati Esten-
si, staccossi improvvisamente dall'alleanza della repubblica,
ed a deporre le armi la consigliava. Alle insinuazioni del
pontefice Venezia non piegò, ond'egli in un impeto d'ira
violentissima sfolgorò contro la repubblica l'interdetto. Non
(1) Vedi nell'archivio municipale di Crema le parti prese dal Consiglio
dei cittadini l'anno J 4 6 6 .
per questo i Veneziani cessarono le ostilità contro gli Esteti
si, e in onta ili Sisto IV risolvettero di continuare anche
ila ioli la guerra.
(ili alleali del duca ili Ferrara, nell'anno successivo (1483),
affine di abbattere la baldanza dei Veneziani, tennero i Cre-
mona un congresso, ove deliberarono sul modo ili ado-
perare di concerto le forze loro, e volendo pur disto-
gliere il marchese ili Monferrato dall'alleanza veneta, an-
nodarono con lui segrete pratiche. Ma il Senato ili Venezia
ne fu reso consapevole per mezzo ili Compagno Benzoni, pa-
trizio cremaseo che aveva un figliuolo ili nome Francesco,
irate minori laoo, alquanto pregiato e favolilo nella corte
del marchese di Monferrato. Il frate scoprì le brighe dei
nemici di Venezia e ne informò il genitore, che aflYcttossi
di denunziarle al senato. Compagno Benzoni, di quest'im-
portante servigio reso alla repubblica, venne guiderdonato
con un annuo assegno di cinquecento ducali e con la no-
biltà \ anela, che fu concessa a lui e a lutti i suoi di-
scendenti.
Sapeva male ai Cremaschi che Venezia si ostinasse nella
guerra contro il duca di Ferrara ed i suoi alleali, paven-
tandone funeste conseguenze. Non eh' essi di paventarle
avessero buoni argomenti, ma superstiziosi com'erano i
padri nostri, presagivano a sé stessi gravi disastri da quella
guerra, perchè un fulmine avea a Crema percossa la torre
del duomo, e perchè sul governo di Venezia pesava V in-
terdetto pontificio. I Veneziani, prevedendo il pericolo che
gli Sforzeschi invadessero il territorio cremasco, non tras-
curarono gli opportuni provvedimenti a maggior sicurezza
della città nostra. Marino Leoni, allora podestà in Crema,
ail'orzò con nuovi ripari le trincee eh' erano intorno a
Crema, ed entrato in sospetto che alcuni cittadini delle
più illustri famiglie ghibelline cospirassero contro Vene-
zia, di notte tempo li chiamò al suo palazzo, e senz'ai-
— 278-
cuna formalità di processo li fece deportare. Avendo poi i
fratelli Sanseveriho disertato dalle bandiere di S. Mar-
co, vennero a Faccenda Sanseverino sostituiti nel presidio
di Crema il cavaliere Bartolino Terni con quattrocento
fanti, Francesco Griffoni, comunque trilustre giovinetto, con
trecento, e Giovanni Antonio Scariotto con quattrocento
cavalli.
Il duca di Milano, o per dir meglio, Lodovico Sforza
che reggeva a nome del nipote minorenne, violò ostilmente
i confini dello Stato veneziano, mirando principalmente a
conquistare le terre del Bergamasco e del Bresciano. Quan-
tunque gli Sforzeschi facessero la guerra assai fiaccamente,
nondimeno il nostro territorio venne molestato da frequenti
scorrerie. Cadde in potere degli Sforzeschi la torre di Gab-
biano, alla cui difesa la vedova di Matteo Griffoni avea po-
sto certo Monlemaglio. Avendo egli quella torre ceduta ai
nemici senz'opporre alcuna resistenza, il podestà di Crema
rimprocciò aspramente la vedova Griffoni perchè ne avesse
affidato la guardia a vilissimo soldato: ed ella, per gli amari
rimproveri del podestà e per la cessione della torre di Gab-
biano, accorossi tanto che ne morì.
Gli Sforzeschi, scorrendo sul nostro contado, sconlraronsi
più d'una volta colle milizie che presidiavano Crema: av-
vennero delle scaramuccie ove parecchi soldati del duca di
Milano rimasero prigionieri. Narrano le nostre cronache
come Marcolino e Guarino, figli naturali di Matteo Griffoni,
si compiacessero d'imbizzarrire barbaramente nel marto-
riare i prigionieri. « Marcolino Griffoni ad alcuni appiccava
» lo spago ai denti e legavalo ad una freccia di balestra di
» modo tale che, scaricandosi la balestra, se gli svelleva il
» dente di bocca. Ad alcuni altri, stesi su una tavola colla
» pancia insù, pendendogli il capo giù della tavola, metteva
» calcina viva sfiorata nelle narici, tormento pel vero molto
» crudele ed intollerabile ^lh » A Marcolino Griffoni venne
(1) Fino. Storia di Crema.
— 271) —
poi commessa la guardia del castello di Misano io Ghiara
d'Aihla preso agli Sforzeschi : Marcolino lo pose a sacco e
se oe lornò a trema ricco di bollino.
La guerra degli alleati del duca di Ferrara conico la
repubblica veneta, quantunque continuasse (ino air agosto
del 1484, fu sul terreno lombardo combattuta assai mol-
lemente: i l'aiti d'arme più clamorosi succedettero negfi
Slati Estensi e nel Napolitano con vantaggio dei Veneziani.
Le scorrerie degli Sforzeschi nel territorio cremasco sono
di questa guerra minuti enisodj die alla storia passarono
inosservati. Noi, tacendo ili parecchi, non possiamo ommet-
tere di rammentale un'ardita impresa di Barlolino Terni ,
il cui nome grandeggia ancora nella memoria del popolo
cremasco, il quale udimmo sovente raffigurarci in Barlolino
Terni un eroe, sebbene non fosse che un prode e corag-
gioso capitano.
Era una nolle di giugno dell'anno 1484: truppe sfor-
zesche s' accostarono improvvisamente sotto Crema. Un
grosso drappello, schieratosi rimpetto alla Porta Ombriano,
provocava con ingiuriose paiole i Cremaschi ad uscir fuori
e venire a battaglia : altri drappelli si erano nascostamente
appostali alle altre porle della città , sperando assalire di
sorpresa le nostre milizie, qualora \i sboccassero, per ri-
spondere colle armi ai nemici che le provocavano. Barto-
lino Terni, capitano sagace quanto ardimentoso, accortosi
del tiro insidioso che a lui giocavano gli Sforzeschi, risol-
vette di respingerli, ma irrompendo da Crema per una via
eh1 essi, non conoscendo, avean lasciato sgombra d'insidie,
e per tal guisa farsi aggressore contro coloro che pensavano
di aggredirlo. Era a quei tempi nella parte settentrionale di
Crema un luogo detto le Torrette, ove per un canale, passando
sopra barche, polevasi uscir fuori della città. Cartolino Terni
con quanti soldati erano in Crema, con gran copia di trombe
e di tamburi, sboccò per questa via, e si spinse contro gli
— 280 -
Sforzeschi quand' essi men se V aspettavano, sollevando nel
silenzio di quella notte colle trombe e coi tamburi un fra-
gore spaventoso. Intanto i cittadini accorrevano, con grande
apparecchio di lumi e strepito d'armi, sulle mura, fingendo
di voler calare il ponte della Porla Ombriano per gettarsi
addosso alle schiere nemiche. Quello strepito infernale di
bellici istrumenti, queir improvviso apparire ed agitarsi
fra le tenebre di tante fiaccole accese, avean, per dir vero,
del teatrale: ma sull'animo degli Sforzeschi produssero un
effetto ben diverso; le loro fantasie rimasero colpite di ter-
rore. Dal bagliore di tanti lumi, da tante armi, trombe e
tamburi strepitanti, gli Sforzeschi , centuplicando nell'im-
maginazione il numero dei nemici, argomentarono che i
Cremaschi piombassero loro addosso ad ischiacciarli con
forze poderosissime, perciò si abbandonarono a precipitosa
fuga. Quarantaquattro caddero prigionieri nelle mani dei
Cremaschi: Cartolino Terni il giorno successivo liberavali,
facendoli uscire di Crema disarmali e con una bacchetta
in mano, fra le risale e le beile della popolazione.
La guerra dei Veneziani col duca di Ferrara cessò Tan-
no 14-86 mediante il trattato di pace del 7 agosto, obbli-
gandosi il duca d'Este di reintegrare i Veneziani nel pos-
sesso delle loro ìriurisdizioni sul Ferrarese, e di ceder loro
il Polesine con lutto il territorio di Rovigo.
L'anno 1487 il podestà Bernardo Barbarigo propose ai
nostro Concilio generale di rifare le mura di Crema, eccil-
lando con isfarzosi argomenti la Comunità a sostenere il
terzo della spesa. La proposta del Barbarigo fu rifiutata,
non volendo i Cremaschi, conformemente a quanto avevan
chiesto Fanno 1440 nei palio ventunesimo della capitolazione,
che la città loro sopportasse parte alcuna della spesa. Ma
il podestà con astuti raggiri conseguì l'intento di recinger
Crema di nuove fortificazioni ed accollare al Comune il
terzo dell'ingente somma d'oro che a sì grand'opera richie-
— sai —
devisi. Il giorno 24 maggio del 1488 s' incominciò i dar
mano all'eresione delle nuove mura. Precedettero ai lavori
k solennità eh* erano di costume: il clero iniziò la fabbrica
inni religiose cerimonie, cantando messa in duomo e bene
dicendo sci pietre: delle quali il podestà, con bianco grem-
biale e cazzuola in mano, poso le primo duo, la terza il
prevosto del duomo, la quarta Lionardo Zurla, siccome ini-
ziano (Va i provveditori della città: le ultime duo vennero
poslo runa da Gian Antonio Terni, vicario in Cicilia del
vescovo di Cremona, l'altra da Andrea Robatti, vicario del
vescovo di Piacenza. La fabbrica durò ventanni e costò
circa centoventimila ducati: né men tempo e men danaro
bisognava a compire quest'opera ammiratissima , per la
quale alcuni scrittori del secolo decimosesto, descrivendo
l'Italia, posero Crema fra i paesi meglio fortificali della
nostra penisola (*). Collo ricostruzione delle mura scom-
parve quella palude clic prima cingeva la città nostra dal
Iato settentrionale, ed cralc di naturale difesa. L'Alcmanio
Fino scrive : « Era già falla la nuova muraglia dattorno
» Crema, da verso tramontana in fuori, quando Pietro Lo-
» redano, allora podestà della terra, per dar esito alle acque
» delle vicine paludi, le quali impedivano la fabbrica, fece
» cavare il vaso del Trevacone, sopra cui fece tre bellis-
» simi ponti, i quali furono poi per le guerre in parte ro-
» vinati. Non si cavò questo vaso né vi si fecero sopra i
» ponti che si spendè meglio di dieci mila ducati. »
Correndo Fanno 1490, il tragico caso di Caterina degli
liberti , piissima donna, diede origine al tempio di S. Ma-
ria della Croce, bellissimo fra quanti adornano il suolo
cremasco. Caterina , figlia di Bartolomeo degli Ubarti cit-
tadino cremasco, erasi maritata con Bartolomeo Contaglio,
(i) Sansovino nel suo libro intitolato: Delle pili noblìi ciltà d'Haliti, i!i<r
che erari tre le maggiori fortezze della nostra penisola: Barletta in Romagna,
Prato in Toscana, Crema in Lombardia.
19
— 282 —
bergamasco, il quale mostra vasi fieramente indignalo coi
parenti della consorte perchè indugiavano a pagargliene la
dote. 11 Contaglio, uom rotto ad ogni sorta di ribalderie,
era incorso nella pena del bando, per cui Calerina viveva
in Crema, lungi dal marito, nella casa de' suoi fratelli. Un
giorno Bartolomeo venne inaspettato a visitarla, ed addu-
cendo d'essere stato liberato dal bando, disse alla moglie
che la volea condurre a Bergamo. StìlF imbrunire del gior-
no o aprile (1490) il Contaglio usciva da Crema per la
Porta Pianengo, togliendosi la moglie sulla groppa del suo
cavallo. Giunto a mezzo miglio fuori della città, in un campo
detto dei Novelletti, ove incrociavansi tre strade, l'una delle
quali menava a Pianengo, Bartolomeo Contaglio ferma im-
provvisamente il cavallo, ne discende e costringe la moglie
a fare lo stesso. Poi, strappali a lei con violenza gli anelli
che portava nelle dita, mette mano alla spada, e vibra
sulla moglie colpi brutali , lacerandone il corpo con ben
quattordici ferite. Lordo dell' immanissimo assassinio , lo
scellerato fugge lasciando Caterina semiviva sul terreno,
tutta immersa nel proprio sangue. Narrasi che l'infelice, fra
gli spasimi delle crudelissime ferite, trovandosi in mezzo
alle tenebre, in luogo deserto e priva d'ogni umano soccorso,
pregasse d'aiuto la Vergine Maria, cui professava teneris-
sima divozione. Narrasi che la Madre del Divin Redentore,
ascoltando la preghiera della sua fedelissima serva, sia ap-
parsa a Caterina sotto sembianze di una poverella, e la con-
ducesse ad un vicino casolare ove la meschina fu amorosa-
mente ospitata da un'onesta famiglia di conladini. Nel giorno
successivo Caterina degli liberti moriva, santa dei patiti do-
lori e di pia rassegnazione.
Per la città nostra e pei vicini paesi divulgossi l'atroce
caso di Caterina, divulgossi eziandio la voce che la Vergine
Maria apparisse a confortarne gli ultimi istanti. Immensa
moltitudine di persone, spinta da religiosa fede, accorse sul
— aa —
rampo dei Novelletti per cercarvi e baciare le orme «l i \ in**
della Madre del Redentore. Né andò guari che ai aparse la
l'ama di nuovi celesti prodìgi, i quali dicevansi avvenuti sul
campo medesimo dei Novelletti per l'implorato soccorso
della Vergine Maria, quindi rendevasi ognor più generale e
più salila la fede nella miracolosa apparizione della Regina
de' Cieli a Caterina degli Uberli: il nostro podestà Nicolò
Friuli , che dapprima se ne dimostrava incredulo, finì col
rimaner anch' esso persuaso del miracolo. I moltiplicati
prodigi accrebbero venerazione al luogo che n'era stalo il
teatro, e generosissime vi piovevano le offerte dei divoti.
Raccoltasi dalle fatte oblazioni somma d'oro copiosissima ,
si pensò ad erigere sul campo dei Novelletti un magnifico
tempio che perpetuasse la memoria della miracolosa ap-
parizione della Madre dei tribolati a Caterina liberti : fu
perciò eletta una commissione la quale presiedesse alla fab-
brica del nuovo tempio: la componevano Francesco Yimcr-
cali dottore e cavaliere, Andrea Martinengo, Pagano Ben-
zoni, Cristoforo Benvenuti, Giacomo Zurla e Antonio Ma-
razzi, non che i tre provveditori della città, ed il vicario
del vescovo (\i Cremona Gioan Antonio Terni. L'edificazione
del tempio fu incominciata addì 17 luglio del 14-95 con di-
segno di Giovanni Batacchio architetto lodigiano, e recata
a compimento Fanno 1500 da Gio. Antonio Montanaro, in-
gegnere cremasco i*).
Nel 1494 Carlo Vili, re di Francia, istigalo principal-
mente da Lodosico Sforza, scese col suo esercito in Italia
per far valere, qual successore della Casa d'Anjou, diritti
che millantava sul regno di Napoli. La repubblica veneta ,
ben loutana dall'adottare una politica nazionale al cospetto
(1) Intorno al miracolo ed all'erezione del tempio di S. Maria della Croce,
chi per avventura bramasse raccogliere minute notizie, legga l'erudito libro
che pubblicò in proposito il nostro vesco\o Antonio Ronna.
— 284 —
di un monarca forastiero e vago di conquiste, s'era dichia-
rata neutrale. Ma dopo che il re de' Francesi ebhe trascorsa
T Italia ed occupato senza contrasti il reame di Napoli, i
potentati italiani insospettirono ch'egli nel bacio della for-
tuna fantasticasse d'impadronirsi di tutta la penisola. Lo-
dovico il Moro mutò politica, e i Veneziani gli si allearono,
obbligandosi di allestire un grosso esercito da sventare gli
ambiziosi disegni del re Carlo Vili. La repubblica allora
stipendiò capitani di molto grido per affidar loro la con-
dotta di numerosa cavalleria: fra questi gli annali veneti <*)
ci menzionano due cremaschi, Angelo Francesco Griffoni e
Socino Benzoni, condottiero l'uno di ottanta, l'altro di cin-
quanta cavalli. Ambedue combatterono la battaglia del Taro,
sulla quale contendono ancora gli storici a chi sia toccata
la vittoria. Vero è però che la repubblica, quantunque su-
pcriore di forze ai Francesi, vi perdette un buon numero
di soldati, e che le indisciplinale milizie de' suoi stradiolli,
più che al combattere, attesero a bottinare. Fra i valorosi
guerrieri della veneta repubblica si distinse in quella bat-
taglia il nostro concittadino. Lodovico Virae reati, il quale vi
riportò tredici ferite, onde nell'esercito veneziano si meritò
il grado di capitano, che mantenne con onore fino agli ul-
timi anni di sua vita.
Pochi giorni dopo la battaglia del Taro capitò a Crema
un soldato stradiotto menando un carriaggio depredato ai
Francesi, sopra il quale si trovò un forziere contenente
scritture che appartenevano al re di Francia (2. Fra queste
Domenico Benedetti, allora podestà di Crema, scoperse
una bolla apostolica di papa Alessandro VI indirizzala al
re Carlo Vili, con cui n'encomiava il disegno di scendere
in Italia e promettevagli vettovaglie e libero passo negli
(i) Malipieri. Annali veneti pubblicati nell'Archivio storico del Vieusseux.
(2) Idem.
— 988 —
Stali della Chiesa. Vi si rinvennero eziandio lettere durali di
Domenico Trevisan e di Antonio Loredano spedile al re
di Francia; documenti latti coi «piali Carlo Vili poteva
pastificare la sua venula in Italia. Pur troppo quest'in-
vasione di Francesi fu provocata da governi italiani : colpa
per essi incancellabile, se consideriamo quanti gravissimi
mali ei ha costato; incancellabile, abbenchè coloro clic la
commiscro se ne pentissero dappoi, cil accorgendosi clic
con improvvida politica compromettevano la nazionale in-
dipendenza abbiano per un istante accomunale le forze
loro onde smorbare l'Italia dallo straniero.
L'anno 1493 la nostra Comunità chiamò in Crema a pre-
dicare Bernardino da Feltre, il benemerito promotore del-
l'istituzione dei Monti di Pietà. Il santo monaco predicò
da un terrazzino, nella pubblica piazza, come allora costu-
mavano gli ordini religiosi (l\ Però il Monte di Pietà ebbe
in Crema principio tre anni dopo a persuasione di frate
Michele d'Aquis dell'ordine dei Zoccolanti ^) (1496). In
que' tempi, quando i poveri bisognavano di danaro onde
soddisfare alle necessità della vita , erano costretti ricor-
rere per prestazioni agli Ebrei , i quali speculavano bar-
baramente sui venerandi cenci delle classi più sofferenti.
Sia lode ai frati zoccolanti che spesero la parola del Van-
gelo a sollievo del povero, che per liberarlo dall'op-
pressione di quelle arpie persuasero i Comuni ad istituire
i Monti di Pietà. E sia pur lode ai Cremaschi che uno ne
fondarono nella città loro con isplendido esempio d'animo
liberale. Affinchè tutti condonativi concorressero a fon-
dare il pio Istituto, furono invitati i cittadini a fare pub-
blicamente le loro offerte; ed essendo quattro le porte
della città nostra, si considerò la popolazione siccome di-
(i) Vedi nel documento C, un brano di predica che il santo da Feltre re-
citò sulla piazza di Crema.
(2) Fino. Storia di Crema.
— 286 —
visa in quadro quartieri , e venne stabilito che ciascuna
porta o quartiere in giorni determinali facesse separata-
mente le sue oblazioni. Sorse quindi nobilissima gara fra i
cittadini delle diverse porte, e le ultime a recare l'offerta
procurarono con ricchezza e copia di donativi di superare
in generosità le prime. Sontuosi , di vario genere , e biz-
zarri furono i doni, ma più bizzarro ancora l'apparalo con
cui vennero portati al luogo ove si raccoglievano. Erano
tempi nei quali pigliavasi d'ogni cosa pretesto a feste cit-
tadine, a pubblici spettacoli, tempi ove le fantasie delizia-
vansi di colpire lo sguardo delle moltitudini con isfarzosc
e strane rappresentazioni. I Cremaschi praticarono un'opera
di carità con pubbliche mascherate di tal sorta che a' no-
stri giorni non sarebbero tollerate neppure in carnovale.
I cittadini di ciascuna porta recarono le offerte loro sopra
carri trionfali, addobbati magnificamente, seguiti da un co-
dazzo di cavalieri con abili sfolgoranti e di vario costume.
Sopra i carri tu vedevi simboleggiate, come in un teatrone
scene più sublimi del Vecchio e del Nuovo Testamento,
con le quali si mescolavano gli scherzi e le lascivie della
mitologia. Vedevi comparire la Beata Vergine, il Redentore,
gli Apostoli, S. Pantaleone, poi il giovinetto Paride colle
tre Dee ignude, ed Apollo con le nove Muse: qui fantasie
pagane attinte nei sogni d'Omero e d'Ovidio, là i misteri
della divina redenzione, e i miracoli dei santi: l'Olimpo e
il Golgota , Venere e Maria. Questo inverecondo e strano
accozzamento delle immagini pagane colle più venerate
della cristiana religione ci palesano i costumi di quell'età
corrotta e ad un tempo superstiziosa, ci attesta una ricru-
desccnza del paganesimo, per cui gli ingegni nelle arti e
nelle pubbliche rappresentazioni fornicavano con le idee
mitologiche anche nei soggetti i più severi, i più santi. Ti
risovvenga come sul finire del secolo decimoquinto il nudo
abbondasse sull'austera maestà delle tombe, e fin nelle
— i>S7 —
cappelle dei pontefici; ti risovvenga come si ponessero I**
tre Gratis ignudo nella sacrestia dd Duomo di Siena, e
poi non li prenderà meraviglia leggendo il Terni ove sono
minatamente descritte le varie rappresentazioni eolle quali
i nostri padri sbizzarrirono, pompeggiando in larghezze,
per istituire in Crema il Monto ili Pietà ^4). Le varie offerte
produssero una somma di dodici milae cento ventidue Uro,
la quale aumentossi Tanno 1505, quando ai conforti di
frale Giacomo di Padova, del? Ordine pure dei zocco-
lanti, con mille belli' rappresentazioni si fecero molle
altre ricchissime offerte11'. Quindi il nostro Monte c!i Pietà
in pochi anni fi trovò avere trenta mila lire: impinguò
in appresso coi beni lasciatigli da Michele Cerri che nomi-
nola suo erede universale, e con altri moltissimi legali di
benefattori.
Merita considerazione la copia d'oro che i Cremasela
profusero nel corso di pochi anni. Nel menlre concorre-
vano per una terza parte all'ingente spesa della ricostru-
zione delle mura, fondossi nella terra nostra il magnifico
tempio di S. Maria della Croce ed il Monte di Pietà, e quasi
contemporaneamente sorsero in Crema altri sontuosi edi-
fìci. Fu ingrandita la piazza, abbellendola dell'arco che si
chiama volgarmente Torrazzo, il quale vuoisi fosse costrui-
to (3) sotto la direzione del famoso architetto Bramante. E
a pochi passi della piazza Socino Benzoni innalzava un
palazzo; un altro, Cristoforo Benvenuti nella contrada dei
conti di Offanengo ,4\ ed un altro ancora il cavalier Bario-
lino Terni sull'area dello spianato castello d'Ombriano,
(1) Terni. Storia di Crema.
($) Fino. Storia di Crema.
(3) Raccheto. Annotazioni alia Storia dell'Alemanio Fino.
(4) Questo palazzo, di cui accenna il Crescenzi nel Presidio romano, fu in
proprietà della famiglia dello scrittore di questa storia fino al 1837, in cui
venne demolito. Il palazzo eretto da Socino Benzoni é ratinale casa Martini.
— 288 —
parte della quale il nostro Comune donò a quel valoroso.
Crema adornavasi a un tratto di palazzi, di tempi?, di mura
robustissime, di pie istituzioni: e i forestieri agognavano
la cittadinanza cremasca e molti venivano a domiciliarsi
sul nostro suolo. Fu intorno alla metà del secolo decimo-
quinto che si piantarono in Crema molte cospicue fami-
glie, i Griffoni venuti dalla Romagna, i Datlarini prove-
nienti dal Napolitano, i Tadini e gli Amani, ambedue pro-
sapie bergamasche, ed un ramo dei marchesi Pallavicino
di Cremona, ed un ramo dei Soardi di Bergamo, e i Gui-
doni venuti da Padova, e i Figati e i Cotta da Milano. Ciò
ti porge fortissimo argomento a conghietturare che nei
primi cinquantanni del veneto dominio fosse ben prospe-
rosa la condizione di Crema. Quantum mutala ab Ma!!
A' nostri giorni i palazzi vi si demoliscono, tante facoltose
famiglie vi disertano, e la popolazione va ognor più de-
crescendo !!
A Carlo Vili era successo nel trono di Francia Lui-
gi XII (1498), il quale, perchè discendeva da Valentina
Visconti, smaniava di togliere a Lodovico Sforza il ducato
di Milano. I Veneziani, che pochi anni prima avevano guer-
reggiato Carlo Vili, sottoscrivono nel febbrajo del 1449
il trattato di Blois con cui riconoscono i vantati diritti di
Luigi XII sul Milanese, si obbligano a spalleggiarlo con 1509
cavalli e 4000 pedoni nella conquista del ducato, e si fanno
promettere in ricambio Cremona e la Ghiara d'Adda. Con
questo trattato Venezia e Luigi XII spartivansi i possedi-
menti di Lodovico Sforza innanzi di conquistarli,, e la re-
pubblica di S. Marco, agognando al misero acquisto di
Cremona e della Ghiara d'Adda, si rese per la seconda
volta complice di un'invasione francese in Italia.
Nell'agosto del 1499 le truppe venete, di conserva con
le Francesi, irrompono nel territorio Milanese: Socino Ben-
zoni, condottiero di cavalleggeri veneziani, passa l'Adda a
— 289 —
guano e t'impadronisce di Lodi.- Luigi XII, compiuta io
tenti giorni la conquista del ducalo di Milano, cede alla
repubblica veneta Cremona e la Gbiara d'Adda. I Veneziani,
con tali acquisti ampliati i loro confini, allargano la giuri-
sdizione della provincia cremasca, aggiùngendovi Pandino
e la parte orientale ilei Lodigiano, onde i Cremasela man-
darono Gottifredo Alfieri vicario a Dovcra.
Da quest'epoca incomincia ad occupare un posto impor-
tante nella storia di Crema Socino Benzoni. Ricco e su-
perbo patrizio, peritissimo nelle armi, militava condottiero
ili cavalli sotto le insegne di S. Marco. Pugnò nella balta-
glia del Taro, fu mandato dai Veneziani in soccorso di Pisa
guerreggiata dai Fiorentini, e nel 1 499 guazzò, come di-
cemmo, il fiume Adda ed imposscssossi di Lodi. L'an-
no 1500 Socino, trovandosi colla sua compagnia di caval-
leggeri a Piacenza, vi fece prigioniero il cardinale Ascanio
Sforza, vescovo di Cremona, che vi si era rifugiato abban-
donando Milano dopo che il fratel suo Lodovico il Moro
cadde in potere dei Francesi. Con Ascanio erano molti no-
bili milanesi delle più cospicue famiglie ghibelline, e non
pochi prelati del corteggio del cardinale medesimo: traditi
da Corrado Landi, che gli aveva ospitati in un suo castello,
caddero tutti nelle mani di Socino Benzoni che tanti illu-
stri prigionieri ricevette dal Landi in consegna a nome del
re di Francia. Socino menò i prigionieri a Crema, ove il
cardinale Ascanio fu chiuso nel palazzo di Ottaviano Vi-
mercati, gli altri in castello. Il Benzoni ricevette da Vene-
zia una lettera ducale con cui gli si inculcava di tenere
ben guardato il cardinale siccome prigioniero d'altissima
importanza. L'abate Gioan Antonio Terni si adoperò in
quell'occasione per sovvenire di danaro e di biancherie il
cardinale (di cui egli era vicario in Crema), ed offrì a Soci-
no venticinque mila ducati , purché lasciasse fuggire gli
altri prigionieri : ma il Benzone, sperandone maggior te-
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glia, non volle fai' nulla (*). Avendo il cardinal Ascanio
ricusate le generose offerte del suo vicario, questi impiegò
trecento ducali nel fornir d'abili gli altri prigionieri, i quali
si trovavano assai male in arnese, essendo stati derubati
d'ogni cosa quando fuggirono da Milano : v'eran fra gli al-
tri dei vescovi senza cappa ed in farsetto (2) .
I prigionieri dimorarono in Crema breve tempo: si ordinò
a Socino Benzoni di condurli a Venezia, ove appena ar-
rivali, l'ambasciatore francese domandò al senato che a
lui si consegnasse il cardinale Ascanio, mostrando lo scritto
con cui Socino, quando lo catturò a Piacenza, dichiarò di
farlo prigioniero a nome del re di Francia. L'ambasciatore
francese avendo usato nella sua inchiesta parole superbe
e minacciose, la repubblica cedettegli non soltanto il car-
dinale, ma tutti gli altri prigionieri: ed a Socino Benzoni
diede nuove dimostrazioni di fiducia, aggiungendo cento
lancio ai cento cavalleggeri di cui era condottiero.
Fin qui Socino Benzoni avca menata una vita splendida
e avventurosa: a lui cospicui gradi nella milizia, a lui for-
tunati successi e fama di valoroso nelle battaglie, a lui co-
pia di ricchezze avite e chiarissimi natali. Ma la capric-
ciosa fortuna non indugiò a farglisi avversa. L'anno 1504
venne a Crema podestà Gian Paolo Gradenigo , uom su-
perbo, vendicativo e nimicissimo del Benzoni per acerbe
parole che Socino e il Gradenigo si palleggiarono a Pisa,
quando trovaronsi in quella città , l'uno qual duce di ca-
valleggeri, l'altro qual provveditore delle milizie veneziane.
Ambidue eran gentiluomini temperati con lo stile di quei
tempi, non dimenticavano, non perdonavano un accento,
un atto che sapesse d'oltraggio. Quindi il Gradenigo, tro-
vandosi a Crema podestà, si valse dell'occasione che sog-
(1) Alemanio Fino. Storia di Crema.
(2) P. Term. Storia di Crema.
— 991 —
giornava puro a Crema Socino co* suoi Boldati, ondo isfo
pire contro di lui il veleno dell'ira non ancora sbollila,
d'un;! vendetta lungamente anelata. Cominciò col sindar
carne severamente il contegno, col circondarsi de1 suoi ne-
mici, che molti no aveva a Crema il Benzoni, particolar-
mente fra i nobili, fosse che l'invidiassero perchè riputalo
e potente, fosso che l'avessero in abbominio perchè orgo-
glioso e prepotente. Né mancarono appigli ai nomici del
Benzoni da involgerlo in un processo criminale. Il Grade-
nigo accusò segretamente Socino divari misfatti, ed il Con-
cilio dei Dieci mandò a Crema un suo segretario, Viccnzo
Guidetto, acciocché col più profondo mistero istituisse un
processo sulla condotta del Benzoni. La comparsa d'un se-
gretario del Concilio dei Dieci, non conoscendosene il mo-
tivo, avea scompigliati di meraviglia e di terrore gli animi
dei Cremaschi. Come il Guidetto ebbe compito il suo tene-
broso processo, la Signoria scrisse a Crema una lettera con
la quale chiamavansi a Venezia Socino Benzoni e Lodovico
Vimcrcati, e nella lettera dicevasi, per cose importantissime
allo Stalo. Con Socino chiamossi il Vimercati, perchè es-
sendo egli condottiero di cinquant' uomini d'armi, il Ben-
zoni credesse che si trattasse d'affari di guerra, e non en-
trasse in sospetto del vero motivo per cui lo si tirava a
Venezia. Arrivatovi, Socino venne tosto cacciato in carcere,
indi gli si lessero i punti d'accusa risultanti dal processo
contro lui compilato. Lo s'incolpava di commessi omicidi,
di abuso di potere, e sopralutto di un atto di sovranità da
lui esercitato ne' suoi poderi, per avervi fatto piantar delle
forche sopra un'alta catasta di legna. Socino Benzoni non
seppe, o come apparisce dal Terni, non potè difendersi
dalle colpe che gli si adossavano: se per lui non interce-
devano presso il Concilio dei Dieci i parenti di sua mo-
glie, ch'era dei Martinengo di Brescia, correva pericolo d'es-
sere condannato nel capo. Venne invece pronunciata sen~
— 292 —
lenza che lasciava in arbitrio di Socino medesimo la scella
della pena fra queste tre: o cinque anni di carcere, o dieci
di confine a Candia, o quindici pure di confine a Padova.
Preferita quest'ultima, Socino portossi con la sua famiglia
a Padova. I sopraggiunti avvenimenti politici diminuirono
poi al Benzoni la durata della pena, essendone stato assolto
Fanno 1509, allorché la famosissima lega di Cambrai mi-
nacciò d'eccidio la veneta repubblica.
Ci è mestieri discorrere un po' diffusamente di questa
lega, perochè forma un'epoca di circa otto anni, calamitosa
per la città nostra, feconda nella storia italiana di tristis-
simi e importanti avvenimenti.
993
DOCUMENTI.
Documento. A
Capitoli in Adoptione Domi m 'j V. li.
* Venendo all'obbedienza e divozione della Repubblica Veneta li
■ huomini di Crema, et promettendo di dare la terra alla sudettaEe-
» pubblica, sono stati dimandati l'infrascritti privilegi! et capitoli, so-
■ pra i quali è stato risposto come segue:
» I. Che tutti gli habitanti in Crema sieno salvi et illesi negli averi
- e nelle persone, nonostante alcune vendite, donationi, alienationi ,
- e altra translatione fatta a pregiudizio di essi, ne etiandio alcuno
- ordine o preseritione , ovvero altra cosa in contrario. — Tutto ciò li
•• vion eoi: cesso.
» II. Che tutti li delitti commessi per qualsivoglia persona di Crema
» o suo territorio da qui indietro sieno perdonati et absolti. — Si con-
é cede come dimandano.
n III. Che per qualsivoglia danno, demolizione di chiese, case, fatte
» dal giorno presente in dietro non puossa essere convenuta la Com-
» munita né altra persona. — Si conceda come dimandano.
a IV. Che ogni persona della terra et suo distretto forastieri e sol-
n dati habitanti in essa debbano essere salvi nelli baveri, et volendo
» partire, loro sia concesso salvacondotto. — Se li concede anche que-
r sto, riservatili ribelli, quali doveranno in termine di giorni quindici
n partir dalla terra , li altri poi volendo partire li sia termine un mese,
n eccettuato il commissario et referendario , de' quali si dirà più abasso.
<• V. Che gli Ebrei habitanti in Crema siano salvi nelle persone, e
* per li pegni che riavessero appresso loro, et sieno trattati come li
n cittadini di Crema. — Se li concede questo quinto Capitolo con la
» condizione più abasso notata.
r> VI. La sale che si venderà in Crema sia venduta a quel prezzo si
* venderà negli altri luoghi della Serenissima Repubblica. — Nel fatto
n del sale saranno trattati li Cremaschi conforme li Bergamaschi.
- 294. —
» VII. Che tutti gli habitanti in Crema e suo Distretto sieno esenti
» dall' Imbotadi di biade, vino, fieno per anni venti avvenire, et in
» perpetuo sieno esenti di taglie, prestiti, sussidj, imposizioni, angarie
ned' ogni altro aggravio reale e personale. — Questo fu rimesso alla
» benignità della Serenissima Repubblica.
» Vili. La Roggia Comune , con tutte le sue ragioni di acque, fon-
» tanili, siano con piena ragione et in perpetuo degli uomini di Crema.
n — Se li concede cimi onere et honore.
» IX. Che per li ruolini, folle, reseghe goduti dalla Comunità per
n il passato, non puossa la Comunità essere astretta ad alcun paga-
» mento d'affìtto, nemeno per case de' rettori, soldati, et officiali. —
n Ciò tutto si concede per il passato, purché non sia di pregiudizio per
« l'avvenire, et circa alle case dei rectori ed officiali della Repubblica,
n si proceda dalla Comunità conforme è decente: così anche per li sol-
» dati che di tempo in tempo si manderanno per custodia di quella terra.
n X. Che sia reintegrata la giurisdizione di Crema sottoponendole
» tutti quei luoghi che li sono stati sottoposti l'anno 1403 indietro. —
n II che fu concesso.
» XI. Non habbino luogo in Crema li datii della macina del Panno-
» lino e delli capicij. — Li vien concesso di godere in ciò quello go-
n devano sotto la Repubblica Milanese.
r> XII. Che siano pagati dal principe li castellani, portinari, pode-
» sta, guardadori del campanile, servitori, massaroli, trombetti della
n Comunità, et il capcllano solito, et il principe manterrà li ponti di
» Crema et circa di essa. — Li fu risposto che li castellani , portinari ,
» et tutti gli offiziaìi et guardador del campanile che saranno eletti
t> dal principe, dal medesimo anche saran pagati , et del capellano non
» si parli, et per le spese dei ponti si osservi quello che perii passato
r> si è fatto.
n XIII. La Comunità di Crema né alcuno particolare puossa essere
» molestato per debiti avesse contratto con la Camera Fiscale da qui
» in dietro. — Li vien concesso.
iì XIV. Che tutte le esenzioni concesse a chisisia in pregiudizio della
» Commuta sieno nulle, e per l'avvenire non sene faccia, et caso che
» il principe ne facesse, sia tenuto reintegrare il danno della Comunità.
» Così se il medesimo confiscasse o per qualsivoglia modo apprendesse
r> beni in Cremasca, quelli sieno tenuti agli aggravj della Comunità.—
» Il che li vien concesso.
» XV. Non puossa la Comunità et huomini di Crema essere costretta
r> a dare ai soldati masserizie di casa, strame, legne, ovvero danaro al -
n cuno. — Il che se li concede, massime ciò non praticandosi in luoco
n alcuno della Repubblica.
— 398 —
- XVI. Li offisij soliti dispensarsi dal Consiglio di Cremi perii
■ sut<>, iiano anche dal moderno per l'avvenire dispensati. - Si con
- cede con che si faccia alla presenza del Rettore che per tempo .sarà.
n XVII. Le sentenze, condanne, confiacazioni che si faranno in
- Crema si faccino in conformità delli statuti «li essa. Si- li concede
■ ili praticar il consueto] et circa li Statuti et provvisione ae li promette
r intiera esecuzione.
■ XVIII. Puoeaa in caso di bisogno la Comunità metter addizioni
- som-a dazi et pedaggi. Li vien concesso.
n XIX. Che li saldati che saranno alla guardia di Crema o suo ter-
n ritorio debbano vivere del proprio, et non a spese degli uomini di
- Crema. — Se li concede tutto ciò, essendo mente del principe che li
- suoi stipendiati vivine delle loro paghe et non di quello dei sudditi.
r XX. Che si puossa ammazzare dagli uomini di Crema et suo Di-
- stretto qualsivoglia bestia et dividerla in quarto senza pagamento di
r dazio d'alcuna serre. — 11 che li si concede.
■ XXI. Non sia tenuta la Comunità alla refazione delle mura, nò u
* fare altra fortificazione alla terra. — Le mura rovinate dall'esercito
» veneziano siano rifatte a spese della Repubblica, circa poi all'avve-
ri sire resti l'arbitrio alla medesima.
r> XXII. Li beneficj ecclesiastici non siano dati a forastieri , ina a
» soli Cremaschi, et caso fossero dati a forastieri, siano questi tenuti
« habitare in Crema et suo territorio.-»- Li si concede anche questo, ri-
r servati però da questo li nobili et cittadini veneziani.
n XXIII. Le mercanzie che saranno condotte in Crema da altra
r parte che dal Distretto paghino quello che pagano quelle di Lodi, e
n l' istesso ancora paghino quelle che si caveranno da Crema. — Li fu
fi risposto dovesse in ciò eseguirsi quello che si era praticato per il pas-
» sato essendo clie il principe si haveva adossato l'obbligo di pagar li
n castellani et altri officiali.
n XXIV. Si puossa dagli uomini cremaschi estraere biade e vini
r dalle terre del Serenissimo Dominio senza divieto alcuno o datio per
* il vivere loro. — Se li concede per due anni, dovendo sperare d'es-
* sere sempre dal principe bene trattati.
» XXV. Presti il principe alla Comunità some due milla furmento
h per seminare con obbligo di restitutione. — Se li promette some mille
» in Brescia, con obbligo alla Comunità di condurle in qua a sue spese,
r- dovendo sperare nel resto nella benignità del principe.
n XXVI. Che li Cremaschi sieno trattati come li Bresciani circa alle
» mercanzie che levano da Venezia, ovvero in quella città conducono. —
n Se li concede quello che dimandano , et saranno trattati come citta-
« dini veneziani.
— 296 —
» XXVII. Che Stefano da Vicenza habitante in Crema, bandito per
» homicidio dalla sua patria , sia liberato dal bando, massime havendo
» la pace. — Havendo la Repubblica uso in contrario , nega assoluta-
ci mente questo Capitolo. Volendo in ogni tempo e luogo servare la
» debita giustizia, puossa ben detto Stefano abitare in Crema.
» XXVIII. Puossa cadaun Cremasco andar ad habitare in altri pae-
» si , non però inimici , con il condurre senza datio o pedaggio tutte le
» sue robbe, et puossa, benché assente, godere et alienare li beni ha-
» vesse in Crema o territorio. — Se li concede il tutto, purché vadano
» con licenza del rettore che sarà per tempo , et che il commissario et
» referendario debbano avanti al partire pagare tutti li loro debiti, et
» satisfare quelli a quali avessero rotti li salvacondotti, et il restante
» sia in arbitrio del Magnifico Sigismondo (Malatesta) et Provveditore,
» et li Hebrei paghino le spese dei presenti Capitoli et de trombetti.
» XXIX. Che li Capitoli che saranno concessi dalla Serenissima
» Signoria debbano essere posti in autentica forma et sigillati. — Il che
» si concede ».
Uanno 1450 si aggiùngono novi Capitoli.
« I. Che sia concessa alla Comunità di Crema un Collegio di Giu-
» risti conforme agli altri luoghi del serenissimo dominio. — Si concede.
n II. Che le cause civili, sì in prima istanza che in apellazione ed
« in elezione di giudice confidente, si pratichi quello che si fa in Brescia.
» — Si concede.
r> III. Che li huomini di Crema puossano a loro spese cavare un ca -
» naie d'acqua dal fiume Oglio per servizio delle loro terre. — Se li
» concede quanto dimandano, purché non sia in pregiudizio d'alcuno.
r> IV. Sia concesso alla Comunità di fare ogni anno otto giorni di
r, fiera, quattro avanti S. Michele et quattro dopo, che sia libera ed
» esente d'ogni datio e pedaggio. — Se li concede, purché si faccia
n fuori di Crema.
n V. Che non sia corsa alcuna prescrizion di tempo a quelli Crema-
» schi absenti per esilio o altra causa dall'anno 1400 in qua. — Il che
« si concede » (1).
(1) Qjrsti e i primi ventinove capitoli furono tolti dal Registro primo delle
islenti nella Cancelleria della città di Crema.
— 997 —
Dori MINIO />'.
Ducale con citi t* erìge Crema in città. 1 U50, Sfebbrato in Pregadi.
« Cam fedelissima Comunità* nostra Cremaa per ejua oratorem cum
- multa inatantia Nobis fecerit supplicare quod dignaremur intercedere
■ et instare ;ì pml Summum Pontificem ut illa terra creareturper ejua
p Banctitatem et efficeretur civitas et episcopali dignitate decoraretur,
■ Noaque, per quantum ad temporale Bpectat, idem faceremua et in
r temporalibus civitatemeonstitueremus, faciatqne prò Nobis in rcista
» Communitati predictaa oomplacere.
» Vadit pars, quod per quantum ad temporale spoetai et perquan-
« timi est arbitrii et fori Nostri, Terra praedicta creeturet fiat civitas,
r quodeatque jurisdietionibus et privilegiis quibus gaudent et de jure
" gaudere debent alue civitates, fiantque et formentur circa hoc scri-
v pturse et privilegia opportuna, et observentur debita} et convenientes
» solemnitates.
» Et hoc idem permittatur instandum et procurandum apud Summ.
* Pont. Oratori Nostro in Curain profecturo.
» HlEllONYMUS Pulverinus, Due. Not. r.
Documento C.
Nell'Archivio della nobile Casa Tensini di Crema trovammo un
brano di predica che il beato Bernardino da Feltre recitò in Crema ,
brano che dicesi tolto dal Capitolo XV della Vita del beato Bernar-
dino. Noi abbiamo voluto collocare questo brano di predica fra i docu-
menti, perch'esso ci rivela iu poche parole ad evidenza le dottrine che
il beato Bernardino spargeva nei popoli sul modo con cui voleva si
trattassero gli Ebrei. Le parole sono le seguenti:
u Io però, se degli Ebrei devo parlare, dirò quel che dico in tutte
» le altre città , che per quanto ciascuno ha cura dell'anima sua, niuno
a debba offendere alcun Ebreo, o nella persona o nelle facoltà o in
» qualunque altro modo : poiché anche i Giudei debbono essere trattati
» con giustizia, con cristiana pietà et amorevolezza, essendo ancor essi
« della nostra natura et humanità : quia oportet eos prò sola humani-
» tate f or eri. Così ho sempre detto in ogni città; così anche dico in
» Crema e prego e supplico d'essere esaudito, perchè così si conviene.
* così comandano i sonimi pontefici, così richiede la cristiana carità.
20
— 298 —
Ma è pur vero che le leggi canoniche espressamente proibiscono l'as-
sidua domestichezza e famigliarità con gli Ebrei, il farsi medicare da
loro, l'andare ai loro conviti: eppure qui in Crema Leone Ebreo ha
tenuto corte bandita otto giorni continui per le nozze di suo figliuolo,
e tanti e tanti sono stati a' suoi conviti , alle sue feste , a' suoi balli ,
a' suoi giuochi : e ognuno oggi liberamente nelle sue infermità si serve
di medici ebrei: come posso io tacere e passar sotto silenzio queste
cose? come posso essere predicatore di verità e dissimulare quelle
offese di Dio e delle leggi canoniche ? Le usure degli Ebrei non solo
non son moderate, ma tanto eccessive si veggono, che svenano e
smidollano i poverelli : ed io che vivo di limosina , e mangio il pane
de' poveri; sarò un muto cane in questo luogo di verità? Latrano i
cani per quelli che li pascono, et io pasciuto dai poveri vedrò depre-
dare le loro sostanze e ammutirò? Latrano i cani per i loro padroni,
ed io non debbo latrare per Cristo? Dico et debbo dire che tu av-
verta, o Crema, agli obblighi che t' impongono i Sommi Pontefici *
- 399 -
CAPITOLO DECIMO
CREMA CADUTA IN POTERE M LUIGI XII RE I)! FRANCIA
POI RIACQUISTATA DAI VENEZIANI.
SOMMARIO.
Scopo della lega di Cambra!. — Potenza dei Veneziani sul principiare del
secolo decimosesto. — Come nel trattato di Cambrai gli alleati si spartissero
i possedimenti della veneta repubblica, ed a qual monarca venisse Crema
assegnata. — La repubblica veneta provvede alla difesa de' suoi Stati. —
A'ien condonata la pena del bando a Socino Benzoni , e mandalo a Crema
condottiero di fanti e con incarico di stipendiar gente d'armi. — Preparativi
di difesa che si fanno a Crema. — Nicolò Orsini, conte di Pitigliano, e Bar-
tolomeo Alviano degli Orsini, nominati entrambi generali supremi dell'e-
sercito veneziano. — Con quale pretesto il redi Francia cercò di legittimare
la sua improvvisa Inimicizia contro AVnezia. — Discrepanza fra i due generali
dell'esercito veneto sul piano di guerra da adottarsi. — I Francesi attaccano
le truppe veneziane: interdetto che Giulio II scagliò contro Venezia. — Bat-
taglia d'Agnadello, detta anche di Vallate , e piena rotta dell' esercito vene-
ziano. — Funeste conseguenze: sgomento dei Cremaschi. — Un araldo del
re di Francia viene ad in limare ai Cremaschi d' arrendersi a Lodovico XII. —
In Crema radunasi il consiglio generale dei cittadini per deliberare se o no
debbasi ceder la ciltà nostra ai Francesi. — Discussioni nel Consiglio che
sciogliesi senza aver nulla deliberalo. — Come Socino Benzoni inducesse i
suoi concittadini ad arrendersi al re Lodovico XII, e mettesse la terra nostra
in possesso dei Francesi. — Il re di Francia conferma i capitoli che i Cre-
maschi gli propongono nella loro dedizione. — Quadro bellissimo del Civer-
chio derubato al Comune di Crema e spedito in Francia. — Soggiorno di
Lodovico XII in Crema. — Scoppiano nella città nostra discordie fra guelfi
e ghibellini: i ghibellini-, • protetti dal governo francese, hanno la preva-
lenza. — Monsignor di Durazzo , governatore francese in Crema , ordina la
consegna delle armi. — Bernardino Bonzi, barcajuolo, vien preso., pco£e&-
— 300 —
salo e squartato perchè trasportava nella sua barca delle armi da Milano a
Venezia. — Savia politica dei Veneziani durante l'occupazione francese nei
loro Stati. — Le sorti della veneta repubblica incominciano a rialzarsi. —
Giulio li leva l'interdetto a Venezia e si stacca dall'alleanza francese. —
Socino Benzoni, che militava sotto le insegne del re di Francia . , vien preso
dagli stradiotti , e decapitato a Padova come ribelle della repubblica. — Ca-
rattere di Socino Benzoni. — Lodovico XII, re di Francia, divien segno all' ira
di Giulio II. — Brescia, Bergamo ed altre terre rialzano il vessillo di s. Marco.
— A Crema il castellano dei Francesi teme di una sommossa , e condanna
al bando duecento guelfi. — Sacco di Brescia e battaglia di Baverina.— Smem-
bramento dell'esercito francese in Italia. — Crema ed altri luoghi fortificati,
rimangono i soli in Lombardia in potere del re di Francia. — Benedetto
Crivelli e Girolamo da Napoli, capitani, vengono in ajuto dei Francesi a
presidiar Crema con seicento e più fanti, e quattro pezzi d'artiglieria. —
Tentativo di sommossa in Crema che andò fallito. — Penuria di viveri nella
città nostra; come barbaramente il governatore francese cercò di ripararvi.—
Quanto a difesa de' suoi concittadini si adoperasse Filippo Clavelli. — I Cre-
maschi , essendo stati espulsi da Crema, si apparecchiano a stringere la citta
loro d'assedio onde potervi rientrare. — Benzo Ceri , valoroso capitano, vien
mandato dalla repubblica veneta in soccorso dei Cremaschi. — Il governa-
tore francese trovasi in Crema ridotto a durissime strettezze per mancanza
di viveri. — Guido Pace Bernardi, pessimo cittadino, consiglia il governa-
tore francese a resistere ad ogni costo. — Benedetto Crivelli uccide Gerolamo
da Napoli per fare egli solo un vantaggioso traffico della dedizione di Crema;
come entrasse in trattative per la cessione di Crema prima con Benzo Ceri,
poi col duca di Milano, e la cedesse poi a Renzo Ceri condottiero della re-
pubblica veneta. — Patti della dedizione. — In qual modo Guido Pace Ber-
nardi siasi sottratto alla vendetta dei Cremaschi.
Correva il dicembre dell'anno 1508. Rappresentanti delle
corti di Francia e di Germania erano congregati a Cam-
brai, e credeasi per runico oggetto di pacificare i Paesi
Bassi air Imperatore Massimiliano; quando, ai dieci del
mese leste indicato, oltre un trattato risguardante la pace
col duca di Gheldria, un altro segretamente ne stipularono.
E di molto maggiore importanza, perocché con questo or-
di vasi una lega europea allo scopo d'annientare la veneta
repubblica, di ridurre Venezia , come disse il maresciallo
Chaumont, a non occuparsi che della pesca. Vero è che
al trattalo di Cambiai del dicembre 1508 non interven-
— 301 —
nero che idue plenipotenziari di Francia e d'Austria: que-
sii pere si tenevano sicuri della ratiGca degli altri principi,
la *i uaU* infatti segui pochi mesi dopo. Il progetto di una
coalizzaiìone delle poterne europee ondo abbattere Vene-
zia fu proposto dal pontefice Giulio li Gn dui 1504 ('^ : e
s'erano già in proposito fra di loro accordati Luigi XII re
di Francia, e Ferdinando il Cattolico re di Spagna, nell'ab-
boccamento di Savona. Altre volle si erano vedute confede-
razioni di monarchi europei quando zelo ed entusiasmo di
religione spinsero la cristianità alle crociate; ma per interessi
politici, per disfare uno Slato indipendente, è questo nell'i-
storia il primo esempio. Quali cause inimicavano a Vene-
zia tutte le principali Corti d'Europa? La grandezza cui
era salila in mcn d'un secolo, gli acquisti dilatati in terra
ferma a pregiudizio degli altrui diritti o pretese, l'ingerenza
non poca ch'esercitava in Italia ed altrove, con la pro-
sperila del commercio, la copia delle ricchezze, l'accorgi-
mento della sua temuta aristocrazia. Queste erano le colpe
di Venezia. Il suo alato leone, spinto da un'ambiziosa po-
litica, avea spiegato voli ardimentosi e fortunati: quindi
mal tollerandone il terribile ruggito, monarchi che sma-
niavano di dominare in Italia, deliberarono d'ucciderlo. Se
poi aggiungete che gli alleati volevano arricchire colle spo-
glie della repubblica, e si erano già intesi fra di loro sul
modo di spartirsela, non vi sembrerà più strano che Fran-
cia, Spagna, Germania e Roma cospirassero insieme per
distruggere la potenza dei Veneziani. Prima d'indicarvi
quali provincie possedute dalla veneta repubblica il trat-
tato di Cambrai assegnasse con progetto divisionale a cia-
scuno degli alleati, ci è necessario toccare della grandezza
veneziana all'epoca in cui per disfarla si disponevano l'ire
di re stranieri e le folgori papali.
(I) LùiGH. Codex Diplomaticus.
— 502 —
Venezia avea nel 1500 ampliati in Lombardia i suoi do-
minj, coll'acquisto di Cremona e della Gera d'Adda ce-
dutale da Luigi XII, allora di lei alleato: possedeva Ravenna,
Faenza e Rimini, nel centro della Romagna: Otranto, Brin-
disi, Trani e Taranto nel regno eli Napoli: dominava l'isola
di Candia ed altre di minor conto nella Grecia, oltre le
costiere della Dalmazia, e l'isole di Cipro, Corfù, Zante e Ce-
falonia. Questi dominj, qua e là sparsi, favorivano a me-
raviglia la navigazione dei Veneziani, ond'essi, come scrive il
Denina, scorrevano da padroni V Adriatico quasi proprio
canale. Floridissimo quindi il commercio: dilatavasi dai
porti d'Inghilterra a quelli del mar Nero e dell'Egitto (*\
L'esercito di mare, numerosissimo e ben equipaggiato; i ma-
rinari, dei migliori di tutl'Europa; l'Arsenale, una mera-
viglia; le ciurme, superiori a quelle delle galee dei Cava-
lieri Gerosolimitani. La prosperità del commercio e le bene
ammiuislrate finanze impinguavano l'erario della repub-
blica, la quale poteva, in caso di guerra , assoldare un
grosso esercito di terra; e siccome pagava le milizie pun-
tualmente e meglio d'ogn'altro Stato, accorrevano sotto le
bandiere di S. Marco i più segnalati condottieri. Oltre tutti
questi materiali elementi, vantando la fedeltà e simpatia
de' suoi popoli, Venezia gareggiava colle maggiori potenze
d'Europa. Con meno di tre milioni di sudditi, con un ter-
ritorio che non pareggiava la decima parte della Francia,
della Spagna e della Germania, avea trionfalmente combat-
tuti or Mussulmani, or Francesi, or Tedeschi: e per quante
imperfezioni avesse il di lei politico reggimento , Venezia
era allora in Europa il modello dei governi inciviliti, la sa-
tira vivente, dice Sismondi, degli altri Stati più corpu-
lenti, ma meno ricchi, men vigorosi. La lega di Cambrai
(1) Tentori. Saggio sulla storia civile, politica ed ecclesiastica della repubblica
veneta.
— 7)07» —
millantava essere suo scopo render giustizia alla santa sede
apostolica, al santo romano impero, alla casa d'Austria, ai
duchi (li Milano, ai re di Napoli ed a molti altri principi,
verso ai quali accusavasi Venezia d'usurpazioni; i monai
chi alleati protestavano essere noti solo utile ed onore-
vole, ma anche necessario di chiamar tutti ad una giù
sta vendetta, per {spegnere, ({naie incendio comune ,
l'insaziabile cupidigia dei Veneziani ' . Ma questi , piut-
tosto clic ragioni , erano pretesti con i quali i confederati
cercavano palliare le ingorde loro intenzioni; pretesti da
rammentarti la nota favola del lupo e della pecora. Nel
trattato, i monarchi s'erano divisi i possedimenti della rc-
puhblica, a norma delle loro pretese, nel modo seguente-
Lodovico XII, vantandosi crede dei Visconti, ripeteva tutte
le provincie già appartenenti al ducato di Milano: Massi-
miliano, come successore degl'imperatori germanici, ap-
propriavasi Treviso, Padova, Verona, Vicenza; come au-
striaco, Roveredo e il Friuli. La santa sede riclamava Ra-
venna, Rimini e Cesena, terre che i tirannelli avean tolte
alla Chiesa, Cesare Borgia ai tirannelli, i Veneti al Borgia.
Assegnaronsi a Ferdinando di Spagna re di Napoli, l'isole
di Brindisi, Trani ed Otranto, con altre che i Veneziani
ricevettero in pegno da Ferdinando II: al duca di Savoja
l'isola di Cipro, agli Estensi ed ai Gonzaga le terre già
da loro un tempo dominate, ed al re d'Ungheria, qualora
prendesse parte nella lega, le città della Dalmazia e della
Schiavonia.
Crema adunque fu nel trattalo di Cambrai assegnata al
re dei Francesi, con Cremona, Brescia, Bergamo e la Gera
d'Adda. Ma come mai queste città che, al pari di Verona,
Vicenza, Padova, Treviso, dipendevano un tempo dall'im-
pero germanico, si cedevano dall'imperatore Massimiliano
(ì)Sismoxdi. Storia delle repubbliche ilaliane.
— 504 —
al re di Francia? Unicamente perchè Lodovico XII le pre-
tendeva, comunque tali cessioni ripugnassero ai principi
dei cosidetti imprescrittibili diritti della loro legittimità ,
che i sovrani d'Europa, per la prima volta, sfoderarono in
quel memorando trattato. Cominciò allora la versatile po-
litica dei gabinetti a sancire gl'imprescrittibili diritti di cia-
scun sovrano, senza badare a contraddizioni, purché venis-
sero appagate le cupidigie dei singoli contraenti. Fu così
dato il primo esempio del modo con cui la diplomazia
avrebbe svolte le teorie di diritto pubblico , e quindi rim-
pastate a suo capriccio le nazionalità d'Europa a furia di
trattati.
Quando il senato di Venezia scoprì la lega formatasi oc-
cultamente a Cambrai , non sapremmo dire se rimanesse
colpita più da spavento o da meraviglia. Davvero che a
stupirne aveva molti e fortissimi motivi. E primieramente,
un'amicizia di più anni stringeva al re di Francia la ve-
neta repubblica, che per lui avea combattuto, onde conser-
vargli lo Slato di Milano: strana poi l'alleanza di Lodovico
con Massimiliano dopo le offese fatte dai Francesi all'im-
pero , e Vodio particolare esercitato dal re di Francia
contro V imperatore (*l. E più ancora era inesplicabile che
si fosse associato con monarchi stranieri Giulio II, egli che
Barbari appellava gli oltramontani invasori della nostra pe-
li isola, egli che avea manifestati generosi sentimenti rivolti
alla grandezza e libertà italiana.
Appena la Signoria di Venezia seppe quale orribile tem-
pesta le sovrastasse maneggiossi per istrappare dalla lega
l'imperatore Massimiliano: riesciti inefficaci i suoi tenta-
tivi, si apparecchiò alla difesa, fidando nelle proprie ric-
chezze, nel Cielo, e in quelle forti virtù che d'ordinario,
come osserva l2) Dubos , non si trovano che nelle repuh-
(1) Paruta. Discorsi politici.
(2) Dubos. Della lega di Cambrai.
— 508 —
bliche. Armano i Veneziani a tutta fretta, assoldando quanti
più potevano e capitani e genti d'armi, concedendo la li-
brila a tutti i banditi che promettessero di servire la re
pubblica a spese loro per un tempo determinato. In que-
st'occasione Socino Benzoni riacquistò la simpatia del se-
nato che ila Padova lo mandò a Crema con trecento fanti
e gran copia di danaro acciocché stipendiasse gente (ranni.
Socino venne accolto da' suoi concittadini con tale una
dimostrazione di giubilo e d'onore, che il podestà se n'a-
dombrò, e del suo comparire fu piuttosto conturbalo che
lieto. In breve, sotto le insegne di S. Marco radunaronsi
circa cinquanta mila uomini, e capitani di molto grido, fra
i quali Crema vantava Gian Paolo Griffoni S. Angelo.
Oltre il Benzoni, vennero mandali a presidiar Crema ot-
tocento fanti con Marco d' A rimini e cento cavalleggeri con
Rizzino d'Asola. A quei tempi la città nostra era al di
fuori coronata tutta all'intorno di piccoli borghi, adorni di
vaghi cdiiìcj e d'amenissimi giardini: e case e giardini ed
anche i ruolini posti lungo le fosse fra Porta Serio e Porta
Ripalta si distrussero in pochi, giorni onde formare d'in-
torno a Crema una spianala lunga un tiro d'artiglieria. I
Crcmaschi videro con gran dolore tale distruzione, singo-
larmente coloro cui venivano atterrati edificj di loro pro-
prietà: ma era forza rassegnatisi, e persuadersi che si av-
vicinavano tempi calamitosi.
I Veneziani affidarono il comando generale del loro eser-
cito a Nicolò Orsino conte di Pitigliano, ed a Bartolomeo
Alviano, anch'egli degli Orsini, due delle migliori spade che
fossero allora in Italia. E fu errore gravissimo questo di
ripartire il comando generale delle truppe su due persone,
in momenti difficilissimi, ove a ben governarle richiedevasi,
non che il senno, la robusta e assoluta volontà di un solo.
II re di Francia, nel mentre affrettava la discesa del suo
esercito in Italia , mendicava un pretesto che lo giustifi-
— o06 —
casse d'aver infranta l'alleanza che da varj anni l'univa
colla repubblica di Venezia : ed un pretesto, il più bugiardo,
trovò il di lui ministro cardinale d'Àmbois. L'ambasciatore
veneto sentì rimproverarsi acerbamente dal cardinale, per-
chè la repubblica facesse afforzare l'abbadia di Cerelo al
confine cremasco, ciò che espressamente era proibito nel
trattato conchiuso tra Venezia e lo Sforza nell'anno 1454.
La fortificazione dell'abbadia di Cerelo era un sogno del
cardinale. Così aggiungendo alla perfìdia la più sfacciata
menzogna , Luigi XII calò in Italia qualificandosi non ag-
gressore, ma per buone ragioni nemico della repubblica ve-
neziana. Giulio II, primo a progettare la lega di Cambrai,
fu l'ultimo a ratificarla, perchè ne lo trattenne la speranza,
andatagli delusa, che i Veneziani si sarebbero affrettati a
rendergli Faenza, Rimini e Ravenna.
Le truppe veneziane intanto stavano- radunale alle rive
dell' Oglio, ove sorse discrepanza sul piano di guerra fra i
due condottieri, l'AIvìano e il Pitigliano : ambo di chiaris-
simo nome, ma il primo, giovane, impetuoso, audacissimo:
l'altro, vecchio, prudentissimo, calcolatore. L'Alviano vuole
si campeggi nel territorio nemico, giltarsi sul ducalo di Mi-
lano, innanzi che il re di Francia vi raccogliesse tutte le
sue schiere, e là sollevare contro Lodovico le popolazioni
ed assalire i Francesi mano mano che scenderebbero dalle
Alpi. S'oppone a tale progetto il Pitigliano, riputandolo
meglio temerario che ardimentoso: vuol neppure che si di-
fenda la linea dell'Adda, propone accampare l'esercito al-
l'Oglio presso gli Orzi, lasciando però ben guernite Cre-
mona, Crema, Bergamo e Brescia. Procedendo in questo
modo, il Pitigliano rimprometlevasi che l'ardore francese,
terribile cotanto nei primi assalti, sbollirebbe nell'assedio
di quelle città, nel mentre i Veneziani potrebbero all'uopo
accostarsi alle medesime soccorrendole e molestando il ne-
mico alle spalle. Diresti il Pitigliano educato alla scuola di
— 507 -
Fabio, l'Alviano imitatore di Scipione, il quale trionfò dei
Cartaginesi, spingendo arditamente in Àfrica l'esercito
romano. I due progetti dei veneti condottieri, matura-
mente considerati , erano del pari apprezzabili: il sona-
to, tacciando l'Alviano di soverchia audacia, di timidezza
il Pitigliano, ripudiò entrambi, ed ap pigi iossi ad un partito
di mozzo, necessariamente cattivo, e perché deliberato da
un Consiglio d'uomini digiuni di scienza militare, e perchè
nei oasi estremi, i parlili estremi ottengono d'ordinario il
miglior successo. Il senato ordina ai generali di condurre
l'esercito in riva all'Adda, e difendere la Chiara d'Adda,
prescrivendo che non dovessero venire a battaglia decisiva
se non costretti da ineluttabile necessità , o quando si of-
frisse loro favorevolissima l'occasione.
È il quindicesimo giorno dell'aprile del 1509 già appro-
pinquato all'Adda l'esercito veneziano, quando i Francesi,
passato il fiume a Cassano, rompono la guerra. Continue
fazioni commcltonsi: viene presa e ripresa Rivolta, Trevi-
glio incendiato iniquamente. Appena il pontefice ebbe
notizia dì queste prime ostilità, fulminò contro la Signoria
di Venezia l'interdetto , in cui però lasciava ancora un
termine ai Veneziani per ravvedersi e restituire alla Chiesa
quanto tenevano nel di lei territorio _, non che tutti i frutti
cherìaveanpercetti, scorso il qual termine Giulio II dichia-
rava, che se i Veneziani persistevano inobbedienti, egli
co\Y apostolica autorità assoggettava all'interdetto non solo
Venezia* ma tutte le terre da lei dominate, non che quelle
che concedessero asilo ad un Veneziano i{). Fiere e spa-
ventose minacce! ma insufficienti a conseguire lo scopo de-
siderato, perocché e principi e popoli vi si erano da lungo
tempo addimesticati. A sfolgorare la grandezza dei Vene-
ziani, non le bolle papali, bastarono i Francesi con una
(i) Sisjiondi. Storia delle repubbliche italiane.
— 508 —
sola battaglia. È famosissima la campai giornata d'Agna-
dello, o come la dicono alcuni storici, battaglia di Vailate:
ivi a' 15 di maggio una gran parte dell'esercito veneziano
venne distrutta, l'Alviano fatto prigioniero. Di questa me-
moranda rotta contendesi nel dar la colpa chi all' Alviano,
per isconsigliata impazienza di cimentarsi coll'inimico, chi
al Pitigliano per non essere accorso sollecitamente colle
sue schiere in ajuto dcll'Àlviano, chi al tradimento di Ja-
copo Secco , che combatteva fra i primi capitani nell'eser-
cito della repubblica. Qualunque fosse la vera causa di
tanta sconfìtta, i Veneziani ne risentirono funestissime,
irreparabili conseguenze. 11 conte di Pitigliano ritirasi a
tutta fretta col rimanente dell'esercito verso Brescia: sfi-
duciato il generale, disordinate le schiere dallo spavento,
moltiplicano le diserzioni, assottigliando deplorabilmente le
forze della repubblica.
La battaglia d'Agnadello (o di Vailate, se più vi piace)
fu in parte combattuta sul territorio di Crema t*) : quindi
i Cremaschi ne poterono conoscere e misurare i gravissimi
danni, essi che ricoverarono strabocchevole numero di fe-
riti, che videro disertate le campagne, le acque rosseggiane
del sangue dei vinti, e seppellirono i cadaveri che la ra-
pace ingordigia dei Francesi lasciò nudi sul campo. Pen-
sate adunque quanto sgomento apportasse in Crema la
rotta dei Veneziani, e quanto trepidassero i cittadini nel-
l'amarissima incertezza delle proprie sortii Aggiungete che,
due giorni dopo la battaglia d'Aguadello, s' udì proclama-
(i) t Nella mcmorabil giornata d'Agnadello Luigi XII vedendosi vincitore
» balzò da cavallo, e si prostrò sul campo del suo trionfo per render grazie
» al Dio degli eserciti. Breve tempo appresso egli fece erigere nello stesso
» luogo una cappella alla SS. Vergine sotto il nome di S. Maria della Vit-
• toria». Ciò sta scritto nella Storia universale della Chiesa dell'Henrion. La
cappelletta della Madonna della Vittoria esiste ancora, e trovasi su terreno
cremasco: è uno dei tre oratorj soggetti alla parrocchia di Palazzo.
— 809 —
re dovessero, sotto pena di forcai sgombrare da Crema e
seguire i provveditori dell'esercito veneziano tutte le tnip«
pc di presidio, ad eccezionedi una compagnia di 150 fanti
di Marco d*À rimi ni. 1 cittadini pregarono il podestà accioc-
ché facesse ri vocare queir ordine , chiesero altri soldati a
custodire la loro cittadella , ma fu invano: collo loro pre-
ghiere questo soltanto conseguirono, che vennero distri-
buite al popolo alcune armi e poche munizioni. Crema
adunque, in momenti di tanto pericolo, aveva a tutta difesa
150 fanti, ed un popolo mal provveduto d'anni e sco-
raggialo.
I Francesi, profittando della vittoria, con istupcnda ce-
lerità occupano non poche terre dei Veneziani, inseguono
sul Bresciano lo scompigliato esercito della repubhlica: sci
giorni dopo la battaglia d'Agnadello, Lodovico XII erasi di
già impadronito dei paesi al di qua del Mincio, meno Cre-
ma e le rocche di Cremona e di Pizzighcltone.
Suir albeggiare del giorno 20 maggio, un araldo del re
di Francia, accompagnato da un trombettiere, presentasi
sotto le mura di Crema: con segno di tromba avvisati i
cittadini del suo arrivo, intima loro o di arrendersi al re
entro tre ore, o di aspellarsi il sacco e lo sterminio. L'a-
raldo alloggiò nel monastero di S. Bernardino, a mezzo
miglio fuori di Crema, ove andarono ad abboccarsi con lui
Socino Benzoui e Pietro Fontana, i quali rientrati in Cre-
ma fecero che dai nostri provveditori fu fatta al regio
araldo onorata provvisione del vivere sintanto die quivi
dimorasse {. Occupavano in quei giorni a Crema la carica
di provveditori Gioan Battista Guogo, Alessandro Benzoni
e Goltifredo Alfieri.
Era scoccata fora terribile in cui i Cremaschi doveano
risolvere o di darsi al re di Francia, o di difendersi dispe-
(i) Fino. Storia di Crema.
— 510 —
ratamente. Radunasi il Consiglio generale per deliberare
sul partito da scegliere. In quell'adunanza sorge primo a
favellare il podestà Pesaro: parlò con voce commossa, con
generosi accenti. Incominciò commiserando la difficile con-
dizione in cui si trovavano i Cremaschi, protestando che a
liberameli desiderava poter seguire l'esempio di Curzio
Romano, che la patria salvò gittandosi in una voragine di
fuoco. Indi consigliava i Cremaschi a non iscoraggiarsi
troppo: rammentassero i forti esempi e la costanza dei loro
progenitori, né si arrendessero così ad un tratto al suono
di una trombetta francese. Finiva lasciando i Cremaschi
arbitri di scegliere quel partito riputassero il più conve-
niente. Dopo il podestà prese a parlare il provveditore
Gottifredo degli Alfieri. Esposti brevemente i doveri che
stringevano Crema al governo veneziano, ed i gravissimi
disastri che a lei sovrastavano se i Cremaschi si risolves-
sero di mantenersi fedeli alla repubblica, provalo essere
male l'arrendersi, resistere impossibile, pose fine al suo
discorso dicendo: conclusione del parlar mio non v aspet-
tale, perchè nulla trovo di buono 2). Ultimo a favellare fu
Socino Renzoni , per isplendore di natali e di fortune, per
valore e fama d'illustri imprese militari, il primo fra i cit-
tadini cremaschi. Cominciò il suo discorso encomiando le
generose parole del podestà, affermando non dovere i Cre-
maschi macchiarsi di villa, coll'arrendersi troppo facilmente
ad un re forastiero. Ma poi, rinvigorita la voce e l'eloquen-
za , dimostrò esser impossibile a Crema difendersi contro
le armi vittoriose di Lodovico : penuria di viveri, difetto di
soldati, d'artiglierie, di munizioni : l'esercito della repub-
blica troppo lontano per venir in soccorso a Crema : i
Francesi impetuosissimi, invincibili quando la fortuna pro-
tegge le loro insegne. E siccome Socino ragionava con uno
(2.) Terni. Storia di Crema.
— 511 —
scopo premeditato, non si trovò smarrito come I* Alfieri
Del tirare la conclusióne al suo disdorso : contraddicendo ai
sentimenti sfoggiati Dell'esordio, disse chiaro e netto, che
il non arrendersi al re di Francia era un volersi anne-
gare ad orchi aperti (*), e che tale sacrificio non polca la
repubblica esigere da sudditi a lei carissimi. Nondimeno
il Benzoni, onde tenere per poco ancora celato ai concit-
tadini ciò che volgeva in animo, pronunciò per ultime, in
tuono eroico, le seguenti parole: Fate s o concittadini,
quello che vi pure, ch'io son pronto a vivere e a morire
con poti*).
Dopo il discorso del Benzoni levasi nel Consiglio un gran
mormorio: si discute, si alterca fra i consiglieri, ma gli
animi rimangono tuttavia oscillanti sul partito da adottarsi.
Mirahile che non preferissero di arrendersi, avendo Socino
esposte minutamente tutte le circostanze che toglievano
qualunque speranza di una efficace resistenza. È forza con-
fessare che i Cremaschi nutrivano ancora in petto una
scintilla dell' antico valore, né potevano così docilmente
sottomettersi alla necessità di vedere un re forastiero im-
padronirsi della loro cittadella senza colpo ferire. Lieti di
un governo mite e nazionale, ripugnava a molti di dover
chinare la fronte a nuovi comandi, in favella straniera, di
padroni nuovi. Il podestà, osservando come gli animi dei
consiglieri riluttassero dal venire ad una risoluzione, pro-
pose fosse differita all'indomani la votazione: prima si can-
tasse in duomo messa solenne allo Spirito Santo, acciocché
dal divino raggio illuminati, potessero con più maturo giu-
dizio i destini della patria deliberare. La proposta del po-
destà fu accolta di buon grado, essendo della natura del-
l'uomo cogliere pretesti onde differire quei duri momenti
{l\ Terni. Storta di Crema,
(a) Idem.
— 512 —
in cui ci è forza decidersi ad un passo difficile e doloroso.
Mentre nel pubblico palazzo agitavansi le sorti di Crema,
la plebe, visto lo slagno alquanto intorbidato , cerca pe-
scarvi dentro, sfogando le sue vendette contro chi rincari-
vaie il sale, e contro chi succhiavate il sangue con usure.
Ammutinatasi in piazza, minaccia saccheggiare le case de-
gli ebrei e il magazzino del sale : Socino Benzoni pensa
a sedarla : ne dà l'incarico a tre ragguardevoli patrizi ,
Guido Benzoni, Evangelista Zurla ed Agostino Benvenuti,
i quali montati a cavallo , con amorevoli parole la distol-
sero dall'altuare le desiderate vendette.
Nel giorno medesimo, poche ore dopo sciolto il Consiglio
generale, s'udirono d'improvviso i trombettieri del Comune
scorrere le vie di Crema, e richiamare i consiglieri a radu-
narsi di bel nuovo nel duomo. Onde veniva ai consiglieri
quel richiamo inaspettato? Fingono ignorarlo i nostri cro-
nisti , ma dal complesso dei fatti apparisce quasi fuori di
ogni dubbio che fu opera di Socino Benzoni. Accorrono
i consiglieri a raccogliersi nel duomo, e con essi gran folla
di popolo , curiosa di sapere cosa vi si trattasse. Questa
volta il primo che favellò in quell'adunanza fu Socino Ben-
zoni, il quale, rivolta ai consiglieri la parola, disse loro, si
affrettassero a risolvere sui destini della patria, che le con-
dizioni del paese non soffrivano indugio, e lo Spirito Santo
poteva illuminare tanto alla sera quanto alla mattina. Dopo
molti e caldissimi dibattimenti si venne finalmente alla con-
clusione di arrendersi al re di Francia. Nondimeno fu pro-
posto che niun Francese potesse entrare in Crema, se pri-
ma il re non avesse sottoscritta una capitolazione che i cit-
tadini gli avrebbero presentata; la quale proposta fu ac-
colta da quell'adunanza per acclamazione. Socino allora,
rivolgendosi al popolo che si era affollato nel duomo, dis-
segli con voce robusta: « Cittadini, abbiamo risoluto di ce-
» dere la città nostra al re di Francia , ma noi faremo se
— aia —
prima voi puro non ci manifestate la vostra volontà; apri-
» levi rannno lìberamente, che il Consiglio nulla vuol ope-
rare senta il vostro consentimento. » Coi) tali scaltrissime
parole, il più illusile dei patrizi eremaschi adulava in quel-
l'istante il popolo: e il popolo prontamente rispose urlan-
do, Francia , Francia. Imparino certi politicizzanti , che
vorrebbero sempre il suffragio popolare giudice nello cose
più gravi della patria, imparino come il popolo accondi-
scenda facilmente a chi su imporgli còl prestigio di un
nome, o blandirlo eoa carezze adulatriei. Questo del po-
polo eremasiCQ che Fa eco a un Benzeni, non è clic un esem-
pio dV più volgari: ne troverete di più stupendi nelle sto-
rie della repubblica fiorentina , onde non vi sembrerà
stiano clic frate Savonarola, amicissimo della libertà, la-
sciasse per ricordo ai suoi concittadini , clic chi ricorre al
sii'] ragia popolare vuole appropriarsi ed usurpare lo
Stato.
Fra le grida clamorose del popolo, i consiglieri eleggono
sei oratori per inviarli a patteggiare col re., i quali furono
Panlalcone Caldero, Gioan Pelrino Terni, Giacomo Zurla,
Annibale Vimercati, Pietro Verdelli, Giannino Piacenzi.
Mentre questi, insieme coi provveditori, slavano formando
i patti della capitolazione, Socino Benzeni e Pietro Fontana
introducono a Crema l'araldo del ree lo menano, quasi in
trionfo, per le contrade ripetendo le grida Francia Francia.
Allora anche i meno sagaci compresero die Socino Ben-
zeni già da tempo aveva meditato di consegnare Crema al
re di Francia: allora rivelossi per quale motivo Socino, nel
giorno successivo alla rotta d'Agnadcllo, ricusasse di ospi-
tare in Crema molli fuggitivi dell'esercito veneziano i quali,
errando poi sbandati, perirono per mano dei Francesi 0: tul-
lavia nissuno osò rinfacciare al Benzoni l'ambidestra con-
1 1 Luigi Da Ponto. Lettere storiche.
21
— 314 —
dotta, poiché in que' momenti sarebbe stato, più che in-
tempestivo, pericoloso. « Parve in quel dì (scrive il Fino)
» che venisse a vero il presagio di un certo Luigi di Ma-
» jorica astrologo, il quale trovandosi in Crema nel 1506,
» e non essendo allora ancor finita la nuova muraglia, l'a-
» strologo ebbe a dire che i Veneziani tenessero lunga più
» che potessero quella fabbrica, perchè finita che fosse per-
» derebbero la terra, ed il nemico loro entrerebbe per la
» porta settentrionale li), » La fabbrica delle mura infatti
era compiuta da pochissimo tempo, e l'araldo francese en-
trò in Crema per la Porta Pianengo. Somigliante esempio
di pronostico avveralo leggiamo nelle lettere di Luigi Da
Porto: il quale ai primi d'aprile del 1 509 scrisse d'aver udito a
Venezia un astrologo bergamasco dire all'Alviano: « Signore
» tu t' accingi a far la guerra contro lo re di Francia in
» Lombardia, dove un buon asinelio ti converrà aver sotto
» se tu vorrai campare. » L'Alviano, quando si trovò fatto
prigioniero dei Francesi , forse si sarà risovvenuto delle
parole dell'astrologo.
Socino Benzoni, chiamati a se i provveditori, si recò con
loro e coli' araldo al palazzo del Comune, ove disse al po-
destà essere Crema caduta in potere del re di Francia,
perciò gliene consegnasse le chiavi delle porte. 11 Pesaro
rispose francamente, non aver egli consentito alla resa di
Crema, chi voleva le chiavi se le pigliasse. Il Benzoni al-
lora, impadronitosi delle chiavi, pose a guardia delle porte,
in nome del re di Francia, alcuni cittadini suoi partigiani :
poi, montato a cavallo, se ne va coli' araldo al castello, e
fa intendere al castellano che si arrendesse, né aspettasse
d'esservi forzato. Esitò il castellano, interpellò il podestà
sulla condotta da tenersi , ed avendone ricevuto per tutta
risposta di governarsi a suo talento, consegnò il di seguente
^1) Fino. Storia di Crema.
— 3121 -
la rocca il Benzoni, fatte prima alcune proteste in iscriito.
Nel giorno medesimo (22 maggio | Socino e i sci oratori
cremaschi partirono per Brescia, ove il re di Francia li ac-
colse molto amorevolmente, ed affidò al Benzoni la con-
dotta di SS lance e SO arcieri. I capitoli della dedizione
non furono però così presto ratificati, opponendosi i ghi<-
hellini cremaschi ad uno die gli escludeva dell'appartenere
al Consiglio generale del Comune. Ma anche questo venne
alla line confermato. A tenore della capitolazione, furono
lasciati liberi tutti gli ufficiali veneti, ciò che fa meraviglia,
perocché Lodovico in ogni capitolazione richiedeva restas-
sero prigioni i gentiluomini veneti, onde poterli poi taglieg-
giare spietatamente, e ridurli nell'impotenza di soccorrere
colle loro privale sostanze all'erario della repubblica. Il po-
polo cremasco , nella capitolazione fu sollevato dalla lassa
sulla macina del grano : ma avendo gli oratori detto al re
che questa tassa fruttava all'erario soli novecento ducali,
scopertosi in appresso che importava una somma maggiore,
fu condannato il Comune a pagare all'erario francese il di
più ch'erasi taciuto dagli oratori. Il podestà Pesaro non sof-
ferse da parte dei Francesi alcuna molestia: restò nondi-
meno prigioniero per un anno in Crema a richiesta di Gian
Maria Frecavallo, che volle coli' arresto guarentirsi di una
somma a lui prestata.
11 re pose in Crema a governatore Bernardo Ricaudo,
francese, a podestà Pier Antonio Casali, milanese, a castel-
lano altro francese dello Gaudet. Nel palazzo municipale
di Crema adornava la sala del Consiglio un grandissimo
quadro in tela, rappresentante S. Marco con ai fianchi la
Giustizia da un lato, la Temperanza dall' altro, egregio la-
voro di Vincenzo Civerchio pittore cremasco. Piacque tanto
al governatore questo quadro, che, spogliatone il Comune, lo
mandò, siccome molto pregevole dipinto, in Francia.
Addì 27 giugno (1509) il re Lodovico passò da Cremona
— 516 —
a Crema. Il Terni ne descrive la solenne entrala: Andrea
Clavelli, vicario pel vescovo di Piacenza, che lo accoglie alle
porte benedicendolo: il clero che in gran pompa gli va in-
contro processionalmente: Socino Benzoni e Agnolo Fran-
cesco Sant'Angelo, che camminando ai fianchi del re lo ac-
compagnano in duomo, ove i preti rinnovano le cerimonie
delle benedizioni, e il re gettasi in ginocchio pregando quel
Dio che nelle sacre carte esalta gli ùmili, e minaccia bal-
zare dal trono i potenti. Lodovico XII fermossi in Crema
due giorni , alloggiando nel palazzo di Socino Benzoni (*),
innalzato di fresco ed addobbato regalmente. La città nostra
fece l'offerta al re di un bacino e di un boccale d'argento,
ed egli creò cavalieri cinque patrizi, Compagno, figlio di
Socino, Alessandro e Guido Benzoni, Giacomo Zurla, ed
Alessandro Benvenuti, tutti parenti e partigiani di Socino
Benzoni.
Non appena parlilo Lodovico XII da Crema, vi nacquero
contese fra i guelfi e i ghibellini. Coll'occupazione dei Fran-
cesi si erano risvegliati in Lombardia gli antichi rancori fra
le due fazioni. Quantunque in altri luoghi prevalessero i
ghibellini, a Crema ebbero dapprima il soprawento i guelfi,
essendo lor capo Socino Benzoni, principalissimo istromento
della dedizione di Crema al re di Francia. I ghibellini crema-
sebi riclamavano fortemente contro il capitolo che li esclu-
deva dal Consiglio e dall'amministrazione del Comune: ne
sostennero gagHardameute le ragioni Lorenzo Mozzanica e
Anton Maria Pallavicino, finché i ghibellini conseguirono che
fossero relegati a Grenoble i capi dell' avversaria fazione.
Toccò quesla pena a Pantaleone Caldero, al cavalier Giaco-
mo, a Francesco dei Zurla, ed a Pietro Verdelli. Vennero
pure confinati a Milano Angelo Francesco Griffoni S.Ange-
Io, perchè avea il figlio Gian Paolo condottiero nell'esercito
(1) L* udicrno palazzo Martini.
— 317 —
Venezia do, ed Agostino Viraercati per essere un uora mal-
vagio, aito o fabbricare ogni mai effetto ' . Soci no BeBzoni,
come quello che godeva i favori del fé ili Francia» fa bella-
mente con Le sur genti mandato altrove. Placaronsi poco
appresso Pire ghibelline, disponendosi che dei sessanta con-
siglieri, componenti il Consiglio generale di Crema, qua-
ranta fossero guelfi, venti ghibellini, e lo cariche del Co-
mune si ripartissero in ugual proporzione agli uni ed agli
altri: quindi dea tre provveditori, due per sei mesi dovean
essere guelfi ed uno ghibellino; e per gli altri sei, due ghi-
bellini ed uno guelfo.
Mu laro usi in Crema, dopo alcuni mesi, le persone del
Castellano, del podestà, dei capitani alle porle, del gover-
natole. Al Ricaudo,uomo lodalissimo dal Terni, venne
surrogato monsignor di Durazzo o Duras, parimenti fran-
cese. 11 nuovo governatore ordinò con proclama ai Cre-
masehi, ch'entro due giorni consegnassero tutte le armi in
castello, sollo pena di ribellione. In onta al proclama, ber-
nardino Bonzi, barcajuolo, fu collo nel mentre trasportava
armi da Milano a Venezia : arrestato e messo alla tortura ,
confessò il fatto , accusando di complicità cinque dei più
ragguardevoli patrizi cremaschi, Socino e Venturino Ben-
zoni, Antonio Terni prolonotario , Santo Robalto e Bene-
detto Caravaggio: i quali, ad eccezione di Socino, furono
sostenuti in castello, poi liberati, essendosene scoperta nei
processi l'innocenza. Bernardino Bonzi venne squartato,
e furono appiccati Giovanni Albergoni e Vittore della Por-
ta, veronese, perch'erano sulla barca del Bonzi, quando
Bernardino fu preso colle armi che trasportava.
Dopo la rotta d'Agnadcllo sfasciossi in men d'un mese
la potenza dei Veneziani: quindici giorni bastarono a Lo-
dovico XII per occupare le provincie della repubblica as-
(1) Tenni. Storia di Crema.
— 518 —
segnatele nel trattato di Cambrai. Il senato veneto, costretto
a lasciare in preda dei nemici i suoi Stati continentali, ri-
dotto al solo dominio delle lagune, si pentì, scrive Luigi
Da Porto, d'aver avuta vaghezza d'alcun impero in terra
ferma £*). Memoranda è la politica che Venezia adottò in
quelle strettezze: sciolse i sudditi di terra ferma dal giu-
ramento di fedeltà, permettendo che a fronte dell'inimico
agissero a loro talento, e s'acconciassero col re di Fran-
cia, patteggiando nel modo che riputavano più conveniente.
L'aristocrazia veneta volle ai suoi popoli risparmiare sagrifici
troppo gravi, ed in tal guisa, nell'ora dell'estremo pericolo
mantenersi la loro simpatia. Che che ne dica il conte Daru,
il popolo si dimostrò più che mai devoto alle insegne del
leone, anche in quei tempi per la repubblica veneta cala-
mitosissimi. Mentre un Benzoni , un Gambara di Brescia,
un Trissino di Vicenza, patrizi, avean consegnata la loro
terra natale a un re straniero, i contadini della marca Tre-
vigiana lasciavansi impiccare dai Francesi gridando : Viva
S. Marco l».
Lodovico XII aveva ferito profondamente, ma non ucciso,
il veneto leone: quindi non andò guari ch'egli incominciò
a rialzarsi dalla sua caduta. Andrea Grilti, nell'ottobre
del 1509, riacquistava a Venezia le città di Padova e di
Vicenza: intanto la lega di Cambrai, composta di elementi
affatto eterogenei , indebolivasi. Se ne distaccò pel primo
Giulio II, il quale, ricuperate le terre e le giurisdizioni che i
Veneziani teneano nella Romagna, levò alla repubblica l'in-
terdetto, s'adombrò delle conquiste di Lodovico XII, si
propose di risciacquare l'Italia dai Francesi. Onde solle-
vare nemici contro Lodovico XII, destreggiossi coi re di
Spagna e d'Inghilterra, e per avere soldati che le sue mire
(1) Lettere storiche.
(2) Guicciardini. Storia d'Italia.
— r>ii) —
secondassero, si rivolse alla Svizzera, a quei monti dove
sono accumulati la neve ed il valore , e donde rotolano
sulla Lombardia la valanga e il mercenario ' . Perciò i
Veneziani, ripigliato coraggio, continuavano a guerreggiare
animosi contro Lodovico XII e Massimiliano imperatore.
Socino Bcnzoni militava *-oi Francesi, quando ai ventuno
di luglio del lì) lo, mentre Irovavasi fra Este e Monlagnana
a sollecitar la vettovaglia del campo francese, fu sorpreso
da uno stuolo di Stradiotti, che lo ferirono e menarono a
Padova prigioniero. Andrea Grilli ordinò venisse immedia-
tamente appiccato, e lo fu nel giorno medesimo sulla piazza
dei Signori. Se crediamo al Terni, mentre il carnefice ese-
guiva la sentenza « per ben due volle quella piazza corse
» a rumore, non senza qualche periglio della ciltade. —
» Non era egli appena morto , che giunse un trombetta
» francese con lettere di Chiamonte, luogotenente del re e
» del Triulcio, i quali scrivevano al Gritti ch'egli non fa-
» cesse al Denzoni, se non quanto per ragione di guerra
» vi si richiedeva; protestandogli ch'ove altri termini usas-
» se, eglino farebbono lo stesso a ciascuno del campo ve-
» neziano che capitasse loro nelle mani: ai quali fu rispo-
» sto dal Gritti, d'aver per debito di giustizia fatto morire
» il Benzoni, e quando andasse loro nelle mani alcun Ve-
» neziano ch'avesse fatto al re quello ch'egli aveva fatto ai
» signori veneziani , gli facessero il peggio che sapessero,
» ch'egli non se ne dorrebbe giammai!2).» Così finì ignomi-
niosamenle, per mano del carnefice, il più famigerato e po-
teute cittadino cremasco che la storia ci offre nel secolo
decimo sesto. Prode, ambizioso, destro, vendicativo, soper-
chiatore, Socino possedeva tutte le doti che procacciarono
grandezza e celebrità non invidiabile ai più superbi pa-
(!) Cesare Cantù. Storta universale.
(2) Fino. Storia di Crema.
— 520 -
trizi de' suoi tempi. Nato dai Benzoni, forse le memorie
de' suoi padri lo invogliarono a cercare in Crema i primi
onori , e rialzare la grandezza della sua famiglia, col met-
tersi a capo della fazione guelfa. Chi ambisce il potere non
iscrupoleggia sui mezzi di conseguirlo : Socino parteggiò
per un re straniero, perfidiando alla veneta repubblica che
aveagli perdonate colpe non espiale , che pose in lui sin-
golare fiducia affidandogli la custodia della terra natale in
momenti di gravissimi pericoli. Volle Socino imitare gli
avi primeggiando in Crema al par di loro , e gli toccò la
dcploranda fine di Venturino Benzoni, di cui egli ritraeva
l'indole superba, l'ardimento ed il valore. Tutti gli storici,
perfino i nemici di Venezia, s'accordano nell' accusar So-
cino traditore: il buon Muratori scrisse che la veneta re-
pubblica ebbe il Iorio di fidarsi troppo di lui({): quindi
noi, contro la testimonianza di tanti scrittori accreditati,
non oseremo assumere le difese di Socino, e non gridere-
mo all'ingiustizia di Andrea Gritti, che appena l'ebbe nelle
mani lo consegnò al carnefice '.-'.
Giulio II inferocito nell'odio contro i Francesi, strug-
gendosi di scacciarli d'Italia, stringe una lega, che fu detta
Santa , coi Veneziani, col re di Spagna e col re d'Inghil-
terra (ottobre 1511): perciò a Lodovico XII non rimanea
degli alleati di Cambrai che l'imperatore Massimiliano, della
cui amicizia, oltre aver molivi di sconfìdare , poteva gio-
varsi ben poco. Massimiliano , quantunque principe guer-
riero, era tal uomo che vagheggiava continuamente gran-
diosi disegni senza né saperli , né poterli mai effettuare :
colpa della sua sconsideratezza e di una stupenda prodi-
galità, per cui difettava sempre di danaro eoa ebe pagare
(i). Annali d'Italia.
(2) Socino Benzoni trovò a' nostri giorni un difensore in Giuseppe Ran-
chetti: vedi le sue Annotaziani alla Storia dell'Aleniamo Fina
— 321 —
le sue (ruppe. Nel febbraio del 1M2 Venezia, per epera
del eonie Luigi Àvogadro, ricuperò Brescia: ae giubilarono
lii lerre lombarde eh' ciano siale suddite alla repubblica
avendo in men ili ire anni sperimentalo cosa Neramente
l'osse il flagello delle anni ^Maniere. SulT esempio di Bre-
scia rialzarono l'insegna di S Marco, Bergamo, Orzi-nuovi,
Orzi-veccbi, e tutti i castelli del Bresciano. I Cremascbi
sospiravano anch'essi di rompere il i^iogo forestiere per ri-
tornare in grembo alla regina delle lagune, e I* avrebbero
osato se i Veneziani si l'ossero affrettati di mandar loro
soccorsi. Essendosi il Durano recato in Francia , Crema
era allora governata dal castellano, il quale, accortosi come
nella città nostra serpeggiassero faville d'insurrezione, cre-
dette poterle ammorzare confinando duecento guelfi a lui
denunciali come sospetti da Guido Pace Bernardi, pessimo
cittadino, e unnicissimo del nome veneziano. Alcuni frati
di S. Francesco, due fratelli Benzoni , due Terni, Carlo
Benvenuti, Gio. Angelo Verdelli e prete Lazzarino da Co-
logno furono i primi ad essere scacciati da Crema. Ma al-
cuni di loro vi furon tosto rimandati dal maresciallo di
Francia Gian Giacopo Trivulzio, il quale da Lodi scrisse al
castellano una lettera ove ammonivalo a non usare simili
rigori, atti a provocare una rivolta piullostochè a prevenir-
la. 11 castellano profittò del consiglio, e s'astenne dall'es-
pellere, come avea divisato, gli altri guelfi da Crema.
Nell'anno 1512 le armi francesi segnalaronsi con due
vittoriosi fatti; la ripresa di Brescia che Gastone di Foix,
comandante l'esercito, mandò a guasto e a sangue, e l'ac-
canitissima battaglia di Ravenna. Furono trionfi che a Lo-
dovico XII costarono quanto una disfatta, imperocché col
sacco di Brescia i soldati, arricchitisi , disertavano per la
smania di ripatriare: e colla battaglia di Ravenna la Fran-
cia perdette Gastone di Foix, valorosissimo condottiero,
morto pugnando, nel fiore degli anni e delle sue glorie.
— 522 —
Intanto Giulio II , papa guerriero , infuriava sempre più
per discacciare dall' Italia i Francesi , giovandosi dell1 al-
leanza con Venezia e con Spagna, e degli Svizzeri che piom-
bati sulla Lombardia vi proclamarono duca Massimiliano
Sforza figlio di Lodovico il Moro. L'imperatore Massimiliano
ordinò ai suoi Tedeschi di abbandonare il campo francese;
così anch'egli smascheravasi in faccia a Lodovico XII, cui
s'erano l'un dopo l'altro convertiti in nemici gli alleati di
Cambrai. Il generale La Palisse, sostituito a Gastone nel
comando dell'esercito francese , vedendosi troppo debole a
fronte di tanti nemici, si ritirò in Francia con parte del-
l'esercito (giugno 1512), parte lasciandone a guarnire i
luoghi fortificati , unico avanzo delle conquiste che Lodo-
vico avea fatte in Lombardia. Allora ritornò dalla Francia
monsignor Durazzo a ripigliare il governo di Crema, a di-
fendervi il possesso di Lodovico XII, che, a dir vero, pe-
ricolava alquanto : imperocché Bergamo aveva schiuse le
porte ai Veneziani, Cremona era in potere degli Svizzeri,
e a S. Martino sul Cremonese accampavano le schiere della
repubblica veneta con Paolo Capello e Cristoforo Moro,
provveditori. Vennero nella città nostra ad afforzare il pre-
sidio francese Benedetto Crivelli, milanese, con cinquecento
fanti, e certo Girolamo da Napoli con cento cinquanta fanti
e quattro pezzi d'artiglieria. L'ingrossata guarnigione, e lo
scorrere che facevano i nemici di Francia sul territorio
nostro depredando, cagionarono in Crema penuria di vi-
veri, onde il Crivello ed il Napolitano andavano susurrando
a monsignor Durazzo doversi in Crema diminuire le boc-
che col discacciarvi i cittadini; ma il governatore non volle
in quel momento adottare un così odioso partilo.
Addì 7 giugno (1512) alcuni drappelli veneziani s'acco-
starono sull' albeggiare alle mura di Crema, verso Porta
Ombriano : erano guidati da Gian Paolo Griffoni , capitano
della repubblica: gl'inviava il provveditore Capello, d'intel-
— 313 —
ligenia con Girolamo Benvenuti e Pietro Mono , i quali
avevano divisato di sollevare in quel giorno il popolo ere-
mascè contro i Francesi. Stelle il Griffoni nascoste co' suoi
soldati a pochi passi dulie mura pei" ben sedici ore, aspet-
tando che la sommossa dei Cremaseli*! ijli porgesse favore-
vole occasione di menare le mani; ma non vedendo segni
d'alcun movimento, ritornò al campo veneziano pei' la via
di Castellconc. I Francesi si accorsero di quella misteriosa
apparizione del Griffoni, ed il sospetto di segrete macchi-
nazioni entrò Dell' animo del governatore e dei capitani.
Allora il Durazzo, spargendo voce nel popolo che i Vene-
ziani intendevano stringer Crema d'assedio, raduna nel
palazzo del Comune il Consiglio generale de1 cittadini, ove,
siccome parlava assai male l'italiano, aprì il suo pensiero
per bocca di Girolamo da Napoli. Il quale disse nettamente
ai consiglieri averli il governatore radunati, onde manife-
star loro le urgenze della patria; essere Crema minacciala
d'assedio, e non aver con che vivere per più di quindici
giorni: suggerissero provvedimenti.
Primo dei consiglieri a favellare fu il dott. Filippo Clavelli,
uno dei tre provveditori, dicitore bellissimo, gentiluomo
di tutte virtù cittadine adorno: col suo discorso proponeva
al Durazzo, facesse scortare dalla soldatesca i cittadini, ed
essi, ad onta che il nemico scorresse il territorio, usci-
rebbero da Crema, e vi rientrerebbero portando sulle spalle
quante vettovaglie abbisognavano. Lodò il Durazzo il modo
eloquente con cui s'espresse il Clavelli, ma di concedere le
sue milizie a scortare fuor di Crema i cittadini non accon-
sentiva. Allora Francesco dei conti di Camisano, uom cieco
e settuagenario, ruppe in questi accenti: ben starebbe che
tutti coloro che non hanno da mangiare sgombrassero da
Crema, perchè in tal maniera rimarrebbe sgravata la terra.
La proposizione del conte di Camisano piacque a Giro-
lamo da Napoli, accordandosi col disegno ch'egli già da
— 524 —
tempo mulinava in cervello, onde rivoltosi al Durazzo scla-
mò : ben dice il proverbio , consiglio che non sa di vecchio
nulla vale : questo vecchio gentiluomo proferì sante pa-
role: si cacci il popolo fuori di Crema e sparirà il peri-
colo di morire affamata1". Ma Filippo Clavelli, ripigliando
prontamente la parola, fece osservare, aver detto il conte
che bene sarebbe se quelli che non avevano da mangiare
volessero uscir fuori, ma non di cacciarli a forza, perocché
e ricchi e poveri eran disposti, da virtuosi cittadini, a vo-
ler o tulli assieme vivere, o tutti assieme morire. Luigi
Palrini , altro dei consiglieri , comprendendo a che miras-
sero i Francesi, levossi in piedi, e lanciò loro queste
brevi e risolute parole: « Signori , o che siele polenti di
» combattere il nemico, o no: se vi dà l'animo di poter re-
» sistergli, andiamo fuori a malgrado di chi non vuole, e
» conduciamo nella terra biade ed altre cose al vivere bi-
» sognevoli; ma se ai nemici siete inferiori, saranno vane le
» fatiche nostre: perchè sebbene i conladini volessero con-
» durre le biade in Crema, sarà loro vietato dai nemici. E
» sarebbe pur meglio, vedendoci ridotti alle strette, che
» pigliaste qualche partilo , perchè alla fine vi sarete co-
» stretti: e se indugiale, non potrete forse ottenere ciò
» che adesso vi sarebbe concesso. » Alle franche parole
del Patrini il governatore non rispose altro che in modo
brusco e misterioso, bien, bien. I consiglieri mormorando
fra di loro, assai malcontenti, levaronsi Fun dopo l'altro:
l'adunanza fu sciolta senza conchiuder nulla. Cosa ne se-
guisse, riferiremo colle parole medesime del Fino, il quale
su questo tratto della storia cremasca si diffuse più del
consueto: « Fu tra il governatore e gli altri capi francesi
» ordinalo di mandarci fuori tutti quel giorno istesso. Fatte
» adunque sul tardi serrar le porte della terra , e postavi
(i) Terni. Storia di Crema.
— 52;i -
» buona guàrdia colle artiglierie cariche, ridussero i! rima
» manente delle loro genti d'attorno le piazza con quattro
■ cannoni appresso il palagio: fingendo tutto ciò fere per-
i che aspettassero il nemico* Fatte queste cose, lece il Du-
» razjo per cosa importantissima ( come egli diceva), ri-
» chiamare il Consìglio. Laonde ninnatisi, oJtre quelli che
» erano di Consiglio, infiniti cittadini alla piazza, si ridus-
» scio nel duomo, aspettando entello ch'avesse a seguire.
» Ascesi i prow editori con altri nobili in palazzo, lro\a-
m cono clic il governatore si poneva Tainie indorso , il
» quale diedegli sempre buone parole lineile (senz'altro
» consiglio fere, avendo fìnto ciò per congregare i cittadini
» nella piazza), egli scese di palagio. Dove montato su un
■ cavallo che v'era parecchialo, cominciò minaccevolmente
» a gridare fuori fuori, villcn! Il che udendo, Filippo
» Clavelli gittate-sedi a' piedi, cominciò caldissimamente a
» pregarlo che ad un popolo sì fedele, di cui egli non avea
» ragione di dolersi, non volesse far questo torto. E se pure
» alcuni ci fossero de' cattivi, quelli solo castigasse, e non
» volesse fare che per quelli tutti gli altri andassero rarnin-
» ghi. E dove pur fosse alfine risoluto di cacciarli fuori ,
» almeno desse lor tempo lino alla vegnente mattina, acciò
» potessero dar qualche ordine alle cose loro. Ma non po-
» terono mai i preghi del Clavello, per caldi ed affettuosi
» che fossero, aver luogo nella ferigna durezza del duris-
» simo Durazzo, il quale acceso di quel naturale precipi-
» toso furor francese, sfoderala la spada, gli spinse il ca-
» vallo adosso , sfidando tuttavia con oriioiiliosa voce :
>' Fuori fuori, miteni Gli altri Francesi, veduto il gover-
» natore con la spada ignuda in mano, vollero coi cavalli
» entrar nel duomo por uccidere lutti quei Cremasela che
» vi si erano ritirali entro. Ma dicesi che gli cadderono
» sotto i cavalli sulle porte della chiesa, non permettendo
» il Signore che una tanta seellerasrsine fosse commessa
— 326 —
» nel suo tempio. Cacciati finalmente fuori tutti quelli che
» allora si trovarono alla piazza, fece subilo il Durazzo far
» bando, sotto pena della forca, che tutti i Cremaschi da'
» quindici anni fino ai sessanta dovessero incontanente
» uscire da Crema. Né contento del bando, indi a poco
» mandò soldati per le case a vedere se alcuno ci fosse ri-
» masto. Di maniera che dei Cremaschi non restarono in
» Crema se non donne, putti, giovanetti, vecchi decrepiti,
ti et alcuni per parlicolar grazia concessagli. Tralascio
» quelli che per bisognevoli servigi della terra vi furono
» rattenuti!1'. »
La cronaca del Terni ci narra che moltissimi, prima di
sgombrare da Crema, gitlarono nelle latrine i pochi viveri
che ancora possedevano, acciocché i Francesi non se ne
giovassero : ci narra eziandio che le milizie del Durazzo
scorrevano per Crema colle spade sguainate e ferivano
nelle spalle quanti Cremaschi trovavano sopra vie che non
conducessero direttamente alle porte della città: atti feroci
con i quali i Francesi rinfocarono nell'animo dei padri no-
stri l'odio all'oppressione straniera.
I Cremaschi, come si \idero espulsi dalla terra natale,
sentirono prepolente il bisogno di riguadagnare la sicu-
rezza e la pace del domestico tetto : né v'era altro mezzo
che impugnare le armi, cingere d'assedio la propria città,
scacciarvi lo straniero che ne li avea discacciati. Laonde
si disposero a combattere, ordinandosi in milizie., ed asso-
ciandosi ai Veneziani, i quali accampando a poche miglia
da Crema, mandarono al governo delle nostre genti An-
drea Civerani con alcune bande di cavalleggeri. Dapprima
i Cremaschi s'erano rifugiati a Monlodine, fortificandovisi
con bastioni, sbarre, tagliamene di strade : di là tratto
tratto scorrevano sulle ville più vicine a Crema, per ta-
(1) Fino. Stoiìa di Crema.
— 517 —
gliarvi Dei campi le biade già inalare, affinchè non venis-
sero dai Francesi depredate. Ma poi si ridussero ad Oro-
briano. I Francesi intanto, non arrischiandosi lare dello
sortile, cominciavano in (-rema a patir difetto (li vettova-
glie: la lame minacciava di ridurli a mal partito, quando
un rinnegato cremasco, certo Bernardo Dolera, indicò
loro il modo di foraggiare conducendoli per inusitati sen-
tieri a Madignano, villa non guardata dai nostri, ove, tro-
vate cinquecento some di grano, i Francesi le trasporta-
rono a Crema. Indispettirono i nostri che il nemico col
rifornirsi di viveri l'osse in condizione di resistere ancora
per qualche tempo, onde rinfiammando gli spirili bellicosi,
propongono l'are ogni sforzo per snidarlo da Crema. Adu-
natisi a consiglio, eleggono otto cittadini dei meglio assen-
nati, che alle bisogne della guerra provvedessero: furono
eletti Angelo Gridoni, Ottaviano Vimercali, Guido ed Ales-
sandro Benzoni, Alessandro Benvenuti, cavalieri, Filippo
Clavelli e Gian Petrino Terni, ambedue dottori, e Francesco
Zurla detto Vicino. Creali questi savi di guerra, impongono
la tassa di un soldo e mezzo per pertica su tutti i ter-
reni del cremasco, onde procacciarsi danaro da pagare i
soldati : ingrossano le loro schiere chiamando da Bergamo
Maffeo Cagnolo con 150 fanti, e levando da Val Trom-
pia 150 archibugieri. Ordinate ed accresciute per tal modo
le milizie, formaronsi due campi, Funo ad Ombriano, l'al-
tro a S. Bernardino, governato il primo da Andrea Civerano
provveditore veneto, il secondo da Angelo Francesco Grif-
foni: intendente pagatore del campo d'Ombriauo era Belo
Benvenuti; di quello di S. Bernardino, Francesco Zurla.
E affinchè le milizie dell'uno e dell'altro campo potessero
all'occorrenza riunirsi ed ajutarsi vicendevolmente, gitta-
ronsi due ponti sopra il Serio in diversa posizione, e a
poca distanza da Crema. Contro i Francesi aveva prese le
armi anche una moltitudine di conladini che attendavano a
— 328 -
Campagnola, capitanati da certo frale Agostino Giliolo fran-
cescano, non meno alto a maneggiar V armi che i libri,
cui slava meglio in capo l'elmo che il cappuccio (*). II quale
nelle bisogne di quella guerra s'adoperò tanto ardimentosa-
mente, che il senato di Venezia ne lo rimerilò promettendogli
un'aspettativa sul vescovado di Nova in Dalmazia. Per me-
glio dirigere i Cremaschi nelle loro operazioni d'assedio,
la repubblica veneta inviò ai nostri accampamenti Renzo
Ceri, gentiluomo romano di casa Orsini, capitano generale
delle fanterie veneziane, ripulatissimo per virtù militari.
Renzo fece erigere due bastioni, l'uno oltre il ponte del Se-
rio presso la strada che mena ad Oflanengo, l'altro sulla
riva destra del Travacone rimpelto a Porta Ripalta: proibì,
pena la forca, che alcun Crcmasco s'accostasse alle mura
dell'assediala ci Uà, temendo vi fossero di quelli che nasco-
stamente fornissero vettovaglie ai Francesi : e perchè tal
divieto venisse scrupolosamente osservato , pose guardie
notturne e spioni, scegliendoli fra i soldati del suo segui-
to. Ma questi permetlevansi di fare ciò che dovevano im-
pedire ad altri: ed i Francesi, col mezzo loro, introdussero
più volle dei viveri in Crema pagandoli con vesti e cappe
derubale nelle case, poiché di danaro scarseggiavano de-
plorabilmente "2l. Il Durazzo trovavasi ridotto in tali stret-
tezze, che per pagare le sue milizie dovette spigolare undici
mila lire dai pochi Cremaschi limasti in città, e vendere,
se crediamo al Darù^3, tutto il suo vasellame. Nondimeno
v' era ancora in Crema un gentiluomo d'animo tanto mal-
vagio ed avverso al nome veneziano , che stimolava il go-
vernatore a durare in quelle miserie anziehè cedere la terra
alla repubblica. Questi era Guido Pace Bernardi. Un bel
(1 Fino. Storia di Crema.
(2) Terni. Stona di Crema.
(3) Dahu. Storia di Venezia.
- 339 —
giorno ( 19 Agosto) che i Francesi con una Boriila tolsero
ai nostri statini falconetti» Guido Pace Bernardi andò a con-
gratularsene, coinè di una splendida vittoria, col Durazzo:
t Monsignore, dissegli, se possiamo resistere ancora per tre
mesi, non ci arrenderemo mai pia a questi beohie traditori
Veneziani { : che imporla la scarsezzza del danaio e dei
viveri? Noi mangeremo i nostri cavalli prima che cedere,
e quand'anche vi fossimo costretti, ci daremo piuttosto al
dica di Milano o air imperatore, che ai Veneziani.» Ed il
Durazzo con una smargiassata alla francese, gli rispo^- :
«Ben dite, messere, noi mangeremo piuttosto i figliuoli che
ceder Crema ai Veneziani (*).» Intanto la penuria dei viveri
facendosi pei Francesi sempre più spaventosa, il governa-
tore ai ±1 d'agosto mandò fuori di Crema anche i medici,
gli speziali, i macellari, e quanti altri, pochissimi eccet-
tuati, vi aveva dapprima trattenuti. Nel mentre uscivano
dalle porte, Bernardo Dolera invogliossi di seguirli per
buon tratto di cammino, colla scellerata intenzione di spiare
negli accampamenti dei Cremaschi e rendersi ancor più
benemerito dei Francesi: ma questa volta mal capitò T in-
fame: i Cremaschi scopertolo e riconosciuto, lo presero, e
con furiosa tempesta di sassate gli spezzarono il capo.
Angelo Griffoni Sant'Angelo, misurando la deplorabile
condizione cui era ridotto il Durazzo, pensò fosse venuto
il momento opportuno per tentarne V animo, e persuaderlo
alle trattative della resa: ottenuto un salvacondotto, mandò
in Crema Antonio Berso ad abboccarsi col governatore. La
comparsa di quel messo svegliò gelosia vivissima fra i due
comandanti la guarnigione francese, Benedetto Crivello e
Girolamo da Napoli. Ambedue, come videro che ceder Crema
diveniva una necessità ineluttabile, si erano proposti nel se-
(i) Terni. Storia di Crema.
(S) Idem.
92
— 530 —
greto dell'animo di far loro prò della cessione, consegnando
Crema a chi li pagasse meglio, fosse il duca di Milano, fosse
la repubblica di Venezia. Benedetto Crivello, che desiderava
l'are da solo e tutto per sé quel traffico, indovinando come
il Napolitano macchinasse il medesimo disegno, risolse di
ucciderlo. Addì 7 settembre , il Crivello colpì Girolamo da
Napoli di uif archibugiata, poi ne fece spezzare il capo da
due alabardieri. V atroce fatto compivasi in pieno giorno
sulle mura di Crema, presente il Durazzo che assisteva a
certi lavori intorno il rivellino di Porta Nuova. Benedetto
Crivello seppe con iscallrc parole convincere il Durazzo,
aver egli eseguita un'opera santa e profittevole al caso loro,
uccidendo il Napolitano, ed il governatore ne rimase così
bene persuaso, che a lui affidò le chiavi della Porta Nuova.
Allora il Crivello incominciò a trattare segretamente con
Bonzo Ceri, e gli offrì con patti onerosissimi la cessione di
Crema. Il generale veneziano non volle così di leggieri ac-
comodarsi alle esorbitanti pretese del Crivello, onde questi ,
mutalo consiglio, sperò e cercò un miglior compratore nel
duca di Milano. Era allora agente del duca Massimiliano il
vescovo di Lodi , figlio naturale del duca Galeazzo Sforza.
11 Crivello scrisse al vescovo significandogli in quali angu-
stie fosse Crema, che tenerla più a lungo era impossibile,
ch'egli poteva, e lo farebbe di buon grado, consegnarla
al duca di Milano. Frattanto consigliava il vescovo a man-
dare verso Crema sufficiente numero di milizie, alle quali
egli darebbe, sotto determinate condizioni, la città, schiu-
dendo loro la Porta Nuova, di cui teneva le chiavi. Per in-
tendersi cogli Sforzeschi, Benedetto Crivello scrvivasi di
Lucia, figlia di Matteo Bravi, onesta donzella, cui promise
cinquecento ducati quando si maritasse. Lucia usciva di na-
scosto fuor di Crema, e portava le lettere del Crivello a un
suo cugino, milanese, che abitava ai Sabbioni. 1 Cremaschi
la videro più di una fiala passare vicino ai loro accampa-
— :r>i —
mentì, ma conoscendoli) di buona famiglia e d'intemerati
costumi., erano lontani dal sospettarla uh cicco istrumento
delle trame del Crivello. La veda un giorno camminar
letta un uomo d'armi di Renzo Ceri, esc ne insospettii
ferma la ragaiza >ui due piedi, l'interroga, ed ella nel ri-
spondere impallidisce, turbasi, si confonde. Il soldato divieti
più saldo nel sospetto: mette le mani addosso alla donzella,
e frugandole sotto le vesti, \i trova dei dispacci: li to-
glie a Lucia , e li consegua a Renzo Ceri. Quei dispacci
scoprirono a Renzo le macchinazioni del Crivello, I* > av-
visarono del pericolo d'essere assalito alle spalle dalle
milizie dei duca di Milano: quindi il generale veneto non
indugiò a riprendere col Crivello le trattative per la resa
di Crema, ed annui a tutte le offertegli condizioni, comun-
que prima le avesse, perchè troppo ingorde, ricusale. 1 palli
della cessione di Crema proposti da Benedetto Crivello, ed
accettati da Renzo Ceri per la repubblica di Venezia,
furono i seguenti: «Desse il Crivello Crema ai signori
» Veneziani. Dessero i Signori al Crivello mille ducali
» d'entrata sul Padovano, con una casa in Padova per suo
» albergo. Dessergli per un suo nipote ottocento ducali
»> d' entrata di benefìcj di Chiesa nel Cremasco, nel Berga-
» masco, o nel Bresciano. Dessergli una compagnia di fanti
» pagali alla francese, e ducali cento per la sua persona:
» ed i danari delie paghe fossero dati a ini nelle mani,
» come gli erano dati dal re. Dessergli alla mano per detti
» cinquecento fanti, mille e cinquecento ducati d'oro per
» una paga servita in Crema. Dessergli al presente un'ai-
» tra paga di servire al mòdo francese, e ducati cento per
» sé di provvisione al mese, come di sopra. Dessergli sette
» mila ducati d'oro, prima ch'egli desse loro nelle mani
y le porte della terra. Concedessergli tutto il sale pubbli-
» co, che si trovava avere in Crema il salmajo francese.
» Fosserdi donati tutti i beni di Guido Pace Bernardi fatto
— om —
» ribelle della signoria eli Venetia , e di più gli fosse date
» a discrezione la persona di esso Guido con tutta la fa-
» miglia. Fosse fatto un salvacondotto a monsignor Durazzo
» dai signori Venetiani e da tulla la Lega, acciò eh' egli
» potesse andar sicuro in Francia , e tenesse la rocca di
» Crema nelle mani finché gli fosse portato il salvacon-
» dotto: dando però egli un suo figliuolo per ostaggio [ì\ »
Questi patti Renzo Ceri con sollecitudine significò al se-
nato di Venezia, dal quale furono sanzionati. Premeva co-
tanto alla repubblica di ricuperare la città di Crema, clic,
ben lungi dal riputar ingorde le condizioni imposte dal
Crivelli, lo rimunerò d'onorificenze e donativi oltre i pat-
tuiti nella capitolazione. A Benedetto Crivelli fu conferita
la nobiltà veneta, e si profuse danaro a tutti coloro che si
erano con lui maneggiali per consegnar Crema ai Veneziani.
Renzo Ceri prese possesso della città nostra a nome della
repubblica il giorno 9 di settembre (anno 1512). Nel giorno
medesimo Santo Robatto, cittadino cremasco e capitano del
duca di Milano, giungeva a Bagnolo menando 10,000 Sviz-
zeri, col disegno d'entrare in Crema secondo le trattative
che il Crivello aveva poco prima intavolate col vescovo di
Lodi. Ma poi, come il Robatto seppe esser Crema stata ce-
duta ai Veneziani, si ritirò colle sue truppe oltre l'Adda.
Qui ci torna in acconcio avvertire che il conte Daru (*)
cadde in errore asserendo aver la repubblica veneta rigua-
dagnata la città nostra corrompendo con venticinque mila
ducati il governatore Durazzo. Smentiscono l'asserzione del
Daru le cronache cremasene , e il Guicciardini nella sua
Storia d'Italia, ove toccando della resa di Crema ai Vene-
ziani, afferma aver bensì il Durazzo acconsentito alle ne-
goziazioni del Crivello con Renzo Ceri , ma forzato dalie
(1) Alema.mo Fino. Storia di Crema.
(2) Sloria della Repubblica di Venezia.
— ODO —
imperiose circostanze, non già perché egli abbia lucrato
rolla dedizione.
Vedemmo esservi nella capitolazione un pano col quale
Benedetto Crivelli domandava gli si cedessero a discrezioni
la persona 1 la famiglia e i beni di Guido Pace Bernardi.
Questo patto, elio a taluni por avventura può sembrar stra-
no, fu incluso nella capitolazione acconsentendovi lo stesso
Bernardi, al quale non rcsta\a altra via per fuggire la ven-
detta dei eonciltadini che abbandonarsi, con quanto avea
di più caro, nelle braccia di Benedetto Crivelli. Infatti, su-
bito dopo la capitolazione e prima che l Ocmaschi rientras-
sero in Crema, Guido Bernardi chiese al Crivello d'essere
carcerato con la moglie e col figlio , e che i suoi beni ve-
nissero sequestrati ^ll Ed il Crivello lo accontentò: e per-
chè in questo modo salvava al Bernardi la vita, si pagò
poi lautamente sulle sostanze di Guido Pace il beneficio. I
Cremaschi, appena rientrati nella città loro, andarono in
traccia del Bernardi, smaniosi di sfogare sul malvagio con-
cittadino il furore della loro vendetta: guai a Guido Pace
se l'avessero potuto cogliere! essi volevano finirlo, e porre
sul di lui sepolcro un epitaffio obbrobrioso, che avean già
scritto, e mandato al Bernardi perchè lo leggesse, quindici
giorni prima della resa di Crema M. Guido Pace rimase in
carcere per più di un anno : ne uscì dopo aver rimesso
buona parte del suo patrimonio. I Cremaschi, che avevano
giuralo di sguazzare nel sangue della famiglia di Guido
Bernardi, perdonavangli generosamente le offese, rispar-
miando così la vita ad un abbominato concittadino , ed a
sé stessi la voluttà e la turpitudine di una cruenta ven-
detta.
(1) Terni. Storia di Crema.
(2) L'epitaffio è riportato nella Cronaca del Terni, e rompcnevasi ii parole
«refill amen le infami per Guidu Bernardi e la «li lui famiglia.
3 ».>
CAPITOLO DECIMOPRIMO
I\KNZO CERI IN CREMA, E BUA VALOROSA DIFESA.
SOMMARIO.
1 Crenasehi, per liberarsi da Benedetto Crivelli, pagano mille e quattrocento
ducati.— Ambasciatori cremascbi mandali a Venezia, e fatti prigionieri a
Verona. — La Città di Crema è tutta ingombra delle milizie di Renzo Ceri:
i cittadini se ne lagnano. — Per quali motivi la repubblica di Venezia te-
nesse in Crema un grosso presidio. — Preparativi di difesa operali in Crema
da Renzo Ceri. — La repubblica veneta si rivolge per alleanza a Luigi IX 1 1
re dei' Francesi. — Lega conchiusa tra Venezia e Trancia. — Renzo Ceri
esce da Crema, fornisce di vettovaglie il castello di Cremona, e riacquista
alla repubblica Bergamo e Brescia. — L'esercito francese è disfallo dagli
Svizzeri alla Riotla. — Gravissime conseguenze die ne derivano alla repub-
blica di s. Marco: Padova, Treviso, e Crema sono le sole città che ancora
rimangono in potere dei Veneziani. — Imprese di Renzo Ceri. — I Veneziani
sono sconfitti nei dintorni di Vicenza. — Arrogante conlegno delie milizie di
Renzo Ceri in Crema. — Come i Cremascbi si adoperassero per abbonirsi
le truppe di presidio. — La pestilenza invade la città di Crema.— Agostino
rinvenuti assalta e saccbeggia Castiglione sul lodigiano. — Scorrerie di ne-
mici sul territorio cremasco: Marc'Antonio Fiatino e Silvio Savello respinti
da Renzo Ceri. — Prospero Colonna e Silvio Savello pongono assedio a
Crema. — Il pontefice Leone X s'intromette per pacificare Venezia con l'im-
peratore d'Austria , ma inutilmente. — Renzo Ceri rinunzia al grado con-
feritogli di governatore generale dell'esercito veneziano. — Come fossero
disposte intorno a Crema le schiere degli assediami. — La Cbiesa di s. Maria
della Croce fortificata dai Cremaschi. — Infelicissima condizione di Crema «
del suo territorio. — La pesle infierisce: infieriscono nella rapacità e nel-
l'arroganza le truppe di Renzo Ceri in Crema. — Operosa carità dei Pia-
centini verso i Cremaschi. — Paris Scolti salutalo padre del popolo crema-
sco. — Renzo Ceri, ridotto in tali strettezze da non poter più lungamente
resistere ai nemici, risolve di assaltarli. — Ballaglia di Ombriano e rotta
del campo Sforzesco, — Fuga del Savello: Prospero Colonna si ritira a Ro-
— 556 —
manengo. — Allegrezze dei Cremaschi per la riportata vittoria. — Pochi
giorni dopo la rotta degli Sforzeschi cessa in Crema la pestilenza. — Voto
dei Cremaschi. — Caratteri d'analogia fra l'assedio di Crema, sostenuto da
ftenzo Ceri , e quello in cui i Cremaschi resistettero a Federico Barbarossa. —
Ultime imprese di Renzo Ceri in Crema. — Come sia passato dal servizio
dei Veneziani a qaelì'o della Santa Sede. — Trattato di Noyon. — La re-
pubblica veneta ricupera quasi lutti i suoi dominj. — Elogi che si fecero a
Venezia per la politica che seppe mantenere durante gli otto anni della guerra
suscitatale dalla lega di Cambrai, — Allegrezza dei sudditi Veneziani pel
trionfo della repubblica.
Benedetto Crivelli, tuttoché avesse ceduta Crema ai Ve-
neziani, occupava ancora colle sue milizie la Porta Nuova,
risoluto di non abbandonarla, se prima non gli venisse in-
teramente pagata la somma dei settemila ducati a lui pro-
messi nella capitolazione. I Cremaschi, conosciutane l'in-
dole venale, desideravano torselo dagli occhi, tanto più che
sapevano non essere gli Svizzeri per anco allontanali dalla
riva destra dell'Adda : quindi sborsarono al Crivello per
conto della repubblica mille e quattrocento ducati, i quali
mancavano a compire la somma dovutagli a norma della
capitolazione. Allora Benedetto Crivello sgombrò da Crema
colla sua gente d'armi ed andosscne a Venezia, ove il se-
nato lo accolse festosamente, onorificenlissimamente.
I Cremaschi, giubilanti d'essere ritornati sotto la tutela
del leone di S. Marco, inviarono quattro ambasciatori a
Venezia, perchè a nome del Comune vi rendessero P o-
maggio di sudditanza, e domandassero la conferma dei loro
privilegi municipali. Gli ambasciatori eletti a tale missione
furono: il cavalier Bartolino Terni, il dottor Petrino Terni,
Guido Benzoni dottore e cavaliere, e Pietro Verdelli. Pas-
sando per Verona vennero tutti quattro fatti prigionieri dai
Tedeschi, ad onta che in quei giorni durasse la tregua fra
l'imperatore e la veneta repubblica. Era una rappresaglia,
avendo i Veneziani presi alcuni Tedeschi sulla riva di Salò.
31 dottor Petrino Terni, il Benzoni ed il Verdelli furono ben
presto liberali, e proseguirono il loro viaggio: il caf. Barlo-
lino Terni rimase chiuso ael Castel Vecchio di Verona per
ben ottantasei giorni, Gnchè potè riscattarsi pagando quat-
trocento ducati che il Comune di (-rema gli rimborsò.
I Cremaschi avevano ospitate le milizie di Renzo Ceri
nelle proprie case, trattandole con fraterna amorevolezza:
però credevasi non avrebbero indugiato ad allontanarsi
da Crema. Ma Renzo Ceri era ben lungi dal volerne sguer-
nire la città nostra, e ne aveva le sue buone ragioni. Erano
allora in Crema, tra fanti e cavalli, circa due mila soldati :
conlavansi fra i capitani Maffeo Cagnolo, Silvestro da Pe-
rugia, Antonio Pictrasanla , Andrea Delia-Matrice, An-
dreazzo Gravina, Baldassarc da Romano e Cristoforo Alba-
nese. Non andò guari che i Cremaschi incominciarono a
querelarsi perchè tanta soldatesca era mantenuta a tutte
loro spese, ed ingombrava le loro abitazioni: ne fecero ri-
mostranze a Renzo Ceri, ed egli sollevolli dal peso del
mantenimento, a condizione però che il Comune sommi-
nistrasse mensilmente alle truppe mille carra di legna ,
e trecento cinquanta di strame l1 . Altre e più gravose
condizioni dovette aggiungere poco appresso onde soddisfare
i bisogni e le pretese della soldatesca.
Per quale motivo il governo di Venezia teneva in Crema
così grosso presidio con tanta molestia dei cittadini ? È a
sapersi che la repubblica spasimava di ricuperare tutti i
suoi possedimenti di terra ferma perduti colla battaglia
d'Agnadello: quali erano allora occupati dagli Imperiali,
quali dai Francesi, quali dagli Svizzeri a nome del duca di
Milano. Volendo quindi ripiantare le insegne di S. Marco
sulle terre dì Brescia , di Cremona e della Ghiaradadda ,
Venezia profittò del riacquisto di Crema , per farla centro
delle sue operazioni militari, e presidiolla con buon nerbo
(1) Tkrki. Storia di Crema.
— 538 —
di milizie, affidate a Renzo Ceri, condottiero ripulatissimo.
Vero è che la repubblica veneta partecipava ancora alla
così delta Lega Santa formata da Giulio II, ma il senato
diffidava alquanto dei suoi alleati. E con giusti molivi, pe-
rocché il pontefice e gli Spagnuoli s'erano già inlesi fra di
loro onde impedire che Venezia risorgesse dai paliti disa-
stri poderosa come prima della battaglia d'AgnadelIo. Giu-
lio li si era confederato a Venezia non perchè le nutrisse
simpatia, ma per odio sommo ai Francesi: dopo che Lui-
gi XII fu cacciato d'Italia, poco importavagli che l'impera-
tore od altri ghermissero alla repubblica una parie de' suoi
antichi possedimenti. Erano scorsi due mesi dal riacquisto
di Crema, allorché Venezia vide smascherarsi la perfidia de'
suoi alleali. L'esercito veneziano aveva cinto Brescia d'asse-
dio: i Francesi, che vi tenevano ancora un debole presidio,
stavano per arrendersi, quando, sopraggiunto il viceré Gar-
dena co' suoi Spagnuoli, pretese gli si consegnasse quella
città, e tanto si maneggiò, che l'Aubigny, governatore fran-
cese, cedette Brescia a lui e non ai Veneziani (15 novem-
bre 1512). Né qui s'arrestarono le pretese del Cardona,
che altre ne sfoderava sopra Bergamo e Crema, quantunque
fossero già ritornate in potere della repubblica. In questo
modo spergiuravansi sfacciatamente a danno di Venezia i
patti della lega santa: ma di che non è capace, sclama il
buon Muratori, la smoderata avidità e ambizione d alcuni
principi? (*)
Renzo Ceri, veduto il mal tiro che alla repubblica gio-
cavano i di lei alleali, pensò a meglio fortificare Crema ,
avvisando quanto fosse un' importante posizione, e quanto
premesse al governo di Venezia di conservarla. Fece ro-
vinare i borghi, nel mentre i Cremaschi andavano rifacen-
doli: abbassò le mura del castello distruggendone le mer-
C-C/
{{') Muratori. Annali d'Italia.
Ialino, (ul afforzolle, ove occorreva, di terrapieni. I Cremaschi
deploravano nel segreto dell'animo tanti costosi preparativi
di guerra, ma ancor più si lamentavano per le sconfinate
pretese delle troppe che presidiavano la loro città. A sba-
razzarsene almeno di una palle, composero quattro com-
pagnie di terrazzani (sommavano a circa mille uomini), e le
offersero a Renzo ('eri in cambio di altrettanti àt SUOÌ sol-
chili: Renzo accettò l'offerta, ma a rinforzo e non iiià in
cambio delle sue milizie.
Intanto la repubblica veneta negoziava la pace con lini
ponitore Massimiliano d'Austria. Entrò in quelle negozia-
zioni Giulio II , e propose ai Veneziani di cedere a Massimi-
liano Verona e Vicenza, rilenendo Padova e Treviso, coll'o-
nere di un annuo censo da pagarsi alla corte cesarea. 11
governo veneto, comunque dissangualo da tre anni di guerra
disastrosissima, rifiuta sdegnosamente le proposte del pon-
tefice: vuol riguadagnare tulle le perdute provincie di terra
ferma, e conoscendo difficilissima impresa domare da solo la
cupidigia e l'invidia de' suoi nemici, cerca un alleato in Luigi
re di Francia. Stranissimo e impreveduto mutamento di
cose! Pochi mesi innanzi, Venezia guerreggiava contro Fran-
cia, ora ricorre a lei per alleanza. La lega venne infatti
combinala, e la conchiuse per la repubblica Andrea Grilli
ch'era in Francia prigioniero, e chi scese dalle Alpi in Italia
promettitore di trionfi alla nuova alleanza fu FAlviano, il
coraggioso generale che da tre anni scontava nelle prigioni
francesi la colpa del suo troppo ardimento. Base dell' al-
leanza fra Luigi XII e la repubblica fu il trattalo altra volta
conchiuso (1499) tra Francia e Venezia, con cui promelte-
vansi ai Veneziani (olire tulle le loro provincie di terra
ferma) Cremona e la Ghiaradadda, e al re de' Francesi
tutto il rimanente del ducalo di Milano (*).
(i) Sismondi. Storia delle Repubbliche llaliane.
— 540 —
Questi patti vengono sottoscritti segretamente a Blois, il
giorno 24 marzo dell'anno 1513. Luigi XII, cui delle con-
quiste fatte in Italia non avanzavano che i castelli di Mi-
lano, di Trezzo, di Cremona, e la Lanterna ossia Finale di
Genova, allestisce un poderoso esercito sotto il comando di
Lodovico della Tremouille per ispedirlo in Italia all'ago-
gnato riacquisto del ducato di Milano. Ne figurava allora
signore il duca Massimiliano Sforza, principe dappoco, a cui
l'imperatore avea conferita l'investitura del ducato, com-
prendendovi anche Bergamo, Brescia e Crema; questa volta
vantando la corte Germanica su dette città le antiche ra-
gioni di supremo dominio.
La lega tra Francia e Venezia è pubblicala nel mese di
maggio (1515). Il senato veneto per mostrarsi zelante nel-
l'adcmpirne le condizioni, e operoso amico di re Luigi, or-
dina che sia tosto vettovagliato il castello di Cremona pre-
sidiato tuttavia dai Francesi. Ne assume l' impresa Renzo
Ceri: esce da Crema, si scontra a Soresina colle schiere di
Alessandro Sforza, le volge in fuga, e giunge vittorioso in
Cremona a fornire di viveri i Francesi, che, difettandone,
erano in procinto d'arrendersi. Ritornato a Crema, lo si in-
carica di prender Brescia tenuta dagli Spagnuoli: Renzo si
muove di bel nuovo colle sue bande, e appena arrivato sotto
le mura di Brescia, gli si aprono a lui le porte: gli Spa-
gnuoli si ritirano nel castello. Anche Bergamo vuol darsi
ai Veneziani, e chiama Renzo Ceri in suo soccorso: egli vi
accorre, se ne impadronisce, e vi inalbera le insegne della
repubblica.
Ma tali acquisti operali rapidamente col braccio di Renzo
Ceri, non andò guari che la repubblica fu costretta ad ab-
bandonare. Nel giuguo dell'anno medesimo (1513) l'eser-
cito di Luigi XII, calando in Italia, fu sconfitto dagli Sviz-
zeri alla Riotta sul Novarese: i Francesi, scompigliati in
quella rovinosa battaglia, rivalicarono a tutta fretta le Alpi.
— 541 -
Saputa la disfatta dell'esercito francese, il viceré Cardona
spinge i suoi S paga uoli ad occupare le terre che la repub-
blica veneta aveva riguadagnate. Renzo Ceri, accorgendosi
che le forte non uli bastavano per difendere in un tempo
Brescia, Bergamo e Cremona, lasci;» che il Cardona se uè
impossessi, e si ritira collo suo milizie entro le mura di
Crema.
La rolla chi4 toccò all'esercito di Luigi XII sul Novarese
fu davvero una grave sciagura pei Veneziani: si videro ira-
boccali in tristissima condizione: si trovarono soli a com-
battere contro Spagnuoli, Tedeschi, Svizzeri e Sforze-
schi, tulli congiurati per rovinarli. L'Alviano, generale della
repubblica, conoscendo impossibile fronteggiare in campo
aperto contro tanti nemici, ritirasi a Padova, mandando
Gian Paolo Baglio™, con una parte dell'esercito, a guar-
dar Treviso. Chiusi l'Alviano in Padova, Gian Paolo Ba-
glio™ in Treviso, Renzo Ceri in Crema , queste tre cillà
soltanto erano sul finire di giugno (1515) in potere dei
Veneziani : il resto della terra ferma lasciato in preda a
nemici devastatori.
Renzo Ceri non istette a Crema inoperoso: con frequenti
scorrerie assalendo e depredando nemici nelle terre vicine,
meritossi fama d'accorto e coraggioso capitano. Tolse per ben
due volte agli Spagnuoli la città di Bergamo, la quale poi
venne occupala da Cesare Ferramosca e Silvio Savello, ca-
pitani del duca di Milano. Una volta Renzo Ceri, ladroneg-
giando a danno dei ladri, riuscì a derubare i commissari
spagnuoli d'un1 ingente somma di danaro che il viceré Car-
dona aveva smunto dai Bergamaschi taglieggiandoli barba-
ramente. Di lutto quanto bottinava, Renzo servivasi per pa-
gare le sue truppe, le quali garrivano continuamente, fino a
levare in Crema dei tumulti, perchè non si provvedesse ab-
bastanza lautamente ai loro bisogni. Essendo il territorio
cremasco circondato da Spagnuoli e Sforzeschi, Renzo Ceri
— 542 —
non poteva scegliere mezzo più acconcio da satollare le sue
milizie che gettarsi sul terreno guardato dall' inimico, e de-
predarlo. Ed egli appunto s'appigliò a questo partito, degno
della sua scaltrezza e del suo ardimento. Ai 19 di giu-
gno (1515) esce colle milizie da Crema, ed arso primiera-
mente Spino, irrompe in Pandino , lo saccheggia e vi fa
prigioniero il conte Guido Sanseverino: ritornato a Crema,
divide fra' suoi soldati la preda. 1 terrazzani di Caslelleone,
sapulo il sacco di Pandino, s'affrettano a stringere con
Renzo un accordo, e mandano a Crema da vendersi settanta
carradi vino e cento some di grano.
Intanto le sorli della veneta repubblica peggioravano più
che mai: nei dintorni di Vicenza gli Spagnuoli ruppero con
battaglia sanguinosissima l'esercito dell'Alviano: vi perirono
molli segnalali capitani della repubblica, e molti vennero
fatti prigioni. Crema vi deplorò la perdita di Gian Paolo
Griffoni, mortalmente ferito, e Santo Robatto, uno fra i
valorosi che vi rimasero prigionieri (*). Dopo la scondita
toccata all'Àlviano, Prospero Colonna, condottiero di bande
spaglinole, venne in Lombardia, proponendosi d'imbrigliarvi
l'audacia di Renzo Ceri: acquartierò prima in Soresina,poi
a Romanengo. Non per questo Renzo s' astenne dall' av-
venturarsi in arrischiate imprese , trascorrendo con istu-
pendo coraggio le terre occupate dai nemici. Riporteremo
la sua spedizione di Calcinate nel Bergamasco, e quella di
Ouinzano nel territorio di Brescia colle parole medesime
di Daniele Barbaro. « Tanta fu la virtù del signor Renzo
»' Ceri, che olire al conservare valorosamente Crema, spesse
» fiate egli usciva anche fuori, ovvero mandava a far dei
» danni ai nemici. Un dì fra gli altri si recò molta gloria,
» che avendo notizia come a Calcinate nel Bergamasco, mi-
(i) Damele Barbaro. Storia veneta. XdVArchivio storico Italiano, stampalo
in Firenze dal Vieusseux.
— r>r> —
ulia % «mi li lontano da Crema, alloggiava con cinquanta
uomini d'armi e cento cavalleggeri Cesare Ferraraosca,
deliberò di spogliarli tulli. Ai c2 di novembre in tempo
di notte, mandò fuori Marcello Astallo con ima bando
di cavalli, e Silvestro Narni, e Baldassare da nomano
colle loro compagnie di fanti, e giunte innanzi giorno n
Calcinate, le genti a cavallo presero ambe le porle, e i
fanti, scalale le mura di entrali arditamente, presero
Perramosca con quaranta uomini (ranni e tutti quei cento
cavalleggieri : coi quali, e con molle altre robe predate,
vincitori in Crema se ne tornarono. Nò stelle Renzo punì»)
quieto, che due giorni dopo, avendo inleso che le genti
darmi del conte Sansevcrino stavano alloggiate a Quin-
zano di Bresciana, oltre 20 miglia da Crema lontano, mandò
altra banda di cavalli e di fanti per spogliarle. Ma per-
chè nel luogo di Trigolo nel Cremonese si trovava buon
numero di cavalli nemici , mandò nclT istesso tempo a
quella volta venti cavalli con olio tamburi. Due ore
avanti giorno, ad un miglio presso la terra, essi tamburi
diedero ali' arme con tanto strepito, che tutto il paese
si mise in fuga, e le genti di Trigolo impaurite, murando
le porle, si preparavano alla dilesa. In quel mezzo tempo
le altre nostre genti, entrale in Quinzano, presero qua-
rantadue uomini d'arme del conte Sanseverino col loro
luogotenente, ed altri dieci del signor Prospero Colonna,
e con questa nuova vittoria fecero a Crema ritorno. Quel-
l' istesso giorno alcuni fanti usciti da Crema presero Lo-
dovico Malatesla ed Agostino Soardi, cittadini bergama-
schi ribelli della repubblica, e condussero nella terra due-
cento carra di legne, paglia e iìeno tolte nel Lodigiauo,
delle quali cose i nostri avevano estremo bisogno. Pro-
cedevano queste onorevoli operazioni dalla rara virtù e
prudenza di quell'illustre capitano, e dalla singolare fede
di quei popoli, i quali prestavano ogni favore alle nostre
— 544 —
» genti, palesando gli andamenti dei nemici.» Prosegue il
cronista veneto encomiando i zelanti servigi, la stupenda fe-
deltà della popolazione cremasca verso la repubblica, nar-
rando come il senato si onorasse e compiacesse di sudditi
tanto devoti. E per verità le amarezze, gli stenti, i sagrificj
di ogni genere che i Cremaschi sopportarono per ben quat-
tordici mesi durante la difesa di Renzo Ceri, ci offrono un
modello di bellissima lealtà e coraggiosa rassegnazione.
Dicemmo quanto pesasse ai Cremaschi la soldatesca di
Renzo Ceri, la quale, oltre essere numerosissima, preten-
deva alloggio e mantenimento a modo suo, con quell'arro-
ganza che è famigliare al soldato in tempo di guerra, ove
crede poter fare ogni suo talento. Succedevano di frequente
contese e sanguinose risse tra soldati e cittadini, e la peg-
gio toccava sempre ai cittadini, giacché le soperchierie dei
soldati passavano impunite. Renzo, per aderire in qualche
modo ai riclami della cittadinanza, dispose che gli alloggi
militari venissero ripartili nelle case dei cittadini in pro-
porzione dell'estimo di cui godeva ciascun proprietario.
Il Comune di Crema dal canto suo non trascurava prov-
vedimenti per abbonire la soldatesca. Dopo la battaglia di
Vicenza, essendosi i nemici della repubblica sparsi per tutte
le provincie lombarde, era divenuto assai malagevole tras-
portare danaro da Venezia a Crema, sicché Renzo trova-
vasi di sovente in procinto di dover ritardare le paghe
alle sue milizie. Il Consiglio di Crema promise un lauto
premio a chi sapesse con lutto suo rischio portare danari
da Venezia, ed adescati da tale promessa, non mancarono
gli ardimentosi che fecero dalla metropoli fluire in Crema
un poco d'oro. Nondimeno per le bisogna della guerra, e per
pagare le truppe , Renzo Ceri si trovò necessitalo di ricor-
rere ai Cremaschi per imprestiti e sovvenzioni fin di sto-
viglie e di formaggio. 1 cittadini, non che rifìularvisi, offri-
vano lutto quanto potevano: fra gli altri il cavalier Barto-
— 348 —
lino Terni prestò egli solo ire mila ducati , ponendo per
condizione che non gli venissero restituiti che a guerra
finita. A furia di prestiti, Renzo In poco tempo spillò dalla
popola/ione cremasea ottanta mila ducati : tuttavia i suoi
soldati non ismclle\ano il vezzo di derubare nelle case dei
cittadini, e chi amministrava le finanze dell'erario appro-
priava^ quei proventi che la repubblica aveva assegnati ai
cittadini onde compensarli dei prestili fatti.
Tracotanza di soldati, carezza di viveri, scarsità di da-
naro , ecco tre maledizioni che travagliavano crudelmente
la città nostra: ma quasi non bastassero a desolarne la
popolazione, un'altra se ne aggiunse più spaventosa e ir-
reparabile, la pestilenza. Sviluppossi nel giugno del 1515,
e mano mano andò dilatandosi orribilmente nell'anno suc-
cessivo. 1 Cremaseli*!, onde arrestare quel flagello stermi-
natore, si rivolsero confidenti al ciclo con preghiere, e vo-
tarono l'erezione d'un tempietto da dedicarsi a S. Rocco >
ma tutto fu invano. Pietro Terni, stalo testimonio a tante
calamità, narrandole sclama con accenti di profondo do-
lore : « 0 poverella Crema, dove per conseguir pietà farai
• ricapito, se il mondo, se il cielo, se la giustizia ti voi
» tano le spalle? A lacrime, a patientia ed a morire dispo-
» dìIì, solo rifugio alli tuoi innumerevoli guaK11.» Eppure
il cumulo di tante sventure non aveva prostrati onnina-
mente gli animi dei Cremaschi: i quali sentendosi ribollire
nel sangue il bellicoso spirilo degli avi, più cruna volta
uscivano anch'essi, sull'esempio di Renzo Ceri, dalla città
per affrontare nemici e depredarli. Pietro Terni narra co-
me Agostino Benvenuti .prendesse e saccheggiasse Casti-
glione, lerra in allora fortificata del Lodigiano. « La notte
» della domenica che precede il giorno di carnovale del
» 1514, Agostino Benvenuto, cittadino nostro > con fanti
(I) Tep.ni. Storia di Crema,
23
— 34G —
» duecento ii> battaglione e con le picche, traversata l'Adda
» a guazzo, Castione oppidulo lodigiano assalta innanzi gior-
» no, nelfhora appunto che le sentinelle mutavano: e con
» tanto impeto di tamburi, gridi e foco, ammazzati li custo-
» di, entra, che in fuga tutte le genti si metterono ; la
» compagnia degli Sforzeschi, di sessanta uomini d'arme,
» spoglia, l'oppidulo saccheggia, ed a cavallo tutti quasi li
» fantaccini rilornarono a Crema. »
Anche i nemici facevano delle scorrerie nel territorio
nostro. Marcantonio Filelino, gentiluomo romano, esce da
Pandino con uno stuolo di Sforzeschi , e giurando che
avrebbe toccate le mura di Crema, arriva fino ad Ombria-
mo. Quivi Renzo Ceri con una banda di cavalleggicri lo as-
salisce , e dopo lunga scaramuccia lo fa prigioniero con
tutti i suoi soldati. Condotto a Crema, il Filelino infuriò cosi
pazzamente d'essere caduto nelle mani dell'inimico, che
ricusò ostinatamente di prender cibo e bevanda, nò per-
mise gli si medicasse una ferita riportata combattendo ,
onde in meno di tre giorni morì da disperato. Poco appresso,
Silvio Savello, altro dei condottieri del duca Massimiliano
Sforza, entra nel territorio cremasco con trecento fanti,
trenta uomini d'armi, e quaranta cavalleggeri, proponen-
dosi di vendicare la morte del Filelino. Si azzuffa colle mi-
lizie di Renzo Ceri presso Crespialica, combatte vigorosa-
mente, ma alla fine è costretto a ritirarsi lasciando moi-,
tissimi de1 suoi , quali prigionieri, quali a morder la polve
sul campo, quali annegati nelle acque del Tormo.
Questi fatti, onorevoli per Renzo Ceri, succedevano ncl-
l'aprile del 1514: venuto il maggio, Prospero Colonna e
Silvio Savello risolvono di stringere Crema con durissimo
assedio, ed accampano colle loro genti a due miglia dalle
mura.
Prima di narrare le forti e calamitose vicende di questo
assedio, che durò per ben quattro mesi, non ammetteremo
(li accennare comi* il pontefice Leone \ , successo a Gii
lio II, abbia i ti que1 giorni leniate di ricomporre a pace
l'Italia. Eletto arbitro a giudicare le gravi controvento ir.»
l'imperatore Massimiliano e la repubblica di Venezia, Leone \
ehiese ai due potentati elio a lui si consegnassero come m
pegno Vieeoia e Crèma, lino a tanto ch'egli avrebbe de-
ciso quale delle due dovessero i Veneziani cedere all' im-
peratore, il quale instava principalmente per aver C reni a.
Le parti contendenti aderirono a questa propósta, tuttavia
le pratiche di Leone X valsero a nulla: il pontefice avendo
scoperto gl'intrighi del plenipotenziario imperiale, smise,
come impossibile, l'impresa di rappattumarti i Veneziani
con l: imperatore {).
Nel mentre pendevano a Roma delle trattative sulle sorli
politiche della città nostra, Renzo Ceri persistette con sin-
goiar destrezza a difenderla dai nemici della repubblica. Il
senato veneto, ammirando le sue virtù militari, lo aveva,
sul Unire dell'anno 1515, innalzalo al grado di governatore
ceneraio dell'esercito della repubblica : onore che Renzo
Ceri rifiutò , preferendo di rimanere a Crema, scelta da lui
a teatro delle sue glorie, ed ove, come scrive Muratori - ,
aveva preso gusto a depredare nemiei.
Siamo arrivali col nostro racconto a giorni di spaven-
tosa desolazione, comunque immortalassero Renzo Ceri
che seppe mantener Crema ai Veneziani, in onta delle armi
sforzesche che l'assediavano, e fra gli orrori della fame e
di una pestilenza sterminatrice. Prospero Colonna, con
circa tre mila fanti accampava ad Oifanengo: Silvio Savello,
con altrettanti, ad Omhriano : Cesare Ferramosca, con gros-
so stuolo tra cavalli e fanti, erasi posto alla torre di Pia-
nengo. Minacciato da tre lati , Renzo Ceri apparecchiasi a
vigorosa difesa: ordina sieno atterrate quante casce piante
(1) Vedi le storie di Venezia del Daru , dell'Ariano e di Daniele Barbata.
(%} Annali d'Italia.
— 548 —
erano fra Crema e S. Maria della Croce, onde potervi gio-
care liberamente colle sue artiglierie. Accorgendosi che la
chiesa di S. Maria della Croce diveniva un punto strate-
gico importantissimo, per impedire che i nemici la occu-
passero, vi manda buon numero di contadini e di soldati.
1 quali, scrive il Fino, « fortificarono in modo quella chiesa
» che non ci era rimedio da espugnarla. Avevano murate
» le porte di fuori, e ripieno di terra e di travi lutto quel
» vacuo ch'è di dentro fino al fondo della chiesa; acciochè,
» quando pur fossero entrali a forza i nemici, non vi si
» potessero nascondere, né ripararsi dai colpi di quelli che
» fossero alla sommità del tempio. A questo fine avevano
» parimenti murata la cappella grande. E per un usciolo
» si entrava nella sotterranea cappella, dove, fatlo un buco
» nel vòlto, si ascendeva con scala di mano nella cappella
» di sopra. Indi per la chiozzuola salivano alla sommità
» della chiesa, dove avevano comparliti intorno quaranta
» archibugi, coi quali facevano giocar largo ai nemici, ol-
» tre che erano ancora ajutati dall'artiglieria del castello.»
Cesare Ferramosca provossi replicatameli te a pigliar quella
chiesa d'assalto, profittando talvolta del bujo della notte ,
ma vi fu sempre respinto.
I nemici con frequenti scorrerie metlono il territorio
crcmasco a sacco ed a guasto: disertale le biade nei cam-
pi; incendiati non pochi cascinaggi a Monlodine e a Carni-
sano ; ridotte ad uso e a discrezione delle truppe sforze-
sche tutte le case in Offanengo ed Ombriano. 1 conladini,
presi da terrore, fuggono dai villaggi, riparano col loro be-
stiame sotto le mura di Crema, o\e formano capannucce
di paglia per albergarvi. Ivi i meschini ripromeltevansi
maggior sicurezza, perchè le loro capanne erano protette
dalle artiglierie di Renzo Ceri, oltre di che separavanli dal
nemico le aeque del Serio e del Travacone. Vuoisi che gli
assediati, fra quelli che erano dentro e quelli fuori di
— 349 —
Cremi, sommassero a trentaseimila persone 0), I rnnia
dini, per meglio assicurarsi nello loro capanne , avevano
fortificata la sinistra sponda del Travaconc: infelicissimi !
Nel mentre schermi va usi degli oltraggi di soldatesche fero-
ci, si attirarono sul capo calamita senza confronto peggiori.
1 viveri penuriando, si trovarono martoriati dalla lame, nò
andò guari che fra i disagi e gli stenti di quell'addensata
moltitudine serpeggiò la pestilenza, mietendo vittime a cen-
ti naj a.
I Cremaseli», rinserrali entro le mura della città loro,
sono ridotti in condizione non meno luttuosa. Niuna legge
infrena la rapacità, la violenza delle milizie di Renzo Ceri:
spogliano le case dei cittadini, uccidono chi s'oppone alle
loro prepotenze: inesorabili alle miserie, ai pianti di una
straziata popolazione, gì' inebbria la voluttà di poter im-
punemente satollare qualunque più brutale appetito. Tanto
iniquamente procedeva quel tristo soldarume verso citta-
dini, i quali al mantenimento delle truppe tributavano ogni
mese quaranta lire per ogni soldo d'estimo (*)! Ribalda la
minuta soldatesca, ma più ribaldi ancora i loro capi. Spa-
ventoso per infami soprusi era il nome di certo Jacopo
Micinello, capitano romano. La famiglia Benvenuti ricusò
di alloggiarlo nelle proprie case: preferì di acquartierarvi
novanta fanti, piuttosto che Micinello con tre suoi famigli.
Pensi ognuno (soggiunge il Terni) a che eravamo ridotti
quando un uomo ne beveva il sangue per trenta.
La pestilenza ond' era Crema orribilmente infetta non
tratteneva il soldato dal porre le mani devastatrici nelle
case dei cittadini. Anziché spegnersi, la libidine del depre-
dare, sconoscendo i pericoli del contagio, si rinfocava.
Nelle abitazioni dove giacevano moribondi gli appestati ,
derelitti dai parenti e d'ogni umano soccorso, irrompeva
(i) Terni. Stona di Crema.
(2) Idem.
— 550 —
il soldato; ghermiva ai miseri le vesti, le suppelletlili , e
fin le ammorbale lenzuola, poi, come bottino fatto nel
campo nemico , le trasportava quasi in trionfo ne1 suoi al-
loggiamenti. Più il morbo incrudeliva, men si vegliava a
reprimerlo: abbandonavano f ufficio loro le autorità dele-
gale a provvedere le necessarie precauzioni, ed il servizio
da prestarsi agli appestati : ne sfuggivano il letto perfino i
più stretti congiunti; onde, per uno spietato egoismo, gli
infermi eran condannati a morire senza poter rivolgere
l'ultimo sguardo sul volto di persone caramente dilette.
Intanto i becchini, esercitando all'ingrosso il loro mestie-
re, cacciavano e vivi e morti sotterra, ingordi brutalmente
di spartirsene le spoglie. Uno fra gli alivi, detto il Furia-
no, rubò tanto, che cessala la peste, condusse a Venezia
lenzuola per mille ducati (ì]. Quattordici mesi durò in Cre-
ma la pestilenza, e ne perirono intorno a sedici mila. Lo
sterminio s'accrebbe a più doppj nell'estate del 1514: ove
maggiori i disagi, gli all'anni, gli stenti, più copiosa e or-
renda la strage del morbo crudelissimo , il quale si estese
principalmente nei conladini, nella plebe della città , e in
particola^' modo nelle giovani da marito, talmente che ap-
pena la semente ne rimase^. Le famiglie signorili e la
soldatesca pagarono al morbo distruggitore lenuissimo tri-
buto. Quando la moria era divenuta cotanto spaventosa
da rapire un centinajo di persone al giorno, quattrocento
de' più facoltosi cittadini trovarono modo d'uscire da Cre-
ma travestili quali da frati , quali da conladini. Attra-
versando un suolo sparso di nemici , passarono al di là
del territorio cremasco: soldati spagnuoli, corrotti dal da-
naro, scortavano in luogo di sicurezza i fuggitivi. Alcuni
rifugiarono a Piacenza, altri a Lodi, ove incorrevano iu
(1) Fino. Storia di Crema.
(2) Terni. Storia di Crema
— 091 —
mioNi perìcoli, perchè se erano ghibellini venivano amorosa
mente ospitali*; se guelfi, imprigionali e coatrotti i riscattarsi
pagando laute somme. Piacenza, signoreggiandovi il parlilo
guelfo, confortò d'operosi amicizia gl'infelici Cremasohi :
più d una volta spedi loro spezierie per gl'infermi, vetto-
vaglie per gli affamali. Paris Scotti, gentiluomo piacentino
ile' piu ragguardevoli-, si meritò a Crema l'invidiabile epi-
teto di patire ilei popolo, sovvenendolo ili viveri che me-
nava egli slesso per recondite strade, sOdando il pericolo
ili venir sorpreso daga] inimici. Gli Sforzeschi si vendica-
rono di lui bruciando una villa di sua proprietà : ne lo
compensò la repubblica di Venezia con un assegno annuo
di seicento ducali.
Lasceremo il discorrere di fame e di peste: chi ne bra-
masse più minute descrizioni e atroci episodj, ricorra alla
cronaca di Pietro Terni.
Renzo, nell'agosto (1514), trovandosi privo di danaro,
pou mano agli argenti del Monte di pietà ed a quelli della
chiesa di S. Maria della Croce: batte monete del valore ili
quindici soldi milanesi dette pctaccliic, le quali non ave-
vano altro impronto fuorché l'immagine di S. Marco da un
lato. Né poteva fare altrimenti onde sedare le sue truppe:
cotanto strepitarono pel ritardo degli slipendj, che, a cal-
marle, Renzo volle che il provveditore Coniarmi promet-
tesse di abbandonar Crema a loro discrezione, qualora en-
tro un termine stabilito non ricevessero le paghe1'. Vene-
zia, sapendo la fedelissima Crema balestrata in un abisso
di miserie , fu tocca di pietà e di riconoscenza verso una
popolazione così duramente martoriata. // Concilio dei
Dieci decretò un dono ai Cremasela di diecimila ducati
in tanti sali, con promessa di rimunerarli ancora in altre
cose maggiori, e confortandoli a perseverare, perchè il re
di Francia manderebbe tosto in Italia le sue genti W.
{{) Damele Barbari*
(2) Idem.
— 552 —
Intanto gli Sforzeschi rallegravansi contando le lagrime, i
patimenti degli assediati, e tenevan per fermo di guadagnar
Crema senza arrischiarsi ad assaltarla, perchè Renzo sa-
rebbe suo malgrado necessitato a cederla. Infatti era im-
possibile che Renzo potesse durare più a lungo , lottando
contro mali insuperabili: egli stesso se ne accorse, e in
quegli estremi consultò sé medesimo sul partito da prendere.
Nelle inspirazioni della sua mente ardimentosa gli balenò
un disegno, che riconobbe audacissimo; pure, trovandosi in
disperate condizioni, risolse di eseguirlo.
Un contadino, detto Baruffo, aveva rivelato a Renzo
Ceri il modo ond'erano disposti ad Ombriano gli accampa-
menti del Savello. Per meglio accertarsene, Renzo sull'im-
brunire del giorno 24- agosto (1514) manda fuori di Cre-
ma il capitano Andrea Matrice, travestito da contadino, e
poscia, com'ebbe minute informazioni intorno all' ordina-
mento del campo nemico, deliberò di assaltarlo.
A due ore di notte del 25 agosto, le genti di Renzo Ceri
escono da Crema, dividendosi in varj drappelli. Andrea Ma-
trice , con settecento fanti e quattrocento contadini ben
armati, s'incammina alla volta dei Mosi; Antonio Pietrasanta
e Baldassare da Romano con le loro compagnie prendono
la via dei Sabbioni, ove i nemici avevano eretto un bastione
presso la chiesuola di S. Lorenzo (*); Giacomo Micinello,
scortato da cento cavalleggieri, si dirige verso Capergnanica.
Renzo, col podestà Contarmi, rimane alla custodia della
Porta Ombriano , collocando fuori di Porta Serio non lungi
dal castello gli uomini d'armi, onde impedissero che Pro-
spero Colonna accorresse in ajuto del Savello.
Era poco più di mezzanotte, quando Andrea Matrice, cui
affidossi la parte più difficile di quella spedizione, girando
(1) Di questa chiesuola ora non esistono più tracce: sorgeva presso la cascina
detta la Vakarenga , e il terreno ov' era situala manlicue ancora il nome di
a, l4erenz$..
attorno allo pahuli dei Mosi, arrivò nello vicinanze di Ba-
gnolo. Vi sosta un breve istante, fa un'arringa alle truppe,
stimolandole a comportarsi valorosamente, poi le conduce
sulla strada che mona (la Lodi a (ironia, sGiando verso Om-
briano, a tergo degli accampamenti nemici. Andrea Matrice,
tolti a compagni quattro capitani dei più animosi, s'innoltra
eoa essi fin dove orano le primo sentinelle sforzesche, pre-
cedendo di non molti passi le suo fanterie che gli tenevano
dietro silenziosamente. Le sentinelle nemiche avendo gri-
dato: Gin va là? il Matrice rispose: Duca, Duca; e spac-
ciandosi por un messaggero che veniva da Lodi portatore
d'importantissimi dispacci al Savello, diede loro certi con-
trassegni di sente che nel giorno medesimo era venuta nel
campo sforzesco. Ingannando in questo modo le sentinelle,
appena gli venne fatto di accostarsi a loro, se ne sbarazzò
ammazzandone l'una con un colpo di scure, l'altra con una
partigiana. Il Matrice si spinge innanzi , trova le seconde
sentinelle che dormivano, e le uccide. Indi levate le sbarre,
s'accosta alla torre di Ombriano '■*), lontana dagli accam-
pamenti sforzeschi un tiro d'arco, e costodita da numerosa
guardia. 11 torreggiano, accortosi d'un insolito calpestio che
rompeva il silenzio della notte, grida alle guardie di stare
all'erta, ma fu invano: le guardie dormivano tanto sapori-
tamente che il Matrice e i suoi quattro compagni ebbero
agio di farne un macello prima che si risvegliassero. Come
si trovò sotto la torre di Ombriano, Andrea Matrice fermossi
alcuni minuti aspettando d'essere raggiunto dalle sue fan-
terie , poi con gagliardissimo impeto assalì il campo degli
Sforzeschi, lanciando nelle loro tende, con pentole e trombe
di legno, certi fuochi lavorati che vi produssero un incendio
spaventevole. Gli Sforzeschi , riscuotendosi dal profondo
(1) Questa torre venne, come tante altre del territorio cremasco, distrutta.
Perù i terrazzani d'Ombriauo chiamano ancora col nome di Torre il sito ove
estollevasi.
- di-
sonno, s'alzano furiosamente dai loro giacìgli, vedono le
fiamme invadere i loro attendamenti , e poco lungi sfolgo-
rare le spade nemiche: un subito terrore li padroneggia,
che non s'aspettavano d'esser attaccali in quell'ora e così
da vicino. Lo scompiglio del campo sforzesco , gli urli , il
fragore, le fiamme accrescevano spavento nell'animo degli
assaliti. Silvio Savello, montato a cavallo, s'affanna indarno
d'incoraggiare i suoi fanti italiani a pigliar l'armi e com-
battere; essi, più che nel vigor delle braccia fidando nella
velocità delle proprie gambe, cercano salvezza nella fuga;
vi si abbandonano lutti precipitosamente per diverse vie,
quali a piò scalzi, quali in camicia (*). Ben diversamente si
diportarono gli Svizzeri: serratisi insieme olire l'acqua Ai-
china , ove avevano gli alloggiamenti, incominciano a far
testa, combattendo tanto robustamente, che i nostri per
ben due volte rincularono. Il Micinello, che era a Capcrgna-
nica, come seppe che i nostri due volte avevano indietreg-
gialo, volò a Crema co' suoi cavalleggieri, e narrò a Renzo
che le sue milizie erano in piena rotta. Intanto il Matrice,
riguadagnando terreno, giunge a impossessarsi delle arti-
glierie dei nemici, e le rivolta conlro di loro, nel mentre i
contadini incalzavano furiosamente da un lato. Il combatti-
mento fu accanilo, sanguinosissimo, e fini con totale disfatta
degli Svizzeri. Ne fu orribile il macello, pochissimi vi scam-
parono , perocché né lagrime né croci con le braccia gli
giovavano, ma come porci erano scannati l2). Silvio Sa-
vello fuggì a cavallo verso Lodi, e vuoisi per la strada di
Capergnanica; lui fortunato! che il Micinello aveva abban-
donato il suo posto per farsi messaggero di una falsa no-
vella, altrimenti sarebbe caduto in potere di Renzo.
In quella notte memoranda i nostri trionfarono in pari
tempo ad Ombriano ed ai Sabbioni, ove presso S. Lorenzo
(i) Tbhni. Storia di Crema.
(2) Idem.
— 550 —
slava trincerata l'avanguardia do! campo nemico, composta
di soldati tedeschi e spagnuoli. Attaccati improvvisamente da
Baldaasare da Romano e Antonio Pietrasauta, si difesero
virilmente, Gnché in :»j n tt> dei nostri sopraggi misero i con
ladini che menando le mani con istraordinaria gagliardia
li costrinsero ad arrendersi a discrezione.
Si domanderà come mai in quella notte Prospero Colonna
sia rimasto immobile ad Offanengo senza mandar soccorsi
al Savello. Le cronache cremasene affermano clic il Colonna
s'illuse; vedendo Ira le tenebre un incendio lontano, giu-
dicò fosse opera di Silvio Savello che avesse abbruciate le
capannello dei contadini poste in riva del Travaconc. Cre-
dette che i nostri fossero stati gli assaliti e non gli assali-
tori , e ne aveva motivo, giacché Renzo , onde condurlo
in inganno, fece in quella notte suonare a stormo le cam-
pane della ciltà, e tuonare dalle mura le artiglierie. Ora
pensale la meraviglia e lo sgomento del Colonna quando
seppe distrutto il campo d'Ombriano, fugato il Savello,
disfattene le milizie. Caduto dell'animo, si pone sulle difese,
aspettando che i nemici attaccassero anche lui per compire
luminosamente il loro trionfo. Difatli i Cremaschi volevano
ad ogni costo si piombasse addosso al Colonna, ma Renzo
ne li distolse, dicendo ch'era un voler sprecar sangue, pe-
rocché il Colonna, anche senza costringerlo, non avrebbe in-
dugiato a ritirarsi; e indovinò: pochi giorni appresso, Pro-
spero Colonna se ne andò colle sue truppe a Romanengo.
La stemperala allegrezza dei Cremaschi per la disfalla
del Savello è più facile immaginarsi che descrivere. Leg-
giamo nel Fino che, venuta la mattina del 26 agosto, tutta
Crema , per così dire, andò ad Ombriano. Risorti a no-
vella vita, i Cremaschi sboccano dalle porte della città loro
come da scoperchialo avello, tutti smaniosi di vedere la
distruzione del campo sforzesco, quasi volessero persua-
dersi coi propri occhi che i nemici vi erano stati volti in
— 556 — ■
fuga e sconfitti. Accorrono in frotta ad Ombriano persone
d'ogni età, d'ambo i sessi, e storpi, e infermi, e frali, e per-
fin monache il). Quali portavano canestri pieni di frutte ,
quali barili e fiaschi di vino , con che imbandirono la più
gioconda colazione del mondo (2Ì, seduli fra gli avanzi dello
tende nemiche, in mezzo a cadaveri non ancor freddi e lesle
recise , e membra qua e là sparse di Tedeschi , Svizzeri ,
Spagnuoli. Commovente spettacolo! Vedevi la gioja rifiorire
su volti falli lividi e scarni dai lunghi patimenti, e con mu-
tua effusione di tenerezza abbracciarsi soldati e cittadini ,
liberatori e liberali, e i brindisi le mille volte replicarsi alla
salute della patria, di Renzo Ceri, della repubblica. In quel
momento, fra quelle baldorie come poteano i Cremaschi ram-
mentarsi che ancora li flagellava un morbo terribile, il quale
aveva cacciati nel sepolcro mollissimi dei loro congiunti ed
amici? Chi rifletteva che l'addensarsi di tanta gente nel me-
desimo luogo accresceva il pericolo del contagio? Eppure,
ad onta che si affittisse in Ombriano una straordinaria mol-
tiludine di persone, e tripudiando vi si mescolassero i sani
cogli infermi, da quel giorno la pestilenza, anziché infierire
maggiormente , andò mano mano in Crema decrescendo.
Dove prima di tal giorno morivano fino a cent' ottanta
persone, in meno di quindici giorni, o fosse per la inolia
allegrezza, oppure che Dio ci volesse fare due grazie as-
sieme, tutta la terra fa risanata l3).
I Cremaschi, ascrivendo a grazia celeste il vedersi ad un
tempo liberati e dal duro assedio e dal morbo crudelissimo,
votarono una processione da farsi in perpetuo ogni anno il
dì 26 agosto : il voto si osserva ancora a' nostri giorni.
Renzo Ceri, per dimostrare che anch' egli riconosceva dal
Cielo la riportata vittoria, appese alla cappella della Beala
(i) Terni. Sloria di Crema.
(2) Idem.
(3) A. Fino. Storia di Crema.
— 5:>7 —
Vergine in duomo tre stendardi tòlti agli Sforzeschi e quat-
tro pozzi d'artiglieria; Botto questi trofei leggetesi la se-
guente iscrizione: Obsidione Levali Parta Victoria Po-
steri* Monumentum Futura , Ad Fastigio Diva Virginia
Spolia Prafiximus. Anno mcxiiii.
I contadini, ch'ebbero gran parte in quella vittoria, la
macchiarono poi con atti di sevizie. Scorrendo le campagne
diedero la caccia si soldati sforzeschi che vi si trovavano
quali sbandali , quali nascosti , e li trucidarono barbara-
mente. Più nefanda senza pari fu la condotta del Mici-
nello: dopo esser fuggito da Capergnanica per recare al
(ieri una falsa novella, saputa la disfatta dei nemici, ritorno
vers'Ombriano e lunghesso la via quanti incontrava conla-
dini carichi di bottino, altrettanti ne uccideva per ispogliarli.
La battaglia d'Ombriano è il più clamoroso fatto d'armi
che segnalasse in Italia Tanno lol4.(d>. La difesa di Renzo
Ceri e quella dei Cremascbi contro Federico Barbarossa
sono due avvenimenti che menano della città nostra scal-
pore nei fasti della storia italiana. Quantunque d'epoche fra
di loro lontani, pure, se ben vi riflettiamo, s'annodano per
caratteri di somiglianza. L'anno 1159 i Cremascbi resistet-
tero eroicamente contro Federico Barbarossa per non sot-
tostare ai giogo di Cremona, per odio all'imperatore che la
proteggeva, perchè volevano viver liberi o morire. Un ar-
dentissimo zelo d'indipendenza sospinse allora i nostri padri
a dare esempi imperituri di coraggio e di nobilissimi sagri-
licj. Nel 1514- i Cremaschi non erano men teneri della di-
gnità del loro Comune, e volendo che dell'antica libertà vi
si conservassero almeno le reliquie, sopportarono con sin-
golare annegazione patimenti d' ogni sorta , piuttosto che
cedere alle pretese del duca di Milano e dell'imperator Mas-
similiano suo alleato, piuttosto che disertare il vessillo della
(i) Muratori. Annali d'Italia.
— 358 —
venda repubblica la quale nelle terre conquistate rispettava
franchigie e statuti municipali. Sempre amantissimi di liber-
tà, si può dire che i Cremasela nel secolo undeciino ne di-
fesero la vita, e nel decimosesto quel simulacro che ancora
mantenevano e veneravano all'ombra del governo vene-
ziano. Nell'assedio del 1159, come in quello del 1514, armi
italiane cozzarono con armi ed ambizioni straniere, e fu
guelfo il colore delle insegne che sventolarono sulle torri di
Crema. Né sapremmo dire se maggiori sventure l'uno o l'altro
assedio accompagnassero: giudichi il lettore quale sia slato
più orribile flagello, la pestilenza mietendo nel 1514- circa
quindici mila persone, o l'ira di Barbarossa co' suoi barbari
stratagemmi, colle sue impiccagioni, coll'abbandonare Crema
a discrezione dell'esercito che la ridusse in un mucchio di ro-
vine. Qui noi non ommetteremo dinolare,che l'assedio soste-
nulo da Renzo Ceri è nell'istoria l'ultimo ch'abbia travagliato
la città nostra, e che fu sul terreno d'Ombriano l'anno 1514
l'ultima volta che il popolo cremasco , entrando nelle file
veneziane, pugnò per l'interesse del proprio Comune. D'al-
lora in poi la politica di Venezia, pensatamente molle e
coll'estcro e nell'interno, tolse ai sudditi le occasioni, non
che le forze ove ne fosse stato d'uopo, di far rivivere le
virtù guerriere per le quali i nostri padri furono temuti ed
ammirati nella splendida e tempestosa età dei municipj. La
vita guerresca del popolo cremasco, popolo che nel medio
evo fu arditamente bellicoso, finisce coli' anno 1514: la
sua necrologia può scriversi col sangue degli Sforzeschi
vinti in Ombriauo. Nondimeno , proseguendo col nostro
racconto, dimostreremo che le virtù militari non fuggirono
dal terreno cremasco col Savello: se non che l'ardimento
ed il valore, una volta patrimonio della nostra popolazione,
vedremo divenir prerogativa di pochi cittadini, la più parte
patrizi, i quali, educati alla milizia, coronarono di palme i
loro stemmi, pugnando chi per la repubblica di Venezia, chi
in servizio d'altri potentati.
— 359 —
Li signoria ili Venetta guiderdonò largamente parecchie
famiglie nostre pei servigi prestati e i danni sofferti durante
la difesa ili Renio Ceri. Fra gli altri, cencedette a messer
Francesco Griffoni, in riparaiione di danni, la metà dell'af-
fitto delle botteghe delia fiera di Crema, lu guai metà sola-
mente importava quattrocento (inatti l'anno: l'altra metà
cedette a Paolo Scodi; ed a Paris Scolli, olire l'assegno ili
seicento ducati , affidò la condotta ili 100 cavalleggeri '
Renzo lece spianine il monastero ili S. Bernardino (fuori
ili Poila Serio) fortificato da Prospero Colonna: spianollo
affinchè i nemici non vi potessero più accampare. Indi, in-
formalo come il Colonna ad impedire le seminagioni del
frumento spargesse molli de' suoi soldali nei dintorni del
Cremasco, spedì il capitano Àndreazzo alla volta di Casti-
glione per sorprendervi di notte tempo gli Spagnuoli elu-
si erano colà ritirali. Il Ceri avea disposto questa spedi-
zione con tanta astuzia da poter cogliere nella rete il Co-
lonna colle sue truppe; nondimeno il suo disegno andò
fallito. Il capitano Àndreazzo trovò prelesto di mandarlo
a vuoto, perchè temeva, col disfare il Colonna, di por fine
alla guerra: ciò che a lui, soldato di ventura, non garbava
punto , volendo si continuasse a menar le mani, onde go-
dere ancora per qualche tempo gli stipendi della repubblica.
Renzo, progettando di ritogliere Bergamo agli Spagnuoli,
fece venire a Crema un rinforzo di mille cinquecento fami
condotti dal conte Bartolomeo di Villa Chiara: poi spedì al
riacquisto di Bergamo il capitano Maffeo Cagnolo. Questi
ruppe presso Verdello circa duecento fanti spagnuoli, entrò
vittorioso in Bergamo, e vi costrinse i nemici a ritirarsi nella
rocca. Allora marciarono verso Bergamo Raimondo di Car-
dona viceré di Spagna, e Prospero Colonna, i quali scori-
li) Pamele Barbaro. Storte Veneziane. Nuli' Archivio storico Italiana del
Yieusàeux.
— 360 —
traronsi nel cammino con Nicolò Scollo, Andrea Matrice,
e Savaslo Narni, mandali da Renzo Ceri in soccorso del
Cagnolo. Le milizie venete colle spagnuole si mescolarono
le mani, e questa volta ai capitani di Renzo Ceri toccò san-
guinosa sconfitta. Il conte Nicolò Scotti fu preso, condotto
prigioniero a Milano, e per ordine del duca decapitato. Renzo
Ceri, accorgendosi di non poter conservare il possesso di
Bergamo, capitolò i*1, riconsegnando agli Spagnuoli quella
città che dovette pagare ottanta mila ducali d'oro per evi-
tare il saccheggio.
Sul principiare dell'anno 1515 un'estrema carestia tra-
vagliava ancora la citlà nostra. Informatone il governo di
Venezia, deliberò e scrisse di mandar fuori di Crema i
citladini , questo riputando, comunque odioso, il partito
più acconcio per provvedere ai bisogni della guarnigione
che volevasi pur mantenere in grosso numero a presidiar
Crema. Avventurosamente però i riclami fortissimi dei cit-
tadini , e un poco di vettovaglie portate nella città nostra,
valsero ad impedire che si desse in Crema esecuzione alle
lettere ducali pervenute dal governo di Venezia al nostro
podestà.
Renzo Ceri, l'anno 1515 soggiornò ancora nella città
nostra per nove mesi, né vi rimase ozioso: uscì da Crema
nel luglio e pose a sacco la terra di Castiglione: poco dopo
prese Lodi e la consegnò ai Francesi , alleati della repub-
blica., Ma poi, nutrendo dei rancori coli' Alviano, generalis-
simo dei Veneziani, entrò in trattative con Leone X per
accomodarsi ai servigi della Santa sede. La qual cosa come
seppero Giorgio Emo e Domenico Mocenigo , provveditori
del campo veneziano , vennero a Crema e Io licenziarono.
Allora Renzo Ceri se ne andò a Piacenza, ove fu onorevol-
(i) Se ti piace, puoi leggere nella storia d'AIemauio Fino i patti di quella
capitolazione.
— SAI -
fattole accollo (la Lorenzo Medici, nipote del papa Leone X,
che militava con genti pontificie e spagnuole a favore del
duca di Milano. Il Medici alììdò subilo a Renzo Ceri la con-
dona di duecento uomini d'armi e di duecento cavalleggcri.
Nell'anno medesimo (1515) Francesco I, successo sul
nono di Francia a Luigi XII, proclamatosi duca di Milano,
scese in Italia e ruppe idi Svizzeri nella battaglia di Mele-
gnano Morto nell'anno successivo Ferdinando il Cattolico,
re di Spagna, fu chiamato a succedergli Carlo d'Austria,
celeberrimo nell'istoria col nome di Carlo V, i! quale aftrcl-
tossi a stringer pace colla Francia, onde segui il trattato
di Pfoyon cui aderiva l'imperatore Massimiliano clic restituì,
suo malgrado, Verona ai Veneziani. Per tal modo nel 1517,
cessando la guerra suscitata dalla lega di Cambra! , la pace
ristabiliva^ in Italia; e Venezia, dopo aver combattuto otto
anni contro i principali potentati d'Europa, ricuperava
quasi tutti i dominj che aveva perduti.
Meravigliosa davvero la politica che la repubblica di
S. Marco mantenne in otto anni di fìerissima lotta , in
mezzo ai più spaventosi disastri che l'avversa fortuna mol-
tiplicava, quasi congiurasse coi monarchi d'Europa ad an-
nichilire la potenza veneziana. Ed è strano, osserva Robcr-
ston t*), come durante la guerra «Venezia prelevasse tali
» somme che anche a' nostri giorni si direbbero favolose.
» Quando il re di Francia pagava il quaranta per cento sul
■ denaro che toglieva a prestito; quando Massimiliano d'Au^
» stria era detto V imperatore senza quattrini, perchè cer-
» cava indarno chi gliene sovvenisse, i Veneziani trovarono
■ al cinque per cento tutto Toro che ad essi necessitava. »
Perfino gli scrittori sistematicamente avversi al nome vene-
ziano, ammirano la calma, la fermezza, la sapienza che
guidarono il senato di Venezia nelle più terribili strettezze
(4) Steri* di Carlo W%
— o<>2 —
nelle quali si vide precipitato dalla lega di Cambrai, nonché
la prontezza con cui riparava celeramente ai più gravi sini-
stri. «Ciò che torna a maggior gloria di quella repubblica,
« (scrive Darul1»), si è la concordia che in sette anni di av-
» versila non mai divise gli animi dei governanti ».
Ora figuratevi quanto si rallegrassero pel trattato di
Noyon le terre ritornate suddite a Venezia. Simpatizzavano
già col regime della repubblica prima della iega di Cambrai;
ora poi che avevano sperimentate le durezze dei governi
stranieri, ora che Venezia risorgeva dai sofferti disastri ir-
raggiata dalle politiche virtù de'suoi rettori, dalla gloria dei
trionfati pericoli, idoleggiavano le bandiere di S. Marco: i
sudditi con omaggi di affettuosa riverenza si prostravano
all'alato Leone fino ad adularlo, fino a dire che in Italia
sarebbe durato immortale ! ! !
ii) Sloi-ia di Venezia.
— ,"()-> —
CAPITOLO DEC1MOSECONDO,
VICENDE :»l CREMA
PI tSONAUGI CHE i.v ILLUSTRARONO NEL SECOLO DECIMOSESTO.
SOMMARIO.
Carlo d'Ausilia eletto imperatore : sua rivalità con Francesco l re di Fran-
ila! — Alleanze conchiuse dai Veneziani durante la guerra fra Carlo V n
Francesco l. — In mezzo alle calamità che quella ferocissima guerra apportò
in Italia, Crema fu tra i paesi meno disgraziati.— Pace di Bologna, cui
prendon parte anche i Veneziani. — Dalla pace di Bologna tino ali1 anno
1580 la storia di Crema è slerilissima di avvenimenti. — Erezione del ve-
scovato in Crema : come fosse governata spiritualmente la provincia cre-
masea prima dell'anno 1580. — Molli egregi Cremaseli] si distinsero nel
secolo decimosesto, quali nelle lettere, quali nella pittura, quali nelle armi. —
Scrittori: Nicolò Amanio, Gian Paolo Amanio, Pietro Terni, Alemanio Fino,
Michele Benvenuti, Giorgio Benzoni , Antonio Meli, Cristoforo Torniola , ed
alcuni altri. — Pittori: Vincenzo Civerehi, Carlo Urhini, Giovanni da Monie,
Aurelio Buso. — Guerrieri: Gian Paolo Griffoni , Santo Robatti, Prospero
Fracavalli, Mario Benvenuti, Gabriel Tadini ( detto anche Martinengo), Fran-
eesco Terni, Bartolino Terni (il giovane), Lodovico Vimercati (il giovane),
Evangelista Zurla (il giovane), David Noce, Scipione Piacenzi , Natale Sca-
letta, e molti altri che presero parte nella guerra di Cipro combattendo
sotto le insegne di s. Marco contro gli Ottomani.
La pace composta col trattalo di Noyon durò breve tem-
po. Morto f imperatore Massimiliano (1519), contendono
la corona imperiale Carlo d'Austria e Francesco re dì
Francia, Fuuo e l'altro brigando e prodigando danari per
ottenerla. Viene conferita a Carlo, che, assunto il nome
ui Carlo V, possedendo vastissimi dominj in Europa, Africa
ed America, potè vantarsi che ne'suui Stati mai non Ira-
— ofì&
montasse il sole. Per rivalila d'ambizioni e d'interessi sorse
Ira Carlo V e Francesco I una vivissima gelosia, quindi
una guerra ferocissima di circa nove anni, la quale scom-
pigliò l'Italia, divenuta teatro di ambizioni e tirannie stra-
niere.
I Veneziani, durante la guerra tra Carlo V e Francesco I,
mantennero una politica alquanto circospelta e pieghevole
a norma delle circostanze, mirando sopratutto a conservare
i loro dominj di terra ferma. Quando principiarono le osti-
lità (1521), parteggiavano ancora per Francia, e la soccor-
sero, quantunque adoperassero in modo di esporre il meno
possibile nei pericoli delle battaglie le insegne di S. Marco.
Scacciati i Francesi di Lombardia, i Veneziani aderirono
nel 1525 ad una lega con Carlo V, avendoli il senatore
Cornaro persuasi essere minor male per la repubblica la
vicinanza di uno Sforza, cui l'imperatore avea promesso il
ducalo di Milano, che quella del re Francesco, o dell'im-
peratore medesimo. Ma allorché Francesco I scese in Italia
con poderoso esercito (1524), risvegliaronsi nella repubblica
le antiche simpatie per Francia, le quali s'accrebbero ancor
più dopo la memoranda battaglia di Pavia (febbrajo 1525),
ove Francesco I, rotto e fatto prigioniero, disse aver per-
duto ogni cosa fuorché l'onore. 1 Veneziani, intimoriti al-
lora dei prosperosi successi delle armi imperiali, paven-
tando che Carlo V volesse insignorirsi di tutta Italia, s'ap-
pigliarono per un istante ad una politica nazionale, come
i Fiorentini nei secoli antecedenti a tutela dell'indipendenza
italiana. Il giorno 22 maggio del 1526 si formò a Cognac
una lega, delta Santa, tra la repubblica veneia, il ponte-
fice, la Francia, e Francesco Maria Sforza, proponendosi
di por freno ai voli audaci dell'aquila imperiale, e di as-
sodare lo Sforza nel ducalo di Milano.
Ci dilungheremmo di troppo, se imprendessimo a nar-
rare, come la guerra combattuta in Italia dopo la lega di
un- desolasse il Milanese, la Romagna, il Napolitan
il inomlo raccapricciò, perchè nel meriggio «Iella civiltà,
le soldatesche imperiali, gli Spagnuoli principalmente, die-
dero la li esempi di efferata crudeltà da vincere in para*
gone i tempi spaventosi d'Aitila e d'Alarico. Nel 1.'>C29 col
trattato di Barcellona e coir appuntamento de/Ir (((ime «
Cambrai, darlo e Francesco si acconciarono: e nel iliccm-
bre dell'anno medesimo, colla mediazione di Clemente VII
>i pacificarono coir imperatore anche i Veneziani, ai quali
vennero assicurali i loro possedimenti di terraferma.
Nel periodo di circa nove anni dell' atrocissima guerra
ira Carlo V e Francesco I, toccò al territorio cremasco la sua
parie di mali, non però tanti e così gravi da reggere al
confronto dei crudelissimi che patirono le vicine città del
ducato milanese. Fino scrive: u Fu per questa guerra non
» poco danneggiato il Cremasco, perciocché di quando in
> quando vi trascorrevano i nemici. F un giorno avvenne
» che essendosi scoperti dalla banda di Lodi certi cavalli,
» e dato sospetto di qualche tradimento, si gridò allarme:
■ e corse tutto il popolo armato alle porte a difesa della
- terra. E perchè Riccino d'Asola, capitano di cavalleg-
» geri, udito lo strepito, voleva entrar nella porta d'Om-
» briano, faltosegli all'incontro con gran numero del po-
» polo Giannino Piacenzi, gli disse arditamente che ci se ne
<» andasse pur co1 suoi soldati attorno le mura: perchè egli
» coi Cremaschi soli voleva guardare la porta. Di maniera
» che volendovi pur entrare l'Asolano, e tuttavia opponen-
» dosegli il Piacenzi col popolo, fu per nascere non poco
i> disordine nella terra, e vi nasceva di sicuro se il Foscolo
» (il podestà), postosi di mezzo, non avesse acchetata la
» cosa, ordinando che questi e quelli stessero alla guardia
« della porta (i) ti. Pubblicatasi la lega che i Veneziani
(i) Fiso. Storia di Crema.
— 5G6 -
Fanno 1525 strinsero con Carlo V, furono mandati fuori
di Crema lutti coloro che parteggiavano pei Francesi. E
nell'anno 1524, ai cinque d'ottobre, si tenne una dieta
ad Olfanengo in casa di Sanlo Roballi, patrizio cremasco,
ove intervennero i più cospicui personaggi di que' tempi:
vi si trovarono il viceré di Spagna, il duca di Borbone fuor-
uscito di Francia, il marchese di Pescara, stipendiati dal-
l'imperatore: il duca d'Urbino, generale allora dei Vene-
ziani, il duca di Milano, e Girolamo Morone governatore
dello Stalo milanese. Vuoisi che s' intendessero fra di loro
sul modo di condurre la guerra contro Francesco re di
Francia. Nel 1525 era governatore in Crema Malatesta Ba-
glioni di Perugia, generale dei Veneziani, quando la repub-
blica, dopo la famosa battaglia di Pavia, staccandosi da
Carlo V, si ricongiunse, mediante la lega di Cognac, alla
Francia. Il Buglioni , accordatosi prima segretamente con
Lodovico Vistarino, illustre e valoroso Lodigiano, uscì da
Crema con tre mila e più soldati, e passata l'Adda sopra
barche di nottetempo a Cavenago , prese la città di Lodi
con ardimentoso assalto, togliendola agli Spaglinoli che la
governavano disumanamente (1526).
Anno calamitoso a Crema fu il 1528. Vi si appiccò la
pestilenza, e molti ne perivano. Tuttavia i Cremaschi, me-
mori della strage più orribile che menò nel 1514, questa
chiamavano morbetto. In altri paesi d'Italia fu delta mal-
ma zuc co , perocché era una febbre pestilenziale, nel cui
empito ed ardore molti divenendo furiosi , si andavano
a gittar giù dalle finestre, oppure nei pozzi e nei fiumi
senza che ì medici vi trovassero rimedio i1).
Nell'anno medesimo i lanzichenecchi, scesi dal Tirolo in
aiuto degl'Imperiali, attraversarono il territorio cremasco
abbruciando Montodine, Crederà, Moscazzano , Rubbiano
U J Mcn.vroBi. Annali d'Italia.
— 567 —
r Ciselello. Questi disastri ci venivano da soldatesche ne
miche della Francia, e della repubblica sua alleala: ma poi
i Cremaschi ne soffersero di peggiori per opera dei Tran
ersi e dei Veneziani medesimi. Ai dodici di agosto (1558)
passò con grosso esercito sol territorio eremasco monsignor
di S. Polo, generale francese - sfilando verso Ceretò, e nel
giorno successivo il duca d'Urbino, condottiere dei Vene
ztani, menando circa nove mila soldati. 1/ uno e Tallio
posero a sacco le ville del Crema sco, diportandosi peggio
assai dei lanzichenecchi, perocché, scrive Terni, quelli con
tema , e questi liberamente discorrevano, e i lanzicliencechi
abbruciando le ville almeno lassavano dietro le ceneri, e
questi fino le ceneri ed i carboni dei focolari portavano
i'ia({\ Quasi non bastassero tali devastazioni a rovinare il
territorio nostro, Paolo Nani, provveditore dell'esercito ve-
neto, permise alle truppe, che difettavano di vettovaglie, di
provvedersene scorrendo pel contado eremasco: quindi fi-
guratevi le espilazioni, le rapine, i saccheggi che dovettero
soffrire gli abitanti delle nostre campagne!
Ciò nondimeno osiamo ripetere, che durante la guerra dì
Carlo V contro gli alleati di Cognac, la terra nostra, a
fronte degl'infortuni orribili che straziarono molle altre,
fu tra le avventurose. N' è prova l'udire dal Terni che a
que' tempi una moltitudine di Milanesi, Lodigiani, Piacen-
tini, Cremonesi, delle più cospicue famiglie, fuggendo la
ferocia degli Spagnuoli, ricoverarono a Crema come in
luogo di sicurezza, ed ove vennero accolti fraternamente.
Lo slesso duca Francesco Sforza, che gli Spagnuoli assedia-
rono nel suo castello di Milano, come trovò modo d'uscir-
ne, rifugiossi a Crema e vi soggiornò alcuni mesi, ospitato
splendidamente nel palazzo di Sermone Vimercati. Che
più? Intanto che nei vicini paesi ferveva una guerra de-
li) Ter.ni. Storia di Crema.
— 568 —
vastatrice, i Cremasela abbellivano la eiltà loro con nuovi
edifici, rinnovarono il palazzo del Comune (1525), eres-
sero V ospedal grande di S. Maria Siella, e nel carnovale
del 1526 sollazzaronsi con suntuosissimi banchetti e dram-
matiche rappresentazioni [i\ Davvero che in quegli anni,
calamatosissimi all' Italia, i Cremaschi ebbero motivo di
benedire la sorte cui piacque serbarli sudditi a Venezia.
L'anno 1529 slipulavansi gli accordi fra Carlo V e Fran-
cesco I : i popoli italiani, sfiniti da lunga e orrenda guerra,
se ne rallegrarono. Infelicissimi! Cessava, è vero, per loro
il supplizio di brutali maltrattamenti, ma in quell'anno,
abbracciatisi a Bologna il pontefice Clemente VII con l'im-
peratore Carlo V, soffocavano nell'amplesso l'indipendenza
italiana.
La repubblica di Venezia, accorgendosi che le guerre ave-
vano logoralo alquanto le sue forze, s'accomodò anch'essa
a Bologna con Carlo V , e d' allora in poi rivolse tutta la
sua politica nel conservare la pace. Adottando una neutra-
lità armata, schivò dal mescolarsi nelle nuove contese che
insorsero tra Carlo V e Francesco re di Francia. Però non
potè scansare dal sostener guerra col Turco , e le bat-
taglie combattute nel secolo decimoscsto palesarono che
l'antico valore delle ilolle veneziane non era ancor morto.
Dalla pace di Bologna (1529) scema d'interesse la storia
delle città venete, di Crema particolarmente, non offrendo
più, fino allo scorcio del secolo decimottavo, spettacoli cla-
morosi di guerre, di straniere invasioni, di politici rivol-
gimenti. Scorrete la storia di Crema dell'Aleniamo Fino;
egli dell'età sua non ha altro a dirci, che la successione
dei podestà in ordine cronologico, e i pubblici spettacoli
con i quali fesleggiavasi a Crema l'arrivo di un provveditore
di terra ferma, e le ambascerie che il Comune inviava alla
(ì) Vedi le Cronache del Terni e del Fino.
— 3W —
dominatile per far omaggio a un nuovo doge, eie feste che
replicavansi annualmente il giorno tli s. Eufemia, più «li
inde sontuosa quella dell' anno 1549, compiendosi il cen
(esimo anno dacché i Cremaschi ciano passati sotto la fc-
Ucìssììììu ombra del leone d'oro •>. La più notevole delle
eose che il Fino ha narrate intorno a Crema dell'epoca sua,
è l'erezione del \eseovalo, che i padri nostri anelavano già
da tempo e conseguirono nell'anno 1580.
Prima del 1580 tre vescovi esercitavano nella provincia
cremasca la spirituale giurisdizione, quelli di Piacenza, di
Cremona, di Lodi. La città di Crema era sottoposta al vescovo
piacentino, meno il borgo, che, quantunque nel recinto
della città, obbediva al vescovo di Cremona. 11 contado cre-
masco apparteneva in parte alla diocesi cremonese (s* , in
parte alla piacentina: i vescovi di Lodi restringevano la
loro autorità ecclesiastica sopra poche terre del Cremasco,
perspicienti la provincia lodigiana. 1 nostri padri strugge-
vansi del desiderio di formare della provincia loro una
diocesi indipendente. Fin da quando cadde sotto il dominio
veneto, Crema domandò alla repubblica d'essere conside-
rata come città, e l'erezione di un vescovato. Con una du-
cale dell' otto febbrajo 1450 la repubblica acconsentiva
fosse Crema considerata città, e partecipasse ai privilegi
delle altre città venete, ma ciò unicamente nei rapporti
temporali: in quanto concerneva gli spirituali, la repub-
blica, dal canto suo, prometteva si sarebbe intromessa di
buon grado a procacciarle dalla sede romana la chiesta
erezione del vescovato is). Nel successivo anno (1451) i Cre-
maschi inviarono un oratore a Roma, implorando dal som-
mo pontefice che innalzasse il loro Comune a città vesco-
vile, ma i loro voti non furono esauditi. Replicarono
(1) Alemanio Fino. Storia di Crema.
(2) Vedi in proposito l'articolo sul Vescovato nell'Appendice a questa storia.
(3) Vedi la Ducale nei Documenti , Lettera B, al Capitolo IX.
le istanze nel secolo decimosesto: Tanno 1545 mandarono
oratore a Roma il conte Fortunato Benzoni, proponendo a
vescovo di Crema Leonardo Benzoni, che era molto in fa-
vore di papa Giulio III, e dal quale fu poi eletto vescovo di
Volturno, città dell' Aquileja: pel medesimo negozio del
vescovato, Tanno 1561 , incaricarono il loro concittadino
Gian Paolo Amanio vescovo d'Anglone: e nel 1563 spedi-
rono a Venezia due ambasciatori, Michele Benvenuti e Gian
Francesco Zurla, i quali vi si adoperarono a tulTuomo per
ottenere a Crema il seggio vescovile. La repubblica vi ade-
riva, ma sempre le difficoltà sorgevano a Roma, ove forte-
mente vi si opponevano i vescovi di Piacenza e di Cremo-
na , non volendo perdere un palmo di terreno delle loro
diocesi.
L'anno 1578 venne a Crema in qualità di visitatore apo-
stolico Gian Ballista Castelli vescovo di Rimini: ordinò pa-
recchie riforme in cose ecclesiastiche, poi scoprendo come
Tessere il territorio nostro sottoposto a tre diverse diocesi
producesse non pochi disordini, incoraggiò la Comunità a
rinnovare in Roma le pratiche per conseguire il vescovato.
Monsignor Castelli non ommise di significare con lettere al
pontefice la convenienza di dare a Crema una sedia vesco-
vile, e papa Gregorio XIII , che allora sedeva sul Irono
pontifìcio, ne rimase convinto. Venuto a morte in quei dì
monsignor Federici vescovo di Lodi, Gregorio XIII, nel
conferire quel vescovato, si riservò la parte del Cremasco
ch'era sottoposta alla diocesi lodigiana. Vacando poco
appresso, per la morte di monsignor Amanio, la prepositura
in Crema dei SS. Giacomo e Filippo, che aveva un reddito
di circa mille ducali, s'astenne dal conferirla, con inten-
zione di applicarla come parte di dote al nuovo vescovato.
« Inteso il buon animo del pontefice per mezzo di Quirino
» Zorla dottore, allora abitante nella corle di Roma, fu
» dalla Comunità preso partito di donare il palagio nuovo
- :>7i —
» congiunto alla Canonica per abitazione dd nuovo vesco-
» vo. Provveditori della terra erano allora il cavaliere Giti
» lin Benioni dottore, il cavalier Cosmo Benvenuti, ed \u
■ lidio Martinengo, i quali mollo caldi si mostrarono nel
- maneggio di questo negozio ' » . Finalmente Gregorio XIII,
con bolla dell' undici aprile 1380, elevò Crema a città ve-
scovile - , e per quella bolla il nostro Comune pagò sei
ceiiio cinquanta scudi. Il primo vescovo di Crema fu Giro-
lamo Diede, gentiluomo veneziano e primicerio di Padova:
venne eletto dal pontefice il giorno 21 novembre del 1580,
e fece il solenne ingresso in Crema addì diecinove di mas-
ilio dell'anno successivo. Lo slcsso Gregorio XIII, avendo
poi innalzala nel \oS"2 la chiesa vescovile di Bologna in
chiesa arcivescovile, sollomise a questa la chiesa Crema-
seli, che rimase suflYaganca di Bologna fino all'anno 1855 (3> .
Nel secolo deeimoseslo Crema produsse molli egregi per-
sonaggi che l'illustrarono quali per dottrina: quali nella
pittura, quali nelle armi. Si distinsero per dottrina: Nicolò
Amanio, Gio Paolo Amanio, Pietro Terni, Aleniamo Fino,
Giorgio Benzoni, Michele Benvenuti, Antonio Meli, Cristo-
foro Torniola : nella pittura: Vincenzo Civerchi , Aurelio
Buso, Carlo Urbino, Giovanni da Monte; e nelle armi: Ga-
briel Tadini sopra tutti, oltre non pochi allri, alcuni dei
quali incontrammo già nel corso del nostro racconto.
Nicolò Amanio. Nacque sul finire del secolo ^decimoquinto
da nobilissima famiglia venuta da Bergamo a stabilirsi in
Crema l'anno 14oo. Esercitò l'ingegno nelle severe disci-
pline della giurisprudenza, e vi tesoreggiò dottrina, ripu-
tazione, onori. Chiamato nel lo20 a Cremona per animi-
ti» Fino. Storia di Cremo.
i Vedi la Bulla pontifìcia riportala in fine dell'Appendice.
(3) Vedi l'operetta del professor don Vincenzo Barbati sullo Stalo e Diocesi ài
Crema in riguardo allo spirituale, e l'articoli» sul vescovado di Crema nel-
l'Appendice a questa storia.
— 572 —
nislrare giustizia negli Stati Pallavicini, ottenne la citta-
dinanza cremasca ([) con uno speciale privilegio che a lui
concesse Francesco I re di Francia, allora duca di Milano.
Più cospicua magistratura occupò Tanno 1524 in Milano,
essendovi stato eletto podestà dal duca Francesco Maria
Sforza.
Nicolò Amanio ristoravasi dalle fatiche del giureconsulto
coir applicarsi alla poesia: verseggiò, e i dotti del suo se-
colo lo salutarono poeta. Matteo Bandello, rammentandolo
più d'una volta nelle sue Novelle, lo ricolma di lodi: lo
chiama virtuoso dottore di leggi e poeta eccellente, il quale
nelle composizioni delle rime vulgari fu in esprimere gli
affetti amorosi, a questa nostra età, senza pari. L'Ario-
sto fa menzione di Nicolò Amanio nell'ultimo canto del suo
poema: il Crescimbeni, nella storia della volgar poesia,
disse egregie le rime dell'Amanio: Giraldi (-) ne encomia il
buon gusto, e particolarmente una canzone scritta da Ni-
colò in morte di un suo figliuolo: Muratori, nella sua opera
Della perfetta poesia, ristampò uno dei migliori sonetti del-
l'Amanio, prendendone ad esaminare le bellezze ed i di-
fetti. Ma come mai le rime di Nicolò Amanio ebbero nei
secoli passati tanti ammiratori, ed oggidì sono dimenticale?
La storia dell' italiana letteratura ce ne spiega la ragione.
Nel secolo decimosesto il culto della poesia erasi diffuso
in ogni classe di persone. S'arrampicavano sulle vette di
Parnaso principi, cardinali, cavalieri, magistrati ; sonetleg-
giando, canzoneggiando, quasi tulli proponevansi a modello
le Rime di Francesco Petrarca. Per vezzo d'imitazione, per
seguire l'andazzo del secolo, fin gl'ingegni più austeri pia-
gnucolavano d'amore, stemperandosi in rimale spasmodie.
E fu allora che monsignor Della Casa, il cardinal Bembo,
(1) Il privilegio è riportato dall'Ansi nell' opera Cremona litterala.
(2) Gibaldi . ne! libro De Poctis nostrorum lemporum.
— ò7ò —
e il nostro giureconsulto Amanìo, per tacere di tanti altri,
con l'amoroso cinguettare credettero di poter sfrondare al
Petrarca l'alloro, e cingersene la fronte. Ma sgraziatamente
le Rime dei petrarchisti del cinquecento non erano che
variazioni più 0 mono eleganti (lolle melodie che sgorgarono
dal cuore del cantOT di Laura. Nò potevano essere altri-
menti sonetti e canzoni clic da gelate fantasie estorceva la
serviìe imitazione di un gran poeta. Nondimeno, porcile
molti petrarchisti erano peritissimi ncll' uso dell'italiana
tavella, perchè sapevano disporre i rubacchiati pensieri con
tale arti tizio di stile da rendere il verso armonioso e fra-
grante , le rime loro si divulgarono nel mondo letterario,
ebbero ammiratori nei dotti e furono per più di due secoli
battezzate Gori di poesia. Rammenteremo come Giuseppe
Barelli, per aver detto e provato che il cardinal Bembo era
poeta dozzinale , fosse costretto a fuggire da Venezia onde
sottrarsi allo sdegno delle Eccellenze Venete. La Dio mer-
cè, ne* tempi nostri l'idolatria a certi nomi di letterati che
a buon mercato acquistaronsi fama di poeti è cessata: è in-
franto lo scettro che nel regno della letteratura usurpa-
ronsi petrarchisti ed arcadi: ora una critica più sapiente,
comunque severa a molti , distingue i poeti dai verseg-
giatori:
Son come i cigni anche i poeti rari :
Poeti che non sien del nome indegni.
Così cantava l'Ariosto fin dal secolo decimosesto, e noi,
ad onta ch'egli abbia posto Nicolò Amanio in un fascio coi
più famigerati ingegni dell'età sua, diciamo francamente, che
LAmanio, petrarchista anch'esso come il Bembo, fu piut-
tosto verseggiatore che poeta. Né ci perderemo a dimo-
strare per quali caratteri i poeti si distinguono dai verseg-
giatori; chi si diletta di leggere componimenti in versi,
pongasi, leggendoli, la mano al cuore, e i bàttili più o mcn
— 574 -
frequenti gì' insegneranno la differenza. L' Amanio, come
facitore di versi, non era certamente degli inferiori del suo
secolo, che l'uso dell'italiana favella ben conosceva, e dotto
ha lo stile, benché troppo artificioso. E questi sono i pregi
per i quali lo fecero lodalissimo il Bandello, il Giraldi, il
Crescimbeni. Ma siccome ali1 insceno dell'Amamo mancava
quel fuoco divino che vivifica il pensiero ed i sentimenti ,
come il raggio celeste animò la statua di Prometeo, cosi
le sue rime caddero nel sepolcro dell' oblio.
I pochi che le hanno lette diranno se noi abbiamo giu-
dicato rettamente le rime di Nicolò Amanio, le quali l'abate
Solerà, con gentile pensiero, raccolse e pubblicò lanno 1848
per offrirle qual mazzo di rose ad un amico che andava
a nozze.
GianPaolo Amanio. —Nacque dalfistessa famiglia e quasi
coetaneo di Nicolò. Gian Battista Mazzucchelli lo ha notato
fra gli scrittori italiani, qualificandolo poeta volgare. Da una
lettera che Gian Paolo scrisse a Bernardo Tasso nel 1554
può congetturarsi ch'egli già da quell'anno fosse ai servigi
del cardinal di Ferrara , il quale lo tenne in grande esti-
mazione, e l'ebbe in Boma per suo segretario. Occupò in
Crema la prcpositura dei SS. Giacomo e Filippo, e i suoi
concittadini aveano posto in lui tanta riverenza che, ma-
neggiandosi per ottenere da Boma il vescovato, lo desi-
gnavano pastore della loro Diocesi. Fallirono i progetti dei
Cremaschi, impediti, come dicemmo, dai vescovi di Piacenza
e di Cremona; nondimeno a Gian Paolo le virtù, la dot-
trina, l'ingegno avevan procacciata altra sede vescovile:
Tanno 1560, scrive TUghelli (*), Gian Paolo Amanio fu
eletto vescovo d'Anglone, città della Basilicata nel regno di
Napoli. Pio IV, conoscendo i talenti di Gian Paolo, e la sua
destrezza nel disimpegno degli affari ecclesiastici, Io in-
viò al Concilio di Trento, al quale si sottoscrisse.
(1) Ugiielli. Italia sacra.
- wu -
L'Amamo, dopo essere st;it<> molti anni ad Anglone nella
sua residenza vescovile, rinunciò al pastorale per ritornare
;\ Crema, bramoso di morire nella terra che aveva salutato
coi primi vagiti. Ma la sorte non glielo consenti: recatosi
a Roma per affari suoi, \i fu colto dalla mori" il di 1T> di no-
vembre del 1579. Fu seppellito nella chiesa di Sinnesio ,
iena della diocesi d'A nglone, nella cappella della Conver-
sione di S. Paolo, in un sarcofago fatto da lui costruire,
con la seguente iscrizione. D. 0. li. lo: Paulus Amami <
CeEMENSIS, EPISCOPUS AnGOLONENSIUM ÌEUT Sili! ET SUCCESSO-
U1BLS suis Episcopis M.D.... j)
Alemanio Fino a Gian Paolo A man io largheggiò di lodi:
narra com'egli nella poesia latina e nella volgare scrivesse
fin da giovinetto mollo leggiadramente. Intorno agli scrini
di Gian Paolo Amanio, il Mazzucchelli ci porge le seguenti
notizie: «Poche sue rime si hanno, per quanto a noi sia
» noto, alle slampe. Alcune se ne trovano nel libro terzo delle
» rime di diversi, stampale a Venezia nel lòoO. Cinque suoi
» sonetti si leggono nel primo volume delle rime scelte da
» diversi autori , stampate in Venezia prezzo Gabriel Giolito
» De Ferrari nel loGo, e due di essi nel primo volume
» della Raccolta del Gobbi! Inoltre alcuni suoi versi latini
» si leggono tra gli elogi degli uomini illustri della Liguria
» d'Uberto Foglietta appiè di quello di ftoscio Doria - » .
Pietro Terni. — Cittadino benemerito a Crema, come que-
gli che per il primo ne compilò una storia, incominciando
dalla di lei origine, e condueendola fin all'anno 1553. Nac-
que nel 1476 addì lo di marzo da facoltosa e nobile fami-
glia: ebbe a genitori Gianbattista e Maddalena Zurla. Gio-
(1) Ugfelli. Italia sacra. La morte di Gio. Paolo Amanio che noi ponemmo
all' anno 1579 per seguire l'Alemanio Fino, è dall'Ughelli posta all'anno 1580.
Di Gio. Paolo Amanio fa cenno anche il Tiraboschi nella sua Storia della let-
teratura italiana.
{%) Mazzucchelli. Degli Scrittori Italiani.
- 376 -
Vinello, studiò giurisprudenza, e fu parecchi anni cancel-
liere del maresciallo Gian Giacopo Trivulzioa cui è dedicala
la sua storia di Crema. Sui quarantanni rimpatriò, ed am-
mogliatosi con INìcolina Benvenuti , ebbe nove figli. Ecco
tutlo quanto abbiamo potuto raccogliere intorno alla vita
di Pietro Terni, che il Fino troppo seccamente notò tra gli
uomini di pregio usciti da Crema.
Giacché pochissimo ci venne fatto di poter dire intorno
la vita di messer Pietro, ci allargheremo discorrendo dell'o-
pera sua, e perchè ancora inedita e perchè adorna di pregi
non volgari.
Pietro Terni, accingendosi a narrare la storia di Crema,
assumeva un arduo lavoro. Era nuovo il subielto, niuno
l'avea trattato prima di lui : oltredichè gl'incendi e le guerre*
col distruggere più d'una volta in Crema l'archivio muni-
cipale, avevano essiccate le fonti migliori cui attingere le no-
tizie della più grave importanza. Aggiungasi, che a'suoi tempi
giacevano ignorate tanle preziose cronache, le quali arric-
chirono le biblioteche nei secoli posteriori. À fronte di questi
ostacoli Pietro Terni compiva il suo lavoro, adoperando accu-
rate ricerche e infaticabile diligenza. Studiò i migliori aulori
che scrissero sulle vicende d'Italia, rovistò negli archivj di
private famiglie e in quelli della città di Milano: profittò di
alcune cronachette versanti sulle vicende di Crema , e
raccozzò diplomi e documenti dei quali ha impreziosito
l'opera sua.
Erudito ed assennalo è il primo libro, in cui messer
Pietro discorre dell'origine di Crema. Esposte le disparale
opinioni di varj scrittori accreditati, egli rifiuta quante
aveano men colore di probabilità, per appigliarsi ad una la
quale toglie a Crema molti secoli di favolosa esistenza ma
che ha le sembianze del verosimile. E l'opinione del Terni
venne poi adottala dal Fino e dal Sigonio, e Lodovico Mu-
ratori la giudicò basata sopra non incongruenti congetture.
- r>77 -
ISftilla ci riferisce intorno a Crema dall'epoca di Agilulfo i«
dei Longobardi fino a quella di Enrico HI imperatore di
Germania; ma chi oserebbe fargliene colpa? La storia di
quei quattro secoli è tenebrosa per città ben più cospicue
che non la nostra: e Torse messer Pietro avrà faticato cer-
cando notizie di Crema, ma indarno.
Ampia e vivacissima è la descrizione dell'assedio con cui
Federico Barba rossa cinse Crema Tanno 1159. Pietro Ter-
ni , conosciuta l' importanza di. questa famosissima pagina
della storia lombarda, si piacque di tratteggiarla diffusa-
mente, narrando i fatti più minuti, e lumeggiandoli con im-
maginazione e con affetto. Non così le vicende ili Crema
nei sessantanni che precedettero l'assedio e nei quaranta
che scorsero dopo: ivi accennò troppo laconicamente le ni-
micizie acerbissime fra Cremaschi e Cremonesi, senza chia-
rirne le cause, senza dimostrare quanto hanno influito nelle
discordie e nella politica delle altre città lombarde. 11 Terni,
mano mano che si accosta col suo racconto ad epoche a lui
più vicine, si allarga nell'esposizione degli avvenimenti:
dell'età in cui visse , narrò e le cose degne d'essere ram-
memorate, ed anche aneddoti di famiglie e di concittadini,
sicché talora^ meglio che storico, lo diresti novelliere.
Sommo pregio di Pietro Terni è di avere scritto la storia
di Crema francamente, schiettamente, con nobiltà di senti-
menti. Nato patrizio, non usò al patriziato cortigianerie:
di parecchie nobili famiglie narrò cose da pungerne la va-
nità gentilesca, tanto che il Fino compendiando il lavoro
del Terni, le ommise. Devoto ai governo di S. Marco, pure
Hon s'astiene talvolta dal rimproverarne i procedimenti.
Dello storico, messer Pietro possedeva la coscienza ed il
coraggio, venerande prerogative, che mancano in tanti inge-
gni più robusti, più illuminati che non fosse il nostro Terni.
Sommo difetto del Terni è la forma del suo lavoro!1).
\i) Vedi i Documenti. Leltera A.
2I>
— 378 —
Impura la lingua, rozzo lo stile, quando troppo dimesso,
quando infronzolalo di soverchie metafore: alcune volte
scorretta la sintassi. Fa meraviglia che messer Pietro tras-
curasse cotanto l'arte del bello scrivere, nel mentre pro-
fessavasi ammiratore ed amico di Nicolò Amanio, e viveva
nell'età che segnalarono Bembo, Machiavelli, Guicciardini.
Egli cercò discolparsene , ed udite con quale argomento:
«Perchè sono di nazione lombarda, iscusomi se il mio ra-
» gionare saprà di lombardo e non di tosco, perchè non mi
» è parso tanto dal mio domestico parlare dislongarmi, che
» dalle fasce e materne mamme ho riportato, per rimboc-
» carmi parole forastiere che non sia per lombardo rico-
» nosciuto, e con la mia voce falsare gli accenti di quella
» tanto onorata provincia che Dio e la natura mi hanno
» concessa fl> ». Giuseppe Racchelti trova lo stile del Terni
uguale perfettamente a quello che adoperò Bernardino Co-
rio scrivendo la storia di Milano'"2): infatti della somiglianza
avvene molta, e sembrano quasi due gocce dell' istessa
fonte: però il Cronacista cremasco, d'immaginazione assai
più calda, seppe colorire il racconto meglio del Corio e ren-
derlo più vivace, più saporoso (*\
Se gli scritti fossero regola infallibile a giudicare l'animo
dello scrittore , diremmo messer Pietro Terni cittadino di
tutta onestà, religioso, amantissimo della sua terra natale.
Questi nobilissimi sentimenti ingemmano le pagine del suo
lavoro , e rifulgendo fra la rozzezza dello stile, accrescono
autorità all'opera sua, riverenza alla di lui memoria. Pietoso
verso le classi popolane, sovente ne deplora le miserie, i
patiti disastri; con parole che s'innalzano a poesia, piange
non di rado sulle sventure della patria, piange, egli agiato
(1) Introduzione alla sua storia.
(2) Racchetti, nella sua Opera inedita, in cui -t*£tta delle nobili famiglie
cremasene.
i3ì Vedi la Nota B.
- 579 —
a patrìzio , sui dolori della plebe. Insomma , considerata
come cronaca non come storia, l'opera del Torni, benché
disabbellita da idiotismi, da sgrammaticature, da stilè troppo
negletto, merita d* essere collocata tra le migliori, perché
scrilta con senno e con alleilo, perche li erudisce con no-
zioni e documenti clic risguardtuo i costumi, la morale, e
talvolta la pubblica economia di un paese lombardo nei se-
coli del medio evo ' .
Al smanio l ino - '. — A Pietro Terni la fatica di compi-
lale il primo una storia di Crema, ad Alemanio Fino toccò
la rinomanza d'istoriografo cremasco. Intorno alla sua sita,
poche notizie abbiamo potuto raggranellare. Era sacerdo-
te , dimorò alcuni anni a Brescia, poi a Padova ed a Ve-
nezia, ove si maneggiò, non sappiamo per quali inierèss .
con ambasciatori di corti estere, e con le alte magistrature
delia repubblica. Ritornato a Crema, venne posto custode
al tempio di S. Maria della Croce, e fu allora che menando
vita tranquilla, in mediocri fortune, attese ad illustrare la
città nostra coi suoi lavori intorno alla storia di Crema.
L'anno 1578 ottenne ricca prebenda nella cattedrale di
Crema; ve lo nominarono, com'egli scrive, il cavalier Cos-
mo, Alessandro e Cristoforo Benvenuti per diritto di pa-
tronato3. La famiglia Fino era orionda da Bergamo, lo
che trasse in errore il padre Donato Calvi, che collocò il
nostro Fino fra gli scrittori bergamaschi. Morì nelfotto-
(f) Essendo estinto il ramo della famiglia Terni in messer Pietro, il di lui
autografo passò nella famiglia dei conti Clavelli : spentasi anche questa fami-
glia, passò per eredità nella casa Benvenuti che attualmente lo possiede. Al-
cuni posseggono in Crema la copia dell' autografo.
(2) In varie cronache l'AIemanio Pino figura tra f letterali bergamaschi :
s' ^gli sia nato a Bergamo o a Crema non sappiamo : certo é che la di lui
famiglia, quantunque un ramo se uè trapiantasse a Crema, annoveravasi fra
le patrizie bergamasche.
(3) Vedi la sua operetta sugli uomini di pregio usciti da Crema , ove fu
menzione di Michele Benvenuti il vecchio.
— 580 —
tobrc del 1584, come desunse Tubale Solerà da annotazioni
esistenti presso la curia vescovile di Crema.
Molti scritti il Fino pubblicò in prosa ed in versi: quelli
che gli procacciarono maggior rinomanza versano sulla sto-
ria di Crema. Gian Battista Terni, figlio di Pietro, deside-
rando far istampare il manoscritto di suo padre, lo diede
a rivedere ad Alemanio Fino, che sconsigliò Gian Battista
dal renderlo di pubblica ragione. Pure non bastando l'animo
ad Alemanio di defraudare interamente i suoi concittadini
di quel prezioso lavoro, imprese egli a compendiarlo. Com-
posti, sulle tracce del Terni, sette libri della storia di Cre-
ma , il Fino li pubblicò, e furono così ben accolti da' suoi
concittadini, che in un consiglio tenuto nelgennajo del 1567
lo incaricarono di proseguire F opera sua, assegnandogli il
Comune un compenso di ventiquattro scudi. Allora il Fino
aggiunse ai sette altri due libri; un terzo lasciò, morendo,
incompiuto, e venne pubblicato poi dal suo nipote ftuma
Pompilio Fino, il quale lo accrebbe di notizie intorno a
Crema fino all'anno 1586.
Che Alemanio Fino sia stato uom dotto e colto scrittore
apparisce dal complesso delle sue opere; nondimeno è pur
vero che i suoi dieci libri sulla storia di Crema lasciano
molto a desiderare, e non formano che una bella cronaclietta,
come la qualificò Carlo Cattaneo {M. Arido lavoro, quantun-
que politissimo nello stile, ci tramandò il Fino col suo com-
pendio della storia di Crema. Diciamo arido, perchè non
risponde all'importanza del subietto, e perchè poteva con la
stessa brevità renderlo meno incompleto, più ameno, più
istruttivo. Ma per meglio conoscerne i difetti, oltreché biso-
gna rammentarsi dei tanti doveri che incombono allo sto-
rico, è pur necessario aver esaminato l'opera del Terni, e
raffrontare fra di loro i due cronisti.
(i) IVel discorso sull'Agro ciemasco e ìudigiano , pubblicato nel Politecnico,
— 381 —
Pietro Temi nella sua opera tacque molte noii/.ie ris-
giardanli casi importantissimi , ed altre ne riferisce che
•io valevano la pena d'essere notate. Fino tralasciò que-
ste, e saviamente, ma a quelle non supplì, comò avrebbe
poluto e dovuto faro, da uomo <|ual crii studioso ed erudito.
Terni racconta con sincerità ammirabile e virtù e ribalde-
rie de' suoi concittadini, dicendone i nomi spiatellatamentc.
Il Tino non ebbe altrettanto coraggio, eh e pure indispen-
sabile allo storico se non vuol rinnegare l'alta sua mis-
sione. Timoroso d'offuscare i l'asti di gentilizie famiglie, si
rese colpevole di non poche ommissioni , tacendo tutto
quanto puzzava di malvagità, e che potesse far aggrottare
le ciglia del patriziato cremasco. Nell'Alemanio la riverenza
ai cospicui casati trasmodò più volte fino alla piaggeria,
del che non crediamo basti a scolparlo la non facoltosa
condizione in cui trovavasi, e che forse lo spingeva a gua-
dagnarsi dei mecenati nella classe dei nobili. Oltre a ciò
il Fino peccava di municipalismo, vizio comune agli seri-
tori di quell'età. Così a mo' d'esempio, nominando Marchi-
sio, il tristo che per Toro di Barbarossa tradì la terra na-
tale, s'astiene dal dirlo cremasco; né mai accenna la fa-
miglia cremasca e ghibellina degli Alchini, spesso menzio-
nata dal Terni: quasi temesse, col pronunciarne il nome,
di avvalorare la fama divulgatasi d' un Alchini cremasco
ehe abbruciò il crocifisso del duomo. E a questo cancro
del municipalismo è forse d'attribuirsi un altro difetto del
Fino, il quale nel suo racconto ben di rado esce fuori
delle mura di Crema per cercare altrove le cause di tante
vicende nelle quali fu avvolta la città nostra: né ti spiega
quali rapporti di politici interessi fossero tra Crema e gli
altri municipj di Lombardia. Perchè il popolo cremasco fu
guelfo, piuttosto che ghibellino? Perchè per più di cento
anni la sua libertà venne astiata dai Cremonesi, e favorita
caldamente dai Milanesi? Questi e vari altri quesiti di pari
— 382 —
importanza a te non isvolge la storia del Fino: chi la leg-
gesse digiuno di storia lombarda, non può comprendervi
tutti i fatti nella loro ampiezza , né impararvi abbastanza
la storia di Crema. 11 Fino pare s'accorgesse d'aver abboz-
zato Be' suoi dieci libri un magro compendio, e ad incol-
parlo pubblicò le Seriane, brevi discorsi sopra vari argo-
gomenti di storia cremasca, i quali aggiunse come appen-
dice al compendio fatto sulla cronaca del Terni. Le Sericine
palesano come il Fino avesse tesoreggiato di erudizione
nello studio delle storie italiane: sarebbero il lavoro più
pregevole dell'Aleniamo, se in alcune non avesse con in-
gegnoso velo adombrata la verità per ismania di accarez-
zare borie patrizie e velleità municipali. Certo professor
Zava di Cremona sorse oppugnatore di alcuni punti delle
Sericine: le difese il Fino con assai calore, pubblicando
contro il Zava tre lettere che intitolò Passeggiale . ove è
molta arguzia, molta vivezza e spontaneità di stile. — Altra
operetta di subietto storico scrisse il Fino, intitolandola
Scelta degli uomini di pregio usciti da Crema, della quale
è commendevole il pensiero più che l'esecuzione. Ivi sono
raccolti in bell'ordine i nomi di molti ragguardevoli perso-
naggi, ma con cenni troppo brevi sulla vita e sulle opere
loro, onde non servono che siccome indice dei fatti che
onorano la memoria dei più illustri Cremasela *'.
Le opere del Fino sulla storia di Crema, ad onta delle
mende che vi riscontrammo e che appariscono senza ajuto
di una critica microscopica, furono ricercate, lette e avute
in conto di irrefragabili testimonianze da egregi scrittori
di storie italiane. Messere Aleniamo è stalo il primo, e pos-
siam dire l'unico , il quale pubblicasse un ordinato rac-
conto di storia cremasca, e questa fu sua ventura: era
(i) Veggasi nella biografia dell'Aleniamo Fino, scritta dall'abate Solerà, e
da lui premessa nella ristampa delle opere del Fino intorno a Crema , l'elenco
di tutti gli scritti dell'Aleniamo Fino . pubblicati in diversi anni.
— 383 —
tra i forbiti scrittori ilei cinquecento nell'uso dell'italiani
tawlla, e questa è la maggior sua lode, che a lui valse la
ripetanone di letterato, e l'amicizia di molti ilo iti dell'età
sua. UTiraboschi, col dire un ottimo storico ebbe Crema in
AlcìmtmD Fine ' , alludeva principalmente al suo merito
di castigato ed erudito scrittore. INon sappiamo se i pregi
dello stile basteranno a preservare il nome d'Àlemanio Fino
dal tarlo dei secoli; certo è che noi lavori dell'umano in-
gegno, in letteratura particolarmente, la forma, se non è
lutto, è mollo. Vedemmo nel santuario della letteratura
accalcarsi e glorificarsi uno stuolo di mediocrissimi inge-
gni, cui unico vanto fu l'arte dello scrivere purgato ed
elegante, quindi in fatto di riputazioni letterarie sarebbe
errore applicarvi l'antica proverbio: non è l'abito che fa
il monaco.
Michele Benvenuti il giovine (*>. — È menzionato dal
Mazzucbelli fra gli scrittori italiani. Di lui Alemanio Fino
scrisse: « Onoratissimo e compilo gentiluomo è stato
• all'età nostra Michele Benvenuti, il quale, mandato più
» volte ambasciatore a Venezia, gratissimo fu sempre a
» quei signori. Tra le altre cose, fanno fede della sua elo-
* quenza due bellissime orazioni da lui fatte l'una nell'anno
» centesimo dopo l'acquisto di Crema fatto dai Veneziani,
» l'altra nella creazione del Doge Trevisan , da cui egli fu
» poi fatto cavaliere v3>. » In queste due orazioni, che Fino
giudicò bellissime, noi trovammo pompose parole più che
robusta eloquenza : pur non vi manca certo qual artificio
oratorio, erudizione e pulitezza di stile. I discorsi d'occa-
sione ben di rado s'innalzano al di sopra della mediocrità.
(1) Storia della Letteratura Italiana.
(2) Alemanio Fino Io chiama Michele il giovine, per distinguerlo d'un altro
Benvenuti dello stesso nome, che pure annoverò fra gli uomini di pregio usciti
da Crema.
(3) Fino. Scelta degli nomini di pregio.
— 584 —
Michele Benvenuti recitava i suoi a nome di sudditi che
dovevano glorificare i loro sovrani: l'argomento non era
dei più acconci ad inspirare vigorosa e sublime eloquenza.
Oltre a queste due orazioni, puoi leggere stampata di Mi-
chele Benvenuti una lettera a Pietro Aretino, nella raccolta
di lettere scritte a quel famosissimo ribaldo, della cui ami-
cizia vantaronsi, come di una gran ventura, i dotti, i prin-
cipi, i più insigni cavalieri e predati del suo secolo.
Nel carnovale dell'anno 1554, tra i molti pubblici spet-
tacoli che si diedero in Crema « si recitò in piazza la com-
» media degli Ingannati , la quale , come da sé sia bella
tr ed ingegnosa, piacque molto per i personaggi di conto
» che la recitavano, fra i quali fu il cavalier Michele Ben-
» venuti che vi fece il prologo. Nove anni dopo, nella casa
» del cavalier Michele rappresentossi X Eunuco di Terenzio,
» fatto volgare da messer Cristoforo Benvenuto, gentiluomo
» nel ve-ro> letterato e giudizioso ({). »
Giorgio Benzoni. — Viveva nella metà del secolo decimo-
sesto. Lo dice cremasco Gian Battista Mazzucheli , co-
munque alcuni lo vogliano nativo di Venezia , ove si era
trapiantato un ramo della famiglia Benzoni di Crema. Oltre
alcuni sonetti, l'uno dei quali in morte di Gaspara Stam-
pa, Giorgio Benzoni « scrisse e pubblicò le vite di Fran-
» cesco Donato, Marcantonio Trevisan , e Francesco Ve-
/> niero, dogi di Venezia, tradotte in lingua volgare da Lo-
» dovico Domenichi, e dedicò con una bellissima lettera a
» monsignor Giovanni Della Casa le rime di Benedetto
» Varchi (-'. Di questo scrittore, il quale, fosse nato a Vene-
zia oppure a Crema, era pur sempre rampollo della famiglia
Benzoni, patrizia cremasca, fa cenno anche il Cicogna nella
sua opera delle iscrizioni venete.
(1) Fino. Storia di Crema.
(&) Uazzjuchjsuj.. Degli scrittori italiani.
- 588 —
Amomo Mbli. — Frale agostiniano: scrisse, ad istigazioni
di Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, no trattato sopra
l'orazione domenicale, ed un libro in lingua Ialina col ti-
tolo, Scala dèi Paradisa. Onesto fu dal vescovo Zane (lì
Brescia dato a rivedere ad un monaco camaldolese che
lo giudicò libro divino. Anche il Canoino asserisce che la
Scala del Paradiso di Antonio Meli « è opera in realtà
» più divina che umana, mercè la profondissima teologia
» di cui essa è ricolma (*). » Certo fra Girolamo Grate, cre-
monese, preso pur egli delle hellezzc di questo libro , ac-
ciocché meglio si divulgasse, ne fece e pubblicò V anno
1614 la versione in italiano. Alcune altre opere compose
Antonio Meli, versanti sopra subietti di teologia e di di-
ritto canonico.
Cristoforo Torniola. — Chiaro giureconsulto, e, se cre-
diamo al Cogrossi i-*, l'oracolo de' suoi tempii che sali in
gran riputazione colla copia e saviezza de' suoi scritti le-
gali. Moriva Tanno 1591, e venne sepolto nella chiesa della
SS. Trinità ove leggevasi la seguente iscrizione scolpita in
marmo :
d. o. M.
CRISTOPHORO TORNIOL.E J. C.
VIRO PERILLl'STRl
FIDE OMNI ET JUSTITIV
SPECTANDO
EDITIS ATQUE EDEND1S
JURIS PRUDENTI/E VOLUMINIBUS
ADMIRANDO
CUJUS SAPIENTIA AD CONSULENDUM
VIRTUS AD PROMERENDUM
fi) C anobio. Proscgnimento della storia di Crema.
(2) Fasti storici della città di Crema.
— 386 —
SUPERFUIT
H0N0R VEL ULTRO SE OBLATUS
DEFECIT
AD D1GNTTATEM
ANGELUS FRANCIS JUR. ITEM FILIL'S
MUNUS HOC
PIETATIS ET OBSERVANTI.*:
F.
FASCES INTERIM LAURìEQ.
SUBMITTITUB.
QUID ENIM HIC LACRIMA?
£TATEM ILLE CEP1T ANNO MDXYI
PR1DIE KAL. MART.
PERFECIT MDXIl
VII RAL. OCTOB
Àgli scrittori dei quali parlammo testò , aggiungeremo i
nomi di Pantaleone Caldero, Mercurio Concoreggio e Tra-
jano Secco, essendo anch'essi annoverati fra gli scrittori
cremaschi del cinquecento nella Scelta degli uomini di
pregio usciti da Crema{ì\ Però non ci fermeremo a di-
scorrere delle opere loro, perchè essendo affatto dimenti-
cate, abbiamo argomento per credere che essi non sieno
stati uomini d'alto ingegno, e di quella riputazione nelle
lettere che loro attribuisce rÀIemanio Fino. Pantaleone
Caldero è accennato anche dal Tiraboschi fra gli scrittori
di giurisprudenza, non già fra gl'insigni, sì bene fra i non
molto illustri giureconsulti dei quali abbonda il secolo
decimo sesto (*).
Vincenzo Civerchi. — Fra gli egregi pittori della scuola
lombarda occupa nella storia onorevolissimo posto Vincenzo
Civerchi, detto anche Verchio, e il Vecchio da Crema.
(i) Alemanio Fino.
(2) Tiraboschi. Storia della letteratura italiana.
— 587 —
Ignorasi l'anno in cui nacque e quello in cui mori, nondi
meno sappiamo che dipinse nella prima nieià del secolo
decimosesto. Vincenzo Civerchi apri a Milano scuola di pit-
turo, e n'uscirono molti valenti allievi. Avendo dimorato
lungo tempo nella capitale lombarda ed essendo suc-
cesso nella scuola B Leonardo da Vinci, il Lomazzo erronea-
mente lo collocò fra i pittori milanesi1. Cadde in somi-
gliante eri-ore Giorgio Vasari, dicendolo pittore bresciano.
Vero òche Civerchio, scrivendo sopra alcuni quadri il pro-
prio nome, appellossi Vicentius Civerchius de Crema civis
Brixim, ma con raggiungere Civis Brixicc , voleva ram-
mentare l'onore ricevuto dai Bresciani che lo ascrissero
alla loro cittadinanza. Prova irrefragabile che tosse nativo
di Crema ci porge messer Pietro Terni di lui contempora-
neo, il quale, narrando nella sua storia d'aver pranzalo
con Vincenzo Civerchi, lo chiama suo concittadino. Vin-
cenzo era forse un rampollo dell'antichissima famiglia Ci-
verchi che ancora esisteva in Crema Tanno 1740 (-).
Non pochi scrittori resero a Vincenzo Civerchi omaggio
d'ammirazione e di lodi. Stefano Ticozzi dice che nelle fi-
gure fu studialo assai, e profondamente conobbe le leggi
della prospettiva ^\ Paolo Lomazzo encomia singolarmente
i dipinti a fresco nella chiesa di S. Eustorgio in Milano ,
ove Civerchi istoriò la vita di S. Pietro martire, dipinti che
i frati domenicani ricopersero barbaramente di bianco,
onde accrescer luce alla cappella, sicché non ne rimasero
che i pennoni della cupola. Fra Pellegrino Orlandi (4|
narra che Vincenzo Civerchi valse molto non solo nella pit-
tura a olio e a fresco, ma ancora nelV ardii lettura e nel-
(i) Gio. Paolo Lomazzo. Trattato dell' arte della pittura, architettura e scol-
tura.
(2) Tintori. Memorie cremasche.
(3; Ticozzi. Dizionario dei pittori.
(4) Abbecedario pittorico di fra Pellegrino Antonio Orlandi.
— 588 —
l'intaglio. Ed il Ridolfi pretende sia opera del Civerchi
Vhwenzione dell' ornamento e dell'intaglio (0. Giorgio Va-
sari giudicò il nostro Civerchi, valentuomo nei lavori a
fresco (~\ e Vasari stilicava alquanto la lode ai pittori della
scuola lombarda , lo che c'incoraggia a dire che il Civerchi
fosse veramente un artista d'alia riputazione.
Narrammo già che un quadro bellissimo del Civerchi, rap-
presentante S. Marco con ai fianchi la Giustizia e la Tem-
peranza, adornava la sala del nostro palazzo municipale, e
che i Francesi ce lo involarono l'anno 1509(3, Ora diremo
quali altri lavori vengono attribuiti al pennello del Civer-
chi dal Ronna e dal Racchelti (*>.
È opera del Civerchi il quadro che trovasi a Lovcrc
nella galleria Tadini, ove è figurata la Vergine col bambino,
seduta in trono sopra un basamento di marmo ed avente
S. Lorenzo al lato destro, e S. Stefano al sinistro: del Ci-
verchi il quadro de' santi Sebastiano, Rocco e Cristoforo
che vedesi nella Cattedrale di Crema , stalo dipinto l'an-
no 1515 per ventinove ducati d'oro. Altro quadro del Ci-
verchi troverai nella sala del nostro Monte di Pietà, qua-
dro in tela di gran dimensione che rappresenta la morte
della Vergine Maria. Vedrai due quadri, ove è trattato il
medesimo subietto, anch'essi del Civerchi, l'uno nella chiesa
di S. Giacomo in Crema, l'altro nella galleria Tadini a Lo-
vere: rappresentano il battesimo di Cristo per mano di
S. Giovanni Battista. È pure lavoro del Civerchi la parte
inferiore del quadro dell'assunzione di Maria che sta nel
coro del nostro duomo ^5).
(1) Ridolfi. Storia dei pittori veneti.
(2) Vasari. Le Yite dei Pittori.
(3) Vedi il Capitolo X di questa storia.
(4) Ronna, nei Zibaldoni cr emaschi; Racchetti, nella sua opera inedita che
tratta delle famiglie nobili di Crema, e contiene biografìe dei più illustri Cre-
maschi.
(5) Sono del Civerchi gli Apostoli estatici: l'Assunta è dell' Urbini. Questo
quadro è stato cosi disposto ed unito dal pittore Piccinardi , anch'esso cre-
masco , ma di vaglia mediocre.
- 389 —
Di pitturo a Fresco il Civérchi n'esegui io Crema parecchie,
per commissione quali del Comune, quali di privale fami-
glie. Dipinsi' negli archetti delle sale terrene del palazzo
comunale molti ritratti d'illustri Cremaschi. Conservansi
ancora alcune sue pitture a Tresco in una sala di casa Vi-
mercali, ed in un'altra di casa Zurla, le quali per la ras
somiglianza nel colorito e nel diségno non ammettono dub-
bio d'essere due lavori del medesimo pennello. Vuoisi che
i dipinti in casa Zurla sieno t'ultimo lavoro elio il Civérchi
eseguì in Crema, e si ascrivono all'anno 1510 '*).
A modo degli artisti de1 suoi tempi il Civérchi, dicemmo,
fu anche architetto e scultore. Della sua perizia nello scol-
pire in legno ci fa testimonianza una statua di S. Pania-
leone, posseduta dall'abate D. Felice Battami.
Carlo Urbim. — Quando sia nato e quando morto, ignorasi:
fioriva intorno alla metà del secolo decimosesto e viveva
ancora nell'anno I080. Nelle storie dei pittori è annoverato
fra gli eccellenti del suo secolo. Lo encomiarono il Lomazzo,
il Lanzi, l'Orlandi, il Ridolfi, i quali s'accordano nel quali-
ficarlo grazioso, facile disegnatore, gentile nel colorilo ,
dotto nelle prospettive. Vuoisi che abbia dipinto in com-
pagnia di Bernardino Campi. Si distinse nel tratteggiare ar-
gomenti storici: un lavoro, lodalissimo dal Ridolfi, eseguì
in Crema Tanno looo nella sala del palazzo Pretorio, ove
dipinse la battaglia d'Ombriano , ossia la rolla del campo
sforzesco a'tempi di Renzo Ceri. Si sa che abbandonò Crema,
perchè indispettito coi padri domenicani, i quali, volendo
far dipingere nella loro chiesa la cappella della Vergine del
Rosario, a lui preferirono certo Uriele, meschinissimo pit-
tore cremouese. Domiciliatosi a Milano, vi levò grido del
suo ingegno, ed a lui piovettero copiosamente le Commis-
ti) Dei dipinti che sono in casa Zurla parlo diffusamente in un opuscolo il
professore d. Basilio Ravelli.
— 31)0 —
sioni. Dei lavori che eseguì in Milano, sono dagli storici
rammentati i suoi affreschi a S. Lorenzo, le pitture alla
Passione j e la bella tavola a S. Maria presso S. Celso,
rappresentante nostro Signore die approssimandosi il co-
minciamento della sua passione, prende congedo dalla Ma-
dre. Quest'ultima è opera di tal merito che, a giudizio del
Lanzi, non teme la vicinanza dei migliori Lombardi di
quei tempi.
In Crema diede non pochi saggi del suo ingegno dipin-
gendo sia a fresco , sia ad olio. Ma delle opere sue peri-
rono molte per la demolizione delle chiese di S. Agostino
e S. Caterina, e colla rifabbrica di quella di S. Benedetto,
ove eizli nel circuito e sulla volta del coro aveva Usurati i
Crocesignati, togliendone il pensiero dall'Apocalisse. Yedesi
ancora nella chiesa di S. Bernardino sull'areone del pre-
sbitero, opera sua, l'annunciazione di Maria. Sotto il por-
tico di casa Zurla rappresentò diversi fatti della Gerusa-
lemme liberata del Tasso, pitture di molto pregio, ma gua-
ste dall'età, e peggio ancora dalla mano sacrilega che le
ha restaurate. Altro bellissimo affresco era sulla porta del-
d'Ospizio dei Trovatelli , ove l'Urbini effigiò la Carità cri-
stiana: una donna seduta e intenta nel dar nutrimento a
parecchi fanciulli. Lo perdemmo nel 1858, quando quel-
l'ospizio fu convertito in caserma. Carlo Urbini ornò dei
suoi quadri varie chiese di Crema U).:ne vedrai in duomo,
a S. Giacomo, a S. Carlo, a S. Benedetto, a S. Bernardino.
Quello a S. Carlo, ove effigiò la Vergine col bambino, S. Giu-
seppe e S. Giovannino, è giudicato fra i suoi migliori. Al-
(1) Nel duomo, oltre la figura della Vergine Assuma, vedi alcuni miracoli
di s. Pantaleone : in s. Giacomo, il quadro nel coro, dell'apostolo in alto di ri-
cevere da G. C. la sua missione: in s. Bernardino la pala rappresentante s. Gi-
rolamo nel deserto, e s. Francesco in atto di ricevere le stimate : in S. Bene-
detto la pala della ss. Trinità, opera non finita. Nella chiesa ora distrutta di
s. Agostino eravi dell'Urbini la tavola di G. G. portalo al sepolcro, con la Beau
Vergine , le Marie ed altre figure.
- :>9i —
in due quadri dell' Urbini trovanti s Loverc nella galleria
l\nlmi, ed no terze a Milano oelia galleria di Brera.
Discepolo a Carlo fu il di lui nipote Vittoriano Urbiui,
valente pittore anch!esso, ma che per la scarsità de suoi
lavori non raggiunse la fama dello zio. Di Vittoriano, unica
opera che ci limane è il quadro rappresentante il Padre
Eterno, che dipinse per la chiesa di S. linceo, ed oggidì
vedesi nella galleria Tadini.
Giovanni Da Montb, — È tradizione si chiamasse Da Mon-
te, perchè nato nella villa di questo nome. Fu scolaro di
Tiziano: il Torre e il Lomazzi) lo pongono tra i più insigni
pittori milanesi del secolo dccimoseslo. Ne\V Abbecedario
pittorico dell'Orlandi leggesi : « dipinse in Milano con forza
» tale e fondamento di sapere clic le opere sue rapirono
» l'attenzione dei primi maestri non solo a contemplarle,
• ina ancora ad imitarle. Occorse a questo pittore che, ol-
» tenuto dai deputati alla chiesa di S. Celso di dipingere
» la tavola della Risurrezione di Nostro Signore, a forza
» d'impegni gli fu levala la commissione da Antonio Campi.
» Sdegnato per la mancanza di parola, pregò quei signori
» a concedergli almeno il gradino di quell'altare, nel quale
» dipinse a chiaro e oscuro sì vaghe e spiritose figurine,
» che superò e mortificò con quelle il Campi. Non passa
» forestiere dilettante per quella città che non vada a con-
» siderarlc » .
Le cronache cremasche non ci olirono alcuna notizia in-
torno alla sua vita; delle opere sue una sola si sa che ese-
gui a Crema , ed era un affresco a chiaroscuro sopra la
lacciaia d' una piccola casa nella piazza di S. Domenico ,
distinto in due quadri , l'uno dei quali rappresentava il
trionfo di Ciocie; l'altro, più guasto dal tempo, non lasciava
più vedere che alcuni corpi d'uomini nudi. Ma sventura-
tamente anche questa pittura andò perduta Tanno 1859,
quando s'è creduto di abbellire in altro modo l'esterno di
quella casa.
— 592 —
Aurelio Buso. — Egregio pittore che meritò gii elogi di
Raffaello d'Urbino (*\ Ebbe a maestri Polidoro da Caravag-
gio e Maturino, ai quali egli ajutò in molti lavori che ese-
guirono a Roma. Il Ridolfi osserva che il Buso nelle opere
sue riprodusse i concetti de1 suoi maestri, non che di Ra-
faello e di Giulio Romano. Dalle' storie degli artisti liguri
raccogliamo esservi parecchie opere del Buso a Genova: a
Crema poche ne eseguì, pochissime salvaronsi dall' oltrag-
gio degli anni e dall'ignoranza struggilrice di chi le posse
deva. Dipinse il Convito degli Dei sopra la vòlta di una
sala in casa Zurla, ed altra magnifica sala, nella casa ora di
proprietà Stramezzi, dove ritrasse al naturale una bellis-
sima Venere. Lasciò un fregio con molli corpi d' uomini ,
di donne, di fanciulli ed altri ornamenti nel palazzo Ben-
zoni, oggidì ricovero dei trovatelli, ed altro fregio di put-
tini nella casa, una volta de' Vimercati, poi dei Gridoni
S. Angelo, in Moscazzano. S'attribuiscono al Buso alcune
pitture quasi deperite in casa Ricci: ivi figurò in un gruppo
il trionfo d'Anfitrite, e due donne di grandezza quasi al na-
turale portanti lo stemma dell'estinta famiglia Goghi. Peri-
rono gli affreschi del Buso ch'erano sul torrazzo in piazza,
il ratto delle Sabine che dipinse a chiaroscuro sulla fac-
ciata della casa Gambazocco, e i sei quadri ripartiti sulle
pareli della soppressa chiesa di S. Giuseppe, i quali rap-
presentavano la vita di Maria Vergine. Un quadro d'Au-
relio Buso conservasi tuttora nella galleria Tadini a Lo-
vere (2).
Vuoisi che Aurelio Buso morisse circa l'anno 1620 (3\
(1) Orlandi. Abbecedario pittorico.
(2) Rappresenta Ja fuga della Vergine in Egitto.
(3) Tieozzi. Dizionario dei pittori, ove accenna, oltre Aurelio Buso, un Au-
relio Busso o Bussi , pure Cremasco , e contemporaneo del Buso. Ma di que-
st' altro Aurelio Bussi o Busso che si voglia, non trovammo alcuna memoria
nelle cronache cremasche nò altrove, sicché noi riteniamo non abbia mai esi-
stito. Forse che avendo trovato il -cognome d'Aurelio Buso scritto ora con una
era con due s, il Ticozzi credette erroneamente fiorissero in, Crema contempo-
raneamente due pittori d' egual nome e Ui somigliante cognome.
— 393 —
\u poverissimo sialo, ridotte, per guadagnarsi il vitto, i di
ptngere farle da tarocchi.
Nel seeolo deeimoseslo Crema è siala feconda <F uomini
tho illustrarono per virtù militari. Sul principiare di que-
sto seeolo Tedenimo, animosissimo guerriero, Socino ten-
zoni, e viveva ancora Bartelino Temi, cui la repubblica
di Venezia affidò la guardia del castello di Cremona Tan-
no 1501, dappoiché Luigi Xll re di Francia ebbe ceduta per
convenzione Cremona ai Veneziani. Cartolino morì nel 1518,
vissuti 87 anni di vita sobria ed operosa, lasciando ai con-
cittadini l'esempio di una fervidissima devozione al governo
di Venezia, di non comune ardimento nella difesa della
terra natale.
Durante la guerra suscitala dalla lega di Cambrai, se-
gnalossi fra le schiere veneziane Gioan Paolo Griffoni S. An-
gelo, menzionato dai cronisti veneti quale una delle migliori
spade stipendiate dalla repubblica. Condottiero di cavalli ,
prese parte in molte fazioni, distinguendosi per prodezza e
singolare affezione ai vessilli della repubblica. L'anno 1512,
trovandosi sul Cremonese col provveditore Paolo Capello,
tentò di toglier Crema ai Francesi, sorprendendola con no-
vecento fanti, impresa che a lui andò, come dicemmo, fal-
lila. Nella famosa battaglia di Vicenza, combattendo valoro-
samente sotto i comandi delFAlviano, riportò ventiquattro
ferite che lo condussero al sepolcro (*).
Contemporaneo di Gio. Paolo Griffoni fu Santo Robalto,
capitano di molto grido. Pugnò nella battaglia d'Agnadello
ed a Vicenza tra le file veneziane. Men fedele di Gio. Paolo
Griffoni verso la repubblica, locò il braccio or a questa, or
al duca di Milano, cui servì condottiero di cinquant'uomini
(i) Di Gian Paolo Griffon i, oltre i cronisti cremaschi, fanno onorevole men-
zione il Malipiero, il Barbaro, il Paruta nelle storie venete, e Luigi da Porto
nelle sue lettere.
26
— 594 —
d'arme e di cento celate. A Milano procacciossi tanta ripu-
tazione che vi fu elevato senatore e capitano di giustizia.
Nelle guerre accese da Carlo V. in Europa, gli stendardi
imperiali trovarono alcuni seguaci nel patriziato cremasco.
Combatterono in Germania contro i principi protestanti ri-
belli a Cario V, Prospero Fracavalli, condottiero di trecento
eavalli, Mario Benvenuti, duce di corazzieri, ed Ettore di lui
fratello, capitano di cavalleria nella legione di Nicolò Scotto.
Prospero Fracavalli morì pugnando sotto Telinga , ed an-
corché venisse sepolto ad Ultz, si volle ricordare a Crema
la di lui memoria ergendogli un monumento nella chiesa
di S. Domenico. Mario Benvenuti combattè per gli Impe-
riali in Germania e ad Aqui (*\ città del Monferrato, ove
essendo posto a governatore, si difese fortemente contro i
Francesi.
Ma fra tutti, il più celebrato per talenti militari e gene-
rosi fatti d'armi fu il cavaliere Gabriele Tadini. Le gesta di
questo insigne Cremasco vogliono essere narrale diffusa-
mente e non per brevi cenni: laonde riporteremo la dili-
gente biografia che di lui scrisse Giuseppe Racchetti l*\
« Nacque Gabriele nel castello di Martinengo, da Michele
» Tadino verso il 147o. Della sua infanzia e della sua gio-
» venlù non è rimasta altra memoria se non che attese as-
» siduamente allo studio delle matematiche. Anzi, di buon
» ora dedicossi al mestiere delle armi, ed entrò al servizio
» della repubblica veneta, sotto il cui dominio era nato, e
» conforme all' inclinazione sua, fu all'artiglieria destinato,
» nuove ed incerte essendone ancora a quei tempi le disci-
» pline: fervorosamente del pari attese a lulla quanta è
» vasta l'arte delle fortificazioni. Non andò guari che, cono-
(1) Attingemmo questa notizia da un diploma con cui Leopoldo I impe-
ratore d'Austria, concedette alla famiglia Benvenuti il titolo di conte del sacro
rumano impero.
(2) Vedi le Annotazioni alla storia dell'Aleniamo Fino.
- 39$ —
vi mio il sonalo quanto egli valesse, accordogli i prioci-
» pali comandi: ansi, per timore che, istigato da altri so-
» vrani, mancasse al servizio suo, lo mandò in Candia.
- Ma appunto a quel tempo Solimano imperatole dei Tur-
» clii, padrone già della Siria, della Giudea, dell'Arabia,
» dell* Egitto e della Mesopolamia, prcparavasi contro i
» cristiani. L'anno 1522 spedì cosini una flotta nel Medi-
• terraneo, la (piale, dopo varie imprese, piombò Onalmente
» sopra Rodi. Il gran Mastro di Rodi, Valerio Isle-Adam,
» atterrito da quella sorpresa, nei frequenti consigli tenuti
» eoi cavalieri venne informato da Antonio Bosio del va-
» loro e della perizia di Gabriele, per cui, voglioso di averlo
» a presidio dell'isola, mandò il Bosio stesso in Candia
i all'ammiraglio veneziano Domenico Tmisan ed al gene-
» rale di terra, acciocché lo soccorressero in tanto pericolo
» coi loro legni, e gli mandassero il Tadino per rifare ed
» accrescere le fortificazioni. Ma nulla il Bosio ottenne, es-
» scndogli risposto, che senza ordine espresso della repub-
» blica non era permesso loro di mancare alla pace che
» durava tuttavia tra i Veneziani ed i Turchi, nò potere
» accordargli il Tadino, acciocché non fosse pretesto al sul-
» tano di rompere con essi la guerra. Irritato il Bosio da
» tale risposta, furtivamente trattò col Tadino, e lo indusse
» a fuggire la notte con due suoi compagni che vollero se-
» guitarlo: ma uscita la nave dal porto, non avendo fatto
» ancora lungo viaggio, incontrò fiera burrasca, per cui gli
» fu forza approdare all'isola, tenendosi però all'ancora in
» luogo nascoso. Il giorno appresso, accortisi i Veneziani
» della mancanza dei tre fuggitivi, tosto i generali mancla-
» rono due triremi in cerca della nave del Bosio, e pubhli-
» carono nell'isola che se vi fossero ancora nascosti, ve-
» nissero tosto, sotto pena di morte a chi noi facesse, tra -
» dotti al loro tribunale. Le triremi fecero il giro tutto al-
» l'intorno, ma la nave rodiotta, nascondendosi fra gli
— 596 —
» scogli , non venne scoperta. La notte appresso essendo
» cessato il vento potè far vela per Rodi ove giunse felice-
» mente, e ingannata la vigilanza dei Turchi, riuscì d'en-
>• trare in porto. Giunto appena , chiese Gahriele al gran
» Mastro d'essere ascritto nella religione, il quale, con
» nuovo esempio, creduto alla sua asserzione in ciò chedeb-
» bono gli altri formalmente provare, non solo il fece ca-
» valicre ma gran croce ; inoltre promettendogli il primo
» luogo di dignità che sarebbe vacato. Lo creò generale di
» tutto il presidio, ed assegnogli mille duecento ducati d'oro
» di stipendio. I Turchi intanto speravano d'espugnare la
» fortezza con le mine, e ne prepararono quindici: ciò venne
» a notizia di Gabriele, che tosto con grande silenzio quin-
» dici conlramine fece scavare, alle quali dando improvvi-
» samcnte il fuoco, tutti i loro lavori in un momento di-
» strusse.
» La fortezza di Rodi avea cinque gran baluardi dalla
» parte di terra, dove appariva in forma rotonda col nome
» ciascuno delle diverse lingue che n' erano a difesa : e
» verso il mare formava una mezza luna, sui colli della
» quale ai bei tempi della Grecia poggiavano i piedi del
» celebre colosso , fra le cui gambe passavano le navi. I
» Turchi adunque tutta in terra la cinsero col loro eser-
» cito, e rivolle le batterie contro i baluardi degl'Inglesi e
» dei Francesi, cominciarono a fulminarli: ma Gabriele,
» del pari con altre batterie, al di dentro ne fece grande
» strage: ed uscito poscia la notte, piombando su quelli
» che s'erano avvicinati alle fosse, attaccò fiera zuffa nella
» quale fìngendo di ritirarsi trasse il nemico sotto il can-
» none della fortezza, e colà interamente Io sbaragliò. At-
» territi gl'infedeli di questo primo fatto, vedendo aver
>> essi tanta gente perduta, inlanto che dei nemici pochis-
»? simi erano i morti, cominciarono ad ammulinarsi, sicché
» mandatone notizia al sultano, deliberò egli slesso trasfe-
— 397 —
rirsi all' assedio* Al suo arrivi), avendo condotta gran
eopia d'esercito, Bieche dicevasi essersi sialo a quei
campo trecento mila combattenti, ogni tumulto cessò, ed
egli fé1 dar principio a battere le mura. (ìii assediati non
erano più di cinque mila, ma gente coraggiosa tutta e
Iorio sì che risolutamente si difendeva. Terribile guasto
davano alla (erra le bombarde dei Turchi, rovinando edi-
lì/j ed uccidendo gente per tutto, onde il Tadini faceva
slare sentinelle Bull' altissima torre di S.Giovanni, le
quali con certi segnali avvisandone la guarnigione al mo-
mento dello scoppiale, cercava ognuno alla meglio met-
tersi in salvo. Noi tempo medesimo i Turchi costruirono
una strada coperta e giunsero al muro esteriore della
l'ossa, del quale stando a difesa e circondando i forti,
impedivano coi colpi loro ai Cristiani di comparir sui ba-
stioni: ed a questo trovò riparo il Tadino col collocare
batterie da traversi, le quali ai fianchi ferendo, sebbene
da lontani punti, pure valsero a farli affatto sgombrare.
Allora i Turchi diressero i loro sforzi al bastione dei Te-
deschi, e fatti forti argini con praticci e terra, cercarono
d'espugnarlo, e tosto tali lavori dal cannone del forte
vennero pienamente distrutti, sicché dovettero abbando-
narne il pensiero : lo stesso accadde loro alla torre di
S. Nicola. Ma non perciò cessavano i Turchi dall' assa-
lire, ed ai torrioni degli Inglesi, degli Spagnuoli e degli
Italiani ad un punto voltarono le armi, e con tanta vio-
lenza d'artiglieria, che in poco tempo, rovinate le mura,
caddero ad ispianare la fossa, sicché restava aperto l'a-
dito per entrare nella fortezza: al quale pericolo mirando
Gabriele, avvisò che agli estremi mali si vogliono estremi
rinredj, on(^c con pochi scelti, quella via a sé stesso ren-
dendo proficua, uscì dalle mura, e, sorprese le senti-
nelle nemiche, entrò negli accampamenti, pei quali sbi-
gottiti i soldati, invece che difendersi, si diedero precipi-
— 598 —
tosamcnte alla fuga: ond'egli ritornò ai suoi con molli
prigionieri, non avendo perduto che un uomo solo. Ciò
mise in costernazione i nemici, sicché Solimano vedendo
non cavare profitto da quella maniera di guerra, ad altro
volse il pensiero, stringendo la terra di stretto assedio,
e provandosi con le mine se superarla potesse. In prima
rese generale l'assalto, indi per ben due volle fece im-
peto sul bastione degl'Inglesi, ed ambedue le volte venne
respinto. Mustafà suo visir combatteva da quella parte,
e già molli Turchi montavano le mura, quando Gabriele
essendovi accorso , dispose alcuni piccioli cannoni sulla
maggior sommità, e prestamente \\ fece precipitare. Al-
lora assaltossi il bastione degl'Italiani, indi quello degli
Spagnuoli, ma sempre inutilmente, sicché dovettero i Tur-
chi con grande perdita ritirarsi. Morirono di loro cinque
mila contro gl'Inglesi, sette mila contro gl'Italiani, e tre
mila contro gli Spagnuoli. Ma Solimano, disposto l'eser-
cito a guisa d'arco, tutta circondò la fortezza, onde su
d'ogni punto, con ugual furore combattere. Per molle ore
durò il conflitto, assai pericoloso per i Cristiani, pochi a
difendere un circuito sì vasto: onde Tadini, correndo da
un luogo all'altro, riparava ai danni presenti col muo-
vere schiere; preveniva i futuri, provvedendo dei migliori
duci i posti più pericolosi; e dove animando a combattere
perchè il cimento lo richiedeva, dove raffrenando l'ardire
soverchio per risparmiare soldati, giunse a sostenersi
con sì grand'arte che non potendo in luogo alcuno pe-
netrare i nemici, rintuzzarono quel primo ardore: ond'e-
gli allora, e con la forza delle artiglierie, e con lo sca-
gliare dei bitumi ardenti, ed altri artificiali fuochi che giù
dall'alto insieme ai sassi incessantemente cadevano, li
ridusse loro malgrado a suonare a raccolta onde non pe-
rir tutti sotto quelle mura. Raccontasi che in tale fatto
d'armi ventimila Turchi morissero.
— 399 —
» A ule scondita tanto Solimano p' afflisse, che dispe-
ralo quasi si aascose nella sua inula senza voler più
mostrarsi ai soldati, e Colà, non curandosi perfino
dolio suo più geniali mollezze, slavasi col capo ve-
lato, come è costume dei Turchi nelle loro traversie, e
comproso da tale tristezza, che i suoi più fidi n'avevano
spavento. Ma lilialmente, risoluto di tornarsene a casa,
già la flotta ottomana orasi appressata al lido, già si
strappavano le tendo, e sulle navi trasportavansi farmi
e le munizioni con grande contento di lutti i Turchi clic
risguardavano quella terra come la lor sepoltura. Ma la
perfidia di un soldato cpiroto fece sì che Solimano cam-
biasse del suo proposilo, poiché gli fu rivelato essere gli
assediali ridotti agli estremi, mancanti di viveri, di muni-
zioni da guerra, pochi ed infermi, e per sopra più anche
mal sicuri della fede dei cittadini, onde non poteva a
meno che al primo assalto fossero per cedere. Da questa
speranza rianimati i Barbari, tornarono agli assalti, e
Muslafà, già destinalo al governo della Siria, prima di par-
tire assalì nuovamente il baluardo degli Inglesi per tre
giorni di seguito, destinandovi i veterani dei Mammelu-
chi, ma sempre respinto perde la speranza di poter con-
quistarlo. Dall' altra parte il pascià Pirro tentò con le
mine il vallo degl'Italiani senza potere egli pure cavarne
proGtto alcuno. Finalmente combattendo Gabriele al ba-
luardo degli Spagnuoli, mentre tendeva a costruire nuove
difese, poiché il nemico era di già entrato, colto il Salhato
H ottobre da una palla d'archibugio nell'occhio, del
quale poi rimase cieco per tutta la vita, fu costretto a
ritirarsi. E qui il Terni osserva che losco al pari d'An-
nibale, Antigono, Filippo Macedone e Sartorio, così al
pari d'essi meritò fama d'ottimo capitano.
» Perduto il bastione, quantunque anche senza di lui
assai valorosamente combattuto avessero i suoi compagni,
— 400 —
» giovarono i ripari già costrutti a trattenere il nemico, sic-
» che egli fu in tempo a riaversi tanto per poter accorrere
» a ricostruirne di nuovi, tosto dopo che quelli erano stati
» spianati. Né questa conquista dei Turchi costò loro poco
» sangue, imperciocché più e più migliaja d'uomini ebbero
» a lasciarvi la vita.
» Ma sì i cristiani quanto gl'infedeli trovavansi ridotti
» agli estremi, mancanti di tulio, e quasi insin di corag-
» gio, quando il gran Mastro chiamò a consiglio il gene-
» ràle di terra Tadini e l'ammiraglio della flotta. Voleva
» questi che si cedesse alla fine, asserendo non essere più
» possibile di sostenersi, e Tadini invece, con sue ragioni,
» sforzavasi di provare che in pochi dì i Turchi sarebbero
» siati costretti di levare l'assedio. La disputa fu lunga e
» più calda alquanto che non si convenisse, onde l'ammi-
» raglio, che da queslo aveva rilevato in che confidasse e
» di che temesse il Tadini , fece gettare nel campo otto-
* mano una lettera legata a una freccia, nella quale sugge-
» riva a Solimano che facesse costruire un altissimo argine
» al monte Filoremo dalla parte della torre di S. Nicola, il
» quale superasse le mura, e in cima a cui posta la più
» grossa artiglieria, tutta la citta dominando, potrebbe in
» breve distruggerla. Ciò in una notte da Solimano fu fatto
» mettendo al lavoro lutto l'esercito, e alla mattina quando
» sene avvide il Tadini, losto lasnossene col gran Maestro,
» dicendogli che l'ammiraglio gli aveva traditi, e tanto il
» tradimento apparve chiaro e venne provato, che senza
» ritardo alcuno fu il perverso ammiraglio condotto a morte.
» Prima però di incominciare a distruggere la città mandò
» Solimano alcuni araldi ad inlimare la resa, promettendo
» onorevoli patti. Allora il gran Mastro, radunato numeroso
» consiglio , permise a ciascheduno dire il proprio parere.
» Pochi sostennero doversi seguitare la guerra, i più invece
ì ne mostrarono la impossibilità, e Tadini fra quest'ultimi,
dicendo che perla storia B'eragià fallo abbastanza, trop-
» pò por la difesa di un1 isola che si vicina ai loro mor-
» tali oemici, anche superata la presente fortuna, sarebbe
» presto cailuia in loro poterò. Di essi per nulla curarsi i
* prìncipi cristiani e rimanersene indifferenti spettatori di
» un conflitto da cui pareva dipendesse soltanto la sorte
» dei cavalieri, e che perduto, sarebbero diventati i Turchi
» padróni di tulio il mare Mediterràneo. Ma se a riparare
» tanto male non avevano allesi coloro cui spellava, come
» poter più i cavalieri impedirlo? Morii la maggior parie, i
» pochi rimasti, forili, stanchi, senza soldati. Non più munì-
» Eioni da bocca, non più da guerra. Perdute le vecchie
» trincee, non rimaner che i nuovi ripari deholi ed imper-
» ietti, e per soprappiù le bocche dei nemici cannoni, non
» già oltre i valli e le fosse, ma vedersi rivolle al capo.
» Nondimeno offrire Solimano la pace: perchè ricusarla?
» Per morire inutilmente fra quelle rovine e perdere così
» la speranza di poter in nuovi incontri giovarsi del valore
» dei superstiti?
» Dopo quel consiglio avendo il gran Mastro deliberato
» di arrendersi, ne successe quella capitolazione coi Turchi
» tanto celebre in tutte le storie d'Europa. Ma perchè il
» Tadini era dai Turchi più che qualsiasi altro cristiano
» odialo, temendosi di loro perfidia, fu tenuto nascosto fino
» al momento della partenza; ed imbarcato cogli altri, toc-
» cata appena Candia, volle egli tosto condursi a Roma.
» Colà dal sommo pontefice Adriano VI fu non poco ono-
rato, indi dal suo successore Clemente VII venne con-
» cesso all'imperatore Carlo V, il quale ad onorevoli patti
» nelle sue milizie Io accolse.
» Sparsa la fama del favore che Cesare a Gabriele accor-
» dava, il gran Mastro di Rodi con tutto l'ordine dei cava-
* lieri lo incaricò d'intercedere presso di lui acciocché ve-
» nisse altra sede assegnala al suo ordine; onde egli andatone
— 402 —
« come ambasciatore al sovrano, ottenne l'isola di Malta
» della quale in breve i cavalieri presero possesso, e per pre-
» miare il Tadini fu a lui conferito il Priorato di Barletta
» nell'anno 1525. Lo creò indi Carlo V generale di tutta
» la sua artiglieria, e per lungo tempo si conservarono nel
» castello di Milano parecchi cannoni su cui era scolpito il
» suo nome.
» Con tale incarico fu mandato dalT imperatore a varie
» guerre, e finalmente a quella di Genova, ove Cesare Fre-
» goso, soccorso dalle armi di Francia, mirava a soggiogare
» la patria. Colà, messo al comando di tutte le forze austria-
» che, fu sorpreso la notte del 18 agosto 1627 dal Fregoso
» e fatto prigioniero , nel quale incontro perde anche suo
» fratello per nome Girolamo, ed un cugino, Fabrizio, i quali
» valorosamente combattendo rimasero morti , o forse solo
» gravemente feriti; imperciocché il Terni racconta che en-
» trambi morirono in Crema, e furono sepolti in S. Domenico
»> negli antichi monumenti della famiglia. Gabriele, condotto
» nella rocca di Cremona , dovette riscattarsi al prezzo di
» quattro mila ducati d'oro, e dodici mila forse d'argento,
» come attesta il Terni che propriamente viveva a quei tempi.
» Dopo di ciò pare che affatto rinunciasse al mestiere
» delle armi, e trasferitosi a Venezia, morì nel 1545, o, se-
» condo altri, nel 1544, e venne sepolto in un avello di
» marmo nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. In onore di
» lui fu battuta una medaglia ove egli è effigiato con lunga
» barba, in abito di cavaliere gerosolimitano, a cui sta in-
» torno questa leggenda: Gabriel Tadinus Bergomas Eques
* Hierosolimilanus, Cwsaris tormentorum prcefectus genc-
» raliSj ed al rovescio sono quattro cannoni sulle ruote col
n motto Ubi ratio, ibi fortuna profuga MDXXXVH (*).
(I) Tintori. Memorie cremasche. Dall'epoca si vede che la medaglia fu bal-
lata circa sette anni prima della sua morte.
— 403 —
■ Chi volesse da questa medaglia giudicare In patria «li
■ Gabriele Tadini , ci converebbe din* che fosse Bergama-
» sco, ma gioverà qui avvertire alcune cose le quali non a
» indi cederanno in pensiero, lo non so dove né per com-
» missione «li chi venisse la medaglia coniala , perchè in
» nissun luogo tale notizia trovai, ina se i Bergamaschi cb-
» boro parte nel rendere a lui quest1 onore , certo clic lo
» dovevano chiamar Bergamasco, ed anche con ragione per-
» che nel territorio loro era nato. Se il Tadini medesimo
» prestò il suo assenso pei" le parole della leggenda, sarebbe
» prova questa amar egli d'esser così chiamalo; ma nell'una
» supposizione e nell'altra, sarebbe parimenti vero altresì,
* senza distruggere l'esposto nella medaglia, clf egli era figlio
» di padre cremasco, che nacque per caso in territorio limi-
» trofo, e che la sua famiglia non mai abitò in Bergamo,
» nò ebbe cittadinanza in quella città se non per quanto
» si spetta a poderi e case di sua ragione ch'erano in quel
» territorio.
» Racconta Fra Celestino nella sua Storia quadripartita
» di Bergamo, che durante la guerra fra Carlo V ed i Fran-
» cesi, passando questi da Marlinengo, non vi fecero danno
» alcuno per rispetto alla patria di Gabriele, n
A quanto scrisse il Bacchetti del cavalier Tadini aggiun-
geremo un'avvertenza. Gabriele Tadini, chiarissimo perso-
naggio, la cui memoria basterebbe ad illustrare il nome
di una città, d'una famiglia, è generalmente conosciuto
nella storia non come Cremasco, e neppure come Tadini.
Sia ch'egli, frate Maltese, sull'esempio d'altri ordini reli-
giosi, costumasse di chiamarsi col nome del paese ove nac-
que, benché casualmente, sia che parecchi scrittori abbiano
troppo facilmente scambiato il nome del luogo ov'ebbe ì
natali con quello della sua famiglia, fatto è che in varie
cronache noi trovammo attribuite ad un Gabriel Martinengo
le valorose sesta del nostro Gabriel Tadini. Ed anche ai
— 404 —
nostri giorni l'eruditissimo Cesare Cantù, nella sua Storia
Universale, toccando della presa di Rodi, chiamò Marti-
nengo il valente ingegnere che ne diresse la difesa. Cosi
vien frodata la famiglia cremasca dei Tadini di un lustro
che le appartiene, così potrebbe taluno per avventura cre-
dere che il valoroso difensore di Rodi sia stalo un ram-
pollo dell'illustre famiglia Martinengo di Brescia, la quale
di prodi non ha mai scarseggialo. Strana combinazione!
Bergamo e Brescia contendono, senza volerlo, a Crema l'o-
nore di conlare tra suoi cittadini un uomo che fu tra i più
insigni guerrieri ed architetti militari del suo secolo!'1)
Con Gabriel Tadini si distinse nell'ordine gerosolimitano
Francesco Terni. Militò anch'egìi nell'assedio di Rodi, e fu
accolto nell'ordine dei Giovanniti per aver date prove di
coraggio e di valore, corseggiando. Fa testimonianza di sua
prodezza l'esser egli slato ammesso agli onori dell'ordine
maltese, per affigliarsi al quale richieggonsi rigorose prove
d'incorro Uà e generosa nobiltà. Desumiamo dalle genealogie
che Francesco nacque dal sacerdote Gian Antonio Terni,
vicario in Crema del vescovo di Piacenza. Carissimo al gran
Mastro della religione maltese Giovanni d'Omodes, il cava-
lier Francesco Terni ottenne la croce grande, il priorato
delle sette fonti di Pisa ed altri privilegi.
Quasi contemporaneo del cavalier Francesco fu Cartolino,
(detto il Giovine), anch'egìi de' Terni, nipote dell'altro valo-
roso Bartolino. Buttossi nella carriera militare, servendo pri-
mieramente i Veneziani nella legione del conte Troilo Scollo:
poi s'acconciò al servizio di Carlo IX re di Francia, quando
quel reame era travaglialo dagli Ugonotti. Cotanto si distinse
guerreggiando gli Ugonotti , che procacciossi V amicizia di
monsignor d'Angiò, fratello del re, e l'ordine cavalleresco
di S. Michele, uno dei più agognati nel regno di Francia ,
(1) Un ritratto di Gabriel Tadini' falt0 per mano del celebre Tiziano, tro-
vasi a Lovere nella galleria Tadini.
— 408 —
come quello che i re ' solevano conferire b principi fbraatieri,
quando intendevate dar loro mi segno di benevolenza. Il
cavalier Bertolino morì alla corte del re di Francia, ma non
si sa in quel anno.
Por falli d'armi segnalaronsi altri valorosi Cremtóchi nella
seconda metà del secolo decimosesto, allorché la veneta re-
pubblica dovette sostenere aspra guerra contro Selim ini -
Doratore dei Mussulmani. Successo a Solimano (1566), Selim
invogliossi d'acquistare l'isola di Cipro spogliandone i Ve-
neziani. Più duna volta, lenendo in mano un vasto nicchie!'
di Cipro, prima di vuotarlo fu udito dire: (jucsto vino noi
boi (osto in Cipro beve remo -'. E per conseguire il suo
disegno, Selim non indugiò molto a romper guerra ai Ve-
neziani, scagliando, senza alcun giusto motivo, contro la re-
pubblica le forze poderose, e il fanatismo della sua armata,
sitibonda di sangue cristiano.
Memoranda è nella storia d' Europa la guerra del regno
di Cipro (1570-1571) e per l'eroica difesa di Famagosta, e
per la vittoria dei cristiani nella battaglia navale di Lepanto.
Ti rapisce d'ammirazione l'indomita costanza con cui a Fa-
magosta un debole presidio di Veneziani respinse replica-
tornente gli assalti furibondi di un'oste numerosissima: e
dopo che i Turchi per capitolazione occuparono quella
città, tu fremi d'orrore vedendo, dall'immane perfìdia di Mu-
stafà, scorticarsi vivo il provveditore Bragadino, ridursi in
servitù o trucidarsi tanti dei generosi che col Bragadino s'e-
rano immortalati nell'ardimentosa difesa.
ISella guerra del regno di Cipro pugnarono con onore
non pochi Cremaschi, quali a INicosia, quali a Famagosta,
quali a Lepanto: ne perirono parecchi, lagrimati in patria
siccome campioni e martiri della cristianità.
il) Cosi narrano di quest'Ordine il Corio nella storia di Milano e il Sar>-
sovino nella storia degli Ordini cavallereschi.
(2) Botta. Storia d'Italia,
— 406 —
Quando giunse notizia aver Selim intimala guerra ai Ve-
neziani , Crema volle manifestare la sua devozione alla re-
pubblica, e verso una causa cbe Sentimenti di religione
sublimavano nei cristiani. Tre mila scudi la città nostra
mandò in dono al serenissimo doge, e tra i gentiluomini
sorse nobilissima gara di soccorrere colla spada alla repub-
blica, alcuni entrando nelle milizie, altri seguendole volon-
tariamente a proprie spese. Servirono Dell'armata veneziana
Evangelista Zurla col figlio Leonardo ed il nipote Rutiliano
Zurla, Giovanni Estorc Marinoni, il conte Lodovico Vimer-
cati, Natale Scaletta, Giacomo Calderuolo, Scipione ed An-
tonio Piacenzi, David Noce, il conte Nicolò Benzoni, Anto-
nio Ghisi, Annibale e Cristoforo Albanesi, Pompeo Meleguli.
Fra quelli clic andarono volontari a combattere per la re-
pubblica, menando seco gente d'arme a loro spese, le cro-
nacbe cremascbe ricordano il conte Camillo Griffoni San-
t'Angelo, e il conte Mario di lui fratello, Girolamo Vimercali,
Giovan Francesco Monticelli, Onorio Balbetti, e cinque fra-
telli Benvenuti, Orazio, Ascanio, Massimiliano, Agostino,
Alfonso.
Lodovico Vimercati (il Giovane)!1). — Capitano riputaiis-
simo. La veneta repubblica l'onorò d'importanti incarichi
creandolo governatore a Zara, poi colonnello di tutta la mi-
lizia del Friuli. Nella guerra contro Selim, Lodovico com-
battè col grado di colonnello sulla galera di Girolamo Zane,
generale dei Veneziani: il quale lo ebbe in tanta stima cbe
essendo Lodovico venuto a morte a Corfù , volle che gli si
celebrassero suntuose esequie a spese dell'erario, e si er-
gesse alla di lui memoria un sepolcro di marmo colla se-
guente iscrizione:
(i) Così chiamato dal Fino per distinguerlo dall' altro Lodovico pure da' "Vi-
mercati, che si distinse uell' armi circa un secolo prima.
- ;o7 —
LUDOVICO \ INIMICATI
CREMBRStj COHORTUM DUCTORI AC IMPERATORIA
QUAMIRBMIS MILITI M PR AFBCTO, FIDE ET
mutiti: MILITARI pr.-eciplo
BIBRONIMUS EANItiS IPS1LS CLASS1S IMPERA TOR,
IN RE1PURLIC.E (IRATITUDINIS TESTIMON1UÉ
.I-RE PCBLICO MONTMLNTUM HOC
FACIENDUM CCRAVIT.
Evangelista Zurla (il Giovane) !> — Portandosi a com-
battere nel regno di Cipro, tolse a compagni d'armi il figlio
Leonardo, ed il nipote Rutiliano. Evangelista fu sopracomile
di una galera , grado onorevolissimo di cui ordinariamente
erano privilegiati i soli nobili veneziani. Veleggiando da
Venezia a Coriù per unirsi all'armata, prese agli Ottomani
una fusta. Pugnò fortemente nella battaglia di Lepanto ove
conquistò una galera di Fano di ventollo bandii. Ritiratosi
dopo la vittoria a Corfù, vi fu colto da febbre pestilenziale
e ne morì in dieci giorni. Lo seppellirono nella cbiesa prin-
cipale della cittadella con grandissimi onori. Evangelista
Zurla avea nella battaglia di Lepanto tolte ai Turcbi molte
insegne, le quali mandate a Crema furono appese alla eap-
pella della Madonna in duomo 2\
David Noce. — Nella guerra di Cipro fu maestro di campo
a Famagosta: il suo valore rifulse in molte segnalate fazioni
(1) Detto il giovane per distinguerlo d'altro Evangelista Zurla, che milito
anch'esso per la repubblica di Venezia, venturiero, con quindici cavalloggeri
pagati del suo, nella guerra contro Luigi XII re di Francia. Alemamo Fino.
Scelta degli uomini di pregio.
{•2) L'anno 1578 venuto a Crema monsignor Castelli, visitatore apostolico ,
fece levare dalle chiese tutte le bandiere che vi erano appese: solamente nel
duomo, per ispecial grazia, furono rimessi i trofei appesi alla cappella della
Madonna dopo la vittoria di Ombriano dell'anno 1514, e le insegne conqui-
state dal Zurla nella battaglia di Lepanto.
— 408 —
a difesa di quella città, finché nel terzo assalto che diedero
ì Turchi ai 9 di luglio 1571 lasciò la vita combattendo sul
bastione dell'arsenale. David Noce, prima ancora della guerra
di Cipro, si era esercitato nella milizia, combattendo con ono-
revoli gradi nelle legioni dc'più insigni condotf cri di quell'età.
Scipione Piacenzi. — Dopo essersi illustrato militando per
la corte di Francia , passò a servire sotto le bandiere di
S. Marco, ed ebbe dalla repubblica il governo di varie città.
Perì a Famagosta, coi forti che s'immortalarono in quell'as-
sedio. Lo aveva seguilo a Famagosta Emilia Zurla di lui
consorte, la quale, d'animo virile e intrepido, non poco
s'adoperò con altre donne alla difesa di quella travagliata
fortezza. Oltre ai pietosi ufììci di soccorrere i feriti, e for-
nire rinfreschi ai soldati stanchi del combattere, Emilia si
prestò sui bastioni di Famagosta, fra il tempestare delle
palle mussulmane, a portar terra da riparare i guasti delle
mura, scrollate dalle artiglierie nemiche. E formò una com-
pagnia di donne che per coraggio gareggiavano coi sol-
dati ({): era un drappello d'eroine cui precedeva un religioso
greco, il quale portando inalberato il segno della redenzione,
rinfocava in quei petti femminili l'ardimento e il valore - .
Natale Scaletta. — Spese tutta la vita fra le armi. Co-
minciò la sua carriera nel 1551, alfiere del capitano Seba-
stiano Picenardo , con cui egli combattè all' assedio di
Musso, fortezza sul lago di Como. Prese parte nelle guerre
fra Carlo V e Francesco I: trovossi in Germania sotto le
insegne imperiali, quando Carlo V guerreggiava i principi
protestanti, poi nella battaglia della Mirandola, carissimo a
Giovanni da Monte, nipote del pontefice Giulio III. Final-
mente accomodossi ai servigi della veneta repubblica, dalla
quale ebbe titolo di colonnello, e posto di governatore a
Candia, Famagosta, Bergamo, Brescia. Durante la guerra
(1) Fino. Storia di Crema. Libro decimo.
(2) Butta. Storia d'Ilalia.
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di Cipro, dello governatore a Corfù, dopo indio imprese
fatte contro il Turco, Natale Scaletta mori innanzi che se
guisse la giornata navale di Lepanto ■ ,
Minor t'ama levarono gli altri Cremaschi, che pure lian
combattuto nella guerra di Cipro. Nondimeno sappiamo che
Giacomo Calderuolo In capitano a Corfù, Pompeo Meleguli
lancia-spezzata ili Gerolamo Martinengo; che pugnarono a
Nicosia col inailo di capitano il conte Nicolò Benzoni, Au-
nihale e Cristoforo Albanesi , e clic Antonio Piacenzi tro-
vossi a Famagosta, durante l'assedio, con una compagnia
di cento fanti. Dai cinque fratelli Benvenuti, tre lasciarono
la vita a Famagosta, uno la perdette naufragando: Orazio,
latto prigioniero dai Turchi, si riscattò dopo cinque anni,
e fu il solo che potè rimpatriare -. Gian Francesco Monti-
celli morì anch'esso combattendo nella difesa di Famagosla.
L'esempio di tanti illustri cittadini, che da Crema accor-
sero in lontane regioni a spargere il sangue per la repub-
blica di Venezia, ci attesta come lo spirito battagliero non
fosse ancora spento nel secolo decimosesto: i patrizi singo-
larmente educavansi alle armi, e coglievano di buon grado
le occasioni per rendersi benemeriti di un governo che loro
attalentava, perchè aristocratico e nazionale. Oltre di che,
le guerre contro il Turco assumendo il carattere d'una
crociata, riscaldavano maggiormente la fantasia di chi era
destro nel maneggiare la spada, ripromettendosi glorie ter-
rene e celesti coli' impugnarla in difesa della cristianità.
(1) Fino. Libro X della Storia di Crema [e nella Scelta degli Uomini di
pregio.
(8) Di questi cinque fratelli fa onorevole menzione una Ducale diretta a
Mario Benvenuti l'anno 1646 la quale il Cannobio riportò nel suo Proseguimento
alla storia di Crema.
TI
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DOCUMENTI
Documento A
Ad esempio dello stile rozzo e scorretto di messer Pietro Terni ,
riportiamo un brano della sua cronaca, ov' egli narra le inique estor-
sioni che fecero in Crema i podestà Loredani. Da questo brano il let-
tore apprenderà come il nostro cronista, quantunque suddito di Venezia
e devoto a quella repubblica , pure narrava francamente i pessimi modi
coi quali talvolta erano trattati i Creinaschi dai podestà che la repub-
blica inviava a governare la città nostra.
« Marcho Foschari ai 14 di Ottobrio (1528) a Crema, a giunge dal Se-
n nato di Vcnetia mandato a fare processo contro di Andrea Laure-
» dano che fu Potestà di Crema et bora di Bressa, et contro Lucha
» Lauredano in que' tempi Potestà di Crema, per le estortioni per loro
" fatto ai Cremaschi, et molti furono esaminati, siche il processo fu di
n ll(Jo foglij ; ambi furono per dinari fatti (Podestà) come vi ho detto.
» Era Lucha Lauredano di etade d'anni circa 55, senza pelo in barba
?» come femina, largo di gotte, palidissimo, mai rideva, colerico oltre
» modo, biastematore crudelissimo, a ognuno facilmente diceva viila-
» nie, et a tirar il danaro solicito e vigilante. Mettevano questi due
ji Lauredani il Calmiero sopra la biava, cosa nela terra nostra inusi-
» tata, et la facevano vendere lire 20 la soma, quando tra vicini età
» Bergamo era 40 e 50 lire venduta: et tuta la fecero portare dentro,
•' cusì che neanche le semenze et il vivere gli rimasero: ne a tale ef-
» fetto gl'indusse la compassione de poveretti che nela Terra erano, ma
n il sfrenato desìo di menare le mani , et di crassarsi nel poverello san-
» gue de' Cremaseli! , come vedrete. Mettuto il Calmedro fanno prohi-
- bitione sotto pene gravissime che alcuno non venda biave uè grossa,
» ne piccola, senza sua licentia, per il che era bisogno a' poveretti stare
» due ovvero tre giuorni a battere ala porta et pregare che fatto gii
» fosse el bolettino, che più di danno era il tempo perduto, che non
n valeva due staroli, come diceino noij, di fermento o di miglio. Fatti
» pur quando a loro piaceva gli bolettini , facevano comandar le biave
- 4M —
p >vi.u- in piana per vendere dove B loro piaceva , tolendo B tale
- slatto 1<% pia triste per serbar le migliori & loro guadagni, peroni) più
- Bpaaaamento e maggiore precio havevano in riaiimn Inoro; <*t tm ;< ai
- ooaaignava ad imo solo che la venderai perchè anche Ib libertade
- tolta era :il patrone «li poterla dare a chi li holettfcn havessero. [Jnde
- tanta calcha per haver la biava quivi so radunava che tutoil giuorno
•• molti eonsumavano, nand che poteasero bavere il grano, DÒjpnrvo
- Levano che pei L'Anime de' Morti bì deste per elemosina pane, accio-
- che eli maggior quantitade russerò mancanti. Scrissero a principio b
- dasonno le biave ohe havevano, et se gli contadini ad ogni richiesta
- loro non le consegnavano, erano brnschainente condannati et diate*
- miti, perchè nanche dil suo senza pena mangiare lecito gli era. Vc-
■ tarono poi a Contadini elie non vegnesseno nela Terra acciò non man-
n glasserò di! pane ad effetto che maggiore quantitade ili mandar via
n gli rimanesse, et tacevano il mercato il sabato fori dele porte et se
» alcuno portava fuori di la Terra pane gli era tolto, anche che uno
- solo ne avesse, et ale donne coronavano quando ussire solevano dalla
<• Terra fin dove non è licito ad ognuno porre mano, cum tante la-
■ errine tal lior de' poveretti elio carichi de figliuoletti erano, che mo-
li revano di fame, che i sassi averebbero pianto: benché gli Ufficiali
« più duri et crudeli sempre diventavano, che tuto il paese era dispe-
» rato, et questo facevano per darlo a quatro o cinque contrabandieri
» ohe lo conducevano là dove maggior precio si sosteneva, età Pote-
n stati davano quatro o tre ducati la soma, et sempre come vi ho detto
» il più bello era mandato via, et il granaio mandato in piazza auso
» dei compratori a lire 20 la soma , siche e poveri e richi erano ingan-
b nati, et tuti ad un tratto si lamentavano. Di notte li contrabandieri
» lo oondueevano de fuore , ovvero di giuorno sotto specie ohe linosa
» fosse , et Lucha Lauredano a Jacopo Boschirolo, contadino, molte
» volte, come si diceva, dette le chiavi di la Terra a ciò ohe asuopia-
* cere potesse ussire, talmenti che fino a Pavia et a Milano ne fu eon-
» dotto, cimi le bolette ohe faceva Giovan Andrea Vimereato detto
» Moschetto ne la Terra di Rivolta Secca cum il sugello dil Podestà
» Andrea Loredano, et molti ne furono eondotti uno giuorno per li Ca-
» valli liggeri di Farvarello capitano de Venitiani a Cassano dal Prov-
* veditore, che presi furono nel Borgo di Porta Renza de Milano a
» S1» Gregorio cum le bolette di Andrea Loredano. Usavano anche
» una crudeltade nonpiùodita, et massimamente Lucha Loredano che
» ai tempi dil raccolto, quando gli contadini per dubio di la guerra
» ogni giuorno conducevano dentro, siccome le battevano le biave, fa-
» ceva serare le porte nanci l'ora consueta, et taìhora a bore 21, et
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'• la matina quanti villani si trovavano ne la terra erano mettuti in pri-
« gione, et pellati fino sul vivo, come quelli che venuti erano dentro a
» mangiar il pane contro le pvoclame fatte , cosa veramente più che
n crudele fino al diavolo odiosa »
Sopra una carta di Gioan Battista Terni, lo scrittore delle Memorie
Annuali di Crema, leggesi: Pietro Temi Vanno 1546 dopo aver scritto
la sua Istoria, scrisse\a Genealogia delle nobili famiglie di Crema, e
ne conta 21 di antiche e 14 di nuove. Di questa seconda opera di M.
Pietro , che noi crediamo smarrita , Gioan Battista Terni sulla carta
medesima riportò alcuni brani scritti latinamente, i quali riguardano
l'origine di parecchie famiglie nobili cremasene.
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UNIVERSITY OF ILLINOIS-URBANA
945.26 SF57S C001 v.1
Storia di Crema.
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