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I ^v ITI l' u ri Ti'i
'^n
STORIA GENERALE DELL' INQUISIZIONE.
STORIA GENERALE DELL' INQUISIZIONE.
STORIA GENERALE
DELL' INQUISIZIONE
COBBEDATA DA BABIS8IMI DOCUMENTI
I
OPERA POSTUMA
DI PIETRO TAMBURINI
DIRETTORE DELLA FACX)LTA' POLITIOO-LEGALB DELL* UNIVERSITÀ' DI PAVU
CAVALIERE DELLA CORONA FERREA
COLLA VITA DELL'AUTORE
• seconda edizione riveduta e migliorata
VOLUME SECONDO
MILANO
PRESSO I FRITELLI BORRONI
Via iti Vtniart, 4
NAPOLI
PRESSO GIUSTINO HEROLLA
Straik Qa«rtia, 10
1 866
/^So é .
STORIA GENERALE
DELL'INQUISIZIONE
LIBRO SECONDO
CAPITOLO PRIMO.
Ooglielmina la Boema.
Ora debbo narrare la storia di Gaglielma, il di ^ cui pro-
cesso formerà sempre il disonore dell'autorità inquisitoriale ;
essendo prima stata incensata sugli altari, indi tolta dalla tomba
io Cbiaravalle, ove le spoglie mortali erano state sepolte, ab-
bruciate, poi sparse al vento, perchè giudicata eretica e nefanda
b sua memoria. Il processo dei guglielmiti giace inedito nella
Biblioteca Ambrosiana, ed il dottissimo Puricelli, che fu biblio-
tecario, estese una dissertazione, nella quale prova che non erano
Tere tutte le imputazioni fatte a quella donna, e gli argomenti
ci parvero tanto giusti e logici, che abbiamo voluto più presto
di recare il nostro giudizio tradurre dairoriginale inedito gli ar-
gomenti principali, e credendo d'illustrare in tal modo la ^
nostra fatica, e di rivendicare in parte la fama di quella sven-
turata, piuttosto presa da pazzia che veramente colpevole.
L
Quanto io dissenta dagli storici da'quali furono
per Vaddietro descritti gli atti di questa Gtiglielmind.
ì. La più parte delle cose che gli scrittori intorno a questa
doDua ed alia setta di lei consegnarono ai pubblici monumenti
— 6 —
delle lettere» e quelle segnatamente che fanno contro alla pudi-
cizia dei nostri Milanesi, io le credo inventate di pianta e fal^
airinlulto. Essa veramente mori Tanno del Signore 1281; tre-
cenl'anni dopo venne disseppellita e bruciata: davvero allora sol-
tanto se ne estinse la setta; contuttocìò io non trovai istorico
di lei che sia anteriore al nostro Donato Bossi.
2. La prima notizia pertanto di questa Guglielmina e della
setta di lei io Tebbi dal Bossi, ovverosia dalla Cronaca milanese,
ch'egli pubblicò la prima volta Tanno 1492; e questa è la stessa
ch'io parola per parola ripeterò nel capo che segue.
3. Nella medesima opinione dei Bossi, meno pochissime va-
riazioni vennero dappoi anche Bernardino Corio e Tristano
Calchi, e la inserirono negli atti dell'anno stesso 1300, quando
poco dopo scrissero eziandio le loro storie milanesi. Né alt^ji-
mente opina anche Iacopo Filippo da Bergamo nel Supplemento
delle Cronache nel libro I all'anno di Cristo 1298.
4. Contemporaneo a questi aggiugnesi anche Gaspare Bu-
gatti nella sua Storia universale italianamente scritta e pub-
blicata la prima volta in Venezia nell'anno 1571, lib. IV, all'anno
di Cristo 1305. Cosi nelle stesse parole del Bossi convenne Tan-
no 1618 anche Abramo Bzovio nel tomo XIV degli Annali ec-
clesiastici e tomo H dopo i dodici del Baronio all'anno 1300,
art. 14. Da ultimo Giuseppe Ripamonti, Tanno 1625, nella secon-
da parte della Storia della chiesa milanese, lib. VII, la stessis-
sima narrazione de'predetti elegantemente riprodusse con molte
aggiunte.
5. Ecco gli storici che liberamente professo di voler im-
pugnare, ed a' quali ardirei applicare il notissimo detto di
Cristo Signore: Forse che un cieco può farsi guida ad altro
cieco? Non cadranno entrambi in una fossa? Farmi davvero che
in questa parte il Bossi possa assomigliarsi al cieco, del quale
fattisi guida gli altri scrittori, tutti a mo'di ciechi furono traiti
a cadere nella fossa medesima. Siccome poi questo principal-
mente ha in mira di presente la nostra dissertazione , perciò
eziandio nel capo seguente ci terremo contenti alle sole parole
del Bossi ; quasi egli avesse scritto quelle siffatte cose a nome
di tutti gli altri scrittori, né alcuno d'essi in alcuna parte mai
gli contradicesse , che anzi a gara gli rendessero onore , come
fecero difatto.
II.
Ciò che scrisse intomo alla Guglielmina Donato Bossiy
rantesignano di questi tali suoi seguitatori.
1. A questo modo egli seguita narrando nella sua Cronaca
le gesta deiranno 1300: < Nello stesso anno in Milano un'ere-
tica occulta, per nome Guglielma, che facea le viste di condurre
una vita religiosissima e santa , con un tale chiamato Andrea
Saramita , col pretesto di buone opere , nella loro sotterranea
sinagoga, usavano insieme ereticamente e facevano ch'altri
osassero.
2. e Quivi al mattutino innanzi giorno convenivano dal
consorzio per essi aggregato donne maritate e vedove occulta-
mente per ordinazione di quella medesima donna chiericato;
vi convenivano anche giovani del sesso virile; mentre quella
maledetta, abbigliata a mo'di prete, nella stessa sinagoga , di
flanco all'altare, faceva le consuete sue orazioni; infine dice-
vano tutl' assieme :—" Aduniamoci , aduniamoci, mettiamo il
lume sotto al sestario, e fate ciò che Dio ha ordinalo; e per
tal modo a di fissi occultamente commettevano stupri.
3. « Questa Guglielma si muore, e i monaci di Chiara valle
la seppellirono per «santa. Dopo il trapasso della quale Andrea
per sei anni seguitonne le ordinanze ; finché un cittadino e
grande negoziante di Milano, detto Corrado Coppa, veggendo la
moglie con qualche frequenza levarsi di buon mattino, curioso
di sapere ov'ella andasse, levatosi di soppiatto, tenne dietro fuor
di casa alla moglie e la ormeggiò incognito sino al luogo di
convegno ; quivi, poiché posto il lume sotto il sestario fu fatto
buio , prese a modo che gli altri facevano la propria moglie ,
e con essa usò senz' esserne conosciuto , e le tolse di dito un
anello d'oro con zaffiro incastonatovi, e quindi occultamente
dopo tutti se ne parli. Di là a quattro giorni richiese alla mo-
glie dell'anello, perché per sua bisogna aveva a darlo a pegno,
secondo aveva promesso. La donna finse cercarlo, infine rispose
con imbarazzo che no'l trovava.
4. € Egli (Corrado) fece imbandire un convito al quale
invitò i suoi parenti, amici e vicini, le mogli de' quali aveva
conosciute nel convegno, e invitò pure le stesse. Essendo tutti
per amore o per compiacenza venuti al banchetto e stando
— 8 —
per mettersi a tavola (qui il Bossi vorrebbe che si correggess
il testo e si leggesse invece dopo levata la tavola) disse: — Di
ciascuno alla rispettiva moglie il sollievo eh' io sono per dar
alla mia, poscia ve ne spiegherò il perchè; e tutti promiser
di farlo. Tolse egli di capo alla moglie una benda e trovoll
colla chierica; fecero gli altri il medesimo, e medesimament
trovarono le loro donne chiericate. Gridarono tutti gli uomin
ad una onde ciò fosse ; Corrado per filo e per segno dichiar
la faccenda.
5. ( Consigliatisi essi fra loro, a Matteo signore di Milan
si riferisce tutto questo affare ; e per ordine di lui, dietro con
sulta deirinquisitore deir eretica pravità , Andrea Saramita a
suoi famigli viene catturato dagli sgherri del podestà, e pos
alla tortura manifestarono che erano undici anni dacché pec
cavasi siffattamente da loro e dalla Guglielma. Andrea e mei
tissimi altri rei e promotori del predetto misfatto vennero bri
ciati ed insieme l'ossa della Guglielma come eretica: e quel!
che venera vasi per santa venne dappoi maledetta per eretica
e le donne che convenivano al consorzio non senza punizion
vennero dai mariti loro rimandate. >
6. Fin qui il nostro Bossi intorno alla Guglielma e seguac
In quali cose poi egli punto per punto abbia peccato contr
verità, noi lo diremo a suo tempo e luogo: dopo cioè che ni
colla dissertazione nostra avremo abbracciato la verità stess
della cosa. Per il che anche lo lettore pazientemente e i
buon grado sospenda per poco il suo giudizio.
HI.
Dove abbiasi a cavare la verità del soggetto
della nostra dissertazione.
ì. Ciò che udirassi per avventura con meraviglia, noi ca
veremo la verità di questa cosa per lo appunto dagli stessi put
blici atti 0, come dicono comunemente i notai , dai process
intorno alla Guglielma e seguaci , istrutti ed ultimati debita
mente e legittimamente l'anno 1300 e che, scritti in pergamen
già temptf fa con molta diligenza, con moltissima cura ora vet
gono guardati nella Biblioteca Ambrosiana.
2. Essi veggonsi con questo titolo in fronte : • Quadem
delle abbreviature da Beltramo Selvaggio, cittadino milanese i
— 9 -
Porta Nuova, notaio, falle alla presenza dei frali Guido da Co-
chenato e Raincro da Pirovano dell'ordine de'predicatori, inqui-
sitori delferesia. »
3. Ma cominciano inoltre a questo modo : e in nome del
Signore. Cosi sia. L'anno della natività del medesimo 1300, in-
dizione tredicesima. Siccome per fama e por grido pubblico a
noi frati Guido da Cochenato e Rainero da Pirovano dell'ordine
dei predicatori, inquisitori dell'eretica pravità in Lombardia e
nella marca genovese, deputati per autorità della sede aposto-
lica, è pervenuto che talune persone si uomini si donne, le
quali furono altre volte sospette ed infami di eresia e citate
davanti a diversi inquisitori, avevano abiurata ogni eresia alla
loro presenza, dopo le dette abiure per lunga pezza ancora li^n-
nero conventicole e adunanze di molte persone dell'uno e del-
l'altro sesso ed eziandio predicazioni; noi, volendo discendere
e vedere se alla voce che ne correva rispondessero i fatti, ab-
biamo incominciato Tinquisizione contro di loro, come sotto. »
Cosi quei padri sapientissimi preludevano, volendo imitare
quel modo d'inquisizione che Dio mostrò col suo esempio nel
libro della Genesi^ cap. 18, e cui perciò sommariamente com-
mendò Gregorio I papa, grande davvero, nel libro XIX, cap. 14
dalla sua Esposizione moraky spiegando quella massima saluta-
rissima di Giobbe, cap. 30: • Con ogni diligenza investigava la
causa di cui non mi conosceva. >
4. Seguono tosto per ordine gli esami delle persone che
per questo oggetto vennero citate a comparire, e prima d'ogni
altro quello di Andrea Saramita del fu Gerardo, della città di
Milano, fuori del borgo di Porta Romana. Il primo esame di
costui conchiudesi di questo tenore: « Fatto in Milano, nella
casa dei padri predicatori, nella camera ov'è l'Ufflcio delPInfiui-
sizione dell'eretica pravità, alla presenza del soprascritto frate
Guido inquisitore. > Intervennero come testimoni chiamati e
pregati i padri Pietro de'Marcellini ed Ambrogio Peroni ed An-
selmo da Castano, tutti deirordine dei predicatori, il giorno di
mercoledì 20 luglio 1300, indizione tredicesima. Pubblicato dal
solaio soprascritto. E quivi di continuo alla presenza de'sopra-
detli testimoni, frate Guido inquisitore, come sopra, comandò
al sunominato Andrea Saramita, sotto giuramento e con minaccia
delle pene alle quali è tenuto per obbligo d'ufficio, che non
debba dire né rilevare né mettere fuori ad alcuna persona al-
cun che di quanto egli aveva detto preceden tornente col pre-
Tamb. Inquis. Voi. II. "ì
— 10 —
fato inquisitore; e che rindomani, immediatamente dopo la messa,
avesse a comparire davanti al prenominato inquisitore presso a
Sant'Eustorgio. Stante die in quel^ convento dell'ordine de'pre-
dicatori a quei tempi stava eretto il tribunale delia santa Inqui-
sizione, che di là poscia venne trasferito all'altro convento
dell'ordine medesimo, detto di Santa Maria delie Grazie, sull'ori-
gine del quale si può leggere il Santuario milanese di Paolo Mo-
rigia, in quella parte che tratta delle chiese poste nei fini di
Porta Vercellina.
5. Qaesti processi pertanto istruiti appositamente all'og-
getto che venisse schiettamente e appieno in chiaro la verità
di quella cosa che la fama avea divulgato intorno a quelle per-
sone, voglio dire i seguaci della Guglielma, documehti che sono
tanto veritieri ed incorrotti dalla fede si divina che umana, por-
geranno la materia necessaria a questa nostra dissertazione, ed
opportuna a sbandeggiare tutte le favole ed invenzioni; i me-
desimi ne sveleranno (come svelarono 6no da principio agli
stessi inquisitori dell'eretica pravità ed ai giudici) le cagioni per
le quali fu allora condannata la Guglielma e la sua setta, e le
adunanze, le conventicole e le predicazioni dei medesimi.
6. Era poi per fermo degna e giusta cosa che quel sacro-
santo tribunale della sacra fede e dottrina, e prontissimo soste-
gno delta verità ed innocenza , per mezzo di siffatti suoi pro-
cessi una volta finalmente liberasse la città nostra da quelle
accuse e contumelie che dicevamo, e che intanto per cieco ed
improvvido errore immediatamente pativa da parte di scrittori
del resto benevoli.
IV.
Vengono sommariamente indicati i nefandi
e stoltissimi dommi di questa congrega guglielminiana.
1. Questa sètta non fu (per cosi dire) carnale, ma sibbene
intellettuale, nondimeno delle più pazze ; che cosi la dimostrano
i dommi di lei predicati principalmente da Andrea Saramita e
Maifreda Pirovana. Questi io proporrò sommariamente, racco-
gliendoli a spizzico dai processi predetti. Come poi i medesimi
ci vengano attestati, io lo dirò nei capitoli che seguiranno.
Eccoli :
2. Che la Guglielma era lo Spirito Santo (la terza persona
— Il —
della ss. TriDità) incarnato nel sesso femminile» nel seno di Go-
stanza moglie del re di Boemia e regina.
3. Che, come l'arcangelo Gabriele avea una volta annun-
ciato a Maria Vergine l' incarnazione del Verbo e Gristo, cosi
anche Tarcangelo Raffaele avea annunziato a Gostanza, moglie
del re di Boemia, Fìncarnazione dello Spirito Santo e di Gu-
glielma: che questa annunciazione segui in giorno di Pente-
coste e per modo che la Guglielma non solo fu concepita quel-
Tistesso giorno nell'utero della regina Gostanza, ma nacque di
là ad un anno compiuto.
4. Ghe la Guglielma fu vero Dio e vero uomo nel sesso
femmineo, come fu Gristo vero Dio e vero uomo nel sesso
maschile ; e ch'essa avea a salvare i giudei, i saraceni ed i falsi
cristiani, come per mezzo di Gristo e del sangue di lui vengono
salvati i veri cristiani.
5. Ghe la Guglielma, secondo la gloria divina, era maggiore
della ss. Vergine, madre di Gristo, maggiore d'ogni altro santo;
stantechè era dessa lo Spirito Santo, e se mori secondo la na-
tura umana, non già mori secondo la divina.
6. Ghe la Guglielma, come Gristo, ebbe nel suo corpo le
cinque piaghe.
7. Che siccome Gristo risorse col corpo, a vista de' suoi
discepoli ascese al cielo, e nel giorno della Pentecoste mandò
loro visibile in lingue di fuoco lo Spirito Santo, cosi anche la
Guglielma avea a risorgere e ricomparire con corpo umano di
femminil sesso, prima della generale risurrezione, quindi ascen-
dere al cielo sotto gli occhi de' suoi discepoli, amici e devoti ;
poi doveva essa medesima discendere su loro in forma di
lingua di fuoco: e questi di lei devoti aveano perciò ad am-
ministrare il battesimo a tutti ed essere come gli apostoli di lei.
8. Ghe siccome Gristo nella vita mortale ebbe lasciato a suo
vicario il beato apostolo Pietro ed affidatogli la propria chiesa
e consegnate le chiavi del regno de' cieli, cosi anche la Gu-
glielma, ossia lo Spirito Santo, avrebbe lasciata sua vicaria in
terra Maifreda, dell'ordine delle monache umiliate.
9. Ghe, siccome il beato apostolo Pietro celebrò la Messa
e predicò in Gerusalemme, così anche Maifreda, la vicaria
della Guglielma, avea a celebrare la Messa al sepolcro dello
Spirito Santo, cioè della stessa Guglielma; dappoi celebrare del
pari solennemente la Messa, sedere e predicare nel maggior
tempio di Milano, che anzi avea a trovarsi anche a Roma e
-14-
libro contro Vigilanzio» a metà del libro cosi affermava: e Altre
< eresie dicevano lo Spirito Santo esser venuto in Montano, e
e dicono Cile lo stesso Manictieo è lo Spirito Santo. » Ecco
adunque, quali uomini e quanto famosi e degni avessero pre-
ceduta la Guglielma, e specialmente in quel domma primario e
capitale, perctiè spacciavasi essere ella lo Spirito Santo.
Ora mi riporto ai precitati processi.
V.
Quale fosse la patria e l'origine della Guglielma : quale il co-
lore delle vesti da lei e suoi seguaci usitale: quale il nome
suo primo, e il primo suo genere di vita: quanto fosse pre-
" murosa ed efficace nella Cara degli infermi: e se la mede-
sima affermasse di essere lo Spirito Santo.
1. Dicevasi esser questa Guglielma venuta di Bpemia con
un suo figlio, anzi essere figlia d'un re de'Boemi ed avere per
fratello un re di quel paese: e queste cose tutte, se non in que-
sto capitolo, consteranno dipoi in altra occasione dai sopraci-
tati processi.
2. Anctie il primo alunno di Guglielma fu qnelP Andrea
Saramita di cui abbiamo già fatto qualche menzione. Per il che
ella chiamavalo eziandio il suo primogenito. Costui pertanto
fu anche il primo fra i testimoni prodotti da quei processi.
Perocché interrogato per qual motivo esso Andrea e gli altri
che appartenevano alla congregazione ed alla conventicola della
Guglielma vestissero di morello ossia di colore oscuro, rispose :
Perchè la predetta signora Guglielma portava vesti di bruna
moreta; e quindi, per conformarsi al vestito di lei, tutti simil-
mente vestivano, onde apparire tutti della medesima congrega-
zione e devozione.
3. Cosi il medesimo soggiunse tantosto : essendoché la detta
signora Guglielma parimente appellavasi Felicita ed era creduta
essere lo Spirito Santo, perciò alcuni della nostra congregazione
che avevano figli o figlie imponevano loro i nomi di Feliciolo
0 Feliciola e di Paraclito-
4. Interrogato poi alla vita che conduceva in quella città
la Guglielma, aveva rispósto di questo tenore : Essa conduceva
una vita del tutto comunale , si nel cibo e nelle bevande , si
nelle vestì.
— 15 —
5. Operosissima poi fu la Guglielma nel confortare gli af-
flitti. Pertanto Dionigi Cotta ( nel suo primo esame ) la com-
mendava col seguente elogio : Che egli non fu mai sì tristo
0 desolato che andato da lei, non ne ritornasse lieto e rin-
cuorato.
6. Né mancano di quelli che attestarono di non avere giam-
mai udito dalia bocca di Guglielma altro che sane dottrine.
Segnatamente Bonadeo Carentano rispose : Oh' egli la conobbe
e vide una sola volta nella sua camera nella parrocchia di San
Pietro airOrto in Milano (nei fini della quale parrocchia abi-
tava a quel tempo anche la Guglielma) un anno e mezzo prima
che questa morisse. La qual Guglielma disse allo stesso signor
Bonadeo: Guardatevi dagli spergiuri, dalle .frodi , dalle usure
e simili ; né altra parola , infuori di queste, aveva udite dalla
medesima.
7. Che anzi Giacoma figlia dello stesso Bonadeo e moglie
di Corrado Coppa rese testimonianza in queste precise parole:
Ch' essa aveva conosciuto la Guglielma essendo essa Giacoma
testimone di anni dodici o in quel dintorno quando la detta
Guglielma trapassò da questa vita. E la detta signora Giacoma
disse di avere udito dalla Guglielma parole di buono ed onesto
ammaestramento e di devozione, né d'aver giammai udito dire
I dalla stessa Guglielma ch'ella fosse lo Spirito Santo.
, 8. Ma v' ebbero anche altri testimoni che più chiaramente
\ espressero come la Guglielma non solo non arrogossi giammai
la persona dello Spirito Santo , ma costantemente protestò in
contrario. Dionisio Cotta tra le altre cose dichiarava: Che la Gu-
> glielma, mentre che visse , disse in presenza dello stesso ser
Dionisio ed Andrea Saramita e ad un tale compagno del detto
Andrea : Voi siete tanti pazzi , che dite e credete di me quel
che non lo è. Io son nata da un uomo e da una donna. Ed io
credo eh' ella ciò dicesse per quello che poscia veriflcossi, cioè
perchè taluni dicevano e credevano che la stessa Guglielma
fosse lo Spirito Santo.
9. Più evidentemente ancora ciò non consta dalla testimo-
nianza di Allegranza, moglie di Giovanni Perusio, che sta con-
cepita in queste parole: Parimenti disse (l'Allegranza) che la
detta Carabella sapeva bene ed aveva udito da loro che i pre-
detti Andrea e suor Maifreda da Pirovano dicevano e crede-
vano che la nominata Guglielma forse lo Spirito Santo e vero
Dio. Interrogata da quanto tempo avesse ella per la prima volta
- 16 —
udito che la Guglielma era lo Spirito Santo e vero Dio, ri-
spose e disse : Possono essere 24 anni all' incirca da che essa
per la prima volta aveva udito ciò dal predetto Andrea Sara-
ramito. E allora essa testimone andonne alla detta Guglielma,
che allora viveva , e le riferi come il predetto Andrea avevale
dello essere lei lo Spirito Santo. E la slessa Guglielma ri-
spose alla testimone ch'ella recavasi ciò ad oltraggio. Essendo
che essa non era altro che una femmina da poco ed un vii
verme.
10. Marchisio Secco poi che allora abitava nel monastero
di Chiaravalle, agli interrogatorii fattigli (anno 1302, 12 feb-
braio) rispose cosi: « Che la slessa Guglielma era donna di
buona condizione, e dicevasi fosse sorella del re di Boemia;
che dalla stessa Guglielma non udì giammai ch'ella fosse lo
Spìrito Santo, l'aveva bensì udito da Andrea Saramita ; ch'essa
mentre che visse in Milano abitò in Borgogna (a quella chiesa
parocchiale dura tuttora il titolo di santo Stefano in Borgogna)
ed alla Pusterla Nuova, sita tra la porta Nuova e la Orientale,
ed a San Pietro all'Orto, ove mori: che quella casa non era
propria della stessa Guglielma, sibbene del monastero di Chia-
ravalle, che l'avea comparata da quei de Miracapitibus, ai quali
' era appartenuta; che esso illuminò il sepolcro della detta Gu-
glielma col lume delle lampade, ma non più da sei anni in qua,
e ciò faceva perchè molte persone dicevano che la Guglielma
avevale liberate dalle loro infermità. — Parimenti disse che —
una volta, vivente la stessa Guglielma, Andrea Saramita diceva
che essa era lo Spirito Santo ; e lo stesso Marchisio testimone
diceva che no. — Pertanto fecero scommessa ed andarono dalla
stessa Guglielma, acciò dicesse ella quel che era di ciò. E Gu-
glielma, molto sdegnata in vista, rispose loro sé essere di carne
e d'ossa, inoltre aver condotto un figlio nella città di Milano
né essere quel ch'essi credevano; che se non avessero fatto
penitenza di quelle parole che avean dette sul conto suo, sareb-
bero andati all'inferno. »
11. Con finzione nondimeno, a mio avviso, e fraudolente-
mente la Guglielma pariava di questo tenore quando avvenivasi
in orecchi alieni dall'udire una si detestabile eresia, quali in
fatto si professarono essere i cinque ultimi testimoni. All' in-
contro quel sceltissimo e docilissimo discepolo ed interprete di
cotanta divinità, Andrea Saramita, attestò infine de'fini l'op-
posto di quanto quei cinque testimoniarono. Cinque volte appare
-17 —
egli da quei processi essere stato esamiDato, e si rìcoDosce in
molle cose aver egli tergiversato e detto menzogna, e nomina-
tamente in ciò di che ora trattiamo. Nel quinto esame per-
tanto, interrogato ond' avesse ricevuto gli errori che già avea
confessato, rispose con queste precise parole : • Che i suoi pre-
detti errori avevano avuto fonàamento ed origine dalla signora
Guglielma, sepolta presso il monastero di Gbìaravalle, della
diocesi di Milano. La qual Guglielma diceva allo stesso Andrea
esser essa discesa dal cielo con chiarore e splendpre grandis-
simo. » E questo Guglielma diceva allo stesso Andrea ch'essa
era lo Spirito Santo; che dovea risorgere innanzi alla generale
risurrezione, ascendere in cielo visibilmente e mandare lo Spi-
rito Santo a'suoi devoti, discepoli ed amici; ch'essa Guglielma
doveva redimere i Giudei ed i Saraceni e salvarli. Ed altri
errori similmente disse lo stesso Andrea aver ricevuti dalla
detta Guglielma; pure di suo capo ed invenzione molti altri egli
vi aggiunse e trovò corredandoli di molte circostanze ad ornarli
e a farli più credibili. Parimenti disse il predetto Andrea cre-
der esso che la suor Maifreda da Pirovano avea similmente
udito dalla predetta Guglielma i succitati errori, che cioè la
Guglielma era lo Spirilo Santo. E di questo e degli altri errori
sopradetti tien per fermo che la suor Maifreda fu istrutta dalla
stessa Guglielma; poiché lo udi più volte da Maifreda medesima,
cioè che la stessa Guglielma avea detto a suor Maifreda se essere
lo Spirito Santo. Ed altri errori similmente udì la della suor
Maifreda dalla predetta Guglielma, come la stessa suor Maifreda
diceva al nominato Andrea. — Fin qui lo stesso Andrea in-
tomo al predetto magistero della Guglielma tanto verso di sé
(pianto verso Maifreda; e queste cose egli attestava il 22 d' a-
gosto.
12. Ciò slesso consta abbastanza anche da quello che testi-
moni auricolari affermarono, Sibìlia, già moglie di Beltramo
Malcolzato, e Francesco di Garbagnate, quella il 3, questi il 9
settembre. Stante che Sibilla asserì con giuramento : che il nomi-
nato Andrea Saramita le disse, in presenza di molte altre per-
-sone, ch'esso (Andrea) era andato alla casa della Guglielma,
sepolta presso il monastero di Chiaravalle, ed aveva trovata la
Guglielma in camera che stava pregando: che dopo la preghiera
ella erasi levata e detto al nominato Andrea ch'essa era lo
Spirito Santo in forma visibile di donna, aggiungendo che qua-
lora essa fosse venuta in forma di uomo (cioè maschio), essa
Tahb. Jnquii. Tok IL 3
— i8 —
sarebbe morta, come lo fa Cristo, e tutto il mondo sarebbe
perito. Parimenti disse la signora Sibilla che il prenominato
Andrea Saramita le disse che allora apparve ivi una certa seg-
giola, cui la Guglielma trasmutò in bue; e la stessa Guglielma
disse al medesimo Andrea: Vedi quel bue? prendilo, se puoi.
E tosto il bue disparve. «
13. Ecco poi quanto affermò quel Francesco Garbagnate :
disse < che ricordavasi d'aver udito da suor Maifreda da Pirovano
e da Andrea Saramita che la Guglielma, stata sepolta presso il
monastero di Ghiaravalle, mentre che vivea, avea detto a suor
Maifreda e ad Andrea che dair anno 1262 in qua non erasi
sacrificato e consacrato il corpo di Cristo soltanto , ma con
esso anche il corpo dello Spirito Santo, che era la stessa Gu-
glielma. Onde la stessa Guglielma diceva che non curavasi di
vedere il corpo di Cristo, né il sacrificio eucaristico, perchè essa
vedrebbe vi sé stessa. Perchè poi la Guglielma asserisce ciò
essere avvenuto da quell'anno in ()oi, e non prima , io non lo
potei punto pescare da alcun luogo: perlochè lo abbandono alle
sue stesse tenebre. »
14. Maifreda poi esplicitamente essa pure attestava avere
la Guglielma affermato d'essere lo Spirito Santo, ma questa
di lei testimonianza produrremo poi a tempo e a luogo più
opportuno.
VI.
Da chi sia stata inventata la favola della aìribasciata dell'ar-
cangelo Raffaele alla ìnadre della Guglielma, intomo atta
incarnazione della medesima, ossia dello Spirito Santo.
1. Ciò che Andrea Saramita aveva confessato nel numero 12
del precedente capitolo, d'aver cioè ad ornamento ed a mag-
giore credibilità aggiunto di sue molte circostanze agli errori
attinti dalla Guglielma, io penso non doversi ascrivere al solo
Andrea, ma eziandio a suor Maifreda: e di questo genere penso
essere la favola da loro spacciata intomo alta missione dell'ar-
cangelo Raffaele alla regina Costanza.
2. Nel terzo esame veniva Andrea richiesto di dove avesse
ricevuto le cose che dianzi aveva confessato a viva voce ed
aveya inoltre consegnato alla scrittura ; che cioè < l'arcangelo
Raffgiele aveva annunciato alia regina Gostanza, madre alla detta
— i9 —
santa Guglielma» rincarnazioDe della stessa Guglielma in quel
modo cbe Farcangelo Gabriele aveva annunciato alla beata Maria
rincarnazioDe di Cristo; e che nel tal giorno sarebbe conce-
puta e rimasta tanto tempo nel corpo della detta sua madre e
sarebbe nata in tale giorno. A tutte queste domande rispon-
dendo, egli disse : < Che egli aveva udito dalla Guglielma che
essa era nata il di della Pentecoste. E il detto Andrea par-
lando talvolta con suor Maifreda intorno alla Guglielma dissero
fra loro che credevano e pareva loro cbe la cosa doveva essére
così per l'appunto, che siccome l'arcangelo Gabriele annunciò
alia Beata Maria Tincarnazione di Cristo , cosi pareva ad essi
che Tarcangelo Raffaele avesse annunciato alla signora Costanza
regina di Boemia Tincarnazione della Guglielma. > Sifatta per
verità era la temerità e l'arroganza di quelFAndrea, e di Mai-
freda, nel fabbricare nuovi articoli a quella fede ch'essi profes-
savano e volevano spacciare ai credenzoni da non potersi con
adeguate parole significare*
VII.
Avvertimenti di Guglielma a' suoi seguaci prima della morte; e
se ella s'avesse nel corpo le cinque piaghe.
^. Prima di trattare della morte della Guglielma è bene
che rammentansi alcune cose da lei pronunciate innanzi al suo
trapasso. Quel Danisio Cotta di cui abbiam fatto poco sopra
menzione, interrogato perchè fosse convenuto a un certo ban-
chetto 0 pranzo insieme coi seguaci della Guglielma, coi quali
non legavate alcun vincolo di parentela, d'affinità o di vicinato,
rispose : < Perchè la predetta defunta Guglielma pochi giorni
prima che passasse di questa vita aveva detto a maestro Gia-
como da Perno e ad altre persone presenti , che erano degli
amici e devoti della detta defunta Guglielma, che eglino doves-
sero amarsi teneramente ed onorare a vicenda ; siccome il detto
maestro Giacomo disse a ser Danisio. E lo stesso ser Danisio
era uno dei familiari domestici e devoti della Guglielma mentre
ch'essa era in vita. >
2. Andrea Saramita poi nel terzo suo esame interrogato se
si raoimentasse le parole dette dalla Guglielma intorno all'ora
della sua morte, rispose : e Che egli aveva udito dalla stessa Gu-
gUelma o dalle signore eh' erano ivi , cioè dalle signore Alle-
— iO —
granza de'Perusi, Carabella de'Toscani, Booaccossa da Muresco,
0 da alcuna d'essa, e da molte altre, che la stessa signora Gu-
glielma aveva detto alla loro presenza : Voi credevate vedere ciò
che non vedrete a cagione della vostra incredulità. E questo
diceva significando le cinque piaghe ch'ella dovette aver avuto
nel suo corpo come le ebbe Cristo nel suo. > E ciò crede lo stesso
Andrea ; perchè era voce e credenza generale, fra i devoti e le
devote della Guglielma, ch'ella avesse le dette piaghe nel suo
corpo: piaghe che i suoi devoti e devote aspettavano di vedere
e non videro. — Meraviglioso modo in vero di coprire la fal-
sità, imputare air incredulità degli astanti la cagione del non
vedere nel corpo della Guglielma le piaghe ch'essa né aveva ,
né giammai aveva avuto.
3. E di qui puossi eziandio giudicare quanta fede si meri-
tassero dappoi le parole di Andrea e di Aidelina , che furono
pronunziate nel suo esame da Gerardo da Novazano, frate del
terzo ordine degli umiliati ed ammogliato , come erano allora
costoro, abitando ciascuno nella sua propria casa. — Parimenti
disse (cosi leggesi nel processo, addi 18 agosto) il nominato
frate Gerardo che aveva udito dallo stesso Andrea che la detta
santa Guglielma aveva avuto nel suo corpo cinque piaghe
simili alle piaghe di Gesù Cristo. E ciò stesso aveva udito da
'una certa donna che chiamavasi Aidelina, moglie di uno Ste-
fano da Cremella, la quale asseriva di avere veduto quelle pia-
ghe della delta Guglielma e di averle anche deterse.
Vili.
La Guglielma muore in Milano: e dopo due mesi circa viene
con pompa solenne portata a seppellire al monastero di
ChiaravallCy com'essa avea ordinato.
ì. Nella parochia di San Pietro all'Orto, ascritta alla Porta
Orientale ed oggi notissima, la Guglielma abitava da ultimo
una casa di proprietà del monastero di Chiara valle fuori di
Porta Romana, e quivi mori nel mese di agosto, il giorno di
San Bartolomeo.
2. Aveva legato essa al suddetto monastero tutti i suoi
beni, ed ordinato di essere colà seppellita. Nondimeno per due
mesi essa giacque sepolta in una cassa dì legno nel cimitero
parochiaie di San Pietro, sia che i seguaci di lei meditassero
— 21 —
di trasferirla in Boemia , sia che in quel frattempo le appre-
stassero solenni pompe fanerarie, o sia più probabilmente che
aspettassero il tempo di poterla con maggior sicurezza traspor-
tare a Chiaravalle.
3. Bellacara moglie di Bonadeo Carentano, interrogata se
per avventura avesse udito ch'erano state fatte alcune vesti
per la Guglielma testé defunta , e che ella doveva risorgere a
vita prima deiruniversale risurrezione, rispose < aver essa udito
t^nsì che quelle vesti erano state fatte , ma non già che la
stessa santa Guglielma avesse a risorgere, e cbe la stessa aveva
ad essere trasportata in Boemia. >
4. Quanto a Sibilla, vedova del fu Beltramo Malcolzato, cosi
teggesi nell'esame da lei sostenuto: t Parimenti la stessa si-
gnora Sibilia disse avere in casa sua una cassa nella quale fu
primamente sepolta la Guglielma; la qual cassa Andrea Sara-
mita aveva fatto portare neirabitazione della stessa signora
Sibilia. E disse che i suoi vicini di San Pietro all'Orto chiede-
vano questa cassa (tant'era l'opinione ch'essi aveano della san-
tità della Guglielma) e i frati Giacomo da Mozate e Zambello
Porcello da Chiaravalle, dissero alla stessa signora Sibilia che
€ssa non aveva a dare la predetta cassa ai nominati vicini, né
a chichefosse, stante che la Guglielma aveva eletto la sepoltura
presso il monastero di Chiaravalle, e il monastero quindi aveva
ad avere la stessa cassa e tutti i beni di lei. >
5. D'un tenore conforme a queste asserzioni parlava anche
Bianca da Cerliano: « La cassa nella quale fu primamente
sepolta la santa Guglielma fu portata dalla chiesa di San Pietro
all'Orto alla casa della signora Sibilia e di Franceschino Malcol-
zato, e ve la fece portare Andrea Saramìta , e questo fu da
due anni in qua. E i frati di Chiaravalle vennero alla casa della
sopranominata signora Sibilia e le dissero che la prefata cassa
aveva a rimanere presso di lei. •
6. Ma non devesi neppure tacere quanto lo stesso Andrea
nel suo terzo esame rispose alla domanda fattagli se egli tro-
vavasi presente nel giorno e nell'ora del trapasso della Gu-
glielma. Imperocché rispose t ch'egli era per l'appunto presente
e crede che fessevi presente e il maestro Giacomo da Perno e
il signor Danisio Cotta; il qual signor Danisio si recò col detto
Andrea presso il marchese di Monferrato, o piuttosto presso Ame-
dato notalo del predetto marchese, onde ottenerne protezione
all'oggetto di potere con tutta sicurtà portare la stessa Guglielma
- M —
al monastero di Chiara valle, stan teche in allora erayi guerra tra
i Milanesi ed i Lodigiani. » Dalle quali parole più espressamente
che da tutti gli altri indizi a me fin qui noti e da questi stessi
processi vien dichiarato in qual anno precisamente la Guglielma
sia passata di questa vita. Perocché quella guerra tra i Mila-
nesi alleati con Guglielmo marchese di Monferrato, ed i Lodi-
giani (a prò' de' Visconti i primi, i secondi combattenti a prò*
de'Torriani) cadde nell'anno 1281, e cessò sul cominciare del
susseguente, come osservò con accuratezza tra gli altri Tristano
Calco nel lib. XVII della Storia patria. Intorno alla qual guerra
e pace si ponno leggere inoltre Donato Bossi, e Bernardino Co-
rio nelle loro cronache , e del pari Carlo Sigonio, Del regno
(T Italia, al lib. XX; inoltre Gulvane Fiamma nella Cronaca mag-
giore al cap. 396 e 397, e nel Manipolo dei Fiori al cap. 320
e 321 e parimenti Fautore della cronaca intitolata II fiore de'
fiori al foglio 184.
7. Quanto poi alla pompa funebre colla quale il cadavere
della Guglielma fu* trasferito a Chiaravalle, e che può credersi
essere stata affatto singolare e memorabile, questo solo io trovo
essere stato espressamente deposto dai testimoni!: « Parimenti
disse la signora Sibilla ch'essa ha in casa sua una tenda di
zendado vermiglio in un sacchetto, la quale fu posta sopra la cassa
e sul feretro della detta santa Guglielma quando fu portata a
Chiaravalle. >
IX.
La Guglielma viene con grandi onori tumulata appartatamente
nel cimitero di Chiaravalle. Ne molto dopo estrattone U
corpo , viene lavato con acqua e vino commisti : e questi
conservavansi per la loro virtù meravigliosa nel guarire gli
infermi, come spacciavano i di lei seguaci.
1. L'antico cimitero del convento di Chiaravalle è cinto di ud
muro parimenti vecchio, e molte cappelletto vi sono internatOt
nelle quali anche a di nostri veggonsi amplissime urne di viva
sasso, ripostigli di illustri cadaveri. Fra queste cappelletto, una
viene anche oggidì additata come quella in cui la salma della
Guglielma affermasi per costante tradizione essere stata deposta.
Anzi dicono essere il ritratto della Guglielma una certa imagine
di donna ch'ivi anch'oggi vedesi dipinta sul muro ai di sopra del
— ts —
ogo of'era il sutobgo. Qaeih pixtan poi appire ^ Mttcì^clie
n senza ragione paò giodicarà TÌckìissima al tempo in cui la
iglieima H fa sepolta. £ poi disposta come segue: quinci h
argine Maria seduta ^ tiene sulle ginocchia il suo bambino
!sa; quindi quella donna, in cui tediamo raffigurata la Gu-
ieloia, genuflessa e supplichevole viene presentata alla stessa
argine ed a Cristo dal santo abate Bernardo, fondatore del
onastero, che stawi da un lato e adempie le parti di inter-
ssore. Essa (la Guglielma) indossa vesti di colore cinerlccio
naie alziamo descrìtto più sopra e che volgarmente appel*
si color temè oscuro) ed ha faccia rubiconda si , ma grave
matura e che ludica Tetà d'anni cinquanta circa. Dietro a lei
ene un'altra donna del pari genuflessa, ma religiosamente
data e coperta dal candido abito delle monache umiliate, e
lesto io credo essere suor Maifreda de' Pirovani. Da ultimo se-
lono molti allrì ed uomini e donne ginocchioni e tutti vestiti
irìmenti di abiti di color tanè, i quali è probabile sieno i sc-
iaci della medesima Guglielma. Anche dopo che fu disseppol-
to e bruciato il cadavere della Guglielma si lasciò che quella
Uura vi rimanesse tuttavia intera e superstite a quest'oggetto,
ì'ella attestasse alla posterità non avere punto quei monaci
-eduto che la Guglielma fosse lo Spirito Santo incarnato nel
isso femminile. Imperocché, ammesso ciò, ella fuor d'ogni dub-
io sarebbe stata uguale a Cristo e superiore alla Vergine ma-
re di lui; e per ciò non avrebbe avuto bisogno di venire pre-
miata e raccomandata loro dal santo abate Bernardo In qua-
tà di patrono e tutelare. Per il che noi pure crediamo che la
loglielma fu quivi con onore e con riverenza tumulata; tanta
1 quel tempo era Topinione della di lei santità.
2. Vediamo ora che facesse posteriormente Andrea Saramita,
oichè il testimone prete Blirano di Garbagnate, cappellano della
Uesa di San Fermo, cosi tra l'altre cose nel suo secondo esame
MI giuramento aflèrmò: e Quando la signora Guglielma fu por-
ita a Chiaravalle, di là un mese o circa , in presenza e colla
loperazione di lui stesso prete Mirano, Andrea Saramita fece
irre e trasse la detta Guglielma dal sarcofago in una cassa e
I fece portare nella diiesa dei frati di Chiaravalle » ed ivi in
reKDza di molti frati, chierici e conversi , la fece lavare con
equa mista a fino. E il detto Andrea raccolse poscia la stessa
mtara, cficendo che d*essa farebbesi il crisma a eresimare
devoli e le devote della Guglielma. E quest'acqua fece por«
-24 -
tare a MìIbdo presso le sorelle di casa Biassonno, ove abitava
suor^Maifreda de'Pirovani. E il detto prete Mirano vide più
volte la sopradetta suora Maifreda o bagnare con guest' acqua
degli infermi o somministrarne loro onde se ne bagnassero. E
disse il prefato prete Mirano che quell'acqua fu posta nell'al-
tare delle sunominate sorelle di Biassonno. Parimenti disse
prete Mirano che, lavato il corpo della Guglielma come sopra,
il detto Andrea fo vesti con una camicia lavorata di seta e con
uno scapolare di lana bianca, datogli da don Graziadeo da Opra-
no, monaco di Chiaravalle; e che lo stesso Andrea comperò
poscia uno scapolare nuovo al detto don Graziadeo, in luogo
di quello.»
X.
[ settari della Guglielma, nella speranza ch'ella abbia
a risorgere, le preparano vesti preziose.
1. Appettavano essi che la Guglielma risorgesse dai morti
per salTre quindi al cielo. Pertanto quella provvida gente pre-
parò vesti preziose, quasi che un corpo già dotato divinamente
dell'eterna felicità avesse bisogno di nostrali vestimenta, e quasi
volessero in ciò apparire più savi di quello fossero stati i se-
guaci di Cristo Signore, i quali, pare, non avevano punto pen-
sato ad apprestargli le vesti delle quali risorgendo egli si co-
prisse ed usasse dappoi.
2. Testimoni di ciò produciamo gli stessi settatori della Gu-
glielma e quelli che n'erano più al fatto che non fosse la Bel-
lacara citata più sopra.
3. Sarà primo quel prete Mirano poc'anzi nominato, nel cui
primo esame si leggono le seguenti cose: e Parimenti il nominato
testimone disse, che quando la Guglielma fu moria, il detto
Andrea fece fare un manto di porpora con una fibbia d'argen-
to del valore di 30 lire di terzuoli o all'incirca, la quale fibbia
fu lavoro del fabbro Aimerricò da Varese, ed un vestito di
porpora e due calzari dorati. E il prenominato Andrea diceva
che preparava le predette cose per la stessa santa Guglielma ,
poiché aveva essa a risorgere. E il detto testimone vide le an-
zidette cose coi suoi propri occhi , dodici anni or sono ed
anche più.
4. A Mirano succeda Gerardo da Novazano, frate del terzo
— 15 —
ordine degli umiliati. Poiché questi parimenti nel suo primo
esame tra le altre cose deponeva e che aveva più volte udito da
Aodrea Saramita che la stessa santa Guglielma aveva a rìsor*
gere e che ^ii ed altri moltissimi aspellavano quella risurre-
ùone. E in questa credenza sono molte persone, come disse lo
stesso Andrea. E ciò aveva udito dallo stesso Andrea or fanno
quindici anni o alPincìrca, nel tempo cioè in cui passò di vita
b Guglielma. Parimenti il nominato frate Gerardo disse che An-
drea ed altre persone divote della santa Guglielma fecero fare
in quel tempo alcune vesti dorate e calzari dorati ed una cassa
e molti altri ornamenti per la stessa santa Guglielma, della
quale, come si disse, aspettavano la risu^rezione. E le anzidetto
vesti e i calzari e la cassa furono veduti da frale Gerardo nella
casa del detto Andrea, quindici anni sono o alfincirca. » E da
quel tempo in qua udì più volte dire che aspettavano la risur-
I rezione di lei, non già allora soltanto.
XI.
I Taltm seguaci della Guglielma favoleggiano ch'essa risorgesse
poco dopo la sua morie e si mostrasse a molte persone.
Di fatto, dopo molti anni aspettasi ancora ch'ella risorga.
i. Ne rimane óra a cercare in qual tempo avea la Gugliel-
iDa a risorgere, secondo che i seguaci di lei credevano. DI
certo la stessa cosa venne domandata in un secondo esame a frate
Gerardo, che abbiamo poc'anzi prodotto a testimone. Esso poi
rispose di questo tenore: Dovea risorgere all'istante. Ondo aveva
già detto fin dal primo suo esame che essi aspellavano la ri-
sorrezione della Guglielma subito dopo la morte, e che lo stesso
Andrea Saramita diceva ch'aveva fatto fare le anzidette vesti
per vestire la Guglielma quando risorgesse. Quanto alla cassa
ch'aveva detto aver veduto nell'abitazione di Andrea con altre
eose, rammentandosene meglio, disse di averla veduta in casa
di Pietro, frate del terzo ordine degli umiliati" che abitava sopra
il muro del fossato, il quale avea l'incarico di guarnirla. Colla
quale aggiunta il predetto frate Gerardo corresse il suo prece-
dente errore di memoria.
2. Avevano dunque detto sulle prime che la Guglielma
poco dopo il suo trapasso tornerebbe a rivivere. Per il che po«
scia diedero ad intendere eh' ella fosse veramente risorta. Ciò
Tamb. Ifi^is. Voi. IL 4
— 26 —
si raccoglie dal terzo esame di Andrea Sara mi ta, in queste parole:
Parimenti il nominato Andrea disse che < prima della sna con-
fessione fatta davanti ai frati Guido da Gochenato e Rainero da
Pirovanb, inquisitori, e scritta di suo pugno» aveva creduto che
la predetta santa Guglielma era risorta col suo corpo. » Interro-
gato il detto Andrea dove dunque ora sta e stette la Guglielma
col suo corpo dopo la risurrezione prima di ascendere al cielo,
rispose che < la Guglielma dopo la sua risurrezione stette col suo
corpo dovunque volle» sia nel sepolcro, sia in qualunque altro
luogo ove più le piacque, come Cristo stette col suo corpo ovun-
que volle, e quelli che con Cristo risorsero avanti Tascensione
di Cristo., E come Cristo era apparso interpolatamente ora a
Maria Maddalena, ora a'suoi discepoli od a Pietro, cosi dicevast
dai devoti della Guglielma ch'essa era apparsa di quando in
quando ai suoi devoti. » Interrogato il detto Andrea a quali fra ì
devoti fosse apparsa la Guglielma, rispose » ch'egli aveva udito
dalla signora Ricadona sua madre (la quale secondo ch'egli aft-
testò nel suo terzo esame , era già morta fino dall' anno del
Signore 88 (i) per lo meno (sic) ) che la stessa Guglielma era
comparsa col suo corpo alla predetta signora Ricadona nella
chiesa del monastero di San Simpliciano in Milano. < Interrogato
ds( quanto tempo aveva ciò udito dalla predetta signora Ricadona
sua madre, < rispose ch'egli avealo udito dalla signora sua madre
quasi subito dopo la morte della Guglielma, prima che la stessa
signora Ricadona facesse l'abiura dell'eresia alla presenza di frate
Maifredo di Dovara, inquisitore. » Parimenti disse Andrea di avere
udito da suor Maifreda, che la Guglielma erale comparsa col silo
corpo. Fin qui Andrea.
3. Veramente il maestro Giacomo da Ferno interrogato già
prima sul conto di suor Maifreda, se cioè egli avesse mai udito
dalla predetta suor Maifreda, ch'essa parlasse colla santa Gu-
glielma e stesse in contemplazioni colla medesima, e l'abbia più
volte veduta in forme di colomba, aveva risposto <' ch'egli non
avea giammai udito ciò dalla detta suor Maifreda, ma sibbene
da altri, ma non ricordavasi da chi. t
4. Di certo poi la stessa Maifreda, interrogata nel suo quarto
esame, se avesse ella composte le litanie ed i ritmi sullo Spi-
rito Santo, cioè sulla santa Guglielma, rispose che si, e che era
stato suo intendimento indirizzare il discorso alla stessa santa
(I) Devesi certamente intendere Tanno 1288. — Nota degli editori.
— 27 —
Goglielma; e soggiunse la predella suorMaifreda t che la stessa
santa Guglielma, dopo la morte, era comparsa a lei come le
sembrava, e disse che la santa Guglielma le aveva ingiunto di
fare quel che fece. »
5. Così molli altri testimoni esaminati in questi processi,
laminosamente confermarono che la stessa Maifreda intorno al-
Tanno 93 di quel secolo, in casa di maestro Giacomo da Perno,
dopo il pranzo al quale erano convenuti molli fra i [seguaci
delia Guglielma, spacciò una recente apparizione della Gu-
glielma.
6. Né la sola Maifreda, ma anche Andrea Saramita, si at-
tribuiva queste apparizioni della Guglielma, e le spacciava altrui.
Quindi il frate Mirano, tra Taltre cose, attestava che i suno-
minatì Andrea e suor Maifreda dicono ch'essi videro coi propri
loro occhi la predetta santa Guglielma e che la jstessa benedi-
ceva a loro la mensa, e che parlava ad essi, come lo slesso te-
stimone udi dai prenominati Andrea e suor Maifreda. E con ciò
raffermavano i loro discepoli nella divozione alla slessa santa
Guglielma.
7. Queste cose ed altrettali, se ve n'ha, spacciavansi a prova
di ciò che era stato primamente asserito; che cioè la Guglielma
poco dopo la sua morte non solo avea a risorgere, ma ch'era
difatto risorta, e resasi visibile ai suoi discepoli, sebbene la so-
teone di lei ascensione al cielo s'andasse ancora dopo tant'anni
differendo.
8. Ciò nullameno Andrea non s'acquetò a quell'asserzione,
come che sapesse benissimo ch'era inventata di pianta, né de-
gna di alcuna credenza.
Per il che pensò doversi levare a nuova speranza i suoi
segnaci, che cioè la Guglielma pur finalmente risorgerebbe nella
Pentecoste dell'anno 1300. Stante che in quesl' anno, addì 13
d'agosto^ interrogato dagli inquisitori Ottavino da Garbagnate,
se i predetti Andrea e suor Maifreda ed altri avessero signifi-
cato il tempo in cui la Guglielma aveva a risorgere , rispose
che il sunominato Andrea diceva dover, essa risorgere nella
Pentecoste ultimamente passata, ma che la suor Maifreda non
indicava il tempo: solo diceva che la Guglielma aveva a risor-
gere.
9. Quindi risulta, almeno per confessione della stessa Mai-
freda, che a quel tempo la Guglielma non era per anco risorta;
il che constò eziandio dalla confessione della signora Fiore >
— 28 —
figlia dei fu Pietro Cossa da Gantù, espressa nella seguenti pa-
role: e Disse che sono ora tre anni e più (erasi ai 9 d'agosto)
dacché essa aveva udito da suor Maifreda da Pirovano, che la
Guglielma sepolta ora presso il monastero di Chìaravalle era lo
Spirito Santo, e che la stessa Guglielma doveva risorgere prima
della universale risurrezione, ed ascendere visibilmente al cielo. »
10. Del resto a quella stessa speranza spacciata dappoi da
Andrea ha riferimento ciò che nel secondo esame di Danisio
Cotta del 25 settembre leggesi in queste parole: « Parimente disse
lo stesso ser Danisio, che aveva udito da maestro Giacomo da
Perno molt'anni addietro, e più volte, che tantosto v'avrebbe
un'apparizione ed una grande solennità. Interrogato lo stesso
ser Danisio qual cosa credesse volersi con ciò significare dal
detto maestro Giacomo, rispose dicendo credere che colui inten-
deva parlare della Guglielma ch'aveva a risorgere innanzi del-
l'universale risurrezione. »
41. Per tal modo, ad una menzogna così insigne, dovevasi
togliere ogni credito, anche per la stessa incoerenza degli spac-
ciatori della medesima.
XII.
Due fra i settari della Guglielma vanno in Boemia dal re, della
cui famiglia credevano ch'ella si fosse, e non senza verità
come appare.
ì. Poiché colle maggiori onorificenze fu celebrato il fune-
rale della Guglielma a Chìaravalle, e ne fu lavato il corpo, e
preparate magnifiche vestimenta nell'aspettazione del risorgi-
mento di lei, vuoisi che Andrea Saramita si recasse in Boemia.
Imperocché nel primo esame di lui, addì 20 di luglio, trovasi
quanto segue: « Interrogato se avesse conosciuto in vita h\ Gu-
glielma sepolta presso il monastero di Chìaravalle, rispose che
sì. Interrogato se sapesse d'ond'era quella Guglielma rispose
che sì, vale a dire che fu figlia del defunto re di Boemia come
dicevasi. Interrogato se avesse fatto ricerche intorno alla verità
di ciò, rispose che si, vale a dire ch'esso era andato sino al re
di Boemia, e vi aveva trovato che il re era morto, e che la
cosa era come dicevasi. Interrogato per qual cagione fosse
andato a fare siffatte indagini, rispose ch'era andato per an-
nunziare al re la morte della Guglielma; inoltre, onde olle-
— » —
nere alcan che dal re a compenso delle spese ch'esso Andrea
aveva fatte ad onore delia detta Guglielma. Interrogato il detto
Andrea se fessesi recato dal re dnde promuovere collo stesso
la canonizzazione della Guglielma per opera della Chiesa» rispose
che no per allora; ma altro volle disse che si» ma di non avere
fatto molte pratiche. »
2. Né Andrea vi andò solo, ma accompagnalo dal frale
Mirano. Per il che il primo esame di lui comincia a questo
modo: < 11 frate Mirano, cappellano della chiesa di San Fermo
in Milano, Porta Ticinese, contrada dei Pusterla, stato per lungo
tempo dei devoti della signora Guglielma, sepolta presso il mona-
stero di Ghiaravalle, e che dopo la morte della stessa Guglielma
recossi con Andrea Saramita in Boemia da quel ro, e che fu
segretario speciale di suor Maìfreda da Pirovano e del detto
Andrea Saramita, citato, ecc., comparve, ecc. »
3. Che se la Gugliema era davvero figlia del re di Boemia,
come Andrea diceva di avero avverato, e se del pari era già
morto quel re, cui Andrea sperava trovare tuttavia vivente, ne
consegne che quel re fosse Ottocaro, il quale dopo un regno
di oltre 26 anni (come espressamente raccogliesi dalla Cosmo-
grafia di Giovanni Nauciero, voi. II, generazione 43) nel 1278
fa morto combattendo contro Rodolfo re dei Romani, al quale
poscia saccedette il figlio Venceslao ancor settenne, divenuto
poi celeberrimo per fama di santità, e morto nel trentesimoterzo
anno d'età. Or bene, in nessun luogo leggesi che queirottocaro
abbia avuto una moglie di nome Gostanza, ma primieramente
una Margherita, e questa vecchia e senza prole; dappoi una
Cunegonda, come consta e per Enea Silvio neWIstoria di Boemia,
al cap. 27, e per Giovanni Dubravlo, lib. XVII ùeìi'htoria di
Boemia. Adunque il padre della Gugliema fu quelfOttocaro.
4. Per verità Premislao padre al predetto Ottocaro (il quale
fu anch'esso del pari appellato anche Otogaro o Ottocaro) fatto
re di Boemia Tanno H99 da Filippo principe di Svevia, impe-
ratore eletto, dopo avere ripudiata la sua prima moglie, sorella
che fu di Teodorico marchese di Misnia, indi a poco sposossi a
Costanza, figlia di Bela re di Ungheria, eroina lodatissima, colia
quale viveva ancora l'anno 1230 e da cui generò Venceslao ed
il predetto Ottocaro. — E ciò sulla testimonianza del mede-
simo Dubravio, lib. XV ed in principio del XVI. t Princislao
da Filippo imperatore dei Romani, fratello di Federico II, cui
la Chiesa non riconobbe, in terzo luogo venne coronato in re
— so-
di Boemia. » — II capo 27 poi incomincia in lai modo: « Prin-
cislao ebbe due figli, Venceslao ed Oltocaro. A Venceslao toccò
il regno di Boemia, ad Ottocaro il marchesato di Moravia. Ven-
ceslao poi fa monocolo e, morendo senza figli, lasciò il regno
-ad Oltocaro, che con altro nome si disse anche Princìslao, quinto
fra i re di Boemia, » — E di nuovo in principio del cap. 28 :
< Venceslao figlio di Ottocaro d'anni sette da Ottone marchese
di Brandeburgò fu portato via in Franconia, ed il regno venne
da lai governato con titolo di tutore; il fanciullo poscia ritor-
nato rimase solto T autorità della madre ». — Chi sa dunque
che i veri genitori della Guglielma fossero questi Princislao e
Gostanza ? Chi sa parimenti che quell'Andrea Saramita cercasse
di Ottocaro loro figlio, non come di padre, ma come di fra-
tello alla Guglielma ? Chi sa che, deluso nella sua speranza,
non sia perciò ritornato perchè allora Venceslao nipote della
Guglielma dimorava in Franconia, mentre intanto quel tutore
governava il regno né alcun pensiero si prese di ricompensarla
degli onori fatti alla Guglielma ?
4. Veramente il medesimo Dubravio verso la fine del lib. V
nomina tre figlie nate da Princislao e Costanza: Tuna delle quali
maritossi ad Udalrico di Carinzia, Taltra ad Enrico principe di
Wratislavia ; la terza poi, Agnese , consacrò a Dio la sua ver-
ginità in perpetuo ed abitò in Praga nel sodalizio delle vergini
istituito da santa Clara. Adunque la Guglieloia era forse Tuna
di quelle due sorelle- innominate, che o abbandonando il marito,
0 rimastane vedova, venne a Milano, alla insaputa de'suoi, con
quel figlio che condusse seco.
5. È pertanto opinione cUe la Guglielma fu senza dubbio
boema d'origine, sebbene non si osi affermare nulla quanto alla
regale discendenza della medesima. Imperocché, sebbene non
sembri credibile che tanto la Guglielma quanto Andrea, in tutto
il resto ereticalmente mentitori, abbiano voluto mentire anche
in ciò che tanto facilmente poteva verificarsi, che cioè quella
si spacciasse figlia del re di Boemia, questi attestasse di aver
trovato che era veramente cosi: nondimeno e questa ed altre
cose che ne dipendono di leggieri lasciasi che altri e princi-
palmente i Boemi le ricerchino.
— 51 -
Xlll.
J seguaci della Guglielma allesiiscofio preziosi e splendidi arredi
onde fosse cdehrata una messa sul sepolcro di lei^ prima-
mente da uno dediscepoli^ poscia dalla stessa di lei vica-
ria suor Maifreda.
1. Qaanlanqae Andrea non avesse riportato alcun com-
penso delle spese fatte in onore della Guglielma, egli non ristette
dalFaccnmnlare su di lei altre onoranze, tanto erasi infervorato
nel cqUo di lei. Pensò quindi di convertirne il sepolcro in altare,
snl qnale si celebrasse una messa solenne primieramente da
Franceschino Malcolzato, poscia da suor Maifreda vicaria della
Guglielma ed insieme dello Spirito Santo. Per il che si diede
con grande spesa ad apprestare quanto faceva mestieri cosi per
r altare come pei sacrificatori e loro inservienti.
2. Quindi suor Giacoma de'Bassani, figlia del fu Prando da
Nova, monaca delF ordine degli umiliali, interrogata chi avesse
fatto 0 procurati i paramenti per l'altare della santa Guglielma,
rispose: < Fu Andrea Saramita, e d'altri non so, stantechè egli
(Andrea) queste cose pretendeva da' suoi compagni. »
3. Per il che quando Pietra da Alzate e Catella de' Giosi!
furono interrogate se avessero dato alcun che per i paramenti
fatti in onore della santa Guglielma risposero: e Ch'essa si-
gnora Pietra aveva.dato 42 saldale di perla (soldata ò vocabolo
lombardo usitato anche oggi da molti contadini nostrali, e si-
gnifica una dozzina o serqua) e molte altre cose in diversi
tempi che ammontano ad un grande valore; e la sunominata
signora Catella avea dato un' oncia di perle e mt)lti altri og-
getti. E più avrebbe dato se più avesse potuto, per la grande
divozione sua alla santa Guglielma. » Parimenti dissero che
io tutte le loro necessità ricorrevano alla stessa santa Guglielma
e ch'essa in molte aveale esaudite ; e che perciò credevano
tanto più e le avevano maggior devozione. Onde quelle donne,
falsamente persuase della santità della Guglielma, siffattamente
traviavano.
4. Vediamo ora ciò che asserì Franceschino Malcolzato
intorno alla messa ed ai paramenti in discorso. Nell'anno i300,
a di 9 agosto, questo Franceschino era in età d'anni 15 circa,
— 32 -
e soUanlo nelP anno precedente o poco prima era slato per
opera di Andrea e di Maifreda primamente imbevato degli errori
di questa setta. Fra i quali era anche questo, . che cioè la
Guglielma, la quale dicesi essere boema, doveva risorgere prima
della risurrezione universale. Intorno poi alla messa ed a quei
paramenti cosi egli depose: < Parimenti disse che il prenomi-
nato Andrea andava signiflcando a lui (Franceschino) dover
esso (Franceschino) cantare pel primo la messa sul sepolcro
della Guglielma ossia dello Spirito Santo, e che poscia la detta
suora Maifreda V avrebbe cantata ivi solennemente; ed ivi in
seguito predicava con solennità nella chiesa di Santa Maria
Maggiore in Milano. Parimenti disse Io stesso Franceschino che
certi paramenti erano stati fatti per Taltare e pei ministri d'esso.
I quali paramenti furono fatti fare dal detto Andrea, e lo stesso
Franceschino aveali veduti, ed erano un calice, un turibolo,
un frontale e tre cappe ossiano tre piviali di seta. I quali para-
menti e vasi furono fatti specialmente per cantare la messa
predetta , e li doveva usare la suora Maifreda e Franceschino
per la messa predetta. E sono parimenti del valore di ben 200
lire imperiali, come udi lo stesso Franceschino, e lo crede » E
poco dopo rispose eziandio < che può essere un anno e più
da che fu per la prima volta dai predetti Andrea e Maifreda
iniziato a questi errori; e che poscia andò più volte a Chiara-
valle collo stesso Andrea e senza di lui al sepolcro della Gu-
glielma, ossia dello Spirito Santo, e che vi fece orazioni e prese
perdonanze. E parimenti che dopo avere ricevuto la predetta
istruzione mandava quasi ogni giorno de' comestibili a suor
Maifreda, perchè ciò aveva ordinato col suo testamento il padre
d'esso Franceschino ; ed egli per devozione alla detta dottrina
mandava a lei più volentieri ed in maggiore copia. >
5. Intorno a detta messa ed ai paramenti, interrogata la
signora Fiore figlia del fu Pietro Cessa da Cantù rispose < che
suor Maifreda le diceva che Franceschino Malcolzato figlio del
fu Beltramo doveva cantare la prima messa sul sepolcro dello
Spirito Santo , ossia della stessa Guglielma , e che la stessa
suòra Maifreda aveva a cantare la seconda. Parimenti disse che
furono fatti dei paramenti per la detta messa cui dovevano
cantare i detti Franceschino e Maifreda. E la stessa signora Fiore
aveva veduto di siffatti paramenti un camice, una dalmatica
ed una stola. »
6. Inoltre anche Stefano da Cremella disse t eh' egli avea
— 35 —
fatto poscia, io onore e riverenza della detta Guglielma, quattro
dalmatiche seoza maniche, e che aveva ricevuto in casa sua
certe assi, delle quali avevansi a fare delle predelle a gradini
per ascendere all'altare della Guglielma e potervi celebrare la
messa quando la detta Guglielma fosse stata canonizzata, come
diceva il detto Andrea allo slesso Stefano testimone. »
7. Del resto anche dal secondo esame di Paria de'Pontarìi,
seguito il 2 di settembre, abbiamo queste cose. Interrogata se
ella sa che furono fatte alcune vesti ad uso delle signore
devote della Guglielma, sepolta presso il monastero di Chiara-
valle, rispose t che sì, e che ebbe in casa sua sette tonache di
morello senza gheroni, le quali vesti dovevano essere indossate
dalle dette suore nella festa della signora Guglielma ; dì queste
avevano esse il giorno precedente mandate sei alla signora
Sibilla de'Malcolzati, e Taitra aveva ritenuta presso di sé. >
8. Da ultimo ne giovi udire anche le seguenti cose dalla
bocca di Francesco da Garbagnate, anche per conoscere il vile
prezzo delle cose a quei tempi. Perocché coiui rispondeva a
questo modo: < Avere egli comperato un drappo bellissimo per
cinque lire e 10 soldi di grossi, ed una tovaglia dorala per
calice al prezzo dì 9 soldi di grossi. Del pari disse d' avere
comperata una tovaglia d' otto braccia o circa di seta bianca,
lavorata in oro con seta rossa in ambedue i capi al prezzo dì
lire Ire e soldi cinque dì grossi. Parimenti disse d'avere com-
prato un drappo d' oltremare vergato in seta ecT oro al prezzo
di 25 0 27 soldi di grossi. Le quali cose tutte aveva egli com-
prato per il culto e per la venerazione della predetta Guglielma,
ossia dello Spirito Santo. »
9. Ma tutti questi preparativi conosceremo ancora più di-
stintamente nel capo seguente.
XIV.
Suor Maifreda, per far prova del come sapesse pubblicamente
celebrare la messa , la celebra in casa di un privato.
i. Fatti i preparativi suddetti per la messa a celebrarsi in
onore della Guglielma» parmì di vedere quella vanitosissima vi-
caria dello Spìrito Santo, suor Maìfreda, balzare di pazza gìoja,
e smaniosa di mostrare il più presto come ella sapesse pubbli-
camente pontificare. Pertanto essa celebrò privatamente la messa
Taiib. Inquis. Voi. II. ^ 5
— 14 —
nella casa di un tale suo amico, in presenza dei molti appar-
tenenti alla sna setta ; ed i soliti processi eseguiti nello stesso
anno 1300 ce lo dimostrano con due testimonianze.
2. Perocché sotto il giorno 3 di settembre essi hanno quanto
segue : < La signora Sibilla vedova del fu Beltramo Malcolzato,
della città di Milano di Porta Nuova, spontaneamente venne da-
vanti a frate Gaido da Cochenato, dell'ordine dei predicatori, in-
quisitore come sopra. La qual signora con suo giuramento disse,
che dalla festa di Pasqua p. p. a questa parte suor Maifreda
da Pirovano si parava a modo di un sacerdote, e che suor Eme-
sina, Andrea Saramita e Franceschino Malcolzato avevano le
dalmatiche; ed Albertino da Nevate e Felicino Caventano ed
Ottorino da Garbagnate avevano delle cotte bianche ed appara-
vano un desco a modo d' altare ed avevano un calice ed altri
arredi necessarii per dire la messa ; e la nominata suor Mai-
freda disse la messa , ed ebbe V ostia e la elevò , e fece ogni
cosa quanto alla messa come fanno i sacerdoti, e il detto An -
drea lesse Tevangelo, ed Albertino predetto Tepìstola. Ed erano
presenti In signora Dionese da Nevate e Simonino Collioni. »
In cotal modo attestava quella Sibilla intorno al presente sub-
bietto.
3. Quale poi fosse la deposizione dell' altro testimone in-
torno a ciò, lo indicano gli stessi processi con queste parole che
seguono poco dopo : « La signora Dionese, vedova del fu Giaco-
mo da Nevate della città di Milano, di Porta Nuova, tornò alla
presenza del soprascritto frate Guido inquisitore come sopra e
con suo giuramento attestò che dalla Pasqua p.p. in qua tro-
vossi in luogo ove suor Maifreda da Pirovano si parò o modo
di sacerdote e fece parare un desco a modo d'altare, ed ebbe
il calice, l'ostia, l'acqua ed il vino, e li pose nel calice e disse
la messa ed infine diede la benedizione , ed Andrea Saramita
lesse l'evangelo vestito di dalmatica. Parimenti disse la signora
Dionese eh' eranvi presenti la signora Margherita da Nevate e
Sibilla dei Malcolzati e Bianca ancella della predetta signora
Sibilla , e tre umiliate che coabitavano colla detta suor Mai-
freda, ed Albertino da Nevate e Franceschino Malcolzato e Si-
monino Collioni ed Ottorino da Garbagnate e Felicino Caven-
tano. » Tali cose leggonsi ivi , e bastano al presente nostro
proposito.
XV.
I seguaci della Guglielma celebrano annualmente tre feste in
onore cPessa ai monastero di Chiaravalle e vi pranzano
tutti insieme; uno di quei monaci poi la commenda con
panegirico quale una santa ed ammirabile per prodigiose
guarigioni.
1. Intanto i seguaci della Guglielma celebravano ogni anno
in onore di lei tre feste al monastero di Chiaravalle; e ciò di
qaando in quando porgeva occasione a discorsi, panegirici ed
a lauti banchetti. Quali fosserb queste feste e come venissero
celebrate lo dichiarano colle proprie loro parole gli stessi testi-
monii, dai quali furono queste cose affermate e spiegate quando
ne vennero interrogati.
2. Bellacara dunque rispose che fanno due feste all'anno.
Fona il giorno di s. Bartolomeo, l'altra verso il di d'Ognissanti
(0 sullo scorcio di ottobre), e non altre. Ma su questo punto
ella pigliava errore, come pure lo pigliarono dappoi e quella
Sibilla ricordata nel precedente capo e Felicia moglie del fu
Francino da Casate. Perocché quella disse parimenti che due
feste air anno si celebrano in onore della Guglielma, V una il
di di s. Bartolomeo e V altra nel mese di ottobre , quando la
detta Guglielma fu portata ossia traslocata dal cimitero della
chiesa dì S. Pietro all'Orto al monastero di Chiaravalle. Felicia
p(H disse che due feste facevansi all'anno , una nel giorno di
s. Bartolomeo, nel quale ella mori, e l'altra nel mese di ottobre,.
nel quale fu essa trasportata dalla città di Milano al monastero
di Chiaravalle.
3* Con più verità e più distesamente parlò quel frate Ge-
rardo da Novazano sopra nominato; perocché alle interrogazioni
rispose: «Che Andrea ed i complici di lui, ossiano i devoti e le
divote della santa Guglielma, fanno tre feste solenni all'anno in
onore della detta santa ; cioè una nel giorno di s. Bartolomeo,
Del quale ella trapassò di vita, un'altra nel mese di ottobre, nel
quale venne il corpo di lei trasportato a Chiaravalle, la terza a
Pentecoste; perché lo stesso Andrea disse che la Guglielma è lo
Spirito Santo e che lo Spirito Santo risusciterà in essa. » Dopo
alquanti giorni interrogato di bel nuovo come sapesse che si ce-
lebravano, e per qual cagione si celebravano tali feste, rispose:
— 36 —
e Perchè egli stesso andavasène a dette feste al monastero di
Chiaravalle e faceva le sue offerte insieme con loro, e pren-
deva parte con loro ai pranzi che vi si tenevano in occa-
sione di dette feste; e perché lo stesso Andrea ed altri devoti
della Guglielma avevangli ciò detto ; e perchè egli stesso per
ciò ad onore della stessa Guglielma se ne andava con esso-
loro. » Del resto, il medesimo frate Gerardo in quel suo primo
esame ricordava d'essere stato altre volte interrogato dagli inqui-
sitori e che tosto dopo Andrea lo aveva richiesto di ciò che si
fosse passato tra lui ed essi ; ma ch'egli avevagh risposto : « Io
ho gridato! Badate ai fatti vostri, perchè i frati inquisitori fanno
delle minacce! Onde i frati di Chiaravalle fanno male quando
paragonano la santa Guglielma alla luna ed alle stelle, ne'loro
panegirici, e quando ricevono offerte e lumi per la stessa santa. »
4. Piace poi qui Tudire anche Allegranza moglie di Gio-
vanni Peruzzi, la quale disse « che dopo i predetti insegnamenti,
cioè quelli che aveva ricevuti da suor Maifreda intorno alla
Guglielma identificata collo Spirito Santo, andò più volte a visi-
tare il sepolcro della detta Guglielma con ceri e candele, ed
assistette alla predica che face vasi in lode della medesima dai
frati di Chiaravalle nella festa di lei, cioè da don Martino Stra-
bene e da don Marchisio da Vedano, monaci di dello mona-
stero. »
5. Ma ad Allegranza succede altro più istrutto , lo stesso
Andrea Saramita, il quale nel suo secondo esame disse « che
quando egli coi compagni, per venerare la detta Guglielma,
andava a Chiaravalle e tulli insieme vi banchettavano, il signor
abate di quel monastero dava ad essi pane e vino e il rima-
nente : e che nella solennità dì s. Guglielma parlavano ad onore
di lei i monaci di detto monastero (vale a dire don Marchisio
da Vedano e don Lombardo e don Graziano e don Alessandro)
commendando la detta santa Guglielma, e la vita e congrega-
zione di lei. >
6. Anche la Bellacara sopra citata nel suo secondo esame
testificò a questo modo : t Ch'essa andava alla solennità ed ai
banchetti che facevansi nella solennità ed a venerazione della
Guglielma presso il monastero di Chiaravalle; ch'essa eravi
andata più che sette volte insieme con Andrea, e vi aveva
udito la predica fatta da don Marchisio da Vedano monaco dì
Chiaravalle in lode della predetta santa Guglielma ; e che la
stessa signora Bellacara era intervenuta al primo pranzo fattosi
— 57 —
ili dai devoti e fedeli della detta santa Goglielma*; e che allora
le spese vennero fatte dal monastero di Ghiaravalle. >
7. Ma anche Stefona moglie di Felicino da Gaventano ri*
spose di questo tenore: < Ch'essa era intervenuta al pranto
fiittosi a Chiara valle ed alla predica di un certo frate di Ghia-
ravalle di cui non ricorda il nome, il quale in molte maniere
commendava la detta santa Guglielma , e che a detto convito i
monaci di Chiara valle fornivano il necessario. »
8. Ecco poi quanto depose Paria (o Daria) figlia del fu
Giovanni Pontario. Disse ella : e Ch'era stata più volte alla pre-
dica che si faceva a Chiaravalle nella festa della santa Guglielma
in commendazione della medesima. Nelle quali prediche udì
più volte proporsi da quei che predicavano molti esempi di
santi e tra essi riferirsene pure alla stessa santa Gpglielma,
potendosi cioè dire altrettanto anche di quella santa. Che tali
predicatori erano frati di Chiaravalle, ma non ne fa punto il
nome ; e che mangiò più volte coi devoli della detta Guglielma
a Chiaravalle ; e che i frati di detto monastero davano o face-
vano dare ad essi Toccorrente. •
9. Similmente anche Pietra moglie del fu Mirano da Gar-
bagnate disse : € Che com'ella ebbe saputo che la detta Gugliel-,
ma era lo Spirito Santo, e che doveva ascendere al cielo, andò
a Chiaravalle verso la festa di s.* Bartolomeo p. p. alla soien*
fìità della stessa Guglielma, e che vi aveva udito la predica fatta
da nn monaco di Chiaravalle, nella quale veniva la medesima
commendata e dicevasi ch'essa Sa una buona signora, santa e
divota, e simili altre cose. >
10. Che siffatti predicatori attribuivano persino dei mira-
coli alla stessa Guglielma lo attestò, fra tutte le altre cose, Bo«
nadeoda Garentano dicendo: tChe una volta sola trovossi alla
predica fatta da don Marchisio da Vedano monaco di Chiara-
valle, rim petto alla porta del detto monastero (perchè non era
allora, come anche al presente non è, permesso alle donne di
entrare nella chiesa del monastero) il giorno in co\ si celebra la
festa della detta Guglielma nel mese di agosto ; che a questa
predica trovavansi più che 129 persone tra maschi e femmine;
che don Marchisio predicava e diceva che la detta Guglielma
era stata una donna di buona vita e di onorata conversazione,
e che la stessa aveva operato alcuni miracoli. »
11. Che anzi credevano e predicavano anche che tali mi-
racoli erano stali operati a prò di talani fra loro monaci stati
— 38 —
restituì li a sanità» Io abbiamo dalla testimonianza di Giacoma
figlia di Bonadeo da Carentano e maritata a Corrado Ck)ppa. e Pa-
rimenti disse la signora Giacoma, ch'essa trovossi più volte alla
predica che facevasi a Chiaravalle nella festa della Guglielma da
quei monaci, i quali commendavano la slessa Guglielma col
dire ch'essa era di buona e di santa vita e di onorata conver-
sazione, e che la stessa Guglielma aveva fallo molli miracoli
anche a prò dei frati di quel monastero ch'erano infermi. >
12. Chi sa poi che non venissero spacciati come veri e le-
gittimi miracoli anche quegli adulterii che Andrea Saramila nel>
suo primo esame non esitò di vantare in presenza degli inqui-
sitori deireretica pravità? Interrogalo Andrea (che cosi leggesi*
di lui in quei processi) se sapesse o avesse udito di miracoli
operati dalla Guglielma mentre che viveva, rispose < che si, e
specialmente a prò di maestro Beltramo da Perno intorno a un
cerio segno ch'aveva nell'occhio, e a prò d'Albertino da Novale-
affetto da una fistola. > Interrogato lo stesso Andrea se sapesse
0 udito avesse di miracoli operati dalla Guglielma dopo morta,
rispose <di aver udito da certe signore che s'erano votate a quella
santa Guglielma e che per la preghiera di lei avevano otte-
nuto da Dio quanto esse chiedevano, e specialmente la signor»
Pietra, moglie di Tomaso Oldegardo e la signora Catella moglie
di Leone Oldegardo. » Nella quale erronea opinione era a loro-
compagna anche la signora Sibilla dei Malcolzati. Perocché nel
primo esame interrogata se sapesse od avesse udito che suor
Maifreda induceva ed esorlava alcune persone alla devozione di
santa Guglielma ed a votarsi alla medesima, rispose che no'^
se non che la stessa testimone una volta erasi votala alla
Guglielma a cagione di una éua infermità, dalla quale venne^
liberata.
XVI.
/ settatori della Guglielma spacciano acquistarsi gran copia di'
indulgenze da chiunque religiosamente visitasse il di lei se-
polcro a Chiaravalle.
{.Vediamo ora con quali allettamenti Andrea e suor Maifreda-
invitavano i loro seguaci a visitare devotamente il sepolcro della
Guglielma.
2. Parimenti disse il prefalo prete testimonio cioè (quel
Mirano più volte sopra nominato) che Andrea e suor Maifreda
dicono acquistarsi tante indulgenze da chi va a visitare il se-
polcro della Guglielma a Chiaravalle, quanto quelli che vanno
oltremare, dicendo a lui testimone che poteva ben esso otte-
nere siffatte indulgenze senza recarsi al sepolcro di G. C. in
Gerusalemme. E poco dopo : < E disse il prenominato prete
ITiraDO d' avere udito da Andrea e suor Maifreda che da tutte
le parti del mondo aveano a venire pellegrini al monastero di
Chiaravalle per visitare il sepolcro della santa Guglielma. > Pa-
reva che volessero tacitamente insinuare tali cose con siffatta
argomentazione, che, cioè, siccome Cristo è la seconda persona
della santissima Trinità, cosi anche la Guglielma ne era la
terza consustanziale e coeguale a quella, cioè lo Spirito Santo,
il coi corpo giacevasi in questo sepolcro presso il monastero di
Chiaravalle.
XVII.
Accendono lampade e ceri sul sepolcro della Guglielma e vi
collocano ostie, quali sogliono consacrarsi da sacerdoti nella
messa, acciò da quel contatto acquistino la virtù di cacciare
le malattie.
1. Lo stesso sepolcro poi di Guglielma illuminavano i di
lei sanaci con ceri e lampade accese: pid ponevano sovr'esso
delle ostie, quali si usano da sacerdoti nella messa, quasi che
da quel contatto venissero santificate e diventassero potenti a
cacciare le infermità. Gli ammalati pertanto con grande rive-
renza le mangiavano, ricevendole dalle mani principalmente
della Maifreda, come quella che anche in questo ministero
sembrava farla da vicaria della Guglielma.
2. Tali cose constano ad ogni passo dal processo che ab-
biamo tra mano ; né mette conto il produrre qui la testimo-
nianza di veruno.
XVIII.
Vimagine della Guglielma viene dipinta ed illuminata a vene-
razione anche in talune chiese.
i. Ed anche ciò ne viene comprovato da tre testimoni, il
primo dei quali è quel prete Mirano ch'abbiamo poc'anzi prò-
-40-
dollo. Perocché, venendo egli esaminato il penultimo giorno di
luglio, queste cose si ebbero dalla di lui bocca, e Parimenti disse
il prefato prete saper esso perfettamente che alcuni devoti delia
santa Guglielma ne fecero dipingere la figura col nome di santa
Caterina. E questo sa il medesimo prete, che egli stesso colle
proprie sue mani la dipinse nella chiesa di Santa Maria Mag-
gioVe (cioè nella metropolitana) di Milano ed in quella di San-
t'Eufemia pure di Milano ed in più altri luoghi. E ciò aveva
fatto prima di divenir sacerdote. >
2. Addi 22 di settembre esaminato Stefano da Cremella ,
fra le altre cose vuoisi abbia cosi testificalo. Essendogli stato
domandato chi avesse fatto dipingere la santa Guglielma nella
chiesa di Sant'Eufemia in Milano, rispose non saperlo; ma disse
dr conoscere bensi il pittore. Parimenti disse il me^desimo Ste-
fano ch'egli aveva in casa sua una pila nella quale teneva Tolio
pef rilluminazione di detta santa Guglielma dipinta nella chiesa
di Sant'Eufemia, il qual olio veniva mandalo ad esso Stefano
da suor'Maifreda. Parimenti disse ch'esso poi a sue spese faceva
illuminare Timagine dipinta della santa Guglielma.
3. Finalmente poi anche ser Danisio Cotta, esaminato in
quel medesimo giorno, disse di avere fatto dipingere la figura
della defunta Guglielma nella chiesa dei frati di Santa Mnria
madre del Signore, fuori di Porta Nuova, e di aver fallo porre
lampada innanzi a detta imagine in occasione che vi fu seppel-
lito un suo fratello.
4. E a quest'uso di dipingere nelle chiese la Guglielma si
attiene anche quella pittura di cui si fa menzione in processo,
ove parlasi dell'esame sostenuto da suor Maifreda il 22 di ago-
sto; perocché si hanno colà anche le seguenti cose. Interrogata
la detta suor Maifreda chi avesse fatto dipingere quel panno che
sta sopra l'altare nella casa delle umiliate da Blassonno in Mi-
lano, sul quale stanno effigiate tre persone, due delle quali da
destra e da sinistra sembrano cacciare dei prigionieri dal car-
cere, rispose « che o ella stessa (suor Maifreda )o il detto Andrea
0 le suore di casa Biassonno avevan fatto dipingere quel panno,
ma che non ricorda chi veramente sia stalo di loro. • E disse
che tali pitture erano state fatte prima che essa e il detto An-
drea e gli altri venissero citati dal soprascritto frale Maifredo;
perchè in allora credeva che la predelta santa Guglielma fosse
la terza persona della santissima Trinità e che per essa dove-
vano esser salvi i giudei ed i saraceni. E questi sono quelli
che stanno dipinti a sinistra.
— 41 —
5. (Chi fossero poi queste suore di casa Biassonno so ne
parla più sotto al cap. 24, n. 3 del maiìoscriUo). Vediamo ora
chi fossero que'fratì di Saota Maria madre del SigQore fuori di
Porta Noova di cui facevasi menzioue al d. 3. Erano per certo
umiliati e della casa alla Canonica situata a fianco e presso la
chiesa di San Bartolomeo, la sola che fosse allora dedicata alla
Vei^ine madre di Dio nel circuito esterno di quella porla. Poi-
ché quella chiesa della Canonica esisteva già prima che il no-
stro santo martire Àrialdo, dal quale fu ristorata ed officiala»
morisse Panno 1066, e ciò consta luminosamente da parecchi
pubblici documenti. Questa chiesa avevano dipoi ottenuto i
frati umiliati, e nell'anno 1288 stavano ivi quegli del primo o
primario istiluto o corpo di quelFordine, che chiamavasi dei
preposti. Lo che trovo essere attestato in una cronaca scritta
da uno di quei frati di terzo ordine Panno 1419» e da me pos-
seduta. Poiché nel capo 34 enumerandosi a parte a parte le
case del primo ordine e quelle del secondo, fra quelle del
primo annoveravasi la casa della Canonica in Milano. Quindi
al capo 37, che contiene Tinventario fallo nel 1298 del numero
dei frati e suore ch'aveva ciascuna casa, si legge che la casa
della Canonica aveva frati 9, suore .... ed un servo. La stessa
casa però fu dappoi riparata nell'anno 1362 con edifizi nuovi.
Che altramente non puossi intendere il passo della storia mila-
nese di Paolo Morigia, al lib. I, capo 19, dove scrive : « L'anno
< medesimo (13G2) fu cominciata la fabbrica della- chiesa di
e Santa Maria della Canonica, fuori di Porta Nuova, a spese di
e Minolo deUi Appiani, Imerano Formenlario, ed Arnaldo Albi-
< sato. > E di nuovo nel Santuario di Milano (altra opera del
Morigia), dove enumera le chiese poste tra i confini di Porta
Nuova, scrive: e La chiesa di Santa Maria delta Canonica fuori
di Porta Nuova fu fabbricata Panno 1362 da Minolo delli
ApiHani e da due suoi compagni. > Per il che anche gli slessi
nmiliati, a cagione della sua recente struttura, qualche volta
non la chiamano altramente che la Canonica nuova, come ve-
dasi nelle loro costituzioni, che io parimenti posseggo. Perocché
a distinzione 13, capo 2, sotto Panno di Cristo 143ti, fra i pre-
posti delPordine allora esistenti al capitolo di Siena, il preposto
della detta Canonica viene cosi nominato = il frate Filippo, pre-
posto di Santa Maria madre del Signore in Milano = poscia alla
distinzione 14, capo I, anno 1436, viene nominato ^= frate Filippo,
preposto della casa della Canonica nuova in Milano, e la stessa
TàMB. Jnquis. Yol. II. 6
— 42 —
appellazione di Canonica nnova le viene poscia data nei capi 5
ed 8. Notissime per fermo sono quelle cose clie seguono nel-
ristesso Santuario del Morigia, espresse con queste parole :
e Elia fu prepositura (sic) honorevole degli humiliatì, et essendo
€ queiristituto soppresso, il beato Carlo Borromeo, di santa
€ memoria, la eresse in collegio sotto il seminario >, vale a
dire sotto il regime di quel vastissimo e celeberrimo seminario
de'chierici detto di Porta Orientale, alle spese del quale e la
<^hiesa e quelle case (che tuttora conservano il nome di Cano-
nica) furono poc'anzi magnificamente restaurate, come fu da
me ricordato colla mia dissertazione Nazariana. Adunque in
questa chiesa della Canonica e presso questi frati umiliati (per
fare ritorno al nostro tema) stette già dipinta e veniva illumi-
nata queireffigie della Guglielma di cui facevamo cenno.
XIX.
/ seguaci della Guglielma pranzavano in comune, ora nelFuna
ora nell'altra casa dei loro consorti^ come se ciò fosse or-
dine dato loro dalla Guglielma.
1. La Guglielma, pochi giorni prima di morire, aveva rac-
comandato la mutua carità a'suoi seguaci. Quindi avvenne
ch'eglino, e a cagione della carità vicendevole e per fare onore
4ò riverenza a così grande loro maestra, celebravano di quando
in quando pranzi e conviti. Gii è ciò che metteva innanzi nel
capo 7, numero 3, Danisio Cotta, come ragione del suo inter-
vento a un siffatto convito.
2. Tre volte all'anno pertanto banchettavano essi in comune
al monastero di Chiaravalle, cioè in quei tre giorni ne'quali
celebravansi le feste in onore della Guglielma, come fu detto
altrove. Ma facevano lo stesso anche in Milano, ora in que-
sta, ora in quella casa de'loro consorti, ed in quella special-
^mente di Carabella de' Toscani a Porta Romana. Pertanto Gia-
como da Perno tra le altre cose attestava anche questa:
e Nella casa della detta Carabella tenevansi banchetti, e sta-
vano riposti paramenti e ceri per la venerazione della mede-
sima, e vi si adunavano lo stesso Andrea Saramita e tutti gli
altri compagni di lui che appartenevano alla congregazione o
conventicola dei divoti della medesima Guglielma. >
3. Di questi pranzi o banchetti che facevansi di quando in
— 43 —
quando anche nelle case di altri compagni, io ne ricorderò dì
preferenza dae, prendendoli dai soliti processi ; perchè vha in
essi qualcosa di singolare, e che merita di essere osservata.
4. E sia primo quello che fa tenuto in casa Corrado Coppa.
Il qnal Corrado è senza dubbio quel desso dal quale fu sor-
presa la moglie in quella sotterranea congrega di Guglielma^
come abbiam veduto affermarsi da Donato Bossi e dietro lui
affermavano concordemente tutti quegli altri scrittori ciechi se-
guaci di lui. Dallo stesso processo poi sotto il giorno 17 di ago-
sto abbiamo quanto segue: e La signora Giacoma, figlia del
signor Bonadeo Caventano e moglie di Corrado Coppa della
città di Milano, comparve davanti a frate Raineri da Pirovano,
delFordine de'predicatori, inquisitore come sopra, ed abiurò
qualsiasi eresia , credenza , favore ed accettazione delP eretica
pravità, e giurò di stare ai comandamenti della Chiesa e
degrinquisitori, e di dire la verità intorno a sé ed agli altri ,
sotto pena di lire imperiali venticinque , e si obbligò in tutto
e per tutto secondo il modo e la forma deirofflcioinquisitoriale,
statale espressa ed esposta diligentemente, ecc. > Essendo poi
ella stata interrogata intorno a molte cose, dicesi abbia risposto
siffattamente. Parimenti disse la signora Giacoma: e Ch'essa
ebbe speciale riverenza e devozione alla stessa santa Gugliel-
ma, e che essa trovossi più volte ai conviti che faceva nsi in
casa della signora Carabella de' Toscani dai devoli della Gu-
glielma ad onore e per devozione e riverenza della medesima. »
E disse la prefata signora Giacoma ch'essa per siffatti conviti
non ispendeva nulla, ma crede che tutta la spesa de'delti con-
fiti fosse fatta dalla signora Carabella e dal sunominato Andrea
Saramita. Parimenti disse la signora Giacoma prenominala:
< Ch'ella non credette giammai e che nemmeno ora crede che
la predetta Guglielma sia o lo Spirito Santo o una divina so-
stanza e persona. > Queste cose disse la signora Giacoma, cer-
tamente degne di fede: intanto però nulla abbiamo intorno n)
banchetto che noi supponiamo esser stato celebrato nella casa
di lei.
5. Ne abbiamo invece una menzione fatta da altri testi-
moni!, doè dalle signore Dionese ed Aydelina esaminate il 3
settembre. Quanto alla signora Dionese, ecco quanto risulla dal
processo: < Parimenti disse la signora Dionese ch'essa fu una
Tolta in casa di Corrado Coppa , su d' una certa loggia (lobia)
ad un banchetto, in assenza e senza saputa di detto Corrado.
- 44 —
E v'erano presenti la detta suor Maìfreda e suor Fiordebellina
de'Saramita eia signora Bellacara moglie di Bonadeo Caventano
e le signore Sibilla de'MalcoIzato e Fiore da Caniù ed Aydelina
e Andrea Saramita e maestro Beltramo da Ferno e Franceschino
da Garbagnate e Franceschino MalcolzatoeFelicino Caventano
e Albertone da Novate e Simonino Collioni. E la predetta suor
Maifreda allora benedisse le ostie e diede di quelle ostie a tatti
i predetti intervenuti. » Qui aggiungiamo eziandio quello che se-
gue immediatamente in queste parole: < Parimenti disse la su-
nominata Dionese, ch'essa fu un' altra volta colle predette
suor Maifreda e signore Sibilla ed Aydelina e Margherita da No-
vate, e coi predetti Andrea Saramita, i maestri Beltramo e Al-
bertone da Novate , e Simonino e Franceschino Malcolzato ed
altri molti, in un certo convito che fu fatto alla loro cassina di
Novate. E la sunominata suor Maifreda allora benedisse le ostie
e comunicò colle stesse i predetti intervenuti. > Cosi la signora
Dionese. Segue l'esame della signora Aydelina: t Parimenti disse
Aydelina ch'essa erasi trovata al banchetto tenutosi in casa dì
Corrado Coppa in assenza ed all'insaputa del medesimo. E v'era
la predetta suor Maifreda e suor Fiordebellina de' Saramita e
tutti gli altri e le altre che la predetta signora Dionese aveva
nominato come intervenuti in casa del sopradetto Corrado
Coppa.
6. Procedo ora all'altro banchetto. Tennesi questo in casa
del maestro Giacomo da Ferno , e nel processo se ne ebbero
a testimonii Allegranza de'Perusii, Stefano di Cremella, Ayde-
lina moglie di Stefano e Carabella de' Toscani. Allegranza mo-
glie di Giovanni Perusio della città di Milano di Porta Romana
(sono parole dello stesso Perusio) comparve alla presenza del
soprascritto frate Raineri da Pirovano inquisitore, come sopra,
e disse sotto il debito del prestato giuramento e com'ella ricor-
dasi che sei o sette anni innanzi o in quel dintorno essa Alle-
granza trovossi in casa di maestro Giacomo da Ferno , nella
quale erano presenti e il detto maestro Giacomo e ser Danisio
Cotta, e Giovanni Perusio marito di detta testimone e Stefano
da Cremella e Andrea Saramita e il prete Mirano e la signora
Carabella moglie del fu ser Amisene Toscani e una compagna
di suor Maifreda de'Pirovano e la stessa suor Maifreda ed Ayde-
lina, e sedevano a pranzo sotto un portico della casa del detto
maestro Giacomo; e dopo il detto pranzo andarono tutti i sopra-
detti in una certa camera della casa del prenominato maestro
— 45 —
Giacomo, che era coperta di paglia : e in questa camera alla
presenza di tutte le summeutovate persone suor Maìfreda disse
che la signora santa Guglielma aveva ordinato a lei suor Mai-
freda di dire a tutti gli astanti che ella era lo Spirito Santo,
vero Dio e vero uomo; che pertanto tulli i predetti là presenti
non avrebbero avuto alcuna scusa nel giorno del giudizio quando
sarebbero comparsi alla presenza di lei. E aggiugneva la pre-
detta suor Maifreda: e Sia di me quel che può essere. > E del
pari disse TÀllegranza di ricordarsi che la predetta signora
Garabella in quella casa sedeva allora sul suo proprio mantello,
e che quando ella si fu levata, trovò che nella cintura o corda
del suo mantello s'eran fatti tre gruppi che prima non v'erano :
e sì fecero intorno a ciò le maraviglie e bisbigli fra di loro, e
molti fra essi e la stessa testimone credeva ciò essere un gran
miracolo. Parimenti disse TÀllegranza che quando Maifreda
asseriva essere la Guglielma lo Spirito Santo, la predetta Àyde-
lina rispose, ch'ella ciò ben credeva, e che credeva anzi che
ella avesse quella carne nel suo corpo che fu crocifissa con
Cristo. E di ciò il detto Stefano da Cremella, di lei consorte,
molto la riprese, e E tai cose furono attestate dalPAIIegranza il
giorno 49 settembre.
7. Interrogato il predetto Stefano se fosse intervenuto a qual-
che banchetto celebratosi in casa di maestro Giacomo da Perno
dai devoti e fedeli e da coloro che sono della congregazione ,
conventicola e credenza della santa Guglielma, rispose e che si,
e possono essere dieci anni o circa , secondo eh' egli ne
crede. Al qual convito pure, come dice lo stesso Stefano, tro-
▼aronsi presenti il predetto maestro Giacomo e ser Danisio
Cotta ed Amisene Toscani e Giovanni Perusio e Marchisio Secco
che sta a Chiaravalle e il prete Mirano e il fu prete Guglielmo
eappellano della chiesa di San Benedetto di Porta Nuova. Verso
la fine di questo pranzo sopravenne suor Maifreda de'Pirovano
con una sua compagna e la signora Garabella moglie di Ami-
sene Toscani e la signora Aydelina moglie di Stefano da Cre-
mella e la signora Betlacara moglie di ser Donadeo Gaventano
e la signora Giovanna moglie di Ambrogio da Missaglia. E dopo
il detto pranzo o banchetto, i sopranominati uomini e donne
da sotto il portico ove aveano mangiato si trassero ed entrarono
io una camera della casa coperta di paglia: e quivi suor Mai-
freda disse chiaramente e con molto calore, udendola tutti e
tutte che erano .colà, e replicò più volte queste parole: La si-
— 46 —
gnora nostra mi disse di annunciarvi ch'essa è lo spirito Santo.
Ed io lo dico a voi, sebbene fra voi v'abbiano molti Tornasi,
vale a dire increduli. Ed Aydelina moglie di Stefano allora
rispose: lo credo bene che la Guglielma sia lo Spirito Santo.
E Stefano la sgridò e le disse villania per siffatte parole che
aveva TAydelina proferito. E perchè Stefano aveva sgridato sua
moglie Aydelina per ciò che avea detto di credere, che la Gu-
glielma fosse lo Spirilo Santo, la predetta Carabella de'Toscani
molto sgridò lo stesso Stefano e fece cacciarlo dalla camera;
ond'è che Stefano non sa quel che poscia si dicessero ò faces-
sero. > E ciò basta all'uopo nostro della presente attestazione di
Stefano.
8. Ecco ora quanto nel di successivo 22 settembre attestò
nel medesimo tenore la di lui moglie Aydelina. Perocché, es-
sendo comparsa alla presenza di P. Raineri inquisitore, s'espresse
cosi secondo' che si ha dal processo. < Ricordansi essa Aydelina,
testimone, d'essere stata in casa di M. Giacomo da Perno, sa-
ranno, ora dieci anni ed anche più, siccome ella crede. In
detta casa trovò convenuti ad un pranzo il predetto M. Gia-
como ed Andrea Saramita e Stefano da Cremella marito della
stessa testimone e Marchisio Secco che sta a Chiaravalle e
Amisene Toscani e Giovanni Perusio e prete Guglielmo cap-
pellano della chiesa di San Bsnedetto a Porta Nuova e prete
Mirano, e ser Danisio Colta. E sopragiunsero anche le si-
gnore Carabella de'Toscani ed Allegranza de'Perusi e Bellacara
moglie di Bonadeo Caventano e Giovanna flglia di detto Bo-
nadeo e mcglie di Ambrogio da Missaglia e suor Maifreda da
Pirovano dell' ordine degli umiliati, e con un'altra umiliata
sua compagna , della casa Biassonno. E dopo il detto pranza
tutti gli uomini e le donne sopranominate dal portico sotto il
quale avevano mangiato recaronsi in una camera di detta casa
che era coperta di paglia. > Interrogata la prenominata signora
Aydelina intorno alle cose che furono dette in quella camera,
rispose e disse e che suor Maifreda sedendo su di un letto in
detta camera riboccossi le maniche molto sopra del braccio, e
dopo molta preparazione e composizione del proprio vestimento,
con molto spirilo Ira le altre cose dette ai soprascritti presenti
che potevano chiaramente intenderìa, disse anche questo: Che
ella non ci voleva venire e che era venuta a malincuore,
perciocché qui molti saranno i Tornasi , vale a dire gì' incre-
duli, e farete grande mormorio intorno alle pose ch'io sono
— 17 —
psr ffire. Gonooostante fece come personal che tiiole obbe-
dire. La nostra signora unteDdeTa pairlare delh scinta Gu«
glielma) mi apparre e mi disse ch'io Tenissi s voi> ed annun-
ciassi a toì totti eh' essa , signora Gaglielnta , è lo Spìrito
Santo. E la stessa Aydelina allora tosto rispose : Io credo
che la stessa Goglielma sìa qael corpo eh' è nato dalla Ver-
gine Maria e che fu messo in croce nella |)ersona di Cristo,
Ed il predetto Stefano marito deir Aydelina tosto ne la sgridò
fortemente e le fece molli rimbrotti per le parole che aveva
proferite. >
9. Poiché poi qaest* ollima e stravagantissima aggiunta di
Aydelina viene da lei descrìtta in altro modo da quello tenuto
dal manto dalla medesima, vediamo con quale de'due consenta
Pattestazione fatta della signora Carabella Io stesso giorno 22 set-
tembre. Egli è certo che Stefano marito della predetta Ayde-
lina e tutti gli altri la sgridarono assai e le fecero molli rim-
proveri per quello che la stessa Aydelina aveva colà proferito.
Ella per avventura aveva parlato cosi conformemente a quella
dottrina esposta da noi più sopra e per la quale sembrava
volersi dare ad intendere che la carne umana assunta dallo
Spìnto Santo nella persona della Guglielma era la medesima
che il divin Verbo aveva assunto nella persona di Cristo:
per il che neireucaristico sacramento contenevasi tanto il corpo
della Guglielma quanto il corpo e la carne di Cristo.
10. Ma qui odasi eziandio per bocca della stessa Carabella
il earme che fu cantato in onore della Guglielma da alcuni fra
i seguaci di lei. Parìmenli disse la signora Carabella : e Di
ricordarsi che Franceschino Malcolzato ed altri compagni can-
tarono una volta (non sa dire se allre volte) in casa della stessa
Carabella una canzone composta dalia signora Guglielma, nella
quale dicevasi la Guglielma essere lo Spirito Snnto. E la
stessa canzone udi ella cantarsi dal predetto Franceschino e
compagni in casa della signora Allegranza de' Perusii , e non
ricordasi se abbia anche altrove udito cantare la summcnto*
vaia canzone. >
-48-
XX.
Gli altri dommi o piuttosto delirii di questa setta
espressi dalle parole medesime degli affigliati.
1. Cominceremo da prete Mirano e dal primo esame dalai
sostenuto il penultimo di luglio, dal quale si hanno le seguenti
cose: < Rispose e disse che più volte udì dai predetti Andrea
e suor Maifreda e da molti altri fra i devoti delia santa Gu-
glielma, ch'essa (Guglielma) era lo Spirito Santo, la terza per*
sona della santissin^a Trinila ; ch'essa Guglielma avea a risor-
gere ed ascendere al cielo sotto gli occhi de' suoi devoli ; che
erano stati indotti in tale credenza ed istrutti nella medesima
molti uomini e donne, com'egli crede e sa positivamente : per-
chè qualche volta trovossi presente quando Andrea e Maifreda
dicevano agli altri , ecc.; e fra i devoti e le devote della Gu-
glielma era voce e fama pubblica ch'essi dicevano e credevano
siffatte cose. > Parimenti disse il prenominato prete Mirano di
avere udito da Andrea e Maifreda : e Cbe come Cristo aveva
patito in figura d'uomo, cosila Guglielma potrebbe patire in forma
di donna a cagione dei peccati dei falsi cristiani e di coloro
cbe avevano crocifisso Cristo. » E disse del pari d'avere udito
da Andrea e suor Maifreda : e Che , dopo la risurrezione ed
ascensione al cielo, la Guglielma avrebbe mandato lo Spirito
Paracielo sui proprii discepoli nella passata Pentecoste. » E
parimenti disse di avere udito da Andrea e suor Maifreda :
e Ch'essi avevano a mutare le leggi e fare nuovi evangeli , e
creare cardinali ed ordini ; e che nella stessa risurrezione ed
ascensione della Guglielma dovevano trovarsi degli arcivescovi
e vescovi. > E talvolta dicevano a lui stesso (il testimonio prete
Mirano) : e Sebbene vi sottraggiate alle nostre congregazioni,
pure vorrete bene essere di coloro che vedranno e sentiranno
le predette cose. > E poco dopo parimenti disse : < Che suor
Maifreda frinisse i discepoli e le discepolo di santa Guglielma,
acciò non dicessero la verità, se venivano interrogati , perchè
lo Spirito Santo li avrebbe ajulati. E credono di sostenere la
passione per amore dello Spirito Santo , come la sostennero
gli apostoli per amore di Cristo. » E prete Mirano, testimone,
disse che Felicino Caventano e maestro Beltramo^da Ferno ave-
vano detto a lui testimone : « Che prima d'andare dal frati (gli
- 49 -
inquisUori dell* eretica pravità) si recasse a parlare colla pre-
nominata suor Maifreda da Pirovano. > E maestro Giacomo da
Ferno e molli nitri dissero a lui tal cosa. Parimenti disse il
prefalo prete d'avere udito da maestro Giacomo e da Andrea e
da molli altri : t Che qualcuno fra i discepoli avrebbelo conse-
gnato nelle mani de' frati , come Giuda Cristo in quelle dei
giudei. » E alquanto dopo: « Parimenti disse il prefato testimone
d'avere udito dalla predella Aydelina, una volta che tornava da
Chiaravalle e passò nella casa della signora Carabella vedova
di Amisone Toscani di Porta Romana, dov'erano stali a pranzo
eoo molti altri presenti Andrea e maestro Giacomo da Fjwhìo
ed il fu Amisone Toscani e molli uomini e donne, chela
stessa suor Maifreda , ovverosia la sopradelta santa Guglielma
aveva più potere ed autorità in terra di quella ch'abbia avuto
il beato apostolo Pietro. » E intorno a ciò movea rumori la
delta signora Carabella. E parimenti disse questo testimone « di
avere udito dal predetto maestro Giacomo da Ferno nella chiesa
di Sm Fermo in Milano, che Albertino da Novale aveva detto
d'essersi trovato davanti al sepolcro delle santa GugUelma e
d'avere veduto Andrea Saramita venisse legato dai frati le mani
ed i piedi, e come la beala Guglielma n'avesse prosciolto lo
stesso Andrea ; e come i frati volessero prendere suor Maifredn,
ma un angelo del Signore difendeva Maifreda menando a tondo
una spada sanguinente. E ciò lo stesso testimone aveva udito
da Beltramo da Ferno » il quale diceva di averlo udito dal
sopradetto Albertone. » Fin qui l'attestazione di prete Mirano
emessa nel suo primo esame.
2. Segue suor Maifreda, nel suo secondo esame, cui si sot-
topose spontaneamente il 6 agosto, chiedendo perdono e miseri-
cordia a Dio ed agli inquisitori per aver detto il falso nell'esame
precedente. Ecco quanto leggesi: Interrogata, ecc., se dopoché
ella ebbe giurato nelle mani ed alla presenza di frate Maifredo
da Dovara dell'ordine dei predicatori, allora inquisitore dell'e-
resia, avesse udito e fossele stalo insegnato che la Guglielma,
ora sepolta a Chiaravalle, era lo Spirilo Santo, la terza persona
della SS. Trinila, vero Dio e vero uomo nel sesso femminino,
a quel modo che lo fu Cristo nel maschile ; se avesse udito e
fossele stato insegnato che come Cristo pati, morì e fu sepolto
in quanto uomo, cosi la slessa Guglielma che era lo Spirilo
Santo, era morta secando la natura umana e non secondo la
divinità dello Spirito Santo, rispose t che tutte queste cose e
Tamb. Inquis. Voi. IL 7
ciascuna d'esse aveva ella udita ed erane stata ammaestrata da
Andrea Saramita. > Interrogala se le fosse stato insegnato che
come Cristo risorse col suo corpo e a vista dei discepoli salì
al cielo, e nella Pentecoste spedi a loro lo Spirito Santo visibile
in lingue di fuoco, cosi anche la santa Guglielma dovea apparire
con corpo umano di sesso femminino prima della universale
risurrezione, ed ascendere al cielo col corpo alla vista dei suoi
discepoli, amici e devoti, e dovea mandare sovr'essi lo Spirito
Santo in forma di lìngua infuocata, rispose < che di tutte e di
ciascuna cosa,siffalta venne istruita dal predetto Andrea. » Inter-
rogala (suor Maifreda) che credesse ella di siflfatle cose, rispose
e che uria volta ne dubitava, ma che non palesò mai a chìchessìa
questo suo dubbio. > Inlerrogala se vennele insegnato che come
Cristo lasciò quaggiù suo vicario il bealo Pietro e gli affidò la
sua chiesa e consegnogli le chiavi del regno de' cieli , cosi la
Guglielma, ch'è lo Spìrito Santo avrebbe lasciata a sua vicarìa
la stessa suor Maifreda, rispose, < che allorquando siffatte cose
le venivano delle dal prefato Andrea ella se ne rideva; ma
nondimeno ch'essa poi credette che cosi avesse ad essere, seb-
bene talvolta ne dubitasse. » Parimenti interrogata se vennele
insegnato che come il beato apostolo Pietro celebrò la messa
e predicò in Gerusalemme, cosi anche la suor Maifreda dovea
celebrare la prima messa sul sepolcro dello Spirilo Santo ossia
della santa Guglielma, e poi più solennemente celebrare e pre-
dicare nella chiesa di Santa Maria Maggiore in Milano, rispose
t che tulle le predette cose aveale bensi udite da Andrea, che
ella però alcune volte aveale credule ed altre no. » Interrogata
se erale stato insegnato dallo stesso Andrea, che siccome i
discepoli di Cristo scrissero evangeli, epistole e profezie, così
anche Andrea, cangiando i titoli, avea scritto evangeli, epistole
e profezie, rispose a questo modo, e Ch'avea bensi udite le
predette cose da Andrea, ma che le avea credute né si né no. »
— Cosi dal secondo esame di suor Maifreda. — Ma essa venne
di bel nuovo esaminata il 17 dello stesso agosto: ed interro-
gata se avesse mai detto e creduto che la santa Guglielma
sepolta a Chiaravalle era da più delia Vergine Maria , rispose
.€ che dacché credeva la Guglielma essere lo Spirito Santo, bene
avea a crederla dotata di maggior perfezione. Finaluiente aggiun-
giamo qui anche ciò ch'ella rispose nel giorno 20 dello stesso
agosto. Interrogata se tutte quelle persone ch'ella avea prece-
dentemente nominate nel giorno di sabbato 6 agosto p. p. fossero
— 51 —
State ammaestrate ed istrutte da lei suor Maìfreda, acciò cre-
dessero essere la Guglielma lo Spirito Santo, dover ella risor-
gere iunanzi alla universale risurrezione e salire visibilmente
in cielo, e dovere per la stessa Guglielma essere salvi i giudei ed
i saraceni pagani, come la stessa suor Maifreda avea nella pre-
detta sua deposizione attestato d'avere udito da Andrea , a tuitociò
rispose la suor Maifreda: e Che ella avea difatti istruito ed
indotto tutte quelle persone da lei nominate a credere tutte le
predette cose; e che ella stessa, suor Maifreda, cosi credeva;
e che, in tutte quelle cose nelle quali avea detto il contrario,
aveva ella scientemente spergiurato. >
3. Andrea Saramita poi alle cose che abbiamo già prese
dalle sue attestazioni queste altre aggiunse nel suo terzo esame
del 22 agosto. Interrogato il detto Andrea (cosi leggesi colà)
se mai abbia detto ad alcuno o creduto che la Guglielma era
maggiore nella gloria alla B. Vergine madre di Cristo ed a
qualunque altro santo, rispose e ch'egli non aveva mai detto ciò
a Teruno; però in quanto esso (Andrea) credeva che la Guglielma
fosse lo Spirito Santo in persona, e fosse in lei una vera di-
vina essenza, intanto credeva che la Guglielma sopravanzasse
in gloria ogni altro santo e la stessa Vergine Maria, e questo
lo avrebbe anche detto se non avesse temuto che le persone
avrebberne provato orrore. In quanto poi il corpo della slessa
Guglielma non era ancora glorificato, esso non credeva che la
Guglielma fosse da più della Beata Maria. » Interrogato lo stesso
Andrea se nel tempo in cui diceva e credeva che suor Maifreda
sederebbe sulPapostolica sede in Roma e sarebbe vicaria dello
Spirito Santo e vero papa, come il beato apostolo Pietro e il
santo padre il papa Bonifacio , che ora è e fu vicario ed in
luogo di Cristo, e che sarebbe cessato il papato della Chiesa ro-
mana ed il rito della medesima ; rispose < ch'esso credeva dovere
la detta suor Maifreda essere vero papa , ed avere la piena e
reale giurisdizione ed autorità di vero papa, e che essa aveva
ad essere il vero vicario dello Spirito Santo in terra, e che il
papa ed il papato della Chiesa romana che è presentemente ,
ed il rito e V autorità della medesima e la curia de' cardinali
doveva cessare, e che la predella suora doveva avere l'autorità
del papa e del papato romano ; e che la prenominata suor
Maifreda avea a battezzare i giudei ed i saraceni, e tutte le
altre nazioni che sono fuori del grembo della Chiesa romana
ed ancora non ebbero battesimo. > Parimenti disse lo stesso
— 54 -
deirEucaristia; e che quindi a modo di quello si avessero a
distribuire e mangiare, quasi che pel contatto di quel sepolcro
fossero state divinamente trasformate in quel sacramento. Poi-
ché poi altre ostie benediceva suor Maifreda e le distribuiva a
modo dell'Eucaristia, è a credere che essa si attribuisse Tauto-
rilà sacerdotale di farne la consecrazione.
6. Parimenti disse la signora Sibilla de' Malcolzati: < Che
la predetta suor Maifreda le segnò una volta il capo, perchè
essa signora Sìbilia sofifriva dolore di capo. E allora essa si-
gnora Sibilla genuflessa baciò la mano di detta suor Maifreda. >
Parimenti disse la signora Sibilla: < Ch'essa vide molti altri ed
altre star ginocchioni davanti a suor Maifreda e baciarle la mano,
tra le altre le signore Pietra e Catella degli Aldegardi e Fran-
ceschino Malcolzato. »
7. Ecco poi le parole dello stesso Franceschlno. Esaminato
subito dopo la signora Sibilla, parimenti disse: e Che qualche
volta s'Inginocchiò davanti a suor Maifreda e le baciò la mano
non come a papa o a vescovo, ma perchè la credeva una buona
donna. E la stessa Maifreda lo segnava e gUmpartiva la sua be-
nedizione. »
8. Né qui ci manca l'attestazione dello stesso andrea Sara-
mita. Perocché il suo quarto esame del 26 agosto cosi si con-
chiude: « Parimenti il prenominato Andrea disse: di aver più
volte veduto Albertone da Novale, maestro Beltramo da Perno,
Feliclno Caventano, Slmonino GoUeoni, Franceschlno Malcolzato
ed i fratelli Ottorino e Franceschlno, figli del signor Gaspare
Garbagnatl, baciare la mano ed il piede alia predetta suor Mai-
freda, e d'avere egli slesso (Andrea) baciatale la mano. » Disse
parimenti il prefato Andrea : € Ch'aveva veduto molte signofe
baciare la mano di suor Maifreda, cioè la signora Sibilla dei
Malcolzato, la signora Aydelina, la signora Bellacara de' Gaven-
tani, e le signore Pietra e Catella degli Aldegardi. E disse ezian-
dio che crede* che la signora Felicita, vedova del fu Franzlno
da Cesate, e molte altre devote della Guglielma, baciavano le
mani a suor Maifreda. >
— 35 -
XXII.
Degli affigliati alla setta molti non credevano
che la Guglielma fosse lo Spirito Santo.
i. E fa quesla la cagione per la quale suor Maifreda par-
lamentando quei convitati in casa di maestro Giacomo da
Perno, de' quali abbiamo fatto menzione più sopra dopo aver
loro spiattellato che la Guglielma era Io Spirito Santo, sog-
giunse altresì queste parole: t E ciò vi dico, sebbene v'abbian
tra voi molti Tornasi, che é quanto dire, increduli. »
2. Dello stesso tenore sono le cose che ella aveva detto ai
convitaU al suo primo entrare, secondo che asserì ser Danisio
Cottii esaminalo il 25 settembre. Imperocché rispose e disse ricor-
darsi < che, trovandosi a tavola coi prenominati suoi compagni,
era soprav^nuta suor Maifreda de' Pirovani dell'ordine degli
umiliati, e salutatili tutti aveva detto : Voi tutti mangiate lo
stesso pane e bevete lo stesso vino, ma non tutti siete d' un
solo cuore e d'una medesima volontà. • Ed interrogato di bel
nuovo qual cosa credesse aver voluto intendere suor Maifreda
con quelle parole, rispose: e Credere egli che suor Maifreda
voleva dire ed intendeva che non tutti i presenti a quel ban-
chetto credevano che la Guglielma fosse lo Spirito Santo; ma
alcuni lo credevano, altri no. »
3. E gli era per ciò appunto cl^e suor Maifreda diceva che
la Guglielma era lo Spinto Santo, non già in pubblico alla pre-
senza di tutti, ma Soltanto in privato con alcuni, come già si
fide e come a di 9 agosto attestò anche la signora Fiore, figlia
del fu Pietro Cossa da Cantù, moglie del fu Bonaventura di Pa-
razolo.
4. Ecco poi taluni di siffatti increduli, quali vengono messi
io mostra dai processi.
/ 5. Primo di essi è Ottorino da Garbagnate; perocché, essendo
stato esaminato il 13 agosto ed interrogato se mài avesse udito,
detto 0 creduto che la Guglielma sepolta presso il monastero di
Ghiaravalle era lo Spirito Santo, rispose : t Ch'egli aveva udito
dire ad Andrea Saramita e a suor Maifreda da Pirovano che
la Guglielma era lo Spinto Santo, la terza persona della Trinità.
E tai cose dicevano essi alla presenza di molte persone. E
questo da tre anni in qua. Sebbene però eglino dicessero sif-
— 56 —
fatte cose, esso, Ottorino, non le credeva. » Similmente inter-
rogato dipoi se avesse ndito alcun che intorno alla risurrezione
della Guglielma, alla sua assunzione in cielo, alla redenzione
degli infedeli, al papato, alla messa , alla predicazione di suor
Maifreda, rispose: « Che le aveva udite più volte, e in diversi
tempi e luoghi , e alla presenza di molti ; ma che esso non
le credeva né le aveva giammai credute, sebbene ne faceva le
meraviglie. »
6. Della medesima sentenza abbiamo anche la signora Gia-
coma , figlia del signor Bonadeo Caventano e moglie di Cor-
rado Coppa , quella stessa di cui abbiamo fatto menzione :
perocché essendo ella stata interrogata il 17 agosto, disse « che
non aveva giammai creduto , ed anche al presente non crede,
che la Guglielma fosse o sia lo Spirito Santo, sostanza o per-
sona divina. t
7. Anzi fra siffatti increduli vuoi essere annoverata anche
la mogUe della stesso Andrea Saramita. Chiamavasi questa la
signora Riccadona; e il di 9 settembre (quando il marito di
lei in pena dell'eresia era già stato bruciato, come dimo-
streremo fra poco) essendo stata esaminata e anzitutto interro-
gata se Andrea Saramita già suo marito le aveva mai detto che
la Guglielma sepolta presso il monastero di Chiaravalle era
lo Spirilo Santo, e rispose ch'ella non aveva giammai creduto
ciò, e che né Andrea né altri giammai le avevano detto di sif-
fatte cose. >
8. E ser Danisio Cotta stato interrogato il 21 settembre se
mai avesse udito dire che la Guglielma era lo* Spirito Santo,
0 se conoscesse alcuna persona che credeva , diceva od inse-
gnava siffatta cosa , a tutte e singole queste domande rispose
che no.
9. Vediamo ora come frate Gerardo da Novazano non solo
era alieno da siffatta eresia, ma ne tenne altresì lontana la '
propria consorte. Sostenne egli l'esame il 19 ottobre, e innanzi
lutto, interrogato se sapeva che la sua moglie Cara andava alle
feste, alle solennità ed ai banchetti che si celebravano dai de-
voti della Guglielma, rispose: « che sapeva benissimo che la
moglie sua andava alle dette feste e faceva le predette cose, e
che egli non ne aveva mai fatto a lei verun divieto, ma che
un giorno le aveva detto: Guardali bene dal credere che la
Guglielma sia lo Spirito Santo, come dicesi che si creda da altri
di lei di voti. >
40. Da ultiiDo ricordisi qui siccome Stefano du C'omella
riprendesse la moglie Aydelìna {^t la c;ìgìone che abbiamo ìndi-
calo, ed ora questa stessa bigione la conosi^erenìo uu gito jK^r
bocca del medesimo Stefano; perocché, es;Mninatvì dì nuovo a
di 27 ottobre ed interrogalo perchè avesse sgrida 1;ì la propria
m(^lie e dettole vituperio, egli tosto rispose : « IVrohi^ ossa
parlava male, e male credeva ; poiché lo stesso Stefano allora
credeva, ed ora crede, che Favere tale credenza ed il t>arlarne
di conformità è da erelico ed è conlrario alla fedo callolìc;^ che
cioè la Guglielma fosse lo Spirilo Santo. »
XXlll.
Andrea Saramita e suor Maifreda , subornando i testimoni , s*
adoprano a ciò i propri errori non vengano pienamenli*
conosciuti dagl'inquisitori dell'eretica pravità.
i. Ascoltiamo gU stessi testimoni slati a quest'uopo solle-
citati; che anzi ascoltisi la medesima suor Maifreda che con-
fessa di avere ciò tentato.
2. Molto a proposito il prete Mirano, cappellano della chiesa
di San Fermo, nelFesame sostenuto il penultimo giorno di luglio,
depose fra molte altre cose quanto segue : < Si, che possiamo
comprendere con quali speciosi e fallaci pretesti questi t(!sli-
moni venissero indotti a nascondere la Verità agrinqulsilori. »
Disse parimenti < che suor Maifreda (e lo slesso non senza ra-
gione vuoisi credere anche intorno ad Andrea Saramita) istruiva
i discepoli e le discepole della santa Guglielma a non diro la
verità, se mai venissero interrogati , perché lo Spirito Santo
sarebbe venuto loro in ajuto. E credono di sosteniTe h pas-
sione per amore dello Spirito Santo, come per Cristo la sosten-
Dero gli apostoli. > Parimenti disse il prete Mirano, l/'Htimone :
e Che Felicino Caventano e maestro Bfjitramo da Fcrno gli
avevano detto, che prima di andare ai frati <cioó agli irKprMi-
tori) andasse a parlare colla suor Maifreda da Pirovano, E mae-
stro Giacomo da Femo ed altri molli gli avevano detto tali
cose. > Parimenti disse il prenominato prete: < D'avere udito
dai predelti maestro Giacomo, Andrea, e molti altri, che qual-
caoo deMiscepoli aveva a consegnarli nelle mani de'frati, vjtuut
Giuda aveva consegnalo Cristo in quelle de'Giti/lci, »
3. Premesse tali cose, trapassiamo agli allrì ienilìtnouì, e
Tamii- Inqmu. VoS li. H
- 58 -
prima produciamo suor Fiordebellina, figlia dello stesso Andrea
Saramita, monaca delPordine degli Umiliali. Costei era stata
esaminata il 28 luglio, ed in molte cose aveva mentito; ma
tosto dopo sul principio d'agosto si presentò all'inquisitore,
chiedendo misericordia, e confessò di avere in molte cose sper-
giurato, e parimenti fin ciò, che aveva protestato non essere
stata consigliata a negare la verità. Poiché era il vero che suor
Maifreda le aveva detto di non dire la verità, se non come ella
voleva che si dicesse; poiché altrimenti avrebbe potuto averne
brighe e confusione. Al modo che si contenne in questi esami
suor Fiordebellina si comportarono anche due altre monache
umiliale, e della stessa casa o monastero di Biassonno, e que-
ste furono suor Agnese, figlia del fu signor Gabrio Monlenari,
e suor Giacoma, figlia del fu Prando da Nova. Imperocché dopo
avere ambedue mentito il 3 agosto in un primo esame, il di
dopo tornarono spontaneamente agl'inquisitori, dicendo voler
dire la verità e confessando di essere state subornate onde
mentissero. E quanto a suor Agnese, ecco ciò che si ha dal
processo. Parimenti interrogata se mai le venne ingiurio di
non dire il vero, rispose : « Ghe ciò orale slato ingiunto da
suor Maifreda. • Per riguardo a suor Giacoma, si ha parimenti
come segue: « Confessa di aver spergiuralo in tutto ciò che
disse precedentemente, perché l'avevano istruita (Andrea Sara-
mita e suor Maifreda) a non dire la verità intorno alle pre-
dette cose. *
4. Cosi anche a dì 12 del medesimo agosto la signora Pie-
tra da Alzate, interrogata se mai dai predetti Andrea e suor
Maifreda fosse stata indettata a non dire la verità qualora ve-
nisse citala a comparire davanti agl'inquisitori, rispose, « che
una volta suor Maifreda avea dello a lei e ad altri : Se ver-
rete citati a comparire davanti agl'inquisitori, non v'andate
prima d'aver parlato con me, né parlate se non secondo che
io vi ho detto. »
5. La signora Sibilla poi, vedova del fu Beltramo Malcol-
zato, aveva del pari mentito in molle cose, vale a dire sui prin-
cipali capi della dottrina della setta, intorno ai quali era stala
interrogata il 2 agosto; ma poi pentita comparve il dì 8, e
dopo ch'ella ebbe sinceramente confessata tutta la verità, inter-
rogata perchè le stesse cose non avesse prima voluto confes-
sare al padre Guido inquisitore, rispose « di non averle delle,
perchè non voleva che a cagione della sua rivelazione andas-
- 59 —
sero a morte Andrea o suor Maìfreda o qual si fosse allro. »
Ma tosto dopo ioterrogata di nuovo se era stata indettala da
alcuno a dire il falso e ad occultare il vero , rispòse • che
Andrea e suor Maifreda le avevano detto esser stato riferito
agrinquisitori intorno a noi: se voi avrete detto la verità noi
saremo morti. > Ed esaminata ancora a di 23 agosto, disse < che
suor Maifreda aveale detto : Guardatevi dal confessare agi' in-
quisitori ch'io sostengo essere la Guglielma lo Spirito Santo,
perchè potrei perciò averne briga. »
6. Dello stesso tenore è la risposta dì . Franceschino Mal-
colzato, che fu interrogato il 9 agosto. Essendogli stato chiesto,
perché le cose dette ora non le avesse confessale quando fu
esaminato a dì 28 luglio, rispose « perche non voleva che a ca-
gione della sua testimonianza Andrea corresse pericolo di morte,
e perché lo stesso Andrea avealo pregato che, se mai venisse
interrogato dagli inquisitori, non avesse a dire la verità, giac-
ché egli ne andrebbe morto e distrutto. » E di bel nuovo esa-
minato a di 13 agosto rispose il detto Franceschino t che sifor
Maifreda aveagli parlato cosi : Se gP inquisitori mandano per
le, ne vieni a me, ed io ti insegnerò quello che avrai a dire
alia loro presenza. »
7. Segue ora la confessione della stessa suor Maifreda, fatta
il di 20 agosto e nel suo quarto esame, dopo aver confessato
che prima non avea detto la verità, ecco quanto leggiamo di
detto esame: Interrogata suor Maifreda se essa riconosce di
aver spergiurato di certa scienza nelle cose antecedentemente
deposte, rispose che si. Interrogata perchè non avesse allora detto
la verità, rispose: • Ciò esser stato e per certa semplicità e pel
timore di offendere gli altri devoli della santa Guglielma. » In-
terrogata se ella avesse detto ad Andrea Saramita e a maestro
Giacomo da Ferno e ad altri devoti della Guglielma di non
dire la verità airinquisitore, qualora ne venissero richiesti, ri-
spose « che si, perchè essa credeva e diceva che qualora fa
verità venisse a scoprirsi, ed essa e gli altri ne avrebbero avuto
tribolazioni. » E soggiunse la stessa suor Maifreda credere ella
che gli altri devoti tacquero la verità e dissero il falso più a
cagione di lei, suor Maifreda, che per cagione di altra qualsiasi
persona. Ed essendo stato domandato a suor Maifreda a quale
de'due pia abbadassero i devoti della Guglielma, se a lei suor
Maifreda, ovvero ad Andrea Saramita, rispose < che i devoti
abbadavano bensì ad Andrea, ma più ancora a lei, suor Mai*
- 60 —
freda. » Tnli furono le cose messe fuori in quell'esame da suor
Maifreda.
8. Ultimo di questi testimoni è maestro Beltramo, fisico,
ossìa dottore di medicina, figlio di maestro Giacomo da Perno,
cittadino milanese dì Porta Vercellina. Interrogato egli il dì 2
settembre se avesse mai udito da alcuni de' devoti della Gu-
glielma che la predetta suor Maifreda abbia celebrato la messa
parata a mo'di sacerdote, rispose « che teneva per certo di
averlo udito dire, ma non sapeva da chi; ben ricordavasì che,
quando la stessa suor Maifreda e gli altri furono citati a com-
parire, essa avea detto: Intorno alla messa nulla è stato doman-
dato. Ed egli, il testimonio, le avea soggiunto: Di qual messa
parlate voi? E la stessa suor Maifreda l^Iì rispose: Non badate
a ciò; e guardatevi dal dire la verità, altrimenti io ed Andrea
Saramita saremmo morti. » Certamente queste cose riferivansi
a quella messa solenne che già narrammo esser stata celebrata
da suor Maifreda.
XXIV.
Suor Giacoma de'Bassani ricaduta neir eresia vien consegnata
al tribunale secolare e da quello condannata al rogo.
1. Con quanta maturità di giudizio, e per quale cagione
questa Giacoma fosse consegnata al tribunale secolare, non si
può di certo discornere più fidatamente che dagli atti pubblici
ai quali siffatta deliberazione fu consegnata e dallo stesso pro-
cesso che abbiamo sin qui seguito di passo in passo.
2. Perciocché leggiamo in esso quanto segue: « Nel nome
del Signore, cosi sia. Nell'anno della di lui natività 1300, mar-
tedi, 23 agosto, indizione tredicesima, nel palazzo della Curia
arcivescovile. Convocali quivi e presenzialmente congregati gli
infrascifitti signori, a richiesta del venerabile padre, il signor F.
(cioè Francesco) per la grazia di Dio e della sedo apostolica
arcivescovo della santa chiesa milanese, e de'frali Guido da Co-
chenato e Raineri da Pirovano, ambedue dell'ordine de'predi-
catori, inquisitori dell'eretica pravità, deputati dalla predetta
sede apostolica per la Lombardiii e per la Marca genovese; con-
vocati, dico, i signori Bernardo de' Talenti, vescovo di Lodi, e
Obizzo di Busnate, arcidiacono della metropolitana milanese, e
Matteo Visconti, prevosto di Desio, e Nerzoe di Sesto, ed Obizzo
I
— 61 ~
de'Bernareggi, prevosto di Vimercale, e Maifredo Lilla, tulli or-
dìDarii della detta metropolitana, ed i signori Gabriele degli Uc-
celletti, Guido Stampa, Maifredo di Grepa, Giacomo Cnllica e
Bellono Mora tutti dottori in ambe le leggi ; stati essendo essi
tolti precedentemente avvisati per ordine del soprascritto si-
gnor arcivescovo, come consta dall'avviso scritto nel quaderno
di Maifredo da Cara, notaio dell' Officio dell' Inquisizione, nel
giorno di lunedi prossimo passato. E letti ivi e recitati alcuni
processi e constituli eseguiti dai predetti frati Guido e Raineri,
Inquisitori, o dall'uno di essi, e presi in seria considerazione e
spiegati integralmente secondo la forma consegnata dal santo
padre, papa Bonifacio Vili, al diocesano ed agl'inquisitori del-
reretica pravità; e domandato e richiesto il consiglio de'pre-
detli intorno ai summentovali processi dall'arcivescovo e dagli
inquisitori; da ultimo di pieno accordo e conformila, nessuno
discrepando, dissero e decisero che suor Giacoma de'Bassani da
Nova, dell'ordine degli umiliati, della casa di Biassonno situata
nella città di Milano presso al ponte vecchio di Brera del Guer-
cio, si può e si deve giudicare eretica e ricaduta nell' abjurata
eresia; e che quindi, senz'altra udienza, si avesse ad abbando-
nare al giudizio secolare. Fatto nel predetto palazzo, alla pre-
senza di tutti i soprascritti. Tale fu dunque la norma colla
quale codesta suor Giacoma venne consegnata al tribunale e
braccio secolare dal giudizio ecclesiastico; e questa possiamo
credere essersi del pari osservata con quelli altri, che diremo
dappoi essere stati in castigo dell'eresia condannali al rogo,
come fu, e il cadavere della Guglielma disseppellito, ed Andrea
Saramila, e suor Maifreda da Pirovano. Perocché non è punto
dubbio che codesta suor Giacoma abbia tocco una sorte del
pari infelice.
XXV.
// cadavere della Guglielma vien disseppellito e bruciato.
i. Questo fallo ne vieu attestato dai processi che furono
ultimati non già nell'anno di Cristo 1300, ma due anni più
tardi: de'quan processi due pagine in carta pergamena per
buona fortuna rimasero salve e superstiti; e la prima di esse
contiene Pesame di Marchisio Secco, che abitava allora nel mo-
nastero di Chiara valle e, fu esaminato il 12 febbraio. Questi
— 62 —
adunque interrogato allora se egli avesse sparlato di coloro che
avevano fatto bruciare il corpo della Guglielma, o se avesse cre-
duto che coloro avevano mal fatto, rispose che no e ch'egli non
si mescolava punto di quella faccenda. Disse bensì che ciò non
nuoceva punto a colei, se era in paradiso, e che gli inquisitori
aveano saggiamente operato, e che tulio ciò eh' erasi eseguito
intorno a quella Guglielma erasi eseguito di buon drillo, a quanto
egli crede.
2. Il cadavere poi della Guglielma fu desso tratto di sepol-
tura e consegnato al fuoco nello stesso anno 1300, nel mese
di settembre, e nello spazio di tempo che corre fra il 2 ed il 9
di detto mese. Io per fermo la penso cosi, indottovi da questa
congettura che ricavai dai processi di quell'anno e mese. Peroc-
ché, essendo stato interrogalo il di 2 di detto settembre mae-
stro Beltramo da Forno, in tal modo si parlò della Guglielma:
• Quella sepolta presso il monastero di Chiaravalle. » Dalla
quale maniera di dire é chiaramente indicato che fino a quel
giorno il corpo della Guglielma continuava a rimanere ove era
stato sepolto. Essendo poi stato esaminato il giorno 9 di detto
mese Francesco Garbagnati, la stessa Guglielma veniva in tal
modo nominala e quella che era sepolta presso il monastero
di Chiaravalle, » come se in quel giorno ella non rimanesse
nel luogo di sua sepoltura.
3. Che il cadavere della Guglielma fa bruciato nello slesso
rogo e giorno che Andrea Saramita, molti scrittori lo credettero,
e sembra verisimile: questi poi era stato bruciato o nel giorno 9
settembre o non molli giorni prima.
4. Intanto io non ammetto per fermo quanto Paolo Mo-
rigia nel libro I della sua Storia dell'antichità di MilaaOy ca-
po XIII, all'anno di Cristo 1311, narrava intorno a questa Gu-
glielma; poiché, • avendo pariato della sella di frale Dolcino,
novarese, così in fine conchiudeva : « Dolcino con Margherita
sua moglie furono fatti in quarti sulla piazza di Vercelli e poi
abbruciati, ed il medesimo fu fatto di Guglielma a Porta Nuova
di Milano.
— 63 —
XXVI.
Andrea Saramita, il principale alunno della Guglielma, viene
abbmciato.
1. Adunque nel settembre del 1300, addi 9 di detto mese
0 poco prima, Andrea Saramita era già morto, vale a dire in
castigo deir eretica sua pravità era già stato abbruciato. Per
il che in quel medesimo giorno anche la moglie di lui venne
citata davanti all'ufficio della santa Inquisizione ed esaminata;
e la menzione che se ne fa nel processo di detto giorno co-
mincia come segue: < La signora Ricadona moglie del fu Andrea
Saramita della città di Milano, nel borgo fuori di Porta Coma-
sina, citata, ecc. comparve nel 1300 in venerdì, giorno 9 di set-
tembre, indizione 14, cominciata in quelPistesso mese di set-
tembre. » Segue quindi l'esame di lei, e fra le altre interroga-
zioni le furono fatte le seguenti: Se Andrea Saramita già suo
manto le avesse mai detto che la Guglielma sepolta presso il
monastero di Chiaravalle era lo Spìrito Santo; se il detto An-
drea 0 altri le avesse mai detto che la Guglielma avea a risor-
gere prima dell'universale risurrezione, ecc.; se creda che il detto
Andrea e suor Fiordibellina figlia del fu Andrea e di essa si-
gnora Ricadona, o alcuno di loro avesse detto alcun che di non
vero a danno della stessa signora testimone; quanto vino v'aveva
in casa sua e del detto Andrea ; quando questi (il che é pur
degno d'osservazione) venne preso ed imprigionalo per ordine
degli inquisitori ; se ella sapesse che alcune cose erano slate
esportate o trafugate per alcuno dalla casa del predetto Andrea
quando egli fu catturato come sopra. > Ecco quanto ella rispose
a quest'ultima interrogazione, e quinci almeno n'è dato rile-
vare l'abbietta condizione di quelfuomo. Perocché ella rispose
che no: se non che essa testimone e gli amici di lei fecero
esportare da quella casa il suo letto per timore del comune
di Milano, ma cbe poi ^ ella fece riportare quel letto nella casa
medesima.
2. Di questo Andrea il padre si chiamò Gerardo, la madre
Ricadona, ed una sorella monaca umiliata ebbe nome Migliore.
E queste avevano ambedue aderito all'eresia guglielminiana ,
come consta dai processi tante volte da me prodotti e nomi-
natamente dalle testimonianze dello stesso Andrea e di suor
— 64 —
Maifreda. 11 primo giorno (e fu il 30 luglio) in che fu esami-
nalo Andrea, fra le altre cose veniva interrogato se sapesse od
avesse udito che alcuno diceva o credeva mentre che la Gu-
glielma era in vita o dopo la morte di lei essere la della Gu-
glielma lo Spirito Santo. Ed egli rispose: « avere udilo da
suor Maifreda da Pirovano, da suor Migliore sua sorella e dalla
signora Ricadona sua madre che elleno credevano essere la
Guglielma lo Spirito Santo, la terza persona della santissima
Trinila. • Interrogalo poi indi a poco se la predetta sua madre e
sorella erano morte in quelPerroré o ne erano state assolte ,
rispose • che non morirono in quell'errore, ma ne furono assolte
da frate Maifredo da Dovara dell'ordine dei predicatori, ch'era
allora inquisitore, e s'erano ricredute del loro errore, i Tosto
dopo interrogato didfiuovo se sapesse od avesse udito che quelle
signore dopo essere slate assolte, prima che morissero , erano
ricadute e perseveravano in quel medesimo errore, rispose che
no, che nulla di poi ne aveva saputo ed udilo. Cosi Andrea nel
suo primo esame ; ma nel quarto, che ebbe luogo il 16 agosto,
disse quest'altre cose: Interrogato, ecc., da quanto tempo era
morta la signora Ricadona madre suo, rispose da dodici e più
anni. Interrogato se, dopo che la signora Ricadona sua madre
aveva abiurato ogni eresia in presenza di frate Maifredo da
Dovara, la stessa signora Ricadona aveva avuto e ritenuto la
medesima credenza, che cioè la Guglielma era lo Spirilo Santo,
rispose e disse credere egli che sua madre dopo la terza abiura
aveva tenuto la medesima credenza. Interrogalo il prenominato
Andrea per qual ragione così credesse, rispose perché sua
madre conversava di spesso con suor Maifreda da Pirovano
dell'ordine degli umiliati, la quale credeva e teneva per fermo
che la defunta Guglielma era lo Spirito Santo. Però non i'avea
punto udito dalle parole della predetta signora Ricadona sua
madre. Parimenti interrogato se suor Migliore de'Saramiti della
casa degli umiliati di Biassonno, sorella carnale di Andrea,
dopo la sua abiura avesse continualo nella credenza che la
Guglielma era lo Spirilo Santo, rispose e disse: « Credo che si;
perchè di spesso e alla domestica conversava colla predelta
suor Maifreda, la quale credeva ed insegnava che la Gugliema
era davvero lo Spirito Santo. • Fin qui Andrea Saramila. E che
disse ella la stessa suor Maifreda nel suo terzo esame, addì 17
di agosto? Interrogata da frate Guido inquisitore da quanto
tempo era trapassala la madre di Andrea Saramila che chiama-
— 65 —
vasi la signora Ricadona, rispose: da dieci anni circa, secondo
che ella crede. Interrogala eziandio da quanto tempo era morta
la sorella dello stesso Andrea, nominata Migliore, rispose: da
sette anni in qaa. Interrogata se alcuna suora della casa di
Biassonno , fra quelle che vi erano rimaste dopoché la stessa
suor Maifreda eraseno allontanata , come diremo nel capo che
segue, se alcune dico di esse credeva ciò che essa Maifreda
credeva, rispose che no, e che nulla sapevano delle predette
cose. Ma che le prenominate signore Ricadòna e Migliore le
credevano e n'erano bene informate ; ma che non sapeva se
avessero perseverato in quella credenza sino al punto di morte,
e qual fine elleno avessero avuto.
3. Quanto poi Andrea fosse attaccato alla Guglielma ed
alla dottrina di lei è già abbastanza chiarito , né ha bisogno
di veran' altra prova. Rimane ora che dimostriamo quanto a
vicenda fosse Andrea accetto e caro alla medesima. Lo attesta
Francesco Chierico , figlio del signor Gaspare da Garbagnate ,
della città di Milano, del borgo fuori di Porta Comasina. Avea
egli scritto una lettera indirizzata alla signora Diograzia ed a
Primogenito. Essendo stato interrogato il giorno 4 ottobre che
avesse voluto significare in quei nomi, rispose, come si ha dal
processo : che per la signora Diograzia, nominata da lui nel
soprascritto di alcune sue lettere, intendeva suor Maifreda da
Pirovano; e per il Primogenito, nominalo nelle stesse lettere ,
intendeva Andrea Saramila ; il quale Andrea fu dei primi ad
essere istruito nei predelti errori della Guglielma, e perciò essa
dava ad Andrea Tappellazioue di Primogenito, come la stessa
Goglielraa avealo detto ad esso Francesco. Quindi Andrea era
il principale fra i devoti della Guglielma.
4, Finalmente poi merita di essere qui osservalo che, cir-
ca 17 anni prima d'ora, lo stesso Andrea Saramita e suor Mai-
freda erano stati accusati di credere che la Guglinlma era lo
Spirito Santo, e che essendo stati per ciò chiamati in giudizio,
avevano fatto l'abiura di quell'eresia. Interrogata la detta Alle-
granza moglie di Giovanni Perusio il 19 settembre dal sopra-
scritto inquisitore, se nrai avesse accusato Andrea o suor Mai-
freda, 0 se sapesse che altra persona li avesse accusati ad al-
cun inquisitore degli errori che andavano insegnando, rispose
e disse « che possono essere sedici anni o all'incirca dacché essa
testimone e la predelta Carabella e la signora Bellafìore avevan
nolificatA le anzidette cose a frale Maifrcdo da Dovara, ch'era
Tamb. Inrjuis, Voi. II. 0
— 66 —
allora inquisitore, come ella crede. » E allora il detto frate Mai*
frodo inquisitore mandò per suor Maifreda, per Andrea Saramita
e per la madre del detto Andrea (Ricadona) e per una sorella
del medesimo ( Migliore) e per la signora Bellacara de'Caventani,
e feceli tutti giurare. La quale Allegranza testimone e la Cara-
bella avevano udito da Andrea Saramita che la Guglielma era
lo Spirito Santo e Dio. Da suor Maifreda per allora non Faveano
udito. Quindi pertanto, per testimonianza di maestro Giacomo
da Forno, esaminato queiristesso giorno 19 settembre, i pre-
detti Andrea e suor Maifreda eransi lamentati con lui testimone
perchè la prenominata Carabella e TAllegranza de'Perusi ave-
vanli accusati or sono 17 anni davanti l'inquisitore d'aver detto
e creduto che la Guglielma era lo Spirito Santo. E parimenti
essendo stata la stessa suor Maifreda interrogata nel suo primo
esame se frate Maifredo da Dovara aveala assolta quando fece
l'abiura nelle di lui mani, rispose < che si e ch'era ciò seguito
in questa chiesa dei frati della casa di Marliana, nella quale
ora siamo. E fu in lunedi, ed assolvendola diceva il frate,:
Signore, abbi pietà di me. E non ricordavasi se il detto frate
la percuotesse con qualche bastone o con verga. » Questa
chiesa poi dei frati della casa Marliana fuor di dubbio» era la
chiesa che entro i Ani di Porta Ticinese è dedicata ai santi
Apostoli Simone e Giuda, e data oggi al collegio Taeggi. Poi-
ché in quel tempo vi abitavano dei frati dell'ordine degli
umiliati.
XXVII.
Anche suor Maifreda in pena delV eretica sua pravità viene ab-
bruciata.
1. Peraltro, dì questo sùpplicio di lei nulla si ha in questi
processi dei quali abbiamo fatto uso fin qui. Ne suppliscono il
difetto altri processi eseguiti nel 1322, e pubblicati parola per
parola da Fernando Ughelli, al tomo IV della sua Italia sacra,
ove è il catalogo dei nostri arcivescovi, num. 101. Tali processi
furono tenuti da Riccardo nostro arcivescovo d'allora insieme
con alcuni dei vescovi suoi sufTragauei ed alcuni inquisitori
dell'eretica pravità, nel sinodo adunato a Berzolio villaggio del-
l'Alessandrino, a danno di Matteo Visconti signore di Milano ,
per timore del quale Riccardo stavasi come in esigilo. Negli
\
— Gr-
atti adanqoe di qael sinodo anche ciò ponevasi a carico di
Matteo. Una Yolta eziandio, governando di fatto la stessa città
(di Milano), pregò che venisse liberata una certa eretica di
nome Maifreda, sostenuta allora in prigione e che fa poco dopo
abbandonata ai tribunale secolare e da ultimo consegnata alle
fiamme del rogo. Tali atti sinodali per altro (non è a tacersi)
vennero annullati da papa Benedetto XII, come difettosi e con*
trarli alle antiche pratiche, come si rileva dal diploma di lui
dato in Avignone alle none di maggio V anno settimo del di
lui pontificato riportato in quello stesso tomo IV e nel catalogo
. d^Ii anniversari , cioè dove parlasi dell'arcivescovo Giovanni ,
I primo di questo nome, trapassato nell'anno 1354. Ma siffatto
\ annullamento non toglie che si possa dai medesimi atti senza
\ dubbio raccogliere e che fosse stato dato un tale carico a Matteo
[ in quel sinodo e che quella Maìfreda fosse abbruciata in pena
di eresia.
2. Non voglio però negare quanto Bernardfno Corlo e Tri-
stano Calco ed Àbramo Bzovio affermarono francamente intorno
all'anno dì Cristo 1318; che cioè in quell'anno fu imputato a
delitto a Matteo l'aver esso prestato favore alla stessa Guglielma.
Fra le altre cose gli opponevano (sono le parole del Corio) che
avea conservato quella meretrice eretica detta Guglielma della
qnale abbiamo parlato sopra. Calco poi nel libro 21 della Storia
patria fra le altre cose che si rinfacciavano a Matteo ed a' di
lai figli ricordava l'aver eglino dato favore alla Guglielma, inse-
gaatrice di strane dottrine. Quindi aggiungeva tosto a loro
difesa : t le quali cose quanto avessero di vero potevasi racco-
gliere anche dal solo nome di quella meretrice, essendo palese
che, non appena venne ciò a cognizione, gli autori di quelPabo-
minevole setta, per ordine di Matteo, erano stati consegnali ai
; superiori ecclesiastici e per giudizio loro condannati ed abbru-
^1 ciati. • Finalmente Bzovio all'articolo 2 fra le colpe per le quali
I lo stesso Matteo Visconti era stato allora scomunicato da papa
' Giovanni XXII annoverava anche questa, togliendola dalla storia
di Bernardino Corlo, d'avere cioè messa nel novero delle sante
la meretrice Gaglielma, la più infame di tutte le beghine.
3. Del resto, suor Maifreda (come fu già sovente detto) era
monaca umiliata e della casa ossia monastero che dicevasi da
Biassonno: ed ivi era vissuta alcun tempo, anzi vi aveva tenuto
ragioDamenli coi seguaci della Guglielma e pranzato secoloro
DOD senza il dispiacere delle altre monache della casa. Quindi
- 68-
è che nel primo esame della signora Bellacara, addi 26 luglio,
leggesi come sopra : Interrogata la stessa Bellacara se fossesi
trovata con altre donne ed uomini in luogo ove la delta Mai-
freda avea predicato e parlato a modo di chi predica, rispose
che si, e molte volte nella casa delle suore di Biassonno e
neiroratorio ove erano adunale molte persone in modo d'esserne
quasi pieno V oratorio. E la stessa suor Maifreda esponeva a
volte l'Evangelio, ed a volte parlava di santa Caterina e di altri
santi. Ma dopo che la detta Maifreda era uscita di quella casa
di Biassonno, non aveala più udita predicare od esporre come
sopra. Anche dal primo esame della stessa Maifreda sostenuto
il 2 agosto si hanno tali cose: Interrogata se da otto o sei anni
in qua , dopo cioè ch'ella aveva abiurato come sopra , alcune
persone si raccogliessero presso di lei , rispose iche si , nella
casa delle predette suore di Biassonno, alle volte in parlatorio,
alle volte in infermeria ed altre volte sotto al portico. E quivi
recitava alcuni^miracoii tratti dall'Evangelio e dall'Epistole, ed
altre cose che riguardavano gli apostoli. Fra queste persone
v'aveva talvolta Andrea Saramita, Simonino Montanaro, e Fran-
ceschino Malcolzato. Ma i maschi non vi mangiavano giammai,
ad eccezione del detto Franceschino ; le femmine bensi vi man-
giavano qualche volta. Interrogata la stessa suor Maifreda se
le suore delia delta casa di Biassonno non le avessero mai
mosso alcun rimprovero a cagione di banchetti e di quelle
adunanze, rispose che si, e più volte. Interrogata se nella casa
dei Cuttica, ove ora abitava, tenevansi pure di simili adunanze
quali tenevansi nella casa delle suore di Biassonno, rispose:
non in si gran numero, ma due o quattro persone al più per
volta.
4. 1 rimproveri poi che s'ebbe suor Maifreda ripetutamente
dalle altre monache di quel monastero per quelle adunanze e
conviti 0 bagordi, io imagino provenissero da ciò, che elleno
erano sommamente avverse all' eretica di lei dottrina. Difatti
la stessa suor Maifreda, interrogala il 17 agosto se alcuna delle
suore della casa di Biassonno, fra quelle che vi rimasero dopo
che ella orasene allontanata , credesse ciò che ella credeva ,
rispose che no e che non erano informate delle predette cose.
5. Maifreda pertanto, sì frequentemente ripresa dalle sue
consorelle, finalmente decise d'abbandonare quella casa unita-
mente con tre altre intinte della medesima eresia, vale a dire
quella Giacoma de'Bassani il cui fine infelice abbiamo indicato
— 69 —
al capo XXIV e Fiordebellina Sarami ta ed Agnese Montanara»
che si ricredettero, come diremo più sotto; e si pose ad abitare
con esse nella casa di un tal Guglielmo Cuttica, detto altrimenti
Cod^, come sopra abbiamo veduto.
XXVIII.
Alcuni, settatori della Guglielma pentiti vengono assolti: ed i
più d' essi vengono obbligati a portare due croci di color
rancio, runa sul petto, l'altra sul tergo.
i. Queste cose appaiono manifestissime dai processi da me
citati in quest'opera e che io fedelmente riproduco.
2, La signora Sibilla de'Malcoizato scomunicata, come ere-
retìca e fautrice di eretici, da'frati Guido da Cocbenato e Raineri
da Pirovano deir ordine de' predicatori, inquisitori deir eretica
pravità,, ecc., come sopra, comparve Tanno 1300/ indizione quat-
tordicesima, giovedì 6 del mese di ottobre, nella chiesa di San-
V Eostorgio ;de' frati predicatori, alla presenza del sunominato
frate Raineri inquisitore, pregando e supplicando Tassolvesse dalla
scomunica ch'aveva incorsa per colpa d'eresia o di favore dato
all'eretica pravità e specialme^nte alla dottrina bugiarda di suor
Maifreda e di Andrea Saramita. Per lo che frate Raineri, come
sopra, condiscendendo alle preghiere di lei, ricevutone prima il
giuramento ch'avrebbe obbedito ai comandi della Chiesa e del
detto inquisitore e degli altri inquisitori, salvi gli altri giura-
menti ed obblighi per essa assunti in presenza degli inquisi-
tori» assolse la predetta signora Sibilla da qualunque vincolo
di scomunica e soltanto delle colpe confessate, e la restituì ai
sacramenti della Chiesa. E il detto frate Raineri, inquisitore,
comandò alla sunominata signora Sibilia che dovesse integrai- '
mente osservare e non trasgredire tutte e singole le cose che
le furono già ingiunte durante la sua abiura e che le verranno
in seguito ingiunte dallo stesso inquisitore e da altri inquisitori.
Qualora ella facesse il contrario in alcuni punti di certa scienza
e coscienza, ricadrebbe issofatto nella stessa sentenza di sco-
munica, qual era prima dell'assoluzione, facendosi perciò ma-
nifesto che la trasgreditrice non era veramente convertita, ma
che con finzione ed ingannò aveva giurato e spergiurato. E
^atta formula d' assoluzione a noi basta per ora, e questa si
sa essere stata usata del pari con altre persone che vennero
- 70-
allora similmente assolte. Del qaal numero furono il 29 novem-
bre la signora Catella, moglie del signor Leone Oldegardo, e la
signora Pietra, moglie del signor Tomaso parimenti Oldegardo.
Tre donne adunque troviamo fin qui stale assolte dalla sco-
munica a questo modo.
3. Passo ora ad altri, e in maggior numero, stati assolti in
poco differente maniera. Poiché a costoro, a cagione de'Ioro ec-
cessi neireretfca pravità, fu inoltre ingiunto che portassero due
croci di color rancio, cuqite esternamente sui loro vestiti, e rag-
guardevoli, sul petto runa, l'altra sul tergo. Questa formola di
assoluzione, adottata allora per la prima volta, è si fatta: e U
maestro Giacomo da Perno, figlio del fu maestro parimenti Gia-
como da Perno, della città di Milano, di Porta Vercellina, al
quale frate Guido inquisitore aveva ordinato di portare due
croci di colore rancio, sul petto Funa, Taltra sulle spalle, come
è chiarito dalla carta consegnatagli da Maifredo da Cera, notaio
deiruffìcio d'Inquisizione, Tanno soprascritto 1300, sabbato gior-
no iO del mese di settembre, indizione quattordicesima, com-
parì davanti ài sunominato frate Guido inquisitore, supplicando
umilmente gli desse licenza di deporre le dette croci. All'umiltà
del quale posta attenzione e consideralo ch'aveva ricevuto pa-
zientemente e con umiltà portato quelle croci, frate Guido, dopo
avere recitate in presenza del sovrascritlo maestro Giacomo e
di alcuni amici del medesimo ch'erano secolui l'alto di abiura,
i giuramenti e le obbligazioni assunte da maestro Giacomo per
le mani degl'inquisitori e le colpe e le sentenze a carico dello
stesso Giacomo contenute nella sentenza portata dall'inquisitore,
il detto frate Guido concesse e diede a maestro Giacomo la fa-
coltà e licenza di deporre le croci stategli imposte per le disor-
bitanze da lui commesse nell' eretica pravità ; salva del rima-
nente la sentenza pronunciata contro lui dal sunominato frate
Guido, che aveva a mantenersi in tutto il suo rigore. Fatto a
Milano, nella casa de'fratì predicatori, nella camera ov'è l'UfS-
cio dell'Inquisizione delPeretica pravità, alla presenza del sovra-
scritto inquisitore, 1300, il lunedì, giorno 5 del mese di dicem-
bre. » E poco dopo : e II sumenzionato frate Guido , inquisi-
tore, come sopra, ordinò al predetto maestro Giacomo da Perno,
ivi presente ed ascoltante, che, a tenore del prestato giuramento
ed in compenso delle pene alle quali è tenuto per sentenza del-
l'Inquisizione, deponga sul tavolo del signore Monageno Quare-
sima, cassiere della città di Milano, a suo nome e a quello del-
- 71 —
rUfficio e della Chiesa, per il giorno primo di febbraio p. futuro
imperiali L. 25 per una parte delle pene incorse e delle colpe
per esso lui commesse in favore dell'eretica pravità. Fatto come
sopra, ecc. » Secondo questa formola d'assoluzione, del pari
che quel maestro Giacomo da Perno, anche taluni altri già affi-
gliati alla setta guglielminiana ebbero il permesso di deporre
quelle due croci.
4. I seguenti difatti erano stati del pari obbligati a por-
tarle: frate Gerardo da Novazano e Stefano da Cremella il 29
ottobre; Aydelina, moglie del detto Stefano e la signora Dionese
da Novate e la signora Fiore da Parazolo e Daria de' Pontari
il 10 settembre. E questi ebbero il permesso dì deporlo: frate
Gerardo e Stefano il 10 dicembre, Aydelina e Dionese il 21,
Fiore e Daria il 23 dello stesso mese di dicembre.
5. Consta adunque che fra i settari della Guglielmina
furono salutarmente puniti ed assolti due maschi e sette fem-
mine. Sebbene ciò non consti del pari intorno agli altri, lo pos-
siamo per altro non senza ragione supporre, come è a cre-
dersi ch'essi pentironsi de'loro errori veracemente, e ritornati dav-
vero alla dottrina cattolica vennero assolti e restituiti alla comu-
nione cattolica; e che quindi quella dementissima setta spensesi
afiEatto, sicché non se ne trovò in processo di tempo alcuna
reliquia.
XXIX.
Chi fossero e quanto pochi i seguaci della setta guglielminiana.
1. Intorno a ciò udiamo innanzitutto suor Maifreda, come
si ha dal suo secondo esame del 6 agosto : — Richiesta la detta
suor Maifreda di nominare tutte le persone maschi e femmine
cui ella distribuì le ostie per lei stessa benedette, ed insegnò i
snmenzionati errori, rispose che furono le seguenti signore:
Sibilia, moglie del fu Beltramo Maleolzato.
Pietra e la signora Catella ambe degli Oldegardo.
Dionese da Novate.
Margherita, moglie del fu' Robiate da Novate.
Bellacara, moglie di ser Bonadeo Caveotano.
Aydelina, moglie di Stefano da Cremella.
Fiora, che sta in casa di Ruggero de Luna.
- 72 —
AUegranza de' Perusii.
Pietra, moglie del fa Mirano di Garbagnate (come crede).
Giacomo, moglie di maestro Giacomo da Perno.
Antonia, moglie di maestro Beltramo da Perno.
Giacoma de'Bassani da Nova.
Suor Piordebellina de'Saramita.
Suor Agnese de Montanari.
Ed i signori:
Andrea Saramita.
Simonino Montanari.
Maestro Beltramo da Perno,
Pelicino, figlio di maestro Giacomo da Perno. *
Ottorino e Pranceschino fratelli, figli del signor Gaspare da
Garbagnate.
Albertone da Novale.
Pelicino, figlio di Bonadeo Caventano.
Pranceschino Malcolzato.
Questi erano adunque i settari della Guglielma nominati
allora da suor Maifreda.
2. I medesimi con poca diversità vennero poscia nominati
da frate Gerardo da Novazano, il 19 ottobre nel suo quarto esa-
me. Richiesto il detto frate Gerardo di nominare lutti quelli e
quelle ch'egli sa aver la credenza e la devozione della Gugliel-
ma, nominò:
Maestro Giacomo da Perno.
Maestro Beltramo di lui figlio.
Albertone da Novale.
Simonino Colleoni.
Ottorino e Pranceschino, figli del signor Gaspare da Gar-
bagnate.
Pranceschino Malcolzato.
Pelicino Caventano.
Sanzino da Garbagnate.
Danisio Gotta.
Alberto, figlio del precedente.
Stefano da Cremella.
Prete Mirano Busca.
Don Ubertino, monaco di Chiaravalle, che serviva da sagre-
stano coloro che usavano intorno al sepolcro della Guglielma,
e fu loro dato da I signor abate del monastero.
Le signore:
Sibilla de' Malcolzato.
Aydelina da Cremella.
Bellacara deXaventani.
Carabella de' Toscani.
All^ranza de'Penisii.
Fiora da Cantù.
Benucauta, moglie del signor Gaspare da Garbagnate.
Bella, moglie di Giacomo da Garbagnate.
Dìonese da Novale.
Interrogato come sapesse che i predetti e le predetto ap-
partenevano alla congregazione della Guglielma, rispose che osso,
firate Gerardo, andava con loro, e queglino e quelleno con lui,
alle solennità ed ai conviti che tenevansi in onore od a vene-
razione della detta Guglielma.
3. Suor Maifreda pertanto contava 24. frate Gerardo conia -
vane 23 di siffatti settari della Guglielma. Ma supponiamo cho
fossero anche in maggior numero, a malapena però eccedovano
il numero di 30. Una si piccola cifra aveva ad espriin(»ro
ed insieme indicare la condizione, sesso ed età di costoro, acciò
anche da questo si comprendesse in quante parti errassero de-
scrivendo la storia di questa Guglielma quegli autori ai quali
opponiamo questa nostra dissertazione.
Troppo lungo riuscirei se volessi proseguire nel tradurre
il Puricelli, e non volli offrire del suo prezioso lavoro se non
quanto poteva bastare per convincere il lettore che le colpo di
oscenità apposte a Guglielma ed a' suoi seguaci erano infon-
date, e non fu che una tradizione che si propagò, 'più presto
frutto dei pregiudizi che esistevano nei popolo , perche questo
ama sempre di prestare fede più alle cose grandi che esami-
nare nella loro sostanza Je cause e gli effetti. Basta che taluno
lanci una parola, che tosto il credulo volgo la ritiene , la cir-
conda di altre, racconta alFamico, questi ad altri, e la si divul-
ga in modo cosi spaventoso che nessuno può più venire a capo
di sraiiìcare dalla credenza popolare gli errori adottati.
E la storia della Guglielma ci presenta veramente} una
prova dell'intemperanza popolare, né posso darmi pace che Fio-
nato B:>ssi, scrittore discreto, abbia potuto contro irrefragabili
documenti persistere nell'errore. A convalidare poi quanto per
noi si asserisce, recherò alcune righe di Pietro Verri nr>frio som-
mo e laminare del secolo scorso, che fece tant^> bene alla sua
patria e ne fa ricompensato così male.
Tahb. Inquis. Vul II. IO
— 74 —
< Dello spirito di questi tempi ce ne somministra idea il
famoso affare della Guglielmina. Questa donna, nata in Boemia,
vivea in Milano, dove morì nel 1281. Guglielmina fu tumulata
pomposamente a Chiaravalle, le fu recitato il panegirico come
beata. Lampade e ceri furonle accesi intorno al sepolcro, che
diventava ogni di più celebre per la guarigione degP infermi »
contribuendo a tale celebrità certa Maifreda e certo Andrea ;
sacerdote, ch'erano stati discepoli ed ammiratori della Gugliel-
mina. Ulnquisizione volle instituire processo intorno a ciò, e
la conseguenza di tale processo fu che Guglielmina fu cavata
dal sepolcro, e le di lei ossa bruciate ; e la Maifreda fu gettata
viva nelle fiamme, e vivo parimenti fu bruciato il prete Andrea.
Pietro Verri.
Il popolo credette tutto nascere da prostituzione esercitata sotto
velo di religione nelle adunanze della Guglielmina , e tuttora
tale tradizione volgarmente viene ripetuta. 11 Muratori , da un
manoscritto antico che si trova nella Biblioteca ambrosiana, ha
scoperto le accuse che si fecero a quegF infelici. Guglielmina
pretendeva d'essere lo Spirito Santo incarnato e di essere figlia
— 75
di Costania, regina di Boemia, a coi Farcangelo RafRiele Tavev^ii
annonàata nel gioroo di Peotecost^. Essa diceva d'essero venata
al mondo per salvare i saraceni, ì giudei e i calUvi crtsUanl%
Abbazia (lì Chiarf:v;iMr-,
losj^nava che sarebbe morta come donna, ma (k/i ri.M)rU per
safire al cielo alla preseùVì de' som df.^cepoli , e cti^^ M;^ìfreda
sarAbe rìmasia soa vicarìa in terra ed avrebbe celebrala la
— 76 —
messa al sepolcro di lei, poi nella metropolitana in Milano, indi i
in Roma, ove, abolendo il papato mascolino, avrebb'eila seduto i
papessa. Tali almeno Turono i deliri che vennero imputati a quei i
miseri, i quali sotto il pietoso e illuminato regno della civiltà a
riceverebbero una caritatevole assistenza dei medici per ricupe- i
rare il senno perduto; e allora furono consegnati al carnefice j
per una morte orrenda. >
Comunemente le opinioni nuove intorno agli articoli della
religione nacquero o presso nazioni occupate di oziose o sofi-
stiche ricerche metafisiche, le quali si pregiavano di chimeriche
e realmente vacue disputazioni , ovvero nacquero esse per un
abuso degli studi sacri deir erudizione. Da noi , in mezzo alla
ignoranza del secolo decimoterzo, nessuno di questi poteva aver
loro dato nascimento. Il padre delPerudizione italiana, Lodovico
Antonio Muratori , ci ha fatto l'enumerazione degli errori che
venivano attribuiti a questi eretici. La maggior parte di quelle
opinioni chiaramente non è cattolica. Egli è vero però che al-
cune opinioni ivi censurate potrebbero avere un significato
innocente, quali sarebbero le seguenti : « La trista vita di un
prelato nuoce al suddito ed anche a quello che è consacrato a
Dio. — Nella chiesa di Dio non debbono esservi cattivi sacerdoti
e diaconi. — l preti cattivi non possono esercitare il loro mi-
nistero. '^, 1^ Chiesa non dee possedere alcuna cosa se non
se in coqfluuìe. — Alcun tristo non può essere vescovo. — Non
è lecito ad aìcano lo ammazzare. > Ed è pur vero che non ci
rimane alcun libro di quei tempi, nel quale si contengano le
altre eresie clie s'imputavano a tanti nostri ibilanesi ; ed il
Muratori le ha tutte prese da un sol manoscritto di Armanno
Pungilupa Certo è che» essendo grinquisiiori dipendenti affatto
dal papa, e le loro sentenze dovendosi eseguire dalla podestà
civile col bando e colla morte, la vita e i beni di ciascun cit-
tadino erano dipendenti dalla podestà ecclesiastica di Roma , e
conseguentemente Roma vi aveva indirettamente acquisita la
sovranità.
E qui conchiudendo la cronaca della Guglielmina noi sen-
tiamo il dovere di dare una spiegazione al lettore dell' esserci
cosi a lungo indugiati su questo episodio dei delirii umani e
della ferocità dei tempi. Egli sarebbe stato per noi impossibile
il rendere colle nostre parole intero il quadro di quei processi
che pure il lettore ha diritto di volere dettagliatamente cono-
scere. Epperò di buon grado ci siamo indotti a copiar dalle
— 77 —
tie cronache e tradorre dallo storico Poricelli tutte questo
te notizie. Ora che ci pare aver adempito anche a questo
) desiderio e come a dire messo innanzi visibihnente le
fasi di quel processo, che ben valgono a ritrarn^ la flso-
ai di quei tempi, possiamo francamente tornare alla parte
;a, ben più rilevante della aneddotica.
CAPITOLO II
Il pontefice Clemeiite V e Filippo 11 Bello re di Franeia.
Tutta la colossale autorità de'pontefici non arrivò a spaven-
tare Filippo il Bello. Diceva però egli d' averla colla sola per-
sona di Bonifacio, e dichiarò pubblicamente che l'avrebbe fatto
Bonifacijo Vili.
deporre in un generale concilio. Dal suo canto il papa cercava
di fortificarsi contro il potere del re, e si aggiustò precipitosa-
- 79 —
mente con quanti sovrani era in lizza. Acquietò la contesa che
avea con Odoardo sul regno di Scozia, riconobbe per re dei Ro-
mani Alberto d'Austria e lasciò a Federigo d' Aragona il pos-
sesso pacifico delia Sicilia. Defini anco la questione sulPUnghe-
ria , dichiarando quel regno ereditario e non elettivo » e come
tale lo aggiudicò a Caroberto, nipote di Carlo Martello , morto
senza figliuoli; ma la sua sentenza non venne eseguita, ninno
osservò l'interdetto che Taccompagnava, e la guerra civile con-
tinuò. Frattanto egli stendeva bolle continue, e fino a quattro
ne pubblicò in un sol giorno, nelle quali aggravò sempre più
rinterdetto che scagliato avea sulla Francia, sospese le univer-
sità e le nomine a'benefizi eziandio con cura d' anime, e pro-
curò in ogni modo d'intimorire i popoli per eccitarli ad una
insurrezione generale.
Ei non sapea che già Nogaret era sceso in Italia con ordine
del re di prenderlo e condurlo a Lione, dove tener si doveva il
.concilio. Quest'uomo d'animo risoluto si uni a'Colonnesi, che
avevano già obbligato il pontefice a fuggir di Roma e a ritirarsi
in Anagni , sua patria, dove si credea più sicuro. Sciarra Co-
lonna vi condusse Nogaret in persona: essi sobillarono gli
stessi Anagnini contro di lui , e col loro ajuto sorpresovi il
papa, lo tennero prigioniero tre giorni, intanto che si saccheg-
giavano i suoi mobili e il suo tesoro. Incostante però è sempre
il favor della plebe : quella d' Anagni fu presto commossa dalle
disgrazie del suo concittadino, e si penti d'averlo tradito. Leva-
tasi a un tratto contro i suoi rapitori, e tolto loro non senza
spar^mento di sangue il papa di mano, lo accompagnò quasi
in trionfo alla sua capitale. Bonifacio non senti allegrezza ve-
rnila di si felice rivoluzione; tanto avea dispetto d'essere stato
ìq potere del sqo nemico : nei più violenti progetti di strepi-
tosa vendetta, un accesso atrabilare io condusse il mese seguente
alla tomba.
Benedetto XI, pacifico frate domenicano, onorò per poco la
cattedra a cui lo condussero le sue virtù e non ebbe tempo di
cancellare le macchie lasciatevi dal suo predecessore. Egli è
goell'umilissimo papa che non volle riconoscere la madre co-
perta di gemme, e 1' onorò poi rivestita de' suoi poveri abiti.
Nei pochi mesi eh' ei visse fece ogni sforzo per ricondurre la
tanquillità nell' agitata repubblica : ristabili i Colonnesi, scan-
celiò le bolle di sangue contro la Francia e spedi legati a pa-
cificar r Ungheria. Si vuole che i cardinali stessi, mossi da
— 80 -.
invidia, accelerassero la morte di luì in un piatto di fichi, di
cui era assai ghiotto.
Il conclave che si tenne dopo la sua morte die agio alla
congiura francese, per cui si tolse all'Italia T onore della sede
apostolica. L'arcivescovo di Bordeaux, Bertrando di Got, fu l'uo-
mo che Filippo trascelse ad esser papa, dopo essersi fatto con
inganno cedere dai cardinali italiani la nomina del romano pon-
tefice. Egli si fece chiamare Clemente V e stabili la sua residenza
in Avignone, dove chiamò i suoi elettori e tutta la corte roma-
na. Ivi, ligio afliatto al re di Francia, secondo la promessa a lui
fatta per essere eletto, cominciò di concerto con esso a tiran-
neggiare il resto d'Europa.
1 prmi a provare i funesti effetti di questa formidabile coa-
lizione furono i cavalieri templari. Noto è come guest* ordine,
illustre nella sua nascita , degenerasse assai presto dalla sua
istituzione. Screditato per la sua mala fede, per Tindocililà è
per l'abuso de'suoi privilegi, offriva all'avarizia de' suoi nemici*
un favorevole pretesto d'invaderne le immense ricchezze, da
questi monaci-soldati con ogni sorte di mezzi accresciute. L'abo-
lizione di quest'ordine, quantunque giusta per gli addotti motivi,
fu detestata pel modo terribile con cui venne eseguita e per
le atroci calunnie che vi si frammischiarono. Sette anni dorè,
la persecuzione, e le fiamme che di tempo in tempo consu-
marono i più ragguardevoli capi dell'ordine e HI de'suoi ca-
valieri non si estinsero afliatto che alla morte dei loro tiranni.
Né l'età rispettabile, né la nascita illustre, ne i più segnalati
servigi resi alla religione e allo Stato valsero a preservarne lo
stesso gran-mastro Jacopo di Molai, fratello d'un principe so-
vrano. Egli dovette languire sette anni tra'ferri dopo essersi di-
sonorato con nna confessione, che poi ritrattò.
Quantunque Filippo il Bello avesse in sua balia il pontefice,
che prono a'suoi voleri ogni cenno eseguiva, nulla curando se
questi tornassero a detrimento della dignità della Chiesa, avido
com'era di possanza e d'oro, nullameno il rettore di Francia si
tenne poco o nulla pago della sua deferenza e stava sull'ag-
prottato col pontefice. Mente di Filippo era di tenere in pugna
n pontefice e circuirlo in modo che d'ogni sua volontà fosse
geloso esecutore; per il che aveva fermo di carpirgli tutto quanto
re ambizioso, cupido e vendicativo potesse chiedere ad noma-
ligio ed a papa insaziabile d'oro; per lo che invitollo per la
primavera dell'anno 1307 ad una conferenza, nella quale si do-
— 81 —
veva avvisare al modo d'assestare delicatissimi ed importanti
affari che la somma delle cose ecclesiastiche riguardavano. Cle-
mente Y, che dopo la sua coronazione avea a Bordeaux per più
mesi dimoralo, destando in quella ci Uà graVe malcontento pei
gravosi balzelli posti sulla chiesa d' Àquitania, acconsentì di
buona voglia al regale invito e si tramutò a Poiticrs ad aspet-
tare Tarrivo di Fihppo.
Oscillante d'animo, non appena era in questa città giunto
che cominciò a pentirsi d'essersi posto a discrezione d'un mo-
narca il quale aveva fatto abuso deirinflusso che potente eser-
citava sull'animo suo, temendone l'immoderata ambizione; per
il che procurò di sottrarsi a quella specie di cattività nella quale
avealo posto colla sua astuzia Filippo.
11 papa ed i cardinali ch'erano venuti a Poìtiers fecero
in essa città più lunga dimora che non desideravano, imper-
ciocché il re di Francia ed i suoi ministri ve \\ tennero, dicesi,
GOQ qualche violenza: il papa tentò più volte, vestito or da sem-
plice prete, ora sott'altra foggia, di fuggirsene a Bordeaux; ma,
ravvisato dai satelliti del re per via, fu costretto a ritornarsene
prigiooiero a Poitiers (1). >
Rinunciò il papa ad ogni progetto di fuga e si rassegnò
ad ingraziarsi l'orgoglioso suo protettore a furia d'accondiscen-
dere a'voleri di lui, questo mezzo parendogli il migliore per
disarmare l'efiferato animo di Filippo, ch'era giunto a Poitiers
circondato da numeroso e sfolgorante corteo. Oltre a'suoi più
fidati ministri, si aveva tolto a compagni i suoi tre Ogli, il
primogenito de'quali, chiamato Luigi, s'intitolava dopo la morte
della madre sua, re di Navarra. Egli volle seco anche i fratelli^
Carlo di Valois suo consigliere Qdato e Luigi conte di Evreux.
Avea data la posta di trovarsi a Poitiers a Roberto conte di
Fiandra, a Carlo II re di Sicilia; ed Edoardo re d'Inghilterra
intervenne eziandio in quel consesso per mezzo de'suoi amba-
sciatori (2).
Siccome il papa ed il re avevano annunciato che il con-
gresso che si adunava era destinato a provedere alla difesa di
(1) CletnerUis V papce vita auetore Joanne eanonieo Sancii Victoris
fmi$Un9Ìs a Baluzio edita. Script, ital., tomo III, p. IT, pag. 452.
(J> Giovanni Villani, llb. Vllf, cap. 91. — Ferreli Vicenlii, Historia,
IMg. Ì0i6.
Taiib. Inquis. Voi. II. ii
— 82 —
tutta la crislianità ed alla liberazione di Terra Santa, cosi il re
d'Armenia vi spedi legati a rappresentarlo, muniti d'uno scritto
suo nel quale tracciava i modi di riconquistare la Giudea e di
difendere T Armenia.
Filippo a quell'epoca mulinava in suo capo molti progetti
e pensieri gravissimi, ma si può -asseverare cbe la liberazione
dei Santo Sepolcro non vi aveva parte alcuna, e servire più
presto il bene della Chiesa di mantello a' suoi pensieri, che di
fine vero per sua parte al congresso.
11 vero progetto che più d'ogni altro stava a cuore a Fi-
lippo era di compiere la sua vendetta contro Bonifacio, e questa
eragli spino negli occhi, e non lasciava tregua all' agitazione
dell'animo suo finché non l'avesse pienamente raggiunta. Egli
anelava con ogni possa a coprire d'infamia la memoria del suo
avversario, conoscendo che se non otteneva tale scopo correva
pericolo d' essere egli stesso condannato per la sua empietà.
Egli a tal uopo non avea dimenticato di provedersi dell'accusa
che.Nogaret avea steso, corredata degli atti e di quanto i testi-
moni avevano deposto negli esami. Scopo di Filippo era di
provare che Bonifacio avea peccato d'eresia su quarantatre titoli
differenti, e chiedeva perciò che le sue ossa fossero disseppel-
lite ed arse sul rogo, che fosse dichiarato usurpatore della sede
pontificia e simoniaco, ed annullate le sue bolle.
Clemente Y avea resa sacra la sua parola con giuramento
di fare quanto il re da lui voleva, ma più potente del giura-
mento era il terrore che provava nel trovarsi in sua balia e
r esempio de'suoi due predecessori periti in Roma per essersi
tirata addosso la collera del re di Francia, come dice il Villani
da noi citato.
Comprendeva assai bene Clemente V che, dichiarando non
esser Bonifacio mai stato papa legittimo, era lo stesso che
annullare le nomine che aveva fatte come pontefice, ed infir-
mava di nullità la propria come cardinale, carattere ultimo che
abiliti il prete a divenire pontefice. Nel bivio tremendo in cui
trovavasi gli fu tavola nel naufragio il cardinale da Prato , al
quale andava debitore della sua elezione , e pel quale a pre-
ferenza nutriva fiducia. Lo consigliò a temporeggiare nel man-
dare ad efielto il negozio , ed a mostrare a Filippo i canoni
della Chiesa prescrivere che , per assoggettare a giudizio ed a
condanna un papa , è mestieri di radunare un concilio ecu-
menico.
— 85 —
Clemente, àgniflcato ciò al re, non lo (totò ostile V saoi
risameatì, e si fissò Vieooa che facea parte del regno d'ArK
r sede del fotnro concilio; e per mostrai;^! deferente ai desi^
trii del re, dichiarò nulle e dì nian effetto tutte le censore
onnnciate dai suo antecessore contro Guglielmo di Nogaret e
3gìoaldo di Supino, in occasione deir arresto di Bonifacio e
(Ilo sperpero del suo tesoro (1).
Clemente V, accumulando favori sopra favori verso Filippo
la sua famiglia» avvisava non solo di gratificarsi Tanimo del
i, ma eziandio di stornare da lui ogni pensiero di vendetta
«tre Bonifacio che potesse destare scandali nella cristianità,
niochè cercò di rendersi benevolo Carlo di ValoiSi come colui
le teneva le chiavi del cuore del re. Filippo fino da IP inco*
linciare del suo regno desiderava di procacciare al fratello
Qa corona , ma in onta al suo ardente desiderio Carlo • che
ntaya titolo di re d'Aragona e d'imperatore di Costanlinopoll
cagione del suo matrimonio con Caterina figlia di Filippo di
}nrtenay, non era designato se non col nome di Carlo senza
rra.
Clemente V si provò a fargli acquistare gli Stati de* quali
}n portava che T inutile titolo. Gli aveva accordato fino dal*
inno precedente una bolla, colla qnale lo autorizzava n levare
I decime sul clero di Francia, e Tindulgenza per tutti coloro
le avessero partecipato alla crociata ajatandolo a fare la guerra
Greci. Carlo avea raccolto il denaro, ma non aveva allestito
;ercito. Alle conferenze di Poitiers Clemente si mostrò ancora
\h premuroso di sollev^irlo al trono de'Greci. Il medesimo era
xopato da Andronico Paleologo, gli Stati del quale erano
ivasi ad un tempo dai Turchi, dagli Alani e da una compagnia
avventurieri catalani, che prima si era posta al suo soldo per
[fenderlo. Nello sconvolgimento in cui sì trovava la Grecia» i
laggiorenti del regno aveaoo ricorso a Carlo di Vaiola perché
volesse ajutare a debellare i barbari , offrendosi di rtcono*
^rlo per loro monarca.
Dichiarare Carlo capo d' una nuova crociata per conqoi*
are GostanUnopoli fu atto repentino che fece il papa per
ttotare Tira del re contro Bonifacio; né ciò cre^lendo bastare,
ronnnció anatema contro Andronico e contro tutti coloro che
ressero tentalo di recargli soccorso* Cosa strana invero e
{1} Tedi YiiiaB,BayiialdledallrfMocraldiFiUp|M>adiCleiM
— 84 —
contraria a quanto egli stesso pronunciava nella bolla della
crociata : imperciocché con questa esortava i cristiani a levarsi
contro i Turchi, che minacciavano la cristianità, e scomunicava
invece di ajutare quel re che già si trovava in guerra contro
i Turchi.
Filippo avea con sé condotto, come si disse, il suo primo^
genito Luigi, e desiderava farlo re di Pamplona. Clemente V gli
agevolò il calle per arrivare alla meta, e Luigi fu coronato re
in Pamplona.
Filippo aveva fatto venire a Poiliers l'arcivescovo d'Arli, ed
ambasciatore di suo cugino Carlo II , re di Napoli e conte di
Provenza, onde beneficare col mezzo del pontefice questo ricco
feudatario della Chiesa. Clemente beneficò il cugino del re, pro-
curando a suo figlio Carlo Roberto la corona d'Ungheria, spo-
destandone l'erede Ottone di Baviera.
Ma per quanto Clemente spargesse a piene mani beneficii
e grazie sulla famiglia di Filippo, questi si mostrava sempre fermo
nel volere compiuta la sua vendetta contro Bonifacio: il che
dava rancore amarissimo all'anima del pontefice. A scemarla
venne l'inchiesta da Filippo fatta d'abolire Tordine de' templari.
Il papa ascrisse a sua gran fortuna tale dimanda , come quella
che intanto procrastinava l'epoca del concilio e gli alti che ne
dovevano susseguire.
Indarno molli si sono provati ad indagare le vere cagioni
dell'odio di Filippo il Bello contro i templari e delle colpe ap-
poste ai medesimi, delle quali parleremo più abbasso.
Noi avventuriamo il nostro pensiero, e qualunc^ue egli sia
ne faccia ragione il lettore. L'epoca della quale teniamo discorso
è quella di spaventosa corruzione negli atti giudiziari, non
essendovi atto giudiziario costituito sotto Filippo il Bello che
non porti l' impronta dell' ingiustizia , e non vi sia mescolata
qualche falsa testimonianza in base alla quale si condannava
l'innocente al patibolo. In questo dubbio non possiamo prestar
piena fede ai documenti che sono fino a noi arrivati, sebbene
presentino apparenza d' integrità ; l'animo nostro oscilla sem-
pre fra la verità e l' errore , e siamo costretti a spiegare per
nnezzo di congetture quello che ci viene tramandato come fatto
solenne.
Villani scrive che il priore di Montfalcon tolosano ed il
fiorentino Noffo Dei, entrambi sostenuti in carcere pei loro
delitti, ordirono fra loro la congiura che fu cagione esiziale ai
templari.
— i5 —
Costoro » fatti bildaoxosì dal processo di Bonibcìo . nel
quale ricorse alia te^monianza d'esseri abbietti e Ttlissimi , e
sicori cbe on'accosa quaot' era pia infame e spaventi^ fcnuto
(Hù otteneva fede e credenza, si accinsero all'opera.
Ond*è cbe iniziarono l^accusa contro i templari affermando
cbe i medesimi, i quali avevano pronunciato voti soietmi di
povertà e d'obbedienza e di combattere a prò della religione ,
rinnegavano Dio quando entravano a far parte dell'ordine, $pu«
lavano sul crocifisso» adoravano un idolo deformo ed erano
imziati nel medesimo mediante schifosa cerimonia^ sottostando
ad infame prostituzione, e si facevano traditori della crìsUaniUi
a favore degrinfedeii, quando ciò fare tornava loro utile. Quanto
più si entra nei particolari delfaccusa, più si rimane stomacali
per la loro assurdità.
Filippo, ch'era sdegnato contro i tempieri pel loro orgoi;llo«
ch'era stato oggetto delle loro censure per Tinginsto e tirannico
suo procedere, e che reputava degno di morte ognuno che gli
fosse nemico, né sentiva scrupoli intorno ai mezzi che adope-
rava per far suo T altrui, ammise come verissima Paccusa e
fece esaminare i delatori da' suoi giudici , comunicandone lo
deposizioni a Clemente e chiedendogli d' infierire contro (fuo-
sl'ordine, divenuto oramai troppo ricco ed ambizioso. Clemente
dicesi promettesse solamente d'occuparsene e procrastinò la
decisione di tale negozio, rimettendola all'adunanza che si dovea
convocare in Vienna.
Ma Filippo, che amava le misure pronte e decisivct che non
assonnava mai nel raggiungere lo scopo che si era prefisso,
instava fermamente presso Clemente.
Filippo il Bello avea per iscopo e teneva esser utile a chi
governa il non percuotere con accatti e balzelli tutti I sudditi
in un sol colpo, ma premere con mano ferrea un data classe
tutta intiera ; imperciocché nel primo caso corre pericolo II
despota di trovare troppo forte opposizione a' suoi ordini , nel
secondo invece spoglia con mano sicura per l'egoismo del
maggior numero, che si tiene fortunato di trovarsi salvo da un
gran disastro.
Tre volte dorante il suo regno spogliò Filippo una clas:4e
particolare de' suoi sudditi, cioè nella prima i Lombardi , nella
seconda gli ebrei, nella terza i templari ; ogni volta fece mo-
rire tutti coloro cbe meglio voleva, tirando a sé il concorso del
elero^ per reoderio correo dei (mù oeri delitti. Nel I3M i mer^
canti italiani furono tutti in un giorno arrestati, sostenuti in
carcere siccome usurai , e molti spediti al patibolo; nel 1306
gli ebrei, nei 1307 i cavalieri del Tempio: in tutte e tre con-
fiscò i beni a beneficio della corona.
Nel 14 settembre del 1407 Filippo mandò lettere ai preretti
e governatori del regno nelle quali esponeva le accuse promosse
contro i templari, ordinando loro di mettersi d'accordo onde al
più presto fossero tutti i templari del regno agguantati e posti
in carcere il 13 ottobre, e di serbare geloso secreto intorno a
quest'ordine.
Pel giudizio dei templari fu da Filippo deputato Guglielmo
Humbert di Parigi , domenicano , grande inquisitore e confes-
sore del re. Imperlante i baili delle Provincie dovevano inter*
rogarli ed applicare ai medesimi la tortura in presenza dei
delegati deirinquisizione, promettere perdono a coloro che aves-
sero confessato i delitti a loro imputati e minacciare l'estremo
supplizio a coloro che si mostrassero renitenti. L' ordine dato
da Filippo non si limitava alle persone, ma si estendeva anche
sui beni, dei quali Is' impadronirono i baili delle Provincie in
nome del re.
Gli prdini di Filippo furono eseguiti alla lettera ; non si
saprebbe dire se fosse più la precisione od il rigore adoperato
dagli incaricati. Nessun templario potè aver sospetto dei peri-
coli che lo circondavano, ed all' alba del 13 ottobre i templari
che si trovavano in Francia furono presi prima che potessero
armarsi e , separati , furono chiusi in carcere. Guglielmo di
Nogaret e Reginaldo di Roye ebbero ordine d'impadronirsi della
casa del Tempio in Parigi , eh' era destinata sullo scorcio del
secolo scorso ad essere prigione a Luigi XVI, dalla quale usci,
ma solo per andare al patibolo.
Giacomo di Holay, gran maestro dell'ordine da pochi giorni,
ritornato da Cipro per invito dello stesso Filippo onde far parte
della conferenza di Vienna, e da lui ricevuto in ogni miglior
guisa, fu posto in prigione.
Nella domenica 15 ottobre 1307 , nella cappella del suo
palazzo, Filippo fece proclamare le accuse contro i templari, e
la Frauda inorridita senti le colpe di quest' ordine composto
di preti-soldati.
Gì' inquisitori adoperarono tutti i mezzi per strappare la
confessione ai templari ; ora cercavano di sedurli con larghe
promesse per parte del re, ora li facevano languire di fame
— 87 —
Delle prigioni, ora con le torture, le quali erano atroci al panto
che alcuni perivano sotto le medesime. Con questi mezzi usati
da una barbara e feroce legislazione si strapparono molte con-
fessioni, che venivano dagli stessi rivocate tostocbè cessava lo
strazio dei tormenti.
I ministri del re andavano spargendo cbe l'arresto dei tem-
plari era stato eseguito coirautorità della Cbiesa e beneplacito
del pontefice. Ma Clemente non credeva cbe immunità religiose
fossero violate in modo tanto aperto e brutale. Montato in ira,
incaricò due cardinali di recarsi da Filippo ed intimargli una
bolla piuttosto energica colla quale lo rimproverava del suo
poco rispetto verso la santa sede. Contemporaneamente air e-
missione della 1)olla , sospese dal loro uffizio gli arcivescovi ,
vescovi ed inquisitori della Francia, cbe arrogavano a sé stessi
il processo dei templari. Questa bolla è datala: Poitiers, il
27 ottobre.
Ma Clemente V, d' animo irresoluto e timido , tremava al
cospetto di Filippo e non osò persistere nella fatta delibera*
zione. Dopo di aver sentito in esame molti templari che gli
furono perciò condotti a Poitìers, revocò la sospensione che
avea fnlrpinato e permise ai vescovi di processare nelle loro
diocesi gli accusati templari; tenne però per sé il giudizio del
gran maestro delPordine e dei maestri di Francia, di Normandia,
del Poitou e della Provenza.
La distruzione d' un ordine che la cristianità riguardava
come scudo possente alla sua sicurezza avrebbe potuto susci-
tare qualche fermento nel popolo, il quale era avvezzo a rispet-
tare la possanza e le ricchezze dei templari, ad ammirare il
loro valore e lo zelo per essi sempre mai dispiegato per la
fede. Per allontanare ogni pretesto di lamentela e per coprire
Tingiustizia che commettevano, Filippo e Guglielmo Humbert,
inquisitori, consegnarono al braccio secolare alcuni ebrei nello
stesso tempo che i templari. La morte di due ebrei ricchissimi,
cbe si voleva convertire al cristianesimo nel momento che i
loro correligionari erano scacciali dalla Francia fece divergere
la pietà di coloro che serbavano un palpito d'ammirazione pei
templari, e Tassassinio di questi fu mascherato con quello delle
due vittime. D'altronde il popolo si avvezza ai supplizi, e vedu-
tone uno, ne chiede un altro» e la sua credulità adotta facil-
mente tutte le favole che si pongono in giro.
Le crudeltà che Filippo commetteva contro i templari a'suoi
-88 -
occhi aveaDo assunto il carattere di giustizia, fosse per Io sde-
gno ch^ fortissimo nutriva contro loro per essersi mostrati tal-
volta renitenti alla sua autorità, fosse perchè egli avesse risa-
puto alcune satire che i templari avean messe in giro ponendo
in canzone il suo coraggio, fosse che le sue casse erano esau-
rite di denaro ed i bisogni ognora crescenti di averne, e spe-
rasse colla conflsca sopperire ai medesimi, fosse che realmente
prestasse fede alle denuncio che due paltonieri avevano fatto
per speculare sulle sventure dei loro simili, fossero tutte queste
diverse ragioni insieme, fatto è ch'egli riguardava Tabolizione
dei templari ed il loro eccidio come cosa giusta e dalle leggi
divine ed umane comandato. Filippo aveva scelto a giudici co-
loro fra i suoi ministri che maggiore venerazione aveano mo-
strato per lui e si mostravano inaccessibili ad ogni pietà. Costoro
studiavansi di trovare la colpa colà ove il loro padrone avea
dimostrato di bramarla.
I delatori dei templari aveano asserito che essi rinuncias-
sero a Dio ed alla fede in Gesù Cristo nell'atto ch'erano iniziati
nell'ordine, che sputavano tre volte sul crociflsso, che adora-
vano un idolo deforme che tenevano nei loro grandi capìtoli,
che davano ài gran maestro tre baci nefandi, e che questi li
avvertiva che poteano sottrarsi ai voti di castità che aveano pre-
stato, permettendo laidezze e stravizi. Tutti i templari arrestati
furono separatamente in secreto esaminati su tutti i punti d'ac-
cusa; l'estratto dell'interrogatorio fatto a meglio di cento fra
essi fu conservato negli archivi. Nel leggerlo si rimane colpiti
della più alta meraviglia trovando ammesse in gran parte tanto
turpi accuse. Dopo un esame più attento del medesimo - si viene
a conoscere che furono ammesse le accuse in forza dei tormenti
patiti 0 pel timore di soggiacere alla tortura, ma che però sem-
pre confessano quella parte dell'accusa che può meno compro-
metterli. Taluno confessa di aver ricevuto al momento delPinizia-
zione un bacio sulla bocca dal gran maestro, e ch'egli glielo
ha reso sull'umbelico od in fondo alla spina dorsale; un altro
asserisce d'essergli stato imposto di sputare sul crocefisso, ma
che in luogo di profanarlo sul petto, non sputò che da parte;
un altro che gli fu comandato di rinnegare Iddio, ma ch'egli
si è dì ciò confessato a Roma e ne ricevette Tassoluzione ; un
altro dice d'aver veduto bensì una figura nel capitolo, ma che
essendo il luogo oscuro, non ha potuto distinguere cosa si fosse;
un altro finalmente asserì che gli era ben stato dato il per-
— 89 —
esso di darsi io preda ad ogni oscenità, ma elisegli però dod
èva mai osato di simile concessione. Tatti sembravano op-
essi dal medesimo terrore; in tutti si ravvisano uomini per-
issi dalla minaccia dei supplìzi orrendi ove non avessero con-
ssato, che cercano di sottarsi alla tortura, ma nel medesimo
mpo di caricarsi della colpa minore.
Frattanto queste confessioni strappate cogli inganni, colle
iDaccie e colle torture, facevano riunite molta impressione sul-
iDimo d'uomini che non calcolavano il valore delle prove giu-
liane.
Tardava a Filippo che V ordine dei templari fosse ovun-
le distrutto nel medesimo tempo; si rivolse quindi a tutti i
vranì, e loro comunicò le relazioni che avea ricevute, ed
ortavali ad imitare il suo esempio. Spacciò un legato ad Edò-
do n re d'Inghilterra, facendogli sapere le cose orribili e (lete-
ibili che commettevano i templari repuiinanti alla fede cat-
lica.
Nella lettera Filippo esortava Edoardo a non sospendere
ù oltre l'arresto dei medesimi.
Edoardo II pareva a tutta prima sdegnato di qunnlo gli
^municava Filippo, e scrisse anch'egli ai re di Casliglia e dì
icilia e d'Aragona • sembrargli dovere di considerare sotto
(ni aspetto favorevole i templari, imperciocché si raccoman-
ivano per il loro valore e per le lunghe faticlie durate per
difesa della fede cattolica, e per le vittorie riportate sui ne-
ici della croce. Li supplicava nel medesimo tempo a chiudere
i orecchi alle imputazioni dei perversi, i quali non per zelo
ir la giustizia, ma per cupidità e per invidia volessero ecci-
rll a servire contro le persone od i beni di quest'ordine. »
lesta circolare fu scritta a Reading il 4 dicembre 1307.
II giorno 10 del medesimo mese scrisse Edoardo ai papa
T raccomandargli caldamente il gran maestro dei templari. Ma,
5se intendimento secreto del re d'Inghilterra con quella let-
ra di addormentare la vigilanza dei templari, fosse che Fi-
ipo vincesse l'animo del medesimo colla brillante prospettiva
Ile ricchezze che aveano i templari, Edoardo mandò lettere
ggellate ai suoi luogotenenti d'Inghilterra e d'Irlanda, ordi-
ndo che nella mattina dell'll gennaio 1308 lutti i templari
$sero ovunque arrestati e sostenuti in carcere; che i loro
ni fossero posti sotto sequestro e tutte le carte suggellate.
Il re di Napoli pochi giorni dopo si determinò ad imitare
Tamb. Jnquis.YoU lì. i%
— 90 —
Filippo : farono nella contea di Provenza arrestati qoarantott
templari e rinchiusi in carcere; i loro beni furono staggiti, m
non si conosce se ai medesimi si sieno strappate confessioni
se sieno stati condannati al rogo.
In Bretagna furono egualmente arrestati i templari, e
allorquando si mandò per impadronirsi dei loro beni, i du
cavalieri di ciò incaricati furono fatti fuggire dal popolaccio, e
il duca Arturo II pensò di tenere per sé il frutto della confisca
Gli altri monarchi di cristianità non resistettero alla lusing
di rendersi padroni delle opime spoglie dei templari ; non fu
rono gran che solleciti neir imprigionarli ed a strappar lor
confessióni, ma tenerissimi ed ardenti neir impossessarsi de
beni, senza esaminare se fossero colpevoli od innocenti, tenner
le loro commende come roba di buon acquisto dal moment
che la Chiesa più non li proteggeva.
Clemente aveva infatti rinunciato a più lungamente difen
derli. Da Poitiers il 12 agosto 1308 aveva datato una boli
nella quale dichiarava che i templari tradotti al suo cospetti
avevano in parte confessate le colpe delle quali erano accusat
senza usare torture o minacce; e nominava coloro che doveanc
tenere in sequestro i loro beni, che furono gli stessi princip
agli Stati dei quali appartenevano gli imputati;
In Alemagna la cura di custodire i beni staggili ai templar
venne affidata ai tre elettori ecclesiastici. Nello stesso tempi
Clemente ordinò la riunione del concilio ecumenico in Vienn;
sul Rodano pel 1 ottobre 1310, acciocché la Chiesa riunita ii
assemblea decidesse delle sorti deir ordine.
Quindicimila cavalieri del Tempio che erano sparsi fra com
mende e preccttorie in Europa, tutti appartenenti a doviziosi
e nobili famiglie, avvezzi all'opulenza ^d alla possanza, furono
precipitati nella più orribile miseria ; quelli che non languironc
nelle prigioni erano costretti a dissimulare il loro nome ec
esercitare vili mestieri per procacciarsi il pane.
Per dare tutta V apparenza della giustizia al suo operato
pensò Filippo di convocare gli stati e tenere un' assemblea pei
decidere quivi intorno ai templari. Nella settimana che segu
le f^ste di Pasqua del 1308 ordinò la seduta, t II re, scrive il
canonico Giovanni di S. Vittore, fece riunire un parlamento 3
Tours di nobili e non nobili, di tutte le castella e città del sue
regno. Egli voleva, prima di trovarsi a Poitiers presso il papa,
sentire il loro avviso intorno a ciò che meglio era a farsi coi
templari. »
— si-
li re voleva agire con prudenza e, per non dar presa a
censore, voleva avere il consenso degli uomini d'ogni condi-
zione del suo regno. Per il che non volle avere ravviso sola-
mente degli uomini nobili e dotti, ma quello ancora de' laici
non appartenenti a nessuna delle indicate classi. Costoro quasi
all'unanimità giudicarono essere i templari degni di morie.
Chiesa della Sorboria.
L'Università di Parigi, e specialmente i maestri in teologia
della Sorbona, furono espressamente invitati a dare la loro sen-
tenza; il che fecero a mezzo del loro notajo, il sabato che segui
r Ascensione.
- 92 —
Sembrerebbe qaiDdi che principale scopo di Filippo in tale
convocazione straordinaria sia stalo quello di far attriboire ai
deputati tutta Tinfamia che scaturiva dagli atti odiosi che erano
stati commessi e che mulinava di commettere. D'altronde tenevasi
certo che il voto dei medesimi sarebbe tornato conforme a*suoi
desìderii. Infatti le otto più considerevoli signorie della Lingua-
doca fecero procura a Guglielmo di Nogaret, uomo ligio al re
ed esecutore delle sue iniquità, e gli conferirono mandato di
rappresentarle all'assemblea di Tours, ed il governatore di
Beaucair ebbe ordine di costringere i comuni della sua pro-
vincia a pagare le spese di viaggio dei deputati che loro mal-
grado mandavano all'assemblea.
Filippo dopo l'assemblea di Tours si recò nuovamente a
Poitiers per tenere nuove conferenze con Clemente, imperciocché
trovavasì impacciato a decidere intorno ai templari che stipa-
vano le prigioni. Fino allora gran numero d'essi, sotto o poco
dopo la tortura, era perito, altri erano morti in carcere di cre-
pacuore e di fame, moltissimi si erano da loro stessi data la
morte ; ma sembra che nessun pubblico supplizio sia stato or-
dinato prima del 1309. I commissarii incaricali di esaminare
in segreto i cavalieri del Tempio aveano dai medesimi otte-
nuto le confessioni che aveano scritto nei processo, od almeno
ciò dicevano.
Nullameno, fra i cavalieri che aveano interrogato, alcuni
impugnavano d'aver fatte rivelazioni simili, altri asserivano che
quanto dedussero nel processo era stato loro strappato dalla
tortura e dalla minaccia di pene maggiori , altri dicevano che
furono sedotti a calunniare il loro ordine mercè grandiose pro-
messe di compensi. L'autorità del monarca era compromessa ,
e l'integrità de* soci giudici sospetta. Mal sapevasi in qual modo
dar compimento a tale processo, imperciocché la prova della
reità dei prevenuti dipendeva dalla confessione dei medesimi ;
essendoché in nna giurisprudenza feroce ed assurda che am-
melte la tortura , se la confessione strappata ad un innocente
basta a farlo condannare alla morte, il coraggio e l'ostinazione
di colui che persiste à negare servono di prova della sua in-
nocenza.
Si tacque il nome di chi suggerì il consiglio di considerare
come rilassi coloro che ritrattarono le confessioni fatte sotto i
tormenti della tortura, ma vuoisi che venisse dalla facoltà teo-
logica di Parigi.
— « —
< U re; per dar oomìodaiDenlo alle esccuikuik dice il Viìbnu
io un grande piroo fece legare , dasc^ino aii nn (^lo . dn-
qaantasei de* delti tempieri, e fece aietter fuivo a' ^Mivli « i\\ a
poco t poco r ano ionaoii Tallro ardei>e . amaìoneiutoU ch<^
quale di loro volesse riconoscere Terrore, il percìto siu\ |v^tosse
scampare, e in questo tonnent;), confortati dai 1oi\> (vin'nlì t
amici che riconoscessero e non sì lasciassero Cvv^i >ilnuMìto
morire e guastare « ninno di loro il volle confe^^^^re « lua con
pianti e grida si scusavano comperano innocenti di cii> e U\\o\\
cristiani , chiamando Cristo e sant;) Maria e f\\ altri santi . e
col detto martirio tutti ardendo e consumando tìninn\o la
vita. >
Clemente aveva acconsentito a questa prima osoouxiono»
che fu ben tosto da altre susseguila. l\ìrcva che |>i)tesso questa
essere Tultima concessione che Filippo volesse carpirgli |>riu)a
di lasciarlo partire da Poitiers.
Nel mese d'agosto parli Clemente per alla volta di \V)V\\{\
ove sperava di respirare più liberamente lontano da Filippo »
che era Tincubo che gli pesava sul cuore, aspettando ivi Topoca
della riunione del concilio di Vienna. Mentre in Poitiers Cle-
mente aveva potuto ottenere un ordine da Filippo col (pialo
comandava agli amministratori dei beni dolf ordino di conso-
gnarìi ai delegati spediti dal papa , dovette In compenso faro
una bolla nella quale lanciava le censure contro tulli coloro
die ospitassero qualche templario, e che, conosciuto, non lo
consegnassero airinquisitore.
Sebbene Filippo avesse goduto della sua feroco vnndnttn •
la voluttà provata rlesciva minore della sua sete di sanKUo.
Liberatosi da tutti coloro che aveano dichiarate falso lo con*
fessioni strappate coi tormenti, rimanevano ancora In carcero
altri templari, fra' quali si trovavano i dignitari dell' ordino. Il
papa calorosamente insisteva perché fossero consegnati al giu-
dizio suo, e Filippo aderì alFinchiesta , per la ragiono elio si
trattava di un ordine non solamente forte e numeroH(i In Fran-
eia, ma quasi in tutta Europa.
Nei mese d'agosto del 1309 Clemente inslitul una cornrni/<'
sione composta dell'arci vescovo di Narlxina, dei venerivi di ìhi-
veni , di Mende e di Limoges, degli arcidiaconi di Itouen , di
Trento e di Magoelonne per ricominciare di liei nuovo il pro-
cesso contro tutto l'ordine dei templari.
I commissari del papa si riunirono in P^irìgi, e VH ì\7i^%<ì'
- 94 —
Sto citaroDO IMntiero ordine dei templari a comparire al loro
tribunale, nella sala dell'arcivescovado di Parigi il 12 novembre.
La citazione fu spedila in tutte le Provincie ecclesiastiche della
Francia. Il 22 novembre Giacomo di Molay fu condotto al co-
spetto de'commissari del papa, e costoro cominciarono l'inter-
roga torio; ma l'orrore della lunga prigionia, la fame e la tor-
tura sofferta, avevangli in sifibtto modo turbata la mente che
dovettero desistere e rimandarlo dichiarando d'averlo trovato
ebete e di non giusto intendimento (1).
Dopo tre giorni fu nuovamente condotto innanzi ai giudici,
ove ricominciarono l'interroga torio. Molay rispose : < Che da
dieci anni esercitava il grado di gran maestro dell'ordine e che
nello stesso non aveva mai riconosciuto che esistesse verun
disordine, ch'egli sotlomettevasi al giudizio de' prelati, non avendo
nella sua poverezza denaro per procacciarsi un difensore. »
I commissari l'ammonirono che, trattandosi d'eretica pra-
vità, non gli era permesso d'usare del magistero d'un avvocato,
e ch'egli prendesse conoscenza del pericolo che correva accin-
gendosi alla difesa dell'ordine, imperciocché dopo quanto aveva
confessato sarebbe stato dannato al rogo come relasso. Gli fa
Ietta in allora la' sua deposizione tal e quale tre cardinali de-
putati dal papa asserirono di averla ricevuta, e compiuta la let-
tura della medesima, egli si fece il segno di croce per la me-
raviglia e rispose : t Che se i cardinali fossero d'altra qualità,
saprebbe ben lui cosa doveva rispondere. > Ed ^essendogli stato
risposto : e Che i cardinali non erano nomini di ricevere una
mentita od una disfida » *; ripigliò Molay : • Che non intendeva
dir ciò, ma che solamente pregava Dio che usasse verso essi
quanto si suole fare dai tartari e dai saraceni contro i menti-
tori, che fanno loro troncare la testa e sparare il ventre. »
I commissari passarono dopo airinterrogatorio di Ponsard
di Gissiac, che tenea ragguardevole dignità nell'ordine e che si
era offerto ad %issumere la difesa di tutti, e che toglievasi a
compagno Rinaldo d'Orléans e Pietro di Boulogne cavalieri fra-
telli dell'ordine. Ma furono troncate in bocca anche a lui le
parole, e dovette chinare il capo contro la preponderanza della
forza, contro la quale si rompe ogni ragionamento.
Frattanto erano stati condotti a Parigi i principali dell'or-
dine che languivano per le diverse prigioni della Francia. Som-
(!) Faluus et non bene compas mentis, Dupuy.
Condanna dei TcrapUri.
— 95 —
mavano costoro a settantaquattro; tutti disposti a difendere il
loro ordiDO ed a respingere le calunniose accuse che erano con-
tro lo stesso state iniziate, ed offrivano in prova il fatto che
nessun templario fuori di Francia non aveva manifestato cosa
che Tordine compromettere potesse, per la ragione che nessuno
era stato martoriato dalla tortura, come a rincontro fu prati-
cato con essi, e chi mostrava le braccia penzolanti e slogate
dalla corda, chi facea vedere le lunghe cicatrici prodotte dalle
tenaglie infuocate, chi altre vestigia orrende pei soderti tormenti.
I commissari! chiamati dal papa continuarono le loro inve-
stigazioni, e dal mese d'agosto del 1309 al maggio 1311 esami-
narono duecentotrent'uno testimoni, parte all'ordine apparte-
nenti, parte stranieri, che erano già stati sentiti in esame dai
rispettivi ordinari. La maggior parte rettiQcarono le fatte depo-
sizioni. Otto fra loro dichiararono che, per cavare da essi
quanto meglio si desiderava, si faceano loro vedere lettere col
suggello del re, per mezzo delle quali si dava la certezza della
vita e di libertà se avessero confessato sinceramente. Soggiun-
gevano che perfino fu loro promessa una pensione vitalizia nel
mentre loro veniva mostrata la sentenza colla quale Tordine
era condannato.
II templario Aimery di Villars disse : Ch'egli aveva depo-
sto il falso, spinto dai tormenti coi quali lo martoriavano L.
di Marcilly ed Ugo della Cella, cavalieri deputati del re, e che
allorquando vide cinquantaquattrò fratelli delPordine sulle car-
rette essere condotti al rogo per non aver voluto confessare
nulla, rimase molto meravigliato e commosso, ed il timore del
fuoco gli fece dire ciò che non doveva e noa poteva asserire. »
Nel mentre i commissari del papa esaminavano i templari
per stendere il rapporto che si dovea leggere al concilio di
Vienna, il quale dovea decidere della sorte delfordine, fu giu-
dicalo opportuno il radunare i concili! provinciali per sbaraz-
zare le prigioni che rigurgitavano di captivi. 11 concilio della
provincia di Sens fu radunato a Parigi e sentenziò quelli mede-
simi ch'erano stati posti sotto disamina dei commissari del
papa, tranne ildignitari dell'ordine, la cui sorte dipendeva dalla
decisione del concilio di Vienna.
Il concilio provinciale pronunciò la sua sentenza in pubblico
neiranno 1311. Coloro fra i prigionieri che aveano fatte tutte
quelle testimonianze che voleano gli inquisitori furono assolti;
alcuni altri condannati a carcere temporario o perpetuo. Sem-
— 96 —
bra però che fra costoro si trovassero quei templari che, dotati
di membra vigorose, seppero tollerare Io strazio della tortora
senza nulla confessare; ma coloro che fra i tormenti avevano
confessato e poscia negato, furono come relassi degradati dal
vescovo di Parigi e consegnati al braccio secolare. Cinquanta-
nove furono le vittime condannate al rogo, ed il 12 maggio 1311
fu eseguita la sentenza fuori della Porta di Sant'Antonio, e fra
le fiamme che li consumavano non facevano che protestare la
propria innocenza. Gli altri concilii provinciali lessero pubblica-
mente la loro sentenza, ma non venne fino a noi tramandata
se non quella di Sens, né ci è noto il numero delle vittime pe-
rite negli altri.
Anche fuori di Francia erano stati radunati concilii provin-
ciali, ma in questi i templari furono assolti. Nessun testimonio
erasi presentato a deporre contro l'ordine, e non si adoperò da
essi l'infame mezzo della tortura per strappare ai cavalieri con-
fessioni che venivano poscia contradette o distrutte. Due inqui-
sitori di Francia aveano frattanto chiesto al concilio di Ravenna
d'interrogare i cavalieri mediante i tormenti, ma i vescovi che
lo componevano, non vedendo indizi criminosi contraessi, non
aderirono. Nello stesso modo si comportarono i concilii di Sa-
lamanca e di Magonza.
Non rimaneva più oramai se non di decidere della sorte del-
Tordine e di quella dei pochi dignitari che erano ancora soste*
nuti nelle carceri di Francia, la quale decisione doveva essere
pronunciata dal concilio di Vienna; ma la diversità delle sen-
tenze fatte dai concilii di Francia sulla medesima causa, e quelle
pronunciate da esteri Stati, in luogo di appianare le difiicoltà ,
le aumentava; per il che Clemente V pubblicò una bolla, colla
quale procrastinava fino al 1 ottobre 1311 la riunione del con-
cilio di Vienna.
CAPITOLO III.
Frooaiio alla memoria di Boaifaoio TIII.
OoBoilio di Vienna.
iDdarno Clemente V ed i prelati di Francia avevano immo-
lato sui roghi tante vittime di cavalieri del Tempio per placare
rodio e soddisfare all'orgoglio di Filippo il Bello. A questo fe-
roce non bastava la sua vendetta , non si trchrava soddisfatto ;
egli voleva estenderla fino sul capo della Chiesa per mostrare
a'suoi sudditi ch'era diritto imperdonabile voler cozzare contro
la sua volontà e resistere alla sua possanza. Nel i:^ rinnovò
le sue istanze a Clemente V nerchè condannasse all'infamia la
memoria di Bonifacio Vili. Filippo volea raumiliare la corte di
Avignone, e, fisso come chiodo nel muro, non allentava un
ponto solo della fatta deliberazAne.
Clemente V quando partiva da Poitlers avea dichiarato che,
non appena si fosse restituito ad Avignone » avrebbe ammes<(o
all'udienza tutti coloro che intendevano deporre contro il suo
predecessore. Reginaldo da Supino, cavaliere ed uno dei capi
della spedizione d'Anagni, si pose in vìa con numero conside-
revole di testimoni, ch'egli avea a bella posti radunali, accioc-
ché fossero assunti in esame. Ma allorquando egli s'avvicinava
ad Avignone i suoi amici, nonché i partigiani del re di Francia
gli si fecero incontro ad avvisarlo che non lungi dalia città una
buona mano di armati gli aveano tesa un'imboscata e correva
perìcolo d'essere ucciso qualora si fosse approssimalo ad Avi-
guone con tutta la comitiva di testimoni clic seco eondoceva.
Tamii. ImquU. Voi. II. 13
— 98 —
Costoro, fosse per la coscienza che andavano a compiere un atto
criminoso, fosse per timore del pericolo che altri dicevano corres-
sero, sì sbandarono, né pel quanto facesse, Reginaldo polè ve-
nire a capo di tenerli con sé. Allora questi si recò a Nimes, e
riuniti i maggiorenti della città , protestò al loro Cospetto per
mezzo del magistero notarile contro Timpedi mento ch'era stato
frapposto alla procedura, non senza incolpare indirettamente
il ponteQce delPimboscata tesagli come si andava buccinando.
Clemente, che ricovrandosi in Avignone aveva creduto di
sottrarsi per qualche tempo almeno alla ferrea mano di Filippo,
dopo la protesta di Supino fu preso dal consueto spavento e
scrisse a Carlo di Valois perchè si intromettesse onde calmare
lo sdegno del fratello, assicurandolo e^ser sua mente di grati-
ficarsi r animo del re e che gli stava a cuore al pari di chic-
chessia r affare del suo predecessore Bonifacio che gli avea
costato tante lagrime ed angosce da non dire , ma che tale
negozio era scabrosissimo qualora Filippo non lasciasse tutta la
cura di finirlo alla Chiesa.
Ma Filippo non era uòmo da fermarsi alla buccia delle
cose; scrisse quindi di nuovo al papa lagnandosi seco che il
processo non progrediva, e che intanto (e prove scemerebbero,
e che molti dei testimoni potevano morire. Clemente V, sempre
spaventato per la possanza e la violenza del re di Francia ,
risposegli una lettera piena di unzione ed umiltà cdlla quale
assicuravalo della sua deferenza e servitù. Per non rimanere a
parole , alle quali nessuna fede prestava Filippo , il pontefice
pubblicò una bolla colla quale invitava a presentarsi tutti coloro
che aveano qualche cosa a deporre in giudizio contro Bonifacio,
e fissava il primo giorno di u(fienza dopo la festa della Puri*
flcazione per accogliere le deposizioni e le accuse del re Filippo,
di suo figlio Luigi, dei conti d'Evreux, di Guglielmo di Plosians
cavaliere e commissario del re.
Questa bolla in luogo d'acquietare l'animo di Filippo rìn-
cappello il suo sdegno, apparendo dalla stessa il dubbio ch'egli
fosse accusatore e come tale citato dal tribunale ecclesiastico;
cosa importabile per essolui , che non voleva assoggettarsi a
giurisdizione veruna e che voleva che si credesse da tutti non
nutrire egli animosità veruna contro la memoria di Bonifacio.
Obbligò quindi Clemente V a pubblicare un' altra bolla , colla
quale annullava la precedente, dichiarava che il re di Francia
non agiva che per zelo per la verità e per la giustìzia, in modo
— w —
che aTea benà sollecitato il pontefice a sentire gli accasatoli,
ma ch'egli non entrava nel novero dei medesimi.
Né a ciò limitò le sue pretensioni Filippo» ma costrinse il *
ddtole pontefice a pubblicare nn* altra bolla , colla quale pro-
metteva d' accordare piena sicurezza ed il più assoluto segreto
a tutti i testimoni che volessero deporre contro la memoria
del papa Bonifacio Vili.
Guglielmo di Nogaret e Guglielmo di Plasians assunsero
da soli rincarico deiraccusa, imperciocché i conti d'Evreux, di
San Paolo e di Drenx imitarono V esempio di Filippo, dichia-
rando di rimettersi in tale negozio interamente alla prudenza
del santo padre.
Intanto però che il re voleva apparile giusto e moderato
presso il pubblico, travagliava a tuiruomo secretamente perchè
i due commissarii procedessero con tutta alacrità a raccogliere
e far valere tutte le calunnie ed imputazioni che una turba
d'aflhmati paltonieri andava spargendo per aver denaro. Mala-
gevole si è per noi lo stabilire giudizio basato su documenti,
essendone stata la maggior parte distrutta, ma nulla meno cer-
cheremo di compendiare quanto di più importante ci è rimasto,
in modo che se non apparirà il vero in tutta la pienezza della
luce, potrà il lettore stabilire criterio suUMnverosimiglianza e la
calunnia delle accuse, e conoscere in gran parte Topera tene-
brosa di Filippo. Fra tutti i documenti che rimangono, quelli
di maggior importanza sono intitolati: 1. Articoli e ragioni di
diritto contro Bonifacio. 2. Articoli e prove contro Bonifacio.
Il primo di questi documenti contiene vent'otto capi diffe-
renti d'eresia ; il secondo novantatre. Per generare giusta idea
della calunnia delle accuse e per mostrare che alle volte il
voler troppo aggravare con menzogne la verità per far condan-
nare od infamare la memoria di alcuno, si riesce ad opposto
fine, ne riproduciamo alcune.
Gli avversari compri di Bonifacio lo hanno accusato di non
credere neir immortalità dell'anima, di negare la presenza di
Gesù Cristo neirEucaristia, di aver più volto dichiarato di non
considerare peccato la sensualità, d'aver dato ragione alle mas-
sime d'Arnaldo di Yilleneuve state condannate dairinquisizione
di Parigi, d' aver fatto innalzare statue in proprio onore per
indurre i popoli neiridolatria, di prestar fede alla negromanzia,
d'aver sostenuto che un papa non può farsi reo di simonia, e
di avere perciò fatto vendere tutte le dignità ecclesiastiche da
- 100 —
limone Spini Oorentino , d* aver fatto commettere molti orni-
cidii in sua presenza, d'aver fra gli altri fatti uccidere dorante
il giubileo più di cinquanta pellegrini dalle sue guardie perchè
gringombravano.il passo quando un giorno si recava da San
Giovanni Laterano a San Pietro» d'aver costretto molti confes^
sori a rivelargli i peccati di alcune persone, d'aver mangiato di
grasso nei giorni di digiuno e d'aver permesso a tutti i suoi
servi di fare altrettanto, d'aver tacciati i frati come ipocriti ed
impostori, d'aver abbassato i cardinali rifiutando di consultarli
negli affari ecclesiastici, d'aver cercato di porre i regni a soq-
quadro per schiacciare ciò ch'egli chiamava orgoglio gallicano,
d'aver contribuito alla perdita di Terra Santa, appropriandosi il
denaro che doveva essere adoperato in difesa di essa, d'aver fi-
Daimente fatto sostenere in carcere e forse morire il suo pre-
decessore Celestino V.
Fra i numerosi testimoni che si radunarono per sostenere
simili accuse faceano parte due monaci di San Gregorio di Boma
che raccontavano come si fossero recati un giorno da Bonifacio
per denunciare il loro abate a cagione delle sue empie dot^
trine. Negava questo abate l'immortalità dell'anima e sostenevi
essere l'accoppiamento dell'uomo colla donna bisogno innocente
della natura; e Bonifacio dopo di aver loro chiesto se avevano
mai veduto a risuscitare un morto licenziolii dicendo loro:
< Andate e credete ciò che crede il vostro abate ; siete motto
indiscreti a volerne sapere più di lui. >
. MoUi ecclesiastici e giureconsulti napoletani riferiscono di-
versi detti pronunciati da Bonifacio alla loro presenza. Fra gli
altri d'averlo udito a tacciare di contraddizione i dogmi profes-
sati dalla Chiesa cattolica , e dire che la fede era buona per i
gonzi e pel popolaccio, ma che gli uomini di dottrina e d'inge-
gno non poteano adattarvisi.
Certo frate Bernardo da Soriano asserisce d' aver veduto
dalla sua finestra che Bonifacio allora notajo apostolico stava
sagrificando un gallo al demonio che gli era apparso, ed aveva
col medesimo tenuto lunga conferenza. Attestava di averlo ve-
duto ad adorare un idolo nella sua camera nascosto dietro una
4X)rtina e finalmente di averlo inteso, otto giorni prima di mo-
rire, dire che l'anima muore col corpo, e bestemmiare eziandio
contro la Vergine e il suo Figlio.
. , Notte Bonaocorsi di Pisa dichiarava d'avere egli slesso più
mÀto condotto a giacere con Bonifacio prima sua moglie, poi
- 101 —
6Qa figlia, e che avevali yedati in letto commettere atti che il
tacere è bello.
Guglielmo Calatagirone, nobile siciliano, asseriva d'aver ve-
duto la moglie e la figlia di Bonaccorsi giacere con Bonifacio ed
indicava Nicola di Pisa cavaliere del papa siccome altro mezza-
no delle lascivie di Bonifacio , che al pari di Bonaccorsi aveva
prostitnito la moglie e la figlia a Bonifacio.
Questi testiau)ni confessando la propria infamia distrag-
gono la verità deiraccusa e mostrano d'essere stati compri dal-
l'oro di Filippo.
Altre accaso furono fatte a Bonifacio , ma cotanto invero-
simili che non vale U riprodurle.
L'istruzione del processo cominciò il 16 marzo 1310. Cle-
mente y in quel giorno tenne concistoro ed ammise al mede-
simo, siccome accusatori, Guglielmo di Nogaret e Guglielmo di
Pbsians, fiancheggiati da due ambasciatori del re di Francia. 1
parenti di Bonifacio presentavansi anch'essi per difendere la sua
^nemorìa, e quindi entrarono nel gineprajo delle legali ecce-
zioni.
Nogaret e Plasians vollero esclusi molti cardinali siccome
aderenti a Bonifacio, chiesero al papa che fosse data fede ai te-
stimoni da loro introdotti, che sarebbe il loro nome tenuto se-
gretissimo a motivo del pericolo al quale si trovavano esposti
per la loro testimonianza.
Dal canto loro i parenti di Bonifacio sostenevano che il papa
non poteva essere giudicato se non da un concilio ecumenico.
Nogaret e Plasians risposero che le leggi stabilite per l' inqui-
sizione ammettevano ogni specie d'accusatore quando trattavasi
d'eresia e non concedevano, difensore all' accusato : per il che
non poteva avere Bonifacio, morto imputato d'eresia, quello che
non gli era concesso vivo. In tal modo le leggi crudeli for-
mulate da un cieco fanatismo venivano dall'Inquisizione rivolte
contro coloro che n'erano stati primi fondatori.
Molti testimoni erano stati esaminati dai commissari, molti
altri dal grande inquisitore Bernardo Guidone, ed intanto Cle-
mente V si trovava avvolto in gravissimo impaccio.
Se condannava la memoria di Bonifacio Vili, era lo stesso
die scuotere dai cardini la Chiesa, imperciocché i cardinali da
quello nominati non sarebbero stati secondo le leggi canoniche»
ed i conclavi ai quali aveano assistito con voto deliberatorio in
hcda alle leggi ecclesiastiche non potevano valere; e finalmente
Clemente V non poteva essere considerato come legittimo pon-
tefice quando il voto de'saoi elettori era vizioso nella sua ori-
gine. Àrrogesi a questo il terribile bivio in cui si trovava, im-
perciocché , per assolvere Bonifacio , era mestieri accusare (U
mendacio e di calunnia Filippo « sno figlio ed i proceri del
regno.
In tale frangente non sapeva come condursi Clemente; venne
a toglierlo da quella desolante posizione Filippo, il quale, se
non poneva in^non cale Bonifacio, mostra vasi non più tanto
inviperito contro di lui, distolto da questo scopo per la calata
d'Enrico VII in Italia, che gli dava rangole in materia più so-
stanziale, temendo che V imperatore di Germania prendesse a
proteggere il papato, il quale ha sempre fornito pretesto ai di-
versi potentati di venire alle mani. Filippo adunque acconsenti
che i suoi ministri acconciassero la lunga controversia.
Purché la corte di Roma dichiarasse che fosse riconosciato
il suo procedere e quello de' suoi ministri puro ed onorevole,
prometteva di tenersi per soddisfatto, dopo la quale dichiara-
zione avrebbe potuto Clemente pronunciare la sentenza, che
Teresia di Bonifacio non era bastantemente provata.
Fu preparata dalla corte di Francia la modula della bolla
e mandata a Clemente perché vi apponesse la firma. Allora Cle-
mente con sottile artificio pubblicò una bolla, colla quale ren-
deva elogi a Filippo ed alla sua corte per aver data facoltà a
lui di por termine alla controversia e nel medesimo tempo pro-
sciogliere Bonifacio dalla taccia d'eresia che gli era stala fra le
altre colpe apposta.
Lo storico non può quindi farsi giudice inappellabile fra
tanta oscurila di ragioni che militano prò e contro; solamente
può asserire che se Bonifacio per avventura ha dato presa alla
maldicenza ed alla censura, vi fu anche improntitudine per
parte di Filippo e de'suoi ministri.
Dopo di avere troncato questo processo, pareva a Clemente
d'essere rinato, ed alla sua volta si preparava a dar nuove sod-
disfazioni a Filippo.
Rimaneva d'ultimare il processo che riguardava i templari
che già da anni languivano nelle carceri. Ma TatTare era com-
plicatissimo; imperciocché se le più gravi accuse date contro
l'ordine dei templari avevano preso corpo nei tribunali dipen-
denti da Filippo il Bello, i concili provinciali però, che non te-
mevano del suo influsso, aveano dichiarate quelle colpe insus-
sistenti e calunniose.
— 103 —
11 concilio di Vienna essendo radunato, nullameno andava
procrastinando la decisione che riguardava l'ordine del templari;
per il che Filippo, dopo aver tenuto assemblea coi nobili in
Lione, si recò a Vienna per spronare colla sua presenza i pre-
lati a- pubblicare finale sentenza. ,
Bernardo Guidone, ch'era Tinquisitore scelto da Filippo per
definire il processo de'templari, narra: e Che il pontefice chiamò
molti prelati in concistoro segreto, tenuto il 22 marzo, in un
coi cardinali, e colà per via di provvisione, anzi come condanna,
abolì l'ordine deUemplari riservando a sé stesso ed alla Chiesa
la facoiià esclusiva di disporre dei loro beni e delle loro perr
sona.
Il 3 aprile seguente celebrò la seconda riunione del con-
cilio nella quale fu pubblicata T abolizione dei templari dallo
stesso pontefice alla presenza del re di Francia Filippo, non-
ché di quella di Carlo e dei tre figli del re. In tal modo ebbe
fine Tordine del Tempio dopo aver combattuto centoventiquat-
tro anni e d'aver ammassate ricchezze straordinarie e d'esser
stato insignito di privilegi dalla sede apostolica. Da questo lin-
guaggio di leggieri si comprende che Guidone, come giudice
inquisitore, non era ben convinto della colpabilità dei prigio-
nieri; e Tolomeo di Lucca, altro istorico ecclesiastico contempo-
raneo, non pare esserlo più di questi, allorché dice : < Che i
prelati, richiesti dal sovrano pontefice, convennero dì pronun-
ciare sentenza su i templari senza però loro accordare un'udienza
di difesa. >
Leggendo la costituzione apostolica per la soppressione del-
l'ordine, datata 6 marzo 1312, si conosce essere più presto una
concessione fatta per deferenza alle istanze d'un potere avverso,
anziché atto di giustizia. Clemente V dichiara: e Che le con-
fessioni ottenute in giudizio da molti dei fratelli dell' ordine,
rendono l'ordine sospetto; e che l'infamia divulgata, i sospetti
generali e veementi, e specialmente l'accusa portata dinanzi a
Clemente dai prelati, duchi, conti, baroni e comunità del re-
gno di Francia hanno cagionato gravissimo scandalo, che non
si potrebbe distruggere fino a tanto che l'ordine esistesse. Die-
tro tali considerazioni egli sopprimeva di suo pieno potere, e
non per sentenze definitive, imperciocché non potrebbe farlo
di diritto, in forza dell'inquisizione e processi esistenti.
Con altra costituzione apostolica il papa trasmetteva all'or-
dine degli ospitalieri tutti i beni posseduti dai tem][)lari, come
- 104 —
esistevano al momento del loro arresto. Mai cavalièri di San
Giovanni di Gernsalemme, prima d'entrare in possesso dei me-
desimi» furono obbligati a pagar somme enormi tanto al re
Filippo quanto agli altri principi che gli aveano usurpati , di
modo che Tordine, ben lungi dalFessere arricchito da tale coik*
cessione» si trovò più povero di prima.
Alla condanna dei templari tenne dietro la dichiarazione
fatta dal concilio che Bonifacio Vili era stato un pontefice legit-
timo, e che non erasi macchiato né d'eresia né d'altra menda.
Tale esser doveva il risultato dei negoziati dell'anno precedente
fatti tra la corte di Francia e Clemente V.
Per dare al concilio carattere imponente in faccia alla cri-
stianilà, si annunciò il disegno di ricuperare Terra Santa mercè
una nuova crociata, per la quale dichiaravano Filippo il Bello
ed Edoardo II re d'Inghilterra di recarsi in Palestina a liberare
il santo sepolcro dalle mani degl'infedeli.
Il concilio di Vienna si occupò eziandio d'una setta dairin-
quisizione riprovata , chiamata società dei beghini. Gli addetti
alla medesima si dedicavano interamente alla vita ascetica e si
distinguevano alla semplicità del loro vestire ed alla severità
dei loro costumi.
L' Inquisizione era venuta in cognizione come costoro si
scostassero dai canoni della Chiesa relativamente alla grazia e
giudicassero inutili alcune pratiche religiose, come sarebbe la
cieca obbedienza al sacerdozio, il credere alle beate visioni ed
all'adorazione dell'Eucaristia.
L'Inquisizione, che aveva potuto scoprire numerosi accoliti
di questa setta nelle prnvìncie di Lione e dì Besanzone, armata
di tutto punto scese in campo a dislruggerii. Quindi nuovi pro-
cessi, nuovi tormenti e continue vittime sacrificate sull'ara del
fanatismo.
Nuova esca trovò l'Inquisizione in Francia, mercè Tinstan-
cabile zelo e la non mai saziata sete di sangue di Filippo.
L'Inquisizione per ordine di Filippo il Beilo fece arrestare
Margherita della Porrelta, donna istrutta, saggia e religiosissima^
nativa di Hainaut, stabilita a Parigi, che aveva scritto un libro
intorno all'amore di Dio, nel quale gl'inquisitori scoprirono er-
rori che furono più tardi rimproverati a Fénéion. Chiamata
Margherita innanzi al tribunale dell'Inquisizione, fu diffidata di
abjurare le dottrine che si trovavano sparse nel suo libro; ma
la donna si' rifiutò di aderire ai voleri deirinquisizione, per il
-los-
che Tenne sostenuta in carcere e, dopo un anno di lormenti
atrocissimi, ai quali con virile animo seppe resistere, fu condan-
nata al rogo. Per dare V Inquisizione maggior fama ed appa-
rito imponente al martirio, ebbe scelto il primo giorno delle
feste della Pentecoste del 1311 per consumare anche questo
delitto. Fu condotta la povera donna a piedi scalzi dai carne*
flci in mezzo agli arcieri alla piazza di Grève, e quivi salita
coraggiosa sulla pira, fu abbruciata.
Per darle un compagno nel supplizio, Filippo fece condan*
Dare un ricco d)reo, ch'era convertito alla fede cattolica, tac-
ciandolo di relasso; cosi il re s'impadroniva dei beni della vit^
tima , e fu condannato a perpetua prigionia un fanatico che
diceva essere Tangelo di FiladelQa.
Arnaldo di Villanova , provenzale , medico e professore a
Parigi, spaventato dai rigori delUnquisizione, ricovrò in Sicilia,
ove mori. Per dare meno inesatta Fimagine del sanguinario Fi-
lippo, narreremo quanto operò in famiglia.
Il suo primogenito re di Navarra avea sposato Margherita
figlia di Roberto duca di Borgogna; Filippo, conte di Poitiers,
Giovanna, figlia di Ottone IV conte di Borgogna, e Cario terzo-
genito avea impalmato Bianca figlia del medesimo Ottone. Corse
in corte di Filippo una voce che le sue nuore avessero infranto
il coniugale giuramento. Egli sospettoso e cupido di trovare
ovunque delitti per vedere in ogni luogo vittime e patiboli ,
denunciò ai tribunali Filippo e Gualtieri di Lunay , fratelli ,
come seduttori delle nuore. Furono sostenuti in carcere e posti
alla tortura, confessarono non solo la colpa della quale erano
imputati, ma soggiunsero d'averla più volte commessa in luogo
sacro. Bastò perchè Tlnquisizione vi ponesse gii artigli. Furono
quindi i fratelli Lunay condannati a morire in una spaventosa
maniera. Fu loro prima levata la pelle fino a mela vita , indi
mutilati, poscia appesi per le ascelle, e rimasero cosi malconci
finché la morte impietosita venne a por fine ai loro tormen-
tosi dolori. Né colla morte di essi ebbe termine lo sdegno di
Filippo. Un usciere, accusato di avere loro prestato qualche
favore, fu loro terzo nel patibolo ; ed a costoro tennero aietro
iodistintamente nobili e popolani, alcuni accusati di aver tenuto
mano alFsidulterìo delie principesse, altri di aver conosciuto il
delitto senza denunciarlo. Si ponevano tosto alla tortura, ed i
carnefici avevano talmente perfezionata la loro arte infernale»
che se gli accusati non perivano fra i tormenti, poco dopo mo-
Tamb. Inquis. Voi li. 14
— i06 —
rìTano o in consegoenza dì questi o condaDoati, gli ani cadi
in un sacco e gettati nella Senna» altri erano nelle prigioni
strozzati ed in gran nomerò al rogo.
San Giorgio» sebbene tcscovo e deirordine dei domenicani
accasato di conoscere il colpevole procedere delle principesse;
ed avendo omesso di denunciarle, fa posto in carcere, e non
se ne seppe più novella.
Luigi fece strangolare Margherita ; Carlo obbligò Bianca a
cingere il velo neirabbazia di Maobisson, e Giovanna, avendo
ricevuto in dote la Franca Contea, che dovea essere restituita
al fratello di lei ove fossele rimasto superstite, per Tavarizia
del marito, campò la vita.
L'ordine dei templari era distrutto; la maggior parte dei
suoi membri era perito m\ rogo o fra le torture o di fame in
prigione. Solamente il gran maestro ed i dignitari delPordine
penarono fra lo squallore del carcere e furono : Giacomo di
Molay gran maestro, che Filippo aveva in altri tempi scelto per
levare al fonte battesimale uno dei suoi figli; Guy, commenda-
tore di Normandia, figlio del delfino d'Alvemia ; il commenda-
tore d'Àquitania, ed il Visitatore di Francia. Filippo un giorno
si ricordò di loro per spedirli al rogo.
CAPITOLO !¥•
BseeazioBe dal fraa maestro de' tempieri.
Era il 15 marzo dell'aDDo 131 4» e quantunque una fredda
e densa nebbia sopravenuta a pioggie dirotte diffóndesse un
malinconico tenebrore sulle contrade di Parigi, pure offerivano
esse fin dal cominciar del mattino il più animato spettacolo.
Era un gridar d'impazienza, un andare e venire, un esclamare
di sorpresa, un trambusto di carri trascinati da mule qual da
luogo tempo non s'era veduto regnale, e che facea singolare
contrasto collo squallore delle strade fangose, delle ctìiuso bot-
teghe, del cielo caliginoso. Una turba di villani accorsi dal bor-
ghi vicini, che distinguevansi alla lunga barba ed al capelli
pendenti, di mendicanti, di monaci, di donne, di vecchi e fan*
dnlli ingombrava le vie. Scorgeansi qua e là appostarsi a caiH)
di quelle gli arcieri della prevostura colle loro alabarde, i ser*
genti d'armi colla clava ferrata e colla giubba a manictie pen-
zolanti, ed alzarsi di mezzo alla folla i lunghi pennacchi dei
cavalieri baccellieri e banneretti che si facevan largo colla punta
dei loro pennoncelli; in una parola tutte le condizioni, tutte
le età mostra vansi in quella immensa adunanza, simile ad uno
di quei gran mercati marittimi ove convengono i rappresentanti
di tette le regioni del mondo. Sarebbesi detto o che la citti
fosse minacciata d'incendio, o che contro a Filippo il Bello si
fosse concitata una sollevazione sol far di quella che era scop-
piata alcoBi anni addietro per avere di doe terzi accresciuta! il
valore delle monete.
— 108 —
Ma ravvenimento di quella giornata non toccava le sorti dd
Parigini ; solo era tale da destarne la curiosità ed il terrore. Le
turbe non dirigevano i loro passi alla residenza del re, sibbene
verso le rive della Senna, alla piccola isola di La Goordaime
o dei Giudei , situata fra i regi giardini ed il convento degli
agostiniani, ove è adesso la piazza delfina e la statua di En-
rico IV. I viottoli di Nazareth e di Betlemme, gli aditi tatti
che mettevano a quel solitario luogo erano zeppi di gente :
quello diventato era la meta di tutti i motimenti, il centro della
universale attrazione, né il ponte che alla città congiungevalo,
né le molte barche ivi adunate bastar potevano a sfogo del-
Tinnumerevole popolo di curiosi. S'udivano chiamar fortunati
coloro cui il privilegio della dignità o dei natali guarentiva i
posti migliori; s'udivano invidiare le nobili donne alle quali
doveano probabilmente servire le logge innalzate rimpetto alla
piazza deirisola. Invidiate I e perchè ? Traltavasi forse di qual-
che nazionale esultanza per conseguite vittorie? o di qualche
splendido torneamento, in rai una di loro aspirasse al vanto
di venir proclamata regina degli amori e della bellezza ? No
eertamente, perocché, in luogo delle note assise dei piii famosi
campioni, in luogo delle variopinte bandiere sciorinate in segno
di gioia e del suon delle trombe e dello scalpito dei cavalli» un
cupo ma operoso silenzio regnava nelUsola dei Giudei, e la
fitta mano d'armati che ne guardava il recinto pareavi piatto-'
sio a difesa che a far bella mostra di sé. Unici trofei colà io
quel piazzale erano due ampie cataste di legna sormontate da
pali da cui pendevano catene, unica insegna un nero vessillo,
ifì cima al quale torreggiava la mano della giustizia scolpita in
legno dorato, e questa lugubre pompa accennava abbastanza
come un dramma di sangue stesse per aver compimento.
Ed infatti, dopo alcune ore di aspettazione, ecco in lontano
adirsi lo squillo d*un corno e un fragoroso scricchiolar d'armi ;
indi a poco la voce degli araldi gridanti : — Indietro borghi-
giani ; indietro cittadini ; luogo cavalieri, fate luogo alla giustizia
del rei — Tutti gli occhi s'addirizzarono a quella parte: si
fece un breve silenzio, e a questo supcedette tosto un brulichio
più confuso in tutta la folla, che ricacciandosi a spinte contro
i muri delle case, lasciò a poco a poco sgombero della via tanto
spazio che bastasse a dar passo al lungo e mesto corteo che
lentamente si approssimava.
Apriva il cammino uno scudiere del re portante lo sten-
— 109 —
dardo auarro coi gigli d'oro» e dietro lai procedevano ciDqoaQta
soldati a cavallo capitanati da Roggero di Foix pipote di quel-
Taltro Roggero che trentanni addietro avea fatto omaggio spon-
taneo de'suoi dominii alla corona dì Francia. Seguivano indi
primi d'una schiera di cavalieri, di scudieri e di paggi, vari dei
più illustri personaggi di corte, i cui nomi veniansi ripetendo
da mille bocche nel loro passaggio. Carlo di Valois fratello del
re, Bertrando di Saint-Paul, Roberto di Goienne, Alano di Beau-
roanoir, Guglielmo Nogaret gran cancelliere del re, sul cui volto
sinistro mal si celava la gioia di un'assaporata vendetta. Tutti
costoro erano in arnese di guerra e colle insegne spiegate, ma
pia notevol di tutti per la baldanza del portamento e per la
ricchezza degli addobbi appariva l'impudente Enguarrando di
Harigny favorito del re, de'cui consigli in gran parte era ef-
fetto il crudele spettacolo che s'apprestava in quel punto. Con-
scio egli dell'odio in che universalmente era tenuto, rivolgea
a quando a quando sul popolo un infernal sogghigno di scherno
quasi a ricambio di mille tacite maledizioni, e prendea diletto
di cacciarsi col cavallo fra i gruppi più fitti di gente a goder
del loro scompiglio. Solo di tanti cortigiani accorsi quasi per
giustificar colki loro presenza i barbari decreti di Filippo, non
A scorgea ivi l'intemerato Gaucher di Chillon gran contestabile
del regno, abbenchò l'uffizio suo gliene facesse quasi un do-
vere; all'onesto cavaliere più che il corruccio del re avrebbe
gravato il rimorso di farsi vile approvatore di ciò ch'ei reputava
ÌQginstizia. Veniva dappoi una processione di domenicani e di
minoriti, alla cui testa era frate Guglielmo capo inquisitore di
Parigi, che si facea . precedere da un Cristo in mezzo a ceri
ardenti; indi seguitavano i cavalieri di toga o giudici del parla-
mento, e finalmente un'immensa calca d'uomini, di dònne, di
fàDciulli, i quali gridando — Veht i templari! vehl il gran
maestro i — precipitavansi fin quasi sotto i piedi dei cavalli per
contemplare in volto i prigionieri, senza che gli sforzi delle
guardie a cavallo e degli alabardieri valessero a contenerli in
buon ordine.
Jacopo Molay gran maestro dei templari veniva a piedi colle
mani legate, col capo scoperto, colla persona rivestita di logora
Ionica, in mezzo a quattro arcieri e con a fianco gli uffiziali
della giustizia.
La fisonomia di questo antico campione serbava l'impronta
di tutti i dolori, accusava tutte le torture fisiche e morali a cui
- 110 —
da tanto tempo era in preda. Mal si reggea sulle gambe, ma
il suo sguardo dignitoso senza arroganza, fermo senza ostenta-
zione, dava a conoscere che l'energia di un'anima usata a sfidare
là mòrte si era ridesta nel moniento più decisivo. Né differente
era il contegno del priore di Normandia, Guido fratello del
delfino di Viennois, che lo seguiva nella lugubre processione.
In contemplare quei due volti sformati da lunga barba , da
incolti capelli, macerati da veglie, da percosse, da stenti e più
che tutto dal pensiero di uno spaventevole fine, non era alcuno
fra i riguardanti che non sentisse o compassione o ribrezzo.
Finalmente dopo un' ora di cammino giunsero essi alla
meta del doloroso viaggio e stavano ancora i carnefici com-^
piendo gli estremi apparecchi del supplizio, mentre gli armati
si schieravano attorno alla piazza, ed in appositi palchi collo-
cavansi i giudici e i grandi della corona. Regnava in tutto quel
mare di gente il silenzio deiransielà, quando la voce sepolcrale
di Guglielmo di Nogaret, simile a quella dell'angelo della morte,
s'alzò ad interromperlo con questi accenti:
— 0 Iacopo di Molay , Guido di Viennois , le deposizioni
di veridici testimoni , le vostre confessioni e quelle dei vostri
fratelli v' hanno convinti di apostasia , d' idolatrìa , e d' ogni
genere d'abbomioazione. Il santo concilio di Vienna ha decre-
tata l'abolizione del vostro ordine, e l'Inquisizione vi ha rimessi
alla punizione del braccio secolare. Egli è perciò che la giu-
stìzia del re vostro signore , dopo avervi ad ogni prova rico«-
nosciuti cavalieri sleali , corruttori del cielo e della terra , vi
condanna a perire di lento fuoco in guisa di eretici scomuni-
cati, e questa sentenza sarà posta immediatamente ad esecu-
zione. Cosi possa colle vostre ceneri sperdersi la memoria delle
vostre scelleratezze. —
Intanto che il cancelliere pronunziava queste fatali parole,
interrotto soltanto da un sordo romorio degli astanti somi-
gliante al gemer cupo del vento io una folta foresta, Iacopo e
il suo sventurato compagno, rialzandosi sulla persona e scuo-
tendo fortemente la loro catena, davano indizio della più vio-
lenta commozione: pareva che il sangue rifluito improvvisamente
al cervello del canuto Molay ne imporporasse le guance scar-
nate; pareva che un torrente di concitate parole pronte a
traboccare gli si strozzassero nella gola, tanta era 1' agitazione
della sua faccia, la contrazione dei suoi muscoli. Ma quell'im-
peto dell'onor vilipeso fu un lampo, e tosto ripigliando egli la
— Hi -
severa saa dignità fé' cenno , protendendo le braccia , di voler
favellare*
. — Parlate, o Iacopo, gli disse allora V austero inquisitore
! di Parigi: le vostre parole sieno quali esige la tremenda ora
che s' avvicina: ma innanzi tratto sappiate che non è solo la
misericordia divina che sia pronta ad aprirvi le braccia , ma
che anche Fumana giustizia può sospendere il suo rigore,. se
vi mostrerete pentito. Confessate di nuovo le colpe vostre ,
domandatene perdono in faccia al cielo ed agli uomini, e tro-
( ?erete clemenza. Non vi ostinate ad aggiungere a tanti travia-
] menti un'impudente menzogna, o Tira di Dio vi sta prepa-
j rande un fuoco ben più durevole di quel che v'appreslano gli
' nomini.
— Impudenti menzogne quelle che voi fabbricaste ai nostri
danni 1 interruppe vivamente il gran maestro: menzogne quelle
che ci strapparono dal labbro gli spasimi della tortura e le
insidiose vostre promesse t Io Io attesto qui per quel Dio che
mi dovrà giudicare fra poco, per la Vergine santa , per san
Giorgio mio protettore, noi tutti siamo innocenti dei delitti che
ci apponeste. Più che d'ogni passata colpa mi pento della viltà
che in un atroce momento mi trasse dal labbro un' infame
confessione; questa sola mi rende degno di mille morti. Possa
Iddio perdonare a noi, come noi perdoniamo ai crudeli che sono
cagione della nostra rovina 1
— Templari, non volete adunque pentirvi ? soggiunse Tin-
quisitore. Pensateci bene , io annunzio da parte del nostro re
grazia e libertà, da parte della Chiesa assoluzione intera a colui
che pentito confesserà le sue colpe.
— Siamo innocenti I ripeterono entrambi.
E qui le grida della plebe , il pianto dei- parenti , le pre-
ghiere degli amici si confondeano in una sola esortazione:
€ Confessate, confessate per pietà dell'anima vostra I >
— Riflettete, dicea il frate, che i vostri minuti sono nu-
merati.
— Sieno, riprese Molay: ma dite a coloro che ci condan-^
nano che numerati sono pure ì loro giorni ; dite a papa Cle-
mente ed al re Filippo che prima che un anno si compia sarà
decisa la nostra causa davanti al tribunale di Dio. Là li atten-
diamo. In mams tuasy Domine, commendo spiritum meum.
— Entro un anno al tribunale di Diol — ripetè il priore
di Normandia.
- 11^ -
— Maledizióne sulle anime vostrel gridò rimpetaoso Ga
glielmo di Nogaret, augelli di triste augurio. Olà, giustizieri
fate il dover vostro! —
E tosto costoi'o, impadronitisi dei prigionieri, li attaccarono
ai pali; poi Puno d'essi presa una torcia infiammata, la scossi
fortemente ed appiccò il fuoco alle cataste. Un turbine di fumt
avviluppò rapidamente i pazienti, i roghi e la piazza. Non altn
più s' intese che il crepitare delle fiamme misto ai soflbcat
gemiti delle vittime, al pianto dei loro amici ; non altro si vidi
per qualche minuto che una nube grigiastra che spandendo ui
fetido odore saliva a confondersi colle nebbie del cielo. Ma ur
soffio di vento avendo per un istante dissipato quei densi vapori
si scorsero nel centro dei fuochi due masse scure ed informi
che, simili ad infernali visióni, s'agitarono, divincolaronsi e ri-
caddero carbonizzate in' mezzo alle fiamme,
A siffatto spettacolo inorridita la moltitudine si sparpaglio
tumultuando: — Poveri templari I era T esclamazione di tutti
— Hanno citato il re ed il papa avanti a Dio ! dicevan gli uni
— Giurerei ch'erano innocenti I susurravan gli altri. — Morte
ai carnefici! maledetta giustizia che brucia gli uomini in onore
di Dio ! gridavano i più arrischiati.
E intanto il fremito e gli urli divenivano di momento ic
momento più minacciosi, come il muggire dei fluiti che precede
violenta burrasca, tanto che, ad acchetarli, Rogero di Foix si
credette obbligato di dare il segno dell'allarme, ed i soldati si
ordinarono in fila. Il padre inquisitore intonò il Miserere, k
cui flebili note vennero all' istante ripetute da più migliaia
di bocche. Siffatta lamentazione , cui di lontano aggiungeva
malinconia il rintocco della campana funerea e lo squallore
del giorno presso a morire, mutò ben presto in una sola indi-
stinta armonia i parlari , le grida , le maledizioni di tanti uo-
mini, fra' quali pochi furono coloro che osassero applaudire ad
un atto che pur doveva secondo le opinioni di quella età riu-
scire accetto a Dio e liberare il mondo da uno stormo di scel-
lerati.
Alcuni giorni dopo il tragico avvenimento fu dato a Fi-
lippo di accorgersi da sé medesimo della funesta impressione
che questo avea lasciato negli animi. Allorché egli comparve in
pubblico la prima volta, il silenzio e la diffidenza erano im-
pressi sulle fisonomie di coloro che più soleano esser prodighi
di acclamazioni. Ciò contribuì in singoiar modo ad accrescere
\
Itecvime tfei Tem^m acaàti in PirmilUMino ISH»
— 115 —
le inquielodìiù di qoello spirilo catonlmente $dspeUi\$o o ;ii
sQScitam una gatm che non dovea più pbcarsi che colia
morte. In iscambio della calma soperha che abilualmenle tra-
sparila dalb fredda regolarità del suo ì\^IU\ e della artiiitiosa
compostezza che ne reggea i moTimenti. notaronsi in fronte a
Filippo le repentine contrazioni, T abbattimento profondo di
nn animo lacerato da cruccioso pensiero ; i suoi occhi contor-
nati da lividio cerchio, le guance illividite accusarono gli irrequieti
sonni d^nn nomo a cui pareva che le teste degli abbruciati
cavalieri avessero servito di spaventoso guanciale. SI , la |\ace
di Filippo il Bello era perduta per sempre : la morU) di Mola>\
la sua fatai predizione e più che ogni altra cosa 11 mise^
rando fine di papa Clemente aveano affatto conquiso il suo
CQore; egli sognava ad occhi aperti tetri fantasmi , inesorabili
apparizioni. — I morti, o grazioso mio sire, non tornano in
vita, gli diceva un giorno Enguerrando , e la grandezza vostra
non faccia onta a sé medesima con vane paure. — 1 morti ò
vero tornano in vita, ma gli spaventosi loro spettri turbano il
mio riposo, e non v'hanno uè messe né confessioni che val-
gano a ridonarmi V antico coraggio. — E dicea vero , chò in
mezzo allo splendore del trono , sul punto quasi di veder co-
ronato ogni suo desiderio, parve che Filippo fosso costretto di
ubbidire alla intimazione che gli suonava incessante nel fondo
del eaore: Prima che compiasi un anno f aspetto al trihunalv
éiDkK
Ma (a crudeltà di Filippo fu ella veramente incsousablli!?
faiODO tutte calunnie le imputazioni fatte ai templari 7 Ecco
lu quesito al quale la storia non offerse ancora una soluzioni;
pndn. IThanno gravissime autorità che assolvono, gravissime
ehtt condannano; né la luce dei secoli, né il silenzio (kììa pas-
é^bì pptnono peranco diradar le nebbie che avvolgono le toinln;
dai templari o far tacere i romori dei loro nemici. Data clic
avnmo una rapida occhiata alia storia di codesto ordine fa-
MSe^ vedremo in che consistano le accuse e le difese, onrle
^iiciina esaminando da sé medesimo la gran controversia, ne
far ragione a soo senno.
Taxi. ImqmU, YoL IL ir,
CAPITOLO V.
L'Ordine de* Templari.
Quel religioso fervore che sai finire deir undecimo secolo
sospìnse quasi tutta Europa al conquisto di Palestina trovò pib
che altrove alimento nello spirito cavalleresco dei Francesi, e
nessun'altra nazione seguitò con più ardore la voce che chia-
mava i popoli a liberare il gran sepolcro di Cristo. Fra i prodi
che nella presa di Gerusalemme venner compagni a Goffredo
di Bouillon erano un Ugone di Yayens discendente degli an-
tichi conti di Champagne, ed un Goffredo di Saint-Omer, per-
sonaggi egualmente distinti per chiarezza di natali che per valor
militare, benché di povero stato. Costoro, mal comportando che
le incursioni de' saraceni ponessero di continuo a rischio la vita
e la roba di chi recavasi a visitare il sepolcro, si obbligarono
fra loro ad un voto solenne di difender con Tarme i pellegrini
e di mantener sgombre dei ladroni le strade della Città Santa. In
eguale proponimento convennero sette altri cavalieri, fra i quali
ricordansi i nomi di Goffredo fratello d'Ugone, di Blsol, di Roral.
di Pagano di Montdesir e di Arcibaldo di Saint-Amand, e si
formò per tal modo una associazione militare-religiosa, strano
miscuglio di pietà e di barbarie, qual comportava V indole dei
tempi. Il patriarca Gismondo e Baldovino II re di Gerusalemme
altamente approvarono un tale divisamento, e quei cavalieri
cominciarono ad adempire al loro novello uffizio col nome di
soldati di Cristo o di cavalieri del Tempio, perocché venne loro
dato in custodia il tempio di Salomone e presso a quello ebbero
- 118-
il iNimo soggìorao. Pochi io nomerò ed in povera condizione»
vissero esA dapprima sotto all'ubbidienza dei patriarca con di-
scipline simili a qaelle che osservate erano dai canonici rego«
lari; ma la fama di;Joro goerresche imprese e la specchiata
virtù attrassero in breve fra i loro segnaci illnstrì personaggi
che apportarono air ordine e privilegi e ricchezze. Dopo nove
anni dalla loro istitazione noveravansi già per testimonianza di
Tiro trecento cavalieri, oltre alla torba dei fratelli serventi.
€ Duces et principe$, scrive Iacopo di Vilry, eorum exemplo
mundi vincala dirumpentes, ad eos confluebant. > Perciò papa
Innocenzo III trovò opportono di vendicare alla pontificia auto-
rità la totela immediata di tale congregazione, ed Onorio lU
per darle pio durevole ordinamento, invitò i fondatori di essa
nel 1128 innanzi al concilio di Troyes, onde vi ricevessero gli
statoti e le discipline a tal oopo estese daireloqoente Bernardo
abate di Chiaravalle* Oltre airobbiigo di proteggere i pellegrini
e di mantenere Tiùterezza dei cristiani possedimenti in Oriente»
aveano i cavalieri qoelio di recitare ciascon giorno Tofficio di-
vino» non che di cibarsi in comone digionando il venerdì, di
daiB ai poveri in elemosina la decima parte del loro pane, di
osservare dopo la prece della sera il più assolato silenzio, di
non portare oro od argento nei loro vestimenti, di non andare
a caccia» di non mandare né ricevere lettere senza l'assenso del
l(Nro soperìore» e finalmente di rinnegare mai sempre la loro
volontà e seritarsi nella più perfetta illibatezza.
Io qoesto medesimo concilio venne ai templari prescritta
la foggia del vestimento, consistente in ona tonica bianca scen-
dente fino al talone e in on mantello parimenti di lana bianca»
che venne in segnilo fregiato di ona rossa orlatora, e in sol
lato dietro d'ona croce dello stesso colore. Il berretto fo pore
di lana bianca oriate di rosso, a coi i gran maestri sovra-
posero più tardi ona pioma nera; la calzatora di pelle, gli spe-
roni d'acciaio; e fo vietato qualsivoglia corredo di morbide pel-
Uece» solo permettendosi nsarie di montone o di agnello, < Ve-
ttimenta autem unius colori semper esse iubemus, verbi grafia
oBhi, vel nigra, vel ut ita dicam burella. Omnibus autem mili-
tttfs professis in Meme et in cesiate si fieri potest, alba vesti-
menta concedimus, ut qui tenebrosam vitam postposuerint per
h^dam et albam suo conditori se reconciliari a^ìoscant (1). »
(!) V* Acta concilii tercensis.
— 116 -
E fu preferito ii color bianco per esser egli simbolo di castità.
« Quid enim albedo nisi integra castitasf » La loro baodiera
formata d'uà drappo quadrato portante una croce rossa in campo
mezzo nero e mezzo bianco fu detta Baucens o Bauceaus, da
un'antica voce francese con cui notavansi i cavalli di color misto,
e del doppiò suo colore rende ragione un cronichista contem-»
poraneo.... < eo quod Christi amicis candidi sunt el beiUgni^.
nigri autem et terribiles inimicis. > Sul sigillo dell'ordine sta-
tano scolpiti due cavalieri in groppa a un solo destriero per ac*
cennare alla povertà de'suoi fondatori, ed. attorno una leggenda
che clìiamavali soldati di Cristo, alia quale poi venne sostituito
U nome di fratelli del Tempio.
I templari per tal maniera ordinati formarono numerose
famiglie e si diffusero per la Palestina non solo, ma per tutta
cristianità. Fedeli osservatori delle lor regole, religiosi, modesti,
terrìbili agli infedeli, occupati in tempo di riposo in utili lavori,
furono per alcun tempo oggetto di riverenza ed amore, e Nulli
molesti erant, attesta Iacopo da Vitriaco, sed ab ommbus.propter
humilitatem et religionem amabantur > ; e Pietro abate di Cluny,
in una sua lettera ad Eberardo lor gran maestro, e Quis non
ketetur, esclama, quis non exuUet processisse vos non ad sein^
plicem sed ad duplicem conflictum !f < alludendo alla singoiar
castità ammirala universalmente nei cavalieri. Le abitazioni
loro, caserme e conventi ad un tempo, cbiàmaronsi dapprima
Maniera dalla voce francese manoir, che significava una casa
circondata da campi , poi vennero denominate Commende. A
Ciascheduna presiedeva un grande uffiziale con titolo di priore
sommesso alPautorìtà del gran maestro, ed ogni cavaliero teneva
a suo servigio uno o più fratelli serventi , oltre agli scudieri
ed ai paggi che aspiravano, mediante un faticosissimo noviziato,
al grado di cavalieri. Gli uffizi divini e le funebri cerimonie
venivano adempiute dai cappellani delFordine, i quali, esclusi-
vamente addetti air ecclesiastico ministero , non aveano parte
alcuna alle fazioni guerresche. Il numero di codeste commende
fino dal 1244 era maravigliosamente cresciuto, e Habentenim^
Scrive Matteo Paris nella sua cronaca, templarii in christianitate
novem millia maneriorum i; e in sul cadere del secolo XIII
poiea dirsi non esser nel mondo regno o provincia in cui essi
non fossero in possedimento di vaste proprietà, quali largite
per testamento di principi, quali recate in dono dai ricchi che
si arruolavano sotto alla sacra bandiera..
— 117 —
MoHissime farono le imprese odle quali segnalàroosi i cava-
lieri, anzi può dirsi non essersi dato combaUimento in Oriente
coi essi non abbiano faiorosamente assistito. Nell'anno 1133
qnast tatti i templari perirono sotto il ferro dei saraceni ;
nel 1148, posti da Baldovino III a presidio di Gaza» sostennero
i più gravi pericoli, eia salvarono dagli infedeli; nel 1152 tro-
varonsi alfassedio di Damasco , porgendo più ammirabile cbe
bastevole snssidio air esercito de' crociali francesi» e nel 1188
eroicamente difesero Gerusalemme stretta da' saraceni. Celebre
fa la vittoria che riportò nel 1116 presso Ascalona Odone di
Saint-Amand gran maestro con soli ottocento fra cavalieri e
fratelli sulle truppe assai più numerose di Saladino; celebre
parimente la disperata difesa della gran galea dei templari nella
battaglia navale data nel 1218 presso a Damiala , in cui essi ,
assaliti da ogni parte, anziché arrendersi» preferirono affondarla
e trascinare nel loro eccidio i nemici. Damiata» dopo diciannove
mesi d'assedio» venne in poter de'crociati» e Leopoldo d'Austria
e gli altri duci con gran liberalità premiarono i templari, che
si possentemente aveano contribuito al buon esito di quell'im-
presa. Ma se in questi fatti e in molli altri che legger si ponno
più diffusamente nelle istorie del Du-Puis e del Gùrtlero meri-
taron essi encomio di prodi e ricompense di principi e della
Chiesa, non è a tacere come non andassero securi dalla taccia
di smodata avidità nei saccheggi» di ferocia crudele nelle vit-
torie. Fnrodo anzi accusati di avere per viltà o per danaro
ceduto al soldano d'Egitto un inespugnabil castello posto al di
là del Giordano presso ai confini di Arabia; di cbe Almanco
re di Gerusalemme montò in ira si grande che» fatti catturare
dodici de'Ioro principali, feceli appiccare per la gola. Una delle
pecche più gravi che si rimproverava ad essi, e che contrastava
in istrana guisa col titolo di Magister humilis dato al lor capo,
era una superbia eccessiva ed un incomportabile fasto: e nar-
rasi a questo proposito che Riccardo Cuor di Leone» esortato,
secondo lo stile di quella età, a liberarsi dalle sue tre figliuole
superbia, avarizia e lussuria» rispondesse al sacerdote che cosi
l'ammpniva: < Do superbiam, disse, templariis et hospitalariis,
woaritiam monachisi lìixuriam ecclesiasticis pra'latis > ; le quali
parole, se sono vere» non -danno certo grande idea della pietà
di quei giorni. Sino al terminare del secolo Xlll seguirono i
templari le vicende di Gerusalemme, ora perduta, ora ricon-
quistata; ma, dopo d'aver combattuto con iuutil coraggio, sen-
- US —
dosi spento il fenrore che aoimaya i crociati, e i soccorsi cTEq*
ropa fattisi tardi e iDsofficienti, dovettero abt^ndooare anclì'essi
le prime lor sedi, e prima del 1300 sgomberare dalPAsia. Non
avendo più nemici infedeli a combattere, gli irrequieti cavalieri
molestarono i prìncipi cristiani d'Antiochia e di Cipro, e deva**
starono la Croazia e la Grecia. Il lor gran maestro Iacopo Molay,
del qnale il valore e fausterità, a quanto narrava la fama, non
fa minor di quella di Bertrando di Bianquefort, di Roberto di
Sablé, di Armando di Périgord e di tutti gli illustri suoi ante*
cessorì, scelse a ricovero risola di Cipro e già stava ivi appa-
recchiando i suoi alla conquista di Rodi, che venne poi conseguita
dai cavalieri ospitalieri, quando nel 1307 scoppiò tutto ad un
tratto quella terribil procella che lui e Tordine suo dovea tra*
volgere in un'intera rovina. Filippo il Bello di Francia avea
già da lungo tempo rivolto alle ricchezze dei templari quel
cupido sguardo col quale avea saputo frugar si addentro neglr
scrigni ai giudei; ma le sue controversie con papa Bonifacio e
le civili fazioni non gli aveano peranco lasciato agio a maturare
i suoi divisamente I templari erangli divenuti esosi ancor più
perchè aveano rifiutato di ascriverlo air ordine loro , e forse
sottomano erano stati i favoreggiatori del popolaresco tumulto
del 1306 neir occasione delle monete; sicché egli non cercava
che Toccasione di perderli. La faccenda era di grave momento,
A per la potenza loro che per l'appoggio che avrebbon trovata
nelle ecclesiastiche immunità. Pure , asceso che fu al soglio
pontificale Clemente Y, di nazione francese e più disposto a
piegare ai désiderii di lui, l'impresa diventò assai più agevole
e non tardò gran fatto ad aver compimento. Bastarono a ciò i
romori vaghi del popolo, che accusava di scoslumatezza e d'in-
temperanza i templari e di segrete pratiche cogli infedeli , e
specialmente colla famosa tribù degli assassini di Siria. Nolfo
DeU fiorentino, al quale dappoi nuovi delitti valsero la forca,
ed il priore di Montfaucon, che era allora prigione per gravi
misfatti, uomini di perduta fama, comperarono l'impunità facon-
dosi accusatori del loro ordine, asserendo cioè essersi in quello
stabiliti segreti riti, nei quali, abjurala la religione di Cristo,
gli iniziati faceansi adoratori di un ìdolo, profanavano sul campo
di battaglia la vita, e si abbandonavano alle più laide sozzure
a cui l'umana corruzione possa arrivare; in una parola, tutti
gli orrori de* baccanali eran rinnovellati nelle tenebrose orgie
del tempio. Come più sopra abbiadìo avvertito.
■^\
\
y
Monlay, firan Maestro do 'Templari.
— «« —
U «iamo 13 ottotare deiramio 1307, m nrtii di m oràiw
aite, miti i lemptei diFrancìi, frai'qnli eiz il gnnmMatrù.
damati setto colore di nnori ordinamentt, forono inqniisiio-
aiti; la qnal misara con sollecita e sicoramente est^ttn prova
am'ella fosse meditata da lungo tempo. II papa ne mosse da
principio alti lamoiti, poi o fosse che le impntasioni acqnisias-
aero feiie per te importanti rivelazioni dei prìfrionieri. od altro
aMm degm) motiro a ciò findocesse» rimise alqnanto di (foel-
Tardore con coi aoleai^ dalTantorìtà poniificisi difendere le im-
■miti FBligioK, e non solo lasciò bre, ma fino ad nn cerio
aegDO approvò. Tre anni lottarono gli infelici cavalieri colle
tortore e gli spasimi d'una cattìTitii : e moUis^mi confessarono
le rimproverate reitL II concilio adanato a Vienna li dichiarò
nemici della fede e decretò lo scic^Iimento deir ordine « che a
dir il vero eraa reso, non che inntìle, dannoso per Paboso di
qodfe rìccheoEe che senire doveano ad nno scopo che più
Don potea consegoirsì. Filippo il Bella non contento delle pene
decretale dai giudici ecclesiastici e secolari, fece nel giorno 12
maggio delTanno 1310 abbradar vìvi nel sobbollo di San*
f Antonio ctoqnantaqnattro cavalieri , il qnale orrore si rinno*
vello puecchie volte nelfe altre provinde di Francia. Sette anni
dopo recdfio delTordine, Iacopo di Molar e il sno compagno
priore ffi Normandia, che dapprima erano stali dannati a i>er-
petoa prigiooia , forono riserbati a coronare il saorìlìtio. Sia
che tntti in inganno da insidiose promesse, o indeboliti dalla
tortora piii non avessero vigoria di negare, essi avean giè
rivdato lotte le tor[Hlndini di cui rordine era accusali^ ed a
preno a ignondnioso ottenuto di vivere* Ma alloraqnando con-
dola alle porte del tempio di Nostra Donna , onde facesservi
ammenda onorevole* intesero la lettura delle depositioni, dichia*
raroDo ad alta voce essere quelle accuse un tessuto di orrori
e di calunnie di cui l'ordine era innocente e che essi non
a?e?aoo mai proferite. Filippo non appena ebbe appresa una
^ solenne ritrattazione, la quale poco mancò non suscitaSvSO a
ToiDore la plebe, ordinò il loro supplizio, il quale ebbe Iuoro
oeirorrìbile maniera da noi estesamente narrata più sopra (1).
(1) I documenU storici di quei tempi offrono grandi (liibl)lexxn in-
tonio al laogo ad alla data del tragico avvenimento. La luiiora poro di
Filippo all'abate di San Germano non lascia campo a dlnpulo intorno
<1 primo, e riguardo alla seconda la tradizione dei templari In riporta
i si giorno 39 dei mese cedàr nell'anno dcirordlno iOtì, che corrisponde
«1 15 marzo del 1315. (Nola degli rditori).
Così fa spento nn ordine che fa in orìgine splendore della
cristianità e poscia ne divenne inotile peso. I beni di esso
parte farono confiscati, parte cedati agli ospitalieri ; i cavalieri
in alcani regni condannati , in altri assolti. Qaei d'Alemagna
si difesero porta^ndo audace disfida agli accusatori, e ne anda-
rono liberi ; qaei della Spagna aggregaronsi ad altre militari
congregazioni; qaei del Portogallo diedero orìgine all'ordine
del Cristo. Finalmente non è a tacersi come alcani fanatici
tentassero di far rivivere tale associazione, pretendendo di es*
serQ legittimi rappresentanti degli antichi templari, la cai reli-
gione, secondo essi non mai distrutta interamente, continuò
nel mistero (1).
(i) Yidesi a Parigi nel i802 il signor Barginet di Grenoble con altri
pochi rinnovar le cerimonie del Tempio, dalle quali non furono escluse
le donne, che sotto il titolo di canonichesse ebbervi parte attiva; ma
né il fantastico ardore del capo, né la libertà allora concessa alle insti*
tuzioni più bizzarre poterono ridonar vita ad una società si opposta
allo spirito dei nostri tempi, e tutto fini in una più noiosa che ridicola
commedia; come la nuova religione del padre Ghàtel e la emancipa-
zione femminile dei sansimonisti.
(Nota degli editori).
CAPITOLO VI.
Accasa e difece dei Templari.
Volendo ora procedere airesame delle accuse date ai tem-
plari, anziché riportarcene al discorde ed appassionato giudizio
de' contemporanei , stimiamo miglior consiglio il seguitare le
tracoe di que' scrittori che ne cercarono le prove negli statuti
dell'ordine stesso e ne' monumenti. Nicolai, Herder , Anton ,
MoDler e più che tutti il celebre orientalista De Uammer eser-
citarono la loro maravigliosa dottrina in si difficile assunto.
L'opinione che la troppo famosa setta de' liberi muratori avesse
avQtò orìgine dai templari condusse dapprima il Nicolai a cer-
care nei riti di quelli le segrete dottrine di questi , e il suo
Saggio sul segreto dei templari pubblicato nel 1782 è il primo
scritto che ce li rappresenti come seguaci di un misterioso
sistema. L'abate Barruel» eccitato da uno zelo eccessivo che la
verità e la ragione non saprebbero approvare , spingendo una
tal conghiettura agli estremi, non dubitò di proclamare i tem-
plari come ceppo di tutte le tenebrose adunanze, fonte di tutte
le trame tendenti a rovesciare i troni e l'altare. Ma le decla-
inazioni non sono prove, e la fama di queir ordine perciò non
avreUt)e sofferto nuova onta ove una più valida autorità surta
non fosse a portarle un gran crollo. Il signor De Hammer, quel
dottissimo uomo che ognuno sa, in una dissertazione intitolata
ilysterium Baphometis revelatum, pretese convincere i tem-
plari coi medesimi loro monumenti di apostasia , d' idolatria e
dimpurità. Egli reputa che gli stati discoverti in sul finire del
Tamb. InquU. Voi. IL i6
- i22 -
secolo scorso a Roma nella biblioteca Corsini» i quali compar-
vero tradotti dair idioma provenzale nel tedesco per opera di
Mùnter , altro non sieno che ordinamenti ingannevoli destinati
a governare soltanto il volgo dei cavalieri e nascondenti una
segreta dottrina di cui non avevano la chiave che gli iniziati.
Una tale dottrina , alla quale , secondo il critico , rannodansi
quelle degli ismaeliti , degli albigesi , dei seguaci di Mazdek e
éeWilluminismo, trasse nascimento da quella dei gnostici. E qui
per intendere le analogie che egli crede di riscontrarci , non
sarà inutile espor brevemente che cosa vogliasi intendere per
gnosticismo.
Noto è a ciascuno per qual maniera le astratte quistioni
intorno air origine del bene e del male abbiano esercitato, fin
dalle prime età del mondo, gli spiriti contemplativi degli Orien-
tali, e quante diverse teorie s'inventassero in Persia, nelle Indie,
in Caldea per ispiegarle. Codeste teorie convertite in sistemi
produssero quella falsa sapienza accennata da san Paolo, i se-
guaci della quale chiamaronsi gnostici o conoscitori. Furono
costoro filosofi i quali adottarono dapprima una particolare teo-
logia, fondata sulla credenza ai due principii de' Persiani , alle
emanazioni panteistiche degli Indiani, in parte modificata dalle
dottrine platoniche e pitagoriche. Ma alloraquando la parola evan-
gelica rischiarò di luce divina Timpenetrabile mistero degli ymani
destini, le opinioni loro assunsero forma diversa ed offerirono
la strana miscea di sovrumane rivelazioni associate agli errori
più assurdi. Abbandonandosi ciascuno al poter della sua fan-
tasia, si ripartì il gnosticismo in numerose famiglie e ger-
minò i valentiniani, i simoniani, i marcioniti, i carpocraziani,
ì nicolaiti ed altri molti le opinioni de' quali, discordi ne' punti
meno importanti, convenivano però in ciò, che Dio supremo
riconoscevano e con lui altri esseri divini di natura meno ele-
vata. Ad uno di tali esseri attribuivano la creazione del mondo;
e tutte le leggi che egli aveva imposto agli uomini, compresa
la legge giudaica, non ad altro tendevano, secondo essi, che a
privar l'uomo della» conoscenza del Dio supremo, il quale, stra-
niero affatto al materiale universo, lo era del paro ai diporta-
menti de' mortali. Coloro soltanto che pervenivano alla cono-
scenza di codesto Essere potevano meritarne il riguardo, la loro
anima acquistava una spezie di spiritualità e diritto ad eterna
mercede, senza per altro che le azioni del corpo influissero a
renderia più o meno degna: il quale pericoloso principio del-
-123-
riontilità delle opere noD impedi però che fra i gnostici vi-
yessero uomini d'incorrotta virtù. — Il signor De Hammer reputa
che la setta dei valenliniani rappresentante degli ofiti, anteriori
al cristianesimo, sia quella onde i templari trassero le loro
segrete dottrine. ^Ecco pertanto i loro principii, quali si ponno
conoscere in sant'Ireneo, che li espose per confutarli.
Innanzi al cominciamento del mondo, nulPaltro esisteva che
gran principio di tutto, chiamato anche il Proarca, il Protopa-
tore, il Buthor o Profondità, e la campagna di lui Eunoia o il
Pensiero, conosciuta sotto il nome di Caritè o Grazia, e di Si-
gene 0 Silenzio. Dal loro eterno connubio nacquero Nun, o la
Mente o il Secondo Padre, ed Aletia o la Verità, e cosi fermossi
la grande quattriade che fu origine di tutte le cose. La Mente
e la Verità generarono altri quattro spirili , Logos o il Verbo ,
Zoe 0 la Vita , Antropos 0 TUomo, ed Ecclesia o la Società,
prototipi celesti di quanto doveva poscia apparire sulla terra.
Codeste due Tetradi costituirono TOgdoade superiore, dalla
quale nacquero ventidne Enti od Eoni, distinti con greche deno-
minazioni a dinotare altrettante astrazioni, come Misura, Amore,
Bontà, Felicità, Sapienza, e per tal maniera fu popolato V uni-
verso spirituale o Pleroma da trenta Eoni riparliti in tre schiere
o decadi, alla prima delle quali presiedevano il Primo Padre e
Pensiero, la seconda il Verbo e la Vita, alla terza TUomo e la
Società.
Al solo Nun primogenito del Primo Padre fu dato cono-
scere la costui sublimità, agli altri tutti negato; e di qui im-
mensa invidia contro di lui in tutti gli Eoni, e mille infruttuosi
tentativi per iscoprire Timpenetrabile mistero. E qui Sofia o la
Sapienza, ultima nata fra quelli, era sul punto d'appagar la sua
irresistibile curiosità. Quando Orotele guardiano dei confini del
Pleroma giunse a tempo ad impedirnela ed a rattenerla fuori
dei limiti di quella incomprensibile grandezza. La scossa che
Sofia provò in codesto conflitto fu si forte che le fu cagione
d'aborto, ed il frutto abortivo dotato di ambo i sessi venne dai
gnostici con ebraico vocabolo denominato Achamoth, che suona
Sapienza , il quale fu da Orotele scacciato fuori del Pleroma.
Ma, a prevenire il rinnovamento dell'accaduto disordine, il Som-
mo Padre col mezzo di Nun emise due nuovi Eoni, che furono
Cristo e lo Spirito Santo , e diede al primo l'ufiizio di istruire
gli altri Eoni intorno all'infinita grandezza del Padre, al secondo
di pacificarli e renderli uguali fra lóro. Per tal guisa gli Eoni
— «24 —
sobirono tutti una identica trasformazione, che rese i maschi
tutti simili a Nun> le femmine simili ad Aletia, e da quel mo-
mento, memori del l)eneflzio ottenuto, non cessarono d'inviare
col mezzo del Cristo tributo perenne di laudi e di ringrazia-
menti al Proarca.
Ma qui non hanno termine i deiiramenti dei gnostici. Àcha-
motb, l'abortivo figlio di Sofia esulato dal Pleroma, orbato di luce
ed informe, cruccioso s'aggirava nel vuoto, implorando anch'egli
la benefica mediazione del Cristo. Questi, tocco finalmente dai
suoi lamienti, inviò a lui il Paracleto circondato da un drappello
di angioli, il quale commise di dargli una forma e di liberarlo
dai lunghi suoi mali. Per opera del Paracleto tutti ì desiderii
e le cure di Achamoth segregati dalla sua sostanza e conden-
sati in uno diedero origine alla materia, mentre Achamoth, li-
berato da si grave fardello e fecondato dall'aspetto degli angioli,
partorì ad imagine di quelli lo spirito. Per dare forma e mo-
vimento a codeste nuove sostanze, spirito e materia, Achamoth
generò il Demiurgo o Saldabaoth, che^ quantunque cieco, s'ac*
cinse all'opera della creazione, ajutato dai consìgli di Achamoth
e del Paracleto, e cercò di rappresentare per loro istigazione
nel suo universo il celeste Pleroma. Separò egli dapprima l'ani-
male sostanza dalla materiale, fabbricò sette cieli dotati d'intel-
ligenza e collocò il suo trono sul settimo. Ebbe sei figliuoli, e
questi insieme con Achamoth e con lui costituirono rOgdoado
inferiore. Rimaneva ancora a formar l'uomo, parte più nobile
della novella creazione, ed il Demiurgo lo plasmò di fluida fu-
sibile materia, insofiiandovi una scintilla di spinto che valesse
a riprodurre in esso Timagine del creatore.
Tale era la dottrina dei gnostici intorno alla origine delle
cose, e con istorie del paro ridicole e assurde spiegavano essi
la venuta di Gesù Cristo, il battesimo ed i misteri tutti della
religione cristiana, la quale, a loro credere, altro non era che
un artifizio di Saldabaoth inteso a far che l'uomo rimanesse
suo schiavo né mai potesse elevarsi alla cognizione deirOgdoade
superiore, che sola potea perfezionare la sua spirituale sostanza
e procurare ad esso eterna felicità. I dogmi poi degli oflti
versavano più specialmente intorno all'Ogdoade inferiore, ed alle
querele insorte fra il Demiurgo ed Achamoth per cagione del-
l'uomo. Il Demiurgo, cercando di rapire all'uomo la divina scin-
tilla per essere adorato come supremo principio, si le' della
donna stromento a corromperne la mente ed il cuore. Acha-
— !J5 —
moth ad impedire tale sconcio si servi del Serpente^ figiiaolo dello
stesso Demiargo , il quale persuase ad Eva di dare in cibo ad
Adamo il frutto deirail)ero delia scienza, e cosi le comunicò ii
coDOScimenlo cbe dovea sottrarlo al dominio del suo facitore.
Perciò gii otiti venerarono con ispeziale culto il serpente sotto
nome di Samael e di Michael come simbolo della sapienza, ed
ebbero in orrore il Demiurgo, emblema del mondo sotto ia
figura di dragone e di coccodrillo.
Premesse tali indispensabili illustrazioni, vediamo ora come
il De Hammer si acciuga a provare i templari miziati in una
teologia si bizzarra.
lina delle accuse più gravi portale contro di loro quella si
fa cbe essi adorassero un idolo o, a meglio dire, una testa con
lunga l>art>a, di aspetto terribile, rassomigliante ad un diavolo
ctiiamato Bafoìneto (m figuram Baphometts), ad onor della quale
hunc^audo ia fede di Cristo, profanavano cou esecrande vitu-
perazioni ia croce, specialmente il giorno del venerai santo, e
SI abbandonavano ai pm schifosi eccessi carnali. LiO istruzioni
date ai loro inquisitori ingiungevano di far ricerca intorno a
tale argomento, e le confessioni di taluni fra essi condurreb-
bero a far credere alla realtà di cotale idolatria. Alcuni scrit-
tori, e fra questi Uaynouard, l'apologista più fervoroso dei tem-
plari, pensano cbe la parola Bafoifieto sia una corruzione di
Maometto; ma a rigettar siffatta opinione basta ritlettere cbe i
templari furono sempre acerrimi nemici de'maomettani, e cbe,
qoand'ancbe ne avessero abbracciate le credenze, non poteva
uiai Maometto diventare oggetto di adorazione. Nicolai congbiet-
tara cbe il Bafomelo sia Timagine del Dio supremo in quello
stato di eterno riposo cbe gli attribuivano i gnostici e i mani*
cimi. Autou pensa invece cbe tale figura, cbe in alcune depo- .
ftoiom dicesi aver quattro piedi, sia tutt'uuo colla stinge egi-
uaua, simbolo cioè di prudenza e di mistero. Herder sostiene
cbe essa era un trofeo od un'armatura ; Muuter una custodia
di tante reliquie simile a tanti altri busti rinvenuti in Italia ed
iu altri paesi cattolici (1). il sig. De Hammer si dio gran cur^
' «il ludagare nei bori anticbi e ue'musei tutte le imagini che a
lai parvero riunire i caratteri del Bafometo, ia maggior parte
I <leUe quali rappresentano uomini con lunga barba, alcune delle
U) Gaucelliei'j, Memorie storiche delle sacre teste dei santi ApoBtoli.
RoiDi, i8U6.
— 126 -
donne, ed altre finalmente delle figure colla barba d'uomo e
colle mammelle di femmina. Quasi tutte sono piene di segni
astrologici, tengono un serpente alla cintola, ed in mano quella
specie di croce ricurva ad una estremità che gli Egizi, chiama-
rono chiave del Nilo, segno di fecondità e riproduzione Una
iscrizione araba forma la base del sistema di De Ilammer, egli
la spiega a suo modo e, paragonatala ad altre che trovansi
ne'vasi appartenenti ai templari, crede poterne indurre che
questi si riferiscano ad una divinità nominata Mete, alla quale
è dato ora il titolo di Tealla onnipotente, ora quello di N(uch
fecondatrice. Codesta divinità non è, a suo credere, altro che
uno degli Eoni, quello cioè che presso le varie sette dei gno-
stici aveva nome di Sofia, di Barbelos, di Prunicos, di Acha-
moth; e Proclo afferma difatti che Metis era una delle deno-
minazioni del dio Androgine degli Orfici. Perciò il critico, in-
terpretando anche il numero otto che. trovasi nella iscrizione,
come spettante airOgdoade inferiore, adotta Tetimologia del
Nicolai. I padri della Chiesa ci apprendono due sorta di batte*
Simo essere stati in onore appo i gnostici: Tuno sensibile, che
si effettuava colFacqua, Taltro intelligibile, che avea luogo per
mezzo del fuoco, imagine dello spirito, e questo appunto era
quello di Mete. L'esame di antichi caratteri destinati a mistico
USO; raffrontati con parecchi monumenti deHemplari rinvenuti
nelor conventi di Germania, somministrano al De Hammer no-
velle prove che essi, seguendo i turpi misteri negli oflti, profes-
sassero un culto particolare alla forza produttrice della naturq»
simboleggiata in Achamoth, nel Phallus, in- Bafometo. Per non
venir qui enumerando tutte le ingegnose osservazioni del cri-
tico alemanno, ci limiteremo alla descrizione dei monumenti
della chiesa di Schoengrabern, che racchiude i più rimarche-
voli. Non solamente egli vi rinvenne imagini oscene tolte alia
vista del pubblico dalla elevata lor giacitura, ma si ancora Vori^
gine, il progresso e il trionfo della dottrina gnostica.
La prima scultura mostra la caduta di Adamo e d'Eva.
L'albero della scienza è nel centro ; da un lato Eva mangia il
frutto vietato intanto che un cane ritto sulle zampe sembra fa-
vellarle all'orecchio. Due serpenti le circondano il volto e riu-
niscono le loro teste sovra la sua. Dall'altro lato Adamo coglie
il frutto a dispetto d'una figura d'uomo colle orecchie appun-
tate, il quale in atto di rattenerlo gli batte d'una mano sulla
spalla. Il cane consigliatore corrisponde all'anubt egiziano, al
— ir —
ìstagogo o {roida degli iDiziati, ad uno degli arcùntì dei gno-
ci; raltra Agora è Saldabaoth che Toole proilrire all'uomo
mezzo di giungere al conoscimento di Achamoth. Ecco Tori*
le della scienza.
La seconda scultura offre un uomo assiso sur un trono
Dente la destra alzata e nella sinistra uno scettro, innanzi a
i diverse flgure vengono recando frutti ed animali. Ai piedi
I trono è un dragone rovesciato in alto di ingtiiottire un fen-
ollo e di rigettarne un altro per le parti inferiori. Ecco il
egresso spiegato nel testo seguente di sanrEpifanio : Addnnt
huius mundi prcpsidtin draconis effigiein haherc, ah coqìie
\imas absorberi cognitione illa destitutas, rursumqae per cau-
im in hunc mundum refandi.
La terza scultura finalmente rappresenta un uomo che Im-
ola a colpi di scure un leone, nel qual leone è di nuovo
(figurato Snidabaolb ; perciò scrive di esso Origene: Aiunt
tmtim septum dcemonum leonis habere formam. Ed ecco il
tonfo del gnosticismo.
E dopo di avere colPajuto di queste e di altre imagini sco-
jrte a Wullendorf, a Berchloldorf, in San Venceslao di Praga,
ella chiesa di Egra, cercato il De Hammer di dimostrare come
igli ofiti avessero i templari ricevuto gli idoli di Mete, si accin-
s a provar l'analogia che i loro simboli hanno con quelli dei
beri muratori, e trova i seguenti ravvicinamenti:
1. La croce troncata, simbolo del Phallus, del legno di vita,
ella chiavo della scienza e di Bafometo, si e tramutata nel
cartello de'liberi muratori.
2. Il calice cosmogonico, simbolo presso i gnostici del sesso
emmiueo che ha il suo tipo nei misteriosi vasi di Mitra, di Gl-
iele, di Bacco, e nelVuma santa degli Egiziani descritta da
ipQJeio, diede origine alle patere ed alle coppe fraterne dei
iberi muratori.
3. Il serpente che guida Tuomo all'albero della scienza
lirentò il cordone onde questi e i templari soleano cingere le
•eoi.
4. Il velo onde fu coperto Achamoth corrisponde al velo
lei tempio.
5. Il libro ed i sette candelabri sono i simboli della scienza.
6. Il sole, la luna, le stelle che veggonsi sugli idoli bafo-
inetici esprimevano il battesimo di luce dei gnostici.
Tali sono i principali argomenti del De Hammer, ai quali
— 128 —
cercò far puDtello di mille dottissime spiegazioni ch^ rendono il
suo lavoro un capo d'opera di critica e di erudizione. E^li non
dubita che i templari non abbiamo appreso i misteri nfllici dai
sepfuaci di qneìVHassan ben Sabah che è conosciuto nelle istorie
delle crociate sotto il nome di Vecchio della Montagna. Ed ammet-
tendo per intiero la esattezza de'suoi ragionamenti, più non ri-
marrebbero incerti i delitti dei templari» vale a dire che essi non
fosser macchiati di apostasia, perocché gli oflti erano acerrimi
nemici del cristianesimo ; di idolatria, perocché il Mete, ossia
la forza generatrice, era l'oggetto del loro culto; e di deprava-
zione, perocché il battesimo di fuoco praticato dai gnostici nel-
l'ombra di misteri che Tertulliano chiama degni di fiamme e
di tenebre dava podestà agli iniziati di abbandonarsi a quei
vizio detestabile che disonora i più bei tempi della Grecia e di
Roma.
A cotesto ragioni si aggiungono, per condannare i tem-
plari, le confessioni di molti lor confratelli, T autorità di gra-
vissimi storici, la sentenza dei tribunali ecclesiastici e secolari,
e la comune opinione de' contemporanei che deponevano con-
tro le loro sregolatezze, proverbiale essendo la frase: Tal beve
come un templario, e: Custodiatis vos, puerU ab osculo tempia-
riorum.
Eppure contro a siffatti argomenti, in apparenza invincibili,
alcune giustificazioni potrebbero opporsi, le quali, se non a pro-
varli innocenti, valer possono almeno ad attenuarne le accuse.
Lontani noi dall'ammettere ciecamente l'opinion di coloro che»
portando la poesia del sentimento là dove la storia non conosce
che i fatti, pretesero di mostrarci i templari quali vittime im-
macolate, quali innocenti colombe cadute fra gli artigli della
sparviero; lontani dall'idea che la lor distruzione esser potesse
soltanto l'effetto di un infame mercato tra Filippo il Bello e il
pontefice inleso a toglier di mezzo le arroganti inchieste del
re, non celeremo che molti e gravissimi disordini non si fos-
sero intromessi nelle congregazioni del Tempio. L'opulenza ia
cui eran cresciuti i loro membri, i grandissimi privilegi dei
quali fruivano, le abitudini di violenza e di guerra, gli ozi del
chiostro, il soggiorno in Oriente erano fatti per guastarne le
prime virtù, allora spezialmente che il fervore dei cristiani era
spento, le fatiche quasi nulle, e l'esempio di altre religiose as-
sociazioni non molto migliore. Che in alcune commende si fos-
sero introdotte delle pratiche segrete, o, a meglio dire, un
— 1J9 —
cerìmoDiale misterioso deslioato ad accrescere alla mente de ^
volgari la cieca ammirazione per la dignità del Tempio, ciò è
conforme all'indole di quella età, air ambizione di corpo ; ma
che il segreto dell'ordine intiero esser potesse la negazione di
Cristo» Tadorazione di un idolo, la più schifosa turpezza, ciò è
quanto non potrà alcuno con sicurezza affermare. Ripugna alla
critica illuminata il supporre che una società sparsa per tutto
Torbe valga a reggersi in flore per anni ed anni senza altro
scopo che il delitto, senza altro legame che Tinfamia: ripugna
il credere che genti pronte ad esporre sui campi di battaglia
la vita in difesa della fede, si ol)bligdssero poi nel segreto delle
loro celle ad abjurarla. Non ostante Talta estimazione dovuta
al De Hammer, molti eruditi nelle lingue orientali conservano
tuttora grandi dubbiezze intorno al modo con cui egli inter-
pretò riscrizione araba che serve di base alle sue accuse. Essa
inCatti presenta molti errori grammaticali ed esige una forzata
trasposizione di lettere per venire all'osceno significato da es-
soloi attribuitole. Le figure bafometiche sono zeppe di segni
astrologici, non hanno identità di sesso, variano i loro attributi
e presentano tutf altro che quel tipo costante che pur dovrebbe
trovarsi in un idolo di tanta importanza. Fra le iscrizioni di
tali figure, quelle che non sono in arabo non offrono veruna
relazione colFoggetto del loro culto.
Chi potrebbe assolutamente negare che tutte quelle epigrafi
arabe si scorrette, si mutilate, altro non fossero che forme
astrologiche, che talismani di superstiziose invocazioni, che leg-
. geode cabalistiche, di cui gli Àrabi erano maestri, delineate da
nmlpratici discepoli in un secolo riboccante d'ignoranza e di
pregiudizi? E chi potrebbe parimenti guarentire che il signor
DeHammer, nel paragonare alcune sculture esistenti nelle chiese
dei templari con quelle che egli attribuisce agli otiti, non siasi
qualche volta lasciato trascinare oltre i limiti del verosimile dal
troppo amore della sua teorica, fino a veder rassomiglianze ove
realmente non sono? Infatti molte di quelle croci che egli pre-
tende troncate espressamente per raffigurare le scandalose chiavi
del Nilo non potrebbero invece aver subito Toltraggio del tempo?
Molti di quei serpenti e dragoni nei quali ei ravvisa simboli
di idolatria e d' impudicizia , non potrebbero esser pompose
allegorie di debellati nemici, quali veggiamo in altri monu-
menti del medio evo, senza bisogno di annettervi arcane signi-
ficazioni ?
Tamb. Inquis. Voi. II. 17
— ISO -
I templari fnroDo accusati d^ aver ereditato T empietà e
la dissolutezza dei gnostici: ma le iufomie di questi ultimi non
sono provate se non dalla testimonianza dei loro avversari, i quali
nel fervore del loro zelo, nella poesia della loro stringente elo-
qàenza solevano esser larghi all'eresia di tutti gli attributi della
prostituzione, in quella stessa maniera con cui gli eretici ado-
perarono poeticamente le allegorìe dell'amore e della generazione
per spiegare le fantastiche loro cosmogonie. Qual maraviglia
che questo abuso di figure retoriche abbia poi indotto in er-
rore coloro che presero le cose alla lettera?
Parecchi cavalieri, è vero, confessarono tutte le colpe di
che venne lor fatta accusa, ma non minor numero sostenne
fra le più dure prove la propria innocenza : altri ritrattarono le
confessioni quando Tuomo è meno disposto a mentire, in faccia
ai roghi, ai patiboli ; e ciò dimostra che la corruzione esisteva
sì, ma non era efl'etto di meditato, universale sistema, piuttosto
conseguenza inevitabile del loro modo di vivere. Non fa al
mondo società di tal genere che a torto o a ragione non sia
stata accagionata di simili eccessi. E per verità non in tutti i
paesi egualmente i templari furon dichiarati colpevoli, ma in
non pochi vennero dichiarati innocenti. 1 conventi di Francia,
ov'era il ceppo dell'ordine, più doviziosi e possenti degli altri,
avranno senza dubbio annidato i maggiori scandali, ma è più
che probabile che il gran maestro ed i capi non ne avessero
contezza. Gli storici contemporanei e gli atti del processo ci rap-
presentano Iacopo di Molay come uomo valoroso, altero, ma di
rigida virtù, e d'altra parte ignorante ed incapace perciò di reg-
gere i fili delle supposte trame dei cavalieri. Se Villani^ Ven-
tura e molti altri scrittori di cronache le quali attribuiscono
alla sola cupidigia insaziabile di Filippo il Bello la loro distra-
zione consultarono forse in ciò più il sentimento dei ghibellini
che la verità, sant'Antonino arcivescovo ed altri ortodossi storici
che difesero l'ordine dalle nefande imputazioni non ci parranno
sospetti. Comunque sia la cosa, l'ordine doveva essere abolito ;
perocché, cangiato col volger delle sorti in un ricetto di ricchi
oziosi, era divenuto nocivo, e il concilio di Vienna operò giu-
stamente decretandone lo scioglimento; ma il supplizio a cui
Filippo condannò i cavalieri, anche ove si ritengano tutti col-
pevoli, sarà sempre una macchia indelebile alia sua memoria
ed un oltraggio airumanilà.
CAPITOLO VII.
Il eoaeilia di Vianna a GioTaniii ZXII.
Uà secoDdo progetto di Filippo, concertato col papa, era
di coronare imperatore sqo fratello Carlo di Yalois dopo la
morte d'Alberto d'Austria. Questo degoo figlio di Rodolfo e più
possente di lai aveva raddoppiati appanaggi paterni, schiac-
ciati i suoi nemici in dodici battaglie campali, ottenuto il nome
di Grande : egli peri assassinato da suo nipote il duca di Sve-
via, di cui riteneva Teredità. Clemente però non giudicò bene
di compiere la sua promessa, e alla vacanza del trono a£frettò
rdesione d'Enrico di Lussemburgo, simulando poi tutto lo sdegno
onde se ne differì la coronazione a quattro anni. Non fu cosi
di quello che provocarono i Veneziani colFoccupazione di Fer*
rara, sa coi pretendeva dominio come feudo ecclesiastico, alla
morte di Azzo d'Este. La bolla che spedi contro loro è delle più
terrìlHli : < Proibisce ogni commercio con essi anche nelle cose
più necessarie al vitto ; li dichiara infami e incapaci di dare e
ricever^ di comparire in giustizia, di esercitare qualunque offi-
cio; espone ogni veneto ad essere messo in ischiavitii di chi-
chesia; depone il doge Soranzo e i senatori tutti dalle loro di-
gnità; confisca i loro beni mobili e stabilì; assolve i sudditi
dal giuramento di fedeltà ed ordina a tutto il clero di uscire
dai loro dominii fra dieci giorni, lasciando i soli necessari ad
amministrare il battesimo ai fanciulli e la penitenza ai mori-
bondi. » Finalmente si predicò la crociata contro di essi: il car-
dinale di Perigue condusse in persona Tesercito, che, guada-
- 158 —
dagoata una sanguinosa battaglia alle sponde del Po, poseFer«
rara nelle mani del papa. Il peggio pe'Veneziani fa che la bolla
venne adempita in più luoghi e nominatamente neiringhilterra;
onde se vollero ricuperare il loro commercio, i loro fondi e la
loro libertà, dovettero colle più umilianti sommissioni strasci-
narsi fino ad Avignone e chieder, perdono a' pie di Clemente.
Un'altra ragguardevole vittoria avevano ottenuta i crociati
in suo nome sovra certi settari di Lombardia i quali negavano
al papa il poter delle chiavi se non era uomo umile e povero
come san Pietro, senza far guerra o perseguitare alcuno. Cle-
mente stesso ne die parte al re di Francia come di un aggra*
devolissima notizia. Questo orribilissimo eresiarca^ dic'egli par-
lando del lor capo Dolcino, dopo un gran macello è stato
preso coirarmi alla mano con molti de'suoi dal vescovo di Ver-
celli, la cui relazione officiale gV invia. Questo sciagurato fa
messo in pezzi insieme con Margherita di Trento sua moglie >
fatta passar per istrega, e le loro membra cosi squarciate furono
date preda alle fiamme. Tali erano le nuove che si ponevano
in testa dalla corte del papa in quei tempi alle lettere che scri-
veva a' regnanti.
L'aflar più serio e che impacciava la più illimitata com-
piacenza ctie Clemente aveva giurata a Filippo fu il procc^
che ei dovè fare al suo predecessore, accusato d'empietà, d'eresia
e dei più tirannici procedimenti. Raro è che la buona fede
fiei papi siasi portata a censurare la condotta dei loro anteces-
sori : contenti talvolta di abolirne qualche particolare decreto,
sempre felice e venerabile è la ricordanza de' nomi papali nelle
bolle apostoliche. Riguardo a Bonifacio, Clemente se ne cavò
alla meglio. 11 processo si fece ; ma tutto fermossi in proroghe»
io interlocutorii, in preliminari : eccezioni, allegazioni iip con*
trarlo, proteste reiterate ogni giorno tirarono in lungo la causa,
sicché non se ne vide mai la sentenza. Finalmente il papa la
differì al concilio generale che sempre colf intelligenza del re
era stato convocato già da quattr'anni, come abbiamo più sopra
accennato.
Questo concilio, computato il decimo fra gli ecumenici, fa
raccolto a Vienna nel Delflnato , in apparenza a purgare la
Chiesa dalle eresie che la infettavano, ma infatti per canoniz-
zare le pretensioni di Filippo e i suoi concordati col papa.
Eravi , a dir vero , bisogno che si pensasse una volta anche a
Questo ramo della episcopale vigilanza, che nei primi tempi for«
— 133 —
man la principale occupazione de' capi zelanti del callo. I papi
sin qni, troppo applicati ad avvantaggiare sa i troni e ne'loro
traiporali diritti , non aveano pensato che a sterminare coloro
che or Tana or Taltra combattevano di queste pretensioni; e in*
tanto namerosi settari saccheggiavano impunemente la morale
cristiana e il resto della disciplioa e del dogma. Noi dobbiamo
dame almen qualche idea , che sarà forse cara a' lettori , non
tanto per gli oscuri loro nomi, quanto per la stravaganza e il
ridicolo de' loro sistemi.
I flagellanti pretendevano che il battesimo d'acqua fosse
inutile senza la flagellazione , che forma quello di sangue : e
perciò questi fanatici andavano processionalmente mezzo ignudi
con verghe alla mano , lacerandosi il corpo con non minore
crodeltà che indecenza , o mescolandosi uomini e donne nei
nottomi congressi sagriflcavano impunemente alla voluttà iicol
pretesto di ubbidire al dogma. I begardi e i beghini predica-
vano che si poteva] in questa vita arrivare a tal perfezione
da divenire impeccabili : e perciò nelle loro assemblee si ab-
bandonavano ad ogni sorta di colpa. La flaminga Marret, raf-
finando su questo dogma , sosteneva che il miglior mezzo di
assicurarsi delPamore divino era il restar insensibile in mezzo
a' carnali piaceri. L'olandese Riccardo volle provare colle sante
Scritture che le mogli debbono essere comuni; il tedesco
LoUardo • che tutti gli uomini debbono essere eguali in for-
tuna. Al contrario il parmigiano Segavella donava il suo
a chi primo incontrava » e credeva imitare gli apostoli por-
tando la barba , un abito grigio, un mantello bianco, una
cintara e de' sandali. Questa ruvidezza esteriore non impedi
che molte femmine cercassero santificarsi colla sua confidenza;
Questo però era generale a tutti i settari , e V intera libertà
che accordavano non poteva che procurare loro un' infinità di
proseliti.
II concilio di Vienna confuse nella seconda sessione (la
prima non era stata che preparatoria) tutti questi fanatici con
alcani francescani caparbii che veneravano un loro confra-
tello detto Giovan-Pietro-Oliva, coi templari, dei quali il papa
PQtMicò la soppressione, con Bonifacio Vili. Era presente il re
Filippo : tre cardinali pariarono in difesa di questo papa dinanzi
a loi, e due cavalieri catalani si esibirono a combattere per lo
stesso fine ; per lo che il re e i suoi fratelli mostrarono di re-
star soddisfatti. Allora il concilio dichiarò che papa Bonifacio
era stato cattolico né avea fatto cosa alcuna che costitaisse reo
d'eresia , ma , per contentare. Filippo, si lesse contemporanea*^
mente un decreto che proitriiva di mai rinfacciare al re e a'sncM
successori ciò 6h' ^li avea fatto contro di lui. Si rivocò an-
cora solennemente la bolla Clericis laicos con tutte le sue di-
chiarazioni e quanto in conseguenza ne venne.
Nella terza ed ultima sessione, tenuta otto mesi dopo la prima»
si parlò della riforma del clero : i suoi abiti debbono essere d'un
solo colore, niun d'essi può portar armi, far Toste o il macellaro»
né esercitarsi al commercio. Gli fu levata la cura degli ospedali
ed affidata a'iaici con certe regole per allontanarne le usurpa-
zioni e le frodi, e con obbligo di renderne ciascun anno a' ve-
scovi un conto esatto. ^ trattò a lungo delle esorbitanti esen-
sioni de' frati, e furon ristrette, abrogando una bolla di Bene-
detto XI che le favoriva, si sperava che anche i monaci fossero
ristretti al dritto comune, ma alcuni regali di que' di Cibila
fecero forse cangiar pensiero a Clemente. Furon posti de'saggi
ritegni alla condotta delle monache , le quali in que' tempi
portavano drappi é pelli preziose , si acconciavano con grande
eleganza i capegli, frequentavano le danze e le feste, e passeg-
giavano anche di notte per le pubbliche strade. Non » trova
che fino allora vi fosse la clausura monastica. Il concilio ter-
minò al solito col pubblicar la crociata per terra-santa , a coi
dava facil lusinga la conquista di Rodi , fatta due anni avanti
dai cavalieri gerosolimitani, che perciò vennero poi chiamati
cavalieri di Rodi.
Cosi si cuopriva di gloria e cresceva in potenza uno di
questi ordini già tanto celebri in Palestina, mentre F^ltr» era
il ludibrio della maldicenza e lo scopo della vendetta de' suoi
possenti avversari. Le fiamme che di tempo in tempo consu^
marono i più ragguardevoli tra'cavalieri templari non si estin-
sero che alla morie dei loro tiranni. Un più rischiarato giudizio,
quello della posterità, ha in seguito purgato quest'ordine dalle
Vili imputazioni che gli furono apposte. Ma non è da tacersi
che la sua sorte fu fin d'allora onorata dalle lagrime d^li
uomini probi, e che la superstizione stessa travide nella morte
del papa e del re la vendetta celeste sull' innocenza persegui-
tata. Filippo e Clemente morirono appunto, si dice, nel termina
fissato dal gran maestro il giorno del suo supplizio: entro l'anno
Filippo, ed entro un mese Clemente. Da questo papa prendono
il nome le clementine ^ che sono una raccolta di leggi da luì
— 155 —
emanate la maggior parte al coDcilìo, divisa in ciogoé libri, la
4]oaie prima cbiamavasi il Settimo delle decretali. Non gli si
pQò negare molta dottrìDa e ana mirabile isiancabilità , ma la
sua avarizia ed il suo genio sanguinario e persecutore resero
il suo pontificato d'affliggente memoria alla Chiesa. Egli è ancora
imputato d' aver rinnovato nella sede apostolica V esempio di
Se^io III per la sua famigliarità colla bella duchessa di Périgord,
da cui lasciavasi interamente dirigere.
Bla gli scandali di questo papa sono ben poca cosa rispetto
a quelli delF avaro superstizioso Giovanni XXII , assunto alla
cattedra dopo uno de' più procellosi e lunghi interregni. La
cabala de' Guasconi disperse a un tratto i cardinali adunati in
conclaye; il sangue degl'Italiani scorse nel Rodano, e le sostanze
di quegli che seguivano la corte furono saccheggiate coH'immenso
tesoro di Clemente Y, che ascendeva a trecento mila fiorini ,
somma esorbitante in quel tempo. Giovanni ne riparò ben presto
la perdita; sotto di lui lutto divenne venale: egli moltiplicò i
-vescovadi e le traslazioni , inventò 1' uso delle riserve e fece
pubblico appalto d'ogni privilegio e. indulgenza.
Quello però che ' distinse il suo lungo pontificato fu lo
scisma dei francescani e le contese ch'egli ebbe con quest'ordine
stravagante. 1 suoi individui erano già da gran tempo fra loro
in rotta si riguardo alla spiegazione della regola quanto per la
forma de' loro abiti e la qualificazione della povertà serafica.
Giovanni ne accrebbe i contrasti, facendo divenir queste dispute
•un affare d'importanza. Tutta l'Europa vi s'interessò, e la discor-
dia giunse ad eccessi tali da costare la vita ad un nua>ero
grande di frati superstiziosi e ribelli. Fra essi alcun si vantava
che san Francesco avea portato sulla terra un vangelo più per-
fetto di quello di Gesù Cristo. Altri si ostinavano sulla povertà
che comanda la regola, sino a credere che i loro alimenti fosser
del papa nell'atto stesso che ne mangiavano e voleano fame in
suo nome la digestione. Molti finalmente faceano dipendere la
loro maggior perfezione da un color bigio o nero, da un abito
lungo 0 stretto e da un cappuccio più o meno acuto. Non si
potrebbe figurare facilmente l' ostinazione con cui questi pazzi
sostenevano le loro opinioni, e meno il furore con cui erano
perseguitati. 11 papa aveva già date fuori più bolle per contrasti
coffl ridicoli, molte delle quali essendo in aperta contraddizione
C6D altre, dei suoi predecessori, non fecero che accrescere i
^ubbidienti e i fanatici. Si pose finalmente a volerla vinta
— 156 r-
colla violenza e col sangue. Conventi interi furono dispersi col-
l'armi, se ne empiron le carceri, e i più caparbi si condanna-
vano al fuoco. In tal guisa, perirono molti Ae'spirituali de'^a-
ticelli e ée'bizocchi, chiamati dal papa uomini di profana vita e
pericolosi scismatici. Il solo affar del cappuccio accese in Frauda
e in Germania più roghi di qualunque delitto di stato» e Gio-
vanni XXII dicea gravemente che non si potea sanare tanto
male se non coi più violenti rimedi.
La persecuzione contro uomini che il volgo autorizzava per
santi (Giovanni -Pico-Oliva e Giovanni da Parma) moltiplicava i
torbidi ed accresceva tuttodì i nemici del papa , molti dei
quali a meno non agognavano che a balzarlo dal trono. Gio-
vanni XXII dovea vivere fra continue agitazioni e timori. Fin
da' primi anni del suo pontificato si tramò alla sua vita, e il
vescovo di Cahors venne abbruciato come reo di tale perfidia,
il papa temeva più ch'altro i veleni e i sortilegi : mentre accu-
sava la superstizione de' maghi, deplorava le debolezze de' ve-
neflciie de' filtri, puniva colle fiamme gl'incantatori e gli stre-
goni ; superstizioso all'eccesso , ei medesimo faceva uso degli
incantesimi a discoprire i suoi assassini, e sul più debole in-
dizio ne riempiva le carceri, ne spingeva a' supplizi, e impin-
guava colle Confische il suo erario.
La persecuzione intimata ai frati e alle streghe non impe-
diva a papa Giovanni d'intrigarsi ^ negli affari dei principi e
distribuire corone e regni. Da due secoli e mezzo la Polonia
era senza re : dappoiché il terribile Gregorio VII ne avea spo-
gliato Boleslao II, reo del sangue del vescovo di Cracovia, nes-
suno avea ardito prenderne il titolo. Giovanni XX II volle farlo
rivivere in occasione della contesa che fu portata al suo trono fra
Ladislao duca di Sandomiria e Giovanni re di Boemia figlio
dell'imperadore Enrico VII. Il papa lo destinava a quest'ultimo;
ma i Polacchi non aspettarono la decisione ch'egli erasi riser-
vata e coronarono solennemente in Cracovia il duca Ladislao,
che Giovanni in seguito tacitamente approvò dandogli il titolo
di re in una lettera che per altri affari gli scrisse. Non si sa
perchè prendesse con tanta calma codesta rivoluzione dei di-
ritti papali: certo non fu cosi facile a tollerare l'usurpazione
di Matteo Visconti, che facevasi chiamare principe e signore di
Milano. Egli era il capo de' ghibellini in Lombardia , e perciò
le scomuniche tennero dietro alla nuova qualificazione. Sic-
come però non faceva, 4' esse Matteo maggior conto che degli
— 157 —
eserciti gaelfi, gli si fece un processo come ad eretico, perchè
avesse il giudice ecclesiastico un migliore pretesto ondQ spo-
gliarlo dei suoi averi e delle sue dignità, giusta il recente ca-
none del concilio di Vienna. Si fece lo stesso contro Rinaldo
Passerino e Can della Scala, che si erano impadroniti di Man-
tova e di Verona.
Ma tutti questi procedimenti non valeano contro gente ben
armata, né ritardavano i loro militari successi. Matteo Visconti
morì professando altamente in faccia agli altari il suo caltoli-
cismo e lasciò a' suoi cinque figli i suoi titoli e le sue signorie
Milano però era assediata da' guelfi condotti in persona dal
cardinale legato: esso implorò Tdjuto dell'imperatore , e Luigi
di Baviera, che già da ott'anni ne portava il titolo, non credè
di poter ricusarvisi. L'alterigia colla quale il cardinale coman-
dante in capo ricevè gli ambasciadori alemanni indispetti il
loro sovrano, e il capo dell'ambasciata portossi alla testa
di tutti i ghibellini di Lombardia , piombò sui guelfi, ne fece
macello e liberò la città. Questa fu l'origine di tutte le disgrazie
del Bavaro.
Luigi era stato eletto in sede vacante dopo la morte di
Enrico VU. Cinque elettori gli avean tolta la corona imperiale,
e' I suo valore gliel'avea assicurata contro Federigo d'Austria
figlio d'Alt)erto il Grande, nominato dagli altri due. Una san-
guinosa battaglia ponendo l'Austriaco ne' ferri del suo rivale,
lo avea obbligato a cedergli ogni suo diritto : ma l'anno stesso
la sua cattiva fortuna precipitò di nuovo i suoi interessi met-
tendolo in contesa col papa. Giovanni, lagnandosi che senza
ricorrere a lui per ottenere la corona si fosse fatto giurare
fedellà da' vassalli dell'impero romano, e che avesse sostenuti
i Visconti giuridicamente convinti d^eresia, gli comandò super-
bamente ^di deporre il titolo di re de'Romani e di cassare tutti
gli atti da lui eseguiti in tal qualità. Un modo si altero irritò
Uigi: egli protestò altamente contro le pretensioni del papa,
si appellò alla santa sede e ad un generale concilio, che disse
▼oler convocare. Assai men ci voleva a provocare Giovanni XXII:
l'odio implacabile che gli giurò fece risorgere nell' Alemagna
^ in Italia le fazioni e le guerre che da tanto tempo tacevano,
0 si rinnovarono tutti i disordini ed i furori de' Svevi e dei
Federighi.
ÀI primo scoppio della querela corsero tosto sotto i sten-
<hrdi del Bavaro quarlti* nemici s'avea fatto il pontefice ; i frati
Tamb. Inquis. Voi. 11. 18
— 158 —
pérsegoitati furono dei primi. Mentre i Visconti e i Scaligeri scoa
<^rtavano colle loro viltorie il partito guelfo, spargevano es4
libri incendiari! contro del papa lo trattavano da usurpatore e ^
eretico, né con altro nome il chiamavano che di signor Gior
vanni Ma più d' ogni altro valse in questa sorta di guerra i
Luigi l'eloquenza e Perudizione di Marsilio da Padova, scrittori
pericoloso, le cui massime fecero guerra al pontificato romano
fin nella tomba e somministrarono tant'arme a'suoì nemici. Que*
sto intraprendente dottore gli pose sotfocchio Tautorità dei greci
imperadori nel governo ecclesiastico e gli suggerì dMmitarii
Luigi non accettò interamente questa opinione, ma se ne pre«
valse contro la persona del papa per rendere la pariglia a chi
lo avea deposto. Infatti, sceso poco dopo in Italia, corteggiate
dai francescani col loro generale Michele da Cesena alla testa
marciò direttamente a Roma, dove, abjurando i pontefici d'Avi^
none, cinse la fronte d'un d'essi della tiara papale.
Mentre però egli trìonfava in Roma , e il nuovo papa coi
nome di Nicolò Y lo coronava solennemente nel Vaticano , k
scomuniche del suo avversano, maneggiate dal clero, soffiava-
no la discordia neirAlemagna e lo costrinsero ad abbandonare
ritalia e il suo papa. Luigi lottò con coraggio contro i ribelli e
protrasse a più anni la guerra , sempre sperando e tentandc
spesso un accordo col papa, che non potè mai ottenere. Ma Ni-
colò, fatto assai presto prigioniero dai guelfi e condotto in Avi-
gnone, vi fu da prima ricevuto con un'umanità che non si sa-
rebbe aspettata dalla fierezza del suo rivale: ma poco dopo, rin-
chiuso in prigione, dovette piangervi sino alla morte la follia
di essersi prestato a servir di strumento alla collera nelle con-
tese dei grandi. L'ordine francescano, scosso dal terrorismo, rien-*
trò nel!' ubbidienza ; Michele da Cesena , Guglielmo Occamo e
Buonagrazia da Bergamo durarono soli a sostenere lo scisma
con Ficino e pochi altri.
Le contese sul genere di povertà praticata da Gesù Cristo,
e che san Francesco voleva imitala nell'ordine suo, duravano
ancora, quando papa Giovanni ne condusse una nuova, che, seb-
bene non avesse le agitazioni dell' altra, non lasciò di turbare
anch'essa la Chiesa i due ultimi anni della sua vita. Egli inse-
gnava: t Che i santi prima della morte di Gesù Cristo erano
nel seno di Abramo; quindi passavano sotto l'altare ad aspet-
tarvi il di del giudizio ; dopo il quale solamente salivano sopra
d'esso a godere della beata visione di Dio, che forma la felicità
- IS9 —
M paradiso. » Quest'opinione, spiegata da lui pol>blicamente in
■D'omelia, sostenuta con ostinazione in concistoro ad oggetto
i formarne una bolla, fu poi ritrattata con ugual debolezza due
nni dopo al punto della sua morte. Servi però di nuovo im*
^zzo a' teologi sostenitori deir infallibilità pontificia, che di*
ilinguono il papa cbe parla in cattedra dal papa che parla da
iriTalo dottore. Giovanni XXII lasciò alla camera apostolica un
iDgue tesoro: vi si trovarono diciotto milioni di fiorini in oro
ontante, e tre milioni in vasellame, croci, corone, mitre e
ioielli.
La prima operazione di Benedetto XII, terzo papa francese,
1 di condannare apertamente il sistema del suo predecessore in-
Nmo alla visione beatifica^ non meno che tutti gli atti di si-
ionia e d'avarizia che avevano impinguato il suo erario. Si
usti principii diedero luogo a sperare che sotto un pontefice
»i virtuoso e saggio sarebbesi alfine ristorata la gloria della
de apostolica, dai due precedenti pontificati deturpata mise-
imente. Benedetto avea infatti le qualità d'un ottimo papa e mise
avvero la mano alPopra. Una riforma generale di tutti gli or-
ni religiosi che ingombravano la Chiesa segui da presso quella
dia sua corte; e non mancò da lui che una generale pacifi-
zione avvenisse in tutta la cristiana repubblica. Queste In-
voli intenzioni del buon pontefice animarono Luigi il Bavaro
domandare ud nuovo accordo é la sua amicizia; e Tuno e
Itra egli avrebbe facilmente ottenuto, senza gì' intrighi di
lippe di Yalois, che dopo la morte di Carlo il Beilo avea
>rtato sul trono un nuovo ramo Capete. Questo prìncipe,
i era interesse mantenere la discordia neirimpero germanico,
^ andar a vuoto il trattato, e la guerra fra' due partiti con-
ino.
Più che ogni altra provincia d'Europa sperò Tltalia che, se
fosse potuto ottenere da Ini che vi riportasse la sede sotto
i auspicii del più rispettabile fra'suoi sovrani, le sarebbe tor-
ito il suo primo splendore. Due possenti nazioni straniere se
disputavano il Mezzogiorno: i Francesi e gli Aragonesi vi
ino a vicenda vincitori e scacciati, e gli abitanti delie Due Si-
ie, fatti conquista or degli uni or degli altri, non facevano che
gravare le loro disgrazie, prestandosi a servire T animosità
loro oppressori rivali. Venti tiranni ne straziavano il Nord,
ioni ghibelline e guelfe divìdevano ogni villaggio in furiosi
titi: vi davano continue battaglie, e nelle mura della stessa
— 140 —
città si battevano furiosamente cittadini pel falso onore d'es-
sere fedeli all'imperatore od al papa. Le alternate vittorie dei due
partiti erano sempre segnate dalle più crudeli vendette, che non
rispettavano sangue, carattere, età. In seguito dal colmo della
più feroce anarchia delle già. vacillanti repubbliche risorse gi-
gantesco il dispotismo, e i Visconti, gli Estensi, i Carrara, i Sca-
ligeri, i Pepoli, i Passerini opprimevano, ciascuno nella sua
patria, quella bella parte d'Italia che dovea un giorno formare
il territorio <li una nuova repubblica, delle prime più tranquilla
e felice.
Gli Stati del papa, privi della presenza doloro sovrani,
erano più degli altri in preda alla confusione e al disordine.
Le famiglie più poderose, impadronitesi a mano a mano dei
varil castelli che circondavano Roma, vi si erano formata una
specie di sovranità. Nemiche implacabili Tuna delFaltra, si fa-
cevano una guerra continua che minava i popoli, inceppava il
commercio e desolava F agricoltura. Col favore di queste di-
scordie, immense truppe di ladri, di sediziosi, di banditi delle
vicine repubbliche vi accorrevano ad accumularvi tutti i mali
della guerra civile e della militare licenza. Roma, più agitata
ancora delle città soggette, era meno la capitale d'uno Stato so-
vrano e il centro della religione cristiana che un asilo di as-
sassini feroci che altra regola non conoscevano fuori della vio-
lenza né altro Dio che Tinteresse. Gli abitanti, divisi in cento
azioni, marciavano sotto altrettanti capi, il cui furore spargeva
di sangue le strade ed espillava non meno le chiese che i pel-
legrini che andavano a visitarle. I Colonna e gli Orsini erano
' alla testa deMue principali partiti, la cui animosità era aumen-
tata dall'odio personale di queste due grandi famiglie.
In tale deplorabile stato Roma stendeva la mano suppli-
chevole a'suoi pontefici e mostrava loro le sue sciagure. Bene-
detto XXII avrebbe potuto rimediarvi in gran parte col tagliare
la sua contesa colPimperatore Luigi, che si esibiva pronto a
ogni patto, e col tornarsene a Roma, come sembrava esigerlo
la disciplina che obbliga i vescovi a risiedere al loro titolo. Al-
Tuno e air altro opponevasi la sua nazionalità , che lo tenea
ligio del re e troppo attaccato ai. vantaggi del suo paese. Fece
però quanto potè: promettea tuttodì il suo ritorno e spediva
bolle e legati di pace. Le sue premure giunsero almeno a pa«
ciflcare la Lombardia, ma fu a prezzo della sua libertà e con
un nuovo attentato su i troni. Alcuni di quei tiranni, per dar
- 141 —
qualche colore alle loro osarpaiioDù si ass(^getUrono al papa;
ed ei li rìcoDobbe vicari delPimpero nelle rìspeUive città« du-
rante rioterregQo, poicbè Roma teoea vacante il trono dei
cesari
La principale occupazione però di questo buon papa era la
riunione de'Greci, che Andronico Paleologo» nuovo impp*^lore
di Costantinopoli, gli fece proporre col mezzo di un abaie ve-^
nuto espressamente dal Bosforo. Questo Andronico» stanco di
vedere l'avolo suo, figliuolo di Michele, occupare; da cinquan-
t'anni il suo trono, ne lo avea barbaramente scacciato rinchiu*
dondolo in un monastero. Il tiipore de'Turchi e del re di Na*
poli, eredi decritti degrimperatori greco-francesi, era quello che
spingea tratto tratto questi deboli despoti al soglio romano; ma
essi ben conoscevano rimpossibilità di riamalgamare due chiese
che, partite dal punto stesso, se ne erano per otto secoli allon-
tanate cotanto. La virtù di Benedetto gii nascondea la mala fede
de'Greci, e vi si dedicò con tutto lo zelo di Gregorio X; ma fu
ancora meno felice di lui. L'abate greco ritornò a Costantinopoli
pcHtando lettere al re di Napoli esprimenti Tamicizìa che 11 papa
avea pel moiì^atore de" Greci. Questo fu tutto l'effetto delFam-
bascìata.
Benedetto mori in Avignone Panno ottavo del suo pontifi-
cato, e Clemente VI suo successore, anch'egli francese, continuò
a tenere in quella città la sua se^e. Egli era d'assai diverso
carattere; mentre l'Italia e Roma vedevano ogni dì crescere i
torbidi, indifferente a' loro pianti attendeva alle lettere, ascol-
tava le rime dell'innamorato Petrarca, volea conoscere l'oggetto
che le facea nascere e rimunerava di pingui beneficii i poeti e
le muse. Se talvolta ricordavasi Clemente d'esser pontefice, non
era che per estenderne i diritti, o spingeva il suo zelo affettato
a favorire le missioni d'Oriente, a sedar lo scisma d'alcuni frati,
a censurare seriamente alcune opinioni che una più rischiarata
posterità avrebbe condannate all'oblio. La Grecia e la Palestina
entrarono anch'esse per formalità d'uso a far parte delle sue
occupazioni. Ma dove non risparmiò né pensieri né premura
fu contro il Bavaro, che avea stancati gli anatemi de'due im-
mediati suoi predecessori. Invano Luigi aveva anche a questo
pontefice domandato la pace: non si volle accordargliela che
die più umilianti condizioni, da'principi stessi dell'impero ra-
dunati a Francfort giudicate indegne della maestà del trono e
contrarie a'dirilti del corpo germanico. Il papa non desistè per
— 142 —
questo: finalmente i raggiri d'Avignone, le grida del clero ale-
manno e le arti più vili del re di Boemia determinarono gli
elettori a balzarlo dal trono per fargli succedere il figlio di
questo re, Carlo di Lussemburgo. In cotal guisa .ritornò al ni*
potè la corona d'Enrico Vili; ma egli non l'avrebbe goduta
pacificamente se Luigi non fosse morto alla caccia V anno se-
guente d'un colpo apoplettico, che in quel secolo fu giudicato
castigo del cielo.
Il nuovo imperatore Carlo lY ricompensò il favore del papa
mostrandosi interamente ligio alle sue pretensioni Uno de'prìmi
atti di sua sovranità fu d^approvare l'acquisto da lui fatto della
contea d'Avignone, fino allora tenuta in feudo imperiale, e che
r imperatore accordò che fosse posseduta dai papi come terra
interamente libera. Clemente l'avea comperata coli' esborso di
ottantamila fiorini d'oro dalla regina di Napoli Giovanna d'Angiò.
Questa donna, famosa per l'incostanza non meno de'suoi amori,
che delle sue vicende, era allora alla corte del papa in figura
di re , e lorda del sangue d' uno sposo indegno di lei , perse-
guitata da un inesorabile cognato, il re d' Ungheria , obbligata
a salvarsi in Provenza coi complici del suo delitto, sfuggi appena
all'estremo supplizio col favore di Clemente, sensibile forse pib
all'eloquenza di questa donna che alla giustizia della causa di
lei. Il papa le diede la vita , il regno , un nuovo sposo e il
denaro per tornare in Italia.
CAPITOLO Vili.
Dante sospetto d'eresie.
Il pia gran genio che vanti V Italia, che riani in sé solo
tatto Io scibile dell'età soa, corse pericolo di cadere sotto ria-
qaisizioDe, se per sciagara fosse in vita cadato sotto gli artigli
del papato. Fa V ira del sacerdozio cotanto accanita contro di
lai che il cardinale del Poggetto gianto a Ravenna minacciò
di far disseppellire le spoglie mortali deirAlighieri e porle sai
rogo. Dante fa accasato d'eresia, e crediamo più presto per ira
sacerdotale che per altro. Né mai nelle sue opere trapelò parola
che desse indizio d'esser egli infetto d' eresia. L' ira che sovente
natriva contro gli abasi che vigoreggiavano in qaest' epoca
nella corte di Roma, epoca di generale corruzione, imperciocché
anche presso la corte dei principi succedevano scandali e delitti,
fa la causa principale della vendetta del cardinale. Dante visse
ramingo , recando ovunque amarissimo sdegno contro coloro
che r aveano proscritto. Ed il culto in cui tenni per tutta la
vita questo sommo luminare non solo nella poesia , ma nella
teologia , che gareggiare può nella medesima con s. Tommaso
d'Aquino, mi sforza a dire qualche cosa di lui, che mi fa ritor-
nare agli anni della mia giovinezza.
e Di tutti i miseri m' incresce , ma ho maggior pietà di
coloro i quali in esilio affliggendosi rivedono solamente in
sogno le patrie loro. » Cosi scrivea Dante nel suo trattato della
Volgare eloquenza : ciò nullameno eleggeva di starsi in perpetuo
bando anziché tornare alla patria per vie convenienti solo ad
— 144 —
nomini depressi e senza fama. Erano queste a lui già proposte:
che egli per certo spazio di tempo si stesse prigione, indi in
alcuna solennità, tratto a pompa de' nemici con cero in mano
e mitera in capo , fosse misericordievoimente alla ptìncipale
chiesa offerto. Del preso decreto ebbe Dante contezza per buona
Dante Alighieri,
persona, cui risponde: < Questo è adunque il glorioso modo
per cui Dante Alighieri si richiama alla patria, dopo V affanno
di un esilio quasi trilustre ? Questo è il merito dell'innocenza
mia, che tutti sanno ? E il largo sudore e le fatiche durate
negli studi mi fruttano questo? Lungi da un uomo alla filosofia
consacrato questa temeraria bassezza , propria di un cuor di
fango; e che io a guisa di prigione sostenga di vedermi offerto,
come lo sosterrebbe qualche misero saputello o qualunque sa
vivere senza fama. Lungi da me banditore della rettitudine che
io mi faccia tributario a quelli che m' offendono, come se elli
avessero meritato bene di me. Non è questa la via per ritor-
nare alla patria, o patire mio. Ma se altra per voi o per altri
— 145 —
si troverà che non tolga ooore a Dante né fama, ecco Taccetto,
De i miei passi saranno lenti. Se poi a Firenze non s'entra per
QDa Yia d' onore, io non entrerovvi giammai. E che? Forse il
sole e le stelle non si veggono da ogni terra? E non potrò
meditare sotto ogni plaga del cielo la dolce verità, s' io prima
non mi faccio nomo senza gloria , anzi d' ignominia al mio
popolo ed alla patria ? >
i Fece tre nobili pistole, scrive il Villani : Tona mandò al
reggimento di Firenze» dogliendosi del sno esilio senza colpa;
r altra mandò air imperatore Arrigo , qoando era allo assedio
di Brescia; la terza a'cardinali italiani, quando era la vacazione
dopo la morte di papa Clemente , acciò che s' accordassono a
eleggere papa italiano : tutte in latino, con alto dittato e con
eccellenti sentenzio e antoritadi ; le quali furono molto com-
mendate dai savi intenditori, i Scrisse una lettera al re d'Un-
gheria con questo principio : Magna de te fama in omnes dis-
^pata, rex dignissime, coegit me indignum exponere manum
calamo et ad tuam humanitatem accedere. Altra ne scrisse a
Bonifacio Vili, la quale cosi cominciava : Beatitudinis Tuce san-
ctitas nihil potest cogitare pollutum, quas, vices in terris gerens
Christi, totius est misericordice sedes, verce pietatis exemplum,
mnm(B religionis apex. Ma questa lettera dovette essere scritta
a Bonifacio assunto al pontificato. Altra al figlio a Bologna con
questo comìnciamento : Scientia, mi fili, coronai homines et eos
mtentos redditi quam cupiunt insipientes, honorant boni, vitu-
ferant maK.- Altra ei cardinali italiani, dove dolevasi delle cor-
rottele d'allora.
A tutti è noto deir ospitalità aperta al profugo illustre
Scaligeri. Solo qui ne rimane a dire che ogni cenno ad
onore di quella famiglia consecrato nella Divina Commedia
sembra riferirsi a tarda epoca e tutta contrassegnata dalla già
fiorente gloria di Cane. Né Dante era tale da secondare strani
presagi senza base di già occorso adempimento; e presso che
tolto quanto vedesi nella Commedia pronosticato, era in effetto
qnand'ei mostrava udirne dai trapassati la predizione. Con
QQesta norma non sappiamo noi assentire che in que'vocaboli
E sua Dazion sarà tra Feltro e Feltro
signiflcar volesse la nascita o la patria di Cane: intendiamo
ao7j che dir volesse popolazione e nazione da Cane signoreg-
Tamb. fn^Mi*. Voi II. 19
— 146 —
giata, e venisse cosi a significare come Cane mostrava d'avere
ad essere salute di tutta la Romagna, se già allora non era. E
il Villani contemporaneo scrSvea : e Fu adem()iuta la profezia
di maestro Scotto, che il Can^ di Verona sarebbe signore di
Padova e di tutta la Marca Trivigiana. i Ma ben presto Tnomo
della verità e deilla rettitudine cadde nello sfavore del potente.
Ebbesi veramente TAlighieri da'vari amici delle lettere ospizio
e favore. Ma la virtù trova ricetto presso i grandi soltanto a
forza di prudenza e di pazienza ; né queste erano le virtb che
raccomandare più potessero Tesule ghibellino. Egli rìguardavasi
ancora e voleva essere riguardato quai uno de'già priori^ d'una
serenìssima repubblica e quale antico amorevole d' un Carlo
Martello e d'un Nino de'Visconti. Gli ospiti dello sventurato si
reputavano male rimunerati da quella gratitudine che non
andava mai disgiunta dalla nobile sua naturale alterezza. Già
le corti tardi sanno addarsi delle virtù e rado o non mai di
quelle cadute in umile e basso stalo : quindi nessun signore
pensò seriamente a ristorarlo de'snoi danni. Non v'ha cosa che
consumi sé stessa presso i potenti quanto la liberalità. Tanto
poi il condursi heue nelle case de'grandi è più difQcile, quanto
più abbiasi ragionevolmente di sé stesso buona opinione. E
Dante, di nobile schiatta, avea singolarmente in odio quo' che,
sortito avendo oscuri natali , si erano fatti potenti colla forza
e coir astuzia. Nello aderirsi or alP uno or air altro di quei
signori, chiamava sempre in soccorso d'Italia un sommo im-
perante.
Aveva Arrigo fatto invitare nel 1310 i Fiorentini a prestargli
omaggio a Losanna negli Svizzeri. Dante, per colà avviato, ebbe
un abboccamento con quel frate Ilario monaco del convento di
Corvo alle foci della Macra , che poi dedicò la cantica dell' In-
ferno a messere Uguccione della Faggiuola vicario imperiale in
Genova, e che scrisse la relazione di quell'abboccamento. Era
egli probabilmente incamminato per quelle parti quando scrivea:
« Tra Lerici e Turbia. la più diserta,
La più romita via è una scala,
Verso di quella, agevole ed aperta »,
scontrandosi Lerici a' confini della riviera di Genova da levante,
vicino al castello di Vezzano, e Turbia da ponente presso a
Monaco. Argomentatosi anzi che fino dal 1308 si recasse a tal
— i47 —
ìaapo in Germania ed ìtì scrìvendo si stesse il XXIII canto del-
rinfernc' per aver egli indicata l'Italia, come da lai lontana,
eon qoel verso
t Del bel paese là dove il si suona. •
Per essere poi al fatto di ciò che avveniva, venne Dante in To-
scaneila, piccola città del Patrimonio dì s. Pietro, di dove scrìsse
ai perversi nemici snoi una lettera piena di acerbi detti ; non
a torto irritato, in veggendo per la riforma di Baldo di Agn-
gliene del 6 settembre 1311 revocati gli esuli con generosa am-
nistia , ma proscritto novellamente e duramente il suo nome.
Altra lettera scriveva Dante air imperatore , nella quale cosi
osava eccitarìo: < Come tu, successore di Cesare e di Augusto,
passando i gioghi d' Apennino , gli onorevoli segni romani di
monte Tarpeo recasti, al postutto i sospiri sostarono e le lagrime
mancarono : e siccome il sole molto desiderato levandosi, cosi la
noova speranza di miglior secolo a Italia risplendè. Allora molti
tegnendo innanzi a lor desideri! , in gioia con Virgilio , cosi 1
regni di Saturno, come la vergine , ritornando cantavano ....
Ha cbe con si tarda pigrezza dimori , noi ci meravigliamo ,
quando, già molto, tu vincitore nella valle .del Po dimori non
lungi. Toscana abbandoni , lascila e dimentichila .... Tu cosi
Tornando come tardando a Milano dimori e pensi spegnere per
lo tagliamento de' capi la velenosissima idra ? Ma se tu ti
ricordassi le cose magniQche fatte gloriosamente da Alcide,
conosceresti che tu se* cosi ingannato come colui al quale il
pestilenzioso animale ripollando con teste per danno cresceva
ioAno a tanto che quello magnanimo istantaneamente tagliò il
capo della vita ... . Che, o principe solo del mondo, annunzierai
tu aver fatto ? quando avrai piegato il collo della contumace
Cremona , non si volgerà la subita rabbia o in Brescia o in
Pavia? Si, farà certo: la quale altresì, qpando ella sarà stata
flagellata, incontanente un^altra rabbia si rivolgerà o in Ver-
celli e in Bergamo o altrove ; ed inflnattanto andrà facendo cosi
che sia tolta via la ^radichevole cagione di quel pizzicore e
divelta la radice di tanto errore. Col tronco i pungenti rami
inaridiscono. Signore, tu eccellentissimo principe de'principi sei
e non comprendi nello sguardo della somma altezza ove la
volpicella di questo puzzo, sicura da* cacciatori , si giaccia. In
verità non nel corrente Po né nel tuo Tevere questa frodolente
ghìbelliDi faorosciti della Toscana, e Dante era già fra i primi
del suo supremo consiglio e scriveva forse il suo trattato DeUa
monarchia, che poscia dedicò ai bavaro Lodovico. Arrigo passò
pel distretto dei Perugini, lasciando vive orme di ostilità, giunse
bene accolto ad Arezzo, invadendo quindi il territorio dei Fio-
rentini, prese monte Yarctii, San Giovanni e Figline, e mise a
sacco e fuoco il contado. La Signoria di Firenze fece partire
1800 lance ed un grosso corpo di pedoni pel castello d'Ancisa,
posto suir Arno a quindici miglia da Firenze. L' imperatore »
diretto dai ghibellini , girò intorno al castello per una strada
che attraversa le montagne e venne ad accamparsi tra TAncisa
e Firenze, e precisamente nei piano delFAncisa suirisola d'Ama
che si chiama il Mezzule; ma intanto Tesercito fiorentino, avan-
zandosi di notte per strade sviate, potè rientrare in città. II
giorno 19 settembre 1312 V imperatore passò TArno ove in
esso fiume entra la Melsola , pose il suo quartiere generale a
San Casciano castello propinquo a Firenze, a otto miglia, iodi
attendessi con mille cavalieri alia badia a San Salvi, un miglio
appena distante da detta città , e dimorò a queir assedio fino
air ultimo d' ottobre senza dare battaglia. Firenze , ansi che
lasciarsi intimidire, ardiva sfidare la potenza di lui, méntre pur
trovavasi accampato alle sue porte. Col nuovo anno aveva egli
lasciata quella città: andò il 6 gennaio del 1313 a stabilirsi a
Poggibonzi sulla strada di Siena , ove fabbricò un castello da
lui nominato imperiale; ma il 6 marzo avviossi verso Pisa. Papa
Clemente V gli facea sorda guerra. Arrigo volse l'esercito a'danni
di Roberto, il quale, proclamato rettore, governatore, protettore
e sotto diverse condizioni signore della Repubblica fiorentina,
le avea già mandalo a soccorso neirantecedente anno don Luigi
di Raona con cento cavalieri. Enrico avea contratta alleanza
con Federico re di Sicilia; questi armò cinquanta galere, sbarcò
mille cavalieri in Calabria , s' impadronì di Reggio e d' alcune
altre città. L'imperatore il 5 agosto del 1313 s'avviava contro
Napoli con duemilacinquecento cavalieri d'Àlemagna, con altri
millecinquecento italiani e con proporzionato numero di pedoni.
Potenti giungevano i rinforzi, quando Enrico cadde infermo a
Buonconvenlo, castello dei Sanesi dodici miglia al di là di Siena;
il giorno 24 agosto del 1313 si avverò la dolorosa predizione
del vate.
Il cavaliere Ranieri del già messere Zaccaria da Orvieto, vi-
cario del re Roberto di Napoli in Firenze, riconfermò la con-
— 151 —
danna di Dante del 10 mai^o 1302 con nuova sentenza nelPot*
tobre del 131K. I/abate Mehos attesta di aver veduto pur con-
fermato r esilio di Dante nelle riformazioni fatte nel 1317 da
un Hubaldo d'Aguglione giurista. Forse il re Roberto volle no-
vellamente dannato rAlighieri avendo risaputo essere stato da
lui chiamate re da sermone , o più veramente perchè il poeta
soldato gli fosse formidabile nemico nella battaglia sulla Nie-
vole, nella quale perirono Pietro d'Angiò, Carlo di Taranto e i
principali dei guelfi.
Oderìsi, parlando a Dante di Provenzano Salvani, dicea:
« E li, per trar l'amico suo di pena,
Che sostenea nella prigion di Carlo,
Si condusse a tremar per ogni vena. >
Significava cosi lo stato d'uomo gentile stretto da crudele ne-
cessità a mendicare. Indi gli soggiungeva: — So che parlo oscu-
ramente: ma passerà poco tempo che i tuoi cittadini, privandoti
di tutti i tuoi averi ed esiliandoti dalla patria, ti obbligheranno
a tremare per accattarti del pane: onde, dairesperieuza ammae-
strato, capirai che significhino questi termini. — E già a tale
era Dante ridotto mentre scrivea queste cose, e probabilmente le
scrìvea scorsi due lustri dall'epoca del suo esilio.
Prima di varcare il Tagliamento , Dante abitò nella Marca
al Foro Giulio contigua. Caduto Dante nello sfavore di Cane ,
si volse a Gherardo da Camino signore di Tre?igi, indi si tras-
feri a Udine e vi passò l'intero anno 1317. Ma perchè nel 1318
dalFAdige al Tagliamento crudelissima ardeva la guerra, essen-
dosi nel dicembre eletto Cane della Scala a capitano della lega
ghibellina, si trasferi a Gubbio, fedele municipio dei Romani nei
vecchi tempi, e nei mezzani rinomata repubblica. Aveva egli
contratta grande amicizia in Arezzo con Bosone dei Rafaelli di
Gubbio allorché questi, cacciato della patria dall'armi del cardinal
Napoleone degli Orsini con Federico da Montefeltro e con molti
ghibellini, riparar dovette all'asilo aperto alla sua fazione in
quella città. Dante in Gubbio fu accolto dall'amico prima nel-
l'abitazione posta nel quartiere di Sant'Andrea ed indi nel ca-
stello di Colmollaro, situato nel contado Gubbino sopra il fiume
Saonda, lungi sei miglia in circa dalla città. Questo Bosone dei
Rafaelli era figlio di Bosone di Guido d'Alberico, era nato circa
il 1280 e visse lunghi anni dopo la morte di Dante. Avendo
— ini -
Bosone affidata a lui Teducazione dè'suoi figlinoli, uno di questi
chiamato Bosoue Ungaro Rafaelli e per abbaglio d'ammaouen^
scritto pur Caffarelli, diedesi sotto la sua istruzione allo studio
della lingua greca, e Dante se ne rallegrò col genitore per via
d'un sonetto. Messer Bosone pianse poi la morte di Dante poe*
ticamente ed illustrò in varie guise il poema sacro. Gredesi di
Bosone Novello di lui figlio un capitolo in terza rima che con-
tiene un epitome del poema di Dante e che trovasi unito alPal-
tro capitolo attribuito a Iacopo figliuolo di Dante. Bosone No-
vello nel 1337 fu creato senatore in Roma, in compagnia di
Giacomo di Gante de'Gabrielli, parimente di Gubbio. Gosi vidersi
sedere sulla stessa panca in Campidoglio il' figlio di quello che
avea esiliato il poeta e 11 figlio di quello che avealo pietosa-
mente accolto ed alimentato. Sebastiano da Gubbio, nella sua
opera intitolata Teleutelogio, lib. HI, cap. 3, cosi a Bosone Un-
garo scrivea: Dantem Alagherii, vestri temporis poetam fio-
rentinum civern, tuce a teneris annis adolescentice pceceptorem.
Molli leggendo sul muro della casa dei conti Falcucci V iscri-
zione Hic mansit Dantes Ale^herins poeta et carmina scripsit,
vollero averne antica irrefragabile testimonianza che ivi facesse
il gran vate queta e lunga dimora ; ma la critica riconobbe
quella iscrizione del secolo decimosesto.
Tra le anime degli orgogliosi, il cui supplizio in Purgatorio
si è di camminare talmente curvati sotto enormi pesi che ap-
pena conservano V umana forma, riconosce Dante quella del
miniatore Oderisi da Gubbio. Quest'Oderisi fu nel 1298 da Bo-
nifazio Vili chiamato a Roma con Giotto ed impiegato a miniar
libri. Forse cominciava allora l'arte di miniare i corali, tanto
felicemente coltivata poi da frate Lorenzo degli Angeli fioren-
tino e dai frati camaldolesi suoi discepoli, la quale distingue-
vasi in rappresentare compartimenti minuti, a guisa degli an-
tichi pavimenti a mosaico o di lavoro, come dicono, tassellato
e vermicolato. Dante avea contratta con Oderisi amicizia in
Bologna e seco forse condusse in Gubbio questi ultimi suoi
giorni. Da lui si fa dare il titolo di fratello, probabilmente per
farsi annunciare suo condiscepolo nello studiar Tarte del disegno.
t E videmi e conobbemi e chiamava,
Tenendo gli occhi con fatica fisi
À me che tutto chin con loro andava.
Oh, diss'io lui, non se' tu Oderisi,
L'onor d'Agobbio e Tonor di queirarle
Ch'alluminare è chiamata in Parigi ?
- 153 —
Qoesl'Oderìsi gli parla della nullità della fama procurata dalle
belle arti. A seconda eh' esse vannosi perfezionando, la gloria
degli artisti si va eclissando; quegli che succede fa dimenti-
care colui che lo precedette. Chi oserà sperare che il suo nome
si conservi di qui a mille anni? e questi mille anni non fanno
la dorala d'un batter d'occhio nell' eternità. L' anonimo dà al
verso 108 la seguente spiegazione: e Che un batter d'occhio a
comparazione del moto del zodiaco, ir quale è il torto circuito
cbe più tardi in cielo si gira, e dicesi che fa suo moto in trentasei
migliaia d*anni. »
Ad obliare le soffèrte calamità e l'orgogliosa commiserazione
dei grandi, vìsse Dante ritirato alcun tempo nel monastero del-
l' ordine camaldolese di Santa Croce di Fonte Avellana nel-
l'Umbria, loogo orrido e solitario. Le camere di quel monastero
io CQÌ si crede che abitasse dicpnsi pure di presente le camere
di Dante. Sotto un busto di marmo rappresentante il poeta
)redesi un'iscrizione indicante la tradizione rimasta.
Ed ivi pieno del furore di gloria, si consecrava agli studi
teologici, e fàcea maravigliare quei cenobiti dell'altezza della
sua mente e della profondità delle sue cognizioni; e famigliari
a lui essendo le opere di sant'Agostino, ne dispiegava ai me-
desimi i più riposti tesori. E si doveva sospettare d'eresia chi
tanto e si bene scrisse di teologia ? Oh bassezza delle omane
menti, che costringi uomini venerandi per dignità d' animo e
per virtù a divenire feroci ed ingiusti !
Catria è luogo degli Abruzzi, nella entrata verso la Marca
d'Ancona; il monte Catria è nel ducato d'Urbino, tra Gubbio e
la Pergola, quasi nel mezzo:
t B fanno un gibbo che si chiama Catria,
Di sotto al quale è consacrato un ermo
Che suol esser disposto a sola latria •
Sottoposto a quell'alta parte degli Apennini su d'altro monte
io seno ad una foresta, ergevasi il monastero di Santa Croce di
Fonte Avellana, venti miglia lungi da Gubbio. Ivi trovò alcun
riposo all'animo stanco.
Dante visse un intero anno nel Friuli ed ivi scrisse alcuni
capitoli del Paradiso. Per più mesi abitò nel castello di Tolmina,
situato sul fiume Tolomino, presso Pagano Tornano, allorché
9iBSti dal vescovato di Padova fu trasferito al patriarcato d'Aqui-
Tamb. /flauti. Voi. ir. 20
- 151 —
leia. I montanari dei dintorni di Tolmina mostrano a dito rife-
rentemente anche ai giorni nostri fra quelle alpi romite la
grotta di Dante e il sasso pur detto la sedia di Dante, so coi
solingo sedeva meditando e scrivendo. Quei profondi valloni raffi-
gurano qua e colà V imagine delle bolge dal divino pennello
delineate. Il patriarcato d'Aquileia era il più ricco benefizio io
Italia dopo il romano pontificato. Nella lotta dei patriarchi coi
Veneziani, durata pel corso di undici anni, quel patriarcato
avea perduto nel 1294 le giurisdizioni deiristria, ma potè con-
servare lungamente il ragguardevole principato del Friuli. Ap-
pena si può credere che Dante sapesse entrar tanto nella grazia
del patriarca Pagano della Torre, che si fiero nemico era dei
ghibellini. Nel 1319 trovasi questo patriarca Pagano alla testa
di quattro o cinquemila soldati a'danni di Lodi; predicò in Bre-
scia la crociata contro i Visconti e gli altri ghibellini, e trova-
vasi ancora nel 1323 con molte schiere di combattenti in Lom^
bardia, sotto gli ordini del cardinale legato Bertrando del Pog-
getto. Ma le politiche opinioni e la debita osservanza ai comanda-
menti del pontefice Giovanni XXH, che dal vescovato di Padova
avea promosso Pagano al patriarcato d' Aquileia, non toglieano
ch'ei fosse generoso protettore degli uomini di lettere; e Dante
aveva appunto mestieri della protezione di guelfi potenti, quali
si erano e Pagano della Torre e Guido di Polenta , a conse-
guire una volta la desiderata corona d' alloro per mano della
patria.
Se la beila descrizione del modo con cui si costruiscono e
ristaurano le navi in Venezia non si trovasse nella prima can-
tica, si avrebbe tutta ragione di avere' per fermo che Dante la
scrivesse standosene osservatore in quel grande arsenale ; ma
ei non dovette trasferirsi a Venezia che nel 1312.
« Quale nelParzenà de'Viniziani
Bolle l'inverno la tenace pece
A rimpalmar li legni lor non sani
Che navicar non ponno; e'n quella vece
Chi fa suo legno novo e chi ristoppa
Le coste a quel che più viaggi fece ;
Chi ribatte da proda e chi da poppa ;
Altri fa remi ed allibi volge sarte !
Chi terzeruolo e antimon rintoppa. >
Il Sansovino nella sua Venezia, pag. *326 deiredizione ve<
— 1« —
neto 1663 ìo-4, descrìTendo il (mlaiio ducale, dice che ^pra
il Bdgg^ del prìncipe nel salone del consìglio dei Dieci e sotto
d*iiDa pittura rappresentante il paradiso, erano i sedenti quat*
tro versi composti dairAlighierì quando Tenne ambasciatore pei
àgnori di Ra?enna:
« L'amor che mosse irli l'eterno Padre
Per flglia aver di sua deità trina.
Costei, che fu del suo Figliuol poi madre^
De Tuniverso qui la fa regina. >
quella pittura stava situata per fianco alla sedia ducale, prima
che il Guarìento o Guarinetto colorisse il suo paradiso nel 136S
in testa della sala, e quei versi furono levali quando si ordinò
la sala del maggior consìglio. Il paradiso poi del Guariento fu
nel 1828 rifatto dal Tìntorelto.
Guido da Polenta inviò Dante ambasciatore al dogo di Ve-
nezia Marino Giorgi, succeduto a quel Pier Gradenigo che
primo nel 1288 con uno statuto fece conferire ad un determU
nato numero di famiglie a perpetuità la sovrana amministra*
rione dello Stato, ad esclusione di tutte le altre, la qual epoca
fu nominata U serrar del consiglio. Il doge Pietro Gradenigo
terminò i suoi giorni nei 1311, e nel giorno 22 dell'agosto di
detto anno gli fu surrogato nella dignità Marino Giorgi, che
per vecchiezza non tenne quel governo più di dieci mesi.
Avendo Dante scritto da Venezia nel marzo dei 1313 una sua
lunga lettera al detto Guido da Polenta, è a supporsi che
risiedesse in quella capitale forse un intero anno. 11 Tiraboachl
asserisce che Dante in quella lettera parla con insoffribile dl<
sprezzo dei Veneziani: lo che non è vero ; volse egli non senza
ragione contro quegl'idioti senatori le sue invettive, non già
contro la più longeva reina dell'altissimo senno. Si sbriga poi
io stesso Tiraboschi col farne sapere che il canonico Biscioni^
il doge Foscarìni ed il padre degli Agostini provarono già e Tarn-
basciata e la lettera mera impostura del Doni. Giovi intendere
letteralmente come di ciò parli il detto Marco Foscarìni nel
Hbro terzo della sua Letteratura veneziana. Non ci sovviene
d'opera in cui appaiano descritti nomi di letterati per onorarli
anteriore a quella che deriva da scrittore anonimo di nostra
pina Dettò costui alla metà del milletrecento un poemetto
volgare, dove introduce Dante ebe gli addita in visione alquanti
— 156 —
celebri veneziani di quel secolo e dei seguente. Ma vi mette
innanzi solamente i verseggiatori» e benché dica di non volerli
addurre tatti, e pareccUi infatti ne lasci, pure ne annovera beo
venti cominciando da Giovanni QuiriDl, Tarnico di Dante, e ter-
minando in UD fratello suo proprio. (Non dettava dunque alia
metà del trecento, se quelli pur comprendeva del quattrocento).
S'impara da ciò, non meno che dalle cose sin qui notate circa
i nostri antichi letterati, quanto Dante Alighieri si allontanasse
dal vero in certa lettera, se pare è di lui, scritta a Guido da
Polenta; nella quale ragiona in guisa di questa città quasi nep-
pure il nome fosse ancora qui penetrato dell'idioma latino. La
qual ridicola impostura, piuttosto che macchiare la riputazione
d^li avoli nostri, ci dinota come le umane passioni sieno atte
a far travedere gli uomini più sapienti. Mentre se Tepistola
suddetta è veramente di Dante, non si può imaginare altro se
non che ve lo inducesse l'affetto sfrenato ch'egli avea alla parte
ghibellina e lo scorgere come i Veneziani in quei giorni, quan-
tunque molestati dalle censure ecclesiastiche, voleano aderire
al papa. Appunto nel 1313 i Veneziani, i quali per la occupa-
zione di Ferrara erano ancora annodati dalle censure, compe-
rarono l'assoluzione da Clemente V residente in Avignone al
prezzo di centomila fiorini d'oro ; e in quel medesimo anno il
re Roberto a f(H*za di danaro ottenne il dominio di Ferrara. Il
Foscarini al luogo citato soggiunge con una nota : e Questa
lettera sta nelle prose di Dante, Petrarca e Boccaccio, date fuori
dal Doni ; ma ognuno sa che il Doni fu scrittore fantastico.
Finse librerie, accademie che non furono mai, e dettava ciò che
gli veniva alla bócca per guadagnarsi il pane. Senza di che
Dante nella mentovata lettera si allega come di Virgilio quel
detto: Minuit prcesentia famam^ che è di Glaudiano. Eppure, se
i versi di nessun poeta doveano essergli noti, lo doveano essere
quelli di Virgilio, a cui assegnò le parti principali nella sua
Commedia, avendolo egli scelto per guida dei suo poetico viag-
gio. > Checché sia di questi argomenti, ecco la lettera.
Al magnifico m. Guido da Polenta signor di Ravenna.
e Ogni altra cosa m'avrei piuttosto creduto vedere che quello
che corporalmente ho trovato e veduto delle qualità di questo
eccelso dominio. Minuit prcesentia famam, acciocché io mi vaglia
di quel passo di Virgilio. Io m'aveva fra me medesimo imagi-
— !57 —
Dato di dovere trovar qui qaei nobili e magnaDimi Catoni e
qum rigidi censori de'depravati costami, insomma tatto quello
ch'essi, con abito pomposissimo simulando, vogliono dar ere*
dere alla Italia misera ed afflitta di rappresentare in sé stessi*
E forse che non si fanno chiamare Rerum dominos, Gentenique
togatamf Misera veramente e mal condotta plebe, da che tanto
insolentemente oppressa, tanto vilmente signoreggiata e tanto
crudelmente vessata sei da questi uomini nuovi, destrultori
delle leggi antiche ed autori d'ingiustissime corruttele! Ma che
vi dirò io, signore, della ottusa e bestiale ignoranza di cosi
gravi e venerabili padri? Io, per non defraudare cosi la gran-
dezza vostra, come Tautorilà mia, giugnendo alla presenza di si
canuto e maturo collegio, volsi fare Tufficio e l'ambasciata vostra
in quella lingua la quale insieme con T imperio della bella
Ausonia è tuttavia andata ed andrà sempre declinando; cre-
dendo forse ritrovarla in questo estremo angolo sedere in mae-
stà sua, per andarsi poi divulgando insieme con lo stato loro
per tutta Europa almeno. Ma oimè! che non altramente giunsi
nuovo ed incognito pellegrino che se testé fossi giunti dair e*
strema ed occidentale Tile; anzi poteva io assai meglio qui
ritrovare interprete allo straniero idioma , s'io fossi venuto dai
hvolosi antipodi , che non fui ascoltato con la facondia roma-
na in bocca: perché non si tosto pronunciai parte deir esordio
chMo m'avea fatto a rallegrarmi in nome vostro della novella
eledone di questo serenissimo doge: Liix orta est insto, et re-
ctis corde Icetitia , che mi fu mandato a dire o ch'io cercassi
d'alcuno interprete o che mutassi favella. Cosi, mezzo fra stor-
dito e sdegnato, né so qual più , cominciai alcune poche cose
s dire in quella lingua che portai meco dalle fasce, la quale fu
loro poco più familiare e domestica che la latina si fosse. Onde
in cambio d'apportare loro allegrezza e diletto^ seminai nel fer-
tilissimo campo dell'ignoranza di quelli abbondantissimo seme
di maraviglia e di confusione. E non é da maravigliarsi punto
the essi il parlare italiano non intendano; perché, da progeni-
tori dalmati e greci discesi, in questo gentilissimo terreno altro
recato non hanno che pessimi e vituperosissimi costumi insie-
0)0 con il fongo d'ogni sfrenata lascivia. Perché m'é paruto darvi
qneslo breve avviso della legazione che per vostra parte ho ese-
gotta; pregandovi che, quantunque ogni autorità di comandar-
mi abbiate, a simili imprese più non vi piaccia mandarmi, delle
Qnali né voi riputazione né io per alcun tempo consolazione
— 158 —
alcuna spero. Fermeromcni qui pochi giorni per pascer gli occhi
corporali, naturalmente ingordi della novità e vaghezza di questo
sito, e poi mi trasferirò al dolcissimo porto dell'ozio mio, tanto
benignamente abbracciato dalla reale cortesia vostra.
Di Vinegia, alli XXX di mano MCCCXIII.
L*amil servo rostro
Dante Alighibri fiorentino. >
Egli è ben vero che i versi di Virgilio erano tanto noti a
Dante da non poter essere per lui scambiati d'una parola con
que'di Claudiano. A lui diceva lo stesso Virgilio:
t Euripilo ebbe a nome e cosi '1 canta
L'alta mia tragedia in alcun loco;
Ben lo sai tu, che la sai tutta quanta. >
Ma doveva pur Dante sapere non meno quale si fosse il
miglior propugnatore di Troia, colui in cui riponevano più di
fidanza i Troiani. Gionullameno nelContPt^o, altratt. IlI,.capo2,
si legge: « Siccome fa Vergi lio nel secondo della Eneide, che
chiama Enea: 0 luce (che era atto) e speranza delli Troiani (ch'è
passione); che né era esso luce né speranza, ma era termine in
che si riposava tutta la speranza della loro salute. » Non per
questo vorrassi negare che il Convito sia opera di Dante: sola-
mente, in vedendo che, è chiamato luce e speranza delli Troiani
Enea invece di Ettore, sarà dubbio cui debbasi imputarne la
menda^ se a Dante per trascorso di penna o ai copisti. Anche
neirinferno canto XVIII, v. 133, la cosa sta altrimenti da quello
che dice Dante; il quale, fidatosi alla sua memoria, non cre-
dette dover leggere il passo in Terenzio. ìieW Eunuco 3 , i , di
Terenzio, il parassito Gnatone parla con Trasone soldato circa
il dono d'una fanciulla che questi a Taide aveva per lui man-
dato. Trasone interroga Gnatone se sia vero che Taide l'abbia
gradito e gliene mandi grazie grandi : e Gnatone risponde che,
non pur grandi, ma infinite, all'uso de' parassiti, che sempre
parlano ai versi altrui. Virgilio stesso dice a Dante che è nato
lombardo. Viene perciò accusato dello aver chiamato Lombardia
una contrada che allora non aveva un tal nome. Anche Igino
appresso Gelilo riprende lo stesso Virgilio dello avere un non
so qiial porlo della Lucania chiamato col nome di Velino sta-
togli imposto cento anni dopo l'epoca a cui si riferiva lo stesso
Virgilio.
— 159 -
Dante abitò ancora per Inngo tempo nella valle Lagarina
o nella villa di Marco. Vuoisi che a lui fosse ospite amico Gu-
giielmo conte dì Castelbarco. È anzi rimasta tradizione che
avesse in proprietà una -casa in Garagnago dì vai Pulicelia»
posseduta poi lungamente da' suoi discendenti. Neirinf. e. XX,
V. 65, vedesi menzione del lago di Garda, del Pennino, di vai
di Monica, dell'Alpi trentine e del Tirolo. Nel e. XII vuoisi pa-
ragonata la scesa d'un burraio ad un vasta congerie di grandi
macigni che vedesi presso il villaggio Marco , sotto Lizzana ,
qd' ora vicino di Rovereto , chiamata da' paesani Slavìno di
Marco, rimasta per la caduta d'un gran monte seguita proba-
bilmente l'anno 883. Da altri vuoisi che Dante ivi parli invece
della rovina che si trova di là da Rovereto, due miglia e mezzo
ìd circa, detta da' paesani il Cengio rosso e dov'è ora il ca-
stello della Pietra; perchè il Cengio è un monte altissimo,
parte di cui è rinnovata e parte resta ancora, come appunto
pare che Dante supponga. Frattanto si ha da ciò che, dovunque
esalando peregrinasse, intendeva pur sempre assiduo alla grande
opera.
Se si presti ascolto a Domenico Aretino, Dante rimase per
più anni nel Casentino presso que' conti, indi per quattro anni
continui dimorò in Verona, e finalmente si trasferi pel breve
resto de' suoi giorni a Ravenna. Guido Novello de' Polcntani,
sgnore di Ravenna, Ietto aveva per avventura nell'Inf. e. Y,
y. 73 , r amore e la pena della sua zia Francesca, ed aveva di
che sperarla compianta perpetuamente per la tanta pielà di quel
racconto. Sommamente ne' liberali studi ammaestrato qual'era,
al saggio dire degl' interpreti del Costa, il rimeritare e l'ono-
rare i sapienti stimava principal parte di giustizia. Mandò quindi
lettere e messi a Dante offerendogli ospizio ed amicizia ; e lo
accolse di fatti e lo animò con assai piacevoli conforti. Quel
Genovese che andò a Ravenna per aversi dallo Alighieri un!
consiglio, se sia vero ciò che narra il Sacchetti nell'ottava delle
sue novelle, il conobbe cosi che più di stette in casa sua, pi-
gliando grandissima dimestichezza per tutto il tempo che vis-
sero insieme. Dunque Dante ebbe in Ravenna una casa ove
potere accogliere un ospite ; dunque visse più che >un anno
io Ravenna; dunque concedeva anche vecchio che altri entrasse
seco in familiarità. Già ne pare vederlo entrare talvolta ne' re-
cessi di quella pineta e, al trarre di scirocco, descrivere lo
sbattimento de* rami ed il remore delle piante. Potè cosi sotto
— 160—'
la protezione del grazioso signore ivi farsi più scolari in poesia
e più amici ; fra quali si dislinse un ser Pielro di messer Giar-
dino, divenuto poscia familiare al Boccaccio.
Nella Qne del 1319 Dante si trasferi di nuòvo n Verona
per rivedere i suoi figliuoli, ivi fermatisi fino da quando s'era
egli ricoverato in corte degli Scaligeri. Tenne allora Dante io
quella ctiiesa di Sanl'Elena una disputazione o conclusione filo-
sofica sopra i due elementi, acqua e terra , se pur non è una
impostura un libretto stampato in Venezia nel 1508 , che ha
questo tìtolo: Qucestio florulenta oc perutilis de duobus elemen-
tis aquce et terr(B tractans, nuper reperta; qiue olim Manlum
auspicata , Veronce vero disputata et decisa oc manu propria
scripta a Dante fiorentino, poeta clarissimo^ quce diligenter et
accurate correcta fuit per rev. magistrum loan. Benediclum
Moncettum de Castilioi/ie aretino, regerUem patavinum, ordina
eremitarum divi Augustini sacrceque theologice doctorem excel-
lentissimum. Dante avea probabilmente perduta la grazia di Cane
quando, dedicandogli la cantica del Paradiso, cosi gii scrivea :
e Non ho trovato convenirsi all'eminenza vostra la Commedia
tutta , ma la cantica più nobile di essa , onorata del titolo di
Paradiso; questa con la presente epistola, quasi sotto propria
inscrizione dedicatevi, intitolo a voi, a voi porgo, a voi racco-
mando. » Volle tuttavia onorar Cane di tanto elogio forse per-
chè gli stava a cuore di non avere avverso quel prìncipe, già
divenuto formidabile e potentissimo , per opera del quale spe-
rava di ritornare alla patria desiderata, o più veramente per
lasciare un nuovo monumento della sua gratitudine. Negli ul-
timi anni della sua vita inviò egli a Firenze quella dolorosa
canzone in cui tante sentenze di sdegno e d'amore rac-
chiuse ; ingiungendo poi a que%suoi versi che dentro la terra
per cui egli piange vadano arditi e fieri , appunto perch$ li
guida amore.
Andando Dante per alcuna sua faccenda, udì un fabbro
che al suono deir incudine cantava scioccamente una canzone
di lui, smozzicando ed appiccando i versi in guisa che a Dante
pareva ricevere grandissima ingiuria. Onde, entrato nella bot-
tega, cominciò a gettar per la via le masserizie o i ferramenti
di quel goffo. Del che maravigliandosi il fabbro e. dicendogli :
— Fo Tarte mia, e voi guastate i mìei ferri, gettandoli per la
via ? — Al che Dante rispose : — Se tu non vuoi che io guasti
le cose tue, non guastare tu le mie. — Disse il fabbro: -—Oh
— 161 —
ehe vi goasr io? — Disse Danle: — Tn c^nli il mio libro e
non Io di' com' io lo feci. Io non ho altr' arte; e tu me la
guasti. —
Un Genovese, sparuto, bene scienziato , domandò a Dante
come potesse entrare in amore a una beli) donna di Genova,
la quale non che l'amasse, non mai gli occhi in verso lui teneva,
e più tosto, fuggendolo, in altra parte li volgeà. Dm te, veggendo
h sua sparuta vista, disse: — Messere, di quello che al pre-
sente mi domandate non ci veggio altro che un modo; e questo
è, che voi sapete che le donne gravide hanno sempre vaghezza
di cose strane. E però converrebbe che questa donna che cotanto
amate ingravidasse. Essendo gravida , come spesso interviene
ch'elle hanno vizio di cose nuove, cosi potrebbe intervenire
ctf ella avesse vizio di voi : e a questo modo potreste venire
ad eflfetto del vostro appetito. Per altra forma sarebbe impos-
sibile. —
Dante tassò destramente di bugiardo un tale che nel
desinare, riscaldato dal vino e dal favellare, sudando mentiva.
Venne questi in sentenziare che chi dice il vero non s'affatici.
Soggiunse Dante: — Io mi meravigliava bene del tuo sudore. —
Dante domandò a un contadino che ora fosse: egli rozza-
mente rispose ch'era ora d'abbeverare le bestie. Dante ripigliò:
— Tu che fai? —
Stava Dante nella chiesa di Santa Maria Novella appog-
giato ad un altare tutto solo, forse col pensiero vólto al poe-
tare. A lui accostatosi un ser sacciuto, tentò indarno più volte
di tirarlo seco a ragionamento. Dante, perduta Analmente la
pazienza, volto a quel cotale gli disse : -- Avanti che io risponda
alle tue domande , vorrei che prima tu mi chiarissi qual tu
creda che sia la maggiore bestia del mondo. — A lui quegli
rispose che per l' autorità di Plinio credeva la maggior bestia
terrestre essere l' elefante. Dante gli soggiunse : — 0 elefante,
dunque non dar noia. — E, senz' altro dire, da lui si parti.
In Siena, essendosi abbattuto a trovare nella bottega d'uno
speziale un libro da lui fino allora inutilmente cercato, appog-
giato a un banco, si pose a leggerlo con tale attenzione che
da nona sino a vespro si stette ivi immobile , senza punto
avvedersi dell'immenso strepito che menava nella contigua
strada uno accompagnamento di nozze che di colà venne a
passare.
In Verona , passando egli davanti a una porta dove friù
Tamb. Inquit. Voi. II. 21
— 162 —
donne sedevano, una di quelle disse air altre: — Vedete voi
colui che va per r inferno e torna quando a lui piace e qua
su reca novelle di quelli che laggiù sono? — A quella una di
loro rispose semplicemente: — In verità tu devi dire il vero.
Non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno per
lo caldo e per lo fumo che è laggiù? — Dante, udite quelle
parole, sorrise alquanto e passò avanti.
Essendo Dante alla mensa di Cane della Scala, un fanciullo
ceiatamente nicchiato sotto le tavole raccogliea in mucchio
a'piè di Dante Tossa tutte spolpate e gittate. Partito il ragazzo
e levate le tavole, messer Cane, fingendo le meraviglie delle
tante ossa cosi raccolte, voltandosi verso gli altri, — Per certo,
disse, messer Dante è gran divoratore di carne: vedete V ossa
eh' egli ha ai piedi. — Dante, conosciuto il giuoco , pronta
diede questa risposta : — Signore, sMo fossi Cane, non vedresti
lant'ossa. —
Tra la turba degristrioni e dell'altre persone festevoli che
lo Scaligero tenea in corte uno essendone che riusciva a tutti
sommamente caro, disse un giorno, in presenza di molti corti-
giani, Can grande a Dante: — Come sta egli mai che costui,
balordo, melenso, sia grato a tutti; e tu, reputato sapiente,
grato non sia ? — Al che Dante subitamente : — Non è mara-
viglia ; la somiglianza e V uniformità dei costumi generare
sogliono la grazia e l'amore. — Se fu amara la risposta, era
ben anche impropria la dimanda.
Minacciando la Repubblica di Venezia di muover guerra ai
Polenziani, quel Dante che tanto mal soddisfatto era della sua
prima ambasciata non ricusò per amore del suo Guido V di
sostenere la seconda : ma, non avendo potuto vincere gli osti-
nati animi di quell'ambizioso Senato, lasciata la via del mare,
che per cagione deUa guerra era piena di pericoli, ritornò per
le disabitate e mal comode vie de' boschi. L'ultimo suo di, che
alle tante sue amaritudini doveva por fine , lo aspettava in
Ravenna. Ivi, sconsolato del non recare alcun frutto di tale
sua imbasciata in prò dell' amico e mecenate , ammalò , e il
giorno 13 di settembre del 1321, nella non colma età d'anni 56
e mesi cinque, rendette l'affaticato ed umiliato spirilo al Crea-
tore. Ben è vero che
< È felice colui che trova il guado
Di questo alpestre e rapido torrente
- Ch'ha nome vita: >
— 163 -
ma la merle rapiva il grand'uoim. o^i vigore della vita ; e dovette
veoirgli per questo amaramente incfesì^Uaq^ q\^^ gp involava
inneme quella corona d' alloro di cui sperava órnaw jj^ fronte
per mano della pentita sua patria :
« Ritornerò poeta ed in sul fonie
Dei mio baltesmo prenderò '1 cappello *.
Il SQO cadavere, dice il Yandelli, fu seppellito in Ravenna
nel di 14, in cai dalla Chiesa si celebra V Esaltazione della
santa Croce^ avanti la chiesa de'frati minori di San Francesco,
intitolata già col nome di San Pietro maggiore o di Basilica
Petrìana. Pieno di gloria immortale, scrive il Giovio negli Elogi,
mentre ch'egli considerava la felicità iella patria celeste, desi-
derala con tanto affetto dai devoti «»rtaH e 4i lui con tanto
ardore ed ornato di parole, di sentenze e di dottrina cantata,
prima ch'egli avesse in capo o DeUa k»rS» ^^n pelo canuto,
d' nna grave infernriità si morì , eoe fne» di spinto insino al
fine che nel sentirsi venire me&o com^se sei versi da scri-
vere sul suo sepolcro:
« Iar« aoDarehiae, superos, FbMgetonta, iacusque
Luffa'amée «eeHii, vofuerant fata quousque :
Sed quia pars cessi t fliai4oribu< hotipita caslris,
Anetoranqae suuoa peint Meibus astrls,
Hic claudor Dantes, patriis axtorris ab oris,
Qtteoi geDuit parvi Fioreotit àater amoris >.
La Bpof^ «irtale fi 4ii |Mè ^qualificati cittadini portata
e riposta zvuà la porta detta éetta <sbie8a dei frati minori
in un'arca di mnao. SefmttM est fiwMn^ in sacra minorum
cede, egregio ^i^éam aiuque eminenti tumulo, lapide quadrato,
adamussim amstructo^ oompluribus insuper egregiis carminibus
inciso insignitoque. Ck)8i scriveva il Maoetti pid anni prima che
il Bembo andasse a Ravenna a ristorare queir arca, su cui già
eretta erasi una cappella serrata da un cancello di ferro. Tut-
tavia tengono i piò che quel buon Guido V polenziano, il quale
all'atto della tumulazione parlò della sapienza , della virtù ,
degllofortunii del perduto amico, facesse racchiuderne per allora
la sacra spoglia in un semplice deposito , pensando di sacrar-
gliene altro decoroso meglio e magmQco; lo che dato poi non
gii fesse per nuova colpa di fortuna.
— 164
Firenze domandò le cen^'-* ^e* suo poela nel 1429 e rii
novo le industrie r^o} oecolo XVI, ma più Iarde, più ineffica^
Qgj^tQSPQo»«i(dUue anni dopo la morie di Danle, cioè nei i4£
2H;rnardo Bembo, pretore essendo di Ravenna per la Repubbli
di Venezia , fece rifabbricare quel sepolcro in marmi gre
Sepolcro di Dante, in Ravenna.
venati e di rosso antico a strisce bianche: tra molti ornamer
vi fece scolpire dal famoso Pietro Lombardo Teffigie del poe
in basso rilievo di mezza figura, in atto di leggere, con la fron
coronata d'alloro. Sopra b detta effigie in mezzo ad una ghi
— Ì6S —
buda leggevansi le parole: Virtuti et kmcri. Tate mooomenlo
fo restaurato nel IG92 per onlìoe del cardioaie DotoeDìco Maria
Corsi legato di RaTenna e di monsignore Giovanni SalTìati vioe<*
legato» come si ha dalla memoria ivi esistente a mano sinistra
della cappella. Ultimamente, cioè nel 1780» il cardinale Luigi
Valenti Gonzaga, mentr'era legato in Ravenna, fece a sue siK'se
innalzare a quelle sacre ceneri un assai più magnifico monu-
mento, secondo il disegno di Camillo Morìgia illustre architetto
raTignano. U mausoleo fu ridotto in forma di un tempietto di
[Manta quadrata, coperto di cupola emisferica, ne'cui pennacchi
quattro medaglioni p gran cammei portano espressi allreltanli
sc^getti di nota benemerenza e relazione con Dante. Sono essi
Virgilio, Rronetto Latini, Can Grande della Sala e Guido da
Polenta, formati da Paolo Gìabani luganese. In quel sepolcro
leggesi la seguente iscrizione del Morcelli :
DANTI ALIGIUERIO
. PO£Ti£ SUI TEMPOIUS PRIMO
RESTITUTORI
POLITIORIS HUMANITATIS
GUIDO ET HOSTASIUS 1»0LENTIANI
CLIENTI ET HOSPITI PEREGRE DEFUNCTO
MOJSUMENTUM FECERUNT
BERNARDUS BEMBUS PRìETOR VENET. RAVENNìE
PRO MERITIS EIUS ORNATU EXCOLUIT
ALOYSIUS VALENTIUS GONZAGA CAUDIN.
LEG. PROV. ìEMIL.
SUPERIORUM TEMPORUM NEGLIGENTIA CORRUPTUM
OPERIBUS AMPLIATIS
MUNIFICENTIA SUA RESTITUENDUM
CURAVIT
ANNO MDCGLXXX.
Giotto, dipingendo a fresco la cappella del palagio delio del
podestà in Firenze, vi ritrasse al naturale Dante Alighieri, Bru-
DeUo Latini e Corso Donati. Andrea del Castagno Tece pure il
ritratto di Dante nella casa de'Carducci, poi de'PandoKini. Di
due tavole rappresentanti il poeta Dante ed esìstenti un lern|)o
oel duomo di Firenze fanno nyenzione il Lami ed il Salvini. Ai
tempi di Leonardo Aretino mìravasi Tefligie del nostro poeta
qoasi nel mezzo della chiesa di Santa Croce a mano manca,
andando verso V aitar maggiore, ritratta al naturale. Il Ibridino
attesta che de'suoi di l'effigie di Dante reslava ancora di mano
— 166 —
di Giotto in Santa Gnoce e nella cappella del podestà. Don Lo-
renzo monaco camaldolese, pittore della scuote di Taddeo Caddi,
fece il ritratto di Dante e del Petrarca nella cappella degli Ar-
dingbelli, nella chiesa della Trinità di Firenze circa Tanno 4370.
Il gran Raffaello nella celebre opera a fresco delle camere vati-
cane chiamata la Disputa del Sacramento, ove ha Inogo tra'teo-
iogi e dottori di santa chiesa, dipinse la testa lam'eata di Dante
in profilo presso le figaro di san Tomaie d'Aquino e di Scoto.
Tuttavia il Dionisi , nel suo aneddoto, intitolato Del focale d\
Dante, fa del difetto d'un fedele ritratto tale querela: t È ben
assai che in Firenze, ove tanti bei monumenti e tanti codici di
questo suo immortai concittadino si conservano, e meno in Ra-
venna ov'è il suo sepolcro, un ritratto non siaci da cui si rilevi
ch'egli in qualche modo, se rivivesse, potesse dire : — Io son
quell'io. — Per me certo non ne ho veduto veruno né in un
luogo né in l'altro; e di que'che si son pubblicati nelle edi-
zioni antiche e moderne, ma specialmente dal Za ita e dal signoi
Beltrame, nel gran libro de'pochi fogli per relazione del sepol-
cro del divino vate del signor cardinale Valenti nuovamente
innalzato e abbellito, posso dire senza errare : — Gerto la vo-
glia mia non fu contenta — ; mentre non trovo che in verun
conto pur gli rassomigli o in qualclie modo almeno nel volto
l'adombri. » Il ritratto di Dante ora esistente nella biblioteca
capitolare di Verona e che fu già del lodato canonico Dionisi,
è di mano di Giovanni Bellino. In Cividale del Friuli, nella libre-
ria Claricini esiste un codice in pergamena in 4.^ del secolo XV:
nel primo canto dell'Inferno, entro l'iniziale N è il ritratto di
Dante non interamente simile agli altri conosciuti; é di mano
di Nicolò Glaricini di Cividale, letterato e giureconsulto del se-
colo XV. È altresì o potrebbe a' curiosi .essere considerevole
che nessun ritratto mostra Dante barbuto, comecché a lui di-
cesse Beatrice:
< Quando
Per udir se' dolente, alza k barba ; »
e il Boccaccio assicuri ch'egli aveva i capelli e la barba cresputi.
Una testa assai bene modellata , che al riferire del Cinelli ap-
partenne allo scultore Giambologna, indi al suo scolare Pietro
Tacca, e finalmente alla duchessa Sforza, era stata tolta dal suo
sepolcro 'in Ravenna. Un busto di lui fu collocato sopra la porta
— 167 —
dello stadio dairAccademia fiorentina per opera del senatore
Baccio Valori. Ultimamente l'immortale Canova innalzò nel Pan-
teon romano il basto laureato del divino ; e sotto si legge : e A
Dante Alighieri Antonio Canova MDCCCXIIL Alessandro d'Este V
scolpi. » Apostolo Zeno nelle sue lettere nota che neir im-
periai museo di Vienna trovasi una medaglia con la testa di
Dante. Il Fulgoni nei tre frontispizi della romana edizione pro-
dusse reffigie di Dante rappresentata in un antico medaglione,
colla sottil fascia pendente dalla berretta sopra le orecchie.
Povero Dante! fosti in vita perseguitato dalla rabbia sacer-
dotale, e le tue ceneri furono minacciate d'essere poste sul
rogo e sparse al vento dairintolleranza deirinquisizione!
CAPITOLO IX.
Roma e Cola da Rienso.
Intanto che gli apparecchi del re d'Ungheria per vendicare
Tuccisione del Tratello teneano in Torse Tltalia e dall'un canto
la resistenza deTeneziani in D.ilmazia chiudeva a quel monarca
il passaggio dell'Adriatico, e relezione di Carlo IV dall'altro
privava gli Ungari dei soccorsi che loro poteva dare Lodovico
di;Baviera, e litalia slessa si stava trepidante tra il timore d*nna
invasione di barbari ed il desiderio di vedere punito un delitto,
un'inaspettata rivoluzione trasse all'antica capitale del mondo
l'attenzione di tutta la cristianità. La città di Roma, ridestata
da un eloquente demagogo, volle rivendicare le antiche sue
prerogative e sottomettere alla sua sovranità il papa e l'impe-
ratore, che dividevansi i diritti e le spoglie del popolo romano.
Gola da Rienzo, autore di questa rivoluzione, fu di vile
nazione. Non pertanto era stato ammaestrato nelle lettere, e
per lo molto singoiare suo ingegno^in esse avea falli rapidis-
simi progressi. Erasi egli in particolar modo dato allo stddio
degli storici e degli oratori dell'antichità ; e trovandosi in mezzo
ai monumenti della gloria della romana potenza, aveva cercato
altresì d'informarsi la mente delfantrco spirito de'suoi concit-
tadini. Niun altro uomo del suo secolo aveva maggiore vene-
razione di lui per l'antichità, più nobile brama di farne rivivere
le virtù; né v'era chi avesse più profondamente di lui inve-
stigati i costumi e le leggi della Repubblica romana o meglio
sapesse interpretare le iscrizioni ed i monumenti che fino allora
- 169 —
erano stati con occhio stupido risguardali dalle geoti, senza
ch'esse ?i trovassero memoria delle virtù decloro antenati; non
v'era chi fosse animato da più puro zelo per il ben comune o
da più caldo amore di patria, né chi finalmente sapesse negli
altri infondere con più persuasiva eloquenza i propri pensieri
e sentimenti. Questo chiaro letterato, questo profondo antiquario,
per ringegno suo fatto capo del governo, diede con tutto ciò
a divedere bentosto di non avere né il coraggio necessario per
la difesa del popolo, né la modestia che avrebbe dovuto pre-
servarlo dairabbagliamento delPinaspettata sua grandezza, né
la cognizione degli uomini, che si acquista difScilmenle sui
libri, e senza la quale un dotto non è uomo di Stato.
Per r assenza dei papi, Roma trova vasi in preda alla più
trista anarchia; i baroni romani avevaqo afforzate tutte le
castella dello Stato della Chiesa e tutti i palazzi che posse-
devano in città, e teneano pure presidio in tutti gli antichi mo-
numenti che avevano potuto mutare in fortezze. E come nel
vasto cerchio delle mura di Aureliano la metà dei quartieri era
deserta, cosi i baroni trovavansì assoluti padroni di molle vie,
ove avevano innalzati serragli ed altre difese in mezzo alle mine.
Ma non essendo abbastanza ricchi per tenere continuamente
truppe regolate al loro soldo, ne confidavano la guardia a la-
droni, assassini ed altre persone perseguitate dalla giustizia, alle
quali davano protezione e guarentivano l'impunità derelitti col
francar loro un luogo sicuro per ri porvi i frutti delle rapine e
degli assassinamenti.
Tuttavia oravi ancora in Roma un qualche avanzo di go-
verno popolare: i tredici rioni o quartieri della città nominavano
il rispettivo capitano, e l'adunanza di questi magistrati, chia-
mati Caporione rappresentava il popolo sovrano; ma non ave-
vano costoro né I9 forza né l'autorità per farsi ubbidire. Il papa
erasi usurpata l' elezione del senatore e non afiidava questa
sublime dignità che a nobilissimi personaggi; ond'è che la po-
destà giudiziaria e la forza armata trovavansi in mano di quel-
l'ordine contro del quale avrebbero dovuto adoperarsi.
Il senatore fingea di non vedere gli eccessi e i misfatti dei
gentiluomini, non prendendo le armi per punire i delitti so non
qoando trattavasi di un suo personale nemico. Allora la ven-
detta nazionale si esercitava in tal modo da turbare vieppiù
la pubblica tranquillità. I nobili scendevano frequentemente ai
più bassi rigiri per ottenere dalla corte d' Avignone grazie 0
Tamb. Inquis. Voi. II. 22
benefizi; abbenchè non riconoscessero nel papa l'autorilà so-
vrana, e come feudatarii della Chiesa credessero dì avere di-
ritto a maggiore indipendenza che quelli dell'impero. E di siffatta
indipendenza essi abusavano specialmente nelle guerre civili :
la gara tra le case Colonna ed Orsini divideva in due parli la
nobiltà, ed era ogni giorno cagione di atti ostili. Cola da Rienzo
delle sventure di Roma accagionava ognora i nobili ; quando
commettevasi un qualche delitto, un ratto, un omicidio, un in-
cendio, avea nuovi motivi d'imputare ai gentiluomini l'anarchia
in cui versavano i Romani; sentivasi animato contro di loro
da un odio ch'ei confondeva colle memorie della storia, da un
odio ereditato dai Gracchi: a vero dire egli aveva ben più ra-
gione^che non gli antichi tribuni di tenere i patrizii de' tempi
suoi degni dell'odio e della vendetta del popolo.
Cola fu per la prima volta incaricato di un ufficio pubblico
poco dopo relezione di Clemente VI. Inviato ad Avignone nel 1342
per supplicare il nuovo papa a restituire la santa sede nella
sua naturale residenza, in quella ambasciata arringò egli il pon-
tefice, sebbene il Petrarca fosse uno degli ambasciadori: la sna
eloquenza ed il suo entusiasmo per Roma gli avevano già fatto
amico il poeta. Clemente VI non si lasciava reggere ne'suol po-
litici divisamene a senno degli oratori popolari, ma fu mara-
vigliato dell'ingegno del deputato romano: il creò notaio apo-
stolico con ragguardevole assegno e gli die l'irttarico di annun-
ciare ai suoi concittadini che, pel loro vantaggio e di tutta la
cristianità, bandirebbe un secondo giubileo l'anno 1350, colle
indulgenze che Ronifacio aveva largite in occasione della festa
secolare, le quali dovevano rendersi comuni a tutte le gene-
razioni.
Cola, di ritorno a Roma, si procacciò reverenza dai suoi
concittadini, esercitando con integrità la sua nuova carica. Tentò
pure di ricondurre i suoi colleghi alla onestà: ma dovette ben
tosto avvedersi che nulla poteva da loro sperare, e che doveva
rivolgersi allo stesso popolo, se voleva far cessare l'anarchia e
rendere a Roma quella gloria, quella grandezza, quella giu-
stizia e quella potenza ch'egli enfaticamente chiamava il buono
stato.
Per commovere la moltitudine, le sottopose da bel principio
simbolicamente allo sguardo i suoi pensieri. Siccome per ra-
gione dell'ufficio suo era chiamato in Campidoglio, egli vi fece
esporre un quadro dalla banda della piazza in cui tenevasi il
(ila ei^emo de a/ruifaì/j^o/ffa/ff.
— 171 —
mercato: e Vi si vedeva, > dice lo storico di Roma anoDiroo e
coDtemporaDeo. < un gran mare burrascoso» e nel mezzo una
nave senza timone e senza vele in procinto di affondare. Una
donna stava inginocchiata sul cassero vestita di nero e col cinto
della tristezza: aveva la veste squarciata sul petto, scarmigliati
i capelli, le mani. in croce al seno, in atto di chi prega per
essere salvato da imminente pericolo. Vedovasi in cima al qua-
dro un breve che diceva : È-questa Roma. Intorno a questo va-
scello stavano altri quattro che già avevano fatto naufragio: le
loro vele erano cadute, rotte le antenne, spezzalo il timone ; e
• sopra ognuno di essi vedovasi il cadavere di una donna col nome
di Babiloniay Cartagine, Troia, Gerusalemme; ed al di sopra un
altro breve che diceva: U inriiustizia è quella che le pose in
pericolo e le fece finalmerUe perire. » Quando il popolo, affol-
lato intorno a questo quadro, Tebbe rimirato alquanto. Cola si
fece avanti in mezzo a tutti e con maschia eloquenza imprecò
ai delitti dei nobili, che trascinavano la patria neirabisso.
Pochi giorni dopo fece collocare nel coro di San Giovanni
di Laterano una tavola di rame con una bella iscrizione latina
ch'egli aveva scoperta. Chiamò i dotti ed il popolo a venire ad
interpretaria, e quando l'assemblea fu adunata, egli si fece in-
nanzi per leggere Tiscrizione. Era un senato -consulto col quale
il Senato conferiva a Vespasiano le varie potestà dei romani
imperatori : atto di schiavitù, nel quale erano ancora conservate
le forme de' tempi liberi. Cola, poi ch'ebbe terminata rinterpre-
tazione, si volse al popolo adunato : « Voi vedete, o signori, >
egli disse, • quale era l'antica maestà del popolo romano; egli
conferiva agl'imperatori, come a. suoi vicarii, i propri! diritti e
la propria autorità. Questi ricevevano l'essere e la possanza
dalla libera volontà dei vostri antenati, e voi, voi avete accou"
sentito che a Roma fossero cavati gli occhi, che il papa e l'im-
peratore abbandonassero le vostre mura e non fossero più da
voi dipendenti. Da quell'istante la pace sbandita dalle vostre
mura, il sangue de' vòstri nobili e de' vostri cittadini fu sparso
inutilmente in private contese: le vostre forze esaurite dalla
discordia, e la città, già regina delle nazioni, diventata oggetto
del loro scherno. Romani, io ve ne scongiuro, avvertite che vi
date in ispettacolo all'universo: il giubileo si avvicina, i cri-
stiani verranno dall'estremità del mondo a visitare la vostra
città : volete che non trovino che debolezza e ruina, che op-
pressione e delitti ? >
— I7J —
I nobili, da Cola da Rieozo provocati cosi gagliardamente»
ascoltavano motteggiando i saoi discorsi ed erano ben lungi
dal pensare che potessero avere un qualche effetto; i cittadini
andavano dicendo che un arringatore da trivio non cambierebbe
lo stato di Roma coi quadri e colle allegorie: ma il popolo
cominciava a commoversi e ribollire, e le persone capaci di
entusiasmo erano commosse non meno del volgo. Cola conobbe
ch'era tempo di procedere più óltre, ed il primo giorno di
quaresima fece affiggere alla porta di San Giorgio al Veiabro
una scrittura con queste sole parole : Entro pochi giorni i Ro-
mani ritorneranno nel loro antico e buono stato. Tenne di poi
sul monte Aventino una segreta adunanza di tutte le persone
che credette infiammate di amor di patria , e vi concorsero
mercatanti, letterati ed ancora varii nobili dei meno potenti.
Cola da Rienzo scongiurò quest'assemblea di veri romani di
ajutarlo a salvare la patria; rappresentò loro la miseria, la ser-
vitù, i pericoli cui trovavasi abbandonata la città natia; ricordò
l'antica estensione della romana Repubblica, la fedele sommis-
sione delle città d'Italia che tutte al présente erano ribellate: egli
piangeva parlando , e con lui piangevano i suoi uditori : ma
ben tosto cercò di ridestare il loro coraggio, assicurandoli che
Roma non aveva ancora perdute le sorgenti antiche della sua
potenza; che le sole tasse da loro pagate ogni anno bastavano
per fortificare il governo e sottomettere i loro sudditi ribelli ;
che il papa approvava gli sforzi ch'essi facevano per ripristi-
nare il buono stato e che potevano far fondamento suirajuto di
lui. Dopo averli commossi con questi discorsi, Cola volle che
tutti gli adunati sul monte Aventino giurassero sul Vangelo di
concorrere con tutte le loro forze al ristabilimento della romana
libertà.
Era d'uopo cogliere il tempo favorevole per privare i no-
bili della sovrana autorità. Cola, avvisato il 19 maggio che Ste-
fano Colonna aveva condotto un grosso numero di gentiluo-
mini a Comete per iscortare un convoglio di biade, non aspettò
più oltre : fece pubblicare a suono di tromba in tutta la città,
che ognuno dovesse nel susseguente giorno recarsi senz'armi
da lui, onde provedere al buono stato di Roma. Dalla mez-
zanotte fino alle nove ore del mattino fece dire in sua presenza
trenta messe allo Spirilo Santo nella chiesa di San Giovanni
della Piscina; ed il 20 maggio, giorno dell'Ascensione, usci di
chiesa armato , ma col capo scoperto. Gli slava intorno molta
— 173 —
giofrotìi, che faceva risoonare Taere'di grida di giubilo. Rai«
mondo, fescovo di Orvieto, vicario del papa in Roma» stata
al SQO fianco ; tre dei più caldi amatori di Roma portavano
ionann a lai i gonfaloni, nei quali vedevansi dipinte la litiertà,
hi giustizia e la pace. Lo scortavano cento uomini d'arme
ed un'infinita moltitudine di popolo disarmato ; e tutto questo
pacifico corteggio si avanzò tranquillamente verso il Campi-
ioglìo.
Giunto appiè della scala. Gola fermossi presso ai iione di
l^asalto, e voltosi al popolo, io richiese di approvare le provvi-
sioni per lo stabilimento derbuono stato, che fece tutte leg-
gere ad alta voce. Questo primo schizzo di costituzione pro-
cedeva alla pubblica sicurezza, piuttosto che alla libertà dei
diversi ordini dello stato. Si stabiliva per ogni rione della città
Qoa guardia di venticinque cavalli e di cento pedoni; alcune
Davi guardacoste venivano poste lungo le rive del Tevere per
proteggere il commercio ; i nobili erano privati del diritto di
tenere fortezze ed il popolo doveva avere la guardia dei ponti,
delle porte e di tutti i luoghi fortiQcati. In ogni quartiere della
città si dovevano stabilire pubblici granai; assicurare caritate-
voli sussidii ai poveri; ed i magistrati dovevano dare sollecito
corso ai processi ed al castigo dei rei. Queste leggi vennero
secolte con gran tripudio dal popolo adunato, che diede a Gola
aotorìtà di mandarle ad effetto, investendolo a tale uopo d(^l
sno sovrano potere.
Il vecchio Stefano Colonna, avuto avviso in Corneto dei
movimenti del popolo, accorse a Roma coi gentiluomini. Que-
sto signore era ad un tempo il più potente dei romani baroni
^ il più amato dal papa. Ma il giorno dopo Cola gli ordinò
di uscire dalla città ; e quando seppe che il Colonna aveva con
disprezzo lacerato il suo breve, fece suonare la campana a
stormo in Campidoglio: onde tutto il popolo fu in anni, e il
Colonna ebbe appena il tempo di fuggire con un servitore verso
i^lestrìna.'À tutti gli altri baroni romani fu fatto comanda-
meato d'abbandonare la città, ed ubbidirono. Allora tutti i tuo-
Stìi fortificati della città, le porte, i ponti, ecc., furono dati in
custodia alle compagnie della milizia. I più famosi banditi, che
^ molti anni sprezzavano la giustizia e le leggi, furono man-
giati al supplicio; ed il popolo, adunato in parlamento, conferi
i titoli di tribuno e di liberatore di Roma a Cola da Rienzo. 1
iMdesìmi titoli furono pure dati al vescovo d'Orvieto, vicario
— 476 —
avesse bisogno. I Perugini gli mandarono sessanta cayalii, cin-
quanta i Sanesi; e Finterà Italia mostrossi disposta ad assecon-
dare 0 fors'anco a ricevere i suoi comandi.
Ma la mente del tribuno non era abbastanza grave e di
proposilo per resistere alla vertigine causata da un inaspettato
innalzamento. Pocbi uomini nati in basso stato sanno conser-
varsi veramente grandi in mezzo alla prosperità. Cola da Rienzo
avea commosso il popolo di Roma colle allegorie, seguendo in
ciò il genio del suo secolo e lo spirito di una nazione avida di
spettacoli; prosegui anche di poi ch'ebbe conseguito il potere a
voler abbagliare il popolo coi medesimi mezzi: i suoi abiti, le
corone, le bandiere che portavansi innanzi a lui, le iscrizioni
sulla croce e sul globo che teneva in mano nelle processioni,
ogni cosa era simbolica e destinata in tal qual modo ad am-
maestrare i Romani. Con tutto ciò lo stesso tribuno era beo
più inebbriato da questa pompa che non il popolo spettatore.
E già andava egli moltiplicando le - feste e le cerimonie non
meno per accorgimento politico che per diletto o per vanità; e
dimenticando che la sua grandezza consisteva in ciò, che ninno
il pareggiava, né egli potea venir pareggiato ad altri, sforzavasì
dUmitare i principi e di emularli nel fasto dei titoli e nella pompa
che lo circondava. Compiacevasi di vedersi sertito. dai princi-
pali signori e godeva della loro umiliazione. La sua moglie ers
corteggiata da gentildonne d'alto casato; i suoi congiunti innal
zati a grandi dignità, ed egli medesimo cercava dMmparentars
coir antica nobiltà maritando la sorella ad un barone romano
La presunzione del tribuno cresceva pel prospero esile
delle sue imprese e per l'approvazione dell'universo, che sem
brava aspettasse i sooi comandi. Giovanni dì Vico, signore di
Viterbo e prefetto di Roma, era stato forzato a sottometterglisi;
assediato dai Romani in Viterbo, ne nscì col favore d'un salva-
condotto, e recatosi in Campidoglio gittossi ai piedi del tribuna
implorando la sua grazia e la clemenza del popolo romano, cbe
gli conservò il suo governo. Tutte le fortezze del patrimonio
di san Pietro erano state cedute ai luogotenenti del tribuno, il
quale vedeva quotidianamente giungere a Roma solenni amba-
scerie, poiché gliene furono inviate da Fiorenza, Arezzo, Siena,
Todi, Terni, Spoleti, Rieti, Amelia, Tivoli, Veiletri, Pistoia, Fp-
lingo ed Assisi. Il popolo di Gaeta gli mandò diecimila fiorini;
i Veneziani gli fecero offerta delle loro persone e beni per di-
fesa del buono stato ; Luchino Visconti di Milano gli scrisse
^; 'p
— 177 —
chiedeodc^li la soa alleanza. Vero è che gli altri tiranoi dllalia.
Taddeo deTepolK iqarchese d'Este, Mastino della Scala, Filip*
pino Gonzaga, ì signori di Carrara, gli Ordelaffi. ed i Malatesti
avevano ingioriosamente risposto alle sue lettere ; ma come il
tribuno a?eva annunciato il precetto di liberare ritalia dai ti-
ranni, rinimicizia loro poteva essere per lui compensata dal-
raffezione dei loro popoli. Lodovico di Baviera, che ancora vi-
veva colla coscienza inquieta per le scomuniche contro di lui
fulminate» gli aveva scritto pregandolo a riconciliarle colla Chiesa.
Il duca di Durazzo, il principe Luigi di Taranto e la regina Gio-
vanna Tavevano nelle loro lettere chiamato carissimo amico :
per ultimo il re Luigi d' Ungheria gli aveva spedita un' amba-
sciata per chiedergli vendetta degli uccisori di suo fratello. Il
tribuno condusse gli araldi di quest'ambasciata innanzi al po-
polo adunato, e ponendosi la corona tribunizia iri capo, risposo
loro: Io giudicherò il globo della tèrra secondo la giustiziaceli
popoli secondo Vequità. Ben tosto infatti la causa della regina
Giovanna e del re Luigi fu disputata innanzi al suo tribunale
dagU ambasciatori nominati dalle contrarie parli; ina Cola non
pronunciò veruna sentenza.
Frattanto la sempre crescente vanità del tribuno Tindusse
a farsi armare cavaliere, come se un tale grado, che lo pareg-
giava alla nobiltà, non lo rendesse da meno di coloro di cui
era dapprima padrone. Questa cerimonia si fece il primo giorno
d^agosto nella chiesa di San Giovanni di Laterano. Venne pre-
ceduta da una corte plenaria, ove splendidissime feste furono
date a tulli gii ambasciatori, agli stranieri ed ai più principali
dei romani nei tre palazzi di Laterano. La vigilia della festa
di san Pielro in Vincoli il tribuno scese a bagnarsi nella conca
di porQdo ove la tradizione dice che si era bagnato Costantino
dopo essere slato guarito dalla lebbra dal pontefice san Silvestro.
Cola pernottò nel recinto dei tempio, e nel susseguente giorno
si presentò al popolo colfabilo di scarlatto e di vaio, e si fece
da messer Vico Scolto, cavaliere e gentiluomo romano, cingere
la spada. Ascoltò poscia la messa nella cappella di papa Boni-
facio, durante la quale si volse ai popolo gridando: < Noi vi
citiamo messer papa Clemente a venire a Roma , sede della
vostra chiesa , con tutto il collegio dei cardinali. Citiamo voi
Lodovico di Baviera e Cario di Boemia, che vi chiamale re ed
imperatori dei Romani, e con voi tutto il collegio degli elettori
germanici, perchè giustifichiate innanzi a noi i diritti che van-
Tamb. Inquis. Voi. II. 25
- «78-
tate air imperio , con qaale fondamento pretendete disporne.
Dichiariamo intanto che la città di Roma e tutte le città dltalia
sono e devono conservarsi libere; noi accordiamo a tatti i
cittadini di qaeste città la cittadinanza romana e chiamiamo il
mondo in testimonio che relezione dell'imperatore romano, la
^iarisdizione e la monarchia appartengono alla città di Roma,
al suo popolo ed a tutta rilalia. > In appresso, sguainando la
spada, percosse l'aria verso cadauna delle tre parti del mondo,
ripetendo: Questo appartiene a me, questo appartiene a me,
questo appartiene a me. Spedi poscia immantinente dei corrieri
^ portare le citazioni alla corte d'Avignone ed ai due impera-
tori. Il vescovo d'Orvieto vicario del papa, che avea assistito a
tutta questa cerimonia, rimaneva come fuor di sé vedendo tanto
e cosi inaspettato ardire. Chiamò per altro un notaio per pro-
testare in faccia a lui ed al popolo che ciò facevasi dal tribuno
senza sua saputa e senza l'assenso del papa. Ma Ciola fece dar
tosto flato alle trombe, onde i Romani non potessero udire
tali proteste.
Ciò null'ostante il vicario non riflutò di pranzare solo col
tribuno alla tavola di marmo, mentre la moglie di Ck)la pre-
siedeva nel Palazzo Nuovo alla mensa di nobili signore. Altre
tavole erano imbandite nel Palazzo Vecchio senza distinzione
di grado per gli abati e taonaci, cavalieri e mercatanti, invitati
alla sagra, e Qn allora non erasi altrove mai veduto in un ban-
chetto tanta magnificenza.
Questo fatto esauriva, le entrate di Roma , e le persone
sagge cominciavano ad avvedersene. In un pranzo dato da Cola
poche settimane dopo ai principali signori della nobiltà romana,
il vecchio Stefano Colonna propose la quistione, se meglio con-
venisse ad un popolo l' essere governato da un prodigo o da
un avaro. Dopo molte parole fattesi intorno a quest'argomento,
Stefano sollevò un lembo del mantello del tribuno, ch'era ornato
di trine d'oro e di ricami , e gli disse apponendoglielo : « Tu
slesso, 0 tribuno, dovresti portare i modesti abiti dei tuoi eguali
piuttosto che questi pomposi ornamenti >. Cola turbossi a quel
rimprovero per cui parea eh' altri il confondesse col volgo, ed
uscito della sala serìza rispondere , in un primo impeto d' ira
comandò che fossero presi tutti i nobili che si trovavano nella
sala. E per giustificare questo subito rigore, fece tosto correre
voce d' avere scoperta una congiura che i nobili ordivano
contro il popolo e contro di lui. Fatto quindi adunare in Cam-
— ift —
pidogrio il lorbmeDlo o assemblei generale, il susseguente
gionio 17 di settembre annoncìA, cbe per liberare per sempre
0 popolo dal giogo deirdigarchia disponevasi a far decapitare
tatti i nobili che a?e?aDo presa parte al Uadimento. Tutto
parve disposto per qaesC orrìbile esecusione. Nella sala dei
giudizi furono coperte le pareti d' un arauo di seta bianca e
screziata a colore di sangue; fu mandato ad ogni barone un
frate minore per confessarlo e dargli la comunione, ed intanto
le campane del Campidoglio suonavano per adunare il popolo.
Il vecchio Stefano Colonna, coi incresceva di morire» rimandò
il frate e la comunione, dichiarando che non era disposto, e
che gli afiEairi delP anima sua e quelli della sua famiglia non
orano altrimenti accomodati, né lo potevano essere così presto.
Forse il tribuno non intendeva ad altra mira che a spa«
voltare i nobili, e fors'anco si lasciò piegare dalle istanze dei
loro amici; sicché, quando vide il popolo adunato, sali la tri-
buna delle aringhe e, tolte per tema le parole Diìnitte nobis
peccata nostra, si fece presso 11 popolo intercessore per i ba*
roni prigionieri ; dichiarò in loro nome che questi gentiluomini
8i pentivano dei loro errori e che d' ora innanzi servirebbero
il popolo con fedeltà. 1 prigionieri si presentarono Tuno dopo
Faltro innanzi al popolo e ricevettero la grazia a capo chino ;
io seguito, risguardando la loro fedeltà come indubitata, Cola
conferì loro^ importanti cariche, prefetture e ducati nella Cam*
pania ed in Toscana.
La clemenza che tien dietro ad un'ingiusta collera non me-
rita in verun caso riconoscenza; i nobili furono appena fuori
delle prigioni del tribuno e delle mura di Roma che pensarono
a vendicarsi. 11 Colonna e due Orsini presero a fortificare il
castello di Marino, vi adunarono uomini d'arme e munizioni
senza che Cola pensasse ad opporsi a questi ostili apparecchi ;
in breve spiegarono io stendardo della ribellione, ed occupata
Nepi abbruciarono molle castella e depredarono la campagna
fino alle porte di Roma.
11 ristauratore della Repubblica romana non era fallo per
le cose della guerra ; egli non conosceva altrimenti quel valore
die ammirava negli aulichi e che pensava di far rivivere; e
per tal modo il contrapposto tra il coraggio di mente ch'ei
diede a divedere nella sua impresa e V assoluta mancanza di
coraggio guerriero che mostrò in appresso può sembrare aN
Tosservatore o ridicolo o afiliggente. Lungo tempo prima di
- im-
prendere le armi cercò d'intimorire i suoi nemici colle cita-
zioni e colie minacce. Finalmente le grida del popolo , ctie
non voleva più oltre tollerare il gaasto delle campagne, l'ob-
bligarono a muovere la milizia romana. Ottocento cavalli e ven-
timila pedoni sotto la condotta di Cola da Rienzo si avanza-
rono contro i Colonna e guastarono il territorio di Marino
com'era stato guastato quello di Roma. Dopo otto giorni di
minacce piuttosto che di battaglie, il tribuno ricondusse Teser*
cito in città ; si fece vestire in Vaticano della dalmaticd, man-
tello fino allora' riservato ai soli imperatori, ed accolse con tale
abito un legato che il papa mandava a Roma per ristabilirvi
Fautorità pontificia.
Frattanto i Colonna avevano dal canto loro fatta ribellare
Palestrina, e molti dei loro partigiani esortavanli a recarsi a
Roma, promettendo d'aprir loro le porte tosto che li vedessero
avvicinarsi con sufficienti forze. Perciò i Colonna adunarono
in Palestrina seicento uomini d'arme e quattromila fanti, avaù*
zandosi poi fino al luogo detto il Monumento, lontano quattro
miglia dalle porte. Ma il romano valore era egualmente spento
nel petto dei nobili come nel popolo, e la tenzone per difen-
dere 0 per rovesciare il buono stato, la libertà e la repubblica
trattavasi da ambe le parti con una pusillanimità indegna di
cosi gloriosi nomi. Benché il tribuno avesse ragguardevoli forze,
non osava sortire di città, ma invece faceva ogni mattina chia-
mare a suono di campana il popolo a parlamento; e per ina-
nimire il popolo adunato , faceva il racconto dei sogni avuti la
precedente notte e le promesse di ajuti a lui fatte da papa san
Martino figlio di un tribuno di Roma, o da Bonifacio Vili ne-
mico dei Colonna.
I nobili , dal canto loro , badavano essi pure ai sogni ; e
Pietro Agapito Colonna voleva persuadere i suoi compagni d'ar-
me a ritirarsi , per aver veduto in sogno sua moglie in abito
xdi corrotto. Ad onta di questo presagio, il vecchio Stefano Co-
lonna presentossi ad una delle porte di. Roma accompagnato da
un solo servitore e chiese d'essere ricevuto in città; le guardie
lo minacciarono , senza per altro tentare di farlo prigioniero ,
come avrebbero potuto agevolmente fare. L'oste dei nobili erasi
avanzata dalla banda di monte Testacelo fin presso alla porla
di San Paolo, dalla quale i Colonna potevano udire la campana
del Campidoglio, che suonava sempre a stormo; onde argo-
mentarono che v'erano aspettati e si ritrassero dall'attaccare il
popoto toBlochè dtero jpndoii b simun di «saiUnrio sOb
spranedoli. Mi. mdb lotor imìre ad un fulto dVmi « dìtì^
samiog prin di rilinrsi, di sfilar» io ischiei^ amili to |wto
in atto di sfidare il trìbam. La frappa loro tmi ditìsa in tf^
squadre; le doe prime passarono sema essere looie^tat^ e la
porla tenuta diiDsa comincìd a passare la lem squadm * <^t
allora fa aperta per rispondere colle bratate alle bravale. Il
giovane Giovanni Ccdonna, vedendo aperta la porta^ spen^ che
i snol partigiani se ne fossero impadroniti, e spronato il cavallo
eDtrd in città, inoltrandovisi per nn tratto d'arco. Con isciajtiirala
^Ità i snoi compagni d'arme lo lasciarono solo « benché l cit*
Mini ftiggissero innanil a Ini. Quando Giovanni s' avvide di
essere abbandonato, volle dar addietro , ma il suo cavallo in*
ciampò, ed il popolo, aflbllandoglisi addosso^ lo ucciso , l)enchA
egli domandasse la vita in dono. Suo padre, il vecchio Colonna ,
giunto alla volta sua innanzi alla porta, volle entrare ym aoc*
correre il figliuòlo, poi fuggi di nuovo quando Gonobl)e la
grandezza del pericolo ; ma ferito con un sasso che gli fu sca-
giiato nella fuga, fu atterrato ed ucciso presso la porta istenna
seosa avere potuto nemmeno valersi delle armi. Gli altri genti-
loomini non tentarono nemmeno di combattere e furono liìse-
goiti nella fuga dal popolo furibondo, che ne fece molti prigio-
nieri: Pietro Agapito Colonna ed il signore di Belvedore furono
Decisi in una vigna ove cercavano di nascondersi , gli nitri
giltarono le armi e non si fermarono se non giunti a nalva-
nieDto ne* lor castelli.
La letizia del tribuno dopo questa vittoria, a cui aveva
presa sì poca parte , fu tanto più smodata quanto più grande
era stata la sua paura. Tornò trionfante in Campidoglio e do-
pose innanzi air imagine della Vergine in Araceli la verga
frilmnizia e la corona' d'argento a foglie d'ulivo. Arringò poscia
|i popolo si vantò d'aver abbattute quelle teste che nò gli
imperatori né i papi avevano potuto mai far piegare. Fifialmente
ooQ permise che si rendessero gli onori funebri ai cadaveri
dà Colonna : ma invece di approfittare della vittoria e di aftHO-
&re Marino, che i nobili avrebbero in quel primo umarriment^i
slAandonato, perdette un tempo prezioso nelle fente ed in ridi-
^ cerimonie ; armò cavaliere della Vittoria suo figliuolo unì
loop) medesimo in cui era stato ucciso Stefano Colonna ;
^cerdibe le imposte per pagare i soldati e ne consumò i prò*
^oti in islolide pompe. Frattanto il popolo iC andava da lui
- 181 —
allenando ; yedeasi Giordano Orsini avanzarsi devastando ed
ardendo fin sulle porte di Roma ; vedeasi che il tribuno non
era da tanto di far rispettare la sua autorità ; per la qual cosa
il popolo accusavalo egualmente deisti errori commessi e degli
oltraggi fattigli da' suoi nemici.
Giunse infrattanto in Roma Bertrando di Deux» che cosi
chiama vasi il legato spedito da Clemente VI. Costui aveva di
molle attinenze coi gentiluomini romani» e dopo il «suo arrivo
in Italia facea male giudizio del tribuno. Passando per Siena
aveva detto a que' magistrati esser Cola da Rienzo un nemico
della Chiesa ; disporsi il papa a farlo processare per delitto di
ribellione ; pregare perciò la Repubblica a richiamare le troppe
ausiliarie che gli aveva fio allora somministrate. Non pertanto
il legato era stato ricevuto, entrando in Roma, da Cola da Rienzo
con .segni di profonda reverenza e inverso a lui e inverso al
pontefice; era stato presentato al popolo in pieno parlamento
ed assicurato dell' ubbidienza della Repubblica e del suo capo.
Ma Bertrando di Deux non si appagò di queste esteriori di-
mostrazioni di sommessione: egli voleva privare il popolo
deirautorità e restituirla ai gentiluomini romani , che gode*
vano il favore del papa e del collegio de' cardinali; perciò fece
alleanza con Luca Sa velli e Sciaretta Colonna; ed accusato il
tribuno di eresia, fulminò contro di lui la sentenza di scomunica.
Un altro assai più pericoloso nemico e più intraprendente
sorgeva in pari tempo contro Nicola da Rienzo. Giovanni Pe-
pino, conte di Minorbino, esiliato dai regno di Napoli, dove col
mezzo di assassinii e ladronecci aveva tentato di vendicare la
morte del re Andrea , erasi rifuggito in Roma con alcuni dei
suoi compagni d'armi, usi del pari a disprezzare gli ordini e
le leggi. Il tribuno , sapendo degli omicidii ed altri misfatti e
disordini ch'ei commetteano, volle farli prendere o costringerli
ad uscire di Roma : ma il conte di Minorbino erasi afforzata
coiralleanza del legato e dei Colonna; e con centocinquanta
cavalli si appostò nel quartiere ove i Colonna tenevano i loro
palazzi ed avevano più partigiani che altrove ; vi si asserragliò
e rimandò con disprezzo coloro che gli portavano gli ordiai
del tribuno.
Cola da Rienzo andò ad attaccare con una compagnia di ca-
valleria i serragli del conte di Minorbino, e nello stesso tempo
lece suonare a stormo la campana di Sant'Angelo Pescivendolo.
Ma tutto quel giorno e tutta la seguente notte il popolo non
- 183 —
corse alle armi, sebbene la campana suonasse sempre. ! Romani
ricnsayano del pari di combattere contro il conte di Mìnorbino
0 di difenderlo, nulla calendo loro la sorte di quello straniero;
perciò non pensavano né a seguire il suo esempio resistendo al
tribnno, né ad approfittare di quest'occasione per ribellarsi. E
se non disfavore, niun favore trovava omai in loro quel buono
stato con tanta pompa annunciato, poi trovato cosi poco stabile:
erano stanchi delle rappresentazioni teatrali e delle arringhe del
tribono, determinati di aspettare con tranquillo animo quali ch'ei
fossero gli avvenimenti anziché di adoperare per determinarli a
proprio vantaggio.
Frattanto molto popolo erasi adunato in Campidoglio, ma
disarmato; il tribuno lo arringò, ma inutilmente; parlò dei suoi
propri governi, del bene che aveva fatto, di quello che voleva
fare; imputò alPaltrui invidia gli ostacoli frapposti ai suoi bene-
fici divìsamenti, pianse, sospirò e con la sua eloquenza seppe
toccare di bel nuovo il cuore degli uditori di modo che i so-
spiri e le lagrime del popolo risposero alle sue, ma non per-
do si vide tra coloro che stavano ad ascoltarlo alcun moto
coraggioso , ninno il confortò a procurar la vittoria , che pure
sarebbe stata assai facile ottenere. < Dopo aver governato sette
me^ >, disse alla fine, < io deporrò adunque la mìa autorità »;
e ninna voce alzavasi a dissuaderlo , a richiederlo di tenere
ancora le redini del governo. Allora Gola da Rienzo fece dare
flato alle trombe d'argento e, rivestito di tutte le insegne della
soa dignità, accompagnato da coloro che avevano in tutto se-
guito le parti sue, e dai soldati, scese dal Campidoglio, attra*
Terso pomposamente Roma quasi in tutta la sua lunghezza e
andò a chiudersi in Castel Sant'Angelo. La moglie di lui si tra*
lesti per seguìrio , e tre giorni dopo la sua ritratta i baroni
esiliati entrarono in Roma, che ricadde subitamente in peggiore
slato che don fosse prima del governo del tribuno.
La rivoluzione che causò la rovina di Cola da Rienzo ac-
(adde il 15 dicembre del 1347 , meno di sette mesi dopo che
egli si era fatto capo della Repubblica. In quel breve spazio di
tanpo, quest'uomo aveva dato al mondo un maravlglioso esem-
pio della possa dell'eloquenza e dell'entusiasmo che il nome e
fe memorie di Roma eccitavano in tutta l'Europa, come pure
deiriaebriamento cui si estone il dotto che dalla biblioteca
^oe portato sul trono e che non ha potuto prepararsi in altra
guisa che colla lettura dei libri all'esercizio del sovrano potere*
CAPITOLO X.
SoUevaiione del popolo di Roma contro Cola da Rteaso^
e sua morte.
Tra le razze dei tiranni surte sulle rovine della libertà ,
quella dei Visconti a sé chiamava più di ogni altra gli sguardi
di tutta Italia. L'aperta sua ambizione tendeva ad invadere tutta
intera questa contrada: e perchè successivamente si segnaJarono
per accortezza ed ingegno molti capi di tale famìglia , mentre
altri tiranni imbecilli o corrotti regnavano in Verona» in Padova»
in Mantova ed in Ferrara, per questo e per le immense sue
ricchézze , non che per la potenza già acquistata , sembravate
assicurato il pieno adempimento de' suoi progetti d' ingrandi-
mento. Sapeano costoro approfittare di tutte le rivoluzioni d'Ita-
lia per dilatare viepiù ogni giorno il loro dominio. Ora ridu-
cevano i vicini Stati a sottomettersi senza riserva, ora soltanto
offrivano la loro alleanza ; ma la loro protezione ben presto si
rivolgea per gli alleati in servitù. Continuando a promuovere
con tutte le loro forze il partito ghibellino, cui gloriavansl di
rimanere fedeli , ciò praticavano soltanto in quegli Stati in cui,
coirajuto di questo nome ancora potente, speravano di eccitare
sediziosi movimenti; né prendevano consiglio da questo spirito
di parte neirinterna loro politica, ma cercavano di tenerlo vivo
soltanto presso gli emuli. Secondo che loro tornava meglio ,
cercavano indifferentemente 1' amicizia o dei papi o degli im-
peratori; gli adulavano ambidue e non serbavansi fedeli ad al-
cuno , perchè la corruzione e la perfidia erano più utili alla
— 185 —
loro amlNzione che dod avreM^ero potuto essere la baona fede
e la lealtà. Nelle città soggette lasciavano di buon grado che si
andassero spegnendo quelle fazioni col favore delle quali le
avevano spesso ridotte in servitù : onde i Lombardi, corrotti
dalla fertilità delle loro campagne, scordavano volontieri nel
lusso e nella morbidezza non solo gli antichi odi!, ma la patria
e la libertà, per le quali da due secoli aveano fatte in addietro
si grandi cose. Fra le tante città sottomesse ai Visconti, la sola
città d'Asti ardiva ancora invocare le violate capitolazioni ed
era sempre sossopra per le antiche discordie degrisnardì e dei
Gottuari.
Gli Stati deir arcivescovo Giovanni Visconti erano conler-
minati a ponente da quello di Giovanni Paleologo, marchese
dì Monferrato, da quelli di Amedeo VI di Savoia, detto il Conte
Verde , e dei vassalli di questi , Giacomo principe d' Acaia e
conte dei Piemonte , e Tomaso marchese di S<ìIuzzo. Tutte
le città del Piemonte in addietro lìbere , erano soggette ad
alcuno di questi signori. 1 conti di Savoia erano allora in minore
età e, in forza di un compromesso col marchese di Monfer-
rato, avevano scelto per arbitro delle loro contese T arcive-
scoTO di Milano , il quale, finché visse , mantenne la pace su
questi confini.
Dalla banda del levante separavano il territorio dei Visconti
da quello della Chiesa quattro signori; i Gonzaga possedevano
Mantova e Reggio, i marchesi d'Este Ferrara e Modena, gli
Scaligeri Verona e Vicenza, e Padova quei di Carrara. La potenza
delle case d' Este e della Scala era più antica di quella dei
Visconti, e tutti questi signori avevano tìtoli uguali; pure la
potenza di queste famiglie era meno stabile assai di quella dei
Visconti. Trovavansi in allora capi di queste famiglie giovani
di perduti costumi, i quali supponevano che il sovrano potere
non fosse altra cosa che il diritto di soddisfare i più vergognosi
appetiti. Per godere a vicenda di tale prerogativa , e non già
spinti da più nobili brame, i minori dì ogni famiglia cercavano
sempre di balzare dal trono i loro maggiori, i nipoti gli zìi,
i bastardi ì fratelli legittimi. Nello spazio dì pochi anni si videro
queste quattro case infievolite e sossopra per causa di simili
coDgiure.
La guerra civile che scoppiò nella casa d' Este non man-
cava per altro di plausibile motivo. 11 marchese Obizzo avea
in marzo del 1352 , poco prima di morire , legittimato i figli
Tamb. Jfifiuis, Voi. II. 24
— 188 —
bliche era ancora più diminuito. Genova e Bologna trovavansi,
almeno momentaneamente, sottomesse ai Visconti; Lucca ub«
bidiya ai Pisani : onde non rimanevano più che Venezia e Pisa
e i tre comuni guelfi di Toscana, Firenze, Siena e Perugia ; le
altre città di quella contrada, in addietro libere, erano piuttosto
suddite che alleate di queste tre repubbliche.
A danno dei comuni guelfi della Toscana mirava partico-
larmente Tambizione deirarci vescovo di Milano, ma d'altra
parte anch'essi erano accesi fieramente contro di lui dal doppio
odio contro il partito ghibellino e la tirannide. Abbiamo di già
veduto in qual modo i Fiorentini avevano respìnta l'aggressione
dei Visconti nel 1351 e come avevano costretto Tesercito del ;
signore di Milano a levare l'assedio di Scarperia : ma era meno
da temersi la forza aperta che i segreti intrighi ; perciocché il |
Visconti cercava in ogni città, in ogni borgata, di farsi dei par* i
tigiani, di comperar dei traditori; e durante l'inverno del 1351,
che venne in seguito a quella gloriosa stagione campale, poco
mancò che non gli fosse venduta la città d'Arezzo. Il signore
di Milano aveva fatto animo alla famiglia guelfa de'Brandagli di
Arezzo a farvisi tiranna, e procuratale Talleanza dei tirannucci
ghibellini di Agobbio e di Città di Castello. Di già una porta
era occupata dai Brandagli, e accorrevano in loro soccorso le
truppe dei Visconti, chiamate per me^zo dei convenuti segni,
allorché gli abitanti di Arezzo corsero alle armi e cacciarono
i ribelli dalla città prima che potessero eseguire il reo loro
attentato.
Le Repubbliche guelfe della Toscana, in vista del comune
pericolo, essendosi collegate per la comune difesa, spedirono
un' ambasciata al papa, onde impegnarlo a farsi capo di un
partito formato in origine per difesa della Chiesa, e a vendicarsi
dell'affronto che le sue armi avevano ricevuto sotto le mura
di Bologna.
Ma il Visconti stava già da qualche tempo negoziando colla
corte d'Avignone per placarla, e a peso d'oro procacciavasi
degli aderenti perfino nel sacro collegio. La viscontessa di Tu-
renna, amica di Clemente VI, donna che tutto poteva sulfani*
mo del papa, aveva ricevuti i suoi doni ; onde gli sdegni della
coi te più s'intiepidivano ogni giorno, e vacillava il suo propo-
nimento. I cardinali, che sembravano accesi dal più vivo risen-
timento e più fortemente eransi dichiarati per Tenore della
Chiesa nei concistori m cui si trattava questa faccenda, non si
'^ vergognavino nei sossegaente concistoro dì dichiararsi favore-
^ vofi a quello stesso Visconti di cai erano stati poc'anzi i più
^ nobili avversatori.
^ Finalmente il papa cedette alle istante dell'amica e dei bor^
0 tigiani, ed il 5 maggio del 1352 dichiarò nel concistoro dei
cardinali che, risguardando alla sommessione deirarcivescovo
- di Milano e alla sua santa ubbidienza, annuU^va i processi in-
3 cominciati contro di lui e rivocava le scomuniche e grinterdettt
0 fulminati contro il medesimo. Gli ambasciatori del signore di
i Milano presentarono a Clemente VI le chiavi di Bologna, quasi
s in atto di rendergli quella città, ma il papa gliele restituì. Nello
^ stesso tempo cedette per dodici anni la sovranità di Bologna al
>| Visconti, dandogliela quasi in feudo in nome della Chiesa, a,
il patto ch'ei pagasse un canone annuo di dodicimila fiorini. Cento-
-i mila fiorini furono pagati dal signore di Milano alla camera
! apostolica per le spese della precedente guerra in Romagna. Più
di dnecentonhila fiorini erano stati erogati per sedurre 1 più
impcHlanti personaggi della corte di Avignone e per ottenere
quel vantaggioso trattato.
Intanto le Repubbliche toscane, veggendosi prive dei soc-
corsi del loro naturale alleato, eransi rivolle all'erede di una
famiglia contro i cui antenati avevano guerreggiato. Era questi
Carlo IV, re dei Romani, nipote d' Enrico VII e figlio di' Gio-
vanni di Boemia. Mandarono ambasciatori rappresentando a co-
stui che quell'avanzo di potere che gl'imperatori conservavano
ancora in Italia sarebbe in breve usurpato dai Visconti, se il
monarca non ponea finalmente un freno alla smisurata loro
ambizione, e che essi eran pronti ad assecondarlo con tutte le
forze onde abbassare l'alterigia del signore di Milano, a levare
perciò un esercito ed a pagargli i sussidi! allorquando scende-
rebbe in Italia a prendere le due corone dei Lombardi e del-
rimi)ero romano. Carlo IV inviò a Firenze un suo cancelliere
per continuare questo trattato, il quale venne formulato in tal
modo: e Per sussidio all'imperatore i Fiorentini dovevano pagare
duegentomila fiorini; Carlo doveva comandare un esercito di
seimila cavalli, di cui soltanto un terzo al proprio soldo e il
resto a spese delle Repubbliche, e i magistrali di queste dove-
vano prendere il titolo di vicari imperiali. > Il trattato si pub-
blicò in Firenze nel maggio del 1352, ma Carlo IV, non po-
tendo ancora allontanarsi dal suo regno di Boemia, ricusò di
ratificarlo.
Nella stagione campale del 13S2 l'arcivescovo di Milano non
si era proposto d'invadere la Toscana con un grosso esercito,
ma avea distribuite le sue forze in diversi luoghi e dato ajuti
a tutti i nemici delle Repubbliche. Contro Perugia e Siena aveva
addirizzato il conte d'Urbino, della famiglia di Montefeltro, il
signore di Cortona ed il prefetto di Vico, il quale governava di-
Terse città dello Stato della Chiesa. N^gli Apennini il vecchia
Pietro Saccone deTarlati era tuttavia, sebbene in età di novan-
, fauni, il più ardito od instancabile nemico dei guelfi, e inva-
deva e guastava con improvvise scorrerie ora le campagne di
Mugello, ora quelle d'Arezzo. Aveva pure costui occupato Borgo
San Sepolcro, importante fortezza de'Perugini, e poco dopo An-
ghiari ed altre due castella. Finalmente Francesco Castracani
intraprendeva nella Carfagnana l' assedio di Barga con forse
ragguardevoli somministrategli dal Visconti. Ma la lega guelfa
usci gloriosamente da questa tenzone: riacquistò dopo lungo
assedio e spianò fino ai fondamenti il forte castello di Bettona,
po^to ad otto miglia da Perugia, ch'era stato occupato dai ghi-
bellini; costrinse il Castracani a levare l'assedio di Barga, dopo
averlo disfatto nella Garfagnana; e Pietro Saccone, rotto presso
Bibfena, andò debitore della sua salvezza alla velocità del ca-
vallo.
La guerra non sostenévasi da ambe le parti con forze pro-
porzionate alla potenza dell'arcivescovo di Milano e de'Fioren-
tini. Non pertanto i due partiti desideravano egualmente la
pace. Temeva il Visconti gli effetti delle negoziazioni cominciate
dai gnelfl con Carlo IV; temeva inoltre di cambiauiento nelle
disposizioni della corte d'Avignone. Clemente VI era morto il 5
dicembre del 1352. dopo avere vissuto non come conviensi ad
un capo della Chiesa, ma come un principe voluttuoso e ma-
gnifico, circondato da cavalieri e dame, nel fasto e nei piaceri.
E il vescovo di Chiaramente, cardinale d'Ostia, datogli per suc-
cessore ai 28 dicembre, sotto il nome d'Innocenzo VI, poteva
benissimo nodrir intenzione di rompere un trattato suggerito al
predecessore dai suoi venali cortigiani. L'arcivescovo di Milano
credette pertanto opportvno di fare la pace coi guelfi, onde non
avere nulla a temere dal canto della Chiesa. Propose alle Re-
pubbliche toscane di venire a parlamento in Sarzana; la qual
proposta essendo stata accettata, vi si recarono gli ambascia-
dori d'ambedue le parti e cominciarono le loro conferenze il
primo gennaio del 1353. Fu gradila dagli ambasciadori la me-
diuioDe dei Gamtecorti e deib Repabbiici di Pis»» eh eninsi
consenrati nratrali tn FarcivescoTO ed i FiorenUnì; e colli loro
mediaaoDe fa coochiaso qq trattato dì pace tra il Visconti e
le RepQtdUìche di Firenze^ Perugia» Siena, Areuo e Pistoia.
Podu castelli presi da ona parte e dall'altra furono restituiti»
e la Repubblica di Pisa si chiamò malleTadrìce deiresecuzione
del trattato.
Ha la pace di Sarzana non procurò altro ai Fiorentini che
un rispetto di pochi mesi. Quindi a poco un esercito più formi-
d^le che non era quello delfarcivescovo saccheggiò la Marca
di Ancona e la Romagna; sicché una guerra più disastrosa
minacciò le frontiere della Toscana. Un gentiluomo provenzale»
cavaliere di san Giovanni di Gerusalemme» chiamato frate Mon-
reale di Albano » che gr Italiani dissero poi fra Moriale , erasi
dato a conoscere valente capitano» militando pel re d'Ungheria
nelle guerre dei regno di Napoli, lo quella sventurata contrada»
abbandonata a tutti i soprusi dei soldati» aveva il cavaliere
imparato a dare, in certo qual modo, regola e norma alfassas*
sinio ed a mantenere una certa disciplina tra' suoi soldali , al
quali facea però leciti tutti i delitti. Aggiungendo per tale guisa
la regola alla licenza, egli aveva adunata una compagnia di
ventura, colla quale era rimasto nel regno di Napoli dopo la
partenza di Luigi d'Ungheria. La regina Giovanna, por liberar-
sene» avea assoldato il ]\lalatesta, signore di liimini, con un
forte esercito; e questi, assediato nel 1352 in Aversa il Moriale,
il fcH^va a capitolare ed a uscire dal regno, restituendo tutta
la preda che aveva ammassato. Fra Moriale, col piccolo numero
de'soldati rimastigli fedeli, erasi poslo al soldo del prefetto di
Vico, signore di Viterbo e d'Orvieto e d' alcune altre città del
patrimonio di San Pietro; ma in cosi basso stalo egli ancora
nutriva più vasti disegni. A tutti i contestabili che comanda-
vano una qualche banda in Italia egli aveva mandato a proffe-
rire paga e servigio come a troppe regolari, signiflcando loro
inoltre che godrebbero sotto i di lui ordini di tutta la licènza
di compagnie di ventura.. Raccolti con tali promesse niiltecin-
qoecento cavalli e duemila fanti sotto le sue bandiere, ei li
condusse subilo nel territorio del signore di Rimini, del quale
ardentemente desiderava vendicarsi. Entrato in. quel piccolo
Slato nel novembre del 1353, prima che terminasse l'inverno
aveva di già espugnati quarantaquattro castelli.
Frate Moriate» intanto che metteva la Romagna a fuoco e
— 19t -
sangue, andava meglio ordinando la sua compagnia. Creava no
tesoriere e parecchi consiglieri e segretari, coi quali consultava
intorno ai comuni interessi. Deputava dei giudici per mantenere
la pace nel campo e far osservare tra i soldati la più rigorosa
giustizia, permettendo con tutto ciò a questi ogni sorta di delitti
a danno degli abitanti del paese in cui guerreggiavano. Stabi-
liva un modo regolare per la divisione tra gli ufficiali e i sol-
dati di tutta la preda, la quale era poi venduta a certi mercanti
che seguivano r es^cito per quesV uopo, e dei quali voleva il
Moriate che fossero rispettate le persone e gli averi. Con sifiEatta
disciplina quei capo di masnadieri faceva regnare rabbondtnzft
nel campo, e le persone addette alla milizia d'altro non par-
lavano in Italia che delle ricchezze che si acquistavano mili-
tando sotto le sue bandiere. Coloro che trova vansi al soldo dei
principi 0 delle Repubbliche aspettavano con impazienza il ter-
mine del loro servigio per abbandonarli e recarsi al campo del
Morinle; e molti ancora commettevano a bella posta un qualche
fallo per farsi- congedare prima che spirasse il tempo della loro
condotta.
11 Malatesta, oppresso da questa compagnia, venne a richie^
dere di soccorso i tre comuni guelfi di Toscana. Rappresentò
loro che quegli assassini, nemici d'ogni nazione, d'ogni governo,
abbandonerebbero tra poco il suo principato omai esausto, per
attaccare la Toscana , ove speravano di trovare maggiori rie-
chezze; e aggiunse che, ove non si punissero sollecitamente
costoro, il mal esempio sedurrebbe tutti i soldati d'Italia e
farebbe rivolgere tutte le forze della società contro la società
medesima. Malgrado cosi potenti molivi, Perugia e Siena rifiu-
tarono di provocare un nemico che non le aveva attaccate.
Firenze dava qualche soccorso a Malatesta , ma tanto minore
del bisogno che questi lo ricusava e prese a trattare d'accordo
colla compagnia. Le promise quarantamila fiorini perchè uscis-
sero dalle sue terre, e le diede per ostaggio uno dei suoi figli.
Egli non potè pagare così grossa somma che licenziando tutte
le sue truppe, le quali passarono al servigio del Moriale. Nello
stesso tempo molti dei principali baroni della Germania entra-
rono nella Grande Compagnia, che diventò più formidabile che
non fosse stata giammai.
Le Repubbliche toscane che non aveano approfittato delle
più favorevoli circostanze per attaccare la Grande Compagnia
eransi tuttavia collegate per la comune difesa ed avevano con-
— 193. —
Teoato di allestire a quest'uopo tremila cavalli. Già il cootin*
gente dei Fiorentini era giunto a Perugia , quando al Moriate
Tenne fatto agevolmente di sciogliere quella lega e di scostarne
i Perugini, dei quali cercò Tamicizia, dichiarando che rispetto^
rebbe scrupolosamente la neutralità loro purché gli fosse dato
di attraversare il loro territorio senza fermarsi e pagando a
danaro contante tutto quanto gli abbisognasse. Lusingati dalla
speranza di sottrarsi al pericolo senza guerra e senza spesa, i
Perogioi vigliaccamente abbandonarono i loro alleati e fecero
separata pace col Merlale. Allora la compagnia entrò per
Asciano e Montepulciano sul territorio di Siena: onde i Sanesi,
atterriti nel vedersi abbandonati dai loro vicini, patteggiarono
ancor essi col Merlale e gli pagarono sedìcìmila fiorini affinchè
proseguisse il cammino senza fermarsi nel loro territorio.
I Fiorentini avevano in quel tempo deboli e mal esperti
priori, che non seppero porre la Repubblica in istato di difen-
dersi. Andate a vuoto le pratiche fatte coi Pisani per respin-
gere d'accordo il nemico, non riuscirono a mettere un esercito
iD campagna. Nel mese di luglio del 1354 la compagnia gua-
stò per otto giorni continui la vai d' Elsa e le campagne di
Staggia e di San Casciano senza trovare resistenza. Essa era
ìd allora composta di settemila cavalli, duemila dei quali com-
battevano a piedi coir armatura dei corazzieri per avere per-
dati i cavalli , di millecinquecento uomini d' infanteria eletta ,
che allora chiamavansi masnadieri , e di una truppa di. servi ,
di vivandieri , di malandrini, che vantavansi circa ventimila.
Il Moriale sapeva adoperare vantaggiosamente questa gente che
segoiva il suo campo per saccheggiare le campagne e pro-
cacciare vittovaglie ai soldati. I Fiorentini risolvettero all'ultimo
di venire agli accordi e pagarono venticinquemila fiorini al
tesoro della compagnia , ed i Pisani sedicimila oltre' i grossi
doni fatti ai diversi suoi capi , ed il Moriale promise alle due
Repobbliche cbe per due anni non entrerebbe più nel loro
^ territorio. Riscosse in seguito quel capo di ventura il rima-
nente delle contribuzioni dovutegli dai paesi della Romagna,
iodi condusse la sua truppa in Lombardia , ove ad istigazione
dei Veneziani erasi formala una lega contro V arcivescovo di
Hilano. Fra Moriale si pose colla sua truppa al soldo della
lega, che gli promise centocinquantamila fiorini per quattro
Q^ di servizio.
Dopo avere assicurata con questo trattalo la sussistenza
Taiib. Jnquis. Voi. IF. 25
— 194 —
della grande compagnia per lutto T inverno, il cavaliere di
Moriate ne affidò il comando ad an Tedesco 'chiamato dagli
italiani il conte Landò o di Landò. Egli con poco seguito si
recò a Perugia e poscia a Roma , sotto colore di dar sesto ai
àuoi domestici affari, ma in fatto per annodare corrispondenze
nel mezzogiorno d' Italia , ove pensava di ricondurre in pri-
mavera la formidabile sua troppa. I Perugini , spaventati an-
cora della sua potenza, lo accolsero rispettosamente e gli die-
dero nelle loro terre il diritto di cittadinanza; il cavaliere
Moriale passò in appresso a Roma , dove credeva di avere
diritto alla protezione del governo perchè i suoi due fratelli
rimasti in Perugia avevano di fresco dato in prestito a Cola
da Rienzo il danaro che questo celebre uomo avea impiegato
nella leva di alcuni soldati , coi quali era rientrato trionfante
in Roma.
Ma il tribuno, trovandosi ristabilito in Campidoglio, si ri-
guardò di nuovo quale rappresentante dell' antica Repubblica
romana , quale protettore dell' universo, quale vendicatore dei
delitti commessi in qualunque parte d'Italia. Fece dunque im-
prigionare il cavaliere di Moriale e tradurlo innanzi al suo
tribunale ; lo fece accusare d'avere attaccate senz' essere pro-
vociaito le città della Marca e della Romagna , di aver messo a
ferro ed a fuoco le campagne di Firenze, di Siena e di Arezzo,
di avere comandata una truppa di assassini colpevoli di tanti
ladronecci ed omicidii ; e perchè il Moriale non altro oppo-
neva a fatti così notorii che il preteso diritto di guerra, il
tribuno dichiarò che il titolo di capitano punto non isce-
mava i delitti che punivansi nelle persone degli altri malfat-
tori ; condannò il Moriale alla pena di morte e gli fece tagliare
il capo in Roma il 29 agosto del 1354 sulla Piazza delle Ese-
cuzioni.
Cola da Rienzo , che nel dicembre del 1347 era fuggito
-dal Campidoglio e indi a un mese aveva dovuto fuggire trave-
àtìto da Castel Sant'Angelo dopo di essere stato condannato
come eretico e come ribelle ed aver languito ora nelle prigioni
dell'imperatore a Praga , ora in quelle del papa in Avignone ,
per le Strane vicende della fortuna irovavasv di nuovo rivestilo
della sovrana autorità nella città medesima da cui era stalo
scacciato.
11 primo ricovero di Cola, dopo la sua fuga da Roma, era
stà\à la corte del re Lodovico d'Ungheria. Ma avendo quel prin-
— 195 —
cipe abbandonata improvvisamente l'Italia, il tribuno, trovatosi
senza appoggio, era passato in Germania per implorare la prò*
lezione di Carlo lY , sperando di poter trasfondere nel re dei
Romani il proprio entusiasmo per Roma e di rendere questo
monarca degno dei titoli ch'egli portava. Nello stesso senso il
Petrarca aveva più volte scritto a Carlo per ricorda rgli i doveri
degrimperatori. Ma quel discendente della casa di Luxemburgo
non aveva ereditata la generosità, la lealtà o alcun'altra delle
virtù cavalleresche di Enrico VII o di Giovanni di Boemia ; ei
diede vilmente Cola in mano al papa, ed il tribuno giunse in
Avignone nel 1352 in mezzo a due arcieri. La morte di Cle-
mente VI, il rispetto a che muoveva Teloquenza e il chiaro in-
gegno del tribuno, e senza dubbio le raccomandazioni del Pe-
trarca, che scrisse al popolo romano un'epistola in suo favore
e fecela poscia trascorrere di mano in mano alla corte di Avi-
gnoDB e in tutte le città in cui si coltivavano le lettere , per
destare la voce del popolo a prò dell'amico, salvarono Gola dal
supplizio di cui era minacciato. Alcun tempo dopo Inno-
cenzo VI avendo risolto di liberare tutte le città della Chiesa
dai tiranni che le governavano e di ridurle sotto V immediata
autorità sua, mandò Rienzo al cardinale Egidio Albornoz, inca-
ricato a tal uopo, affinchè il prelato si giovasse dei suoi con-
sigli , della sua eloquenza e del credito di cui godeva ancora
costui nella città di Roma.
Quest'Egidio Albornoz si diceva discendente dalle reali
schiatte di Leone e di Aragona ; era stato nominato assai gio-
vane ancora arcivescovo di Toledo, lo che non gli aveva impe-
dito di fare la guerra ai mori e di rendersi glorioso pe'suoi
fatti d'arme contro gl'infedeli. Dopo la battaglia di Tarifa aveva
(& propria mano armato cavaliere Alfonso XI di Castiglia, e nel
i343 condotto l'assedio d'Àlgesiras. Ma essendo morto Alfonso XI,
rÀIbomoz lasciò la Spagna e venne a stare alla corte d'Avigno-
ne, ove Clemente VI gli diede il cappello cardinalìzio.
Innocenzo VI l'anno 1353 volle scegliere il duce delle sue
armi nel sacro collegio e giudicò il cardinale spagnuolo più
idoneo di ogni altro a riconquistare gli Stati della Chiesa. L' Al-
bornoz entrò in Italia nell'agosto del 1353 mal fornito di truppe
e di denaro, ma con promesse di larghi sussidii. L'arcivescovo
Visconti, tuttoché fosse pieno di sospetto per la costui venuta,
io accolse pure onorevolmente. 11 cardinale si avviò poscia a
Firenze» ove giunse in ottobre, ed ottenne dalla Repubblica il
— 196 -
piccolo di sussidio ceotociDqaanla cavalli. Le truppe dell'Albomot
^erano quindi insufflcienti di gran lunga al compimento de'sooi
vasti progetti , ma egli fidava assai meno neir armi che nelle
disposizioni dei popoli; imperciocché la sua impresa dovea tor-
nare utilissima alla loro prosperità. Era egli incaricato di rendere
alle città la libertà e quel governo repubblicano di cui aveano
goduto lungo tempo sotto la protezione della Chiesa; veniva per
fare la guerra appiccolì tiranni, non meno nemici del popolo
che del papa; aHiranni, air odioso imperio e alle passioni dei
quali erano tutte attribuite le pubbliche calamità. Clemente VI
aveva prima di morire pubblicata una bolla di scomunica contro
tutti gli usurpatori 6 nominatamente contro Giovanni di Vico,
tiranno di Viterbo e di Orvieto, Francesco degli OrdelaflB, tiran-
no di Forlì, e Giovanni e Guglielmo de' Hanfredini, tiranni di
Faenza.
I Romani furono i primi a rappattumarsi colla Chiesa per
Tinterposto dell'Albornoz; ma la riconciliazione loro era meglio
un'alleanza colla Chiesa che un atto di sommissione alla saa
autorità. Dopo la fuga di Gola da Rienzo, Roma aveva soflferte
le più disastrose rivoluzioni: i nobili, tornati in città, avevano
ricominciato da capo le loro violenze e rapine; onde il popolo
sotto la condotta di Giovanni Ceroni , demagogo , che prese il
magistrato in Campidoglio col titolo di rettore, li aveva di
nuovo cacciati e poi di bel nuovo richiamati per difendere la
città contro il prefetto di Vico. I nobili, che mai non sapevano
far senno degli ammaestramenti deir esperienza, avevano tosto
ravvivate le antiche loro contese; gli Orsini e i Savelli eransi
azzuffati nelle strade, ed il rettore Giovanni Ceroni, avendo in-
vano chiamato il popolo a prendere le armi per mantenere
r ordine, avea deposta la sua carica ed abbandonata una città
intollerante d'ogni governo.
Innocenzo VI, succeduto in quel mentre a Clemente, aveva
di conserva col popolo preposto due senatori. Bertoldo Orsini
e Stefano Colonna, airamministrazione di Roma; ma poche set-
timane dopo la loro elezione, avendo la carezza delle vi Uova-
glie eccitate le lagnanze del popolo, venne assediato il Campi-
<lo(?lio, lapidato FOrsini, e il Colonna, gettatosi da una finestra,
non iscampò da morte che fuggendo travestito da Roma.
In seguito si riaccese piucché mai furiosa la guerra tra i
diversi parliti della nobiltà , e la si protrasse fino alP agosto
ilei <383. Allora, stanchi i Romani di farsi la guerra pei loro
— 197 —
signori, nomiDaroDo di dqovo ud capitano popolare, Francesco
Baroncelli, scrìvano o notaio del Senato. In sall^esempio di Gola
da Rienzo, questi prese il titolo di tribuno, mandò ai supplicio
i nobili più sediziosi e costrinse gli altri a starsene in riposo.
Roma era governata dal Baroncelli quando il cardinale Albor-
noz, accompagnato da Cola da Rienzo, entrò nello Stato della
Chiesa , e fu il Baroncelli che fece la prima convenzione col
legato in nome del popolo. In pari tempo Montefeltro, Acqua-
pendente e Bolsena aprirono le porte ai rappresentanti del ro-
mano pontefice; ma Giovanni di Vico, che portava il tìtolo di
prefetto di Roma , pose in istato di difesa le sette città di cui
erasi fatto padrone e si apparecchiò a sostenere la guerra.
La venuta di Cola da Rienzo ricordò ai Romani non le ul-
time stravaganze di lui, ma ì bei tempi del suo governo e le
speranze che aveva loro fatte concepire. Essi recaronsi in folla
ad incontrarlo a Monleflascone. < Torna a Roma, > gli dice*
vano, < torna nella tua città; a te s'aspetta il liberaria dai suoi
mali; fattene signore, e noi ti sosterremo con tutte le nostre
forze; non dubitare, tu non fosti desiderato mai, né fosti amato
tanto come in questo giorno. » Ma Cola più non èra indipen*
dente; ogni suo passo doveva omai tener dietro alla politica del
cardinale, e questi pensava assai meno a dare la signorìa di
Roma ad un uomo intraprendente ed ambizioso che ad appro-
fittare del credito che quest'uomo godeva presso i Romani
onde servire ad altri disegni. E ricusando egli a Rienzo pochi
corazzieri per iscortarìo al Campidoglio, richiese ai deputati
romani d'armare il popolo contro il prefetto il Vico se deside-
rafano che Cola ristabilisse poscia in Roma il buono stato.
In quel mentre Giovanni di Vico, il quale aveva dovuto
avvedersi dell'odio che gli portavano grandissimo i cittadini di
Viterbo e di Orvieto, volle dare ai più arditi opportunllà di ma-
oifeslare i loro sentimenti, onde potere castigarli. Dopo avere
pascoslamente accresciuto il numero de'suoi sgherri, li distribuì
io lutti i luoghi afforzati delle due città, con ordine di tenersi
pronti a menar le mani. In appresso fece da alcuni suoi fidati
gridare alle armU viva il popolo! Tutti coloro che sopportavano
ìiQpazientementela tirannide s'affollarono a tali voci nelle strade,
^ovanni di Vico in Viterbo, e suo figlio in Orvieto, che non
spettavano altro che questo segno, uscirono dai loro nascon-
digli coi soldati e avventandosi contro ai sediziosi, ne fecero
weDda strage.
— 198 —
Con queste accistooi credeva il prefetto di avere rassico*
rata la sua sovraDità: ed iovece accrebbe il pericolo che gli
sovrastava; perchè il popolo, sdegnato, rìQatava ornai di difen-
derlo contro il legato.
In marzo del 1354 questi occupò Toscanella, ed in maggio
strinse d'assedio contemporaneamente Viterbo ed Orvieto con
milletrecento cavalli e diecimila fanti. I Romani andavano in*
grossando il campo dell'Albornoz, ed altri rinforzi gli giugne*
vano da altre. bande. Giovanni di Vico non osò aspettare la
vendetta del popolo, che poteva allora ribellarsegli senza peri-
colo. Si arrese a discrezione al legato, cedendogli tutte le città
che occupava, e che furono rimesse nella pristina libertà sotto
la protezione della Chiesa. Per altro TAIbornoz, riguardando alla
pronta sommessione del prefetto, gli lasciò il governo di Cor-
neto, Civita Vecchia e Respampano. Il cardinale rivolse poi in
giugno le sue armi contro Giovanni de\Gabrielli, tiranno di
Agobbio, e lo costrìnse egualmente a rimettere in libertà la
sua patria.
La sommissione del prefetto toglieva airAlbornoz ogni pre-
testo di ritenere più oltre presso di se Cola da Rienzo. Gli con-
cedette pertanto la dignità di senatore di Roma, in conformità
degli ordini che aveva ricevuti dal papa, e lo lasciò partire alla
vòlta di quella capitale senza soldati e senza danaro. Ma Cola
avea tanti nemici tra la nobiltà che non poteva arrischiarsi a
traversare la campagna di Roma ed il Patrimonio senza la
scorta di alcune compagnie di corazzieri. E trovandosi allora
in Perugia i due fratelli del Merlale, arricchitisi anch' essi coi
ladronecci di lui, Cola andò a trovarti e, manifestando loro i
suoi progetti per la prosperità deiritalia, li esortò ad associarsi
alla sua gloria ed al potere che stava per ricuperare; e con
quella persuasiva eloquenza di cui niun altro era dotato si
altamente gFindusse in fine a dargli in prestito una ragguar-
devole somma di danaro pel ristabilimento del buona stato. Per
la qual cosa, allorquando Cola, poche settimane dopo, fece ar-
restare il cavaliere di Moriale, che, meno facile de'suoi fratelli
a prestar fede a belle speranze, recavasi a Roma per tenere gli
occhi addosso al tribuno e forzarlo a mantenere le sue pro-
messe, ringratitudine di Cola, che condannava il temuto ven-
turiere al supplicio, fu assai più notata che la giustizia della
sua sentenza.
Giunto in Roma, Cola da Rienzo vi fu ricevuto con sommo
— 199 —
giQlMlo» perchè il sao esilio aveva cancellata la memoria della
sua vanità. L'aatorità che gli confidava il . popolo era confer-
mata e fortificata dai titoli di coi lo aveva rivestito il papa. Non
solo Innocenzo VI Taveva nominato senatore, ma riconosciuto
inoltre nobile e cavaliere, e ratificata in tal modo la bizzarra
cerimonia della conca di San Silvestro, in virtù della quale Gola
si era intitolato cavaliere di Santo Spirito. Ma il senatore tri-
buno, invece di emendarsi de'sooi difetti, aveva nelPesilio per-
duto queirentusiasmo per le virtù e per la patria che prima li
compensava. Più difficile a lui riusciva il governare, dovendo con-
ciliare la volontà del pontefice con quella del popolo. Il supplicio
del Mortale e quello di Pandolfo Pandolfucci, cittadino romano
universalmente stimato, gli furono rimproverati siccome delitti, e
la guerra ch'egli dovea sostenere contro i Colonna raddpppiava
il suo imbarazzo. Stefano Colonna il giovane, rimasto capo di
questa casa, erasi afforzato in Palestrina, e Cola, dopo averla
invano assediata, era stato obbligato a ricondurre i saldati a
Roma senza pagarli, perchè privo di danaro. Cercò in tal pe-
noso frangente di levare una nuova imposta, ma il popolo non
la sostenne lungo tempo.
Il di 8 ottobre scoppiò una grave sedizione in due quar-
tieri di Roma a un tempo, a Ripa Grande e in piazza Colonna.
Alcuni forsennati adunaronsi al grido di viva il popolo^ muoia
il traditore Cola da Rienzo ! e s'avvicinarono al Campidoglio.
11 tribuno si trovò abbandonato dalle sue guardie, da' suoi
ministri e dai servitori, e avea a fianco tre sole persone. Non
pertanto avea fatte chiudere le porle del palazzo; il popolo vi
appiccò il fuoco, il qual^, divampando per la scala, chiuse il
passaggio agli assalitori. Cola vesti la sua armatura di cavaliere
e, preso in mano lo stendardo del popolo, si affacciò al balcone
di una sala superiore e die segno di voler parlare. Tale era
il prodigioso impero della sua eloquenza che, se gli fosse stato
concesso di parlare, avrebbe senza dubbio ammansata la mol-
titudine. Ma il popolo ricusava ostinatamente di ascoltario e
scagliava pietre contro di lui per forzarlo a ritirarsi dal bal-
cone; onde egli, dopo avere fatti inutili sforzi per calmare quei
forsennati, essendo stato ferito in un braccio, ritirossi entro il
palazzo.
Non perciò perdette ogni speranza di arringare il popolo e
di calmarlo. Si fec-e calare a basso col mezzo di lenzuola legate
alle finestre, onde gìugnere sul terrazzo della cancelleria, sco-
perto pur esso, ma pm sicuro dalle offese. Di là tentò oacva*
mente di parlare, ma ogni sforzo per farsi udire fu vano. Allora
fu veduto stare qualche tempo in forse tra il desiderio d' in-
contrare una morte gloriosa combattendo e la speranza della
fuga; spogliarsi dell'armatura, poi rivestirla per levarsela di
nuovo. Finalmente si appigliò a quest' ultimo partito. 11 palazzo
era già preso dalla plebaglia , la quale saccheggiava le sale
separate dal luogo in cui trovavasi Cola per mezzo deirincendio.
Egli cercò di spogliarsi di tutti quegli abiti che potevano dare
indizio della sua dignità, s'avviluppò nel mantello del portinaio,
si pose in capo alcune coltri da letto e , come persona che
tornasse allora dal saccheggio , attraversando arditamente il
fuoco, additava agli aggressori in lingua romanesca il luogo
d'onde veniva colla preda, e faceva loro animo ad avanzarvisi»
dicendo esservi ricco bottino. Passò in tal guisa, senza essere
conosciuto, le' due prime porte e la prima scala ; e se avesse
potuto egualmente superare la seconda era salvo; ma un romano
lo trattenne dinanzi all'ultima porta e, presolo pel braccio, gli
disse: Ove vai tu?
Cola, fermato, non cercò più di nascondersi. Gettò le coltri
che aveva sul capo, e si die a conoscere pel tribuno. Fu allora
condotto appiedi della seconda sc/ala del Campidoglio, avanti al
leone di porfido egizio. Colà egli medesimo solea far leggere
le sentenze di condanna. Tra i forsennati che lo circondavano
ninno ardiva toccarlo, un cupo silenzio era succeduto alle furi*
bonde grida , ed egli colle braccia conserte al seno aspettava
il suo fato. E già alzati gli occhi, e girando lo sguardo sulla
moltitudine, disponevasi ad approflllaré del silenzio del popolo
per arringarlo, quando Cecco del Vecchio, un artigiano che gli
stava al fianco, temendo gli effetti della sua eloquenza, glMm-
merse lo stocco nel ventre. Allora tutti coloro che gli erano
vicini gli si avventarono contro, percuotendolo a gara ; gli fu
poscia recisa la testa , e il corpo lacerato dalle ferite venne
trascinato per la città ed appeso presso al tempio di San Mar-
cello all'uncino d'un beccaio.
Così morì un uomo che per ben due volte aveva fatta
risorgere la gloria del nome romano, e peri immolato dal popolo
alla cui difesa aveva consacrata la vita.
C.APITOLO Xi.
Gloria del poatificato di lomoccaso VI. UrlMii^ V.
Caterina da Siena e Bernabò Viecmiti.
Innocenzo V[ ebbe la ((loria di conclndorn un iniovn Inil^
tato coi Greci molto onorifico alla Chiosa latina. Il ctiialo parò
non ebbe miglior effetto degli altri. Androni^) nvnn liiMrIntn
morendo I-erede del trono in elA di novo anni; Il pnlrbirrit di
Costantinopoli ne prelendea la tutela a fronto di (Giovanni Ofiti-
tacozeno maggiordomo di corte, ma qun.st* ultimo ttiKll^*» [Ali
corto, e presi gli ornamenti imperiali, ni foco (U)roriarii dui jm-
inarca di Gerusalemme insieme coirerodc ikì trono. In np^wìUì
il tutore relegò il suo pupillo in TesHalonica n fm^ lutto i\it Mèi
Gantacuzeno mostrò i talenti deirusurfmton) o VA*rvM vaìU prn^
mora ramicizia del papa, a cui spedi nunrji mWmwhp di pomi
aDco alia testa della crociata. Ciò non ((li nim n m^im^rUt
sol trono : l'amor del popolo rerm I l'aMoKt ni rU'^t'uiUf ni
ritomo del giovane imperadore, che tiri uìAk vy^Uì^f^m ^\An*
Parte di rìcondarre alla soa eapilale. i'AUivMUUh nU mnUUiì
spontaneamente Tasorpala corona e eoi rimri^. di <>i/^*f^( nUfVf
a oascoDdersi fra' roonact d'AIbr/*, *if^ Wifi If *r^|oMlo. W # M
figfio del monaco- imperadore f^jKn\^^^ KiAf'iftffp'M , ^ d» Sk
B^nacciaTa il feifr>ro: •'itkìin p»r1^ i IntfM h ì ìaUuì Vf^^n-
Icodosi delU ^mem titì>. d^r^i>ww m$\^i^m*^9^^. (^ j^fAfM5
profincie. Stii&ó 4Wi<f % il Y%\^M^f$ if/^f9\nt¥$ ^fM^f^*', fìU
moaritìo col pc^fr», ìk & aà Ìm^. ^snf^tmA ìa^ ì^; #>
tomo dd Gred aST irtfcéiftttw 4i is^mdi. ^ di^r ^«(t'i'^ ^ ^/fi^
zione di quindici galee a disposizione dellMmperadore. Il vesco-
vo di Patti in Sicilia ne portò la ratiflca alla corte di Tracia,
ma lo zelo di questo prelato non altro ottenne che nna perse-
cuzione ai vescovi greci. Dal suo canto neppure il papa potò
somministrare i vascelli, e il trattato andò a vuoto.
Questo vescovo di Patti era il carmelitano frate Pier-To-
maso, il quale dalla più povera condizione fu tratto dalla sua
eloquènza e dalle sue virtù ad esercitare le più importanti le-
gazioni sotto tre successivi pontefici. Non era che semplice re-
ligioso quando fu mandato ai re d'Ungheria e di Svevia e alIMm-
perador Carlo IV; il vescovo di Patti trattò Tunione de' Greci ,
e vide la reggia di Costantinopoli ; trasferito a Moron ebbe la
legazione d'Oriente e scorse la Palestina; arcivescovo di Greta
tornò in Italia e ridusse all'obbedienza Bernabò Visconti signor
di Milano; finalmente patriarca titolare di Costantinopoli accom-
pagnò la crociata del re di Cipro, che prese Alessandria e gettò
lo spavento fra i Turchi. Egli mori Tanno stesso a Famagosta.
Dopo la morte d'Innocenzo VI, Urbano V fu il sesto pon-
tefice francese che sali di seguito la sede romana in Avignone.
Egli pure ebbe Sonore di vedersi corteggiato da tre monarchi
d'Europa, da un sovrano dell'Asia e da due imperadori, Carlo IV
e Giovanni Paleologo figlìuol d'Andronico: visite ch'ei retribuì
con indulgenze e reliquie. Egli fu uno dei migliori pontefici
avignonesi. Lontano dal contrastare co'principi, la sua pietà e
il suo zelo lo tennero sempre diretto alla ricupera di terra-santa,
per cui lo stesso imperatore dei Greci si mostrava impegnato.
Per le sue cure l'entusiasmo delle crociate parve un momento
che riprendesse vigore, e tutti i principi che vennero succes-
sivamente alla sua corte e furono da lui stesso insigniti della
croce, promisero di prestarvisi con ogni impegno. Pietro Lusi-
gnano re di Cipro, che da molti anni viaggiava in Europa per
quest'oggetto, vi aveva già dato buon cominciamento; la presa
di Alessandria fatta da lui sembrava promettere in questo porto
una scala sicura per quanti avessero deliberazione d' andarvi.
Urbano, che n'ebbe ragguaglio dal suo legato, il patriarca frate
Pier-Tomaso, ne fu lietissimo, ma si seppe ad un tempo in
Europa e la vittoria e la ritirata dei cristiani, i quali si erano
contentali di saccheggiarla.
Urbano V aveva pur pensalo all'Italia. Costiluilo in minor
dignità, era stato uno dei legati che i suoi predecessori vi ave-
vano spedito ; ne conosceva i bisogni e aveva fermo animo di
— 105 —
riine&m. Le bxìoDi dei bkmchi e dei neri si emio aggiunte
a quelle dei ghibellini e dei guelfi, e tutti insieme ?i pertaTano
il colmo degli odii d?ilì , le de?astaaioni e le stragi. Urbano ,
per secondare i Toti nnanimi di tutti i buoni, disegnò venirTi
in pm^ona, ma Tamore nazionale la Tinse in luì: Ti si lasciò
Ted^ come un lampo, e la sua inopinata partenza la rimise
ben tosto nel suo primiero abbattimento.
Durante il suo soggiorno in Italia conobbe il papa due
nnoTi fondatori d' istituti monastici, e approTÒ le loro regole* '
GioTanni Colombino senese, rinunziando ad un tratto agli onori
della sua patria e alle ricchezze con ogni sorta di mezzi acqui-
state, credè riparare a passali scandali, aggirandosi di città in
dttà accompagnato da^,suoi discepoli In abiti laceri e a lesta
niid:i. Urbano ne fissò loro uno più decente bianco con man-
tello colore di cannella: furono conosciuti col nome di gesuati.
L*altra è Brigida nobile sTedese, che, morto il marito, fondò
nella diocesi di Lincop un monastero per sessanta religioso e
Tenticinque frati, dando loro alcune costituzioni, ch'ella diceTa
aTer ricoTule immediatamente da Gesù Cristo. Urbano le approTò
come tali ; ma non Tolle credere un' altra rivelazione che la
buona Todova diceva aver avuto da Dio, ch'et morrebbe appena
ritornato in Avignone. Morì di fatto non ancor tre mesi dacché
v'era giunto. A quel passo estremo egli assoggettò quanto atea
dato e fatto alla correzione della Chiesa; espressione singo-
lare in un papa che fa conoscere ch'egli non si credeva infal-
Ubile.
Uniremo ai fondatori poco fa nominati un vescovo illastre
per nascita e per virtù che onorava una piccola chiesa della
Toscana. Andrea Corsini era un giovane libertino ed indocile,
a cui un sogno narratogli dalla madre afililta Te' cambiare vita.
Fatto carmelitano, i suoi parenti, per non vederlo mendicare
nelle strade, gli procurarono il vescovado di Fiesole, dove passò
lentitrè anni nelF esercizio delle virtù episcopali e religiose ;
raro esempio nel secolo decimoquarto, che in fatti scarseggia
assai di nomi inseriti nei martirologi.
Gregorio XI, nipote di Clemente VI, fu eletto in Avignone»
dieci giorni dopo la morte d' Urbano, con dispiacere di tutta
ritalia. Questo pontefice deviò dalForme di due immediati suoi
predecessori e colFamaro suo zelo accrebbe le sventure d'Italia.
Egli pose tra le principali sue cure il distruggere col ferro e
col fuoco ogni sorta di eretici, e non faceva che farli crescere.
— 204 —
Era sempre la slessa dottrina, detta allora manicheismo, che
animava questi fanatici , benché cambiassero nome , preso da
qualche pratica singolare che vi aggiungevano. Cosi i turluj^ni i
si distinsero sotto Gregorio XI: essi imitarono i cinici del paga- à
nesimo pretendendo non fosse alcun male soddisfare anche in
pubblico i bisogni della natura ; e perciò, oltre Tandare mèzzo i
ignudi, usavano della libertà delle bestie nella congiunzione i
dei sessi. Gli inquisitori procedevano contro codesti pazzi con ,i
tutto il rigore che il papa esigeva; la guerra e le esecuzioni ««
sacro-militari comprendevano gì' interi villaggi e riempivano \p
d' orrore e dì stragi le stesse città , col pretesto Che fossero
asili di eretici.
Spesso però ne riceveano la pariglia , e gì' inquisitori e i
legati trovarono talvolta le intere popolazioni armate contro di
loro. In Italia particolarmente si organizzò un'insurrezione gene-
rale, di cui centro era Firenze, onde si sparse nello Stato eccle-
siastico. Bologna scacciò il legato ; Perugia ne imitò Tesempio,
e da per tutto correvasi in folla sotto gli stendardi dei Fioren-
tini nei quali appariva in lettere cubitali la parola libertas. Il
papa ne fu al sommo irritato; egli era uomo incapace di misure
pacifiche e replicò contro i Fiorentini la bolla stessa che Cle-
mente V avea scagliato mezzo secolo prima sui Veneziani. Ella
produsse i più miserabili effetti, massime in Avignone e neirio-
ghilterra, dove il re ed il papa confiscarono a loro vantaggio
le ricchezze del Fiorentini e li dichiararono schiavi. Ciò nono-
stante la ribellione non cedeva, e fu d' uopo spedire in Italia
delle truppe e un cardinale alla loro testa , senza ottenere di
più. Ciò che gli fece piegare fu il danno che a lungo andare
ne risentiva il loro commercio; essi implorarono la pace. Una
donzella senese di non ancora trenranni s' incaricò di portare
sul Rodano a Gregorio XI il pentimento dei suoi nazionali, e
non ebbe ribrezzo di sostenere la maestà e la collera del sommo
gerarca, a'cui piedi tremavano 1 re. Caterina giunse a placarlo,
e il papa mise nelle sue mani il perdono, raccomandandole
però l'onore della Chiesa.
La sua legazione ottenne ancora un altro più considerabile
vantaggio a tutta T Italia. Non erano le sole virtù di questa
vergine e il suo coraggio eroico che piegarono il papa alle sue—
istanze, quanto i prodigi che di lei narrava il suo confessore,
il generale dei domenicani, che l'avea accompagnata nel viaggio:^
ella era stata sposata da Gesù Cristo con un anello d'oro ornato^
i
— 20ù —
<]i quattro perle e d'un diamante; avea succhiato la ferita del*
suo costato, cambiato di cuore cod lui e ricevute nelle mani e
nei piedi le cicatrici delle sue piaghe ; cose che ninno vedeva
fuori di lei, che ninno or crede, ma che erano allora credute
con tutta la buona fede dal confessore, dal papa, e dalla Cate-
rina medesima, tanto può una immaginazione viva, riscaldata
dalla continua meditazione, dalle lunghe veglie e dagli eccessivi
digiuni. Con un lai credito ella persuase facilmente Gregorio XI
essere volere di Dio eh' egli ritornasse alla sua capitale. Gre-
gorio si decise a ubbidirvi , e Roma rivide dopo otto anni il
suo vescovo ufiizìare solennemente nel Valicano. Ma il papa
era francese e mal volentieri privava la patria dell'onore d'essere
il soggiorno dei sommi pontefici. Intanto però ch'ei si occupava
sei disegno di ricondurvi la sede, mori in Roma col dispiacere
di tutto il collegio dei cardinali, la cui massima parte era della
stessa . nazione. Il conclave che si preparava in mezzo alla
eflervescenza d'un popolo stanco d' una straniera dominazione
minacciava la procella, che scoppiò in fatti col più terrìbile
rimbombo e produsse una nuova rivoluzione nella repubblica
-cristiana.
Milano in quest'epoca viveva sotto la tirannìa dei due fra-
telli visconti, Bernabò e Galeazzo II ; fra costoro non trovavasi
molta armonia; i vizi loro, la maniera di governare atroce-
mente non disponevano i popoli a bramare il loro impero. I
principi italiani, tanto più attivi e costanti, quanto più spera-
vano di riuscire contro di uno Stato diviso, non risparmiarono
^rte e forza in ogni occasione ; per modo che non v'é da ma-
ravigliarsi come sotto i due fratelli non s'ampliasse lo Slato ,
ma bensì come ei non cadesse in un totale discioglimento.
Bologna era passata nelle mani del papa, e Bernabò vi spinse
le sue armi fanno 1360, ma senza frutto ; poiché Innocenzo VI
fece venire nell' Italia Lodovico re (f Ungheria , con buon nu-
mero di armati,* in soccorso di Bologna, e Bernabò dovette riti-
rarsi. Quel sommo pontefice scomunicò Bernabò Visconti ; e
Urbano V, che fogli successore , confermò la scomunica con
sua bolla. 1 delitti che s' imputavano in quella bolla a Bar-
nabò Visconti sono : ch'egli proteggesse gli eretici; ch'egli un
giorno, avendo fallo chiamare avanti di sé j'arcivescovo, lorva-
raenle gli avesse comandato di porsi in ginocchio ; il che fallosi
dal timido prelato, Bernabò gli dicesse: — Non sai tu, poltrone,
che io sono papa ed imperatore, e signore di tutte le mie
— «06 —
terre? — ch'egli sagli ecclesiastici esercitasse giurisdizioDe, obbli*
gandoli a pagare i carichi, facendoli impr^gioDare , e coodan-
naDdoli al supplizio, come gli altri cittadini, e che si arrogasse
la collazione de'beneflcii e Famministrazione dei beni eccle-
siastici. Questa era la settima volta in cui il papa prendeva a
scomunicare ed interdire i signori o la città di Milano. Parlano
gli storici degli anatemi pronunziati nel secolo undecimo da
Alessandro II all' occasione di sottomettere la Chiesa milanese
alla giurisdizione di Roma. Come pure , del famoso interdetto
pubblicato sopra Milano da Innocenzo III, Tanno 1216, per
fargli abbandonare il partito di Ottone IV; e l'altro interdetta
di Urbano IV, di cui fanno memoria nelle loro pagine, per
abbassare i signori della Torre, nel 1262: poi le scomuni*
che pronunziate contro Matteo I Visconti , nelPanno 1321 „
allorché la potenza di lui cominciava a dar gelosia a Gio-
vanni XXII.
Narrano pure come lo stesso sommo pontefice, non con-
tento della scomunica e del fin tardetto sulla città, facesse pub-
blicare contro Galeazzo I una crociata , e invadere il di lui
Stato; non che come il papa Clemente VI ponesse air inter-
detto la città, e scomunicasse Giovanni Visconti , arcivescovo »
e i tre suoi nipoti Matteo, Bernabò e Galeazzo II, perchè avea
Tarcivescovo comprato dal Pepoii il dominio di Bologna.
Ora la scomunica cadde sopra Bernabò, il quale era stato
già due altre volte anatemizzato di riverbero, come discendente
da Matteo e nipote di Giovanni. Il papa, per mezzo d' un car>
dinal legato, faceva delle proposizioni di accomodamento a Ber-
nabò. Bologna era stata comperata da Giovanni arcivescovo per
ducentomila fiorini d'oro. Questo era il solo titolo che poteva
Bernabò legittimamente allegare per sostenere il dominio, e il
legato gli offeriva di sborsargli la metà di quella somma, cioè
centomila fiorini d'oro, purché egli abbandonasse le sue pre-
tensioni sopra Bologna. Ma Bernabò non faceva altra risposta
se non questa : Voglio Bologna. Nuove offerte faceva il legato,
e Barnabò rispondeva sempre : Voglio Bologna. Per deludere
tutte le arti d'un uomo colto, ingegnoso ed accorto, basta che
egli abbia a trattare con un uomo ostinato, ignorante e feroce.
Tali erano i dìalogly tra Bernabò ed il legato. Gli annali mi-
lanesi c'insegnano che esso signor Bernabò ai suoi giorni ebbe
in odio gli uomini scienziati, laici, cherìci e prelati, e qualun-
que uomo virtuoso, e sempre elevò sublimemente gli idioti, ì
Sarnaii ì^Mrftick sul ponte éMiìe^mno Ja Iranfiifiare ìiitto é scomunica
aimMclaii ofel/^oipa
— 107 —
urodeli, gli uomini yili, infami ed omicidi. Un prìncipe di Ut
arattere poteva far tremare gli nomini di mento che avevano
la sventura di trovarsi con lui, ma non poteva riuscire felicemente
ne' suoi progetti. Le sue armi ritornarono verso del Bolognese
ranno 1361, e più d'una volta vennero malamente l)attute, senza
ch'ei punto acquistasse.
Due fatti accaduti in quel tempo dimostrano qual principe
fosse Bernabò, e qaal rispetto egli avesse pel diritto delle genti.
Innocenzo VI gli spedi come nunzi due abati benedettini. Essi
erano incaricali di trattar seco lui per terminare la controversia
di Bologna, ed avevano le l)olle pontificie da presentargli. Ciò
accadde nell'anno 1361. Bernabò stavasene nel castello di Mari-
goano, rintanato colà per allontanarsi dalla ferocissima pesti-
lenza che devastava Milano, abbandonata dai due fratelli al caso,
e senza adoperare alcune di quelle precauzioni colle quali Lu-
chino loro zio, nell'anno 1348, cioè tredici anni prima, aveva
saputo preservarla, abbenchè allora quella sciagura avesse de-
solata gran parte dell'Italia. Ivi attese i due nunzi, e concertò
la cosa per modo che il primo incontro con essi loro seguisse
al ponte sotto cui scorre il fiume Lambro. Bernabò, scortato
da una buona caterva d'armali su di quel ponte, ricevè i due
nunzio i quali se gl'inchinarono, e presentarongii le bolle con-
segnate loro dal papa. Bernabò seriamente si pose a leggerle,
indi biecamente mirando i due ministri: < Scegliete, disse, una
delle due, o mangiare o bere. » I due nunzi, posti in mezzo
agli armali, senza, scampo, mirando il fiume che scorreva al
disotto, costretti dopo replicate e impazienti istanze alla scelta,
mostrarono che non piaceva loro di bere. « Ebbene, mangiate
dunque, » disse il feroce Bernabò; e furono costretti ì due ve-
nerabili prelati a mangiare la pergamena tutta quanta, il cor-
doncino di seta e la bolla di piombo. Con tale insulto atroce
ardi Bornabò di violare non solamente la riverenza che si deve
al sommo sacerdote, ma i doveri che recìprocamente uniscono
i principi e le nazioni fra di loro ; e persino le sacre leggi
d'ospitalità, che impongono, anche agli stessi popoli agresti e
selvaggi, di non abusare della condizione d'uno straniero rico-
verato in casa nostra. Uno di questi due abati era Guglielmo
da Grimoaldo di San Vittore di Marsiglia, il quale, pochi mesi
dopo di quest'obbrobrio, venne creato sommo pontefice, e chia-
tnossi Urbano V. È facile l'immaginarsi quai sentimenti dovesse
poi avere Urbono V verso di Bernabò, da cui era stato insul-
— 208 —
tato con tanta soperchieria. Egli, in fatti, con on breve dato
da Avignone il giorno 3 di marzo dell'anno 1363, scomonicò
solennemente Bernabò; lo dichiarò eretico, decaduto dall'ordine
di cavalière, spogliato d'ogni onore, diritto e privilegio, e co-
mandò che alcuno non osasse più di trattare con lui. Nel breve
della scomunica vi eran queste parole : « Perciò il Signore ti
distruggerà finalmente, ti svellerà e farà esule te dal tuo taber-
nacolo, e la progenie tua dalla terra dei viventi. » Inoltre, agli 11
di luglio dello stesso anno 1363, dal cardinale Egidio Àlbornoz
fece pubblicare la crociata contro Bernabò, come già era stata
pubblicata contro suo zio Galeazzo quarant'anni prima ; e tale
e tanto era in ciò l'impegno del papa, che (quantunque egli
venisse istantemente sollecitato e da Pietro re di Cipro, e dal
re di Francia medesimo, ad intimare una crociata contro dei
saraceni, che sempre più si rendevano formidabili ai cristiani
del Levante) egli ricusò di Tarlo per allora; anzi protestò ch'ei
non avrebbe mai dato mano a crociata alcuna, sin tanto, che
non avesse ottenuto esito felice quella già intimata contro di
Bernabò. Allora però questa crociala non ebbe effetto; poiché
la combinazione degli interessi dei princìpi gl'indusse ad accor-
dar la pace Tanno 1364, in cui Bernabò cedette Bologna al papa,
che s'obbligò a pagargliela cinquecentomila fiorini d'oro. La
perdita di Bologna e del Modenese fatta da'Visconti non fu una
riparazione bastante al pontefice; poiché con nuova bolla del-
l'anno 1368, in data 30 maggio, lo stesso papa pubblicò una
seconda crociata contro di Bernabò e fé' che lo attaccassero con
formidabile esercito l'imperatore, la regina di Napoli, il Mar-
chese di Monferrato, gli Estensi, i (lonzagbi, i Malatesti, i Car-
raresi, i Perugini e i Sanesi collegati insième coi Pontificii.
Questo esercito collegato avrebbe svelta dalle radici la sovra-
nità de'Visconli se non avesse portato seco quel principio di
lentore e debolezza, che sono inseparabili dalle armate combi-
nate, ciascuna porzione delle quali, perchè dipendente da un
distinto sovrano, si crede la prima di ogni altra, o almeno l'e-
guale, e si disperde nelle rivalità, che più la tengono occupata
di quello non faccia la causa comune. Così potè Bernabò difen-
dersi, e senza nuove perdite ottenere la pace, segnata il giorno 11
febbraio 1369. Né la morte di Urbano V, che aveva sofferto Tin-
sulto personale, diede costante fine all'odio pontificio: parve anzi
che nel successore Gregorio XI venisse trasfuso come un'ere-
dità; poiché Gregorio, l'anno 1372, combinò una nuova lega.
— 109 —
fin i prìncipi d'Italia» e vedendo che le armi non andavano pro-
speramente, scomunicò di bel nuovo Bernabò, e liberò i sud-
diti dal Muramento di fedeltà; poi animò l'imperatore Carlo IV,
il quale, con suo diploma dato in Praga il. giorno 3 di agosto
dello stesso anno 1372, privò i due fratelli Visconti Bernabò e
Galeazzo del vicariato imperiale e d' ogni dignità, e Bernabò
venne persino degradato dell' ordine equestre. Alle forze degli
alleati, per opera del cardinale di Bourge, legato pontificio, si
unirono quelle del duca di Savoia; e sebbene nemmeno questa
volta l'armata combinata giugnesse a fare conquista sulle terre
di Bernabò, ella però potè devastarle, e porre a saccheggio e
in rovina una parte del suo Stato. Cosi la rozza e feroce viola-
lione del diritto delle genti produsse a Bernabò delle inquietu-
dini mortali durante il suo regno; e questo è il primo de'due
fatti. L'altro fatto si vede originato dall' animo ìstesso di quel
sovrano truce ed ignorante. Sino dall'anno 1362 s'era formata
ralleanza fra il papa, i Carraresi signori di Padova, gli Scaligeri
signori di Verona, gli Estensi signori di Ferrara, e un Gonzaga
signor di Reggio. Questi principi collegati, prima di commet-
tere ostilità, spedirono i loro ministri a Bernabò, facendogli
ffire che essi avevano fatto lega col papa, ma unicamente in
fifesa dello Stato della Chiesa, non mai per invadere gli Stati
attrai: onde qualora il signor Bernabò avesse restituito i luoghi
da lui occupati nei Bolognese e nella Romagna, essi non avreb-
bero mosse le armi contro di lui. Tale era la commissione di
que'legatì. A questo nobile .uflBcio Bernabò corrispose nella
pih villana maniera. Ordinò che i , legati venissero a corte ;
ivi non si degnò di lasciarsi vedere, ma volle che esponessero
la loro ambasciata avanti di un notare; e poiché ebbero ciò ese-
guito, egli spedi una squadra d'armati e fece attorniare i legati
de'prindpi; indi furono essi dalla forza obbligati a indossarsi
aleane vesti bianche preparate apposta per esporli alla derisione
della plebe. Vennero poscia costretti, in tal ridicolo arnese, a
pom a cavallo; e per due buone ore volle che in tal meschina
6 i»uKza forma rimanessero avanti la porta del palazzo di corte:
iodi li fece girare per la città, esposti al vilipendio ed alle
lischiale della ciurmaglia; e con tale infamia vennero scortati
H sino ai confini. Non è dunque da stupirsi che i principi
ìtaliaoi sempre gli fossero poi contrarli e pronti a secondare
contro di lui tutte le proposizioni del papa.
TiMB. Inquii. Yol. IL S7
CAPITOLO XII.
Pontefici d'ATignone, Pietro d'Abano e Oeceo d'Ascoli.
Per altro la stanza de'ponle&cì in Avignone era stata di
sommo danno alla Chiesa : né solo aveano guasti i costami e
la politica , ma conturbato il riposo e la fede. La corruzione
de'prelati, la scandalosa e disonesta yita de'gioyani cardinali,
per favore o per brighe innalzati alla porpora» erano talmente
notori!, che Avignone più non era additata con altro nome che
quello di Babilonia d'Occidente. Né quest'epiteto trovasi soltanto
nelle aspre invettive doi Petrarca, ma e nelle epistole e nelle
scritlnre degli uomini più moderati e pii del decimoquarto se-
colo. Avignone capiva la feccia degritaliani e deTrancesi ; colà
venivano a cercare ventura gli aggiratori d'ogni nazione, e seco
recavano i più abbominevoli vizi de'loro compatriotti ; e il po-
polo e la corte d'Avignone «avevano fatto costume di ciò che
appo le altre nazioni era vizio. Ne'precedenti secoli la corte di
Roma era già stata accusata di smisurata ambizione, di dissi-
mulazione, di avarizia, d'ingratitudine ; ma nel tempo che i
papi ebbero stanza in Francia, la corte loro si fece venale e
perfida inverso alla corte di Francia : licenziosa ed intempe-
rante divenne la privata vita de'suoi prelati ; e tra gli stessi
papi, Clemente VI non andò esente dal rimprovero di scostu-
matezza.
Gritalianì, cui i propri governi cercarono di rendere su-
perstiziosi, sono meno di ogni altro popolo inclinati alla credu-
lità. Il misticismo, non meno che le tetre fantasie, è proprio di
- 211 —
querelimi De'qoali roomo pare condannato ai dolore per la in-
focata 0 gelida temperatura. Nei deserti della Tebaide e sulle
arene del Gange, o in riva al Baltico e tra le rupi della Scozia,
roomo può starsi in continuo timore del principio malefico,
di cui sembra non potere obliare la potenza ; e può offerire
alla divinità que'dolori che paiono indivisibili dall'umana specie:
ma di che si tremerebbe in Italia, ove tutto sorride all'uomo T
E come mai volgere tutti i pensieri airaltra vita, allora che si
dolce è la presente?
Nel decimoquarto secolo gritaliani accoppiavano al costume
di commerciare e comunioare coi popoli di diversa credenza
assai vaghezza di osservazione, e fino ed esercitatissimo acume
per quest' uopo. Il disprezzo in cui teneano la corte d' Avi-
gnone avea lor fatto scuotere quasi al tutto il giogo della
Chiesa romana ; intanto che gli spiriti erano rimasti assai più
sottomessi in Francia, ove ridestandosi assai sovente il fanatismo
con DQOve forze, rinascevano le persecuzioni. Nella stessa Parigi,
oel Delfinato ed in altre provincie della Francia furono arsi
sui roghi nel 1373 molti eretici. Le varie loro sètte , tutte
egualmente condannate ad atroci supplizi , aveano i nomi di
TnrlQpioi, Beghini, Lollardi e Valdesi. Ma in Italia queirenta-
siasmo per coi nascono e si propagano le eresie eA il fana-
tismo per coi SODO perseguitate non erano egualmente feroci
e crodeli.
I Visconti , in tempo delle lunghe guerre che avevano
sostenute contro la Chiesa, ricattavansi delle censure dei papi
col molestare il clero dei loro Stati, e più taglieggiavano i chie-
rici quanto più eran percossi dalle scomuniche o dagrinterdetti.
Né i tiranni della Bomagna si erano più de* Visconti lasciati
atterrire dai fulmini de'papi o dalle crociate bandite contro di
loro: e se altri di que'tiranni sorgevano, altri cadevano, ciò era
effetto della lotta tra V ambizione e la libertà, o dell' affezione»
dell'odio 0 della vendetta, che sembrarono ereditarli in alcune
fomìglie; né ci aveva a che fare la religione. I Siciliani, dopo
i famosi loro vespri, più non furono in pace colla Chiesa per
lo spazio di ottantanni. I principi di Sicilia della casa d'Aragona
erano noncoranti delle scomuniche dei papi; sicché dall'una
all' altra estremità dell' Italia i principi più non temevano le
censore ed i castighi ecclesiastici.
La filosofia d' Aristotile era stata universalmente adottata
io tutte le scuole unitamente coi commentarii d'Averroe. B,
— «t —
•
greco filosofo, supponendo un'anima unica, animatrice di tutti
gii uomini, fassi con ciò a distruggere la fede nella prowidensa
e la moralità delle azioni. Ma il glossatore arabo aveva ancora
più direttamente attaccata la religione; ed opponendo la trista
sua dottrina airìslamismo, in cui era nato, al cristianesimo ed
al giudaismo » che aveva studiati , vólto aveva in ispezialità
contro i cattolici i suoi sarcasmi ed i suoi ragionamenti. Il
Petrarca tentava pressoché egli solo di resistere al torrente
degli increduli ; ma la setta eh' egli combatteva nelle sue filo*
sofiche scritture e nelle sue lettere godeva d' illimitata libertà
e mostravasi ogni giorno più ardita. Gredeasi appena che le
antiche dottrine potessero giovare al popolo; e la religione,
quasi incompatibile con una tale filosofia, andava perdendo il
suo impero sopra gli animi.
I prelati immersi ne'vìzi e nella lussuria, di che il Petrarca
nelle sue lettere ha lasciata la più orrenda pittura , avevano
perduto lo spirito di dominazione , non meno che i popoli
l'abitudine di essere loro sottomessi. Servilmente ligi alla corte
di Francia, i prelati nemmeno più si vergognavano della loro
dependenza. Più in loro non si ravvisava quello spirito che
s'innalza sopra le cose del mondo, né quell'annegazione di so
medesimi che mantiene la vera religione, e che, quand' anche
si accoppiasse con una falsa religione, la renderebbe pure rispet*
tabile ed utile agli uomini. Anziché risguardare alla terra in
quanto si riferisce a Dio, il clero più non pensava altrimenti
a Dio, che in ragione dei propri interessi sulla terra. La religione
era diventata in mano sua un mezzo afifatto umano di governo,
uno stromento che i despoti tenevano nelle loro mani per
valersene contro i popoli.
Una religione corre ognora grandissimo rischio quando le
sì costituisce un capo sulla terra; poiché, facendosi dipendere
la reverenza dovutale dair eventualità e dalla virtù d' un solo
uomo, la Chiesa si rende mallevadrice de'portamenti del ponte-
fice che la rappresenta. Vero è che ne' tempi della sventura e
della persecuzione ovvi maggiore ragione di sperare che non
di temere , quanto ai portamenti del suo capo; impeciocché
«gli s'infiamma in allora dello zelo medesimo della sua greggia,
e l'alto grado nel quale ei si vede innalzato sopra gli altri
tutti, non é che un impulso a dare loro di sé più luminosi
esempli. I primi vescovi di Roma , se dobbiamo prestare fede
ai martirologi, furono quasi tutti santi e martiri; ma di poi che
— 213 —
la Chiesa trionfò deir idolatrìa, la leggenda medesima piii non
sttribtilsce ai loro snccessori tanti pregi e tante yirtb. Il capo
del clero, depositario del suo potere, non può causare di essere
trascinato dagl' interessi temporali del suo governo , e di far
servire la religione alla politica. È questo il maggiore abbassa-
mento cui si possa esporre un'autorità divina. Il più nobile ed
il iHù disinteressato sentimento del cuore umano, T abnegazio-
ne, rintero sacrificio di sé medesimo si cangia in siffatto modo
nel Yilissimo calcolo deir interesse e della frode.
Onde a ragione fu detto cbe per quanto appare a chi non
Tede fondo nelle cose, essere d'un interesse affatto secondario
che il supremo gerarca sia travolto come tutti gli altri sud-
diti sotto la legge del diritto comune, e si deve necessaria-
mente discutere il problema della sua piena indipendenza. Si
può ammettere , anzi è da desiderare che questo fardello del
potere temporale sia tolto di dosso al pontefice , ma egli è a
corarsi che la sua autorità affatto spirituale non sia inceppata
dalla prepotenza secolare, ovveramente da indegni riguardi umani,
SQggerili dalla soggezione ad un principe. Un pontefice a cui
è guarentita V indipendenza , compenserà spesse volte col suo
coraggio nel biasimare le opere loro i torti suoi propri ; repri-
merà, come sempre fecero i papi, i pessimi costumi , il di cui
esempio è si pernicioso, ove sia dato da chi siede in trono;
citerà alcuna volta al tribunale di Dio un re come falsario, un
principe perchè impudico o assassino. In mezzo alle loro in-
giuste passioni, ai loro implacabili odii gli Innoceozi, gli Ales-
sandri , allorché volsero le armi della Chiesa contro i re di
Francia, di Spagna, di Germania, d' Inghilterra, fecero se non
altro sentire ai popoli che i sovrani, non meno de' sudditi, pos-
sono essere puniti nei loro delitti.
Quando la corte di Roma, trasportatasi oltremonti, divenne
tetta di Francia , ella cessò di esprimere in tale maniera il
^to dei popoli e delle future generazioni. Ella copri col^suo
ioanto le scelleratezze di Filippo il Bello, e gli somminfstrò
inbmi pretesti per la carneficina dei templari. Fece co'succes-
sori di lui vergognosi patti intorno ai beni della Chiesa, sotto
prttesto di una crociata , che punto non si divisava adunare.
Tradi con fallaci speranze i cristiani d'Oriente , eccitandoli a
pmdere le armi; poi lasciandoli senza aita in preda al ferro
de' musulmani.
Clemente VI, invece di profondere a Filippo di Valois tutti
-«14 —
i' tesori della Chiesa sotto pretesto d'una guerra sacra, alla
quale costui era lungi dal pensare, avrebbe dovuto muoversi a
quei coraggio che manifestò in quest'occasione frate Andrea di
Antiochia, monaco italiano che tornava in allora da Terra Santa.
Questo venerando monaco , abbattutosi in Filippo , aflèrrò le
briglie del cavallo, e, fermato il re, gli parlò in tal guisa : e Sei
tu, gli disse, quel Filippo re di Francia e' ha promesso a Dia
e a santa Chiesa d'andare colla tua potenza a trarre dalle mani
de' perfidi saraceni la terra dove Cristo nostro salvatore volle
spandere il suo immacolato sangue per la nostra redenzione? »
Il re rispose di si: allora il venerabile religioso gli disse: e Se
tu questo hai mosso, e intendi di seguitare con pura inten*
zinne e fede, io prego quel Cristo benedetto che per noi volle
in quella terra santa ricevere passione, che dirizzi i tuoi anda*
menti al fine di piena vittoria, e intera prosperità di te , e del
tuo esercito , e che ti presti in tutte le cose il suo ajuto e la
sua benedizione, e t'accresca nei beni spirituali e temporali colla
sua grazia, sicché tu sii colui che colla tua vittoria levi Pob-
brobrio del popolo cristiano e abbatti l'errore dell'iniquo e
perfido Maometto, e purghi e mondi il venerabile luogo di tutte
le abominazioni degl'infedeli, in tua per Cristo sempiterna gloria.
Ma se tu questo hai cominciato e pubblicato, la qual cosa
resulta in grave tormento e morte dei cristiani che in quel paese
conversano, e non hai l'animo perfetto con Dio a questa im-
presa seguitare, e la santa Chiesa cattolica da te ingannata»
sopra la tua casa , e i tuoi discendenti e '1 tuo reame venga
l'ira della divina indegnazione , e dimostri contro a te e tuoi
successori, e in evidenza de' cristiani il flagello, della divina
giustizia , e contro a te gridi a Dio il sangue degli innocenti
cristiani, già sparto per la bocca di questo passaggio. »
Non è perciò da credere che i papi francesi non chiamas-
sere altresì innanzi al loro tribunale i principi con cui guer-
reggiassero. Furono sì uditi rimproverare ai Visconti i loro
delitti, ma non già con quella sublime favella che si conviene
al ministro di Dìo sulla terra, bensì col linguaggio d'un acca-
nito nemico. Urbano Y, in una bolla pubblicata contro di Ber-
nabò , io chiama figlio di perdizione , animato di uno spirito
diabolico: ìndi passa a disvelare tulle le turpitudini di questo
esoso tiranno. Ma non i delitti, bensì le conquiste di Bernabò»
voleva il papa punire ; perciò' quand' ebbe ottenuta la restitu-
zione di alcune fortezze che Bernabò possedeva nel Bolognese»
Urbano lo accolse di nuovo in grazia, assolvendolo di tntte le
censure pronunciate contro di lui.
La dipendenza de' papi avìgnonesi dalla corte di Francia
muoveva a malcontento tutto il resto dell'Europa. Accusavano
i tribunali ecclesiastici di parzialità, di venalità i legati ed i
governatori nominali dal papa , e tutta la Chiesa di corru-
zione. Tutti i vescovi erano tenuti di risiedere presso la loro
greggia, e guest' obbligazione veniva continuamente ricordata
dagli uomini dabbene al primo vescovo, che avrebbe dovuto
dare a tutti gli altri l'esempio della disciplina; onde il biasimo
di tutta la crìstiauità ricadeva sul di lui capo. Frattanto gli
abusi coirandare del tempo gettavano radice; e la corte ponti-
ficia non sarebbe mai stata ricondotta da Avignone a Roma, se
la prima di queste città avesse continuato ad essere per i papi
un sicuro asilo, inaccessibile alle armi ed alle rivoluzioni del
rimanente dell' Europa. Ma i Valois , durante lo sgraziato loro
regno, più non restituirono alla corte pontificia quella pace di
cui ella aveva goduto in Provenza in cambio della perduta
libertà.
Due sommi uomini caddero vittime con poco divario di
tempo nella prima metà del secolo XIY, e questi furono Fran-
<^sco Stabili e Pietro d'Abano.
Il primo, conosciuto sotto il nome di Cecco d'Ascoli, dalla
terra in cui era nato, uomo di alto ingegno, non potendo far
eco ai pregiudizi che regnavano in quei tempi , né approvare
molte cose che si facevano dai papi in Avignone ed a Roma e
per tutta Italia da' loro rappresentanti, avea esternato alcune
critiche, ed alcune parole, che riferite al Sani' Offizio diedero
presa al suo risentimento. Trovavasi a quei di in Bologna; ed
il tribunale dell'Inquisizione risapute le vere o false colpe, se-
condo lui, dello Stabili, lo fece agguantare, e posto alla prova
de'tormenti, fu condannato a far pubblica penitenza ed ammen-
da, e privato dei titoli di maestro e di dottore. Addolorato per
cosi iniqua sentenza, la quale, ben lungi dal mitigare lo sdegno
che avea contro l'arbitrario tirannico potere dell'Inquisizione, lo
aveva a mille doppi accresciuto, e temendo d'incorrere nuova-
mente in qualche scappuccio, risolvette di mutar cielo sperando
di trovare meno inclemente fortuna. Per lui, uomo di svegliato
ingegno, era mestieri;di recarsi in una terra gentile, ospitale ed
incivilita, onde trar profitto delle sue cognizioni ; ebbe quindi
scelto Firenze; Bologna d'altronde a que' di era tumultuosa, es-
seDdo nato gravissimo pianto fra Jacopo Popoli figlio di Taddei
e il yescoYO. Avea Jacopo promesso ad un prete, di cui serviyas
io secreto missioni, un lauto beneficio in benemerenza dei pre
stati servigi, ed avendolo chiesto inutilmente al vescovo, in ui
ìmpeto di collera oltraggiò il prelato dandogli una guanciata
il vescovo, non più ricordando Tevangelico precetto, in vec<
di volgere Taltra guancia al percussore, diede mano ad un pu
gnale che tenea soppannato, e feri il Popoli. Costui si mise ;
gridare a squarciagola, ed entrarono nella sala i suoi scheran
che avea lasciato nelfanticamera, e dall'altra accorsero i famigl
del prelato, e nacque fra gli uni e gli altri ferocissima rissa
al rumore della quale s' adunò il popolo , il quale diviso ii
due parti venne anch'egli alle mani, e Tepiscopio fa saccheg-
giato dalla parte vincitrice, e il vescovo si sottrasse alta morb
colla fuga. Questo trionfo del Popoli produsse poscia la cacciata
de'Maltraversi, il cui capo era Brandaligi di Gozzadini.
Ma se Bologna era in tumulto, Firenze per ciò non er;
tranquilla. La cacciata del duca d'Atene avea svegliati i rancor
delle parti, la peste che avea incominciato a propagarsi teneva
gli animi in grave apprensione. L'autorità che la soma teneva
delle cose più non pensava che a vincere gli avversi partiti, ec
intanto i frati inquisitori avevano preso un inflasso da non dire
Per le chiese, per le piazze predicavano sbracciandosi contro
eresiarcbi, negromanti, streghe, bestemmiatori, e già minaccia
vano vicino Testremo giorno del creato per incutere grave ti-
more negli animi del popolo. Certo frate Giorgio da Folignc
predicava in Firenze sulla piazza ora chiamata del Gran Duca
ed il popolo ^devoto pendeva dalle sue labbra. Frate Giorgie
apparteneva a'Francescani che avevano anch'essi grande influ
enza nel tribunale deirinquisizione, ed il punto sol quale pit
insisteva nella sua conciono era Tobbligo che correva a' fedel
di subito denunciare al Sant'Offizio colóro che si rendevano
colpevoli di parole irreverenti verso la Chiesa ed il sacerdozio
Francesco Stabili tramutatosi a Firenze entrò in qualche
intimità con persona per la quale avea avuto commendatizia de
Bologna. Franco e sincero, aprì a costui l'animo suo, non senz<
sfogare l'interno sdegno che giustamente nutriva contro colore
che punir volevano perfino il pensiero, la cosa che il somme
Iddio concesse libero, che lietò all'uomo di scrutare riserbandc
solamente a sé stesso il diritto di farne giustizia. Ma il Sant'Uf*
ficio, che venivagli sempre a panni, seppe tosto quanto aves
n'afe ùifffo s/ff Mm chpreé/ff^iffff/f.ren'/. ' m'h^/ttrfùr'.
\- .
'')
dMlo eoDfaro ^ lui e DQO?ameDle FraDcesco Stabili cadde io
inaoo dell'ÌDesorabile trìbuDale, che senza tante formaUtà lo
coodanoò a morte. E la iniqua senten:;a fa pubUicamenle ese*
goita correndo Tanno 1347. L'infelicissimo secchio era aUora
pervenuto all'età d'anni 75. Vittima d'un odio feroce, altro non
gli era serbato che il compianto de'posteri. Cecco d'Ascoli ha
VltJJI NI,
Cecco d' Ascoli.
nome, fra gli antichi poeti volgari, come autore d'un mediocris-
simo poema in volgare comunemente chiamato V Acerba, ma
per isbaglio del copista del manoscritto che servi alla prima
edizione fattane in Venezia nel 1476 in quarto. Il vero titolo
dall'autore dato all'opera sua è Acerbo, ossia Acervo, die dal
htino Acervtis suona congerie o cumulo di più cose diverse ;
e tale appunto si è il subbietto che abbraccia la fisica, la storia
naturale» la filosofia morale con accompagnatura di visioni astro-
lapche. Airedizione veneta tennero dietro altre quattro raris-
sine tutte, ed altre tre più comuni fatte a ^filano con commenti
di Nicolò Massetti.
Pietro d'Abano fu celebre medico e filosofo italiano del
TiiiB, Inqui$. Voi. II.
88
— 118 —
medio evo ; nacque nel 1280 in Abano, villag^o nella proTlncft
di Padova ai piedi dd Ciolli Euganei. Pietro h uno de'piii colti
scienziati de'anoi tem(d» ed i suoi scritti jportano una tal quale
impronta di orìginaliti, die prova essere stato nell'aatore im
Pietro d'Abano^
ingegno franco e acuto. Fu pertanto tenuto in conto di uno dei
principali rinnovatori della vera scienza in Italia. La sua dot-
trina lo fece riguardare come un negromante. Il Sant'UfSzio
di Padova lo fece agguantare; e dopo lungo processo e tormento
come reo di magia riuscì ad essere dimesso dalla prigione. Ma
non gran tempo dopo fu accusato d'eresia; per aver impugnata
resistenza dei demoni; la vera risurrezione di Lazzaro ecc.; '
sottoposto a nuovo processo, durante il quale mori in Pad
nel 1316« Fu sepolto in onta al volere degli inquisitori m
chiesa di S. Antonio. Ma il tribunale dell'Inquisiadone imi
cabile lo volle perseguitare estinto. Pubblicò la sentenza
condanna, e lo fece abbruciare in effigie.
'/
— 219 —
Per meglio provare randamento deirinquisizione in Italia
daremo ora il processo di alcani casi, cominciando da nno te-
nuto in Ferrara per bestemmia» dal qaale potrà il lettore cono-
scere il modo della procedura che si teneva dagli inquisitori,
potentissimi in Ferrara perchè protetti dai Marchesi d'Este, nella
vigilanza dei qnali traevano argomento alla propria sicurezza.
CAPITOLO XIII.
Regole del Tribunale di 8ant'0£Eteio
€he si deTono pratioare, e che si danno per istroaione.
PRIMA DENUNZIA DI BESTEMMIE
1. Ferrara, Giorno 5 giugno 1382.
(Avanti d'ogni cosa si nota il giorno j mese ed anno).
% SpoDte personalìter comparait coram adm. rev. parte vi^
cario Sancti Officii Auximi» existente in propria cella, in mei--
que, etc.
(Si scriverà la comparsa personale del denunziante, la
presenza del giudice» il luogo dove si fa l'esame €f la presenza
del notaro)
3. Titius fllius quondam Berengarii Cedrari de Neapoli ;
aBtatis annorum quadraginta circiter; mercator degens de prdB-
senti in hac civitate Auximi sub parocbia malori; cai delato
iuramento veritatis dicendae, quod praestitit tactis sacris litteris,
exposuit ut infra.
(Circa il denunziante si noterà il nome, padre, cognome,
patria, età, esercizio, abitazione e giuramento ; e queste cose
dovrà imparare a memoria il notaro quando non le sa; e circa
il giuramento avvertirà il vicario di farlo stendere tutto, cioè
tactis sacris litteris, essendo questo l'ordine della Sacra Con*
gregazione).
-MI-
4. Sari no arnio; Don mi ricordo il giorno iNreciso né il
mese, ma era poco avanti o poco dopo Pasqua rosata, che, ri-
trovandomi in piazza vicino alla porta della città detta la Porta
Grande, verso la sera ginocava dalla banda sinistra di detta
porta Marzio Belloni e Florido, Galanti con Belramo Agosti, tutti
talzolaj, al giuoco dei dadi. E perchè Belramo perdeva, disse
in collera quattro o cinque volte Pattana di Dio; e lo so, per*
thè ero presente e lo udii colle mie orecchie. Belramo fu
ripreso da Marzio; ma Belramo, invece di correggersi, disse:
^ Non mi romper la testa, se non vuoi che ti dia una pugna-
lata. — E son venuto a iscaricare la mia coscienza, d'ordine
del mio confessore.
(Si avvertirà di far dire nel corpo della denunzia, per
«Titare tante interrogazióni, il tempo, il luogo, i testimonii. Toc-
«asiooe delle bestemmie, il numero delie volte, la causa della
sdenza, la correzione, se pur fu fatta, con la risposta del reo
ed il motivo che Tha spinto di venire al Sant'Ufficio. Se poi il
giudice si ricorderà di far spiegare qualcuna delle suddette
circostanze, allora si supplirà con. quelle interrogazioni cheaa-
raoDO necessarie. Si osservino quelle parole nel principio della
denunzia: non mi ricorda del giorno preciso nò del mescy ma
^a poco (wcmti o poco dopo Pasqua rosato, perchè si deve for
dire al denunziate il tempo più preciso che si può; se non sa
il giorno, dica la settimana, o il mese, o la stagione; e ciò per
MTvirsene il giudice nell'esame dei testimonii).
5. Int. Àn sciat, vel dici audierlt, dictum Belramum alias
Uas(9ì6masse?
(Si fa quest'interrogazione per sapere se Belramo sia abi-
toato nelle bestemmie).
Besp. Io, padre,: non so uè ho inteso dire che Belramo altre
volte abbi bestemmiato.
6. Int. Quare tamdiu distulerit. denunciare in Sancto Officio
dictom Belramum?
(S'interroga in questa maniera per farlo avvertilo acciò
HD'altra volta sia più sollecito ; e si fo anco per vedere se sia
caduto in scomunica per non aver denunziato dentro il termine
€tke prescrive l'editto del Sant'Ufficio).
Besp. Non sono venuto prima perchè non ho pensato d'es*
sere obbligato, ma avendomi poi aperti gli occhi il mio confes*
sono» son comparso a soddisbre al debito, mio.
7. Int. De fama dicti Belrami, tama apud se quam apud
alios?
- MI-
(Se gli dimanda della fama, per conoscere il di loistat
ed anco il grado deirabiura che si deve intimare al reo» percb
se la fama cattiva sarà grande, farà mutare alle volte il grad
deirabiura, rendendo sospetto de veementi chi per altro sar^
sospetto solo de levi).
Resp. Belramo è uomo colerico , del resto non ho cosa 2
contrario circa la sua fama.
8. Int. Àn odio, vel amore, et super inimiciUa aliisque gè
neralibus, etc.
(Quest'interrogazione dimanda se quel che ha deposto ì
denunziante Tha deposto per odio che porti a Belramo; poich
in questo caso il suo detto si diminuirebbe di credito, si rice
verghe però con la sua diminuzione ; 0 se T ha deposto pe
amore, cioè in grazia, 0 per far servizio a qualcuno. E se h
oppure ha avuto qualche inimicizia; ed in tal caso si fa espr
mere la causa deirinimicizia, e se segui la riconciliazione, quandi
e come stanno di presente. Per le altre cose generali slntend
che beni possiede, se si confessa, se si comunica, e da eh
tempo in qua non Tha fotte; se gli è stato dato 0 promess
cosa .veruna per quest'esame, se gli e stato detto 0 insegnai
quello che doveva dire, e cose simili: le quali cose generali 1
faranno dire ad una per una quando ci fosse qualche sospett
di fatalità, che per altro non occorre tante minuzie» bastand
deirodió, deiramore e deirinimicizia; e quando tutto vadi beni
che non ci sia veruna di queste tre cose, si fa scrìvere: R^
pondit Recto).
9. Quibus habitis et acceptatis dimissus fuit , iuratus é
silentio et perfecta sua depositione, se subscrìpsit.
Io Tizio Cedrari affermo quanto sopra di mano propria.
E se non saprà scrìvere , si noterà :
Pro ut diiit, cum nesciret scribere, fecit signum crucis.
Signum t Titii Cedrari.
(A quello eh' avrà denunziato si darà il giuramento e
non parlare con nessuno di quello che avrà deposto : ed i
cause gravi si può aggiungere la scomunica, ed anco la peo
pecuoiarìa ; che alcuni stimando più delle pene spirìtuali, sempi
se gli farà leggere dal notare la disposizione, siccome si far
in tutti gli esami , siano del testimonio 0 dei rei ; altrimeo
Tesarne non è da dottori stimato mai compito).
10. Ada sunt haec per me Gurtium Signanum Sancti Offlc
notarium.
(U legatiti, ùssoi sottoscrixione del noterò, è neoessurit
trimente che sena di essa la deposixione sarebbe nolla).
Le cose generali notate fin qni si avranno a memoria per
le replicate tante volte quante si feranno le medesime interro*
galloni.
1. DECRETO PER L^ESAME DEI TESTIMONI.
(n decreto si fa per la continnazione della denunzia colle
altre parti del processo, acciò il processo medesimo appaia ben
* eoDnesso; e per camminare con segretezza, non occorre sempre
te citare i testimoni , ma ordinare al mandatario che vada a
Irofare il testimonio e gli dica che il padre vicario del Santo
Oflido gli vuol dire una parola; ed arrivato, Tesamini).
Stesso giorno.
Attentis snpradictis, dominus decrevit et mandavit testes
iDformatns citarì, examinari et processum fabricari.
Ita est: Curtius Signanus S. Officii notarius.
CITAZIONE.
1 De mandato admodnm rev. patris vicarii S. Officii Auxi-
mi, libi liartio Bellone praecipitur quatenus, spatio unius diei
abhamm tibi facta prsesentatione , personaliter comparere de-
beas coram eodem p. vicario prò interesse Sancti Officii etc., et
hoc in et sub poena aureomm decem, locis piis, in caso con-
tniTentionis, applicandorum ad arbitrium praefati patria vicarii,
nec Don insuper et hoc in subsidinm, sub poena excommuni-
tatioDis, etc.
Et in eventum non comparìtionis prò prima die frequenti
ad contradicendum, ne condemnerìs in pcenamspreti praseepti:
^t^ in nostra mansione, die 5 jonii 1683.
Ita est: Curtius Signanus Sancii Officii notarius*
Formata che sarà la citazione in questa o simil guisa, s'or-
dinerà al messo che la presenti, e si farà apparire nel processo
di qoesrordine a commissione con simili parole: -
Praefatos adm. R. P. vicario commisit et imposuit ae in man*
datìs.dedit et dat Balduino de Ruslici8 mandatario» praBseDtIi
quatenus ex sui parte et maDdato Tadat, portet et in scriptis
det Martio Bellone copiam citationis praefalae, et eo» persona-
liter non reperto, dimittat ad domum sua^ habitationis, etc.
Ita est : Curtius Signanus S. OfiQcii notarius.
E dopo che sarà stata presentata la citazione, si registri
nel processo ancora la relazione del mandatario, cosi: •
fiiomo 5 giugno^ 1382.
PrsBdictus Balduinus de Rustici^ mandatarius Sancti Officii,.
ìens et rediens, retulit praBdicto adm. R. P. vicario et mihi
Botario infrascripto se praBsentasse personaliter Martio Bollono
supradicto schedulam sibi traditam.
Ita est: Curtius Signanus S. Officii notarius.
E quando non si trovasse la persona, si dovrà affiggere o
lasciare nella propria casa, dicendo nella citazione: Se presen-
tasse ad domum babitationis Martii Belloni supradicti scbedu-
lam sibi traditam et eam affixisse, reliquisse et publicasse, et&«
(Quando poi facesse resistenza , allora si mandi la cita -
zione: e la forma si vedrà qui dirimpetto; si farà presentai
in proprie mani del testimonio, o si lascerà nella sua casa, <
tutto con la segretezza possibile. Si metterà nella citazione vl^mì
termine competente al testimonio per comparire, considerata !Ma
qualità della persona, la distanza del luogo e Toccasione d^l
negozio. Avvertirà però il vicario di non venire in ninna m^r^-
niera all'esame dei testimoni , se prima non avrà mandata ^8
denunzia al padre inquisitore e non avrà ricevuto da esso Tc^r-
dine d' esaminare i testimoni medesimi. Potrà però , quanc^o
porterà il caso, visitare e descrivere il corpo del delitto, acc^i()
non facendosi subito non porti il pericolo che non si pos^a
far più).
ESAiME DEL PRIMO TESTIMONIO.
. Giorno 6 giugno, 1382.
Citatus personaliter comparuit coram adm. R. P. vicario
Sancti Officii Auximi , existente in sacrario Sancti Marci , ìa
meique, eie.
Martins filios Arcadii Belloni, de Pisanro, aBlatìs innoram
TiglDtisék, exercens artem calceolaria habitans Aoiimi, sub
parodìia Minori, cui delato ioramento ventati dicendaB, qaod
praBsUtit tactis sacris lìtterìs, fuit per D.
3. Se il testimonio sarà citato si noterà : Gilatis persona^
liter comparait, etc; se sarà né citato, né chiamato, ma verri
da sé, scrìverà il notare': Nec citatos, nec vocatus, personaliter
compamit etc. E questa dottrina s' intenderà anco del reo, il
quale poò comparire o chiamato o citato, oppure da sé, né
duamato né citato.
4. Int. Àn sciat, vel imaginetor cansam suae vocationis et
praBsentis examinis?
(Qaando si esamina on testimonio, sempre per la prima
interrogazione si fa questa. Altri sogliono incominciare con
ffire: Qaomodo huc accesserit, an citatus, vel vocatus, vel
spoDte; e per la seconda interrogazione fanno poi questa del
Domerò 4).
Resp. Io non so, né m'imagino la causa per la quale V. R.
m'abbia latto citare ed ora mi voglia esaminare.
5. InL An cogooscat aliquem basreticum, sortilegum, blas-
pbemam, poligamum, vel quomodolibet de haeresi suspectum ?
(Nella seconda interrogazione si numerano alcuni delitti
spettanti al Sant'Officio, e si mette dentro quel delitto che si
^ cercando; come s' è fatto nella presente interrogazione, in
<]Qella ip^TOÌdL blasphemum).
Resp. Io non conosco alcuna di queste sorta di persone.
6. Int. Ubi fuerìt anno elapso, quid fecerìt et cum quo
^el quibus fuerìt solitus conversarì?
(Si fa la terza interrogazione per sapere se il testimonio
liei tempo del delitto era in città. E si fa rendere ragione dei
luoghi ne' quali è stato, delle conversazioni e delle operazioni
tatte, acciò venga a confessare di avere giuocato nel luogo, e
tempo del delitto, e d'averìo fatto con i detti testimoni. Se con-
fesserà d'avere giuocato ne'suddetti luogo e tempo con i sud-
detti, sMnoltrerà ad interrogarlo : An dictis loco, tempore et
occasione perdendi viderit aliquam personam irascì. E poi: An
dictis loco, tempore et occasione audierit aliquam personam
irasci et blasphemare, et quatenus etc. nominet. Se dice di si,
s'ordini che riferìsca la qualità delie bestemmie, il numero
delle volte, e se fu corretto. Quando poi dica di no, si vadi
interrogando coirioterrogazione che segue, numero 7).
Tamb. kiqtàs. Voi. n. 29
Resp. Io tutto r aoDO passato fai in città ; sono caltolajo
ed ho atteso a, far le scarpe, sebbene non manco di pigliarmi
verso la sera qualche ora di divertimento con i miei compagni.
7. Int. In quo ve! quibus exercitiis soleat se divertere, et
quatenus, etc.» cum quibus sociis, in quo vel quibus locis et
qua bora.
(Si prende motivo di far quest'interrogazione da quelle
parole del testimonio, che non manca di pigliarsi verso la sera
qualche ora di divertimento con i suoi compagni. E questo è
il modo d'argomentare è pigliare il motivo dalle parole di quello
che risponde).
Resp. Io mi soglio divertire nel giuoco della palla o delle
càrie, e qualche volta anche ai dadi: si giucca alla palla da
un capo air altro della piazza, ed alle carte e dadi, sovra una
pietra grande eretta dalla banda sinistra della porta della citta,
detta la Porta Grande, ed i miei compagni sono diversi: in
particolare Marzio Belloni e Florido Galanti, e soglio giuocare
con loro su le ventitré ore.
8. Int. An meminerit anno prseterito circa solemnitatero
Pentecostes, bora vigesima tertia ciciter, se lusisse super dictam
|)etram taxìllis, et quatenus etc., cum quibus etc?
(Qui si dimanda del giuoco che fu occasione della
bestemmia, avendone dato motivo il medesimo testimonio con
dire che si suol divertire nel giuoco della palla, delle carte e
d^i dadi ; e s'interroga del luogo ov' è quella pietra , e del
tempo, cioè dell'anno e della settimana e dell'ora di giuocare;
e tutto questo s'è fatto per fargli nominare i compagni, alfine
di sapere se fra essi c'è il bestemmiatore che si ricerca).
Resp. Io non mi ricordo precisamente di quello che lei
mi domanda ; ho ben memoria che l' anno passato, giuocando
io ai dadi un giorno verso la sera con due miei compagni,
passò una donna per nome MarQsa con un masso di rose, e
glielo levai di mano e ne presi una, restituendo 1' altre; e da
questo ricavo che poteva essere o poco avanti o poco dopo
Pasqua rosata ; quali poi fossero i miei compagni io non me
li ricordo bene, ma stimo sicuramente che fossero Florido e
Beiramo, con ì quali soglio gjuocare più spesso, essendo ancor
essi dell'arte mia.
9. Int. An diclis, loco, tempore et occasione perdendi aliqua
persona blasphemaverit ?
(Le interrogazioni si fanno cominciando dal genere e discen-
— Si:-
dendo alla specie, e poi air indìTìduo, come si vedrà nelle (re
interrogazioni che seguono ; e qui si comincia dai genere «
cioè se alcQoa persona abbia bestemmiato» senza discendere né
a Dio né alla Vergine, né ai santi.
Resp. Io non mi ricordo che nel suddetto hìogo, tempo ed
occasione di perdere, alcuna persona abbia bestemmiato.
10. Int An diclis loco, tempore et occasione perdendi ali*
qua persona blasphemaverìt contra Deum ?
(Questa è un'internazione in ispecie, perchè si discende
alla bestemmia contro Dio, potendo essere contro la Vergine ed
i santi)*
Resp. Io non ho sentito nel suddetto luogo, tempo ed oc*
castone di perdere, alcuni di quelli che giuocavano che abbia
bestemmiato contro Dio.
11. Int. An dictis, loco, tempore et occasione perdendi ali*
qua persona ira percita blasphemaverit centra Deum dicendo
quater aot quinquies Puttana di Dio, et moYììtus ab uno,
dixerit : Non mi romper la testa, se non vuoi che ti dia una
pugnalata.
(Qui si viene alFinlerrogazione deirindividuo ; cioè si di-
manda s'ha detto Puttana di Dio quattro o cinque volte, e se»
corretto, abbia risposto come qui si dice).
Resp. Io non mi ricordo che nel suddetto luogo, tempo ed
occasione di perdere, alcuno in collera dicesse quattro o cinque
volte Puttana di Dio, e ripreso abbi risposto: Non mi romper
la testa, se non vuoi che ti dia una pugnalata. ,
12. Int. Et ei dicto, in processu haberi dictis loco et tem-
pore et occasione perdendi , aliquam personam ira percitam
dixisse quater aut quinquies Puttana di Dio, et monita, abbia
risposto: Non mi romper la testasse non vuoi che ti dia una
pugnalata.
Resp. Quare dicat ingenue veritatem.
(Si fa quesf interrogazione o istanza , per spingere il
testimonio a dir la verità, che forse niega per far servizio, o per
non aggravare il. suo compagno.
Parerà ad alcuno che avanti di far Tislanza, come nel nu-
mero 12, si debba venire prima a queslMnlerrogazìorie, nomi-
nando il preteso reo : And dictis loco , tempore et occasione
perdendi , Beiramus ira percitus blasphemaverit centra D^^um
qoater aot quinquies, dicendo Puttana di Dio, ecc. ; ma non
81 può discendere a tal dimanda» perchè con essa si verrebbe
-MS —
a costitaire Belramo nel namero dei rei, e pare non si p
ancora, non avendo contro di sé negli atti, se non il detto i
4enanziante , il qnale non vale più del detto di Belramo , i
sendo il detto Belramo eguale al detto del denunziante , \
esser fin qni in possesso della sua buona fama. E perchè B
ramo non è anco udito in giudizio*, e contro di lui non e
che un testimonio , questo solo non lo può porre nel numi
dei rei se non confessa lui, o il secondo testimonio da sé n
desimo coirinterrogazioni generali non depone che Belramo
bestemmiato ; allora poi, avendosi due testimoni uniformi, n*
Fesaminare il terzo si può liberamente venire alla detta inti
rogazione deir individuo , essendo due testimonii suflBcient
porre Belramo nel numero dei rei).
Se nel processo s' ha che, nel suddetto luogo, tempo
occasione di perdere , alcuna persona in collera dicesse qu;
tro 0 cinque volte Puttana di Dio^ ed ammonita abbia ris|
sto: Non mi romper la testa, se non vuoi che ti dia una i
gnalata.
Resp. Io dico, che non udii niente.
13. Int. Et monitus ad fatendam veritatem ut supra; n;
si processo temporis Sanctum Offlcium venerit in cognit
nem quod ipse examinatus tacuerit veritatem, poniet ipsi
examinatum tanquam periurum , et modo incidit in exco
municationem a qua non poterit absolvi, nisi ab eodem San
Officio.
(S'aspetta a fare questa monizione nel fine dell'osar
come la più efficace per fare risolvere il testimonio a dire
verità : e quando non si risolva , il giudice avrà fatte le s
parti e lascerà il testimonio in pace).
Resp. Ora mi ricordo che Tanno passato , e doveva ess<
intorno a Pasqua rosata , per la rosa che presi dalle mani
quella donna, giuocando io nel suddetto luogo con Beiramc
Florido ai dadi, Belramo, per la gran sfortuna nel perde
si pose a bestemmiare alcune volte contro Dio, e disse Putta
di Dio; quante fossero le volte non me lo ricordo.
14. Int. An Beiramus dictis loco , tempore et occasio
fuerit ab aliqua, vel ab aliquibus personis obiurgatus, et qu
teiius, etc?
(Perchè il testimonio nella risposta ha lasciato di d
questa circostanza, subito si fa spiegare per mezzo deirinteri
gazione).
— M9 —
Resp. Io fui qoeUo che gridai a Belramo, ma lui maggior*
mente sbadirò e minacciò di darmi una pugnalata.
15. loL De praBsentibos, quando Belramns protnlil dictas
Uaspbemias» nltra Floridom?
(Tizio, Marzio e Florido sarebbero più cbe sofficienti per
provare il delitto; ma perchè paò essere cbe Florido non anco
esaminato nieghi nelPesame, si fo nominare a Marzio qualche
altro testimonio da potersi esaminare, se pnre c'era e se ne ri-
corda; e nelle cause pia gravi si procora d'accrescere il numero
dm testimonii per bene impinguare il processo ed aggravare
il reo).
Resp. Vi erano molti i quali stavano a veder giuocare, ma
Don mi ricordo chi fossero.
16. Int. De fama prasfati Beirami tam apud se quam apud
alios?
(Quanto alle due ultime interrogazioni, si vide sul prin-
cipio, nel fine della denunzia, ciò cbe s'è osservato; si lascia di
ripetere per non tediare e non confondere i vicarii. Lo stesso
si dice di tutte le cose generali toccate nella medesima denun-
zia, alle quali sempre il vicario s'intenderà rimesso).
Resp. Io tengo Belramo per bOon cristiano , e per tale è
stimato comunemente^ se bene la collera lo fece prorompere in
quelle bestemmie.
17. Int. An ocjio, vel amore, et super inimicitia?
Resp. Recte.
18. Quibus habitis et acceptatis, dimissus fuit, juratos de
^leotio, et perfécto ei suo examine, se subscripsit.
((ìnando si tratta del denunziante si dice: Perlecta ei sua
depositione; ma parlandosi del testimonio, si scriverà: Perlecto
^i suo examine).
Io Marzio Belloni affermo quanto sopra di mano propria.
Àcta sunt haec per me Gurtium Signanum Sancti Offici!
i^otariom.
ESAME DEL SECONDO TESTIMONIO.
1. Stesso giorno.
(Quando il secondo testimonio e gli altri si esaminano
^^\ medesimo giorno, si dirà : Eadem die, in mane; vel eadem
— 132 —
ha lutto del oaturale: gli si dìmaDda s*è solito a divertirsi: e
rispondendo nel ginoco, s'interroga in qual giuoco ; e dicendo
in quello dei dadi, si dimanda de'compagni, del luogo e quando
cominciò a giuocare ai dadi; e quest'ultimo per sapere se aveva
cominciato avanti il delitto o quella volta che si bestemmiò;
perchè se fosse dopo, non sarebbe testimonio: avuto questo, si
viene airoccasione di bestemmiare, che fu la perdita, e poi si
discende alla bestemmia stessa ed a quello che segue.
Risp. Io verso la sera, dopo aver lavorato tutto il giorno,
mi pongo a giuocare con qualcuno de' miei compagni ed alle
volte con più.
10. Int. Quo ludo soleat ludere et ubi et cum quibus?
Resp. Soglio giuocare alla palla, alle carte ed ai dadi, e
sempre in piazza ; ed i miei compagni sono Belramo e Marzio
già noti a V. R.
11. Int. In quo loco plateae sit solitus ludere taxillis cum
praBfatis suis sociis ?
(Qui si dimanda di quel luogo che i dottori chiamane
locus loci; cioè il luogo limitato e preciso).
Resp. Eravamo soliti giuocare sopra una pietra posta dalla
banda sinistra della Porta Grande della città.
12. Int. A quo tempore incaeperit ludum taxillorum super
praBfatam petram cum sociis ut supra ?
(Con l'occasione della risposta a quest'interrogazione si
noteranno quelle parole: Ho detto male ecc.: s'è detto cosi per
non cassare quell'altre non ben dette - noi quattro -, per dare
ad intendere che ne'processi si devono fuggire più che si può le
cassature e trovare qualche ripiego per non cassare. Quando
servivo nei Sant'Ufficio di Roma c'era uno di quei signori can-
cellieri di tanta felicità che non cassava mai , ma sempre io
qualche errore trovava il suo ripiego. Qualora poi non si possa
di meno, si cassi in modo che tutte le parole si possano leg-
gere, per non dar sospetto alla parte).
Resp. Sarà un anno in circa clie cominciammo a giuocare
ai dadi noi quattro: ho detto male, noi tre, cioè: Belramo, Mar-
zio ed io.
13. Int. A dictis loco, tempore et ludo aliquis perdiderit,
et quatenus etc?
Resp. Certo è che in quel giuoco qualcuno avrà perduto ;
chi poi perdesse, non me lo ricordo.
14. Int. An dictis loco, tempore et ludo aliqua persona per-
diderit et occasione perdendi blaspbemaverit ?
— «33 —
(Ecco rinterrogazione in genere).
Resp. Io non so che nel suddetto luogo, tempo e giuoco^
alcuno perdesse e con occasione di perdere bestemmiasse.
15. Int. An diÈtis loco , tempore et occasione aliquis ira
percilus blasphemaverit contra Deum?
(Si veda rinterrogazione in specie).
Resp. Io non so niente di quel tanto che V. S. mi do-
maDda.
16. Int. An dictis loco » tempore et occasione aliquis per
percilus blasphemaverit contra Deum, dicendo qunter aut quin*
qoies Puttana di Dio, et obiurgatus responderit: Non mi romper
h testa, se non vuoi che ti dia una pugnalata ?
(Si osservi rinterrogazione in individuo' quanto alle
bestemmie , numero delie volte ed alla correzione e sua ri*
Resp. Può essere che nel suddetto luogo, tempo ed occa-
sione, qualcuno de' miei compagni in collera abbia bestemmiato
contro Dio, dicendo Puttana di Dio, e ripreso abbia risposto:
Non mi romper la testa, se non vuoi che ti dia una pugnalata;
m io non me lo ricordo e vorrei averne memoria.
17. Int. An dictis loco, tempore et occasione Beiramus ira
pereitQs blasphemaverit contra Deum, dicendo qua ter aut quin-
qoies Puttana di Dio, et obiurgatus respondit: Non mi romper
la testa, se non vuoi che dia una pugnalata ?
(Quesf interrogazione è in individuo quanto al delitto e
numero delle volte, e quanto alla persona, cioè Belramo: quando
qnisi tratta del genere, specie e individuo, non si pigliano in
senso logico o metafisico , non si considerando qui le nature
stratte, come fanno i logici e i metafisici, ma si prende il gè-
oere per una cosa comune o totale, la specie per una porle di
qnd comune , e Y individuo per una parte di quella specie ,
come si può vedere in queste tre interrogazioni ; il genere poi,
ia specie e Tindividuo cadono altre volte sovra il tempo, altre
som il luogo, altre sovra il delitto, altre sovra le persone e altre
sovra il numero delle volle).
Resp. Io non mi ricordo che Belramo nel detto luogo ,
tempo ed occasione, in collera abbia bestemmiato, dicendo quat-
tro 0 cinque volte Puttana di Dio, e ripreso da Marzio abbia
risposto : No6 mi romper la testa, se non vuoi qhe ti dia una
pugnalata.
18. Tunc, ad excitandam memoriam ipsius examinaUp de*
Tamb. Inquis, Voi. II. 80' >^
— «54-
mandato D. etc. faeront per me etc. lecte etc. locis etc. saf
pressis etc. Qaibas: per ipsom etc. bene auditis ac iotellectì
prò ut asseruit.
(Quando si presume che il testimonio neghi di dir 1
verità per fallo di memoria» se 'gli fanno leggere le deposiùoi
dei testimoni, che hanno detto in quel tempo esser stato h
presente, ma il nome dei testimoni si tacerà, e si leggei
puramente quello che sarà al proposito della causa o d
punto della causa che si cerca. Si fanno anche leggere quand
si dubita di malizia, per incalzarlo e farlo risolvere a dire 1
verità.
Avvertiranno i signori vicarii cheJa medesima formola dell
bestemmie potrà ancor servire, mutatis mùtandis , nelle caus
di proposizioni ereticali* erronee e che sanno d'eresia.
Saranno anco avvertiti che se qualche testimonio r intei
rogato in ispecie del delitto, avesse variato o nella bestemmi
0 nel tempo, o nel luogo, o neir occasione (secondo che avi
deposto il denunziante) , dovranno i vicarii di nuovo interrc
garlo se precisamente ha sentito quella precisa bestemmia ni
tal luogo, tempo ed occasione deposte dal denunziante; perct
rispondendo di no , esso testimonio resta singolare nella b(
stemmia da esso deposta e non riferita dal denunziante; i
risponde di si, resta conteste per una volta in quanto conviec
col denunziante, e singolare per un'altra secondo quello che t
udito esso solo in altro tempo o luogo od occasione ; il et
accade spessissimo, cioè che un testimonio abbia sentito besteu
miare da solo a solo o alla presenza d'altri.
E quando nell'interrogazione che si fa a fine di farlo coi
testare il testimonio negasse, sappia il vicario che sebbene
testimonio ha deposta la bestemmia con la singolarità , ne
deve subito fermarsi (benché sia la stessa bestemmia , eoa
molte volte i testimoni fanno attendendo l'uniformità della hi
stemmia o proposizione ereticale, senza considerare la singi
larità e contestura), ma deve venire alla specialità del luog
tempo ed occasione ; e persistendo nella negativa, si deve ani
ammonire che si ha in processo che esso si trovò presente n
tal luogo, tempo ed occasione, quando quel tale bestemmii
tutto ciò servirà per illuminare il vicario a non fermarsi si
bito che il testimonio avrà deposto la bestemmia o propos
zione ereticale d'altro tempo, luogo od occasione^ ma indaga
la contestura che fa per il fisco).
ci
03
o
o
Res|i. Io tio inteso quello che m'ha detio il siitnor notajo»
cioò che nel suddetto luogo, tempo ed occasione » Belnmo in
coUera abbia detto, presente me, contro Dio, quattro o cinque
lolte PttAaiia di Dio, e ripreso da Manie, abbia risposto: Non
mi romper la testa, se non ¥Uoi che ti dia una pugnalata ; e
dico assolutamente non mi ricordo dì questo,
19. Et monitus ad fotendam yerìtalem ut sopra etc.» honore
Dei et prò exoneratione propri» conscientiae*
Resp. lo ho detta la verità, che non so niente di quello
die lei cerca da me, e sempre dirò lo stesso.
Et cum nihil aliud posset haberi, dimissus fuit, iuratus de
flleotio; et cum nesciret scribere, fecit signum crucis, perlecto
ei suo examine: signum crucis f Floridi Galanti,
Acta sunt base per me Gurtium Signanum Sancti Officii
Dotariom.
NB. Segue la sentenza in latino, che omettiamo per bre-
vità, colla quale il Belramo venne condannato a cinque anni
di prigionia , da scontarsi nella carcere in cui più tardi fu
coDdannato il povero Torquato Tasso,
SEGONDÀ DENUNZIA DEI SORTILEGI
Giorno 4 giugno 1382.
1. Sponte personaliter comparuit coram admodum R. P.
iricario Sancti Officii Àuximi, existente in propria cella* in
melque, eie.
Demetrius Alias Artimisii Beviaceto de Castrovilla, astatis
aoDorom quinquaginta, mercator degens sub parochia magna;
cui delato iuramento veritatis dicendao, quod prasstitit tacila
sacris literìs, exposait ut infra.
(In tre maniere si possono formare i processi, cioè per
^a d'accusa, per via d'inquisizione e per via di denunzia. Nel
Sant'Ufficio in questi tempi non si fanno i processi in materia
<li fède se. non nella terza maniera, essendo questa stimata la
Wi breve, la più facile e la più sicura; e però da tutti l ministri
ei deve osservare, se non vi fosse qualche accidente che obbli-
gasse a camminare in altra maniera).
2. Saranno sei mesi circa, non mi ricordo del giorno pre*
— M6 —
ciso, ma era verso il fine di carnevale, su le ventitré .ore,ch'ic
stando sovra d' an balcone dìi casa mia con Adolfo Paocaldi
cliimrgo della città a con Belardo Anlinori, vedemmo un tire
di piètra lontano, dalla banda destra del balcone» quattro o sei
persone che cavavano attorno ad una muraglia antica mezze
diroccata, e fra questi c'era un prete greco, che si chiama comu-
nemente il papasso, il quale aveva la colla e stola, e. teneva
in mano un libro in ottavo ed una candela accesa, e mostrava
di leggere in quel libro, e di quando in quando faceva delk
croci stravaganti, cominciando aito assai, e poi discendeva a
basso da tutte le parti della fossa; e pigliava colle dita l^acqus
da un bicchiere che teneva un ragazzo, e la sprezzava dentrc
ia cava, e ci buttava anco del sale e delle foglie d'oliva; qual
non so però se fossero secche o verdi, e gli ho veduti cavare
in quella maniera solamente quella volta: né mi sono potute
ingannare, perchè ho veduto tutte le cose narrate cogli occhi
propri. E sono venuto davanti a V» R. per iscaricare la mi{
eoscienea, d' ordine del mio padre spirituale.
(Nel corpo della denunzia s'esprimono otto circostanze
cioè tempo, luogo, testimoni, numero delle volte, causa della
scienza, complici, occasione e gr islrumenli superstiziosi. Nelle
interrogaziomi ^i di sotto si dioAnia deMa fama^^ sovra Pini
micizia, come si vedrà più a basso).
3. Int. An sciai vel dici audiverit dictas olivas, salem, can-
delam et aquam fuisse benedictas?
Resp. Io non so veramente se le ulive, il sale, la candela
e r acqua fossero benedette; io però li stimai tali, e cosi h
tenevan quelli ch'erano meco: perchór a che fine adoperare
una candela accesa di giorno? ed a che fine poteva servire
l'acqua, il sale e le palme non benedette? Coloro dovevano cer
care i danari, ed avranno adoperate quelle cose benedette cou
tro i demonii, acciò non l'impedissero di trovarli.
4. Int. De fama dicli presbyteri, vulgo il papasso?
Resp. Questo papasso dicono che sia cristiano greco e che
si trovi in queste parli per riconciliarsi con la Chiesa cattolica;
altri non mancano di dire che sia una spia del Gran Turco.
5. Int. Quaretamdiu distulerit denunciare praefata in Sanctc
Officio?
Resp. Per non riflettere d'essere obbligalo, come ho avver?
lilo dopo aver letti gli editti del Sant'Ufficio, e per avermelo
detto il confessore.
— M7-
tt. Int. Aa odio, Tei amore, et super inimicitia t
Resp. Recte.
Qoibas habitis et acceptatis, dimissas foit, iuratus de Silen-
(io; et perlecta ei sua depositione, se subscripsit.
Io Demetrio Beviaceto affermo quanto sopra di mano propria.
Acta SQDt baec per me Cartìum SignaDom Sancii Officit
Qotarìam.
DECRETO SUCCESSIVO.
Dominos decrevit testes informatos ettari, examinarì, et
proeessmd fobricari.
Ita est : Gurtins Signanus Sancti Officii notarìns.
CITAZIONE.
De mandato adm. R. P. vicarìi Sancti Officii, etc.
ESAME DEL PRIMO TESTIMONIO.
Giorno 5 giugno 1382.
Citatus personaliter comparuit coram adm. R. P. vicario
Sancti Officii Auximi, existente in propria mansione, in mei?
9ie, etc.
Adulphus filius q. Arcadii Pancaldi de Piperno, aBtatis an*
norom triginta quinque, exercens artem chirurgi, degens sub
parodìia Solari; cui delato iuramento veritatis dicendae, quod
PraB$titit tactis sacris iitterìs, fuit per D.
1. Int An sciat vel imaginetur causam suae citationis et
Pn^ntis examinis ?
Resp. Se V. S. non mi dice la causa, io non so niente.
2. Int: An cognoscat aliquem haBreticum, sortilegum, bla-
^Pi^um, poligamum, yel quomodolibet de baeresi.suspectum?
Resp. Dio mi guardi eh'io conosca alcQoa di queste sorta
di persone delle qaali V. S. m' interroga.
3. Int. De tempore quo manet in hac civitate ?
(Si fa questa, interrogazione e quella che segue per sco*
prire se nel tempo del delitto si trovava in città ; ed a questo
s'avrà sempre rocchio io simili casi, perchè se negasse d'esser
stato in città, sareU)e finito Pesame).
Resp. Saranno due anni in circa ch'io servo di chirurgo in
questa città.
4. Int. An tempore bacchanalium proxime praeteritorum
unquam discesserit ab hac civitate ?
Resp. Diverse volte sarò partito in tempo di carnevale, per
occasione dell' arte mia dalla città , ma la sera sarò ritornato.
5. Int. An cognoscat Demetrium Bevìacetum et quatenus a
quo tempore? etc.
(Per sapere se fu in casa di Demetrio, e s'afibcdasse at
balcone, e da qui vedesse il delitto che si cerca, ottimo mezza
è dimandargli se lo conosce, per dimandargli poi come nella
sesta interrogazione).
Resp. Demetrio Bevìaceto è il più grand'amico che m'abbi
in questa città ed è delle prime amicizie eh' io feci quando
venni.
6. Int. An unquam adiverit eius domum et quatenus T etc.
(Se non fosse andato in casa di Demetrio, né meno sa-
rebbe stato sul balcone e non avrebbe veduto il delitto).
Resp. Signor si, che sono andato in sua casa, non una, ma
cento volte, si per l'amicizia c'ho seco> come per qualche ser-
vizio, ed in particolare per curare un suo figlino lino.
7. Int. An domus dicti sui amici habeat aliquod podium »
et quatenus, etc. an quandoque ad illud accesserit, et si solus,.
vel associatus, et qua bora?
(Qui s'ha la mira di far dichiarare sé stesso testimonia
oculare del delitto, con le circostanze del luogo, cioè di quel
balcone e del tempo, cioè di quel giorno su le ventitré ore, e
far scoprire gli altri testimonii, per potere poi dopo lui esami*
narli).
Resp. La casa di Demetrio ha un poggioolo o sia balcone
posto all'oriente, e non si può vedere la più bell'opera; e ci sona
stato assai volte in compagnia sua e d'altri, ed in diverse ore»
secondo roccorrenze.
8. Int. An quandoque , dum esset in dicto podio una cum
Demetrio et qoodam alio, circa horam Tigesimam terUam, ?iderit
aiiqmd riogolareT
(Si tratta io individoo del balcoDe e di Demetrio , e si
tocca in graefo il giorno, il secondo testimonio non nominato
o il delitto; e questa generalità basta acciò Pinterrogaiione non
sb soggestiTa).
Resp. Io non mi ricordo, in tempo ch'ero con Demetrio e
qualche altro in detto balcone, su le yentitrè ore, d'aver mai
veduta cosa particolare.
9. Int An tempore bacchanalium proxime prsBterìtorum
qnodam sero, circa horam vigesimam tertiam, dum ipse exami*
natus esset io dìcto podio cum Demetrio et qnodam alio, viderit
a parte dextera dicti podii, in distantia unius jactus lapidis, ali-
quid singulare?
(Nella precedente interrogazione si parlava del giorno in
genere, cioè d'un giorno senza determinare di qual settimana,
o di qual mese, o di qual anno ; qui si viene a trattare d' un
giorno di carnevale prossimo passato, su le ventitré ore, e di
Demetrio e del balcone e della distanza del balcone dal delitto;
ma si tace il nome del testimonio e la qualità del delitto; e tal
soppressione di nome e di delitto basta anco. per isfuggire la
suggestione viziosa).
Resp. Padre, no.
10. Int. An dictis loco, tempore, distantia et societate, dum
confabolaretur ad invicem, viderìnt aliquem presbyterum cum
quibusdam aliis, et quatenus nominet et dicat ubi ^rant, quid
feciebant et quomodo erant induti ?
(S'epiloga in questa interrogazione tutto ciò che s'è di-
mandato nella nona, e si viene a dimandare in genere del de-
linquente con i suoi compagni, cioè d'un prete con cert'altri, e
s'apre la strada per sapere in individuo chi era questo prete e
suoi compagni, dove erano, che facevano e com'erano vestiti; e
dalla risposta si saprà quel che si cercava).
Resp. Ora mi ricordo che un giorno di questo carnevale
prossimo passato, e potevano essere ventitré ore, stando io sul
balcone della casa di Demetrio, in compagnia sua e di Belardo
Antinorì, vedessimo dalla banda destra di detto balcone , poco
lontano, un prete greco che da un anno in qua si trova in queste
parti, e se gli dice comunemente il papasso, ed in sua compa-
gnia erano quattro o cinque contadini vestiti con gli abiti soliti
ioro^ con le pale e zappe. 11 prete era vestito di cotta e stola, e
tielld mano sinistra aveva od libro aperto, poto grande, e xoà
la destra teneva una candela accesa, e con esssa faceva ivi molte
croci, sotto e sopra e da tutte le bande; e quei contadini cava-
vano allegramente con molta fretta la terra vicino ad una mu-
raglia mezzo diroccatia, e fecero una bella fossa.
11. Int. An dictis loco, tempore ed occasione ille presby-
ter vel ristici projécerint aliquid in dictam foveam , et quate-
Qus, etc.
(E perchè in questa risposta non ha anco detto tatto il
delitto cho s'appartiene al Sant'Officio, se gli fa quest'altra in-
terrogazione in genere ; cioè s' abbino gettato qualche cosa ìd
quella cava che avevano fatta).
Resp. Io non vidi che i contadini gettassero cosa verona
in quella fossa ; osservai bensì che il prete aveva un libro ove
leggeva, e teneva una candela accesa in mano, con la quale
faceva molte croci sotto e sopra, e pigliava colle dita F acqua
da un bicchiere che teneva un ragazzo, e la spruzzava dentre
la fossa, e vi gettava anche del sale e delle foglie d'olivo: del
resto non vidi altro.
12. Int. An sciat, vel dici audierit, dictam candelam et
salem et aquam et folia olivarum fuisse benedictas.
(Fin qui nemmeno abbiamo tatto il. delitto attinente al
Santo Tribunale; e però si viene ad interrogarlo se quelle cose
erana benedette, perchè in questo caso farebbero V operazione
più sortilega e soggetta al foro del Sant' Officio. Né questa
interrogazione si può chiamare suggestiva, viziosa, perchè il
testimonio con la sua confessione ha aperta la strada di poteteli
fare anco questa interrogazione.
Resp. Coloro, a vedere, cercavano i denari ; ed avendo il
prete la cotta e la stola, bisogna dire che quelle cose, cioè la
candela, il sale, Tacqua e le foglie d'olivo, fossero benedette.
13. Int. De fama dicti presbyteri (vulgo il papasso) tam
apud se quam apud alios.
Resp. Io non conosco questo papasso se non di vista ;
alcuni dicono che sia un vagabondo, ed altri che vadi osser-
vando ritalia per farne la relazione in Turchia.
14. Int. An odio, vel amore, et super inimicitia? ctc.
Resp. Recte.
Quibus habitis et acceptatis, dimissus fuit, iuratas de silentio;
et perlecto ei suo examine, se subscrìpsit.
Io Adolfo Pancaldi affermo quanto sopra di mano propria.
-3M —
Acta sani haac per ne Corliom SignsDiioi Sancii Qffidl
nolarioB.
ESAME DEL SECONDO TESTIMONIO.
Vocatos persooaliter comparait coram, ubi sopra, in ma*
qoe, eie
Belardos fliios Cerìani AoUnorì de BelloTideri, setatis
annomm viginti octo» miles, de^ens sub parochìa Palmari : Cai
delato joramento ferìtatis diceod^e, qood prsestitil lactis sacrìs
litterìs» foit pò* D.
1. Int. An sciat, vel imaginetor cansam su» vocationis et
ineaentis examlnis?
Resp. Io non so né m' immagino la causa perchè V. &
m' aM)i chiamato ed ora mi voglia esaminare.
2. Int. An cognoscat Demetrìom Beviacetum, Adulphum
Pancaldum, Belardum Antinorum et quemdam presbyterum grs^
cum qui vulgo dicitur il papasso, et quatenus, etc.
(Qui s'osserva la regola toccata di sopra » di mettere
avanti gli occhi tutti i testimoni» e il delinquente cosi nuda-
mente^ acciò venendosi a toccare il delitto in geilere, subito si
venga a ricordare di quel che avrà veduto).
Resp. Io conosco da qualche anno in qua Demetrio Hevia-
ceto, Adolfo Pancaldi e Belardo Antinori ; e il papasso ssirà un
mese che cominciai a conoscerlo, con occasione che si va trat-
tenendo in qualche bottega, e discorre delle cose di lavante,
delle quali io mollo mi diletto.
3. Int. An cognoscat aliquem haBreticum, sortilegum, blaa-
phemum, poligamum, vel quomodolibet do hasresi suspectumT
Resp lo non conosco alcuna di queste sorta di persone
delle quali m' interroga.
4. Int. An unquam accesserit domum Demetrii Beviaceti,
et an habeat aliquam practicam dictae domus?
Resp. Diverse volte sono stato in casa di Demetrio Bevia-
ceto; non ho però altra pratica che delPingresso della scala e
della sala, non essendo mai entrato nelle stanze.
6. Int. An sciat, vel dici audierìt, dictam domum habere
aliquod podium ?
Resp. Padre si, che la casa di Demetrio ha un fKiggiolo
cbe lui chiama balcone, ed è in mezzo della sala verso rorientc*
Tamb. Inquii. Voi 11 51
— 242 —,
(Si notino le interrogazioni che seguono, le quali sodo
tutte ordinate una diietro air altra, e naturalmente portano al
delitto che si cerca).
6. Int, Àn ìpse examinatus quandoque fuerìt super dictum
podium ?
Resp. Sarò stato sopra detto poggiolo , o balcone , otto o
dieci volte.
7. Int. An tempore bacchanalium proxime prseteritornm,
quodam die fuerit super dictum podium, et quatenus, etc. An
solus, vel associatus, et qua hora et qua occasione ?
Resp. Mi ricordo che ci fui un giorno di questo carnevale,
e stimo che fosse il venerdì dopo il giovedì grasso; e me lo
ricordo perchè si ballò tutta la notte, e la mattina del venerdì
mi levai molto tardi. In mia compagnia era Demetrio e Adolfo
Pancaldi chirurgo, che aveva medicato un figliuolo dellMstesso
Demetrio; non mi ricordo dell'ora, ma so ch'era tarda, e Toc-
casione di ritirarsi sul poggiolo fu per discorrere del grave
.male del pullino.
8. Int. An dictis loco, tempore et occasione viderint aliquid
singulare ex aliqua parte dicli podii?
Resp. Giacché V. P. ha più sopra nominato il papasso, mi
don venuto a ricordare che vedessimo lui stesso in compagnia
d'alcuni contadini, i quali facevano una fossa vicino ad una
.muraglia me^zo diroccata.
9. Int. Ex qua parte dicti podii fodiebant prasfati rustici, et
quantam distanliam a dicto podio ? Et quid faciebat diclus pa-
passus ?
(Si dimanda questo per verificare V identità e di quella
banda o parte dove facevano la fossa, e della distanza del ca-
vamento dal balcone).
Resp. Quei contadini cavavano dalla banda destra di detto
poggiolo, che sarà slato alla distanza di mezzo tiro di pistola.
\\ papasso stava in piedi ed aveva da una mano una candela
;^'.xesa che poteva essere di un'oncia, e dall'altra un libro come
le grammatica del Bonciario, ed aveva cotta e stola; vicino a
lui: c'era un ragazzo, che in una mano aveva un bicchier d'acqua
e con Taltra teneva una palma; ed il papasso gettava di quando
in quando nella fossa delle foglie di palma, e con le dita pi-
gliava l'acqua da quel bicchiere e spruzzavala nella fossa; e lo
avrà fatto cinque o sei volle, come altrettante volte vi avrà gel-
tate dello foglie di quella palma. Con la candela fece un gran
noBOO di end» ai cn no modd stnoi^iite: ciiMiMten di
sopra poi dBcenden sanpre facindo croci» e eoa bm^in ite
tutte le brade» per coi noi ci iMniv^lbvaiiDO in tv^liiw i|iie$l»
faccenda: mi ricordo anco che gettò più nrile del sale che m
coDtaiyoo gli porgeva in ona carta.
10. Int. An sciat» Tri dici andieriL dictas palmas. cande^
lam, salem et qnam foisse benedictas?
Re^. lo m'imagino di sì, per la cotta e la stola delle quali
era mestilo il papasso» ma non lo so di certo.
11. Int Qoanto tempore dnraTerit ìUa fossio, et quid fece*
fìnt recedendo ab illa?
(Perchè pad essere che nel proseguire ropentione e nel
partire dal loogo del delitto abbiano fatta qualche altra super^
stinone, à b questa dimanda; e non dicendo cosa di nuovo «
noD occorre ricercare gli altri testimoni circa di questo).
Resp. Dorò fino ali' Ave MariOy e poi partironsi da quel
loogo» e noi ci levammo dal poggiolo senxa aver veduto altro*
12. InL De foma dicti papassi, tam apud se, quam apud
alios ?
Resp. Io per me non ho niente in contrario circa il pa-
passo; quello che sia presso gli altri, non so.
13. Int. An odio, vel amore et saper inimlcitia?
Resp. Recte.
Qulbus habìtis et acceptatis, dimissus fait, juratus do si*
lentio; et perlecto ei suo examine, cum (prò ut dixlt) nesclrel
scrìbere, fecit signom Crucis.
Signum Crucis f Belardi Antinori.
Acta sunt baec per me Curtium Signanum Sancii Odici I
notarium.
TERZA DENUNZIA D'UNA DONNA SOLLECITATA
A TURPITUDINE NELLA CONFESSIONE SACIIAMENTALK.
Roma, giorno 7 lu/lw i'Mt.
Sponte personaiiler comparuit coram adrn. rev» patro vi-
earìo S. OfQcii, existeote in ecclesia Sancii Marci Auxinii, in
melque, etc.
Simpronia Alia quondam Ribaldi Rivellini de Londifio; re*
— ti4 —
lieta qaoDdam Berilli Danori; a&tatis annoratn triginta; exercos
artem malicbrem, et degens sub parochia Occidentali; col de-
lato jurameoto veritatis diceadaB, qood pra^stitit tactis aaciis
Utteris, exposoit ut infra:
1. Per ordine dei mio confessore sono comparsa aTOOti V.
R. per rappresentarle come la vigilia di san Gìofanni Battista»
circa l'ora quattordicesima, m*andai a confessare nella chiesa di
San Basilio, nffiziata dai padri greci, e mi posi in ginocchio in
un confessionario di noce che sta alla destra di detta chiesa
quando s'entra per la porta maggiore, vicino all'altare di san-
t'Atanasio ; e questo confessionario è iLsolo da quella banda, e la
di' lui grata ha i buchi grandetti , cui dentro ciascheduno si
Vàie una bella crocetta ; non so però di che materia sia né
la grata dò la crocetta, e la grata sarà grande come meuo fo-
glio di carta. Ed avanti di cominciare la confessione, quel
padre mi disse queste precise parole: < Tu sei bella e grazio-
sa ; a me piace il tuo viso. ■ Io non diedi mente a queste aue
parole, ma seguitai la mia confessione, e ricevuta la penitenza
e Tassoluzione me ne partii.
Il giorno pei di san Giovanni m'andai pure a confessare
da lui che potevano essere quinidici ore , e sedeva nel mede-
simo confessionario; nel tempo della confessione, avanti cioè
che mi desse Tassoluziorle, mi disse che dovessi sempre andare
a confessarmi da lui, per il genio che aveva verso la mia per-
sona, e. che mi voleva esser padre. Dopo avermi data Tassola-
zione, mi disse: < Andate, ma amatemi com'io amo voi. «Questo
è quanto posso dire per scarico della mia coscienza.
(In sumendis denunciationibus talis materiae, cautissime
€t accurate procedere debebit vìcarius , procurando hat)ere a
posnitenti sollicitata nomen ecclesisB, posituram et qualitatem
confessionarii ; nomen , cognomen et patriam confessarli , aut
saltem diligentem ipsius descriptionem. Curet etiam ut poenitens
referat praecisa verba sibi dieta a confessarlo cuiuscumque ob-
scaenitatis illa fuerint, et numerum eorumdem. llidem an acci-
derint sollicitatìones immediate post, vel in confessione ipsa
sacramentali, vel quocuroque alio pacto centra Bullam. Cavebit
pariter vicarius petere a poenitente an coDsensum prsBstiterit ;
«t si a se ipsa propalare! consensum, Lpsum non scribere. Imo
animadvertens ipsiam velie suum consensum aperire, statim
vicarius impediat. Ex alia parte, si viderit personam sollicitatam
morosam in fatenda sollicitatione oh consensum pradstitum.
Portar H qnd dm leular dkcn proprimi CdDSWisttii; imo
éibehKuaù mnbutur; sed taDtam pnMradiliir qiiod IMMor
<Iiiid sibi fixerìU Td fecerìt coofessarias. El scìit tk^tus tee
omoia phirìes finsse ne doni ordìmta, oed elWDi inciikitii i
Skl CoQgreptkMìe Sancii OfficiL
i. lot De nomine, cc^omine et patria ditti confessarti t
Resp. Ho inleso che questo confessore si chiami padre Eta^
risto, ma del cognome e della patria non so niente, tranne che
è greco.
3. Et ei dicto ut descrìberet dictnm patrem E?ari$tnro«
Resp. n padre E?arìsto è di statura grande e grosv^io , di
barba bianca e tanga come quella de' padri cappuccini, e porta
sempre gli occhiali ; del resto non saprei dir altro.
4. Int, An aliqua persona adverterit quando itictus pater
Evarìslns se examinatam sollicìtavit ad lurpia in confessione
sacramentali.
(Perchè, può essere, che la sollecitata od il sollecitante
abbia fotte qualche gesto, per il quale alcuno si sia accorto della
sollecitazione, perciò si fa questa interrogazione).
Resp. Io non so che alcuno abbia udito quando il detto
padre Evarislo m'ha detto le suddette parole nella confessione
sacramentale.
6. Int. An sciat, Tel dici audierit, dictum patrein Evariatum
sollicitasse ad torpia in confessione sacramentali alias personas
pCBoitentes.
(Quest'inlerrc^zione sempre si deve fare, perchè le donne,
ciarlando fra di loro, può essere che una scuopra Tal tra).
Resp. Due figliuole del signor Alipio Moscati , mie vicine •
domenica prossima passata dopo pranzo, avanti U porta della
toro casa, in occasione che si discorreva dei confessori, dissero
che qnesti era un buon padre, perchè quando andavansi a cen-
trare le diceva parole molto affettuose. Di queste giovinette ,
che saranno una di quattordici e Taltra di sedici anni, la prima
si chiama Frassinella, e l'altra Poligetta.
6. Int. An praefaiae puellae retulerint ipsi examinala verba
amatoria eis dieta a patre Evaristo in confessioni sacramentali.
Resp. Frassinella e Pniigetta non riferirono die parole
avesse loro dette il padre Evaristo nella confesilone Mera*
mentale.
7. lot An odio, vel amore, et super inimicitia,
Resp. Recte.
. —246 —
Quibus babitis et acceptatis, dimissa fuit jurata de silentia;
et perlecta ei sua depositione, com (prò ut dixit) nesciret seri*
bere, fecit signum Crucis.
SÌgnam Crucis f SimpronidB Rivellini.
Ada sQDt baec per me Curtium SigDanum Sancti Officih:
notarium.
DECRETO SUCCESSIVO ED IMMEDIATO.
Altentis SQpradictis, dominus decrevit, praefatas poellas ss-
crete vocari examioari, et processum fabricarì.
Ita est: Gartios Signanus Sancti Officii notarios.
ESAME DEL PRIMO TESTIMONIO.
Giorno 8 luglio 1382.
Vocata personaliter comparuil coram adm. rev. p. vicario
Sancti Officii existente in sacrario Sancti Marci Auximi, in mei-
que, etc.
Frassinella Alia Alipii Moscati ab Auximo , virgo ; aetatis
annorum quatuordecim ; degens sub parocbia Occidentali ; coi
delato juramento verìtalis dicendae, quod praestitit tactis sacris
litteris, fuit per D.
1. Int. De importantia juramenti?
(Si domanda dell' importanza del giuramento quando si
dubita cbe non si sappia, come sono i giovani e le giovani; e
mentre sono diversi testimonii da esaminarsi , si comincia dal
più giovine, come questa, slantecbè da essi più facilmente si può
avere la verità).
Resp. Io so che quando si giura il vero si fa bene, e pecca
gravemente chi giura il falso.
2. An scìat, vel imaginetur causam^suaB vocationis, et prae-
sentis examinis?
Resp. Io non so, n'è mMmagino la causa per la quale V. S.
mi ha fatto chiamare ed ora mi voglia esaminare.
3. Int. An cognoscal aliquem baereticum, sortilegum, blas-
— n7 —
.fheniQai, poligamum, abatentein confessione sacramentali ad
tarpia, vel qnomodolibet de barrasi suspectum T
Resp. Io non conosco alcuna di queste persone delle quali
T. S. m'interroga.
4. lot. A quo tempore inc^perit conQteri sua peccata?
(Si potrebbe cominciare dalla quinta interrogazione; ma
essendo giovinetta, non è stato male principiare anco di qui).
Resp. Io stimo che saranno sei o sette anni che comincio
a coofessarmi.
5. Int. Quoties in anno soleat conflteri sua peccata, etqua-
teDQs» in qua ecclesia, et cui, vel quibus confessariis?
Resp. Io solevo confessarmi alla mia parocchia detta Occi-
dentale, ma da sei mesi in qua vado a San Basilio, dove con-
fessano i padri greci , e dai quali mi confesso ogni quindici
giorni.
6. Int. An ad ecclesiam Sancti Basilii accedat ad conflten-
im sua peccata sola, vel associata.
(Si fa per far nominare sua sorella o altro testimonio).
Resp. Vado a confessarmi alla chiesa di San Basilio in com-
pagnia di mia sorella, che si chiama Puligetta, e con noi viene
la signora madre per nome Morella.
7. Int. Quot confessionaria reperiuntur in ecclesia Sancti
Basilii, et quatenus cujus coloris?
Resp. Nella chiesa di San Basilio sono tre confessionari:
QQo posto alla destra della chiesa quando s'entra per la porta
Qtaggiore, ed è di noce; ed altri due dalla banda sinistra, che
SODO di legno bianco.
8. Int. An prsBfata confessionaria sint prope aliquod altare?
Resp. Padre si; quello di noce è attaccato all'altare di san-
t'Atanasio, e gli altri due di là; uno è appresso Taltare di san
Basilio, e Taltro vicino all'altare di san Crisostomo. .
9. Int. In quo confessionario ipsa esaminata, eiusque soror
€t mater soleant conflteri ?
Resp. Io. mia sorella e la signora madre solevamo confes-
^rsi nel confessionario di noce, posto dalla banda destra.
10. Int. An dictum confessionarinm habeat cratem, et qua-
tenus, etc; eam describat.
(Con la risposta a quest'interrogazione, unita all'attestato
^Ua denunciante, si prova l'identità del confessionario; perché
i^l Sant' Officio il primo denunzìante non solo tiene il luogo
di quello che accusa, ma è anche testimonio ; e con un altro
PWa a sufficienza).
Resp. Il confessionario di noce ha una graticella, i di coi 1
chi sono falli in tal maniera ck^ ciascheduno hanna croGel
e slimo che questa gralicella non sia di ferro ma di l^c
e sarà larga e lunga come un fazzoletto ordinario; del resto [
so dir altro.
11. Int De nomine, cognomine et patria confessorìs <
solet audire confessiones in praefato confessionario nuceo pos
ad dexleram ecclesiae.
Resp. Il confessore che suol confessare nel confessionak
noce suddetto si chiama il padre E?aristo; non so di qual
gnome e patria egli sia.
12. Et ei dicto ut descrìbat dictum patrem E^rislum.
(Qui pure unitamente col detto della prima denunzia
si prova ridentità del confessore).
Resp. Il padre Evaristo porta sempre gli occhiali; ha
zazzera, barba bianca e lunga» ed è grosso e grande assai ;
resto non so altro.
13. Int. An de isto patre Evaristo quandoque habu
sermonem cum atiqaa» vel cum aliquibus personis» et qua
nus, etc?
(Si noti il tempo in genere, quandoque e le persone
rimente in genere aliquibus personis, per star lontano dalle si
gestioni).
Resp. Può essere che qualche volta abbia parlato con qi
che donna dei padre Evaristo, ma non mi ricordo quandi
con chi.
14. Int. An de patre Evaristo dominica proximc prsBtei
locuta fuerit cum aliqua, vel aliquibus personis, etquatenus, (
In quo loco, occasione; et quid dixerit?
(Si discende al tempo in individuo, che fu domenica, I
candosi il luogo, le persone, l'occasione e parole del disco
in genere; e però la confessione, che dal tempo di domen
nasce, non è se non legittima).
Resp. Mi ricordo adesso che domenica prossima pass
stavamo avanti la porta di nostra casa io, mìa sorella Pulige
la signora madre e Simpronia Rivellini nostra vicina, e si d
corse de'confessori e si nominò anche il padre Evaristo, cu
e mia sorella dicevamo ch'era un buon padre.
15. Int. Quare ipsa examinala, ejusque soror dixerint?
Resp. Io e mia sorella dicevamo che il padre Evaristo
un buon padre perché nel confessare dice parole molto atì
tuose.
16. Et ei dicto ot referat verba affecluosa qoae sibi in con-
fessione» vel occasione confessìonis sacrameotalis, solet dicere
dictiis pater Evarìstos, et qaoties, etc.
Resp. Le parole afTetluose che mi suol dire il padre Eyari-
sto sono: ch'io sono bella e buona; e Pistesso dice di n>ia so-
rella e della mia signora madre, e che la nostra casa è una
casa di bontà e di bellezza, e che vuol venire qualche volta a
vederci. Non mi dice poi altro; e queste parole me Tavrà dette
dodici 0 quindici volte, parte immediatamente avanti la confes-
sione, e parte immediatamente dopo, ma mai nel tempo della
confessione.
17. Int. An unquam accesserit domum ipsius examinalae
dictus pater Evarìstus, et quatenus, etc?
(Si fa quest'interrogazione per sapere e scuopriro se, es-
sendo andato in casa loro, abbia dato qualche segno del suo
animo impuro; nel qual caso le parole dettele in confessione
si riceverebbero in mala parte).
Resp. Dopo che noi ci confessiamo dal padre Evarislo sarà
venuto in casa nostra quattro o cinque volte, e si tratteneva
in ridere e raccontare le cose della Grecia, e non diceva nò
faceva altro,
18. Int. De fama dicti patris Evaristi.
Resp. Il padre Evarislo è di bonissima fama, e si può dire
che confessa tutta la. nobiltà della città.
49. Int. An odio, vel amore, et super inimicilin.
Resp. Recte.
Quibus babitis et acceptatis, dimissa fuit, jurata de silenlio;
et ei perleclo suo examine, se subscripsil:
Io Frassinella Moscati confermo quanto sopra di mano pro-
pria.
Ada sunt haec per me Curtium Signanum Sancii Odicii no-
ta rium.
ESAME DEL SECONDO TESTIMONIO SUCCESSIVO.
Yocala personalller comparuit coram, et ubi suprj, in mei-
que, eie.
Domina Puligelta Alia Alipii Moscati ab Auximo, virgo;
8Btalis annorum quindecim cum dimidio; cui dclato juramenlo
ìeritalis dicendae, quod praestitit tactis sacris lillcris, fuit per. D.
Tamb. Inquis,\o\. U. ■ Zi
— 2«0 —
1. lot. De importantia jaramenti.
Resp. Se dirò la bugia farò un gran peccato; e se confes-
serò ia verila, meriterò appresso Dio.
2. Int. An sciat, vel imaginetur causam suse vocationis et
prsBsentis examinis?
Resp. Io non so la causa di quest'esame, né me rimagino»
se V. S. non me *1 dice.
2. Int. Aq post prandium soleat conversari cum aliqua, vel
aliquibus personis, ante janoam su^ domus, et qaatenus» etc.?
(Non è dubbio, che nella fabbrica de^processi ci yc^Iiono
alcune regole generali ; ma queste supposte, si può cavar la
verità dai testimoni, e dai rei in molte maniere, purcliè s'abbi
un poco di giudizio : nell'esame del testimonio passato si cam-
minò in un modo, e qui in un altro).
Resp. Ne' giorni festivi siam soliti stare in conversazione
dopo pranzo avanti la porta di nostra casa la signora madre,
Frassinella mia sorella ed alcune altre donne nostre vicine.
4. Int. An dominica proxime praeterita, post prandium, in
praefato loco habuerint hanc conversationem, et quatenus, quae
materia fuerit conversationis; et qui, vel quae erant praesentes?
Resp. Signor si, che domenica prossima passata fummo in
conversazione, come l'altre volte, e ci eravamo lioi tutte donne
di casa e una tal Simpronia Rivellini e qualche altra, e si dis-
corse di diverse cose, delle quali non mi ricordo.
5. Int. An die dieta fuerit aliquis sermo de confessoribus,
€t quatenus, de quibus et qnid, etc?
(Quest'interrogazione si chiama in genere, perchè si parla
de'confessori e del discorso in comune; è però molto efiScace
per far nominare i confessori in particolare, e che cosa si dis-
corse di loro; come s'è fatto nella risposta).
Resp. Fu discorso de'confessori, e furono biasimali quelli
che gridano; e noi lodammo il nostro, il quale è benigno, amo-
roso e consola tulle ; ed è un padre di San Basilio greco, <ihe
si chiama il padre Evaristo, e confessa tutta la casa nostra.
6. Int. Quae verba benigna et amorosa solcai dicere in au-
diendis confessionibus dictus pater Evaristus?
Resp. Mi suol dire che son bella, che racconto bene i miei
peccali, che porto bene la mia vita, e che sempre gli cresce
l'amor verso di me.
7. Int. Quoties sibi dixerit pater Evaristus praefala vcrba,
et quando; an scilicet in confessione sacramentali, vel imme-
diate ante, vel immediate post ?
Resp. Per lo spaùo di set mesi che mi confesse^ d»l paidn»
E^rìslo, m^aTrà dette queste parole dai qQsunntai Tolte» e sem-
pre dentro la confessione ; cioè dopo a^er cominciat4i la confes-
sione, ed avanti rassolozìone*
(S*intent^ cosi per sapere il nomerò deMelitti. e in cbe
maniera ^a caduto nella bolla cmtra soUicHaHk$).
8- Int. In qoo confessionario soleat dictus pater E?arìstos
andire conf^ssiones sacramentales, et descrìbat confessarlum
ipsnm et confessionaiiom.
(Nella risposta a qnesrinterrogasione si prova per il tono
testimonio Pidentità del confessionario e del confessore\
Resp. Il padre Evarìsto ascolta le confessioni in un con-
fessionarìo posto alia band» destra della chiesa quando sVntra
per la porta maggiore ; e questo confessionario ò di noce, ha
una graticella poco più grande della testa d'uomo» la quale ha
diversi buchi grandetti» e in ciascheduno si vedo una cnìcotla ;
non so s'^ di ferro, o di legno, o d'altra materia. Il confessore
p(H è grande, grosso, e porta la zazzera e barba lunga e bianc«n»
e tiene sempre gli occhiali.
9. Int. Àn sciat, vel dici audierit, dictum patrem EvarUtum
protulìsse praefata, vel similia verba amatoria erga alias persona s
poenitentes in confessione sacramentali, vel occasione sacrnmen-
talis confessìonis.
Resp. Mia sorella suddetta m' ha riferito d' averlo delle
anco a lei.
10. Int. De fama dicti patris Evaristi T
Resp. 11 padre Evaristo è di buona nominanza.
11. Int. An odio, vel amore et super inimlcitiaT
Resp. Recte.
Qi^ibus habitis et acceptatis, dimissa fuit jurata de silonllo;
etperlecto ei suo examine, se subscripsìt:
Io Puligetta Moscati confermo quanto sopra di mano propria.
Acta sunt haec per me Gurtium Signanum Sancii Office
notarium.
ESAME DEL TERZO TESTIMONIO INCONTANENTK.
Yocata personaliter comparoit coram, et ul)i snpra, in mei-
que, etc.
D. Morolla uxor D. Àlipii Moscati, aBlalis annoram trigiota»
cui delato juramento veritatis dicendsB , quod praBstilit tactis
sacris litteris, fall per D.
1. Int. ÀQ sciat, vel imaginetar causam suae vocationis et
prdB3entis examinis?
(S'è lasciata Morolla per ultima, secondo la regola toc-
cata di sopra, di cominciare dalle giovani e passare alle più
vecchie, come che le giovani sono più facili a dire la veriUi).
Resp. M'imagìno che V. S. m'ha fatto chiamare ed ora mi
voglia esaminare per causa del mio padre confessore, per nome
Evaristo.
2. Et ei dicto : Quare imaginetur, se esse vocatum propler
patrem Evaristum ejus confessarium?
Rcfsp. Frassinella mia prima figlia, come ragazza, m' ha
raccontato tutto quello che V. S. gli ha dimandato, e quel che
ha ella risposto; e però mMmagìno che voglia dimandare le
medesime cose anche a me : e se vuole eh' io dica qftello che
mi occorre, senza ch'ella si pigli fastidio di farmi tanrinterro-
gazioni, lo farò sinceramente.
3. Et domino annuente: ipsa examinata deposuit ut infra:
Saranno sei mesi chMo vado a confessarmi nella chiesa de*
padri di San Basilio con le mie figliuole, e mi confesso dal p.
Evaristo, uomo canuto, grande e grosso, di barba lunga, e sempre
porta gli occhiali e ascolla le confessioni in un confessionario
di noce posto alla destra della chiesa, quando s' entra per la
porta maggiore, vicino alPallare di sant'Atanasio; e dello con-
fessionario ha una graticella quadra d' un palmo e mezzo in
circa , non so di che materia sia , i buchi della quale hanno
inserita una bella crocetta. Questo padre, come che amorevole
e domestico di casa nostra piglia con me, e con le mie figliuole,
qualche confidenza, ma senza malizia imaginabìle. M'avrà detto
una dozzina di volte, parie avanti la confessione, parte nella
confessione slessa, e qualche volta immediatamente dopo, ch'io
sono bella, che porto bene la vita e che ho falle belle figliuole,
e ancora esse camminano leggiadramente.
Il padre è in buon concello appresso tutta la città, ed io
lo tengo e 1' amo in luogo di padre ; e questo è quello che
mi occorre dire a V. S.
Sponte personaliter comparuil coram adra. rev. patre vi-
cario Sancii Officii Auximi, existente in propria mansione, in
meique, etc.
— 1» —
Qoiboslnbitìs et accepbtis* dimissa fiiit, joratai de siIraUcK
et perieclo « sqo e3Luiiioe, se sobscrìpàt :
Io Morolla Moscati confermo quanto sopra di mano propria*
Acta sont haec per me Cartiom Signannm Sancii Officii
Notariom.
(Con questo testimonio unito con gli altri tre suddetti si
prova per detto di quattro donne l' identità, in qualctie parte,
e del confessore del delitto, e del confessionario).
QUARTA DENUNZU,
D UN CELEBRANTE NON PROMOSSO AL SACERDOZIO,
Giorno 30 sette^nbre 1682.
D. Quirìous Alias quondam Laertiì Pisini de Monte Bello,
dìoecesis Gasalensis, SBtalis annorum viginti duorum, clericus
diaconus, degens de praeseoli Auximi, sub parochia Australi,
coi delato juramento veritatis dicendae, quod pr^BStitls tactìs
sacrìs litterìs, exposuìt ut infra:
1. Son qui a rappresentare a V. R. che le quattro tempora
INX)ssimo passate sono andato airordinazione a Venezia con due
altri che aspiravano, uno al sacerdozio, cioè don Berillo Berilli,
eTaltroal diaconato, come volevo io, e si chiama Perinuccio
Halasorte, candiotto. Tutti furono ordinati la stessa mattina; e
<ioo vedeva ordinare Taltro; io e Perinuccio pigliammo il dia-
^ conato, e don Berillo Berilli s'ordinò sacerdote, e tenne ordl-
iiazione monsignore Mitridate nel luogo solilo. Il giorno seguente
^rimbarcammo per Ancona, e arrivammo il terzo giorno, ch'era
martedì, ed ivi mi fermai per i miei affari quattro di. 11 secondo
giorno, che fu giovedì prossimo passato, essendo andato per
iMirlare al curato della chiesa de' Mercanti , trovai nella sagre-
stia della medesima chiesa apparato per dir messa il diacono
Perinuccio Malasorte , e restai sorpreso e vidi che usci fuori
cosi apparato e si portò a dir messa all'aitar maggiore li vicino;
e dalla sagrestia vedendosi molto bene l'altare, io l'osservai con
la vista e Tudii con l'orecchie Ano al fine; il qual altare aveva il
Kilio e i cuscini di saia bianca, con le trine di varii colori, con
loattro candelieri e una croce d'ottone, ma erano accese du e
ole candele d'un'oncia, o poco più, runa. Disse la messi della
Madonna, che comincia: Salve, sanda Parens; s^mtf^ l^^^lo-
la, l'evangelo, ed il piief^zio ; consacrò il p»ne ed il vino, per
quanto parve; alzò Tuno e l'altro» disse \\ Pater, si cqfnuDic^
a suo tempo , diede la bene^zjope in fine ^Ua loessa e la
terminò col vangelo di S. Giovanni, che ha per ultime parole:
Et verìmm caro factum est, ecc. E perchè questo è uii gravis-
simo caso ^ì Saor Ol^no» sono comparso a scaricare la mui
coscienza.
Int. Qua licenlia, seu qua dlmissoria celebraverit Perinac-
cius mìssam ?
Resp. Io non so ^r^a con cpial licenza o dìmissoria abbi ce-
lebrato Perìn^ccio 1? ^aqt^ messa.
3. Int. Àn dixerit missam bene, vel male ?
Resp. La disse speditamente e bene.
4. lot. An aqdierit verba consecrationis, vel saltem viderit
motionem labiorum dicti diaconi Perinuccii ? ^
Besp. Io non posso dire con certezza né l'uno nò Taltro ,
perchè la distanza, sebbene non molta, non permetteva d'udii
le parola, che sogliono esser sacre ; e lo star giù con la testi
del sacerdote, come si suole, impediva di poter vedere il moto
delle labbra.
5. Int. De famulo qui tnserviebat tali sacrilegae missae?
Resp. Serviva la messa il chierichetto della sacrestia , eia
sentivo chiamare Bertoldino ; non so di chi sìa figliuolo uè di
che paese, ma era vestilo di color berrettino ed avrà avuto do-
dici anni.
6. Int. De qualitate missalis, calicis et paramentorum ?
Resp. 11 messale aveva le coperte nere con i segnacoli rossi;
il calice tutto d'argento, con il velo di seta bianca ; la pianeta,
la stola ed il manipolo di velluto bianco, ma usato ; il camice,
Tamitto e il cordone di rpba ordinaria bianca, siccome era or
dinaria la berretta da prete.
7. Int. De adstantibus diclae mìssae ?
Resp. A questa messa erano molti, ma io non li conosco
so bene che don Berillo Berilli slava allora dicendo l'officio il
chiesa, ed avrà veduto e sentito tutto.
8. An sciat, vel dici audierit,'dictum Perinuccium celebrass
alias missas in praefata vel alia ecclesia ?
Resp. Di questo non so né ho inteso dir niente.
9. Int. An sciat, vel dici audierit, dictura Perinuccium d(]
tasse mìssa a se celebratam in alìquo libro sacrarii ?
Itep. Dopo che Penoaccio ebbe celdmibi U messi e rese
le grazie, notò la soa messa in qd UbreUo loogo, coperto con
QDa carta tnrdùna, die sta a qaeslo ffne nella sagrestia; ed lo
lo Tidi molto beoe; prese il suo mantello, eh' era cotto, e se
De andò por i fatti suoi, non so dove.
10. Int.' An sdat, yel dici audierit, dicium Perìnncciam ha-
boisse aliquot indultum apostolicom quo potoerìt ordinari in
sacendotem , post redilum in ci?itatem AnconaB , ut supra » et
celebrare ?
Resp. Io non so niente di questo ; a me però pare ìmpos-
sbile per la brevità del tempo.
11. Int. Quando ipse examinatus vidìt praefatum Perinuc-
cJDin indolum vestibus sacerdotatibus , quare ipsum non mo-
onerit ne committeret tantum scelus ?
Resp. Io non dissi niente , perchè restai incantato a tanta
iniquità e non ebbi animo di dirgli cos' alcuna.
12. Int De qualità tibus individualibus praBfati Perinuccii ?
Resp. Questo Periouccio è dì statura piccola, di peli e ca-
pelli rossi, ma tutti crespi senza zazzera ; ha un occhio tutto
searpellato; il vestito è nero, lungo fino al ginocchio; porta un
pajo di calze di color paonazzo, con scarpe bianche.
13. Int. De fama dicti Perinuccii, tam apud se quam apud
alios.
Resp. lo son forastiere, e non Io conosco, e nemmen so iti
qiial concetto sia presso gli altri.
14. Int. Àn odio, vel amore et super inimicitia ?
Resp. Recto.
Quibus habitis et acceptatis , dimissns fuit, juratus de si-
lentio; et perlecta ei sua depositione se. subscripsit :
Io Quirino Pisini confermo quanto sopra di mano propria.
Acta sunt base per me Gurlium Signanum Sancii Offlcii
notarìum.
DECRETO SUCCESSIVO.
Attentis praefatis, dominus decrcvit testes informatos secreto
Tocarì, examinarì et processum fabricari.
Acta sunt baBC per me Curtium Signanum Sancii Oflicii
notarinm.
— S56 —
ESAME DEL PRIMO TESTIMONIO.
Giorno ì ottobre 1385.
Yocatus persoDaliler comparuit coram et ubi sopra » i»
meìque, etc.
DomiDQs Berillus fliius quondam Galidonìi Berilli de Ra-
gusa, advena Àuximi ; astatis annorum viginti quinque; sacerdos
sdBCuiaris, cui delato jurameuto verilalis dicendaB, quod prae-
slìlit tactis sacris liUeris, fuit per D.
1. Int. An sciat, vel imaginetur causam suae vocationis el
praesentis examinis ?
Resp. Io non so niente, se V. S. non me lo dice.
2. Int. An cognoscat aliquem baereticum, sortiiegum, blas-
pbemum, polìgamum, celebrantem non promotum ad saccrdo-
tium, Tel quomodolibet de baeresi sus'pectum?
Resp. Io non conosco alcuno di queste sorta di persone
delle quali m'interroga: solo tengo cb'uno abbia detta la sants
messa senz' essere sacerdote ; se pure non ba qualch' indultc
apostolico.
3. Et ei dicto ut seriatim narret quid sibi occurrit circa hoc
Resp. Deve sapere che, non tenendosi ordinazione in questi
parti, ci risolvemmo in tre d' andare ad ordinarci a Venezia
corbe facemmo, le quattro tempora prossime passate. Ed eri
un tal Quirino Pisini, eh' andava al diaconato, ed io al sacer-
dozio, ed un candiotlo per nome Perinuccio Malasorte, pei
essere ordinato diacono, come il Pisini: fummo esaminati latti
e tre e ammessi; ed il sabbato mattina, secondo il solito, io
fui fatto sacerdote, e gli altri due furono ordinali diaconi, ed
io li vidi con gli occhi mìei, e T ordinazione fu tenuta da
monsignore Mitridate nella cappella solita. Il giorno seguente
c'imbarcammo di ritorno per Ancona tutti e tre, ed arrivamint>
in tre giorni, e l'arrivo fu martedì ventidue del passato. Arri-
vali al porto, ognuno andò per i falli suoi. Io mi fermai io
Ancona sino al venerdì ; e il giovedì antecedente a buon' ora
celebrai la santa messa nella chiesa parrocchiale de'xMercanti ©
poi mi posi nella medesima chiesa, avanti l'altare maggiore,»
dire r ufiBcio divino ; e tìei recitare il Te Deum laudamus viJ»
eomparìre il chierìdieilo Bertoldino con il messale die eoo-
dooen a Are massai il sèceràote , che non sipevo chi ft^si^ .
ed il sacerdote cominciò la mess» della Madonna: S^tA
sancia Farcns; e nel rollarsi a dire il primo Dmvims ixéì$imm
iD'aTYidi che quello che dicera la santa roess) era l\frìmicdo
Malasorte , e restai talmente stordito a questo spettacolo che
non potei segoitare Pufficio divino. E quest'è quanto m'occorrt"
dire.
4. Et ei subiuncto ut recenseat partes prìncipales missac
persointas a Perìnuccio Malasorte, dictis loco, tempore et oc-
casione.
Resp. Perìnuccio Malasorte recitò V introito, V epistola, il
vangelo, il prefazio, il canone, fece la consacrazione ed ele\^-
zioDe; disse il Pater, si comunicò, disse il Post communio ,
diede la benedizione, e disse Tevangelo di saq Giovnnni, e poi
accomodò il calice secondo il solito e se ne ritornò in sagrestia ;
e quivi si sparò; fece le sue divozioni, scrisse il suo nome nel
libretto a questo fine destinato e, preso il suo mantello, se
De andò , non so dove ; e so ciò , perchè dopo la messa gli
andai dietro in sagrestia e vidi tutto con gli occhi miei.
5. Int. Àn audierit verba consecrationis, vel saltem videril
Perinuccium movere labia super panem et vinum tempore con-
aecrationis?
Resp. Io veramente non udii le palmole della consacrazione
del pane e del vino ; vidi però Perìnuccio muovere le labbra,
perchè io era dalla banda del vangelo , lontano una picca
in circa, ed appresi che dicesse le parole solite della consa-
crazione.
6. Int. An sciat, vel dici audierit aliquam, vel aliquas per-
sonas audivisse verba consecrationis prolata a praefalo Perl-
Doccio dictis loco , tempore et occasione, vel saltem videril
movere eius labia super panem et vinum?
Res. Molte persone erano alla messa suddetta di Perìnuc-
cio; ma io non saprei dire quali fossero, né so che alcuna (U
loro abbia udite le parole, o abbia osservato i moti delle lab-
bra sopra il pane ed il vino fatti dal medesimo Perìnuccio in
quel tempo, luogo ed occasione.
7. Int. De veslibus sacerdotalibus, calice et missali cimi
elibus celebravit missam praBfalus Perìnuccius, et de paramen-
tis altaris?
Resp. Perìnuccio disse la messa con quegristessi paramenti
Tamb. tnquis. Voi. II. ZZ
— «58 —
con i quali celebrai io: con la pianeta, stola e manipolo di y
luto bianco usato ; col camice» cordone ed amitto ordinari
nell'andare e ritornare dall'altare aveva una berretta nera
usata. Il calice era tutto d'argento con un velo lacero di i
bianca*; il messale avea le coperte nere e i segnacoli rossi
contr'allare ossia palio e i cuscini erano di saia bianca, coi
trine di varii colori, e suiraltare erano quattro candelieri
la croce d'ottone, ma due sole candele d'un'oncia in circa er
accese,
8. Int. Àn sciat, vel dici audierìt, dictum Perinucciurr
illa vel alia ecclesia alias celebrasse?
Resp. Io non so uè bo inteso dire cbe Perinuccio abbia
celebrato né in quella né in altre chiese.
0. Int. Ubi modo reperiatur dictus Perinuccius?
Resp. Io stimo che Perinuccio si trovi sicuramente in
cona; perchè ivi ci sono diversi suoi paesani, come m'ha d
lui, i quali non conosco; in che luogo poi preciso non lo p(
sapere.
10. Int. De qualitatibus individualibus dicti diaconi F
nuccii ?
Resp. Questo Perinuccio è di statura bassa, non ha zazs
è di capelli e peli rossi, ed ha un occhio scarpeliato; vest
corto e porta le calzette di color paonazzo, con le scarpe bian
11. Int. De fama supradicti Perinuccii?
Resp. Io non ho conosciuto Perinuccio se non in quel ^
gio; e non ho contro di lui altro, se non che mai Tho ve<
in quel tempo recitar V officio divino.
12. Int. An odio, vel amore et super inimicitia ?
Resp. Recto.
Quibus habitis et acceptatis, dimissus fuit, juratus d(
lentio; et perlecto ei suo examine, se subscripsit:
Io Berillo Berilli confermo quanto sopra di mano pro|
Àcta sunt hsBc per me Curtium Signanum Sancti 0
notarium.
ESAME DEL SEOOXDO lESTQiQMO.
Giono 2 Mdìfrt Ì9S&.
Vocatos persoDaliler oompainiit oonin et ubi snptii^ in
mriqae, ecc.
BertoldiDiis fllios Diodonis Menili de Camerìno; :eblis 9tn«
noram trededm drdten degeos Aqcoim^ sab parochtt Merc^
torom, modo adveoa AQximi, cai delato juramento verìtatis
dicend», qood praastitit tactìs sacrìs Iitterìs> fuit per D.
1. Int. De imporlaotia jorameoti?
Resp. Io so che se dicessi la bugia farei un gran peccalo;
del resto non so altro.
2. Int. De eius exerdlio et qua de causa sit in hac civitale?
Resp. La mattina sto a servir le messe alla parecchia dei
Mercanti d'Ancona, e dopo desinare vado alla scuola, e mi ri*
trovo qui in Osimo per vedere un mio sio» che mi vorrebbe qui.
3. Int. Ubi fuerit die Jovis proxime prsBlerllo ?
Resp. Giovedì prossimo passato mi trovava in Ancona, la
mattina alla parecchia suddetta a servir le messe, e dopo desinare
fai alla scuola.
4. Int. De sacerdotibus qui celebrarunt mlssam die Jovis
proxime praeterito in ecclesia Mercatorum ?
Resp. Disse messa in detta chiesa, e parecchia, il signor
carato d. Berillo Berilli sacerdote novello, d. Antlnoro Plncilll
e OD altro che non conosco.
5. Int. Quis inservivìt miss(B illius sacerdote a se Ignorali»
et qua licenlia ipse celebravit ?
Resp. Il signor curalo non c'era; quel prete mi disse che
Toleva dir messa, ed io pensando che fosse uno (legrinvllall dal
signor curato, lo lasciai celebrare, ed io fui quello che rajulai
^ apparare e gli servii la messa.
6. Int. De vestibus sacerdotalibus, de missali, de altari In
quo celebravit, eiusque paramentis, et de aslantibus lati tnìnmt
Resp. Mi disse che voleva dir messa della Madonna , e si
vesti deiramillo e camice di tela bianca ; si cinse col cordone
ordinario che in mezzo ha un groppo, e prese il manipolo, la
stola e la pianola di velluto bianco, però usala ; si servi d' un
— am-
messale che ha le coperte nere, con i segnacoli rossi, e d' i
calice tatto d' argento col velo di seta bianca ; disse la mes
alPaltar maggiore, il qaale avea quattro candellieri con la ero
d'ottone, col palio e cuscini bianchi trinati di yarii colori,
erano accese due candele grosse come il dito piccolo, e me
furono presenti e non mi ricordo quali.
7. Int. An adverterit alìquem differentiam inter missam pr
fati sacerdolis et missas aliorum ?
Resp. Questo sacerdote disse la messa giusto come
altri.
8. Int. An ille sacerdos post missam notaverit in aìiq
libro conservato in sacrario proprium nomea ?
Resp. Signor si, che quel sacerdote , detta la messa , ne
il suo nome in un libro piccolo lungo, coperto di carta tu
china, che si conserva nella sagrestia , e ne ha cura il sign
curato.
9. Int. An prò tali missà dictus sacerdos habuerit eleem
sinam?
Resp. Io non so niente se quésto sacerdote per que
messa avesse la limosina; può essere che il signor cun
glie rabbia data o promessa, perchè altrimenti aoa si sareb
notato.
10. lat. Et ei dicto quod describat dictum sacerdotem.
Resp. Questo sacerdote è di statura piccola, eoa uo occl
offeso, aoa porta zazzera, ma ha 1 capelli rossi e crespi ; ù
pure è rossa la barba e porta uaa veste aera corta, con le e
zette nere pavonazze e le scarpe bianche.
li. Int. An sciat, vel dici audierit dictum sacerdotem ali
celebrasse in illa, vel alia ecclesia, et ubi modo reperlatur 1
Resp. lo non so niente se detto sacerdote altre volle abl
celebrato in quella o in altre chiese, lo so che non Y ho [
veduto né inteso nominare né avanti né dopo, né so dove o
si ritrovi.
Quibus habitis et acceptatis, dimissus fuit, juratus de s
lentie; etperlecto ei suo examine, se subscripsit:
lo Bertoldino Meruli affermo quanto sopra di mano propri
Acta sunt hsec per me Gurtium Signanum Sancti Officii m
tarium.
— 261 —
ESAME DEL TERZO TESTIMONIO.
Giorno 3 ottobre 1385.
Vocatus personaliter comparuil coram adm. rev. patre Vi-
cario Sancti Offici! Aj^conae , existente ìq loco examinum « in
ineiqne, etc.
R. Dominus Sacripantes Mirabellus, parochus Mercatorum
civitatis Anconae, cui delato juramento veritatis dicendae, quod
praBslitit tactis sacris lilteris, fuit per D.
1. Int. De sacerdotibus qni celebrarant missam in sua
ecclesia die Jovis proxime praelerito ?
Resp. Nella mia chiesa giovedì prossimo passato furono
celebrate quattro messe, cioè la mia, che fu la prima, una del
signor don Berillo Berìlli sacerdote novello» la terza del signor
Pincilli, e disse Tultima un tale che non so chi sia, il quale
in mia assenza domandò di dir messa, e il chierìchetto lo per-
mise; dopo la messa notò il suo nome nel libretto solito, e poi,
per quanto mi riferi il ragazzo, se ne andò, e non si sa dove.
2. Int. An a pud se habeat libellum in quo notantur missae
<IQaB in dies celebra ntur in ecclesia Mercatorum ?
Resp. Padre si, che presso di me ho quel libro nel quale
<fàe\ prete notò la messa da lui celebrata, per avermi lei fatto
insinuare che lo porti.
3. Int. Et ei per dominum dicto ut exhibeat libellum prae-
fatano.
Resp. Volontieri, eccolo qua.
Et de facto exhibuit quemdam libellum, cuius inscriptio:
Misss celebrandae in ecclesia Mercatorum 1382. Et incipit
mnaro 1382. Finit vero. Addì 2 ottobre. Et dictus libellus
^Uongitudinis unius palmi et quatuor digitorum , et latitu-
<linìs sex digitorum, coopertus quadam chartula turchina, car-
tnlaiam per totum , continentem cartas trìginta , et in pagina
stinta, a tergo, circa medium, tertio loco , habentur haBC verba
^idelicet:
Giorno 29 settembre 1385.
< Io Perinuccio Malasorte ho celebrata la messa della Ma-
donna »
Quibus Iransutntis, de mandato domini etc. , fait libelius
eidem d. curato restila tus.
4. Int. Qaa licentia» vel dimissoria celebravit in sua eccle-
sia supradictus Perinuccius ? ^
Resp. Io non so dire con qual licenza o dimissoria abbia
celebrato nella mia cbiesa il prete Perinuccio: se ci fossi stato
io avrei voluto vedere i suoi recapiti, ma il povero ragazzo che
attendeva alla sagrestia non ha avuto tanto cervello.
5. Int. An scrat , vel dici audieril supra supranominatum
Perinuccium alias celebrasse in sua, vel altera ecclesia, et ubi
modo reperiatur?
Fiesp. Io non so né ho inteso dire che il prete Perinuccio
abbia mai più celebrato nella mia chiesa né in altro luogo , e
non so dove si trovi ; né io di lui ho cognizione di sorta alcuna»
se non quella che ho detta.
Quibus habilis et acceptatis etc., dimissus fuit, juratos de
silentio; et perlecto ei suo examine, se subscripslt:
Io Sacripante Mirabelli confermo quanto sopra di mano
propria.
Acta sunt haec per me Gurtium Sìgn. S. Officii notarium.
Un altro processo si è tenuto in Ancona circa la succitata
epoca, che destò in quella città gran rumore.
Arnolfo, giovine di gran cuore e bello della persona^ erasi
invaghito di Solima Qglia d'un ricco ebreo che avea apostatato
dalla sua religione per farsi cattolico. A costui spiaceva che la
Qglia si fosse fidanzata ad Arnolfo, perchè teneva propositi cogli
altri giovani che mettevano in discredito certe pratiche religiose,
e male erano queste sentite dal Sant'Ufficio ; ma appartenendo
Arnolfo ad una delle primarie famiglie, il Sant'Ufficio non s'at-
tentava di farlo imprigionare per leggieri mancanze. L' eresia
era la colpa contro la quale era inesorabile l'Inquisizione, e per
perdere un individuo bastava una denuncia d'eresia fatta nelle
formolo legali. Il padre di Solima per troncare ogni corrispon-
denza fra essa ed Arnolfo si fece delatore, ed accusò d' eresia
quest'ultimo al Sant'Ufficio.
— J65 -
Il SanrUflQcio dieleorJiDe a' suoi famigli d'agguantare
Arnolfo; ma venutisi costoro alle sue case, egli fece testa al
bargello e a' suoi ajutato dai servi, ed arrivò a respingerei
birri ed a svignarsela. Imbarcatosi, si allontanò da Ancona seco
Arco di Trajano in Ancona.
Recando amarissimo schianto per la lontananza dal suolo natio
^ da colei che gioconda e cara gii rendeva la vita. Vagò per
^i^tranee contrade, scrivendo però ad un suo diletto amico per
^vere contezza di Solima; e quando seppe che essa gemeva nelle
^^rceri deirinquisizione vittima innocente, risolvette di recarsi in
ancona per liberarla. Il fido amico, che lo teneva per quanto pote-
>ra a giorno del processo, gli scrisse che l'Inquisizione stava per
condannare la sua fidanzata a perpetuo ritiro, per punire in
lei la colpa della quale era accusato il suo amante. Allora Arnol-
fo sidecise di tentare un colpo ardito per liberarla. Indettatosi col-
- J6i —
ramico, noleggiò una barca ben munita di corsari africani , e
vestitosi anch'egli nella medesima foggia di quelli, approdò di
nottetempo verso Ancona, al luogo designato coll'amico, il quale
mercè oro aveva potuto sedurre il custode del ritiro nel quale
era stata posta Solima. Quasi Arnolfo e Solima erano salvi,
quando le guardie s'accorsero della loro fuga , e si misero ad
inseguirli; ma alcuni pirati da Arnolfo posti in agguato si op-
posero ai birri deir Inquisizione, e mentre fra loro erano alle
mani, egli toltasi in ispalla Solima, ch'era svenuta per lo spa-
vento e per la consolazione ad un tempo, corse alla barca, ed
ivi dagli altri suoi ajutato la collocò semiviva, ed allontanossi
dalla riva quanto potè per essere sicuro di non cadere nelle un-
ghie dei birri, e raggiunto poscia il legno principale, ivi tras-
portata la sua fidanzata volse le prore a terra meno barbara, ove
fermò stanza colla sua diletta.
DENUNZIA DI POLIGAMIA.
Giorno 10 ottobre 1387.
Sponte personéliter comparuit coram adiD. rev. p vicario
Sancti OfBcii S. Laurentii existente iu propria mansione , in
meique, eie.
Cicero Filius quondam Yirgilii Nardi de Fabriano ; aetatis
annorum triginta; advena Romae; mercator: cui delato jura-
mento veritatis dicendae , quod praestitit tactis sacris litteris ,
exposuit ut infra.
1. Saranno dieci anni ch'io in Fabriano, in casa mia, feci
il parentado o siano sponsali tra Menelao figlio di Fedele
Santori mercante di panni e Giberta figlia di Castore Malgradi.
Furono presenti il padre dello sposo e due suoi fratelli, de'quali
non so il nome, e il padre della sposa con sua madre, per
nome Arnulfa Celiarli. Si fece la carta dotale con V obbligo di
cinquecento scudi di dote , e se ne rogò il notaro Ruggiero
Pelami, presenti due testimoni!, che si vedranno neiristrumento.
Ed avuta la fede dello stato libero dalla curia vescovile di
Camerino, sotto la quale è Fabriano, in tre giorni festivi si
fecero i proclami dal curato del Piano don Lucullo Arnaldi ,
della qual cura sono parocchiani ambedue gli sposi, e il giorno
Stima scmptiiàél/e caremM'iiìjaitmme i/iAncma.
di san Martino del 1377 furono sposati nella stessa chiesa»
alPaltare della Madonna. Testìmonii fnrono il capitano Filitmlo
.Chiesa di San Lorenzo in Roma.
Boccaferri ed io. Sono vissuti per sei anni in forma e Agora
di matrimonio, e ne sono nati due figli maschi» che non so
come si chiamino. Dopo il qual tempo Menelao si parti dalla
i[K)glie, e non s' è mai saputo ove fosse : ma tre giorni sono
ritrovandomi io per i miei interessi in Roma» incontrai il detto
Menelao, e dimandandogli del suo stato, mi disse che un tal uomo
<i^lta Rocca Contrada avendogli detto che sua moglie era morta
M* averla veduta seppellire con gli occhi proprii, ne aveva
pigliata un'altra per nome Doralice Talpina, di Mondolfo, dio-
^ di Sinigalia, e che da questo matrimonio aveva avuto un
figlio ed una figlia: e dicendogli io che in Fabriano era viva
^a moglie e vivi anco i figli, si pose a sospirare e poi disse:
' Quel eh' è fatto non si può disfare. > E perché questo é un
itrao delitto^ che intendo s'aspetti al Sant'UflScio, sono com-
pTso avanti di V. R. per iscaricare la mia coscienza.
TuiB. InpM. Voi. II. 84
— «56 -
2. lot. he cadremoDiìs faclis a parocho profato qudùdo con*^
lanxit ÌD matrimoDmm de prsBsenti Menelaam et Gibertam in
ecclesia de qua sopra?
Resp. Prima dimandò a Menelao se era contento di pigliare
per sua legittima sposa Git)erta, ed egli disse di si; poi disse a
Giberta s'era contenta di pigliare per suo legittimo sposo Mene-
lao, e lei rispose di si; allora Menelao pose nel dito solito di
Giberta Fanello» e dopo aver fatto il curato alcune cerimonie ,
gli diede la benedizione» e con esortarli a stàr in pace li mmdb
a casa, dove Menelao fece un bel pasto, e fai invitato aneer io»
e la sera sul tardi io e gli altri lasciammo la sposa in am di
Menelao e ce ne andammo.
3. Int. An Menelaas dixerit ipsi examinalo aliijpiid et dote
recepta a Doralice eius seconda oxor , et qmteiiQs flic» an faerit
fectum aliquod instromentem» et qoi notartos se rorafitf
Resp. Hi disse che aveva avuti seicenlo seod) di dote da
Doralice, ma non mi parlò nò d'istromento nò di notare.
4. Int. An dixerit aliquid de paroclio qui eum cnm Dora-
Hce conjunxit in matrimonium de praasenti, et 4e testibos qui
assisterunt eidem matrimonio, et quomodo feperìl habere fldeA
sui status liberi a curia episcopali senogafliensi?
Resp. Non mi disse Menelao ninna di queste cose.
5. Int. An odio, vel amore, et super inimicitia?
Resp. Recte.
Quibus habitis et acceptatis, dimissus fuit, juratus de silen —
tio; et perlecta ei sua depositione» se subscrìpsit:
Io Cicerone Nardi confermo quanto sopra di mano propria .
Ada sunt hSBC per me Curlium Signanum Sancii Offici! no —
tarium.
SUCCESSIVE.
ì. Adm. rev. p. vicarius misit per nuncium expressorTJ
supradictam depositionem ad reverendissimum patrem Inquism-
torem Anconae, ut dignaretur significare quid esset faciendotn
prò fabricatione processus et prosecutione causaB, et eodem d*c
idem patre inquisitor respondit se rogasse reverendissimum p:»-
trem inquisitorem Eagubli ut mandaret adm. r. patri vicario
S. Officii Fabriani extrahere jaridice a libro in quo notanl^^r
DalrimoDia qua io dies coatrahontur io parochia de Piano ejas^
ém terra Fabriani partìtam matrìmoDii contraeti inter Mene*
JaQm et Gibertam : et etìam scripsìsse adm. re?, patre yicario
& Qfficii SenògallieDsi ut se transferret ad locom Mondala et
a libro solito matrimoniomm in quo snpponitur reperiri nota-
timi matrimonioin inter Menelaum et Doralicem, someret for*
miler notnlam dictì matrìmonii, et estraheret inslromentom dotis
et fidem sui status liberi, monendo bine, et inde» ut mitterent
scripturas faciendas ad manus adm. rev. patre yicarii S. Offlcii
fioina^
Ita est: Curtius Signanus S. Officii notarìos.
iiiomo 20 ottobre 1387.
Comparerunt scrìpturae misssd a Rev. adm. vicario Sancii
OflBeii Fabriani, et incìpiunt, et desinunt ut infra, et fuerunt
repositas in actis et signatae littera majuscula A.
Ita est : Curtius Signanus Sancti Officii notarius.
Copia scripturarùm niissarum ab adm. r. p. vicario Sancti
Officii Fabriani est quae sequitur.
i
I Giorno, 25 ottone 1387.
1. Adm. r. p. vicarìus Sancti Officii Fabriani praecepit Me-
naDdro Barello mandatario ejusdem Sancti Officii ut adiret domum
f. d. Luculii Arnaldi parochi ecclesiae de Piane et ei diceret ut
sibi ptaceat slatim deferre ad Sanctum Offlcium librum in^ quo
^ctantur matrimonia quae in dies contrabuntur in dieta paro-
chia; et fine mora praefatus d. Lucullus sistens, coram eodem
^dm. r. patre vicario, in meique etc, et delato ei juramento dt
Meritate dicenda, quod pradstilis sacris litlerìs dixit:
Avendomi V. P. M. R. ordinato, per mezzo del suo man-
giano, cbMo portassi il libro nel quale si registrano i matri-
^onii cb'alla giornata si vanno facendo nella mia paroccbia,
ì^ho otibidito, &A eccolo qui ; sta sempre appresso di me, e lo
Conservo fedelmente.
Et de facto exbibuit mibi quemdam librum cooperlum
charta pergamena, allitudinis duorum digitorum et chartulatum
l^er lotum ; apparet paginarum 22S, et incipit prìmum matri-
tiMnium : adi primo gennaro 1328, et ultimum adi 12 ottobre
— MB —
1387, CQm insciiptione de foris: 1328. Uber matrìmonioram qoa
coDtrahuDtur de die in diem io parochia de Plano Fabriani.e
sub pagina 150, per me, etc. bene visus etiectus reperi tur ir
ter caetera notula matrìmonii contracti inter Gibertam Oliai
Gastoris Malgradi et Menelaum filium Fidelis Sanctorì ; qaai
etiam de mandato praBfati adm. rev. p. vicarii de verbo ad m
bum ex dicto libro fideliter extraxi et in actis descrìpu, fi
ut sequitur, videlicet:
Denunciationibus prasmissis tribus diebus Testi vis, quaroi
prima 28 ì)ctobri8» secnnda prima novembris et terlia seplin
ejnsdem monsis inter missarnm solemnia babitis, nulloque di
tecto impedimento, ego Lucullus Àrnaldus curalus ecclesisB (
Plano Fabriani, dioecesis Camerini, Menelaum filiuro Fidel
Sanctorì de Fabriano» et D. Gibertam filiam Gastoris Malgra
parìter de Fabriano, mutuo habito consensu, per verba de pra
senti matrimonio» praesentibus ibidem prò testibns domino t
pitaneo Filiberto Boccaferri let Gicerone Nardi, conjunxi.
Ita est: Arcadius Helitinus Sancii Officii Fabriani notarìu
SI PROVA LA SGPRAVIVENZA DELLA PRIMA M06UE
GON L'ESAME DI SÉ STESSA E DI DUE ALTRI.
Giorno 26 Ottobre 1387.
Examinala fuit per adm. rev. patrem vicariuro Sancii Ofii<
Fabriani existentem in sacrario sanctse Luciae ejusdem oppid
in meique, eie.
Giberla filia Gastoris Malgradi ; aelatìs annorum viginti qui
que, cui delato juramento verità tis dicendae, quod praesli
taclis sacris litteris, praeviis debitis admonitionibus, fuit per
1. Int. De nomine, cognomine, parentibus, patria, exercili
vel professione ipsius examinatae?
Resp. Io mi chiamo Giberla figlia di Gaslore Malgradi e
Amulfa Geliari da Fabriano ; Tela mia, anni venticinque ; il m
esercizio è d'attendere alla mia casa.
2. Int. An sit soluta, vel viro conjuncta, et quatenus eb
I
&
c^^'.A.
fot wmat» cogiMìfii, pveQlH^ pttriam. MilMi M «surtì-
tiQB luriii ipisK aamiuàtm^
Re^ Io OQQ so se sii oaribta o f^edoTi» panche lim wnl
sono mi oorìbi, e mio oarito dopo essser nasuto meco «k^uai
anni se oe andò Tia, e non ho sipQto più nooo detitU sik^
0 SQO nome è Mendao» figlio di Fedele Santoli e di Martinelli
Acanti n suo paese è Fabriano» d'anni Tentisette» e il suo ecwr»
ciiio era fare Ù mercante di panni.
3. InL De quo tempore, qua in ecclesia, coram quo parocho
et quibos testibns praesentibiis matrimonium contraxerit cum
dicto Menelao T
Resp. k> wì maritai dieci anni sono ; si fece lo spasaliido
il giorno proprio di s. Martino nella chiesa del Piano» alla pre-
senza di d. LqcqIIo Arnaldi carato, e testimooii furono il si-
gnor capitano Filiberto Boccaferri ed il signor Cicerone Nardi
4. InL Per quantum temporis spatium ipsa examinata et
dictos Henelaus àmul cohabitaverint in figura et forma matri*
monii?
Resp. Io, come ho detto, mi maritai dieci anni sono con
Menelao, e dopo aver seco abitato in figura e forma di matri-
inonio per lo spazio di sei anni, se ne parli e non so se sia
▼ivo 0 morto.
5. Int. Àn ex dicto Menelao fllios genuerit et quatenus eie,,
dicat eoram numerum et nomina ?
Resp. Da Menelao ho avuti due figli maschi ; V uno avrà
otto anni e si chiama Querino , e V altro sette per nome Fol-
letto.
6. Int. Ubi ad prassens reperiatur praafatus Menelaus ejus
inaritQs, et hoc an sciat, vei saltem dici audlerlt ?
« Resp. Io non so di certo ove al presente si trovi mio
inarìto Menelao ; si va però dicendo che sia In Slnigalin; altri
dicono che sia a servire nel Duomo di Spoleto; non so Iti qirnl
l^ogo, né come sia nata questa voce.
7. lot. De vicinis domui su» habitationis, et quatenus an
Quandoque se videant T
Resp. Di rimpetto alla mia casa abita il signor Fulvio
Gabiaui, ed alla destra della mia casa medesima ci sta rneHHar
Roseo Campanella , mio compare al battesimo , e ci vediamo
ogni giorno:
Quibus habitis et acceptatis, dimissa fuit, jurata de sllaritio;
tt perlecto ei suo examine, se snbseripsit:
lo Giberta H»lgradi confermo quanto sopra di mano propria
Àcta snnt bsBC per me Àrcadinm Metitinam Sancti Offidi
notarinm.
; EADEM Dlp IN VESPEOIS.
Examinatas prò inforitìatione Sancti Officii qoram Qt ab
supra, in meiqne etc
D. Fiilvius Gabbianns, aBtatis annomm trig^nta, coi delafa
juramentoveritatis dicendse, quod pra^Utit tactis sacris lit<
teris, fuit par D:
1. Int. An cognoverit et cognoscat Gibertam ftHam Castori!
Halgradi et Àmulpbae Cellari, et uiorem Menelai Sanctori T
Resp. Io conosco molto bene Giberta figlia di Castore Mal
gradi e di Arnnlfa Cellari, e moglie di Menelao Santorì,
% Int. An praBfata Giberta vivat et hnmanis vitam dacat'
Resp. Padre si, che detta Giberta di presente vive al mondo
3. Int. De causa scientiaB.
^ Resp. Io lo sa perchè questa mattina ho parlato seco, pei
vedere se in casa sua fossero andate alcune mie galline.
4. Int. An in bis partibus reperìatur aliqua alia mulìei
hoc nomine et cognomino vocata atque bis parentibus nata e
quatenus etc.
Resp. Padre no, chMn queste parti non si trova alcun'al
tra donna che si chiami con tal nome e cognome e nata d
questi genitori; e lo so benissimo, per avere io intiera noti»
della persona e parentado d'essa Giberta.
Quibus babitis et acceptatis, dimissus fuit, juratus d
silentio; et perlecto ei suo examine, se subscripsit:
Io Fulvio Gabbiani confermo quanto sopra di mano propris
Acta sunt baec per me Arcadium Melitinum Sancti Offi&
notarium.
SUCCESSIVE.
Examinatus fuit prò informationé Sancti Officii et ubi supra
in meique etc.
Roseus Campanella, setatis annorom quinquaginta, cui delat«
— ri —
I ¥Britalì8 dicedda» quod prastitit bcfis sifcris KUerìs,
Mtper D.
1. InL Ao oognoscat et oognoierìt Giberbin flliam Oistorìs
Halgradi et Arnnlpbs Cellari, et uioreoi Menebi Siiictori t
Resp. Io G0D06G0 molto brae Giberta flgiit di Castore Mal-
gradi e di Arnolfa Cellari, e moglie di Menelao Santori, ed fai
M qnello che ia tenoi al battemmo.
2. lot ÀQ praefata Giberta ^?at et in bamanis vitaiA
dncatT
Resp. Padre si , che Giberta di presente vive e sta con
buona sainte.
3. lot. De caHsa scienti» ?
Resp. Lo so perchò adesso P ho ?ednta sedere sopra la
porta di sna casa e mi ha dato il bnon giorno.
4. Int An his in partibns reperiatar aliqna alia mulicr
hoc nomine et cognomine vocata atqoe ex his parenlibus
nata?
Resp. Padre no , che in queste parti non si trova altra
donna che si chiami col medesimo nome e cognome e nata di
questi genitori ; e lo so benissimo per la notizia che sempre ho
avolo della persona e parentado d'essa Giberta.
Quibos habitis et acceptalis> dimissus fuit , juratus de s^
lentie; et perlecto ei sao examine, se snbscripsit :
b Roseo Campanella confermo quanto sopra di mano
propria.
Acta snnt hsec per me Arcadium Militinom Sancii Ofllcil
Dòtarium, etc.
INCONTINENTI.
Vocatus personaliter, comparaìt coram et ubi suprn, in mci-
9Ue, etc.
D. Rngerins Polamos notarins curia laicalis , cui dolalo
ì^ramento yeritatis dicendSB, quod praBstititltactis sacris llttoris,
tait per D.
1. Int. An cognoscat Tel unquam cognorerlt Menebum
^netori et Gibertam Malgradi, et qaatenos de causa sdenti.'n?
Resp. Menelao Santori e Giberta Malgradi sono marito e
doglie, sebbene quel disgraziato ha abbandonato questa poT^ra
— 171 —
giovine, e Dio sa dove si trova; e ao ehe sono marito e iBOfjlie,
perchè io feci riatromeoto della dote e mi troni praseate allo
sposalizio, che fti litfo nella chiesa del Piano, saranno' diaci
anni, il giorno A a. Martino.
2. Et èi dictò ift dxhibeat copiam dicti ^nstramenti dotalis
si forte habet apnd se. '
Resp. Essendomi stato insinuato qai dal signor notaio dal
SanrUfficio, che V. P. M. R. desiderava copia di qaesf latra-
mento, io senza dilazione l'ho fotta, ed eccola qui: ed il signor
notaio m'ha potato comunicar quésto per èssere io procuratore
dei poveri rei di questo santo tribunale.
Et de facto exhibuit quoddàm fòlium eiaratum in duabus
paginis cum dimidia^ et incipit: In nomine Domini. Àmen. Gum
essent in domo domini Giceronis Nardi, etc. Finit vero. Et ita
convenerunt et conveniunt, etc.
Quod folium fuit per me, etc, receptum et repositum in
actis et signatum littera maiuscola B.
Quibus habitis et acceptatis, dimissus fuit, juratus de si—
lentio; et perlecta ei sua depositione, se supscriptis :
Io Ruggero Palmi confermo quanto sopra di mano propria _
Acta sunt haBC per me Arcadium Melitinum Sancti Offici ^
notarium.
Giorno 20 novembre 1387.
Pervenerunt ad manus adm. r. patris vicarii Auximi seri —
pturse missse ab adm. rev. patre magìstro vicario Sancti Oific^^i
SenogalJidB, quae incipiunt et desinunt ut infra, et fuerunt r^ -
ceptae in actis et signatas littera maiuscola G.
Ita est: Curtius Signanus Sancti Officii Amimi notarius, eie
Giorno 24 novetnbre 1887.
Adm. rev. patre vicarius Sancti Officii Senogalli», ex com-
missione reverendissimi patris inqnisitoris Anconae ut patet, ex
litteris, etc. , una mecum accessit Mondnlphum, et degens in
conventu Sancti Augustini in cella sibi assignata, coram ipso in
meique, etc.
Vocatus personali ter comparai l rev. d. Anastasius Marrìnas,
cui delato juramento veritatis dicendae , quod praostitit tactis
sacris litteris, fuit per D.
-275 —
i. IqL De eJQS esercì tio.
Resp. Io sono Tdoìco carato di qoesta terra» ma sotto di
me ho diversi cappellani che m'ajotano, e il mio esercizio è
Itttlenare, confessare e comunicare, fare i matrimonii e le altre
cose solite ai parrochì.
2. Int. De nomine parochialis ecclesiae.
Resp. La mia chiesa parrocchiale si chiama la Parrocchia
Gommie.
ì. InL Ad apnd se habeat librum in quo natantur matri-
monia qua conti^huntnr de die in diem ?
Resp. Presso di me non ho altro libro de' matrimonii , se
DOQ da an anno in qna, perchè per gli anni addietro» che sa-
rumo settanta, erano registrati tutti i matrimonii in un altro
libro ; ma per cattiva disgrazia , tredici mesi sono , essendosi
attaccato il fooco nella mia casa , s' abbruciò la stanza dove
dormivo e tutti gli eflètli e libri che si trovavano in essa; e
fra questi si consumò anche il libro dove si notavano i matri-
mooii che di volta in volta si facevano ; e adesso si notano in
QD libro che si comprò allora e si conserva fedelmente presso
di me.
Tnnc adm. rev. pater vicarius , ne fisci intentio oh defe-
ctom probationum destruatur , decrevit examinare parochum
coram S. Patemitate adm. rev. stantem et testes ab eodem ad-
dncendos; testes» inquam, qui fuerunt prsBsentes quando prse-
fatom matrimonium Inter dictos Menelaum et Doralicem fuit
coQtractum, et ita ad finem supradictum, absque temporis in-
terrano» sub eodem juramento» fuit per D.
4. Int. An cognoscat Menelaum Sanctorum et Doralicem
Talpinam» et quatenus» etc.
Resp. Io conosco molto bene Menelao Santori e Doralice
Talpina» e sai^nno, circa tre anni» quando venni ad abitare in
Qoesta terra.
5. An sciat inter dictum Menelaum Sanctorum et Doralicem
Talpinam contractum faiisse matrimonium per verba de prse-
Knti, et quatenus, etc; dicat ubi, quando coram quo parocho»
Viibus testibus praesentibus.
Resp. Io so molto bene che tra Menelao Santori e Dora-
Bce Talpina fu contratto matrimonio per le parole di presente»
e fa contratto nella mia chiesa della Parrocchia Comune » tre .
uni sono, il giorno di san Michele, e fu alla mia presenza e
Tamb. /iiqfyù.Vol.11. S5
- 274 —
di due teslimonii , cioè del signor Tarquinio Bellocchio e de
signor Questore Campi.
6. Int. De modo quo foit contractum dictum matrimonian
inler Menelaum et Doralicem?
Resp. Questi due signori fecero gli sponsali ed aggiostaront
la carta dolale con promissione di seicento scudi di dote, e s<
ne rogò un tal notaio che si chiama Mercurio Campanelli, comi
mi dissero i medesimi testimonii. Dopo alcuni giorni mi pre
sento la fede del suo stato, libero fatta da monsignor vicarii
generale di Sinigalia con una lettera a me, che facessi i solit
proclami e, non scoprendosi dopo essi alcun impedimento , 1
dovessi congiungere in matrimonio per verba de prcesetUi; <
tanto eseguii , come ho detto , tre anni sono nel mese di set
tembre nelFaltar maggiore della mia chiesa; cioè feci i proclam
in tre giorni festivi, e poi il giorno di san Michele li sposai
avuto Tespresso consenso delF uno e dell'altro di pigliarsi pei
marito e moglie.
7. Int. De patria et exercitio dicti Menelai, einsque uxoris
Resp. Menelao dice esser da Fabriano; ed il suo esercizio <
fare il mercante di panni, e la moglie tende alla sua casa.
8. Int. Quomodd probaverit et habuerit fldem sui statu
liberi Menelaus prsefatus?
Resp. Io non saprei dire in qual maniera Menelao abbi:
provato ed avuta la fede del suo stato libero.
9. Int. Ubi modo reperiatur fldes status liberi Menelai e
epistola sibi examinato scripta a d. vicario generali Senogalia
prò contrahendo matrimonio.
Resp. Io n^n saprei dire dove si trova la fede dello stat
libero" di Menelao; me la mostrò e poi se la portò via; dop<
fatto il matrimonio stracciai la lettera del signor vicario gene
rale di Sinigalia.
10. Int. An Menelao Doralices genuerit filios?
Resp. Doralice ha avuto da Menelao un figlio ed una figli;
0 li ho battezzati ambedue io; il maschio si chiama Ballarino
i^ la femmina Filabella; il primo avrà due anni circa , e la se
eonda pochi mesi.
il. Int. A quo tempore Menelaus reperiatur in hoc locc
Resp. Non lo saprei dire: io so che tre anni or sono
binando venni, lo trovai qui.
Quibus habitis et acceptatis, dìmissus fuit, juratus de si
♦entio; et perlecto ei suo examine^, se subscripsit:
- 175 -
Io Anastasio Marrini confermo quanto sopra di mano
propria.
«Àcta sunt hsec per me Àrcadiom Melìtinum Sancii Officii
nolarinm.
ESAME DEL PRIMO TESTIMONIÒ
PER PROVARE IL SECONDO MATRIMONIO.
Stesso giorno prima del vespero.
Examinatus fuit prò informatione Sancii Officii coram et
obi supra, in meique, eie.
Tarquinius Beiloculus , annorum 38, cui delalo juramento
veritatis diceodae, quod prsestilit taclis sacris iilteris, fuit
per D.
1. Int. An sciai, vel imaginetur causam suae vocalionis el
praosentis examinis?
Resp. Padre no, clie non so né m'immagino la causa per
la quale V. S. mi voglia esaminare.
2. Int. An cognoscat Menelaum Sanclorum et Doralicem
Talpinam, et qualenus quo tempore cifra ?
Resp. Io conosco Menelao Santori da Fabriano, mercante di
paoni, da tre anni in qua circa che venne a stare in questa
terra; e Doralice Tbo conosciuta dopo ch'è nata, essendo am-
bedue noi di questa patria.
3. Int. An sciai Inter dictos Menelaum et Doralicem con-
tractum fuisse malrimonium per verba de praesenti, et quale*
nos, etc. Dicat ubi, quando, coram quo parocho quomodo, et
quibos testibus praBsentibus T
Resp. Io so mollo bene che tra Menelao e Doralice fu con-
tratto il matrimonio nella chiesa della parecchia della la Go-
^ooe, tre anni circa, alla presenza di d. Anastasio Marrini, che
^eooe curato in quel tempo, e fui testimonio io ed il signor
Questore Campi; e fummo presenti, e vedmemo e sentimmo
(be il signor curato dopo aver celebrata la santa messa dimandò
^ Menelao Santori se si contentava di pigliare per sua legittima
sposa Doralice Talpina, ed egli disse di si; e poi si voltò a Do-
^^ Talpina e le chiese se si contentava di pigliare per suo
l^ttìmo sposo Menelao Santori, e ancor lei rispose di si; e ciò
— f 76 —
detto Menelao pose Fanello nel dito di Doralicè, e dopo a?er ii
curato dette alcune orazioni li licenziò con esortarli a stare
pace.
Qaibus habitis et acceptatis, dimissas foit, juratns de silen —
tio ; et perlecto ei suo examine, se subscripsit:
Io Tarquinio Bellochio confermo quanto sopra di mano^
propria.
Àcta sunt haec per me Arcadium Melitinum Sancti Officu
notarium.
ESAME DEL SECONDO TESTIMONIO
PER PROVARE IL SECONDO MATRIMONIO.
INCONTINENTI,
Examinatus foit prò informalione Sancti Officii coram et nte
supra in meique, etc.
D. Qaaestor de Caropis, annorum 80, cui delato jurament^
veritatis dicendaB, quod pradstitit taclis sacris litterls, fuit per
1. Int. An sciat, vel imaginetur causam snae vocationis i
praBsentis examinisY
Resp. lo non so afifotto niente.
2. Int. An cognoscat Menelaum Sanctorum e Doralicem Ta
plnam, et quatenus, a. quo tempore et quo loco?
Resp. Io conosco Doralice per tutto il tempo di sua vit
perchè lei ed io siamo nati ed allevati in questa terra e siairrp
anche vicini: Menelao è forastiere e vende panni di lana; e sa:^
quaich'anno che si trova qui, non so se tre o quattro.
3. Int. An scìat Inter dictos Menelaum et Doralicem cok:3
tractum fuisse matrimonium per verba de praesenti, et quat^^
nus, etc. Dicat ubi, quando, coram quo parocho, quomodo ^
quibus testibus praesentibus?
Kes. Io so molto bene che tra Menelao e Doralice sudde**^
è stato contratto in matrimonio, per verba de prceserUi; e f^
contratto nella chiesa della Parrocchia Comune airallar maggiore,
stimo che siano tre anni in circa, alla presenza di d. Anastasia
Marrini parroco di detta chiesa; e fossimo teslimonii il signor
Tarquinio Bellochio ed io, e vedessimo ed udissimo tutto quella'
— «7 -
«be fece 6 disse il signor pairrooo ai detti sposi, e che si suol
fare e dire in tatti gli sposalizi; il signor curato dimandò a Me-
odao Santorì s'era contento di pigliare per soa legittima sposa
Doralìce, e Ini rispose: Signor si; e poi interrogò Doraiice Tal-
pina se si contentala di pigliare per soo legittimo sposo Mene-
lao, ed ella disse di si: ed allora Menelao pose nel dito di
Doraiice Fanello solito, e dopo aver il curato recitate alcune
oraùoni, che non intesi, li Ucenxiò dicendo: Andate e state in
fMice.
Qoibas habitis et acceptatis, dimissos fnit jnratns de silen-
fio, et perlecto ei suo examine, se snbscripsit :
Io Questore Campi confermo quanto sopra di mano pro-
pria.
Acta sunt haec per me Arcadium Melitinum Sancii Officli
notarium.
Stesso giorno di sera.
1. Ad modum r. p. vie. una mecum accessit ad illustr. r. d.
Aotistitem Senogallise et nomine r. p. inquisitoris rogavit suam
domioationem illustrissimam ut dignaretur mandare cancel-
Mo curisB episcopalis ut daret et consignaret in Sancto Officio
<^piam examinum seculorum in eadem curia prò probando statu
'ibero dicti Menelai Sanctori; et illustrissimus benigne annuii.
Ita est: Arcadius Mililinus Sancii Officìi notarius.
6tomo 25 novembre 1387.
Coram et ubi supra ip meìque.
Personaliter comparuit d. Alidorus de Fioribus cancellarius
^^lisB episcopalis SenogalliaB; et delato et juramento veritatis
^cendsB, quod pr^eslilit tactis sacris lllleris, exposuil ut infra:
1. Monsignor illustr. vescovo, mio signore, m'ha comandato
^Ue io consegni giurìdicamente a V. P. H. R. la copia delfesame
f^tto per provare lo stato libero di Menelao Santorì, ed è que-
^ che ora presento.
JBt de facto exbibuit quoddam folinm exaratum duabus pa-
Kuiis mtegris; et incipit. In Dei nomine, Amen. Die 26 mail 1384.
^tù statu libero Menelai filli Fidelis Sanctori eie. Finii vero :
cbe se fosse contrario al certo lo saprei. Quod folium full re-
ceptnm in actis et signatum liltera maiuscnla D.
— 278 —
Quibus habìtis et acceptatis dimissus fDit, juratus de sì-
lentio, et se subscripsit:
Io Alidoro Fiorì ho presentato giarìdicamente la suddetta
copia d'esami.
f Ita. est: Àrcadios Helitinas Sancti Offici! Dotarìos.
r Raccolte le prove a suo modo il Santo Ufficio, la cui di-
mora era a quelPepoca doo molto lungi dal luogo ove ora sorge
la casa Cenci nota per il clamoroso processo fatto alla famiglia
per la morte di Francesco Cenci, la cui vita fu un continuo
misfare, e dei quale le ricchezze furono ingojate dalla voracità
fiscale, Menelao Santorì come bigamo fu condannato innanzi
tutto a passare fra le catacombe di Roma quaranta giorni ài
rigoroso digiuno, ed in religiosi esercizi!, indi purificato, in
giorno solenne con pesante croce sulle spalle fu obbligato a
salire ire volte in ginocchio, dì quando in quando percosso da
colpi di flagello, la scala santa. La medesima è formata, secondo
la tradizione, dai ventotlo scalini della casa di Pilato e discesa
da G. C. nel tempo della sua passione. Alla sommità della
scala si venera una immagine custodita da una fitta inferriata.
La parte superiore di questo edificio è una cappella che s'apre
di rado e non è quasi accessibile che al jpapa, ai cardinali ed
al clero.
Dopo eseguite le due penitenze fu condannato il suddetto
Menelao alla prigionia per tutta la vita. In tal modo si puniva
dairinquisizione un delitto dalla civile legislazione colpita
da carcere per ragioni di economia sociale, ma non perchè sia
tale considerata la società entro meno angusti confini.
SESTA DENUNZIA DEL FURTO D'UNA PISSIDE
DOV'ERANO I COMUNICHINI CONSACRATI.
Giorno l novembre 1388.
Sponte personaliter comparuit coram adm. r. patre vicario
Sancti Offici! Bononiae existente in propria mansione, in mei-
que, etc.
Scala Santa.
^
Scala Santa.
"K;
- 2» -
R. d. Boiaìas fiiins <pndìai Luiri Itosdfi fV ùl$llv^xv'^
Mtru dionesU Otteoàs: ^ptitìs umoraoi tiwil>i|iiìiV4|w; $k>n^
te saecohris: cappdhniis ecdes» [aiwliulìs W^Mhum. ^
ddato jumneolo wriuiìs dioeDd^. quod prx^Ut Molì$ ;?;Mfì$
lìtterìs, exposoit ot infra :
1. SoD qui totlD afflitto per lappreseot»!^ a \\ Ps M. R.
QD caso molto oitcd^ accaduto la notte pa^^ti. non ^> ;ii
che ora. nelh chiesa {nroocliiale de^Xobilì^ della quale io ^h)
cappellano.
Ieri mattina dissi la santa messa allaltar nia^i^ore o Cimì-
sacrai duecento particole, numerandole aTanli. per S9)>ere $^
lossero stale sofficienti per i nostri parrocechiani* I)o)h> U mia
comanione aprii con la chiavetta, che avevo portata dalla .^(tn^^
stia, il tabernacolo e tirai fuori la pisside, e, consumati alcuni
frammenti, vi posi tutti li comunichini consecrati allora: couìu-^
oicai quattro persone, che vollero anticipare la solennilik di lutti
i Santi, restando nella pisside centonovantasei particole, o f^tla
da essi la comunione, chiusi la pisside in cui nvovn rliHV'^lo i
comunichini, la pósi dentro il tabernacolo, che scrrnl l>one,
e, posta la chiavetta fuora il calice, fluii la mossa o con osso
me ne ritornai in sagrestia, dove spogliato degli abili sncor-
(iolaii e fallo i solili ringraziamenti, riposi la chinvclla dentro
l'armadio solito, e ben serralo con la sua chiave, chn rlpoM
poi in saccoccia, attesi ai servizi della chiesa. Quosl» tnallinn
su le dodici ore è venuto da me piangendo il (^ninpaunro por
Dome Carlino Belauri , il quale mi ha raccontalo elio , dopo
^vere suonata TAve Maria solila, essendo andato per viKllnro la
lampada del Santissimo con una candela in mano , ha mmV'
vaio fuora la predella delP altare di qua e di \h molto pHrli-
cole; alzali gli occhi verso il tabernacolo, V ha vodulo Mumi
I'qscìoIo solilo e senza la pisside, e subito /3 venuto a darinnno
parie, per essere infermo il signor curalo. Ed io, voHliloml in
fretta, sono andato seco in chiesa, ed ho veduti KpnrHi i c^ìtm-
bichini, come per sprezzo, in diverse parli di;tla |>n;dcila, i)
trovato il tabernacolo aperto, e Tosciolo d'esso hu Tallare mmn
folto: visitata poi la chiesa, ho trovate serrale tutti; ìh \f(}rUr,
t^a alla destra deiraitare di san Gregorio ho mf\mrUf un bum,
per il quale può passare comodamente un nomo, «f f\uft^U} bum
Per la pratica che ho della chiesa, prima sicfiramenti; non c'era.
£ perchè questo è caso sacrìlegrr del S. Officio, mm v^nnt^i ^
dargliene parte per debito mio e r^r intendere qfji;ll/i chn fA
da da bre.
ostioli quaB deest» sed solum corporale ordinariam eitensaro
in tabemaculo. Quibus peractis idem d.» UDa mecnm et teslibus,
quibus sopra, se transtaiit ad altare saDcti Gregorìi» et a parte
dextera eiasdem altaris inventam fuit quoddam foramen flgarae
circularis, corrìspondeos ex altera parte in via publica, qax
vulgo dicitur la strada larga, latum per diametrum spatio noins
ulnaB et duarum unciaron) ad mensuram bracbii mararii. Et
cum non invenialur fractura alicuius lapidis, tale foramen ap-
paret fuisse factum aliquo instrumento perforante, movente sci-
licet unum laterem post alterum. Et ita haec omnia vide, obser- •
vavi et adnotavi, etc.
Curtius Signanus Sanctì Offici notarìus.
ESAME DEL PRIMO TESTIMONIO
PER PROVARE IL VEDUTO ED IL TROVATO.
Gorum adm. rev. patre vicario pra3falu existeote in sacrario
dictSB ecclesiae in meique, etc.
Vocatus personaliter comparuit Hortensius Perolius deCa-
^nerino; annorum quadraginta, faber lignarius; testis assumptaSi
cui delato juramento vèritatis dicendae , quod prsestitìt tactis
sacris litteris, ad opportunam d. interrogai.
Resp. V. P. questa mattina ha fatto chiamar Francooio
Gallina e me, e che ha detto che venissimo in compagnia sua
e del signor notaro che ora qui scrive, ed abbiamo ubbidito;
e lei ci ha condotti alla chiesa de' Nobili, dicendo ad ambedue,
osservassimo tutto quello che veduto avessimo ; ed arrivali al-
Tallar maggiore, ho visto fuora la predella del medesimo altare
di qua e di là sparsi molti comunichini, che le persone dice-
vano essere consacrati ; e V. R. dopo aver finita un poco d'ora-
zione, ha fatto venir il cappellano e gli ha ordinato che si
vesta di cotta e stola , e pigli un calice e con ogni rivereoi&a
raccolga tutte quelle sante particole e le metta dentro, nume-
randole una per una, e le riponga in qualche luogo onorevole,
come ha eseguito; collocando il calice con dette particole io
un tabernacolino posto sulfallaredi san Rasilio; e le particole
contate erano centònovanta, mancandone sei, secondo che atte-
stava il cappellano. Dopo V. R. s*è levato in piedi, e salita la
predella s'è accostato all'orlo dell'altare ed ha accennato al si*
— »5-
m notaro ed a noi dae che ci aTricinassimo» come abbiamo
no; ed io ho veduto il (aberaacolo aperto senza il solito
(dolo , ed alla parte sinistra dell'altare ho veduto r usciolo,
le mostrava esser quello che chiudeva il tabernacolo» e preso
mano da lei e da me ed accommodatolo all'apertura del ta-
macolo, s'è trovato che conveniva ; ma dalla banda destra ci
incava il legno di tre dita per lungo, ed è quella parte che
ediante le due feminelle riceve i polì, ossia gangaretti; e la
Ddinuzione per quanto appare è fatta con istrumento tagliente;
dalla banda sinistra si vede la sua serratura senz'alcuna le-
}Qe ; la quale confrontata da V. R. con la chiavetta solita ,
ibita dal cappellano, conviene ed apre assai bene. V. R. poi
I guardato diligentemente dentro il tabernacolo, e per ordine
IO dopo abbiamo guardato bene ancor noi , e non s' è
ofata pisside di sorte alcuna, ma solo un corporale piccolo
steso dentro il medesimo tabernacola sopra il qua! corporale
i?ea star la pisside : fatto questo, bar condotto seco il signor
>taro e noi due testimonii air altare di san Gregorio , ed ha
duto alla destra del medesimo altare nella muraglia maestra
Ila chiesa un buco grande, tondo ; misurato da mastro Fran-
DIO muratore alla presenza nostra , s' è trovato che per dia-
stro è largo un braccio e due oncie e corrisponde questo
co nella via pubblica che si chiama la strada larga ; e per-
ò si vedono i mattoni levati uno dopo Faltro senza rottura,
giudico che sia stato fatto il buco con qualche istromento
oètrante, col quale si sia prima scalcinato il muro e poi le-
ti i mattoni uno dopo l'altro.
Quibus habitis et acceptatis, dimissus fuit, juratus de si-
atto , et cum , prò ut dixit , nesciret scribere, fecit sìgnum
QCis.
Signum crucis f Horteosii Perolii.
Acta snnt tìaac per me Gurtium Signanum Sancii Offlcii
otarium.
ESAME DEL SECONDO TESTIMONIO.
I. Vocatus personaliter comparuit Franconius Gallina, alter
8li8 assumptus ; annorum quinquaginta ; faber murarius ; cui
liato juramento veritatis dicendo, quod pi-a^titit tactis sacrìs
ima, ad opportunam d. interrogationem ?
— «Sfi-
la comuDione in compagnia di Dolabella mia figlia, del campa-
Darò della stessa chiesa» di coi non so il nome, e del sagrestano^
della Rotonds^ che nemmeno so come si chiami.
4. Int A quo d. Polimins habait commnnichinos exhibitosB
sibi et aliis persoois a se nominatis ?
Resp. D. Polimio nell'andar a celebrare la detta messa, dalla:
sagrestia portò sopra il calice una scatola piena di comunichini,.
quali riversò sopra il corporale disteso sopra la pietra sagrata^
e a suo tempo li consacrò insieme colPostia ; e dopo essersi-
comunicato lui, prese dal tabernacolo la pisside e dentro posai
tutti i comunichini, e poi ci comunicò : e comunicati che A
ebbe, collocò la pisside di nuovo dentro il tabernacolo e serròi
l'usciolo e pose la chiavetta su l'altare; finita la messa, mise lai
chiavetta sopra il calice e se ne ritornò col calice stesso ìh sa-
grestia.
5. Int. Quomodo ipsa examinata sciat d. Polimium posoisse!
pyxidem intra tabernaculum,et.clausisseclavicula, eteam por-
tasse supra calicem in sacrarium ?
Resp. Io so tutte queste cose delle quali mi dimanda, per-
chè le vidi con gli occhi miei; anzi facendo la chiavetta un
poco di stridore nel serrare» tutti la poterono non solo vedere,
ma anco sentire.
Quibus habitis et acceptatis, dhnissa fuit, jurata de silentio^
et perlecto ei suo examine, se subscripsit:
Io Viola Mari confermo quanto sopra di mano propria.
Acta sunt haec per me Curtium Signanum Sancti Offici!
notarium.
ESAME DEL SECONDO TESTIMONIO.
Vocatus personaliter comparuit coram adm. rev. patre
vicario Sancti Officii existente in propria mansione, in mei^
que, etc.
Carlinus filius quondam Orlandi Belauri de Tridento, an-
norum quadraginta duorum; pulsator campanarum ecclesia
parochialis Nobilium , cui delato juramento veritatis dicendo ,
quod praestitit tactis sacris litteris, fuit per D.
I. Int. An sciat vel imaginetur causam suad vocationis et
prsBsentis examhiis?
— i87 —
Resp. Io m'imagino che v. rev. mi voglia esaminare circa
il forto della sacra pisside fatto Dell'aitar maggiore della chiesa
de'Nobili.
' 2« iDt Et ei dicto ut referat quid sibi occorri t circa prae*
fatnm fartum?
Resp. Essendo ammalato il signor curato, la sera dopo TAve
Maria de'morti porto le chiavi della phiesa al signor cappellano
per nome d. Polìmio Roselli» e poi la mattina su l'aurora le vado
a pigliare; e suonata TÀve Maria, visito la lampada del Santis-
sìmo e raccendo e raggiusto secondo il bisogno. La mattina dei
Santi mi levai più a buon' ora del solito e » suonata che ebbi
TAve Maria, mi portai a dirittura all'aitar maggiore con una can-
dela io mano, e trovai la lampada che ardeva ancora: e dato
un'occhiata nella predella del medesimo altare, sopra d'essa vidi
xjfì^ mano di comunichini sparsi di qua e di là, e restai atto-
idto, non sapendo che pensare ; alzati poi gli occhi verso il ta-
bernacolo, vidi ch'era aperto e senza il solito usciolo ; e osser-
vando bene, trovai detto usciolo alla sinistra dell'altare; e poi
alzata la candela verso il tabernacolo, m'avvidi che ci mancava
la sacra pisside piena di comunichini, che la mattina antecedente
il signor cappellano aveva consacrati e posti nella pisside, che
poi mise dentro il tabernacolo e lo serrò con la 'solita chiavetta;
la quale, finita la messa clie io servii, portò in sagrestia sopra
il calice e la collocò nell' armadio solito sotto un' altra chiave.
Io, vedendo questo spettacolo, ritornai subito a darne parte al
signore' cappellano, il quale levatosi in un tratto di letto, e
andati insieme nella medesima chiesa, trovammo quel che ho
detto di sopra. Visitate le porte, erano ben chiuse , e girando
la chiesa osservammo alla destra, dell' altare di san Gregorio
Della muraglia principale un buco fatto a tondo tanto largo
che comodamente ci poteva passare un uomo ; e corrispon-
deva il buco alla strada larga, e credo che. per qui passassero
i ladri.
3. Int. An illud foramen antea esset , et quomodo hoc
sciai?
Resp. Quel buco non c'era, e lo so per la pratica ch'io ho
biella chiesa da due anni in qua. ,
4. Et ei dicto ut describat pyxidem ablatam , et si ante-
qoam ponerentur particulae consecrataa ut sopra praeesistebant
^^ comunkhm?
Resp. La pisside rubata sarà stata capace di duecento
comuDicbini ; tutta d'argento e dalla parte di dentro indoratai ;
larga poco pib o meno di quattro dita , alta otto dita in ciroa
ed era vestita d'un panno bianco ricamato di rose rosse, e in
cima del coperchio si vedeva una crocetta pare d' argento.
Avanti ci era qualche particola o frammenti; ma d. Polimio li
consumò avanti di metterci le particole consacrate.
8. Int. Àn in sere antecedenti foerit visitata dieta ecclesia,
antequàm clauderentur ianuae , et quatenus etc^ a quo , vel a
quibus ?
Resp. La sera antecedente ; che fu sabbato , dopo r A^e
Maria, la chiesa de' Nobili suddetti fu visitata diligentemente
da me e da d. Polimio ; e non trovando alcuno , serrammo
ambedue le porte e uscimmo per la porta piccola, quale pari-
mente serrammo, e ieri mattina nella visita la trovammo pur
serrata.
6. Int. Quomodo sciat d. Polimium in mane sabbati posuisse
pyxidem plenam particulìs consecratis intra tabemaculum , et
clausisse ostìolum clavicula et eam portasse in sacrarium , et
quomodo colloca verit sub alia clave?
Resp. Io lo so perchè sabbato mattina il signor d. Polimio
mi fece preparare duecento comunichiai e li portò dentro una
scatola sopra il calice air altare maggiore quando ci andò per
celebrare la santa messa, e li vuotò tutti sopra il corporale cbe
avea disteso su la pietra sacrata , e a suo tempo li consacrò
insieme con Tostia cbe stava sopra i comunichini; e fatta cbe
lui ebbe la comunione , pose tutti li comunichini entro la
pisside e comunicò la signora Viola Mari e Dolabella sua
figliuola , il sagrestano della Rotonda e me ; e dopo con gli
occhi miei vidi che chiuse la pisside con il suo coperchio
e la pose con la mano destra dentro il tabernacolo, e poi vidi
che con Tistessa mano serrò l'usciolo con la solita chiavetta ^
la pose sopra V altare 9, 'finita la messa, la portò in sagresti»
sul calice e la chiuse con un' altra chiave , come ho detto di
sopra.
7. Int. Quomodo sciat modo a se narrata ?
Resp. lo le so perchè le vedevo, e non potevo a meno di
non vedere queste cose, perchè servivo la messa e stavo attento
a tutto.
8. Int. An ,' facta communione a se tribusque aliis , et
reclusa sacra pyxide in tabernaculo, sciat vel dici audierit idem
tabemaculum fuisse amplins apertum propria clavicula ?
— i89 -
Resp. Io non so né ho inteso dire che, dopo la messa dì
d. Polinio e dopo la nostra comunione, alcuno abbia aperto il
tabernacolo con la sua propria chiavetta ; e ninno lo può sape-
re meglio, di d. Polimìo , che lo serrò e portò via la chiave ,
come ho detto di sopra.
9. Int. An sciat, vel dici audieril, vel suspicalus fuerit quis
potoerit fnrari dictam sacram pyxidem ?
Resp. Io non so, né ho inteso dire, né ho sospettato chi
abbia potuto fare questo furto della sacra pisside.
Quibus habilis et acceptatis, dimissus fuit, juralusde silen-
tio; et perlecto ei suo eiamine, curo, prò ut-dixit, nesciret
SGrìbere, fecit signum crucis.
Signum crucis f Carlini Bellauri.
Acta sunt haec per me Curlium Signanum Sancti Officii
Dotarium.
ESAME DEL TERZO TESTIMONIO.
SUCCESSIVE,
Vocatus personaliter comparuit coram et ubi supra, in
meique, etc.
Capreolus fllius quondam Ansaldi Bellini de Lucerna , aetatis
honorum viginli septem, sacrista ecclesiae vulgo della Rotonda;
1. Int. De ultima communione ipsius examinali?
Resp. Io feci la mia ultima comunione sabbaio prossimo
passato, che fu vigilia di tutti i Santi.
2. Int. De ecclesia et de altari in quibus fecit suam com-
munionem, de sacerdote qui porrexit particulam, et an solus
vel associatus se comunicaveril?
Resp. lo mi comunicai nella chiesa de'Nobili, all'aitar mag-
giore, dal signor d. Polimio cappellano, e in mia compagnia si
comunicarono la moglie e flglia del signor Mari e il campanari»
di detta chiesa, trentino, de'quali non so i nomi.
3. Int. Qua bora se communicaverit et ubi d. Polimius
sumpserit particulas ad se et ad alios comunlcandps?
Resp. Quando ci comunicammo saranno slate sedici ore
Tamb. Inquis. Voi. II. 37
— S90-
cìrca, e d. Polimio per comunicarci si servi delle particole cb^
aveva consacrate allora nella sna messa, e che avea portate ics.
buon numero dalla sacrestia dentro una scatola » che riversa
sopra il corporale e consacrò; e comunicatosi lui, aprì il San*
lissimo con la chiavetta, che pure aveva portata dalla sagrestia»
cavò fuori la pisside, Taprì, consumò alcune particole, ch'erano
dentro, e con la patena vi pose tutti quei comunichini, ch'e-
rano stati consacrati allora, e poi comunicò noi quattro soli;
e dopo chiuse la pisside, la rimise nel tabernacolo, tornò a
chiuderlo con la medesima chiavetta, e cavatala fuori, la pose
sopra l'altare, e finita la messa la pose su il calice e la rìpor*
tò in sagrestia: non so poi cosa se ne facesse.
4. Int., Quomodo sciat ipso examinatus qusB modo
ravil?
Resp. lo so tutte quelle cose che ho raccontate percU i
presente e vidi tutto con gli occhi miei proprìi.
5. Int. Et ei dicto ut bene descrìbat pyxidem in qua die
fuisse comunichinos consecratos,et servatos, et si antea pnee*
sistebant aliquae particulae.
Resp. La pisside mi parve tutta d'argento con il suo
perto, ch'in cima avea una crocetta pure d'argento, ed era
pisside grandetta ed alta non so se un palmo , ed aveva
vesticciola bianca con le rose rosse; del resto non so dir altrOt
uè se avanti che ci ponesse d. Polimio questi comunichini ci
fossero altri*.
Quibus habitis et acceptatiSf dimissus fuit juratus desilenlio;
et perleclo ei suo examine, cum, prò ut dixit, nesciret scribere,
fecit signum crucis.
Signum crucis f Capreoli Bellini.
Acta sunt haec per me Curtium Signanum Sanctì OlFicii
nolarium.
Dai falli esami si provò per quattro testimonii la preesisten-
za della pisside con le parlicele e l'identità delle medesime, indi
si cercò con le più sottili indagini inquisitoriali l'autore o gli
autori del sacrilego furto: e troppo lungo e noioso sarebbe pei
lettori il riprodurre gli esami fatti perfino a fanciulli e fanciulle
— J9l —
Che si credevano appartenere alle famiglie degli aalori. Se non
cbeb gelosia d'una donna pose; sa le tracce il Sant'Uffizio di
scoprire 1 autore. Costui era un uomo nato al misfare, fuoruscito
«Ravenna, che erasi accasato in Bologna, per nome Leonzio
strada di Galliora in Bolo<?n a.
il quale per ordine deir Inquisizione fu agguantalo e posto in
carcere e fra i tormenti della tortura confessò non solameli le il
furto della pisside, ma eziandio molti altri, acquali si lasciava
andare per apprestare lauto trattamento alla donna, che poscia
dal rangole della gelosia fu spinta ad accusarlo, il SanfUftizio
con gran sollecitudine ne pronunciò il giudizio innanzi ad affollato
popolo, che per meglio intimorire condannò il Leonzio a girare
- 291 —
per la città nudo sino alla cintura con le mani legale dietro
dorso» fra mezzo a duecarneflci chìB di quando in quando ci
delmente lo percuotevano. Fu condotto ai foro de'Mercanli, (
Foro dei Moi'caiiti in I>ulo<^na.
si era innalzato un palco, e quivi, esposto ai dileggi della pi(
fu percosso. Si rinnovarono le battiture che doveano supei
le tremila, presso le torri degli Asinelli e Carisenda, clie form
unaSrarità di Bologna, innalzale nel secolo undecimo e du(
cimo. Iodi fu fatto passare per la strada di Galliera, e pei
slnda maggiore fo condoUo al loogo ove ^ en aitalo il n^\
e quindi mìseraiDeole perì. Non Togliamo fare commenti so Li
sproporzione della pena applicata al delitto commesso, imper*
Le torri degli Asinelli e Carisoiida in Holoffiia.
<^'<Hxhè in tanta barbarie di lampi jlullo poteva un tribunale
i ^ogainario e crudele.
CAPITOLO XIV.
OioTanni Has • OìroUmo da Praga.
Ora debbo narrare grandi avvenimenti che segnarono note-
vote periodo nella storia deir umanità» accadati in Gostanza
quando ivi si tenne il conciliò onde por fine allo scisma che
travagliava la Gtiiesa. Le gare fra la tiara e Io scettro si erano
di troppo prolungate, le tenebre dell'ignoranza andavano dira-
dandosi» e gli scandali del papato aumentando : per la qual
cosa il grido di riforma prorompeva dalle università. Era in
queste il fermento generatore di un grande avvenire. Forse
non si davano d'un flato tutti gli' attacchi» ma come potenza
che agogna alla procella de'fatti, lumeggiavano neirintelletto dei
sapienti, fiammeggiavano nel Quore dei popoli. Bastava una scin-
tilla a manifestare T incendio di questi principii ; si volevano
uomini che li avessero incarnati con una forma qualunque di
teoriche, ma sempre riformatrici, che li avessero precinti del-
Fusbergo di una costanza degna di miglior causa. Giovanni Wi-
cleff, Giovanni Hus erano appunto di sifTatli uomini. Trafitti dal-
l'anatema, che non si spunta per forza né ìrrugginisce per tempo,
caddero maledetti dagli ortodossi, paventati dai potenti, estimati
dai filosofi , segnali delle morali sciagure che intenebrarono
l'aurora della umanità risorgente.
Giovanni Wicleff era un dotto prete inglese. Nato nel York-
shire, ebbe a maestro nella università di Oxford Tomaso Bradwar-
dine e vi apparò la filosofia di Aristotele, la teologia, il diritto.
Trovossì in tempi in cui il re, i maggiorenti ed il popolo d'In-
{hillerra pretende?ano accorciare le giorìsdizioni papali e dei
n\i sol reame. Il principe voleva essere solo a comandare; i
Daggiorenti agognavano alle pingui sostanze dei cherid e le
isorpate non volevano lasciare; il popolo non voleva più
ogare il danaro a s. Pietro ; in ona parola alla rispettosa fede
egli avi sottentrava la soperba ragione dei nipoti. II presente
sagiva contro il passato. In questa reazione entrò Wicleff soste-
ilore dei laicali richiami. Eduardo III usò di lui contro Roma :
) rimeritò delia cattedra di teologia nella università di Oxford
el 1372. Lo amavano i laici» Todiavano i preti ed i frati. Scello
rettore di certo collegio stabilito in Oxford per gli scolari di
antorbery, i frati, ctie da poco tempo vi si erano intromessi,
dolsero della scelta. A vece del prete Wicleff volevano porre
quel reggimento un altro frate. Frati e Infici battagliarono:
ìoDfarono questi ; quelli, cacciati dal collegio, s' andarono a
mentare presso Simone di Langbam cardinale arcivescovo di
antorbery, che li tolse in protezione. Comandò a Wiclefif che
Odesse il reggimento del collegio a certo frate Errico Wade-
Qil : al niego del rettore segui il sequestro de'beni del collegio,
ppellarono i laici a papa Urbano V ; ma il cardinale deputato
dirimere questa lite raffermò la sentenza del Langham ed
Ritinse : Wicleff e i suoi fautori sgomberassero il collegio,
slorassero i frati di qualunque danno.
Se questo fosse avvenuto in altro secolo, i frati avrebbero
ilmeggiato in pace la loro vittoria In quel collegio, e i laici
I ne sarebbero andati a casa scontenti , ma rassegnati. In
Desto secolo V attrito dei fatti recò quello dei principii. Chi
rano quei frati che volevano sovverchiare 1 laici in quel
egozio? diceva la sfrenata ragione: uomini che si erano seque-
rati dal mondo nel nome di Cristo, consigliere di altissima
sriezione. Come erano proceduti costoro dagli eremi e da' so-
aghi conventi fino nelle università laicali, a contenderne il
iggimento agli stessi laici ? Perchè quella sentenza del Langham?
uthé la papale conferma ? Era chiaro che il chericato non
metteva dall'entrare, come un tempo, ovunque si aprisse una
a d' azione nel corpo della civile conu)agnia. Egli procedeva
)n in mano il vessillo del mistero , il giogo della fede , con
iQtorità su Tumana ragione; e giunto alle porte delle univer-
li, doveva arrestarsi, perchè dentro era il vessillo delle scienze,
itto di robusti intelletti. Chi era dentro credeva non doversi
rìre quelle porte che al solo nome della ragione : sforzate ,
— 298 —
teologiche combattute negli alcovi imperiali ; terribile la UDiver-
sitaria, perchè seotita dai popoli ; rapida, duratura, perchè sor-
retta dal credersi deputata a restituire requilibrio nelle parti e
nelle potenze di cui si compone e per cui vive la compagnia
degli uomini. ^
La eresia wicleffita, come oggetto di storia , va sommaria-
mente ristretta in questo principio, dico nella invisibilità della
Chiesa governante e perciò nella invisibilità del potere. *
I suoi errori rimasero fermentando nel seno della univer*
silà. Il papato da lui depresso fece sorridere il principato lai-
cale dapprima, e non altro; ma quando Enrico Vili ammazzators
di mogli si volle tramutare in papa, il terreno inglese, bea
coltivato da Wiclefif, produsse subiti e terribili i frutti deiran-
glicana Chiesa. Il fatto di Wiclefif immediatamente si rapportò
all'orgoglio ferito di quattro professori, ma mediatamente si
andava a rannodare alla baldezza della giovane e superba ra-
gione, intollerante del chericale potere. Per la qual cosa Wicleff
non poteva starsene in Inghilterra ; la sua mente rapidissima
viaggiò il mondo.
Era in Praga, principale città della Boemia, un prete di
nome Giovanni, che sopranominavano Hus o Hussinetz da
una terra di quel regno onde trasse i natali. Aveva egli appli-
cato l'animo alle sacre e profane discipline nella università di
Praga, e venne in tanta fama di dottrina che in men di sedici
anni fu creato successivamente bacelliere, maestro delle arti,
decano della facoltà flIosoQca ed in fine rettore della università.
Tutto nei libri e .massime nella Bibbia , visse immune dai vizi
che a quei tempi rodevano la compagnia dei cherici. Anzi
seppe cosi bene contemperare Tausterità dei costumi alla mo-
destia e dolcezza dei modi, ch'era il^ desiderato e venerato da
tutti. La castimonia di ogni suo detto e fatto, le macere e pal-
lide sembianze del suo volto, rivelavano anima che non voleva
barattare la virtù con le carezze degli uomini, ma che ne vo-
leva far buon capitale in quel tesoro evangelico non insidiato
dai ladri, non guastato da tarlo. Poveri noi, che, dopo avere
logorate le forze a toccare la cima della virtù, e che crediamo
posarvi, appunto in quella ci si para innanzi il pettoruto e più
terribile nemico, la superbia!
Sofia regina di Boemia lo volle a suo confessore, ed egli ne
moderò lo spirito lungamente. Ma queir ufiBcio poco avrebbe
messo in mostra l'animo del prete. Vengo a dire come si rive-
^nè —
ae. Era incomiociato nelh Boemia qq oostome di edificarsi
ipelle dai signori, deputate alia predicaiioDe della parola di
ì in folgare fa?eUa e proprio di quella parlata dal popola Le
tednli, le collegiate sì dicevano troppo occupate nelle grandi
e del culto; sta bene che il popolo abbia popolari chiese, nelle
di' la parola di Dio suoni nella foraia più famìliaro ai suoi
lai Volevasi in una parola difOnire V individuo del popolo
I santuario di Dio. GioTanni Mulheim di Cardubiez , uomo
Mie e di calda pietà , fece levare del suo uno di questi po-
lari oratorìi che intitolò ai SS. Innocenti nella città di Praga,
segnò a questo un peculiare patrimonio con due rettori , da
minar» da lui e dai suoi discendenti. Aveva nome Bellem
està chiesa. Giovanni ne fu il primo rettore con Tufflcio di
idicare al popolo. Conosciuta la mente dei fondatori di que*
oratorii, nel dir popolo intenderà bene il lettore non signi-
ire quella voce la indistinta congregazione dei fedeli, ma quella
rte la quale, povera delle umane comodità, povera di umana
nenza , era come un oscuro fondo a dar rilievo alla aristo-
zia dei ricchi e dei sapienti. Chi era deputato a predicare il
ngelo in queste chiesuole necessariamente doveva prendere
idi e parole ben differenti da quelle delP alto clero e rìpu-
si evangelizzatore dei poverelli. Funeste le conseguenze,
andò codesti evangelizzatori voglion tutto riformare ; ed in
'0 il prete ed il popolo incominciò ad esistere moralmente
Ila chiesa in modo ben distinto dagli altri; la distinzione portò
paragone, il paragone il giudizio del papato e dell'episcopato,
a terrìbile democrazia incominciò ad insidiare lentamente
Qtico reggimento della Chiesa. La chiesuola di Betlem fu la
Ila dell'ussitismo. Di qua mosse Giovanni, da questa tolse le
ni, in questa Jacobello di Misa profferse al popolo il calicò
I sangue del Signore, che si rìmutò in feccia di peccati e di
erre cruentissime. Aggiungi, che il Mulheim donò il diritto
patronato di questa chiesuola ai decani del collegio carolino
Praga : di questi collegi erano stati fondati ben quattro in
)ga ed erano come accademie soggette alle grandi università,
in solo terre e danaro, ma beneflzii ecclesiastici e chiese ve-
rano loro concesse dai principi. Questo innesto di università
]i chiese non era paventato dai re, confermato dai papi, che
)ltì allora non ne aveano la coscienza dei pericoli. Quel po-
lo che non poteva circondare le cattedre dei dottori per ascol-
ne la parola veniva ad apprenderla in chiesa! L'oratorio dun-
— Ma —
qne di Bellem era aoa chiesa tiniversitaria fatta pel popolo; é
ctìi la reggeva era Giovanni d^Hos.
Non appena Giovanni imprese le popolari predicazioni, tra
per la fama di dottrina ctie aveva e Tincontaminato vivere che
faceva , una grande moltitudine accorreva ad udirlo , la quale
come accendeva il zelo del predicante, ne svegliava la superbia
e [Mrreqaieto amore delie novità. Nella predicazione al popolo
di Praga Tanimo di Giovanni acquistò queir abito di austerità
che più tardi fu vista impressa in quella di Calvino e fino nelle
corporali sembianze del suo volto, quella veemenza di eloquio
nel flagellare il male che fu poi volteriana in Lutero» e quella
solennità di pretese ispirazioni che fu tanto maravigliosa nei
puritani di Gromwell. Non papa, non vescovo, non privilegi:
egli prete semplice predicava al popolo. Tra lui e il popolo la
sola Bibbia. Abborreote dalle corruttele clericali, le maledice e
fugge in supremo rifugio nella Bibbia. Egli la legge con la li-
bertà di un uomo che spezzò ogni freno di autorità , perché
ai suoi occhi chi lo stringeva era peccatore ; e non trovando
tra il profeta dell'antica legge e Dio alcun mediatore, crede»
anch'egli investito della missione di un profeta, che può e deve
tuonare le divine minacce al principe, al sacerdote, al popolo.
Le immagini orientali dei sacri libri gli scaldano la fantasia ^
lo trasportano neirinflnito, nel perfetto invisibile, e dalla vetta
del Sinai e del Taborre, perchè troppo alte, non vede più sul
Golgota Tuomo dei dolori, non vede p^ sul Vaticano il figlio
dell'uomo. Il Cristo di Giovanni è il Verbo generato nel di della
virtù nello splendore dei santi , e la sua chiesa non ancora è
scesa dal cielo. Quella che vede in terra imporporata del san-
gue dell'Agnello, viatrice, lungo il torrente della vita, che gli
otTre nei peccati, nella penitenza, nella virtù, nella carità, nelle
speranze e nei timori dei suoi membri, come si maturi nel
tempo il virperfectus da glorificarsi nell'eternità, è;sinagoga del-
l'anticristo. La vera chiesa di Cristo, segnata dal Tau della pre-
destinazione, vagola per lui incerta nei cieli di una inconsegui-
bìle perfezione. Giovanni nelle sue predicazioni credeva star-
sene sul Sinai e ricevere dalla mano di Dio le tavole di una
nuova legge, ed il popolo nella valle ramingava fra le tenebre
ed adorava sé stesso.
Perchè i chierici erano guasti, vedi come gli aggredisce, o
lettore, e vedi come, a gastigare l'autorità presbiterale troppo nei
più proceduta nella civil compagnia, egli denuda il prete al co-
-301 —
ietto del popolo, lo tenta ad infellonire contro la Chiesa e: V9
*eparando i semi delle grandi guerre di religione in Boeooia:
So diteci» 0 chierici, non esercitiamo noi sa i fedeli uùb ra-
one di signoria più violenta di quella che accusano j re deila
rra 1 Diamo in qualche laico un po' molesto e che fa le viste
oltraggiarci, e tosto, abusando il cbericale privilegio, per dìt
tto di pazienza, per impeto di superbia, spesso con le parole -
più spesso coi fatti prorompiamo — ^ lo trarrò in giudizio que-
0 malandrino, gli darò guai, gli flaccherò le corna, gli farò
[uainare contro Tacuto coltello della spirituale potestà. — - E se
povero dabbenuomo coglie sentenza di scomunica, non ca-
amo nei panni per T allegrezza. E non punto per verità ed
nore di giustizia, ma si per furore ed impeto di feroce ven*
itta ce lo teniamo sotto; in guisa che ci accoccarooaquel brutte
agio: — Se ti avviene offendere un chierico, finiscilo di morte,
è pace non avrai più da lui. — Ecco come con lo spirituale
Hello, più aguzzo di quello dei re terreni, superbamente si-
loreggiamo i cristiani; e come andiamo innanzi ai laici perla
testa del clericale privilegio, paventandoci a cagione di questa,
m per amore, ma per servile timore, ci chiamano beneQci.
1 su diteci, 0 chierici, in che mai ponete in pratica e ci fate
dere Chi è maggiore tra voi si tenga come nuovissimo; e
i precede quasi ministro? Forse in quella cupidigia dei primi
?gi nelle sinagoghe, dei primi deschi nelle cene, delie salu-
toni nel foro e di essere chiamati padri , signori e maestri
gli uomini? Forse in quella vaghezza di vedervi accodali me-
0 da un cliente accoltellatore armato di spada che da un
Illa chierico recatore solo di un libro? Forse in quel vostro
sprezzo delle vere ricchezze spirituali della Chiesa, e in quello
3ndere ogni vostra cura ed affocato pensiero dietro ai tempo-
i beni? Forse in quel tenere in non cale V umile ministero
chierico, che vi si addice, e neiraffettare laicale dominazione,
5 non è per voi? 0 forse in quel vostro pavoneggiarvi nel-
npiezza delle vesti di preziosa roba che dai piedi al capo è
iriatamente pomposa, nella frequenza dei clienti, nella mol-
idine dei cavalli, nella superfluità degli edifici, nell'abbon-
iza delle suppellettili, neirammassamento della pecunia, nel
;liere agl'indigenti, nel disprezzo dei poverelli e degli abbietti,
lo adulare i grandi ed i ricchi, nello osteggiare i veritieri e
eggiare i piaggianti; in una parola, in tutto che sia gloria ed
3zza secolare? Ahimè! che in tutta questa ingiuria ed onta al
— 30» —
Cristo di Dio ed alla sua legge il sole, il maggiore prelato, si è
tramutato io tenebre, e la luna, il minore, in sangue. >
Cosi tonava l'austero prete in un sinodo di chierici tenoto
in Praga. I vizi erano in gran parte veri; ma questa non en
medicina a sanare, ma coltello che sperperava. Queirappuutare
di tirannide il clero verso il popolo era un sollevare questo
contro il medesimo, fargli chiudere gli occhi su Tautorìtà de'nih
nistrì di Dio e spingere \ seguaci di Cristo al proselitismo di
un uomo. Tuttavia, mentre già piange il sole, ossia il papa, tra-
mutato in tenebre, la luna, ossia l'episcopato, fatta di sangue,
si tiene dal farne scempio, come fece dopo. In un altro sermone
riconosce ancora i papi Alessandro II e Giovanni XXIII come
vicarìi degli apostoli e prega per essi, t Se adunque esso Ales*
Sandro di santa memoria, nelPufficio di condire ed illuminare,
venialmente falli, preghiamo Tonnipotenle Iddio che, secondo la
grande sua misericordia si degni aggiungerlo alia sua gloria*
Finalmente preghiamolo a preservare dal male il nostro papa
Giovanni XXIII ed a concedergli che sia sale della terra, luce
del mondo. > Non ancora la punta della papale autorità lo aveva
toccato.
Ma procedendo nei suoi sermoni nella censura de'clerìcali
costumi e nello spuntare l'autorità dei medesimi, arriva ad qd
mal passo. Nell'anno 1403 re Sigismondo, che prendeva il titolo
di governatore di Boemia, irato contro Bonifacio IX, che sorreg-
geva Ladislao, aveva vietato ai Boemi il recar denaro a Roma.
Venceslao anche abborriva Bonifacio, perchè approvante la soa
deposizione, ed i chericì, che si astenevano dai divini uffici per
l'interdetto lancialo dall'arcivescovo, costringeva con la forza a
predicare ed a sacriflcare. Giovanni d'Hus si leva protettore dei
principi a petto del sacerdozio. E messosi a chiosare la parabola
di quella' gran cena il cui padrone di casa manda da prima un
servo ad invitare, poi un altro a costringere, incomincia a dare
una matta interpretazione a questi due servitori. Il primo dei
due, secondo lui, è simbolo dell'aulorilà spirituale, il secondo
della temporale. E qui pianta come assioma che, per tutto il
tempo della vecchia legge fin dalla prima istituzione del re, sem-
pre questi abbiano sovrastato ai pònteQci. Questa diffinizione egli
pretende sorreggere con la Bibbia , né la Bibbia interpretata a
capriccio poteva fallirgli le pruove. Trovò che re Salomone spo-
destò del supremo sacerdozio Abiathar e mise al posto suo Sadocb.
< Questo, dice Giovanni, era più che togliere ad un vescovo i
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beni temporali: eppure Salomone fu re paciflco, ed il suo regno,
per grazia di Dio, stelle in flore. > Egli tratta di questa depo-
sizione di Abiathar come di punizione, poiché dice che tra gli
uffici del re, sia quello di difendere la legge di Dio e di co-
stringere con potestà coattiva gli inosservanti della medesima.
E poiché tra il clero, come egli pensava, dal papa air ultimo
chericuzzo non era più palmo di netto, ne conseguitava- che
il papa e i vescovi dovessero punirsi e costringersi con la forza
laicale al bene fare. Gonchiude che cosi pensava anche maestro
Giovanni Wicleff intorno al principato, né alcuno ne dubitava.
Da questi principi! conseguitava che i re avessero potestà spi-
rituale, dèlia quale si trovavano allora scemi per usurpazione
dei cherici cesarei, ossia dell'aristocrazia chericale. E lungi dallo
sQorare la cosa, vi va dentro con l'esempio pratico. Re Ven-
ceslao, che, sotto pena di porre sotto sequestro i loro beneflcii,
costringeva i sacerdoti alla predicazione ed alla celebrazione dei
divini uffici, non faceva che esercitare una potestà icommessagli
da Dio ; e Tarcivescovo che per quel regale sequestro colpiva
d'interdetto Praga con due miglia intorno di contado, non fa-
ceva che resistere alla potestà di Dio. In una parola, Giovanni
non solo preponeva al sacerdozio il principato, ma lo sosti-
tuiva, senza dirci a che fare rimanessero più i vescovi nella
chiesa di Dio. Le parole di Hus non erano che una guerra ad
oltranza al cattolicismo in tutto quello per cui era stato bene-
fattore dei popoli, conquistandogli diritti di onesta libertà a petto
della forza.
Predicava un di Giovanni al popolo di Praga, e, togliendo
a testo del sermone le parole di Marta a Cristo r— Signore, se
Qìd ti fossi trovate, il mio fratello non sarebbe morto, — con
austero cipiglio incomincia a dar contro all'esequie ed ai suf*
fragi dei morti, ma dei ricchi e dei potenti. Trova queste dan-
Qevoli per tre ragioni: per la mondana celebrazione del nome
del ricco trapassato, per le molte menzogne con cui se ne in-
dora la vita e pel grasso emolumento che ne viene ai cherici.
Le vane pompe funebri non giovare agli estinti, nuocere ai viventi,
alimento di vanagloria ; essere piene di scandalo ai sacerdoti,
che sui cadaveri, quasi corvi, pascevano la gola, contentavano
l'avarizia. Essere palpatrici dell'amano orgoglio le notti vegliate
dai sacerdoti nella casa del morto ricco; le loro salmodie, ven-
dute a pecunia sonante, non affrettare, ma indugiare la libera-
zione delle anime trapassate; a nulla valere tutto queir affollato
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accompagnamento che tiene dietro alférelro del ricchi, e Muore
iHi ricco, e gli vedi intorno accorsa tutta la città. Appena qd
sol cherìco accorre alle esequie del povero. > Condanna il suona
delle campane, lo smisurato assembrarsi dei preti, la simultanea
celebrazione delle molte messe, la grande arsione dei cerei, iì
convitare dei preti dopo le esequie, e altre di cosi fette costa-
manze. Dirò io stesso: v'era Taboso, ma nissuno che fosse eat-
toHco potea cosi biasimare quei sacri riti e dottrine della Chiesa.
Quel continuo andar contro al clero prevaricatore, quello sfono
ad abbassare l'altezza dei nobili, quel manomettere il potere
del sacerdozio, doveva far pensare il popolo a sé stesso; ed il
popolo è sfrenato se si mette a pensare alla sua maniera. Da
ciò conseguitava che sulla pallida fronte d'Hus il popolo leg-
geva la opinione del tempo, ossia la formola di quelli che cit-
deva suoi bisogni.
Aggiungi che il sermonare di questo prete si dilungava
molto dalla maniera, che gli altri tenevano. Tutto Bibbia, non
usava che di quei padri che più intesero al rigido ministero
della censura dei costumi. Egli chiude la Bibbia per far sentire
reco della divina parola come suoni sul labbro di san Bernardo
nel deserto di Chiaravalle. San Bernardo riprenditore di cherici
e di papi è per lui quasi sempre la via onde immette nelle
piaghe del clero la robusta medicina dei profeti. Non infiora,
non orna che con la poesia dei fatti; non incotora che con la
spontanea antitesi che rimbalza tra il vizio e la virtù. Eigli spegne
i ceri che ardono intorno al feretro del ricco, disperde l'acci-
diosa aristocrazia chericale che vi salmeggia e vi banchetta
intorno; eppure s'inspira all'alito della morte, alla tremenda
maestà del supremo Giudice, al vuoto suono che rendono le
tombe ai viventi che le calpestano. Senti, lettore, la sua voce
neirannnale celebrato nella chiesa di S. Clemente alla memoria
di Carlo VI imperadore e re di Boemia, come trae a meditare
la- vanità delle umane cose ed il terrore del novissimo giudizio:
e. Ma che direbbe Tinclito principe, imperadore e re di Boemia,
Carlo, di cui facciamo oggi commemorazione, che fu protettore
(Iella Chiesa, procuratore di pace, amatore dei clero, lume del
principato, alimentatore dei poveri, edificatore di basiliche, fon-
datore deir alma nostra università ? Oh I si per fermo, che se
al trapassato avanzasse la parola, ne direbbe — Vanità della
vanità, e tutto è vanità. — Che altro mai, di grazia, direbbero
i nostri maestri di sacra teologia, se i marti rispondessero eoo
j -Ò05-
b probT Cbe mai qoel sottilissimo dialettico di Nicolò» Biceps»
qoeir Adalberto lim{ndissimo oratore* quel Nicolò LitomisseK sta-
pQDdo par acume di consigli, quello Stefano da Colonia fuoco
di amore di patria, quel 6io?anni Stickna cima di oratore» e io
fine quel Pietro Staipna solertissimo predicatore e tutto doN
cena nell'arte della musica? Che mai risponderebbero costoro
0 tatti gli altri, le tombe dei quali calpestiamo coi piedi ? Al
certo non altro che — Vanità delle vanità, e lutto è vanità. —
A Dulia giova il profondo sapere nelle arti, a nulla la schiatta
0 il grado, a nulla le ammassate ricchezze: la materia di queste
cose se ne andò come ghiaccio liquefatto al sole. Ecco qua, o
carissimi : questo inclito principe, cui ricordiamo speranzosi
ddla sua futura beatitudine, e gli stessi nostri maestri e fra-
telli in Cristo dilettissimi , aflfondarono quasi pietre. E chi di
noi sa se abbiano requie? > Sgannati gli uditori della nullità
delle cose presenti, accenna alla terribile realtà deiravvcnire :
< Vedete Torribile avvento del Signore. Siede in cima TofTeso
podice, tutto ira contro i reprobi ; sotto spalancato V orrendo
caos deir inferno. A destra di lui tutti i peccati accusatori ; a
manca i demonii trascinanti al supplicio; alle sue spallo Tuni-
vmo mondo in fiamme; al suo cospetto gli angeli dì Dio rin-
cacciati airinferno: dentro la coscienza cbe crudamente ti morde
loori intollerabile fuoco che ti brucia il corpo, ed in questo un
br plauso di giusti e peccatori, consapevoli di tulli i peccati ,
alla«entenza del santo giudice — Andatevene, maledetti, al fuòco
eterno! — Con tutto questo in cima al pensiero, facciamo peni-
tenza, chiediamo perdono. > Vedi come quest'uomo guastatore
del passato, accennando all'avvenire, mostrava che venisse dal
medio-evo.
Quando Gregorio Xll e Benedetto de Luna condussero in
disperazione i fedeli di vedere terminato lo scisma, per la spon-
tanea loro cessione, e i cardinali delle due obbedienze seria-
ODeote convenivano nella celebrazione del concilio pisano, ri-
medio a quei mali fu grande commovimento di sentenze nella
Boemia. Papa non vi era universalmente riconosciuto, inefficace
b forza del chericato, sfrenata quella delle università. Quella
di Parigi, cbe diffiniva tuttodì le cose della Chiesa per lo zelo
dà re cristianissimi, metteva vaghezza nelle altre di fare altret-
tanto. La Boemia teneva per Gregorio. Il consenso dei cardi-
nali e di quasi tutt'i fedeli nel serbare neutralità tra i due con-
teodentipont efici non bastò a persuadere il chericato di Boemia
Tamb. Inquis. Voi. IL 50
— 306 —
a lasciare Gregorio e ad aspettare le decisioni del concilio. Te
Deva fermo. Venne a scuoterlo la università di Praga ; i pra
féssori avevano a capo Giovanni. La sua voce era conosciot
dai preti , flagellati dai suoi sermoni ; si misero in cagnescc
L'arcivescovo di Praga col clero voleva Gregorio; Giovanni coi
l'università voleva il concilio: corsero le censure. Giovanni, in
terdetto nei sacerdotali uffizi , fu gridato nemico dei preti. Ec
allora veramente il divenne.
Tratto fuori deluderò il predicatore del popolo nella cap-
pella di Betlem, si volse al popolo, ed ecco come. Aveva Tim-
peratore Carlo IV fondata la università di Praga nell'anno 1347,
dandole gli statuti di quella di Parigi e di Bologna. Era per que-
sti fermato che nelle deliberazioni tre voti spettassero a quelli
del paese, uno solo agli stranieri che vi concorrevano. Cosi fa
fatto in quella di Praga, divisa in quattro nazioni, cioè nella boe-
ma che abbracciava anche gli Ungheresi, i Moravi, e gli Scbia-
vòni; nella polacca, e in quella di Sa^ssonia, le quali avevano la
comune appellazione di alemanna: in guisa che tutta la univer-
sità era di due razze composta , della boema e della tedesca.
Questa, come più numerosa, a poco a poco da sorella che era
addivenne emula, poi soverchiatrice. Usurpò i tre voti, lascian-
done uno alla boema. Le leggi violate mìsero in malo umore i
professori boemi, i quali vedevano uffici, lucri, onori, tutto colare
in man dei Tedeschi per la prevalenza dei voti. Non avevano
torto, ma tacevano. Ed eccoti arrivare in città Girolamo detto
da Praga, il quale, come dice il gesuita Balbino, avendo ingegno
acuto e vivace, facondissimo parlatore, non istotte molto a strin-
gersi d'amicizia colTHus. Egli aveva inteso agli studi nell'uni-
versi là di Parigi, di Colonia ed Eidelberga. La vita delle univer-
sità in quei tempi era piena d'azione: l'esercizio della mente,
i tornei delle dìspute, la coscienza di formar corpo indipendente
in ordine alla sapienza, i privilegi e l'obbligo in conservarli,
rendeva gli universitari uomini di proposito tenaci a mantenerlo
pronti al richiamo, stretti alla resistenza, liberi nel pensiero (
nelle parole. L' università era la opposizione al governo dellì
vecchia Europa ,• disciplinata dal razionalismo, legalizzata da
rispetto che si portava alla sapienza. Le università, che eram
state teoretiche nel secolo di Abelardo, in quello di Hus diven-
nero pratiche. Girolamo da Praga incominciò a darne un chiare
e preciso documento quando, malamente portando quella inva
sione tedesca nella università del proprio paese, trovandosi ur
— 307 —
di nel coo?eóto de'professori ragunati a deliberare sa la scelta
del decano, levossi con grande impeto di parola : — Se van
onotennle nelle università di Praga le consuetudini della pari-
gioa, com'è sancito dalle leggi di Carlo IV, tornino le tre parti
dei suffragi alla gente boema — Ed a questa domanda appiccò
una arringa in prò delle usurpate ragioni dei Boemi. Plaudenti
i Boemi, riluttanti i Tedeschi, fu lite : ma Giovanni confessore
di regina Sofia, carissimo alla medesima, ottenne regio decreto
che la diffini a favore dei Boemi. Tumultuarono i Tedeschi :
messisi lóro a capo i maestri Giovanni Reinero e Roberto di
Salisburgo, appiccarono il fuoco al collegio dei teologi, e tutti
se ne uscirono di Praga, maestri e scolari. Discordi gli scrittori
del tempo intorno al loro numero, possiamo seguire la sentenza
di un LÀnda, che vivevo a que'tempi e lo fa ascendere a Iren-
tassi mila. Non maravigli il lettore che di tutti gli esulanti di
Praga si formassero molte università, come la lipsiense in Mis-
Qìa, quella di Ingolstadt in Baviera, la bostochiense in Sassonia,
ed oltre quella di Cracovia. Tutti questi partiti recavano con
loro odio a Giovanni d'IIus; e sventuratamente la idea cattolica,
perchè professata dai Tedeschi, fu rigettata dai Boemi nell'im-
peto della ripulsa degli stranieri. Queste università d'iracondi
dottori non durarono molto a formarsi : quella di Lipsia sorse
Dello stesso anno 1409. Ciò dico perchè sappia il lettore come
la inimicizia universitaria, che da quel tempo si annestò al zelo
degli ortodossi contro Hus, non era spicciolata, ma densa e
serrata. Hus adunque per questo fatto aggiunse alla riverenza
che gli portavano come prete sapiente le simpatie della nazione.
Ecco come il suo proselitismo dovè essere rapido, tenace, cru-
ento per guerre di religione.
Un Pietro Payne inglese, discepolo di Wicleff, aveva recato
in Boemia le scritture del suo maestro. Monaci che si dissero
volere usurpare avevano spinto WicleiT alle male cose, e la uni-
versità di Oxford a sorreggerlo: tedeschi usurpatori, benché
eessati, condizionarono gli animi della università di Praga come
quella di Oxford, io dico, nella credenza di una ingiustizia trion-
fata. Le due università dovevano amoreggiarsi ; Wicleff e Gio-
▼anni d'Hus dovevano affratellarsi nella comunanza di una mente
Dimicissima, a modo loro, ad ogni sociale squilibrio. 1 libri di
Wicleff furono accolti dai maestri boemi con gioia perchè nuovi,
letti con avidità perchè creduti opportuni ai bisogni del tempo.
In quei tempi, mentre i libri delPeresiarca di Oxford leg-
— 508 —
gevansi dai maestri e dagli scolari, non era re in Boemia. Vec
ceslao, che ne recava il titolo, sconosciuta ia dignità regia
umana, avvinazzato, dormiva sempre. Per la qual cosa il clerx)
e Tuniversità si trovavano a fronte senza altri per mezzo. Que-
sta, rimasta a'soli Boemi, più libera procedeva nelle cose sae^
e Giovanni d'Hus, che vi avea cooperato, acquistava un di pii
che Taltro autorità su gli scolari e sul popolo. Per la qual cosa
si faceva un n pubblico ragionare di Wicleff, se ne lodava h
mente, si dogmatizzava alla sua maniera; e Giovanni co' suoi
sermoni persuadeva il popolo già convìnto che a spantare le
clericali prepotenze vi voleva Wicleff con la sua dottrina. L'as-
sociazione della mente, Tuniversità, resa superba, rincacciava
fuori della civile compagnia quella del cuore, dico la Chiesa.
Erasi già levato Sbynk* arcivescovo di Praga contro a queste
novità e nelFanno 1408 sommariamente accorreva ài presenti
pericoli con due decreti, Tuno ai membri deiruniversità pra-
gense, Taltro ai parochi e predicatori della divina parola: a
quelli ordinava recassero a lui le scritture del Wicleff, perchè,
trovate pestilenti, si dessero alle fiamme; a questi, che riba-
dissero nella mente del popolo come, pronunciate le parole con-
secrntrici nella ihessa, non altro che il corpo di Cristo rima-
nesse sotto le specie del pane e il suo sangue sotto quelle del
vino. Gli episcopali ordinamenti trovarono Giovanni d'Has pet-
toruto airuscio della università e rispondente : < Irragionevole
il divieto della lezione delle wiclefiìte scritture; violarsi i pri-
vilegi degli universitari , licenziati a leggere qualunque libro ;
erronea la dottrina del solo corpo di Cristo sotto le specie del
pane, e del solo sangue sotto quelle del vino. > L'università
fece appello a Roma : Gregorio XII citò al suo tribunale Tarci-
vescovo. Ma questi, ascoltato da Alessandro V, s'ebbe Bolla da
luì, sterminatrice degli errori wicleflBti della Boemia. Rinfran-
cato della papale sentenza, sottomise a giudizio quattro dottori
pertinaci a non voler dare i libri di Wicleff; vietò ogni pre-
dicazione nelle cappelle; e nella corte del suo palagio fé' dare alle
fiamme ben dugento libri ereticali. Enea Silvio Piccolomini
conta che fossero belli a vedere per la eleganza della scrittura
e gli ornamenti d'oro che lì fregiavano ; segno del grande amore
che vi ponevano.
La cappella di Betlem non doveva più risuonare della voce
di Giovanni; e questi la levò più forte contro l'arcivescovo. Lo
sorreggeva il popolo, lo favorivano i magnati, che in quel di-
— 5M —
^^ielo seDtifaDO imnla la patrìai superbia, falliti nel patronato
iJMle amte cappelle. Un altro appello a Roma. Ma Giovanni XXU,
di rimando citò alla sua curia pel cardinale Colonna Giovanni
dVus come seminatore di errori e di eresie. Allora uscirono
innanzi alla papale citazione re Venceslao, la regina Sofia, i
baroni e la università, preganti non volesse per solenne giu-
dizio di eresie contaminare la fama del popolo boemo stato fino
a quel tempo immacolato di ereticale labe; sciogliesse THus
dalFobbligo della personale comparsa in sua corte; lasciasse
libera correre la divina parola nelle cappelle : spedisse a loro
spese legati, provveditori a qualunque abuso cbe fosse sorto tra
essi. È chiaro come quelle cappelle di nobili patronati, edifi-
cate pel popolo, rendessero tutto una cosa Hus co'maggiorenti
e con la plebe. Giovanni d' Hus lo sentiva bene ; e, consape-
vole della forza cbe il rincalzava, a sua vece mandò tre pro-
curatori. I quali vennero dal Colonna bruscamente accolti con
una scomunica. Si volsero al papa: nuovi inquisitori tre car-
dioali ; nuove' scomuniche contro Giovanni, dichiarato eresiarca,
e i suoi discepoli.
La papale scomunica avrebbe potuto raumiliare V animo
deir ardito professore, ma questi, che era tutto in sul vedere
le umane infermità dei pontefici e dei chierici, aveva già per-
duto di vista la spirituale potestà della Chiesa. Il popolo lo
amava, lo venerava per la forza della parola persecutrice dei
tristi, per la rigidezza dei costumi e pel molto operato a sal-
vare le ragioni della sua gente nel fatto della pragense univer-
sità. Aggiungi che, avvegnaché papa vero fosse tenuto in Boe-
mia Giovanni, e le spirituali folgori paventassero i Boemi, pure
il sapere come la mano che le lasciava fosse esercitata in turpi
simonie ed in cose che ad onesto uomo sconvenivano, mortifi-
cava la fede del popolo e lo traeva piuttosto appresso al pre-
dicatore di Betiem , flagellatore di simoniaci, che appresso a
Giovanni, cui una mala fama disonestava. Per la qual cosa non
appena Hus s'intese punto delP anatema papale, che appellò al
futuro concilio: e quanti fino a quel tempo lo avevano seguito
[M)me predicatore della divina parola lo tutelarono in quella che
credevano ingiusta persecuzione del chiericato.
Guai se al gastigato dalla Chiesa incominci intorno a ronzare
Taora blandiente del popolo: questa leva in incendio la nascosta
fiammella della superbia che tutti rechiamo nel cuore; e da
questo incendio, nella propria, la perdizione di molti. Cosi av-
venne ad Hus.
— 510 —
Egli, forse cacciato dallo zelante arcivescovo Sbyok prs
gense si ritrasse Della sua patria e, protetto da Nicdò sigDOc
della terra di Hus, non teneva più modi nelle sue predicazion
E messosi in ponto di martire della verità a cagione del gas
sto chericato, con lettere andava confortando roniversità,
popolo, gli amici, a tener fermo contro il papa, che incomia
clava a chiamare anticristo. Da quel punto la superbia di 1^
scpnfinò. L' esilio , il divieto della pa)*ola , la forma delle sa
epistole» ch'era quella appunto dei primi cristiani pazienti pc
la giustizia» rinfocava gli animi a suo favore e raffermava qoelJ
terribile cosa che è il proselitismo. Scrive a tutti i fedeli e
Praga, egli semplice prete, con que'modi onde esortava sai
Paolo i primi cristiani, anzi usa di quelle parole che san Paole
indirizzò ai Filippesi dal carcere di Roma. Li esorta alla co-
stanza nella fede e a non patire scandalo delle persecuzioni
che lo agitavano. Si para innanzi ai Pragensi come un santo
Stefano e come Cristo ìstesso. Questi dai giudei, egli dalFaoli-
cristo , ossia dal pontefice, perseguitato ; e fa di spegnere nei
loro petti la fede nella romana sedia con queste parole : < Io*
ventarono certe religioni fazionate a norma delle umane leggi,
per aggiogare i semplici al proprio talento e trarseli appresso. >
L'università, tutelata da Hus a petto della straniera invasione e
deir arcivescovo vietante la lezione dei mali libri , lo venne a
trovare neir esilio per lettera che gV indirizzò il rettore della
medesima. Scrissegli questi parole di consolazione; ricordan-
dogli quelle della Bibbia: // giusto, qualunqw sia il sinistro,
non andrà in mestizia. Rispondeva Giovanni ringraziandolo:
« Lui essere rupe nel tenere la verità; di nulla contristarsi che
de'propri peccati e del soqquadro delle cristiane cose ; lui vivere
in Cristo, perciò debito il patire persecuzioni pel nome di lui. Se
a Cristo ingrediente nella gioria fu conveniente il patire, legge es-
sere per gli uomini accollarsi la croce e seguirlo. Lo spoglio delle
ricchezze, lo sfavore e la infamia non curare ; la morte istessa
non essere che riiroyamento della vera vita. Ma queste cose,
proseguiva Fesule universitario , non entrano in mente degli
uomini fatti ciechi dal fasto della fama, delF ambizione e del-
l'avarizia: e cerl'uni per la paura, quando non era a temere,
disertata la verità , spogli della carità e di ogni virtù , stanno
fra due, ed è una meraviglia a vederli poltrire. Imperocché da
una banda la luce della verità li tira, dall'altra il timore di per-
dere la fama e di esporre il corpo fino alla morte. Io , confi-
— SII —
dente in Gesù Signore, profferisco alla morte questo eorpo,
semi aYfaiorerà la soa grazia, che io non voglio Yi?ere in
questo secolo malvagio ad allro che per condurre me stesso e
gii altri a penitenza, secondo il divino volere. >
Giovanni è già sni rogo di Gostanza : egli vuole far credere
che già gli splenda su la fronte Taureola del martirio: e tenen-
dosi quasi assiso su la sede d' onde si giudicano le tribù
dbraele, dà bestialmente deiranticristo al papa. Egli è sorretto
a quella immaginaria altezza dall' adulazione de' suoi complici,
che lo inebriano delia sua ribellione alla Chiesa. Certo prete
irieleffita, già vecchio nella licenziosa eresia, conlrallsicendo la
IHetosa eloquenza dei veri santi , cosi scrìveva nel settembre
Manno 1410 a Giovanni, ai suoi compagni ed uditori : e Salute
e quanto più di dolce può pensarsi nelle viscere di G. Cristo
a Toi carissimi , che io amo nella verità , e non solo io , ma
quanti conobbero la verità che sta in voi e starà in eterno per
la grazia di Dio. Mi sono consolato nell'anima nei risapere dai
aopravenuti fratelli tesliflcatori della vostra verità, del come voi
camminate in questa. Riseppi a quai distretta di tribolazione
v'abbia messo T anticristo, stranamente infuriando contro ai
fedeli di Cristo. > Dopo avere scritte parole di conforto a tenero
fenno per la verità, ed a patire per lei nell'agone a combattere
contro r anticristo, cosi si volge ad Hus: < Eccomi a te, o
Hqs, prediletto fratello in Cristo, sebbene sconosciuto di per-
sona, non però per fede e per amore, poiché non arriva la
lontananza a separare quelli che 1' amore di Cristo fortemente
affratella. Racconfórtati della grazia che ti é concessa ; fatica da
buon soldato di G. Cristo; rincalza con la parola e con l'esempio,
e la tua possa fa di raddurre in via di verità , perchè non è
da seppellire nel silenzio, l'evangelica verità a cagione di frivole
censure e di folgori anticristiane ; datti a tult'uomo a raffermare
le membra di Cristo slombate dal diavolo: e, se a Dio piace,
è bel che spacciato l'anticristo. E per una sola cosa mi sento
andare tutto in gioia, ed è, che. nel vostro regno ed altrove
abbia messo Iddio tali spiriti nel cuore di alcuni da farii andare
giulivi al carcere , al bando ed alla morte per la parola di
Cristo. > Vedi come Hus era trasportato non . solo dall' aura
iK)polare nel suo paese, ma dalle laudazioni de'falsi sapienti a
€ima di nuovo apostolato. Iddio puniva il suo orgoglio, lasciando
che gittassero le radici della convinzione nel suo cuore ce|:le
cose che in altri tempi avrebbe abborrite come errori.
— 5« —
Intanto il popolo fariosamente si sottraeva dalia SQggesiooe
dei preti ed agognava ad eguagliarsi a loro nel tremendo mini-
stero deiraltare. 11 prete era già invilito ai suoi occhi dalle
predicazioni di Hus e compariva indegno delle sante cose che
trattava. Rincacciato dalla civile compagnia , spoglio di (^
temporale cosa, non rimanevano che le spirituali : a queste die
di piglio il popolo sollevato da Jacobello di Miss» altro predi-
catore di altra cappella intitolata a s. Michele. Costui, persuaso
da un Pietro da Dresda, disse necessaria ai laici per la eterna
salute la Eucaristia sotto la doppia specie. Lo predicò al popolo:
e gli ussiti , che erano sempre in sul guardare in cagnesco
alle cose dei preti, trovarono buona la dottrina di Jacobello e
Tafferrarono come nuovo documento delle presbiterali usurpa-
zioni — perchè solo i preti possono bere il calice del SignoreT .
anche noi possiamo e dobbiamo. — Bastò questo, perchè il
calice divenisse un simbolo di un conquistato diritto e fosse
insegna di gravissime guerre di religione. La sete del sangue del
Signore in Boemia era segnale di altra sete che incominciavano
a sentire, con gravissimo danno della buona morale, i popoli
nel secolo XV.
Sbynk arcivescovo di Praga, andato in Ungheria a chie-
dere consigli e provvidenze al re Sigismondo , se ne mori
neiranno 1412 con molto danno della Chiesa di Boemia. Gli
successe disgraziatamente un certo Corrado , che pareva fatto
d'un getto col suo re Venceslao. Tutto materia ; di spirito non
avea che tanto quanto bastasse a muovergli le membra, fatte
pigre dagli smodati mangiari e dallo stravizzare alla dirotta.
L'epa era il suo Iddio: del gregge non voleva né poteva curare.
Le chiavi del granaio e del celialo sempre alla cintola, simbolo
dell'unica cosa che curasse al mondo. Sempre con una vecchia
cucìniera, che lo teneva contento. Tesorizzava regali; vendevali:
e le pastorali tonsure delle sue pecorelle erano cosi presso
alla cute che queste ne sanguinavano. Ora pensi il lettore che
bel vento gonfiasse le vele alla eresia degli ussiti sotto questo
beatissimo arcivescovo.
Ed era da paventare; poiché il popolo di Boemia era stato
già messo per la via delle novità , avendogli il predicatore di
Betlem scaldala la febbre di quelli che credeva bisogni, con le
blandizie di una libertà insuperabile senza la concussione del
dogma, e di una ristorata povertà inconseguibile da chi volesse
rimaner cattolico e perciò ossequente airantica disciplina della
— 313 —
Chiesa romana. Wicleff lo aveva levato al gìiuìizio dei suoi spi-
rìtaali pastori e gli aveva messa nelle mani la Bibbia da Ini
volgarizzata e commentata, quasi codice di nuove leggi. Il po-
polo era diveDoto filosofo. La verità che doveva da lui sentirsi
ed esprimersi col verbo, della tradizione ed i colori della co-
scienza, h da lui pensata con selvaggio intelletto, pronunciati!
con ferocia d'intempestivi parlari; e ciò che i professori dialet-
ticamente facevano nelle università, il popolo manescamente si
accingeva a fare per le vie. In mezzo a questo popolo, gover-
nato nelle cose dello spinto da quel Corrado , tornò Giovanni
dlliis.
Le sue epistole avevano ognor più infocato Panimo de'suoi
lettori: ta sua parola erasi ritemperata di nuova forza nelPesi*
Ihk Quando eccoti arrivar bolla di Giovanni XXIll, con cui questi
biDdiva la crociata contro Ladislao, invasore dei beni della
Cbiesa. Hos declamatore contro le clericali: intemperanze, grosso
per la toccata scomunica, si leva furibondo contro il pontefice;
sforza Parca degli spirituali tesori delfa Chiesa, a guardia della
quale vegliava la fede di molti secoli, e, gittate peUrivIi le sante
ioddlgenze innanzi al popolo, le deride e le danna, quasi tro-
vato di presbiterale avarizia. Tennegli fronte in pubblica que-
stioDe il decano della facoltà teologica Stefano Paletz, il quale,
avvisato ben per tempo della pessima via per cui rovinava Hus,
ad ora ad ora gli si parava innanzi affrontandolo con lo parole^
e con le scritture. Nel fatto della bolla di Giovanni contro La-
dislao Tenne all'aperto a difendere la Chiesa. Ma tlus, innanzi
ailiroD tarlo, si ricopre come di scudo di questa protesta: e Esser
Idi condotto in quel negozio (cioè della crociata) dair onor di
Dio, dal migliore della madre Chiesa, dalla propria coscienza. •
Perciò alle cose che era per dire premetteva una invocazione a
Dio onnipotente , testimone della sua coscienza. Cosi, tutto in
braccio a questa sua coscienza o spirito privato, con selvaggia
dialettica , ma nudricata di molta erudizione, toglie al papa ed
ai cherìci il diritto di guerreggiare. S. Bernardo sembra a lui
ebe lo sorregga; ma questi, che appare concorde alPeretico nella
riprovazione dell'abuso, discorda col medesimo nella tem|»(3ranza
della riforma. Hus spoglia il papa di ogni forza coercitiva; gli
toglie la spada materiale, gli lascia quella dello spirito. Ma qual
éioai questa spada? Preghiere, esortazioni, passiva rassegnazione
fino alla mort^. t Vuole il papa vincere i suoi nemici? Guardi
) Cristo, di cai si dice vicario; preghi pei nemici e per la Cbiesa,
Tamb. InquU. Voi. II. 40
~ su —
6 dica — Il mio regno non è di questo^ mondo. — Guai al
civiltà dei popoli se i papi avessero seguito questo consiglio
petto delle laicali prepotenze. Giovanni d'Hus, tocco dalla ma!
vista degli abusi, rifuggiva nell'assoluto dei canoni che governar
la morale cattolica; ma Tintende assai male e non pensa con
quelli in parte siano pieghevoli nello svolgimento delle fon
del morale individuo, che è la Chiesa.
In mano di colui che può costringere sono due forze: quel
della minaccia di un male e della promessa di un bene. Tol
le armi ^ila minaccia, toglie Giovanni i beni alle promesse; pe
che il papa non ha per lui cosa a tutelare su questa terra. E(
vede le sante indulgenze nel vizio di chi le conferiva, e le neg
e con una logica che prendeva le mosse dal fatto dei commi
sari di papa Giovanni, dispensatori di perdoni e di indulgenz
guasta e sovverte tutta la economia del potere presbiterale sul
coscienze intorno alla remissione della colpa e della pena. Qui
sta discussione, fatta nella frequenza delia scuola universitari
alla presenza di un popolo già maturo alle novità, non potè
sorreggersi cop eguaglianza di ragione a fronte delia dialetti
del Paletz. Hus logicava incarnando la parola con la veleno:
convinzione degli abusi, Paletz coi documenti della tradizion
Ma la tradizione vive dell'eco della credenza. Quando questa
cacciata dalle coscienze, quello è suono che muore sulle labb
della generazione che ci precede. Il popolo di Praga, che avrebl
dovuto impennare al solo tocco delle avite tradizioni sovvers
non richiamò, applaudi, tumultuò, gridò papa Giovanni ani
cristo. A Giovanni la plebea ingiuria: ma a tutto il papato l'ir
condo sacrilegio. Si mosse il maestro a raffrenare l'irreligio
licenza, imprigionando i più caldi sediziosi. Furiò la plebe, chie
•la loro liberazione; promessagli, ristette. Ma non appena s'avvic
dal sangue che colava da certo luogo detto il pretorio, che gl'in
prigionati erano stati messi a morte, die di piglio alle armi
con la forza ricuperò i cadaveri degU uccisi. Andò con religio
riverenza a seppellirli, quasi martiri della verilà, nella cappel
di Betlem. Cosi la parola di Hus predicata in quel luogo tris!
mente individuò tutta una gente in mezzo alla grande comp
gnia della Chiesa; poiché ogni personalità non si ediQca che
sangue e di parola.
Fallita la forza materiale , tentò il maestrato quella del
persuasione. Non lutti i professori dell'università tenevano p'
Hus. Commisero ai restati fedeli l'accorrere contro alPauJac
— 515-
d^i ossiti. Si radanaroDO e ceDsararono goarantacinque prò-
posizioDi di Widefl; stando in queste tutta la radice dei pre-
senti mali. Rafforzarono la lor censura di una prefazione, nella
qoale a fronte alta confessarono Tantorità dei papa, dei cardi-
nali e delia romana Chiesa ; dettero del fellone ai segnaci di
Hns. Freno impotente per il popolo che ciecamente correva al
predpizio.
Allo strepito di queste novità levossi il Gerson a guardare
in che mare fortunasse la insidiata Chiesa di Boemia. Scrisse
lettere a svegliare il poltrente arcivescovo di Praga , a di 27
marzo del 1413. Moniti, conforti, preghiere, tutto pone in opera
io scandalizzato cancelliere a tenere in piedi e vegliante Cor-
rado a fronte delta tempesta ereticale. 11 Gerson ammoniva, e
non si avvedeva che le novità ussite erano pestilenti germogli
che prorompevano dalla mala pianta di queir analisi eh' egli
aveva elaborata dì cosa chepon si scompone, dico dello spiri-
tuale potere. Germogli indeterminabili nel loro numero e nella
loro gravezza. Infatti, maledette e derise le indulgenze, non fu
più dogma di quei riformatori rispettato. Nello stesso anno Gi-
rolamo di Praga entrò nella chiesa di Santa Maria ad Nives,
trasse dagli altari le sante reliquie , le calpestò, gridando fine
alla superstizione. Die di piglio ad un predicatore carmelitano
e ad altri due frati , e li tradusse prigioni innanzi alla balia
della città, a dannarsi al carcere come impostori. Né contento
a questo, precipitò nella Moldava il povero carmelitano, che
poi ne usci salvo quasi per prodigio, come lezzo di via. Il po-
polo vedeva e sghignazzava. Cosi frati , indulgenze , culto dei
santi, e quanto aveva fino a quel tempo santificato il cristia-
nesimo nello svolgersi delle sue forme nella coscienza degli
uomini, era in un fascio trasportato e disperso dall'ansia di un
popolo che, traviato da uomini prevaricatori , sospirava ad in*
certo avvenire.
Ma prima di ascendere al principio che doveva osteggiare
quelli che chiamava errori delle antiche tradizioni, Hus lo trasse
a campeggiare nella materia di sci fatti , che espresso con la
SQccinta veste' dell'assioma. 1. Che sacerdoti ignoranti, magni-
ficando sé stessi per V offertorio , seducono il popolo, dicendo
che ogni sacerdote celebrando messa (mi8$ando) crei il corpo
di Cristo e divenga padre e creatore del suo Creatore. 11. Che
si aflèrmi doversi credere nella b. Vergine o nel papa o nei
santi, mentre a Dio solo abbia a prestarsi fede. III. Che i sa-
— 816 —
cerdoU coi meglio loro aggrada possono ricnettere i peccati
sciogliere dalla pena e dalla colpa. lY. Che debbano i soggsl
obbedire ai propri superiori in ogni cosa lecita o illecita d
sia. V. Che ogni scomunica, giusta o ingiusta che sia, leghi!
scomunicato , gli rechi nocumento e lo sequestri dalla comi
iiidne dei fedeli e lo privi dei sacramenti della Chiesa. VI. U0
rore della simoniaca eresia, che la maggior parte del clero ta
sozzava. A questi sei fatti, pensati alla sua maniera , nei qna
veniva V errore dalla ignoranza 0 malizia degli uomini e m
dalla santità del principio cattolico , pose appresso sei capite
che brevemente dimostravano la deformità di quegli errori,
feceli scrivere sulle pareti della cappella di Betlem , perchè
popolo li avesse sempre sotto gli occhi del cbrpo, e non isfo
gissero da quelli della mente.
Mentre il popolo leggeva e meditava alla sua maniera qc
ste lucubrazioni paritarie, Giovanni edificava le nuove teorie
della chiesa di Cristo. Tratta, per otto capi, della natura de
vera Chiesa e dei membri di coi si compone. Era questa i
formata ai suoi tempi dì umane corruttele che davano ai eh
rici una mala vista. IIus abborriva da queste: e come Gersc
abbominante lo scisma, entrò contro ogni diritto difflnitc
del potere della Chiesa ; cosi egli, abborrente dalla malizia (
costumi, entrò difflnitore della natura de'membri della Chiei
e quindi della Chiesa medesima. Presupposta V idea cattoli
della Chiesa, Gerson difilato va al potere che la governa. Hi
non presupponendo cosa già ricevuta dalla tradizione , ine
mincia dal difflnire la Chiesa. Come morale individuo colk
tivo, egli va dapprima alla coscienza delle parti per ascende
sinteticamente alla composizione del tutto. Rifuggiva da
umana imperfezione , ma non sa temperare la foga del gia<
zio: e anzi che posare nell'idea operante, perfezionatrìce, e
è appunto quella della Chiesa cattolica, si arrocca in quella
una perfezione già operata, inconcepibile su questa terra, e'
è quella di una Chiesa già consistente nello scopo che ha ra
giunto. Per la quale cosa non è la fede professata con le opei
Tuso dei sacramenti, segni e veicoli della divina grazia, la so
gezione al potere visibile , vale a dire V umano individuo, ci
svolge la razionale sua azione nella virtù della fede, della s(
ranza e della carità ed il divino individuo che lo perfezioi
coi benefizi! della redenzione; ma è Tumanilà già perfezionai
solingamente contemplata da Dio .nelFeconomia della sua pe
— «7 —
la Chiea di Bus. ìanAti nel misteio delh predestin»-
90De a Dio solo risibile, è irreperìbile dali* oooio, die la n
teroodo tra le tenebre delTimperfetto, maestra della sua igoo-
nm, coratrìce delle sae inlennità.
QoeUa che suscitò Giovanni d'Hos nella Boemia fu conqui*
sUtrìoe. Awrébbe Teramente dorato essere conserratrìce, poiché
«^ sconciò il popolo in quelli che ho chiamati bisogni di cre-
denza, manomettendo la religione degli avi suoi. Non isve-
(liò il popolo, quasi a soprassalto, con la voce del sacrilegio: ma
Kdainenle con quella della riforma e della sua emancipazione
dilla troppo proceduta potenza cherìcale. Per la qual cosa quando
il popolo a avvide dello scempio fatto dal predicatore di Betlem
delle avite credenze, era già desto operante per la mozione de-
fi^ ostacoli a'suoi voluti vantaggi, ostacoli che Hus aveva saputo
ri?estìre con la cappa pontificale. E perciò quando egli rovesciò
questi, rovesciò anche il papato ; e lungi dalPavventar^i ad Hus
profanatore della sua religione, rìconobbe come opera delle mani
proprie ed approvò questa che non era più secondo lui profa-
fiaxione, ma sostituzione della verità alFerrore, della giustizia
all'iniquità ; anzi Hus fu il suo apostolo.
Per la qual cosa Hus coi Boemi (e nel dir questo io dico
di tutti i popoli che già sentivano la potenza ad urtare la vec-
chia idea religiosa, come se fosse sostenitrice degli ostacoli al
$00 morale immegliamento) da una parte, tutto il medio-evo
dall'altra, stettero a fronte minacciosi e parati a battaglia. Quelli
provocsitori, perchè novatori ; questo difendentesi, perchè con-
servatore. Ma terribile, inclemente la difesa, perchè guerra di
religione ; nella quale non entravano battaglieri due soli popoli,
ma due grandi elementi nelle viscere del cristianesimo, cioè il
dogmatismo del passato ed il razionalismo dell'avvenire. Lettore,
pensa che questi due non sono uomini, ma principii : perciò
^ quando vedrai tra le fiamme ardere e fortemente morire Gio-
' yanni d'Huà e Girolamo da Praga, non ti volgere intorno a
maledire gli uomini che edificarono i micidiali roghi, ma leva
in alto la mente contemplatrice di que'principii. Non volarli
giodicare ; perchè Iddio nel proprio pensiero, ove li vede, chiuse
il codice di ogni umano diritto.
Una mala fama si era sparsa delle cose di Boemia , la re-
ligiooe pativa, il principato temeva. Supremi giudizi! si volevano
da papa Giovanni e da Sigismondo ad arrestare la infellonita
^mia ed a troncare il capo alla eresìa con la condanna di
— 518 —
Hus. Esortava Sigismondo i maggiorenti Boemi a condarre ii
Gostanza Hus, perchè al cospetto dell' oniversale sinodo par
gasse sé e la sua gente della brutta voce che correva di eresia
Le esortazioni affortiflcò con un salvocondotto, pel quale fos»
favorito di ogni maniera di buoni uffici, ovunque desse, andando
a Costanza. Reco in volgare questo famoso documento, su
quale i protestanti piantarono le loro accuse contro i padr
costanziensi dannatoli delF Hus. < Sigismondo, per grazia di Die
re dei Romani, sempre augusto, re di Ungheria ec. a tutti (
singoli principi, cherici e laici, duchi, marchesi ec, capitani,
podestà, governatori, ec. e comuni, e a tutti i fedeli sudditi del
sacro nostro impero, in man de'quali saranno per venire le pre*
senti lettere, col regio favore ogni sorta di beni.
e Venerabili, illustri, nobili e fedeli amici, con tutta Tanima
raccomandiamo a voi tutti ed a ciascuno in particolare Y ono
revole maestro Giovanni d'Hus, baceliiere e maestro delie arti,
recatore della presente lettera, il quale è in sul muovere dal
reame di Boemia al generale concilio da celebrarsi nella città
di Gostanza, il quale noi abbiamo tolto sotto la protezione e
tutela del sacro impero. Essendo nostro desiderio che nel giun-
gere che farà appo voi, gli facciate cortesi accoglienze, usiate
favorevolmente con lui, e che vogliate e dobbiate andargli in-
contro in tutto che faccia mestieri alla sicurezza e celerità del
suo viaggio 0 per terra o per acqua, e che senza pagamento
di tributo, di gabella e di qualunque altro gravame, e sciolto
d'ogni indugio, lasciate a luì coi suoi servi, cavalli e masseri-
zie, l'andare, lo stare, il dimorare e il tornare alla libera per
tutti i passi; per porti, ponti, terre, feudi, balìe, città, borghi,
castelli e in tutti i vostri territorii ; volendo e dovendo prov-
veder lui ed i suoi, abbisognandone, di salvocondotlo, ad onore
e reverenza della nostra maestà. > Dalle quali parole è chiaro
la regia scrìtta mirare solo alla incolumità di Giovanni nel
viaggio e favorirglielo, non toccare i casi del giudizio cui an-
dava a som mettersi.
Giovanni d'Hus era divenuto novatore nelle cose di reli-
gione, la gente boema seguivalo ; e ricordi il lettore come quegli
alle novità prorompesse, e questa a luì aderisse dapprima per
ristorate ragioni dì quella gente nelle università. Perciò Hus era
Tuomo della nazione ; a Ini volti gli occhi di tutte, per lui le
dubbiezze degli eventi costanziensi, per lui le provvidenze a
cessare la possibile nimicizia de'medesimi. La taccia dì eresia
— 319 —
apposta alla Boaua per le DOTìia ussite comaio?eva gli spiriti
éi queUa geote, e il mantenersi nella fama di buoni cattolici
era nn d^derio che egnagliaTa quello di tenersi veri boemi.
Re Venceslao, sempre avvinazzato» non voleva sapere di queste
cose: il popolo le caldeggiava, favorivanle i magnati, le avver-
safa il clero. Ha Tarcivescovo Corrado, poltrente nei piaceri
della mensa, accalappiato dalle blandizie della pecunia, schiuse
l'uscio dell'ovile ai lupi, che avrebbe dovuto con la vita difen*
dere. Per la qual cosa Giovanni, innanzi muovere per Costanza,
àenramente provvedeva alle cose sue e largamente attingeva
faiTorì della pubblica opinione.
Fece afiSggere in tutti i pubblici luoghi della città di Praga
ed all'uscio della reggia una sua scritta che recava: — Nella
^ prossima assemblea dei prelati del rame da tenersi nel palazzo
^ arcivescovile, profferirsi, a chiunque avesse voluto appuntarlo di
ereticale errore, a purgarsene; trovato innocente, provocare su
gli accusatori la pena del taglione; essere parato a far lo stesso
nel concilio di Costanza. — Chiese ed ottenne dal vescovo di
Nazaret, inquisitore della eretica pravità, favorevole giudizio
della sua dottrina, messo in iscritto e raiTermato da istrumento
di pubblico notaio. Radunati poi a parlamento i maggiorenti di
Boemia con Tarcivescovo Corrado a deliberar dei negozii del
roame, Giovanni si presentò loro, supplicandoli che ove quel
prelato lo sapesse infetto di alcun errore glielo dicesse, o dar-
gli via a scolparsi; ove no, attestasse della sua innocenza con
una scritta, che presenterebbe al concilio a propria tutela. Ot-
tenoe tutto e dai maggiorenti e dall' arcivescovo. Non còsi gli
andò il negozio nel sinodo chericale: né lui né il suo procura-
tore Giovanni di Jessinetz vollero accogliere i preti. Della ri-
polsa richiamò Giovanni; ed i richiami faceva per man di no-
taio consegnare a pubblico istrumento. Adunque IIus favorito
della scritta dell'arcivescovo e dell'inquisitore, che lo dicevano
purissimo di ogni errore, mosse per Costanza. Tenga fissa la
mente il lettore a questo fatto; cioè che Giovanni andava al con-
cilio non con la docile pieghevolezza di un fedele, ma con Tardi-
tneoto di un filosofo, che muoveva a sfidare con la ragione in
solenne parlamento le tradizioni di molli secoli.
Andavasene Giovanni, fidentissimo nel numero de'proseliti
che lasciava in Boemia, e nella forza della sua parola: ma una
locagli tuonò alle spalle vere e terribili sentenze, le quali avreb-
bero dovuto arrestarlo e fargli pensare come dirupasse in una
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mala via e si traesse tutto un popolo io perdUone. Io é»
delle belle e quasi profetiche parole che gli indirizzò Stebao
di Paletz, le quali, come farebbero bene per molti altri, io yp-
glio recare in volgare: < Guardati, o maestro, e cura a tutf noma
che tu con i tuoi contubernali e felloni alla santa obbediema
e camminanti su le nugole non abbi all' impensata a dar per
terra. Perciò io bo messo innanzi le parole di Osea — Guai a
coloro che mi disertarono, perchè verranno inabissati. — Vedi
come e quanto tu abbi a tremare dallo spavento mentre queste
parole apertamente ti minacciano. Stoltamente e da contumace
ti se' tolto dall'obbedienza della santa e cattolica Chiesa, conio
scandalo e pericolo di molti; fatto segno alle sentenze di molte
chiese, massime dal sommo pontefice, vicario di Cristo; pub-
blicamente scomunicato, ti scrolli dall' animo il timore di Dio
e neppur senti la punta dell'ecclesiastica censura. Soffocato
ogni grido di buona coscienza, con audace e diabolica presQn*
zione osi intruderti nel ministero della divina parola su la cat-
tedra della tua superbia e, quel che è peggio, nel divino uflS-
cio delle messe ; ed a simiglianza del re Saule tenendo fronte
a Dio, non immolare vittime, né iscellerarti le mani d'indoh-
tria. Che se dirai — non ho io peccato — dimmi, a qual giogo
di ecclesiastica disciplina ed a qual prelato tu soggiaci, perchè
non compari ad un tempo e attore di cause e giudice? Tu giu-
dice, tu padre, tu testimone. Il proprio diocesano con gliordi-
narii suoi utBziaii sprezzi e tieni per nulla, anzi pubblicamente
vai predicando essere il pontefice sommo un'abbominazione, un
anticristo; e con prodigio di superbia, più superbo di Datan e
Abiron, tu cacci sotto i piedi ogni santo suo decreto, l'auto-
rità sua, il suo uflBcio. Ecco come non v'abbia più giogo che
ti prema ; tu solo signore, tu solo altissimo. Laonde con im-
pudente audacia, non ovunque, ma là^solo vai dirizzandola
cattedra del tuo magistero contro la santa romana Chiesa, OTe
è più denso il favore de' tuoi e della plebe, ove più mani-
festo il patrocinio della laicale balia. » E dopo avergli rin-
facciato il come con pubbliche e private dicerie avesse recato
poco meno che su gli altari Wicleff, salutato da lui cima di fedele
e di dottore, ed aver seminato la zizzania tra i figli di Cristo
per raccorrò messe di infame gloria, cosilo stringe: < Ripensa
ora, ripensa nell'animo tuo qual torrente di mali hai scatenato
da quel dì in cui cominciasti ad infellonire ed a patrocinare
r eretico Wicleff. Vedi quale tribolazione levasti contro al tuo
Ir
i-
Aocesano arciTes£OTo SwiocoDe, col quale fioo alla morte rical-
dtrando, ti sei fenolo ribelle. Vedi a che rovina e conquasso
hai trascinato i cherìci; chi percosso e sacche^ato^ chi dalle
proprie chiese bandito, STìlIaneggiato ; altri pezzati a furia di
plebe, altri ancora esoli e raminghi, altri, da tenerissimi amici
che erano, fatti Ton faitro nemici. Era qoesto che si asix'tlava
da 00 predicatore della divina parola? »
Addi IS di ottobre dell'anno 1414, associato a duo nobili
e potenti boemi, Yenceslao de Dnba e Giovanni de China) «
lasciava Praga. Si fece precorrere da lettere indìritte allo cillà
per coi era per andare , le quali recavano : < Lui andare a
Costanza : v^ andasse anche chiunque voleva accagionarlo di
errore e di eresia, e si preparasse a farlo in pieno concìlio:
lui essere paratissimo a dare ragione a tutti della sua fede. »
Vagava foori del tribunale della Chiesa il superbo professore
e non chiedeva il giudizio dell* episcopale maestrato > librato
o^r inaccessibili penetrali della fede, ma quello del popolo,
corruttibile dai lenocinli delia sua dottrina e dalle sembianze
di novatore che sempre seducono. Infatti una strepitosa fama
gli andava innanzi, che in Leida, Sultzbach^ LaufT, concitava in
tatti il desiderio di vederlo, di parlargli, di ospitarlo. Non era
solo il salvocondotto di Sigismondo che confortava alle orrevoli
accoglienze , ma anche il sapere che il vegnente ospite ern il
predicatore dì Betlem, il riformatore della Chiesa. Ma special-
mente iq Norimberga fu tale e tanto T accorrergli incontro di
tolto il popolo, che quelle parevano accoglienze degno di un
trionfatore. Anche i preti festeggiavano la venula di Hus; e
richiestolo di un secreto colloquio, rispose: — Lui amare in
poUbHci parlamenti manifestare la sua sentenza ; abborrire dal
segreto. — E stette ragionando fino a notte ben proceduta coi
preti ed i senatori di Norimberga.
Giunse Hus in Costanza nel terzo di di novembre. T.icito
nngresso, modesto T ospizio: andò a stare in casa di una
buona matrona, Fida di nome , nella contrada S. Gallo. Come
fa il di appresso, Giovanni di Chium ed Errico Lutzemberg si
presentarono a papa Giovanni notificandogli l'arrivo in Costanza
di Hus e come lo avessero menato al concilio commosso alla
pQU)ljca fede per imperiale salvocondotto ; prega vanlo volesse |ier
amore del re de' Romani lasciarlo stare in Costanza incoluiDc
d'ogni pericolo. Rispondeva il pontefice: < Avvegnaché fratri-
cida Hus, non permetterebbe per quanto era in lui gli venisse
Tamb. Inquis. Voi. II. 41
- 5« —
nocumento di sorta dimorando in Costanza. » E1 in veroi
Boemi per molti di non ebbero a lamentare fallo nelle papali
promesse. Anzi il papa sciolse Hus dal vincolo della scomuoiA
lo licenziò a muovere per la citlà a suo talento : solo gli vietò
l'accesso alle messe solenni, per tema di qualche coramoziooe
tli popolo, ed il predicare, perchè non fosse scandalo. Ed Hus
voleva predicare; avendo in serbo due sermoni, Tuno dei quali
era una specie di confessione della sua fede, Faltro toccava la
necessità della unione e della pace della Chiesa.
Sigismondo ad un tempo scioglieva la libertà del concilio
nella inquisizione dell'eresia e confermava il sahrocondotto già
dato a Giovanni d'Hus e da darsi agli oratori dei due antipapi.
E qui sorge la famosa questione intorno alla prigionia di Has,
che sembra irreconciliabile con la pubblica fede, avendo vigore
il cesareo salvocondolto. Cattolici da una banda , prolestaoli
dall'altra, molto lungamente han combattuto, quelli a purgare
il papa, il concilio, l'imperatore dalla mala fama di fedifraghi;
questi a ribadirla con le prove. Ma quelli non avevano innanzi,
quasi scopo, che la purgazione dell'ecclesiastica podestà: questi
il desiderio di manometterla. Tutta volta tra Roma e Lutero é
un'altra cosa che si chianìa storia, alla quale con libera estima-
zione dei fatti intendiamo per amore di verità.
Il Lenfant, caldo ugonotto, che ha molta erudizione di
storia, filosofìa *poca, si chiude nella sentenza che l'imperatore
avesse dato ad Hus un salvocondotto assoluto che il guaren-
tisse da qualunque violenza, con fermo proponimento di non
violarlo; ma che poi i padri del concilio lo avessero sciolto
dal mantenere la fede data , stando alle decretali , le quali
dispensano dall'osservanza della fede verso gli accusati d'eresia:
cosi dice Gherardo D;Kher, testimone oculare, nella prefazione
ad una sua storin del concilio, e così crede Lenfant. Il mede-
simo poi reca la testimonianza del Nauclero, non molto lontano
(lai tempi dei quali recita, il quiile afferma come i padri indu-
cessero Sigismondo alla violenza del salvocondotto con questo
argomento. Essendo il concilio superiore all'imperatore, e non
avendo concesso salvocondolto ad IIus, non poteva egli impe-
ratore concederne uno senza il consenso del concino^ massime
1n un negozio che toccava la fede. Rafferma Lenfant la lesti-
•monianza dei due storici con certe parole dello slesso Sigismondo
indirilte ad Hus, le quali non lasciano dubbio che veramente
fossero uomini i quali argomentassero a quella guisa. Dunque,
— 52.1
DChìude il Lenfant, Giovanni d'Hus fu f>ittima non solo dei-
dio de'suòi nemici, ma anche della debolezza e superstizione
Vimperaiore, per non dire della sua perfidia.
Maimbourg, cattolico, nella sua storia del grande scisma di
bidente, a purgare Sigismondo, immagina che il sajvocon-
ì\to venisse spedito ad Hus due mesi dopo che egli con le
le scritte fatte affiggere in Praga e per la città di Lamagna
inunziava la sua andata al concilio; quasiché il salvocondotlo
^esse tanto indugialo da non venire in collisione con la prigio-
ia. Ma nella storia non s' immagina ; e non ha torto Lenfant
}Dtro Maimbourg. Hus mosse dd Boemia a di 15 ottobre, il
ilvocondotto fu emesso dall'imperatore a di 18 dello stesso
lese; fu ricevuto da Hus nel dì 22 in Norimberga; lasuapri-
lonia avvenne a di 28 di novembre. Il Varillas , a purgare il
ODcilio , gitta tutto il fallo sulle spalle di Sigismondo. Anche
gli immagina: ed afferma, essere stati duei salvocondotti ad
las, l'uno dall'imperatore e l'altro dal concilio; quello assoluto,
iiesto condizionato ; quindi la prigionia di Giovanni ripugna
ol primo , non col secondo , non avendo questi osservate le
ondizioni del salvocondotto sinodale. E qui anche il Lenfant
la ragione contro Varillas. Non fu altro salvocondotto che quello
pedi lo da Sigismondo.
Poniamo ad esame la cosa, lasciando da banda proteslanti
! cattolici. 11 fatto di cui è stato cosi fragoroso litigio si com-
«ne di tre elementi. Di Sigismondo col suo salvocondotto: di
iiovanni d'Hus che ne doveva godere , e del concilio che lo
lovea rispettare. Discorriamo distintamente tutti questi tre elc-
DCDli, invochiamone i rapporti che hanno tra loro; aspettiamo
he la ragione de' tempi, degli uomini e di ogni altra circo-
tanza, per logica virtù, ci partoriscano la sintesi, storica dì que-
to avvenimento.
Sigismondo, reso. consapevole delle gravi turbolenze mosse
a Boemia per cose di religione, e sapendo come a quelle des-
erò alimento le parole e le scritture di Giovanni d' Hus , ben
Dlentieri accolse l' andata di costui al concilio coslanziense ,
arche questo esaminasse, giudicasse, difQnisse i religiosi ne-
tti della Boemia. Ad Hus , giudicabile dal concilio e che vi
idava come al tribunale, egli Sigismondo concesse un salvo-
indotto. Nulla in quello di condizionalo. L'imperatore ordinava
tutti i suoi soggetti che nulla di male facessero al viandante
lemo: anzi con ogni modo ajutassero la gita, poiché lo ave:^
— 324 —
accolto Della protezione e tutela del sacro romano impero. 1
scritta dunque riguardava Sigismondo che la spediva, Giovan
a prò del quale bandivasi, i soggetti deir impero che la dov(
vano osservare. Il concilio non, entrava, neir imperiale scritl
che come scopo a cui mirava il viaggio di Hus, e non altr
Adunque l'imperatore si obbligava alla sicurezza di Hus via(
glante per ì suoi Stati, e vi obbligava i suoi sudditi. La obbli
gazione cessava tosto che Hus raggiungeva lo scopo del su
viaggio, ossia tosto che entrava in relazione personale col coi
cilio ; altrimenti il salvocondotto avrebbe avuto uno indetermi
nato vigore, che sarebbe in contraddizione di ogni logica (
diritto. Adunque il salvocondotto impeciale non garantiva 1
vita e la libertà di Hus che durante il viaggio, come mezz
senza del quale egli non poteva personalmente presentarsi i
concilio. Sigismondo lo poteva fare come imperatore, e lo fec(
né troviamo, fino a che Hus non giunse in Costanza, viola
zione di sorta commessa da lui o dai suoi sudditi alla dat
fede. Hus giunse sano e salvo in Costanza, anzi inebbriato, com
egli stesso dice , delle trionfali accoglienze ricevute nelle citt
di Germania.
Il concilio era un tribunale, supremo difflnitore delle cosi
toccanti la fede ed i costumi, al quale soggiacevano tutti , an
che r imperatore. Come radunanza di vescovi nella città d
Costanza , i padri dovevano rispettare il salvocondotto di Sigi
smondo a favore di Hus ; perchè Costanza era città imperiale
ed in lei quel salvocondotto aveva forza di legge, alla qual
soggiacciono anche gli stranieri nel tempo che dimorano ne
paese del legislatore. Ma, come concilio , quei padri dovevan
rispettare condizionatamente la scritta imperiale, vale a dir
ove non fosse stata ripugnante alla giurisdizione del loro tri
bunale. Della quale condizione l'imperatore non poteva adontars:
Egli aveva voluto la convocazione del concilio come univei
sale tribunale deflniente intorno alla fede; ed egli non potev
senza contraddizione volere ad un tempo che non fosse defi
niente intorno alla dottrina di Hus. Adunque il salvocondotU
mentre tutelava in Costanza Giovanni per necessità dì legge
Io abbandonava nel concilio alla contingenza di un giuiizic
anche per necessità di legge. E questa contingenza includevi
la possibile coercizione, ove il giudicato non fosse stato docili
alla sentenza. Lo stesso Hus lo aveva voluto e preveduto. Neil:
scritta che fece affiggere alle porle della reggia nel muoven
- 525 —
da Frasca egli significava a tutta Boemia ed a latte le na-
liooi andare al coDciiio per essere giudicato. E conchiudeva :
< Laonde , se alcuno mi renderà convinto di alcuno errore e
mi dimostrerà avere io insegnate cose aliene dalla fede di
Cristo, non mi sottrarrò a qualunque pena di eretico. > Adun-
que doveva essere un tempo a cui la immunità ctie fruttava
^d Hus il salvQCondotto cedesse il luogo alPazione di un giu-
dizio e quindi alla possibile coercizione del giudicato. 11 fallo
dunque derconcilio starebbe nell'avere prepotentemente anti-
cipato quel tempo , ossia deir avere vulnerato il salvocondotto
dato dall'imperatore innanzi che fosse stata maturata la legalità
del suo giudizio. Vediamo se sia stata questa anticipazione di
tempo, nella quale solo può slare la violazione della pubblica
fede.
Appena giunto Hus in Costanza, significato a papa Giovanni
il salvacondotto cesareo, tanto di buon animo il papa si poneva
a rispettarlo cbe apertamente promise adoperare ogni suo po-
tere perchè ad Hus non fosse fatta violenza di sorta durante
la sua dimora in Costanza. E raffermò coi fatti le parole. Lo
sciolse, come dicemmo, dalla scomunica, gli vietò solo d'interve-
nire alle messe solenni e la predicazione , a causare lo scan-
dalo. Ciò è affermato da un amico di Hus. Il papa adunque ed
i Cardinali andarono dapprima assai cauti, e, come futuri giudici
di Hus, non ruppero la fede per anticipate sentenze. Bene ac-
colto, beneficato anche della soluzione della scomunica, Hus do-
veva starsene aspettando Tarrivo de'padri e Tesito del suo giu-
dizio, rispettando il divieto della predicazione. Egli lo violò,
perchè era venuto intestardito a predicare, cioè a disseminare
quelle dottrine che non potevano pubblicarsi prima che senten-
ziasse il concilio su di esse. Impudentemente spargeva la eresia
<li Wicleff, violando il papale divieto, e le leggi dell' ospizio.
Il Cerretano presso lo Spendano lo dice chiaro: Quod doclrinam
Wklefi in hospith disseminaret. Ora se Hus , disseminando le
proprie sentenze, sarebbe stato colpevole , perchè prevenuto
avrebbe il giudizio del concilio, molto più reo addivenne spar-
gendo quelle di Wicleff, già dichiarate ereticali dal concilio di
Pisa e dal consenso dell'universa Chiesa. Né ciò che recita il
Cerretano lascia dubbio di sorta, venendo confermato dallo stesso
Hus, il quale, appena giunto in Costanza, non rifinì dallo scri-
vere lettere in Boemia esortatrici a star fermi nella sua dottrina,
che non era ancora stata giudicata dal concilio. Anzi aperta-
. — 326 —
mente dice che egli dod faceva che predicare al popolo, gtosti-
flcando la sua dottrina. Parla di un Giovanni Lepka suo fautore:
Ubique plus prwdicat quam ego, declarans meam innocmtifim.
Era chiuso nella carcere e faceva lo stesso. Egli lo dice scrì-
vendo al comune di Praga: Quo nomine etiam vos docui verbuin
Dei; neque adhuc desino vel in carcererà idem agere. Ora era
questi un fedele che docilmente commetteva alla sinodale auto-
rità il giudizio della sua dottrina e per cui aveva ottenuto U
salvocondotto, o un uomo incaponito nell'errore, e dal quale non
avrebbe mai rimesso? Vegga dunque il lettore che non fu il
papa che accordò il tempo della immunità guarentita dal sal-
vocondotto del cesare, ma fu Giovanni d'Hus, il quale come non
doveva patire danno nella libertà pel salvocondotto cesareo, così
non doveva inferirne alla pubblica tranquillità con intempestive
predicazioni. Adunque la sua prigionia fu giusta, perchè ordi-
nata a preservare la pubblica pace, non violatrice del salvocon-
dotto: poiché non può essere legge che defraudi il giudice di
una giurisdizione di prevenzione verso la persona a giudicarsi,
a guarentigia della futura sentenza. Àiresercizio di quella giu-
risdizione non venne il concilio di proprio talento, ma vi fu
spinto da Giovanni d'Hus. Questi aveva un salvocondotto che
il guarentiva andante a Costanza città imperiale, non andante
al concilio, che sovrastava nelle cose di fede allo stesso impe-
ratore, non potendo dare ad altri salvocondotto in rapporto a
superiore. Né il concilio né il papa ne avevan dolo alcuno ad
Hus; lo dice egli stesso: e quello imperiale non aveva più al-
cuna forza tosto che incominciava l'azione sinodale verso di
Hus. Questi l'anticipa con le sue predicazioni violatrici di un
divieto : e quando i Boemi chiedevano il rispetto della scritta
imperiale, i padri giustamente rispondevano: Sacrosanctam s//-
nodum arguì non posse de fide mentita, quia concilinm non de-
derat ei salvumconductum, et concilium majus est imperatore
Sigismondo nulla fece di cui si potesse accagionarlo come
di violenza del suo salvocondotto. Anzi accolse favorevolmente i
richiami di Giovanni de Chiura, che venne a lui lamentando I?
prigionia di Hus; ed ordinò che questi venisse messo in liber-
tà, cum intimationibus et minis de frangendis carceribus, casv
quo non r elaxar etur. G'mnlo in Costanza, i padri lo pregaronc
perché li lasciasse in piena libertà nella causa di Hus, dovendc
giudicare di materia di fede, il che valeva che avesse infrenate
le minacele del Chium sparse per le mura della città e confer-
— 527 —
masse le provvidenze tolte dai padri ad impedire le sediziose
predicazioni di IIos imprigionato. In una parola , chiedevano
che il soo salvocondotlo non incatenasse F azione del concilio
tanto nel processo del giadizio che nella giurisdizione di pre-
venzione. Vedemmo che Sigismondo promettesse fare quanto
chiedevano. Ora l'imperatore, soggetto al concilio nelle cose di
religione, protettore della Chiesa , non ruppe la fede data la-
sciando in prigione Uus; ma bensì adempì a quei doveri che
incombevano a Ini, non per condizionata, ma per assoluta legge.
E per ora basta.
Intanto, giunta la nuova della prigionia di Hus in Boemia,
leyossi un grande rumore. I Boemi si tenevano offesi delle im-
PQtazioni ereticali che si facevano ad Has, quasi toccassero
ToDore della loro gente. Quelli non erano tempi d'indifferenza,
per la quale una opinione religiosa, come ai dì nostri, sBora e
DOQ va dentro degli animi; perciò la taccia di eretico spiaceva.
Aggiungi che le novità ussite non toccavano solo le specula-»
zioni dei teologi e dei BlosoQ , ma anche la pratica economia
<lel governo e della proprietó. Poter tenere fronte al principe,
arraffare il pingue patrimonio chericale , scuotersi dair obbe-
<lienza dei pastori visibili, tocchi dalle spirituali censure, scap-
parsene a Cristo capo invisibile, èra una cosa che sapeva assai
{lolce al palato di un popolo che credeva sperimentare qualche
ingiustizia nella troppo proceduta ricchezza chericale. Non solo
i laici erano contenti ; gongolavano di gioia anche molti dei
chericì. In tempi di risoluta disciplina, in tempi di scisma, certo
^he la collazione dei benefizi non andava sempre secondo lo
spirito dei canoni. Spesso il privilegio dei natali, l'artifizio au-
lico fruttava ad indótti e scorretti cherici quello che ai dotti e
<50stumati si aspettava. Scontenti erano molti ; perciò ad Uus
si afferrarono, con la religione della riforma, i maggiorenti ago-
gnatori delle cose dei preti , la plebe francala dalle decime e
dal troppo imperio sacerdotale, e molti cherici che forse ave-
vano ragione a richiamare, ma non a ribellare alla Chiesa. Re
^enceslao e l'arcivescovo Corrado non erano uomini da stare
^l timone degli affari in tutto questo forlunare. Entrambi erano
^•Uttodi col tovagliuolo alla gola, pensando alla fugacità della
^ila, e non curanti della dimane. Per la qual cosa come furono
%esse la prima volta le guardie attorno alla persona dì llus,
frissero i Boemi una lettera a Sigismondo perchè fosse lasciato
in libertà. Essi si tenevano forti alle testimonianze dell'arcive-
— 328 —
SCOVO Corrado, che aveva esaminata la dottrina di Giovanni e
non vi aveva trovata ombra di eresia , e concbindevano pre-
gandolo cbe libero e senza ceppi fosse data pubblica udienza
ad IIus, onde dal falso testimonio e dalle calunnie de' suoi ne*
mici non venisse sopraffatto con somma ignominia dei Boemi.
Chiuso poi nel convento dei predicatori , più fortemente insi-
stettero, gridarono per quella che credevano violazione del sai-
vocondotto ; e dell'eresie di cui si accagionava Giovanni si cre-
devano essi stessi accagionati. Sigismondo aveva saputo il netto
in Costanza e nulla fece. Faceva però il papa, che creò due
commissioni all'esame delle cose di Hus, una composta del pa-
triarca di Costantinopoli e due altri deputati ad accogliere le
accuse contro di lui ; Taltra di quattro cardinali, Ailly, Bran-
caccio, di San Marco , di Firenze , due generali d'ordini e sei
dottori.
Mentre questi commissari intendevano ad Hus, il concilio
era tratto al negozio della unione dalla venuta di certi perso-
Tìaggi, che recavano la questione nel seno. Erano i legati del-
l'antipapa Benedetto, di cui non sappiamo i nomi. Giunsero a
di 8 di gennaio; astuti ministri di più astuto signore. Il De
Luna, forte in casa del re d'Aragona, come se nulla avesse dif-
finito il sinodo pisano sui fatti suoi, mandava dicendo volere
abboccarsi con Sigismondo e re Ferdinando d'Aragona in Nizza,
e trattare cosi alla buona l'affare della benedetta unione. In-
tanto chiamavano il pontefice quegli che alcuni appellano papa
Giovanni, ed il concilio chiamavano congregazione. Dettero di
spalla alla inchiesta dei legati antipapali gli oratori aragonesi.
Nella disperazione in cui erano venuti cardinali e prelati di
vincere il testardo De Luna, confortarono Timperatore alla pro-
messa di convenire coi deputati delle nazioni, con certe con-
dizioni, a Nizza, luogo scelto alle conferenze del prossimo giu-
gno. Papa Giovanni dava del si a malincuore, ma chiedeva un
salvocondotto per andarvi anch'egli. A queste decisioni si venne
nel marzo in. una generale congregazione.
Mentre tempestavano i sinodali spiriti, Giovanni Hus infer-
mava di renella e di febbre, e a non perder tempo scriveva sacri
trattati. Fino a che papa Giovanni fu in Costanza, fecero di lui
buon f^joverno. Chiuso nel convento dei frali minori , ne ave-
vano la custodia quelli della corte del papa ; e Giovanni loda la
umanità onde usavano con lui. Lo dice in una sua lettera :
« Tutti i chierici della camera del signore papa ; e tulli i
stodi assii pìetos2fDeole hìì gdT«rMno. » Fnirdto il {Vìnie-
e, i deputati a goardarìo recairooo le chìaTì de Ih prìin(>ne. :)
^smoodo, che commise Hos ndle mani del Te$coTo di (kh
inza ; il qaaie tradottolo da quel confento ^ lo fece cbìoden^
ila rocca di Gotleben di là dei Reno. È belio vedere, come
qael di della foga papale , in coi fa tanto roniore in città .
is credesse morir delia foroe, temendo che i custodì i^n*
odo solo a fuggir coi papa, non pensassero più a lui. Seri-
ra : « Già tatti i miei custodi Tanno via, né avrò più man-
ire , e non so che sarà di me in prigione. > ih i commìs-
ri scelti dal concilio alla censura delle sue scritture pensa-
no a lui : ed a tutt' uomo si adoperavano a trargli di bocr;i
la ritrattazione de'suoì errori. Di questi non era dubbio : op-
re egli non faceva che chiedere una pubblica udienza dal
ndlio, per discorreria a modo accademico. Lamentò egli per
tere ai Boemi deir indugio della sua udienza; con più forti
lori ritraeva la miseria del suo vivere in prigione, e ranimo
0 forte come se quello fosse di un martire.
Per la qual cosa come la Boemia era tutta levala a rumori
Ile sue dottrine e furiava della sua prigionia, come di onta
recata a tutto il reame, sorse Girolamo da Praga. Volle egli
carsi in Gostanza per tenere il campo contro i suoi avver-
ri. Sapevano tutti chi fosse; laico, non chierico; baccolliero
maestro in divinità. Aveva data opera agli studi nelle Uni-
rsità di Parigi , di Ueideìberg , di Colonia e Oxford : nelle
tali conseguì fama di molta dottrina. Sapeva più d'Hiis, <iuan-
nque più giovane: nelle quistioni era un prodigio di acu-
zza. Uos predicò, Girolamo fece. Contammo delle suo violenze
profanazioni commesse in Praga : fu dei più solleciti Irascrit-
ri delle cose di WicleiT, che recò in Boem^ì. Hus lo teneva
ime suo principale sostegno: ma avvegnaché Girolamo si fosso
kbligato con promessa a venirio soccorrendo in Costanza, o
testi nelle àue lettere lo esortasse a non venire , pur volle
hdare il baccelliere. S'intromise in Costanza a di 4 aprile con
Il suo, discepolo. Vide, spiò: trovò le cose a mal partito per
Ins, pericolose per sé; andò via tosto e di soppiatto, itiilottosì
1 Uberlingen poco lungi da Costanza, scriveva ai baroni boemi
|e erano al concilio, ed a Sigismondo, che volessero munirlo
fun salvocondotto per la sua venuta ed andata da Costanza ,
ado purgarsi io pubblica udienza dei delitti che gli veni-
apposti. I Deputati delle nazioni richieste ris|K>s<>ro in
Tamb. Inguii. Voi. II. 49
- 530 -
nome del concilio : < Noi gli dai^mo il salvocondotto a ve-
nire, non ad andarsene. » La qual risposta rapportata a Girti
lamo, fece cbe il di appresso appiccasse alle porle d^Iia citi
delle chiese, dei conventi, e delle case dei cardinali, una scriH
la quale recava una sua solenne protesta alllmperatore ed
l'universo concilio: e Lui voler rendere pubblica ragione d(
sua innocenza in fatto di fede, malamente calunniato dai s
detrattori e infamatori del reame di Boemia. Convinto di erro
e di eresia, non ricusare fin da quel di subire pubblicameli
la pena che si aspetta a travialo ed eretico. Pregar Timperatore
il concilio di un salvocondotto. Venuto in Costanza; se f(
imprigionalo o patisse altra violenza innanzi essere ascolta
sapessesi il mondo tutto, non aver^ operato il generale com
lio secondo giustizia. vNulla ottenne; e tolte dai baroni boei
scritte testimonianze di tutto il fatto di lui , prese la volta
Boemia.
Decretato sul papa, si venne agli eretici. Girolamo da Pn
era in Boemia ; ma la sua protesta fatta appiccare alle porte
Costanza non era stata obliata dai padri. Chiedeva rendere
gione della sua fede, chiedeva un giudizio della sua dottrini
fermo a fronte di un'approvazione o di una condanna con tutte
pene che s'infliggevano agli eretici; chiedeva un salvocondi
che gli assicurasse la gita e fa dimora in Gostanza. Molto rumoi
erasi levato dai Boemi su la prigionia di Hus e su la violazioi
del salvocondotto concesso a lui da Sigismondo ; perciò i Cosi
ziensi andarono cauti con Girolamo. Difflnirono in questa sessioi
spedirsi al pragense il chiesto salvocondotto, o meglio una ci
zione con qualche cosa che sapesse di salvocondotto. Scriveva!
« Avere avuto nolvm della sua prolesta, nella quale lamentai
le calunnie di cui gli dava dell'eretico e del wiclefflta, e chieder
purgarsene al cospetto del concilio, assicurato di un salvoca
dolio. Consentire all' inchiesta : e poiché era loro debito ioti
prendere quelle volpacce, che mettono a soqquadro la vignai
Signore di Sabaot, ed impedire che non venga contaminata
chiesa di Dio, chiamarlo e citarlo a comparire fra quindici di
loro cospetto, e che lo ascolterebbero nella sessione prossima
suo arrivo. Concedergli, per quanto dipendeva da essi, ed esif
vaio la ortodossa fede, un salvocondotto, che lo metta al
verte delle violenze, salvo però il corso della giustizia t.QiH
sta citazione o salvocondotto, pubblicamente aflìsso in Costaoi
venne a mano di Girolamo. Da quelle parole, justitia ta
— 5SI —
iloa^ onde i Costannaisì si monirono omtro i richiami che
Dteraiio levare gli eretici, OTe fosse ooiKbonsto Gìroisnkx il
oofiDt ea^ argomento della proditoria prigionia di Has, non
iggendosi nel sno salTooondotto quelle parole. Ma come non
merte 11 dotto nomo, che queste erano snperflae* e ben sì
■(gelano moralmente da chiunque non ignorava che la scrìtta
i^miale assicurava dalle violenxe fuori giodiiio, non nella pos$«
Piile coazione delle leggi, cui andavano incontro qnesti eretici
ircatori di giudizi. I Gostanziensi resero materiale la lezione
l^qnelle parole nella scritta a Girolamo, non perchè a suffì-
^raia non si lecessero moralmente, ma per rìbadiro questa
PMidizione che tacitamente parlava in quella deirimperatore.
l Dato fine alla ottava sessione, vennero tosto affissi i cedo-
pi della citazione lanciata a papa Giovanni. Due notai delh^
■kzione tedesca, Gumberto Fabrì e Giselero di Boventen, li an-
hrono ad appendere con tutti i riti forensi alla porta della città*
iìamata Svetz-Porten, o Porta degli Svizzeri, per la quale fuggi
povanni, indi a tutti gli us£ì delle chiese. Questa citazione
~ iturbò forte i fautori del papa. Tre cardinali, Oddone della
rana, poi papa Martino V, Brancaccio e Rinaldo di Tricarìco
ote del Gossa, i quali eransene rimasti a SciafTusa, vedendo
Brate le cose, tornarono a Gostanza. Una turba di curiali ,
ili fino a quel tempo avevano sperato nella risurrezione di
Dvanni, vennero anche a posare in Gostanza.
Papa Giovanni rimaneva deserto; anche Federico d'Austria
protettore venne sforzato ad abbandonarlo. Questo pessimo
innello erasi afferrato a Giovanni per causare i giudizi del
lio. Ma le armi cesaree e la pubblica opinione lo costrin*
ad arrendersi. Venne in Costanza a fare la dedizione di so
tutte le sue signorìe in mano di Sigismondo. Questi nel
fiverio volle che il rorbano impero desse tale uno splendore
^abbagliare l'universo mondo. Con solenne e pubblico nppa-
egli accolse in grazia il penitente arciduca. Nel convento
Francescani si assembrarono! deputati delle quattro nazioni.
Ile Sigismondo che in quel parlamento intervenissero gli
itorì di Venezia, di Milano e di Firenze e di altre cittii ila-
e la ragione è recata dal Wan der Hardt < perchè dalla
Eione di un potente duca imparassero la potenza . e la
sta di cesare; e da quello esempio venissero ammacHtratla
Brare cesare con pio devozione ed a paventarne la potenza. •
mque come si vide in mezzo a quel convento, Sì^^ismondr^
€on acconcia dicerìa disse delia guerra combattuta contro Tu
siriaco; De recò le ragioni, accusando Federigo della foTorii
fuga del papa, della minacciata dissoluzione del condilo, delJ
molle furfaaterie commesse contro le chiese, rubando a maa
salva i loro patrimoni , e quelle delle vedove e dei pupllfi
Annunziò finita la guerra , poicbè Federigo gli aveva chiesi
racconciarsi con lui. Chiese da ultimo ravviso dei padri intom
al giuramento , con cui si era legato di non fare mai pace ol
tregua col fellone arciduca. I padri calmarono le spirìtoal
angosce di cesare^ rispondendo, che la imperiale coscienza od
doveva temere peccalo di spergiuro, accogliendo in grazia ra«
siriaco, essendo questo un suo vassallo, a cui faceva miseri
cordia. Finito il sermone, e sbarazzata dall' intoppo del giur»
mento la via, vennero Riandati fuori quattro, prelati, i qoil
conducessero dentro a quel pariamento il duca. Ed eccoli UM
nare con Federigo burgravio di Norimberga e Ludovico i
Baviera , illustrissimi principi, in mekzo ai quali veniva tn^
contrito Taustriaco. Questi si misero ginocchioni alla imperili
presenza, ed il burgravio presela parola per Federigo: I
pietoso intercessore chiese perdono e misericordia de'suoi fall
promise ricondurre il papa in Gostanza, salvo il suo onoi<
eon cui si era obbligato a rendere immune la vita e la roti
del pontefice e di quei che lo seguirono. Al burgravio succosi
Federigo in persona, il quale con ogni umiltà di modi e ì
parole disse lo stesso, ponendo sé ed ogni sua cosa in bali
dell'imperatore. Questi gli toccò la mano. Onde Federigo i
mani giunte conchiudeva, gratificato di quel perdono, promel
tendo , non avrebbe mai fatta cosa contro quel serenissia
signore, ed essere in eterno suo fedelissimo servo. Lo Stumphì
tedesco conta, che quando Federigo ebbe dette queste cosi
l'imperatore si volse agl'Italiani e disse loro: « Italiani, voi ba
sapete come i duchi d'Austria siano i più polenti signori diU
magna ; ebber)e, vedete come so io mettere a segno questi I
idlri. » Non ebbe flnilo di supplicare l'austriaco, ed i notai ali
sue spalle pront'amente scrissero i legali strumenti, conservatai
deli' atto (iì tanta soggezione.
La dedizione di Federico non assicurava quella del pip
ma certo che la rese più facile. II Cessa vedeva netto nell'avn
iiire non lontana la sua rovina: egli non trovava modi a causali
ma a tutf uomo sforzavasi indugiarla. Guardava sempre si
Borgogna, come a luogo di rifugio; e poiché il concilio, teM
édM ntnSlà brasi bm ne inlnib^ràii^ ;j^Icihm «uri $iik^ (vrv^
team z tedi leBporae^iiilok poneva le Uitìn)^ $(^maw^ K)ni
un oooìo dfon^eisslkilà di spirito prvxiì^kv;}^ cW ^wx;! ;9i f^rb
col teìksco SifìsnModd. li amcìKo ^pubv:! ;i FVtlHir^^ r;ja\'b
mescolo dì BesMfoo e quel dì Rù^ . per (^k^rK^ ;ii u>nvlln^^
L'impcniore lì mandaTa il bor^nr»TÌodì Ncvrìmher^ <tHi uu u^\K^
ifi SOO oomioi d^arme* Al Tedesco ìucooiukùiy;! a iHH^rx> quello
sciTolargti clie (aceia dalle mani r;i$Uìlo ìtaHaiìo : ìiu\mùuoU\
pian piano con la forza. Il bor^uvìo ihmì fece ^Itro che \HMrfO
qoà som armigeri agli sbocchi della olii, a |virare il |k^)m. s^^
si mettesse in foga. Gli arci?escoTÌ lo andan^ìo a Innartv (ìi\w
vanni li accolse col più beato viso del uìondo, c\>me so nulla
di nnovo fosse a-venuto. Gii arcivev^covi p^irluvano di oil»xioul.
di processo, di obbligo a comparire in concilio a purg.^rst uolla
nona sessione a dì 13 di maggio, rdlic:u*ano oiu) iH>rogrin;) ohw
qnenza a muovergli la ragione e gli afftHU; oc) egli ctm UKi.^cIda
dissimulazione rispondeva loro benigna mento: tKs^eroinHUI
muovere per Costanza; dispiacergli Tessorno ri|Kirlito« » Il hur«
gravio e i legali se ne consolavano: e Giovanni il ili npprosso
mandava una procura ai cardinali di S. Marco, di Oauìlmil, di
Firenze, perchè a vece sua comparissero in oonuilio w <)isool-
parlo.
Giovanni teneva fermo, ma con poca sporanxa di siiliiln ,
il concilio procedeva. Difficile era slato lo stabilire prinripli ;
discendere da questi ai fatti era facile. Le nazioni, nrmonly.ziiln
dalle formolo legali dei procuratori sinodali, vi andavano a vnin
gonfie. Il papa era giudicabile; Tavevano cllnlo; n(»n vulnva
comparire, bisognava condannarlo. La logica dei le^ulni rnndnvii
invulnerabili i petti dei Costanzìensi; ma in quel pelli, lo dico,
sordamente fremevano i cuori traili dalla violen/ji d<d IfMnpi
a trasformare la logica dei princi|)ii, nel (|iiali posavano I di^
stini della Chiesa e deirumanità. Si apri la nona MHHHlofM) a di
43 maggio: versò tutta intorno a papa (iiovanni. Nulla mi ii
deliberarsi: non erano che formole di crlmlnalo pnxtitdiira di»
eseguire. Tutti sapevano che Giovantd non narebbe cofnpiiriio,
tutti sapevano che si andava alle canoniche pufiizionl d<d (um-
tnmace. Presiedeva il consenso il cardinale di O^iia; i*. v' vrn
Sigismondo. Il vescovo Koberto di KallHbiiry c^uUi Ut tw^^a iUu
gli angeli; tutti cantarono le litanie iUtì nariU, il Vmt Crmhfr
Spiritus ad inchinare, merr;é il mflrAVÌoiki cariti, la divin:i i^»*
— 554 —
pienza in loro aiuto nello strano negozio di sospendere un pon*
teflce sommo. Ma innanzi che i procuratori incominciassero i^
loro ufficio, Benedetto Genzìano monaco di s. Benedetto, dottore^
ed ambasciatore dell'università di Parigi, racconfortò Fanimo-
dei padri , glorificò quello di cesare con due lettere dei suoi
confrati universitari parigini. Anche questi tenevano concilii:
ed in un loro convento aux Maturins scrissero queste esorta-
zioni ai Gostanziensi , ad usare sempre più santamente pel
bene della Ghiesa ; ed a cesare , a gratificarlo di lodi pel gìèt
fatto. Tutti operavano in buona fede; ed anche il monaco Gen-
ziano. Ma a me duole assai vedere questo monaco ambasciatore
di quella università in Costanza. Le tradizioni dell'ordine bene-
dettino e la storia dei suoi rapporti col papato avrebbero dovuto
consigliar questo monaco piuttosto alle salmodie che a cosi
fatte ambascerie. Quelli eran tempi da orare anzi che di nego-
ziare: eran tempi che per la disperazione degli umani argomenti
più fortemente consigliavano appigliarsi ai divini. Processe in-
nanzi alle quattro nazioni ed a ben quindici cardinali (il Gam-
brai era in Gostanza, ma non volle intervenire alla sessione) il
procuratore Errico de Pirro ed annunziò fatta la citazione a
Giovanni, fallita, perchè assente: chiese si deputassero prelati
a ricevere il giuramento dei testimonii accusatori del pontefice
e ad esaminare la loro deposizione. A questo levossi il cardi-
nale Zabarella di Firenze e produsse le lettere di Giovanni, con
le quali dichiarava lui, il Gambrai ed il S. Marco suoi procu-
ratori. Lettele , aggiunse : t Lui non essere stato mai procu-
ratore di alcuno, non volerlo essere allora per Giovanni. 11 Gam-
brai non rispose, perchè assente: il Fiorentino conchiuse
« Neppur io: la è ben grave bisogna farla da procuratore contro
r universo mondo. » Accorse presto il De Piro a segnar col
marchio della legge la negata procura , dicendo come , es-
sendo personale la citazione, e criminale la causa, non potesse
riconoscersi alcun procuratore. Questi legulei sono stati sempre
le cavallette del genere umano.
Sbarazzata la via del De Piro, cinque prelati (erarro stati
destinati dal concilio anche due cardinali diaconi , ma non vi
vollero andare) presi dalle varie nazioni, seguiti da un codazzo
di notai, se ne andarono air uscio della chiesa e a gola piena
gridarono: « Per^l'aulorilà della sacrosanta sinodo costanziense
cerchiamo del signore papa Giovanni XXIII citato dai suoi se-
guaci e fautori che qui sono, perchè vengano a rispondere alla.
— 355 —
presenza della santa sinodo intorno a ciò che si contiene nella
scrìtta di citazione. > Gridarono più volte: nessuno rispose, per-
chè Giovanni stava a Friburgo ; ma quello era semplice rito.
Tornati in chiesa, lo andarono a rapportare ai padri; e De Piro
ne stendeva e leggeva pubblico istrumento al cospetto di una
moltitudine di cristiani, numero copioso.
II di appresso, che fu il 14 di maggio, fu aperta la decima
sessione, ed Errico de Pira annunziò ai padri questa essere con-
tinuazione delFantecedente intorno al negozio di papa Giovanni.
Perciò tornarono a gridare i quattro deputati delle nazioni con
due cardinali alle porte della chiesa, chiamando papa Giovanni
ed i suol fautori. E neppur rispose alcuno. Allora il presidente
biella sinodo li dichiarò contumaci : ed i cardinali di S. Marco
^ Giordano degli Orsini con tutti i deputati esaminatori de'te-
3timoni accusatori del pontefice vennero in mezzo leggendo le
deposizioni di costoro. Le quali approvate come vere, il De Piro
dimandò ai padri se lor piaceva che papa Giovanni venisse so-
speso dairamministrazione del papato, delle ragioni e delle so-
stanze della Chiesa, e che venisse ordinato ai fedeli di non pre-
stargli più ubbedienza. Tutti gli risposero con un placet.
Il lettore vorrà sapere quali fossero le colpe di Giovanni,
onde venne prima sospeso, poi deposto dal papato, lo non le
recherò tutte, che queste in man del promotore De Piro ven-
nero fuori in serie assai lunga ; però trasandando la ragione
numerica delle medesime, mi terrò piuttosto alla ragione morale.
Non dubito che Giovanni sia stato un tristo arnese; non dubito
• della veracità dei testimoni né della equità dei giudici: ma credo
<^he i tempi operassero molto nella coscienza dei primi e nel
criterio dei secondi. Nel corso di un secolo ire grandi processi
mi si parano innanzi: quello di Bonifacio Vili, dei templari e
di papa Giovanni. Ponendovi sopra la mente, trovo un non so
che di unissono nella natura delle colpe deposte dai testimoni,
e' trovo che i testimoni subiscono piuttosto la legge di quella
che chiamano pubblica opinione, che quella della verità dei
fatti. Perciò il delitto di cui si accagiona il reo è sempre quello
che rende infallibile Tapplicazione della pena. L'ateismo, la stre-
goneria, le carnali corruttele. Quando la ragione di Stato (come
jie'due primi processi) o la ragione della Chiesa (come in que-
^sto di Giovanni) si travasava dalla corte nel popolo, dal conci-
lio nel chiericato, e prendeva la forza di un bisogno, le fanta-
sie si riscaldavano, e tutte intente le menti nella ragion finale
- 336 —
della civile e religiosa salvezza, non più vedevano nelFaccui*
salo la contingenza di un giudizio, noa la necessità di una con-
danna. In tali condizioni la punizione del reo s'identifica con
l'idea dello Stato e della Chiesa tolta da grave pericolo. E quando
non corre più distinzione tra quelle due idee, gli uomini pos-
sono diventare caianniatori in buona fede, i giudici iniqui, e
Vexpedìt arma allora carnefici non deputati dalia , legge. Boni-
facio Vili, il gran maestro Molay, la pulcella d'Orléans mori-
vano inconsolati dal pensiero di lasciare ai loro giudici uo ri-
morso. I legislatori sanciscono le pene nella pacifica ed indiffe-
rente estimazione deirumanità, i giudici le applicano nella esti-
mazione degli uomini; la quale se corre tranquilla per la inte-
grità di chi giudica, non lo è sempre per la mitezza dei tempi.
È questa una verità che non s' interpreta, ma si legge nella
filosofia dei diritto penale. Adunque la ragione della Chiesa era
a que'malaugurati tempi già travasata nel popolo : e Giovanni,
ancorché fosse stato innocente, doveva comparire reo e doveva
sperimentare come Vexpedit abusivo dell'umana giustizia spezzi
anche in man dei pontefici le somme chiavi.
Il Cossa ne aveva fatte delle grosse: ma era papa. Nel dir
questo non intendo giustificare la iniquità con la levatura di
chi ne é imputalo. Appunto perché papa, più scandalosa la colpa,
più dannevole alla sacra e civil compagnia degli uomini, più
austero il giudizio, anzi quello che nella Bibbia é chiamato
durmimum. Ma la legge o positiva o coercitiva è sempre ordi-
nata a bene della società: e può avvenire che una cieca appli-
cazione della medesima falli il retto intendimento del legislatore
e defraudi i soggetti di quel bene che s' impromeltevano dalla
legge- Di qua la varietà di quella che chiamano procedura le-
gale. Il fiscale del concilio De Piro menava a tondo la falce della
legge: incontrò un triregno, e lo segò netto. Ma in quel triregno
ora il massimo de'poteri, era un'espressione di Dio in terra agli
occhi degli uomini. Il Cossa fu punito, la società fu appagata,
ma ove fu più il papa?
Il lettore ora vorrebbe sapere da me come avrebbe dovuto
fare il terribile fiscale. Io rispondo che quel che fecero i Co-
stanziensi non andò ben fatto anche pel mal che ne venne.
Come poi avrebbero potuto operare, é difficile anzi impossibile
il dire. Lettor mio, quando si parla di società di sopranaturalc
istituzione è scopo, si parla di cosa che non è naturale, quindi
misteriosa. Ammettere che la Chiesa sia sopranaturale per chi
— 557 —
fbodd, pel prindfHo che la informa, per io smpo coi mira, e
toidere, a mo' d'esempio, comprendere al tutto e sempre U
ione di ogoi suo precetto, di ogni sua credenza, è un TOler
ioire rindefinilrile. Intendo bene che qoesti nodi nella catena
una .specalativa eslìmanone si Ontano, si leccano e si lasciano
re, ma che nella flagranza dei fatti bisogna scioglierli. Ma è
* Tero che evvi una provvidenza che tolga questo foslidio ai
li degli nomini in una società sopranaturale come la Chiesa.
i possiamo correre la serie degli umani fatti, indirizzarli, voi-
ii or bene, or male; ma la cima di questa serie è impughata
Ila mano di Dio. Quando sentiamo il caldo del divino con-
to, bisogna arrestarsi e aspettare. Qualche voU<i ci pare che
lia cessi d'impugnarla e corriamo ad aflérrarla per fare le sue
ci. Malti i la sprezziamo.
Adunque le colpe di cui fu accagionato Giovanni, la com-
imorazione delle quali giace su cinque grosse pagine in fo-
0 del Mansi, si riducono a questo: libertino in famiglia, tiranno
Ila legazione di Bologna, simoniaco e dilapidatore delle sacre
stanze nel papato. Arrogi il pessimo grido di aver cacciato
questo mondo per veleno l' antecessore pontefice Alessan-
D V, di essersi contaminato di carnali turpitudini, di essersi
testato al cospetto di vari prelati ed onesti uomini a sostenere
e l'anima se ne muoia col corpo, e che al di del giudizio non
sarebbe mai sconciata a risorgere; ed ecco tutto. Questi nodi
niquità vengono poi risolnti in moltitudine di fatti dall'ana-
ico fiscale, e ciascuno di questo riceve il marchio del dictui\
leter, credilur et reputatur palarti, publice et notorie, l tesli-
)Di, che con giuramento avevano raffermato le' accuse recate
[ìtro Giovanni, erano stati dieci vescovi, abati e priori. Il car-
dale di San Marco raffermò i padri intorno alla fede dei te-
QQonii e conchiuse Giovanni XXIII essere un dilapidatore dei
Qi della Chiesa, simoniaco , turbatore della fede; doversi di-
tarare sospeso dal governo delle spirituali e temporali cose
Ila Chiesa. E cosi fu fatto. < In nome della santa Individua
nità Padre, Figlio e Spirito Santo, il concilio tolse dalle mani
1 sommo pontefice il timone della Chiesa. >
Papa Giovanni, che fu visitato a Friburgo dagli arcivescovi
Riga e di Besanzone e dal burgravio di Norimberga, era stato
Icemente tradotto da questi visitanti a Ratolfcel ai 16 del
ise, terra fortificata di Svevia poco lontana da Costanza. Ove
)prio prendesse stanza, lo venne a dire il dì appresso Tarei-
Tamb. Inquis. Voi. IL *5
— 338 —
vescovo di Riga ai deputati delle nazioni, signiflcando loro lo
stato del loro signore il papa. Diceva il prelato trovarsi il pon-
tefice nella terra di Ratolfcel, ospitato in una osteria; non es-
sere ben guardato; doversi provvedere a custodirlo; mandare il
medesimo supplicazioni ai padri sinodali a suo favore; andar-
sene tutto in amare lagrime, pentirsi de'suoi falli e raccoman-
darsi alla pietà del concilio; chiedere un più mite governo. Ma
la sentenza della sua sospensione era già bandita: e il suo sup-
plicare era vano. Infatti il di appresso 19 maggio sopravennero
in Ratolfcel i vescovi di Àsti, d' Augusta , di Toulon con otto
professori di università, due per nazione, e si presentarono a
Giovanni significandogli la sua sospensione dal papato e le
colpe onde veniva dal concilio a quella guisa punito. Parlava il
Tolonese, uomo rotto de' modi: il quale tolse dalle mani di Gio-
vanni il sigillo papale. Panello del pescatore, il libro de' memo-
riali, e mandò tutto suggellato al concilio. Come fino a quel
tempo il Gossa area sperato con gli aiuti delP Austriaco stor-
nare dal suo capo i sinodali fulmini, cosi ora alla presenza di
que' messaggi cadde a tutto d' animo e non pensò che a ren-
dere meno fragorosa la sua caduta con una cieca sommissione
al concilio. Neiraccogliere l'acerbo messaggio, ruppe in un gran
pianto : ed a'suoi famigliari, che lo abbandonavano per coman-
damento de'Costanziensi, diceva pietosissime cose, forte dolen-
dosi dell'essere venuto a tanto di miseria da non avanzargli il
come rimeritarli de'loro servigi. Poi vólto a'sinodali, mandava
dire al concilio : < Con tutta T anima sottomettersi alle sue
sentenze; essere paratissìmo a cedere la papale dignità : ma ove
i padri lo volessero per via dì processo deporre, avrebbe a mani
giunte accolta la sua condanna e sarebbesi contenuto da qua-
lunque richiamo. Raccomandare però per le viscere della mise-
ricordia di Gesù Cristo ai padri del concilio il suo onore, la sua
persona, il suo stato; Invocare da ultimo il favore ed il suffra-
gio della serenissima maestà di Sigismondo, ^profferendosi a
venire in Costanza ed altrove a fare il piacere del concilio. >
Queste cose faceva consegnare alla scrittura il pontefice, che
segnò dol suo nome, Baldassare. Il Tolonese nel muovere per
Costanza, a nome del concilio comandò che papa Giovanni ve-
nisse stretto in una certa torre di Ratolfcel con un nodo dì
trecento Ungheri che lo guardassero. E così fu fatto.
La prigionia del sospeso pontefice rivelò Tanimo de' car-
dinali verso lui. Costoro erano stati testimoni nel concilio dì
— 339-
erribili cose operate contro alla papale autorilà ed avevano
lovQto, come conseguenza, tatelare sé stessi contro la cbiericale
irìstocrazia: la quale, giustificata apparentenoente dalle ragioni
lelPincurabile scisnoa e sorretta dairinsolito suffragio degli unì-
rersitarì, érasi messa in punta di corpo cbe oggi direbbero co-
;tìtuente. In tali condizioni questo collegio di cardinali, a dire
1 vero, addimostrò un tepore di spirili cbe fa un brullo vedere
iella storia. Renitenti, ma andarono alla famosa quinta sessione;
il processo di Giovanni prestarono Topera; e se non ruppero
iIFaperto quanto gli altri padri , ciò avvenne più pel timore
;he Giovanni, arrivando a mantenersi in seggio, non avesse
)reso vendetta di loro cbe per la coscienza della loro missione
iella Chiesa. Infatti come fu risaputo che il pontefice era chiuso
iella torre di Ratolfcel e cbe trecento Ungheri con le spade gli
ibbarravano la via a fuggire, quei cardinali, cbe fino allora non
ivevano preso parie nel suo processo, sorsero inverecondi te-
itimoni della verità delle sue accuse. Tra questi, sei erano stali
lecorati della porpora dallo stesso Giovanni, e quattro traslati
lairordine del presbiterato a quello deirepiscopato. Disonore a
^storo. I cardinali , come elettori ed eligibili a pontefici , for-
nano una compagnia sapientemente istituita ad armonizzare il
intatto delParistocrazia episcopale col vescovo ecumenico di
toma. Qualunque sia il negozio che si traili nella Chiesa, essi
lon debbono svolgere gli occhi della mente dal massimo dei
legozì, dico dalla lulein del pontefice nella integrità delle sue
*agioni. Un po' d'accidia è per essi un morale suicidio. Che i
>)stanziensi, nella disperazione de' mezzi a svellere lo scisma,
;i lasciassero trasportare dal libero e non sano logicare degli
iniversitari , forse potranno trovare qualche indulgenza per la
stranezza delle circostanze: ma indulgenza non troveranno mai
(uei cardinali , che avevano peculiare missione a vigilare la
^ttedra di S. Pietro. Il papato è la cittadella della Chiesa:
;hi ìie ha la guardia non può lasciarla , qualunque la bontà
lei fine.
Il processo di Giovanni in mano dei fiscali non dovea frut-
ar solo la sua sospensione dal papato, bensì anche la deposi-
sione. Era il di 24 maggio , vigilia della undecima sessione ,
iella quale era da emanarsi la insolita sentenza ; e fu tenuta
ina congregazione dei deputali delle nazioni a preparare la
Dateria da definirsi il di appresso. I commissari del papale pro-
;esso dichiararono non aver più che fare; le colpe del Cossa
— 340 —
essere tatte chiarite, raffermate dal giuramento dei testimooì
non rimanere che Implicazione della pena. Pensa il Leofaii
che in questa congregazione i deputati, presi da certo pudori
si conducessero a passare con silenzio al cospetto dei conciili
alcuni dei delitti apposti al pontefice , come, a mo' d* esempic
ravveienamento del predecessore e le incredibili libidini. Ceri
che di queste nefandezze non si parlò nella prossima sessione
Il francese cardinale di Viviers fu presidente alla famos
sessione del dì 25 maggio, Tundecima del concilio, nella qual
venne deposto il papa Giovanni XXIII. L'imperatore, i princi
pi, gli ambasciadori, tutti i cardinali presenti. Al vescovo d
Posnia toccò leggere le papali accuse. Ad ogni articolo rispon
deva altro lettore recando il suffragio de' testimoni. Quale pò
fosse questo suffragio è bello vedere da un solo che vo' recarne
« Questo primo articolo vien provato vero e notorio da due cai
dinali , da un protonotario , da due uditori , da un chierico d
camera, da un licenziato ne'decreti, da un arcivescovo, da un
scrittore e abbreviatore, da un procuratore di un grande ordine
da un canonico di una gran chiesa metropolitana, da un vescovi
da altri notabili uomini, secondo che hanno udito dira, e dall
pubblica voce e fama. » Ora vedi, lettore, se era a lordarsi di tant
infamia un pontefice perchè un canonico di una grande metro
polilapa, un licenziato nei decreti, avevano udito dire e raccoit
dalla pubblica fama le più sozze cose di questo mondo! Si tac
ciono i nomi de'testimoni, ed a tutto sostegno di verità si piant
in faccia al concilio un de auditu publica voce et fama! Neil
nona sessione a di 13 maggio papa Giovanni, invisibile alle sinc
dali citazioni, era stato dichiarato contumace, e furono eletti
commissari' a raccogliere le deposizioni ed i giuramenti dei testi
moni : a di 18 maggio egli venne condannato e sospeso dal poc
tiflcato. 11 processo venne fabbricato in cinque di» e processo 901
di un sol fatto colpevole, ma delfiniera vita dì un uomo. Se
(:;o$tanziensi avessero sospeso e deposto Giovanni per quell'expo
dit che ho toccato poc'anzi, ognuno avrebbe detto : i padri, noi
trovando altra via ad uscire dal labirinto dello scisma , eh
quella di spodestare il papa, lo spodestarono. Ma favor volut
poi giustificare il mostruoso partito con legalità di un process
compilato miracolosamente in cinque di spense quel po' di me
ralità che veniva ne' loro consigli dall'intento di provvedere ali
unione della Chiesa. La deposizione di Giovanni doveva slare i
un immediato contatto col bene della Chiesa , perchè avess
— 541 —
meno scaDdalixzata la logica de' credenti in Cristo. Frapporre
nn processo di quella razza tra il pontefice da deporsi , e la
Chiesa da pacificarsi, era un chiedere suffragio di legalità dai
peccati dell uomo; era un sottonnettersi alla necessità dì farli
esistere, non esistendo: era un trarre le menti dei fedeli piut-
tosto su la colpabilità del pontefice che su la curala pace della
Chiesa. Ed allora chi potè più rattenere quelle menti dal cor-
rere a necessarie conclusioni ? Giovanni, perchè colpevole , è
deposto dalla Chiesa congregata: dunque ha questa il diritto
d'inquisire ne'papali fatti; dunque se altri papi infermi da umane
corruttele non vennero deposti, è a dire o che la Chiesa ac-
quistasse di fresco quel diritto, o che fosse stata per lo innanzi
iodolgente per complicità di peccato. Tra queste due punte af-
faticatisi gli umani intelletti, quale giudizio poteva aspettarsi?
Eqoalunque sia il giudizio, ove troveremo più Fidea di una
Chiesa santa e di un pontefice confermante i fratelli nella fede,
pel suffragio della preghiera di Cristo ?
Ma nel concilio erano i professori delle università , e si
procedeva con poca memoria di que'principii che tutti, essendo
cattolici, tenevano come veri. Compiuta dal vescovo di Posnia
la criminale lezione, venne approvata dal cardinale di Viviers
a nome di tutto il collegio de'cardinali, da ira rei vescovo di Mi-
lano per la nazione italiana, da quel di Posnia per la tedesca,
dall'abate di S. Lupo per la francese , dal canonico di Cantor-
bery Tomaso Polton per la inglese. Poi vennero destinati cin-
que cardinali, TOrsini, quel di Chalant, di Saluzzo, di Cambrai
e di Firenze a recare al pontefice l'annunzio di tutto l'operato
contro di lui e della sua imminente deposizione. Questi si ap-
presentarono a Giovanni senza verun segno di onore: lo tene-
rne per già deposto. Nissuna fatica: Giovanni venne loro in-
contro in tutto quello che avea fermato il concilio ; onde lo
stesso di se ne ritornarono a Costanza apportatóri della cieca
sommissione del pontefice. Il di appresso, 27 maggio, altri de-
putati sinodali sopravennero a Ratolfcel : erano due vescovi ,
due abati con un codazzo di protonotari. Questi recarono a
Giovanni la serie dei suoi delitti , onde veniva deposto ; e di*
mandandogli se avesse voglia a purgarsene, Giovanni non volle
leggere il criminale catalogo né rispondere alle accuse, dicendo
cte il concilio era infallibile. Parole che chiudevano un mi-
dollo molto amaro. E ripetendo col vivo della voce la sua som-
missione alle decisioni del concilio » accommiatò i deputati ,
dando loro a recare ^IFimperatore una sua epistola.
— 542 —
GiovaDiii non pensavi) pia al papato , ma temeva dei de-
stini cbe Io minacciavano dopo la deposizione. Voleva una ta-
vola nel naufragio; si volse al cesare per averla. Scriveva a Si-
gismondo, che chiama suo carissimo figliuolo^ adonta che que-
sti non credesse alla sua paternità in Cristo' Incomincia a ri-
cordargli come il re dei regi lo avesse fornito di un tesoro di
prudenza a preferenza di tutti gli altri principi di quel tempo:
e poiché anche le menti più svegliate vanno stimolate a più
accesi studi di virtù, confortarlo in suo favore a quella cle-
menza che è sostegno dei troni e della quale egli era stato
sempre larghissimo verso i suoi ofTensori. Sprofondato come
era per permissione di Dio e per sua colpa in tanta miseria,
raccomandarsi a tutt'uomo alla clemenza di lui. Poi si mette
a commemorare tra V amaro ed il dolce a queir augusto co-
me e quanto fossesi adoperato per fargli ascendere il trono
imperiale , dopo la morte di Roberto , in guisa che la corona
gli stesse sul capo per negoziati da lui tenuti con gli elettori.
Ricordavagli come neiraffare del concilio fosse stato dolcissimo
ad ogni suo piacere, avendo lasciato a suo talento la scelta del
luogo e del tempo per la celebrazione di un sinodo, dal quale
poco di bene poteva impromettersi. Avere avuto in cima ai
cuore il suo innalzamento per Tamore grandissimo che gli por*
tava: richiederlo della stessa benevolenza e di perdono, ove
10 avesse in qualche cosa offeso. Stesse a suo intercessore appo
il concilio , perchè dopo la sua dimissione dal papato , salva
sempre la pace e la unione della Chiesa , venisse provveduto
al suo onore ed al suo stato. Supplicava da ultimo che volesse
mandargli subita e benigna risposta. Sigismondo non rispose.
11 Cossa doveva saperlo e non istemperare la dignità di uoma
in queste infeconde lamentazioni e preghiere. Egli con questa
lettera mostrò animo inferiore air altezza dell' ufficio da cui lo
cacciavano, e dell' infortunio che lo colpiva. Chi scendeva dal
primo trono della terra doveva nascondersi alla faccia degli
uomini e non mendicare un cencio di porpora e qualche di-
gnità nella Chiesa che rendeva più visibile la sua caduta. Egli
non recava più sul capo il triregno di Bonifacio Vili, ma una
fronte che ne recava ancora il solco ; non doveva mai fino a
questo segno inchinarsi innanzi a quel successore degli Ar-
righi e dei Barbarossa. Giovanni non era allora degno del
papato.
Lo deposero finalmente nella duodecima sessione , tenuta
— «3 —
I di 29 di ma^io. Tatti presenti, tì presiedeva il cardinale di
n?iers: per certo ?ezxo» che io qoel secolo era cornane, di
;>iegare le sentenze della Bibbia a qualunque fatto , ove fosse
x>nsonan2a di parole , fa Ietto il Vangelo che recava : A mio
udiàum est mundi, nane princeps huius mundi eiicietur foras;
piasi che la deposizione di un ponteflce avesse che fare con
la cacciata di Satanasso. Invocato lo Spirito Santo > il vescovo
li Arras lesse : < In nome della santa ed individua Trinità .
Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Anien. II sacrosanto, e gene-
rale sinodo costanziense, legittimamente assembrato nello Spi-
ito Santo, rappresentante la universa Chiesa, invocato il nome
li Cristo, non avendo innanzi agli occhi altri che Dio , veduti
gli articoli compilati e pubblicati nella presente causa contro
il signore Giovanni papa XXIIl , e le prove dei medesimi , la
spontanea sottomissione del medesimo e tutto il processo di
questa causa, maturamente deliberata la cosa, per questa doti-
mtiva sentenza, consegnata alle scritture, pronuncia , definisce
e dichiara come la fuga presa dair anzidetto signore Giovanni
papa XXIU da questa città di Costanza e dal detto sacro con-
cilio generale, clandestinamente, di notte tempo, in ora sospetta,
sotto mentite ed indecenti vesti, sia stata e sia indecorosa alla
Chiesa di Dio, apertamente scandalosa al detto concilio, turba-
ziÒDe ed impedimento alla pace ed unione della Chiesa , ali-
meoto del diuturno scisma , violazione delle promesse e dei
giuramenti da esso signor papa giurati a Dio, alla Chiesa ed al
concilio, come fosse stato e sia esso signor Giovanni pubblico
simoniaco, manifesto dilapidatore delle sostanze e delle ragioni
non solo della romana chiesa , ma anche di altre molte, e di
000 pochi luoghi pii ; malvagio amministratore e dispensiere
delle temporali e spirituali cose della Chiesa ; prima che venisse
papa e dopo, fino a questi di , scandalizzante la Chiesa di Dio
^ il popolo cristiano coi suoi disonesti ed abbominevoll co-
stumi ; come avesse ostinatamente perseverato nelle anzidette
tristizie e superbia dopo le debite e caritatevoli ammonizioni a
hi spesse e ripetute volte fatte, e fessesi per questo manife-
stamente reso incorreggibile ; come per gli anzidetti ed altri
delitti a lui addebitati e descritti nel processo di detta causa
dovessesi rimuovere, privare, e deporre dal papato e da ogni
amministrazione spirituale e temporale come uomo indegno ,
ioatile e dannevoie. E perciò il santo sinodo dì fatti lo rimuove,
0 priva , lo depone , dichiarando tutti e ciascuno dei fedeli ,
— 544 —
qualunque Io stato, la dignità e la condizione che si abbiano,
sciolti dalla sua obbedienza, fede e giuramento: vietando a tutti
i fedeli nominare pap3 lui , già deposto dal papato , aderire a
lui come a ponteQce e prestargli qualunque obbedienza. Tntta-
Yolta, per certa scienza e nella pienezza della podestà, il santo
sinodo sopperisce a qualunque difetto, se per caso siane inter-
venuto alcuno negli antecedenti , e dichiara esso Giovanni do-
versi condannare, e per la stessa sentenza condanna a tenersi
e dimorare in qualche opportuna e decente stanzi sotto la si-
cura guardia del serenissimo principe signore Sigismondo re
dei Romani e di Ungheria, divotissimo avvocato e difensore della
universale Chiesa, in nome del sacro generale concilio, finca
che sembrerà opportuno ad esso concilio pel bene deirunione
della Chiesa. 11 medesimo concilio poi riserva. al suo arbitrio a
dichiarare ed infliggere le altre pene che a forma della ragione
canonica dovrebbero applicarsi pe' riferiti delitti ed eccessi,
secondo che meglio persuaderà o il rigor della giustizia o la
ragione della clemenza. > Letto che ebbe il vescovo di Anras
la strana sentenza, il cardinale di Viviers, come presidente, di-
mandò se fosse alcuno che avesse a dire contro il deBoito,
dichiarando come il silenzio si sarebbe tenuto per approva-
zione. Non fiatò alcuno. Piovvero i placet dai sinodali seggi:
e Giovanni non fu più papa. Allora il fiscale De Pire chiese
venisse spezzato il papale suggello e lo stemma del Cessa: e
fu contentato. Cinque cardinali vennero deputati dal concilio
a recare al condannato pontefice la sentenza della sua depo-
sizione; e perchè non rimanesse più via aperta al Cossa, al De
Luna ed al Corarìo di tornare al papato, fu sancito dai padri
con speciale decreto non potersi venire alla elezione del nuovo
papa senza il consenso del concilio, e i tre anzidetti essere
incafpaci di novella elezione alla dignità di cui venivano spo-
gliati.
Ma i Costanziensi non si addormivano alle umili proteste
del Cossa ; lo temevano sempre risorgente pontefice. Perciò k)
fecero tradurre nella rócca di Gottleben a una mezza lega da
Costanza. In quella torre il Cossa, solo e senza pure la compa-
gnia de'suoi domestici, trovò Giovanni d'Hus imprigionato per
eresia, in uno stesso carcere un pontefice deposto, ed un ere-
siarca I lo non so se fra loro ragionassero di quello strano in-
contro i due prigionieri: so che il Lenfant calvinista non faccia
a modo suo e coi pregiudizi di sua setta altra considerazione
he qaella della persecozioDe mossa ad Has da papa Giovanni:
lei trovarsi insieme nello stesso carcere quegli per alcune par-
icolari opinioni, qaesti per enormi ribalderìe; e del piacere elio
lovelte provare il Boemo nel vedersi ragiiìiinlo nelLi slessa
ena dal persecutore ponteQce. Ma queste sono considerazioni
he, fatte da un eretico , strisciano ad ali tarpate sulla faaia
e'falti travisati a suo modo. Levando un po' più in su gli animi,
lettore, troveremo ben altre verità in quello scontro provvi-
enziale. Un gran periodo finiva, un altro pur grande incomìn-
iava. Il medio evo tramontava coi secoli del sentimento: sorgo-
ano i secoli del pensiero. L'tiltìmo stadio d'un periodo che nas( e
palpitante di troppa vita, é selvaggio, violento. La provvidenza
ecide sempre que'due estremi, e nella loro morte è Tequilibrio
la posa de'sociali elementi, onde T umanità non più barcol-
indo, ma con sicuro incesso muove e procede, il medio evo
a tutta cosa del clero, e Tultimo suo stadio doveva segiìnrsi
ol naufragio di un papa, e fu Giovanni. I secoli del pensiero
urono cosa de'filosofi; ed il suo primo stadio doveva segtìarsi
la un selvaggio filosofo, che assorto nella geometria della ra-
gione, fosse sordo alla voce dell'autorità, e questi fu Giovanni
l'Hos. Il papa e l'eresiarca dovevano cadere sotto il colpo di
ma stessa sentenza. La rócca di Gotlleben, che apprescntava ni
noQdo dai cancelli un papa ed un eresiarca, offri la formola
)in alta della ragione provvidenziale onde i tempi si succedono.
^'umanità la intese, e in quella intelligenza vagì T anima di
ìQttemberg e di Colombo.
Conta Teodorico da Niem che Cossa indirizzasse lettere a
inalche suo amico io Costanza, per averne parole di consola-
tone, e che ninno osasse racconsolario di risposta. Le quali
altere misero in forte apprensione Tanimo di Sigismondo, che
0 fece condurre nel castello di Heidelberg, coiicedend(»gli a
compagni qualche gentiluomo e due cappellani. Nuovi sospetli,
movo carcere. L'elettore palatino, che era il guardiano, lo ron-
lusse nei castello di Manheim, ove il Gessa dimorò \Hr in*,
noi in mezzo a gente di cui ignorava la lingua.
Cosi Baldassare Cossa, dopo avere afferrate le somme chi ivi,
B depose per forza di quel concilio che egli stesso aveva con-
regato nella speranza di togliersi da'fianchi gl'importuni anli-
lapi Benedetto e Gregorio. Non «essendo stato mio intendi-
mento scrivere queste storie per sola esposizione di fatti che
ila sapevansi, ma per lumeggiarli di sommarie ragioni a vivi-
Tamb. Inquis, Voi. II. '*i
- 546 —
ficare la storia 'dei loro rapporti, è mio debito condnrre il let-
tore alla lontana visione delle conseguenze, che dalla deposi-
zione di nn pontefice si derivarono nel morale criterio dei
popoli.
I Costanziensi nel decreto di deposizione tacquero dello
scisma: parlarono solo dei delitti del pontefice, onde lo spode-
starono. Questo fu un terribile giudizio, che bandito su le alte
vette del santuario della fede, ove era stato innanzi sommissione
e silenzio, doveva avere un eco anche terribile nel santuario
della scienza, dico nelle università, ove era libertà di esame e
di parola. 11 reggimento della Chiesa è puramente monarchico;
l'assistenza di Dio, il dono deir infallibilità nella definizione
delle credenze e dei costumi basta a puntellare la cagionevolezza
di chi governa ; il temperamento di un potere aristocratico o
democratico è superfluo, anzi nocivo. Ricordi sempre il lettore
che la Chiesa è una società divina. I Costanziensi non solo a
levarono in punto di corpo temperando la monarchia papaie,
ma giudicando dannabile il pontefice. In guisa che il reggimento
della Chiesa addivenne puramente aristocratico, ed il pontefice
discese al grado di semplice uflBiciale deirepiscopato, rimovibile;
perchè giudicabile. Né si levarono i sinodali sul labile fonda-
mento di un fatto, ma su quello duraturo dei principii elaborati
dal Gerson della supremazia di un concilio, che immediatamente
aveva ricevuto da Cristo il dono della infallibilità. Per la qoal
cosa i fedeli, che eransene stati fino a quel tempo a capo chino
innanzi alla cattedra di S. Pietro, credendo che vi fosse assiso
un pontefice, quando non vi trovarono più papa Giovanni, che
non era morto , dimandarono del dove se ne fosse andato : e
neir udire che era stato cacciato via, perchè ribaldo, dovettero
le loro menti fremere per moltitudine di perchè intorno a cose
che prima si credevano e non si ragionavano. Di perchè abbon-
davano gli universitari del concilio di Costanza e ne dettero
ai popoli a mano larga. Si esaurì la questione del potere papale;
e si persuasero che quando i papi non stavano a segno, si
mandavano a casa loro. Ora il potere, massime in quel secolo,
metteva capo nel pontefice e pontificalmente colava per tutti
il grado della gerarchia sociale. Per la qual cosa, ove anche i
popoli avessero voluto per logica temperanza arrestarsi al potere
papale, non avrebbero potute: dovevano necessariamente andare
in giù, ripetendo le stesse dimando inlorno ai principi, e con-
chiudere : Se nella società della Chiesa, che pure è assistita da
— 547 —
No ed è sopranaturalmente iDfallibile, è mestieri temperarne
D modo così energico la monarchia» che sarà a dire ed a farsi
li una compagnia d' uomini abbandonati alla libertà del loro
rbitrio ed obbligali a provvedere con gli argomenti della ragione
Uà incolumità della cosa pubblica? La dimanda fu fatta nel
agitelo della pubblica coscienza» e la risposta fu data nel segreto
Iella universale ragione : non se ne udi sillaba, perchè i principi
edevano in trono, avevano eserciti e non erano imprigionati
L Ratolfcel, come papa Giovanni. Ma il silenzio della scienza è
len diverso dal silenzio della fede. In questo posa lo spirito
Iella pace, in quello cova lo spirito delle procelle. Chi può
attenere per sempre ?
L'avere i Gostanziensi messa in contatto la loro sentenza
li deposizione contro il papa non con la straordinaria circo-
stanza della scisma, ma coi peccati del Gessa, apri una larga
)iaga nei seno della Ghiesa e spinse i popoli ad una irrequie-
azza febbrile, perchè fiutarono da lungi pe^ricolosi problemi a
risolvere; in Gostanza si abbruciarono ^gli eretici, ma non le loro
ipinìoni. Queste, abborrile dai padri' nella loro materialità ,
mette dalla specola della fede, spiritualmente si appigliarono
ille loro persone, senza che se ne avvedessero, elaborate che
hrono dal sillogismo degli universilarì ed onestate dai lenocinli
ìeìVexpedit di una giustizia cui poneva in mano le bilance la
stranezza dei tempi. Ghe fu mai la eresia di Wicleff e di Hus,
te Doo una indisciplinata reazione alla dissoluzione dei chieri-
ci costumi ed alla intemperante signoria di alcuni papi? Ghe
in mai la sentenza costanziense contro papa Giovanni, se non
Doa legale reazione a quella intemperanza e a quella dissolu-
itone? I sinodali non dannarono un vescovo, ma un papa: ed
un papa è potenzialmente tutta la Ghiesa. Essi non deposero
solo Giovanni come peccatore nel papato, ma come rotto ad
ogni maniera di lalrocinii e libidini innanzi al papato. Perciò
il concilio non dannò solo il Gessa, ma tutta la Ghiesa, la
jnale era, secondo la decisione del concilio, venuta a tanto di
^tà da assumere alla sedia di S. Pietro un uomo degno più di
capestro che delPinfula pontificale. Dovettero arrossire di ver-
{ogoa i cardinali elettori quando il vescovo di - Arras gittò loro
0 viso i cinquanta articoli dei delitti di quel Gessa che essi
ivevano eletto a pontefice sommo: ma quel rossore dovette
liflbndersi sul volto di tutti i padri sinodali, i quali se non
foroDO complici della mala elezione, erano complici dì que'mali
- 348 —
generali della Chiesa , onde i cardinali potettero senza qo
ricliìamo de' fedeli fallire a quel segno neir esercizio del loro
ministero. Voleva il concilio riformare la Chiesa? era suo debito.
Ma non doveva mai toccare la persona dpi ponteOce, perchè il
papa nella chiesa cattolica s'identiQca con un principio: echi
ferisce un principio dirocca e non ediflca. Non dissero i sino-
dali, come aveva detto Hus, che il papa era r anticristo; ma
dissero che papa Giovanni era un ribaldo. Ora nei dir questo,
eslimando il papa nella peccabilità dell'umana natura, non era
un licenziare altri concilii e dopo i concilii anche gl'individui
a dire lo stesso di altri papi? L' eresia universitaria di Oxford
e dì Praga mosse da principii ben contrari a quelli da cui
mosse il concilio : concilio ed eresia combattettero nemici, pro-
cedendo nella scala delle conseguenze. Ma quando giunsero sul
terreno della Anale conseguenza, si trovarono entrambi giudi-
canti lo stesso papa: 1' eresia assisa sul seggio della voluta
pubblica opinione , il concilio su quello dei canoni e delle
decretali. Comune il reo, comune il giudizio, distinta e.coDtraria
la potestà: con una mano ferivano il papa, con l'altra si feri-
vano a vicenda. Lettore, quale fu la potenza che mosse a con-
venire nell'antitesi del potere la fede e la ragione, la Chiesa e
la tìlosofla nella comunanza del giudizio ? lo non so chia-
marla, perchè non era potenza degli uomini, ma di qualche
virtù che prescinde dagl'individui e che cammina solinga nel*
r assoluto della loro natura, la provvidenza la quale infondeva
la potenziale capacità a qualche cosa di nuovo nelle umane
menti e che non voleva infecondo il magistero di quei fatti.
Vinse il concilio, perchè Giovanni non fu più papa, eie Gamme
divorarono il riformatore.
Fu chiamato finalmente Giovanni dllus sull'arena del con-
cilio. Provveduto a quel modo allo scisma, si volsero i padri ai
negozi della fede. Questi si rendevano assai spinosi per quello
che avveniva in Boemia. I Boemi, come narrammo, avevano di
pessimo animo portata la prigionia di llus. Ora , ne' due mesi
che corsero dal traslocamento di lui nella rócca di Gottlebeu
fino alla deposizione del papa, i Boemi non se ne erano stati.
A fronte della resistenza che trovavano nel concilio e presso
Sigismondo, avevano, a mo'di dire, simboleggiata la ragione som-
maria di tutta r eresia wiclefiSta ed ussita con l'uso del calice
usurpalo dai laici. Ogni eresia è una fellonia all'autorilà delia
Chiesa per violato dogma di fede o di costume, ma l'anzidetta
— Sia-
lo era doppiameote perchè il dogma che dirittamente oppugnava
era appunto raotorìtà clericale. Aveva Hus tratto dalla calteilra
il pontefice, per adorar solo Cristo; veniva per C4)nse^enza, che
bisognava anche trarre dall'altare il sacerdote. Aveva egli strap-
pata dalle sue mani la podestà delle chiavi, sciogliendo i feileii
dal sacramento della Penitenza; non fa maraviglio che altri si
avventasse al prete e gli strappasse dalle mani il calice « per
recarlo al labbro dei laici a simbolo di conseguita uguaglianza.
Era per ecclesiastica disciplina vietato ai laici prendere la Eu-
caristìa sotto la doppia specie del pane e del vino: ai soli preti
sacrificanti si concedeva Fuso del calice. In tutto quel movi-
mento degli umani intelletti, nelle università non poteva cor-
rere inosservato questo divieto. Sfavasene in Praga certo Jaco-
bello da Misa, paroco nella chiesa di San Michele, uomo della
tempera di Giovanni d'Hus per dottrina e continenza di costumi,
quando un di venne a visitarlo un Pietro da Dresda; il quale,
bandito di Sassonia come infetto di eresia valdese, erasi rifu*
gìato in Praga e vi teneva scuola di fanciulli. Costui disse a
Jacobelio che maravigliava forte come, essendo uomo tanto sa-
puto delle cose di Dio, non si fosse ancora addato del mador-
nale errore in che si teneva la Chiesa vietando ai laici V uso
del calice, mentre erano tutta luce le parole di Cristo: < Se non
maDgerete la carne del Ogliuol dell'uomo e beverete il sangue
di lai, non avrete vita. > Il paroco accolse le parole del Sassone
ed i suoi svarioni come avviso del cielo ; si mise in punto di
riformatore e di apostolo del negletto dogma, predicando a gola
piena che a salvarsi bisognava bere il calice, come i preti. In
tempo in cui Hus aveva tanto bene inoculato nelle menti del
popolo rodio al sacerdozio, questo popolo, usurpatore di ogni
Qmana e divina ragione, acconciò gli animi delle predicazioni
diJacobello, in guisa che Praga die di piglio al. calice, comu-
nicandosi sotto Ja doppia spcfcie , lietissimo di avere riconciui-
slata cosa che credeva rubala dalla presbiterale prepotenza. I
preti gridarono, Jacobelio fé' il sordo, i dottori lo aggredirono
con le scritture, ed egli incaponi peggio. La cosa fu recata al
concilio dal vescovo di Litomìssel.
Nella decima sessione costui lamentò i disordini che avve-
nivano in Boemia pel negozio del calice: voleva si affnittasse
h condanna di Hos, il quale se non fu autore delle novità in-
torno airoso del calice, certo che le approv/n ed erano ìMìmì-
gaeuK dei suoi principii. Il vescovo narrò la irriverente dis|ien-
— 3S0 -
sazioDe del sangue di Cristo che si faceva in Boemia, portate
a furia in certi enormi flaschi, recandone le prove scrìtte. IL
i Boemi avevano mandate appresso al vescovo accusatore letten
al concilio nelle quali tornavano sempre al violato salvocondottc
airinginsta prigionia di Giovanni d'Hus, e davano del calunnis
toro a coloro che avevano rapportato al concilio del sangue de
Signore recato profanamente nei fiaschi ed amministrato fio da
ciabattini. Il vescovo affermava, questi negavano: tra i due ni
appiglio al primo. Non mi dar torto, lettore; che in quella si
bitanea invenzione dogmatica, quel preteso santo desiderio de
popolo agognante al calice non poteva certo contenersi nei cor
fini, non dico dei riti ecclesiastici, ma uè anche della decenza
Credo ai fiaschi. Aggiungevano nella lettera i Boemi consigli i
concilio intorno al modo di votare; neppure ad essi talentavan
quei voti per nazione; li volevano personali e prescrissero ess
stessi il modo a raccoglierli. ÀI quale consìglio si aprivano 1
via con una esortazione alla loro nazione tedesca che era i
concìlio, la quale, dicevano, più tenera delle altre doveva addi
mostrarsi di quella riforma, a far zittire la mala fama che re
cava essere i Tedeschi uomini avventati, che dal furore e no
dal senno si lasciavano governare. Furono lette queste ietten
fu ascoltato il vescovo, non fu toccato Hus; perchè il negozi
del papa era presso a maturare, e bisognava conchiuderlo.
Ma, deposto Giovanni, tra perchè gli accusatori premevan
ì padri e perchè i legati boemi strepitavano, si venne ad Hui
I Boemi non avevano ricevuta risposta dal concilio intorno
quello che credevano violato salvocondotto ed alle accuse recat
dal vescovo di Litomissel ; perciò lamentavano di questo siler
zio in un loro memorandum che presentarono all' assemble
delle nazioni a dì 31 maggio. Recavano in quello una protesi
di Hus ripetuta nelle scuole e nelle sue scritture. « Lui no
avere mai sostenuto né sostenere opinione contraria alla fede
paratissimo essere a propugnarla col proprio sangue; creder
a tutti gli artìcoli della divina legge tali come furono rivelai
dalla santa Trinità e pubblicati dai santi uomini ; ora e sempr
volere ritrattare e rinnegare quanto per umana infermità avess
potuto contro quelli dire e pensare. > Recavano i Boemi, a con
fermare la verità di questa prolesta, il giudizio del vescovo <
Nazaret inquisitore nella diocesi di Praga, che purgava Hus (
qualunque errore ; e conchiudevano per queste , essere il loi
Giovanni figlio divotissimo della santa Chiesa , ingiustamen
fuvfimì3r/fm7i0m(fttàwtrtt.
- 332 —
assembnimento mise in apprensione Venceslao de Daba e Gio-
vanni de Ghium prolettori di Giovanni , i quali pensando che
i Costanziensi senza dare ascolto al colpevole, dal deliberare
passassero alla condanna, andarono a lamentarsi coiFimperatore.
Ordinava costui soprassedessero i padri al giudizio fino a che
non avessero accolto Hus in pubblica udienza ; mandassero a
lui gli articoli ereticali, volendo sommetterli al giudizio di probi
e dotti uomini. Questo avvocato della Chiesa aveva pia fede nei
suoi dottori che nel concilio. L'udienza fu concessa ad Hus, gli
articoli poi non furono mandati airimpersi/ore.
À di 5 di giugno venne introdotto Giovanni d'Hus nel re-
fettorio dei francescani, ove erano assembrati i padri per ascol-
tarlo. 1 hbri delTerelico, dai quali erano stali tolti gli articoli
a condannarsi , vennero presentati dalPeleltor palatino e dal
burgravio di Norimberga affine di chiarire , ove fosse stata, li
falsificazione degli accusatori. S'incominciò la lettura degli arti-
coli : letto il primo, Ilus si poneva dietro la Bibbia ed i ss. pa-
dri per difenderlo, quando si levò un furioso tumulto fra i cir-
costanti. Tutti volevano parlare, e nessuno si lasciava più in-
tendere. L'università nel concilio non istava bene; questa é
sempre ciarliera, massime in que' tempi in cui l'accoccare giusto
l'uncino di un sillogismo al collo deiravversario era la più beata
cosa del mondo per un dottore. « Insomma in questa prima
udienza non si conchiùse cosa.
Vengo olla seconda: ma qui è mestieri che io prepari
Tanimo del lettore e lo conduca a certe considerazioncelle ne-
cessarie alla giusta estimazione dei fatti; le quali, senza stancare
con la successiva esposizione de'particolari della causa di Hus,
che già si sanno, njutino alla complessiva intuizione della ragion
sommaria dei medesimi. Scrivo per nomini ragionevoli e non
guardo se cattolici o ugonotti siano. Giovanni non fu il fonda-
tore di una nuova eresia : egli raffermò e diffuse nella Boemi'»
le novità ereticali di Wicleff e non altro: quello che a lui spella
non si deriva da peculiarità di dottrina, ma delle politiche e
sociali condizioni della Boemia. L'eresia dell'Inglese, che ho
chiamata universitaria, non era che una emancipazione dMI^
potestà della Chiesa, quindi negazione della medesima e tras-
formazione della natura della Chiesa. Questi errori erano siali
già dannati nello stesso concilio: Hus veniva a causa finita. Di-
mandargli se approvasse o rigettasse le teorie wicleflile, i'
bandirgli una sentenza a norma dell'affermativo o negativo ri-
spoocere che poteva fare, ecco tolto qoello che $i poten ;»>^^t-
tare dai giodìd e d3iracciisalo.
Ma Hos apera gettato guanto di sfida, chie^loTa c^f^ser con-
Tinto per dimostrazione: i professori che erano al concìlio anni-
IriraDo per foga di entrare in lizza: ed i padri senza un capo,
dico il pontefice, si mostravano arrendevoli airimpressìono dei
tempi, che erano universitari, cioè amatori di dispulo. Aggiungi
che gli accusatori erano preti boemi, i quali da buoni catloUci
aUwrrivano dall'eresia; e da cherici che si sentivano levar dalle
mani non solo i sacri patrimonii, ma fino H calice, non vcile-
vano sobmente in IIus il wicIefiBla, ma un eresiarca di nuova
stampa. Essi davano ad Hus una personalità ereticale che non
aveva. Da ciò si derivò cbe, senza avvedersene, nel cavare gli
articoli a dannarsi dalle sue scritture ne storpiarono forse qual-
cuno a dargli del deforme, e qualcbe errore non velluto fu so-
spettato. Conseguitò che si allentasse troppo il corso alla di-
sputa; e come il concilio non era un'accademia, avvedendosene
i padri e troncando in gola airaccusato le risposte^ si gridò poi
dai Boemi, dai protestanti, dai filosofi contro la ingiustizia e la
prepotenza del concilio. A me, come cattolico, imporla che il
concilio non abbia errato in fatto di fede; che per finale difll-
nizione abbia dannato gli errori di Hus. Del fallo degli accusa-
tori e degli stessi giudici nel corso della discussione io non
curo. Questi appartengono agli uomini, non al concilio, ed io
narro di questo e non di quelli.
Giovanni d'Hus chiedeva essere convinto dei suoi errori
innanzi essere dannato, e ne aveva il diritto. Ma altra ò In con-
vinzione, per cui è incatenato il reo al cospetto della logge chn
ferisce nei tribunali umani, altra è quella che dichiara reo Tero-
tico in un tribunal di ragion divina, qùal è il concilio. In quelli
la convinzione si emana dalla provata, veracità de' testimoni o
dalla provata opposizione dell'azione del reo alla legge: duplico
prova, l'una che tocca l'esistenza dei falli, l'altra la loro nalurn.
Nel concilio la convinzione si emana solo dalla provala veracità
dei testimoni; in questa la discussione, perche solo della esi-
stenza dei fatti si va in cerca. Della loro natura e della loro
opposizione alla legge non si discute, ma si difllnisce ; perche
la Chiesa, come infallibile, non va a tentoni a trovare 1» con-
venienza 0 sconvenienza dell'umano cona*tto col principio rive-
lato. Nelle mani sue il deposito della fede e tutto luce. vMv.
come irraggia la sua mente alla infallibile visione della \mik,
Tamb. Inquis. Voi II in
cosi illumina la deformità delPérrore, per quanto opinano I
canonisti.
Hus, che aveva crollato l'edifizio della Chiesa tale quale
erìsto Io aveva levato, che credeva scappato il potere dalle mani
ilei cberici perchè peccatori, non vedendo nei padri che pecca-
tori, non da altra forza chiedeva gli si piegasse la fronte che
da quella delle prove, non mai dalla infallibilità del giudisio.
Maraviglierei come di logica aberrazione dell'aver egli scelto ad
arbitro delle sue opinioni la congregazione di una Chiesa di'ei
dicea corrotta, se non vedessi chiaro esservi lui andato con la
certezza di un trionfo rìportabile con Tarma del ragionamento.
Ciò sapevasi dai padri; e perciò non troviamo nella discussione
lutto quel rigore di procedere quale si richiede in un tribunale
di umane ragioni. Per le quali considerazioni non fatte dag^
eterodossi, la condanna di Hus apparve loro sfornita di quel
suffragio di diritto, onde i giudici si chiaman giusti, ed il reo
giustamente punito.
Sinistro argomento prendevano i Boemi in Praga e quelS
in Costanza delle cose di Hus dai segni che apparivano né
cieli. A di 7 di giugno , nella settima ora , furono tenebre
in quelle due città per una grande ecclìssi solare. Un'ora dopo
i Costanziensi si assembrarono, presente Timperadore: ed Hus
venne introdotto alla loro' presenza. 11 renerà in catene stivato
di soldati. Michele de Causis, accusatore, accagionò Giovanni £
errore intorno al sagramento della Eucaristia, quasi avesse negalo
il mistero delia transustanziazione. Questo errore non era nei
libri di Hus : affermavasi averlo predicato. Giovanni prese Dio
in testimone della sua innocenza e chiarì come gli accusatori
lo accagionassero ingiustamente di quella eresia. Aveva egli
chiamato, falla la consegrazione, con la voce di pane la santa
Eucaristia : vietatogli dall' arcivescovo pragense, rispose non io
altro senso usare di quella voce che in quello che le dava
Cristo medesimo, dicendo — Io sono il pane vivo disceso dal
cielo. — Non mentiva Hus. Nel trattato del corpo di Cristo da
lui scritto è confessalo apertamente il dogma della transustao-
zìazione, ed è chiamata magna hcei^esis quella di Berengario
negatore di quel mistero. Poteva bastare la confessione contraria
di Giovanni, raffermala dalle sue scritture, le quali recavano
argomenti di credibilità più validi della deposizione de'preseoti
alle sue prediche. Ma il cardinale di Cambrai d'Ailly, che era
stato cancelliere, deiruniversità dì Parigi, s'intese professore e
— 5» —
\ iofonnare Has io un dilemma: qod si poteva tenere.
in cbe il Boemo era dei reali oelb teoria degli Qni?ersali.
la realtà degli malversali accresceva la difficoltà a compren-
i il mistero della traDsostaniiauoDe. Se era immagioabile
Dotameoto della sostanza di qq determinato pane nel
0 di Cristo, pareva impossibile a concepirsi questa sosUtn-
B di sostanza , quando il determinato pane non doveva
arre alcona propria sostanza, ma qoella delPoniversale, ossia
»ane preso nella generalità deiressere. Adunque il Cambraìs
limando, se credeva alla realtà d^li universali. Giovanni
lette del si. Ma qoando il cardinale si poneva a dargli del-
tico per la rovina del dogma della transustanziazione» cbe
va da quella teoria filosofica, Giovanni spezzò il nodo del
nma, avvertendo cbe la transustanziazione era un miracolo
e non poteva discutersi con le opinioni dei filosofi. Dette
^0. Su questo terreno il Boemo cessò bene gli assalti di
loltorì inglesi, che volevano giostrare, e die del menzognero
Loi accusatori. Allora levossi il cardinale di S. Marco e disse
il negozio dovea risolversi a norma della deposizione deHe-
oni, i quali erano degni di ogni fede. E avendo Giovanni
lUato al testimonio di Dio e della sua coscienza, il cardinale
)se valere più la testimonianza di quelli accusatori cbe della
M^scienza, levando a cielo la onestà e la dottrina del Paletz e
Gerson. Così operarono gli uomini nella discussione : ma
ò altrimenti il concilio nella diffinizione, non trovandosi
[li articoli condannati questi cbe toccavano la Eucaristia.
1 discussione Giovanni potè prendere le sembianze di uomo
esso : accese vieppiù V ira dei Boemi e , cbiusosi nella
ica dignità di un martire, si tenne per indomabile dalle
Sali sentenze.
Si venne poi, ai fatti, la verità dei quali non si fondava
I pubblica fama o su le deposizioni de'testimoni, ma su la
ragabile confessione delle scritture. Si venne alla eresia di
efif seguita da IIus. In questo poi non era via a scappare;
Boemo, avvegnaché sempre ostentasse docilità alle istru-
i del concilio, non si mosse d'un pelo dagli errori cardinali,
toccavano la visibilità della Chiesa, tali quali li aveva se-
iti nel suo trattato della Chiesa. Trentanove articoli gli
10 messi innanzi, cavati dalle sue opere, che non lasciavano
Ào della sua eresia. Fermato che la sola predestinazione
tuisca Tuomo membro della Chiesa, giù tutto: non più
— 356 —
papa, non vescovi, non sacerdozio, non più aatorità di sorta.
La parte visibile della Chiesa non è che Sordida materia al
sindacato di ogni fedele ; alimento di clericale e civile ribellione.
Onde l'imperatore che né adiva il racconto, quasi che si sentisse
alla gola un insolito capestro, ebbe a dire ai principi circostanti
non essersi mai vista eresia più diabolica di qaella di Giovanni
d'Hus. Lo presentiva allora , lo intese dopo nelle guerre di
Boemia. Da ultimo un uomo che, lungi dal rigettare le false
dottrine di Wicleff, impudentemente dichiarava che erano stale
condannate senza giustizia perchè senza ragioni tratte dalla
Scrittura; che diceva salvo Wicleff, avvegnaché dannato dalla
Chiesa ; e che avrebbe bramato trovarsi con lui nell'altra vita,
si confessava con la propria bocca più che eretico. Se abbiano
0 no i giudici e i testimoni usato con lui sempre con tempe-
ranza di modi e carità non si può dire servendo al vero: ma
che nella finale diffinizione il concilio si trovasse circondato
della dignità di un divino diritto giustamente propugnato, io
dirò sempre e diranno tutti coloro che non vogliono rinnegare
la fede della storia e della logica.
I padri costanziensi non avevano un grande desiderio (U
condannare Hus e di vederlo colpito dalla terribile pena del
fuoco dalla legislazione penale di que' tempi. Avevano il debito
di condannare le dottrine : ma se avessero potuto ottenere una.
ritrattazione di quelle, si sarebbero tenuti al certo più contenti-
La Boemia era alle porte del concilio con la mano sull'elsa di
una spada, ed era quella di Giovanni Ziscka. Certo che questa
né ad essi né a Sigismondo faceva piacere veder nuda. VenceslaO
Doba e Giovanni di Ghium erano li presenti, personificanti
tutta una nazione che come mare in tempesta fremeva attorno
allo scoglio del dogma, che non si piegava né si arrendeva per
ragioni politiche. Ne reco una prova. Innanzi si sciogliesse
rassemblea della seconda udienza data ad Hus, il Cambra! ria-
faccio al medesimo avere detto come di proprio talento fosse
venuto al concilio, e che né il re di Boemia né lo stesso im-^
peradore avrebbero potuto sforzarlo ad andarvi. Giovanni ribadi
anzi che negare la cosa, aggiugnendo che tanti erano i baroni
di Boemia suoi protettori e così munite le terre che gli apri-
vano rifugio che né regia né imperiale potenza l'avrebber rag-
giunto. Il Cambrai gli dette dell'impudente: un gran rumore
si levò nell'assemblea contro di Hus. Ma eccoti farsi innaMi
irto e pettoruto Jl Chlum e gridare: « Bene ha detto Has:
toni fi Bmài ni :mhiii^ imm 4^
die faiffehero fili iMn^i^miri |ììI|v4m^4<
e che jfehmdbao 4B mniìie ostato .die i^ «mi bA. >
ta on, o lettore, die, ;per (>ìitti>^ in itMi >d m ìnifie^
radure e ad «a ooocffio <|wsie «ìiiMce . «m ivm4ììMiì ;mitìr$i
dfetro òa mioM pinti i imIiì inni di fmfru dì cm <)iM$i
noQ tnifi b simile oegi inmii dd mondt^ (w Hmvvìi di <^(Nm^
tetleoli.
D Cimbni e Sigismondo annera i boni^m^ oi^vrtjiiifoni.
il primo andò eoo doid pirole confoitimio Hn^ p^l $m> Wih\i>
« pel 9D» onore i sottometterà alU ^^entenm del <!^>nc4IUv U
secondo (nù langamente rajnonò : t Stesse (Hir eerto doli;! sua
protezione, alPombra del silfocondotto che {^li ivev» ct^nc^x^^^
ioninn che movesse di Pngi a Costami; rìmarrel>bo invio^
hta b sua libertà a dire le proprie ra(^oni in pieno sino^io :
Un proteggerlo» avvegnaché fossero ilcuni che dicessoh> co\w
MQ potesse nmperatore accogliere sotto il suo p.itrt)c(uio un
eretico o nomo sospetto di eresia ; consigliarlo col Gambral alU
sommissione, non avendo i prodotti articoli appicco a tltfoT^a.
Docile a quei consigli , avrebbe messa ogni cura » per rl.H|>otto
al re ed al reame di Boemia , di farlo ritornare In patria con
la boona grazia del concilio e con qualche leggiera ponllonaa :
altrimenti il concilio terrebbe la sua via contro di lui » voinndo
perseverare nell'errore; lui riluttante alla sentonza del padri
accenderebbe piuttosto con le mani proprie il rogo cho lo do*
▼èva bruciare, anzi che tollerare la sua contumacia, (llovannl
^ sempre da capo e rispose: < Non volersi ostinare, mn vn^
lere che il concilio lo persuadesse del contrario. »
Nel di appresso tornò Giovanni nel cospetto diOI» nlmiia
congregazione a rendere ragione intorno a claMcurio d<^l vm-
tisei articoli che gli erano stati cavati dai trattato della Chieda
« dri sette tolti da una sua risposta a Stariinlao Znoima« prò-
Messore di teologia in Praga e stato già suo maestro. In rpfimta
inrrazione non farò che coglierne la mirnmaria rtiìtUìm, a
chiarire Tanima di qaesto boemo , nelb quale ri rin^'it^va
qaelb non solo della sua nazione, ma dei tempi che a) m^«
(enno.
Avvegnaché Giovanni degli anzidetti artlei>ll nÌMU) rig^t^
ta^ eome non mei^ altri spiegante, eommenbn^loli, iu'f^mmf
pih cattolico; tntbvolb ostìnalamente fìU^m e nofi fipff^h
— 558 —
il veleno generale che vi andava dentro. Nel credere la Cbies»
una congregazione di soli predestioati ; nel non volere am-
mettere la visibilità di un capo della medesima, negando a
san Pietro il privilegio di esserne pietra fondamentale; nel
non voler riconoscere il pontefice romano senza nna rivelazione
che testificasse della sua predestinazione ; nel credere spuntata
ogni censura in man della Chiesa per V appello dal pa(» a)
concilio e dal concilio a Cristo, Hus non poteva piii rimuoversi
né dalla autorità della Chiesa congregata né dalle minacce del
potere laicale. Della opposizione delle sue dottrine con i prin-
cipi! professati da tutti i fedeli di quel tempo non dubitane
gristessi eterodossi. Hus si chiari eretico di propria bocca. La
sua eresia, come ho detto più volte, era quella che prorompeva
dal razionalismo universitario alimentato dalla corruttela dei
tempi, che non rispettavano lo stesso santuario. Molti i dottori
nel concilio ; e gli stessi padri , se non infermavano del male
della università, ne avevano sempre qualche vezzo , e questi
vezzeggianti erano i giudici di Hus. Si rivelò a maraviglia que*
sto che afiérmo nella discussione del XII articolo» che recava
— e La dignità papale trarre la sua origine dagFimperatori re*
mani. > — Giovanni d'Hos chiosò questa proposizione e disse
come la preminenza e la istituzione del pontefice derivasse dal-
Tautorità dell'imperadore in quanto agli esteriori ornamenti ed
ai temporali beni donati ai papi da Costantino e suoi succes-
sori: onde come l'imperadore avanzava di dignità tutti gli altri
principi, cosi il papa andasse innanzi a tutti i vescovi ; ma non
in quanto alla dignità che mette capo immediatamente in Cri-
sto per Tamministrazione e lo spirituale reggimento della Chiesa.
Il cardinale di Cambrai avrebbe dovuto raddrizzare la chiosa e
far intendere al Boemo, che la preminenza del papa su tutti i
vescovi non veniva dalle sustanze periture donate da Costan-
tino; che il papa era già vescovo ecumenico per un privilegio
ben diverso dalla convenzione degli uomini di far sedere Timpe-
ratore più alto degli altri prìncipi. Non curò di questo il gallicana
universitario: ebbe in mano il papa, non potè tenersi dal carez-
zarlo, dimandando ad Hus — t Di' un pò*, Giovanni, perchè non
bai affermato, la dignità del papa esser nata piuttosto dal con-
cilio che dairimperatorc? > Guarda, lettore; era questa dimanda
a farsi ad un uomo come Hus, che alla presenza del concilio
audacemente inabissava la divina idea del romano papato? Ve-
ramente il Cambrai accennava alla esteriore onoranza data al
i Hipti Jal wnafll» »>iwi» »»Wi
a «ita ili lum« *iic» «n «i«AtiMA^ <il# k«i
poni |a|iMn « in)«f> 9«ih yiit^
per ■■«» HipiHtìMnr ìtrtmn^ ;iil 4^0Mx ^ Ik
appBolo qpesto di OotstmiL SMto b off» 4ii Y^^c^^xti iNra^^
i profesnrL Dìcbap ciò* teCMuto |iM^ ;iil MM^ il $^«(4tMNV
NoD iìiMueu che tatar te ne ^ tomilan^ lln^ ;imiI uiva
ritrattaiioDe, poiché rerror^ delle sue doUrìne ih>n I^^ìava aMu^
duUiio. faieoiiiìiidò il Gunbnù: « Tedi. Giomniii^ di ^ii^l |^(^l^^
raBODe di delitti to sii aeca^noiMilo: ti d» fsir^ ^ in lu;ii KaII^v
Due sole Tic ti apre ionami il concilio: $oef!UiM^ iin«i » tuo Vk-
leDlo: se ti sommetti al suo gio<fiiio e ne aocoRK l <H>nuiiul«i*
iMDti senxa ricalcitrare, della soa dolcena Oil umeinltÀ non ìk\fìx\
a dubitare, volendolo anche il rispetto terso il t^ di ÌUmwi^ 0
Timperadore suo fratello; se poi vuoi durarla a dtlt^ml<^r« itlln^
Golpati articoli, il concilio non li negherà Tasoolto. ma ituAhlatl
che la mole delle ragioni che ti stan contro recate da ani^l^ntl
9d autorevoli personaggi non ti schiacci» ed allora verrai a fronti^
li ben tristi conseguenze. — Miei revorendlMnlinl pmlrli rtaportn
9us, ve rho detto più volte: io son qui venuto di proprio ta-
lento, non per incaponirmi, ma per esser iatruUo, ovn nI lro<
irasse cosa in cui avessi errato. Datemi un pò* di n^Uì a Mporrit
i miei sentimenti: se mi falliranno le ragioni» tminkiml pur kIA
reso alle vostre istruzioni. — Vedete , gridavnno inoltl ad imi
tempo, Fha sempre con le istruzioni 0 non parla rniil di lutri*
mra e di decisioni. — Ebbene, riprese lina, dirò UtnixItMil 1
censura, decisioni come meglio vi aggrarla; \hMìIì \mmihi Mio
in testimone che io parlo sinceramenti'/, » Allora II (^Miilirifl In
iwerti che, ove si piegasse a solUimelU^rid al c^>rM;lllo, tmi^r^
fermato dairawiso di un sessanta doU/iri approvat«i lU U1IU9 II
coodlio , lui doversi obbligare a tre r/miU^mi \ a ivM»(»<i#arii 1
noi errori, chiedendone j^Aomf, % %\nf%fti rMti wm I) nifiifiém
Otti più Insegnatt , eA a f»me pobMied ritnWtxifftm, ifm Hut
noni poniò il capo, tra perché al ter^rva iwptit^l/; ^1) é^tmì
che Doo aveva mai penumli e ptcnlhè %0l ^sff^ ^m 0(0i fV/p
aoscevi veri dod troiava «Mer<; «laia ^/rilr^^^^to 4^1 ^/ni^ìié$
— S60 —
sQfflcieDza di ragioni; e pregava i padri a non {sforzarlo cootro
sua coscienza con perìcolo della eterna salate. Lo strinsero eoo
preghiere; Timperatore gli ricordò le leggi contro gli eretici, a nor-
ma delle quali doveva sentenziarlo il concilio: tutto invano; dod
volle ritrattare le sue opinioni. Per la qual cosa rìnfocò più io
zelo degli accusatori e massime del Paletz e del De Causis; i
quali si lavavano le mani, sagramentando non avere essi ombra
di rancore verso Giovanni, accusarlo pel giuramento dato quando
vennero creati dottori di perseguitare la eresia a tutta possa.
Al zelo di costoro Bus contrapponeva le sembianze di un io*
nocente che commetteva la sua causa al sovrano giudice del-
runiverso. Affldato alParcivescovo di Riga, venne ricondotto io
prigione.
Sigismondo, che aveva dato a Giovanni il suo sai vocondotto,
che tanto o quanto gli aveva lisciato il groppone con qualche
paroletta melata, poiché nella lettura degli articoli si avvide che
la eresia ussita usciva di - sagrestia per venirlo a trovare sol
trono, non volle più tante discussioni ; andò per le corte e cosi
spose la sua sentenza al concilio appena Hus usci fuori dell'as-
semblea : e Le accuse contro Giovanni oramai son note; fede-
lissimi testimoni e la sua stessa confessione le provano a me-
raviglia. Al fuoco dunque Taccusato, se non si ritrae dairerroce.
Se obbediente, turategli la bocca, perchè non predichi : penserò
io a barrargli le porte della Boemia, perchè non v'entri più. Co*
stui, messo al largo, tornerebbe al vomito. Penso doversi mandare
per solleciti messaggi in Boemia, in Polonia ed in ogni altro
paese in cui fosse germogliata la zizzania dell'ussita eresia, eoo
ordini alla chericale e laicale balia di dare addosso ai predica-
tori di quella. Questa è peste cui non si rimedia se non dando
forte alla radice ed ai rami tutto ad un tempo. Presto dunque,
e s'incominci da Costanza: se v'ha alcuno in questa città amico
di Hus, e massime quel Girolamo da Praga suo discepolo, venga
messo al giogo e giogo severo. » Il concilio adunque non coro
che il dogma guasto da Giovanni: il rogo fu preparato da Sigis-
mondo guardiano e ministro delle civili leggi: alle quali dava di
piglio e come avvocato delia Chiesa e come imperadore. Gio-
vanni andò incontro a quelle leggi ad occhio aperto, non avendo
voluto soscrìvere la formola di ritrattazione che gli propose il
concilio. Cosi almeno sentenziano i papiQli fanatici: intomo al
quale giudizio conviene procedere con cautela, correndo diverse
opinioni.
— Sài -
podiè b sn CRsa fS pwm du^Mìc» : im I^mh-
nila di VMp fMeia aocte pn presto ^ tndoni^ wlb nifMi
lifio quelle teorie die pvfero ìdoociml miì nM^s^^^im ii<4
Ddfio di Onstamii riiestile diih n^ioD canonica QuiKtociLHi^
io fa un gno centro dì wom neJ^sìoa e polìUoi: to riKta-
ito per lo sàsaa pepale» ma, qnst stena saperhx i p^^lrì $ì
>moDo giodid di ogni genemione di sdsnui andui^ dxìlo.
odicelo del pipeto» neoesseriiinente OTQoqne ere ind^timni
xione di r^oni e lotte di conconeoti ed on dirttu> qu^hiu-
le, dovee infocarsi ii loro giodiiio. doten bramarsi la km>
nteoza soprema diflSoitrìce di giastiiia« Nel concilio orano le
liTcrsità, e nelle oniTersiti ii bisogno di rìsoltère im^blt^inl
LO I popoli trovarono sulla soglia dei secoli del |)ensienK Wi-
sff ed Hos avevano da professori e da predicatori stretUiuonio
ingionto il debito della giostìsìa di chi n'era investito. Ingiù-
3 il prìncipe, giusto il ribellare, dissero quegli eretici, I^a pro*
Uosa dottrina mise Tarmi in mano ai lollardi in InglUltorriK
[li ussiti in Boemia. Chi fece percorroro a costoro con la ra-
dita del pensiero il trìplice stadio del terrìbile sillogismo ti
ce che la conclusione del prete e del professore a* liientlll-
sse con la pratica, dico col grido della guerra o della rìbul-
me? Lo dirò io : fu la capacità delle menti ad acoogllero (|uolln
olenti dottrine, capacità fruttala dalla presenaa del mnli eli»
idavano ben altrimenti curati nel santuarìo.o negli Stati. Tra
predicatore di Betlem.ed il popolo boemo era dunciuo un»
rmidabile ragione che legava il predicante agli &Mcoltuiitl n
le incolorava di verìtà le sue parole, ragione che einanavii
illa malizia dei tempi. Vediamo quai mali generasse in Fraiiclii
lesta ragione e come elaborasse un cruento problema, Il quiile,
restito delie paurose sembianze di carneflce» lo inlroduHMe iil
spetto dei [mdrì di Costanza, perchè lo risolvessero. Io dirò
dia famosa proposizione di Giovanni Petit.
Era re di Francia Carlo VI. A dodici anni gli cadilero nelli)
ani, per la morte del padre, le redini del governo. Un\HiUiUUt,
irchè fanciullo, a strìngerìe, i suoi zii duchi di Anjou, di Ikrry
di Borgogna le afferrarono. Emuli tra loro nel (Kilere e nelb
alizia, oppressero la Francia e le svegliarono nel miuo h pitela
die fazioni. Re Carlo intanto, sfrenato ai piae^^rì, iM^mpre in
sta, sempre in sol far guerre, divenne maniaco, e i primi\H
m ebbero pio freno. AvrdMie dovuto togliere la XH^if/iuté ìM
Tahs. Mf»»- ^oi. tu 4^/
— 361 -•
reame il fratello del re Luigi d'Orléans e la moglie di lui Isa-
bella di Baviera ; non fa cosi. Filippo V Ardito, duca di Borgo-
gna, usci innanzi a tutti e fu reggente. Odio inestinguibile se-
parò per questo le due case di Orléans e di Borgogna.
Morendo l'Ardito, lasciò al figlio Giovanni Senza-Panra quasi
in retaggio la inimicizia con rOrléans e le pretensioni alla reg-
genza dello Slato. Giovanni era il più ricco principe della cri-
stianità: signoreggiava la Fiandra; THainaut e la Olanda aveva
ottenuto come retaggio della sua donna ; era in sulPafiferrare
anche la signoria del Brabante. Ricco di tanti Stati, gli era stecco
negli occhi Luigi d'Orléans reggente di Francia. Il re in preda
ai suoi furori maniaci, la regina e Torleanese divoravano la
Francia. Dilapidatori del pubblico tesoro, opprimevano, taglieg-
giavano, succhiavano la vita del popolo; del suo onore non cura-
vano. La Francia era nuda ed inerme in faccia ai nemici. Allora
il Borgogna la ruppe apertamente col cugino : fu guerra tra
loro, e i richiami del popolo ebbero rifugio nel petto del Sen-
za-Paura. Fu scisma in Francia. I maggiorenti con Orléans, il
popolo con Borgogna : quelli invocanti un diritto che santifi-
casse rindisciplinatezza delParbitrio; questi cercatore di un di-
ritto che lo guarentisse dalla forza. Era mestieri di un fatto che
spingesse le parti sul terreno del diritto ad azzuflbrsi; il Bor-
gogna non lo fece lungamente aspettare. Dopo aver dato, per
conforto del Berry, il bacio della pace al cugino Luigi d'Or-
léans, dopo aver con lui presa la Eucaristia nella stessa messa,
banchettato alla stessa mensa, lo fece in un agguato ammaz-
zare a colpi d'ascia. Lettori, se leggessi quel che si faceva in
Francia ai tempi di Carlo VI , maraviglieresti dell' impudenza
straniera a svillaneggiare la nostra Italia come paese feroce di
tradimenti. Nei romanzi francesi a noi spelta sempre l'avvele-
nare, il pugnalare , il macchinare proditori!. Meravigliava di
questo esclusivo ministero: ma, letta la storia di Francia, m'av-
vidi che come gli antenati di que'romanzieri erano troppo oc-
cupati a far davvero nella storia, a noi solo spellava a far da
burla nei romanzi. Ad essi dunque i pugnali slorici, a noi ro-
mantici. Torno a Borgogna.
Costui s'infinse dapprima, lagrime sul cadavere del cugino,
disse non essere avvenuto in Francia tradimento più bestiale ;
ma finalmente con audacia incredibile venne alPaperlo e con-
fessò il suo delitto. Il popolo nello spento Orléans, superbo e
corrotto signore, vide una sua venJetla contro Tarislocrazia rog-
— 363 —
gente, nel Borgogna il suo liberatore. Questi venne glorificata
come un eroe. Allora, sorretto dal popolo» confidente nello sforzo
delle sue milizie , a fronte alta invocò un diritto che giustifi-
casse il suo delitto, quasi rimedio di abborrita tirannide. L'u-
niversità venne in suo soccorso; e mentre i dottori discutevano
ragioni, le fazioni degli Armagoac e dei Bùcheurs, dei poten-
tati e del popolo, laceravano con la spada la Francia e chiama-
vano gringlesi a conquistarla.
Allo scorcio del febbraio del 1408 entrava a Parigi il Bor-
gogna con ottocento gentiluomini tutti in armi. Il popolo lo
festeggiò, gridandolo suo liberatore. A di 8 marzo si appresen-
tava al re, che ad ora usciva e ricadeva ne'suoi furori, in una
grande assemblea, nella quale dovea discutersi se male o bene
avesse fatto il Borgogna a trucidare l' Orléans. Vi era il del-
fino, il re di Sicilia, i duchi di Berry, di Bretagna e di Lorena,
di baroni e di cavalieri una turba prodigiosa, moltissimi bor-
ghesi, il rettore con V università. Certo Giovanni Petit , frate
cordigliere, dottore della Sorbona, usci in mezzo a perorare la
difesa delFuccisore. Con una limpidezza di fronte prodigiosa il
frate dimostrò o meglio pensò dimostrare come non solo Tomi-
cidio deir Orléans era stalo un virtuoso fatto, ma che, ove il
Boi^ogna non Tavesse fatto ammazzare, sarebbe stata una col-
pevole omissione. Chiuse questa tesi in un'armatura di forme
scolastiche da spaventare chiunque avesse avuto talento di ag-
gredirlo. Il netto era questo: che era debito uccidere o fare ucci-
dere i tiranni; ma rOrléans era tale, pe^chè reo di lesa maestà
e di moltitudine di delitti; dunque il Borgogna ha meritato bene
del paese. Puntellò, ma a suo modo, la maggiore con moltis-
sime sentenze tolte dalla Bibbia, dai padri e dai giureconsulti:
la minore poi con un catalogo di accuse contro il mprto, che
certo non avevano deir inverosimile. Molti si guardarono in
viso per lo stupore, altri approvarono: vinse il frate. Il di ap-
presso Borgogna tornò ih grazia del re ed ottenne lettere di
perdono.
La minore e la conseguenza del sillogismo di Petit poteva
dimenticarsi, ma non mai la maggiore. Il re, quando non era
matto, vi andava sopra con la mente; ed il corpo dei dottori
arrossiva dell'impudenza dell'avvocato di Borgogna^ dell'impu-
denza a dire, non già a sentire la formidabile teorica, che avea
radice nell'università. Il re commise al vescovo di Parigi Ge-
rardo di Montaigu ed a certi dottori in teologia l' esame delle
— 5«4 —
proposizioni erronee estratte dal Gerson dal libro di POit Nella
lettera con coi deputava costoro a qoelta censura parlava il re
di altri errori (quelli di Petit) contro la fede, i costami e lo
stato sparsi nella Francia e penetrati anche in paesi stranieri.
I tempi li recavano. Il vescovo tenne una grande assemblea di
dottori, di prelati, e vi era Gerson: per cinque volte fa adunata.
Le proposizioni di Petit condannate furono nove.
e L Essere lecito ad ogni snggetto senza deputazione e
comandtmento, a norma della legge; naturale, morale e divina,
ammazzare o fare ammazzare qualunque tiranno il quale per
ambizione, frode, sortilegio o malvagio artifizio, macchina contro
la naturale vita del re supremo signore, per usurpare la somma
nobilissima ed altissima dominazione. E non solo essere cosa
lecita, ma onorevole e meritoria, massime allorché è tanto po-
deroso da non potersi dal sovrano farsi da lui conveniente-
mente giustizia.
' e li. La legge naturale, morale e divina licenziare ciascun
suddito a procurare la morte del detto tiranno.
e 111. Lecito essere ad ogni suddito, non che onorevole e
meritorio, uccidere o fare uccidere Tanzidetto tiranno, traditore
e fellone al suo re e supremo signore, per mezzo di spie ed
agguati. Esser questa appunto la morte dei tiranni e dei felloni,
vale a dire uccisi alla francese vilainemerU, con raffinate astuzie,
spie ed agguati : ed essere permesso infingersi e covar dentro
il disegno dell'attentato.
t IV. Quegli che uccide o fa uccidere il tiranno con gli
anzidetti mezii non doversi riprendere da alcuno. Ed il re non
solo doversi tener contento del fatto, ma doversene giocondare
ed autorizzarlo, quando ne fosse bisogno.
f V. Essere debito del re di premiare e guiderdonare coloi
che nell'anzidetto modo ammazza o fa uccidere il tiranno, in
tre maniere, col favore, con gli onori e con le ricchezze , ad
esempio de'premii dati a s. Michele Arcangelo per la cacciata
di Lucifero dal regno del paradiso ed al generoso Finees per
la uccisione di Zambri.
€ VI. Dovere il re amare più di prima colui che uccide o
fa uccidere il tiranno nelfanzidetto modo, e far bandire sul sno
reame la sua fede e lealtà, ed anche fuori il reame per lettere.
f VII. La lettera uccidere, vivificare lo spirito : vale a dire,
star sempre sul senso letterale nella sacra Scrittura essere un
uccìdere Tanima propria.
— 565 —
• Vin. In ca50 di alle^nia, gìnnimenltx pn^mo^jsa e ft\lo-
razione fatta tra due cavalieri, qualunque il mcKk\ ove awiM^fa
che tomi a danno di uno dei promettenti^ della propria ok^Ko
o figlnioU, non essere tenuti a mantenerli* »
Bestiali dottrine. Eppure vi vollero ben cinque se;s;sioni per
trovarle tali, e neppure tutti convennero nella sentenia di con-
dannarti. Il libro di Petit che recava per titolo — GinstìfiM-
zione dd duca di Borgogna — in cui erano le anzidotlo pro-
posizioni, fu dannato al fuoco, perchè queste erano avverso alla
fede, ai buoni costumi, e scandalose. Il re racc4>lse la sentenza
del vescovo e dell'inquisitore e maqdò subito a tutti i i^ìrla-
menti della Francia perchè la conservassero ne' loro rei;lstrì.
Quello di Parigi volle pensarci fino al giugno prima di regi-
strarla.
Gerson ho detto che si trovava in quest'assemblea « anzi
fu egli che trasse dal libro del cordigliere le nove proposizioni.
Ebbene, Gerson andava d'accordo col cordigliere: discordavano
n^li accidenti. Il frate non parlò del supremo principe, usando
la. voce di tiranno, ma bensì d'un personaggio fellone al prìn-^
cipe, che per la sua levatura di stato non si lasciava raggiun-
gere dalle leggi. In guisa che le sue proposizioni orano ecce-
denti non per riverenza alla persona del sovrano, ma direi quasi
per adulazione. Furibonde teoriche, che ponevano ad un loinpo
In man di privato uomo il diritto di giudicare e di ucciderò un
prepotente che egli chiamava tiranno. Ma lo scisma papaie aveva
per cinquanta anni educate le menti a questa genernziono di
pensieri ; e la ragione umana, assunta arbitra do' litigi di fatto,
giudicò anche di quelli di dritto. Le università, e massimo la
parigina, che informava il concilio di Gostanza, dio fuori aon-
tenze assai ardite; e certo che né essa né il suo cancolllero
Gerson erano tanto mondi di peccato da potere levare la pietra
contro il frate Petit. Gerson alla presenza di Cario VI neiranno
1405 recitò un sermone che a leggerìo fa paura. Incominciò
col gridare per tre volte Vivai rex, ma tutl'altro che vita augu-
rava al sovrano. In un secolo in cui anche ì misteri della fodn
^ volevano tradurre alla percezione dei sensi con le rappre-
sentanze drammatiche, le questioni di diritto erano trattate alla
stessa guisa. Il cancelliere con una ipotiposi da retore metto
sulla scena personificate la sedizione , la dissimulazione e la
discrezione. La prima non é che il principio netto nett<; della
occlsione del principe che diviene tiranno; la mcoutì^ é ìh
— 366 —
mula e cieca tolleranza di ogni oppressione; la terza è qaell2^
che oggi chiamerebbero alla francese il giusto mezzo. Questo
giusto mezzo era il frutto della università , figlia del re (così
la chiamava Gersón) e madre delle scienze. Ma la discrezione
gersonlana non era poi tanto discreta. Questa faceva sapere a
Carlo VI che il principe non sia punto il padrone di tutto
il reame; e che come il veleno uccide V umano corpo, così
la tirannia sia un veleno che spegne tutta la vita politica e
regia.
Secondo le teoriche del cancelliere, chi maciulla il popolo eoo
ingiusti tributi e taglieggiamenti» e rompe il corso alla sapienza,
è tiranno: chi per questi mali ribella, fa benissimo. A vedere poi
quando un principe sia veramente tiranno, e sia giusto V infel-
lonire, Gerson manda il privato cittadino pei filosofi , pei teo-
logi, pei giureconsulti e gli uomini di santa vita, di naturale
prudenza e di grande esperienza, perchè gli diano la risposta.
Ma non dice Gerson come abbia da fare il cittadino per saper
quali siano i veri filosofi e i veri santi ; questo silenzio con-
durrebbe il cittadino o a starsene mtuo paziente o a dar d>
pìglio ai pugnali da forsennato, e la questione non sarebbe ri-
soluta. Se poi il principe non vuole stare a segno nella fede e
nei costumi , il cancelliere non vuol tanti dottori consulenti ;
dice che le leggi divine ed ecclesiastiche mettono in man del
suddito il ferro e fuoco onde sterminare il tiranno. Quest'ana-
lisi, com' è chiaro, metteva capo al principe sintetico della so-
vranità dei popolo , come immediatamente investito di quel
potere che trasmette al principe per ragione di amministra-
zione; e di quel principio son contea ciascuno le orribili con-
seguenze.
Dopo questo sermone non trovo che Carlo VI desse segni
di scontento: pensava al Vivat rex. La ragione dei tempi accor-
ciava il vedere ai principi, prolungava quello dei professori. Gio-
vanni Major, collega e buon amico di Gerson, ne disse di pia
grosse nel suo Trattato delVautorità del concilio sopra al papa.
Egli , demagogo nella ragione divina , doveva esserio di mille
tanto più in quella umana , e senza uno scrupolo al monda
mette in man del popolo la regia corona, il quale come la dà,
la toglie per cause credute ragionevoli. Le stesse cose dice uà
altro dottore , Jacobo Almoìa , nel suo Trattato dello Stato <?
della Chiesa. Questi erano i dottori che andavano al concilio
di Costanza e ne , moderavano le ragioni e fermarono i famoà
— 567 —
crefi ddla qaiDta sessione. Se costoro» dopo avere elsiborati
d decreti , fossero venati nel seno deiraniversità a senno*
re di economia politica alla gersoniana, non avrei ponto ma-
rigliato ; dalla ragione ^vina si può prendere norma a di-
)rrere della nmana: ma che dalla nmana ragione si voglia
Bendere alla divina ed aggiogar questa a' destini delle umane
ecalazioni, questo mi pare veramente troppo, e non so in-
odere come nomini cooQdenti della dialettica ne lasciassero
appare dal guscio V anima, dico la logica del senso comune,
tocco di queste cose e passo, che non è mio scopo entrare
adice delle opinioni di questi pubblicisti e combattere l loro
rori. Ma a me basta che la loco esistenza chiarisca il lettore
tomo airindole di quei tempi ed al perchè un concilio ecu-
enico con le mani proprie nudasse le fondamenta della Chiesa,
cendo onta alle invidiabili ragioni dei papato romano. Del cho
I verrà certificato chi mi legge, trovei^ come i decreti della
linta sessione non poggino sul criterio de'principii inconcussi
ìe rendono Tuomo immobile sulla coscienza di una verità, ma
attuavano sulla contingenza delle umane personalità in un
lorale delirio di contradizioni.
Innanzi ad uomini di questa tempera di convinzioni venno
adotto Giovanni Petit o meglio la sua e Giustificazione del duca
I Borgogna >, perchè era già morto. Dovevano giudicarne la
3ttrina già condannata dai congregati sotto la presidenza del
3SC0V0 di Parigi. II giudizio era assai spinoso e per la cosa
per chi dava occasione a quegli esami, dico il duca di Bor-
Dgna. Il re voleva che il concilio confermasse la condanna del
nodo parigino, ma non voleva che il duca impennasse; ne avea
lura. Costui teneva la Francia pel colio e lo fiiceva tremare.
er la qual cosa, ad un avviso che ebbe da Borgogna di non
)stituirsi parte nel giudizio costanziense , abbassò le velo e
landò dicendo ai suoi legati al concilio di non agire in suo
ome. Borgogna si guardava ; ma non voleva essere toccato. I
iinistri regi deputati a questo negozio erano il vescovo di Car-
issona con due dottori ; i ducali poi erano V arcivescovo di
esangon, quello di Vienna nel Delfinato, ed il vescovo di Arras
)n un dottore in diritto. Tre vescovi per difendere Tammaz-
itore d'Orléans I Si guardavano minacciosi: Borgogna dio il
ugnale della zuffa con una lettera che scrisse ai deputati della
azione francese nel concilio e con altre due, Tuna al concilio,
altra all' imperatore. Io recherò tra i documenti la prima «li
— 568 —
queste epìstole^ perchè rivela qaale parte prendesse ilBorgogo»
negli »fTari del concilio intorno alla pacificazione della Chiesa.
Il duca abborriva dal concilio, perchè ne temeva la condanna
come ammazzatore deirOriéans. Bramava vederlo sciolto; perciò
apriva un asilo ne'suoi Stati al ramingo pontefice: stando alla
fede del monaco di S. Dionigi aveva fatto imprigionare i sino*
dali messaggi che andavano a re Carlo; e'gli avevano imputate
esi2iali macchinazioni contro la vita di Sigismondo, nel viaggia
che era per fare a Nizza pel negozio della pace. Scriveva la
prima lettera ai deputati della nazione francese, a di 15 mag-
gio, quando Giovanni non era stato ancora deposto. Dice
aver ricevute due loro lettere esortatrici a non dare rifugio a
papa Giovanni nei suoi Stati, ed ove vi capitasse, a darlo in man
del concilio; piange un po' pel differito negozio della unione, poi
si scolpa. Ecco le sue parole: « Poiché si fu ritratto da Costanza
il nostro signore, il medesimo per solenni messaggi mandò di-
cendo a me, ignaro del come e perchè di quella ritirata, aver
lui lasciata Costanza solamente per compiere le sue promesse,
avendo in animo di recarsi a Nizza a fare la rinuncia cui si era
obbligato nella sua cedola. Lascio alla vostra paternità pensare
se io umilmente e riverentemente doveva accogliere que' mes-
saggi e dar graziosa risposta a coloro che io riconósceva amba-
sciatori del papa nostro santissimo padre, come tale tenuto e
riconosciuto dalla Chiesa, non riprovato, non condannato, pro-
mettendo di voler cedere il papato, di fare il possibile pel bene
della unione della Chiesa. A mio parere, ciascun di voi, e fosse
il più cauto, darebbe del matto a chi avesse detto non volere
accogliere un papa stimato disposto ad ogni bene, massime con
la speranza dì condurlo a cose migliori. Laonde risposi loro es-
sere per accogliere ben volentieri e con piacere esso nostro si-
gnore così bene intenzionato e trattarlo orrevolmente fino a che
l'avesse durata nel buon proposito. > Dì poi confessa che, avendo
risaputo dalle loro lettere come la ritirala del papa fosse stata
clandestina e scandalosa e pregiudizievole alla unione della
Chiesa, avea rimutato T animo suo versò papa Giovanni, e
volersi unire a tutti i buoni principi cristiani ad ajutare il con-
cilio nella estirpazione dello scisma. Pregava i deputati francesi
a non prestar fede a certi nemici del suo onore che lo anda-
vano infamando in Costanza in materia di fede , a cagione di
una proposizione rapportata al delfino ed ai principi del sangue
in una grande assemblea, nella quale dicevano falsamente essere
errori coDlro la fede da lai approrsttì. Considera^^ro Ini c^^n>
della gloriosissima casa di Francis, immacolata fino a quel tempii
li ereticale bbe: cattolico il suo padre, e lui essere cosi strallo
Illa fede da propugnarla anche col sangue da buon caTaliere.
Velia proposizione anzidetta non a^er potuto approrare er^^rv
deano, essendo la cosa al disopra del suo ìntelleda o non sa-
jierae affatto. Badassero a discernere la vera dalla falsa pn^^xv
azione del Petit, arendola ì suoi nemici falsata. Lui non a\ert'
ifBdata al Petit che la sola ragione de'fattì: del sillogismo che
38 fabbricò e del suo che vi potè porre lui non rispondere: che
;e avesse anche alla lontano fiulato Terrore, non ravrobbi' certo
ipprovato. Reietti e puniti venissero dal concilio coloro che gli
lavano deirerotico; i quali sebbene mostrassero non mirare a
lui, pure con la condanna della proposizione non facevano che
iccendero nuovo fuoco di guerra nella Francia. Soggiacere cie-
camente alle decisioni del concilio; rigettare quello che rigetle-
rebbe: slessero però in guardia di coloro che biigiardamenle si
idoperavano ingannare il concilio, facendo vedere corno la sa-
lute della Francia dipendesse dalla condanna della pro|ìosiziono
lei Petit; mentre in Francia nessuno pensava né curava di quello,
eccetto coloro che muovevano quelle acque a conciliargli I odio
del comune ed a tirare in perdizione la Francia. ,Lelta questa
epistola, sì levarono quindi e quinci i regi! ed i ducali ministri,
protestando a vicenda, a nome proprio, e chiedendo giustizia del
concilio.
L'altra lettera indiritta a Sigismondo recava la discolpa del
Borgogna intorno alla macchinata uccisione del roge. Avevano
rapportato al duca come Luigi di Baviera cognato di re (ìarlo VI
10 avesse pubblicamente accusato di aver cospirato con Luigi
duca di Aquitania, col delQno di Francia ed il conte di Savoja.
di ammazzare Sigismondo nel viaggio che era por fare a Nizza.
11 bavaro aveva gittatoin mezzo la mala voce, il duca d^Auidria
Taveva raccolta e recata a Sigismondo. Borgogna da del calun-
Qiatore ad entrambi, ed esclama: < Oh la nuova razza di mon-
EOgnei Oh il plebeo modo di olTcnderei Impotente ad inipugnan;
la spada, come è uso degli uomini generosi, dh di piglio all'arma
della calunnia. > E con questo metro cessa la sanguinosa ac-
nisa. Purgasi anche dell'avere imprigionati i messaggi andanti
il re di Francia (quelli imprigionati e spogliati nel dueato di
br dal De-la-Tour tutta cosa del Borgogna;.
Trovavasi l'imperatore in un'assemblea d«lla nazione frauf
Tami. Inquis. Voi. II. Ì7
— 370 —
cese quando gli Tennero recate queste lettere : erano presenti
i due duchi, il bavaro e Taustriaco. Avvenne un fatto assai ri-
dicolo. L'ingrato manifestò a questi Tepistola del Borgogna; idil
bavaro impennò, chiedendo giustificarsi. Ma stretto V austriaco
dair imperatore a rivelare onde «avesse risaputo della cospira-
zione contro la sua vita, rispose netto averglielo detto il bavaro.
Il bavaro gittò la cosa sniraustriaco, affermando averla risaputo
da lui. Questi non tenne fermo e confessò come la cospiraziooe
fosse stata ordita da papa Giovanni col Borgogna ed il contedi
Savoja, e come avesse anche il pontefice spedito un suo came-
riere al duca d'Aquitania per trarlo nella sua parte , essendo
stato desiderio del Borgogna, tolto di mezzo il cesare, accogliere
in Francia Giovanili e porlo sotto il patrocinio del delfino. Sigis-
mondo dovette j cader dalla luna nell'udire queste ducali cod-
'fessioni che toccavano la sua vita. Ma, rassicurato della falsità della
cosa dalParcivescovo di Vienna, non andò oltre. Il Lenfont pensa
acconciamente che questo vespaio era stato mosso dairAustria
per intimorire il cesare e stornarlo dall'andata in Ispagna, indu-
giare il negozio della unione e, sciolto il concilio, veder risorto
Giovanni.
Sigismondo voleva vedere recati a termine i negozi toccanti
la fede innanzi muovere da Costanza per quello della unione.
Lo disse in un' assemblea dei deputati delle nazioui tenuta a
di 7 di giugno : e tosto levossi Gerson recante nelle mani una
scritta in cui erano nove proposizioni del Petit con la condanna
del vescovo parigino ; la presentò ai prelati , e venne letta da
Bertoldo di Wildungen uditore di Rota. Chiedeva il cancelliere
sulla cosa. Il vescovo di Arras gli andò incontro, affermando
come la sentenza del vescovo di Parigi e dell'inquisitore fosse
pregiudizievole all'onore del Borgogna: a nulla valere, avendo
questi appellato all'apostolico seggio ed al concilio. Gerson in-
stava venisse confermata dal concilio. L'Arras ratteneva i padri,
persuadendoli a soprassedere a qualunque sentenza, tra perchè
l'appellazione era stata sospesa, a non intorbidare l'affare della
unione, e perchè tanto i procuratori regii quanto i ducali ave-
vano il divieto dai loro signori di costituirsi parte in quel giu-
dizio. Vennero lette le istruzioni, che erano tali, di re Carlo e
di Borgogna, e fu soprasseduto. L'affare di Petit era assai sca-
bro : i padri lo sentivano e s'indugiavano.
Nella causa di Petit i padri andavano adagio, in quella dei
salixtini (erano cosi chiamali quelli che volevano l'uso del ca-
— n —
ffWHfeK : ìmfiifiKKiiè $#
a tracalmio Boffogu « dm «n tute ìmm^mi
in dei BocnL Doneraio poism die. tojifiwtJo ìt cairn ilill»
mf del popolo, che già Tawi iflemlo» polenDO tnMtof$ì ùi
«i , mclie pia terrìbUi ddh nortè deJT Oriè«ia$ > le teom
A Petit NoD <ficD che i padri per terrrai timori don^ìmiio
0dar tiobre 11 deposto delb fede: m , salTO U dc^mi delfai
irlecipaiioiìe del cafice dod necessatria alb salate eterna» po«
mòo eoDoedere qulche cosa nella ragtone dl$dpKnan^. Ma
oeslo Aco io dopo i btti , ed i padri operatano prima che
Desti fossero aTvmoti. Adonqne a di 15 di giugno fU tenuta
i dedmatena sessione, nella quale fa difBnilo iiHorno all'uso
si calice, gii usurpato dai laici in molte parti* Dìraniìi-ano l
idrì: • e Come in alcune regioni fossero certi temerari die af*
maTano doTore il cristiano popolo ricevere il sacramento
ella Eucaristìa sotto la doppia specie ; potere anche dopo la
)na con le virande nello stomaco mangiare il pane eucarìstico
bere il consacrato calice ; essere sacrìlego il costume della
Uesa, che queste cose Yietava. |1 santo sinodo, tolto il parere
i molti dottori, volendo premunire le anime de' fedeli da quoN
errore, diffiniva e decretava: che sebbene Cristo abbia istituito
1 amministrato TEucarìstia sotto la doppia spedo a' suol di-
ìBpoW dopo la cena, toltavolta i sacri canoni ed il costume
)lla Chiesa vietarono ai fedeli non digiuni la parlecipaaione di
sd sacramento, eccettuato il caso dMnfermiUi o di altra ne-
»8ità. Che sebbene ne' primi tempi della Chiesa usassero lutti
fedeli ricevere TEucarestla sotto la doppia spedo , pure in
recesso di tempo i soli sacerdoti bevvero il calice, lasciata la
)la specie del pane ai laici : sotto la quale specie era ferma*
lente a credersi esistente tutto il corpo di Cristo e perciò an-
le il suo sangue. Che il ragionevole costume per tanti secoli
da* santi padri osservato abbia forza di leggo • la quale non
lecito rigettare senza Tautorità ddla Chiesa: l'affermare esser
iella sacrilega ed illecita sia un errore , e coloro che »i osti-
isserò a tenerìo dovessero essere confinati come eretici e
ivemente puniti dalla ecsiesiastica e laicale balla. »
Fu approvato con universale suffragio questo decreto e raf«
rmato da altro, con cui sotto pena di scomunica vennero ob-
ligati i vescovi a punire i violatori del medesimo, e di tra-
irli in mano ddla potesti laicale. Stando sul negozll della
— 572 —
fede, i promotori del concilio chiesero si nomìDassero commis-
sarii, ai quali venissero peculiarmente affidate, con piena balia
di esaminare» le cause intorno alla fede, e di trarne giudicando
finale sentenza. Vennero assunti a quest'officio quattro cardi-
nali, rOrsini , il Gambrai , quelli di Firenze e d'Aquileia , con
quattro deputati scelti da tiascuna nazione. Era questo un sacro
maestrato, che doveva di continuo vigilare il deposito della
fede e dei costumi, accorrere ovunque fosse minaccia di no-
vella eresia, e senza distinzione dì persone ricisamen,te punire.
Lasciavano però i padri agli antichi commissarii il negozio di
Hus, che era in sul conchiudersi.
Il decreto che creava questi commissarii trasse di nuovo
in mezzo il negozio di Giovanni Petit. Tutti lo approvavano;
ma al vescovo di Arras non piacque punto. Non voleva tra i
commissarii il Gambrai, come persona sospetta al duca di Bor-
gogna. Questo cardinale era tutta cosa del Gerson, di cui era
stato maestro. Ghiese inoltre, che la sentenza del vescovo di
Parigi e deirinquisitore venisse annullata dal concilio, e perchè
la causa era stata recata al tribunale della Santa Sede, e per-
chè le dannate proposizioni erano assai probabili e sostenute
da moltissimi dottori: venisse imposto silenzio al Gerson ed al
vescovo parigino ed anche una pena per le calunnie, onde
aveva disonestato il nome del duca. Gonfessava però, lui non
opporsi alla condanna della proposizione intorno alla lecita oc-
cisione del tiranno, ma volere, che quella venisse ben dichia-
rata dal concilio. L'Arras voleva cavare il Borgogna dal gine-
prajo, in cui si era messo più con la difesa del Petit, che eoa
lo stesso fatto dell'ammazzamento deirOrléans.
Tra i deputati al concilio del duca erano gli abati delle pid
potenti babie della Francia, quella di Gtuny e l'altra di Gistello.
Andavano costoro più. rattenuti del vescovo di Arras, chiedevano
un novello esame delle proposizioni del Petit, innanzi dichiarare
anticanonica la sentenza dell'assemblea di Parigi : si esaminas-
sero le dottrine, ma non si facesse parola dei loro autori e di-
fensori, ponendo al coverto di ogni onta la fama del Borgogna e
del morto Petit: si provvedesse anche all'onore dei denuncia-
tori. E gli avvocati ed i giudici si trovavano innanzi ad un
brullo guado. Condannare la dottrina del Petit era un dar del-
l'eretico anche al Borgogna, poiché questi nella verità di qnell:^
proposizione aveva collocata tutta la giustiiìcazione del commesso
omicidio ; e con un anatema sul capo, Dio sa a che altro s^-*
nDDi Sem-Ritfin. M^ Owtó» VI 4kveri vVGjìvìA.^ ì^ $*»> jxi^tKV
sui terreDd éàìà %2uesk, e ìk cxì^zm^ ^^:^;ìi \ì$^ \^^$^\\^ sS^i
?m^ en osa IftVflBTBfcrf nipi>CR\ coòi^ i OAVJU;^fiK^>i ^jiik>
insellati a gìoioà c&e pn^eourii^x ^u^55frJ^ iv.x^ |Vh^\:*^v^v
perché il Bdrfxitt i^iirx fa xx^tisjiZoa «v>^\;i*.nv n ^iauA-
Tano spessoL dniisenri&c^ leaifc«$;»Tii;\\ SI a ;l lit^ri^ 5U |yT^
sonale nemico òtl deca e iki PetiU Tv>teni rv^ìli $i u>xi;\^ix U
caDcellìere era delia buioM de^ì Aral2^^c^ (\t iu ùtu \ti ^|xu^i^
freqaeoti niffe, che questi apfMccanQO coi lV>r^vuom la Ta^
rigi, se De andò io fiamine la casa di lui. e (xko stoUo .nucho
a perdenri la nta. LWrras teneTa fronte al cancoilion' con un
memoriale indirìlto ai padri, nel quale diaio^lrà oo talli Li lùuu^
cixia di Gerson col Borgogna e col IVtiU e a tutruoiuo .^tor-
'Xa?asi di togliere dalle mani del concìlio la c;uK<a. cho ;» Ini
(ttreva m^lio agitata presso la romana sedo.
Più speditamente si procedeva contro Giovanni diins. Vo*
levasi da Ini una ritrattazione» e non volova darla PosUnato
boemo. I deputati del concilio che lo venivano ad ora ad wnx
a visitare nella prigione lo trovavano un di più cl^o Taltn^ (onno
nel proposito. Allora vennero per comandamcnlo del conci-
lio dati pubblicamente alla fiamme tutti i suoi libri. Sporavano
l'arsione di questi, quasi minaccia del rogo cho lo doveva hu lu
oerire, gli avesse ammorbiditi gli spiriti. Nulla di (luoslo; chioso
a scelta dei padri un confessore ; gli mandarono nn frale , il
quale come afferma lo stesso Uus lo ascollò con molta doliH^xxu
e cortesia^ gli dette Tassoluzione (lo dice llus), lo connlKliò alla
ritrattazione, ma nulla gli prescrisse. Quoslc coso noi n^wnw^^'
A di 1 luglio volle il concilio tentare le ultime vie a radilnrrn
aUa verità Giovanni. Gli mandarono una soleimo dnpuUizlnnn,
in cui erano due cardinali con altri prelati. CoHtoro unii olliu^
Bere da lui che una scritta, la quale recava : « Il timori) di
offendere Iddio e di spergiurare impedirgli Tabiuni Anniì arti-
coli recati contro di lui da falsi testimoni ; chiamar Dio Ua^lì '
nume del come non li avesse mai pre<licati nò HOAt^srinti ; <^)n«
lessare, che alcuni articoli tolti da'suoi libri rechino qualche
oosa di falso, detestarti ; ma non voleri! abiurane l4;iniMido di
confessare cosa contro alla verìtii e le miMuw ìUìì^uìì im\t\ ,
tt potesse la sua voce farcii tanto ehiaramenli; nenllr^^ i\\mìUf
^ menzogna e i saoi peccati iìa^ rivelarci n^i di m^UMwu ^4(11
ritrattereUbd in faccia airooiverM uy^wU» (kIhì hUìUè dà tyWfm
— 574 —
Che avesse potato pensare. Consegnare queste cose alla scrit*
tura di pieno suo volere e liberamente >.
Queste parole chiarirono i padri della inefficacia de' loro
sforzi a cansare il rigore delle leggi contro gli eretici ; alle
quali si sarebbero tosto rivolti se la presenza di Carlo Maiatesta
di Rimini, messaggiero di Gregorio XII, non li avesse tratti al
negozio deirunione.
Se ne stava Gregorio da due anni e mezzo in Rimini al-
Tombra del Maiatesta, che lo riveriva pontefice. Aveva creati
cardinali, avea ragunati sinodi, avea fatto il possibile per te-
nersi in seggio: tuttavolta la sua obbedienza era assai sottile di
numero. Più ragionevole e meno testardo del De Luna, si an-
dava persuadendo, che bisognava scendere: ma voleva scendere
con garbo e lasciarsi dopo opinione di uomo che avea sagrifl-
cato il suo diritto al bene della Chiesa, anzi che di usurpato^ '
spodestato per forza di diritto. Deposto Giovanni dal concilio,
che lo avea adorato vicario di Cristo, pensò questo essere il
tempo di venire innanzi e cedere in modo da conseguire in-
tento. Vedremo appresso come i Costanziensi gli lasciassero
acconciare la bisogna con le mani proprie, per amor della pace.
Era giunto in Costanza il di 16 di giugno, vigilia della XIV
sessione, Carlo Maiatesta, signore di Rimini, deputato da Gre*
gorio come suo procuratore a cedere la dignità papale. Se ne
rallegrarono i padri, lo festeggiarono assai, sebbene il Mala*
testa non recasse lettere al concilio, non riconosciuto da Gre-
gorio, ma al solo imperatore. Le presentò: e visitati privatamente
i deputati, annunziò a tutti che il Cerarlo avrebbe rinunciato
il papato.
Fino al dì quattordicesimo di luglio, in cui fu tenuta la
decimaquarta sessione, i padri stettero pensando al come ca-
varsi da un mal passo, a cui li stringea Gregorio. Costui non
teneva per legittimo concilio il convento costanziense, perchè
convocato da papa Giovanni suo emulo, né voleva cedere il
papato in man di un cardinale creatura di Giovanni, presidente
del concilio. Non contentarlo sarebbe stato un perdere la op-
portunità di togliere di mezzo un antipapa dei due che erano;
far presiedere al concilio altri che non fosse un vescovo, era
un dar di cozzo ai canoni più vitali della ecclesiastica disciplina.
Lo contentarono. Fu veramente una strana cosa questa sessione.
Sigismondo vestito tutto all'imperiale, circondato dai principi
che gli tenevano la spada, lo scettro, la corona ed il pomo e da
— 575 —
pinde AMillitQdiQe di banmi alla presena dei andìnuK di santa
liiesa edi tatti i padri mosse dal suo seggio e andò a sedare in
inolio del presidenlo della sinodo. L^imperalore in qnel di pnh
ùedefa. Gli sedevano quindi e quinci ai lati Giovanni cardinale
li RagBsa e Carlo Malatesta procuratori di Gregorio. Noiì si
'jòlébrò messa, tacquero i divini uflfiiii, come se quello non fosso
^ncilio, ma convenuto da dichiararsi tale. Fu invochilo (>erò lo
Spirito Santo, ed il cardinale di Viviers orò per la {vaco. Allora
:erto Giobbe Benner protonotaio di Lodovico conte (palatino
renne fuori a l^gere due bolle di Gregorio XII» le quali a diro
il vero mi sembrano assai barbaramente scritte: a stenti si la*
sciano interpretare. Una di esse era indiriizata al cardinale di
Ragusa, al patriarca di Costantinopoli, che non era presente, al-
Tarcivescovo di Treviri, alFelettore palatino ed a Carlo Mala-
testa: e recava la facoltà ai medesimi di convocare di nuovo il
concilio, di dichiararlo ecumenico, a condizione però che non
n assistesse Giovanni XXUI. L'altra era indirilta solo al Mala-
testa, con cui Io dichiarava suo plenipotenziario a faro lutto che
credesse opportuno pel bene della Chiesa. Come vennero lotte,
il Malatesta commise al cardinale di Ragusa Tufflcio di convo-
care il concilio. Àlzossi questi, e fatta .una diceria in lode di
Gr^orio, in capo alla quale pose queste parole — Qui» oM hicf
^ laudabimus eum: fecit enim mirabilia in vita sua — dichiarò
k)Dvocato il concilio per la unione e pace della Chiortn e la
estirpazione delPeresie^ Sali Tambone Tarcivescovo di Milano, ed
^Tendo accettato a nome di tutti quella convocazlonei (luattro
Sputali delle nazioni che gli erano appresso gridarono: IHacd;
^ Placet gridò anche il cardinale d'Ostia a nome del sacro col-
Qgio. Dichiarò unite le obbedienze di Giovanni XXIIl e di Gre-
Torio XII ed annullati i processi e gli anatemi che si orano
dnciati le due parti. Cosi fu fatta la pace. Allora il cardinale
li Ragusa, lasciato il seggio che teneva, venne dal cardinale
le'Conti condotto agli altri cardinali, e ricambiati gli abbracci
^ i baci, venne messo a sedere tra quello di Firenze o Taqui-
«iese.
Gregorio eìAie tutto a suo modo: la nuova cfmyimzìom
^ieva al concilio queir apparire continuazione (kl pii^rio, in
Mii egli venne solennemente deposto. I padri riputavano ihpU'SH
sacrificare al bene della Oiiesa Tapparonza (Jelie eirt^^riorì forrn/i,
non oedendo potesse nuocere alla canonicili itegli alti anter/^
denti quella repentina cessazione del concilio e r^ifmnmiUff per
— 576 —
volontà di un antipapa. Certo che la dignità della Chiesa paU
molto per quelle finte sembianze a contentare un antipapa, cui
il gesuita Maimbourg dà spesso del buon uomo. Adunque come
se allora incominciasse a tenersi il sinodo, andato via l'imperatore
dal seggio di presidente, che occupò il cardinale di Ostia, il
cardinale di Pisa celebrò messa: da capo s' invocò lo Spirito
Santo, e il Malalesta lesse la bolla di Gregorio, con cui davagli
facoltà di rinunciare il papato in suo nome. E qui il principe
tentò appiccare un uncino, onde afferrarsi e portare in lungo
la promessa rinuncia , chiedendo al concilio che ^i aspettasse
resito delle conferenze di Nizza intorno all' antipapa De Lnoa,
innanzi che Gregorio rinunciasse veramente. Ma Tarcivescovo di
Milano a nome di tutti gli turò la bocca con un no. Dopo tatto
quello che si era fatto per afferrare una rinuncia dalle roani
del Corano sarebbe stato un farla da dabben uomini il lasciargli
menar la barca al largo.
Preparavano i padri con peculiari decreti la rinuncia del
Corario. Erano tutti ad impedire, come era loro debito, la scap-
pata di qualche altro antipapa, tolto il Corario. Statuirono, e lo
avevano fatto anche quando deposero Giovanni, che non si an-
dasse alla elezione deLpapa senza il consenso del concilio; al
quale spettava la ordinazione del come e del quando di quella
elezione, sospeso ogni altro diritto e privilegio. Perciò'^supplica-
vano l'imperatore come loro difensore, a impedire lo scioglimento
di quella adunanza innanzi si fosse creato il nuovo papa. E
Sigismondo di rimando mise al bando dell' imperio chiunque si
facesse con diretti o indirettimo di ad impedire la continuazione
del concilio; l'imperiale editto venne letto dal vescovo di Cin-
que-Chiese, suo vice-cancelliere. Approvarono tutti gli atti pon-
tificali dì Gregorio ne' luoghi ove era stato riconosciuto ponte-^
flce, ove però non fossero opposti ai sacri canoni. A fare sempre
più meno scontento il Corario fu anche dichiarato che il decreto
il quale vietava una sua rielezione a pontefice non mirava ad
alcuna sua inabilità, ma bensì al bene della Chiesa, che inten-
àevasi procurare con quel mezzo: e che i sei cardinali da lui
veali farebbero parte del sacro collegio indistintamente con gli
jJtrì, provvedendo il concilio all'inconvenìenza del titolo o dia-
conia che si^ trovavano avere ad un tempo due cardinali; tutti
|)1 ufficiali àella corte di Gregorio ritenessero le loro dignità;
e finalmente esso Gregorio dopo la rinuncia rimanesse cardinale
di santa Chiesa e si godesse l'erario che possedeva. Queste cose
in vari decreti.
Così pftoto un Telo siil passato. ac<*onda!o :i\h nìivlio ì*;u
TCDire di Gregorio, il Mabtesta Itvossi in Yh\\\ o somìoniN ^i
padri so qoesto tema — Faaa csi cwn Anodo wwi/m/^^ì tw?/|.
titB cceìestis — S'intende: l'angelo era il Corano. Hcilo Une ai
discorso, andò a sedere in nn seggio letatissimo pi\'(^raUvi((i
dai padri, e di là lesse la fomosa rinuncia: t lo Cario doi Ma^
latesta, vicario di Rimini e di altre terre, relton' dolla prtninda
di Romagna , a nome del santissimo padre in Cristo Signon^
Gregorio per divina provvidenza papa XII, procuraton> gonorak^
della santa romana Chiesa e del santissimo papa signor nostro*
monito di piena antorità , non costretto per forza , violonxa o
errore, ma solamente per manifestare co'fatti con qnaiìta sin-
cerità e zelo abbia caldeg^ata la anione dei cristiani inolia nnilà
della santa madre Chiesa, liberamente ed espressanionto rinuncio
io nome di Gregorio XII ad ogni diritto che ebbi od ho ora
al pontificato, e lo rassegno alla presenza di Cristo o di qnosto
universale concilio, che rappresenta la universale romana (Chio-
sa. > L'arcivescovo di Milano accettava T anzidetta rinunzia In
Dome del concilio; e mentre cantavasi por ispirituale allogrozzn
il Te Deum, il Malatesta lasciava il seggio papale e nudoMsnno
tra i signori assistenti alla sinodo. Non falli ni suo procurntoro
il Corario; appena risaputo della compiuta sua dcptitnzionn, adu-
nato il clero co'snoi cardinali, si spogliò di tutte lo insogno pa-
pali, promettendo di non volerne più sapere, o per lettorn .s(Tltlo
al concilio confermò tutto l'operato dai Malatesta. Lo forerò
cardinale vescovo di Porto.
Mandato con Dio il Corario, rimaneva con lo chiavi di nnn
Pietro in mano il De Luna. Questi avea polsi più forti di Gni-
Corìo, e capo assai duro. Lo cominciarono a tentare, l/arclve*-
ecoio milanese lesse e sottopose al IHacel del concilio una ci-
tazione all'antipapa Benedetto. Gli annnnziavano dapprima i pa-
€3ri la rinuncia del Corario, e levavano a cielo quel fimtiWM
sifluto; poi gli davano dieci di a pensare do[K> la citazioni;, m'/irn\
% quali, e non deposto il triregno, lo dichiararono m'Ànuìnlìm^
eretico, scandalo della Chiesa e già privati^ delia dignità i>a|^k
ordinavano a tolti fedeli, fossero stali anche re ^d impi;radort,
di negare a lui ed a' sooi snccessorì ogni s<iggezione. U MzUmì
e rostiense risposero: Placet: ma ben altra coiia rin^i^indijfa II
De Lana, iocapooìto a Caria da papa.
Cosi floi la decimaqoarta w.mbvs rxm ottimo ^AiUf ^^r la
unioDe della Chiesa: sì pre^ravano i padri alla ^Urcima/frjint»,
Tamb. Hfuii. ToL IL HH
— 378 —
in cui erasi per dare nua definitiva sentenza intorno a Giovanni
d'Hus. Sigismondo prevedeva che glie l' avrebbero consegnato
come incorreggibile da punirsi a norma delle leggi laicali; e
sebbene fosse paratissimo a far il piacere del concilio» tutta-
volta temeva sempre della commossa Boemia. Volle dare all'ere-
tico un' ultima stretta per farlo rinsavire. Era il giorno 5 di
luglio, e gli mandò quattro vescovi e que'due baroni boemi,
Venceslao di Duba e Giovanni di Cblum , che lo avevano ac-
compagnato a Costanza e lo amavano grandemente. Costoro il
dimandarono in nome delFimperatore se egli volesse abiurare gli
articoli che riconosceva come cosa sua, e se volesse qpn giura-
mento affermare, non tenere la dottrina di quelli che non ri-
conosceva per suoi e di consentire in tutto con la Chiesa.
Rispose non dipartirsi dalla dichiarazione fatta nel giorno pri-
mo di luglio. Ed in quel giorno venendo tratto di prigione Gio-
vanni, a comparire innanzi ai commissari, Giovanni di Chlum
che gli portava molto amore, e non voleva che per remissione
di spirito fallisse a quello che credeva onor suo e della sua
gente , con pietosi modi gli andò dicendo : « Maestro mio
caro, io non sono uomo di lettere e capace di fornir consigli
a voi cima di sapienza^ tuttavolta se vi sentite colpevole di
qualche errore , di cui pubblicamente vi accusano , io vi prego
a non farvi tenere dalla vergogna di ritrattarlo. Ma se vi sen-
tite innocente, io vi esorto a durare ogni maniera di supplicii,
non essendo bene rigettar la verità che possa sulle proprie
convinzioni. > Alle quali parole Hus rispose andando tutto in
lagrime : < Iddio è testimonio se io sia stato sempre e sia para-
tissimo a ritrattarmi con tutta Tanima non appena che m' ab-
biano convinto di alcuno errore coi documenti della Bibbia. >
Povero Hus I la fede è un dono gratuito del Signore : ed egli
non ne aveva più. Chiedeva convincersi colla Bibbia; ma la -
fiducia neirautorità delle scritture non era la virtù della fede, .
ma la infedeltà all'autorità della Chiesa. Il sagrifizio di una sot--
J;omessa ragione non si compie innanzi alla divinità de' libri^
santi, ma innanzi alla infallibilità di Dio stesso che parla suM
labbro della Chiesa. Quei libri serrano la lettera che uccide, e£
lo spirito che vivifica: è mai possibile che possa conciliarsi la^
immobilità di una .mente che crede , con la mobilità di ud^
mente che fatica a sequestrare la lettera dallo spirito? Questcr
sequestro è già fatto, non per umano artificio, ma per superna
illuminazione, ed in quello è il deposito della fede. Questo tesoro
— sni-
di leritii MD è nf!N»itB, mi wnMTKto ^ mi^^tniK^ 4<^tai
Cliiea seooodo le Ifigp ààìt ìnMìic^^ tA \ì <MM^ cìii^ im
partecipa doq poò dbDwdbK esser cmrinUv peivl^ l;ii n^^tk^w
£ questa Tenta dod è dibcnto oeiriimano ìiìt^UMIiCi èf< |vji<^
stori ddh Ctiiesa, ma »lo ìd qnelki di Dk\ nìm^iHl^rlA, ^ un
chiamar Dìo slesso al trìbonate dei {mprio ciit^irHì ;ii rvi^kMr^
ragione delia saa aàooe. Per la (piai cci:» Hn$ ct\ù\)ova im
impossìbile: ed il condilo che gli negata il chi^.^to m\n (^(vvn
che ubbidire ad una le^^ che non era opera \Mh mano y\<»^i
nomini. Necessaria avrertenia è qnesta. o letlon\ \M^tcM non
pensi essere stati i padri irragionevolmente duri cm ìhx^ ne«
gandogli cosa ehe a prima vista sembra giusta o facil«>. dico
il convincerlo con la Bibbia alla mano. Adunque ;iiiovanni di
Hns, che non aveva pib fede nella Chiesa , non \'ol(>ndo muo»
vere dal proposito della propria sentenza, doveva dannnriil da
essa Chiesa; e se era legge nel pubblico diritto che oolplva di
pene i felloni airautorità ecclesiastica . questa doveva onnal
raggiungere il testardo Boemo, e lo raggiunse dlfaltl con tutta
la tremenda maestà della giustizia.
Noi entriamo , o lettore , nella decimoquintn aoa»iono del
concìlio di Costanza spettatori di un'lagrimovolo fatto, ti (fuale
se ci metterà pietà per la terribile vista di una umana vita
divorata dalle fiamme, non dovrà sconciarsi dalle noMlro mani,
perchè è protetto dalle ali della giustizia, ó vegliato dal con-
sesso degli uomini di que'tempi, il quale scriaso n auggnllù il
volume del pubblico diritto. Forse potò fallire quol coliKiof^Ao ,
perchè traviate le menti nella visione del vero dirlllo, ma noi
non possiamo giudicarlo nel solenne momento In cut la urfiann
^nstizia nella flagranza dei fatti ferisco e \ìnnHti, La aciiro^ con
coi questa tronca la vita del colpevole, /j una cjmmuumwA
non un principio. In questo possiamo ragionare, non in qiif)ll«i
perché nella conseguenza é necessità di chi aM^iiìm^ ; nel prUu
d{H0 la libertà di cbi sancisr^. Giovanni d'HiH al r/fi^\HilUì (M
concilio tradotto, nelle mani óeWìmpfr^UìrH ctie lo abbr od«, A
ocdiocato nella conseguenza di ona Ui0%h7Àom ^ìk fatta: ^ffilod}
la pietà della sua morte pad sgorgare alalia ra0(m^ /k) umirt
tempi , da coi guardiaoio que^ fottt , mm mail d^tla ffi0Mm
de' tempi snof. Strìngili per^V, leUofitr, alM» iMmort» di ^tt^h
die ti ho detto inn:»raì inlofM »lla fsfjmfmti^ (M si^id^N
potere. Ricorda eiie il cootifio, e««n« CM^m» nniif^v$l^ 0A ììì-
falfibiie , iMoiste Mi mìtMht delk WkUs. MU M« ^ 4^
— 580 -
costumi , e che nella bassa regione dei fatti sono gli QoniinL
Se patirai scandalo, non ti volgere ai concilio, ma a questi.
Miseri noi, clie dovunque muoviamo, ci lasciamo appresso Torma
del peccalo I
Una moltitudine incredìbile di popolo era accorsa nella cat-
tedrale di Gostanza: voleva vedere come si punissero gli eretici.
Sapevalo , perchè la ragione criminale del secolo era scolpita
nella sua coscienza : voleva satollare i sensi di una terribile
visione. Sigismondo co'suoi principi scandalizzati dalla proposi-
zione di Petit, spaventati dai fatti di Borgogna, erano ai loro seggi,
impazienti di struggere col fuoco la radice della prava dottrina.
Il Viviers cardinale ostiense era presidente : cardinali e prelati
quanti erano in Gostanza non si fecero aspettare. Un tristo mo-
numento si levava a mezzo della chiesa, dal quale mi penso,
che non avevano forza torcer gli occhi gli spettatori aspettanti
un assai lugubre fatto. Era come un altissimo palco, sul quale
giacevano vesti sacerdotali, da indossarsi da Giovanni, per istrap-
pargliele dalla persona a simbolo di perduto sacerdozio. Dato
principio alla messa, Tarcivescovò di Riga usci fuori per con-
durre Hus dalla prigione al cospetto del concilio; e come non
erano ancora finiti i santi misteri, tornato che fu, arrestò Gio-
vanni alle porte della chiesa perchè la sua presenza non pro-
fanasse il sacrifizio. Egli non vedeva; ma udì i supplicanti pa-
dri cantare le litanie , V inno dello Spirito Santo ; e le parole
del Vangelo scelto in quei di — Guardatevi .dai falsi pro-
feti — dovettero andargli a mezzo del cuore, nunzie di vicina
morte.
Gompiuli i divini ufflzi, venne finalmente introdotto alla
presenza dei padri , e difilato gli fecero salire V apparecchiato
palco; cosi levato in alto, segno agli sguardi di tanto popolo,
piegò la fronte ed orò. Quando Tuomo non sente più la paura
della morte per fallita speranza di schivarla, avvegnaché ancora
plasmato di ossa e di carne, s' insublima come uno spirito agli
occhi di chi vive la vita. La contemplazione dei circostanti e
la tacita preghiera delF eretico venne rotta dalla voce di un
frate predicatore, il vescovo di Lodi, che, affacciatosi all'ambone,
cominciò a sermonare al concilio recando innanzi queste pa-
role dell'Apostolo: — Venga distrutto il corpo del peccato. —
Se Paolo aveva scoccata questa sentenza allo spirito del pec-
cato, il frate lo conficcò nel corpo del peccatore. Egli non ser-
mone che per esortare l'imperatore a punire Hus, non dubi-
— 581 —
odo coochìodere la sacra diceria aàlitaodolo come tittima
sàgnata dall'amana giustizia.
Vi erano gli stemperati xelanti, ed a contenere questi credo
le i padri facessero il decreto del silenzio; cosi ò intitolato
decreto ctie Antonio vescom concordiense venne in mezzo
leggere appena il lodigiano prelato ebbe finito V avventato
«mone. Il sacrosanto concilio costanziense minaccia la pena
ella scomunica latoe sententice e la prigionia di due mesi a
lìinncpie osasse interrompere la sessione con inutili dispute ,
ssendo tutto già fermato il da farsi intorno ad Hus nelle con-
regazioni preparatorie, ed a 'chiunque osasse turbarla con voci
batter le mani ed i piedi. La minaccia coglie tutti, anche i
escovì» i cardinali, i re e lo stesso imperatore. Questa minac-
ia fatta anche all'imperatore fece impennare' il p. Maimbourg,
he visse un tre secoli dopo il concilio. Trovò nel decreto del
ilenzio una invasione della Chiesa nelle ragioni dei principi.
Lenfant fa osservare che Timperatore, il quale aveva già ap-
rovata la sentenza contro di Hus nelle congregazioni , non
frebbe certo messo impedimento di sorta alla medesima nella
obblica sessione, e che la minaccia della prigionia era messa
al decreto col suo beneplacito per meglio contenere gr infe-
iori. Si accorda però col Haimbourg gallicano intomo alle usur-
azioni dei padri minaccianti scomuniche ed interdetti ai re
ìobbedienti ai loro decreti. Ora io dico ad entrambi questi
Nrittori, che se il concilio non poteva minacciare Timperatore
i prigionia perchè non aveva il bargello ad imprigionare gli
Qgusti, poteva e doveva su quelle teste incoronate far sentire
) scroscio delle censure, ove non fossero stati al segno delle
ose die toccavano Dio e la salute delle anime. Il concilio dìf-
iDiente intomo alla fede, come diffioiva nella causa di Hus ,
Km Spendeva che da Dio e poteva e doveva ben dire airim-
entore di star zitto, pena là scomunica. Non maraviglio del*
Bgonotto, maraviglio del cattolico : é veramente ridicolo in
n quel tenemmo per le ragioni regali a scapito di quelle della
Imposto il silenzio, il promotore del concilio Errico de Firo
lieie giustizia contro Giovanni d'Hus eretico convìnto. Gli tenne
etro Bertoldo di Windongen uditore delle cause del palazzo
losMteo, il quale incominciò a leggere gli articoli di Wicleff
i eoDdaDoali e quelli di cui era stato accagionato Hus. L'esame
i^esfimooi era fallo, le vie a raddurre il reo ad una ritratta^
— 58f —
zioDe erano state tutte tentate, ed invano: quelle non erano dn
forme di procedere e non altro, a dar le viste della legalità ^lla
già preparata condanna; perciò fu interrotta la lezione e si ebbero
per letti i rimanenti articoli. Giovanni voleva purgarsi» ma alla
stessa guisa con cui aveva sempre risposto innanzi ai com«
missariì del concilio. Per la qnal cosa il cardinale di Firenze
gli ruppe la parola e commise agli uffiziali del concilio di farle
tacere. Egli non doveva che ritrattare gli errori oppostigli : e
sempre più si ostinava a difendersi, chiedendo esser convinto.
Air impossibile i padri rispondevano col niego : e Giovanni,
prendendo le sembianze di uomo oppresso dalla prepotenza
del concilio, con le mani e gli occhi levati al cielo affidava a
Dio la sua causa.
Non essendo più altro a fare intorno alla condotta del
processo, il vescovo di Concordia, a richiesta del promotore del
concilio , lesse la sentezza, con la quale tutti i libri di Hos
vennero dannati al fuoco ed il medesimo ad essere degradato
e deposto dal sacerdozio, e conchiudevano : t Questa santa
sinodo costanziense , vedendo che la chiesa di Dio non abbia
più cosa a fare con Giovanni d' Hus, lo abbandona al giodizio
del tribunale laicale. > Hus ascoltò genuflesso la sentenza;
richiamò contro V arsione dei suoi libri, che disse ingiusta e
perchè non lo avevano convinto degli errori che contenevano
e perchè , ignorando i padri la lingua boema in cui li aveva
scritti, non potevano trarre un giusto giudizio. Ma i suoi accu-
satori boemi ed i molti dottori alemanni che erano al concilio
seppero ben interpretarli da farne intendere il contenuto al
concilio. Pretese anche cessare la taccia d' incorreggibile e di
ostinato che gli avevano dato nella sentenza, e di nuovo prese
Dio a testimone della sua innocenza e lo pregò a perdonare i
suoi giudici accusatori. Intanto gli si appressò T arcivescovo di
Milano con cinque altri vescovi deputati dal concilio alla sua
degradazione, e gli fecero indossare tutte le vesti sacerdotali, e
prendere nelle mani il calice come prete che fosse in punto
di celebrare la messa. Era questa un assai trista cerimonia onde
il sacerdote veniva cacciato per sempre dal santuario, perchè
la balia laicale avesse potuto senza violare i canoni mettergli
le mani addosso. Eppure Giovanni ne tolse argomento a chia-
rire il popolo della forza dell' animo , che credeva arroccato
nella coscienza della sua innocenza; imperocché neirindossare
il camice, disse assai prontamente : « Anche al nostro Signore
— 585 —
Gesù Cristo fu fatta indossare una bianca veste per beffarsi
di lui, quando Erode lo mandò a Pilato. > I vescovi lo trassero
gHi dall'alto sgabello in cui era e, togliendogli dalle mani il
ealice» dissero : e o maledetto Giuda che, disertato il concilio
della pace, ti se'gittato a quello dei giudei, noi ti togliamo il
calice che reca il sangue di Gesù Cristo. > Al che Giovanni
rispose' con voce assai alta, e lui sperare dalla misericordia di
Dio bevere in quello stesso di quel calice nel regno suo. > Cosi
una dopo t* altra strappategli dalla persona le sue vesti con
parole di riprovazione e sconciatagli la cherìcale tonsura , i
vescovi gli posero sul capo altissima una mitra di carta che
recava dipinti tre diavoli orribili a vedere e la parola eresiarca.
Di che Giovanni non accorò punto , anzi con fronte assai
serena raccomandò a Dìo il suo spirito e disse: portare quella
corona di obbrobrio per amore di colui che ne aveva portata
un'altra di spine.
Chiusa la sessione, venne Giovanni abbandonato dal con-
cilio in balia del l'impera tore, il quale commise all'elettore pala-
tino vicario dell' impero a tenere le sue veci di avvocato della
Chiesa ed a curare la pena da infliggere all'ostinato eresiarca.
L' elettore lo nyse nelle mani del maestrato di Costanza, che
pensò a tutto, ordinando ai bargelli ed al carnefice di abbru-
ciare Giovanni vivo. Mosse costui al luogo del supplizio con
incredibile tranquillità di spirito : gli andavano ai fianchi due
uffiziali dell' elettore ; lo seguivano e lo precedavano due ser-
genti di città. I principi dell' impero venivano dopo a capo di
ben ottocento soldati, che a mala pena contenevano l' impeto
dell' immenso popolo. Fecero passare il reo innanzi al palazzo
irescovile, perchè vedesse bruciare i suoi libri : Giovanni vide e
si beffò di quella arsione. Indi, vòlto al popolo, voleva persuaderlo
in lingua tedesca, come non per peccato di eresia fosse con-
dotto alla crudelissima morte, ma per odio de'suoi nemici, che
Qon lo avevano potuto convincere. E giunto al cospetto del prepa-
rato rogo, con molta pietà di modi cadde su le ginocchia e si
mise a recitare qualche salmo, e ad ora ad ora. faceva udire
({ueste parole — e o Signore Gesù, ti prenda pietà di me.... o Dio,
Delle mani tue commetto lo spirito mio. > Le quali voci andarono
a svegliare nell' animo del popolo affetti di compassione , e
corse su le labbra di molti — < Dei fatti passati di questo
uomo noi non sappiamo: certo che al presente fa delle assai
belle preghiere.» — Chiese d*un confessore, e l'ebbe; ma come
— 584 —
costai lo richiese della ritrattazione de' saoi errori, disse boq
avere mestieri di confessioDe, non provando il peso di alcuno
peccato mortale. Volle per V ultima volta sermooare al popolo
in favella tedesca , ma glielo impedi V elettore; e potè solo
ringraziare le sue guardie del buon governo che gli avevano
fatto, significando loro la speranza in cui moriva di andare a
regnare ne' cieli con Cristo, pel Vangelo del quale pativa. Veone
legato ad un palo ; intorno gli acconciarono le legna. Fuman
nelle mani dei carnefice la face del micidiale incendio ; il po-
polo contenuto dalle milizie, era un deserto intorno ad Hiu.
Allora relettore palatino, accompagnato dal conte di OppenboD
maresciallo deirimpero, si accostò al rogo, e dimandatogli per
ultima volta se voleva ritrattarsi per campare la vita. Giovanili,
infunato come era, con fermissima voce rispose < voioe
fsqggellare col proprio sangue i suoi libri e le sue predicazioni
jf^lle péfitberare le anime dalla tirannide del demonio. > AUon,
rKrattosi reletto?è,~fu appiccato il fuoco; si levarono le fiamme;
ed in poco d'ora, entrate nella bocca dell'eretico, gli tolsero b
vita. 1 carnefici fecero a brani le abbrustolate sue carni , oa
sperperarono il cuore; tutto, fino le vesti, fu ridotto in ceoere
e gittate nel Reno, perchè ai presenti Boeroi non avanzasse
reliquia del predicatore di Betlem. Ma , secondo recita Eoes
Silvio Piccolomini, poi papa Pia II, questi si gittarono sul ter-
reno ancor fumante della terribile arsione, e razzolando qualcbe
po' di ceoere, la mandarono in patria, come cosa santa, ecdta*
trice di ben altri incendii.
L'eretico era morto , il popolo tornò a casa purgato dello
scandalo delle sue dottrine; ma rimasero le menti dei filosofi
attorno all'estinto rogo rattenute da pericolose idee, alle qaaii
confortava la costanza dell'estinto ed il perchè del peccato onde
Hus era stato bruciato. Dapprima gli animi non si arrestarono
che alla fortissima tempera del suo spirito , con cui aveva af-
frontata la cruda morte del fuoco. Il Piccolomini, futuro pon-
tefice, toccando la uccisione di Giovanni d'Hus e di Girolamo
da Praga, non potè tenersi dal maravigliare della loro forza nel
..supplicio. < Entrambi, egli dice, con animo costante sopporta*
<rono la morte ed incontrarono il fuoco, quasi convitali a bao*
chetto, non dando pure una voce che dess* indizio d'infralito
aifimo. E messi ad ardere, incominciarono a cantare un ìddo>
che non fu potuto superare dallo strepito delle fiamme. È voce
che non fosse stato alcuno de' filosofi che avesse affrontata la
— 585 —
lorte* eoo qaella Tigoria di animo con cui qaesli dararono il
loco. >
I coe?ì maravigliarono; quelli che vennero dopo, alla ma-
iviglia aggiunsero il giudizio, vario secondo la sentenza che
scavano io fallo di religione, per cui Hus fu mandalo a morte,
protestanti gridarono contro al concilio violatore del diritto
elle genti: essi muovono dal violato salvocondolto e logica -
lente si trovano a fronte di un ingiusto tribunale. I cattolici,
imostrato che non vi fu violazione di salvocondolto , trovano
iastaUa sentenza, giusta la pena. Giò fatto, tacciono. Ma ad uno
lorìco non basta questo. Égli deve trarre Hus ed il concilio
lel pacifico terreno di un esame nel quale la morale estima-
tone degli uomini e de' loro rapporti coi tempi in cui vive-
vo, devono liberamente sgorgare dalla mente delFosservatore.
Erano tempi guasti quelli che correvano, e bisognava rifor-
nare la Chiesa. Due forze spingevano a questa riforma: quella
(Opranaturale, ossia la virtù divina, che veglia alla indefettibi-
lità della Chiesa; e la forza naturale , cioè qnella che emanava
falla pubblica coscienza. La religione non è solamente una
legge, ma anche un bisogno: la critica umana potrà agitare la
SQperflcie del dogma, ma non mai turbarne il fondo, guardato
gelosamente dai cuori, che hanno la necessità di amare, di te-
mere, di sperare. Se il clero infermava ne' suoi costumi, come
infermava al secolo XV, e per cagion dello scisma non si ve-
dera mano che si stendesse a curarlo, quella coscienza pubblica,
apponto perchè tenera di religione, gridò riforma. WiclcJT, llus,
Girolamo da Praga se ne impossessarono e la rappresentarono
S6Dz'alcun loro dritto e nel loro individuo adunarono la gloria
ed i pericoli di quella rappresentanza. Si assembrarono i padri
> Costanza per riformare la Chiesa. Il concilio, spinto dal de-
trito del sovranaturale ministero, si mise a curare la riforma :
na, nel porsi all'opera, più della malvagità degli abusi ebbe a
combattere un censore di questi stessi abusi che voleva emu^
Mo nel difficile ufficio , cioè la eresia universitaria. Difficile
Beo, e dico poco: perchè Tistesso concilio se fu infallibile nella
leflnizione di fede , non potè impedire che gli uomini di cui
i componeva non fallissero cit'ca cose non delìnibili; io parlo
telle teorie gersoniane. Più difficile era in mano di uomini
rivali: ed infatti Hus, per riformare la Chiesa, la mandò tutta
ì perdizione. Adunque Hus al cospetto del concilio non fra
olaroente un eretico, ma un uomo che recava nel seno le osi-
Tamb. Inqnis. Voi. II. 49
— 386 —
genze della pubblica coscienza intorno al guavSto dei chérìci e
cbe contendeva col concilio, cercando usurpare il ministero di
curarlo. 11 concìlio era il potere della Chiesa, Hus attribuiva a
sé il potere della pubblica coscienza. Queste due forze Tanno
d'accordo, per comunanza di scopo si ajutano a vicenda, quando
è in equilibrio la loro vigilanza nella esclusione del male. Ha
guai se la seconda usurpa le ragioni della prima; questa, snrb
che sia a combatterla, la troverà cosi oslmata e superba, che
non potrà riconquistare il proprio se non scacciando Temute:
nella morte di questa è la sua vita. È questa una legge di eco-
nomia sociale cbe ha vigore in ogni compagnia, massime io
quella della Chiesa: ed a questa ubbidirono i padri di Costanza
nella condanna di Hus. Ario , Nestorio , dannati dai concilii ,
recavano su la fronte il solo marchio dall'anatema dogmatico;
Hus recava anche quello dell'anatema sociale.
Ma se il concilio, per avere incontrata emula nel negozio
della riforma la pubblica coscienza, la quale usurpato aveva
dritti non suoi, dovette necessariamente condannare Giovanni,
Giovanni dalla personificazione appunto di quella coscienza che
si arrogava attinse l'ardire nella crudelissima morte. Egli po-
teva campare la morte ritrattando i suoi errori, e noi fece.
Quale fu la forza che domò in lui l'istinto della vita? Se lo
domandiamo ad un protestante, dirà che sia stata quella virtà
sopranaturale che sorreggeva i primi martiri della Chiesa a
durare i supplicii. Se ad un cattolico che non guardi alla pe-
culiare ragione dei tempi, dirà che è slata libidine di umaDa
gloria, l'orgoglio. Ma un razionalista non poteva vivificarsi della
fede dei martiri; ma l'ambizione di gloria sostenne sola nei
tormenti il predicatore di Betlem, che era eretico e riformatore
ad un tempo. Hus attinse eziandio la forza dalla pubblica co-
scienza. Questa allorché si leva all'altezza di un principio e ne
acquista la temperie, fosse anche falsata ed ingiusta nelle pre-
tensioni sue, com'era in Hus, aggioga l' individuo con la potestà
della legge. Se il principio della riforma per conservare la reli-
gione era santo e però oggettivamente divino , si guastò nel'
l'uomo, che superbo malamente logicava, e fu soggettivamente
pessimo. Ma la sua trasformazione avvenne dopo che aveva
spiegala la sua forza nel cuore dell'uomo. Al suo impulso l'uo-
mo si avviò pel sentiero di una abnegazione» (che peraltro non
fu mai veramente cristiana, mentre lo spirito non era soggetto
alla Chiesa), errò nell'operare quel principio, lo falsò, ma non
— 587 —
)tè falsare b eflBcacia deirirapalso onde ood cor^gio incontrò
morte. Qoindi in Hos deploriamo Teretìco goastalore di nn
incipio al cospetto dei concilio » e y^amo ad un tempo
la meravigliosa audacia e costanza al cospetto del rogo. Que-
I personale dualità è figlia della daalità del principio della
forma, oggettivamente buono neiPeducare Tuomo alfabnega-
)ne, soggettivamente malo per la depravazione di chi lo ragie*
Lva. Hos lasciò in retaggio Tesame de' suoi errori ai teologi ,
principio alla storia.
Se noi abbiamo in noi stessi delle leggi alle quali age*
ilmente obbediamo, come quella della conservazione propria,
mo anche leggi estrinseche le quali possono venire in colli*
Dne delle intrinseche e vincerie. Noi siamo liberi e possiamo
egliere tra la legge dell'individuo e quella dell'universale.
Desta ha anche le sue attrattive , e il suo adempimento è
eondo di una squisita voluttà : ma, per farsi abbracciare, va
presentarsi all'uomo nella parte sua psicologica; là, essa
nega i tesori della sua bellezza , là lo innamora , là, a mo'
i dire , si marita a lui ; e quando l' uomo plastico chiede le
le ragioni all' uomo dello spirito e gli ricorda la legge della
roprìa conservazione , egli risponde essere stato vinto da
D'altra legge più potente ed incontra con fortezza il rogo
le mannaie. Fortezza che a santificarsi è mestieri vada con-
iDDta con l'umile soggezione ai voleri di Dio e la obbedienza
i progetti della Chiesa ; senza di che , è solo ostinazione ed
rgoglio.
Mara vigneremo forse della crudele legislazione che depu*
va al fuoco gli eretici e dell'apparente poca mitezza della
lùesa che abbandonò a quella l'indomabile predicatore di Bet*
m. Ma la maraviglia è sempre sintetica , perché frutto della
itoizione di un complesso che si lascia vedere e non dà tempo
ragionare. L' analisi è il farmaco più efficace a sanarci dal
ale di una inordinata maraviglia.
La pena che s'infligge al colpevole ritrae la sua gravità da
la doppia fonte : dalla maggiore o minore malizia della colpa,
dalla soggettiva estimazione della virtù cui si contrappone
tio colpevole. Cosi vediamo ascendere la gradazione delle pene
io a quella di morte, secondo la natura del delitto; e vediamo
noe una colpa la quale presso di un popolo ed in nn certo
npo attinge 1' ultimo grado della penalità , in altro tempo o
esso altro popolo sia lievemente pnnita. Questa varietà dì
— 588 —
giadizio dipende dalla varia estimazione che si ha della virUi
coi si contrappone. L'oggetto della fede del XV secolo era
estimato sopra ogni altra cosa, anzi non pativa paragone con
altro. Quindi Tabbominio di ciò che osteggiava qaeiroggetto a
manomettere la fede doveva manifestarsi coi modi più cradi
di distruzione. La morte» e quella del fuoco. Non era il diritto
umano quello che informava la legislazione penale contro gli
eretici, ma il diritto divino. Lt) forza del diritto divino andò
scemando con la fede: e siamo venuti in tempi in cui Teresia,
fulminata spiritualmente dalla Chiesa, impunemente se ne stia
negli Stati laicali , ove però non turbi la ragione politica. Un
tempo Teresia poteva accendere il fuoco di una guerra di reli-
gione; oggi alla eresia risponde la indifferenza dei popoli. Questo
è un certo indizio della fede, ancor viva nel santuario delle
coscienze, ma spenta al lutto in quello delle leggi civili. Ma
neUempi d'Hus la fede era ancora viva nelle coscienze e nella
civile legislazione , ed un concilio ecumenico , depositario del
diritto divino , non poteva senza contradizione togliergli dalle
mani Timperio onde governava quello delle genti perchè fosse
più mite la punizione degli eretici. Che è mai questo che io
chiamo imperio del divino diritto, se non Pimmediato contatto
della ragion di Dio, dispensatore della vita e della morte, cod
la colpabilità umana? Questo immediato contatto esclude il ra-
gionamento del pubblicista; non può giudicarsi dalFuomo: perciò
se i giudici potevano sindacarsi intorno alla esistenza della colpa,
non mai potevano intorno 'airapplicazione della pena. La fiamma
che divorava gli eretici è quella del fulmine che posa ai piedi
(li Dio ed aspetta il suo cenno a prorompere. Anche gli eretici
la pensavano cosi; e se Io seppe quello sciagurato di Michele
Servolo, eretico arso vivo per comandamento di Calvino. Noi
certo non avremmo maravigliato se i padri di Costanza fossero
slati presenti alParsione di un martire di Gesù Cristo; la fed^
confessata con la morte di un cristiano non solo onestava, m^
santificava la non mite visione di un uomo divorato dalle fiamme-
fi neppure dovremo maravigliare dell'avere approvata e vedala
Tarsìone di Hus: la fede propugnata e difesa con la uccisione
dell'eretico onestava anche la non mite visione. Lettore, notx
vorrei che ora maravigliassi di me. Lo storico non crea i pria'
cipii, egli non fa che rivelare i rapporti che questi hanno coti
le conseguenze: perciò risponderò della logica dei fatti, non ma*
ài quella dei principii. Adunque il concilio, l'imperatore e Gio^
1 1 traa fUto cii^ rbièi»» ^>DwMi>ijaik ^i^à^W»
ad n leapo Mie buI ^^CMtmAmii c^M^Oki if fMiK«MMk
e in a posare wila slcrà si di m kfìM fimdMV^MK^ i^ <ii ^mii*
maestia coi pMfld dwiiMiiti di qm i^^m c)^ \>wh>ji ^ ^H^
di OD ioteUelto cbe combatte.
Ed io Doo mi sra fitto che ^qpc^bMf^ iti qii^nK^ ^i^'rì^^;^^^
alcuni ortodossi; che se doi^essi e^4enMind il ^lutUK^ mi^v xi^m^
ratore della fede, non esiterei a dichianire Hii^ uvurttv^ ^ \\\\<\\\\
che fecero eseg[Qire la seotenia cameAcì.
CoDchiQso il negozio della fede intorno »d Hu^ l (v^drl a(
volsero a quello deiruoione. Papa non orsi piii« \^x\'\\\^ do|Hv^lo.
TaDtipapa Gregorio neppure, perclu^ aveva cottnto; rhnAUovti un
solo antipapa, Benedetto XUK Svellere costui M m^^ìw \m\ \M
ficiie, vi voleva la scure. TuUavolta i |>ai1rl vollcrt) notfOKlnio
Erasi già fermato che Pimperatore androbbo a Nikk» ti Ir^illtMo
col De Luna della cessione, e speravnsl che, Ir» poi tlnuHo «ho
poteva incutergli il processo di Giovanni o lo HponuiHM din uh
potevano dare le miti accoglienze fatte al codonto (Irniiorlo, Mo'
Qedetto piegassesi al loro piacere. SlgiHinondo. tutto koIu por lii
qnione, voleva muovere: i padri provvidero pnrchA Iucommmo ì\
sicuro e felice porto. Nella sedicesima e duciniHMoltlmii hdmnIimim
QOD si occuparono che di Sigismondo, » munirlo di tninporitll
e spirituali conforti.
Vennero scelti quattro vescovi ed alcuni dottori, ctii) dovi*
vano accompagnare Sigismondo in quel vI^kkIo, ni quiill II
concilio die pieni poteri di trattare c^)l IM Luna UiUnun nìU^
coDdiziooi della sua cessione. I^ C4)\fk (Utììéi mrìHnm UiéxuuU
h deposizione di Giovanni e la rinuncia di llfétumìéf lurono /ImUi
all'imperatore da recare al De I^na^ perette Vétnémi/io tM éU
posto e dei cedente lo Ueen^ero rìunA^irn, K ad HÌMU$rUh ^>/o
ispeciale decreto crearooo il (/erario 'k^no dH ^>/IMo fU^4$f
^li, perpetuo legai/i a UU/re uhìU V^wa tVht^/tUH ; vM ^H
fero plenaria assolozK^rie ^k$^% atti ille^ti t^ i{//t^i>^/ ^UW'^
propria otitedieoza; rM;Urof^> %utM '4% \^ìi$^Asn ^i ^i U^U^ ^i
bario per qneiii iij giodizicu: io wj^ t^r^jh^ i^ tH4$m^i% i^ir$^
mooio e dif&ità w U^jfsfo Wi imu// fi^i^f. ^^z i^ t^^ié^ ^4
roQo divìBe ec ctjxmh: rie >vteautsd^ y4^'4^ ^v^t^>^4^ \^
che i kafi inn.* orT^istiv U^xA^ Vfsw^ a m(^fi0/4^ fiM^y^^
Aveia wtefe* ^homiAv ^;^ifit]^ii^ > iifUk^tMf^ W ^j$^éf.
— 590 —
av?enaÌo ai messaggi sinodali che andarono in Frafncia; rìcor-
davasi di quelle dicerìe sparse dal duca d'Aastrìa intomo alte
macchinazioni del Borgogna contro la saa vita. Anzi afifer-
mano molti che quel malandrino delPAustrìaco aveva già pre-
perata la festa a Perpignano» voglio dire che vi teneva * gente
per mandarlo via da qnesta misera terra. Ciò non sapeva Pimpe-
ratore, ma le altre cose sapeva. Accorsero i padri a tuierame
la persona ; il patriarca lesse dall'" ambone un decreto con cai
si lanciavano scomuniche ipso facto e si minacciava anche la
deposizione ai re che avessero inquietato o impedito il viaggio
air imperatore. Ed a mostrare che dicevano davvero » i padri
avevano già spedita bolla ai vescovi di Parigi» di Metz, di Tool
e di S. Paolo di Leone , ordinando loro di fare una rigorosa
giustizia» usando del bi*accio secolare contro coloro che avevano
dato addosso e spogliati i messaggi sinodali al re di Francia.
Si volsero finalmente a Dio. Come si die fine alle litanìe dei
santi , nella decimasettima sessione , Sigismondo andò a porsi
ginocchioni innanzi air altare, accompagnato da due cardinali,
quel di Lodi e TOrsino, scoverto il capo, senza il manto impe-
riale, umili le sembianze. Da capo si tornò a supplicare i santi:
e là dove si prega per la Chiesa levossi il presidente cardinale
d'Ostia e per tre volte raccomandò a Dio la Chiesa con Telette
imperatore , perchè Io avesse diretto nel viaggio , difeso dai
visibili e dagrinvisibili nemici, e Io avesse sano e salvo tornato
al concilio; e per tre volte V universo convento rispose — le
ne preghiamo, ci esaudisci. — Finalmente, dette altre preghiere
dairostiense, Sigismondo andò a sedere. Non contenti di questo,
i padri fermarono con decreto che , lontano V imperatore , in
ciascuna domenica si celebrasse messa pontificale , si andasse
in processione pel felice esito del suo viaggio , e si avessero
indulgenze i preti celebranti ed i fedeli oranti per questo
negozio.
Partito che fu l'augusto, nella prima processione che fecero
i padri pel felice suo viaggio, Gerson li arringò. Costui era
dotto: ma non so come i Costanziensi lo licenziassero tanto a
farla da dottore. Aveva preparati i decreti della quinta sessione,
0 meglio n'era stato l'autore, ne aveva raccolti i frutti : lene-
vasi in punto di maestro. Li volle rinfrescare, e per preparare
gli animi ad un possibile processo da fabbricarsi addosso ai
testardo De Luna e per tenere giù le leste dei cardinali. Il suo
discorso è orribile a vedere per le distinzioni e suddistinzioni
:oo cm rha trinciato, ma se ne cava il netto. Ribadisce il detto
Dtorno air infollibìle anlorìtà che ha il concilio sul pontefice.
Diorno al diritto che ha di deporlo ove manifestamente scan-
blìiaù la Chiesa, e va dicendo. Nulla di nuovo. Non posso
lerò tenermi dal recare in volgare un brano di questo sermone,
attento , lettore. — < Il concilio generale può per legittima
lutorità prendere informazione delle discordie e guerre tra i
prìncipi cristiani, che incrudeliscono a rovina di tutta la cri-
stianità ed a penlizione delle anime e dei corpi vietando loro
e ^e di fatto e costriogendoli con le ecclesiastiche censure a
>orsi per la via del diritto e della ragione. Questa norma ha
lato il serenissimo re de' Romani sempre augusto, il quale,
Limanzi muovere dal condiio al luogo del convegno col re di
^iragona e Pietro De Luna, tenne ai deputati un discorso che
è un tesoro di religione e di cristiana pietà, il quale ho io
ascoltato con queste orecchie non senza una devota compun-
zloDe di cuore. Espose in quello essere suo proposito , dopo
sedato lo scisma, di adoperarsi a pacificare i re di Francia e
dlogbilterra, usando Tautorità pel presente concilio. Parlò della
pacificazione dei re di Polonia coi Ruteni, indi della spedizione
a Gerusalemme. E trovò la norma e il fondamento di queste
paci nel condurre entrambe le parti a sommettersi al generale
coDcilio ed alia sua difiioizione, alla quale autorità lo stesso
re, come aveva molte volte innanzi protestato prendendo Dio'
in testimone, voleva e doveva soggiacere: e ciò a perpetuo
^mpio di ogni laicale sovrano cattolico. > —Ecco come la pen-
savano i dottori nel XV secolo, ed ecco come il cancelliere, il
quale se fosse stato ai tempi di Filippo il Bello , lo avrebbe
COD la parola e con le scritture sorretto a fronte del magnanimo
Bonifazio Vili , autore della famosa Bolla Unam , sanctam.
Gerson, che aveva vedemmiato colle mani e coi piedi il romano
papato, che lo aveva inabissato nel diritto ecclesiastico , senza
avvedersene lo va a collocare in cima del diritto civile e gliene
affida i destini. Egli parlava di concilio supremo giudice delle
<MQtroversie dei principi laicali e non di papa. Ma nel ricono-
^re quella supremazia nella Chiesa doveva riconoscerla anello
M pontefice. Il concilio finiva, rimaneva il papa: e quel papa
<^heera stato soggetto in casa propria, dico nella Chiesa, andava
^ comandare in casa altrui , dico negli Stati laicali. Quanto
Compiango le logiche torture cui assoggettavano la ragione
^Qesti gallicani I Essi credono trionfare nelle fazionate conse-
V
(^ueoze ebe tirano dai prìneipio cattolico ; ma questo
dà loro il tratto e li trascina da dectiì là dofe ad oedu
fico sì sarelibero pare accostati*
Ma né i prìncipi né i popoli fole?ailo (nq slare agli eode
siastici gfiudizii. E per questo i padri credettero con ana lettera
andare incontro alle fané della Boemia, che temevano non a
levasse in tumulto airannunzio della morte di Hus. Essi chiu-
sero pfelosamento questo fatto nella ragion divina e speravaoo
che i Boemi dovessero chinarle innanzi la fronte. Andarono com-
memorando le pestilenti dottrine di Wicleff tante volte condan-
nate dalla Chiesa e dalle università; parlarono de' suoi seguaci
IIus, Girolamo da Praga, scelleratissimi uomini, di cui avevano
libeniia la Boemia, perché sotto il velame della fede non aves-
nero tratti in inganno i semplici. Toccano del lungo esaminare
che avevano fatto delie opinioni ussite, della interezza ed one-
stà dei testimoni, e della invenzione degli errori che in quelle
covavano. Fan sapere come Hus avesse confessati molti di que-
sllp non avesse voluto ritrattarli, e che per questo lo avevano
abbandonato alla balia laicale, la quale lo dannò nella vita. Lo-
davano il zelo del vescovo di Litomlssel recatore di quelle let-
tere, alla solerzia del quale andava debitore il concilio della
scoverta eresia , e da ullimo esortano i popoli di Boemia e di
Moravia a svellere la zizzania dal campo del Signore, pena a
chi noi facesse, oltre la divina vendetta, le censure del con-
cilio. Io recherò Ira i documenti questa lettera dei Gostan-
zlonsi: ò bene che vegga il lettore come, in faccia ai pericoli
«Il un reame die certamente era per infellonire a Dio ed al
principe, non discesero, per umane cautele, dalPalte^za in cui
si sentivano locati dalla coscienza di un'.adempiuta giustizia.
In quella ò ancora tutta la virtù del maestrato che guarda h
vittima della sua giustizia con la scure in mano e non teme.
Vedremo come i Boemi entrassero nel campo del Signore
non a svellerò la zizzania , ma a porlo in miserando soq-
iiuadro.
Nello scorso febbrajo in una congregazione dei deputati
delle nazioni apparvero gli ambasciatori del reame di Svezia ,
Danimarca e Norvegia, deputati dalla loro gente ad ottenere dil
concìlio la canonizzazione di Brigida, nata di regio sangue , e
fiirnos;! iH»r la pietà della sua vita, e le rivelazioni che scrisse.
i;:iM'Ya già messii nel catalogo dei santi Bonifacio IX nel ISSI:
uui ^'ti Svedesi non eran contenti, le dubbiezze dello scisma
—.595 -
X)tevaQO far dubitare della papale sentenza. Giovanni, che er>
incora papa, canonizzò di nuovo la santa. Ora non essendo
[>iù papa, tornarono an'altra volta gli ambasciatori di Svezia a
chiedere la canonizzazione di due loro vescovi e di nn frale
igosUniano. La chiesero al concilio , ed il concilio non volle
farla. Gerson lo mise in gaardia, scrivendo il trattato De prò-
iaiicme spiHtuum. Ed ecco on'altra crollata al mèdio evo. Io non
lieo che sia bene lasciare correre il volga appresso alle visioni
li menti infermi ed ai miracoli dei ciurmadori, ma nel casti •
pre questa tendenza deile umani menti al sopranaturale bi-
sc^na andar molto adagio. Non so se stiano in paradiso tutti
quelli che si dissero santi in tempi barbari, né so che siano tutti
veri miracoli quelli che son recitati nelle antiche leggende. Ma
so bensi che la moltitudine di quei santi e di quei miracoli
accennarono atrindole d'una generazione di uomini somma-
mente credente, e che anche nelFaberrazione delle rozze fan-
ta^e rivelavano Tinsaziabile bisogno del sopranaturale. Questa
rivelazione è quella che consiglia ad andare con garbo a svel-
lere la brutta pianta della superstizioite. L' errore de* popoli
superstiziosi si lega immediatamente al sentimento della fede;
e spesso nel recidere Terrore si riferisce la virtù della fede; e
allorché questa fa sangue , avvizzisce e muore. Nei due trat-
tati di Gerson che bau per titolo Deprobatione spirituum e De
iistinctione verarum visionum a falsis si vede il teologo che
ben ragiona, ma si vede un certo non so che di ardito nella
condanna del passato che rivela il professore ed il Qlosofo. Ri-
sogna istruire, illuminare il popolo, condurlo alla conoscenza
del vero e, mentre intende alla verità, sottrargli dolcemente
dalle mani Toggetto della superstizione. Non bisogna far rumore
ragionando troppo, altrimenti 11 popolo, vergognoso della super-
stizione in cui era caduto, incomincia a diffidare anche della
religione. Santa Brigida non fu allora canonizzata ; il concilio
lasciò Taffare al futuro pontefice, ma non per questo ella non
fa poi levata agli onori dell'altare.
Poche cose vennero trattale nella decimotlava sessione,
tenuta nel di 17 di agosto: alcuni decreti su T autorità dello
bolle nel concilio, su quelle di Giovanni confermato dal con-
[^ilio, su certi ambasciatori spediti in Italia per Taffare delfu-
nione, e non altro. Dopo questa* sessione, a richiamare gli ani-
mi de'padri sul negozio della riforma, Bertrando Vagher car-
nelitano sermonò della necessità di porre subito mano alhi
Taxb. InquU. Voi. II. !M
estirpazioDe degli abasi. Furibondo zelo invadeva il frate, e ii
furibonde parole proruppe; gridava che bisognava corregger
rinsaziabile avarizia, l'indomabile ambizione, la madornale igoo
ranza degli ecclesiastici. Di quésti concetti aveva anche usai
Giovanni Hus. Alle grandi declamazioni non risposero grane
riforme.
Corsero un trenta di fino alla decimottava sessione, temp
prezioso a trattare le cose della riforma, ma miseramente per
duto a dar ascolto ai dottori parigini, che facevano uno scao
daloso baccano pel negozio [ài Giovanni Petit. Questi dottoi
covavano nel seno il veleno delle fazioni che allora laceravan
la Francia, personali rancori che non mancavano anche ndl
università e certa febbre di adulazione o verso il re o ven
Borgogna, che era da più del re; febbre attaccaticcia ai Frac
cesi anche nei loro parossismi repubblicani. Né Gecson ne
vescovo di Arras miravano alla morale pubblica quando si a]
zuffavano intorno alle proposizioni di Petit : miravano a scon
pigliarsi sul capo la berretta dottorale. Gerson era il più aca
nito : oppugnava sempre. L' Arras era un tremendo uomo m
ripellere. Il re Carlo VI aveva fatto pace col Borgogna, e no
voleva più che i suoi ambasciatori spingessero innanzi la coi
danna del Petit : ne scrisse anche al vescovo d'Arras ; rùnivei
sita scrisse a Gerson che restasse dal gridare. Tutto invano,
dottori eransi impigliati né si volevano lasciare : Giovanni 9i
lit, con le nqve proposizioni che Gerson credette aver trova
nel suo libro, spariva e compariva a galla ad ora ad ora: att
stati rimanevano FArras col cancelliere ed il cardinale di Can
brai. Quante impertinenze fecero costoro nel sacrosanto co
cilioi Incominciarono a bezzicarsi coi libelli. Il cancelliere,
Cambrai ed anche Timperatore furono segno a molli giudis
intorno alla loro onestà : calunniatore il Gerson , vendicato
il cardinale, Timperatore abbindolato dagli artifizi! del duca
Baviera, nemico al Borgogna. Gerson scriveva memorie, inv
cava i fulmini della Chiesa contro le nove proposizioni di F
Ut, alimento di discordia tra il re ed il duca e di guerre ci
tndine: gli avversarli sostenevano essere quelle probabili, m
toccare la fede e potersi seguire fiuo;;a che la Chiesa non di
finisse ; ingiusta la condanna del vescovo di Parigi. Ma in mez:
al fuoco di queste dispute lordarono il cancelliere della tace
di eretico. Ben venticinque proposizioni cavarono dalle si
scritture che davano mal odore. Pensi il lettore come impei
DMB questo inqirisitore di eretici e riferito dottore di tatto
il sbiodo. Fard i coIih, porgossi ; se bene o mele, non soglio
SKfoto: certo che nissnno vi pose mente perchè era tennto
eattolico.
Andie al Gambraì accoccarono Faccosa di eresia, ma tatto
il collegio dei cardinali levossi a difenderìo: TArras tenne in-
dietro totti con eerta scrtttnra che consigliò temperanza ai di-
isDsori. Ricordò loro che queir affare toccava i prìncipi negli
Siiti dei quali essi avevano beneflzii ecclesiastici ; che il loro
gindiido sarebbe stato ributtato da quello della università , e
(te la digoiti dei cardinali non dava loro alcun diritto di de-
cidere Intorno a negozii di fede , che solo ai vescovi ed ai
dottori spettava diffinire. I padri si guardavano in viso, e non
troiarono in tutto queir anno un mezzo a sciogliere quel
nodo, che Tira dei dottori avviluppava sempre più. Nulla fu
Mentre a Costanza avvenivano queste cose, Pimperatore viag-
giava. Erasi risaputo dai padri a di 4 di agosto che, giunto a
NariMua , indugiava a muovere ; credettero che volesse prima
intendere alia pacificazione del re d' Inghilterra con Carlo di
Francia, per tener fronte con essi al Turco, che precedeva in
possanza e strepitava in Ungheria. I Costanziensi volevano pri-
ma la pace della Chiesa. Mandarono a spingerlo F arcivescovo
di Riga, ed il vescovo d'Asti spedirono in Ungheria a confer-
mare i maggiorenti nella fede delPimperatore e nel cessare lo
^orzo turchesco. Ma Timperatore per paura dei Turchi sostava
in Francia, ma per malizia dei cristiani. Il De Luna era entralo
in un fermo proposito di non lasciarsi spodestare : uccellava
l'imperatore, e sapeva farlo. Ferdinando re di Aragona infer-
mava : e perchè il De Luna diceva che Nizza era troppo lon-
tana, e l'Aragonese non poteva venire, mutato il luogo del
convegno, solo a di 18 del settembre Sigismondo e Ferdinando
si trovarono insieme a Perpignano. Aspettavano Tantipnpa, e
l'antipapa non veniva. Questi chiese un salvocondotlo: glielo
mandarono; ma, trovandosi in questo chiamalo cardinale, non
[iapa, puntò il capo e stelle. Per altro mandò a' deputati del
concilio le condizioni con cui si sarebbe arreso a cedere il pa-
pato. Erano stranissime. Voleva adunare un altro concilio, che
gli avesse confermata la dignità ponliflci», la quale avrebbe hu-
Sìto deposta, ove però gli lasciassero quella di legato a laUrc
in latte le Provincie della sua obbedienza con indipendenl»
:iulorilà spirituale e temporale , salvo il caso che il eoncibo
non lo rialzasse di nuovo al papato. Risero i dae princi(H coi
deputati e lo citarono a comparire in Perpignano. Come Dio
volle vi andò. Entrava nella città Benedetto XIII accompagnato da
quattrocento cavalli e cinquecento balestrieri: veniva da Va-
lenza. Due santi uomini che nelle dubbiezze dello scisma lo
tenevano per papa, Vincenzo Ferreria frate predicatore, e Boni-
fazio suo fratello» monaco certosino, venivano con lui per sor-
reggerlo. Gli occhi del mondo erano vólti a Perpignano : tolto
il De Luna, la Chiesa si liberava dallo scisma. Convennero adun-
que da una parte Sigismondo coi deputati sinodali, dalfaltra re
Ferdinando, gli ambasciatori di Castiglia e Navarra, quella dei
conti di Foix e d'Àrmagnac , che obbedivano a Benedetto : gli
ambasciatori francesi entrarono come pacieri.
Ferdinando, logoro dalle infermità, amava più la pace e la
unione che Benedetto: si mise con Sigismondo a persuaderlo.
Gli dicevano: stesse alle promesse già fatte, osservasse i giura-
menti onde erasi legato di deporre ìsr scandalosa dignità; non
essere più pretesti a velare gl'indugi; deposto Giovanni, dovesse
imitar Gregorio. Da lui dipendere la pace della cristianità ; lui
solo ostacolo alla riunione de' fedeli dopo trenf otto anni dm
fiero scisma. Quella Chiesa che diceva essergli stata confidata
da Dio tendergli le braccia e pregarlo volesse con la giurata
cessione del papato sollevarla dai profondo dei mali in cui tran —
gosciava. Lasciasse generosamente quello che gli uomini potè--;;;
vano strappare per forza e che la morte, proceduto tanto negi ^
anni, certamente ed in breve gli avrebbe rapito e con eternai^
infamia del nome suo. > Immoto come rupe, rispondeva il D^
Luna € lui esser solo e vero papa, poiché Giovanni e Gre —
gorio non vollero più sapere delle loro ragioni alla suprema
dignità : perciò lo scisma non mantenersi da lui, ma dal con —
venticelo di Costanza. Riconoscesserio papa, e finirebbe lo scisma -
Venire alla scelta di un nuovo pontefice sarebbe un metterne^
due a capo d^lla Chiesa, non volendo andare a rinuncio di sort^*
e non potendo, secondo coscienza, abbandonare il navicello Ai
s. Pietro, al governo del quale Iddio lo aveva messo. La vea -
chiezza degli anni obbligarlo più fortemente a compiere isuoi
doveri, a tener fronte con maggiore costanza alla tempesta, per
non adunare sul canuto suo capo Tira di Dio ed il disprezzo
degli uomini e a non disonestare al confine della vita la sui a
canizie con un turpe fatto. Lui, tra lutti i cardinali decorato
4elb pnpm di Gifforio XI ìuaum ta&iùms» lo $ct$w;}k
solo poleìsi d^gpere in inciHice: 5^ per to non dublM di-
moia sn di cwiiiiale aivre on dirino al (aputo : gli altri t^ti
in tempo A scisma non farebbero che tenerla o^>r Tìta. 1a>
nconosoessero latti a ponttfoe sommo, e le conlorlMite co$e
della Cliiesa quieterebbero ona Tolta. >
Con queste r^ioni alto mano in lolle le ct^ofervnie cho .^^ì
tennero gioslrò il De Lnoa con tale una Tìgorìa dì (Kirv^lo cho
fotti merafigUati non sapevano come nel $ellanle;^ìmo »nno
della Tita ei potesse con tanta forza lottare. In un iti arrìu(^^
per sette oro contìnue; e dopo era (hù irto che prìma* Hcuo-
detto in una yerde vecchiezza diede al mondo un solonno tv^oub
pio del come le fiamme deir ambizione air orlo dei st'|H>lon
spesso tengano luogo di spirito in queste umane carni. I jiadri»
al risapere che Timpéralore era giunto a Perpii^nano. cnntan>no
il Te Deum; ma le allegrezze Tenivano indugiato dairindomu-
bile De Luna.
Intanto ardenti oratori stimolavano il concilio alla riforma,
€d io non posso teoermi dàlP accennare come pensassero gli
stessi cattolici intorno alle morali condizioni della Chiosai o dol
<xune fuori dei concilio doveva strepitare quella che ho clila*
mato pubblica coscienza, ragionando di Hus. E strepitava dav-
*vero, perchè abusata infuriava. La lettera del Costanzionsl al
Boemi fu olio sul fuoco, ed incredibili sdegni avvamparono nnl
petti di quella gente. •— I Boemi non erano scettici, rnn crode-
ismo : ma poiché stati educati a disconoscere T autori lA dnlla
Chiesa, le si ribellarono non più ammettendola comò maoslra,
n» à quaremula nel ministero della riforma.
CAPITOLO XV.
La morte di Oirolaiiio da Praga.
Come vennero pnbblicate le sinodali lettere recatrici della
morte di Hns, i saoi seguaci si assembrarono nella cappella di
Betlem, che risuonò un tempo delle sue predicazioni. Celebra-
rono solenni esequie al medesimo ed a Girolamo da Praga» che
tenevano per morto» e» a dispetto del concilio, li gridarono santi
e come santi fermarono la celebrazione di un annuale alla loro
memoria. Si strinsero tutti nella comune sentenza di propu-
gnare le sue dannate proposizioni con la forza. Indi fu tenuta
una grande assemblea di tutti i maggiorenti di Boemia e di
Moravia, erano sessanta» e fu deliberato de' mezzi a provvedere
alle cose religiose della patria. Venne scrìtta una lettera al con-
cilio e segnata dei nomi e dei suggelli di que' signori. In que-
sta a nome di tutta la loro gente lamentano la ingiu3ta con-
danna di Hus, il quale, non convinto degli errori che gl'impu-
tarono falsi accusatori e nemici del reame di Boemia , venne
crudamente abbruciato. Levano a cielo la santità de^ costumi di
Giovanni e della dottrina predicata da lui, che tanto avea edi-
ficati i fedeli, e specialmente la sua carila cristiana. Lamentano
anche la prigionia di Girolamo da Praga, uomo incomparabile
per la sua eloquenza, che credeano già messo a morte dal con-
cilio senza avergli dato ascolto e senza convincerlo. Finalmente
purgano da ogni taccia di eresia il reame di Boemia ed il mar-
chesato di Moravia, stato sempre esempio a tutti gli altri fedeli
per illibata fede alla romana Chiesa. Concbiudono appellando
dal concilio al futuro pontefice.
— 599-
Nella stessa assemblea statuirono che per legati si recasse
coDdKo ranzidetta lettera, i quali la raffermassero col tìvo
ila Toce; Tenissero in tutte le chiese destinati buoni preti i
ali liberamrate potessero predicare la parola di Dio; i vescovi
idicassero e punissero i preti malvagi e còlti in errore : ma
3 quelli sentenziassero a capriccio e per odio alla verità evan-
Sca, Taccusato venisse tradotto al tribunale delP università,
e giudicherebl)e secondo la sacra Scrittura : i preti de' loro
Iti non accogliessero altre censure che quelle lanciate dai prò-
i vescovi, ove però fossero giuste, che se per caso venissero
iciate in odio della parola di Dio, dovessero a quelle resistere,
pplicavano da ultimo Iddio a concedere un buon pontefice
a Chiesa , al quale promettevano ciecamente soggiacere in
Ito quello che non discordasse con la parola di Dio. Ecco nei
ti la dottrina di Hus. La Bibbia è il giudice; e interprete di
leste la privata ragione, Tuniversità. Que' maggiorenti si co-
ivano gelosamente di un velo di religiosa dipendenza dai ve-
ovi, dal papa, ma traspariva la più sfrenate indipendenza da
;ni autorità , licenziando il suddito al giudizio di chi lo giù-
cava.
I maggiorenti deliberavano, il popolo operava, ed operava
furia. Irruppe nella casa dell'arcivescovo e dei preti di Praga»
le mise a sacco: corse anche molto sangue. Freno non era.
s Yenceslao era men che uomo; con Pepa infarcita di vivande
I ebbro sempre , non sapeva che fosse tutto quel rumore.
li diissero che il concilio avea oltraggiato il reame, e lo cre-
ate. Gli dimandarono chiese per liberamente predicare e mi-
strarvi i sacramenti; e, senza sapere cosa fosse quella libertà
(I predicare, concedeva. Ma poiché il rumore che facevano in
raga gli ussiti era troppo forte , perchè si saccheggiava e si
nmazzava , incominciò a temere. Lo quietò prodigiosamente
trto Coranda prete e tutto cosa del popolo, il quale, arringando
la plebe, diceva un di: e Sebbene abbiamo dato in un re pol-
0 e bevone, pure se ci mettiamo a vedere chi sieno gli altri
rincipi, non ne troveremo uno meglio del nostro; il quale
me io chiamerò flore di tutti i re, riposato, di buona pasta,
itto amore per noi: lui re, chi si ardirà inquietarci? possiamo
ivere a nostro modo. Se egli la pensa come noi intorno alla .
bigione, non inquiete i nostri riti, né permette che altri li
irbi: stendo cosi le cose, penso che dobbiamo raccomandarlo
Dio e pregargli vita , essendo la sua ignavia la nostra sai-
— 440 —
vezza, la nostra pace. » Questo strano discorso venne rapportato
a Yenceslao, che se ne allietò tutto : abbandonò le redini sul
collo del popolo e tenne il Goranda come primo tra' hmi amici.
Con questo re la Boemia doveva dirupare ad ogni genera*
zione di mali. La pubblica coscienza del bisogno della riforma
vedemmo infelicemente abusata per Hus ; la vendetta della
medesima, che si tenne oltraggiata da' giusti anatemi del con-
cilio , venne personiQcata in un uomo che , come uno spettro^
nunzio di morte, si leva nella storia di un popolo qual fa il
boemo, ma di tutti i popoli che toccano nella loro vita il ter-
ribile delirio religioso. Io dico di quel Giovanni Ziska il quale
seppe disciplinare alia vendetta tutta una gente e inebbriarla
della idea del cielo fra le stragi e le rovine. Maometto, V uo-
mo del deserto , alletta con le voluttà di un paradiso carnale,
perchè voleva fondare la nuova religione delfislamismo : Ziska,
Tuomo del settentrione, alletta con la voluttà della distru-
zione per conservare, com' ei follemente spacciò, Tanlica reli-
gione cristiana. Caldissimo tra i proseliti di Hus, la sua morte
gli aveva messo neir animo certa febbre morale che tacita ,
lenta , matura i procellosi divisamenti. Yenceslao li chiamò
all'aperto : visto un di Ziska , che era suo ciamberlano andare
tutto accorato e pensoso, dimandògli che si avesse nella mente.
E quegli cupamente rispose : < Il sanguinosa oltraggio arrecato
al reame di Boemia col supplizio di Hus. > Anche il re incon-
tanente aggiunse: < Che vuoi fare, Giovanni? né io né tu
possiamo toglierne vendetta: vedi forse qualche mezzo a ven-
dicare i tuoi compagni? coraggio e lo afferra. > E Ziska lo af-
ferrò, men per consiglio che per impeto di violenta natura.
Le cose di Boemia non iscemarono gii spiriti de' padri di
Gostanza nel negozio della fede : tenevano la loro via contro
Girolamo da Praga. Costui dopo il primo interrogatorio era
stato rattenuto prigione in una torre della chiesa di S. Paolo»
ove infermò gravemente. Tratto alla presenza dei commissari
a dì 19 di luglio, non sappiamo di questo secondo esame;
sappiamo del terzo che fecero i padri nel!' undicesimo di di
settembre, e Girolamo non era più quegli della prima udienza;
la morie di Hus gli aveva ammorbidita l'anima. Tultavolla te-
meva rovinare nella opinione de' Boemi. Stretto dai deputali
delle nazioni a- ritrattarsi , die loro una scrìtta in cui appare
Tuomo che non fronteggia un ostacolo , ma lo Qancheggia. Si
sottomelleva al concilio , riprovando gli errori di Wicleff e di
— tot —
[OS» sebbene awsse ignorato che qucfsH errori fossero stali
enmente cosi di Hos. Aflermafi però che non intenden con
[nella riprovazione arrecare pregiudizio alle sante terìlà pre-
licate da quei dne nomini ed in particolare alla persona di
Iqs, intemerato di costumi. Confessa P antica amicizia che lo
egava a Ini, e nettamente dice di non volere a questa safari-
icare la verità; e da ultimo dichiara non essere tenuto a ri-
lattazione di sorta, non avendo mai anteposto airautorità della
Chiesa il proprio avviso, né tenute le opinioni di llus come
articoli di fede. I padri non furono contenti di questi) prò-
lesta ; volevano le cose pib chiare , volevano una sonora ri-
trattazione. Indugiarono di tre di la prossima sessione, \yet
^tenerla.
Girolamo si arrese. Nella decimanona sessione sali Tan^
me e lesse al cospetto del concilio : e lo Geronimo da Praga,
saestro delle arti liberali , conoscendo vera la cattolica Chiesa
} l'apostolica fede , dico anatema ad ogni eresia , specialmente
I quella di éui venni, infamato finora, e la quale negli andati
«mpi esposero e professarono Giovanni Wicleff e Giovanni di
los nei loro trattati , scritture e sermoni tenuti al clero od al
[lopolo; a causa de' quali coi loro dogmi ed errori vennero
K)0(lannati come eretici da questo sinodo costanziense, e rna.^-
lime per quegli articoli espressi nella sentenza dell'anzidetto
»ncilio. Consento poi con la santa romana chiesa, l'apos^'^'ica
lede e" questo sacro concilio, e col labbro sul cuore confesso
tolto quello che questi confessano , specialmente intorno alla
!X)testà delle chiavi, ai sacramenti, agli ordini, agli otilci a nlln
*>ensure ecclesiastiche , alle indulgenze , alle relic|Uio de' santi ,
dia libertà della Chiesa, e anche intorno alle cerimonie ed a
loanto tocca la cristiana religione, riconoscendo come molli degli
ìDzidetti articoli sieno manifestamente ereticali e già condari-
Dati dai santi padri ; alcuni recanti bestemmie , altri erronei ,
)llri scandalosi; alcuni poi offendenti le pie orecchie, ed alciuii
teiDerarii o sediziosi , e come tali non ha guari cornlannall d^i
laesto sacro concilio, il quale ha vietato a tutti i caKolici, nnlUf
^oa di anatema , di predicarli , esperii e profanarli. » Sk ni
Prestò Geronimo a queste dichiarazioni : ar/dò oltre a rigettane
(Qche le sue opinioni filosofiche inlonio agli universali ed a
«Ddere ragione del come egli , preso dalla dolcezza e punii
le' costumi di ilus, lo aves.se cre^Juto iuwfcmp nella dottrina^ Da
illimo, presa in testimonio la santa Triniti, giur/; m vii p.nn •
Tamb. ìnqniM. Voi. II. *A
-40i-
geli voler dorare floo alla morte nella verità della cattolici
chiesa, ed ove avesse questa fallita, si teneva già per colpito di
tutta la severità de* canoni.
Finita questa solenne ritrattazione, i padri si volsero ad
approvare varii decreti , tra' quali più degni di osservazione il
erano quelli che toccavano i salvocondotti che i principiiaical
concedevano agli eretici e quello concesso ad Hus , del quali
fortemente lamentavano molti. Dichiararono i sinodali che I
salvocondotti dati agli eretici, qualunque il vincolo con coi i
fossero obbligati ì principi laicali, non dovessero arrecare alea
pregiudizio alla giurisdizione ecclesiastica, né impedire in quat
siasi modo V esame , il giudizio e la punizione degli eretici,
ancorché questi si .rechino al luogo del giudizio affidati alb
fede del salvocondotto. Fermato questo principio , dichiarano
fautori di eretici e rei di lesa maestà tutti coloro che o sefft
tamente o pubblicamente davano del fedifrago airimperatore ed
al concilio pel salvocondotto concesso ad Hus e che credevano
violato per la sua condanna. In questo decreto non sono nomi*
nati i boemi detrattori deirimperatore , ma genericamente gp
nomini male intenzionati o poco savi; indizio che anche tu
i cattolici si levasse qualche mormorio pel salvocondotto di
Hus. Intanto di riforma non ancora si parlava, e vescovi e
•dottori, ad ora ad ora sermonando al concilio, sbrigliavano la
lingua contro il clero da far paura. Era per zelo , ma , mi
;sembra, troppo proceduto. Il vescovo di Lodi, nel di in cui i
celebravano le esequie del cardinale di Bari, disse cose contro
i preti che forse non dissero gli stessi eretici. Ognuno s
aspettava che volesse pregare requie al morto e dirne oo
po' di bene, ma fu tutl'altro. Il prelato si scagliò contro i vivi,
e delle clericali incontinenze non toccò, ma immodestamente
spòse cose che poteva tacere. Dormali ognuno sapeva, i rimedi
si cercavano.
Erano contristati i padri di Gostanza per un' altra lettera
dei Boemi, segnata di ben quattrocenlocinquanta nomi, nelb
quale, gitlato via dal collo il giogo di ogni autorità ecclesiastica,
con retti modi rimproveravano al concilio quella che dicevano
ingiusta morte di Hus. In quella scritta divampava Boemia di
una terribile guerra a tutto che sapesse di chiesa. Riseppero
anche come il vescovo di Lilomissel, da loro spedito a tenore
fronte ali' impetuoso torrente della eresia, fosse stato costretto
a- nascondersi, avendolo minacciato gli ussiti di lavare nel SQO
— 405 —
saogae la boema bandiera lorda d^ infamia dal concilio. Quelli
die scrissero la lettera avefano le spade in pogno: ti volevano
le spade. Tottavolta i padri non rimettevano dal loro zelo: si
issembrarono i deputati delle nazioni e citarono al concilio i
segnaci (fi Hus. A lenire Tamaro di queste lettere sopravenne
jpportuna la novella della capitolazione di Narbona e V arrivo
tei cardinale di Foix, il quale abbandonava Benedetto e veniva
ad unirsi al concilio, che riempi di santo giubilo i sinodali. Lo
scisma era finalmente distrutto: non rimaneva cbe far tacere
Tosfinato De Luna. Pubbliche e solenni grazie vennero rese a
Dio; e nella cattedrale a di 4 di febbraio vennero giurati i
dodici capitoli dalTuniverso concilio. Le quali cose come riseppe
Il De Luna, aflacciossi dalla rócca di Paniscola e con istancabile
vigoria di polsi si mise a lanciare spirituali fulmini al concilio»
alTimperatore, specialmente al re d'Aragona, al quale minacciava
anche di togliere la corona reale. Era un delirio senile per
febbre d'ambizione.
Gli affari del concilio procedevano lenti; subivano la deli-
berazione de'commissarii, poi delle congregazioni generali. Quello
di Petit andava anche più lento per ragioni di Stato. Il lettore^
a cosa fosse questo affare. Ora è a sapere che V oggetto della
di£Bnizione sinodale che chiedevano ardentemente il Gerson coi
regii, e che schivavano a tutto potere il vescovo d'Arras ed i
Borgognoni, avea tre capi : Tuno si era la proposizione generale
del Petit intomo al lecito ammazzamento del tiranno ; V altro
della esistenza delle nove proposizioni che Gerson aveva estratte
dal libro di Petit e che PArras diceva non esistere; il terzo final*
mente era, definito sul diritto, della ragione del fatto, cioè se le
proposizioni eransi da approvare o da riprovare astrattamente,
oppure neiropera e nella persona di Petit. Non cadeva dubbio
sulla condanna : il nodo era nel condannare la teoria e non far
gridare Borgogna coi Borgognoni che l'avevano tradotta in pra-
tica. Pur troppo i padri si contenevano dal venire al mal passo:
ma il Cambrai e Gerson li tiravano a furia di clamori, che se
non condannavano proprio Petit col suo libro, la Chiesa andrebbe
h perdizione, Fumana compagnia verrebbe inabissata. Fin dal
loglio deiranno antecedente il concilio nella decimaquinta ses-
sione aveva diffinito intorno alla proposizione generale che potesse
Mmnazzarsi; anzi essere merito nell'ammazzarsi il tiranno dal
Uddito con qualunque mezzo onesto o disonesto che (osse. La
iiffinizione fu la condanna della medesima, come contraria alla
— 404 —
fede ed ai buoni costami. Ha non bastò questo; si voleva dai
regii anche la condanna delle nove proposizioni : ma qui pun-
tarono i tre commissarii del concilio, clie erano i cardinali di
Àquitania, di Firenze e TOrsini, anzi dichiararono addì 15 gen-
naio del 1416 che il giudizio deir assemblea di Parigi presie-
duta dal vescovo fosse nulla per difetto di forme. Crebbe lo
strepito dei regii. Gerson con gli ambasciatori di re Carlo si
appellarono dal giudizio dei commissarii a quello del concilio e
della sede apostolica. Ora qui domanderei al cancelliere: che cosa
intende per questa sede apostolica ? Certo la romana , egli la
distingue dal concilio : e se è la sede di Roma , è appunto il
papa cui appella. Come? appellare al papa? E non gli bastava
quel concilio, che immediatamente ricevette da Cristo il dono
deirinfallibilitàT Quale guarentigia di giustizia potrà dargli quel
papa fallibile, giudicabile, amovibile dal concilio, quale si trova
nella sua dottrina? Gerson, disceso dai cieli delle sue specola-
zioni geometriche ad equilibrare il potere nella compagnia della
Chiesa, venuto nel basso del fatti, si abbatte nel papa e Io trova
infallibile, perchè capace di suprema appellazione. È vero che
gli ha gittato addosso il velo delle parole sedem apostoUcm:
ma di sotto a quel velo il papa si vede, e gli dice che qualche
volta è anche un po' fallibile.
La dichiarazione dei tre commissarii mosse anche i lontani
Re Carlo scrisse al concilio contro i commissarii chiedendo la
condanna delle nove proposizioni e la conferma della sentenza
del vescovo di Parigi. Altra lettera scrisse la Università di Pa-
rigi a rincalzo della regia, che è un continuo esclamare da capo
sino alla fine. I professori si ricordavano delle ammonizioni che
loro dette il delfino quando imprigionò alcuni di loro. In Co-
stanza poi il vescovo d' Arras e gli ambasciatori regii s' impi-
gliarono con tanta furia che, non risparmiata la dignità istessa
dei cardinali commissarii, dettero un pessimo esempio ai fedeli.
Molto tempo si logorò intorno a questo negozio. Chi ne volesse
vedere tutto il processo vada alle opere del Gerson : dirne di
più sarebbe un noiare chi mi legge. Dirò solo che Carlo VI,
dopo aver purgato TUniversità di Parigi di quaranta dottori, che
mandò ai confinì, Tebbe tutta per sé; che, dopo aver fatto regi-
strare al parlamento la condanna che egli fece degli errori di
Petit, ordinò che quanti esemplari si potessero avere del pesti-
lente libro venissero lacerati in pubblica sessione ; e dirò da
ultimo che il concilio condannò solo la proposizione generale
e non volle passar oltre.
— 405 —
Sebbene giunta da Ferdinando d'Aragona, da Sigismondo
e dal condlio la caiMtolaùone di Nartiona, tottarolta lo scisnia
non era del lotto sTelto ; NaTarra e Castiglia non eransi dar-
Tero distaccate dalf antipapa. Per la qnal cosa , poiché i padri
aspettavano Panione delPantipapale obbedienia, perch6 di. nuovo
si dichiarasse convocato il concilio, non tenevano più piibblicho
sessioni, ventilavano e decidevano nelle congregaiioni* 1/ulUma
sessione, e fn la ventesima, venne celebrata a di 21 novembre
deiranno <4<5. Fino alia ventunesima, tenuta a di 30 mag*
gio 1416, Taffiare di Petit tenne particolarmente occupati i psi*
drì. Ma poiché Girolamo da Praga era in prigione, dopo avere
ritrattati i suoi errori e significata anche ai Iberni la sua ritrnt-
tazione , pensarono non doversi più lungamente indugiare la
conchiusione delia sua causa , la quale , essendo negozio tutto
di fede, non richiedeva T aggiunzione delF obbedienza del Do
Luna.
Vedemmo come i cardinali di Gambrai» di Aquileja, di Fi-
renze e rOrsini« commissarii della causa di Girolamo, avessero
rassegnato in man del concilio la loi*o deputazione» poiché va-
namente rimostrarono ingiuste la prigionia deirerelico dopo la
sua ritrattazione e poiché vennero anche insultati per diso-
nesti sospetti intorno alla integrità loro. Ai vecchi commissari!
furono sostituiti nuovi, e tra questi il patriarca di Costantino-
poli. Nel 26 di aprile i padri si assembrarono nella cattedrale
in congregazione generale. Numeroso convegno. Eranvi tulli i
cardinali, i prelati e dottori e moltitudine di baroni. Leggieri ne-
gozii, dapprima, indi il gravissimo di Girolamo. I nuovi cominls-
sarii della sua causa, sostituiti ai quattro cardinali, erano Tanzi-
detto patriarca ed il venerabile uomo maestro Nftola De DuckcI
Spachel, dottore in sacra Scrittura. Costoro erano tornati sul gli
fotto : di nuovo interrogati i testimoni con ia giunta di quelli
che avevano recato di fresco da Boemia i frati carmelitani. Il
processo era compiuto: le dimando con le risposte delfaccusato
vennero profferte alla sinodale assemblea da Giovanni de liochi,
frate minore e dottore in divinità. Undici erano gli articoli prìn-
dpali dei cento e due che ne recava scritti il frale. A ciascuno
veniva appresso la risposta di Girolamo. Questi articoli somma-
riamente presi si riducevano alfavere egli abbracciati gli errori
di Wicleff e di Hos ; di averli predicati e sostenuti « ed avere
anche con fatti ingioriosi verso gii ecclesiastici e I riti della
romana Chiesa mostrato di essere on wideflUa ed una UMÌta«
— 406 —
Confessava Girolamo che egli aveva in Inghilterra trascrìtto tutti
i librì di Wicleff e di averli recati in Boemia ; che aveva af-
fermato contenere questi molte verità: non aver mai parlato
degli errori perchè non aveva lette tutte le scritture deirere-
siarca inglese ; e finalmente lasciava tutto a Wicheff Y onore
del bene che aveva scrìtto col vitupero del male. Confessava
essere stato legato ad Hus d'una grande amicizia, perchè V a-
veva tenuto per uomo assai onesto, ed esserlo ancora. Alle
reliquie calpestate , alle indulgenze derise , ai frati percossi e
feriti rispose col niego. Alla lettura di questi artìcoli fatti dal
De Rocba successe Taltra del promotore del concilio, recatore
di altre accuse, il quale chiese che venisse su di quelle in-
terrogato Girolamo, concedendogli il si ed il no ; non mai di-
scorso. Fu assegnato il ventesimoterzo di di maggio a questa
udienza.
Vi fu condotto Girolamo, io non so se questi sinceramente
ritrattasse i suoi errori; ma guardando a tutto l'operato da lui
innanzi venisse in Costanza, è certo che non pareva uomo che
potesse umiUarsi sotto Tautorità della Chiesa in modo da rin-
negare sé stesso. Il dubitare della sua sincerità non era certo
follia nei padri; il ricondurlo in causa dopo una ritrattazione
tanto solenne era quello che ai cardinali commissarii non parve
secondo giustizia. Vero è però che come il timore del fuoco
ammorbidi V animo del Pragense , cosi quel vedersi citato in-
nanzi ad altri commissari!, quel vedersi a fronte schierata mol-
titudine di altre accuse , cosi vivamente eccitarono in lui gli
antichi odii contro una Chiesa che credeva corrotta, che, risa-
lita repentinamente V altezza di un principio da lui pessima-
mente ragionato, non vide più le fiamme che erano per di-
vorargli le carni, ma la sola idea di cui si teneva propugnatore
e maestro innanzi a tutta la gente boema. Richiesto che pro-
mettesse con giuramento di non rispondere alle interrogazioni
che con la semplice affermazione o negazione, non avendo vo-
luto i padri dargli licenza a discorrere le sue ragioni , non
volle giurare. Degli articoli alcuni negò, altri confermò : ma che
egli avesse neiranimo tutto Wichlefif, nissuno poteva dubitare;
ed ove fosse stato dubbio, egli stesso lo tolse col sermone che
tenne ai padri, poiché ne fu licenziato dal patriarca di Costan-
tinopoli.
Girolamo, nelPorazione che tenne al concilio, manifestan-
dosi eretico, onde non potè sfuggire la giusta condanna del
— 4*: —
ime le fSi dftAe à CMUfnow^w) cnMUto
dv prìiKipd al didCHirsKik. or\^ e «nfortn^ T ^-
anblea ^ onre per loi,perdiè UJìa e h B^ \>f^iii^ ki aws^
STO aoocoffso a doo ifir cosa ftegìndaieTOi^ all' anima $tta.
ìsse dapprima : < Come doq fotssde stfaonlUiario U tvdei^ in-
ooeoli oppressi per fallo di testimooi : molti illustri uomini
elle sacre e profioe storie trovarsi in tal guisa nunilali in
erdiiione, e perciò dod mararigliand lui cornei^ (rii sUa^ dih
ini : rìofrancarìo la speraoxa di potere un (nomo citane qutf^
il testimoDii al trilMioale di Dio , giudice dell unÌT^r$\\ Mo^
Jruosa ingiustizia arer commessa i padri contro di ìnu ^SfO$i\-
leodo DUOTi commissarìi ai primi che lo avevano giudicato
mocepte. Non riconoscere questi nuovi giudici , tenerli conu^
ssisi in cattedra di pestilenza. La mala radice onde erano giT-
logliati contro gii odii e le inimicizie di molti esserti lo ra-
ioni delia patria fortemente propugnate da lui e da Giovanni
'Hus a fronte degli Alemanni, invasori della pragenso univor-
tà, da queir Hus che era fiore di santità. Se in questa lutv
agnazione del proprio fosse corso umano sangue, non (luvorai
icolpare Ini o Giovanni, bensì quei cbierici die sconOwHcovano
loro patria. Vergognare in faccia a Dio ed al mondo della
trattazione fatta : la paura del fuoco avergliela strappata cil
rerlo condotto contro coscienza a condannare la dottrina di
fideB e di Giovanni d' Hus. Lui condannare piuttosto In sua
trattazione come il più grave peccalo che si aveaso connnoHi»o:
>ler vivere e morire nella dottrina di Wlclelf e di IIum, minta
)me la vita di costoro che la insegnarono. • Qui poi non ora
far altro : la sentenza fu data dallo slesso Girolamo. Vollo 11
loco, e Tebbe.
A di 21 novembre, avvegnaché avessero i padri HOHiNsae In
issioni per dar tempo a venire a quelli delP obbedienza del-
intipapa Benedetto, pure ne vollero tenere una appunto |ior
irolamo, nella quale non fu trattato deiruniono. l/arclveiicovo
Riga vi condusse Girolamo per ascollare la mia vAiiuUuutk ;
vescovo di Lodi preparò gli animi con un acrrnonf;. (C il m^Mlis
mo che sermonò i giudici condannanti llon, Panni avitr disilo
d'alb'a volta che in questo concilio ai fiari/i tropp^ii <ed or;i lo
peto. Quanti sermoni inqueato di (UmIauzaì e |ierchAf \mcMh
Itti volevano parìare ^ [lerché vi eran/i trofipt protanmifì» lìti
incelUere di università, quale era (lermUf imrcìib ihiUi; parto
— 408 —
6 parlò assai, e talli io ascoltavano; segno cbe in mia congre-
gazione di quella natura, in cui la grave e matura deliberazione,
che non doveva immediatamente connettersi alla suprema dif-
finizione, si tenesse un conto men temperato che delia scienza
umana, la quale non sempre illuminava le menti dei padri. Un
esempio ne dette questo vescovo di Lodi, impronto parlatore
nella condanna di Girolamo da Praga. Il suo/ sermone è recato.
alFaperto dalP ugonotto Lenfant, come trofeo di vittoria contro
la Chiesa cattolica. Taccio desmodi poco men che plebei onde
il prelato svillaneggiò l'eretico : avvertirò solo che ei disse cose
non vere. Volendo dimostrare come il concilio avesse fatto un
troppo mite governo deireretico» afferma non essere quello il
modo di procedere contro gli eretici, dovendosi accogliere ogni
generazione di accuse contro di loro ed ogni maniera di testi-
moni, anche i più infami, coa>e usurai , ribaldi e femmine da
bordello. Questo diceva il Lodigiano, ma non faceva la Chiesa;
ed avendone quasi mossa lagnanza ai padri, mostra che il con-
cilio non accolse questo fecciume di gente a testimoni della
causa di Giovanni d'Hus e Girolamo da Praga. Troviamo ter-
ribile la legislazione di que' tempi contro gli eretici per le ra-
gioni che abbiamo recate, ma non possiamo giammai trovar
ragioni che onestino la contaminazione della giustizia con la
nefandezza de' testimoni. Se il Lodigiano o altri usò di questa
razza di testimoni contro gli eretici della sua diocesi, mal per
lui; ma non mai troveremo che nella Chiesa siasi canonizzata
la immoralità de' testimoni per guarentir la fede e la morale.
Se un pontefice avesse diffinitO) non si sarebbero ascollali questi
sermoni.
11 discorso del vescovo di Lodi provocò Girolamo a parlare
contro un prelato che si era troppo scoverto, perciò vulnera-
bile. Egli di nuovo dannò la sua ritrattazione, si disse inno-
cente, appellò al tribunale di Dio. La veemenza del dire fu tale
che gli animi, commossi più ardentemente, desiderarono una
sua ritrattazione. Ogni mezzo ad ottenerla fu vano: Girolamo fu
condannato. A petizione del promotore del concilio il patriarca
ne lesse la sentenza.
La ragione sommaria della condanna si era Taver Girolamo
abbracciate e pubblicamente insegnate le eresie di Wicleffedi
Giovanni d'IIus; e dopo averle ritrattate con giuramento, esservi
tornato. I padri confermano col Placet la sentenza; fu invocato
il braccio secolare, che accorse e tolse in sua balla il reo. Rac-
— 409 —
comaodarimo i padri al maestrato laicale di dod iDsallarlo e
trattarlo con amanita. Girolamo osciva dall'assemblea recitando
ad alta Toce il Credo. Condotto al supplizio, per via non fece
che cantare le litanie ed un inno alla B. Vergine: e come vide
11 luogo della sua morte, lo stesso in cui faveva incontrata
Hos, si mise lungamente ad orare. Ma i carnefici gli ruppero la
preghiera, spogliandolo delle vesti: ed egli, affissando il palo cui
Io dovevano infunare e le legna del micidiale incendio, con lie-
tissimo volto cantò di nuovo il simbolo delta fede, e vólto al
popolo, in favella tedesca disse: < Questo simbolo è stalo sem-
pre la mia credenza, io muojo in questa fede, e non per altro
io soffro questo supplizio, che per non aver voluto soscrivere
alla condanna di Giovanni d'Hus, tenendo per fermo essere stalo
costui un vero predicatore della fede. > Fu appiccato il fuoco,
e dentro vi gittarono le sue vesti e tutte le masserìzie di cui
aveva usato nel carcere. Senza pure un segno di dolore, dopo
aver lungamente lottato con la morte tra le fiamme, rese fuori
Io spirito.
Le sue ceneri al fiume; ma la sua morte restò profonda-
mente scolpita negli animi degli spettatori. Tutti sapevano che
Girolamo era stato abbruciato come eretico ostinato; ma tutti
erano uomini, perciò più facili a lasciarsi trarre dalla pietà di
un male che materialmente affligge i nostri simili, che dalla con-
àderazìone della colpa onde qubòti soffrono. Le pene che subito
rispondono alle grandi colpe sono le sole che rìspondono all' in-
tento dei legislatori, vale a dire d' ispirare Tabbominio del male.
Quando corre troppo tempo tra V una e Taltra, il pubblico giu-
dizio, stanco dell estimazione morale della colpa, va a posare
sul colpevole e incomincia a compatirlo come uomo , anziché
detestarlo come delinquente. E qui è da avvertire che sebbene
abbiamo detto la fede informasse ancora la ragione pubblica di
quei tempi, tuttavolta era inegualmente sentita dagli individui,
e poteva avvenire che mentre il concilio ed il popolo di Gostanza
fossero spettatori del supplicio di Girolamo come uomini viventi
nel cominciare del secolo XV, poteva trovarsi qualcuno che vide
la terribile arsione come uomo di altro secolo o sia di poca fede.
E questi fu quel Poggio fiorentino stato poi segretario della
repubblica di Firenze, dotto di molte lettere greche e latine, il
goal tale scrìsse una epistola a Leonardo Aretino sul supplizio
di Girolamo da Praga, che ci rivela la coscienza del secolo sve-
gliata dagli avvenimenti costanziensi. Questa scrìtlura del Pog-
Tamb. Inquis. Voi IL 51
— 410 —
giò, indiritta (amigliarmente all'Aretino, forse non era destinata
ad avere qaella pabbliciti che ha avuta : perciò senza freno il
pensiero, sonora la forma, il sentimento va a pari coIFintelletto
che giadica; e, qael che è più, il concetto morale nel soo ardi-
mento accenna a fiducia sa qualche cosa che è fuori l'indivi-
duo e air individuo sovrasta : io dico di quella che chiamano
opinione. Poggio non era un eretico: eppure la descrizióne dei
fatti e delie parole di Girolamo nella sua causa ce lo rivelano
più fevorevole al reo che ai giudici. La libertà delia parola
negata airaccnsato, la poca moralità dei testimoni è quello che
viene fuori dalla epistola del Poggio; onde sembra un avvocato
del Pragense che, giunto tardi a mettere in via di giustizia i
padri di Gostanza, appelli su le ceneri del cliente a quella
della posterità. L' ingegno di Girolamo , la sua eloquenza , il
principio della riforma, sebbene malamente professato dall'ere-
tico, e, più di ogni altra cosa, il senso morale che esalano gli
umani patimenti, qualunque l'anima che si chiude in queste
membra, trassero la mente del Fiorentino dalle mute e solin-
ghe regioni della fede nel basso dell'umana ragione, e ragionò,
e Gran fallo, diceva Poggio, che una mente tanto bella, un'anima
tanto nobile abbia fuorviato, se pure sia vero quello di cui l'ac-
cagionano: imperciocché io non m'intrometto a giudicar di cosa
tanto grave ed amo piuttosto acquetarmi al giudizio dei più sa*
pienti di me. > Vedi come trasudano queste parole non il dutdrio,
ma la certezza dell'ingiustizia sinodale! Il Poggio doveva ricordare
le ultime parole di Girolamo con cui altamente confessò lui tenere
la dottrina di WiclefTe di Hus, ed in questa voler morire. Questa
confessione toglie ogni necessità di ricerca intorno alla onestà
dei testimoni e alle ragioni del processo. Dirò sempre lo stesso:
io curo del concilio deflniente, non degli uomini del concilio, cbe
umanamente operarono e forse fallirono. L'umana peccabilità,
a fronte di un reo che viene giudicato e dannato alle fiamme
acquista sempre dimensioni assai larghe agli occhi dell'osser-
vatore; e peccati vi furono, stando al giudizio dei quattro prinoi
commissarii cardinali ed a quello del senso comune. Per la
qual cosa il Fiorentino, uscito dall'idea, si chiude negl'individoi
e grida tacitameute ingiusti i giudici, sonoramente magnanimo
il Pragense. C tanto egli è trasportato dalla ragione che vuol di
tutto a suo modo giudicare, senza pure un sentimento dì fede,
che la fortezza del morente eretico somigli a quella dei filo-
sofi pagani. « Avreste creduto, egli dice, vedere la morte di
-411 —
qoalcQQO dei filosofi deiraDtichità. Muzio Scevola mette la sua
mano Bel fuoco» e Socrate beve il veleno eoo miuor coraggio
e intrepidezza di quella con cui Girolamo da Praga durò il
goppliùo del fuoco, e Ai tempi di Dante un Italiano non avreb-
be parlato in tal guisa di un eretico: allora le anime $i alzavano
per mal intesa forza di ragione; e volendo uscire dalla Bibbia
e dalla leggenda cristiana, Roma e la Grecia si appresentavano
a costoro come tipo di virtù. Questa scappata dalla Chiesa a
Muzio Scevola, a Socrate, non si trova nello scrittore della vita
di Girolamo da Praga, che era suo discepolo ed nomo setten-
trionale , e che certo è in sul lodare la costanza del maestro.
Nel paragone dei due lodatori deir eretico da Praga io trovo
come ritaliano andasse innanzi a lutti ad incontrare il secolo
che con voce straniera è detto della rinascenza. Bisanzio era
ancora in piedi al cominciare del secolo XV; ma da gran tem-
po la fiumana deirìslamismo rodeva le sue fondamenta, e mollo
della Grecia in veste bizantini) veniva a cadere in seno a questa
Italia, che alle tradizioni deir antica Roma agognava innestare
un presente che fosse degno di lei. Venne allora Platone in
Italia: stanchi gritaliani deir individualismo cruento di guerre
cittadine, stanchi di analisi , avevano bisogno di riposo in una
sintesi. Nella mente .di Platone trovarono, la posa, in quella
mente in cui tanto s'incarnò di realtà IMdea complessiva o uni-
versale. Era però questa una sintesi razionale; quindi dalla sintesi
dogmatica del cristianesimo passarono a quella tutta greca, tutta
pagana, che tanto nelle arti dei tempi medicei che nelle scritture
d si rivela. Perciò caddero dalle mani le daghe e le mazze ferrate,
» prese e s'impugnò lo scalpello ed il pennello: i petti scabri di
dcatrìci non più sofTrirono le maglie di ferro e si vestirono di veN
lato e di seta: e mentre in Cosenza sermonavano di riforma, Ni-
colò Machiavello si preparava a scrivere la Mandragora da rap-
presentarsi in corte del papa. Il bello, quale si dipinse nelle calde
fantasie della Grecia, quasi ripercosso dalllstesso sole in quella
degritaliani, ne innamorava le menti, le immergeva in una
estasi di plastica voluttà. U arti greche crebbero e si educarono
sotto il pallio filosofico di Platone: Tidea platonica è come san-
^e che circola per le membra delle greche statue. Con Platone
Tennero ad un tempo in Italia Fidia ed Apelle. Costoro reca-
vano appresso tutta una civiltà mortificata dalla barbarle del
Insso-impero, bandita da Maometto. Firenze li accolse in beni-
gno ospizio, e gli uomini che incontravano tali ospiti a far loro
— 4t2 —
come saol dirsi le onoranze della casa, quale fu il Poggi, erano
certamente importuni spettatori deir arsione di un eretico , ad
estimarne la ragione.
Qualunque però i giudizi che potevano recare i presenti
ed i futuri della condanna di Girolamo, il concilio teneva la
sua via con molta energia. Nell'agosto deiranno 1416 i padri
facevano bandire un monitorio contro gli Hussiti del reame di
Boemia e del marchesato di Moravia , col quale dato spazio di
tempo soli cinquanta di, venivano citati a comparire al cospetto
del concilio, e rendere ragione della loro fede. Vengono in que-
sto monitorio nominati moltissimi baroni e cavalieri di quei
paesi ; e reca infine V approvazione di quattro nazioni. Trovo
nel Wan der Hardit gli atti de' notari intomo air affissione di
questa citazione alle porte del duomo di Gostanza, di Padova ,
di Vienna, di Ratisbona. Quel reciso giudizio recisamente fu
eseguito: ed a fronte della pubblica opinione non si ritrassera
per umana prudenza i fortissimi giudici.
i CAPITOLO XVf.
I .
\
OioTftnna d*Areo condannata eomo «fraga.
Nel 1420 la Francia era in preda ad intestino discordie, n
guerre sanguinose che recavano nei sno seno gli stranieri ;
epoca appunto in cui Giovanna d'Arco, inspirata e calda di sacro
entusiasmo, s'affacciava alla vita.
Il trattato di Troyes, stipulato il 21 maggio 1420 fra En-
rico y re d'Inghilterra e Cario VI di Francia , stahiliva che la
corona di Francia passasse in Enrico V o ne' suoi credi in
perpetuo dominio. Questo trattato, che sebbene ponesse flne
alle sventure e miserie della Francia, imponeva alla medesima
Conta delia schiavitù verso lo straniero, era esecrato dalla mag«
gior parte dei Francesi. A renderio pib odioso contribuì Tor-
gelilo e la tracotanza inglese, speciafmente del conte di Hai-
tingdoD, che non rispettava né leggi né trattati.
Gir Armagnacchi che pugnavano contro lo straniero non
vollero aderire al trattato, ed Enrico spinse a tntt'aomo la giiem
contro di. essi ed il Delflno. Non appena fatto sposo di Caterini,
quel troculento cuore s'apparecchteva alle stragi, e 8opo aver
espugnata Sens e Honterean, non rimanendogli che la rócca df
quest'altima città , il cui presidio era comandato dai cafiitano
Guitry, mioaecioso si presentò intimandogli la resa; e rtnn»
tandosi a ci6, giurava di far impiccare intorno alle innn ddta
rdcca i prigionieri che teneva. Questa minaccia , fitta qfialctie
secolo prima dal baribari imperatori tedeschi In fUlia, sembrava
possibile sobmenle in teotonidie anime ; ma r inglei^ re mu
•414 —
si mostrò meno feroce, ed al nobile rifloto di Goitry , di oc
eedere che alla forza dell' armi, egli fece impiccare tutti i pr
gionieri. Al qual atto, feroce più di qaello che si possa sigo
ficare con parole, if capitano non cedette , attendendo semp
rinforzi dagli Armagnacchi e dal Delfino, che fu poi Carlo Y
Privato della corona per l'assassinio da lui perpetrato del Da
di Borgogna, ceduta ad Enrico Y, dovette dopo otto giorni e
dere. La fortuna sorrideva ad Enrico Y, il quale andava sec
pre più consolidando il suo impero sulla Francia acquistani
partigiani e città, obbligando il Delfino a ritirarsi al cospet
delle sue armi. Colpito da forte dissenteria nel 1422 , spirò
Yincennes, lasciando leldue corone a suo figlio, che allora coi
tava otto mesi, costituendo reggente della Francia suo frate!
il duca di Betford, e raccomandando si ad esso che al figlio
serbare amicizia al Duca di Borgogna figlio dell'assassinato
Montereau.
Carlo YI non sopravisse che pochissimo iempo ad Enrio
e la sua morte dischiuse la via a nuove micidiali guerre.
Delfino s'intitolò Carlo YU re di Francia , gl'Inglesi ed ì B(V
gognoni proclamarono Enrico YI, ma la vittoria stava per l'aro
inglesi, le quali dominavano il nord della Francia» ed assedi)
vano Orleans; e donde meno sperava ebbe salute. Nel 1410 ei
nata in Domremy, da umili parenti, una fanciulla, che crescia
nella semplicità della sua vita, guidando a'campi il suo gr^
dotata d'animo appassionato, vedeva con affanno le m^erie del
Francia sbllo il dispotismo straniero. Nella sua semplicità cn
dette di sentire voci d'angioli che la chiamassero a salvare
patria. Divota estremamente, prestò fede a quella inspirazioo
e si confidò al parroco , il quale non la derise , ma nemmei
la incoraggiava. La giovinetta si rivolse in allora a Boudricoo
governatore della Sciampagna , una delle poche terre rimas
fedeli al giovine re. L'entusiasmo col quale la vergine di Doa
remy parlò al governatore, in luogo di farlo persuaso, d'acc(
gliere la sua offerta, la respinse credendola una pazza od invasa
dal demonio. Sebbene respinta, non allentò della fatta delib
razione e si presentò a Lougpont, gentiluomo che godeva grani
estimazione, il quale, biasimando il governatore della sua ind
ferenza, la persuase finalmente a dare alla giovinetta armi
destriero e mandarla a Cinon, ove in allora avea trasporta
Carlo Yli la sua piccola corte. Il re avvisato dell'arrivo de
giovinetta in spoglie virili si confuse fra la folla dei corligia
— 415 —
) Gìofsnnt appena ammessa an^odìenia , senia aver mai ve-
loto il Ddfino, lo riconobbe e lo distinse inginocchiandosele
li cospetto. Carlo ed alcuni altri , sorpresi da questo htto e
Mi *aria inspirata della donzella » cre<tettero che fosM un' in^
fiata da Dio a salvare il trono» poiché le cose sue erano a tale
idotte che non vi roleva che on miracolo a scamparlo dal*
'abisso snil^orio del quale si trovava. Non mancarono vecchie
natrone sobbillate da frati e da preti che insinuarono che Gio-
ranoa potesse essere fattucchiera , ed avesse stretto patto col
letnonio. Onde provare la sua innocenxa dovette Giovanna sog*
[lacere a prove umilianti, nelle quali la sua verecondia fta gra-
^ente oEfesa. Ma ella non ricosò nessuna prova » e da tutte
l'osd vittoriosa e costrinse al silenzio i suoi detrattori.
Ricevette dal re lo stendardo sul quale stava effigiato PUo-
)o-Dio che usciva dalle nubi , ed imbrandita la spada nella
estra, si pose alla testa delle poche ed avvilite schiere francesi
s'incamminò verso la Loira per liberare Orleans assediata
igl'Inglesi, che minacciava di far dedizione per evitare gli or-
ni e la strage di un assalto. Il di lei entusiasmo si comunica
me elettrica scintilla alle sue schiere , ogni soldato diventa
I leone, ed Orlean^s è liberata.
Il conte di Dunois ch'era comandante dei difensori d'Or-
ans, usci colle sue soldatesche e si uni a Giovanna, la quale
lOdossele a liberare le altre terre deirOrleanese, che si trovava-
> in mano dello straniero. Questi trionfi furono poi coronati
lUa famosa vittoria da lei riportata a Patay, nella quale caddero
lenti sul campo più di quattromila inglesi e fece prigioniero
conte di Talbot generale dei medesimi.
Il coraggio tornava a ravvivare i Francesi, la corto di Car-
YII s'allietava, e fu tutta in festa quando alla medesima ar-
vò Giovanna a deporre gli allori mietuti al piedi del monarca,
orlandolo a seguirla a Reims, dove sarebbe stato corcato re
db Francia.
Infatti Giovanna condusse il Delfino a Reims, ove si celebrò
saera cerimonia e fu proclamato Carlo VII re di Francia. Or-
ai il solo nome di Giovanna metteva spavento negl'IngloM, che
eti{ritosamente si ritiravano sgombrando le città che occup»*
no; per il che Auieres, Troyes, Chalons che prima parteg-
ivano pei Borgognoni e gli Inglesi, aprirono volontariamente
porte a Giovanna, che precedeva l'arrivo di Carlo VII; \ft9r
che in poco tempo tornò a conquistare gr^n parte deiravilo
- 416 —
retaggio. Carlo VII fece coDiare una medaglia per celebrar
sua coDsacraziooe^ colla leggenda Consilio firmata[Dei.
Per tutte queste yittorie sembrava a Carlo VH che
fosse dischiusa la strada alla capitale del regno. Quantun
Giovanna avesse eseguite le due promesse da lei fatte ,
cioè di liberare Orleans dagli Inglesi, V altra di far conseci
Carlo VII in Reims, e potesse andarsene gloriosa, si lasciò (
suadere di assediare Parigi; la qual cosa non essendole riusc
imperciocché venne ferita mentre tentava di scalare le mi
dovette desistere dair impresa, divenendo oggetto dei sarcai
di molti che alla corte erano suoi nemici. Vedutasi oggetto
beffe per la mancata impresa , pregò il re a lasciarla parti
ma egli non vi acconsenti, e per mezzo del conte di Due
la persuase a recarsi con Tesercito a Compìègne , nella qu
città potè mercè il suo coraggio penetrare, sebbene assedi
dagli Inglesi. In una sortita che fece respinse gli assedia
entro i loro ripari; ma costoro ricevuti rinforzi rifecero te
a Giovanna, le cui schiere spaventate dal numero dei nea
fuggirono in città lasciandola sola; per il che quandTessa f
per entrare trovò chiuse le porle , ed allora si tenne perdo
ma nullameno tentò d'involarsi ai nemici, operando prodigi
valore per farsi strada: ma il cavallo, che gli cadde sotto fer
la costrinse a darsi prigioniera a Lionetto bastardo di Vendoi
che la consegnò a Giovanni di Lussemburgo. Questo duca
onta alla sua dignità ne fece turpe mercato , vendendola |
grossa somma agli Inglesi. Fu chiusa prima nel castello
Beaumanoir , indi condotta a Roano , dove il duca di Bell
Taccusò d'eresia e di strega, per cui venne assoggettata airi
quislzione, capo della quale era il vescovo di Beauvois. Pai
molti giorni nello squallore del carcere , dentro del quale
duca di Betford si recò per attentare alla di lei pudicizia,
finalmente fu pronunciata la sentenza colla quale fu condano;
al rogo come fattucchiera e fu abbandonata al braccio secoli
il i6 maggio 1431; e quasi fosse poca cosa il supplizio (
fuoco, lo si volle esacerbare esponendola in una gabbia a
insulti della plebe. Mentre cominciavano a crepitare le fiami
ella invocava con fervore il nome deir Uomo- Dio e della V<
gine, ringraziandoli del supplizio e facessero libera la Frani
d'ogni straniero oppressore. Cosi periva la salvatrice de
Francia, senza che il suore nulla operasse per scamparla de
^immeritata fine. Tarda giustizia si fece dal parlamento coprem
(fifiVMTtflt aj^m ie»Uffài éif^MiauJ^ /Jiyrà Mt/a/y.
Siifvanna /Àm mjfnsiene.
Ì7imm/^m/s'//^y^
ifc
•:\
— 417 —
Yitnpero qael processo, e nobilitando la famiglia dell'eroina.
la qnale il drammaturgo inglese e l'alemanno Schiller conse-
arono i versi che renderanno immortale la di lei gloria e
Dfamia dei snoi carnefici.
Tamb. Inquis, Voi. 11.
55
CAPITOLO XVll-
Eugenio IV, ooneilii di Basilea a Firanae,
e fli Usaiti in Boemia.
Erasi appena pubblicata la pace che Sigismondo, crÌBdeD-
dosi pure in buono accordo con Eugenio IV» si pose in cam-
mino alla vòlta di Roma, nella quale fece il suo ingresso il 21
maggio del 1433, ed il giorno 30 dello stesso mese ricevette b
corona imperiale nella basilica del Vaticano. Ma la pace della
Chiesa era assai più difficile da fermarsi che non quella de*pria-
cipi secolari. Tutta in essa era discordie e disordine ; e Sigis-
mondo, nella sua lunga dimora in Lucca ed in Siena, non aveva
potuto conciliare tante opposte pretensioni. La Chiesa cattolica
tutta intera trovavasi in guerra cogli Ussiti boèmi, la sede di
Roma col concilio di Basilea, il nuovo papa Eugenio (V con
tutti i congiunti del suo predecessore della casa Colonna, ed il
governo pontificio era in guerra altresì con tutti i sudditi della
Chiesa.
Papa Martino V era morto la notte del 19 al 20 febbraio
del 1431. Durante il suo regno erano state ridotte sotto Tanto-
rità della santa sede tutte le città, tranne quella di Bologna, e
tutte le Provincie che prima dello scisma erano soggette ai suoi
predecessori. Irremovibile ne'suoi progetti, ambizioso e non pei^
tanto pacifico, egli aveva governati i suoi Stati da buono e giu-
sto principe. Era stato nondimeno tacciato d'avarizia, e ciò a
santa ragione, perchè i tesori da lui raccolti non erano stati
impiegati a vantaggio dei popoli che avevano pagate le imposte,
— 4i9 —
Uè del gorenio che le avea riscosse. Alla di lui mmle i sum
Ittori rimasero sotto la custodia di tre suoi nipoti della casa
(Monna, lo che fo cagione delle prime gaetre che turbarono
por tre anni sotto il nuo?o regno lo Stato ecclesiastico.
Il conclaTe adunato per eleggere il successore di Martino V
scelse il 3 marzo del 1431, Gabriele Condulmierì, cardinale ve-
scoYO di Siena. Questo prelato, che non godeva di molta repu-
tatone, rioni appunto a suo fovore tutti i suflfiragi perchè ninno
lo credeva degno di co^ grande dignità. I cardinali pon essendo
ancora d'accordo con coloro che avevano maggior autorità nel
conclave, cercavano di mandare a vuoto i loro suffragi negli
scratini che dovevano tenere ogni giorno, vale a dire a scom-
partirli tra i più dappoco. Condulmieri, il più dappoco di tutti,
si trovò eletto per quella stessa ragione, contro Taltrui aspet-
tazione e la propria, da due terzi delle voci. Era costui vene-
rano e nipote di quel Gregorio Xll che dal concilio di Costanza
era stato obbligato a rinunciare la tiara. Aveva passata gran
parte della sua vita nella povertà in abito monastico e si era
mostrato zelante di tutto il rigore della disciplina claustrale.
Pteno di fidanza nel proprio ingegno, Tinaspettato suo innalza*
iDento accrebbe la di lui presunzione. Non degnavasi di udire
gli altrui consigli; e perchè ninno potesse dargliene, ogni cosa
fMseva con inconsiderata prestezza. Dopo aver presa a chiusi
occhi una dannosa risoluzione, credeva dar prova di fermezza
llndole col non lasciarsene smuovere, e per tal modo offendeva
l'amor proprio ed i diritti dei suoi cortigiani e di coloro che
trattavano con lui; intanto risguardava ognuno che gli si oppo-
nesse come un reo da punirsi con estremo rigore. Il suo innal-
eamento non fu cagione di gioia ai Romani, ed in breve il suo
{ovemamento giustificò gli universali sospetti. Egli si fece chia-
nare Eugenio IV.
In sul declinare del quindicesimo secolo furono veduti sc-
lere sulla cattedra di san Pietro alcuni papi la di coi ripula-
óone è talmente screditata che gli stessi scrittori ecclesiastici
lon hanno por tentato di difenderli. Ma Eugenio IV non è tra
iostoro. Per quanto sia stato pregiudizievole il suo regno per
'autorità della Chiesa, per quanti errori egli abbia commessi
Q tempo del suo pontificato, gli annali della corte romana hanno
msso a giustificarlo, scagliando anatemi contro tutti i suoi ne-
Did e tenendo per giusto in ogni contesa il partito cui egli si
itlome, e per empio quello da lui riprovato. Enea Silvio, che
— 410 —
darante il suo vegùo era ambasciatore di Sigismondo alla santo
sede, e che più tardi sali sai trono pontificio, delineò il ritratto
d'Eugenio da quel profondo politico ch'egli era ; eppure non Io
incolpa quasi d'altro difetto che di leggerezza, e Egli era d'alto
animo » , dic'egli, « ma il suo maggior vizio fu di non serbare
misura in alcuna cosa e d'intraprendere sempre ciò che VGlen,
non ciò che poteva. » Il Vespasiano, contemporaneo d'Eugenio
e scrittore della sua vita, lo descrive poco meno che un santo.
Infatti Eugenio, osservatore scrupoloso di tutte le discipline
monastiche, austerissimo nelle domestiche consuetudini, si aste*
neva quasi da tutto ciò che la comune degli uomini rìsguarda
come piaceri ; ma egli non seppe mai porre limite alle passioni
oud'era mosso l'animo suo, a tale che la riverenza del gìura-
niento non raffrenò mai la sua cupidigia.
In questi tempi io cui lo stiamo osservando , or che gli
odii di parte si sono spenti , che i pregiudizii più non hanno
impero, e che i papi, del pari che gli altri sovrani, sono parti-
colarmente giudicati a seconda delle loro pubbliche azioni, pare
che pochi pontefici siano stati meno meritevoli d'Eugenio IV di
occupare la prima sede della cristianità. Nel furore delle rivo-
lozioni in cui fu ognora involto, nelle guerre col suo clero,
co' suoi benefattori, perfidi quasi sempre o malconsigliati furono
i suoi governi. A pochi tiranni si possono imputare tanti atti
di perfidia e di crudeltà, pochi scimuniti monarchi hanno date
più aperte prove di dappocaggine e di leggerezza. Onde nob
si può comprendere come, avendo egli fin dal principio del suo
regno concitato contro di sé medesimo e contro il vacillante
suo trono i popoli, i prìncipi e gli stessi prelati, abbia cionon-
dimeno potuto reggere per tredici anni e trionfare quasi sempre
de'suoi avversari, dotati di maggior virtù e di più singoiare in-
gegno.
Le credenze religiose, che formavano il suo sostegno, con-
servavano in allora sugli spiriti una influenza la di cui natura
ed i limiti sembrano inesplicabili. Le menti erano scevre, al-
meno rispetto alla maggior parte degli uomini, da ogni super-
stizione, da ogni calore di opinione, da ogni entusiasmo; le ere*
denze non si alteneano ad alcuna idea morale né reggeano
contro i calcoli d'interesse privato, ma inspiravano tuttavia un
abborrimento invincibile per tutto ciò che portava il nome d'ere-
tico 0 di scismatico. Gli uomini che aveano scosso il giogo
^'ogni legge morale, rotto ogni freno alle loro passioni, rinne-
— 4&I -
mnie BMiw Ai :<07i«^Kv ^ it^
di essi a aoelknte poftdfe. U ^sf&tt tùà^p» M \%^k^h\s
pitriam di Alessudna. cte anìdhlwro dorato :$MiibniT^ )vi>
odiose a molifo deiTiIta dignità eoctesn^ticji in t»)i ^i ^a
poslo. taC DOD sontanviDo: ohm imi fé c^gtoM di ;fV4ii>^UK>
il tradimeoto per meoo del quale il pi|Mi (^ ivhrv' U $ih^
vecchio amico, il sao accetto nùDìslro. Rì^Mi\biv»$i f\w>o uha
legìttima astuzia ddia politicai ìotalsa T artificio Ci>l quAk> il
Piccliiuio carpiva al papa medesimo quel danai\> con cui ta^Yva
ribellare gli Stati della Clùesa: e riputatasi dd tviiri oivsa ^(hì\<^
naturale che papa Eugenio Tolesse toglierti la Marta dWnoona
allo Sforza, benché gliePaTesse data ^i meiie.'^iuii^ i> garonlUa
con mille giuramenti; che più non pareva obbliitalo al «uo xM-
fensore, dacché pia non aveva bisogno de'suol st^rviiii. .\vn^M>i>
pure agevolmente trovalo scusa il principe o U prillalo cho sii
fosse alleato coi Turchi e cogli eretici , purcbò fatto V avoMo
p^ suo prò e non senza motivo. Ma coloro ohe ponovano hI
poco freno air ambizione ed alle passioni politiche fmnnvanit
per anco al solo nome degli ussiti. Essi non oanminnvnno an
la loro dottrina fosse contraria ai dogmi primitivi huI quali is
fondata Fumana società o ai doveri verso al Crnaloro; ImNlnvn
loro che fosse condannata per desiderarne anlontoinnntn Tniitlr-
pazione col mezzo del ferro e del fuoco. Lo scopo dnlln cro-
ciate bandite sotto Eugenio IV nella Sassonia • noi Hmiiilnliur-
ghese , neir Austria e neir Ungheria non tendnv» , corno nnl
dodicesimo secolo, a soccorrere i fratelli opproHHl, rrin mi cmtnr*
minare i dissidenti. Non volevasi convertire I Dooinl, imi tra*
sonarli al rogo. Questa brama era tuttora un dfjldorlo \Hi\uh
lare appo le genti, sopra le quali poco ornai potiiva la ri)ll(;toriit.
L'intera cristianità non avea allora un luilo uomo« mwwNin
tra i più vantati filosofi , che rìputaaii^j le^^ila caìm al cfUllaril
il convivere coi miscredenti e non ^hhfftrinm itnu\ t/ill^franxa.
Air imperio dell' educazione , At'AV i'.nm^Ah , tMìh «MlfidMil
radicate da imù secoli, ond'era vietat/i l^r^arM^ (iti/i «ti/lo (f/ir^l
ragione delle strane contraddizioni uhUh qnali v^Uar/i// /v^l#;r#f
rintelletto umano. Non conviene %iU\\tii\n il n/iftlro rn/i/i/i /h
ragionare agii uomini dì t\m' »wAì , pfà^M ^ vA^Mm di \mu
— 4M —
altra logica; né ricusar di credere all'impero delle passioni che
regnavano allora, perchè ci sembra impossibile cbe insieme reg-
gessero. La storia prova par troppo evidentemente che il tra^
mento della ragione umana non ha limile quando V errore si
crede fondato dai dettami di un'autorità sopranaturale. A
quella mescolanza di perfidia e di fanatismo, d'indifferenza p^
le leggi deironestà, e di zelo per la fede, i crociati d'Enrico lY
andarono debitori de' loro prosperi avvenimenti contro gli os-
siti; per distruggerli e' s'ingegnarono di dividerli, d'ingannarne
una parte con false promesse , di arruolarli sotto le loro ban-
diere, di por in discordia ed in guerra gli uni contro gli altri.
Ninno degli artifizi più condannati dalla più corrotta politica
venne omesso dai crociati ; e quando ebbero ottenuto l'intento
loro, credettero di rendere gloria a Dio distruggendo gli stm-
menti di cui si erano serviti. « In fine della guerra , • dice
Coeleo storico de' crociati, « rimanevan tuttavia tra le mani dei
vincitori molte migliaia di prigionieri , che Hainardo di. Gasa
Nuova voleva distruggere per disperdere quella rea schiatta.
Ma perchè temeva di confondere cogli eretici gl'innocenti con-
tadini, che forse erano stati forzatamente arruolati, fece ban-
dire tra i prigioni che la guerra non era ancora terminata; cbe
Gzapchon era fuggito ed era d'uopo inseguirlo ; che perciò U
capitano abbisognava di que' valorosi soldati che avevano mi-
litalo sotto i due Procopii, nel coraggio e nella guerriera espe-
rienza de' quali pienamente fidava ; e per quest' uopo aveva
fatto assegnare loro un soldo dal pubblico fioche il regno
fosse perfettamente tranquillo; che invitava perciò tutti coloro
che volevano acconciarsi ai novelli servigi, ad entrare nelle aie
vicine, aperte a tale motivo, guardandosi però bene dall' am-
mettere in loro compagnia contadini non usati alle armi; i
quali era l'obbligo loro di rimandare all'aratro. Per tale bando
molte migliaia di taborili e di orfanelli entrarono nelle aie
che, secondo l'uso di Boemia, erano tutte coperte di stoppie.
Or appena e' vi furono entrati , si chiusero le porte e vi si
appiccò il fuoco; e in tal modo quella feccia, quel rifiuto
della razza umana , dopo avere commessi tanti delitti , pagò
finalmente tra le fiamme la pena del suo disprezzo per la
religione. > Tali erano nel quindicesimo secolo gli effetti che
destava il racconto d' una perfidia quando n' erano vittima gli
eretici; e cosi era ancora in Italia verso la metà del dicia-
settesimo secolo. Rainaldi , l' annalista della Chiesa , attenen-
al aasmto del Cocteo. vi ?^Qn(*f ^ollumo ch^ « ifwi\r
i Aanune bataantuip {Hi libiti itali fiMW^ lenwtnr ^l-
Fn B cupone di gnfsl'fnTore por opnì Aiimr^i^nr ml^im^
il Me cbe Ja lìfomiB iiredimut in Rwmta cMi toni/^ for^rr
spesso Bcconqnpnata da mote terAm. non i^Mv» un :v^l^f»n
ire iD Udii né iene mscere il mmoTno dnhhfo :fsni smti ^\
tli d^ pipa 0 d^DB Ghie» di coi $i Bpertn vM^v^^ ]% còr-
moDe. Per 1b stessa raffiane iro^altra più $tmta riforma ^prh
Dùtita , die il cscvocUio di Basilea intrapr^nilfva vn^IIo KtoKi^*^
mpo ìd seno alla orlodassia, vmxìt di^^approvata : Olio^ \ . i^ho
sr ogni ligmrào era mi^rlìor nomo di Gn^iwito I \\ (n sì^ì^W
Ito come antipapa, e il portentoso commoTim<^nt<> «M)a Ohii'^i^
I tempo di questo agìtatissimo pontitlcato non n^ni1<^lto h W
erta agli spiriti.
Pare die nei tempi di cui descriviamo la storia invalonso
ella Germania una madore ìndiiìendonaa \\\ opinione oit in
ari tempo un più vero telo per l ^ntlmonli rollDioM. l^h^
ene al cmdiio di Basilea fossimo stali chiamali I vo.soovt o l
epatati di tutte le nazioni cristiano, lìon pc^rl^inin il nno rn
ittere ritraeva da quello dei prìndpl o doi protali ti^itonolil. rlu*
i si trovavano in numero assai maggioro, o vi dominava Iti fk\\\
ito popolare della nazione frnmmeKfiO iilln (|imln nra nilnnnln
otte le sue deliberazioni, tutti I suol dncrnll, innlgrnilii li rnr
ore del bene, della libertà, della rollRlmin , nmtn II rrittrllln
ra animato, indicano pure una mancntiz» di pmniflinitn ttnlln
lee, per la quale era impossibile cho quoirnAAninhlnn KhiKtiniiflM
lai ad una utile riforma. Il concilio avea npfirovato rinl l^^io
Compactata dei Boemi col re Slgismondr». l'nr II hf^m dolln
ace, e perchè Sigismondo salir \m\A%fUi ani trono pntArri/t. iirn^ì
ì qualche modo pattuito d'ingannarci a vicenda, di rA^I|rror.?f
dente ammettere una nuova professione di ìpA^, ) t,uì t^rroin)
rano cosi vaghi ed oscuri che ognnno jfKiteva int^o'kifff a m/Kl/i
QO ; cosicché i Br)em 1 pr>tessero ornai sernhr ar e /^r ro'krssi . t) )
attolici non credersi pi^ obbli^ti in ^/p^m^t^ a f^r Irrr^r h
uerra. Sarebbe stato per avventnra sj»7ìo /vonsijflKr il rWrr»o
cere per cristiane tntte le sAtle le rfoali, /yvnsAniAf)do iof^'^fn^i
i dogmi foniiamentaii del cristianesimo , non 6ìtt<*f]A^fff 4i
pinloni che in cose di minore importan^^ ; ma r ^t^'nlnpfKir/^
m amtMgne par^Je quelle stesse ^nistioni rhe for m?»v mo l'^^-
etto della d^uta, l'indicare ron fermini comoni opinioni 'lìa
metralmente opposte , il pretendere di andare d' accordo cod
unia professione di fede intelligibile intomo a qnello da che
né 1* una né l' altra parte voleva dipartirsi, egli era ana stessa
cosa che acconsentire ad ingannarsi scambievolmente e man-
care nello stesso tempo di buona fede cogli uomini e col
cielo.
Questo trattato, sebbene assai difettoso, fu non pertanto il
più giudizioso atto del concilio, non essendo tutti gli altri de-
creti che vane declamazioni contro Tincontinenza, contro la si-
monia, contro gli errori di alcuni oscuri eretici. Non era pos-
sibile di applicare al governo della Chiesa massime cosi vagbe,
né di sperare un risultamento probabile o possibile da veruoo
de' suoi decreti. I prelati sinceramente desideravano la riforma
degli abusi, ma non volevano dal canto loro trovarsi angustiati
nella propria diocesi rispetto alla libertà e airautorità, e perdo
non pensavano a stabilire un più fermo ordinamento, col quale
soltanto poteansi reprimere i vizi ch'ei riprovavano.
Il concilio più accortamente procedeva nelPoppugnare Tao-
torità pontificia che nel porre nuovi ordini. Per menomare la
podestà papale e sostituirvi la propria, i prelati si scagliarono
successivamente contro le annate, le collazioni dei benefizi, le
nuove contribuzioni e tutte le altre sorgenti della pontificia ri^
chezza. Denunciavano le une dopo le altre nelle loro grandi
adunate tutte le usurpazioni della corte di Roma, per le quali
ognuno di essi aveva riportato alcun danno. Il concilio era di-
viso in quattro parlamenti ossia camere, nelle quali i suffragi
dei chierici costituiti in grado inferiore sembrano essere stati
tenuti in pari conto che quelli dei prelati; e questa mescolanza
faceva- in esse tutte dominare le opinioni democratiche. Lo spi-
rito di corpo invalso in quelle assemblee fortiflcavasi per la
persuasione in cui erano i loro membri che tutte insieme le
loro voci erano voce dello Spirito Santo. Perciò niun limite
serbavano nei loro ardimenti; si sforzavano di attribuire al cod-
cilio ogni podestà e voleano sottomettere la Chiesa airautorilà
popolare della loro assemblea, che agli occhi loro era rautorità
di Dio. Ogni giorno essi toglievano qualche prerogativa alla santa
sede per attribuirsela; disputavano in pari tempo intorno al
merito ed alla forma di tutte le questioni; ogni concessione del
papa rendevali più arditi a tentare una qualche nuova usurpa-
zione; insomma la tattica loro era quella stessa delle grandi as-
semblee legislative che furono viste cozzare coi re nelle ino*
mrclue £ coi si mob^ h oostitoiioiie. ATrebbero iofailti »n*
ch'essi mobb b oostitoiìoDe delb Chiesa , se non avessero
spinta tropp'oltre b propria amhiiioDe. Ma i padri del oondKo
cedettero afere aotorib dello Spirito Santo per gofernare le
podestà temporali egoalmeote che la Chiesa di Dio; Tollero *brsi
ailMtrì de' priDCi|M delb Germaoia e de' re, e le oi^gx)gliose loro
pretese indìspettirooo aib fine ranimo <teirimperatore Sìj^is-
mondo e de' loro pia zeboti protettori.
Sigismondo, poich'ebbe riaccesa la goerra in Boemia, no»
osservando i patti ginrati cogli ussiti prima della sua incoro-
nanone, mori rs dicembre del 1437. Per testamento lasciò,
quanto era in lai, erede delle sne corone Alberto II d'Anstria,
soo genero. Era questo l'istante in cui la contesa tra il con-
cilio ed Eugenio maggiormente ardeva. Eogenio, che temeva lo
spirito indipendente dei Tedeschi e già più volte aveva cercato
di tradocare il concilio per istancare.i padri coi viaggi o colle
eccedenti spese e costringerli in tal maniera a tornarsene vo-
lontariamente a casa, aveva acquistato in quel tempo un inspe-
rato ausiliario. Era questi l'imperatore dì Costantinopoli , Gio-
vanni VI Paleologo , che , stretto nella sua capitale dalle armi
dei Turehi e minacciato dell'eccidio imminente della greca mo-
narchia, veniva a chiedere agli occidentali una protezione che
b Usantina alterezza aveva lungamente rifiatata. Egli si sotto-
metteva a ridarsi col sao clero in grembo alla romana Chiesa,
ad abiurare le credenze ed i riti pei quali i suoi antenati ave-
vano sparso tanto sangue, e sperava a tale prezzo di ottenere
dai Latini, invocandoli come fratelli, maggiori soccorsi.
Il Paleologo, pel qaale era grande sagrìflcio il piegarsi alla
credenza degli Occidentali, sperava assaìssimo nella gratiladine
loro. Nulla poteva essergli più amaro quanto runione delle due
Chiese, cosa da lai sempre giudicata empia e sacrìlega, e latta-
?ia voleva in allora indarvi 1 suoi sudditi, onde ottenere a tale
[Mezzo una poderosa crociata ; ma s'egli avesse preveduto che
si poche braccia si sarebbero per sua difesa armale in Occi-
dente, non sarebbesi al certo condotto a tal passo, per cui ri-
putava offeso Tonor suo e tradita la sua coscienza. Ha a quella
dora necessità ed alla speranza cedendo, ei volle pure serbare
b dignità sua ; laonde diflBcoltava intorno alle condizioni. Non
voleva recarsi nelle ignote e lontane contrade della Germania o
delta Francia, dal che sarebbero stati anche più alleni 1 grcci^
prelati. Sebbene mosso dalle offerte del concilio di Oasllea ed
Tàmb. Inquii. Voi. IL ^4
- 426 —
incerto tra Faderìrsi al papa od al codcìUo, egli protestò che
non si sarebbe recato a Basilea; e rifiutò pure Avignone e lotte
le città della Savoia, ove i prelati del concilio avevano offerto di
traslocarsi per incontrarlo. Desiderava particolarmente di pia-
cere al papa e di careggiarlo, perchè sembravagli che il papa
fosse tuttavia il dominatore del cristianesimo ; le ricchezze della
corte romana, Testensione degli Stati pontificii e la loro pros-
simità alla Grecia più accetta e preziosa faceangli T alleanza
d' Eugenio. Questi , ben conoscendo dal canto suo di quanto
vantaggio sarebbe stata alia propria causa Y unione de' Greci,
procurava di compiacere air imperatore e giunse perfino a
proporre di adunare in Costantinopoli il progettato concilio
ecumenico sotto la presidenza di un suo legato, sperando senza
dubbio di sgomentare in tal modo i vescovi latini e di scio-
gliere il concilio di Basilea. 1 padri del concilio risguardavano
pure siccome cosa di somma importanza V unione delle due
Chiese e trattavano gli ambasciatori greci con maggiori rigoardi
che Enrico IV.
Ma il timore d' impedire V unione della Chiesa greca alla
romana non valse per molto tempo a frenare T indignazione
sempre crescente del concilio. 11 papa era stato da molto tempo
citato a Basilea, e non avendo ubbidito alla citazione, il con-
cilio lo dichiarò contumace nella xxviii sessione , il 1 ottobre
del 1437. Eugenio, in guest' occasione, dovette la sua salvezza
al precipitato e indecoroso procedere dei suoi avversarli. Gli
ambasciatori di quasi tutti i principi alzarono la voce contro
una risoluzione che non avrebbe mancato di strascinare il cri-
stianesimo in un nuovo scisma. Il papa, prendendo ardire da
questa favorevole disposizione de' sovrani , traslocò di propria
autorità il concilio a Ferrara: fuvvi tra i padri di Basilea un
debole partito che tenne dalla sua ed accondiscese alla trasla-
zione per un decreto fatto in nome di tutta l'assemblea , laonde
molti de' padri , abbandonato il concilio , vennero a Ferrara.
L'apertura del nuovo concilio ebbe luogo PS gennaio del 1438.
Non vi si trovarono da bel principio che cinque arcivescovi,
diciotto vescovi e dieci abati , quasi tutti sudditi del papa.
Nonpertanto l' imperatore di Costantinopoli vi si recò subito
dopo col despota della Morea suo fratello, col patriarca di
Costantinopoli e con venti tra arcivescovi greci ed i veri o
supposti legati degli altri patriarchi dell'Oriente. Venne a
presiederò il concilio Eugenio IV, e la prima sessione dell' as-
- «7 -
semidei delle due Cinese fo temibi il giorno S di oUohro ào\
1438.
Io questo concilio ìuliino fnù nnll» rìm^isc di qn^\)o ^*
rito dlodipendena ond'en sempre uninuito quello di liji.^iNi ;
chò an» i prehti di Femn non si niostnin>no meno x^bnll
per la monarchia deUa Chiesa di quello che i )vidri di liisik>a
fossNX) pel governo repubblicano di quella* E$si c^ìmlannarono
il concilio de* loro avTersarii, chiamandolo un conciliabolo, pnv
nunciarono sentenza di scomunica contro gli eccl^sìAslici ad
esso aderenti, contro coloro che avrebbero corrispondonxa col
medesimo, contro i mercatanti che vi portcrebb^^ro vìHovarIIo,
0 altra cosa necessaria alla vita , eccitando insiomo i kMi «i
prendersi gli averi di questi mercatanti, valendosi doirnuloril;\
evangelica, ;tis/t tulerunt spolia impiomm. D'altra parlo ogni cuni
di riformare la Chiesa, di stabilire giusti confini tra raulorllA (Inllu
sede romana e quella de' vescovi, a Ferrara fu abbandonala, o lu
trattenuta esclusivamente la grande bisogna doirnnlono dollu duo
Chiese. Le quattro quisUoni, dell'uso del pano sonxa lievito, ilnU
Tautorità del papa, del purgatorio, e della processione dolio Spi-
rito Santo, vennero trattate con tutta la 8otllgll(7«%n vMn può
essere adoperata in argomenti cui non puA agglugnoro riirnanfi
ragione. 11 concilio fu come una palestra poi teologi AcoInHllcl ;
i ^ù riputati uomini della Grecia e deir Italia vi si recnronn
a fare sfoggio di erudizione e di eloquenza. I/nmorn dolio Int-
iere si era riacceso quasi con ardore eguale in Oriento od in
Occidente; il clero greco attendeva allo studio disila fllo»olh
platonica, non ignorava Tantichilà e cercava d^irnitaro yi',Uìi\mmn
e la dialettica deirantica Accademia. Bessarlono, nmv(i<^'Aiyn di
Nicea, che fu poi cardinale, recò ai lialini mu quella s/fKìIo
filosofia un gusto più puro, un metCKio di ragionare \nii wiffiWf
coi i suoi compatrioti erano giunti i primi collo Mndlo d^llo
lettere istituito sopra pio larghe bn^l II f)efi.^arione, onorilo in
Occidente come colui che si era re.v> «tommament/; iKsnem^rito
delle lettere, ebbe non pertanto la taccia di ómtU^fp, pr^.^so )
suoi fratelli d'Oriente; perché si lasciò se/lnrre (Mh 6ìì(u\U e
dalie ricchezze della corte 4i Koma, ^^Up^fuUfttff il p^r tib? ^l^/^rioff
ed alla di lui liiserzione tenne dietro la s^mme^sion^. ri^ii^
Chiesa greca. Perciocché; e<i^eri/Jo venula» a w^iflA il ih (ririsrr»^
del I43Ó il patriarca A CrjHtantinopoK , e totti i v^.v/>vì thfi
ravefano seguilo essendo slati privati della tenne provv'Ki^ine
loro promeaaa onde vincermi r animo coda captività e «wll^
— 418—.
tniseria , eglino s' indosserò finalmente a dare il loro asseoso
alPunione. In questo mezzo, a motivo della peste oppiata in
Ferrara, il concilio fa traslocato a Firenze, nella coi cattedrale
fa bandita, il 6 luglio del 1439, nella xxv sessione, V anione
dei Greci e dei Latini. Sebbene la maggiore parte della Chiesa
greca abbia in appresso rinnegata questa riconciliazione , essa
è riconosciuta ancora nelfetà presente dalla piccola congrega-
zione che porta il nome di greci uniti.
In conseguenza di tale unione il papa promise ai Greci in
nome dei Latini una flótta , un esercito e aiuti per difendere
Costantinopoli, quando i Turchi ne imprendessero l'assedio. A
conto di futuro sussidio, Eugenio IV fece pagare dai Medici,
banchieri della santa sede, dodicimila fiorini alla guardia del-
rimperatore. Le spese di viaggio del Paleologo e de' suoi pre-
lati erano state in gran parte pagate coi donativi delfe citti e
d^i principi da cui erano stati ospitati. Pure la condiscendenza
dei Greci e la lunga loro lontananza dalla patria non dbbero
per essi, generalmente parlando , che i più meschini rìsolta-
menti: il solo Eugenio n'ebbe vantaggio. Imperciocché egli
godette dappoi di assai migliore estimazione, e i suoi aderenti
ne presero argomento di farlo credere continuamente intento
alla pacificazione della Chiesa, intanto che, a detta di loro , il
concilio di Basilea non tendeva che a dividerla. Nulla trascorò
il papa di quanto potesse contribuire ad accrescere questa
nuova gloria. Dopo che i greci non meno che la maggior parte dei
prelati latini, ebbero abbandonato il concilio di Firenze , Eu-
genio ne trasferì a Roma le poche reliquie, ed in quest'ombra
di concilio ecumenico ammise le supposte deputazioni degli
Etìopi, de' Siri, de' Caldei, de' Maroniti ; conchiuse con questi
disertori di quelle sètte nuovi trattati d'unione, di cui le Chiese
loro mai non ebbero notizia, ed in tal modo compi apparente-
mente la pacificazione dell'Oriente.
D'altra parte il concilio di Basilea , abbandonato da una
parte de' suoi partigiani, ma sempre frequentato dai vescovi di
tutte le contrade della cristianità e sempre riconosciuto dalla
Germania, dalla Francia, dalla Spagna e dall'alta Italia , elesse
finalmente per papa il 5 novembre del 1439, sotto nome di
Felice V, Amedeo VIII di Savoia, che in allora, deposto il prin-
cipato, era decano dei cavalieri di san Maurizio di Ripaglia.
Questo principe che infioo allora aveva goduto riputazione di
uomo prudente , e che , stanco delle cure del governo , aveva
— 4» —
nel 1434 cedala la signorìa de' saoi Stati al suo figlioolo mag-
^ore» Laigi prìocipe di Piemonte, accettò la dignità conferitagli
dal concilio che lo chiamava negli estremi suoi giorni a più
cocenti cure che non erano state quelle del trono che aveva
abdicato* £i tenne la sede ora a Rasiiea, ora a Losanna, ora a
Ginevra con una immagine della corte di Roma , da lui com-
posta , in quattro promozioni , di ventiquattro cardinali. I due
coucilii e i due papi continuarono per alcuni anni a fulminarsi
a vicenda colle scomuniche, e le due parti della Chiesa a dif-
^marsi reciprocamente colle più oltraggiose e calunniose im-
putazioni. Questi scandali furono trasmessi ai futuri secoli non
per mezzo di libelli, ma nelle dichiarazioni infallibili de'concilii
e de' papi.
Eugenio IV non doveva pensare soltanto a difendere la sua
podestà spirituale degoziando coi Grecite combattendo contro
il concilio, ma ancora i suoi temporali domimi , i quali erano
qualmente pericolanti per le guerre delle quali non concede-
vagli iUndole sua irrequieta di rimanersi. Abbiamo osservato
come nella guerra della Lombardia egli fosse operoso alleato
delle Repubbliche di Venezia e di Firenze : egli prese parte
ancora nella guerra di Napoli, ma con minore fervore , e sic-
come aveva abbracciato la parte angoina , trovossi in pericolo
a caa3a dei rovesci di questo partito, ch'egli aveva male asse-
condato.
Alfonso d'Aragona, che combatteva pel regno di Napoli con
fianierì d'Angiò, non aveva avuto per lungo tempo altro ne-
mico a fronte che la moglie del suo emulo, Isabella di Lorena.
Essa era venuta Napoli nel 1435 con Luigi , suo figliuolo se-
condogeoito ; dotata siccome ella era di saviezza e di virtù, si
rendette cara agli antichi partigiani della casa d'Angiò , e di
conserva con loro sostenne per ben tre anni una lotta disu-
guale, finché lo sposo venne a raggiungeria. Ranieri approdò
a Napoli il 19 maggio del 1438. Ma siccome, per ricuperare la
libertà, aveva dovuto pagare una grossissima taglia, i suoi te-
sori erano esausti ; egli non recava né sussidi! né truppe in
nn regno minato le di cui entrate erano divorate dai faziosi.
I suoi aderenti , vinti non meno dalla dolcezza e dalla bontà
dell'indole sua che dal suo coraggio, avevano da principio ado-
perato per lui con fervido zelo; ma poiché si avvidero che ad
esA soli toccava di fare tutto per lui, il loro zelo venne meno,
« le sue cose andarono sempre più declinando. Nella Calabria
— Mo-
gli era stata tolta GoseDsfa per tradimento, e tutta la provincia
segai r esempio della capftale e si sottomise ad Alfonso. Neil»
Puglia Giovanni Antonio Orsini , principe di Taranto , trasse
alla ubbidienza dell'Aragonese quasi tntte le città, tranne Man*
fredonia ed alcuni castelli in cui teneva guarnigione Francesco
Sforza : negli Abruzzi la sola città d'Aquila mantenevasi fedele
a Ranieri, coi luoghi di confine della Marca d'Ancona, pos-
seduti pure dallo Sforza.
Giacomo Caldera o Candela, duca di Bari e il più ferma
sostegno pel partito d'Angiò, era morto il 18 novembre del 1439.
Antonio, figliuolo di lui e succedutogli nel comando delle'
armi e dei ducato di Bari, era meno del padre afifezionato agli
Angioini, o meno disposto ad ubbidire ad un re che non po-
teva pagarlo, e cadde in sospetto a Ranieri. Questi volle toglier-
gli il comando dell'esercito, e perdette Fesercito stesso col suo
generale, che nell'estate del 1440 passò ai servigi dell'Arago-
nese. Più non rimaneva nella Campania al principe francese
che la città di Napoli, e questa pure era assediata e mancante
di vettovaglie. Tanto nei regno che fuori non vi era esercito a
principe che potessero arrecagli soccorso.
Alfonso credette essere giunto il momento favorevole db
chiudere per sempre l'ingresso del regno al solo alleato che
avesse Ranieri, e cercò d' impadronirsi per sorpresa di tutto-
ciò che lo Sforza possedeva nella monarchia siciliana. Questi,
intento in allora alle guerre di Lombardia, aveva lasciate poche
truppe nei varii feudi redati dal padre. Egli era afifezionato af
re Ranieri e nemico d'Alfonso, contro il quale egli e il vecchio
Sforza avevano lungamente combattuto ; ma prima di partirsi-
dal regno aveva pattuita con Alfonso una tregua di dieci anni,
in forza della quale le città da lui occupate erano state dichia-
rate neutrali ed i loro mercati egualmente aperti alle due fa-
zioni. I Napoletani, chiusi di stretto assedio da Alfonso, appro-
fittavano di siffatta neutralità per trarre le vettovaglie da Bene-
vento; e questo fu il fatale pretesto di cui si valse il re d'Aragona
per rompere il trattato ed assalire all'impensata questa città, di
cui impadronissi in sul finire del 1440. Approfittando egli po-
scia dei primi vantaggi, occupò in pochi giorni, per accordo o
per forza, tutti i castelli del vicinato e tutto quanto possedeva
nella Campania Francesco Sforza. In principio del susseguente
anno fece muovere i suoi luogotenenti contro i feudi che lo
Sforza aveva negli Abruzzi , e andò egli stesso ad assedfàre
Troia.
— 451 —
Francesco Sfona, che slava io allora ai servìgi dei Vene-
wni, era abbastanza occupato nel far testa al Piccinino. Non-
pertanto mandò pel mare Adriatico due de'suoi luogotenenti t
Cesare Martinengo e Vittore Rangone, a difendere il suo rotag-
gio. La cavalleria che questi condocevano approdò a Manfre-
donia ove le si rannodarono i partigiani pugliesi di llanieri: oi
-s'avanzarono poscia verso Troia per costringere Alfonso n le-
game Tassodio; ma questi mosse ad incontrare. i due capitani,
li ruppe e disperse intieramente le loro poche schiere. Ales-
sandro Sforza, fratello del conte Francesco e suo luogotencnlo
nella Blarca d'Ancona , più fortunato contro Raimondo di Cai-
dora che comandava gli Aragonesi negli Abruzzi: ei lo sconllsso
e prese con circa cinquecento cavalli; scacciò dalla provincia il
rimanente della truppa di lui, ma non cercò d'inseguirla e di
approfittare, della sua vittoria.
Il cardinale di Taranto, mandato da Eugenio IV, entrò
pure con un esercito di diecimila uomini nel contado d'Albi
nell'Abruzzo ulteriore per sostenere il partito di Ranieri ; ma
dopo una breve stagione campale, che non venne illustrala da
veran'impresa importante, fece tregua con Alfonso e rientrò nel
territorio della Chiesa. Vedendo il re d'Aragona che gli sforzi
de' suoi nemici erano impotenti, ricondusse i suoi 'soldati sotto
Napoli e la strinse in modo che le vittovaglie salirono ben tosto
a carissimo prezzo. Il re Raineri faceva dispensare sei once di
pane ai soldati ed agli abitanti il giorno che facevafio la guardia,
e tutti gli altri erano ridotti a pascersi di erbaggi o di animali
ioimoDdi e schifosi. Nondimeno così accetto erasi reso ai NaiMi*
letahi e di si buon cuore partecipava degli stenti e dei fiericoH
comuni, che il popolo non moveva alcuna lagnanza e sopfior-
tava per amore suo i |Hh grandi patimenti. Ma tutta la speranza
degli assediati fondavasi sol conte Sforza ; sa(>evano essi che
dopo la pace di Lombardia questo generale capitanava ttu flo«
fente esercito, che si era arricchito coi tesori d^;llo SMr>/>;ro, e
che niente ornai lo riteneva in Lombardia. Ranieri lo sc^>ri(fifi'
rava d' affrettarsi a salvare un amico dall' estrema mina itA a
vendicarsi di un nemico che lo aveva assaliti) senza CHK^^e
stato {Mt>vocato. Infatti lo Sforza^ mosso da giut^to vlegno fier
la ricevuta ingioria, si pose in cammino in princìpio dì gennai/i
del 4442 per recarsi a confennare oelfabbidieriza il prÌMifiato
della Marca ed a difeodere o riC4mqQÌJilare i sooi Usiiói ererJi'
tari! del regno di Napoli
- 45J —
Un avversario cosi formidabile potea qd' altra* volta eam-
biare la sorte della guerra. Alfonso, avvisato dal suo imminente*
arrivo, supplicò di soccorso il duca di Milano: gli fece sapere
eh' era in procinto di perdere una conquista che ornai credea
sicura; gli mandava dicendo essere a lui solo debitore dell»
corona: per terminare quest' opera altro più non rimanere a
farsi che tenere lo Sforza fuori del regno finché Napoli ^ fosse
arresa, ed in allora la sua riconoscenza per cosi grande benes-
sere non sarebbe più stata impotente.
È verisimile che, iielP istante in cui Filippo Maria si en
rappattumato collo Sforza e gli avea data in isposa la figlinola,
avrebbe potuto sulPanimo di lui tanto da indurlo a rimanersi
inoperoso, almen qualora gli avesse guarentiti o fatti restituire
i feudi toltigli da Alfonso. Ma il duca di Milano non voleva mai
conseguire i suoi fini che per mezzo di raggiri; egli era sma-
nioso e gratuitamente smanioso per gP inganni, e preferì di
mandare in rovina il genero e la figliuola piuttosto che cercare
dMndurre il primo ad accondiscendere a' suoi desiderio Forse
la morte di Nicolò marchese d'Este, accaduta il 26 dicembre
del 1441, contribuì ad intiepidire il Visconti intorno ad on
parentado trattato dal marchese. Nicolò, uno de' più accorti
prìncipi che abbia annoverati T illustre famiglia d'Este, di tanto
credito godeva appo il Visconti che questi lo aveva indotto a
porre la sua stanza in Milano, ove andò di fatto a starsi il 5
aprile 1441, e ve lo avea trattenuto come suo confidente, amico
e consigliere ; onde spargevasi voce che sarebbe stato istituito
erede dei duca. La morte di Nicolò, per la quale gli Stati di
Ferrara e di Modena caddero in successione al suo figliuolo
naturale Lionello, uno de' grandi protettori delle lettere e delle
arti, venne attribuita a veleno datogli, siccome si vuole, da' suoi
emuli nella corte di Milano. Perduto un tanto consigliere, Filippo
accostossi di nuovo a coloro che godevano per lo innanzi il suo
favore, ed in particolare a Nicolò Piccinino; ordinò a questo
generale di assoldare la maggior parte de' corazzieri che i Vene-
ziani aveano licenziati dopo la pace e di avviarsi a Bologna.
Nello stesso tempo scrisse ad Eugenio IV ch'era giunto final-
mente per lui il tempo di ricuperare la Marca d'Ancona, la quale
pentivasi pur tanto di aver data in feudo allo Sforza, e gli offriva
per riconquistaria le truppe del Piccinino, pagate per tutto il
tempo che durerebbe la guerra;;
Pochi mesi prima lo Sforza comandava le truppe della l^a»
— 45S —
^ coi eia pvle anche il papa; dappoi lo Sfona era stato ricnv
Doscioto da Eageoio per arbitro oeir ultimo trattato di pace :
finalmente in qoeslo stesso. ponto egli accorreva in ajnto di uu
alleato della corte di Roma ài già ridotto alle ultime angustie:
ma nò la riconoscenza né i gioramenti potevano tenere a freno
Tàmbizione d'Eugenio. Egli accettò la proposta del duca di
Milaho; consenti senza scrupolo alla rovina di Ranieri « nella
cni salvezza poco prima egli credeva riposta la guarenzia della
indipendenza della santa sede; nominò il Piccinino gonfaloniero
della Chiesa e, senza dichiarazione di guerra, anzi protestando
di volere e bramare la pace, gli dette autorità d* impadronirsi
all'improvviso di Todi e di assediare Assisi.
Lo Sforza, trattenuto nella Marca da cosi inaspettate osti-
lità, abbandonò il progetto di soccorrere la casa d'Angiò. per
far testa al Piccinino. Intanto il caso favoriva Alfonso a Napoli.
Un moratore, cacciato per la fame fuori di Napoli, indicò al re
d'Aragona i giri e T uscita di un acquedotto abbandonato, |)ej
quale Belisario era entrato un tempo nella città. Credevano ((li
assediati bastantemente chiuso quel passo con uno steccato od
avevano trascurato di porre una guardia in quei luoghi umidi
ed oscuri. Il muratore condusse il 2 giugno del 144S dugonto
soldati aragonesi per quell'acquedotto fino ad una torre cui
faceva capo. Nello stesso tempo Alfonso fece dare Tassnllo allo
mura per distrarre gli assediali; e malgrado la valorosa resistenza
di Ranieri, gli Aragonesi entrarono in città per due diverso
parti. È tuttavia probabile ch'ei sarebbero stali respinli so uno
di loro non fosse stato veduto nelle vie di Napoli inonL-ilo sul
cavallo di un corazziere napoletano da lui ucciso. A tale visbi
fu nniversalmente creduto che una porta della città fosse stata
occupata dal nemico, poiché v'era entrata la stessa cavalleria;
ed in allora più non fu possibile di trattenere i Napoletani (latin
fuga. Ranieri, strascinato dai fuggitivi, si chiuse in Castelnuovo;
la città venne saccheggiata per alcuno ore: ma Alfonso essen-
dovi entrato, vi pose buon ordine ed accolse umanamente lultit
gli abitanti. Le fortezze di Capuano e di Capo di Monte si arre-
sero dopo poco giorni, quelle di Castelnuovo e di Sant^Elmor
tennero ancora qualche tempo per Ranieri. Ma questi non vi si*
volle rinchiudere; egli s' imbarcò per recarsi da prima a Firenziv
poi a Marsiglia, ed in sui finire dell'anno, perduta la speniriz;!
di ricuperare il regno di Napoli, fece dare ad Alfonso Ui forto/x^f
cbe tenevano ancora per lui, onde non prolungare irmUlm^'iilo
Tamb. Inquis. Voi. II. y*i
— 454 —
i mali di un popolo che gU aveva mostrato tanto amore e tanta
fedeltà.
Frattanto continnavasi la guerra nella Marca d'Ancona, seb-
bene i Fiorentini, che risgdardavano la salvezza degli Stati del
conte Sforza come la gnarenzia della loro propria in^pendenza.
cercassero» di conserva coi Veneziani, ogni modo per ristabilire
la pace.
Bernardo de'Medici erasi recato in loro nome ai due eser-
citi per essere mecUatore di pace e due volte avea indotto il
pontefice ed il Piccinino ad acconsentirvi. Ma appena lo Sforza,
fidando nei loro giuramenti, prendeva la strada del Tronto per
entrare nel regno di Napoli, il papa o i suoi legati proscic^lie-
vano il Piccinino dair osservanza «dei patti giurati, valradosi
della massima, che nessun trattato svantaggioso atta Chiesa è
valido; e il Piccinino ricominciava la jguerra. La prima volta,
abusando la fidanza dello Sforza, prese con repentino assalto
fa città di TolentiQo, la seconda cinse d'assedio Assisi II si-
gnore della Marca, impedito in tutti i suoi progetti, perdea le
sue truppe alla s[HCCiolata ; tutte le bande comandato dai suoi
capitani o da' suoi fratelli, Giovanni ed Alessandro, erano state
runa dopo Taltra sconfitte. Assisi fu presa, ed.il nemico vi entrò
per un acquedotto, come pochi mesi prima era entrato in Na-
poli. Tre luogotenenti dello Sforza, Manno Barile, Cesare Mar-
tinengo e Vittore Rangone, tenendo le cose sue per di^^rate,
si erano condotti al soldo del re Alfonso. Questi sottomise in
poco tempo tutto ciò che negli Abruzzi ed anche nella Puglia
rimaneva tuttavia fedele a Ranieri ed allo Sforza. Aquila gli
aprì le porte, Manfredonia e Troia si arresero vedendolo muo-
vere alla loro volta, e, prima che Tanno volgesse al termine, Fran-
cesco Sforza più non conservava un solo feudo di quanti suo
padre ne aveva acquistati nel regno di Napoli con tante fatiche
e tante vittorie.
Ben poteva restare a Ranieri d'Angiò qualche speranza di
risalire sul trono di Napoli finché il valoroso condottiero che
teneva per lui era padrone dei paesi degli AbruKzile della Pu-
glia ; m9 la ruina di Francesco Sforza consumava quella degli
Angioini, e Ranieri dovette infatti difierire, fin dopo la morte
del suo avversario, ogni tentativo per rientrare nel regno a cui
credeva di avere incontrastabile diritto. Egli si era tenuto si-
curo dell'alleanza del papa ; i loro trattati erano stati confermati
4la- tutte le dimostrazioni d'amicizia che mai possono darsi i
— 455 —
prìncipi e dalla goarenzia ancora più grande del yicendeyole
vantaggio: e non per tanto Eugenio lY era il vero artefice della
mina dell'Angioino. Assoldando il Piccinino e muovendo guerra
allo Sforza in onta alla giurata pace, Eugenio aveva tronca a
Ranieri la sola speranza di salute che gli rimanesse e toltagli
di capo la corona. Il principe fuggitivo, prima di abbandonare
ritalia, desiderando almeno di rimproverare di. tale perfidia il
suo imprudente alleato, venne per bgnarsene a Firenze, ove
trovava^ in allora la corte pontificia; né gli fu difficile il di-
mostrare ad Eugenio che la guerra mossa contro il suo difen-
sore avea accresciuta la miseria de'suoi fedeli partigiani, che
con Ini sostenevano Tassodio di Napoli. Ha Ranieri, privo di
r^[no e di eserciti, non osò alzare troppo la voce per far le sue
d(^lianze ; si mostrò pago deiraflTetto che tuttavia gli mostrava
la corte pontificia e accettò dal papa con riconoscenza Tinve-
sfitoia éA perduti Stati : perdocchè Eugenio IV, quasi riparare
volasse U commesso errore^ pose in capo a Ranieri, con soLeone
cerimonia ed in nome della Chiesa, la corona del regno nel
punto slesso che questo prindpe era costretto ad abbandonarlo.
CAPITOLO XVIII.
LÌTÌ« Andreani.
Circa jairanno in cui trovasi la nostra storia , istitaitosi
anche in Pisa il tribunale del Sant'Uffizio, si mietOTano vittime
dal medesimo e s'innalzavano roghi al pari che in tutte le altre
città d'Italia ove l'eresia, il sortilegio, la bestemmia, come ab-
biamo veduto, erano perseguitati. Né qui possiamo intralasciare
di rilevare un fatto, non ci essendo possibile dire dettagliata-
mente di tutti, che valga a mostrarci la ferocità colla quale
avviluppossi la nefasta istituzione, vogliam dire la storia della
celebre Livia Andreani e dello sventurato suo marito. Livia da
giovinetta avea impalmato certo Andreani, che non essendo né
sciocco né imbecille, mal tollerava gli abusi che un di più che
l'altro andavansi dal tribunale dell'Inquisizione commettendo;
per il che ne' crocchi cogli amici ne andava biasimando giu-
stamente il rigore, non senza pungere con qualche arguto epi-
gramma od un frate o l'altro che a queir ufficio intendevano.
Non tardarono i frati a risapere i discorsi dell' Andreani,
coi quali talvolta svegliava Y ilarità nelle brigate, e lo fecero a
sé chiamare; ammonitolo a desistere dal più oltre offendere con
indecorose parole la maestà del Sant'Uffizio, lo licenziarono
sotto comminatoria di farlo agguantare dai berrovieri dell'Inqui-
sizione. Ma poco 0 nulla fecero breccia sull'apimo dell' An-
dreani le minacce deir Inquisizione, e continuò nel satirizzare gli
inquisitori ed i preti : mollo più che esisteva in allora uno sci-
sma nella Chiesa, il qual porgeva esca ai malevoli di censurare
la condotta de'pretì, de'cardinali e di tutta la corte pontificia.
Alla morte di Innocenzo VII, radunatisi in conclave i car-
— «r —
dmali, elessero a pain Annto C<nm wtMtHiiNv tm^Kivili^ «
petrìana di Gosluilimpoi. Cntafai qwislì tlten ^tMH'Miii«l
areva opìnioDe di essaen n sant noiDd e dì antica ;!«wità: IMM
aiqieoa insediata linnovò le UVbt prames» di ^MUhm^ a tuli»
per mtftere fine alio sosma che hoerafa la Ctik>isa. K^li aw^
assnoto il nome di Gfte^orio Xn. ed il $Q0 anla|^>nl$ta t^A N«^
nedetto xni. Si ^scrìssero a tìceDda calde esiortationì (W aUti-
care alla sede, onde poscia i dne coll^ dei eardiiKili uuiiM
fra loro avessero a scegliere un papa che Kovenia^so luUa U
Chiesa, e fosse posto fine allo scisma. I deputali cl)e il Vo,uo-^
ziano aveva mandati a Marsiglia» ove risiedeva lieniHk>tli> \Ul
con ini d'accordo scelsero Savona per luogo di convegno a( due
pontefici, ove alla presenta del maggior nmnero dei CAntinali
che postalmente si fossero radunati pronunciare la fonuale
rinuncia. Ma né Funo né Taltro volevano addivenire a «lueaio
ermco atto a vantaggio della Cbiesa; preferivano un poterò di*
mozzato anziché vedersi soggetti. Benedetto orasi recato llu^
a Porto Venere, indi alla Spezia, e Gregorio a Lucca; non gramlo
Stanza quindi li separava, ed i negoziatori fecero ogni Mforiu
per indurii ad un abboccamentOt ma indarno; poicliò HcrlMe
Leonardo e che Tuno come animale acquatico non volua mal
abbandonare il lido, Taltro come animale lurrcatre non Hi volon
avvicinare. •
In questa altalena chi. più comandava erano I canlliiiill dnl-
Tuno e dell'altro partito, i quali tenevano le redini dello coae
della Chiesa ed obbligavano i pontefici a subirò la pro/«/4loiio
della loro volontà. Gregorio, per afforzarsit volle nomlnaro quat-
tro cardinali; gli altri avversavano la nomina» corno alto che
potesse prolungare lo scisma; nacque repetio» e del dodlcJ c/lte
erano radunati in Lucca a far spalla a Gregorio nove al ritira*
roDo in Pisa.
Alla loro venuta il tribunale deirinqui^izione avea »p)e((alo
al masómo rigore per mostrare lo aseio chti nutriva p«;f la niU-
gìoiie, e moltiplicava arresti e tortora. Il gkivlne Awìr4ì»nK ifià
in uggia al Sant'UflBzio, era da quello lentilo a tlata ^1 avM
Mmpre qualcbeduno a'paooì ebe io vigilava; eal^k; d) imtM e
di cuore, non sapea frenare la lìngua e ricad/Je n^i artivl) /M«
rioqoiaizioDe. Quello etie importava agli in^i^iikiri ^n di p^rf^
raeltere iosieiBe qoalclie indizio etia \^ijfnmm ^MtUfH egli d>r^
aia; poiché quasi tutti aAfMh rhn ì$Mùtj^nM fMf «aaa ^ti^ in-
rooo chiaiDali al àattTU&ncr^ laqnfMti, >rilerri>K;Mi. #V/^i u \f4t\n
— 458 —
ddle tortore ohe dovette snbire quel mìsero e ies^i strazi! che
dilaDiaroQO la soa aoima, poiché, tolto aireloqmo d'una sposa
che teoeraneote amaYa, d'una fondoila che abbdli?a la sua
vita, fa martoriato in ogni peggior guisa che i cannibali del«
rinqui^ione sapessero nella raffinata loro cnideUà immaginare
e compiere.
Per rendere più angosciosa la sua situazione, gli umanis-
simi inquisitori pensarono a gettare la taccia d'eresia su Livia»
e detto fatto, mandarono i birri per lei e la fecero sostenere in
carcere. Chi può descrivere le angoscie , i patimenti di quella
innocente nel vedersi priva del loarito e della figlia, che sola
le rimaneva a conforto nelle sciagure che V opprimevano ? Là,
sola, gettata in un'orrida {HlgioM, strema d'ogni consolazione»
d'ogni soccorso, condannala a temere continuamente nuovi spa-
ienti e la notizia di nuovi guai , passava le molto ore nella
preghiera* Ignara della sorto del marito, né potendo nulla sapere
della figlia» oscillava si può dive fra la morte e la vita in ccm-
tinua agonia. La sua angoscia aiàhva un di più che l' altro
aumentando , finché , non reggendole più le fòrze soffrire , la
poveretta infermò e mercé calde lagrime e ferventi pveghi^fe
ottenne di abbracciare quasi dal letto di morte la figlia.
lì Sant' Uffizio, non per sentimento di accondiscendere ad
una giusta preghiera, ma per le sue viste, acconsenti a permet-
tere che fo^ nella prigione visitata dalle figlia. Nel medesimo
tempo incarìeé un padre inquisitore a presenziare quel collo «
quio e trarre profitto dell'emozione materna per indurla a de-
porre qualche cosa contro il marito.
Fu introdotta la figlia, la quale, inginocchiatasi accanto al
letto, tergeva le lagrime materne ehe in copia cadevano sulle
nere sue trecce. Quando il padre inquisitore vide che V emo-
zione di Livia era al colmo, colla destrezza di consumato cac-
ciatore lanciò il veltro.
e Livia, sta in voi far cessare tutto questo cordoglio ; dite
la verità: vostro marito non crede nò in Dio, né nella Vergine,
né nei santi, e dispreeza la religione, è vero T i
• No ho risposto fra i tormenti della tortura, no vi rispondo
ora fra i tormenti dell'animo, che sono ancora più crudeK. >
e Ma se gli alitri dicono diversamente! ftista, io adesso vi
parto non come giudice, ma come amico che vorrebbe vedervi
libera, sana, felice. >
• Ve ne ringrazio; ma io non posso dire altrimenti da
quello che ho detto. >
l'iBfais'i/iit de eefm
'/frf /ina .^A^eam a it^mv
y
o
a
ci
Q
•fi
1
1;
€ Sa dMe h Tenta» tì pnmMto di hscter teaire gol totti
{iorni lostn figfia e, qaùào sarete in caso, di lastiarri an^
re lìbera eoo kL >
. e Ma la tenta Mio sempre detta; noo sono buona » io» a
* bogie ; noo so cosa sia la meniogoa^ le {larìo come pa^
(Si al SgDore od al coofessore. »
Il frate qQantaDqae inquisitore non era un tigre ; meno
ITO di cuore degli altri, si era investito (tei dolore e dell'an^
•sda (fi liTia, e dair ingenuità del volto credette a quella del
lore, e raccomandolla alla moglie del carceriere, cbe si trovava
esente a quel colloquio, dicendo:
e NoD manchi nulla a questa poveretta; lasciala in corn*
igDia di sua figlia quanto più si può per i nostri regolamenti,
quando vuol venire fammelo sapere, che le otterrò sempre 11
annesso. ■
La povera Livia porgeva col capo ringraziamenti al frate
le se ne andava mostrandosi un cotal poco mesto in volto .
irbotlando fra i denti: < Ma sicuro che sa niente quella pe-
ra donna , sicuro. » Presentatosi al capo inquisitore , fece
nuina relazione, conchiudendo colle parole che andava dicendo
I sé e sé nel tcfrnare dalla prigione.
Bla la conclusione di frate Agostino d* Arezzo, che per una
*ana combinazione da dignitario ch'era nel capitolo del duomo
Irezzo erasi fatto frate francescano, di quelli ohe portavano
barba, ed al suo turno doveva prestar mano ai processi del-
[i(]uisizione, ma lo faceva contr'animo, era nato per Tozlo dei
iostrì , ma non per tormentare il prossimo , a dllTerenza di
Iti altri che non ponno vivere senza far male ai loro slmili;
di lui conclusione, diciamo» a nulla valse.
L'ln(iuisizione voleva punire, cioét per meglio dire» voleva
Qdicarsi delle ingiurìe deirAndreani, e facile era al SanrUf-
io a spacciare per Taltro mondo un uomo cbe avea avuta la
3Dtura di chiamarsi addosso il suo sdegno.
In pochi giorni il povero Andreani fu sentenzialo e eonse*
ato al braccio secolare, e la moglie sua, dopo di aver lan*
ito in carcere, fu liberata, ed allora solamente seppe di etmr
leva. Cosi i cardinali radunati in Fisa, fra i noolli divertimenti,
bero anche quello di aaristere al supplizio di un uofno inan-
io aUa morte per solo sentimento di vendetta.
CAPITOLO XIX.
Basilio OrdeUffi e sua figlia.
Quasi contemporaneamente, altri roghi s'accendono in Roma.
Ladislao re di Napoli aveva intrapreso di sottomettere coU*armi
gii Stati della Gtiiesa : si era mosso contro Roma e vi si mise
a campo con dodicimila uomini di cavalleria e con altrettanta
fanteria ; nello stesso tempo mandò qaattro galere ad occapare
la foce del Tevere perchè i Romani non potessero avere le vet-
tovaglie dalla parte di mare: espugnò Ostia malgrado la ga-
gliarda resistenza oppostagli. Pochi giorni dopo la presa d' 0-
stia Paolo Orsini , che aveva il comando in Roma, apri a tra-
dimento una porta alFesercito dei re. Allora, ma allora soltanto,
i cittadini si disposero alla resa , ed erano pronti ad accettare
quella capitolazione che loro offriva il nemico già entrato nelle
mura.
Innocenzo VII era fuggito a Viterbo, ed i Romani, esortati
da certo Basilio , uomo che sul popolo aveva grande ascen-
dente, accusarono i Solonna ed i Savelli d'aver tradita la pa-
tria, come coloro che aveano chiamato Ladislao, ed altamente
manifestarono la loro avversione al giogo de'Napoletani. Avendo
Basilio ricusato ostinatamente di ricevere in sua casa i soldati
che vi doveano avere ralloggiamento, e volendo questi entrarvi
a viva forza, prima i vicini, poi tutti i Romani presero le sue
difese. Cominciò allora fra 'i Romani ed i Napoletani un'acca-
nita zuffa che sì protrasse Qno a notte ; ma inline Ladislao do-
^m^M^sMi/cfm/vrew^e/fCfhfff//aéreha/i^ff
y
— Ul-
te oscife di Roma, ed altro noD potendo fare» mandò ad ap-
care il fuoco in quattro diversi quartieri (I).
L'attentato di Ladislao per impadronirsi di Roma riusci van-
gioso ad Innocenzo VII. 1 Romani si rappattumarono con lui
;Ii mandarono ambasciatori clie lo indussero a ritornare in
ma, ove mori pochi mesi dopo.
Là morte d'Innocenzo accrebbe Tira dei Colonna e dei Sa-
li, e con quella la libidine di vendetta contro i capi della
Bilione mercè la quale fu obbligato Ladislao a ritirarsi da
na. Basilio degli Ordelaffi, che era stato il primo ad opporsi,
segnato come vittima principale. Non volendo ricorrere a
ui secondari, ebbero scelto quello di farlo perire per mezzo
r Inquisizione.
Potenti famiglie com' erano, trovarono prontissimo il San-
ffizio ad assecondarle nei loro desiderii di sangue. Basilio fu
)rigionato qual eret»co e bestemmiatore , e Io furono pure
1 due suoi compagni, chiamati uno il Merenda, Taltro Mat-
, popolani entrambi.
Non appena Basilio degli OrdelafQ era stato rinchiuso nelle
;ioni del Sant'Uffizio, corse per Roma un gran rumore e
gno nel popolo , e tutti si guardarono in volto e parevan
i : Bisogna liberarlo. Ma chi più vegliava alla sua sorte era
figlia Gemma, unica figlia e dotata di quel coraggio che
I tanto in cuore d'animosa donna che non s'arresta innanzi
pericoli né alle minacce. Ella con Toro e con l'aderenze
rò modo di sedurre il carceriere, il quale essendo anch'egli
) di coloro che amavano Basilio perchè soccorritore del po-
), si lasciò facilmente persuadere dalle preghiere e dai doni
Somma ad introdurla in prigione a favellare col padre,
indo Basilio udì la parola fuggire provò un senso molesto,
^hè non solea mai fuggire innanzi ai pericoli. Ma Gemma
si gettò ai piedi e lo supplicò con tanto fervore che, sciolte
^lene, ed avvolto in un mantello che il carceriere tenea
nto, potè ingannare le guardie e porsi in salvo.
Ma cosi non fu di Merenda e di Matteo, contro i quali si
;ò Tira degli inquisitori, anche per la mancata vendetta con-
Basilio.
Non vi fu tormento al quale non fossero assoggettati , e
(!) Pietro Minerbetti. -r Diario della città di Roma dì Stefano Infes-
a. Gian none, Istoria di Napoli,
Tamb. Inquii. Voi. II. ^6
^
— 4M —
dopo d'essere stati estenuati dai dolori e dagli spasimi, fu loi
lotta la sentenza di morte cosi concepita :
Al nome di Dio. Amen.
Noi frate Accursio di Firenze, dell'ordine de'frati predicatori«=-
per autorità apostolica inquisitore della eretica pravità nella^
provincia di Roma, facciamo noto a tutti, mentre facevamo ìM
Bostro ufficio commessoci daiPInquisizione, per fama pubblicarsi
anzi piuttosto infamia, e per fede di molti uomini degni» ch^
ad una voce hanno riferito con giuramento siccome Merenda c^
Matteo di Prosinone e Basilio Ordelaffi di Roma, in mina loro^
e degli altri e pericolo non piccolo delle anime, spargevan(^
molte e diverse eresie in questa città di Roma : onde; non vo —
lendo noi mancare al nostro dovere, ed a norma deirobbligc^
nostro di rintracciare la verità, li abbiamo ritrovati, per asser-
zione di testimoni degni di fede, pieni di contumelie, scandalm
e mormorazioni, e non conformi ai vero ; perciò li abbiamo fatti
condurre alla nostra presenza, e costituiti avanti a noi, pigliammo
da loro il giuramento corporale di dire la verità, tanto riguardo ^
a sé stessi come agli altri, ed avendo confessate tutte le colpe
che loro vennero apposte ed assegnate, dette e fatte in disprezzo
della fede ortodossa, chiamato monsignore conte d'Àgubbio ret-
tore della chiesa di S. Giovanni Laterano, monsignore France-
sco per la grazia di Dio vicario generale, di molte altre persone
onorale e dottori di legge, per consultare con matura delibe-
razione e considerazione, invocata la grazia di Dìo e dello Spi-
rito Santo, sedendo prò tribunali di consenso dei venerandi
suddetti signori, pronunziamo e dichiariamo i predetti Basilio
degli Ordelaffi, Merenda e Matteo di Fresinone, eretici costituiti
innanzi a noi, il primo condannato in contumacia, gli altri qui
presenti, e per questo doversi consegnare al braccio secolare ;
e perciò li rilasciamo in potere del signor Jacopo di Cesena
vicario presente e recipiente perchè li faccia punire nelle debite
forme siccome eretici incorreggibili. Le loro case saranno ade-
guate al suolo per lasciare memoria deirinfamia loro.
Matteo e Merenda furono abbruciati, e le loro case atter-
rate; sulFuna fu ^innalzata la casa che abitò Salvator Rosa , e
suirallra quella che a sé stesso adattò Michel Angelo quando
dimorava in Roma.
->^?ttììftMlÌiitiV>'itiÌli
Casa ili Salvator itosu.
Casa di Michelangelo a Roma. .
• (
CAPITOLO XXX-
old V ponUfieo e la oottf iora di Stefliao Porcari.
quiodicesimo secolo la storia politica deiritalla prtienl»
iviglioso cootraposto colla sua storia letteraria ; iropir*
. mentre ogni giorno s'andava sempre più accostando
ina della libertà qnella pure dei costumit deirenernla o
Tirib pubblica e privata, vedevasl* per lo contrariOi M«
crescere il fervore della poesia ed una tale ammirazione
iquenza ed in particolare per rerudizione che sembrava
alcun che di pib nobile e di pib elevato nel carattere
Io. Ad ogni modo, se affisiamo un po' a lungo gli sguardi
celebri letteratt che fiorirono in quest^epoeei benché ne
I stupire della loro laboriosa attivili, ed essere loro rl«
iti pei capo^lavori deirantiehili ch'essi ci ecMir^ÈfOfU)
lelli de* moderni tempi ofuTessl prepararono il fiasci'
rawisbmo tuttavìa nel loro carattere e nel loro spirilo
i del disordinameolo sodale, e rieooosetomo la ragkiM
nulla poievasi sperare da essi che fosse ékupo di qné
be erano robbìeilo deUa loro aaraiimiooe. In kUk I
i de'lomi od qnodicesiaio secolo non erMo reflrtlo
irefiflaenlo ddb o»iobe italica oelb via deHlMlvItt'
le opere &n Gmìti, én%Và, ékfTiéM, éif9^ •
li DQB eratto il ftodollo Arila Mtmàmitt Mh wmétà^
detta \mn99mutkmt degfi IlaKaai, m é éMemdiml»
ÌMftJffcfftt ffcf iMa twtm wféukttÈé aàk Ue^tn méèmUl
— 444 —
e di leggi poetiche ch'erano state concepite per altre nazioni,
per altre lingue, per altri costumi; deirassoluta preferenza che
davasi alla memoria sopra tutte le altre facoltà della mente
umana , e infine del servile assoggettamento del gusto indivi-
duale ai modelli ed airautorità letteraria. Forse questo assolato
sbandimento delle naturali e vere impressioni, de' pensieri ori-
ginali, del gusto particolare d'ogni individuo in una nuova na-
zione fu di maggior danno alle lettere in Italia ed in tutta
l'Europa che non siano stati loro di vantaggio i modelli greci
6 romani con tutta la loro sublime bellezza. Ma sopratutto nella
politica del secolo vedremo come sia stato servile il carattere
che , colpa quella smaniosa brama d' erudizione, contrasse il
pensiero. Il nostro ufficio di storici ne conduce a cercare quali
fossero le pubbliche virtù degli scrittori del quindicesimo se-
colo, e noi li troviamo privi d'ogni altezza d'animo, di nobiltà,
d'amore di patria, di sentimenti politici.
Le repubbliche ed i piccioli principati ebbero del pari ìq
qnel tempo dei filologi; ma la sola Firenze, che aveva un Leo-
nardo Bruno, un Poggio, un Ambrogio Camaldolese, un Manup-
pini, portava certamente la palma sopra tutte le altre contratte.
Ora, sebbene tre di que' dotti siano stati un dopo l'altro can-
cellieri della Repubblica, non troviamo ch'essi godessero nello
Stato tu un credito proporzionato agli ampi loro studi, nò cbe
abbiano adoperato utilmente in prò della patria il sommo loro
ingegno, o introdotto ne' consigli e nel foro una forte e per-
suasiva eloquenza, o rinnovellato con alcuna virtù o tratto de-
gno degli antichi quell'antichità ch'ei volevano in ogni modo
imitare.
La venuta a Firenze dell'imperatore Federico IH pose al
cimento l'ingegno di questi pretesi oratori e politici. Cario Mar-
zuppini, ch'era succeduto a Leonardo Bruno d'Arezzo nell'offl-
ciò di segretario della Repubblica, venne incaricato d'arringar
l'imperatore. La sua diceria era in lingua latina, ed ei la dettava
in due giorni; la sacra e la profana erudizione onde l'aveva ab-
bellita, la leggiadria dello stile, mossero a grande ammirazione
gli uditori. Ma né i consigli né lo stesso oratore avevano pare
pensato allo scopo politico di quella cerimoniosa arringa. L'irn-
peratore fece rispondere al Marzuppini dal suo segretario, Enea
Silvio Piccolomini , che fu poi Pio II. Questi , ben più politico
che filologo e assuefattosi nelle discussioni del consiglio di Ba-
silea a parlare con una qualche mira determinata , fece nella
ubobì ohe lic^iaK^iiD» nu- refibci: mi lì Mm^^^d^ okf
DOD li a cn iiitpwe^chiftUi. ziun se{^ Arf pwv^Jt. ^ i«^n«i«'«Mi
Manetti fa lidbiesio dì hs;i»DteTi per tnuw ^^irimpMV^^ il
MarzoppioL
Questi eixiliti. cbe oca saperftDO nKVwmiv aUiv kW cIi^
quelle impinle iii^fi antichi schiloh ^ di^ \>»rijin*K^ |H)r x^^^w^
pre d'eioqiieDu. lasciaroiKi il loro seicok^ c^vù elenio i>^if^ i\V)i(^
di qoeirarle oratoria cbe pone avivlU^ ^knato ^$(TciUr^ (jinli^
imperio nelle repubbliche, questi eruditi tfano uhv^ W\\ |mù
daUa ?anità che dairamone della gloria. dalU cu(Md)^.i cho «laU
rauibizione, e preferìiano le corti de* principi, nollo qu.ili r<Hru*
dizione teorica era venuta in ma^or coutil che ui soi^^niA ap-
^cata. Nelle repubbliche e* si vedevano avviliti, qualunque v\>lla
venivano paragonati a magistrati di fermo caMtton\ di chiara a
giudiziosa mente, quali erano un Neri CiH^poni, un Mano do|tU
Albizzi 0 un Cosimo de' Medici; i quali, sebbene tKnoMMstOh^ lo
tleganze del parlare latino e Parte di prenderò a prenttlo daitlt
antichi dei falsi ornamenti, pure sapevaiìo muovore iili iintnU
colla forza dei loro pensieri. Ei si trovavano In mlKlIori m\\\\\
presso d'un Alfonso, d'uno Sforza, d'un (ìonzag», ìVìììì Um\\\om
d'Este, di UD Montefeltro; la loro vita ora totalniiHilo couNnoraiu
ad un genere d'erudizione che non poteva Adombrare II più no»
spettoso principe né turbarne lo Stalo. Quaiureni loro iirilitatA
alcuna pubblica incumbenza, non ricliieduvasl olio li; loro dico-
rie di cerimonia fossero dettale dairinlerno l(»ro coiivlncliniinlo;
perciò, essi giustiQcavano senza scrupolo qiioKll aIU Uniniilnl
cui non avevano preso parte. Lo Incuiiibenzc loro non orano
quelle di scrutare o di giudicare le azioni • ma di volarlo oon
belle frasi ciceroniane ; essi erano adoperali non VAum piihhllr/l
magistrati, ma come relori; non hi pren<lovano tirlff» nò doIlM
verità de' loro pensieri né della reltiliidiiio doi loro huu\ì%U ìm
soltanto del loro stile; e quando avevano ropportiinilA di mmU)
nere il prò ed il contro d'una qualaiv^iglia pro|iOKlM, di parlerò
ad un tempo in due oppristi sensi , qnfmVhnt iH}r e»4i do^piff
gloria, conciossiacbè avevano mu ciò fttjPM%\um di mrnU^m in
tutto il suo lume il loro meni// d'oral/>re e di ^f\\%U.
Per avere in tal mo>Jo separala ia aecMoz» &4tì4Uow^ l>|/;
quenza dalla politica, lo Uiie dal peosM^o, nU ^,fwUU ^M /|riin
dicesìmo secolo non procuraron/i ai leropi in tm WtmvHVf uh
maggiori virth pobbtiche iih uwni ìfUM ihUfttiff aK^^ ì^mr//\
— 446-
relative al governo della civile società. Non pertanto alcuni Ai
loro s'innalzarono alle più sublimi cariche delia repubblica cri-
stiana. Uno dei pib illustri ad un tempo e dei più fortunatr
fra codesti letterati fu forse quel Tomaso Sarzana che sotto it
nome di Nicolò V occupò la cattedra pontificia nel periodo di
tempo da noi discorso. Protettore zelante degli eruditi , a' cui
lavori aveva avuta tanta parte , splendido rimuneratore delle
belle arti, delle quali moltiplicò in Roma ì capolavori, non si
mostrò egualmente favorevole alle opinioni liberali come alle
arti liberali. Egli aveva contratta nella intrinsechezza dei clienti
e dei creati di Cosimo de'Medici queirindifferenza di animo
per la libertà che avviliva i loro animi, e bruttò li regno
mandando al patibolo V ultimo de' Romani dei tempi di mezzo
e reprimendo Y ultimo sforzo fatto per rialzare la libertà di
Roma.
Nicolò, chiamato al fonte battesimale col nome di Tomaso,
era nato nel 1308 di un Bartolomeo Parentucelli, medico pisano
ammogliatosi a Sarzana. Aveva ricevuto i minori ordini in età
di dieci anni, poi era statò mandato a Bologna a continuare
gli studi. Essendo egli aflatto povero, era stato poscia costretto
ad abbandonare quella università dai diciotto fino ai ventidue
anni, onde venire a Firenze a tenere scuola ai figliuoli di Ri*
naldo degli Albizzi e di Palla Strozzi. Tornato poscia a Bologna,
si acconciò a' servigi del cardinale Nicola Albergati, che il fece
suo maggiordomo. Tomaso accompagnò il cardinale da princi*
pio a Roma, poi nelle sue legazioni in Francia, in Inghilterra,
in Germania, facendola per lui, per lo spazio di venf anni, da
economo, da segretario e da medico. Avendolo l'Alberga ti ricon-
dotto a Firenze presso Eugenio IV, ebbe Tomaso opportunità di
stringere amicizia coi più illustri letterati che ivi dimoravano,
quali erano Leonardo Bruno di Arezzo , Giannozzo Manetti ,
Poggio Bracciolini, Carlo Marzuppini, Giovanni Aurispa, Gua-
sparri di Bologna ed altri molti. Usavano questi di adunarsi
ogni mattina in un canto del palazzo e di disputare, sola ma-
niera in allora praticata dai dotti per far mostra del loro in-
gegno. Poiché Tomaso aveva accompagnato a palazzo il padrone,
ei raggiugneva la dotta brigata, vestito d'una semplice tonaca
turchina ed in berretto da prete: e prendeva caldamente parte
nella disputa.
II nostro Tomaso di Sarzana aveva di già dato a cono-
scere di essere assai versato nella lettura e nello studio degh
aotori dumo, aTendooe aniochiti con pndìtioM noie i qmikv
KrittL eopbti di suo pugno: pertiò qorado Qosiiio te' Malici
ebbe collocala nel oonfento di San Marco la colleiione dai
manoscritti di Nicolò Nicoli, chiese a Tomaso istraiioni intomo
al modo di distriboire ona biblioteca, intomo alle ditisioiii dri
libri ed aUa fòraiaaiooe dei catalogo. La scrittnra dettata per
eoddisfare a tali inchieste non serri soltanto di noraia per la
<fistribnzione della biblioteca di San Marte, ma inoltre per
quelle della badia a Fiesole, del conte di Montefeltro ad Urbino
e di Alessandro Sforea a Pesaro* Il cardinale Albergati ateta
generosamente provreduto al sostentamento di Tomaso, proou-
randogli due beneficiì semplici, nno dei quali gli frutUiva tre*
cento scodi, e morendo gli aTe?a lasciato molti avori. Ma Ja
liberalità di Tomaso e più ancora le sue spese in libri od in
salari d'amanuensi superavano di mollo le sue entrate. Do|M)
la morte del cardinale Albergati, Eugenio iv lo chiamava a corte
col titolo di vice-cameriere apostolico e manihvalo di nuovo
in Germania col cardinale di Sant'Angelo per indurre i Tede-
sctìi a rinunciare alla loro neutralità tra il concilio di llaslloa
e la corte di Roma. Al ritorno da questa ambasciata lo foce
vescovo di Bologna e poi cardinale nell' anno medesimo , che
non dovea volgere a termine prima che il nuovo prelato salisse
sulla cattedra di san Pietro.
Eugenio IV essendo morto il 23 febbraio del 1447» vonnoro
consacrati nove giorni alle pompe funebri prima che I cardinali
entrassero in conclave. Durante quest'interregno, Alfonso acco-
stossi a Roma e si pose di stanza a Tivoli per avvalorare il
proprio partito. Tutti i baroni romani cercavano di far valore I
loro diritti durante il conclave : infra gli altri ilattlsta Savolll
pretendeva di avere quello di custodirne le chiavi ; ma i cardi-
nali non vollero riconoscerio. D' altra parte il concilio della
città di Roma, adunato nella chiesa d'Araceli rivendicava I pri-
vilegi del popolo, i quali erano pure stati recentemente da mm
esercitati. Fu propriamente in questo consiglio che SUifano
l^orcari, gentiluomo romano d'incontaminata ripiitazionOt comln-
tiò ad acquistarsi nome. Il defunto ponteflce avea indispettiti i
liomani colla sua incostanza e col disprezzo di tutte le Uìimi :
la tirannide del patriarca Vitelieschit che fu lungo tem|Ni il miio
Dia accetto ministro , lo aveva fatto abborrìre. Il Porcari , che
spirava alla libertà e che voleva imitare le virtù «leirantuvi
toma più che il suo idioma , esorlA i cittadini adunati ad ap-
— 448-
proflUare di quest'unica circostanza per dare più stabile (orma
allo Slato. « Non hawi >, diceva egli, e in tutti gli Stati della
Chiesa cosi piccola e mìsera città che non abbia leggi e sta*
tuli, e che, pagando un tributo, non goda della sua liberti:
dovrà la sola Roma essere priva d'un vantaggio che a tutte le
città è comune? Non si trova cosi piccola e misera terra la
quale, allorché la morte scende a liberarla dal suo tiranno,
non approfltti deir interregno per ricuperare i suoi diritti o
almeno per porre un limite alle prerogative de'saoi oppressori;
alla sola Roma mancherà V energia che hanno i pia miseri ed
ignoranti popoli ? i Ma l'arcivescovo di Benevento, che presie-
deva a quesl' assemblea , vietò al Porcari di continuare la sua
arringa e lo denunciò in appresso ai nuovo papa come uà
uomo pericoloso.
I cardinali che entrarono in conclave nella chiesa di Santa
Maria sopra Minerva erano diciolto. Voleavi pertanto per l'ele-
zione del papa l' unione di dodici voci. Il cardinale Prospero
Colonna in due scrutinii , tenuti in diversi giorni , ebbe solo
dieci suffragi; gli nitri erano divisi, ed appena si accennava a
Tomaso di Sarzana. Dopo il secondo scrutinio il cardinale di
Moriana alzossi e disse :
e Miei padri, io' vi scongiuro a non perdere il tempo:
nulla può riuscire più pericoloso alla Chiesa che i nostri indugi.
Roma è agitata; il re d'Aragona è qui alle porte; Amedeo di
Savoia ci tende insidie ; il conte Francesco Sforza è in goerra
con noi; qoi rinchiusi, noi soffriamo mille disagi: affrettiamoci
adunque ad eleggere un pontefice. Eccovi un angelo di Dio,
un mite agnello, il cardinale Colonna, che di già ebbe dieci
suffragi: non gliene mancano che due; un solo di voi alzi e
gli dia il suo , e la cosa sarà falla , che non gli mancherà
un'altra voce. »
A tali parole tutti rimasero immobili; finalmente akossi
Tomaso di Sarzana e si mosse per dare la sua voce al Colonna:
ma il cardinale di Taranto, Iratlenendolo per la veste, scongin-
rollo ad aspettare ancora , a pensare all' importanza di quella
elezione , a rammentarsi che , nominando un papa , creavnsi
pressoché un Dio sulla terra, un uomo che avrebbe la poJesIà
di legare e di sciogliere, d'aprire e di chiudere il cielo ; laonde
la scella richiedeva mature considerazioni.
« Tutti questi indugi (ripigliò il cardinale d'Aquìlea) non
sono chiesti se non per impedire reiezione di Prospero Colonna;
ora dimmi tu stesso, quale papa vorresti fare ? •
- 419 —
-. 11 canlioale di Bologna , Tomaso di Sarzana b rispose il
rdinale di Taranto.
e Piace a me pure i, rispose quello di Morianìi, egli altri
roDO subito dello stesso parere : onde Tomaso ebbe in un
timo dodici suffragi favorevoli. Questa elezione fu fatta il 0
arzo del 1447; e Prospero Golonna, decano del sacro coUe-
0, annunziò subito al popola adonato che il papa era stato
etto.
Il nuovo pontefice, spalleggiato dair imperatore, dal re di
*aocia e dal proprio nome, potè in aprile del 1449 f»r ces-
re io scisma causato dal concilio di Basilea e indurre Felice V
deporre la tiara. Amedeo di Savoia ripigliò Tantico suo nome,
a venne dalla corte di Roma riconosciuto come cardinale e
gato delia santa sede in Germania, e tutti i cardinali da lui
eati furono ammessi nel sacro collegio.
Agli studi deirantica letteratura fu bentosto di gran giova-
ento Fesaltazione del più zelante suo ammiratore. Egli chiamò
ta sua corte gran numero di amanuensi e di traduttori dal
eco e dal latino. Mandò dei dotti in traccia di manoscritti»
li facea comperare per conto suo in ogni parte dell' Italia ,
dia Germania , dell' Inghilterra, della Grecia e del Levante,
ronque insomma ne trovava. Negli otto anni del suo regno
irono tradotti in latino più autori greci che non eransene
adotti in cinque secoli prima di lui e sotto cento altri papi,
rabone, Tucidide, Polibio, Diodoro, Appiano, Filone ebreo
mnero sotto il regno di Nicolò V letti da coloro che non
pevano di greco. Molte opere di Platone, d'Aristotile, di Teo-
asto si aggiunsero a quelle che già si aveano. 1 padri ed i
ologi dei primi secoli della Chiesa non furono dimonticati, e
volgarizzarono le opere di Eusebio di Cesarea, di Dionigi
Areopagita, di Basilio, di Gregorio Nazianzeno, di Giovanni
rìsostomo, di Cirillo: nello stesso tempo si studiarono con
"dorè le lingue orientali, e Giannozzo Manetli venne incari «
ito egli stesso dal pontefice di fare una traduzione della
icra Scrittura sul testo ebraico, lavoro rimasto imperfetto per
morte di Nicolò V. Questi non era meno sollecito dei pro-
'essi dell' erudizione che di quelli dell' architettura. In tutte
1 città de' suoi Slati riparò o edificò chiese ; ingrandi, adornò
cinse di sontuosi edifici le pubbliche piazze e rialzò le mura
strutte.
Assisi, Civitavecchia, Civita -Castellana vanno a Nicolò V
Tamb. Inquix, Voi. II. fi7
— 430 —
debitrici di monameDti per quelle piccole città maravigliosi. Fab-
bricò magnifici palazzi in Orvieto ed in Spoleto, eresse in Viterbo
bagni per gli infermi, degni di ricevere non solo private per-
sone, ma prìncipi. Intorno alla stessa Roma rialzò le mora mezzo
diroccate, ristaarò la maggior parte delle chiese, che di quei
tempi erano quaranta, e pose cura particolarmente alle sette
principali basiliche. Quella di San Pietro in Vaticano cadeva in
ruina; Nicolò vi fece incominciaror coi disegni di Bernardo Ro-
sellini e di Giovanni Battista Alberti, una nuova tribuna pib
ampia delPantica. Egli voleva innalzare nella capitale de'cristiani
un tempio la cui magnificenza non avesse esempio: di già n'erano
gettati i vasti fondamenti; ma i murì non giugnevano ancora a
tre cubiti d'altezza sopra il suolo quando la morte di Nicolò V
fece sospendere il maraviglioso edificio, al quale non si pose
mano di nuovo se non mezzo secolo dopo, per comando di
Giulio U, coiropera di Bramante. Egli fu per supplire a queste
regie spese che Nicolò bandi nel 1480 il giubileo: con questo
egli riempi gli scrigni della Chiesa e depositò in pochi giorni
ue'forzierì dei Medici, banchieri della santa sede, parecchie cen-
tinaia di migliaia di fiorini.
Nicolò V soddisfece pure al suo amore delle arti belle fon-
dando la biblioteca del Vaticano; egli adunò cinquemila volumi
in quel palazzo pontificio, ed allora non credevasi che dopo i
tempi di Tolomeo vi fosse stata altra biblioteca pib copiosa di
libri. I dotti, cui avevala destinata e coi quali viveva alla dime-
stica, lo amavano teneramente e lo apprezzavano e rispettavano.
Pare che Nicolò V fosse uomo d'indole faceta, semplice, inge-
nua. Come il Vespasiano andò a trovarlo dopo Tesaltazione sua,
ei gli disse sorridendo: t Ebbene, i vostri concittadini di Fi-
renze avrebbero essi mai creduto che un povero prete, fatto
per suonare le campane, fosse eietto pontefice? » 11 Vespa-
siano rispose che quel popolo, che lo conosceva, erasene ralle-
grato, perchè da lui sperava la pace; ed il papa replicò subito
che, se Dio gli dava grazia di soddisfare il suo desiderio, al-
tr'arme mai non adoprerebbe in sua difesa che la croce di
Gesù Cristo.
In fatti né Tambizione di accrescere il dominio papale, né
meno quella di rendere potente la sua famiglia potevano tanto
siilfanimo di Nicolò V da indurlo a trascurare i suoi doveri di
comune pastore dei fedeli. Ma nella sua amministrazione tem-
porale, che era per lui cosa di non mollo rilievo, mal soppor-
— 451 —
ta¥i che altri gli si opponesse. Le richieste de^snoi sudditi per
riavere i loro prifilegi gli facefano perdere, a parer sqo, quel
tempo ch'egti avrdiibe dorato coosacrare alla Chiesa, alle lettere
ed alle arti; ood'egli se ne sbrigava con sollecite decisioni:
d'altra parte, avendo egli vissoto tanti anni nelP altrui dipen*
denia,. non conosceva che gli offici di padrone e di servitore, e
diiedeva quellMIIimitata ubbidienza che egli aveva tanto tempo
prestata ad altri. I magistrati romani rìsguardavansi pnr sempre
come rappresentanti del popolo e della repubblica, ed egli vo-
leva ridurli alla condizione di suoi commissari. Il Porcari, che
di buon'ora aveva manifestato il suo amose di libertà, che coi
suoi discorsi cercava sempre di tener viva nel popolo queiran-
tica fiamma, era in particolar modo sospetto al papa. Ciò non
impedì che egli fosse nominato podestà d'Anagni; ma questa
carica veniva probabilmente conferita dalla città stessa, e non
dal papa, a seconda di quanto costumavasi universalmente in
Italia. Venuto a termine il tempo della sua carica, il Porcari
tomossene a Roma e non perdette di vista il suo costante pro-
getto di rendere la libertà a'suoi concittadini. Un tumulto de-
statosi in occasione dei giuochi di Piazza Navona parvegli una
propizia occasione di tentare alcun che; ed essendosi scagliato
tropp'oltre in questa circostanza, venne esigliato a Bologna, con
ordine di presentarsi ogni giorno al cardinal Bessarione, allori
governatore di quella città.
Fu in tempo di quesfesilio che Stefano Porcari maturò 11
progetto di fare scuotere a'suoi concittadini un giogo ch'essi
risguardavano aome ignominioso. Il governo era oramai tutto
tra le mani degli ecclesiastici; uomini per la maggior parte di
oscuri natali, forestieri ed esaltatisi colle brighe ad una potenza
di cui non gli aveva fatti degni la loro educazione. I Romani
si vergognavano di dovere ubbidire a tal fatta di gente ; essi
riguardavano come una usurpazione il potere dei papi, il quale
tei suoi principii, nato dal decadimento della podestà imperiale,
era Stato limitato da quello dei caporioni, veri rappresentanti
delk) stato, ed in appresso aveva fatto luogo al governo repub-
blicano, dorato in vigore fin tanto che la corte pontiflcia era
rimasta in Avignone e che avea durato lo scisma. La tempo-
rale autorità dei pontefici, ristabilita da Martino V nel 1420,
appena era stata riconosciuta per quindici anni di seguilo. Eu-
genio IV ne fu nuovamente spogliato nel 4434 e costretto nd
irsene in bando da Roma, in cui i legittimi magistrati non volo-
— la —
Tano concedergli la diinora a cagioDe ddle soe prepolniK. Ikifo
la sua tornata, ì sooi cootinoi abusi di [NMane, le sangomose
esecQtioni non precedute da repotare ginfizio , le guerre e le
rìbeliioQì sempre rinascenti nelle ficinanie <fi Roon aveiaiu
«lato pQr troppo a conoscere che il goTemo de^prelati aceopfÉaia
tutti i Tilt deiranarchia a qoelH della podestà arbitraria. Salto
il goremo di Niccolò medesimo il malcontento erasi accresdnto
:i disroisora tanto nella nobiltà che nel popolo. Egli é fero che
Nicolò proteggeTa le arti e le lettere : ma questa protetioDe
•leT'essere pei goTemo nna cara secondaria, e qnello slesao papa
ohe ristaoraTa i manoscritti e gli eififlci deir antichità polm
(;ire , siccome facera , mal goremo de* Romani. 1 prelati erano
violi dairebhrezza del potere» dal losso, dalle rkcheme. da talti
( Tizi de' prìncipi: vìzi in essi tanto pia odiosi in qoanlo che it
loro ministero imponeva ad essi il dovere di serbare no tà
ijnale contegno ed onestà di vita di cai ninno di essi dava
l'esempio.
A qnesU motivi , che incoravano il Porcari a
il suo intraprendimento . on altro degno di
aggiange il Machiavelli* che ci fa conoscere le opinioni dei se
colo. 11 Porcari leggeva sempre con .trasporto la canzone del
Petrarca:
Spirto geatìl che quelle membra regfi;
neila quale Taotica capitale del mondo viene chiamata dal (tteCi
:i Duova libertà. Non solamente quella sublime poesia ene^
irgomento che io <^dì tempo gli alti animi si erano profosto
:l suo slesso scopo, ma ella parevagli inoltre una vera proCec^
Parevagli che il Petrarca, per la grandezza ddringe^no e étih
sua dottrina, fosse stato fatto degno di leggere neU'avre&ire. e
tredevasi additato egli medesimo dal poeta, anche prima de! sa>
^ìascere, sotto il nome di
Un eavalier che lUlia tutta ODon«
Pensoso più d'alimi, che di sé stesso.
Die* che Romi o^ora.
Cogli oochi di dolor bagnati e moli:.
Ti ch.er loeivè da tatti i sette c-^Iii
Li credenza dei doni profetici non era io allora risgiuriiti
coese Indegna de'più filosofici iDg^oi; io stesso Machiavelli oeù
ne andava scevro» e nelle pericolóse imprese ella dava agli eroi
forze 80praoatQrali«
Rapito dal pensiero di rendere a Roma la libertà, il Por-
cari deliberò di arrischiare per questa cagione la propria vita e
pose ordine air impresa di conserva con Battista Sciarra , suo
nipote» al quale aveva manifestato i suoi progetti e da cui era
assecondato con ardore. A questo egli ordinò di radunare nella
soa casa tutti coloro che erano a lui neti come amici della
libertà di Roma e di raccogliere segretamente quanti soldati e
banditi poteva. Trecento di quelli e quattrocento di questi fu-
rono perciò segretamente adunati nelle case del Porcari , dello
Sciarra e di Angelo Mascio» cognato del Porcari. Il convegno di
tatti i congiurati fu stabilito pel 5 gennaio del 1453, vigilia del-
l'Epifania, sotto colore di un solenne convito. Il Porcari, che
aveva finto di essere ammalalo per potersi fuggire da Bologna
senza dare sospetto al cardinale governatore, comparve tra i con-
stati vestito di porpora e d' oro. Questo sfarzoso vestimento ,
piuttosto che ad abbagliare i congiurati, era destinato ad age?
volargli nella mattina vegnente V ingresso della basilica. Egli
sapeva che i guardiani delle porte giudicavano della condizione
dei pers(ìnaggì dal loro abito e che non ricuserebbero di lasciar
passare chi vestiva la porpora e Toro. Alcuni de'suoi complici,
in abito di capitani della guardia notturna, dovevano condurre
un sufiiciente numero di congiurati alle prigioni del Campido-
glio ed introdurveli come sediziosi presi da loro; e questi do-
vevano occupare queirimitortanteposto nell'atto che ne sareb-
bero state aperte le porte.
Disposte in tal modo le cose, il Porcari espose a tutti i
congiurati Tordine fermato airesecuzione de'comuni disegni. Egli
rammentò loro con queir eloquenza per cui andava famoso i
diritti dei Romani e. la presente loro oppressione; rammentò i
privilegi e gli statuti violati e la crescente corruzione declorò pa-
droni. Appalesò il suo disegno di cogliere alla sprovvista il papa
ed 1 cardinali avanti alla porta della basilica di San Pietro in
occasione che vi si recherebbero il di appresso per celebrare la
Epifania, di farsi dare con tali ostaggi Castel Sant'Angelo e le
porte di Roma, di suonar poi la campana del Campidoglio e di
ristabilirà la repubblica coirautorità di quel popolo al quale nn
secolo prima Cola da Rienzo aveva ridonati i snoi diritti. Tutti
gli uditori del Porcari mostravansi apparecchiati a seguirlo ed
-454-
a porre a rischio le vite per coti nobile cagione. Ma egli sbva
ancora arringando che di già era tradita U senatore, a??isato
dell'adunanza raccoltasi in quella casa, TaveTa fatta circondare
da' saoi soldati ed assaltarla repentinamente; i satelliti dei con-
giurati, separati da loro e non avendo chi li conducesse, non
poterono aiutarli. Il Porcari volle fuggire, ma fu trovato nelle
stanze di sua sorella nascosto in un cofano; i principali com*
plici furono presi anch'essi, tranne il nipote di Stefano, il quale
combattendo valorosamente aprissi il varco alla fuga. 1 disegni
dei congiurati ed il grado della loro colpa non sono ben noli»
0 il sono sulla fede di sospette testimonianze; perciocché, senza
procedere ad alcun esame, senza istituire il confronto degli ac*
cusati, senza intraprendere in somma alcun regolare processo,.
Stefano Porcari, con nove de' suoi complici , fu appiccato io
stesso giorno ai merli di Castel Sant'Angelo. Fu anzi ricusata
a quegli infelici, prima di morire, la confessione e la comunione,
benché ne facessero caldissima istanza; perciocché, nonostante
il loro attentato contro la temporale autorità dei papi, essi erano
pure zelanti cattolici.
Nicolò V, persuaso che 1 congiurati volessero la sua morte^
sebl)ene questa avrebbe mandati certamente a vuoto i disegni
del Porcari, diventò timido e feroce, mentre prima era fidente
e di facile accesso. Altri supplizii tennero dietro quasi subito i
primi; il 12 gennaio Nicolò fece appiccare un dottore ed un
cittadino romano che aveva accompagnato il Porcari nella sua
fuggita da Bologna ; lo stesso giorno fece bandire la taglia di
mille ducati di premio a colui che darebbe in mano della giu-
stizia due congiunti del Porcari che si erano nascosti, e di ciò*
quecento ducati a colui che li uccidesse. Mandò facendo cal-
dissime istanze a tutti i governi d'Italia per avere coloro che
si erano salvati; molti vennero infatti presi a Venezia ed a Pa-
dova, tra i quali Battista Sciarra, nipote del Porcari, e tutti furono
condannati a morte. Anzi dopo di avere promessa, per le calde
preghiere del cardinale di Metz, salva la vita ad uno degli ac-
cusati, detto Battista di Persona, ch'era, dicevasi, affatto inno-
cente , il giorno dopo lo fece prendere di nuovo ed appiccare
senza processo. Né i soli congiurati furono vittime della cru-
deltà sua: un gentiluomo, detto Angelo Ronconi, che aveva aju-
tato il conte Averso deirAnguillara a nascondersi per iscampare
dai birri della giustizia che lo inseguivano, fu dal papa chiamato
a Roma, ove recossi munito di un salvocondotto soscrìtto di
— 4S —
fragno imffio di Sm Saotilà; ciò non estinte agli fa pram per
di Nieolò il gierno sossegnente al soo arrìfo, a' 13 otto*
lira del 1154, ed immantiQeQte decapitato. Vero è che il giorno
dopo KkiM fece ctiiedere di Ini al capitano di giostiiia e mo-
stroaù manTigliato assai ed afflitto oltre modo quando gli ta
dello elisegli medesimo ne aveta ordinato il supplizio. Aggiunge
Slefino infessora che fa detto che il papa era abbrìaco quando
eoodannò il Ronconi , perciocché aveva faima di bever molto.
Per lo contrario il Vespasiano ci assicura che Taocusa d'in-
tempwansa mossa contro Nicolò V era soltanto fondata sulle
4Sompre che egli faceva di squisiti vini per farne presente agli
amici.
Nicolò V non sopravìsse lungamente a questi suppliaii. Egli
era acerbamente travagliato dalla gotta; e si accerta che il do*
lore cagionatogli dalla presa di Costantinopoli ed i mali della
eristiaDità che ne conseguitarono diedero Tultimo crollo alla
sua mal ferma salute. Neir ultimo anno di vita, prevedendo
vidno U suo 'floe, chiamò a so due religiosi che godevano opi-
nione grandissima di dottrina e di santità, Nicolò da Tortona e
Lorenzo da Mantova , e loro diede stanza in palazzo. Narrasi
che, recatosi un giorno nella loro camera e sedutosi loro a canto,
si lagnasse d'essere il più sventurato uomo del mondo. % Non
veggo mai, » egli disse, e varcare ia soglia della mia porta un
uomo che mi dica una parola di vero. Io sono cosi aggirato
dalle finzioni di coloro che mi circondano che, se non mi trat-
tenesse il timore dello scandalo, rinunzierei al pontificato per
ritornare ad essere Tomaso di Sarzana. Sotto quel nome un
giorno solo mi arrecava ass^i più dilètti ch'io non possa ora
sperarne in un aqno. > Allora questo pontefice, il cui regno era
stato cosi felice, s'intenerì fino a versar lagrime. Chi sa se, tra
gli errori a cui lo avevano tratto i raggiri de' suoi cortigiani,
il rimorso non gli abbia fatto dare il primo alla credenza che
il Porcari avesse tramato contro la sua vita, ed alla precipita-
zione ed al rigore delle sentenze che avevano tenuto dietro alla
scoperta di quella congiura?
Durante la sua malattia, sebbene soffrisse acerbissimi do-
lori, Nicolò non fu mai udito lagnarsi; solo i suoi amici piange-
vano intorno al suo letto. Gli venne tra questi veduto Giovinni,
vescovo d'Arazzo, dotto teologo, che lagrimava. t Offri (iuest«
lagrime, mio caro Giovanni, i gli disse egli, « a colui al quale ser-
viamo, e domandagli con umili e devote preghiere di perJonarmi
— 4«6 —
i miei peccati; ma ricordati che to vedi oggi morire in papa
Nicolò no vero e buono amico. » Il vescovo d'Arazzo, pia non
potendo frenare i singhiozzi, fa costretto ad uscire dalla camera.
Nicolò V mori il 24 marzo del 1455. Il giorno 8 aprile, i
cardinali raccolti in conclave gli diedero per successore Alfonso
Borgia, nato in Valenza e vescovo -della stessa città, il quale
prese il nome di Callisto III. Questo pontefice, di già assai vec-
chio quando fu promosso al pontificato, parve da principio non
volersi assumere altra cura che quella della crociata contro »
Turchi, ai quali dichiarò la guerra; ma i favori che andò ac-
cumulando sopra i suoi nipoti io tempo del breve suo regno
aprirono la strada delie grandezze a quella casa Borgia che
Alessandro VI e Cesare suo figliuolo dovevano rendere per tante
vergógne famosa. La perdita delle ultime speranze di libertà per
ftoma e la morte di Stefano Porcari dovevano essere seguite
assai da vicino dal regno dei più odiosi tiranni.
CAPITOLO XXL
Zisimo a Roma, e i falsari delle bolle pontificie.
Nello stesso anno 14S9 fecersi di grandi parole in Italia
intorno ai an altro avvenimento relativo alle cose politiche del
Levante ed alle imprese dei Turchi. Gem o Zizimo, figfliuolo di
Maometto II e fratello e competitore del saltano Baiazette II,
fece il suo ingresso in Roma, ove recavasi per implorare la pro-
tezione del papa. Zizimo aveva posto in campo, per succedere
al padre nel trono, una pretensione spesso allegata dai principi
Sreci di Bisanzio. Egli era porfirogmta, vale a dire, nato men-
tre àuo padre era sul trono, e per questo rispetto credeasi da
più del fratello maggiore Baiazette, cui diceva essere nato da
HD semplice privato.
Questa vana sottigliezza bastava per tentare il cimento
delle armi in uno Stato dispotico, dove non si riconoscevano
altri diritti che quelli fondati nella forza. Ma questa mancò a
Zizimo, il quale, vinto in Asia nel 1482 in una sanguinosa bat-
taglia, fu costretto a fuggir per mare di Cilicia ed a rifuggirsi
1d Rodi, implorandovi la protezione de'cavalieri di San Giovanni.
<2uesti non osarono tenere in sui confini delPAsia un tal ospite,
a cagione del quale pqteano rivolgersi a loro danno tutte le
forze del gran signore; perciò lo mandarono in Francia, ove
il facevano attentamente custodire in una commenda del loro
ordine posta nelFAIvergna. Baiazette profferse loro immense
semme di danaro, reliquie senza numero ed amplissimi privi-
legi per averlo nelle mani ; ma i principi cristiani non furono
Tamb. Jnquis. Voi. IL 38
cosi prÌYi d'onore da acconsentire a tanta indegnità. È Uitta?ia
difficile assai lo spiegare con motivi giusti ùi onoreToli il
perchè essi non abbiano mai permesso a Zizimb di recarsi
alla corte di Gait-Bei soldano d'Egitto, il quale troTandosi in
guerra accanita con fiaiazette, lo chiedeva per procacciare
favore alle sue armi ; e il perchè negato Io abbiano del pari
a Mattia Corvino, re d' Ungheria, che col di lui mezzo sperava
di fare una diversione negli Stati del suo nemico. Imperciocché
fu Sisto IV che scrisse al gran maestro di Rodi ed a Lodo-
vico XI per esortarli a ritenere Zizimo in Francia ed a non
lasciarlo partire alla volta delle contrade a cui altri chiama-
vaio ; ed Innocenzo Vili ricusò ancor esso di affidarlo a Fer-
dinando re d' Aragona e di Sicilia, air altro Ferdinando re di
Napoli, a Mattia Corvino, al soldano ed al prìncipe di Cara-
mania, e chiese anzi che fosse a lui consegnato, col pretesto
di bramare d' assicurarsi che Zizimo non entrerebbe nei paesi
turcheschi senza essere spalleggiato da una lega di tutta ìi
cristianità.
Intanto che Innocenzo aspettava Zizimo , Baiazette dal
canto suo aveva spediti altri ambasciatori a Carlo Vin per
ottenere dal re la promessa di ritenerlo in Francia. A tal
patto Baiazette offriva al fratello un' assai ragguardevole pen-
sione e garantiva alla Francia il possedimento di Terra Santa,
tosto che la fosse tolta al soldano d'Egitto dalle armi congiunte
de' Francesi e de' Turchi. Ma Cario VHI, d' accordo col gran
maestro Francesco d'Ambusson, aveva di già acconsentito alle
inchieste del papa, e Zizimo era di già in cammino alla volta
di Roma.
Il prìncipe turco fece il suo ingresso nella capitale della
cristianità il 13 di marzo del 1489, entrovvi a cavallo col tur-
bante in capo, e stavangli a fianchi Francesco Cibo, figlio del
papa, ed il prìore d'Alvergna, nipote del gran maestro d'Aa-
busson ed ambasciatore di Francia. Trovavasi allora in Roma
un ambasciatore del soldano d'Egitto, mandatovi per indurre i
prìncipi cristiani ad unirsi col suo signore contro Baiazette.
Questi andò ad incontrare Zizimo e, appena vedutolo scese da
cavallo e si prostrò a terra ; tre volte baciò il suolo, facendo-
giisi incontro, poi baciò i piedi (jel suo cavallo e lo segai
appresso fino al suo palazzo.
Il di dopo il papa tenne concistoro per ricevere Zizimo in
pubblica udienza. Il prìncipe turco fu invano istrutto delle
-459-
rìspettOBe cerìmooìe che i monarchi crìstiaDi osservano trat-
tando col sommo loro pontefice; perch' ei non volle innanzi a
Ini abbassare Torgoglio del regio sangue ottomano. Tenendo in
capò il turbante, che gli Asiatici non sogliono mai deporre e
che risgnardano come un simbolo della loro religione, attra-
Terso la sala senza fare alcuno inchino, sali sul trono ove stava
Innocenzo, e lo abbracciò, toccando colle labbra la spalla destra
del papa in segno di amicìzia piuttosto che di rispetto : il che
fece in appresso con tutti i cardinali. Disse quindi al papa, col
mezzo del dragomanno , che si rallegrava di trovarsi al suo
cospetto, che alla fede ed amistà sua raccomandavasi e deside-
rava dì conferire con Ini più segretamente intomo ai comuni
loro interessi. Il papa rispose confortandolo a darsi animo ,
poicbè soltanto per il bene di sua nobiltà (titolo che la corte
di Roma giudicò conveniente di dargli) era stato condotto in
quella capitale. Ma quel maggior bene che Zizimo doveva tro-
vare in Roma altro non era che una onorevole prigionia. Baia-
zette II pagava ogni anno, da prima al re di Francia, poi ad
Innocenzo YIII, quarantamila ducati per la pensione di suo
fratello. 11 godimento di quest' entrata non era stato il meno
urgente de'motivi che avevano persuaso Innocenzo a domandare
ZSzimo, al quale uopo aveva comperato in certo qual modo
l'assenso del gran maestro d'Ambusson col mandargli il cappello
cardinalizio. Pure Baiazette, non credendosi per ciò sicuro che
il fratello fosse ben custodito, cercò i mezzi di farlo perire. Un
gentiluomo della Marca d'Ancona, detto Cristoforo Macrino del
Castagno , promise a Baiazette di avvelenare una fonte dalla
quale attingevasi Tacqua per le mense d'Innocenzo e di Zizimo:
il veleno non doveva fare effetto se non in capo a cinque
giorni ; ma il reo fu scoperto prima che dar potesse esecuzione
al suo delitto, in maggio del 1490, e condannato ad orribile
supplicio. Altri attentali simili furono egualmente sventati, e,
se non altro, la làta di Zizimo fu posta in sicuro.
Non era difficile il trovare in Roma uomini pronti a com*
mettere cosi esecrande azioni, né quella città aveva mai avuti
tanti scellerati né era stata giammai bruttata da tanti delitti.
Gli assassini andavano impuniti a viso scoperto senza avere
satisfatto né alla famìglia di cui avevano versato il sangue né
alla giustizia. 11 papa, o i suoi ministri, vendevano' ad essi
bolle d' associazione, colle quali le loro offese e quelle di un
determinato numero de'loro complici erano annullate; e quando
- 4M —
rimproTeravasi al Ticecamerliogo questa venalità della già-
glizia, ei rispondeva quasi per beffa queste parole: U Signore
rum vuole la morte del peccatore , ma piuttosto cK et pogkt e
viva.
Tanto scandalosi e malvagi erano i governi dei clero che
Innocenzo Vili si vide costretto a rinnovare, il 9 aprile 1496,
una costituzione di Pio II, colla quale si vietava ai preti di
tenere macelli, taverne, bische e postriboli, o di fare per da-
naro il rufflano e l'agente delle meretrici. Che se dopo tre am-
monizioni ei non lasciavano quella si vergognosa vita, il papa
li privava del diritto dell'immunità del fóro secolare e vietava
loro d'invocare il beneficio dei clero nelle cause criminali nelle
quali potrebbero trovarsi inquisiti.
Innocenzo Vili non aveva peranco provveduta di principati
e signorie la sua numerosa famiglia, ma avea diviso tra i suoi
figliuoli lo molteplici entrate della Chiesa, e di queste avea dato
In maggior parlo a Franceschetto Cibo, suo figliuolo primoge-
nilo. Kra quel Franceschetto che, per cupidigia di danaro, avea
fatta la giustizia cosi indegnamente venale. Nel 1490 egli fece
patto coi giudici del papa, che la camera apostolica non rice-
vesse se non il pagamento delle condanne minori di centocio-
quanta ducati, e che sarebbero a suo proprio profitto tutte le
maggiori di questa somma.
Per rendere ancora più obbrobriosa la venalità della giu-
stizia della corte di Roma, un Domenico da Viterbo, scrivaDO
apostolico, di conserva con un Francesco Maldente, mandò fuori
false l)olle colle quali Innocenzo permetteva per danaro le più
vergognose turpitudini. U frode venne tuttavia scoperta ; furono
imprigionali i falsari, e i loro beni, occupati dal Fisco, produr
soro alia camera apostolica dodicimila ducati. I congiunti dei
coli>evoU speravano tuttavia di riscattarli dalla pena capitale.
. M;u\<itro Gentile da Viterbo, medico, che era padre dello scri-
vano aixìstolico, ofl^rì col mezzo di Franceschetto Cibo cinque-
mila ducati, cioè tutto quello ch'ei possedeva, per iscampare
il tìgliuolo da morte: ma il papa risposegli che. essendo il
proprio onore offeso, non poteva fatali grazia per meno di sei-
nìila duc4ilt : e perchè non si potè trovare questa somma . i
duo falsari furono giustiziati.
Quando gli scrittori contemporanei con sì tristi e oiios
colon fanno ritratto della corruzione del clero, quando i meòr
«arni papi partecipano a tanti delitti, quando la sregoiat<zza dei
— 461 —
loro oostomi o i figli natorali ch'essi arricchiscono coi tesori
della Chiesa pici dod sodo soggetto di scandalo, perchè e' Ten-
gono accusati di delitti ancora più graTi, vorrehhesi quasi sop-
porre che la religione aTesse perduto ogni potere, e che i preti
che tuttavia rin?ocaTano, o 1 sovrani ed i popoli che la man-
tenevano colle loro 1^, altro non fossero che svergognati ipo-
criti i quali facevano traffico dd cristianesimo pei loro privati
interessi. Ma ove s'imprenda più attento Pesame delle passioni
che agitavano Fltalia o dei pregiudìzi che la signoreggia>*ano,
si comprende bentosto che la religione nulla aveva perduto del
suo impero, sebbene fosse stata interamente disciolta e sepa-
rata dalla morale. La credenza che il papa ed i suoi prelati a
posta loro aprivano e chiudevano Tinferno e il paradiso non
sii era punto affievolita : tuttavia universale era l'orrore contro
ogni opinione indipendente in materia di fede, opinione dan-
nata tosto come eretica ; e la giustizia di Dìo, pervertita tra le
nani degli uomini, più non era invocata se non a guarenzia
Iella credenza, e non già dell? probità e dell'onore.
CAPITOLO XXII.
L* InqaÌMBÌone nella SfMigaa.
Fu in questo depravato secolo, fa sotto il pontificato di
Sisto IV, l'instigator di tanti delitti, che rinqaisizione venne
introdotta nella Spagna, e che fu istituito quel sanguinario tri-
bunale con leggi assai più formidabili ed atroci che non fos-
sero quelle che retto Pavevano tre secoli innanzi nella sua prima
istituzione contro gli Albigesi. Dal 1478 al 1482 i tribunali creati
in Gastiglia per esaminare la fede dei nuovi convertiti condan-
narono al fuoco duemila persone; altri accusati di miscredenza
in assai più copioso numero perirono nelle prigioni; altri (e questi
furono trattati con maggior indulgenza) vennero segnati con una
croce arroventala sul petto e sulle spalle, dichiarati infami e
spogliati d'ogni loro avere. I nuovi tribunali non la perdona-
rono neppure agli estinti, che di questi fecero trarre le ossa dai
sepolcri per arderle, confiscarono i beni e notarono d'infamia
la prole. Coloro nelle cui vene scorreva il sangue di qualche
moro 0 di qualche ebreo fuggivano da quella terra di proscri-
zione; sicché nella sola Andalusia rimasero deserte cinquemila
case. Gensettantamila famìglie ebree, che sommavano ad otto-
centomila persone, furono scacciate dal territorio della Spagna;
e non pertanto la maggior parte de' mori e degli ebrei dissi-
mulò la propria religione per rimanere in patria, ed altri mol-
tissimi vennero dichiarati schiavi e venduti al pubblico incanto.
i Questa severità nel punire gli apostati neofiti della razza
ebrea i, dice il Rainaldo, annalista della Chiesa, < ottenne presso
-«a —
aniiiie pie b piìi ilu gloria ad Isabdb, n^ di Casti-
; altri perù la calonniaroDO. Si sparse Tooe che dod per ven-
ne le ingiurie delT offesa difinità, ma per copidigia delPoro
tr accomiilaiB riocheBe procedevasi ne' giodiii con tanta
riti. La stessa regina avendo dato a conoscere di temere
qnest'accosa non giungesse alle orecchie del papa« Sisto IV
ciò dal soo cuore cosi ingiusto sospetto e fece plauso alla
li pielà colla sua lettera del 25 febbrajo 1483. >
Gli scritorì italiani del quindicesimo secolo, non meno che
li del diciassettesimo , mai non parlavano di tali persecu-
i senza approvarne altamente la massima. I più moderati,
1 umani appagavansi del tuasimare i particolari deiresecu-
e. Cosi il racconto di Bartolomeo Senarega, storico di Gè-
I, che vide trattenersi in quella città molte migliaia di ebrei
le fu commosso dai loro patimenti » ci porge un adequato
Ito delle opinioni degli uomini i più fllosofl e più tolleranti
secolo. < La legge dei loro esilio , > egli scrive, < parve a
la vista lodevole, perchè tendente a conservare l'onore della
ra religione ; ma in sé forse conteneva tanto quanto di cru-
I, qualora per lo meno vogliamo considerare gli ebrei come
•ini creati dalla divinità, non quali feroci belve. Non potè-
senza pietà vedere la loro miseria : molti di loro perivano
me, in particolare i fanciulli ed i bambini lattanti ; le ma*
che potevano appena reggersi in piedi, portavano nelle loro
eia i bambini allumati e perivano con essi; molti soggia-
no al freddo , altri alla sete : il mal di mare e la navigar
e, cui non erano assuefatti, aggravavano tutte le loro lo-
lita. Io non dirò con quanta crudeltà ed avarizia fossero
ati dai loro condottieri. Molti vennero annegati per la cu-
^a dei marinai , molti costretti a vendere i loro flgliuoli
he non avevano con che pagare il nolo; un gran numero
ssi arrivò a Genova , ma non fu loro permesso di tratte-
ìsi lungamente , perchè in forza di antiche leggi gli ebrei
viatori non potevano rimanervi più di tre giorni. Pure si
e loro licenza di rattoppare le navi e di rifarsi per alcuni
ni dai patimenti della navigazione. Gli avresti creduti spet-
tante erano magri, pallidi, colle occhiaie affossate; ne di-
aevaosi dagli estinti se non che pei moto, sebbene si reg-
ero in piedi a stento. Molti di loro spirarono appresso
lolo, perchè questo quartiere, circondato dal mare, era il
in cui fosse agli ebrei permesso di riposarsi. Non si :iv-
-464 —
verti a bella prima che tanti infermi e moribondi dovevano
generare il contagio; ma in primavera si manifestarono piò
ulceri che non ^'erano mostrate neirinverno, e qnesta malattia,
lungamente nascosta in città, fece nel susseguente anno scop-
piare la peste. »
I preti non avevano ridestato questo zelo persecutore sol-
tanto nella Spagna ; anche il clero d'Italia si sforzava di gareg-
giare in quelle sanguinose vendette con quello d'oltre i Pirenei.
Ogni anno facevasi andar attorno qualche nuova storiella di
fanciulli cristiani rubati dagli ebrei e lentamente uccisi colle
coltella nel giorno di Pasqua; diceasi che mandavasi in giro la
coppa in cui si era raccolto il loro sangue : e con queste ter-
ribili novelle si andava infondendo negli animi dei popolo Io
stesso furore contro di loro. A Firenze un frate Bernardino di
Asti, francescano» predicò contro gli ebrei per molti giorni della
quaresima del 1487. Raccomandò poscia che si avesse cura di
mandare tutti i fanciulli della città alla 'predica che proponeasi
di fare il 12 di marzo : e come n'ebbe raccolti da due in tre-
mila , disse di averli prescelti per essere i suoi soldati ed or-
dinò loro di andare ogni mattina a recitare in ginocchioni un
Pater Noster e tre Ave Maria al santo Sacramento nella cap-
pella della chiesa, afSnchè ispirasse agli adulti la santa risolu-
zione di scacciare gli ebrei. Il susseguente mattino tutti que-
sti fanciulli si aVollarono infatti nella chiesa e ne uscirono per
mettere a ruba 11 quartiere degli ebrei. La Signoria ebbe che
fare assai a ridurli in dovere e mandò ammonendo il predica-
tore, il quale rispose che i comandamenti di Dio erano più
alti che quelli de' magistrali e che niente potrebbe rimuoverlo
dal dire sul pergamo tutto ciò che credeva conveniente alla sal-
vezza del popolo. Convenne air ultimo farlo uscire dalla città,
con grave scandalo dello scrittore che lasciò memoria di que-
stua vveoimento. Frate Bernardino andò a terminare la quaresima
a Siena, ove cercò di ammutinare nella stessa maniera il popolo
contro gli ebrei.
In aprile del 1492 un frate Francesco, spagnuolo, tentò di
eccitare in Napoli la stessa persuasione contro gli ebrei. Dopo
di avere invano posta in opera a quest' uopo tutta la sua elo-
quenza ed innanzi alla corte ed innanzi al popolo, frate Fran-
cesco tentò altresidifar parlare i morti: fece perciò comparire
l'ombra di san Cataldo, patrono della città dì Taranto, vissuto
nel quinto secolo; e dissotterrata una cassetta entro la quale
- 465-
aYe?a chiose certe sue profezìe scrìtte sopra lamioe dì i^ombo.
per coi eraoo preoonciate le roTìne del re^o di Napoli e b
Ticioa morte del re se ooo si affnellava a cacciare gli cèrei
dal soo regoo, oe le trasse foori : e perchè Ferdinando non gli
prestava intera fede, le ditTose nella corte dì Roma e per tutta
ritalia ; le qoali si vollero bentosto aTTerale colla espulsione
della casa d'Aragona dal trono di Napoli.
I trìbooali ecclesiastici risuonavano nello stesso tenìpo di
accuse di fattocchieria ; e Io spettacolo de^li sventurati che pe-
rìvàno sol rogo dannati per magia od eresia si faceva ogni di
più frequente.
Difficilmente potrebbe trovarsi di questo furore desiato dai
preti un più spaventoso esempio che quello della persecuzione
di Arazzo noi 1495, contro gli infelici accusati di VaUcm. Ecco
come viene raccontato il fatto dal Monstrelet:
e In quest'anno nella città d'Arazzo nel paese d'Artese, aV<-
venne un terribile e compassionevole ciiso che chiamossi» non
saprei per quale ragione, Valdesia. Se non che dicevasi essere
alcune persone d'ambo i sessi che erano portale via per virtù
del demonio dai luoghi in cui si trovavano , o subito (giugno-
vano in alcuni luoghi fuor di mano, boschi o deserti, ove rac-
coglievansi in grandissimo numero uomini e donne; e colà
trovavano un diavolo in forma d'uomo, di cui non vedovano
mai il volto, e questo diavolo dava o leggeva loro i suol co-
mandi ed ordinanze , e come ed in qual modo dovevano essi
adorarlo e servirlo. Poi facevasi da ciascuno di loro baciare il
deretano , indi contava a ciascheduno un poco di danaro , ed ^
airultimo loro amministrava vino e cibi in gran copia , di cui '
satollavansi, indi tutt'ad un tratto ognuno s'avvicinava ad una
donna, e di botto spegnevasi la luce e conoscevansi Tun Tal Irò
carnalmente, e ciò fatto si trovavan tutti nello stesso luogo
donde si erano da prima partiti.
e A cagione di questa follia furono prese ed imprigionate
molte persone ragguardevoli della città di Arazzo, ed altre per-
sone di minor conto, e vennero talmente angustiato e cosi terri-
bilmente tormentate, che gli uni confessarono esser loro accaduto
tal caso, come abbiamo detto, e molti confessarono di più d avon?
veduti e conosciuti nelle loro congreghe molti ragguardevoli per-
sonaggi, prelati , signori ed altri governatori di bagliaggi e di
città, vale a dire coloro, secondo la fama comune» che gli o^a-
minatori e giudici loro nominavano e i)oncvano in boccHt or^io
TiLMB;. Inquis. Voi. IL 'iì^
— 466 —
per forza delle pene e dei tormeoti essi gli accusayaQO e dice-
vaDO che Teramente gli avevano veduti» e questi cosi nominati
venivano subito dopo imprigionati e posti alla tortura tanto e
cosi lungamente e tante volte» che erano forzati a confessare.
E furono quelli fra costoro che erano gente minuta giustiziati
e bruciati inumanamente ; altri poi che erano più potenti e
ricche persone riscattavansi a forza di denaro per ischivare le
pene e le vergogne che loro si facevano; e tali altri vi furono
dei più grandi, che furono imbeccherati e sottratti dagli esami-
natori che loro davano ad intendere, e lo promettevano, se
confessavano il caso, che non perderebbero né corpo né roba.
V'ebbe tuttavia alcuni che soffrirono con maravigliosa pazienza
e costanza le pene ed i tormenti, e nulla confessarono a pro-
prio danno.... e non devesi qui tacere ciò che molti uomioi
dabbene L'inno abbastanza conosciuto, che questa maniera di
accusa fu una macchinazione inventata da certi scellerati per
incolpare, distruggere o disonorare, o per ardore di cupidia
spogliare alcune ragguardevoli persone, contro delle quali na-
drivano inveterato odio ».
Soltanto a motivo di questo sospetto lo storico ardisce que-
sta volta parlare liberamente. Quasi ogni anno s'incontrano in-
dizi di somiglianti persecuzioni in uno o in altro luogo; ma i
cronicisti, risguardandole come giuste e sante, non le ricordano
ordinariamente che in poche parole.
I domenicani, che in questi tribunali sedeano, non volevano
acconsentire che la civile autorità riconoscesse le loro sentenze,
sebbene a questa sola si aspettasse di mandarle ad esecuzione.
Innocenzo Vili scriveva a tale proposito , il 30 di settembre
del 1486, in questi termini al vescovo di Brescia: < Abbiamo
saputo con grande stupore come, avendo il nostro diletto figliuolo
frate Antonio da Brescia, inquisitore delPeretica pravità in Lom-
bardia , condannati alcuni eretici dei due sessi come impeni-
tenti, e richiesti gli ufficiali di giustizia di Brescia di eseguire
la sua sentenza, quegli ufficiali abbiano ricusato di fare giustizia
e di eseguire i giudizi della santa Inquisizione, se loro non
facevasi conoscere il processo. Mandiamo perciò ed ordiniamo
n te, nostro fratello, colle presenti, di comandare ed ingiungere
agli ufficiali secolari della città di Brescia di dare esecuzione
ai processi che tu avrai giudicati , senza appellagione e senza
ch'essi ardiscano altrimenti rivederli, nel termine di sei giorni
dopo essere slati legittimamente richiesti, sotto pena di scomn-
oici e fi tulle le eensnre eodesbslicbe, nelli qmle incoiti-
rumo per b soh disohbedfeDia seoa nuoft promii^uìoii^ »
Goà ooo la Inrtnrie de'seooB dì meno» non il ferrido M
BDlosiaslieo leio de* tempi in coi h religìoDe infi^mimn tutti
^ aniaii • non h neoesati dì dìfendoe b fède contro i pro«
pressi dà nofaloii sooesero i roghi ddr Inquìsitione. Ijc pid
briose p^secQxioni ts le più implacabili tra quelle che magKio^
mente deturpano b slorb del clero sono anleriori di qu^ran-
V anni alle prime prediche della riforma ; esse accaddero nei
tempi in coi le lettere, la filosofia, la coltura dell'umana ragione
giunte erano al più alto grado cui giungessero mai prima di
quest'epoca memorabile; esse cominciano dal punto in cui la
corte di Roma fu giunto all' estremo della corroiione , e sono
la nuova e spaventosa conseguenza di quella massima di com-
pensare la disonestà dei costami e della vito col fervore della
fede, cui questo stessa corruzione aveva fatto adottore ai cre-
denti. Al dire di un Sisto IV, di un Innocenzo Vili, di on Ales-
sandro IV si cancellava la macchia del peccato pel rigore con
cui si conservava la purità della fede. Bastova una persecuzione
per tergere la macchia di mille spergiuri, di mille impurità, di
udlle misfatti. Coloro che io gioventù o nell'età virile avevano
ceduto alla foga del temperamento o ai furori deirambiziono e
della vendette , poteaho di tutto ottenere il perdono se negli
estremi istonti della loro vito accendevano il rogo per ardere
gli ebrei , i mori, gli eretici. Questa spaventosa morale, domi-
nante in Ispagna, predicata in Itolia, bandita in tutta la cristia-
nità dalle bolle dei papi, propagavasi rapidamente verso i paesi
meno colti. Diffidi cosa è il prevedere quale sarebbe stoto l^
termine di questa spaventosa progressione, se la rivoluzione di
una parte della Germania contro la romana tirannia non avesse,
dopo una lunga contesa, costretti i papi a dipartirsi da quella
sanguinaria intolleranza ch'era per loro diventato lo scopo unico
della religione.
11 collegio dei cardinali, cosi zelante della purità della fede,
badava appena allo spergiuro del capo della Chiesa, d'Inno-
cenzo VIU, il quale nel mese di marzo del 1489| facendosi beffo
de'protni giuramenti, sei nuovi cardinali aggiunse al concistoro,
seU>ene il sacro collegio non fosse ridotto a minor numero di
ventiquattro: anzi il Rainaldo, annalbto eccMastico , approva
un siflbtto procedere, per lo motivo che le condbloni Imposto
dai cardinali, mentre b Chiesa era priva del suo pastore, sono
— 468 —
dichiarate nnlle da una costituzione dlnnocenzo VI. Ha Io stesso
annalista, sempre così ligio alla santa sede, condanna siccome
un brutto esempio di disprezzo della disciplina ecclesiastica
l'elezione che fece Innocenzo Vili del figliuolo adulterino di
suo fratello e del cognato ancóra fanciullo del suo proprio
bastardo a cardinali. La seconda di queste elezioni, che muove
la bile di tanto ortodosso scrittore della Chiesa, è quella di
Giovanni, flgliuol di Lorenzo de' Medici, che fu poi Leon X. In
fatti questo Giovanni non aveva che tredici anni, e lo scandalo
di dare alla Chiesa un principe cosi giovane era uno di quelli
dai quali Innocenzo Ylil, per la fede del prestato giuramento,
avrebbe dovuto guardarsi. Innocenzo provò per altro qualche
vergogna di aver fatta queir elezione, che fu disapprovata da
molti membri del sacro collegio , ed impose per condizione al
giovanetto Medici di non vestire le insegne cardinalizie e di non
venire a Roma per sedere in concistoro prima che passassero
altri tre anni, ossia prima che egli avesse compiuto il sedice-
simo anno.
La stretta alleanza di Lorenzo de' Medici con Innocenzo Vili,
alleanza il cui nodo era la debolezza del 'papa , veniva in tal
modo a porre nuove fondamenta alla grandezza della casa de'
Medici. Frattanto Lorenzo andava ogni di più aggravando il
giogo sopra i suoi concittadini: in principio del 1489 egli osò
castigare con isfacciata tracotanza il gonfaloniere Neri Cambi,
che usciva allora di carica, per avere sostenuti i diritti del-
l' ufficio suo, ed ammoniti, senza la di lui venia, alcuni gonfa-
lonieri delle compagnie che non si erano recati al posto loro
assegnato. Or bene, si trovò che il procedere del gonfalioniere
era troppo orgoglioso inverso Lorenzo, principe del governo, e
il nome di prìncipe, fin allora ignorato in una libera città, co-
minciò a venire in uso a Firenze.
A conseguenza di siffatto cambiamento le cose di Firenze
rimasero prive d'ogni interesse e di ogni importanza. Le fac-
cende pubbliche trattaronsi d'allora in poi nel gabinetto di Lo-
renzo de' Medici, e la politica della Repubblica fu perciò sepolta
nel silenzio e nell'arcano. Gli encomiatori di Lorenzo scrissero
ch'egli solo mantenne l'equilibrio politico d' Italia ; ch'egli dis-
suase Innocenzo Vili dal muovere guerra a Ferdinando, poiché
la santa sede ebbe scomunicato quel re nel 1489 e dichiara-
tolo decaduto dal trono, ch'egli impedi al duca di Calabria di
imprendere colle armi la difesa di Giovanni Galeazzo Sforza, suo
— 469 —
genero, contro Lodo?ico il Moro; ch'egli, per ultimo, fa costan*
temente il mallevadore e mediatore della pace d'Italia. Que-
st'azione continua di Lorenzo de' Medici è possibile e non è
per nulla improbabile, ma non trovasene indizio negli storici
fiorentini. La Repubblica di Firenze, centro in altri tempi di
tutte le negoziazioni d'Italia, pareva ritirarsi ognor più da ogni
ingerenza in tutti i grandi interessi di questa contrada. I suoi
annali sono vuoti. Scipione Ammirato accenna appena i nomi
di molti gonfalonieri, senza dire ch'essi o la Repubblica abbiano
fatta alcuna cosa importante nel tempo della carica : e l'Ammi-
rato è storico minuziosissimo. Anche gli altri storici tacciono
di quei tempi, più non si sentendo aiutati a scrivere la storia
quando gì' interessi della patria più non erano quelli di ogni
cittadino.
CAPITOLO XXIIL
ElemioBi di AleMaadro VI , duafni di Jerottimo 8«TOMrob
iatorno «ila rifomui della Chiesa e dello Stato d'Italia,
Piero de^ Medici, eoe.
La credenza religiosa e la politica d' Italia concorrevano a
dare al papa il primato nella confederazione de'Yarìi Stati
indipendenti nei quali era divisa la contrada. Nel corso priQ-
cipalmente del quindicesimo secolo i papi innalzarono la lo-
ro monarchia temporale; perchè in questo secolo ridussero
la città di Roma neir assoluta loro dipendenza , lasdandone
solo i suoi magistrati di municipio, sostituirono la pro-
pria autorità a quella del Senato e della Repubblica, e aboli-
rono, dopo la congiura dì Stefano Porcari, gli ultimi avanzi
della romana libertà. Con non minor ardore s'adoperarono al-
tresì in quel secolo i papi a ridurre la nobiltà feudataria delle
vicinct Provincie nelPubbìdìenza della santa sede ; e sopratutto
colle fiere persecuzioni mosse da Sisto IV contro i Colonna, e
da Innocenzo Vili in principio del suo pontificato contro gli
Orsini, quelle due potenti case di molto abbassarono. Quindi è
che quasi tutti i piccoli principi e quasi tutte le città libere
che sono poste tra Roma, gli Stati di Firenze e quelli di Vene-
zìa furono costrette a riconoscere la suprema autorità della
santa sede. Gli è vero che i principi di Romagna conservavano
la loro signoria sotto Tautorità della Chiesa, ma perchè il papa
temevano, prontamente ubbidivangli, e si gli somministravano
in tutte le sue guerre eccellenti capitani e buoni soldati. Per-
— 471 —
dò gli idlim pcmlefid si diedero a difedero ben più guerrieri
die saoertoli, e feeero taiere assd pHi le anni dello Stato dM
della Chiesa.
D^altra parte il papa , avendo Talta signoria dd regno A
Napoli , e capo essendo dd partito gndfo in Lombardia tà in
Toscana , e supremo retore ddla Cbiesa , era assai più pos«
sente ancora ndranni, che noi comportasse rampiena ddle
proTinde soggette air immediata soa podestà* Ben oltre i pro*
prì confini egli poteva ancora senza danaro far levare in armi
i suoi partigiani, guerreggiare senza soldati» minacciare ed at-
terrire senza forze reali. Perdo la storia dd papi ò forse la
parte più essenziale della storia d' Italia : con ciò sia che veg«
gansi le rivolozioni delle repubbliche e quelle ddle monar-
chie avere costantemente relazione con quelle della corte pon*
tiflcia, e quasi tutte le grandi catastrofi che dovevano slra*
ziare Tltalia essere causate dai raggiri o dalle passioni del chie-
ricato.
Il principio delPultimo periodo della libertà italiana, che ci
facciamo ora a discorrere, ed il cominciamento delia lunga guerra
che gli oltramontani dovevano arrecare in quasi tutta la Pe-
nisola , fu esso pure una congiuntura assai crìtica e scabrosa
per la podestà pontificia. Imperciocché in quel tempo venne a
sedere sulla cattedra di San Pietro il più odioso » il più impu-
dente, il più reo di tutti coloro che abbiano abusalo mai d^una
sacra autorità per oltraggiare e ridurre in servitù gli uomini.
Fu questi Alessandro VI, eletto successore dlnnocenzo Vili. Lo
scandalo della corte di Roma , sempre crescente da un mezzo
secolo, non poteva essere spinto a più stomachevole eccesso ;
ed infatti dopo quel punto andò gradatamente scemando. Nluno
fra gli scrittori ecclesiastici ebbe V ardire di difendere la me-
moria di questo papa, indegno del nome di cristiano ; e V ob-
brobrio di che in tempo del suo pontificato fu coperta la Chiesa
romana distrusse quel religioso rispetto che proteggeva tutta
ritalia, e la rese più facile preda agli stranieri.
Venuto a morte, siccome abbiamo detto, Innocenzo Vili il
25 di luglio del 1492, secondo V uso furono consacrati alcuni
giorni alla pompa de' suoi funerali ; dopo di che , il 0 agosto
susseguente , i cardinali si chiusero in conclave per eleggerne
il successore. E si trovavano ridotti al numero di ventitré. Quanto
più scemavasi il novero di coloro che avevano diritto di sedere
nel Senato ^Ila Chiesa, tanto più ognuno di loro veniva a ri-
potarsi maggiormente; le ricchezze, gli onori, le signorie onde
davansi V inTestitura dalla Chiesa , in gran parte spettavano ai
cardinali, onde ognuno in ragione del piccolo numero de' suoi
competitori poteva riserbare per sé medesimo o pe'saoi creati
maggiore porzione di quel dovizioso retaggio. Quindi, benché
per esperienza conosciuto si fosse quanto inutili tornassero
tutte le condizioni imposte agli aligendi pontefici ne' prece-
denti conclavi, i cardinali, badando prima di tutto a vantag-
giare i loro propri interessi, promisersi Tuno alPaltro con giu-
ramento, che quegli di loro che avrebbe ottenuto la tiara non
farebbe nuove promozioni di cardinali senza Tassenso del sacro
collegio.
Tutti i voti trovaronsi unanimi per questa prima risolu-
zione, che giovava al comune interesse; ma quando si venne
alPelezione del nuovo capo della Chiesa, ognuno diede nuova-
mente retta alle voci della propria ambizione e della privata
cupidigia. Il conclave era quasi interamente composto di creati
d'Innocenzo Vili e di Sisto IV, e non potevasi sperare da uomini
eletti in tempi di tanta corruzione cb'e'fossero gran fatto disin-
teressati 0 nudrissero alti sentimenti. Uno solo dei cardinali,
che fu Roderigo Borgia, era di più antica creazione, e più degli
altri sendo invecchiato nelle dignità della Chiesa, aveva ezianiiUo
accumulato maggiori ricchezze degli altri. Questo Roderigo era
figliuolo di una sorella di Calisto, e per fare cosa grata allo
zio, da cui era stato addottato, aveva lasciato il suo cognome
di Lenzuoli per assumere quello di Borgia. Ancora giovinetto
egli era stato ricolmo dal vecchio Calisto di tutte le grazie che
possa un papa conferire ad un nipote: in suo prò aveva il
pontefice rinunciato al proprio arcivescovado di Valenza nella
Spagna, e lo aveva, il 21 settembre del 1456, creato cardinale
diacono, conferendogli in pari tempo la lucrosa carica di vice-
cancelliere della Chiesa. Sisto IV si valse di Roderigo Borgia
in molte 4egazioni, e diedegli i vescovadi di Alba e di Porto.
Altre più recenti ambascerie, nelle quali il Borgia fece belle
prove di accortezza, gli fruttarono di nuove ricompense; cosicché
nel 1492 ei si godeva le entrate di tre arcivescovadi in Ispagoa
e di molte altre prebemie in tutta la cristianità. Le ricchezze
e le prebende di un cardinale influiscono quasi necessariamente
9opra i suffragi de' suoi colleghi, perciocché non polendo ^li,
fatto papa, ritenere per sé queste prebende, è cosa ovvia ch'ei
le dispensi a tutti coloro che più hanno contribuito alla sua
— 475 -
etenone; onde quanto maggióre è la parto dei favori della
Cbiesa ond'egli gode, tanto più liberale poò essm^ in verso
a' snoi partigiani senza moovere giuste lagnanze. Il Borgia, in
qnasi cinquant' anni di prospere vicende , aveva accnmulati
immensi tesori, e la natura lo aveva dotato di tutte le qualità
per le quali poteva fame buon uso per appagare la propria
anflNzione: di facile eloquio, benché fosse soltanto mediocre-
mente versato nelle lettere, di mente straordinariamente pie-
ghevole e di tutto capace, egli era in particolare modo provveduto
di queir ingegno che vuoisi per trattare le faccende , non che
d'inarrivabile destrezza nel sapere condurre a'suoi fini lo spirito
de' suoi emuli.
Sendo, a motivo delle immense sue ricchezze e della sua
anzianità nel collegio de' cardinali, uno de' principali candidati
al triregno, il Borgia sembrava anche ai più savi, in grazia del-
l' ingegno singolare con cui aveva trattate in più occasioni le
cose della Chiesa, muovere giuste pretensioni; se non che i
suoi costumi potevano dare luogo a fieri e giusti rimproveri.
Fin dai tempi di Pio II egli era stato per le sue dissolutezze,
in allora più condonabili in grazia della gioventù, fatto segno
alla pubblica censura ; aveva poi preso seco un' amica, detta
Vanozia, colla quale viveva come se stata fosse sua moglie,
benché 1' avesse in pari tempo fatta sposare ad un cittadino
romano; dal quale adultero commercio nacquergli quattro
figliuoli ed una figlia, cui tra poco vedremo avere parte nelle
cose della Chiesa. Del resto in niuna guisa egli osservava o
nelle cose o nelle parole o nei fatti quel riserbo che si addice
a nomo di chiesa. Ma la scoslumatezza era di già salita sul
trono con Sisto IV e con Innocenzo Vili, ed il sacro collegio
non era più composto di uomini abbastanza irreprensibili da
far che i vìzi di Roderico Borgia fossero un sufficiente motivo
per escluderlo.
Pareva ciò nondimeno che due competitori potessero con*
tendere della tiara col Borgia, ed erano Ascanio Sforza e
Giuliano delle Rovere. Ascanio , eli' era figliuolo del grande
Francesco Sforza,* duca di Milano, zio dì Giovanni Galeazzo,
allora regnante, e fratello di Lodovico il Moro, che governava
in nome di questo la Lombardia, era stato creato da Sisto IV
cardinale diacono del titolo dei santi Vito e Modesto. Ricchis-
simo fra tutti i cardinali, tranne però il Borgia, di prebende e
beneficii ecclesiastici, egli era inoltre spalleggiato dal fratello
Tamb. InquU. Voi. If. 60
- 474-
Lodovico e dagli alleati del duca di Milano. Ma dopo avere
fatte alcune infruttuose prove delle forze del proprio partito ,
volle piuttosto acconciarsi col rivale che venire a conflitto e
vedersi vinto; laonde venne a patti col Borgia, e fattasi pro-
mettere la carica di vice-cancelliere , obbligossi a propiziargli
i suffragi di tutti i cardinali della propria parte.
Il terzo competitore al papa era Giuliano della Rovd^ ,
figliuolo di un fratello di Sisto IV, prete cardinale del titolo di
san Pietro in vincoli ; e perchè uomo era di singolare ingegno,
e valoroso erasi dato a divedere durante il pontificato dello
zio, aveva molti suffragi in suo favore. Ma Roderìco Boi^a,
spandendo a piene mani il denaro, seppe trarre dalla sua tutti
coloro che ancora pendevano dubbiosi. Egli aveva mandato
quattro muli carichi di danaro alla casa del cardinale Ascanio
Sforza , col pretesto di porre in sicuro quella pecunia durante
il conclave, ma difatti per comperare le coscienze incerte; e di
vero essa fu adoperata in tale mercimonio. La voce del car-
dinale patriarca di Venezia fu comperata per cinquemila ducati,
tutte le altre furono mercanteggiate nella stessa maniera: e alla
mattina del sabbato 11 di agosto, Roderico Borgia fu eletto
papa col favore dei due terzi pei suffragi, e per tale incoronato
sotto il nome di Alessandro VI.
I vergognosi patteggiamenti ai quali andava il pontefice
debitore della sua elezione vennero subito a cognizione di tutti;
perciocché egli fu veduto nei primi giorni dopo relezione pa-
gare le pattuite mercedi, rinu'nciare al cardinale Ascanio Sforza
la lucrosa sua dignità di vice-cancelliere ; cedere al cardinale
Orsini il suo palazzo di Roma coi due castelli di Monticeilo
e di Soriano ; al cardinale Colonna V abbazia di Subbiaco eoo
tutti i suoi castelli; al cardinale di Sant'Angelo il vescovado
di Porlo con tutti gli arredi e le suppellettili di casa , som-
mamente magnifiche, la anlina piena dei più squisiti vini ;
al cardinale di Parma la città di Nepi; a quello di Genova
la chiesa di Santa Maria in via lata; al cardinale Sa velli la
chiesa di Santa Maria Maggiore e la città di Givia Castellana.
Gli altri cardinali furono guiderdonati con grossi premii di da-
naro. Cinque soli, a capo de' quali furono posti Giuliano della
Rovere e il di lui cugino Raffaello Riario, non vollero vendere
i loro voti.
I Romani festeggiarono l'elezione di Alessandro VI in modo
che sarebbe stato più conveniente alla incoronazione di un gran-
— 475 —
de Gonqaistatore , che non a quello di un vecchip pontefice.
Safeld>esi detto che il popolo re chiedeva al sqo dqoyo so-
YraDO di ricondurre sotto il suo impero la nazioni altre volte
soggiogate dalle armi romane. La maggior parte delle iscrizioni
di cai furono adornate le case di Roma alludevano al nome di
Alessandro assunto dal Borgia, e se in qualche modo ricorda-
vano la religione ond' egli era pontefice , lo facevano promet-
tendo al nuovo Alessandro vittorie tanto più splendide, quanto
|»b egli avanzava gli eroi, essendo un Dio. Questa eccessiva
adulazione non venne punto immediatamente smentita dal fatto.
La più terribile anarchia era nata sotto il venale ed effeminato
regno di Innocenzo Vili; ed erasi anche accresciuta durante
il lungo deliquio di quel pontefice, in modo che dugentoventi
dttadini romani , erano stati trucidati nel breve spazio di tempo
trascorso nell'ultima crisi della sua malattia fino alla morte.
Alessandro VI, che voleva regnare e che sapeva farsi temere,
pose immantinente rimedio a tanto disordine, e le vie di Roma
rese sicure, « il solo cardinale della Rovere non lasciossi .se-
durre da questa apparente tranquillità ; che non poteva porre
fidanza alcuna neir apostolo spagnuolo o nel Marrano, sicco-
m'egli chiamava il Borgia. Si chiuse perciò nel castello d'Ostia,
e vi stette fino a tanto gli parve più prudente partito il recarsi
in più lontani paesi; laonde non vide le scandalose feste colle
quali il papa celebrò nel proprio palazzo il matrimonio di sua
figlia Lucrezia' con Giovanni, figliuolo di Costanzo Sforza, signore
di Pesaro.
I tempi in cui la Chiesa romana , disonorata dai vizi di
alcuni capi del sacerdozio, esaltava sul trono un pontefice del
quale doveva vergognarsi , non potevano non essere segnalali
di alcun tentativo di riforma dal lato di quegli uomini di più
sincera fede, i Squali cercavano nella religione un sostegno
alla morale e prevedevano le funeste conseguenze dell'esempio
dato a tutta la cristianità da un papa adultero e fors' anche
incestuoso. In sul declinare del quindicesimo secolo e nei
primi anni del susseguente era ancora troppo fervido e troppo
sincero lo zelo della religione perchè i grandi scandali non
fossero cagione di grandi rivoluzioni. Coloro che per virtuoso
disdegno scosta vansi da un Sisto IV , da un Innocenzo Vili ,
da un Alessandro VI, non lasciavano perciò di essere cristiani
0 dediti alla Chiesa, disonorata da alcuni suoi capi; essi attri-
buivano tutti i vizi agli uomini , e non agli istituti ; e quanto
- 476 -
più vedevano accrescersi i disordini. e gli scandali, tanto più
riputavano loro stretto dovere di scacciare l' abbominaxione
dal santuario, e tanto più mostravansi disposti a porre anche
le vite per una riforma cui risguardavano come 1* opera del
Signore.
Lo scandalo della corte di Roma non era tuttavia cono-
sciuto ancora oltre le Alpi se non imperfettamente. Prima delle
guerre degli oltramontani in Italia, quell'alta riverenza che si
nudriva inverso alla santa sede copriva , per cosi dire, di im-
penetrabil velo il palazrx) di San Pietro a Roma; ed ai riforma-
tori che più tardi alzarono il vessillo della ribellione contro la
Chiesa romana sarebbe stato impossibile il dare compimento
all'opera loro io Germania ed in Francia avanti quel rimesco-
lamento delle nazioni. La stessa intrapresa doveva, prima che
in ogni altro luogo, tentarsi in Italia; ove, più che altrove» erano
presenti gli abusi: essa doveva informarsi dairindole del popcdo
stesso che cominciava la riforma, e scoppiare perciò tra grita-
liani con maggiore entusiasmo , commovere maggiormente la
fantasia e gli affetti , essere meno spalleggiata dalia fliosofla e
forse meno indipendente dalle opinioni religiose, ma in quella
vece avere più stretta relazione colla politica. In Italia gli or-
dini civili e gli ordini religiosi erano egualmente corrotti, men-
tre i principii costitutivi deirordinamento civile e religioso erano
stati profondamente investigati eoa lunghi stodii: onde i rìfor*
malori dovevano tentare di dar mano alla riforma della città e
della Chiesa ad un tempo. Tali, infatti, furono i divisamenti di
Girolamo Savonarola; e questo precursore di Lutero non fu da
questo diverso, se non in quanto un italiano debbo differire da
un tedesco.
Nato era Girolamo Francesco Savonarola dMliustre famiglia,
originaria di Padova, ma traspiantata a Ferrara dal marchese
Nicolò d'Este. Egli venne alla luce in quest'ultima città il 21
settembre del 1452 da Nicolò Savonarola e da Annalena Bonac-
corsi di Mantova. Diede fino da bel principio saggio di pronto
e fervido ingegno ne' suoi studii , ed in particolare in quelli
della teologia. Partitosi poscia da' suoi in età di venti tre anni,
e rifogitosi nel chiostro de' domenicani di Bologna, ivi professò,
il 23 aprile del 1475, quella religione con un fervore, un'umiltà
ed un desiderio di penitenza, che non si smentirono giammai.
I suoi superiori, riconosciuto bentosto il singolare ingegno del
giovane professo, lo destinarono a leggere pubblicamente filo-
-47T —
sofia. Gostrrtto a parlare in pkibbtioo^ il SafomroU non bene
traefasi dlmpaocio a motivo della ranca e tterolt sua vooe «
della sua mal aggraziata maniera di porgere e di gestire» e della
debolezsa del corpo, macerato ed afflitto da rigorosa astineota.
Fn quindi ammirata remdizione del nnovo professore, ma
essendo egli salito sni pulpito, non piacque per nulla come
predicatore; laonde non si previde allora certamente quella
possa ch^egti in breve acquistar dovea per la sua eloquenza so-
pra assai più numerosi uditori. Ma la forza deiringegno e quella
del Yolere vinsero alla fine in lui ogni ostacolo* li Savonarola
acquistò nel ritiro quelle doti che pareano essergli state dalla
natura negate. Coloro che nel 1482 erano stati disgustati dal
suo mal garbo nel sermoneggiare» appena potevano riconoscerlo
quando nel 1489 l'udirono a modulare a suo piacimento quella
voce armoniosa e robusta ch'egli aveva acquistata, ed accop*
piarvi il più nobile ed aggraziato gestire. Egli stesso, temendo
dlnsuperbirsi per gli sforzi che aveva con felice esito fatti a
perfezionarsi, riferiva al cielo i suoi progressi con cristiana umil*
tà, e risguardava il cambiamento in lui operatosi come un primo
miracolo e un argomento della sua divina missione.
Fu nel 1483 che il Savonarola credette sentire in sé me-
desimo un segreto profetico impulso che lo sospingeva a tentare
la riforma della Chiesa ed a predicare ai cristiani la penitenu,
loro annunciando anticipatamente le calamità che allo .Stato ed
alla Chiesa del pari sovrastavano. Egli incominciò a Brescia
Del 1484 le sue prediche intorno airApocalisse, e predisse ai
suoi uditori che le loro mura sarebbero un giorno bagnate da
torrenti di sangue. Il quale presagio avveravasi due anni dopo
la morte del Savonarola, cioè nel (590, in cui i Francesi, sotto
gli ordini del duca di Nemours, presero Brescia d'assalto e fe-
cero orrenda strage degli abitanti. Il 1489 il Savonarola recossi
a piedi a Firenze e pose sua stanza nel monastero di San Marco,
del suo ordine, dove pel corso di otto anni doveva continuare
a predicare la riforma inflna a tanto che venisse mandato al
supplizio, come, a seconda di quanto attestano i suoi discepoli,
aveva egli stesso prenunziato.
Per la riforma che il Savonarola raccomandava siccome
un* opera di penitenza ad allontanare le calamità ch'egli diceva
sovrastare airitalia, dovevansi cambiare i costumi dell'universo
cristiano e non la sua fede. Il Savonarola credeva corrotta la
disciplina della Chiesa, credeva infedeli i pastori delle anime.
— 478 —
ma Don osò mai muovere pure uq sol dubbio intorno ai dommi
professati dalla Gliiesa o scrutarli. Imperciocché a tale ardi-
mento sì opponeva r indole stessa dello zelo, anzi deiren*
tusiasmo da cui era mosso a bandire la riforma, avvegnaché
non in nome della ragione egli impugnava l'ordine stabilito»
ma bensi per una inspirazione ch'egli credeva sopranaturale^
non per mezzo deirinvestigazione, ma colle profezie e coi mi-
racoli.
Se non che Tardità sua mente, costretta alla reverenza dal-
Tautorità della Chiesa, con minore rispetto e maggiore libertà
scaglia vasi contro le podestà temporali. In tutto ciò ch'era opera
deiruomo egli voleva che si ponesse per iscopo futilità degli
uomini e per regola il rispetto dei loro diritti. La libertà sem-
bravagli non meno sacra della religione; e risguardava siccome
un bene mal acquistato e tale che non si potesse conservare
senza perdere Teterna salute la podestà usurpata da un prin-
cipe in una Repubblica. Laonde ei teneva Lorenzo dei Medici
per illegittimo detentore di quella autorità che si aspettava ai
Fiorentini, e, malgrado i replicati inviti fattigli da questo capo
dello Slato, mai non volle visitarlo e prestargli alcuno ossequio^
acciò Qon si supponesse ch'egli ne avesse riconosciuta l'auto-
rità. E quando Lorenzo, sul ietto di morte, chiamollo per con-
fessare a lui i suoi peccati e per ottenere dalle sue mani l'as-
soluzione, il Savonarola, prima di udire la coniessione, diman-
davalo se aveva intera fede nella misericordia di Dio, al che
rispose il moribondo di sentirla all'intimo del cuore; se era
apparecchiato a restituire tutto quello che aveva illegittimamente
acquistato, il che Lorenzo dopo avere dubitato alquanto, disse
di voler fare; finalmente se ristabilirebbe la libertà fiorentina
ed il governo popolare della Repubblica, la quale terza condi-
zione Lorenzo rigettò e rimandò il Savonarola senza averne
ricevuta l'assoluzione.
Quegli che aveva creduto di dover esortare Lorenzo dei
Medici a deporre la sovrana autorità in Firenze perch'olla era
un bene mal aquistato, ben più gagliarde ragioni aveva di esortare
a tanto Piero dei Medici, il quale né la forza aveva né l'accor-
tezza necessaria per conservare il supremo potere. Piero, che
era il maggiore de'tre figli di Lorenzo, giungeva appena ai ven-
tun anni quando vennegli a morte il padre, e di prudenza era
ancora meno avvantaggiato che d'età, lo Firenze, l'età richiesta
per poter conseguire gli uffizi pubblici era determinata per le
- 479 —
leggi, ed io generale rìchìedetsi adulta assai: mai i consigli
dispensarono Piero dalla oondiiione delPelà e lo dichiararono
atto agli onori ed ai magistrati che ateva già ottenuto Lorenio.
Onesta fiobiione della Cosfitoaione era consegnenu del serrag-
gio della Signoria; ma offese asssi i Fiorentini, tlando loro a
divedere Tasprena del giogo sotto cui erano caduti^
Piero ch'era appassionatissimo pei piaceri della giorentii*
per le donne e per gli eserciù della persona, coi quali poteva
far bella mostra di sé dinansì a queste, d'altro ornai non in-
tratteneta la Repubblica che di feste e di sollazai» in cui pò-
Deva ogni suo studo e tempo. Egli era di statura pid che
mezzana, largo di petto e di spalle, e di straonlinaria forza o
destrezza di corpo. Ghiamaya attorno a sé i più insigni giocatori
di palla di tutta litalia, ma in questo esercizio ei tutti gli avan-
■zava, non meno che in quelli della lotta e del cavalcare. Dotato
di focile eloquio, sciolta ed aggradevole parlatura aveva ed anno*
niosa voce ; in ciò più felice del padre, la cui voce, per mala
struttura degli organi vocali, era nasale. Piero era altresì di
assai pronto ingegno ed aveva fatto singolari progressi nelle
lettere greche e latine sotto la disciplina di Angelo Poliziano :
onde verseggiava airimprowiso con somma facilità, e svariata e
gradevole n'era la conversazione. Ma egli era intollerabilmente
oi^oglioso e prorompeva in oltraggi qualunque volta vedovasi
contradetto. Questo era di tutti i suoi difetti il più dominante:
bruttissimo vizio, che era stato in lui accarezzato da sua madre
Clarice e da sua moglie Alfonsina, Tuna e Taltra della famiglia
Orsini, le quali avevano portata in dote alla casa dei Medici
l'arroganza della loro famiglia. Egli pretendeva che la Repub-
blica dovesse obbedire ciecamente ai suoi ordini, ed intanto
risguardava come cosa indegna del suo gr^do la fatica di Irnpra*
tichirsi delle pubbliche faccende; perciò ne lasciava la cura
a'suoi fidati, ed in particolare a un Piero Divizio da Bibbiena,
fratello maggiore di quel Bernardo che fu [)0scia da Ucmo X
creato cardinale, ed acquistossi illustre nome nelle lettere voi-
gari. Piero da Bibbiena era stato segretario di l/orenzo» a vi; va
pratica assai delle cose pubbliche; ma il male stava in ciò^ che
il Medici, in lui principalmente fidando, antefioneva im avven-
tizio, nato in una provincia suddita, a'vccchi maestrali della
Repubblica.
Or quando mcn Piero de'Medici era alto a goverfiare lo
Stato tanto, più sospettava di coloro che potevano nella Hepub-
— 480 —
blica aspirare al grado suo. Un altro ramo della casa de* Me-
dici cominciava in allora a farsi cospicuo in Firenze, ed era la
famiglia di Lorenzo fratello del vecchio Cosimo ; dei quale Lo-
renzo eranvi allora due abbiatici. Il più giovine di essi aveva
quattro anni più di Piero. Molte erano le ricchezze accumulate
colla mercatura dal loro avolo; ma o sia che niun uomo di
singolare ingegno sorto fosse in quel ramo de' Medici, e eh' ei
si riputassero abbastanza onorati dal parentado loro coi capi
dello Stato, fatto è che né Pier Francesco padre di questi gio-
vani, né Lorenzo loro avolo, avevano presa veruna parte nelle
politiche contese di Firenze. Piero fu il primo cui paresse voler
temere dei propri cugini ; onde li fece sostenere in aprile del
4493, e pose in consulta se dovesse farli morire; ma i loro amici
ottennero a fatica che fosse contento di mandarli fuori di città,
assegnando ad essi per prigione le loro due ville. Se non che
il popolo, risguardando la loro incarcerazione come una viola-
zione de'suoi diritti, e la libertà loro come un trionfo, gli ac-
compagnò nelPuscire di città con molto plauso e con fervidi
augurii, e fece viemeglio sentire a Piero ch'egli andava perdendo
ogni favor popolare.
Forse Piero avrebbe più facilmente soffocati questi primi
germi di mal umore se avesse prontamente sbandito da Firenze
colui che regolava gli animi del popolo ed invogliavalo della
libertà, predicando la riforma della Chiesa e de'costumi. Ma Gi-
rolamo Savonarola era caro al popolo; ogni giorno egli comroo-
veva altamente gli animi di una grandissima corona di uditori
interpretando le profezie nelle quali pareagli presagita la ruina
di Firenze; parlava al popolo in nome del cielo delle calamità
che gli sovrastavano e lo supplicava di convertirsi; de^criveagli
il mal costume privato e i progressi del lusso e della disonestà
in tutti gli ordini dei cittadini, i disordini della Chiesa e la cor-
ruzione de'suoi prelati, e i disordini dello Stato e la tirannide
de'snoi capi; invocava la riforma di lutti questi abusi, e quanto
era fervida e piena di entusiasmo la sua fantasia allorquando
parlava delle cose del cielo, altrettanto robusta era la sua lo-
gica ed affascinatrice la sua eloquenza quando facevasi a di-
scorrere le faccende terrene. Di già i cittadini di Firenze atte-
stavano, colla modestia degli abiti, delle parole e del contegno,
ch'essi andavano abbracciando la riforma del Savonarola; di già
le donne avevano dismessa ogni attillatura; maraviglioso in tutta
la città era il cambiamento de'costumi, e facìl cosa quindi il
preTedere che nstrazione politica del predicatore doq farebbe
minore effetto sugli animi degli udilori di quel che Tacesse
rislraxioDe morale.
11 Savonarola avvalorava i suoi sennoni colla minaccia delle
nuove calamità che gli stranieri eserciti dovevano n^care oN
ritalia; e in fatti ogni di queste calamita si Taceano più immi-
nenti, sicché tutti le prevedevano. Le pretensioni della casa
d'Angiò sol regno di Napoli avevano turbata Tltalia per un in-
tero secolo» e ritalia era avvezza a volger lo sguardo verso la
Francia, .onde discoprirvi gr indizi della bufera che vi si iid-
densava per distruggere la sua pace. Correvano già i venrauni
che i diritti della casa d'Angiò erano passati nel re di Francia
e ben poteva prevedersi che come il giovane principe fosse in
età da credersi in istato di condurre gli eserciti, egli potreb-
b'essere sollecitato dalla gloria dei conquistatori. Si andavo per-
ciò da molto tempo dicendo essere al tutto necessaria Tunione
delle potenze d'Italia per chiudere la porta di questo paese agli
oltramontani. Quest'unione esisteva nelle pubbliche conveuzìoni
ed era stata inoltre atfermata dal trattato di Bagnolo del 7 agosto
del 1484 e da quello di Roma deiril agosto del I486, trattali
che erano Tuno e T altro in pieno vigore: ma intanto quest'u-
nione non avea spente le segrete gare del sovrani, né le gelo-
sie e gli odii che partivano ritalia in due avverse fazioni e che
aspettavano Topportunità per iscoppiare.
Lodovico Sforza detto il Moro che governava il ducalo di
Milano in nome del nipote Giovanni Galeazzo, pareva avvisarsi
pib che gli altri, siccome più degli altri vicino agli oltramon-
tani, della necessità deiruniooe degli Slati d'Italia; e voleva non
solo che questa lega esistesse realmente, ma ancora che fosse
solennemente bandita in tutta l'Europa. L'assunzione di Ales-
sandro VI al pontiQcato parvegli congiuntura propizia per farlo,
perchè all'elezione di un nuovo papa tulli gli Siali cristiani
mandavano a Roma una solenne ambasciata per presentarKii
ubbidienza. Il duca di Milano era collegalo In ispeciale confe-
derazione, rinnovellata per venticinque anni nel 1480, col re-
gno di Napoli, col duca di Ferrara e colla Repubblica fiorentina.
Lodovico il Moro propose ai suoi alleati di far partire a un
tempo stesso gli ambasciatori dei quattro Stati confederali, e di
porre tal ordine alle cose che nel giorno stesso entrassero in
Roma e presentassersi insieme al papa, a cui l'oratore del re
di Napoli avrebbe parlato egli solo a nome di tulli. Voleva Lo-
Tamd. Inquii. Voi. II. 01
do vico in tale guisa dimostrare al papa, ai Veneziani ed alle
altre potenze d'Europa che intima e salda era runione dei qnat*
tro Slati, indurre il papa e la Repubblica veneta a collegarsi con
loro per difesa dell'Italia, e far conoscere agli altri potentati che
questa contrada non aveva di che temere dagli stranieri. La
puerile vanità di Pietro de'Medici mandò a monte questo divi-
samento e, movendo a sospetti Lodovico, fece si che egli appi-
gUassesi ad una politica affatto contraria.
Piero de'Medici doveva essere uno degli ambasciatori eletti
dalla sua Repubblica per recarsi a Roma, e bramava far pom-
posa mostra di sé in quella solenne ambasceria, sfc^gìando ài
cospetto de'Romani e de'forestieri i tesori di gemme redati dal
padre, gli splendidi suoi cobchi e le leggiadre assise de' suoi
valletti. La sua casa era stata per due mesi ingombra di sartori,
di rìcamatori e tappezzieri: tutti i suoi gioielli erano state dis-
seminati sulle assise de'sdoi paggi, e fra le altre cose una col-
lana che doveva andare al collo di uno di costoro diceasi del
valsente di ducentomila fiorini. Tanto lusso sarebbe stati meno
ammirato se le quattro solenni ambasciate avessero dovuto fare
nello stesso tempo il loro ingresso in Roma. S'arroge che coU^
di Piero nell'ambasciata era Gentile, vescovo d'Arezzo, uno dei
precettori di Lorenzo de'Medici, e che Gentile, il quale doveva
arringare , non era meno voglioso di recitare l' elucubrata sua
arringa che fosse Piero di fare sfoggio delle sue assise. Ora, se-
condo il divisamente di Lodovico il Moro, avrebbe dovuto arrin-
gare il solo ambasciatore del re di Napoli. Non sapendo il Me-
dici rinnegare questa sua vanitosa boria, indusse Ferdinando re
di Napoli a ritirarsi dalia promessa già data a Lodovico, il quale,
punto dal vedere con tanta leggierezza abbandonato un divisa-
mento da lui proposto e sostenuto da plausibili motivi, si fece
a indagare le cagioni per cui Piero poteva tanto sull'animo di
Ferdinando, e sospettò e scopri l'esistenza di una segreta lega
tra questo e il capo della Repubblica fiorentina. La quale al-
leanza , indipendente da quella onde egli stesso faceva parte ,
parvegli conchiusa a suo danno; e di vero, quando la casa
de' Medici costantemente alleata degli Sforza , era disposta ad
abbandonarli per la casa rivale di Aragona, doveasi temere un
intero cambiamento in tutto il sistema politico dellltalia.
Indi a poco ebbe Lodovico novelle prove di questi accordi
tra Piero de' Medici e Ferdinando , le quali accrebbero i suoi
timori. Ferdinando e Piero consigliarono Virginio Orsini, parente
— 483 —
d^amUdoe loro, a comperare i fendi deirAngùillara e di Cenrelri,
che Innocenzo Vili aveva dato in signorìa a sqo figlio France-
schetto Cibo. Virginio ne fece di vero l'acquisto per quaranta-
qnattromila ducati» de^quali il Medici gliene sovveniva quaran-
tamila. Per tale modo i feudi degli Orsini, posti in gran parte
tra Roma, Viterbo e Civitavecchia, venivano ad assicurare il
passo tra il regno di Napoli e Io Stato di Firenze, in tal qual
modo ad inceppare il papa, i cui più possenti feudatari, che
erano gli Orsini, venivano per sifialta guisa protetti fino alle
porte della sua capitale dai due più potenti fra'suoi vicini. Lo-
dovico il Moro fece accorto di questo pericolo Alessandro VI,
confortandolo a non approvare o collaudare la vendita delPAn-
gnillara, poiché i feudi della Chiesa non potevano essere ven-
dati dai feudatari senza il consentimento del papa.
Lodovico il Moro approfittò della inquietudine in che que-
sto negoziato e le minacce di Ferdinando e di Piero de'Medici
tenevano Alessandro VI per conchiudere con lui e colla Repub-
blica dì Venezia un'alleanza, mercé della quale si potesse resi-
stere alle forze ed alFambizione omai troppo soverchie della
casa d'Aragona. Tale alleanza fu sottoscritta il 22 aprile del
1493, malgrado ^opposizione del doge di Venezia, il quale, co-
noscendo Findole di Alessandro VI, mon sapeva indursi a porre
in lui fede. Poco dopo accostossi a questa lega anco Ercole 111
duca di Ferrara; ma la Repubblica di Siena non volle pren-
dervi parte.
Obblìgavansi il papa e gli altri due confederati a tenere in
arme pel mantenimento delia pace d'Italia un esercito di venti-
mila cavalli e di diecimila fanti, al cui soldo ed allestimento il
papa doveva contribuire per un quinto, e il duca di Milano ed
il governo veneto ciascuno per due quinti. Quest'alleanza non
aveva alcuno scopo di guerra, e tutti gli Stati d'Italia poteano,
quando loro piacesse, accostarvisi.
Lodovico il Moro temeva assai meno di Ferdinando che
de! costui figliuolo Alfonso, perchè questi era il protettore natu-
rale del suo nipote, Giovanni Galeazzo, di cui Lodovico avea usur-
pata tutta l'autorità. Lodovico, impadronitosi nel 1479 a mano
armata della reggenza di Milano, cacciandone la duchessa Bona ed
il vecchio Simonetta, aveva allora un plausibile motivo per arro-
garsi tutti i poteri del nipote Giovanni Galeazzo, il quale era
ad ogni modo troppo giovane per governare, benché fosse stato
dichiarato maggiore di quattordici anni ; posciacbé bene sa-
- 481 —
peasi a Milano, del pari che in tutte le altre noonarchie, che Tan-
ticipata dichiarazione di maggior età non aveva altro effetto che
quello di levare rautorità di noano ai tutori indicati dalla legge
per recarla in mano ai favoriti del giovanetto principe o a co-
loro che avevano in suo nome occupato il supremo potere.
Ma erano ornai quattordici anni che il Moro teneva le re-
dini del governo, e Giovanni Galeazzo era giunto a tale età che
il suo senno non poteva più nulla sperare dal tempo. El si era
ammogliato con Isabella flgliuola d'Alfonso ed abbiatica del re
Ferdinando; • la quale fanciulla, dice il Comines, era corag-
giosa assai ed avrebbe volentieri , se l'avesse potuto, recato il
potere in mano al marito, ma egli non aveva troppa prudenza
e palesava ciò che la consorte gli diceva, > E in vero, fosse
effetto del caso o deireducazione data al principe, fatto è che
lo scarso intendimento suo era favorevole assai ai disegni di
Lodovico. Fuvvi chi accagionò questi di avere a bella posta al-
lontanato il nipote dallo studio delle lettere, da ogni esercizio
guerriero e da qualunque istruzione potesse renderlo atto a
governare, e di averlo dato per lo contrario da educare a gente
dappoco, inetti adulatori, onde avvezzarlo al lusso ed alla mol-
tezz ) ; ma sarebbe forse ingiustizia V attribuire a Lodovico il
Moro così reo disegno , perciocché tale era Fordinaria educa-
zione che soleva darsi ai prìncipi. Giovanni Galeazzo, benché
latto adulto, non potea dirsi uscito dairinfanzia> la sua debo-
lezza, pusillanimità e dappocaggine erano aperte a tutti coloro
che se gli accostavano: onde a Lodovico il Moro bastava il la-
sciarle conoscere per giustiQcarsi del tenerlo affatto lontano dal
governo.
Isabella d'Aragona conosceva pur essa l'incapacità di suo
marito, ma parevale che il diritto di governare in sua vece
spettasse a lei, non ad altri. Cresciuta presso al trono e avendo
sempre nudrita la speranza di regnare, ella credeva che il pro-
prio orgoglio fosse fermezza d'animo, e la sua risolutezza abi-
lità; onde avrebbe voluto governare lo Stato in quella guisa che
governava il marito. D'altra parte, Beatrice d'Este, moglie di
Lodovico , non trasandava occasione di mortificarla , volendola
in tutto sovverchiare. Splendida era la corte di Beatrice per af-
fluenza di cortigiani e di servili adulatori e per la pompa degli
abiti e dei cocchi; intanto che Isabella vivea solitaria nel pa-
lazzo di Pavia, ove in qualche modo colla povertà combatteva,
0 benché dal suo fianco dovesse nascere l'erede della signoria.
i sooi parU eranO' appena resi noti ai sudditi. Isabella si era
lagnata acerbamente di LodoYico al padre, il quale, per meno
de^saoi ambasciatori » fece solenni istanze perchè al giovane
duca venisse data alla perfine Tautorità che per diritto gli si
aspettava.
Ma Lodovico il Moro, invece di deporre il governo del du-
cato, cominciò da quel punto ad accattare pretesti per sedere
egli stesso sul trono. L'imperatore Federico era morto in età
di ottantanni, nella notte del 19 al 20 agosto del 1493, e Mas-
similiano, suo figliuolo, che gli era succeduto col titolo di re
de' Romani, ne' principii del suo regno già scarseggiava di da-
narq, come per i suoi mali governi e per le sue disordinate
larghezze e profusioni ne scarseggiò poi fino agli ultimi suoi
giorni. Lodovico gli fece offrire in matrimonio Bianca Maria ,
sua nipote, colla dote di quattromila ducati , chiedendogli in
contraccambio l'investitura per sé del ducato di Milano. I can-
cellieri imperiali trovarono facilmente i pretesti occorrenti per
palliare qoest' ingiustizia. Francesco Sforza , e dopo di hii suo
figlio Galeazzo, mai non avevano ottenuto l'investitura impe-
riale; ora il diploma conceduto a Lodovico dichiara che gl'im-
peratori romani avevano posto per legge di negare il legittimo
possedimento di un feudo a chiunque lo avesse violentemente
usurpato, e che per questo motivo Massimiliano aveva rigettate
tutte le istanze fatte da Lodovico Sforza a favore di suo nipote
e preferito di scegliere invece lo stesso Lodovico. Pure questi
non ebbe troppa premura di pubblicare questo diploma, e con-
tinuando ad intitolarsi duqa di Bnri e lasciando al nipote i titoli
di duca di Milano e di signore delle città lombarde, tutta in-
somma teneasi la potenza e la pompa della sovranità.
La propria ambizione di Lodovico appagavasi dell'esercizio
della reggenza: bensì desiderava di procurare a' suoi, figlinoli,
piuttosto che a quelli del nipote, l'eredità del ducato di Milano;
ma non s'arrischiava senza timore in cosi spinosa intrapresa ,
neila^ quale avrebbe avuto acerrimo nemico il re di Napoli. Ab-
bastanza conosceva il nuovo re de'llomani per non isperarne
verun soccorso; cominciava a travedere la versatilità del papa,
cui da bel principio erasi lusingato di poter governare a propria
posta col mezzo de'consigli del cardinale Ascanio, suo fratello;
poca fiducia riponeva ne'Veneziani, in ogni tempo nemici della
sua famiglia ; i Fiorentini gli erano contrarli , e temeva che i
medesimi suoi sudditi di Lombardia apertamente non si oppo-
— 486-
nessero ai saoì disegni , che tendevano a balzare dal trono ì
legittimi loro principi. In tale imbarazzo parve opportuno a Lo-
dovico di cercarsi oltremontì un alleato, e si volse a Carlo Vili,
re di Francia, del qnale non aveva potuto ancora apprezzar la
possanza.
Carlo Vni era succeduto fin dal 30 agosto del 1483 a suo
padre Lodovico XI, alleato del padre di Lodovico il Moro; ma
non avendo Carlo in allora se non tredici anni e pochi mesi,
Lodovico XI aveva, prima di morire, affidato il governo del re-
gno a madama di Beaujeu , sua figliuola primogenita , moglie
di Pietro di Borbone. Pe^ dieci anni gloriosamente amministrò
quella principessa lo Stato, e represse le pretensioni de' principi
dei sangue, pose fine a pericolose guerre civili e. assoggettò o
ritini alla corona vasti feudi fino allora indipendenti. Carlo Vni
propriamente non cominciò a governare egli stesso se non dopo
il 1492. In grazia dello splendore d'una rilevante impresa e della
conquista d'un regno, questo monarca ottenne una gloria troppo
maggiore di quella a cui l'avevano destinato e la natura e l'edu-
cazione. Imperciocché , sebbene la maggior parte degli storici
francesi l'abbiano rappresentato, per valermi della frase di Luigi
de la Trémonille, come < piccolo di corpo e grande di cuore, »
i due migliori osservatori del secolo , che sono Filippo di Co-
mines e Francesco Guicciardini , ne fanno il più svantaggioso
ritratto. Il primo lo dice < molto giovane e appena uscito da)
nido, mal provveduto d'intelletto e di danaro, di debole persona^
ostinato nei propri consigli e non accompagnato da uomini pru-
denti. > Dice dell' altro < questo giovane ,. in età di ventidue
anni e per natura poco intelligente delle azioni umane, era
trasportato da ardente cupidìgia di signoreggiare e da appetito
di gloria, e ciò piuttosto per leggierezza d'animo ed impeto, che
per maturità di consiglio; e prestando, o per propria inclina-
zione, 0 per l'esempio e ammonizioni paterne, poca fede a' si-
gnori ed ai nobili del regno, dacché era uscito della tutela di
Anna duchessa di Borbone, sua sorella, non udiva più i con-
sigli dell'ammiraglio e degli altri, i quali erano stati grandi in
quel governo, ma si reggeva col parere di alcuni uomini di pic-
cola condizione, allevati al servigio della persona sua, che fa-
cilmente erano stati corrotti. >
L'aspetto di Carlo Vili corrispondeva a molta debolezza di
spirito e di carattere; era di bassa statara; aveva grossa la testa
e corto il collo, petto e spalle larghe e sollevate, cosce e gambe
lunghe e gracili.
— 487 —
< Cario fino dalla paerìzia fa di complesàone molto debole
3 di corpo noD sano* di statura piccola e d'aspetto (se tu gli
levi il figore e la dignità degli occhi) brottissimo; Taltre mem-
tira erano sproporzionate, in modo che pareva qoasi più simile
I mostro che ad nomo. Non solo non ebbe alcona notizia delle
tMione arti, ma appena gli furono cognite le flgure deirabbicì:
aveva animo cupido di imperare , ma abile più ad ogni altra
cosa, perchè, aerato sempre da' suoi, non riteneva con loro
né maestà, né autorità: alieno da tutte le fatiche e faccende, e
in quelle alle quali pure attendeva povero di prudenza e di
giodido: se pure alcuna cosa in lui pareva degna di laude, ri-
sguardata intrinsecamente, era più lontana dalla virtù che dal
vizio: era inclinato alla gloria, ma più per impeto che per con-
siglio; era liberale, ma inconsideratamente e senza modo o re-
^la; era immutabile talvolta nelle deliberazioni , ma ciò era
spesso ostinazióne mal fondata, anziché costanza: e quello che
BQOlti chiamavano bontà meritava più convenientemente il nome
li freddezza e di remissione d'animo. »
Tale era Tuomo il quale per virtù delle circostanze fecesi
M)nquistatore e dalla fortuna fu onusto di maggior gloria che non
[)Otesse portarne.
Lodovico Sforza, onde procacciarsi l'alleanza di Carlo Vili,
aiaodò in Francia Carlo di Barbiano, conte di Belgioioso, ed il
x>Dte di Caiazzo, figliuolo primogenito di Roberto di Sanseve-
ino, morto da pochi anni, per invitare quel re a venire a con-
quistare la corona di Napoli, che gli si aspettava, e per. indurlo
I cogliere il buon punto che i signori del regno erano piucché
mai stracchi del giogo della casa d'Aragona, e che il papa era
sdegnato contro di Ferdinando. Lodovico gli si profferiva per
fedele e fervido alleato» e prometteva d'aprirgli il passo all'Italia
per la Lombardia e di assicurargli la signoria del mare coi porti
dello Stato di Genova, e solleticava inoltre l'ambizioso e vani*
toso animo di lui colla speranza di conquiste ancora più splen-
dide, facendogli, per cosi dire, travedere da lungi la conquista
della Turchia e la liberazione di Costantinopoli e di Gerusa-
lemme, siccome imprese riservate al valore francese.
Il conte di Caiazzo, ch'era figliuolo di quel Roberto da San-
severino capo del ramo bastardo della casa di Sanseverino, che
aveva ottenuta in Lombardia tanta gloria colle esimie sue
virtù guerriere e politiche, trovò alla corte di Francia i capi
del ramo primogenito e legittimo della sua casa , eh' erano
- 488 —
Antoniello di Saoseverino priocipe di Salermo » e Bernardina
principe di Bisignano« i quali, scampali essendo dalle perseca-
zioni della casa d'Aragona, cercavano» di conserva con lutti gli
esuli del partito d'Angiò, modo di trarre lo armi francesi nel
regno di Napoli. Ingannali dalle illusioni proprie degli esuli in
ogni tempo» ei facevano ragione delle disposizioni decloro nazio-
nali secondo il proprio risentimento, e nella guerra straniera
tutte riponeano quelle speranze che più non poteano dare loro
le abbattute forze del proprio partito; laonde assecondarono a
tutto potere ii conte di Caiazzo.
Dal canto sud il conte di Belgioioso adoperavasi per la
buona riuscita dei suoi consigli con tutte le segrete pratiche
di un esperto cortigiano. Andò da tutti coloro che godevano
del favore del re, e gli uni corruppe coi doni, gli altri colle
promesse, dando loro speranza di feudi e di cariche ragguar^
devoli nel regno di Napoli, di titoli nella corte di Roma e di
prebende ecclesiastiche in tutta la cristianità. Di tal modo ei
venne a capo di trarre dalla sua molti grandi e possenti, ed in
particolare uno Stefano di Vese, di Linguadoca, eh' era stato
lungo tempo cameriere del re ed in appresso era diventato
siniscalco di Belcario, e un Guglielmo Briscioonet, che di mer-
catante era diventato appaltatore delle pubbliche entrate nella
generalità di Linguadoca, onde era chiamato generale, ed airul-
timo vescovo di San Malo e sovrintendente della finanza. Questi
due personaggi con tutti i loro creati facevano plauso a quella
impresa, per la quale aprivansi loro novelle vie onde acquistarsi
ricchezze senza eccitare di troppo la gelosia de'magnati. Coloro,
per lo contrario, che per la condizione e pel credito loro ere-
ditario erano più dediti alla Francia che non al re, sconsiglia-
vano r impresa ; imperciocché non pareva loro che vi fossero
probabili speranze di durevole successo , e non avevano a
grado che la Francia , per assicurarsi da ogni straniera inva-
sione, onde tentare quella conquista, comperasse la pace dai
suoi vicini, rinunciando a sicuri vantaggi per abbracciare lon-
tane speranze.
Finalmente, dopo molli dibattili tra il re e gli ambascia-
lori di Lodovico il Moro, per opera del Briscionnet e del sini-
scalco di Belcario fu fermato il seguente trattato. Primo patto
era che, quando Carlo Vili venisse in Italia o vi facesse scen-
ilere il suo esercito, il duca di Milano fosse obbligalo a dargli
il passo per mezzo a' suoi Stali , a farlo accompagnare a sue
— 489 —
spese da anqueceoto oomioi d^arme, a permeUergli d'armare a
(ìeoofai quanti Tascelli Carlo volesse e a dargli in prestito
dncentomila ducati all'atto della partenza dalla Francia. In
corrìspettiTo il re prometteva di difender da cliichefosse il ducato
di Milano e la propria autorità di Lodovico il Moro, di lasciare
in Asti, città appartenente al duca d'Orleans, duecento lance
francesi, sempre apparecchiate a difendere la casa Sforsa; e
.per ultimo di dare a Lodovico il principato di Taranto, fatta
elle avesse la conquista del regno. Queste convenzioni si ten-
nero per molti mesi segrete; e quando cominciò a spargersi in
Italia la voce della prossima venuta de' Francesi , Lodovico il
Moro, anzi che lasciarsi intendere ch'egli era loro alleato, pro-
curò di far credere agi' Italiani eh' egli non meno di loro era
•atterrito dalla veneta dei barbari.
Dacché Carlo Vili ebbe determinato di fare l' impresa del
regno di Napoli, ad altro più non pensò che a sciogliersi dalle
brighe coi vicini, facendo trattati di pace con tutti loro, per
ottenere i quali rinunziò a molti vantaggi che madama di
Beaujeu aveva, mercè della sua prndenza, ottenuti nel glorioso
corso della sua amministrazione. Carlo Vili, quando prese le
redini del governo, trovavasi in guerra con due de'più potenti
vicini della Francia, cioè a dire Enrico VII , re d' Inghilterra ,
e Massimiliano re de' Romani ; egli era nello stesso tempo
poco sicuro dal lato di Ferdinando e d' Isabella re d'Aragona
e di Gastiglia. Ma tutti questi sovrani-, benché fossero ad un
tempo nemici della Francia, non erano tuttavia d'accordo tra
di loro. Il re Carlo fece a ciascheduno separatamente tali lusin-
ghiere offerte, che non gli riusci difficile di ottenere la pace.
Trattò da prima con Enrico VII, che era sbarcato a Calais con
un formidabile esercito, e il 3 di novembre del 1492, in Eta-
ples, conchiuse con lui un trattato in virtù del quale il re
inglese si scostò dall' alleanza del re de' Romani, e per mezzo
delia diserzione doveva avere da Carlo quarantacinquemila
scudi d'oro a titolo di rifacimento delle spese della guerra della
Bretagna.
La guerra della Francia col re de'Romani sembrava dovere
riuscire più accanita a cagione del doppio affronto fatto da
Carlo Vili a Massimiliano, rimandandogli Margherita di Bor-
gogna, sua figiia, cui era fidanzato, per ammogliarsi con Anna
di Bretagna, che era promessa sposa allo stesso Massimiliano.
Pure la corte di Francia venne a capo, col trattato di Senlis
Tamb. Jnquis. Voi. IL ^i>
— 490 —
del 23 maggio 1493 , di rappaciare il principe austriaco , re-
stitueDdogli le contee di Borgogna » di Artese e del Garolese ,
e la signoria di Noyers , che Carlo Vili occupava di pk come
dote di Margherita. Promise pure Carlo di restituire a Fi-
lippo d'Austria » giunto che fosse in età maggiore » le città di
Hesdin» Aire e Bethune» sulle quali Filippo vantava particolari
diritti.
Il terzo trattato di Carlo Vili fu ancora più svantaggioso
alla Francia. Lodovico XI aveva ricevuto in pegno per trecen-
tomila ducati dal re Giovanni d'Aragona la città di Perpignano,
la contea di Rossiglione e la Gerdagna. Le fortezze di quelle
anguste Provincie erano come le chiavi della Francia dal lato
de' Pirenei, e Lodovico XI le credeva di tanta importanza, che
non volle più restituirlo all'Aragonese, il quale per riaverle of-
feriva il danaro in prestanza. Per lo contrario Carlo Vili le
restituì gratuitamente a Ferdinando il Cattolico, a condizione
che questi non soccorrerebbe suo cugino Ferdinando di Napoli
e non si opporrebbe ai progressi del re di Francia in Italia. Fa
questo il risultamento del trattato di Barcellona del 19 di gen-
naio del 1493.
Mentre che Carlo VIII con questi trattati assicurava la pace
alla Francia , altri ne andava intavolando per apparecchiare la
guerra in Italia. Egli aveva colà inviati quattro ambasciatori
con ordine di visitare tutti gli Stati della provincia e di chie-
dere a tutti ajuto per ricuperare i diritti della casa di Francia.
Perrone de' Baschi, la cui famiglia, originaria d'Orvieto, ottenne
poscia in Francia il marchesato d'Aubais, era capo di quest'am-
basceria. Perrone aveva già accompagnato in Italia GiovaoDi
d'Apgiò e appieno conosceva gl'interessi di tutti i principi della
contrada. Egli si volse prima di tutto ai Veneziani e chiese
loro, secondo ch'erano i comandamenti del re , aiuto e consi-
glio pel re suo signore. Risposero i Veneziani che troppo sa-
rebbero stati presuntuosi se avessero creduto poter dare con-
sigli ad un principe circondato da uomini tanto prudenti , e
che imprudente cosa sarebbe il promettergli soccorso, mentre
dovevano star sempre apparecchiati a respingere le armi tar-
chesche; ma che Carlo Vili non doveva dubitare delPaffetto e
della devozione delia Repubblica verso la corona di Francia.
Con queste ambigue parole credeva il Senato di schivare ogni
rimprovero per parte dei sovrani d'Italia. Per altro i Veneziani
in cuor loro desideravano l'abbassamento della casa d'Aragona,
— Iti -
e si smUbao alleati cofla Firaoda se non aieswro Imiito di
essere poi abbandonati dai Francesi e ridotti a »$lenefe soli
tutto il peso ddla goerra.
Pennone de'Ba^hì passò iodi a Firenae. Compagni dd«
Tambasdata erangti d*AolMgny, il soTraintendente Brìscìonnet
ed il "presidente del parlamento <(fi ProTenaa« Vennero questi
signori introdotU nel consìglio de^ settanta , al quale furono
chiamati come arroti tutti coloro che negli ultimi treutaquat*
tr'anni erano stati confolouierì. E per tal modo que$ra.^$emhlea
• Tonìta ad essere composta di persone afliitto ligie alla casa
de^ Medio. Chiesero agii ambasciatori che la Repubblica pro«
mettesse air esercito francese il passo pel suo territorio e lo
Tittovaglie contro pagamento. Ma il consìglio , eh' era deiiito a
a Piero de' Medici, fu di unanime sentimento di serbar fedo
alla casa d'Aragona. Siccome tuttavia i Fiorentini avevano in
Francia molti de' loro più ricchi banchi di commercio » cosi e'
diedero al re una risposta evasiva ; e gli mandarono inoltre
per oratori Pietro Capponi e Guid'Antonio Vespucci a suppli-
carlo di voler essere loro amico.
Gli ambasciatori francesi mossero quindi a Siena e vi giun-
sero il 9 maggio del 1494. Ma i Sanesi , rappresentando loro
che, deboli come erano, non potevano senza estremo peri-
colo dichiararsi anticipatamente per Tuno o per Taltro do' due
rivali , dissero di volere starsene scrupolosamente di utesso.
Alessandro VI, che fu Tultimo ad essere visitato dagli amba-
sciatori, loro dichiarò che, avendo i suoi predecessori accordata
rinvestitura del regno di Napoli ai principi della casa d'Ara-
gona, egli non poteva ritorgliela senza un precedente giudizio»
per cui evidentemente si conoscesse che i diritti della casa
d'Angiò vincevano quelli della casa di Aragona, E incaricati gli
ambasciatori a rappresentare al loro sovrano che il regno di
Napoli' era un feudo della santa sede e che al papa solo spet-
taya di pieno diritto il dar sentenza fra i competitori. sogglnnfM)
che l'occupare il regno colla forza sarebbe lo stesso che assalire
la Chiesa.
' Ferdinando dal canto suo non trascurava le vie delle ne-
goziazioni. Prima di tutto mandò allo stesso Carlo di Francia
Camillo Pandone, in cui moltissimo confidava, per chiedfTO ni
Francesi il rinnovamento dei trattati precedentemente conchltiid
con Lodovico XI, dicendosi pronto a compromettere negirarbi-
tramonti del pontefice per ogni contesa colla ca^a di Francia e
— 491 —
fors'anco a riconoscere, senza venire airesperimenlo delle armi,
la corona di Napoli per tributaria della Francia. Ma tnlte questa
proposizioni furono rigettate dal prosojitaoso Carlo Vili, il quale
intimò agli ambasciatori napoletani lo sfratto immediato da' suoi
Stati.
In pari tempo Ferdinando negoziava ancora col papa, e con
migliore successo che in Francia. Alessandro VI ardentemente
desiderava di consolidare la grandezza della propria famiglia col
mezzo d' illustri parentadi e, per rappattumarsi colla casa d'Ara-
gona, aveva chiesto che la pace fosse suggellata con un matri-
monio; e sebbene si accontentasse che uno de' propri figli spo-
sassesi ad una figlinola naturale d'Alfonso, figlio di Ferdinando»
quest'ultimo gli aveva data la ripulsa. Ma il timore dei Fran-
cesi aveva reso più mansueto l'orgoglioso Alfonso: dal che ne
venne che don Giuffrè o Goffredo Borgia, il più giovane dei
figliuoli di Alessandro VI, sposò donna Sancia, figlia d'Alfonso.
I due sposi Aon erano ancora atti al matrimonio; pure don
Goffredo passò tosto a' servigi della casa d'Aragona con una
compagnia di cento uomini d'armi e andò a stare in Napoli
per godere della readita dei diecimila ducati e del ducato di
Squillace, dati in dote alla sposa. Il papa approvò allora la ven*
dita delle due contee d'Anguillara e di Cervetri, che era stata
la prima cagione del suo mal umore con Ferdinando, obbli-
{^ndo tuttavia l' Orsini a pagarne di nuovo il prezzo alla
camera apostolica; al quale uopo Ferdinando somministrò al-
l'Orsini il danaro.
Né trascurò Ferdinando di far pratiche ancora presso Lo-
dovico Sforza, a cui fece dire che le loro famiglie erano unite
da tanti vincoli di parentela che, come suol farsi tra congiunti,
alla amichevole dovevano trattarsi le loro differenze. Che se la
figlia di suo figlio Alfonso aveva sposato Giovanni Galeazzo, la
figlia di sua figlia, ch'era la duchessa di Ferrara, aveva sposalo
Lodovico il Moro ; di modo che, qualunque di loro due conser-
vasse il ducato di Milano, sarebbe sempre erede del trono un
suo nipote. Le nozze di Bianca Maria Sforza col re de' Romani
parevano indizio che Lodovico il Moro fosse per abbandonare
l'alleanza della Francia, perciocché sapevasi che, a dispetto del
trattato di Senlis, Massimiliano odiava tuttora acerbamente
Carlo Vili. Ma Lodovico Sforza era ornai ridotto a quel punto
che doveva darsi in balia alla sorte ch'egli stesso aveva provo-
cata e correre tutte le vicissitudini della pericolosa alleanza che
%
ii
— 495 —
li atera coptratb. Poi ch'ebbe sollecitata rarobitìone e la
initi del giovane francese^ pia non era io suo arbitrio Tattu*
rie. Nò avrebbe pradeDteinente operato scostandosi da Carlo
privandosi della saa assistenza dopo avere cosi gravemente
"ovocato i suoi nemici : onde studiavasi soltanto di guadagnar
mpo per non essere assalito prima della discesa dei Francesi
Italia; ed invece di farsi a discutere di buona fede le pro-
»ste di accomodamento che gli faceva il re di Napoli, sforza-
isi di fargli credere ch'egli* non aveva pattuito cosa alcuna coi
*ancesi e che più d'ogni altro paventava i pericoli che gli
vrastavano se gli eserciti francesi scendevano in Italia.
Ferdinando non trascurava intanto di apparecchiarsi a re-
liogere i nemici colle armi. Non sapendo per quale via essi
nterebbero d' invadere i suoi Stati» allestì una flotta di cin-
lanta galere e dodici grossi vascelli per chiuder loro la via del
are, e ne diede il comando al suo secondogenito, don Fede-
ro; e fece da Alfonso duca di Calabria, il quale per la presa
Otranto era salito in fama di esperto capitano, raccogliere ai
iDfini del regno un esercito, che questi con ogni mozzo cor-
iva d'ingrossare. Ma per la difesa di Napoli egli pareva prin-
palmente confidare nell'alleanza della Chiesa, sebbene Alcs-
iDdro VI cercasse fino all'ultimo di trarre profitto dalle inquie-
ladini e dalle angustie del suo alleato per giungere a' suoi
rivati fini. Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in
ncoli, non aveva voluto ad alcun patto riconciliarsi con Alcs-
indro VI ; riparatosi nel suo vescovado d'Ostia, egli si era for-
Qcato nel castello che egli stesso aveva innalzato, e le cui
fri sono ancora al presente adorne de'suoi stemmi. Il papa
infinse di credere che Giuliano colà si tenesse d'accordo con
ordinando, e fece dire a questi che ei sarebbe tornato all'ai-
anza della Francia se il re non gli faceva consegnare Ostia,
ivano protestava Ferdinando che il cardinale della Rovere non
pendeva altrimenti da lui, ed eccitava il papa a pensare piut-
sto ai guasti dei Turchi in Croazia che alla guarnigione d'Ostia;
iè un nuovo lievito di discordia già fra di loro fermentava, e
re di Napoli chiaramente s'addava che non doveva fare fon-
mento sopra un alleato comperato a cosi caro prezzo.
Le cose del vecchio Ferdinando andavano ogni di peggio-
Qdo; i suoi alleati ad altro non pensavano che a vendergli
1 care le loro promesse di soccorsi senza allestire l'occor-
Ite per dargli ajuto. Vero è che i suoi nemici non ancora
-494-
si erano mostrati operosi se non nelle pratiche , ma intanb^
essi aTevano .sciolta quella confederazione deiritalia che poteta
incutere timore agli oltramontani. Da parecchi anni Fltalia go-
deva piuttosto pace che felicità ; più prospero era il suo Stato,
ma i suoi desiderìi non erano appagati ; ella confidava nelle
proprie forze ancora intere e segretamente desiderava di fare
nuovi sperimenti del suo valore. Prima che i popoli provine
il peso delle calamità della guerra» r inquietudine, la curiosità,
il bisogno di vive commozioni, la vaghezza di perigliarsi al piir
grande de' giuochi di sorte , ed altre passioni frivole traggooli*
spesse volte a provocare le rivoluzioni. Lodovico il ìforo aven
egli solo negoziato colla Francia ; ma dall' una all'altra estre-
mità della penisola la metà degV Italiani aspettava con impa-
zienza un' invasione di cui essi medesimi non pertanto teme-
vano. Lo stesso duca Giovanni Galeazzo Sforza andavasi lu^o-
gando chela venuta ne'suoi Stati di un re ch'era suo congiunte
potrebbe mutare la sua sorte. Il duca Ercole III di Ferrara ,
che si era accostato alle pratiche dei genero Lodovico il MorOr
sperava nelle future turbolenze di riavere il Polesine di Rovi-
go, toltogli neir ultimo trattato di pace. I Veneziani desidera-
vano dì vedere umiliata la casa d'Aragona , i Fiorentini di
scuotere il giogo della casa dei Medici, il papa di farsi arbitre^
tra i due potentati, i numerosi nemici della casa d'Aragona nel
regno di Napoli di vendicarsi della lunga oppressione. Assi-
curasi che Ferdinando , veggendo questo universale fermento ,
pensò, a malgrado della sua avanzata età, di recarsi a Genova
per abboccarsi col Moro, onde fargli toccare con mano i perì-
coli cui esso esponeva ritalia a sé medesimo, aprendo impru-
dentemente le sue porte ad un nemico di tutti loro più forte.
Sperava il re di potere tuttavia ricondurre alla ragione ed alla
sana politica il reggente di Milano ; perciocché ben conosceva
il pieghevole ingegno e la singolare accortezza di lui. Ma in-
tanto che nella mente volgeva questi pensieri, tornando uo
giorno dalla caccia, fu in un modo affatto impensato preso da
un' affezione catarrale che lo trasse in due giorni al sepolcro.
Morì il 25 gennaio del 1491 , in età di settant' anni dopo un
regno di trentasei, lasciando due figliuoli, Alfonso e Federico, di
già riputati valorosi nell' armata , il primo dei quali fu tosto
riconosciuto per suo successore. La fortuna, che aveva largheg-
giato inverso a Ferdinando di tanti doni di cui egli non sem-
brava meritevole, in tutto il tempo della vita, gli fu ancora fa-
voiefole in quQsto , che Io tolse dal mondo in quel solo ponto
in coi la morte di lai potesse essere increscevole. I suoi ni-
tali non solo erano illegittimi , ma Unto vergognosi che suo
padre mai non aveva voluto palesare quel segreto» lo che diede
luogo ad opposte conghietture ; ma questa macchia non grim<
peffi ponto di occupare un trono invidiabile da più potenti
monarchi. Egli non diede prove né di singolare valore né di
somme doti guerriere, sia nelle imprese affldategli dal padre,
sia nelle fiere tenzoni che ebbe a sostenere contro i suoi sud-
diti ribelli; e non pertanto trionfò di tutti i suoi nemid. Non
aveva dal padre Alfonso il Magnanimo ereditato né la inge-
nita né la generosità né verun'altra delle sue belle doti, e con
tattodò fu amato al sommo da quel grand'uomo. Ebbe a com-
petitori due principi che lo avanzavano di lunga mano per
virtù guerriere , politiche e morali. Uno di loro ,. il conte di
Viana, che gli era nipote, aveva a suo favore tutte le fazioni
aragonesi ; Taltro, che fa il duca di Calabria, quella degli An-
gioini. Quei baroni napoletani che non avevano apertamente
abbracciato verun partito sembravano Ipropensi a tenere con
quello che poteva liberarli da Ferdinando ; ma V uno e V altro
farono. perdenti , e Ferdinando regnò trentasei anni. Egli fece
perire in prigione coloro che avevano tentato di scuotere il
suo giogo e consolidò colla crudeltà e colla perfidia un' auto-
rità sempre più detestata. I primi prosperi avvenimenti sono
il più delle volte T opera di una cieca fortuna, ma la loro co-
stanza vuoisi ascrìvere a queiraccortezza la quale soventi volte
si ocUosa riesce che ricusiamo di riconoscerla ; tale fu Faccor-
tezza di Ferdinando. Egli non fu dotato di alcuna delle qua-
lità che sono proprie dei grandi uomini, non di generosità, ma
di nobiltà d'animo, ma era uomo di consumata prudenza, e la
sua politica fu poche volte fallace. Consegui quanto volle (5 in
quel modo che gli scellerati giungono ai loro fini, in onta d(3lle
regole della giustizia e dell' onestà. Regnò lungamente e morì
sul trono. Se questo era il suo scopo, ei l'ottenne; ma regnò
esecrato e mori lasciando la sua famiglia in gravissimo perì-
colo, e quando quella prudenza che era in lui conosciuta ed
abborrita poteva sola salvare il suo figliuolo da imminente
mina.
Ferdinando era di mezzana grandezza : aveva bel volto e
grande, lunga e di colore castano la chioma, fisionomia pia-
cevole, fronte aperta, faccia pienotta e proporzionata statura.
— 496 —
Straordinaria era la sua forza, cosicché essendosi nn giorno
abbattuto in un toro fuggito che attraversava la piazza del
mercato di Napoli, Io alOTerrò per le corna e fennollo. Culla
aveva la mente, ed era perito di varie scienze ed in partico-
lare della giurisprudenza , di cui risguardava Io studio come
necessario ai re. Aggraziata aveva la favella e, dando udienza
ai sudditi, sapeva dissimulare tutti i sentimenti che potevano
renderlo odioso, ed in generale aveva F arte di accommiatarli
paghi e contenti. Non debbono tutte attribuirsi a politica le
innumerabili sue crudeltà; che a molte ancora lo trasse la soa
passione per la caccia , avendo provveduto alla conservazione
della selvaggina riservata a' suoi diletti con atrod ordinamenti»
cui faceva senza remissione eseguire contro gli sventurati eoo*
tadini del suo regno.
CAPITOLO XXIV,
Fiorenza tro?avasi più che in altri tempi sifmoreggiata da
quei Tirtaosi cittadini, ma austeri ed entusiasti» ai quali Giro*
lamo Savonarola aveva predicata la rìforma. Il primo gonfalo-
niere dell' anno 1497 era stato Francesco Valori, che poteva
venire risgnardato siccome il capo di quel partito. La sua alta
e maestosa statura ed il suo nobile aspetto accresce\*ano appo
il volgo la grande riputazione di cui godeva per la prudenza e
accortezza della mente e per le sue pubbliche e private virtù.
Sempre attento ad afforzare il più che potesse il partito popo-
lare, fece ammettere nel maggiore consiglio tutti i giovani dal
ventiquattro ai trent' anni e vinse in pari' tempo una nuova
legge per cui a fine di stanziare una proposta dovevano essere
presenti in consiglio almeno mille cittadini.
Il divieto fatto f consigli di risolvere alcuna cosa quando
non sono a numero è senza dubbio svantaggioso in quo^to»
che il minore numero può impedire colla sua assenza le doli-
berazioni del maggiore; ed egualmente pericoloso riesce l^obbligo
ingiunto ai consiglieri d'intervenire e di dare il suffragio intorno
al partito, perchè frequentemente gli sforza a dare il suffragio
anche allorquando non hanno alcuna determinata opinione e
trasforma questo suffragio in legge. Ma non sono minori glMn*
convenienti dell'opposta regola. Quando una parte do'niemhrl d'un
consiglio contrae V usanza di non intervenire allo r»KUtianie»
Tamb. Jnquii. Voi. II. «J<
— 498 —
la sovrana volontà si trova cambiata secondo che essi concorrono
0 no alle assenoblee; la quale fluttuazione dopo d' avere fatto
prendere allo Stato contradittorie deliberazioni, può essere ca-
gione di fieri rivolgimenti. Fiorenza di quei tempi soggiaceva
a tale inconveniente, che riusciva tanto più sensibile in quanto
che la suprema magistratura sedeva per più breve tempo. To-
sto che un partito aveva ottenuto qualche vantaggio o fatta
un'elezione a suo grado, diventava meno vigilante, astenevasi
dalle prossime successive deliberazioni, ed intanto la parte av-
versaria, dopo di avere meglio ordite le segrete sue pratiche,
otteneva un'elezione in senso affatto opposto. A Francesco Va-
lori succedette Bernardo del Nero, uomo che aveva avuta intima
dimestichezza con Lorenzo de'Medici, che favoriva tutti i parti-
giani di quella casa, cui infine lo stesso Pietro soleva chiamare
suo padre.
Durante il magistrato di Bernardo del Nero fu bandita iji
Firenze la tregua fermata tra la Francia e la Spagna, e si co-
minciarono le negoziazioni per la pace generale. Lodovico Sforza,
adombrato dei Veneziani, proponeva, per impedir loro di sta-
bilirsi in Pisa, di restituire quella città ai Fiorentini, purché
questi a tal patto entrassero di buona fede nella lega d'Italia.
Alessandro VI venne in questa opinione ed inviò a Firenze il
vescovo Pazzi per offrire la restituzione di Pisa, se i Fiorentini
ponevano in mano dei confederati o Livorno o Volterra come
pegno della loro devozione agl'interessi dell'indipendenza ita-
liana. Ma né i Veneziani volevano acconsentire al disgombra-
mento di Pisa, né i Fiorentini a dare una fortezza in sua vece;
di modo che per gli opposti loro sforzi la negoziazione si ruppe.
Per altro, in tempo delle negoziazioni, i Fiorentini, che ave-
vano mostrata da principio tanta avversione e tanto disprezzo
per il papa, si credettero nuovamente obbligati ad accarezzarla
La negoziazioni con Roma diedero altresì opportunità a
Piero de'Medici di ricominciarne di più segrete co' suoi parti-
giani di Firenze. Gli alleati cominciavano a desiderare il suo
ritorno in una città in cui il partito repubblicano sembrava troppo
dedito alla Francia. Incuorato da loro, Piero credette di dover
tentare un'altra volta la sua fortuna, prima che Tamico suo
Bernardo del Nero uscisse di carica, li 23 di aprile recossi a
Siena, dove Pandolfo Petrucci e un fratello di questo, che ave-
vauo acquistato sopra quella Repubblica una quasi assoluta
-autorità, gli erano del tutto ligi. Colà venne a raggiugnere Bar-
dò Fiero tam «dne csohmml foto Jl kcH^ Imf^ t^ fifr rt^
mole lie; pn» fi» alb? p9ffte di llraE'w h wMlìiM «M JM
apiìle. Ifa b forti di Rookl €k*<icS 3v?n 5||enfe> 4ii $i>fni)p«iNih
doe» si trovò c«5tK>Sb e dUesi di PjìA> ViMti $iuiiK^ i( pr^
cedente gioroD àà Muiknx RaQorw di MMVÌimK cb<^ 9Y^Y;ai
il comaiMfci deUTesertìto iismfiiio ai cvuifinì del IVauKv (te ib
chttmalo inoaolaoenle in Firaote: iXKfe Pmo di^'Me^kì. ^V>|K>
essasi tnllenato qoattro or? pres» ilh |wl) $ina» ch<^ ^1
bastasse ramino «i assaltarla. rìtinDis$i qu;]inda tùV clhi^ nn^lh
città noo si tentava novità alcuna. Soo fnlello («ìuIì;!iihv ch^
nello stesso tempo era entrato nella Romatena fiiMTv^ntìn». vidi^
in pochi giorni disperdersi la sna poca gente.
Ma questo improdente tentatito diventò bentosto non iimH^
fatale ai partigiani de'MedicU che lo avevano pro\>M['alo ^ìxt' m
loro nemici, i qoali ne li punirono. Lnmberlo deirAnti^lKi. t^<i«
liato da Firenze, venne preso sul territorio fiorentino i\ sobl^euo
adducesse ch'egli tornava io patria per manifestare h ca<|^)r;»«
zinne di cui aveva avuta contezza, fu posto alla tortura : )H^r«
ciocché in allora non credevansi vere quelle deposizioni cho non
Tenivano riconfermate col mezzo di terribili supplizi* («oslul
incolpò i più riputati cittadini ed in particolare Bernartio dol
Nero, che usciva in allora dalla carica di gonfalonion>« (ìli otto
giudici del tribunal criminale non osarono assuiihoro il ginilizio
d'una causa di tanta importanza, e furono eloltl centosossanta
de'più ragguardevoli cittadini ad esaminare le risultanze del
processo.
Nicolò Ridolfi, il di cui figlio aveva sposata una m)rolln del
Medici, Lorenzo Tornabuoni, ancor esso parente di (|U08li. (Un-
vanni Cambi e Giannozzo Pucci, tutti o duo (In Piero ndopnriill
nelle faccende di Stalo, furono accusati d'aver chinmnlo Piero
de'Medici colia promessa di dargli una porla dolln cillA. Ilor-
nardo del Nero fu accusato d'avere avuto sentore (lolla loro
trama e di non averla manifeslata In tempo che le Mue inC'Om-
benze di gonfaloniere di giustizia T obbligavano più chn lutti
gli altri cittadini a procurare la salvezza della HepnbbJicii e di"
fenderla.
Il delitto di tutti costoro non sembrò dubbioso ad iilciino
di coloro cui era affidata la disamina del procissMo; ma ciò cIid
parea delitto aVepubblicani sembrava eroica prova a>rlÌKÌttnl
dei Medici. Non era dunque né sul fatto né nuì diritto che I
- 500 —
giudici dovevaDo senlenziariB» ma sulla stessa (onùa del governo.
Se condannavano gli accnsati, venivano a risguardare come reo
qualsivoglia tentativo contro lo stato popolare; se per lo c(m-
trario gli assolvevano, condannavano con ciò la rivolazione del
1494, e mostravano di riconoscere Tautorità de'Medid. Dovendo
quindi i giudici decidere una quistióne di politica, parve con-
venìenle alla Signoria soccorrere al giudizio. Adunò essa adun-
que tutti i primi magistrati dello Stato, i capitani di parte guelfo,
i conservatori delle leggi, gli ufQciali del Monte di Pietà, ed il
consiglio de'richiesti, ossia dei centosessanta eletti che avevano
esaminata la processura. Quest'assemblea, interrogata nelle forme
legali, ordinò al tribunale degli otto di giustizia di condannare
alla pena di morte gli accusati e di confiscare i loro beni ; la
quale sentenza fu pronunziata il 17 d'agosto.
Ma, per la legge che Girolamo Savonarola aveva fatta sta-
tuire quando fu stabilito il governo popolare, Cfgni condannato
a pena capitale poteva appellare al gran consiglio. I condannati
chiesero pertanto di essere ammessi a godere del benefizio della
legge; essi avevano non lievi sperauze d'essere assolti dall'as-
semblea generale dei loro concittadini. L' età provetta di due
di loro, le onorate cariche ond'erano stati insigniti, il numero
decloro congiunti, quello de'clienti , le fèrvide raccomandazimii
delle corti di Roma, di Milano e di Francia avrebbero dato mag-
gior efficacia ai sensi .di commiserazione co^ naturali in una
grande assemblea. Certa cosa è intanto che V amministrazione
delia giustizia non era mai stata nella Repubblica di Firenze
imparziale, e che il governo si era sempre mostrato capo di
parte. Se questo governo restava perdente in un tentativo fatto
per far perire i suoi avversari, sembrava condannato dal popolo;
e questa sola sconfitta poteva trarsi dietro la sua caduta. I falli
deTiorentini e le costumanze sovversive dell'ordine sociale che
essi avevano lasciate introdurre nella Repubblica rendevano pe-
ricoloso Tesercizio dei più sacri diritti de'cittadini. Il 21 d'ago-
sto si adunò un nuovo consiglio de'richiesti per deliberare io-
torno all'appello al popolo. Il partito della libertà fu appunto
quello che fu veduto scagliarsi più gagliardamente contro l'ese-
cuzione d'una legge di libertà vinta da lui medesimo. Francesco
Valori e tutti gli amici del Savonarola protestarono contro l'ap-
pello al popolo, dicendo che, non appena i cospiratori fossero
assolti, i Medici verrebbero restituiti in Firenze.
Per altro la Signoria non era d'unanime parere di ricusare
l'aM^biioiie al popoèo. On, acoondo b tonni delie sue Mi«
beraioBi, en d'uopo che odo de^prìori per Ionio flesse hi pio*
posta ioloraoaUa qpnle doveiasi woire ai soffragt QueitU ch'em
per qoel dato giorao incaricato di questo officio del propon>e»
chiMnafasi il proposto. la quel gionio en proposto Loca Mai^
tini, il qoale. giodicaodo fosde giusta cosa rammetloi^. Tappel*
baione al popolo, proteslossi che non porrebbe alle toct una
proposiùooe contraria alle ¥^nti leggi. Due de* suoi colle^bì
irmnero nella stessa opinione. Lx quale opposìaione era deci*
àn; ma tolti i gonfalonieri delle compagnie ed i dodici buoni
uomini, che sedevano presso la Signoria > sorsero con niinac*
ciose grida, sdamando che per salvare la patria non si bsco*
rebbero trattenere dair opinione dei nemici della Republ>lica« Il
{{onfaloniere Domenico Bartoli, non temendo di violare le regole,
fece egli stesso la proposta in questi termini: die, per evitare
i pericoli delPappello al popolo » si eseguirebbe la senieuaa in
quella notte. Allora il proposto disse che> per mantenere il re-
golamento, egli acconsentirebbe a fare la proposta delta dal gon-
faloniere, se ad essa erano favorevoli sei de'nove suflNgi della
Signoria. Ma i forsennati gridori del partito inchinevoli alla vio-
lenza lo. fecero tacere e lo costrìnsero a dare il suo assenso
aenz'altra condizione. Per le regole delle deliberazioni della Ue-
pnbblioa fiorentina riusdva assai difficile il vincere un parlilo.
Era necessario Tassenso del proposto, di due terzi della Sifiao-
ria, di due terzi del collegio de' buoni uomini . e del collegio
de'gonfalonierì di compagnia. I suffragi raccoglievansl separala -
mente, poscia cumulativamente ed in secreto, con fave bianche
e nere deposte nelle urna. Tutte queste formalità , secondo il
vero spìrito dei regolamenti, erano state trovate per prolegKore
Topinione del minor numero , o veramente per Impedire che
questo non venisse soprafatto; esse furono sempre scrupolosa-
mente mantenute, ma soltanto in apparenza e non nel loro spi-
rito. Il partito vittorioso non passava già oltre a dlspoUo ilei-
Topposizione del partito più debole, ma costringevalo a togliere
di mezzo r opposizione. Come si venne allo scrutinio segreto •
quattro suffragi, ossia quattro fave bianche neirurna della Si-
gnoria, furono contraril al proposto decreto. Un nuovo pili fiero
tumulto che non era stato il primo levossl allora neirassemblea.
Sorsero in pie tutti i gonfalonieri di compagnia minacciando di
uccidere i quattro priori sospetti d'avere dato il contrario su(«
fragio, ed essendosi i buoni uomini frapposti per salvarli, 1 gon-
— 50Ì —
falooierì dichiararono che uscirebbero colle loro insegne e fa-
rebbero dalle loro compagnie saccheggiare le case dì coloro che
vole?ano in tal modo addurre in rovina la Repubblica. A stento
il gonfaloniere di giustizia ottenne che l'assemblea sedesse di
nuovo per procedere al secondo scrutinio. Il terrore si era im-
padronito de' più coraggiosi, e T appellagione fu rigettata con
unanimi suffragi. La sentenza di morte fu eseguita in quella
stessa notte del 21 d'agosto; ed i più furibondi non vollero ab-
bandonare la sala del consiglio finché non ebbero avviso che
i loro nemici più non vivevano.
Da prima questa vendetta parve un trionfo del partito de-
mocratico, ma questo trionfo era foriero di una sconfitta. Il
popolo non perdonava a coloro che si dicevano amici della
libertà d'avere pei primi violata senza necessità la legge protet-
trice della libertà, vinta da loro medesimi. I cittadini facevano
il paragone dalle prediche dette un tempo dal Savonarola intorno
all'amnistia col contegno de' suoi partigiani e col silenzio di lai
nel punto in cui> per la difesa dei suoi nemici posti in giudizio
contro le leggi, avrebbe dovuto tuonare dal suo pulpito, da lai
trasmutato in bigoncia per arringare. Accusavano pertanto il Sa-
vonarola di darsi a conoscere non meno malvagio cristiano che
tristo profeta; domandavangli dov'erano que' miracolosi soccorsi
da lui j^romessi a Firenze quand'ei l'aveva impegnata sola nella
guerra contro tutta l'Italia ; ed ogni argomento della instabiliti
e della dappocaggine di Carlo Vili, rappresentalo dal Savonarola
quale inviato del Signore, era a lui aspramente rinfacciato da
coloro che volevano vendicare le ultime vittime, e da colora
che la corte di Roma aveva tratti dalla sua.
Il Savonarola non temeva di sfidare talta l'ira d'Alessan-
dro VI, perciocché non poteva riconoscere in un uomo tanto
scellerato il successore degli apostoli, e la riforma ch'egli pre-
dicava doveva incominciare dal capo delia Chiesa. Egli era scan-
dalizzato in vedendo Giulia Farnese, chiamata Giulia la bellOf
che era una delle drude o amiche del papa, a cui aveva io
aprile di quell'anno partorito un altro figliuolo, intervenire cod
ostentazione a tutte le feste della Chiesa.
E così grave scandalo era poca cosa a petto a quello che
diede due mesi di poi la famiglia istessa del pontefice. Francesco
Borgia, duca di Candia, figlio primogenito di Alessandro VI fu
ucciso a tradimento il giorno 14 di giugno nelle strade di Roma»
all'uscire da un convitto. Si seppe bentosto che V uccisore era
- 505 —
tato il suo proprio fratello, Cesare Borgia, cardinale di Valenza :
, ad accrescere Terrore di tanto delitto, si sparse una sorda
oce, che la gelosia concepita da Cesare contro il fratello per
ssere egli sno rivale negr incestuosi nefandi amori con Lucre-
ia, loro sorella» ne fosse fa cagione. Il papa, acerbamente
ifQitto per questa perdita, aveva colle lagrime e coi singhiozzi
leplorato in pieno concistoro i trascorsi della sua passata vita
) la corruzione della sua corte, che avevano provocato sopra di
ai questo giusto gastigo del cielo. Egli si era solennemente
A>bligato a riformare prontamente i suoi costumi e quelli della
lua corte; ma un nuovo torrente di vizi e di delitti succedeva
)entosto a questi passeggieri progetti d'emendazione.
Tornando al suo reo tenore di vita, il papa era di nuovo ^
ieramente adirato contro Teloquente predicatore che accusa vaio
i tutta la cristianità. L'opinione di cui il Savonarola godeva in
Firenze poneva in gran pericolo il trono d'Alessandro: questi
apeva inoltre che il Savonarola aveva mutati i costumi della
Repubblica e sbanditine i vizi; e di più temeva che un tale
isempio non si ritorcesse contro la corte di Roma. Egli aveva
iccnsato il Savonarola come eretico; gli aveva fatta vietare la
Predicazione; ma lo sforzato silenzio di questo religioso, che
aceva in allora far le sue veci da fra Domenico Bonvicini da
^escia, suo discepolo e suo amico, non soddisfaceva uè alla
colitica né all'odio immenso d'Alessandro VI. Il papa collegossi
OD tutti coloro che avevano qualche motivo d'inimicizia contro
1 Savonarola o per divozione ai Medici o al partito dell'aristo-
;razia, o perchè non volevano assoggettarsi alle austerità mo-
lastiche, le quali il riformatore voleva sostituire all'antica sco-
itumatezza. I nemici del monaco, vedendosi spalleggiati da Roma,
irdirono oltraggiarlo pubblicamente nella sua propria Chiesa in
nodo villano; e dovendo egli andare a predicare il giorno del-
'Ascensione, posergli sul pulpito una pelle d'asino ripiena di
)agiia. I libertini o compagnacci, approfittando del tumulto in-
sorto nella Chiesa per questa pasquinata, oltraggiarono il Savo-
larola e lo minacciarono, proponendo altresì agli uditori o di
M^acciarlo o d' ucciderlo. Nello stesso tempo i monaci di sant'Ago-
stino, mossi da gelosia di ordine contro i frati di san Domenico»
issecondavano le brame di vendetta del dapa ed accusavano
)e'loro sermoni il riformatore domenicano, tacciandolo di ere-
ico e scomunicato. Non scorsero poi vent'anni da quel punto,
;be i domenicani insorsero a vicenda contro Lutero riformatore
igostiniano.
-«a* —
La Signoria florentina , poiché si vedeva abbandoData dal
re di Francia, trattava con maggiori rìgoardi colla corte di Re*
ma; i Fiorentini abbisognavano del papa per le loro Degolia-
zioni colla lega italiana e non Volevano inasprire il riseDlimento
di lui. I priori scrissero gli 8 di luglio ad Alessandro per gio-
stiflcare il Savonarola, ma nello stesso tempo persuasero il mo-
naco a sospendere le sue prediche. Questi era stato scomani-
cato nel mese di maggio come banditore di dottrine eretiche, e
la sentenza condannava tutti coloro che converserebbero con
lui. Da principio il Savonarola riconobbe Tautorità della corie
di Roma e procurò di giustificarsi al papa. Ma non molto dopo^
fatto proposito di resistere alla persecuzione con quella fer-
mezza che poi dimostrava Lutero quando il 10 di dicembre
del 1520 fece ardere a Vittemberga la bolla di scomunica di
Leone X, dichiarò coirautorità di papa Pelagio che un' ingiost»
scomunica era senza efficacia e che lo scomunicato per ingiusto
sentenza non doveva neppure cercare di farsi assolvere. E, di-
cendosi indotto per divina inspirazione a ricusar d'ubbidire ad
un tribunale corrotto, il giorno di Natale celebrò pubblicamente
la messa nella chiesa di San Marco; comunicò co' suoi monaci»
e con moltissimi laici; condusse nna solenne processione io-
torno alla Chiesa ; pubblicò la sua apologia ed il libro del
Trionfo della croce, e tornò a predicare nella Chiesa cattedrale
dinanzi a un uditorio si numeroso che tale mai non era stalo
per Faddielro.
Leonardo de' Medici, vicario dell'arcivescovo di Firenze,
pubblicò un' enciclica per proibire ai fedeli di ascoltare le pre-
diche del Savonarola, e ordinò che coloro i quali ascoltavanlo
non fossero ammessi alla confessione ed alla comunione , né ì
loro corpi alla sepollnra; ma la Signoria , che aveva preso il
magistrato in principio del 1498, era tutta favorevole al Savo-
narola, e ordinò al «vicario arcivescovile d'uscire nel termine di
due ore dalla città.
L'ultimo giorno di carnevale, volendo il Savonarola trasmu-
tare quella festa mondana in un giorno di religiosa contrizione,
indusse moltissimi fanciulli a dividersi in ischiere ed a scorrere
la città, gridando di casa in casa che loro si consegnassero tutti
i libri disonesti, tutte le pitture immodeste, tutte le carte e dadi
da giuocare, tutte le viole, arpe ed altri strumenti musicali,
tutte le parrucche, i] muschio, le acque nanfe, i belletti ed al-
tretali suppellettili del mondo femminile: ì ragazzi chiedevano
ulte qpesle co» «•» ina 41 scnMMca: fiit 1^ |MtMv>«K^
idb pifehiti fuax. ée^ w feMm m^^lbi ca«Sfe$lsi i^ li^ «r-
I coodocia del SaTOOMvAi es^ì ii«nM bllo k^ $Iik^^ m) pv^
edeote anno, ed aieiMo ritolti in omm^ te iM^ysHMr |vir%^
le^ escnpbri M Boccmcìo e del Moiisinli^ im^v>^.
Sb quanto il SaTOnanib andiTa acii|nì$tMKli> ciaIìKv bnh^
■o creseefa lo sdep» e lansleli del papa, il iimÌi!' iwiv;» in
iHre ainato da on fra Mariano di Ghinanano « $Hma)«» ikytì
ignstinbni, nomo addetto ai Medici e che in Fitmte era ;!^l;iiU^
Dal accollo. E* fennarooo perciò di mandJire a Pireni^ un \Mr^-
licatofe chbmalo frate Francesco della Pnfriia « mim>r^ ^>jwr«
ante, per gareggiare col Saionarola. Predicò qnosU nelb ohit^s:^
li Santa Croce di Firenie e fleramente inrci conine IVr^^^^nM
;he seduceva b Repubblica. Nello stesso tempo il |^|vi tH)n un
movo breve ordinava alla Signoria di br bci>n> il S.ivon«in^l».
e non voleva cbe tutte le sosbnie clve i mercabntl HiHt>nllni
enevano in esteri paesi fossero confiscale e che lo stfxt.^) tor
itorio delia Repobbiica venisse interdetto o forse assnlUo d«illt^
ruppe della Chiesa. I Fiorentini , abbandonati dalla Francia .
)on avevano veran altro alleato, e perchè Inclini abbisogna*
rano delFamistà del papa, nbbidirono comandando il 17 marxti
il Savonarola d'astenersi dal predicare. Infalll costui hI nongv^diS
W suoi uditori con on eloquente ed ardito raglonainonto.
In mezzo a questi ribollimenti il monaco KranciHOo dolla
^Qglia, che predicava a Santa Croce, disso in pulpito cln^ avova
idito dire che il Savonarola vanlavasi di provare lo mio faUn
lottrine con un miracolo e che offriva di scendnri! rnil iiqiolcro
^n un monaco francescano, se tutto Toppo^to imrtito n\ oblili
|[ava a riconoscere per vera la dottrina di (fungll fra loro duo
^he risusciterebbe un morto. Frate FrancoMCO (IImmo di oMmtrn
)eccator6 e cbe non aveva la presunzione di nponirn un mira
x)lo,ma che per lo contrario proponeva al mio avvnrwirin iVm
rare con lui in mezzo a un rogo ardente. < fo nono iwln di
)erirvi, > diceva il francescano, < ma la carltA crUUana urirt-
;egna a dare la mia vita, se a tale prezzo imnm II^Hinirn la
Chiesa da un eresiarca che dì gii ha iilra^/lriat^> e ^IfHmìiwrh
ante anime neiretema dannazioni^. •
Così strana proposta fu aoMIo riferita al Hfivonarol» : ^'a^h
lon gli andava a sangue, non fiercbA Mttfìn%m tM mih t^ft^ti^
li operare miracoK , ma fierch/; temeva cti^ ^ntro v) m^H%^^
Jamb. Héiuu. Voi, n. H
— 506 —
UD qualche inganno de'sooi nemici ; mail pia fidato discepolo,
frate Domenico Bonvicini da Pescia, più fervido e più entusiasta
del maestro , disse immantinente di essere pronto egli ad as-
soggettarsi alla prova del fuoco in conferma delle verità ban-
dite nei sermoni del suo maestro ; perciocché punto non du-
bitava che per la intercessione di lui non lo dovesse salvare
Iddio con un miracolo. Tutto il minuto popolo accolse tosto
con insolito ardore quella tremenda sfida, voglioso di provare
in un pubblico esperimento i ministri della nuova riforma. I
divoti si rallegrarono di ottenere un luminoso trionfo contro
di Roma pel miracolo che di già credevano di tenersi in pu-
gno ; i loro nemici non erano meno contenti di vedere un ere-
siarca condannarsi da sé medesimo alle fiamme, di cui lo cre-
devano meritevole; tutti desideravano uno spettacolo cosi straor-
dinario; ed i magistrati abbracciavano con piacere un' occasione
di liberarsi dalla critica dubbiezza in cui si trovavano tra la
Chiesa ed il riformatore. Dal canto suo il papa scrisse Tii di
aprile ai francescani di Firenze, rendendo loro grazie dello zelo
con cui si apparecchiavano a dare la vita per difendere Tau-
torità della santa sede, e accertandoli che la memoria di cosi
glorioso fatto non perirebbe in eterno.
Ma frate Francesco della Puglia protestò che non entre-
rebbe nelle fiamme se non insieme con frate Savonarola me-
desimo, non volendosi esporre ad indubitata morte, se non
aveva compagno del suo eccidio il grande eresiarca. Frattanto
si offrirono subito due altri monaci francescani per fare- la
prova con frate Domenico da Pescia ; uno di costoro , il quale
chiamavasi frate Nicolò di Pilli, si senti venir meno il corag-
gio e si disdisse; ma Taltro, detto frate Andrea Rondinelli, con-
verso dello stesso convento, stette fermo nella domanda della
prova. Dair altro canto i partigiani di Savonarola si offrirono
con maràvigliosa gara ad entrare per lui nel fuoco. Frate Ro-
berto Salviati fu quegli che addomandò quest' onore colle più
vive istanze; e bentosto non solo tulfi ì domenicani della To-
scana, ma anche molti preti e laici e perfino donne e fanciulli
imploravano dalla Signoria l'onore di essere anteposti agli altri,
0 almeno la facoltà dì entrare nello stesso tempo tra le fiam-
me, onde partecipare al favore di Dio, di cui tenevansi sicuri.
Pure la Signoria non volle ciò concedere ad altri che a frate
Domeiiico Bonvicini da Pescia ed a frate Andrea Rondinelli. E
deputali dieci cittadini, cinque per cadaun partito, per regolare
quanto abbisognava. determÌDÒ che la prova si farebbe il i^ior-
DO 7 di aprile del 1498 nella piazza del palazzo.
Era stato innalzato in mezzo alla piazza un palco allo cin-
que piedi, largo dieci e lungo ottanta, coperto di terra e di mat-
toni crudi per preservarlo dair ardore del fuoco. Furono poste
su questo palco due cataste di grosse legne frammiste con fascine
e stoppie facili ad infiammarsi. Correa fra le due cataste « che
erano ambedue larghe quattro piedi» un viale largo due piedi
che andava dairun capo all'altro delle pire; apparato in vero
spaventoso. Vi si entrava per la loggia dei Lanzi» eh' era slata
divisa in due parti con un assito per darne la metà ai france-
seani e Tallra ai domenicani. I due monaci dovevano entrare
insieme da questa l(^gia e traversare tutto» quant'era lungo»
il rogo ardente o perirvi; del che Tuno dei due diceva di essere
dcuro» poiché quand'anche si dovesse operare un miracolo» non
poteva essere che a suo danno. I francescani arrivarono senza
strepito nella parte dalla lo^i^ia loro assegnala » mentre che
Girolamo Savonarola recavasi alla sua colle vesti siicerdotali »
colle quali aveva allora celebrata la messa » e portando entro
un tabernacolo di cristallo il sacramento. Frate Domenico da
Pescia portava un crocifisso, e tutti i loro monaci li seguivano
cantando salmi, con croci rosse nello mani; indi venivano molti
cittadini colle fiaccole accese. Rimanevano ancora sei ore di
giorno, e la piazza, le finestre e i tetti erano pieni di spetta-
tori. Non solo tutta la città, ma tutti gli abitanti del territorio
fino a grandissima distanza erano accorsi per essere testimoni
dì quello strano spettacolo. La maggior parte degrìngressi della
piazza erano stati asserragliati, e le sole due vie lasciate aperte
venivano custodite da gran numero di guardie. La parte della
loggia occupata da' domenicani era adorna come una cappella»
e per lo spazio di quattro ore non cessarono di cantare an-
tifone.
Intanto il terribile sperimento veniva ritardato da sempre
nuove difficoltà promosse dai Francescani. Forse» dicevano essi»
il padre domenicano è un incantatore e tiene sopra di so qual-
che stregoneria*; perciò chiesero che venisse spoglialo delle
Testi e ne vestisse altre scelte da loro. Dopo lurjghi contrasti
frate Domenico si assoggettò a questa mortificazione ed al
richiesto cambiamento di teriaca. Allora il Savonarola gli con-
segnò il tabernacolo che conteneva il Sacramento» da lui ri-
sguardato come la sua salvaguardia; ma i francescani grida-
— «08 —
rouo essere empietà Tespbrre l'ostia consacrata ad essere arsa,
e che questo probabilissimo caso farebbe vacillare la fede dei
meDO fermi fedeli. Ma sa questo punto il Savonarola si mostrò
inflessibile ; rispose che da quell'unico Dio che portava il suo
compagno ed amico poteva sperare salvezza. La contesa dorò
più ore : frattanto il popolo^ che, per meglio vedere questo spet-
tacolo, era venuto alio spuntare del giorno ad occupare i tetti
delle case, e che pativa di fame e di sete, più non sapeva raf-
frenare rimpazienza ; e sebbene i francescani fossero veramente
quelli che si opponevano all'esperimento, gli stessi segnaci del
Savonarola in ciò consentivano . che , sicuro come egli era di
un miracolo, avrebbe dovuto pia facilmente piegarsi a tutte le
inchieste del suo^ avversario. La maggior parte del popolo igno-
rava i motivi allegati dall'una e dall'altra parte; vedeva soltanto
quello spaventoso rogo , cui avrebbe voluto che subito si ap-
plicasse il fuoco, e hen s'avvedeva che i due campioni ricusa-
vano di entrarvi ; il loro terrore, clxe pur troppo era ben fon-
dato, sembra vagli ridicolo; la plebe si credeva delusa, e questo
intero giorno di aspettazione volse in disprezzo o in isdegno tutto
il suo entusiasmo. Finalmente, avvicinandosi la notte, e le due
fraterie non essendo ancora d'accordo, una dirotta inaspettata
pioggia bagnò la pira e gli spettatori; onde la Signoria s'indusse
ad accommiatare l'assemblea. ^ ,
Girolamo Savonarola, ritornato nel suo monastero di San
Marco, sali incontanente sul pulpito e raccontò alla folla che
lo avea seguito tutto ciò ch'era accaduto. Ma di già il minuto
popolo gli aveva fatto oltraggio nell'andare ai monistero. All'in-
domani, domenica delle Palme, il Savonarola predicò ancora
con molta unzione, accommiatandosi in certo qual modo da'suoi
uditori ed annunciando che si offeriva in sacrificio a Dio. iQ-
iMì i suoi nemici approfittavano della delusa aspettazione del
popolo per ammutinarlo contro di lui. La società dei liberUoi,
0 compagnacciy che l'aveva sempre trattato da ipocrita, andava
gridando al popolo di non lasciarsi più oltre guidare da uq
falso profeta che nell'ora del pericolo si era sottratto alla prova
della sua missione, offerta da lui medesimo. Questa brigata dei
compagnacci assembrassi nella cattedrale ed in tempo del ser-
mone dei vesperi fece risuonare la chiesa del grido : e Alle
armil a San Marcel > E di subito una plebe sfrenata la segui
al monastero di San Marco , a cui diede l'assalto colle armi ,
colle scuri, colle fiaccole accese. Trovavasi colà adunata molta
— M9 —
Dte per as^stere al divio sermio, la quale si difese per
alche tempo, sebbene fosse inerme; ma quando furono arse
porte e che mancò ogni mezzo di raffrenare i sediziosi fa-
Mmdi, Tenne ai patti, e Girolamo Savonarola, Domenico Bon-
dni e Silvestro Haroffi , lotti e tre presi nel convento, fo-
no tratti in prigione fra gli orli dalla plebaglia.
Erano di già le sette ore della sera, quando cominciò Tas-
dio del convento di San Marco, e doveva supporsi che la
itte acqueterebbe i faziosi. Ma una fazione da gran tempo
imica eA ora fieramente inasprita dal supplicio de' suoi capo*
li non voleva perdere V occasione di vendicarsi. Nella susse-
tento mattina la folla recossi alla casa di Francesco Valori :
li fu preso , e mentr'era condotto in carcere , Vincenzo Ri*
ilfl, parente di quegli che pochi mesi prima era stato man-
to sul patibolo , gli si avventò contro e lo uccise: anche la
ogiie del Valori venne uccisa neir atto che affacciavasi alla
lestra per implorare grazia; e la loro casa fu saccheggiata ed
sa. Lo stesso accadde alla casa di Andrea Cambini, amico del
ilorì. Tutti coloro che si erano dichiarali amici al Savonarola
reno oltraggiati dal popolaccio, il quale, chiamandoli ipocriti
penitenti, non lasciavali uscire nelle vie. La Signoria, ch'era
itrata in carica in principio di marzo , avrebbe forse potuto
fflrenare i sediziosi, ma elFera s^retamente del loro partito ;
nciossiachè di nove priori ve n' erano sei nemici nel Savo-
irola. Nel supremo consiglio tutti coloro che gli erano amici
in osarono recarsi al 'loro posto , di modo che il contrario
rtito sì . tenne sicuro del maggior numero a buona pezza,
lesto partito giovossene subito per eleggere altri decemviri
Ila guerra, altri giudici criminali o i per dire coi Fiorentini ,
tri otto di giustizia , deponendo coloro che già occupavano
ielle cariche e ch'erano favorevoli ai Savonarola. Per tal modo
utorità della Repubblica passò in altre mani ; tutti coloro che
ivevano avuta fin allora furono -deposti o proscritti ; ed i
lovì capi del governo, volendo far conoscere quanto odias*
ro rausterità del riformatore e Tipocrisia onde lo accusavano,
diedero a promuovere i giuochi, i passatempi ed anche i
sii, che egli aveva cosi severamente dannati.
Lo stesso giorno del tumulto era stato inviato un corriere
papa per recargli V avviso della prigionia del Savonarola,
reva che Alessandro Vi si avvedesse che d' altro più non
bisognava il partito della riforma che di un capo coraggioso
— 510 —
per atterrare un edificio che mioacciava rovina da tanto tempo :
la sua sicurezza richiedeva la morte del Savonarola ; ond' egli
domandò fervidamente che gli si consegnasse queireresiarca, e
nello stesso tempo, accordando varie indulgenze ai Fiorentini,
ordinò che fossero riconciliati alla Chiesa tutti coloro che per
avere assistito ai sermoni dei monaco erano scomunicati. Ma
la Signoria volle che il processo del Savonarola si facesse in
Firenze e richiese il papa di mandare dei giudici ecclesiastici
per assistervi. Alessandro VI mandò loro infatti un frate Gioa-
chino Turriano di Venezia, generale delFordine dei domenicani,
e un Francesco Remolini, dottore di legge spagnuolo ; e, nel-
l'atto che li accommiatava, pronunciò per anticipazione la con-
danna di frate Girolamo Savonarola e lo dichiarò eretico, scis-
matico, persecutore della santa sede e seduttore def popoli.
Il processo, formato nello stesso tempo avanti al nuovo
tribunale degli Otto , in cui sedevano altrettanti nemici del
Savonarola, ed avanti ai delegati del papa, cominciò colla tor-
tura, che si diede più volte al monaco. Il Savonarola, uomo di
frale complessione e di fibra irritabilissima, non potè sostenere
ì dolori che gli si facevano soffrire. Confessò, perchè cessassero
di tormentarlo , che le sue profezie non erano che semplici
conghietture. Ma quando si vollero ottenere le sue deposizioni
senza tormenti, sostenne nuovamente la verità delle sue rive-
lazioni e di tutta la sua predicazione. E perchè gli si opposero
le confessioni strappategli di bocca colla tortura , rispose che
riconosceva o la sua poca costanza o la debolezza de' suoi
membri per sostenere i tormenti, e che qualunque volta ver-
rebbe posto alla corda, bene sapeva che smentirebbe sé stesso;
ma soggiungeva che la verità era solo in quel eh' ei diceva
quando il dolore o il terrore non turbavano il suo 3pirito. Gli
si fecero realmente soffrire nuovi tormenti, che lo sforzarona
a nuove confessioni, sempre in appresso smentite ; ed i giudici,
non volendo esporsi al rischio di fargliele smentire un'altra
volta, non gli fecero leggere la sua confessione, secondo la
pratica, perchè la riconoscesse pubblicamente. •
In tempo della sua prigionia, che durò un mese, il Savo-
narola dettò un commentario del salmo li, ossia del Misererey
che aveva ommesso quando scriveva la sposizione degli altri
salmi , avendo fino d' allora detto che riservava questo lavora
pel tempo delle sue proprie calamità. Questa sposizione è
stampata colle altre sue opere. Intanto il 23 di maggio una
N^-
i-.uffifràffifrm/ntSKv^/tafv/ff /ff/M»///a/// fìr^n-.f 'nìm»0^t« /'t9i
e/
i
- 5ii —
I pira venne innalzata sa quella medesima piana in cui
;o del Savonarola avrebbe dovuto volontariamente entrare
loco. 1 tre monaci, Girolamo Savonarola» Domenico Bon-
e Silvestro MaruflB, dopo essere stati degradati dai giù-
ecclesiastici , furono avvinti ad un palo in mezzo alla
a. Quando il vescovo Paganotti disse loro cbe li separava
Chiesa, il Savonarola rispose soltanto queste parole, dalla
nle , volendo far intendere che stava per entrare nella
1 trionfante. Altro non disse; e fu appiccato il fuoco alla
a da uno de' suoi nemici» che prevenne TofiBcio del car-
. Cosi mori fra i due suoi discepoli il padre Girolamo
arola in età di quarantacinque anni ed otto mesi. Erano
lati dalla Signorìa severissimi ordini per raccogliere le
i dei tre religiosi e gettarle neirAmo. Pure ne vennero
Ite alcune relìquie da quei medesimi soldati che custo-
) la piazza, e queste conservaronsi fino al presente esposte
enze airadorazione dei devòti.
CAPITOLO XXV.
I franeasi in Italia
e LodoTieo il Moro tir^dito e fbtto prigioniero»
Allora appunto che il Savonarola, perduto il favor popo-
lare, vedeva cambiarsi io accuse contro di lui quelle rivelaziooi
con cui aveva in Firenze pasciuti i suoi seguaci, parve che la
più importante sua profezìa avesse compimento. Egli aveva detto
a Carlo Vili che Dio lo aveva scelto per liberare Tltalia da'sQoi
tiranni e per riformare la Chiesa; e da quel punto in poi mai
non aveva cessato di rinfacciargli in nome. del cielo sdegnato
la lentezza sua neiresecuzione di questa grand-opera e di mi-
nacciargli un esemplare castigo. Voleva il Savonarola che si
risguardasse come principio di tale castigo la successiva morte
di due delfini che Carlo Vili perdette in tenera età ; ma oo
nuovo castigo, diceva egli, minacciava tuttavia il monarca, per-
duto in grembo alle voluttà, e nello stesso giorno in cui do-
veva fra Girolamo fare sulla piazza di Firenze la tremenda prova
della sua dottrina, mandando il suo discepolo Domenico Bonvi-
cini in mezzo alle fiamme, il 7 aprile del 1498, vigilia della
domenica delle Palme, Carlo Vili fu tocco d'apoplessia nel suo
palazzo d'Amboise, e non si potendo trasportarlo fuori della
loggia in cui allora si trovava, passaggio lordo d'immondezze
ed il più indecente luogo di quel palazzo, come dice il Comi-
nes, fu steso sopra un letto di paglia, ove mori in capo a
nove ore.
Carlo Vili non lasciava figli, e la sua corona toccava al
— 513 —
ca d*Orìeans, ch'era ii più vidDo prìncipe del regio sanarne,
a questi nato a Blois il 27 di gìQgno del I4<t2. di Carlo
Srleans, nipote di LodoTìco, il manto di Valentina Visconti e
oQipote di Carlo V. Questo prìncipe, quantunque genero di
idovico XI ed il più prossimo erede del trono, avca vìssali i
01 giorni fra le avversila, si era più volle fatto capo doi par-
i malcontenti della Francia, aveva a vicenda sofferti i mali
Ila prigionia e delPesilio; onde la sinistra fortuna avevn^li
ocacciata quella edncazioTie che sola può far conoscerti ai ro
condizione degli altri nomini. Era il duca d'Orleans gìnnro
Tela di tréntasei anni quando salì sul trono sotto il nome di
idovìco Xll; sebbene non fosse dotato di vasta mente nò
pace di lunga applicazione, sebbene avesse manifestala la de*
ilezza dell'animo, dimostrando di aver sempre bisogno di \u\
borito, non pertanto egli incuteva agli Stali limitrolì maggior
verenza e timore d'assai che non Cario Vili, dì cui avevani>
si conosciuta rinstabilità e la trascurataggine.
Ma, più che a tutt'allri, Lodovico Xll, salendo sul troiìo,
iteva incuter timore agl'Italiani. Egli aveva sempre tentalo di
r valere i diritti dell'avola sua, Valentina Visconti, sul ducato
Milano. A volere che questi pretesi diritti avessero un quat-
te fondamento, sarebbe ^tato necessario che la sovranità «li
ilano fosse un principato trasmissìbile di diritto di padre in
;Iio, e non già una signoria italiana nella quale la podes.'à
il principe non era fondata se non sopra il presunto assenso
1 popolo; sarebbe stalo inoltre necessario che questa creili là
itesse cadere in conocchia, ossia trasmettersi alte femmine, la
tal cosa non era meno contraria al diritto pubblico francese
16 airitallano. Carlo duca d'Orleans, padre dì Lodovico Xll,
a prigioniero degringlesi. ora capo di parte nelle guerre civili
Illa Francia, non aveva potuto fare colle armi esperimento
Tsuoi diritti ed era morto lasciando il figliuolo in età di irn
ini. Intanto Lodovico XI si era collegato cogli Sforza, Carlo Vili
^eva perseverato nella medesima alleanza e, lungi dallo spal-
ggiare le pretensioni del cugino sul ducato di Milano allonUò
ce rimpresa d'Italia, aveva più che in tutt'allro riposto le sue
leranze nell'ajuto di Lodovico il Moro, figliuolo di Francosro
'orza. E, ancora dopo avere sperimentata la mala fede dello
forza, aveva lasciato speranza a questi di riconciliazione, dan-
3si a divedere per lo contrarlo diffidente e geloso del (hica
Orlaens allorché questi, dimorando In Asti, aveva minacciato
i Tamb. Jnquii. Voi. II. *'ìf
- 514 —
di fare irruzione del Milanese. Ma Lodovico XH, salito sol tronOi
non istette molto a manifestare l'intenzione di far valere le pre-
tensioni ch'ei non aveva potato per tanto tempo mandare ad
effetto. ÀI titolo di re di Francia egli aggiunse quelli cU doca
di Milano e di re delle Due Sicilie e di Gerusalemme, e non tacque
che si proponeva di sostenere questi titoli con tutte le forze
della sua potente monarchia.
Era di que'tempi ritalia da tante passioni agitata che que-
sta seconda invasione de' Francesi , la quale, dopo i mali cau-
sati dalla prima, doveva essere da tutti temuta, era per lo con-
trario argomento delle speranze di molti potenti Stati, di modo
che prima d'intraprencjerla Lodovico XII trovò modo di con-
trarre nuove alleanze, diverse da quelle del suo predecessore,
e di guadagnarsi utili cooperatori per le oooditate conquiste.
Lai guerra di Pisa, ch'era rimasta accesa come una foce
destinata ad allumare un nuovo incendio, aveva più che ogni
altra cosa contrihuito a cambiare le inclinazioni dei diversi par-
titi. Aveva questa guerra impoverito Firenze e fatta provare ai
Fiorentini tutta la mala fede di Carlo Vili e de'luogotenenti di
lui, lasciando nel cuor loro vivissimo rincrescimento di aver
dato retta alle promesse della Francia. E Lodovico Sforza, il
quale aveva sperato per questa guerra insignorirsi di Pisa, ve*
deva i suoi rivali sul punto di conseguire il guiderdone da Ini
desiderato. Perciò egli si trovava per la seconda volta doloso
dai proprii artifizii, seguendo quell'astuta politica di cui menava
sì gran vanto; ed ornai cominciava a desiderare di accostarsi
di nuovo ai Fiorentini per discacciare di Pisa i Veneziani, dopo
avere in qualche modo posta egli medesimo questa città nelle
inani dì questi. Dall'altro canto i Veneziani, che vantavansi di
avere due volte salvato dall' eccidio lo Sforza, erano cosi sde-
gnati di questa sua, cosi da loro chiamata , ingratitudine , che
per vendicarsi di lui erano disposti a commetter lo stesso follo
ch'era stato cosi aspramente rimproverato a Lodovico ed a sn-
scìtargli un nemico di loro e di lui più potente.
Infatti non ebbero appena avviso della morte di Carlo VDI
che comandarono al segretario della Signoria residente in To-
rino di recarsi alla corte del suo successore. E quindi a poco
rpandarongli dietro tre ambasciatori, incaricati di fare le scuse
delle precedenti ostilità e di rappresentarle siccome la conse-
guenza di una contesa terminata colla morte dell'ultioM) re. U
papa« che in quel torno di tempo aveva determinato di scio-
— MS —
tìlen il 800 bisbrdo Cesare dagli ordtiii sacri e di farlo di
artinale' priDdpe secolare, colse dal canto suo con premura
inesP oocaaoiie di suscitare iìooto guerre e di vendere ad un
[lossente alleato tatto rajuto della sna temporale sovranità e
tutte le grazie siHrìtQali ch'erano in suo arbitrio. Sapeva che il
re di Francia abUsognava di nna dispensa pontificia per sod-
lisfore alle sue passioni ed alla sna politica; imperciocché, tro-
vandosi Lodovico XII da venti anni ammogliato con una Qgiiuo-
b di Lodovico XI, che mai non aveva amata » desiderava di
fare da lei divorzio; ed essendo pure da gran tempo fortemente
Innamorato delia vedova del suo predecessore, desiderava di
sposarla e di tenere unito con tal meuo lo scettro della Bre-
tagna alla corona di Francia. Alessandro VI era il solo che
potesse far liciti questo divorzio e queste nuove nozze : onde
incaricò i suoi ambasciatori a fame T offèrta al re di Praticia,
sptt^ndo di vendere a caro prezzo lo scandalo che con tale
dispensazione darebbe alla cristianità. Dal canto loro i Fioren-
tini mandarono ambasciatori a Lodovico XII per rinnovar l'an-
tica alleanza e per rammentargli tutto quello che avevano di
fresco sofferto per essersi conservati fedeli alla causa della Frau-
da. A tutti questi ambasciatori furono fatte indistintamente dal
nnovo re buone e gentili accoglienze , e con tutti ei prese a
negoziare, ma con fermo proposito di non fare l'impresa d'Ita-
lia senza aver dapprima assicurati da ogni offésa 1 confini della
Francia, mercè di nuovi trattati con tutti i suoi vicini.
Infatti il primo anno del regno Lodovico dedicavalo allo
core, deiramministrazione de'suoi Stati ed a negoziazioni esterne
die rimasero sepolte nel silenzio del gabinetto. Ned altro venne
a sapersi di queste negoziazioni se non che per quelle intavo-
late col papa erasi felicemente ristabilita e fatta assai stretta
l'amicizia fra le due corti; della qual cosa Cu chiaro argomento il
cappello cardinalìzio ricevuto il 17 di settembre da Giorgio
A'Amboise, favorito del nuovo re ed arcivescovo di Roano. Nel
snssegnente mese Cesare Borgia spogliossi in pieno concistoro
della romana porpora, adducendo per ìscusa di questa sua rinuu-
da al cardinalato la violenza fattagli dal padre per costrìngerlo
81 prendere gli ordini ecclesiastici; e parti poscia alla volta della
Francia per trattarvi in nome di Alessandro del divorzio del re.
Poco mancò per altro che, per avere adoperato con soverchia
scaltrezza , il Borgia non perdesse il prezzo cui sperava di
ritrarre da questa grazia. Conciossiaché, avendo egli detto dì^
— «16 —
avere seco [{orlato la bolla del papa che annullava it precedeote
matrirnoDio 'di Lodovico, questi avvertito dal vescovo di Gettes
che la bolla era stata spedita, invece di fare istanza al Borgia
per averla. nelle mani, il 12 dicembre del 1498 fece pronoo-
ciare dai giudici ecclesiastici da lui indipendenti la sentenza dì
divorzio, e VS marzo del 1499 passò a seconde nozze con Anoa
di Bretagna. Allora Cesare Borgia, premuroso di rappattumarsi
col re, fermò subito il trattato che discussavasi e consegnò la
bolla, in guiderdone di essa ottenendo da Lodovico il ducato di
Valenza nel Delfinato, onde prese il titolo di Duca Valentino,
invece di quello di Cardinale Vescovo di Valenza in Ispagna, che
aveva fin allora portato. Ma assai male tornò al vescovo di
Cettes d'aver rivelato al re il segreto del Borgia e persuaso
Lodovico che, quand'era spedita la bolla, sebbene a lui consegnala
non fosse, la sua coscienza doveva essere pienamente tranquilla;
imperciocché il povero vescovo mori quindi a poco avvelenato
dal Borgia.
Mentre che Lodovico XII contraeva nuove alleanze in Ita-
lia e si apparecchiava a portarvi le sue armi , in Toscana si
continuava la guerra. Le ostilità erano state riprese ne'conlorni
di Pisa in ottobre del 1497, allo spirare della tregua stipulata dai
re di Francia e di Spagna, senza che per altro fino al maggio
del 1498 ne derivassero avvenimenti di qualche rilievo. In quel
mese i Pisani inviarono Giacomo Savorgnano, capitano veneziano
al loro soldo, nel territorio di Volterra per saccheggiarlo. Ri-
torno va costui da quella scorreria alla volta di Pisa carico di
hoUino, con settecento cavalli e mille fanti, quando presso San
Regolo fu assaltato dal conte Rinuccio da Marciano e da Gu-
glielmo deTazzi, generali dei Fiorentini. Il Savorgnano fu scon-
fino ; ma nel mentre che i vincitori slavano saccheggiando i
snoi bagagli, sopragiùnse Tomaso Zeno, che giungeva allora da
t^ìsa con soli centocinquanta cavalli, e trovando i nemici disor-
dinali, li assaltò, liberò i prigionieri, ricuperò il bollino e fece
loro grande uccisione. In questo- fatto i Fiorentini perdettero di
molla genie, e perchè i loro generali accagionavansi l'un raltro
di questa disgrazia, il 6 di giugno la Repubblica diede il co-
mando delle sue truppe ad un capitano più rinomalo, ma si am-
bizioso che avrebbero dovuto temerne assai più che d'ogni altra
cosa ; era questi Paolo Vitelli di Città di Cislello, il quale aveva
opinione d'avere imparato neiresercilo francese tulio che gli
oltremonlani sapevano di meglio neirarte della guerra. Questa
«oniita iuàotae LodDrioo il Mero t ^MCMrene f»ffi»
die aTiorentiDi per impedire otie fM^es^^cre In pnoe ^
WDSBBtàssBTb ù V«DeziBDi ài suibUìisi m Pis». Verh <(nh\<'<!^
muÈiù loro Ireceoto alabu-diol assoldò ìt) connina' c^^n essi
CiaD Paulo Bif lioDe. signore di P(nfria« cA il ^^non» ili PiAm-
ÌMiio, e dèe iord xn presiama in pjirecc^ie voi io iroo^iomib
dacalL
1 Veoeùam teoevaDO in aUora in Pisa, soilo f\i «Mulini di
Marco MartìDengo, quattrocento uomini darme. olUv^nh^ x^^ra--
dkMti e daemila fanii. A Venetia era stata infine alion ^|W(a
la Tia per far giungere rinforii a qiie$i^e.^rcilo ; ma il dncA di
Milano, soopertamente abbracciando Tallivinta dei KioronMni.
chiose il passo alle truppe destinale contro di loro: (s\ a\ì>ndo
oltraciò indotto Giovanni Bentivoglio. signore di Roloi;n.i. n far^
lo stesso, il costui esempio fu seguilo da C^lorina Siortx nì:«-
dre di OttaTiano Rìario, signore dimola e di Porli, o dnll^ Ho-
pubblica di Lucca; nel quale modo fu chiusa alle Impilo vouo*
siane la più diritta via di Pisa pel Ferrarese. |H'I Motlanoso o
pel Lucchese. Il duca di Milano si era inoltre obblinalo a Tir
si che i Genovesi negassero il passo ai nemici do'snoi Alleali, e
la via di Romagna sembrava egualmente chiusa dal Uonlivoftlio
e dal Riario ; ma siccome questi piccoli principi |H>tovano tomoro
di provocare Io sdegno della potente Repubblica di Vonoain. i
Fiorentini, per impedire che si prendessero n riln^sjio i loro con-
finj. vollero pure assicurarsi della nOutrnllti\ di SIoum, ondo non
avere verun nemico vicino. Fermarono perciò ima In^vnn di cin-
que anni con Pandolfo Petrucci, il quale col solo f.ivon! di>lln
guarnigione di Siena, di cui era capilnno, si usurpavii In tlrtin-
nia di quella Repubblica.
Chiusa in tale modo ogni via por cui t PiHnnl polnnno ricn-
vere soccorsi dai loro alleali, i Fiorentini mandarnno contro di
loro Paolo Vitelli con forze che nam ftoverchi.iviino i\m\Uì lui-
mandale dal Marlinengo, il quale fu mnlmenalo n.^nni In nn*lrii-
boscata presso Cascina e costretto ad abbandonare I» cnmpii-
gna. Laonde il Vitelli, avanzando;^! lungo la dentni riva diJ-
TArno, prese i castelli di liuti, di Calcinata, di Vico Pipano o
la valle di Calici, che di tutto il territorio pì^;ino ó la plfi ricca
contrada e la più facile a difender»!, p'^rché fortificala d^iKli
scoscendimenti dei monti di Sin Giuliano e dello arxpie d^l
lago di Bientina.
1 Veo.'ziaoi, che avevano pre.w a prolejfgere I Pierini, erano
— 818-
ad ogoi modo impegnati a dod lasciarli privi di soccorso. Ven>
è che non era loro aperta alcona via fino al territorio insano»
ma quella dod era chiosa che metteva ai codAoì di Firenze. Il'
sigDore di FaeDsa, ch'era protetto da Veoezia, dod poteva loit^
ricasare il passaggio per Valle di LamoDe, da Ini dipendeota
Carlo Orsioi e Bartolomeo d'Alviano, capitani al soldo della
Repubblica veneta, partitisi dalla Romagna veneziana, gionsero-
per tale strada fino a Harradi, rócca assai forte, che loro cliìn-
deva«r ingresso della Romagna toscana. Piero e Giuliano dei
Medici, presti sempre ad unirsi a tqtti i nemici della loro pa«
trìa , perchè speravano di essere riposti in seggio col favore^
delle armi straniere, eransi recati nel campo' dei Veneziani ed
avevano promesso ai loro capitani che troverebbero traditore
fra i comandanti fiorentini dei castelli dell' Apennino , non
potendo essere che non si abbattessero in qualche antico pa^
tigiano della loro famìglia. Infatti la terra dì Marradi, sotto le
cui mura giunsero in settembre , fu subito data a loro; ma la
rócca, chiamata Castiglione, che signoreggia Marradi. e chiude
la via della Toscana,, fu ostinatamente difesa da Dionigi Naido,
con che ebbero tempo i Fiorentini di adunare colà un numero^
sufficiente di soldatesche per proteggeria.
Mentre che P esercito veneziano era trattenuto negli Ap-
pennini, quello dei Francesi, comandato da Paolo Vitelli, prò*
seguiva prosperamente le sue operazioni contro Pisa , ed in
sul cominciare d'ottobre conquistò Librafatta. I generali vene-
ziani , che bramavano entrare sollecitamente in Toscana per
soccorrere i Pisani, tentavano tutte le vie, ma tutte le trova-
vano chiuse da gagliarde rócche. Air ultimo un Ramberto di
Sogliano, piccolo signore feudatario di un ramo- cadetto della
casa Malatesta, aprì loro il castello da lui posseduto ai confini
tra lo Stato d'Urbino ed il Casentino; Rarlolomeo d'Alviano
approfittò colia celerità sua propria del passo ottenuto, e in una
sola notte, per la via di Sogliano, si recò da Cesena all'abbazia
di Camaldoli , dove giunse mentre i monaci , di nulla sospet-
tando , captavano il mattutino. Assicurano i monaci che san
Romualdo fondatore del loro convento li difese e che fu ve-
duto, finché durò l'assalto contro il monastero, scagliare con vi-
gorosa mano mattoni contro gli assalitori. Per io contrario i
Veneziani sostengono di essersi impadroniti del monastero; certo
è almeno che la residenza di Camaldoli non trattenne TAN
Viano. Questi mandò immediatamente , come venisse dai Die-
"^
ci della gaenh , hl Uìso avviso a BiblMna ^ afi^reo^hi^i^
raUogpìD per cmqoanUi Cagliari deireMkrcito del Vìlellu 6» l^-
naodo distro innnacliatameDle al mesisck entrft in llibhionii il 4N
di fiUalR G0& cento nomiiii d* anae {Krìim die si $?i|h«s«^ nel
paeae eh' agii awia vamtì i confini . t fa ricevuto in <|iielUi
lena Durata come capitano fioreDtino. Il (n^^^o deire^^rcko
teoevag^ dietro da Ticino , e acpragiiinio «obìtffmenre O^rlo
Orsìai ocm ottooNito cavalli, fa assiciirata qnella con^ni^t^ i^ì^
rAtvitfio doveva non meno aU^inganno clie atta propria ìnti^-
L'Ahiano aerava di riportare ase^mante nlterìon v«n-
lagp e di occupare con fatica il castellò di IV^ppi, cho in ma
mano sarebbe diventato la chiave di Val d'Arno e deirArrtint>
e gii avrddie dato bmmIo dì incendere fitialmente nelle pianure
delb Toscana; ou Antonio Giacomini, ch'era «no iVpiA mi-
torosi e rìsolnti cittadini di Firenie , trova^raisi in allora t<m^
missarìo a Poppi e fece andane a vnoto Tardità impresa del-
TAIviano.
L'antnnno era di già inoltratOi e la guerra feriea nelU più
aspra e più montuosa provinàa della Toscana; paese aleHie»
chioso da strette gole» e le cui montagne erano di glA coperte
di alte nevi. Paolo Vitelli, premurosamente chiamatovi dai VU)-
rentini, vi accorse con tutte le sue truppe, non altro ISBOlando
nella campagna di Pisa che le guarnlRionl delle con(|iiUlAle for-
tezze. Egli era altrettanto cauto o clrcospollo, qunnln TAIvImuo
impetuoso. Slavano sotto il coioando del Vllolll FrAO.rmAii Hii it*
severìoo, mandato dal duca di Milano, e lUnnccio di Mar-
ciano. Il suo esercito, cui i Fiorenlini npodlyann conlihiti rin-
forzi, si trovò bentosto più numeroso di quello del V^nealnril,
che pare aveva ri^utatissimi capitani, cloò Carlo Orsini, llurtolo-
meo d'Alviano e il duca di Urbino, eil era numeroso di sette-
cento uomini d'arme e seimila bntl , tra t (pisll si trova rAno
alcune compagnie di Tedeschi. Ma il Vitelli av^vs fermati» In
mente di non venire a battaglia, potendo più facilmente trion-
fare dei nemici col chiuderli nello sterile p^iese In eul si f^rnwi
impegnati. Per tale uopo occapA i pas^i della Vernia, di Ghlrisi
e di Montatone, pei quali resercito femzìèm poteva avere err-
mnnicazìone colla Romagna, ed ^ttorz/p Armici e tritte le «ola
del Casentino, bilia banda della Toscana e^flfr ) c^mtadin» itfl
amnarsi e a porsi ovunqne in m le difese contro i nemm : 09
rn tale modo, sempre piA ri.9tfing«Mto lineali entro angostl Aon-
— 520 —
fini, li tradusse in breve a somma penarla di vitlovaglie e dì
foraggi.
Con ciò l^esercito che i Veneziani avevano spedito in To-
scana per far levare l'assedio di Pisa trova vasi assediato ; e il
duca d'Urbino, lungi dal poter liberare Marco Martinengo, ec-
come portavano le sue commissioni, aveva in qaella vece bi-
sogno di essere liberato egli* medesimo. La Repubblica, subito vi
provvide e mandò a Ravenna, in principio del i409, il conte
Nicola di Pitigliano per mettere insieme un altro esercito. To-
sto che questi ebbe radunate quattro migliaia di fanti, si avanzò
ad Elei, ròcca posta ai confini del ducato d'Urbino, con inten-
zione di penetrare da quella banda nel Casentino e liberare
r oste assediata. Se non che il Vitelli venne ad accamparglisi
in faccia, a Pieve di Santo Stefano, per chiudergli il passo. Le
due Repubbliche, egualmente stracche dalle immense spese di
quella ruinosa guerra , incalzavano i loro generali a venire ad
una decisiva battaglia; ma questi, che erano stati allevati nella
scuola militare italiana e nudrili dalle sue regole di circospe-
zione, chiusero le orecchie a tutte le istanze che loro si face-
vano e non volterò affidare la propria riputazione all' incerto
esperimento di una battaglia.
E a dir vero le due Repubbliche avevano le più gagliarde
ragioni di allontanarsi in quella circostanza dalla consueta loro
prudenza e di perigliare in* una dubbiosa battaglia la sorte loro.
Ognuna sperava , ottenendo la vittoria , di fare la pace a più
vantaggiose condizioni , ed ognuna si avvisava che la propria
sconfitta, in tanta lontananza d.illa capitale ed in paese cosi
facile a difendersi, non la porrebbe in molto pericolo. Forse
anco ambedue avrebbero piuttosto desiderato di essere costrette
da una sconfitta a rinunciare alle loro pretensioni anzi che di
trovarsi in dovere di continuare con poca speranza una ruì-
nosa interminabile contesa. I Veneziani erano impazienti di
liberare i loro tre eserciti stretti d'assedio in Pisa, a Bibbiena e
ad Elei ; i Fiorentini non desideravano meno di accommiatare il
loro generale Paolo Vitelli, contro del quale avevano concepiti
gagliardi Isospetti. Avevano conceduto di recente un salvocon-
dotto al duca d'Urbino, che era ammalato, e Giuliano de' Me-
dici aveva approfittato di tale salvocondotto per uscire da Bib-
biena col duca; della quale cosa i Fiorentini si erano amara-
mente lagnati, troppo grave trascorso loro parendo che un ribelle
della loro Repubblica, assediato dal loro esercito , fosse stato
V
— ttt-
lottntlo dal proprio loro generile il cistigo commiintoeli dille
Le doe R^nbbUcbeeniio perciò iDcori più bniMse delti
me che della bittagUi, e due potenti mediitorì ^'ioterposero
^pportQDimeDte ad od tempo per igetolire fri di loro gli le-
;ordi. A LodoTìeo xn, eh' era r ano di essi, premevi issii di
[jete r iHeuia si dell' eoi che deir iltra RepQt>bliei ; e per
iconciliarle chiedeva che Pisa si* depositasse nelle sue mini»
promettendo segretimeote ai Fiorontini di rendere loro quelli
ittà, ed ai Yeneiiani di procoraro loro larghi compensi nello
>tato di Milano. Lodovico il Moro, ch'era altro mediatore, esor*
andò i Fmrontini a rappattumarsi coi Yeneiiani, sperava con
al meno (U rappaciflcarsi egli medesimo con Venesii. Vedevi
0 Sforza il ro di Francia ansioso di colorire i disegni mani-*
estati ne' primi giorni del suo regno d'invadere la Lombardia;
'agguagliato era delle negoziazioni di quel monarca col papa.
Iella sua nuova alleanza col re d' Inghilterra e della tregua
nttuita per più mesi con Massimiliano , senza che questi , in
informità della sua promessa, vi avesse fatto inchiudere il du*
iato di Milano > laonde, se in caso di guerra tutto dovevi temere
lall'astio de' suoi vicini, giungendo a ristabilire la pace in Italia,
K)teva sperare che la Repubblica di Venezia , tornando a pib
irndentì consigli, deporrebbe quei progetti di vendetta, troppo
ler lei medesima pericolosi.
Avendo poscia Lodovico XII lasciato l'ufflcio di mediatore
ler unirai più strettamente alla Repubblica di Venezia, i Fioren-
ini , che fervidamente bramavano la pace , diedero pereiò pib
acile orecchio ai coosigli di Lodovico il Moro. Dal canto loro 1
Veneziani, che segretamente si apparecchiavano alla guerra con-
ro il duca di Milano, sapevano ad un tempo che i Turchi face*
^no apprestamenti per assalire i loro possedimenti nella Grecia,
!d erano , oltraciò , inquietati dalle strane pretensioni e dalle
ninacce di Massimiliano. E benché usi a veder queste minacce
indalwne in fumo, non vollero essere distratti dalla guerra di
^ in circostanze che potevano diventare più difficili. Le
mnsulte intomo alle cose di Pisa dal consiglio de'Pregadl
orano perciò trasferite a quello dei Dieci , rlsguardato sic-
come assai meno accessibile alle generose passioni ed assai; più
lominato dalia sola politica. Questo consiglio, accettando la prò-
losta fatta da Lodovico il Moro , sottoscrisse un compromesso
D forza del quale riponeva tutti i diritti della Repubblica in
TàMB. inquU, Td. IL M
mano d' Ercole d' Este , dac^ di Ferrara, suocero del duca di
Milano. Questi indusse pure i Fiorentini ad accettare lo stesso
arbitro, e fa statuito che nel termine di otto giorni il duca
Ercole dovesse dare sentenza tra le due Repubbliche , che a
obbligarono ad acquìetarvisi.
Il i6 aprile del 1499 il duca di Ferrara pronunciò di fatti
il suo lodo. Obbligò i Veneziani a ritirare prima della prossima
festa . di san Marco tutte le truppe dal territorio pisano » di
Bibbiena e dal Casentino; ed ingiunse ai Fiorentini di pagare
per dodici anni ai Veneziani , per rifacimento delle spese di
guerra, quindicimila ducati alFanno. Volle ancora che i Fioren-
tini concedessero, generale perdono agli abitanti di Bibbiena e
di Pisa, e che a questi dessero facoltà d'esercitare, al pari dei
Fiorentini, ogni specie di mercatura tanto per mare quanto per
terra; che lasciassero ai Pisani le loro fortezze, a patto di otte-
nere rassenso della Signoria fiorentina per tutti i capitani che
prenderebbero al loro servigio, e dì ridurre le guarnigioni il
numero di soldati che vi tenevano i Fiorentini prima ' dalli
ribellione. Il duca dì Ferrara ordinò pure che i giudizii civili
dovessero pronunciarsi in Pisa da un podestà forestiere, scelto
^ dagli stessi Pisani in un paese alleato di Firenze , e che le
sentenze criminali dovessero proferirsi dal capitano di giustiui
fiorentino, ma coirassistenza d'un assessore eletto dal duca di
Ferrara.
Potrebbe risguardarsi come argomento della imparzialità
del laudo del duca di Ferrara il generale malcontento destato
da quella sentenza, il quale sì grande fu che niun lodo venne
mai accolto così sfavorevolmente da tulle le parli. I Veneziani,
vergognandosi di mancare apertamente a tutti gli obblighi con-
tralti inverso a' Pisani, non vollero che per alto pubblico si
potesse far fede della loro perQdia , e sebbene dal canto loro
eseguissero la sentenza e richiamassero dalla Toscana nel pre-
fisso termine le loro truppe , non acconsentirono giammai ad
assoggettarvisi formalmente. Dolevansi i Fiorentini che loro
non venisse restituita Pisa , perciocché lasciavansi le fortezze
in mano ai loro sudditi ribelli, e che il duca li avesse ingiu-
stamente condannati a pagare le spese di una guerra nella
quale erano stati assaliti senza avere provocati gli assalitori
Pure Firenze accettò espressamente la sentenza arbi tramentale;
la quale accettazione rimase luttavia senza effetto , perchè i
Pisani , risguardando tutte le garanzie loro francate dal duca
— 555-
di Ferrara siccome troppo focili ad eludersi e preferendo
la morte alla servitù^ rìcosarono di sottomettersi , e quantno*
qoe da tatti abbandonati giurarono di volere difendersi e
fecero premurosamente uscire dalla loro città e fortezze le
troppe veneziane, per timore che non le èonsegnassero ai loro
nemici.
Quando i Fiorentini ebbero avviso della risoluzione fatta
dai Pisani di continuare a difendersi, richiamarono dal Casen-
tiDO Paolo Vitelli con V esercito e lo mandarono contro Pisa,
che a loro credere non poteva lungamente resistere. Lodovico
il Moro , sempre più crucciato dagli apprestamenti di guerra
che facevano i Francesi, in quel modo che aveva esortati ì
Fiorentini ad accettare V arbìtramento del duca di Ferrara ,
esortava non meno fervidamente i Pisani ad accomodarvisi e
faceva ogni sforzo per ristabilire la pace in Toscana ed assi*
curarsi i soccorsi di quella provincia; ma non trovava chi gli
credesse. Rammentavansi i Pisani che, sotto colore di proteg*
gere la loro libertà, egli aveva tentato d'insignorirsi della loro
città; ed i Fiorentini sospettavano ch'egli covasse tuttavia questi
progetti e segretamente inanimisse i loro nemici a resistere.
Perciò gli uni e gli altri, chiudendo le orecchie a' suoi consigli
ed abbandonando la Lombardia alle rivoluzioni che doveva
cagionarvi una nuova invasione, ricominciarono le ostilità fra
di loro con maggiore accanimento di prima.
Il S5 di giugno Paolo Vitelli si uni al conte Rinuccio di
Marciano sotto Cascina; la quale grossa terra fu subito battuta
con tanto ardore che in capo a ventisei óre dovette capitolare. Le
deboli guarnigioni pisane che tuttavia occupavano la Torre di
Foce d'Arno ed il ridotto dello Slagno si ritirarono alla prima
intima che venne loro fatta; onde più non rimaneva altro ai Pisani
in tutto il loro territorio che la fortezza della Verrucola e la
piccola torre d' Ascagno. Ma, invece di assalire, Paolo Vitelli cre-
dette opportuna r occasione di cominciare Tassodio della città
medesima. Il primo di agosto ei venne a porre il suo campo
sotto le mura di Pisa, conducendo seco tanta cavalleria che
bastava anche sola a tenere la campagna, una formidabile arti-
glieria ediecimila pedoni; e fece assaporo alla Signoria di Firenze
che, secondo ch'ei si apponeva. Tassodio non poteva durare più
di quindici giorni. Le mura di Pisa non erano cerchiate da fòsse
né sostenute da terrapieni, ma tanta era la grossezza loro e la
tenacità del cemento che ben potevano più d'ogni altra mura-
— «24 —
glia resistere ai colpi delle artiglierìe. I Pisani non avevano al
loro soldo alcQQ capitano forastiere, tranne on Garlino Tom-
basi, valoroso ufficiale ravennate, che aveva abbandonato, per
militare in loro prò, il servizio de' Veneziani. Ma tatti gli éA-
tanti delia citta , lutti i concittadini che vi sì erano rìparati,
agguerriti ip cinque anni di continue battaglie , potevano pa-
reggiarsi alle migliori troppe assoldate.
Il Vitelli aveva collocato i suoi accampamenti alla sinistra
deirArho, ed appuntate le batterie contro il muro attiguo alla
torre o rócca di Stampace. Accampandosi sull'altra riva, egli
avrebbe più efficacemente prevenuto Tarrìvo di ogni rinforzo,
ma, nello stato in cui trovavasi allora Tltalia, non credeva che
veruna potenza pensasse a soccorrere i Pisani e sapeva inoltre
che questi dal lato di Lucca avevano internamente afforzate le
loro mura, lo che non avevano creduto necessario di fare dal
lato che guarda Livorno.
Battuta era la città in due luoghi ad un tempo , cioè fra
Sant'Antonio e Stampace, e fra Stampace e la porta a Mare,
con venti pezzi d'artiglieria. Il Vitelli , da quel fedele osserva-
tore che era dell'antica tattica italiana, non volendo combattere
senza essere sicuro di vincere , aveva determinato di non ve-
nire all'assalto finché le brecce aperte dalle sue artiglierìe non
offrissero un libero passaggio alle sue squadre. Di già erano
caduti larghi tratti di muro, ma egli credeva che la breccia dod
fosse ancora praticabile ; ed intanto i suoi indugi davano agio
ai Pisani d'innalzare dietro la muraglia ch'egli batteva in brec-
cia un gagliardo parapetto , difeso da una fossa. L'ardore dei
Pisani non veniva meno per alcun perìcolo; Farliglìeria spazzava
! loro lavori senza che le donne o i fanciulli deponessero la
zappa. Narrasi in particolare di due sorellef che lavoravano io-
sieme, ed una delle quali fu uccisa da una palla da cannone ;
che la superstite, raccolte le sparse membra della sorella, sep-
pellivale nello stesso gabbione che stava riempiendo, e, nel-
l'atto che le dava colle lagrime e coi singhiozzi l'estremo addio,
proseguiva il suo lavoro, esposta al fuoco della stessa ba^tteria
che le aveva tolta la sua compagna.
Finalmente le mura che univano la torre di Stampace alle
fortificazioni della città furono atterrate dall'una banda e dal-
l'altra di quel grande torrione. Il conte Rinuccio era stato fe-
rito in una scaramuccia; e Paolo Vitelli, rimasto solo al comando
dell' esercito assediante , deliberossi il decimo giorno dell'asse-
4So di dire rasallo ilb forre. Questa era già stata ia pia ÌQo-
.^^ mirata, e sebbene i Pisani opponessero ana ostinata resi*
sterna, i Fiorentini inalberarono la Knpo bandiera sulla souimiti
di Stampace. Nel primo terrore cagionato da questo a?veni«
mento credettero i Pisani che anche la citta non .'avesse pid
scampo. Pietro Gambacorti fuggi per Popposta parte verso Locca
xon quaranta arcieri a cavallo che militavano sotto di lui; e la
-foardia del parapetto, che oramai formava la sola difesa della
città, era aUerrita e in sul punto di fuggire: ma il Vitelli aveva
ordinato soltanto di dare l'assalto alla ròcca e non alla città.
Era cosa troppo contraria airindole sua ed alla sua pratica mi*
litare il porre a repentaglio un vantaggio di già ottenuto, vo*
lendolo spingere più oltre e coglierne frutti ch'ei non si fosse
da prima proposto- di conseguire. Temeva oltraciò di venire
accerchiato in una città difesa da una valorosa popolaiione, e
^ece ritirare tutti i suoi soldati, i quali domandavano di essere
condotti a un altro assalto. Per la quale cosa ei perdette ben-
tosto per sempre la propizia occasione cui non aveva voluto
•afferrare. I cittadini, de' quali un grandissimo numero era an-
dato a nascondersi nelle proprie case, furono dalle loro mogli
•confortati a tornare contro al nemico, e accorsero di nuovo a
difendere la breccia coraggiosamente. Le loro artiglierie furono
Tòlte dalle vicine mura contro gli assalitori, e si vide che, mal-
.grado la presa di Stampace, la città poteva ancora di fondersi.
Il Vitelli aveva pensato di collocare una batteria sopra la
stessa torre di Stampace, onde signoreggiare le opere degli asse-
diati; ma la torre, di già roinata dalle brecce fattevi da lui
medesimo ed in appresso dai Pisani, non fu creduta abbastanza
iurte per sostenere i cannoni che di già vi aveva fatti portare,
intanto egli continuava a far battere in breccia le mura della
•città, e già la breccia aperta era larga cinquanta braccia ch*egll
'non era ancora soddisfatto. Non voleva il Vitelli che l suoi sol-
-dati fossero esposti a verun pericolo, o piuttosto, come aperta-
Kmente e concordemente lo dicevano i Fiorentini, egli non voleva
^prendere la città, ma desiderava di conservare il più che i)oteva
^li onori e i vantaggi del comando, di rimanere alla condotl;i
^ un poderoso esercito per offrire il suo ajoto al miglior offe*
rente tosto che le rivoluzioni di Lombardia inducessero alcuna
-delle potenze in guerra a chiamare un nuovo condottiere, e forse
anco di ottenere da'Pisani un grasso guiderdone per la sua mo-
4eraEione o la sua lentezza. Ma tali ambiziosi progetti andarono
— 626 —
d vQoto per colpa tli natarali cagioni. Nell'umido saolo del piano
di Pisa le fòsse sono per Tordinarìo piene di acqaa nella mag-*
gior parie delli state; ma verso la metà d'agosto sono asciugate
dal sole, i cui raggi» scaldando la putrida melma, ne sollevano
pestilenziali esalazioni. In due soli giorni la metà dell' esercito
si trovò soprapresa dalla febbre maremmana. Paolo Vitelli aveva
dato avviso che il giorno 23 d'agosto darebbe l'assalto: la brecci»
era praticabile, ed il saccesso sarebbe stato sicaro s'egli avesse
potuto far muovere un sufficiente numero di soldati per dare
esecuzione a' suoi progetti; ma i suoi ufficiali, i commissari fio*
rentini all'esercito ed egli medesimo erano tutti presi dalla stessa
malattia. Frattanto i Fiorentini diedero ordine di far giugnere
al campo nuovi rinforzi per porre il generale in istato di dare
nello stabilito giorno il decisivo assalto. Ma ogni loro diligenza
tornò vana; il numero degli ammalati avanzava sempre quello
dei nuovi venuti, onde il Vitelli trovavasi sempre più inabile a
fare uno sforzo vigoroso. Dietro alla siccità vennero le pioggie
calde, cbe,^ invece di purgare l'aria, accrebbero la mortalità. Al-
l'ultimo, perduta ógni speranza di buon successo, il Vitelli ab-
bandonò l'assedio e condusse l'esercito a Cascina. Fece imbar-
care sull'Arno la sua grossa artiglieria per mandarla a Livorno,
e parte di essa cadde in potere dei Pisani; e a dispetto delle
fervide istanze de'commissari fiorentini abbandonò la torre di
Stampace, dicendo che, trovandosi così maltrattata dalle proprie
batterie, ella non si poteva difendere e che la guarnigione sa-
rebbe tosto falla prigioniera di guerra.
Quanto era stata grande la fidanza de' Fiorentini in Paolo
Vitelli e nella guerriera sua perizia, tanto maggiore fu il loro
sdegno nel vedere il mal esilo di quella impresa. Credettero essi
che gl'indugi e le soverchie precauzioni del generale non po-
tessero essere effetto di altro che di perfidia. Di già gli rinfac-
ciavano il salvocondolto conceduto al duca d'Urbino ed a Giu-
liano de'Medici per uscire di Bibbiena ; avevano pure palesata
molta diffidenza rispetto agli abboccamenti avuti dal Vitelli collo
stesso Giuliano e con Piero de'Medici, sebbene fossero stati te-
nuti pubblicamente al cospetto di due eserciti, e che gli uni
stessero sopra la destra, gli altri sulla sinistra riva delP Arno-
Ma dopo quel colloquio il Vitelli aveva fatti dei presenti a'Me-
dici; aveva tenuta una corrispondenza quasi egualmente sospetta
con Pandolfo Petrucci, tiranno di Siena; era entrato in trattative
con Lodovico Xll per condursi a'di lui servigi; e tutto il coro-
aOe pk fnii mck». A.^c«»if » li \ìieìk t^ Tiltn^ <d^toM
ai SOM» ééTtamiat il cimiW Kmkv^ di ttwvinMk #tNit% ifisH^
■ TìÉBfe à art sìr>?ttwwi}i» mìIi> te W^ Ai^ iM^mi^
fmto il fiTore dà pì»»w e dei ili$i>^i del SsjiwmmM^i ^ i
quali , zreoéù perdalo il loro mae$lr\^ . ctHKiiniMtv^ ^ cnKli>K^
sofiplkìo, colsero fohmterafu rocoskuie iK twdìiMir^ \^^U^^ M
creaton e lo straiDenlo del contrario paHìUv
Poi ch'ette condotto reif^enrìto a t>$cìna« rìchì^^ il \ iu Ili
la Signorìa di mandargli sufficienti rioK^ni ^>nil«) rhnmùìhixiv^
l'assedio tosto che cessassero le i^H^ne. 1 Fum^ntini k<i iu«)uì>iim«
no di fatti soldatesche notelle» di cui potoY;ino Adar^« sotto |tU or«
dini di due nuovi cominissari, Antonio CaiùiiiAui o Uncoto M^r*
telH, ai quali i decemviri della puorn^ ave^^no itati ^c^kivU oinIihI*
I commissari recaronsi nella rócca di Gascinsi. |Hkil» k\\(^\ \\\{^
glia al levante di Pisa sulla sinistra deirArno» dalla qunlo h^rca
il campo del Vitelli era lontano un mi|ilio« 1)1 ih iu»hdnn>h(i
invitando il generale a recarsi da loro: od eiilli nulla miMimllMudui
T'andò e pranzò con loro. Vitellozzo Vitelli, frnlollo di Vmìw. ohtt
pure era stato invitato allo stesso abboccamento, non vontio, por
«ssere ammalato» nel campo. Perciò i cominlisarl apiMlIrotio iil*
coni uomini fidali per arrestarlo. 1)1 Klà Vllelloxao «<rfi nImIo
quetameote posto a cavallo e veniva condotto iillii vòllii ili Pi-
scina, quando, scontratosi con alcuni du'sunl nomini d'iirinn,
nno di loro gli porse la propria lancia, (^orlandolo n non h\
lasciar condurre come una pecora al macello. Vilnllnx)(o In \ìrm\
•e Tadoperò gagliardamente per liberarni. (ili arcieri din lo ron-
ducevano, vedendo i soldati dispoiiti a difonderir». rion (mnronn
«provocarli a più aperta resistenza e lam'/larono fiiKKlni Vllnl*
tozzo, che salvossi in Pisa, dove fu accolto c<»n mimmo Kinbilo,
ixommissari fiorentini, cui era mal^; rinHcKo il vàìÌihì U^jiliUi
xontro di lui, fecero arrestare Paolo Vitelli e lo mandarofio ^tr
bito a Firenze, ove fu immediatam^^nte fKf<it/i alla t^irlor/i \H^r
cavargli di bocca la confesaione fki tradim^mU cli^ ({It nwr.inif
imputati. Non eravi contro di Ini verrjria prova MiUuìUtt , nh
« prodoceva veruna carta /la lui acritta, tuì ì UpnmuU /vh /t((h
.sostenne con maschia costanza wm nìi Atr;»pparon/> M» ttitt^'M
alcnn nuovo argomento di rtità, aleona tAmi^^upM, SffU \n'.t'
taùtù egli fu r^ofiiarjrtato a r/i/^t/;, ^^ /|ri/^ tfi$fUM «/^ri/'r»//» Iti
— 518 —
esegoita la mattina del sassegoente gfiorDO, primo ottobre, iO'
ona delle sale del palazzo.
In forza di qoella medesima barbara ginrisprudenn che
ammetteva l'uso della tortura. Paolo Vitelli avrd)be dovoto a?er
salva la vita, perchè quest'odiosa procedura era stata appunto
inventala per lo motivo che credeasi necessaria la confessione
del reo aldi lui convincimento. Le opere del Vitelli erano invero
sospette, le sue segrete relazioni cogli Orsini , amici e parenti
dei Medici, dovevano far pensare ch'ei mirasse come loro a rista*
bilire i Medici in Firenze. Lettere de* suoi segretari, trovate tra
le sue carte, non lasciavano vernn dubbio ch'ei non avesse parte
in una segreta trama, di cui non si giunse tuttavia a conoscere
Tobbietto. La prudenza voleva pertanto che gli si togliesse il
comando incautamente affidatogli, ma la giustizia comandava
che gli si lasciasse la vita, poiché non era convinto di verun
delitto. Il supplizio di lui, che fu altrettanto impolitico quanto
crudele, destò ne' signori di Città di Castello un fiero desiderio
di vendetta contro Firenze, di cui la città ebbe a sofifrire finché
si resse a repubblica, ed inaspri del pari tutti i generali fran-
cesi che avevano militato coi fratelli Vitelli nella guerra di Napoli
e che li stimavano assai. Ora, mentre che tali cose accadevano
in Toscana, in Lombardia erano sopragiunti tali avvenimenti che
dovevano indurre a forza i j^iccoli Stati d'Italia ad accarezzare
il re e Tesercito francese.
Nel tempo appunto che la Repubblica di Venezia si com-
prometteva neirarbitrio del duca di Ferrara per le sue contese
con Firenze e richiamava le sue schiere dalla Toscana, il Senato
conchiudeva con Lodovico XII un assai più importante trattato
e s'impegnava in un'alleanza che sembrava smentire l'antica
sua riputazione di prudenza e di moderazione. Il trattato tra
la Repubblica di Venezia e Lodovico XII fu sottoscritto il 9 di
febbrajo 1499, ma per tre mesi fu tenuto nascosto in modo che
delusi tornarono i sospetti di Lodovico il Moro e di tutta Italia»
e quando fu pubblicato portava la data di Blois del 15 di aprile.
Con questo trattato i Veneziani riconoscevano i dv*itti di Lodo-
vico XII sul ducato di Milano e si obbligavano a concorrere
colle loro forze a spalleggiare la conquista di quello Stato. Si
obbligavano perciò a somministrare al re millecinquecento ca-
valli e quattromila pedoni, che dovevano essere spesati dal re,
e promettevano d'assalire il ducato di Milano ai; confini verso
levante nello stesso tempo in cui l'esercito francese l'attaccbe-
\
— av-
rebbe dal bto d'oGddente. In rìcompen$:ì di qoesl'ajulo Lodo
▼ico XII loro cedeva Cremona e la Chiara d'Adda fino alla
Stanai di ottanta piedi dal Bume di tal nome: e i due Stati
si promelteTano la ficendevole goarenaia di tali possedimenti,
difisi prima di conquistarli.
Senza avere amta diretta notizia di questo trattato. Lodo*
tìco il Moro non ignorava quanto i Veneziani Tediassero e con
quanta operosità Lodovico Xll si apparecchiasse a muovergli
guerra; onde dal canto suo cercava di afforursi con nuove
alleanze. Lo Sforza aveva particolarmente riposta ogni sua fldu«
da neiralleanza di Massimiliano, che aveva sposata Bianca, ni«
potè di lui, e che in ricompensa delle sue proteste di affetto e
promesse di protezione si faceva continuamente dare in prostilo
danaro. Massimiliano nudriva contro i Francesi Aero astio, e
sempre pronto a scoppiare; egli voleva far rivivere sulle prò-
yincie venete e su tutta F Italia 1 diritti deir impero, da più
secoli dimenticati. Pareva pertanto che i suoi interessi o le sue
passioni dovessero indurlo a difendere Lodovico il Moro: ma
non sì poteva fare maggior capitale delle suo promesse; con*
ciossiachè , non prendendo consiglio che dalle presenti cÌrco«
stanze, egli si riduceva quasi sempre a fare quello che non
aveva voluto. Erasi Massimiliano obbligato verso Lodovico il
Moro a non venire a trattati colla Francia senza comprender-
velo, e tuttavia si era indotto a prolungare Quo alla (Ine d*agosto
la tregua che aveva fatta con Lodovico Xll, senza far parola al
duca di Milano. Intanto egli faceva la guerra nella Gholdrla; in»
essendo insorta in sul finire di febbraio qualclio ostiliUi tra i
suoi sudditi e'gli Svizzeri ne' paesi posti alle sorgenti del Reno,
la lega di Svevia prese a difendere i possedimenti austriaci, e
Massimiliano vi si recò immantinenti per capitanare le sue genti.
E fatta dichiarar guerra dall'Impero contro gli Svizzeri, entrò
nel paese di questi di lunga mano maggiori, e non portante)
venne respinto; cosicché senza poter venire a campale gior-
nata vide le sue truppe struggersi in sanguinose 8caramuc(U3.
Assicurasi che perirono ventimila uomini in quella breve guerro»
e che un numero ancor maggiore peri di fame e di stento. Mas-
similiano, che si era impegnato in questa lite plult(iKto per ira
0 per orgoglio, che per politica, faceva ardere le case, le capanne,
i granai, i villaggi, lusingandosi di far perire di fame, in mezz/»
ai loro ghiacci ed alle loro rupi, i conta<llni ette non aveva \fOUìUf
raggiungere. Ma cotali atti di ferocia producevano orribili rafn
Tamb. InquU. Voi. FI. 67
— 850 —
presaglie, e Lodovico Sforza, vedendolo struggere tatto le sue
forze contro gli Svizzeri, nulla da lui poteva sperare.
Lodovico il Moro aveva pure chiesto ajuto a BaiaAtte II,
imperatore de' Turchi, 9I quale oggetto aveva mandato a Costan-
tinopoli due suoi segretari per rappresentare al sultano che
Lodovico XII rinnovellava 4 progetti di conquiste del suo pre-
decessore e minacciava l'Impero d'Oriente, che, essendosi colle-
gato coi Veneziani, aveva maggiori mezzi di nuocere alla Porta
Ottomana che non avesse avuto Carlo VHI; che perciò era d*uopo
prevenire le sue offese coirassalire i Veneziani, e che i Turchi
salverebbero la Grecia assaltando Tltaiia. Federico di Napoli
spalleggiò a tutto suo potere le richieste degFinviati di Lodo-
vico Sforza ; onde Baiazette, cedendo alle loro istanze, comandò
ai suoi bassa di assaltare i Veneziani nel Peloponneso, nella
Macedonia e neiristria.
Di fatti in ottobre del 1 499 Scander bassa, governatore della
Bosnia, entrò nel Friuli colla sua cavalleria e tutto 1q saccheg-
giò fino alla Livenza, distruggendo e bruciando tutte le ricchezze
del paese che scorreva. Nel ritorno da questa scorreria ei si
menava dietro gran numero di schiavi; ma, giunto in sulle rive
del Tagliamento, gli parve mal fatto d'impacciare la sua armata
con tanta gente, e fatta la scelta di coloro che potevano essere
più utili, fece uccidere tutti gli altri.
Sebbene i re di Spagna non avessero quasi per nulla preso
parte nella guerra contro Carlo Vili, contutlociò essi erano
entrati nella precedente lega d'Italia ; ma il duca di Milano più
non poteva porre in loro veruna fidanza, avendo essi rinunciato
ai precedenti loro obblighi, ed avendo, col trattato conchiuso da
Ferdinando e da Isabella con Lodovico XII a Marcussi il 8 ago-
sto del 1498, nominato tra gli alleati cui si riservavano la fa-
coltà di difendere contro la Francia soltanto Timperatore, l'arci-
duca suo figlio, il duca di Lorena e il re d'Inghilterra, senza
aver fatto questa riserva a favore di alcuno de'principi d'Italia.
11 papa aveva dato gualche speranza a Lodovico il Moro:
perciocché ambiva sopraiutto di ottenere in isposa al proprio
figliuolo, Cesare Borgia, una principessa di sangue reale, ed
aveva posto gli occhi sopra Carlotta, figliuola di Federico, re di
Napoli. Lodovico il Moro era stato incaricato da lui a negoziare
questo matrimonio, che doveva essere caparra di una stretta
alleanza tra il papa, il re di Napoli e il duca di Milano. Ma e
Federico e Carlotta, di lui figliuola, sentivano pel prete apostata,
^ il
Jirj ai.un^zzs. » atr. ur «fe» up^ **ìiu*.;. ^•>ci'- k*\Hx \\<*
!';l IIBUé i;tfT^iCiU* i2*t:SJiw-Tl /.'\l\;^UiuL' À%li>^ "li **sv« ..t
ìdciiiiniiA:i:aiu uiia iiu. hìw^^^ìi/ .vitr \i\j,i} ji^ ii««u> .<«%\«viti.<
raiTTL ma iiaaii u iriuieì^» j^ihiifìm .t^^scc; r».!ii. h\i «v^-v^
Quii TÀj* 7r:ii3Hi;ifrr^ :. ji-jl ,vrx^* a .4/ j\\ ^^ ^svv ^l / ^^«^
tira iii^ rilavili: ri:Ci;rA .u *.: >i*^"v,* a% u" ,fe r.^^s**
si perie.ìe J^ciniv^: :\xfntì<v .ìiìij^hìUnwov.k^ .; oaxUvU,\^<^ \,ku .^
.\DDOQe« (oeo L»D;jao lU Astk \\muo )Mux^ \uv>vM\^)in 0 \^^\ \\^\
e* per far testa ai Fnnctv^i oho \\\ltv<.viM \U\ VwiWs^wU^ w \\\\
Monferrato penetrare in UmiìIvii\ìi;i» «ì)Hhvì|\N nu «)uo«SMU(tU ma
leaszo da Sanseverino« cui itiiHio siMconlo uoiuhu «I.uhus \\\\\\\\
cinquecento cavallo^i^ìeri. «UtviuiìLi bull Ihll.uii 0 iiutiut^tMilo
tedeschi, perciocché, a cagiono ilolla kH'^i'i**^ Ii«^ I'^ l<*ii<^ t\\^\*\ t^
gli Svizzeri, non aveva [HUuto iissitMiuo ihv-imo ili i|uo ili \\\*\\\
giore quantità di gente. I^ivisuvu li» Moi«<i ili ii|i|iimio ni \\\\u\
ziani il marchese di Mantova rou un ullin imom Un. im«i ilnntllh
scontentare il marclieso pnr far r.oi.i kiiiIìi 11 UiiIimi^am rtuihiiHo
rino» la cui boria non polita HolTrlriMliM hmnovi mi ulln» iii<imi
rale di maggior grado d<*l muo; ondo, 11 motivo ih I illiolo «IkI
Gonzaga, diede quciros<imlo al muUs di ^iriin/Ao Illudi |m*i
cosa certa che un servitoro f(;d«tlo avvU/'f li^idovlLo II Mom ilo*
quel Galeazzo di Sans<;vcriiio citi Avitv.MiJlMiii'MoI mfO'Of'lo d)
tutte le sue forze h quanti ais»iolola aol^iiHiii lo ìin»Ui'i l<odo
vico dopo avere alcun Utuiint it*iwU'iAt ^XìwUm »Ui ^M ^t '«d
dita vano di tiiie perfidia, rup'/^'. ^/.^pif'iod'/ ' li«^ hhh ifhihi*à
credere a UnU tuyrhUUyhUK <; '/h", qo^od 'io>Jiì: ) w^'o^'^ ^/^>^^'
Tera, ei ijvfj -^'/iti/i^: *//.ikh nuè^'/h'** n , r/ij/^'iMv'-^ J;4 10 '|o J^.
ctie h^ •!>»< v^Ittóii ';. /^5f>i;?;*y# t i-, ìja» »//!<#-/»* «y-^ i^ vjaa/.v-.
rajTxy..lL;^'^ .*. *:x»^?^ t/4./*v^ W v'^*v. q'/*'.W ìì v/um* #.
-532 —
Lodovico Sforza aveva raccomandato a'saoi generali di
schivare ogni baltaglìa campale, di chiodersi nelle fortezze e di
condurre la guerra in lungo per dar tempo a Galeazzo Visconti»
suo inviato agli Svizzeri, di negoziare un trattalo di pace tra
Massimiliano ed i Cantoni, e di condurre a'suoi servigi quelle
schiere che si andavano consumando in una guerra impolitica.
Infatti il Sanseverìno non si mosse contro i Francesi, che fa-
ceano la massa di loro forze in Piemonte, ed aspettò d'essere
assalito. Le truppe di Lodovico Xil valicavano le Alpi sotto gli
ordini di Gian Giacomo Trivulzio, di Lodovico di Lussemburgo,
conte di Ugni, e di Everardo Stuardo, signore d'Aubigni, i quali
conducevano in tutto mille e seicento lance, ossia novemila e
seicento cavalli, cinquemila svizzeri, quattromila Guaschi e quat-
tromila venturieri levati nelle altre Provincie della Francia. Lo-
dovico XII era rimasto a Lione, di dove regolava le mosse dei
suoi generali e provvedeva a' rinforzi che loro abbisognavano.
L'esercito francese, essendosi finalmente tutto rannate, as-
saltò il 13 agosto del 1499 la ròcca d'Arazzo, posta in riva al
Tanaro dirimpetto ad Annone. Sebbene difesa da cinquecento
pedoni , questa fortezza fu vilmente ceduta ai primi colpi di
cannone, e subito dopo i Francesi mossero ad espugnare An-
none. Questa grossa terra era stata diligentemente fortificata
da Lodovico Sforza, ma i settecento uomini postivi di guarni-
gione erano fresche reclute, e quando ai Sanseverìno vedne
in pensiero di mandarvi qualche rinforzo più non era in tempo.
La breccia fu aperta il secondo giorno ; Annone fu preso d'as-
salto, e passata a fil di spada tutta la guarnigione. Allora i
Francesi si allargarono per tutto il paese d'oltre Pò. Il Trivulzio
dava ai popoli in loro nome le più larghe speranze; i soldati
italiani non ardivano di venire alle mani con quelle barbare
soldatesche, ed i borghesi temevano la sorte degli abitanti di
Annone; perciò Valenza, Bassignana, Voghera, Castel Nuovo,
Ponte Corone ed all'ultimo Tortona colla sua ròcca premuro-
samente aprirono ai Francesi le loro porte.
Il popolo di Milano soffriva di mal animo la signorìa di
Lodovico Sforza ; lagnavasi delie eccessive imposte ond'era ag-
gravato; derìdeva l'orgoglio del duca ed abborriva la politica
imprudente e perfida di lui, tacciava Lodovico di usurpatore e
sospettavalo d'aver avvelenato il proprio nipote; Io esecrava
imperciocché proteggeva il Sant'Uffizio e sotto di lui erano stali
arsi molti innocenti, vittime del fanatismo e dell'intolleranza.
Qoindi appena il Moro vide a vacillare la propria potenza per
le rapide conqaisle deTrancesi, tentò di riacquistare Taora
popolare, onde avere i sadditi in sua difesa. Adunò on consi-
glio, al quale chiamò tolti i personaggi [nù ragguardevoli di
Milano per nobiltà, per ricchezze o per riputazione. Espose loro
il suo operato e la necessità in cui erasi trovato di mantenere
molte truppe» di pagare sussidi! a straniere potenze, e perciò
4i levare grosse imposte per allontanare la guerra dai confluì
dello Stato. Ricordò che in tutto il tempo del suo governo i
Milanesi mai non avevano veduti soldati forastieri ; che se Tim-
perio suo era stato grave al popolo a motivo delle imposte, non
gii si potea con tutto ciò rimproverare ingiustizia o iniquità ;
eh'egli aveva sempre lasciato libero accesso appo di sé a'suoi
sudditi ; che mai non aveva trascurate le cure e le fatiche dei
governo per darsi in preda ai piiceri; che non gli si poteva
rìnfocciare crudeltà, e che non oravi signore in Italia che si
fosse al pari di lui trattenuto dai supplizi q dal sangue. Eccitò,
per ultimo, i Milanesi a paragonare la mitezza ed indulgenza
sua ai governi che dovevano aspettarsi dai Francesi, popolo
estraneo di costumanze e di lingua, orgoglioso e sempre dispo-
sto a sprezzare e ad opprimere la nazione italiana; e disse ioro
che non abbisognava altro che opporre un poco di fermezza e
di costanza al primo ìmpeto del nemico, perchè i soccorsi del
re di Napoli, dell'imperatore e degli Svizzeri non tarderebbero.
Ma questi ragionamenti sollevavano assai poco gii animi di
un popolo sbalordito ed intimidito, il quale andava cercando uu
pretesto per cedere al terrore, dimostrandosi oppresso e mal-
contento. Lo Sforza aveva fatto fare in Milano il censo di tutti
gli uomini atti alle armi; aveva in pari tempo al)olite alcune,
delle più odiose imposte, ma non altro si ravvisava m queste
por troppo tarde provvidenze che il suo terrore e la sua de-
bolezza. Quantunque i Veneziani, i quali avevanlo assalito in
pari tempo che i Francesi, si fossero di già impadroniti di Ca-
ravaggio, egli richiamò il conte di Gaiazzo, destinato a far loro
testai ed inviollo a Paviaj perchè si unisse poi a Galeazzo, fra-
tello di lui, presso Alessandria. Ma questo fratello del conte»
questo favorito e genero di Lodovico il Moro, guesto Galeazzo
di Sanseverino, che aveva opinione d'essere gran guerriero per-
che palleggiava con garbo la lancia ne'tomei e vinceva in si-
molate battaglie, era di già stato segretamente corrotto dai
Francesi Tre giorni dopo t'arrivo di questi presso Alessandria,
— «54 —
egli abbaDdoQò vilmente nella notte del 25 di agosto il propria
esercito, ch'era tuttavia numeroso di milledugento uomini d'arme»
di altrettanti cavalleggeri e di tremila fanti. Lucio Malvezzi gli
fu compagno nella fuga; ed in breve» essendosi in Alessandria
sparsa la voce della loro codardia» più ad altro i soldati non
pensarono che a fuggire o a nascondersi» e tutto Tesercito si
disperse.
I Francesi entrarono in Alessandria nella susseguente mat-
tina» svaligiarono i soldati italiani che non erano fuggiti e die-
dero il sacco alla città. Frattanto il Sanseverino» per purgarsi
del fallo» spargeva voce d'avere avuti incalzantissimi ordini da
Lodovico il Moro di tornare a Milano. Credettero alcuni le let-
tere da lui citate fossero state falsificate da suo fratello» il conte
Caiazzo» e neiruniversale disordine non fu possibile di ricono-
scere se Galeazzo fosse perfido o ingannato: onde Lodovico il
Moro non Io privò delle cariche. Intanto i Francesi» avendo
passato il Po, assaltarono Mortara ed ottennero a patti Pavia
prima di giugnere alle sue porte. In pari tempo i Veneziani
s'erano impadroniti della fortezza di Caravaggio» ed i loro avam-
posti stendevansi fino a Lodi. Tutte le città della Lombardia
erano in grandissimo fermento» e nella stessa Milano il popolo
già sollevato uccise di bel meriggio un Antonio Landriano» te-
soriere del duca, nell'atto che usciva dal castello. Conoscendo
lo Sforza Timpossibilità di sostenersi più oltre» fece partire i
figlinoli alla vòlta della Germania sotto la custodia di suo fra-
tello, il cardinale Ascanio» colle reliquie del suo erario, ridoile
in allora a duemila e quattrocento ducati; pose in libertà Fran-
cesco Sforza» figliuolo di Giovan Galeazzo, suo nipote e suo pre-
decessore, e lo consegnò alla madre. Isabella d'Aragona» esor-
tandola tuttavia a porlo in salvo dalla gelosa diffidenza di Lo-
dovico XII. Isabella non credette a questa pur troppo tarda
prova di afTetto, perciocché temeva il Moro assai più che i ne-
mici di lui, e in vece di ritirarsi in Germania volle aspettare
i Francesi per porre nelle loro mani il suo figliuolo; ma questi
vindici da lei invocati mostraronsi inverso di lei ancora più
crudeli di quel che fosse stato l'usurpatore dal quale godeva di
essere liberata.
Provvide quindi Lodovico Sforza il castello di Milano» che
in allóra veniva risguardato come inespugnabile» di viveri e di
munizioni da guerra bastanti per sostenere un lungo assedio, e
vi pose di guarnigione tremila fanti» sotto il comando d'ufficiali
di Mi «di con eirami dìlignsu ai quii |M|wi^ m Air*
nrtBo Gorle, nalm ai hrii ^ di M è(hiai«v «n 0m tMiDi
fede awi posto die lo anUfiasie il prapm fnitoi)() A^v^im^ li
qnle wtontirimeBte si cAìtì pmio a clmd^t^ ne) cJMdle^
E dito a fowDodi Gaovi id A|k>2<md <d i Gìothhyiì A^Wikk
e ooDoetole molle gruìe «i priiid|nli ^HilUiKmìm iti Mitom^
il 8 di settembre wd dai suo ecidio cdU $»!ff«i di hm pic«^
ccria schiera A soldati, oomandm di Gateiuo di SinsovmM
e da Lodo MilTeazi, e si ariìò per I) Tìa detti ViitHiini in
Germania. Ms doo en appoa nsdlo di MìUno che ^li si ic>
«ostò II coole di Guano per dirfii che, abbini)o»iiHt(> fgli i
suoi Stali, TeoìTa eoo dò a sdofrtiete i suoi solditi dil (tiufi-
mento di fedeltà e li lasdaTi liberi di provvedere come meglio
toro tornasse alla propria sìcorena ; dopo di che, aitilo le in^
s^ne di Francia, colla troppa formata a spese del duci di Mi*
lano, tenne dietro il pnndpe come nemico AncM questi si
trovò foori dei snoi Stati. Lo Sfona, giunto a Como» s'uubaroù
sol lago alia volta di Bellagio, donde recossi a Bormio ed in
appresso ad Insprack.
I Francesi celeremente innoltravansi per approfUlare detti
sollevazione della Lombardia e del terrore della famiglia Sforai.
Sei miglia distante da Milano incontrarono i deputali di quelli
dttà che venivano ad offrirne loro lo chiavi, colla riserva per
altro di capitolare coi re medesimo quando verreblH) a prendere
il possesso dei suoi Slad. Cremona, di già assediabi da'Vene-
zianì, chiese di arrendersi a] Francesi; ma questi rlnvlanino i
deputati della città ai generali della Repubblica. Uenovii si arreso
colla medesima facilità, e gli Adorni e Giovan Luigi dui Flesco
fecevano a gara nel mostrarsi più afllBzionatl alla Fruncl». AIKul-
timo il comandante del castello di Milano, eletto dallo Hlora»
fra tutti i suoi più affezionati per afildirgli una (orteiza di
tanto rilievo, non aspettò pure il primo coI|k> di cannone, e
la cedette ai nemici per una grossa somma di danaro diNllci
giorni dopo il loro arrivo: ma in appresso qoo'modesiml cIim lo
ivevàno corrotto l'ebbero in tanto disprezzo che, s^iatonoro
non potendo tanta infamia, mori disperato In capo a pfirJii
a^rni.
La conquista del ducato da Milano erasi operala dal Fran-
cesi in venti giorni, il popolo, stracco del gwerno cui ^ra
stato fin allora sottomesso, erasi volontariamente mMù\ffìnUì al
pogo degli stranieri. Lodovico XII appena ebbe avviso deirae-
— 556 —
eoglimento fatto a' saoi capitani, che si afifrettò di scendere io
Italia per prendere possesso dei saoi nuovi acquisti. Sparsisi
la nuova del suo imminente arrivo, tutti gli ordini de' cittadini
si portarono per riceverlo tre miglia fuori di Milano. Egli entrò
nella capitale preceduto da quaranta fanciulli vestiti di drappi
di seta e d'oro, i quali cantavano inni in onor suo e chia*
mavanlo il gran re» il liberatore della patria. I senatori, i gio-
dici , i chierici , i nobili , i mercadanti , tutti gareggiavano in
far(?li corona, come se recasse alia loro patria la pace e la li-
bertà.
Il primo pensiero di Lodovico fu quello di assicurarsi la
signoria de' suoi nuovi possedimenti, facendo trattati cogli Stali
d'Italia suoi vicini. Gli ambasciadori dì tutti i prìncipi d'Italia
trovavansi già in Milano, a riserva di quello del re di Napoli,
don Federico. Lodovico XII accolse con dimostrazioni di singo-
iar favore il marchese di Mantova, cui tenevasi obbligato per-
chè egli non aveva preso servigio sotto Lodovico Sforza; ma non
volle promettere protezione né al duca di Ferrara né a Gio-
vanni Bentivoglio, signore di Bologna , se non mercè un pre-
sente di ragguardevoli somme, come compenso del favore che
essi mostrato avevano verso il Moro. Accolse ancora, piii aspra-
mente gli ambasciatori di Firenze. Tutti i cnpitani del suo eser-
cito accusavano quella Repubblica d'aver fatto ingiustamente
perire Paolo Vitelli , che aveva con loro militato nel regno di
Napoli ed era stato da loro stimato ed amato. Altronde i Fran-
cesi non avevano dimenticata l'antica parzialità per i Pisani ,
che loro parvero meritevoli di maggiore slima dopo la generosa
fatta resistenza ed obliato avevano invece i lunghi servigi e
l'antica alleanza de' Fiorentini per non ricordarsi di altro che
della fresca loro alleanza con Lodovico Sforza. Alfultimo, il re
acconsenti a stento a rinnovare l'alleanza fra i due Stati. Pro-
metteva che, venendo assaliti i Fiorentini , ei li difenderebbe
con seicento lance e con quattromila fanti ; ed i Fiorentini si
obbligavano a guarentire gli Siali del re in Italia con quattro-
cento lance e tremila fanti. Firenze prometteva inoltre di dare al
re nltre cinquecento lance e cinquantamila ducati per l'impresa
di Napoli ; ma ciò soltanto dopo che avrebbe ricuperata Pisa.
A tali condizioni il re obbligavasi d'ajutare la Repubblica a riac-
quistare Pisa e Montepulciano.
Lodovico XII si trattenne in Milano per poche setlimaDe,
ma in quel breve spazio di tempo lutto perdette quel favore
— «37 —
popolare mercè del quale aveva otteDuto il dominio della Lom-
bardia. I partigiani della Francia, per amicarsi il popolo > ave-
vano sparsa voce che il re era bastantemente ricco per abolire
totle le imposte, o almeno per ridurle a qael tanto che si pa-
gava ai tempi de' Visconti. Infatti Lodovico XII concedette a
tale proposito alcune grazie ai nuovi sudditi, ma queste furono
minori di tanto delle imprudenti speranze loro date, che il mal-
contento fu così generale quanto fallace era stata la speranza.
Altronde Gian Giacomo Trivulzio, che il re, partendo, aveva
nominato suo luogotenente nel ducato di Milano, era piuttosto
fatto per conquistare un nuovo Stato che per conservarlo. 11
Trìvulzio era capo del partito guelfo e non seppe dimenticare
questa parzialità nel punto in cui avrebbe dovuto pensare sol-
tanto a governare con eguale giustizia le due fazioni ed a rap-
pattumarle runa coirallra. I nobili ghibellini il risguardavano
come un capo di faziosi , ed i cittadini come un soldato che
diportavasi in una grande città colla rozzezza e colla ferocia
degli accampamenti Imperciocché avevanlo veduto uccidere colle
proprie mani alcuni beccai , sulla piazza del Mercato , perchè
ricusavano di pagar la gabella ; erano tanto arbitrari ed arro-
ganti i suoi modi, che in breve fece odiare da tutti e sé mede-
simo e il principe cui serviva.
Intanto Lodovico il Moro ed il cardinale Àscanio, giunti alla
corte di Massimiliano, l'avevano trovato rappacificato cogli Sviz-
zeri. I due profughi furono da lui accolli con quella onestà che
meritava il loro infortunio ed ottennero quelle larghe promesse
di soccorsi delle quali Massimiliano era cosi prodigo. Ma questo
principe mai non aveva saputo condurre a compimento una sola
delle grandi cose da lui promesse, e di lui diceva uno de' suoi
consiglieri eh' e' non volle giammai udire gli altrui consigli, e
con tutto ciò non mai fece quello che voleva ; perchè» tenendo
segreti i suoi disegni, non ammetteva veruno a disaminarli con
lai maturamente , e quando venivano in chiaro , perché inco-
minciava ad eseguirli, lasciavasi cadere d' animo per le prime
difficoltà che gli si opponeano. Massimiliano , dopo avere pro-
messi i più efficaci ajuti al duca di Milano, di cui aveva sposata
la nipote, non si vergognò di chiedergli, per levare un esercito,
quel danaro che lo Sforza aveva e che era il solo avanzo della
passata grandezza di lui. Non ignorava il Moro che tutto il
danaro dato in presenza al re de'Romani sarebbe immantinente
aciapato (fa' favoriti di lui ; onde volle piuttosto valersi delle
Tamb. InquU. Voi. II. 68
— 558 —
reliquie de'snol tesori per assoldare egli medesimo ao esertito
proprio. La guerra della Svizzera» poc' anzi terminata , aveva
lasciato nella contrada medesima in cui egli si trovava molli
soldati senza soldo. Gli fu dunque facile di adunare ed assol-
dare cinquecento uomini d' arme borgognoni ed ottomila fonti
svizzeri ; e senza aspettare che tutta questa gente fosse intera-
mente ragunata sotto le insegne, s' incamminò verso i confini
della Lombardia.
Come prima Gian Giacomo Trivulzio ebbe avviso dell'avvi-
cinarsi di Lodovico Sforza, richiese il Senato di Venezia di far
avanzare le sue truppe suirAdda, e richiamò Ivone d'Allegre,
che si era recato in Romagna per ispalleggiare i progetti di
Cesate Borgia. Ma la celerità dello Sforza non lasciò tempo ai
Francesi ed ai loro alleati di ajutarli. In sul comindare di feb-
braio del 1800, il Moro valicò le Alpi e traghettò il lago di
Como colle barche trovate alle sponde. Gli abitanti di Como,
quand'ebbero avviso della sua venula, manifestarono cosi viva-
mente la loro parzialità per lo Sforza che ì Francesi si videro
costretti a ritirarsi, abbandonandogli quella città. I cittadini di
Milano, ed in particolare coloro che appartenevano alla fazione
ghibellina , avuta la nuova che trovavasi in Como Lodovico il
Moro, ne festeggiarono il ritorno con tanto giubilo che i novelli
ospiti loro ne furono atterrili. Il Trivulzio , credendo vicino a
scoppiare una sollevazione, si chiuse precipitosamente nel castello,
e dopo avervi posta una sufficiente guarnigione ne usci il sus-
seguente giorno e si ritirò verso Novara, inseguito dal popolo
sollevato fino alle rive del Ticino. Lasciate poi quattrocento lance
in Novara, condusse il rimanente dell' esercito a Mortara, per
ricevere colà gli ajuti cui aveva scongiurato il re di mandargli
di Francia.
Appena i Francesi furono parliti da Milano che entrowi
il cardinale Ascanio, e poco dopo Lodovico Sforza. Era questi
uscito dalla sua capitale il 2 di settembre del 1499 fra le impre-
cazioni del popolo, che incalzava la fuga; vi rientrava cinque
mesi dopo, cioè il 8 di febbraio del 1500, ed i Milanesi sembra-
vano ebbri di gioia nel rivedere il vecchio loro signore. Queste
rapide mutazioni non debbono già risgoardarsi come indizii
dell'incostanza del popolo: il popolo di Milano abborriva sempre
del pari i soprasi, gli arbitrii, le estorsioni de'gabellieri, le per-
fidie della corte ed il dispotismo; soltanto porgeva troppo facile
orecchio alle promesse dei principi; con troppo favorevole pre-
^
~ 559 —
veozioDe accagioDaTa scoosigliatamente di tutti i viiii dei prin-
ciiM i loro ministà attribuendo a quelli tutti i nobili e gene-
rosi senlimenti, e a questi ogni danno; troppo facilmente da vasi
a credere che la s?entara a¥rd>be ammendati coloro coi vedeva
fatti seguo a' di lei strali; e siccome il principe regnante non
ometteva mai di sciogliere il popolo dalla data Tede colla vio*
Iasione delle sue promesse» cosi il popolo non aveva altro torto
che qoello di serbare troppo tenera memoria del precedente
sovrano» indotto ^d avere caro il cambiamento de' suoi signori
assai più dalla costanza delle sue affezioni che dalla legge-
rezza.
Tutta la Lombardia nodriva i medesimi sensi inverso allo
Sforza. Parma e Pavia acclamarono subito ai vecchio loro duca.
Lodi e Piacenza erano sul punto di Tare lo stesso; ma l'esercito
veneto, accorso incontanente alla loro vòlta» riusci a tenerle io
dovere. Alessandria e tutto il paese d' oltre Po, trovandosi più
esposti agli assalti d^Trancesi» aspettavano gli avvenimenti per
dichiararsi; Genova non volle prendere parte nella rivoluzione.
Frattanto lo Sforza non perdeva tempo e nulla trascurava di
tutto quanto poteva assicurargli il ricuperato dominio; mandò
il cardinale di Sanseverino a Massimiliano per ragguagliarlo dei
primi fatti e chiedergli soccorso , ed il vescovo di Cremona a
Venezia per ofifrire a quella Repubblica d'accettare qualunque
condizione piacesse al Senato d' imporgli ; e fece chiedere ai
Fiorentini un qualche sussidio di danaro in conto di alcune
somme loro date in prestanza; sussidio che fu da essi negalo con
maggiore lode di prudenza che di buona fede. I piccoli principi
colsero prontamente quest'occasione per rimettersi in campo colle
luto soldatesche; il fratello dei marchese di Mantova, t signori
della Mirandola, di Carpi e di Correggio, Filippo de'Rossi ed i
conti del Verme ricuperarono i feudi ch'erano slati confiscati a
loro danno da'Francesi o dallo stesso Sforza , ed in appresso
raggiunsero il duca di Milano colle compagnie d'uomini d'arme
cli^ ognuno di loro aveva rannate. CoU'ajuto di costoro lo Sforza
raccolse millecinquecento uomini d'arme e molti fanti italiani;
e lasciato il fratello Àscanio all'assedio del castello di Milano ,
passò il Ticino, prese Vigevano ed assediò Novara. Frattanto
Ivone d' Allegre , tornando di Romagna coU'esercito francese e
eoa tutti gli Svizzeri rimasti in Italia al soldo della Francia »
attraversò il territorio di Parma e di Piacenza, dopo aver con
questi due popoli patteggiata una sospensione delle ostiiilà du«
— 540 —
raDte il passaggio de'suoi. GiuDto presso Tortona, gli veoDero
incoutro i deputati dei guelQ di quella città a chiedergli ven-
detta contro i ghibellini, r quali» secondo essi dicevano, avevano
segrete intelligenze con quelli di Milano e si rallegravano per
la ritirata deTrancesi. Ivone d'Allegre prese volentieri rincarico
di fare questa vendetta ; e fattesi aprire le porte della città, le
diede il sacco senza fare distinzione tra guelQ e ghibellini. Dopo
. di ciò continuò il suo cammino alla volta d'Alessandria.
Gli Svizzeri, che in addiedro stavansi chiusi nelle loro mon-
tagne e non guerreggiavano se non per difesa della propria
libertà, erano da sei anni in poi diventati quasi i soli soldati
dell'Europa. Non oravi altra fanteria che potesse far testa ai loro
fanti; laonde tutte le potenze facevano a gara nelFassodarli, si
permetteva loro ogni licenza; erano saziati d'oro e condotti nei
più ricchi e più voluttuosi paesi dell'Europa; venivano avvezzati
a tutte le delizie dell'opuleoza. La più spaventevole corruzione
era stato il frutto di quella subita mutazione in tutte le abitudini
della vita di un popolo in addietro tanto riputato per la purità
de*suoi costumi e ]^r la sua buona fede. Tutta la nazione era
diventata avventuriera e mercenaria; la Svizzera aveva sommi-
nistrato ai vari eserciti delle potenze belligeranti assai maggior
numero di uomini di quello che un saggio governo avrebbe
posto in arme per difendere la patria nel più grave pericolo. 11
costume di risguardare la guerra sotto il solo aspetto del lucro
e delle voluttà della licenziosa vita ch'essa procura erasi sparso
in tutta la popolazione; l'antica delicatezza in fatto d'onore era
cessata, e vi sottentrava la cupidigia e la brama de' piaceri ; e
finché durò quella prima ebbrezza di nuovi godimenti, la nazione
non fu più riconoscibile; che anzi appunto allora essa era in
procinto di bruttare la sua fama con odiosi tradimenti.
I Francesi furono i primi a provare i danni della perfidia
degli Svizzeri. Quattrocento di loro, che con Ivone d'Allegre si
erano chiusi in Novara per afforzare la guarnigione , fattisi a
conversare coi loro connazionali che gli assediavano, e udendo
da questi che nel campo nemico si stava meglio e si toccava
più grosso soldo, e che per quanto potevano essi giudicarne si
avevano più fondate speranze di buon successo, passarono tutti
sotto le bandiere dello Sforza. La loro diserzione agevolò la
presa di Novara, che si arrese per capitolazione. Lo Sforza fece
condurre a Vercelli, secondo i patti, la guarnigione francese ri-
masta in Novara ed intraprese l'assedio delia ròcca, che forse
€n mif^ flome di Mmoàman |«* iaid«re ^ msiìk r«6r^
cito iruiDe» i Martm, pmà càie nwwsde «nò^ vMèrvi.
InperciMdé Lodofàco XU nAafMiiwii <soii 4ilì0Mm |Mì è
^leBa «di» Sbim: i|ipeM aTUti MtiiU Min it(«ta«toM A
MhBo, egii avevi btf putire a fratta tolti ì $Mi iNMMini 4^MiÉè
e mudato il bafivo dì DìgioM ad a$wkiai>e tmm sriiMrf, « A
cardinale d'Aaboì», sm pràDo aìiiìstrQ, in A;stt per affir^tare
r imfcoe deffl'eserato. Ob^ in poco imifKs s'ingrossò a 4iimk-
sora: il TremcHiille vi oondosde mìUedmineoanto lanM t ^«Ah
Canti francesi, ed il balìTo di Dìgione dieciniila sviuiMlv Laonde
i Francesi fin da'bà pHmi gìorai d'aprite trovandosi più nu-
merosi che reserdto dello Sforia, amhrono ad accampare tra
Nofara e Milano. In ambedue gli eserciti gii Svitieri formavano
essi soli quasi tutta rin£ainteria« Ora, trovandosi essi In pro<^
cìnto di venire alle mani gli uni contro gii altri, scontrait>nst
agli avamposti e cominciarono ad abboccarsi fra di loro od «
rammentare i vincoli d'amiciiia o di parentela che stringevano
gli uni agli altri. Coloro che militavano nelP esercito francese
N^no stati levati con espressa licenia della GonfederaalonOi
e si erano mossi colle bandiere de' rispettivi Cantoni : per lo eon-^
trarìo quelli del duca erano privatamente entrati al suo soldo
senza l'assenso de' loro magistrati. Si gli uni che gli altri rice»
vettero nello stesso tempo un ordine della Dieta ohe II richia-
mava in patria e loro vietava di spargere scambievolmente il
sangue dei propri fratelli. Gli Svizzeri del duca , sndotti datto
pratiche de' loro compatrioti, o per meglio dire dall' oro fran-
cese, si tennero come più particolarmente obbligati ad ubbidire.
Dicevano che, combattendo contro le bandiere de' loro Gantonli
si farebbero rei di ribellione, sicché n'andava la testa ; e cer^
Dando pure un qualche pretesto per abbandonare 11 principe
cui servivano, chiesero allo Sforza con minacciose e tumul*
toarie grida le paghe mature. Il duca accorse subito nelle loro
Sle e, raccomandandosi alla loro generosltftì distribuì tutta far-
genteria e tutte le cose preziose che aveva con uè 9 atiesisndo
c<m gnirameoto dì aver latto chiedere danaro a Milano e sup-
plicandoU ad avere fnietm tanto soiameole che ^ognesse
qnesto danaro* Ei venne a capo in tale modo di «c(|0«tarii
per poco; nidi acriise al fratello per afl^etfarto a eoodtirtfti
goattroceoto cavalli ad oUoiarila fanti italtooi adtUMtt in Mi-
lano, onde aervifgli di ditoa in nieczo a quelle tieilwrir aol^
— 54f -
intanto i Francesi aodaTano afansaodosi fra il Ticioo e No-
vara ; siccbé, Tolendo Lodofico Sforza tenersi aperto il passo
verso a Milano, era costretto di venire a tiattaglia, e cosi deli-
berossi di fare; il 10 di aprile fece uscire dalie mora le sne
schiere e cominciò la battaglia colla sua cavalleria lederà e
co' suoi uomini d'arme borgognoni. Ma gli Svizzeri , di già
disposti in ordinanza di battaglia , protestarono di non volere
combattere contro i loro compatrioti e di volere anzi immabti-
nenti ritornarsene alle loro case, e rientrarono disordinatamente
In città ; laonde tutti gli altri soldati, vedendosi da loro abban-
donati, furono costretti a seguirli. Lo Sforza, disperando di po-
terli ricondurre alla battaglia e di riportare la vittoria con
quelle perfide truppe, pregò e scongiurò a fine che le truppe le
quali volevano ritirarsi provvedessero almeno da prima alla di
lui salvezza o lo conducessero con loro. Questo sarebbe stato
Il più stretto dovere degli Svizzeri; dovere cui importava sif-
fattamente per Tenore della Svizzera che venisse adempiuto, che
non v'ha dubbio che 1 loro connazionali medesimi i quali mi<
litavano neiresercito nemico V avrebbero riconosciuto , e non
sarebbe stata diffidi cosa che la libera ritirata dello Sforza
fosse per espressa condizione pattuita nella loro capitolazione.
M«n gli Svizzeri vi si opposero aspramente, e solo proposero al
duca ed a quelli dei suoi generali che potevano temere per
qualche particolare motivo d' essere maltrattati di nascondersi
travestiti tra i loro squadroni. Lo Sforza, ch'era già vecchio^
di bruna carnagione e di scarna corporatura, non poteva essere
preso per uno di quei robusti montanari. Ónde, vestitosi da
frale frartcosc^ino e cavalcando un ronzone, tentò di farsi cre-
dere loro cap{)ellano. 1 tre fratelli Sanseverini, Galeazzo, Fra-
cassa ett Anton Maria» vestiti da soldati svizzeri, difilarooo an-
che essi in mezzo airesercito francese; ma furono tulli e tre
riconosciuti col duca e falli prigionieri senza che i pretesi loro
fralolli d'arme si movessero in loro difesa. La quale infamia
degli Svizzeri fu ancora accresciuta da alcuni traditori che ad-
ditarono queste quattro vittime ai loro nemici.
Gii Svizzeri « dopo essersi bruttati d' infamia con questo
tradimento^ ripigliarono la via delle loro montagne. Pure, pas-
sando per Relliniona, quelh di loro ch'erano usciti dai quattro
Cantoni posti in sulle rive del lago di Lucerna , occupaion;>
quella |)iccoU città con cui volevano aver in ogni tempo aperto
il t^sso della Lombardia , ed approfittarono della circostaosà
Le frappe iCribML liteiiiJMJ» in ^i^ wm <AifR $tfnMk ,
in Hiluo colte pMlie frappi» rànsli^ l^yì <vi |^riMij>^f«^
capi deh Bobihft gUMiM od svtteEHÌ 41 hMMM |NNr f^^MWl
nel rcfDo di Napoli: ma sinald wsimd^ a Rìx<^ |Mh^!jW «n
Corrado Laudo» ^filoonio soo ei¥ifiiiiiK> t wc^hìw ^ì»k^^
rìdiieseiodeirospìiio per riposar» una ih^Ii^ Ir^tamKv^) .tlaiWKv
alPesIrraio. Corrado gfi promi» piena $icurviia tM inl^j^nh^ (w»
aTTisati della Temta di Ini alcnni capitani wn^iiani cIh» s'ìÌ lra«
Tarano in Piacenn; ì qnali durante la noUi^ w^r«liMr\mi» la
sua casa e fecero prigioniero Asoanio ron tutti \ nt^ntlhUHuIni
che lo accompagnavano. Lodovico XII mp«tiHto (Hik'^^U ^\w \\W^'
sti prigionieri erano stati tradotti a Vaneiia » li ikMUMinhN ì^\
Senato. Egli non voleva lasciare in mano di un ih^h^Io violm^
alcuno dei pretendenti alia signoria dolio Siato uuovanwutt)
cooqoistato» e con tanta alteriglo e tantt) minmuMi fkoiMi U ilo^
manda che non solo H cardinale Aaoanlo 0 tulli I gahllhiumlnl
presi con ini furono consegnati alla Krancid . ma ||IÌ fimuio
inoltre dati altri gentiluomini mllanosi, ni quAll II HvuAtu av^vn
promessa in solenne modo la salvaguardli.
Francesco Sforza aveva fondata la aun Miglioria oolln Min
-guerriere virtù, ed aveva dovuto credere la propria Mchiniia ftir^
marnante stabilita in trono ; per lo contrarlo huiinvitio XII. oliti
risguardavasi siccome legittimo erede del ducato di Milano, itm
mosso da non minore invidia che odio isontro vaìU\\ nh* ittfll
chiamava l'usurpatore. E questi miioI MenlimentI iHinn II dMn
a divedere dopo la vittoria, trattando tutti I Nfi|NiratitÌ dulia fa^
miglia di Francesco Sforza caduti in nmtHìU^m fAiu umììn Un-
placabile durezza con cui gli uomini mmUir^ri nifftUnm ¥m(ì\-
earsi quando la fortuna fa loro tiuon viao. Tra t priiflonUirt dui
re trovavansi due figliuoli del grandi^ ¥nwMm^ %UinM, U^i
yico il Moro ed S^tj^tm, un nip^d^ 0 abMalk/» \i^j\0ii\mì d) lui,
chiamato Ermes, e due ha<dardi, \m wmm Mém4ni\fh h I'àpu-
tino, tutti e Uh tiì^imìi di (i%ÌHstW9, n t^mUtlmM $11$ i^/^d-
potè dello ft^'Vi Vuurjf^Wf ^ffv$, ^Mis$imUt ptir $»^$ I^m^m^^*
8C0, il qmk ^^ tiT/fìfUfh di ìAw ^i^U'.nr/f ^. d'I^^MM^ d'Ara-
gona, ct0tv:,pe^ukfiUMi^^M pffU^^V^t ^^ i$m^\^^$m i^Ui$éi$uì
di L/jd9vk>'> XIL fi ft 'ynti'jrtv; % P/tta *\fmx niUu^^i » ^^^fn
- Sii-
lo Francia Tabito monastico; fece chiadere il cardinale Asca-
Dio in qaella medesima torre di Borges In cqL era stato egli
stesso da due anni prigioniero, e gettare i tre figliuoli di Ga-
leazzo in un oscuro carcere* Lodovico il Moro, ch'era di tutti
loro il più pericoloso pel suo particolare ingegno, per la sua
eloquenza, pe'suoi modi insinuanti, per la memoria di suo pa-
dre e per la compassione che ispiravano la sua mala fortuna e
le sue disgrazie , fu condotto a Lione , ove in allora trovavasì
il re. Egli venne tratto in quella città di pien meriggio, in
mezzo air affollato popolo , che rallegravasi della sua miseria ;
fece calde istanze per vedere il re, ma ebbe la ripulsa, e dopo
essere stato traslocato dalla rócca di Pietra-Incisa a quella del
Giglio-San-Giorgio , venne chiuso nella rócca di Luches , dove
terminò i suoi giorni, dopo dieci anni di prigionia, di assoluta
solitudine, di aspri trattamenti e di dolori.
Chiuderemo questo capitolo, nel quale, quasi a sollevare
r animo dagli orrori delP inquisizione , più degli avvenimenti
politici ci siamo occupati, coir accennare che a Bergamo fa
abbruciato un certo Zanchi sacerdote , antenato di Girolamo
Zanchi, che entrò' nella setta dei sacramentari insieme a Ver-
migli e Verzerio. Era a quei di inquisitore a Bergamo certo
padre Faustino di Chiari , appartenente ad illustre casato , e
cominciando a pullulare in Bergamo le massime anticattoliche,
*ed il prete Zanchi essendone propugnatore, lo fece agguantare,
e dopo fatto il processo come eresiarca fu consegnato al brac-
cio secolare per la pena. /
CAPITOLO XXVI.
lesMindro VI morto di veleno; eao carattere e eae infamie:
critica aitaasione di Cesare Borgia.
Ma io mezzo a' suoi disegni ed alle molte speranze, papa
lessandro Yl fa il 18 di agosto sopra preso da quasi improv-
sa morte; e il duca Cesare Borgia , suo figlio, e il cardinale
)rneto furono nello stesso tempo portati a Roma quasi mo-
t>ondi da una. vigna in cui dovevano cenare col papa. 11 corpo
Alessandro VI, copertosi subitamente di nera spaventosa gan-
ena, diede motivo alFuniversale di sospettare che il papa, il
{liuolo di lui e il loro commensale fossero vittime di un ve-
ne apparecchiato dal papa tnedesimo per altri.
Tutta la vita d'Alessandro Borgia era stata bruttata di tanti
slitti, ed egli aveva per tanti titoli meritato Podio di Roma ,
^iritalia e di tutta la cristianità, che non è maraviglia che la
orto di lui venisse attribuita a quegli stessi delitti cui egli
reva assuefatta la sua corte, e che il rapidissimo abbassamento
3lia sua famiglia e il giusto gastigo della sua malvagità pa-
isserò a tutti non dover essere altro che la conseguenza degli
;ellerati mezzi da lui praticati per ampliare il suo Stato. I so-
)etti furono anche da altre circostanze avvalorati. Tutti sape-
rne quanto danaro avessero fruttato ad Alessandro VI in tutto
corso del suo pontificato le promozioni al sacro collegio, che,
[ forza delle costituzioni .ecclesiastiche, aveva il diritto di fare
;li medesimo. In undici promozioni egli aveva creati quaran-
itrè cardinali, e quasi ninna di tali elezioni era stata gratuita.
Ta». ìnquii. Voi. II. C9
— 546 —
Da ognuna aveva ricavato almeno diecimila fiorini ; quella di
Francesco Sederini, fratello del gonfaloniere di Firenze, gliene
aveva fruttati ventimila; trentamila quella di Domenico Grimani,
figliuolo del procuratore di San Marco; ed altre probabilmente
un prezzo ancora maggiore. Ma pel papa era gran cosa la ven-
dita di questa principalissiima dignità ecclesiastica. I cardinali
da lui adoperati nel maneggio delle faccende pubbliche si arric-
chivano prontamente; e il papa, se vere sono le accuse fattegli,
il facea perire per usurpare le loro eredità e disporre nuova-
mente de' loro benefica, che ricadevano alla santa sede. Que-
ste erano, si diceva, le ree pratiche con cui il papa suppliva
alle enormi spese che si richiedevano pel mantenimento delle
truppe del duca Valentino, pel lusso della corte pontificia, per
le profusioni dì Lucrezia Borgia e per dar condizioni agli al^i
suoi figli e nipoti. Colle voci che correvano prima di quell'ul-
timo fatto, fu pertanto facilmente creduto in tutta ritalia che
il papa avesse invitato il cardinale Adriano di Corneto ad un
convito nella sua vigna di Belvedere, presso al Vaticano, con
intenzione di avvelenarlo, come aveva altra volta avvelenati i
cardinali di Sant'Angelo, di Capua e di Modena, prima suoi ze-
lantissimi ministri, poi vittime della sua cupidigia; che il duca
Valentino avesse mandato un fiasco di vino avvelenato al cop-
piere del papa senza palesargli Tarcano, facendogli dire soltanto
di non mandarlo in tavola senza suo espresso ordine ; e che
infine, nella momentanea assenza di questo coppiere, il vicario
di lui avesse dato per errore di questo vino al papa, a Cesare
Itorgia ed al cardinale di Corneto. Quest'ultimo disse egli me-
desimo molto tempo dopo a Paolo Giovio che, appena inghiot-
tita tale bevanda, avea sentito nelle sue viscere un ardore co-
centisslmo, che subito avea perduta la vista ed in appresso l'uso
di' tutti i sensi, e che, dopo una lunga malattia durante la quale
gii si era escoriata tutta la pelle, era riuscito a camparne.
Gli scrittori contemporanei meglio informati e quelli che
più minutamente parlarono di tale avvenimento consentono tutti
intorno alle circostanze. Pure un diario della corte di Roma e le
lettere dell'ambasciatore della casa d'Estè sembrano dimostrare
che la malattia del papa durasse otto giorni e ch'ella fosse giu-
dicata febbre perniciosa e come tale medicata. Inoltre non sap-
piamo per l'appunto la data del banchetto nella vigna di Bel-
vedere. Quanto è a noi, diremo che ne pare probabile che il
convito avesse luogo il 10 di agosto; che la malattia causata dal
donto etto fkni e die in ul lmi|^ imi $h $i dét;!^ il ;ì^i^^
nxo Dooie per doq icmaw il poip» ^ $iii> t^x ;iiiKvr^ vùt
ed oonipoleiitL
Akssuidro W il Ciri 5(4o nome rìcoràà taiiU d^MUtì <f^ hiite
infume , in tempo dd sno poniì&nito piv>M in nomo ^toU^
Chiesa romana molte decisioni clie luinno ancom pn\^ntomonMi
fona di legge. Perciò gli scrtttorì occl«$ia^C4 ivn'^no \\\ \yt\\^
Tare che, malgrado i nefandi snoi mi» 0(rti m>n $i s^\v^tA ni.ii
De per nn pnnlo dalla pnrìli^ della fe^K Alt\s.^ndi\\ VI U\ uno
iegV isUtntorì delP ordine de' frati minimi di san Kranooso^^ d<i
Paola , eh' egli ratiflcò colla sua l)olla dol primo di \\\^m\(^
del 1501, e di quello delle suore di Maria Vernino* fondalo \h
Giovanna di Valois» moglie ripudiata di Loilovico XII. U \'Ws\\
romana gli deve inoltre un' istituxiono che foroo piti d* oki\ì
altra contriboì a conservare la sua autori l{\ coiUni Uy ^^{h}^\^
della filosofia ed i progressi dello spirito umimo ; quosl' \\ U\
censura ecclesiastica dei libri. Alessandro VI collmu(t(^ in'I
primo» con suo breve del 0 di giugno del IKOI, a* tlpoitrMll,
sotto pena di scomunica» di non islampnro vorun lliiro mm\
r assenso degli arcivescovi o del loro vlciirl od niidltorl. nd
ordinò a questi di far prendere e brucinro ogni libro rnrilO'
nente dottrine eretiche contrarie alla fedo cattollcii , ornpht n
malsonanti.
Il duca Valentino diceva al Macclil»V(3lll ctin cTniInvii di
avere pensato a tutto ciò che potesse accadf^re ridila r.()ntlri((<<riKti
della morte di suo padre» e chea tutto av(5va trovato rlriimllo;
ma che mai non aveva pensato che» nel puntai In cui nmi"
desse la morte di Alessandro» egli medriHirno avn'bbn potili/»
trovarsi mortalmente informo* Il ibif'gia »! tori^;» Misuro elio
reiezione del nuovo ponteHce san;btK; in hthu \iHrUi lì^ì yiiìn
suo, 'dovendo, a suo cre^lere, rimaner; In Min djvo/joni? I tm-
dinali eletti da Ali^sandro» ed in (i^rtic/ilarc i lìirMUp ^ruffjiWfH
ch'egli aveva fatti entrare nel n'4r,ro c/;ll^((io. ijimi UtU4 U
secondaria nobiltà degli Stai» romani era in vnt iMhuU&a tìfioUti,
e la prìmarìa era in wjd^i oppre^Mia e afflitta cliV?ii ^,M/'V^ di
non avere che temere per parte di e^<wi. Tritio le Uftin/A, Jan'/;
in Roma che nel lefrit6fW>» ^^m nmr^Ui &4'%fyÀ ^A^UU, o
r esercito c/^n coi e^rfi atea tfffMfiè h ifti^n '40$ htm\ u^ta
Tasi ac^joartìeriV. fiei ^/mìV/tuì di K//rw, M* ^'4\U'4 pjffl/j ^v,U
— 548 -
quel punto in cui, incerto ancora s'egli dovesse accostarsi alia
corte di Francia o a quella di Spagna, non poteva far capitale
del favore dell'una o dell'altra ; anzi ei si vedeva ad un tempo
stretto da due eserciti nemici: pure, per quanto travagliato
fosse dalla malattia, non si lasciò cadere d'animò. Mentre che
il popolo affoUavasi a San Pietro con indicibile gioia per saziare
gli occhi sul cadavere di Alessandro VI e manifestare l'abbor-
rimento ond' era inverso di questo compreso. Cesare Borgia si
tenne nel palazzo del Vaticano; entrò in trattato coi Colonna,
che suo padre avea spogliati de'loro feudi, e, restituiti loro Ghì-
nazzano. Capo d'Anzo, Frascati, Rocca di Papa e Nettuno, che
Alessandro VI aveva notabilmente fortificati, a. tal prezzo fece
loro promettere di starsi neutrali.
Il duca Valentino non aveva soldati in numero sufficiente
per poter vietare a' suoi nemici l'ingresso in Roma e raffrenare
nello stesso tempo il popolo, da cui era esecrato. Prospero
Colonna era perciò tornato in patria con tutto il suo partito.
Dal canto suo Fabio Orsini era rientrato in possesso dei palazzi
della sua famìglia a Monte Giordano ; aveva fatte saccheggiare
le case e le botteghe de' cortigiani e de' mercatanti spagnuoli,
cosi careggiati sotto il regno dell' ultimo papa , ed altamente
domandava il capo di Cesare Borgia in espiazione del sangue
di suo padre e de'suoi congiunti versato dal tiranno. Le truppe
del Valentino erano tutte acquartierate in Borgo e nei contomi
del Vaticano; di modo che i cardinali, per non cadere nelle
loro mani , si adunarono nella chiesa di Santa Maria sopra
Minerva , ma non si affrettarono di cominciare le esequie del
papa, che dovevano durare nove giorni e terminarsi prima del
conclave.
C\WWLO XXYIL
StabOniMBto dUlU loé^nMi lnyiirtriwi» te tlMmUd^
Morto Eorico IV re di G^isUglla. ini unlluM UnlmlU Ih m\
rimoDio coD FerdìDando ro d'Araiiona. quoalo ro||no vonno Un
ito al primo ed assoggettato al più novoro trlliuiialf) dt^ll'lii
iiisizioDe castigliana. Questa ò appunto iinHiriiiiinlulRlnnM nlin
igDoreggiò Della Spagna dal 14H1 Ano iill*titA lumini ; iiumIIii
he abbiamo veduto distrutta con nniviirMiiln ulucnrM. i|UmIIii
he venne di fresco ristabillbi con imtroino doliint di tulli ull
pagnuoli istruiti , e quella ' per ultimo di cui lo primi m Norl
ere la storia , appoggiandola ai documenti ctiit mi nomiiilhl
trarono i suoi archivi, che il governo avuva poMtl u min diNpn
izione.
È noto che la guerra (iegll AMti^iA mni di mlnfkUi Mi
api per fondare b prima lwin\$h\om ; In utmti m np^^i9Uf^\fl
Uà sapposta neeestifi di punire VnpitttUiiiiH ikuH nìh^ i»(/»
Duoli (b poco converliti,
li coiDQKTeio areva UWf y^s^m^fH Mi XIV t^44é$ ìu muMi
egli ebrei qua» tolte k rkiib^ ^Mn y^$\¥An, h t\miiU^ i$if0^
ano data bjfr> onsa fff^ti^lMm» USfmm m iiMl40m ¥Mn \
egni di SlUMtVf Xl, ^ t^kUo ì t ék VA$f¥49 ti, o^m r^ìrt^fM^/
vola wffAnff/M m Umi/i * Vié^h fV ^ 6i hi^iH^ I.
riti fer> 400^0^, K t^^ «M^n MM^;» 4« 1^// ^/9^^i
— 550 —
Nel 1391 caddero vittime del foror popolare quasi cioqiie-
mila ebrei, alcani de'quali si erano sottratti alla morte bcen-
dosi cristiani. In appresso il loro esempio fa seguito da molti
altri, ed in breve la Chiesa si trovò affollata di ebrei (Fogni età
e condizione che ctiiedevano il battesimo, contandosi qoasi un
milione di persone che rinunciarono alla legge mosaica per
abbracciare la fede di G. G.
Oneste conversioni crebbero poi a dismisura ne'primi dieci
anni del XV secolo per lo zelo di s. Vincenzo Ferrerì e di
altri missionari, che air epoca dei sediziosi movimenti sovrac-
cennati cominciarono a predicare contro il giudaismo. E que-
ste pratiche vennero favoreggiate dalle adunanze tenutesi nel
1413 fra alcuni rabbini e Tebreo convertito Girolamo di Santa-
fé, medico delPantipapa Pietro de Luna, in allora dimorante a
Tortosa.
Ma gli ebrei convertiti venivano dai cristiani indicati col
nome di nuovi cristiani, o anche di cohvertiti confessati, per-
chè , facendosi cristiani*, avevano confessato essere abolita la
legge di Mosè. E perchè gli ebrei adoperavano il vocabolo
ebraico marranos come segno di maledizione, i vecchi crìstìaDi
chiamarono per disprezzo i nuovi la generazione dei marram,
ossia razza makdetta.
Non per questo si lasciò di chiamarli anche ebrei , con-
fondendoli con coloro che non si erano convertiti; tanto più
che assai di essi battezzati tornavano iri seno al giudaismo,
perciocché essendosi molti convertiti soltanto per Umore della
morte o per essere ammessi agli impieghi, conservando le ap-
parenze di cristiano, non lasciavano di professare colatamente
Tantica loro credenza.
Ma non andò molto che la loro simulazione fu scoperta, e
ciò offrì un apparente motivo religioso a Ferdinando V di eri-
gere un tribunale che gli dava il modo di confiscare ricche
sostanze, e che Sisto IV non poteva non approvare , siccome
quello che veniva a diffondere nella Spagna le pretensioni pon-
tificie.
Frate Filippo de Barberis, inquisitore del regno di Sicilia,
recossi a Siviglia nel 1477 per ottenere da Ferdinando e Ja
Isabella la conferma di certi privilegi accordati all'Inquisizione
di Sicilia dall'imperatore Federico li nel 1233, in forza de' quali
la terza parte de' beni degli eretici condannati era devoluta al-
l'Inquisizione. I due re accordarono al De Barberis la sua do-
muMto e si nostnitMio pitipeoà alle dì lui ìnsiQimiìoQi di $t^
tilire anche in Sfogm il SrarCIBcM» coi fecero Ma Alfoii;s»>
de Hofeda, priore de' domenicaiii di Sifìgtta, ed il nnniio del
papa Nicdò Franco» vesoofo di Trefiso.
Si fece allora sparigere toce che i nuoti crisUani, insieme
eof^ ébiei non hattexuti, insoltatano le iniat(ini di 6« C e
crodfiggetano anche alcanì uncinili cristiani per rappresentare
gli oltra^ e la morte fatti soffrire al ditin Redentore^ Al*
fonso de Hojeda raccontò a questo proposito a Ferdinando e ad
Isabella che nn cavaliere della famiglia di Goiman. troTandosi
nascosto in casa di nn ebreo, della coi flglinola era pmlnta*
mente innamorato» aveva veduto commettersi questo delitto nel
giovedì santo.
Ferdinando, allettato dalla sperania d'impinguare il suo te-
soro colla confisca dei beni degli ebrei, e sicuro deirassistenia
del papa, intraprese a vincere la ripugnanza che aveva la regina
Isabella contro tanta crudeltà, e le fu fatto credere che nelle
attuali circostanze la sua coscienza non poteva a ciò rifiutarsi.
Non seppe resistere alle sollecitazioni del suo consiglio, guada-
gnato da Ferdinando, ed ordinò al suo ambasciatore in Roma
di chiedere al papa una bolla per lo stabilimento del tribunale
deirinquisizione nel regno di Gastiglia.
La bolla fu spedita il 1 novembre del 1478, colla quale si '
autorizzavano Ferdinando ed Isabella a nominare i soggetti in-
caricati di scoprire e punire gli eretici neMoro domini!. Ma le
rigorose misure del nuovo tribunale non piacendo ad Isabella,
perchè troppo violenti, il consiglio di lei fece sospendere Tese*
cnzione della bolla, e si cercò di far cessare il male con più
miti rimedi.
Si pubblicarono adunque catechismi ed altre scritture Istrut-
tive, e la regina incaricò don Diego Alfonso de Solis vescovo di
Siviglia, Diego Merio prefetto di Siviglia e F. Alfonso d*Urìe(la,
di riferire intorno agli effetti che produrrebbero questi mezzi
^i dolcezza. Ma i frati domenicani, il nunzio del papa e lo stenso
re desideravano che Isabella riconoscesse insufficienti le prati-
che da lei preferite.
Ad ogni modo, per allora non si passò alle vie del rigore
come lo dimostra la procedura di Pietro d' 0.4ma, dottore di
Salamanca, che aveva pubblicate alcune proposizioni contrarie
4I domma. Felice la Spagna se un tal metodo di procedura si
fosse continuato.
- 55SI —
ìfa perchè il re ed il papa volevano pare che si erigesse
il Duovo tribanale, qod si tardò ad ottenere l'assenso della re-
gina, la quale trovandosi col re a Medina de Campo, il giorno 17
settembre del 1480, si nominarono i primi inquisitori frate Mi-
chele Morìllo e frate Giovanni di S. Martino, Tuno e Faltro do-
menicani, dando loro per assessore il dottore Giovanni Ruez di
Medina, consigliere d'Isabella, e per procuratore fiscale Giovanni
Lopez del Barco, cappellano della medesima.
11 9 di ottobre jfu spedito ordine a tutti i governatori delle
Provincie di somministrare quanto abbisognava pel viaggio de-
grinquisitori e del loro corteggio che reca vasi, a Siviglia; di-
stinzione che allora non accordavasi che rarissime volte. I pri*
vilegi del nuovo tribunale erano precisamente quelli che Fede-
rico Il aveva accordato come re di Sicilia.
Ma i Sivigliani erano cosi contrari al nuovo tribunale, che
gFinquisitori non riuscirono a procurarsi né le persone né gli
altri oggetti occorrenti al disbrigo, delle loro incombenze; onde
si rendettero necessari nuovi ordini dei sovrani, che pure non
furono strettamente eseguiti: ed intanto quasi tutti i nuovi cri-
stiani si rifuggirono nelle terre appartenenti al duca di Medina
Sidonia, al marchese di Cadice, al conte d'Arcas e ad alcuni
altri privati signori. Grinquisitori risguardarono questo volon-
tario esilia come una quasi certa prova di eresia e provocarono
dal re una nuova disposizione contro gli emigrati.
Grinquisitori eressero il loro tribunale nel convento di
S. Paolo dei domenicani di Siviglia, ed il giorno 2 gennaio
del 1481 pubblicarono, in forma di editto, il primo atto di giu-
risdizione, col quale ordinavano ai signori presso ai quali si
erano rifuggiti i nuovi cristiani di farli imprigionare entro quin-
dici giorni , di farli scortare a Siviglia e d'impossessarsi dei loro
beni, e ciò sotto comminatoria della scomunica e di essere ri-
sguardati e trattati come fautori degli eretici.
In breve tanti furono gFimprigionati che, non bastando
agl'inquisitori il convento, stabilirono il tribunale nella rócca,
di Triana, posta in un sobborgo di Siviglia, sull'ingresso della
quale poco dopo fecero porre la seguente iscrizione:
Sanctum Inquisitionis Ofjicium contra hcereticorum praiita-
tein in Hispanice regnis initìatum est llispali anno MCCCCLXXXI
sedente in trono apostolico Sixto /F, a quo fuit concessum, et re-
(jnantibtis in Hispania Ferdinando V et Isabella, a quibus fuit
imprecalum. Generalis inquisitor primus fuit fr. Thomas de Tot-
- 553-
(pcemoda , prior concentus SanctcB Crucis segùciensis » ùrtUnis
prosdicaiùTum. Faxìt Deus ut, in fidei UUdam et augmmlum ,
m finem usque scpculi permaneat, etc. Exurge, Domine, indica
causam tuam. Capite nobis tulpes.
Gli errori ed i pr^adizi acciecarono in modo gli Spagnooli
che varie città si fecero on merito dì disputarsi l'onore d'a?ere
le prime accolto nel loro seno il trìbaoale deiriogoisizioDe; e
molti scrittori, igooraodo il malcontento ed i sediziosi movimenti
del popolo, presero parte in questa disputa.
L' editto di grazia pubblicato in appresso persuase molti
apostati a porsi incautamente nelle mani degli inquisitori, i quali
non li assolsero che dopo avere manifestato, sotto una severa
legge di conservare il segreto, tutti coloro che sapevano caduti
in apostasia , e con questo mezzo fecero cadere nella loro rete
un prodigioso numero di persone.
Quando fu consumato il termine di grazia pubblicarono un
altro editto col quale sotto comminatoria di grave peccato e di
scomunica maggiore s'invitavano tutti i cristiani a denunciare
entro tre giorni le persone infette d'eresia giudaica. Era troppo
facile il vedere quanto questa disposizione fosse contraria alla
legge di Gesù Cristo, che ordina di avvisare tre volte il pecca-
tore e due volte l'eretico prima di punirlo. E tali furono le tristi
conseguente di cosi fatta risoluzione che un eretico non sapeva
di essere tratto in giudizio che quando era arrestato e chiuso
nelle carceri dell'Inquisizione.
La stessa sorte toccava all'ebreo convertito, che, sebbene
non ricaduto nel giudaismo , aveva conservate certe abitudini
della sua infanzia che pure non erano contrarie al cristianesimo, '
ma che la malevolenza faceva risguardare quali evidenti indizi
d'apostasia; come, per modo d'esempio, se mangiava carni di
animali uccisi dagli ebrei, se recitava un salmo senza aggio*
gnervi il Gloria Patri, ecc. Che poteva aspettarsi di utile da uno
stabilimento che cominciava in tal maniera? Era troppo facile
il prevederne le conseguenze, che saranno esposte colle impor*
tanti verità, la cui conoscenza è tanto agli uomini necessaria.
Con mezzi cosi propri a moltiplicare le vittime, non poteva
mancare l'effetto che se n'era sperato; e ben tosto il tribunale
diede cominciamento ai suoi crudeli giudizi, facendo il 6 gen-
naio del 1481 bruciare sei condannati , diciassette il 26 marzo
susseguente ed altri in maggior numero nel mese dappoi: di
modo che il 4 di novembre dello stesso anno avevano di già,
Tamb. JfUfuis. Voi. II. 70
— o5i —
nella sola città di Siviglia, subita la pena del faoco 208 dqotì
cristiaDi , mentre altri 79 gemevano negli orrori di durissimo
carcere. Ma sebbene questa illustre città fosse la prima a pro-
vare i colpi del nuovo tribunale di sangue, non vennero pia
risparmiate le altre città della Gastiglia; perciocché, secondo Ma-
riana, in Cadice ed in altri luoghi del regno d'Isabella furono
nel 1481 divorati dalle fiamme duemila di quo' sciagurati , uo
numero assai maggiore fu giustiziato in effigie, e diciassettemila
subirono diverse pene canoniche. Tra coloro che perirono di
fuoco conta vansi vari ragguardevoli personaggi e non pochi ricchi,
le cui sostanze diventarono preda del Fisco.
I frequenti auto-da-fè obbligarono il prefetto di Siviglia a
far erigere fuori della città in una campagna detta Tablada no
patibolo permanente di sasso, il quale si conservò fino alla pre-
sente età sotto il nome di Quemad&ro, e sul quale eransi innal-
zate quattro grandi statue in plastica, rappresentanti quattro
profeti, entro le quali si chiudevano vivi i cristiani ricaduti ed
ostinati, onde morissero lentamente in mezzo a quelle orrende
oombustioni. Qual uomo, per crudele che sia, oserebbe sostenere
che una tal pena inflitta per un semplice errore deir intelletto
fosse conforme allo spirito del Vangelo?
I nuovi cristiani, atterriti da cosi spaventosi supplizi, emi-
gravano in gran numero in Francia, in Portogallo e perfino
neirAfrica. Ed intanto molti di coloro ch'erano stati condan-
lìali come contumaci si trovavano in Roma ed avevano chiesto
jziustizia al papa, il quale, sotto il 19 di febbrajo, scriveva a
Ferdinando e ad Isabella per lagnarsi che i due inquisitori
Michele Morillo e Giovanni di S. Martino, senza attenersi alle
regole di diritto, giudicavano eretici coloro che non lo erano.
Soggiugneva che li avrebbe privati della loro carica se non
avessero avuto riguardo al decreto reale che li aveva istituiti; che
per altro annullava rautorilà accordata di crearne degli altri, a
motivo che se ne troverebbero di capaci tra coloro ch'erano
stati nominati dal generale e dal provinciale de' domenicani,
che soli avevano il privilegio di fare tali nomine, dovendosi
risguardare come emesso per errore di spedizione quello accor-
dalo al re ed alia regina.
A questo ingiurioso oltraggio fatto a Ferdinando e ad
Isabella un altro il papa ne aggiunse l'U febbrajo seguente,
col quale, dietro istanza fattagliene dal generale dei domenicani
Alfonso di S. Cebriant, chiamava alle funzioni d'inquisitori lo
\
- 155 —
staBto Alfonso ed altri religiosi del suo ordine, tn i quali frale
Tomaso Torgoemada, cbe fu in appresso il primo grmde ni-
qmsitore getierate.
Una cosi rìolenta procedura e tanto contraria alle leggi
eedtò wA fatte dogliamo clie il re credette di doverne infor*
mare il papa : il qnale rispose che il breve era stato spedito
dietro il parere di molti cardinali , che per timore della peste
ora si tenevano lontani .da Roma; che al loro ritomo farebbe
di noovo esaminare raflbre , e che intanto permetteva la so*
spensione del breve del 17 aprile, parche glMnqaisitori si con-
formassero neiresercisio delle loro incombenze al diritto co-
mone ed alle bolle apostoliche di conserto coirordDìarìo dio-
cesano.
Intanto la regina Isabella aveva snpplicato il papa di dare
una forma stabile al nuovo tribunale; instando ohe non si ac-
cordasse Tappellazione a Roma dalle sentenze emanate In Spa-
gna, e lagnandosi che molti andassero spargendo voci che in
dò ch'ella aveva fotte pel tribunale delFInquisizione altro non
aveva avuto in vista che Tacquisto delle sostanze de' condannati.
Quando ricevette la lettera d'Isabella, il papa aveva avuto
avviso che le bolle da lui mandate in Sicilia per le cose del-
rinquisizione avevano incontrato resistenza per parte del virerò
e dei principali magistrati del regno, onde seppe accortamoiitu
approfittare della domanda della regina. Il 23 febbraio dol i483
rispondeva ad Isabella, encomiandone lo zelo por rinqnlsizione
e calmando gli scrupoli della sua coscienza rispetto alle confi-
sche! Dopo averta assicurata che non tarderebbe ad assecondare
i desiderii di lei tostoché fossero dissipate le insupenibili (llfii-
colta che al presente vi si opponevano, caldamente T esortava
a sostenere Tlnquìsizjone ne' suoi Stati ed in particolare a pren-
dere le convenienti misure per faria ricevere ed eseguire in
Scilla.
Secondo la promessa fatta ad Isabella, il papa assoggettava
la inchiesta di lei all'esame de' più ragguardevoli spagnuoll che
in allora si trovavano in Uoma ; tra i quali contavansi il car-
dinale Roderigo Borgia , che fu poi papa Alessandro Vi, ed il
cardinale di S. Prassede don Giovanni de Nella, fratello di qael-
TAIfonso de Molla che fu bruciato in effigie per essergl posto
io sicoro fra i Mori a Granata.
Questa straordinaria assemblea approvò la erezione di un
giudice apostolico d'appello per la Spagna , che darebbe son-
— W6-
tenza su tutti i giudizi deirioquisizioue di cui si fosse fetta
appellazione a lui. In seguito il papa ne dava notizia a Ferdi-
nando e ad Isabella , partecipando loro d'avere nominato solo
giudice di appello Tarcivescovo di Siviglia, don Inigo Manrique,
e date tali disposizioni da fargli credere che grinquisitorì non
porgerebbero ulteriori motivi di lagnanze. In appresso esortava
i due principi a proseguire con zelo la cominciata impresa, as*
sicurandoli che la vittoria riportata sopra i Mori era il premio
del loro amore per la purità della fede. Per ultimo diceva che
la cattiva condotta di Cristobal Galvez, inquisitore di Valenza»
era a tutti nota, e che per la sua impudenza ed empietà avrebbe
dovuto assoggettarlo ad un esemplare castigo, ma che pure
erasi limitato a privarlo dell'impiego ; e che perciò incaricava
Ferdinando ed Isabella di nominare il suo successore , cai fin
d'allora accordava la giurisdizione e le necessarie facoltà.
La nomina di don Inigo Manrique arcivescovo di Siviglia
alla carica di giudice d'appello sembrava vantaggiosa perchè
dispensava gli Spagnuoli dal recarsi a Roma e dalla esporta-
zione del danaro dal regno; e perciò la corte di Roma pensò
bentosto di farne cessare gli effetti. Per tale cagione continuò
a ricevere le appellazioni degli Spagnuoli come se la bolla che
istituiva Manrique fosse già dichiarata di niun valore.
Né la cosa si rimase in questi termini, che sotto il 2 di
agosto il papa pubblicò un motuproprio ad perpetuam rei me-
moriam in cui si diceva che Sua Santità aveva accolti molti
Sivigliani perchè le avevano fatto sentire che, presentandosi al
giudice d'appello, erano sicuri d'essere piii duramente trattati
che non portava la legge: che perciò molti erano di già stati
assolti dalla Penitenzieria apostolica, e che gli altri lo sarebbero
in breve. Era noto a S. S. che le grazie recentemente accor-
date dalla santa sede venivano disprezzate come non valutabili
a Siviglia , dove si continuavano le procedure di alcuni spa-
gnuoli assolti a Roma, mentre erano di già bruciate l'effigie di
alcuni altri i quali lo sarebbero stati in persero se fossero tor-
nati in Spagna ; che per queste considerazioni aveva ordinato
agli auditori del palazzo apostolico di giudicare dietro le loro
appellazioni, non optante il diritto accordato all'arcivescovo di
Siviglia, e di far valere le assoluzioni accordate dalla Peniten-
zieria e le commissioni dalla medesima spedite dovendosi ri-
sguardare le procedure intraprese contro queste persone come
terminate. Per ultimo il papa faceva osservare a Ferdinando e
che BBC 9 T^nre «àie ns^^v»! ii:) >^vipM^ ji^ <N«ft$i(i(m>M* ti ^l>(!^
cDDlKSffiEL f«nMti»à^ Inr^ 4ì nM»i>^ ite ^\V^ ^ ^^ ^^
teodole di rìtnm iiidlii> ttln»^> ^Ui nu^ni v^mlMni hIn^ia S^v^ -
in rigore i sooì nMlesìnù AlSwIì. t^ ^v^^'^^ s^^l* M^^i KnIU
afbuo oootnrà non iDolb> li^pix M^ U\ (^r< KhA|^\ \\m \^'s\^^\\i\
DOD sentire la sinistri impni^oiH^ c)m^ h )v\))À (HXHh^m^Utv 0
le hgmuK di Ferdinamlo, scri.^'^ ;!i qn^v^to oho ^v^^ni\o {i|<^h
spedita con sorerchìa fretti. a\-ov» mHhU\^ OHH>rlwi\o s\\ rt
Tocarla.
Intanto Giovanni di Siviglia, cho avovj^ \w t(ò 0 \m (\\M
ottenuta una tal bolla, tornalo In S|V)|inti noi itonnt^o iWI \\H\,
fu forzato a presentarsi co\suoÌ coin|mitnl ni Kl\utio.o (Vt^ip^^H*^
don Inigo Manrique ed Incoiìtrò la funo^tl.i mMlo oho oull 0 Inlll
-gli altri ayrebt)ero dovnto pretednnn II ro Fordlnnndn iiiulMvrt
nel vedere consolidarsi il aUtninn dnllo rmiliMrhn; t^d II piiim.
che solo avrebbe potuto provvedere a tanti» niiiln tionri^nnitniln
r ultima bolla, temeva di splacern in coni dllloitln nlTiirn u i|iimI-
Tavaro monarca; onde non ponnò che 11 darò nnllu i^U^mì tntnpn
airinquisìzione di Spagna una forma atablln. cotn» vigili miimi
ben tosto.
CAPITOLO xxvni.
Creasione di un grande inquisitore generale, di on ooneiglie
reale d' Inqvisisione, dei tribunali subalterni e delle leggi
organicbe. Stabilimentojdel Sant*U£Bcio nel regno di Ara-
gona.
Tra le misure cui diede luogo il dqoto esame della boli»
del 2 di agosto 1483 deve annoverarsi il decreto che fece pren-
dere all'Inquisizione la forma di tribunale permanente, con m
capo dal quale dipendevano tutti gl'inquisitori in generale e
cadauno di loro in particolare. Di quest'epoca soltanto fu accor-
data la carica d'inquisitore generale del regno di Castiglia al
padre Tomaso di Torquemada, non per altro motivo fin' allora
conosciuto che per essere stalo nominalo con molli altri nella
bolla di febbraio del 1482,
Un altro breve del 17 ottobre del 1483 lo dichiara inqui-
sitore generale del regno d'Aragona, e le sterminale facoltà
annesse al suo ufficio vennero riconfermale TU febbrajo del 1486
da Innocenzo VII, indi dai due successori di questo pontefice.
Era quasi impossibile il trovare on uomo più di questo capace
di^ eseguire le intenzioni di Ferdinando mercè la moltiplicazione
delle confische, quelle della corte di Roma col diffondere le
massime dominatrici e fiscali, e finalmente quelle della mede-
sima Inquisizione rispetto al suo progetto di stabilire coi sup-
plici il sistema del terrore di cui abbisognava.
Torquemada nominò subito quattro tribunali subalterni per
Siviglia, Cordova, Jean e Villa real oggi detta Ciudad-real, il
quale ultimo venne poi trasferito a Toledo: ed in allora Tor-
qoemada permise ai pedri domeQìcaiii d'intnpit'iMlare Feser-
cizio delle loro foozioni oeUe nrie diocesi detta oorona di
Castiglia.
Questi moDad» che vi erano diretlainente aulorinati dalla
santa sede» non si assc^gettarooo senta qualche resislema a|tlt
ordini di Torquemada, protestando di non essere suoi deleiiaU.
Torquemada, per non recar danno all'impresa cui dava cimìin^
ciamento, si astenne dal destituirsi; ma» (ìersuaso che l'unità
d'azione fòsse necessaria alle sue viste, si apparecchiò a sta-
bilire quelle costituzioni di cui non poteva fare a meno; ed in
allora scelse per suoi assessori e consifilieri i Kluresperiti Glo«
vanni Guttierez de Ghabes e Tristano de Medina.
Intanto Ferdinando , che non dimenticava quanto imimr-
tasse al Fìsco di organizzare convenientemente il tribunale» cro(\
un consiglio deìV Inquisizione, del quale nominò presldonto a
vita il grande inquisitore» e consiglieri don Alfonso Cari Ilo, ve-
scovo nominato di Mazara in Sicilia» che trovavasi In S|mgna.
Sancho Velasqnez de Guellar e Ponce di Valenza» ambiiluo dot-
tori iu legge.
Qaesr organizzazione dava ai consiglieri voce dollberntlvn
in tulli gli aCfari dipendenti dal diritto civile» e soltanto voco
consultiva in quelle che appartenevano airaulorilà ecclealflMticn,
della quale il solo Torquemada era investito dalle bolle aposto-
liche.
Questa circostanza fu cagione di calde disputo tra grinqul-
sitori generali ed i consiglieri della suprema, e la quistiono ri fun-
se sempre indecisa. Ma perchè d'ordinario i consiglieri appar-
tenevano air ordine ecclesiastico » inclinavano natiiralmont45 a
lasciare alla giurisdizione canonica varie quistloni dlpond'^ntt
dalla autorità civile.
Una tale condotta diminni notabilmente gli afTarl d^;volnti
airautorità temporale del re, il quale non tardò ad MVAìtufm
che la sua rivale portava danno al Fisco.
Il Torquemada incaricò i soni due nnMmorì di nU^AnUim le
costituzioni pel governo del nuovo trìbanale. Adunò una giunta
generale composta degP inquisitori de'qnallro tribunali iis§ lui
stabiliti, de'suoì due assessori e dei coa^iglleri reali. Onesfadii-
nanza si tenne in Siviglia^ dove si imìMìc^rono il W di otto*
biB del 1484 le prime leggi ddlo irtabilimml^i iipagririolo, f^ìlUt
lì tìtolo élstruzi^mi. io mi limiterò a presentare al mm l#H(ffi'
tori an*ìdea generale dì queste emdeiì leggi, onde ter c/^no^
scere lo spirito dominante deirinqnisiziririe.
Il primo articolo determina il modo con coi verrebbe pnb*
blicato Io stabiiimento del tnbunale.
Il secondo di pubblicare nella chiesa del luogo le censore
contro coloro che, avendo commesso un delitto d'eresia^ non si
denunciavano volontariamente» e contro coloro che si opporrdK
bero alle misure del Sant'Ufficio.
Il terzo assegnava agli eretici il termine di trenta giorni a
denunziarsi.
Il quarto voleva che le confessioni fossero scritte.
Il quinto proibiva di assolvere segretamente coloro che ave-
vano volontariamente confessato. E ciò per assoggettarli alFumi-
nazione di un pubblico auto-da-fè.
Il sesto li assoggettava a penitenze infamanti.
Il settimo a penitenze pecuniarie.
Vottavo non eccettuava dalla confisca de'beni gii pronun-
ciata il confessante volontario dopo spirato il termine dì grazia.
Il nono minorava le pene a favore dei volontari denun-
cianti il proprio delitto e che non avessero compiuti i venti anoL
Il decimo obbligava a dichiarare Tepoca in cui era caduto*
nell'eriBsia, 'ad oggetto di sapere quali beni possedeva in quel
tempo.
Vundecimo permetteva che ad un eretico, chiuso nella pri-
gione del Sant' Ufficio , il quale pentito chiedeva la penitenza»
si potesse accordare la pena della prigione perpetua.
Nel dodicesimo si diceva che quando grinquisitori credes-
sero la confessione del penitente simulala, lo condannassero
ad essere rilasciato alla giustizia ordinaria per subire la pena
del fuoco. '
Gol tredicesimo si ordinava di giudicare come falso penitente
colui che si vantasse d'avere celati alcuni delitti o si sapesse
averne commessi di più dèi denunziati.
Diceva ['articolo quattordicesimo, che se l'accusato convinto
persisteva nella negativa anche dopo la pubblicazione delle testi-
monianze, si dovesse condannare come impenitente. E questa
disposizione mandò al rogo migliaia di vittime.
Col quindicesimo si ordina che quando contro T accusa
esìste una semiprova, debba assoggettarsi alla tortura. Se si con-
fessa colpevole fra i tormenti ed in appresso conferma la sua
confessione, viene punito come colpevole : se la ritratta, viene
di nuovo sottoposto alla tortura o condannato a pena straor-
dinaria. In appresso si proibì la seconda tortura dal consiglio
delfioqoisztfkDe. mi ilcum ìiM|aì$ìl(«rì fniyvM ^hhusMiiM viiì>
deli per nfieierii il pomo dopo. »Uo prMc$«o eh^ iKvn en oh<^
sospesa la sedota dd prendente ponriiV
Si lieta col js^iìr^sire.' di dare acli ^iViìs^tì AfH^,t tWl^
deposàziooi dm tesHmotìl potendo^ elianto comnriìo^^r k>n^ ci^
che aTevaDo deposto , sopprìmendo le oìrr<\<tanre ch^'' jvMn^h-
bero farli coooscere.
Il dictdssertcsim? ordina ajrti in<|iìi$ilorì d'inton\>f^iv es??*
inedesiffii i testiinoDÌ, quando possano forKv
In forza del dkif4teàmo doTOvano assistere alla torturai «M
preTennto dae inquisitori.
Col dicioMnotesimo era prescritto elio non eompawuK^ l\io-
CQsato dopo essere stato citato ne' modi wluU, dov!>vA oss^ctv
condannato come eretico convinto.
Il tentesimo artìcolo dispone che quando * pnn\ilo col
mezzo dei libri e della condotta tenuta da un morto cho fos,to
eretico, deve giudicarsi e condannarsi corno tale . dissollorrato
il suo cadavere e confiscati tutti i suoi boni a prolUlo dolio
Slato, a danni dei suoi naturali eredi.
Col ventunesimo s'ingiugneva agli inquisitori di oslondoro
la loro giurisdizione sopra i vassalli do* feudatari ; od In cn^o
che questi ricusassero di riconoscerla, di applicar loro lo vm*^
suro e le altre pene.
Si diceva neir articolo rentidue che ni figli minori di uh
condannato ad esser rilasciato al tribunnio ordinario Mnrrl)lM>
dal governo accordata a titolo di elemosina una pirrol.i por-
zione dei beni confiscati al padre. Benchc^ lo abbia IntU inflnlll
processi antichissipii , non mi ò mal accaduto di Irovaro elio
gFinquisitori siansi presa cura degli sgraziati figli d*nn condurla
nato. La povertà ed il disonore erano 11 solo patrtriiortio dm
veniva loro lasciato.
Coirar//coto ventitré era ordinato che ae un eretir./i rìvnmU
liato nel termine della grazia senza essere Incorso nella c/inll^ra
de' beni, possedeva qualche sr>staoza derivanti» da \mfMim rJio
sarebbe stata condannata, non doveva rfaesta comprefid^;rsi Mììn
• legge del perrk)no.
Il tem quattro voleva che si desse la liberi* agli %t\ì)Av\
cristiani ;kl nt::onciitato quando rion aveva Itiogo la tAìU\\M',n, n
motivo che il re non aveva aeeord»la la pnrJ» che a qriestft
coDdiiìoDe.
Vietala W v(mticmqm$imfp a0'fry|oisltofi ed alle altre p^r-,
làXB. Jnfimu. Voi. lU lì
— 562 —
soDe addette al tribunale di ricevere r^ali sotto pena di soo*
manica maggiore e d'essere privati dei loro impieghi, condan-
nati alla restituzione e ad un'ammenda del doppio valore della
cosa ricevuta..
Varticolo verUisd raccomanda agli u£Eiciali deirinquisizione
di vivere in pace gli uni cogli altri e di non affettare superiorità,
restando incaricato V inquisitore di terminare senza strepito le
contestazioni che potessero nascere.
CùlVarticolo ventisettesimo veniva espressamente raccoman-
dato agi' inquisitori di tenere d' occhio i loro subalterni , onde
esattamente soddisfacessero ai loro doveri.
Finalmente il ventottesimo affida alla prudenza degl'inqui-
sitori Pesame e la discussione di tutti i punti non prevedati
dalla costituzione di cui si è data l'analisi.
Questa costituzione venne più volte modiflcata ed accre-
sciuta fino all'anno 1S61; ma troviamo che a fronte di tutte le
modificazioni, le forme della processura non variarono giammai
e^ sempre fu mantenuto in pieno vigore quell'arbitrario proce-
dere che può risguardarsi cottie il fondamento di questa odiosa
giurisprudenza.
Un codice non meno ingiusto che sanguinario , affidato a
gente che credeva di acquistar merito presso Dio col far bru-
ciare migliaia de' loro simili, non poteva che rendere l' inqui-
sizione odiosa in tutto il regno ; e perciò troviamo avervi ecci-
tato un vivissimo malcontento, come lo attestano il Mariana eà
altri scrittori, non esclusi neppure molti zelanti partigiani del
tribunale medesimo.
Ma ciò viene ancora più evidentemente provato dalla viva
opposizione che incontrò nel regno d'Aragona , dai delitti che
vennero commessi perchè la nuova Inquisizione non si stabilisse
in questo regno e nelle Provincie di Catalogna, di Valenza, di
M^iorica, del Rossiglione, di Sardegna e di Sicilia.
È bensì vero che fino nel secolo XIII l' Inquisizione vi si
era radicala , ma procedeva con assai maggiore dolcezza. La
confisca de' beni non vi si praticava; non era generale la co-
stumanza di tener segreti i testimoni.
Avendo Ferdinando adunati in Tarragona le cortes del suo
regno d'Aragona in aprile del 1484, ordinò in un .consiglio
privato la riforma dell' Inquisizione, ed in conseguenza di tale
risoluzione il padre Tomaso di Torquemada nominò inquisitore
per l'arcivescovado di Saragozza f. Gaspare luglar, domenicano,
— 565 —
il dottore Pieiro Aiiwiés d*Epib» canoDìco di quelb melro^
liUDa.
SeUwDe UD decreto del re ordioasse alle autorità della
ofioda di spalleggiare i nuovi inquisitori, Topposiiione
e Toleva farsi al tribunale non cessò ; che ami contribuì
darle maggiore estensione ed a renderla, per cosi dire, na*
male.
Forse, più che tutt'altro, le diede questo carattere la cir-
stanza che i principali impiegati della corte aragonese erano
;li de' nuovi cristiani , o avevano spose , sorelle , nipoti , cu-
li, ecc^ di tale pertinenza ; onde approfittarono della propria
Quenza per muovere la rappresentanza nazionale a reclamare
a corte pontificia ed al re contro V introduzione del nuovo
dice inquisitoriale. In fatti si fecero partire deputati alla volta
Roma , ed altri furono mandati alla corte del re ; ma frat-
Qto i nuovi inquisitori condannarono alcuni nuovi cristiani
me eretici giudaizzanti e celebrarono qualche auto-da-fè. Tali
pplicU esacerbarono oltremodo i nuovi cristiani del regno di
agona , che temevano di vedere in breve rinnovarsi nelhi
ro patria le orrende scene che già da tre anni pralicavansl in
istiglia.
I deputati spediti al re fecero sapere ai loro committenti
non essere soddisfatti dello stato della loro missione. Coloro
e avevano preso parte in quest'affare erano il tesoriere Ga-
iele Sanchez, suo fratello Francesco dispensiere del ro, Luìkì
»nzales segretario del re, Alfonso della Gaballeria vice-can-
iliere, ecc., i quali mantenevano una segreta corrispondenza
d Pietro Cerdan, Guillen Ruiz de Moros, Martino Gotor, Ga-
liano^ Gerdan, Luisi di Santangel e Michele Goscon, tutti 021-
lieri^ ma discendenti da ebrei, e protetti da don Giovanni
mes de Vrrea, signore d'Aranda , da d. Liopez suo figlio, da
Blasco d'Alagon signore di Sistago, ecc., che in seguilo pre-
ro parte nella trama formata per uccidere Tinquisitoro d*Ar-
lès e furono giudicati dairinquisizione.
Vedendo gli Aragonesi riuscir vani tutti i loro sforai [)or
pedire lo stabilimento deir Inquisizione, risolsero di assassi-
re uno 0 due inquisitori, onde spaventare gli altri in modo
e alcuno più non osasse esercitare quella carica 0 rimuovere
re, per timore di più gravi sedizioni, dal suo progetto.
Ma i congiurati troppo male conoscevano il re ed II popolo
stigliano. Questo é naturalmente paziente e subordinato ; ed
— 5d4 —
il re, sebbene privo d'ogni altra virtù, possedeva nna eerta
energia politica che, sostenuta dalla sua tiberiana prudenza, lo
faceva rispettare e temere dai suoi amici, dai nemici e dai sud-
diti. Essendosi dai congiurati adottato un progetto , cercarono
assassini per far perire il dottor Pietro d'Arbuès d'Epila, prin-
cipale inquisitore di Saragozza, Tassessore Martino della Raga,
Pietro Frances deputato del regno e diversi altri.
Onde avere compagni tutti i nuovi cristiani , pensarono di
emettere, mentre si trovavano a Saragozza , una contribuzione
volontaria sopra tutti gli Aragonesi di razza israelitica ; e ri*
sulta dalla procedura che d. Blasco d'Alagon aveva ricevuto
diecimila reali provenienti da questa contribuzione, destinati a
pagare gli assassini di maestro Epila, col quale nome era in-
dicato Tinquisitore Arbuès.
Risulta pure dalla procedura del famoso Antonio Perez,
segretario di Stato di Filippo II (giudicato nel 1592), che, vo-
lendo il fiscale farlo passare per un discendente da ebrei, pro-
dusse una ^reZorcarton pronunciata contro Giovanni Perez,
nel 1489, nella quale si diceva che quest'indivìduo aveva coo-
perato coi nuovi cristiani di Calatayud alle spese di quelPas*
sassinio; e nell'affare di Giovanni Pietro Sanchez, bruciato io
effigie il 30 giugno del 1486, non solo è provato eh- era autore
della congiura , ma che inoltre teneva cinquecento ^fiorini per
pagare gli assassini.
Quello che s'incaricò di dirigerne l'esecuzione fu Giovanni
de l'Abbadia', nobile d'Aragona, ma per parte di donne discen-
dente da ebrei. Scelse per esecutori Giovanni d' Esperai ndeo,
Vidal d'Ursano, suo servitore, nato in Guascogna, Matteo Ram,
Tristano de Leonis , Antonio Gran e Bernardo Leofante. I loro
tentativi riuscirono più volte senza effetto; e Pietro d' Arbuès,
avendo avuto sentore dei loro disegni, prese varie precauzioni
ond'essere meno esposto, fra le altre quella di portare sotto le
vesti una cotta di maglia ed una specie di caschetto coperto da
una berretta rotonda. Quando fu ucciso nella chiesa metropo-
litana , stava inginocchialo presso ad un pilastro , dove vedesi
presentemente il pulpito dell'epistola ; aveva a canto la sua lan-
terna , ed il suo grosso bastone era appoggiato alla colonna.
Dopo le undici ore della sera del 15 settembre del 1485, men-
tre i canonici recitavano mattutino in coro , Giovanni d' Espe-
raindeo, essendosegli accostato, gli scaricò un gagliardo colpo
di spada a taglio sul braccio sinistro: Vidal d' Ursano avvisato
— 565--
i Giofanni d* Abbadia di ferirlo nel collo perthd sapeTa atere
testa difesa, dall'elmetto» gli diede per ^ dietro on colpo
le ruppe il laccio deirarmatura della testa e gli fece una rasi
ofonda ferita che rioquisitore nou sopravisse che due giorni,
sendo morto il 17 di settembre.
Il giorno innanzi la Tociferaiione dì quest'assassinio erasi
ì sparsa per tutta la città ; ma Timpressione che fece sugli
litanti fu contraria afiblto a quanto speravano i complici» per-
)ccbò i vecchi cristiani, cioè non d'origine giudaica» persuasi
le si fosse estolto da nuovi cristiani, si attrupparono e si
cero ad inseguire da più bande gii assassini per vendicare la
orte dell'inquisitore. La sommossa prese un carattere violento
i avrebbe avuto terribili conseguenxe, se il giovane arcivescovo
ifonso d'Aragona non montava a cavallo e non conteneva la
ollitudine, promettendo che i colpevoli sarebbero scoperti e
ndannali alia morte.
Il terrore si era diffuso in tutti gli abitanti» e gl'inquisitori
i i loro partigiani ne approfittarono per fare una reazione e
dedere lo stabilimento del Sant'Ufficio come utile e necessario
•nlro i nuovi cristiani. Ferdinando seppe pure approfittarne
T l'esecuzione de'suoi disegni ; e la politica suggerì a lui ed
la regina Isabella di onorare la memoria dell'estinto d'Arbuòs
m una sorta di solennità che sommamente contribuì a farlo
issare per santo. Quest'onore non l'ebbe peraltro che sotto
iessandro VII nel 1664. Gli venne eretto un magnifico sepolcro
Saragozza, ed il suo corpo vi fu deposto il giorno 8 di di-
tmbre del 14S7 con un'iscrizione latina allusiva alle sue virtù
1 al suo martirio.
Gli fu pure d'ordine dei rQ eretta una statua in Arbuòs,
m iscrizione e con basso rilievo rappresentante una parte del-
ivvenimento.
Allorché Pietro fu beatificato» e le sue ceneri vennero tras-
cale nella sua cappella, fu posta sopra l'antico sepolcro una
ista pietra con lunghissima iscrizione contenente la storia del
artirio» il suo zelo contro gli ebrei e ciò che fecero per ono-
re la sua memoria Ferdinando ed Isabella ed Alessandro VII.
La beatificazione dì Pietro d'Arbuès fu promossa dagl'lnqui-
tori dopo ch'era ornai spenta affatto la memoria do'glusti mo-
ri che avevano mossa la nazione a rifiutare rinriuislzlone.
-edettero adunque giunta la circostanza opportuna di canoniz*
rio, sentendo quanto crescerebbe la potenza deirinqulslzione
— 566 —
dairessere sollevato aironore degli altari ano de*pnmi inquisi-
tori spagnooli. Né questo tentativo era nuovo. Gl'inquisitori
francesi avevano avuta la medesima intenzione rispetto a Pietro
di Castelnuovo, abbate di Citeaux, ucciso nel 4204 dagli Albi-
gesi in Narbona; e troviamo pure che, pochi anni dopo, gl'in-
quisitori domenicani d'Italia ottennero quest'onore pel loro con-
fratello Pietro di Verona.
Troppo lontano ci condurrebbe il racconto delle pratiche
adoperate per ottenere Tintento, non essendosi trascurati nò te-
stimonianze di miracoli, né apparizioni del santo candidato, né
tutto ciò che poteva meglio convenire alla superstizione dei volgo.
Quando gl'inquisitori spagnuoli ebbero ottenuta la beatificazione
d'Arbuès credettero venuto il tempo di fare altresì santificare
il loro istituto, cercando di ottenere che ogni anno si celebrasse
in tutte le chiese di Spagna, con messa da proprio, una solenne
festa della fondazione del Sant'Ufficio dell'Inquisizione, come si
celebra quella della cattedra di S. Pietro in Antiochia ed m
Roma ecc. ^
L'affare era stato tanto inoltrato che si trovò negli archivi
di Alcala de Henares un esemplare della messa e dell'ufficio
composto per questa solennità, ond'essere posti in opera tosto
che la congregazione dei riti avrebbe approvato il progetto de-
gl'inquisitori : ma l'esito non rispose alle loro speranze, e la
corte di Roma non acconsenti che la Spagna accordasse gii
onori del culto ad uno stabilimento crudele e tanto opposto
allo spirito ed alla dolcezza del Vangelo.
Mentre Ferdinando ed Isabella pensavano, senza forse spe-
rarlo, ad ottenere la beatificazione di Pietro Arbuès, gl'inquisi-
tori di Saragozza procedettero alla scoperta degli autori e dei
complici delFassassinio, onde condannarli come eretici giudaiz*
zanti 0 sospetti di esserlo e come nemici del Sant'Ufficio. Im-
possibile cosa sarebbe l'enumerare tutte le famiglie che la loro
vendetta immerse nella disgrazia, avendo in breve sacrificate
più di dugenlo vittime. Vidal d'Ursano, uno degli assassìni, sco-
pri tutto quanto sapeva, e le sue deposizioni furono il fonda-
mento delle ricerche dell'Inquisizione.
La violenta morte di tanta gente costernò l'Aragona, che
fu pure spettatrice del triste spettacolo di un numero ancora
maggiore di sciagurati morti lentamente in carcere. Appena
poteva contarsi qualche famiglia, ne' tre ordini della nobiltà,
che non avesse avuto la vergogna di vedere alcuno de' suoi
— «67 —
esposto in un auto-da-fé, coperto delle vesti della penitenza.
Il più leggiero indizio risgaardavasi come ana prova di com-
plicità, e non era rnltimo dei delitti quello di avere dato ospi*
talità ad un fuggitivo.
Di questo numero fu don Giacomo Diez d* Aux Armen-
darix, signore della città di Gadreita, ecc., antenato per linea
femminile dei duchi d' Albuquerque , il quale aveva tenuti
nascosti una notte in sua casa Garcia de Moros , Martino di
Sant'Angelo ed altri signori, costretti dagli avvenimenti a fug-
gire da Saragozza. Alla stessa pena della pubblica penitenza
furono egualmente condannati parecchi cavalieri di Tudela e
di Navarra per avere accolti Giovanni Pietro Sanchez, Bernardo
46 Montesa , Ferdinando Gomez , Giovanni Vasquez ed altri
illustri fuggitivi.
Tanta crudeltà esercitata contro cosi distinti personaggi
non sorprenderà coloro che non ignorano che V Inquisizione
trattò con eguale rigore un nipote di Ferdinando V. Era questi
Giacomo di Navarra, figlio dello sventurato principe di Viana,
don Carlo, chiamato talvolta V Infante di Navarra o Infante di
Tudela. Chiuso nelle carceri deirinquisizione di Saragozza, ne
usci dopo alcun tempo per soggiacere ad una pubblica penitenza
per avere cooperato alla fuga di un congiurato.
E Ferdinando potè permetterlo ? Ma forse era malcontento
di suo nipote, perchè cugino di Caterina regina di Navarra e
perchè, sebbene illegittimo,* inspirava qualche timore al sospet-
toso monarca. E conviene dire che gP inquisitori conoscessero
le disposizioni di Ferdinando quando osarono di arrestarlo.
Dopo ciò più non reca sorpresa il vedere condannati al
medesimo gastigo i principali signori , quantunque molti di
loro fregiati delle principali cariche di corte.
Giovan Pietro Sanchez fu bruciato in effigie per essersi
salvato in Francia. Antonio Augustin, quello che poi diventò
vice-cancelliere d'Aragona, trovandosi allora a Tolosa, fu causa
che suo fratello Pietro fosse dair Inquisizione condannato ad
una penitenza con cinque suoi compagni per avere desistito
dal perseguitare Giovan Pietro Sanchez, eh' era stato arrestato
dietro sua inchiesta.
Ma ciò che più riesce vergognoso air Inquisizione è V ac-
caduto a Gaspare di Santa^Cruz. Erasi costui ritirato a Tolosa,
dove mori dopo essere stato bruciato in effigia a Saragozza.
Uno de'suoi figliuoli venne arrestato d' ordine degP inquisitori.
— 568 —
sotto pretesto che avesse favoreggiata la fuga di sno padre, e*
subi la pena di un pubblico auto-da-fe. Inoltre fu GODdannato
a levare copia della sentenza emanata contro sno padre , a
passare a Tolosa per consegnare un tale atto ai domenicani e
donnandare loro che fossero disseppellite e bruciate le reliquie
di suo padre, indi a tornare a Saragozza per consegnare agt'io*
quisitori i processi verbali di questa esecuzione. Il condannato
si assoggettò senza lagnarsi all'ordine de* suoi giudici, ed ogni
anima sensìbile freme d'orrore leggendo questo fatto, non mena
inorridita per la crudeltà degP inquisitori che sdegnata per la
viltà di questo snaturato figlio.
Giovanni d' Esperaindeo e gli altri principali autori del-
l' assassinio d' Arbuès vennero strascinati per le strade di
Saragozza, indi, dopo avere loro troncate le roani, furono appiè*
cati, ed i loro cadaveri fatti in pezzi si esposero sulle pubbliche
strade. Giovanni de l'Abbadia si uccise in prigione nel giorno
che precedette quello del supplicio, ma fu dopo morte trattata
come gli altri. Si lasciò che Yidal d'Ursano spirasse prima &
tagliargli le mani, perchè gli si era promesso di fargli grazia
se svelava i suoi complici; promessa che non ebbe verun altro
effetto, perchè in simili circostanze l' Inquisizione non si pro-
pone altro oggetto che quello di avere dall'imputato la confes-
sione del suo delitto e la manifestazione de' complici.
Le armi di cui si erano serviti gli assassini vennero appese
nella cattedrale dì Saragozza , dove rimasero lungamente col
nome delle persone bruciate e di quelle che subirono una
pubblica penitenza per quest'affare. Molte furono levate alcun
tempo dopo in forza di bolle apostoliche, delle quali Ferdinando
permise, quasi per grazia, l'esecuzione; altre scomparvero dietro
le calde istanze delle famìglie condannate di alta condizione.
Ma ciò essendo spiaciuto agi' inquisitori, seppero colle loro
ipocrite lagnanze irritare la più ignorante classe de' vecchi
cristiani collo spargere che con ciò era stata oltraggiata la purità
della religione cattolica. E le loro invettive occasionarono un
tumulto popolare che poco mancò non si rendesse generale:
tanto è potente l' influenza del fanatismo tra persone rivestite
di un sacro carattere e che hanno interesse di nascondere la
verità o di travisare le idee.
Non poteva addursi verun motivo che bastasse a giustifi-
care il disonoFe di un'intera famiglia perchè un suo membro era
slato condannato dall'Inquisizione, e talvolta ancora quantun-
— 569 —
qne ìnDocèote. Io coD8erVo più di trenta processi relativi a que-
st*afllire» Do'cpiait non trovasi noa^ sola frase che dod cootribui*
sca ad accrescere l'orrore clie inspira l'Inquisizione a tntte le
nazioni incivilite, taon esclusa nemmeno la Spagna, dove que-
st'idra mostruósa tornò a rinascere.
Né meno ingiusta disposizione né meno crudele sembrerà
quella di togliere la stima e la riputatone ad una femlglla
perchè deriva da antenati ebrei, quando è noto che tutti gli
Spagnuoli discendono o da pagani idolatri o da mori màomet^-
tani, 0 da israeliti. Era necessaria un'istituzione come quella
del Sant'UfiScio per oscurare i lumi della ragione naturale, il
cui impero e l'azione sono cosi utili pel governo delle umane
società.
Quasi in tutte le altre Provincie dell'Aragona si oppose una
resistenza egualmente viva che quella degli abitanti di Sara-
gozza. Non vi volle meno della fermezza e della potenza del re
per contenere il popolo di Tudéla, ove non fu ristabilita la calma
che in marzo del 1485. Gli stessi mezzi di rigore si dovettero
pure praticare in Valenza ed in altre parti di quella diocesi,
dove si videro alla testa degli ammutinati i feudatari ctko ave-
vano vassalli, perchè la crudeltà degl'Inquisizione faceva loro
temere che fossero per abbandonare le terre che coltivavano.
Per lo stesso motivo si opposero all'espulsione dei Mori sotto
il regno di Filippo III.
La città ed il vescovado di Lerida, ed altre città della Ca-
talogna si opposero gagliardamente allo stabilimento della ri-
forma e non vi furono assoggettate che nel 1487.
Ma Barcellona fu la più ostinata. Questa rimostrò che non
poteva essere forzata a riconoscere il Torquemada uè i suoi
delegati per le bolle di Sisto IV e d'Innocenzo Vili, in forza
de'privilegi che aveva di non ammettere altro inquisitore che
quello che avrebbe un titolo speciale per la sola città di Bar-
cellona. Il re, per annullare quest'opposizione, ricorse a Roma
ed ottenne due bólle del 1486 e 1487 che davano a Torque-
mada il titolo di speciale inquisitore di Barcellona, con facoltà
di suddelegare.
Gli stessi mezzi furono dal re adoperati rispetto agli abi-
tanti di Majorìca, dove l'Inquisizione non penetrò che nel 1490;
rispetto a quelli della Sardegna, che la dovettero ricevere nel
1492, e per ultimo verso i Siciliani, nel cui paese si stabili as-
sai più tardi e dopo avervi cagionali vivissimi movimenti.
TàMB. Ji^ftitf. Voi. II. 72
— «70 —
il fatto pib incontrastabile dell'istoria deirinqnisiuone in
Spagna è quello di esservi stata introdotta contro il voto di
tutte le Provincie e colla sola approvaxione dei padri domeni-
cani e di alcnni altri preti interessati o fanatìd.
Il numero degli ultimi si accrebbe a dismisura In questi
ultimi temjM, ed è ciò che generalmente rende credibile Topi-
nione contraria a quella chHo stabilisco nella mìa storia: ma la
verità non teme il loro suffragio né cerca la loro approvasione.
Mi accingo a somministrare pib recenti prove di questa mia
asserzione.
CAPITOLO XXIX.
Atti addisionali allo primo eootitiisioni dol Sont'UfHoio, oon-
•ogiioaso oho no doriTano, od appoUosioai a Koma oontra
i loro abooi.
L* inquisitore Torqnemada avendo gindicato necessario dì
accrescere le costituzioni che Ano a qoell' epoca avevano ser*
ilto di direzione al Sant' Ufficio, vi a^nnse nocfici nuovi ar-
ticoli, che in sostanza contenevano :
Dovervi essere in ogni tribunale subalterno due inquisitori
legali, un fiscale, ed altri impiegati con soldo stabile.
Che rinqoisizione manterrebbe un valente giurisperito io
Roma col tìtolo di agente per tutti gli tìhxì di sua sqpettanza^
il quale sarebbe pagato col prodotto de'beni confiscati ai con-
dannati.
Che perderebbe l'impiego all'istante colui che ricevesse
regali dagli accusati.
Che i contratti stipulati dai condannati prima del 1479 sa-
rebbero validi. '
Che i signori che prestassero asilo nelle loro terre ai fug-
gitivi dovrebbero consegnare al Fisco tutti gli eflètti dai me-
desimi ricevuti.
Che i notar! deirioquisizione avrebbero un registro dei beni
dei condannati.
Che i ricevitori del Sant'Ufficio potrebbero vendere que'beni
la cui amministrazione riuscisse loro onerosa.
Che ogni ricevitore avrebbe la cura dei beni della propria
- 572 —
Inquisizione ed avviserebbe il ricevitore di qael tribnnale che
fosse proprietario dei beni nel sao circondario.
E cosi altre cautele e forme d'amministrazioni prescrivono
il 9 e 10 articolo.
E finalmente, che rispetto alle circostanze non prevedute
da nuove costituzioni, supplirebbe la prudenza degli inquisitori,
ricorrendo al governo negU affari piii importanti.
Tutti i quali articoli chiaramente dimostrano quanto fio
d'allora fosse grande il numero delle confische, essendo dive-
nuto un oggetto abbastanza importante da meritarsi regolamenti
speciali per la loro amministrazione e la speciale cura d^li
inquisitori. /
Bla ia appresso l'^perienza dimostrò^ che l'entrate non
bastavano per sopperire ai bisogni , a motivo del grandissimo
numero di prigionieri miserabili che Tlnquisizione doveva ali-
mentare e delle enormi spese che il suo agente faceva in Roma;
per lo che Torquemada permise agP inquisitori di condannare
ad ammende pecuniarie i riconciliati e sottomessi a pubblica
penitenza.
In tali circostanze Ferdinando ed Isabella chiesero al papa
di assegnare al SanV Ufficio una prebenda canonicale io ogni
chiesa cattedrale del regno; ed il papa vi acconsenti malgrado
le rimostranze de' capitoli.
Non farà sorpresa il sentire che i ricevitori dell'Inquisizione
adoperassero mezzi vessatori! per arricchire quel Fisco che l'In-
quisizione medesima, per capriccio e senza licenza de'sovrani,
impoveriva, e che spingessero le loro pratiche con tanta im-
pudenza da obbligare il consiglio deirinquisizione a provocare
repllcalamente Tautorità reale perchè facesse cessare le proces-
sure dei ricevitori.
Farà bensi maraviglia il vedere che , volendo Ferdinando
ed Isabella impedire che l' Inquisizione disponesse senza l' as-
senso loro delle entrate del Fìsco, fossero tanto vili da ricor-
rere ai papa , il quale con decreto dell' 8 febbrajo del 1495
vietò sotto pena della scomunica agl'inquisitori di usarne senza
l'assenso reale. Questa disposizione della corte di Roma fu ca-
gione che Ferdinando facesse formare un prospetto delle somme
erogate dagl'inquisitori ; le quali si trovarono tanto ragguarde-
voli che il re ne diede avviso al papa, il quale incaricò Fran-
cesco Ximenesdi Cisnero, arcivescovo di Toledo, di rettificarne
la contabilità e di ripeterne la restituzione.
— 575 —
Tali emergeDze costrinsero Torqnemada à pabblicare, dopo
dvere coosoltato il consigUo della mprema, una Dcrova ordinanza
f)el regolamento deirinquìsizione; ma, come le precedenti, non
riuscì bastante a reprimere tutti gli abusi. Perciò il grande in-
•quisilore adunò a Toledo una nuova giunta generale degl'in*
quisitorì, i cui decreti si pubblicarono il 25 maggio del 4598,
divisi in sedici articoli, che non fanno che dare qualche esten-
sione 0 spiegare con maggior precisione le precedenti coàtitu-
Eioni. Mi limiterò a riferire il dodicesimo, che prescrive aglMn-
^uisilorì di stabilire V Inquisizione generale nelle città che
ancora non T hanno; il quattordicesimo, che ordina di tenere
separate in pri^one le donne dagli uomini, precauzione che fa
supporre accaduto qualche abuso in questo particolare; e se-
nesi infatti vedute di quando in quando certe cose che fanno
poco onore al tribunale.
Oltre queste ordinanze, Torquemada diede alcune partico-
lari disposizioni affinchè ogni funzionario del Sant'Ufficio ri-
spondesse esattamente alle intenzioni del governo. Come, per
modo d'esempio, cbe ogni impiegato giurerebbe nulla palesare
di tutto ciò che vedrebbe o udirebbe; che l'inquisitore non si
tratterrebbe* mai da solo a solo col prigioniero; che- il guardiano
Don permetterebbe a chicchessia di parlargli e che osserverebbe
diligentemente se avesse scritture o carte nascoste tra i cibi
<,he gli si portassero.
Queste furono le ultime disposizioni pubblicate da Torque-
fnada, ma un' altra ne die fuori irsuccessore don Diego Denza
ilei 1600 divisa in sette articoli.
Tali sono in succinto le leggi che fondarono il Sant'Uffl-
'Cio nel regno di Scagna, le quali applicate ed interpretate da
f)ersone inclinate a vedere senza ribrezzo perire i loro simili
in mezzo alle fiamme , provocò in quel regno le più terribili
disgrazie, facendo emigrare più di centomila famiglie e perdere
alla Spagna molti milioni di franchi, che passavano alla corte
di Roma. Questo eccessivo rigore incuteva terrore agli stessi
antichi cristiani; e sebbene il tintore della persecuzione sfor-
zasse al silenzio, alcuni fatti conservatici dalla storia provano
manifestamente che la nazione ' riprovava questa maniera di
trattare cosi importanti afiari quali sono quelli che risguardano
la vita e l'onore, in una parola la prosperità o l'infelicità di
4utta la monarchia.
Ferdinando de Pulgar, autore contemporaneo, osserva che
— «74 —
coDgiooti di molti prìgioDìeri e di vari coDdannati rìclamarono
contro la condotta dei tribunali del Sant'Ufficio, facendo sentire
clì'erano più rigorosi che non conveniva; ed in una lettera
scrìtta al cardinale Hendoza sostiene che il peccato d'eresia
non doveva punirsi con pena capitale, ma soltanto con pene
pecuniarie, appoggiando la sua opinione a sant'Agostino ed alle
leggi pubblicate contro i Donatisti dagrimperatorì Teodosio I
ed Onorio I suo figlio.
Giovanni Mariana confessa, nella sua Storia generale detta
SpagnOy che la maniera tenuta nel gastigare i colpevoli sem<>
brava agli aiutanti troppo severa , e che faceva maraviglia in
particolare che i figliuoli fossero puniti pei delitti dei padrei
che si tenessero nascosti i delatori ed i testimoni invece di
confrontarii con V accusato ; che la procedura non fosse pub*
blica né fatta secondo le norme degli altri tribunali , e che 9
fosse stabilita la pena di morte contro ogni sorta di delitti
Soggiugne che si facevano lagnanze di non poter parlare libe*
ramente a cagione di tante spie sparse in tutte le città dal*
rinquisizione; la qual cosa faceva tutti tremare e rìduceva gli
abitanti alla triste condizione di schiavi.
Non è dunque cosa sorprendente che il numero delle vit*
timo si moltiplicasse a segno di non lasciare ai tribunali il
tempo di procedere nelle vie regolari. Il tribunale di Villareal
oggi Giudad-Real, essendosi trasferito a Toledo , e pubblicata
l'editto di grazia che accordava il termine di quaranta giorni ,
si vide una gran folla di nuovi cristiani accorrere e fare la loro
spontanea confessione , accusandosi colpevoli di delitti di giu-
daismo. Spirato il termine, gl'inquisitori ne intimarono un altro
di sessanta giorni, poi un terzo di trenta, col quale minaccia*
vano d'infliggere le più severe pene ai renitenti. Nel periodo
delFuItimo termine chiamarono tutti i rabbini della sinagoga dì
Tolosa, obbligandoli sotto la santità del giuramento di Mosè a
nominare tutti i battezzati che ancora professavano il gilidaismo:
al giuramento aggiunsero la minaccia delle più severe pene,
ordinando loro in pari tempo di scomunicare, secondo il rito
dell'antica legge, tutti gli ebrei che ricusassero di denunciare
i colpevoli.
Con tale misura avendo ottenute numerosissime dichiara-
zioni, gl'inquisitori cominciarono, subito dopo spirato il ter-
mine, le più rigorose procedure , e nella domenica 12 febbraio
del 1486 celebrarono un auto -da- fé di riconciliazione con set-
— «75 —
tecentocinqoanta condannati d' ambo i sessi, che subirono una
pubblica penitenza .a piedi nudi, in, camicia e con un cero in
•nano.
Lo storico contemporaneo e testimonio oculare soggiugne
che, mentre i condannati s'avviavano alla cattedrale per udire
'la lettura della sentenza, l'aere rìsuonava delle loro grida e dei
loro gemiti vedendosi esposti ad una straordinaria folla di po-
polo; tanto più che molti erano rivestiti di onorifici impieghi.
Un secondo auto-da-fè di nove vittime si esegui la domenica
del 2 aprile , ed un altro il 7 maggio seguente di settecenlo-
•cinquanta. Il mercoledì 16 agosto gfinquisitori fecero bruciare
irenticinque secolari , e nel susseguente giorno due preti ; per
ultimo il 10 dicembre dello stesso anno subirono una pub-
fica penitenza novecentocinquanta persone: di modo che nel
periodo di un anno rinquisizione di Toledo fece bruciare venti-
sette persone e subire la pubblica penitenza a tremilatrecento.
€ome può credersi che si osservasse la regolarità della proce-
dura e che tutti gli accusati abbiano avuto la licenza di di-
fendersi, quando è noto che non vi erano che due inquisitori
e due scrivani?
Il Mariana dice che Tlnquisizione di Siviglia fece nel 1482
l)ruciare duemila condannati in persona, altri duemila in efiSgit,
-eA a diciasettemila fece subire la pubblica penitenza; lo che piti
non permette di porre in dubbio la precipitazione e la crudeltà
<x)n cui veniva disposto della vita, deir onore , delle sostanze ,
delle persone e delle loro famiglie.
Era ben naturale che in cosi gran numero di condannati
molti appellassero alla corte di Roma, la quale non poteva do-
lersi di questa infrazione delle sue leggi , perchè la spedizione
dei brevi le riportava grosse somme di danaro. Rispetto al de-
litto di apostasia, tutte le persone che si presentarono alla Pe-
Tiitenzieria apostolica ottennero T assoluzione , con proibizione
d'inquietare più oltre chi l'aveva ottenuta. Ma perché gl'inqui-
sitori spagnuoli, spalleggiati da Ferdinando e da Isabella, fecero
al papa calde lagnanze, questi mandò fuori altri brevi che an-
lìuUavano i precedenti, o ne limitavano gli effetti al foro interno.
. Di modo che gli sciagurati che avevano fatti grandi sacrifici di
danaro trovaronsi delusi, e la corte di Roma continuò a tenere
la stessa pratica di mancare ugualmente di parola a quelli cui
faceva sperar grazia sotto nuove condizionii purché continuassero
ad appellare, ed a Ferdinando, col quale aveva patoito di rifiu-
— 576 —
tare ogni appello a Roma, aiternando bolle d'assolozione e bolle
di restrizione per TesecuzioDe delle medesiipe. Ad ogni modo^
la politica della corte pontificia riusci in parte vantaggiosa ai-
romanità, avendo conservato a molti appellanti ed alle loro fami-
glie r onore e le sostanze. E piacesse al cielo che i papi non
avessero che in questo abusato della loro autorità.
Molti spagnuoli, spaventati dairimminente pericolo dì es-
sere tratti in giudìzio innanzi all'Inqaisizione, per evitarìo pas-
sarono a Roma, dove furono graziosamente accolti perchè H
portavano le loro ricchezze, ed ottennero senza gravi difficoltà
di assere assolti.
Offesi da tanta versatilità della corte pontificia, Ferdìnando-
ed Isabella scrissero ad Alessandro VI che sarebbe utile di la-
sciare agli inquisitori Finterò e libero esercizio della loro giu-
risdizione. Alessandro rispose a Ferdinando e ad Isabella coo^
un breve del 23 agostodet 1497, col quale accordava la domanda^
dichiarando nulle tutte le assoluzioni che non avevano le forme
ordinarie, ad eccezione di quelle del tribunale segreto della co-
scienza.
Ma questa stessa eccezione era pure una delle consuete pra-^
tiche per tirare in Roma Toro degli Spagntioli. Siccome restrema
severità degrinquisitori inspirava sempre i più vivi timori , e*
perchè la corte di Roma, per perpetuare il sistema d'esazione,
continuava a mostrarsi indulgente, non è da maravigliarsi che
non lasciassero di ricorrere a lei tutti coloro che potevano ad-
durre mezzi non preveduti dalla legge generale. Uno di questi
fu quello delle recusazioni. Molti rappresentarono al papa che,
in onta delle bolle apostoliche, avevano il dolore di vedersi
perseguitati dairinquisizione; che questo tribunale era tanto*
meno disposto a riconoscere la loro innocenza, in quanto che
il suo livore e Tedio suo e le sua cattiva volontà erano cose^
di cui ognuno somministrava testimonianze a lui personali.
Don Alfonso di Gabalieria, vice-cancelliere d'Aragona, ap-
partenente ad una delle più illustri famiglie di Saragozza e
molto avanti nel favore del re, discendeva da una famiglia ebrea.
Fu dairinquisizione chiamato in giudizio come sospetto di giu-
daismo, non che di complicità nell'assassinio di Pietro d'Arbués»
Questo signore si addirizzò al papa, ricusando la giurisdizione
degl'inquisitori di Saragozza, dell'inquisitore generale e dell'ar-
civescovo, giudice d'appello. 11 28 agosto del 1488 il papa rila-
sciò un breve per interdire il giudizio di questo spagnuolo»
chiamando l'affare a Roma.
— 577 —
GrinquisUori attaccarono i molivi di recusazione addotti da
don Alfonso, ma non pertanto il papa ricconfermò la sua pre-
cedente disposizione. Questo signore riconobbe dal favore del
re e dalle sue ricchezze la protezione del papa ; eppure risulta
dal suo processo, ch'io lessi» che aveva avuto non piccola parte
nell'assassinio d^Àrbuès, ma che potenti motivi impbsero silenzio
agr inquisitori.
Anche don Pietro d'Aranda vescovo di Galahorra adoperò
lo stesso mezzo del ricorso a Roma per salvare la memoria,
Tonore, la riputazione, la sepoltura ecclesiastica ed i beni di
suo padre Gonzalo d'Alfonso nato a Burgos, che l'Inquisizione
dì Yalladolid aveva tratto in giudizio.
GÌ' inquisitori non potevano che a malincuore vedere questi
colpi d'autorità, quindi s'addrizzarono al segreto consiglio del
principe; onde Alessandro VI con sua bolla del 15 di maggio
del 1502 ordinava che l'inquisitore generale attuale ed i suoi
successori giudicassero tutte le cause di recusazione contro il
ministero degl'inquisitori. Ma sebbene Alessandro avesse cercato
con ciò di far cosa grata ai sovrani spagnuoli, era ben persuaso
che non per questo cesserebbero gli srppelli all'autorità aposto-
lica. In fatti quest'affare prese un cosiffatto andamento, che non
ostante le bolle pontificie si continuò ad appellare a Roma per
evocazione e per recusazione.
Lo stesso facevasi ancora per titolo di reabilitazione. Sic-
come l'infamia era una delle pene inflitte contro il delitto di
eresia, che inabilitava i condannati agli impieghi, si appellò a
Roma per essere esentati da tal pena, dove le domande, spal-
leggiate dal danaro, erano sempre coronate da felice successo,
senza prendersi pensiero del torto che facevasi agl'inquisitori.
Ma questi non tardarono ad avvisare di quanto accadeva
Ferdinando ed Isa^bella, i quali supplicarono il papa di annul-
lare le nuove reabilitazioni e le dispense recentemente accor-
date. Alessandro, significando l'onore della santa sede e la sorte
di tante infelici vittime al desiderio di far cosa grata ai due
monarchi, con una bolla del 17 di settembre del 1498 rivocò
tutte quelle ch'erano state precedentemente spedite dai suoi
predecessori o da lui medesimo, coli' espressa condizione cbe,
ottenendone taluno in avvenire di somiglianti, gl'inquisitori fos-
sero autorizzati a risguardarle come surrette ed a rigettarle come
nulle e senza effetto.
Nonpertanto la corte di Roma accolse nello stesso anno
Tamd. ìnquis. Voi. II. 75
— 578 —
vari' faggitivi spagnooli che imploravaDO la loro riconciliazione
apostolica. La lettura delle bolle non lascia verun dnbbio intomo
allo scopo che si era proposta la corte pontificia nello stabili-
mento deirinqnisizione e nella protezione che le aveva accor-
data: in cambio di uno zelo illuminato per la purità della fede
cattolica, il suo più importante oggetto fu di scoprire e di tenere
aperta una miniera che depauperando la Spagna, arricchiva i
<Ì^gìani pontificii.
CAPITOLO XXX.
Espulsione degli ebrei. Processi intentati ad alcuni TescoTÌ.
Conflitto di giurisdisione. Morte di Torquemada» Numero
delle sue Tittime. Sue qualità e loro influensa sulla con--
dotta e sugli afiari dell'Inquisisione.
Nel 1942 FerdinaDdo ed Isabella conquistarono il regno di
Granata : avvenimento che offrì nuove vittime air Inquisizione
in tanta moltitudine di Mori, la cui conversione era poco sta-
bile , 0 non aveva altro fondamento cbe quello di acquistare
maggior considerazione col battesimo, facendo poi in appresso
nuovamente professione del maomettismo.
Giovanni Navagero» ambasciatore della Repubblica di Ve-
nezia presso Carlo Y , dice nel suo viaggio della Spagna che
Ferdinando ed Isabella avevano promesso che per quarantanni
r Inquisizione non sarebbesi immischiata negli sdGTari de' More-
schi, ossia dei nuovi cristiani che abbandonerebbero il mao*
mettismo ; ma che nonpertanto ottenne di stabilirsi subito in
Granata, sotto pretesto che molti antichi ebrei sospetti d'apo-
stasia vi si erano rifuggiti. Ma quest'autore alterò alquanto il
fatto ; perciocché i due sovrani promisero soltanto che non si
procederebbe contro i nuovi cristiani moreschi che per gravis-
simi motivi: lo che ebbe effetto, ma non in modo che quei popoli
non fossero frequentemente sforzati a reclamare in loro favore
la reale promessa. Per altro ìa giurisdizione degrinquisitori di
Cordova non si estese sul regno di Granata che nel 1526 pei
motivi che verrò ben tostoi^ annoverando.
-580 —
Siccome airespulsione dalla Spagna degli ebrei dod battez-
zati, eseguitasi nel 1492', presero parte Torqaemada e gli altri
inquisitori , mi conviene parlarne con qualche estensione. Si
accusavano gli ebrei di eccitare all'apostasia quelli della loro
stirpe che si erano fatti cristiani , e loro si addossavano molti
delitti commessi non solo contro gli antichi cristiani, ma ancora
contro la religione e la tranquillità dello Stato. Rammentavasi la
legge del codice , detto de las [Partidas, promulgata nel 4255
da Alfonso X, nella quale si tratta della pratica degli ebrei
. di rapire i fanciulli de' cristiani per crocifiggerli nel venerdì
santo, ad oggetto di fare ingiuria alla memoria del salvatore
del mondo. Raccontavasi la storia di s. Domenico di YaU fan-
ciullo di Saragozza, ohe fu posto in croce nel 1250; il furto
fatto di un' ostia consacrata a Segovia nel 1406 e gli oltraggi
fattile dagli ebrei; la cospirazione da costoro tramata in Toledo
nel 1445, nella quale l'esplosione della polvere disposta sotto
le strade della città doveva avere luogo nell'istante in cui pas-
serebbe la processione del ss. Sagramento; quella di Tabarra,
borgata posta fra Zamorra e Renavenle, per abbruciare le case
senza che gli abitanti potessero impedirlo; il supplicio d' altri
fanciulli eh* erano stati rapiti ed uccisi, come il figliuolo di
Dio, nel 1452 a Valladolid; nel 1454 nelle terre del marchese
d'Almarza, presso Zamorra ; nel 1468 a Sepulveda, nella diocesi
di Segovia; gl'insulti fatti ad una croce nel 1488 nel campo di
Puerto del Gamo; il furto del fanciullo nella città di Guardia
nel 1489, ecc. Inoltre si accusavano i medici ed i farmacisti
ebrei di avere abusato del loro ministero per far morire molti
cristiani, fra i quali Enrico IH per opera del suo medico don
Mair.
Ammettendo ancora per semplice ipotesi che questi fatti
fossero credibili, non perciò era necessario il bando di tutti
Igli ebrei. La religione e la politica volevano che si trattassero
con dolcezza gl'innocenti, castigando nello stesso tempo seve-
ramente i colpevoli , come praticavasi rispetto agli altri Spa-
gnuoli cristiani; ed in tal modo si avrebbero avuti de'cittadini
utili; buoni e fedeli al governo, come in tutti gli altri Stati
d'Europa.
Gli ebrei spagnuoli avendo avuto sentore del fulmine
sospeso sul loro capo, pensarono di dissiparlo coli' offrire a
Ferdinando e ad Isabella trentamila ducati per le spese della
guerra di Granata. Quando i due principi si disponevano ad
-581 —
accettare questa offerta, loro si presentò bruscamente Torque-
m^da con un crocifisso in mano» e parlò in tal modo: Giuda
/m il primo a vendere il suo maestro per trenta denari : le
Vostre Altezze pensano di venderlo un'altra volta per trentamila
monete; eccole, prendetele ed affrettatevi a venderlo. li fanatismo
del domenicano produsse un subitaneo cambiamento nello spirito
'di Ferdinando e d'Isabella, che il 31 marzo del 1492 pubblica-
rono un decreto in forza del quale tutti gli ebrei d' ambo i
sessi erano obbligati ad uscire dalla Spagna prima del 31 di
luglio dello stesso anno, sotto pena di morte e della perdita
d' ogni loro avere ; e lo stesso decreto vietava ai cristiani di
ricoverarli dopo il prescritto termine nelle proprie case sotto
comminatoria delle stesse pene. Si permetteva agli ebrei di
rendere i beni immobili, di esportare gli effetti mobili, tranne
Toro e l'argento, pel quale dovevano accettare cambiali o mer-
canzie non proibite.
Il Torqnemada incaricò i predicatori di esortarli a ricevere
il battesimo ed a non abbandonare il regno, e pubblicò ancora
tin editto per persuaderli. Ma pochi furono coloro cha muta-
rono religione; gli altri vendettero i loro beni a così vii prezzo
che Andrea Bernaldez, curato de los Palacios, villaggio posto a
poco distanza da Siviglia, e storico contemporatieo, racconta
nella sua Istoria dei re cattolici « d'avere veduto alcuni ebrei
vendere una casa per un asino, ed una vigna per una pezza
di drappo o di tela ; > lo che sarà facilmente creduto in vista
del brevissimo tempo accordato ad uscire dal regno.
Questa misura dettata dalla crudeltà e non dallo zelo della
religione privò la Spagna, secondo il calcolo di Mariana, di ot-
tocentomila ebrei; ed aggiugnendo a questa emigrazione quella
dei Mori di Granata che passarono in Africa e lo stabilimento
di tanti cristiani spagnuoli nel Nuovo Mondo, si troverà che
Ferdinando ed Isabella pèrdettero due milioni di sudditi, e ne
risultò per l'attuale popolazione della Spagna una perdita non
minore di otto milioni.
Ci assicura Bernaldez ohe, malgrado la fatta proibizione,
gli ebrei esportarono moltissimo danaro che avevano nascosto
nei basti e nelle selle delle loro bestie ed in altri luoghi e per-
fino nel proprio ventre.'
Alcune navi che trasportavano degli ebrei in Africa, sor-
prese dalla burrasca, furono forzate a dar fondo a Gartagena^
dove centocinquanta di quei proscritti sbarcarono e vollero farsi
- «82-
f risUaDi. Le altre navi essendo ia seguito passate a Malaga, altri
quattrocento ebrei si fecero cristiani; altri molti, ch'erano sbar-
cati ad Arcilla in Africa, dipendente dalla corona di PortogaHo,
chiesero pure e ricevettero il battesimo. Alcuni altri tornarono
nell'Andalusia, e mostrarono lo stesso desiderio di farsi cristia-
ni. Lo storico Bernaldez dice d'averne egli stesso battezzati
cento. Se ne videro tornare dal regno di Fez, dopo essere stati
spogliati dai Mori dei loro effetti e danaro, e privati delle spose,
uccise da que'barbarì per prendere il danaro che credevano
trovare ne'loro intestini.
Cosi orrendi attentati contro la divina legge, e le. disgrazie
che ne risultarono, non possono imputarsi che al fanatismo di
Torquemada , air avarizia ed alla superstizione di Ferdinando,
alle false idee ed allo zelo inconsiderato ch'era stato ispirato ad
Isabella, cui la storia non può ricusare senza ingiustizia dol-
cezza di cuore e spirito illuminato.
Le altre corti d'Europa seppero resistere alle istigazioni
del fanatismo, e non ebbero verun riguardo alla bolla del li
aprile del 1487 che Ferdinando ed Isabella avevano ottenuta da
Innocenzo YIII, colla quale si ordinava a tutti i governi di for
arrestare, dietro semplice inchiesta di Torquemada, tutti i fug-
gitivi da lui indicati e di mandarli agrinquisitori, sotto pena
di scomunica maggiore per tutti coloro che non ubbidirebbero,
escluso dall'anatema il solo monarca. E chi oserà dare il nooie
di zelo per la fede ad una persecuzione che cercava in lontane
contrade vittime fra persone che coH'esilio si erano imposta la
crudele pena di rinunciare ad ogni speranza di rientrare nella
loro patria ? Diciamo piuttosto che la sola crudeltà poteva det-
tare somiglianti misure.
Di ciò ne fa prova la maniera con cui Ferdinando fece
trattare dodici ebrei trovati in Malaga allorché questa città fu
presa ai Mori il 18 agosto dello stesso anno : il cattolico prin-
cipe ordinò che fossero uccisi con canne appuntate, maniera di
supplicìo cui i Mori assoggettavano soltanto coloro che rende-
vansi colpevoli di delitti di lesa maestà, siccome di tutti il pio
crudele per la lentezza colla quale le vittime perivano. Altre
molle di queste vittime furono bruciate.
L'insolente e fanatico Torquemada, mentre affettava di ri-
cusare per modestia gli onori deirepiscopato, dava il primo il
funesto esempio di assoggettare ad un giudizio i vescovi. Non
bastandogli di avere ottenuto da Sisto lY il breve del 23 mag-
gio del 1483, che vietava ai vescovi discesi da antenati ebrei
d'immischiarsi degli affari dell'Inquisizione, voleva ancora farne
processar due, don Giovanni Arias Davila vescovo di Segovia e
don Pietro d'Àranda vescovo di Calahorra. Ne scrisse al papa,
il quale con rescritto del 25 settembre del 1487 gli partecipava
che il suo predecessore Bonifacio Vili aveva vietato agli antichi
inquisitori di procedere, senza una speciale commissione apo-
stolica, contro ì vescovi, arcivescovi e cardinali, e gli ordinava
di uniformarsi a questa legge; che se qualche procedura di
questa specie faceva scoprire il- delitto di un prelato e dava
luogo 0 a diffamazione od a sospetto d'eresia contro un vescovo,
un arcivescovo o un cardinale, lo incaricava di trasmetteteli
copia di tutto quanto si fosse fatto, onde risolvere intorno al
partito da prendersi in simil caso.
Quest'ultimo articolo della lettera del papa fu cagione che
il Torquemada cominciasse ad occuparsi segretamente dei vescovi
e ad ordinare delle istruzioni preparatorie; ed il papa dal canto
suo, vedendo con piacere aprirsegli l'adito di prender parte negli
aGEairì della Spagna, permetteva simili processure, che facevano
passare a Roma ragguardevoli somme di danaro. Mandò id quel
regno, col titolo di nunzio apostolico straordinario, Antonio Pala-
vicini vescovo di Tournai, poi di Orense e di Preneste, ed al-
Tultimo cardinale. Giunto in Spagna, ricevette alcune informa-
zioni e riunì tutte quelle ch'erano in mano di Torquemada ;
indi tornò a Roma, dove si presero in disamina i processi dei
due vescovi, che furono citati dal papa a sentire le loro accuse
ed a difendersi.
Don Giovanni Davila era figlio di Diego Arias Davila, di ori-
gine ebraica e che aveva occupate le più luminose cariche sotto
Giovanni II ed Enrico IV, e conseguita la dignità di grande di
Spagna; ed era fratello '^di Pietro Arias Davila, capo della con-
tabilità sotto Eurico e Ferdinando, e marito di donna Marianna
de Mendoza, sorella del duca dell' lafantado. Tutte queste circo-
stanze non imposero al Torquemada, il quale fece assumere tali
informazioni, da cui emerse, o volle far credere che emergesse»
che Diego Arias Davila era morto neireresia del giudaismo.
L'oggetto cui mirava l'inquisitore generale era quello di far
coniJUmnare la sua memoria, di confiscarne i beni, di far dis-
seppellire le sue reliquie e farle bruciare colla effigie di lui.
Siccome negli ailari di tale natura i figli del defunto ven-
gono citati» don Giovanni Arias Davila fu costretto a presentarsi
— 584 —
per difendere suo padre e sé medesimo: passò a Roma nel 1490i
malgrado la sua avanzata età» e dopo trent'anni d'episcopato.
Fu favorevolmente accolto da papa Alessandro VI, che, nel 1494,
lo prescelse per accompagnare suo nipote il cardinale di Hont-
reale 9 Napoli, dove recavasi a coronare il re Ferdinando II*
Davila, di ritorno a Roma, cessò colà di vivere in sul declinare
del 1498, dopo di aver purgata la memoria di suo padre e senza
che Torquemada avesse potuto attentare alla sua libertà.
Meno fortunato fu don Pietro Aranda vescovo di Calahorra^
e figliuolo di Gonzalo Alfonso, uno degli ebrei battezzati da
san Vincenzo Ferreri. Torquemada e gli altri inquisitori di Yal-
ladolid presero a fare il processo alla memoria di Gonzalo, che
volevasi morto eretico giudaizzante. A dir vero era morto ricco
e felice, e ciò bastava per gettare sospetti sulla di lui credenza.
Suo figlio il vescovo di Calahorra recossi a Roma nel 1493 ed
ottenne da Alessandro VI un breve in forza del quale la pro-
cedura di suo padre veniva afiSdata a don Inigo Manriqne
vescovo di Cordova e di Juan de S. Juan, e priore de' bene-
dettini di Yalladolid. La sentenza di questo vescovo imparziale
fu favorevole alla memoria di Gonzale.
E sebbene la bolla pontificia vietasse agi' inquisitori di pren-
dere parte in quest'affare, sebbene il vescovo di Calahorra go-
desse il favore di Alessandro, l'Inquisizione si fece a procedere
contro il vescovo come sospetto egli medesimo di eresia, e ne
fece rapporto al papa medesimo. Nel concistoro segreto del 14
settembre del 1498. Alessandro VI di consenso coi cardinali
condannò il vescovo ad essere spogliato de' suoi impieghi e dei
suoi beneficii, ad essere degradato e ridotto alla condizione di
semplice laico e chiuso in Castel Sant'Angelo, dove mori aleno
tempo dopo; quantunque, malgrado cosi formale giudizio, tatto
portasse a credere che mai non avesse cessato di essere buon
cattolico.
Questo ed altri trionfi del Sant'Ufficio sopra personaggi della
più alta considerazione resero in tal modo arditi gl'inquisitori
spagnuoli che non temevano omai più d' intraprendere in ma-
teria di giurisdizione tutto ciò che conveniva al loro dispotismo,
sempre all'ombra della protezione del principe e sotto lo spe-
cioso pretesto di non potere altrimenti purgare il regno dagli,
eretici. Dal che emersero influite contese di giurisdizione tra
gì' inquisitori ed i vice-re, i governatori generali delle Provin-
cie, le corti reali di giustizia, gli arcivescovi, i vescovi, vicari
-585 —
generali ed altri giudici ecclesiastici; e quasi sempre con felice
successo.
Nel 1488 il governatore generale di Valenza fece porre in
libertà Domenico di Santa Cruz, ch'era stato per ordine degli
inquisitori arrestato come nemico del Sant'Ufficio, ma che non
poteva essere giudicato che dal tribunale militare. GF inquisi-
tori ne portarono lagnanza al consiglio della Suprema, il quale
chiamò il governatore a Madrid per rendere conto della su»
condotta. 11 re lo prevenne della risoluzione presa contro di
lui, e quest'ufficiale, malgrado l'elevala sua condizione, si vide
forzato a ricevere T assoluzione delle censure , nelle quali si
pretendeva che fosse incorso.
Un altro fatto della stessa natura ebbe luogo a Cagliari in
Sardegna nel 1498. Quell'arcivescovo coH'ajuto del luogotenente
del re aveva fatto uscire un uomo dalle prigioni del Sant' Uf-
ficio.
Vi fu una procedura relativa alla giurisdizione del pre-
lato, e le cose terminarono, com' era facile il prevederlo, con
vantaggio dell' Inquisizione.
Tomaso di Torquemada , primo inquisitoAH generale di
Spagna , mori il 16 settembre del 1498. L' abuso da lui fatta
della illimitata autorità che gli si era accordata avrebbe do-
vuto far deporre il pensiero di dargli un successore, ed invece
fer pensare all'abolizione di on tribunale di sangue cosi con-
trario alla dolcezza del Vangelo ; e la quantità delle vittime sa-
grìficate in dìciotto anni avrebbe abbondantemente giustificata
tale misura. Eccone il calcolo.
Lasciando da banda il calcolo dedotto dai quattro autchda-fè
che dovevano celebrarsi ogni anno da tutte le Inquisizioni, pren-
deremo un altro metodo di approssimazione.
n Mariana pretende, sulla testimonianza di antichi mano-
scritti, che nel i»imo anno dell'Inquisizione si bruciassero in
Siviglia duemila persone ed altrettante in effigie, e che dicias^
settemila subissero la pubblica penitenza. Potrei sostenere, senza
tema di esagerazione, che gli altri tribunali condannarono al-
trettante persone nel pritno anno del loro stabilimento; pure
ridurrò questo numero alla decima parte, perché le denuncia
furono a Siviglia assai più vive che altrove.
Andrea Bernaldez, già da noi citato, dice che dal 1482
fino al 1489 inclùsivamente si diedero in Siviglia alle fiamma
più di settecento persone e se ne condannarono alla pùbblica
Tàmb. Inquii, Voi. II. 74
penitenza più di cinquemila » senza contare le giustiziale in
effigie: supporrò che il numero degli ultimi fosse la metà sol-
tanto deiraltro, sebbene talvolta non fosse minore ed anche più.
Stando a quesf ipotesi» y' ebbero un anno per Taltro del-
l' indicato periodo novantotto condannati alle fiamme, quaran-
taquattro bruciati in effigie e seicentoventicinqne puniti cod
una pubblica penitenza nella sola città di Siviglia: lo che porta
a settecentocinquantasette il totale delle vittime di questa In-
quisizione.
Credo che ve n' abbiano avute altrettante il secondo anno
e nei susseguenti in tutte le altre Inquisizioni , fondando la
mia opinione sulla considerazione, che nulla mi può essere ad-
dotto in contrario : tuttavolta voglia ridurne il numero alla
metà.
Nel 1K24 fu posta air Inquisizione di Siviglia un'iscrizione
portante che dall'epoca delFespulsione degli ebrei seguitasi nel
i492 fino al 1K24 , erano state bruciate circa mille persone e
più di ventimila penitenziale.
Mi limiterò a supporre che siansi brucate soltanto mille
persone e cinlpiecento solamente giustiziate in effigie ; e que-
sto calcolo porta trentadue persone bruciate ogni anno perso-
nalmente, sedici in effigie, e seicentoventicinque punite con
una pubblica penitenza, cioè in tutto seicentosessantatrè indi-
Tidui colpiti dairinquifflzione. Riduco questo numero alla metà
per ciaschedun' altra Inquisizione, onde non mi vengano con-
testati i miei risultati , malgrado le ragioni che avrei di cre-
derne il numero quasi eguale alle vittime di Siviglia.
Potrebbe supporsi per i tre anni 1490, 91 e 92 che pas-
sarono tra il racconto di Bernaldez e Tiscrizione di Siviglia io
stesso sistema che per gli otto anni di questo storico; pure, per
allontanare ogni sospetto di esagerazione, mi atterrò al numero
portato dairiscrizione, perchè più moderato. Su tale fondamento
mi accingo a dare il conto delle vittime immolate da Torqae-
mada, primo inquisitore generale, ne'diciplto anni della sua cru-
dele amministrazione.
Nel 1481 si bruciarono sotto gli occhi dell' Inquisizione
di Siviglia duemila persone , duemila in effigie , e diciassette-
mila furono condannate a varie pene , lo che dà un risultato
di ventunmila condannati. Per quest'anno non conto verun in-
dividuo nelle altre Provincie dove non esisteva la nuova In-
quisizione.
— »87 -
L' anno 1482 ofiRre nella stessa città novan tetto indiTidoi
efiTettivameute brocìati , gaarantacioattro in effigie , e seicento-
venticinqne penitenziali ; totale settecentocinqnantasette. Io non
parlo ancora delle altre Inquisizioni.
Nel 1483 v'ebbe in Siviglia nn egnal numero di vittime: ed
in quest'anno entrarono in esercizio i tribunali deirinquisizione
di Cordova, di Jaen e quello di Toledo, ch'era in allora stabi-
lito a Ciudad-Real. Partendo dair ipotesi stabilita , daremo ad
ognuno de' nuovi tribunali duemila e cento condannati, cioè
seimilatrecento fra tutti tre, che uniti a quelli di Siviglia sono
settemilacinquantasette.
Nel 1484 le cose si passarono in 'Siviglia come nel pre-
cedente anno. A Cordova , Jaen e Toledo contiamo ottanta-
quattro vittime bruciate in persona, ventidue in eflSgie e tre-
centododici peniteuziate; in tutto punite millequattrocentono-
tantuna.
Nel 1485 le Inquisizioni di Siviglia, Cordova, Jaen e Toledo
non si scostarono dal praticato nel precedente anno. I tribunali
che in quest'anno medesimo furono eretti nell'Eslremadura, a
Yalladolid, Galahorra, Murcia, Cuen^a, Saragozza e Valenza, ci
danno per cadauno dngenlo condannati di prima specie, dugento
della seconda e millesettecento della terza; totale sedicimila-
cinqnecentó e più condannati.
Siviglia, Cordova, Jaen e Toledo danno ancora il medesimo
risultato nel 1486, ed i sei altri tribunali qnattromilacinque-
centosette condannati d'ogni specie.
E così proseguendo d'anno in anno, apparisce che Tor- . ^
quemada nei diciotto anni del suo ministero inquisitoriale fece 1 0
perire tra le fiamme diecimiladugentoventi vittime, bruciare in ' ^
eflSgie seimilaottocentosessanta , e novantasettemilatrecentoven-
tnna óondannò alla pena dell'infamia , della confisca dei beni ,
della prigione perpetua , della esclusione dagli impieghi pub-
blici ed onorifici. Il prospetto generale di queste barbare ese-
cuzioni ammonta a centoquattordicimilaquattrocentoona il numero
delle famiglie per sempre perdute ; non comprendo in questo
numero le persone che per le loro relazioni di parentela coi
condannati venivano ad essere più o meno partecipi della |oro
sventura.
Se il calcolo da me fatto sembrasse esagerato in alcuni
auto-da-fè dell' Inquisizione di Toledo per gli anni 1485 , 86 ,
87, 88, 90, 02 e 94, si troverà che furono in quella città con-
— 588 —
dannate ne' sette indicati anni seimilatrecentoqaarantnno ìndi-
Yidui ; lo che ci presenta per adequato novecentosei individoi
diranno. Si moltiplichi questo numero per tredici, che é quello
dei tribunali d'Inquisizione, e si avrà per ogni anno undid-
milasettecentosettantotto individui, ossia dugentododicimtla e
quattro individui in questi diciotto anni.
Se avessi per gli altri tribunali delPInquisizione portato il
calcolo cosi alto come quello di Siviglia, avrei avuto quattro-
cento e più mila persone punite dal Sant'Ufficio in cosi^ breve
periodo.
Si aggiunga ch'io non feci entrare in questa somma i con-
dannati in Sardegna , sebbene sia cosa certa che Torquemada
v'immolò delle vittime.
Non feci neppure parola dell'Inquisizione di Galizia né di
quella dell'isole Canarie e del Nuovo Mondo, né di quella della
Sicilia, perchè, malgrado gli sforzi fatti per istabilirvi il nuovo
sistema inquisitoriale, vi durava tuttavia l'antico; lo che di-
mostrava evidentemente che il rigore del nuovo sistema inqui-
sitoriale era più temuto perché lasciava minori mezzi di difesa.
Se noi risguardiamo come vittime di Torquemada tutti gì' in-
dividui che furono giudicati dopo la di lui morte nelle Inqui-
sizioni fondate dai suoi successòri , chi potrebbe calcolarne il
numero?
L'ardente zelo di Torquemada non limitavasi alla persecu-
zione delle persone, stendevasi anche ai libri. Nel 1490 fece
bruciare molte Bibbie ebraiche ed in appresso più di seimila
volumi in un auto-da-fe ch'ebbe luogo a Salamanca sulla piazza
di Santo Stefano, sotto pretesto che fossero infetti degli errori
del giudaismo, o pieni di sortilegi, di magia , di stregonerie e
di altre superstiziose pratiche. Quante riputate opere non peri-
rono in questa circostanza come pericolose, sebbene non aves-
sero che il solo difetto di non essere intese I
Circa quaranl' anni prima un altro domenicano , chiamato
f. Lope de Barrientos, confessore del re di Castiglia Giovanni II,
aveva condannata alle fiamme la biblioteca di Aon Enrico d'Ara-
gona, marchese di Villena, principe del real ^gue d'Aragona,
senza avere verun riguardo alla sua parentela col re. Questo
impetuoso ecclesiastico, per prezzo dell' insulto fatto al cugino
del suo principe e dello zelo fanatico che aveva dimoslrato ,
venne nominato vescovo di Cuenfa.
Di già gli antichi inquisitori di Aragona avevano condan-
late al fuoco tarie opere ;« ina non avevano ardito di farlo che
n virtà d' una commissione apostolica , che non poteva avere
tffetto in Gastiglia. Nel 1490 Torqnemada diede l'esempio di una
omigliante esecuzione in forza di nn ordine ricevuto dal re
•''ordinando.
Pare è cosa tanto avverata che raotorità dell' Inquisizione
lon si estendeva fln là, che un'ordinanza di Ferdinando e d'Isa-
^lla del 1502 incaricava i presidenti delle cancellerie di Val-
adolid e gli arcivescovi di Toledo, Salamanca, Siviglia, ecc., di
atto ciò che risguardava l'esame, la censura, la stampa, Tin-
roduzione e la vendita dei libri. Ma in appresso, e specialmente
otto Carlo V, osò all'ultimo di pretendere che la censura dei
ibrì fosse un diritto primitivo e naturale del tribunale , che
;rinquisitori chiamavano il tribunale della fede.
Perciò nell'età nostra si è veduta riclamare quando sótto
"mìo Vili si volle far cessare quest'abuso, ordinando l' esecu-
ione della costituzione di Benedetto XIV e vietando la pub-
ilicazione di veruna proibizione di libri prima di averne otte-
iute la sanzione dal re pel canale del ministero di stato. Ma
3 potei da me stessa convincermi fino a qual segno il governo
ia stato su questo particolare ingannato.
GÌ' inquisitori abusano del segreto che nasconde le loro
.eliberazioni e trovano sempre il modo di censurare que' libri
I cui dottrina venne loro denunciata come in tutto o in parte
ospetta. La notizia che davasi al sovrano di tali giudizi dege-
ero ben tosto in semplice formalità, giacché stampavasi l'editto
i proibizione prima di avere soddisfatto a tale atto e senza
)r sapere al sovrano se gli autori de' libri condannati erano
tati sentiti o no, nò per quali motivi avevano i censori quali-
cata la loro dottrina.
Tante sventure ed altre non poche che io non accenno
areno la conseguenza del sistema adottato da Torqnemada e
a lui raccomandato, morendo, ai suoi successori. Giustificano
ueste r odio generale che lo accompagnò fino al sepolcro e
h'egli aveva cosi vivamente eccitato nel corso di diciott'anni,
nde aveva dovuto adottare alcune precauzioni per porre in
icuro la propria vita. Ferdinando ed Isabella gli permisero di
irsi scortare ne'suoi viaggi da cinquanta familiari dell'Inquisi-
ione a cavallo e da dugento a piedi. Ciò poteva salvarlo dal-
aperta violenza de' suoi nemici ; ma altre misure adottò per
revenire i segreti insidiatori. Torqnemada teneva sempre sul
SUO tavolo ao corno di liocorno , cai snpponevasi la virtù di-
fare scoprire e di neutralizzare i veleni. Non fera maraviglia
che molti cospirassero contro la sua vita, se si rammenti Testrema
crudeltà della sua amministrazione. Lo stesso papa fa atterrita
da tanta crudeltà dietro le lagnanze che gli venivano ogni di
preisentate ; di modo che Torquemada fu costretto di spedire
tre volte a Roma il suo collega f. Alfonso Badaja colla com-
missione di difenderlo innanzi al papa contro le accuse de'suoi
nemici.
Finalmente Alessandro VI, vedendo spinte le cose air ul-
timo estremo, fu in sul punto di spogliarlo deirautorità di ed
Io aveva rivestito, e non desistette che per considerazioni poli*
tiche e per non offendere la corte di Spagna. Si limitò adanqoe
a spedire il 23 di giugno dei 1494 un breve nel quale diceva
che, essendo Torquemada giunto alla decrepitezza, aveva nomi-
nati inquisitori generali per l'andamento degli affari dell'Inqui-^
sizione e come suoi coadiutori rivestiti di poteri eguali ai suoi
don Martino Ponce de Leon, arcivescovo di Messina in Sicilia,
che dimorava in Spagna ; don Ignazio Manrique, vescovo di
Cordova ; don Francesco Sanchez de la Tuente, vescovo d'Avila,
e don Alfonso Suarez ed Tuentelsaz, vescovo di Mondognedo.
Ognuno di loro era dal papa autorizzato a fare da sé solo tutto
quanto troverebbe conveniente di fere ed a terminare gli affari
cominciati da un altro.
I familiari del SanrUflBcio, che supplivano le incombenze
di guardie del corpo del primo inquisitore generale Torque-
mada, erano successori de' familiari deir antica Inquisizione.
Dovevano tenere di vista gli eretici ed i sospetti d'eresia, som-
ministrare soccorso per imprigionarli ai sergenti ed agli sgherri
del tribunale, e fare lutto quanto sarebbe loro ordinato dall'In-
quisizione per la punizione degli accusali.
Per guarentirsi dalla calunnia e dai sospetti, alcuni gen-
tiluomini del regno furono ricevuti nella congregazione di
S. Pietro perchè si erano volontariamente offerti per familiari
del Sant'Ufficio. Il loro esempio strascinò le persane delle
classi inferiori , e questo movimento fu inoltre favoreggiato
dalla politica del re, che accordava ai familiari varie preroga-
tive ed immunità.
Tali prerogative ne fecero crescere il numero in una
maniera cosi mostruosa ed impolitica, che v'ebbero tante città
in cui i privilegiati superando di numero gli abitanti subor-
-MI -
nati ai pesi muoicipali si rendette necessario di ridarne il
imero in ana generale adunanza delle cortes del regno.
Basterà il fare adesso osservare che siccome ¥ inquisitore
nerale aveva una guardia di dugento uomini a piedi e di
iquanta cavalieri , è cosa verosimile che ne' primi tempi i
irticolarì inquisitori avessero altresì al loro servizio e per le
edesime ragioni almeno quaranta fanti e (Ueci cavalieri quando
sitavano il territorio della loro giurisdizione. Un'armata dipen-
tute dal Sant' UfBcio spiega bastantemente per quale ragione
enormi confische e gli altri introiti che sapeva procacciarsi
)n bastassero a coprirne le spese. Se a questa famiglia d'ar-
m si aggiungano i moltissimi prigionieri che si dovevano
imentare dairinquisizione» si concepirà facilmente e la gran-
tzza della spesa e la difficoltà di sostenerla.
FINE DEL VOLUME SECONDO.
:2> o&sa^Q^a CSO&
ELENCO DI ALCUNI MARTIRI DELLA RELIGIONE CRISTIANA.
SECOLO PRIMO. ^
Stefano primo martire — Giacopo il minore^ apostolo *- Pietro 41 prin-
cipe degli apostoli — Paolo di Tarso, detto co-apostolo ài Pietro^ — éomas
apostolo — Bartolomeo apostolo — Lino vescovo di Boma — Tito vescovo
di Creta — Timoteo vescovo di Efeso — Anacleto vescovo di Boma — Gio-
vanni apostolo ed evangelista.
SECOLO SECONDO.
Ignazio vescovo di Antiochia — Policarpo vescovo di Smirne — 'Evét-
risto vescovo di Boma — Quadrato vesc§vo di Atene — Aristide laico, j^crti"
tore — Alessandro vescovo di Boma. — Egesippo laico , scrilU^^ — Sisto
vescovo di Boma — iDtont^t vescovo di Corinto — Giustino filosofo — ì^pia
vescovo di Gerapoli — Igino vescovo di Boma, — Pio vescovo di Boma —
Aniuto vescovo di Boma — Solerò vescovo di Boma — Ireneo vescovo di
Lione — Eleuterio vescovo di Boma — Leonida martire — Vittore vescovo
di Boma — Clemente Alessandrino retore.
SECOLO TERZO.
Vibia-Perpetua dama cartaginese, m. — Felicita schiava della stessa
città, m. ^fabiano vescovo di Boma — Alessandro vescovo di Gerusalemme
^ Babila vescovo di Antiochia -«- Gregorio taumaturgo — Cipriano vescovo
di Cartagine — Dionigi vescovo di Alessandria «— Saturnino vescovo 4i
Tolosa — Dionigi vescovo di Patigi — Paolo primo eremita — ìintonio
abbate ^ Cornelio vescovo di Boma -^ Stefano vescovo di Romu — ^to II
vescovo* di Boma — Lorenzo éiacotH^. i^. — Feliee véscovo di Boma.
Tamb. Inquis. Voi. IL 75
- 594 —
SECOLO QUARTO.
Cajo vescovo di Roma — Doroteo cortigiano, m. — Gorgonio corti-
giano, m. — Natalia moglie di Adriano, m. — Bonifacio, m. — Agnese
fanciulla, m, — Agata donzella, m. — Marcellino vescovo di Boma — Pietro
vescovo d* Alessandria — Melchiade vescovo di Boma — Teona vescovo
d'Alessandria — Achilia vescovo d'Alessandria — Elena madre di Costan-
tino — Alessandro vescovo d'Alessandria — Silvestro vescovo di Boma —
Alessandro vescovo di Costantinopoli — Atanagio vescovo d'Alessandria —
/ due Macarii romiti — Pacomio romito — Barione romito — Marco ve-
scovo di Boma — Gregorio nazianzeno il padre — Giulio vescovo di Boma
— Paolo vescovo di Costantinopoli.
SECOLO QUINTO.
Paolino vescovo di Nola — Agostino vescovo d* Ippona -* Anastagio
vescovo di Boma— G io- Crisostomo patriarca di Costantinopoli — Prospero
d'Aquitania — Innocenzo vescovo di Boma — Marcellino tribuno, m. —
Pulckeria imperatrice — Sozimo vescovo di Boma — Cirillo vescovo d^Ales-
• sandria — Celestino vescovo di Boma — Isidoro di Pelusio monaco —
• Ifisto III vescovo di Boma — Flaviano v. di Costantinopoli, m. — Pier
Grisologo vescovo di Bavenna — Leone il Magno vescovo di Boma — Pro-
terio vescovo d' Alessandria — J due Simeoni stiliti — Daniele stilita —
Ilario vescovo di Boma.
SECOLO SESTO.
Simmaco vescovo di Roma — Ormisda vescovo di Boma — Giovanni,
m,, vescovo di Boma — Penedetto abbate — Mauro abbate — Agapito
vescovo di Roma — Silverio m., vescovo di Boma — Menna patriarca
di C. P. — Dazio arcivescovo di Milano — Pretestato, m., vescovo di
Boano — Desiderio, m., vescovo di Vienna — Gregorio vescovo di Tours
— Ermenegildo principe di Spagna — Leandro vescovo di Siviglia — Gre-
gorio I papa — Eterio vescovo di Lione — Eulogio patriarca di Alessandria
— Anastagio patriarca di Antiochia — Agostino arcivescovo di Cantorbenj
— Mellito vescovo di Londra — Paolino arcivescovo di Yorch — Lupo
vescovo di Sens — Arnoldo vescovo di Metz — Idelfonso arcivescovo di
Toledo — Teodoro vescovo d'Anastasiopoli — Gregorio patriarca d'Antio-
chia — Anastagio, m., monaco — Giovanni limosiìiiere patriarca d'Ales-
' ^sandria,
SECOLO SETTIMO.
'Lorenzo arcivescovo di Cantorbery — Giovanni Mosch monaco — Leg-
gero vescovo d^Autun — Bonifacio IV papa — Sofronio patriarca di Gè-
— 59ii; —
rusalemme — Massimo, m., abate — Martino, m., papa — Eugenio papa —
Vilfrido arcivescovo di Yorch — Vitaliano papa — Teodoro arcivescovo di
Cantorbery — EUadio arcivescovo di Toledo — Eligio vescovo di Noyon
— Batilde regina di Francia — Agatone li papa — Giovanni vescovo di
Bergamo — Leone II papa — Giuliano arcivescovo di Toledo — Sergio I
papa,
SECOLO OTTAVO.
Villebrodo vescovo di Utrecht — Bonifacio vescovo di Magonza - Seda
monaco — Gregorio II papa — Gregorio HI papa — Germano patriarca
di C. P. — Giovanni damasceno — Zaccaria papa — Pietro vescovo di Pavia
— Stefano d'Aussenza, m. — Paolo Ipapa — Tarasio patriarca di C. P. —
Eterio vescovo d'Osma — Beati) monaco — Leone III papa — Platone mo-
naco — Teodoro Studila moncu:o,
SECOLO NONO.
Leone III papa — Martire frate Bulgari — Niceforo patriarca di C. P.
— Pasquale I papa — Anscario vescovo d'Amburgo — Martiri di Amorio
— Metodio patriarca di C. P. --Leone IV papa — Eulogio, m., prete^ —
Ignazio patriarca di C. P. — Niedò I papa — Edmondo, m,, re d'Inghil-
terra — Ebba abbadessa ^ Ottone I abbate di Qugny — Stefano patriarca
di C. P.
SECOLO DECIMO.
Antonio patriarca di C. P. — Ulderico vescovo d'An^urgo — Matilde
regina d'Alemagna — Brunone vescovo di Colonia — Dunstano arcivescovo
di Cantorbery — Eduardo, m,, re d^ Inghilterra.-^ Edita V sua sorella —
Libenzio vescovo di Brema — Venceslao duca di Boemia — Eroldo^ -m., re
di Danimarca — Volfango vescovo di Ratisbona — Nilo abbate — Adalberto
vescovo di Praga — Romualdo fondatore di Camaldoli.
SECOLO DEOIHOPRIHO.
Enrico Uimperadore — Eriherto arcivescovo di Colonia — Pietro Or'
scolo doge di Venezia — Stefano re d'Ungheria ^ Emerico suo figlio -;- Cu-
negonda V imperadrice — ' Olao, m., re di Norvegia — Elfego arcivescovo
di Cantorbery » Ulstano arcivescovo di Yorch — Meimberco vescovo di
Paderbona — Bartolomeo ab. di Grotta-Ferrata — Leone IX papa — Pie- ,
tro di Damian vescovo d* Ostia — Anselmo v. di Lucca — > Domenico Lori-
cato — * Giovanni-Gualberto fondatore di ValVOmbrosa — Ildebrando, poi
papa Gregorio VII — Roberto fondatore di Ostello — Brunone fondatore
della Certosa — Annone arcivescovo di Colonia — Stanislao vescovo di Cra-
covia — Canuto rV re di Danimarca — Roberto d'Arbrisselles.
SECOLO DE0IHO8E0ONDO.
Anselmo arcivescovo di Cantiìrbery — Bernardo ab. di Chiaravalle —
Norberto arcivescovo di Maddeburgo — Udegarde abbadessa — Malachia ar-
civescovo d^Armaca — Gilberto di Sempringam — Guglielmo arcivescovo
di Yorch — Elisabetta di Schonauge — Tomaso arcivescovo di Cantorbery
— Galdino, arcivescovo di Milano — Lorenzo arcivescovo di Dublono.
SECOLO DEOIMOTERZO.
Domenico di Gusmano ^ Francesco d* Assisi — Felice di Valois ^Gio-
vanni di Mata -^ Pietro Nolasco — > Alberto p<Uriarca di Gerusalemme —
Ludgarde monaca — Antonio di Padova — Raimondo di Pegnafort — Lui-
gi IX re di Francia — Ferdinando III re di Castiglia — Tomaso d^ Aquino
— Bonaventura cardinale vescovo d* Albano — Gregorio X papa — Filippo
Benizzi — Pier- Celestino V papa.
•
SECOLO DECIMOQUARTO.
Benedetto XI papa — Pier-Tomaso patriarca di C. ?• — Giovanni Co-
lombino — Brigida dama svedese — Andrea Corsini vescovo di Fiesole —
Caterina da Siena.
SEGOLO DECIMOQUINTO.
Vincenzo Ferreri — Bernardino da Siena — Giovanni della Marea
— BernardlsiO da Feltre — Antonino arcivescovo di Firenze — Lorenzo
Giustiniani patriarca di Venezia — Nicolò Albergali vescovo di Bologna —
Francesco di Paola.
SEGOLO DECIHOSESTO.
Giovanna di Valois moglie ripudiata di Luigi XII — Giovanni di Dio
— Gaetano Tiene — Girolamo Miani — Ignazio Lojola — Francesco Sa-
verio — Carlo Borromeo arcivescovo di Milano — Pio V papa — Filippo
Neri — Giuseppe Calasanzio — Camillo de Lellis — Felice <ia Cantalice —
Teresa d^Avila — Giovanni della Croce — Pietro d'Alcantara — Francesco
Borgia — Stanislao Kotska — Luigi Gonzaga,
^
UBRO SECONDO.
Capitolo L Guglielmina la Boema .... Pag. 5
— n. II ponteflce Clemente Y e Filippo il Bello re di
Francia > 78
— ni. Processo alla memoria di Bonifacio Vili e Con-
cilio di Vienna » 97
~ IV. Esecuzione del gran maestro de' templari • • 107
— V. L'Ordine de' templari . . . . . » iÌ4
— VL Accuse e difese de' templari. • . • > i2i
— VII. Il concilio di Vienna e Giovanni XXII . • i3i
— VIII. Dante sospetto d'eresia. . • . . > 145
— IX. Roma e Cola da Rienzo . . . . • 168
— X. Sollevazione del popolo di Roma contro Cola da
Rienzo, e sua morte . ...» 184
. — XI. Glorie dei pontiflcato di Innocenzo VI. Urbano V.
Caterina da Siena e Bernabò Visconti . » 201
— XII. Pontefici d'Avignone. Pietro d'Abano e Cecco
d'Ascoli » 210
— XIII. Regole del Tribunale del Sant'Ufficio che si devono
praticare, e che si danno per istruzione. > 220
— XIV. Giovanni Hus e Girolamo da Praga . . > 294
— XV. La morte di Girolamo da Praga. . . » 398
— XVI. Giovanna d'Arco condannata come strega . » 413
— XVII. Eugenio IV. Concilio di Basilea e Firenze , e gli
Ussiti in Boemia . . . • . «418
— ^ XVUL Livia Andreani «436
— XIX. Basilio Ordelaffl e sua figlia. ...» 440
Capitolo XX. Nicolò V poDteflcé e la coDgiura di Stefano Por-
cari Pag. 44S
— XXI. Zizino a Roma, e i falsari delle bolle pontiflcie » &57
— XXII. L'Inquisizione nella Spagna. . . . » 462
— XXIII. Elezioni di Alessandro VI, disegni di Jeronimo
Savonarola intorno alla riforma della Chiesa
e dello Stato d'Italia, Piero de' Medici ecc. » 470
— XXIY. Sentenza di morte contro i fautori de' Medici pro-
curata da Savonarola; esperimento del fuoco
e morte di Savonarola . ...» 497
— XXV. I Francesi in Italia e Lodovico il Moro tradito e
fatto prigioniero > 5i2
— XXYI. Alessandro VI morto di veleno; suo carattere e sue
infamie: critica situazione di Cesare Borgia > 545
— XXYII. Stabilimento della moderna Inquisizione in Spa-
gna * 549
— XXYIU. Creazione di un grande inquisitore generale, di un
consiglio reale d'Inquisizione, dei tribunali
subalterni e delle leggi organiche. Stabili-
mento del Sant'Ufficio nel regno di Aragona » 559
— XXIX. Atti addizionali alle prime costituzioni del San-
t'Ufficio, conseguenze che ne derivano ed
appellazione a Roma contro i loro abusi. > 571
~ XXX. Espulsione degli ebrei. Progressi intentati ad al-
cuni vescovi. Conflitto di giurisdizione. Morte
di Torquemada. Numero delle sue vittime.
Sue qualità e loro influenze sulla condotta e
sugli affari dell'Inquisizione. . > 579^
Appbivdicb «595
GUXX)A P£L LSGAXORB
ONDE COLLOCARE AL LORO POSTO LE TAVOLE NEL VOLUME SECONDO
Condanna de' templari ........ Pag. 94
Esecuzione de' templari accaduta in Parigi al 15 marzo Ì3i4 . > ii2
Houlay gran maestro de' templari » ii8
Cola di Rienzo che arringa il popolo • i7l
Frate Giovanni che reca a Clemente VI, ecc .176
Bernabò Visconti che sul ponte di Melegnano , ecc. . > 207
Frate Giorgio di Foligno • 2i6
Palazzo ducale in Ferrara > 219
Prigione di Torquato Tasso in Ferrara » 235
Soiima scampata dalle carceri • 264
Piazza del Duomo di Spoleto • 269
Catacombe di Roma » 278
Scala Santa • ivi
Giovanni Hus minacciato di morte » 350
Giovanna d'Arco tentando di scalare le mura di Parigi . » 416
Giovanna d'Arco in prigione » ivi
Giovanna d'Arco sul rogo ' . . » ivi
L'inquisitore che cerca persuadere Livia Landreani. » 438
Duomo d'Arezzo • 439
Piazza del Duomo di Pisa ......... ivi
Campo Santo di Pisa • ivi
Gemma Ordelaffl scioglie le catene al padre .... > 441
Casa di Salvator Rosa • 442
Casa di Michel Angelo. . ; «ivi
Supplizio di frate Girolamo Savonarola • 5li
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