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Full text of "Storia generale dell' Inquisizione ... ; colla vita dell' autore"

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STORIA  GENERALE  DELL'  INQUISIZIONE. 


STORIA  GENERALE  DELL'  INQUISIZIONE. 


STORIA  GENERALE 

DELL'  INQUISIZIONE 

COBBEDATA  DA  BABIS8IMI  DOCUMENTI 

I 

OPERA   POSTUMA 

DI  PIETRO  TAMBURINI 

DIRETTORE  DELLA  FACX)LTA'  POLITIOO-LEGALB  DELL*  UNIVERSITÀ'  DI  PAVU 
CAVALIERE  DELLA  CORONA  FERREA 

COLLA     VITA    DELL'AUTORE 

•  seconda  edizione  riveduta  e  migliorata 


VOLUME    SECONDO 


MILANO 

PRESSO  I  FRITELLI  BORRONI 
Via  iti  Vtniart,  4 


NAPOLI 

PRESSO  GIUSTINO  HEROLLA 
Straik  Qa«rtia,  10 


1  866 


/^So  é . 


STORIA  GENERALE 

DELL'INQUISIZIONE 


LIBRO  SECONDO 


CAPITOLO  PRIMO. 

Ooglielmina  la  Boema. 

Ora  debbo  narrare  la  storia  di  Gaglielma,  il  di  ^  cui  pro- 
cesso formerà  sempre  il  disonore  dell'autorità  inquisitoriale  ; 
essendo  prima  stata  incensata  sugli  altari,  indi  tolta  dalla  tomba 
io  Cbiaravalle,  ove  le  spoglie  mortali  erano  state  sepolte,  ab- 
bruciate, poi  sparse  al  vento,  perchè  giudicata  eretica  e  nefanda 
b  sua  memoria.  Il  processo  dei  guglielmiti  giace  inedito  nella 
Biblioteca  Ambrosiana,  ed  il  dottissimo  Puricelli,  che  fu  biblio- 
tecario, estese  una  dissertazione,  nella  quale  prova  che  non  erano 
Tere  tutte  le  imputazioni  fatte  a  quella  donna,  e  gli  argomenti 
ci  parvero  tanto  giusti  e  logici,  che  abbiamo  voluto  più  presto 
di  recare  il  nostro  giudizio  tradurre  dairoriginale  inedito  gli  ar- 
gomenti principali,  e  credendo  d'illustrare  in  tal  modo  la  ^ 
nostra  fatica,  e  di  rivendicare  in  parte  la  fama  di  quella  sven- 
turata, piuttosto  presa  da  pazzia  che  veramente  colpevole. 

L 

Quanto  io  dissenta  dagli  storici  da'quali  furono 
per  Vaddietro  descritti  gli  atti  di  questa  Gtiglielmind. 

ì.  La  più  parte  delle  cose  che  gli  scrittori  intorno  a  questa 
doDua  ed  alia  setta  di  lei  consegnarono  ai  pubblici  monumenti 


—  6  — 

delle  lettere»  e  quelle  segnatamente  che  fanno  contro  alla  pudi- 
cizia dei  nostri  Milanesi,  io  le  credo  inventate  di  pianta  e  fal^ 
airinlulto.  Essa  veramente  mori  Tanno  del  Signore  1281;  tre- 
cenl'anni  dopo  venne  disseppellita  e  bruciata:  davvero  allora  sol- 
tanto se  ne  estinse  la  setta;  contuttocìò  io  non  trovai  istorico 
di  lei  che  sia  anteriore  al  nostro  Donato  Bossi. 

2.  La  prima  notizia  pertanto  di  questa  Guglielmina  e  della 
setta  di  lei  io  Tebbi  dal  Bossi,  ovverosia  dalla  Cronaca  milanese, 
ch'egli  pubblicò  la  prima  volta  Tanno  1492;  e  questa  è  la  stessa 
ch'io  parola  per  parola  ripeterò  nel  capo  che  segue. 

3.  Nella  medesima  opinione  dei  Bossi,  meno  pochissime  va- 
riazioni vennero  dappoi  anche  Bernardino  Corio  e  Tristano 
Calchi,  e  la  inserirono  negli  atti  dell'anno  stesso  1300,  quando 
poco  dopo  scrissero  eziandio  le  loro  storie  milanesi.  Né  alt^ji- 
mente  opina  anche  Iacopo  Filippo  da  Bergamo  nel  Supplemento 
delle  Cronache  nel  libro  I  all'anno  di  Cristo  1298. 

4.  Contemporaneo  a  questi  aggiugnesi  anche  Gaspare  Bu- 
gatti  nella  sua  Storia  universale  italianamente  scritta  e  pub- 
blicata la  prima  volta  in  Venezia  nell'anno  1571,  lib.  IV,  all'anno 
di  Cristo  1305.  Cosi  nelle  stesse  parole  del  Bossi  convenne  Tan- 
no 1618  anche  Abramo  Bzovio  nel  tomo  XIV  degli  Annali  ec- 
clesiastici e  tomo  H  dopo  i  dodici  del  Baronio  all'anno  1300, 
art.  14.  Da  ultimo  Giuseppe  Ripamonti,  Tanno  1625,  nella  secon- 
da parte  della  Storia  della  chiesa  milanese,  lib.  VII,  la  stessis- 
sima  narrazione  de'predetti  elegantemente  riprodusse  con  molte 
aggiunte. 

5.  Ecco  gli  storici  che  liberamente  professo  di  voler  im- 
pugnare, ed  a' quali  ardirei  applicare  il  notissimo  detto  di 
Cristo  Signore:  Forse  che  un  cieco  può  farsi  guida  ad  altro 
cieco?  Non  cadranno  entrambi  in  una  fossa?  Farmi  davvero  che 
in  questa  parte  il  Bossi  possa  assomigliarsi  al  cieco,  del  quale 
fattisi  guida  gli  altri  scrittori,  tutti  a  mo'di  ciechi  furono  traiti 
a  cadere  nella  fossa  medesima.  Siccome  poi  questo  principal- 
mente ha  in  mira  di  presente  la  nostra  dissertazione ,  perciò 
eziandio  nel  capo  seguente  ci  terremo  contenti  alle  sole  parole 
del  Bossi  ;  quasi  egli  avesse  scritto  quelle  siffatte  cose  a  nome 
di  tutti  gli  altri  scrittori,  né  alcuno  d'essi  in  alcuna  parte  mai 
gli  contradicesse ,  che  anzi  a  gara  gli  rendessero  onore ,  come 
fecero  difatto. 


II. 

Ciò  che  scrisse  intomo  alla  Guglielmina  Donato  Bossiy 
rantesignano  di  questi  tali  suoi  seguitatori. 

1.  A  questo  modo  egli  seguita  narrando  nella  sua  Cronaca 
le  gesta  deiranno  1300:  <  Nello  stesso  anno  in  Milano  un'ere- 
tica occulta,  per  nome  Guglielma,  che  facea  le  viste  di  condurre 
una  vita  religiosissima  e  santa ,  con  un  tale  chiamato  Andrea 
Saramita ,  col  pretesto  di  buone  opere ,  nella  loro  sotterranea 
sinagoga,  usavano  insieme  ereticamente  e  facevano  ch'altri 
osassero. 

2.  e  Quivi  al  mattutino  innanzi  giorno  convenivano  dal 
consorzio  per  essi  aggregato  donne  maritate  e  vedove  occulta- 
mente per  ordinazione  di  quella  medesima  donna  chiericato; 
vi  convenivano  anche  giovani  del  sesso  virile;  mentre  quella 
maledetta,  abbigliata  a  mo'di  prete,  nella  stessa  sinagoga  ,  di 
flanco  all'altare,  faceva  le  consuete  sue  orazioni;  infine  dice- 
vano tutl' assieme  :—"  Aduniamoci ,  aduniamoci,  mettiamo  il 
lume  sotto  al  sestario,  e  fate  ciò  che  Dio  ha  ordinalo;  e  per 
tal  modo  a  di  fissi  occultamente  commettevano  stupri. 

3.  «  Questa  Guglielma  si  muore,  e  i  monaci  di  Chiara  valle 
la  seppellirono  per  «santa.  Dopo  il  trapasso  della  quale  Andrea 
per  sei  anni  seguitonne  le  ordinanze  ;  finché  un  cittadino  e 
grande  negoziante  di  Milano,  detto  Corrado  Coppa,  veggendo  la 
moglie  con  qualche  frequenza  levarsi  di  buon  mattino,  curioso 
di  sapere  ov'ella  andasse,  levatosi  di  soppiatto,  tenne  dietro  fuor 
di  casa  alla  moglie  e  la  ormeggiò  incognito  sino  al  luogo  di 
convegno  ;  quivi,  poiché  posto  il  lume  sotto  il  sestario  fu  fatto 
buio ,  prese  a  modo  che  gli  altri  facevano  la  propria  moglie , 
e  con  essa  usò  senz'  esserne  conosciuto ,  e  le  tolse  di  dito  un 
anello  d'oro  con  zaffiro  incastonatovi,  e  quindi  occultamente 
dopo  tutti  se  ne  parli.  Di  là  a  quattro  giorni  richiese  alla  mo- 
glie dell'anello,  perché  per  sua  bisogna  aveva  a  darlo  a  pegno, 
secondo  aveva  promesso.  La  donna  finse  cercarlo,  infine  rispose 
con  imbarazzo  che  no'l  trovava. 

4.  €  Egli  (Corrado)  fece  imbandire  un  convito  al  quale 
invitò  i  suoi  parenti,  amici  e  vicini,  le  mogli  de' quali  aveva 
conosciute  nel  convegno,  e  invitò  pure  le  stesse.  Essendo  tutti 
per  amore  o  per  compiacenza  venuti  al  banchetto  e  stando 


—  8  — 

per  mettersi  a  tavola  (qui  il  Bossi  vorrebbe  che  si  correggess 
il  testo  e  si  leggesse  invece  dopo  levata  la  tavola)  disse:  —  Di 
ciascuno  alla  rispettiva  moglie  il  sollievo  eh'  io  sono  per  dar 
alla  mia,  poscia  ve  ne  spiegherò  il  perchè;  e  tutti  promiser 
di  farlo.  Tolse  egli  di  capo  alla  moglie  una  benda  e  trovoll 
colla  chierica;  fecero  gli  altri  il  medesimo,  e  medesimament 
trovarono  le  loro  donne  chiericate.  Gridarono  tutti  gli  uomin 
ad  una  onde  ciò  fosse  ;  Corrado  per  filo  e  per  segno  dichiar 
la  faccenda. 

5.  (  Consigliatisi  essi  fra  loro,  a  Matteo  signore  di  Milan 
si  riferisce  tutto  questo  affare  ;  e  per  ordine  di  lui,  dietro  con 
sulta  deirinquisitore  deir  eretica  pravità ,  Andrea  Saramita  a 
suoi  famigli  viene  catturato  dagli  sgherri  del  podestà,  e  pos 
alla  tortura  manifestarono  che  erano  undici  anni  dacché  pec 
cavasi  siffattamente  da  loro  e  dalla  Guglielma.  Andrea  e  mei 
tissimi  altri  rei  e  promotori  del  predetto  misfatto  vennero  bri 
ciati  ed  insieme  l'ossa  della  Guglielma  come  eretica:  e  quel! 
che  venera  vasi  per  santa  venne  dappoi  maledetta  per  eretica 
e  le  donne  che  convenivano  al  consorzio  non  senza  punizion 
vennero  dai  mariti  loro  rimandate.  > 

6.  Fin  qui  il  nostro  Bossi  intorno  alla  Guglielma  e  seguac 
In  quali  cose  poi  egli  punto  per  punto  abbia  peccato  contr 
verità,  noi  lo  diremo  a  suo  tempo  e  luogo:  dopo  cioè  che  ni 
colla  dissertazione  nostra  avremo  abbracciato  la  verità  stess 
della  cosa.  Per  il  che  anche  lo  lettore  pazientemente  e  i 
buon  grado  sospenda  per  poco  il   suo  giudizio. 

HI. 

Dove  abbiasi  a  cavare  la  verità  del  soggetto 
della  nostra  dissertazione. 

ì.  Ciò  che  udirassi  per  avventura  con  meraviglia,  noi  ca 
veremo  la  verità  di  questa  cosa  per  lo  appunto  dagli  stessi  put 
blici  atti  0,  come  dicono  comunemente  i  notai ,  dai  process 
intorno  alla  Guglielma  e  seguaci ,  istrutti  ed  ultimati  debita 
mente  e  legittimamente  l'anno  1300  e  che,  scritti  in  pergamen 
già  temptf  fa  con  molta  diligenza,  con  moltissima  cura  ora  vet 
gono  guardati  nella  Biblioteca  Ambrosiana. 

2.  Essi  veggonsi  con  questo  titolo  in  fronte  :  •  Quadem 
delle  abbreviature  da  Beltramo  Selvaggio,  cittadino  milanese  i 


—  9  - 

Porta  Nuova,  notaio,  falle  alla  presenza  dei  frali  Guido  da  Co- 
chenato  e  Raincro  da  Pirovano  dell'ordine  de'predicatori,  inqui- 
sitori delferesia.  » 

3.  Ma  cominciano  inoltre  a  questo  modo  :  e  in  nome  del 
Signore.  Cosi  sia.  L'anno  della  natività  del  medesimo  1300,  in- 
dizione tredicesima.  Siccome  per  fama  e  por  grido  pubblico  a 
noi  frati  Guido  da  Cochenato  e  Rainero  da  Pirovano  dell'ordine 
dei  predicatori,  inquisitori  dell'eretica  pravità  in  Lombardia  e 
nella  marca  genovese,  deputati  per  autorità  della  sede  aposto- 
lica, è  pervenuto  che  talune  persone  si  uomini  si  donne,  le 
quali  furono  altre  volte  sospette  ed  infami  di  eresia  e  citate 
davanti  a  diversi  inquisitori,  avevano  abiurata  ogni  eresia  alla 
loro  presenza,  dopo  le  dette  abiure  per  lunga  pezza  ancora  li^n- 
nero  conventicole  e  adunanze  di  molte  persone  dell'uno  e  del- 
l'altro  sesso  ed  eziandio  predicazioni;  noi,  volendo  discendere 
e  vedere  se  alla  voce  che  ne  correva  rispondessero  i  fatti,  ab- 
biamo incominciato  Tinquisizione  contro  di  loro,  come  sotto.  » 

Cosi  quei  padri  sapientissimi  preludevano,  volendo  imitare 
quel  modo  d'inquisizione  che  Dio  mostrò  col  suo  esempio  nel 
libro  della  Genesi^  cap.  18,  e  cui  perciò  sommariamente  com- 
mendò Gregorio  I  papa,  grande  davvero,  nel  libro  XIX,  cap.  14 
dalla  sua  Esposizione  moraky  spiegando  quella  massima  saluta- 
rissima  di  Giobbe,  cap.  30:  •  Con  ogni  diligenza  investigava  la 
causa  di  cui  non  mi  conosceva.  > 

4.  Seguono  tosto  per  ordine  gli  esami  delle  persone  che 
per  questo  oggetto  vennero  citate  a  comparire,  e  prima  d'ogni 
altro  quello  di  Andrea  Saramita  del  fu  Gerardo,  della  città  di 
Milano,  fuori  del  borgo  di  Porta  Romana.  Il  primo  esame  di 
costui  conchiudesi  di  questo  tenore:  «  Fatto  in  Milano,  nella 
casa  dei  padri  predicatori,  nella  camera  ov'è  l'Ufflcio  delPInfiui- 
sizione  dell'eretica  pravità,  alla  presenza  del  soprascritto  frate 
Guido  inquisitore.  >  Intervennero  come  testimoni  chiamati  e 
pregati  i  padri  Pietro  de'Marcellini  ed  Ambrogio  Peroni  ed  An- 
selmo da  Castano,  tutti  deirordine  dei  predicatori,  il  giorno  di 
mercoledì  20  luglio  1300,  indizione  tredicesima.  Pubblicato  dal 
solaio  soprascritto.  E  quivi  di  continuo  alla  presenza  de'sopra- 
detli  testimoni,  frate  Guido  inquisitore,  come  sopra,  comandò 
al  sunominato  Andrea  Saramita,  sotto  giuramento  e  con  minaccia 
delle  pene  alle  quali  è  tenuto  per  obbligo  d'ufficio,  che  non 
debba  dire  né  rilevare  né  mettere  fuori  ad  alcuna  persona  al- 
cun che  di  quanto  egli  aveva  detto  preceden tornente  col  pre- 

Tamb.  Inquis.  Voi.  II.  "ì 


—  10  — 

fato  inquisitore;  e  che  rindomani,  immediatamente  dopo  la  messa, 
avesse  a  comparire  davanti  al  prenominato  inquisitore  presso  a 
Sant'Eustorgio.  Stante  die  in  quel^  convento  dell'ordine  de'pre- 
dicatori  a  quei  tempi  stava  eretto  il  tribunale  delia  santa  Inqui- 
sizione, che  di  là  poscia  venne  trasferito  all'altro  convento 
dell'ordine  medesimo,  detto  di  Santa  Maria  delie  Grazie,  sull'ori- 
gine del  quale  si  può  leggere  il  Santuario  milanese  di  Paolo  Mo- 
rigia,  in  quella  parte  che  tratta  delle  chiese  poste  nei  fini  di 
Porta  Vercellina. 

5.  Qaesti  processi  pertanto  istruiti  appositamente  all'og- 
getto che  venisse  schiettamente  e  appieno  in  chiaro  la  verità 
di  quella  cosa  che  la  fama  avea  divulgato  intorno  a  quelle  per- 
sone, voglio  dire  i  seguaci  della  Guglielma,  documehti  che  sono 
tanto  veritieri  ed  incorrotti  dalla  fede  si  divina  che  umana,  por- 
geranno la  materia  necessaria  a  questa  nostra  dissertazione,  ed 
opportuna  a  sbandeggiare  tutte  le  favole  ed  invenzioni;  i  me- 
desimi ne  sveleranno  (come  svelarono  6no  da  principio  agli 
stessi  inquisitori  dell'eretica  pravità  ed  ai  giudici)  le  cagioni  per 
le  quali  fu  allora  condannata  la  Guglielma  e  la  sua  setta,  e  le 
adunanze,  le  conventicole  e  le  predicazioni  dei  medesimi. 

6.  Era  poi  per  fermo  degna  e  giusta  cosa  che  quel  sacro- 
santo tribunale  della  sacra  fede  e  dottrina,  e  prontissimo  soste- 
gno delta  verità  ed  innocenza ,  per  mezzo  di  siffatti  suoi  pro- 
cessi una  volta  finalmente  liberasse  la  città  nostra  da  quelle 
accuse  e  contumelie  che  dicevamo,  e  che  intanto  per  cieco  ed 
improvvido  errore  immediatamente  pativa  da  parte  di  scrittori 
del  resto  benevoli. 

IV. 

Vengono  sommariamente  indicati  i  nefandi 
e  stoltissimi  dommi  di  questa  congrega  guglielminiana. 

1.  Questa  sètta  non  fu  (per  cosi  dire)  carnale,  ma  sibbene 
intellettuale,  nondimeno  delle  più  pazze  ;  che  cosi  la  dimostrano 
i  dommi  di  lei  predicati  principalmente  da  Andrea  Saramita  e 
Maifreda  Pirovana.  Questi  io  proporrò  sommariamente,  racco- 
gliendoli a  spizzico  dai  processi  predetti.  Come  poi  i  medesimi 
ci  vengano  attestati,  io  lo  dirò  nei  capitoli  che  seguiranno. 
Eccoli  : 

2.  Che  la  Guglielma  era  lo  Spirito  Santo  (la  terza  persona 


—  Il  — 

della  ss.  TriDità)  incarnato  nel  sesso  femminile»  nel  seno  di  Go- 
stanza moglie  del  re  di  Boemia  e  regina. 

3.  Che,  come  l'arcangelo  Gabriele  avea  una  volta  annun- 
ciato a  Maria  Vergine  l' incarnazione  del  Verbo  e  Gristo,  cosi 
anche  Tarcangelo  Raffaele  avea  annunziato  a  Gostanza,  moglie 
del  re  di  Boemia,  Fìncarnazione  dello  Spirito  Santo  e  di  Gu- 
glielma: che  questa  annunciazione  segui  in  giorno  di  Pente- 
coste e  per  modo  che  la  Guglielma  non  solo  fu  concepita  quel- 
Tistesso  giorno  nell'utero  della  regina  Gostanza,  ma  nacque  di 
là  ad  un  anno  compiuto. 

4.  Ghe  la  Guglielma  fu  vero  Dio  e  vero  uomo  nel  sesso 
femmineo,  come  fu  Gristo  vero  Dio  e  vero  uomo  nel  sesso 
maschile  ;  e  ch'essa  avea  a  salvare  i  giudei,  i  saraceni  ed  i  falsi 
cristiani,  come  per  mezzo  di  Gristo  e  del  sangue  di  lui  vengono 
salvati  i  veri  cristiani. 

5.  Ghe  la  Guglielma,  secondo  la  gloria  divina,  era  maggiore 
della  ss.  Vergine,  madre  di  Gristo,  maggiore  d'ogni  altro  santo; 
stantechè  era  dessa  lo  Spirito  Santo,  e  se  mori  secondo  la  na- 
tura umana,  non  già  mori  secondo  la  divina. 

6.  Ghe  la  Guglielma,  come  Gristo,  ebbe  nel  suo  corpo  le 
cinque  piaghe. 

7.  Che  siccome  Gristo  risorse  col  corpo,  a  vista  de' suoi 
discepoli  ascese  al  cielo,  e  nel  giorno  della  Pentecoste  mandò 
loro  visibile  in  lingue  di  fuoco  lo  Spirito  Santo,  cosi  anche  la 
Guglielma  avea  a  risorgere  e  ricomparire  con  corpo  umano  di 
femminil  sesso,  prima  della  generale  risurrezione,  quindi  ascen- 
dere al  cielo  sotto  gli  occhi  de'  suoi  discepoli,  amici  e  devoti  ; 
poi  doveva  essa  medesima  discendere  su  loro  in  forma  di 
lingua  di  fuoco:  e  questi  di  lei  devoti  aveano  perciò  ad  am- 
ministrare il  battesimo  a  tutti  ed  essere  come  gli  apostoli  di  lei. 

8.  Ghe  siccome  Gristo  nella  vita  mortale  ebbe  lasciato  a  suo 
vicario  il  beato  apostolo  Pietro  ed  affidatogli  la  propria  chiesa 
e  consegnate  le  chiavi  del  regno  de'  cieli,  cosi  anche  la  Gu- 
glielma, ossia  lo  Spirito  Santo,  avrebbe  lasciata  sua  vicaria  in 
terra  Maifreda,  dell'ordine  delle  monache  umiliate. 

9.  Ghe,  siccome  il  beato  apostolo  Pietro  celebrò  la  Messa 
e  predicò  in  Gerusalemme,  così  anche  Maifreda,  la  vicaria 
della  Guglielma,  avea  a  celebrare  la  Messa  al  sepolcro  dello 
Spirito  Santo,  cioè  della  stessa  Guglielma;  dappoi  celebrare  del 
pari  solennemente  la  Messa,  sedere  e  predicare  nel  maggior 
tempio  di  Milano,  che  anzi  avea  a  trovarsi  anche  a  Roma  e 


-14- 

libro  contro  Vigilanzio»  a  metà  del  libro  cosi  affermava:  e  Altre 
<  eresie  dicevano  lo  Spirito  Santo  esser  venuto  in  Montano,  e 
e  dicono  Cile  lo  stesso  Manictieo  è  lo  Spirito  Santo.  »  Ecco 
adunque,  quali  uomini  e  quanto  famosi  e  degni  avessero  pre- 
ceduta la  Guglielma,  e  specialmente  in  quel  domma  primario  e 
capitale,  perctiè  spacciavasi  essere  ella  lo  Spirito  Santo. 
Ora  mi  riporto  ai  precitati  processi. 

V. 

Quale  fosse  la  patria  e  l'origine  della  Guglielma  :  quale  il  co- 
lore  delle  vesti  da  lei  e  suoi  seguaci  usitale:  quale  il  nome 
suo  primo,  e  il  primo  suo  genere  di  vita:  quanto  fosse  pre- 
"  murosa  ed  efficace  nella  Cara  degli  infermi:  e  se  la  mede- 
sima affermasse  di  essere  lo  Spirito  Santo. 

1.  Dicevasi  esser  questa  Guglielma  venuta  di  Bpemia  con 
un  suo  figlio,  anzi  essere  figlia  d'un  re  de'Boemi  ed  avere  per 
fratello  un  re  di  quel  paese:  e  queste  cose  tutte,  se  non  in  que- 
sto capitolo,  consteranno  dipoi  in  altra  occasione  dai  sopraci- 
tati processi. 

2.  Anctie  il  primo  alunno  di  Guglielma  fu  qnelP  Andrea 
Saramita  di  cui  abbiamo  già  fatto  qualche  menzione.  Per  il  che 
ella  chiamavalo  eziandio  il  suo  primogenito.  Costui  pertanto 
fu  anche  il  primo  fra  i  testimoni  prodotti  da  quei  processi. 
Perocché  interrogato  per  qual  motivo  esso  Andrea  e  gli  altri 
che  appartenevano  alla  congregazione  ed  alla  conventicola  della 
Guglielma  vestissero  di  morello  ossia  di  colore  oscuro,  rispose  : 
Perchè  la  predetta  signora  Guglielma  portava  vesti  di  bruna 
moreta;  e  quindi,  per  conformarsi  al  vestito  di  lei,  tutti  simil- 
mente vestivano,  onde  apparire  tutti  della  medesima  congrega- 
zione e  devozione. 

3.  Cosi  il  medesimo  soggiunse  tantosto  :  essendoché  la  detta 
signora  Guglielma  parimente  appellavasi  Felicita  ed  era  creduta 
essere  lo  Spirito  Santo,  perciò  alcuni  della  nostra  congregazione 
che  avevano  figli  o  figlie  imponevano  loro  i  nomi  di  Feliciolo 
0  Feliciola  e  di  Paraclito- 

4.  Interrogato  poi  alla  vita  che  conduceva  in  quella  città 
la  Guglielma,  aveva  rispósto  di  questo  tenore  :  Essa  conduceva 
una  vita  del  tutto  comunale ,  si  nel  cibo  e  nelle  bevande ,  si 
nelle  vestì. 


—  15  — 

5.  Operosissima  poi  fu  la  Guglielma  nel  confortare  gli  af- 
flitti. Pertanto  Dionigi  Cotta  (  nel  suo  primo  esame  )  la  com- 
mendava col  seguente  elogio  :  Che  egli  non  fu  mai  sì  tristo 
0  desolato  che  andato  da  lei,  non  ne  ritornasse  lieto  e  rin- 
cuorato. 

6.  Né  mancano  di  quelli  che  attestarono  di  non  avere  giam- 
mai udito  dalia  bocca  di  Guglielma  altro  che  sane  dottrine. 
Segnatamente  Bonadeo  Carentano  rispose  :  Oh'  egli  la  conobbe 
e  vide  una  sola  volta  nella  sua  camera  nella  parrocchia  di  San 
Pietro  airOrto  in  Milano  (nei  fini  della  quale  parrocchia  abi- 
tava a  quel  tempo  anche  la  Guglielma)  un  anno  e  mezzo  prima 
che  questa  morisse.  La  qual  Guglielma  disse  allo  stesso  signor 
Bonadeo:  Guardatevi  dagli  spergiuri,  dalle  .frodi ,  dalle  usure 
e  simili  ;  né  altra  parola  ,  infuori  di  queste,  aveva  udite  dalla 
medesima. 

7.  Che  anzi  Giacoma  figlia  dello  stesso  Bonadeo  e  moglie 
di  Corrado  Coppa  rese  testimonianza  in  queste  precise  parole: 
Ch'  essa  aveva  conosciuto  la  Guglielma  essendo  essa  Giacoma 
testimone  di  anni  dodici  o  in  quel  dintorno  quando  la  detta 
Guglielma  trapassò  da  questa  vita.  E  la  detta  signora  Giacoma 
disse  di  avere  udito  dalla  Guglielma  parole  di  buono  ed  onesto 
ammaestramento  e  di  devozione,  né  d'aver  giammai  udito  dire 

I    dalla  stessa  Guglielma  ch'ella  fosse  lo  Spirito  Santo. 

,  8.  Ma  v'  ebbero  anche  altri  testimoni  che  più  chiaramente 

\  espressero  come  la  Guglielma  non  solo  non  arrogossi  giammai 
la  persona  dello  Spirito  Santo ,  ma  costantemente  protestò  in 
contrario.  Dionisio  Cotta  tra  le  altre  cose  dichiarava:  Che  la  Gu- 

>  glielma,  mentre  che  visse ,  disse  in  presenza  dello  stesso  ser 
Dionisio  ed  Andrea  Saramita  e  ad  un  tale  compagno  del  detto 
Andrea  :  Voi  siete  tanti  pazzi ,  che  dite  e  credete  di  me  quel 
che  non  lo  è.  Io  son  nata  da  un  uomo  e  da  una  donna.  Ed  io 
credo  eh'  ella  ciò  dicesse  per  quello  che  poscia  veriflcossi,  cioè 
perchè  taluni  dicevano  e  credevano  che  la  stessa  Guglielma 
fosse  lo  Spirito  Santo. 

9.  Più  evidentemente  ancora  ciò  non  consta  dalla  testimo- 
nianza di  Allegranza,  moglie  di  Giovanni  Perusio,  che  sta  con- 
cepita in  queste  parole:  Parimenti  disse  (l'Allegranza)  che  la 
detta  Carabella  sapeva  bene  ed  aveva  udito  da  loro  che  i  pre- 
detti Andrea  e  suor  Maifreda  da  Pirovano  dicevano  e  crede- 
vano che  la  nominata  Guglielma  forse  lo  Spirito  Santo  e  vero 
Dio.  Interrogata  da  quanto  tempo  avesse  ella  per  la  prima  volta 


-  16  — 

udito  che  la  Guglielma  era  lo  Spirito  Santo  e  vero  Dio,  ri- 
spose e  disse  :  Possono  essere  24  anni  all'  incirca  da  che  essa 
per  la  prima  volta  aveva  udito  ciò  dal  predetto  Andrea  Sara- 
ramito.  E  allora  essa  testimone  andonne  alla  detta  Guglielma, 
che  allora  viveva ,  e  le  riferi  come  il  predetto  Andrea  avevale 
dello  essere  lei  lo  Spirito  Santo.  E  la  slessa  Guglielma  ri- 
spose alla  testimone  ch'ella  recavasi  ciò  ad  oltraggio.  Essendo 
che  essa  non  era  altro  che  una  femmina  da  poco  ed  un  vii 
verme. 

10.  Marchisio  Secco  poi  che  allora  abitava  nel  monastero 
di  Chiaravalle,  agli  interrogatorii  fattigli  (anno  1302,  12  feb- 
braio) rispose  cosi:  «  Che  la  slessa  Guglielma  era  donna  di 
buona  condizione,  e  dicevasi  fosse  sorella  del  re  di  Boemia; 
che  dalla  stessa  Guglielma  non  udì  giammai  ch'ella  fosse  lo 
Spìrito  Santo,  l'aveva  bensì  udito  da  Andrea  Saramita  ;  ch'essa 
mentre  che  visse  in  Milano  abitò  in  Borgogna  (a  quella  chiesa 
parocchiale  dura  tuttora  il  titolo  di  santo  Stefano  in  Borgogna) 
ed  alla  Pusterla  Nuova,  sita  tra  la  porta  Nuova  e  la  Orientale, 
ed  a  San  Pietro  all'Orto,  ove  mori:  che  quella  casa  non  era 
propria  della  stessa  Guglielma,  sibbene  del  monastero  di  Chia- 
ravalle, che  l'avea  comparata  da  quei  de  Miracapitibus,  ai  quali 

'  era  appartenuta;  che  esso  illuminò  il  sepolcro  della  detta  Gu- 
glielma col  lume  delle  lampade,  ma  non  più  da  sei  anni  in  qua, 
e  ciò  faceva  perchè  molte  persone  dicevano  che  la  Guglielma 
avevale  liberate  dalle  loro  infermità.  —  Parimenti  disse  che  — 
una  volta,  vivente  la  stessa  Guglielma,  Andrea  Saramita  diceva 
che  essa  era  lo  Spirito  Santo  ;  e  lo  stesso  Marchisio  testimone 
diceva  che  no.  —  Pertanto  fecero  scommessa  ed  andarono  dalla 
stessa  Guglielma,  acciò  dicesse  ella  quel  che  era  di  ciò.  E  Gu- 
glielma, molto  sdegnata  in  vista,  rispose  loro  sé  essere  di  carne 
e  d'ossa,  inoltre  aver  condotto  un  figlio  nella  città  di  Milano 
né  essere  quel  ch'essi  credevano;  che  se  non  avessero  fatto 
penitenza  di  quelle  parole  che  avean  dette  sul  conto  suo,  sareb- 
bero andati  all'inferno.  » 

11.  Con  finzione  nondimeno,  a  mio  avviso,  e  fraudolente- 
mente  la  Guglielma  pariava  di  questo  tenore  quando  avvenivasi 
in  orecchi  alieni  dall'udire  una  si  detestabile  eresia,  quali  in 
fatto  si  professarono  essere  i  cinque  ultimi  testimoni.  All'  in- 
contro quel  sceltissimo  e  docilissimo  discepolo  ed  interprete  di 
cotanta  divinità,  Andrea  Saramita,  attestò  infine  de'fini  l'op- 
posto di  quanto  quei  cinque  testimoniarono.  Cinque  volte  appare 


-17  — 

egli  da  quei  processi  essere  stato  esamiDato,  e  si  rìcoDosce  in 
molle  cose  aver  egli  tergiversato  e  detto  menzogna,  e  nomina- 
tamente in  ciò  di  che  ora  trattiamo.  Nel  quinto  esame  per- 
tanto, interrogato  ond'  avesse  ricevuto  gli  errori  che  già  avea 
confessato,  rispose  con  queste  precise  parole  :  •  Che  i  suoi  pre- 
detti errori  avevano  avuto  fonàamento  ed  origine  dalla  signora 
Guglielma,  sepolta  presso  il  monastero  di  Gbìaravalle,  della 
diocesi  di  Milano.  La  qual  Guglielma  diceva  allo  stesso  Andrea 
esser  essa  discesa  dal  cielo  con  chiarore  e  splendpre  grandis- 
simo. »  E  questo  Guglielma  diceva  allo  stesso  Andrea  ch'essa 
era  lo  Spirito  Santo;  che  dovea  risorgere  innanzi  alla  generale 
risurrezione,  ascendere  in  cielo  visibilmente  e  mandare  lo  Spi- 
rito Santo  a'suoi  devoti,  discepoli  ed  amici;  ch'essa  Guglielma 
doveva  redimere  i  Giudei  ed  i  Saraceni  e  salvarli.  Ed  altri 
errori  similmente  disse  lo  stesso  Andrea  aver  ricevuti  dalla 
detta  Guglielma;  pure  di  suo  capo  ed  invenzione  molti  altri  egli 
vi  aggiunse  e  trovò  corredandoli  di  molte  circostanze  ad  ornarli 
e  a  farli  più  credibili.  Parimenti  disse  il  predetto  Andrea  cre- 
der esso  che  la  suor  Maifreda  da  Pirovano  avea  similmente 
udito  dalla  predetta  Guglielma  i  succitati  errori,  che  cioè  la 
Guglielma  era  lo  Spirilo  Santo.  E  di  questo  e  degli  altri  errori 
sopradetti  tien  per  fermo  che  la  suor  Maifreda  fu  istrutta  dalla 
stessa  Guglielma;  poiché  lo  udi  più  volte  da  Maifreda  medesima, 
cioè  che  la  stessa  Guglielma  avea  detto  a  suor  Maifreda  se  essere 
lo  Spirito  Santo.  Ed  altri  errori  similmente  udì  la  della  suor 
Maifreda  dalla  predetta  Guglielma,  come  la  stessa  suor  Maifreda 
diceva  al  nominato  Andrea.  —  Fin  qui  lo  stesso  Andrea  in- 
tomo al  predetto  magistero  della  Guglielma  tanto  verso  di  sé 
(pianto  verso  Maifreda;  e  queste  cose  egli  attestava  il  22  d' a- 
gosto. 

12.  Ciò  slesso  consta  abbastanza  anche  da  quello  che  testi- 
moni auricolari  affermarono,  Sibìlia,  già  moglie  di  Beltramo 
Malcolzato,  e  Francesco  di  Garbagnate,  quella  il  3,  questi  il  9 
settembre.  Stante  che  Sibilla  asserì  con  giuramento  :  che  il  nomi- 
nato Andrea  Saramita  le  disse,  in  presenza  di  molte  altre  per- 
-sone,  ch'esso  (Andrea)  era  andato  alla  casa  della  Guglielma, 
sepolta  presso  il  monastero  di  Chiaravalle,  ed  aveva  trovata  la 
Guglielma  in  camera  che  stava  pregando:  che  dopo  la  preghiera 
ella  erasi  levata  e  detto  al  nominato  Andrea  ch'essa  era  lo 
Spirito  Santo  in  forma  visibile  di  donna,  aggiungendo  che  qua- 
lora essa  fosse  venuta  in  forma  di  uomo  (cioè  maschio),  essa 

Tahb.  Jnquii.  Tok  IL  3 


—  i8  — 

sarebbe  morta,  come  lo  fa  Cristo,  e  tutto  il  mondo  sarebbe 
perito.  Parimenti  disse  la  signora  Sibilla  che  il  prenominato 
Andrea  Saramita  le  disse  che  allora  apparve  ivi  una  certa  seg- 
giola, cui  la  Guglielma  trasmutò  in  bue;  e  la  stessa  Guglielma 
disse  al  medesimo  Andrea:  Vedi  quel  bue?  prendilo,  se  puoi. 
E  tosto  il  bue  disparve.     « 

13.  Ecco  poi  quanto  affermò  quel  Francesco  Garbagnate  : 
disse  <  che  ricordavasi  d'aver  udito  da  suor  Maifreda  da  Pirovano 
e  da  Andrea  Saramita  che  la  Guglielma,  stata  sepolta  presso  il 
monastero  di  Ghiaravalle,  mentre  che  vivea,  avea  detto  a  suor 
Maifreda  e  ad  Andrea  che  dair  anno  1262  in  qua  non  erasi 
sacrificato  e  consacrato  il  corpo  di  Cristo  soltanto ,  ma  con 
esso  anche  il  corpo  dello  Spirito  Santo,  che  era  la  stessa  Gu- 
glielma. Onde  la  stessa  Guglielma  diceva  che  non  curavasi  di 
vedere  il  corpo  di  Cristo,  né  il  sacrificio  eucaristico,  perchè  essa 
vedrebbe  vi  sé  stessa.  Perchè  poi  la  Guglielma  asserisce  ciò 
essere  avvenuto  da  quell'anno  in  ()oi,  e  non  prima ,  io  non  lo 
potei  punto  pescare  da  alcun  luogo:  perlochè  lo  abbandono  alle 
sue  stesse  tenebre.  » 

14.  Maifreda  poi  esplicitamente  essa  pure  attestava  avere 
la  Guglielma  affermato  d'essere  lo  Spirito  Santo,  ma  questa 
di  lei  testimonianza  produrremo  poi  a  tempo  e  a  luogo  più 
opportuno. 

VI. 

Da  chi  sia  stata  inventata  la  favola  della  aìribasciata  dell'ar- 
cangelo Raffaele  alla  ìnadre  della  Guglielma,  intomo  atta 
incarnazione  della  medesima,  ossia  dello  Spirito  Santo. 

1.  Ciò  che  Andrea  Saramita  aveva  confessato  nel  numero  12 
del  precedente  capitolo,  d'aver  cioè  ad  ornamento  ed  a  mag- 
giore credibilità  aggiunto  di  sue  molte  circostanze  agli  errori 
attinti  dalla  Guglielma,  io  penso  non  doversi  ascrivere  al  solo 
Andrea,  ma  eziandio  a  suor  Maifreda:  e  di  questo  genere  penso 
essere  la  favola  da  loro  spacciata  intomo  alta  missione  dell'ar- 
cangelo Raffaele  alla  regina  Costanza. 

2.  Nel  terzo  esame  veniva  Andrea  richiesto  di  dove  avesse 
ricevuto  le  cose  che  dianzi  aveva  confessato  a  viva  voce  ed 
aveya  inoltre  consegnato  alla  scrittura  ;  che  cioè  <  l'arcangelo 
Raffgiele  aveva  annunciato  alia  regina  Gostanza,  madre  alla  detta 


—  i9  — 

santa  Guglielma»  rincarnazioDe  della  stessa  Guglielma  in  quel 
modo  cbe  Farcangelo  Gabriele  aveva  annunciato  alla  beata  Maria 
rincarnazioDe  di  Cristo;  e  che  nel  tal  giorno  sarebbe  conce- 
puta  e  rimasta  tanto  tempo  nel  corpo  della  detta  sua  madre  e 
sarebbe  nata  in  tale  giorno.  A  tutte  queste  domande  rispon- 
dendo, egli  disse  :  <  Che  egli  aveva  udito  dalla  Guglielma  che 
essa  era  nata  il  di  della  Pentecoste.  E  il  detto  Andrea  par- 
lando talvolta  con  suor  Maifreda  intorno  alla  Guglielma  dissero 
fra  loro  che  credevano  e  pareva  loro  cbe  la  cosa  doveva  essére 
così  per  l'appunto,  che  siccome  l'arcangelo  Gabriele  annunciò 
alia  Beata  Maria  Tincarnazione  di  Cristo ,  cosi  pareva  ad  essi 
che  Tarcangelo  Raffaele  avesse  annunciato  alla  signora  Costanza 
regina  di  Boemia  Tincarnazione  della  Guglielma.  >  Sifatta  per 
verità  era  la  temerità  e  l'arroganza  di  quelFAndrea,  e  di  Mai- 
freda,  nel  fabbricare  nuovi  articoli  a  quella  fede  ch'essi  profes- 
savano e  volevano  spacciare  ai  credenzoni  da  non  potersi  con 
adeguate  parole  significare* 

VII. 

Avvertimenti  di  Guglielma  a' suoi  seguaci  prima  della  morte;  e 
se  ella  s'avesse  nel  corpo  le  cinque  piaghe. 

^.  Prima  di  trattare  della  morte  della  Guglielma  è  bene 
che  rammentansi  alcune  cose  da  lei  pronunciate  innanzi  al  suo 
trapasso.  Quel  Danisio  Cotta  di  cui  abbiam  fatto  poco  sopra 
menzione,  interrogato  perchè  fosse  convenuto  a  un  certo  ban- 
chetto 0  pranzo  insieme  coi  seguaci  della  Guglielma,  coi  quali 
non  legavate  alcun  vincolo  di  parentela,  d'affinità  o  di  vicinato, 
rispose  :  <  Perchè  la  predetta  defunta  Guglielma  pochi  giorni 
prima  che  passasse  di  questa  vita  aveva  detto  a  maestro  Gia- 
como da  Perno  e  ad  altre  persone  presenti ,  che  erano  degli 
amici  e  devoti  della  detta  defunta  Guglielma,  che  eglino  doves- 
sero amarsi  teneramente  ed  onorare  a  vicenda  ;  siccome  il  detto 
maestro  Giacomo  disse  a  ser  Danisio.  E  lo  stesso  ser  Danisio 
era  uno  dei  familiari  domestici  e  devoti  della  Guglielma  mentre 
ch'essa  era  in  vita.  > 

2.  Andrea  Saramita  poi  nel  terzo  suo  esame  interrogato  se 
si  raoimentasse  le  parole  dette  dalla  Guglielma  intorno  all'ora 
della  sua  morte,  rispose  :  e  Che  egli  aveva  udito  dalla  stessa  Gu- 
gUelma  o  dalle  signore  eh'  erano  ivi ,  cioè  dalle  signore  Alle- 


—  iO  — 

granza  de'Perusi,  Carabella  de'Toscani,  Booaccossa  da  Muresco, 
0  da  alcuna  d'essa,  e  da  molte  altre,  che  la  stessa  signora  Gu- 
glielma aveva  detto  alla  loro  presenza  :  Voi  credevate  vedere  ciò 
che  non  vedrete  a  cagione  della  vostra  incredulità.  E  questo 
diceva  significando  le  cinque  piaghe  ch'ella  dovette  aver  avuto 
nel  suo  corpo  come  le  ebbe  Cristo  nel  suo.  >  E  ciò  crede  lo  stesso 
Andrea  ;  perchè  era  voce  e  credenza  generale,  fra  i  devoti  e  le 
devote  della  Guglielma,  ch'ella  avesse  le  dette  piaghe  nel  suo 
corpo:  piaghe  che  i  suoi  devoti  e  devote  aspettavano  di  vedere 
e  non  videro.  —  Meraviglioso  modo  in  vero  di  coprire  la  fal- 
sità, imputare  air  incredulità  degli  astanti  la  cagione  del  non 
vedere  nel  corpo  della  Guglielma  le  piaghe  ch'essa  né  aveva , 
né  giammai  aveva  avuto. 

3.  E  di  qui  puossi  eziandio  giudicare  quanta  fede  si  meri- 
tassero dappoi  le  parole  di  Andrea  e  di  Aidelina ,  che  furono 
pronunziate  nel  suo  esame  da  Gerardo  da  Novazano,  frate  del 
terzo  ordine  degli  umiliati  ed  ammogliato ,  come  erano  allora 
costoro,  abitando  ciascuno  nella  sua  propria  casa.  —  Parimenti 
disse  (cosi  leggesi  nel  processo,  addi  18  agosto)  il  nominato 
frate  Gerardo  che  aveva  udito  dallo  stesso  Andrea  che  la  detta 
santa  Guglielma  aveva  avuto  nel  suo  corpo  cinque  piaghe 
simili  alle  piaghe  di  Gesù  Cristo.  E  ciò  stesso  aveva  udito  da 
'una  certa  donna  che  chiamavasi  Aidelina,  moglie  di  uno  Ste- 
fano da  Cremella,  la  quale  asseriva  di  avere  veduto  quelle  pia- 
ghe della  delta  Guglielma  e  di  averle  anche  deterse. 

Vili. 

La  Guglielma  muore  in  Milano:  e  dopo  due  mesi  circa  viene 
con  pompa  solenne  portata  a  seppellire  al  monastero  di 
ChiaravallCy  com'essa  avea  ordinato. 

ì.  Nella  parochia  di  San  Pietro  all'Orto,  ascritta  alla  Porta 
Orientale  ed  oggi  notissima,  la  Guglielma  abitava  da  ultimo 
una  casa  di  proprietà  del  monastero  di  Chiara  valle  fuori  di 
Porta  Romana,  e  quivi  mori  nel  mese  di  agosto,  il  giorno  di 
San  Bartolomeo. 

2.  Aveva  legato  essa  al  suddetto  monastero  tutti  i  suoi 
beni,  ed  ordinato  di  essere  colà  seppellita.  Nondimeno  per  due 
mesi  essa  giacque  sepolta  in  una  cassa  dì  legno  nel  cimitero 
parochiaie  di  San  Pietro,  sia  che  i  seguaci  di  lei  meditassero 


—  21  — 

di  trasferirla  in  Boemia ,  sia  che  in  quel  frattempo  le  appre- 
stassero solenni  pompe  fanerarie,  o  sia  più  probabilmente  che 
aspettassero  il  tempo  di  poterla  con  maggior  sicurezza  traspor- 
tare a  Chiaravalle. 

3.  Bellacara  moglie  di  Bonadeo  Carentano,  interrogata  se 
per  avventura  avesse  udito  ch'erano  state  fatte  alcune  vesti 
per  la  Guglielma  testé  defunta ,  e  che  ella  doveva  risorgere  a 
vita  prima  deiruniversale  risurrezione,  rispose  <  aver  essa  udito 
t^nsì  che  quelle  vesti  erano  state  fatte ,  ma  non  già  che  la 
stessa  santa  Guglielma  avesse  a  risorgere,  e  cbe  la  stessa  aveva 
ad  essere  trasportata  in  Boemia.  > 

4.  Quanto  a  Sibilla,  vedova  del  fu  Beltramo  Malcolzato,  cosi 
teggesi  nell'esame  da  lei  sostenuto:  t  Parimenti  la  stessa  si- 
gnora Sibilia  disse  avere  in  casa  sua  una  cassa  nella  quale  fu 
primamente  sepolta  la  Guglielma;  la  qual  cassa  Andrea  Sara- 
mita  aveva  fatto  portare  neirabitazione  della  stessa  signora 
Sibilia.  E  disse  che  i  suoi  vicini  di  San  Pietro  all'Orto  chiede- 
vano questa  cassa  (tant'era  l'opinione  ch'essi  aveano  della  san- 
tità della  Guglielma)  e  i  frati  Giacomo  da  Mozate  e  Zambello 
Porcello  da  Chiaravalle,  dissero  alla  stessa  signora  Sibilia  che 
€ssa  non  aveva  a  dare  la  predetta  cassa  ai  nominati  vicini,  né 
a  chichefosse,  stante  che  la  Guglielma  aveva  eletto  la  sepoltura 
presso  il  monastero  di  Chiaravalle,  e  il  monastero  quindi  aveva 
ad  avere  la  stessa  cassa  e  tutti  i  beni  di  lei.  > 

5.  D'un  tenore  conforme  a  queste  asserzioni  parlava  anche 
Bianca  da  Cerliano:  «  La  cassa  nella  quale  fu  primamente 
sepolta  la  santa  Guglielma  fu  portata  dalla  chiesa  di  San  Pietro 
all'Orto  alla  casa  della  signora  Sibilia  e  di  Franceschino  Malcol- 
zato, e  ve  la  fece  portare  Andrea  Saramìta ,  e  questo  fu  da 
due  anni  in  qua.  E  i  frati  di  Chiaravalle  vennero  alla  casa  della 
sopranominata  signora  Sibilia  e  le  dissero  che  la  prefata  cassa 
aveva  a  rimanere  presso  di  lei.  • 

6.  Ma  non  devesi  neppure  tacere  quanto  lo  stesso  Andrea 
nel  suo  terzo  esame  rispose  alla  domanda  fattagli  se  egli  tro- 
vavasi  presente  nel  giorno  e  nell'ora  del  trapasso  della  Gu- 
glielma. Imperocché  rispose  t  ch'egli  era  per  l'appunto  presente 
e  crede  che  fessevi  presente  e  il  maestro  Giacomo  da  Perno  e 
il  signor  Danisio  Cotta;  il  qual  signor  Danisio  si  recò  col  detto 
Andrea  presso  il  marchese  di  Monferrato,  o  piuttosto  presso  Ame- 
dato  notalo  del  predetto  marchese,  onde  ottenerne  protezione 
all'oggetto  di  potere  con  tutta  sicurtà  portare  la  stessa  Guglielma 


-  M  — 

al  monastero  di  Chiara  valle,  stan  teche  in  allora  erayi  guerra  tra 
i  Milanesi  ed  i  Lodigiani.  »  Dalle  quali  parole  più  espressamente 
che  da  tutti  gli  altri  indizi  a  me  fin  qui  noti  e  da  questi  stessi 
processi  vien  dichiarato  in  qual  anno  precisamente  la  Guglielma 
sia  passata  di  questa  vita.  Perocché  quella  guerra  tra  i  Mila- 
nesi alleati  con  Guglielmo  marchese  di  Monferrato,  ed  i  Lodi- 
giani (a  prò'  de'  Visconti  i  primi,  i  secondi  combattenti  a  prò* 
de'Torriani)  cadde  nell'anno  1281,  e  cessò  sul  cominciare  del 
susseguente,  come  osservò  con  accuratezza  tra  gli  altri  Tristano 
Calco  nel  lib.  XVII  della  Storia  patria.  Intorno  alla  qual  guerra 
e  pace  si  ponno  leggere  inoltre  Donato  Bossi,  e  Bernardino  Co- 
rio  nelle  loro  cronache ,  e  del  pari  Carlo  Sigonio,  Del  regno 
(T Italia,  al  lib.  XX;  inoltre  Gulvane  Fiamma  nella  Cronaca  mag- 
giore al  cap.  396  e  397,  e  nel  Manipolo  dei  Fiori  al  cap.  320 
e  321  e  parimenti  Fautore  della  cronaca  intitolata  II  fiore  de' 
fiori  al  foglio  184. 

7.  Quanto  poi  alla  pompa  funebre  colla  quale  il  cadavere 
della  Guglielma  fu*  trasferito  a  Chiaravalle,  e  che  può  credersi 
essere  stata  affatto  singolare  e  memorabile,  questo  solo  io  trovo 
essere  stato  espressamente  deposto  dai  testimoni!:  «  Parimenti 
disse  la  signora  Sibilla  ch'essa  ha  in  casa  sua  una  tenda  di 
zendado  vermiglio  in  un  sacchetto,  la  quale  fu  posta  sopra  la  cassa 
e  sul  feretro  della  detta  santa  Guglielma  quando  fu  portata  a 
Chiaravalle.  > 

IX. 

La  Guglielma  viene  con  grandi  onori  tumulata  appartatamente 
nel  cimitero  di  Chiaravalle.  Ne  molto  dopo  estrattone  U 
corpo ,  viene  lavato  con  acqua  e  vino  commisti  :  e  questi 
conservavansi  per  la  loro  virtù  meravigliosa  nel  guarire  gli 
infermi,  come  spacciavano  i  di  lei  seguaci. 

1.  L'antico  cimitero  del  convento  di  Chiaravalle  è  cinto  di  ud 
muro  parimenti  vecchio,  e  molte  cappelletto  vi  sono  internatOt 
nelle  quali  anche  a  di  nostri  veggonsi  amplissime  urne  di  viva 
sasso,  ripostigli  di  illustri  cadaveri.  Fra  queste  cappelletto,  una 
viene  anche  oggidì  additata  come  quella  in  cui  la  salma  della 
Guglielma  affermasi  per  costante  tradizione  essere  stata  deposta. 
Anzi  dicono  essere  il  ritratto  della  Guglielma  una  certa  imagine 
di  donna  ch'ivi  anch'oggi  vedesi  dipinta  sul  muro  ai  di  sopra  del 


—  ts  — 

ogo  of'era  il  sutobgo.  Qaeih  pixtan  poi  appire  ^  Mttcì^clie 
n  senza  ragione  paò  giodicarà  TÌckìissima  al  tempo  in  cui  la 
iglieima  H  fa  sepolta.  £  poi  disposta  come  segue:  quinci  h 
argine  Maria  seduta  ^  tiene  sulle  ginocchia  il  suo  bambino 
!sa;  quindi  quella  donna,  in  cui  tediamo  raffigurata  la  Gu- 
ieloia,  genuflessa  e  supplichevole  viene  presentata  alla  stessa 
argine  ed  a  Cristo  dal  santo  abate  Bernardo,  fondatore  del 
onastero,  che  stawi  da  un  lato  e  adempie  le  parti  di  inter- 
ssore.  Essa  (la  Guglielma)  indossa  vesti  di  colore  cinerlccio 
naie  alziamo  descrìtto  più  sopra  e  che  volgarmente  appel* 
si  color  temè  oscuro)  ed  ha  faccia  rubiconda  si ,  ma  grave 
matura  e  che  ludica  Tetà  d'anni  cinquanta  circa.  Dietro  a  lei 
ene  un'altra  donna  del  pari  genuflessa,  ma  religiosamente 
data  e  coperta  dal  candido  abito  delle  monache  umiliate,  e 
lesto  io  credo  essere  suor  Maifreda  de'  Pirovani.  Da  ultimo  se- 
lono  molti  allrì  ed  uomini  e  donne  ginocchioni  e  tutti  vestiti 
irìmenti  di  abiti  di  color  tanè,  i  quali  è  probabile  sieno  i  sc- 
iaci della  medesima  Guglielma.  Anche  dopo  che  fu  disseppol- 
to  e  bruciato  il  cadavere  della  Guglielma  si  lasciò  che  quella 
Uura  vi  rimanesse  tuttavia  intera  e  superstite  a  quest'oggetto, 
ì'ella  attestasse  alla  posterità  non  avere  punto  quei  monaci 
-eduto  che  la  Guglielma  fosse  lo  Spirito  Santo  incarnato  nel 
isso  femminile.  Imperocché,  ammesso  ciò,  ella  fuor  d'ogni  dub- 
io  sarebbe  stata  uguale  a  Cristo  e  superiore  alla  Vergine  ma- 
re di  lui;  e  per  ciò  non  avrebbe  avuto  bisogno  di  venire  pre- 
miata e  raccomandata  loro  dal  santo  abate  Bernardo  In  qua- 
tà  di  patrono  e  tutelare.  Per  il  che  noi  pure  crediamo  che  la 
loglielma  fu  quivi  con  onore  e  con  riverenza  tumulata;  tanta 
1  quel  tempo  era  Topinione  della  di  lei  santità. 

2.  Vediamo  ora  che  facesse  posteriormente  Andrea  Saramita, 
oichè  il  testimone  prete  Blirano  di  Garbagnate,  cappellano  della 
Uesa  di  San  Fermo,  cosi  tra  l'altre  cose  nel  suo  secondo  esame 
MI  giuramento  aflèrmò:  e  Quando  la  signora  Guglielma  fu  por- 
ita  a  Chiaravalle,  di  là  un  mese  o  circa ,  in  presenza  e  colla 
loperazione  di  lui  stesso  prete  Mirano,  Andrea  Saramita  fece 
irre  e  trasse  la  detta  Guglielma  dal  sarcofago  in  una  cassa  e 
I  fece  portare  nella  diiesa  dei  frati  di  Chiaravalle  »  ed  ivi  in 
reKDza  di  molti  frati,  chierici  e  conversi ,  la  fece  lavare  con 
equa  mista  a  fino.  E  il  detto  Andrea  raccolse  poscia  la  stessa 
mtara,  cficendo  che  d*essa  farebbesi  il  crisma  a  eresimare 
devoli  e  le  devote  della  Guglielma.  E  quest'acqua  fece  por« 


-24  - 

tare  a  MìIbdo  presso  le  sorelle  di  casa  Biassonno,  ove  abitava 
suor^Maifreda  de'Pirovani.  E  il  detto  prete  Mirano  vide  più 
volte  la  sopradetta  suora  Maifreda  o  bagnare  con  guest'  acqua 
degli  infermi  o  somministrarne  loro  onde  se  ne  bagnassero.  E 
disse  il  prefato  prete  Mirano  che  quell'acqua  fu  posta  nell'al- 
tare delle  sunominate  sorelle  di  Biassonno.  Parimenti  disse 
prete  Mirano  che,  lavato  il  corpo  della  Guglielma  come  sopra, 
il  detto  Andrea  fo  vesti  con  una  camicia  lavorata  di  seta  e  con 
uno  scapolare  di  lana  bianca,  datogli  da  don  Graziadeo  da  Opra- 
no, monaco  di  Chiaravalle;  e  che  lo  stesso  Andrea  comperò 
poscia  uno  scapolare  nuovo  al  detto  don  Graziadeo,  in  luogo 
di  quello.» 

X. 

[  settari  della  Guglielma,  nella  speranza  ch'ella  abbia 
a  risorgere,  le  preparano  vesti  preziose. 

1.  Appettavano  essi  che  la  Guglielma  risorgesse  dai  morti 
per  salTre  quindi  al  cielo.  Pertanto  quella  provvida  gente  pre- 
parò vesti  preziose,  quasi  che  un  corpo  già  dotato  divinamente 
dell'eterna  felicità  avesse  bisogno  di  nostrali  vestimenta,  e  quasi 
volessero  in  ciò  apparire  più  savi  di  quello  fossero  stati  i  se- 
guaci di  Cristo  Signore,  i  quali,  pare,  non  avevano  punto  pen- 
sato ad  apprestargli  le  vesti  delle  quali  risorgendo  egli  si  co- 
prisse ed  usasse  dappoi. 

2.  Testimoni  di  ciò  produciamo  gli  stessi  settatori  della  Gu- 
glielma e  quelli  che  n'erano  più  al  fatto  che  non  fosse  la  Bel- 
lacara  citata  più  sopra. 

3.  Sarà  primo  quel  prete  Mirano  poc'anzi  nominato,  nel  cui 
primo  esame  si  leggono  le  seguenti  cose:  e  Parimenti  il  nominato 
testimone  disse,  che  quando  la  Guglielma  fu  moria,  il  detto 
Andrea  fece  fare  un  manto  di  porpora  con  una  fibbia  d'argen- 
to del  valore  di  30  lire  di  terzuoli  o  all'incirca,  la  quale  fibbia 
fu  lavoro  del  fabbro  Aimerricò  da  Varese,  ed  un  vestito  di 
porpora  e  due  calzari  dorati.  E  il  prenominato  Andrea  diceva 
che  preparava  le  predette  cose  per  la  stessa  santa  Guglielma , 
poiché  aveva  essa  a  risorgere.  E  il  detto  testimone  vide  le  an- 
zidette cose  coi  suoi  propri  occhi ,  dodici  anni  or  sono  ed 
anche  più. 

4.  A  Mirano  succeda  Gerardo  da  Novazano,  frate  del  terzo 


—  15  — 

ordine  degli  umiliati.  Poiché  questi  parimenti  nel  suo  primo 

esame  tra  le  altre  cose  deponeva  e  che  aveva  più  volte  udito  da 

Aodrea  Saramita  che  la  stessa  santa  Guglielma  aveva  a  rìsor* 

gere  e  che  ^ii  ed  altri  moltissimi  aspellavano  quella  risurre- 

ùone.  E  in  questa  credenza  sono  molte  persone,  come  disse  lo 

stesso  Andrea.  E  ciò  aveva  udito  dallo  stesso  Andrea  or  fanno 

quindici  anni  o  alPincìrca,  nel  tempo  cioè  in  cui  passò  di  vita 

b  Guglielma.  Parimenti  il  nominato  frate  Gerardo  disse  che  An- 

drea  ed  altre  persone  divote  della  santa  Guglielma  fecero  fare 

in  quel  tempo  alcune  vesti  dorate  e  calzari  dorati  ed  una  cassa 

e  molti  altri  ornamenti  per  la  stessa   santa  Guglielma,  della 

quale,  come  si  disse,  aspettavano  la  risu^rezione.  E  le  anzidetto 

vesti  e  i  calzari  e  la  cassa  furono  veduti  da  frale  Gerardo  nella 

casa  del  detto  Andrea,  quindici  anni  sono  o  alfincirca.  »  E  da 

quel  tempo  in  qua  udì  più  volte  dire  che  aspettavano  la  risur- 

I  rezione  di  lei,  non  già  allora  soltanto. 

XI. 

I  Taltm  seguaci  della  Guglielma  favoleggiano  ch'essa  risorgesse 
poco  dopo  la  sua  morie  e  si  mostrasse  a  molte  persone. 
Di  fatto,  dopo  molti  anni  aspettasi  ancora  ch'ella  risorga. 

i.  Ne  rimane  óra  a  cercare  in  qual  tempo  avea  la  Gugliel- 
iDa  a  risorgere,  secondo  che  i  seguaci  di  lei  credevano.  DI 
certo  la  stessa  cosa  venne  domandata  in  un  secondo  esame  a  frate 
Gerardo,  che  abbiamo  poc'anzi  prodotto  a  testimone.  Esso  poi 
rispose  di  questo  tenore:  Dovea  risorgere  all'istante.  Ondo  aveva 
già  detto  fin  dal  primo  suo  esame  che  essi  aspellavano  la  ri- 
sorrezione  della  Guglielma  subito  dopo  la  morte,  e  che  lo  stesso 
Andrea  Saramita  diceva  ch'aveva  fatto  fare  le  anzidette  vesti 
per  vestire  la  Guglielma  quando  risorgesse.  Quanto  alla  cassa 
ch'aveva  detto  aver  veduto  nell'abitazione  di  Andrea  con  altre 
eose,  rammentandosene  meglio,  disse  di  averla  veduta  in  casa 
di  Pietro,  frate  del  terzo  ordine  degli  umiliati"  che  abitava  sopra 
il  muro  del  fossato,  il  quale  avea  l'incarico  di  guarnirla.  Colla 
quale  aggiunta  il  predetto  frate  Gerardo  corresse  il  suo  prece- 
dente errore  di  memoria. 

2.  Avevano  dunque  detto  sulle  prime  che  la  Guglielma 
poco  dopo  il  suo  trapasso  tornerebbe  a  rivivere.  Per  il  che  po« 
scia  diedero  ad  intendere  eh'  ella  fosse  veramente  risorta.  Ciò 

Tamb.  Ifi^is.  Voi.  IL  4 


—  26  — 

si  raccoglie  dal  terzo  esame  di  Andrea  Sara  mi  ta,  in  queste  parole: 
Parimenti  il  nominato  Andrea  disse  che  <  prima  della  sna  con- 
fessione fatta  davanti  ai  frati  Guido  da  Gochenato  e  Rainero  da 
Pirovanb,  inquisitori,  e  scritta  di  suo  pugno»  aveva  creduto  che 
la  predetta  santa  Guglielma  era  risorta  col  suo  corpo.  »  Interro- 
gato il  detto  Andrea  dove  dunque  ora  sta  e  stette  la  Guglielma 
col  suo  corpo  dopo  la  risurrezione  prima  di  ascendere  al  cielo, 
rispose  che  <  la  Guglielma  dopo  la  sua  risurrezione  stette  col  suo 
corpo  dovunque  volle»  sia  nel  sepolcro,  sia  in  qualunque  altro 
luogo  ove  più  le  piacque,  come  Cristo  stette  col  suo  corpo  ovun- 
que volle,  e  quelli  che  con  Cristo  risorsero  avanti  Tascensione 
di  Cristo., E  come  Cristo  era  apparso  interpolatamente  ora  a 
Maria  Maddalena,  ora  a'suoi  discepoli  od  a  Pietro,  cosi  dicevast 
dai  devoti  della  Guglielma  ch'essa  era  apparsa  di  quando  in 
quando  ai  suoi  devoti.  »  Interrogato  il  detto  Andrea  a  quali  fra  ì 
devoti  fosse  apparsa  la  Guglielma,  rispose  »  ch'egli  aveva  udito 
dalla  signora  Ricadona  sua  madre  (la  quale  secondo  ch'egli  aft- 
testò  nel  suo  terzo  esame ,  era  già  morta  fino  dall'  anno  del 
Signore  88  (i)  per  lo  meno  (sic)  )  che  la  stessa  Guglielma  era 
comparsa  col  suo  corpo  alla  predetta  signora  Ricadona  nella 
chiesa  del  monastero  di  San  Simpliciano  in  Milano.  <  Interrogato 
ds(  quanto  tempo  aveva  ciò  udito  dalla  predetta  signora  Ricadona 
sua  madre,  <  rispose  ch'egli  avealo  udito  dalla  signora  sua  madre 
quasi  subito  dopo  la  morte  della  Guglielma,  prima  che  la  stessa 
signora  Ricadona  facesse  l'abiura  dell'eresia  alla  presenza  di  frate 
Maifredo  di  Dovara,  inquisitore.  »  Parimenti  disse  Andrea  di  avere 
udito  da  suor  Maifreda,  che  la  Guglielma  erale  comparsa  col  silo 
corpo.  Fin  qui  Andrea. 

3.  Veramente  il  maestro  Giacomo  da  Ferno  interrogato  già 
prima  sul  conto  di  suor  Maifreda,  se  cioè  egli  avesse  mai  udito 
dalla  predetta  suor  Maifreda,  ch'essa  parlasse  colla  santa  Gu- 
glielma e  stesse  in  contemplazioni  colla  medesima,  e  l'abbia  più 
volte  veduta  in  forme  di  colomba,  aveva  risposto  <'  ch'egli  non 
avea  giammai  udito  ciò  dalla  detta  suor  Maifreda,  ma  sibbene 
da  altri,  ma  non  ricordavasi  da  chi.  t 

4.  Di  certo  poi  la  stessa  Maifreda,  interrogata  nel  suo  quarto 
esame,  se  avesse  ella  composte  le  litanie  ed  i  ritmi  sullo  Spi- 
rito Santo,  cioè  sulla  santa  Guglielma,  rispose  che  si,  e  che  era 
stato  suo  intendimento  indirizzare  il  discorso  alla  stessa  santa 


(I)  Devesi  certamente  intendere  Tanno  1288.  —  Nota  degli  editori. 


—  27  — 

Goglielma;  e  soggiunse  la  predella  suorMaifreda  t  che  la  stessa 
santa  Guglielma,  dopo  la  morte,  era  comparsa  a  lei  come  le 
sembrava,  e  disse  che  la  santa  Guglielma  le  aveva  ingiunto  di 
fare  quel  che  fece.  » 

5.  Così  molli  altri  testimoni  esaminati  in  questi  processi, 
laminosamente  confermarono  che  la  stessa  Maifreda  intorno  al- 
Tanno  93  di  quel  secolo,  in  casa  di  maestro  Giacomo  da  Perno, 
dopo  il  pranzo  al  quale  erano  convenuti  molli  fra  i  [seguaci 
delia  Guglielma,  spacciò  una  recente  apparizione  della  Gu- 
glielma. 

6.  Né  la  sola  Maifreda,  ma  anche  Andrea  Saramita,  si  at- 
tribuiva queste  apparizioni  della  Guglielma,  e  le  spacciava  altrui. 
Quindi  il  frate  Mirano,  tra  Taltre  cose,  attestava  che  i  suno- 
minatì  Andrea  e  suor  Maifreda  dicono  ch'essi  videro  coi  propri 
loro  occhi  la  predetta  santa  Guglielma  e  che  la  jstessa  benedi- 
ceva a  loro  la  mensa,  e  che  parlava  ad  essi,  come  lo  slesso  te- 
stimone udi  dai  prenominati  Andrea  e  suor  Maifreda.  E  con  ciò 
raffermavano  i  loro  discepoli  nella  divozione  alla  slessa  santa 
Guglielma. 

7.  Queste  cose  ed  altrettali,  se  ve  n'ha,  spacciavansi  a  prova 
di  ciò  che  era  stato  primamente  asserito;  che  cioè  la  Guglielma 
poco  dopo  la  sua  morte  non  solo  avea  a  risorgere,  ma  ch'era 
difatto  risorta,  e  resasi  visibile  ai  suoi  discepoli,  sebbene  la  so- 
teone  di  lei  ascensione  al  cielo  s'andasse  ancora  dopo  tant'anni 
differendo. 

8.  Ciò  nullameno  Andrea  non  s'acquetò  a  quell'asserzione, 
come  che  sapesse  benissimo  ch'era  inventata  di  pianta,  né  de- 
gna di  alcuna  credenza. 

Per  il  che  pensò  doversi  levare  a  nuova  speranza  i  suoi 
segnaci,  che  cioè  la  Guglielma  pur  finalmente  risorgerebbe  nella 
Pentecoste  dell'anno  1300.  Stante  che  in  quesl'  anno,  addì  13 
d'agosto^  interrogato  dagli  inquisitori  Ottavino  da  Garbagnate, 
se  i  predetti  Andrea  e  suor  Maifreda  ed  altri  avessero  signifi- 
cato il  tempo  in  cui  la  Guglielma  aveva  a  risorgere ,  rispose 
che  il  sunominato  Andrea  diceva  dover,  essa  risorgere  nella 
Pentecoste  ultimamente  passata,  ma  che  la  suor  Maifreda  non 
indicava  il  tempo:  solo  diceva  che  la  Guglielma  aveva  a  risor- 
gere. 

9.  Quindi  risulta,  almeno  per  confessione  della  stessa  Mai- 
freda, che  a  quel  tempo  la  Guglielma  non  era  per  anco  risorta; 
il  che  constò  eziandio  dalla  confessione  della   signora  Fiore  > 


—  28  — 

figlia  dei  fu  Pietro  Cossa  da  Gantù,  espressa  nella  seguenti  pa- 
role: e  Disse  che  sono  ora  tre  anni  e  più  (erasi  ai  9  d'agosto) 
dacché  essa  aveva  udito  da  suor  Maifreda  da  Pirovano,  che  la 
Guglielma  sepolta  ora  presso  il  monastero  di  Chìaravalle  era  lo 
Spirito  Santo,  e  che  la  stessa  Guglielma  doveva  risorgere  prima 
della  universale  risurrezione,  ed  ascendere  visibilmente  al  cielo.  » 

10.  Del  resto  a  quella  stessa  speranza  spacciata  dappoi  da 
Andrea  ha  riferimento  ciò  che  nel  secondo  esame  di  Danisio 
Cotta  del  25  settembre  leggesi  in  queste  parole:  «  Parimente  disse 
lo  stesso  ser  Danisio,  che  aveva  udito  da  maestro  Giacomo  da 
Perno  molt'anni  addietro,  e  più  volte,  che  tantosto  v'avrebbe 
un'apparizione  ed  una  grande  solennità.  Interrogato  lo  stesso 
ser  Danisio  qual  cosa  credesse  volersi  con  ciò  significare  dal 
detto  maestro  Giacomo,  rispose  dicendo  credere  che  colui  inten- 
deva parlare  della  Guglielma  ch'aveva  a  risorgere  innanzi  del- 
l'universale risurrezione.  » 

41.  Per  tal  modo,  ad  una  menzogna  così  insigne,  dovevasi 
togliere  ogni  credito,  anche  per  la  stessa  incoerenza  degli  spac- 
ciatori della  medesima. 

XII. 

Due  fra  i  settari  della  Guglielma  vanno  in  Boemia  dal  re,  della 
cui  famiglia  credevano  ch'ella  si  fosse,  e  non  senza  verità 
come  appare. 

ì.  Poiché  colle  maggiori  onorificenze  fu  celebrato  il  fune- 
rale della  Guglielma  a  Chìaravalle,  e  ne  fu  lavato  il  corpo,  e 
preparate  magnifiche  vestimenta  nell'aspettazione  del  risorgi- 
mento di  lei,  vuoisi  che  Andrea  Saramita  si  recasse  in  Boemia. 
Imperocché  nel  primo  esame  di  lui,  addì  20  di  luglio,  trovasi 
quanto  segue:  «  Interrogato  se  avesse  conosciuto  in  vita  h\  Gu- 
glielma sepolta  presso  il  monastero  di  Chìaravalle,  rispose  che 
sì.  Interrogato  se  sapesse  d'ond'era  quella  Guglielma  rispose 
che  sì,  vale  a  dire  che  fu  figlia  del  defunto  re  di  Boemia  come 
dicevasi.  Interrogato  se  avesse  fatto  ricerche  intorno  alla  verità 
di  ciò,  rispose  che  si,  vale  a  dire  ch'esso  era  andato  sino  al  re 
di  Boemia,  e  vi  aveva  trovato  che  il  re  era  morto,  e  che  la 
cosa  era  come  dicevasi.  Interrogato  per  qual  cagione  fosse 
andato  a  fare  siffatte  indagini,  rispose  ch'era  andato  per  an- 
nunziare al  re  la  morte  della  Guglielma;  inoltre,  onde  olle- 


—  »  — 

nere  alcan  che  dal  re  a  compenso  delle  spese  ch'esso  Andrea 
aveva  fatte  ad  onore  delia  detta  Guglielma.  Interrogato  il  detto 
Andrea  se  fessesi  recato  dal  re  dnde  promuovere  collo  stesso 
la  canonizzazione  della  Guglielma  per  opera  della  Chiesa»  rispose 
che  no  per  allora;  ma  altro  volle  disse  che  si»  ma  di  non  avere 
fatto  molte  pratiche.  » 

2.  Né  Andrea  vi  andò  solo,  ma  accompagnalo  dal  frale 
Mirano.  Per  il  che  il  primo  esame  di  lui  comincia  a  questo 
modo:  <  11  frate  Mirano,  cappellano  della  chiesa  di  San  Fermo 
in  Milano,  Porta  Ticinese,  contrada  dei  Pusterla,  stato  per  lungo 
tempo  dei  devoti  della  signora  Guglielma,  sepolta  presso  il  mona- 
stero di  Ghiaravalle,  e  che  dopo  la  morte  della  stessa  Guglielma 
recossi  con  Andrea  Saramita  in  Boemia  da  quel  ro,  e  che  fu 
segretario  speciale  di  suor  Maìfreda  da  Pirovano  e  del  detto 
Andrea  Saramita,  citato,  ecc.,  comparve,  ecc.  » 

3.  Che  se  la  Gugliema  era  davvero  figlia  del  re  di  Boemia, 
come  Andrea  diceva  di  avero  avverato,  e  se  del  pari  era  già 
morto  quel  re,  cui  Andrea  sperava  trovare  tuttavia  vivente,  ne 
consegne  che  quel  re  fosse  Ottocaro,  il  quale  dopo  un  regno 
di  oltre  26  anni  (come  espressamente  raccogliesi  dalla  Cosmo- 
grafia di  Giovanni  Nauciero,  voi.  II,  generazione  43)  nel  1278 
fa  morto  combattendo  contro  Rodolfo  re  dei  Romani,  al  quale 
poscia  saccedette  il  figlio  Venceslao  ancor  settenne,  divenuto 
poi  celeberrimo  per  fama  di  santità,  e  morto  nel  trentesimoterzo 
anno  d'età.  Or  bene,  in  nessun  luogo  leggesi  che  queirottocaro 
abbia  avuto  una  moglie  di  nome  Gostanza,  ma  primieramente 
una  Margherita,  e  questa  vecchia  e  senza  prole;  dappoi  una 
Cunegonda,  come  consta  e  per  Enea  Silvio  neWIstoria  di  Boemia, 
al  cap.  27,  e  per  Giovanni  Dubravlo,  lib.  XVII  ùeìi'htoria  di 
Boemia.  Adunque  il  padre  della  Gugliema  fu  quelfOttocaro. 

4.  Per  verità  Premislao  padre  al  predetto  Ottocaro  (il  quale 
fu  anch'esso  del  pari  appellato  anche  Otogaro  o  Ottocaro)  fatto 
re  di  Boemia  Tanno  H99  da  Filippo  principe  di  Svevia,  impe- 
ratore eletto,  dopo  avere  ripudiata  la  sua  prima  moglie,  sorella 
che  fu  di  Teodorico  marchese  di  Misnia,  indi  a  poco  sposossi  a 
Costanza,  figlia  di  Bela  re  di  Ungheria,  eroina  lodatissima,  colia 
quale  viveva  ancora  l'anno  1230  e  da  cui  generò  Venceslao  ed 
il  predetto  Ottocaro.  —  E  ciò  sulla  testimonianza  del  mede- 
simo Dubravio,  lib.  XV  ed  in  principio  del  XVI.  t  Princislao 
da  Filippo  imperatore  dei  Romani,  fratello  di  Federico  II,  cui 
la  Chiesa  non  riconobbe,  in  terzo  luogo  venne  coronato  in  re 


—  so- 
di Boemia.  »  —  II  capo  27  poi  incomincia  in  lai  modo:  «  Prin- 
cislao  ebbe  due  figli,  Venceslao  ed  Oltocaro.  A  Venceslao  toccò 
il  regno  di  Boemia,  ad  Ottocaro  il  marchesato  di  Moravia.  Ven- 
ceslao poi  fa  monocolo  e,  morendo  senza  figli,  lasciò  il  regno 
-ad  Oltocaro,  che  con  altro  nome  si  disse  anche  Princìslao,  quinto 
fra  i  re  di  Boemia,  »  —  E  di  nuovo  in  principio  del  cap.  28  : 
<  Venceslao  figlio  di  Ottocaro  d'anni  sette  da  Ottone  marchese 
di  Brandeburgò  fu  portato  via  in  Franconia,  ed  il  regno  venne 
da  lai  governato  con  titolo  di  tutore;  il  fanciullo  poscia  ritor- 
nato rimase  solto  T autorità  della  madre  ».  —  Chi  sa  dunque 
che  i  veri  genitori  della  Guglielma  fossero  questi  Princislao  e 
Gostanza  ?  Chi  sa  parimenti  che  quell'Andrea  Saramita  cercasse 
di  Ottocaro  loro  figlio,  non  come  di  padre,  ma  come  di  fra- 
tello alla  Guglielma  ?  Chi  sa  che,  deluso  nella  sua  speranza, 
non  sia  perciò  ritornato  perchè  allora  Venceslao  nipote  della 
Guglielma  dimorava  in  Franconia,  mentre  intanto  quel  tutore 
governava  il  regno  né  alcun  pensiero  si  prese  di  ricompensarla 
degli  onori  fatti  alla  Guglielma  ? 

4.  Veramente  il  medesimo  Dubravio  verso  la  fine  del  lib.  V 
nomina  tre  figlie  nate  da  Princislao  e  Costanza:  Tuna  delle  quali 
maritossi  ad  Udalrico  di  Carinzia,  Taltra  ad  Enrico  principe  di 
Wratislavia  ;  la  terza  poi,  Agnese  ,  consacrò  a  Dio  la  sua  ver- 
ginità in  perpetuo  ed  abitò  in  Praga  nel  sodalizio  delle  vergini 
istituito  da  santa  Clara.  Adunque  la  Guglieloia  era  forse  Tuna 
di  quelle  due  sorelle- innominate,  che  o  abbandonando  il  marito, 
0  rimastane  vedova,  venne  a  Milano,  alla  insaputa  de'suoi,  con 
quel  figlio  che  condusse  seco. 

5.  È  pertanto  opinione  cUe  la  Guglielma  fu  senza  dubbio 
boema  d'origine,  sebbene  non  si  osi  affermare  nulla  quanto  alla 
regale  discendenza  della  medesima.  Imperocché,  sebbene  non 
sembri  credibile  che  tanto  la  Guglielma  quanto  Andrea,  in  tutto 
il  resto  ereticalmente  mentitori,  abbiano  voluto  mentire  anche 
in  ciò  che  tanto  facilmente  poteva  verificarsi,  che  cioè  quella 
si  spacciasse  figlia  del  re  di  Boemia,  questi  attestasse  di  aver 
trovato  che  era  veramente  cosi:  nondimeno  e  questa  ed  altre 
cose  che  ne  dipendono  di  leggieri  lasciasi  che  altri  e  princi- 
palmente i  Boemi  le  ricerchino. 


—  51  - 

Xlll. 

J  seguaci  della  Guglielma  allesiiscofio  preziosi  e  splendidi  arredi 
onde  fosse  cdehrata  una  messa  sul  sepolcro  di  lei^  prima- 
mente da  uno  dediscepoli^  poscia  dalla  stessa  di  lei  vica- 
ria  suor  Maifreda. 

1.  Qaanlanqae  Andrea  non  avesse  riportato  alcun  com- 
penso delle  spese  fatte  in  onore  della  Guglielma,  egli  non  ristette 
dalFaccnmnlare  su  di  lei  altre  onoranze,  tanto  erasi  infervorato 
nel  cqUo  di  lei.  Pensò  quindi  di  convertirne  il  sepolcro  in  altare, 
snl  qnale  si  celebrasse  una  messa  solenne  primieramente  da 
Franceschino  Malcolzato,  poscia  da  suor  Maifreda  vicaria  della 
Guglielma  ed  insieme  dello  Spirito  Santo.  Per  il  che  si  diede 
con  grande  spesa  ad  apprestare  quanto  faceva  mestieri  cosi  per 
r  altare  come  pei  sacrificatori  e  loro  inservienti. 

2.  Quindi  suor  Giacoma  de'Bassani,  figlia  del  fu  Prando  da 
Nova,  monaca  delF  ordine  degli  umiliali,  interrogata  chi  avesse 
fatto  0  procurati  i  paramenti  per  l'altare  della  santa  Guglielma, 
rispose:  <  Fu  Andrea  Saramita,  e  d'altri  non  so,  stantechè  egli 
(Andrea)  queste  cose  pretendeva  da' suoi  compagni.  » 

3.  Per  il  che  quando  Pietra  da  Alzate  e  Catella  de'  Giosi! 
furono  interrogate  se  avessero  dato  alcun  che  per  i  paramenti 
fatti  in  onore  della  santa  Guglielma  risposero:  e  Ch'essa  si- 
gnora Pietra  aveva.dato  42  saldale  di  perla  (soldata  ò  vocabolo 
lombardo  usitato  anche  oggi  da  molti  contadini  nostrali,  e  si- 
gnifica una  dozzina  o  serqua)  e  molte  altre  cose  in  diversi 
tempi  che  ammontano  ad  un  grande  valore;  e  la  sunominata 
signora  Catella  avea  dato  un'  oncia  di  perle  e  mt)lti  altri  og- 
getti. E  più  avrebbe  dato  se  più  avesse  potuto,  per  la  grande 
divozione  sua  alla  santa  Guglielma.  »  Parimenti  dissero  che 
io  tutte  le  loro  necessità  ricorrevano  alla  stessa  santa  Guglielma 
e  ch'essa  in  molte  aveale  esaudite  ;  e  che  perciò  credevano 
tanto  più  e  le  avevano  maggior  devozione.  Onde  quelle  donne, 
falsamente  persuase  della  santità  della  Guglielma,  siffattamente 
traviavano. 

4.  Vediamo  ora  ciò  che  asserì  Franceschino  Malcolzato 
intorno  alla  messa  ed  ai  paramenti  in  discorso.  Nell'anno  i300, 
a  di  9  agosto,  questo  Franceschino  era  in  età  d'anni  15  circa, 


—  32  - 

e  soUanlo  nelP  anno  precedente  o  poco  prima  era  slato  per 
opera  di  Andrea  e  di  Maifreda  primamente  imbevato  degli  errori 
di  questa  setta.  Fra  i  quali  era  anche  questo, .  che  cioè  la 
Guglielma,  la  quale  dicesi  essere  boema,  doveva  risorgere  prima 
della  risurrezione  universale.  Intorno  poi  alla  messa  ed  a  quei 
paramenti  cosi  egli  depose:  <  Parimenti  disse  che  il  prenomi- 
nato Andrea  andava  signiflcando  a  lui  (Franceschino)  dover 
esso  (Franceschino)  cantare  pel  primo  la  messa  sul  sepolcro 
della  Guglielma  ossia  dello  Spirito  Santo,  e  che  poscia  la  detta 
suora  Maifreda  V  avrebbe  cantata  ivi  solennemente;  ed  ivi  in 
seguito  predicava  con  solennità  nella  chiesa  di  Santa  Maria 
Maggiore  in  Milano.  Parimenti  disse  Io  stesso  Franceschino  che 
certi  paramenti  erano  stati  fatti  per  Taltare  e  pei  ministri  d'esso. 
I  quali  paramenti  furono  fatti  fare  dal  detto  Andrea,  e  lo  stesso 
Franceschino  aveali  veduti,  ed  erano  un  calice,  un  turibolo, 
un  frontale  e  tre  cappe  ossiano  tre  piviali  di  seta.  I  quali  para- 
menti e  vasi  furono  fatti  specialmente  per  cantare  la  messa 
predetta ,  e  li  doveva  usare  la  suora  Maifreda  e  Franceschino 
per  la  messa  predetta.  E  sono  parimenti  del  valore  di  ben  200 
lire  imperiali,  come  udi  lo  stesso  Franceschino,  e  lo  crede  »  E 
poco  dopo  rispose  eziandio  <  che  può  essere  un  anno  e  più 
da  che  fu  per  la  prima  volta  dai  predetti  Andrea  e  Maifreda 
iniziato  a  questi  errori;  e  che  poscia  andò  più  volte  a  Chiara- 
valle  collo  stesso  Andrea  e  senza  di  lui  al  sepolcro  della  Gu- 
glielma, ossia  dello  Spirito  Santo,  e  che  vi  fece  orazioni  e  prese 
perdonanze.  E  parimenti  che  dopo  avere  ricevuto  la  predetta 
istruzione  mandava  quasi  ogni  giorno  de'  comestibili  a  suor 
Maifreda,  perchè  ciò  aveva  ordinato  col  suo  testamento  il  padre 
d'esso  Franceschino  ;  ed  egli  per  devozione  alla  detta  dottrina 
mandava  a  lei  più  volentieri  ed  in  maggiore  copia.  > 

5.  Intorno  a  detta  messa  ed  ai  paramenti,  interrogata  la 
signora  Fiore  figlia  del  fu  Pietro  Cessa  da  Cantù  rispose  <  che 
suor  Maifreda  le  diceva  che  Franceschino  Malcolzato  figlio  del 
fu  Beltramo  doveva  cantare  la  prima  messa  sul  sepolcro  dello 
Spirito  Santo ,  ossia  della  stessa  Guglielma ,  e  che  la  stessa 
suòra  Maifreda  aveva  a  cantare  la  seconda.  Parimenti  disse  che 
furono  fatti  dei  paramenti  per  la  detta  messa  cui  dovevano 
cantare  i  detti  Franceschino  e  Maifreda.  E  la  stessa  signora  Fiore 
aveva  veduto  di  siffatti  paramenti  un  camice,  una  dalmatica 
ed  una  stola.  » 

6.  Inoltre  anche  Stefano  da  Cremella  disse  t  eh'  egli  avea 


—  35  — 

fatto  poscia,  io  onore  e  riverenza  della  detta  Guglielma,  quattro 
dalmatiche  seoza  maniche,  e  che  aveva  ricevuto  in  casa  sua 
certe  assi,  delle  quali  avevansi  a  fare  delle  predelle  a  gradini 
per  ascendere  all'altare  della  Guglielma  e  potervi  celebrare  la 
messa  quando  la  detta  Guglielma  fosse  stata  canonizzata,  come 
diceva  il  detto  Andrea  allo  slesso  Stefano  testimone.  » 

7.  Del  resto  anche  dal  secondo  esame  di  Paria  de'Pontarìi, 
seguito  il  2  di  settembre,  abbiamo  queste  cose.  Interrogata  se 
ella  sa  che  furono  fatte  alcune  vesti  ad  uso  delle  signore 
devote  della  Guglielma,  sepolta  presso  il  monastero  di  Chiara- 
valle,  rispose  t  che  sì,  e  che  ebbe  in  casa  sua  sette  tonache  di 
morello  senza  gheroni,  le  quali  vesti  dovevano  essere  indossate 
dalle  dette  suore  nella  festa  della  signora  Guglielma  ;  dì  queste 
avevano  esse  il  giorno  precedente  mandate  sei  alla  signora 
Sibilla  de'Malcolzati,  e  Taitra  aveva  ritenuta  presso  di  sé.  > 

8.  Da  ultimo  ne  giovi  udire  anche  le  seguenti  cose  dalla 
bocca  di  Francesco  da  Garbagnate,  anche  per  conoscere  il  vile 
prezzo  delle  cose  a  quei  tempi.  Perocché  coiui  rispondeva  a 
questo  modo:  <  Avere  egli  comperato  un  drappo  bellissimo  per 
cinque  lire  e  10  soldi  di  grossi,  ed  una  tovaglia  dorala  per 
calice  al  prezzo  dì  9  soldi  di  grossi.  Del  pari  disse  d'  avere 
comperata  una  tovaglia  d'  otto  braccia  o  circa  di  seta  bianca, 
lavorata  in  oro  con  seta  rossa  in  ambedue  i  capi  al  prezzo  dì 
lire  Ire  e  soldi  cinque  dì  grossi.  Parimenti  disse  d'avere  com- 
prato un  drappo  d' oltremare  vergato  in  seta  ecT  oro  al  prezzo 
di  25  0  27  soldi  di  grossi.  Le  quali  cose  tutte  aveva  egli  com- 
prato per  il  culto  e  per  la  venerazione  della  predetta  Guglielma, 
ossia  dello  Spirito  Santo.  » 

9.  Ma  tutti  questi  preparativi  conosceremo  ancora  più  di- 
stintamente nel  capo  seguente. 

XIV. 

Suor  Maifreda,  per  far  prova  del  come  sapesse  pubblicamente 
celebrare  la  messa ,  la  celebra  in  casa  di  un  privato. 

i.  Fatti  i  preparativi  suddetti  per  la  messa  a  celebrarsi  in 
onore  della  Guglielma»  parmì  di  vedere  quella  vanitosissima  vi- 
caria dello  Spìrito  Santo,  suor  Maìfreda,  balzare  di  pazza  gìoja, 
e  smaniosa  di  mostrare  il  più  presto  come  ella  sapesse  pubbli- 
camente pontificare.  Pertanto  essa  celebrò  privatamente  la  messa 

Taiib.  Inquis.  Voi.  II.  ^  5 


—  14  — 

nella  casa  di  un  tale  suo  amico,  in  presenza  dei  molti  appar- 
tenenti alla  sna  setta  ;  ed  i  soliti  processi  eseguiti  nello  stesso 
anno  1300  ce  lo  dimostrano  con  due  testimonianze. 

2.  Perocché  sotto  il  giorno  3  di  settembre  essi  hanno  quanto 
segue  :  <  La  signora  Sibilla  vedova  del  fu  Beltramo  Malcolzato, 
della  città  di  Milano  di  Porta  Nuova,  spontaneamente  venne  da- 
vanti a  frate  Gaido  da  Cochenato,  dell'ordine  dei  predicatori,  in- 
quisitore come  sopra.  La  qual  signora  con  suo  giuramento  disse, 
che  dalla  festa  di  Pasqua  p.  p.  a  questa  parte  suor  Maifreda 
da  Pirovano  si  parava  a  modo  di  un  sacerdote,  e  che  suor  Eme- 
sina,  Andrea  Saramita  e  Franceschino  Malcolzato  avevano  le 
dalmatiche;  ed  Albertino  da  Nevate  e  Felicino  Caventano  ed 
Ottorino  da  Garbagnate  avevano  delle  cotte  bianche  ed  appara- 
vano un  desco  a  modo  d' altare  ed  avevano  un  calice  ed  altri 
arredi  necessarii  per  dire  la  messa  ;  e  la  nominata  suor  Mai- 
freda disse  la  messa ,  ed  ebbe  V  ostia  e  la  elevò ,  e  fece  ogni 
cosa  quanto  alla  messa  come  fanno  i  sacerdoti,  e  il  detto  An  - 
drea  lesse  Tevangelo,  ed  Albertino  predetto  Tepìstola.  Ed  erano 
presenti  In  signora  Dionese  da  Nevate  e  Simonino  Collioni.  » 
In  cotal  modo  attestava  quella  Sibilla  intorno  al  presente  sub- 
bietto. 

3.  Quale  poi  fosse  la  deposizione  dell'  altro  testimone  in- 
torno a  ciò,  lo  indicano  gli  stessi  processi  con  queste  parole  che 
seguono  poco  dopo  :  «  La  signora  Dionese,  vedova  del  fu  Giaco- 
mo da  Nevate  della  città  di  Milano,  di  Porta  Nuova,  tornò  alla 
presenza  del  soprascritto  frate  Guido  inquisitore  come  sopra  e 
con  suo  giuramento  attestò  che  dalla  Pasqua  p.p.  in  qua  tro- 
vossi  in  luogo  ove  suor  Maifreda  da  Pirovano  si  parò  o  modo 
di  sacerdote  e  fece  parare  un  desco  a  modo  d'altare,  ed  ebbe 
il  calice,  l'ostia,  l'acqua  ed  il  vino,  e  li  pose  nel  calice  e  disse 
la  messa  ed  infine  diede  la  benedizione ,  ed  Andrea  Saramita 
lesse  l'evangelo  vestito  di  dalmatica.  Parimenti  disse  la  signora 
Dionese  eh'  eranvi  presenti  la  signora  Margherita  da  Nevate  e 
Sibilla  dei  Malcolzati  e  Bianca  ancella  della  predetta  signora 
Sibilla ,  e  tre  umiliate  che  coabitavano  colla  detta  suor  Mai- 
freda, ed  Albertino  da  Nevate  e  Franceschino  Malcolzato  e  Si- 
monino Collioni  ed  Ottorino  da  Garbagnate  e  Felicino  Caven- 
tano. »  Tali  cose  leggonsi  ivi ,  e  bastano  al  presente  nostro 
proposito. 


XV. 

I  seguaci  della  Guglielma  celebrano  annualmente  tre  feste  in 
onore  cPessa  ai  monastero  di  Chiaravalle  e  vi  pranzano 
tutti  insieme;  uno  di  quei  monaci  poi  la  commenda  con 
panegirico  quale  una  santa  ed  ammirabile  per  prodigiose 
guarigioni. 

1.  Intanto  i  seguaci  della  Guglielma  celebravano  ogni  anno 
in  onore  di  lei  tre  feste  al  monastero  di  Chiaravalle;  e  ciò  di 
qaando  in  quando  porgeva  occasione  a  discorsi,  panegirici  ed 
a  lauti  banchetti.  Quali  fosserb  queste  feste  e  come  venissero 
celebrate  lo  dichiarano  colle  proprie  loro  parole  gli  stessi  testi- 
monii,  dai  quali  furono  queste  cose  affermate  e  spiegate  quando 
ne  vennero  interrogati. 

2.  Bellacara  dunque  rispose  che  fanno  due  feste  all'anno. 
Fona  il  giorno  di  s.  Bartolomeo,  l'altra  verso  il  di  d'Ognissanti 
(0  sullo  scorcio  di  ottobre),  e  non  altre.  Ma  su  questo  punto 
ella  pigliava  errore,  come  pure  lo  pigliarono  dappoi  e  quella 
Sibilla  ricordata  nel  precedente  capo  e  Felicia  moglie  del  fu 
Francino  da  Casate.  Perocché  quella  disse  parimenti  che  due 
feste  air  anno  si  celebrano  in  onore  della  Guglielma,  V  una  il 
di  di  s.  Bartolomeo  e  V  altra  nel  mese  di  ottobre ,  quando  la 
detta  Guglielma  fu  portata  ossia  traslocata  dal  cimitero  della 
chiesa  dì  S.  Pietro  all'Orto  al  monastero  di  Chiaravalle.  Felicia 
p(H  disse  che  due  feste  facevansi  all'anno ,  una  nel  giorno  di 
s.  Bartolomeo,  nel  quale  ella  mori,  e  l'altra  nel  mese  di  ottobre,. 
nel  quale  fu  essa  trasportata  dalla  città  di  Milano  al  monastero 
di  Chiaravalle. 

3*  Con  più  verità  e  più  distesamente  parlò  quel  frate  Ge- 
rardo da  Novazano  sopra  nominato;  perocché  alle  interrogazioni 
rispose:  «Che  Andrea  ed  i  complici  di  lui,  ossiano i devoti  e  le 
divote  della  santa  Guglielma,  fanno  tre  feste  solenni  all'anno  in 
onore  della  detta  santa  ;  cioè  una  nel  giorno  di  s.  Bartolomeo, 
Del  quale  ella  trapassò  di  vita,  un'altra  nel  mese  di  ottobre,  nel 
quale  venne  il  corpo  di  lei  trasportato  a  Chiaravalle,  la  terza  a 
Pentecoste;  perché  lo  stesso  Andrea  disse  che  la  Guglielma  è  lo 
Spirito  Santo  e  che  lo  Spirito  Santo  risusciterà  in  essa.  »  Dopo 
alquanti  giorni  interrogato  di  bel  nuovo  come  sapesse  che  si  ce- 
lebravano, e  per  qual  cagione  si  celebravano  tali  feste,  rispose: 


—  36  — 

e  Perchè  egli  stesso  andavasène  a  dette  feste  al  monastero  di 
Chiaravalle  e  faceva  le  sue  offerte  insieme  con  loro,  e  pren- 
deva parte  con  loro  ai  pranzi  che  vi  si  tenevano  in  occa- 
sione di  dette  feste;  e  perché  lo  stesso  Andrea  ed  altri  devoti 
della  Guglielma  avevangli  ciò  detto  ;  e  perchè  egli  stesso  per 
ciò  ad  onore  della  stessa  Guglielma  se  ne  andava  con  esso- 
loro.  »  Del  resto,  il  medesimo  frate  Gerardo  in  quel  suo  primo 
esame  ricordava  d'essere  stato  altre  volte  interrogato  dagli  inqui- 
sitori e  che  tosto  dopo  Andrea  lo  aveva  richiesto  di  ciò  che  si 
fosse  passato  tra  lui  ed  essi  ;  ma  ch'egli  avevagh  risposto  :  «  Io 
ho  gridato!  Badate  ai  fatti  vostri,  perchè  i  frati  inquisitori  fanno 
delle  minacce!  Onde  i  frati  di  Chiaravalle  fanno  male  quando 
paragonano  la  santa  Guglielma  alla  luna  ed  alle  stelle,  ne'loro 
panegirici,  e  quando  ricevono  offerte  e  lumi  per  la  stessa  santa.  » 

4.  Piace  poi  qui  Tudire  anche  Allegranza  moglie  di  Gio- 
vanni Peruzzi,  la  quale  disse  «  che  dopo  i  predetti  insegnamenti, 
cioè  quelli  che  aveva  ricevuti  da  suor  Maifreda  intorno  alla 
Guglielma  identificata  collo  Spirito  Santo,  andò  più  volte  a  visi- 
tare il  sepolcro  della  detta  Guglielma  con  ceri  e  candele,  ed 
assistette  alla  predica  che  face  vasi  in  lode  della  medesima  dai 
frati  di  Chiaravalle  nella  festa  di  lei,  cioè  da  don  Martino  Stra- 
bene e  da  don  Marchisio  da  Vedano,  monaci  di  dello  mona- 
stero. » 

5.  Ma  ad  Allegranza  succede  altro  più  istrutto ,  lo  stesso 
Andrea  Saramita,  il  quale  nel  suo  secondo  esame  disse  «  che 
quando  egli  coi  compagni,  per  venerare  la  detta  Guglielma, 
andava  a  Chiaravalle  e  tulli  insieme  vi  banchettavano,  il  signor 
abate  di  quel  monastero  dava  ad  essi  pane  e  vino  e  il  rima- 
nente :  e  che  nella  solennità  dì  s.  Guglielma  parlavano  ad  onore 
di  lei  i  monaci  di  detto  monastero  (vale  a  dire  don  Marchisio 
da  Vedano  e  don  Lombardo  e  don  Graziano  e  don  Alessandro) 
commendando  la  detta  santa  Guglielma,  e  la  vita  e  congrega- 
zione di  lei.  > 

6.  Anche  la  Bellacara  sopra  citata  nel  suo  secondo  esame 
testificò  a  questo  modo  :  t  Ch'essa  andava  alla  solennità  ed  ai 
banchetti  che  facevansi  nella  solennità  ed  a  venerazione  della 
Guglielma  presso  il  monastero  di  Chiaravalle;  ch'essa  eravi 
andata  più  che  sette  volte  insieme  con  Andrea,  e  vi  aveva 
udito  la  predica  fatta  da  don  Marchisio  da  Vedano  monaco  dì 
Chiaravalle  in  lode  della  predetta  santa  Guglielma  ;  e  che  la 
stessa  signora  Bellacara  era  intervenuta  al  primo  pranzo  fattosi 


—  57  — 

ili  dai  devoti  e  fedeli  della  detta  santa  Goglielma*;  e  che  allora 
le  spese  vennero  fatte  dal  monastero  di  Ghiaravalle.  > 

7.  Ma  anche  Stefona  moglie  di  Felicino  da  Gaventano  ri* 
spose  di  questo  tenore:  <  Ch'essa  era  intervenuta  al  pranto 
fiittosi  a  Chiara  valle  ed  alla  predica  di  un  certo  frate  di  Ghia- 
ravalle  di  cui  non  ricorda  il  nome,  il  quale  in  molte  maniere 
commendava  la  detta  santa  Guglielma ,  e  che  a  detto  convito  i 
monaci  di  Chiara  valle  fornivano  il  necessario.  » 

8.  Ecco  poi  quanto  depose  Paria  (o  Daria)  figlia  del  fu 
Giovanni  Pontario.  Disse  ella  :  e  Ch'era  stata  più  volte  alla  pre- 
dica che  si  faceva  a  Chiaravalle  nella  festa  della  santa  Guglielma 
in  commendazione  della  medesima.  Nelle  quali  prediche  udì 
più  volte  proporsi  da  quei  che  predicavano  molti  esempi  di 
santi  e  tra  essi  riferirsene  pure  alla  stessa  santa  Gpglielma, 
potendosi  cioè  dire  altrettanto  anche  di  quella  santa.  Che  tali 
predicatori  erano  frati  di  Chiaravalle,  ma  non  ne  fa  punto  il 
nome  ;  e  che  mangiò  più  volte  coi  devoli  della  detta  Guglielma 
a  Chiaravalle  ;  e  che  i  frati  di  detto  monastero  davano  o  face- 
vano dare  ad  essi  Toccorrente.  • 

9.  Similmente  anche  Pietra  moglie  del  fu  Mirano  da  Gar- 
bagnate  disse  :  €  Che  com'ella  ebbe  saputo  che  la  detta  Gugliel-, 
ma  era  lo  Spirito  Santo,  e  che  doveva  ascendere  al  cielo,  andò 
a  Chiaravalle  verso  la  festa  di  s.*  Bartolomeo  p.  p.  alla  soien* 
fìità  della  stessa  Guglielma,  e  che  vi  aveva  udito  la  predica  fatta 
da  nn  monaco  di  Chiaravalle,  nella  quale  veniva  la  medesima 
commendata  e  dicevasi  ch'essa  Sa  una  buona  signora,  santa  e 
divota,  e  simili  altre  cose.  > 

10.  Che  siffatti  predicatori  attribuivano  persino  dei  mira- 
coli alla  stessa  Guglielma  lo  attestò,  fra  tutte  le  altre  cose,  Bo« 
nadeoda  Garentano  dicendo:  tChe  una  volta  sola  trovossi  alla 
predica  fatta  da  don  Marchisio  da  Vedano  monaco  di  Chiara- 
valle,  rim petto  alla  porta  del  detto  monastero  (perchè  non  era 
allora,  come  anche  al  presente  non  è,  permesso  alle  donne  di 
entrare  nella  chiesa  del  monastero)  il  giorno  in  co\  si  celebra  la 
festa  della  detta  Guglielma  nel  mese  di  agosto  ;  che  a  questa 
predica  trovavansi  più  che  129  persone  tra  maschi  e  femmine; 
che  don  Marchisio  predicava  e  diceva  che  la  detta  Guglielma 
era  stata  una  donna  di  buona  vita  e  di  onorata  conversazione, 
e  che  la  stessa  aveva  operato  alcuni  miracoli.  » 

11.  Che  anzi  credevano  e  predicavano  anche  che  tali  mi- 
racoli erano  stali  operati  a  prò  di  talani  fra  loro  monaci  stati 


—  38  — 

restituì  li  a  sanità»  Io  abbiamo  dalla  testimonianza  di  Giacoma 
figlia  di  Bonadeo  da  Carentano  e  maritata  a  Corrado  Ck)ppa.  e  Pa- 
rimenti disse  la  signora  Giacoma,  ch'essa  trovossi  più  volte  alla 
predica  che  facevasi  a  Chiaravalle  nella  festa  della  Guglielma  da 
quei  monaci,  i  quali  commendavano  la  slessa  Guglielma  col 
dire  ch'essa  era  di  buona  e  di  santa  vita  e  di  onorata  conver- 
sazione, e  che  la  stessa  Guglielma  aveva  fallo  molli  miracoli 
anche  a  prò  dei  frati  di  quel  monastero  ch'erano  infermi.  > 

12.  Chi  sa  poi  che  non  venissero  spacciati  come  veri  e  le- 
gittimi miracoli  anche  quegli  adulterii  che  Andrea  Saramila  nel> 
suo  primo  esame  non  esitò  di  vantare  in  presenza  degli  inqui- 
sitori deireretica  pravità?  Interrogalo  Andrea  (che  cosi  leggesi* 
di  lui  in  quei  processi)  se  sapesse  o  avesse  udito  di  miracoli 
operati  dalla  Guglielma  mentre  che  viveva,  rispose  <  che  si,  e 
specialmente  a  prò  di  maestro  Beltramo  da  Perno  intorno  a  un 
cerio  segno  ch'aveva  nell'occhio,  e  a  prò  d'Albertino  da  Novale- 
affetto  da  una  fistola.  >  Interrogato  lo  stesso  Andrea  se  sapesse 
0  udito  avesse  di  miracoli  operati  dalla  Guglielma  dopo  morta, 
rispose  <di  aver  udito  da  certe  signore  che  s'erano  votate  a  quella 
santa  Guglielma  e  che  per  la  preghiera  di  lei  avevano  otte- 
nuto da  Dio  quanto  esse  chiedevano,  e  specialmente  la  signor» 
Pietra,  moglie  di  Tomaso  Oldegardo  e  la  signora  Catella  moglie 
di  Leone  Oldegardo.  »  Nella  quale  erronea  opinione  era  a  loro- 
compagna  anche  la  signora  Sibilla  dei  Malcolzati.  Perocché  nel 
primo  esame  interrogata  se  sapesse  od  avesse  udito  che  suor 
Maifreda  induceva  ed  esorlava  alcune  persone  alla  devozione  di 
santa  Guglielma  ed  a  votarsi  alla  medesima,  rispose  che  no'^ 
se  non  che  la  stessa  testimone  una  volta  erasi  votala  alla 
Guglielma  a  cagione  di  una  éua  infermità,  dalla  quale  venne^ 
liberata. 

XVI. 

/  settatori  della  Guglielma  spacciano  acquistarsi  gran  copia  di' 
indulgenze  da  chiunque  religiosamente  visitasse  il  di  lei  se- 
polcro a  Chiaravalle. 

{.Vediamo  ora  con  quali  allettamenti  Andrea  e  suor  Maifreda- 
invitavano  i  loro  seguaci  a  visitare  devotamente  il  sepolcro  della 
Guglielma. 

2.  Parimenti  disse  il  prefalo  prete  testimonio  cioè  (quel 


Mirano  più  volte  sopra  nominato)  che  Andrea  e  suor  Maifreda 
dicono  acquistarsi  tante  indulgenze  da  chi  va  a  visitare  il  se- 
polcro della  Guglielma  a  Chiaravalle,  quanto  quelli  che  vanno 
oltremare,  dicendo  a  lui  testimone  che  poteva  ben  esso  otte- 
nere siffatte  indulgenze  senza  recarsi  al  sepolcro  di  G.  C.  in 
Gerusalemme.  E  poco  dopo  :  <  E  disse  il  prenominato  prete 
ITiraDO  d' avere  udito  da  Andrea  e  suor  Maifreda  che  da  tutte 
le  parti  del  mondo  aveano  a  venire  pellegrini  al  monastero  di 
Chiaravalle  per  visitare  il  sepolcro  della  santa  Guglielma.  >  Pa- 
reva che  volessero  tacitamente  insinuare  tali  cose  con  siffatta 
argomentazione,  che,  cioè,  siccome  Cristo  è  la  seconda  persona 
della  santissima  Trinità,  cosi  anche  la  Guglielma  ne  era  la 
terza  consustanziale  e  coeguale  a  quella,  cioè  lo  Spirito  Santo, 
il  coi  corpo  giacevasi  in  questo  sepolcro  presso  il  monastero  di 
Chiaravalle. 

XVII. 

Accendono  lampade  e  ceri  sul  sepolcro  della  Guglielma  e  vi 
collocano  ostie,  quali  sogliono  consacrarsi  da  sacerdoti  nella 
messa,  acciò  da  quel  contatto  acquistino  la  virtù  di  cacciare 
le  malattie. 

1.  Lo  stesso  sepolcro  poi  di  Guglielma  illuminavano  i  di 
lei  sanaci  con  ceri  e  lampade  accese:  pid  ponevano  sovr'esso 
delle  ostie,  quali  si  usano  da  sacerdoti  nella  messa,  quasi  che 
da  quel  contatto  venissero  santificate  e  diventassero  potenti  a 
cacciare  le  infermità.  Gli  ammalati  pertanto  con  grande  rive- 
renza le  mangiavano,  ricevendole  dalle  mani  principalmente 
della  Maifreda,  come  quella  che  anche  in  questo  ministero 
sembrava  farla  da  vicaria  della  Guglielma. 

2.  Tali  cose  constano  ad  ogni  passo  dal  processo  che  ab- 
biamo tra  mano  ;  né  mette  conto  il  produrre  qui  la  testimo- 
nianza di  veruno. 

XVIII. 

Vimagine  della  Guglielma  viene  dipinta  ed  illuminata  a  vene- 
razione anche  in  talune  chiese. 

i.  Ed  anche  ciò  ne  viene  comprovato  da  tre  testimoni,  il 
primo  dei  quali  è  quel  prete  Mirano  ch'abbiamo  poc'anzi  prò- 


-40- 

dollo.  Perocché,  venendo  egli  esaminato  il  penultimo  giorno  di 
luglio,  queste  cose  si  ebbero  dalla  di  lui  bocca,  e  Parimenti  disse 
il  prefato  prete  saper  esso  perfettamente  che  alcuni  devoti  delia 
santa  Guglielma  ne  fecero  dipingere  la  figura  col  nome  di  santa 
Caterina.  E  questo  sa  il  medesimo  prete,  che  egli  stesso  colle 
proprie  sue  mani  la  dipinse  nella  chiesa  di  Santa  Maria  Mag- 
gioVe  (cioè  nella  metropolitana)  di  Milano  ed  in  quella  di  San- 
t'Eufemia pure  di  Milano  ed  in  più  altri  luoghi.  E  ciò  aveva 
fatto  prima  di  divenir  sacerdote.  > 

2.  Addi  22  di  settembre  esaminato  Stefano  da  Cremella , 
fra  le  altre  cose  vuoisi  abbia  cosi  testificalo.  Essendogli  stato 
domandato  chi  avesse  fatto  dipingere  la  santa  Guglielma  nella 
chiesa  di  Sant'Eufemia  in  Milano,  rispose  non  saperlo;  ma  disse 
dr  conoscere  bensi  il  pittore.  Parimenti  disse  il  me^desimo  Ste- 
fano ch'egli  aveva  in  casa  sua  una  pila  nella  quale  teneva  Tolio 
pef  rilluminazione  di  detta  santa  Guglielma  dipinta  nella  chiesa 
di  Sant'Eufemia,  il  qual  olio  veniva  mandalo  ad  esso  Stefano 
da  suor'Maifreda.  Parimenti  disse  ch'esso  poi  a  sue  spese  faceva 
illuminare  Timagine  dipinta  della  santa  Guglielma. 

3.  Finalmente  poi  anche  ser  Danisio  Cotta,  esaminato  in 
quel  medesimo  giorno,  disse  di  avere  fatto  dipingere  la  figura 
della  defunta  Guglielma  nella  chiesa  dei  frati  di  Santa  Mnria 
madre  del  Signore,  fuori  di  Porta  Nuova,  e  di  aver  fallo  porre 
lampada  innanzi  a  detta  imagine  in  occasione  che  vi  fu  seppel- 
lito un  suo  fratello. 

4.  E  a  quest'uso  di  dipingere  nelle  chiese  la  Guglielma  si 
attiene  anche  quella  pittura  di  cui  si  fa  menzione  in  processo, 
ove  parlasi  dell'esame  sostenuto  da  suor  Maifreda  il  22  di  ago- 
sto; perocché  si  hanno  colà  anche  le  seguenti  cose.  Interrogata 
la  detta  suor  Maifreda  chi  avesse  fatto  dipingere  quel  panno  che 
sta  sopra  l'altare  nella  casa  delle  umiliate  da  Blassonno  in  Mi- 
lano, sul  quale  stanno  effigiate  tre  persone,  due  delle  quali  da 
destra  e  da  sinistra  sembrano  cacciare  dei  prigionieri  dal  car- 
cere, rispose  «  che  o  ella  stessa  (suor  Maifreda )o  il  detto  Andrea 
0  le  suore  di  casa  Biassonno  avevan  fatto  dipingere  quel  panno, 
ma  che  non  ricorda  chi  veramente  sia  stalo  di  loro.  •  E  disse 
che  tali  pitture  erano  state  fatte  prima  che  essa  e  il  detto  An- 
drea e  gli  altri  venissero  citati  dal  soprascritto  frale  Maifredo; 
perchè  in  allora  credeva  che  la  predelta  santa  Guglielma  fosse 
la  terza  persona  della  santissima  Trinità  e  che  per  essa  dove- 
vano esser  salvi  i  giudei  ed  i  saraceni.  E  questi  sono  quelli 
che  stanno  dipinti  a  sinistra. 


—  41  — 

5.  (Chi  fossero  poi  queste  suore  di  casa  Biassonno  so  ne 
parla  più  sotto  al  cap.  24,  n.  3  del  maiìoscriUo).  Vediamo  ora 
chi  fossero  que'fratì  di  Saota  Maria  madre  del  SigQore  fuori  di 
Porta  Noova  di  cui  facevasi  menzioue  al  d.  3.  Erano  per  certo 
umiliati  e  della  casa  alla  Canonica  situata  a  fianco  e  presso  la 
chiesa  di  San  Bartolomeo,  la  sola  che  fosse  allora  dedicata  alla 
Vei^ine  madre  di  Dio  nel  circuito  esterno  di  quella  porla.  Poi- 
ché quella  chiesa  della  Canonica  esisteva  già  prima  che  il  no- 
stro santo  martire  Àrialdo,  dal  quale  fu  ristorata  ed  officiala» 
morisse  Panno  1066,  e  ciò  consta  luminosamente  da  parecchi 
pubblici  documenti.  Questa  chiesa  avevano  dipoi  ottenuto  i 
frati  umiliati,  e  nell'anno  1288  stavano  ivi  quegli  del  primo  o 
primario  istiluto  o  corpo  di  quelFordine,  che  chiamavasi  dei 
preposti.  Lo  che  trovo  essere  attestato  in  una  cronaca  scritta 
da  uno  di  quei  frati  di  terzo  ordine  Panno  1419»  e  da  me  pos- 
seduta. Poiché  nel  capo  34  enumerandosi  a  parte  a  parte  le 
case  del  primo  ordine  e  quelle  del  secondo,  fra  quelle  del 
primo  annoveravasi  la  casa  della  Canonica  in  Milano.  Quindi 
al  capo  37,  che  contiene  Tinventario  fallo  nel  1298  del  numero 
dei  frati  e  suore  ch'aveva  ciascuna  casa,  si  legge  che  la  casa 
della  Canonica  aveva  frati  9,  suore  ....  ed  un  servo.  La  stessa 
casa  però  fu  dappoi  riparata  nell'anno  1362  con  edifizi  nuovi. 
Che  altramente  non  puossi  intendere  il  passo  della  storia  mila- 
nese di  Paolo  Morigia,  al  lib.  I,  capo  19,  dove  scrive  :  «  L'anno 

<  medesimo  (13G2)  fu  cominciata  la  fabbrica  della-  chiesa  di 
e  Santa  Maria  della  Canonica,  fuori  di  Porta  Nuova,  a  spese  di 
e  Minolo  deUi  Appiani,  Imerano  Formenlario,  ed  Arnaldo  Albi- 

<  sato.  >  E  di  nuovo  nel  Santuario  di  Milano  (altra  opera  del 
Morigia),  dove  enumera  le  chiese  poste  tra  i  confini  di  Porta 
Nuova,  scrive:  e  La  chiesa  di  Santa  Maria  delta  Canonica  fuori 
di  Porta  Nuova  fu  fabbricata  Panno  1362  da  Minolo  delli 
ApiHani  e  da  due  suoi  compagni.  >  Per  il  che  anche  gli  slessi 
nmiliati,  a  cagione  della  sua  recente  struttura,  qualche  volta 
non  la  chiamano  altramente  che  la  Canonica  nuova,  come  ve- 
dasi nelle  loro  costituzioni,  che  io  parimenti  posseggo.  Perocché 
a  distinzione  13,  capo  2,  sotto  Panno  di  Cristo  143ti,  fra  i  pre- 
posti delPordine  allora  esistenti  al  capitolo  di  Siena,  il  preposto 
della  detta  Canonica  viene  cosi  nominato  =  il  frate  Filippo,  pre- 
posto di  Santa  Maria  madre  del  Signore  in  Milano  =  poscia  alla 
distinzione  14,  capo  I,  anno  1436,  viene  nominato  ^=  frate  Filippo, 
preposto  della  casa  della  Canonica  nuova  in  Milano,  e  la  stessa 

TàMB.  Jnquis.  Yol.  II.  6 


—  42  — 

appellazione  di  Canonica  nnova  le  viene  poscia  data  nei  capi  5 
ed  8.  Notissime  per  fermo  sono  quelle  cose  clie  seguono  nel- 
ristesso  Santuario  del  Morigia,  espresse  con   queste  parole  : 
e  Elia  fu  prepositura  (sic)  honorevole  degli  humiliatì,  et  essendo 
€  queiristituto  soppresso,  il  beato  Carlo  Borromeo,  di  santa 
€  memoria,  la  eresse  in  collegio  sotto  il  seminario  >,  vale  a 
dire  sotto  il  regime  di  quel  vastissimo  e  celeberrimo  seminario 
de'chierici  detto   di  Porta  Orientale,  alle  spese  del  quale  e  la 
<^hiesa  e  quelle  case  (che  tuttora  conservano  il  nome  di  Cano- 
nica) furono  poc'anzi  magnificamente  restaurate,  come  fu  da 
me  ricordato  colla  mia  dissertazione  Nazariana.   Adunque   in 
questa  chiesa  della  Canonica  e  presso  questi  frati  umiliati  (per 
fare  ritorno  al  nostro  tema)  stette  già  dipinta  e  veniva  illumi- 
nata queireffigie  della  Guglielma  di  cui  facevamo  cenno. 

XIX. 

/  seguaci  della  Guglielma  pranzavano  in  comune,  ora  nelFuna 
ora  nell'altra  casa  dei  loro  consorti^  come  se  ciò  fosse  or- 
dine  dato  loro  dalla  Guglielma. 

1.  La  Guglielma,  pochi  giorni  prima  di  morire,  aveva  rac- 
comandato la  mutua  carità  a'suoi  seguaci.  Quindi  avvenne 
ch'eglino,  e  a  cagione  della  carità  vicendevole  e  per  fare  onore 
4ò  riverenza  a  così  grande  loro  maestra,  celebravano  di  quando 
in  quando  pranzi  e  conviti.  Gii  è  ciò  che  metteva  innanzi  nel 
capo  7,  numero  3,  Danisio  Cotta,  come  ragione  del  suo  inter- 
vento a  un  siffatto  convito. 

2.  Tre  volte  all'anno  pertanto  banchettavano  essi  in  comune 
al  monastero  di  Chiaravalle,  cioè  in  quei  tre  giorni  ne'quali 
celebravansi  le  feste  in  onore  della  Guglielma,  come  fu  detto 
altrove.  Ma  facevano  lo  stesso  anche  in  Milano,  ora  in  que- 
sta, ora  in  quella  casa  de'loro  consorti,  ed  in  quella  special- 
^mente  di  Carabella  de' Toscani  a  Porta  Romana.  Pertanto  Gia- 
como da  Perno  tra  le  altre  cose  attestava  anche  questa: 
e  Nella  casa  della  detta  Carabella  tenevansi  banchetti,  e  sta- 
vano riposti  paramenti  e  ceri  per  la  venerazione  della  mede- 
sima, e  vi  si  adunavano  lo  stesso  Andrea  Saramita  e  tutti  gli 
altri  compagni  di  lui  che  appartenevano  alla  congregazione  o 
conventicola  dei  divoti  della  medesima  Guglielma.  > 

3.  Di  questi  pranzi  o  banchetti  che  facevansi  di  quando  in 


—  43  — 

quando  anche  nelle  case  di  altri  compagni,  io  ne  ricorderò  dì 
preferenza  dae,  prendendoli  dai  soliti  processi  ;  perchè  vha  in 
essi  qualcosa  di  singolare,  e  che  merita  di  essere  osservata. 

4.  E  sia  primo  quello  che  fa  tenuto  in  casa  Corrado  Coppa. 
Il  qnal  Corrado  è  senza  dubbio  quel  desso  dal  quale  fu  sor- 
presa la  moglie  in  quella  sotterranea  congrega  di  Guglielma^ 
come  abbiam  veduto  affermarsi  da  Donato  Bossi  e  dietro  lui 
affermavano  concordemente  tutti  quegli  altri  scrittori  ciechi  se- 
guaci di  lui.  Dallo  stesso  processo  poi  sotto  il  giorno  17  di  ago- 
sto abbiamo  quanto  segue:  e  La  signora  Giacoma,  figlia  del 
signor  Bonadeo  Caventano  e  moglie  di  Corrado  Coppa  della 
città  di  Milano,  comparve  davanti  a  frate  Raineri  da  Pirovano, 
delFordine  de'predicatori,  inquisitore  come  sopra,  ed  abiurò 
qualsiasi  eresia ,  credenza ,  favore  ed  accettazione  delP  eretica 
pravità,  e  giurò  di  stare  ai  comandamenti  della  Chiesa  e 
degrinquisitori,  e  di  dire  la  verità  intorno  a  sé  ed  agli  altri , 
sotto  pena  di  lire  imperiali  venticinque ,  e  si  obbligò  in  tutto 
e  per  tutto  secondo  il  modo  e  la  forma  deirofflcioinquisitoriale, 
statale  espressa  ed  esposta  diligentemente,  ecc.  >  Essendo  poi 
ella  stata  interrogata  intorno  a  molte  cose,  dicesi  abbia  risposto 
siffattamente.  Parimenti  disse  la  signora  Giacoma:  e  Ch'essa 
ebbe  speciale  riverenza  e  devozione  alla  stessa  santa  Gugliel- 
ma, e  che  essa  trovossi  più  volte  ai  conviti  che  faceva nsi  in 
casa  della  signora  Carabella  de'  Toscani  dai  devoli  della  Gu- 
glielma ad  onore  e  per  devozione  e  riverenza  della  medesima.  » 
E  disse  la  prefata  signora  Giacoma  ch'essa  per  siffatti  conviti 
non  ispendeva  nulla,  ma  crede  che  tutta  la  spesa  de'delti  con- 
fiti fosse  fatta  dalla  signora  Carabella  e  dal  sunominato  Andrea 
Saramita.  Parimenti  disse  la  signora  Giacoma  prenominala: 
<  Ch'ella  non  credette  giammai  e  che  nemmeno  ora  crede  che 
la  predetta  Guglielma  sia  o  lo  Spirito  Santo  o  una  divina  so- 
stanza e  persona.  >  Queste  cose  disse  la  signora  Giacoma,  cer- 
tamente degne  di  fede:  intanto  però  nulla  abbiamo  intorno  n) 
banchetto  che  noi  supponiamo  esser  stato  celebrato  nella  casa 
di  lei. 

5.  Ne  abbiamo  invece  una  menzione  fatta  da  altri  testi- 
moni!, doè  dalle  signore  Dionese  ed  Aydelina  esaminate  il  3 
settembre.  Quanto  alla  signora  Dionese,  ecco  quanto  risulla  dal 
processo:  <  Parimenti  disse  la  signora  Dionese  ch'essa  fu  una 
Tolta  in  casa  di  Corrado  Coppa ,  su  d' una  certa  loggia  (lobia) 
ad  un  banchetto,  in  assenza  e  senza  saputa  di  detto  Corrado. 


-  44  — 

E  v'erano  presenti  la  detta  suor  Maìfreda  e  suor  Fiordebellina 
de'Saramita  eia  signora  Bellacara  moglie  di Bonadeo Caventano 
e  le  signore  Sibilla  de'MalcoIzato  e  Fiore  da  Caniù  ed  Aydelina 
e  Andrea  Saramita  e  maestro  Beltramo  da  Ferno  e  Franceschino 
da  Garbagnate  e  Franceschino  MalcolzatoeFelicino  Caventano 
e  Albertone  da  Novate  e  Simonino  Collioni.  E  la  predetta  suor 
Maifreda  allora  benedisse  le  ostie  e  diede  di  quelle  ostie  a  tatti 
i  predetti  intervenuti.  »  Qui  aggiungiamo  eziandio  quello  che  se- 
gue immediatamente  in  queste  parole:  <  Parimenti  disse  la  su- 
nominata  Dionese,  ch'essa  fu  un' altra  volta  colle  predette 
suor  Maifreda  e  signore  Sibilla  ed  Aydelina  e  Margherita  da  No- 
vate, e  coi  predetti  Andrea  Saramita,  i  maestri  Beltramo  e  Al- 
bertone da  Novate ,  e  Simonino  e  Franceschino  Malcolzato  ed 
altri  molti,  in  un  certo  convito  che  fu  fatto  alla  loro  cassina  di 
Novate.  E  la  sunominata  suor  Maifreda  allora  benedisse  le  ostie 
e  comunicò  colle  stesse  i  predetti  intervenuti.  >  Cosi  la  signora 
Dionese.  Segue  l'esame  della  signora  Aydelina:  t  Parimenti  disse 
Aydelina  ch'essa  erasi  trovata  al  banchetto  tenutosi  in  casa  dì 
Corrado  Coppa  in  assenza  ed  all'insaputa  del  medesimo.  E  v'era 
la  predetta  suor  Maifreda  e  suor  Fiordebellina  de' Saramita  e 
tutti  gli  altri  e  le  altre  che  la  predetta  signora  Dionese  aveva 
nominato  come  intervenuti  in  casa  del  sopradetto  Corrado 
Coppa. 

6.  Procedo  ora  all'altro  banchetto.  Tennesi  questo  in  casa 
del  maestro  Giacomo  da  Ferno ,  e  nel  processo  se  ne  ebbero 
a  testimonii  Allegranza  de'Perusii,  Stefano  di  Cremella,  Ayde- 
lina moglie  di  Stefano  e  Carabella  de' Toscani.  Allegranza  mo- 
glie di  Giovanni  Perusio  della  città  di  Milano  di  Porta  Romana 
(sono  parole  dello  stesso  Perusio)  comparve  alla  presenza  del 
soprascritto  frate  Raineri  da  Pirovano  inquisitore,  come  sopra, 
e  disse  sotto  il  debito  del  prestato  giuramento  e  com'ella  ricor- 
dasi che  sei  o  sette  anni  innanzi  o  in  quel  dintorno  essa  Alle- 
granza trovossi  in  casa  di  maestro  Giacomo  da  Ferno ,  nella 
quale  erano  presenti  e  il  detto  maestro  Giacomo  e  ser  Danisio 
Cotta,  e  Giovanni  Perusio  marito  di  detta  testimone  e  Stefano 
da  Cremella  e  Andrea  Saramita  e  il  prete  Mirano  e  la  signora 
Carabella  moglie  del  fu  ser  Amisene  Toscani  e  una  compagna 
di  suor  Maifreda  de'Pirovano  e  la  stessa  suor  Maifreda  ed  Ayde- 
lina, e  sedevano  a  pranzo  sotto  un  portico  della  casa  del  detto 
maestro  Giacomo;  e  dopo  il  detto  pranzo  andarono  tutti  i  sopra- 
detti in  una  certa  camera  della  casa  del  prenominato  maestro 


—  45  — 

Giacomo,  che  era  coperta  di  paglia  :  e  in  questa  camera  alla 
presenza  di  tutte  le  summeutovate  persone  suor  Maìfreda  disse 
che  la  signora  santa  Guglielma  aveva  ordinato  a  lei  suor  Mai- 
freda  di  dire  a  tutti  gli  astanti  che  ella  era  lo  Spirito  Santo, 
vero  Dio  e  vero  uomo;  che  pertanto  tulli  i  predetti  là  presenti 
non  avrebbero  avuto  alcuna  scusa  nel  giorno  del  giudizio  quando 
sarebbero  comparsi  alla  presenza  di  lei.  E  aggiugneva  la  pre- 
detta suor  Maifreda:  e  Sia  di  me  quel  che  può  essere.  >  E  del 
pari  disse  TÀllegranza  di  ricordarsi  che  la  predetta  signora 
Garabella  in  quella  casa  sedeva  allora  sul  suo  proprio  mantello, 
e  che  quando  ella  si  fu  levata,  trovò  che  nella  cintura  o  corda 
del  suo  mantello  s'eran  fatti  tre  gruppi  che  prima  non  v'erano  : 
e  sì  fecero  intorno  a  ciò  le  maraviglie  e  bisbigli  fra  di  loro,  e 
molti  fra  essi  e  la  stessa  testimone  credeva  ciò  essere  un  gran 
miracolo.  Parimenti  disse  TÀllegranza  che  quando  Maifreda 
asseriva  essere  la  Guglielma  lo  Spirito  Santo,  la  predetta  Àyde- 
lina  rispose,  ch'ella  ciò  ben  credeva,  e  che  credeva  anzi  che 
ella  avesse  quella  carne  nel  suo  corpo  che  fu  crocifissa  con 
Cristo.  E  di  ciò  il  detto  Stefano  da  Cremella,  di  lei  consorte, 
molto  la  riprese,  e  E  tai  cose  furono  attestate  dalPAIIegranza  il 
giorno  49  settembre. 

7.  Interrogato  il  predetto  Stefano  se  fosse  intervenuto  a  qual- 
che banchetto  celebratosi  in  casa  di  maestro  Giacomo  da  Perno 
dai  devoti  e  fedeli  e  da  coloro  che  sono  della  congregazione  , 
conventicola  e  credenza  della  santa  Guglielma,  rispose  e  che  si, 
e  possono  essere  dieci  anni  o  circa ,  secondo  eh'  egli  ne 
crede.  Al  qual  convito  pure,  come  dice  lo  stesso  Stefano,  tro- 
▼aronsi  presenti  il  predetto  maestro  Giacomo  e  ser  Danisio 
Cotta  ed  Amisene  Toscani  e  Giovanni  Perusio  e  Marchisio  Secco 
che  sta  a  Chiaravalle  e  il  prete  Mirano  e  il  fu  prete  Guglielmo 
eappellano  della  chiesa  di  San  Benedetto  di  Porta  Nuova.  Verso 
la  fine  di  questo  pranzo  sopravenne  suor  Maifreda  de'Pirovano 
con  una  sua  compagna  e  la  signora  Garabella  moglie  di  Ami- 
sene Toscani  e  la  signora  Aydelina  moglie  di  Stefano  da  Cre- 
mella e  la  signora  Betlacara  moglie  di  ser  Donadeo  Gaventano 
e  la  signora  Giovanna  moglie  di  Ambrogio  da  Missaglia.  E  dopo 
il  detto  pranzo  o  banchetto,  i  sopranominati  uomini  e  donne 
da  sotto  il  portico  ove  aveano  mangiato  si  trassero  ed  entrarono 
io  una  camera  della  casa  coperta  di  paglia:  e  quivi  suor  Mai- 
freda disse  chiaramente  e  con  molto  calore,  udendola  tutti  e 
tutte  che  erano  .colà,  e  replicò  più  volte  queste  parole:  La  si- 


—  46  — 

gnora  nostra  mi  disse  di  annunciarvi  ch'essa  è  lo  spirito  Santo. 
Ed  io  lo  dico  a  voi,  sebbene  fra  voi  v'abbiano  molti  Tornasi, 
vale  a  dire  increduli.  Ed  Aydelina  moglie  di  Stefano  allora 
rispose:  lo  credo  bene  che  la  Guglielma  sia  lo  Spirito  Santo. 
E  Stefano  la  sgridò  e  le  disse  villania  per  siffatte  parole  che 
aveva  TAydelina  proferito.  E  perchè  Stefano  aveva  sgridato  sua 
moglie  Aydelina  per  ciò  che  avea  detto  di  credere,  che  la  Gu- 
glielma fosse  lo  Spirilo  Santo,  la  predetta  Carabella  de'Toscani 
molto  sgridò  lo  stesso  Stefano  e  fece  cacciarlo  dalla  camera; 
ond'è  che  Stefano  non  sa  quel  che  poscia  si  dicessero  ò  faces- 
sero. >  E  ciò  basta  all'uopo  nostro  della  presente  attestazione  di 
Stefano. 

8.  Ecco  ora  quanto  nel  di  successivo  22  settembre  attestò 
nel  medesimo  tenore  la  di  lui  moglie  Aydelina.  Perocché,  es- 
sendo comparsa  alla  presenza  di  P.  Raineri  inquisitore,  s'espresse 
cosi  secondo' che  si  ha  dal  processo.  <  Ricordansi  essa  Aydelina, 
testimone,  d'essere  stata  in  casa  di  M.  Giacomo  da  Perno,  sa- 
ranno, ora  dieci  anni  ed  anche  più,  siccome  ella  crede.  In 
detta  casa  trovò  convenuti  ad  un  pranzo  il  predetto  M.  Gia- 
como ed  Andrea  Saramita  e  Stefano  da  Cremella  marito  della 
stessa  testimone  e  Marchisio  Secco  che  sta  a  Chiaravalle  e 
Amisene  Toscani  e  Giovanni  Perusio  e  prete  Guglielmo  cap- 
pellano della  chiesa  di  San  Bsnedetto  a  Porta  Nuova  e  prete 
Mirano,  e  ser  Danisio  Colta.  E  sopragiunsero  anche  le  si- 
gnore Carabella  de'Toscani  ed  Allegranza  de'Perusi  e  Bellacara 
moglie  di  Bonadeo  Caventano  e  Giovanna  flglia  di  detto  Bo- 
nadeo  e  mcglie  di  Ambrogio  da  Missaglia  e  suor  Maifreda  da 
Pirovano  dell' ordine  degli  umiliati,  e  con  un'altra  umiliata 
sua  compagna ,  della  casa  Biassonno.  E  dopo  il  detto  pranza 
tutti  gli  uomini  e  le  donne  sopranominate  dal  portico  sotto  il 
quale  avevano  mangiato  recaronsi  in  una  camera  di  detta  casa 
che  era  coperta  di  paglia.  >  Interrogata  la  prenominata  signora 
Aydelina  intorno  alle  cose  che  furono  dette  in  quella  camera, 
rispose  e  disse  e  che  suor  Maifreda  sedendo  su  di  un  letto  in 
detta  camera  riboccossi  le  maniche  molto  sopra  del  braccio,  e 
dopo  molta  preparazione  e  composizione  del  proprio  vestimento, 
con  molto  spirilo  Ira  le  altre  cose  dette  ai  soprascritti  presenti 
che  potevano  chiaramente  intenderìa,  disse  anche  questo:  Che 
ella  non  ci  voleva  venire  e  che  era  venuta  a  malincuore, 
perciocché  qui  molti  saranno  i  Tornasi ,  vale  a  dire  gì'  incre- 
duli, e  farete  grande  mormorio  intorno  alle   pose  ch'io  sono 


—  17  — 

psr  ffire.  Gonooostante  fece  come  personal  che  tiiole  obbe- 
dire. La  nostra  signora  unteDdeTa  pairlare  delh  scinta  Gu« 
glielma)  mi  apparre  e  mi  disse  ch'io  Tenissi  s  voi>  ed  annun- 
ciassi a  toì  totti  eh'  essa ,  signora  Gaglielnta ,  è  lo  Spìrito 
Santo.  E  la  stessa  Aydelina  allora  tosto  rispose  :  Io  credo 
che  la  stessa  Goglielma  sìa  qael  corpo  eh' è  nato  dalla  Ver- 
gine Maria  e  che  fu  messo  in  croce  nella  |)ersona  di  Cristo, 
Ed  il  predetto  Stefano  marito  deir  Aydelina  tosto  ne  la  sgridò 
fortemente  e  le  fece  molli  rimbrotti  per  le  parole  che  aveva 
proferite.  > 

9.  Poiché  poi  qaest*  ollima  e  stravagantissima  aggiunta  di 
Aydelina  viene  da  lei  descrìtta  in  altro  modo  da  quello  tenuto 
dal  manto  dalla  medesima,  vediamo  con  quale  de'due  consenta 
Pattestazione  fatta  della  signora  Carabella  Io  stesso  giorno  22  set- 
tembre. Egli  è  certo  che  Stefano  marito  della  predetta  Ayde- 
lina e  tutti  gli  altri  la  sgridarono  assai  e  le  fecero  molli  rim- 
proveri per  quello  che  la  stessa  Aydelina  aveva  colà  proferito. 
Ella  per  avventura  aveva  parlato  cosi  conformemente  a  quella 
dottrina  esposta  da  noi  più  sopra  e  per  la  quale  sembrava 
volersi  dare  ad  intendere  che  la  carne  umana  assunta  dallo 
Spìnto  Santo  nella  persona  della  Guglielma  era  la  medesima 
che  il  divin  Verbo  aveva  assunto  nella  persona  di  Cristo: 
per  il  che  neireucaristico  sacramento  contenevasi  tanto  il  corpo 
della  Guglielma  quanto  il  corpo  e  la  carne  di  Cristo. 

10.  Ma  qui  odasi  eziandio  per  bocca  della  stessa  Carabella 
il  earme  che  fu  cantato  in  onore  della  Guglielma  da  alcuni  fra 
i  seguaci  di  lei.  Parìmenli  disse  la  signora  Carabella  :  e  Di 
ricordarsi  che  Franceschino  Malcolzato  ed  altri  compagni  can- 
tarono una  volta  (non  sa  dire  se  allre  volte)  in  casa  della  stessa 
Carabella  una  canzone  composta  dalia  signora  Guglielma,  nella 
quale  dicevasi  la  Guglielma  essere  lo  Spirito  Snnto.  E  la 
stessa  canzone  udi  ella  cantarsi  dal  predetto  Franceschino  e 
compagni  in  casa  della  signora  Allegranza  de'  Perusii ,  e  non 
ricordasi  se  abbia  anche  altrove  udito  cantare  la  summcnto* 
vaia  canzone.  > 


-48- 
XX. 

Gli  altri  dommi  o  piuttosto  delirii  di  questa  setta 
espressi  dalle  parole  medesime  degli  affigliati. 

1.  Cominceremo  da  prete  Mirano  e  dal  primo  esame  dalai 
sostenuto  il  penultimo  di  luglio,  dal  quale  si  hanno  le  seguenti 
cose:  <  Rispose  e  disse  che  più  volte  udì  dai  predetti  Andrea 
e  suor  Maifreda  e  da  molti  altri  fra  i  devoti  delia  santa  Gu- 
glielma, ch'essa  (Guglielma)  era  lo  Spirito  Santo,  la  terza  per* 
sona  della  santissin^a  Trinila  ;  ch'essa  Guglielma  avea  a  risor- 
gere ed  ascendere  al  cielo  sotto  gli  occhi  de'  suoi  devoli  ;  che 
erano  stati  indotti  in  tale  credenza  ed  istrutti  nella  medesima 
molti  uomini  e  donne,  com'egli  crede  e  sa  positivamente  :  per- 
chè qualche  volta  trovossi  presente  quando  Andrea  e  Maifreda 
dicevano  agli  altri ,  ecc.;  e  fra  i  devoti  e  le  devote  della  Gu- 
glielma era  voce  e  fama  pubblica  ch'essi  dicevano  e  credevano 
siffatte  cose.  >  Parimenti  disse  il  prenominato  prete  Mirano  di 
avere  udito  da  Andrea  e  Maifreda  :  e  Cbe  come  Cristo  aveva 
patito  in  figura  d'uomo,  cosila  Guglielma  potrebbe  patire  in  forma 
di  donna  a  cagione  dei  peccati  dei  falsi  cristiani  e  di  coloro 
cbe  avevano  crocifisso  Cristo.  »  E  disse  del  pari  d'avere  udito 
da  Andrea  e  suor  Maifreda  :  e  Che ,  dopo  la  risurrezione  ed 
ascensione  al  cielo,  la  Guglielma  avrebbe  mandato  lo  Spirito 
Paracielo  sui  proprii  discepoli  nella  passata  Pentecoste.  »  E 
parimenti  disse  di  avere  udito  da  Andrea  e  suor  Maifreda  : 
e  Ch'essi  avevano  a  mutare  le  leggi  e  fare  nuovi  evangeli ,  e 
creare  cardinali  ed  ordini  ;  e  che  nella  stessa  risurrezione  ed 
ascensione  della  Guglielma  dovevano  trovarsi  degli  arcivescovi 
e  vescovi.  >  E  talvolta  dicevano  a  lui  stesso  (il  testimonio  prete 
Mirano)  :  e  Sebbene  vi  sottraggiate  alle  nostre  congregazioni, 
pure  vorrete  bene  essere  di  coloro  che  vedranno  e  sentiranno 
le  predette  cose.  >  E  poco  dopo  parimenti  disse  :  <  Che  suor 
Maifreda  frinisse  i  discepoli  e  le  discepolo  di  santa  Guglielma, 
acciò  non  dicessero  la  verità,  se  venivano  interrogati ,  perchè 
lo  Spirito  Santo  li  avrebbe  ajulati.  E  credono  di  sostenere  la 
passione  per  amore  dello  Spirito  Santo ,  come  la  sostennero 
gli  apostoli  per  amore  di  Cristo.  »  E  prete  Mirano,  testimone, 
disse  che  Felicino  Caventano  e  maestro  Beltramo^da  Ferno  ave- 
vano detto  a  lui  testimone  :  «  Che  prima  d'andare  dal  frati  (gli 


-  49  - 

inquisUori  dell*  eretica  pravità)  si  recasse  a  parlare  colla  pre- 
nominata suor  Maifreda  da  Pirovano.  >  E  maestro  Giacomo  da 
Ferno  e  molli  nitri  dissero  a  lui  tal  cosa.  Parimenti  disse  il 
prefalo  prete  d'avere  udito  da  maestro  Giacomo  e  da  Andrea  e 
da  molli  altri  :  t  Che  qualcuno  fra  i  discepoli  avrebbelo  conse- 
gnato nelle  mani  de'  frati ,  come  Giuda  Cristo  in  quelle  dei 
giudei.  »  E  alquanto  dopo:  «  Parimenti  disse  il  prefato  testimone 
d'avere  udito  dalla  predella  Aydelina,  una  volta  che  tornava  da 
Chiaravalle  e  passò  nella  casa  della  signora  Carabella  vedova 
di  Amisone  Toscani  di  Porta  Romana,  dov'erano  stali  a  pranzo 
eoo  molti  altri  presenti  Andrea  e  maestro  Giacomo  da  Fjwhìo 
ed  il  fu  Amisone  Toscani  e  molli  uomini  e  donne,  chela 
stessa  suor  Maifreda ,  ovverosia  la  sopradelta  santa  Guglielma 
aveva  più  potere  ed  autorità  in  terra  di  quella  ch'abbia  avuto 
il  beato  apostolo  Pietro.  »  E  intorno  a  ciò  movea  rumori  la 
delta  signora  Carabella.  E  parimenti  disse  questo  testimone  «  di 
avere  udito  dal  predetto  maestro  Giacomo  da  Ferno  nella  chiesa 
di  Sm  Fermo  in  Milano,  che  Albertino  da  Novale  aveva  detto 
d'essersi  trovato  davanti  al  sepolcro  delle  santa  GugUelma  e 
d'avere  veduto  Andrea  Saramita  venisse  legato  dai  frati  le  mani 
ed  i  piedi,  e  come  la  beala  Guglielma  n'avesse  prosciolto  lo 
stesso  Andrea  ;  e  come  i  frati  volessero  prendere  suor  Maifredn, 
ma  un  angelo  del  Signore  difendeva  Maifreda  menando  a  tondo 
una  spada  sanguinente.  E  ciò  lo  stesso  testimone  aveva  udito 
da  Beltramo  da  Ferno  »  il  quale  diceva  di  averlo  udito  dal 
sopradetto  Albertone.  »  Fin  qui  l'attestazione  di  prete  Mirano 
emessa  nel  suo  primo  esame. 

2.  Segue  suor  Maifreda,  nel  suo  secondo  esame,  cui  si  sot- 
topose spontaneamente  il  6  agosto,  chiedendo  perdono  e  miseri- 
cordia a  Dio  ed  agli  inquisitori  per  aver  detto  il  falso  nell'esame 
precedente. Ecco  quanto  leggesi:  Interrogata,  ecc.,  se  dopoché 
ella  ebbe  giurato  nelle  mani  ed  alla  presenza  di  frate  Maifredo 
da  Dovara  dell'ordine  dei  predicatori,  allora  inquisitore  dell'e- 
resia, avesse  udito  e  fossele  stalo  insegnato  che  la  Guglielma, 
ora  sepolta  a  Chiaravalle,  era  lo  Spirilo  Santo,  la  terza  persona 
della  SS.  Trinila,  vero  Dio  e  vero  uomo  nel  sesso  femminino, 
a  quel  modo  che  lo  fu  Cristo  nel  maschile  ;  se  avesse  udito  e 
fossele  stato  insegnato  che  come  Cristo  pati,  morì  e  fu  sepolto 
in  quanto  uomo,  cosi  la  slessa  Guglielma  che  era  lo  Spirilo 
Santo,  era  morta  secando  la  natura  umana  e  non  secondo  la 
divinità  dello  Spirito  Santo,  rispose  t  che  tutte  queste  cose  e 

Tamb.  Inquis.  Voi.  IL  7 


ciascuna  d'esse  aveva  ella  udita  ed  erane  stata  ammaestrata  da 
Andrea  Saramita.  >  Interrogala  se  le  fosse  stato  insegnato  che 
come  Cristo  risorse  col  suo  corpo  e  a  vista  dei  discepoli  salì 
al  cielo,  e  nella  Pentecoste  spedi  a  loro  lo  Spirito  Santo  visibile 
in  lingue  di  fuoco,  cosi  anche  la  santa  Guglielma  dovea  apparire 
con  corpo  umano  di  sesso  femminino  prima  della  universale 
risurrezione,  ed  ascendere  al  cielo  col  corpo  alla  vista  dei  suoi 
discepoli,  amici  e  devoti,  e  dovea  mandare  sovr'essi  lo  Spirito 
Santo  in  forma  di  lìngua  infuocata,  rispose  <  che  di  tutte  e  di 
ciascuna  cosa,siffalta  venne  istruita  dal  predetto  Andrea.  »  Inter- 
rogala (suor  Maifreda)  che  credesse  ella  di  siflfatle  cose,  rispose 
e  che  uria  volta  ne  dubitava,  ma  che  non  palesò  mai  a  chìchessìa 
questo  suo  dubbio.  >  Inlerrogala  se  vennele  insegnato  che  come 
Cristo  lasciò  quaggiù  suo  vicario  il  bealo  Pietro  e  gli  affidò  la 
sua  chiesa  e  consegnogli  le  chiavi  del  regno  de'  cieli ,  cosi  la 
Guglielma,  ch'è  lo  Spìrito  Santo  avrebbe  lasciata  a  sua  vicarìa 
la  stessa  suor  Maifreda,  rispose,  <  che  allorquando  siffatte  cose 
le  venivano  delle  dal  prefato  Andrea  ella  se  ne  rideva;  ma 
nondimeno  ch'essa  poi  credette  che  cosi  avesse  ad  essere,  seb- 
bene talvolta  ne  dubitasse.  »  Parimenti  interrogata  se  vennele 
insegnato  che  come  il  beato  apostolo  Pietro  celebrò  la  messa 
e  predicò  in  Gerusalemme,  cosi  anche  la  suor  Maifreda  dovea 
celebrare  la  prima  messa  sul  sepolcro  dello  Spirilo  Santo  ossia 
della  santa  Guglielma,  e  poi  più  solennemente  celebrare  e  pre- 
dicare nella  chiesa  di  Santa  Maria  Maggiore  in  Milano,  rispose 
t  che  tulle  le  predette  cose  aveale  bensi  udite  da  Andrea,  che 
ella  però  alcune  volte  aveale  credule  ed  altre  no.  »  Interrogata 
se  erale  stato  insegnato  dallo  stesso  Andrea,  che  siccome  i 
discepoli  di  Cristo  scrissero  evangeli,  epistole  e  profezie,  così 
anche  Andrea,  cangiando  i  titoli,  avea  scritto  evangeli,  epistole 
e  profezie,  rispose  a  questo  modo,  e  Ch'avea  bensi  udite  le 
predette  cose  da  Andrea,  ma  che  le  avea  credute  né  si  né  no.  » 
—  Cosi  dal  secondo  esame  di  suor  Maifreda.  —  Ma  essa  venne 
di  bel  nuovo  esaminata  il  17  dello  stesso  agosto:  ed  interro- 
gata se  avesse  mai  detto  e  creduto  che  la  santa  Guglielma 
sepolta  a  Chiaravalle  era  da  più  delia  Vergine  Maria ,  rispose 
.€  che  dacché  credeva  la  Guglielma  essere  lo  Spirito  Santo,  bene 
avea  a  crederla  dotata  di  maggior  perfezione.  Finaluiente  aggiun- 
giamo qui  anche  ciò  ch'ella  rispose  nel  giorno  20  dello  stesso 
agosto.  Interrogata  se  tutte  quelle  persone  ch'ella  avea  prece- 
dentemente nominate  nel  giorno  di  sabbato  6  agosto  p.  p.  fossero 


—  51  — 

State  ammaestrate  ed  istrutte  da  lei  suor  Maìfreda,  acciò  cre- 
dessero essere  la  Guglielma  lo  Spirito  Santo,  dover  ella  risor- 
gere iunanzi  alla  universale  risurrezione  e  salire  visibilmente 
in  cielo,  e  dovere  per  la  stessa  Guglielma  essere  salvi  i  giudei  ed 
i  saraceni  pagani,  come  la  stessa  suor  Maifreda  avea  nella  pre- 
detta sua  deposizione  attestato  d'avere  udito  da  Andrea ,  a  tuitociò 
rispose  la  suor  Maifreda:  e  Che  ella  avea  difatti  istruito  ed 
indotto  tutte  quelle  persone  da  lei  nominate  a  credere  tutte  le 
predette  cose;  e  che  ella  stessa,  suor  Maifreda,  cosi  credeva; 
e  che,  in  tutte  quelle  cose  nelle  quali  avea  detto  il  contrario, 
aveva  ella  scientemente  spergiurato.  > 

3.  Andrea  Saramita  poi  alle  cose  che  abbiamo  già  prese 
dalle  sue  attestazioni  queste  altre  aggiunse  nel  suo  terzo  esame 
del  22  agosto.  Interrogato  il  detto  Andrea  (cosi   leggesi  colà) 
se  mai  abbia  detto  ad  alcuno  o  creduto  che  la  Guglielma  era 
maggiore   nella  gloria   alla  B.  Vergine  madre  di  Cristo   ed  a 
qualunque  altro  santo,  rispose  e  ch'egli  non  aveva  mai  detto  ciò 
a  Teruno;  però  in  quanto  esso  (Andrea)  credeva  che  la  Guglielma 
fosse  lo  Spirito  Santo  in  persona,  e  fosse  in  lei  una  vera  di- 
vina essenza,  intanto  credeva  che  la  Guglielma  sopravanzasse 
in  gloria  ogni  altro  santo  e  la  stessa  Vergine  Maria,  e  questo 
lo  avrebbe  anche  detto  se  non  avesse  temuto  che  le  persone 
avrebberne  provato  orrore.  In  quanto  poi  il  corpo  della  slessa 
Guglielma  non  era  ancora  glorificato,  esso  non  credeva  che  la 
Guglielma  fosse  da  più  della  Beata  Maria.  »  Interrogato  lo  stesso 
Andrea  se  nel  tempo  in  cui  diceva  e  credeva  che  suor  Maifreda 
sederebbe  sulPapostolica  sede  in  Roma  e  sarebbe  vicaria  dello 
Spirito  Santo  e  vero  papa,  come  il  beato  apostolo  Pietro  e  il 
santo  padre  il   papa  Bonifacio ,  che  ora  è  e  fu  vicario  ed  in 
luogo  di  Cristo,  e  che  sarebbe  cessato  il  papato  della  Chiesa  ro- 
mana ed  il  rito  della  medesima  ;  rispose  <  ch'esso  credeva  dovere 
la  detta  suor  Maifreda  essere  vero  papa ,  ed  avere  la  piena  e 
reale  giurisdizione  ed  autorità  di  vero  papa,  e  che  essa  aveva 
ad  essere  il  vero  vicario  dello  Spirito  Santo  in  terra,  e  che  il 
papa  ed  il  papato  della  Chiesa  romana  che  è  presentemente , 
ed  il  rito  e  V  autorità  della  medesima  e  la  curia  de'  cardinali 
doveva  cessare,  e  che  la  predella  suora  doveva  avere  l'autorità 
del  papa  e  del   papato   romano  ;  e  che  la   prenominata  suor 
Maifreda  avea  a  battezzare  i  giudei  ed  i  saraceni,  e  tutte  le 
altre  nazioni  che  sono  fuori  del  grembo  della  Chiesa  romana 
ed  ancora  non  ebbero  battesimo.  >  Parimenti  disse  lo  stesso 


—  54  - 

deirEucaristia;  e  che  quindi  a  modo  di  quello  si  avessero  a 
distribuire  e  mangiare,  quasi  che  pel  contatto  di  quel  sepolcro 
fossero  state  divinamente  trasformate  in  quel  sacramento.  Poi- 
ché poi  altre  ostie  benediceva  suor  Maifreda  e  le  distribuiva  a 
modo  dell'Eucaristia,  è  a  credere  che  essa  si  attribuisse  Tauto- 
rilà  sacerdotale  di  farne  la  consecrazione. 

6.  Parimenti  disse  la  signora  Sibilla  de'  Malcolzati:  <  Che 
la  predetta  suor  Maifreda  le  segnò  una  volta  il  capo,  perchè 
essa  signora  Sìbilia  sofifriva  dolore  di  capo.  E  allora  essa  si- 
gnora Sibilla  genuflessa  baciò  la  mano  di  detta  suor  Maifreda.  > 
Parimenti  disse  la  signora  Sibilla:  <  Ch'essa  vide  molti  altri  ed 
altre  star  ginocchioni  davanti  a  suor  Maifreda  e  baciarle  la  mano, 
tra  le  altre  le  signore  Pietra  e  Catella  degli  Aldegardi  e  Fran- 
ceschino  Malcolzato.  » 

7.  Ecco  poi  le  parole  dello  stesso  Franceschlno.  Esaminato 
subito  dopo  la  signora  Sibilla,  parimenti  disse:  e  Che  qualche 
volta  s'Inginocchiò  davanti  a  suor  Maifreda  e  le  baciò  la  mano 
non  come  a  papa  o  a  vescovo,  ma  perchè  la  credeva  una  buona 
donna.  E  la  stessa  Maifreda  lo  segnava  e  gUmpartiva  la  sua  be- 
nedizione. » 

8.  Né  qui  ci  manca  l'attestazione  dello  stesso  andrea  Sara- 
mita.  Perocché  il  suo  quarto  esame  del  26  agosto  cosi  si  con- 
chiude: «  Parimenti  il  prenominato  Andrea  disse:  di  aver  più 
volte  veduto  Albertone  da  Novale,  maestro  Beltramo  da  Perno, 
Feliclno  Caventano,  Slmonino  GoUeoni,  Franceschlno  Malcolzato 
ed  i  fratelli  Ottorino  e  Franceschlno,  figli  del  signor  Gaspare 
Garbagnatl,  baciare  la  mano  ed  il  piede  alia  predetta  suor  Mai- 
freda, e  d'avere  egli  slesso  (Andrea)  baciatale  la  mano.  »  Disse 
parimenti  il  prefato  Andrea  :  €  Ch'aveva  veduto  molte  signofe 
baciare  la  mano  di  suor  Maifreda,  cioè  la  signora  Sibilla  dei 
Malcolzato,  la  signora  Aydelina,  la  signora  Bellacara  de'  Gaven- 
tani,  e  le  signore  Pietra  e  Catella  degli  Aldegardi.  E  disse  ezian- 
dio che  crede*  che  la  signora  Felicita,  vedova  del  fu  Franzlno 
da  Cesate,  e  molte  altre  devote  della  Guglielma,  baciavano  le 
mani  a  suor  Maifreda.  > 


—  35  - 

XXII. 

Degli  affigliati  alla  setta  molti  non  credevano 
che  la  Guglielma  fosse  lo  Spirito  Santo. 

i.  E  fa  quesla  la  cagione  per  la  quale  suor  Maifreda  par- 
lamentando quei  convitati  in  casa  di  maestro  Giacomo  da 
Perno,  de'  quali  abbiamo  fatto  menzione  più  sopra  dopo  aver 
loro  spiattellato  che  la  Guglielma  era  Io  Spirito  Santo,  sog- 
giunse altresì  queste  parole:  t  E  ciò  vi  dico,  sebbene  v'abbian 
tra  voi  molti  Tornasi,  che  é  quanto  dire,  increduli.  » 

2.  Dello  stesso  tenore  sono  le  cose  che  ella  aveva  detto  ai 
convitaU  al  suo  primo  entrare,  secondo  che  asserì  ser  Danisio 
Cottii  esaminalo  il  25  settembre.  Imperocché  rispose  e  disse  ricor- 
darsi <  che,  trovandosi  a  tavola  coi  prenominati  suoi  compagni, 
era  soprav^nuta  suor  Maifreda  de' Pirovani  dell'ordine  degli 
umiliati,  e  salutatili  tutti  aveva  detto  :  Voi  tutti  mangiate  lo 
stesso  pane  e  bevete  lo  stesso  vino,  ma  non  tutti  siete  d' un 
solo  cuore  e  d'una  medesima  volontà.  •  Ed  interrogato  di  bel 
nuovo  qual  cosa  credesse  aver  voluto  intendere  suor  Maifreda 
con  quelle  parole,  rispose:  e  Credere  egli  che  suor  Maifreda 
voleva  dire  ed  intendeva  che  non  tutti  i  presenti  a  quel  ban- 
chetto credevano  che  la  Guglielma  fosse  lo  Spirito  Santo;  ma 
alcuni  lo  credevano,  altri  no.  » 

3.  E  gli  era  per  ciò  appunto  cl^e  suor  Maifreda  diceva  che 
la  Guglielma  era  lo  Spinto  Santo,  non  già  in  pubblico  alla  pre- 
senza di  tutti,  ma  Soltanto  in  privato  con  alcuni,  come  già  si 
fide  e  come  a  di  9  agosto  attestò  anche  la  signora  Fiore,  figlia 
del  fu  Pietro  Cossa  da  Cantù,  moglie  del  fu  Bonaventura  di  Pa- 
razolo. 

4.  Ecco  poi  taluni  di  siffatti  increduli,  quali  vengono  messi 
io  mostra  dai  processi. 

/  5.  Primo  di  essi  è  Ottorino  da  Garbagnate;  perocché,  essendo 
stato  esaminato  il  13  agosto  ed  interrogato  se  mài  avesse  udito, 
detto  0  creduto  che  la  Guglielma  sepolta  presso  il  monastero  di 
Ghiaravalle  era  lo  Spirito  Santo,  rispose  :  t  Ch'egli  aveva  udito 
dire  ad  Andrea  Saramita  e  a  suor  Maifreda  da  Pirovano  che 
la  Guglielma  era  lo  Spinto  Santo,  la  terza  persona  della  Trinità. 
E  tai  cose  dicevano  essi  alla  presenza  di  molte  persone.  E 
questo  da  tre  anni  in  qua.  Sebbene  però  eglino  dicessero  sif- 


—  56  — 

fatte  cose,  esso,  Ottorino,  non  le  credeva.  »  Similmente  inter- 
rogato dipoi  se  avesse  ndito  alcun  che  intorno  alla  risurrezione 
della  Guglielma,  alla  sua  assunzione  in  cielo,  alla  redenzione 
degli  infedeli,  al  papato,  alla  messa  ,  alla  predicazione  di  suor 
Maifreda,  rispose:  «  Che  le  aveva  udite  più  volte,  e  in  diversi 
tempi  e  luoghi ,  e  alla  presenza  di  molti  ;  ma  che  esso  non 
le  credeva  né  le  aveva  giammai  credute,  sebbene  ne  faceva  le 
meraviglie.  » 

6.  Della  medesima  sentenza  abbiamo  anche  la  signora  Gia- 
coma ,  figlia  del  signor  Bonadeo  Caventano  e  moglie  di  Cor- 
rado Coppa ,  quella  stessa  di  cui  abbiamo  fatto  menzione  : 
perocché  essendo  ella  stata  interrogata  il  17  agosto,  disse  «  che 
non  aveva  giammai  creduto ,  ed  anche  al  presente  non  crede, 
che  la  Guglielma  fosse  o  sia  lo  Spirito  Santo,  sostanza  o  per- 
sona divina. t 

7.  Anzi  fra  siffatti  increduli  vuoi  essere  annoverata  anche 
la  mogUe  della  stesso  Andrea  Saramita.  Chiamavasi  questa  la 
signora  Riccadona;  e  il  di  9  settembre  (quando  il  marito  di 
lei  in  pena  dell'eresia  era  già  stato  bruciato,  come  dimo- 
streremo fra  poco)  essendo  stata  esaminata  e  anzitutto  interro- 
gata se  Andrea  Saramita  già  suo  marito  le  aveva  mai  detto  che 
la  Guglielma  sepolta  presso  il  monastero  di  Chiaravalle  era 
lo  Spirilo  Santo,  e  rispose  ch'ella  non  aveva  giammai  creduto 
ciò,  e  che  né  Andrea  né  altri  giammai  le  avevano  detto  di  sif- 
fatte cose.  > 

8.  E  ser  Danisio  Cotta  stato  interrogato  il  21  settembre  se 
mai  avesse  udito  dire  che  la  Guglielma  era  lo*  Spirito  Santo, 
0  se  conoscesse  alcuna  persona  che  credeva ,  diceva  od  inse- 
gnava siffatta  cosa ,  a  tutte  e  singole  queste  domande  rispose 
che  no. 

9.  Vediamo  ora  come  frate  Gerardo  da  Novazano  non  solo 
era  alieno  da  siffatta  eresia,  ma  ne  tenne  altresì  lontana  la  ' 
propria  consorte.  Sostenne  egli  l'esame  il  19  ottobre,  e  innanzi 
lutto,  interrogato  se  sapeva  che  la  sua  moglie  Cara  andava  alle 
feste,  alle  solennità  ed  ai  banchetti  che  si  celebravano  dai  de- 
voti della  Guglielma,  rispose:  «  che  sapeva  benissimo  che  la 
moglie  sua  andava  alle  dette  feste  e  faceva  le  predette  cose,  e 
che  egli  non  ne  aveva  mai  fatto  a  lei  verun  divieto,  ma  che 
un  giorno  le  aveva  detto:  Guardali  bene  dal  credere  che  la 
Guglielma  sia  lo  Spirito  Santo,  come  dicesi  che  si  creda  da  altri 
di  lei  di  voti.  > 


40.  Da  ultiiDo  ricordisi  qui  siccome  Stefano  du  C'omella 
riprendesse  la  moglie  Aydelìna  {^t  la  c;ìgìone  che  abbiamo  ìndi- 
calo,  ed  ora  questa  stessa  bigione  la  conosi^erenìo  uu  gito  jK^r 
bocca  del  medesimo  Stefano;  perocché,  es;Mninatvì  dì  nuovo  a 
di  27  ottobre  ed  interrogalo  perchè  avesse  sgrida  1;ì  la  propria 
m(^lie  e  dettole  vituperio,  egli  tosto  rispose  :  «  IVrohi^  ossa 
parlava  male,  e  male  credeva  ;  poiché  lo  stesso  Stefano  allora 
credeva,  ed  ora  crede,  che  Favere  tale  credenza  ed  il  t>arlarne 
di  conformità  è  da  erelico  ed  è  conlrario  alla  fedo  callolìc;^  che 
cioè  la  Guglielma  fosse  lo  Spirilo  Santo.  » 

XXlll. 

Andrea  Saramita  e  suor  Maifreda ,  subornando  i  testimoni ,  s* 
adoprano  a  ciò  i  propri  errori  non  vengano  pienamenli* 
conosciuti  dagl'inquisitori  dell'eretica  pravità. 

i.  Ascoltiamo  gU  stessi  testimoni  slati  a  quest'uopo  solle- 
citati; che  anzi  ascoltisi  la  medesima  suor  Maifreda  che  con- 
fessa di  avere  ciò  tentato. 

2.  Molto  a  proposito  il  prete  Mirano,  cappellano  della  chiesa 
di  San  Fermo,  nelFesame  sostenuto  il  penultimo  giorno  di  luglio, 
depose  fra  molte  altre  cose  quanto  segue  :  <  Si,  che  possiamo 
comprendere  con  quali  speciosi  e  fallaci  pretesti  questi  t(!sli- 
moni  venissero  indotti  a  nascondere  la  Verità  agrinqulsilori.  » 
Disse  parimenti  <  che  suor  Maifreda  (e  lo  slesso  non  senza  ra- 
gione vuoisi  credere  anche  intorno  ad  Andrea  Saramita)  istruiva 
i  discepoli  e  le  discepole  della  santa  Guglielma  a  non  diro  la 
verità,  se  mai  venissero  interrogati ,  perché  lo  Spirito  Santo 
sarebbe  venuto  loro  in  ajuto.  E  credono  di  sosteniTe  h  pas- 
sione per  amore  dello  Spirito  Santo,  come  per  Cristo  la  sosten- 
Dero  gli  apostoli.  >  Parimenti  disse  il  prete  Mirano,  l/'Htimone  : 
e  Che  Felicino  Caventano  e  maestro  Bfjitramo  da  Fcrno  gli 
avevano  detto,  che  prima  di  andare  ai  frati  <cioó  agli  irKprMi- 
tori)  andasse  a  parlare  colla  suor  Maifreda  da  Pirovano,  E  mae- 
stro Giacomo  da  Femo  ed  altri  molli  gli  avevano  detto  tali 
cose.  >  Parimenti  disse  il  prenominato  prete:  <  D'avere  udito 
dai  predelti  maestro  Giacomo,  Andrea,  e  molti  altri,  che  qual- 
caoo  deMiscepoli  aveva  a  consegnarli  nelle  mani  de'frati,  vjtuut 
Giuda  aveva  consegnalo  Cristo  in  quelle  de'Giti/lci,  » 

3.  Premesse  tali  cose,  trapassiamo  agli  allrì  ienilìtnouì,  e 

Tamii-  Inqmu.  VoS    li.  H 


-  58  - 

prima  produciamo  suor  Fiordebellina,  figlia  dello  stesso  Andrea 
Saramita,  monaca  delPordine  degli  Umiliali.  Costei  era  stata 
esaminata  il  28  luglio,  ed  in  molte  cose  aveva  mentito;  ma 
tosto  dopo  sul  principio  d'agosto  si  presentò  all'inquisitore, 
chiedendo  misericordia,  e  confessò  di  avere  in  molte  cose  sper- 
giurato, e  parimenti  fin  ciò,  che  aveva  protestato  non  essere 
stata  consigliata  a  negare  la  verità.  Poiché  era  il  vero  che  suor 
Maifreda  le  aveva  detto  di  non  dire  la  verità,  se  non  come  ella 
voleva  che  si  dicesse;  poiché  altrimenti  avrebbe  potuto  averne 
brighe  e  confusione.  Al  modo  che  si  contenne  in  questi  esami 
suor  Fiordebellina  si  comportarono  anche  due  altre  monache 
umiliale,  e  della  stessa  casa  o  monastero  di  Biassonno,  e  que- 
ste furono  suor  Agnese,  figlia  del  fu  signor  Gabrio  Monlenari, 
e  suor  Giacoma,  figlia  del  fu  Prando  da  Nova.  Imperocché  dopo 
avere  ambedue  mentito  il  3  agosto  in  un  primo  esame,  il  di 
dopo  tornarono  spontaneamente  agl'inquisitori,  dicendo  voler 
dire  la  verità  e  confessando  di  essere  state  subornate  onde 
mentissero.  E  quanto  a  suor  Agnese,  ecco  ciò  che  si  ha  dal 
processo.  Parimenti  interrogata  se  mai  le  venne  ingiurio  di 
non  dire  il  vero,  rispose  :  «  Ghe  ciò  orale  slato  ingiunto  da 
suor  Maifreda.  •  Per  riguardo  a  suor  Giacoma,  si  ha  parimenti 
come  segue:  «  Confessa  di  aver  spergiuralo  in  tutto  ciò  che 
disse  precedentemente,  perché  l'avevano  istruita  (Andrea  Sara- 
mita  e  suor  Maifreda)  a  non  dire  la  verità  intorno  alle  pre- 
dette cose.  * 

4.  Cosi  anche  a  dì  12  del  medesimo  agosto  la  signora  Pie- 
tra da  Alzate,  interrogata  se  mai  dai  predetti  Andrea  e  suor 
Maifreda  fosse  stata  indettata  a  non  dire  la  verità  qualora  ve- 
nisse citala  a  comparire  davanti  agl'inquisitori,  rispose,  «  che 
una  volta  suor  Maifreda  avea  dello  a  lei  e  ad  altri  :  Se  ver- 
rete citati  a  comparire  davanti  agl'inquisitori,  non  v'andate 
prima  d'aver  parlato  con  me,  né  parlate  se  non  secondo  che 
io  vi  ho  detto.  » 

5.  La  signora  Sibilla  poi,  vedova  del  fu  Beltramo  Malcol- 
zato,  aveva  del  pari  mentito  in  molle  cose,  vale  a  dire  sui  prin- 
cipali capi  della  dottrina  della  setta,  intorno  ai  quali  era  stala 
interrogata  il  2  agosto;  ma  poi  pentita  comparve  il  dì  8,  e 
dopo  ch'ella  ebbe  sinceramente  confessata  tutta  la  verità,  inter- 
rogata perchè  le  stesse  cose  non  avesse  prima  voluto  confes- 
sare al  padre  Guido  inquisitore,  rispose  «  di  non  averle  delle, 
perchè  non  voleva  che  a  cagione  della  sua  rivelazione  andas- 


-  59  — 

sero  a  morte  Andrea  o  suor  Maìfreda  o  qual  si  fosse  allro.  » 
Ma  tosto  dopo  ioterrogata  di  nuovo  se  era  stata  indettala  da 
alcuno  a  dire  il  falso  e  ad  occultare  il  vero ,  rispòse  •  che 
Andrea  e  suor  Maifreda  le  avevano  detto  esser  stato  riferito 
agrinquisitori  intorno  a  noi:  se  voi  avrete  detto  la  verità  noi 
saremo  morti.  >  Ed  esaminata  ancora  a  di  23  agosto,  disse  <  che 
suor  Maifreda  aveale  detto  :  Guardatevi  dal  confessare  agi'  in- 
quisitori ch'io  sostengo  essere  la  Guglielma  lo  Spirito  Santo, 
perchè  potrei  perciò  averne  briga.  » 

6.  Dello  stesso  tenore  è  la  risposta  dì .  Franceschino  Mal- 
colzato,  che  fu  interrogato  il  9  agosto.  Essendogli  stato  chiesto, 
perché  le  cose  dette  ora  non  le  avesse  confessale  quando  fu 
esaminato  a  dì  28  luglio,  rispose  «  perche  non  voleva  che  a  ca- 
gione della  sua  testimonianza  Andrea  corresse  pericolo  di  morte, 
e  perché  lo  stesso  Andrea  avealo  pregato  che,  se  mai  venisse 
interrogato  dagli  inquisitori,  non  avesse  a  dire  la  verità,  giac- 
ché egli  ne  andrebbe  morto  e  distrutto.  »  E  di  bel  nuovo  esa- 
minato a  di  13  agosto  rispose  il  detto  Franceschino  t  che  sifor 
Maifreda  aveagli  parlato  cosi  :  Se  gP  inquisitori  mandano  per 
le,  ne  vieni  a  me,  ed  io  ti  insegnerò  quello  che  avrai  a  dire 
alia  loro  presenza.  » 

7.  Segue  ora  la  confessione  della  stessa  suor  Maifreda,  fatta 
il  di  20  agosto  e  nel  suo  quarto  esame,  dopo  aver  confessato 
che  prima  non  avea  detto  la  verità,  ecco  quanto  leggiamo  di 
detto  esame:  Interrogata  suor  Maifreda  se  essa  riconosce  di 
aver  spergiurato  di  certa  scienza  nelle  cose  antecedentemente 
deposte,  rispose  che  si.  Interrogata  perchè  non  avesse  allora  detto 
la  verità,  rispose:  •  Ciò  esser  stato  e  per  certa  semplicità  e  pel 
timore  di  offendere  gli  altri  devoli  della  santa  Guglielma.  »  In- 
terrogata se  ella  avesse  detto  ad  Andrea  Saramita  e  a  maestro 
Giacomo  da  Ferno  e  ad  altri  devoti  della  Guglielma  di  non 
dire  la  verità  airinquisitore,  qualora  ne  venissero  richiesti,  ri- 
spose «  che  si,  perchè  essa  credeva  e  diceva  che  qualora  fa 
verità  venisse  a  scoprirsi,  ed  essa  e  gli  altri  ne  avrebbero  avuto 
tribolazioni.  »  E  soggiunse  la  stessa  suor  Maifreda  credere  ella 
che  gli  altri  devoti  tacquero  la  verità  e  dissero  il  falso  più  a 
cagione  di  lei,  suor  Maifreda,  che  per  cagione  di  altra  qualsiasi 
persona.  Ed  essendo  stato  domandato  a  suor  Maifreda  a  quale 
de'due  pia  abbadassero  i  devoti  della  Guglielma,  se  a  lei  suor 
Maifreda,  ovvero  ad  Andrea  Saramita,  rispose  <  che  i  devoti 
abbadavano  bensì  ad  Andrea,  ma  più  ancora  a  lei,  suor  Mai* 


-  60  — 

freda.  »  Tnli  furono  le  cose  messe  fuori  in  quell'esame  da  suor 
Maifreda. 

8.  Ultimo  di  questi  testimoni  è  maestro  Beltramo,  fisico, 
ossìa  dottore  di  medicina,  figlio  di  maestro  Giacomo  da  Perno, 
cittadino  milanese  dì  Porta  Vercellina.  Interrogato  egli  il  dì  2 
settembre  se  avesse  mai  udito  da  alcuni  de' devoti  della  Gu- 
glielma che  la  predetta  suor  Maifreda  abbia  celebrato  la  messa 
parata  a  mo'di  sacerdote,  rispose  «  che  teneva  per  certo  di 
averlo  udito  dire,  ma  non  sapeva  da  chi;  ben  ricordavasì  che, 
quando  la  stessa  suor  Maifreda  e  gli  altri  furono  citati  a  com- 
parire, essa  avea  detto:  Intorno  alla  messa  nulla  è  stato  doman- 
dato. Ed  egli,  il  testimonio,  le  avea  soggiunto:  Di  qual  messa 
parlate  voi?  E  la  stessa  suor  Maifreda  l^Iì  rispose:  Non  badate 
a  ciò;  e  guardatevi  dal  dire  la  verità,  altrimenti  io  ed  Andrea 
Saramita  saremmo  morti.  »  Certamente  queste  cose  riferivansi 
a  quella  messa  solenne  che  già  narrammo  esser  stata  celebrata 
da  suor  Maifreda. 

XXIV. 

Suor  Giacoma  de'Bassani  ricaduta  neir  eresia  vien  consegnata 
al  tribunale  secolare  e  da  quello  condannata  al  rogo. 

1.  Con  quanta  maturità  di  giudizio,  e  per  quale  cagione 
questa  Giacoma  fosse  consegnata  al  tribunale  secolare,  non  si 
può  di  certo  discornere  più  fidatamente  che  dagli  atti  pubblici 
ai  quali  siffatta  deliberazione  fu  consegnata  e  dallo  stesso  pro- 
cesso che  abbiamo  sin  qui  seguito  di  passo  in  passo. 

2.  Perciocché  leggiamo  in  esso  quanto  segue:  «  Nel  nome 
del  Signore,  cosi  sia.  Nell'anno  della  di  lui  natività  1300,  mar- 
tedi,  23  agosto,  indizione  tredicesima,  nel  palazzo  della  Curia 
arcivescovile.  Convocali  quivi  e  presenzialmente  congregati  gli 
infrascifitti  signori,  a  richiesta  del  venerabile  padre,  il  signor  F. 
(cioè  Francesco)  per  la  grazia  di  Dio  e  della  sedo  apostolica 
arcivescovo  della  santa  chiesa  milanese,  e  de'frali  Guido  da  Co- 
chenato  e  Raineri  da  Pirovano,  ambedue  dell'ordine  de'predi- 
catori,  inquisitori  dell'eretica  pravità,  deputati  dalla  predetta 
sede  apostolica  per  la  Lombardiii  e  per  la  Marca  genovese;  con- 
vocati, dico,  i  signori  Bernardo  de'  Talenti,  vescovo  di  Lodi,  e 
Obizzo  di  Busnate,  arcidiacono  della  metropolitana  milanese,  e 
Matteo  Visconti,  prevosto  di  Desio,  e  Nerzoe  di  Sesto,  ed  Obizzo 


I 


—  61  ~ 

de'Bernareggi,  prevosto  di  Vimercale,  e  Maifredo  Lilla,  tulli  or- 
dìDarii  della  detta  metropolitana,  ed  i  signori  Gabriele  degli  Uc- 
celletti, Guido  Stampa,  Maifredo  di  Grepa,  Giacomo  Cnllica  e 
Bellono  Mora  tutti  dottori  in  ambe  le  leggi  ;  stati  essendo  essi 
tolti  precedentemente  avvisati  per  ordine  del  soprascritto  si- 
gnor arcivescovo,  come  consta  dall'avviso  scritto  nel  quaderno 
di  Maifredo  da  Cara,  notaio  dell'  Officio  dell'  Inquisizione,  nel 
giorno  di  lunedi  prossimo  passato.  E  letti  ivi  e  recitati  alcuni 
processi  e  constituli  eseguiti  dai  predetti  frati  Guido  e  Raineri, 
Inquisitori,  o  dall'uno  di  essi,  e  presi  in  seria  considerazione  e 
spiegati  integralmente  secondo  la  forma  consegnata  dal  santo 
padre,  papa  Bonifacio  Vili,  al  diocesano  ed  agl'inquisitori  del- 
reretica  pravità;  e  domandato  e  richiesto  il   consiglio  de'pre- 
detli  intorno  ai  summentovali  processi  dall'arcivescovo  e  dagli 
inquisitori;  da  ultimo  di  pieno  accordo  e  conformila,  nessuno 
discrepando,  dissero  e  decisero  che  suor  Giacoma  de'Bassani  da 
Nova,  dell'ordine  degli  umiliati,  della  casa  di  Biassonno  situata 
nella  città  di  Milano  presso  al  ponte  vecchio  di  Brera  del  Guer- 
cio, si  può  e  si  deve  giudicare  eretica  e  ricaduta  nell'  abjurata 
eresia;  e  che  quindi,  senz'altra  udienza,  si  avesse  ad  abbando- 
nare al  giudizio  secolare.  Fatto  nel  predetto  palazzo,  alla  pre- 
senza di  tutti  i  soprascritti.  Tale  fu  dunque  la  norma  colla 
quale  codesta  suor  Giacoma  venne  consegnata  al  tribunale  e 
braccio  secolare  dal  giudizio  ecclesiastico;  e  questa  possiamo 
credere  essersi  del  pari  osservata  con  quelli  altri,  che  diremo 
dappoi  essere  stati  in  castigo  dell'eresia  condannali  al  rogo, 
come  fu,  e  il  cadavere  della  Guglielma  disseppellito,  ed  Andrea 
Saramila,  e  suor  Maifreda  da  Pirovano.  Perocché  non  è  punto 
dubbio  che  codesta  suor  Giacoma  abbia  tocco  una  sorte  del 
pari  infelice. 

XXV. 

//  cadavere  della  Guglielma  vien  disseppellito  e  bruciato. 

i.  Questo  fallo  ne  vieu  attestato  dai  processi  che  furono 
ultimati  non  già  nell'anno  di  Cristo  1300,  ma  due  anni  più 
tardi:  de'quan  processi  due  pagine  in  carta  pergamena  per 
buona  fortuna  rimasero  salve  e  superstiti;  e  la  prima  di  esse 
contiene  Pesame  di  Marchisio  Secco,  che  abitava  allora  nel  mo- 
nastero di  Chiara  valle  e, fu  esaminato  il  12  febbraio.  Questi 


—  62  — 

adunque  interrogato  allora  se  egli  avesse  sparlato  di  coloro  che 
avevano  fatto  bruciare  il  corpo  della  Guglielma,  o  se  avesse  cre- 
duto che  coloro  avevano  mal  fatto,  rispose  che  no  e  ch'egli  non 
si  mescolava  punto  di  quella  faccenda.  Disse  bensì  che  ciò  non 
nuoceva  punto  a  colei,  se  era  in  paradiso,  e  che  gli  inquisitori 
aveano  saggiamente  operato,  e  che  tulio  ciò  eh' erasi  eseguito 
intorno  a  quella  Guglielma  erasi  eseguito  di  buon  drillo,  a  quanto 
egli  crede. 

2.  Il  cadavere  poi  della  Guglielma  fu  desso  tratto  di  sepol- 
tura e  consegnato  al  fuoco  nello  stesso  anno  1300,  nel  mese 
di  settembre,  e  nello  spazio  di  tempo  che  corre  fra  il  2  ed  il  9 
di  detto  mese.  Io  per  fermo  la  penso  cosi,  indottovi  da  questa 
congettura  che  ricavai  dai  processi  di  quell'anno  e  mese.  Peroc- 
ché, essendo  stato  interrogalo  il  di  2  di  detto  settembre  mae- 
stro Beltramo  da  Forno,  in  tal  modo  si  parlò  della  Guglielma: 
•  Quella  sepolta  presso  il  monastero  di  Chiaravalle.  »  Dalla 
quale  maniera  di  dire  é  chiaramente  indicato  che  fino  a  quel 
giorno  il  corpo  della  Guglielma  continuava  a  rimanere  ove  era 
stato  sepolto.  Essendo  poi  stato  esaminato  il  giorno  9  di  detto 
mese  Francesco  Garbagnati,  la  stessa  Guglielma  veniva  in  tal 
modo  nominala  e  quella  che  era  sepolta  presso  il  monastero 
di  Chiaravalle,  »  come  se  in  quel  giorno  ella  non  rimanesse 
nel  luogo  di  sua  sepoltura. 

3.  Che  il  cadavere  della  Guglielma  fa  bruciato  nello  slesso 
rogo  e  giorno  che  Andrea  Saramita,  molti  scrittori  lo  credettero, 
e  sembra  verisimile:  questi  poi  era  stato  bruciato  o  nel  giorno  9 
settembre  o  non  molli  giorni  prima. 

4.  Intanto  io  non  ammetto  per  fermo  quanto  Paolo  Mo- 
rigia  nel  libro  I  della  sua  Storia  dell'antichità  di  MilaaOy  ca- 
po XIII,  all'anno  di  Cristo  1311,  narrava  intorno  a  questa  Gu- 
glielma; poiché,  •  avendo  pariato  della  sella  di  frale  Dolcino, 
novarese,  così  in  fine  conchiudeva  :  «  Dolcino  con  Margherita 
sua  moglie  furono  fatti  in  quarti  sulla  piazza  di  Vercelli  e  poi 
abbruciati,  ed  il  medesimo  fu  fatto  di  Guglielma  a  Porta  Nuova 
di  Milano. 


—  63  — 
XXVI. 

Andrea  Saramita,  il  principale  alunno  della  Guglielma,  viene 
abbmciato. 

1.  Adunque  nel  settembre  del  1300,  addi  9  di  detto  mese 
0  poco  prima,  Andrea  Saramita  era  già  morto,  vale  a  dire  in 
castigo  deir  eretica  sua  pravità  era  già  stato  abbruciato.  Per 
il  che  in  quel  medesimo  giorno  anche  la  moglie  di  lui  venne 
citata  davanti  all'ufficio  della  santa  Inquisizione  ed  esaminata; 
e  la  menzione  che  se  ne  fa  nel  processo  di  detto  giorno  co- 
mincia come  segue:  <  La  signora  Ricadona  moglie  del  fu  Andrea 
Saramita  della  città  di  Milano,  nel  borgo  fuori  di  Porta  Coma- 
sina,  citata,  ecc.  comparve  nel  1300  in  venerdì,  giorno  9  di  set- 
tembre, indizione  14,  cominciata  in  quelPistesso  mese  di  set- 
tembre. »  Segue  quindi  l'esame  di  lei,  e  fra  le  altre  interroga- 
zioni le  furono  fatte  le  seguenti:  Se  Andrea  Saramita  già  suo 
manto  le  avesse  mai  detto  che  la  Guglielma  sepolta  presso  il 
monastero  di  Chiaravalle  era  lo  Spìrito  Santo;  se  il  detto  An- 
drea 0  altri  le  avesse  mai  detto  che  la  Guglielma  avea  a  risor- 
gere prima  dell'universale  risurrezione,  ecc.;  se  creda  che  il  detto 
Andrea  e  suor  Fiordibellina  figlia  del  fu  Andrea  e  di  essa  si- 
gnora Ricadona,  o  alcuno  di  loro  avesse  detto  alcun  che  di  non 
vero  a  danno  della  stessa  signora  testimone;  quanto  vino  v'aveva 
in  casa  sua  e  del  detto  Andrea  ;  quando  questi  (il  che  é  pur 
degno  d'osservazione)  venne  preso  ed  imprigionalo  per  ordine 
degli  inquisitori  ;  se  ella  sapesse  che  alcune  cose  erano  slate 
esportate  o  trafugate  per  alcuno  dalla  casa  del  predetto  Andrea 
quando  egli  fu  catturato  come  sopra.  >  Ecco  quanto  ella  rispose 
a  quest'ultima  interrogazione,  e  quinci  almeno  n'è  dato  rile- 
vare l'abbietta  condizione  di  quelfuomo.  Perocché  ella  rispose 
che  no:  se  non  che  essa  testimone  e  gli  amici  di  lei  fecero 
esportare  da  quella  casa  il  suo  letto  per  timore  del  comune 
di  Milano,  ma  cbe  poi  ^ ella  fece  riportare  quel  letto  nella  casa 
medesima. 

2.  Di  questo  Andrea  il  padre  si  chiamò  Gerardo,  la  madre 
Ricadona,  ed  una  sorella  monaca  umiliata  ebbe  nome  Migliore. 
E  queste  avevano  ambedue  aderito  all'eresia  guglielminiana , 
come  consta  dai  processi  tante  volte  da  me  prodotti  e  nomi- 
natamente dalle  testimonianze  dello  stesso  Andrea  e  di  suor 


—  64  — 

Maifreda.  11  primo  giorno  (e  fu  il  30  luglio)  in  che  fu  esami- 
nalo Andrea,  fra  le  altre  cose  veniva  interrogato  se  sapesse  od 
avesse  udito  che  alcuno  diceva  o  credeva  mentre  che  la  Gu- 
glielma era  in  vita  o  dopo  la  morte  di  lei  essere  la  della  Gu- 
glielma lo  Spirito  Santo.  Ed  egli  rispose:  «  avere  udilo  da 
suor  Maifreda  da  Pirovano,  da  suor  Migliore  sua  sorella  e  dalla 
signora  Ricadona  sua  madre  che  elleno  credevano  essere  la 
Guglielma  lo  Spirito  Santo,  la  terza  persona  della  santissima 
Trinila.  •  Interrogalo  poi  indi  a  poco  se  la  predetta  sua  madre  e 
sorella  erano  morte  in  quelPerroré  o  ne  erano  state  assolte , 
rispose  •  che  non  morirono  in  quell'errore,  ma  ne  furono  assolte 
da  frate  Maifredo  da  Dovara  dell'ordine  dei  predicatori,  ch'era 
allora  inquisitore,  e  s'erano  ricredute  del  loro  errore,  i  Tosto 
dopo  interrogato  didfiuovo  se  sapesse  od  avesse  udito  che  quelle 
signore  dopo  essere  slate  assolte,  prima  che  morissero ,  erano 
ricadute  e  perseveravano  in  quel  medesimo  errore,  rispose  che 
no,  che  nulla  di  poi  ne  aveva  saputo  ed  udilo.  Cosi  Andrea  nel 
suo  primo  esame  ;  ma  nel  quarto,  che  ebbe  luogo  il  16  agosto, 
disse  quest'altre  cose:  Interrogato,  ecc.,  da  quanto  tempo  era 
morta  la  signora  Ricadona  madre  suo,  rispose  da  dodici  e  più 
anni.  Interrogato  se,  dopo  che  la  signora  Ricadona  sua  madre 
aveva  abiurato  ogni  eresia  in  presenza  di  frate  Maifredo  da 
Dovara,  la  stessa  signora  Ricadona  aveva  avuto  e  ritenuto  la 
medesima  credenza,  che  cioè  la  Guglielma  era  lo  Spirilo  Santo, 
rispose  e  disse  credere  egli  che  sua  madre  dopo  la  terza  abiura 
aveva  tenuto  la  medesima  credenza.  Interrogalo  il  prenominato 
Andrea  per  qual  ragione  così  credesse,  rispose  perché  sua 
madre  conversava  di  spesso  con  suor  Maifreda  da  Pirovano 
dell'ordine  degli  umiliati,  la  quale  credeva  e  teneva  per  fermo 
che  la  defunta  Guglielma  era  lo  Spirito  Santo.  Però  non  i'avea 
punto  udito  dalle  parole  della  predetta  signora  Ricadona  sua 
madre.  Parimenti  interrogato  se  suor  Migliore  de'Saramiti  della 
casa  degli  umiliati  di  Biassonno,  sorella  carnale  di  Andrea, 
dopo  la  sua  abiura  avesse  continualo  nella  credenza  che  la 
Guglielma  era  lo  Spirilo  Santo,  rispose  e  disse:  «  Credo  che  si; 
perchè  di  spesso  e  alla  domestica  conversava  colla  predelta 
suor  Maifreda,  la  quale  credeva  ed  insegnava  che  la  Gugliema 
era  davvero  lo  Spirito  Santo.  •  Fin  qui  Andrea  Saramila.  E  che 
disse  ella  la  stessa  suor  Maifreda  nel  suo  terzo  esame,  addì  17 
di  agosto?  Interrogata  da  frate  Guido  inquisitore  da  quanto 
tempo  era  trapassala  la  madre  di  Andrea  Saramila  che  chiama- 


—  65  — 

vasi  la  signora  Ricadona,  rispose:  da  dieci  anni  circa,  secondo 
che  ella  crede.  Interrogala  eziandio  da  quanto  tempo  era  morta 
la  sorella  dello  stesso  Andrea,  nominata  Migliore,  rispose:  da 
sette  anni  in  qaa.  Interrogata  se  alcuna  suora  della  casa  di 
Biassonno ,  fra  quelle  che  vi  erano  rimaste  dopoché  la  stessa 
suor  Maifreda  eraseno  allontanata ,  come  diremo  nel  capo  che 
segue,  se  alcune  dico  di  esse  credeva  ciò  che  essa  Maifreda 
credeva,  rispose  che  no,  e  che  nulla  sapevano  delle  predette 
cose.  Ma  che  le  prenominate  signore  Ricadòna  e  Migliore  le 
credevano  e  n'erano  bene  informate  ;  ma  che  non  sapeva  se 
avessero  perseverato  in  quella  credenza  sino  al  punto  di  morte, 
e  qual  fine  elleno  avessero  avuto. 

3.  Quanto  poi  Andrea    fosse  attaccato  alla  Guglielma  ed 

alla  dottrina  di  lei  è  già  abbastanza  chiarito ,  né  ha  bisogno 

di  veran'  altra  prova.  Rimane  ora   che  dimostriamo  quanto  a 

vicenda  fosse  Andrea  accetto  e  caro  alla  medesima.  Lo  attesta 

Francesco  Chierico ,  figlio  del  signor  Gaspare  da   Garbagnate , 

della  città  di  Milano,  del  borgo  fuori  di  Porta  Comasina.  Avea 

egli  scritto  una  lettera  indirizzata  alla  signora  Diograzia   ed  a 

Primogenito.  Essendo  stato  interrogato  il  giorno  4  ottobre  che 

avesse  voluto  significare  in  quei  nomi,  rispose,  come  si  ha  dal 

processo  :  che  per   la  signora  Diograzia,  nominata  da  lui  nel 

soprascritto  di  alcune  sue  lettere,  intendeva  suor  Maifreda  da 

Pirovano;  e  per  il  Primogenito,  nominalo  nelle  stesse  lettere , 

intendeva  Andrea  Saramila  ;  il  quale  Andrea  fu  dei  primi  ad 

essere  istruito  nei  predelti  errori  della  Guglielma,  e  perciò  essa 

dava  ad  Andrea  Tappellazioue  di  Primogenito,  come  la  stessa 

Goglielraa  avealo  detto  ad  esso  Francesco.  Quindi  Andrea  era 

il  principale  fra  i  devoti  della  Guglielma. 

4,  Finalmente  poi  merita  di  essere  qui  osservalo  che,  cir- 
ca 17  anni  prima  d'ora,  lo  stesso  Andrea  Saramita  e  suor  Mai- 
freda erano  stati  accusati  di  credere  che  la  Guglinlma  era  lo 
Spirito  Santo,  e  che  essendo  stati  per  ciò  chiamati  in  giudizio, 
avevano  fatto  l'abiura  di  quell'eresia.  Interrogata  la  detta  Alle- 
granza  moglie  di  Giovanni  Perusio  il  19  settembre  dal  sopra- 
scritto inquisitore,  se  nrai  avesse  accusato  Andrea  o  suor  Mai- 
freda, 0  se  sapesse  che  altra  persona  li  avesse  accusati  ad  al- 
cun inquisitore  degli  errori  che  andavano  insegnando,  rispose 
e  disse  «  che  possono  essere  sedici  anni  o  all'incirca  dacché  essa 
testimone  e  la  predelta  Carabella  e  la  signora  Bellafìore  avevan 
nolificatA  le  anzidette  cose  a  frale  Maifrcdo  da  Dovara,  ch'era 

Tamb.   Inrjuis,  Voi.  II.  0 


—  66  — 

allora  inquisitore,  come  ella  crede.  »  E  allora  il  detto  frate  Mai* 
frodo  inquisitore  mandò  per  suor  Maifreda,  per  Andrea  Saramita 
e  per  la  madre  del  detto  Andrea  (Ricadona)  e  per  una  sorella 
del  medesimo  (  Migliore)  e  per  la  signora  Bellacara  de'Caventani, 
e  feceli  tutti  giurare.  La  quale  Allegranza  testimone  e  la  Cara- 
bella  avevano  udito  da  Andrea  Saramita  che  la  Guglielma  era 
lo  Spirito  Santo  e  Dio.  Da  suor  Maifreda  per  allora  non  Faveano 
udito.  Quindi  pertanto,  per  testimonianza  di  maestro  Giacomo 
da  Forno,  esaminato  queiristesso  giorno  19  settembre,  i  pre- 
detti Andrea  e  suor  Maifreda  eransi  lamentati  con  lui  testimone 
perchè  la  prenominata  Carabella  e  TAllegranza  de'Perusi  ave- 
vanli  accusati  or  sono  17  anni  davanti  l'inquisitore  d'aver  detto 
e  creduto  che  la  Guglielma  era  lo  Spirito  Santo.  E  parimenti 
essendo  stata  la  stessa  suor  Maifreda  interrogata  nel  suo  primo 
esame  se  frate  Maifredo  da  Dovara  aveala  assolta  quando  fece 
l'abiura  nelle  di  lui  mani,  rispose  <  che  si  e  ch'era  ciò  seguito 
in  questa  chiesa  dei  frati  della  casa  di  Marliana,  nella  quale 
ora  siamo.  E  fu  in  lunedi,  ed  assolvendola  diceva  il  frate,: 
Signore,  abbi  pietà  di  me.  E  non  ricordavasi  se  il  detto  frate 
la  percuotesse  con  qualche  bastone  o  con  verga.  »  Questa 
chiesa  poi  dei  frati  della  casa  Marliana  fuor  di  dubbio» era  la 
chiesa  che  entro  i  Ani  di  Porta  Ticinese  è  dedicata  ai  santi 
Apostoli  Simone  e  Giuda,  e  data  oggi  al  collegio  Taeggi.  Poi- 
ché in  quel  tempo  vi  abitavano  dei  frati  dell'ordine  degli 
umiliati. 

XXVII. 

Anche  suor  Maifreda  in  pena  delV eretica  sua  pravità  viene  ab- 
bruciata. 

1.  Peraltro,  dì  questo  sùpplicio  di  lei  nulla  si  ha  in  questi 
processi  dei  quali  abbiamo  fatto  uso  fin  qui.  Ne  suppliscono  il 
difetto  altri  processi  eseguiti  nel  1322,  e  pubblicati  parola  per 
parola  da  Fernando  Ughelli,  al  tomo  IV  della  sua  Italia  sacra, 
ove  è  il  catalogo  dei  nostri  arcivescovi,  num.  101.  Tali  processi 
furono  tenuti  da  Riccardo  nostro  arcivescovo  d'allora  insieme 
con  alcuni  dei  vescovi  suoi  sufTragauei  ed  alcuni  inquisitori 
dell'eretica  pravità,  nel  sinodo  adunato  a  Berzolio  villaggio  del- 
l'Alessandrino, a  danno  di  Matteo  Visconti  signore  di  Milano , 
per  timore  del  quale  Riccardo  stavasi  come  in  esigilo.   Negli 


\ 


—  Gr- 
atti adanqoe  di  qael  sinodo  anche  ciò  ponevasi  a  carico  di 
Matteo.  Una  Yolta  eziandio,  governando  di  fatto  la  stessa  città 
(di  Milano),   pregò  che  venisse  liberata  una  certa  eretica   di 
nome  Maifreda,  sostenuta  allora  in  prigione  e  che  fa  poco  dopo 
abbandonata  ai  tribunale  secolare  e  da  ultimo  consegnata  alle 
fiamme  del   rogo.  Tali  atti  sinodali  per  altro  (non  è  a  tacersi) 
vennero  annullati  da  papa  Benedetto  XII,  come  difettosi  e  con* 
trarli  alle  antiche  pratiche,  come  si  rileva  dal  diploma  di  lui 
dato  in  Avignone  alle  none  di  maggio  V  anno  settimo  del  di 
lui  pontificato  riportato  in  quello  stesso  tomo  IV  e  nel  catalogo 
.    d^Ii  anniversari ,  cioè  dove  parlasi  dell'arcivescovo  Giovanni , 
I    primo  di  questo  nome,  trapassato  nell'anno  1354.  Ma  siffatto 
\    annullamento  non  toglie  che  si  possa  dai  medesimi  atti  senza 
\    dubbio  raccogliere  e  che  fosse  stato  dato  un  tale  carico  a  Matteo 
[  in  quel  sinodo  e  che  quella  Maìfreda  fosse  abbruciata  in  pena 
di  eresia. 

2.  Non  voglio  però  negare  quanto  Bernardfno  Corlo  e  Tri- 
stano Calco  ed  Àbramo  Bzovio  affermarono  francamente  intorno 
all'anno  dì  Cristo  1318;  che  cioè  in  quell'anno  fu  imputato  a 
delitto  a  Matteo  l'aver  esso  prestato  favore  alla  stessa  Guglielma. 
Fra  le  altre  cose  gli  opponevano  (sono  le  parole  del  Corio)  che 
avea  conservato  quella  meretrice  eretica  detta  Guglielma  della 
qnale  abbiamo  parlato  sopra.  Calco  poi  nel  libro  21  della  Storia 
patria  fra  le  altre  cose  che  si  rinfacciavano  a  Matteo  ed  a'  di 
lai  figli  ricordava  l'aver  eglino  dato  favore  alla  Guglielma,  inse- 
gaatrice  di  strane  dottrine.  Quindi  aggiungeva  tosto  a  loro 
difesa  :  t  le  quali  cose  quanto  avessero  di  vero  potevasi  racco- 
gliere anche  dal  solo  nome  di  quella  meretrice,  essendo  palese 
che,  non  appena  venne  ciò  a  cognizione,  gli  autori  di  quelPabo- 
minevole  setta,  per  ordine  di  Matteo,  erano  stati  consegnali  ai 

;    superiori  ecclesiastici  e  per  giudizio  loro  condannati  ed  abbru- 

^1    ciati.  •  Finalmente  Bzovio  all'articolo  2  fra  le  colpe  per  le  quali 

I    lo  stesso  Matteo  Visconti  era  stato  allora  scomunicato  da  papa 

'     Giovanni  XXII  annoverava  anche  questa,  togliendola  dalla  storia 

di  Bernardino  Corlo,  d'avere  cioè  messa  nel  novero  delle  sante 

la  meretrice  Gaglielma,  la  più  infame  di  tutte  le  beghine. 

3.  Del  resto,  suor  Maifreda  (come  fu  già  sovente  detto)  era 
monaca  umiliata  e  della  casa  ossia  monastero  che  dicevasi  da 
Biassonno:  ed  ivi  era  vissuta  alcun  tempo,  anzi  vi  aveva  tenuto 
ragioDamenli  coi  seguaci  della  Guglielma  e  pranzato  secoloro 
DOD  senza  il  dispiacere  delle  altre  monache  della  casa.  Quindi 


-  68- 

è  che  nel  primo  esame  della  signora  Bellacara,  addi  26  luglio, 
leggesi  come  sopra  :  Interrogata  la  stessa  Bellacara  se  fossesi 
trovata  con  altre  donne  ed  uomini  in  luogo  ove  la  delta  Mai- 
freda  avea  predicato  e  parlato  a  modo  di  chi  predica,  rispose 
che  si,  e  molte  volte  nella  casa  delle  suore  di  Biassonno  e 
neiroratorio  ove  erano  adunale  molte  persone  in  modo  d'esserne 
quasi  pieno  V  oratorio.  E  la  stessa  suor  Maifreda  esponeva  a 
volte  l'Evangelio,  ed  a  volte  parlava  di  santa  Caterina  e  di  altri 
santi.  Ma  dopo  che  la  detta  Maifreda  era  uscita  di  quella  casa 
di  Biassonno,  non  aveala  più  udita  predicare  od  esporre  come 
sopra.  Anche  dal  primo  esame  della  stessa  Maifreda  sostenuto 
il  2  agosto  si  hanno  tali  cose:  Interrogata  se  da  otto  o  sei  anni 
in  qua ,  dopo  cioè  ch'ella  aveva  abiurato  come  sopra ,  alcune 
persone  si  raccogliessero  presso  di  lei ,  rispose  iche  si ,  nella 
casa  delle  predette  suore  di  Biassonno,  alle  volte  in  parlatorio, 
alle  volte  in  infermeria  ed  altre  volte  sotto  al  portico.  E  quivi 
recitava  alcuni^miracoii  tratti  dall'Evangelio  e  dall'Epistole,  ed 
altre  cose  che  riguardavano  gli  apostoli.  Fra  queste  persone 
v'aveva  talvolta  Andrea  Saramita,  Simonino  Montanaro,  e  Fran- 
ceschino  Malcolzato.  Ma  i  maschi  non  vi  mangiavano  giammai, 
ad  eccezione  del  detto  Franceschino  ;  le  femmine  bensi  vi  man- 
giavano qualche  volta.  Interrogata  la  stessa  suor  Maifreda  se 
le  suore  delia  delta  casa  di  Biassonno  non  le  avessero  mai 
mosso  alcun  rimprovero  a  cagione  di  banchetti  e  di  quelle 
adunanze,  rispose  che  si,  e  più  volte.  Interrogata  se  nella  casa 
dei  Cuttica,  ove  ora  abitava,  tenevansi  pure  di  simili  adunanze 
quali  tenevansi  nella  casa  delle  suore  di  Biassonno,  rispose: 
non  in  si  gran  numero,  ma  due  o  quattro  persone  al  più  per 
volta. 

4. 1  rimproveri  poi  che  s'ebbe  suor  Maifreda  ripetutamente 
dalle  altre  monache  di  quel  monastero  per  quelle  adunanze  e 
conviti  0  bagordi,  io  imagino  provenissero  da  ciò,  che  elleno 
erano  sommamente  avverse  all'  eretica  di  lei  dottrina.  Difatti 
la  stessa  suor  Maifreda,  interrogala  il  17  agosto  se  alcuna  delle 
suore  della  casa  di  Biassonno,  fra  quelle  che  vi  rimasero  dopo 
che  ella  orasene  allontanata ,  credesse  ciò  che  ella  credeva , 
rispose  che  no  e  che  non  erano  informate  delle  predette  cose. 

5.  Maifreda  pertanto,  sì  frequentemente  ripresa  dalle  sue 
consorelle,  finalmente  decise  d'abbandonare  quella  casa  unita- 
mente con  tre  altre  intinte  della  medesima  eresia,  vale  a  dire 
quella  Giacoma  de'Bassani  il  cui  fine  infelice  abbiamo  indicato 


—  69  — 

al  capo  XXIV  e  Fiordebellina  Sarami ta  ed  Agnese  Montanara» 
che  si  ricredettero,  come  diremo  più  sotto;  e  si  pose  ad  abitare 
con  esse  nella  casa  di  un  tal  Guglielmo  Cuttica,  detto  altrimenti 
Cod^,  come  sopra  abbiamo  veduto. 

XXVIII. 

Alcuni,  settatori  della  Guglielma  pentiti  vengono  assolti:  ed  i 
più  d' essi  vengono  obbligati  a  portare  due  croci  di  color 
rancio,  runa  sul  petto,  l'altra  sul  tergo. 

i.  Queste  cose  appaiono  manifestissime  dai  processi  da  me 
citati  in  quest'opera  e  che  io  fedelmente  riproduco. 

2,  La  signora  Sibilla  de'Malcoizato  scomunicata,  come  ere- 
retìca  e  fautrice  di  eretici,  da'frati  Guido  da  Cocbenato  e  Raineri 
da  Pirovano  deir  ordine  de'  predicatori,  inquisitori  deir  eretica 
pravità,,  ecc.,  come  sopra,  comparve  Tanno  1300/ indizione  quat- 
tordicesima, giovedì  6  del  mese  di  ottobre,  nella  chiesa  di  San- 
V  Eostorgio  ;de'  frati  predicatori,  alla  presenza  del  sunominato 
frate  Raineri  inquisitore,  pregando  e  supplicando  Tassolvesse  dalla 
scomunica  ch'aveva  incorsa  per  colpa  d'eresia  o  di  favore  dato 
all'eretica  pravità  e  specialme^nte  alla  dottrina  bugiarda  di  suor 
Maifreda  e  di  Andrea  Saramita.  Per  lo  che  frate  Raineri,  come 
sopra,  condiscendendo  alle  preghiere  di  lei,  ricevutone  prima  il 
giuramento  ch'avrebbe  obbedito  ai  comandi  della  Chiesa  e  del 
detto  inquisitore  e  degli  altri  inquisitori,  salvi  gli  altri  giura- 
menti ed  obblighi  per  essa  assunti  in  presenza  degli  inquisi- 
tori» assolse  la  predetta  signora  Sibilla  da  qualunque  vincolo 
di  scomunica  e  soltanto  delle  colpe  confessate,  e  la  restituì  ai 
sacramenti  della  Chiesa.  E  il  detto  frate  Raineri,  inquisitore, 
comandò  alla  sunominata  signora  Sibilia  che  dovesse  integrai-  ' 
mente  osservare  e  non  trasgredire  tutte  e  singole  le  cose  che 
le  furono  già  ingiunte  durante  la  sua  abiura  e  che  le  verranno 
in  seguito  ingiunte  dallo  stesso  inquisitore  e  da  altri  inquisitori. 
Qualora  ella  facesse  il  contrario  in  alcuni  punti  di  certa  scienza 
e  coscienza,  ricadrebbe  issofatto  nella  stessa  sentenza  di  sco- 
munica, qual  era  prima  dell'assoluzione,  facendosi  perciò  ma- 
nifesto che  la  trasgreditrice  non  era  veramente  convertita,  ma 
che  con  finzione  ed  ingannò  aveva  giurato  e  spergiurato.  E 
^atta  formula  d' assoluzione  a  noi  basta  per  ora,  e  questa  si 
sa  essere  stata  usata  del  pari  con  altre  persone  che  vennero 


-  70- 

allora  similmente  assolte.  Del  qaal  numero  furono  il  29  novem- 
bre la  signora  Catella,  moglie  del  signor  Leone  Oldegardo,  e  la 
signora  Pietra,  moglie  del  signor  Tomaso  parimenti  Oldegardo. 
Tre  donne  adunque  troviamo  fin  qui  stale  assolte  dalla  sco- 
munica a  questo  modo. 

3.  Passo  ora  ad  altri,  e  in  maggior  numero,  stati  assolti  in 
poco  differente  maniera.  Poiché  a  costoro,  a  cagione  de'Ioro  ec- 
cessi neireretfca  pravità,  fu  inoltre  ingiunto  che  portassero  due 
croci  di  color  rancio,  cuqite  esternamente  sui  loro  vestiti,  e  rag- 
guardevoli, sul  petto  runa,  l'altra  sul  tergo.  Questa  formola  di 
assoluzione,  adottata  allora  per  la  prima  volta,  è  si  fatta:  e  U 
maestro  Giacomo  da  Perno,  figlio  del  fu  maestro  parimenti  Gia- 
como da  Perno,  della  città  di  Milano,  di  Porta  Vercellina,  al 
quale  frate  Guido  inquisitore  aveva  ordinato  di  portare  due 
croci  di  colore  rancio,  sul  petto  Funa,  Taltra  sulle  spalle,  come 
è  chiarito  dalla  carta  consegnatagli  da  Maifredo  da  Cera,  notaio 
deiruffìcio  d'Inquisizione,  Tanno  soprascritto  1300,  sabbato  gior- 
no iO  del  mese  di  settembre,  indizione  quattordicesima,  com- 
parì davanti  ài  sunominato  frate  Guido  inquisitore,  supplicando 
umilmente  gli  desse  licenza  di  deporre  le  dette  croci.  All'umiltà 
del  quale  posta  attenzione  e  consideralo  ch'aveva  ricevuto  pa- 
zientemente e  con  umiltà  portato  quelle  croci,  frate  Guido,  dopo 
avere  recitate  in  presenza  del  sovrascritlo  maestro  Giacomo  e 
di  alcuni  amici  del  medesimo  ch'erano  secolui  l'alto  di  abiura, 
i  giuramenti  e  le  obbligazioni  assunte  da  maestro  Giacomo  per 
le  mani  degl'inquisitori  e  le  colpe  e  le  sentenze  a  carico  dello 
stesso  Giacomo  contenute  nella  sentenza  portata  dall'inquisitore, 
il  detto  frate  Guido  concesse  e  diede  a  maestro  Giacomo  la  fa- 
coltà e  licenza  di  deporre  le  croci  stategli  imposte  per  le  disor- 
bitanze  da  lui  commesse  nell'  eretica  pravità  ;  salva  del  rima- 
nente la  sentenza  pronunciata  contro  lui  dal  sunominato  frate 
Guido,  che  aveva  a  mantenersi  in  tutto  il  suo  rigore.  Fatto  a 
Milano,  nella  casa  de'fratì  predicatori,  nella  camera  ov'è  l'UfS- 
cio  dell'Inquisizione  delPeretica  pravità,  alla  presenza  del  sovra- 
scritto inquisitore,  1300,  il  lunedì,  giorno  5  del  mese  di  dicem- 
bre. »  E  poco  dopo  :  e  II  sumenzionato  frate  Guido ,  inquisi- 
tore, come  sopra,  ordinò  al  predetto  maestro  Giacomo  da  Perno, 
ivi  presente  ed  ascoltante,  che,  a  tenore  del  prestato  giuramento 
ed  in  compenso  delle  pene  alle  quali  è  tenuto  per  sentenza  del- 
l'Inquisizione, deponga  sul  tavolo  del  signore  Monageno  Quare- 
sima, cassiere  della  città  di  Milano,  a  suo  nome  e  a  quello  del- 


-  71  — 

rUfficio  e  della  Chiesa,  per  il  giorno  primo  di  febbraio  p.  futuro 
imperiali  L.  25  per  una  parte  delle  pene  incorse  e  delle  colpe 
per  esso  lui  commesse  in  favore  dell'eretica  pravità.  Fatto  come 
sopra,  ecc.  »  Secondo  questa  formola  d'assoluzione,  del  pari 
che  quel  maestro  Giacomo  da  Perno,  anche  taluni  altri  già  affi- 
gliati alla  setta  guglielminiana  ebbero  il  permesso  di  deporre 
quelle  due  croci. 

4.  I  seguenti  difatti  erano  stati  del  pari  obbligati  a  por- 
tarle: frate  Gerardo  da  Novazano  e  Stefano  da  Cremella  il  29 
ottobre;  Aydelina,  moglie  del  detto  Stefano  e  la  signora  Dionese 
da  Novate  e  la  signora  Fiore  da  Parazolo  e  Daria  de'  Pontari 
il  10  settembre.  E  questi  ebbero  il  permesso  dì  deporlo:  frate 
Gerardo  e  Stefano  il  10  dicembre,  Aydelina  e  Dionese  il  21, 
Fiore  e  Daria  il  23  dello  stesso  mese  di  dicembre. 

5.  Consta  adunque  che  fra  i  settari  della  Guglielmina 
furono  salutarmente  puniti  ed  assolti  due  maschi  e  sette  fem- 
mine. Sebbene  ciò  non  consti  del  pari  intorno  agli  altri,  lo  pos- 
siamo per  altro  non  senza  ragione  supporre,  come  è  a  cre- 
dersi ch'essi  pentironsi  de'loro  errori  veracemente,  e  ritornati  dav- 
vero alla  dottrina  cattolica  vennero  assolti  e  restituiti  alla  comu- 
nione cattolica;  e  che  quindi  quella  dementissima  setta  spensesi 
afiEatto,  sicché  non  se  ne  trovò  in  processo  di  tempo  alcuna 
reliquia. 

XXIX. 

Chi  fossero  e  quanto  pochi  i  seguaci  della  setta  guglielminiana. 

1.  Intorno  a  ciò  udiamo  innanzitutto  suor Maifreda,  come 
si  ha  dal  suo  secondo  esame  del  6  agosto  :  —  Richiesta  la  detta 
suor  Maifreda  di  nominare  tutte  le  persone  maschi  e  femmine 
cui  ella  distribuì  le  ostie  per  lei  stessa  benedette,  ed  insegnò  i 
snmenzionati  errori,  rispose  che  furono  le  seguenti  signore: 

Sibilia,  moglie  del  fu  Beltramo  Maleolzato. 

Pietra  e  la  signora  Catella  ambe  degli  Oldegardo. 

Dionese  da  Novate. 

Margherita,  moglie  del  fu'  Robiate  da  Novate. 

Bellacara,  moglie  di  ser  Bonadeo  Caveotano. 

Aydelina,  moglie  di  Stefano  da  Cremella. 

Fiora,  che  sta  in  casa  di  Ruggero  de  Luna. 


-  72  — 

AUegranza  de'  Perusii. 

Pietra,  moglie  del  fa  Mirano  di  Garbagnate  (come  crede). 

Giacomo,  moglie  di  maestro  Giacomo  da  Perno. 

Antonia,  moglie  di  maestro  Beltramo  da  Perno. 

Giacoma  de'Bassani  da  Nova. 

Suor  Piordebellina  de'Saramita. 

Suor  Agnese  de  Montanari. 
Ed  i  signori: 

Andrea  Saramita. 

Simonino  Montanari. 

Maestro  Beltramo  da  Perno, 

Pelicino,  figlio  di  maestro  Giacomo  da  Perno.    * 

Ottorino  e  Pranceschino  fratelli,  figli  del  signor  Gaspare  da 
Garbagnate. 

Albertone  da  Novale. 

Pelicino,  figlio  di  Bonadeo  Caventano. 

Pranceschino  Malcolzato. 

Questi  erano  adunque  i  settari  della  Guglielma  nominati 
allora  da  suor  Maifreda. 

2.  I  medesimi  con  poca  diversità  vennero  poscia  nominati 
da  frate  Gerardo  da  Novazano,  il  19  ottobre  nel  suo  quarto  esa- 
me. Richiesto  il  detto  frate  Gerardo  di  nominare  lutti  quelli  e 
quelle  ch'egli  sa  aver  la  credenza  e  la  devozione  della  Gugliel- 
ma, nominò: 

Maestro  Giacomo  da  Perno. 

Maestro  Beltramo  di  lui  figlio. 

Albertone  da  Novale. 

Simonino  Colleoni. 

Ottorino  e  Pranceschino,  figli  del  signor  Gaspare  da  Gar- 
bagnate. 

Pranceschino  Malcolzato. 

Pelicino  Caventano. 

Sanzino  da  Garbagnate. 

Danisio  Gotta. 

Alberto,  figlio  del  precedente. 

Stefano  da  Cremella. 

Prete  Mirano  Busca. 

Don  Ubertino,  monaco  di  Chiaravalle,  che  serviva  da  sagre- 
stano coloro  che  usavano  intorno  al  sepolcro  della  Guglielma, 
e  fu  loro  dato  da  I  signor  abate  del  monastero. 

Le  signore: 


Sibilla  de'  Malcolzato. 

Aydelina  da  Cremella. 

Bellacara  deXaventani. 

Carabella  de' Toscani. 

All^ranza   de'Penisii. 

Fiora  da  Cantù. 

Benucauta,  moglie  del  signor  Gaspare  da  Garbagnate. 

Bella,  moglie  di  Giacomo  da  Garbagnate. 

Dìonese  da  Novale. 

Interrogato  come  sapesse  che  i  predetti  e  le  predetto  ap- 
partenevano alla  congregazione  della  Guglielma,  rispose  che  osso, 
firate  Gerardo,  andava  con  loro,  e  queglino  e  quelleno  con  lui, 
alle  solennità  ed  ai  conviti  che  tenevansi  in  onore  od  a  vene- 
razione della  detta  Guglielma. 

3.  Suor  Maifreda  pertanto  contava  24.  frate  Gerardo  conia - 
vane  23  di  siffatti  settari  della  Guglielma.  Ma  supponiamo  cho 
fossero  anche  in  maggior  numero,  a  malapena  però  eccedovano 
il  numero  di  30.  Una  si  piccola  cifra  aveva  ad  espriin(»ro 
ed  insieme  indicare  la  condizione,  sesso  ed  età  di  costoro,  acciò 
anche  da  questo  si  comprendesse  in  quante  parti  errassero  de- 
scrivendo la  storia  di  questa  Guglielma  quegli  autori  ai  quali 
opponiamo  questa  nostra  dissertazione. 

Troppo  lungo  riuscirei  se  volessi  proseguire  nel  tradurre 
il  Puricelli,  e  non  volli  offrire  del  suo  prezioso  lavoro  se  non 
quanto  poteva  bastare  per  convincere  il  lettore  che  le  colpo  di 
oscenità  apposte  a  Guglielma  ed  a' suoi  seguaci  erano  infon- 
date, e  non  fu  che  una  tradizione  che  si  propagò, 'più  presto 
frutto  dei  pregiudizi  che  esistevano  nei  popolo ,  perche  questo 
ama  sempre  di  prestare  fede  più  alle  cose  grandi  che  esami- 
nare nella  loro  sostanza  Je  cause  e  gli  effetti.  Basta  che  taluno 
lanci  una  parola,  che  tosto  il  credulo  volgo  la  ritiene ,  la  cir- 
conda di  altre,  racconta  alFamico,  questi  ad  altri,  e  la  si  divul- 
ga in  modo  cosi  spaventoso  che  nessuno  può  più  venire  a  capo 
di  sraiiìcare  dalla  credenza  popolare  gli  errori  adottati. 

E  la  storia  della  Guglielma  ci  presenta  veramente}  una 
prova  dell'intemperanza  popolare,  né  posso  darmi  pace  che  Fio- 
nato  B:>ssi,  scrittore  discreto,  abbia  potuto  contro  irrefragabili 
documenti  persistere  nell'errore.  A  convalidare  poi  quanto  per 
noi  si  asserisce,  recherò  alcune  righe  di  Pietro  Verri  nr>frio  som- 
mo e  laminare  del  secolo  scorso,  che  fece  tant^>  bene  alla  sua 
patria  e  ne  fa  ricompensato  così  male. 

Tahb.  Inquis.  Vul    II.  IO 


—  74  — 

<  Dello  spirito  di  questi  tempi  ce  ne  somministra  idea  il 
famoso  affare  della  Guglielmina.  Questa  donna,  nata  in  Boemia, 
vivea  in  Milano,  dove  morì  nel  1281.  Guglielmina  fu  tumulata 
pomposamente  a  Chiaravalle,  le  fu  recitato  il  panegirico  come 
beata.  Lampade  e  ceri  furonle  accesi  intorno  al  sepolcro,  che 
diventava  ogni  di  più  celebre  per  la  guarigione  degP  infermi  » 
contribuendo  a  tale  celebrità  certa  Maifreda  e  certo  Andrea  ; 
sacerdote,  ch'erano  stati  discepoli  ed  ammiratori  della  Gugliel- 
mina. Ulnquisizione  volle  instituire  processo  intorno  a  ciò,  e 
la  conseguenza  di  tale  processo  fu  che  Guglielmina  fu  cavata 
dal  sepolcro,  e  le  di  lei  ossa  bruciate  ;  e  la  Maifreda  fu  gettata 
viva  nelle  fiamme,  e  vivo  parimenti  fu  bruciato  il  prete  Andrea. 


Pietro    Verri. 


Il  popolo  credette  tutto  nascere  da  prostituzione  esercitata  sotto 
velo  di  religione  nelle  adunanze  della  Guglielmina ,  e  tuttora 
tale  tradizione  volgarmente  viene  ripetuta.  11  Muratori ,  da  un 
manoscritto  antico  che  si  trova  nella  Biblioteca  ambrosiana,  ha 
scoperto  le  accuse  che  si  fecero  a  quegF  infelici.  Guglielmina 
pretendeva  d'essere  lo  Spirito  Santo  incarnato  e  di  essere  figlia 


—  75 


di  Costania,  regina  di  Boemia,  a  coi  Farcangelo  RafRiele  Tavev^ii 
annonàata  nel  gioroo  di  Peotecost^.  Essa  diceva  d'essero  venata 
al  mondo  per  salvare  i  saraceni,  ì  giudei  e  i  calUvi  crtsUanl% 


Abbazia   (lì    Chiarf:v;iMr-, 


losj^nava  che  sarebbe  morta  come  donna,  ma  (k/i  ri.M)rU  per 
safire  al  cielo  alla  preseùVì  de'  som  df.^cepoli ,  e  cti^^  M;^ìfreda 
sarAbe  rìmasia  soa  vicarìa  in  terra  ed  avrebbe  celebrala  la 


—  76  — 

messa  al  sepolcro  di  lei,  poi  nella  metropolitana  in  Milano,  indi  i 
in  Roma,  ove,  abolendo  il  papato  mascolino,  avrebb'eila  seduto  i 
papessa.  Tali  almeno  Turono  i  deliri  che  vennero  imputati  a  quei  i 
miseri,  i  quali  sotto  il  pietoso  e  illuminato  regno  della  civiltà  a 
riceverebbero  una  caritatevole  assistenza  dei  medici  per  ricupe-  i 
rare  il  senno  perduto;  e  allora  furono  consegnati  al  carnefice  j 
per  una  morte  orrenda.  > 

Comunemente  le  opinioni  nuove  intorno  agli  articoli  della 
religione  nacquero  o  presso  nazioni  occupate  di  oziose  o  sofi- 
stiche ricerche  metafisiche,  le  quali  si  pregiavano  di  chimeriche 
e  realmente  vacue  disputazioni ,  ovvero  nacquero  esse  per  un 
abuso  degli  studi  sacri  deir  erudizione.  Da  noi ,  in  mezzo  alla 
ignoranza  del  secolo  decimoterzo,  nessuno  di  questi  poteva  aver 
loro  dato  nascimento.  Il  padre  delPerudizione  italiana,  Lodovico 
Antonio  Muratori ,  ci  ha  fatto  l'enumerazione  degli  errori  che 
venivano  attribuiti  a  questi  eretici.  La  maggior  parte  di  quelle 
opinioni  chiaramente  non  è  cattolica.  Egli  è  vero  però  che  al- 
cune opinioni  ivi  censurate  potrebbero  avere  un  significato 
innocente,  quali  sarebbero  le  seguenti  :  «  La  trista  vita  di  un 
prelato  nuoce  al  suddito  ed  anche  a  quello  che  è  consacrato  a 
Dio.  —  Nella  chiesa  di  Dio  non  debbono  esservi  cattivi  sacerdoti 
e  diaconi.  —  l  preti  cattivi  non  possono  esercitare  il  loro  mi- 
nistero. '^,  1^  Chiesa  non  dee  possedere  alcuna  cosa  se  non 
se  in  coqfluuìe.  —  Alcun  tristo  non  può  essere  vescovo.  —  Non 
è  lecito  ad  aìcano  lo  ammazzare.  >  Ed  è  pur  vero  che  non  ci 
rimane  alcun  libro  di  quei  tempi,  nel  quale  si  contengano  le 
altre  eresie  clie  s'imputavano  a  tanti  nostri  ibilanesi  ;  ed  il 
Muratori  le  ha  tutte  prese  da  un  sol  manoscritto  di  Armanno 
Pungilupa  Certo  è  che»  essendo  grinquisiiori  dipendenti  affatto 
dal  papa,  e  le  loro  sentenze  dovendosi  eseguire  dalla  podestà 
civile  col  bando  e  colla  morte,  la  vita  e  i  beni  di  ciascun  cit- 
tadino erano  dipendenti  dalla  podestà  ecclesiastica  di  Roma ,  e 
conseguentemente  Roma  vi  aveva  indirettamente  acquisita  la 
sovranità. 

E  qui  conchiudendo  la  cronaca  della  Guglielmina  noi  sen- 
tiamo il  dovere  di  dare  una  spiegazione  al  lettore  dell'  esserci 
cosi  a  lungo  indugiati  su  questo  episodio  dei  delirii  umani  e 
della  ferocità  dei  tempi.  Egli  sarebbe  stato  per  noi  impossibile 
il  rendere  colle  nostre  parole  intero  il  quadro  di  quei  processi 
che  pure  il  lettore  ha  diritto  di  volere  dettagliatamente  cono- 
scere. Epperò  di  buon  grado  ci  siamo  indotti  a  copiar  dalle 


—  77  — 

tie  cronache  e  tradorre  dallo  storico  Poricelli  tutte  questo 
te  notizie.  Ora  che  ci  pare  aver  adempito  anche  a  questo 
)  desiderio  e  come  a  dire  messo  innanzi  visibihnente  le 
fasi  di  quel  processo,  che  ben  valgono  a  ritrarn^  la  flso- 
ai  di  quei  tempi,  possiamo  francamente  tornare  alla  parte 
;a,  ben  più  rilevante  della  aneddotica. 


CAPITOLO   II 


Il  pontefice  Clemeiite  V  e  Filippo  11  Bello  re   di  Franeia. 


Tutta  la  colossale  autorità  de'pontefici  non  arrivò  a  spaven- 
tare Filippo  il  Bello.  Diceva  però  egli  d' averla  colla  sola  per- 
sona di  Bonifacio,  e  dichiarò  pubblicamente  che  l'avrebbe  fatto 


Bonifacijo  Vili. 

deporre  in  un  generale  concilio.  Dal  suo  canto  il  papa  cercava 
di  fortificarsi  contro  il  potere  del  re,  e  si  aggiustò  precipitosa- 


-  79  — 

mente  con  quanti  sovrani  era  in  lizza.  Acquietò  la  contesa  che 
avea  con  Odoardo  sul  regno  di  Scozia,  riconobbe  per  re  dei  Ro- 
mani Alberto  d'Austria  e  lasciò  a  Federigo  d' Aragona  il  pos- 
sesso pacifico  delia  Sicilia.  Defini  anco  la  questione  sulPUnghe- 
ria ,  dichiarando  quel  regno  ereditario  e  non  elettivo  »  e  come 
tale  lo  aggiudicò  a  Caroberto,  nipote  di  Carlo  Martello ,  morto 
senza  figliuoli;  ma  la  sua  sentenza  non  venne  eseguita,  ninno 
osservò  l'interdetto  che  Taccompagnava,  e  la  guerra  civile  con- 
tinuò. Frattanto  egli  stendeva  bolle  continue,  e  fino  a  quattro 
ne  pubblicò  in  un  sol  giorno,  nelle  quali  aggravò  sempre  più 
rinterdetto  che  scagliato  avea  sulla  Francia,  sospese  le  univer- 
sità e  le  nomine  a'benefizi  eziandio  con  cura  d' anime,  e  pro- 
curò in  ogni  modo  d'intimorire  i  popoli  per  eccitarli  ad  una 
insurrezione  generale. 

Ei  non  sapea  che  già  Nogaret  era  sceso  in  Italia  con  ordine 
del  re  di  prenderlo  e  condurlo  a  Lione,  dove  tener  si  doveva  il 
.concilio.  Quest'uomo  d'animo  risoluto  si  uni  a'Colonnesi,  che 
avevano  già  obbligato  il  pontefice  a  fuggir  di  Roma  e  a  ritirarsi 
in  Anagni ,  sua  patria,  dove  si  credea  più  sicuro.  Sciarra  Co- 
lonna vi  condusse  Nogaret  in  persona:  essi  sobillarono  gli 
stessi  Anagnini  contro  di  lui ,  e  col  loro  ajuto  sorpresovi  il 
papa,  lo  tennero  prigioniero  tre  giorni,  intanto  che  si  saccheg- 
giavano i  suoi  mobili  e  il  suo  tesoro.  Incostante  però  è  sempre 
il  favor  della  plebe  :  quella  d' Anagni  fu  presto  commossa  dalle 
disgrazie  del  suo  concittadino,  e  si  penti  d'averlo  tradito.  Leva- 
tasi a  un  tratto  contro  i  suoi  rapitori,  e  tolto  loro  non  senza 
spar^mento  di  sangue  il  papa  di  mano,  lo  accompagnò  quasi 
in  trionfo  alla  sua  capitale.  Bonifacio  non  senti  allegrezza  ve- 
rnila di  si  felice  rivoluzione;  tanto  avea  dispetto  d'essere  stato 
ìq  potere  del  sqo  nemico  :  nei  più  violenti  progetti  di  strepi- 
tosa vendetta,  un  accesso  atrabilare  io  condusse  il  mese  seguente 
alla  tomba. 

Benedetto  XI,  pacifico  frate  domenicano,  onorò  per  poco  la 
cattedra  a  cui  lo  condussero  le  sue  virtù  e  non  ebbe  tempo  di 
cancellare  le  macchie  lasciatevi  dal  suo  predecessore.  Egli  è 
goell'umilissimo  papa  che  non  volle  riconoscere  la  madre  co- 
perta di  gemme,  e  1'  onorò  poi  rivestita  de'  suoi  poveri  abiti. 
Nei  pochi  mesi  eh'  ei  visse  fece  ogni  sforzo  per  ricondurre  la 
tanquillità  nell'  agitata  repubblica  :  ristabili  i  Colonnesi,  scan- 
celiò  le  bolle  di  sangue  contro  la  Francia  e  spedi  legati  a  pa- 
cificar r  Ungheria.  Si  vuole  che  i  cardinali  stessi,  mossi  da 


—  80  -. 

invidia,  accelerassero  la  morte  di  luì  in  un  piatto  di  fichi,  di 
cui  era  assai  ghiotto. 

Il  conclave  che  si  tenne  dopo  la  sua  morte  die  agio  alla 
congiura  francese,  per  cui  si  tolse  all'Italia  T  onore  della  sede 
apostolica.  L'arcivescovo  di  Bordeaux,  Bertrando  di  Got,  fu  l'uo- 
mo che  Filippo  trascelse  ad  esser  papa,  dopo  essersi  fatto  con 
inganno  cedere  dai  cardinali  italiani  la  nomina  del  romano  pon- 
tefice. Egli  si  fece  chiamare  Clemente  V  e  stabili  la  sua  residenza 
in  Avignone,  dove  chiamò  i  suoi  elettori  e  tutta  la  corte  roma- 
na. Ivi,  ligio  afliatto  al  re  di  Francia,  secondo  la  promessa  a  lui 
fatta  per  essere  eletto,  cominciò  di  concerto  con  esso  a  tiran- 
neggiare il  resto  d'Europa. 

1  prmi  a  provare  i  funesti  effetti  di  questa  formidabile  coa- 
lizione furono  i  cavalieri  templari.  Noto  è  come  guest*  ordine, 
illustre  nella  sua  nascita ,  degenerasse  assai  presto  dalla  sua 
istituzione.  Screditato  per  la  sua  mala  fede,  per  Tindocililà  è 
per  l'abuso  de'suoi  privilegi,  offriva  all'avarizia  de' suoi  nemici* 
un  favorevole  pretesto  d'invaderne  le  immense  ricchezze,  da 
questi  monaci-soldati  con  ogni  sorte  di  mezzi  accresciute.  L'abo- 
lizione di  quest'ordine,  quantunque  giusta  per  gli  addotti  motivi, 
fu  detestata  pel  modo  terribile  con  cui  venne  eseguita  e  per 
le  atroci  calunnie  che  vi  si  frammischiarono.  Sette  anni  dorè, 
la  persecuzione,  e  le  fiamme  che  di  tempo  in  tempo  consu- 
marono i  più  ragguardevoli  capi  dell'ordine  e  HI  de'suoi  ca- 
valieri non  si  estinsero  afliatto  che  alla  morte  dei  loro  tiranni. 
Né  l'età  rispettabile,  né  la  nascita  illustre,  ne  i  più  segnalati 
servigi  resi  alla  religione  e  allo  Stato  valsero  a  preservarne  lo 
stesso  gran-mastro  Jacopo  di  Molai,  fratello  d'un  principe  so- 
vrano. Egli  dovette  languire  sette  anni  tra'ferri  dopo  essersi  di- 
sonorato con  nna  confessione,  che  poi  ritrattò. 

Quantunque  Filippo  il  Bello  avesse  in  sua  balia  il  pontefice, 
che  prono  a'suoi  voleri  ogni  cenno  eseguiva,  nulla  curando  se 
questi  tornassero  a  detrimento  della  dignità  della  Chiesa,  avido 
com'era  di  possanza  e  d'oro,  nullameno  il  rettore  di  Francia  si 
tenne  poco  o  nulla  pago  della  sua  deferenza  e  stava  sull'ag- 
prottato  col  pontefice.  Mente  di  Filippo  era  di  tenere  in  pugna 
n  pontefice  e  circuirlo  in  modo  che  d'ogni  sua  volontà  fosse 
geloso  esecutore;  per  il  che  aveva  fermo  di  carpirgli  tutto  quanto 
re  ambizioso,  cupido  e  vendicativo  potesse  chiedere  ad  noma- 
ligio  ed  a  papa  insaziabile  d'oro;  per  lo  che  invitollo  per  la 
primavera  dell'anno  1307  ad  una  conferenza,  nella  quale  si  do- 


—  81  — 

veva  avvisare  al  modo  d'assestare  delicatissimi  ed  importanti 
affari  che  la  somma  delle  cose  ecclesiastiche  riguardavano.  Cle- 
mente Y,  che  dopo  la  sua  coronazione  avea  a  Bordeaux  per  più 
mesi  dimoralo,  destando  in  quella  ci  Uà  graVe  malcontento  pei 
gravosi  balzelli  posti  sulla  chiesa  d' Àquitania,  acconsentì  di 
buona  voglia  al  regale  invito  e  si  tramutò  a  Poiticrs  ad  aspet- 
tare Tarrivo  di  Fihppo. 

Oscillante  d'animo,  non  appena  era  in  questa  città  giunto 
che  cominciò  a  pentirsi  d'essersi  posto  a  discrezione  d'un  mo- 
narca il  quale  aveva  fatto  abuso  deirinflusso  che  potente  eser- 
citava sull'animo  suo,  temendone  l'immoderata  ambizione;  per 
il  che  procurò  di  sottrarsi  a  quella  specie  di  cattività  nella  quale 
avealo  posto  colla  sua  astuzia  Filippo. 

11  papa  ed  i  cardinali  ch'erano  venuti  a  Poìtiers  fecero 
in  essa  città  più  lunga  dimora  che  non  desideravano,  imper- 
ciocché il  re  di  Francia  ed  i  suoi  ministri  ve  \\  tennero,  dicesi, 
GOQ  qualche  violenza:  il  papa  tentò  più  volte,  vestito  or  da  sem- 
plice prete,  ora  sott'altra  foggia,  di  fuggirsene  a  Bordeaux;  ma, 
ravvisato  dai  satelliti  del  re  per  via,  fu  costretto  a  ritornarsene 
prigiooiero  a  Poitiers  (1).  > 

Rinunciò  il  papa  ad  ogni  progetto  di  fuga  e  si  rassegnò 
ad  ingraziarsi  l'orgoglioso  suo  protettore  a  furia  d'accondiscen- 
dere a'voleri  di  lui,  questo  mezzo  parendogli  il  migliore  per 
disarmare  l'efiferato  animo  di  Filippo,  ch'era  giunto  a  Poitiers 
circondato  da  numeroso  e  sfolgorante  corteo.  Oltre  a'suoi  più 
fidati  ministri,  si  aveva  tolto  a  compagni  i  suoi  tre  Ogli,  il 
primogenito  de'quali,  chiamato  Luigi,  s'intitolava  dopo  la  morte 
della  madre  sua,  re  di  Navarra.  Egli  volle  seco  anche  i  fratelli^ 
Carlo  di  Valois  suo  consigliere  Qdato  e  Luigi  conte  di  Evreux. 
Avea  data  la  posta  di  trovarsi  a  Poitiers  a  Roberto  conte  di 
Fiandra,  a  Carlo  II  re  di  Sicilia;  ed  Edoardo  re  d'Inghilterra 
intervenne  eziandio  in  quel  consesso  per  mezzo  de'suoi  amba- 
sciatori (2). 

Siccome  il  papa  ed  il  re  avevano  annunciato  che  il  con- 
gresso che  si  adunava  era  destinato  a  provedere  alla  difesa  di 


(1)  CletnerUis  V  papce  vita  auetore  Joanne  eanonieo  Sancii  Victoris 
fmi$Un9Ìs  a  Baluzio  edita.  Script,  ital.,  tomo  III,  p.  IT,  pag.   452. 

(J>  Giovanni  Villani,  llb.  Vllf,  cap.  91.  —  Ferreli  Vicenlii,  Historia, 
IMg.  Ì0i6. 

Taiib.  Inquis.  Voi.  II.  ii 


—  82  — 

tutta  la  crislianità  ed  alla  liberazione  di  Terra  Santa,  cosi  il  re 
d'Armenia  vi  spedi  legati  a  rappresentarlo,  muniti  d'uno  scritto 
suo  nel  quale  tracciava  i  modi  di  riconquistare  la  Giudea  e  di 
difendere  T Armenia. 

Filippo  a  quell'epoca  mulinava  in  suo  capo  molti  progetti 
e  pensieri  gravissimi,  ma  si  può  -asseverare  cbe  la  liberazione 
dei  Santo  Sepolcro  non  vi  aveva  parte  alcuna,  e  servire  più 
presto  il  bene  della  Chiesa  di  mantello  a' suoi  pensieri,  che  di 
fine  vero  per  sua  parte  al  congresso. 

11  vero  progetto  che  più  d'ogni  altro  stava  a  cuore  a  Fi- 
lippo era  di  compiere  la  sua  vendetta  contro  Bonifacio,  e  questa 
eragli  spino  negli  occhi,  e  non  lasciava  tregua  all'  agitazione 
dell'animo  suo  finché  non  l'avesse  pienamente  raggiunta.  Egli 
anelava  con  ogni  possa  a  coprire  d'infamia  la  memoria  del  suo 
avversario,  conoscendo  che  se  non  otteneva  tale  scopo  correva 
pericolo  d'  essere  egli  stesso  condannato  per  la  sua  empietà. 
Egli  a  tal  uopo  non  avea  dimenticato  di  provedersi  dell'accusa 
che.Nogaret  avea  steso,  corredata  degli  atti  e  di  quanto  i  testi- 
moni avevano  deposto  negli  esami.  Scopo  di  Filippo  era  di 
provare  che  Bonifacio  avea  peccato  d'eresia  su  quarantatre  titoli 
differenti,  e  chiedeva  perciò  che  le  sue  ossa  fossero  disseppel- 
lite ed  arse  sul  rogo,  che  fosse  dichiarato  usurpatore  della  sede 
pontificia  e  simoniaco,  ed  annullate  le  sue  bolle. 

Clemente  Y  avea  resa  sacra  la  sua  parola  con  giuramento 
di  fare  quanto  il  re  da  lui  voleva,  ma  più  potente  del  giura- 
mento era  il  terrore  che  provava  nel  trovarsi  in  sua  balia  e 
r  esempio  de'suoi  due  predecessori  periti  in  Roma  per  essersi 
tirata  addosso  la  collera  del  re  di  Francia,  come  dice  il  Villani 
da  noi  citato. 

Comprendeva  assai  bene  Clemente  V  che,  dichiarando  non 
esser  Bonifacio  mai  stato  papa  legittimo,  era  lo  stesso  che 
annullare  le  nomine  che  aveva  fatte  come  pontefice,  ed  infir- 
mava di  nullità  la  propria  come  cardinale,  carattere  ultimo  che 
abiliti  il  prete  a  divenire  pontefice.  Nel  bivio  tremendo  in  cui 
trovavasi  gli  fu  tavola  nel  naufragio  il  cardinale  da  Prato ,  al 
quale  andava  debitore  della  sua  elezione ,  e  pel  quale  a  pre- 
ferenza nutriva  fiducia.  Lo  consigliò  a  temporeggiare  nel  man- 
dare ad  efielto  il  negozio ,  ed  a  mostrare  a  Filippo  i  canoni 
della  Chiesa  prescrivere  che ,  per  assoggettare  a  giudizio  ed  a 
condanna  un  papa ,  è  mestieri  di  radunare  un  concilio  ecu- 
menico. 


—  85  — 

Clemente,  àgniflcato  ciò  al  re,  non  lo  (totò  ostile  V  saoi 
risameatì,  e  si  fissò  Vieooa  che  facea  parte  del  regno  d'ArK 
r  sede  del  fotnro  concilio;  e  per  mostrai;^!  deferente  ai  desi^ 
trii  del  re,  dichiarò  nulle  e  dì  nian  effetto  tutte  le  censore 
onnnciate  dai  suo  antecessore  contro  Guglielmo  di  Nogaret  e 
3gìoaldo  di  Supino,  in  occasione  deir  arresto  di  Bonifacio  e 
(Ilo  sperpero  del  suo  tesoro  (1). 

Clemente  V,  accumulando  favori  sopra  favori  verso  Filippo 
la  sua  famiglia»  avvisava  non  solo  di  gratificarsi  Tanimo  del 
i,  ma  eziandio  di  stornare  da  lui  ogni  pensiero  di  vendetta 
«tre  Bonifacio  che  potesse  destare  scandali  nella  cristianità, 
niochè  cercò  di  rendersi  benevolo  Carlo  di  ValoiSi  come  colui 
le  teneva  le  chiavi  del  cuore  del  re.  Filippo  fino  da  IP  inco* 
linciare  del  suo  regno  desiderava  di  procacciare  al  fratello 
Qa  corona ,  ma  in  onta  al  suo  ardente  desiderio  Carlo  •  che 
ntaya  titolo  di  re  d'Aragona  e  d'imperatore  di  Costanlinopoll 
cagione  del  suo  matrimonio  con  Caterina  figlia  di  Filippo  di 
}nrtenay,  non  era  designato  se  non  col  nome  di  Carlo  senza 
rra. 

Clemente  V  si  provò  a  fargli  acquistare  gli  Stati  de*  quali 
}n  portava  che  T  inutile  titolo.  Gli  aveva  accordato  fino  dal* 
inno  precedente  una  bolla,  colla  qnale  lo  autorizzava  n  levare 
I  decime  sul  clero  di  Francia,  e  Tindulgenza  per  tutti  coloro 
le  avessero  partecipato  alla  crociata  ajatandolo  a  fare  la  guerra 
Greci.  Carlo  avea  raccolto  il  denaro,  ma  non  aveva  allestito 
;ercito.  Alle  conferenze  di  Poitiers  Clemente  si  mostrò  ancora 
\h  premuroso  di  sollev^irlo  al  trono  de'Greci.  Il  medesimo  era 
xopato  da  Andronico  Paleologo,  gli  Stati  del  quale  erano 
ivasi  ad  un  tempo  dai  Turchi,  dagli  Alani  e  da  una  compagnia 
avventurieri  catalani,  che  prima  si  era  posta  al  suo  soldo  per 
[fenderlo.  Nello  sconvolgimento  in  cui  sì  trovava  la  Grecia»  i 
laggiorenti  del  regno  aveaoo  ricorso  a  Carlo  di  Vaiola  perché 
volesse  ajutare  a  debellare  i  barbari ,  offrendosi  di  rtcono* 
^rlo  per  loro  monarca. 

Dichiarare  Carlo  capo  d' una  nuova  crociata  per  conqoi* 
are  GostanUnopoli  fu  atto  repentino  che  fece  il  papa  per 
ttotare  Tira  del  re  contro  Bonifacio;  né  ciò  cre^lendo  bastare, 
ronnnció  anatema  contro  Andronico  e  contro  tutti  coloro  che 
ressero  tentalo  di  recargli   soccorso*  Cosa  strana  invero  e 

{1}  Tedi  YiiiaB,BayiialdledallrfMocraldiFiUp|M>adiCleiM 


—  84  — 

contraria  a  quanto  egli  stesso  pronunciava  nella  bolla  della 
crociata  :  imperciocché  con  questa  esortava  i  cristiani  a  levarsi 
contro  i  Turchi,  che  minacciavano  la  cristianità,  e  scomunicava 
invece  di  ajutare  quel  re  che  già  si  trovava  in  guerra  contro 
i  Turchi. 

Filippo  avea  con  sé  condotto,  come  si  disse,  il  suo  primo^ 
genito  Luigi,  e  desiderava  farlo  re  di  Pamplona.  Clemente  V  gli 
agevolò  il  calle  per  arrivare  alla  meta,  e  Luigi  fu  coronato  re 
in  Pamplona. 

Filippo  aveva  fatto  venire  a  Poiliers  l'arcivescovo  d'Arli,  ed 
ambasciatore  di  suo  cugino  Carlo  II ,  re  di  Napoli  e  conte  di 
Provenza,  onde  beneficare  col  mezzo  del  pontefice  questo  ricco 
feudatario  della  Chiesa.  Clemente  beneficò  il  cugino  del  re,  pro- 
curando a  suo  figlio  Carlo  Roberto  la  corona  d'Ungheria,  spo- 
destandone l'erede  Ottone  di  Baviera. 

Ma  per  quanto  Clemente  spargesse  a  piene  mani  beneficii 
e  grazie  sulla  famiglia  di  Filippo,  questi  si  mostrava  sempre  fermo 
nel  volere  compiuta  la  sua  vendetta  contro  Bonifacio:  il  che 
dava  rancore  amarissimo  all'anima  del  pontefice.  A  scemarla 
venne  l'inchiesta  da  Filippo  fatta  d'abolire  Tordine  de' templari. 
Il  papa  ascrisse  a  sua  gran  fortuna  tale  dimanda ,  come  quella 
che  intanto  procrastinava  l'epoca  del  concilio  e  gli  alti  che  ne 
dovevano  susseguire. 

Indarno  molli  si  sono  provati  ad  indagare  le  vere  cagioni 
dell'odio  di  Filippo  il  Bello  contro  i  templari  e  delle  colpe  ap- 
poste ai  medesimi,  delle  quali  parleremo  più  abbasso. 

Noi  avventuriamo  il  nostro  pensiero,  e  qualunc^ue  egli  sia 
ne  faccia  ragione  il  lettore.  L'epoca  della  quale  teniamo  discorso 
è  quella  di  spaventosa  corruzione  negli  atti  giudiziari,  non 
essendovi  atto  giudiziario  costituito  sotto  Filippo  il  Bello  che 
non  porti  l' impronta  dell'  ingiustizia ,  e  non  vi  sia  mescolata 
qualche  falsa  testimonianza  in  base  alla  quale  si  condannava 
l'innocente  al  patibolo.  In  questo  dubbio  non  possiamo  prestar 
piena  fede  ai  documenti  che  sono  fino  a  noi  arrivati,  sebbene 
presentino  apparenza  d' integrità  ;  l'animo  nostro  oscilla  sem- 
pre fra  la  verità  e  l' errore ,  e  siamo  costretti  a  spiegare  per 
nnezzo  di  congetture  quello  che  ci  viene  tramandato  come  fatto 
solenne. 

Villani  scrive  che  il  priore  di  Montfalcon  tolosano  ed  il 
fiorentino  Noffo  Dei,  entrambi  sostenuti  in  carcere  pei  loro 
delitti,  ordirono  fra  loro  la  congiura  che  fu  cagione  esiziale  ai 
templari. 


—  i5  — 

Costoro  »  fatti  bildaoxosì  dal  processo  di  Bonibcìo .  nel 
quale  ricorse  alia  te^monianza  d'esseri  abbietti  e  Ttlissimi ,  e 
sicori  cbe  on'accosa  quaot'  era  pia  infame  e  spaventi^  fcnuto 
(Hù  otteneva  fede  e  credenza,  si  accinsero  all'opera. 

Ond*è  cbe  iniziarono  l^accusa  contro  i  templari  affermando 
cbe  i  medesimi,  i  quali  avevano  pronunciato  voti  soietmi  di 
povertà  e  d'obbedienza  e  di  combattere  a  prò  della  religione , 
rinnegavano  Dio  quando  entravano  a  far  parte  dell'ordine,  $pu« 
lavano  sul  crocifisso»  adoravano  un  idolo  deformo  ed  erano 
imziati  nel  medesimo  mediante  schifosa  cerimonia^  sottostando 
ad  infame  prostituzione,  e  si  facevano  traditori  della  crìsUaniUi 
a  favore  degrinfedeii,  quando  ciò  fare  tornava  loro  utile.  Quanto 
più  si  entra  nei  particolari  delfaccusa,  più  si  rimane  stomacali 
per  la  loro  assurdità. 

Filippo,  ch'era  sdegnato  contro  i  tempieri  pel  loro  orgoi;llo« 
ch'era  stato  oggetto  delle  loro  censure  per  Tinginsto  e  tirannico 
suo  procedere,  e  che  reputava  degno  di  morte  ognuno  che  gli 
fosse  nemico,  né  sentiva  scrupoli  intorno  ai  mezzi  che  adope- 
rava per  far  suo  T altrui,  ammise  come  verissima  Paccusa  e 
fece  esaminare  i  delatori  da' suoi  giudici ,  comunicandone  lo 
deposizioni  a  Clemente  e  chiedendogli  d' infierire  contro  (fuo- 
sl'ordine,  divenuto  oramai  troppo  ricco  ed  ambizioso.  Clemente 
dicesi  promettesse  solamente  d'occuparsene  e  procrastinò  la 
decisione  di  tale  negozio,  rimettendola  all'adunanza  che  si  dovea 
convocare  in  Vienna. 

Ma  Filippo,  che  amava  le  misure  pronte  e  decisivct  che  non 
assonnava  mai  nel  raggiungere  lo  scopo  che  si  era  prefisso, 
instava  fermamente  presso  Clemente. 

Filippo  il  Bello  avea  per  iscopo  e  teneva  esser  utile  a  chi 
governa  il  non  percuotere  con  accatti  e  balzelli  tutti  I  sudditi 
in  un  sol  colpo,  ma  premere  con  mano  ferrea  un  data  classe 
tutta  intiera  ;  imperciocché  nel  primo  caso  corre  pericolo  II 
despota  di  trovare  troppo  forte  opposizione  a'  suoi  ordini ,  nel 
secondo  invece  spoglia  con  mano  sicura  per  l'egoismo  del 
maggior  numero,  che  si  tiene  fortunato  di  trovarsi  salvo  da  un 
gran  disastro. 

Tre  volte  dorante  il  suo  regno  spogliò  Filippo  una  clas:4e 
particolare  de' suoi  sudditi,  cioè  nella  prima  i  Lombardi ,  nella 
seconda  gli  ebrei,  nella  terza  i  templari  ;  ogni  volta  fece  mo- 
rire  tutti  coloro  cbe  meglio  voleva,  tirando  a  sé  il  concorso  del 
elero^  per  reoderio  correo  dei  (mù  oeri  delitti.  Nel  I3M  i  mer^ 


canti  italiani  furono  tutti  in  un  giorno  arrestati,  sostenuti  in 
carcere  siccome  usurai ,  e  molti  spediti  al  patibolo;  nel  1306 
gli  ebrei,  nei  1307  i  cavalieri  del  Tempio:  in  tutte  e  tre  con- 
fiscò i  beni  a  beneficio  della  corona. 

Nel  14  settembre  del  1407  Filippo  mandò  lettere  ai  preretti 
e  governatori  del  regno  nelle  quali  esponeva  le  accuse  promosse 
contro  i  templari,  ordinando  loro  di  mettersi  d'accordo  onde  al 
più  presto  fossero  tutti  i  templari  del  regno  agguantati  e  posti 
in  carcere  il  13  ottobre,  e  di  serbare  geloso  secreto  intorno  a 
quest'ordine. 

Pel  giudizio  dei  templari  fu  da  Filippo  deputato  Guglielmo 
Humbert  di  Parigi ,  domenicano ,  grande  inquisitore  e  confes- 
sore del  re.  Imperlante  i  baili  delle  Provincie  dovevano  inter* 
rogarli  ed  applicare  ai  medesimi  la  tortura  in  presenza  dei 
delegati  deirinquisizione,  promettere  perdono  a  coloro  che  aves- 
sero confessato  i  delitti  a  loro  imputati  e  minacciare  l'estremo 
supplizio  a  coloro  che  si  mostrassero  renitenti.  L'  ordine  dato 
da  Filippo  non  si  limitava  alle  persone,  ma  si  estendeva  anche 
sui  beni,  dei  quali  Is'  impadronirono  i  baili  delle  Provincie  in 
nome  del  re. 

Gli  prdini  di  Filippo  furono  eseguiti  alla  lettera  ;  non  si 
saprebbe  dire  se  fosse  più  la  precisione  od  il  rigore  adoperato 
dagli  incaricati.  Nessun  templario  potè  aver  sospetto  dei  peri- 
coli che  lo  circondavano,  ed  all'  alba  del  13  ottobre  i  templari 
che  si  trovavano  in  Francia  furono  presi  prima  che  potessero 
armarsi  e ,  separati ,  furono  chiusi  in  carcere.  Guglielmo  di 
Nogaret  e  Reginaldo  di  Roye  ebbero  ordine  d'impadronirsi  della 
casa  del  Tempio  in  Parigi ,  eh'  era  destinata  sullo  scorcio  del 
secolo  scorso  ad  essere  prigione  a  Luigi  XVI,  dalla  quale  usci, 
ma  solo  per  andare  al  patibolo. 

Giacomo  di  Holay,  gran  maestro  dell'ordine  da  pochi  giorni, 
ritornato  da  Cipro  per  invito  dello  stesso  Filippo  onde  far  parte 
della  conferenza  di  Vienna,  e  da  lui  ricevuto  in  ogni  miglior 
guisa,  fu  posto  in  prigione. 

Nella  domenica  15  ottobre  1307 ,  nella  cappella  del  suo 
palazzo,  Filippo  fece  proclamare  le  accuse  contro  i  templari,  e 
la  Frauda  inorridita  senti  le  colpe  di  quest'  ordine  composto 
di  preti-soldati. 

Gì'  inquisitori  adoperarono  tutti  i  mezzi  per  strappare  la 
confessione  ai  templari  ;  ora  cercavano  di  sedurli  con  larghe 
promesse  per  parte  del  re,  ora  li  facevano  languire  di  fame 


—  87  — 

Delle  prigioni,  ora  con  le  torture,  le  quali  erano  atroci  al  panto 
che  alcuni  perivano  sotto  le  medesime.  Con  questi  mezzi  usati 
da  una  barbara  e  feroce  legislazione  si  strapparono  molte  con- 
fessioni, che  venivano  dagli  stessi  rivocate  tostocbè  cessava  lo 
strazio  dei  tormenti. 

I  ministri  del  re  andavano  spargendo  cbe  l'arresto  dei  tem- 
plari era  stato  eseguito  coirautorità  della  Cbiesa  e  beneplacito 
del  pontefice.  Ma  Clemente  non  credeva  cbe  immunità  religiose 
fossero  violate  in  modo  tanto  aperto  e  brutale.  Montato  in  ira, 
incaricò  due  cardinali  di  recarsi  da  Filippo  ed  intimargli  una 
bolla  piuttosto  energica  colla  quale  lo  rimproverava  del  suo 
poco  rispetto  verso  la  santa  sede.  Contemporaneamente  air  e- 
missione  della  1)olla  ,  sospese  dal  loro  uffizio  gli  arcivescovi , 
vescovi  ed  inquisitori  della  Francia,  cbe  arrogavano  a  sé  stessi 
il  processo  dei  templari.  Questa  bolla  è  datala:  Poitiers,  il 
27  ottobre. 

Ma  Clemente  V,  d' animo  irresoluto  e  timido ,  tremava  al 
cospetto  di  Filippo  e  non  osò  persistere  nella  fatta  delibera* 
zione.  Dopo  di  aver  sentito  in  esame  molti  templari  che  gli 
furono  perciò  condotti  a  Poitìers,  revocò  la  sospensione  che 
avea  fnlrpinato  e  permise  ai  vescovi  di  processare  nelle  loro 
diocesi  gli  accusati  templari;  tenne  però  per  sé  il  giudizio  del 
gran  maestro  delPordine  e  dei  maestri  di  Francia,  di  Normandia, 
del  Poitou  e  della  Provenza. 

La  distruzione  d'  un  ordine  che  la  cristianità  riguardava 
come  scudo  possente  alla  sua  sicurezza  avrebbe  potuto  susci- 
tare qualche  fermento  nel  popolo,  il  quale  era  avvezzo  a  rispet- 
tare la  possanza  e  le  ricchezze  dei  templari,  ad  ammirare  il 
loro  valore  e  lo  zelo  per  essi  sempre  mai  dispiegato  per  la 
fede.  Per  allontanare  ogni  pretesto  di  lamentela  e  per  coprire 
Tingiustizia  che  commettevano,  Filippo  e  Guglielmo  Humbert, 
inquisitori,  consegnarono  al  braccio  secolare  alcuni  ebrei  nello 
stesso  tempo  che  i  templari.  La  morte  di  due  ebrei  ricchissimi, 
cbe  si  voleva  convertire  al  cristianesimo  nel  momento  che  i 
loro  correligionari  erano  scacciali  dalla  Francia  fece  divergere 
la  pietà  di  coloro  che  serbavano  un  palpito  d'ammirazione  pei 
templari,  e  Tassassinio  di  questi  fu  mascherato  con  quello  delle 
due  vittime.  D'altronde  il  popolo  si  avvezza  ai  supplizi,  e  vedu- 
tone uno,  ne  chiede  un  altro»  e  la  sua  credulità  adotta  facil- 
mente tutte  le  favole  che  si  pongono  in  giro. 

Le  crudeltà  che  Filippo  commetteva  contro  i  templari  a'suoi 


-88  - 

occhi  aveaDo  assunto  il  carattere  di  giustizia,  fosse  per  Io  sde- 
gno ch^  fortissimo  nutriva  contro  loro  per  essersi  mostrati  tal- 
volta renitenti  alla  sua  autorità,  fosse  perchè  egli  avesse  risa- 
puto alcune  satire  che  i  templari  avean  messe  in  giro  ponendo 
in  canzone  il  suo  coraggio,  fosse  che  le  sue  casse  erano  esau- 
rite di  denaro  ed  i  bisogni  ognora  crescenti  di  averne,  e  spe- 
rasse colla  conflsca  sopperire  ai  medesimi,  fosse  che  realmente 
prestasse  fede  alle  denuncio  che  due  paltonieri  avevano  fatto 
per  speculare  sulle  sventure  dei  loro  simili,  fossero  tutte  queste 
diverse  ragioni  insieme,  fatto  è  ch'egli  riguardava  Tabolizione 
dei  templari  ed  il  loro  eccidio  come  cosa  giusta  e  dalle  leggi 
divine  ed  umane  comandato.  Filippo  aveva  scelto  a  giudici  co- 
loro fra  i  suoi  ministri  che  maggiore  venerazione  aveano  mo- 
strato per  lui  e  si  mostravano  inaccessibili  ad  ogni  pietà.  Costoro 
studiavansi  di  trovare  la  colpa  colà  ove  il  loro  padrone  avea 
dimostrato  di  bramarla. 

I  delatori  dei  templari  aveano  asserito  che  essi  rinuncias- 
sero a  Dio  ed  alla  fede  in  Gesù  Cristo  nell'atto  ch'erano  iniziati 
nell'ordine,  che  sputavano  tre  volte  sul  crociflsso,  che  adora- 
vano un  idolo  deforme  che  tenevano  nei  loro  grandi  capìtoli, 
che  davano  ài  gran  maestro  tre  baci  nefandi,  e  che  questi  li 
avvertiva  che  poteano  sottrarsi  ai  voti  di  castità  che  aveano  pre- 
stato, permettendo  laidezze  e  stravizi.  Tutti  i  templari  arrestati 
furono  separatamente  in  secreto  esaminati  su  tutti  i  punti  d'ac- 
cusa; l'estratto  dell'interrogatorio  fatto  a  meglio  di  cento  fra 
essi  fu  conservato  negli  archivi.  Nel  leggerlo  si  rimane  colpiti 
della  più  alta  meraviglia  trovando  ammesse  in  gran  parte  tanto 
turpi  accuse.  Dopo  un  esame  più  attento  del  medesimo  -  si  viene 
a  conoscere  che  furono  ammesse  le  accuse  in  forza  dei  tormenti 
patiti  0  pel  timore  di  soggiacere  alla  tortura,  ma  che  però  sem- 
pre confessano  quella  parte  dell'accusa  che  può  meno  compro- 
metterli. Taluno  confessa  di  aver  ricevuto  al  momento  delPinizia- 
zione  un  bacio  sulla  bocca  dal  gran  maestro,  e  ch'egli  glielo 
ha  reso  sull'umbelico  od  in  fondo  alla  spina  dorsale;  un  altro 
asserisce  d'essergli  stato  imposto  di  sputare  sul  crocefisso,  ma 
che  in  luogo  di  profanarlo  sul  petto,  non  sputò  che  da  parte; 
un  altro  che  gli  fu  comandato  di  rinnegare  Iddio,  ma  ch'egli 
si  è  dì  ciò  confessato  a  Roma  e  ne  ricevette  Tassoluzione  ;  un 
altro  dice  d'aver  veduto  bensì  una  figura  nel  capitolo,  ma  che 
essendo  il  luogo  oscuro,  non  ha  potuto  distinguere  cosa  si  fosse; 
un  altro  finalmente  asserì  che  gli  era  ben  stato  dato  il  per- 


—  89  — 

esso  di  darsi  io  preda  ad  ogni  oscenità,  ma  elisegli  però  dod 
èva  mai  osato  di  simile  concessione.  Tatti  sembravano  op- 
essi  dal  medesimo  terrore;  in  tutti  si  ravvisano  uomini  per- 
issi dalla  minaccia  dei  supplìzi  orrendi  ove  non  avessero  con- 
ssato,  che  cercano  di  sottarsi  alla  tortura,  ma  nel  medesimo 
mpo  di  caricarsi  della  colpa  minore. 

Frattanto  queste  confessioni  strappate  cogli  inganni,  colle 
iDaccie  e  colle  torture,  facevano  riunite  molta  impressione  sul- 
iDimo  d'uomini  che  non  calcolavano  il  valore  delle  prove  giu- 
liane. 

Tardava  a  Filippo  che  V  ordine  dei  templari  fosse  ovun- 
le  distrutto  nel  medesimo  tempo;  si  rivolse  quindi  a  tutti  i 
vranì,  e  loro  comunicò  le  relazioni  che  avea  ricevute,  ed 
ortavali  ad  imitare  il  suo  esempio.  Spacciò  un  legato  ad  Edò- 
do n  re  d'Inghilterra,  facendogli  sapere  le  cose  orribili  e  (lete- 
ibili  che  commettevano  i  templari  repuiinanti  alla  fede  cat- 
lica. 

Nella  lettera  Filippo  esortava  Edoardo  a  non  sospendere 
ù  oltre  l'arresto  dei  medesimi. 

Edoardo  II  pareva  a  tutta  prima  sdegnato  di  qunnlo  gli 
^municava  Filippo,  e  scrisse  anch'egli  ai  re  di  Casliglia  e  dì 
icilia  e  d'Aragona  •  sembrargli  dovere  di  considerare  sotto 
(ni  aspetto  favorevole  i  templari,  imperciocché  si  raccoman- 
ivano  per  il  loro  valore  e  per  le  lunghe  faticlie  durate  per 
difesa  della  fede  cattolica,  e  per  le  vittorie  riportate  sui  ne- 
ici  della  croce.  Li  supplicava  nel  medesimo  tempo  a  chiudere 
i  orecchi  alle  imputazioni  dei  perversi,  i  quali  non  per  zelo 
ir  la  giustizia,  ma  per  cupidità  e  per  invidia  volessero  ecci- 
rll  a  servire  contro  le  persone  od  i  beni  di  quest'ordine.  » 
lesta  circolare  fu  scritta  a  Reading  il  4  dicembre  1307. 

II  giorno  10  del  medesimo  mese  scrisse  Edoardo  ai  papa 
T  raccomandargli  caldamente  il  gran  maestro  dei  templari.  Ma, 
5se  intendimento  secreto  del  re  d'Inghilterra  con  quella  let- 
ra  di  addormentare  la  vigilanza  dei  templari,  fosse  che  Fi- 
ipo  vincesse  l'animo  del  medesimo  colla  brillante  prospettiva 
Ile  ricchezze  che  aveano  i  templari,  Edoardo  mandò  lettere 
ggellate  ai  suoi  luogotenenti  d'Inghilterra  e  d'Irlanda,  ordi- 
ndo  che  nella  mattina  dell'll  gennaio  1308  lutti  i  templari 
$sero  ovunque  arrestati  e  sostenuti  in  carcere;  che  i  loro 
ni  fossero  posti  sotto  sequestro  e  tutte  le  carte  suggellate. 

Il  re  di  Napoli  pochi  giorni  dopo  si  determinò  ad  imitare 

Tamb.  Jnquis.YoU  lì.  i% 


—  90  — 

Filippo  :  farono  nella  contea  di  Provenza  arrestati  qoarantott 
templari  e  rinchiusi  in  carcere;  i  loro  beni  furono  staggiti,  m 
non  si  conosce  se  ai  medesimi  si  sieno  strappate  confessioni 
se  sieno  stati  condannati  al  rogo. 

In  Bretagna  furono  egualmente  arrestati  i  templari,  e 
allorquando  si  mandò  per  impadronirsi  dei  loro  beni,  i  du 
cavalieri  di  ciò  incaricati  furono  fatti  fuggire  dal  popolaccio,  e 
il  duca  Arturo  II  pensò  di  tenere  per  sé  il  frutto  della  confisca 

Gli  altri  monarchi  di  cristianità  non  resistettero  alla  lusing 
di  rendersi  padroni  delle  opime  spoglie  dei  templari  ;  non  fu 
rono  gran  che  solleciti  neir  imprigionarli  ed  a  strappar  lor 
confessióni,  ma  tenerissimi  ed  ardenti  neir  impossessarsi  de 
beni,  senza  esaminare  se  fossero  colpevoli  od  innocenti,  tenner 
le  loro  commende  come  roba  di  buon  acquisto  dal  moment 
che  la  Chiesa  più  non  li  proteggeva. 

Clemente  aveva  infatti  rinunciato  a  più  lungamente  difen 
derli.  Da  Poitiers  il  12  agosto  1308  aveva  datato  una  boli 
nella  quale  dichiarava  che  i  templari  tradotti  al  suo  cospetti 
avevano  in  parte  confessate  le  colpe  delle  quali  erano  accusat 
senza  usare  torture  o  minacce;  e  nominava  coloro  che  doveanc 
tenere  in  sequestro  i  loro  beni,  che  furono  gli  stessi  princip 
agli  Stati  dei  quali  appartenevano  gli  imputati; 

In  Alemagna  la  cura  di  custodire  i  beni  staggili  ai  templar 
venne  affidata  ai  tre  elettori  ecclesiastici.  Nello  stesso  tempi 
Clemente  ordinò  la  riunione  del  concilio  ecumenico  in  Vienn; 
sul  Rodano  pel  1  ottobre  1310,  acciocché  la  Chiesa  riunita  ii 
assemblea  decidesse  delle  sorti  deir  ordine. 

Quindicimila  cavalieri  del  Tempio  che  erano  sparsi  fra  com 
mende  e  preccttorie  in  Europa,  tutti  appartenenti  a  doviziosi 
e  nobili  famiglie,  avvezzi  all'opulenza  ^d  alla  possanza,  furono 
precipitati  nella  più  orribile  miseria  ;  quelli  che  non  languironc 
nelle  prigioni  erano  costretti  a  dissimulare  il  loro  nome  ec 
esercitare  vili  mestieri  per  procacciarsi  il  pane. 

Per  dare  tutta  V  apparenza  della  giustizia  al  suo  operato 
pensò  Filippo  di  convocare  gli  stati  e  tenere  un'  assemblea  pei 
decidere  quivi  intorno  ai  templari.  Nella  settimana  che  segu 
le  f^ste  di  Pasqua  del  1308  ordinò  la  seduta,  t  II  re,  scrive  il 
canonico  Giovanni  di  S.  Vittore,  fece  riunire  un  parlamento  3 
Tours  di  nobili  e  non  nobili,  di  tutte  le  castella  e  città  del  sue 
regno.  Egli  voleva,  prima  di  trovarsi  a  Poitiers  presso  il  papa, 
sentire  il  loro  avviso  intorno  a  ciò  che  meglio  era  a  farsi  coi 
templari.  » 


—  si- 
li re  voleva  agire  con  prudenza  e,  per  non  dar  presa  a 
censore,  voleva  avere  il  consenso  degli  uomini  d'ogni  condi- 
zione del  suo  regno.  Per  il  che  non  volle  avere  ravviso  sola- 
mente degli  uomini  nobili  e  dotti,  ma  quello  ancora  de'  laici 
non  appartenenti  a  nessuna  delle  indicate  classi.  Costoro  quasi 
all'unanimità  giudicarono  essere  i  templari  degni  di  morie. 


Chiesa   della   Sorboria. 


L'Università  di  Parigi,  e  specialmente  i  maestri  in  teologia 
della  Sorbona,  furono  espressamente  invitati  a  dare  la  loro  sen- 
tenza; il  che  fecero  a  mezzo  del  loro  notajo,  il  sabato  che  segui 
r  Ascensione. 


-  92  — 

Sembrerebbe  qaiDdi  che  principale  scopo  di  Filippo  in  tale 
convocazione  straordinaria  sia  stalo  quello  di  far  attriboire  ai 
deputati  tutta  Tinfamia  che  scaturiva  dagli  atti  odiosi  che  erano 
stati  commessi  e  che  mulinava  di  commettere.  D'altronde  tenevasi 
certo  che  il  voto  dei  medesimi  sarebbe  tornato  conforme  a*suoi 
desìderii.  Infatti  le  otto  più  considerevoli  signorie  della  Lingua- 
doca  fecero  procura  a  Guglielmo  di  Nogaret,  uomo  ligio  al  re 
ed  esecutore  delle  sue  iniquità,  e  gli  conferirono  mandato  di 
rappresentarle  all'assemblea  di  Tours,  ed  il  governatore  di 
Beaucair  ebbe  ordine  di  costringere  i  comuni  della  sua  pro- 
vincia a  pagare  le  spese  di  viaggio  dei  deputati  che  loro  mal- 
grado mandavano  all'assemblea. 

Filippo  dopo  l'assemblea  di  Tours  si  recò  nuovamente  a 
Poitiers  per  tenere  nuove  conferenze  con  Clemente,  imperciocché 
trovavasì  impacciato  a  decidere  intorno  ai  templari  che  stipa- 
vano le  prigioni.  Fino  allora  gran  numero  d'essi,  sotto  o  poco 
dopo  la  tortura,  era  perito,  altri  erano  morti  in  carcere  di  cre- 
pacuore e  di  fame,  moltissimi  si  erano  da  loro  stessi  data  la 
morte  ;  ma  sembra  che  nessun  pubblico  supplizio  sia  stato  or- 
dinato prima  del  1309.  I  commissarii  incaricali  di  esaminare 
in  segreto  i  cavalieri  del  Tempio  aveano  dai  medesimi  otte- 
nuto le  confessioni  che  aveano  scritto  nei  processo,  od  almeno 
ciò  dicevano. 

Nullameno,  fra  i  cavalieri  che  aveano  interrogato,  alcuni 
impugnavano  d'aver  fatte  rivelazioni  simili,  altri  asserivano  che 
quanto  dedussero  nel  processo  era  stato  loro  strappato  dalla 
tortura  e  dalla  minaccia  di  pene  maggiori ,  altri  dicevano  che 
furono  sedotti  a  calunniare  il  loro  ordine  mercè  grandiose  pro- 
messe di  compensi.  L'autorità  del  monarca  era  compromessa , 
e  l'integrità  de*  soci  giudici  sospetta.  Mal  sapevasi  in  qual  modo 
dar  compimento  a  tale  processo,  imperciocché  la  prova  della 
reità  dei  prevenuti  dipendeva  dalla  confessione  dei  medesimi  ; 
essendoché  in  nna  giurisprudenza  feroce  ed  assurda  che  am- 
melte  la  tortura ,  se  la  confessione  strappata  ad  un  innocente 
basta  a  farlo  condannare  alla  morte,  il  coraggio  e  l'ostinazione 
di  colui  che  persiste  à  negare  servono  di  prova  della  sua  in- 
nocenza. 

Si  tacque  il  nome  di  chi  suggerì  il  consiglio  di  considerare 
come  rilassi  coloro  che  ritrattarono  le  confessioni  fatte  sotto  i 
tormenti  della  tortura,  ma  vuoisi  che  venisse  dalla  facoltà  teo- 
logica di  Parigi. 


—  «  — 

<  U  re;  per  dar  oomìodaiDenlo  alle  esccuikuik  dice  il  Viìbnu 
io  un  grande  piroo  fece  legare ,  dasc^ino  aii  nn  (^lo .  dn- 
qaantasei  de*  delti  tempieri,  e  fece  aietter  fuivo  a'  ^Mivli  «  i\\  a 
poco  t  poco  r  ano  ionaoii  Tallro  ardei>e .  amaìoneiutoU  ch<^ 
quale  di  loro  volesse  riconoscere  Terrore,  il  percìto  siu\  |v^tosse 
scampare,  e  in  questo  tonnent;),  confortati  dai  1oi\>  (vin'nlì  t 
amici  che  riconoscessero  e  non  sì  lasciassero  Cvv^i  >ilnuMìto 
morire  e  guastare  «  ninno  di  loro  il  volle  confe^^^^re  «  lua  con 
pianti  e  grida  si  scusavano  comperano  innocenti  di  cii>  e  U\\o\\ 
cristiani ,  chiamando  Cristo  e  sant;)  Maria  e  f\\  altri  santi .  e 
col  detto  martirio  tutti  ardendo  e  consumando  tìninn\o  la 
vita.  > 

Clemente  aveva  acconsentito  a  questa  prima  osoouxiono» 
che  fu  ben  tosto  da  altre  susseguila.  l\ìrcva  che  |>i)tesso  questa 
essere  Tultima  concessione  che  Filippo  volesse  carpirgli  |>riu)a 
di  lasciarlo  partire  da  Poitiers. 

Nel  mese  d'agosto  parli  Clemente  per  alla  volta  di  \V)V\\{\ 
ove  sperava  di  respirare  più  liberamente  lontano  da  Filippo  » 
che  era  Tincubo  che  gli  pesava  sul  cuore,  aspettando  ivi  Topoca 
della  riunione  del  concilio  di  Vienna.  Mentre  in  Poitiers  Cle- 
mente aveva  potuto  ottenere  un  ordine  da  Filippo  col  (pialo 
comandava  agli  amministratori  dei  beni  dolf  ordino  di  conso- 
gnarìi  ai  delegati  spediti  dal  papa ,  dovette  In  compenso  faro 
una  bolla  nella  quale  lanciava  le  censure  contro  tulli  coloro 
die  ospitassero  qualche  templario,  e  che,  conosciuto,  non  lo 
consegnassero  airinquisitore. 

Sebbene  Filippo  avesse  goduto  della  sua  feroco  vnndnttn  • 
la  voluttà  provata  rlesciva  minore  della  sua  sete  di  sanKUo. 
Liberatosi  da  tutti  coloro  che  aveano  dichiarate  falso  lo  con* 
fessioni  strappate  coi  tormenti,  rimanevano  ancora  In  carcero 
altri  templari,  fra'  quali  si  trovavano  i  dignitari  dell'  ordino.  Il 
papa  calorosamente  insisteva  perché  fossero  consegnati  al  giu- 
dizio suo,  e  Filippo  aderì  alFinchiesta ,  per  la  ragiono  elio  si 
trattava  di  un  ordine  non  solamente  forte  e  numeroH(i  In  Fran- 
eia,  ma  quasi  in  tutta  Europa. 

Nei  mese  d'agosto  del  1309  Clemente  inslitul  una  cornrni/<' 
sione  composta  dell'arci  vescovo  di  Narlxina,  dei  venerivi  di  ìhi- 
veni ,  di  Mende  e  di  Limoges,  degli  arcidiaconi  di  Itouen ,  di 
Trento  e  di  Magoelonne  per  ricominciare  di  liei  nuovo  il  pro- 
cesso contro  tutto  l'ordine  dei  templari. 

I  commissari  del  papa  si  riunirono  in  P^irìgi,  e  VH  ì\7i^%<ì' 


-  94  — 

Sto  citaroDO  IMntiero  ordine  dei  templari  a  comparire  al  loro 
tribunale,  nella  sala  dell'arcivescovado  di  Parigi  il  12  novembre. 
La  citazione  fu  spedila  in  tutte  le  Provincie  ecclesiastiche  della 
Francia.  Il  22  novembre  Giacomo  di  Molay  fu  condotto  al  co- 
spetto de'commissari  del  papa,  e  costoro  cominciarono  l'inter- 
roga torio;  ma  l'orrore  della  lunga  prigionia,  la  fame  e  la  tor- 
tura sofferta,  avevangli  in  sifibtto  modo  turbata  la  mente  che 
dovettero  desistere  e  rimandarlo  dichiarando  d'averlo  trovato 
ebete  e  di  non  giusto  intendimento  (1). 

Dopo  tre  giorni  fu  nuovamente  condotto  innanzi  ai  giudici, 
ove  ricominciarono  l'interroga  torio.  Molay  rispose  :  <  Che  da 
dieci  anni  esercitava  il  grado  di  gran  maestro  dell'ordine  e  che 
nello  stesso  non  aveva  mai  riconosciuto  che  esistesse  verun 
disordine,  ch'egli  sotlomettevasi  al  giudizio  de' prelati,  non  avendo 
nella  sua  poverezza  denaro  per  procacciarsi  un  difensore.  » 

I  commissari  l'ammonirono  che,  trattandosi  d'eretica  pra- 
vità, non  gli  era  permesso  d'usare  del  magistero  d'un  avvocato, 
e  ch'egli  prendesse  conoscenza  del  pericolo  che  correva  accin- 
gendosi alla  difesa  dell'ordine,  imperciocché  dopo  quanto  aveva 
confessato  sarebbe  stato  dannato  al  rogo  come  relasso.  Gli  fa 
Ietta  in  allora  la' sua  deposizione  tal  e  quale  tre  cardinali  de- 
putati dal  papa  asserirono  di  averla  ricevuta,  e  compiuta  la  let- 
tura della  medesima,  egli  si  fece  il  segno  di  croce  per  la  me- 
raviglia e  rispose  :  t  Che  se  i  cardinali  fossero  d'altra  qualità, 
saprebbe  ben  lui  cosa  doveva  rispondere.  >  Ed  ^essendogli  stato 
risposto  :  e  Che  i  cardinali  non  erano  nomini  di  ricevere  una 
mentita  od  una  disfida  »  *;  ripigliò  Molay  :  •  Che  non  intendeva 
dir  ciò,  ma  che  solamente  pregava  Dio  che  usasse  verso  essi 
quanto  si  suole  fare  dai  tartari  e  dai  saraceni  contro  i  menti- 
tori, che  fanno  loro  troncare  la  testa  e  sparare  il  ventre.  » 

I  commissari  passarono  dopo  airinterrogatorio  di  Ponsard 
di  Gissiac,  che  tenea  ragguardevole  dignità  nell'ordine  e  che  si 
era  offerto  ad  %issumere  la  difesa  di  tutti,  e  che  toglievasi  a 
compagno  Rinaldo  d'Orléans  e  Pietro  di  Boulogne  cavalieri  fra- 
telli dell'ordine.  Ma  furono  troncate  in  bocca  anche  a  lui  le 
parole,  e  dovette  chinare  il  capo  contro  la  preponderanza  della 
forza,  contro  la  quale  si  rompe  ogni  ragionamento. 

Frattanto  erano  stati  condotti  a  Parigi  i  principali  dell'or- 
dine che  languivano  per  le  diverse  prigioni  della  Francia.  Som- 


(!)  Faluus  et  non  bene  compas  mentis,  Dupuy. 


Condanna  dei  TcrapUri. 


—  95  — 

mavano  costoro  a  settantaquattro;  tutti  disposti  a  difendere  il 
loro  ordiDO  ed  a  respingere  le  calunniose  accuse  che  erano  con- 
tro lo  stesso  state  iniziate,  ed  offrivano  in  prova  il  fatto  che 
nessun  templario  fuori  di  Francia  non  aveva  manifestato  cosa 
che  Tordine  compromettere  potesse,  per  la  ragione  che  nessuno 
era  stato  martoriato  dalla  tortura,  come  a  rincontro  fu  prati- 
cato con  essi,  e  chi  mostrava  le  braccia  penzolanti  e  slogate 
dalla  corda,  chi  facea  vedere  le  lunghe  cicatrici  prodotte  dalle 
tenaglie  infuocate,  chi  altre  vestigia  orrende  pei  soderti  tormenti. 

I  commissari!  chiamati  dal  papa  continuarono  le  loro  inve- 
stigazioni, e  dal  mese  d'agosto  del  1309  al  maggio  1311  esami- 
narono duecentotrent'uno  testimoni,  parte  all'ordine  apparte- 
nenti, parte  stranieri,  che  erano  già  stati  sentiti  in  esame  dai 
rispettivi  ordinari.  La  maggior  parte  rettiQcarono  le  fatte  depo- 
sizioni. Otto  fra  loro  dichiararono  che,  per  cavare  da  essi 
quanto  meglio  si  desiderava,  si  faceano  loro  vedere  lettere  col 
suggello  del  re,  per  mezzo  delle  quali  si  dava  la  certezza  della 
vita  e  di  libertà  se  avessero  confessato  sinceramente.  Soggiun- 
gevano che  perfino  fu  loro  promessa  una  pensione  vitalizia  nel 
mentre  loro  veniva  mostrata  la  sentenza  colla  quale  Tordine 
era  condannato. 

II  templario  Aimery  di  Villars  disse  :  Ch'egli  aveva  depo- 
sto il  falso,  spinto  dai  tormenti  coi  quali  lo  martoriavano  L. 
di  Marcilly  ed  Ugo  della  Cella,  cavalieri  deputati  del  re,  e  che 
allorquando  vide  cinquantaquattrò  fratelli  delPordine  sulle  car- 
rette essere  condotti  al  rogo  per  non  aver  voluto  confessare 
nulla,  rimase  molto  meravigliato  e  commosso,  ed  il  timore  del 
fuoco  gli  fece  dire  ciò  che  non  doveva  e  noa  poteva  asserire.  » 

Nel  mentre  i  commissari  del  papa  esaminavano  i  templari 
per  stendere  il  rapporto  che  si  dovea  leggere  al  concilio  di 
Vienna,  il  quale  dovea  decidere  della  sorte  delfordine,  fu  giu- 
dicalo opportuno  il  radunare  i  concili!  provinciali  per  sbaraz- 
zare le  prigioni  che  rigurgitavano  di  captivi.  11  concilio  della 
provincia  di  Sens  fu  radunato  a  Parigi  e  sentenziò  quelli  mede- 
simi ch'erano  stati  posti  sotto  disamina  dei  commissari  del 
papa,  tranne  ildignitari  dell'ordine,  la  cui  sorte  dipendeva  dalla 
decisione  del  concilio  di  Vienna. 

Il  concilio  provinciale  pronunciò  la  sua  sentenza  in  pubblico 
neiranno  1311.  Coloro  fra  i  prigionieri  che  aveano  fatte  tutte 
quelle  testimonianze  che  voleano  gli  inquisitori  furono  assolti; 
alcuni  altri  condannati  a  carcere  temporario  o  perpetuo.  Sem- 


—  96  — 

bra  però  che  fra  costoro  si  trovassero  quei  templari  che,  dotati 
di  membra  vigorose,  seppero  tollerare  Io  strazio  della  tortora 
senza  nulla  confessare;  ma  coloro  che  fra  i  tormenti  avevano 
confessato  e  poscia  negato,  furono  come  relassi  degradati  dal 
vescovo  di  Parigi  e  consegnati  al  braccio  secolare.  Cinquanta- 
nove furono  le  vittime  condannate  al  rogo,  ed  il  12  maggio  1311 
fu  eseguita  la  sentenza  fuori  della  Porta  di  Sant'Antonio,  e  fra 
le  fiamme  che  li  consumavano  non  facevano  che  protestare  la 
propria  innocenza.  Gli  altri  concilii  provinciali  lessero  pubblica- 
mente la  loro  sentenza,  ma  non  venne  fino  a  noi  tramandata 
se  non  quella  di  Sens,  né  ci  è  noto  il  numero  delle  vittime  pe- 
rite negli  altri. 

Anche  fuori  di  Francia  erano  stati  radunati  concilii  provin- 
ciali, ma  in  questi  i  templari  furono  assolti.  Nessun  testimonio 
erasi  presentato  a  deporre  contro  l'ordine,  e  non  si  adoperò  da 
essi  l'infame  mezzo  della  tortura  per  strappare  ai  cavalieri  con- 
fessioni che  venivano  poscia  contradette  o  distrutte.  Due  inqui- 
sitori di  Francia  aveano  frattanto  chiesto  al  concilio  di  Ravenna 
d'interrogare  i  cavalieri  mediante  i  tormenti,  ma  i  vescovi  che 
lo  componevano,  non  vedendo  indizi  criminosi  contraessi,  non 
aderirono.  Nello  stesso  modo  si  comportarono  i  concilii  di  Sa- 
lamanca e  di  Magonza. 

Non  rimaneva  più  oramai  se  non  di  decidere  della  sorte  del- 
Tordine  e  di  quella  dei  pochi  dignitari  che  erano  ancora  soste* 
nuti  nelle  carceri  di  Francia,  la  quale  decisione  doveva  essere 
pronunciata  dal  concilio  di  Vienna;  ma  la  diversità  delle  sen- 
tenze  fatte  dai  concilii  di  Francia  sulla  medesima  causa,  e  quelle 
pronunciate  da  esteri  Stati,  in  luogo  di  appianare  le  difiicoltà , 
le  aumentava;  per  il  che  Clemente  V  pubblicò  una  bolla,  colla 
quale  procrastinava  fino  al  1  ottobre  1311  la  riunione  del  con- 
cilio di  Vienna. 


CAPITOLO  III. 


Frooaiio   alla   memoria  di  Boaifaoio  TIII. 
OoBoilio  di  Vienna. 


iDdarno  Clemente  V  ed  i  prelati  di  Francia  avevano  immo- 
lato sui  roghi  tante  vittime  di  cavalieri  del  Tempio  per  placare 
rodio  e  soddisfare  all'orgoglio  di  Filippo  il  Bello.  A  questo  fe- 
roce non  bastava  la  sua  vendetta ,  non  si  trchrava  soddisfatto  ; 
egli  voleva  estenderla  fino  sul  capo  della  Chiesa  per  mostrare 
a'suoi  sudditi  ch'era  diritto  imperdonabile  voler  cozzare  contro 
la  sua  volontà  e  resistere  alla  sua  possanza.  Nel  i:^  rinnovò 
le  sue  istanze  a  Clemente  V  nerchè  condannasse  all'infamia  la 
memoria  di  Bonifacio  Vili.  Filippo  volea  raumiliare  la  corte  di 
Avignone,  e,  fisso  come  chiodo  nel  muro,  non  allentava  un 
ponto  solo  della  fatta  deliberazAne. 

Clemente  V  quando  partiva  da  Poitlers  avea  dichiarato  che, 
non  appena  si  fosse  restituito  ad  Avignone  »  avrebbe  ammes<(o 
all'udienza  tutti  coloro  che  intendevano  deporre  contro  il  suo 
predecessore.  Reginaldo  da  Supino,  cavaliere  ed  uno  dei  capi 
della  spedizione  d'Anagni,  si  pose  in  vìa  con  numero  conside- 
revole di  testimoni,  ch'egli  avea  a  bella  posti  radunali,  accioc- 
ché fossero  assunti  in  esame.  Ma  allorquando  egli  s'avvicinava 
ad  Avignone  i  suoi  amici,  nonché  i  partigiani  del  re  di  Francia 
gli  si  fecero  incontro  ad  avvisarlo  che  non  lungi  dalia  città  una 
buona  mano  di  armati  gli  aveano  tesa  un'imboscata  e  correva 
perìcolo  d'essere  ucciso  qualora  si  fosse  approssimalo  ad  Avi- 
guone  con  tutta  la  comitiva  di  testimoni  clic  seco  eondoceva. 

Tamii.  ImquU.  Voi.  II.  13 


—  98  — 

Costoro,  fosse  per  la  coscienza  che  andavano  a  compiere  un  atto 
criminoso,  fosse  per  timore  del  pericolo  che  altri  dicevano  corres- 
sero, sì  sbandarono,  né  pel  quanto  facesse,  Reginaldo  polè  ve- 
nire a  capo  di  tenerli  con  sé.  Allora  questi  si  recò  a  Nimes,  e 
riuniti  i  maggiorenti  della  città ,  protestò  al  loro  Cospetto  per 
mezzo  del  magistero  notarile  contro  Timpedi  mento  ch'era  stato 
frapposto  alla  procedura,  non  senza  incolpare  indirettamente 
il  ponteQce  delPimboscata  tesagli  come  si  andava  buccinando. 

Clemente,  che  ricovrandosi  in  Avignone  aveva  creduto  di 
sottrarsi  per  qualche  tempo  almeno  alla  ferrea  mano  di  Filippo, 
dopo  la  protesta  di  Supino  fu  preso  dal  consueto  spavento  e 
scrisse  a  Carlo  di  Valois  perchè  si  intromettesse  onde  calmare 
lo  sdegno  del  fratello,  assicurandolo  e^ser  sua  mente  di  grati- 
ficarsi r  animo  del  re  e  che  gli  stava  a  cuore  al  pari  di  chic- 
chessia r  affare  del  suo  predecessore  Bonifacio  che  gli  avea 
costato  tante  lagrime  ed  angosce  da  non  dire ,  ma  che  tale 
negozio  era  scabrosissimo  qualora  Filippo  non  lasciasse  tutta  la 
cura  di  finirlo  alla  Chiesa. 

Ma  Filippo  non  era  uòmo  da  fermarsi  alla  buccia  delle 
cose;  scrisse  quindi  di  nuovo  al  papa  lagnandosi  seco  che  il 
processo  non  progrediva,  e  che  intanto  (e  prove  scemerebbero, 
e  che  molti  dei  testimoni  potevano  morire.  Clemente  V,  sempre 
spaventato  per  la  possanza  e  la  violenza  del  re  di  Francia , 
risposegli  una  lettera  piena  di  unzione  ed  umiltà  cdlla  quale 
assicuravalo  della  sua  deferenza  e  servitù.  Per  non  rimanere  a 
parole ,  alle  quali  nessuna  fede  prestava  Filippo ,  il  pontefice 
pubblicò  una  bolla  colla  quale  invitava  a  presentarsi  tutti  coloro 
che  aveano  qualche  cosa  a  deporre  in  giudizio  contro  Bonifacio, 
e  fissava  il  primo  giorno  di  u(fienza  dopo  la  festa  della  Puri* 
flcazione  per  accogliere  le  deposizioni  e  le  accuse  del  re  Filippo, 
di  suo  figlio  Luigi,  dei  conti  d'Evreux,  di  Guglielmo  di  Plosians 
cavaliere  e  commissario  del  re. 

Questa  bolla  in  luogo  d'acquietare  l'animo  di  Filippo  rìn- 
cappello  il  suo  sdegno,  apparendo  dalla  stessa  il  dubbio  ch'egli 
fosse  accusatore  e  come  tale  citato  dal  tribunale  ecclesiastico; 
cosa  importabile  per  essolui ,  che  non  voleva  assoggettarsi  a 
giurisdizione  veruna  e  che  voleva  che  si  credesse  da  tutti  non 
nutrire  egli  animosità  veruna  contro  la  memoria  di  Bonifacio. 
Obbligò  quindi  Clemente  V  a  pubblicare  un'  altra  bolla ,  colla 
quale  annullava  la  precedente,  dichiarava  che  il  re  di  Francia 
non  agiva  che  per  zelo  per  la  verità  e  per  la  giustìzia,  in  modo 


—  w  — 

che  aTea  benà  sollecitato  il  pontefice  a  sentire  gli  accasatoli, 
ma  ch'egli  non  entrava  nel  novero  dei  medesimi. 

Né  a  ciò  limitò  le  sue  pretensioni  Filippo»  ma  costrinse  il  * 
ddtole  pontefice  a  pubblicare  nn*  altra  bolla ,  colla  quale  pro- 
metteva d' accordare  piena  sicurezza  ed  il  più  assoluto  segreto 
a  tutti  i  testimoni  che  volessero  deporre  contro  la  memoria 
del  papa  Bonifacio  Vili. 

Guglielmo  di  Nogaret  e  Guglielmo  di  Plasians  assunsero 
da  soli  rincarico  deiraccusa,  imperciocché  i  conti  d'Evreux,  di 
San  Paolo  e  di  Drenx  imitarono  V  esempio  di  Filippo,  dichia- 
rando di  rimettersi  in  tale  negozio  interamente  alla  prudenza 
del  santo  padre. 

Intanto  però  che  il  re  voleva  apparile  giusto  e  moderato 
presso  il  pubblico,  travagliava  a  tuiruomo  secretamente  perchè 
i  due  commissarii  procedessero  con  tutta  alacrità  a  raccogliere 
e  far  valere  tutte  le  calunnie  ed  imputazioni  che  una  turba 
d'aflhmati  paltonieri  andava  spargendo  per  aver  denaro.  Mala- 
gevole si  è  per  noi  lo  stabilire  giudizio  basato  su  documenti, 
essendone  stata  la  maggior  parte  distrutta,  ma  nulla  meno  cer- 
cheremo di  compendiare  quanto  di  più  importante  ci  è  rimasto, 
in  modo  che  se  non  apparirà  il  vero  in  tutta  la  pienezza  della 
luce,  potrà  il  lettore  stabilire  criterio  suUMnverosimiglianza  e  la 
calunnia  delle  accuse,  e  conoscere  in  gran  parte  Topera  tene- 
brosa di  Filippo.  Fra  tutti  i  documenti  che  rimangono,  quelli 
di  maggior  importanza  sono  intitolati:  1.  Articoli  e  ragioni  di 
diritto  contro  Bonifacio.  2.  Articoli  e  prove  contro  Bonifacio. 

Il  primo  di  questi  documenti  contiene  vent'otto  capi  diffe- 
renti d'eresia  ;  il  secondo  novantatre.  Per  generare  giusta  idea 
della  calunnia  delle  accuse  e  per  mostrare  che  alle  volte  il 
voler  troppo  aggravare  con  menzogne  la  verità  per  far  condan- 
nare od  infamare  la  memoria  di  alcuno,  si  riesce  ad  opposto 
fine,  ne  riproduciamo  alcune. 

Gli  avversari  compri  di  Bonifacio  lo  hanno  accusato  di  non 
credere  neir immortalità  dell'anima,  di  negare  la  presenza  di 
Gesù  Cristo  neirEucaristia,  di  aver  più  volto  dichiarato  di  non 
considerare  peccato  la  sensualità,  d'aver  dato  ragione  alle  mas- 
sime d'Arnaldo  di  Yilleneuve  state  condannate  dairinquisizione 
di  Parigi,  d'  aver  fatto  innalzare  statue  in  proprio  onore  per 
indurre  i  popoli  neiridolatria,  di  prestar  fede  alla  negromanzia, 
d'aver  sostenuto  che  un  papa  non  può  farsi  reo  di  simonia,  e 
di  avere  perciò  fatto  vendere  tutte  le  dignità  ecclesiastiche  da 


-  100  — 

limone  Spini  Oorentino ,  d*  aver  fatto  commettere  molti  orni- 
cidii  in  sua  presenza,  d'aver  fra  gli  altri  fatti  uccidere  dorante 
il  giubileo  più  di  cinquanta  pellegrini  dalle  sue  guardie  perchè 
gringombravano.il  passo  quando  un  giorno  si  recava  da  San 
Giovanni  Laterano  a  San  Pietro»  d'aver  costretto  molti  confes^ 
sori  a  rivelargli  i  peccati  di  alcune  persone,  d'aver  mangiato  di 
grasso  nei  giorni  di  digiuno  e  d'aver  permesso  a  tutti  i  suoi 
servi  di  fare  altrettanto,  d'aver  tacciati  i  frati  come  ipocriti  ed 
impostori,  d'aver  abbassato  i  cardinali  rifiutando  di  consultarli 
negli  affari  ecclesiastici,  d'aver  cercato  di  porre  i  regni  a  soq- 
quadro per  schiacciare  ciò  ch'egli  chiamava  orgoglio  gallicano, 
d'aver  contribuito  alla  perdita  di  Terra  Santa,  appropriandosi  il 
denaro  che  doveva  essere  adoperato  in  difesa  di  essa,  d'aver  fi- 
Daimente  fatto  sostenere  in  carcere  e  forse  morire  il  suo  pre- 
decessore Celestino  V. 

Fra  i  numerosi  testimoni  che  si  radunarono  per  sostenere 
simili  accuse  faceano  parte  due  monaci  di  San  Gregorio  di  Boma 
che  raccontavano  come  si  fossero  recati  un  giorno  da  Bonifacio 
per  denunciare  il  loro  abate  a  cagione  delle  sue  empie  dot^ 
trine.  Negava  questo  abate  l'immortalità  dell'anima  e  sostenevi 
essere  l'accoppiamento  dell'uomo  colla  donna  bisogno  innocente 
della  natura;  e  Bonifacio  dopo  di  aver  loro  chiesto  se  avevano 
mai  veduto  a  risuscitare  un  morto  licenziolii  dicendo  loro: 
<  Andate  e  credete  ciò  che  crede  il  vostro  abate  ;  siete  motto 
indiscreti  a  volerne  sapere  più  di  lui.  > 

.  MoUi  ecclesiastici  e  giureconsulti  napoletani  riferiscono  di- 
versi detti  pronunciati  da  Bonifacio  alla  loro  presenza.  Fra  gli 
altri  d'averlo  udito  a  tacciare  di  contraddizione  i  dogmi  profes- 
sati dalla  Chiesa  cattolica ,  e  dire  che  la  fede  era  buona  per  i 
gonzi  e  pel  popolaccio,  ma  che  gli  uomini  di  dottrina  e  d'inge- 
gno non  poteano  adattarvisi. 

Certo  frate  Bernardo  da  Soriano  asserisce  d' aver  veduto 
dalla  sua  finestra  che  Bonifacio  allora  notajo  apostolico  stava 
sagrificando  un  gallo  al  demonio  che  gli  era  apparso,  ed  aveva 
col  medesimo  tenuto  lunga  conferenza.  Attestava  di  averlo  ve- 
duto ad  adorare  un  idolo  nella  sua  camera  nascosto  dietro  una 
4X)rtina  e  finalmente  di  averlo  inteso,  otto  giorni  prima  di  mo- 
rire, dire  che  l'anima  muore  col  corpo,  e  bestemmiare  eziandio 
contro  la  Vergine  e  il  suo  Figlio. 

.  ,  Notte  Bonaocorsi  di  Pisa  dichiarava  d'avere  egli  slesso  più 
mÀto  condotto  a  giacere  con  Bonifacio  prima  sua  moglie,  poi 


-  101  — 

6Qa  figlia,  e  che  avevali  yedati  in  letto  commettere  atti  che  il 
tacere  è  bello. 

Guglielmo  Calatagirone,  nobile  siciliano,  asseriva  d'aver  ve- 
duto la  moglie  e  la  figlia  di  Bonaccorsi  giacere  con  Bonifacio  ed 
indicava  Nicola  di  Pisa  cavaliere  del  papa  siccome  altro  mezza- 
no delle  lascivie  di  Bonifacio ,  che  al  pari  di  Bonaccorsi  aveva 
prostitnito  la  moglie  e  la  figlia  a  Bonifacio. 

Questi  testiau)ni  confessando  la  propria  infamia  distrag- 
gono la  verità  deiraccusa  e  mostrano  d'essere  stati  compri  dal- 
l'oro di  Filippo. 

Altre  accaso  furono  fatte  a  Bonifacio ,  ma  cotanto  invero- 
simili che  non  vale  U  riprodurle. 

L'istruzione  del  processo  cominciò  il  16  marzo  1310.  Cle- 
mente y  in  quel  giorno  tenne  concistoro  ed  ammise  al  mede- 
simo, siccome  accusatori,  Guglielmo  di  Nogaret  e  Guglielmo  di 
Pbsians,  fiancheggiati  da  due  ambasciatori  del  re  di  Francia.  1 
parenti  di  Bonifacio  presentavansi  anch'essi  per  difendere  la  sua 
^nemorìa,  e  quindi  entrarono  nel  gineprajo  delle  legali  ecce- 
zioni. 

Nogaret  e  Plasians  vollero  esclusi  molti  cardinali  siccome 
aderenti  a  Bonifacio,  chiesero  al  papa  che  fosse  data  fede  ai  te- 
stimoni da  loro  introdotti,  che  sarebbe  il  loro  nome  tenuto  se- 
gretissimo a  motivo  del  pericolo  al  quale  si  trovavano  esposti 
per  la  loro  testimonianza. 

Dal  canto  loro  i  parenti  di  Bonifacio  sostenevano  che  il  papa 
non  poteva  essere  giudicato  se  non  da  un  concilio  ecumenico. 
Nogaret  e  Plasians  risposero  che  le  leggi  stabilite  per  l' inqui- 
sizione ammettevano  ogni  specie  d'accusatore  quando  trattavasi 
d'eresia  e  non  concedevano,  difensore  all'  accusato  :  per  il  che 
non  poteva  avere  Bonifacio,  morto  imputato  d'eresia,  quello  che 
non  gli  era  concesso  vivo.  In  tal  modo  le  leggi  crudeli  for- 
mulate da  un  cieco  fanatismo  venivano  dall'Inquisizione  rivolte 
contro  coloro  che  n'erano  stati  primi  fondatori. 

Molti  testimoni  erano  stati  esaminati  dai  commissari,  molti 
altri  dal  grande  inquisitore  Bernardo  Guidone,  ed  intanto  Cle- 
mente V  si  trovava  avvolto  in  gravissimo  impaccio. 

Se  condannava  la  memoria  di  Bonifacio  Vili,  era  lo  stesso 
die  scuotere  dai  cardini  la  Chiesa,  imperciocché  i  cardinali  da 
quello  nominati  non  sarebbero  stati  secondo  le  leggi  canoniche» 
ed  i  conclavi  ai  quali  aveano  assistito  con  voto  deliberatorio  in 
hcda  alle  leggi  ecclesiastiche  non  potevano  valere;  e  finalmente 


Clemente  V  non  poteva  essere  considerato  come  legittimo  pon- 
tefice quando  il  voto  de'saoi  elettori  era  vizioso  nella  sua  ori- 
gine. Àrrogesi  a  questo  il  terribile  bivio  in  cui  si  trovava,  im- 
perciocché ,  per  assolvere  Bonifacio ,  era  mestieri  accusare  (U 
mendacio  e  di  calunnia  Filippo  «  sno  figlio  ed  i  proceri  del 
regno. 

In  tale  frangente  non  sapeva  come  condursi  Clemente;  venne 
a  toglierlo  da  quella  desolante  posizione  Filippo,  il  quale,  se 
non  poneva  in^non  cale  Bonifacio,  mostra  vasi  non  più  tanto 
inviperito  contro  di  lui,  distolto  da  questo  scopo  per  la  calata 
d'Enrico  VII  in  Italia,  che  gli  dava  rangole  in  materia  più  so- 
stanziale, temendo  che  V  imperatore  di  Germania  prendesse  a 
proteggere  il  papato,  il  quale  ha  sempre  fornito  pretesto  ai  di- 
versi potentati  di  venire  alle  mani.  Filippo  adunque  acconsenti 
che  i  suoi  ministri  acconciassero  la  lunga  controversia. 

Purché  la  corte  di  Roma  dichiarasse  che  fosse  riconosciato 
il  suo  procedere  e  quello  de'  suoi  ministri  puro  ed  onorevole, 
prometteva  di  tenersi  per  soddisfatto,  dopo  la  quale  dichiara- 
zione avrebbe  potuto  Clemente  pronunciare  la  sentenza,  che 
Teresia  di  Bonifacio  non  era  bastantemente  provata. 

Fu  preparata  dalla  corte  di  Francia  la  modula  della  bolla 
e  mandata  a  Clemente  perché  vi  apponesse  la  firma.  Allora  Cle- 
mente con  sottile  artificio  pubblicò  una  bolla,  colla  quale  ren- 
deva elogi  a  Filippo  ed  alla  sua  corte  per  aver  data  facoltà  a 
lui  di  por  termine  alla  controversia  e  nel  medesimo  tempo  pro- 
sciogliere Bonifacio  dalla  taccia  d'eresia  che  gli  era  stala  fra  le 
altre  colpe  apposta. 

Lo  storico  non  può  quindi  farsi  giudice  inappellabile  fra 
tanta  oscurila  di  ragioni  che  militano  prò  e  contro;  solamente 
può  asserire  che  se  Bonifacio  per  avventura  ha  dato  presa  alla 
maldicenza  ed  alla  censura,  vi  fu  anche  improntitudine  per 
parte  di  Filippo  e  de'suoi  ministri. 

Dopo  di  avere  troncato  questo  processo,  pareva  a  Clemente 
d'essere  rinato,  ed  alla  sua  volta  si  preparava  a  dar  nuove  sod- 
disfazioni a  Filippo. 

Rimaneva  d'ultimare  il  processo  che  riguardava  i  templari 
che  già  da  anni  languivano  nelle  carceri.  Ma  TatTare  era  com- 
plicatissimo; imperciocché  se  le  più  gravi  accuse  date  contro 
l'ordine  dei  templari  avevano  preso  corpo  nei  tribunali  dipen- 
denti da  Filippo  il  Bello,  i  concili  provinciali  però,  che  non  te- 
mevano del  suo  influsso,  aveano  dichiarate  quelle  colpe  insus- 
sistenti e  calunniose. 


—  103  — 

11  concilio  di  Vienna  essendo  radunato,  nullameno  andava 
procrastinando  la  decisione  che  riguardava  l'ordine  del  templari; 
per  il  che  Filippo,  dopo  aver  tenuto  assemblea  coi  nobili  in 
Lione,  si  recò  a  Vienna  per  spronare  colla  sua  presenza  i  pre- 
lati a-  pubblicare  finale  sentenza.  , 

Bernardo  Guidone,  ch'era  Tinquisitore  scelto  da  Filippo  per 
definire  il  processo  de'templari,  narra:  e  Che  il  pontefice  chiamò 
molti  prelati  in  concistoro  segreto,  tenuto  il  22  marzo,  in  un 
coi  cardinali,  e  colà  per  via  di  provvisione,  anzi  come  condanna, 
abolì  l'ordine  deUemplari  riservando  a  sé  stesso  ed  alla  Chiesa 
la  facoiià  esclusiva  di  disporre  dei  loro  beni  e  delle  loro  perr 
sona. 

Il  3  aprile  seguente  celebrò  la  seconda  riunione  del  con- 
cilio nella  quale  fu  pubblicata  T abolizione  dei  templari  dallo 
stesso  pontefice  alla  presenza  del  re  di  Francia  Filippo,  non- 
ché di  quella  di  Carlo  e  dei  tre  figli  del  re.  In  tal  modo  ebbe 
fine  Tordine  del  Tempio  dopo  aver  combattuto  centoventiquat- 
tro  anni  e  d'aver  ammassate  ricchezze  straordinarie  e  d'esser 
stato  insignito  di  privilegi  dalla  sede  apostolica.  Da  questo  lin- 
guaggio di  leggieri  si  comprende  che  Guidone,  come  giudice 
inquisitore,  non  era  ben  convinto  della  colpabilità  dei  prigio- 
nieri; e  Tolomeo  di  Lucca,  altro  istorico  ecclesiastico  contempo- 
raneo, non  pare  esserlo  più  di  questi,  allorché  dice  :  <  Che  i 
prelati,  richiesti  dal  sovrano  pontefice,  convennero  dì  pronun- 
ciare sentenza  su  i  templari  senza  però  loro  accordare  un'udienza 
di  difesa.  > 

Leggendo  la  costituzione  apostolica  per  la  soppressione  del- 
l'ordine, datata  6  marzo  1312,  si  conosce  essere  più  presto  una 
concessione  fatta  per  deferenza  alle  istanze  d'un  potere  avverso, 
anziché  atto  di  giustizia.  Clemente  V  dichiara:  e  Che  le  con- 
fessioni ottenute  in  giudizio  da  molti  dei  fratelli  dell'  ordine, 
rendono  l'ordine  sospetto;  e  che  l'infamia  divulgata,  i  sospetti 
generali  e  veementi,  e  specialmente  l'accusa  portata  dinanzi  a 
Clemente  dai  prelati,  duchi,  conti,  baroni  e  comunità  del  re- 
gno di  Francia  hanno  cagionato  gravissimo  scandalo,  che  non 
si  potrebbe  distruggere  fino  a  tanto  che  l'ordine  esistesse.  Die- 
tro tali  considerazioni  egli  sopprimeva  di  suo  pieno  potere,  e 
non  per  sentenze  definitive,  imperciocché  non  potrebbe  farlo 
di  diritto,  in  forza  dell'inquisizione  e  processi  esistenti. 

Con  altra  costituzione  apostolica  il  papa  trasmetteva  all'or- 
dine degli  ospitalieri  tutti  i  beni  posseduti  dai  tem][)lari,  come 


-  104  — 

esistevano  al  momento  del  loro  arresto.  Mai  cavalièri  di  San 
Giovanni  di  Gernsalemme,  prima  d'entrare  in  possesso  dei  me- 
desimi» furono  obbligati  a  pagar  somme  enormi  tanto  al  re 
Filippo  quanto  agli  altri  principi  che  gli  aveano  usurpati ,  di 
modo  che  Tordine,  ben  lungi  dalFessere  arricchito  da  tale  coik* 
cessione»  si  trovò  più  povero  di  prima. 

Alla  condanna  dei  templari  tenne  dietro  la  dichiarazione 
fatta  dal  concilio  che  Bonifacio  Vili  era  stato  un  pontefice  legit- 
timo, e  che  non  erasi  macchiato  né  d'eresia  né  d'altra  menda. 
Tale  esser  doveva  il  risultato  dei  negoziati  dell'anno  precedente 
fatti  tra  la  corte  di  Francia  e  Clemente  V. 

Per  dare  al  concilio  carattere  imponente  in  faccia  alla  cri- 
stianilà,  si  annunciò  il  disegno  di  ricuperare  Terra  Santa  mercè 
una  nuova  crociata,  per  la  quale  dichiaravano  Filippo  il  Bello 
ed  Edoardo  II  re  d'Inghilterra  di  recarsi  in  Palestina  a  liberare 
il  santo  sepolcro  dalle  mani  degl'infedeli. 

Il  concilio  di  Vienna  si  occupò  eziandio  d'una  setta  dairin- 
quisizione  riprovata ,  chiamata  società  dei  beghini.  Gli  addetti 
alla  medesima  si  dedicavano  interamente  alla  vita  ascetica  e  si 
distinguevano  alla  semplicità  del  loro  vestire  ed  alla  severità 
dei  loro  costumi. 

L' Inquisizione  era  venuta  in  cognizione  come  costoro  si 
scostassero  dai  canoni  della  Chiesa  relativamente  alla  grazia  e 
giudicassero  inutili  alcune  pratiche  religiose,  come  sarebbe  la 
cieca  obbedienza  al  sacerdozio,  il  credere  alle  beate  visioni  ed 
all'adorazione  dell'Eucaristia. 

L'Inquisizione,  che  aveva  potuto  scoprire  numerosi  accoliti 
di  questa  setta  nelle  prnvìncie  di  Lione  e  dì  Besanzone,  armata 
di  tutto  punto  scese  in  campo  a  dislruggerii.  Quindi  nuovi  pro- 
cessi, nuovi  tormenti  e  continue  vittime  sacrificate  sull'ara  del 
fanatismo. 

Nuova  esca  trovò  l'Inquisizione  in  Francia,  mercè  Tinstan- 
cabile  zelo  e  la  non  mai  saziata  sete  di  sangue  di  Filippo. 

L'Inquisizione  per  ordine  di  Filippo  il  Beilo  fece  arrestare 
Margherita  della  Porrelta,  donna  istrutta,  saggia  e  religiosissima^ 
nativa  di  Hainaut,  stabilita  a  Parigi,  che  aveva  scritto  un  libro 
intorno  all'amore  di  Dio,  nel  quale  gl'inquisitori  scoprirono  er- 
rori che  furono  più  tardi  rimproverati  a  Fénéion.  Chiamata 
Margherita  innanzi  al  tribunale  dell'Inquisizione,  fu  diffidata  di 
abjurare  le  dottrine  che  si  trovavano  sparse  nel  suo  libro;  ma 
la  donna  si'  rifiutò  di  aderire  ai  voleri  deirinquisizione,  per  il 


-los- 
che Tenne  sostenuta  in  carcere  e,  dopo  un  anno  di  lormenti 
atrocissimi,  ai  quali  con  virile  animo  seppe  resistere,  fu  condan- 
nata al  rogo.  Per  dare  V  Inquisizione  maggior  fama  ed  appa- 
rito imponente  al  martirio,  ebbe  scelto  il  primo  giorno  delle 
feste  della  Pentecoste  del  1311  per  consumare  anche  questo 
delitto.  Fu  condotta  la  povera  donna  a  piedi  scalzi  dai  carne* 
flci  in  mezzo  agli  arcieri  alla  piazza  di  Grève,  e  quivi  salita 
coraggiosa  sulla  pira,  fu  abbruciata. 

Per  darle  un  compagno  nel  supplizio,  Filippo  fece  condan* 
Dare  un  ricco  d)reo,  ch'era  convertito  alla  fede  cattolica,  tac- 
ciandolo di  relasso;  cosi  il  re  s'impadroniva  dei  beni  della  vit^ 
tima ,  e  fu  condannato  a  perpetua  prigionia  un  fanatico  che 
diceva  essere  Tangelo  di  FiladelQa. 

Arnaldo  di  Villanova ,  provenzale ,  medico  e  professore  a 
Parigi,  spaventato  dai  rigori  delUnquisizione,  ricovrò  in  Sicilia, 
ove  mori.  Per  dare  meno  inesatta  Fimagine  del  sanguinario  Fi- 
lippo, narreremo  quanto  operò  in  famiglia. 

Il  suo  primogenito  re  di  Navarra  avea  sposato  Margherita 
figlia  di  Roberto  duca  di  Borgogna;  Filippo,  conte  di  Poitiers, 
Giovanna,  figlia  di  Ottone  IV  conte  di  Borgogna,  e  Cario  terzo- 
genito avea  impalmato  Bianca  figlia  del  medesimo  Ottone.  Corse 
in  corte  di  Filippo  una  voce  che  le  sue  nuore  avessero  infranto 
il  coniugale  giuramento.  Egli  sospettoso  e  cupido  di  trovare 
ovunque  delitti  per  vedere  in  ogni  luogo  vittime  e  patiboli , 
denunciò  ai  tribunali  Filippo  e  Gualtieri  di  Lunay ,  fratelli , 
come  seduttori  delle  nuore.  Furono  sostenuti  in  carcere  e  posti 
alla  tortura,  confessarono  non  solo  la  colpa  della  quale  erano 
imputati,  ma  soggiunsero  d'averla  più  volte  commessa  in  luogo 
sacro.  Bastò  perchè  Tlnquisizione  vi  ponesse  gii  artigli.  Furono 
quindi  i  fratelli  Lunay  condannati  a  morire  in  una  spaventosa 
maniera.  Fu  loro  prima  levata  la  pelle  fino  a  mela  vita ,  indi 
mutilati,  poscia  appesi  per  le  ascelle,  e  rimasero  cosi  malconci 
finché  la  morte  impietosita  venne  a  por  fine  ai  loro  tormen- 
tosi dolori.  Né  colla  morte  di  essi  ebbe  termine  lo  sdegno  di 
Filippo.  Un  usciere,  accusato  di  avere  loro  prestato  qualche 
favore,  fu  loro  terzo  nel  patibolo  ;  ed  a  costoro  tennero  aietro 
iodistintamente  nobili  e  popolani,  alcuni  accusati  di  aver  tenuto 
mano  alFsidulterìo  delie  principesse,  altri  di  aver  conosciuto  il 
delitto  senza  denunciarlo.  Si  ponevano  tosto  alla  tortura,  ed  i 
carnefici  avevano  talmente  perfezionata  la  loro  arte  infernale» 
che  se  gli  accusati  non  perivano  fra  i  tormenti,  poco  dopo  mo- 

Tamb.  Inquis.  Voi   li.  14 


—  i06  — 

rìTano  o  in  consegoenza  dì  questi  o  condaDoati,  gli  ani  cadi 
in  un  sacco  e  gettati  nella  Senna»  altri  erano  nelle  prigioni 
strozzati  ed  in  gran  nomerò  al  rogo. 

San  Giorgio»  sebbene  tcscovo  e  deirordine  dei  domenicani 
accasato  di  conoscere  il  colpevole  procedere  delle  principesse; 
ed  avendo  omesso  di  denunciarle,  fa  posto  in  carcere,  e  non 
se  ne  seppe  più  novella. 

Luigi  fece  strangolare  Margherita  ;  Carlo  obbligò  Bianca  a 
cingere  il  velo  neirabbazia  di  Maobisson,  e  Giovanna,  avendo 
ricevuto  in  dote  la  Franca  Contea,  che  dovea  essere  restituita 
al  fratello  di  lei  ove  fossele  rimasto  superstite,  per  Tavarizia 
del  marito,  campò  la  vita. 

L'ordine  dei  templari  era  distrutto;  la  maggior  parte  dei 
suoi  membri  era  perito  m\  rogo  o  fra  le  torture  o  di  fame  in 
prigione.  Solamente  il  gran  maestro  ed  i  dignitari  delPordine 
penarono  fra  lo  squallore  del  carcere  e  furono  :  Giacomo  di 
Molay  gran  maestro,  che  Filippo  aveva  in  altri  tempi  scelto  per 
levare  al  fonte  battesimale  uno  dei  suoi  figli;  Guy, commenda- 
tore di  Normandia,  figlio  del  delfino  d'Alvemia  ;  il  commenda- 
tore d'Àquitania,  ed  il  Visitatore  di  Francia.  Filippo  un  giorno 
si  ricordò  di  loro  per  spedirli  al  rogo. 


CAPITOLO  !¥• 


BseeazioBe  dal  fraa  maestro  de'  tempieri. 


Era  il  15  marzo  dell'aDDo  131 4»  e  quantunque  una  fredda 
e  densa  nebbia  sopravenuta  a  pioggie  dirotte  diffóndesse  un 
malinconico  tenebrore  sulle  contrade  di  Parigi,  pure  offerivano 
esse  fin  dal  cominciar  del  mattino  il  più  animato  spettacolo. 
Era  un  gridar  d'impazienza,  un  andare  e  venire,  un  esclamare 
di  sorpresa,  un  trambusto  di  carri  trascinati  da  mule  qual  da 
luogo  tempo  non  s'era  veduto  regnale,  e  che  facea  singolare 
contrasto  collo  squallore  delle  strade  fangose,  delle  ctìiuso  bot- 
teghe, del  cielo  caliginoso.  Una  turba  di  villani  accorsi  dal  bor- 
ghi vicini,  che  distinguevansi  alla  lunga  barba  ed   al  capelli 
pendenti,  di  mendicanti,  di  monaci,  di  donne,  di  vecchi  e  fan* 
dnlli  ingombrava  le  vie.  Scorgeansi  qua  e  là  appostarsi  a  caiH) 
di  quelle  gli  arcieri  della  prevostura  colle  loro  alabarde,  i  ser* 
genti  d'armi  colla  clava  ferrata  e  colla  giubba  a  manictie  pen- 
zolanti, ed  alzarsi  di  mezzo  alla  folla  i  lunghi    pennacchi   dei 
cavalieri  baccellieri  e  banneretti  che  si  facevan  largo  colla  punta 
dei  loro  pennoncelli;  in  una  parola  tutte  le  condizioni,   tutte 
le  età  mostra vansi  in  quella  immensa  adunanza,  simile  ad  uno 
di  quei  gran  mercati  marittimi  ove  convengono  i  rappresentanti 
di  tette  le  regioni  del  mondo.  Sarebbesi  detto  o  che  la  citti 
fosse  minacciata  d'incendio,  o  che  contro  a  Filippo  il  Bello  si 
fosse  concitata  una  sollevazione  sol  far  di  quella  che  era  scop- 
piata alcoBi  anni  addietro  per  avere  di  doe  terzi  accresciuta!  il 
valore  delle  monete. 


—  108  — 

Ma  ravvenimento  di  quella  giornata  non  toccava  le  sorti  dd 
Parigini  ;  solo  era  tale  da  destarne  la  curiosità  ed  il  terrore.  Le 
turbe  non  dirigevano  i  loro  passi  alla  residenza  del  re,  sibbene 
verso  le  rive  della  Senna,  alla  piccola  isola  di  La  Goordaime 
o  dei  Giudei ,  situata  fra  i  regi  giardini  ed  il  convento  degli 
agostiniani,  ove  è  adesso  la  piazza  delfina  e  la  statua  di  En- 
rico IV.  I  viottoli  di  Nazareth  e  di  Betlemme,  gli  aditi  tatti 
che  mettevano  a  quel  solitario  luogo  erano  zeppi  di  gente  : 
quello  diventato  era  la  meta  di  tutti  i  motimenti,  il  centro  della 
universale  attrazione,  né  il  ponte  che  alla  città  congiungevalo, 
né  le  molte  barche  ivi  adunate  bastar  potevano  a  sfogo  del- 
Tinnumerevole  popolo  di  curiosi.  S'udivano  chiamar  fortunati 
coloro  cui  il  privilegio  della  dignità  o  dei  natali  guarentiva  i 
posti  migliori;  s'udivano  invidiare  le  nobili  donne  alle  quali 
doveano  probabilmente  servire  le  logge  innalzate  rimpetto  alla 
piazza  deirisola.  Invidiate  I  e  perchè  ?  Traltavasi  forse  di  qual- 
che nazionale  esultanza  per  conseguite  vittorie?  o  di  qualche 
splendido  torneamento,  in  rai  una  di  loro  aspirasse  al  vanto 
di  venir  proclamata  regina  degli  amori  e  della  bellezza  ?  No 
eertamente,  perocché,  in  luogo  delle  note  assise  dei  piii  famosi 
campioni,  in  luogo  delle  variopinte  bandiere  sciorinate  in  segno 
di  gioia  e  del  suon  delle  trombe  e  dello  scalpito  dei  cavalli»  un 
cupo  ma  operoso  silenzio  regnava  nelUsola  dei  Giudei,  e  la 
fitta  mano  d'armati  che  ne  guardava  il  recinto  pareavi  piatto-' 
sio  a  difesa  che  a  far  bella  mostra  di  sé.  Unici  trofei  colà  io 
quel  piazzale  erano  due  ampie  cataste  di  legna  sormontate  da 
pali  da  cui  pendevano  catene,  unica  insegna  un  nero  vessillo, 
ifì  cima  al  quale  torreggiava  la  mano  della  giustizia  scolpita  in 
legno  dorato,  e  questa  lugubre  pompa  accennava  abbastanza 
come  un  dramma  di  sangue  stesse  per  aver  compimento. 

Ed  infatti,  dopo  alcune  ore  di  aspettazione,  ecco  in  lontano 
adirsi  lo  squillo  d*un  corno  e  un  fragoroso  scricchiolar  d'armi  ; 
indi  a  poco  la  voce  degli  araldi  gridanti  :  —  Indietro  borghi- 
giani ;  indietro  cittadini  ;  luogo  cavalieri,  fate  luogo  alla  giustizia 
del  rei  —  Tutti  gli  occhi  s'addirizzarono  a  quella  parte:  si 
fece  un  breve  silenzio,  e  a  questo  supcedette  tosto  un  brulichio 
più  confuso  in  tutta  la  folla,  che  ricacciandosi  a  spinte  contro 
i  muri  delle  case,  lasciò  a  poco  a  poco  sgombero  della  via  tanto 
spazio  che  bastasse  a  dar  passo  al  lungo  e  mesto  corteo  che 
lentamente  si  approssimava. 

Apriva  il  cammino  uno  scudiere  del  re  portante  lo  sten- 


—  109  — 

dardo  auarro  coi  gigli  d'oro»  e  dietro  lai  procedevano  ciDqoaQta 
soldati  a  cavallo  capitanati  da  Roggero  di  Foix  pipote  di  quel- 
Taltro  Roggero  che  trentanni  addietro  avea  fatto  omaggio  spon- 
taneo de'suoi  dominii  alla  corona  dì  Francia.  Seguivano  indi 
primi  d'una  schiera  di  cavalieri,  di  scudieri  e  di  paggi,  vari  dei 
più  illustri  personaggi  di  corte,  i  cui  nomi  veniansi  ripetendo 
da  mille  bocche  nel  loro  passaggio.  Carlo  di  Valois  fratello  del 
re,  Bertrando  di  Saint-Paul,  Roberto  di  Goienne,  Alano  di  Beau- 
roanoir,  Guglielmo  Nogaret  gran  cancelliere  del  re,  sul  cui  volto 
sinistro  mal  si  celava  la  gioia  di  un'assaporata  vendetta.  Tutti 
costoro  erano  in  arnese  di  guerra  e  colle  insegne  spiegate,  ma 
pia  notevol  di  tutti  per  la  baldanza  del  portamento  e  per  la 
ricchezza  degli  addobbi  appariva  l'impudente  Enguarrando  di 
Harigny  favorito  del  re,  de'cui  consigli  in  gran  parte  era  ef- 
fetto il  crudele  spettacolo  che  s'apprestava  in  quel  punto.  Con- 
scio egli  dell'odio  in  che  universalmente  era  tenuto,  rivolgea 
a  quando  a  quando  sul  popolo  un  infernal  sogghigno  di  scherno 
quasi  a  ricambio  di  mille  tacite  maledizioni,  e  prendea  diletto 
di  cacciarsi  col  cavallo  fra  i  gruppi  più  fitti  di  gente  a  goder 
del  loro  scompiglio.  Solo  di  tanti  cortigiani  accorsi  quasi  per 
giustificar  colki  loro  presenza  i  barbari  decreti  di  Filippo,  non 
A  scorgea  ivi  l'intemerato  Gaucher  di  Chillon  gran  contestabile 
del  regno,  abbenchò  l'uffizio  suo  gliene  facesse  quasi  un  do- 
vere; all'onesto  cavaliere  più  che  il  corruccio  del  re  avrebbe 
gravato  il  rimorso  di  farsi  vile  approvatore  di  ciò  ch'ei  reputava 
ÌQginstizia.  Veniva  dappoi  una  processione  di  domenicani  e  di 
minoriti,  alla  cui  testa  era  frate  Guglielmo  capo  inquisitore  di 
Parigi,  che  si  facea .  precedere  da  un  Cristo  in  mezzo  a  ceri 
ardenti;  indi  seguitavano  i  cavalieri  di  toga  o  giudici  del  parla- 
mento, e  finalmente  un'immensa  calca  d'uomini,  di  dònne,  di 
fàDciulli,  i  quali  gridando  —  Veht  i  templari!  vehl  il  gran 
maestro  i  —  precipitavansi  fin  quasi  sotto  i  piedi  dei  cavalli  per 
contemplare  in  volto  i  prigionieri,  senza  che  gli  sforzi  delle 
guardie  a  cavallo  e  degli  alabardieri  valessero  a  contenerli  in 
buon  ordine. 

Jacopo  Molay  gran  maestro  dei  templari  veniva  a  piedi  colle 
mani  legate,  col  capo  scoperto,  colla  persona  rivestita  di  logora 
Ionica,  in  mezzo  a  quattro  arcieri  e  con  a  fianco  gli  uffiziali 
della  giustizia. 

La  fisonomia  di  questo  antico  campione  serbava  l'impronta 
di  tutti  i  dolori,  accusava  tutte  le  torture  fisiche  e  morali  a  cui 


-  110  — 

da  tanto  tempo  era  in  preda.  Mal  si  reggea  sulle  gambe,  ma 
il  suo  sguardo  dignitoso  senza  arroganza,  fermo  senza  ostenta- 
zione, dava  a  conoscere  che  l'energia  di  un'anima  usata  a  sfidare 
là  mòrte  si  era  ridesta  nel  moniento  più  decisivo.  Né  differente 
era  il  contegno  del  priore  di  Normandia,  Guido  fratello  del 
delfino  di  Viennois,  che  lo  seguiva  nella  lugubre  processione. 
In  contemplare  quei  due  volti  sformati  da  lunga  barba ,  da 
incolti  capelli,  macerati  da  veglie,  da  percosse,  da  stenti  e  più 
che  tutto  dal  pensiero  di  uno  spaventevole  fine,  non  era  alcuno 
fra  i  riguardanti  che  non  sentisse  o  compassione  o  ribrezzo. 

Finalmente  dopo  un'  ora  di  cammino  giunsero  essi  alla 
meta  del  doloroso  viaggio  e  stavano  ancora  i  carnefici  com-^ 
piendo  gli  estremi  apparecchi  del  supplizio,  mentre  gli  armati 
si  schieravano  attorno  alla  piazza,  ed  in  appositi  palchi  collo- 
cavansi  i  giudici  e  i  grandi  della  corona.  Regnava  in  tutto  quel 
mare  di  gente  il  silenzio  deiransielà,  quando  la  voce  sepolcrale 
di  Guglielmo  di  Nogaret,  simile  a  quella  dell'angelo  della  morte, 
s'alzò  ad  interromperlo  con  questi  accenti: 

—  0  Iacopo  di  Molay ,  Guido  di  Viennois ,  le  deposizioni 
di  veridici  testimoni ,  le  vostre  confessioni  e  quelle  dei  vostri 
fratelli  v'  hanno  convinti  di  apostasia ,  d' idolatrìa ,  e  d' ogni 
genere  d'abbomioazione.  Il  santo  concilio  di  Vienna  ha  decre- 
tata l'abolizione  del  vostro  ordine,  e  l'Inquisizione  vi  ha  rimessi 
alla  punizione  del  braccio  secolare.  Egli  è  perciò  che  la  giu- 
stìzia del  re  vostro  signore ,  dopo  avervi  ad  ogni  prova  rico«- 
nosciuti  cavalieri  sleali ,  corruttori  del  cielo  e  della  terra ,  vi 
condanna  a  perire  di  lento  fuoco  in  guisa  di  eretici  scomuni- 
cati, e  questa  sentenza  sarà  posta  immediatamente  ad  esecu- 
zione. Cosi  possa  colle  vostre  ceneri  sperdersi  la  memoria  delle 
vostre  scelleratezze.  — 

Intanto  che  il  cancelliere  pronunziava  queste  fatali  parole, 
interrotto  soltanto  da  un  sordo  romorio  degli  astanti  somi- 
gliante  al  gemer  cupo  del  vento  io  una  folta  foresta,  Iacopo  e 
il  suo  sventurato  compagno,  rialzandosi  sulla  persona  e  scuo- 
tendo fortemente  la  loro  catena,  davano  indizio  della  più  vio- 
lenta commozione:  pareva  che  il  sangue  rifluito  improvvisamente 
al  cervello  del  canuto  Molay  ne  imporporasse  le  guance  scar- 
nate; pareva  che  un  torrente  di  concitate  parole  pronte  a 
traboccare  gli  si  strozzassero  nella  gola,  tanta  era  1'  agitazione 
della  sua  faccia,  la  contrazione  dei  suoi  muscoli.  Ma  quell'im- 
peto dell'onor  vilipeso  fu  un  lampo,  e  tosto  ripigliando  egli  la 


—  Hi  - 

severa  saa  dignità  fé'  cenno ,  protendendo  le  braccia ,  di  voler 

favellare* 

.        —  Parlate,  o  Iacopo,  gli  disse  allora  V  austero  inquisitore 

!  di  Parigi:  le  vostre  parole  sieno  quali  esige   la  tremenda  ora 

che  s'  avvicina:  ma  innanzi  tratto  sappiate  che  non  è  solo  la 

misericordia  divina  che  sia  pronta  ad  aprirvi  le  braccia ,  ma 

che  anche  Fumana  giustizia  può  sospendere  il  suo  rigore,. se 

vi   mostrerete   pentito.  Confessate  di   nuovo  le  colpe  vostre , 

domandatene  perdono  in  faccia  al  cielo  ed  agli  uomini,  e  tro- 

(  ?erete  clemenza.  Non  vi  ostinate  ad  aggiungere  a  tanti  travia- 

]  menti  un'impudente  menzogna,  o  Tira  di  Dio  vi  sta   prepa- 

j  rande  un  fuoco  ben  più  durevole  di  quel  che  v'appreslano  gli 

'  nomini. 

—  Impudenti  menzogne  quelle  che  voi  fabbricaste  ai  nostri 
danni  1  interruppe  vivamente  il  gran  maestro:  menzogne  quelle 
che  ci  strapparono  dal  labbro  gli  spasimi  della  tortura  e  le 
insidiose  vostre  promesse  t  Io  Io  attesto  qui  per  quel  Dio  che 
mi  dovrà  giudicare  fra  poco,  per  la  Vergine  santa  ,  per  san 
Giorgio  mio  protettore,  noi  tutti  siamo  innocenti  dei  delitti  che 
ci  apponeste.  Più  che  d'ogni  passata  colpa  mi  pento  della  viltà 
che  in  un  atroce  momento  mi  trasse  dal  labbro  un'  infame 
confessione;  questa  sola  mi  rende  degno  di  mille  morti.  Possa 
Iddio  perdonare  a  noi,  come  noi  perdoniamo  ai  crudeli  che  sono 
cagione  della  nostra  rovina  1 

—  Templari,  non  volete  adunque  pentirvi  ?  soggiunse  Tin- 
quisitore.  Pensateci  bene ,  io  annunzio  da  parte  del  nostro  re 
grazia  e  libertà,  da  parte  della  Chiesa  assoluzione  intera  a  colui 
che  pentito  confesserà  le  sue  colpe. 

—  Siamo  innocenti  I  ripeterono  entrambi. 

E  qui  le  grida  della  plebe ,  il  pianto  dei- parenti ,  le  pre- 
ghiere degli  amici  si  confondeano  in  una  sola  esortazione: 
€  Confessate,  confessate  per  pietà  dell'anima  vostra  I  > 

—  Riflettete,  dicea  il  frate,  che  i  vostri  minuti  sono  nu- 
merati. 

—  Sieno,  riprese  Molay:  ma  dite  a  coloro  che  ci  condan-^ 
nano  che  numerati  sono  pure  ì  loro  giorni  ;  dite  a  papa  Cle- 
mente ed  al  re  Filippo  che  prima  che  un  anno  si  compia  sarà 
decisa  la  nostra  causa  davanti  al  tribunale  di  Dio.  Là  li  atten- 
diamo. In  mams  tuasy  Domine,  commendo  spiritum  meum. 

—  Entro  un  anno  al  tribunale  di  Diol  —  ripetè  il  priore 
di  Normandia. 


- 11^  - 

—  Maledizióne  sulle  anime  vostrel  gridò  rimpetaoso  Ga 
glielmo  di  Nogaret,  augelli  di  triste  augurio.  Olà,  giustizieri 
fate  il  dover  vostro!  — 

E  tosto  costoi'o,  impadronitisi  dei  prigionieri,  li  attaccarono 
ai  pali;  poi  Puno d'essi  presa  una  torcia  infiammata,  la  scossi 
fortemente  ed  appiccò  il  fuoco  alle  cataste.  Un  turbine  di  fumt 
avviluppò  rapidamente  i  pazienti,  i  roghi  e  la  piazza.  Non  altn 
più  s' intese  che  il  crepitare  delle  fiamme  misto  ai  soflbcat 
gemiti  delle  vittime,  al  pianto  dei  loro  amici  ;  non  altro  si  vidi 
per  qualche  minuto  che  una  nube  grigiastra  che  spandendo  ui 
fetido  odore  saliva  a  confondersi  colle  nebbie  del  cielo.  Ma  ur 
soffio  di  vento  avendo  per  un  istante  dissipato  quei  densi  vapori 
si  scorsero  nel  centro  dei  fuochi  due  masse  scure  ed  informi 
che,  simili  ad  infernali  visióni,  s'agitarono,  divincolaronsi  e  ri- 
caddero  carbonizzate  in'  mezzo  alle  fiamme, 

A  siffatto  spettacolo  inorridita  la  moltitudine  si  sparpaglio 
tumultuando:  —  Poveri  templari  I  era  T  esclamazione  di  tutti 

—  Hanno  citato  il  re  ed  il  papa  avanti  a  Dio  !  dicevan  gli  uni 

—  Giurerei  ch'erano  innocenti  I  susurravan  gli  altri.  —  Morte 
ai  carnefici!  maledetta  giustizia  che  brucia  gli  uomini  in  onore 
di  Dio  !  gridavano  i  più  arrischiati. 

E  intanto  il  fremito  e  gli  urli  divenivano  di  momento  ic 
momento  più  minacciosi,  come  il  muggire  dei  fluiti  che  precede 
violenta  burrasca,  tanto  che,  ad  acchetarli,  Rogero  di  Foix  si 
credette  obbligato  di  dare  il  segno  dell'allarme,  ed  i  soldati  si 
ordinarono  in  fila.  Il  padre  inquisitore  intonò  il  Miserere,  k 
cui  flebili  note  vennero  all'  istante  ripetute  da  più  migliaia 
di  bocche.  Siffatta  lamentazione ,  cui  di  lontano  aggiungeva 
malinconia  il  rintocco  della  campana  funerea  e  lo  squallore 
del  giorno  presso  a  morire,  mutò  ben  presto  in  una  sola  indi- 
stinta armonia  i  parlari ,  le  grida ,  le  maledizioni  di  tanti  uo- 
mini,  fra'  quali  pochi  furono  coloro  che  osassero  applaudire  ad 
un  atto  che  pur  doveva  secondo  le  opinioni  di  quella  età  riu- 
scire accetto  a  Dio  e  liberare  il  mondo  da  uno  stormo  di  scel- 
lerati. 

Alcuni  giorni  dopo  il  tragico  avvenimento  fu  dato  a  Fi- 
lippo di  accorgersi  da  sé  medesimo  della  funesta  impressione 
che  questo  avea  lasciato  negli  animi.  Allorché  egli  comparve  in 
pubblico  la  prima  volta,  il  silenzio  e  la  diffidenza  erano  im- 
pressi sulle  fisonomie  di  coloro  che  più  soleano  esser  prodighi 
di  acclamazioni.  Ciò  contribuì  in  singoiar  modo  ad  accrescere 


\ 


Itecvime  tfei  Tem^m  acaàti  in  PirmilUMino  ISH» 


—  115  — 

le  inquielodìiù  di  qoello  spirilo  catonlmente  $dspeUi\$o  o  ;ii 
sQScitam  una  gatm  che  non  dovea  più  pbcarsi  che  colia 
morte.  In  iscambio  della  calma  soperha  che  abilualmenle  tra- 
sparila  dalb  fredda  regolarità  del  suo  ì\^IU\  e  della  artiiitiosa 
compostezza  che  ne  reggea  i  moTimenti.  notaronsi  in  fronte  a 
Filippo  le  repentine  contrazioni,  T abbattimento  profondo  di 
nn  animo  lacerato  da  cruccioso  pensiero  ;  i  suoi  occhi  contor- 
nati  da  lividio  cerchio,  le  guance  illividite  accusarono  gli  irrequieti 
sonni  d^nn  nomo  a  cui  pareva  che  le  teste  degli  abbruciati 
cavalieri  avessero  servito  di  spaventoso  guanciale.  SI ,  la  |\ace 
di  Filippo  il  Bello  era  perduta  per  sempre  :  la  morU)  di  Mola>\ 
la  sua  fatai  predizione  e  più  che  ogni  altra  cosa  11  mise^ 
rando  fine  di  papa  Clemente  aveano  affatto  conquiso  il  suo 
CQore;  egli  sognava  ad  occhi  aperti  tetri  fantasmi ,  inesorabili 
apparizioni.  —  I  morti,  o  grazioso  mio  sire,  non  tornano  in 
vita,  gli  diceva  un  giorno  Enguerrando ,  e  la  grandezza  vostra 
non  faccia  onta  a  sé  medesima  con  vane  paure.  —  1  morti  ò 
vero  tornano  in  vita,  ma  gli  spaventosi  loro  spettri  turbano  il 
mio  riposo,  e  non  v'hanno  uè  messe  né  confessioni  che  val- 
gano a  ridonarmi  V  antico  coraggio.  —  E  dicea  vero ,  chò  in 
mezzo  allo  splendore  del  trono ,  sul  punto  quasi  di  veder  co- 
ronato ogni  suo  desiderio,  parve  che  Filippo  fosso  costretto  di 
ubbidire  alla  intimazione  che  gli  suonava  incessante  nel  fondo 
del  eaore:  Prima  che  compiasi  un  anno  f  aspetto  al  trihunalv 
éiDkK 

Ma  (a  crudeltà  di  Filippo  fu  ella  veramente  incsousablli!? 
faiODO  tutte  calunnie  le  imputazioni  fatte  ai  templari  7  Ecco 
lu  quesito  al  quale  la  storia  non  offerse  ancora  una  soluzioni; 
pndn.  IThanno  gravissime  autorità  che  assolvono,  gravissime 
ehtt  condannano;  né  la  luce  dei  secoli,  né  il  silenzio  (kììa  pas- 
é^bì  pptnono  peranco  diradar  le  nebbie  che  avvolgono  le  toinln; 
dai  templari  o  far  tacere  i  romori  dei  loro  nemici.  Data  clic 
avnmo  una  rapida  occhiata  alia  storia  di  codesto  ordine  fa- 
MSe^  vedremo  in  che  consistano  le  accuse  e  le  difese,  onrle 
^iiciina  esaminando  da  sé  medesimo  la  gran  controversia,  ne 
far  ragione  a  soo  senno. 


Taxi.  ImqmU,  YoL  IL  ir, 


CAPITOLO  V. 


L'Ordine  de*  Templari. 


Quel  religioso  fervore  che  sai  finire  deir  undecimo  secolo 
sospìnse  quasi  tutta  Europa  al  conquisto  di  Palestina  trovò  pib 
che  altrove  alimento  nello  spirito  cavalleresco  dei  Francesi,  e 
nessun'altra  nazione  seguitò  con  più  ardore  la  voce  che  chia- 
mava i  popoli  a  liberare  il  gran  sepolcro  di  Cristo.  Fra  i  prodi 
che  nella  presa  di  Gerusalemme  venner  compagni  a  Goffredo 
di  Bouillon  erano  un  Ugone  di  Yayens  discendente  degli  an- 
tichi conti  di  Champagne,  ed  un  Goffredo  di  Saint-Omer,  per- 
sonaggi egualmente  distinti  per  chiarezza  di  natali  che  per  valor 
militare,  benché  di  povero  stato.  Costoro,  mal  comportando  che 
le  incursioni  de'  saraceni  ponessero  di  continuo  a  rischio  la  vita 
e  la  roba  di  chi  recavasi  a  visitare  il  sepolcro,  si  obbligarono 
fra  loro  ad  un  voto  solenne  di  difender  con  Tarme  i  pellegrini 
e  di  mantener  sgombre  dei  ladroni  le  strade  della  Città  Santa.  In 
eguale  proponimento  convennero  sette  altri  cavalieri,  fra  i  quali 
ricordansi  i  nomi  di  Goffredo  fratello  d'Ugone,  di  Blsol,  di  Roral. 
di  Pagano  di  Montdesir  e  di  Arcibaldo  di  Saint-Amand,  e  si 
formò  per  tal  modo  una  associazione  militare-religiosa,  strano 
miscuglio  di  pietà  e  di  barbarie,  qual  comportava  V  indole  dei 
tempi.  Il  patriarca  Gismondo  e  Baldovino  II  re  di  Gerusalemme 
altamente  approvarono  un  tale  divisamento,  e  quei  cavalieri 
cominciarono  ad  adempire  al  loro  novello  uffizio  col  nome  di 
soldati  di  Cristo  o  di  cavalieri  del  Tempio,  perocché  venne  loro 
dato  in  custodia  il  tempio  di  Salomone  e  presso  a  quello  ebbero 


-  118- 

il  iNimo  soggìorao.  Pochi  io  nomerò  ed  in  povera  condizione» 
vissero  esA  dapprima  sotto  all'ubbidienza  dei  patriarca  con  di- 
scipline simili  a  qaelle  che  osservate  erano  dai  canonici  rego« 
lari;  ma  la  fama  di;Joro  goerresche  imprese  e  la  specchiata 
virtù  attrassero  in  breve  fra  i  loro  segnaci  illnstrì  personaggi 
che  apportarono  air  ordine  e  privilegi  e  ricchezze.  Dopo  nove 
anni  dalla  loro  istitazione  noveravansi  già  per  testimonianza  di 
Tiro  trecento  cavalieri,  oltre  alla  torba  dei  fratelli  serventi. 
€  Duces  et  principe$,  scrive  Iacopo  di  Vilry,  eorum  exemplo 
mundi  vincala  dirumpentes,  ad  eos  confluebant.  >  Perciò  papa 
Innocenzo  III  trovò  opportono  di  vendicare  alla  pontificia  auto- 
rità la  totela  immediata  di  tale  congregazione,  ed  Onorio  lU 
per  darle  pio  durevole  ordinamento,  invitò  i  fondatori  di  essa 
nel  1128  innanzi  al  concilio  di  Troyes,  onde  vi  ricevessero  gli 
statoti  e  le  discipline  a  tal  oopo  estese  daireloqoente  Bernardo 
abate  di  Chiaravalle*  Oltre  airobbiigo  di  proteggere  i  pellegrini 
e  di  mantenere  Tiùterezza  dei  cristiani  possedimenti  in  Oriente» 
aveano  i  cavalieri  qoelio  di  recitare  ciascon  giorno  Tofficio  di- 
vino» non  che  di  cibarsi  in  comone  digionando  il  venerdì,  di 
daiB  ai  poveri  in  elemosina  la  decima  parte  del  loro  pane,  di 
osservare  dopo  la  prece  della  sera  il  più  assolato  silenzio,  di 
non  portare  oro  od  argento  nei  loro  vestimenti,  di  non  andare 
a  caccia»  di  non  mandare  né  ricevere  lettere  senza  l'assenso  del 
l(Nro  soperìore»  e  finalmente  di  rinnegare  mai  sempre  la  loro 
volontà  e  seritarsi  nella  più  perfetta  illibatezza. 

Io  qoesto  medesimo  concilio  venne  ai  templari  prescritta 
la  foggia  del  vestimento,  consistente  in  ona  tonica  bianca  scen- 
dente fino  al  talone  e  in  on  mantello  parimenti  di  lana  bianca» 
che  venne  in  segnilo  fregiato  di  ona  rossa  orlatora,  e  in  sol 
lato  dietro  d'ona  croce  dello  stesso  colore.  Il  berretto  fo  pore 
di  lana  bianca  oriate  di  rosso,  a  coi  i  gran  maestri  sovra- 
posero  più  tardi  ona  pioma  nera;  la  calzatora  di  pelle,  gli  spe- 
roni d'acciaio;  e  fo  vietato  qualsivoglia  corredo  di  morbide  pel- 
Uece»  solo  permettendosi  nsarie  di  montone  o  di  agnello,  <  Ve- 
ttimenta  autem  unius  colori  semper  esse  iubemus,  verbi  grafia 
oBhi,  vel  nigra,  vel  ut  ita  dicam  burella.  Omnibus  autem  mili- 
tttfs  professis  in  Meme  et  in  cesiate  si  fieri  potest,  alba  vesti- 
menta  concedimus,  ut  qui  tenebrosam  vitam  postposuerint  per 
h^dam  et  albam  suo  conditori  se  reconciliari  a^ìoscant  (1).  » 

(!)  V*  Acta  concilii  tercensis. 


—  116  - 

E  fu  preferito  ii  color  bianco  per  esser  egli  simbolo  di  castità. 
«  Quid  enim  albedo  nisi  integra  castitasf  »  La  loro  baodiera 
formata  d'uà  drappo  quadrato  portante  una  croce  rossa  in  campo 
mezzo  nero  e  mezzo  bianco  fu  detta  Baucens  o  Bauceaus,  da 
un'antica  voce  francese  con  cui  notavansi  i  cavalli  di  color  misto, 
e  del  doppiò  suo  colore  rende  ragione  un  cronichista  contem-» 
poraneo....  <  eo  quod  Christi  amicis  candidi  sunt  el  beiUgni^. 
nigri  autem  et  terribiles  inimicis.  >  Sul  sigillo  dell'ordine  sta- 
tano scolpiti  due  cavalieri  in  groppa  a  un  solo  destriero  per  ac* 
cennare  alla  povertà  de'suoi  fondatori,  ed.  attorno  una  leggenda 
che  clìiamavali  soldati  di  Cristo,  alia  quale  poi  venne  sostituito 
U  nome  di  fratelli  del  Tempio. 

I  templari  per  tal  maniera  ordinati  formarono  numerose 
famiglie  e  si  diffusero  per  la  Palestina  non  solo,  ma  per  tutta 
cristianità.  Fedeli  osservatori  delle  lor  regole,  religiosi,  modesti, 
terrìbili  agli  infedeli,  occupati  in  tempo  di  riposo  in  utili  lavori, 
furono  per  alcun  tempo  oggetto  di  riverenza  ed  amore,  e  Nulli 
molesti  erant,  attesta  Iacopo  da  Vitriaco,  sed  ab  ommbus.propter 
humilitatem  et  religionem  amabantur  >  ;  e  Pietro  abate  di  Cluny, 
in  una  sua  lettera  ad  Eberardo  lor  gran  maestro,  e  Quis  non 
ketetur,  esclama,  quis  non  exuUet  processisse  vos  non  ad  sein^ 
plicem  sed  ad  duplicem  conflictum  !f  <  alludendo  alla  singoiar 
castità  ammirala  universalmente  nei  cavalieri.  Le  abitazioni 
loro,  caserme  e  conventi  ad  un  tempo,  cbiàmaronsi  dapprima 
Maniera  dalla  voce  francese  manoir,  che  significava  una  casa 
circondata  da  campi ,  poi  vennero  denominate  Commende.  A 
Ciascheduna  presiedeva  un  grande  uffiziale  con  titolo  di  priore 
sommesso  alPautorìtà  del  gran  maestro,  ed  ogni  cavaliero  teneva 
a  suo  servigio  uno  o  più  fratelli  serventi ,  oltre  agli  scudieri 
ed  ai  paggi  che  aspiravano,  mediante  un  faticosissimo  noviziato, 
al  grado  di  cavalieri.  Gli  uffizi  divini  e  le  funebri  cerimonie 
venivano  adempiute  dai  cappellani  delFordine,  i  quali,  esclusi- 
vamente addetti  air  ecclesiastico  ministero ,  non  aveano  parte 
alcuna  alle  fazioni  guerresche.  Il  numero  di  codeste  commende 
fino  dal  1244  era  maravigliosamente  cresciuto,  e  Habentenim^ 
Scrive  Matteo  Paris  nella  sua  cronaca,  templarii  in  christianitate 
novem  millia  maneriorum  i;  e  in  sul  cadere  del  secolo  XIII 
poiea  dirsi  non  esser  nel  mondo  regno  o  provincia  in  cui  essi 
non  fossero  in  possedimento  di  vaste  proprietà,  quali  largite 
per  testamento  di  principi,  quali  recate  in  dono  dai  ricchi  che 
si  arruolavano  sotto  alla  sacra  bandiera.. 


—  117  — 

MoHissime  farono  le  imprese  odle  quali  segnalàroosi  i  cava- 
lieri, anzi  può  dirsi  non  essersi  dato  combaUimento  in  Oriente 
coi  essi  non  abbiano  faiorosamente  assistito.  Nell'anno  1133 
qnast  tatti  i  templari  perirono  sotto  il  ferro  dei  saraceni  ; 
nel  1148,  posti  da  Baldovino  III  a  presidio  di  Gaza»  sostennero 
i  più  gravi  pericoli,  eia  salvarono  dagli  infedeli;  nel  1152  tro- 
varonsi  alfassedio  di  Damasco ,  porgendo  più  ammirabile  cbe 
bastevole  snssidio  air  esercito  de' crociali  francesi»  e  nel  1188 
eroicamente  difesero  Gerusalemme  stretta  da' saraceni.  Celebre 
fa  la  vittoria  che  riportò  nel  1116  presso  Ascalona  Odone  di 
Saint-Amand  gran  maestro  con  soli  ottocento  fra  cavalieri  e 
fratelli  sulle  truppe  assai  più  numerose  di  Saladino;  celebre 
parimente  la  disperata  difesa  della  gran  galea  dei  templari  nella 
battaglia  navale  data  nel  1218  presso  a  Damiala ,  in  cui  essi , 
assaliti  da  ogni  parte,  anziché  arrendersi»  preferirono  affondarla 
e  trascinare  nel  loro  eccidio  i  nemici.  Damiata»  dopo  diciannove 
mesi  d'assedio»  venne  in  poter  de'crociati»  e  Leopoldo  d'Austria 
e  gli  altri  duci  con  gran  liberalità  premiarono  i  templari,  che 
si  possentemente  aveano  contribuito  al  buon  esito  di  quell'im- 
presa. Ma  se  in  questi  fatti  e  in  molli  altri  che  legger  si  ponno 
più  diffusamente  nelle  istorie  del  Du-Puis  e  del  Gùrtlero  meri- 
taron  essi  encomio  di  prodi  e  ricompense  di  principi  e  della 
Chiesa,  non  è  a  tacere  come  non  andassero  securi  dalla  taccia 
di  smodata  avidità  nei  saccheggi»  di  ferocia  crudele  nelle  vit- 
torie. Fnrodo  anzi  accusati  di  avere  per  viltà  o  per  danaro 
ceduto  al  soldano  d'Egitto  un  inespugnabil  castello  posto  al  di 
là  del  Giordano  presso  ai  confini  di  Arabia;  di  cbe  Almanco 
re  di  Gerusalemme  montò  in  ira  si  grande  che»  fatti  catturare 
dodici  de'Ioro  principali,  feceli  appiccare  per  la  gola.  Una  delle 
pecche  più  gravi  che  si  rimproverava  ad  essi,  e  che  contrastava 
in  istrana  guisa  col  titolo  di  Magister  humilis  dato  al  lor  capo, 
era  una  superbia  eccessiva  ed  un  incomportabile  fasto:  e  nar- 
rasi a  questo  proposito  che  Riccardo  Cuor  di  Leone»  esortato, 
secondo  lo  stile  di  quella  età,  a  liberarsi  dalle  sue  tre  figliuole 
superbia,  avarizia  e  lussuria»  rispondesse  al  sacerdote  che  cosi 
l'ammpniva:  <  Do  superbiam,  disse,  templariis  et  hospitalariis, 
woaritiam  monachisi  lìixuriam  ecclesiasticis  pra'latis  >  ;  le  quali 
parole,  se  sono  vere»  non  -danno  certo  grande  idea  della  pietà 
di  quei  giorni.  Sino  al  terminare  del  secolo  Xlll  seguirono  i 
templari  le  vicende  di  Gerusalemme,  ora  perduta,  ora  ricon- 
quistata; ma,  dopo  d'aver  combattuto  con  iuutil  coraggio,  sen- 


-  US  — 

dosi  spento  il  fenrore  che  aoimaya  i  crociati,  e  i  soccorsi  cTEq* 
ropa  fattisi  tardi  e  iDsofficienti,  dovettero  abt^ndooare  anclì'essi 
le  prime  lor  sedi,  e  prima  del  1300  sgomberare  dalPAsia.  Non 
avendo  più  nemici  infedeli  a  combattere,  gli  irrequieti  cavalieri 
molestarono  i  prìncipi  cristiani  d'Antiochia  e  di  Cipro,  e  deva** 
starono  la  Croazia  e  la  Grecia.  Il  lor  gran  maestro  Iacopo  Molay, 
del  qnale  il  valore  e  fausterità,  a  quanto  narrava  la  fama,  non 
fa  minor  di  quella  di  Bertrando  di  Bianquefort,  di  Roberto  di 
Sablé,  di  Armando  di  Périgord  e  di  tutti  gli  illustri  suoi  ante* 
cessorì,  scelse  a  ricovero  risola  di  Cipro  e  già  stava  ivi  appa- 
recchiando i  suoi  alla  conquista  di  Rodi,  che  venne  poi  conseguita 
dai  cavalieri  ospitalieri,  quando  nel  1307  scoppiò  tutto  ad  un 
tratto  quella  terribil  procella  che  lui  e  Tordine  suo  dovea  tra* 
volgere  in  un'intera  rovina.  Filippo  il  Bello  di  Francia  avea 
già  da  lungo  tempo  rivolto  alle  ricchezze  dei  templari  quel 
cupido  sguardo  col  quale  avea  saputo  frugar  si  addentro  neglr 
scrigni  ai  giudei;  ma  le  sue  controversie  con  papa  Bonifacio  e 
le  civili  fazioni  non  gli  aveano  peranco  lasciato  agio  a  maturare 
i  suoi  divisamente  I  templari  erangli  divenuti  esosi  ancor  più 
perchè  aveano  rifiutato  di  ascriverlo  air  ordine  loro ,  e  forse 
sottomano  erano  stati  i  favoreggiatori  del  popolaresco  tumulto 
del  1306  neir occasione  delle  monete;  sicché  egli  non  cercava 
che  Toccasione  di  perderli.  La  faccenda  era  di  grave  momento, 
A  per  la  potenza  loro  che  per  l'appoggio  che  avrebbon  trovata 
nelle  ecclesiastiche  immunità.  Pure ,  asceso  che  fu  al  soglio 
pontificale  Clemente  Y,  di  nazione  francese  e  più  disposto  a 
piegare  ai  désiderii  di  lui,  l'impresa  diventò  assai  più  agevole 
e  non  tardò  gran  fatto  ad  aver  compimento.  Bastarono  a  ciò  i 
romori  vaghi  del  popolo,  che  accusava  di  scoslumatezza  e  d'in- 
temperanza i  templari  e  di  segrete  pratiche  cogli  infedeli ,  e 
specialmente  colla  famosa  tribù  degli  assassini  di  Siria.  Nolfo 
DeU  fiorentino,  al  quale  dappoi  nuovi  delitti  valsero  la  forca, 
ed  il  priore  di  Montfaucon,  che  era  allora  prigione  per  gravi 
misfatti,  uomini  di  perduta  fama,  comperarono  l'impunità  facon- 
dosi  accusatori  del  loro  ordine,  asserendo  cioè  essersi  in  quello 
stabiliti  segreti  riti,  nei  quali,  abjurala  la  religione  di  Cristo, 
gli  iniziati  faceansi  adoratori  di  un  ìdolo,  profanavano  sul  campo 
di  battaglia  la  vita,  e  si  abbandonavano  alle  più  laide  sozzure 
a  cui  l'umana  corruzione  possa  arrivare;  in  una  parola,  tutti 
gli  orrori  de*  baccanali  eran  rinnovellati  nelle  tenebrose  orgie 
del  tempio.  Come  più  sopra  abbiadìo  avvertito. 


■^\ 


\ 


y 


Monlay,  firan  Maestro  do 'Templari. 


—  ««  — 

U  «iamo  13  ottotare  deiramio  1307,  m  nrtii  di  m  oràiw 
aite, miti  i  lemptei  diFrancìi,  frai'qnli  eiz  il  gnnmMatrù. 
damati  setto  colore  di  nnori  ordinamentt,  forono  inqniisiio- 
aiti;  la  qnal  misara  con  sollecita  e  sicoramente  est^ttn  prova 
am'ella  fosse  meditata  da  lungo  tempo.  II  papa  ne  mosse  da 
principio  alti  lamoiti,  poi  o  fosse  che  le  impntasioni  acqnisias- 
aero  feiie  per  te  importanti  rivelazioni  dei  prìfrionieri.  od  altro 
aMm  degm)  motiro  a  ciò  findocesse»  rimise  alqnanto  di  (foel- 
Tardore  con  coi  aoleai^  dalTantorìtà  poniificisi  difendere  le  im- 
■miti  FBligioK,  e  non  solo  lasciò  bre,  ma  fino  ad  nn  cerio 
aegDO  approvò.  Tre  anni  lottarono  gli  infelici  cavalieri  colle 
tortore  e  gli  spasimi  d'una  cattìTitii  :  e  moUis^mi  confessarono 
le  rimproverate  reitL  II  concilio  adanato  a  Vienna  li  dichiarò 
nemici  della  fede  e  decretò  lo  scic^Iimento  deir  ordine  «  che  a 
dir  il  vero  eraa  reso,  non  che  inntìle,  dannoso  per  Paboso  di 
qodfe  rìccheoEe  che  senire  doveano  ad  nno  scopo  che  più 
Don  potea  consegoirsì.  Filippo  il  Bella  non  contento  delle  pene 
decretale  dai  giudici  ecclesiastici  e  secolari,  fece  nel  giorno  12 
maggio  delTanno  1310  abbradar  vìvi  nel  sobbollo  di  San* 
f  Antonio  ctoqnantaqnattro  cavalieri ,  il  qnale  orrore  si  rinno* 
vello  puecchie  volte  nelfe  altre  provinde  di  Francia.  Sette  anni 
dopo  recdfio  delTordine,  Iacopo  di  Molar  e  il  sno  compagno 
priore  ffi  Normandia,  che  dapprima  erano  stali  dannati  a  i>er- 
petoa  prigiooia ,  forono  riserbati  a  coronare  il  saorìlìtio.  Sia 
che  tntti  in  inganno  da  insidiose  promesse,  o  indeboliti  dalla 
tortora  piii  non   avessero  vigoria  di  negare,  essi  avean  giè 
rivdato  lotte  le  tor[Hlndini  di  cui  rordine  era  accusali^  ed  a 
preno  a  ignondnioso  ottenuto  di  vivere*  Ma  alloraqnando  con- 
dola alle  porte  del  tempio  di  Nostra  Donna ,  onde  facesservi 
ammenda  onorevole*  intesero  la  lettura  delle  depositioni,  dichia* 
raroDo  ad  alta  voce  essere  quelle  accuse  un  tessuto  di  orrori 
e  di  calunnie  di  cui  l'ordine  era  innocente  e  che  essi   non 
a?e?aoo  mai  proferite.  Filippo  non  appena  ebbe  appresa   una 
^  solenne  ritrattazione,  la  quale  poco  mancò  non  suscitaSvSO  a 
ToiDore  la  plebe,  ordinò  il  loro  supplizio,  il  quale  ebbe  Iuoro 
oeirorrìbile  maniera  da  noi  estesamente  narrata  più  sopra  (1). 

(1)  I  documenU  storici  di  quei  tempi  offrono  grandi  (liibl)lexxn  in- 
tonio  al  laogo  ad  alla  data  del  tragico  avvenimento.  La  luiiora  poro  di 
Filippo  all'abate  di  San  Germano  non  lascia  campo  a  dlnpulo  intorno 
<1  primo,  e  riguardo  alla  seconda  la  tradizione  dei  templari  In  riporta 
i  si  giorno  39  dei  mese  cedàr  nell'anno  dcirordlno  iOtì,  che  corrisponde 
«1 15  marzo  del  1315.  (Nola  degli  rditori). 


Così  fa  spento  nn  ordine  che  fa  in  orìgine  splendore  della 
cristianità  e  poscia  ne  divenne  inotile  peso.  I  beni  di  esso 
parte  farono  confiscati,  parte  cedati  agli  ospitalieri  ;  i  cavalieri 
in  alcani  regni  condannati ,  in  altri  assolti.  Qaei  d'Alemagna 
si  difesero  porta^ndo  audace  disfida  agli  accusatori,  e  ne  anda- 
rono liberi  ;  qaei  della  Spagna  aggregaronsi  ad  altre  militari 
congregazioni;  qaei  del  Portogallo  diedero  orìgine  all'ordine 
del  Cristo.  Finalmente  non  è  a  tacersi  come  alcani  fanatici 
tentassero  di  far  rivivere  tale  associazione,  pretendendo  di  es* 
serQ  legittimi  rappresentanti  degli  antichi  templari,  la  cai  reli- 
gione, secondo  essi  non  mai  distrutta  interamente,  continuò 
nel  mistero  (1). 


(i)  Yidesi  a  Parigi  nel  i802  il  signor  Barginet  di  Grenoble  con  altri 
pochi  rinnovar  le  cerimonie  del  Tempio,  dalle  quali  non  furono  escluse 
le  donne,  che  sotto  il  titolo  di  canonichesse  ebbervi  parte  attiva;  ma 
né  il  fantastico  ardore  del  capo,  né  la  libertà  allora  concessa  alle  insti* 
tuzioni  più  bizzarre  poterono  ridonar  vita  ad  una  società  si  opposta 
allo  spirito  dei  nostri  tempi,  e  tutto  fini  in  una  più  noiosa  che  ridicola 
commedia;  come  la  nuova  religione  del  padre  Ghàtel  e  la  emancipa- 
zione femminile  dei  sansimonisti. 

(Nota  degli  editori). 


CAPITOLO   VI. 


Accasa  e  difece  dei  Templari. 


Volendo  ora  procedere  airesame  delle  accuse  date  ai  tem- 
plari, anziché  riportarcene  al  discorde  ed  appassionato  giudizio 
de' contemporanei ,  stimiamo  miglior  consiglio  il  seguitare  le 
tracoe  di  que' scrittori  che  ne  cercarono  le  prove  negli   statuti 
dell'ordine  stesso  e  ne' monumenti.  Nicolai,  Herder ,  Anton  , 
MoDler  e  più  che  tutti  il  celebre  orientalista  De  Uammer  eser- 
citarono la  loro  maravigliosa  dottrina  in  si  difficile  assunto. 
L'opinione  che  la  troppo  famosa  setta  de'  liberi  muratori  avesse 
avQtò  orìgine  dai  templari  condusse  dapprima  il  Nicolai  a  cer- 
care nei  riti  di  quelli  le  segrete  dottrine  di  questi ,  e  il  suo 
Saggio  sul  segreto  dei  templari  pubblicato  nel  1782  è  il  primo 
scritto  che  ce  li  rappresenti  come  seguaci  di  un  misterioso 
sistema.  L'abate  Barruel»  eccitato  da  uno  zelo  eccessivo  che  la 
verità  e  la  ragione  non  saprebbero  approvare ,  spingendo  una 
tal  conghiettura  agli  estremi,  non  dubitò  di  proclamare  i  tem- 
plari come  ceppo  di  tutte  le  tenebrose  adunanze,  fonte  di  tutte 
le  trame  tendenti  a  rovesciare  i  troni  e  l'altare.  Ma  le  decla- 
inazioni  non  sono  prove,  e  la  fama  di  queir  ordine  perciò  non 
avreUt)e  sofferto  nuova  onta  ove  una  più  valida  autorità  surta 
non  fosse  a  portarle  un  gran  crollo.  Il  signor  De  Hammer,  quel 
dottissimo  uomo  che  ognuno  sa,  in  una  dissertazione  intitolata 
ilysterium  Baphometis  revelatum,  pretese  convincere  i  tem- 
plari coi  medesimi  loro  monumenti  di  apostasia ,  d' idolatria  e 
dimpurità.  Egli  reputa  che  gli  stati  discoverti  in  sul  finire  del 

Tamb.  InquU.  Voi.  IL  i6 


-  i22  - 

secolo  scorso  a  Roma  nella  biblioteca  Corsini»  i  quali  compar- 
vero tradotti  dair  idioma  provenzale  nel  tedesco  per  opera  di 
Mùnter ,  altro  non  sieno  che  ordinamenti  ingannevoli  destinati 
a  governare  soltanto  il  volgo  dei  cavalieri  e  nascondenti  una 
segreta  dottrina  di  cui  non  avevano  la  chiave  che  gli  iniziati. 
Una  tale  dottrina ,  alla  quale ,  secondo  il  critico ,  rannodansi 
quelle  degli  ismaeliti ,  degli  albigesi ,  dei  seguaci  di  Mazdek  e 
éeWilluminismo,  trasse  nascimento  da  quella  dei  gnostici.  E  qui 
per  intendere  le  analogie  che  egli  crede  di  riscontrarci ,  non 
sarà  inutile  espor  brevemente  che  cosa  vogliasi  intendere  per 
gnosticismo. 

Noto  è  a  ciascuno  per  qual  maniera  le  astratte  quistioni 
intorno  air  origine  del  bene  e  del  male  abbiano  esercitato,  fin 
dalle  prime  età  del  mondo,  gli  spiriti  contemplativi  degli  Orien- 
tali, e  quante  diverse  teorie  s'inventassero  in  Persia,  nelle  Indie, 
in  Caldea  per  ispiegarle.  Codeste  teorie  convertite  in  sistemi 
produssero  quella  falsa  sapienza  accennata  da  san  Paolo,  i  se- 
guaci della  quale  chiamaronsi  gnostici  o  conoscitori.  Furono 
costoro  filosofi  i  quali  adottarono  dapprima  una  particolare  teo- 
logia, fondata  sulla  credenza  ai  due  principii  de'  Persiani ,  alle 
emanazioni  panteistiche  degli  Indiani,  in  parte  modificata  dalle 
dottrine  platoniche  e  pitagoriche.  Ma  alloraquando  la  parola  evan- 
gelica rischiarò  di  luce  divina  Timpenetrabile  mistero  degli  ymani 
destini,  le  opinioni  loro  assunsero  forma  diversa  ed  offerirono 
la  strana  miscea  di  sovrumane  rivelazioni  associate  agli  errori 
più  assurdi.  Abbandonandosi  ciascuno  al  poter  della  sua  fan- 
tasia, si  ripartì  il  gnosticismo  in  numerose  famiglie  e  ger- 
minò i  valentiniani,  i  simoniani,  i  marcioniti,  i  carpocraziani, 
ì  nicolaiti  ed  altri  molti  le  opinioni  de'  quali,  discordi  ne'  punti 
meno  importanti,  convenivano  però  in  ciò,  che  Dio  supremo 
riconoscevano  e  con  lui  altri  esseri  divini  di  natura  meno  ele- 
vata. Ad  uno  di  tali  esseri  attribuivano  la  creazione  del  mondo; 
e  tutte  le  leggi  che  egli  aveva  imposto  agli  uomini,  compresa 
la  legge  giudaica,  non  ad  altro  tendevano,  secondo  essi,  che  a 
privar  l'uomo  della» conoscenza  del  Dio  supremo,  il  quale,  stra- 
niero affatto  al  materiale  universo,  lo  era  del  paro  ai  diporta- 
menti de'  mortali.  Coloro  soltanto  che  pervenivano  alla  cono- 
scenza di  codesto  Essere  potevano  meritarne  il  riguardo,  la  loro 
anima  acquistava  una  spezie  di  spiritualità  e  diritto  ad  eterna 
mercede,  senza  per  altro  che  le  azioni  del  corpo  influissero  a 
renderia  più  o  meno  degna:  il  quale  pericoloso  principio  del- 


-123- 

riontilità  delle  opere  noD  impedi  però  che  fra  i  gnostici  vi- 
yessero  uomini  d'incorrotta  virtù.  —  Il  signor  De  Hammer  reputa 
che  la  setta  dei  valenliniani  rappresentante  degli  ofiti,  anteriori 
al  cristianesimo,  sia  quella  onde  i  templari  trassero  le  loro 
segrete  dottrine.  ^Ecco  pertanto  i  loro  principii,  quali  si  ponno 
conoscere  in  sant'Ireneo,  che  li  espose  per  confutarli. 

Innanzi  al  cominciamento  del  mondo,  nulPaltro  esisteva  che 
gran  principio  di  tutto,  chiamato  anche  il  Proarca,  il  Protopa- 
tore,  il  Buthor  o  Profondità,  e  la  campagna  di  lui  Eunoia  o  il 
Pensiero,  conosciuta  sotto  il  nome  di  Caritè  o  Grazia,  e  di  Si- 
gene  0  Silenzio.  Dal  loro  eterno  connubio  nacquero  Nun,  o  la 
Mente  o  il  Secondo  Padre,  ed  Aletia  o  la  Verità,  e  cosi  fermossi 
la  grande  quattriade  che  fu  origine  di  tutte  le  cose.  La  Mente 
e  la  Verità  generarono  altri  quattro  spirili ,  Logos  o  il  Verbo , 
Zoe  0  la  Vita ,  Antropos  0  TUomo,  ed  Ecclesia  o  la  Società, 
prototipi  celesti  di  quanto  doveva  poscia  apparire  sulla  terra. 
Codeste  due  Tetradi  costituirono  TOgdoade  superiore,  dalla 
quale  nacquero  ventidne  Enti  od  Eoni,  distinti  con  greche  deno- 
minazioni a  dinotare  altrettante  astrazioni,  come  Misura,  Amore, 
Bontà,  Felicità,  Sapienza,  e  per  tal  maniera  fu  popolato  V  uni- 
verso spirituale  o  Pleroma  da  trenta  Eoni  riparliti  in  tre  schiere 
o  decadi,  alla  prima  delle  quali  presiedevano  il  Primo  Padre  e 
Pensiero,  la  seconda  il  Verbo  e  la  Vita,  alla  terza  TUomo  e  la 
Società. 

Al  solo  Nun  primogenito  del  Primo  Padre  fu  dato  cono- 
scere la  costui  sublimità,  agli  altri  tutti  negato;  e  di  qui  im- 
mensa invidia  contro  di  lui  in  tutti  gli  Eoni,  e  mille  infruttuosi 
tentativi  per  iscoprire  Timpenetrabile  mistero.  E  qui  Sofia  o  la 
Sapienza,  ultima  nata  fra  quelli,  era  sul  punto  d'appagar  la  sua 
irresistibile  curiosità.  Quando  Orotele  guardiano  dei  confini  del 
Pleroma  giunse  a  tempo  ad  impedirnela  ed  a  rattenerla  fuori 
dei  limiti  di  quella  incomprensibile  grandezza.  La  scossa  che 
Sofia  provò  in  codesto  conflitto  fu  si  forte  che  le  fu  cagione 
d'aborto,  ed  il  frutto  abortivo  dotato  di  ambo  i  sessi  venne  dai 
gnostici  con  ebraico  vocabolo  denominato  Achamoth,  che  suona 
Sapienza ,  il  quale  fu  da  Orotele  scacciato  fuori  del  Pleroma. 
Ma,  a  prevenire  il  rinnovamento  dell'accaduto  disordine,  il  Som- 
mo Padre  col  mezzo  di  Nun  emise  due  nuovi  Eoni,  che  furono 
Cristo  e  lo  Spirito  Santo ,  e  diede  al  primo  l'ufiizio  di  istruire 
gli  altri  Eoni  intorno  all'infinita  grandezza  del  Padre,  al  secondo 
di  pacificarli  e  renderli  uguali  fra  lóro.  Per  tal  guisa  gli  Eoni 


—  «24  — 

sobirono  tutti  una  identica  trasformazione,  che  rese  i  maschi 
tutti  simili  a  Nun>  le  femmine  simili  ad  Aletia,  e  da  quel  mo- 
mento, memori  del  l)eneflzio  ottenuto,  non  cessarono  d'inviare 
col  mezzo  del  Cristo  tributo  perenne  di  laudi  e  di  ringrazia- 
menti al  Proarca. 

Ma  qui  non  hanno  termine  i  deiiramenti  dei  gnostici.  Àcha- 
motb,  l'abortivo  figlio  di  Sofia  esulato  dal  Pleroma,  orbato  di  luce 
ed  informe,  cruccioso  s'aggirava  nel  vuoto,  implorando  anch'egli 
la  benefica  mediazione  del  Cristo.  Questi,  tocco  finalmente  dai 
suoi  lamienti,  inviò  a  lui  il  Paracleto  circondato  da  un  drappello 
di  angioli,  il  quale  commise  di  dargli  una  forma  e  di  liberarlo 
dai  lunghi  suoi  mali.  Per  opera  del  Paracleto  tutti  ì  desiderii 
e  le  cure  di  Achamoth  segregati  dalla  sua  sostanza  e  conden- 
sati in  uno  diedero  origine  alla  materia,  mentre  Achamoth,  li- 
berato da  si  grave  fardello  e  fecondato  dall'aspetto  degli  angioli, 
partorì  ad  imagine  di  quelli  lo  spirito.  Per  dare  forma  e  mo- 
vimento a  codeste  nuove  sostanze,  spirito  e  materia,  Achamoth 
generò  il  Demiurgo  o  Saldabaoth,  che^  quantunque  cieco,  s'ac* 
cinse  all'opera  della  creazione,  ajutato  dai  consìgli  di  Achamoth 
e  del  Paracleto,  e  cercò  di  rappresentare  per  loro  istigazione 
nel  suo  universo  il  celeste  Pleroma.  Separò  egli  dapprima  l'ani- 
male sostanza  dalla  materiale,  fabbricò  sette  cieli  dotati  d'intel- 
ligenza e  collocò  il  suo  trono  sul  settimo.  Ebbe  sei  figliuoli,  e 
questi  insieme  con  Achamoth  e  con  lui  costituirono  rOgdoado 
inferiore.  Rimaneva  ancora  a  formar  l'uomo,  parte  più  nobile 
della  novella  creazione,  ed  il  Demiurgo  lo  plasmò  di  fluida  fu- 
sibile materia,  insofiiandovi  una  scintilla  di  spinto  che  valesse 
a  riprodurre  in  esso  Timagine  del  creatore. 

Tale  era  la  dottrina  dei  gnostici  intorno  alla  origine  delle 
cose,  e  con  istorie  del  paro  ridicole  e  assurde  spiegavano  essi 
la  venuta  di  Gesù  Cristo,  il  battesimo  ed  i  misteri  tutti  della 
religione  cristiana,  la  quale,  a  loro  credere,  altro  non  era  che 
un  artifizio  di  Saldabaoth  inteso  a  far  che  l'uomo  rimanesse 
suo  schiavo  né  mai  potesse  elevarsi  alla  cognizione  deirOgdoade 
superiore,  che  sola  potea  perfezionare  la  sua  spirituale  sostanza 
e  procurare  ad  esso  eterna  felicità.  I  dogmi  poi  degli  oflti 
versavano  più  specialmente  intorno  all'Ogdoade  inferiore,  ed  alle 
querele  insorte  fra  il  Demiurgo  ed  Achamoth  per  cagione  del- 
l'uomo. Il  Demiurgo,  cercando  di  rapire  all'uomo  la  divina  scin- 
tilla per  essere  adorato  come  supremo  principio,  si  le'  della 
donna  stromento  a  corromperne  la  mente  ed  il  cuore.    Acha- 


—  !J5  — 

moth  ad  impedire  tale  sconcio  si  servi  del  Serpente^  figiiaolo  dello 
stesso  Demiargo ,  il  quale  persuase  ad  Eva  di  dare  in  cibo  ad 
Adamo  il  frutto  deirail)ero  delia  scienza,  e  cosi  le  comunicò  ii 
coDOScimenlo  cbe  dovea  sottrarlo  al  dominio  del  suo  facitore. 
Perciò  gii  otiti  venerarono  con  ispeziale  culto  il  serpente  sotto 
nome  di  Samael  e  di  Michael  come  simbolo  della  sapienza,  ed 
ebbero  in  orrore  il  Demiurgo,  emblema  del  mondo  sotto  ia 
figura  di  dragone  e  di  coccodrillo. 

Premesse  tali  indispensabili  illustrazioni,  vediamo  ora  come 
il  De  Hammer  si  acciuga  a  provare  i  templari  miziati  in  una 
teologia  si  bizzarra. 

lina  delle  accuse  più  gravi  portale  contro  di  loro  quella  si 
fa  cbe  essi  adorassero  un  idolo  o,  a  meglio  dire,  una  testa  con 
lunga  l>art>a,  di  aspetto  terribile,  rassomigliante  ad  un  diavolo 
ctiiamato  Bafoìneto  (m  figuram  Baphometts),  ad  onor  della  quale 
hunc^audo  ia  fede  di  Cristo,  profanavano  cou  esecrande  vitu- 
perazioni ia  croce,  specialmente  il  giorno  del  venerai  santo,  e 
SI  abbandonavano  ai  pm  schifosi  eccessi  carnali.  LiO  istruzioni 
date  ai  loro  inquisitori  ingiungevano  di  far  ricerca  intorno    a 
tale  argomento,  e  le  confessioni  di  taluni  fra  essi  condurreb- 
bero a  far  credere  alla  realtà  di  cotale  idolatria.  Alcuni  scrit- 
tori, e  fra  questi  Uaynouard,  l'apologista  più  fervoroso  dei  tem- 
plari, pensano  cbe  la  parola  Bafoifieto  sia  una  corruzione  di 
Maometto;  ma  a  rigettar  siffatta  opinione  basta  ritlettere  cbe  i 
templari  furono  sempre  acerrimi  nemici  de'maomettani,  e  cbe, 
qoand'ancbe  ne  avessero  abbracciate  le  credenze,  non  poteva 
uiai  Maometto  diventare  oggetto  di  adorazione.  Nicolai  congbiet- 
tara  cbe  il  Bafomelo  sia  Timagine  del  Dio  supremo  in  quello 
stato  di  eterno  riposo  cbe  gli  attribuivano  i  gnostici  e  i  mani* 
cimi.  Autou  pensa  invece  cbe  tale  figura,  cbe  in  alcune  depo- . 
ftoiom  dicesi  aver  quattro  piedi,  sia  tutt'uuo  colla  stinge  egi- 
uaua,  simbolo  cioè  di  prudenza  e  di  mistero.  Herder  sostiene 
cbe  essa  era  un  trofeo  od  un'armatura  ;  Muuter  una  custodia 
di  tante  reliquie  simile  a  tanti  altri  busti  rinvenuti  in  Italia  ed 
iu  altri  paesi  cattolici  (1).  il  sig.  De  Hammer  si  dio  gran  cur^ 
'    «il  ludagare  nei  bori  anticbi  e  ue'musei  tutte  le  imagini  che  a 
lai  parvero  riunire  i  caratteri  del  Bafometo,  ia  maggior  parte 
I    <leUe  quali  rappresentano  uomini  con  lunga  barba,  alcune  delle 

U)  Gaucelliei'j,  Memorie  storiche  delle  sacre  teste  dei  santi  ApoBtoli. 
RoiDi,  i8U6. 


—  126  - 

donne,  ed  altre  finalmente  delle  figure  colla  barba  d'uomo  e 
colle  mammelle  di  femmina.  Quasi  tutte  sono  piene  di  segni 
astrologici,  tengono  un  serpente  alla  cintola,  ed  in  mano  quella 
specie  di  croce  ricurva  ad  una  estremità  che  gli  Egizi,  chiama- 
rono chiave  del  Nilo,  segno  di  fecondità  e  riproduzione  Una 
iscrizione  araba  forma  la  base  del  sistema  di  De  Ilammer,  egli 
la  spiega  a  suo  modo  e,  paragonatala  ad  altre  che  trovansi 
ne'vasi  appartenenti  ai  templari,  crede  poterne  indurre  che 
questi  si  riferiscano  ad  una  divinità  nominata  Mete,  alla  quale 
è  dato  ora  il  titolo  di  Tealla  onnipotente,  ora  quello  di  N(uch 
fecondatrice.  Codesta  divinità  non  è,  a  suo  credere,  altro  che 
uno  degli  Eoni,  quello  cioè  che  presso  le  varie  sette  dei  gno- 
stici aveva  nome  di  Sofia,  di  Barbelos,  di  Prunicos,  di  Acha- 
moth;  e  Proclo  afferma  difatti  che  Metis  era  una  delle  deno- 
minazioni del  dio  Androgine  degli  Orfici.  Perciò  il  critico,  in- 
terpretando anche  il  numero  otto  che.  trovasi  nella  iscrizione, 
come  spettante  airOgdoade  inferiore,  adotta  Tetimologia  del 
Nicolai.  I  padri  della  Chiesa  ci  apprendono  due  sorta  di  batte* 
Simo  essere  stati  in  onore  appo  i  gnostici:  Tuno  sensibile,  che 
si  effettuava  colFacqua,  Taltro  intelligibile,  che  avea  luogo  per 
mezzo  del  fuoco,  imagine  dello  spirito,  e  questo  appunto  era 
quello  di  Mete.  L'esame  di  antichi  caratteri  destinati  a  mistico 
USO;  raffrontati  con  parecchi  monumenti  deHemplari  rinvenuti 
nelor  conventi  di  Germania,  somministrano  al  De  Hammer  no- 
velle prove  che  essi,  seguendo  i  turpi  misteri  negli  oflti,  profes- 
sassero un  culto  particolare  alla  forza  produttrice  della  naturq» 
simboleggiata  in  Achamoth,  nel  Phallus,  in-  Bafometo.  Per  non 
venir  qui  enumerando  tutte  le  ingegnose  osservazioni  del  cri- 
tico alemanno,  ci  limiteremo  alla  descrizione  dei  monumenti 
della  chiesa  di  Schoengrabern,  che  racchiude  i  più  rimarche- 
voli. Non  solamente  egli  vi  rinvenne  imagini  oscene  tolte  alia 
vista  del  pubblico  dalla  elevata  lor  giacitura,  ma  si  ancora  Vori^ 
gine,  il  progresso  e  il  trionfo  della  dottrina  gnostica. 

La  prima  scultura  mostra  la  caduta  di  Adamo  e  d'Eva. 
L'albero  della  scienza  è  nel  centro  ;  da  un  lato  Eva  mangia  il 
frutto  vietato  intanto  che  un  cane  ritto  sulle  zampe  sembra  fa- 
vellarle all'orecchio.  Due  serpenti  le  circondano  il  volto  e  riu- 
niscono le  loro  teste  sovra  la  sua.  Dall'altro  lato  Adamo  coglie 
il  frutto  a  dispetto  d'una  figura  d'uomo  colle  orecchie  appun- 
tate, il  quale  in  atto  di  rattenerlo  gli  batte  d'una  mano  sulla 
spalla.  Il  cane  consigliatore  corrisponde  all'anubt  egiziano,  al 


—  ir  — 
ìstagogo  o  {roida  degli  iDiziati,  ad  uno  degli  arcùntì  dei  gno- 
ci;  raltra  Agora  è  Saldabaoth  che  Toole  proilrire  all'uomo 
mezzo  di  giungere  al  conoscimento  di  Achamoth.  Ecco  Tori* 
le  della  scienza. 

La  seconda  scultura  offre  un  uomo  assiso  sur  un  trono 
Dente  la  destra  alzata  e  nella  sinistra  uno  scettro,  innanzi  a 
i  diverse  flgure  vengono  recando  frutti  ed  animali.  Ai  piedi 
I  trono  è  un  dragone  rovesciato  in  alto  di  ingtiiottire  un  fen- 
ollo  e  di  rigettarne  un  altro  per  le  parti  inferiori.  Ecco  il 
egresso  spiegato  nel  testo  seguente  di  sanrEpifanio  :  Addnnt 
huius  mundi  prcpsidtin  draconis  effigiein  haherc,  ah  coqìie 
\imas  absorberi  cognitione  illa  destitutas,  rursumqae  per  cau- 
im  in  hunc  mundum  refandi. 

La  terza  scultura  finalmente  rappresenta  un  uomo  che  Im- 
ola a  colpi  di  scure  un  leone,  nel  qual  leone  è  di  nuovo 

(figurato  Snidabaolb  ;  perciò  scrive  di  esso  Origene:  Aiunt 

tmtim  septum  dcemonum  leonis  habere  formam.  Ed  ecco  il 
tonfo  del  gnosticismo. 

E  dopo  di  avere  colPajuto  di  queste  e  di  altre  imagini  sco- 
jrte  a  Wullendorf,  a  Berchloldorf,  in  San  Venceslao  di  Praga, 
ella  chiesa  di  Egra,  cercato  il  De  Hammer  di  dimostrare  come 
igli  ofiti  avessero  i  templari  ricevuto  gli  idoli  di  Mete,  si  accin- 
s  a  provar  l'analogia  che  i  loro  simboli  hanno  con  quelli  dei 
beri  muratori,  e  trova  i  seguenti  ravvicinamenti: 

1.  La  croce  troncata,  simbolo  del  Phallus,  del  legno  di  vita, 
ella  chiavo  della  scienza  e  di  Bafometo,  si  e  tramutata  nel 
cartello  de'liberi  muratori. 

2.  Il  calice  cosmogonico,  simbolo  presso  i  gnostici  del  sesso 
emmiueo  che  ha  il  suo  tipo  nei  misteriosi  vasi  di  Mitra,  di  Gl- 
iele, di  Bacco,  e  nelVuma  santa  degli  Egiziani  descritta  da 
ipQJeio,  diede  origine  alle  patere  ed  alle  coppe  fraterne  dei 
iberi  muratori. 

3.  Il  serpente  che  guida  Tuomo  all'albero  della  scienza 
lirentò  il  cordone  onde  questi  e  i  templari  soleano  cingere  le 
•eoi. 

4.  Il  velo  onde  fu  coperto  Achamoth  corrisponde  al  velo 
lei  tempio. 

5.  Il  libro  ed  i  sette  candelabri  sono  i  simboli  della  scienza. 

6.  Il  sole,  la  luna,  le  stelle  che  veggonsi  sugli  idoli  bafo- 
inetici  esprimevano  il  battesimo  di  luce  dei  gnostici. 

Tali  sono  i  principali  argomenti  del  De  Hammer,  ai  quali 


—  128  — 

cercò  far  puDtello  di  mille  dottissime  spiegazioni  ch^  rendono  il 
suo  lavoro  un  capo  d'opera  di  critica  e  di  erudizione.  E^li  non 
dubita  che  i  templari  non  abbiamo  appreso  i  misteri  nfllici  dai 
sepfuaci  di  qneìVHassan  ben  Sabah  che  è  conosciuto  nelle  istorie 
delle  crociate  sotto  il  nome  di  Vecchio  della  Montagna.  Ed  ammet- 
tendo per  intiero  la  esattezza  de'suoi  ragionamenti,  più  non  ri- 
marrebbero incerti  i  delitti  dei  templari»  vale  a  dire  che  essi  non 
fosser  macchiati  di  apostasia,  perocché  gli  oflti  erano  acerrimi 
nemici  del  cristianesimo  ;  di  idolatria,  perocché  il  Mete,  ossia 
la  forza  generatrice,  era  l'oggetto  del  loro  culto;  e  di  deprava- 
zione,  perocché  il  battesimo  di  fuoco  praticato  dai  gnostici  nel- 
l'ombra di  misteri  che  Tertulliano  chiama  degni  di  fiamme  e 
di  tenebre  dava  podestà  agli  iniziati  di  abbandonarsi  a  quei 
vizio  detestabile  che  disonora  i  più  bei  tempi  della  Grecia  e  di 
Roma. 

A  cotesto  ragioni  si  aggiungono,  per  condannare  i  tem- 
plari, le  confessioni  di  molti  lor  confratelli,  T  autorità  di  gra- 
vissimi storici,  la  sentenza  dei  tribunali  ecclesiastici  e  secolari, 
e  la  comune  opinione  de'  contemporanei  che  deponevano  con- 
tro le  loro  sregolatezze,  proverbiale  essendo  la  frase:  Tal  beve 
come  un  templario,  e:  Custodiatis  vos,  puerU  ab  osculo  tempia- 
riorum. 

Eppure  contro  a  siffatti  argomenti,  in  apparenza  invincibili, 
alcune  giustificazioni  potrebbero  opporsi,  le  quali,  se  non  a  pro- 
varli innocenti,  valer  possono  almeno  ad  attenuarne  le  accuse. 
Lontani  noi  dall'ammettere  ciecamente  l'opinion  di  coloro  che» 
portando  la  poesia  del  sentimento  là  dove  la  storia  non  conosce 
che  i  fatti,  pretesero  di  mostrarci  i  templari  quali  vittime  im- 
macolate, quali  innocenti  colombe  cadute  fra  gli  artigli  della 
sparviero;  lontani  dall'idea  che  la  lor  distruzione  esser  potesse 
soltanto  l'effetto  di  un  infame  mercato  tra  Filippo  il  Bello  e  il 
pontefice  inleso  a  toglier  di  mezzo  le  arroganti  inchieste  del 
re,  non  celeremo  che  molti  e  gravissimi  disordini  non  si  fos- 
sero intromessi  nelle  congregazioni  del  Tempio.  L'opulenza  ia 
cui  eran  cresciuti  i  loro  membri,  i  grandissimi  privilegi  dei 
quali  fruivano,  le  abitudini  di  violenza  e  di  guerra,  gli  ozi  del 
chiostro,  il  soggiorno  in  Oriente  erano  fatti  per  guastarne  le 
prime  virtù,  allora  spezialmente  che  il  fervore  dei  cristiani  era 
spento,  le  fatiche  quasi  nulle,  e  l'esempio  di  altre  religiose  as- 
sociazioni non  molto  migliore.  Che  in  alcune  commende  si  fos- 
sero introdotte  delle  pratiche  segrete,  o,  a  meglio  dire,  un 


—  1J9  — 

cerìmoDiale  misterioso  deslioato  ad  accrescere  alla  mente  de  ^ 
volgari  la  cieca  ammirazione  per  la  dignità  del  Tempio,  ciò  è 
conforme  all'indole  di  quella  età,  air  ambizione  di  corpo  ;  ma 
che  il  segreto  dell'ordine  intiero  esser  potesse  la  negazione  di 
Cristo»  Tadorazione  di  un  idolo,  la  più  schifosa  turpezza,  ciò  è 
quanto  non  potrà  alcuno  con  sicurezza  affermare.  Ripugna  alla 
critica  illuminata  il  supporre  che  una  società  sparsa  per  tutto 
Torbe  valga  a  reggersi  in  flore  per  anni  ed  anni  senza  altro 
scopo  che  il  delitto,  senza  altro  legame  che  Tinfamia:  ripugna 
il  credere  che  genti  pronte  ad  esporre  sui  campi  di  battaglia 
la  vita  in  difesa  della  fede,  si  ol)bligdssero  poi  nel  segreto  delle 
loro  celle  ad  abjurarla.  Non  ostante  Talta  estimazione  dovuta 
al  De  Hammer,  molti  eruditi  nelle  lingue  orientali  conservano 
tuttora  grandi  dubbiezze  intorno  al  modo  con  cui  egli  inter- 
pretò riscrizione  araba  che  serve  di  base  alle  sue  accuse.  Essa 
inCatti  presenta  molti  errori  grammaticali  ed  esige  una  forzata 
trasposizione  di  lettere  per  venire  all'osceno  significato  da  es- 
soloi  attribuitole.  Le  figure  bafometiche  sono  zeppe  di  segni 
astrologici,  non  hanno  identità  di  sesso,  variano  i  loro  attributi 
e  presentano  tutf  altro  che  quel  tipo  costante  che  pur  dovrebbe 
trovarsi  in  un  idolo  di  tanta  importanza.  Fra  le  iscrizioni  di 
tali  figure,  quelle  che  non  sono  in  arabo  non  offrono  veruna 
relazione  colFoggetto  del  loro  culto. 

Chi  potrebbe  assolutamente  negare  che  tutte  quelle  epigrafi 
arabe  si  scorrette,  si  mutilate,  altro  non  fossero  che  forme 
astrologiche,  che  talismani  di  superstiziose  invocazioni,  che  leg- 
.  geode  cabalistiche,  di  cui  gli  Àrabi  erano  maestri,  delineate  da 
nmlpratici  discepoli  in  un  secolo  riboccante  d'ignoranza  e  di 
pregiudizi?  E  chi  potrebbe  parimenti  guarentire  che  il  signor 
DeHammer,  nel  paragonare  alcune  sculture  esistenti  nelle  chiese 
dei  templari  con  quelle  che  egli  attribuisce  agli  otiti,  non  siasi 
qualche  volta  lasciato  trascinare  oltre  i  limiti  del  verosimile  dal 
troppo  amore  della  sua  teorica,  fino  a  veder  rassomiglianze  ove 
realmente  non  sono?  Infatti  molte  di  quelle  croci  che  egli  pre- 
tende troncate  espressamente  per  raffigurare  le  scandalose  chiavi 
del  Nilo  non  potrebbero  invece  aver  subito  Toltraggio  del  tempo? 
Molti  di  quei  serpenti  e  dragoni  nei  quali  ei  ravvisa  simboli 
di  idolatria  e  d' impudicizia ,  non  potrebbero  esser  pompose 
allegorie  di  debellati  nemici,  quali  veggiamo  in  altri  monu- 
menti del  medio  evo,  senza  bisogno  di  annettervi  arcane  signi- 
ficazioni ? 

Tamb.  Inquis.  Voi.  II.  17 


—  ISO  - 

I  templari  fnroDo  accusati  d^  aver  ereditato  T  empietà  e 
la  dissolutezza  dei  gnostici:  ma  le  iufomie  di  questi  ultimi  non 
sono  provate  se  non  dalla  testimonianza  dei  loro  avversari,  i  quali 
nel  fervore  del  loro  zelo,  nella  poesia  della  loro  stringente  elo- 
qàenza  solevano  esser  larghi  all'eresia  di  tutti  gli  attributi  della 
prostituzione,  in  quella  stessa  maniera  con  cui  gli  eretici  ado- 
perarono poeticamente  le  allegorìe  dell'amore  e  della  generazione 
per  spiegare  le  fantastiche  loro  cosmogonie.  Qual  maraviglia 
che  questo  abuso  di  figure  retoriche  abbia  poi  indotto  in  er- 
rore coloro  che  presero  le  cose  alla  lettera? 

Parecchi  cavalieri,  è  vero,  confessarono  tutte  le  colpe  di 
che  venne  lor  fatta  accusa,  ma  non  minor  numero  sostenne 
fra  le  più  dure  prove  la  propria  innocenza  :  altri  ritrattarono  le 
confessioni  quando  Tuomo  è  meno  disposto  a  mentire,  in  faccia 
ai  roghi,  ai  patiboli  ;  e  ciò  dimostra  che  la  corruzione  esisteva 
sì,  ma  non  era  efl'etto  di  meditato,  universale  sistema,  piuttosto 
conseguenza  inevitabile  del  loro  modo  di  vivere.  Non  fa  al 
mondo  società  di  tal  genere  che  a  torto  o  a  ragione  non  sia 
stata  accagionata  di  simili  eccessi.  E  per  verità  non  in  tutti  i 
paesi  egualmente  i  templari  furon  dichiarati  colpevoli,  ma  in 
non  pochi  vennero  dichiarati  innocenti.  1  conventi  di  Francia, 
ov'era  il  ceppo  dell'ordine,  più  doviziosi  e  possenti  degli  altri, 
avranno  senza  dubbio  annidato  i  maggiori  scandali,  ma  è  più 
che  probabile  che  il  gran  maestro  ed  i  capi  non  ne  avessero 
contezza.  Gli  storici  contemporanei  e  gli  atti  del  processo  ci  rap- 
presentano Iacopo  di  Molay  come  uomo  valoroso,  altero,  ma  di 
rigida  virtù,  e  d'altra  parte  ignorante  ed  incapace  perciò  di  reg- 
gere i  fili  delle  supposte  trame  dei  cavalieri.  Se  Villani^  Ven- 
tura e  molti  altri  scrittori  di  cronache  le  quali  attribuiscono 
alla  sola  cupidigia  insaziabile  di  Filippo  il  Bello  la  loro  distra- 
zione consultarono  forse  in  ciò  più  il  sentimento  dei  ghibellini 
che  la  verità,  sant'Antonino  arcivescovo  ed  altri  ortodossi  storici 
che  difesero  l'ordine  dalle  nefande  imputazioni  non  ci  parranno 
sospetti.  Comunque  sia  la  cosa,  l'ordine  doveva  essere  abolito  ; 
perocché,  cangiato  col  volger  delle  sorti  in  un  ricetto  di  ricchi 
oziosi,  era  divenuto  nocivo,  e  il  concilio  di  Vienna  operò  giu- 
stamente decretandone  lo  scioglimento;  ma  il  supplizio  a  cui 
Filippo  condannò  i  cavalieri,  anche  ove  si  ritengano  tutti  col- 
pevoli, sarà  sempre  una  macchia  indelebile  alia  sua  memoria 
ed  un  oltraggio  airumanilà. 


CAPITOLO  VII. 


Il  eoaeilia  di  Vianna  a  GioTaniii  ZXII. 


Uà  secoDdo  progetto  di  Filippo,  concertato  col  papa,  era 
di  coronare  imperatore  sqo  fratello  Carlo  di  Yalois  dopo  la 
morte  d'Alberto  d'Austria.  Questo  degoo  figlio  di  Rodolfo  e  più 
possente  di  lai  aveva  raddoppiati  appanaggi  paterni,  schiac- 
ciati i  suoi  nemici  in  dodici  battaglie  campali,  ottenuto  il  nome 
di  Grande  :  egli  peri  assassinato  da  suo  nipote  il  duca  di  Sve- 
via,  di  cui  riteneva  Teredità.  Clemente  però  non  giudicò  bene 
di  compiere  la  sua  promessa,  e  alla  vacanza  del  trono  a£frettò 
rdesione  d'Enrico  di  Lussemburgo,  simulando  poi  tutto  lo  sdegno 
onde  se  ne  differì  la  coronazione  a  quattro  anni.  Non  fu  cosi 
di  quello  che  provocarono  i  Veneziani  colFoccupazione  di  Fer* 
rara,  sa  coi  pretendeva  dominio  come  feudo  ecclesiastico,  alla 
morte  di  Azzo  d'Este.  La  bolla  che  spedi  contro  loro  è  delle  più 
terrìlHli  :  <  Proibisce  ogni  commercio  con  essi  anche  nelle  cose 
più  necessarie  al  vitto  ;  li  dichiara  infami  e  incapaci  di  dare  e 
ricever^  di  comparire  in  giustizia,  di  esercitare  qualunque  offi- 
cio; espone  ogni  veneto  ad  essere  messo  in  ischiavitii  di  chi- 
chesia;  depone  il  doge  Soranzo  e  i  senatori  tutti  dalle  loro  di- 
gnità; confisca  i  loro  beni  mobili  e  stabilì;  assolve  i  sudditi 
dal  giuramento  di  fedeltà  ed  ordina  a  tutto  il  clero  di  uscire 
dai  loro  dominii  fra  dieci  giorni,  lasciando  i  soli  necessari  ad 
amministrare  il  battesimo  ai  fanciulli  e  la  penitenza  ai  mori- 
bondi. »  Finalmente  si  predicò  la  crociata  contro  di  essi:  il  car- 
dinale di  Perigue  condusse  in  persona  Tesercito,  che,  guada- 


-  158  — 

dagoata  una  sanguinosa  battaglia  alle  sponde  del  Po,  poseFer« 
rara  nelle  mani  del  papa.  Il  peggio  pe'Veneziani  fa  che  la  bolla 
venne  adempita  in  più  luoghi  e  nominatamente  neiringhilterra; 
onde  se  vollero  ricuperare  il  loro  commercio,  i  loro  fondi  e  la 
loro  libertà,  dovettero  colle  più  umilianti  sommissioni  strasci- 
narsi fino  ad  Avignone  e  chieder,  perdono  a' pie  di  Clemente. 

Un'altra  ragguardevole  vittoria  avevano  ottenuta  i  crociati 
in  suo  nome  sovra  certi  settari  di  Lombardia  i  quali  negavano 
al  papa  il  poter  delle  chiavi  se  non  era  uomo  umile  e  povero 
come  san  Pietro,  senza  far  guerra  o  perseguitare  alcuno.  Cle- 
mente stesso  ne  die  parte  al  re  di  Francia  come  di  un  aggra* 
devolissima  notizia.  Questo  orribilissimo  eresiarca^  dic'egli  par- 
lando del  lor  capo  Dolcino,  dopo  un  gran  macello  è  stato 
preso  coirarmi  alla  mano  con  molti  de'suoi  dal  vescovo  di  Ver- 
celli,  la  cui  relazione  officiale  gV  invia.  Questo  sciagurato  fa 
messo  in  pezzi  insieme  con  Margherita  di  Trento  sua  moglie  > 
fatta  passar  per  istrega,  e  le  loro  membra  cosi  squarciate  furono 
date  preda  alle  fiamme.  Tali  erano  le  nuove  che  si  ponevano 
in  testa  dalla  corte  del  papa  in  quei  tempi  alle  lettere  che  scri- 
veva a' regnanti. 

L'aflar  più  serio  e  che  impacciava  la  più  illimitata  com- 
piacenza ctie  Clemente  aveva  giurata  a  Filippo  fu  il  procc^ 
che  ei  dovè  fare  al  suo  predecessore,  accusato  d'empietà,  d'eresia 
e  dei  più  tirannici  procedimenti.  Raro  è  che  la  buona  fede 
fiei  papi  siasi  portata  a  censurare  la  condotta  dei  loro  anteces- 
sori :  contenti  talvolta  di  abolirne  qualche  particolare  decreto, 
sempre  felice  e  venerabile  è  la  ricordanza  de'  nomi  papali  nelle 
bolle  apostoliche.  Riguardo  a  Bonifacio,  Clemente  se  ne  cavò 
alla  meglio.  11  processo  si  fece  ;  ma  tutto  fermossi  in  proroghe» 
io  interlocutorii,  in  preliminari  :  eccezioni,  allegazioni  iip  con* 
trarlo,  proteste  reiterate  ogni  giorno  tirarono  in  lungo  la  causa, 
sicché  non  se  ne  vide  mai  la  sentenza.  Finalmente  il  papa  la 
differì  al  concilio  generale  che  sempre  colf  intelligenza  del  re 
era  stato  convocato  già  da  quattr'anni,  come  abbiamo  più  sopra 
accennato. 

Questo  concilio,  computato  il  decimo  fra  gli  ecumenici,  fa 
raccolto  a  Vienna  nel  Delflnato ,  in  apparenza  a  purgare  la 
Chiesa  dalle  eresie  che  la  infettavano,  ma  infatti  per  canoniz- 
zare le  pretensioni  di  Filippo  e  i  suoi  concordati  col  papa. 
Eravi ,  a  dir  vero ,  bisogno  che  si  pensasse  una  volta  anche  a 
Questo  ramo  della  episcopale  vigilanza,  che  nei  primi  tempi  for« 


—  133  — 

man  la  principale  occupazione  de' capi  zelanti  del  callo.  I  papi 
sin  qni,  troppo  applicati  ad  avvantaggiare  sa  i  troni  e  ne'loro 
traiporali  diritti ,  non  aveano  pensato  che  a  sterminare  coloro 
che  or  Tana  or  Taltra  combattevano  di  queste  pretensioni;  e  in* 
tanto  namerosi  settari  saccheggiavano  impunemente  la  morale 
cristiana  e  il  resto  della  disciplioa  e  del  dogma.  Noi  dobbiamo 
dame  almen  qualche  idea ,  che  sarà  forse  cara  a'  lettori ,  non 
tanto  per  gli  oscuri  loro  nomi,  quanto  per  la  stravaganza  e  il 
ridicolo  de'  loro  sistemi. 

I  flagellanti  pretendevano  che  il  battesimo  d'acqua  fosse 
inutile  senza  la  flagellazione ,  che  forma  quello  di  sangue  :  e 
perciò  questi  fanatici  andavano  processionalmente  mezzo  ignudi 
con  verghe  alla  mano ,  lacerandosi  il  corpo  con  non  minore 
crodeltà  che  indecenza ,  o  mescolandosi  uomini  e  donne  nei 
nottomi  congressi  sagriflcavano  impunemente  alla  voluttà  iicol 
pretesto  di  ubbidire  al  dogma.  I  begardi  e  i  beghini  predica- 
vano che  si  poteva]  in  questa  vita  arrivare  a  tal  perfezione 
da  divenire  impeccabili  :  e  perciò  nelle  loro  assemblee  si  ab- 
bandonavano ad  ogni  sorta  di  colpa.  La  flaminga  Marret,  raf- 
finando su  questo  dogma ,  sosteneva  che  il  miglior  mezzo  di 
assicurarsi  delPamore  divino  era  il  restar  insensibile  in  mezzo 
a' carnali  piaceri.  L'olandese  Riccardo  volle  provare  colle  sante 
Scritture  che  le  mogli  debbono  essere  comuni;  il  tedesco 
LoUardo  •  che  tutti  gli  uomini  debbono  essere  eguali  in  for- 
tuna. Al  contrario  il  parmigiano  Segavella  donava  il  suo 
a  chi  primo  incontrava  »  e  credeva  imitare  gli  apostoli  por- 
tando la  barba ,  un  abito  grigio,  un  mantello  bianco,  una 
cintara  e  de' sandali.  Questa  ruvidezza  esteriore  non  impedi 
che  molte  femmine  cercassero  santificarsi  colla  sua  confidenza; 
Questo  però  era  generale  a  tutti  i  settari ,  e  V  intera  libertà 
che  accordavano  non  poteva  che  procurare  loro  un'  infinità  di 
proseliti. 

II  concilio  di  Vienna  confuse  nella  seconda  sessione  (la 
prima  non  era  stata  che  preparatoria)  tutti  questi  fanatici  con 
alcani  francescani  caparbii  che  veneravano  un  loro  confra- 
tello detto  Giovan-Pietro-Oliva,  coi  templari,  dei  quali  il  papa 
PQtMicò  la  soppressione,  con  Bonifacio  Vili.  Era  presente  il  re 
Filippo  :  tre  cardinali  pariarono  in  difesa  di  questo  papa  dinanzi 
a  loi,  e  due  cavalieri  catalani  si  esibirono  a  combattere  per  lo 
stesso  fine  ;  per  lo  che  il  re  e  i  suoi  fratelli  mostrarono  di  re- 
star soddisfatti.  Allora  il  concilio  dichiarò  che  papa  Bonifacio 


era  stato  cattolico  né  avea  fatto  cosa  alcuna  che  costitaisse  reo 
d'eresia ,  ma  ,  per  contentare.  Filippo,  si  lesse  contemporanea*^ 
mente  un  decreto  che  proitriiva  di  mai  rinfacciare  al  re  e  a'sncM 
successori  ciò  6h'  ^li  avea  fatto  contro  di  lui.  Si  rivocò  an- 
cora solennemente  la  bolla  Clericis  laicos  con  tutte  le  sue  di- 
chiarazioni e  quanto  in  conseguenza  ne  venne. 

Nella  terza  ed  ultima  sessione,  tenuta  otto  mesi  dopo  la  prima» 
si  parlò  della  riforma  del  clero  :  i  suoi  abiti  debbono  essere  d'un 
solo  colore,  niun  d'essi  può  portar  armi,  far  Toste  o  il  macellaro» 
né  esercitarsi  al  commercio.  Gli  fu  levata  la  cura  degli  ospedali 
ed  affidata  a'iaici  con  certe  regole  per  allontanarne  le  usurpa- 
zioni e  le  frodi,  e  con  obbligo  di  renderne  ciascun  anno  a' ve- 
scovi un  conto  esatto.  ^  trattò  a  lungo  delle  esorbitanti  esen- 
sioni  de'  frati,  e  furon  ristrette,  abrogando  una  bolla  di  Bene- 
detto XI  che  le  favoriva,  si  sperava  che  anche  i  monaci  fossero 
ristretti  al  dritto  comune,  ma  alcuni  regali  di  que'  di  Cibila 
fecero  forse  cangiar  pensiero  a  Clemente.  Furon  posti  de'saggi 
ritegni  alla  condotta  delle  monache ,  le  quali  in  que'  tempi 
portavano  drappi  é  pelli  preziose ,  si  acconciavano  con  grande 
eleganza  i  capegli,  frequentavano  le  danze  e  le  feste,  e  passeg- 
giavano anche  di  notte  per  le  pubbliche  strade.  Non  »  trova 
che  fino  allora  vi  fosse  la  clausura  monastica.  Il  concilio  ter- 
minò al  solito  col  pubblicar  la  crociata  per  terra-santa ,  a  coi 
dava  facil  lusinga  la  conquista  di  Rodi ,  fatta  due  anni  avanti 
dai  cavalieri  gerosolimitani,  che  perciò  vennero  poi  chiamati 
cavalieri  di  Rodi. 

Cosi  si  cuopriva  di  gloria  e  cresceva  in  potenza  uno  di 
questi  ordini  già  tanto  celebri  in  Palestina,  mentre  F^ltr»  era 
il  ludibrio  della  maldicenza  e  lo  scopo  della  vendetta  de'  suoi 
possenti  avversari.  Le  fiamme  che  di  tempo  in  tempo  consu^ 
marono  i  più  ragguardevoli  tra'cavalieri  templari  non  si  estin- 
sero che  alla  morie  dei  loro  tiranni.  Un  più  rischiarato  giudizio, 
quello  della  posterità,  ha  in  seguito  purgato  quest'ordine  dalle 
Vili  imputazioni  che  gli  furono  apposte.  Ma  non  è  da  tacersi 
che  la  sua  sorte  fu  fin  d'allora  onorata  dalle  lagrime  d^li 
uomini  probi,  e  che  la  superstizione  stessa  travide  nella  morte 
del  papa  e  del  re  la  vendetta  celeste  sull'  innocenza  persegui- 
tata. Filippo  e  Clemente  morirono  appunto,  si  dice,  nel  termina 
fissato  dal  gran  maestro  il  giorno  del  suo  supplizio:  entro  l'anno 
Filippo,  ed  entro  un  mese  Clemente.  Da  questo  papa  prendono 
il  nome  le  clementine  ^  che  sono  una  raccolta  di  leggi  da  luì 


—  155  — 

emanate  la  maggior  parte  al  coDcilìo,  divisa  in  ciogoé  libri,  la 
4]oaie  prima  cbiamavasi  il  Settimo  delle  decretali.  Non  gli  si 
pQò  negare  molta  dottrìDa  e  ana  mirabile  isiancabilità ,  ma  la 
sua  avarizia  ed  il  suo  genio  sanguinario  e  persecutore  resero 
il  suo  pontificato  d'affliggente  memoria  alla  Chiesa.  Egli  è  ancora 
imputato  d' aver  rinnovato  nella  sede  apostolica  V  esempio  di 
Se^io  III  per  la  sua  famigliarità  colla  bella  duchessa  di  Périgord, 
da  cui  lasciavasi  interamente  dirigere. 

Bla  gli  scandali  di  questo  papa  sono  ben  poca  cosa  rispetto 
a  quelli  delF  avaro  superstizioso  Giovanni  XXII ,  assunto  alla 
cattedra  dopo  uno  de'  più  procellosi  e  lunghi  interregni.  La 
cabala  de'  Guasconi  disperse  a  un  tratto  i  cardinali  adunati  in 
conclaye;  il  sangue  degl'Italiani  scorse  nel  Rodano,  e  le  sostanze 
di  quegli  che  seguivano  la  corte  furono  saccheggiate  coH'immenso 
tesoro  di  Clemente  Y,  che  ascendeva  a  trecento  mila  fiorini , 
somma  esorbitante  in  quel  tempo.  Giovanni  ne  riparò  ben  presto 
la  perdita;  sotto  di  lui  lutto  divenne  venale:  egli  moltiplicò  i 
-vescovadi  e  le  traslazioni ,  inventò  1'  uso  delle  riserve  e  fece 
pubblico  appalto  d'ogni  privilegio  e.  indulgenza. 

Quello  però  che  '  distinse  il  suo  lungo  pontificato  fu  lo 
scisma  dei  francescani  e  le  contese  ch'egli  ebbe  con  quest'ordine 
stravagante.  1  suoi  individui  erano  già  da  gran  tempo  fra  loro 
in  rotta  si  riguardo  alla  spiegazione  della  regola  quanto  per  la 
forma  de'  loro  abiti  e  la  qualificazione  della  povertà  serafica. 
Giovanni  ne  accrebbe  i  contrasti,  facendo  divenir  queste  dispute 
•un  affare  d'importanza.  Tutta  l'Europa  vi  s'interessò,  e  la  discor- 
dia giunse  ad  eccessi  tali  da  costare  la  vita  ad  un  nua>ero 
grande  di  frati  superstiziosi  e  ribelli.  Fra  essi  alcun  si  vantava 
che  san  Francesco  avea  portato  sulla  terra  un  vangelo  più  per- 
fetto di  quello  di  Gesù  Cristo.  Altri  si  ostinavano  sulla  povertà 
che  comanda  la  regola,  sino  a  credere  che  i  loro  alimenti  fosser 
del  papa  nell'atto  stesso  che  ne  mangiavano  e  voleano  fame  in 
suo  nome  la  digestione.  Molti  finalmente  faceano  dipendere  la 
loro  maggior  perfezione  da  un  color  bigio  o  nero,  da  un  abito 
lungo  0  stretto  e  da  un  cappuccio  più  o  meno  acuto.  Non  si 
potrebbe  figurare  facilmente  l' ostinazione  con  cui  questi  pazzi 
sostenevano  le  loro  opinioni,  e  meno  il  furore  con  cui  erano 
perseguitati.  11  papa  aveva  già  date  fuori  più  bolle  per  contrasti 
coffl  ridicoli,  molte  delle  quali  essendo  in  aperta  contraddizione 
C6D  altre,  dei  suoi  predecessori,  non  fecero  che  accrescere  i 
^ubbidienti  e  i  fanatici.  Si  pose  finalmente  a  volerla  vinta 


—  156  r- 

colla  violenza  e  col  sangue.  Conventi  interi  furono  dispersi  col- 
l'armi,  se  ne  empiron  le  carceri,  e  i  più  caparbi  si  condanna- 
vano al  fuoco.  In  tal  guisa,  perirono  molti  Ae'spirituali  de'^a- 
ticelli  e  ée'bizocchi,  chiamati  dal  papa  uomini  di  profana  vita  e 
pericolosi  scismatici.  Il  solo  affar  del  cappuccio  accese  in  Frauda 
e  in  Germania  più  roghi  di  qualunque  delitto  di  stato»  e  Gio- 
vanni XXII  dicea  gravemente  che  non  si  potea  sanare  tanto 
male  se  non  coi  più  violenti  rimedi. 

La  persecuzione  contro  uomini  che  il  volgo  autorizzava  per 
santi  (Giovanni -Pico-Oliva  e  Giovanni  da  Parma)  moltiplicava  i 
torbidi  ed  accresceva  tuttodì  i  nemici  del  papa ,  molti  dei 
quali  a  meno  non  agognavano  che  a  balzarlo  dal  trono.  Gio- 
vanni XXII  dovea  vivere  fra  continue  agitazioni  e  timori.  Fin 
da'  primi  anni  del  suo  pontificato  si  tramò  alla  sua  vita,  e  il 
vescovo  di  Cahors  venne  abbruciato  come  reo  di  tale  perfidia, 
il  papa  temeva  più  ch'altro  i  veleni  e  i  sortilegi  :  mentre  accu- 
sava la  superstizione  de'  maghi,  deplorava  le  debolezze  de'  ve- 
neflciie  de' filtri,  puniva  colle  fiamme  gl'incantatori  e  gli  stre- 
goni ;  superstizioso  all'eccesso ,  ei  medesimo  faceva  uso  degli 
incantesimi  a  discoprire  i  suoi  assassini,  e  sul  più  debole  in- 
dizio ne  riempiva  le  carceri,  ne  spingeva  a' supplizi,  e  impin- 
guava colle  Confische  il  suo  erario. 

La  persecuzione  intimata  ai  frati  e  alle  streghe  non  impe- 
diva a  papa  Giovanni  d'intrigarsi  ^ negli  affari  dei  principi  e 
distribuire  corone  e  regni.  Da  due  secoli  e  mezzo  la  Polonia 
era  senza  re  :  dappoiché  il  terribile  Gregorio  VII  ne  avea  spo- 
gliato Boleslao  II,  reo  del  sangue  del  vescovo  di  Cracovia,  nes- 
suno avea  ardito  prenderne  il  titolo.  Giovanni  XX II  volle  farlo 
rivivere  in  occasione  della  contesa  che  fu  portata  al  suo  trono  fra 
Ladislao  duca  di  Sandomiria  e  Giovanni  re  di  Boemia  figlio 
dell'imperadore  Enrico  VII.  Il  papa  lo  destinava  a  quest'ultimo; 
ma  i  Polacchi  non  aspettarono  la  decisione  ch'egli  erasi  riser- 
vata e  coronarono  solennemente  in  Cracovia  il  duca  Ladislao, 
che  Giovanni  in  seguito  tacitamente  approvò  dandogli  il  titolo 
di  re  in  una  lettera  che  per  altri  affari  gli  scrisse.  Non  si  sa 
perchè  prendesse  con  tanta  calma  codesta  rivoluzione  dei  di- 
ritti papali:  certo  non  fu  cosi  facile  a  tollerare  l'usurpazione 
di  Matteo  Visconti,  che  facevasi  chiamare  principe  e  signore  di 
Milano.  Egli  era  il  capo  de'  ghibellini  in  Lombardia ,  e  perciò 
le  scomuniche  tennero  dietro  alla  nuova  qualificazione.  Sic- 
come però  non  faceva,  4'  esse  Matteo  maggior  conto  che  degli 


—  157  — 

eserciti  gaelfi,  gli  si  fece  un  processo  come  ad  eretico,  perchè 
avesse  il  giudice  ecclesiastico  un  migliore  pretesto  ondQ  spo- 
gliarlo dei  suoi  averi  e  delle  sue  dignità,  giusta  il  recente  ca- 
none del  concilio  di  Vienna.  Si  fece  lo  stesso  contro  Rinaldo 
Passerino  e  Can  della  Scala,  che  si  erano  impadroniti  di  Man- 
tova e  di  Verona. 

Ma  tutti  questi  procedimenti  non  valeano  contro  gente  ben 
armata,  né  ritardavano  i  loro  militari  successi.  Matteo  Visconti 
morì  professando  altamente  in  faccia  agli  altari  il  suo  caltoli- 
cismo  e  lasciò  a' suoi  cinque  figli  i  suoi  titoli  e  le  sue  signorie 
Milano  però  era  assediata  da'  guelfi  condotti  in  persona  dal 
cardinale  legato:  esso  implorò  Tdjuto  dell'imperatore ,  e  Luigi 
di  Baviera,  che  già  da  ott'anni  ne  portava  il  titolo,  non  credè 
di  poter  ricusarvisi.  L'alterigia  colla  quale  il  cardinale  coman- 
dante in  capo  ricevè  gli  ambasciadori  alemanni  indispetti  il 
loro  sovrano,  e  il  capo  dell'ambasciata  portossi  alla  testa 
di  tutti  i  ghibellini  di  Lombardia ,  piombò  sui  guelfi,  ne  fece 
macello  e  liberò  la  città.  Questa  fu  l'origine  di  tutte  le  disgrazie 
del  Bavaro. 

Luigi  era  stato  eletto  in  sede  vacante  dopo  la  morte   di 
Enrico  VU.  Cinque  elettori  gli  avean  tolta  la  corona  imperiale, 
e'  I  suo  valore  gliel'avea  assicurata  contro  Federigo  d'Austria 
figlio  d'Alt)erto  il  Grande,  nominato  dagli  altri  due.  Una  san- 
guinosa battaglia  ponendo  l'Austriaco  ne'  ferri  del  suo  rivale, 
lo  avea  obbligato  a  cedergli  ogni  suo  diritto  :  ma  l'anno  stesso 
la  sua  cattiva  fortuna  precipitò  di  nuovo  i  suoi  interessi  met- 
tendolo in  contesa  col  papa.  Giovanni,  lagnandosi  che  senza 
ricorrere  a  lui  per  ottenere  la  corona  si  fosse  fatto  giurare 
fedellà  da' vassalli  dell'impero  romano,  e  che  avesse  sostenuti 
i  Visconti  giuridicamente  convinti  d^eresia,  gli  comandò  super- 
bamente ^di  deporre  il  titolo  di  re  de'Romani  e  di  cassare  tutti 
gli  atti  da  lui  eseguiti  in  tal  qualità.  Un  modo  si  altero  irritò 
Uigi:  egli  protestò  altamente  contro  le  pretensioni  del  papa, 
si  appellò  alla  santa  sede  e  ad  un  generale  concilio,  che  disse 
▼oler  convocare.  Assai  men  ci  voleva  a  provocare  Giovanni  XXII: 
l'odio  implacabile  che  gli  giurò  fece  risorgere  nell'  Alemagna 
^  in  Italia  le  fazioni  e  le  guerre  che  da  tanto  tempo  tacevano, 
0  si  rinnovarono  tutti  i  disordini  ed  i  furori  de'  Svevi  e  dei 
Federighi. 

ÀI  primo  scoppio  della  querela  corsero  tosto  sotto  i  sten- 
<hrdi  del  Bavaro  quarlti*  nemici  s'avea  fatto  il  pontefice  ;  i  frati 

Tamb.  Inquis.  Voi.  11.  18 


—  158  — 

pérsegoitati  furono  dei  primi.  Mentre  i  Visconti  e  i  Scaligeri  scoa 
<^rtavano  colle  loro  viltorie  il  partito  guelfo,  spargevano  es4 
libri  incendiari!  contro  del  papa  lo  trattavano  da  usurpatore  e  ^ 
eretico,  né  con  altro  nome  il  chiamavano  che  di  signor  Gior 
vanni  Ma  più  d' ogni  altro  valse  in  questa  sorta  di  guerra  i 
Luigi  l'eloquenza  e  Perudizione  di  Marsilio  da  Padova,  scrittori 
pericoloso,  le  cui  massime  fecero  guerra  al  pontificato  romano 
fin  nella  tomba  e  somministrarono  tant'arme  a'suoì  nemici.  Que* 
sto  intraprendente  dottore  gli  pose  sotfocchio  Tautorità  dei  greci 
imperadori  nel  governo  ecclesiastico  e  gli  suggerì  dMmitarii 
Luigi  non  accettò  interamente  questa  opinione,  ma  se  ne  pre« 
valse  contro  la  persona  del  papa  per  rendere  la  pariglia  a  chi 
lo  avea  deposto.  Infatti,  sceso  poco  dopo  in  Italia,  corteggiate 
dai  francescani  col  loro  generale  Michele  da  Cesena  alla  testa 
marciò  direttamente  a  Roma,  dove,  abjurando  i  pontefici  d'Avi^ 
none,  cinse  la  fronte  d'un  d'essi  della  tiara  papale. 

Mentre  però  egli  trìonfava  in  Roma ,  e  il  nuovo  papa  coi 
nome  di  Nicolò  Y  lo  coronava  solennemente  nel  Vaticano ,  k 
scomuniche  del  suo  avversano,  maneggiate  dal  clero,  soffiava- 
no la  discordia  neirAlemagna  e  lo  costrinsero  ad  abbandonare 
ritalia  e  il  suo  papa.  Luigi  lottò  con  coraggio  contro  i  ribelli  e 
protrasse  a  più  anni  la  guerra ,  sempre  sperando  e  tentandc 
spesso  un  accordo  col  papa,  che  non  potè  mai  ottenere.  Ma  Ni- 
colò, fatto  assai  presto  prigioniero  dai  guelfi  e  condotto  in  Avi- 
gnone, vi  fu  da  prima  ricevuto  con  un'umanità  che  non  si  sa- 
rebbe aspettata  dalla  fierezza  del  suo  rivale:  ma  poco  dopo,  rin- 
chiuso in  prigione,  dovette  piangervi  sino  alla  morte  la  follia 
di  essersi  prestato  a  servir  di  strumento  alla  collera  nelle  con- 
tese dei  grandi.  L'ordine  francescano,  scosso  dal  terrorismo,  rien-* 
trò  nel!'  ubbidienza  ;  Michele  da  Cesena ,  Guglielmo  Occamo  e 
Buonagrazia  da  Bergamo  durarono  soli  a  sostenere  lo  scisma 
con  Ficino  e  pochi  altri. 

Le  contese  sul  genere  di  povertà  praticata  da  Gesù  Cristo, 
e  che  san  Francesco  voleva  imitala  nell'ordine  suo,  duravano 
ancora,  quando  papa  Giovanni  ne  condusse  una  nuova,  che,  seb- 
bene non  avesse  le  agitazioni  dell'  altra,  non  lasciò  di  turbare 
anch'essa  la  Chiesa  i  due  ultimi  anni  della  sua  vita.  Egli  inse- 
gnava:  t  Che  i  santi  prima  della  morte  di  Gesù  Cristo  erano 
nel  seno  di  Abramo;  quindi  passavano  sotto  l'altare  ad  aspet- 
tarvi il  di  del  giudizio  ;  dopo  il  quale  solamente  salivano  sopra 
d'esso  a  godere  della  beata  visione  di  Dio,  che  forma  la  felicità 


-  IS9  — 

M  paradiso.  »  Quest'opinione,  spiegata  da  lui  pol>blicamente  in 
■D'omelia,  sostenuta  con  ostinazione  in  concistoro  ad  oggetto 
i  formarne  una  bolla,  fu  poi  ritrattata  con  ugual  debolezza  due 
nni  dopo  al  punto  della  sua  morte.  Servi  però  di  nuovo  im* 
^zzo  a'  teologi  sostenitori  deir  infallibilità  pontificia,  che  di* 
ilinguono  il  papa  cbe  parla  in  cattedra  dal  papa  che  parla  da 
iriTalo  dottore.  Giovanni  XXII  lasciò  alla  camera  apostolica  un 
iDgue  tesoro:  vi  si  trovarono  diciotto  milioni  di  fiorini  in  oro 
ontante,  e  tre  milioni  in  vasellame,  croci,  corone,  mitre  e 
ioielli. 

La  prima  operazione  di  Benedetto  XII,  terzo  papa  francese, 
1  di  condannare  apertamente  il  sistema  del  suo  predecessore  in- 
Nmo  alla  visione  beatifica^  non  meno  che  tutti  gli  atti  di  si- 
ionia  e  d'avarizia  che  avevano  impinguato  il  suo  erario.  Si 
usti  principii  diedero  luogo  a  sperare  che  sotto  un  pontefice 
»i  virtuoso  e  saggio  sarebbesi  alfine  ristorata  la  gloria  della 
de  apostolica,  dai  due  precedenti  pontificati  deturpata  mise- 
imente.  Benedetto  avea  infatti  le  qualità  d'un  ottimo  papa  e  mise 
avvero  la  mano  alPopra.  Una  riforma  generale  di  tutti  gli  or- 
ni religiosi  che  ingombravano  la  Chiesa  segui  da  presso  quella 
dia  sua  corte;  e  non  mancò  da  lui  che  una  generale  pacifi- 
zione  avvenisse  in  tutta  la  cristiana  repubblica.  Queste  In- 
voli intenzioni  del  buon  pontefice  animarono  Luigi  il  Bavaro 
domandare  ud  nuovo  accordo  é  la  sua  amicizia;  e  Tuno  e 
Itra  egli  avrebbe  facilmente  ottenuto,  senza  gì' intrighi  di 
lippe  di  Yalois,  che  dopo  la  morte  di  Carlo  il  Beilo  avea 
>rtato  sul  trono  un  nuovo  ramo  Capete.  Questo  prìncipe, 
i  era  interesse  mantenere  la  discordia  neirimpero  germanico, 
^  andar  a  vuoto  il  trattato,  e  la  guerra  fra' due  partiti  con- 
ino. 

Più  che  ogni  altra  provincia  d'Europa  sperò  Tltalia  che,  se 
fosse  potuto  ottenere  da  Ini  che  vi  riportasse  la  sede  sotto 
i  auspicii  del  più  rispettabile  fra'suoi  sovrani,  le  sarebbe  tor- 
ito  il  suo  primo  splendore.  Due  possenti  nazioni  straniere  se 

disputavano  il  Mezzogiorno:  i  Francesi  e  gli  Aragonesi  vi 
ino  a  vicenda  vincitori  e  scacciati,  e  gli  abitanti  delie  Due  Si- 
ie,  fatti  conquista  or  degli  uni  or  degli  altri,  non  facevano  che 
gravare  le  loro  disgrazie,  prestandosi  a  servire  T  animosità 

loro  oppressori  rivali.  Venti  tiranni  ne  straziavano  il  Nord, 
ioni  ghibelline  e  guelfe  divìdevano  ogni  villaggio  in  furiosi 
titi:  vi  davano  continue  battaglie,  e  nelle  mura  della  stessa 


—  140  — 

città  si  battevano  furiosamente  cittadini  pel  falso  onore  d'es- 
sere fedeli  all'imperatore  od  al  papa.  Le  alternate  vittorie  dei  due 
partiti  erano  sempre  segnate  dalle  più  crudeli  vendette,  che  non 
rispettavano  sangue,  carattere,  età.  In  seguito  dal  colmo  della 
più  feroce  anarchia  delle  già. vacillanti  repubbliche  risorse  gi- 
gantesco il  dispotismo,  e  i  Visconti,  gli  Estensi,  i  Carrara,  i  Sca- 
ligeri, i  Pepoli,  i  Passerini  opprimevano,  ciascuno  nella  sua 
patria,  quella  bella  parte  d'Italia  che  dovea  un  giorno  formare 
il  territorio  <li  una  nuova  repubblica,  delle  prime  più  tranquilla 
e  felice. 

Gli  Stati  del  papa,  privi  della  presenza  doloro  sovrani, 
erano  più  degli  altri  in  preda  alla  confusione  e  al  disordine. 
Le  famiglie  più  poderose,  impadronitesi  a  mano  a  mano  dei 
varil  castelli  che  circondavano  Roma,  vi  si  erano  formata  una 
specie  di  sovranità.  Nemiche  implacabili  Tuna  delFaltra,  si  fa- 
cevano una  guerra  continua  che  minava  i  popoli,  inceppava  il 
commercio  e  desolava  F  agricoltura.  Col  favore  di  queste  di- 
scordie, immense  truppe  di  ladri,  di  sediziosi,  di  banditi  delle 
vicine  repubbliche  vi  accorrevano  ad  accumularvi  tutti  i  mali 
della  guerra  civile  e  della  militare  licenza.  Roma,  più  agitata 
ancora  delle  città  soggette,  era  meno  la  capitale  d'uno  Stato  so- 
vrano e  il  centro  della  religione  cristiana  che  un  asilo  di  as- 
sassini feroci  che  altra  regola  non  conoscevano  fuori  della  vio- 
lenza né  altro  Dio  che  Tinteresse.  Gli  abitanti,  divisi  in  cento 
azioni,  marciavano  sotto  altrettanti  capi,  il  cui  furore  spargeva 
di  sangue  le  strade  ed  espillava  non  meno  le  chiese  che  i  pel- 
legrini che  andavano  a  visitarle.  I  Colonna  e  gli  Orsini  erano 
'  alla  testa  deMue  principali  partiti,  la  cui  animosità  era  aumen- 
tata dall'odio  personale  di  queste  due  grandi  famiglie. 

In  tale  deplorabile  stato  Roma  stendeva  la  mano  suppli- 
chevole a'suoi  pontefici  e  mostrava  loro  le  sue  sciagure.  Bene- 
detto XXII  avrebbe  potuto  rimediarvi  in  gran  parte  col  tagliare 
la  sua  contesa  colPimperatore  Luigi,  che  si  esibiva  pronto  a 
ogni  patto,  e  col  tornarsene  a  Roma,  come  sembrava  esigerlo 
la  disciplina  che  obbliga  i  vescovi  a  risiedere  al  loro  titolo.  Al- 
Tuno  e  air  altro  opponevasi  la  sua  nazionalità  ,  che  lo  tenea 
ligio  del  re  e  troppo  attaccato  ai.  vantaggi  del  suo  paese.  Fece 
però  quanto  potè:  promettea  tuttodì  il  suo  ritorno  e  spediva 
bolle  e  legati  di  pace.  Le  sue  premure  giunsero  almeno  a  pa« 
ciflcare  la  Lombardia,  ma  fu  a  prezzo  della  sua  libertà  e  con 
un  nuovo  attentato  su  i  troni.  Alcuni  di  quei  tiranni,  per  dar 


-  141  — 

qualche  colore  alle  loro  osarpaiioDù  si  ass(^getUrono  al  papa; 
ed  ei  li  rìcoDobbe  vicari  delPimpero  nelle  rìspeUive  città«  du- 
rante rioterregQo,  poicbè  Roma  teoea  vacante  il  trono  dei 
cesari 

La  principale  occupazione  però  di  questo  buon  papa  era  la 
riunione  de'Greci,  che  Andronico  Paleologo»  nuovo  impp*^lore 
di  Costantinopoli,  gli  fece  proporre  col  mezzo  di  un  abaie  ve-^ 
nuto  espressamente  dal  Bosforo.  Questo  Andronico»  stanco  di 
vedere  l'avolo  suo,  figliuolo  di  Michele,  occupare;  da  cinquan- 
t'anni  il  suo  trono,  ne  lo  avea  barbaramente  scacciato  rinchiu* 
dondolo  in  un  monastero.  Il  tiipore  de'Turchi  e  del  re  di  Na* 
poli,  eredi  decritti  degrimperatori  greco-francesi,  era  quello  che 
spingea  tratto  tratto  questi  deboli  despoti  al  soglio  romano;  ma 
essi  ben  conoscevano  rimpossibilità  di  riamalgamare  due  chiese 
che,  partite  dal  punto  stesso,  se  ne  erano  per  otto  secoli  allon- 
tanate cotanto.  La  virtù  di  Benedetto  gii  nascondea  la  mala  fede 
de'Greci,  e  vi  si  dedicò  con  tutto  lo  zelo  di  Gregorio  X;  ma  fu 
ancora  meno  felice  di  lui.  L'abate  greco  ritornò  a  Costantinopoli 
pcHtando  lettere  al  re  di  Napoli  esprimenti  Tamicizìa  che  11  papa 
avea  pel  moiì^atore  de"  Greci.  Questo  fu  tutto  l'effetto  delFam- 
bascìata. 

Benedetto  mori  in  Avignone  Panno  ottavo  del  suo  pontifi- 
cato, e  Clemente  VI  suo  successore,  anch'egli  francese,  continuò 
a  tenere  in  quella  città  la  sua  se^e.  Egli  era  d'assai  diverso 
carattere;  mentre  l'Italia  e  Roma  vedevano  ogni  dì  crescere  i 
torbidi,  indifferente  a'  loro  pianti  attendeva  alle  lettere,  ascol- 
tava le  rime  dell'innamorato  Petrarca,  volea  conoscere  l'oggetto 
che  le  facea  nascere  e  rimunerava  di  pingui  beneficii  i  poeti  e 
le  muse.  Se  talvolta  ricordavasi  Clemente  d'esser  pontefice,  non 
era  che  per  estenderne  i  diritti,  o  spingeva  il  suo  zelo  affettato 
a  favorire  le  missioni  d'Oriente,  a  sedar  lo  scisma  d'alcuni  frati, 
a  censurare  seriamente  alcune  opinioni  che  una  più  rischiarata 
posterità  avrebbe  condannate  all'oblio.  La  Grecia  e  la  Palestina 
entrarono  anch'esse  per  formalità  d'uso  a  far  parte  delle  sue 
occupazioni.  Ma  dove  non  risparmiò  né  pensieri  né  premura 
fu  contro  il  Bavaro,  che  avea  stancati  gli  anatemi  de'due  im- 
mediati suoi  predecessori.  Invano  Luigi  aveva  anche  a  questo 
pontefice  domandato  la  pace:  non  si  volle  accordargliela  che 
die  più  umilianti  condizioni,  da'principi  stessi  dell'impero  ra- 
dunati a  Francfort  giudicate  indegne  della  maestà  del  trono  e 
contrarie  a'dirilti  del  corpo  germanico.  Il  papa  non  desistè  per 


—  142  — 

questo:  finalmente  i  raggiri  d'Avignone,  le  grida  del  clero  ale- 
manno e  le  arti  più  vili  del  re  di  Boemia  determinarono  gli 
elettori  a  balzarlo  dal  trono  per  fargli  succedere  il  figlio  di 
questo  re,  Carlo  di  Lussemburgo.  In  cotal  guisa  .ritornò  al  ni* 
potè  la  corona  d'Enrico  Vili;  ma  egli  non  l'avrebbe  goduta 
pacificamente  se  Luigi  non  fosse  morto  alla  caccia  V  anno  se- 
guente d'un  colpo  apoplettico,  che  in  quel  secolo  fu  giudicato 
castigo  del  cielo. 

Il  nuovo  imperatore  Carlo  lY  ricompensò  il  favore  del  papa 
mostrandosi  interamente  ligio  alle  sue  pretensioni  Uno  de'prìmi 
atti  di  sua  sovranità  fu  d^approvare  l'acquisto  da  lui  fatto  della 
contea  d'Avignone,  fino  allora  tenuta  in  feudo  imperiale,  e  che 
r  imperatore  accordò  che  fosse  posseduta  dai  papi  come  terra 
interamente  libera.  Clemente  l'avea  comperata  coli' esborso  di 
ottantamila  fiorini  d'oro  dalla  regina  di  Napoli  Giovanna  d'Angiò. 
Questa  donna,  famosa  per  l'incostanza  non  meno  de'suoi  amori, 
che  delle  sue  vicende,  era  allora  alla  corte  del  papa  in  figura 
di  re ,  e  lorda  del  sangue  d' uno  sposo  indegno  di  lei ,  perse- 
guitata da  un  inesorabile  cognato,  il  re  d' Ungheria ,  obbligata 
a  salvarsi  in  Provenza  coi  complici  del  suo  delitto,  sfuggi  appena 
all'estremo  supplizio  col  favore  di  Clemente,  sensibile  forse  pib 
all'eloquenza  di  questa  donna  che  alla  giustizia  della  causa  di 
lei.  Il  papa  le  diede  la  vita ,  il  regno ,  un  nuovo  sposo  e  il 
denaro  per  tornare  in  Italia. 


CAPITOLO  Vili. 


Dante  sospetto  d'eresie. 


Il  pia  gran  genio  che  vanti  V  Italia,  che  riani  in  sé  solo 
tatto  Io  scibile  dell'età  soa,  corse  pericolo  di  cadere  sotto  ria- 
qaisizioDe,  se  per  sciagara  fosse  in  vita  cadato  sotto  gli  artigli 
del  papato.  Fa  V  ira  del  sacerdozio  cotanto  accanita  contro  di 
lai  che  il  cardinale  del  Poggetto  gianto  a  Ravenna  minacciò 
di  far  disseppellire  le  spoglie  mortali  deirAlighieri  e  porle  sai 
rogo.  Dante  fa  accasato  d'eresia,  e  crediamo  più  presto  per  ira 
sacerdotale  che  per  altro.  Né  mai  nelle  sue  opere  trapelò  parola 
che  desse  indizio  d'esser  egli  infetto  d' eresia.  L' ira  che  sovente 
natriva  contro  gli  abasi  che  vigoreggiavano  in  qaest'  epoca 
nella  corte  di  Roma,  epoca  di  generale  corruzione,  imperciocché 
anche  presso  la  corte  dei  principi  succedevano  scandali  e  delitti, 
fa  la  causa  principale  della  vendetta  del  cardinale.  Dante  visse 
ramingo ,  recando  ovunque  amarissimo  sdegno  contro  coloro 
che  r  aveano  proscritto.  Ed  il  culto  in  cui  tenni  per  tutta  la 
vita  questo  sommo  luminare  non  solo  nella  poesia ,  ma  nella 
teologia ,  che  gareggiare  può  nella  medesima  con  s.  Tommaso 
d'Aquino,  mi  sforza  a  dire  qualche  cosa  di  lui,  che  mi  fa  ritor- 
nare agli  anni  della  mia  giovinezza. 

e  Di  tutti  i  miseri  m' incresce ,  ma  ho  maggior  pietà  di 
coloro  i  quali  in  esilio  affliggendosi  rivedono  solamente  in 
sogno  le  patrie  loro.  »  Cosi  scrivea  Dante  nel  suo  trattato  della 
Volgare  eloquenza  :  ciò  nullameno  eleggeva  di  starsi  in  perpetuo 
bando  anziché  tornare  alla  patria  per  vie  convenienti   solo  ad 


—  144  — 

nomini  depressi  e  senza  fama.  Erano  queste  a  lui  già  proposte: 
che  egli  per  certo  spazio  di  tempo  si  stesse  prigione,  indi  in 
alcuna  solennità,  tratto  a  pompa  de'  nemici  con  cero  in  mano 
e  mitera  in  capo ,  fosse  misericordievoimente  alla  ptìncipale 
chiesa  offerto.  Del  preso  decreto  ebbe  Dante  contezza  per  buona 


Dante    Alighieri, 


persona,  cui  risponde:  <  Questo  è  adunque  il  glorioso  modo 
per  cui  Dante  Alighieri  si  richiama  alla  patria,  dopo  V  affanno 
di  un  esilio  quasi  trilustre  ?  Questo  è  il  merito  dell'innocenza 
mia,  che  tutti  sanno  ?  E  il  largo  sudore  e  le  fatiche  durate 
negli  studi  mi  fruttano  questo?  Lungi  da  un  uomo  alla  filosofia 
consacrato  questa  temeraria  bassezza ,  propria  di  un  cuor  di 
fango;  e  che  io  a  guisa  di  prigione  sostenga  di  vedermi  offerto, 
come  lo  sosterrebbe  qualche  misero  saputello  o  qualunque  sa 
vivere  senza  fama.  Lungi  da  me  banditore  della  rettitudine  che 
io  mi  faccia  tributario  a  quelli  che  m'  offendono,  come  se  elli 
avessero  meritato  bene  di  me.  Non  è  questa  la  via  per  ritor- 
nare alla  patria,  o  patire  mio.  Ma  se  altra  per  voi  o  per  altri 


—  145  — 

si  troverà  che  non  tolga  ooore  a  Dante  né  fama,  ecco  Taccetto, 
De  i  miei  passi  saranno  lenti.  Se  poi  a  Firenze  non  s'entra  per 
QDa  Yia  d'  onore,  io  non  entrerovvi  giammai.  E  che?  Forse  il 
sole  e  le  stelle  non  si  veggono  da  ogni  terra?  E  non  potrò 
meditare  sotto  ogni  plaga  del  cielo  la  dolce  verità,  s' io  prima 
non  mi  faccio  nomo  senza  gloria ,  anzi  d' ignominia  al  mio 
popolo  ed  alla  patria  ?  > 

i  Fece  tre  nobili  pistole,  scrive  il  Villani  :  Tona  mandò  al 
reggimento  di  Firenze»  dogliendosi  del  sno  esilio  senza  colpa; 
r  altra  mandò  air  imperatore  Arrigo ,  qoando  era  allo  assedio 
di  Brescia;  la  terza  a'cardinali  italiani,  quando  era  la  vacazione 
dopo  la  morte  di  papa  Clemente ,  acciò  che  s'  accordassono  a 
eleggere  papa  italiano  :  tutte  in  latino,  con  alto  dittato  e  con 
eccellenti  sentenzio  e  antoritadi  ;  le  quali  furono  molto   com- 
mendate dai  savi  intenditori,  i  Scrisse  una  lettera  al  re  d'Un- 
gheria con  questo  principio  :  Magna  de  te  fama  in  omnes  dis- 
^pata,  rex  dignissime,  coegit  me  indignum  exponere  manum 
calamo  et  ad  tuam  humanitatem  accedere.  Altra  ne  scrisse  a 
Bonifacio  Vili,  la  quale  cosi  cominciava  :  Beatitudinis  Tuce  san- 
ctitas  nihil  potest  cogitare  pollutum,  quas,  vices  in  terris  gerens 
Christi,  totius  est  misericordice  sedes,  verce  pietatis  exemplum, 
mnm(B  religionis  apex.  Ma  questa  lettera  dovette  essere  scritta 
a  Bonifacio  assunto  al  pontificato.  Altra  al  figlio  a  Bologna  con 
questo  comìnciamento  :  Scientia,  mi  fili,  coronai  homines  et  eos 
mtentos  redditi  quam  cupiunt  insipientes,  honorant  boni,  vitu- 
ferant  maK.- Altra ei  cardinali  italiani,  dove  dolevasi  delle  cor- 
rottele d'allora. 

A  tutti  è  noto  deir  ospitalità  aperta  al  profugo  illustre 
Scaligeri.  Solo  qui  ne  rimane  a  dire  che  ogni  cenno  ad 
onore  di  quella  famiglia  consecrato  nella  Divina  Commedia 
sembra  riferirsi  a  tarda  epoca  e  tutta  contrassegnata  dalla  già 
fiorente  gloria  di  Cane.  Né  Dante  era  tale  da  secondare  strani 
presagi  senza  base  di  già  occorso  adempimento;  e  presso  che 
tolto  quanto  vedesi  nella  Commedia  pronosticato,  era  in  effetto 
qnand'ei  mostrava  udirne  dai  trapassati  la  predizione.  Con 
QQesta  norma  non  sappiamo  noi  assentire  che  in  que'vocaboli 

E  sua  Dazion  sarà  tra  Feltro  e  Feltro 

signiflcar  volesse  la   nascita  o  la  patria  di  Cane:  intendiamo 
ao7j  che  dir  volesse  popolazione  e  nazione  da  Cane  signoreg- 

Tamb.  fn^Mi*.  Voi   II.  19 


—  146  — 

giata,  e  venisse  cosi  a  significare  come  Cane  mostrava  d'avere 
ad  essere  salute  di  tutta  la  Romagna,  se  già  allora  non  era.  E 
il  Villani  contemporaneo  scrSvea  :  e  Fu  adem()iuta  la  profezia 
di  maestro  Scotto,  che  il  Can^  di  Verona  sarebbe  signore  di 
Padova  e  di  tutta  la  Marca  Trivigiana.  i  Ma  ben  presto  Tnomo 
della  verità  e  deilla  rettitudine  cadde  nello  sfavore  del  potente. 
Ebbesi  veramente  TAlighieri  da'vari  amici  delle  lettere  ospizio 
e  favore.  Ma  la  virtù  trova  ricetto  presso  i  grandi  soltanto  a 
forza  di  prudenza  e  di  pazienza  ;  né  queste  erano  le  virtb  che 
raccomandare  più  potessero  Tesule  ghibellino.  Egli  rìguardavasi 
ancora  e  voleva  essere  riguardato  quai  uno  de'già  priori^  d'una 
serenìssima  repubblica  e  quale  antico  amorevole  d'  un  Carlo 
Martello  e  d'un  Nino  de'Visconti.  Gli  ospiti  dello  sventurato  si 
reputavano  male  rimunerati  da  quella  gratitudine  che  non 
andava  mai  disgiunta  dalla  nobile  sua  naturale  alterezza.  Già 
le  corti  tardi  sanno  addarsi  delle  virtù  e  rado  o  non  mai  di 
quelle  cadute  in  umile  e  basso  stalo  :  quindi  nessun  signore 
pensò  seriamente  a  ristorarlo  de'snoi  danni.  Non  v'ha  cosa  che 
consumi  sé  stessa  presso  i  potenti  quanto  la  liberalità.  Tanto 
poi  il  condursi  heue  nelle  case  de'grandi  è  più  difQcile,  quanto 
più  abbiasi  ragionevolmente  di  sé  stesso  buona  opinione.  E 
Dante,  di  nobile  schiatta,  avea  singolarmente  in  odio  quo'  che, 
sortito  avendo  oscuri  natali ,  si  erano  fatti  potenti  colla  forza 
e  coir  astuzia.  Nello  aderirsi  or  alP  uno  or  air  altro  di  quei 
signori,  chiamava  sempre  in  soccorso  d'Italia  un  sommo  im- 
perante. 

Aveva  Arrigo  fatto  invitare  nel  1310  i  Fiorentini  a  prestargli 
omaggio  a  Losanna  negli  Svizzeri.  Dante,  per  colà  avviato,  ebbe 
un  abboccamento  con  quel  frate  Ilario  monaco  del  convento  di 
Corvo  alle  foci  della  Macra ,  che  poi  dedicò  la  cantica  dell'  In- 
ferno a  messere  Uguccione  della  Faggiuola  vicario  imperiale  in 
Genova,  e  che  scrisse  la  relazione  di  quell'abboccamento.  Era 
egli  probabilmente  incamminato  per  quelle  parti  quando  scrivea: 

«  Tra  Lerici  e  Turbia.  la  più  diserta, 
La  più  romita  via  è  una  scala, 
Verso  di  quella,  agevole  ed  aperta  », 

scontrandosi  Lerici  a'  confini  della  riviera  di  Genova  da  levante, 
vicino  al  castello  di  Vezzano,  e  Turbia  da  ponente  presso  a 
Monaco.  Argomentatosi  anzi  che  fino  dal  1308  si  recasse  a  tal 


—  i47  — 

ìaapo  in  Germania  ed  ìtì  scrìvendo  si  stesse  il  XXIII  canto  del- 
rinfernc' per  aver  egli  indicata  l'Italia,  come  da  lai  lontana, 
eon  qoel  verso 

t  Del  bel  paese  là  dove  il  si  suona.  • 

Per  essere  poi  al  fatto  di  ciò  che  avveniva,  venne  Dante  in  To- 
scaneila,  piccola  città  del  Patrimonio  dì  s.  Pietro,  di  dove  scrìsse 
ai  perversi  nemici  snoi  una  lettera  piena  di  acerbi  detti  ;  non 
a  torto  irritato,  in  veggendo  per  la  riforma  di  Baldo  di  Agn- 
gliene  del  6  settembre  1311  revocati  gli  esuli  con  generosa  am- 
nistia ,  ma  proscritto  novellamente  e  duramente  il  suo  nome. 
Altra  lettera  scriveva  Dante  air  imperatore ,  nella  quale  cosi 
osava  eccitarìo:  <  Come  tu,  successore  di  Cesare  e  di  Augusto, 
passando  i  gioghi  d' Apennino ,  gli  onorevoli  segni  romani  di 
monte  Tarpeo  recasti,  al  postutto  i  sospiri  sostarono  e  le  lagrime 
mancarono  :  e  siccome  il  sole  molto  desiderato  levandosi,  cosi  la 
noova  speranza  di  miglior  secolo  a  Italia  risplendè.  Allora  molti 
tegnendo  innanzi  a  lor  desideri! ,  in  gioia  con  Virgilio ,  cosi  1 
regni  di  Saturno,  come  la  vergine ,  ritornando  cantavano .... 
Ha  cbe  con  si  tarda  pigrezza  dimori ,  noi  ci  meravigliamo , 
quando,  già  molto,  tu  vincitore  nella  valle  .del  Po  dimori  non 
lungi.  Toscana  abbandoni ,  lascila  e  dimentichila ....  Tu  cosi 
Tornando  come  tardando  a  Milano  dimori  e  pensi  spegnere  per 
lo  tagliamento  de'  capi  la  velenosissima  idra  ?  Ma  se  tu  ti 
ricordassi  le  cose  magniQche  fatte  gloriosamente  da  Alcide, 
conosceresti  che  tu  se*  cosi  ingannato  come  colui  al  quale  il 
pestilenzioso  animale  ripollando  con  teste  per  danno  cresceva 
ioAno  a  tanto  che  quello  magnanimo  istantaneamente  tagliò  il 
capo  della  vita  ... .  Che,  o  principe  solo  del  mondo,  annunzierai 
tu  aver  fatto  ?  quando  avrai  piegato  il  collo  della  contumace 
Cremona ,  non  si  volgerà  la  subita  rabbia  o  in  Brescia  o  in 
Pavia?  Si,  farà  certo:  la  quale  altresì,  qpando  ella  sarà  stata 
flagellata,  incontanente  un^altra  rabbia  si  rivolgerà  o  in  Ver- 
celli e  in  Bergamo  o  altrove  ;  ed  inflnattanto  andrà  facendo  cosi 
che  sia  tolta  via  la  ^radichevole  cagione  di  quel  pizzicore  e 
divelta  la  radice  di  tanto  errore.  Col  tronco  i  pungenti  rami 
inaridiscono.  Signore,  tu  eccellentissimo  principe  de'principi  sei 
e  non  comprendi  nello  sguardo  della  somma  altezza  ove  la 
volpicella  di  questo  puzzo,  sicura  da* cacciatori ,  si  giaccia.  In 
verità  non  nel  corrente  Po  né  nel  tuo  Tevere  questa  frodolente 


ghìbelliDi  faorosciti  della  Toscana,  e  Dante  era  già  fra  i  primi 
del  suo  supremo  consiglio  e  scriveva  forse  il  suo  trattato  DeUa 
monarchia,  che  poscia  dedicò  ai  bavaro  Lodovico.  Arrigo  passò 
pel  distretto  dei  Perugini,  lasciando  vive  orme  di  ostilità,  giunse 
bene  accolto  ad  Arezzo,  invadendo  quindi  il  territorio  dei  Fio- 
rentini, prese  monte  Yarctii,  San  Giovanni  e  Figline,  e  mise  a 
sacco  e  fuoco  il  contado.  La  Signoria  di  Firenze  fece  partire 
1800  lance  ed  un  grosso  corpo  di  pedoni  pel  castello  d'Ancisa, 
posto  suir  Arno  a  quindici  miglia  da  Firenze.  L' imperatore  » 
diretto  dai  ghibellini ,  girò  intorno  al  castello  per  una  strada 
che  attraversa  le  montagne  e  venne  ad  accamparsi  tra  TAncisa 
e  Firenze,  e  precisamente  nei  piano  delFAncisa  suirisola  d'Ama 
che  si  chiama  il  Mezzule;  ma  intanto  Tesercito  fiorentino,  avan- 
zandosi di  notte  per  strade  sviate,  potè  rientrare  in  città.  II 
giorno  19  settembre  1312  V  imperatore  passò  TArno  ove  in 
esso  fiume  entra  la  Melsola ,  pose  il  suo  quartiere  generale  a 
San  Casciano  castello  propinquo  a  Firenze,  a  otto  miglia,  iodi 
attendessi  con  mille  cavalieri  alia  badia  a  San  Salvi,  un  miglio 
appena  distante  da  detta  città ,  e  dimorò  a  queir  assedio  fino 
air  ultimo  d' ottobre  senza  dare  battaglia.  Firenze ,  ansi  che 
lasciarsi  intimidire,  ardiva  sfidare  la  potenza  di  lui,  méntre  pur 
trovavasi  accampato  alle  sue  porte.  Col  nuovo  anno  aveva  egli 
lasciata  quella  città:  andò  il  6  gennaio  del  1313  a  stabilirsi  a 
Poggibonzi  sulla  strada  di  Siena ,  ove  fabbricò  un  castello  da 
lui  nominato  imperiale;  ma  il  6  marzo  avviossi  verso  Pisa.  Papa 
Clemente  V  gli  facea  sorda  guerra.  Arrigo  volse  l'esercito  a'danni 
di  Roberto,  il  quale,  proclamato  rettore,  governatore,  protettore 
e  sotto  diverse  condizioni  signore  della  Repubblica  fiorentina, 
le  avea  già  mandalo  a  soccorso  neirantecedente  anno  don  Luigi 
di  Raona  con  cento  cavalieri.  Enrico  avea  contratta  alleanza 
con  Federico  re  di  Sicilia;  questi  armò  cinquanta  galere,  sbarcò 
mille  cavalieri  in  Calabria ,  s' impadronì  di  Reggio  e  d' alcune 
altre  città.  L'imperatore  il  5  agosto  del  1313  s'avviava  contro 
Napoli  con  duemilacinquecento  cavalieri  d'Àlemagna,  con  altri 
millecinquecento  italiani  e  con  proporzionato  numero  di  pedoni. 
Potenti  giungevano  i  rinforzi,  quando  Enrico  cadde  infermo  a 
Buonconvenlo,  castello  dei  Sanesi  dodici  miglia  al  di  là  di  Siena; 
il  giorno  24  agosto  del  1313  si  avverò  la  dolorosa  predizione 
del  vate. 

Il  cavaliere  Ranieri  del  già  messere  Zaccaria  da  Orvieto,  vi- 
cario del  re  Roberto  di  Napoli  in  Firenze,  riconfermò  la  con- 


—  151  — 

danna  di  Dante  del  10  mai^o  1302  con  nuova  sentenza  nelPot* 
tobre  del  131K.  I/abate  Mehos  attesta  di  aver  veduto  pur  con- 
fermato r  esilio  di  Dante  nelle  riformazioni  fatte  nel  1317  da 
un  Hubaldo  d'Aguglione  giurista.  Forse  il  re  Roberto  volle  no- 
vellamente dannato  rAlighieri  avendo  risaputo  essere  stato  da 
lui  chiamate  re  da  sermone ,  o  più  veramente  perchè  il  poeta 
soldato  gli  fosse  formidabile  nemico  nella  battaglia  sulla  Nie- 
vole,  nella  quale  perirono  Pietro  d'Angiò,  Carlo  di  Taranto  e  i 
principali  dei  guelfi. 

Oderìsi,  parlando  a  Dante  di  Provenzano  Salvani,  dicea: 

«  E  li,  per  trar  l'amico  suo  di  pena, 
Che  sostenea  nella  prigion  di  Carlo, 
Si  condusse  a  tremar  per  ogni  vena.  > 

Significava  cosi  lo  stato  d'uomo  gentile  stretto  da  crudele  ne- 
cessità a  mendicare.  Indi  gli  soggiungeva:  —  So  che  parlo  oscu- 
ramente: ma  passerà  poco  tempo  che  i  tuoi  cittadini,  privandoti 
di  tutti  i  tuoi  averi  ed  esiliandoti  dalla  patria,  ti  obbligheranno 
a  tremare  per  accattarti  del  pane:  onde,  dairesperieuza  ammae- 
strato, capirai  che  significhino  questi  termini.  —  E  già  a  tale 
era  Dante  ridotto  mentre  scrivea  queste  cose,  e  probabilmente  le 
scrìvea  scorsi  due  lustri  dall'epoca  del  suo  esilio. 

Prima  di  varcare  il  Tagliamento ,  Dante  abitò  nella  Marca 
al  Foro  Giulio  contigua.  Caduto  Dante  nello  sfavore  di  Cane , 
si  volse  a  Gherardo  da  Camino  signore  di  Tre?igi,  indi  si  tras- 
feri a  Udine  e  vi  passò  l'intero  anno  1317.  Ma  perchè  nel  1318 
dalFAdige  al  Tagliamento  crudelissima  ardeva  la  guerra,  essen- 
dosi nel  dicembre  eletto  Cane  della  Scala  a  capitano  della  lega 
ghibellina,  si  trasferi  a  Gubbio,  fedele  municipio  dei  Romani  nei 
vecchi  tempi,  e  nei  mezzani  rinomata  repubblica.  Aveva  egli 
contratta  grande  amicizia  in  Arezzo  con  Bosone  dei  Rafaelli  di 
Gubbio  allorché  questi,  cacciato  della  patria  dall'armi  del  cardinal 
Napoleone  degli  Orsini  con  Federico  da  Montefeltro  e  con  molti 
ghibellini,  riparar  dovette  all'asilo  aperto  alla  sua  fazione  in 
quella  città.  Dante  in  Gubbio  fu  accolto  dall'amico  prima  nel- 
l'abitazione posta  nel  quartiere  di  Sant'Andrea  ed  indi  nel  ca- 
stello di  Colmollaro,  situato  nel  contado  Gubbino  sopra  il  fiume 
Saonda,  lungi  sei  miglia  in  circa  dalla  città.  Questo  Bosone  dei 
Rafaelli  era  figlio  di  Bosone  di  Guido  d'Alberico,  era  nato  circa 
il  1280  e  visse  lunghi  anni  dopo  la  morte  di  Dante.  Avendo 


—  ini  - 

Bosone  affidata  a  lui  Teducazione  dè'suoi  figlinoli,  uno  di  questi 
chiamato  Bosoue  Ungaro  Rafaelli  e  per  abbaglio  d'ammaouen^ 
scritto  pur  Caffarelli,  diedesi  sotto  la  sua  istruzione  allo  studio 
della  lingua  greca,  e  Dante  se  ne  rallegrò  col  genitore  per  via 
d'un  sonetto.  Messer  Bosone  pianse  poi  la  morte  di  Dante  poe* 
ticamente  ed  illustrò  in  varie  guise  il  poema  sacro.  Gredesi  di 
Bosone  Novello  di  lui  figlio  un  capitolo  in  terza  rima  che  con- 
tiene un  epitome  del  poema  di  Dante  e  che  trovasi  unito  alPal- 
tro  capitolo  attribuito  a  Iacopo  figliuolo  di  Dante.  Bosone  No- 
vello nel  1337  fu  creato  senatore  in  Roma,  in  compagnia  di 
Giacomo  di  Gante  de'Gabrielli,  parimente  di  Gubbio.  Gosi  vidersi 
sedere  sulla  stessa  panca  in  Campidoglio  il'  figlio  di  quello  che 
avea  esiliato  il  poeta  e  11  figlio  di  quello  che  avealo  pietosa- 
mente accolto  ed  alimentato.  Sebastiano  da  Gubbio,  nella  sua 
opera  intitolata  Teleutelogio,  lib.  HI,  cap.  3,  cosi  a  Bosone  Un- 
garo scrivea:  Dantem  Alagherii,  vestri  temporis  poetam  fio- 
rentinum  civern,  tuce  a  teneris  annis  adolescentice  pceceptorem. 
Molli  leggendo  sul  muro  della  casa  dei  conti  Falcucci  V  iscri- 
zione Hic  mansit  Dantes  Ale^herins  poeta  et  carmina  scripsit, 
vollero  averne  antica  irrefragabile  testimonianza  che  ivi  facesse 
il  gran  vate  queta  e  lunga  dimora  ;  ma  la  critica  riconobbe 
quella  iscrizione  del  secolo  decimosesto. 

Tra  le  anime  degli  orgogliosi,  il  cui  supplizio  in  Purgatorio 
si  è  di  camminare  talmente  curvati  sotto  enormi  pesi  che  ap- 
pena conservano  V  umana  forma,  riconosce  Dante  quella  del 
miniatore  Oderisi  da  Gubbio.  Quest'Oderisi  fu  nel  1298  da  Bo- 
nifazio Vili  chiamato  a  Roma  con  Giotto  ed  impiegato  a  miniar 
libri.  Forse  cominciava  allora  l'arte  di  miniare  i  corali,  tanto 
felicemente  coltivata  poi  da  frate  Lorenzo  degli  Angeli  fioren- 
tino e  dai  frati  camaldolesi  suoi  discepoli,  la  quale  distingue- 
vasi  in  rappresentare  compartimenti  minuti,  a  guisa  degli  an- 
tichi pavimenti  a  mosaico  o  di  lavoro,  come  dicono,  tassellato 
e  vermicolato.  Dante  avea  contratta  con  Oderisi  amicizia  in 
Bologna  e  seco  forse  condusse  in  Gubbio  questi  ultimi  suoi 
giorni.  Da  lui  si  fa  dare  il  titolo  di  fratello,  probabilmente  per 
farsi  annunciare  suo  condiscepolo  nello  studiar  Tarte  del  disegno. 

t  E  videmi  e  conobbemi  e  chiamava, 
Tenendo  gli  occhi  con  fatica  fisi 
À  me  che  tutto  chin  con  loro  andava. 

Oh,  diss'io  lui,  non  se'  tu  Oderisi, 
L'onor  d'Agobbio  e  Tonor  di  queirarle 
Ch'alluminare  è  chiamata  in  Parigi  ? 


-  153  — 

Qoesl'Oderìsi  gli  parla  della  nullità  della  fama  procurata  dalle 
belle  arti.  A  seconda  eh'  esse  vannosi  perfezionando,  la  gloria 
degli  artisti  si  va  eclissando;  quegli  che  succede  fa  dimenti- 
care colui  che  lo  precedette.  Chi  oserà  sperare  che  il  suo  nome 
si  conservi  di  qui  a  mille  anni?  e  questi  mille  anni  non  fanno 
la  dorala  d'un  batter  d'occhio  nell'  eternità.  L' anonimo  dà  al 
verso  108  la  seguente  spiegazione:  e  Che  un  batter  d'occhio  a 
comparazione  del  moto  del  zodiaco,  ir  quale  è  il  torto  circuito 
cbe  più  tardi  in  cielo  si  gira,  e  dicesi  che  fa  suo  moto  in  trentasei 
migliaia  d*anni.  » 

Ad  obliare  le  soffèrte  calamità  e  l'orgogliosa  commiserazione 
dei  grandi,  vìsse  Dante  ritirato  alcun  tempo  nel  monastero  del- 
l' ordine  camaldolese  di  Santa  Croce  di  Fonte  Avellana  nel- 
l'Umbria, loogo  orrido  e  solitario.  Le  camere  di  quel  monastero 
io  CQÌ  si  crede  che  abitasse  dicpnsi  pure  di  presente  le  camere 
di  Dante.  Sotto  un  busto  di  marmo  rappresentante  il  poeta 
)redesi  un'iscrizione  indicante  la  tradizione  rimasta. 

Ed  ivi  pieno  del  furore  di  gloria,  si  consecrava  agli  studi 
teologici,  e  fàcea  maravigliare  quei  cenobiti  dell'altezza  della 
sua  mente  e  della  profondità  delle  sue  cognizioni;  e  famigliari 
a  lui  essendo  le  opere  di  sant'Agostino,  ne  dispiegava  ai  me- 
desimi i  più  riposti  tesori.  E  si  doveva  sospettare  d'eresia  chi 
tanto  e  si  bene  scrisse  di  teologia  ?  Oh  bassezza  delle  omane 
menti,  che  costringi  uomini  venerandi  per  dignità  d' animo  e 
per  virtù  a  divenire  feroci  ed  ingiusti  ! 

Catria  è  luogo  degli  Abruzzi,  nella  entrata  verso  la  Marca 
d'Ancona;  il  monte  Catria  è  nel  ducato  d'Urbino,  tra  Gubbio  e 
la  Pergola,  quasi  nel  mezzo: 

t  B  fanno  un  gibbo  che  si  chiama  Catria, 
Di  sotto  al  quale  è  consacrato  un  ermo 
Che  suol  esser  disposto  a  sola  latria   • 

Sottoposto  a  quell'alta  parte  degli  Apennini  su  d'altro  monte 
io  seno  ad  una  foresta,  ergevasi  il  monastero  di  Santa  Croce  di 
Fonte  Avellana,  venti  miglia  lungi  da  Gubbio.  Ivi  trovò  alcun 
riposo  all'animo  stanco. 

Dante  visse  un  intero  anno  nel  Friuli  ed  ivi  scrisse  alcuni 
capitoli  del  Paradiso.  Per  più  mesi  abitò  nel  castello  di  Tolmina, 
situato  sul  fiume  Tolomino,  presso  Pagano  Tornano,  allorché 
9iBSti  dal  vescovato  di  Padova  fu  trasferito  al  patriarcato  d'Aqui- 

Tamb.  /flauti.  Voi.  ir.  20 


-  151  — 

leia.  I  montanari  dei  dintorni  di  Tolmina  mostrano  a  dito  rife- 
rentemente anche  ai  giorni  nostri  fra  quelle  alpi  romite  la 
grotta  di  Dante  e  il  sasso  pur  detto  la  sedia  di  Dante,  so  coi 
solingo  sedeva  meditando  e  scrivendo.  Quei  profondi  valloni  raffi- 
gurano qua  e  colà  V  imagine  delle  bolge  dal  divino  pennello 
delineate.  Il  patriarcato  d'Aquileia  era  il  più  ricco  benefizio  io 
Italia  dopo  il  romano  pontificato.  Nella  lotta  dei  patriarchi  coi 
Veneziani,  durata  pel  corso  di  undici  anni,  quel  patriarcato 
avea  perduto  nel  1294  le  giurisdizioni  deiristria,  ma  potè  con- 
servare lungamente  il  ragguardevole  principato  del  Friuli.  Ap- 
pena si  può  credere  che  Dante  sapesse  entrar  tanto  nella  grazia 
del  patriarca  Pagano  della  Torre,  che  si  fiero  nemico  era  dei 
ghibellini.  Nel  1319  trovasi  questo  patriarca  Pagano  alla  testa 
di  quattro  o  cinquemila  soldati  a'danni  di  Lodi;  predicò  in  Bre- 
scia la  crociata  contro  i  Visconti  e  gli  altri  ghibellini,  e  trova- 
vasi  ancora  nel  1323  con  molte  schiere  di  combattenti  in  Lom^ 
bardia,  sotto  gli  ordini  del  cardinale  legato  Bertrando  del  Pog- 
getto.  Ma  le  politiche  opinioni  e  la  debita  osservanza  ai  comanda- 
menti del  pontefice  Giovanni  XXH,  che  dal  vescovato  di  Padova 
avea  promosso  Pagano  al  patriarcato  d' Aquileia,  non  toglieano 
ch'ei  fosse  generoso  protettore  degli  uomini  di  lettere;  e  Dante 
aveva  appunto  mestieri  della  protezione  di  guelfi  potenti,  quali 
si  erano  e  Pagano  della  Torre  e  Guido  di  Polenta ,  a  conse- 
guire una  volta  la  desiderata  corona  d' alloro  per  mano  della 
patria. 

Se  la  beila  descrizione  del  modo  con  cui  si  costruiscono  e 
ristaurano  le  navi  in  Venezia  non  si  trovasse  nella  prima  can- 
tica, si  avrebbe  tutta  ragione  di  avere'  per  fermo  che  Dante  la 
scrivesse  standosene  osservatore  in  quel  grande  arsenale  ;  ma 
ei  non  dovette  trasferirsi  a  Venezia  che  nel  1312. 

«  Quale  nelParzenà  de'Viniziani 

Bolle  l'inverno  la  tenace  pece 

A  rimpalmar  li  legni  lor  non  sani 
Che  navicar  non  ponno;  e'n  quella  vece 

Chi  fa  suo  legno  novo  e  chi  ristoppa 

Le  coste  a  quel  che  più  viaggi  fece  ; 
Chi  ribatte  da  proda  e  chi  da  poppa  ; 

Altri  fa  remi  ed  allibi  volge  sarte  ! 

Chi  terzeruolo  e  antimon  rintoppa.  > 

Il  Sansovino  nella  sua  Venezia,  pag.  *326  deiredizione  ve< 


— 1«  — 

neto  1663  ìo-4,  descrìTendo  il  (mlaiio  ducale,  dice  che  ^pra 
il  Bdgg^  del  prìncipe  nel  salone  del  consìglio  dei  Dieci  e  sotto 
d*iiDa  pittura  rappresentante  il  paradiso,  erano  i  sedenti  quat* 
tro  versi  composti  dairAlighierì  quando  Tenne  ambasciatore  pei 
àgnori  di  Ra?enna: 

«  L'amor  che  mosse  irli  l'eterno  Padre 
Per  flglia  aver  di  sua  deità  trina. 
Costei,  che  fu  del  suo  Figliuol  poi  madre^ 

De  Tuniverso  qui  la  fa  regina.  > 

quella  pittura  stava  situata  per  fianco  alla  sedia  ducale,  prima 
che  il  Guarìento  o  Guarinetto  colorisse  il  suo  paradiso  nel  136S 
in  testa  della  sala,  e  quei  versi  furono  levali  quando  si  ordinò 
la  sala  del  maggior  consìglio.  Il  paradiso  poi  del  Guariento  fu 
nel  1828  rifatto  dal  Tìntorelto. 

Guido  da  Polenta  inviò  Dante  ambasciatore  al  dogo  di  Ve- 
nezia Marino  Giorgi,  succeduto  a  quel  Pier  Gradenigo  che 
primo  nel  1288  con  uno  statuto  fece  conferire  ad  un  determU 
nato  numero  di  famiglie  a  perpetuità  la  sovrana  amministra* 
rione  dello  Stato,  ad  esclusione  di  tutte  le  altre,  la  qual  epoca 
fu  nominata  U  serrar  del  consiglio.  Il  doge  Pietro  Gradenigo 
terminò  i  suoi  giorni  nei  1311,  e  nel  giorno  22  dell'agosto  di 
detto  anno  gli  fu  surrogato  nella  dignità  Marino  Giorgi,  che 
per  vecchiezza  non  tenne  quel  governo  più  di  dieci  mesi. 
Avendo  Dante  scritto  da  Venezia  nel  marzo  dei  1313  una  sua 
lunga  lettera  al  detto  Guido  da  Polenta,  è  a  supporsi  che 
risiedesse  in  quella  capitale  forse  un  intero  anno.  11  Tiraboachl 
asserisce  che  Dante  in  quella  lettera  parla  con  insoffribile  dl< 
sprezzo  dei  Veneziani:  lo  che  non  è  vero  ;  volse  egli  non  senza 
ragione  contro  quegl'idioti  senatori  le  sue  invettive,  non  già 
contro  la  più  longeva  reina  dell'altissimo  senno.  Si  sbriga  poi 
io  stesso  Tiraboschi  col  farne  sapere  che  il  canonico  Biscioni^ 
il  doge  Foscarìni  ed  il  padre  degli  Agostini  provarono  già  e  Tarn- 
basciata  e  la  lettera  mera  impostura  del  Doni.  Giovi  intendere 
letteralmente  come  di  ciò  parli  il  detto  Marco  Foscarìni  nel 
Hbro  terzo  della  sua  Letteratura  veneziana.  Non  ci  sovviene 
d'opera  in  cui  appaiano  descritti  nomi  di  letterati  per  onorarli 
anteriore  a  quella  che  deriva  da  scrittore  anonimo  di  nostra 
pina  Dettò  costui  alla  metà  del  milletrecento  un  poemetto 
volgare,  dove  introduce  Dante  ebe  gli  addita  in  visione  alquanti 


—  156  — 

celebri  veneziani  di  quel  secolo  e  dei  seguente.  Ma  vi  mette 
innanzi  solamente  i  verseggiatori»  e  benché  dica  di  non  volerli 
addurre  tatti,  e  pareccUi  infatti  ne  lasci,  pure  ne  annovera  beo 
venti  cominciando  da  Giovanni  QuiriDl,  Tarnico  di  Dante,  e  ter- 
minando in  UD  fratello  suo  proprio.  (Non  dettava  dunque  alia 
metà  del  trecento,  se  quelli  pur  comprendeva  del  quattrocento). 
S'impara  da  ciò,  non  meno  che  dalle  cose  sin  qui  notate  circa 
i  nostri  antichi  letterati,  quanto  Dante  Alighieri  si  allontanasse 
dal  vero  in  certa  lettera,  se  pare  è  di  lui,  scritta  a  Guido  da 
Polenta;  nella  quale  ragiona  in  guisa  di  questa  città  quasi  nep- 
pure il  nome  fosse  ancora  qui  penetrato  dell'idioma  latino.  La 
qual  ridicola  impostura,  piuttosto  che  macchiare  la  riputazione 
d^li  avoli  nostri,  ci  dinota  come  le  umane  passioni  sieno  atte 
a  far  travedere  gli  uomini  più  sapienti.  Mentre  se  Tepistola 
suddetta  è  veramente  di  Dante,  non  si  può  imaginare  altro  se 
non  che  ve  lo  inducesse  l'affetto  sfrenato  ch'egli  avea  alla  parte 
ghibellina  e  lo  scorgere  come  i  Veneziani  in  quei  giorni,  quan- 
tunque molestati  dalle  censure  ecclesiastiche,  voleano  aderire 
al  papa.  Appunto  nel  1313  i  Veneziani,  i  quali  per  la  occupa- 
zione di  Ferrara  erano  ancora  annodati  dalle  censure,  compe- 
rarono l'assoluzione  da  Clemente  V  residente  in  Avignone  al 
prezzo  di  centomila  fiorini  d'oro  ;  e  in  quel  medesimo  anno  il 
re  Roberto  a  f(H*za  di  danaro  ottenne  il  dominio  di  Ferrara.  Il 
Foscarini  al  luogo  citato  soggiunge  con  una  nota  :  e  Questa 
lettera  sta  nelle  prose  di  Dante,  Petrarca  e  Boccaccio,  date  fuori 
dal  Doni  ;  ma  ognuno  sa  che  il  Doni  fu  scrittore  fantastico. 
Finse  librerie,  accademie  che  non  furono  mai,  e  dettava  ciò  che 
gli  veniva  alla  bócca  per  guadagnarsi  il  pane.  Senza  di  che 
Dante  nella  mentovata  lettera  si  allega  come  di  Virgilio   quel 
detto:  Minuit  prcesentia  famam^  che  è  di  Glaudiano.  Eppure,  se 
i  versi  di  nessun  poeta  doveano  essergli  noti,  lo  doveano  essere 
quelli  di  Virgilio,  a  cui  assegnò  le  parti  principali  nella   sua 
Commedia,  avendolo  egli  scelto  per  guida  dei  suo  poetico  viag- 
gio. >  Checché  sia  di  questi  argomenti,  ecco  la  lettera. 

Al  magnifico  m.  Guido  da  Polenta  signor  di  Ravenna. 

e  Ogni  altra  cosa  m'avrei  piuttosto  creduto  vedere  che  quello 
che  corporalmente  ho  trovato  e  veduto  delle  qualità  di  questo 
eccelso  dominio.  Minuit  prcesentia  famam,  acciocché  io  mi  vaglia 
di  quel  passo  di  Virgilio.  Io  m'aveva  fra  me  medesimo  imagi- 


—  !57  — 

Dato  di  dovere  trovar  qui  qaei  nobili  e  magnaDimi  Catoni  e 
qum  rigidi  censori  de'depravati  costami,  insomma  tatto  quello 
ch'essi,  con  abito  pomposissimo  simulando,  vogliono  dar  ere* 
dere  alla  Italia  misera  ed  afflitta  di  rappresentare  in  sé  stessi* 
E  forse  che  non  si  fanno  chiamare  Rerum  dominos,  Gentenique 
togatamf  Misera  veramente  e  mal  condotta  plebe,  da  che  tanto 
insolentemente  oppressa,  tanto  vilmente  signoreggiata  e   tanto 
crudelmente  vessata  sei  da  questi  uomini  nuovi,  destrultori 
delle  leggi  antiche  ed  autori  d'ingiustissime  corruttele!  Ma  che 
vi  dirò  io,  signore,  della  ottusa  e  bestiale  ignoranza  di    cosi 
gravi  e  venerabili  padri?  Io,  per  non  defraudare  cosi  la  gran- 
dezza vostra,  come  Tautorilà  mia,  giugnendo  alla  presenza  di  si 
canuto  e  maturo  collegio,  volsi  fare  Tufficio  e  l'ambasciata  vostra 
in  quella  lingua  la  quale  insieme  con  T  imperio  della  bella 
Ausonia  è  tuttavia  andata  ed  andrà   sempre  declinando;  cre- 
dendo forse  ritrovarla  in  questo  estremo  angolo  sedere  in  mae- 
stà sua,  per  andarsi  poi  divulgando  insieme  con  lo  stato  loro 
per  tutta  Europa  almeno.  Ma  oimè!  che  non  altramente  giunsi 
nuovo  ed  incognito  pellegrino  che  se  testé  fossi  giunti  dair  e* 
strema   ed  occidentale  Tile;  anzi  poteva  io  assai  meglio  qui 
ritrovare  interprete  allo  straniero  idioma ,  s'io  fossi  venuto  dai 
hvolosi  antipodi ,  che  non  fui  ascoltato  con  la  facondia  roma- 
na in  bocca:  perché  non  si  tosto  pronunciai  parte  deir  esordio 
chMo  m'avea  fatto  a  rallegrarmi  in  nome  vostro  della  novella 
eledone  di  questo  serenissimo  doge:  Liix  orta  est  insto,  et  re- 
ctis  corde  Icetitia ,  che  mi  fu  mandato  a  dire  o  ch'io  cercassi 
d'alcuno  interprete  o  che  mutassi  favella.  Cosi,  mezzo  fra  stor- 
dito e  sdegnato,  né  so  qual  più ,  cominciai  alcune  poche  cose 
s  dire  in  quella  lingua  che  portai  meco  dalle  fasce,  la  quale  fu 
loro  poco  più  familiare  e  domestica  che  la  latina  si  fosse.  Onde 
in  cambio  d'apportare  loro  allegrezza  e  diletto^  seminai  nel  fer- 
tilissimo campo  dell'ignoranza  di  quelli  abbondantissimo  seme 
di  maraviglia  e  di  confusione.  E  non  é  da  maravigliarsi  punto 
the  essi  il  parlare  italiano  non  intendano;  perché,  da  progeni- 
tori dalmati  e  greci  discesi,  in  questo  gentilissimo  terreno  altro 
recato  non  hanno  che  pessimi  e  vituperosissimi  costumi  insie- 
0)0  con  il  fongo  d'ogni  sfrenata  lascivia.  Perché  m'é  paruto  darvi 
qneslo  breve  avviso  della  legazione  che  per  vostra  parte  ho  ese- 
gotta;  pregandovi  che,  quantunque  ogni  autorità  di  comandar- 
mi abbiate,  a  simili  imprese  più  non  vi  piaccia  mandarmi,  delle 
Qnali  né  voi  riputazione  né  io  per  alcun  tempo  consolazione 


—  158  — 

alcuna  spero.  Fermeromcni  qui  pochi  giorni  per  pascer  gli  occhi 
corporali,  naturalmente  ingordi  della  novità  e  vaghezza  di  questo 
sito,  e  poi  mi  trasferirò  al  dolcissimo  porto  dell'ozio  mio,  tanto 
benignamente  abbracciato  dalla  reale  cortesia  vostra. 

Di  Vinegia,  alli  XXX  di  mano  MCCCXIII. 

L*amil  servo  rostro 

Dante  Alighibri  fiorentino.  > 

Egli  è  ben  vero  che  i  versi  di  Virgilio  erano  tanto  noti  a 
Dante  da  non  poter  essere  per  lui  scambiati  d'una  parola  con 
que'di  Claudiano.  A  lui  diceva  lo  stesso  Virgilio: 

t  Euripilo  ebbe  a  nome  e  cosi  '1  canta 
L'alta  mia  tragedia  in  alcun  loco; 
Ben  lo  sai  tu,  che  la  sai  tutta  quanta.  > 

Ma  doveva  pur  Dante  sapere  non  meno  quale  si  fosse  il 
miglior  propugnatore  di  Troia,  colui  in  cui  riponevano  più  di 
fidanza  i  Troiani.  Gionullameno  nelContPt^o,  altratt.  IlI,.capo2, 
si  legge:  «  Siccome  fa  Vergi lio  nel  secondo  della  Eneide,  che 
chiama  Enea:  0  luce  (che  era  atto)  e  speranza  delli  Troiani  (ch'è 
passione);  che  né  era  esso  luce  né  speranza,  ma  era  termine  in 
che  si  riposava  tutta  la  speranza  della  loro  salute.  »  Non  per 
questo  vorrassi  negare  che  il  Convito  sia  opera  di  Dante:  sola- 
mente, in  vedendo  che, è  chiamato  luce  e  speranza  delli  Troiani 
Enea  invece  di  Ettore,  sarà  dubbio  cui  debbasi  imputarne  la 
menda^  se  a  Dante  per  trascorso  di  penna  o  ai  copisti.  Anche 
neirinferno  canto  XVIII,  v.  133,  la  cosa  sta  altrimenti  da  quello 
che  dice  Dante;  il  quale,  fidatosi  alla  sua  memoria,  non  cre- 
dette dover  leggere  il  passo  in  Terenzio.  ìieW Eunuco  3 ,  i ,  di 
Terenzio,  il  parassito  Gnatone  parla  con  Trasone  soldato  circa 
il  dono  d'una  fanciulla  che  questi  a  Taide  aveva  per  lui  man- 
dato. Trasone  interroga  Gnatone  se  sia  vero  che  Taide  l'abbia 
gradito  e  gliene  mandi  grazie  grandi  :  e  Gnatone  risponde  che, 
non  pur  grandi,  ma  infinite,  all'uso  de' parassiti,  che  sempre 
parlano  ai  versi  altrui.  Virgilio  stesso  dice  a  Dante  che  è  nato 
lombardo.  Viene  perciò  accusato  dello  aver  chiamato  Lombardia 
una  contrada  che  allora  non  aveva  un  tal  nome.  Anche  Igino 
appresso  Gelilo  riprende  lo  stesso  Virgilio  dello  avere  un  non 
so  qiial  porlo  della  Lucania  chiamato  col  nome  di  Velino  sta- 
togli imposto  cento  anni  dopo  l'epoca  a  cui  si  riferiva  lo  stesso 
Virgilio. 


—  159  - 

Dante  abitò  ancora  per  Inngo  tempo  nella  valle  Lagarina 
o  nella  villa  di  Marco.  Vuoisi  che  a  lui  fosse  ospite  amico  Gu- 
giielmo  conte  dì  Castelbarco.  È   anzi  rimasta  tradizione  che 
avesse  in  proprietà  una -casa  in  Garagnago  dì  vai  Pulicelia» 
posseduta  poi  lungamente  da' suoi  discendenti.  Neirinf.  e.  XX, 
V.  65,  vedesi  menzione  del  lago  di  Garda,  del  Pennino,  di  vai 
di  Monica,  dell'Alpi  trentine  e  del  Tirolo.  Nel  e.  XII  vuoisi  pa- 
ragonata la  scesa  d'un  burraio  ad  un  vasta  congerie  di  grandi 
macigni  che  vedesi  presso  il  villaggio  Marco ,  sotto  Lizzana , 
qd'  ora    vicino  di  Rovereto ,  chiamata  da'  paesani  Slavìno  di 
Marco,  rimasta  per  la  caduta  d'un  gran  monte  seguita   proba- 
bilmente l'anno  883.  Da  altri  vuoisi  che  Dante  ivi  parli  invece 
della  rovina  che  si  trova  di  là  da  Rovereto,  due  miglia  e  mezzo 
ìd  circa,  detta   da' paesani  il  Cengio  rosso  e  dov'è  ora  il  ca- 
stello della  Pietra;  perchè  il  Cengio  è  un  monte  altissimo, 
parte  di  cui  è  rinnovata  e  parte  resta  ancora,  come  appunto 
pare  che  Dante  supponga.  Frattanto  si  ha  da  ciò  che,  dovunque 
esalando  peregrinasse,  intendeva  pur  sempre  assiduo  alla  grande 
opera. 

Se  si  presti  ascolto  a  Domenico  Aretino,  Dante  rimase  per 
più  anni  nel  Casentino  presso  que' conti,  indi  per  quattro  anni 
continui  dimorò  in  Verona,  e  finalmente  si  trasferi  pel   breve 
resto  de' suoi  giorni  a  Ravenna.  Guido  Novello  de'  Polcntani, 
sgnore  di  Ravenna,  Ietto  aveva  per  avventura  nell'Inf.  e.  Y, 
y.  73 ,  r  amore  e  la  pena  della  sua  zia  Francesca,  ed  aveva  di 
che  sperarla  compianta  perpetuamente  per  la  tanta  pielà  di  quel 
racconto.  Sommamente  ne'  liberali  studi  ammaestrato  qual'era, 
al  saggio  dire  degl'  interpreti   del  Costa,  il  rimeritare  e  l'ono- 
rare i  sapienti  stimava  principal  parte  di  giustizia.  Mandò  quindi 
lettere  e  messi  a  Dante  offerendogli  ospizio  ed  amicizia  ;  e  lo 
accolse  di  fatti  e  lo  animò  con  assai  piacevoli  conforti.  Quel 
Genovese  che  andò  a  Ravenna  per  aversi  dallo  Alighieri   un! 
consiglio,  se  sia  vero  ciò  che  narra  il  Sacchetti  nell'ottava  delle 
sue  novelle,  il  conobbe  cosi  che  più  di  stette  in  casa  sua,  pi- 
gliando grandissima  dimestichezza  per  tutto  il  tempo  che  vis- 
sero insieme.  Dunque  Dante  ebbe  in  Ravenna  una   casa  ove 
potere  accogliere  un  ospite  ;  dunque  visse  più  che  >un   anno 
io  Ravenna;  dunque  concedeva  anche  vecchio  che  altri  entrasse 
seco  in  familiarità.  Già  ne  pare  vederlo  entrare  talvolta  ne' re- 
cessi di  quella  pineta  e,  al  trarre  di  scirocco,  descrivere  lo 
sbattimento  de*  rami  ed  il  remore  delle  piante.  Potè  cosi  sotto 


—  160—' 

la  protezione  del  grazioso  signore  ivi  farsi  più  scolari  in  poesia 
e  più  amici  ;  fra  quali  si  dislinse  un  ser  Pielro  di  messer  Giar- 
dino, divenuto  poscia  familiare  al  Boccaccio. 

Nella  Qne  del  1319  Dante  si  trasferi  di  nuòvo  n  Verona 
per  rivedere  i  suoi  figliuoli,  ivi  fermatisi  fino  da  quando  s'era 
egli  ricoverato  in  corte  degli  Scaligeri.  Tenne  allora  Dante  io 
quella  ctiiesa  di  Sanl'Elena  una  disputazione  o  conclusione  filo- 
sofica sopra  i  due  elementi,  acqua  e  terra ,  se  pur  non  è  una 
impostura  un  libretto  stampato  in  Venezia  nel  1508 ,  che  ha 
questo  tìtolo:  Qucestio  florulenta  oc  perutilis  de  duobus  elemen- 
tis  aquce  et  terr(B  tractans,  nuper  reperta;  qiue  olim  Manlum 
auspicata ,  Veronce  vero  disputata  et  decisa  oc  manu  propria 
scripta  a  Dante  fiorentino,  poeta  clarissimo^  quce  diligenter  et 
accurate  correcta  fuit  per  rev.  magistrum  loan.  Benediclum 
Moncettum  de  Castilioi/ie  aretino,  regerUem  patavinum,  ordina 
eremitarum  divi  Augustini  sacrceque  theologice  doctorem  excel- 
lentissimum.  Dante  avea  probabilmente  perduta  la  grazia  di  Cane 
quando,  dedicandogli  la  cantica  del  Paradiso,  cosi  gii  scrivea  : 
e  Non  ho  trovato  convenirsi  all'eminenza  vostra  la  Commedia 
tutta ,  ma  la  cantica  più  nobile  di  essa ,  onorata  del  titolo  di 
Paradiso;  questa  con  la  presente  epistola,  quasi  sotto  propria 
inscrizione  dedicatevi,  intitolo  a  voi,  a  voi  porgo,  a  voi  racco- 
mando. »  Volle  tuttavia  onorar  Cane  di  tanto  elogio  forse  per- 
chè gli  stava  a  cuore  di  non  avere  avverso  quel  prìncipe,  già 
divenuto  formidabile  e  potentissimo ,  per  opera  del  quale  spe- 
rava di  ritornare  alla  patria  desiderata,  o  più  veramente  per 
lasciare  un  nuovo  monumento  della  sua  gratitudine.  Negli  ul- 
timi anni  della  sua  vita  inviò  egli  a  Firenze  quella  dolorosa 
canzone  in  cui  tante  sentenze  di  sdegno  e  d'amore  rac- 
chiuse ;  ingiungendo  poi  a  que%suoi  versi  che  dentro  la  terra 
per  cui  egli  piange  vadano  arditi  e  fieri ,  appunto  perch$  li 
guida  amore. 

Andando  Dante  per  alcuna  sua  faccenda,  udì  un  fabbro 
che  al  suono  deir  incudine  cantava  scioccamente  una  canzone 
di  lui,  smozzicando  ed  appiccando  i  versi  in  guisa  che  a  Dante 
pareva  ricevere  grandissima  ingiuria.  Onde,  entrato  nella  bot- 
tega, cominciò  a  gettar  per  la  via  le  masserizie  o  i  ferramenti 
di  quel  goffo.  Del  che  maravigliandosi  il  fabbro  e.  dicendogli  : 
—  Fo  Tarte  mia,  e  voi  guastate  i  mìei  ferri,  gettandoli  per  la 
via  ?  —  Al  che  Dante  rispose  :  —  Se  tu  non  vuoi  che  io  guasti 
le  cose  tue,  non  guastare  tu  le  mie.  —  Disse  il  fabbro:  -—Oh 


—  161  — 

ehe  vi  goasr  io?  —  Disse  Danle:  —  Tn  c^nli  il  mio  libro  e 
non  Io  di'  com'  io  lo  feci.  Io  non  ho  altr'  arte;  e  tu  me  la 
guasti.  — 

Un  Genovese,  sparuto,  bene  scienziato ,  domandò  a  Dante 
come  potesse  entrare  in  amore  a  una  beli)  donna  di  Genova, 
la  quale  non  che  l'amasse,  non  mai  gli  occhi  in  verso  lui  teneva, 
e  più  tosto,  fuggendolo,  in  altra  parte  li  volgeà.  Dm  te,  veggendo 
h  sua  sparuta  vista,  disse:  —  Messere,  di  quello  che  al  pre- 
sente mi  domandate  non  ci  veggio  altro  che  un  modo;  e  questo 
è,  che  voi  sapete  che  le  donne  gravide  hanno  sempre  vaghezza 
di  cose  strane.  E  però  converrebbe  che  questa  donna  che  cotanto 
amate  ingravidasse.  Essendo  gravida ,  come  spesso  interviene 
ch'elle  hanno  vizio  di  cose  nuove,  cosi  potrebbe  intervenire 
ctf  ella  avesse  vizio  di  voi  :  e  a  questo  modo  potreste  venire 
ad  eflfetto  del  vostro  appetito.  Per  altra  forma  sarebbe  impos- 
sibile. — 

Dante  tassò  destramente  di  bugiardo  un  tale  che  nel 
desinare,  riscaldato  dal  vino  e  dal  favellare,  sudando  mentiva. 
Venne  questi  in  sentenziare  che  chi  dice  il  vero  non  s'affatici. 
Soggiunse  Dante:  —  Io  mi  meravigliava  bene  del  tuo  sudore.  — 

Dante  domandò  a  un  contadino  che  ora  fosse:  egli  rozza- 
mente rispose  ch'era  ora  d'abbeverare  le  bestie.  Dante  ripigliò: 
—  Tu  che  fai?  — 

Stava  Dante  nella  chiesa  di  Santa  Maria  Novella  appog- 
giato ad  un  altare  tutto  solo,  forse  col  pensiero  vólto  al  poe- 
tare. A  lui  accostatosi  un  ser  sacciuto,  tentò  indarno  più  volte 
di  tirarlo  seco  a  ragionamento.  Dante,  perduta  Analmente  la 
pazienza,  volto  a  quel  cotale  gli  disse  :  --  Avanti  che  io  risponda 
alle  tue  domande ,  vorrei  che  prima  tu  mi  chiarissi  qual  tu 
creda  che  sia  la  maggiore  bestia  del  mondo.  —  A  lui  quegli 
rispose  che  per  l' autorità  di  Plinio  credeva  la  maggior  bestia 
terrestre  essere  l' elefante.  Dante  gli  soggiunse  :  —  0  elefante, 
dunque  non  dar  noia.  —  E,  senz'  altro  dire,  da  lui  si  parti. 

In  Siena,  essendosi  abbattuto  a  trovare  nella  bottega  d'uno 
speziale  un  libro  da  lui  fino  allora  inutilmente  cercato,  appog- 
giato a  un  banco,  si  pose  a  leggerlo  con  tale  attenzione  che 
da  nona  sino  a  vespro  si  stette  ivi  immobile  ,  senza  punto 
avvedersi  dell'immenso  strepito  che  menava  nella  contigua 
strada  uno  accompagnamento  di  nozze  che  di  colà  venne  a 
passare. 

In  Verona ,  passando  egli  davanti  a  una  porta   dove  friù 

Tamb.  Inquit.  Voi.  II.  21 


—  162  — 

donne  sedevano,  una  di  quelle  disse  air  altre:  —  Vedete  voi 
colui  che  va  per  r  inferno  e  torna  quando  a  lui  piace  e  qua 
su  reca  novelle  di  quelli  che  laggiù  sono?  —  A  quella  una  di 
loro  rispose  semplicemente:  —  In  verità  tu  devi  dire  il  vero. 
Non  vedi  tu  com'egli  ha  la  barba  crespa  e  il  color  bruno  per 
lo  caldo  e  per  lo  fumo  che  è  laggiù?  —  Dante,  udite  quelle 
parole,  sorrise  alquanto  e  passò  avanti. 

Essendo  Dante  alla  mensa  di  Cane  della  Scala,  un  fanciullo 
ceiatamente  nicchiato  sotto  le  tavole  raccogliea  in  mucchio 
a'piè  di  Dante  Tossa  tutte  spolpate  e  gittate.  Partito  il  ragazzo 
e  levate  le  tavole,  messer  Cane,  fingendo  le  meraviglie  delle 
tante  ossa  cosi  raccolte,  voltandosi  verso  gli  altri,  —  Per  certo, 
disse,  messer  Dante  è  gran  divoratore  di  carne:  vedete  V  ossa 
eh'  egli  ha  ai  piedi.  —  Dante,  conosciuto  il  giuoco ,  pronta 
diede  questa  risposta  :  —  Signore,  sMo  fossi  Cane,  non  vedresti 
lant'ossa.  — 

Tra  la  turba  degristrioni  e  dell'altre  persone  festevoli  che 
lo  Scaligero  tenea  in  corte  uno  essendone  che  riusciva  a  tutti 
sommamente  caro,  disse  un  giorno,  in  presenza  di  molti  corti- 
giani, Can  grande  a  Dante:  —  Come  sta  egli  mai  che  costui, 
balordo,  melenso,  sia  grato  a  tutti;  e  tu,  reputato  sapiente, 
grato  non  sia  ?  —  Al  che  Dante  subitamente  :  —  Non  è  mara- 
viglia ;  la  somiglianza  e  V  uniformità  dei  costumi  generare 
sogliono  la  grazia  e  l'amore.  —  Se  fu  amara  la  risposta,  era 
ben  anche  impropria  la  dimanda. 

Minacciando  la  Repubblica  di  Venezia  di  muover  guerra  ai 
Polenziani,  quel  Dante  che  tanto  mal  soddisfatto  era  della  sua 
prima  ambasciata  non  ricusò  per  amore  del  suo  Guido  V  di 
sostenere  la  seconda  :  ma,  non  avendo  potuto  vincere  gli  osti- 
nati animi  di  quell'ambizioso  Senato,  lasciata  la  via  del  mare, 
che  per  cagione  deUa  guerra  era  piena  di  pericoli,  ritornò  per 
le  disabitate  e  mal  comode  vie  de' boschi.  L'ultimo  suo  di,  che 
alle  tante  sue  amaritudini  doveva  por  fine ,  lo  aspettava  in 
Ravenna.  Ivi,  sconsolato  del  non  recare  alcun  frutto  di  tale 
sua  imbasciata  in  prò  dell'  amico  e  mecenate  ,  ammalò ,  e  il 
giorno  13  di  settembre  del  1321,  nella  non  colma  età  d'anni  56 
e  mesi  cinque,  rendette  l'affaticato  ed  umiliato  spirilo  al  Crea- 
tore. Ben  è  vero  che 

<  È  felice  colui  che  trova  il  guado 
Di  questo  alpestre  e  rapido  torrente 
-  Ch'ha  nome  vita:  > 


—  163  - 

ma  la  merle  rapiva  il  grand'uoim.  o^i  vigore  della  vita  ;  e  dovette 
veoirgli  per  questo  amaramente  incfesì^Uaq^  q\^^  gp  involava 
inneme  quella  corona  d' alloro  di  cui  sperava  órnaw jj^  fronte 
per  mano  della  pentita  sua  patria  : 

«  Ritornerò  poeta  ed  in  sul  fonie 
Dei  mio  baltesmo  prenderò '1  cappello  *. 

Il  SQO  cadavere,  dice  il  Yandelli,  fu  seppellito  in  Ravenna 
nel  di  14,  in  cai  dalla  Chiesa  si  celebra  V  Esaltazione  della 
santa  Croce^  avanti  la  chiesa  de'frati  minori  di  San  Francesco, 
intitolata  già  col  nome  di  San  Pietro  maggiore  o  di  Basilica 
Petrìana.  Pieno  di  gloria  immortale,  scrive  il  Giovio  negli  Elogi, 
mentre  ch'egli  considerava  la  felicità  iella  patria  celeste,  desi- 
derala con  tanto  affetto  dai  devoti  «»rtaH  e  4i  lui  con  tanto 
ardore  ed  ornato  di  parole,  di  sentenze  e  di  dottrina  cantata, 
prima  ch'egli  avesse  in  capo  o  DeUa  k»rS»  ^^n  pelo  canuto, 
d' nna  grave  infernriità  si  morì ,  eoe  fne»  di  spinto  insino  al 
fine  che  nel  sentirsi  venire  me&o  com^se  sei  versi  da  scri- 
vere sul  suo  sepolcro: 

«  Iar«  aoDarehiae,  superos,  FbMgetonta,  iacusque 
Luffa'amée  «eeHii,  vofuerant  fata  quousque  : 
Sed  quia  pars  cessi t  fliai4oribu<  hotipita  caslris, 
Anetoranqae  suuoa  peint  Meibus  astrls, 
Hic  claudor  Dantes,  patriis  axtorris  ab  oris, 
Qtteoi  geDuit  parvi  Fioreotit  àater  amoris  >. 

La  Bpof^  «irtale  fi  4ii  |Mè  ^qualificati  cittadini  portata 
e  riposta  zvuà  la  porta  detta  éetta  <sbie8a  dei  frati  minori 
in  un'arca  di  mnao.  SefmttM  est  fiwMn^  in  sacra  minorum 
cede,  egregio  ^i^éam  aiuque  eminenti  tumulo,  lapide  quadrato, 
adamussim  amstructo^  oompluribus  insuper  egregiis  carminibus 
inciso  insignitoque.  Ck)8i  scriveva  il  Maoetti  pid  anni  prima  che 
il  Bembo  andasse  a  Ravenna  a  ristorare  queir  arca,  su  cui  già 
eretta  erasi  una  cappella  serrata  da  un  cancello  di  ferro.  Tut- 
tavia tengono  i  piò  che  quel  buon  Guido  V  polenziano,  il  quale 
all'atto  della  tumulazione  parlò  della  sapienza  ,  della  virtù , 
degllofortunii  del  perduto  amico,  facesse  racchiuderne  per  allora 
la  sacra  spoglia  in  un  semplice  deposito ,  pensando  di  sacrar- 
gliene altro  decoroso  meglio  e  magmQco;  lo  che  dato  poi  non 
gii  fesse  per  nuova  colpa  di  fortuna. 


—  164 


Firenze  domandò  le  cen^'-*  ^e*  suo  poela  nel  1429  e  rii 
novo  le  industrie  r^o}  oecolo  XVI,  ma  più  Iarde,  più  ineffica^ 
Qgj^tQSPQo»«i(dUue  anni  dopo  la  morie  di  Danle,  cioè  nei  i4£ 
2H;rnardo  Bembo,  pretore  essendo  di  Ravenna  per  la  Repubbli 
di  Venezia  ,  fece  rifabbricare  quel  sepolcro  in   marmi  gre 


Sepolcro  di  Dante,  in  Ravenna. 


venati  e  di  rosso  antico  a  strisce  bianche:  tra  molti  ornamer 
vi  fece  scolpire  dal  famoso  Pietro  Lombardo  Teffigie  del  poe 
in  basso  rilievo  di  mezza  figura,  in  atto  di  leggere,  con  la  fron 
coronata  d'alloro.  Sopra  b  detta  effigie  in  mezzo  ad  una  ghi 


—  Ì6S  — 

buda  leggevansi  le  parole:  Virtuti  et  kmcri.  Tate  mooomenlo 
fo  restaurato  nel  IG92  per  onlìoe  del  cardioaie  DotoeDìco  Maria 
Corsi  legato  di  RaTenna  e  di  monsignore  Giovanni  SalTìati  vioe<* 
legato»  come  si  ha  dalla  memoria  ivi  esistente  a  mano  sinistra 
della  cappella.  Ultimamente,  cioè  nel  1780»  il  cardinale  Luigi 
Valenti  Gonzaga,  mentr'era  legato  in  Ravenna,  fece  a  sue  siK'se 
innalzare  a  quelle  sacre  ceneri  un  assai  più  magnifico  monu- 
mento, secondo  il  disegno  di  Camillo  Morìgia  illustre  architetto 
raTignano.  U  mausoleo  fu  ridotto  in  forma  di  un  tempietto  di 
[Manta  quadrata,  coperto  di  cupola  emisferica,  ne'cui  pennacchi 
quattro  medaglioni  p  gran  cammei  portano  espressi  allreltanli 
sc^getti  di  nota  benemerenza  e  relazione  con  Dante.  Sono  essi 
Virgilio,  Rronetto  Latini,  Can  Grande  della  Sala  e  Guido  da 
Polenta,  formati  da  Paolo  Gìabani  luganese.  In  quel  sepolcro 
leggesi  la  seguente  iscrizione  del  Morcelli  : 

DANTI  ALIGIUERIO 

.  PO£Ti£  SUI  TEMPOIUS  PRIMO 

RESTITUTORI 

POLITIORIS  HUMANITATIS 

GUIDO  ET  HOSTASIUS  1»0LENTIANI 

CLIENTI  ET  HOSPITI  PEREGRE  DEFUNCTO 

MOJSUMENTUM  FECERUNT 

BERNARDUS  BEMBUS  PRìETOR  VENET.  RAVENNìE 

PRO  MERITIS  EIUS  ORNATU  EXCOLUIT 

ALOYSIUS  VALENTIUS  GONZAGA  CAUDIN. 

LEG.  PROV.  ìEMIL. 

SUPERIORUM  TEMPORUM  NEGLIGENTIA  CORRUPTUM 

OPERIBUS  AMPLIATIS 

MUNIFICENTIA  SUA  RESTITUENDUM 

CURAVIT 

ANNO  MDCGLXXX. 

Giotto,  dipingendo  a  fresco  la  cappella  del  palagio  delio  del 
podestà  in  Firenze,  vi  ritrasse  al  naturale  Dante  Alighieri,  Bru- 
DeUo  Latini  e  Corso  Donati.  Andrea  del  Castagno  Tece  pure  il 
ritratto  di  Dante  nella  casa  de'Carducci,  poi  de'PandoKini.  Di 
due  tavole  rappresentanti  il  poeta  Dante  ed  esìstenti  un  lern|)o 
oel  duomo  di  Firenze  fanno  nyenzione  il  Lami  ed  il  Salvini.  Ai 
tempi  di  Leonardo  Aretino  mìravasi  Tefligie  del  nostro  poeta 
qoasi  nel  mezzo  della  chiesa  di  Santa  Croce  a  mano  manca, 
andando  verso  V  aitar  maggiore,  ritratta  al  naturale.  Il  Ibridino 
attesta  che  de'suoi  di  l'effigie  di  Dante  reslava  ancora  di  mano 


—  166  — 

di  Giotto  in  Santa  Gnoce  e  nella  cappella  del  podestà.  Don  Lo- 
renzo monaco  camaldolese,  pittore  della  scuote  di  Taddeo  Caddi, 
fece  il  ritratto  di  Dante  e  del  Petrarca  nella  cappella  degli  Ar- 
dingbelli,  nella  chiesa  della  Trinità  di  Firenze  circa  Tanno  4370. 
Il  gran  Raffaello  nella  celebre  opera  a  fresco  delle  camere  vati- 
cane chiamata  la  Disputa  del  Sacramento,  ove  ha  Inogo  tra'teo- 
iogi  e  dottori  di  santa  chiesa,  dipinse  la  testa  lam'eata  di  Dante 
in  profilo  presso  le  figaro  di  san  Tomaie  d'Aquino  e  di  Scoto. 
Tuttavia  il  Dionisi ,  nel  suo  aneddoto,  intitolato  Del  focale  d\ 
Dante,  fa  del  difetto  d'un  fedele  ritratto  tale  querela:  t  È  ben 
assai  che  in  Firenze,  ove  tanti  bei  monumenti  e  tanti  codici  di 
questo  suo  immortai  concittadino  si  conservano,  e  meno  in  Ra- 
venna ov'è  il  suo  sepolcro,  un  ritratto  non  siaci  da  cui  si  rilevi 
ch'egli  in  qualche  modo,  se  rivivesse,  potesse  dire  :  —  Io  son 
quell'io.  —  Per  me  certo  non  ne  ho  veduto  veruno  né  in  un 
luogo  né  in  l'altro;  e  di  que'che  si  son  pubblicati  nelle  edi- 
zioni antiche  e  moderne,  ma  specialmente  dal  Za  ita  e  dal  signoi 
Beltrame,  nel  gran  libro  de'pochi  fogli  per  relazione  del  sepol- 
cro del  divino  vate  del  signor  cardinale  Valenti  nuovamente 
innalzato  e  abbellito,  posso  dire  senza  errare  :  —  Gerto  la  vo- 
glia mia  non  fu  contenta  —  ;  mentre  non  trovo  che  in  verun 
conto  pur  gli  rassomigli  o  in  qualclie  modo  almeno  nel  volto 
l'adombri.  »  Il  ritratto  di  Dante  ora  esistente  nella  biblioteca 
capitolare  di  Verona  e  che  fu  già  del  lodato  canonico  Dionisi, 
è  di  mano  di  Giovanni  Bellino.  In  Cividale  del  Friuli,  nella  libre- 
ria Claricini  esiste  un  codice  in  pergamena  in  4.^  del  secolo  XV: 
nel  primo  canto  dell'Inferno,  entro  l'iniziale  N  è  il  ritratto  di 
Dante  non  interamente  simile  agli  altri  conosciuti;  é  di  mano 
di  Nicolò  Glaricini  di  Cividale,  letterato  e  giureconsulto  del  se- 
colo XV.  È  altresì  o  potrebbe  a' curiosi  .essere  considerevole 
che  nessun  ritratto  mostra  Dante  barbuto,  comecché  a  lui  di- 
cesse Beatrice: 

<  Quando 
Per  udir  se'  dolente,  alza  k  barba  ;  » 

e  il  Boccaccio  assicuri  ch'egli  aveva  i  capelli  e  la  barba  cresputi. 
Una  testa  assai  bene  modellata ,  che  al  riferire  del  Cinelli  ap- 
partenne allo  scultore  Giambologna,  indi  al  suo  scolare  Pietro 
Tacca,  e  finalmente  alla  duchessa  Sforza,  era  stata  tolta  dal  suo 
sepolcro 'in  Ravenna.  Un  busto  di  lui  fu  collocato  sopra  la  porta 


—  167  — 

dello  stadio  dairAccademia  fiorentina  per  opera  del  senatore 
Baccio  Valori.  Ultimamente  l'immortale  Canova  innalzò  nel  Pan- 
teon romano  il  basto  laureato  del  divino  ;  e  sotto  si  legge  :  e  A 
Dante  Alighieri  Antonio  Canova  MDCCCXIIL  Alessandro  d'Este  V 
scolpi.  »  Apostolo  Zeno  nelle  sue  lettere  nota  che  neir  im- 
periai museo  di  Vienna  trovasi  una  medaglia  con  la  testa  di 
Dante.  Il  Fulgoni  nei  tre  frontispizi  della  romana  edizione  pro- 
dusse reffigie  di  Dante  rappresentata  in  un  antico  medaglione, 
colla  sottil  fascia  pendente  dalla  berretta  sopra  le  orecchie. 

Povero  Dante!  fosti  in  vita  perseguitato  dalla  rabbia  sacer- 
dotale, e  le  tue  ceneri  furono  minacciate  d'essere  poste  sul 
rogo  e  sparse  al  vento  dairintolleranza  deirinquisizione! 


CAPITOLO  IX. 


Roma  e  Cola  da  Rienso. 


Intanto  che  gli  apparecchi  del  re  d'Ungheria  per  vendicare 
Tuccisione  del  Tratello  teneano  in  Torse  Tltalia  e  dall'un  canto 
la  resistenza  deTeneziani  in  D.ilmazia  chiudeva  a  quel  monarca 
il  passaggio  dell'Adriatico,  e  relezione  di  Carlo  IV  dall'altro 
privava  gli  Ungari  dei  soccorsi  che  loro  poteva  dare  Lodovico 
di;Baviera,  e  litalia  slessa  si  stava  trepidante  tra  il  timore  d*nna 
invasione  di  barbari  ed  il  desiderio  di  vedere  punito  un  delitto, 
un'inaspettata  rivoluzione  trasse  all'antica  capitale  del  mondo 
l'attenzione  di  tutta  la  cristianità.  La  città  di  Roma,  ridestata 
da  un  eloquente  demagogo,  volle  rivendicare  le  antiche  sue 
prerogative  e  sottomettere  alla  sua  sovranità  il  papa  e  l'impe- 
ratore, che  dividevansi  i  diritti  e  le  spoglie  del  popolo  romano. 

Gola  da  Rienzo,  autore  di  questa  rivoluzione,  fu  di  vile 
nazione.  Non  pertanto  era  stato  ammaestrato  nelle  lettere,  e 
per  lo  molto  singoiare  suo  ingegno^in  esse  avea  falli  rapidis- 
simi progressi.  Erasi  egli  in  particolar  modo  dato  allo  stddio 
degli  storici  e  degli  oratori  dell'antichità  ;  e  trovandosi  in  mezzo 
ai  monumenti  della  gloria  della  romana  potenza,  aveva  cercato 
altresì  d'informarsi  la  mente  delfantrco  spirito  de'suoi  concit- 
tadini. Niun  altro  uomo  del  suo  secolo  aveva  maggiore  vene- 
razione di  lui  per  l'antichità,  più  nobile  brama  di  farne  rivivere 
le  virtù;  né  v'era  chi  avesse  più  profondamente  di  lui  inve- 
stigati i  costumi  e  le  leggi  della  Repubblica  romana  o  meglio 
sapesse  interpretare  le  iscrizioni  ed  i  monumenti  che  fino  allora 


-  169  — 

erano  stati  con  occhio  stupido  risguardali  dalle  geoti,  senza 
ch'esse  ?i  trovassero  memoria  delle  virtù  decloro  antenati;  non 
v'era  chi  fosse  animato  da  più  puro  zelo  per  il  ben  comune  o 
da  più  caldo  amore  di  patria,  né  chi  finalmente  sapesse  negli 
altri  infondere  con  più  persuasiva  eloquenza  i  propri  pensieri 
e  sentimenti.  Questo  chiaro  letterato,  questo  profondo  antiquario, 
per  ringegno  suo  fatto  capo  del  governo,  diede  con  tutto  ciò 
a  divedere  bentosto  di  non  avere  né  il  coraggio  necessario  per 
la  difesa  del  popolo,  né  la  modestia  che  avrebbe  dovuto  pre- 
servarlo dairabbagliamento  delPinaspettata  sua  grandezza,  né 
la  cognizione  degli  uomini,  che  si  acquista  difScilmenle  sui 
libri,  e  senza  la  quale  un  dotto  non  è  uomo  di  Stato. 

Per  r  assenza  dei  papi,  Roma  trova  vasi  in  preda  alla  più 
trista  anarchia;  i  baroni  romani  avevaqo  afforzate  tutte  le 
castella  dello  Stato  della  Chiesa  e  tutti  i  palazzi  che  posse- 
devano in  città,  e  teneano  pure  presidio  in  tutti  gli  antichi  mo- 
numenti che  avevano  potuto  mutare  in  fortezze.  E  come  nel 
vasto  cerchio  delle  mura  di  Aureliano  la  metà  dei  quartieri  era 
deserta,  cosi  i  baroni  trovavansì  assoluti  padroni  di  molle  vie, 
ove  avevano  innalzati  serragli  ed  altre  difese  in  mezzo  alle  mine. 
Ma  non  essendo  abbastanza  ricchi  per  tenere  continuamente 
truppe  regolate  al  loro  soldo,  ne  confidavano  la  guardia  a  la- 
droni, assassini  ed  altre  persone  perseguitate  dalla  giustizia,  alle 
quali  davano  protezione  e  guarentivano  l'impunità  derelitti  col 
francar  loro  un  luogo  sicuro  per  ri  porvi  i  frutti  delle  rapine  e 
degli  assassinamenti. 

Tuttavia  oravi  ancora  in  Roma  un  qualche  avanzo  di  go- 
verno popolare:  i  tredici  rioni  o  quartieri  della  città  nominavano 
il  rispettivo  capitano,  e  l'adunanza  di  questi  magistrati,  chia- 
mati Caporione  rappresentava  il  popolo  sovrano;  ma  non  ave- 
vano costoro  né  I9  forza  né  l'autorità  per  farsi  ubbidire.  Il  papa 
erasi  usurpata  l' elezione  del  senatore  e  non  afiidava  questa 
sublime  dignità  che  a  nobilissimi  personaggi;  ond'è  che  la  po- 
destà giudiziaria  e  la  forza  armata  trovavansi  in  mano  di  quel- 
l'ordine contro  del  quale  avrebbero  dovuto  adoperarsi. 

Il  senatore  fingea  di  non  vedere  gli  eccessi  e  i  misfatti  dei 
gentiluomini,  non  prendendo  le  armi  per  punire  i  delitti  so  non 
qoando  trattavasi  di  un  suo  personale  nemico.  Allora  la  ven- 
detta nazionale  si  esercitava  in  tal  modo  da  turbare  vieppiù 
la  pubblica  tranquillità.  I  nobili  scendevano  frequentemente  ai 
più  bassi  rigiri  per  ottenere  dalla  corte  d' Avignone  grazie  0 

Tamb.  Inquis.  Voi.  II.  22 


benefizi;  abbenchè  non  riconoscessero  nel  papa  l'autorilà  so- 
vrana, e  come  feudatarii  della  Chiesa  credessero  dì  avere  di- 
ritto a  maggiore  indipendenza  che  quelli  dell'impero.  E  di  siffatta 
indipendenza  essi  abusavano  specialmente  nelle  guerre  civili  : 
la  gara  tra  le  case  Colonna  ed  Orsini  divideva  in  due  parli  la 
nobiltà,  ed  era  ogni  giorno  cagione  di  atti  ostili.  Cola  da  Rienzo 
delle  sventure  di  Roma  accagionava  ognora  i  nobili  ;  quando 
commettevasi  un  qualche  delitto,  un  ratto,  un  omicidio,  un  in- 
cendio, avea  nuovi  motivi  d'imputare  ai  gentiluomini  l'anarchia 
in  cui  versavano  i  Romani;  sentivasi  animato  contro  di  loro 
da  un  odio  ch'ei  confondeva  colle  memorie  della  storia,  da  un 
odio  ereditato  dai  Gracchi:  a  vero  dire  egli  aveva  ben  più  ra- 
gione^che  non  gli  antichi  tribuni  di  tenere  i  patrizii  de' tempi 
suoi  degni  dell'odio  e  della  vendetta  del  popolo. 

Cola  fu  per  la  prima  volta  incaricato  di  un  ufficio  pubblico 
poco  dopo  relezione  di  Clemente  VI.  Inviato  ad  Avignone  nel  1342 
per  supplicare  il  nuovo  papa  a  restituire  la  santa  sede  nella 
sua  naturale  residenza,  in  quella  ambasciata  arringò  egli  il  pon- 
tefice, sebbene  il  Petrarca  fosse  uno  degli  ambasciadori:  la  sna 
eloquenza  ed  il  suo  entusiasmo  per  Roma  gli  avevano  già  fatto 
amico  il  poeta.  Clemente  VI  non  si  lasciava  reggere  ne'suol  po- 
litici divisamene  a  senno  degli  oratori  popolari,  ma  fu  mara- 
vigliato dell'ingegno  del  deputato  romano:  il  creò  notaio  apo- 
stolico con  ragguardevole  assegno  e  gli  die  l'irttarico  di  annun- 
ciare ai  suoi  concittadini  che,  pel  loro  vantaggio  e  di  tutta  la 
cristianità,  bandirebbe  un  secondo  giubileo  l'anno  1350,  colle 
indulgenze  che  Ronifacio  aveva  largite  in  occasione  della  festa 
secolare,  le  quali  dovevano  rendersi  comuni  a  tutte  le  gene- 
razioni. 

Cola,  di  ritorno  a  Roma,  si  procacciò  reverenza  dai  suoi 
concittadini,  esercitando  con  integrità  la  sua  nuova  carica.  Tentò 
pure  di  ricondurre  i  suoi  colleghi  alla  onestà:  ma  dovette  ben 
tosto  avvedersi  che  nulla  poteva  da  loro  sperare,  e  che  doveva 
rivolgersi  allo  stesso  popolo,  se  voleva  far  cessare  l'anarchia  e 
rendere  a  Roma  quella  gloria,  quella  grandezza,  quella  giu- 
stizia e  quella  potenza  ch'egli  enfaticamente  chiamava  il  buono 
stato. 

Per  commovere  la  moltitudine,  le  sottopose  da  bel  principio 
simbolicamente  allo  sguardo  i  suoi  pensieri.  Siccome  per  ra- 
gione dell'ufficio  suo  era  chiamato  in  Campidoglio,  egli  vi  fece 
esporre  un  quadro  dalla  banda  della  piazza  in  cui  tenevasi  il 


(ila  ei^emo  de  a/ruifaì/j^o/ffa/ff. 


—  171  — 

mercato:  e  Vi  si  vedeva,  >  dice  lo  storico  di  Roma  anoDiroo  e 
coDtemporaDeo.  <  un  gran  mare  burrascoso»  e  nel  mezzo  una 
nave  senza  timone  e  senza  vele  in  procinto  di  affondare.  Una 
donna  stava  inginocchiata  sul  cassero  vestita  di  nero  e  col  cinto 
della  tristezza:  aveva  la  veste  squarciata  sul  petto,  scarmigliati 
i  capelli,  le  mani. in  croce  al  seno,  in  atto  di  chi  prega  per 
essere  salvato  da  imminente  pericolo.  Vedovasi  in  cima  al  qua- 
dro un  breve  che  diceva  :  È-questa  Roma.  Intorno  a  questo  va- 
scello stavano  altri  quattro  che  già  avevano  fatto  naufragio:  le 
loro  vele  erano  cadute,  rotte  le  antenne,  spezzalo  il  timone  ;  e 
•  sopra  ognuno  di  essi  vedovasi  il  cadavere  di  una  donna  col  nome 
di  Babiloniay  Cartagine,  Troia,  Gerusalemme;  ed  al  di  sopra  un 
altro  breve  che  diceva:  U inriiustizia  è  quella  che  le  pose  in 
pericolo  e  le  fece  finalmerUe  perire.  »  Quando  il  popolo,  affol- 
lato intorno  a  questo  quadro,  Tebbe  rimirato  alquanto.  Cola  si 
fece  avanti  in  mezzo  a  tutti  e  con  maschia  eloquenza  imprecò 
ai  delitti  dei  nobili,  che  trascinavano  la  patria  neirabisso. 

Pochi  giorni  dopo  fece  collocare  nel  coro  di  San  Giovanni 
di  Laterano  una  tavola  di  rame  con  una  bella  iscrizione  latina 
ch'egli  aveva  scoperta.  Chiamò  i  dotti  ed  il  popolo  a  venire  ad 
interpretaria,  e  quando  l'assemblea  fu  adunata,  egli  si  fece  in- 
nanzi per  leggere  Tiscrizione.  Era  un  senato -consulto  col  quale 
il  Senato  conferiva  a  Vespasiano  le  varie  potestà  dei  romani 
imperatori  :  atto  di  schiavitù,  nel  quale  erano  ancora  conservate 
le  forme  de' tempi  liberi.  Cola,  poi  ch'ebbe  terminata  rinterpre- 
tazione,  si  volse  al  popolo  adunato  :  «  Voi  vedete,  o  signori,  > 
egli  disse,  •  quale  era  l'antica  maestà  del  popolo  romano;  egli 
conferiva  agl'imperatori,  come  a. suoi  vicarii,  i  propri!  diritti  e 
la  propria  autorità.  Questi  ricevevano  l'essere  e  la  possanza 
dalla  libera  volontà  dei  vostri  antenati,  e  voi,  voi  avete  accou" 
sentito  che  a  Roma  fossero  cavati  gli  occhi,  che  il  papa  e  l'im- 
peratore abbandonassero  le  vostre  mura  e  non  fossero  più  da 
voi  dipendenti.  Da  quell'istante  la  pace  sbandita  dalle  vostre 
mura,  il  sangue  de'  vòstri  nobili  e  de'  vostri  cittadini  fu  sparso 
inutilmente  in  private  contese:  le  vostre  forze  esaurite  dalla 
discordia,  e  la  città,  già  regina  delle  nazioni,  diventata  oggetto 
del  loro  scherno.  Romani,  io  ve  ne  scongiuro,  avvertite  che  vi 
date  in  ispettacolo  all'universo:  il  giubileo  si  avvicina,  i  cri- 
stiani verranno  dall'estremità  del  mondo  a  visitare  la  vostra 
città  :  volete  che  non  trovino  che  debolezza  e  ruina,  che  op- 
pressione e  delitti  ?  > 


—  I7J  — 

I  nobili,  da  Cola  da  Rieozo  provocati  cosi  gagliardamente» 
ascoltavano  motteggiando  i  saoi  discorsi  ed  erano  ben  lungi 
dal  pensare  che  potessero  avere  un  qualche  effetto;  i  cittadini 
andavano  dicendo  che  un  arringatore  da  trivio  non  cambierebbe 
lo  stato  di  Roma  coi  quadri  e  colle  allegorie:  ma  il  popolo 
cominciava  a  commoversi  e  ribollire,  e  le  persone  capaci  di 
entusiasmo  erano  commosse  non  meno  del  volgo.  Cola  conobbe 
ch'era  tempo  di  procedere  più  óltre,  ed  il  primo  giorno  di 
quaresima  fece  affiggere  alla  porta  di  San  Giorgio  al  Veiabro 
una  scrittura  con  queste  sole  parole  :  Entro  pochi  giorni  i  Ro- 
mani ritorneranno  nel  loro  antico  e  buono  stato.  Tenne  di  poi 
sul  monte  Aventino  una  segreta  adunanza  di  tutte  le  persone 
che  credette  infiammate  di  amor  di  patria ,  e  vi  concorsero 
mercatanti,  letterati  ed  ancora  varii  nobili  dei  meno  potenti. 
Cola  da  Rienzo  scongiurò  quest'assemblea  di  veri  romani  di 
ajutarlo  a  salvare  la  patria;  rappresentò  loro  la  miseria,  la  ser- 
vitù, i  pericoli  cui  trovavasi  abbandonata  la  città  natia;  ricordò 
l'antica  estensione  della  romana  Repubblica,  la  fedele  sommis- 
sione delle  città  d'Italia  che  tutte  al  présente  erano  ribellate:  egli 
piangeva  parlando ,  e  con  lui  piangevano  i  suoi  uditori  :  ma 
ben  tosto  cercò  di  ridestare  il  loro  coraggio,  assicurandoli  che 
Roma  non  aveva  ancora  perdute  le  sorgenti  antiche  della  sua 
potenza;  che  le  sole  tasse  da  loro  pagate  ogni  anno  bastavano 
per  fortificare  il  governo  e  sottomettere  i  loro  sudditi  ribelli  ; 
che  il  papa  approvava  gli  sforzi  ch'essi  facevano  per  ripristi- 
nare il  buono  stato  e  che  potevano  far  fondamento  suirajuto  di 
lui.  Dopo  averli  commossi  con  questi  discorsi,  Cola  volle  che 
tutti  gli  adunati  sul  monte  Aventino  giurassero  sul  Vangelo  di 
concorrere  con  tutte  le  loro  forze  al  ristabilimento  della  romana 
libertà. 

Era  d'uopo  cogliere  il  tempo  favorevole  per  privare  i  no- 
bili della  sovrana  autorità.  Cola,  avvisato  il  19  maggio  che  Ste- 
fano Colonna  aveva  condotto  un  grosso  numero  di  gentiluo- 
mini a  Comete  per  iscortare  un  convoglio  di  biade,  non  aspettò 
più  oltre  :  fece  pubblicare  a  suono  di  tromba  in  tutta  la  città, 
che  ognuno  dovesse  nel  susseguente  giorno  recarsi  senz'armi 
da  lui,  onde  provedere  al  buono  stato  di  Roma.  Dalla  mez- 
zanotte fino  alle  nove  ore  del  mattino  fece  dire  in  sua  presenza 
trenta  messe  allo  Spirilo  Santo  nella  chiesa  di  San  Giovanni 
della  Piscina;  ed  il  20  maggio,  giorno  dell'Ascensione,  usci  di 
chiesa  armato ,  ma  col  capo  scoperto.  Gli  slava  intorno  molta 


—  173  — 

giofrotìi,  che  faceva  risoonare  Taere'di  grida  di  giubilo.  Rai« 
mondo,  fescovo  di  Orvieto,  vicario  del  papa  in  Roma»  stata 
al  SQO  fianco  ;  tre  dei  più  caldi  amatori  di  Roma  portavano 
ionann  a  lai  i  gonfaloni,  nei  quali  vedevansi  dipinte  la  litiertà, 
hi  giustizia  e  la  pace.  Lo  scortavano  cento  uomini  d'arme 
ed  un'infinita  moltitudine  di  popolo  disarmato  ;  e  tutto  questo 
pacifico  corteggio  si  avanzò  tranquillamente  verso  il  Campi- 
ioglìo. 

Giunto  appiè  della  scala.  Gola  fermossi  presso  ai  iione  di 
l^asalto,  e  voltosi  al  popolo,  io  richiese  di  approvare  le  provvi- 
sioni per  lo  stabilimento  derbuono  stato,  che  fece  tutte  leg- 
gere ad  alta  voce.  Questo  primo  schizzo  di  costituzione  pro- 
cedeva alla  pubblica  sicurezza,  piuttosto  che  alla  libertà  dei 
diversi  ordini  dello  stato.  Si  stabiliva  per  ogni  rione  della  città 
Qoa  guardia  di  venticinque  cavalli  e  di  cento  pedoni;  alcune 
Davi  guardacoste  venivano  poste  lungo  le  rive  del  Tevere  per 
proteggere  il  commercio  ;  i  nobili  erano  privati  del  diritto  di 
tenere  fortezze  ed  il  popolo  doveva  avere  la  guardia  dei  ponti, 
delle  porte  e  di  tutti  i  luoghi  fortiQcati.  In  ogni  quartiere  della 
città  si  dovevano  stabilire  pubblici  granai;  assicurare  caritate- 
voli sussidii  ai  poveri;  ed  i  magistrati  dovevano  dare  sollecito 
corso  ai  processi  ed  al  castigo  dei  rei.  Queste  leggi  vennero 
secolte  con  gran  tripudio  dal  popolo  adunato,  che  diede  a  Gola 
aotorìtà  di  mandarle  ad  effetto,  investendolo  a  tale  uopo  d(^l 
sno  sovrano  potere. 

Il  vecchio  Stefano  Colonna,  avuto  avviso  in  Corneto  dei 
movimenti  del  popolo,  accorse  a  Roma  coi  gentiluomini.  Que- 
sto signore  era  ad  un  tempo  il  più  potente  dei  romani  baroni 
^  il  più  amato  dal  papa.  Ma  il  giorno  dopo  Cola  gli  ordinò 
di  uscire  dalla  città  ;  e  quando  seppe  che  il  Colonna  aveva  con 
disprezzo  lacerato  il  suo  breve,  fece  suonare  la  campana  a 
stormo  in  Campidoglio:  onde  tutto  il  popolo  fu  in  anni,  e  il 
Colonna  ebbe  appena  il  tempo  di  fuggire  con  un  servitore  verso 
i^lestrìna.'À  tutti  gli  altri  baroni  romani  fu  fatto  comanda- 
meato  d'abbandonare  la  città,  ed  ubbidirono.  Allora  tutti  i  tuo- 
Stìi  fortificati  della  città,  le  porte,  i  ponti,  ecc.,  furono  dati  in 
custodia  alle  compagnie  della  milizia.  I  più  famosi  banditi,  che 
^  molti  anni  sprezzavano  la  giustizia  e  le  leggi,  furono  man- 
giati al  supplicio;  ed  il  popolo,  adunato  in  parlamento,  conferi 
i  titoli  di  tribuno  e  di  liberatore  di  Roma  a  Cola  da  Rienzo.  1 
iMdesìmi  titoli  furono  pure  dati  al  vescovo  d'Orvieto,  vicario 


—  476  — 

avesse  bisogno.  I  Perugini  gli  mandarono  sessanta  cayalii,  cin- 
quanta i  Sanesi;  e  Finterà  Italia  mostrossi  disposta  ad  assecon- 
dare 0  fors'anco  a  ricevere  i  suoi  comandi. 

Ma  la  mente  del  tribuno  non  era  abbastanza  grave  e  di 
proposilo  per  resistere  alla  vertigine  causata  da  un  inaspettato 
innalzamento.  Pocbi  uomini  nati  in  basso  stato  sanno  conser- 
varsi veramente  grandi  in  mezzo  alla  prosperità.  Cola  da  Rienzo 
avea  commosso  il  popolo  di  Roma  colle  allegorie,  seguendo  in 
ciò  il  genio  del  suo  secolo  e  lo  spirito  di  una  nazione  avida  di 
spettacoli;  prosegui  anche  di  poi  ch'ebbe  conseguito  il  potere  a 
voler  abbagliare  il  popolo  coi  medesimi  mezzi:  i  suoi  abiti,  le 
corone,  le  bandiere  che  portavansi  innanzi  a  lui,  le  iscrizioni 
sulla  croce  e  sul  globo  che  teneva  in  mano  nelle  processioni, 
ogni  cosa  era  simbolica  e  destinata  in  tal  qual  modo  ad  am- 
maestrare i  Romani.  Con  tutto  ciò  lo  stesso  tribuno  era  beo 
più  inebbriato  da  questa  pompa  che  non  il  popolo  spettatore. 
E  già  andava  egli  moltiplicando  le  -  feste  e  le  cerimonie  non 
meno  per  accorgimento  politico  che  per  diletto  o  per  vanità;  e 
dimenticando  che  la  sua  grandezza  consisteva  in  ciò,  che  ninno 
il  pareggiava,  né  egli  potea  venir  pareggiato  ad  altri,  sforzavasì 
dUmitare  i  principi  e  di  emularli  nel  fasto  dei  titoli  e  nella  pompa 
che  lo  circondava.  Compiacevasi  di  vedersi  sertito.  dai  princi- 
pali signori  e  godeva  della  loro  umiliazione.  La  sua  moglie  ers 
corteggiata  da  gentildonne  d'alto  casato;  i  suoi  congiunti  innal 
zati  a  grandi  dignità,  ed  egli  medesimo  cercava  dMmparentars 
coir  antica  nobiltà  maritando  la  sorella  ad  un  barone  romano 

La  presunzione  del  tribuno  cresceva  pel  prospero  esile 
delle  sue  imprese  e  per  l'approvazione  dell'universo,  che  sem 
brava  aspettasse  i  sooi  comandi.  Giovanni  dì  Vico,  signore  di 
Viterbo  e  prefetto  di  Roma,  era  stato  forzato  a  sottometterglisi; 
assediato  dai  Romani  in  Viterbo,  ne  nscì  col  favore  d'un  salva- 
condotto, e  recatosi  in  Campidoglio  gittossi  ai  piedi  del  tribuna 
implorando  la  sua  grazia  e  la  clemenza  del  popolo  romano,  cbe 
gli  conservò  il  suo  governo.  Tutte  le  fortezze  del  patrimonio 
di  san  Pietro  erano  state  cedute  ai  luogotenenti  del  tribuno,  il 
quale  vedeva  quotidianamente  giungere  a  Roma  solenni  amba- 
scerie, poiché  gliene  furono  inviate  da  Fiorenza,  Arezzo,  Siena, 
Todi,  Terni,  Spoleti,  Rieti,  Amelia,  Tivoli,  Veiletri,  Pistoia,  Fp- 
lingo  ed  Assisi.  Il  popolo  di  Gaeta  gli  mandò  diecimila  fiorini; 
i  Veneziani  gli  fecero  offerta  delle  loro  persone  e  beni  per  di- 
fesa del  buono  stato  ;  Luchino  Visconti  di  Milano  gli  scrisse 


^;  'p 


—  177  — 

chiedeodc^li  la  soa  alleanza.  Vero  è  che  gli  altri  tiranoi  dllalia. 
Taddeo  deTepolK  iqarchese  d'Este,  Mastino  della  Scala,  Filip* 
pino  Gonzaga,  ì  signori  di  Carrara,  gli  Ordelaffi.  ed  i  Malatesti 
avevano  ingioriosamente  risposto  alle  sue  lettere  ;  ma  come  il 
tribuno  a?eva  annunciato  il  precetto  di  liberare  ritalia  dai  ti- 
ranni, rinimicizia  loro  poteva  essere  per  lui  compensata  dal- 
raffezione  dei  loro  popoli.  Lodovico  di  Baviera,  che  ancora  vi- 
veva colla  coscienza  inquieta  per  le  scomuniche  contro  di  lui 
fulminate»  gli  aveva  scritto  pregandolo  a  riconciliarle  colla  Chiesa. 
Il  duca  di  Durazzo,  il  principe  Luigi  di  Taranto  e  la  regina  Gio- 
vanna Tavevano  nelle  loro  lettere  chiamato  carissimo  amico  : 
per  ultimo  il  re  Luigi  d' Ungheria  gli  aveva  spedita  un'  amba- 
sciata per  chiedergli  vendetta  degli  uccisori  di  suo  fratello.  Il 
tribuno  condusse  gli  araldi  di  quest'ambasciata  innanzi  al  po- 
polo adunato,  e  ponendosi  la  corona  tribunizia  iri  capo,  risposo 
loro:  Io  giudicherò  il  globo  della  tèrra  secondo  la  giustiziaceli 
popoli  secondo  Vequità.  Ben  tosto  infatti  la  causa  della  regina 
Giovanna  e  del  re  Luigi  fu  disputata  innanzi  al  suo  tribunale 
dagU  ambasciatori  nominati  dalle  contrarie  parli;  ina  Cola  non 
pronunciò  veruna  sentenza. 

Frattanto  la  sempre  crescente  vanità  del  tribuno  Tindusse 
a  farsi  armare  cavaliere,  come  se  un  tale  grado,  che  lo  pareg- 
giava alla  nobiltà,  non  lo  rendesse  da  meno  di  coloro  di  cui 
era  dapprima  padrone.  Questa  cerimonia  si  fece  il  primo  giorno 
d^agosto  nella  chiesa  di  San  Giovanni  di  Laterano.  Venne  pre- 
ceduta da  una  corte  plenaria,  ove  splendidissime  feste  furono 
date  a  tulli  gii  ambasciatori,  agli  stranieri  ed  ai  più  principali 
dei  romani  nei  tre  palazzi  di  Laterano.  La  vigilia  della  festa 
di  san  Pielro  in  Vincoli  il  tribuno  scese  a  bagnarsi  nella  conca 
di  porQdo  ove  la  tradizione  dice  che  si  era  bagnato  Costantino 
dopo  essere  slato  guarito  dalla  lebbra  dal  pontefice  san  Silvestro. 
Cola  pernottò  nel  recinto  dei  tempio,  e  nel  susseguente  giorno 
si  presentò  al  popolo  colfabilo  di  scarlatto  e  di  vaio,  e  si  fece 
da  messer  Vico  Scolto,  cavaliere  e  gentiluomo  romano,  cingere 
la  spada.  Ascoltò  poscia  la  messa  nella  cappella  di  papa  Boni- 
facio, durante  la  quale  si  volse  ai  popolo  gridando:  <  Noi  vi 
citiamo  messer  papa  Clemente  a  venire  a  Roma ,  sede  della 
vostra  chiesa ,  con  tutto  il  collegio  dei  cardinali.  Citiamo  voi 
Lodovico  di  Baviera  e  Cario  di  Boemia,  che  vi  chiamale  re  ed 
imperatori  dei  Romani,  e  con  voi  tutto  il  collegio  degli  elettori 
germanici,  perchè  giustifichiate  innanzi  a  noi  i  diritti  che  van- 

Tamb.  Inquis.  Voi.  II.  25 


-  «78- 

tate  air  imperio ,  con  qaale  fondamento  pretendete  disporne. 
Dichiariamo  intanto  che  la  città  di  Roma  e  tutte  le  città  dltalia 
sono  e  devono  conservarsi  libere;  noi  accordiamo  a  tatti  i 
cittadini  di  qaeste  città  la  cittadinanza  romana  e  chiamiamo  il 
mondo  in  testimonio  che  relezione  dell'imperatore  romano,  la 
^iarisdizione  e  la  monarchia  appartengono  alla  città  di  Roma, 
al  suo  popolo  ed  a  tutta  rilalia.  >  In  appresso,  sguainando  la 
spada,  percosse  l'aria  verso  cadauna  delle  tre  parti  del  mondo, 
ripetendo:  Questo  appartiene  a  me,  questo  appartiene  a  me, 
questo  appartiene  a  me.  Spedi  poscia  immantinente  dei  corrieri 
^  portare  le  citazioni  alla  corte  d'Avignone  ed  ai  due  impera- 
tori. Il  vescovo  d'Orvieto  vicario  del  papa,  che  avea  assistito  a 
tutta  questa  cerimonia,  rimaneva  come  fuor  di  sé  vedendo  tanto 
e  cosi  inaspettato  ardire.  Chiamò  per  altro  un  notaio  per  pro- 
testare in  faccia  a  lui  ed  al  popolo  che  ciò  facevasi  dal  tribuno 
senza  sua  saputa  e  senza  l'assenso  del  papa.  Ma  Ciola  fece  dar 
tosto  flato  alle  trombe,  onde  i  Romani  non  potessero  udire 
tali  proteste. 

Ciò  null'ostante  il  vicario  non  riflutò  di  pranzare  solo  col 
tribuno  alla  tavola  di  marmo,  mentre  la  moglie  di  Ck)la  pre- 
siedeva nel  Palazzo  Nuovo  alla  mensa  di  nobili  signore.  Altre 
tavole  erano  imbandite  nel  Palazzo  Vecchio  senza  distinzione 
di  grado  per  gli  abati  e  taonaci,  cavalieri  e  mercatanti,  invitati 
alla  sagra,  e  Qn  allora  non  erasi  altrove  mai  veduto  in  un  ban- 
chetto tanta  magnificenza. 

Questo  fatto  esauriva,  le  entrate  di  Roma ,  e  le  persone 
sagge  cominciavano  ad  avvedersene.  In  un  pranzo  dato  da  Cola 
poche  settimane  dopo  ai  principali  signori  della  nobiltà  romana, 
il  vecchio  Stefano  Colonna  propose  la  quistione,  se  meglio  con- 
venisse ad  un  popolo  l' essere  governato  da  un  prodigo  o  da 
un  avaro.  Dopo  molte  parole  fattesi  intorno  a  quest'argomento, 
Stefano  sollevò  un  lembo  del  mantello  del  tribuno,  ch'era  ornato 
di  trine  d'oro  e  di  ricami ,  e  gli  disse  apponendoglielo  :  «  Tu 
slesso,  0  tribuno,  dovresti  portare  i  modesti  abiti  dei  tuoi  eguali 
piuttosto  che  questi  pomposi  ornamenti  >.  Cola  turbossi  a  quel 
rimprovero  per  cui  parea  eh'  altri  il  confondesse  col  volgo,  ed 
uscito  della  sala  serìza  rispondere ,  in  un  primo  impeto  d' ira 
comandò  che  fossero  presi  tutti  i  nobili  che  si  trovavano  nella 
sala.  E  per  giustificare  questo  subito  rigore,  fece  tosto  correre 
voce  d' avere  scoperta  una  congiura  che  i  nobili  ordivano 
contro  il  popolo  e  contro  di  lui.  Fatto  quindi  adunare  in  Cam- 


—  ift  — 
pidogrio  il  lorbmeDlo  o  assemblei  generale,  il  susseguente 
gionio  17  di  settembre  annoncìA,  cbe  per  liberare  per  sempre 
0  popolo  dal  giogo  deirdigarchia  disponevasi  a  far  decapitare 
tatti  i  nobili  che  a?e?aDo  presa  parte  al  Uadimento.  Tutto 
parve  disposto  per  qaesC  orrìbile  esecusione.  Nella  sala  dei 
giudizi  furono  coperte  le  pareti  d'  un  arauo  di  seta  bianca  e 
screziata  a  colore  di  sangue;  fu  mandato  ad  ogni  barone  un 
frate  minore  per  confessarlo  e  dargli  la  comunione,  ed  intanto 
le  campane  del  Campidoglio  suonavano  per  adunare  il  popolo. 
Il  vecchio  Stefano  Colonna,  coi  incresceva  di  morire»  rimandò 
il  frate  e  la  comunione,  dichiarando  che  non  era  disposto,  e 
che  gli  afiEairi  delP  anima  sua  e  quelli  della  sua  famiglia  non 
orano  altrimenti  accomodati,  né  lo  potevano  essere  così  presto. 

Forse  il  tribuno  non  intendeva  ad  altra  mira  che  a  spa« 
voltare  i  nobili,  e  fors'anco  si  lasciò  piegare  dalle  istanze  dei 
loro  amici;  sicché,  quando  vide  il  popolo  adunato,  sali  la  tri- 
buna delle  aringhe  e,  tolte  per  tema  le  parole  Diìnitte  nobis 
peccata  nostra,  si  fece  presso  11  popolo  intercessore  per  i  ba* 
roni  prigionieri  ;  dichiarò  in  loro  nome  che  questi  gentiluomini 
8i  pentivano  dei  loro  errori  e  che  d' ora  innanzi  servirebbero 
il  popolo  con  fedeltà.  1  prigionieri  si  presentarono  Tuno  dopo 
Faltro  innanzi  al  popolo  e  ricevettero  la  grazia  a  capo  chino  ; 
io  seguito,  risguardando  la  loro  fedeltà  come  indubitata,  Cola 
conferì  loro^  importanti  cariche,  prefetture  e  ducati  nella  Cam* 
pania  ed  in  Toscana. 

La  clemenza  che  tien  dietro  ad  un'ingiusta  collera  non  me- 
rita in  verun  caso  riconoscenza;  i  nobili  furono  appena  fuori 
delle  prigioni  del  tribuno  e  delle  mura  di  Roma  che  pensarono 
a  vendicarsi.  11  Colonna  e  due  Orsini  presero  a  fortificare  il 
castello  di  Marino,  vi  adunarono  uomini  d'arme  e  munizioni 
senza  che  Cola  pensasse  ad  opporsi  a  questi  ostili  apparecchi  ; 
in  breve  spiegarono  io  stendardo  della  ribellione,  ed  occupata 
Nepi  abbruciarono  molle  castella  e  depredarono  la  campagna 
fino  alle  porte  di  Roma. 

11  ristauratore  della  Repubblica  romana  non  era  fallo  per 
le  cose  della  guerra  ;  egli  non  conosceva  altrimenti  quel  valore 
die  ammirava  negli  aulichi  e  che  pensava  di  far  rivivere;  e 
per  tal  modo  il  contrapposto  tra  il  coraggio  di  mente  ch'ei 
diede  a  divedere  nella  sua  impresa  e  V  assoluta  mancanza  di 
coraggio  guerriero  che  mostrò  in  appresso  può  sembrare  aN 
Tosservatore  o  ridicolo  o  afiliggente.  Lungo  tempo  prima  di 


-  im- 
prendere le  armi  cercò  d'intimorire  i  suoi  nemici  colle  cita- 
zioni e  colie  minacce.  Finalmente  le  grida  del  popolo ,  ctie 
non  voleva  più  oltre  tollerare  il  gaasto  delle  campagne,  l'ob- 
bligarono a  muovere  la  milizia  romana.  Ottocento  cavalli  e  ven- 
timila pedoni  sotto  la  condotta  di  Cola  da  Rienzo  si  avanza- 
rono contro  i  Colonna  e  guastarono  il  territorio  di  Marino 
com'era  stato  guastato  quello  di  Roma.  Dopo  otto  giorni  di 
minacce  piuttosto  che  di  battaglie,  il  tribuno  ricondusse  Teser* 
cito  in  città  ;  si  fece  vestire  in  Vaticano  della  dalmaticd,  man- 
tello fino  allora'  riservato  ai  soli  imperatori,  ed  accolse  con  tale 
abito  un  legato  che  il  papa  mandava  a  Roma  per  ristabilirvi 
Fautorità  pontificia. 

Frattanto  i  Colonna  avevano  dal  canto  loro  fatta  ribellare 
Palestrina,  e  molti  dei  loro  partigiani  esortavanli  a  recarsi  a 
Roma,  promettendo  d'aprir  loro  le  porte  tosto  che  li  vedessero 
avvicinarsi  con  sufficienti  forze.  Perciò  i  Colonna  adunarono 
in  Palestrina  seicento  uomini  d'arme  e  quattromila  fanti,  avaù* 
zandosi  poi  fino  al  luogo  detto  il  Monumento,  lontano  quattro 
miglia  dalle  porte.  Ma  il  romano  valore  era  egualmente  spento 
nel  petto  dei  nobili  come  nel  popolo,  e  la  tenzone  per  difen- 
dere 0  per  rovesciare  il  buono  stato,  la  libertà  e  la  repubblica 
trattavasi  da  ambe  le  parti  con  una  pusillanimità  indegna  di 
cosi  gloriosi  nomi.  Benché  il  tribuno  avesse  ragguardevoli  forze, 
non  osava  sortire  di  città,  ma  invece  faceva  ogni  mattina  chia- 
mare a  suono  di  campana  il  popolo  a  parlamento;  e  per  ina- 
nimire il  popolo  adunato ,  faceva  il  racconto  dei  sogni  avuti  la 
precedente  notte  e  le  promesse  di  ajuti  a  lui  fatte  da  papa  san 
Martino  figlio  di  un  tribuno  di  Roma,  o  da  Bonifacio  Vili  ne- 
mico dei  Colonna. 

I  nobili ,  dal  canto  loro ,  badavano  essi  pure  ai  sogni  ;  e 
Pietro  Agapito  Colonna  voleva  persuadere  i  suoi  compagni  d'ar- 
me a  ritirarsi ,  per  aver  veduto  in  sogno  sua  moglie  in  abito 
xdi  corrotto.  Ad  onta  di  questo  presagio,  il  vecchio  Stefano  Co- 
lonna presentossi  ad  una  delle  porte  di. Roma  accompagnato  da 
un  solo  servitore  e  chiese  d'essere  ricevuto  in  città;  le  guardie 
lo  minacciarono ,  senza  per  altro  tentare  di  farlo  prigioniero , 
come  avrebbero  potuto  agevolmente  fare.  L'oste  dei  nobili  erasi 
avanzata  dalla  banda  di  monte  Testacelo  fin  presso  alla  porla 
di  San  Paolo,  dalla  quale  i  Colonna  potevano  udire  la  campana 
del  Campidoglio,  che  suonava  sempre  a  stormo;  onde  argo- 
mentarono che  v'erano  aspettati  e  si  ritrassero  dall'attaccare  il 


popoto  toBlochè  dtero  jpndoii  b  simun  di  «saiUnrio  sOb 
spranedoli.  Mi.  mdb  lotor  imìre  ad  un  fulto  dVmi  «  dìtì^ 
samiog  prin  di  rilinrsi,  di  sfilar»  io  ischiei^  amili  to  |wto 
in  atto  di  sfidare  il  trìbam.  La  frappa  loro  tmi  ditìsa  in  tf^ 
squadre;  le  doe  prime  passarono  sema  essere  looie^tat^  e  la 
porla  tenuta  diiDsa  comincìd  a  passare  la  lem  squadm  *  <^t 
allora  fa  aperta  per  rispondere  colle  bratate  alle  bravale.  Il 
giovane  Giovanni  Ccdonna,  vedendo  aperta  la  porta^  spen^  che 
i  snol  partigiani  se  ne  fossero  impadroniti,  e  spronato  il  cavallo 
eDtrd  in  città,  inoltrandovisi  per  nn  tratto  d'arco.  Con  isciajtiirala 
^Ità  i  snoi  compagni  d'arme  lo  lasciarono  solo  «  benché  l  cit* 
Mini  ftiggissero  innanil  a  Ini.  Quando  Giovanni  s' avvide  di 
essere  abbandonato,  volle  dar  addietro ,  ma  il  suo  cavallo  in* 
ciampò,  ed  il  popolo,  aflbllandoglisi  addosso^  lo  ucciso ,  l)enchA 
egli  domandasse  la  vita  in  dono.  Suo  padre,  il  vecchio  Colonna , 
giunto  alla  volta  sua  innanzi  alla  porta,  volle  entrare  ym  aoc* 
correre  il  figliuòlo,  poi  fuggi  di   nuovo  quando  Gonobl)e  la 
grandezza  del  pericolo  ;  ma  ferito  con  un  sasso  che  gli  fu  sca- 
giiato  nella  fuga,  fu  atterrato  ed  ucciso  presso  la  porta  istenna 
seosa  avere  potuto  nemmeno  valersi  delle  armi.  Gli  altri  genti- 
loomini  non  tentarono  nemmeno  di  combattere  e  furono  liìse- 
goiti  nella  fuga  dal  popolo  furibondo,  che  ne  fece  molti  prigio- 
nieri: Pietro  Agapito  Colonna  ed  il  signore  di  Belvedore  furono 
Decisi  in  una  vigna  ove  cercavano  di  nascondersi ,  gli  nitri 
giltarono  le  armi  e  non  si  fermarono  se  non  giunti  a  nalva- 
nieDto  ne*  lor  castelli. 

La  letizia  del  tribuno  dopo  questa  vittoria,  a  cui  aveva 
presa  sì  poca  parte ,  fu  tanto  più  smodata  quanto  più  grande 
era  stata  la  sua  paura.  Tornò  trionfante  in  Campidoglio  e  do- 
pose  innanzi  air  imagine  della  Vergine  in  Araceli  la  verga 
frilmnizia  e  la  corona' d'argento  a  foglie  d'ulivo.  Arringò  poscia 
|i popolo  si  vantò  d'aver  abbattute  quelle  teste  che  nò  gli 
imperatori  né  i  papi  avevano  potuto  mai  far  piegare.  Fifialmente 
ooQ  permise  che  si  rendessero  gli  onori  funebri  ai  cadaveri 
dà  Colonna  :  ma  invece  di  approfittare  della  vittoria  e  di  aftHO- 
&re  Marino,  che  i  nobili  avrebbero  in  quel  primo  umarriment^i 
slAandonato,  perdette  un  tempo  prezioso  nelle  fente  ed  in  ridi- 
^  cerimonie  ;  armò  cavaliere  della  Vittoria  suo  figliuolo  unì 
loop)  medesimo  in  cui  era  stato  ucciso  Stefano  Colonna  ; 
^cerdibe  le  imposte  per  pagare  i  soldati  e  ne  consumò  i  prò* 
^oti  in  islolide  pompe.  Frattanto  il  popolo  iC  andava  da  lui 


-  181  — 

allenando  ;  yedeasi  Giordano  Orsini  avanzarsi  devastando  ed 
ardendo  fin  sulle  porte  di  Roma  ;  vedeasi  che  il  tribuno  non 
era  da  tanto  di  far  rispettare  la  sua  autorità  ;  per  la  qual  cosa 
il  popolo  accusavalo  egualmente  deisti  errori  commessi  e  degli 
oltraggi  fattigli  da'  suoi  nemici. 

Giunse  infrattanto  in  Roma  Bertrando  di  Deux»  che  cosi 
chiama  vasi  il  legato  spedito  da  Clemente  VI.  Costui  aveva  di 
molle  attinenze  coi  gentiluomini  romani»  e  dopo  il  «suo  arrivo 
in  Italia  facea  male  giudizio  del  tribuno.  Passando  per  Siena 
aveva  detto  a  que'  magistrati  esser  Cola  da  Rienzo  un  nemico 
della  Chiesa  ;  disporsi  il  papa  a  farlo  processare  per  delitto  di 
ribellione  ;  pregare  perciò  la  Repubblica  a  richiamare  le  troppe 
ausiliarie  che  gli  aveva  fio  allora  somministrate.  Non  pertanto 
il  legato  era  stato  ricevuto,  entrando  in  Roma,  da  Cola  da  Rienzo 
con  .segni  di  profonda  reverenza  e  inverso  a  lui  e  inverso  al 
pontefice;  era  stato  presentato  al  popolo  in  pieno  parlamento 
ed  assicurato  dell'  ubbidienza  della  Repubblica  e  del  suo  capo. 
Ma  Bertrando  di  Deux  non  si  appagò  di  queste  esteriori  di- 
mostrazioni di  sommessione:  egli  voleva  privare  il  popolo 
deirautorità  e  restituirla  ai  gentiluomini  romani ,  che  gode* 
vano  il  favore  del  papa  e  del  collegio  de' cardinali;  perciò  fece 
alleanza  con  Luca  Sa  velli  e  Sciaretta  Colonna;  ed  accusato  il 
tribuno  di  eresia,  fulminò  contro  di  lui  la  sentenza  di  scomunica. 

Un  altro  assai  più  pericoloso  nemico  e  più  intraprendente 
sorgeva  in  pari  tempo  contro  Nicola  da  Rienzo.  Giovanni  Pe- 
pino, conte  di  Minorbino,  esiliato  dai  regno  di  Napoli,  dove  col 
mezzo  di  assassinii  e  ladronecci  aveva  tentato  di  vendicare  la 
morte  del  re  Andrea ,  erasi  rifuggito  in  Roma  con  alcuni  dei 
suoi  compagni  d'armi,  usi  del  pari  a  disprezzare  gli  ordini  e 
le  leggi.  Il  tribuno ,  sapendo  degli  omicidii  ed  altri  misfatti   e 
disordini  ch'ei  commetteano,  volle  farli  prendere  o  costringerli 
ad  uscire  di   Roma  :  ma  il  conte  di  Minorbino  erasi  afforzata 
coiralleanza  del  legato  e  dei  Colonna;  e  con  centocinquanta 
cavalli  si  appostò  nel  quartiere  ove  i  Colonna  tenevano  i  loro 
palazzi  ed  avevano  più  partigiani  che  altrove  ;  vi  si  asserragliò 
e  rimandò  con  disprezzo  coloro  che  gli  portavano  gli  ordiai 
del  tribuno. 

Cola  da  Rienzo  andò  ad  attaccare  con  una  compagnia  di  ca- 
valleria i  serragli  del  conte  di  Minorbino,  e  nello  stesso  tempo 
lece  suonare  a  stormo  la  campana  di  Sant'Angelo  Pescivendolo. 
Ma  tutto  quel  giorno  e  tutta  la  seguente  notte  il  popolo  non 


-  183  — 

corse  alle  armi,  sebbene  la  campana  suonasse  sempre.  !  Romani 
ricnsayano  del  pari  di  combattere  contro  il  conte  di  Mìnorbino 
0  di  difenderlo,  nulla  calendo  loro  la  sorte  di  quello  straniero; 
perciò  non  pensavano  né  a  seguire  il  suo  esempio  resistendo  al 
tribnno,  né  ad  approfittare  di  quest'occasione  per  ribellarsi.  E 
se  non  disfavore,  niun  favore  trovava  omai  in  loro  quel  buono 
stato  con  tanta  pompa  annunciato,  poi  trovato  cosi  poco  stabile: 
erano  stanchi  delle  rappresentazioni  teatrali  e  delle  arringhe  del 
tribono,  determinati  di  aspettare  con  tranquillo  animo  quali  ch'ei 
fossero  gli  avvenimenti  anziché  di  adoperare  per  determinarli  a 
proprio  vantaggio. 

Frattanto  molto  popolo  erasi  adunato  in  Campidoglio,  ma 
disarmato;  il  tribuno  lo  arringò,  ma  inutilmente;  parlò  dei  suoi 
propri  governi,  del  bene  che  aveva  fatto,  di  quello  che  voleva 
fare;  imputò  alPaltrui  invidia  gli  ostacoli  frapposti  ai  suoi  bene- 
fici divìsamenti,  pianse,  sospirò  e  con  la  sua  eloquenza  seppe 
toccare  di  bel  nuovo  il  cuore  degli  uditori  di  modo  che  i  so- 
spiri e  le  lagrime  del  popolo  risposero  alle  sue,  ma  non  per- 
do si  vide  tra  coloro  che  stavano  ad  ascoltarlo  alcun  moto 
coraggioso ,  ninno  il  confortò  a  procurar  la  vittoria  ,  che  pure 
sarebbe  stata  assai  facile  ottenere.  <  Dopo  aver  governato  sette 
me^  >,  disse  alla  fine,  <  io  deporrò  adunque  la  mìa  autorità  »; 
e  ninna  voce  alzavasi  a  dissuaderlo ,  a  richiederlo  di  tenere 
ancora  le  redini  del  governo.  Allora  Gola  da  Rienzo  fece  dare 
flato  alle  trombe  d'argento  e,  rivestito  di  tutte  le  insegne  della 
soa  dignità,  accompagnato  da  coloro  che  avevano  in  tutto  se- 
guito le  parti  sue,  e  dai  soldati,  scese  dal  Campidoglio,  attra* 
Terso  pomposamente  Roma  quasi  in  tutta  la  sua  lunghezza  e 
andò  a  chiudersi  in  Castel  Sant'Angelo.  La  moglie  di  lui  si  tra* 
lesti  per  seguìrio ,  e  tre  giorni  dopo  la  sua  ritratta  i  baroni 
esiliati  entrarono  in  Roma,  che  ricadde  subitamente  in  peggiore 
slato  che  don  fosse  prima  del  governo  del  tribuno. 

La  rivoluzione  che  causò  la  rovina  di  Cola  da  Rienzo  ac- 
(adde  il  15  dicembre  del  1347 ,  meno  di  sette  mesi  dopo  che 
egli  si  era  fatto  capo  della  Repubblica.  In  quel  breve  spazio  di 
tanpo,  quest'uomo  aveva  dato  al  mondo  un  maravlglioso  esem- 
pio della  possa  dell'eloquenza  e  dell'entusiasmo  che  il  nome  e 
fe memorie  di  Roma  eccitavano  in  tutta  l'Europa,  come  pure 
deiriaebriamento  cui  si  estone  il  dotto  che  dalla  biblioteca 
^oe  portato  sul  trono  e  che  non  ha  potuto  prepararsi  in  altra 
guisa  che  colla  lettura  dei  libri  all'esercizio  del  sovrano  potere* 


CAPITOLO  X. 


SoUevaiione  del  popolo  di  Roma  contro  Cola  da  Rteaso^ 
e  sua  morte. 


Tra  le  razze  dei  tiranni  surte  sulle  rovine  della  libertà , 
quella  dei  Visconti  a  sé  chiamava  più  di  ogni  altra  gli  sguardi 
di  tutta  Italia.  L'aperta  sua  ambizione  tendeva  ad  invadere  tutta 
intera  questa  contrada:  e  perchè  successivamente  si  segnaJarono 
per  accortezza  ed  ingegno  molti  capi  di  tale  famìglia ,  mentre 
altri  tiranni  imbecilli  o  corrotti  regnavano  in  Verona»  in  Padova» 
in  Mantova  ed  in  Ferrara,  per  questo  e  per  le  immense  sue 
ricchézze ,  non  che  per  la  potenza  già  acquistata ,  sembravate 
assicurato  il  pieno  adempimento  de'  suoi  progetti  d' ingrandi- 
mento. Sapeano  costoro  approfittare  di  tutte  le  rivoluzioni  d'Ita- 
lia per  dilatare  viepiù  ogni  giorno  il  loro  dominio.  Ora  ridu- 
cevano i  vicini  Stati  a  sottomettersi  senza  riserva,  ora  soltanto 
offrivano  la  loro  alleanza  ;  ma  la  loro  protezione  ben  presto  si 
rivolgea  per  gli  alleati  in  servitù.  Continuando  a  promuovere 
con  tutte  le  loro  forze  il  partito  ghibellino,  cui  gloriavansl  di 
rimanere  fedeli ,  ciò  praticavano  soltanto  in  quegli  Stati  in  cui, 
coirajuto  di  questo  nome  ancora  potente,  speravano  di  eccitare 
sediziosi  movimenti;  né  prendevano  consiglio  da  questo  spirito 
di  parte  neirinterna  loro  politica,  ma  cercavano  di  tenerlo  vivo 
soltanto  presso  gli  emuli.  Secondo  che  loro  tornava  meglio , 
cercavano  indifferentemente  1'  amicizia  o  dei  papi  o  degli  im- 
peratori; gli  adulavano  ambidue  e  non  serbavansi  fedeli  ad  al- 
cuno ,  perchè  la  corruzione  e  la  perfidia  erano  più  utili  alla 


—  185  — 

loro  amlNzione  che  dod  avreM^ero  potuto  essere  la  baona  fede 
e  la  lealtà.  Nelle  città  soggette  lasciavano  di  buon  grado  che  si 
andassero  spegnendo  quelle  fazioni  col  favore  delle  quali  le 
avevano  spesso  ridotte  in  servitù  :  onde  i  Lombardi,  corrotti 
dalla  fertilità  delle  loro  campagne,  scordavano  volontieri  nel 
lusso  e  nella  morbidezza  non  solo  gli  antichi  odi!,  ma  la  patria 
e  la  libertà,  per  le  quali  da  due  secoli  aveano  fatte  in  addietro 
si  grandi  cose.  Fra  le  tante  città  sottomesse  ai  Visconti,  la  sola 
città  d'Asti  ardiva  ancora  invocare  le  violate  capitolazioni  ed 
era  sempre  sossopra  per  le  antiche  discordie  degrisnardì  e  dei 
Gottuari. 

Gli  Stati  deir  arcivescovo  Giovanni  Visconti  erano  conler- 
minati  a  ponente  da  quello  di  Giovanni  Paleologo,  marchese 
dì  Monferrato,  da  quelli  di  Amedeo  VI  di  Savoia,  detto  il  Conte 
Verde ,  e  dei  vassalli  di  questi ,  Giacomo  principe  d' Acaia  e 
conte  dei  Piemonte ,  e  Tomaso  marchese  di  S<ìIuzzo.  Tutte 
le  città  del  Piemonte  in  addietro  lìbere ,  erano  soggette  ad 
alcuno  di  questi  signori.  1  conti  di  Savoia  erano  allora  in  minore 
età  e,  in  forza  di  un  compromesso  col  marchese  di  Monfer- 
rato, avevano  scelto  per  arbitro  delle  loro  contese  T  arcive- 
scoTO  di  Milano ,  il  quale,  finché  visse ,  mantenne  la  pace  su 
questi  confini. 

Dalla  banda  del  levante  separavano  il  territorio  dei  Visconti 
da  quello  della  Chiesa  quattro  signori;  i  Gonzaga  possedevano 
Mantova  e  Reggio,  i  marchesi  d'Este  Ferrara  e  Modena,  gli 
Scaligeri  Verona  e  Vicenza,  e  Padova  quei  di  Carrara.  La  potenza 
delle  case  d'  Este  e  della  Scala  era  più  antica  di  quella  dei 
Visconti,  e  tutti  questi  signori  avevano  tìtoli  uguali;  pure  la 
potenza  di  queste  famiglie  era  meno  stabile  assai  di  quella  dei 
Visconti.  Trovavansi  in  allora  capi  di  queste  famiglie  giovani 
di  perduti  costumi,  i  quali  supponevano  che  il  sovrano  potere 
non  fosse  altra  cosa  che  il  diritto  di  soddisfare  i  più  vergognosi 
appetiti.  Per  godere  a  vicenda  di  tale  prerogativa ,  e  non  già 
spinti  da  più  nobili  brame,  i  minori  dì  ogni  famiglia  cercavano 
sempre  di  balzare  dal  trono  i  loro  maggiori,  i  nipoti  gli  zìi, 
i  bastardi  ì  fratelli  legittimi.  Nello  spazio  dì  pochi  anni  si  videro 
queste  quattro  case  infievolite  e  sossopra  per  causa  di  simili 
coDgiure. 

La  guerra  civile  che  scoppiò  nella  casa  d' Este  non  man- 
cava per  altro  di  plausibile  motivo.  11  marchese  Obizzo  avea 
in  marzo  del  1352 ,   poco  prima  di  morire ,  legittimato  i  figli 

Tamb.  Jfifiuis,  Voi.  II.  24 


—  188  — 

bliche  era  ancora  più  diminuito.  Genova  e  Bologna  trovavansi, 
almeno  momentaneamente,  sottomesse  ai  Visconti;  Lucca  ub« 
bidiya  ai  Pisani  :  onde  non  rimanevano  più  che  Venezia  e  Pisa 
e  i  tre  comuni  guelfi  di  Toscana,  Firenze,  Siena  e  Perugia  ;  le 
altre  città  di  quella  contrada,  in  addietro  libere,  erano  piuttosto 
suddite  che  alleate  di  queste  tre  repubbliche. 

A  danno  dei  comuni  guelfi  della  Toscana  mirava  partico- 
larmente Tambizione  deirarci vescovo  di  Milano,  ma  d'altra 
parte  anch'essi  erano  accesi  fieramente  contro  di  lui  dal  doppio 
odio  contro  il  partito  ghibellino  e  la  tirannide.  Abbiamo  di  già 
veduto  in  qual  modo  i  Fiorentini  avevano  respìnta  l'aggressione 
dei  Visconti  nel  1351  e  come  avevano  costretto  Tesercito  del  ; 
signore  di  Milano  a  levare  l'assedio  di  Scarperia  :  ma  era  meno 
da  temersi  la  forza  aperta  che  i  segreti  intrighi  ;  perciocché  il  | 
Visconti  cercava  in  ogni  città,  in  ogni  borgata,  di  farsi  dei  par*  i 
tigiani,  di  comperar  dei  traditori;  e  durante  l'inverno  del  1351, 
che  venne  in  seguito  a  quella  gloriosa  stagione  campale,  poco 
mancò  che  non  gli  fosse  venduta  la  città  d'Arezzo.  Il  signore 
di  Milano  aveva  fatto  animo  alla  famiglia  guelfa  de'Brandagli  di 
Arezzo  a  farvisi  tiranna,  e  procuratale  Talleanza  dei  tirannucci 
ghibellini  di  Agobbio  e  di  Città  di  Castello.  Di  già  una  porta 
era  occupata  dai  Brandagli,  e  accorrevano  in  loro  soccorso  le 
truppe  dei  Visconti,  chiamate  per  me^zo  dei  convenuti  segni, 
allorché  gli  abitanti  di  Arezzo  corsero  alle  armi  e  cacciarono 
i  ribelli  dalla  città  prima  che  potessero  eseguire  il  reo  loro 
attentato. 

Le  Repubbliche  guelfe  della  Toscana,  in  vista  del  comune 
pericolo,  essendosi  collegate  per  la  comune  difesa,  spedirono 
un'  ambasciata  al  papa,  onde  impegnarlo  a  farsi  capo  di  un 
partito  formato  in  origine  per  difesa  della  Chiesa,  e  a  vendicarsi 
dell'affronto  che  le  sue  armi  avevano  ricevuto  sotto  le  mura 
di  Bologna. 

Ma  il  Visconti  stava  già  da  qualche  tempo  negoziando  colla 
corte  d'Avignone  per  placarla,  e  a  peso  d'oro  procacciavasi 
degli  aderenti  perfino  nel  sacro  collegio.  La  viscontessa  di  Tu- 
renna,  amica  di  Clemente  VI,  donna  che  tutto  poteva  sulfani* 
mo  del  papa,  aveva  ricevuti  i  suoi  doni  ;  onde  gli  sdegni  della 
coi  te  più  s'intiepidivano  ogni  giorno,  e  vacillava  il  suo  propo- 
nimento. I  cardinali,  che  sembravano  accesi  dal  più  vivo  risen- 
timento e  più  fortemente  eransi  dichiarati  per  Tenore  della 
Chiesa  nei  concistori  m  cui  si  trattava  questa  faccenda,  non  si 


'^  vergognavino  nei  sossegaente  concistoro  dì  dichiararsi  favore- 
^  vofi  a  quello  stesso  Visconti  di  cai  erano  stati  poc'anzi  i  più 
^     nobili  avversatori. 

^  Finalmente  il  papa  cedette  alle  istante  dell'amica  e  dei  bor^ 

0  tigiani,  ed  il  5  maggio  del  1352  dichiarò  nel  concistoro  dei 
cardinali  che,  risguardando  alla  sommessione  deirarcivescovo 
-  di  Milano  e  alla  sua  santa  ubbidienza,  annuU^va  i  processi  in- 
3  cominciati  contro  di  lui  e  rivocava  le  scomuniche  e  grinterdettt 
0  fulminati  contro  il  medesimo.  Gli  ambasciatori  del  signore  di 
i  Milano  presentarono  a  Clemente  VI  le  chiavi  di  Bologna,  quasi 
s  in  atto  di  rendergli  quella  città,  ma  il  papa  gliele  restituì.  Nello 
^  stesso  tempo  cedette  per  dodici  anni  la  sovranità  di  Bologna  al 
>|  Visconti,  dandogliela  quasi  in  feudo  in  nome  della  Chiesa,  a, 
il  patto  ch'ei  pagasse  un  canone  annuo  di  dodicimila  fiorini.  Cento- 
-i  mila  fiorini  furono  pagati  dal  signore  di  Milano  alla  camera 
!  apostolica  per  le  spese  della  precedente  guerra  in  Romagna.  Più 
di  dnecentonhila  fiorini  erano  stati  erogati  per  sedurre  1  più 
impcHlanti  personaggi  della  corte  di  Avignone  e  per  ottenere 
quel  vantaggioso  trattato. 

Intanto  le  Repubbliche  toscane,  veggendosi  prive  dei  soc- 
corsi  del  loro  naturale  alleato,  eransi  rivolle  all'erede  di  una 
famiglia  contro  i  cui  antenati  avevano  guerreggiato.  Era  questi 
Carlo  IV,  re  dei  Romani,  nipote  d' Enrico  VII  e  figlio  di'  Gio- 
vanni di  Boemia.  Mandarono  ambasciatori  rappresentando  a  co- 
stui che  quell'avanzo  di  potere  che  gl'imperatori  conservavano 
ancora  in  Italia  sarebbe  in  breve  usurpato  dai  Visconti,  se  il 
monarca  non  ponea  finalmente  un  freno  alla  smisurata  loro 
ambizione,  e  che  essi  eran  pronti  ad  assecondarlo  con  tutte  le 
forze  onde  abbassare  l'alterigia  del  signore  di  Milano,  a  levare 
perciò  un  esercito  ed  a  pagargli  i  sussidi!  allorquando  scende- 
rebbe in  Italia  a  prendere  le  due  corone  dei  Lombardi  e  del- 
rimi)ero  romano.  Carlo  IV  inviò  a  Firenze  un  suo  cancelliere 
per  continuare  questo  trattato,  il  quale  venne  formulato  in  tal 
modo:  e  Per  sussidio  all'imperatore  i  Fiorentini  dovevano  pagare 
duegentomila  fiorini;  Carlo  doveva  comandare  un  esercito  di 
seimila  cavalli,  di  cui  soltanto  un  terzo  al  proprio  soldo  e  il 
resto  a  spese  delle  Repubbliche,  e  i  magistrali  di  queste  dove- 
vano prendere  il  titolo  di  vicari  imperiali.  >  Il  trattato  si  pub- 
blicò in  Firenze  nel  maggio  del  1352,  ma  Carlo  IV,  non  po- 
tendo ancora  allontanarsi  dal  suo  regno  di  Boemia,  ricusò  di 
ratificarlo. 


Nella  stagione  campale  del  13S2  l'arcivescovo  di  Milano  non 
si  era  proposto  d'invadere  la  Toscana  con  un  grosso  esercito, 
ma  avea  distribuite  le  sue  forze  in  diversi  luoghi  e  dato  ajuti 
a  tutti  i  nemici  delle  Repubbliche.  Contro  Perugia  e  Siena  aveva 
addirizzato  il  conte  d'Urbino,  della  famiglia  di  Montefeltro,  il 
signore  di  Cortona  ed  il  prefetto  di  Vico,  il  quale  governava  di- 
Terse  città  dello  Stato  della  Chiesa.  N^gli  Apennini  il  vecchia 
Pietro  Saccone  deTarlati  era  tuttavia,  sebbene  in  età  di  novan- 
,  fauni,  il  più  ardito  od  instancabile  nemico  dei  guelfi,  e  inva- 
deva e  guastava  con  improvvise  scorrerie  ora  le  campagne  di 
Mugello,  ora  quelle  d'Arezzo.  Aveva  pure  costui  occupato  Borgo 
San  Sepolcro,  importante  fortezza  de'Perugini,  e  poco  dopo  An- 
ghiari  ed  altre  due  castella.  Finalmente  Francesco  Castracani 
intraprendeva  nella  Carfagnana  l' assedio  di  Barga  con  forse 
ragguardevoli  somministrategli  dal  Visconti.  Ma  la  lega  guelfa 
usci  gloriosamente  da  questa  tenzone:  riacquistò  dopo  lungo 
assedio  e  spianò  fino  ai  fondamenti  il  forte  castello  di  Bettona, 
po^to  ad  otto  miglia  da  Perugia,  ch'era  stato  occupato  dai  ghi- 
bellini;  costrinse  il  Castracani  a  levare  l'assedio  di  Barga,  dopo 
averlo  disfatto  nella  Garfagnana;  e  Pietro  Saccone,  rotto  presso 
Bibfena,  andò  debitore  della  sua  salvezza  alla  velocità  del  ca- 
vallo. 

La  guerra  non  sostenévasi  da  ambe  le  parti  con  forze  pro- 
porzionate alla  potenza  dell'arcivescovo  di  Milano  e  de'Fioren- 
tini.  Non  pertanto  i  due  partiti  desideravano  egualmente  la 
pace.  Temeva  il  Visconti  gli  effetti  delle  negoziazioni  cominciate 
dai  gnelfl  con  Carlo  IV;  temeva  inoltre  di  cambiauiento  nelle 
disposizioni  della  corte  d'Avignone.  Clemente  VI  era  morto  il  5 
dicembre  del  1352.  dopo  avere  vissuto  non  come  conviensi  ad 
un  capo  della  Chiesa,  ma  come  un  principe  voluttuoso  e  ma- 
gnifico, circondato  da  cavalieri  e  dame,  nel  fasto  e  nei  piaceri. 
E  il  vescovo  di  Chiaramente,  cardinale  d'Ostia,  datogli  per  suc- 
cessore ai  28  dicembre,  sotto  il  nome  d'Innocenzo  VI,  poteva 
benissimo  nodrir  intenzione  di  rompere  un  trattato  suggerito  al 
predecessore  dai  suoi  venali  cortigiani.  L'arcivescovo  di  Milano 
credette  pertanto  opportvno  di  fare  la  pace  coi  guelfi,  onde  non 
avere  nulla  a  temere  dal  canto  della  Chiesa.  Propose  alle  Re- 
pubbliche toscane  di  venire  a  parlamento  in  Sarzana;  la  qual 
proposta  essendo  stata  accettata,  vi  si  recarono  gli  ambascia- 
dori  d'ambedue  le  parti  e  cominciarono  le  loro  conferenze  il 
primo  gennaio  del  1353.  Fu  gradila  dagli  ambasciadori  la  me- 


diuioDe  dei  Gamtecorti  e  deib  Repabbiici  di  Pis»»  eh  eninsi 
consenrati  nratrali  tn  FarcivescoTO  ed  i  FiorenUnì;  e  colli  loro 
mediaaoDe  fa  coochiaso  qq  trattato  dì  pace  tra  il  Visconti  e 
le  RepQtdUìche  di  Firenze^  Perugia»  Siena,  Areuo  e  Pistoia. 
Podu  castelli  presi  da  ona  parte  e  dall'altra  furono  restituiti» 
e  la  Repubblica  di  Pisa  si  chiamò  malleTadrìce  deiresecuzione 
del  trattato. 

Ha  la  pace  di  Sarzana  non  procurò  altro  ai  Fiorentini  che 
un  rispetto  di  pochi  mesi.  Quindi  a  poco  un  esercito  più  formi- 
d^le  che  non  era  quello  delfarcivescovo  saccheggiò  la  Marca 
di  Ancona  e  la    Romagna;  sicché  una  guerra  più  disastrosa 
minacciò  le  frontiere  della  Toscana.  Un  gentiluomo  provenzale» 
cavaliere  di  san  Giovanni  di  Gerusalemme»  chiamato  frate  Mon- 
reale  di  Albano  »  che  gr  Italiani  dissero  poi  fra  Moriale ,  erasi 
dato  a  conoscere  valente  capitano»  militando  pel  re  d'Ungheria 
nelle  guerre  dei  regno  di  Napoli,  lo  quella  sventurata  contrada» 
abbandonata  a  tutti  i  soprusi  dei  soldati»  aveva  il  cavaliere 
imparato  a  dare,  in  certo  qual  modo,  regola  e  norma  alfassas* 
sinio  ed  a  mantenere  una  certa  disciplina  tra'  suoi  soldali ,  al 
quali  facea  però  leciti  tutti  i  delitti.  Aggiungendo  per  tale  guisa 
la  regola  alla  licenza,   egli  aveva  adunata  una  compagnia  di 
ventura,  colla  quale   era  rimasto  nel  regno  di  Napoli  dopo  la 
partenza  di  Luigi  d'Ungheria.  La  regina  Giovanna,  por  liberar- 
sene» avea   assoldato  il  ]\lalatesta,  signore  di  liimini,  con  un 
forte  esercito;  e  questi,  assediato  nel  1352  in  Aversa  il  Moriale, 
il  fcH^va  a  capitolare  ed  a  uscire  dal  regno,  restituendo  tutta 
la  preda  che  aveva  ammassato.  Fra  Moriale,  col  piccolo  numero 
de'soldati  rimastigli  fedeli,  erasi  poslo  al  soldo  del  prefetto  di 
Vico,  signore  di  Viterbo  e  d'Orvieto  e  d' alcune  altre  città  del 
patrimonio  di  San  Pietro;  ma  in  cosi  basso  stalo  egli  ancora 
nutriva  più  vasti  disegni.  A  tutti  i  contestabili  che  comanda- 
vano una  qualche  banda  in  Italia  egli  aveva  mandato  a  proffe- 
rire paga  e  servigio  come  a  troppe  regolari,  signiflcando   loro 
inoltre  che  godrebbero  sotto  i  di  lui  ordini  di  tutta  la  licènza 
di  compagnie  di  ventura.. Raccolti  con  tali  promesse  niiltecin- 
qoecento  cavalli  e  duemila  fanti  sotto  le  sue  bandiere,  ei   li 
condusse  subilo  nel  territorio  del  signore  di  Rimini,  del  quale 
ardentemente  desiderava  vendicarsi.  Entrato  in.  quel  piccolo 
Slato  nel  novembre  del  1353,  prima  che  terminasse  l'inverno 
aveva  di  già  espugnati  quarantaquattro  castelli. 

Frate  Moriate»  intanto  che  metteva  la  Romagna  a  fuoco  e 


—  19t  - 

sangue,  andava  meglio  ordinando  la  sua  compagnia.  Creava  no 
tesoriere  e  parecchi  consiglieri  e  segretari,  coi  quali  consultava 
intorno  ai  comuni  interessi.  Deputava  dei  giudici  per  mantenere 
la  pace  nel  campo  e  far  osservare  tra  i  soldati  la  più  rigorosa 
giustizia,  permettendo  con  tutto  ciò  a  questi  ogni  sorta  di  delitti 
a  danno  degli  abitanti  del  paese  in  cui  guerreggiavano.  Stabi- 
liva un  modo  regolare  per  la  divisione  tra  gli  ufficiali  e  i  sol- 
dati di  tutta  la  preda,  la  quale  era  poi  venduta  a  certi  mercanti 
che  seguivano  r  es^cito  per  quesV  uopo,  e  dei  quali  voleva  il 
Moriate  che  fossero  rispettate  le  persone  e  gli  averi.  Con  sifiEatta 
disciplina  quei  capo  di  masnadieri  faceva  regnare  rabbondtnzft 
nel  campo,  e  le  persone  addette  alla  milizia  d'altro  non  par- 
lavano in  Italia  che  delle  ricchezze  che  si  acquistavano  mili- 
tando sotto  le  sue  bandiere.  Coloro  che  trova vansi  al  soldo  dei 
principi  0  delle  Repubbliche  aspettavano  con  impazienza  il  ter- 
mine del  loro  servigio  per  abbandonarli  e  recarsi  al  campo  del 
Morinle;  e  molti  ancora  commettevano  a  bella  posta  un  qualche 
fallo  per  farsi-  congedare  prima  che  spirasse  il  tempo  della  loro 
condotta. 

11  Malatesta,  oppresso  da  questa  compagnia,  venne  a  richie^ 
dere  di  soccorso  i  tre  comuni  guelfi  di  Toscana.  Rappresentò 
loro  che  quegli  assassini,  nemici  d'ogni  nazione,  d'ogni  governo, 
abbandonerebbero  tra  poco  il  suo  principato  omai  esausto,  per 
attaccare  la  Toscana ,  ove  speravano  di  trovare  maggiori  rie- 
chezze;  e  aggiunse  che,  ove  non  si  punissero  sollecitamente 
costoro,  il  mal  esempio  sedurrebbe  tutti  i  soldati  d'Italia  e 
farebbe  rivolgere  tutte  le  forze  della  società  contro  la  società 
medesima.  Malgrado  cosi  potenti  molivi,  Perugia  e  Siena  rifiu- 
tarono di  provocare  un  nemico  che  non  le  aveva  attaccate. 
Firenze  dava  qualche  soccorso  a  Malatesta ,  ma  tanto  minore 
del  bisogno  che  questi  lo  ricusava  e  prese  a  trattare  d'accordo 
colla  compagnia.  Le  promise  quarantamila  fiorini  perchè  uscis- 
sero dalle  sue  terre,  e  le  diede  per  ostaggio  uno  dei  suoi  figli. 
Egli  non  potè  pagare  così  grossa  somma  che  licenziando  tutte 
le  sue  truppe,  le  quali  passarono  al  servigio  del  Moriale.  Nello 
stesso  tempo  molti  dei  principali  baroni  della  Germania  entra- 
rono nella  Grande  Compagnia,  che  diventò  più  formidabile  che 
non  fosse  stata  giammai. 

Le  Repubbliche  toscane  che  non  aveano  approfittato  delle 
più  favorevoli  circostanze  per  attaccare  la  Grande  Compagnia 
eransi  tuttavia  collegate  per  la  comune  difesa  ed  avevano  con- 


—  193.  — 

Teoato  di  allestire  a  quest'uopo  tremila  cavalli.  Già  il  cootin* 
gente  dei  Fiorentini  era  giunto  a  Perugia ,  quando  al  Moriate 
Tenne  fatto  agevolmente  di  sciogliere  quella  lega  e  di  scostarne 
i  Perugini,  dei  quali  cercò  Tamicizia,  dichiarando  che  rispetto^ 
rebbe  scrupolosamente  la  neutralità  loro  purché  gli  fosse  dato 
di  attraversare  il  loro  territorio  senza  fermarsi  e  pagando  a 
danaro  contante  tutto  quanto  gli  abbisognasse.  Lusingati  dalla 
speranza  di  sottrarsi  al  pericolo  senza  guerra  e  senza  spesa,  i 
Perogioi  vigliaccamente  abbandonarono  i  loro  alleati  e  fecero 
separata  pace  col  Merlale.  Allora  la  compagnia  entrò  per 
Asciano  e  Montepulciano  sul  territorio  di  Siena:  onde  i  Sanesi, 
atterriti  nel  vedersi  abbandonati  dai  loro  vicini,  patteggiarono 
ancor  essi  col  Merlale  e  gli  pagarono  sedìcìmila  fiorini  affinchè 
proseguisse  il  cammino  senza  fermarsi  nel  loro  territorio. 

I  Fiorentini   avevano  in  quel  tempo  deboli  e  mal  esperti 
priori,  che  non  seppero  porre  la  Repubblica  in  istato  di  difen- 
dersi. Andate  a  vuoto  le  pratiche  fatte  coi  Pisani  per  respin- 
gere d'accordo  il  nemico,  non  riuscirono  a  mettere  un  esercito 
iD  campagna.  Nel  mese  di  luglio  del  1354  la  compagnia  gua- 
stò per  otto  giorni  continui  la  vai  d' Elsa  e  le  campagne  di 
Staggia  e  di  San  Casciano  senza   trovare  resistenza.  Essa  era 
ìd  allora  composta  di  settemila  cavalli,  duemila  dei  quali  com- 
battevano  a   piedi  coir  armatura  dei  corazzieri  per  avere  per- 
dati i  cavalli ,  di  millecinquecento  uomini  d' infanteria  eletta  , 
che  allora  chiamavansi  masnadieri ,  e  di  una  truppa  di.  servi , 
di  vivandieri ,  di  malandrini,  che  vantavansi   circa  ventimila. 
Il  Moriale  sapeva  adoperare  vantaggiosamente  questa  gente  che 
segoiva  il  suo  campo  per  saccheggiare  le  campagne  e  pro- 
cacciare vittovaglie  ai  soldati.  I  Fiorentini  risolvettero  all'ultimo 
di  venire  agli  accordi  e  pagarono   venticinquemila  fiorini  al 
tesoro  della  compagnia ,  ed  i  Pisani  sedicimila  oltre'  i  grossi 
doni  fatti  ai  diversi  suoi  capi ,  ed  il  Moriale  promise  alle  due 
Repobbliche  cbe  per  due  anni   non  entrerebbe  più  nel  loro 
^  territorio.  Riscosse  in  seguito  quel  capo  di  ventura  il  rima- 
nente delle  contribuzioni   dovutegli  dai  paesi  della  Romagna, 
iodi  condusse  la  sua  truppa  in  Lombardia ,  ove  ad  istigazione 
dei  Veneziani  erasi  formala  una  lega  contro  V  arcivescovo  di 
Hilano.  Fra  Moriale  si  pose  colla  sua  truppa  al  soldo  della 
lega,  che  gli  promise  centocinquantamila  fiorini  per  quattro 
Q^  di  servizio. 

Dopo  avere  assicurata  con  questo  trattalo  la  sussistenza 

Taiib.  Jnquis.  Voi.  IF.  25 


—  194  — 

della  grande  compagnia  per  lutto  T inverno,  il  cavaliere  di 
Moriate  ne  affidò  il  comando  ad  an  Tedesco  'chiamato  dagli 
italiani  il  conte  Landò  o  di  Landò.  Egli  con  poco  seguito  si 
recò  a  Perugia  e  poscia  a  Roma ,  sotto  colore  di  dar  sesto  ai 
àuoi  domestici  affari,  ma  in  fatto  per  annodare  corrispondenze 
nel  mezzogiorno  d' Italia ,  ove  pensava  di  ricondurre  in  pri- 
mavera la  formidabile  sua  troppa.  I  Perugini ,  spaventati  an- 
cora della  sua  potenza,  lo  accolsero  rispettosamente  e  gli  die- 
dero nelle  loro  terre  il  diritto  di  cittadinanza;  il  cavaliere 
Moriale  passò  in  appresso  a  Roma ,  dove  credeva  di  avere 
diritto  alla  protezione  del  governo  perchè  i  suoi  due  fratelli 
rimasti  in  Perugia  avevano  di  fresco  dato  in  prestito  a  Cola 
da  Rienzo  il  danaro  che  questo  celebre  uomo  avea  impiegato 
nella  leva  di  alcuni  soldati ,  coi  quali  era  rientrato  trionfante 
in  Roma. 

Ma  il  tribuno,  trovandosi  ristabilito  in  Campidoglio,  si  ri- 
guardò di  nuovo  quale  rappresentante  dell'  antica  Repubblica 
romana ,  quale  protettore  dell'  universo,  quale  vendicatore  dei 
delitti  commessi  in  qualunque  parte  d'Italia.  Fece  dunque  im- 
prigionare il  cavaliere  di  Moriale  e  tradurlo  innanzi  al  suo 
tribunale  ;  lo  fece  accusare  d'avere  attaccate  senz'  essere  pro- 
vociaito  le  città  della  Marca  e  della  Romagna ,  di  aver  messo  a 
ferro  ed  a  fuoco  le  campagne  di  Firenze,  di  Siena  e  di  Arezzo, 
di  avere  comandata  una  truppa  di  assassini  colpevoli  di  tanti 
ladronecci  ed  omicidii  ;  e  perchè  il  Moriale  non  altro  oppo- 
neva a  fatti  così  notorii  che  il  preteso  diritto  di  guerra,  il 
tribuno  dichiarò  che  il  titolo  di  capitano  punto  non  isce- 
mava  i  delitti  che  punivansi  nelle  persone  degli  altri  malfat- 
tori ;  condannò  il  Moriale  alla  pena  di  morte  e  gli  fece  tagliare 
il  capo  in  Roma  il  29  agosto  del  1354  sulla  Piazza  delle  Ese- 
cuzioni. 

Cola  da  Rienzo ,  che  nel  dicembre  del  1347  era  fuggito 
-dal  Campidoglio  e  indi  a  un  mese  aveva  dovuto  fuggire  trave- 
àtìto  da  Castel  Sant'Angelo  dopo  di  essere  stato  condannato 
come  eretico  e  come  ribelle  ed  aver  languito  ora  nelle  prigioni 
dell'imperatore  a  Praga ,  ora  in  quelle  del  papa  in  Avignone , 
per  le  Strane  vicende  della  fortuna  irovavasv  di  nuovo  rivestilo 
della  sovrana  autorità  nella  città  medesima  da  cui  era  stalo 
scacciato. 

11  primo  ricovero  di  Cola,  dopo  la  sua  fuga  da  Roma,  era 
stà\à  la  corte  del  re  Lodovico  d'Ungheria.  Ma  avendo  quel  prin- 


—  195  — 

cipe  abbandonata  improvvisamente  l'Italia,  il  tribuno,  trovatosi 
senza  appoggio,  era  passato  in  Germania  per  implorare  la  prò* 
lezione  di  Carlo  lY ,  sperando  di  poter  trasfondere  nel  re  dei 
Romani  il  proprio  entusiasmo  per  Roma  e  di  rendere  questo 
monarca  degno  dei  titoli  ch'egli  portava.  Nello  stesso  senso  il 
Petrarca  aveva  più  volte  scritto  a  Carlo  per  ricorda  rgli  i  doveri 
degrimperatori.  Ma  quel  discendente  della  casa  di  Luxemburgo 
non  aveva  ereditata  la  generosità,  la  lealtà  o  alcun'altra  delle 
virtù  cavalleresche  di  Enrico  VII  o  di  Giovanni  di  Boemia  ;  ei 
diede  vilmente  Cola  in  mano  al  papa,  ed  il  tribuno  giunse  in 
Avignone  nel  1352  in  mezzo  a  due  arcieri.  La  morte  di  Cle- 
mente VI,  il  rispetto  a  che  muoveva  Teloquenza  e  il  chiaro  in- 
gegno del  tribuno,  e  senza  dubbio  le  raccomandazioni  del  Pe- 
trarca, che  scrisse  al  popolo  romano  un'epistola  in  suo  favore 
e  fecela  poscia  trascorrere  di  mano  in  mano  alla  corte  di  Avi- 
gnoDB  e  in  tutte  le  città  in  cui  si  coltivavano  le  lettere ,  per 
destare  la  voce  del  popolo  a  prò  dell'amico,  salvarono  Gola  dal 
supplizio  di  cui  era  minacciato.  Alcun  tempo  dopo  Inno- 
cenzo VI  avendo  risolto  di  liberare  tutte  le  città  della  Chiesa 
dai  tiranni  che  le  governavano  e  di  ridurle  sotto  V  immediata 
autorità  sua,  mandò  Rienzo  al  cardinale  Egidio  Albornoz,  inca- 
ricato a  tal  uopo,  affinchè  il  prelato  si  giovasse  dei  suoi  con- 
sigli ,  della  sua  eloquenza  e  del  credito  di  cui  godeva  ancora 
costui  nella  città  di  Roma. 

Quest'Egidio  Albornoz  si  diceva  discendente  dalle  reali 
schiatte  di  Leone  e  di  Aragona  ;  era  stato  nominato  assai  gio- 
vane ancora  arcivescovo  di  Toledo,  lo  che  non  gli  aveva  impe- 
dito di  fare  la  guerra  ai  mori  e  di  rendersi  glorioso  pe'suoi 
fatti  d'arme  contro  gl'infedeli.  Dopo  la  battaglia  di  Tarifa  aveva 
(&  propria  mano  armato  cavaliere  Alfonso  XI  di  Castiglia,  e  nel 
i343  condotto  l'assedio  d'Àlgesiras.  Ma  essendo  morto  Alfonso  XI, 
rÀIbomoz  lasciò  la  Spagna  e  venne  a  stare  alla  corte  d'Avigno- 
ne, ove  Clemente  VI  gli  diede  il  cappello  cardinalìzio. 

Innocenzo  VI  l'anno  1353  volle  scegliere  il  duce  delle  sue 
armi  nel  sacro  collegio  e  giudicò  il  cardinale  spagnuolo  più 
idoneo  di  ogni  altro  a  riconquistare  gli  Stati  della  Chiesa.  L' Al- 
bornoz entrò  in  Italia  nell'agosto  del  1353  mal  fornito  di  truppe 
e  di  denaro,  ma  con  promesse  di  larghi  sussidii.  L'arcivescovo 
Visconti,  tuttoché  fosse  pieno  di  sospetto  per  la  costui  venuta, 
io  accolse  pure  onorevolmente.  11  cardinale  si  avviò  poscia  a 
Firenze»  ove  giunse  in  ottobre,  ed  ottenne  dalla  Repubblica  il 


—  196  - 

piccolo  di  sussidio  ceotociDqaanla  cavalli.  Le  truppe  dell'Albomot 
^erano  quindi  insufflcienti  di  gran  lunga  al  compimento  de'sooi 
vasti  progetti ,  ma  egli  fidava  assai  meno  neir  armi  che  nelle 
disposizioni  dei  popoli;  imperciocché  la  sua  impresa  dovea  tor- 
nare utilissima  alla  loro  prosperità.  Era  egli  incaricato  di  rendere 
alle  città  la  libertà  e  quel  governo  repubblicano  di  cui  aveano 
goduto  lungo  tempo  sotto  la  protezione  della  Chiesa;  veniva  per 
fare  la  guerra  appiccolì  tiranni,  non  meno  nemici  del  popolo 
che  del  papa;  aHiranni,  air  odioso  imperio  e  alle  passioni  dei 
quali  erano  tutte  attribuite  le  pubbliche  calamità.  Clemente  VI 
aveva  prima  di  morire  pubblicata  una  bolla  di  scomunica  contro 
tutti  gli  usurpatori  6  nominatamente  contro  Giovanni  di  Vico, 
tiranno  di  Viterbo  e  di  Orvieto,  Francesco  degli  OrdelaflB,  tiran- 
no di  Forlì,  e  Giovanni  e  Guglielmo  de'  Hanfredini,  tiranni  di 
Faenza. 

I  Romani  furono  i  primi  a  rappattumarsi  colla  Chiesa  per 
Tinterposto  dell'Albornoz;  ma  la  riconciliazione  loro  era  meglio 
un'alleanza  colla  Chiesa  che  un  atto  di  sommissione  alla  saa 
autorità.  Dopo  la  fuga  di  Gola  da  Rienzo,  Roma  aveva  soflferte 
le  più  disastrose  rivoluzioni:  i  nobili,  tornati  in  città,  avevano 
ricominciato  da  capo  le  loro  violenze  e  rapine;  onde  il  popolo 
sotto  la  condotta  di  Giovanni  Ceroni ,  demagogo ,  che  prese  il 
magistrato  in  Campidoglio  col  titolo  di  rettore,  li  aveva  di 
nuovo  cacciati  e  poi  di  bel  nuovo  richiamati  per  difendere  la 
città  contro  il  prefetto  di  Vico.  I  nobili,  che  mai  non  sapevano 
far  senno  degli  ammaestramenti  deir  esperienza,  avevano  tosto 
ravvivate  le  antiche  loro  contese;  gli  Orsini  e  i  Savelli  eransi 
azzuffati  nelle  strade,  ed  il  rettore  Giovanni  Ceroni,  avendo  in- 
vano chiamato  il  popolo  a  prendere  le  armi  per  mantenere 
r ordine,  avea  deposta  la  sua  carica  ed  abbandonata  una  città 
intollerante  d'ogni  governo. 

Innocenzo  VI,  succeduto  in  quel  mentre  a  Clemente,  aveva 
di  conserva  col  popolo  preposto  due  senatori.  Bertoldo  Orsini 
e  Stefano  Colonna,  airamministrazione  di  Roma;  ma  poche  set- 
timane dopo  la  loro  elezione,  avendo  la  carezza  delle  vi  Uova- 
glie  eccitate  le  lagnanze  del  popolo,  venne  assediato  il  Campi- 
<lo(?lio,  lapidato  FOrsini,  e  il  Colonna,  gettatosi  da  una  finestra, 
non  iscampò  da  morte  che  fuggendo  travestito  da  Roma. 

In  seguito  si  riaccese  piucché  mai  furiosa  la  guerra  tra  i 
diversi  parliti  della  nobiltà ,  e  la  si  protrasse  fino  alP  agosto 
ilei  <383.  Allora,  stanchi  i  Romani  di  farsi  la  guerra  pei  loro 


—  197  — 

signori,  nomiDaroDo  di  dqovo  ud  capitano  popolare,  Francesco 
Baroncelli,  scrìvano  o  notaio  del  Senato.  In  sall^esempio  di  Gola 
da  Rienzo,  questi  prese  il  titolo  di  tribuno,  mandò  ai  supplicio 
i  nobili  più  sediziosi  e  costrinse  gli  altri  a  starsene  in  riposo. 
Roma  era  governata  dal  Baroncelli  quando  il  cardinale  Albor- 
noz,  accompagnato  da  Cola  da  Rienzo,  entrò  nello  Stato  della 
Chiesa ,  e  fu  il  Baroncelli  che  fece  la  prima  convenzione  col 
legato  in  nome  del  popolo.  In  pari  tempo  Montefeltro,  Acqua- 
pendente e  Bolsena  aprirono  le  porte  ai  rappresentanti  del  ro- 
mano pontefice;  ma  Giovanni  di  Vico,  che  portava  il  tìtolo  di 
prefetto  di  Roma ,  pose  in  istato  di  difesa  le  sette  città  di  cui 
erasi  fatto  padrone  e  si  apparecchiò  a  sostenere  la  guerra. 

La  venuta  di  Cola  da  Rienzo  ricordò  ai  Romani  non  le  ul- 
time stravaganze  di  lui,  ma  ì  bei  tempi  del  suo  governo  e  le 
speranze  che  aveva  loro  fatte  concepire.  Essi  recaronsi  in  folla 
ad  incontrarlo  a  Monleflascone.    <  Torna  a  Roma,  >  gli  dice* 
vano,  <  torna  nella  tua  città;  a  te  s'aspetta  il  liberaria  dai  suoi 
mali;  fattene  signore,  e  noi  ti  sosterremo  con  tutte  le  nostre 
forze;  non  dubitare,  tu  non  fosti  desiderato  mai,  né  fosti  amato 
tanto  come  in  questo  giorno.  »  Ma  Cola  più  non  èra  indipen* 
dente;  ogni  suo  passo  doveva  omai  tener  dietro  alla  politica  del 
cardinale,  e  questi  pensava  assai  meno  a  dare  la  signorìa  di 
Roma  ad  un  uomo  intraprendente  ed  ambizioso  che  ad  appro- 
fittare del  credito  che  quest'uomo  godeva  presso  i  Romani 
onde  servire  ad  altri  disegni.  E  ricusando  egli  a  Rienzo  pochi 
corazzieri  per  iscortarìo  al  Campidoglio,  richiese  ai  deputati 
romani  d'armare  il  popolo  contro  il  prefetto  il  Vico  se  deside- 
rafano  che  Cola  ristabilisse  poscia  in  Roma  il  buono  stato. 

In  quel  mentre  Giovanni  di  Vico,  il  quale  aveva  dovuto 
avvedersi  dell'odio  che  gli  portavano  grandissimo  i  cittadini  di 
Viterbo  e  di  Orvieto,  volle  dare  ai  più  arditi  opportunllà  di  ma- 
oifeslare  i  loro  sentimenti,  onde  potere  castigarli.  Dopo  avere 
pascoslamente  accresciuto  il  numero  de'suoi  sgherri,  li  distribuì 
io  lutti  i  luoghi  afforzati  delle  due  città,  con  ordine  di  tenersi 
pronti  a  menar  le  mani.  In  appresso  fece  da  alcuni  suoi  fidati 
gridare  alle  armU  viva  il  popolo!  Tutti  coloro  che  sopportavano 
ìiQpazientementela  tirannide  s'affollarono  a  tali  voci  nelle  strade, 
^ovanni  di  Vico  in  Viterbo,  e  suo  figlio  in  Orvieto,  che  non 
spettavano  altro  che  questo  segno,  uscirono  dai  loro  nascon- 
digli coi  soldati  e  avventandosi  contro  ai  sediziosi,  ne  fecero 
weDda  strage. 


—  198  — 

Con  queste  accistooi  credeva  il  prefetto  di  avere  rassico* 
rata  la  sua  sovraDità:  ed  iovece  accrebbe  il  pericolo  che  gli 
sovrastava;  perchè  il  popolo,  sdegnato,  rìQatava  ornai  di  difen- 
derlo contro  il  legato. 

In  marzo  del  1354  questi  occupò  Toscanella,  ed  in  maggio 
strinse  d'assedio  contemporaneamente  Viterbo  ed  Orvieto  con 
milletrecento  cavalli  e  diecimila  fanti.  I  Romani  andavano  in* 
grossando  il  campo  dell'Albornoz,  ed  altri  rinforzi  gli  giugne* 
vano  da  altre. bande.  Giovanni  di  Vico  non  osò  aspettare  la 
vendetta  del  popolo,  che  poteva  allora  ribellarsegli  senza  peri- 
colo. Si  arrese  a  discrezione  al  legato,  cedendogli  tutte  le  città 
che  occupava,  e  che  furono  rimesse  nella  pristina  libertà  sotto 
la  protezione  della  Chiesa.  Per  altro  TAIbornoz,  riguardando  alla 
pronta  sommessione  del  prefetto,  gli  lasciò  il  governo  di  Cor- 
neto,  Civita  Vecchia  e  Respampano.  Il  cardinale  rivolse  poi  in 
giugno  le  sue  armi  contro  Giovanni  de\Gabrielli,  tiranno  di 
Agobbio,  e  lo  costrìnse  egualmente  a  rimettere  in  libertà  la 
sua  patria. 

La  sommissione  del  prefetto  toglieva  airAlbornoz  ogni  pre- 
testo di  ritenere  più  oltre  presso  di  se  Cola  da  Rienzo.  Gli  con- 
cedette pertanto  la  dignità  di  senatore  di  Roma,  in  conformità 
degli  ordini  che  aveva  ricevuti  dal  papa,  e  lo  lasciò  partire  alla 
vòlta  di  quella  capitale  senza  soldati  e  senza  danaro.  Ma  Cola 
avea  tanti  nemici  tra  la  nobiltà  che  non  poteva  arrischiarsi  a 
traversare  la  campagna  di  Roma  ed  il  Patrimonio  senza  la 
scorta  di  alcune  compagnie  di  corazzieri.  E  trovandosi  allora 
in  Perugia  i  due  fratelli  del  Merlale,  arricchitisi  anch'  essi  coi 
ladronecci  di  lui,  Cola  andò  a  trovarti  e,  manifestando  loro  i 
suoi  progetti  per  la  prosperità  deiritalia,  li  esortò  ad  associarsi 
alla  sua  gloria  ed  al  potere  che  stava  per  ricuperare;  e  con 
quella  persuasiva  eloquenza  di  cui  niun  altro  era  dotato  si 
altamente  gFindusse  in  fine  a  dargli  in  prestito  una  ragguar- 
devole somma  di  danaro  pel  ristabilimento  del  buona  stato.  Per 
la  qual  cosa,  allorquando  Cola,  poche  settimane  dopo,  fece  ar- 
restare il  cavaliere  di  Moriale,  che,  meno  facile  de'suoi  fratelli 
a  prestar  fede  a  belle  speranze,  recavasi  a  Roma  per  tenere  gli 
occhi  addosso  al  tribuno  e  forzarlo  a  mantenere  le  sue  pro- 
messe, ringratitudine  di  Cola,  che  condannava  il  temuto  ven- 
turiere  al  supplicio,  fu  assai  più  notata  che  la  giustizia  della 
sua  sentenza. 

Giunto  in  Roma,  Cola  da  Rienzo  vi  fu  ricevuto  con  sommo 


—  199  — 

giQlMlo»  perchè  il  sao  esilio  aveva  cancellata  la  memoria  della 
sua  vanità.  L'aatorità  che  gli  confidava  il .  popolo  era  confer- 
mata e  fortificata  dai  titoli  di  coi  lo  aveva  rivestito  il  papa.  Non 
solo  Innocenzo  VI  Taveva  nominato  senatore,  ma  riconosciuto 
inoltre  nobile  e  cavaliere,  e  ratificata  in  tal  modo  la  bizzarra 
cerimonia  della  conca  di  San  Silvestro,  in  virtù  della  quale  Gola 
si  era  intitolato  cavaliere  di  Santo  Spirito.  Ma  il  senatore  tri- 
buno, invece  di  emendarsi  de'sooi  difetti,  aveva  nelPesilio  per- 
duto queirentusiasmo  per  le  virtù  e  per  la  patria  che  prima  li 
compensava.  Più  difficile  a  lui  riusciva  il  governare,  dovendo  con- 
ciliare  la  volontà  del  pontefice  con  quella  del  popolo.  Il  supplicio 
del  Mortale  e  quello  di  Pandolfo  Pandolfucci,  cittadino  romano 
universalmente  stimato,  gli  furono  rimproverati  siccome  delitti,  e 
la  guerra  ch'egli  dovea  sostenere  contro  i  Colonna  raddpppiava 
il  suo  imbarazzo.  Stefano  Colonna  il  giovane,  rimasto  capo  di 
questa  casa,  erasi  afforzato  in  Palestrina,  e  Cola,  dopo  averla 
invano  assediata,  era  stato  obbligato  a  ricondurre  i  saldati  a 
Roma  senza  pagarli,  perchè  privo  di  danaro.  Cercò  in  tal  pe- 
noso frangente  di  levare  una  nuova  imposta,  ma  il  popolo  non 
la  sostenne  lungo  tempo. 

Il  di  8  ottobre  scoppiò  una  grave  sedizione  in  due  quar- 
tieri di  Roma  a  un  tempo,  a  Ripa  Grande  e  in  piazza  Colonna. 
Alcuni  forsennati  adunaronsi  al  grido  di  viva  il  popolo^  muoia 
il  traditore  Cola  da  Rienzo  !  e  s'avvicinarono  al  Campidoglio. 
11  tribuno  si  trovò  abbandonato  dalle  sue  guardie,  da' suoi 
ministri  e  dai  servitori,  e  avea  a  fianco  tre  sole  persone.  Non 
pertanto  avea  fatte  chiudere  le  porle  del  palazzo;  il  popolo  vi 
appiccò  il  fuoco,  il  qual^,   divampando  per  la  scala,   chiuse  il 
passaggio  agli  assalitori.  Cola  vesti  la  sua  armatura  di  cavaliere 
e,  preso  in  mano  lo  stendardo  del  popolo,  si  affacciò  al  balcone 
di  una  sala  superiore  e  die   segno  di  voler  parlare.  Tale  era 
il  prodigioso  impero  della  sua  eloquenza  che,  se  gli  fosse  stato 
concesso  di  parlare,  avrebbe  senza  dubbio  ammansata  la  mol- 
titudine. Ma  il  popolo  ricusava  ostinatamente  di  ascoltario  e 
scagliava  pietre  contro  di  lui  per  forzarlo  a  ritirarsi   dal  bal- 
cone; onde  egli,  dopo  avere  fatti  inutili  sforzi  per  calmare  quei 
forsennati,  essendo  stato  ferito  in  un  braccio,  ritirossi  entro  il 
palazzo. 

Non  perciò  perdette  ogni  speranza  di  arringare  il  popolo  e 
di  calmarlo.  Si  fec-e  calare  a  basso  col  mezzo  di  lenzuola  legate 
alle  finestre,  onde  gìugnere  sul  terrazzo  della  cancelleria,  sco- 


perto  pur  esso,  ma  pm  sicuro  dalle  offese.  Di  là  tentò  oacva* 
mente  di  parlare,  ma  ogni  sforzo  per  farsi  udire  fu  vano.  Allora 
fu  veduto  stare  qualche  tempo  in  forse  tra  il  desiderio  d' in- 
contrare una  morte  gloriosa  combattendo  e  la  speranza  della 
fuga;  spogliarsi  dell'armatura,  poi  rivestirla  per  levarsela  di 
nuovo.  Finalmente  si  appigliò  a  quest'  ultimo  partito.  11  palazzo 
era  già  preso  dalla  plebaglia ,  la  quale  saccheggiava  le  sale 
separate  dal  luogo  in  cui  trovavasi  Cola  per  mezzo  deirincendio. 
Egli  cercò  di  spogliarsi  di  tutti  quegli  abiti  che  potevano  dare 
indizio  della  sua  dignità,  s'avviluppò  nel  mantello  del  portinaio, 
si  pose  in  capo  alcune  coltri  da  letto  e ,  come  persona  che 
tornasse  allora  dal  saccheggio ,  attraversando  arditamente  il 
fuoco,  additava  agli  aggressori  in  lingua  romanesca  il  luogo 
d'onde  veniva  colla  preda,  e  faceva  loro  animo  ad  avanzarvisi» 
dicendo  esservi  ricco  bottino.  Passò  in  tal  guisa,  senza  essere 
conosciuto,  le'  due  prime  porte  e  la  prima  scala  ;  e  se  avesse 
potuto  egualmente  superare  la  seconda  era  salvo;  ma  un  romano 
lo  trattenne  dinanzi  all'ultima  porta  e,  presolo  pel  braccio,  gli 
disse:  Ove  vai  tu? 

Cola,  fermato,  non  cercò  più  di  nascondersi.  Gettò  le  coltri 
che  aveva  sul  capo,  e  si  die  a  conoscere  pel  tribuno.  Fu  allora 
condotto  appiedi  della  seconda  sc/ala  del  Campidoglio,  avanti  al 
leone  di  porfido  egizio.  Colà  egli  medesimo  solea  far  leggere 
le  sentenze  di  condanna.  Tra  i  forsennati  che  lo  circondavano 
ninno  ardiva  toccarlo,  un  cupo  silenzio  era  succeduto  alle  furi* 
bonde  grida ,  ed  egli  colle  braccia  conserte  al  seno  aspettava 
il  suo  fato.  E  già  alzati  gli  occhi,  e  girando  lo  sguardo  sulla 
moltitudine,  disponevasi  ad  approflllaré  del  silenzio  del  popolo 
per  arringarlo,  quando  Cecco  del  Vecchio,  un  artigiano  che  gli 
stava  al  fianco,  temendo  gli  effetti  della  sua  eloquenza,  glMm- 
merse  lo  stocco  nel  ventre.  Allora  tutti  coloro  che  gli  erano 
vicini  gli  si  avventarono  contro,  percuotendolo  a  gara  ;  gli  fu 
poscia  recisa  la  testa ,  e  il  corpo  lacerato  dalle  ferite  venne 
trascinato  per  la  città  ed  appeso  presso  al  tempio  di  San  Mar- 
cello all'uncino  d'un  beccaio. 

Così  morì  un  uomo  che  per  ben  due  volte  aveva  fatta 
risorgere  la  gloria  del  nome  romano,  e  peri  immolato  dal  popolo 
alla  cui  difesa  aveva  consacrata  la  vita. 


C.APITOLO  Xi. 


Gloria  del  poatificato  di  lomoccaso  VI.  UrlMii^  V. 
Caterina  da  Siena  e  Bernabò  Viecmiti. 


Innocenzo  V[  ebbe  la  ((loria  di  conclndorn  un  iniovn  Inil^ 

tato  coi  Greci  molto  onorifico  alla  Chiosa  latina.  Il  ctiialo  parò 

non  ebbe  miglior  effetto  degli   altri.  Androni^)  nvnn  liiMrIntn 

morendo  I-erede  del  trono  in  elA  di  novo  anni;  Il  pnlrbirrit  di 

Costantinopoli  ne  prelendea  la  tutela  a  fronto  di  (Giovanni  Ofiti- 

tacozeno  maggiordomo  di  corte,  ma  qun.st*  ultimo  ttiKll^*»  [Ali 

corto,  e  presi  gli  ornamenti  imperiali,  ni  foco  (U)roriarii  dui  jm- 

inarca  di  Gerusalemme  insieme  coirerodc  ikì  trono.  In  np^wìUì 

il  tutore  relegò  il  suo  pupillo  in  TesHalonica  n  fm^  lutto  i\it  Mèi 

Gantacuzeno  mostrò  i  talenti  deirusurfmton)  o  VA*rvM  vaìU  prn^ 

mora  ramicizia  del  papa,  a  cui  spedi  nunrji  mWmwhp  di  pomi 

aDco  alia  testa  della  crociata.  Ciò  non  ((li    nim  n  m^im^rUt 

sol  trono  :  l'amor  del  popolo  rerm  I  l'aMoKt  ni  rU'^t'uiUf  ni 

ritomo  del  giovane  imperadore,  che  tiri  uìAk  vy^Uì^f^m  ^\An* 

Parte  di  rìcondarre  alla  soa  eapilale.  i'AUivMUUh  nU  mnUUiì 

spontaneamente  Tasorpala  corona  e  eoi  rimri^.  di  <>i/^*f^(  nUfVf 

a  oascoDdersi  fra'  roonact  d'AIbr/*,  *if^  Wifi  If *r^|oMlo.  W  #  M 

figfio  del  monaco- imperadore  f^jKn\^^^  KiAf'iftffp'M ,  ^  d»  Sk 

B^nacciaTa  il  feifr>ro:  •'itkìin  p»r1^  i  IntfM  h  ì  ìaUuì  Vf^^n- 

Icodosi  delU  ^mem  titì>.  d^r^i>ww  m$\^i^m*^9^^.  (^  j^fAfM5 

profincie.  Stii&ó  4Wi<f  %  il  Y%\^M^f$  if/^f9\nt¥$  ^fM^f^*',  fìU 

moaritìo  col  pc^fr»,  ìk  &  aà  Ìm^.  ^snf^tmA  ìa^  ì^;  #> 

tomo  dd  Gred  aST  irtfcéiftttw  4i  is^mdi.  ^  di^r  ^«(t'i'^  ^  ^/fi^ 


zione  di  quindici  galee  a  disposizione  dellMmperadore.  Il  vesco- 
vo di  Patti  in  Sicilia  ne  portò  la  ratiflca  alla  corte  di  Tracia, 
ma  lo  zelo  di  questo  prelato  non  altro  ottenne  che  nna  perse- 
cuzione ai  vescovi  greci.  Dal  suo  canto  neppure  il  papa  potò 
somministrare  i  vascelli,  e  il  trattato  andò  a  vuoto. 

Questo  vescovo  di  Patti  era  il  carmelitano  frate  Pier-To- 
maso, il  quale  dalla  più  povera  condizione  fu  tratto  dalla  sua 
eloquènza  e  dalle  sue  virtù  ad  esercitare  le  più  importanti  le- 
gazioni sotto  tre  successivi  pontefici.  Non  era  che  semplice  re- 
ligioso quando  fu  mandato  ai  re  d'Ungheria  e  di  Svevia  e  alIMm- 
perador  Carlo  IV;  il  vescovo  di  Patti  trattò  Tunione  de'  Greci , 
e  vide  la  reggia  di  Costantinopoli  ;  trasferito  a  Moron  ebbe  la 
legazione  d'Oriente  e  scorse  la  Palestina;  arcivescovo  di  Greta 
tornò  in  Italia  e  ridusse  all'obbedienza  Bernabò  Visconti  signor 
di  Milano;  finalmente  patriarca  titolare  di  Costantinopoli  accom- 
pagnò la  crociata  del  re  di  Cipro,  che  prese  Alessandria  e  gettò 
lo  spavento  fra  i  Turchi.  Egli  mori  Tanno  stesso  a  Famagosta. 

Dopo  la  morte  d'Innocenzo  VI,  Urbano  V  fu  il  sesto  pon- 
tefice francese  che  sali  di  seguito  la  sede  romana  in  Avignone. 
Egli  pure  ebbe  Sonore  di  vedersi  corteggiato  da  tre  monarchi 
d'Europa,  da  un  sovrano  dell'Asia  e  da  due  imperadori,  Carlo  IV 
e  Giovanni  Paleologo  figlìuol  d'Andronico:  visite  ch'ei  retribuì 
con  indulgenze  e  reliquie.  Egli  fu  uno  dei  migliori  pontefici 
avignonesi.  Lontano  dal  contrastare  co'principi,  la  sua  pietà  e 
il  suo  zelo  lo  tennero  sempre  diretto  alla  ricupera  di  terra-santa, 
per  cui  lo  stesso  imperatore  dei  Greci  si  mostrava  impegnato. 
Per  le  sue  cure  l'entusiasmo  delle  crociate  parve  un  momento 
che  riprendesse  vigore,  e  tutti  i  principi  che  vennero  succes- 
sivamente alla  sua  corte  e  furono  da  lui  stesso  insigniti  della 
croce,  promisero  di  prestarvisi  con  ogni  impegno.  Pietro  Lusi- 
gnano  re  di  Cipro,  che  da  molti  anni  viaggiava  in  Europa  per 
quest'oggetto,  vi  aveva  già  dato  buon  cominciamento;  la  presa 
di  Alessandria  fatta  da  lui  sembrava  promettere  in  questo  porto 
una  scala  sicura  per  quanti  avessero  deliberazione  d' andarvi. 
Urbano,  che  n'ebbe  ragguaglio  dal  suo  legato,  il  patriarca  frate 
Pier-Tomaso,  ne  fu  lietissimo,  ma  si  seppe  ad  un  tempo  in 
Europa  e  la  vittoria  e  la  ritirata  dei  cristiani,  i  quali  si  erano 
contentali  di  saccheggiarla. 

Urbano  V  aveva  pur  pensalo  all'Italia.  Costiluilo  in  minor 
dignità,  era  stato  uno  dei  legati  che  i  suoi  predecessori  vi  ave- 
vano spedito  ;  ne  conosceva  i  bisogni  e  aveva  fermo  animo  di 


—  105  — 

riine&m.  Le  bxìoDi  dei  bkmchi  e  dei  neri  si  emio  aggiunte 
a  quelle  dei  ghibellini  e  dei  guelfi,  e  tutti  insieme  ?i  pertaTano 
il  colmo  degli  odii  d?ilì ,  le  de?astaaioni  e  le  stragi.  Urbano , 
per  secondare  i  Toti  nnanimi  di  tutti  i  buoni,  disegnò  venirTi 
in  pm^ona,  ma  Tamore  nazionale  la  Tinse  in  luì:  Ti  si  lasciò 
Ted^  come  un  lampo,  e  la  sua  inopinata  partenza  la  rimise 
ben  tosto  nel  suo  primiero  abbattimento. 

Durante  il  suo  soggiorno  in  Italia  conobbe  il  papa  due 
nnoTi  fondatori  d' istituti  monastici,  e  approTÒ  le  loro  regole*  ' 
GioTanni  Colombino  senese,  rinunziando  ad  un  tratto  agli  onori 
della  sua  patria  e  alle  ricchezze  con  ogni  sorta  di  mezzi  acqui- 
state,  credè  riparare  a  passali  scandali,  aggirandosi  di  città  in 
dttà  accompagnato  da^,suoi  discepoli  In  abiti  laceri  e  a  lesta 
niid:i.  Urbano  ne  fissò  loro  uno  più  decente  bianco  con  man- 
tello colore  di  cannella:  furono  conosciuti  col  nome  di  gesuati. 
L*altra  è  Brigida  nobile  sTedese,  che,  morto  il  marito,  fondò 
nella  diocesi  di  Lincop  un  monastero  per  sessanta  religioso  e 
Tenticinque  frati,  dando  loro  alcune  costituzioni,  ch'ella  diceTa 
aTer  ricoTule  immediatamente  da  Gesù  Cristo.  Urbano  le  approTò 
come  tali  ;  ma  non  Tolle  credere  un'  altra  rivelazione  che  la 
buona  Todova  diceva  aver  avuto  da  Dio,  ch'et  morrebbe  appena 
ritornato  in  Avignone.  Morì  di  fatto  non  ancor  tre  mesi  dacché 
v'era  giunto.  A  quel  passo  estremo  egli  assoggettò  quanto  atea 
dato  e  fatto  alla  correzione  della  Chiesa;  espressione  singo- 
lare in  un  papa  che  fa  conoscere  ch'egli  non  si  credeva  infal- 
Ubile. 

Uniremo  ai  fondatori  poco  fa  nominati  un  vescovo  illastre 
per  nascita  e  per  virtù  che  onorava  una  piccola  chiesa  della 
Toscana.  Andrea  Corsini  era  un  giovane  libertino  ed  indocile, 
a  cui  un  sogno  narratogli  dalla  madre  afililta  Te'  cambiare  vita. 
Fatto  carmelitano,  i  suoi  parenti,  per  non  vederlo  mendicare 
nelle  strade,  gli  procurarono  il  vescovado  di  Fiesole,  dove  passò 
lentitrè  anni  nelF  esercizio  delle  virtù  episcopali  e  religiose  ; 
raro  esempio  nel  secolo  decimoquarto,  che  in  fatti  scarseggia 
assai  di  nomi  inseriti  nei  martirologi. 

Gregorio  XI,  nipote  di  Clemente  VI,  fu  eletto  in  Avignone» 
dieci  giorni  dopo  la  morte  d'  Urbano,  con  dispiacere  di  tutta 
ritalia.  Questo  pontefice  deviò  dalForme  di  due  immediati  suoi 
predecessori  e  colFamaro  suo  zelo  accrebbe  le  sventure  d'Italia. 
Egli  pose  tra  le  principali  sue  cure  il  distruggere  col  ferro  e 
col  fuoco  ogni  sorta  di  eretici,  e  non  faceva  che  farli  crescere. 


—  204  — 

Era  sempre  la  slessa  dottrina,  detta  allora  manicheismo,  che 
animava  questi  fanatici ,  benché  cambiassero  nome ,  preso  da 
qualche  pratica  singolare  che  vi  aggiungevano.  Cosi  i  turluj^ni  i 
si  distinsero  sotto  Gregorio  XI:  essi  imitarono  i  cinici  del  paga-  à 
nesimo  pretendendo  non  fosse  alcun  male  soddisfare  anche  in 
pubblico  i  bisogni  della  natura  ;  e  perciò,  oltre  Tandare  mèzzo  i 
ignudi,  usavano  della  libertà  delle  bestie  nella  congiunzione  i 
dei  sessi.  Gli  inquisitori  procedevano  contro  codesti  pazzi  con  ,i 
tutto  il  rigore  che  il  papa  esigeva;  la  guerra  e  le  esecuzioni  «« 
sacro-militari  comprendevano  gì'  interi  villaggi  e  riempivano  \p 
d'  orrore  e  dì  stragi  le  stesse  città  ,  col  pretesto  Che  fossero 
asili  di  eretici. 

Spesso  però  ne  riceveano  la  pariglia ,  e  gì'  inquisitori  e  i 
legati  trovarono  talvolta  le  intere  popolazioni  armate  contro  di 
loro.  In  Italia  particolarmente  si  organizzò  un'insurrezione  gene- 
rale, di  cui  centro  era  Firenze,  onde  si  sparse  nello  Stato  eccle- 
siastico. Bologna  scacciò  il  legato  ;  Perugia  ne  imitò  Tesempio, 
e  da  per  tutto  correvasi  in  folla  sotto  gli  stendardi  dei  Fioren- 
tini nei  quali  appariva  in  lettere  cubitali  la  parola  libertas.  Il 
papa  ne  fu  al  sommo  irritato;  egli  era  uomo  incapace  di  misure 
pacifiche  e  replicò  contro  i  Fiorentini  la  bolla  stessa  che  Cle- 
mente V  avea  scagliato  mezzo  secolo  prima  sui  Veneziani.  Ella 
produsse  i  più  miserabili  effetti,  massime  in  Avignone  e  neirio- 
ghilterra,  dove  il  re  ed  il  papa  confiscarono  a  loro  vantaggio 
le  ricchezze  del  Fiorentini  e  li  dichiararono  schiavi.  Ciò  nono- 
stante la  ribellione  non  cedeva,  e  fu  d'  uopo  spedire  in  Italia 
delle  truppe  e  un  cardinale  alla  loro  testa ,  senza  ottenere  di 
più.  Ciò  che  gli  fece  piegare  fu  il  danno  che  a  lungo  andare 
ne  risentiva  il  loro  commercio;  essi  implorarono  la  pace.  Una 
donzella  senese  di  non  ancora  trenranni  s' incaricò  di  portare 
sul  Rodano  a  Gregorio  XI  il  pentimento  dei  suoi  nazionali,  e 
non  ebbe  ribrezzo  di  sostenere  la  maestà  e  la  collera  del  sommo 
gerarca,  a'cui  piedi  tremavano  1  re.  Caterina  giunse  a  placarlo, 
e  il  papa  mise  nelle  sue  mani  il  perdono,  raccomandandole 
però  l'onore  della  Chiesa. 

La  sua  legazione  ottenne  ancora  un  altro  più  considerabile 
vantaggio  a  tutta  T  Italia.  Non   erano  le  sole  virtù   di  questa 
vergine  e  il  suo  coraggio  eroico  che  piegarono  il  papa  alle  sue— 
istanze,  quanto  i  prodigi  che  di  lei  narrava  il  suo  confessore, 
il  generale  dei  domenicani,  che  l'avea  accompagnata  nel  viaggio:^ 
ella  era  stata  sposata  da  Gesù  Cristo  con  un  anello  d'oro  ornato^ 


i 


—  20ù  — 

<]i  quattro  perle  e  d'un  diamante;  avea  succhiato  la  ferita  del* 
suo  costato,  cambiato  di  cuore  cod  lui  e  ricevute  nelle  mani  e 
nei  piedi  le  cicatrici  delle  sue  piaghe  ;  cose  che  ninno  vedeva 
fuori  di  lei,  che  ninno  or  crede,  ma  che  erano  allora  credute 
con  tutta  la  buona  fede  dal  confessore,  dal  papa,  e  dalla  Cate- 
rina medesima,  tanto  può  una  immaginazione  viva,  riscaldata 
dalla  continua  meditazione,  dalle  lunghe  veglie  e  dagli  eccessivi 
digiuni.  Con  un  lai  credito  ella  persuase  facilmente  Gregorio  XI 
essere  volere  di  Dio  eh'  egli  ritornasse  alla  sua  capitale.  Gre- 
gorio si  decise  a  ubbidirvi ,  e  Roma  rivide  dopo  otto  anni  il 
suo  vescovo  ufiizìare  solennemente  nel  Valicano.  Ma  il  papa 
era  francese  e  mal  volentieri  privava  la  patria  dell'onore  d'essere 
il  soggiorno  dei  sommi  pontefici.  Intanto  però  ch'ei  si  occupava 
sei  disegno  di  ricondurvi  la  sede,  mori  in  Roma  col  dispiacere 
di  tutto  il  collegio  dei  cardinali,  la  cui  massima  parte  era  della 
stessa  .  nazione.  Il  conclave   che  si   preparava  in   mezzo  alla 
eflervescenza  d'un  popolo  stanco  d' una  straniera  dominazione 
minacciava  la  procella,   che  scoppiò  in  fatti  col  più   terrìbile 
rimbombo  e  produsse  una  nuova  rivoluzione  nella  repubblica 
-cristiana. 

Milano  in  quest'epoca  viveva  sotto  la  tirannìa  dei  due  fra- 
telli visconti,  Bernabò  e  Galeazzo  II  ;  fra  costoro  non  trovavasi 
molta  armonia;  i  vizi  loro,  la  maniera  di  governare  atroce- 
mente non  disponevano  i  popoli  a  bramare  il  loro  impero.  I 
principi  italiani,  tanto  più  attivi  e  costanti,  quanto  più  spera- 
vano di  riuscire  contro  di  uno  Stato  diviso,  non  risparmiarono 
^rte  e  forza  in  ogni  occasione  ;  per  modo  che  non  v'é  da  ma- 
ravigliarsi come  sotto  i  due  fratelli  non  s'ampliasse  lo  Slato , 
ma  bensì  come  ei  non  cadesse  in  un  totale  discioglimento. 
Bologna  era  passata  nelle  mani  del  papa,  e  Bernabò  vi  spinse 
le  sue  armi  fanno  1360,  ma  senza  frutto  ;  poiché  Innocenzo  VI 
fece  venire  nell'  Italia  Lodovico  re  (f  Ungheria ,  con  buon  nu- 
mero di  armati,*  in  soccorso  di  Bologna,  e  Bernabò  dovette  riti- 
rarsi. Quel  sommo  pontefice  scomunicò  Bernabò  Visconti  ;  e 
Urbano  V,  che  fogli  successore ,  confermò  la  scomunica  con 
sua  bolla.  1  delitti  che  s' imputavano  in  quella  bolla  a  Bar- 
nabò  Visconti  sono  :  ch'egli  proteggesse  gli  eretici;  ch'egli  un 
giorno,  avendo  fallo  chiamare  avanti  di  sé  j'arcivescovo,  lorva- 
raenle  gli  avesse  comandato  di  porsi  in  ginocchio  ;  il  che  fallosi 
dal  timido  prelato,  Bernabò  gli  dicesse:  —  Non  sai  tu,  poltrone, 
che  io  sono  papa  ed  imperatore,  e  signore  di  tutte  le  mie 


—  «06  — 

terre?  —  ch'egli  sagli  ecclesiastici  esercitasse  giurisdizioDe,  obbli* 
gandoli  a  pagare  i  carichi,  facendoli  impr^gioDare ,  e  coodan- 
naDdoli  al  supplizio,  come  gli  altri  cittadini,  e  che  si  arrogasse 
la  collazione  de'beneflcii  e  Famministrazione  dei  beni  eccle- 
siastici.  Questa  era  la  settima  volta  in  cui  il  papa  prendeva  a 
scomunicare  ed  interdire  i  signori  o  la  città  di  Milano.  Parlano 
gli  storici  degli  anatemi  pronunziati  nel  secolo  undecimo  da 
Alessandro  II  all'  occasione  di  sottomettere  la  Chiesa  milanese 
alla  giurisdizione  di  Roma.  Come  pure ,  del  famoso  interdetto 
pubblicato  sopra  Milano  da  Innocenzo  III,  Tanno  1216,  per 
fargli  abbandonare  il  partito  di  Ottone  IV;  e  l'altro  interdetta 
di  Urbano  IV,  di  cui  fanno  memoria  nelle  loro  pagine,  per 
abbassare  i  signori  della  Torre,  nel  1262:  poi  le  scomuni* 
che  pronunziate  contro  Matteo  I  Visconti ,  nelPanno  1321  „ 
allorché  la  potenza  di  lui  cominciava  a  dar  gelosia  a  Gio- 
vanni XXII. 

Narrano  pure  come  lo  stesso  sommo  pontefice,  non  con- 
tento della  scomunica  e  del  fin  tardetto  sulla  città,  facesse  pub- 
blicare contro  Galeazzo  I  una  crociata ,  e  invadere  il  di  lui 
Stato;  non  che  come  il  papa  Clemente  VI  ponesse  air  inter- 
detto la  città,  e  scomunicasse  Giovanni  Visconti ,  arcivescovo  » 
e  i  tre  suoi  nipoti  Matteo,  Bernabò  e  Galeazzo  II,  perchè  avea 
Tarcivescovo  comprato  dal  Pepoii  il  dominio  di  Bologna. 

Ora  la  scomunica  cadde  sopra  Bernabò,  il  quale  era  stato 
già  due  altre  volte  anatemizzato  di  riverbero,  come  discendente 
da  Matteo  e  nipote  di  Giovanni.  Il  papa,  per  mezzo  d'  un  car> 
dinal  legato,  faceva  delle  proposizioni  di  accomodamento  a  Ber- 
nabò. Bologna  era  stata  comperata  da  Giovanni  arcivescovo  per 
ducentomila  fiorini  d'oro.  Questo  era  il  solo  titolo  che  poteva 
Bernabò  legittimamente  allegare  per  sostenere  il  dominio,  e  il 
legato  gli  offeriva  di  sborsargli  la  metà  di  quella  somma,  cioè 
centomila  fiorini  d'oro,  purché  egli  abbandonasse  le  sue  pre- 
tensioni sopra  Bologna.  Ma  Bernabò  non  faceva  altra  risposta 
se  non  questa  :  Voglio  Bologna.  Nuove  offerte  faceva  il  legato, 
e  Barnabò  rispondeva  sempre  :  Voglio  Bologna.  Per  deludere 
tutte  le  arti  d'un  uomo  colto,  ingegnoso  ed  accorto,  basta  che 
egli  abbia  a  trattare  con  un  uomo  ostinato,  ignorante  e  feroce. 
Tali  erano  i  dìalogly  tra  Bernabò  ed  il  legato.  Gli  annali  mi- 
lanesi c'insegnano  che  esso  signor  Bernabò  ai  suoi  giorni  ebbe 
in  odio  gli  uomini  scienziati,  laici,  cherìci  e  prelati,  e  qualun- 
que uomo  virtuoso,  e  sempre  elevò  sublimemente  gli  idioti,  ì 


Sarnaii  ì^Mrftick  sul  ponte  éMiìe^mno  Ja  Iranfiifiare  ìiitto  é  scomunica 
aimMclaii  ofel/^oipa 


—  107  — 

urodeli,  gli  uomini  yili,  infami  ed  omicidi.  Un  prìncipe  di  Ut 
arattere  poteva  far  tremare  gli  nomini  di  mento  che  avevano 
la  sventura  di  trovarsi  con  lui,  ma  non  poteva  riuscire  felicemente 
ne' suoi  progetti.  Le  sue  armi  ritornarono  verso  del  Bolognese 
ranno  1361,  e  più  d'una  volta  vennero  malamente  l)attute,  senza 
ch'ei  punto  acquistasse. 

Due  fatti  accaduti  in  quel  tempo  dimostrano  qual  principe 
fosse  Bernabò,  e  qaal  rispetto  egli  avesse  pel  diritto  delle  genti. 
Innocenzo  VI  gli  spedi  come  nunzi  due  abati  benedettini.  Essi 
erano  incaricali  di  trattar  seco  lui  per  terminare  la  controversia 
di  Bologna,  ed  avevano  le  l)olle  pontificie  da  presentargli.  Ciò 
accadde  nell'anno  1361.  Bernabò  stavasene  nel  castello  di  Mari- 
goano,  rintanato  colà  per  allontanarsi  dalla  ferocissima  pesti- 
lenza che  devastava  Milano,  abbandonata  dai  due  fratelli  al  caso, 
e  senza  adoperare  alcune  di  quelle  precauzioni  colle  quali  Lu- 
chino loro  zio,  nell'anno  1348,  cioè  tredici  anni  prima,  aveva 
saputo  preservarla,  abbenchè  allora  quella  sciagura  avesse  de- 
solata gran  parte  dell'Italia.  Ivi  attese  i  due  nunzi,  e  concertò 
la  cosa  per  modo  che  il  primo  incontro  con  essi  loro  seguisse 
al  ponte  sotto  cui  scorre  il  fiume  Lambro.  Bernabò,  scortato 
da  una  buona  caterva  d'armali  su  di  quel  ponte,  ricevè  i  due 
nunzio  i  quali  se  gl'inchinarono,  e  presentarongii  le  bolle  con- 
segnate loro  dal  papa.  Bernabò  seriamente  si  pose  a  leggerle, 
indi  biecamente  mirando  i  due  ministri:  <  Scegliete,  disse,  una 
delle  due,  o  mangiare  o  bere.  »  I  due  nunzi,  posti  in  mezzo 
agli  armali,  senza, scampo,  mirando  il  fiume  che  scorreva  al 
disotto,  costretti  dopo  replicate  e  impazienti  istanze  alla  scelta, 
mostrarono  che  non  piaceva  loro  di  bere.  «  Ebbene,  mangiate 
dunque,  »  disse  il  feroce  Bernabò;  e  furono  costretti  ì  due  ve- 
nerabili prelati  a  mangiare  la  pergamena  tutta  quanta,  il  cor- 
doncino di  seta  e  la  bolla  di  piombo.  Con  tale  insulto  atroce 
ardi  Bornabò  di  violare  non  solamente  la  riverenza  che  si  deve 
al  sommo  sacerdote,  ma  i  doveri  che  recìprocamente  uniscono 
i  principi  e  le  nazioni  fra  di  loro  ;  e  persino  le  sacre  leggi 
d'ospitalità,  che  impongono,  anche  agli  stessi  popoli  agresti  e 
selvaggi,  di  non  abusare  della  condizione  d'uno  straniero  rico- 
verato in  casa  nostra.  Uno  di  questi  due  abati  era  Guglielmo 
da  Grimoaldo  di  San  Vittore  di  Marsiglia,  il  quale,  pochi  mesi 
dopo  di  quest'obbrobrio,  venne  creato  sommo  pontefice,  e  chia- 
tnossi  Urbano  V.  È  facile  l'immaginarsi  quai  sentimenti  dovesse 
poi  avere  Urbono  V  verso  di  Bernabò,  da  cui  era  stato  insul- 


—  208  — 

tato  con  tanta  soperchieria.  Egli,  in  fatti,  con  on  breve  dato 
da  Avignone  il  giorno  3  di  marzo  dell'anno  1363,  scomonicò 
solennemente  Bernabò;  lo  dichiarò  eretico,  decaduto  dall'ordine 
di  cavalière,  spogliato  d'ogni  onore,  diritto  e  privilegio,  e  co- 
mandò che  alcuno  non  osasse  più  di  trattare  con  lui.  Nel  breve 
della  scomunica  vi  eran  queste  parole  :  «  Perciò  il  Signore  ti 
distruggerà  finalmente,  ti  svellerà  e  farà  esule  te  dal  tuo  taber- 
nacolo, e  la  progenie  tua  dalla  terra  dei  viventi.  »  Inoltre,  agli  11 
di  luglio  dello  stesso  anno  1363,  dal  cardinale  Egidio  Àlbornoz 
fece  pubblicare  la  crociata  contro  Bernabò,  come  già  era  stata 
pubblicata  contro  suo  zio  Galeazzo  quarant'anni  prima  ;  e  tale 
e  tanto  era  in  ciò  l'impegno  del  papa,  che  (quantunque  egli 
venisse  istantemente  sollecitato  e  da  Pietro  re  di  Cipro,  e  dal 
re  di  Francia  medesimo,  ad  intimare  una  crociata  contro  dei 
saraceni,  che  sempre  più  si  rendevano  formidabili  ai  cristiani 
del  Levante)  egli  ricusò  di  Tarlo  per  allora;  anzi  protestò  ch'ei 
non  avrebbe  mai  dato  mano  a  crociata  alcuna,  sin  tanto,  che 
non  avesse  ottenuto  esito  felice  quella  già  intimata  contro  di 
Bernabò.  Allora  però  questa  crociala  non  ebbe  effetto;  poiché 
la  combinazione  degli  interessi  dei  princìpi  gl'indusse  ad  accor- 
dar la  pace  Tanno  1364,  in  cui  Bernabò  cedette  Bologna  al  papa, 
che  s'obbligò  a  pagargliela  cinquecentomila  fiorini  d'oro.  La 
perdita  di  Bologna  e  del  Modenese  fatta  da'Visconti  non  fu  una 
riparazione  bastante  al  pontefice;  poiché  con  nuova  bolla  del- 
l'anno 1368,  in  data  30  maggio,  lo  stesso  papa  pubblicò  una 
seconda  crociata  contro  di  Bernabò  e  fé' che  lo  attaccassero  con 
formidabile  esercito  l'imperatore,  la  regina  di  Napoli,  il  Mar- 
chese di  Monferrato,  gli  Estensi,  i  (lonzagbi,  i  Malatesti,  i  Car- 
raresi, i  Perugini  e  i  Sanesi  collegati  insième  coi  Pontificii. 
Questo  esercito  collegato  avrebbe  svelta  dalle  radici  la  sovra- 
nità de'Visconli  se  non  avesse  portato  seco  quel  principio  di 
lentore  e  debolezza,  che  sono  inseparabili  dalle  armate  combi- 
nate, ciascuna  porzione  delle  quali,  perchè  dipendente  da  un 
distinto  sovrano,  si  crede  la  prima  di  ogni  altra,  o  almeno  l'e- 
guale, e  si  disperde  nelle  rivalità,  che  più  la  tengono  occupata 
di  quello  non  faccia  la  causa  comune.  Così  potè  Bernabò  difen- 
dersi, e  senza  nuove  perdite  ottenere  la  pace,  segnata  il  giorno  11 
febbraio  1369.  Né  la  morte  di  Urbano  V,  che  aveva  sofferto  Tin- 
sulto  personale,  diede  costante  fine  all'odio  pontificio:  parve  anzi 
che  nel  successore  Gregorio  XI  venisse  trasfuso  come  un'ere- 
dità; poiché  Gregorio,  l'anno  1372,  combinò  una  nuova  lega. 


—  109  — 

fin  i  prìncipi  d'Italia»  e  vedendo  che  le  armi  non  andavano  pro- 
speramente, scomunicò  di  bel  nuovo  Bernabò,  e  liberò  i  sud- 
diti dal  Muramento  di  fedeltà;  poi  animò  l'imperatore  Carlo  IV, 
il  quale,  con  suo  diploma  dato  in  Praga  il.  giorno  3  di  agosto 
dello  stesso  anno  1372,  privò  i  due  fratelli  Visconti  Bernabò  e 
Galeazzo  del  vicariato  imperiale  e  d' ogni  dignità,  e  Bernabò 
venne  persino  degradato  dell'  ordine  equestre.  Alle  forze  degli 
alleati,  per  opera  del  cardinale  di  Bourge,  legato  pontificio,  si 
unirono  quelle  del  duca  di  Savoia;  e  sebbene  nemmeno  questa 
volta  l'armata  combinata  giugnesse  a  fare  conquista  sulle  terre 
di  Bernabò,  ella  però  potè  devastarle,  e  porre  a  saccheggio  e 
in  rovina  una  parte  del  suo  Stato.  Cosi  la  rozza  e  feroce  viola- 
lione  del  diritto  delle  genti  produsse  a  Bernabò  delle  inquietu- 
dini mortali  durante  il  suo  regno;  e  questo  è  il  primo  de'due 
fatti.  L'altro  fatto  si  vede  originato  dall'  animo  ìstesso  di  quel 
sovrano  truce  ed  ignorante.  Sino  dall'anno  1362  s'era  formata 
ralleanza  fra  il  papa,  i  Carraresi  signori  di  Padova,  gli  Scaligeri 
signori  di  Verona,  gli  Estensi  signori  di  Ferrara,  e  un  Gonzaga 
signor  di  Reggio.  Questi  principi  collegati,  prima  di  commet- 
tere ostilità,  spedirono  i  loro  ministri  a  Bernabò,  facendogli 
ffire  che  essi  avevano  fatto  lega  col  papa,  ma  unicamente  in 
fifesa  dello  Stato  della  Chiesa,  non  mai  per  invadere  gli  Stati 
attrai:  onde  qualora  il  signor  Bernabò  avesse  restituito  i  luoghi 
da  lui  occupati  nei  Bolognese  e  nella  Romagna,  essi  non  avreb- 
bero mosse  le  armi  contro  di  lui.  Tale  era  la  commissione  di 
que'legatì.  A  questo  nobile  .uflBcio  Bernabò  corrispose  nella 
pih  villana  maniera.  Ordinò  che  i ,  legati  venissero  a  corte  ; 
ivi  non  si  degnò  di  lasciarsi  vedere,  ma  volle  che  esponessero 
la  loro  ambasciata  avanti  di  un  notare;  e  poiché  ebbero  ciò  ese- 
guito, egli  spedi  una  squadra  d'armati  e  fece  attorniare  i  legati 
de'prindpi;  indi  furono  essi  dalla  forza  obbligati  a  indossarsi 
aleane  vesti  bianche  preparate  apposta  per  esporli  alla  derisione 
della  plebe.  Vennero  poscia  costretti,  in  tal  ridicolo  arnese,  a 
pom  a  cavallo;  e  per  due  buone  ore  volle  che  in  tal  meschina 
6  i»uKza  forma  rimanessero  avanti  la  porta  del  palazzo  di  corte: 
iodi  li  fece  girare  per  la  città,  esposti  al  vilipendio  ed  alle 
lischiale  della  ciurmaglia;  e  con  tale  infamia  vennero  scortati 
H  sino  ai  confini.  Non  è  dunque  da  stupirsi  che  i  principi 
ìtaliaoi  sempre  gli  fossero  poi  contrarli  e  pronti  a  secondare 
contro  di  lui  tutte  le  proposizioni  del  papa. 

TiMB.  Inquii.  Yol.  IL  S7 


CAPITOLO  XII. 


Pontefici  d'ATignone,  Pietro  d'Abano  e  Oeceo  d'Ascoli. 


Per  altro  la  stanza  de'ponle&cì  in  Avignone  era  stata  di 
sommo  danno  alla  Chiesa  :  né  solo  aveano  guasti  i  costami  e 
la  politica ,  ma  conturbato  il  riposo  e  la  fede.  La  corruzione 
de'prelati,  la  scandalosa  e  disonesta  yita  de'gioyani  cardinali, 
per  favore  o  per  brighe  innalzati  alla  porpora»  erano  talmente 
notori!,  che  Avignone  più  non  era  additata  con  altro  nome  che 
quello  di  Babilonia  d'Occidente.  Né  quest'epiteto  trovasi  soltanto 
nelle  aspre  invettive  doi  Petrarca,  ma  e  nelle  epistole  e  nelle 
scritlnre  degli  uomini  più  moderati  e  pii  del  decimoquarto  se- 
colo. Avignone  capiva  la  feccia  degritaliani  e  deTrancesi  ;  colà 
venivano  a  cercare  ventura  gli  aggiratori  d'ogni  nazione,  e  seco 
recavano  i  più  abbominevoli  vizi  de'loro  compatriotti  ;  e  il  po- 
polo e  la  corte  d'Avignone  «avevano  fatto  costume  di  ciò  che 
appo  le  altre  nazioni  era  vizio.  Ne'precedenti  secoli  la  corte  di 
Roma  era  già  stata  accusata  di  smisurata  ambizione,  di  dissi- 
mulazione, di  avarizia,  d'ingratitudine  ;  ma  nel  tempo  che  i 
papi  ebbero  stanza  in  Francia,  la  corte  loro  si  fece  venale  e 
perfida  inverso  alla  corte  di  Francia  :  licenziosa  ed  intempe- 
rante divenne  la  privata  vita  de'suoi  prelati  ;  e  tra  gli  stessi 
papi,  Clemente  VI  non  andò  esente  dal  rimprovero  di  scostu- 
matezza. 

Gritalianì,  cui  i  propri  governi  cercarono  di  rendere  su- 
perstiziosi, sono  meno  di  ogni  altro  popolo  inclinati  alla  credu- 
lità. Il  misticismo,  non  meno  che  le  tetre  fantasie,  è  proprio  di 


-  211  — 

querelimi  De'qoali  roomo  pare  condannato  ai  dolore  per  la  in- 
focata 0  gelida  temperatura.  Nei  deserti  della  Tebaide  e  sulle 
arene  del  Gange,  o  in  riva  al  Baltico  e  tra  le  rupi  della  Scozia, 
roomo  può  starsi  in  continuo  timore  del  principio  malefico, 
di  cui  sembra  non  potere  obliare  la  potenza  ;  e  può  offerire 
alla  divinità  que'dolori  che  paiono  indivisibili  dall'umana  specie: 
ma  di  che  si  tremerebbe  in  Italia,  ove  tutto  sorride  all'uomo  T 
E  come  mai  volgere  tutti  i  pensieri  airaltra  vita,  allora  che  si 
dolce  è  la  presente? 

Nel  decimoquarto  secolo  gritaliani  accoppiavano  al  costume 
di  commerciare  e  comunioare  coi  popoli  di  diversa  credenza 
assai  vaghezza  di  osservazione,  e  fino  ed  esercitatissimo  acume 
per  quest'  uopo.  Il  disprezzo  in  cui  teneano  la  corte  d' Avi- 
gnone avea  lor  fatto  scuotere  quasi  al  tutto  il  giogo  della 
Chiesa  romana  ;  intanto  che  gli  spiriti  erano  rimasti  assai  più 
sottomessi  in  Francia,  ove  ridestandosi  assai  sovente  il  fanatismo 
con  DQOve  forze,  rinascevano  le  persecuzioni.  Nella  stessa  Parigi, 
oel  Delfinato  ed  in  altre  provincie  della  Francia  furono  arsi 
sui  roghi  nel  1373  molti  eretici.  Le  varie  loro  sètte ,  tutte 
egualmente  condannate  ad  atroci  supplizi ,  aveano  i  nomi  di 
TnrlQpioi,  Beghini,  Lollardi  e  Valdesi.  Ma  in  Italia  queirenta- 
siasmo  per  coi  nascono  e  si  propagano  le  eresie  eA  il  fana- 
tismo per  coi  SODO  perseguitate  non  erano  egualmente  feroci 
e  crodeli. 

I  Visconti ,  in  tempo  delle  lunghe  guerre  che  avevano 
sostenute  contro  la  Chiesa,  ricattavansi  delle  censure  dei  papi 
col  molestare  il  clero  dei  loro  Stati,  e  più  taglieggiavano  i  chie- 
rici quanto  più  eran  percossi  dalle  scomuniche  o  dagrinterdetti. 
Né  i  tiranni  della  Bomagna  si  erano  più  de*  Visconti  lasciati 
atterrire  dai  fulmini  de'papi  o  dalle  crociate  bandite  contro  di 
loro:  e  se  altri  di  que'tiranni  sorgevano,  altri  cadevano,  ciò  era 
effetto  della  lotta  tra  V  ambizione  e  la  libertà,  o  dell'  affezione» 
dell'odio  0  della  vendetta,  che  sembrarono  ereditarli  in  alcune 
fomìglie;  né  ci  aveva  a  che  fare  la  religione.  I  Siciliani,  dopo 
i  famosi  loro  vespri,  più  non  furono  in  pace  colla  Chiesa  per 
lo  spazio  di  ottantanni.  I  principi  di  Sicilia  della  casa  d'Aragona 
erano  noncoranti  delle  scomuniche  dei  papi;  sicché  dall'una 
all'  altra  estremità  dell'  Italia  i  principi  più  non  temevano  le 
censore  ed  i  castighi  ecclesiastici. 

La  filosofia  d' Aristotile  era  stata  universalmente  adottata 
io  tutte  le  scuole  unitamente  coi  commentarii  d'Averroe.  B, 


—  «t  — 

• 

greco  filosofo,  supponendo  un'anima  unica,  animatrice  di  tutti 
gii  uomini,  fassi  con  ciò  a  distruggere  la  fede  nella  prowidensa 
e  la  moralità  delle  azioni.  Ma  il  glossatore  arabo  aveva  ancora 
più  direttamente  attaccata  la  religione;  ed  opponendo  la  trista 
sua  dottrina  airìslamismo,  in  cui  era  nato,  al  cristianesimo  ed 
al  giudaismo  »  che  aveva  studiati ,  vólto  aveva  in  ispezialità 
contro  i  cattolici  i  suoi  sarcasmi  ed  i  suoi  ragionamenti.  Il 
Petrarca  tentava  pressoché  egli  solo  di  resistere  al  torrente 
degli  increduli  ;  ma  la  setta  eh'  egli  combatteva  nelle  sue  filo* 
sofiche  scritture  e  nelle  sue  lettere  godeva  d' illimitata  libertà 
e  mostravasi  ogni  giorno  più  ardita.  Gredeasi  appena  che  le 
antiche  dottrine  potessero  giovare  al  popolo;  e  la  religione, 
quasi  incompatibile  con  una  tale  filosofia,  andava  perdendo  il 
suo  impero  sopra  gli  animi. 

I  prelati  immersi  ne'vìzi  e  nella  lussuria,  di  che  il  Petrarca 
nelle  sue  lettere  ha  lasciata  la  più  orrenda  pittura ,  avevano 
perduto  lo  spirito  di  dominazione ,  non  meno  che  i  popoli 
l'abitudine  di  essere  loro  sottomessi.  Servilmente  ligi  alla  corte 
di  Francia,  i  prelati  nemmeno  più  si  vergognavano  della  loro 
dependenza.  Più  in  loro  non  si  ravvisava  quello  spirito  che 
s'innalza  sopra  le  cose  del  mondo,  né  quell'annegazione  di  so 
medesimi  che  mantiene  la  vera  religione,  e  che,  quand'  anche 
si  accoppiasse  con  una  falsa  religione,  la  renderebbe  pure  rispet* 
tabile  ed  utile  agli  uomini.  Anziché  risguardare  alla  terra  in 
quanto  si  riferisce  a  Dio,  il  clero  più  non  pensava  altrimenti 
a  Dio,  che  in  ragione  dei  propri  interessi  sulla  terra.  La  religione 
era  diventata  in  mano  sua  un  mezzo  afifatto  umano  di  governo, 
uno  stromento  che  i  despoti  tenevano  nelle  loro  mani  per 
valersene  contro  i  popoli. 

Una  religione  corre  ognora  grandissimo  rischio  quando  le 
sì  costituisce  un  capo  sulla  terra;  poiché,  facendosi  dipendere 
la  reverenza  dovutale  dair  eventualità  e  dalla  virtù  d'  un  solo 
uomo,  la  Chiesa  si  rende  mallevadrice  de'portamenti  del  ponte- 
fice che  la  rappresenta.  Vero  è  che  ne' tempi  della  sventura  e 
della  persecuzione  ovvi  maggiore  ragione  di  sperare  che  non 
di  temere ,  quanto  ai  portamenti  del  suo  capo;  impeciocché 
«gli  s'infiamma  in  allora  dello  zelo  medesimo  della  sua  greggia, 
e  l'alto  grado  nel  quale  ei  si  vede  innalzato  sopra  gli  altri 
tutti,  non  é  che  un  impulso  a  dare  loro  di  sé  più  luminosi 
esempli.  I  primi  vescovi  di  Roma ,  se  dobbiamo  prestare  fede 
ai  martirologi,  furono  quasi  tutti  santi  e  martiri;  ma  di  poi  che 


—  213  — 

la  Chiesa  trionfò  deir  idolatrìa,  la  leggenda  medesima  piii  non 
sttribtilsce  ai  loro  snccessori  tanti  pregi  e  tante  yirtb.  Il  capo 
del  clero,  depositario  del  suo  potere,  non  può  causare  di  essere 
trascinato  dagl'  interessi  temporali  del  suo  governo ,  e  di  far 
servire  la  religione  alla  politica.  È  questo  il  maggiore  abbassa- 
mento cui  si  possa  esporre  un'autorità  divina.  Il  più  nobile  ed 
il  iHù  disinteressato  sentimento  del  cuore  umano,  T  abnegazio- 
ne, rintero  sacrificio  di  sé  medesimo  si  cangia  in  siffatto  modo 
nel  Yilissimo  calcolo  deir  interesse  e  della  frode. 

Onde  a  ragione  fu  detto  cbe  per  quanto  appare  a  chi  non 
Tede  fondo  nelle  cose,  essere  d'un  interesse  affatto  secondario 
che  il  supremo  gerarca  sia  travolto  come  tutti  gli  altri  sud- 
diti sotto  la  legge  del  diritto  comune,  e  si  deve  necessaria- 
mente discutere  il  problema  della  sua  piena  indipendenza.  Si 
può  ammettere ,  anzi  è  da  desiderare  che  questo  fardello  del 
potere  temporale  sia  tolto  di  dosso  al  pontefice ,  ma  egli  è  a 
corarsi  che  la  sua  autorità  affatto  spirituale  non  sia  inceppata 
dalla  prepotenza  secolare,  ovveramente  da  indegni  riguardi  umani, 
SQggerili  dalla  soggezione  ad  un  principe.  Un  pontefice  a  cui 
è  guarentita  V  indipendenza ,  compenserà  spesse  volte  col  suo 
coraggio  nel  biasimare  le  opere  loro  i  torti  suoi  propri  ;  repri- 
merà, come  sempre  fecero  i  papi,  i  pessimi  costumi ,  il  di  cui 
esempio  è  si  pernicioso,  ove  sia  dato  da  chi  siede  in  trono; 
citerà  alcuna  volta  al  tribunale  di  Dio  un  re  come  falsario,  un 
principe  perchè  impudico  o  assassino.  In  mezzo  alle  loro  in- 
giuste passioni,  ai  loro  implacabili  odii  gli  Innoceozi,  gli  Ales- 
sandri ,  allorché  volsero  le  armi  della  Chiesa  contro  i  re  di 
Francia,  di  Spagna,  di  Germania,  d' Inghilterra,  fecero  se  non 
altro  sentire  ai  popoli  che  i  sovrani,  non  meno  de'  sudditi,  pos- 
sono essere  puniti  nei  loro  delitti. 

Quando  la  corte  di  Roma,  trasportatasi  oltremonti,  divenne 
tetta  di  Francia ,  ella  cessò  di  esprimere  in  tale  maniera  il 
^to  dei  popoli  e  delle  future  generazioni.  Ella  copri  col^suo 
ioanto  le  scelleratezze  di  Filippo  il  Bello,  e  gli  somminfstrò 
inbmi  pretesti  per  la  carneficina  dei  templari.  Fece  co'succes- 
sori  di  lui  vergognosi  patti  intorno  ai  beni  della  Chiesa,  sotto 
prttesto  di  una  crociata ,  che  punto  non  si  divisava  adunare. 
Tradi  con  fallaci  speranze  i  cristiani  d'Oriente ,  eccitandoli  a 
pmdere  le  armi;  poi  lasciandoli  senza  aita  in  preda  al  ferro 
de' musulmani. 

Clemente  VI,  invece  di  profondere  a  Filippo  di  Valois  tutti 


-«14  — 

i' tesori  della  Chiesa  sotto  pretesto  d'una  guerra  sacra,  alla 
quale  costui  era  lungi  dal  pensare,  avrebbe  dovuto  muoversi  a 
quei  coraggio  che  manifestò  in  quest'occasione  frate  Andrea  di 
Antiochia,  monaco  italiano  che  tornava  in  allora  da  Terra  Santa. 
Questo  venerando  monaco ,  abbattutosi  in  Filippo ,  aflèrrò  le 
briglie  del  cavallo,  e,  fermato  il  re,  gli  parlò  in  tal  guisa  :  e  Sei 
tu,  gli  disse,  quel  Filippo  re  di  Francia  e' ha  promesso  a  Dia 
e  a  santa  Chiesa  d'andare  colla  tua  potenza  a  trarre  dalle  mani 
de' perfidi  saraceni  la  terra  dove  Cristo  nostro  salvatore  volle 
spandere  il  suo  immacolato  sangue  per  la  nostra  redenzione?  » 
Il  re  rispose  di  si:  allora  il  venerabile  religioso  gli  disse:  e  Se 
tu  questo  hai  mosso,  e  intendi  di  seguitare  con  pura  inten* 
zinne  e  fede,  io  prego  quel  Cristo  benedetto  che  per  noi  volle 
in  quella  terra  santa  ricevere  passione,  che  dirizzi  i  tuoi  anda* 
menti  al  fine  di  piena  vittoria,  e  intera  prosperità  di  te , e  del 
tuo  esercito ,  e  che  ti  presti  in  tutte  le  cose  il  suo  ajuto  e  la 
sua  benedizione,  e  t'accresca  nei  beni  spirituali  e  temporali  colla 
sua  grazia,  sicché  tu  sii  colui  che  colla  tua  vittoria  levi  Pob- 
brobrio  del  popolo  cristiano  e  abbatti  l'errore  dell'iniquo  e 
perfido  Maometto,  e  purghi  e  mondi  il  venerabile  luogo  di  tutte 
le  abominazioni  degl'infedeli,  in  tua  per  Cristo  sempiterna  gloria. 
Ma  se  tu  questo  hai  cominciato  e  pubblicato,  la  qual  cosa 
resulta  in  grave  tormento  e  morte  dei  cristiani  che  in  quel  paese 
conversano,  e  non  hai  l'animo  perfetto  con  Dio  a  questa  im- 
presa seguitare,  e  la  santa  Chiesa  cattolica  da  te  ingannata» 
sopra  la  tua  casa ,  e  i  tuoi  discendenti  e  '1  tuo  reame  venga 
l'ira  della  divina  indegnazione ,  e  dimostri  contro  a  te  e  tuoi 
successori,  e  in  evidenza  de'  cristiani  il  flagello,  della  divina 
giustizia ,  e  contro  a  te  gridi  a  Dio  il  sangue  degli  innocenti 
cristiani,  già  sparto  per  la  bocca  di  questo  passaggio.  » 

Non  è  perciò  da  credere  che  i  papi  francesi  non  chiamas- 
sere  altresì  innanzi  al  loro  tribunale  i  principi  con  cui  guer- 
reggiassero. Furono  sì  uditi  rimproverare  ai  Visconti  i  loro 
delitti,  ma  non  già  con  quella  sublime  favella  che  si  conviene 
al  ministro  di  Dìo  sulla  terra,  bensì  col  linguaggio  d'un  acca- 
nito nemico.  Urbano  Y,  in  una  bolla  pubblicata  contro  di  Ber- 
nabò ,  io  chiama  figlio  di  perdizione ,  animato  di  uno  spirito 
diabolico:  ìndi  passa  a  disvelare  tulle  le  turpitudini  di  questo 
esoso  tiranno.  Ma  non  i  delitti,  bensì  le  conquiste  di  Bernabò» 
voleva  il  papa  punire  ;  perciò'  quand'  ebbe  ottenuta  la  restitu- 
zione  di  alcune  fortezze  che  Bernabò  possedeva  nel  Bolognese» 


Urbano  lo  accolse  di  nuovo  in  grazia,  assolvendolo  di  tntte  le 
censure  pronunciate  contro  di  lui. 

La  dipendenza  de'  papi  avìgnonesi  dalla  corte  di  Francia 
muoveva  a  malcontento  tutto  il  resto  dell'Europa.  Accusavano 
i  tribunali  ecclesiastici  di  parzialità,  di  venalità  i  legati  ed  i 
governatori  nominali  dal  papa ,  e  tutta  la  Chiesa  di  corru- 
zione. Tutti  i  vescovi  erano  tenuti  di  risiedere  presso  la  loro 
greggia,  e  guest'  obbligazione  veniva  continuamente  ricordata 
dagli  uomini  dabbene  al  primo  vescovo,  che  avrebbe  dovuto 
dare  a  tutti  gli  altri  l'esempio  della  disciplina;  onde  il  biasimo 
di  tutta  la  crìstiauità  ricadeva  sul  di  lui  capo.  Frattanto  gli 
abusi  coirandare  del  tempo  gettavano  radice;  e  la  corte  ponti- 
ficia non  sarebbe  mai  stata  ricondotta  da  Avignone  a  Roma,  se 
la  prima  di  queste  città  avesse  continuato  ad  essere  per  i  papi 
un  sicuro  asilo,  inaccessibile  alle  armi  ed  alle  rivoluzioni  del 
rimanente  dell'  Europa.  Ma  i  Valois ,  durante  lo  sgraziato  loro 
regno,  più  non  restituirono  alla  corte  pontificia  quella  pace  di 
cui  ella  aveva  goduto  in  Provenza  in  cambio  della  perduta 
libertà. 

Due  sommi  uomini  caddero  vittime  con  poco  divario  di 
tempo  nella  prima  metà  del  secolo  XIY,  e  questi  furono  Fran- 
<^sco  Stabili  e  Pietro  d'Abano. 

Il  primo,  conosciuto  sotto  il  nome  di  Cecco  d'Ascoli,  dalla 
terra  in  cui  era  nato,  uomo  di  alto  ingegno,  non  potendo  far 
eco  ai  pregiudizi  che  regnavano  in  quei  tempi ,  né  approvare 
molte  cose  che  si  facevano  dai  papi  in  Avignone  ed  a  Roma  e 
per  tutta  Italia  da' loro  rappresentanti,  avea  esternato  alcune 
critiche,  ed  alcune  parole,  che  riferite  al  Sani'  Offizio  diedero 
presa  al  suo  risentimento.  Trovavasi  a  quei  di  in  Bologna;  ed 
il  tribunale  dell'Inquisizione  risapute  le  vere  o  false  colpe,  se- 
condo lui,  dello  Stabili,  lo  fece  agguantare,  e  posto  alla  prova 
de'tormenti,  fu  condannato  a  far  pubblica  penitenza  ed  ammen- 
da, e  privato  dei  titoli  di  maestro  e  di  dottore.  Addolorato  per 
cosi  iniqua  sentenza,  la  quale,  ben  lungi  dal  mitigare  lo  sdegno 
che  avea  contro  l'arbitrario  tirannico  potere  dell'Inquisizione,  lo 
aveva  a  mille  doppi  accresciuto,  e  temendo  d'incorrere  nuova- 
mente in  qualche  scappuccio,  risolvette  di  mutar  cielo  sperando 
di  trovare  meno  inclemente  fortuna.  Per  lui,  uomo  di  svegliato 
ingegno,  era  mestieri;di  recarsi  in  una  terra  gentile,  ospitale  ed 
incivilita,  onde  trar  profitto  delle  sue  cognizioni  ;  ebbe  quindi 
scelto  Firenze;  Bologna  d'altronde  a  que'  di  era  tumultuosa,  es- 


seDdo  nato  gravissimo  pianto  fra  Jacopo  Popoli  figlio  di  Taddei 
e  il  yescoYO.  Avea  Jacopo  promesso  ad  un  prete,  di  cui  serviyas 
io  secreto  missioni,  un  lauto  beneficio  in  benemerenza  dei  pre 
stati  servigi,  ed  avendolo  chiesto  inutilmente  al  vescovo,  in  ui 
ìmpeto  di  collera  oltraggiò  il  prelato  dandogli  una  guanciata 
il  vescovo,  non  più  ricordando  Tevangelico  precetto,  in  vec< 
di  volgere  Taltra  guancia  al  percussore,  diede  mano  ad  un  pu 
gnale  che  tenea  soppannato,  e  feri  il  Popoli.  Costui  si  mise  ; 
gridare  a  squarciagola,  ed  entrarono  nella  sala  i  suoi  scheran 
che  avea  lasciato  nelfanticamera,  e  dall'altra  accorsero  i  famigl 
del  prelato,  e  nacque  fra  gli  uni  e  gli  altri  ferocissima  rissa 
al  rumore  della  quale  s' adunò  il  popolo ,  il  quale  diviso  ii 
due  parti  venne  anch'egli  alle  mani,  e  Tepiscopio  fa  saccheg- 
giato  dalla  parte  vincitrice,  e  il  vescovo  si  sottrasse  alta  morb 
colla  fuga.  Questo  trionfo  del  Popoli  produsse  poscia  la  cacciata 
de'Maltraversi,  il  cui  capo  era  Brandaligi  di  Gozzadini. 

Ma  se  Bologna  era  in  tumulto,  Firenze  per  ciò  non  er; 
tranquilla.  La  cacciata  del  duca  d'Atene  avea  svegliati  i  rancor 
delle  parti,  la  peste  che  avea  incominciato  a  propagarsi  teneva 
gli  animi  in  grave  apprensione.  L'autorità  che  la  soma  teneva 
delle  cose  più  non  pensava  che  a  vincere  gli  avversi  partiti,  ec 
intanto  i  frati  inquisitori  avevano  preso  un  inflasso  da  non  dire 
Per  le  chiese,  per  le  piazze  predicavano  sbracciandosi  contro 
eresiarcbi,  negromanti,  streghe,  bestemmiatori,  e  già  minaccia 
vano  vicino  Testremo  giorno  del  creato  per  incutere  grave  ti- 
more negli  animi  del  popolo.  Certo  frate  Giorgio  da  Folignc 
predicava  in  Firenze  sulla  piazza  ora  chiamata  del  Gran  Duca 
ed  il  popolo  ^devoto  pendeva  dalle  sue  labbra.  Frate  Giorgie 
apparteneva  a'Francescani  che  avevano  anch'essi  grande  influ 
enza  nel  tribunale  deirinquisizione,  ed  il  punto  sol  quale  pit 
insisteva  nella  sua  conciono  era  Tobbligo  che  correva  a'  fedel 
di  subito  denunciare  al  Sant'Offizio  colóro  che  si  rendevano 
colpevoli  di  parole  irreverenti  verso  la  Chiesa  ed  il  sacerdozio 

Francesco  Stabili  tramutatosi  a  Firenze  entrò  in  qualche 
intimità  con  persona  per  la  quale  avea  avuto  commendatizia  de 
Bologna.  Franco  e  sincero,  aprì  a  costui  l'animo  suo,  non  senz< 
sfogare  l'interno  sdegno  che  giustamente  nutriva  contro  colore 
che  punir  volevano  perfino  il  pensiero,  la  cosa  che  il  somme 
Iddio  concesse  libero,  che  lietò  all'uomo  di  scrutare  riserbandc 
solamente  a  sé  stesso  il  diritto  di  farne  giustizia.  Ma  il  Sant'Uf* 
ficio,  che  venivagli  sempre  a  panni,  seppe  tosto  quanto  aves 


n'afe  ùifffo  s/ff  Mm  chpreé/ff^iffff/f.ren'/.  '  m'h^/ttrfùr'. 


\-  . 


'') 


dMlo  eoDfaro  ^  lui  e  DQO?ameDle  FraDcesco  Stabili  cadde  io 
inaoo  dell'ÌDesorabile  trìbuDale,  che  senza  tante  formaUtà  lo 
coodanoò  a  morte.  E  la  iniqua  senten:;a  fa  pubUicamenle  ese* 
goita  correndo  Tanno  1347.  L'infelicissimo  secchio  era  aUora 
pervenuto  all'età  d'anni  75.  Vittima  d'un  odio  feroce,  altro  non 
gli  era  serbato  che  il  compianto  de'posteri.  Cecco  d'Ascoli  ha 


VltJJI  NI, 


Cecco   d'  Ascoli. 


nome,  fra  gli  antichi  poeti  volgari,  come  autore  d'un  mediocris- 
simo poema  in  volgare  comunemente  chiamato  V  Acerba,  ma 
per  isbaglio  del  copista  del  manoscritto  che  servi  alla  prima 
edizione  fattane  in  Venezia  nel  1476  in  quarto.  Il  vero  titolo 
dall'autore  dato  all'opera  sua  è  Acerbo,  ossia  Acervo,  die  dal 
htino  Acervtis  suona  congerie  o  cumulo  di  più  cose  diverse  ; 
e  tale  appunto  si  è  il  subbietto  che  abbraccia  la  fisica,  la  storia 
naturale»  la  filosofia  morale  con  accompagnatura  di  visioni  astro- 
lapche.  Airedizione  veneta  tennero  dietro  altre  quattro  raris- 
sine  tutte,  ed  altre  tre  più  comuni  fatte  a  ^filano  con  commenti 
di  Nicolò  Massetti. 

Pietro  d'Abano  fu  celebre  medico  e  filosofo  italiano  del 


TiiiB,  Inqui$.  Voi.  II. 


88 


—  118  — 

medio  evo  ;  nacque  nel  1280  in  Abano,  villag^o  nella  proTlncft 
di  Padova  ai  piedi  dd  Ciolli  Euganei.  Pietro  h  uno  de'piii  colti 
scienziati  de'anoi  tem(d»  ed  i  suoi  scritti  jportano  una  tal  quale 
impronta  di  orìginaliti,  die  prova  essere  stato  nell'aatore  im 


Pietro  d'Abano^ 


ingegno  franco  e  acuto.  Fu  pertanto  tenuto  in  conto  di  uno  dei 
principali  rinnovatori  della  vera  scienza  in  Italia.  La  sua  dot- 
trina lo  fece  riguardare  come  un  negromante.  Il  Sant'UfSzio 
di  Padova  lo  fece  agguantare;  e  dopo  lungo  processo  e  tormento 
come  reo  di  magia  riuscì  ad  essere  dimesso  dalla  prigione.  Ma 
non  gran  tempo  dopo  fu  accusato  d'eresia;  per  aver  impugnata 
resistenza  dei  demoni;  la  vera  risurrezione  di  Lazzaro  ecc.;  ' 
sottoposto  a  nuovo  processo,  durante  il  quale  mori  in  Pad 
nel  1316«  Fu  sepolto  in  onta  al  volere  degli  inquisitori  m 
chiesa  di  S.  Antonio.  Ma  il  tribunale  dell'Inquisiadone  imi 
cabile  lo  volle  perseguitare  estinto.  Pubblicò  la  sentenza 
condanna,  e  lo  fece  abbruciare  in  effigie. 


'/ 


—  219  — 

Per  meglio  provare  randamento  deirinquisizione  in  Italia 
daremo  ora  il  processo  di  alcani  casi,  cominciando  da  nno  te- 
nuto in  Ferrara  per  bestemmia»  dal  qaale  potrà  il  lettore  cono- 
scere il  modo  della  procedura  che  si  teneva  dagli  inquisitori, 
potentissimi  in  Ferrara  perchè  protetti  dai  Marchesi  d'Este,  nella 
vigilanza  dei  qnali  traevano  argomento  alla  propria  sicurezza. 


CAPITOLO  XIII. 


Regole  del  Tribunale  di  8ant'0£Eteio 
€he  si  deTono  pratioare,  e  che  si  danno  per  istroaione. 


PRIMA  DENUNZIA  DI  BESTEMMIE 
1.  Ferrara,  Giorno  5  giugno  1382. 

(Avanti  d'ogni  cosa  si  nota  il  giorno j  mese  ed  anno). 

%  SpoDte  personalìter  comparait  coram  adm.  rev.  parte  vi^ 
cario  Sancti  Officii  Auximi»  existente  in  propria  cella,  in  mei-- 
que,  etc. 

(Si  scriverà  la  comparsa  personale  del  denunziante,  la 
presenza  del  giudice»  il  luogo  dove  si  fa  l'esame  €f  la  presenza 
del  notaro) 

3.  Titius  fllius  quondam  Berengarii  Cedrari  de  Neapoli  ; 
aBtatis  annorum  quadraginta  circiter;  mercator  degens  de  prdB- 
senti  in  hac  civitate  Auximi  sub  parocbia  malori;  cai  delato 
iuramento  veritatis  dicendae,  quod  praestitit  tactis  sacris  litteris, 
exposuit  ut  infra. 

(Circa  il  denunziante  si  noterà  il  nome,  padre,  cognome, 
patria,  età,  esercizio,  abitazione  e  giuramento  ;  e  queste  cose 
dovrà  imparare  a  memoria  il  notaro  quando  non  le  sa;  e  circa 
il  giuramento  avvertirà  il  vicario  di  farlo  stendere  tutto,  cioè 
tactis  sacris  litteris,  essendo  questo  l'ordine  della  Sacra  Con* 
gregazione). 


-MI- 

4.  Sari  no  arnio;  Don  mi  ricordo  il  giorno  iNreciso  né  il 
mese,  ma  era  poco  avanti  o  poco  dopo  Pasqua  rosata,  che,  ri- 
trovandomi  in  piazza  vicino  alla  porta  della  città  detta  la  Porta 
Grande,  verso  la  sera  ginocava  dalla  banda  sinistra  di  detta 
porta  Marzio  Belloni  e  Florido,  Galanti  con  Belramo  Agosti,  tutti 
talzolaj,  al  giuoco  dei  dadi.  E  perchè  Belramo  perdeva,  disse 
in  collera  quattro  o  cinque  volte  Pattana  di  Dio;  e  lo  so,  per* 
thè  ero  presente  e   lo  udii  colle  mie  orecchie.  Belramo  fu 
ripreso  da  Marzio;  ma  Belramo,  invece  di  correggersi,  disse: 
^  Non  mi  romper  la  testa,  se  non  vuoi  che  ti  dia  una  pugna- 
lata. —  E  son  venuto  a  iscaricare  la  mia  coscienza,  d'ordine 
del  mio  confessore. 

(Si  avvertirà  di  far  dire  nel  corpo  della  denunzia,  per 
«Titare  tante  interrogazióni,  il  tempo,  il  luogo,  i  testimonii.  Toc- 
«asiooe  delle  bestemmie,  il  numero  delie  volte,  la  causa  della 
sdenza,  la  correzione,  se  pur  fu  fatta,  con  la  risposta  del  reo 
ed  il  motivo  che  Tha  spinto  di  venire  al  Sant'Ufficio.  Se  poi  il 
giudice  si  ricorderà  di  far  spiegare  qualcuna  delle  suddette 
circostanze,  allora  si  supplirà  con. quelle  interrogazioni  cheaa- 
raoDO  necessarie.  Si  osservino  quelle  parole  nel  principio  della 
denunzia:  non  mi  ricorda  del  giorno  preciso  nò  del  mescy  ma 
^a  poco  (wcmti  o  poco  dopo  Pasqua  rosato,  perchè  si  deve  for 
dire  al  denunziate  il  tempo  più  preciso  che  si  può;  se  non  sa 
il  giorno,  dica  la  settimana,  o  il  mese,  o  la  stagione;  e  ciò  per 
MTvirsene  il  giudice  nell'esame  dei  testimonii). 

5.  Int.  Àn  sciat,  vel  dici  audierlt,  dictum  Belramum  alias 
Uas(9ì6masse? 

(Si  fa  quest'interrogazione  per  sapere  se  Belramo  sia  abi- 
toato  nelle  bestemmie). 

Besp.  Io,  padre,:  non  so  uè  ho  inteso  dire  che  Belramo  altre 
volte  abbi  bestemmiato. 

6.  Int.  Quare  tamdiu  distulerit.  denunciare  in  Sancto  Officio 
dictom  Belramum? 

(S'interroga  in  questa  maniera  per  farlo  avvertilo  acciò 
HD'altra  volta  sia  più  sollecito  ;  e  si  fo  anco  per  vedere  se  sia 
caduto  in  scomunica  per  non  aver  denunziato  dentro  il  termine 
€tke  prescrive  l'editto  del  Sant'Ufficio). 

Besp.  Non  sono  venuto  prima  perchè  non  ho  pensato  d'es* 
sere  obbligato,  ma  avendomi  poi  aperti  gli  occhi  il  mio  confes* 
sono»  son  comparso  a  soddisbre  al  debito,  mio. 

7.  Int.  De  fama  dicti  Belrami,  tama  apud  se  quam  apud 
alios? 


-  MI- 

(Se  gli  dimanda  della  fama,  per  conoscere  il  di loistat 
ed  anco  il  grado  deirabiura  che  si  deve  intimare  al  reo»  percb 
se  la  fama  cattiva  sarà  grande,  farà  mutare  alle  volte  il  grad 
deirabiura,  rendendo  sospetto  de  veementi  chi  per  altro  sar^ 
sospetto  solo  de  levi). 

Resp.  Belramo  è  uomo  colerico ,  del  resto  non  ho  cosa  2 
contrario  circa  la  sua  fama. 

8.  Int.  Àn  odio,  vel  amore,  et  super  inimiciUa  aliisque  gè 
neralibus,  etc. 

(Quest'interrogazione  dimanda  se  quel  che  ha  deposto  ì 
denunziante  Tha  deposto  per  odio  che  porti  a  Belramo;  poich 
in  questo  caso  il  suo  detto  si  diminuirebbe  di  credito,  si  rice 
verghe  però  con  la  sua  diminuzione  ;  0  se  T  ha  deposto  pe 
amore,  cioè  in  grazia,  0  per  far  servizio  a  qualcuno.  E  se  h 
oppure  ha  avuto  qualche  inimicizia;  ed  in  tal  caso  si  fa  espr 
mere  la  causa  deirinimicizia,  e  se  segui  la  riconciliazione,  quandi 
e  come  stanno  di  presente.  Per  le  altre  cose  generali  slntend 
che  beni  possiede,  se  si  confessa,  se  si  comunica,  e  da  eh 
tempo  in  qua  non  Tha  fotte;  se  gli  è  stato  dato  0  promess 
cosa  .veruna  per  quest'esame,  se  gli  e  stato  detto  0  insegnai 
quello  che  doveva  dire,  e  cose  simili:  le  quali  cose  generali  1 
faranno  dire  ad  una  per  una  quando  ci  fosse  qualche  sospett 
di  fatalità,  che  per  altro  non  occorre  tante  minuzie»  bastand 
deirodió,  deiramore  e  deirinimicizia;  e  quando  tutto  vadi  beni 
che  non  ci  sia  veruna  di  queste  tre  cose,  si  fa  scrìvere:  R^ 
pondit  Recto). 

9.  Quibus  habitis  et  acceptatis  dimissus  fuit ,  iuratus  é 
silentio  et  perfecta  sua  depositione,  se  subscrìpsit. 

Io  Tizio  Cedrari  affermo  quanto  sopra  di  mano  propria. 

E  se  non  saprà  scrìvere ,  si  noterà  : 

Pro  ut  diiit,  cum  nesciret  scribere,  fecit  signum  crucis. 

Signum  t  Titii  Cedrari. 
(A  quello  eh'  avrà  denunziato  si  darà  il  giuramento  e 
non  parlare  con  nessuno  di  quello  che  avrà  deposto  :  ed  i 
cause  gravi  si  può  aggiungere  la  scomunica,  ed  anco  la  peo 
pecuoiarìa  ;  che  alcuni  stimando  più  delle  pene  spirìtuali,  sempi 
se  gli  farà  leggere  dal  notare  la  disposizione,  siccome  si  far 
in  tutti  gli  esami ,  siano  del  testimonio  0  dei  rei  ;  altrimeo 
Tesarne  non  è  da  dottori  stimato  mai  compito). 

10.  Ada  sunt  haec  per  me  Gurtium  Signanum  Sancti  Offlc 
notarium. 


(U  legatiti,  ùssoi  sottoscrixione  del  noterò,  è  neoessurit 
trimente  che  sena  di  essa  la  deposixione  sarebbe  nolla). 

Le  cose  generali  notate  fin  qni  si  avranno  a  memoria  per 
le  replicate  tante  volte  quante  si  feranno  le  medesime  interro* 
galloni. 

1.       DECRETO  PER  L^ESAME  DEI  TESTIMONI. 

(n  decreto  si  fa  per  la  continnazione  della  denunzia  colle 
altre  parti  del  processo,  acciò  il  processo  medesimo  appaia  ben 
*  eoDnesso;  e  per  camminare  con  segretezza,  non  occorre  sempre 
te  citare  i  testimoni ,  ma  ordinare  al  mandatario  che  vada  a 
Irofare  il  testimonio  e  gli  dica  che  il  padre  vicario  del  Santo 
Oflido  gli  vuol  dire  una  parola;  ed  arrivato,  Tesamini). 

Stesso  giorno. 

Attentis  snpradictis,  dominus  decrevit  et  mandavit  testes 
iDformatns  citarì,  examinari  et  processum  fabricari. 
Ita  est:  Curtius  Signanus  S.  Officii  notarius. 


CITAZIONE. 

1  De  mandato  admodnm  rev.  patris  vicarii  S.  Officii  Auxi- 
mi,  libi  liartio  Bellone  praecipitur  quatenus,  spatio  unius  diei 
abhamm  tibi  facta  prsesentatione ,  personaliter  comparere  de- 
beas  coram  eodem  p.  vicario  prò  interesse  Sancti  Officii  etc.,  et 
hoc  in  et  sub  poena  aureomm  decem,  locis  piis,  in  caso  con- 
tniTentionis,  applicandorum  ad  arbitrium  praefati  patria  vicarii, 
nec  Don  insuper  et  hoc  in  subsidinm,  sub  poena  excommuni- 
tatioDis,  etc. 

Et  in  eventum  non  comparìtionis  prò  prima  die  frequenti 
ad  contradicendum,  ne  condemnerìs  in  pcenamspreti  praseepti: 
^t^  in  nostra  mansione,  die  5  jonii  1683. 

Ita  est:  Curtius  Signanus  Sancii  Officii  notarius* 

Formata  che  sarà  la  citazione  in  questa  o  simil  guisa,  s'or- 
dinerà al  messo  che  la  presenti,  e  si  farà  apparire  nel  processo 
di  qoesrordine  a  commissione  con  simili  parole:  - 


Praefatos  adm.  R.  P.  vicario  commisit  et  imposuit  ae  in  man* 
datìs.dedit  et  dat  Balduino  de  Ruslici8  mandatario»  praBseDtIi 
quatenus  ex  sui  parte  et  maDdato  Tadat,  portet  et  in  scriptis 
det  Martio  Bellone  copiam  citationis  praefalae,  et  eo»  persona- 
liter  non  reperto,  dimittat  ad  domum  sua^  habitationis,  etc. 

Ita  est  :  Curtius  Signanus  S.  OfiQcii  notarius. 

E  dopo  che  sarà  stata  presentata  la  citazione,  si  registri 
nel  processo  ancora  la  relazione  del  mandatario,  cosi:   • 

fiiomo  5  giugno^  1382. 

PrsBdictus  Balduinus  de  Rustici^  mandatarius  Sancti  Officii,. 
ìens  et  rediens,  retulit  praBdicto  adm.  R.  P.  vicario  et  mihi 
Botario  infrascripto  se  praBsentasse  personaliter  Martio  Bollono 
supradicto  schedulam  sibi  traditam. 

Ita  est:  Curtius  Signanus  S.  Officii  notarius. 

E  quando  non  si  trovasse  la  persona,  si  dovrà  affiggere  o 
lasciare  nella  propria  casa,  dicendo  nella  citazione:  Se  presen- 
tasse ad  domum  babitationis  Martii  Belloni  supradicti  scbedu- 
lam  sibi  traditam  et  eam  affixisse,  reliquisse  et  publicasse,  et&« 

(Quando  poi  facesse  resistenza ,  allora  si  mandi  la  cita  - 
zione:  e  la  forma  si  vedrà  qui  dirimpetto;  si  farà  presentai 
in  proprie  mani  del  testimonio,  o  si  lascerà  nella  sua  casa,  < 
tutto  con  la  segretezza  possibile.  Si  metterà  nella  citazione  vl^mì 
termine  competente  al  testimonio  per  comparire,  considerata  !Ma 
qualità  della  persona,  la  distanza  del  luogo  e  Toccasione  d^l 
negozio.  Avvertirà  però  il  vicario  di  non  venire  in  ninna  m^r^- 
niera  all'esame  dei  testimoni ,  se  prima  non  avrà  mandata  ^8 
denunzia  al  padre  inquisitore  e  non  avrà  ricevuto  da  esso  Tc^r- 
dine  d' esaminare  i  testimoni  medesimi.  Potrà  però ,  quanc^o 
porterà  il  caso,  visitare  e  descrivere  il  corpo  del  delitto,  acc^i() 
non  facendosi  subito  non  porti  il  pericolo  che  non  si  pos^a 
far  più). 

ESAiME  DEL  PRIMO  TESTIMONIO. 

.     Giorno  6  giugno,  1382. 

Citatus  personaliter  comparuit  coram  adm.  R.  P.  vicario 
Sancti  Officii  Auximi ,  existente  in  sacrario  Sancti  Marci ,  ìa 
meique,  eie. 


Martins  filios  Arcadii  Belloni,  de  Pisanro,  aBlatìs  innoram 
TiglDtisék,  exercens  artem  calceolaria  habitans  Aoiimi,  sub 
parodìia  Minori,  cui  delato  ioramento  ventati  dicendaB,  qaod 
praBsUtit  tactis  sacris  lìtterìs,  fuit  per  D. 

3.  Se  il  testimonio  sarà  citato  si  noterà  :  Gilatis  persona^ 
liter  comparait,  etc;  se  sarà  né  citato,  né  chiamato,  ma  verri 
da  sé,  scrìverà  il  notare':  Nec  citatos,  nec  vocatus,  personaliter 
compamit  etc.  E  questa  dottrina  s' intenderà  anco  del  reo,  il 
quale  poò  comparire  o  chiamato  o  citato,  oppure  da  sé,  né 
duamato  né  citato. 

4.  Int.  Àn  sciat,  vel  imaginetor  cansam  suae  vocationis  et 
praBsentis  examinis? 

(Qaando  si  esamina  on  testimonio,  sempre  per  la  prima 
interrogazione  si  fa  questa.  Altri  sogliono  incominciare  con 
ffire:  Qaomodo  huc  accesserit,  an  citatus,  vel  vocatus,  vel 
spoDte;  e  per  la  seconda  interrogazione  fanno  poi  questa  del 
Domerò  4). 

Resp.  Io  non  so,  né  m'imagino  la  causa  per  la  quale  V.  R. 
m'abbia  latto  citare  ed  ora  mi  voglia  esaminare. 

5.  InL  An  cogooscat  aliquem  basreticum,  sortilegum,  blas- 
pbemam,  poligamum,  vel  quomodolibet  de  haeresi  suspectum  ? 

(Nella  seconda  interrogazione  si  numerano  alcuni  delitti 
spettanti  al  Sant'Officio,  e  si  mette  dentro  quel  delitto  che  si 
^  cercando;  come  s'  è  fatto  nella  presente  interrogazione,  in 
<]Qella  ip^TOÌdL  blasphemum). 

Resp.  Io  non  conosco  alcuna  di  queste  sorta  di  persone. 

6.  Int.  Ubi  fuerìt  anno   elapso,  quid   fecerìt  et  cum   quo 
^el  quibus  fuerìt  solitus  conversarì? 

(Si  fa  la  terza  interrogazione  per  sapere  se  il  testimonio 
liei  tempo  del  delitto  era  in  città.  E  si  fa  rendere  ragione  dei 
luoghi  ne'  quali  è  stato,  delle  conversazioni  e  delle  operazioni 
tatte,  acciò  venga  a  confessare  di  avere  giuocato  nel  luogo,  e 
tempo  del  delitto,  e  d'averìo  fatto  con  i  detti  testimoni.  Se  con- 
fesserà d'avere  giuocato  ne'suddetti  luogo  e  tempo  con  i  sud- 
detti, sMnoltrerà  ad  interrogarlo  :  An  dictis  loco,  tempore  et 
occasione  perdendi  viderit  aliquam  personam  irascì.  E  poi:  An 
dictis  loco,  tempore  et  occasione  audierit  aliquam  personam 
irasci  et  blasphemare,  et  quatenus  etc.  nominet.  Se  dice  di  si, 
s'ordini  che  riferìsca  la  qualità  delie  bestemmie,  il  numero 
delle  volte,  e  se  fu  corretto.  Quando  poi  dica  di  no,  si  vadi 
interrogando  coirioterrogazione  che  segue,  numero  7). 

Tamb.  kiqtàs.  Voi.  n.  29 


Resp.  Io  tutto  r  aoDO  passato  fai  in  città  ;  sono  caltolajo 
ed  ho  atteso  a, far  le  scarpe,  sebbene  non  manco  di  pigliarmi 
verso  la  sera  qualche  ora  di  divertimento  con  i  miei  compagni. 

7.  Int.  In  quo  ve!  quibus  exercitiis  soleat  se  divertere,  et 
quatenus,  etc.»  cum  quibus  sociis,  in  quo  vel  quibus  locis  et 
qua  bora. 

(Si  prende  motivo  di  far  quest'interrogazione  da  quelle 
parole  del  testimonio,  che  non  manca  di  pigliarsi  verso  la  sera 
qualche  ora  di  divertimento  con  i  suoi  compagni.  E  questo  è 
il  modo  d'argomentare  è  pigliare  il  motivo  dalle  parole  di  quello 
che  risponde). 

Resp.  Io  mi  soglio  divertire  nel  giuoco  della  palla  o  delle 
càrie,  e  qualche  volta  anche  ai  dadi:  si  giucca  alla  palla  da 
un  capo  air  altro  della  piazza,  ed  alle  carte  e  dadi,  sovra  una 
pietra  grande  eretta  dalla  banda  sinistra  della  porta  della  citta, 
detta  la  Porta  Grande,  ed  i  miei  compagni  sono  diversi:  in 
particolare  Marzio  Belloni  e  Florido  Galanti,  e  soglio  giuocare 
con  loro  su  le  ventitré  ore. 

8.  Int.  An  meminerit  anno  prseterito  circa  solemnitatero 
Pentecostes,  bora  vigesima  tertia  ciciter,  se  lusisse  super  dictam 
|)etram  taxìllis,  et  quatenus  etc.,  cum  quibus  etc? 

(Qui  si  dimanda  del  giuoco  che  fu  occasione  della 
bestemmia,  avendone  dato  motivo  il  medesimo  testimonio  con 
dire  che  si  suol  divertire  nel  giuoco  della  palla,  delle  carte  e 
d^i  dadi  ;  e  s'interroga  del  luogo  ov'  è  quella  pietra ,  e  del 
tempo,  cioè  dell'anno  e  della  settimana  e  dell'ora  di  giuocare; 
e  tutto  questo  s'è  fatto  per  fargli  nominare  i  compagni,  alfine 
di  sapere  se  fra  essi  c'è  il  bestemmiatore  che  si  ricerca). 

Resp.  Io  non  mi  ricordo  precisamente  di  quello  che  lei 
mi  domanda  ;  ho  ben  memoria  che  l' anno  passato,  giuocando 
io  ai  dadi  un  giorno  verso  la  sera  con  due  miei  compagni, 
passò  una  donna  per  nome  MarQsa  con  un  masso  di  rose,  e 
glielo  levai  di  mano  e  ne  presi  una,  restituendo  1'  altre;  e  da 
questo  ricavo  che  poteva  essere  o  poco  avanti  o  poco  dopo 
Pasqua  rosata  ;  quali  poi  fossero  i  miei  compagni  io  non  me 
li  ricordo  bene,  ma  stimo  sicuramente  che  fossero  Florido  e 
Beiramo,  con  ì  quali  soglio  gjuocare  più  spesso,  essendo  ancor 
essi  dell'arte  mia. 

9.  Int.  An  diclis,  loco,  tempore  et  occasione  perdendi  aliqua 
persona  blasphemaverit  ? 

(Le  interrogazioni  si  fanno  cominciando  dal  genere  e  discen- 


—  Si:- 

dendo  alla  specie,  e  poi  air  indìTìduo,  come  si  vedrà  nelle  (re 
interrogazioni  che  seguono  ;  e  qui  si  comincia  dai  genere  « 
cioè  se  alcQoa  persona  abbia  bestemmiato»  senza  discendere  né 
a  Dio  né  alla  Vergine,  né  ai  santi. 

Resp.  Io  non  mi  ricordo  che  nel  suddetto  hìogo,  tempo  ed 
occasione  di  perdere,  alcuna  persona  abbia  bestemmiato. 

10.  Int  An  diclis  loco,  tempore  et  occasione  perdendi  ali* 
qua  persona  blasphemaverìt  contra  Deum  ? 

(Questa  è  un'internazione  in  ispecie,  perchè  si  discende 
alla  bestemmia  contro  Dio,  potendo  essere  contro  la  Vergine  ed 
i  santi)* 

Resp.  Io  non  ho  sentito  nel  suddetto  luogo,  tempo  ed  oc* 
castone  di  perdere,  alcuni  di  quelli  che  giuocavano  che  abbia 
bestemmiato  contro  Dio. 

11.  Int.  An  dictis,  loco,  tempore  et  occasione  perdendi  ali* 
qua  persona  ira  percita  blasphemaverit  centra  Deum  dicendo 
quater  aot  quinquies  Puttana  di  Dio,  et  moYììtus  ab  uno, 
dixerit  :  Non  mi  romper  la  testa,  se  non  vuoi  che  ti  dia  una 
pugnalata. 

(Qui  si  viene  alFinlerrogazione  deirindividuo  ;  cioè  si  di- 
manda s'ha  detto  Puttana  di  Dio  quattro  o  cinque  volte,  e  se» 
corretto,  abbia  risposto  come  qui  si  dice). 

Resp.  Io  non  mi  ricordo  che  nel  suddetto  luogo,  tempo  ed 
occasione  di  perdere,  alcuno  in  collera  dicesse  quattro  o  cinque 
volte  Puttana  di  Dio,  e  ripreso  abbi  risposto:  Non  mi  romper 
la  testa,  se  non  vuoi  che  ti  dia  una  pugnalata.  , 

12.  Int.  Et  ei  dicto,  in  processu  haberi  dictis  loco  et  tem- 
pore et  occasione  perdendi ,  aliquam  personam  ira  percitam 
dixisse  quater  aut  quinquies  Puttana  di  Dio,  et  monita,  abbia 
risposto:  Non  mi  romper  la  testasse  non  vuoi  che  ti  dia  una 
pugnalata. 

Resp.  Quare  dicat  ingenue  veritatem. 
(Si  fa  quesf  interrogazione  o  istanza ,  per  spingere   il 
testimonio  a  dir  la  verità,  che  forse  niega  per  far  servizio,  o  per 
non  aggravare  il. suo  compagno. 

Parerà  ad  alcuno  che  avanti  di  far  Tislanza,  come  nel  nu- 
mero 12,  si  debba  venire  prima  a  queslMnlerrogazìorie,  nomi- 
nando il  preteso  reo  :  And  dictis  loco ,  tempore  et  occasione 
perdendi ,  Beiramus  ira  percitus  blasphemaverit  centra  D^^um 
qoater  aot  quinquies,  dicendo  Puttana  di  Dio,  ecc.  ;  ma  non 
81  può  discendere  a  tal  dimanda»  perchè  con  essa  si  verrebbe 


-MS  — 

a  costitaire  Belramo  nel  namero  dei  rei,  e  pare  non  si  p 
ancora,  non  avendo  contro  di  sé  negli  atti,  se  non  il  detto  i 
4enanziante ,  il  qnale  non  vale  più  del  detto  di  Belramo ,  i 
sendo  il  detto  Belramo  eguale  al  detto  del  denunziante ,  \ 
esser  fin  qni  in  possesso  della  sua  buona  fama.  E  perchè  B 
ramo  non  è  anco  udito  in  giudizio*,  e  contro  di  lui  non  e 
che  un  testimonio ,  questo  solo  non  lo  può  porre  nel  numi 
dei  rei  se  non  confessa  lui,  o  il  secondo  testimonio  da  sé  n 
desimo  coirinterrogazioni  generali  non  depone  che  Belramo 
bestemmiato  ;  allora  poi,  avendosi  due  testimoni  uniformi,  n* 
Fesaminare  il  terzo  si  può  liberamente  venire  alla  detta  inti 
rogazione  deir  individuo ,  essendo  due  testimonii  suflBcient 
porre  Belramo  nel  numero  dei  rei). 

Se  nel  processo  s'  ha  che,  nel  suddetto  luogo,  tempo 
occasione  di  perdere ,  alcuna  persona  in  collera  dicesse  qu; 
tro  0  cinque  volte  Puttana  di  Dio^  ed  ammonita  abbia  ris| 
sto:  Non  mi  romper  la  testa,  se  non  vuoi  che  ti  dia  una  i 
gnalata. 

Resp.  Io  dico,  che  non  udii  niente. 

13.  Int.  Et  monitus  ad  fatendam  veritatem  ut  supra;  n; 
si  processo  temporis  Sanctum  Offlcium  venerit  in  cognit 
nem  quod  ipse  examinatus  tacuerit  veritatem,  poniet  ipsi 
examinatum  tanquam  periurum ,  et  modo  incidit  in  exco 
municationem  a  qua  non  poterit  absolvi,  nisi  ab  eodem  San 
Officio. 

(S'aspetta  a  fare  questa  monizione  nel  fine  dell'osar 
come  la  più  efficace  per  fare  risolvere  il  testimonio  a  dire 
verità  :  e  quando  non  si  risolva ,  il  giudice  avrà  fatte  le  s 
parti  e  lascerà  il  testimonio  in  pace). 

Resp.  Ora  mi  ricordo  che  Tanno  passato ,  e  doveva  ess< 
intorno  a  Pasqua  rosata ,  per  la  rosa  che  presi  dalle  mani 
quella  donna,  giuocando  io  nel  suddetto  luogo  con  Beiramc 
Florido  ai  dadi,  Belramo,  per  la  gran  sfortuna  nel  perde 
si  pose  a  bestemmiare  alcune  volte  contro  Dio,  e  disse  Putta 
di  Dio;  quante  fossero  le  volte  non  me  lo  ricordo. 

14.  Int.  An  Beiramus  dictis  loco ,  tempore  et  occasio 
fuerit  ab  aliqua,  vel  ab  aliquibus  personis  obiurgatus,  et  qu 
teiius,  etc? 

(Perchè  il  testimonio  nella  risposta  ha  lasciato  di  d 
questa  circostanza,  subito  si  fa  spiegare  per  mezzo  deirinteri 
gazione). 


—  M9  — 

Resp.  Io  fui  qoeUo  che  gridai  a  Belramo,  ma  lui  maggior* 
mente  sbadirò  e  minacciò  di  darmi  una  pugnalata. 

15.  loL  De  praBsentibos,  quando  Belramns  protnlil  dictas 
Uaspbemias»  nltra  Floridom? 

(Tizio,  Marzio  e  Florido  sarebbero  più  cbe  sofficienti  per 
provare  il  delitto;  ma  perchè  paò  essere  cbe  Florido  non  anco 
esaminato  nieghi  nelPesame,  si  fo  nominare  a  Marzio  qualche 
altro  testimonio  da  potersi  esaminare,  se  pnre  c'era  e  se  ne  ri- 
corda; e  nelle  cause  pia  gravi  si  procora  d'accrescere  il  numero 
dm  testimonii  per  bene  impinguare  il  processo  ed  aggravare 
il  reo). 

Resp.  Vi  erano  molti  i  quali  stavano  a  veder  giuocare,  ma 
Don  mi  ricordo  chi  fossero. 

16.  Int.  De  fama  prasfati  Beirami  tam  apud  se  quam  apud 
alios? 

(Quanto  alle  due  ultime  interrogazioni,  si  vide  sul  prin- 
cipio, nel  fine  della  denunzia,  ciò  cbe  s'è  osservato;  si  lascia  di 
ripetere  per  non  tediare  e  non  confondere  i  vicarii.  Lo  stesso 
si  dice  di  tutte  le  cose  generali  toccate  nella  medesima  denun- 
zia, alle  quali  sempre  il  vicario  s'intenderà  rimesso). 

Resp.  Io  tengo  Belramo  per  bOon  cristiano ,  e  per  tale  è 
stimato  comunemente^  se  bene  la  collera  lo  fece  prorompere  in 
quelle  bestemmie. 

17.  Int.  An  ocjio,  vel  amore,  et  super  inimicitia? 
Resp.  Recte. 

18.  Quibus  habitis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  juratos  de 
^leotio,  et  perfécto  ei  suo  examine,  se  subscripsit. 

((ìnando  si  tratta  del  denunziante  si  dice:  Perlecta  ei  sua 
depositione;  ma  parlandosi  del  testimonio,  si  scriverà:  Perlecto 
^i  suo  examine). 

Io  Marzio  Belloni  affermo  quanto  sopra  di  mano  propria. 

Àcta  sunt  haec  per  me  Gurtium  Signanum  Sancti  Offici! 
i^otariom. 

ESAME  DEL  SECONDO  TESTIMONIO. 

1.  Stesso  giorno. 

(Quando  il  secondo  testimonio  e  gli  altri  si  esaminano 
^^\  medesimo  giorno,  si  dirà  :  Eadem  die,  in  mane;  vel  eadem 


—  132  — 

ha  lutto  del  oaturale:  gli  si  dìmaDda  s*è  solito  a  divertirsi:  e 
rispondendo  nel  ginoco,  s'interroga  in  qual  giuoco  ;  e  dicendo 
in  quello  dei  dadi,  si  dimanda  de'compagni,  del  luogo  e  quando 
cominciò  a  giuocare  ai  dadi;  e  quest'ultimo  per  sapere  se  aveva 
cominciato  avanti  il  delitto  o  quella  volta  che  si  bestemmiò; 
perchè  se  fosse  dopo,  non  sarebbe  testimonio:  avuto  questo,  si 
viene  airoccasione  di  bestemmiare,  che  fu  la  perdita,  e  poi  si 
discende  alla  bestemmia  stessa  ed  a  quello  che  segue. 

Risp.  Io  verso  la  sera,  dopo  aver  lavorato  tutto  il  giorno, 
mi  pongo  a  giuocare  con  qualcuno  de'  miei  compagni  ed  alle 
volte  con  più. 

10.  Int.  Quo  ludo  soleat  ludere  et  ubi  et  cum  quibus? 
Resp.  Soglio  giuocare  alla  palla,  alle  carte  ed  ai  dadi,  e 

sempre  in  piazza  ;  ed  i  miei  compagni  sono  Belramo  e  Marzio 
già  noti  a  V.  R. 

11.  Int.  In  quo  loco  plateae  sit  solitus  ludere  taxillis  cum 
praBfatis  suis  sociis  ? 

(Qui  si  dimanda  di  quel  luogo  che  i  dottori  chiamane 
locus  loci;  cioè  il  luogo  limitato  e  preciso). 

Resp.  Eravamo  soliti  giuocare  sopra  una  pietra  posta  dalla 
banda  sinistra  della  Porta  Grande  della  città. 

12.  Int.  A  quo  tempore  incaeperit  ludum  taxillorum  super 
praBfatam  petram  cum  sociis  ut  supra  ? 

(Con  l'occasione  della  risposta  a  quest'interrogazione  si 
noteranno  quelle  parole:  Ho  detto  male  ecc.:  s'è  detto  cosi  per 
non  cassare  quell'altre  non  ben  dette  -  noi  quattro  -,  per  dare 
ad  intendere  che  ne'processi  si  devono  fuggire  più  che  si  può  le 
cassature  e  trovare  qualche  ripiego  per  non  cassare.  Quando 
servivo  nei  Sant'Ufficio  di  Roma  c'era  uno  di  quei  signori  can- 
cellieri di  tanta  felicità  che  non  cassava  mai ,  ma  sempre  io 
qualche  errore  trovava  il  suo  ripiego.  Qualora  poi  non  si  possa 
di  meno,  si  cassi  in  modo  che  tutte  le  parole  si  possano  leg- 
gere, per  non  dar  sospetto  alla  parte). 

Resp.  Sarà  un  anno  in  circa  clie  cominciammo  a  giuocare 
ai  dadi  noi  quattro:  ho  detto  male,  noi  tre,  cioè:  Belramo,  Mar- 
zio ed  io. 

13.  Int.  A  dictis  loco,  tempore  et  ludo  aliquis  perdiderit, 
et  quatenus  etc? 

Resp.  Certo  è  che  in  quel  giuoco  qualcuno  avrà  perduto  ; 
chi  poi  perdesse,  non  me  lo  ricordo. 

14.  Int.  An  dictis  loco,  tempore  et  ludo  aliqua  persona  per- 
diderit et  occasione  perdendi  blaspbemaverit  ? 


—  «33  — 

(Ecco  rinterrogazione  in  genere). 
Resp.  Io  non  so  che  nel  suddetto  luogo,  tempo  e  giuoco^ 
alcuno  perdesse  e  con  occasione  di  perdere  bestemmiasse. 

15.  Int.  An  diÈtis  loco ,  tempore  et  occasione  aliquis  ira 
percilus  blasphemaverit  contra  Deum? 

(Si  veda  rinterrogazione  in  specie). 
Resp.  Io  non  so  niente  di  quel  tanto  che  V.  S.  mi  do- 
maDda. 

16.  Int.  An  dictis  loco  »  tempore  et  occasione  aliquis  per 
percilus  blasphemaverit  contra  Deum,  dicendo  qunter  aut  quin* 
qoies  Puttana  di  Dio,  et  obiurgatus  responderit:  Non  mi  romper 
h  testa,  se  non  vuoi  che  ti  dia  una  pugnalata  ? 

(Si  osservi  rinterrogazione  in  individuo' quanto  alle 
bestemmie ,  numero  delie  volte  ed  alla  correzione  e  sua  ri* 


Resp.  Può  essere  che  nel  suddetto  luogo,  tempo  ed  occa- 
sione, qualcuno  de'  miei  compagni  in  collera  abbia  bestemmiato 
contro  Dio,  dicendo  Puttana  di  Dio,  e  ripreso  abbia  risposto: 
Non  mi  romper  la  testa,  se  non  vuoi  che  ti  dia  una  pugnalata; 
m  io  non  me  lo  ricordo  e  vorrei  averne  memoria. 

17.  Int.  An  dictis  loco,  tempore  et  occasione  Beiramus  ira 
pereitQs  blasphemaverit  contra  Deum,  dicendo  qua  ter  aut  quin- 
qoies  Puttana  di  Dio,  et  obiurgatus  respondit:  Non  mi  romper 
la  testa,  se  non  vuoi  che  dia  una  pugnalata  ? 

(Quesf  interrogazione  è  in  individuo  quanto  al  delitto  e 
numero  delle  volte,  e  quanto  alla  persona,  cioè  Belramo:  quando 
qnisi  tratta  del  genere,  specie  e  individuo,  non  si  pigliano  in 
senso  logico  o  metafisico ,  non  si  considerando  qui  le  nature 
stratte,  come  fanno  i  logici  e  i  metafisici,  ma  si  prende  il  gè- 
oere  per  una  cosa  comune  o  totale,  la  specie  per  una  porle  di 
qnd  comune ,  e  Y  individuo  per  una  parte  di  quella  specie , 
come  si  può  vedere  in  queste  tre  interrogazioni  ;  il  genere  poi, 
ia  specie  e  Tindividuo  cadono  altre  volte  sovra  il  tempo,  altre 
som  il  luogo,  altre  sovra  il  delitto,  altre  sovra  le  persone  e  altre 
sovra  il  numero  delle  volle). 

Resp.  Io  non  mi  ricordo  che  Belramo  nel  detto  luogo , 
tempo  ed  occasione,  in  collera  abbia  bestemmiato,  dicendo  quat- 
tro 0  cinque  volte  Puttana  di  Dio,  e  ripreso  da  Marzio  abbia 
risposto  :  No6  mi  romper  la  testa,  se  non  vuoi  qhe  ti  dia  una 
pugnalata. 

18.  Tunc,  ad  excitandam  memoriam  ipsius  examinaUp  de* 

Tamb.  Inquis,  Voi.  II.  80'    >^ 


—  «54- 

mandato  D.  etc.  faeront  per  me  etc.  lecte  etc.  locis  etc.  saf 
pressis  etc.  Qaibas:  per  ipsom  etc.  bene  auditis  ac  iotellectì 
prò  ut  asseruit. 

(Quando  si  presume  che  il  testimonio  neghi  di  dir  1 
verità  per  fallo  di  memoria»  se  'gli  fanno  leggere  le  deposiùoi 
dei  testimoni,  che  hanno  detto  in  quel  tempo  esser  stato  h 
presente,  ma  il  nome  dei  testimoni  si  tacerà,  e  si  leggei 
puramente  quello  che  sarà  al  proposito  della  causa  o  d 
punto  della  causa  che  si  cerca.  Si  fanno  anche  leggere  quand 
si  dubita  di  malizia,  per  incalzarlo  e  farlo  risolvere  a  dire  1 
verità. 

Avvertiranno  i  signori  vicarii  cheJa  medesima  formola  dell 
bestemmie  potrà  ancor  servire,  mutatis  mùtandis ,  nelle  caus 
di  proposizioni  ereticali*  erronee  e  che  sanno  d'eresia. 

Saranno  anco  avvertiti  che  se  qualche  testimonio  r  intei 
rogato  in  ispecie  del  delitto,  avesse  variato  o  nella  bestemmi 
0  nel  tempo,  o  nel  luogo,  o  neir  occasione  (secondo  che  avi 
deposto  il  denunziante) ,  dovranno  i  vicarii  di  nuovo  interrc 
garlo  se  precisamente  ha  sentito  quella  precisa  bestemmia  ni 
tal  luogo,  tempo  ed  occasione  deposte  dal  denunziante;  perct 
rispondendo  di  no ,  esso  testimonio  resta  singolare  nella  b( 
stemmia  da  esso  deposta  e  non  riferita  dal  denunziante;  i 
risponde  di  si,  resta  conteste  per  una  volta  in  quanto  conviec 
col  denunziante,  e  singolare  per  un'altra  secondo  quello  che  t 
udito  esso  solo  in  altro  tempo  o  luogo  od  occasione  ;  il  et 
accade  spessissimo,  cioè  che  un  testimonio  abbia  sentito  besteu 
miare  da  solo  a  solo  o  alla  presenza  d'altri. 

E  quando  nell'interrogazione  che  si  fa  a  fine  di  farlo  coi 
testare  il  testimonio  negasse,  sappia  il  vicario  che  sebbene 
testimonio  ha  deposta  la  bestemmia  con  la  singolarità ,  ne 
deve  subito  fermarsi  (benché  sia  la  stessa  bestemmia ,  eoa 
molte  volte  i  testimoni  fanno  attendendo  l'uniformità  della  hi 
stemmia  o  proposizione  ereticale,  senza  considerare  la  singi 
larità  e  contestura),  ma  deve  venire  alla  specialità  del  luog 
tempo  ed  occasione  ;  e  persistendo  nella  negativa,  si  deve  ani 
ammonire  che  si  ha  in  processo  che  esso  si  trovò  presente  n 
tal  luogo,  tempo  ed  occasione,  quando  quel  tale  bestemmii 
tutto  ciò  servirà  per  illuminare  il  vicario  a  non  fermarsi  si 
bito  che  il  testimonio  avrà  deposto  la  bestemmia  o  propos 
zione  ereticale  d'altro  tempo,  luogo  od  occasione^  ma  indaga 
la  contestura  che  fa  per  il  fisco). 


ci 


03 

o 


o 


Res|i.  Io  tio  inteso  quello  che  m'ha  detio  il  siitnor  notajo» 
cioò  che  nel  suddetto  luogo,  tempo  ed  occasione  »  Belnmo  in 
coUera  abbia  detto,  presente  me,  contro  Dio,  quattro  o  cinque 
lolte  PttAaiia  di  Dio,  e  ripreso  da  Manie,  abbia  risposto:  Non 
mi  romper  la  testa,  se  non  ¥Uoi  che  ti  dia  una  pugnalata  ;  e 
dico  assolutamente  non  mi  ricordo  dì  questo, 

19.  Et  monitus  ad  fotendam  yerìtalem  ut  sopra  etc.»  honore 
Dei  et  prò  exoneratione  propri»  conscientiae* 

Resp.  lo  ho  detta  la  verità,  che  non  so  niente  di  quello 
die  lei  cerca  da  me,  e  sempre  dirò  lo  stesso. 

Et  cum  nihil  aliud  posset  haberi,  dimissus  fuit,  iuratus  de 
flleotio;  et  cum  nesciret  scribere,  fecit  signum  crucis,  perlecto 
ei  suo  examine:  signum  crucis  f  Floridi  Galanti, 

Acta  sunt  base  per  me  Gurtium  Signanum  Sancti  Officii 
Dotariom. 

NB.  Segue  la  sentenza  in  latino,  che  omettiamo  per  bre- 
vità, colla  quale  il  Belramo  venne  condannato  a  cinque  anni 
di  prigionia ,  da  scontarsi  nella  carcere  in  cui  più  tardi  fu 
coDdannato  il  povero  Torquato  Tasso, 


SEGONDÀ  DENUNZIA  DEI  SORTILEGI 


Giorno  4  giugno  1382. 

1.  Sponte  personaliter  comparuit  coram  admodum  R.  P. 
iricario  Sancti  Officii  Àuximi,  existente  in  propria  cella*  in 
melque,  eie. 

Demetrius  Alias  Artimisii  Beviaceto  de  Castrovilla,  astatis 
aoDorom  quinquaginta,  mercator  degens  sub  parochia  magna; 
cui  delato  iuramento  veritatis  dicendao,  quod  prasstitit  tacila 
sacris  literìs,  exposait  ut  infra. 

(In  tre  maniere  si  possono  formare  i  processi,  cioè  per 
^a  d'accusa,  per  via  d'inquisizione  e  per  via  di  denunzia.  Nel 
Sant'Ufficio  in  questi  tempi  non  si  fanno  i  processi  in  materia 
<li  fède  se.  non  nella  terza  maniera,  essendo  questa  stimata  la 
Wi  breve,  la  più  facile  e  la  più  sicura;  e  però  da  tutti  l  ministri 
ei  deve  osservare,  se  non  vi  fosse  qualche  accidente  che  obbli- 
gasse  a  camminare  in  altra  maniera). 

2.  Saranno  sei  mesi  circa,  non  mi  ricordo  del  giorno  pre* 


—  M6  — 

ciso,  ma  era  verso  il  fine  di  carnevale,  su  le  ventitré  .ore,ch'ic 
stando  sovra  d'  an  balcone  dìi  casa  mia  con  Adolfo  Paocaldi 
cliimrgo  della  città  a  con  Belardo  Anlinori,  vedemmo  un  tire 
di  piètra  lontano,  dalla  banda  destra  del  balcone»  quattro  o  sei 
persone  che  cavavano  attorno  ad  una  muraglia  antica  mezze 
diroccata,  e  fra  questi  c'era  un  prete  greco,  che  si  chiama  comu- 
nemente il  papasso,  il  quale  aveva  la  colla  e  stola,  e. teneva 
in  mano  un  libro  in  ottavo  ed  una  candela  accesa,  e  mostrava 
di  leggere  in  quel  libro,  e  di  quando  in  quando  faceva  delk 
croci  stravaganti,  cominciando  aito  assai,  e  poi  discendeva  a 
basso  da  tutte  le  parti  della  fossa;  e  pigliava  colle  dita  l^acqus 
da  un  bicchiere  che  teneva  un  ragazzo,  e  la  sprezzava  dentrc 
ia  cava,  e  ci  buttava  anco  del  sale  e  delle  foglie  d'oliva;  qual 
non  so  però  se  fossero  secche  o  verdi,  e  gli  ho  veduti  cavare 
in  quella  maniera  solamente  quella  volta:  né  mi  sono  potute 
ingannare,  perchè  ho  veduto  tutte  le  cose  narrate  cogli  occhi 
propri.  E  sono  venuto  davanti  a  V»  R.  per  iscaricare  la  mi{ 
eoscienea,  d' ordine  del  mio  padre  spirituale. 

(Nel  corpo  della  denunzia  s'esprimono  otto  circostanze 
cioè  tempo,  luogo,  testimoni,  numero  delle  volte,  causa  della 
scienza,  complici,  occasione  e  gr  islrumenli  superstiziosi.  Nelle 
interrogaziomi  ^i  di  sotto  si  dioAnia  deMa  fama^^  sovra  Pini 
micizia,  come  si  vedrà  più  a  basso). 

3.  Int.  An  sciai  vel  dici  audiverit  dictas  olivas,  salem,  can- 
delam  et  aquam  fuisse  benedictas? 

Resp.  Io  non  so  veramente  se  le  ulive,  il  sale,  la  candela 
e  r acqua  fossero  benedette;  io  però  li  stimai  tali,  e  cosi  h 
tenevan  quelli  ch'erano  meco:  perchór  a  che  fine  adoperare 
una  candela  accesa  di  giorno?  ed  a  che  fine  poteva  servire 
l'acqua,  il  sale  e  le  palme  non  benedette?  Coloro  dovevano  cer 
care  i  danari,  ed  avranno  adoperate  quelle  cose  benedette  cou 
tro  i  demonii,  acciò  non  l'impedissero  di  trovarli. 

4.  Int.  De  fama  dicli  presbyteri,  vulgo  il  papasso? 
Resp.  Questo  papasso  dicono  che  sia  cristiano  greco  e  che 

si  trovi  in  queste  parli  per  riconciliarsi  con  la  Chiesa  cattolica; 
altri  non  mancano  di  dire  che  sia  una  spia  del  Gran  Turco. 

5.  Int.  Quaretamdiu  distulerit  denunciare  praefata  in  Sanctc 
Officio? 

Resp.  Per  non  riflettere  d'essere  obbligalo,  come  ho  avver? 
lilo  dopo  aver  letti  gli  editti  del  Sant'Ufficio,  e  per  avermelo 
detto  il  confessore. 


—  M7- 

tt.  Int.  Aa  odio,  Tei  amore,  et  super  inimicitia  t 

Resp.  Recte. 

Qoibas  habitis  et  acceptatis,  dimissas  foit,  iuratus  de  Silen- 
(io;  et  perlecta  ei  sua  depositione,  se  subscripsit. 

Io  Demetrio  Beviaceto  affermo  quanto  sopra  di  mano  propria. 

Acta  SQDt  baec  per  me  Cartìum  SignaDom  Sancii  Officit 
Qotarìam. 


DECRETO  SUCCESSIVO. 


Dominos  decrevit  testes  informatos  ettari,  examinarì,  et 
proeessmd  fobricari. 

Ita  est  :  Gurtins  Signanus  Sancti  Officii  notarìns. 


CITAZIONE. 
De  mandato  adm.  R.  P.  vicarìi  Sancti  Officii,  etc. 

ESAME  DEL  PRIMO  TESTIMONIO. 


Giorno  5  giugno  1382. 

Citatus  personaliter  comparuit  coram  adm.  R.  P.  vicario 
Sancti  Officii  Auximi,  existente  in  propria  mansione,  in  mei? 
9ie,  etc. 

Adulphus  filius  q.  Arcadii  Pancaldi  de  Piperno,  aBtatis  an* 
norom  triginta  quinque,  exercens  artem  chirurgi,  degens  sub 
parodìia  Solari;  cui  delato  iuramento  veritatis  dicendae,  quod 
PraB$titit  tactis  sacris  iitterìs,  fuit  per  D. 

1.  Int  An  sciat  vel  imaginetur  causam  suae  citationis  et 
Pn^ntis  examinis  ? 

Resp.  Se  V.  S.  non  mi  dice  la  causa,  io  non  so  niente. 

2.  Int:  An  cognoscat  aliquem  haBreticum,  sortilegum,  bla- 
^Pi^um,  poligamum,  yel  quomodolibet  de  baeresi.suspectum? 


Resp.  Dio  mi  guardi  eh'io  conosca  alcQoa  di  queste  sorta 
di  persone  delle  qaali  V.  S.  m' interroga. 

3.  Int.  De  tempore  quo  manet  in  hac  civitate  ? 

(Si  fa  questa,  interrogazione  e  quella  che  segue  per  sco* 
prire  se  nel  tempo  del  delitto  si  trovava  in  città  ;  ed  a  questo 
s'avrà  sempre  rocchio  io  simili  casi,  perchè  se  negasse  d'esser 
stato  in  città,  sareU)e  finito  Pesame). 

Resp.  Saranno  due  anni  in  circa  ch'io  servo  di  chirurgo  in 
questa  città. 

4.  Int.  An  tempore  bacchanalium  proxime  praeteritorum 
unquam  discesserit  ab  hac  civitate  ? 

Resp.  Diverse  volte  sarò  partito  in  tempo  di  carnevale,  per 
occasione  dell'  arte  mia  dalla  città ,  ma  la  sera  sarò  ritornato. 

5.  Int.  An  cognoscat  Demetrium  Bevìacetum  et  quatenus  a 
quo  tempore?  etc. 

(Per  sapere  se  fu  in  casa  di  Demetrio,  e  s'afibcdasse  at 
balcone,  e  da  qui  vedesse  il  delitto  che  si  cerca,  ottimo  mezza 
è  dimandargli  se  lo  conosce,  per  dimandargli  poi  come  nella 
sesta  interrogazione). 

Resp.  Demetrio  Bevìaceto  è  il  più  grand'amico  che  m'abbi 
in  questa  città  ed  è  delle  prime  amicizie  eh'  io  feci  quando 
venni. 

6.  Int.  An  unquam  adiverit  eius  domum  et  quatenus  T  etc. 
(Se  non  fosse  andato  in  casa  di  Demetrio,  né  meno  sa- 
rebbe stato  sul  balcone  e  non  avrebbe  veduto  il  delitto). 

Resp.  Signor  si,  che  sono  andato  in  sua  casa,  non  una,  ma 
cento  volte,  si  per  l'amicizia  c'ho  seco>  come  per  qualche  ser- 
vizio, ed  in  particolare  per  curare  un  suo  figlino  lino. 

7.  Int.  An  domus  dicti  sui  amici  habeat  aliquod  podium  » 
et  quatenus,  etc.  an  quandoque  ad  illud  accesserit,  et  si  solus,. 
vel  associatus,  et  qua  bora? 

(Qui  s'ha  la  mira  di  far  dichiarare  sé  stesso  testimonia 
oculare  del  delitto,  con  le  circostanze  del  luogo,  cioè  di  quel 
balcone  e  del  tempo,  cioè  di  quel  giorno  su  le  ventitré  ore,  e 
far  scoprire  gli  altri  testimonii,  per  potere  poi  dopo  lui  esami* 
narli). 

Resp.  La  casa  di  Demetrio  ha  un  poggioolo  o  sia  balcone 
posto  all'oriente,  e  non  si  può  vedere  la  più  bell'opera;  e  ci  sona 
stato  assai  volte  in  compagnia  sua  e  d'altri,  ed  in  diverse  ore» 
secondo  roccorrenze. 

8.  Int.  An  quandoque ,  dum  esset  in  dicto  podio  una  cum 


Demetrio  et  qoodam  alio,  circa  horam  Tigesimam  terUam,  ?iderit 
aiiqmd  riogolareT 

(Si  tratta  io  individoo  del  balcoDe  e  di  Demetrio ,  e  si 
tocca  in  graefo  il  giorno,  il  secondo  testimonio  non  nominato 
o  il  delitto;  e  questa  generalità  basta  acciò  Pinterrogaiione  non 
sb  soggestiTa). 

Resp.  Io  non  mi  ricordo,  in  tempo  ch'ero  con  Demetrio  e 
qualche  altro  in  detto  balcone,  su  le  yentitrè  ore,  d'aver  mai 
veduta  cosa  particolare. 

9.  Int  An  tempore  bacchanalium  proxime  prsBterìtorum 
qnodam  sero,  circa  horam  vigesimam  tertiam,  dum  ipse  exami* 
natus  esset  io  dìcto  podio  cum  Demetrio  et  qnodam  alio,  viderit 
a  parte  dextera  dicti  podii,  in  distantia  unius  jactus  lapidis,  ali- 
quid  singulare? 

(Nella  precedente  interrogazione  si  parlava  del  giorno  in 
genere,  cioè  d'un  giorno  senza  determinare  di  qual  settimana, 
o  di  qual  mese,  o  di  qual  anno  ;  qui  si  viene  a  trattare  d' un 
giorno  di  carnevale  prossimo  passato,  su  le  ventitré  ore,  e  di 
Demetrio  e  del  balcone  e  della  distanza  del  balcone  dal  delitto; 
ma  si  tace  il  nome  del  testimonio  e  la  qualità  del  delitto;  e  tal 
soppressione  di  nome  e  di  delitto  basta  anco. per  isfuggire  la 
suggestione  viziosa). 
Resp.  Padre,  no. 

10.  Int.  An  dictis  loco,  tempore,  distantia  et  societate,  dum 
confabolaretur  ad  invicem,  viderìnt  aliquem  presbyterum  cum 
quibusdam  aliis,  et  quatenus  nominet  et  dicat  ubi  ^rant,  quid 
feciebant  et  quomodo  erant  induti  ? 

(S'epiloga  in  questa  interrogazione  tutto  ciò  che  s'è  di- 
mandato nella  nona,  e  si  viene  a  dimandare  in  genere  del  de- 
linquente con  i  suoi  compagni,  cioè  d'un  prete  con  cert'altri,  e 
s'apre  la  strada  per  sapere  in  individuo  chi  era  questo  prete  e 
suoi  compagni,  dove  erano,  che  facevano  e  com'erano  vestiti;  e 
dalla  risposta  si  saprà  quel  che  si  cercava). 

Resp.  Ora  mi  ricordo  che  un  giorno  di  questo  carnevale 
prossimo  passato,  e  potevano  essere  ventitré  ore,  stando  io  sul 
balcone  della  casa  di  Demetrio,  in  compagnia  sua  e  di  Belardo 
Antinorì,  vedessimo  dalla  banda  destra  di  detto  balcone ,  poco 
lontano,  un  prete  greco  che  da  un  anno  in  qua  si  trova  in  queste 
parti,  e  se  gli  dice  comunemente  il  papasso,  ed  in  sua  compa- 
gnia erano  quattro  o  cinque  contadini  vestiti  con  gli  abiti  soliti 
ioro^  con  le  pale  e  zappe.  11  prete  era  vestito  di  cotta  e  stola,  e 


tielld  mano  sinistra  aveva  od  libro  aperto,  poto  grande,  e  xoà 
la  destra  teneva  una  candela  accesa,  e  con  esssa  faceva  ivi  molte 
croci,  sotto  e  sopra  e  da  tutte  le  bande;  e  quei  contadini  cava- 
vano allegramente  con  molta  fretta  la  terra  vicino  ad  una  mu- 
raglia mezzo  diroccatia,  e  fecero  una  bella  fossa. 

11.  Int.  An  dictis  loco,  tempore  ed  occasione  ille  presby- 
ter  vel  ristici  projécerint  aliquid  in  dictam  foveam ,  et  quate- 
Qus,  etc. 

(E  perchè  in  questa  risposta  non  ha  anco  detto  tatto  il 
delitto  cho  s'appartiene  al  Sant'Officio,  se  gli  fa  quest'altra  in- 
terrogazione in  genere  ;  cioè  s' abbino  gettato  qualche  cosa  ìd 
quella  cava  che  avevano  fatta). 

Resp.  Io  non  vidi  che  i  contadini  gettassero  cosa  verona 
in  quella  fossa  ;  osservai  bensì  che  il  prete  aveva  un  libro  ove 
leggeva,  e  teneva  una  candela  accesa  in  mano,  con  la  quale 
faceva  molte  croci  sotto  e  sopra,  e  pigliava  colle  dita  F  acqua 
da  un  bicchiere  che  teneva  un  ragazzo,  e  la  spruzzava  dentre 
la  fossa,  e  vi  gettava  anche  del  sale  e  delle  foglie  d'olivo:  del 
resto  non  vidi  altro. 

12.  Int.  An  sciat,  vel  dici  audierit,  dictam  candelam  et 
salem  et  aquam  et  folia  olivarum  fuisse  benedictas. 

(Fin  qui  nemmeno  abbiamo  tatto  il.  delitto  attinente  al 
Santo  Tribunale;  e  però  si  viene  ad  interrogarlo  se  quelle  cose 
erana  benedette,  perchè  in  questo  caso  farebbero  V  operazione 
più  sortilega  e  soggetta  al  foro  del  Sant'  Officio.  Né  questa 
interrogazione  si  può  chiamare  suggestiva,  viziosa,  perchè  il 
testimonio  con  la  sua  confessione  ha  aperta  la  strada  di  poteteli 
fare  anco  questa  interrogazione. 

Resp.  Coloro,  a  vedere,  cercavano  i  denari  ;  ed  avendo  il 
prete  la  cotta  e  la  stola,  bisogna  dire  che  quelle  cose,  cioè  la 
candela,  il  sale,  Tacqua  e  le  foglie  d'olivo,  fossero  benedette. 

13.  Int.  De  fama  dicti  presbyteri  (vulgo  il  papasso)  tam 
apud  se  quam  apud  alios. 

Resp.  Io  non  conosco  questo  papasso  se  non  di  vista  ; 
alcuni  dicono  che  sia  un  vagabondo,  ed  altri  che  vadi  osser- 
vando ritalia  per  farne  la  relazione  in  Turchia. 

14.  Int.  An  odio,  vel  amore,  et  super  inimicitia?  ctc. 
Resp.  Recte. 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  iuratas  de  silentio; 
et  perlecto  ei  suo  examine,  se  subscrìpsit. 

Io  Adolfo  Pancaldi  affermo  quanto  sopra  di  mano  propria. 


-3M  — 

Acta  sani  haac  per  ne  Corliom  SignsDiioi  Sancii  Qffidl 
nolarioB. 

ESAME  DEL  SECONDO  TESTIMONIO. 

Vocatos  persooaliter  comparait  coram,  ubi  sopra,  in  ma* 
qoe,  eie 

Belardos  fliios  Cerìani  AoUnorì  de  BelloTideri,  setatis 
annomm  viginti  octo»  miles,  de^ens  sub  parochìa  Palmari  :  Cai 
delato  joramento  ferìtatis  diceod^e,  qood  prsestitil  lactis  sacrìs 
litterìs»  foit  pò*  D. 

1.  Int.  An  sciat,  vel  imaginetor  cansam  su»  vocationis  et 
ineaentis  examlnis? 

Resp.  Io  non  so  né  m' immagino  la  causa  perchè  V.  & 
m'  aM)i  chiamato  ed  ora  mi  voglia  esaminare. 

2.  Int.  An  cognoscat  Demetrìom  Beviacetum,  Adulphum 
Pancaldum,  Belardum  Antinorum  et  quemdam  presbyterum  grs^ 
cum  qui  vulgo  dicitur  il  papasso,  et  quatenus,  etc. 

(Qui  s'osserva  la  regola  toccata  di  sopra  »  di  mettere 
avanti  gli  occhi  tutti  i  testimoni»  e  il  delinquente  cosi  nuda- 
mente^ acciò  venendosi  a  toccare  il  delitto  in  geilere,  subito  si 
venga  a  ricordare  di  quel  che  avrà  veduto). 

Resp.  Io  conosco  da  qualche  anno  in  qua  Demetrio  Hevia- 
ceto,  Adolfo  Pancaldi  e  Belardo  Antinori  ;  e  il  papasso  ssirà  un 
mese  che  cominciai  a  conoscerlo,  con  occasione  che  si  va  trat- 
tenendo in  qualche  bottega,  e  discorre  delle  cose  di  lavante, 
delle  quali  io  mollo  mi  diletto. 

3.  Int.  An  cognoscat  aliquem  haBreticum,  sortilegum,  blaa- 
phemum,  poligamum,  vel  quomodolibet  do  hasresi  suspectumT 

Resp  lo  non  conosco  alcuna  di  queste  sorta  di  persone 
delle  quali  m' interroga. 

4.  Int.  An  unquam  accesserit  domum  Demetrii  Beviaceti, 
et  an  habeat  aliquam  practicam  dictae  domus? 

Resp.  Diverse  volte  sono  stato  in  casa  di  Demetrio  Bevia- 
ceto;  non  ho  però  altra  pratica  che  delPingresso  della  scala  e 
della  sala,  non  essendo  mai  entrato  nelle  stanze. 

6.  Int.  An  sciat,  vel  dici  audierìt,  dictam  domum  habere 
aliquod  podium  ? 

Resp.  Padre  si,  che  la  casa  di  Demetrio  ha  un  fKiggiolo 
cbe  lui  chiama  balcone,  ed  è  in  mezzo  della  sala  verso  rorientc* 

Tamb.  Inquii.  Voi   11  51 


—  242  —, 

(Si  notino  le  interrogazioni  che  seguono,  le  quali  sodo 
tutte  ordinate  una  diietro  air  altra,  e  naturalmente  portano  al 
delitto  che  si  cerca). 

6.  Int,  Àn  ìpse  examinatus  quandoque  fuerìt  super  dictum 
podium  ? 

Resp.  Sarò  stato  sopra  detto  poggiolo ,  o  balcone ,  otto  o 
dieci  volte. 

7.  Int.  An  tempore  bacchanalium  proxime  prseteritornm, 
quodam  die  fuerit  super  dictum  podium,  et  quatenus,  etc.  An 
solus,  vel  associatus,  et  qua  hora  et  qua  occasione  ? 

Resp.  Mi  ricordo  che  ci  fui  un  giorno  di  questo  carnevale, 
e  stimo  che  fosse  il  venerdì  dopo  il  giovedì  grasso;  e  me  lo 
ricordo  perchè  si  ballò  tutta  la  notte,  e  la  mattina  del  venerdì 
mi  levai  molto  tardi.  In  mia  compagnia  era  Demetrio  e  Adolfo 
Pancaldi  chirurgo,  che  aveva  medicato  un  figliuolo  dellMstesso 
Demetrio;  non  mi  ricordo  dell'ora,  ma  so  ch'era  tarda,  e  Toc- 
casione  di  ritirarsi  sul  poggiolo  fu  per  discorrere  del  grave 
.male  del  pullino. 

8.  Int.  An  dictis  loco,  tempore  et  occasione  viderint  aliquid 
singulare  ex  aliqua  parte  dicli  podii? 

Resp.  Giacché  V.  P.  ha  più  sopra  nominato  il  papasso,  mi 
don  venuto  a  ricordare  che  vedessimo  lui  stesso  in  compagnia 
d'alcuni  contadini,  i  quali  facevano  una  fossa  vicino  ad  una 
.muraglia  me^zo  diroccata. 

9.  Int.  Ex  qua  parte  dicti  podii  fodiebant  prasfati  rustici,  et 
quantam  distanliam  a  dicto  podio  ?  Et  quid  faciebat  diclus  pa- 
passus  ? 

(Si  dimanda  questo  per  verificare  V  identità  e  di  quella 
banda  o  parte  dove  facevano  la  fossa,  e  della  distanza  del  ca- 
vamento  dal  balcone). 

Resp.  Quei  contadini  cavavano  dalla  banda  destra  di  detto 
poggiolo,  che  sarà  slato  alla  distanza  di  mezzo  tiro  di  pistola. 
\\  papasso  stava  in  piedi  ed  aveva  da  una  mano  una  candela 
;^'.xesa  che  poteva  essere  di  un'oncia,  e  dall'altra  un  libro  come 
le  grammatica  del  Bonciario,  ed  aveva  cotta  e  stola;  vicino  a 
lui:  c'era  un  ragazzo,  che  in  una  mano  aveva  un  bicchier  d'acqua 
e  con  Taltra  teneva  una  palma;  ed  il  papasso  gettava  di  quando 
in  quando  nella  fossa  delle  foglie  di  palma,  e  con  le  dita  pi- 
gliava l'acqua  da  quel  bicchiere  e  spruzzavala  nella  fossa;  e  lo 
avrà  fatto  cinque  o  sei  volle,  come  altrettante  volte  vi  avrà  gel- 
tate  dello  foglie  di  quella  palma.  Con  la  candela  fece  un  gran 


noBOO  di  end»  ai  cn  no  modd  stnoi^iite:  ciiMiMten  di 
sopra  poi  dBcenden  sanpre  facindo  croci»  e  eoa  bm^in  ite 
tutte  le  brade»  per  coi  noi  ci  iMniv^lbvaiiDO  in  tv^liiw  i|iie$l» 
faccenda:  mi  ricordo  anco  che  gettò  più  nrile  del  sale  che  m 
coDtaiyoo  gli  porgeva  in  ona  carta. 

10.  Int.  An  sciat»  Tri  dici  andieriL  dictas  palmas.  cande^ 
lam,  salem  et  qnam  foisse  benedictas? 

Re^.  lo  m'imagino  di  sì,  per  la  cotta  e  la  stola  delle  quali 
era  mestilo  il  papasso»  ma  non  lo  so  di  certo. 

11.  Int  Qoanto  tempore  dnraTerit  ìUa  fossio,  et  quid  fece* 
fìnt  recedendo  ab  illa? 

(Perchè  pad  essere  che  nel  proseguire  ropentione  e  nel 
partire  dal  loogo  del  delitto  abbiano  fatta  qualche  altra  super^ 
stinone,  à  b  questa  dimanda;  e  non  dicendo  cosa  di  nuovo  « 
noD  occorre  ricercare  gli  altri  testimoni  circa  di  questo). 

Resp.  Dorò  fino  ali'  Ave  MariOy  e  poi  partironsi  da  quel 
loogo»  e  noi  ci  levammo  dal  poggiolo  senxa  aver  veduto  altro* 

12.  InL  De  foma  dicti  papassi,  tam  apud  se,  quam  apud 
alios  ? 

Resp.  Io  per  me  non  ho  niente  in  contrario  circa  il  pa- 
passo; quello  che  sia  presso  gli  altri,  non  so. 

13.  Int.  An  odio,  vel  amore  et  saper  inimlcitia? 
Resp.  Recte. 

Qulbus  habìtis  et  acceptatis,  dimissus  fait,  juratus  do  si* 
lentio;  et  perlecto  ei  suo  examine,  cum  (prò  ut  dixlt)  nesclrel 
scrìbere,  fecit  signom  Crucis. 

Signum  Crucis  f  Belardi  Antinori. 

Acta  sunt  baec  per  me  Curtium  Signanum  Sancii  Odici  I 
notarium. 


TERZA  DENUNZIA  D'UNA  DONNA  SOLLECITATA 
A  TURPITUDINE  NELLA  CONFESSIONE  SACIIAMENTALK. 


Roma,  giorno  7  lu/lw  i'Mt. 

Sponte  personaiiler  comparuit  coram  adrn.  rev»  patro  vi- 
earìo  S.  OfQcii,  existeote  in  ecclesia  Sancii  Marci  Auxinii,  in 
melque,  etc. 

Simpronia  Alia  quondam  Ribaldi  Rivellini  de  Londifio;  re* 


—  ti4  — 

lieta  qaoDdam  Berilli  Danori;  a&tatis  annoratn  triginta;  exercos 
artem  malicbrem,  et  degens  sub  parochia  Occidentali;  col  de- 
lato jurameoto  veritatis  diceadaB,  qood  pra^stitit  tactis  aaciis 
Utteris,  exposoit  ut  infra: 

1.  Per  ordine  dei  mio  confessore  sono  comparsa  aTOOti  V. 
R.  per  rappresentarle  come  la  vigilia  di  san  Gìofanni  Battista» 
circa  l'ora  quattordicesima,  m*andai  a  confessare  nella  chiesa  di 
San  Basilio,  nffiziata  dai  padri  greci,  e  mi  posi  in  ginocchio  in 
un  confessionario  di  noce  che  sta  alla  destra  di  detta  chiesa 
quando  s'entra  per  la  porta  maggiore,  vicino  all'altare  di  san- 
t'Atanasio ;  e  questo  confessionario  è  iLsolo  da  quella  banda,  e  la 
di'  lui  grata  ha  i  buchi  grandetti ,  cui  dentro  ciascheduno  si 
Vàie  una  bella  crocetta  ;  non  so  però  di  che  materia  sia  né 
la  grata  dò  la  crocetta,  e  la  grata  sarà  grande  come  meuo  fo- 
glio di  carta.  Ed  avanti  di  cominciare  la  confessione,  quel 
padre  mi  disse  queste  precise  parole:  <  Tu  sei  bella  e  grazio- 
sa ;  a  me  piace  il  tuo  viso.  ■  Io  non  diedi  mente  a  queste  aue 
parole,  ma  seguitai  la  mia  confessione,  e  ricevuta  la  penitenza 
e  Tassoluzione  me  ne  partii. 

Il  giorno  pei  di  san  Giovanni  m'andai  pure  a  confessare 
da  lui  che  potevano  essere  quinidici  ore ,  e  sedeva  nel  mede- 
simo confessionario;  nel  tempo  della  confessione,  avanti  cioè 
che  mi  desse  Tassoluziorle,  mi  disse  che  dovessi  sempre  andare 
a  confessarmi  da  lui,  per  il  genio  che  aveva  verso  la  mia  per- 
sona, e. che  mi  voleva  esser  padre.  Dopo  avermi  data  Tassola- 
zione,  mi  disse: <  Andate,  ma  amatemi  com'io  amo  voi.  «Questo 
è  quanto  posso  dire  per  scarico  della  mia  coscienza. 

(In  sumendis  denunciationibus  talis  materiae,  cautissime 
€t  accurate  procedere  debebit  vìcarius ,  procurando  hat)ere  a 
posnitenti  sollicitata  nomen  ecclesisB,  posituram  et  qualitatem 
confessionarii  ;  nomen ,  cognomen  et  patriam  confessarli ,  aut 
saltem  diligentem  ipsius  descriptionem.  Curet  etiam  ut  poenitens 
referat  praecisa  verba  sibi  dieta  a  confessarlo  cuiuscumque  ob- 
scaenitatis  illa  fuerint,  et  numerum  eorumdem.  llidem  an  acci- 
derint  sollicitatìones  immediate  post,  vel  in  confessione  ipsa 
sacramentali,  vel  quocuroque  alio  pacto  centra  Bullam.  Cavebit 
pariter  vicarius  petere  a  poenitente  an  coDsensum  prsBstiterit  ; 
«t  si  a  se  ipsa  propalare!  consensum,  Lpsum  non  scribere.  Imo 
animadvertens  ipsiam  velie  suum  consensum  aperire,  statim 
vicarius  impediat.  Ex  alia  parte,  si  viderit  personam  sollicitatam 
morosam  in  fatenda  sollicitatione  oh  consensum  pradstitum. 


Portar  H  qnd  dm  leular  dkcn  proprimi  CdDSWisttii;  imo 
éibehKuaù  mnbutur;  sed  taDtam  pnMradiliir  qiiod IMMor 
<Iiiid  sibi  fixerìU  Td  fecerìt  coofessarias.  El  scìit  tk^tus  tee 
omoia  phirìes  finsse  ne  doni  ordìmta,  oed  elWDi  inciikitii  i 
Skl  CoQgreptkMìe  Sancii  OfficiL 

i.  lot  De  nomine,  cc^omine  et  patria  ditti  confessarti  t 
Resp.  Ho  inleso  che  questo  confessore  si  chiami  padre  Eta^ 
risto,  ma  del  cognome  e  della  patria  non  so  niente,  tranne  che 
è  greco. 

3.  Et  ei  dicto  ut  descrìberet  dictnm  patrem  E?ari$tnro« 
Resp.  n  padre  E?arìsto  è  di  statura  grande  e  grosv^io ,  di 

barba  bianca  e  tanga  come  quella  de'  padri  cappuccini,  e  porta 
sempre  gli  occhiali  ;  del  resto  non  saprei  dir  altro. 

4.  Int,  An  aliqua  persona  adverterit  quando  itictus  pater 
Evarìslns  se  examinatam  sollicìtavit  ad  lurpia  in  confessione 
sacramentali. 

(Perchè,  può  essere,  che  la  sollecitata  od  il  sollecitante 
abbia  fotte  qualche  gesto,  per  il  quale  alcuno  si  sia  accorto  della 
sollecitazione,  perciò  si  fa  questa  interrogazione). 

Resp.  Io  non  so  che  alcuno  abbia  udito  quando  il  detto 
padre  Evarislo  m'ha  detto  le  suddette  parole  nella  confessione 
sacramentale. 

6.  Int.  An  sciat,  Tel  dici  audierit,  dictum  patrein  Evariatum 
sollicitasse  ad  torpia  in  confessione  sacramentali  alias  personas 
pCBoitentes. 

(Quest'inlerrc^zione  sempre  si  deve  fare,  perchè  le  donne, 
ciarlando  fra  di  loro,  può  essere  che  una  scuopra  Tal  tra). 

Resp.  Due  figliuole  del  signor  Alipio  Moscati ,  mie  vicine  • 
domenica  prossima  passata  dopo  pranzo,  avanti  U  porta  della 
toro  casa,  in  occasione  che  si  discorreva  dei  confessori,  dissero 
che  qnesti  era  un  buon  padre,  perchè  quando  andavansi  a  cen- 
trare le  diceva  parole  molto  affettuose.  Di  queste  giovinette , 
che  saranno  una  di  quattordici  e  Taltra  di  sedici  anni,  la  prima 
si  chiama  Frassinella,  e  l'altra  Poligetta. 

6.  Int.  An  praefaiae  puellae  retulerint  ipsi  examinala  verba 
amatoria  eis  dieta  a  patre  Evaristo  in  confessioni  sacramentali. 

Resp.  Frassinella  e  Pniigetta  non  riferirono  die  parole 
avesse  loro  dette  il  padre  Evaristo  nella  confesilone  Mera* 
mentale. 

7.  lot  An  odio,  vel  amore,  et  super  inimicitia, 
Resp.  Recte. 


.      —246  — 

Quibus  babitis  et  acceptatis,  dimissa  fuit  jurata  de  silentia; 
et  perlecta  ei  sua  depositione,  com  (prò  ut  dixit)  nesciret  seri* 
bere,  fecit  signum  Crucis. 

SÌgnam  Crucis  f  SimpronidB  Rivellini. 

Ada  sQDt  baec  per  me  Curtium   SigDanum  Sancti  Officih: 
notarium. 


DECRETO  SUCCESSIVO  ED  IMMEDIATO. 


Altentis  SQpradictis,  dominus  decrevit,  praefatas  poellas  ss- 
crete  vocari  examioari,  et  processum  fabricarì. 
Ita  est:  Gartios  Signanus  Sancti  Officii  notarios. 


ESAME  DEL  PRIMO  TESTIMONIO. 


Giorno  8  luglio  1382. 

Vocata  personaliter  comparuil  coram  adm.  rev.  p.  vicario 
Sancti  Officii  existente  in  sacrario  Sancti  Marci  Auximi,  in  mei- 
que,  etc. 

Frassinella  Alia  Alipii  Moscati  ab  Auximo ,  virgo  ;  aetatis 
annorum  quatuordecim  ;  degens  sub  parocbia  Occidentali  ;  coi 
delato  juramento  verìtalis  dicendae,  quod  praestitit  tactis  sacris 
litteris,  fuit  per  D. 

1.  Int.  De  importantia  juramenti? 

(Si  domanda  dell'  importanza  del  giuramento  quando  si 
dubita  cbe  non  si  sappia,  come  sono  i  giovani  e  le  giovani;  e 
mentre  sono  diversi  testimonii  da  esaminarsi ,  si  comincia  dal 
più  giovine,  come  questa,  slantecbè  da  essi  più  facilmente  si  può 
avere  la  verità). 

Resp.  Io  so  che  quando  si  giura  il  vero  si  fa  bene,  e  pecca 
gravemente  chi  giura  il  falso. 

2.  An  scìat,  vel  imaginetur  causam^suaB  vocationis,  et  prae- 
sentis  examinis? 

Resp.  Io  non  so,  n'è  mMmagino  la  causa  per  la  quale  V.  S. 
mi  ha  fatto  chiamare  ed  ora  mi  voglia  esaminare. 

3.  Int.  An  cognoscal  aliquem  baereticum,  sortilegum,  blas- 


—  n7  — 

.fheniQai,  poligamum,  abatentein  confessione  sacramentali  ad 
tarpia,  vel  qnomodolibet  de  barrasi  suspectum  T 

Resp.  Io  non  conosco  alcuna  di  queste  persone  delle  quali 
T.  S.  m'interroga. 

4.  lot.  A  quo  tempore  inc^perit  conQteri  sua  peccata? 
(Si  potrebbe  cominciare  dalla  quinta  interrogazione;  ma 

essendo  giovinetta,  non  è  stato  male  principiare  anco  di  qui). 
Resp.  Io  stimo  che  saranno  sei  o  sette  anni  che  comincio 
a  coofessarmi. 

5.  Int.  Quoties  in  anno  soleat  conflteri  sua  peccata,  etqua- 
teDQs»  in  qua  ecclesia,  et  cui,  vel  quibus  confessariis? 

Resp.  Io  solevo  confessarmi  alla  mia  parocchia  detta  Occi- 
dentale, ma  da  sei  mesi  in  qua  vado  a  San  Basilio,  dove  con- 
fessano i  padri  greci ,  e  dai  quali  mi  confesso  ogni  quindici 
giorni. 

6.  Int.  An  ad  ecclesiam  Sancti  Basilii  accedat  ad  conflten- 
im  sua  peccata  sola,  vel  associata. 

(Si  fa  per  far  nominare  sua  sorella  o  altro  testimonio). 
Resp.  Vado  a  confessarmi  alla  chiesa  di  San  Basilio  in  com- 
pagnia di  mia  sorella,  che  si  chiama  Puligetta,  e  con  noi  viene 
la  signora  madre  per  nome  Morella. 

7.  Int.  Quot  confessionaria  reperiuntur  in  ecclesia  Sancti 
Basilii,  et  quatenus  cujus  coloris? 

Resp.  Nella  chiesa  di  San  Basilio  sono  tre  confessionari: 
QQo  posto  alla  destra  della  chiesa  quando  s'entra  per  la  porta 
Qtaggiore,  ed  è  di  noce;  ed  altri  due  dalla  banda  sinistra,  che 
SODO  di  legno  bianco. 

8.  Int.  An  prsBfata  confessionaria  sint  prope  aliquod  altare? 

Resp.  Padre  si;  quello  di  noce  è  attaccato  all'altare  di  san- 
t'Atanasio, e  gli  altri  due  di  là;  uno  è  appresso  Taltare  di  san 
Basilio,  e  Taltro  vicino  all'altare  di  san  Crisostomo. . 

9.  Int.  In  quo  confessionario  ipsa  esaminata,  eiusque  soror 
€t  mater  soleant  conflteri  ? 

Resp.  Io.  mia  sorella  e  la  signora  madre  solevamo  confes- 
^rsi  nel  confessionario  di  noce,  posto  dalla  banda  destra. 

10.  Int.  An  dictum  confessionarinm  habeat  cratem,  et  qua- 
tenus, etc;  eam  describat. 

(Con  la  risposta  a  quest'interrogazione,  unita  all'attestato 
^Ua  denunciante,  si  prova  l'identità  del  confessionario;  perché 
i^l  Sant'  Officio  il  primo  denunzìante  non  solo  tiene  il  luogo 
di  quello  che  accusa,  ma  è  anche  testimonio  ;  e  con  un  altro 
PWa  a  sufficienza). 


Resp.  Il  confessionario  di  noce  ha  una  graticella,  i  di  coi  1 
chi  sono  falli  in  tal  maniera  ck^  ciascheduno  hanna  croGel 
e  slimo  che  questa  gralicella  non  sia  di  ferro  ma  di  l^c 
e  sarà  larga  e  lunga  come  un  fazzoletto  ordinario;  del  resto  [ 
so  dir  altro. 

11.  Int  De  nomine,  cognomine  et  patria  confessorìs  < 
solet  audire  confessiones  in  praefato  confessionario  nuceo  pos 
ad  dexleram  ecclesiae. 

Resp.  Il  confessore  che  suol  confessare  nel  confessionak 
noce  suddetto  si  chiama  il  padre  E?aristo;  non  so  di  qual 
gnome  e  patria  egli  sia. 

12.  Et  ei  dicto  ut  descrìbat  dictum  patrem  E^rislum. 
(Qui  pure  unitamente  col  detto  della  prima  denunzia 

si  prova  ridentità  del  confessore). 

Resp.  Il  padre  Evaristo  porta  sempre  gli  occhiali;  ha 
zazzera,  barba  bianca  e  lunga»  ed  è  grosso  e  grande  assai  ; 
resto  non  so  altro. 

13.  Int.  An  de  isto  patre  Evaristo  quandoque  habu 
sermonem  cum  atiqaa»  vel  cum  aliquibus  personis»  et  qua 
nus,  etc? 

(Si  noti  il  tempo  in  genere,  quandoque  e  le  persone 
rimente  in  genere  aliquibus  personis,  per  star  lontano  dalle  si 
gestioni). 

Resp.  Può  essere  che  qualche  volta  abbia  parlato  con  qi 
che  donna  dei  padre  Evaristo,  ma  non  mi  ricordo  quandi 
con  chi. 

14.  Int.  An  de  patre  Evaristo  dominica  proximc  prsBtei 
locuta  fuerit  cum  aliqua,  vel  aliquibus  personis,  etquatenus,  ( 
In  quo  loco,  occasione;  et  quid  dixerit? 

(Si  discende  al  tempo  in  individuo,  che  fu  domenica,  I 
candosi  il  luogo,  le  persone,  l'occasione  e  parole  del  disco 
in  genere;  e  però  la  confessione,  che  dal  tempo  di  domen 
nasce,  non  è  se  non  legittima). 

Resp.  Mi  ricordo  adesso  che  domenica  prossima  pass 
stavamo  avanti  la  porta  di  nostra  casa  io,  mìa  sorella  Pulige 
la  signora  madre  e  Simpronia  Rivellini  nostra  vicina,  e  si  d 
corse  de'confessori  e  si  nominò  anche  il  padre  Evaristo,  cu 
e  mia  sorella  dicevamo  ch'era  un  buon  padre. 

15.  Int.  Quare  ipsa  examinala,  ejusque  soror  dixerint? 
Resp.  Io  e  mia  sorella  dicevamo  che  il  padre  Evaristo 

un  buon  padre  perché  nel  confessare  dice  parole  molto  atì 
tuose. 


16.  Et  ei  dicto  ot  referat  verba  affecluosa  qoae  sibi  in  con- 
fessione»  vel  occasione  confessìonis  sacrameotalis,  solet  dicere 
dictiis  pater  Evarìstos,  et  qaoties,  etc. 

Resp.  Le  parole  afTetluose  che  mi  suol  dire  il  padre  Eyari- 
sto  sono:  ch'io  sono  bella  e  buona;  e  Pistesso  dice  di  n>ia  so- 
rella e  della  mia  signora  madre,  e  che  la  nostra  casa  è  una 
casa  di  bontà  e  di  bellezza,  e  che  vuol  venire  qualche  volta  a 
vederci.  Non  mi  dice  poi  altro;  e  queste  parole  me  Tavrà  dette 
dodici  0  quindici  volte,  parte  immediatamente  avanti  la  confes- 
sione, e  parte  immediatamente  dopo,  ma  mai  nel  tempo  della 
confessione. 

17.  Int.  An  unquam  accesserit  domum  ipsius  examinalae 
dictus  pater  Evarìstus,  et  quatenus,  etc? 

(Si  fa  quest'interrogazione  per  sapere  e  scuopriro  se,  es- 
sendo andato  in  casa  loro,  abbia  dato  qualche  segno  del  suo 
animo  impuro;  nel  qual  caso  le  parole  dettele  in  confessione 
si  riceverebbero  in  mala  parte). 

Resp.  Dopo  che  noi  ci  confessiamo  dal  padre  Evarislo  sarà 
venuto  in  casa  nostra  quattro  o  cinque  volte,  e  si  tratteneva 
in  ridere  e  raccontare  le  cose  della  Grecia,  e  non  diceva  nò 
faceva  altro, 

18.  Int.  De  fama  dicti  patris  Evaristi. 

Resp.  Il  padre  Evarislo  è  di  bonissima  fama,  e  si  può  dire 
che  confessa  tutta  la.  nobiltà  della  città. 

49.  Int.  An  odio,  vel  amore,  et  super  inimicilin. 

Resp.  Recte. 

Quibus  babitis  et  acceptatis,  dimissa  fuit,  jurata  de  silenlio; 
et  ei  perleclo  suo  examine,  se  subscripsil: 

Io  Frassinella  Moscati  confermo  quanto  sopra  di  mano  pro- 
pria. 

Ada  sunt  haec  per  me  Curtium  Signanum  Sancii  Odicii  no- 
ta rium. 

ESAME  DEL  SECONDO  TESTIMONIO  SUCCESSIVO. 

Yocala  personalller  comparuit  coram,  et  ubi  suprj,  in  mei- 
que,  eie. 

Domina  Puligelta  Alia  Alipii  Moscati  ab  Auximo,  virgo; 
8Btalis  annorum  quindecim  cum  dimidio;  cui  dclato  juramenlo 
ìeritalis  dicendae,  quod  praestitit  tactis  sacris  lillcris,  fuit  per.  D. 

Tamb.  Inquis,\o\.  U.        ■  Zi 


—  2«0  — 

1.  lot.  De  importantia  jaramenti. 

Resp.  Se  dirò  la  bugia  farò  un  gran  peccato;  e  se  confes- 
serò ia  verila,  meriterò  appresso  Dio. 

2.  Int.  An  sciat,  vel  imaginetur  causam  suse  vocationis  et 
prsBsentis  examinis? 

Resp.  Io  non  so  la  causa  di  quest'esame,  né  me  rimagino» 
se  V.  S.  non  me  *1  dice. 

2.  Int.  Aq  post  prandium  soleat  conversari  cum  aliqua,  vel 
aliquibus  personis,  ante  janoam  su^  domus,  et  qaatenus»  etc.? 
(Non  è  dubbio,  che  nella  fabbrica  de^processi  ci  yc^Iiono 
alcune  regole  generali  ;  ma  queste  supposte,  si  può  cavar  la 
verità  dai  testimoni,  e  dai  rei  in  molte  maniere,  purcliè  s'abbi 
un  poco  di  giudizio  :  nell'esame  del  testimonio  passato  si  cam- 
minò in  un  modo,  e  qui  in  un  altro). 

Resp.  Ne'  giorni  festivi  siam  soliti  stare  in  conversazione 
dopo  pranzo  avanti  la  porta  di  nostra  casa  la  signora  madre, 
Frassinella  mia  sorella  ed  alcune  altre  donne  nostre  vicine. 

4.  Int.  An  dominica  proxime  praeterita,  post  prandium,  in 
praefato  loco  habuerint  hanc  conversationem,  et  quatenus,  quae 
materia  fuerit  conversationis;  et  qui,  vel  quae  erant  praesentes? 

Resp.  Signor  si,  che  domenica  prossima  passata  fummo  in 
conversazione,  come  l'altre  volte,  e  ci  eravamo  lioi  tutte  donne 
di  casa  e  una  tal  Simpronia  Rivellini  e  qualche  altra,  e  si  dis- 
corse di  diverse  cose,  delle  quali  non  mi  ricordo. 

5.  Int.  An  die  dieta  fuerit  aliquis  sermo  de  confessoribus, 
€t  quatenus,  de  quibus  et  qnid,  etc? 

(Quest'interrogazione  si  chiama  in  genere,  perchè  si  parla 
de'confessori  e  del  discorso  in  comune;  è  però  molto  efiScace 
per  far  nominare  i  confessori  in  particolare,  e  che  cosa  si  dis- 
corse di  loro;  come  s'è  fatto  nella  risposta). 

Resp.  Fu  discorso  de'confessori,  e  furono  biasimali  quelli 
che  gridano;  e  noi  lodammo  il  nostro,  il  quale  è  benigno,  amo- 
roso e  consola  tulle  ;  ed  è  un  padre  di  San  Basilio  greco,  <ihe 
si  chiama  il  padre  Evaristo,  e  confessa  tutta  la  casa  nostra. 

6.  Int.  Quae  verba  benigna  et  amorosa  solcai  dicere  in  au- 
diendis  confessionibus  dictus  pater  Evaristus? 

Resp.  Mi  suol  dire  che  son  bella,  che  racconto  bene  i  miei 
peccali,  che  porto  bene  la  mia  vita,  e  che  sempre  gli  cresce 
l'amor  verso  di  me. 

7.  Int.  Quoties  sibi  dixerit  pater  Evaristus  praefala  vcrba, 
et  quando;  an  scilicet  in  confessione  sacramentali,  vel  imme- 
diate ante,  vel  immediate  post  ? 


Resp.  Per  lo  spaùo  di  set  mesi  che  mi  confesse^  d»l  paidn» 
E^rìslo,  m^aTrà  dette  queste  parole  dai  qQsunntai  Tolte»  e  sem- 
pre dentro  la  confessione  ;  cioè  dopo  a^er  cominciat4i  la  confes- 
sione, ed  avanti  rassolozìone* 

(S*intent^  cosi  per  sapere  il  nomerò  deMelitti.  e  in  cbe 
maniera  ^a  caduto  nella  bolla  cmtra  soUicHaHk$). 

8-  Int.  In  qoo  confessionario  soleat  dictus  pater  E?arìstos 
andire  conf^ssiones  sacramentales,  et  descrìbat  confessarlum 
ipsnm  et  confessionaiiom. 

(Nella  risposta  a  qnesrinterrogasione  si  prova  per  il  tono 
testimonio  Pidentità  del  confessionario  e  del  confessore\ 

Resp.  Il  padre  Evarìsto  ascolta  le  confessioni  in  un  con- 
fessionarìo  posto  alia  band»  destra  della  chiesa  quando  sVntra 
per  la  porta  maggiore  ;  e  questo  confessionario  ò  di  noce,  ha 
una  graticella  poco  più  grande  della  testa  d'uomo»  la  quale  ha 
diversi  buchi  grandetti»  e  in  ciascheduno  si  vedo  una  cnìcotla  ; 
non  so  s'^  di  ferro,  o  di  legno,  o  d'altra  materia.  Il  confessore 
p(H  è  grande,  grosso,  e  porta  la  zazzera  e  barba  lunga  e  bianc«n» 
e  tiene  sempre  gli  occhiali. 

9.  Int.  Àn  sciat,  vel  dici  audierit,  dictum  patrem  EvarUtum 
protulìsse  praefata,  vel  similia  verba  amatoria  erga  alias  persona s 
poenitentes  in  confessione  sacramentali,  vel  occasione  sacrnmen- 
talis  confessìonis. 

Resp.  Mia  sorella  suddetta  m' ha  riferito  d' averlo  delle 
anco  a  lei. 

10.  Int.  De  fama  dicti  patris  Evaristi  T 

Resp.  11  padre  Evaristo  è  di  buona  nominanza. 

11.  Int.  An  odio,  vel  amore  et  super  inimlcitiaT 
Resp.  Recte. 

Qi^ibus  habitis  et  acceptatis,  dimissa  fuit  jurata  de  silonllo; 
etperlecto  ei  suo  examine,  se  subscripsìt: 

Io  Puligetta  Moscati  confermo  quanto  sopra  di  mano  propria. 

Acta  sunt  haec  per  me  Gurtium  Signanum  Sancii  Office 
notarium. 


ESAME  DEL  TERZO  TESTIMONIO  INCONTANENTK. 


Yocata  personaliter  comparoit  coram,  et  ul)i  snpra,  in  mei- 
que,  etc. 


D.  Morolla  uxor  D.  Àlipii  Moscati,  aBlalis  annoram  trigiota» 
cui  delato  juramento  veritatis  dicendsB ,  quod  praBstilit  tactis 
sacris  litteris,  fall  per  D. 

1.  Int.  ÀQ  sciat,  vel  imaginetar  causam  suae  vocationis  et 
prdB3entis  examinis? 

(S'è  lasciata  Morolla  per  ultima,  secondo  la  regola  toc- 
cata di  sopra,  di  cominciare  dalle  giovani  e  passare  alle  più 
vecchie,  come  che  le  giovani  sono  più  facili  a  dire  la  veriUi). 
Resp.  M'imagìno  che  V.  S.  m'ha  fatto  chiamare  ed  ora  mi 
voglia  esaminare  per  causa  del  mio  padre  confessore,  per  nome 
Evaristo. 

2.  Et  ei  dicto  :  Quare  imaginetur,  se  esse  vocatum  propler 
patrem  Evaristum  ejus  confessarium? 

Rcfsp.  Frassinella  mia  prima  figlia,  come  ragazza,  m'  ha 
raccontato  tutto  quello  che  V.  S.  gli  ha  dimandato,  e  quel  che 
ha  ella  risposto;  e  però  mMmagìno  che  voglia  dimandare  le 
medesime  cose  anche  a  me  :  e  se  vuole  eh'  io  dica  qftello  che 
mi  occorre,  senza  ch'ella  si  pigli  fastidio  di  farmi  tanrinterro- 
gazioni,  lo  farò  sinceramente. 

3.  Et  domino  annuente:  ipsa  examinata  deposuit  ut  infra: 
Saranno  sei  mesi  chMo  vado  a  confessarmi  nella  chiesa  de* 

padri  di  San  Basilio  con  le  mie  figliuole,  e  mi  confesso  dal  p. 
Evaristo,  uomo  canuto,  grande  e  grosso,  di  barba  lunga,  e  sempre 
porta  gli  occhiali  e  ascolla  le  confessioni  in  un  confessionario 
di  noce  posto  alla  destra  della  chiesa,  quando  s' entra  per  la 
porta  maggiore,  vicino  alPallare  di  sant'Atanasio;  e  dello  con- 
fessionario ha  una  graticella  quadra  d'  un  palmo  e  mezzo  in 
circa  ,  non  so  di  che  materia  sia  ,  i  buchi  della  quale  hanno 
inserita  una  bella  crocetta.  Questo  padre,  come  che  amorevole 
e  domestico  di  casa  nostra  piglia  con  me,  e  con  le  mie  figliuole, 
qualche  confidenza,  ma  senza  malizia  imaginabìle.  M'avrà  detto 
una  dozzina  di  volte,  parie  avanti  la  confessione,  parte  nella 
confessione  slessa,  e  qualche  volta  immediatamente  dopo,  ch'io 
sono  bella,  che  porto  bene  la  vita  e  che  ho  falle  belle  figliuole, 
e  ancora  esse  camminano  leggiadramente. 

Il  padre  è  in  buon  concello  appresso  tutta  la  città,  ed  io 
lo  tengo  e  1'  amo  in  luogo  di  padre  ;  e  questo  è  quello  che 
mi  occorre  dire  a  V.  S. 

Sponte  personaliter  comparuil  coram  adra.  rev.  patre  vi- 
cario Sancii  Officii  Auximi,  existente  in  propria  mansione,  in 
meique,  etc. 


—  1»  — 

Qoiboslnbitìs  et  accepbtis*  dimissa  fiiit,  joratai  de  siIraUcK 
et  perieclo  «  sqo  e3Luiiioe,  se  sobscrìpàt  : 

Io  Morolla  Moscati  confermo  quanto  sopra  di  mano  propria* 

Acta  sont  haec  per  me  Cartiom  Signannm  Sancii  Officii 
Notariom. 

(Con  questo  testimonio  unito  con  gli  altri  tre  suddetti  si 
prova  per  detto  di  quattro  donne  l' identità,  in  qualctie  parte, 
e  del  confessore  del  delitto,  e  del  confessionario). 


QUARTA  DENUNZU, 
D  UN  CELEBRANTE  NON  PROMOSSO  AL  SACERDOZIO, 


Giorno  30  sette^nbre  1682. 

D.  Quirìous  Alias  quondam  Laertiì  Pisini  de  Monte  Bello, 
dìoecesis  Gasalensis,  SBtalis  annorum  viginti  duorum,  clericus 
diaconus,  degens  de  praeseoli  Auximi,  sub  parochia  Australi, 
coi  delato  juramento  veritatis  dicendae,  quod  pr^BStitls  tactìs 
sacrìs  litterìs,  exposuìt  ut  infra: 

1.  Son  qui  a  rappresentare  a  V.  R.  che  le  quattro  tempora 
INX)ssimo  passate  sono  andato  airordinazione  a  Venezia  con  due 
altri  che  aspiravano,  uno  al  sacerdozio,  cioè  don  Berillo  Berilli, 
eTaltroal  diaconato,  come  volevo  io,  e  si  chiama  Perinuccio 
Halasorte,  candiotto.  Tutti  furono  ordinati  la  stessa  mattina;  e 
<ioo  vedeva  ordinare  Taltro;  io  e  Perinuccio  pigliammo  il  dia- 
^ conato,  e  don  Berillo  Berilli  s'ordinò  sacerdote,  e  tenne  ordl- 
iiazione  monsignore  Mitridate  nel  luogo  solilo.  Il  giorno  seguente 
^rimbarcammo  per  Ancona,  e  arrivammo  il  terzo  giorno,  ch'era 
martedì,  ed  ivi  mi  fermai  per  i  miei  affari  quattro  di.  11  secondo 
giorno,  che  fu  giovedì  prossimo  passato,  essendo  andato  per 
iMirlare  al  curato  della  chiesa  de'  Mercanti ,  trovai  nella  sagre- 
stia della  medesima  chiesa  apparato  per  dir  messa  il  diacono 
Perinuccio  Malasorte ,  e  restai  sorpreso  e  vidi  che  usci  fuori 
cosi  apparato  e  si  portò  a  dir  messa  all'aitar  maggiore  li  vicino; 
e  dalla  sagrestia  vedendosi  molto  bene  l'altare,  io  l'osservai  con 
la  vista  e  Tudii  con  l'orecchie  Ano  al  fine;  il  qual  altare  aveva  il 
Kilio  e  i  cuscini  di  saia  bianca,  con  le  trine  di  varii  colori,  con 
loattro  candelieri  e  una  croce  d'ottone,  ma  erano  accese  du  e 
ole  candele  d'un'oncia,  o  poco  più,  runa.  Disse  la  messi  della 


Madonna,  che  comincia:  Salve,  sanda  Parens;  s^mtf^  l^^^lo- 
la,  l'evangelo,  ed  il  piief^zio ;  consacrò  il  p»ne  ed  il  vino,  per 
quanto  parve;  alzò  Tuno  e  l'altro»  disse  \\  Pater,  si  cqfnuDic^ 
a  suo  tempo ,  diede  la  bene^zjope  in  fine  ^Ua  loessa  e  la 
terminò  col  vangelo  di  S.  Giovanni,  che  ha  per  ultime  parole: 
Et  verìmm  caro  factum  est,  ecc.  E  perchè  questo  è  uii  gravis- 
simo caso  ^ì  Saor  Ol^no»  sono  comparso  a  scaricare  la  mui 
coscienza. 

Int.  Qua  licenlia,  seu  qua  dlmissoria  celebraverit  Perinac- 
cius  mìssam  ? 

Resp.  Io  non  so  ^r^a  con  cpial  licenza  o  dìmissoria  abbi  ce- 
lebrato Perìn^ccio  1?  ^aqt^  messa. 

3.  Int.  Àn  dixerit  missam  bene,  vel  male  ? 
Resp.  La  disse  speditamente  e  bene. 

4.  lot.  An  aqdierit  verba  consecrationis,  vel  saltem  viderit 
motionem  labiorum  dicti  diaconi  Perinuccii  ?    ^ 

Besp.  Io  non  posso  dire  con  certezza  né  l'uno  nò  Taltro , 
perchè  la  distanza,  sebbene  non  molta,  non  permetteva  d'udii 
le  parola,  che  sogliono  esser  sacre  ;  e  lo  star  giù  con  la  testi 
del  sacerdote,  come  si  suole,  impediva  di  poter  vedere  il  moto 
delle  labbra. 

5.  Int.  De  famulo  qui  tnserviebat  tali  sacrilegae  missae? 
Resp.  Serviva  la  messa  il  chierichetto  della  sacrestia ,  eia 

sentivo  chiamare  Bertoldino  ;  non  so  di  chi  sìa  figliuolo  uè  di 
che  paese,  ma  era  vestilo  di  color  berrettino  ed  avrà  avuto  do- 
dici anni. 

6.  Int.  De  qualitate  missalis,  calicis  et  paramentorum  ? 
Resp.  11  messale  aveva  le  coperte  nere  con  i  segnacoli  rossi; 

il  calice  tutto  d'argento,  con  il  velo  di  seta  bianca  ;  la  pianeta, 
la  stola  ed  il  manipolo  di  velluto  bianco,  ma  usato  ;  il  camice, 
Tamitto  e  il  cordone  di  rpba  ordinaria  bianca,  siccome  era  or 
dinaria  la  berretta  da  prete. 

7.  Int.  De  adstantibus  diclae  mìssae  ? 

Resp.  A  questa  messa  erano  molti,  ma  io  non  li  conosco 
so  bene  che  don  Berillo  Berilli  slava  allora  dicendo  l'officio  il 
chiesa,  ed  avrà  veduto  e  sentito  tutto. 

8.  An  sciat,  vel  dici  audierit,'dictum  Perinuccium  celebrass 
alias  missas  in  praefata  vel  alia  ecclesia  ? 

Resp.  Di  questo  non  so  né  ho  inteso  dir  niente. 

9.  Int.  An  sciat,  vel  dici  audierit,  dictura  Perinuccium  d(] 
tasse  mìssa  a  se  celebratam  in  alìquo  libro  sacrarii  ? 


Itep.  Dopo  che  Penoaccio  ebbe  celdmibi  U  messi  e  rese 
le  grazie,  notò  la  soa  messa  in  qd  UbreUo  loogo,  coperto  con 
QDa  carta  tnrdùna,  die  sta  a  qaeslo  ffne  nella  sagrestia;  ed  lo 
lo  Tidi  molto  beoe;  prese  il  suo  mantello,  eh'  era  cotto,  e  se 
De  andò  por  i  fatti  suoi,  non  so  dove. 

10.  Int.'  An  sdat,  yel  dici  audierit,  dicium  Perìnncciam  ha- 
boisse  aliquot  indultum  apostolicom  quo  potoerìt  ordinari  in 
sacendotem ,  post  redilum  in  ci?itatem  AnconaB ,  ut  supra  »  et 
celebrare  ? 

Resp.  Io  non  so  niente  di  questo  ;  a  me  però  pare  ìmpos- 
sbile  per  la  brevità  del  tempo. 

11.  Int.  Quando  ipse  examinatus  vidìt  praefatum  Perinuc- 
cJDin  indolum  vestibus  sacerdotatibus ,  quare  ipsum  non  mo- 
onerit  ne  committeret  tantum  scelus  ? 

Resp.  Io  non  dissi  niente ,  perchè  restai  incantato  a  tanta 
iniquità  e  non  ebbi  animo  di  dirgli  cos'  alcuna. 

12.  Int  De  qualità tibus  individualibus  praBfati  Perinuccii  ? 

Resp.  Questo  Periouccio  è  dì  statura  piccola,  di  peli  e  ca- 
pelli rossi,  ma  tutti  crespi  senza  zazzera  ;  ha  un  occhio  tutto 
searpellato;  il  vestito  è  nero,  lungo  fino  al  ginocchio;  porta  un 
pajo  di  calze  di  color  paonazzo,  con  scarpe  bianche. 

13.  Int.  De  fama  dicti  Perinuccii,  tam  apud  se  quam  apud 
alios. 

Resp.  lo  son  forastiere,  e  non  Io  conosco,  e  nemmen  so  iti 
qiial  concetto  sia  presso  gli  altri. 

14.  Int.  Àn  odio,  vel  amore  et  super  inimicitia  ? 
Resp.  Recto. 

Quibus  habitis  et  acceptatis ,  dimissns  fuit,  juratus  de  si- 
lentio;  et  perlecta  ei  sua  depositione  se.  subscripsit  : 

Io  Quirino  Pisini  confermo  quanto  sopra  di  mano  propria. 

Acta  sunt  base  per  me  Gurlium  Signanum  Sancii  Offlcii 
notarìum. 


DECRETO  SUCCESSIVO. 


Attentis  praefatis,  dominus  decrcvit  testes  informatos  secreto 
Tocarì,  examinarì  et  processum  fabricari. 

Acta  sunt  baBC  per  me  Curtium  Signanum  Sancii  Oflicii 
notarinm. 


—  S56  — 


ESAME  DEL  PRIMO  TESTIMONIO. 


Giorno  ì  ottobre  1385. 

Yocatus  persoDaliler  comparuit  coram  et  ubi  sopra  »  i» 
meìque,  etc. 

DomiDQs  Berillus  fliius  quondam  Galidonìi  Berilli  de  Ra- 
gusa, advena  Àuximi  ;  astatis  annorum  viginti  quinque;  sacerdos 
sdBCuiaris,  cui  delato  jurameuto  verilalis  dicendaB,  quod  prae- 
slìlit  tactis  sacris  liUeris,  fuit  per  D. 

1.  Int.  An  sciat,  vel  imaginetur  causam  suae  vocationis  el 
praesentis  examinis  ? 

Resp.  Io  non  so  niente,  se  V.  S.  non  me  lo  dice. 

2.  Int.  An  cognoscat  aliquem  baereticum,  sortiiegum,  blas- 
pbemum,  polìgamum,  celebrantem  non  promotum  ad  saccrdo- 
tium,  Tel  quomodolibet  de  baeresi  sus'pectum? 

Resp.  Io  non  conosco  alcuno  di  queste  sorta  di  persone 
delle  quali  m'interroga:  solo  tengo  cb'uno  abbia  detta  la  sants 
messa  senz'  essere  sacerdote  ;  se  pure  non  ba  qualch'  indultc 
apostolico. 

3.  Et  ei  dicto  ut  seriatim  narret  quid  sibi  occurrit  circa  hoc 
Resp.  Deve  sapere  che,  non  tenendosi  ordinazione  in  questi 

parti,  ci  risolvemmo  in  tre  d' andare  ad  ordinarci  a  Venezia 
corbe  facemmo,  le  quattro  tempora  prossime  passate.  Ed  eri 
un  tal  Quirino  Pisini,  eh'  andava  al  diaconato,  ed  io  al  sacer- 
dozio, ed  un  candiotlo  per  nome  Perinuccio  Malasorte,  pei 
essere  ordinato  diacono,  come  il  Pisini:  fummo  esaminati  latti 
e  tre  e  ammessi;  ed  il  sabbato  mattina,  secondo  il  solito,  io 
fui  fatto  sacerdote,  e  gli  altri  due  furono  ordinali  diaconi,  ed 
io  li  vidi  con  gli  occhi  mìei,  e  T  ordinazione  fu  tenuta  da 
monsignore  Mitridate  nella  cappella  solita.  Il  giorno  seguente 
c'imbarcammo  di  ritorno  per  Ancona  tutti  e  tre,  ed  arrivamint> 
in  tre  giorni,  e  l'arrivo  fu  martedì  ventidue  del  passato.  Arri- 
vali al  porto,  ognuno  andò  per  i  falli  suoi.  Io  mi  fermai  io 
Ancona  sino  al  venerdì  ;  e  il  giovedì  antecedente  a  buon'  ora 
celebrai  la  santa  messa  nella  chiesa  parrocchiale  de'xMercanti  © 
poi  mi  posi  nella  medesima  chiesa,  avanti  l'altare  maggiore,» 
dire  r  ufiBcio  divino  ;  e  tìei  recitare  il  Te  Deum  laudamus  viJ» 


eomparìre  il  chierìdieilo  Bertoldino  con  il  messale  die  eoo- 
dooen  a  Are  massai  il  sèceràote ,  che  non  sipevo  chi  ft^si^ . 
ed  il  sacerdote  cominciò  la  mess»  della  Madonna:  S^tA 
sancia  Farcns;  e  nel  rollarsi  a  dire  il  primo  Dmvims  ixéì$imm 
iD'aTYidi  che  quello  che  dicera  la  santa  roess)  era  l\frìmicdo 
Malasorte ,  e  restai  talmente  stordito  a  questo  spettacolo  che 
non  potei  segoitare  Pufficio  divino.  E  quest'è  quanto  m'occorrt" 
dire. 

4.  Et  ei  subiuncto  ut  recenseat  partes  prìncipales  missac 
persointas  a  Perìnuccio  Malasorte,  dictis  loco,  tempore  et  oc- 
casione. 

Resp.  Perìnuccio  Malasorte  recitò  V  introito,  V  epistola,  il 
vangelo,  il  prefazio,  il  canone,  fece  la  consacrazione  ed  ele\^- 
zioDe;  disse  il  Pater,  si  comunicò,  disse  il  Post  communio , 
diede  la  benedizione,  e  disse  Tevangelo  di  saq  Giovnnni,  e  poi 
accomodò  il  calice  secondo  il  solito  e  se  ne  ritornò  in  sagrestia  ; 
e  quivi  si  sparò;  fece  le  sue  divozioni,  scrisse  il  suo  nome  nel 
libretto  a  questo  fine  destinato  e,  preso  il  suo  mantello,  se 
De  andò ,  non  so  dove  ;  e  so  ciò ,  perchè  dopo  la  messa  gli 
andai  dietro  in  sagrestia  e  vidi  tutto  con  gli  occhi  miei. 

5.  Int.  Àn  audierit  verba  consecrationis,  vel  saltem  videril 
Perinuccium  movere  labia  super  panem  et  vinum  tempore  con- 
aecrationis? 

Resp.  Io  veramente  non  udii  le  palmole  della  consacrazione 
del  pane  e  del  vino  ;  vidi  però  Perìnuccio  muovere  le  labbra, 
perchè  io  era  dalla  banda  del  vangelo ,  lontano  una  picca 
in  circa,  ed  appresi  che  dicesse  le  parole  solite  della  consa- 
crazione. 

6.  Int.  An  sciat,  vel  dici  audierit  aliquam,  vel  aliquas  per- 
sonas  audivisse  verba  consecrationis  prolata  a  praefalo  Perl- 
Doccio  dictis  loco ,  tempore  et  occasione,  vel  saltem  videril 
movere  eius  labia  super  panem  et  vinum? 

Res.  Molte  persone  erano  alla  messa  suddetta  di  Perìnuc- 
cio; ma  io  non  saprei  dire  quali  fossero,  né  so  che  alcuna  (U 
loro  abbia  udite  le  parole,  o  abbia  osservato  i  moti  delle  lab- 
bra sopra  il  pane  ed  il  vino  fatti  dal  medesimo  Perìnuccio  in 
quel  tempo,  luogo  ed  occasione. 

7.  Int.  De  veslibus  sacerdotalibus,  calice  et  missali  cimi 
elibus  celebravit  missam  praBfalus  Perìnuccius,  et  de  paramen- 
tis  altaris? 

Resp.  Perìnuccio  disse  la  messa  con  quegristessi  paramenti 

Tamb.  tnquis.  Voi.  II.  ZZ 


—  «58  — 

con  i  quali  celebrai  io:  con  la  pianeta,  stola  e  manipolo  di  y 
luto  bianco  usato  ;  col  camice»  cordone  ed  amitto  ordinari 
nell'andare  e  ritornare  dall'altare  aveva  una  berretta  nera 
usata.  Il  calice  era  tutto  d'argento  con  un  velo  lacero  di  i 
bianca*;  il  messale  avea  le  coperte  nere  e  i  segnacoli  rossi 
contr'allare  ossia  palio  e  i  cuscini  erano  di  saia  bianca,  coi 
trine  di  varii  colori,  e  suiraltare  erano  quattro  candelieri 
la  croce  d'ottone,  ma  due  sole  candele  d'un'oncia  in  circa  er 
accese, 

8.  Int.  Àn  sciat,  vel  dici  audierìt,  dictum  Perinucciurr 
illa  vel  alia  ecclesia  alias  celebrasse? 

Resp.  Io  non  so  uè  bo  inteso  dire  cbe  Perinuccio  abbia 
celebrato  né  in  quella  né  in  altre  chiese. 

0.  Int.  Ubi  modo  reperiatur  dictus  Perinuccius? 

Resp.  Io  stimo  che  Perinuccio  si  trovi  sicuramente  in 
cona;  perchè  ivi  ci  sono  diversi  suoi  paesani,  come  m'ha  d 
lui,  i  quali  non  conosco;  in  che  luogo  poi  preciso  non  lo  p( 
sapere. 

10.  Int.  De  qualitatibus  individualibus  dicti  diaconi  F 
nuccii  ? 

Resp.  Questo  Perinuccio  è  di  statura  bassa,  non  ha  zazs 
è  di  capelli  e  peli  rossi,  ed  ha  un  occhio  scarpeliato;  vest 
corto  e  porta  le  calzette  di  color  paonazzo,  con  le  scarpe  bian 

11.  Int.  De  fama  supradicti  Perinuccii? 

Resp.  Io  non  ho  conosciuto  Perinuccio  se  non  in  quel  ^ 
gio;  e  non  ho  contro  di  lui  altro,  se  non  che  mai  Tho  ve< 
in  quel  tempo  recitar  V  officio  divino. 

12.  Int.  An  odio,  vel  amore  et  super  inimicitia  ? 
Resp.  Recto. 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  juratus  d( 
lentio;  et  perlecto  ei  suo  examine,  se  subscripsit: 

Io  Berillo  Berilli  confermo  quanto  sopra  di  mano  pro| 
Àcta  sunt  hsBc  per  me  Curtium  Signanum  Sancti  0 
notarium. 


ESAME  DEL  SEOOXDO  lESTQiQMO. 


Giono  2  Mdìfrt  Ì9S&. 

Vocatos  persoDaliler  oompainiit  oonin  et  ubi  snptii^  in 
mriqae,  ecc. 

BertoldiDiis  fllios  Diodonis  Menili  de  Camerìno;  :eblis  9tn« 
noram  trededm  drdten  degeos  Aqcoim^  sab  parochtt  Merc^ 
torom,  modo  adveoa  AQximi,  cai  delato  juramento  verìtatis 
dicend»,  qood  praastitit  tactìs  sacrìs  Iitterìs>  fuit  per  D. 

1.  Int.  De  imporlaotia  jorameoti? 

Resp.  Io  so  che  se  dicessi  la  bugia  farei  un  gran  peccalo; 
del  resto  non  so  altro. 

2.  Int.  De  eius  exerdlio  et  qua  de  causa  sit  in  hac  civitale? 
Resp.  La  mattina  sto  a  servir  le  messe  alla  parecchia  dei 

Mercanti  d'Ancona,  e  dopo  desinare  vado  alla  scuola,  e  mi  ri* 
trovo  qui  in  Osimo  per  vedere  un  mio  sio»  che  mi  vorrebbe  qui. 

3.  Int.  Ubi  fuerit  die  Jovis  proxime  prsBlerllo  ? 

Resp.  Giovedì  prossimo  passato  mi  trovava  in  Ancona,  la 
mattina  alla  parecchia  suddetta  a  servir  le  messe,  e  dopo  desinare 
fai  alla  scuola. 

4.  Int.  De  sacerdotibus  qui  celebrarunt  mlssam  die  Jovis 
proxime  praeterito  in  ecclesia  Mercatorum  ? 

Resp.  Disse  messa  in  detta  chiesa,  e  parecchia,  il  signor 
carato  d.  Berillo  Berilli  sacerdote  novello,  d.  Antlnoro  Plncilll 
e  OD  altro  che  non  conosco. 

5.  Int.  Quis  inservivìt  miss(B  illius  sacerdote  a  se  Ignorali» 
et  qua  licenlia  ipse  celebravit  ? 

Resp.  Il  signor  curalo  non  c'era;  quel  prete  mi  disse  che 
Toleva  dir  messa,  ed  io  pensando  che  fosse  uno  (legrinvllall  dal 
signor  curato,  lo  lasciai  celebrare,  ed  io  fui  quello  che  rajulai 
^  apparare  e  gli  servii  la  messa. 

6.  Int.  De  vestibus  sacerdotalibus,  de  missali,  de  altari  In 
quo  celebravit,  eiusque  paramentis,  et  de  aslantibus  lati  tnìnmt 

Resp.  Mi  disse  che  voleva  dir  messa  della  Madonna ,  e  si 
vesti  deiramillo  e  camice  di  tela  bianca  ;  si  cinse  col  cordone 
ordinario  che  in  mezzo  ha  un  groppo,  e  prese  il  manipolo,  la 
stola  e  la  pianola  di  velluto  bianco,  però  usala  ;  si  servi  d' un 


—  am- 
messale che  ha  le  coperte  nere,  con  i  segnacoli  rossi,  e  d'  i 
calice  tatto  d' argento  col  velo  di  seta  bianca  ;  disse  la  mes 
alPaltar  maggiore,  il  qaale  avea  quattro  candellieri  con  la  ero 
d'ottone,  col  palio  e  cuscini  bianchi  trinati  di  yarii  colori, 
erano  accese  due  candele  grosse  come  il  dito  piccolo,  e  me 
furono  presenti  e  non  mi  ricordo  quali. 

7.  Int.  An  adverterit  alìquem  differentiam  inter  missam  pr 
fati  sacerdolis  et  missas  aliorum  ? 

Resp.  Questo  sacerdote  disse  la  messa   giusto  come 
altri. 

8.  Int.  An  ille  sacerdos  post  missam  notaverit  in  aìiq 
libro  conservato  in  sacrario  proprium  nomea  ? 

Resp.  Signor  si,  che  quel  sacerdote ,  detta  la  messa ,  ne 
il  suo  nome  in  un  libro  piccolo  lungo,  coperto  di  carta  tu 
china,  che  si  conserva  nella  sagrestia ,  e  ne  ha  cura  il  sign 
curato. 

9.  Int.  An  prò  tali  missà  dictus  sacerdos  habuerit  eleem 
sinam? 

Resp.  Io  non  so  niente  se  quésto  sacerdote  per  que 
messa  avesse  la  limosina;  può  essere  che  il  signor  cun 
glie  rabbia  data  o  promessa,  perchè  altrimenti  aoa  si  sareb 
notato. 

10.  lat.  Et  ei  dicto  quod  describat  dictum  sacerdotem. 
Resp.  Questo  sacerdote  è  di  statura  piccola,  eoa  uo  occl 

offeso,  aoa  porta  zazzera,  ma  ha  1  capelli  rossi  e  crespi  ;  ù 
pure  è  rossa  la  barba  e  porta  uaa  veste  aera  corta,  con  le  e 
zette  nere  pavonazze  e  le  scarpe  bianche. 

li.  Int.  An  sciat,  vel  dici  audierit  dictum  sacerdotem  ali 
celebrasse  in  illa,  vel  alia  ecclesia,  et  ubi  modo  reperlatur  1 

Resp.  lo  non  so  niente  se  detto  sacerdote  altre  volle  abl 
celebrato  in  quella  o  in  altre  chiese,  lo  so  che  non  Y  ho  [ 
veduto  né  inteso  nominare  né  avanti  né  dopo,  né  so  dove  o 
si  ritrovi. 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  juratus  de  s 
lentie;  etperlecto  ei  suo  examine,  se  subscripsit: 

lo  Bertoldino  Meruli  affermo  quanto  sopra  di  mano  propri 

Acta  sunt  hsec  per  me  Gurtium  Signanum  Sancti  Officii  m 
tarium. 


—  261  — 


ESAME  DEL  TERZO  TESTIMONIO. 


Giorno  3  ottobre  1385. 

Vocatus  personaliter  comparuil  coram  adm.  rev.  patre  Vi- 
cario Sancti  Offici!  Aj^conae ,  existente  ìq  loco  examinum  «  in 
ineiqne,  etc. 

R.  Dominus  Sacripantes  Mirabellus,  parochus  Mercatorum 
civitatis  Anconae,  cui  delato  juramento  veritatis  dicendae,  quod 
praBslitit  tactis  sacris  lilteris,  fuit  per  D. 

1.  Int.  De  sacerdotibus  qni  celebrarant  missam  in  sua 
ecclesia  die  Jovis  proxime  praelerito  ? 

Resp.  Nella  mia  chiesa  giovedì  prossimo  passato  furono 
celebrate  quattro  messe,  cioè  la  mia,  che  fu  la  prima,  una  del 
signor  don  Berillo  Berìlli  sacerdote  novello»  la  terza  del  signor 
Pincilli,  e  disse  Tultima  un  tale  che  non  so  chi  sia,  il  quale 
in  mia  assenza  domandò  di  dir  messa,  e  il  chierìchetto  lo  per- 
mise; dopo  la  messa  notò  il  suo  nome  nel  libretto  solito,  e  poi, 
per  quanto  mi  riferi  il  ragazzo,  se  ne  andò,  e  non  si  sa  dove. 

2.  Int.  An  a  pud  se  habeat  libellum  in  quo  notantur  missae 
<IQaB  in  dies  celebra ntur  in  ecclesia  Mercatorum  ? 

Resp.  Padre  si,  che  presso  di  me  ho  quel  libro  nel  quale 
<fàe\  prete  notò  la  messa  da  lui  celebrata,  per  avermi  lei  fatto 
insinuare  che  lo  porti. 

3.  Int.  Et  ei  per  dominum  dicto  ut  exhibeat  libellum  prae- 
fatano. 

Resp.  Volontieri,  eccolo  qua. 

Et  de  facto  exhibuit  quemdam  libellum,  cuius  inscriptio: 
Misss  celebrandae  in  ecclesia  Mercatorum  1382.  Et  incipit 
mnaro  1382.  Finit  vero.  Addì  2  ottobre.  Et  dictus  libellus 
^Uongitudinis  unius  palmi  et  quatuor  digitorum ,  et  latitu- 
<linìs  sex  digitorum,  coopertus  quadam  chartula  turchina,  car- 
tnlaiam  per  totum ,  continentem  cartas  trìginta ,  et  in  pagina 
stinta,  a  tergo,  circa  medium,  tertio  loco ,  habentur  haBC  verba 
^idelicet: 


Giorno  29  settembre  1385. 

<  Io  Perinuccio  Malasorte  ho  celebrata  la  messa  della  Ma- 
donna » 

Quibus  Iransutntis,  de  mandato  domini  etc. ,  fait  libelius 
eidem  d.  curato  restila tus. 

4.  Int.  Qaa  licentia»  vel  dimissoria  celebravit  in  sua  eccle- 
sia supradictus  Perinuccius  ?  ^ 

Resp.  Io  non  so  dire  con  qual  licenza  o  dimissoria  abbia 
celebrato  nella  mia  cbiesa  il  prete  Perinuccio:  se  ci  fossi  stato 
io  avrei  voluto  vedere  i  suoi  recapiti,  ma  il  povero  ragazzo  che 
attendeva  alla  sagrestia  non  ha  avuto  tanto  cervello. 

5.  Int.  An  scrat ,  vel  dici  audieril  supra  supranominatum 
Perinuccium  alias  celebrasse  in  sua,  vel  altera  ecclesia,  et  ubi 
modo  reperiatur? 

Fiesp.  Io  non  so  né  ho  inteso  dire  che  il  prete  Perinuccio 
abbia  mai  più  celebrato  nella  mia  chiesa  né  in  altro  luogo ,  e 
non  so  dove  si  trovi  ;  né  io  di  lui  ho  cognizione  di  sorta  alcuna» 
se  non  quella  che  ho  detta. 

Quibus  habilis  et  acceptatis  etc.,  dimissus  fuit,  juratos  de 
silentio;  et  perlecto  ei  suo  examine,  se  subscripslt: 

Io  Sacripante  Mirabelli  confermo  quanto  sopra  di  mano 
propria. 

Acta  sunt  haec  per  me  Gurtium   Sìgn.  S.  Officii  notarium. 


Un  altro  processo  si  è  tenuto  in  Ancona  circa  la  succitata 
epoca,  che  destò  in  quella  città  gran  rumore. 

Arnolfo,  giovine  di  gran  cuore  e  bello  della  persona^  erasi 
invaghito  di  Solima  Qglia  d'un  ricco  ebreo  che  avea  apostatato 
dalla  sua  religione  per  farsi  cattolico.  A  costui  spiaceva  che  la 
Qglia  si  fosse  fidanzata  ad  Arnolfo,  perchè  teneva  propositi  cogli 
altri  giovani  che  mettevano  in  discredito  certe  pratiche  religiose, 
e  male  erano  queste  sentite  dal  Sant'Ufficio  ;  ma  appartenendo 
Arnolfo  ad  una  delle  primarie  famiglie,  il  Sant'Ufficio  non  s'at- 
tentava di  farlo  imprigionare  per  leggieri  mancanze.  L'  eresia 
era  la  colpa  contro  la  quale  era  inesorabile  l'Inquisizione,  e  per 
perdere  un  individuo  bastava  una  denuncia  d'eresia  fatta  nelle 
formolo  legali.  Il  padre  di  Solima  per  troncare  ogni  corrispon- 
denza fra  essa  ed  Arnolfo  si  fece  delatore,  ed  accusò  d'  eresia 
quest'ultimo  al  Sant'Ufficio. 


—  J65  - 

Il  SanrUflQcio  dieleorJiDe  a' suoi  famigli  d'agguantare 
Arnolfo;  ma  venutisi  costoro  alle  sue  case,  egli  fece  testa  al 
bargello  e  a' suoi  ajutato  dai  servi,  ed  arrivò  a  respingerei 
birri  ed  a  svignarsela.  Imbarcatosi,  si  allontanò  da  Ancona  seco 


Arco   di  Trajano   in  Ancona. 


Recando  amarissimo  schianto  per  la  lontananza  dal  suolo  natio 
^  da  colei  che  gioconda  e  cara  gii  rendeva  la  vita.  Vagò  per 
^i^tranee  contrade,  scrivendo  però  ad  un  suo  diletto  amico  per 
^vere  contezza  di  Solima;  e  quando  seppe  che  essa  gemeva  nelle 
^^rceri  deirinquisizione  vittima  innocente,  risolvette  di  recarsi  in 
ancona  per  liberarla.  Il  fido  amico,  che  lo  teneva  per  quanto  pote- 
>ra  a  giorno  del  processo,  gli  scrisse  che  l'Inquisizione  stava  per 
condannare  la  sua  fidanzata  a  perpetuo  ritiro,  per  punire  in 
lei  la  colpa  della  quale  era  accusato  il  suo  amante.  Allora  Arnol- 
fo sidecise  di  tentare  un  colpo  ardito  per  liberarla.  Indettatosi  col- 


-  J6i  — 

ramico,  noleggiò  una  barca  ben  munita  di  corsari  africani ,  e 
vestitosi  anch'egli  nella  medesima  foggia  di  quelli,  approdò  di 
nottetempo  verso  Ancona,  al  luogo  designato  coll'amico,  il  quale 
mercè  oro  aveva  potuto  sedurre  il  custode  del  ritiro  nel  quale 
era  stata  posta  Solima.  Quasi  Arnolfo  e  Solima  erano  salvi, 
quando  le  guardie  s'accorsero  della  loro  fuga ,  e  si  misero  ad 
inseguirli;  ma  alcuni  pirati  da  Arnolfo  posti  in  agguato  si  op- 
posero ai  birri  deir  Inquisizione,  e  mentre  fra  loro  erano  alle 
mani,  egli  toltasi  in  ispalla  Solima,  ch'era  svenuta  per  lo  spa- 
vento e  per  la  consolazione  ad  un  tempo,  corse  alla  barca,  ed 
ivi  dagli  altri  suoi  ajutato  la  collocò  semiviva,  ed  allontanossi 
dalla  riva  quanto  potè  per  essere  sicuro  di  non  cadere  nelle  un- 
ghie dei  birri,  e  raggiunto  poscia  il  legno  principale,  ivi  tras- 
portata la  sua  fidanzata  volse  le  prore  a  terra  meno  barbara,  ove 
fermò  stanza  colla  sua  diletta. 


DENUNZIA  DI  POLIGAMIA. 


Giorno  10  ottobre  1387. 

Sponte  personéliter  comparuit  coram  adiD.  rev.  p  vicario 
Sancti  OfBcii  S.  Laurentii  existente  iu  propria  mansione ,  in 
meique,  eie. 

Cicero  Filius  quondam  Yirgilii  Nardi  de  Fabriano  ;  aetatis 
annorum  triginta;  advena  Romae;  mercator:  cui  delato  jura- 
mento  veritatis  dicendae ,  quod  praestitit  tactis  sacris  litteris , 
exposuit  ut  infra. 

1.  Saranno  dieci  anni  ch'io  in  Fabriano,  in  casa  mia,  feci 
il  parentado  o  siano  sponsali  tra  Menelao  figlio  di  Fedele 
Santori  mercante  di  panni  e  Giberta  figlia  di  Castore  Malgradi. 
Furono  presenti  il  padre  dello  sposo  e  due  suoi  fratelli,  de'quali 
non  so  il  nome,  e  il  padre  della  sposa  con  sua  madre,  per 
nome  Arnulfa  Celiarli.  Si  fece  la  carta  dotale  con  V  obbligo  di 
cinquecento  scudi  di  dote ,  e  se  ne  rogò  il  notaro  Ruggiero 
Pelami,  presenti  due  testimoni!,  che  si  vedranno  neiristrumento. 
Ed  avuta  la  fede  dello  stato  libero  dalla  curia  vescovile  di 
Camerino,  sotto  la  quale  è  Fabriano,  in  tre  giorni  festivi  si 
fecero  i  proclami  dal  curato  del  Piano  don  Lucullo  Arnaldi , 
della  qual  cura  sono  parocchiani  ambedue  gli  sposi,  e  il  giorno 


Stima  scmptiiàél/e  caremM'iiìjaitmme  i/iAncma. 


di  san  Martino  del  1377   furono  sposati  nella  stessa  chiesa» 
alPaltare  della  Madonna.  Testìmonii  fnrono  il  capitano  Filitmlo 


.Chiesa  di   San  Lorenzo  in  Roma. 


Boccaferri  ed  io.  Sono  vissuti  per  sei  anni  in  forma  e  Agora 
di  matrimonio,  e  ne  sono  nati  due  figli  maschi»  che  non  so 
come  si  chiamino.  Dopo  il  qual  tempo  Menelao  si  parti  dalla 
i[K)glie,  e  non  s' è  mai  saputo  ove  fosse  :  ma  tre  giorni  sono 
ritrovandomi  io  per  i  miei  interessi  in  Roma»  incontrai  il  detto 
Menelao,  e  dimandandogli  del  suo  stato,  mi  disse  che  un  tal  uomo 
<i^lta  Rocca  Contrada  avendogli  detto  che  sua  moglie  era  morta 
M*  averla  veduta  seppellire  con  gli  occhi  proprii,  ne  aveva 
pigliata  un'altra  per  nome  Doralice  Talpina,  di  Mondolfo,  dio- 
^  di  Sinigalia,  e  che  da  questo  matrimonio  aveva  avuto  un 
figlio  ed  una  figlia:  e  dicendogli  io  che  in  Fabriano  era  viva 
^a  moglie  e  vivi  anco  i  figli,  si  pose  a  sospirare  e  poi  disse: 
'  Quel  eh'  è  fatto  non  si  può  disfare.  >  E  perché  questo  é  un 
itrao  delitto^  che  intendo  s'aspetti  al  Sant'UflScio,  sono  com- 
pTso  avanti  di  V.  R.  per  iscaricare  la  mia  coscienza. 

TuiB.  InpM.  Voi.  II.  84 


—  «56  - 

2.  lot.  he  cadremoDiìs  faclis  a  parocho  profato  qudùdo  con*^ 
lanxit  ÌD  matrimoDmm  de  prsBsenti  Menelaam  et  Gibertam  in 
ecclesia  de  qua  sopra? 

Resp.  Prima  dimandò  a  Menelao  se  era  contento  di  pigliare 
per  sua  legittima  sposa  Git)erta,  ed  egli  disse  di  si;  poi  disse  a 
Giberta  s'era  contenta  di  pigliare  per  suo  legittimo  sposo  Mene- 
lao, e  lei  rispose  di  si;  allora  Menelao  pose  nel  dito  solito  di 
Giberta  Fanello»  e  dopo  aver  fatto  il  curato  alcune  cerimonie , 
gli  diede  la  benedizione»  e  con  esortarli  a  stàr  in  pace  li  mmdb 
a  casa,  dove  Menelao  fece  un  bel  pasto,  e  fai  invitato  aneer  io» 
e  la  sera  sul  tardi  io  e  gli  altri  lasciammo  la  sposa  in  am  di 
Menelao  e  ce  ne  andammo. 

3.  Int.  An  Menelaas  dixerit  ipsi  examinalo  aliijpiid  et  dote 
recepta  a  Doralice  eius  seconda  oxor ,  et  qmteiiQs  flic»  an  faerit 
fectum  aliquod  instromentem»  et  qoi  notartos  se  rorafitf 

Resp.  Hi  disse  che  aveva  avuti  seicenlo  seod)  di  dote  da 
Doralice,  ma  non  mi  parlò  nò  d'istromento  nò  di  notare. 

4.  Int.  An  dixerit  aliquid  de  paroclio  qui  eum  cnm  Dora- 
Hce  conjunxit  in  matrimonium  de  praasenti,  et  4e  testibos  qui 
assisterunt  eidem  matrimonio,  et  quomodo  feperìl  habere  fldeA 
sui  status  liberi  a  curia  episcopali  senogafliensi? 

Resp.  Non  mi  disse  Menelao  ninna  di  queste  cose. 

5.  Int.  An  odio,  vel  amore,  et  super  inimicitia? 
Resp.  Recte. 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  juratus  de  silen  — 
tio;  et  perlecta  ei  sua  depositione»  se  subscrìpsit: 

Io  Cicerone  Nardi  confermo  quanto  sopra  di  mano  propria  . 

Ada  sunt  hSBC  per  me  Curlium  Signanum  Sancii  Offici!  no  — 
tarium. 


SUCCESSIVE. 


ì.  Adm.  rev.  p.  vicarius  misit  per  nuncium  expressorTJ 
supradictam  depositionem  ad  reverendissimum  patrem  Inquism- 
torem  Anconae,  ut  dignaretur  significare  quid  esset  faciendotn 
prò  fabricatione  processus  et  prosecutione  causaB,  et  eodem  d*c 
idem  patre  inquisitor  respondit  se  rogasse  reverendissimum  p:»- 
trem  inquisitorem  Eagubli  ut  mandaret  adm.  r.  patri  vicario 
S.  Officii  Fabriani  extrahere  jaridice  a  libro  in  quo  notanl^^r 


DalrimoDia  qua  io  dies  coatrahontur  io  parochia  de  Piano  ejas^ 
ém  terra  Fabriani  partìtam  matrìmoDii  contraeti  inter  Mene* 
JaQm  et  Gibertam  :  et  etìam  scripsìsse  adm.  re?,  patre  yicario 
&  Qfficii  SenògallieDsi  ut  se  transferret  ad  locom  Mondala  et 
a  libro  solito  matrimoniomm  in  quo  snpponitur  reperiri  nota- 
timi matrimonioin  inter  Menelaum  et  Doralicem,  someret  for* 
miler  notnlam  dictì  matrìmonii,  et  estraheret  inslromentom  dotis 
et  fidem  sui  status  liberi,  monendo  bine,  et  inde»  ut  mitterent 
scripturas  faciendas  ad  manus  adm.  rev.  patre  yicarii  S.  Offlcii 
fioina^ 

Ita  est:  Curtius  Signanus  S.  Officii  notarìos. 

iiiomo  20  ottobre  1387. 

Comparerunt  scrìpturae  misssd  a  Rev.  adm.  vicario  Sancii 
OflBeii  Fabriani,  et  incìpiunt,  et  desinunt  ut  infra,  et  fuerunt 
repositas  in  actis  et  signatae  littera  majuscula  A. 

Ita  est  :  Curtius  Signanus  Sancti  Officii  notarius. 

Copia  scripturarùm  niissarum  ab  adm.  r.  p.  vicario  Sancti 

Officii  Fabriani  est  quae  sequitur. 

i 

I  Giorno,  25  ottone  1387. 

1.  Adm.  r.  p.  vicarìus  Sancti  Officii  Fabriani  praecepit  Me- 
naDdro  Barello  mandatario  ejusdem  Sancti  Officii  ut  adiret  domum 
f.  d.  Luculii  Arnaldi  parochi  ecclesiae  de  Piane  et  ei  diceret  ut 
sibi  ptaceat  slatim  deferre  ad  Sanctum  Offlcium  librum  in^  quo 
^ctantur  matrimonia  quae  in  dies  contrabuntur  in  dieta  paro- 
chia; et  fine  mora  praefatus  d.  Lucullus  sistens,  coram  eodem 
^dm.  r.  patre  vicario,  in  meique  etc,  et  delato  ei  juramento  dt 
Meritate  dicenda,  quod  pradstilis  sacris  litlerìs  dixit: 

Avendomi  V.  P.  M.  R.  ordinato,  per  mezzo  del  suo  man- 
giano, cbMo  portassi  il  libro  nel  quale  si  registrano  i  matri- 
^onii  cb'alla  giornata  si  vanno  facendo  nella  mia  paroccbia, 
ì^ho  otibidito,  &A  eccolo  qui  ;  sta  sempre  appresso  di  me,  e  lo 
Conservo  fedelmente. 

Et  de  facto  exbibuit  mibi  quemdam  librum  cooperlum 

charta  pergamena,  allitudinis  duorum  digitorum  et  chartulatum 

l^er  lotum  ;  apparet  paginarum  22S,  et  incipit  prìmum  matri- 

tiMnium  :  adi  primo  gennaro  1328,  et  ultimum  adi  12  ottobre 


—  MB  — 

1387,  CQm  insciiptione  de  foris:  1328.  Uber  matrìmonioram  qoa 
coDtrahuDtur  de  die  in  diem  io  parochia  de  Plano  Fabriani.e 
sub  pagina  150,  per  me,  etc.  bene  visus  etiectus  reperi  tur  ir 
ter  caetera  notula  matrìmonii  contracti  inter  Gibertam  Oliai 
Gastoris  Malgradi  et  Menelaum  filium  Fidelis  Sanctorì  ;  qaai 
etiam  de  mandato  praBfati  adm.  rev.  p.  vicarii  de  verbo  ad  m 
bum  ex  dicto  libro  fideliter  extraxi  et  in  actis  descrìpu,  fi 
ut  sequitur,  videlicet: 

Denunciationibus  prasmissis  tribus  diebus  Testi  vis,  quaroi 
prima  28  ì)ctobri8»  secnnda  prima  novembris  et  terlia  seplin 
ejnsdem  monsis  inter  missarnm  solemnia  babitis,  nulloque  di 
tecto  impedimento,  ego  Lucullus  Àrnaldus  curalus  ecclesisB  ( 
Plano  Fabriani,  dioecesis  Camerini,  Menelaum  filiuro  Fidel 
Sanctorì  de  Fabriano»  et  D.  Gibertam  filiam  Gastoris  Malgra 
parìter  de  Fabriano,  mutuo  habito  consensu,  per  verba  de  pra 
senti  matrimonio»  praesentibus  ibidem  prò  testibns  domino  t 
pitaneo  Filiberto  Boccaferri  let  Gicerone  Nardi,  conjunxi. 

Ita  est:  Arcadius  Helitinus  Sancii  Officii  Fabriani  notarìu 


SI  PROVA  LA  SGPRAVIVENZA  DELLA  PRIMA  M06UE 
GON  L'ESAME  DI  SÉ  STESSA  E  DI  DUE  ALTRI. 


Giorno  26  Ottobre  1387. 

Examinala  fuit  per  adm.  rev.  patrem  vicariuro  Sancii  Ofii< 
Fabriani  existentem  in  sacrario  sanctse  Luciae  ejusdem  oppid 
in  meique,  eie. 

Giberla  filia  Gastoris  Malgradi  ;  aelatìs  annorum  viginti  qui 
que,  cui  delato  juramento  verità tis  dicendae,  quod  praesli 
taclis  sacris  litteris,  praeviis  debitis  admonitionibus,  fuit  per 

1.  Int.  De  nomine,  cognomine,  parentibus,  patria,  exercili 
vel  professione  ipsius  examinatae? 

Resp.  Io  mi  chiamo  Giberla  figlia  di  Gaslore  Malgradi  e 
Amulfa  Geliari  da  Fabriano  ;  Tela  mia,  anni  venticinque  ;  il  m 
esercizio  è  d'attendere  alla  mia  casa. 

2.  Int.  An  sit  soluta,  vel  viro  conjuncta,  et  quatenus  eb 


I 


& 


c^^'.A. 


fot  wmat»  cogiMìfii,  pveQlH^  pttriam.  MilMi  M  «surtì- 
tiQB  luriii  ipisK  aamiuàtm^ 

Re^  Io  OQQ  so  se  sii  oaribta  o  f^edoTi»  panche  lim  wnl 
sono  mi  oorìbi,  e  mio  oarito  dopo  essser  nasuto  meco  «k^uai 
anni  se  oe  andò  Tia,  e  non  ho  sipQto  più  nooo  detitU  sik^ 
0  SQO  nome  è  Mendao»  figlio  di  Fedele  Santoli  e  di  Martinelli 
Acanti  n  suo  paese  è  Fabriano»  d'anni  Tentisette»  e  il  suo  ecwr» 
ciiio  era  fare  Ù  mercante  di  panni. 

3.  InL  De  quo  tempore,  qua  in  ecclesia,  coram  quo  parocho 
et  quibos  testibns  praesentibiis  matrimonium  contraxerit  cum 
dicto  Menelao  T 

Resp.  k>  wì  maritai  dieci  anni  sono  ;  si  fece  lo  spasaliido 
il  giorno  proprio  di  s.  Martino  nella  chiesa  del  Piano»  alla  pre- 
senza di  d.  LqcqIIo  Arnaldi  carato,  e  testimooii  furono  il  si- 
gnor  capitano  Filiberto  Boccaferri  ed  il  signor  Cicerone  Nardi 

4.  InL  Per  quantum  temporis  spatium  ipsa  examinata  et 
dictos  Henelaus  àmul  cohabitaverint  in  figura  et  forma  matri* 
monii? 

Resp.  Io,  come  ho  detto,  mi  maritai  dieci  anni  sono  con 
Menelao,  e  dopo  aver  seco  abitato  in  figura  e  forma  di  matri- 
inonio  per  lo  spazio  di  sei  anni,  se  ne  parli  e  non  so  se  sia 
▼ivo  0  morto. 

5.  Int.  Àn  ex  dicto  Menelao  fllios  genuerit  et  quatenus  eie,, 
dicat  eoram  numerum  et  nomina  ? 

Resp.  Da  Menelao  ho  avuti  due  figli  maschi  ;  V  uno  avrà 
otto  anni  e  si  chiama  Querino ,  e  V  altro  sette  per  nome  Fol- 
letto. 

6.  Int.  Ubi  ad  prassens  reperiatur  praafatus  Menelaus  ejus 
inaritQs,  et  hoc  an  sciat,  vei  saltem  dici  audlerlt  ? 

«  Resp.  Io  non  so  di  certo  ove  al  presente  si  trovi  mio 
inarìto  Menelao  ;  si  va  però  dicendo  che  sia  In  Slnigalin;  altri 
dicono  che  sia  a  servire  nel  Duomo  di  Spoleto;  non  so  Iti  qirnl 
l^ogo,  né  come  sia  nata  questa  voce. 

7.  lot.  De  vicinis  domui  su»  habitationis,  et  quatenus  an 
Quandoque  se  videant  T 

Resp.  Di  rimpetto  alla  mia  casa  abita  il  signor  Fulvio 
Gabiaui,  ed  alla  destra  della  mia  casa  medesima  ci  sta  rneHHar 
Roseo  Campanella ,  mio  compare  al  battesimo ,  e  ci  vediamo 
ogni  giorno: 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dimissa  fuit,  jurata  de  sllaritio; 
tt  perlecto  ei  suo  examine,  se  snbseripsit: 


lo  Giberta  H»lgradi  confermo  quanto  sopra  di  mano  propria 
Àcta  snnt  bsBC  per  me  Àrcadinm  Metitinam  Sancti  Offidi 
notarinm. 


;  EADEM  Dlp  IN  VESPEOIS. 

Examinatas  prò  inforitìatione  Sancti  Officii  qoram  Qt  ab 
supra,  in  meiqne  etc 

D.  Fiilvius  Gabbianns,  aBtatis  annomm  trig^nta,  coi  delafa 
juramentoveritatis  dicendse,  quod  pra^Utit  tactis  sacris  lit< 
teris,  fuit  par  D: 

1.  Int.  An  cognoverit  et  cognoscat  Gibertam  ftHam  Castori! 
Halgradi  et  Àmulpbae  Cellari,  et  uiorem  Menelai  Sanctori  T 

Resp.  Io  conosco  molto  bene  Giberta  figlia  di  Castore  Mal 
gradi  e  di  Arnnlfa  Cellari,  e  moglie  di  Menelao  Santorì, 

%  Int.  An  praBfata  Giberta  vivat  et  hnmanis  vitam  dacat' 

Resp.  Padre  si,  che  detta  Giberta  di  presente  vive  al  mondo 

3.  Int.  De  causa  scientiaB. 

^      Resp.  Io  lo  sa  perchè  questa  mattina  ho  parlato  seco,  pei 
vedere  se  in  casa  sua  fossero  andate  alcune  mie  galline. 

4.  Int.  An  in  bis  partibus  reperìatur  aliqua  alia  mulìei 
hoc  nomine  et  cognomino  vocata  atque  bis  parentibus  nata  e 
quatenus  etc. 

Resp.  Padre  no,  chMn  queste  parti  non  si  trova  alcun'al 
tra  donna  che  si  chiami  con  tal  nome  e  cognome  e  nata  d 
questi  genitori;  e  lo  so  benissimo,  per  avere  io  intiera  noti» 
della  persona  e  parentado  d'essa  Giberta. 

Quibus  babitis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  juratus  d 
silentio;  et  perlecto  ei  suo  examine,  se  subscripsit: 

Io  Fulvio  Gabbiani  confermo  quanto  sopra  di  mano  propris 

Acta  sunt  baec  per  me  Arcadium  Melitinum  Sancti  Offi& 
notarium. 


SUCCESSIVE. 


Examinatus  fuit  prò  informationé  Sancti  Officii  et  ubi  supra 
in  meique  etc. 

Roseus  Campanella,  setatis  annorom  quinquaginta,  cui  delat« 


—  ri  — 

I  ¥Britalì8  dicedda»  quod  prastitit  bcfis  sifcris  KUerìs, 
Mtper  D. 

1.  InL  Ao  oognoscat  et  oognoierìt  Giberbin  flliam  Oistorìs 
Halgradi  et  Arnnlpbs  Cellari,  et  uioreoi  Menebi  Siiictori  t 

Resp.  Io  G0D06G0  molto  brae  Giberta  flgiit  di  Castore  Mal- 
gradi  e  di  Arnolfa  Cellari,  e  moglie  di  Menelao  Santori,  ed  fai 
M  qnello  che  ia  tenoi  al  battemmo. 

2.  lot  ÀQ  praefata  Giberta  ^?at  et  in  bamanis  vitaiA 
dncatT 

Resp.  Padre  si ,  che  Giberta  di  presente  vive  e  sta  con 
buona  sainte. 

3.  lot.  De  caHsa  scienti»  ? 

Resp.  Lo  so  perchò  adesso  P  ho  ?ednta  sedere  sopra  la 
porta  di  sna  casa  e  mi  ha  dato  il  bnon  giorno. 

4.  Int  An  his  in  partibns  reperiatar  aliqna  alia  mulicr 
hoc  nomine  et  cognomine  vocata  atqoe  ex  his  parenlibus 
nata? 

Resp.  Padre  no ,  che  in  queste  parti  non  si  trova  altra 
donna  che  si  chiami  col  medesimo  nome  e  cognome  e  nata  di 
questi  genitori  ;  e  lo  so  benissimo  per  la  notizia  che  sempre  ho 
avolo  della  persona  e  parentado  d'essa  Giberta. 

Quibos  habitis  et  acceptalis>  dimissus  fuit ,  juratus  de  s^ 
lentie;  et  perlecto  ei  sao  examine,  se  snbscripsit : 

b  Roseo  Campanella  confermo  quanto  sopra  di  mano 
propria. 

Acta  snnt  hsec  per  me  Arcadium  Militinom  Sancii  Ofllcil 
Dòtarium,  etc. 


INCONTINENTI. 


Vocatus  personaliter,  comparaìt  coram  et  ubi  suprn,  in  mci- 
9Ue,  etc. 

D.  Rngerins  Polamos  notarins  curia  laicalis ,  cui  dolalo 
ì^ramento  yeritatis  dicendSB,  quod  praBstititltactis  sacris  llttoris, 
tait  per  D. 

1.  Int.  An  cognoscat  Tel  unquam  cognorerlt  Menebum 
^netori  et  Gibertam  Malgradi,  et  qaatenos  de  causa  sdenti.'n? 

Resp.  Menelao  Santori  e  Giberta  Malgradi  sono  marito  e 
doglie,  sebbene  quel  disgraziato  ha  abbandonato  questa  poT^ra 


—  171  — 

giovine,  e  Dio  sa  dove  si  trova;  e  ao  ehe  sono  marito  e  iBOfjlie, 
perchè  io  feci  riatromeoto  della  dote  e  mi  troni  praseate  allo 
sposalizio,  che  fti  litfo  nella  chiesa  del  Piano,  saranno'  diaci 
anni,  il  giorno  A  a.  Martino. 

2.  Et  èi  dictò  ift  dxhibeat  copiam  dicti  ^nstramenti  dotalis 
si  forte  habet  apnd  se.        ' 

Resp.  Essendomi  stato  insinuato  qai  dal  signor  notaio  dal 
SanrUfficio,  che  V.  P.  M.  R.  desiderava  copia  di  qaesf  latra- 
mento,  io  senza  dilazione  l'ho  fotta,  ed  eccola  qui:  ed  il  signor 
notaio  m'ha  potato  comunicar  quésto  per  èssere  io  procuratore 
dei  poveri  rei  di  questo  santo  tribunale. 

Et  de  facto  exhibuit  quoddàm  fòlium  eiaratum  in  duabus 
paginis  cum  dimidia^  et  incipit:  In  nomine  Domini.  Àmen.  Gum 
essent  in  domo  domini  Giceronis  Nardi,  etc.  Finit  vero.  Et  ita 
convenerunt  et  conveniunt,  etc. 

Quod  folium  fuit  per  me,  etc,  receptum  et  repositum  in 
actis  et  signatum  littera  maiuscola  B. 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  juratus  de  si— 
lentio;  et  perlecta  ei  sua  depositione,  se  supscriptis  : 

Io  Ruggero  Palmi  confermo  quanto  sopra  di  mano  propria  _ 

Acta  sunt  haBC  per  me  Arcadium  Melitinum  Sancti  Offici    ^ 
notarium. 

Giorno  20  novembre  1387. 

Pervenerunt  ad  manus  adm.  r.  patris  vicarii  Auximi  seri — 
pturse  missse  ab  adm.  rev.  patre  magìstro  vicario  Sancti  Oific^^i 
SenogalJidB,  quae  incipiunt  et  desinunt  ut  infra,  et  fuerunt  r^  - 
ceptae  in  actis  et  signatas  littera  maiuscola  G. 

Ita  est:  Curtius  Signanus  Sancti  Officii  Amimi  notarius,  eie 

Giorno  24  novetnbre  1887. 

Adm.  rev.  patre  vicarius  Sancti  Officii  Senogalli»,  ex  com- 
missione reverendissimi  patris  inqnisitoris  Anconae  ut  patet,  ex 
litteris,  etc. ,  una  mecum  accessit  Mondnlphum,  et  degens  in 
conventu  Sancti  Augustini  in  cella  sibi  assignata,  coram  ipso  in 
meique,  etc. 

Vocatus  personali  ter  comparai  l  rev.  d.  Anastasius  Marrìnas, 
cui  delato  juramento  veritatis  dicendae ,  quod  praostitit  tactis 
sacris  litteris,  fuit  per  D. 


-275  — 

i.  IqL  De  eJQS  esercì tio. 

Resp.  Io  sono  Tdoìco  carato  di  qoesta  terra»  ma  sotto  di 
me  ho  diversi  cappellani  che  m'ajotano,  e  il  mio  esercizio  è 
Itttlenare,  confessare  e  comunicare,  fare  i  matrimonii  e  le  altre 
cose  solite  ai  parrochì. 

2.  Int.  De  nomine  parochialis  ecclesiae. 

Resp.  La  mia  chiesa  parrocchiale  si  chiama  la  Parrocchia 
Gommie. 

ì.  InL  Ad  apnd  se  habeat  librum  in  quo  natantur  matri- 
monia qua  conti^huntnr  de  die  in  diem  ? 

Resp.  Presso  di  me  non  ho  altro  libro  de'  matrimonii ,  se 
DOQ  da  an  anno  in  qna,  perchè  per  gli  anni  addietro»  che  sa- 
rumo  settanta,  erano  registrati  tutti  i  matrimonii  in  un  altro 
libro  ;  ma  per  cattiva  disgrazia ,  tredici  mesi  sono ,  essendosi 
attaccato  il  fooco  nella  mia  casa ,  s' abbruciò  la  stanza  dove 
dormivo  e  tutti  gli  eflètli  e  libri  che  si  trovavano  in  essa;  e 
fra  questi  si  consumò  anche  il  libro  dove  si  notavano  i  matri- 
mooii  che  di  volta  in  volta  si  facevano  ;  e  adesso  si  notano  in 
QD  libro  che  si  comprò  allora  e  si  conserva  fedelmente  presso 
di  me. 

Tnnc  adm.  rev.  pater  vicarius ,  ne  fisci  intentio  oh  defe- 
ctom  probationum  destruatur ,  decrevit  examinare  parochum 
coram  S.  Patemitate  adm.  rev.  stantem  et  testes  ab  eodem  ad- 
dncendos;  testes»  inquam,  qui  fuerunt  prsBsentes  quando  prse- 
fatom  matrimonium  Inter  dictos  Menelaum  et  Doralicem  fuit 
coQtractum,  et  ita  ad  finem  supradictum,  absque  temporis  in- 
terrano» sub  eodem  juramento»  fuit  per  D. 

4.  Int.  An  cognoscat  Menelaum  Sanctorum  et  Doralicem 
Talpinam»  et  quatenus»  etc. 

Resp.  Io  conosco  molto  bene  Menelao  Santori  e  Doralice 
Talpina»  e  sai^nno,  circa  tre  anni»  quando  venni  ad  abitare  in 
Qoesta  terra. 

5.  An  sciat  inter  dictum  Menelaum  Sanctorum  et  Doralicem 
Talpinam  contractum  faiisse  matrimonium  per  verba  de  prse- 
Knti,  et  quatenus,  etc;  dicat  ubi,  quando  coram  quo  parocho» 
Viibus  testibus  praesentibus. 

Resp.  Io  so  molto  bene  che  tra  Menelao  Santori  e  Dora- 
Bce  Talpina  fu  contratto  matrimonio  per  le  parole  di  presente» 
e  fa  contratto  nella  mia  chiesa  della  Parrocchia  Comune  »  tre  . 
uni  sono,  il  giorno  di  san  Michele,  e  fu  alla  mia  presenza  e 

Tamb.  /iiqfyù.Vol.11.  S5 


-  274  — 

di  due  teslimonii ,  cioè  del  signor  Tarquinio  Bellocchio  e  de 
signor  Questore  Campi. 

6.  Int.  De  modo  quo  foit  contractum  dictum  matrimonian 
inler  Menelaum  et  Doralicem? 

Resp.  Questi  due  signori  fecero  gli  sponsali  ed  aggiostaront 
la  carta  dolale  con  promissione  di  seicento  scudi  di  dote,  e  s< 
ne  rogò  un  tal  notaio  che  si  chiama  Mercurio  Campanelli,  comi 
mi  dissero  i  medesimi  testimonii.  Dopo  alcuni  giorni  mi  pre 
sento  la  fede  del  suo  stato,  libero  fatta  da  monsignor  vicarii 
generale  di  Sinigalia  con  una  lettera  a  me,  che  facessi  i  solit 
proclami  e,  non  scoprendosi  dopo  essi  alcun  impedimento ,  1 
dovessi  congiungere  in  matrimonio  per  verba  de  prcesetUi;  < 
tanto  eseguii ,  come  ho  detto ,  tre  anni  sono  nel  mese  di  set 
tembre  nelFaltar  maggiore  della  mia  chiesa;  cioè  feci  i  proclam 
in  tre  giorni  festivi,  e  poi  il  giorno  di  san  Michele  li  sposai 
avuto  Tespresso  consenso  delF  uno  e  dell'altro  di  pigliarsi  pei 
marito  e  moglie. 

7.  Int.  De  patria  et  exercitio  dicti  Menelai,  einsque  uxoris 
Resp.  Menelao  dice  esser  da  Fabriano;  ed  il  suo  esercizio  < 

fare  il  mercante  di  panni,  e  la  moglie  tende  alla  sua  casa. 

8.  Int.  Quomodd  probaverit  et  habuerit  fldem  sui  statu 
liberi  Menelaus  prsefatus? 

Resp.  Io  non  saprei  dire  in  qual  maniera  Menelao  abbi: 
provato  ed  avuta  la  fede  del  suo  stato  libero. 

9.  Int.  Ubi  modo  reperiatur  fldes  status  liberi  Menelai  e 
epistola  sibi  examinato  scripta  a  d.  vicario  generali  Senogalia 
prò  contrahendo  matrimonio. 

Resp.  Io  n^n  saprei  dire  dove  si  trova  la  fede  dello  stat 
libero" di  Menelao;  me  la  mostrò  e  poi  se  la  portò  via;  dop< 
fatto  il  matrimonio  stracciai  la  lettera  del  signor  vicario  gene 
rale  di  Sinigalia. 

10.  Int.  An  Menelao  Doralices  genuerit  filios? 

Resp.  Doralice  ha  avuto  da  Menelao  un  figlio  ed  una  figli; 
0  li  ho  battezzati  ambedue  io;  il  maschio  si  chiama  Ballarino 
i^  la  femmina  Filabella;  il  primo  avrà  due  anni  circa ,  e  la  se 
eonda  pochi  mesi. 

il.  Int.  A  quo  tempore  Menelaus  reperiatur  in  hoc  locc 

Resp.  Non  lo  saprei  dire:  io  so  che  tre  anni  or  sono 
binando  venni,  lo  trovai  qui. 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dìmissus  fuit,  juratus  de  si 
♦entio;  et  perlecto  ei  suo  examine^,  se  subscripsit: 


-  175  - 

Io  Anastasio  Marrini  confermo  quanto  sopra  di  mano 
propria. 

«Àcta  sunt  hsec  per  me  Àrcadiom  Melìtinum  Sancii  Officii 
nolarinm. 


ESAME  DEL  PRIMO  TESTIMONIÒ 
PER  PROVARE  IL  SECONDO  MATRIMONIO. 


Stesso  giorno  prima  del  vespero. 

Examinatus  fuit  prò  informatione  Sancii  Officii  coram  et 
obi  supra,  in  meique,  eie. 

Tarquinius  Beiloculus ,  annorum  38,  cui  delalo  juramento 
veritatis  diceodae,  quod  prsestilit  taclis  sacris  iilteris,  fuit 
per  D. 

1.  Int.  An  sciai,  vel  imaginetur  causam  suae  vocalionis  el 
praosentis  examinis? 

Resp.  Padre  no,  clie  non  so  né  m'immagino  la  causa  per 
la  quale  V.  S.  mi  voglia  esaminare. 

2.  Int.  An  cognoscat  Menelaum  Sanclorum  et  Doralicem 
Talpinam,  et  qualenus  quo  tempore  cifra  ? 

Resp.  Io  conosco  Menelao  Santori  da  Fabriano,  mercante  di 
paoni,  da  tre  anni  in  qua  circa  che  venne  a  stare  in  questa 
terra;  e  Doralice  Tbo  conosciuta  dopo  ch'è  nata,  essendo  am- 
bedue noi  di  questa  patria. 

3.  Int.  An  sciai  Inter  dictos  Menelaum  et  Doralicem  con- 
tractum  fuisse  malrimonium  per  verba  de  praesenti,  et  quale* 
nos,  etc.  Dicat  ubi,  quando,  coram  quo  parocho  quomodo,  et 
quibos  testibus  praBsentibus  T 

Resp.  Io  so  mollo  bene  che  tra  Menelao  e  Doralice  fu  con- 
tratto il  matrimonio  nella  chiesa  della  parecchia  della  la  Go- 
^ooe,  tre  anni  circa,  alla  presenza  di  d.  Anastasio  Marrini,  che 
^eooe  curato  in  quel  tempo,  e  fui  testimonio  io  ed  il  signor 
Questore  Campi;  e  fummo  presenti,  e  vedmemo  e  sentimmo 
(be  il  signor  curato  dopo  aver  celebrata  la  santa  messa  dimandò 
^  Menelao  Santori  se  si  contentava  di  pigliare  per  sua  legittima 
sposa  Doralice  Talpina,  ed  egli  disse  di  si;  e  poi  si  voltò  a  Do- 
^^  Talpina  e  le  chiese  se  si  contentava  di  pigliare  per  suo 
l^ttìmo  sposo  Menelao  Santori,  e  ancor  lei  rispose  di  si;  e  ciò 


—  f  76  — 

detto  Menelao  pose  Fanello  nel  dito  di  Doralicè,  e  dopo  a?er  ii 
curato  dette  alcune  orazioni  li  licenziò  con  esortarli  a  stare 
pace. 

Qaibus  habitis  et  acceptatis,  dimissas  foit,  juratns  de  silen — 
tio  ;  et  perlecto  ei  suo  examine,  se  subscripsit: 

Io  Tarquinio  Bellochio  confermo  quanto  sopra  di  mano^ 
propria. 

Àcta  sunt  haec  per  me  Arcadium  Melitinum  Sancti  Officu 
notarium. 


ESAME  DEL  SECONDO  TESTIMONIO 
PER  PROVARE  IL  SECONDO  MATRIMONIO. 


INCONTINENTI, 


Examinatus  foit  prò  informalione  Sancti  Officii  coram  et  nte 
supra  in  meique,  etc. 

D.  Qaaestor  de  Caropis,  annorum  80,  cui  delato  jurament^ 
veritatis  dicendaB,  quod  pradstitit  taclis  sacris  litterls,  fuit  per 

1.  Int.  An  sciat,  vel  imaginetur  causam  snae  vocationis  i 
praBsentis  examinisY 

Resp.  lo  non  so  afifotto  niente. 

2.  Int.  An  cognoscat  Menelaum  Sanctorum  e  Doralicem  Ta 
plnam,  et  quatenus,  a. quo  tempore  et  quo  loco? 

Resp.  Io  conosco  Doralice  per  tutto  il  tempo  di  sua  vit 
perchè  lei  ed  io  siamo  nati  ed  allevati  in  questa  terra  e  siairrp 
anche  vicini:  Menelao  è  forastiere  e  vende  panni  di  lana;  e  sa:^ 
quaich'anno  che  si  trova  qui,  non  so  se  tre  o  quattro. 

3.  Int.  An  scìat  Inter  dictos  Menelaum  et  Doralicem  cok:3 
tractum  fuisse  matrimonium  per  verba  de  praesenti,  et  quat^^ 
nus,  etc.  Dicat  ubi,  quando,  coram  quo  parocho,  quomodo  ^ 
quibus  testibus  praesentibus? 

Kes.  Io  so  molto  bene  che  tra  Menelao  e  Doralice  sudde**^ 
è  stato  contratto  in  matrimonio,  per  verba  de  prceserUi;  e  f^ 
contratto  nella  chiesa  della  Parrocchia  Comune  airallar  maggiore, 
stimo  che  siano  tre  anni  in  circa,  alla  presenza  di  d.  Anastasia 
Marrini  parroco  di  detta  chiesa;  e  fossimo  teslimonii  il  signor 
Tarquinio  Bellochio  ed  io,  e  vedessimo  ed  udissimo  tutto  quella' 


—  «7  - 

«be  fece  6  disse  il  signor  pairrooo  ai  detti  sposi,  e  che  si  suol 
fare  e  dire  in  tatti  gli  sposalizi;  il  signor  curato  dimandò  a  Me- 
odao  Santorì  s'era  contento  di  pigliare  per  soa  legittima  sposa 
Doralìce,  e  Ini  rispose:  Signor  si;  e  poi  interrogò  Doraiice  Tal- 
pina  se  si  contentala  di  pigliare  per  soo  legittimo  sposo  Mene- 
lao, ed  ella  disse  di  si:  ed  allora  Menelao  pose  nel  dito  di 
Doraiice  Fanello  solito,  e  dopo  aver  il  curato  recitate  alcune 
oraùoni,  che  non  intesi,  li  Ucenxiò  dicendo:  Andate  e  state  in 
fMice. 

Qoibas  habitis  et  acceptatis,  dimissos  fnit  jnratns  de  silen- 
fio,  et  perlecto  ei  suo  examine,  se  snbscripsit  : 

Io  Questore  Campi  confermo  quanto  sopra  di  mano  pro- 
pria. 

Acta  sunt  haec  per  me  Arcadium  Melitinum  Sancii  Officli 
notarium. 

Stesso  giorno  di  sera. 

1.  Ad  modum  r.  p.  vie.  una  mecum  accessit  ad  illustr.  r.  d. 
Aotistitem  Senogallise  et  nomine  r.  p.  inquisitoris  rogavit  suam 
domioationem  illustrissimam  ut  dignaretur  mandare  cancel- 
Mo  curisB  episcopalis  ut  daret  et  consignaret  in  Sancto  Officio 
<^piam  examinum  seculorum  in  eadem  curia  prò  probando  statu 
'ibero  dicti  Menelai  Sanctori;  et  illustrissimus  benigne  annuii. 

Ita  est:  Arcadius  Mililinus  Sancii  Officìi  notarius. 

6tomo  25  novembre  1387. 

Coram  et  ubi  supra  ip  meìque. 

Personaliter  comparuit  d.  Alidorus  de  Fioribus  cancellarius 
^^lisB  episcopalis  SenogalliaB;  et  delato  et  juramento  veritatis 
^cendsB,  quod  pr^eslilit  tactis  sacris  lllleris,  exposuil  ut  infra: 

1.  Monsignor  illustr.  vescovo,  mio  signore,  m'ha  comandato 
^Ue  io  consegni  giurìdicamente  a  V.  P.  H.  R.  la  copia  delfesame 
f^tto  per  provare  lo  stato  libero  di  Menelao  Santorì,  ed  è  que- 
^  che  ora  presento. 

JBt  de  facto  exbibuit  quoddam  folinm  exaratum  duabus  pa- 

Kuiis  mtegris;  et  incipit.  In  Dei  nomine,  Amen.  Die  26  mail  1384. 

^tù  statu  libero  Menelai  filli  Fidelis  Sanctori  eie.  Finii  vero  : 

cbe  se  fosse  contrario  al  certo  lo  saprei.  Quod  folium  full  re- 

ceptnm  in  actis  et  signatum  liltera  maiuscnla  D. 


—  278  — 

Quibus  habìtis  et  acceptatis  dimissus  fDit,  juratus  de  sì- 
lentio,  et  se  subscripsit: 

Io  Alidoro  Fiorì  ho  presentato  giarìdicamente  la  suddetta 
copia  d'esami. 
f        Ita. est:  Àrcadios  Helitinas  Sancti  Offici!  Dotarìos. 

r  Raccolte  le  prove  a  suo  modo  il  Santo  Ufficio,  la  cui  di- 
mora era  a  quelPepoca  doo  molto  lungi  dal  luogo  ove  ora  sorge 
la  casa  Cenci  nota  per  il  clamoroso  processo  fatto  alla  famiglia 
per  la  morte  di  Francesco  Cenci,  la  cui  vita  fu  un  continuo 
misfare,  e  dei  quale  le  ricchezze  furono  ingojate  dalla  voracità 
fiscale,  Menelao  Santorì  come  bigamo  fu  condannato  innanzi 
tutto  a  passare  fra  le  catacombe  di  Roma  quaranta  giorni  ài 
rigoroso  digiuno,  ed  in  religiosi  esercizi!,  indi  purificato,  in 
giorno  solenne  con  pesante  croce  sulle  spalle  fu  obbligato  a 
salire  ire  volte  in  ginocchio,  dì  quando  in  quando  percosso  da 
colpi  di  flagello,  la  scala  santa.  La  medesima  è  formata,  secondo 
la  tradizione,  dai  ventotlo  scalini  della  casa  di  Pilato  e  discesa 
da  G.  C.  nel  tempo  della  sua  passione.  Alla  sommità  della 
scala  si  venera  una  immagine  custodita  da  una  fitta  inferriata. 
La  parte  superiore  di  questo  edificio  è  una  cappella  che  s'apre 
di  rado  e  non  è  quasi  accessibile  che  al  jpapa,  ai  cardinali  ed 
al  clero. 

Dopo  eseguite  le  due  penitenze  fu  condannato  il  suddetto 
Menelao  alla  prigionia  per  tutta  la  vita.  In  tal  modo  si  puniva 
dairinquisizione  un  delitto  dalla  civile  legislazione  colpita 
da  carcere  per  ragioni  di  economia  sociale,  ma  non  perchè  sia 
tale  considerata  la  società  entro  meno  angusti  confini. 


SESTA  DENUNZIA  DEL  FURTO  D'UNA  PISSIDE 
DOV'ERANO  I  COMUNICHINI  CONSACRATI. 


Giorno  l  novembre  1388. 

Sponte  personaliter  comparuit  coram  adm.  r.  patre  vicario 
Sancti  Offici!  Bononiae  existente  in  propria  mansione,  in  mei- 
que,  etc. 


Scala  Santa. 


^ 


Scala  Santa. 


"K; 


-  2»  - 

R.  d.  Boiaìas  fiiins  <pndìai  Luiri  Itosdfi  fV  ùl$llv^xv'^ 
Mtru  dionesU  Otteoàs:  ^ptitìs  umoraoi  tiwil>i|iiìiV4|w;  $k>n^ 
te  saecohris:  cappdhniis  ecdes»  [aiwliulìs  W^Mhum.  ^ 
ddato  jumneolo  wriuiìs  dioeDd^.  quod  prx^Ut  Molì$  ;?;Mfì$ 
lìtterìs,  exposoit  ot  infra  : 

1.  SoD  qui  totlD  afflitto  per  lappreseot»!^  a  \\  Ps  M.  R. 
QD  caso  molto  oitcd^  accaduto  la  notte  pa^^ti.  non  ^>  ;ii 
che  ora.  nelh  chiesa  {nroocliiale  de^Xobilì^  della  quale  io  ^h) 
cappellano. 

Ieri  mattina  dissi  la  santa  messa  allaltar  nia^i^ore  o  Cimì- 

sacrai  duecento  particole,  numerandole  aTanli.  per  S9)>ere  $^ 

lossero  stale  sofficienti  per  i  nostri  parrocechiani*  I)o)h>  U  mia 

comanione  aprii  con  la  chiavetta,  che  avevo  portata  dalla  .^(tn^^ 

stia,  il  tabernacolo  e  tirai  fuori  la  pisside,  e,  consumati  alcuni 

frammenti,  vi  posi  tutti  li  comunichini  consecrati  allora:  couìu-^ 

oicai  quattro  persone,  che  vollero  anticipare  la  solennilik  di  lutti 

i  Santi,  restando  nella  pisside  centonovantasei  particole,  o  f^tla 

da  essi  la  comunione,  chiusi  la  pisside  in  cui  nvovn  rliHV'^lo  i 

comunichini,  la  pósi  dentro  il  tabernacolo,  che  scrrnl  l>one, 

e,  posta  la  chiavetta  fuora  il  calice,  fluii  la  mossa  o  con  osso 

me  ne  ritornai  in  sagrestia,  dove  spogliato    degli  abili  sncor- 

(iolaii  e  fallo  i  solili  ringraziamenti,  riposi  la  chinvclla  dentro 

l'armadio  solito,  e  ben  serralo  con  la  sua  chiave,   chn  rlpoM 

poi  in  saccoccia,  attesi  ai  servizi  della  chiesa.  Quosl»  tnallinn 

su  le  dodici  ore  è  venuto  da  me  piangendo  il  (^ninpaunro  por 

Dome  Carlino  Belauri ,  il  quale  mi  ha  raccontalo  elio ,  dopo 

^vere  suonata  TAve  Maria  solila,  essendo  andato  per  viKllnro  la 

lampada  del  Santissimo  con  una  candela  in  mano ,  ha  mmV' 

vaio  fuora  la  predella  delP  altare  di  qua  e  di  \h  molto  pHrli- 

cole;  alzali  gli   occhi  verso  il  tabernacolo,  V  ha  vodulo  Mumi 

I'qscìoIo  solilo  e  senza  la  pisside,  e  subito  /3  venuto  a  darinnno 

parie,  per  essere  infermo  il  signor  curalo.  Ed  io,  voHliloml  in 

fretta,  sono  andato  seco  in  chiesa,  ed  ho  veduti  KpnrHi  i  c^ìtm- 

bichini,  come  per  sprezzo,   in  diverse  parli  di;tla   |>n;dcila,  i) 

trovato  il  tabernacolo  aperto,  e  Tosciolo  d'esso  hu  Tallare  mmn 

folto:  visitata  poi  la  chiesa,  ho  trovate  serrale  tutti;  ìh  \f(}rUr, 

t^a  alla  destra  deiraitare  di  san  Gregorio  ho  mf\mrUf  un  bum, 

per  il  quale  può  passare  comodamente  un  nomo,  «f  f\uft^U}  bum 

Per  la  pratica  che  ho  della  chiesa,  prima  sicfiramenti;  non  c'era. 

£  perchè  questo  è  caso  sacrìlegrr  del  S.  Officio,  mm  v^nnt^i  ^ 

dargliene  parte  per  debito  mio  e  r^r  intendere  qfji;ll/i  chn  fA 

da  da  bre. 


ostioli  quaB  deest»  sed  solum  corporale  ordinariam  eitensaro 
in  tabemaculo.  Quibus  peractis  idem  d.»  UDa  mecnm  et  teslibus, 
quibus  sopra,  se  transtaiit  ad  altare  saDcti  Gregorìi»  et  a  parte 
dextera  eiasdem  altaris  inventam  fuit  quoddam  foramen  flgarae 
circularis,  corrìspondeos  ex  altera  parte  in  via  publica,  qax 
vulgo  dicitur  la  strada  larga,  latum  per  diametrum  spatio  noins 
ulnaB  et  duarum  unciaron)  ad  mensuram  bracbii  mararii.  Et 
cum  non  invenialur  fractura  alicuius  lapidis,  tale  foramen  ap- 
paret  fuisse  factum  aliquo  instrumento  perforante,  movente  sci- 
licet  unum  laterem  post  alterum.  Et  ita  haec  omnia  vide,  obser-  • 
vavi  et  adnotavi,  etc. 

Curtius  Signanus  Sanctì  Offici  notarìus. 


ESAME  DEL  PRIMO  TESTIMONIO 
PER  PROVARE  IL  VEDUTO  ED  IL  TROVATO. 


Gorum  adm.  rev.  patre  vicario  pra3falu  existeote  in  sacrario 
dictSB  ecclesiae  in  meique,  etc. 

Vocatus  personaliter  comparuit  Hortensius  Perolius  deCa- 
^nerino;  annorum  quadraginta,  faber  lignarius;  testis  assumptaSi 
cui  delato  juramento  vèritatis  dicendae ,  quod  prsestitìt  tactis 
sacris  litteris,  ad  opportunam  d.  interrogai. 

Resp.  V.  P.  questa  mattina  ha  fatto  chiamar  Francooio 
Gallina  e  me,  e  che  ha  detto  che  venissimo  in  compagnia  sua 
e  del  signor  notaro  che  ora  qui  scrive,  ed  abbiamo  ubbidito; 
e  lei  ci  ha  condotti  alla  chiesa  de'  Nobili,  dicendo  ad  ambedue, 
osservassimo  tutto  quello  che  veduto  avessimo  ;  ed  arrivali  al- 
Tallar  maggiore,  ho  visto  fuora  la  predella  del  medesimo  altare 
di  qua  e  di  là  sparsi  molti  comunichini,  che  le  persone  dice- 
vano essere  consacrati  ;  e  V.  R.  dopo  aver  finita  un  poco  d'ora- 
zione, ha  fatto  venir  il  cappellano  e  gli  ha  ordinato  che  si 
vesta  di  cotta  e  stola ,  e  pigli  un  calice  e  con  ogni  rivereoi&a 
raccolga  tutte  quelle  sante  particole  e  le  metta  dentro,  nume- 
randole una  per  una,  e  le  riponga  in  qualche  luogo  onorevole, 
come  ha  eseguito;  collocando  il  calice  con  dette  particole  io 
un  tabernacolino  posto  sulfallaredi  san  Rasilio;  e  le  particole 
contate  erano  centònovanta,  mancandone  sei,  secondo  che  atte- 
stava il  cappellano.  Dopo  V.  R.  s*è  levato  in  piedi,  e  salita  la 
predella  s'è  accostato  all'orlo  dell'altare  ed  ha  accennato  al  si* 


—  »5- 

m  notaro  ed  a  noi  dae  che  ci  aTricinassimo»  come  abbiamo 
no;  ed  io  ho  veduto  il  (aberaacolo  aperto  senza  il  solito 
(dolo ,  ed  alla  parte  sinistra  dell'altare  ho  veduto  r  usciolo, 
le  mostrava  esser  quello  che  chiudeva  il  tabernacolo»  e  preso 
mano  da  lei  e  da  me  ed  accommodatolo  all'apertura  del  ta- 
macolo,  s'è  trovato  che  conveniva  ;  ma  dalla  banda  destra  ci 
incava  il  legno  di  tre  dita  per  lungo,  ed  è  quella  parte  che 
ediante  le  due  feminelle  riceve  i  polì,  ossia  gangaretti;  e  la 
Ddinuzione  per  quanto  appare  è  fatta  con  istrumento  tagliente; 
dalla  banda  sinistra  si  vede  la  sua  serratura  senz'alcuna  le- 
}Qe  ;  la  quale  confrontata  da  V.  R.  con  la  chiavetta  solita , 
ibita  dal  cappellano,  conviene  ed  apre  assai  bene.  V.  R.  poi 
I  guardato  diligentemente  dentro  il  tabernacolo,  e  per  ordine 
IO  dopo  abbiamo  guardato  bene  ancor  noi ,  e  non  s' è 
ofata  pisside  di  sorte  alcuna,  ma  solo  un  corporale  piccolo 
steso  dentro  il  medesimo  tabernacola  sopra  il  qua!  corporale 
i?ea  star  la  pisside  :  fatto  questo,  bar  condotto  seco  il  signor 
>taro  e  noi  due  testimonii  air  altare  di  san  Gregorio ,  ed  ha 
duto  alla  destra  del  medesimo  altare  nella  muraglia  maestra 
Ila  chiesa  un  buco  grande,  tondo  ;  misurato  da  mastro  Fran- 
DIO  muratore  alla  presenza  nostra ,  s' è  trovato  che  per  dia- 
stro è  largo  un  braccio  e  due  oncie  e  corrisponde  questo 
co  nella  via  pubblica  che  si  chiama  la  strada  larga  ;  e  per- 
ò  si  vedono  i  mattoni  levati  uno  dopo  Faltro  senza  rottura, 
giudico  che  sia  stato  fatto  il  buco  con  qualche  istromento 
oètrante,  col  quale  si  sia  prima  scalcinato  il  muro  e  poi  le- 
ti i  mattoni  uno  dopo  l'altro. 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  juratus  de  si- 
atto  ,  et  cum ,  prò  ut  dixit ,  nesciret  scribere,  fecit  sìgnum 
QCis. 

Signum  crucis  f  Horteosii  Perolii. 

Acta  snnt  tìaac  per  me  Gurtium  Signanum  Sancii  Offlcii 
otarium. 


ESAME  DEL  SECONDO  TESTIMONIO. 

I.  Vocatus  personaliter  comparuit  Franconius  Gallina,  alter 
8li8  assumptus  ;  annorum  quinquaginta  ;  faber  murarius  ;  cui 
liato  juramento  veritatis  dicendo,  quod  pi-a^titit  tactis  sacrìs 
ima,  ad  opportunam  d.  interrogationem  ? 


—  «Sfi- 
la comuDione  in  compagnia  di  Dolabella  mia  figlia,  del  campa- 
Darò  della  stessa  chiesa»  di  coi  non  so  il  nome,  e  del  sagrestano^ 
della  Rotonds^  che  nemmeno  so  come  si  chiami. 

4.  Int  A  quo  d.  Polimins  habait  commnnichinos  exhibitosB 
sibi  et  aliis  persoois  a  se  nominatis  ? 

Resp.  D.  Polimio  nell'andar  a  celebrare  la  detta  messa,  dalla: 
sagrestia  portò  sopra  il  calice  una  scatola  piena  di  comunichini,. 
quali  riversò  sopra  il  corporale  disteso  sopra  la  pietra  sagrata^ 
e  a  suo  tempo  li  consacrò  insieme  colPostia  ;  e  dopo  essersi- 
comunicato  lui,  prese  dal  tabernacolo  la  pisside  e  dentro  posai 
tutti  i  comunichini,  e  poi  ci  comunicò  :  e  comunicati  che  A 
ebbe,  collocò  la  pisside  di  nuovo  dentro  il  tabernacolo  e  serròi 
l'usciolo  e  pose  la  chiavetta  su  l'altare;  finita  la  messa,  mise  lai 
chiavetta  sopra  il  calice  e  se  ne  ritornò  col  calice  stesso  ìh  sa- 
grestia. 

5.  Int.  Quomodo  ipsa  examinata  sciat  d.  Polimium  posoisse! 
pyxidem  intra  tabernaculum,et.clausisseclavicula,  eteam  por- 
tasse supra  calicem  in  sacrarium  ? 

Resp.  Io  so  tutte  queste  cose  delle  quali  mi  dimanda,  per- 
chè le  vidi  con  gli  occhi  miei;  anzi  facendo  la  chiavetta  un 
poco  di  stridore  nel  serrare»  tutti  la  poterono  non  solo  vedere, 
ma  anco  sentire. 

Quibus  habitis  et  acceptatis,  dhnissa  fuit,  jurata  de  silentio^ 
et  perlecto  ei  suo  examine,  se  subscripsit: 

Io  Viola  Mari  confermo  quanto  sopra  di  mano  propria. 

Acta  sunt  haec  per  me  Curtium  Signanum  Sancti  Offici! 
notarium. 


ESAME  DEL  SECONDO  TESTIMONIO. 


Vocatus  personaliter  comparuit  coram  adm.  rev.  patre 
vicario  Sancti  Officii  existente  in  propria  mansione,  in  mei^ 
que,  etc. 

Carlinus  filius  quondam  Orlandi  Belauri  de  Tridento,  an- 
norum  quadraginta  duorum;  pulsator  campanarum  ecclesia 
parochialis  Nobilium ,  cui  delato  juramento  veritatis  dicendo  , 
quod  praestitit  tactis  sacris  litteris,  fuit  per  D. 

I.  Int.  An  sciat  vel  imaginetur  causam  suad  vocationis  et 
prsBsentis  examhiis? 


—  i87  — 

Resp.  Io  m'imagino  che  v.  rev.  mi  voglia  esaminare  circa 
il  forto  della  sacra  pisside  fatto  Dell'aitar  maggiore  della  chiesa 
de'Nobili. 

'  2«  iDt  Et  ei  dicto  ut  referat  quid  sibi  occorri  t  circa  prae* 
fatnm  fartum? 

Resp.  Essendo  ammalato  il  signor  curato,  la  sera  dopo  TAve 
Maria  de'morti  porto  le  chiavi  della  phiesa  al  signor  cappellano 
per  nome  d.  Polìmio  Roselli»  e  poi  la  mattina  su  l'aurora  le  vado 
a  pigliare;  e  suonata  TÀve  Maria,  visito  la  lampada  del  Santis- 
sìmo  e  raccendo  e  raggiusto  secondo  il  bisogno.  La  mattina  dei 
Santi  mi  levai  più  a  buon'  ora  del  solito  e  »  suonata  che  ebbi 
TAve  Maria,  mi  portai  a  dirittura  all'aitar  maggiore  con  una  can- 
dela io  mano,  e  trovai  la  lampada  che  ardeva  ancora:  e  dato 
un'occhiata  nella  predella  del  medesimo  altare,  sopra  d'essa  vidi 
xjfì^  mano  di  comunichini  sparsi  di  qua  e  di  là,  e  restai  atto- 
idto,  non  sapendo  che  pensare  ;  alzati  poi  gli  occhi  verso  il  ta- 
bernacolo, vidi  ch'era  aperto  e  senza  il  solito  usciolo  ;  e  osser- 
vando bene,  trovai  detto  usciolo  alla  sinistra  dell'altare;  e  poi 
alzata  la  candela  verso  il  tabernacolo,  m'avvidi  che  ci  mancava 
la  sacra  pisside  piena  di  comunichini,  che  la  mattina  antecedente 
il  signor  cappellano  aveva  consacrati  e  posti  nella  pisside,  che 
poi  mise  dentro  il  tabernacolo  e  lo  serrò  con  la 'solita  chiavetta; 
la  quale,  finita  la  messa  clie  io  servii,  portò  in  sagrestia  sopra 
il  calice  e  la  collocò  nell'  armadio  solito  sotto  un'  altra  chiave. 
Io,  vedendo  questo  spettacolo,  ritornai  subito  a  darne  parte  al 
signore'  cappellano,  il  quale  levatosi  in   un  tratto  di  letto,  e 
andati  insieme  nella  medesima  chiesa,  trovammo  quel  che  ho 
detto  di  sopra.  Visitate  le  porte,  erano  ben  chiuse ,  e  girando 
la  chiesa   osservammo  alla   destra,  dell'  altare  di  san  Gregorio 
Della  muraglia   principale  un  buco  fatto  a  tondo  tanto   largo 
che  comodamente  ci   poteva  passare  un  uomo  ;  e  corrispon- 
deva il  buco  alla  strada  larga,  e  credo  che.  per  qui  passassero 
i  ladri. 

3.  Int.  An  illud  foramen  antea  esset ,  et  quomodo  hoc 
sciai? 

Resp.  Quel  buco  non  c'era,  e  lo  so  per  la  pratica  ch'io  ho 
biella  chiesa  da  due  anni  in  qua.    , 

4.  Et  ei  dicto  ut  describat  pyxidem  ablatam ,  et  si  ante- 
qoam  ponerentur  particulae  consecrataa  ut  sopra  praeesistebant 
^^  comunkhm? 

Resp.  La   pisside  rubata  sarà  stata   capace  di  duecento 


comuDicbini  ;  tutta  d'argento  e  dalla  parte  di  dentro  indoratai  ; 
larga  poco  pib  o  meno  di  quattro  dita ,  alta  otto  dita  in  ciroa 
ed  era  vestita  d'un  panno  bianco  ricamato  di  rose  rosse,  e  in 
cima  del  coperchio  si  vedeva  una  crocetta  pare  d' argento. 
Avanti  ci  era  qualche  particola  o  frammenti;  ma  d.  Polimio  li 
consumò  avanti  di  metterci  le  particole  consacrate. 

8.  Int.  Àn  in  sere  antecedenti  foerit  visitata  dieta  ecclesia, 
antequàm  clauderentur  ianuae ,  et  quatenus  etc^  a  quo ,  vel  a 
quibus  ? 

Resp.  La  sera  antecedente  ;  che  fu  sabbato ,  dopo  r  A^e 
Maria,  la  chiesa  de'  Nobili  suddetti  fu  visitata  diligentemente 
da  me  e  da  d.  Polimio  ;  e  non  trovando  alcuno ,  serrammo 
ambedue  le  porte  e  uscimmo  per  la  porta  piccola,  quale  pari- 
mente serrammo,  e  ieri  mattina  nella  visita  la  trovammo  pur 
serrata. 

6.  Int.  Quomodo  sciat  d.  Polimium  in  mane  sabbati  posuisse 
pyxidem  plenam  particulìs  consecratis  intra  tabemaculum ,  et 
clausisse  ostìolum  clavicula  et  eam  portasse  in  sacrarium ,  et 
quomodo  colloca verit  sub  alia  clave? 

Resp.  Io  lo  so  perchè  sabbato  mattina  il  signor  d.  Polimio 
mi  fece  preparare  duecento  comunichiai  e  li  portò  dentro  una 
scatola  sopra  il  calice  air  altare  maggiore  quando  ci  andò  per 
celebrare  la  santa  messa,  e  li  vuotò  tutti  sopra  il  corporale  cbe 
avea  disteso  su  la  pietra  sacrata ,  e  a  suo  tempo  li  consacrò 
insieme  con  Tostia  cbe  stava  sopra  i  comunichini;  e  fatta  cbe 
lui  ebbe  la  comunione ,  pose  tutti  li  comunichini  entro  la 
pisside  e  comunicò  la  signora  Viola  Mari  e  Dolabella  sua 
figliuola ,  il  sagrestano  della  Rotonda  e  me  ;  e  dopo  con  gli 
occhi  miei  vidi  che  chiuse  la  pisside  con  il  suo  coperchio 
e  la  pose  con  la  mano  destra  dentro  il  tabernacolo,  e  poi  vidi 
che  con  Tistessa  mano  serrò  l'usciolo  con  la  solita  chiavetta  ^ 
la  pose  sopra  V  altare  9,  'finita  la  messa,  la  portò  in  sagresti» 
sul  calice  e  la  chiuse  con  un'  altra  chiave ,  come  ho  detto  di 
sopra. 

7.  Int.  Quomodo  sciat  modo  a  se  narrata  ? 

Resp.  lo  le  so  perchè  le  vedevo,  e  non  potevo  a  meno  di 
non  vedere  queste  cose,  perchè  servivo  la  messa  e  stavo  attento 
a  tutto. 

8.  Int.  An ,'  facta  communione  a  se  tribusque  aliis ,  et 
reclusa  sacra  pyxide  in  tabernaculo,  sciat  vel  dici  audierit  idem 
tabemaculum  fuisse  amplins  apertum  propria  clavicula  ? 


—  i89  - 

Resp.  Io  non  so  né  ho  inteso  dire  che,  dopo  la  messa  dì 
d.  Polinio  e  dopo  la  nostra  comunione,  alcuno  abbia  aperto  il 
tabernacolo  con  la  sua  propria  chiavetta  ;  e  ninno  lo  può  sape- 
re meglio,  di  d.  Polimìo ,  che  lo  serrò  e  portò  via  la  chiave , 
come  ho  detto  di  sopra. 

9.  Int.  An  sciat,  vel  dici  audieril,  vel  suspicalus  fuerit  quis 
potoerit  fnrari  dictam  sacram  pyxidem  ? 

Resp.  Io  non  so,  né  ho  inteso  dire,  né  ho  sospettato  chi 
abbia  potuto  fare  questo  furto  della  sacra  pisside. 

Quibus  habilis  et  acceptatis,  dimissus  fuit,  juralusde  silen- 
tio;  et  perlecto  ei  suo  eiamine,  curo,  prò  ut-dixit,  nesciret 
SGrìbere,  fecit  signum  crucis. 

Signum  crucis  f  Carlini  Bellauri. 

Acta  sunt  haec  per  me  Curlium  Signanum  Sancti  Officii 
Dotarium. 


ESAME  DEL  TERZO  TESTIMONIO. 
SUCCESSIVE, 


Vocatus  personaliter  comparuit  coram  et  ubi  supra,  in 
meique,  etc. 

Capreolus  fllius  quondam  Ansaldi  Bellini  de  Lucerna ,  aetatis 
honorum  viginli  septem,  sacrista  ecclesiae  vulgo  della  Rotonda; 

1.  Int.  De  ultima  communione  ipsius  examinali? 

Resp.  Io  feci  la  mia  ultima  comunione  sabbaio  prossimo 
passato,  che  fu  vigilia  di  tutti  i  Santi. 

2.  Int.  De  ecclesia  et  de  altari  in  quibus  fecit  suam  com- 
munionem,  de  sacerdote  qui  porrexit  particulam,  et  an  solus 
vel  associatus  se  comunicaveril? 

Resp.  lo  mi  comunicai  nella  chiesa  de'Nobili,  all'aitar  mag- 
giore, dal  signor  d.  Polimio  cappellano,  e  in  mia  compagnia  si 
comunicarono  la  moglie  e  flglia  del  signor  Mari  e  il  campanari» 
di  detta  chiesa,  trentino,  de'quali  non  so  i  nomi. 

3.  Int.  Qua  bora  se  communicaverit  et  ubi  d.  Polimius 
sumpserit  particulas  ad  se  et  ad  alios  comunlcandps? 

Resp.  Quando  ci  comunicammo  saranno  slate  sedici  ore 

Tamb.  Inquis.  Voi.  II.  37 


—  S90- 

cìrca,  e  d.  Polimio  per  comunicarci  si  servi  delle  particole  cb^ 
aveva  consacrate  allora  nella  sna  messa,  e  che  avea  portate  ics. 
buon  numero  dalla  sacrestia  dentro  una  scatola  »  che  riversa 
sopra  il  corporale  e  consacrò;  e  comunicatosi  lui,  aprì  il  San* 
lissimo  con  la  chiavetta,  che  pure  aveva  portata  dalla  sagrestia» 
cavò  fuori  la  pisside,  Taprì,  consumò  alcune  particole,  ch'erano 
dentro,  e  con  la  patena  vi  pose  tutti  quei  comunichini,  ch'e- 
rano stati  consacrati  allora,  e  poi  comunicò  noi  quattro  soli; 
e  dopo  chiuse  la  pisside,  la  rimise  nel   tabernacolo,  tornò  a 
chiuderlo  con  la  medesima  chiavetta,  e  cavatala  fuori,  la  pose 
sopra  l'altare,  e  finita  la  messa  la  pose  su  il  calice  e  la  rìpor* 
tò  in  sagrestia:  non  so  poi  cosa  se  ne  facesse. 

4.  Int.,  Quomodo  sciat   ipso  examinatus  qusB  modo 
ravil? 

Resp.  lo  so  tutte  quelle  cose  che  ho  raccontate  percU  i 
presente  e  vidi  tutto  con  gli  occhi  miei  proprìi. 

5.  Int.  Et  ei  dicto  ut  bene  descrìbat  pyxidem  in  qua  die 
fuisse  comunichinos  consecratos,et  servatos,  et  si  antea  pnee* 
sistebant  aliquae  particulae. 

Resp.  La  pisside  mi  parve  tutta  d'argento  con  il  suo 
perto,  ch'in  cima  avea  una  crocetta  pure  d'argento,  ed  era 
pisside  grandetta  ed  alta  non  so  se  un  palmo ,  ed  aveva 
vesticciola  bianca  con  le  rose  rosse;  del  resto  non  so  dir  altrOt 
uè  se  avanti  che  ci  ponesse  d.  Polimio  questi  comunichini  ci 
fossero  altri*. 

Quibus  habitis  et  acceptatiSf  dimissus  fuit  juratus  desilenlio; 
et  perleclo  ei  suo  examine,  cum,  prò  ut  dixit,  nesciret  scribere, 
fecit  signum  crucis. 

Signum  crucis  f  Capreoli  Bellini. 

Acta  sunt  haec  per  me  Curtium  Signanum  Sanctì  OlFicii 
nolarium. 


Dai  falli  esami  si  provò  per  quattro  testimonii  la  preesisten- 
za della  pisside  con  le  parlicele  e  l'identità  delle  medesime,  indi 
si  cercò  con  le  più  sottili  indagini  inquisitoriali  l'autore  o  gli 
autori  del  sacrilego  furto:  e  troppo  lungo  e  noioso  sarebbe  pei 
lettori  il  riprodurre  gli  esami  fatti  perfino  a  fanciulli  e  fanciulle 


—  J9l  — 

Che  si  credevano  appartenere  alle  famiglie  degli  aalori.  Se  non 
cbeb  gelosia  d'una  donna  pose;  sa  le  tracce  il  Sant'Uffizio  di 
scoprire  1  autore.  Costui  era  un  uomo  nato  al  misfare,  fuoruscito 
«Ravenna,  che  erasi  accasato  in  Bologna,  per  nome  Leonzio 


strada    di    Galliora    in    Bolo<?n  a. 


il  quale  per  ordine  deir Inquisizione  fu  agguantalo  e  posto  in 
carcere  e  fra  i  tormenti  della  tortura  confessò  non  solameli  le  il 
furto  della  pisside,  ma  eziandio  molti  altri,  acquali  si  lasciava 
andare  per  apprestare  lauto  trattamento  alla  donna,  che  poscia 
dal  rangole  della  gelosia  fu  spinta  ad  accusarlo,  il  SanfUftizio 
con  gran  sollecitudine  ne  pronunciò  il  giudizio  innanzi  ad  affollato 
popolo,  che  per  meglio  intimorire  condannò  il  Leonzio  a  girare 


-  291  — 

per  la  città  nudo  sino  alla  cintura  con  le  mani  legale  dietro 
dorso»  fra  mezzo  a  duecarneflci  chìB  di  quando  in  quando  ci 
delmente  lo  percuotevano.  Fu  condotto  ai  foro  de'Mercanli,  ( 


Foro  dei   Moi'caiiti   in   I>ulo<^na. 


si  era  innalzato  un  palco,  e  quivi,  esposto  ai  dileggi  della  pi( 
fu  percosso.  Si  rinnovarono  le  battiture  che  doveano  supei 
le  tremila,  presso  le  torri  degli  Asinelli  e  Carisenda,  clie  form 
unaSrarità  di  Bologna,  innalzale  nel  secolo  undecimo  e  du( 
cimo.  Iodi  fu  fatto  passare  per  la  strada  di  Galliera,  e  pei 


slnda  maggiore  fo  condoUo  al  loogo  ove  ^  en  aitalo  il  n^\ 
e  quindi  mìseraiDeole  perì.  Non  Togliamo  fare  commenti  so  Li 
sproporzione  della  pena  applicata  al  delitto  commesso,  imper* 


Le  torri  degli  Asinelli  e  Carisoiida  in  Holoffiia. 


<^'<Hxhè  in  tanta  barbarie  di  lampi  jlullo  poteva  un  tribunale 
i   ^ogainario  e  crudele. 


CAPITOLO  XIV. 


OioTanni  Has  •  OìroUmo  da  Praga. 


Ora  debbo  narrare  grandi  avvenimenti  che  segnarono  note- 
vote  periodo  nella  storia  deir  umanità»  accadati  in  Gostanza 
quando  ivi  si  tenne  il  conciliò  onde  por  fine  allo  scisma  che 
travagliava  la  Gtiiesa.  Le  gare  fra  la  tiara  e  Io  scettro  si  erano 
di  troppo  prolungate,  le  tenebre  dell'ignoranza  andavano  dira- 
dandosi» e  gli  scandali  del  papato  aumentando  :  per  la  qual 
cosa  il  grido  di  riforma  prorompeva  dalle  università.  Era  in 
queste  il  fermento  generatore  di  un  grande  avvenire.  Forse 
non  si  davano  d'un  flato  tutti  gli'  attacchi»  ma  come  potenza 
che  agogna  alla  procella  de'fatti,  lumeggiavano  neirintelletto  dei 
sapienti,  fiammeggiavano  nel  Quore  dei  popoli.  Bastava  una  scin- 
tilla a  manifestare  T  incendio  di  questi  principii  ;  si  volevano 
uomini  che  li  avessero  incarnati  con  una  forma  qualunque  di 
teoriche,  ma  sempre  riformatrici,  che  li  avessero  precinti  del- 
Fusbergo  di  una  costanza  degna  di  miglior  causa.  Giovanni  Wi- 
cleff,  Giovanni  Hus  erano  appunto  di  sifTatli  uomini.  Trafitti  dal- 
l'anatema,  che  non  si  spunta  per  forza  né  ìrrugginisce  per  tempo, 
caddero  maledetti  dagli  ortodossi,  paventati  dai  potenti,  estimati 
dai  filosofi ,  segnali  delle  morali  sciagure  che  intenebrarono 
l'aurora  della  umanità  risorgente. 

Giovanni  Wicleff  era  un  dotto  prete  inglese.  Nato  nel  York- 
shire,  ebbe  a  maestro  nella  università  di  Oxford  Tomaso  Bradwar- 
dine  e  vi  apparò  la  filosofia  di  Aristotele,  la  teologia,  il  diritto. 
Trovossì  in  tempi  in  cui  il  re,  i  maggiorenti  ed  il  popolo  d'In- 


{hillerra  pretende?ano  accorciare  le  giorìsdizioni  papali  e  dei 
n\i  sol  reame.  Il  principe  voleva  essere  solo  a  comandare;  i 
Daggiorenti  agognavano  alle  pingui  sostanze  dei  cherid  e  le 
isorpate  non  volevano  lasciare;  il  popolo  non  voleva  più 
ogare  il  danaro  a  s.  Pietro  ;  in  ona  parola  alla  rispettosa  fede 
egli  avi  sottentrava  la  soperba  ragione  dei  nipoti.  II  presente 
sagiva  contro  il  passato.  In  questa  reazione  entrò  Wicleff  soste- 
ilore  dei  laicali  richiami.  Eduardo  III  usò  di  lui  contro  Roma  : 
)  rimeritò  delia  cattedra  di  teologia  nella  università  di  Oxford 
el  1372.  Lo  amavano  i  laici»  Todiavano  i  preti  ed  i  frati.  Scello 
rettore  di  certo  collegio  stabilito  in  Oxford  per  gli  scolari  di 
antorbery,  i  frati,  ctie  da  poco  tempo  vi  si  erano  intromessi, 
dolsero  della  scelta.  A  vece  del  prete  Wicleff  volevano  porre 
quel  reggimento  un  altro  frate.  Frati  e  Infici  battagliarono: 
ìoDfarono  questi  ;  quelli,  cacciati  dal  collegio,  s'  andarono  a 
mentare  presso  Simone  di  Langbam  cardinale  arcivescovo  di 
antorbery,  che  li  tolse  in  protezione.  Comandò  a  Wiclefif  che 
Odesse  il  reggimento  del  collegio  a  certo  frate  Errico  Wade- 
Qil  :  al  niego  del  rettore  segui  il  sequestro  de'beni  del  collegio, 
ppellarono  i  laici  a  papa  Urbano  V  ;  ma  il  cardinale  deputato 
dirimere  questa  lite  raffermò  la  sentenza  del  Langham  ed 
Ritinse  :  Wicleff  e  i  suoi  fautori  sgomberassero  il  collegio, 
slorassero  i  frati  di  qualunque  danno. 

Se  questo  fosse  avvenuto  in  altro  secolo,  i  frati  avrebbero 
ilmeggiato  in  pace  la  loro  vittoria  In  quel  collegio,  e  i  laici 
I  ne  sarebbero  andati  a  casa  scontenti ,  ma  rassegnati.  In 
Desto  secolo  V  attrito  dei  fatti  recò  quello  dei  principii.  Chi 
rano  quei  frati  che  volevano  sovverchiare  1  laici  in  quel 
egozio?  diceva  la  sfrenata  ragione:  uomini  che  si  erano  seque- 
rati  dal  mondo  nel  nome  di  Cristo,  consigliere  di  altissima 
sriezione.  Come  erano  proceduti  costoro  dagli  eremi  e  da' so- 
aghi  conventi  fino  nelle  università  laicali,  a  contenderne  il 
iggimento  agli  stessi  laici  ?  Perchè  quella  sentenza  del  Langham? 
uthé  la  papale  conferma  ?  Era  chiaro  che  il  chericato  non 
metteva  dall'entrare,  come  un  tempo,  ovunque  si  aprisse  una 
a  d' azione  nel  corpo  della  civile  conu)agnia.  Egli  procedeva 
)n  in  mano  il  vessillo  del  mistero ,  il  giogo  della  fede ,  con 
iQtorità  su  Tumana  ragione;  e  giunto  alle  porte  delle  univer- 
li,  doveva  arrestarsi,  perchè  dentro  era  il  vessillo  delle  scienze, 
itto  di  robusti  intelletti.  Chi  era  dentro  credeva  non  doversi 
rìre  quelle  porte  che  al  solo  nome  della  ragione  :  sforzate , 


—  298  — 

teologiche  combattute  negli  alcovi  imperiali  ;  terribile  la  UDiver- 
sitaria,  perchè  seotita  dai  popoli  ;  rapida,  duratura,  perchè  sor- 
retta dal  credersi  deputata  a  restituire  requilibrio  nelle  parti  e 
nelle  potenze  di  cui  si  compone  e  per  cui  vive  la  compagnia 
degli  uomini.  ^ 

La  eresia  wicleffita,  come  oggetto  di  storia ,  va  sommaria- 
mente ristretta  in  questo  principio,  dico  nella  invisibilità  della 
Chiesa  governante  e  perciò  nella  invisibilità  del  potere.    * 

I  suoi  errori  rimasero  fermentando  nel  seno  della  univer* 
silà.  Il  papato  da  lui  depresso  fece  sorridere  il  principato  lai- 
cale dapprima,  e  non  altro;  ma  quando  Enrico  Vili  ammazzators 
di  mogli  si  volle  tramutare  in  papa,  il  terreno  inglese,  bea 
coltivato  da  Wiclefif,  produsse  subiti  e  terribili  i  frutti  deiran- 
glicana  Chiesa.  Il  fatto  di  Wiclefif  immediatamente  si  rapportò 
all'orgoglio  ferito  di  quattro  professori,  ma  mediatamente  si 
andava  a  rannodare  alla  baldezza  della  giovane  e  superba  ra- 
gione, intollerante  del  chericale  potere.  Per  la  qual  cosa  Wicleff 
non  poteva  starsene  in  Inghilterra  ;  la  sua  mente  rapidissima 
viaggiò  il  mondo. 

Era  in  Praga,  principale  città  della  Boemia,  un  prete  di 
nome  Giovanni,  che  sopranominavano  Hus  o  Hussinetz  da 
una  terra  di  quel  regno  onde  trasse  i  natali.  Aveva  egli  appli- 
cato l'animo  alle  sacre  e  profane  discipline  nella  università  di 
Praga,  e  venne  in  tanta  fama  di  dottrina  che  in  men  di  sedici 
anni  fu  creato  successivamente  bacelliere,  maestro  delle  arti, 
decano  della  facoltà  flIosoQca  ed  in  fine  rettore  della  università. 
Tutto  nei  libri  e  .massime  nella  Bibbia ,  visse  immune  dai  vizi 
che  a  quei  tempi  rodevano  la  compagnia  dei  cherici.  Anzi 
seppe  cosi  bene  contemperare  Tausterità  dei  costumi  alla  mo- 
destia e  dolcezza  dei  modi,  ch'era  il^  desiderato  e  venerato  da 
tutti.  La  castimonia  di  ogni  suo  detto  e  fatto,  le  macere  e  pal- 
lide sembianze  del  suo  volto,  rivelavano  anima  che  non  voleva 
barattare  la  virtù  con  le  carezze  degli  uomini,  ma  che  ne  vo- 
leva far  buon  capitale  in  quel  tesoro  evangelico  non  insidiato 
dai  ladri,  non  guastato  da  tarlo.  Poveri  noi,  che,  dopo  avere 
logorate  le  forze  a  toccare  la  cima  della  virtù,  e  che  crediamo 
posarvi,  appunto  in  quella  ci  si  para  innanzi  il  pettoruto  e  più 
terribile  nemico,  la  superbia! 

Sofia  regina  di  Boemia  lo  volle  a  suo  confessore,  ed  egli  ne 
moderò  lo  spirito  lungamente.  Ma  queir  ufiBcio  poco  avrebbe 
messo  in  mostra  l'animo  del  prete.  Vengo  a  dire  come  si  rive- 


^nè  — 

ae.  Era  incomiociato  nelh  Boemia  qq  oostome  di  edificarsi 
ipelle  dai  signori,  deputate  alia  predicaiioDe  della  parola  di 
ì  in  folgare  fa?eUa  e  proprio  di  quella  parlata  dal  popola  Le 
tednli,  le  collegiate  sì  dicevano  troppo  occupate  nelle  grandi 
e  del  culto;  sta  bene  che  il  popolo  abbia  popolari  chiese,  nelle 
di'  la  parola  di  Dio  suoni  nella  foraia  più  famìliaro  ai  suoi 
lai  Volevasi  in  una  parola  difOnire  V  individuo  del  popolo 
I  santuario  di  Dio.  GioTanni  Mulheim  di  Cardubiez ,  uomo 
Mie  e  di  calda  pietà ,  fece  levare  del  suo  uno  di  questi  po- 
lari oratorìi  che  intitolò  ai  SS.  Innocenti  nella  città  di  Praga, 
segnò  a  questo  un  peculiare  patrimonio  con  due  rettori ,  da 
minar»  da  lui  e  dai  suoi  discendenti.  Aveva  nome  Bellem 
està  chiesa.  Giovanni  ne  fu  il  primo  rettore  con  Tufflcio  di 
idicare  al  popolo.  Conosciuta  la  mente  dei  fondatori  di  que* 
oratorii,  nel  dir  popolo  intenderà  bene  il  lettore  non  signi- 
ire  quella  voce  la  indistinta  congregazione  dei  fedeli,  ma  quella 
rte  la  quale,  povera  delle  umane  comodità,  povera  di  umana 
nenza ,  era  come  un  oscuro  fondo  a  dar  rilievo  alla  aristo- 
zia  dei  ricchi  e  dei  sapienti.  Chi  era  deputato  a  predicare  il 
ngelo  in  queste  chiesuole  necessariamente  doveva  prendere 
idi  e  parole  ben  differenti  da  quelle  delP  alto  clero  e  rìpu- 
si  evangelizzatore  dei  poverelli.  Funeste  le  conseguenze, 
andò  codesti  evangelizzatori  voglion  tutto  riformare  ;  ed  in 
'0  il  prete  ed  il  popolo  incominciò  ad  esistere  moralmente 
Ila  chiesa  in  modo  ben  distinto  dagli  altri;  la  distinzione  portò 
paragone,  il  paragone  il  giudizio  del  papato  e  dell'episcopato, 
a  terrìbile  democrazia  incominciò  ad  insidiare  lentamente 
Qtico  reggimento  della  Chiesa.  La  chiesuola  di  Betlem  fu  la 
Ila  dell'ussitismo.  Di  qua  mosse  Giovanni,  da  questa  tolse  le 
ni,  in  questa  Jacobello  di  Misa  profferse  al  popolo  il  calicò 
I  sangue  del  Signore,  che  si  rìmutò  in  feccia  di  peccati  e  di 
erre  cruentissime.  Aggiungi,  che  il  Mulheim  donò  il  diritto 
patronato  di  questa  chiesuola  ai  decani  del  collegio  carolino 
Praga  :  di  questi  collegi  erano  stati  fondati  ben  quattro  in 
)ga  ed  erano  come  accademie  soggette  alle  grandi  università, 
in  solo  terre  e  danaro,  ma  beneflzii  ecclesiastici  e  chiese  ve- 
rano  loro  concesse  dai  principi.  Questo  innesto  di  università 
]i  chiese  non  era  paventato  dai  re,  confermato  dai  papi,  che 
)ltì  allora  non  ne  aveano  la  coscienza  dei  pericoli.  Quel  po- 
lo che  non  poteva  circondare  le  cattedre  dei  dottori  per  ascol- 
ne  la  parola  veniva  ad  apprenderla  in  chiesa!  L'oratorio  dun- 


—  Ma  — 

qne  di  Bellem  era  aoa  chiesa  tiniversitaria  fatta  pel  popolo;  é 
ctìi  la  reggeva  era  Giovanni  d^Hos. 

Non  appena  Giovanni  imprese  le  popolari  predicazioni,  tra 
per  la  fama  di  dottrina  ctie  aveva  e  Tincontaminato  vivere  che 
faceva ,  una  grande  moltitudine  accorreva  ad  udirlo ,  la  quale 
come  accendeva  il  zelo  del  predicante,  ne  svegliava  la  superbia 
e  [Mrreqaieto  amore  delie  novità.  Nella  predicazione  al  popolo 
di  Praga  Tanimo  di  Giovanni  acquistò  queir  abito  di  austerità 
che  più  tardi  fu  vista  impressa  in  quella  di  Calvino  e  fino  nelle 
corporali  sembianze  del  suo  volto,  quella  veemenza  di  eloquio 
nel  flagellare  il  male  che  fu  poi  volteriana  in  Lutero»  e  quella 
solennità  di  pretese  ispirazioni  che  fu  tanto  maravigliosa  nei 
puritani  di  Gromwell.  Non  papa,  non  vescovo,  non  privilegi: 
egli  prete  semplice  predicava  al  popolo.  Tra  lui  e  il  popolo  la 
sola  Bibbia.  Abborreote  dalle  corruttele  clericali,  le  maledice  e 
fugge  in  supremo  rifugio  nella  Bibbia.  Egli  la  legge  con  la  li- 
bertà di  un  uomo  che  spezzò  ogni  freno  di  autorità ,  perché 
ai  suoi  occhi  chi  lo  stringeva  era  peccatore  ;  e  non  trovando 
tra  il  profeta  dell'antica  legge  e  Dio  alcun  mediatore,  crede» 
anch'egli  investito  della  missione  di  un  profeta,  che  può  e  deve 
tuonare  le  divine  minacce  al  principe,  al  sacerdote,  al  popolo. 
Le  immagini  orientali  dei  sacri  libri  gli  scaldano  la  fantasia  ^ 
lo  trasportano  neirinflnito,  nel  perfetto  invisibile,  e  dalla  vetta 
del  Sinai  e  del  Taborre,  perchè  troppo  alte,  non  vede  più  sul 
Golgota  Tuomo  dei  dolori,  non  vede  p^  sul  Vaticano  il  figlio 
dell'uomo.  Il  Cristo  di  Giovanni  è  il  Verbo  generato  nel  di  della 
virtù  nello  splendore  dei  santi ,  e  la  sua  chiesa  non  ancora  è 
scesa  dal  cielo.  Quella  che  vede  in  terra  imporporata  del  san- 
gue dell'Agnello,  viatrice,  lungo  il  torrente  della  vita,  che  gli 
otTre  nei  peccati,  nella  penitenza,  nella  virtù,  nella  carità,  nelle 
speranze  e  nei  timori  dei  suoi  membri,  come  si  maturi  nel 
tempo  il  virperfectus  da  glorificarsi  nell'eternità,  è;sinagoga  del- 
l'anticristo. La  vera  chiesa  di  Cristo,  segnata  dal  Tau  della  pre- 
destinazione, vagola  per  lui  incerta  nei  cieli  di  una  inconsegui- 
bìle  perfezione.   Giovanni  nelle  sue  predicazioni  credeva  star- 
sene sul  Sinai  e  ricevere  dalla  mano  di  Dio  le  tavole  di  una 
nuova  legge,  ed  il  popolo  nella  valle  ramingava  fra  le  tenebre 
ed  adorava  sé  stesso. 

Perchè  i  chierici  erano  guasti,  vedi  come  gli  aggredisce,  o 
lettore,  e  vedi  come,  a  gastigare  l'autorità  presbiterale  troppo  nei 
più  proceduta  nella  civil  compagnia,  egli  denuda  il  prete  al  co- 


-301  — 

ietto  del  popolo,  lo  tenta  ad  infellonire  contro  la  Chiesa  e:  V9 
*eparando  i  semi  delle  grandi  guerre  di  religione  in  Boeooia: 
So  diteci»  0  chierici,  non  esercitiamo  noi  sa  i  fedeli  uùb  ra- 
one  di  signoria  più  violenta  di  quella  che  accusano  j  re  deila 
rra  1  Diamo  in  qualche  laico  un  po'  molesto  e  che  fa  le  viste 
oltraggiarci,  e  tosto,  abusando  il  cbericale  privilegio,  per  dìt 
tto  di  pazienza,  per  impeto  di  superbia,  spesso  con  le  parole  - 
più  spesso  coi  fatti  prorompiamo  — ^  lo  trarrò  in  giudizio  que- 

0  malandrino,  gli  darò  guai,  gli  flaccherò  le  corna,  gli  farò 
[uainare  contro  Tacuto  coltello  della  spirituale  potestà.  — -  E  se 

povero  dabbenuomo  coglie  sentenza  di  scomunica,  non  ca- 
amo  nei  panni  per  T  allegrezza.  E  non  punto  per  verità  ed 
nore  di  giustizia,  ma  si  per  furore  ed  impeto  di  feroce  ven* 
itta  ce  lo  teniamo  sotto;  in  guisa  che  ci  accoccarooaquel  brutte 
agio:  —  Se  ti  avviene  offendere  un  chierico,  finiscilo  di  morte, 
è  pace  non  avrai  più  da  lui.  —  Ecco  come  con  lo  spirituale 
Hello,  più  aguzzo  di  quello  dei  re  terreni,  superbamente  si- 
loreggiamo  i  cristiani;  e  come  andiamo  innanzi  ai  laici  perla 
testa  del  clericale  privilegio,  paventandoci  a  cagione  di  questa, 
m  per  amore,  ma  per  servile  timore,  ci  chiamano  beneQci. 

1  su  diteci,  0  chierici,  in  che  mai  ponete  in  pratica  e  ci  fate 
dere  Chi  è  maggiore  tra  voi  si  tenga  come  nuovissimo;  e 
i  precede  quasi  ministro?  Forse  in  quella  cupidigia  dei  primi 
?gi  nelle  sinagoghe,  dei  primi  deschi  nelle  cene,  delie  salu- 
toni nel  foro  e  di  essere  chiamati  padri ,  signori  e  maestri 
gli  uomini?  Forse  in  quella  vaghezza  di  vedervi  accodali  me- 
0  da  un  cliente  accoltellatore  armato  di  spada  che  da  un 
Illa  chierico  recatore  solo  di  un  libro?  Forse  in  quel  vostro 
sprezzo  delle  vere  ricchezze  spirituali  della  Chiesa,  e  in  quello 
3ndere  ogni  vostra  cura  ed  affocato  pensiero  dietro  ai  tempo- 
i  beni?  Forse  in  quel  tenere  in  non  cale  V  umile  ministero 
chierico,  che  vi  si  addice,  e  neiraffettare  laicale  dominazione, 
5  non  è  per  voi?  0  forse  in  quel  vostro  pavoneggiarvi  nel- 
npiezza  delle  vesti  di  preziosa  roba  che  dai  piedi  al  capo  è 
iriatamente  pomposa,  nella  frequenza  dei  clienti,  nella  mol- 
idine  dei  cavalli,  nella  superfluità  degli  edifici,  nell'abbon- 
iza  delle  suppellettili,  neirammassamento  della  pecunia,  nel 
;liere  agl'indigenti,  nel  disprezzo  dei  poverelli  e  degli  abbietti, 
lo  adulare  i  grandi  ed  i  ricchi,  nello  osteggiare  i  veritieri  e 
eggiare  i  piaggianti;  in  una  parola,  in  tutto  che  sia  gloria  ed 
3zza  secolare?  Ahimè!  che  in  tutta  questa  ingiuria  ed  onta  al 


—  30»  — 

Cristo  di  Dio  ed  alla  sua  legge  il  sole,  il  maggiore  prelato,  si  è 
tramutato  io  tenebre,  e  la  luna,  il  minore,  in  sangue.  > 

Cosi  tonava  l'austero  prete  in  un  sinodo  di  chierici  tenoto 
in  Praga.  I  vizi  erano  in  gran  parte  veri;  ma  questa  non  en 
medicina  a  sanare,  ma  coltello  che  sperperava.  Queirappuutare 
di  tirannide  il  clero  verso  il  popolo  era  un  sollevare  questo 
contro  il  medesimo,  fargli  chiudere  gli  occhi  su  Tautorìtà  de'nih 
nistrì  di  Dio  e  spingere  \  seguaci  di  Cristo  al  proselitismo  di 
un  uomo.  Tuttavia,  mentre  già  piange  il  sole,  ossia  il  papa,  tra- 
mutato in  tenebre,  la  luna,  ossia  l'episcopato,  fatta  di  sangue, 
si  tiene  dal  farne  scempio,  come  fece  dopo.  In  un  altro  sermone 
riconosce  ancora  i  papi  Alessandro  II  e  Giovanni  XXIII  come 
vicarìi  degli  apostoli  e  prega  per  essi,  t  Se  adunque  esso  Ales* 
Sandro  di  santa  memoria,  nelPufficio  di  condire  ed  illuminare, 
venialmente  falli,  preghiamo  Tonnipotenle  Iddio  che,  secondo  la 
grande  sua  misericordia  si  degni  aggiungerlo  alia  sua  gloria* 
Finalmente  preghiamolo  a  preservare  dal  male  il  nostro  papa 
Giovanni  XXIII  ed  a  concedergli  che  sia  sale  della  terra,  luce 
del  mondo.  >  Non  ancora  la  punta  della  papale  autorità  lo  aveva 
toccato. 

Ma  procedendo  nei  suoi  sermoni  nella  censura  de'clerìcali 
costumi  e  nello  spuntare  l'autorità  dei  medesimi,  arriva  ad  qd 
mal  passo.  Nell'anno  1403  re  Sigismondo,  che  prendeva  il  titolo 
di  governatore  di  Boemia,  irato  contro  Bonifacio  IX,  che  sorreg- 
geva Ladislao,  aveva  vietato  ai  Boemi  il  recar  denaro  a  Roma. 
Venceslao  anche  abborriva  Bonifacio,  perchè  approvante  la  soa 
deposizione,  ed  i  chericì,  che  si  astenevano  dai  divini  uffici  per 
l'interdetto  lancialo  dall'arcivescovo,  costringeva  con  la  forza  a 
predicare  ed  a  sacriflcare.  Giovanni  d'Hus  si  leva  protettore  dei 
principi  a  petto  del  sacerdozio.  E  messosi  a  chiosare  la  parabola 
di  quella'  gran  cena  il  cui  padrone  di  casa  manda  da  prima  un 
servo  ad  invitare,  poi  un  altro  a  costringere,  incomincia  a  dare 
una  matta  interpretazione  a  questi  due  servitori.  Il  primo  dei 
due,  secondo  lui,  è  simbolo  dell'aulorilà  spirituale,  il  secondo 
della  temporale.  E  qui  pianta  come  assioma  che,  per  tutto  il 
tempo  della  vecchia  legge  fin  dalla  prima  istituzione  del  re,  sem- 
pre questi  abbiano  sovrastato  ai  pònteQci.  Questa  diffinizione  egli 
pretende  sorreggere  con  la  Bibbia ,  né  la  Bibbia  interpretata  a 
capriccio  poteva  fallirgli  le  pruove.  Trovò  che  re  Salomone  spo- 
destò del  supremo  sacerdozio  Abiathar  e  mise  al  posto  suo  Sadocb. 
<  Questo,  dice  Giovanni,  era  più  che  togliere  ad  un  vescovo  i 


-  505  — 

beni  temporali:  eppure  Salomone  fu  re  paciflco,  ed  il  suo  regno, 
per  grazia  di  Dio,  stelle  in  flore.  >  Egli  tratta  di  questa  depo- 
sizione di  Abiathar  come  di  punizione,  poiché  dice  che  tra  gli 
uffici  del  re,  sia  quello  di  difendere  la  legge  di  Dio  e  di  co- 
stringere con  potestà  coattiva  gli  inosservanti  della  medesima. 
E  poiché  tra  il  clero,  come  egli  pensava,  dal  papa  air  ultimo 
chericuzzo  non  era  più  palmo  di  netto,  ne  conseguitava-  che 
il  papa  e  i  vescovi  dovessero  punirsi  e  costringersi  con  la  forza 
laicale  al  bene  fare.  Gonchiude  che  cosi  pensava  anche  maestro 
Giovanni  Wicleff  intorno  al  principato,  né  alcuno  ne  dubitava. 
Da  questi  principi!  conseguitava  che  i  re  avessero  potestà  spi- 
rituale, dèlia  quale  si  trovavano  allora  scemi  per  usurpazione 
dei  cherici  cesarei,  ossia  dell'aristocrazia  chericale.  E  lungi  dallo 
sQorare  la  cosa,  vi  va  dentro  con  l'esempio  pratico.  Re  Ven- 
ceslao,  che,  sotto  pena  di  porre  sotto  sequestro  i  loro  beneflcii, 
costringeva  i  sacerdoti  alla  predicazione  ed  alla  celebrazione  dei 
divini  uffici,  non  faceva  che  esercitare  una  potestà  icommessagli 
da  Dio  ;  e  Tarcivescovo  che  per  quel  regale  sequestro  colpiva 
d'interdetto  Praga  con  due  miglia  intorno  di  contado,  non  fa- 
ceva che  resistere  alla  potestà  di  Dio.  In  una  parola,  Giovanni 
non  solo  preponeva  al  sacerdozio  il  principato,  ma  lo  sosti- 
tuiva, senza  dirci  a  che  fare  rimanessero  più  i  vescovi  nella 
chiesa  di  Dio.  Le  parole  di  Hus  non  erano  che  una  guerra  ad 
oltranza  al  cattolicismo  in  tutto  quello  per  cui  era  stato  bene- 
fattore dei  popoli,  conquistandogli  diritti  di  onesta  libertà  a  petto 
della  forza. 

Predicava  un  di  Giovanni  al  popolo  di  Praga,  e,  togliendo 
a  testo  del  sermone  le  parole  di  Marta  a  Cristo  r—  Signore,  se 
Qìd  ti  fossi  trovate,  il  mio  fratello  non  sarebbe  morto,  —  con 
austero  cipiglio  incomincia  a  dar  contro  all'esequie  ed  ai  suf* 
fragi  dei  morti,  ma  dei  ricchi  e  dei  potenti.  Trova  queste  dan- 
Qevoli  per  tre  ragioni:  per  la  mondana  celebrazione  del  nome 
del  ricco  trapassato,  per  le  molte  menzogne  con  cui  se  ne  in- 
dora la  vita  e  pel  grasso  emolumento  che  ne  viene  ai  cherici. 
Le  vane  pompe  funebri  non  giovare  agli  estinti,  nuocere  ai  viventi, 
alimento  di  vanagloria  ;  essere  piene  di  scandalo  ai  sacerdoti, 
che  sui  cadaveri,  quasi  corvi,  pascevano  la  gola,  contentavano 
l'avarizia.  Essere  palpatrici  dell'amano  orgoglio  le  notti  vegliate 
dai  sacerdoti  nella  casa  del  morto  ricco;  le  loro  salmodie,  ven- 
dute a  pecunia  sonante,  non  affrettare,  ma  indugiare  la  libera- 
zione delle  anime  trapassate;  a  nulla  valere  tutto  queir  affollato 


-504  — 

accompagnamento  che  tiene  dietro  alférelro  del  ricchi,  e  Muore 
iHi  ricco,  e  gli  vedi  intorno  accorsa   tutta  la  città.  Appena  qd 
sol  cherìco  accorre  alle  esequie  del  povero.  >  Condanna  il  suona 
delle  campane,  lo  smisurato  assembrarsi  dei  preti,  la  simultanea 
celebrazione  delle  molte  messe,  la  grande  arsione  dei  cerei,  iì 
convitare  dei  preti  dopo  le  esequie,  e  altre  di  cosi  fette  costa- 
manze.  Dirò  io  stesso:  v'era  Taboso,  ma  nissuno  che  fosse  eat- 
toHco  potea  cosi  biasimare  quei  sacri  riti  e  dottrine  della  Chiesa. 
Quel  continuo  andar  contro  al  clero  prevaricatore,  quello  sfono 
ad  abbassare  l'altezza  dei  nobili,  quel  manomettere  il  potere 
del  sacerdozio,  doveva  far  pensare  il  popolo  a  sé  stesso;  ed  il 
popolo  è  sfrenato  se  si  mette  a  pensare  alla  sua  maniera.  Da 
ciò  conseguitava  che  sulla  pallida  fronte  d'Hus  il  popolo  leg- 
geva la  opinione  del  tempo,  ossia  la  formola  di  quelli  che  cit- 
deva  suoi  bisogni. 

Aggiungi  che  il  sermonare  di  questo  prete  si  dilungava 
molto  dalla  maniera,  che  gli  altri  tenevano.  Tutto  Bibbia,  non 
usava  che  di  quei  padri  che  più  intesero  al  rigido  ministero 
della  censura  dei  costumi.  Egli  chiude  la  Bibbia  per  far  sentire 
reco  della  divina  parola  come  suoni  sul  labbro  di  san  Bernardo 
nel  deserto  di  Chiaravalle.  San  Bernardo  riprenditore  di  cherici 
e  di  papi  è  per  lui  quasi  sempre  la  via  onde  immette  nelle 
piaghe  del  clero  la  robusta  medicina  dei  profeti.  Non  infiora, 
non  orna  che  con  la  poesia  dei  fatti;  non  incotora  che  con  la 
spontanea  antitesi  che  rimbalza  tra  il  vizio  e  la  virtù.  Eigli  spegne 
i  ceri  che  ardono  intorno  al  feretro  del  ricco,  disperde  l'acci- 
diosa aristocrazia  chericale  che  vi  salmeggia  e  vi  banchetta 
intorno;  eppure  s'inspira  all'alito  della  morte,  alla  tremenda 
maestà  del  supremo  Giudice,  al  vuoto  suono  che  rendono  le 
tombe  ai  viventi  che  le  calpestano.  Senti,  lettore,  la  sua  voce 
neirannnale  celebrato  nella  chiesa  di  S.  Clemente  alla  memoria 
di  Carlo  VI  imperadore  e  re  di  Boemia,  come  trae  a  meditare 
la-  vanità  delle  umane  cose  ed  il  terrore  del  novissimo  giudizio: 
e.  Ma  che  direbbe  Tinclito  principe,  imperadore  e  re  di  Boemia, 
Carlo,  di  cui  facciamo  oggi  commemorazione,  che  fu  protettore 
(Iella  Chiesa,  procuratore  di  pace,  amatore  dei  clero,  lume  del 
principato,  alimentatore  dei  poveri,  edificatore  di  basiliche,  fon- 
datore deir  alma  nostra  università  ?  Oh  I  si  per  fermo,  che  se 
al  trapassato  avanzasse  la  parola,  ne  direbbe  —  Vanità  della 
vanità,  e  tutto  è  vanità.  —  Che  altro  mai,  di  grazia,  direbbero 
i  nostri  maestri  di  sacra  teologia,  se  i  marti  rispondessero  eoo 


j  -Ò05- 

b  probT  Cbe  mai  qoel  sottilissimo  dialettico  di  Nicolò»  Biceps» 
qoeir Adalberto  lim{ndissimo  oratore*  quel  Nicolò  LitomisseK  sta- 
pQDdo  par  acume  di  consigli,  quello  Stefano  da  Colonia  fuoco 
di  amore  di  patria,  quel  6io?anni  Stickna  cima  di  oratore»  e  io 
fine  quel  Pietro  Staipna  solertissimo  predicatore  e  tutto  doN 
cena  nell'arte  della  musica?  Che  mai  risponderebbero  costoro 
0  tatti  gli  altri,  le  tombe  dei  quali  calpestiamo  coi  piedi  ?  Al 
certo  non  altro  che  —  Vanità  delle  vanità,  e  lutto  è  vanità.  — 
A  Dulia  giova  il  profondo  sapere  nelle  arti,  a  nulla  la  schiatta 
0  il  grado,  a  nulla  le  ammassate  ricchezze:  la  materia  di  queste 
cose  se  ne  andò  come  ghiaccio  liquefatto  al  sole.  Ecco  qua,  o 
carissimi  :  questo  inclito  principe,  cui  ricordiamo  speranzosi 
ddla  sua  futura  beatitudine,  e  gli  stessi  nostri  maestri  e  fra- 
telli in  Cristo  dilettissimi ,  aflfondarono  quasi  pietre.  E  chi  di 
noi  sa  se  abbiano  requie?  >  Sgannati  gli  uditori  della  nullità 
delle  cose  presenti,  accenna  alla  terribile  realtà  deiravvcnire  : 
<  Vedete  Torribile  avvento  del  Signore.  Siede  in  cima  TofTeso 
podice,  tutto  ira  contro  i  reprobi  ;  sotto  spalancato  V  orrendo 
caos  deir  inferno.  A  destra  di  lui  tutti  i  peccati  accusatori  ;  a 
manca  i  demonii  trascinanti  al  supplicio;  alle  sue  spallo  Tuni- 
vmo  mondo  in  fiamme;  al  suo  cospetto  gli  angeli  dì  Dio  rin- 
cacciati airinferno:  dentro  la  coscienza  cbe  crudamente  ti  morde 
loori  intollerabile  fuoco  che  ti  brucia  il  corpo,  ed  in  questo  un 
br  plauso  di  giusti  e  peccatori,  consapevoli  di  tulli  i  peccati , 
alla«entenza  del  santo  giudice  —  Andatevene,  maledetti,  al  fuòco 
eterno!  —  Con  tutto  questo  in  cima  al  pensiero,  facciamo  peni- 
tenza, chiediamo  perdono.  >  Vedi  come  quest'uomo  guastatore 
del  passato,  accennando  all'avvenire,  mostrava  che  venisse  dal 
medio-evo. 

Quando  Gregorio  Xll  e  Benedetto  de  Luna  condussero  in 
disperazione  i  fedeli  di  vedere  terminato  lo  scisma,  per  la  spon- 
tanea loro  cessione,  e  i  cardinali  delle  due  obbedienze  seria- 
ODeote  convenivano  nella  celebrazione  del  concilio  pisano,  ri- 
medio a  quei  mali  fu  grande  commovimento  di  sentenze  nella 
Boemia.  Papa  non  vi  era  universalmente  riconosciuto,  inefficace 
b  forza  del  chericato,  sfrenata  quella  delle  università.  Quella 
di  Parigi,  cbe  diffiniva  tuttodì  le  cose  della  Chiesa  per  lo  zelo 
dà  re  cristianissimi,  metteva  vaghezza  nelle  altre  di  fare  altret- 
tanto. La  Boemia  teneva  per  Gregorio.  Il  consenso  dei  cardi- 
nali e  di  quasi  tutt'i  fedeli  nel  serbare  neutralità  tra  i  due  con- 
teodentipont  efici  non  bastò  a  persuadere  il  chericato  di  Boemia 

Tamb.  Inquis.  Voi.  IL  50 


—  306  — 

a  lasciare  Gregorio  e  ad  aspettare  le  decisioni  del  concilio.  Te 
Deva  fermo.  Venne  a  scuoterlo  la  università  di  Praga  ;  i  pra 
féssori  avevano  a  capo  Giovanni.  La  sua  voce  era  conosciot 
dai  preti ,  flagellati  dai  suoi  sermoni  ;  si  misero  in  cagnescc 
L'arcivescovo  di  Praga  col  clero  voleva  Gregorio;  Giovanni  coi 
l'università  voleva  il  concilio:  corsero  le  censure.  Giovanni,  in 
terdetto  nei  sacerdotali  uffizi ,  fu  gridato  nemico  dei  preti.  Ec 
allora  veramente  il  divenne. 

Tratto  fuori  deluderò  il  predicatore  del  popolo  nella  cap- 
pella di  Betlem,  si  volse  al  popolo,  ed  ecco  come.  Aveva  Tim- 
peratore  Carlo  IV  fondata  la  università  di  Praga  nell'anno  1347, 
dandole  gli  statuti  di  quella  di  Parigi  e  di  Bologna.  Era  per  que- 
sti fermato  che  nelle  deliberazioni  tre  voti  spettassero  a  quelli 
del  paese,  uno  solo  agli  stranieri  che  vi  concorrevano.  Cosi  fa 
fatto  in  quella  di  Praga,  divisa  in  quattro  nazioni,  cioè  nella  boe- 
ma che  abbracciava  anche  gli  Ungheresi,  i  Moravi,  e  gli  Scbia- 
vòni;  nella  polacca,  e  in  quella  di  Sa^ssonia,  le  quali  avevano  la 
comune  appellazione  di  alemanna:  in  guisa  che  tutta  la  univer- 
sità era  di  due  razze  composta ,  della  boema  e  della  tedesca. 
Questa,  come  più  numerosa,  a  poco  a  poco  da  sorella  che  era 
addivenne  emula,  poi  soverchiatrice.  Usurpò  i  tre  voti,  lascian- 
done uno  alla  boema.  Le  leggi  violate  mìsero  in  malo  umore  i 
professori  boemi,  i  quali  vedevano  uffici,  lucri,  onori,  tutto  colare 
in  man  dei  Tedeschi  per  la  prevalenza  dei  voti.  Non  avevano 
torto,  ma  tacevano.  Ed  eccoti  arrivare  in  città  Girolamo  detto 
da  Praga,  il  quale,  come  dice  il  gesuita  Balbino,  avendo  ingegno 
acuto  e  vivace,  facondissimo  parlatore,  non  istotte  molto  a  strin- 
gersi d'amicizia  colTHus.  Egli  aveva  inteso  agli  studi  nell'uni- 
versi là  di  Parigi,  di  Colonia  ed  Eidelberga.  La  vita  delle  univer- 
sità in  quei  tempi  era  piena  d'azione:  l'esercizio  della  mente, 
i  tornei  delle  dìspute,  la  coscienza  di  formar  corpo  indipendente 
in  ordine  alla  sapienza,  i  privilegi  e  l'obbligo  in  conservarli, 
rendeva  gli  universitari  uomini  di  proposito  tenaci  a  mantenerlo 
pronti  al  richiamo,  stretti  alla  resistenza,  liberi  nel  pensiero  ( 
nelle  parole.  L' università  era  la  opposizione  al  governo  dellì 
vecchia  Europa ,•  disciplinata  dal  razionalismo,  legalizzata  da 
rispetto  che  si  portava  alla  sapienza.  Le  università,  che  eram 
state  teoretiche  nel  secolo  di  Abelardo,  in  quello  di  Hus  diven- 
nero pratiche.  Girolamo  da  Praga  incominciò  a  darne  un  chiare 
e  preciso  documento  quando,  malamente  portando  quella  inva 
sione  tedesca  nella  università  del  proprio  paese,  trovandosi  ur 


—  307  — 

di  nel  coo?eóto  de'professori  ragunati  a  deliberare  sa  la  scelta 
del  decano,  levossi  con  grande  impeto  di  parola  :  —  Se  van 
onotennle  nelle  università  di  Praga  le  consuetudini  della  pari- 
gioa,  com'è  sancito  dalle  leggi  di  Carlo  IV,  tornino  le  tre  parti 
dei  suffragi  alla  gente  boema  —  Ed  a  questa  domanda  appiccò 
una  arringa  in  prò  delle  usurpate  ragioni  dei  Boemi.  Plaudenti 
i  Boemi,  riluttanti  i  Tedeschi,  fu  lite  :  ma  Giovanni  confessore 
di  regina  Sofia,  carissimo  alla  medesima,  ottenne  regio  decreto 
che  la  diffini  a  favore  dei  Boemi.  Tumultuarono  i  Tedeschi  : 
messisi  lóro  a  capo  i  maestri  Giovanni  Reinero  e  Roberto  di 
Salisburgo,  appiccarono  il  fuoco  al  collegio  dei  teologi,  e  tutti 
se  ne  uscirono  di  Praga,  maestri  e  scolari.  Discordi  gli  scrittori 
del  tempo  intorno  al  loro  numero,  possiamo  seguire  la  sentenza 
di  un  LÀnda,  che  vivevo  a  que'tempi  e  lo  fa  ascendere  a  Iren- 
tassi  mila.  Non  maravigli  il  lettore  che  di  tutti  gli  esulanti  di 
Praga  si  formassero  molte  università,  come  la  lipsiense  in  Mis- 
Qìa,  quella  di  Ingolstadt  in  Baviera,  la  bostochiense  in  Sassonia, 
ed  oltre  quella  di  Cracovia.  Tutti  questi  partiti  recavano  con 
loro  odio  a  Giovanni  d'IIus;  e  sventuratamente  la  idea  cattolica, 
perchè  professata  dai  Tedeschi,  fu  rigettata  dai  Boemi  nell'im- 
peto della  ripulsa  degli  stranieri.  Queste  università  d'iracondi 
dottori  non  durarono  molto  a  formarsi  :  quella  di  Lipsia  sorse 
Dello  stesso  anno  1409.  Ciò  dico  perchè  sappia  il  lettore  come 
la  inimicizia  universitaria,  che  da  quel  tempo  si  annestò  al  zelo 
degli  ortodossi  contro  Hus,  non  era  spicciolata,  ma  densa  e 
serrata.  Hus  adunque  per  questo  fatto  aggiunse  alla  riverenza 
che  gli  portavano  come  prete  sapiente  le  simpatie  della  nazione. 
Ecco  come  il  suo  proselitismo  dovè  essere  rapido,  tenace,  cru- 
ento per  guerre  di  religione. 

Un  Pietro  Payne  inglese,  discepolo  di  Wicleff,  aveva  recato 
in  Boemia  le  scritture  del  suo  maestro.  Monaci  che  si  dissero 
volere  usurpare  avevano  spinto  WicleiT  alle  male  cose,  e  la  uni- 
versità di  Oxford  a  sorreggerlo:  tedeschi  usurpatori,   benché 
eessati,  condizionarono  gli  animi  della  università  di  Praga  come 
quella  di  Oxford,  io  dico,  nella  credenza  di  una  ingiustizia  trion- 
fata. Le  due  università  dovevano  amoreggiarsi  ;  Wicleff  e  Gio- 
▼anni  d'Hus  dovevano  affratellarsi  nella  comunanza  di  una  mente 
Dimicissima,  a  modo  loro,  ad  ogni  sociale  squilibrio.  1  libri  di 
Wicleff  furono  accolti  dai  maestri  boemi  con  gioia  perchè  nuovi, 
letti  con  avidità  perchè  creduti  opportuni  ai  bisogni  del  tempo. 
In  quei  tempi,  mentre  i  libri  delPeresiarca  di  Oxford  leg- 


—  508  — 

gevansi  dai  maestri  e  dagli  scolari,  non  era  re  in  Boemia.  Vec 
ceslao,  che  ne  recava  il  titolo,  sconosciuta  ia  dignità  regia 
umana,  avvinazzato,  dormiva  sempre.  Per  la  qual  cosa  il  clerx) 
e  Tuniversità  si  trovavano  a  fronte  senza  altri  per  mezzo.  Que- 
sta, rimasta  a'soli  Boemi,  più  libera  procedeva  nelle  cose  sae^ 
e  Giovanni  d'Hus,  che  vi  avea  cooperato,  acquistava  un  di  pii 
che  Taltro  autorità  su  gli  scolari  e  sul  popolo.  Per  la  qual  cosa 
si  faceva  un  n  pubblico  ragionare  di  Wicleff,  se  ne  lodava   h 
mente,  si  dogmatizzava  alla  sua  maniera;  e  Giovanni  co' suoi 
sermoni  persuadeva  il  popolo  già  convìnto  che  a  spantare  le 
clericali  prepotenze  vi  voleva  Wicleff  con  la  sua  dottrina.  L'as- 
sociazione della  mente,  Tuniversità,  resa  superba,   rincacciava 
fuori  della  civile  compagnia  quella  del  cuore,   dico  la  Chiesa. 

Erasi  già  levato  Sbynk*  arcivescovo  di  Praga  contro  a  queste 
novità  e  nelFanno  1408  sommariamente  accorreva  ài  presenti 
pericoli  con  due  decreti,  Tuno  ai  membri  deiruniversità  pra- 
gense,  Taltro  ai  parochi  e  predicatori  della  divina  parola:  a 
quelli  ordinava  recassero  a  lui  le  scritture  del  Wicleff,  perchè, 
trovate  pestilenti,  si  dessero  alle  fiamme;  a  questi,  che  riba- 
dissero nella  mente  del  popolo  come,  pronunciate  le  parole  con- 
secrntrici  nella  ihessa,  non  altro  che  il  corpo  di  Cristo  rima- 
nesse sotto  le  specie  del  pane  e  il  suo  sangue  sotto  quelle  del 
vino.  Gli  episcopali  ordinamenti  trovarono  Giovanni  d'Has  pet- 
toruto airuscio  della  università  e  rispondente  :  <  Irragionevole 
il  divieto  della  lezione  delle  wiclefiìte  scritture;  violarsi  i  pri- 
vilegi degli  universitari ,  licenziati  a  leggere  qualunque  libro  ; 
erronea  la  dottrina  del  solo  corpo  di  Cristo  sotto  le  specie  del 
pane,  e  del  solo  sangue  sotto  quelle  del  vino.  >  L'università 
fece  appello  a  Roma  :  Gregorio  XII  citò  al  suo  tribunale  Tarci- 
vescovo.  Ma  questi,  ascoltato  da  Alessandro  V,  s'ebbe  Bolla  da 
luì,  sterminatrice  degli  errori  wicleflBti  della  Boemia.  Rinfran- 
cato della  papale  sentenza,  sottomise  a  giudizio  quattro  dottori 
pertinaci  a  non  voler  dare  i  libri  di  Wicleff;  vietò  ogni  pre- 
dicazione nelle  cappelle;  e  nella  corte  del  suo  palagio  fé'  dare  alle 
fiamme  ben  dugento  libri  ereticali.  Enea  Silvio  Piccolomini 
conta  che  fossero  belli  a  vedere  per  la  eleganza  della  scrittura 
e  gli  ornamenti  d'oro  che  lì  fregiavano  ;  segno  del  grande  amore 
che  vi  ponevano. 

La  cappella  di  Betlem  non  doveva  più  risuonare  della  voce 
di  Giovanni;  e  questi  la  levò  più  forte  contro  l'arcivescovo.  Lo 
sorreggeva  il  popolo,  lo  favorivano  i  magnati,  che  in  quel  di- 


—  5M  — 

^^ielo  seDtifaDO  imnla  la  patrìai  superbia,  falliti  nel  patronato 
iJMle  amte  cappelle.  Un  altro  appello  a  Roma.  Ma  Giovanni  XXU, 
di  rimando  citò  alla  sua  curia  pel  cardinale  Colonna  Giovanni 
dVus  come  seminatore  di  errori  e  di  eresie.  Allora  uscirono 
innanzi  alla  papale  citazione  re  Venceslao,  la  regina  Sofia,  i 
baroni  e  la  università,  preganti  non  volesse  per  solenne  giu- 
dizio di  eresie  contaminare  la  fama  del  popolo  boemo  stato  fino 
a  quel  tempo  immacolato  di  ereticale  labe;  sciogliesse  THus 
dalFobbligo  della  personale  comparsa  in  sua  corte;  lasciasse 
libera  correre  la  divina  parola  nelle  cappelle  :  spedisse  a  loro 
spese  legati,  provveditori  a  qualunque  abuso  cbe  fosse  sorto  tra 
essi.  È  chiaro  come  quelle  cappelle  di  nobili  patronati,  edifi- 
cate pel  popolo,  rendessero  tutto  una  cosa  Hus  co'maggiorenti 
e  con  la  plebe.  Giovanni  d' Hus  lo  sentiva  bene  ;  e,  consape- 
vole della  forza  cbe  il  rincalzava,  a  sua  vece  mandò  tre  pro- 
curatori. I  quali  vennero  dal  Colonna  bruscamente  accolti  con 
una  scomunica.  Si  volsero  al  papa:  nuovi  inquisitori  tre  car- 
dioali  ;  nuove'  scomuniche  contro  Giovanni,  dichiarato  eresiarca, 
e  i  suoi  discepoli. 

La  papale  scomunica  avrebbe  potuto  raumiliare  V  animo 
deir  ardito  professore,  ma  questi,  che  era  tutto  in  sul  vedere 
le  umane  infermità  dei  pontefici  e  dei  chierici,  aveva  già  per- 
duto di  vista  la  spirituale  potestà  della  Chiesa.  Il  popolo  lo 
amava,  lo  venerava  per  la  forza  della  parola  persecutrice  dei 
tristi,  per  la  rigidezza  dei  costumi  e  pel  molto  operato  a  sal- 
vare le  ragioni  della  sua  gente  nel  fatto  della  pragense  univer- 
sità. Aggiungi  che,  avvegnaché  papa  vero  fosse  tenuto  in  Boe- 
mia Giovanni,  e  le  spirituali  folgori  paventassero  i  Boemi,  pure 
il  sapere  come  la  mano  che  le  lasciava  fosse  esercitata  in  turpi 
simonie  ed  in  cose  che  ad  onesto  uomo  sconvenivano,  mortifi- 
cava la  fede  del  popolo  e  lo  traeva  piuttosto  appresso  al  pre- 
dicatore di  Betiem ,  flagellatore  di  simoniaci,  che  appresso  a 
Giovanni,  cui  una  mala  fama  disonestava.  Per  la  qual  cosa  non 
appena  Hus  s'intese  punto  delP  anatema  papale,  che  appellò  al 
futuro  concilio:  e  quanti  fino  a  quel  tempo  lo  avevano  seguito 
[M)me  predicatore  della  divina  parola  lo  tutelarono  in  quella  che 
credevano  ingiusta  persecuzione  del  chiericato. 

Guai  se  al  gastigato  dalla  Chiesa  incominci  intorno  a  ronzare 
Taora  blandiente  del  popolo:  questa  leva  in  incendio  la  nascosta 
fiammella  della  superbia  che  tutti  rechiamo  nel  cuore;  e  da 
questo  incendio,  nella  propria,  la  perdizione  di  molti.  Cosi  av- 
venne ad  Hus. 


—  510  — 

Egli,  forse  cacciato  dallo  zelante  arcivescovo  Sbyok  prs 
gense  si  ritrasse  Della  sua  patria  e,  protetto  da  Nicdò  sigDOc 
della  terra  di  Hus,  non  teneva  più  modi  nelle  sue  predicazion 
E  messosi  in  ponto  di  martire  della  verità  a  cagione  del  gas 
sto  chericato,  con  lettere  andava  confortando  roniversità, 
popolo,  gli  amici,  a  tener  fermo  contro  il  papa,  che  incomia 
clava  a  chiamare  anticristo.  Da  quel  punto  la  superbia  di  1^ 
scpnfinò.  L' esilio ,  il  divieto  della  pa)*ola ,  la  forma  delle  sa 
epistole»  ch'era  quella  appunto  dei  primi  cristiani  pazienti  pc 
la  giustizia»  rinfocava  gli  animi  a  suo  favore  e  raffermava  qoelJ 
terribile  cosa  che  è  il  proselitismo.  Scrive  a  tutti  i  fedeli  e 
Praga,  egli  semplice  prete,  con  que'modi  onde  esortava  sai 
Paolo  i  primi  cristiani,  anzi  usa  di  quelle  parole  che  san  Paole 
indirizzò  ai  Filippesi  dal  carcere  di  Roma.  Li  esorta  alla  co- 
stanza nella  fede  e  a  non  patire  scandalo  delle  persecuzioni 
che  lo  agitavano.  Si  para  innanzi  ai  Pragensi  come  un  santo 
Stefano  e  come  Cristo  ìstesso.  Questi  dai  giudei,  egli  dalFaoli- 
cristo ,  ossia  dal  pontefice,  perseguitato  ;  e  fa  di  spegnere  nei 
loro  petti  la  fede  nella  romana  sedia  con  queste  parole  :  <  Io* 
ventarono  certe  religioni  fazionate  a  norma  delle  umane  leggi, 
per  aggiogare  i  semplici  al  proprio  talento  e  trarseli  appresso.  > 
L'università,  tutelata  da  Hus  a  petto  della  straniera  invasione  e 
deir  arcivescovo  vietante  la  lezione  dei  mali  libri ,  lo  venne  a 
trovare  neir  esilio  per  lettera  che  gV  indirizzò  il  rettore  della 
medesima.  Scrissegli  questi  parole  di  consolazione;  ricordan- 
dogli quelle  della  Bibbia:  //  giusto,  qualunqw  sia  il  sinistro, 
non  andrà  in  mestizia.  Rispondeva  Giovanni  ringraziandolo: 
«  Lui  essere  rupe  nel  tenere  la  verità;  di  nulla  contristarsi  che 
de'propri  peccati  e  del  soqquadro  delle  cristiane  cose  ;  lui  vivere 
in  Cristo,  perciò  debito  il  patire  persecuzioni  pel  nome  di  lui.  Se 
a  Cristo  ingrediente  nella  gioria  fu  conveniente  il  patire,  legge  es- 
sere per  gli  uomini  accollarsi  la  croce  e  seguirlo.  Lo  spoglio  delle 
ricchezze,  lo  sfavore  e  la  infamia  non  curare  ;  la  morte  istessa 
non  essere  che  riiroyamento  della  vera  vita.  Ma  queste  cose, 
proseguiva  Fesule  universitario ,  non  entrano  in  mente  degli 
uomini  fatti  ciechi  dal  fasto  della  fama,  delF  ambizione  e  del- 
l'avarizia: e  cerl'uni  per  la  paura,  quando  non  era  a  temere, 
disertata  la  verità ,  spogli  della  carità  e  di  ogni  virtù ,  stanno 
fra  due,  ed  è  una  meraviglia  a  vederli  poltrire.  Imperocché  da 
una  banda  la  luce  della  verità  li  tira,  dall'altra  il  timore  di  per- 
dere la  fama  e  di  esporre  il  corpo  fino  alla  morte.  Io ,  confi- 


—  SII  — 

dente  in  Gesù  Signore,  profferisco  alla  morte  questo  eorpo, 
semi  aYfaiorerà  la  soa  grazia,  che  io  non  voglio  Yi?ere  in 
questo  secolo  malvagio  ad  allro  che  per  condurre  me  stesso  e 
gii  altri  a  penitenza,  secondo  il  divino  volere.  > 

Giovanni  è  già  sni  rogo  di  Gostanza  :  egli  vuole  far  credere 
che  già  gli  splenda  su  la  fronte  Taureola  del  martirio:  e  tenen- 
dosi quasi  assiso  su  la  sede  d'  onde  si  giudicano  le  tribù 
dbraele,  dà  bestialmente  deiranticristo  al  papa.  Egli  è  sorretto 
a  quella  immaginaria  altezza  dall'  adulazione  de'  suoi  complici, 
che  lo  inebriano  delia  sua  ribellione  alla  Chiesa.  Certo  prete 
irieleffita,  già  vecchio  nella  licenziosa  eresia,  conlrallsicendo  la 
IHetosa  eloquenza  dei  veri  santi ,  cosi  scrìveva  nel  settembre 
Manno  1410  a  Giovanni,  ai  suoi  compagni  ed  uditori  :  e  Salute 
e  quanto  più  di  dolce  può  pensarsi  nelle  viscere  di  G.  Cristo 
a  Toi  carissimi ,  che  io  amo  nella  verità ,  e  non  solo  io  ,  ma 
quanti  conobbero  la  verità  che  sta  in  voi  e  starà  in  eterno  per 
la  grazia  di  Dio.  Mi  sono  consolato  nell'anima  nei  risapere  dai 
aopravenuti  fratelli  tesliflcatori  della  vostra  verità,  del  come  voi 
camminate  in  questa.  Riseppi  a  quai  distretta  di  tribolazione 
v'abbia  messo  T anticristo,  stranamente  infuriando  contro  ai 
fedeli  di  Cristo.  >  Dopo  avere  scritte  parole  di  conforto  a  tenero 
fenno  per  la  verità,  ed  a  patire  per  lei  nell'agone  a  combattere 
contro  r  anticristo,  cosi  si  volge  ad  Hus:  <  Eccomi  a  te,  o 
Hqs,  prediletto  fratello  in  Cristo,  sebbene  sconosciuto  di  per- 
sona, non  però  per  fede  e  per  amore,  poiché  non  arriva  la 
lontananza  a  separare  quelli  che  1'  amore  di  Cristo  fortemente 
affratella.  Racconfórtati  della  grazia  che  ti  é  concessa  ;  fatica  da 
buon  soldato  di  G.  Cristo;  rincalza  con  la  parola  e  con  l'esempio, 
e  la  tua  possa  fa  di  raddurre  in  via  di  verità ,  perchè  non  è 
da  seppellire  nel  silenzio,  l'evangelica  verità  a  cagione  di  frivole 
censure  e  di  folgori  anticristiane  ;  datti  a  tult'uomo  a  raffermare 
le  membra  di  Cristo  slombate  dal  diavolo:  e,  se  a  Dio  piace, 
è  bel  che  spacciato  l'anticristo.  E  per  una  sola  cosa  mi  sento 
andare  tutto  in  gioia,  ed  è,  che. nel  vostro  regno  ed  altrove 
abbia  messo  Iddio  tali  spiriti  nel  cuore  di  alcuni  da  farii  andare 
giulivi  al  carcere ,  al  bando  ed  alla  morte  per  la  parola  di 
Cristo.  >  Vedi  come  Hus  era  trasportato  non .  solo  dall'  aura 
iK)polare  nel  suo  paese,  ma  dalle  laudazioni  de'falsi  sapienti  a 
€ima  di  nuovo  apostolato.  Iddio  puniva  il  suo  orgoglio,  lasciando 
che  gittassero  le  radici  della  convinzione  nel  suo  cuore  ce|:le 
cose  che  in  altri  tempi  avrebbe  abborrite  come  errori. 


—  5«  — 

Intanto  il  popolo  fariosamente  si  sottraeva  dalia  SQggesiooe 
dei  preti  ed  agognava  ad  eguagliarsi  a  loro  nel  tremendo  mini- 
stero deiraltare.  11  prete  era  già  invilito  ai  suoi  occhi  dalle 
predicazioni  di  Hus  e  compariva  indegno  delle  sante  cose  che 
trattava.  Rincacciato  dalla  civile  compagnia ,  spoglio  di  (^ 
temporale  cosa,  non  rimanevano  che  le  spirituali  :  a  queste  die 
di  piglio  il  popolo  sollevato  da  Jacobello  di  Miss»  altro  predi- 
catore di  altra  cappella  intitolata  a  s.  Michele.  Costui,  persuaso 
da  un  Pietro  da  Dresda,  disse  necessaria  ai  laici  per  la  eterna 
salute  la  Eucaristia  sotto  la  doppia  specie.  Lo  predicò  al  popolo: 
e  gli  ussiti ,  che  erano  sempre  in  sul  guardare  in  cagnesco 
alle  cose  dei  preti,  trovarono  buona  la  dottrina  di  Jacobello  e 
Tafferrarono  come  nuovo  documento  delle  presbiterali  usurpa- 
zioni —  perchè  solo  i  preti  possono  bere  il  calice  del  SignoreT  . 
anche  noi  possiamo  e  dobbiamo.  —  Bastò  questo,  perchè  il 
calice  divenisse  un  simbolo  di  un  conquistato  diritto  e  fosse 
insegna  di  gravissime  guerre  di  religione.  La  sete  del  sangue  del 
Signore  in  Boemia  era  segnale  di  altra  sete  che  incominciavano 
a  sentire,  con  gravissimo  danno  della  buona  morale,  i  popoli 
nel  secolo  XV. 

Sbynk  arcivescovo  di  Praga,  andato  in  Ungheria  a  chie- 
dere consigli  e  provvidenze  al  re  Sigismondo ,  se  ne  mori 
neiranno  1412  con  molto  danno  della  Chiesa  di  Boemia.  Gli 
successe  disgraziatamente  un  certo  Corrado ,  che  pareva  fatto 
d'un  getto  col  suo  re  Venceslao.  Tutto  materia  ;  di  spirito  non 
avea  che  tanto  quanto  bastasse  a  muovergli  le  membra,  fatte 
pigre  dagli  smodati  mangiari  e  dallo  stravizzare  alla  dirotta. 
L'epa  era  il  suo  Iddio:  del  gregge  non  voleva  né  poteva  curare. 
Le  chiavi  del  granaio  e  del  celialo  sempre  alla  cintola,  simbolo 
dell'unica  cosa  che  curasse  al  mondo.  Sempre  con  una  vecchia 
cucìniera,  che  lo  teneva  contento.  Tesorizzava  regali;  vendevali: 
e  le  pastorali  tonsure  delle  sue  pecorelle  erano  cosi  presso 
alla  cute  che  queste  ne  sanguinavano.  Ora  pensi  il  lettore  che 
bel  vento  gonfiasse  le  vele  alla  eresia  degli  ussiti  sotto  questo 
beatissimo  arcivescovo. 

Ed  era  da  paventare;  poiché  il  popolo  di  Boemia  era  stato 
già  messo  per  la  via  delle  novità ,  avendogli  il  predicatore  di 
Betlem  scaldala  la  febbre  di  quelli  che  credeva  bisogni,  con  le 
blandizie  di  una  libertà  insuperabile  senza  la  concussione  del 
dogma,  e  di  una  ristorata  povertà  inconseguibile  da  chi  volesse 
rimaner  cattolico  e  perciò  ossequente  airantica  disciplina  della 


—  313  — 

Chiesa  romana.  Wicleff  lo  aveva  levato  al  gìiuìizio  dei  suoi  spi- 
rìtaali  pastori  e  gli  aveva  messa  nelle  mani  la  Bibbia  da  Ini 
volgarizzata  e  commentata,  quasi  codice  di  nuove  leggi.  Il  po- 
polo era  diveDoto  filosofo.  La  verità  che  doveva  da  lui  sentirsi 
ed  esprimersi  col  verbo,  della  tradizione  ed  i  colori  della  co- 
scienza, h  da  lui  pensata  con  selvaggio  intelletto,  pronunciati! 
con  ferocia  d'intempestivi  parlari;  e  ciò  che  i  professori  dialet- 
ticamente facevano  nelle  università,  il  popolo  manescamente  si 
accingeva  a  fare  per  le  vie.  In  mezzo  a  questo  popolo,  gover- 
nato nelle  cose  dello  spinto  da  quel  Corrado ,  tornò  Giovanni 
dlliis. 

Le  sue  epistole  avevano  ognor  più  infocato  Panimo  de'suoi 
lettori:  ta  sua  parola  erasi  ritemperata  di  nuova  forza  nelPesi* 
Ihk  Quando  eccoti  arrivar  bolla  di  Giovanni  XXIll,  con  cui  questi 
biDdiva  la  crociata  contro  Ladislao,  invasore  dei  beni  della 
Cbiesa.  Hos  declamatore  contro  le  clericali:  intemperanze,  grosso 
per  la  toccata  scomunica,  si  leva  furibondo  contro  il  pontefice; 
sforza  Parca  degli  spirituali  tesori  delfa  Chiesa,  a  guardia  della 
quale  vegliava  la  fede  di  molti  secoli,  e,  gittate  peUrivIi  le  sante 
ioddlgenze  innanzi  al  popolo,  le  deride  e  le  danna,  quasi  tro- 
vato di  presbiterale  avarizia.  Tennegli  fronte  in  pubblica  que- 
stioDe  il  decano  della  facoltà  teologica  Stefano  Paletz,  il  quale, 
avvisato  ben  per  tempo  della  pessima  via  per  cui  rovinava  Hus, 
ad  ora  ad  ora  gli  si  parava  innanzi  affrontandolo  con  lo  parole^ 
e  con  le  scritture.  Nel  fatto  della  bolla  di  Giovanni  contro  La- 
dislao Tenne  all'aperto  a  difendere  la  Chiesa.  Ma  tlus,  innanzi 
ailiroD tarlo,  si  ricopre  come  di  scudo  di  questa  protesta:  e  Esser 
Idi  condotto  in  quel  negozio  (cioè  della  crociata)  dair  onor  di 
Dio,  dal  migliore  della  madre  Chiesa,  dalla  propria  coscienza.  • 
Perciò  alle  cose  che  era  per  dire  premetteva  una  invocazione  a 
Dio  onnipotente ,  testimone  della  sua  coscienza.  Cosi,  tutto  in 
braccio  a  questa  sua  coscienza  o  spirito  privato,  con  selvaggia 
dialettica ,  ma  nudricata  di  molta  erudizione,  toglie  al  papa  ed 
ai  cherìci  il  diritto  di  guerreggiare.  S.  Bernardo  sembra  a  lui 
ebe  lo  sorregga;  ma  questi,  che  appare  concorde  alPeretico  nella 
riprovazione  dell'abuso,  discorda  col  medesimo  nella  tem|»(3ranza 
della  riforma.  Hus  spoglia  il  papa  di  ogni  forza  coercitiva;  gli 
toglie  la  spada  materiale,  gli  lascia  quella  dello  spirito.  Ma  qual 
éioai  questa  spada?  Preghiere,  esortazioni,  passiva  rassegnazione 
fino  alla  mort^.  t  Vuole  il  papa  vincere  i  suoi  nemici?  Guardi 
)  Cristo,  di  cai  si  dice  vicario;  preghi  pei  nemici  e  per  la  Cbiesa, 

Tamb.  InquU.  Voi.  II.  40 


~  su  — 
6  dica  —  Il  mio  regno  non  è  di  questo^ mondo.  —  Guai  al 
civiltà  dei  popoli  se  i  papi  avessero  seguito  questo  consiglio 
petto  delle  laicali  prepotenze.  Giovanni  d'Hus,  tocco  dalla  ma! 
vista  degli  abusi,  rifuggiva  nell'assoluto  dei  canoni  che  governar 
la  morale  cattolica;  ma  Tintende  assai  male  e  non  pensa  con 
quelli  in  parte  siano  pieghevoli  nello  svolgimento  delle  fon 
del  morale  individuo,  che  è  la  Chiesa. 

In  mano  di  colui  che  può  costringere  sono  due  forze:  quel 
della  minaccia  di  un  male  e  della  promessa  di  un  bene.  Tol 
le  armi  ^ila  minaccia,  toglie  Giovanni  i  beni  alle  promesse;  pe 
che  il  papa  non  ha  per  lui  cosa  a  tutelare  su  questa  terra.  E( 
vede  le  sante  indulgenze  nel  vizio  di  chi  le  conferiva,  e  le  neg 
e  con  una  logica  che  prendeva  le  mosse  dal  fatto  dei  commi 
sari  di  papa  Giovanni,  dispensatori  di  perdoni  e  di  indulgenz 
guasta  e  sovverte  tutta  la  economia  del  potere  presbiterale  sul 
coscienze  intorno  alla  remissione  della  colpa  e  della  pena.  Qui 
sta  discussione,  fatta  nella  frequenza  delia  scuola  universitari 
alla  presenza  di  un  popolo  già  maturo  alle  novità,  non  potè 
sorreggersi  cop  eguaglianza  di  ragione  a  fronte  delia  dialetti 
del  Paletz.  Hus  logicava  incarnando  la  parola  con  la  veleno: 
convinzione  degli  abusi,  Paletz  coi  documenti  della  tradizion 
Ma  la  tradizione  vive  dell'eco  della  credenza.  Quando  questa 
cacciata  dalle  coscienze,  quello  è  suono  che  muore  sulle  labb 
della  generazione  che  ci  precede.  Il  popolo  di  Praga,  che  avrebl 
dovuto  impennare  al  solo  tocco  delle  avite  tradizioni  sovvers 
non  richiamò,  applaudi,  tumultuò,  gridò  papa  Giovanni  ani 
cristo.  A  Giovanni  la  plebea  ingiuria:  ma  a  tutto  il  papato  l'ir 
condo  sacrilegio.  Si  mosse  il  maestro  a  raffrenare  l'irreligio 
licenza,  imprigionando  i  più  caldi  sediziosi.  Furiò  la  plebe,  chie 
•la  loro  liberazione;  promessagli,  ristette.  Ma  non  appena  s'avvic 
dal  sangue  che  colava  da  certo  luogo  detto  il  pretorio,  che  gl'in 
prigionati  erano  stati  messi  a  morte,  die  di  piglio  alle  armi 
con  la  forza  ricuperò  i  cadaveri  degU  uccisi.  Andò  con  religio 
riverenza  a  seppellirli,  quasi  martiri  della  verilà,  nella  cappel 
di  Betlem.  Cosi  la  parola  di  Hus  predicata  in  quel  luogo  tris! 
mente  individuò  tutta  una  gente  in  mezzo  alla  grande  comp 
gnia  della  Chiesa;  poiché  ogni  personalità  non  si  ediQca  che 
sangue  e  di  parola. 

Fallita  la  forza  materiale ,  tentò  il  maestrato  quella  del 
persuasione.  Non  lutti  i  professori  dell'università  tenevano  p' 
Hus.  Commisero  ai  restati  fedeli  l'accorrere  contro  alPauJac 


—  515- 

d^i  ossiti.  Si  radanaroDO  e  ceDsararono  goarantacinque  prò- 
posizioDi  di  Widefl;  stando  in  queste  tutta  la  radice  dei  pre- 
senti mali.  Rafforzarono  la  lor  censura  di  una  prefazione,  nella 
qoale  a  fronte  alta  confessarono  Tantorità  dei  papa,  dei  cardi- 
nali  e  delia  romana  Chiesa  ;  dettero  del  fellone  ai  segnaci  di 
Hns.  Freno  impotente  per  il  popolo  che  ciecamente  correva  al 
predpizio. 

Allo  strepito  di  queste  novità  levossi  il  Gerson  a  guardare 
in  che  mare  fortunasse  la  insidiata  Chiesa  di  Boemia.  Scrisse 
lettere  a  svegliare  il  poltrente  arcivescovo  di  Praga ,  a  di  27 
marzo  del  1413.  Moniti,  conforti,  preghiere,  tutto  pone  in  opera 
io  scandalizzato  cancelliere  a  tenere  in  piedi  e  vegliante  Cor- 
rado a  fronte  delta  tempesta  ereticale.  11  Gerson  ammoniva,  e 
non  si  avvedeva  che  le  novità  ussite  erano  pestilenti  germogli 
che  prorompevano  dalla  mala  pianta  di  queir  analisi  eh'  egli 
aveva  elaborata  dì  cosa  chepon  si  scompone,  dico  dello  spiri- 
tuale potere.  Germogli  indeterminabili  nel  loro  numero  e  nella 
loro  gravezza.  Infatti,  maledette  e  derise  le  indulgenze,  non  fu 
più  dogma  di  quei  riformatori  rispettato.  Nello  stesso  anno  Gi- 
rolamo di  Praga  entrò  nella  chiesa  di  Santa  Maria  ad  Nives, 
trasse  dagli  altari  le  sante  reliquie ,  le  calpestò,  gridando  fine 
alla  superstizione.  Die  di  piglio  ad  un  predicatore  carmelitano 
e  ad  altri  due  frati ,  e  li  tradusse  prigioni  innanzi  alla  balia 
della  città,  a  dannarsi  al  carcere  come  impostori.  Né  contento 
a  questo,  precipitò  nella  Moldava  il  povero  carmelitano,  che 
poi  ne  usci  salvo  quasi  per  prodigio,  come  lezzo  di  via.  Il  po- 
polo vedeva  e  sghignazzava.  Cosi  frati ,  indulgenze  ,  culto  dei 
santi,  e  quanto  aveva  fino  a  quel  tempo  santificato  il  cristia- 
nesimo nello  svolgersi  delle  sue  forme  nella  coscienza  degli 
uomini,  era  in  un  fascio  trasportato  e  disperso  dall'ansia  di  un 
popolo  che,  traviato  da  uomini  prevaricatori ,  sospirava  ad  in* 
certo  avvenire. 

Ma  prima  di  ascendere  al  principio  che  doveva  osteggiare 
quelli  che  chiamava  errori  delle  antiche  tradizioni,  Hus  lo  trasse 
a  campeggiare  nella  materia  di  sci  fatti ,  che  espresso  con  la 
SQccinta  veste' dell'assioma.  1.  Che  sacerdoti  ignoranti,  magni- 
ficando sé  stessi  per  V  offertorio ,  seducono  il  popolo,  dicendo 
che  ogni  sacerdote  celebrando  messa  (mi8$ando)  crei  il  corpo 
di  Cristo  e  divenga  padre  e  creatore  del  suo  Creatore.  11.  Che 
si  aflèrmi  doversi  credere  nella  b.  Vergine  o  nel  papa  o  nei 
santi,  mentre  a  Dio  solo  abbia  a  prestarsi  fede.  III.  Che  i  sa- 


—  816  — 

cerdoU  coi  meglio  loro  aggrada  possono  ricnettere  i  peccati 
sciogliere  dalla  pena  e  dalla  colpa.  lY.  Che  debbano  i  soggsl 
obbedire  ai  propri  superiori  in  ogni  cosa  lecita  o  illecita  d 
sia.  V.  Che  ogni  scomunica,  giusta  o  ingiusta  che  sia,  leghi! 
scomunicato ,  gli  rechi  nocumento  e  lo  sequestri  dalla  comi 
iiidne  dei  fedeli  e  lo  privi  dei  sacramenti  della  Chiesa.  VI.  U0 
rore  della  simoniaca  eresia,  che  la  maggior  parte  del  clero  ta 
sozzava.  A  questi  sei  fatti,  pensati  alla  sua  maniera ,  nei  qna 
veniva  V  errore  dalla  ignoranza  0  malizia  degli  uomini  e  m 
dalla  santità  del  principio  cattolico ,  pose  appresso  sei  capite 
che  brevemente  dimostravano  la  deformità  di  quegli  errori, 
feceli  scrivere  sulle  pareti  della  cappella  di  Betlem ,  perchè 
popolo  li  avesse  sempre  sotto  gli  occhi  del  cbrpo,  e  non  isfo 
gissero  da  quelli  della  mente. 

Mentre  il  popolo  leggeva  e  meditava  alla  sua  maniera  qc 
ste  lucubrazioni  paritarie,  Giovanni  edificava  le  nuove  teorie 
della  chiesa  di  Cristo.  Tratta,  per  otto  capi,  della  natura  de 
vera  Chiesa  e  dei  membri  di  coi  si  compone.  Era  questa  i 
formata  ai  suoi  tempi  dì  umane  corruttele  che  davano  ai  eh 
rici  una  mala  vista.  IIus  abborriva  da  queste:  e  come  Gersc 
abbominante  lo  scisma,  entrò  contro  ogni  diritto  difflnitc 
del  potere  della  Chiesa  ;  cosi  egli,  abborrente  dalla  malizia  ( 
costumi,  entrò  difflnitore  della  natura  de'membri  della  Chiei 
e  quindi  della  Chiesa  medesima.  Presupposta  V  idea  cattoli 
della  Chiesa,  Gerson  difilato  va  al  potere  che  la  governa.  Hi 
non  presupponendo  cosa  già  ricevuta  dalla  tradizione ,  ine 
mincia  dal  difflnire  la  Chiesa.  Come  morale  individuo  colk 
tivo,  egli  va  dapprima  alla  coscienza  delle  parti  per  ascende 
sinteticamente  alla  composizione  del  tutto.  Rifuggiva  da 
umana  imperfezione ,  ma  non  sa  temperare  la  foga  del  gia< 
zio:  e  anzi  che  posare  nell'idea  operante,  perfezionatrìce,  e 
è  appunto  quella  della  Chiesa  cattolica,  si  arrocca  in  quella 
una  perfezione  già  operata,  inconcepibile  su  questa  terra,  e' 
è  quella  di  una  Chiesa  già  consistente  nello  scopo  che  ha  ra 
giunto.  Per  la  quale  cosa  non  è  la  fede  professata  con  le  opei 
Tuso  dei  sacramenti,  segni  e  veicoli  della  divina  grazia,  la  so 
gezione  al  potere  visibile ,  vale  a  dire  V  umano  individuo,  ci 
svolge  la  razionale  sua  azione  nella  virtù  della  fede,  della  s( 
ranza  e  della  carità  ed  il  divino  individuo  che  lo  perfezioi 
coi  benefizi!  della  redenzione;  ma  è  Tumanilà  già  perfezionai 
solingamente  contemplata  da  Dio  .nelFeconomia  della  sua  pe 


—  «7  — 

la  Chiea  di  Bus.  ìanAti  nel  misteio  delh  predestin»- 
90De  a  Dio  solo  risibile,  è  irreperìbile  dali* oooio,  die  la  n 
teroodo  tra  le  tenebre  delTimperfetto,  maestra  della  sua  igoo- 
nm,  coratrìce  delle  sae  inlennità. 

QoeUa  che  suscitò  Giovanni  d'Hos  nella  Boemia  fu  conqui* 
sUtrìoe.  Awrébbe  Teramente  dorato  essere  conserratrìce,  poiché 
«^  sconciò  il  popolo  in  quelli  che  ho  chiamati  bisogni  di  cre- 
denza, manomettendo  la  religione  degli  avi  suoi.  Non  isve- 
(liò  il  popolo,  quasi  a  soprassalto,  con  la  voce  del  sacrilegio:  ma 
Kdainenle  con  quella  della  riforma  e  della  sua  emancipazione 
dilla  troppo  proceduta  potenza  cherìcale.  Per  la  qual  cosa  quando 
il  popolo  a  avvide  dello  scempio  fatto  dal  predicatore  di  Betlem 
delle  avite  credenze,  era  già  desto  operante  per  la  mozione  de- 
fi^  ostacoli  a'suoi  voluti  vantaggi,  ostacoli  che  Hus  aveva  saputo 
ri?estìre  con  la  cappa  pontificale.  E  perciò  quando  egli  rovesciò 
questi,  rovesciò  anche  il  papato  ;  e  lungi  dalPavventar^i  ad  Hus 
profanatore  della  sua  religione,  rìconobbe  come  opera  delle  mani 
proprie  ed  approvò  questa  che  non  era  più  secondo  lui  profa- 
fiaxione,  ma  sostituzione  della  verità  alFerrore,  della  giustizia 
all'iniquità  ;  anzi  Hus  fu  il  suo  apostolo. 

Per  la  qual  cosa  Hus  coi  Boemi  (e  nel  dir  questo  io  dico 
di  tutti  i  popoli  che  già  sentivano  la  potenza  ad  urtare  la  vec- 
chia idea  religiosa,  come  se  fosse  sostenitrice  degli  ostacoli  al 
$00  morale  immegliamento)  da  una  parte,  tutto  il  medio-evo 
dall'altra,  stettero  a  fronte  minacciosi  e  parati  a  battaglia.  Quelli 
provocsitori,  perchè  novatori  ;  questo  difendentesi,  perchè  con- 
servatore. Ma  terribile,  inclemente  la  difesa,  perchè  guerra  di 
religione  ;  nella  quale  non  entravano  battaglieri  due  soli  popoli, 
ma  due  grandi  elementi  nelle  viscere  del  cristianesimo,  cioè  il 
dogmatismo  del  passato  ed  il  razionalismo  dell'avvenire.  Lettore, 
pensa  che  questi  due  non  sono  uomini,  ma  principii  :  perciò 
^  quando  vedrai  tra  le  fiamme  ardere  e  fortemente  morire  Gio- 
'  yanni  d'Huà  e  Girolamo  da  Praga,  non  ti  volgere  intorno   a 
maledire  gli  uomini  che  edificarono  i  micidiali  roghi,  ma  leva 
in  alto  la  mente  contemplatrice  di  que'principii.  Non    volarli 
giodicare  ;  perchè  Iddio  nel  proprio  pensiero,  ove  li  vede,  chiuse 
il  codice  di  ogni  umano  diritto. 

Una  mala  fama  si  era  sparsa  delle  cose  di  Boemia ,  la  re- 
ligiooe  pativa,  il  principato  temeva.  Supremi  giudizi!  si  volevano 
da  papa  Giovanni  e  da  Sigismondo  ad  arrestare  la  infellonita 
^mia  ed  a  troncare  il  capo  alla  eresìa  con  la  condanna  di 


—  518  — 

Hus.  Esortava  Sigismondo  i  maggiorenti  Boemi  a  condarre  ii 
Gostanza  Hus,  perchè  al  cospetto  dell'  oniversale  sinodo  par 
gasse  sé  e  la  sua  gente  della  brutta  voce  che  correva  di  eresia 
Le  esortazioni  affortiflcò  con  un  salvocondotto,  pel  quale  fos» 
favorito  di  ogni  maniera  di  buoni  uffici,  ovunque  desse,  andando 
a  Costanza.  Reco  in  volgare  questo  famoso  documento,  su 
quale  i  protestanti  piantarono  le  loro  accuse  contro  i  padr 
costanziensi  dannatoli  delF  Hus.  <  Sigismondo,  per  grazia  di  Die 
re  dei  Romani,  sempre  augusto,  re  di  Ungheria  ec.  a  tutti  ( 
singoli  principi,  cherici  e  laici,  duchi,  marchesi  ec,  capitani, 
podestà,  governatori,  ec.  e  comuni,  e  a  tutti  i  fedeli  sudditi  del 
sacro  nostro  impero,  in  man  de'quali  saranno  per  venire  le  pre* 
senti  lettere,  col  regio  favore  ogni  sorta  di  beni. 

e  Venerabili,  illustri,  nobili  e  fedeli  amici,  con  tutta  Tanima 
raccomandiamo  a  voi  tutti  ed  a  ciascuno  in  particolare  Y  ono 
revole  maestro  Giovanni  d'Hus,  baceliiere  e  maestro  delie  arti, 
recatore  della  presente  lettera,  il  quale  è  in  sul  muovere  dal 
reame  di  Boemia  al  generale  concilio  da  celebrarsi  nella  città 
di  Gostanza,  il  quale  noi  abbiamo  tolto  sotto  la  protezione  e 
tutela  del  sacro  impero.  Essendo  nostro  desiderio  che  nel  giun- 
gere che  farà  appo  voi,  gli  facciate  cortesi  accoglienze,  usiate 
favorevolmente  con  lui,  e  che  vogliate  e  dobbiate  andargli  in- 
contro in  tutto  che  faccia  mestieri  alla  sicurezza  e  celerità  del 
suo  viaggio  0  per  terra  o  per  acqua,  e  che  senza  pagamento 
di  tributo,  di  gabella  e  di  qualunque  altro  gravame,  e  sciolto 
d'ogni  indugio,  lasciate  a  luì  coi  suoi  servi,  cavalli  e  masseri- 
zie, l'andare,  lo  stare,  il  dimorare  e  il  tornare  alla  libera  per 
tutti  i  passi;  per  porti,  ponti,  terre,  feudi,  balìe,  città,  borghi, 
castelli  e  in  tutti  i  vostri  territorii  ;  volendo  e  dovendo  prov- 
veder lui  ed  i  suoi,  abbisognandone,  di  salvocondotlo,  ad  onore 
e  reverenza  della  nostra  maestà.  >  Dalle  quali  parole  è  chiaro 
la  regia  scrìtta  mirare  solo  alla  incolumità  di  Giovanni  nel 
viaggio  e  favorirglielo,  non  toccare  i  casi  del  giudizio  cui  an- 
dava a  som  mettersi. 

Giovanni  d'Hus  era  divenuto  novatore  nelle  cose  di  reli- 
gione, la  gente  boema  seguivalo  ;  e  ricordi  il  lettore  come  quegli 
alle  novità  prorompesse,  e  questa  a  luì  aderisse  dapprima  per 
ristorate  ragioni  dì  quella  gente  nelle  università.  Perciò  Hus  era 
Tuomo  della  nazione  ;  a  Ini  volti  gli  occhi  di  tutte,  per  lui  le 
dubbiezze  degli  eventi  costanziensi,  per  lui  le  provvidenze  a 
cessare  la  possibile  nimicizia  de'medesimi.  La  taccia  dì  eresia 


—  319  — 

apposta  alla  Boaua  per  le  DOTìia  ussite  comaio?eva  gli  spiriti 

éi  queUa  geote,  e  il  mantenersi  nella  fama  di  buoni  cattolici 

era  nn  d^derio  che  egnagliaTa  quello  di  tenersi  veri  boemi. 

Re  Venceslao,  sempre  avvinazzato»  non  voleva  sapere  di  queste 

cose:  il  popolo  le  caldeggiava,  favorivanle  i  magnati,  le  avver- 

safa  il  clero.  Ha  Tarcivescovo  Corrado,  poltrente  nei  piaceri 

della  mensa,  accalappiato  dalle  blandizie  della  pecunia,  schiuse 

l'uscio  dell'ovile  ai  lupi,  che  avrebbe  dovuto  con  la  vita  difen* 

dere.  Per  la  qual  cosa  Giovanni,  innanzi  muovere  per  Costanza, 

àenramente  provvedeva  alle  cose  sue  e  largamente  attingeva 

faiTorì  della  pubblica  opinione. 

Fece  afiSggere  in  tutti  i  pubblici  luoghi  della  città  di  Praga 
ed  all'uscio  della  reggia  una  sua  scritta  che  recava:  —  Nella 
^  prossima  assemblea  dei  prelati  del  rame  da  tenersi  nel  palazzo 
^  arcivescovile,  profferirsi,  a  chiunque  avesse  voluto  appuntarlo  di 
ereticale  errore,  a  purgarsene;  trovato  innocente,  provocare  su 
gli  accusatori  la  pena  del  taglione;  essere  parato  a  far  lo  stesso 
nel  concilio  di  Costanza.  —  Chiese  ed  ottenne  dal  vescovo  di 
Nazaret,  inquisitore  della  eretica  pravità,  favorevole  giudizio 
della  sua  dottrina,  messo  in  iscritto  e  raiTermato  da  istrumento 
di  pubblico  notaio.  Radunati  poi  a  parlamento  i  maggiorenti  di 
Boemia  con  Tarcivescovo  Corrado  a  deliberar  dei  negozii  del 
roame,  Giovanni  si  presentò  loro,  supplicandoli  che  ove  quel 
prelato  lo  sapesse  infetto  di  alcun  errore  glielo  dicesse,  o  dar- 
gli via  a  scolparsi;  ove  no,  attestasse  della  sua  innocenza  con 
una  scritta,  che  presenterebbe  al  concilio  a  propria  tutela.  Ot- 
tenoe  tutto  e  dai  maggiorenti  e  dall' arcivescovo.  Non  còsi  gli 
andò  il  negozio  nel  sinodo  chericale:  né  lui  né  il  suo  procura- 
tore Giovanni  di  Jessinetz  vollero  accogliere  i  preti.  Della  ri- 
polsa  richiamò  Giovanni;  ed  i  richiami  faceva  per  man  di  no- 
taio consegnare  a  pubblico  istrumento.  Adunque  IIus  favorito 
della  scritta  dell'arcivescovo  e  dell'inquisitore,  che  lo  dicevano 
purissimo  di  ogni  errore,  mosse  per  Costanza.  Tenga  fissa  la 
mente  il  lettore  a  questo  fatto;  cioè  che  Giovanni  andava  al  con- 
cilio non  con  la  docile  pieghevolezza  di  un  fedele,  ma  con  Tardi- 
tneoto  di  un  filosofo,  che  muoveva  a  sfidare  con  la  ragione  in 
solenne  parlamento  le  tradizioni  di  molli  secoli. 

Andavasene  Giovanni,  fidentissimo  nel  numero  de'proseliti 
che  lasciava  in  Boemia,  e  nella  forza  della  sua  parola:  ma  una 
locagli  tuonò  alle  spalle  vere  e  terribili  sentenze,  le  quali  avreb- 
bero dovuto  arrestarlo  e  fargli  pensare  come  dirupasse  in  una 


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mala  via  e  si  traesse  tutto  un  popolo  io  perdUone.  Io  é» 
delle  belle  e  quasi  profetiche  parole  che  gli  indirizzò  Stebao 
di  Paletz,  le  quali,  come  farebbero  bene  per  molti  altri,  io  yp- 
glio  recare  in  volgare:  <  Guardati,  o  maestro,  e  cura  a  tutf  noma 
che  tu  con  i  tuoi  contubernali  e  felloni  alla  santa  obbediema 
e  camminanti  su  le  nugole  non  abbi  all'  impensata  a  dar  per 
terra.  Perciò  io  bo  messo  innanzi  le  parole  di  Osea  —  Guai  a 
coloro  che  mi  disertarono,  perchè  verranno  inabissati.  —  Vedi 
come  e  quanto  tu  abbi  a  tremare  dallo  spavento  mentre  queste 
parole  apertamente  ti  minacciano.  Stoltamente  e  da  contumace 
ti  se' tolto  dall'obbedienza  della  santa  e  cattolica  Chiesa,  conio 
scandalo  e  pericolo  di  molti;  fatto  segno  alle  sentenze  di  molte 
chiese,  massime  dal  sommo  pontefice,  vicario  di  Cristo;  pub- 
blicamente scomunicato,  ti  scrolli  dall'  animo  il  timore  di  Dio 
e  neppur  senti  la  punta  dell'ecclesiastica  censura.  Soffocato 
ogni  grido  di  buona  coscienza,  con  audace  e  diabolica  presQn* 
zione  osi  intruderti  nel  ministero  della  divina  parola  su  la  cat- 
tedra della  tua  superbia  e,  quel  che  è  peggio,  nel  divino  uflS- 
cio  delle  messe  ;  ed  a  simiglianza  del  re  Saule  tenendo  fronte 
a  Dio,  non  immolare  vittime,  né  iscellerarti  le  mani  d'indoh- 
tria.  Che  se  dirai  —  non  ho  io  peccato  —  dimmi,  a  qual  giogo 
di  ecclesiastica  disciplina  ed  a  qual  prelato  tu  soggiaci,  perchè 
non  compari  ad  un  tempo  e  attore  di  cause  e  giudice?  Tu  giu- 
dice, tu  padre,  tu  testimone.  Il  proprio  diocesano  con  gliordi- 
narii  suoi  utBziaii  sprezzi  e  tieni  per  nulla,  anzi  pubblicamente 
vai  predicando  essere  il  pontefice  sommo  un'abbominazione,  un 
anticristo;  e  con  prodigio  di  superbia,  più  superbo  di  Datan  e 
Abiron,  tu  cacci  sotto  i  piedi  ogni  santo  suo  decreto,  l'auto- 
rità sua,  il  suo  uflBcio.  Ecco  come  non  v'abbia  più  giogo  che 
ti  prema  ;  tu  solo  signore,  tu  solo  altissimo.  Laonde  con  im- 
pudente audacia,  non  ovunque,  ma  là^solo  vai  dirizzandola 
cattedra  del  tuo  magistero  contro  la  santa  romana  Chiesa,  OTe 
è  più  denso  il  favore  de'  tuoi  e  della  plebe,  ove  più  mani- 
festo il  patrocinio  della  laicale  balia.  »  E  dopo  avergli  rin- 
facciato il  come  con  pubbliche  e  private  dicerie  avesse  recato 
poco  meno  che  su  gli  altari  Wicleff,  salutato  da  lui  cima  di  fedele 
e  di  dottore,  ed  aver  seminato  la  zizzania  tra  i  figli  di  Cristo 
per  raccorrò  messe  di  infame  gloria,  cosilo  stringe:  <  Ripensa 
ora,  ripensa  nell'animo  tuo  qual  torrente  di  mali  hai  scatenato 
da  quel  dì  in  cui  cominciasti  ad  infellonire  ed  a  patrocinare 
r  eretico  Wicleff.  Vedi  quale  tribolazione  levasti  contro  al  tuo 


Ir 

i- 


Aocesano  arciTes£OTo  SwiocoDe,  col  quale  fioo  alla  morte  rical- 
dtrando,  ti  sei  fenolo  ribelle.  Vedi  a  che  rovina  e  conquasso 
hai  trascinato  i  cherìci;  chi  percosso  e  sacche^ato^  chi  dalle 
proprie  chiese  bandito,  STìlIaneggiato  ;  altri  pezzati  a  furia  di 
plebe,  altri  ancora  esoli  e  raminghi,  altri,  da  tenerissimi  amici 
che  erano,  fatti  Ton  faitro  nemici.  Era  qoesto  che  si  asix'tlava 
da  00  predicatore  della  divina  parola?  » 

Addi  IS  di  ottobre  dell'anno  1414,  associato  a  duo  nobili 
e  potenti  boemi,  Yenceslao  de  Dnba  e  Giovanni  de  China)  « 
lasciava  Praga.  Si  fece  precorrere  da  lettere  indìritte  allo  cillà 
per  coi  era  per  andare ,  le  quali  recavano  :  <  Lui  andare  a 
Costanza  :  v^  andasse  anche  chiunque  voleva  accagionarlo  di 
errore  e  di  eresia,  e  si  preparasse  a  farlo  in  pieno  concìlio: 
lui  essere  paratissimo  a  dare  ragione  a  tutti  della  sua  fede.  » 
Vagava  foori  del  tribunale  della  Chiesa  il  superbo  professore 
e  non  chiedeva  il  giudizio  dell*  episcopale  maestrato  >  librato 
o^r  inaccessibili  penetrali  della  fede,  ma  quello  del  popolo, 
corruttibile  dai  lenocinli  delia  sua  dottrina  e  dalle  sembianze 
di  novatore  che  sempre  seducono.  Infatti  una  strepitosa  fama 
gli  andava  innanzi,  che  in  Leida,  Sultzbach^  LaufT,  concitava  in 
tatti  il  desiderio  di  vederlo,  di  parlargli,  di  ospitarlo.  Non  era 
solo  il  salvocondotto  di  Sigismondo  che  confortava  alle  orrevoli 
accoglienze ,  ma  anche  il  sapere  che  il  vegnente  ospite  ern  il 
predicatore  dì  Betlem,  il  riformatore  della  Chiesa.  Ma  special- 
mente iq  Norimberga  fu  tale  e  tanto  T  accorrergli  incontro  di 
tolto  il  popolo,  che  quelle  parevano  accoglienze  degno  di  un 
trionfatore.  Anche  i  preti  festeggiavano  la  venula  di  Hus;  e 
richiestolo  di  un  secreto  colloquio,  rispose:  —  Lui  amare  in 
poUbHci  parlamenti  manifestare  la  sua  sentenza  ;  abborrire  dal 
segreto.  —  E  stette  ragionando  fino  a  notte  ben  proceduta  coi 
preti  ed  i  senatori  di  Norimberga. 

Giunse  Hus  in  Costanza  nel  terzo  di  di  novembre.  T.icito 
nngresso,  modesto  T  ospizio:  andò  a  stare  in  casa  di  una 
buona  matrona,  Fida  di  nome ,  nella  contrada  S.  Gallo.  Come 
fa  il  di  appresso,  Giovanni  di  Chium  ed  Errico  Lutzemberg  si 
presentarono  a  papa  Giovanni  notificandogli  l'arrivo  in  Costanza 
di  Hus  e  come  lo  avessero  menato  al  concilio  commosso  alla 
pQU)ljca  fede  per  imperiale  salvocondotto  ;  prega vanlo  volesse  |ier 
amore  del  re  de'  Romani  lasciarlo  stare  in  Costanza  incoluiDc 
d'ogni  pericolo.  Rispondeva  il  pontefice:  <  Avvegnaché  fratri- 
cida Hus,  non  permetterebbe  per  quanto  era  in  lui  gli  venisse 

Tamb.  Inquis.  Voi.  II.  41 


-  5«  — 

nocumento  di  sorta  dimorando  in  Costanza.  »  E1  in  veroi 
Boemi  per  molti  di  non  ebbero  a  lamentare  fallo  nelle  papali 
promesse.  Anzi  il  papa  sciolse  Hus  dal  vincolo  della  scomuoiA 
lo  licenziò  a  muovere  per  la  citlà  a  suo  talento  :  solo  gli  vietò 
l'accesso  alle  messe  solenni,  per  tema  di  qualche  coramoziooe 
tli  popolo,  ed  il  predicare,  perchè  non  fosse  scandalo.  Ed  Hus 
voleva  predicare;  avendo  in  serbo  due  sermoni,  Tuno  dei  quali 
era  una  specie  di  confessione  della  sua  fede,  Faltro  toccava  la 
necessità  della  unione  e  della  pace  della  Chiesa. 

Sigismondo  ad  un  tempo  scioglieva  la  libertà  del  concilio 
nella  inquisizione  dell'eresia  e  confermava  il  sahrocondotto  già 
dato  a  Giovanni  d'Hus  e  da  darsi  agli  oratori  dei  due  antipapi. 
E  qui  sorge  la  famosa  questione  intorno  alla  prigionia  di  Has, 
che  sembra  irreconciliabile  con  la  pubblica  fede,  avendo  vigore 
il  cesareo  salvocondolto.  Cattolici  da  una  banda ,  prolestaoli 
dall'altra,  molto  lungamente  han  combattuto,  quelli  a  purgare 
il  papa,  il  concilio,  l'imperatore  dalla  mala  fama  di  fedifraghi; 
questi  a  ribadirla  con  le  prove.  Ma  quelli  non  avevano  innanzi, 
quasi  scopo,  che  la  purgazione  dell'ecclesiastica  podestà:  questi 
il  desiderio  di  manometterla.  Tutta  volta  tra  Roma  e  Lutero  é 
un'altra  cosa  che  si  chianìa  storia,  alla  quale  con  libera  estima- 
zione dei  fatti  intendiamo  per  amore  di  verità. 

Il  Lenfant,  caldo  ugonotto,  che  ha  molta  erudizione  di 
storia,  filosofìa  *poca,  si  chiude  nella  sentenza  che  l'imperatore 
avesse  dato  ad  Hus  un  salvocondotto  assoluto  che  il  guaren- 
tisse da  qualunque  violenza,  con  fermo  proponimento  di  non 
violarlo;  ma  che  poi  i  padri  del  concilio  lo  avessero  sciolto 
dal  mantenere  la  fede  data ,  stando  alle  decretali ,  le  quali 
dispensano  dall'osservanza  della  fede  verso  gli  accusati  d'eresia: 
cosi  dice  Gherardo  D;Kher,  testimone  oculare,  nella  prefazione 
ad  una  sua  storin  del  concilio,  e  così  crede  Lenfant.  Il  mede- 
simo poi  reca  la  testimonianza  del  Nauclero,  non  molto  lontano 
(lai  tempi  dei  quali  recita,  il  quiile  afferma  come  i  padri  indu- 
cessero Sigismondo  alla  violenza  del  salvocondotto  con  questo 
argomento.  Essendo  il  concilio  superiore  all'imperatore,  e  non 
avendo  concesso  salvocondolto  ad  IIus,  non  poteva  egli  impe- 
ratore concederne  uno  senza  il  consenso  del  concino^  massime 
1n  un  negozio  che  toccava  la  fede.  Rafferma  Lenfant  la  lesti- 
•monianza  dei  due  storici  con  certe  parole  dello  slesso  Sigismondo 
indirilte  ad  Hus,  le  quali  non  lasciano  dubbio  che  veramente 
fossero  uomini  i  quali  argomentassero  a  quella  guisa.  Dunque, 


—  52.1 


DChìude  il  Lenfant,  Giovanni  d'Hus  fu  f>ittima  non  solo  dei- 
dio  de'suòi  nemici,  ma  anche  della  debolezza  e  superstizione 
Vimperaiore,  per  non  dire  della  sua  perfidia. 

Maimbourg,  cattolico,  nella  sua  storia  del  grande  scisma  di 
bidente,  a  purgare  Sigismondo,  immagina  che  il  sajvocon- 
ì\to  venisse  spedito  ad  Hus  due  mesi  dopo  che  egli  con  le 
le  scritte  fatte  affiggere  in  Praga  e  per  la  città  di  Lamagna 
inunziava  la  sua  andata  al  concilio;  quasiché  il  salvocondotlo 
^esse  tanto  indugialo  da  non  venire  in  collisione  con  la  prigio- 
ia.  Ma  nella  storia  non  s' immagina  ;  e  non  ha  torto  Lenfant 
}Dtro  Maimbourg.  Hus  mosse  dd  Boemia  a  di  15  ottobre,  il 
ilvocondotto  fu  emesso  dall'imperatore  a  di  18  dello  stesso 
lese;  fu  ricevuto  da  Hus  nel  dì  22  in  Norimberga;  lasuapri- 
lonia  avvenne  a  di  28  di  novembre.  Il  Varillas ,  a  purgare  il 
ODcilio ,  gitta  tutto  il  fallo  sulle  spalle  di  Sigismondo.  Anche 
gli  immagina:  ed  afferma,  essere  stati  duei  salvocondotti  ad 
las,  l'uno  dall'imperatore  e  l'altro  dal  concilio;  quello  assoluto, 
iiesto  condizionato  ;  quindi  la  prigionia  di  Giovanni  ripugna 
ol  primo ,  non  col  secondo ,  non  avendo  questi  osservate  le 
ondizioni  del  salvocondotto  sinodale.  E  qui  anche  il  Lenfant 
la  ragione  contro  Varillas.  Non  fu  altro  salvocondotto  che  quello 
pedi  lo  da  Sigismondo. 

Poniamo  ad  esame  la  cosa,  lasciando  da  banda  proteslanti 
!  cattolici.  11  fatto  di  cui  è  stato  cosi  fragoroso  litigio  si  com- 
«ne di  tre  elementi.  Di  Sigismondo  col  suo  salvocondotto:  di 
iiovanni  d'Hus  che  ne  doveva  godere ,  e  del  concilio  che  lo 
lovea  rispettare.  Discorriamo  distintamente  tutti  questi  tre  elc- 
DCDli,  invochiamone  i  rapporti  che  hanno  tra  loro;  aspettiamo 
he  la  ragione  de'  tempi,  degli  uomini  e  di  ogni  altra  circo- 
tanza,  per  logica  virtù,  ci  partoriscano  la  sintesi,  storica  dì  que- 
to  avvenimento. 

Sigismondo,  reso. consapevole  delle  gravi  turbolenze  mosse 
a  Boemia  per  cose  di  religione,  e  sapendo  come  a  quelle  des- 
erò alimento  le  parole  e  le  scritture  di  Giovanni  d' Hus ,  ben 
Dlentieri  accolse  l' andata  di  costui  al  concilio  coslanziense  , 
arche  questo  esaminasse,  giudicasse,  difQnisse  i  religiosi  ne- 
tti della  Boemia.  Ad  Hus ,  giudicabile  dal  concilio  e  che  vi 
idava  come  al  tribunale,  egli  Sigismondo  concesse  un  salvo- 
indotto.  Nulla  in  quello  di  condizionalo.  L'imperatore  ordinava 
tutti  i  suoi  soggetti  che  nulla  di  male  facessero  al  viandante 
lemo:  anzi  con  ogni  modo  ajutassero  la  gita,  poiché  lo  ave:^ 


—  324  — 

accolto  Della  protezione  e  tutela  del  sacro  romano  impero.  1 
scritta  dunque  riguardava  Sigismondo  che  la  spediva,  Giovan 
a  prò  del  quale  bandivasi,  i  soggetti  deir  impero  che  la  dov( 
vano  osservare.  Il  concilio  non, entrava,  neir imperiale  scritl 
che  come  scopo  a  cui  mirava  il  viaggio  di  Hus,  e  non  altr 
Adunque  l'imperatore  si  obbligava  alla  sicurezza  di  Hus  via( 
glante  per  ì  suoi  Stati,  e  vi  obbligava  i  suoi  sudditi.  La  obbli 
gazione  cessava  tosto  che  Hus  raggiungeva  lo  scopo  del  su 
viaggio,  ossia  tosto  che  entrava  in  relazione  personale  col  coi 
cilio  ;  altrimenti  il  salvocondotto  avrebbe  avuto  uno  indetermi 
nato  vigore,  che  sarebbe  in  contraddizione  di  ogni  logica  ( 
diritto.  Adunque  il  salvocondotto  impeciale  non  garantiva  1 
vita  e  la  libertà  di  Hus  che  durante  il  viaggio,  come  mezz 
senza  del  quale  egli  non  poteva  personalmente  presentarsi  i 
concilio.  Sigismondo  lo  poteva  fare  come  imperatore,  e  lo  fec( 
né  troviamo,  fino  a  che  Hus  non  giunse  in  Costanza,  viola 
zione  di  sorta  commessa  da  lui  o  dai  suoi  sudditi  alla  dat 
fede.  Hus  giunse  sano  e  salvo  in  Costanza,  anzi  inebbriato,  com 
egli  stesso  dice ,  delle  trionfali  accoglienze  ricevute  nelle  citt 
di  Germania. 

Il  concilio  era  un  tribunale,  supremo  difflnitore  delle  cosi 
toccanti  la  fede  ed  i  costumi,  al  quale  soggiacevano  tutti ,  an 
che  r  imperatore.  Come  radunanza  di  vescovi  nella  città  d 
Costanza ,  i  padri  dovevano  rispettare  il  salvocondotto  di  Sigi 
smondo  a  favore  di  Hus  ;  perchè  Costanza  era  città  imperiale 
ed  in  lei  quel  salvocondotto  aveva  forza  di  legge,  alla  qual 
soggiacciono  anche  gli  stranieri  nel  tempo  che  dimorano  ne 
paese  del  legislatore.  Ma,  come  concilio ,  quei  padri  dovevan 
rispettare  condizionatamente  la  scritta  imperiale,  vale  a  dir 
ove  non  fosse  stata  ripugnante  alla  giurisdizione  del  loro  tri 
bunale.  Della  quale  condizione  l'imperatore  non  poteva  adontars: 
Egli  aveva  voluto  la  convocazione  del  concilio  come  univei 
sale  tribunale  deflniente  intorno  alla  fede;  ed  egli  non  potev 
senza  contraddizione  volere  ad  un  tempo  che  non  fosse  defi 
niente  intorno  alla  dottrina  di  Hus.  Adunque  il  salvocondotU 
mentre  tutelava  in  Costanza  Giovanni  per  necessità  dì  legge 
Io  abbandonava  nel  concilio  alla  contingenza  di  un  giuiizic 
anche  per  necessità  di  legge.  E  questa  contingenza  includevi 
la  possibile  coercizione,  ove  il  giudicato  non  fosse  stato  docili 
alla  sentenza.  Lo  stesso  Hus  lo  aveva  voluto  e  preveduto.  Neil: 
scritta  che  fece  affiggere  alle  porle  della  reggia  nel   muoven 


-  525  — 

da  Frasca  egli  significava  a  tutta  Boemia  ed  a  latte  le  na- 
liooi  andare  al  coDciiio  per  essere  giudicato.  E  conchiudeva  : 
<  Laonde ,  se  alcuno  mi  renderà  convinto  di  alcuno  errore  e 
mi  dimostrerà  avere  io  insegnate  cose  aliene  dalla  fede  di 
Cristo,  non  mi  sottrarrò  a  qualunque  pena  di  eretico.  >  Adun- 
que doveva  essere  un  tempo  a  cui  la  immunità  ctie  fruttava 
^d  Hus  il  salvQCondotto  cedesse  il  luogo  alPazione  di  un  giu- 
dizio e  quindi  alla  possibile  coercizione  del  giudicato.  11  fallo 
dunque  derconcilio  starebbe  nell'avere  prepotentemente  anti- 
cipato quel  tempo ,  ossia  deir  avere  vulnerato  il  salvocondotto 
dato  dall'imperatore  innanzi  che  fosse  stata  maturata  la  legalità 
del  suo  giudizio.  Vediamo  se  sia  stata  questa  anticipazione  di 
tempo,  nella  quale  solo  può  slare  la  violazione  della  pubblica 
fede. 

Appena  giunto  Hus  in  Costanza,  significato  a  papa  Giovanni 
il  salvacondotto  cesareo,  tanto  di  buon  animo  il  papa  si  poneva 
a  rispettarlo  cbe  apertamente  promise  adoperare  ogni  suo  po- 
tere perchè  ad  Hus  non  fosse  fatta  violenza  di  sorta  durante 
la  sua  dimora  in  Costanza.  E  raffermò  coi  fatti  le  parole.  Lo 
sciolse,  come  dicemmo,  dalla  scomunica,  gli  vietò  solo  d'interve- 
nire alle  messe  solenni  e  la  predicazione ,  a  causare  lo  scan- 
dalo. Ciò  è  affermato  da  un  amico  di  Hus.  Il  papa  adunque  ed 
i  Cardinali  andarono  dapprima  assai  cauti,  e,  come  futuri  giudici 
di  Hus,  non  ruppero  la  fede  per  anticipate  sentenze.  Bene  ac- 
colto, beneficato  anche  della  soluzione  della  scomunica,  Hus  do- 
veva starsene  aspettando  Tarrivo  de'padri  e  Tesito  del  suo  giu- 
dizio, rispettando  il  divieto  della  predicazione.  Egli  lo  violò, 
perchè  era  venuto  intestardito  a  predicare,  cioè  a  disseminare 
quelle  dottrine  che  non  potevano  pubblicarsi  prima  che  senten- 
ziasse il  concilio  su  di  esse.  Impudentemente  spargeva  la  eresia 
<li  Wicleff,  violando  il  papale  divieto,  e  le  leggi  dell'  ospizio. 
Il  Cerretano  presso  lo  Spendano  lo  dice  chiaro:  Quod  doclrinam 
Wklefi  in  hospith  disseminaret.  Ora  se  Hus ,  disseminando  le 
proprie  sentenze,  sarebbe  stato  colpevole ,  perchè  prevenuto 
avrebbe  il  giudizio  del  concilio,  molto  più  reo  addivenne  spar- 
gendo quelle  di  Wicleff,  già  dichiarate  ereticali  dal  concilio  di 
Pisa  e  dal  consenso  dell'universa  Chiesa.  Né  ciò  che  recita  il 
Cerretano  lascia  dubbio  di  sorta,  venendo  confermato  dallo  stesso 
Hus,  il  quale,  appena  giunto  in  Costanza,  non  rifinì  dallo  scri- 
vere lettere  in  Boemia  esortatrici  a  star  fermi  nella  sua  dottrina, 
che  non  era  ancora  stata  giudicata  dal  concilio.  Anzi  aperta- 


.     —  326  — 

mente  dice  che  egli  dod  faceva  che  predicare  al  popolo,  gtosti- 
flcando  la  sua  dottrina.  Parla  di  un  Giovanni  Lepka  suo  fautore: 
Ubique  plus  prwdicat  quam  ego,  declarans  meam  innocmtifim. 
Era  chiuso  nella  carcere  e  faceva  lo  stesso.  Egli  lo  dice  scrì- 
vendo al  comune  di  Praga:  Quo  nomine  etiam  vos  docui  verbuin 
Dei;  neque  adhuc  desino  vel  in  carcererà  idem  agere.  Ora  era 
questi  un  fedele  che  docilmente  commetteva  alla  sinodale  auto- 
rità il  giudizio  della  sua  dottrina  e  per  cui  aveva  ottenuto  U 
salvocondotto,  o  un  uomo  incaponito  nell'errore,  e  dal  quale  non 
avrebbe  mai  rimesso?  Vegga  dunque  il  lettore  che  non  fu  il 
papa  che  accordò  il  tempo  della  immunità  guarentita  dal  sal- 
vocondotto  del  cesare,  ma  fu  Giovanni  d'Hus,  il  quale  come  non 
doveva  patire  danno  nella  libertà  pel  salvocondotto  cesareo,  così 
non  doveva  inferirne  alla  pubblica  tranquillità  con  intempestive 
predicazioni.  Adunque  la  sua  prigionia  fu  giusta,  perchè  ordi- 
nata a  preservare  la  pubblica  pace,  non  violatrice  del  salvocon- 
dotto: poiché  non  può  essere  legge  che  defraudi  il  giudice  di 
una  giurisdizione  di  prevenzione  verso  la  persona  a  giudicarsi, 
a  guarentigia  della  futura  sentenza.  Àiresercizio  di  quella  giu- 
risdizione non  venne  il  concilio  di  proprio  talento,  ma  vi  fu 
spinto  da  Giovanni  d'Hus.  Questi  aveva  un  salvocondotto  che 
il  guarentiva  andante  a  Costanza  città  imperiale,  non  andante 
al  concilio,  che  sovrastava  nelle  cose  di  fede  allo  stesso  impe- 
ratore, non  potendo  dare  ad  altri  salvocondotto  in  rapporto  a 
superiore.  Né  il  concilio  né  il  papa  ne  avevan  dolo  alcuno  ad 
Hus;  lo  dice  egli  stesso:  e  quello  imperiale  non  aveva  più  al- 
cuna forza  tosto  che  incominciava  l'azione  sinodale  verso  di 
Hus.  Questi  l'anticipa  con  le  sue  predicazioni  violatrici  di  un 
divieto  :  e  quando  i  Boemi  chiedevano  il  rispetto  della  scritta 
imperiale,  i  padri  giustamente  rispondevano:  Sacrosanctam  s//- 
nodum  arguì  non  posse  de  fide  mentita,  quia  concilinm  non  de- 
derat  ei  salvumconductum,  et  concilium  majus  est  imperatore 
Sigismondo  nulla  fece  di  cui  si  potesse  accagionarlo  come 
di  violenza  del  suo  salvocondotto.  Anzi  accolse  favorevolmente  i 
richiami  di  Giovanni  de  Chiura,  che  venne  a  lui  lamentando  I? 
prigionia  di  Hus;  ed  ordinò  che  questi  venisse  messo  in  liber- 
tà, cum  intimationibus  et  minis  de  frangendis  carceribus,  casv 
quo  non  r elaxar etur.  G'mnlo  in  Costanza,  i  padri  lo  pregaronc 
perché  li  lasciasse  in  piena  libertà  nella  causa  di  Hus,  dovendc 
giudicare  di  materia  di  fede,  il  che  valeva  che  avesse  infrenate 
le  minacele  del  Chium  sparse  per  le  mura  della  città  e  confer- 


—  527  — 

masse  le  provvidenze  tolte  dai  padri  ad  impedire  le  sediziose 
predicazioni  di  IIos  imprigionato.   In  una  parola ,  chiedevano 
che  il  soo  salvocondotlo  non  incatenasse  F  azione  del  concilio 
tanto  nel  processo  del  giadizio  che  nella  giurisdizione  di  pre- 
venzione. Vedemmo  che  Sigismondo  promettesse  fare  quanto 
chiedevano.  Ora  l'imperatore,  soggetto  al  concilio  nelle  cose  di 
religione,  protettore  della  Chiesa ,  non  ruppe  la  fede  data   la- 
sciando in  prigione  Uus;  ma  bensì  adempì  a  quei  doveri  che 
incombevano  a  Ini,  non  per  condizionata,  ma  per  assoluta  legge. 
E  per  ora  basta. 

Intanto,  giunta  la  nuova  della  prigionia  di  Hus  in  Boemia, 
leyossi  un  grande  rumore.  I  Boemi  si  tenevano  offesi  delle  im- 
PQtazioni  ereticali  che  si  facevano  ad  Has,   quasi   toccassero 
ToDore  della  loro  gente.  Quelli  non  erano  tempi  d'indifferenza, 
per  la  quale  una  opinione  religiosa,  come  ai  dì  nostri,  sBora  e 
DOQ  va  dentro  degli  animi;  perciò  la  taccia  di  eretico  spiaceva. 
Aggiungi  che  le  novità  ussite  non  toccavano  solo  le  specula-» 
zioni  dei  teologi  e  dei  BlosoQ ,  ma  anche  la  pratica  economia 
<lel  governo  e  della  proprietó.  Poter  tenere  fronte  al  principe, 
arraffare  il  pingue  patrimonio  chericale ,   scuotersi  dair  obbe- 
<lienza  dei  pastori  visibili,  tocchi  dalle  spirituali  censure,  scap- 
parsene a  Cristo  capo  invisibile,  èra  una  cosa  che  sapeva  assai 
{lolce  al  palato  di  un  popolo  che  credeva  sperimentare  qualche 
ingiustizia  nella  troppo  proceduta  ricchezza  chericale.  Non  solo 
i  laici  erano  contenti  ;  gongolavano  di  gioia  anche  molti  dei 
chericì.  In  tempi  di  risoluta  disciplina,  in  tempi  di  scisma,  certo 
^he  la  collazione  dei  benefizi   non  andava  sempre  secondo  lo 
spirito  dei  canoni.  Spesso  il  privilegio  dei  natali,  l'artifizio  au- 
lico fruttava  ad  indótti  e  scorretti  cherici  quello  che  ai  dotti  e 
<50stumati  si  aspettava.  Scontenti  erano  molti  ;   perciò  ad  Uus 
si  afferrarono,  con  la  religione  della  riforma,  i  maggiorenti  ago- 
gnatori  delle  cose  dei  preti ,  la  plebe  francala  dalle  decime  e 
dal  troppo  imperio  sacerdotale,  e  molti  cherici  che  forse  ave- 
vano ragione  a  richiamare,  ma  non  a  ribellare  alla  Chiesa.  Re 
^enceslao  e  l'arcivescovo  Corrado  non  erano  uomini  da  stare 
^l  timone  degli  affari  in  tutto  questo  forlunare.  Entrambi  erano 
^•Uttodi  col   tovagliuolo  alla  gola,  pensando  alla  fugacità  della 
^ila,  e  non  curanti  della  dimane.  Per  la  qual  cosa  come  furono 
%esse  la  prima  volta  le  guardie  attorno  alla  persona  dì  llus, 
frissero  i  Boemi  una  lettera  a  Sigismondo  perchè  fosse  lasciato 
in  libertà.  Essi  si  tenevano  forti  alle  testimonianze  dell'arcive- 


—  328  — 

SCOVO  Corrado,  che  aveva  esaminata  la  dottrina  di  Giovanni  e 
non  vi  aveva  trovata  ombra  di  eresia ,  e  concbindevano  pre- 
gandolo cbe  libero  e  senza  ceppi  fosse  data  pubblica  udienza 
ad  IIus,  onde  dal  falso  testimonio  e  dalle  calunnie  de'  suoi  ne* 
mici  non  venisse  sopraffatto  con  somma  ignominia  dei  Boemi. 
Chiuso  poi  nel  convento  dei  predicatori ,  più  fortemente  insi- 
stettero, gridarono  per  quella  che  credevano  violazione  del  sai- 
vocondotto  ;  e  dell'eresie  di  cui  si  accagionava  Giovanni  si  cre- 
devano essi  stessi  accagionati.  Sigismondo  aveva  saputo  il  netto 
in  Costanza  e  nulla  fece.  Faceva  però  il  papa,  che  creò  due 
commissioni  all'esame  delle  cose  di  Hus,  una  composta  del  pa- 
triarca di  Costantinopoli  e  due  altri  deputati  ad  accogliere  le 
accuse  contro  di  lui  ;  Taltra  di  quattro  cardinali,  Ailly,  Bran- 
caccio, di  San  Marco ,  di  Firenze ,  due  generali  d'ordini  e  sei 
dottori. 

Mentre  questi  commissari  intendevano  ad  Hus,  il  concilio 
era  tratto  al  negozio  della  unione  dalla  venuta  di  certi  perso- 
Tìaggi,  che  recavano  la  questione  nel  seno.  Erano  i  legati  del- 
l'antipapa Benedetto,  di  cui  non  sappiamo  i  nomi.  Giunsero  a 
di  8  di  gennaio;  astuti  ministri  di  più  astuto  signore.  Il  De 
Luna,  forte  in  casa  del  re  d'Aragona,  come  se  nulla  avesse  dif- 
finito  il  sinodo  pisano  sui  fatti  suoi,  mandava  dicendo  volere 
abboccarsi  con  Sigismondo  e  re  Ferdinando  d'Aragona  in  Nizza, 
e  trattare  cosi  alla  buona  l'affare  della  benedetta  unione.  In- 
tanto chiamavano  il  pontefice  quegli  che  alcuni  appellano  papa 
Giovanni,  ed  il  concilio  chiamavano  congregazione.  Dettero  di 
spalla  alla  inchiesta  dei  legati  antipapali  gli  oratori  aragonesi. 
Nella  disperazione  in  cui  erano  venuti  cardinali  e  prelati  di 
vincere  il  testardo  De  Luna,  confortarono  Timperatore  alla  pro- 
messa di  convenire  coi  deputati  delle  nazioni,  con  certe  con- 
dizioni, a  Nizza,  luogo  scelto  alle  conferenze  del  prossimo  giu- 
gno. Papa  Giovanni  dava  del  si  a  malincuore,  ma  chiedeva  un 
salvocondotto  per  andarvi  anch'egli.  A  queste  decisioni  si  venne 
nel  marzo  in. una  generale  congregazione. 

Mentre  tempestavano  i  sinodali  spiriti,  Giovanni  Hus  infer- 
mava di  renella  e  di  febbre,  e  a  non  perder  tempo  scriveva  sacri 
trattati.  Fino  a  che  papa  Giovanni  fu  in  Costanza,  fecero  di  lui 
buon  f^joverno.  Chiuso  nel  convento  dei  frali  minori ,  ne  ave- 
vano la  custodia  quelli  della  corte  del  papa  ;  e  Giovanni  loda  la 
umanità  onde  usavano  con  lui.  Lo  dice  in  una  sua  lettera  : 
«  Tutti  i  chierici  della  camera  del  signore  papa  ;  e  tulli  i 


stodi  assii  pìetos2fDeole  hìì  gdT«rMno.  »  Fnirdto  il  {Vìnie- 
e,  i  deputati  a  goardarìo  recairooo  le  chìaTì  de  Ih  prìin(>ne.  :) 
^smoodo,  che  commise  Hos  ndle  mani  del  Te$coTo  di  (kh 
inza  ;  il  qaaie  tradottolo  da  quel  confento  ^  lo  fece  cbìoden^ 
ila  rocca  di  Gotleben  di  là  dei  Reno.  È  belio  vedere,  come 
qael  di  della  foga  papale ,  in  coi  fa  tanto  roniore  in  città . 
is  credesse  morir  delia  foroe,  temendo  che  i  custodì  i^n* 
odo  solo  a  fuggir  coi  papa,  non  pensassero  più  a  lui.  Seri- 
ra  :  «  Già  tatti  i  miei  custodi  Tanno  via,  né  avrò  più  man- 
ire  ,  e  non  so  che  sarà  di  me  in  prigione.  >  ih  i  commìs- 
ri  scelti  dal  concilio  alla  censura  delle  sue  scritture  pensa- 
no a  lui  :  ed  a  tutt'  uomo  si  adoperavano  a  trargli  di  bocr;i 
la  ritrattazione  de'suoì  errori.  Di  questi  non  era  dubbio  :  op- 
re egli  non  faceva  che  chiedere  una  pubblica  udienza  dal 
ndlio,  per  discorreria  a  modo  accademico.  Lamentò  egli  per 
tere  ai  Boemi  deir indugio  della  sua  udienza;  con  più  forti 
lori  ritraeva  la  miseria  del  suo  vivere  in  prigione,  e  ranimo 

0  forte  come  se  quello  fosse  di  un  martire. 

Per  la  qual  cosa  come  la  Boemia  era  tutta  levala  a  rumori 
Ile  sue  dottrine  e  furiava  della  sua  prigionia,  come  di  onta 
recata  a  tutto  il  reame,  sorse  Girolamo  da  Praga.  Volle  egli 
carsi  in  Gostanza  per  tenere  il  campo  contro  i  suoi  avver- 
ri.  Sapevano  tutti  chi  fosse;  laico,  non  chierico;  baccolliero 
maestro  in  divinità.  Aveva  data  opera  agli  studi  nelle  Uni- 
rsità  di  Parigi ,  di  Ueideìberg ,  di  Colonia  e  Oxford  :  nelle 
tali  conseguì  fama  di  molta  dottrina.  Sapeva  più  d'Hiis,  <iuan- 
nque  più  giovane:  nelle  quistioni  era  un  prodigio  di  acu- 
zza.  Uos  predicò,  Girolamo  fece.  Contammo  delle  suo  violenze 
profanazioni  commesse  in  Praga  :  fu  dei  più  solleciti  Irascrit- 
ri  delle  cose  di  WicleiT,  che  recò  in  Boem^ì.  Hus  lo  teneva 
ime  suo  principale  sostegno:  ma  avvegnaché  Girolamo  si  fosso 
kbligato  con  promessa  a  venirio  soccorrendo  in  Costanza,  o 
testi  nelle  àue  lettere  lo  esortasse  a  non  venire ,  pur  volle 
hdare  il  baccelliere.  S'intromise  in  Costanza  a  di  4  aprile  con 
Il  suo, discepolo.  Vide,  spiò:  trovò  le  cose  a  mal  partito  per 
Ins,  pericolose  per  sé;  andò  via  tosto  e  di  soppiatto,  itiilottosì 

1  Uberlingen  poco  lungi  da  Costanza,  scriveva  ai  baroni  boemi 
|e  erano  al  concilio,  ed  a  Sigismondo,  che  volessero  munirlo 
fun  salvocondotto  per  la  sua  venuta  ed  andata  da  Costanza , 

ado  purgarsi  io  pubblica  udienza  dei  delitti  che  gli  veni- 
apposti.  I  Deputati  delle  nazioni  richieste  ris|K>s<>ro  in 
Tamb.  Inguii.  Voi.  II.  49 


-  530  - 

nome  del  concilio  :  <  Noi  gli  dai^mo  il  salvocondotto  a  ve- 
nire, non  ad  andarsene.  »  La  qual  risposta  rapportata  a  Girti 
lamo,  fece  cbe  il  di  appresso  appiccasse  alle  porle  d^Iia  citi 
delle  chiese,  dei  conventi,  e  delle  case  dei  cardinali,  una  scriH 
la  quale  recava  una  sua  solenne  protesta  alllmperatore  ed 
l'universo  concilio:  e  Lui  voler  rendere  pubblica  ragione  d( 
sua  innocenza  in  fatto  di  fede,  malamente  calunniato  dai  s 
detrattori  e  infamatori  del  reame  di  Boemia.  Convinto  di  erro 
e  di  eresia,  non  ricusare  fin  da  quel  di  subire  pubblicameli 
la  pena  che  si  aspetta  a  travialo  ed  eretico.  Pregar  Timperatore 
il  concilio  di  un  salvocondotto.  Venuto  in  Costanza;  se  f( 
imprigionalo  o  patisse  altra  violenza  innanzi  essere  ascolta 
sapessesi  il  mondo  tutto,  non  aver^  operato  il  generale  com 
lio  secondo  giustizia.  vNulla  ottenne;  e  tolte  dai  baroni  boei 
scritte  testimonianze  di  tutto  il  fatto  di  lui ,  prese  la  volta 
Boemia. 

Decretato  sul  papa,  si  venne  agli  eretici.  Girolamo  da  Pn 
era  in  Boemia  ;  ma  la  sua  protesta  fatta  appiccare  alle  porte 
Costanza  non  era  stata  obliata  dai  padri.  Chiedeva  rendere 
gione  della  sua  fede,  chiedeva  un  giudizio  della  sua  dottrini 
fermo  a  fronte  di  un'approvazione  o  di  una  condanna  con  tutte 
pene  che  s'infliggevano  agli  eretici;  chiedeva  un  salvocondi 
che  gli  assicurasse  la  gita  e  fa  dimora  in  Gostanza.  Molto  rumoi 
erasi  levato  dai  Boemi  su  la  prigionia  di  Hus  e  su  la  violazioi 
del  salvocondotto  concesso  a  lui  da  Sigismondo  ;  perciò  i  Cosi 
ziensi  andarono  cauti  con  Girolamo.  Difflnirono  in  questa  sessioi 
spedirsi  al  pragense  il  chiesto  salvocondotto,  o  meglio  una  ci 
zione  con  qualche  cosa  che  sapesse  di  salvocondotto.  Scriveva! 
«  Avere  avuto  nolvm  della  sua  prolesta,  nella  quale  lamentai 
le  calunnie  di  cui  gli  dava  dell'eretico  e  del  wiclefflta,  e  chieder 
purgarsene  al  cospetto  del  concilio,  assicurato  di  un  salvoca 
dolio.  Consentire  all'  inchiesta  :  e  poiché  era  loro  debito  ioti 
prendere  quelle  volpacce,  che  mettono  a  soqquadro  la  vignai 
Signore  di  Sabaot,  ed  impedire  che  non  venga  contaminata 
chiesa  di  Dio,  chiamarlo  e  citarlo  a  comparire  fra  quindici  di 
loro  cospetto,  e  che  lo  ascolterebbero  nella  sessione  prossima 
suo  arrivo.  Concedergli,  per  quanto  dipendeva  da  essi,  ed  esif 
vaio  la  ortodossa  fede,  un  salvocondotto,  che  lo  metta  al 
verte  delle  violenze,  salvo  però  il  corso  della  giustizia  t.QiH 
sta  citazione  o  salvocondotto,  pubblicamente  aflìsso  in  Costaoi 
venne  a  mano   di  Girolamo.  Da  quelle  parole,  justitia    ta 


—  5SI  — 

iloa^  onde  i  Costannaisì  si  monirono  omtro  i  richiami  che 
Dteraiio  levare  gli  eretici,  OTe  fosse  ooiKbonsto  Gìroisnkx  il 
oofiDt  ea^  argomento  della  proditoria  prigionia  di  Has,  non 
iggendosi  nel  sno  salTooondotto  quelle  parole.  Ma  come  non 
merte  11  dotto  nomo,  che  queste  erano  snperflae*  e  ben  sì 
■(gelano  moralmente  da  chiunque  non  ignorava  che  la  scrìtta 
i^miale  assicurava  dalle  violenxe  fuori  giodiiio,  non  nella  pos$« 
Piile  coazione  delle  leggi,  cui  andavano  incontro  qnesti  eretici 
ircatori  di  giudizi.  I  Gostanziensi  resero  materiale  la  lezione 
l^qnelle  parole  nella  scritta  a  Girolamo,  non  perchè  a  suffì- 
^raia  non  si  lecessero  moralmente,  ma  per  rìbadiro  questa 
PMidizione  che  tacitamente  parlava  in  quella  deirimperatore. 
l  Dato  fine  alla  ottava  sessione,  vennero  tosto  affissi  i  cedo- 
pi  della  citazione  lanciata  a  papa  Giovanni.  Due  notai  delh^ 
■kzione  tedesca,  Gumberto  Fabrì  e  Giselero  di  Boventen,  li  an- 
hrono  ad  appendere  con  tutti  i  riti  forensi  alla  porta  della  città* 
iìamata  Svetz-Porten,  o  Porta  degli  Svizzeri,  per  la  quale  fuggi 
povanni,  indi  a  tutti  gli  us£ì  delle  chiese.  Questa  citazione 
~  iturbò  forte  i  fautori  del  papa.  Tre  cardinali,  Oddone  della 
rana,  poi  papa  Martino  V,  Brancaccio  e  Rinaldo  di  Tricarìco 
ote  del  Gossa,  i  quali  eransene  rimasti  a  SciafTusa,  vedendo 
Brate  le  cose,  tornarono  a  Gostanza.  Una  turba  di  curiali , 
ili  fino  a  quel  tempo  avevano  sperato  nella  risurrezione  di 
Dvanni,  vennero  anche  a  posare  in  Gostanza. 
Papa  Giovanni  rimaneva  deserto;  anche  Federico  d'Austria 
protettore  venne  sforzato  ad  abbandonarlo.  Questo  pessimo 
innello  erasi  afferrato  a  Giovanni  per  causare  i  giudizi  del 
lio.  Ma  le  armi  cesaree  e  la  pubblica  opinione  lo  costrin* 
ad  arrendersi.  Venne  in  Costanza  a  fare  la  dedizione  di  so 
tutte  le  sue  signorìe  in  mano  di  Sigismondo.  Questi  nel 
fiverio  volle  che  il  rorbano  impero  desse  tale  uno  splendore 
^abbagliare  l'universo  mondo.  Con  solenne  e  pubblico  nppa- 
egli  accolse  in  grazia  il  penitente  arciduca.  Nel  convento 
Francescani  si  assembrarono!  deputati  delle  quattro  nazioni. 
Ile  Sigismondo  che  in  quel  parlamento  intervenissero  gli 
itorì  di  Venezia,  di  Milano  e  di  Firenze  e  di  altre  cittii  ila- 
e  la  ragione  è  recata  dal  Wan  der  Hardt  <  perchè  dalla 
Eione  di  un  potente  duca  imparassero  la  potenza .  e  la 
sta  di  cesare;  e  da  quello  esempio  venissero  ammacHtratla 
Brare  cesare  con  pio  devozione  ed  a  paventarne  la  potenza.  • 
mque  come  si  vide  in  mezzo  a  quel  convento,  Sì^^ismondr^ 


€on  acconcia  dicerìa  disse  delia  guerra  combattuta  contro  Tu 
siriaco;  De  recò  le  ragioni,  accusando  Federigo  della  foTorii 
fuga  del  papa,  della  minacciata  dissoluzione  del  condilo,  delJ 
molle  furfaaterie  commesse  contro  le  chiese,  rubando  a  maa 
salva  i  loro  patrimoni ,  e  quelle  delle  vedove  e  dei  pupllfi 
Annunziò  finita  la  guerra ,  poicbè  Federigo  gli  aveva  chiesi 
racconciarsi  con  lui.  Chiese  da  ultimo  ravviso  dei  padri  intom 
al  giuramento ,  con  cui  si  era  legato  di  non  fare  mai  pace  ol 
tregua  col  fellone  arciduca.  I  padri  calmarono  le  spirìtoal 
angosce  di  cesare^  rispondendo,  che  la  imperiale  coscienza  od 
doveva  temere  peccalo  di  spergiuro,  accogliendo  in  grazia  ra« 
siriaco,  essendo  questo  un  suo  vassallo,  a  cui  faceva  miseri 
cordia.  Finito  il  sermone,  e  sbarazzata  dall'  intoppo  del  giur» 
mento  la  via,  vennero  Riandati  fuori  quattro,  prelati,  i  qoil 
conducessero  dentro  a  quel  pariamento  il  duca.  Ed  eccoli  UM 
nare  con  Federigo  burgravio  di  Norimberga  e  Ludovico  i 
Baviera ,  illustrissimi  principi,  in  mekzo  ai  quali  veniva  tn^ 
contrito  Taustriaco.  Questi  si  misero  ginocchioni  alla  imperili 
presenza,  ed  il  burgravio  presela  parola  per  Federigo:  I 
pietoso  intercessore  chiese  perdono  e  misericordia  de'suoi  fall 
promise  ricondurre  il  papa  in  Gostanza,  salvo  il  suo  onoi< 
eon  cui  si  era  obbligato  a  rendere  immune  la  vita  e  la  roti 
del  pontefice  e  di  quei  che  lo  seguirono.  Al  burgravio  succosi 
Federigo  in  persona,  il  quale  con  ogni  umiltà  di  modi  e  ì 
parole  disse  lo  stesso,  ponendo  sé  ed  ogni  sua  cosa  in  bali 
dell'imperatore.  Questi  gli  toccò  la  mano.  Onde  Federigo  i 
mani  giunte  conchiudeva,  gratificato  di  quel  perdono,  promel 
tendo ,  non  avrebbe  mai  fatta  cosa  contro  quel  serenissia 
signore,  ed  essere  in  eterno  suo  fedelissimo  servo.  Lo  Stumphì 
tedesco  conta,  che  quando  Federigo  ebbe  dette  queste  cosi 
l'imperatore  si  volse  agl'Italiani  e  disse  loro:  «  Italiani,  voi  ba 
sapete  come  i  duchi  d'Austria  siano  i  più  polenti  signori  diU 
magna  ;  ebber)e,  vedete  come  so  io  mettere  a  segno  questi  I 
idlri.  »  Non  ebbe  flnilo  di  supplicare  l'austriaco,  ed  i  notai  ali 
sue  spalle  pront'amente  scrissero  i  legali  strumenti,  conservatai 
deli'  atto  (iì  tanta  soggezione. 

La  dedizione  di  Federico  non  assicurava  quella  del  pip 
ma  certo  che  la  rese  più  facile.  II  Cessa  vedeva  netto  nell'avn 
iiire  non  lontana  la  sua  rovina:  egli  non  trovava  modi  a  causali 
ma  a  tutf  uomo  sforzavasi  indugiarla.  Guardava  sempre  si 
Borgogna,  come  a  luogo  di  rifugio;  e  poiché  il  concilio,  teM 


édM  ntnSlà  brasi  bm  ne  inlnib^ràii^  ;j^Icihm  «uri  $iik^  (vrv^ 

team  z  tedi  leBporae^iiilok  poneva  le  Uitìn)^  $(^maw^  K)ni 
un  oooìo  dfon^eisslkilà  di  spirito  prvxiì^kv;}^  cW  ^wx;!  ;9i  f^rb 
col  teìksco  SifìsnModd.  li  amcìKo  ^pubv:!  ;i  FVtlHir^^  r;ja\'b 
mescolo  dì  BesMfoo  e  quel  dì  Rù^  .  per  (^k^rK^  ;ii  u>nvlln^^ 
L'impcniore  lì  mandaTa  il  bor^nr»TÌodì  Ncvrìmher^  <tHi  uu  u^\K^ 
ifi  SOO  oomioi  d^arme*  Al  Tedesco  ìucooiukùiy;!  a  iHH^rx>  quello 
sciTolargti  clie  (aceia  dalle  mani  r;i$Uìlo  ìtaHaiìo  :  ìiu\mùuoU\ 
pian  piano  con  la  forza.  Il  bor^uvìo  ihmì  fece  ^Itro  che  \HMrfO 
qoà  som  armigeri  agli  sbocchi  della  olii,  a  |virare  il  |k^)m.  s^^ 
si  mettesse  in  foga.  Gli  arci?escoTÌ  lo  andan^ìo  a  Innartv  (ìi\w 
vanni  li  accolse  col  più  beato  viso  del  uìondo,  c\>me  so  nulla 
di  nnovo  fosse  a-venuto.  Gii  arcivev^covi  p^irluvano  di  oil»xioul. 
di  processo,  di  obbligo  a  comparire  in  concilio  a  purg.^rst  uolla 
nona  sessione  a  dì  13  di  maggio,  rdlic:u*ano  oiu)  iH>rogrin;)  ohw 
qnenza  a  muovergli  la  ragione  e  gli  afftHU;  oc)  egli  ctm  UKi.^cIda 
dissimulazione  rispondeva  loro  benigna  mento:  tKs^eroinHUI 
muovere  per  Costanza;  dispiacergli  Tessorno  ri|Kirlito«  »  Il  hur« 
gravio  e  i  legali  se  ne  consolavano:  e  Giovanni  il  ili  npprosso 
mandava  una  procura  ai  cardinali  di  S.  Marco,  di  Oauìlmil,  di 
Firenze,  perchè  a  vece  sua  comparissero  in  oonuilio  w  <)isool- 
parlo. 

Giovanni  teneva  fermo,  ma  con  poca  sporanxa  di  siiliiln  , 
il  concilio  procedeva.  Difficile  era  slato  lo  stabilire  prinripli  ; 
discendere  da  questi  ai  fatti  era  facile.  Le  nazioni,  nrmonly.ziiln 
dalle  formolo  legali  dei  procuratori  sinodali,  vi  andavano  a  vnin 
gonfie.  Il  papa  era  giudicabile;  Tavevano  cllnlo;  n(»n  vulnva 
comparire,  bisognava  condannarlo.  La  logica  dei  le^ulni  rnndnvii 
invulnerabili  i  petti  dei  Costanzìensi;  ma  in  quel  pelli,  lo  dico, 
sordamente  fremevano  i  cuori  traili  dalla  violen/ji  d<d  IfMnpi 
a  trasformare  la  logica  dei  princi|)ii,  nel  (|iiali  posavano  I  di^ 
stini  della  Chiesa  e  deirumanità.  Si  apri  la  nona  MHHHlofM)  a  di 
43  maggio:  versò  tutta  intorno  a  papa  (iiovanni.  Nulla  mi  ii 
deliberarsi:  non  erano  che  formole  di  crlmlnalo  pnxtitdiira  di» 
eseguire.  Tutti  sapevano  che  Giovantd  non  narebbe  cofnpiiriio, 
tutti  sapevano  che  si  andava  alle  canoniche  pufiizionl  d<d  (um- 
tnmace.  Presiedeva  il  consenso  il  cardinale  di  O^iia;  i*.  v' vrn 
Sigismondo.  Il  vescovo  Koberto  di  KallHbiiry  c^uUi  Ut  tw^^a  iUu 
gli  angeli;  tutti  cantarono  le  litanie  iUtì  nariU,  il  Vmt  Crmhfr 
Spiritus  ad  inchinare,  merr;é  il  mflrAVÌoiki  cariti,  la  divin:i  i^»* 


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pienza  in  loro  aiuto  nello  strano  negozio  di  sospendere  un  pon* 
teflce  sommo.  Ma  innanzi  che  i  procuratori  incominciassero  i^ 
loro  ufficio,  Benedetto  Genzìano  monaco  di  s.  Benedetto,  dottore^ 
ed  ambasciatore  dell'università  di  Parigi,  racconfortò  Fanimo- 
dei  padri ,  glorificò  quello  di  cesare  con  due  lettere  dei  suoi 
confrati  universitari  parigini.  Anche  questi  tenevano  concilii: 
ed  in  un  loro  convento  aux  Maturins  scrissero  queste  esorta- 
zioni ai  Gostanziensi ,  ad  usare  sempre  più  santamente  pel 
bene  della  Ghiesa  ;  ed  a  cesare ,  a  gratificarlo  di  lodi  pel  gìèt 
fatto.  Tutti  operavano  in  buona  fede;  ed  anche  il  monaco  Gen- 
ziano.  Ma  a  me  duole  assai  vedere  questo  monaco  ambasciatore 
di  quella  università  in  Costanza.  Le  tradizioni  dell'ordine  bene- 
dettino e  la  storia  dei  suoi  rapporti  col  papato  avrebbero  dovuto 
consigliar  questo  monaco  piuttosto  alle  salmodie  che  a  cosi 
fatte  ambascerie.  Quelli  eran  tempi  da  orare  anzi  che  di  nego- 
ziare: eran  tempi  che  per  la  disperazione  degli  umani  argomenti 
più  fortemente  consigliavano  appigliarsi  ai  divini.  Processe  in- 
nanzi alle  quattro  nazioni  ed  a  ben  quindici  cardinali  (il  Gam- 
brai  era  in  Gostanza,  ma  non  volle  intervenire  alla  sessione)  il 
procuratore  Errico  de  Pirro  ed  annunziò  fatta  la  citazione  a 
Giovanni,  fallita,  perchè  assente:  chiese  si  deputassero  prelati 
a  ricevere  il  giuramento  dei  testimonii  accusatori  del  pontefice 
e  ad  esaminare  la  loro  deposizione.  A  questo  levossi  il  cardi- 
nale Zabarella  di  Firenze  e  produsse  le  lettere  di  Giovanni,  con 
le  quali  dichiarava  lui,  il  Gambrai  ed  il  S.  Marco  suoi  procu- 
ratori. Lettele ,  aggiunse  :  t  Lui  non  essere  stato  mai  procu- 
ratore di  alcuno,  non  volerlo  essere  allora  per  Giovanni.  11  Gam- 
brai non  rispose,  perchè  assente:  il  Fiorentino  conchiuse 
«  Neppur  io:  la  è  ben  grave  bisogna  farla  da  procuratore  contro 
r  universo  mondo.  »  Accorse  presto  il  De  Piro  a  segnar  col 
marchio  della  legge  la  negata  procura  ,  dicendo  come ,  es- 
sendo personale  la  citazione,  e  criminale  la  causa,  non  potesse 
riconoscersi  alcun  procuratore.  Questi  legulei  sono  stati  sempre 
le  cavallette  del  genere  umano. 

Sbarazzata  la  via  del  De  Piro,  cinque  prelati  (erarro  stati 
destinati  dal  concilio  anche  due  cardinali  diaconi ,  ma  non  vi 
vollero  andare)  presi  dalle  varie  nazioni,  seguiti  da  un  codazzo 
di  notai,  se  ne  andarono  air  uscio  della  chiesa  e  a  gola  piena 
gridarono:  «  Per^l'aulorilà  della  sacrosanta  sinodo  costanziense 
cerchiamo  del  signore  papa  Giovanni  XXIII  citato  dai  suoi  se- 
guaci e  fautori  che  qui  sono,  perchè  vengano  a  rispondere  alla. 


—  355  — 

presenza  della  santa  sinodo  intorno  a  ciò  che  si  contiene  nella 
scrìtta  di  citazione.  >  Gridarono  più  volte:  nessuno  rispose,  per- 
chè Giovanni  stava  a  Friburgo  ;  ma  quello  era  semplice  rito. 
Tornati  in  chiesa,  lo  andarono  a  rapportare  ai  padri;  e  De  Piro 
ne  stendeva  e  leggeva  pubblico  istrumento  al  cospetto  di  una 
moltitudine  di  cristiani,  numero  copioso. 

II  di  appresso,  che  fu  il  14  di  maggio,  fu  aperta  la  decima 
sessione,  ed  Errico  de  Pira  annunziò  ai  padri  questa  essere  con- 
tinuazione delFantecedente  intorno  al  negozio  di  papa  Giovanni. 
Perciò  tornarono  a  gridare  i  quattro  deputati  delle  nazioni  con 
due  cardinali  alle  porte  della  chiesa,  chiamando  papa  Giovanni 
ed  i  suol  fautori.  E  neppur  rispose  alcuno.  Allora  il  presidente 
biella  sinodo  li  dichiarò  contumaci  :  ed  i  cardinali  di  S.  Marco 
^  Giordano  degli  Orsini  con  tutti  i  deputati  esaminatori  de'te- 
3timoni  accusatori  del  pontefice  vennero  in  mezzo  leggendo  le 
deposizioni  di  costoro.  Le  quali  approvate  come  vere,  il  De  Piro 
dimandò  ai  padri  se  lor  piaceva  che  papa  Giovanni  venisse  so- 
speso dairamministrazione  del  papato,  delle  ragioni  e  delle  so- 
stanze della  Chiesa,  e  che  venisse  ordinato  ai  fedeli  di  non  pre- 
stargli più  ubbedienza.  Tutti  gli  risposero  con  un  placet. 

Il  lettore  vorrà  sapere  quali  fossero  le  colpe  di  Giovanni, 
onde  venne  prima  sospeso,  poi  deposto  dal  papato,  lo  non  le 
recherò  tutte,  che  queste  in  man  del  promotore  De  Piro  ven- 
nero fuori  in  serie  assai  lunga  ;  però  trasandando  la  ragione 
numerica  delle  medesime,  mi  terrò  piuttosto  alla  ragione  morale. 
Non  dubito  che  Giovanni  sia  stato  un  tristo  arnese;  non  dubito 
•  della  veracità  dei  testimoni  né  della  equità  dei  giudici:  ma  credo 
<^he  i  tempi  operassero  molto  nella  coscienza  dei  primi  e  nel 
criterio  dei  secondi.  Nel  corso  di  un  secolo  ire  grandi  processi 
mi  si  parano  innanzi:  quello  di  Bonifacio  Vili,  dei  templari  e 
di  papa  Giovanni.  Ponendovi  sopra  la  mente,  trovo  un  non  so 
che  di  unissono  nella  natura  delle  colpe  deposte  dai  testimoni, 
e'  trovo  che  i  testimoni  subiscono  piuttosto  la  legge  di  quella 
che  chiamano  pubblica  opinione,  che  quella  della  verità  dei 
fatti.  Perciò  il  delitto  di  cui  si  accagiona  il  reo  è  sempre  quello 
che  rende  infallibile  Tapplicazione  della  pena.  L'ateismo,  la  stre- 
goneria, le  carnali  corruttele.  Quando  la  ragione  di  Stato  (come 
jie'due  primi  processi)  o  la  ragione  della  Chiesa  (come  in  que- 
^sto  di  Giovanni)  si  travasava  dalla  corte  nel  popolo,  dal  conci- 
lio nel  chiericato,  e  prendeva  la  forza  di  un  bisogno,  le  fanta- 
sie si  riscaldavano,  e  tutte  intente  le  menti  nella  ragion  finale 


-  336  — 

della  civile  e  religiosa  salvezza,  non  più  vedevano  nelFaccui* 
salo  la  contingenza  di  un  giudizio,  noa  la  necessità  di  una  con- 
danna. In  tali  condizioni  la  punizione  del  reo  s'identifica  con 
l'idea  dello  Stato  e  della  Chiesa  tolta  da  grave  pericolo.  E  quando 
non  corre  più  distinzione  tra  quelle  due  idee,  gli  uomini  pos- 
sono  diventare  caianniatori  in  buona  fede,  i  giudici  iniqui,  e 
Vexpedìt  arma  allora  carnefici  non  deputati  dalia ,  legge.  Boni- 
facio Vili,  il  gran  maestro  Molay,  la  pulcella  d'Orléans  mori- 
vano inconsolati  dal  pensiero  di  lasciare  ai  loro  giudici  uo  ri- 
morso. I  legislatori  sanciscono  le  pene  nella  pacifica  ed  indiffe- 
rente estimazione  deirumanità,  i  giudici  le  applicano  nella  esti- 
mazione degli  uomini;  la  quale  se  corre  tranquilla  per  la  inte- 
grità di  chi  giudica,  non  lo  è  sempre  per  la  mitezza  dei  tempi. 
È  questa  una  verità  che  non  s' interpreta,  ma  si  legge  nella 
filosofia  dei  diritto  penale.  Adunque  la  ragione  della  Chiesa  era 
a  que'malaugurati  tempi  già  travasata  nel  popolo  :  e  Giovanni, 
ancorché  fosse  stato  innocente,  doveva  comparire  reo  e  doveva 
sperimentare  come  Vexpedit  abusivo  dell'umana  giustizia  spezzi 
anche  in  man  dei  pontefici  le  somme  chiavi. 

Il  Cossa  ne  aveva  fatte  delle  grosse:  ma  era  papa.  Nel  dir 
questo  non  intendo  giustificare  la  iniquità  con  la  levatura  di 
chi  ne  é  imputalo.  Appunto  perché  papa,  più  scandalosa  la  colpa, 
più  dannevole  alla  sacra  e  civil  compagnia  degli  uomini,  più 
austero  il  giudizio,  anzi  quello  che  nella  Bibbia  é  chiamato 
durmimum.  Ma  la  legge  o  positiva  o  coercitiva  è  sempre  ordi- 
nata a  bene  della  società:  e  può  avvenire  che  una  cieca  appli- 
cazione della  medesima  falli  il  retto  intendimento  del  legislatore 
e  defraudi  i  soggetti  di  quel  bene  che  s' impromeltevano  dalla 
legge-  Di  qua  la  varietà  di  quella  che  chiamano  procedura  le- 
gale. Il  fiscale  del  concilio  De  Piro  menava  a  tondo  la  falce  della 
legge:  incontrò  un  triregno,  e  lo  segò  netto.  Ma  in  quel  triregno 
ora  il  massimo  de'poteri,  era  un'espressione  di  Dio  in  terra  agli 
occhi  degli  uomini.  Il  Cossa  fu  punito,  la  società  fu  appagata, 
ma  ove  fu  più  il  papa? 

Il  lettore  ora  vorrebbe  sapere  da  me  come  avrebbe  dovuto 
fare  il  terribile  fiscale.  Io  rispondo  che  quel  che  fecero  i  Co- 
stanziensi  non  andò  ben  fatto  anche  pel  mal  che  ne  venne. 
Come  poi  avrebbero  potuto  operare,  é  difficile  anzi  impossibile 
il  dire.  Lettor  mio,  quando  si  parla  di  società  di  sopranaturalc 
istituzione  è  scopo,  si  parla  di  cosa  che  non  è  naturale,  quindi 
misteriosa.  Ammettere  che  la  Chiesa  sia  sopranaturale  per  chi 


—  557  — 

fbodd,  pel  prindfHo  che  la  informa,  per  io  smpo  coi  mira,  e 
toidere,  a  mo'  d'esempio,  comprendere  al  tutto  e  sempre  U 
ione  di  ogoi  suo  precetto,  di  ogni  sua  credenza,  è  un  TOler 
ioire  rindefinilrile.  Intendo  bene  che  qoesti  nodi  nella  catena 
una  .specalativa  eslìmanone  si  Ontano,  si  leccano  e  si  lasciano 
re,  ma  che  nella  flagranza  dei  fatti  bisogna  scioglierli.  Ma  è 
*  Tero  che  evvi  una  provvidenza  che  tolga  questo  foslidio  ai 
li  degli  nomini  in  una  società  sopranaturale  come  la  Chiesa. 
i  possiamo  correre  la  serie  degli  umani  fatti,  indirizzarli,  voi- 
ii  or  bene,  or  male;  ma  la  cima  di  questa  serie  è  impughata 
Ila  mano  di  Dio.  Quando  sentiamo  il  caldo  del  divino  con- 
to, bisogna  arrestarsi  e  aspettare.  Qualche  voU<i  ci  pare  che 
lia  cessi  d'impugnarla  e  corriamo  ad  aflérrarla  per  fare  le  sue 
ci.  Malti  i  la  sprezziamo. 

Adunque  le  colpe  di  cui  fu  accagionato  Giovanni,  la  com- 
imorazione  delle  quali  giace  su  cinque  grosse  pagine  in  fo- 

0  del  Mansi,  si  riducono  a  questo:  libertino  in  famiglia,  tiranno 
Ila  legazione  di  Bologna,  simoniaco  e  dilapidatore  delle  sacre 
stanze  nel  papato.  Arrogi  il  pessimo  grido  di  aver  cacciato 

questo  mondo  per  veleno  l' antecessore  pontefice  Alessan- 
D  V,  di  essersi  contaminato  di  carnali  turpitudini,  di  essersi 
testato  al  cospetto  di  vari  prelati  ed  onesti  uomini  a  sostenere 
e  l'anima  se  ne  muoia  col  corpo,  e  che  al  di  del  giudizio  non 
sarebbe  mai  sconciata  a  risorgere;  ed  ecco  tutto.  Questi  nodi 
niquità  vengono  poi  risolnti  in  moltitudine  di  fatti  dall'ana- 
ico  fiscale,  e  ciascuno  di  questo  riceve  il  marchio  del  dictui\ 
leter,  credilur  et  reputatur  palarti,  publice  et  notorie,  l  tesli- 
)Di,  che  con  giuramento  avevano  raffermato  le' accuse  recate 
[ìtro  Giovanni,  erano  stati  dieci  vescovi,  abati  e  priori.  Il  car- 
dale di  San  Marco  raffermò  i  padri  intorno  alla  fede  dei  te- 
QQonii  e  conchiuse  Giovanni  XXIII  essere  un  dilapidatore  dei 
Qi  della  Chiesa,  simoniaco ,  turbatore  della  fede;  doversi  di- 
tarare  sospeso  dal  governo  delle  spirituali  e  temporali  cose 
Ila  Chiesa.  E  cosi  fu  fatto.  <  In  nome  della  santa  Individua 
nità  Padre,  Figlio  e  Spirito  Santo,  il  concilio  tolse  dalle  mani 

1  sommo  pontefice  il  timone  della  Chiesa.  > 

Papa  Giovanni,  che  fu  visitato  a  Friburgo  dagli  arcivescovi 
Riga  e  di  Besanzone  e  dal  burgravio  di  Norimberga,  era  stato 
Icemente  tradotto  da  questi  visitanti  a  Ratolfcel  ai  16  del 
ise,  terra  fortificata  di  Svevia  poco  lontana  da  Costanza.  Ove 
)prio  prendesse  stanza,  lo  venne  a  dire  il  dì  appresso  Tarei- 

Tamb.  Inquis.  Voi.  IL  *5 


—  338  — 

vescovo  di  Riga  ai  deputati  delle  nazioni,  signiflcando  loro  lo 
stato  del  loro  signore  il  papa.  Diceva  il  prelato  trovarsi  il  pon- 
tefice nella  terra  di  Ratolfcel,  ospitato  in  una  osteria;  non  es- 
sere ben  guardato;  doversi  provvedere  a  custodirlo;  mandare  il 
medesimo  supplicazioni  ai  padri  sinodali  a  suo  favore;  andar- 
sene tutto  in  amare  lagrime,  pentirsi  de'suoi  falli  e  raccoman- 
darsi alla  pietà  del  concilio;  chiedere  un  più  mite  governo.  Ma 
la  sentenza  della  sua  sospensione  era  già  bandita:  e  il  suo  sup- 
plicare era  vano.  Infatti  il  di  appresso  19  maggio  sopravennero 
in  Ratolfcel  i  vescovi  di  Àsti,  d' Augusta ,  di  Toulon  con  otto 
professori  di  università,  due  per  nazione,  e  si  presentarono  a 
Giovanni  significandogli  la  sua  sospensione  dal  papato  e  le 
colpe  onde  veniva  dal  concilio  a  quella  guisa  punito.  Parlava  il 
Tolonese,  uomo  rotto  de'  modi:  il  quale  tolse  dalle  mani  di  Gio- 
vanni il  sigillo  papale.  Panello  del  pescatore,  il  libro  de'  memo- 
riali, e  mandò  tutto  suggellato  al  concilio.  Come  fino  a  quel 
tempo  il  Gossa  area  sperato  con  gli  aiuti  delP  Austriaco  stor- 
nare dal  suo  capo  i  sinodali  fulmini,  cosi  ora  alla  presenza  di 
que'  messaggi  cadde  a  tutto  d' animo  e  non  pensò  che  a  ren- 
dere meno  fragorosa  la  sua  caduta  con  una  cieca  sommissione 
al  concilio.  Neiraccogliere  l'acerbo  messaggio,  ruppe  in  un  gran 
pianto  :  ed  a'suoi  famigliari,  che  lo  abbandonavano  per  coman- 
damento de'Costanziensi,  diceva  pietosissime  cose,  forte  dolen- 
dosi dell'essere  venuto  a  tanto  di  miseria  da  non  avanzargli  il 
come  rimeritarli  de'loro  servigi.  Poi  vólto  a'sinodali,  mandava 
dire  al  concilio  :  <  Con  tutta  T  anima  sottomettersi  alle  sue 
sentenze;  essere  paratissìmo  a  cedere  la  papale  dignità  :  ma  ove 
i  padri  lo  volessero  per  via  dì  processo  deporre,  avrebbe  a  mani 
giunte  accolta  la  sua  condanna  e  sarebbesi  contenuto  da  qua- 
lunque richiamo.  Raccomandare  però  per  le  viscere  della  mise- 
ricordia di  Gesù  Cristo  ai  padri  del  concilio  il  suo  onore,  la  sua 
persona,  il  suo  stato;  Invocare  da  ultimo  il  favore  ed  il  suffra- 
gio della  serenissima  maestà  di  Sigismondo,  ^profferendosi  a 
venire  in  Costanza  ed  altrove  a  fare  il  piacere  del  concilio.  > 
Queste  cose  faceva  consegnare  alla  scrittura  il  pontefice,  che 
segnò  dol  suo  nome,  Baldassare.  Il  Tolonese  nel  muovere  per 
Costanza,  a  nome  del  concilio  comandò  che  papa  Giovanni  ve- 
nisse stretto  in  una  certa  torre  di  Ratolfcel  con  un  nodo  dì 
trecento  Ungheri  che  lo  guardassero.  E  così  fu  fatto. 

La  prigionia  del   sospeso  pontefice  rivelò  Tanimo  de' car- 
dinali verso  lui.  Costoro  erano  stati   testimoni  nel  concilio  dì 


—  339- 

erribili  cose  operate  contro  alla  papale  autorilà  ed  avevano 
lovQto,  come  conseguenza,  tatelare  sé  stessi  contro  la  cbiericale 
irìstocrazia:  la  quale,  giustificata  apparentenoente  dalle  ragioni 
lelPincurabile  scisnoa  e  sorretta  dairinsolito  suffragio  degli  unì- 
rersitarì,  érasi  messa  in  punta  di  corpo  cbe  oggi  direbbero  co- 
;tìtuente.  In  tali  condizioni  questo  collegio  di  cardinali,  a  dire 
1  vero,  addimostrò  un  tepore  di  spirili  cbe  fa  un  brullo  vedere 
iella  storia.  Renitenti,  ma  andarono  alla  famosa  quinta  sessione; 
il  processo  di  Giovanni  prestarono  Topera;  e  se  non  ruppero 
iIFaperto  quanto  gli  altri  padri ,  ciò  avvenne  più  pel  timore 
;he  Giovanni,  arrivando  a  mantenersi  in  seggio,  non  avesse 
)reso  vendetta  di  loro  cbe  per  la  coscienza  della  loro  missione 
iella  Chiesa.  Infatti  come  fu  risaputo  che  il  pontefice  era  chiuso 
iella  torre  di  Ratolfcel  e  cbe  trecento  Ungheri  con  le  spade  gli 
ibbarravano  la  via  a  fuggire,  quei  cardinali,  cbe  fino  allora  non 
ivevano  preso  parie  nel  suo  processo,  sorsero  inverecondi  te- 
itimoni  della  verità  delle  sue  accuse.  Tra  questi,  sei  erano  stali 
lecorati  della  porpora  dallo  stesso  Giovanni,  e  quattro  traslati 
lairordine  del  presbiterato  a  quello  deirepiscopato.  Disonore  a 
^storo.  I  cardinali ,  come  elettori  ed  eligibili  a  pontefici ,  for- 
nano  una  compagnia  sapientemente  istituita  ad  armonizzare  il 
intatto  delParistocrazia  episcopale  col  vescovo  ecumenico  di 
toma.  Qualunque  sia  il  negozio  che  si  traili  nella  Chiesa,  essi 
lon  debbono  svolgere  gli  occhi  della  mente  dal  massimo  dei 
legozì,  dico  dalla  lulein  del  pontefice  nella  integrità  delle  sue 
*agioni.  Un  po'  d'accidia  è  per  essi  un  morale  suicidio.  Che  i 
>)stanziensi,  nella  disperazione  de'  mezzi  a  svellere  lo  scisma, 
;i  lasciassero  trasportare  dal  libero  e  non  sano  logicare  degli 
iniversitari ,  forse  potranno  trovare  qualche  indulgenza  per  la 
stranezza  delle  circostanze:  ma  indulgenza  non  troveranno  mai 
(uei  cardinali ,  che  avevano  peculiare  missione  a  vigilare  la 
^ttedra  di  S.  Pietro.  Il  papato  è  la  cittadella  della  Chiesa: 
;hi  ìie  ha  la  guardia  non  può  lasciarla ,  qualunque  la  bontà 
lei  fine. 

Il  processo  di  Giovanni  in  mano  dei  fiscali  non  dovea  frut- 
ar  solo  la  sua  sospensione  dal  papato,  bensì  anche  la  deposi- 
sione.  Era  il  di  24  maggio ,  vigilia  della  undecima  sessione , 
iella  quale  era  da  emanarsi  la  insolita  sentenza  ;  e  fu  tenuta 
ina  congregazione  dei  deputali  delle  nazioni  a  preparare  la 
Dateria  da  definirsi  il  di  appresso.  I  commissari  del  papale  pro- 
;esso  dichiararono  non  aver  più  che  fare;  le  colpe  del  Cossa 


—  340  — 

essere  tatte  chiarite,  raffermate  dal  giuramento  dei  testimooì 
non  rimanere  che  Implicazione  della  pena.  Pensa  il  Leofaii 
che  in  questa  congregazione  i  deputati,  presi  da  certo  pudori 
si  conducessero  a  passare  con  silenzio  al  cospetto  dei  conciili 
alcuni  dei  delitti  apposti  al  pontefice ,  come,  a  mo'  d*  esempic 
ravveienamento  del  predecessore  e  le  incredibili  libidini.  Ceri 
che  di  queste  nefandezze  non  si  parlò  nella  prossima  sessione 
Il  francese  cardinale  di  Viviers  fu  presidente  alla  famos 
sessione  del  dì  25  maggio,  Tundecima  del  concilio,  nella  qual 
venne  deposto  il  papa  Giovanni  XXIII.  L'imperatore,  i  princi 
pi,  gli  ambasciadori,  tutti  i  cardinali  presenti.  Al  vescovo  d 
Posnia  toccò  leggere  le  papali  accuse.  Ad  ogni  articolo  rispon 
deva  altro  lettore  recando  il  suffragio  de' testimoni.  Quale  pò 
fosse  questo  suffragio  è  bello  vedere  da  un  solo  che  vo'  recarne 
«  Questo  primo  articolo  vien  provato  vero  e  notorio  da  due  cai 
dinali ,  da  un  protonotario ,  da  due  uditori ,  da  un  chierico  d 
camera,  da  un  licenziato  ne'decreti,  da  un  arcivescovo,  da  un 
scrittore  e  abbreviatore,  da  un  procuratore  di  un  grande  ordine 
da  un  canonico  di  una  gran  chiesa  metropolitana,  da  un  vescovi 
da  altri  notabili  uomini,  secondo  che  hanno  udito  dira,  e  dall 
pubblica  voce  e  fama.  »  Ora  vedi,  lettore,  se  era  a  lordarsi  di  tant 
infamia  un  pontefice  perchè  un  canonico  di  una  grande  metro 
polilapa,  un  licenziato  nei  decreti,  avevano  udito  dire  e  raccoit 
dalla  pubblica  fama  le  più  sozze  cose  di  questo  mondo!  Si  tac 
ciono  i  nomi  de'testimoni,  ed  a  tutto  sostegno  di  verità  si  piant 
in  faccia  al  concilio  un  de  auditu  publica  voce  et  fama!  Neil 
nona  sessione  a  di  13  maggio  papa  Giovanni,  invisibile  alle  sinc 
dali  citazioni,  era  stato  dichiarato  contumace,  e  furono  eletti 
commissari'  a  raccogliere  le  deposizioni  ed  i  giuramenti  dei  testi 
moni  :  a  di  18  maggio  egli  venne  condannato  e  sospeso  dal  poc 
tiflcato.  11  processo  venne  fabbricato  in  cinque  di»  e  processo  901 
di  un  sol  fatto  colpevole,  ma  delfiniera  vita  dì  un  uomo.  Se 
(:;o$tanziensi  avessero  sospeso  e  deposto  Giovanni  per  quell'expo 
dit  che  ho  toccato  poc'anzi,  ognuno  avrebbe  detto  :  i  padri,  noi 
trovando  altra  via  ad  uscire  dal  labirinto  dello  scisma ,  eh 
quella  di  spodestare  il  papa,  lo  spodestarono.  Ma  favor  volut 
poi  giustificare  il  mostruoso  partito  con  legalità  di  un  process 
compilato  miracolosamente  in  cinque  di  spense  quel  po'  di  me 
ralità  che  veniva  ne'  loro  consigli  dall'intento  di  provvedere  ali 
unione  della  Chiesa.  La  deposizione  di  Giovanni  doveva  slare  i 
un  immediato  contatto  col  bene  della  Chiesa ,  perchè  avess 


—  541  — 

meno  scaDdalixzata  la  logica  de'  credenti  in  Cristo.  Frapporre 
nn  processo  di  quella  razza  tra  il  pontefice  da  deporsi ,  e  la 
Chiesa  da  pacificarsi,  era  un  chiedere  suffragio  di  legalità  dai 
peccati  dell  uomo;  era  un  sottonnettersi  alla  necessità  dì  farli 
esistere,  non  esistendo:  era  un  trarre  le  menti  dei  fedeli  piut- 
tosto su  la  colpabilità  del  pontefice  che  su  la  curala  pace  della 
Chiesa.  Ed  allora  chi  potè  più  rattenere  quelle  menti  dal  cor- 
rere a  necessarie  conclusioni  ?  Giovanni,  perchè  colpevole ,  è 
deposto  dalla  Chiesa  congregata:  dunque  ha  questa  il  diritto 
d'inquisire  ne'papali  fatti;  dunque  se  altri  papi  infermi  da  umane 
corruttele  non  vennero  deposti,  è  a  dire  o  che  la  Chiesa  ac- 
quistasse di  fresco  quel  diritto,  o  che  fosse  stata  per  lo  innanzi 
iodolgente  per  complicità  di  peccato.  Tra  queste  due  punte  af- 
faticatisi gli  umani  intelletti,  quale  giudizio  poteva  aspettarsi? 
Eqoalunque  sia  il  giudizio,  ove  troveremo  più  Fidea  di  una 
Chiesa  santa  e  di  un  pontefice  confermante  i  fratelli  nella  fede, 
pel  suffragio  della  preghiera  di  Cristo  ? 

Ma  nel  concilio  erano  i  professori  delle  università ,  e  si 
procedeva  con  poca  memoria  di  que'principii  che  tutti,  essendo 
cattolici,  tenevano  come  veri.  Compiuta  dal  vescovo  di  Posnia 
la  criminale  lezione,  venne  approvata  dal  cardinale  di  Viviers 
a  nome  di  tutto  il  collegio  de'cardinali,  da  ira  rei  vescovo  di  Mi- 
lano per  la  nazione  italiana,  da  quel  di  Posnia  per  la  tedesca, 
dall'abate  di  S.  Lupo  per  la  francese ,  dal  canonico  di  Cantor- 
bery  Tomaso  Polton  per  la  inglese.  Poi  vennero  destinati  cin- 
que cardinali,  TOrsini,  quel  di  Chalant,  di  Saluzzo,  di  Cambrai 
e  di  Firenze  a  recare  al  pontefice  l'annunzio  di  tutto  l'operato 
contro  di  lui  e  della  sua  imminente  deposizione.  Questi  si  ap- 
presentarono  a  Giovanni  senza  verun  segno  di  onore:  lo  tene- 
rne per  già  deposto.  Nissuna  fatica:  Giovanni  venne  loro  in- 
contro in  tutto  quello  che  avea  fermato  il  concilio  ;  onde  lo 
stesso  di  se  ne  ritornarono  a  Costanza  apportatóri  della  cieca 
sommissione  del  pontefice.  Il  di  appresso,  27  maggio,  altri  de- 
putati sinodali  sopravennero  a  Ratolfcel  :  erano  due  vescovi , 
due  abati  con  un  codazzo  di  protonotari.  Questi  recarono  a 
Giovanni  la  serie  dei  suoi  delitti ,  onde  veniva  deposto  ;  e  di* 
mandandogli  se  avesse  voglia  a  purgarsene,  Giovanni  non  volle 
leggere  il  criminale  catalogo  né  rispondere  alle  accuse,  dicendo 
cte  il  concilio  era  infallibile.  Parole  che  chiudevano  un  mi- 
dollo molto  amaro.  E  ripetendo  col  vivo  della  voce  la  sua  som- 
missione alle  decisioni  del  concilio  »  accommiatò  i  deputati , 
dando  loro  a  recare  ^IFimperatore  una  sua  epistola. 


—  542  — 

GiovaDiii  non  pensavi)  pia  al  papato ,  ma  temeva  dei  de- 
stini cbe  Io  minacciavano  dopo  la  deposizione.  Voleva  una  ta- 
vola nel  naufragio;  si  volse  al  cesare  per  averla.  Scriveva  a  Si- 
gismondo, che  chiama  suo  carissimo  figliuolo^  adonta  che  que- 
sti non  credesse  alla  sua  paternità  in  Cristo'    Incomincia  a  ri- 
cordargli come  il  re  dei  regi  lo  avesse  fornito  di  un  tesoro  di 
prudenza  a  preferenza  di  tutti  gli  altri  principi  di  quel  tempo: 
e  poiché  anche  le  menti  più  svegliate  vanno  stimolate  a  più 
accesi  studi  di  virtù,  confortarlo  in    suo  favore  a  quella  cle- 
menza che  è  sostegno  dei  troni  e  della  quale  egli  era  stato 
sempre  larghissimo  verso  i  suoi  ofTensori.  Sprofondato  come 
era  per  permissione  di  Dio  e  per  sua  colpa  in  tanta  miseria, 
raccomandarsi  a  tutt'uomo  alla  clemenza  di  lui.  Poi  si  mette 
a  commemorare  tra  V  amaro  ed  il  dolce  a  queir  augusto  co- 
me e  quanto  fossesi  adoperato  per  fargli  ascendere  il  trono 
imperiale ,  dopo  la  morte  di  Roberto ,  in  guisa  che  la  corona 
gli  stesse  sul  capo  per  negoziati  da  lui  tenuti  con  gli  elettori. 
Ricordavagli  come  neiraffare  del  concilio  fosse  stato  dolcissimo 
ad  ogni  suo  piacere,  avendo  lasciato  a  suo  talento  la  scelta  del 
luogo  e  del  tempo  per  la  celebrazione  di  un  sinodo,  dal  quale 
poco  di  bene  poteva  impromettersi.  Avere  avuto  in  cima  ai 
cuore  il  suo  innalzamento  per  Tamore  grandissimo  che  gli  por* 
tava:  richiederlo  della  stessa  benevolenza  e  di  perdono,  ove 

10  avesse  in  qualche  cosa  offeso.  Stesse  a  suo  intercessore  appo 
il  concilio ,  perchè  dopo  la  sua  dimissione  dal  papato ,  salva 
sempre  la  pace  e  la  unione  della  Chiesa  ,  venisse  provveduto 
al  suo  onore  ed  al  suo  stato.  Supplicava  da  ultimo  che  volesse 
mandargli  subita  e  benigna  risposta.  Sigismondo  non  rispose. 

11  Cossa  doveva  saperlo  e  non  istemperare  la  dignità  di  uoma 
in  queste  infeconde  lamentazioni  e  preghiere.  Egli  con  questa 
lettera  mostrò  animo  inferiore  air  altezza  dell' ufficio  da  cui  lo 
cacciavano,  e  dell'  infortunio  che  lo  colpiva.  Chi  scendeva  dal 
primo  trono  della  terra  doveva  nascondersi  alla  faccia  degli 
uomini  e  non  mendicare  un  cencio  di  porpora  e  qualche  di- 
gnità nella  Chiesa  che  rendeva  più  visibile  la  sua  caduta.  Egli 
non  recava  più  sul  capo  il  triregno  di  Bonifacio  Vili,  ma  una 
fronte  che  ne  recava  ancora  il  solco  ;  non  doveva  mai  fino  a 
questo  segno  inchinarsi  innanzi  a  quel  successore  degli  Ar- 
righi e  dei  Barbarossa.  Giovanni  non  era  allora  degno  del 
papato. 

Lo  deposero  finalmente  nella  duodecima  sessione ,  tenuta 


—  «3  — 

I  di  29  di  ma^io.  Tatti  presenti,  tì  presiedeva  il  cardinale  di 
n?iers:  per  certo  ?ezxo»  che  io  qoel  secolo  era  cornane,  di 
;>iegare  le  sentenze  della  Bibbia  a  qualunque  fatto ,  ove  fosse 
x>nsonan2a  di  parole ,  fa  Ietto  il  Vangelo  che  recava  :  A  mio 
udiàum  est  mundi,  nane  princeps  huius  mundi  eiicietur  foras; 
piasi  che  la  deposizione  di  un  ponteflce  avesse  che  fare  con 
la  cacciata  di  Satanasso.  Invocato  lo  Spirito  Santo  >  il  vescovo 
li  Arras  lesse  :  <  In  nome  della  santa  ed  individua  Trinità . 
Padre,  Figliuolo  e  Spirito  Santo.  Anien.  II  sacrosanto,  e  gene- 
rale sinodo  costanziense,  legittimamente  assembrato  nello  Spi- 
ito  Santo,  rappresentante  la  universa  Chiesa,  invocato  il  nome 
li  Cristo,  non  avendo  innanzi  agli  occhi  altri  che  Dio ,  veduti 
gli  articoli  compilati  e  pubblicati  nella  presente  causa   contro 
il  signore  Giovanni  papa  XXIIl ,  e  le  prove  dei  medesimi ,  la 
spontanea  sottomissione  del  medesimo  e  tutto  il  processo   di 
questa  causa,  maturamente  deliberata  la  cosa,  per  questa  doti- 
mtiva  sentenza,  consegnata  alle  scritture,  pronuncia ,  definisce 
e  dichiara  come  la  fuga  presa  dair  anzidetto  signore   Giovanni 
papa  XXIU  da  questa  città  di  Costanza  e  dal  detto  sacro  con- 
cilio generale,  clandestinamente,  di  notte  tempo,  in  ora  sospetta, 
sotto  mentite  ed  indecenti  vesti,  sia  stata  e  sia  indecorosa  alla 
Chiesa  di  Dio,  apertamente  scandalosa  al  detto  concilio,  turba- 
ziÒDe  ed  impedimento  alla  pace  ed  unione  della  Chiesa ,  ali- 
meoto  del  diuturno  scisma ,  violazione  delle  promesse  e  dei 
giuramenti  da  esso  signor  papa  giurati  a  Dio,  alla  Chiesa  ed  al 
concilio,  come  fosse  stato  e  sia  esso  signor  Giovanni  pubblico 
simoniaco,  manifesto  dilapidatore  delle  sostanze  e  delle  ragioni 
non  solo  della  romana  chiesa ,  ma  anche  di  altre  molte,  e  di 
000  pochi  luoghi  pii  ;  malvagio  amministratore  e  dispensiere 
delle  temporali  e  spirituali  cose  della  Chiesa  ;  prima  che  venisse 
papa  e  dopo,  fino  a  questi  di ,  scandalizzante  la  Chiesa  di  Dio 
^  il  popolo  cristiano  coi  suoi  disonesti  ed  abbominevoll   co- 
stumi ;  come  avesse  ostinatamente  perseverato  nelle  anzidette 
tristizie  e  superbia  dopo  le  debite  e  caritatevoli  ammonizioni  a 
hi  spesse  e  ripetute  volte  fatte,  e  fessesi  per  questo  manife- 
stamente reso  incorreggibile  ;  come  per  gli  anzidetti  ed  altri 
delitti  a  lui  addebitati  e  descritti  nel  processo  di  detta  causa 
dovessesi  rimuovere,  privare,  e  deporre  dal  papato  e  da  ogni 
amministrazione  spirituale  e  temporale  come  uomo  indegno , 
ioatile  e  dannevoie.  E  perciò  il  santo  sinodo  dì  fatti  lo  rimuove, 
0  priva ,  lo  depone ,  dichiarando  tutti  e  ciascuno  dei  fedeli , 


—  544  — 

qualunque  Io  stato,  la  dignità  e  la  condizione  che  si  abbiano, 
sciolti  dalla  sua  obbedienza,  fede  e  giuramento:  vietando  a  tutti 
i  fedeli  nominare  pap3  lui ,  già  deposto  dal  papato ,  aderire  a 
lui  come  a  ponteQce  e  prestargli  qualunque  obbedienza.  Tntta- 
Yolta,  per  certa  scienza  e  nella  pienezza  della  podestà,  il  santo 
sinodo  sopperisce  a  qualunque  difetto,  se  per  caso  siane  inter- 
venuto alcuno  negli  antecedenti ,  e  dichiara  esso  Giovanni  do- 
versi condannare,  e  per  la  stessa  sentenza  condanna  a  tenersi 
e  dimorare  in  qualche  opportuna  e  decente  stanzi  sotto  la  si- 
cura guardia  del  serenissimo  principe  signore  Sigismondo  re 
dei  Romani  e  di  Ungheria,  divotissimo  avvocato  e  difensore  della 
universale  Chiesa,  in  nome  del  sacro  generale  concilio,  finca 
che  sembrerà  opportuno  ad  esso  concilio  pel  bene  deirunione 
della  Chiesa.  11  medesimo  concilio  poi  riserva. al  suo  arbitrio  a 
dichiarare  ed  infliggere  le  altre  pene  che  a  forma  della  ragione 
canonica  dovrebbero  applicarsi  pe' riferiti  delitti  ed  eccessi, 
secondo  che  meglio   persuaderà  o  il  rigor  della  giustizia  o  la 
ragione  della  clemenza.  >  Letto  che  ebbe  il  vescovo  di  Anras 
la  strana  sentenza,  il  cardinale  di  Viviers,  come  presidente,  di- 
mandò se  fosse  alcuno  che  avesse  a  dire  contro  il  deBoito, 
dichiarando  come  il  silenzio  si  sarebbe  tenuto  per  approva- 
zione. Non  fiatò  alcuno.  Piovvero  i  placet  dai  sinodali  seggi: 
e  Giovanni  non  fu  più  papa.  Allora  il  fiscale  De  Pire  chiese 
venisse  spezzato  il  papale  suggello  e  lo  stemma  del  Cessa:  e 
fu  contentato.  Cinque  cardinali  vennero  deputati  dal  concilio 
a  recare  al  condannato  pontefice  la  sentenza  della  sua   depo- 
sizione; e  perchè  non  rimanesse  più  via  aperta  al  Cossa,  al  De 
Luna  ed  al  Corarìo  di  tornare  al  papato,  fu  sancito  dai  padri 
con  speciale  decreto  non  potersi  venire  alla  elezione  del  nuovo 
papa  senza  il  consenso  del  concilio,  e  i  tre  anzidetti  essere 
incafpaci  di  novella  elezione  alla  dignità  di  cui  venivano  spo- 
gliati. 

Ma  i  Costanziensi  non  si  addormivano  alle  umili  proteste 
del  Cossa  ;  lo  temevano  sempre  risorgente  pontefice.  Perciò  k) 
fecero  tradurre  nella  rócca  di  Gottleben  a  una  mezza  lega  da 
Costanza.  In  quella  torre  il  Cossa,  solo  e  senza  pure  la  compa- 
gnia de'suoi  domestici,  trovò  Giovanni  d'Hus  imprigionato  per 
eresia,  in  uno  stesso  carcere  un  pontefice  deposto,  ed  un  ere- 
siarca I  lo  non  so  se  fra  loro  ragionassero  di  quello  strano  in- 
contro i  due  prigionieri:  so  che  il  Lenfant  calvinista  non  faccia 
a  modo  suo  e  coi  pregiudizi  di  sua  setta  altra  considerazione 


he  qaella  della  persecozioDe  mossa  ad  Has  da  papa  Giovanni: 
lei  trovarsi  insieme  nello  stesso  carcere  quegli  per  alcune  par- 
icolari  opinioni,  qaesti  per  enormi  ribalderìe;  e  del  piacere  elio 
lovelte  provare  il  Boemo  nel  vedersi  ragiiìiinlo  nelLi  slessa 
ena  dal  persecutore  ponteQce.  Ma  queste  sono  considerazioni 
he,  fatte  da  un  eretico ,  strisciano  ad  ali  tarpate  sulla  faaia 
e'falti  travisati  a  suo  modo.  Levando  un  po' più  in  su  gli  animi, 

lettore,  troveremo  ben  altre  verità  in  quello  scontro  provvi- 
enziale.  Un  gran  periodo  finiva,  un  altro  pur  grande  incomìn- 
iava.  Il  medio  evo  tramontava  coi  secoli  del  sentimento:  sorgo- 
ano  i  secoli  del  pensiero.  L'tiltìmo  stadio  d'un  periodo  che  nas(  e 

palpitante  di  troppa  vita,  é  selvaggio,  violento.  La  provvidenza 
ecide  sempre  que'due  estremi,  e  nella  loro  morte  è  Tequilibrio 

la  posa  de'sociali  elementi,  onde  T  umanità  non  più  barcol- 
indo,  ma  con  sicuro  incesso  muove  e  procede,  il  medio  evo 
a  tutta  cosa  del  clero,  e  Tultimo  suo  stadio  doveva  segiìnrsi 
ol  naufragio  di  un  papa,  e  fu  Giovanni.  I  secoli  del  pensiero 
urono  cosa  de'filosofi;  ed  il  suo  primo  stadio  doveva  segtìarsi 
la  un  selvaggio  filosofo,  che  assorto  nella  geometria  della  ra- 
gione, fosse  sordo  alla  voce  dell'autorità,  e  questi  fu  Giovanni 
l'Hos.  Il  papa  e  l'eresiarca  dovevano  cadere  sotto  il  colpo  di 
ma  stessa  sentenza.  La  rócca  di  Gotlleben,  che  apprescntava  ni 
noQdo  dai  cancelli  un  papa  ed  un  eresiarca,  offri  la  formola 
)in  alta  della  ragione  provvidenziale  onde  i  tempi  si  succedono. 
^'umanità  la  intese,  e  in  quella  intelligenza  vagì  T  anima  di 
ìQttemberg  e  di  Colombo. 

Conta  Teodorico  da  Niem  che  Cossa  indirizzasse  lettere  a 
inalche  suo  amico  io  Costanza,  per  averne  parole  di  consola- 
tone, e  che  ninno  osasse  racconsolario  di  risposta.  Le  quali 
altere  misero  in  forte  apprensione  Tanimo  di  Sigismondo,  che 
0  fece  condurre  nel  castello  di  Heidelberg,  coiicedend(»gli  a 
compagni  qualche  gentiluomo  e  due  cappellani.  Nuovi  sospetli, 
movo  carcere.  L'elettore  palatino,  che  era  il  guardiano,  lo  ron- 
lusse  nei  castello  di  Manheim,  ove  il  Gessa  dimorò  \Hr  in*, 
noi  in  mezzo  a  gente  di  cui  ignorava  la  lingua. 

Cosi  Baldassare  Cossa,  dopo  avere  afferrate  le  somme  chi  ivi, 
B  depose  per  forza  di  quel  concilio  che  egli  stesso  aveva  con- 
regato  nella  speranza  di  togliersi  da'fianchi  gl'importuni  anli- 
lapi  Benedetto  e  Gregorio.  Non  «essendo  stato  mio  intendi- 
mento scrivere  queste  storie  per  sola  esposizione  di  fatti  che 
ila  sapevansi,  ma  per  lumeggiarli  di  sommarie  ragioni  a  vivi- 

Tamb.  Inquis,  Voi.  II.  '*i 


-  546  — 

ficare  la  storia 'dei  loro  rapporti,  è  mio  debito  condnrre  il  let- 
tore alla  lontana  visione  delle  conseguenze,  che  dalla  deposi- 
zione di  nn  pontefice  si  derivarono  nel  morale  criterio  dei 
popoli. 

I  Costanziensi  nel  decreto  di  deposizione  tacquero  dello 
scisma:  parlarono  solo  dei  delitti  del  pontefice,  onde  lo  spode- 
starono. Questo  fu  un  terribile  giudizio,  che  bandito  su  le  alte 
vette  del  santuario  della  fede,  ove  era  stato  innanzi  sommissione 
e  silenzio,  doveva  avere  un  eco  anche  terribile  nel  santuario 
della  scienza,  dico  nelle  università,  ove  era  libertà  di  esame  e 
di  parola.  11  reggimento  della  Chiesa  è  puramente  monarchico; 
l'assistenza  di  Dio,  il  dono  deir  infallibilità  nella  definizione 
delle  credenze  e  dei  costumi  basta  a  puntellare  la  cagionevolezza 
di  chi  governa  ;  il  temperamento  di  un  potere  aristocratico  o 
democratico  è  superfluo,  anzi  nocivo.  Ricordi  sempre  il  lettore 
che  la  Chiesa  è  una  società  divina.  I  Costanziensi  non  solo  a 
levarono  in  punto  di  corpo  temperando  la  monarchia  papaie, 
ma  giudicando  dannabile  il  pontefice.  In  guisa  che  il  reggimento 
della  Chiesa  addivenne  puramente  aristocratico,  ed  il  pontefice 
discese  al  grado  di  semplice  uflBiciale  deirepiscopato,  rimovibile; 
perchè  giudicabile.  Né  si  levarono  i  sinodali  sul  labile  fonda- 
mento di  un  fatto,  ma  su  quello  duraturo  dei  principii  elaborati 
dal  Gerson  della  supremazia  di  un  concilio,  che  immediatamente 
aveva  ricevuto  da  Cristo  il  dono  della  infallibilità.  Per  la  qoal 
cosa  i  fedeli,  che  eransene  stati  fino  a  quel  tempo  a  capo  chino 
innanzi  alla  cattedra  di  S.  Pietro,  credendo  che  vi  fosse  assiso 
un  pontefice,  quando  non  vi  trovarono  più  papa  Giovanni,  che 
non  era  morto ,  dimandarono  del  dove  se  ne  fosse  andato  :  e 
neir  udire  che  era  stato  cacciato  via,  perchè  ribaldo,  dovettero 
le  loro  menti  fremere  per  moltitudine  di  perchè  intorno  a  cose 
che  prima  si  credevano  e  non  si  ragionavano.  Di  perchè  abbon- 
davano gli  universitari  del  concilio  di  Costanza  e  ne  dettero 
ai  popoli  a  mano  larga.  Si  esaurì  la  questione  del  potere  papale; 
e  si  persuasero  che  quando  i  papi  non  stavano  a  segno,  si 
mandavano  a  casa  loro.  Ora  il  potere,  massime  in  quel  secolo, 
metteva  capo  nel  pontefice  e  pontificalmente  colava  per  tutti 
il  grado  della  gerarchia  sociale.  Per  la  qual  cosa,  ove  anche  i 
popoli  avessero  voluto  per  logica  temperanza  arrestarsi  al  potere 
papale,  non  avrebbero  potute:  dovevano  necessariamente  andare 
in  giù,  ripetendo  le  stesse  dimando  inlorno  ai  principi,  e  con- 
chiudere :  Se  nella  società  della  Chiesa,  che  pure  è  assistita  da 


—  547  — 

No  ed  è  sopranaturalmente  iDfallibile,  è  mestieri  temperarne 
D  modo  così  energico  la  monarchia»  che  sarà  a  dire  ed  a  farsi 
li  una  compagnia  d' uomini  abbandonati  alla  libertà  del  loro 
rbitrio  ed  obbligali  a  provvedere  con  gli  argomenti  della  ragione 
Uà  incolumità  della  cosa  pubblica?  La  dimanda  fu  fatta  nel 
agitelo  della  pubblica  coscienza»  e  la  risposta  fu  data  nel  segreto 
Iella  universale  ragione  :  non  se  ne  udi  sillaba,  perchè  i  principi 
edevano  in  trono,  avevano  eserciti  e  non  erano  imprigionati 
L  Ratolfcel,  come  papa  Giovanni.  Ma  il  silenzio  della  scienza  è 
len  diverso  dal  silenzio  della  fede.  In  questo  posa  lo  spirito 
Iella  pace,  in  quello  cova  lo  spirito  delle  procelle.  Chi  può 
attenere  per  sempre  ? 

L'avere  i  Gostanziensi  messa  in  contatto  la  loro  sentenza 
li  deposizione  contro  il  papa  non  con  la  straordinaria  circo- 
stanza della  scisma,  ma  coi  peccati  del  Gessa,  apri  una  larga 
)iaga  nei  seno  della  Ghiesa  e  spinse  i  popoli  ad  una  irrequie- 
azza  febbrile,  perchè  fiutarono  da  lungi  pe^ricolosi  problemi  a 
risolvere;  in  Gostanza  si  abbruciarono  ^gli  eretici,  ma  non  le  loro 
ipinìoni.  Queste,  abborrile  dai  padri'  nella  loro  materialità , 
mette  dalla  specola  della  fede,  spiritualmente  si  appigliarono 
ille  loro  persone,  senza  che  se  ne  avvedessero,  elaborate  che 
hrono  dal  sillogismo  degli  universilarì  ed  onestate  dai  lenocinli 
ìeìVexpedit  di  una  giustizia  cui  poneva  in  mano  le  bilance  la 
stranezza  dei  tempi.  Ghe  fu  mai  la  eresia  di  Wicleff  e  di  Hus, 
te  Doo  una  indisciplinata  reazione  alla  dissoluzione  dei  chieri- 
ci costumi  ed  alla  intemperante  signoria  di  alcuni  papi?  Ghe 
in  mai  la  sentenza  costanziense  contro  papa  Giovanni,  se  non 
Doa  legale  reazione  a  quella  intemperanza  e  a  quella  dissolu- 
itone?  I  sinodali  non  dannarono  un  vescovo,  ma  un  papa:  ed 
un  papa  è  potenzialmente  tutta  la  Ghiesa.  Essi  non  deposero 
solo  Giovanni  come  peccatore  nel  papato,  ma  come  rotto  ad 
ogni  maniera  di  lalrocinii  e  libidini  innanzi  al  papato.  Perciò 
il  concilio  non  dannò  solo  il  Gessa,  ma  tutta  la  Ghiesa,  la 
jnale  era,  secondo  la  decisione  del  concilio,  venuta  a  tanto  di 
^tà  da  assumere  alla  sedia  di  S.  Pietro  un  uomo  degno  più  di 
capestro  che  delPinfula  pontificale.  Dovettero  arrossire  di  ver- 
{ogoa  i  cardinali  elettori  quando  il  vescovo  di  -  Arras  gittò  loro 
0  viso  i  cinquanta  articoli  dei  delitti  di  quel  Gessa  che  essi 
ivevano  eletto  a  pontefice  sommo:  ma  quel  rossore  dovette 
liflbndersi  sul  volto  di  tutti  i  padri  sinodali,  i  quali  se  non 
foroDO  complici  della  mala  elezione,  erano  complici  dì  que'mali 


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generali  della  Chiesa ,  onde  i  cardinali  potettero  senza  qo 
ricliìamo  de'  fedeli  fallire  a  quel  segno  neir  esercizio  del  loro 
ministero.  Voleva  il  concilio  riformare  la  Chiesa?  era  suo  debito. 
Ma  non  doveva  mai  toccare  la  persona  dpi  ponteOce,  perchè  il 
papa  nella  chiesa  cattolica  s'identiQca  con  un  principio:  echi 
ferisce  un  principio  dirocca  e  non  ediflca.  Non  dissero  i  sino- 
dali, come  aveva  detto  Hus,  che  il  papa  era  r  anticristo;  ma 
dissero  che  papa  Giovanni  era  un  ribaldo.  Ora  nei  dir  questo, 
eslimando  il  papa  nella  peccabilità  dell'umana  natura,  non  era 
un  licenziare  altri  concilii  e  dopo  i  concilii  anche  gl'individui 
a  dire  lo  stesso  di  altri  papi?  L'  eresia  universitaria  di  Oxford 
e  dì  Praga  mosse  da  principii  ben  contrari  a  quelli  da  cui 
mosse  il  concilio  :  concilio  ed  eresia  combattettero  nemici,  pro- 
cedendo nella  scala  delle  conseguenze.  Ma  quando  giunsero  sul 
terreno  della  Anale  conseguenza,  si  trovarono  entrambi  giudi- 
canti lo  stesso  papa:  1' eresia  assisa  sul  seggio  della  voluta 
pubblica  opinione ,  il  concilio  su  quello  dei  canoni  e  delle 
decretali.  Comune  il  reo,  comune  il  giudizio,  distinta  e.coDtraria 
la  potestà:  con  una  mano  ferivano  il  papa,  con  l'altra  si  feri- 
vano a  vicenda.  Lettore,  quale  fu  la  potenza  che  mosse  a  con- 
venire nell'antitesi  del  potere  la  fede  e  la  ragione,  la  Chiesa  e 
la  tìlosofla  nella  comunanza  del  giudizio  ?  lo  non  so  chia- 
marla, perchè  non  era  potenza  degli  uomini,  ma  di  qualche 
virtù  che  prescinde  dagl'individui  e  che  cammina  solinga  nel* 
r  assoluto  della  loro  natura,  la  provvidenza  la  quale  infondeva 
la  potenziale  capacità  a  qualche  cosa  di  nuovo  nelle  umane 
menti  e  che  non  voleva  infecondo  il  magistero  di  quei  fatti. 
Vinse  il  concilio,  perchè  Giovanni  non  fu  più  papa,  eie  Gamme 
divorarono  il  riformatore. 

Fu  chiamato  finalmente  Giovanni  dllus  sull'arena  del  con- 
cilio. Provveduto  a  quel  modo  allo  scisma,  si  volsero  i  padri  ai 
negozi  della  fede.  Questi  si  rendevano  assai  spinosi  per  quello 
che  avveniva  in  Boemia.  I  Boemi,  come  narrammo,  avevano  di 
pessimo  animo  portata  la  prigionia  di  llus.  Ora ,  ne'  due  mesi 
che  corsero  dal  traslocamento  di  lui  nella  rócca  di  Gottlebeu 
fino  alla  deposizione  del  papa,  i  Boemi  non  se  ne  erano  stati. 
A  fronte  della  resistenza  che  trovavano  nel  concilio  e  presso 
Sigismondo,  avevano,  a  mo'di  dire,  simboleggiata  la  ragione  som- 
maria di  tutta  r  eresia  wiclefiSta  ed  ussita  con  l'uso  del  calice 
usurpalo  dai  laici.  Ogni  eresia  è  una  fellonia  all'autorilà  delia 
Chiesa  per  violato  dogma  di  fede  o  di  costume,  ma  l'anzidetta 


—  Sia- 
lo era  doppiameote  perchè  il  dogma  che  dirittamente  oppugnava 
era  appunto  raotorìtà  clericale.  Aveva  Hus  tratto  dalla  calteilra 
il  pontefice,  per  adorar  solo  Cristo;  veniva  per  C4)nse^enza,  che 
bisognava  anche  trarre  dall'altare  il  sacerdote.  Aveva  egli  strap- 
pata dalle  sue  mani  la  podestà  delle  chiavi,  sciogliendo  i  feileii 
dal  sacramento  della  Penitenza;  non  fa  maraviglio  che  altri  si 
avventasse  al  prete  e  gli  strappasse  dalle  mani   il  calice  «  per 
recarlo  al  labbro  dei  laici  a  simbolo  di  conseguita  uguaglianza. 
Era  per  ecclesiastica  disciplina  vietato  ai  laici  prendere  la  Eu- 
caristìa sotto  la  doppia  specie  del  pane  e  del  vino:  ai  soli  preti 
sacrificanti  si  concedeva  Fuso  del  calice.  In  tutto  quel  movi- 
mento degli  umani  intelletti,  nelle  università  non  poteva  cor- 
rere inosservato  questo  divieto.  Sfavasene  in  Praga  certo  Jaco- 
bello  da  Misa,  paroco  nella  chiesa  di  San  Michele,  uomo  della 
tempera  di  Giovanni  d'Hus  per  dottrina  e  continenza  di  costumi, 
quando  un  di  venne  a  visitarlo  un  Pietro  da  Dresda;  il  quale, 
bandito  di  Sassonia  come  infetto  di  eresia  valdese,  erasi  rifu* 
gìato  in  Praga  e  vi  teneva  scuola  di  fanciulli.  Costui  disse  a 
Jacobelio  che  maravigliava  forte  come,  essendo  uomo  tanto  sa- 
puto delle  cose  di  Dio,  non  si  fosse  ancora  addato  del  mador- 
nale errore  in  che  si  teneva  la  Chiesa  vietando  ai  laici  V  uso 
del  calice,  mentre  erano  tutta  luce  le  parole  di  Cristo:  <  Se  non 
maDgerete  la  carne  del  Ogliuol  dell'uomo  e  beverete  il  sangue 
di  lai,  non  avrete  vita.  >  Il  paroco  accolse  le  parole  del  Sassone 
ed  i  suoi  svarioni  come  avviso  del  cielo  ;  si  mise  in  punto  di 
riformatore  e  di  apostolo  del  negletto  dogma,  predicando  a  gola 
piena  che  a  salvarsi  bisognava  bere  il  calice,  come  i  preti.  In 
tempo  in  cui  Hus  aveva  tanto  bene  inoculato  nelle  menti  del 
popolo  rodio  al  sacerdozio,  questo  popolo,  usurpatore  di  ogni 
Qmana  e  divina  ragione,  acconciò  gli  animi   delle  predicazioni 
diJacobello,  in  guisa  che  Praga  die  di  piglio  al. calice,  comu- 
nicandosi sotto  Ja  doppia  spcfcie ,  lietissimo  di  avere  riconciui- 
slata  cosa  che  credeva  rubala  dalla  presbiterale  prepotenza.  I 
preti  gridarono,  Jacobelio  fé'  il  sordo,  i  dottori  lo  aggredirono 
con  le  scritture,  ed  egli  incaponi  peggio.  La  cosa  fu  recata  al 
concilio  dal  vescovo  di  Litomìssel. 

Nella  decima  sessione  costui  lamentò  i  disordini  che  avve- 
nivano in  Boemia  pel  negozio  del  calice:  voleva  si  affnittasse 
h  condanna  di  Hos,  il  quale  se  non  fu  autore  delle  novità  in- 
torno airoso  del  calice,  certo  che  le  approv/n  ed  erano  ìMìmì- 
gaeuK  dei  suoi  principii.  Il  vescovo  narrò  la  irriverente  dis|ien- 


—  3S0  - 

sazioDe  del  sangue  di  Cristo  che  si  faceva  in  Boemia,  portate 
a  furia  in  certi  enormi  flaschi,  recandone  le  prove  scrìtte.  IL 
i  Boemi  avevano  mandate  appresso  al  vescovo  accusatore  letten 
al  concilio  nelle  quali  tornavano  sempre  al  violato  salvocondottc 
airinginsta  prigionia  di  Giovanni  d'Hus,  e  davano  del  calunnis 
toro  a  coloro  che  avevano  rapportato  al  concilio  del  sangue  de 
Signore  recato  profanamente  nei  fiaschi  ed  amministrato  fio  da 
ciabattini.  Il  vescovo  affermava,  questi  negavano:  tra  i  due  ni 
appiglio  al  primo.  Non  mi  dar  torto,  lettore;  che  in  quella  si 
bitanea  invenzione  dogmatica,  quel  preteso  santo  desiderio  de 
popolo  agognante  al  calice  non  poteva  certo  contenersi  nei  cor 
fini,  non  dico  dei  riti  ecclesiastici,  ma  uè  anche  della  decenza 
Credo  ai  fiaschi.  Aggiungevano  nella  lettera  i  Boemi  consigli  i 
concilio  intorno  al  modo  di  votare;  neppure  ad  essi  talentavan 
quei  voti  per  nazione;  li  volevano  personali  e  prescrissero  ess 
stessi  il  modo  a  raccoglierli.  ÀI  quale  consìglio  si  aprivano  1 
via  con  una  esortazione  alla  loro  nazione  tedesca  che  era  i 
concìlio,  la  quale,  dicevano,  più  tenera  delle  altre  doveva  addi 
mostrarsi  di  quella  riforma,  a  far  zittire  la  mala  fama  che  re 
cava  essere  i  Tedeschi  uomini  avventati,  che  dal  furore  e  no 
dal  senno  si  lasciavano  governare.  Furono  lette  queste  ietten 
fu  ascoltato  il  vescovo,  non  fu  toccato  Hus;  perchè  il  negozi 
del  papa  era  presso  a  maturare,  e  bisognava  conchiuderlo. 

Ma,  deposto  Giovanni,  tra  perchè  gli  accusatori  premevan 
ì  padri  e  perchè  i  legati  boemi  strepitavano,  si  venne  ad  Hui 
I  Boemi  non  avevano  ricevuta  risposta  dal  concilio  intorno 
quello  che  credevano  violato  salvocondotto  ed  alle  accuse  recat 
dal  vescovo  di  Litomissel  ;  perciò  lamentavano  di  questo  siler 
zio  in  un  loro  memorandum  che  presentarono  all'  assemble 
delle  nazioni  a  dì  31  maggio.  Recavano  in  quello  una  protesi 
di  Hus  ripetuta  nelle  scuole  e  nelle  sue  scritture.  «  Lui  no 
avere  mai  sostenuto  né  sostenere  opinione  contraria  alla  fede 
paratissimo  essere  a  propugnarla  col  proprio  sangue;  creder 
a  tutti  gli  artìcoli  della  divina  legge  tali  come  furono  rivelai 
dalla  santa  Trinità  e  pubblicati  dai  santi  uomini  ;  ora  e  sempr 
volere  ritrattare  e  rinnegare  quanto  per  umana  infermità  avess 
potuto  contro  quelli  dire  e  pensare.  >  Recavano  i  Boemi,  a  con 
fermare  la  verità  di  questa  prolesta,  il  giudizio  del  vescovo  < 
Nazaret  inquisitore  nella  diocesi  di  Praga,  che  purgava  Hus  ( 
qualunque  errore  ;  e  conchiudevano  per  queste ,  essere  il  loi 
Giovanni  figlio  divotissimo  della  santa  Chiesa ,  ingiustamen 


fuvfimì3r/fm7i0m(fttàwtrtt. 


-  332  — 

assembnimento  mise  in  apprensione  Venceslao  de  Daba  e  Gio- 
vanni de  Ghium  prolettori  di  Giovanni ,  i  quali  pensando  che 
i  Costanziensi  senza  dare  ascolto  al  colpevole,  dal  deliberare 
passassero  alla  condanna,  andarono  a  lamentarsi  coiFimperatore. 
Ordinava  costui  soprassedessero  i  padri  al  giudizio  fino  a  che 
non  avessero  accolto  Hus  in  pubblica  udienza  ;  mandassero  a 
lui  gli  articoli  ereticali,  volendo  sommetterli  al  giudizio  di  probi 
e  dotti  uomini.  Questo  avvocato  della  Chiesa  aveva  pia  fede  nei 
suoi  dottori  che  nel  concilio.  L'udienza  fu  concessa  ad  Hus,  gli 
articoli  poi  non  furono  mandati  airimpersi/ore. 

À  di  5  di  giugno  venne  introdotto  Giovanni  d'Hus  nel  re- 
fettorio dei  francescani,  ove  erano  assembrati  i  padri  per  ascol- 
tarlo. 1  hbri  delTerelico,  dai  quali  erano  stali  tolti  gli  articoli 
a  condannarsi ,  vennero  presentati  dalPeleltor  palatino  e  dal 
burgravio  di  Norimberga  affine  di  chiarire ,  ove  fosse  stata,  li 
falsificazione  degli  accusatori.  S'incominciò  la  lettura  degli  arti- 
coli :  letto  il  primo,  Ilus  si  poneva  dietro  la  Bibbia  ed  i  ss.  pa- 
dri per  difenderlo,  quando  si  levò  un  furioso  tumulto  fra  i  cir- 
costanti. Tutti  volevano  parlare,  e  nessuno  si  lasciava  più  in- 
tendere. L'università  nel  concilio  non  istava  bene;  questa  é 
sempre  ciarliera,  massime  in  que'  tempi  in  cui  l'accoccare  giusto 
l'uncino  di  un  sillogismo  al  collo  deiravversario  era  la  più  beata 
cosa  del  mondo  per  un  dottore. «  Insomma  in  questa  prima 
udienza  non  si  conchiùse  cosa. 

Vengo  olla  seconda:  ma  qui  è  mestieri  che  io  prepari 
Tanimo  del  lettore  e  lo  conduca  a  certe  considerazioncelle  ne- 
cessarie alla  giusta  estimazione  dei  fatti;  le  quali,  senza  stancare 
con  la  successiva  esposizione  de'particolari  della  causa  di  Hus, 
che  già  si  sanno,  njutino  alla  complessiva  intuizione  della  ragion 
sommaria  dei  medesimi.  Scrivo  per  nomini  ragionevoli  e  non 
guardo  se  cattolici  o  ugonotti  siano.  Giovanni  non  fu  il  fonda- 
tore di  una  nuova  eresia  :  egli  raffermò  e  diffuse  nella  Boemi'» 
le  novità  ereticali  di  Wicleff  e  non  altro:  quello  che  a  lui  spella 
non  si  deriva  da  peculiarità  di  dottrina,  ma  delle  politiche  e 
sociali  condizioni  della  Boemia.  L'eresia  dell'Inglese,  che  ho 
chiamata  universitaria,  non  era  che  una  emancipazione  dMI^ 
potestà  della  Chiesa,  quindi  negazione  della  medesima  e  tras- 
formazione della  natura  della  Chiesa.  Questi  errori  erano  siali 
già  dannati  nello  stesso  concilio:  Hus  veniva  a  causa  finita.  Di- 
mandargli se  approvasse  o  rigettasse  le  teorie  wicleflile,  i' 
bandirgli  una  sentenza  a  norma  dell'affermativo  o  negativo  ri- 


spoocere  che  poteva  fare,  ecco  tolto  qoello  che  $i  poten  ;»>^^t- 
tare  dai  giodìd  e  d3iracciisalo. 

Ma  Hos  apera  gettato  guanto  di  sfida,  chie^loTa  c^f^ser  con- 
Tinto  per  dimostrazione:  i  professori  che  erano  al  concìlio  anni- 
IriraDo  per  foga  di  entrare  in  lizza:  ed  i  padri  senza  un  capo, 
dico  il  pontefice,  si  mostravano  arrendevoli  airimpressìono  dei 
tempi,  che  erano  universitari,  cioè  amatori  di  dispulo.  Aggiungi 
che  gli  accusatori  erano  preti  boemi,  i  quali  da  buoni  catloUci 
aUwrrivano  dall'eresia;  e  da  cherici  che  si  sentivano  levar  dalle 
mani  non  solo  i  sacri  patrimonii,  ma  fino  H  calice,  non  vcile- 
vano  sobmente  in  IIus  il  wicIefiBla,  ma  un  eresiarca  di  nuova 
stampa.  Essi  davano  ad  Hus  una  personalità  ereticale  che  non 
aveva.  Da  ciò  si  derivò  cbe,  senza  avvedersene,  nel  cavare  gli 
articoli  a  dannarsi  dalle  sue  scritture  ne  storpiarono  forse  qual- 
cuno a  dargli  del  deforme,  e  qualcbe  errore  non  velluto  fu  so- 
spettato. Conseguitò  che  si  allentasse  troppo  il  corso  alla  di- 
sputa; e  come  il  concilio  non  era  un'accademia,  avvedendosene 
i  padri  e  troncando  in  gola  airaccusato  le  risposte^  si  gridò  poi 
dai  Boemi,  dai  protestanti,  dai  filosofi  contro  la  ingiustizia  e  la 
prepotenza  del  concilio.  A  me,  come  cattolico,  imporla  che  il 
concilio  non  abbia  errato  in  fatto  di  fede;  che  per  finale  difll- 
nizione  abbia  dannato  gli  errori  di  Hus.  Del  fallo  degli  accusa- 
tori e  degli  stessi  giudici  nel  corso  della  discussione  io  non 
curo.  Questi  appartengono  agli  uomini,  non  al  concilio,  ed  io 
narro  di  questo  e  non  di  quelli. 

Giovanni  d'Hus  chiedeva  essere  convinto  dei  suoi  errori 
innanzi  essere  dannato,  e  ne  aveva  il  diritto.  Ma  altra  ò  In  con- 
vinzione, per  cui  è  incatenato  il  reo  al  cospetto  della  logge  chn 
ferisce  nei  tribunali  umani,  altra  è  quella  che  dichiara  reo  Tero- 
tico  in  un  tribunal  di  ragion  divina,  qùal  è  il  concilio.  In  quelli 
la  convinzione  si  emana  dalla  provata,  veracità  de'  testimoni  o 
dalla  provata  opposizione  dell'azione  del  reo  alla  legge:  duplico 
prova,  l'una  che  tocca  l'esistenza  dei  falli,  l'altra  la  loro  nalurn. 
Nel  concilio  la  convinzione  si  emana  solo  dalla  provala  veracità 
dei  testimoni;  in  questa  la  discussione,  perche  solo  della  esi- 
stenza dei  fatti  si  va  in  cerca.  Della  loro  natura  e  della  loro 
opposizione  alla  legge  non  si  discute,  ma  si  difllnisce  ;  perche 
la  Chiesa,  come  infallibile,  non  va  a  tentoni  a  trovare  1»  con- 
venienza 0  sconvenienza  dell'umano  cona*tto  col  principio  rive- 
lato. Nelle  mani  sue  il  deposito  della  fede  e  tutto  luce.  vMv. 
come  irraggia  la  sua  mente  alla  infallibile  visione  della  \mik, 

Tamb.  Inquis.  Voi   II  in 


cosi  illumina  la  deformità  delPérrore,  per  quanto  opinano  I 
canonisti. 

Hus,  che  aveva  crollato  l'edifizio  della  Chiesa  tale  quale 
erìsto  Io  aveva  levato,  che  credeva  scappato  il  potere  dalle  mani 
ilei  cberici  perchè  peccatori,  non  vedendo  nei  padri  che  pecca- 
tori, non  da  altra  forza  chiedeva  gli  si  piegasse  la  fronte  che 
da  quella  delle  prove,  non  mai  dalla  infallibilità  del  giudisio. 
Maraviglierei  come  di  logica  aberrazione  dell'aver  egli  scelto  ad 
arbitro  delle  sue  opinioni  la  congregazione  di  una  Chiesa  di'ei 
dicea  corrotta,  se  non  vedessi  chiaro  esservi  lui  andato  con  la 
certezza  di  un  trionfo  rìportabile  con  Tarma  del  ragionamento. 
Ciò  sapevasi  dai  padri;  e  perciò  non  troviamo  nella  discussione 
lutto  quel  rigore  di  procedere  quale  si  richiede  in  un  tribunale 
di  umane  ragioni.  Per  le  quali  considerazioni  non  fatte  dag^ 
eterodossi,  la  condanna  di  Hus  apparve  loro  sfornita  di  quel 
suffragio  di  diritto,  onde  i  giudici  si  chiaman  giusti,  ed  il  reo 
giustamente  punito. 

Sinistro  argomento  prendevano  i  Boemi  in  Praga  e  quelS 
in  Costanza  delle  cose  di  Hus  dai  segni  che  apparivano  né 
cieli.  A  di  7  di  giugno ,  nella  settima  ora ,  furono  tenebre 
in  quelle  due  città  per  una  grande  ecclìssi  solare.  Un'ora  dopo 
i  Costanziensi  si  assembrarono,  presente  Timperadore:  ed  Hus 
venne  introdotto  alla  loro' presenza.  11  renerà  in  catene  stivato 
di  soldati.  Michele  de  Causis,  accusatore,  accagionò  Giovanni  £ 
errore  intorno  al  sagramento  della  Eucaristia,  quasi  avesse  negalo 
il  mistero  delia  transustanziazione.  Questo  errore  non  era  nei 
libri  di  Hus  :  affermavasi  averlo  predicato.  Giovanni  prese  Dio 
in  testimone  della  sua  innocenza  e  chiarì  come  gli  accusatori 
lo  accagionassero  ingiustamente  di  quella  eresia.  Aveva  egli 
chiamato,  falla  la  consegrazione,  con  la  voce  di  pane  la  santa 
Eucaristia  :  vietatogli  dall'  arcivescovo  pragense,  rispose  non  io 
altro  senso  usare  di  quella  voce  che  in  quello  che  le  dava 
Cristo  medesimo,  dicendo  —  Io  sono  il  pane  vivo  disceso  dal 
cielo.  —  Non  mentiva  Hus.  Nel  trattato  del  corpo  di  Cristo  da 
lui  scritto  è  confessalo  apertamente  il  dogma  della  transustao- 
zìazione,  ed  è  chiamata  magna  hcei^esis  quella  di  Berengario 
negatore  di  quel  mistero.  Poteva  bastare  la  confessione  contraria 
di  Giovanni,  raffermala  dalle  sue  scritture,  le  quali  recavano 
argomenti  di  credibilità  più  validi  della  deposizione  de'preseoti 
alle  sue  prediche.  Ma  il  cardinale  di  Cambrai  d'Ailly,  che  era 
stato  cancelliere,  deiruniversità  dì  Parigi,  s'intese  professore  e 


—  5»  — 

\  iofonnare  Has  io  un  dilemma:  qod  si  poteva  tenere. 
in  cbe  il  Boemo  era  dei  reali  oelb  teoria  degli  Qni?ersali. 
la  realtà  degli  malversali  accresceva  la  difficoltà  a  compren- 
i  il  mistero  della  traDsostaniiauoDe.  Se  era  immagioabile 
Dotameoto  della   sostanza  di  qq  determinato  pane  nel 

0  di  Cristo,  pareva  impossibile  a  concepirsi  questa  sosUtn- 
B  di  sostanza ,  quando  il  determinato  pane  non  doveva 
arre  alcona  propria  sostanza,  ma  qoella  delPoniversale,  ossia 
»ane  preso  nella  generalità  deiressere.  Adunque  il  Cambraìs 
limando,  se  credeva  alla  realtà  d^li  universali.  Giovanni 
lette  del  si.  Ma  qoando  il  cardinale  si  poneva  a  dargli  del- 
tico  per  la  rovina  del  dogma  della  transustanziazione»  cbe 
va  da  quella  teoria  filosofica,  Giovanni  spezzò  il  nodo  del 
nma,  avvertendo  cbe  la  transustanziazione  era  un  miracolo 
e  non  poteva  discutersi  con  le  opinioni  dei  filosofi.  Dette 
^0.  Su  questo  terreno  il  Boemo  cessò  bene  gli  assalti  di 
loltorì  inglesi,  che  volevano  giostrare,  e  die  del  menzognero 
Loi  accusatori.  Allora  levossi  il  cardinale  di  S.  Marco  e  disse 
il  negozio  dovea  risolversi  a  norma  della  deposizione  deHe- 
oni,  i  quali  erano  degni  di  ogni  fede.  E  avendo  Giovanni 
lUato  al  testimonio  di  Dio  e  della  sua  coscienza,  il  cardinale 
)se  valere  più  la  testimonianza  di  quelli  accusatori  cbe  della 
M^scienza,  levando  a  cielo  la  onestà  e  la  dottrina  del  Paletz  e 
Gerson.  Così  operarono  gli  uomini  nella  discussione  :  ma 
ò  altrimenti  il  concilio  nella  diffinizione,  non  trovandosi 
[li  articoli  condannati  questi  cbe  toccavano  la  Eucaristia. 

1  discussione  Giovanni  potè  prendere  le  sembianze  di  uomo 
esso  :  accese  vieppiù  V  ira  dei  Boemi  e ,  cbiusosi  nella 
ica  dignità  di  un  martire,  si  tenne  per  indomabile  dalle 
Sali  sentenze. 

Si  venne  poi,  ai  fatti,  la  verità  dei  quali  non  si  fondava 
I  pubblica  fama  o  su  le  deposizioni  de'testimoni,  ma  su  la 
ragabile  confessione  delle  scritture.  Si  venne  alla  eresia  di 
efif  seguita  da  IIus.  In  questo  poi  non  era  via  a  scappare; 
Boemo,  avvegnaché  sempre  ostentasse  docilità  alle  istru- 
i  del  concilio,  non  si  mosse  d'un  pelo  dagli  errori  cardinali, 
toccavano  la  visibilità  della  Chiesa,  tali  quali  li  aveva  se- 
iti  nel  suo  trattato  della  Chiesa.  Trentanove  articoli  gli 
10  messi  innanzi,  cavati  dalle  sue  opere,  che  non  lasciavano 
Ào  della  sua  eresia.  Fermato  che  la  sola  predestinazione 
tuisca  Tuomo  membro  della  Chiesa,  giù  tutto:  non  più 


—  356  — 

papa,  non  vescovi,  non  sacerdozio,  non  più  aatorità  di  sorta. 
La  parte  visibile  della  Chiesa  non  è  che  Sordida  materia  al 
sindacato  di  ogni  fedele  ;  alimento  di  clericale  e  civile  ribellione. 
Onde  l'imperatore  che  né  adiva  il  racconto,  quasi  che  si  sentisse 
alla  gola  un  insolito  capestro,  ebbe  a  dire  ai  principi  circostanti 
non  essersi  mai  vista  eresia  più  diabolica  di  qaella  di  Giovanni 
d'Hus.  Lo  presentiva  allora  ,  lo  intese  dopo  nelle  guerre  di 
Boemia.  Da  ultimo  un  uomo  che,  lungi  dal  rigettare  le  false 
dottrine  di  Wicleff,  impudentemente  dichiarava  che  erano  stale 
condannate  senza  giustizia  perchè  senza  ragioni  tratte  dalla 
Scrittura;  che  diceva  salvo  Wicleff,  avvegnaché  dannato  dalla 
Chiesa  ;  e  che  avrebbe  bramato  trovarsi  con  lui  nell'altra  vita, 
si  confessava  con  la  propria  bocca  più  che  eretico.  Se  abbiano 
0  no  i  giudici  e  i  testimoni  usato  con  lui  sempre  con  tempe- 
ranza di  modi  e  carità  non  si  può  dire  servendo  al  vero:  ma 
che  nella  finale  diffinizione  il  concilio  si  trovasse  circondato 
della  dignità  di  un  divino  diritto  giustamente  propugnato,  io 
dirò  sempre  e  diranno  tutti  coloro  che  non  vogliono  rinnegare 
la  fede  della  storia  e  della  logica. 

I  padri  costanziensi  non  avevano  un  grande  desiderio  (U 
condannare  Hus  e  di  vederlo  colpito  dalla   terribile  pena  del 
fuoco  dalla  legislazione  penale  di  que'  tempi.  Avevano  il  debito 
di  condannare  le  dottrine  :  ma  se  avessero  potuto  ottenere  una. 
ritrattazione  di  quelle,  si  sarebbero  tenuti  al  certo  più  contenti- 
La  Boemia  era  alle  porte  del  concilio  con  la  mano  sull'elsa  di 
una  spada,  ed  era  quella  di  Giovanni  Ziscka.  Certo  che  questa 
né  ad  essi  né  a  Sigismondo  faceva  piacere  veder  nuda.  VenceslaO 
Doba  e  Giovanni  di  Ghium  erano  li  presenti,  personificanti 
tutta  una  nazione  che  come  mare  in  tempesta  fremeva  attorno 
allo  scoglio  del  dogma,  che  non  si  piegava  né  si  arrendeva  per 
ragioni  politiche.  Ne  reco  una  prova.  Innanzi   si  sciogliesse 
rassemblea  della  seconda  udienza  data  ad  Hus,  il  Cambra!  ria- 
faccio  al  medesimo  avere  detto  come  di  proprio  talento  fosse 
venuto  al  concilio,  e  che  né  il  re  di  Boemia  né  lo  stesso  im-^ 
peradore  avrebbero  potuto  sforzarlo  ad  andarvi.  Giovanni  ribadi 
anzi  che  negare  la  cosa,  aggiugnendo  che  tanti  erano  i  baroni 
di  Boemia  suoi  protettori  e  così  munite  le  terre  che  gli  apri- 
vano rifugio  che  né  regia  né  imperiale  potenza  l'avrebber  rag- 
giunto. Il  Cambrai  gli  dette  dell'impudente:  un  gran  rumore 
si  levò  nell'assemblea  contro  di  Hus.  Ma  eccoti  farsi  innaMi 
irto  e  pettoruto  Jl  Chlum  e  gridare:    «  Bene  ha  detto  Has: 


toni  fi  Bmài  ni  :mhiii^  imm  4^ 

die  faiffehero  fili  iMn^i^miri  |ììI|v4m^4< 
e  che  jfehmdbao  4B  mniìie  ostato  .die  i^  «mi  bA.  > 
ta  on,  o  lettore,  die,  ;per  (>ìitti>^  in  itMi  >d  m  ìnifie^ 
radure  e  ad  «a  ooocffio  <|wsie  «ìiiMce .  «m  ivm4ììMiì  ;mitìr$i 
dfetro  òa  mioM  pinti  i  imIiì  inni  di  fmfru  dì  cm  <)iM$i 
noQ  tnifi  b  simile  oegi  inmii  dd  mondt^  (w  Hmvvìi  di  <^(Nm^ 
tetleoli. 

D  Cimbni  e  Sigismondo  annera  i  boni^m^  oi^vrtjiiifoni. 

il  primo  andò  eoo  doid  pirole  confoitimio  Hn^  p^l  $m>  Wih\i> 

«  pel  9D»  onore  i  sottometterà  alU  ^^entenm  del  <!^>nc4IUv   U 

secondo  (nù  langamente  rajnonò  :  t  Stesse  (Hir  eerto  doli;!  sua 

protezione,  alPombra  del  silfocondotto  che  {^li  ivev»  ct^nc^x^^^ 

ioninn  che  movesse  di  Pngi  a  Costami;  rìmarrel>bo  invio^ 

hta  b  sua  libertà  a  dire  le  proprie  ra(^oni  in  pieno  sino^io  : 

Un  proteggerlo»  avvegnaché  fossero  ilcuni  che  dicessoh>  co\w 

MQ  potesse  nmperatore  accogliere  sotto  il  suo  p.itrt)c(uio  un 

eretico  o  nomo  sospetto  di  eresia  ;  consigliarlo  col  Gambral  alU 

sommissione,  non  avendo  i  prodotti  articoli  appicco  a  tltfoT^a. 

Docile  a  quei  consigli ,  avrebbe  messa  ogni  cura  »  per  rl.H|>otto 

al  re  ed  al  reame  di  Boemia  ,  di  farlo  ritornare  In  patria  con 

la  boona  grazia  del  concilio  e  con  qualche  leggiera  ponllonaa  : 

altrimenti  il  concilio  terrebbe  la  sua  via  contro  di  lui  »  voinndo 

perseverare  nell'errore;  lui  riluttante  alla  sentonza  del  padri 

accenderebbe  piuttosto  con  le  mani  proprie  il  rogo  cho  lo  do* 

▼èva  bruciare,  anzi  che  tollerare  la  sua  contumacia,  (llovannl 

^  sempre  da  capo  e  rispose:  <  Non  volersi  ostinare,  mn  vn^ 

lere  che  il  concilio  lo  persuadesse  del  contrario.  » 

Nel  di  appresso  tornò  Giovanni  nel  cospetto  diOI»  nlmiia 
congregazione  a  rendere  ragione  intorno  a  claMcurio  d<^l  vm- 
tisei  articoli  che  gli  erano  stati  cavati  dai  trattato  della  Chieda 
«  dri  sette  tolti  da  una  sua  risposta  a  Stariinlao  Znoima«  prò- 
Messore  di  teologia  in  Praga  e  stato  già  suo  maestro.  In  rpfimta 
inrrazione  non  farò  che  coglierne  la  mirnmaria  rtiìtUìm,  a 
chiarire  Tanima  di  qaesto  boemo ,  nelb  quale  ri  rin^'it^va 
qaelb  non  solo  della  sua  nazione,  ma  dei  tempi  che  a)  m^« 
(enno. 

Avvegnaché  Giovanni  degli  anzidetti  artlei>ll  nÌMU)  rig^t^ 
ta^  eome  non  mei^  altri  spiegante,  eommenbn^loli,  iu'f^mmf 
pih  cattolico;  tntbvolb  ostìnalamente  fìU^m  e  nofi  fipff^h 


—  558  — 

il  veleno  generale  che  vi  andava  dentro.  Nel  credere  la  Cbies» 
una  congregazione  di  soli  predestioati  ;  nel  non  volere  am- 
mettere  la  visibilità  di  un  capo  della  medesima,  negando  a 
san  Pietro  il  privilegio  di  esserne  pietra  fondamentale;  nel 
non  voler  riconoscere  il  pontefice  romano  senza  nna  rivelazione 
che  testificasse  della  sua  predestinazione  ;  nel  credere  spuntata 
ogni  censura  in  man  della  Chiesa  per  V  appello  dal  pa(»  a) 
concilio  e  dal  concilio  a  Cristo,  Hus  non  poteva  piii  rimuoversi 
né  dalla  autorità  della  Chiesa  congregata  né  dalle  minacce  del 
potere  laicale.  Della  opposizione  delle  sue  dottrine  con  i  prin- 
cipi! professati  da  tutti  i  fedeli  di  quel  tempo  non  dubitane 
gristessi  eterodossi.  Hus  si  chiari  eretico  di  propria  bocca.  La 
sua  eresia,  come  ho  detto  più  volte,  era  quella  che  prorompeva 
dal  razionalismo  universitario  alimentato  dalla  corruttela   dei 
tempi,  che  non  rispettavano  lo  stesso  santuario.  Molti  i  dottori 
nel  concilio  ;  e  gli  stessi  padri ,  se  non  infermavano  del  male 
della  università,  ne  avevano  sempre  qualche  vezzo ,  e  questi 
vezzeggianti  erano  i  giudici  di  Hus.  Si  rivelò  a  maraviglia  que* 
sto  che  afiérmo  nella  discussione  del  XII  articolo»  che   recava 
—  e  La  dignità  papale  trarre  la  sua  origine  dagFimperatori  re* 
mani.  >  —  Giovanni  d'Hos  chiosò  questa  proposizione  e  disse 
come  la  preminenza  e  la  istituzione  del  pontefice  derivasse  dal- 
Tautorità  dell'imperadore  in  quanto  agli  esteriori  ornamenti  ed 
ai  temporali  beni  donati  ai  papi  da  Costantino  e  suoi  succes- 
sori: onde  come  l'imperadore  avanzava  di  dignità  tutti  gli  altri 
principi,  cosi  il  papa  andasse  innanzi  a  tutti  i  vescovi  ;  ma  non 
in  quanto  alla  dignità  che  mette  capo  immediatamente  in  Cri- 
sto per  Tamministrazione  e  lo  spirituale  reggimento  della  Chiesa. 
Il  cardinale  di  Cambrai  avrebbe  dovuto  raddrizzare  la  chiosa  e 
far  intendere  al  Boemo,  che  la  preminenza  del  papa  su  tutti  i 
vescovi  non  veniva  dalle  sustanze  periture  donate  da  Costan- 
tino; che  il  papa  era  già  vescovo  ecumenico  per  un  privilegio 
ben  diverso  dalla  convenzione  degli  uomini  di  far  sedere  Timpe- 
ratore  più  alto  degli  altri  prìncipi.  Non  curò  di  questo  il  gallicana 
universitario:  ebbe  in  mano  il  papa,  non  potè  tenersi  dal  carez- 
zarlo, dimandando  ad  Hus  —  t  Di'  un  pò*,  Giovanni,  perchè  non 
bai  affermato,  la  dignità  del  papa  esser  nata  piuttosto  dal  con- 
cilio che  dairimperatorc?  >  Guarda,  lettore;  era  questa  dimanda 
a  farsi  ad  un  uomo  come  Hus,  che  alla  presenza  del  concilio 
audacemente  inabissava  la  divina  idea  del  romano  papato?  Ve- 
ramente il  Cambrai  accennava  alla  esteriore  onoranza  data  al 


i  Hipti  Jal  wnafll»  »>iwi»  »»Wi 

a  «ita  ili  lum«  *iic»  «n  «i«AtiMA^  <il#  k«i 
poni  |a|iMn  «  in)«f>  9«ih  yiit^ 

per  ■■«»  HipiHtìMnr  ìtrtmn^  ;iil  4^0Mx  ^  Ik 
appBolo  qpesto  di  OotstmiL  SMto  b  off»  4ii  Y^^c^^xti  iNra^^ 
i  profesnrL  Dìcbap  ciò*  teCMuto  |iM^  ;iil  MM^  il  $^«(4tMNV 
NoD  iìiMueu  che  tatar  te  ne  ^  tomilan^  lln^  ;imiI  uiva 
ritrattaiioDe,  poiché  rerror^  delle  sue  doUrìne  ih>n  I^^ìava  aMu^ 
duUiio.  faieoiiiìiidò  il  Gunbnù:  «  Tedi.  Giomniii^  di  ^ii^l  |^(^l^^ 
raBODe  di  delitti  to  sii  aeca^noiMilo:  ti  d»  fsir^  ^  in  lu;ii  KaII^v 
Due  sole  Tic  ti  apre  ionami  il  concilio:  $oef!UiM^  iin«i  »  tuo  Vk- 
leDlo:  se  ti  sommetti  al  suo  gio<fiiio  e  ne  aocoRK  l  <H>nuiiul«i* 
iMDti  senxa  ricalcitrare,  della  soa  dolcena  Oil  umeinltÀ  non  ìk\fìx\ 
a  dubitare,  volendolo  anche  il  rispetto  terso  il  t^  di  ÌUmwi^  0 
Timperadore  suo  fratello;  se  poi  vuoi  durarla  a  dtlt^ml<^r«  itlln^ 
Golpati  articoli,  il  concilio  non  li  negherà  Tasoolto.  ma  ituAhlatl 
che  la  mole  delle  ragioni  che  ti  stan  contro  recate  da  ani^l^ntl 
9d  autorevoli  personaggi  non  ti  schiacci»  ed  allora  verrai  a  fronti^ 
li  ben  tristi  conseguenze.  —  Miei  revorendlMnlinl  pmlrli  rtaportn 
9us,  ve  rho  detto  più  volte:  io  son  qui  venuto  di  proprio  ta- 
lento, non  per  incaponirmi,  ma  per  esser  iatruUo,  ovn  nI  lro< 
irasse  cosa  in  cui  avessi  errato.  Datemi  un  pò*  di  n^Uì  a  Mporrit 
i  miei  sentimenti:  se  mi  falliranno  le  ragioni»  tminkiml  pur  kIA 
reso  alle  vostre  istruzioni.  —  Vedete ,  gridavnno  inoltl  ad  imi 
tempo,  Fha  sempre  con  le  istruzioni  0  non  parla  rniil  di  lutri* 
mra  e  di  decisioni.  —  Ebbene,  riprese  lina,  dirò  UtnixItMil  1 
censura,  decisioni  come  meglio  vi  aggrarla;  \hMìIì  \mmihi  Mio 
in  testimone  che  io  parlo  sinceramenti'/,  »  Allora  II  (^Miilirifl  In 
iwerti  che,  ove  si  piegasse  a  solUimelU^rid  al  c^>rM;lllo,  tmi^r^ 
fermato  dairawiso  di  un  sessanta  doU/iri  approvat«i  lU  U1IU9  II 
coodlio ,  lui  doversi  obbligare  a  tre  r/miU^mi  \  a  ivM»(»<i#arii  1 
noi  errori,  chiedendone  j^Aomf,  %  %\nf%fti  rMti  wm  I)  nifiifiém 
Otti  più  Insegnatt ,  eA  a  f»me  pobMied  ritnWtxifftm,  ifm  Hut 
noni  poniò  il  capo,  tra  perché  al  ter^rva  iwptit^l/;  ^1)  é^tmì 
che  Doo  aveva  mai  penumli  e  ptcnlhè  %0l  ^sff^  ^m  0(0i  fV/p 
aoscevi  veri  dod  troiava  «Mer<;  «laia  ^/rilr^^^^to  4^1  ^/ni^ìié$ 


—  S60  — 

sQfflcieDza  di  ragioni;  e  pregava  i  padri  a  non  {sforzarlo  cootro 
sua  coscienza  con  perìcolo  della  eterna  salate.  Lo  strinsero  eoo 
preghiere;  Timperatore  gli  ricordò  le  leggi  contro  gli  eretici,  a  nor- 
ma delle  quali  doveva  sentenziarlo  il  concilio:  tutto  invano;  dod 
volle  ritrattare  le  sue  opinioni.  Per  la  qual  cosa  rìnfocò  più  io 
zelo  degli  accusatori  e  massime  del  Paletz  e  del  De  Causis;  i 
quali  si  lavavano  le  mani,  sagramentando  non  avere  essi  ombra 
di  rancore  verso  Giovanni,  accusarlo  pel  giuramento  dato  quando 
vennero  creati  dottori  di  perseguitare  la  eresia  a  tutta  possa. 
Al  zelo  di  costoro  Bus  contrapponeva  le  sembianze  di  un  io* 
nocente  che  commetteva  la  sua  causa  al  sovrano  giudice  del- 
runiverso.  Affldato  alParcivescovo  di  Riga,  venne  ricondotto  io 
prigione. 

Sigismondo,  che  aveva  dato  a  Giovanni  il  suo  sai vocondotto, 
che  tanto  o  quanto  gli  aveva  lisciato  il  groppone  con  qualche 
paroletta  melata,  poiché  nella  lettura  degli  articoli  si  avvide  che 
la  eresia  ussita  usciva  di  -  sagrestia  per  venirlo  a  trovare  sol 
trono,  non  volle  più  tante  discussioni  ;  andò  per  le  corte  e  cosi 
spose  la  sua  sentenza  al  concilio  appena  Hus  usci  fuori  dell'as- 
semblea :  e  Le  accuse  contro  Giovanni  oramai  son  note;  fede- 
lissimi testimoni  e  la  sua  stessa  confessione  le  provano  a  me- 
raviglia. Al  fuoco  dunque  Taccusato,  se  non  si  ritrae  dairerroce. 
Se  obbediente,  turategli  la  bocca,  perchè  non  predichi  :  penserò 
io  a  barrargli  le  porte  della  Boemia,  perchè  non  v'entri  più.  Co* 
stui,  messo  al  largo,  tornerebbe  al  vomito.  Penso  doversi  mandare 
per  solleciti  messaggi  in  Boemia,  in  Polonia  ed  in  ogni  altro 
paese  in  cui  fosse  germogliata  la  zizzania  dell'ussita  eresia,  eoo 
ordini  alla  chericale  e  laicale  balia  di  dare  addosso  ai  predica- 
tori di  quella.  Questa  è  peste  cui  non  si  rimedia  se  non  dando 
forte  alla  radice  ed  ai  rami  tutto  ad  un  tempo.  Presto  dunque, 
e  s'incominci  da  Costanza:  se  v'ha  alcuno  in  questa  città  amico 
di  Hus,  e  massime  quel  Girolamo  da  Praga  suo  discepolo,  venga 
messo  al  giogo  e  giogo  severo.  »  Il  concilio  adunque  non  coro 
che  il  dogma  guasto  da  Giovanni:  il  rogo  fu  preparato  da  Sigis- 
mondo guardiano  e  ministro  delle  civili  leggi:  alle  quali  dava  di 
piglio  e  come  avvocato  delia  Chiesa  e  come  imperadore.  Gio- 
vanni andò  incontro  a  quelle  leggi  ad  occhio  aperto,  non  avendo 
voluto  soscrìvere  la  formola  di  ritrattazione  che  gli  propose  il 
concilio.  Cosi  almeno  sentenziano  i  papiQli  fanatici:  intomo  al 
quale  giudizio  conviene  procedere  con  cautela,  correndo  diverse 
opinioni. 


—  Sài  - 

podiè  b  sn  CRsa  fS  pwm  du^Mìc»  :  im  I^mh- 
nila  di  VMp  fMeia  aocte  pn  presto  ^  tndoni^  wlb  nifMi 
lifio  quelle  teorie  die  pvfero  ìdoociml  miì  nM^s^^^im  ii<4 
Ddfio  di  Onstamii  riiestile  diih  n^ioD  canonica  QuiKtociLHi^ 
io  fa  un  gno  centro  dì  wom  neJ^sìoa  e  polìUoi:  to  riKta- 
ito  per  lo  sàsaa  pepale»  ma,  qnst  stena  saperhx  i  p^^lrì  $ì 
>moDo  giodid  di  ogni  genemione  di  sdsnui  andui^  dxìlo. 
odicelo  del  pipeto»  neoesseriiinente  OTQoqne  ere  ind^timni 
xione  di  r^oni  e  lotte  di  conconeoti  ed  on  dirttu>  qu^hiu- 
le,  dovee  infocarsi  ii  loro  giodiiio.  doten  bramarsi  la  km> 
nteoza  soprema  diflSoitrìce  di  giastiiia«  Nel  concilio  orano  le 
liTcrsità,  e  nelle  oniTersiti  ii  bisogno  di  rìsoltère  im^blt^inl 
LO  I  popoli  trovarono  sulla  soglia  dei  secoli  del  |)ensienK  Wi- 
sff  ed  Hos  avevano  da  professori  e  da  predicatori  stretUiuonio 
ingionto  il  debito  della  giostìsìa  di  chi  n'era  investito.  Ingiù- 
3  il  prìncipe,  giusto  il  ribellare,  dissero  quegli  eretici,  I^a  pro* 
Uosa  dottrina  mise  Tarmi  in  mano  ai  lollardi  in  InglUltorriK 
[li  ussiti  in  Boemia.  Chi  fece  percorroro  a  costoro  con  la  ra- 
dita  del  pensiero  il  trìplice  stadio  del  terrìbile  sillogismo  ti 
ce  che  la  conclusione  del  prete  e  del  professore  a*  liientlll- 
sse  con  la  pratica,  dico  col  grido  della  guerra  o  della  rìbul- 
me?  Lo  dirò  io  :  fu  la  capacità  delle  menti  ad  acoogllero  (|uolln 
olenti  dottrine,  capacità  fruttala  dalla  presenaa  del  mnli  eli» 
idavano  ben  altrimenti  curati  nel  santuarìo.o  negli  Stati.  Tra 
predicatore  di  Betlem.ed  il  popolo  boemo  era  dunciuo  un» 
rmidabile  ragione  che  legava  il  predicante  agli  &Mcoltuiitl  n 
le  incolorava  di  verìtà  le  sue  parole,  ragione  che  einanavii 
illa  malizia  dei  tempi.  Vediamo  quai  mali  generasse  in  Fraiiclii 
lesta  ragione  e  come  elaborasse  un  cruento  problema,  Il  quiile, 
restito  delie  paurose  sembianze  di  carneflce»  lo  inlroduHMe  iil 
spetto  dei  [mdrì  di  Costanza,  perchè  lo  risolvessero.  Io  dirò 
dia  famosa  proposizione  di  Giovanni  Petit. 

Era  re  di  Francia  Carlo  VI.  A  dodici  anni  gli  cadilero  nelli) 
ani,  per  la  morte  del  padre,  le  redini  del  governo.  Un\HiUiUUt, 
irchè  fanciullo,  a  strìngerìe,  i  suoi  zii  duchi  di  Anjou,  di  Ikrry 
di  Borgogna  le  afferrarono.  Emuli  tra  loro  nel  (Kilere  e  nelb 
alizia,  oppressero  la  Francia  e  le  svegliarono  nel  miuo  h  pitela 
die  fazioni.  Re  Carlo  intanto,  sfrenato  ai  piae^^rì,  iM^mpre  in 
sta,  sempre  in  sol  far  guerre,  divenne  maniaco,  e  i  primi\H 
m  ebbero  pio  freno.  AvrdMie  dovuto  togliere  la  XH^if/iuté  ìM 
Tahs.  Mf»»-  ^oi.  tu  4^/ 


—  361 -• 

reame  il  fratello  del  re  Luigi  d'Orléans  e  la  moglie  di  lui  Isa- 
bella di  Baviera  ;  non  fa  cosi.  Filippo  V  Ardito,  duca  di  Borgo- 
gna, usci  innanzi  a  tutti  e  fu  reggente.  Odio  inestinguibile  se- 
parò per  questo  le  due  case  di  Orléans  e  di  Borgogna. 

Morendo  l'Ardito,  lasciò  al  figlio  Giovanni  Senza-Panra  quasi 
in  retaggio  la  inimicizia  con  rOrléans  e  le  pretensioni  alla  reg- 
genza dello  Slato.  Giovanni  era  il  più  ricco  principe  della  cri- 
stianità: signoreggiava  la  Fiandra;  THainaut  e  la  Olanda  aveva 
ottenuto  come  retaggio  della  sua  donna  ;  era  in  sulPafiferrare 
anche  la  signoria  del  Brabante.  Ricco  di  tanti  Stati,  gli  era  stecco 
negli  occhi  Luigi  d'Orléans  reggente  di  Francia.  Il  re  in  preda 
ai  suoi  furori  maniaci,  la  regina  e  Torleanese  divoravano  la 
Francia.  Dilapidatori  del  pubblico  tesoro,  opprimevano,  taglieg- 
giavano, succhiavano  la  vita  del  popolo;  del  suo  onore  non  cura- 
vano. La  Francia  era  nuda  ed  inerme  in  faccia  ai  nemici.  Allora 
il  Borgogna  la  ruppe  apertamente  col  cugino  :  fu  guerra  tra 
loro,  e  i  richiami  del  popolo  ebbero  rifugio  nel  petto  del  Sen- 
za-Paura.  Fu  scisma  in  Francia.  I  maggiorenti  con  Orléans,  il 
popolo  con  Borgogna  :  quelli  invocanti  un  diritto  che  santifi- 
casse rindisciplinatezza  delParbitrio;  questi  cercatore  di  un  di- 
ritto che  lo  guarentisse  dalla  forza.  Era  mestieri  di  un  fatto  che 
spingesse  le  parti  sul  terreno  del  diritto  ad  azzuflbrsi;  il  Bor- 
gogna non  lo  fece  lungamente  aspettare.  Dopo  aver  dato,  per 
conforto  del  Berry,  il  bacio  della  pace  al  cugino  Luigi  d'Or- 
léans, dopo  aver  con  lui  presa  la  Eucaristia  nella  stessa  messa, 
banchettato  alla  stessa  mensa,  lo  fece  in  un  agguato  ammaz- 
zare a  colpi  d'ascia.  Lettori,  se  leggessi  quel  che  si  faceva  in 
Francia  ai  tempi  di  Carlo  VI ,  maraviglieresti  dell'  impudenza 
straniera  a  svillaneggiare  la  nostra  Italia  come  paese  feroce  di 
tradimenti.  Nei  romanzi  francesi  a  noi  spelta  sempre  l'avvele- 
nare, il  pugnalare ,  il  macchinare  proditori!.  Meravigliava  di 
questo  esclusivo  ministero:  ma,  letta  la  storia  di  Francia,  m'av- 
vidi che  come  gli  antenati  di  que'romanzieri  erano  troppo  oc- 
cupati a  far  davvero  nella  storia,  a  noi  solo  spellava  a  far  da 
burla  nei  romanzi.  Ad  essi  dunque  i  pugnali  slorici,  a  noi  ro- 
mantici. Torno  a  Borgogna. 

Costui  s'infinse  dapprima,  lagrime  sul  cadavere  del  cugino, 
disse  non  essere  avvenuto  in  Francia  tradimento  più  bestiale  ; 
ma  finalmente  con  audacia  incredibile  venne  alPaperlo  e  con- 
fessò il  suo  delitto.  Il  popolo  nello  spento  Orléans,  superbo  e 
corrotto  signore,  vide  una  sua  venJetla  contro  Tarislocrazia  rog- 


—  363  — 

gente,  nel  Borgogna  il  suo  liberatore.  Questi  venne  glorificata 
come  un  eroe.  Allora,  sorretto  dal  popolo»  confidente  nello  sforzo 
delle  sue  milizie ,  a  fronte  alta  invocò  un  diritto  che  giustifi- 
casse il  suo  delitto,  quasi  rimedio  di  abborrita  tirannide.  L'u- 
niversità venne  in  suo  soccorso;  e  mentre  i  dottori  discutevano 
ragioni,  le  fazioni  degli  Armagoac  e  dei  Bùcheurs,  dei  poten- 
tati e  del  popolo,  laceravano  con  la  spada  la  Francia  e  chiama- 
vano gringlesi  a  conquistarla. 

Allo  scorcio  del  febbraio  del  1408  entrava  a  Parigi  il  Bor- 
gogna con  ottocento  gentiluomini  tutti  in  armi.  Il  popolo  lo 
festeggiò,  gridandolo  suo  liberatore.  A  di  8  marzo  si  appresen- 
tava  al  re,  che  ad  ora  usciva  e  ricadeva  ne'suoi  furori,  in  una 
grande  assemblea,  nella  quale  dovea  discutersi  se  male  o  bene 
avesse  fatto  il  Borgogna  a  trucidare  l' Orléans.  Vi  era  il  del- 
fino, il  re  di  Sicilia,  i  duchi  di  Berry,  di  Bretagna  e  di  Lorena, 
di  baroni  e  di  cavalieri  una  turba  prodigiosa,  moltissimi  bor- 
ghesi, il  rettore  con  V  università.  Certo  Giovanni  Petit ,  frate 
cordigliere,  dottore  della  Sorbona,  usci  in  mezzo  a  perorare  la 
difesa  delFuccisore.  Con  una  limpidezza  di  fronte  prodigiosa  il 
frate  dimostrò  o  meglio  pensò  dimostrare  come  non  solo  Tomi- 
cidio  deir Orléans  era  stalo  un  virtuoso  fatto,  ma  che,  ove  il 
Boi^ogna  non  Tavesse  fatto  ammazzare,  sarebbe  stata  una  col- 
pevole omissione.  Chiuse  questa  tesi  in  un'armatura  di  forme 
scolastiche  da  spaventare  chiunque  avesse  avuto  talento  di  ag- 
gredirlo. Il  netto  era  questo:  che  era  debito  uccidere  o  fare  ucci- 
dere i  tiranni;  ma  rOrléans  era  tale,  pe^chè  reo  di  lesa  maestà 
e  di  moltitudine  di  delitti;  dunque  il  Borgogna  ha  meritato  bene 
del  paese.  Puntellò,  ma  a  suo  modo,  la  maggiore  con  moltis- 
sime sentenze  tolte  dalla  Bibbia,  dai  padri  e  dai  giureconsulti: 
la  minore  poi  con  un  catalogo  di  accuse  contro  il  mprto,  che 
certo  non  avevano  deir  inverosimile.  Molti  si  guardarono  in 
viso  per  lo  stupore,  altri  approvarono:  vinse  il  frate.  Il  di  ap- 
presso Borgogna  tornò  ih  grazia  del  re  ed  ottenne  lettere  di 
perdono. 

La  minore  e  la  conseguenza  del  sillogismo  di  Petit  poteva 
dimenticarsi,  ma  non  mai  la  maggiore.  Il  re,  quando  non  era 
matto,  vi  andava  sopra  con  la  mente;  ed  il  corpo  dei  dottori 
arrossiva  dell'impudenza  dell'avvocato  di  Borgogna^  dell'impu- 
denza a  dire,  non  già  a  sentire  la  formidabile  teorica,  che  avea 
radice  nell'università.  Il  re  commise  al  vescovo  di  Parigi  Ge- 
rardo di  Montaigu  ed  a  certi  dottori  in  teologia  l' esame  delle 


—  5«4  — 

proposizioni  erronee  estratte  dal  Gerson  dal  libro  di  POit  Nella 
lettera  con  coi  deputava  costoro  a  qoelta  censura  parlava  il  re 
di  altri  errori  (quelli  di  Petit)  contro  la  fede,  i  costami  e  lo 
stato  sparsi  nella  Francia  e  penetrati  anche  in  paesi  stranieri. 
I  tempi  li  recavano.  Il  vescovo  tenne  una  grande  assemblea  di 
dottori,  di  prelati,  e  vi  era  Gerson:  per  cinque  volte  fa  adunata. 
Le  proposizioni  di  Petit  condannate  furono  nove. 

e  L  Essere  lecito  ad  ogni  snggetto  senza  deputazione  e 
comandtmento,  a  norma  della  legge;  naturale,  morale  e  divina, 
ammazzare  o  fare  ammazzare  qualunque  tiranno  il  quale  per 
ambizione,  frode,  sortilegio  o  malvagio  artifizio,  macchina  contro 
la  naturale  vita  del  re  supremo  signore,  per  usurpare  la  somma 
nobilissima  ed  altissima  dominazione.  E  non  solo  essere  cosa 
lecita,  ma  onorevole  e  meritoria,  massime  allorché  è  tanto  po- 
deroso da  non  potersi  dal  sovrano  farsi  da  lui  conveniente- 
mente giustizia. 

'  e  li.  La  legge  naturale,  morale  e  divina  licenziare  ciascun 
suddito  a  procurare  la  morte  del  detto  tiranno. 

e  111.  Lecito  essere  ad  ogni  suddito,  non  che  onorevole  e 
meritorio,  uccidere  o  fare  uccidere  Tanzidetto  tiranno,  traditore 
e  fellone  al  suo  re  e  supremo  signore,  per  mezzo  di  spie  ed 
agguati.  Esser  questa  appunto  la  morte  dei  tiranni  e  dei  felloni, 
vale  a  dire  uccisi  alla  francese  vilainemerU,  con  raffinate  astuzie, 
spie  ed  agguati  :  ed  essere  permesso  infingersi  e  covar  dentro 
il  disegno  dell'attentato. 

t  IV.  Quegli  che  uccide  o  fa  uccidere  il  tiranno  con  gli 
anzidetti  mezii  non  doversi  riprendere  da  alcuno.  Ed  il  re  non 
solo  doversi  tener  contento  del  fatto,  ma  doversene  giocondare 
ed  autorizzarlo,  quando  ne  fosse  bisogno. 

f  V.  Essere  debito  del  re  di  premiare  e  guiderdonare  coloi 
che  nell'anzidetto  modo  ammazza  o  fa  uccidere  il  tiranno,  in 
tre  maniere,  col  favore,  con  gli  onori  e  con  le  ricchezze ,  ad 
esempio  de'premii  dati  a  s.  Michele  Arcangelo  per  la  cacciata 
di  Lucifero  dal  regno  del  paradiso  ed  al  generoso  Finees  per 
la  uccisione  di  Zambri. 

€  VI.  Dovere  il  re  amare  più  di  prima  colui  che  uccide  o 
fa  uccidere  il  tiranno  nelfanzidetto  modo,  e  far  bandire  sul  sno 
reame  la  sua  fede  e  lealtà,  ed  anche  fuori  il  reame  per  lettere. 

f  VII.  La  lettera  uccidere,  vivificare  lo  spirito  :  vale  a  dire, 
star  sempre  sul  senso  letterale  nella  sacra  Scrittura  essere  un 
uccìdere  Tanima  propria. 


—  565  — 

•  Vin.  In  ca50  di  alle^nia,  gìnnimenltx  pn^mo^jsa  e  ft\lo- 
razione  fatta  tra  due  cavalieri,  qualunque  il  mcKk\  ove  awiM^fa 
che  tomi  a  danno  di  uno  dei  promettenti^  della  propria  ok^Ko 
o  figlnioU,  non  essere  tenuti  a  mantenerli*  » 

Bestiali  dottrine.  Eppure  vi  vollero  ben  cinque  se;s;sioni  per 
trovarle  tali,  e  neppure  tutti  convennero  nella  sentenia  di  con- 
dannarti.  Il  libro  di  Petit  che  recava  per  titolo  —  GinstìfiM- 
zione  dd  duca  di  Borgogna  —  in  cui  erano  le  anzidotlo  pro- 
posizioni, fu  dannato  al  fuoco,  perchè  queste  erano  avverso  alla 
fede,  ai  buoni  costumi,  e  scandalose.  Il  re  racc4>lse  la  sentenza 
del  vescovo  e  dell'inquisitore  e  maqdò  subito  a  tutti  i  i^ìrla- 
menti  della  Francia  perchè  la  conservassero  ne'  loro  rei;lstrì. 
Quello  di  Parigi  volle  pensarci  fino  al  giugno  prima  di  regi- 
strarla. 

Gerson  ho  detto  che  si  trovava  in  quest'assemblea  «  anzi 
fu  egli  che  trasse  dal  libro  del  cordigliere  le  nove  proposizioni. 
Ebbene,  Gerson  andava  d'accordo  col  cordigliere:  discordavano 
n^li  accidenti.  Il  frate  non  parlò  del  supremo  principe,  usando 
la.  voce  di  tiranno,  ma  bensì  d'un  personaggio  fellone  al  prìn-^ 
cipe,  che  per  la  sua  levatura  di  stato  non  si  lasciava  raggiun- 
gere dalle  leggi.  In  guisa  che  le  sue  proposizioni  orano  ecce- 
denti non  per  riverenza  alla  persona  del  sovrano,  ma  direi  quasi 
per  adulazione.  Furibonde  teoriche,  che  ponevano  ad  un  loinpo 
In  man  di  privato  uomo  il  diritto  di  giudicare  e  di  ucciderò  un 
prepotente  che  egli  chiamava  tiranno.  Ma  lo  scisma  papaie  aveva 
per  cinquanta  anni  educate  le  menti  a  questa  genernziono  di 
pensieri  ;  e  la  ragione  umana,  assunta  arbitra  do'  litigi  di  fatto, 
giudicò  anche  di  quelli  di  dritto.  Le  università,  e  massimo  la 
parigina,  che  informava  il  concilio  di  Gostanza,  dio  fuori  aon- 
tenze  assai  ardite;  e  certo  che  né  essa  né  il  suo  cancolllero 
Gerson  erano  tanto  mondi  di  peccato  da  potere  levare  la  pietra 
contro  il  frate  Petit.  Gerson  alla  presenza  di  Cario  VI  neiranno 
1405  recitò  un  sermone  che  a  leggerìo  fa  paura.  Incominciò 
col  gridare  per  tre  volte  Vivai  rex,  ma  tutl'altro  che  vita  augu- 
rava al  sovrano.  In  un  secolo  in  cui  anche  ì  misteri  della  fodn 
^  volevano  tradurre  alla  percezione  dei  sensi  con  le  rappre- 
sentanze drammatiche,  le  questioni  di  diritto  erano  trattate  alla 
stessa  guisa.  Il  cancelliere  con  una  ipotiposi  da  retore  metto 
sulla  scena  personificate  la  sedizione ,  la  dissimulazione  e  la 
discrezione.  La  prima  non  é  che  il  principio  netto  nett<;  della 
occlsione  del  principe  che  diviene  tiranno;   la  mcoutì^  é  ìh 


—  366  — 

mula  e  cieca  tolleranza  di  ogni  oppressione;  la  terza  è  qaell2^ 
che  oggi  chiamerebbero  alla  francese  il  giusto  mezzo.  Questo 
giusto  mezzo  era  il  frutto  della  università ,  figlia  del  re  (così 
la  chiamava  Gersón)  e  madre  delle  scienze.  Ma  la  discrezione 
gersonlana  non  era  poi  tanto  discreta.  Questa  faceva  sapere  a 
Carlo  VI  che  il  principe  non  sia  punto  il  padrone  di  tutto 
il  reame;  e  che  come  il  veleno  uccide  V  umano  corpo,  così 
la  tirannia  sia  un  veleno  che  spegne  tutta  la  vita  politica  e 
regia. 

Secondo  le  teoriche  del  cancelliere,  chi  maciulla  il  popolo  eoo 
ingiusti  tributi  e  taglieggiamenti»  e  rompe  il  corso  alla  sapienza, 
è  tiranno:  chi  per  questi  mali  ribella,  fa  benissimo.  A  vedere  poi 
quando  un  principe  sia  veramente  tiranno,  e  sia  giusto  V  infel- 
lonire, Gerson  manda  il  privato  cittadino  pei  filosofi ,  pei  teo- 
logi, pei  giureconsulti  e  gli  uomini  di  santa  vita,  di  naturale 
prudenza  e  di  grande  esperienza,  perchè  gli  diano  la  risposta. 
Ma  non  dice  Gerson  come  abbia  da  fare  il  cittadino  per  saper 
quali  siano  i  veri  filosofi  e  i  veri  santi  ;  questo  silenzio  con- 
durrebbe il  cittadino  o  a  starsene  mtuo  paziente  o  a  dar  d> 
pìglio  ai  pugnali  da  forsennato,  e  la  questione  non  sarebbe  ri- 
soluta. Se  poi  il  principe  non  vuole  stare  a  segno  nella  fede  e 
nei  costumi ,  il  cancelliere  non  vuol  tanti  dottori  consulenti  ; 
dice  che  le  leggi  divine  ed  ecclesiastiche  mettono  in  man  del 
suddito  il  ferro  e  fuoco  onde  sterminare  il  tiranno.  Quest'ana- 
lisi, com'  è  chiaro,  metteva  capo  al  principe  sintetico  della  so- 
vranità dei  popolo ,  come  immediatamente  investito  di  quel 
potere  che  trasmette  al  principe  per  ragione  di  amministra- 
zione; e  di  quel  principio  son  contea  ciascuno  le  orribili  con- 
seguenze. 

Dopo  questo  sermone  non  trovo  che  Carlo  VI  desse  segni 
di  scontento:  pensava  al  Vivat  rex.  La  ragione  dei  tempi  accor- 
ciava il  vedere  ai  principi,  prolungava  quello  dei  professori.  Gio- 
vanni Major,  collega  e  buon  amico  di  Gerson,  ne  disse  di  pia 
grosse  nel  suo  Trattato  delVautorità  del  concilio  sopra  al  papa. 
Egli ,  demagogo  nella  ragione  divina ,  doveva  esserio  di  mille 
tanto  più  in  quella  umana ,  e  senza  uno  scrupolo  al  monda 
mette  in  man  del  popolo  la  regia  corona,  il  quale  come  la  dà, 
la  toglie  per  cause  credute  ragionevoli.  Le  stesse  cose  dice  uà 
altro  dottore ,  Jacobo  Almoìa  ,  nel  suo  Trattato  dello  Stato  <? 
della  Chiesa.  Questi  erano  i  dottori  che  andavano  al  concilio 
di  Costanza  e  ne ,  moderavano  le  ragioni  e  fermarono  i  famoà 


—  567  — 

crefi  ddla  qaiDta  sessione.  Se  costoro»  dopo  avere  elsiborati 
d  decreti ,  fossero  venati  nel  seno  deiraniversità  a  senno* 
re  di  economia  politica  alla  gersoniana,  non  avrei  ponto  ma- 
rigliato  ;  dalla  ragione  ^vina  si  può  prendere  norma  a  di- 
)rrere  della  nmana:  ma  che  dalla  nmana  ragione  si  voglia 
Bendere  alla  divina  ed  aggiogar  questa  a'  destini  delle  umane 
ecalazioni,  questo  mi  pare  veramente  troppo,  e  non  so  in- 
odere  come  nomini  cooQdenti  della  dialettica  ne  lasciassero 
appare  dal  guscio  V  anima,  dico  la  logica  del  senso  comune, 
tocco  di  queste  cose  e  passo,  che  non  è  mio  scopo  entrare 
adice  delle  opinioni  di  questi  pubblicisti  e  combattere  l  loro 
rori.  Ma  a  me  basta  che  la  loco  esistenza  chiarisca  il  lettore 
tomo  airindole  di  quei  tempi  ed  al  perchè  un  concilio  ecu- 
enico  con  le  mani  proprie  nudasse  le  fondamenta  della  Chiesa, 
cendo  onta  alle  invidiabili  ragioni  dei  papato  romano.  Del  cho 
I  verrà  certificato  chi  mi  legge,  trovei^  come  i  decreti  della 
linta  sessione  non  poggino  sul  criterio  de'principii  inconcussi 
ìe  rendono  Tuomo  immobile  sulla  coscienza  di  una  verità,  ma 
attuavano  sulla  contingenza  delle  umane  personalità  in  un 
lorale  delirio  di  contradizioni. 

Innanzi  ad  uomini  di  questa  tempera  di  convinzioni  venno 
adotto  Giovanni  Petit  o  meglio  la  sua  e  Giustificazione  del  duca 
I  Borgogna  >,  perchè  era  già  morto.  Dovevano  giudicarne  la 
3ttrina  già  condannata  dai  congregati  sotto  la  presidenza  del 
3SC0V0  di  Parigi.  II  giudizio  era  assai  spinoso  e  per  la  cosa 
per  chi  dava  occasione  a  quegli  esami,  dico  il  duca  di  Bor- 
Dgna.  Il  re  voleva  che  il  concilio  confermasse  la  condanna  del 
nodo  parigino,  ma  non  voleva  che  il  duca  impennasse;  ne  avea 
lura.  Costui  teneva  la  Francia  pel  colio  e  lo  fiiceva  tremare. 
er  la  qual  cosa,  ad  un  avviso  che  ebbe  da  Borgogna  di  non 
)stituirsi  parte  nel  giudizio  costanziense ,  abbassò  le  velo  e 
landò  dicendo  ai  suoi  legati  al  concilio  di  non  agire  in  suo 
ome.  Borgogna  si  guardava  ;  ma  non  voleva  essere  toccato.  I 
iinistri  regi  deputati  a  questo  negozio  erano  il  vescovo  di  Car- 
issona  con  due  dottori  ;  i  ducali  poi  erano  V  arcivescovo  di 
esangon,  quello  di  Vienna  nel  Delfinato,  ed  il  vescovo  di  Arras 
)n  un  dottore  in  diritto.  Tre  vescovi  per  difendere  Tammaz- 
itore  d'Orléans I  Si  guardavano  minacciosi:  Borgogna  dio  il 
ugnale  della  zuffa  con  una  lettera  che  scrisse  ai  deputati  della 
azione  francese  nel  concilio  e  con  altre  due,  Tuna  al  concilio, 
altra  all' imperatore.  Io  recherò  tra  i  documenti  la  prima  «li 


—  568  — 

queste  epìstole^  perchè  rivela  qaale  parte  prendesse  ilBorgogo» 
negli  »fTari  del  concilio  intorno  alla  pacificazione  della  Chiesa. 
Il  duca  abborriva  dal  concilio,  perchè  ne  temeva  la  condanna 
come  ammazzatore  deirOriéans.  Bramava  vederlo  sciolto;  perciò 
apriva  un  asilo  ne'suoi  Stati  al  ramingo  pontefice:  stando  alla 
fede  del  monaco  di  S.  Dionigi  aveva  fatto  imprigionare  i  sino* 
dali  messaggi  che  andavano  a  re  Carlo;  e'gli  avevano  imputate 
esi2iali  macchinazioni  contro  la  vita  di  Sigismondo,  nel  viaggia 
che  era  per  fare  a  Nizza  pel  negozio  della  pace.  Scriveva  la 
prima  lettera  ai  deputati  della  nazione  francese,  a  di  15  mag- 
gio, quando  Giovanni  non  era  stato  ancora  deposto.  Dice 
aver  ricevute  due  loro  lettere  esortatrici  a  non  dare  rifugio  a 
papa  Giovanni  nei  suoi  Stati,  ed  ove  vi  capitasse,  a  darlo  in  man 
del  concilio;  piange  un  po'  pel  differito  negozio  della  unione,  poi 
si  scolpa.  Ecco  le  sue  parole:  «  Poiché  si  fu  ritratto  da  Costanza 
il  nostro  signore,  il  medesimo  per  solenni  messaggi  mandò  di- 
cendo a  me,  ignaro  del  come  e  perchè  di  quella  ritirata,  aver 
lui  lasciata  Costanza  solamente  per  compiere  le  sue  promesse, 
avendo  in  animo  di  recarsi  a  Nizza  a  fare  la  rinuncia  cui  si  era 
obbligato  nella  sua  cedola.  Lascio  alla  vostra  paternità  pensare 
se  io  umilmente  e  riverentemente  doveva  accogliere  que'  mes- 
saggi e  dar  graziosa  risposta  a  coloro  che  io  riconósceva  amba- 
sciatori del  papa  nostro  santissimo  padre,  come  tale  tenuto  e 
riconosciuto  dalla  Chiesa,  non  riprovato,  non  condannato,  pro- 
mettendo di  voler  cedere  il  papato,  di  fare  il  possibile  pel  bene 
della  unione  della  Chiesa.  A  mio  parere,  ciascun  di  voi,  e  fosse 
il  più  cauto,  darebbe  del  matto  a  chi  avesse  detto  non  volere 
accogliere  un  papa  stimato  disposto  ad  ogni  bene,  massime  con 
la  speranza  dì  condurlo  a  cose  migliori.  Laonde  risposi  loro  es- 
sere per  accogliere  ben  volentieri  e  con  piacere  esso  nostro  si- 
gnore così  bene  intenzionato  e  trattarlo  orrevolmente  fino  a  che 
l'avesse  durata  nel  buon  proposito.  >  Dì  poi  confessa  che,  avendo 
risaputo  dalle  loro  lettere  come  la  ritirala  del  papa  fosse  stata 
clandestina  e  scandalosa  e  pregiudizievole  alla  unione  della 
Chiesa,  avea  rimutato  T  animo  suo  versò  papa  Giovanni,  e 
volersi  unire  a  tutti  i  buoni  principi  cristiani  ad  ajutare  il  con- 
cilio nella  estirpazione  dello  scisma.  Pregava  i  deputati  francesi 
a  non  prestar  fede  a  certi  nemici  del  suo  onore  che  lo  anda- 
vano infamando  in  Costanza  in  materia  di  fede ,  a  cagione  di 
una  proposizione  rapportata  al  delfino  ed  ai  principi  del  sangue 
in  una  grande  assemblea,  nella  quale  dicevano  falsamente  essere 


errori  coDlro  la  fede  da  lai  approrsttì.  Considera^^ro  Ini  c^^n> 
della  gloriosissima  casa  di  Francis,  immacolata  fino  a  quel  tempii 
li  ereticale  bbe:  cattolico  il  suo  padre,  e  lui  essere  cosi  strallo 
Illa  fede  da  propugnarla  anche  col  sangue  da  buon  caTaliere. 
Velia  proposizione  anzidetta  non  a^er  potuto  approrare  er^^rv 
deano,  essendo  la  cosa  al  disopra  del  suo  ìntelleda  o  non  sa- 
jierae  affatto.  Badassero  a  discernere  la  vera  dalla  falsa  pn^^xv 
azione  del  Petit,  arendola  ì  suoi  nemici  falsata.  Lui  non  a\ert' 
ifBdata  al  Petit  che  la  sola  ragione  de'fattì:  del  sillogismo  che 
38  fabbricò  e  del  suo  che  vi  potè  porre  lui  non  rispondere:  che 
;e  avesse  anche  alla  lontano  fiulato  Terrore,  non  ravrobbi'  certo 
ipprovato.  Reietti  e  puniti  venissero  dal  concilio  coloro  che  gli 
lavano  deirerotico;  i  quali  sebbene  mostrassero  non  mirare  a 
lui,  pure  con  la  condanna  della  proposizione  non  facevano  che 
iccendero  nuovo  fuoco  di  guerra  nella  Francia.  Soggiacere  cie- 
camente alle  decisioni  del  concilio;  rigettare  quello  che  rigetle- 
rebbe:  slessero  però  in  guardia  di  coloro  che  biigiardamenle  si 
idoperavano  ingannare  il  concilio,  facendo  vedere  corno  la  sa- 
lute della  Francia  dipendesse  dalla  condanna  della  pro|ìosiziono 
lei  Petit;  mentre  in  Francia  nessuno  pensava  né  curava  di  quello, 
eccetto  coloro  che  muovevano  quelle  acque  a  conciliargli  I  odio 
del  comune  ed  a  tirare  in  perdizione  la  Francia.  ,Lelta  questa 
epistola,  sì  levarono  quindi  e  quinci  i  regi!  ed  i  ducali  ministri, 
protestando  a  vicenda,  a  nome  proprio,  e  chiedendo  giustizia  del 
concilio. 

L'altra  lettera  indiritta  a  Sigismondo  recava  la  discolpa  del 
Borgogna  intorno  alla  macchinata  uccisione  del  roge.  Avevano 
rapportato  al  duca  come  Luigi  di  Baviera  cognato  di  re  (ìarlo  VI 

10  avesse  pubblicamente  accusato  di  aver  cospirato  con  Luigi 
duca  di  Aquitania,  col  delQno  di  Francia  ed  il  conte  di  Savoja. 
di  ammazzare  Sigismondo  nel  viaggio  che  era  por  fare  a  Nizza. 

11  bavaro  aveva  gittatoin  mezzo  la  mala  voce,  il  duca  d^Auidria 
Taveva  raccolta  e  recata  a  Sigismondo.  Borgogna  da  del  calun- 
Qiatore  ad  entrambi,  ed  esclama:  <  Oh  la  nuova  razza  di  mon- 
EOgnei  Oh  il  plebeo  modo  di  olTcnderei  Impotente  ad  inipugnan; 
la  spada,  come  è  uso  degli  uomini  generosi,  dh  di  piglio  all'arma 
della  calunnia.  >  E  con  questo  metro  cessa  la  sanguinosa  ac- 
nisa.  Purgasi  anche  dell'avere  imprigionati  i  messaggi  andanti 
il  re  di  Francia  (quelli  imprigionati  e  spogliati  nel  dueato  di 
br  dal  De-la-Tour  tutta  cosa  del  Borgogna;. 

Trovavasi  l'imperatore  in  un'assemblea  d«lla  nazione frauf 

Tami.  Inquis.  Voi.  II.  Ì7 


—  370  — 

cese  quando  gli  Tennero  recate  queste  lettere  :  erano  presenti 
i  due  duchi,  il  bavaro  e  Taustriaco.  Avvenne  un  fatto  assai  ri- 
dicolo. L'ingrato  manifestò  a  questi  Tepistola  del  Borgogna;  idil 
bavaro  impennò,  chiedendo  giustificarsi.  Ma  stretto  V  austriaco 
dair  imperatore  a  rivelare  onde  «avesse  risaputo  della  cospira- 
zione contro  la  sua  vita,  rispose  netto  averglielo  detto  il  bavaro. 
Il  bavaro  gittò  la  cosa  sniraustriaco,  affermando  averla  risaputo 
da  lui.  Questi  non  tenne  fermo  e  confessò  come  la  cospiraziooe 
fosse  stata  ordita  da  papa  Giovanni  col  Borgogna  ed  il  contedi 
Savoja,  e  come  avesse  anche  il  pontefice  spedito  un  suo  came- 
riere al  duca  d'Aquitania  per  trarlo  nella  sua  parte ,  essendo 
stato  desiderio  del  Borgogna,  tolto  di  mezzo  il  cesare,  accogliere 
in  Francia  Giovanili  e  porlo  sotto  il  patrocinio  del  delfino.  Sigis- 
mondo dovette j  cader  dalla  luna  nell'udire  queste  ducali  cod- 
'fessioni  che  toccavano  la  sua  vita.  Ma,  rassicurato  della  falsità  della 
cosa  dalParcivescovo  di  Vienna,  non  andò  oltre.  Il  Lenfont  pensa 
acconciamente  che  questo  vespaio  era  stato  mosso  dairAustria 
per  intimorire  il  cesare  e  stornarlo  dall'andata  in  Ispagna,  indu- 
giare il  negozio  della  unione  e,  sciolto  il  concilio,  veder  risorto 
Giovanni. 

Sigismondo  voleva  vedere  recati  a  termine  i  negozi  toccanti 
la  fede  innanzi  muovere  da  Costanza  per  quello  della  unione. 
Lo  disse  in  un'  assemblea  dei  deputati  delle  nazioui  tenuta  a 
di  7  di  giugno  :  e  tosto  levossi  Gerson  recante  nelle  mani  una 
scritta  in  cui  erano  nove  proposizioni  del  Petit  con  la  condanna 
del  vescovo  parigino  ;  la  presentò  ai  prelati ,  e  venne  letta  da 
Bertoldo  di  Wildungen  uditore  di  Rota.  Chiedeva  il  cancelliere 
sulla  cosa.  Il  vescovo  di  Arras  gli  andò  incontro,  affermando 
come  la  sentenza  del  vescovo  di  Parigi  e  dell'inquisitore  fosse 
pregiudizievole  all'onore  del  Borgogna:  a  nulla  valere,  avendo 
questi  appellato  all'apostolico  seggio  ed  al  concilio.  Gerson  in- 
stava venisse  confermata  dal  concilio.  L'Arras  ratteneva  i  padri, 
persuadendoli  a  soprassedere  a  qualunque  sentenza,  tra  perchè 
l'appellazione  era  stata  sospesa,  a  non  intorbidare  l'affare  della 
unione,  e  perchè  tanto  i  procuratori  regii  quanto  i  ducali  ave- 
vano il  divieto  dai  loro  signori  di  costituirsi  parte  in  quel  giu- 
dizio. Vennero  lette  le  istruzioni,  che  erano  tali,  di  re  Carlo  e 
di  Borgogna,  e  fu  soprasseduto.  L'affare  di  Petit  era  assai  sca- 
bro :  i  padri  lo  sentivano  e  s'indugiavano. 

Nella  causa  di  Petit  i  padri  andavano  adagio,  in  quella  dei 
salixtini  (erano  cosi  chiamali  quelli  che  volevano  l'uso  del  ca- 


—  n  — 

ffWHfeK  :  ìmfiifiKKiiè  $# 
a  tracalmio  Boffogu  «  dm  «n  tute  ìmm^mi 
in  dei  BocnL  Doneraio  poism  die.  tojifiwtJo  ìt  cairn  ilill» 
mf  del  popolo,  che  già  Tawi  iflemlo»  polenDO  tnMtof$ì  ùi 
«i ,  mclie  pia  terrìbUi  ddh  nortè  deJT  Oriè«ia$  >  le  teom 
A  Petit  NoD  <ficD  che  i  padri  per  terrrai  timori  don^ìmiio 
0dar  tiobre  11  deposto  delb  fede:  m ,  salTO  U  dc^mi  delfai 
irlecipaiioiìe  del  cafice  dod  necessatria  alb  salate  eterna»  po« 
mòo  eoDoedere  qulche  cosa  nella  ragtone  dl$dpKnan^.  Ma 
oeslo  Aco  io  dopo  i  btti ,  ed  i  padri  operatano  prima  che 
Desti  fossero  aTvmoti.  Adonqne  a  di  15  di  giugno  fU  tenuta 
i  dedmatena  sessione,  nella  quale  fa  difBnilo  iiHorno  all'uso 
si  calice,  gii  usurpato  dai  laici  in  molte  parti*  Dìraniìi-ano  l 
idrì:  •  e  Come  in  alcune  regioni  fossero  certi  temerari  die  af* 
maTano  doTore  il  cristiano  popolo  ricevere  il  sacramento 
ella  Eucaristìa  sotto  la  doppia  specie  ;  potere  anche  dopo  la 
)na  con  le  virande  nello  stomaco  mangiare  il  pane  eucarìstico 
bere  il  consacrato  calice  ;  essere  sacrìlego  il  costume  della 
Uesa,  che  queste  cose  Yietava.  |1  santo  sinodo,  tolto  il  parere 
i  molti  dottori,  volendo  premunire  le  anime  de'  fedeli  da  quoN 
errore,  diffiniva  e  decretava:  che  sebbene  Cristo  abbia  istituito 
1  amministrato  TEucarìstia  sotto  la  doppia  spedo  a'  suol  di- 
ìBpoW  dopo  la  cena,  toltavolta  i  sacri  canoni  ed  il  costume 
)lla  Chiesa  vietarono  ai  fedeli  non  digiuni  la  parlecipaaione  di 
sd  sacramento,  eccettuato  il  caso  dMnfermiUi  o  di  altra  ne- 
»8ità.  Che  sebbene  ne'  primi  tempi  della  Chiesa  usassero  lutti 
fedeli  ricevere  TEucarestla  sotto  la  doppia  spedo ,  pure  in 
recesso  di  tempo  i  soli  sacerdoti  bevvero  il  calice,  lasciata  la 
)la  specie  del  pane  ai  laici  :  sotto  la  quale  specie  era  ferma* 
lente  a  credersi  esistente  tutto  il  corpo  di  Cristo  e  perciò  an- 
le  il  suo  sangue.  Che  il  ragionevole  costume  per  tanti  secoli 
da*  santi  padri  osservato  abbia  forza  di  leggo  •  la  quale  non 
lecito  rigettare  senza  Tautorità  ddla  Chiesa:  l'affermare  esser 
iella  sacrilega  ed  illecita  sia  un  errore ,  e  coloro  che  »i  osti- 
isserò  a  tenerìo  dovessero  essere  confinati  come  eretici  e 
ivemente  puniti  dalla  ecsiesiastica  e  laicale  balla.  » 

Fu  approvato  con  universale  suffragio  questo  decreto  e  raf« 
rmato  da  altro,  con  cui  sotto  pena  di  scomunica  vennero  ob- 
ligati  i  vescovi  a  punire  i  violatori  del  medesimo,  e  di  tra- 
irli  in  mano  ddla  potesti  laicale.  Stando  sul  negozll  della 


—  572  — 

fede,  i  promotori  del  concilio  chiesero  si  nomìDassero  commis- 
sarii,  ai  quali  venissero  peculiarmente  affidate,  con  piena  balia 
di  esaminare»  le  cause  intorno  alla  fede,  e  di  trarne  giudicando 
finale  sentenza.  Vennero  assunti  a  quest'officio  quattro  cardi- 
nali, rOrsini ,  il  Gambrai ,  quelli  di  Firenze  e  d'Aquileia ,  con 
quattro  deputati  scelti  da  tiascuna  nazione.  Era  questo  un  sacro 
maestrato,  che  doveva  di  continuo  vigilare  il  deposito  della 
fede  e  dei  costumi,  accorrere  ovunque  fosse  minaccia  di  no- 
vella eresia,  e  senza  distinzione  dì  persone  ricisamen,te  punire. 
Lasciavano  però  i  padri  agli  antichi  commissarii  il  negozio  di 
Hus,  che  era  in  sul  conchiudersi. 

Il  decreto  che  creava  questi  commissarii  trasse  di  nuovo 
in  mezzo  il  negozio  di  Giovanni  Petit.  Tutti  lo  approvavano; 
ma  al  vescovo  di  Arras  non  piacque  punto.  Non  voleva  tra  i 
commissarii  il  Gambrai,  come  persona  sospetta  al  duca  di  Bor- 
gogna. Questo  cardinale  era  tutta  cosa  del  Gerson,  di  cui  era 
stato  maestro.  Ghiese  inoltre,  che  la  sentenza  del  vescovo  di 
Parigi  e  deirinquisitore  venisse  annullata  dal  concilio,  e  perchè 
la  causa  era  stata  recata  al  tribunale  della  Santa  Sede,  e  per- 
chè le  dannate  proposizioni  erano  assai  probabili  e  sostenute 
da  moltissimi  dottori:  venisse  imposto  silenzio  al  Gerson  ed  al 
vescovo  parigino  ed  anche  una  pena  per  le  calunnie,  onde 
aveva  disonestato  il  nome  del  duca.  Gonfessava  però,  lui  non 
opporsi  alla  condanna  della  proposizione  intorno  alla  lecita  oc- 
cisione  del  tiranno,  ma  volere,  che  quella  venisse  ben  dichia- 
rata dal  concilio.  L'Arras  voleva  cavare  il  Borgogna  dal  gine- 
prajo,  in  cui  si  era  messo  più  con  la  difesa  del  Petit,  che  eoa 
lo  stesso  fatto  dell'ammazzamento  deirOrléans. 

Tra  i  deputati  al  concilio  del  duca  erano  gli  abati  delle  pid 
potenti  babie  della  Francia,  quella  di  Gtuny  e  l'altra  di  Gistello. 
Andavano  costoro  più. rattenuti  del  vescovo  di  Arras,  chiedevano 
un  novello  esame  delle  proposizioni  del  Petit,  innanzi  dichiarare 
anticanonica  la  sentenza  dell'assemblea  di  Parigi  :  si  esaminas- 
sero le  dottrine,  ma  non  si  facesse  parola  dei  loro  autori  e  di- 
fensori, ponendo  al  coverto  di  ogni  onta  la  fama  del  Borgogna  e 
del  morto  Petit:  si  provvedesse  anche  all'onore  dei  denuncia- 
tori. E  gli  avvocati  ed  i  giudici  si  trovavano  innanzi   ad  un 
brullo  guado.  Condannare  la  dottrina  del  Petit  era  un  dar  del- 
l'eretico anche  al  Borgogna,  poiché  questi  nella  verità  di  qnell:^ 
proposizione  aveva  collocata  tutta  la  giustiiìcazione  del  commesso 
omicidio  ;  e  con  un  anatema  sul  capo,  Dio  sa  a  che  altro  s^-* 


nDDi  Sem-Ritfin.  M^  Owtó»  VI  4kveri  vVGjìvìA.^  ì^  $*»>  jxi^tKV 
sui  terreDd  éàìà  %2uesk,  e  ìk  cxì^zm^  ^^:^;ìi  \ì$^  \^^$^\\^  sS^i 
?m^  en  osa  IftVflBTBfcrf  nipi>CR\  coòi^  i  OAVJU;^fiK^>i  ^jiik> 
insellati  a  gìoioà  c&e  pn^eourii^x  ^u^55frJ^  iv.x^  |Vh^\:*^v^v 
perché  il  Bdrfxitt  i^iirx  fa  xx^tisjiZoa  «v>^\;i*.nv  n  ^iauA- 
Tano  spessoL  dniisenri&c^  leaifc«$;»Tii;\\  SI  a  ;l  lit^ri^  5U  |yT^ 
sonale  nemico  òtl  deca  e  iki  PetiU  Tv>teni  rv^ìli  $i  u>xi;\^ix  U 
caDcellìere  era  delia  buioM  de^ì  Aral2^^c^  (\t  iu  ùtu  \ti  ^|xu^i^ 
freqaeoti  niffe,  che  questi  apfMccanQO  coi  lV>r^vuom  la  Ta^ 
rigi,  se  De  andò  io  fiamine  la  casa  di  lui.  e  (xko  stoUo  .nucho 
a  perdenri  la  nta.  LWrras  teneTa  fronte  al  cancoilion'  con  un 
memoriale  indirìlto  ai  padri,  nel  quale  diaio^lrà  oo  talli  Li  lùuu^ 
cixia  di  Gerson  col  Borgogna  e  col  IVtiU  e  a  tutruoiuo  .^tor- 
'Xa?asi  di  togliere  dalle  mani  del  concìlio  la  c;uK<a.  cho  ;»  Ini 
(ttreva  m^lio  agitata  presso  la  romana  sedo. 

Più  speditamente  si  procedeva  contro  Giovanni  diins.  Vo* 
levasi  da  Ini  una  ritrattazione»  e  non  volova  darla  PosUnato 
boemo.  I  deputati  del  concilio  che  lo  venivano  ad  ora  ad  wnx 
a  visitare  nella  prigione  lo  trovavano  un  di  più  cl^o  Taltn^  (onno 
nel  proposito.  Allora  vennero  per  comandamcnlo  del  conci- 
lio  dati  pubblicamente  alla  fiamme  tutti  i  suoi  libri.  Sporavano 
l'arsione  di  questi,  quasi  minaccia  del  rogo  cho  lo  doveva  hu  lu 
oerire,  gli  avesse  ammorbiditi  gli  spiriti.  Nulla  di  (luoslo;  chioso 
a  scelta  dei  padri  un  confessore  ;  gli  mandarono  nn  frale ,  il 
quale  come  afferma  lo  stesso  Uus  lo  ascollò  con  molta  doliH^xxu 
e  cortesia^  gli  dette  Tassoluzione  (lo  dice  llus),  lo  connlKliò  alla 
ritrattazione,  ma  nulla  gli  prescrisse.  Quoslc  coso  noi  n^wnw^^' 
A  di  1  luglio  volle  il  concilio  tentare  le  ultime  vie  a  radilnrrn 
aUa  verità  Giovanni.  Gli  mandarono  una  soleimo  dnpuUizlnnn, 
in  cui  erano  due  cardinali  con  altri  prelati.  CoHtoro  unii  olliu^ 
Bere  da  lui  che  una  scritta,  la  quale  recava  :  «  Il  timori)  di 
offendere  Iddio  e  di  spergiurare  impedirgli  Tabiuni  Anniì  arti- 
coli recati  contro  di  lui  da  falsi  testimoni  ;  chiamar  Dio  Ua^lì  ' 
nume  del  come  non  li  avesse  mai  pre<licati  nò  HOAt^srinti  ;  <^)n« 
lessare,  che  alcuni  articoli  tolti  da'suoi  libri  rechino  qualche 
oosa  di  falso,  detestarti  ;  ma  non  voleri!  abiurane  l4;iniMido  di 
confessare  cosa  contro  alla  verìtii  e  le  miMuw  ìUìì^uìì  im\t\ , 
tt  potesse  la  sua  voce  farcii  tanto  ehiaramenli;  nenllr^^  i\\mìUf 
^  menzogna  e  i  saoi  peccati  iìa^  rivelarci  n^i  di  m^UMwu  ^4(11 
ritrattereUbd  in  faccia  airooiverM  uy^wU»  (kIhì  hUìUè  dà  tyWfm 


—  574  — 

Che  avesse  potato  pensare.  Consegnare  queste  cose  alla  scrit* 
tura  di  pieno  suo  volere  e  liberamente  >. 

Queste  parole  chiarirono  i  padri  della  inefficacia  de'  loro 
sforzi  a  cansare  il  rigore  delle  leggi  contro  gli  eretici  ;  alle 
quali  si  sarebbero  tosto  rivolti  se  la  presenza  di  Carlo  Maiatesta 
di  Rimini,  messaggiero  di  Gregorio  XII,  non  li  avesse  tratti  al 
negozio  deirunione. 

Se  ne  stava  Gregorio  da  due  anni  e  mezzo  in  Rimini  al- 
Tombra  del  Maiatesta,  che  lo  riveriva  pontefice.  Aveva  creati 
cardinali,  avea  ragunati  sinodi,  avea  fatto  il  possibile  per  te- 
nersi in  seggio:  tuttavolta  la  sua  obbedienza  era  assai  sottile  di 
numero.  Più  ragionevole  e  meno  testardo  del  De  Luna,  si  an- 
dava persuadendo,  che  bisognava  scendere:  ma  voleva  scendere 
con  garbo  e  lasciarsi  dopo  opinione  di  uomo  che  avea  sagrifl- 
cato  il  suo  diritto  al  bene  della  Chiesa,  anzi  che  di  usurpato^  ' 
spodestato  per  forza  di  diritto.  Deposto  Giovanni  dal  concilio, 
che  lo  avea  adorato  vicario  di  Cristo,  pensò  questo  essere  il 
tempo  di  venire  innanzi  e  cedere  in  modo  da  conseguire  in- 
tento. Vedremo  appresso  come  i  Costanziensi  gli  lasciassero 
acconciare  la  bisogna  con  le  mani  proprie,  per  amor  della  pace. 
Era  giunto  in  Costanza  il  di  16  di  giugno,  vigilia  della  XIV 
sessione,  Carlo  Maiatesta,  signore  di  Rimini,  deputato  da  Gre* 
gorio  come  suo  procuratore  a  cedere  la  dignità  papale.  Se  ne 
rallegrarono  i  padri,  lo  festeggiarono  assai,  sebbene  il  Mala* 
testa  non  recasse  lettere  al  concilio,  non  riconosciuto  da  Gre- 
gorio, ma  al  solo  imperatore.  Le  presentò:  e  visitati  privatamente 
i  deputati,  annunziò  a  tutti  che  il  Cerarlo  avrebbe  rinunciato 
il  papato. 

Fino  al  dì  quattordicesimo  di  luglio,  in  cui  fu  tenuta  la 
decimaquarta  sessione,  i  padri  stettero  pensando  al  come  ca- 
varsi da  un  mal  passo,  a  cui  li  stringea  Gregorio.  Costui  non 
teneva  per  legittimo  concilio  il  convento  costanziense,  perchè 
convocato  da  papa  Giovanni  suo  emulo,  né  voleva  cedere  il 
papato  in  man  di  un  cardinale  creatura  di  Giovanni,  presidente 
del  concilio.  Non  contentarlo  sarebbe  stato  un  perdere  la  op- 
portunità di  togliere  di  mezzo  un  antipapa  dei  due  che  erano; 
far  presiedere  al  concilio  altri  che  non  fosse  un  vescovo,  era 
un  dar  di  cozzo  ai  canoni  più  vitali  della  ecclesiastica  disciplina. 
Lo  contentarono.  Fu  veramente  una  strana  cosa  questa  sessione. 
Sigismondo  vestito  tutto  all'imperiale,  circondato  dai  principi 
che  gli  tenevano  la  spada,  lo  scettro,  la  corona  ed  il  pomo  e  da 


—  575  — 

pinde  AMillitQdiQe  di  banmi  alla  presena  dei  andìnuK  di  santa 
liiesa  edi  tatti  i  padri  mosse  dal  suo  seggio  e  andò  a  sedare  in 
inolio  del  presidenlo  della  sinodo.  L^imperalore  in  qnel  di  pnh 
ùedefa.  Gli  sedevano  quindi  e  quinci  ai  lati  Giovanni  cardinale 
li  RagBsa  e  Carlo  Malatesta  procuratori  di  Gregorio.  Noiì  si 
'jòlébrò  messa,  tacquero  i  divini  uflfiiii,  come  se  quello  non  fosso 
^ncilio,  ma  convenuto  da  dichiararsi  tale.  Fu  invochilo  (>erò  lo 
Spirito  Santo,  ed  il  cardinale  di  Viviers  orò  per  la  {vaco.  Allora 
:erto  Giobbe  Benner  protonotaio  di  Lodovico  conte  (palatino 
renne  fuori  a  l^gere  due  bolle  di  Gregorio  XII»  le  quali  a  diro 
il  vero  mi  sembrano  assai  barbaramente  scritte:  a  stenti  si  la* 
sciano  interpretare.  Una  di  esse  era  indiriizata  al  cardinale  di 
Ragusa,  al  patriarca  di  Costantinopoli,  che  non  era  presente,  al- 
Tarcivescovo  di  Treviri,  alFelettore  palatino  ed  a  Carlo  Mala- 
testa:  e  recava  la  facoltà  ai  medesimi  di  convocare  di  nuovo  il 
concilio,  di  dichiararlo  ecumenico,  a  condizione  però  che  non 
n  assistesse  Giovanni  XXUI.  L'altra  era  indirilta  solo  al  Mala- 
testa,  con  cui  Io  dichiarava  suo  plenipotenziario  a  faro  lutto  che 
credesse  opportuno  pel  bene  della  Chiesa.  Come  vennero  lotte, 
il  Malatesta  commise  al  cardinale  di  Ragusa  Tufflcio  di  convo- 
care il  concilio.  Àlzossi  questi,  e  fatta  .una  diceria  in  lode  di 
Gr^orio,  in  capo  alla  quale  pose  queste  parole  —  Qui»  oM  hicf 
^  laudabimus  eum:  fecit  enim  mirabilia  in  vita  sua  —  dichiarò 
k)Dvocato  il  concilio  per  la  unione  e  pace  della  Chiortn  e  la 
estirpazione  delPeresie^  Sali  Tambone  Tarcivescovo  di  Milano,  ed 
^Tendo  accettato  a  nome  di  tutti  quella  convocazlonei  (luattro 
Sputali  delle  nazioni  che  gli  erano  appresso  gridarono:  IHacd; 
^  Placet  gridò  anche  il  cardinale  d'Ostia  a  nome  del  sacro  col- 
Qgio.  Dichiarò  unite  le  obbedienze  di  Giovanni  XXIIl  e  di  Gre- 
Torio  XII  ed  annullati  i  processi  e  gli  anatemi  che  si  orano 
dnciati  le  due  parti.  Cosi  fu  fatta  la  pace.  Allora  il  cardinale 
li  Ragusa,  lasciato  il  seggio  che  teneva,  venne  dal  cardinale 
le'Conti  condotto  agli  altri  cardinali,  e  ricambiati  gli  abbracci 
^  i  baci,  venne  messo  a  sedere  tra  quello  di  Firenze  o  Taqui- 
«iese. 

Gregorio  eìAie  tutto  a  suo  modo:  la  nuova  cfmyimzìom 
^ieva  al  concilio  queir  apparire  continuazione  (kl  pii^rio,  in 
Mii  egli  venne  solennemente  deposto.  I  padri  riputavano  ihpU'SH 
sacrificare  al  bene  della  Oiiesa  Tapparonza  (Jelie  eirt^^riorì  forrn/i, 
non  oedendo  potesse  nuocere  alla  canonicili  itegli  alti  anter/^ 
denti  quella  repentina  cessazione  del  concilio  e  r^ifmnmiUff  per 


—  576  — 

volontà  di  un  antipapa.  Certo  che  la  dignità  della  Chiesa  paU 
molto  per  quelle  finte  sembianze  a  contentare  un  antipapa,  cui 
il  gesuita  Maimbourg  dà  spesso  del  buon  uomo.  Adunque  come 
se  allora  incominciasse  a  tenersi  il  sinodo,  andato  via  l'imperatore 
dal  seggio  di  presidente,  che  occupò  il  cardinale  di  Ostia,  il 
cardinale  di  Pisa  celebrò  messa:  da  capo  s' invocò  lo  Spirito 
Santo,  e  il  Malalesta  lesse  la  bolla  di  Gregorio,  con  cui  davagli 
facoltà  di  rinunciare  il  papato  in  suo  nome.  E  qui  il  principe 
tentò  appiccare  un  uncino,  onde  afferrarsi  e  portare  in  lungo 
la  promessa  rinuncia ,  chiedendo  al  concilio  che  ^i  aspettasse 
resito  delle  conferenze  di  Nizza  intorno  all'  antipapa  De  Lnoa, 
innanzi  che  Gregorio  rinunciasse  veramente.  Ma  Tarcivescovo  di 
Milano  a  nome  di  tutti  gli  turò  la  bocca  con  un  no.  Dopo  tatto 
quello  che  si  era  fatto  per  afferrare  una  rinuncia  dalle  roani 
del  Corano  sarebbe  stato  un  farla  da  dabben  uomini  il  lasciargli 
menar  la  barca  al  largo. 

Preparavano  i  padri  con  peculiari  decreti  la  rinuncia  del 
Corario.  Erano  tutti  ad  impedire,  come  era  loro  debito,  la  scap- 
pata di  qualche  altro  antipapa,  tolto  il  Corario.  Statuirono,  e  lo 
avevano  fatto  anche  quando  deposero  Giovanni,  che  non  si  an- 
dasse alla  elezione  deLpapa  senza  il  consenso  del  concilio;  al 
quale  spettava  la  ordinazione  del  come  e  del  quando  di  quella 
elezione,  sospeso  ogni  altro  diritto  e  privilegio.  Perciò'^supplica- 
vano  l'imperatore  come  loro  difensore,  a  impedire  lo  scioglimento 
di  quella  adunanza  innanzi  si  fosse  creato  il  nuovo  papa.  E 
Sigismondo  di  rimando  mise  al  bando  dell'  imperio  chiunque  si 
facesse  con  diretti  o  indirettimo  di  ad  impedire  la  continuazione 
del  concilio;  l'imperiale  editto  venne  letto  dal  vescovo  di  Cin- 
que-Chiese, suo  vice-cancelliere.  Approvarono  tutti  gli  atti  pon- 
tificali dì  Gregorio  ne'  luoghi  ove  era  stato  riconosciuto  ponte-^ 
flce,  ove  però  non  fossero  opposti  ai  sacri  canoni.  A  fare  sempre 
più  meno  scontento  il  Corario  fu  anche  dichiarato  che  il  decreto 
il  quale  vietava  una  sua  rielezione  a  pontefice  non  mirava  ad 
alcuna  sua  inabilità,  ma  bensì  al  bene  della  Chiesa,  che  inten- 
àevasi  procurare  con  quel  mezzo:  e  che  i  sei  cardinali  da  lui 
veali  farebbero  parte  del  sacro  collegio  indistintamente  con  gli 
jJtrì,  provvedendo  il  concilio  all'inconvenìenza  del  titolo  o  dia- 
conia che  si^  trovavano  avere  ad  un  tempo  due  cardinali;  tutti 
|)1  ufficiali  àella  corte  di  Gregorio  ritenessero  le  loro  dignità; 
e  finalmente  esso  Gregorio  dopo  la  rinuncia  rimanesse  cardinale 
di  santa  Chiesa  e  si  godesse  l'erario  che  possedeva.  Queste  cose 
in  vari  decreti. 


Così  pftoto  un  Telo  siil  passato.  ac<*onda!o  :i\h  nìivlio  ì*;u 
TCDire  di  Gregorio,  il  Mabtesta  Itvossi  in  Yh\\\  o  somìoniN  ^i 
padri  so  qoesto  tema  —  Faaa  csi  cwn  Anodo  wwi/m/^^ì  tw?/|. 
titB  cceìestis  —  S'intende:  l'angelo  era  il  Corano.  Hcilo  Une  ai 
discorso,  andò  a  sedere  in  nn  seggio  letatissimo  pi\'(^raUvi((i 
dai  padri,  e  di  là  lesse  la  fomosa  rinuncia:  t  lo  Cario  doi  Ma^ 
latesta,  vicario  di  Rimini  e  di  altre  terre,  relton'  dolla  prtninda 
di  Romagna ,  a  nome  del  santissimo  padre  in  Cristo  Signon^ 
Gregorio  per  divina  provvidenza  papa  XII,  procuraton>  gonorak^ 
della  santa  romana  Chiesa  e  del  santissimo  papa  signor  nostro* 
monito  di  piena  antorità ,  non  costretto  per  forza ,  violonxa  o 
errore,  ma  solamente  per  manifestare  co'fatti  con  qnaiìta  sin- 
cerità e  zelo  abbia  caldeg^ata  la  anione  dei  cristiani  inolia  nnilà 
della  santa  madre  Chiesa,  liberamente  ed  espressanionto  rinuncio 
io  nome  di  Gregorio  XII  ad  ogni  diritto  che  ebbi  od  ho  ora 
al  pontificato,  e  lo  rassegno  alla  presenza  di  Cristo  o  di  qnosto 
universale  concilio,  che  rappresenta  la  universale  romana  (Chio- 
sa. >  L'arcivescovo  di  Milano  accettava  T anzidetta  rinunzia  In 
Dome  del  concilio;  e  mentre  cantavasi  por  ispirituale  allogrozzn 
il  Te  Deum,  il  Malatesta  lasciava  il  seggio  papale  e  nudoMsnno 
tra  i  signori  assistenti  alla  sinodo.  Non  falli  ni  suo  procurntoro 
il  Corario;  appena  risaputo  della  compiuta  sua  dcptitnzionn,  adu- 
nato il  clero  co'snoi  cardinali,  si  spogliò  di  tutte  lo  insogno  pa- 
pali, promettendo  di  non  volerne  più  sapere,  o  per  lettorn  .s(Tltlo 
al  concilio  confermò  tutto  l'operato  dai  Malatesta.  Lo  forerò 
cardinale  vescovo  di  Porto. 

Mandato  con  Dio  il  Corario,  rimaneva  con  lo  chiavi  di  nnn 
Pietro  in  mano  il  De  Luna.  Questi  avea  polsi  più  forti  di  Gni- 
Corìo,  e  capo  assai  duro.  Lo  cominciarono  a  tentare,  l/arclve*- 
ecoio  milanese  lesse  e  sottopose  al  IHacel  del  concilio  una  ci- 
tazione all'antipapa  Benedetto.  Gli  annnnziavano  dapprima  i  pa- 
€3ri  la  rinuncia  del  Corario,  e  levavano  a  cielo  quel  fimtiWM 
sifluto;  poi  gli  davano  dieci  di  a  pensare  do[K>  la  citazioni;,  m'/irn\ 
%  quali,  e  non  deposto  il  triregno,  lo  dichiararono  m'Ànuìnlìm^ 
eretico,  scandalo  della  Chiesa  e  già  privati^  delia  dignità  i>a|^k 
ordinavano  a  tolti  fedeli,  fossero  stali  anche  re  ^d  impi;radort, 
di  negare  a  lui  ed  a'  sooi  snccessorì  ogni  s<iggezione.  U  MzUmì 
e  rostiense  risposero:  Placet:  ma  ben  altra  coiia  rin^i^indijfa  II 
De  Lana,  iocapooìto  a  Caria  da  papa. 

Cosi  floi  la  decimaqoarta  w.mbvs  rxm  ottimo  ^AiUf  ^^r  la 
unioDe  della  Chiesa:  sì  pre^ravano  i  padri  alla  ^Urcima/frjint», 

Tamb.  Hfuii.  ToL  IL  HH 


—  378  — 

in  cui  erasi  per  dare  nua  definitiva  sentenza  intorno  a  Giovanni 
d'Hus.  Sigismondo  prevedeva  che  glie  l' avrebbero  consegnato 
come  incorreggibile  da  punirsi  a  norma  delle  leggi  laicali;  e 
sebbene  fosse  paratissimo  a  far  il  piacere  del  concilio»  tutta- 
volta  temeva  sempre  della  commossa  Boemia.  Volle  dare  all'ere- 
tico un'  ultima  stretta  per  farlo  rinsavire.  Era  il  giorno  5  di 
luglio,  e  gli  mandò  quattro  vescovi  e  que'due  baroni  boemi, 
Venceslao  di  Duba  e  Giovanni  di  Cblum ,  che  lo  avevano  ac- 
compagnato a  Costanza  e  lo  amavano  grandemente.  Costoro  il 
dimandarono  in  nome  delFimperatore  se  egli  volesse  abiurare  gli 
articoli  che  riconosceva  come  cosa  sua,  e  se  volesse  qpn  giura- 
mento affermare,  non  tenere  la  dottrina  di  quelli  che  non  ri- 
conosceva per  suoi  e  di  consentire  in  tutto  con  la  Chiesa. 
Rispose  non  dipartirsi  dalla  dichiarazione  fatta  nel  giorno  pri- 
mo di  luglio.  Ed  in  quel  giorno  venendo  tratto  di  prigione  Gio- 
vanni, a  comparire  innanzi  ai  commissari,  Giovanni  di  Chlum 
che  gli  portava  molto  amore,  e  non  voleva  che  per  remissione 
di  spirito  fallisse  a  quello  che  credeva  onor  suo  e  della  sua 
gente ,  con  pietosi  modi   gli  andò  dicendo  :  «  Maestro  mio 
caro,  io  non  sono  uomo  di  lettere  e  capace  di  fornir  consigli 
a  voi  cima  di  sapienza^  tuttavolta  se  vi  sentite  colpevole  di 
qualche  errore ,  di  cui  pubblicamente  vi  accusano ,  io  vi  prego 
a  non  farvi  tenere  dalla  vergogna  di  ritrattarlo.  Ma  se  vi  sen- 
tite innocente,  io  vi  esorto  a  durare  ogni  maniera  di  supplicii, 
non  essendo  bene  rigettar  la  verità   che  possa  sulle  proprie 
convinzioni.  >  Alle  quali  parole  Hus  rispose  andando  tutto  in 
lagrime  :  <  Iddio  è  testimonio  se  io  sia  stato  sempre  e  sia  para- 
tissimo a  ritrattarmi  con  tutta  Tanima  non  appena  che  m' ab- 
biano convinto  di  alcuno  errore  coi  documenti  della  Bibbia.  > 
Povero  Hus  I  la  fede  è  un  dono  gratuito  del  Signore  :  ed  egli 
non  ne  aveva  più.  Chiedeva  convincersi  colla  Bibbia;   ma  la  - 
fiducia  neirautorità  delle  scritture  non  era  la  virtù  della  fede,  . 
ma  la  infedeltà  all'autorità  della  Chiesa.  Il  sagrifizio  di  una  sot-- 
J;omessa  ragione  non  si  compie  innanzi  alla  divinità  de'  libri^ 
santi,  ma  innanzi  alla  infallibilità  di  Dio  stesso  che  parla  suM 
labbro  della  Chiesa.  Quei  libri  serrano  la  lettera  che  uccide,  e£ 
lo  spirito  che  vivifica:  è  mai  possibile  che  possa  conciliarsi  la^ 
immobilità  di  una  .mente  che  crede ,  con  la  mobilità  di  ud^ 
mente  che  fatica  a  sequestrare  la  lettera  dallo  spirito?  Questcr 
sequestro  è  già  fatto,  non  per  umano  artificio,  ma  per  superna 
illuminazione,  ed  in  quello  è  il  deposito  della  fede.  Questo  tesoro 


—  sni- 
di leritii  MD  è  nf!N»itB,  mi  wnMTKto  ^  mi^^tniK^  4<^tai 
Cliiea  seooodo  le  Ifigp  ààìt  ìnMìic^^  tA  \ì  <MM^  cìii^  im 
partecipa  doq  poò  dbDwdbK  esser  cmrinUv  peivl^  l;ii  n^^tk^w 
£  questa  Tenta  dod  è  dibcnto  oeiriimano  ìiìt^UMIiCi  èf<  |vji<^ 
stori  ddh  Ctiiesa,  ma  »lo  ìd  qnelki  di  Dk\  nìm^iHl^rlA,  ^  un 
chiamar  Dìo  slesso  al  trìbonate  dei  {mprio  ciit^irHì  ;ii  rvi^kMr^ 
ragione  delia  saa  aàooe.  Per  la  (piai  cci:»  Hn$  ct\ù\)ova  im 
impossìbile:  ed  il  condilo  che  gli  negata  il  chi^.^to  m\n  (^(vvn 
che  ubbidire  ad  una  le^^  che  non  era  opera  \Mh  mano  y\<»^i 
nomini.  Necessaria  avrertenia  è  qnesta.  o  letlon\  \M^tcM  non 
pensi  essere  stati  i  padri  irragionevolmente  duri  cm  ìhx^  ne« 
gandogli  cosa  ehe  a  prima  vista  sembra  giusta  o  facil«>.  dico 
il  convincerlo  con  la  Bibbia  alla  mano.  Adunque  ;iiiovanni  di 
Hns,  che  non  aveva  pib  fede  nella  Chiesa ,  non  \'ol(>ndo  muo» 
vere  dal  proposito  della  propria  sentenza,  doveva  dannnriil  da 
essa  Chiesa;  e  se  era  legge  nel  pubblico  diritto  che  oolplva  di 
pene  i  felloni  airautorità  ecclesiastica .  questa  doveva  onnal 
raggiungere  il  testardo  Boemo,  e  lo  raggiunse  dlfaltl  con  tutta 
la  tremenda  maestà  della  giustizia. 

Noi  entriamo ,  o  lettore ,  nella  decimoquintn  aoa»iono  del 
concìlio  di  Costanza  spettatori  di  un'lagrimovolo  fatto,  ti  (fuale 
se  ci  metterà  pietà  per  la  terribile  vista  di  una  umana  vita 
divorata  dalle  fiamme,  non  dovrà  sconciarsi  dalle  noMlro  mani, 
perchè  è  protetto  dalle  ali  della  giustizia,  ó  vegliato  dal  con- 
sesso degli  uomini  di  que'tempi,  il  quale  scriaso  n  auggnllù  il 
volume  del  pubblico  diritto.  Forse  potò  fallire  quol  coliKiof^Ao , 
perchè  traviate  le  menti  nella  visione  del  vero  dirlllo,  ma  noi 
non  possiamo  giudicarlo  nel  solenne  momento  In  cut  la  urfiann 
^nstizia  nella  flagranza  dei  fatti  ferisco  e  \ìnnHti,  La  aciiro^  con 
coi  questa  tronca  la  vita  del  colpevole,  /j  una  cjmmuumwA 
non  un  principio.  In  questo  possiamo  ragionare,  non  in  qiif)ll«i 
perché  nella  conseguenza  é  necessità  di  chi  aM^iiìm^  ;  nel  prUu 
d{H0  la  libertà  di  cbi  sancisr^.  Giovanni  d'HiH  al  r/fi^\HilUì  (M 
concilio  tradotto,  nelle  mani  óeWìmpfr^UìrH  ctie  lo  abbr od«,  A 
ocdiocato  nella  conseguenza  di  ona  Ui0%h7Àom  ^ìk  fatta:  ^ffilod} 
la  pietà  della  sua  morte  pad  sgorgare  alalia  ra0(m^  /k)  umirt 
tempi ,  da  coi  guardiaoio  que^  fottt ,  mm  mail  d^tla  ffi0Mm 
de' tempi  snof.  Strìngili  per^V,  leUofitr,  alM»  iMmort»  di  ^tt^h 
die  ti  ho  detto  inn:»raì  inlofM  »lla  fsfjmfmti^  (M  si^id^N 
potere.  Ricorda  eiie  il  cootifio,  e««n«  CM^m»  nniif^v$l^  0A  ììì- 
falfibiie ,  iMoiste  Mi  mìtMht  delk  WkUs.  MU  M«  ^  4^ 


—  580  - 

costumi ,  e  che  nella  bassa  regione  dei  fatti  sono  gli  QoniinL 
Se  patirai  scandalo,  non  ti  volgere  ai  concilio,  ma  a  questi. 
Miseri  noi,  clie  dovunque  muoviamo,  ci  lasciamo  appresso  Torma 
del  peccalo  I 

Una  moltitudine  incredìbile  di  popolo  era  accorsa  nella  cat- 
tedrale di  Gostanza:  voleva  vedere  come  si  punissero  gli  eretici. 
Sapevalo ,  perchè  la  ragione  criminale  del  secolo  era  scolpita 
nella  sua  coscienza  :  voleva  satollare  i  sensi  di  una  terribile 
visione.  Sigismondo  co'suoi  principi  scandalizzati  dalla  proposi- 
zione di  Petit,  spaventati  dai  fatti  di  Borgogna,  erano  ai  loro  seggi, 
impazienti  di  struggere  col  fuoco  la  radice  della  prava  dottrina. 
Il  Viviers  cardinale  ostiense  era  presidente  :  cardinali  e  prelati 
quanti  erano  in  Gostanza  non  si  fecero  aspettare.  Un  tristo  mo- 
numento si  levava  a  mezzo  della  chiesa,  dal  quale  mi  penso, 
che  non  avevano  forza  torcer  gli  occhi  gli  spettatori  aspettanti 
un  assai  lugubre  fatto.  Era  come  un  altissimo  palco,  sul  quale 
giacevano  vesti  sacerdotali,  da  indossarsi  da  Giovanni,  per  istrap- 
pargliele  dalla  persona  a  simbolo  di  perduto  sacerdozio.  Dato 
principio  alla  messa,  Tarcivescovò  di  Riga  usci  fuori  per  con- 
durre Hus  dalla  prigione  al  cospetto  del  concilio;  e  come  non 
erano  ancora  finiti  i  santi  misteri,  tornato  che  fu,  arrestò  Gio- 
vanni alle  porte  della  chiesa  perchè  la  sua  presenza  non  pro- 
fanasse il  sacrifizio.  Egli  non  vedeva;  ma  udì  i  supplicanti  pa- 
dri cantare  le  litanie ,  V  inno  dello  Spirito  Santo  ;  e  le  parole 
del  Vangelo  scelto  in  quei  di  —  Guardatevi  .dai  falsi  pro- 
feti —  dovettero  andargli  a  mezzo  del  cuore,  nunzie  di  vicina 
morte. 

Gompiuli  i  divini  ufflzi,  venne  finalmente  introdotto  alla 
presenza  dei  padri ,  e  difilato  gli  fecero  salire  V  apparecchiato 
palco;  cosi  levato  in  alto,  segno  agli  sguardi  di  tanto  popolo, 
piegò  la  fronte  ed  orò.  Quando  Tuomo  non  sente  più  la  paura 
della  morte  per  fallita  speranza  di  schivarla,  avvegnaché  ancora 
plasmato  di  ossa  e  di  carne,  s' insublima  come  uno  spirito  agli 
occhi  di  chi  vive  la  vita.  La  contemplazione  dei  circostanti  e 
la  tacita  preghiera  delF  eretico  venne  rotta  dalla  voce  di  un 
frate  predicatore,  il  vescovo  di  Lodi,  che,  affacciatosi  all'ambone, 
cominciò  a  sermonare  al  concilio  recando  innanzi  queste  pa- 
role dell'Apostolo:  — Venga  distrutto  il  corpo  del  peccato.  — 
Se  Paolo  aveva  scoccata  questa  sentenza  allo  spirito  del  pec- 
cato, il  frate  lo  conficcò  nel  corpo  del  peccatore.  Egli  non  ser- 
mone che  per  esortare  l'imperatore  a  punire  Hus,  non  dubi- 


—  581  — 

odo  coochìodere  la  sacra  diceria  aàlitaodolo  come  tittima 
sàgnata  dall'amana  giustizia. 

Vi  erano  gli  stemperati  xelanti,  ed  a  contenere  questi  credo 
le  i  padri  facessero  il  decreto  del  silenzio;  cosi  ò  intitolato 

decreto  ctie  Antonio  vescom  concordiense  venne  in  mezzo 
leggere  appena  il  lodigiano  prelato  ebbe  finito  V  avventato 
«mone.  Il  sacrosanto  concilio  costanziense  minaccia  la  pena 
ella  scomunica  latoe  sententice  e  la  prigionia  di  due  mesi  a 
lìinncpie  osasse  interrompere  la  sessione  con  inutili  dispute , 
ssendo  tutto  già  fermato  il  da  farsi  intorno  ad  Hus  nelle  con- 
regazioni  preparatorie,  ed  a  'chiunque  osasse  turbarla  con  voci 

batter  le  mani  ed  i  piedi.  La  minaccia  coglie  tutti,  anche  i 
escovì»  i  cardinali,  i  re  e  lo  stesso  imperatore.  Questa  minac- 
ia  fatta  anche  all'imperatore  fece  impennare'  il  p.  Maimbourg, 
he  visse  un  tre  secoli  dopo  il  concilio.  Trovò  nel  decreto  del 
ilenzio  una  invasione  della  Chiesa  nelle  ragioni  dei  principi. 

Lenfant  fa  osservare  che  Timperatore,  il  quale  aveva  già  ap- 
rovata la  sentenza  contro  di  Hus  nelle  congregazioni ,  non 
frebbe  certo  messo  impedimento  di  sorta  alla  medesima  nella 
obblica  sessione,  e  che  la  minaccia  della  prigionia  era  messa 
al  decreto  col  suo  beneplacito  per  meglio  contenere  gr  infe- 
iori.  Si  accorda  però  col  Haimbourg  gallicano  intomo  alle  usur- 
azioni  dei  padri  minaccianti  scomuniche  ed  interdetti  ai  re 
ìobbedienti  ai  loro  decreti.  Ora  io  dico  ad  entrambi  questi 
Nrittori,  che  se  il  concilio  non  poteva  minacciare  Timperatore 
i  prigionia  perchè  non  aveva  il  bargello  ad  imprigionare  gli 
Qgusti,  poteva  e  doveva  su  quelle  teste  incoronate  far  sentire 
)  scroscio  delle  censure,  ove  non  fossero  stati  al  segno  delle 
ose  die  toccavano  Dio  e  la  salute  delle  anime.  Il  concilio  dìf- 
iDiente  intomo  alla  fede,  come  diffioiva  nella  causa  di  Hus , 
Km  Spendeva  che  da  Dio  e  poteva  e  doveva  ben  dire  airim- 
entore  di  star  zitto,  pena  là  scomunica.  Non  maraviglio  del* 
Bgonotto,  maraviglio  del  cattolico  :  é  veramente  ridicolo  in 
n  quel  tenemmo  per  le  ragioni  regali  a  scapito  di  quelle  della 


Imposto  il  silenzio,  il  promotore  del  concilio  Errico  de  Firo 
lieie  giustizia  contro  Giovanni  d'Hus  eretico  convìnto.  Gli  tenne 
etro  Bertoldo  di  Windongen  uditore  delle  cause  del  palazzo 
losMteo,  il  quale  incominciò  a  leggere  gli  articoli  di  Wicleff 
i  eoDdaDoali  e  quelli  di  cui  era  stato  accagionato  Hus.  L'esame 
i^esfimooi  era  fallo,  le  vie  a  raddurre  il  reo  ad  una  ritratta^ 


—  58f  — 

zioDe  erano  state  tutte  tentate,  ed  invano:  quelle  non  erano  dn 
forme  di  procedere  e  non  altro,  a  dar  le  viste  della  legalità  ^lla 
già  preparata  condanna;  perciò  fu  interrotta  la  lezione  e  si  ebbero 
per  letti  i  rimanenti  articoli.  Giovanni  voleva  purgarsi»  ma  alla 
stessa  guisa  con  cui  aveva  sempre  risposto  innanzi  ai  com« 
missariì  del  concilio.  Per  la  qnal  cosa  il  cardinale  di  Firenze 
gli  ruppe  la  parola  e  commise  agli  uffiziali  del  concilio  di  farle 
tacere.  Egli  non  doveva  che  ritrattare  gli  errori  oppostigli  :  e 
sempre  più  si  ostinava  a  difendersi,  chiedendo  esser  convinto. 
Air  impossibile  i  padri  rispondevano  col  niego  :  e  Giovanni, 
prendendo  le  sembianze  di  uomo  oppresso  dalla  prepotenza 
del  concilio,  con  le  mani  e  gli  occhi  levati  al  cielo  affidava  a 
Dio  la  sua  causa. 

Non  essendo  più  altro  a  fare  intorno  alla  condotta  del 
processo,  il  vescovo  di  Concordia,  a  richiesta  del  promotore  del 
concilio ,  lesse  la  sentezza,  con  la  quale  tutti  i  libri  di  Hos 
vennero  dannati  al  fuoco  ed  il  medesimo  ad  essere  degradato 
e  deposto  dal   sacerdozio,  e  conchiudevano  :  t  Questa  santa 
sinodo  costanziense ,  vedendo  che  la  chiesa  di  Dio  non  abbia 
più  cosa  a  fare  con  Giovanni  d' Hus,  lo  abbandona  al  giodizio 
del  tribunale  laicale.  >  Hus  ascoltò  genuflesso  la  sentenza; 
richiamò  contro   V  arsione  dei  suoi  libri,  che  disse  ingiusta  e 
perchè  non  lo  avevano  convinto  degli  errori  che  contenevano 
e  perchè ,   ignorando  i  padri  la  lingua  boema  in  cui  li  aveva 
scritti,  non  potevano  trarre  un  giusto  giudizio.  Ma  i  suoi  accu- 
satori boemi  ed  i  molti  dottori  alemanni  che  erano  al  concilio 
seppero  ben   interpretarli  da  farne  intendere  il  contenuto  al 
concilio.  Pretese   anche  cessare  la  taccia  d' incorreggibile  e  di 
ostinato  che  gli  avevano  dato  nella  sentenza,  e  di  nuovo  prese 
Dio  a  testimone  della  sua  innocenza  e  lo  pregò  a  perdonare  i 
suoi  giudici  accusatori.  Intanto  gli  si  appressò  T  arcivescovo  di 
Milano  con  cinque  altri  vescovi  deputati  dal  concilio  alla  sua 
degradazione,  e  gli  fecero  indossare  tutte  le  vesti  sacerdotali,  e 
prendere  nelle   mani  il  calice  come  prete  che  fosse  in   punto 
di  celebrare  la  messa.  Era  questa  un  assai  trista  cerimonia  onde 
il  sacerdote  veniva  cacciato  per  sempre  dal  santuario,  perchè 
la  balia  laicale  avesse  potuto  senza  violare  i  canoni   mettergli 
le  mani  addosso.  Eppure  Giovanni  ne  tolse  argomento  a  chia- 
rire il  popolo  della   forza  dell'  animo ,   che  credeva  arroccato 
nella  coscienza  della  sua  innocenza;  imperocché  neirindossare 
il  camice,  disse  assai  prontamente  :  «  Anche  al  nostro  Signore 


—  585  — 

Gesù  Cristo  fu  fatta  indossare  una  bianca  veste  per  beffarsi 
di  lui,  quando  Erode  lo  mandò  a  Pilato.  >  I  vescovi  lo  trassero 
gHi  dall'alto  sgabello  in  cui  era  e,  togliendogli  dalle  mani  il 
ealice»  dissero  :  e  o  maledetto  Giuda  che,  disertato  il  concilio 
della  pace,  ti  se'gittato  a  quello  dei  giudei,  noi  ti  togliamo  il 
calice  che  reca  il  sangue  di  Gesù  Cristo.  >  Al  che  Giovanni 
rispose'  con  voce  assai  alta,  e  lui  sperare  dalla  misericordia  di 
Dio  bevere  in  quello  stesso  di  quel  calice  nel  regno  suo.  >  Cosi 
una  dopo  t*  altra  strappategli  dalla  persona  le  sue  vesti  con 
parole  di  riprovazione  e  sconciatagli  la  cherìcale  tonsura ,  i 
vescovi  gli  posero  sul  capo  altissima  una  mitra  di  carta  che 
recava  dipinti  tre  diavoli  orribili  a  vedere  e  la  parola  eresiarca. 
Di  che  Giovanni  non  accorò  punto ,  anzi  con  fronte  assai 
serena  raccomandò  a  Dìo  il  suo  spirito  e  disse:  portare  quella 
corona  di  obbrobrio  per  amore  di  colui  che  ne  aveva  portata 
un'altra  di  spine. 

Chiusa  la  sessione,  venne  Giovanni  abbandonato  dal  con- 
cilio in  balia  del  l'impera  tore,  il  quale  commise  all'elettore  pala- 
tino vicario  dell'  impero  a  tenere  le  sue  veci  di  avvocato  della 
Chiesa  ed  a  curare  la  pena  da  infliggere  all'ostinato  eresiarca. 
L'  elettore  lo  nyse  nelle  mani  del  maestrato  di  Costanza,  che 
pensò  a  tutto,  ordinando  ai  bargelli  ed  al  carnefice  di  abbru- 
ciare Giovanni  vivo.  Mosse  costui  al  luogo  del  supplizio  con 
incredibile  tranquillità  di  spirito  :  gli  andavano  ai  fianchi  due 
uffiziali  dell'  elettore  ;  lo  seguivano  e  lo  precedavano  due  ser- 
genti di  città.  I  principi  dell'  impero  venivano  dopo  a  capo  di 
ben  ottocento  soldati,  che  a  mala  pena  contenevano  l' impeto 
dell'  immenso  popolo.  Fecero  passare  il  reo  innanzi  al  palazzo 
irescovile,  perchè  vedesse  bruciare  i  suoi  libri  :  Giovanni  vide  e 
si  beffò  di  quella  arsione.  Indi,  vòlto  al  popolo,  voleva  persuaderlo 
in  lingua  tedesca,  come  non  per  peccato  di  eresia  fosse  con- 
dotto alla  crudelissima  morte,  ma  per  odio  de'suoi  nemici,  che 
Qon  lo  avevano  potuto  convincere.  E  giunto  al  cospetto  del  prepa- 
rato rogo,  con  molta  pietà  di  modi  cadde  su  le  ginocchia  e  si 
mise  a  recitare  qualche  salmo,  e  ad  ora  ad  ora. faceva  udire 
({ueste  parole  —  e  o  Signore  Gesù,  ti  prenda  pietà  di  me....  o  Dio, 
Delle  mani  tue  commetto  lo  spirito  mio.  >  Le  quali  voci  andarono 
a  svegliare  nell'  animo  del  popolo  affetti  di  compassione ,  e 
corse  su  le  labbra  di  molti  —  <  Dei  fatti  passati  di  questo 
uomo  noi  non  sappiamo:  certo  che  al  presente  fa  delle  assai 
belle  preghiere.»  —  Chiese  d*un  confessore,  e  l'ebbe;  ma  come 


—  584  — 

costai  lo  richiese  della  ritrattazione  de'  saoi  errori,  disse  boq 
avere  mestieri  di  confessioDe,  non  provando  il  peso  di  alcuno 
peccato  mortale.  Volle  per  V  ultima  volta  sermooare  al  popolo 
in  favella  tedesca ,  ma  glielo  impedi  V  elettore;  e  potè  solo 
ringraziare  le  sue  guardie  del  buon  governo  che  gli  avevano 
fatto,  significando  loro  la  speranza  in  cui  moriva  di  andare  a 
regnare  ne'  cieli  con  Cristo,  pel  Vangelo  del  quale  pativa.  Veone 
legato  ad  un  palo  ;  intorno  gli  acconciarono  le  legna.  Fuman 
nelle  mani  dei  carnefice  la  face  del  micidiale  incendio  ;  il  po- 
polo contenuto  dalle  milizie,  era  un  deserto  intorno  ad  Hiu. 
Allora  relettore  palatino,  accompagnato  dal  conte  di  OppenboD 
maresciallo  deirimpero,  si  accostò  al  rogo,  e  dimandatogli  per 
ultima  volta  se  voleva  ritrattarsi  per  campare  la  vita.  Giovanili, 
infunato  come  era,  con  fermissima  voce  rispose  <  voioe 
fsqggellare  col  proprio  sangue  i  suoi  libri  e  le  sue  predicazioni 
jf^lle  péfitberare  le  anime  dalla  tirannide  del  demonio.  >  AUon, 
rKrattosi  reletto?è,~fu  appiccato  il  fuoco;  si  levarono  le  fiamme; 
ed  in  poco  d'ora,  entrate  nella  bocca  dell'eretico,  gli  tolsero  b 
vita.  1  carnefici  fecero  a  brani  le  abbrustolate  sue  carni ,  oa 
sperperarono  il  cuore;  tutto,  fino  le  vesti,  fu  ridotto  in  ceoere 
e  gittate  nel  Reno,  perchè  ai  presenti  Boeroi  non  avanzasse 
reliquia  del  predicatore  di  Betlem.  Ma ,  secondo  recita  Eoes 
Silvio  Piccolomini,  poi  papa  Pia  II,  questi  si  gittarono  sul  ter- 
reno ancor  fumante  della  terribile  arsione,  e  razzolando  qualcbe 
po'  di  ceoere,  la  mandarono  in  patria,  come  cosa  santa,  ecdta* 
trice  di  ben  altri  incendii. 

L'eretico  era  morto ,  il  popolo  tornò  a  casa  purgato  dello 
scandalo  delle  sue  dottrine;  ma  rimasero  le  menti  dei  filosofi 
attorno  all'estinto  rogo  rattenute  da  pericolose  idee,  alle  qaaii 
confortava  la  costanza  dell'estinto  ed  il  perchè  del  peccato  onde 
Hus  era  stato  bruciato.  Dapprima  gli  animi  non  si  arrestarono 
che  alla  fortissima  tempera  del  suo  spirito ,  con  cui  aveva  af- 
frontata la  cruda  morte  del  fuoco.  Il  Piccolomini,  futuro  pon- 
tefice, toccando  la  uccisione  di  Giovanni  d'Hus  e  di  Girolamo 
da  Praga,  non  potè  tenersi  dal  maravigliare  della  loro  forza  nel 
..supplicio.  <  Entrambi,  egli  dice,  con  animo  costante  sopporta* 
<rono  la  morte  ed  incontrarono  il  fuoco,  quasi  convitali  a  bao* 
chetto,  non  dando  pure  una  voce  che  dess*  indizio  d'infralito 
aifimo.  E  messi  ad  ardere,  incominciarono  a  cantare  un  ìddo> 
che  non  fu  potuto  superare  dallo  strepito  delle  fiamme.  È  voce 
che  non  fosse  stato  alcuno  de'  filosofi  che  avesse  affrontata  la 


—  585  — 

lorte*  eoo  qaella  Tigoria  di  animo  con  cui  qaesli  dararono  il 
loco.  > 

I  coe?ì  maravigliarono;  quelli  che  vennero  dopo,  alla  ma- 
iviglia  aggiunsero  il  giudizio,  vario  secondo  la  sentenza  che 
scavano  io  fallo  di  religione,  per  cui  Hus  fu  mandalo  a  morte, 
protestanti  gridarono  contro  al  concilio  violatore  del  diritto 
elle  genti:  essi  muovono  dal  violato  salvocondolto  e  logica - 
lente  si  trovano  a  fronte  di  un  ingiusto  tribunale.  I  cattolici, 
imostrato  che  non  vi  fu  violazione  di  salvocondolto ,  trovano 
iastaUa  sentenza,  giusta  la  pena.  Giò  fatto,  tacciono.  Ma  ad  uno 
lorìco  non  basta  questo.  Égli  deve  trarre  Hus  ed  il  concilio 
lel  pacifico  terreno  di  un  esame  nel  quale  la  morale  estima- 
tone degli  uomini  e  de'  loro  rapporti  coi  tempi  in  cui  vive- 
vo, devono  liberamente  sgorgare  dalla  mente  delFosservatore. 

Erano  tempi  guasti  quelli  che  correvano,  e  bisognava  rifor- 
nare  la  Chiesa.  Due  forze  spingevano  a  questa  riforma:  quella 
(Opranaturale,  ossia  la  virtù  divina,  che  veglia  alla  indefettibi- 
lità della  Chiesa;  e  la  forza  naturale ,  cioè  qnella  che  emanava 
falla  pubblica  coscienza.  La  religione  non  è  solamente  una 
legge,  ma  anche  un  bisogno:  la  critica  umana  potrà  agitare  la 
SQperflcie  del  dogma,  ma  non  mai  turbarne  il  fondo,  guardato 
gelosamente  dai  cuori,  che  hanno  la  necessità  di  amare,  di  te- 
mere, di  sperare.  Se  il  clero  infermava  ne'  suoi  costumi,  come 
infermava  al  secolo  XV,  e  per  cagion  dello  scisma  non  si  ve- 
dera  mano  che  si  stendesse  a  curarlo,  quella  coscienza  pubblica, 
apponto  perchè  tenera  di  religione,  gridò  riforma.  WiclcJT,  llus, 
Girolamo  da  Praga  se  ne  impossessarono  e  la  rappresentarono 
S6Dz'alcun  loro  dritto  e  nel  loro  individuo  adunarono  la  gloria 
ed  i  pericoli  di  quella  rappresentanza.  Si  assembrarono  i  padri 
>  Costanza  per  riformare  la  Chiesa.  Il  concilio,  spinto  dal  de- 
trito del  sovranaturale  ministero,  si  mise  a  curare  la  riforma  : 
na,  nel  porsi  all'opera,  più  della  malvagità  degli  abusi  ebbe  a 
combattere  un  censore  di  questi  stessi  abusi  che  voleva  emu^ 
Mo  nel  difficile  ufficio ,  cioè  la  eresia  universitaria.  Difficile 
Beo,  e  dico  poco:  perchè  Tistesso  concilio  se  fu  infallibile  nella 
leflnizione  di  fede ,  non  potè  impedire  che  gli  uomini  di  cui 
i  componeva  non  fallissero  cit'ca  cose  non  delìnibili;  io  parlo 
telle  teorie  gersoniane.  Più  difficile  era  in  mano  di  uomini 
rivali:  ed  infatti  Hus,  per  riformare  la  Chiesa,  la  mandò  tutta 
ì  perdizione.  Adunque  Hus  al  cospetto  del  concilio  non  fra 
olaroente  un  eretico,  ma  un  uomo  che  recava  nel  seno  le  osi- 

Tamb.  Inqnis.  Voi.  II.  49 


—  386  — 

genze  della  pubblica  coscienza  intorno  al  guavSto  dei  chérìci  e 
cbe  contendeva  col  concilio,  cercando  usurpare  il  ministero  di 
curarlo.  11  concìlio  era  il  potere  della  Chiesa,  Hus  attribuiva  a 
sé  il  potere  della  pubblica  coscienza.  Queste  due  forze  Tanno 
d'accordo,  per  comunanza  di  scopo  si  ajutano  a  vicenda,  quando 
è  in  equilibrio  la  loro  vigilanza  nella  esclusione  del  male.  Ha 
guai  se  la  seconda  usurpa  le  ragioni  della  prima;  questa,  snrb 
che  sia  a  combatterla,  la  troverà  cosi  oslmata  e  superba,  che 
non  potrà  riconquistare  il  proprio  se  non  scacciando  Temute: 
nella  morte  di  questa  è  la  sua  vita.  È  questa  una  legge  di  eco- 
nomia sociale  cbe  ha  vigore  in  ogni  compagnia,  massime  io 
quella  della  Chiesa:  ed  a  questa  ubbidirono  i  padri  di  Costanza 
nella  condanna  di  Hus.  Ario ,  Nestorio ,  dannati  dai  concilii , 
recavano  su  la  fronte  il  solo  marchio  dall'anatema  dogmatico; 
Hus  recava  anche  quello  dell'anatema  sociale. 

Ma  se  il  concilio,  per  avere  incontrata  emula  nel  negozio 
della  riforma  la  pubblica  coscienza,  la  quale  usurpato  aveva 
dritti  non  suoi,  dovette  necessariamente  condannare  Giovanni, 
Giovanni  dalla  personificazione  appunto  di  quella  coscienza  che 
si  arrogava  attinse  l'ardire  nella  crudelissima  morte.  Egli  po- 
teva campare  la  morte  ritrattando  i  suoi  errori,  e  noi  fece. 
Quale  fu  la  forza  che  domò  in  lui  l'istinto  della  vita?  Se  lo 
domandiamo  ad  un  protestante,  dirà  che  sia  stata  quella  virtà 
sopranaturale  che  sorreggeva  i  primi  martiri  della  Chiesa  a 
durare  i  supplicii.  Se  ad  un  cattolico  che  non  guardi  alla  pe- 
culiare ragione  dei  tempi,  dirà  che  è  slata  libidine  di  umaDa 
gloria,  l'orgoglio.  Ma  un  razionalista  non  poteva  vivificarsi  della 
fede  dei  martiri;  ma  l'ambizione  di  gloria  sostenne  sola  nei 
tormenti  il  predicatore  di  Betlem,  che  era  eretico  e  riformatore 
ad  un  tempo.  Hus  attinse  eziandio  la  forza  dalla  pubblica  co- 
scienza. Questa  allorché  si  leva  all'altezza  di  un  principio  e  ne 
acquista  la  temperie,  fosse  anche  falsata  ed  ingiusta  nelle  pre- 
tensioni sue,  com'era  in  Hus,  aggioga  l' individuo  con  la  potestà 
della  legge.  Se  il  principio  della  riforma  per  conservare  la  reli- 
gione era  santo  e  però  oggettivamente  divino ,  si  guastò  nel' 
l'uomo,  che  superbo  malamente  logicava,  e  fu  soggettivamente 
pessimo.  Ma  la  sua  trasformazione  avvenne  dopo  che  aveva 
spiegala  la  sua  forza  nel  cuore  dell'uomo.  Al  suo  impulso  l'uo- 
mo si  avviò  pel  sentiero  di  una  abnegazione»  (che  peraltro  non 
fu  mai  veramente  cristiana,  mentre  lo  spirito  non  era  soggetto 
alla  Chiesa),  errò  nell'operare  quel  principio,  lo  falsò,  ma  non 


—  587  — 

)tè  falsare  b  eflBcacia  deirirapalso  onde  ood  cor^gio  incontrò 
morte.  Qoindi  in  Hos  deploriamo  Teretìco  goastalore  di  nn 
incipio  al  cospetto  dei  concilio  »  e  y^amo  ad  un  tempo 
la  meravigliosa  audacia  e  costanza  al  cospetto  del  rogo.  Que- 
I  personale  dualità  è  figlia  della  daalità  del  principio  della 
forma,  oggettivamente  buono  neiPeducare  Tuomo  alfabnega- 
)ne,  soggettivamente  malo  per  la  depravazione  di  chi  lo  ragie* 
Lva.  Hos  lasciò  in  retaggio  Tesame  de'  suoi  errori  ai  teologi , 
principio  alla  storia. 

Se  noi  abbiamo  in  noi  stessi  delle  leggi  alle  quali  age* 
ilmente  obbediamo,  come  quella  della  conservazione  propria, 
mo  anche  leggi  estrinseche  le  quali  possono  venire  in  colli* 
Dne  delle  intrinseche  e  vincerie.  Noi  siamo  liberi  e  possiamo 
egliere  tra  la  legge  dell'individuo  e  quella  dell'universale. 
Desta  ha  anche  le  sue  attrattive ,  e  il  suo  adempimento  è 
eondo  di  una  squisita  voluttà  :  ma,  per  farsi  abbracciare,  va 
presentarsi  all'uomo  nella  parte  sua  psicologica;  là,  essa 
nega  i  tesori  della  sua  bellezza ,  là  lo  innamora ,  là,  a  mo' 
i  dire ,  si  marita  a  lui  ;  e  quando  l' uomo  plastico  chiede  le 
le  ragioni  all'  uomo  dello  spirito  e  gli  ricorda  la  legge  della 
roprìa  conservazione ,  egli  risponde  essere  stato  vinto  da 
D'altra  legge  più  potente  ed  incontra  con  fortezza  il  rogo 
le  mannaie.  Fortezza  che  a  santificarsi  è  mestieri  vada  con- 
iDDta  con  l'umile  soggezione  ai  voleri  di  Dio  e  la  obbedienza 
i  progetti  della  Chiesa  ;  senza  di  che ,  è  solo  ostinazione  ed 
rgoglio. 

Mara  vigneremo  forse  della  crudele  legislazione  che  depu* 
va  al  fuoco  gli  eretici  e  dell'apparente  poca  mitezza  della 
lùesa  che  abbandonò  a  quella  l'indomabile  predicatore  di  Bet* 
m.  Ma  la  maraviglia  è  sempre  sintetica ,  perché  frutto  della 
itoizione  di  un  complesso  che  si  lascia  vedere  e  non  dà  tempo 
ragionare.  L' analisi  è  il  farmaco  più  efficace  a  sanarci  dal 
ale  di  una  inordinata  maraviglia. 

La  pena  che  s'infligge  al  colpevole  ritrae  la  sua  gravità  da 
la  doppia  fonte  :  dalla  maggiore  o  minore  malizia  della  colpa, 
dalla  soggettiva  estimazione  della  virtù  cui  si  contrappone 
tio  colpevole.  Cosi  vediamo  ascendere  la  gradazione  delle  pene 
io  a  quella  di  morte,  secondo  la  natura  del  delitto;  e  vediamo 
noe  una  colpa  la  quale  presso  di  un  popolo  ed  in  nn  certo 
npo  attinge  1'  ultimo  grado  della  penalità ,  in  altro  tempo  o 
esso  altro  popolo  sia  lievemente  pnnita.  Questa  varietà   dì 


—  588  — 

giadizio  dipende  dalla  varia  estimazione  che  si  ha  della  virUi 
coi  si  contrappone.  L'oggetto  della   fede  del  XV  secolo  era 
estimato  sopra  ogni  altra  cosa,  anzi  non  pativa  paragone  con 
altro.  Quindi  Tabbominio  di  ciò  che  osteggiava  qaeiroggetto  a 
manomettere  la  fede  doveva  manifestarsi  coi  modi  più  cradi 
di  distruzione.  La  morte»  e  quella  del  fuoco.  Non  era  il  diritto 
umano  quello  che  informava  la  legislazione  penale  contro  gli 
eretici,  ma  il  diritto  divino.  Lt)   forza  del  diritto  divino  andò 
scemando  con  la  fede:  e  siamo  venuti  in  tempi  in  cui  Teresia, 
fulminata  spiritualmente  dalla  Chiesa,  impunemente  se  ne  stia 
negli  Stati  laicali ,  ove  però  non  turbi  la  ragione  politica.  Un 
tempo  Teresia  poteva  accendere  il  fuoco  di  una  guerra  di  reli- 
gione; oggi  alla  eresia  risponde  la  indifferenza  dei  popoli.  Questo 
è  un  certo  indizio  della  fede,  ancor  viva  nel  santuario  delle 
coscienze,  ma  spenta  al  lutto  in  quello  delle  leggi  civili.  Ma 
neUempi  d'Hus  la  fede  era  ancora  viva  nelle  coscienze  e  nella 
civile  legislazione ,  ed  un  concilio  ecumenico ,  depositario  del 
diritto  divino ,  non  poteva  senza  contradizione  togliergli  dalle 
mani  Timperio  onde  governava  quello  delle  genti  perchè  fosse 
più  mite  la  punizione  degli  eretici.  Che  è  mai  questo  che  io 
chiamo  imperio  del  divino  diritto,  se  non  Pimmediato  contatto 
della  ragion  di  Dio,  dispensatore  della  vita  e  della  morte,  cod 
la  colpabilità  umana?  Questo  immediato  contatto  esclude  il  ra- 
gionamento del  pubblicista;  non  può  giudicarsi  dalFuomo:  perciò 
se  i  giudici  potevano  sindacarsi  intorno  alla  esistenza  della  colpa, 
non  mai  potevano  intorno 'airapplicazione  della  pena.  La  fiamma 
che  divorava  gli  eretici  è  quella  del  fulmine  che  posa  ai  piedi 
(li  Dio  ed  aspetta  il  suo  cenno  a  prorompere.  Anche  gli  eretici 
la  pensavano  cosi;  e  se  Io  seppe  quello  sciagurato  di  Michele 
Servolo,  eretico  arso  vivo  per  comandamento  di  Calvino.  Noi 
certo  non  avremmo  maravigliato  se  i  padri  di  Costanza  fossero 
slati  presenti  alParsione  di  un  martire  di  Gesù  Cristo;  la  fed^ 
confessata  con  la  morte  di  un  cristiano  non  solo  onestava,  m^ 
santificava  la  non  mite  visione  di  un  uomo  divorato  dalle  fiamme- 
fi  neppure  dovremo  maravigliare  dell'avere  approvata  e  vedala 
Tarsìone  di  Hus:  la  fede  propugnata  e  difesa  con  la  uccisione 
dell'eretico  onestava  anche  la  non  mite  visione.  Lettore,  notx 
vorrei  che  ora  maravigliassi  di  me.  Lo  storico  non  crea  i  pria' 
cipii,  egli  non  fa  che  rivelare  i  rapporti  che  questi  hanno  coti 
le  conseguenze:  perciò  risponderò  della  logica  dei  fatti,  non  ma* 
ài  quella  dei  principii.  Adunque  il  concilio,  l'imperatore  e  Gio^ 


1 1  traa  fUto  cii^  rbièi»»  ^>DwMi>ijaik  ^i^à^W» 
ad  n  leapo  Mie  buI  ^^CMtmAmii  c^M^Oki  if  fMiK«MMk 
e  in  a  posare  wila  slcrà  si  di  m  kfìM  fimdMV^MK^  i^  <ii  ^mii* 
maestia  coi  pMfld  dwiiMiiti  di  qm  i^^m  c)^  \>wh>ji  ^  ^H^ 
di  OD  ioteUelto  cbe  combatte. 

Ed  io  Doo  mi  sra  fitto  che  ^qpc^bMf^  iti  qii^nK^  ^i^'rì^^;^^^ 
alcuni  ortodossi;  che  se  doi^essi  e^4enMind  il  ^lutUK^  mi^v  xi^m^ 
ratore  della  fede,  non  esiterei  a  dichianire  Hii^  uvurttv^  ^  \\\\<\\\\ 
che  fecero  eseg[Qire  la  seotenia  cameAcì. 

CoDchiQso  il  negozio  della  fede  intorno  »d  Hu^  l  (v^drl  a( 
volsero  a  quello  deiruoione.  Papa  non  orsi  piii«  \^x\'\\\^  do|Hv^lo. 
TaDtipapa  Gregorio  neppure,  perclu^  aveva  cottnto;  rhnAUovti  un 
solo  antipapa,  Benedetto  XUK  Svellere  costui  M  m^^ìw  \m\  \M 
ficiie,  vi  voleva  la  scure.  TuUavolta  i  |>ai1rl  vollcrt)  notfOKlnio 
Erasi  già  fermato  che  Pimperatore  androbbo  a  Nikk»  ti  Ir^illtMo 
col  De  Luna  della  cessione,  e  speravnsl  che,  Ir»  poi  tlnuHo  «ho 
poteva  incutergli  il  processo  di  Giovanni  o  lo  HponuiHM  din  uh 
potevano  dare  le  miti  accoglienze  fatte  al  codonto  (Irniiorlo,  Mo' 
Qedetto  piegassesi  al  loro  piacere.  SlgiHinondo.  tutto  koIu  por  lii 
qnione,  voleva  muovere:  i  padri  provvidero  pnrchA  Iucommmo  ì\ 
sicuro  e  felice  porto.  Nella  sedicesima  e  duciniHMoltlmii  hdmnIimim 
QOD  si  occuparono  che  di  Sigismondo,  »  munirlo  di  tninporitll 
e  spirituali  conforti. 

Vennero  scelti  quattro  vescovi  ed  alcuni  dottori,  ctii)  dovi* 
vano  accompagnare  Sigismondo   in   quel  vI^kkIo,  ni   quiill  II 
concilio  die  pieni  poteri  di  trattare  c^)l  IM  Luna  UiUnun  nìU^ 
coDdiziooi  della  sua  cessione.  I^  C4)\fk  (Utììéi  mrìHnm  UiéxuuU 
h  deposizione  di  Giovanni  e  la  rinuncia  di  llfétumìéf  lurono  /ImUi 
all'imperatore  da  recare  al  De  I^na^  perette  Vétnémi/io  tM  éU 
posto  e  dei  cedente  lo  Ueen^ero  rìunA^irn,  K  ad  HÌMU$rUh  ^>/o 
ispeciale  decreto  crearooo  il  (/erario  'k^no  dH  ^>/IMo  fU^4$f 
^li,  perpetuo  legai/i  a  UU/re  uhìU  V^wa  tVht^/tUH  ;  vM  ^H 
fero  plenaria  assolozK^rie  ^k$^%  atti  ille^ti  t^  i{//t^i>^/  ^UW'^ 
propria  otitedieoza;  rM;Urof^>  %utM  '4%  \^ìi$^Asn  ^i  ^i  U^U^  ^i 
bario  per  qneiii  iij  giodizicu:  io  wj^  t^r^jh^  i^  tH4$m^i%  i^ir$^ 
mooio  e  dif&ità  w  U^jfsfo  Wi  imu//  fi^i^f.  ^^z  i^  t^^ié^  ^4 

roQo  divìBe  ec  ctjxmh:  rie  >vteautsd^  y4^'4^  ^v^t^>^4^  \^ 
che  i  kafi  inn.*  orT^istiv  U^xA^  Vfsw^  a  m(^fi0/4^  fiM^y^^ 
Aveia  wtefe*  ^homiAv  ^;^ifit]^ii^  >  iifUk^tMf^  W  ^j$^éf. 


—  590  — 

av?enaÌo  ai  messaggi  sinodali  che  andarono  in  Frafncia;  rìcor- 
davasi  di  quelle  dicerìe  sparse  dal  duca  d'Aastrìa  intomo  alte 
macchinazioni  del  Borgogna  contro  la  saa  vita.  Anzi  afifer- 
mano  molti  che  quel  malandrino  delPAustrìaco  aveva  già  pre- 
perata  la  festa  a  Perpignano»  voglio  dire  che  vi  teneva  *  gente 
per  mandarlo  via  da  qnesta  misera  terra.  Ciò  non  sapeva  Pimpe- 
ratore,  ma  le  altre  cose  sapeva.  Accorsero  i  padri  a  tuierame 
la  persona  ;  il  patriarca  lesse  dall'"  ambone  un  decreto  con  cai 
si  lanciavano  scomuniche  ipso  facto  e  si  minacciava  anche  la 
deposizione  ai  re  che  avessero  inquietato  o  impedito  il  viaggio 
air  imperatore.  Ed  a  mostrare  che  dicevano  davvero  »  i  padri 
avevano  già  spedita  bolla  ai  vescovi  di  Parigi»  di  Metz,  di  Tool 
e  di  S.  Paolo  di  Leone ,  ordinando  loro  di  fare  una  rigorosa 
giustizia»  usando  del  bi*accio  secolare  contro  coloro  che  avevano 
dato  addosso  e  spogliati  i  messaggi  sinodali  al  re  di  Francia. 
Si  volsero  finalmente  a  Dio.  Come  si  die  fine  alle  litanìe  dei 
santi ,  nella  decimasettima  sessione ,  Sigismondo  andò  a  porsi 
ginocchioni  innanzi  air  altare,  accompagnato  da  due  cardinali, 
quel  di  Lodi  e  TOrsino,  scoverto  il  capo,  senza  il  manto  impe- 
riale, umili  le  sembianze.  Da  capo  si  tornò  a  supplicare  i  santi: 
e  là  dove  si  prega  per  la  Chiesa  levossi  il  presidente  cardinale 
d'Ostia  e  per  tre  volte  raccomandò  a  Dio  la  Chiesa  con  Telette 
imperatore ,  perchè  Io  avesse  diretto  nel  viaggio ,  difeso  dai 
visibili  e  dagrinvisibili  nemici,  e  Io  avesse  sano  e  salvo  tornato 
al  concilio;  e  per  tre  volte  V  universo  convento  rispose  —  le 
ne  preghiamo,  ci  esaudisci.  — Finalmente,  dette  altre  preghiere 
dairostiense,  Sigismondo  andò  a  sedere.  Non  contenti  di  questo, 
i  padri  fermarono  con  decreto  che ,  lontano  V  imperatore ,  in 
ciascuna  domenica  si  celebrasse  messa  pontificale ,  si  andasse 
in  processione  pel  felice  esito  del  suo  viaggio ,  e  si  avessero 
indulgenze  i  preti  celebranti  ed  i  fedeli  oranti  per  questo 
negozio. 

Partito  che  fu  l'augusto,  nella  prima  processione  che  fecero 
i  padri  pel  felice  suo  viaggio,  Gerson  li  arringò.  Costui  era 
dotto:  ma  non  so  come  i  Costanziensi  lo  licenziassero  tanto  a 
farla  da  dottore.  Aveva  preparati  i  decreti  della  quinta  sessione, 
0  meglio  n'era  stato  l'autore,  ne  aveva  raccolti  i  frutti  :  lene- 
vasi  in  punto  di  maestro.  Li  volle  rinfrescare,  e  per  preparare 
gli  animi  ad  un  possibile  processo  da  fabbricarsi  addosso  ai 
testardo  De  Luna  e  per  tenere  giù  le  leste  dei  cardinali.  Il  suo 
discorso  è  orribile  a  vedere  per  le  distinzioni  e  suddistinzioni 


:oo  cm  rha  trinciato,  ma  se  ne  cava  il  netto.  Ribadisce  il  detto 
Dtorno  air  infollibìle  anlorìtà  che  ha  il  concilio  sul  pontefice. 
Diorno  al  diritto  che  ha  di  deporlo  ove  manifestamente  scan- 
blìiaù  la  Chiesa,  e  va  dicendo.  Nulla  di  nuovo.  Non  posso 
lerò  tenermi  dal  recare  in  volgare  un  brano  di  questo  sermone, 
attento ,   lettore.  —  <  Il  concilio  generale  può  per  legittima 
lutorità  prendere  informazione  delle  discordie  e  guerre  tra  i 
prìncipi  cristiani,  che  incrudeliscono  a  rovina  di  tutta  la  cri- 
stianità ed  a  penlizione  delle  anime  e  dei  corpi  vietando  loro 
e  ^e  di  fatto  e  costriogendoli  con  le  ecclesiastiche  censure  a 
>orsi  per  la  via  del  diritto  e  della  ragione.  Questa  norma  ha 
lato  il  serenissimo  re  de'  Romani  sempre  augusto,  il  quale, 
Limanzi  muovere  dal  condiio  al  luogo  del  convegno  col  re  di 
^iragona  e  Pietro  De  Luna,  tenne  ai  deputati  un  discorso  che 
è  un  tesoro  di  religione  e  di  cristiana  pietà,  il  quale  ho  io 
ascoltato  con  queste  orecchie  non  senza  una  devota  compun- 
zloDe  di  cuore.  Espose  in  quello  essere  suo  proposito ,  dopo 
sedato  lo  scisma,  di  adoperarsi  a  pacificare  i  re  di   Francia  e 
dlogbilterra,  usando  Tautorità  pel  presente  concilio.  Parlò  della 
pacificazione  dei  re  di  Polonia  coi  Ruteni,  indi  della  spedizione 
a  Gerusalemme.  E  trovò  la  norma  e  il  fondamento  di  queste 
paci  nel  condurre  entrambe  le  parti  a  sommettersi  al  generale 
coDcilio  ed  alia  sua  difiioizione,  alla  quale  autorità  lo  stesso 
re,  come  aveva  molte  volte  innanzi  protestato  prendendo  Dio' 
in  testimone,  voleva  e  doveva   soggiacere:  e  ciò  a  perpetuo 
^mpio  di  ogni  laicale  sovrano  cattolico.  >  —Ecco come  la  pen- 
savano i  dottori  nel  XV  secolo,  ed  ecco  come  il  cancelliere,  il 
quale  se  fosse  stato  ai   tempi  di  Filippo  il   Bello ,  lo  avrebbe 
COD  la  parola  e  con  le  scritture  sorretto  a  fronte  del  magnanimo 
Bonifazio  Vili ,  autore  della  famosa  Bolla   Unam ,  sanctam. 
Gerson,  che  aveva  vedemmiato  colle  mani  e  coi  piedi  il  romano 
papato,  che  lo  aveva  inabissato  nel  diritto  ecclesiastico ,  senza 
avvedersene  lo  va  a  collocare  in  cima  del  diritto  civile  e  gliene 
affida  i  destini.  Egli  parlava  di  concilio  supremo  giudice  delle 
<MQtroversie  dei  principi  laicali  e  non  di  papa.  Ma  nel  ricono- 
^re  quella  supremazia  nella  Chiesa  doveva  riconoscerla  anello 
M  pontefice.  Il  concilio  finiva,  rimaneva  il  papa:  e  quel  papa 
<^heera  stato  soggetto  in  casa  propria,  dico  nella  Chiesa,  andava 
^  comandare  in  casa   altrui ,  dico  negli  Stati  laicali.  Quanto 
Compiango  le  logiche  torture  cui  assoggettavano  la  ragione 
^Qesti  gallicani  I  Essi  credono  trionfare  nelle  fazionate  conse- 


V 


(^ueoze  ebe  tirano  dai  prìneipio  cattolico  ;  ma  questo 
dà  loro  il  tratto  e  li  trascina  da  dectiì  là  dofe  ad  oedu 
fico  sì  sarelibero  pare  accostati* 

Ma  né  i  prìncipi  né  i  popoli  fole?ailo  (nq  slare  agli  eode 
siastici  gfiudizii.  E  per  questo  i  padri  credettero  con  ana  lettera 
andare  incontro  alle  fané  della  Boemia,  che  temevano  non  a 
levasse  in  tumulto  airannunzio  della  morte  di  Hus.  Essi  chiu- 
sero pfelosamento  questo  fatto  nella  ragion  divina  e  speravaoo 
che  i  Boemi  dovessero  chinarle  innanzi  la  fronte.  Andarono  com- 
memorando le  pestilenti  dottrine  di  Wicleff  tante  volte  condan- 
nate dalla  Chiesa  e  dalle  università;  parlarono  de'  suoi  seguaci 
IIus,  Girolamo  da  Praga,  scelleratissimi  uomini,  di  cui  avevano 
libeniia  la  Boemia,  perché  sotto  il  velame  della  fede  non  aves- 
nero  tratti  in  inganno  i  semplici.  Toccano  del  lungo  esaminare 
che  avevano  fatto  delie  opinioni  ussite,  della  interezza  ed  one- 
stà dei  testimoni,  e  della  invenzione  degli  errori  che  in  quelle 
covavano.  Fan  sapere  come  Hus  avesse  confessati  molti  di  que- 
sllp  non  avesse  voluto  ritrattarli,  e  che  per  questo  lo  avevano 
abbandonato  alla  balia  laicale,  la  quale  lo  dannò  nella  vita.  Lo- 
davano il  zelo  del  vescovo  di  Litomlssel  recatore  di  quelle  let- 
tere, alla  solerzia  del  quale  andava  debitore  il  concilio  della 
scoverta  eresia ,  e  da  ullimo  esortano  i  popoli  di  Boemia  e  di 
Moravia  a  svellere  la  zizzania  dal  campo  del  Signore,  pena  a 
chi  noi  facesse,  oltre  la  divina  vendetta,  le  censure  del  con- 
cilio. Io  recherò  Ira  i  documenti  questa  lettera  dei  Gostan- 
zlonsi:  ò  bene  che  vegga  il  lettore  come,  in  faccia  ai  pericoli 
«Il  un  reame  die  certamente  era  per  infellonire  a  Dio  ed  al 
principe,  non  discesero,  per  umane  cautele,  dalPalte^za  in  cui 
si  sentivano  locati  dalla  coscienza  di  un'.adempiuta  giustizia. 
In  quella  ò  ancora  tutta  la  virtù  del  maestrato  che  guarda  h 
vittima  della  sua  giustizia  con  la  scure  in  mano  e  non  teme. 
Vedremo  come  i  Boemi  entrassero  nel  campo  del  Signore 
non  a  svellerò  la  zizzania ,  ma  a  porlo  in  miserando  soq- 
iiuadro. 

Nello  scorso  febbrajo  in  una  congregazione  dei  deputati 
delle  nazioni  apparvero  gli  ambasciatori  del  reame  di  Svezia , 
Danimarca  e  Norvegia,  deputati  dalla  loro  gente  ad  ottenere  dil 
concìlio  la  canonizzazione  di  Brigida,  nata  di  regio  sangue ,  e 
fiirnos;!  iH»r  la  pietà  della  sua  vita,  e  le  rivelazioni  che  scrisse. 
i;:iM'Ya  già  messii  nel  catalogo  dei  santi  Bonifacio  IX  nel  ISSI: 
uui  ^'ti  Svedesi  non  eran  contenti,  le  dubbiezze  dello  scisma 


—.595  - 

X)tevaQO  far  dubitare  della  papale  sentenza.  Giovanni,  che  er> 
incora  papa,  canonizzò  di  nuovo  la  santa.  Ora  non  essendo 
[>iù  papa,  tornarono  an'altra  volta  gli  ambasciatori  di  Svezia  a 
chiedere  la  canonizzazione  di  due  loro  vescovi  e  di  nn  frale 
igosUniano.  La  chiesero  al  concilio ,  ed  il  concilio  non  volle 
farla.  Gerson  lo  mise  in  gaardia,  scrivendo  il  trattato  De  prò- 
iaiicme  spiHtuum.  Ed  ecco  on'altra  crollata  al  mèdio  evo.  Io  non 
lieo  che  sia  bene  lasciare  correre  il  volga  appresso  alle  visioni 
li  menti  infermi  ed  ai  miracoli  dei  ciurmadori,  ma  nel  casti • 
pre  questa  tendenza  deile  umani  menti  al  sopranaturale  bi- 
sc^na  andar  molto  adagio.  Non  so  se  stiano  in  paradiso  tutti 
quelli  che  si  dissero  santi  in  tempi  barbari,  né  so  che  siano  tutti 
veri  miracoli  quelli  che  son  recitati  nelle  antiche  leggende.  Ma 
so  bensi  che  la  moltitudine  di  quei  santi  e  di  quei  miracoli 
accennarono  atrindole  d'una  generazione  di  uomini  somma- 
mente credente,  e  che  anche  nelFaberrazione  delle  rozze  fan- 
ta^e  rivelavano  Tinsaziabile  bisogno  del  sopranaturale.  Questa 
rivelazione  è  quella  che  consiglia  ad  andare  con  garbo  a  svel- 
lere la  brutta  pianta  della  superstizioite.  L'  errore  de*  popoli 
superstiziosi  si  lega  immediatamente  al  sentimento  della  fede; 
e  spesso  nel  recidere  Terrore  si  riferisce  la  virtù  della  fede;  e 
allorché  questa  fa  sangue ,  avvizzisce  e  muore.  Nei  due  trat- 
tati di  Gerson  che  bau  per  titolo  Deprobatione  spirituum  e  De 
iistinctione  verarum  visionum  a  falsis  si  vede  il  teologo  che 
ben  ragiona,  ma  si  vede  un  certo  non  so  che  di  ardito  nella 
condanna  del  passato  che  rivela  il  professore  ed  il  Qlosofo.  Ri- 
sogna istruire,  illuminare  il  popolo,  condurlo  alla  conoscenza 
del  vero  e,  mentre  intende  alla  verità,  sottrargli  dolcemente 
dalle  mani  Toggetto  della  superstizione.  Non  bisogna  far  rumore 
ragionando  troppo,  altrimenti  11  popolo,  vergognoso  della  super- 
stizione in  cui  era  caduto,  incomincia  a  diffidare  anche  della 
religione.  Santa  Brigida  non  fu  allora  canonizzata  ;  il  concilio 
lasciò  Taffare  al  futuro  pontefice,  ma  non  per  questo  ella  non 
fa  poi  levata  agli  onori  dell'altare. 

Poche  cose  vennero  trattale  nella  decimotlava  sessione, 
tenuta  nel  di  17  di  agosto:  alcuni  decreti  su  T autorità  dello 
bolle  nel  concilio,  su  quelle  di  Giovanni  confermato  dal  con- 
[^ilio,  su  certi  ambasciatori  spediti  in  Italia  per  Taffare  delfu- 
nione,  e  non  altro.  Dopo  questa* sessione,  a  richiamare  gli  ani- 
mi de'padri  sul  negozio  della  riforma,  Bertrando  Vagher  car- 
nelitano  sermonò  della  necessità  di  porre  subito   mano  alhi 

Taxb.  InquU.  Voi.  II.  !M 


estirpazioDe  degli  abasi.  Furibondo  zelo  invadeva  il  frate,  e  ii 
furibonde  parole  proruppe;  gridava  che  bisognava  corregger 
rinsaziabile  avarizia,  l'indomabile  ambizione,  la  madornale  igoo 
ranza  degli  ecclesiastici.  Di  quésti  concetti  aveva  anche  usai 
Giovanni  Hus.  Alle  grandi  declamazioni  non  risposero  grane 
riforme. 

Corsero  un  trenta  di  fino  alla  decimottava  sessione,  temp 
prezioso  a  trattare  le  cose  della  riforma,  ma  miseramente  per 
duto  a  dar  ascolto  ai  dottori  parigini,  che  facevano  uno  scao 
daloso  baccano  pel  negozio  [ài  Giovanni  Petit.  Questi  dottoi 
covavano  nel  seno  il  veleno  delle  fazioni  che  allora  laceravan 
la  Francia,  personali  rancori  che  non  mancavano  anche  ndl 
università  e  certa  febbre  di  adulazione  o  verso  il  re  o  ven 
Borgogna,  che  era  da  più  del  re;  febbre  attaccaticcia  ai  Frac 
cesi  anche  nei  loro  parossismi  repubblicani.  Né  Gecson  ne 
vescovo  di  Arras  miravano  alla  morale  pubblica  quando  si  a] 
zuffavano  intorno  alle  proposizioni  di  Petit  :  miravano  a  scon 
pigliarsi  sul  capo  la  berretta  dottorale.  Gerson  era  il  più  aca 
nito  :  oppugnava  sempre.  L' Arras  era  un  tremendo  uomo  m 
ripellere.  Il  re  Carlo  VI  aveva  fatto  pace  col  Borgogna,  e  no 
voleva  più  che  i  suoi  ambasciatori  spingessero  innanzi  la  coi 
danna  del  Petit  :  ne  scrisse  anche  al  vescovo  d'Arras  ;  rùnivei 
sita  scrisse  a  Gerson  che  restasse  dal  gridare.  Tutto  invano, 
dottori  eransi  impigliati  né  si  volevano  lasciare  :  Giovanni  9i 
lit,  con  le  nqve  proposizioni  che  Gerson  credette  aver  trova 
nel  suo  libro,  spariva  e  compariva  a  galla  ad  ora  ad  ora:  att 
stati  rimanevano  FArras  col  cancelliere  ed  il  cardinale  di  Can 
brai.  Quante  impertinenze  fecero  costoro  nel  sacrosanto  co 
cilioi  Incominciarono  a  bezzicarsi  coi  libelli.  Il  cancelliere, 
Cambrai  ed  anche  Timperatore  furono  segno  a  molli  giudis 
intorno  alla  loro  onestà  :  calunniatore  il  Gerson ,  vendicato 
il  cardinale,  Timperatore  abbindolato  dagli  artifizi!  del  duca 
Baviera,  nemico  al  Borgogna.  Gerson  scriveva  memorie,  inv 
cava  i  fulmini  della  Chiesa  contro  le  nove  proposizioni  di  F 
Ut,  alimento  di  discordia  tra  il  re  ed  il  duca  e  di  guerre  ci 
tndine:  gli  avversarli  sostenevano  essere  quelle  probabili,  m 
toccare  la  fede  e  potersi  seguire  fiuo;;a  che  la  Chiesa  non  di 
finisse  ;  ingiusta  la  condanna  del  vescovo  di  Parigi.  Ma  in  mez: 
al  fuoco  di  queste  dispute  lordarono  il  cancelliere  della  tace 
di  eretico.  Ben  venticinque  proposizioni  cavarono  dalle  si 
scritture  che  davano  mal  odore.  Pensi  il  lettore  come  impei 


DMB  questo  inqirisitore  di  eretici  e  riferito  dottore  di  tatto 
il  sbiodo.  Fard  i  coIih,  porgossi  ;  se  bene  o  mele,  non  soglio 
SKfoto:  certo  che  nissnno  vi  pose  mente  perchè  era  tennto 
eattolico. 

Andie  al  Gambraì  accoccarono  Faccosa  di  eresia,  ma  tatto 
il  collegio  dei  cardinali  levossi  a  difenderìo:  TArras  tenne  in- 
dietro totti  con  eerta  scrtttnra  che  consigliò  temperanza  ai  di- 
isDsori.  Ricordò  loro  che  queir  affare  toccava  i  prìncipi  negli 
Siiti  dei  quali  essi  avevano  beneflzii  ecclesiastici  ;  che  il  loro 
gindiido  sarebbe  stato  ributtato  da  quello  della  università ,  e 
(te  la  digoiti  dei  cardinali  non  dava  loro  alcun  diritto  di  de- 
cidere Intorno  a  negozii  di  fede ,  che  solo  ai  vescovi  ed  ai 
dottori  spettava  diffinire.  I  padri  si  guardavano  in  viso,  e  non 
troiarono  in  tutto  queir  anno  un  mezzo  a  sciogliere  quel 
nodo,  che  Tira  dei  dottori  avviluppava  sempre  più.  Nulla  fu 


Mentre  a  Costanza  avvenivano  queste  cose,  Pimperatore  viag- 
giava. Erasi  risaputo  dai  padri  a  di  4  di  agosto  che,  giunto  a 
NariMua ,  indugiava  a  muovere  ;  credettero  che  volesse  prima 
intendere  alia  pacificazione  del  re  d' Inghilterra  con  Carlo  di 
Francia,  per  tener  fronte  con  essi  al  Turco,  che  precedeva  in 
possanza  e  strepitava  in  Ungheria.  I  Costanziensi  volevano  pri- 
ma la  pace  della  Chiesa.  Mandarono  a  spingerlo  F  arcivescovo 
di  Riga,  ed  il  vescovo  d'Asti  spedirono  in  Ungheria  a  confer- 
mare i  maggiorenti  nella  fede  delPimperatore  e  nel  cessare  lo 
^orzo  turchesco.  Ma  Timperatore  per  paura  dei  Turchi  sostava 
in  Francia,  ma  per  malizia  dei  cristiani.  Il  De  Luna  era  entralo 
in  un  fermo  proposito  di  non  lasciarsi  spodestare  :  uccellava 
l'imperatore,  e  sapeva  farlo.  Ferdinando  re  di  Aragona  infer- 
mava :  e  perchè  il  De  Luna  diceva  che  Nizza  era  troppo  lon- 
tana, e  l'Aragonese  non  poteva  venire,  mutato  il  luogo  del 
convegno,  solo  a  di  18  del  settembre  Sigismondo  e  Ferdinando 
si  trovarono  insieme  a  Perpignano.  Aspettavano  Tantipnpa,  e 
l'antipapa  non  veniva.  Questi  chiese  un  salvocondotlo:  glielo 
mandarono;  ma,  trovandosi  in  questo  chiamalo  cardinale,  non 
[iapa,  puntò  il  capo  e  stelle.   Per  altro  mandò  a'  deputati  del 
concilio  le  condizioni  con  cui  si  sarebbe  arreso  a  cedere  il  pa- 
pato. Erano  stranissime.  Voleva  adunare  un  altro  concilio,  che 
gli  avesse  confermata  la  dignità  ponliflci»,  la  quale  avrebbe  hu- 
Sìto  deposta,  ove  però  gli  lasciassero  quella  di  legato  a  laUrc 
in  latte  le  Provincie  della  sua  obbedienza  con  indipendenl» 


:iulorilà  spirituale  e  temporale ,  salvo  il  caso  che  il  eoncibo 
non  lo  rialzasse  di  nuovo  al  papato.  Risero  i  dae  princi(H  coi 
deputati  e  lo  citarono  a  comparire  in  Perpignano.  Come  Dio 
volle  vi  andò.  Entrava  nella  città  Benedetto  XIII  accompagnato  da 
quattrocento  cavalli  e  cinquecento  balestrieri:  veniva  da  Va- 
lenza.  Due  santi  uomini  che  nelle  dubbiezze  dello  scisma  lo 
tenevano  per  papa,  Vincenzo  Ferreria  frate  predicatore,  e  Boni- 
fazio suo  fratello»  monaco  certosino,  venivano  con  lui  per  sor- 
reggerlo. Gli  occhi  del  mondo  erano  vólti  a  Perpignano  :  tolto 
il  De  Luna,  la  Chiesa  si  liberava  dallo  scisma.  Convennero  adun- 
que da  una  parte  Sigismondo  coi  deputati  sinodali,  dalfaltra  re 
Ferdinando,  gli  ambasciatori  di  Castiglia  e  Navarra,  quella  dei 
conti  di  Foix  e  d'Àrmagnac ,  che  obbedivano  a  Benedetto  :  gli 
ambasciatori  francesi  entrarono  come  pacieri. 

Ferdinando,  logoro  dalle  infermità,  amava  più  la  pace  e  la 
unione  che  Benedetto:  si  mise  con  Sigismondo  a  persuaderlo. 
Gli  dicevano:  stesse  alle  promesse  già  fatte,  osservasse  i  giura- 
menti  onde  erasi  legato  di  deporre  ìsr  scandalosa  dignità;  non 
essere  più  pretesti  a  velare  gl'indugi;  deposto  Giovanni,  dovesse 
imitar  Gregorio.  Da  lui  dipendere  la  pace  della  cristianità  ;  lui 
solo  ostacolo  alla  riunione  de'  fedeli  dopo  trenf  otto  anni  dm 
fiero  scisma.  Quella  Chiesa  che  diceva  essergli  stata  confidata 
da  Dio  tendergli  le  braccia  e  pregarlo  volesse  con  la  giurata 
cessione  del  papato  sollevarla  dai  profondo  dei  mali  in  cui  tran — 
gosciava.  Lasciasse  generosamente  quello  che  gli  uomini  potè--;;; 
vano  strappare  per  forza  e  che  la  morte,  proceduto  tanto  negi  ^ 
anni,  certamente  ed  in  breve  gli  avrebbe  rapito  e  con  eternai^ 
infamia  del  nome  suo.  >  Immoto  come  rupe,  rispondeva  il  D^ 
Luna    €  lui  esser   solo  e  vero  papa,  poiché  Giovanni   e  Gre — 
gorio  non  vollero  più  sapere  delle  loro   ragioni  alla  suprema 
dignità  :  perciò  lo  scisma  non  mantenersi  da  lui,  ma  dal  con  — 
venticelo  di  Costanza.  Riconoscesserio  papa,  e  finirebbe  lo  scisma  - 
Venire  alla  scelta  di  un  nuovo  pontefice  sarebbe  un  metterne^ 
due  a  capo  d^lla  Chiesa,  non  volendo  andare  a  rinuncio  di  sort^* 
e  non  potendo,  secondo  coscienza,  abbandonare  il  navicello  Ai 
s.  Pietro,  al  governo  del  quale  Iddio  lo  aveva  messo.  La  vea  - 
chiezza  degli  anni  obbligarlo  più  fortemente  a  compiere  isuoi 
doveri,  a  tener  fronte  con  maggiore  costanza  alla  tempesta,  per 
non  adunare  sul  canuto  suo  capo  Tira  di  Dio  ed  il  disprezzo 
degli  uomini  e  a  non  disonestare  al  confine  della  vita  la   sui  a 
canizie  con  un  turpe  fatto.  Lui,  tra   lutti  i  cardinali   decorato 


4elb  pnpm  di  Gifforio  XI  ìuaum  ta&iùms»  lo  $ct$w;}k 
solo  poleìsi  d^gpere  in  inciHice:  5^  per  to  non  dublM  di- 
moia sn  di  cwiiiiale  aivre  on  dirino  al  (aputo  :  gli  altri  t^ti 
in  tempo  A  scisma  non  farebbero  che  tenerla  o^>r  Tìta.  1a> 
nconosoessero  latti  a  ponttfoe  sommo,  e  le  conlorlMite  co$e 
della  Cliiesa  quieterebbero  ona  Tolta.  > 

Con  queste  r^ioni  alto  mano  in  lolle  le  ct^ofervnie  cho  .^^ì 
tennero  gioslrò  il  De  Lnoa  con  tale  una  Tìgorìa  dì  (Kirv^lo  cho 
fotti  merafigUati  non  sapevano  come  nel  $ellanle;^ìmo  »nno 
della  Tita  ei  potesse  con  tanta  forza  lottare.  In  un  iti  arrìu(^^ 
per  sette  oro  contìnue;  e  dopo  era  (hù  irto  che  prìma*  Hcuo- 
detto  in  una  yerde  vecchiezza  diede  al  mondo  un  solonno  tv^oub 
pio  del  come  le  fiamme  deir  ambizione  air  orlo  dei  st'|H>lon 
spesso  tengano  luogo  di  spirito  in  queste  umane  carni.  I  jiadri» 
al  risapere  che  Timpéralore  era  giunto  a  Perpii^nano.  cnntan>no 
il  Te  Deum;  ma  le  allegrezze  Tenivano  indugiato  dairindomu- 
bile  De  Luna. 

Intanto  ardenti  oratori  stimolavano  il  concilio  alla  riforma, 

€d  io  non  posso  teoermi  dàlP  accennare  come  pensassero  gli 

stessi  cattolici  intorno  alle  morali  condizioni  della  Chiosai  o  dol 

<xune  fuori  dei  concilio  doveva  strepitare  quella  che  ho  clila* 

mato  pubblica  coscienza,  ragionando  di  Hus.  E  strepitava  dav- 

*vero,  perchè  abusata  infuriava.  La  lettera  del  Costanzionsl  al 

Boemi  fu  olio  sul  fuoco,  ed  incredibili  sdegni  avvamparono  nnl 

petti  di  quella  gente.  •—  I  Boemi  non  erano  scettici,  rnn  crode- 

ismo  :  ma  poiché  stati  educati  a  disconoscere  T  autori lA  dnlla 

Chiesa,  le  si  ribellarono  non  più  ammettendola  comò  maoslra, 

n»  à  quaremula  nel  ministero  della  riforma. 


CAPITOLO  XV. 


La  morte  di  Oirolaiiio  da  Praga. 


Come  vennero  pnbblicate  le  sinodali  lettere  recatrici  della 
morte  di  Hns,  i  saoi  seguaci  si  assembrarono  nella  cappella  di 
Betlem,  che  risuonò  un  tempo  delle  sue  predicazioni.  Celebra- 
rono solenni  esequie  al  medesimo  ed  a  Girolamo  da  Praga»  che 
tenevano  per  morto»  e»  a  dispetto  del  concilio,  li  gridarono  santi 
e  come  santi  fermarono  la  celebrazione  di  un  annuale  alla  loro 
memoria.  Si  strinsero  tutti  nella  comune  sentenza  di  propu- 
gnare le  sue  dannate  proposizioni  con  la  forza.  Indi  fu  tenuta 
una  grande  assemblea  di  tutti  i  maggiorenti  di  Boemia  e  di 
Moravia,  erano  sessanta»  e  fu  deliberato  de'  mezzi  a  provvedere 
alle  cose  religiose  della  patria.  Venne  scrìtta  una  lettera  al  con- 
cilio e  segnata  dei  nomi  e  dei  suggelli  di  que'  signori.  In  que- 
sta a  nome  di  tutta  la  loro  gente  lamentano  la  ingiu3ta  con- 
danna di  Hus,  il  quale,  non  convinto  degli  errori  che  gl'impu- 
tarono  falsi  accusatori  e  nemici  del  reame  di  Boemia ,  venne 
crudamente  abbruciato.  Levano  a  cielo  la  santità  de^  costumi  di 
Giovanni  e  della  dottrina  predicata  da  lui,  che  tanto  avea  edi- 
ficati i  fedeli,  e  specialmente  la  sua  carila  cristiana.  Lamentano 
anche  la  prigionia  di  Girolamo  da  Praga,  uomo  incomparabile 
per  la  sua  eloquenza,  che  credeano  già  messo  a  morte  dal  con- 
cilio senza  avergli  dato  ascolto  e  senza  convincerlo.  Finalmente 
purgano  da  ogni  taccia  di  eresia  il  reame  di  Boemia  ed  il  mar- 
chesato di  Moravia,  stato  sempre  esempio  a  tutti  gli  altri  fedeli 
per  illibata  fede  alla  romana  Chiesa.  Concbiudono  appellando 
dal  concilio  al  futuro  pontefice. 


—  599- 

Nella  stessa  assemblea  statuirono  che  per  legati  si  recasse 
coDdKo  ranzidetta  lettera,  i  quali  la  raffermassero  col  tìvo 
ila  Toce;  Tenissero  in  tutte  le  chiese  destinati  buoni  preti  i 
ali  liberamrate  potessero  predicare  la  parola  di  Dio;  i  vescovi 
idicassero  e  punissero  i  preti  malvagi  e  còlti  in  errore  :  ma 
3  quelli  sentenziassero  a  capriccio  e  per  odio  alla  verità  evan- 
Sca,  Taccusato  venisse  tradotto  al  tribunale  delP  università, 
e  giudicherebl)e  secondo  la  sacra  Scrittura  :  i  preti  de'  loro 
Iti  non  accogliessero  altre  censure  che  quelle  lanciate  dai  prò- 
i  vescovi,  ove  però  fossero  giuste,  che  se  per  caso  venissero 
iciate  in  odio  della  parola  di  Dio,  dovessero  a  quelle  resistere, 
pplicavano  da  ultimo  Iddio  a  concedere  un  buon  pontefice 
a  Chiesa ,  al  quale  promettevano  ciecamente  soggiacere  in 
Ito  quello  che  non  discordasse  con  la  parola  di  Dio.  Ecco  nei 
ti  la  dottrina  di  Hus.  La  Bibbia  è  il  giudice;  e  interprete  di 
leste  la  privata  ragione,  Tuniversità.  Que'  maggiorenti  si  co- 
ivano gelosamente  di  un  velo  di  religiosa  dipendenza  dai  ve- 
ovi,  dal  papa,  ma  traspariva  la  più  sfrenate  indipendenza  da 
;ni  autorità ,  licenziando  il  suddito  al  giudizio  di  chi  lo  giù- 
cava. 

I  maggiorenti  deliberavano,  il  popolo  operava,  ed  operava 
furia.  Irruppe  nella  casa  dell'arcivescovo  e  dei  preti  di  Praga» 
le  mise  a  sacco:  corse  anche  molto  sangue.  Freno  non  era. 
s  Yenceslao  era  men  che  uomo;  con  Pepa  infarcita  di  vivande 
I  ebbro  sempre ,  non  sapeva  che  fosse  tutto  quel  rumore. 
li  diissero  che  il  concilio  avea  oltraggiato  il  reame,  e  lo  cre- 
ate. Gli  dimandarono  chiese  per  liberamente  predicare  e  mi- 
strarvi  i  sacramenti;  e,  senza  sapere  cosa  fosse  quella  libertà 
(I  predicare,  concedeva.  Ma  poiché  il  rumore  che  facevano  in 
raga  gli  ussiti  era  troppo  forte ,  perchè  si  saccheggiava  e  si 
nmazzava ,  incominciò  a  temere.  Lo  quietò  prodigiosamente 
trto  Coranda  prete  e  tutto  cosa  del  popolo,  il  quale,  arringando 
la  plebe,  diceva  un  di:  e  Sebbene  abbiamo  dato  in  un  re  pol- 
0  e  bevone,  pure  se  ci  mettiamo  a  vedere  chi  sieno  gli  altri 
rincipi,  non  ne  troveremo  uno  meglio  del  nostro;  il  quale 
me  io  chiamerò  flore  di  tutti  i  re,  riposato,  di  buona  pasta, 
itto  amore  per  noi:  lui  re,  chi  si  ardirà  inquietarci?  possiamo 
ivere  a  nostro  modo.  Se  egli  la  pensa  come  noi  intorno  alla  . 
bigione,  non  inquiete  i  nostri  riti,  né  permette  che  altri  li 
irbi:  stendo  cosi  le  cose,  penso  che  dobbiamo  raccomandarlo 
Dio  e  pregargli  vita ,  essendo  la  sua  ignavia  la  nostra  sai- 


—  440  — 

vezza,  la  nostra  pace.  »  Questo  strano  discorso  venne  rapportato 
a  Yenceslao,  che  se  ne  allietò  tutto  :  abbandonò  le  redini  sul 
collo  del  popolo  e  tenne  il  Goranda  come  primo  tra'  hmi  amici. 

Con  questo  re  la  Boemia  doveva  dirupare  ad  ogni  genera* 
zione  di  mali.  La  pubblica  coscienza  del  bisogno  della  riforma 
vedemmo  infelicemente  abusata  per  Hus  ;  la  vendetta  della 
medesima,  che  si  tenne  oltraggiata  da' giusti  anatemi  del  con- 
cilio ,  venne  personiQcata  in  un  uomo  che ,  come  uno  spettro^ 
nunzio  di  morte,  si  leva  nella  storia  di  un  popolo  qual  fa  il 
boemo,  ma  di  tutti  i  popoli  che  toccano  nella  loro  vita  il  ter- 
ribile delirio  religioso.  Io  dico  di  quel  Giovanni  Ziska  il  quale 
seppe  disciplinare  alia  vendetta  tutta  una  gente  e  inebbriarla 
della  idea  del  cielo  fra  le  stragi  e  le  rovine.  Maometto,  V  uo- 
mo del  deserto ,  alletta  con  le  voluttà  di  un  paradiso  carnale, 
perchè  voleva  fondare  la  nuova  religione  delfislamismo  :  Ziska, 
Tuomo  del  settentrione,  alletta  con  la  voluttà  della  distru- 
zione per  conservare,  com'  ei  follemente  spacciò,  Tanlica  reli- 
gione cristiana.  Caldissimo  tra  i  proseliti  di  Hus,  la  sua  morte 
gli  aveva  messo  neir  animo  certa  febbre  morale  che  tacita , 
lenta ,  matura  i  procellosi  divisamenti.  Yenceslao  li  chiamò 
all'aperto  :  visto  un  di  Ziska ,  che  era  suo  ciamberlano  andare 
tutto  accorato  e  pensoso,  dimandògli  che  si  avesse  nella  mente. 
E  quegli  cupamente  rispose  :  <  Il  sanguinosa  oltraggio  arrecato 
al  reame  di  Boemia  col  supplizio  di  Hus.  >  Anche  il  re  incon- 
tanente aggiunse:  <  Che  vuoi  fare,  Giovanni?  né  io  né  tu 
possiamo  toglierne  vendetta:  vedi  forse  qualche  mezzo  a  ven- 
dicare i  tuoi  compagni?  coraggio  e  lo  afferra.  >  E  Ziska  lo  af- 
ferrò, men  per  consiglio  che  per  impeto  di  violenta  natura. 

Le  cose  di  Boemia  non  iscemarono  gii  spiriti  de'  padri  di 
Gostanza  nel  negozio  della  fede  :  tenevano  la  loro  via  contro 
Girolamo  da  Praga.  Costui  dopo  il  primo  interrogatorio  era 
stato  rattenuto  prigione  in  una  torre  della  chiesa  di  S.  Paolo» 
ove  infermò  gravemente.  Tratto  alla  presenza  dei  commissari 
a  dì  19  di  luglio,  non  sappiamo  di  questo  secondo  esame; 
sappiamo  del  terzo  che  fecero  i  padri  nel!'  undicesimo  di  di 
settembre,  e  Girolamo  non  era  più  quegli  della  prima  udienza; 
la  morie  di  Hus  gli  aveva  ammorbidita  l'anima.  Tultavolla  te- 
meva rovinare  nella  opinione  de'  Boemi.  Stretto  dai  deputali 
delle  nazioni  a-  ritrattarsi ,  die  loro  una  scrìtta  in  cui  appare 
Tuomo  che  non  fronteggia  un  ostacolo ,  ma  lo  Qancheggia.  Si 
sottomelleva  al  concilio ,  riprovando  gli  errori  di  Wicleff  e  di 


—  tot  — 

[OS»  sebbene  awsse  ignorato  che  qucfsH  errori  fossero  stali 
enmente  cosi  di  Hos.  Aflermafi  però  che  non  intenden  con 
[nella  riprovazione  arrecare  pregiudizio  alle  sante  terìlà  pre- 
licate  da  quei  dne  nomini  ed  in  particolare  alla  persona  di 
Iqs,  intemerato  di  costumi.  Confessa  P  antica  amicizia  che  lo 
egava  a  Ini,  e  nettamente  dice  di  non  volere  a  questa  safari- 
icare  la  verità;  e  da  ultimo  dichiara  non  essere  tenuto  a  ri- 
lattazione  di  sorta,  non  avendo  mai  anteposto  airautorità  della 
Chiesa  il  proprio  avviso,  né  tenute  le  opinioni  di  llus  come 
articoli  di  fede.  I  padri  non  furono  contenti  di  questi)  prò- 
lesta  ;  volevano  le  cose  pib  chiare ,  volevano  una  sonora  ri- 
trattazione.  Indugiarono  di  tre  di  la  prossima  sessione,  \yet 
^tenerla. 

Girolamo  si  arrese.  Nella  decimanona  sessione  sali  Tan^ 
me  e  lesse  al  cospetto  del  concilio  :  e  lo  Geronimo  da  Praga, 
saestro  delle  arti  liberali ,  conoscendo  vera  la  cattolica  Chiesa 
}  l'apostolica  fede ,  dico  anatema  ad  ogni  eresia ,  specialmente 
I  quella  di  éui  venni, infamato  finora,  e  la  quale  negli  andati 
«mpi  esposero  e  professarono  Giovanni  Wicleff  e  Giovanni  di 
los  nei  loro  trattati ,  scritture  e  sermoni  tenuti  al  clero  od  al 
[lopolo;  a  causa  de' quali  coi  loro  dogmi  ed  errori  vennero 
K)0(lannati  come  eretici  da  questo  sinodo  costanziense,  e  rna.^- 
lime  per  quegli  articoli  espressi  nella  sentenza  dell'anzidetto 
»ncilio.  Consento  poi  con  la  santa  romana  chiesa,  l'apos^'^'ica 
lede  e"  questo  sacro  concilio,  e  col  labbro  sul  cuore  confesso 
tolto  quello  che  questi  confessano ,  specialmente  intorno  alla 
!X)testà  delle  chiavi,  ai  sacramenti,  agli  ordini,  agli  otilci  a  nlln 
*>ensure  ecclesiastiche ,  alle  indulgenze ,  alle  relic|Uio  de'  santi , 
dia  libertà  della  Chiesa,  e  anche  intorno  alle  cerimonie  ed  a 
loanto  tocca  la  cristiana  religione,  riconoscendo  come  molli  degli 
ìDzidetti  articoli  sieno  manifestamente  ereticali  e  già  condari- 
Dati  dai  santi  padri  ;  alcuni  recanti  bestemmie ,  altri  erronei , 
)llri  scandalosi;  alcuni  poi  offendenti  le  pie  orecchie,  ed  alciuii 
teiDerarii  o  sediziosi ,  e  come  tali  non  ha  guari  cornlannall  d^i 
laesto  sacro  concilio,  il  quale  ha  vietato  a  tutti  i  caKolici,  nnlUf 
^oa  di  anatema ,  di  predicarli ,  esperii  e  profanarli.  »  Sk  ni 
Prestò  Geronimo  a  queste  dichiarazioni  :  ar/dò  oltre  a  rigettane 
(Qche  le  sue  opinioni  filosofiche  inlonio  agli  universali  ed  a 
«Ddere  ragione  del  come  egli ,  preso  dalla  dolcezza  e  punii 
le' costumi  di  ilus,  lo  aves.se  cre^Juto  iuwfcmp  nella  dottrina^  Da 
illimo,  presa  in  testimonio  la  santa  Triniti,  giur/;  m  vii  p.nn  • 

Tamb.  ìnqniM.  Voi.  II.  *A 


-40i- 

geli  voler  dorare  floo  alla  morte  nella  verità  della  cattolici 
chiesa,  ed  ove  avesse  questa  fallita,  si  teneva  già  per  colpito  di 
tutta  la  severità  de*  canoni. 

Finita  questa  solenne  ritrattazione,  i  padri  si  volsero  ad 
approvare  varii  decreti ,  tra'  quali  più  degni  di  osservazione  il 
erano  quelli  che  toccavano  i  salvocondotti  che  i  principiiaical 
concedevano  agli  eretici  e  quello  concesso  ad  Hus ,  del  quali 
fortemente  lamentavano  molti.  Dichiararono  i  sinodali  che  I 
salvocondotti  dati  agli  eretici,  qualunque  il  vincolo  con  coi  i 
fossero  obbligati  ì  principi  laicali,  non  dovessero  arrecare  alea 
pregiudizio  alla  giurisdizione  ecclesiastica,  né  impedire  in  quat 
siasi  modo  V  esame ,  il  giudizio  e  la  punizione  degli  eretici, 
ancorché  questi  si  .rechino  al  luogo  del  giudizio  affidati  alb 
fede  del  salvocondotto.  Fermato  questo  principio ,  dichiarano 
fautori  di  eretici  e  rei  di  lesa  maestà  tutti  coloro  che  o  sefft 
tamente  o  pubblicamente  davano  del  fedifrago  airimperatore  ed 
al  concilio  pel  salvocondotto  concesso  ad  Hus  e  che  credevano 
violato  per  la  sua  condanna.  In  questo  decreto  non  sono  nomi* 
nati  i  boemi  detrattori  deirimperatore ,  ma  genericamente  gp 
nomini  male  intenzionati  o  poco  savi;  indizio  che  anche  tu 
i  cattolici  si  levasse  qualche  mormorio  pel  salvocondotto  di 
Hus.  Intanto  di  riforma  non  ancora  si  parlava,  e  vescovi  e 
•dottori,  ad  ora  ad  ora  sermonando  al  concilio,  sbrigliavano  la 
lingua  contro  il  clero  da  far  paura.  Era  per  zelo ,  ma ,  mi 
;sembra,  troppo  proceduto.  Il  vescovo  di  Lodi,  nel  di  in  cui  i 
celebravano  le  esequie  del  cardinale  di  Bari,  disse  cose  contro 
i  preti  che  forse  non  dissero  gli  stessi  eretici.  Ognuno  s 
aspettava  che  volesse  pregare  requie  al  morto  e  dirne  oo 
po'  di  bene,  ma  fu  tutl'altro.  Il  prelato  si  scagliò  contro  i  vivi, 
e  delle  clericali  incontinenze  non  toccò,  ma  immodestamente 
spòse  cose  che  poteva  tacere.  Dormali  ognuno  sapeva,  i  rimedi 
si  cercavano. 

Erano  contristati  i  padri  di  Gostanza  per  un'  altra  lettera 
dei  Boemi,  segnata  di  ben  quattrocenlocinquanta  nomi,  nelb 
quale,  gitlato  via  dal  collo  il  giogo  di  ogni  autorità  ecclesiastica, 
con  retti  modi  rimproveravano  al  concilio  quella  che  dicevano 
ingiusta  morte  di  Hus.  In  quella  scritta  divampava  Boemia  di 
una  terribile  guerra  a  tutto  che  sapesse  di  chiesa.  Riseppero 
anche  come  il  vescovo  di  Lilomissel,  da  loro  spedito  a  tenore 
fronte  ali'  impetuoso  torrente  della  eresia,  fosse  stato  costretto 
a-  nascondersi,  avendolo  minacciato  gli  ussiti  di  lavare  nel  SQO 


—  405  — 

saogae  la  boema  bandiera  lorda  d^  infamia  dal  concilio.  Quelli 
die  scrissero  la  lettera  avefano  le  spade  in  pogno:  ti  volevano 
le  spade.  Tottavolta  i  padri  non  rimettevano  dal  loro  zelo:  si 
issembrarono  i  deputati  delle  nazioni  e  citarono  al  concilio  i 
segnaci  (fi  Hus.  A  lenire  Tamaro  di  queste  lettere  sopravenne 
jpportuna  la  novella  della  capitolazione  di  Narbona  e  V  arrivo 
tei  cardinale  di  Foix,  il  quale  abbandonava  Benedetto  e  veniva 
ad  unirsi  al  concilio,  che  riempi  di  santo  giubilo  i  sinodali.  Lo 
scisma  era  finalmente  distrutto:  non  rimaneva  cbe  far  tacere 
Tosfinato  De  Luna.  Pubbliche  e  solenni  grazie  vennero  rese  a 
Dio;  e  nella  cattedrale  a  di  4  di  febbraio  vennero  giurati  i 
dodici  capitoli  dalTuniverso  concilio.  Le  quali  cose  come  riseppe 
Il  De  Luna,  aflacciossi  dalla  rócca  di  Paniscola  e  con  istancabile 
vigoria  di  polsi  si  mise  a  lanciare  spirituali  fulmini  al  concilio» 
alTimperatore,  specialmente  al  re  d'Aragona,  al  quale  minacciava 
anche  di  togliere  la  corona  reale.  Era  un  delirio  senile  per 
febbre  d'ambizione. 

Gli  affari  del  concilio  procedevano  lenti;  subivano  la  deli- 
berazione de'commissarii,  poi  delle  congregazioni  generali.  Quello 
di  Petit  andava  anche  più  lento  per  ragioni  di  Stato.  Il  lettore^ 
a  cosa  fosse  questo  affare.  Ora  è  a  sapere  che  V  oggetto  della 
di£Bnizione  sinodale  che  chiedevano  ardentemente  il  Gerson  coi 
regii,  e  che  schivavano  a  tutto  potere  il  vescovo  d'Arras  ed  i 
Borgognoni,  avea  tre  capi  :  Tuno  si  era  la  proposizione  generale 
del  Petit  intomo  al  lecito  ammazzamento  del  tiranno  ;  V  altro 
della  esistenza  delle  nove  proposizioni  che  Gerson  aveva  estratte 
dal  libro  di  Petit  e  che  PArras  diceva  non  esistere;  il  terzo  final* 
mente  era,  definito  sul  diritto,  della  ragione  del  fatto,  cioè  se  le 
proposizioni  eransi  da  approvare  o  da  riprovare  astrattamente, 
oppure  neiropera  e  nella  persona  di  Petit.  Non  cadeva  dubbio 
sulla  condanna  :  il  nodo  era  nel  condannare  la  teoria  e  non  far 
gridare  Borgogna  coi  Borgognoni  che  l'avevano  tradotta  in  pra- 
tica. Pur  troppo  i  padri  si  contenevano  dal  venire  al  mal  passo: 
ma  il  Cambrai  e  Gerson  li  tiravano  a  furia  di  clamori,  che  se 
non  condannavano  proprio  Petit  col  suo  libro,  la  Chiesa  andrebbe 
h  perdizione,  Fumana  compagnia  verrebbe  inabissata.  Fin  dal 
loglio  deiranno  antecedente  il  concilio  nella  decimaquinta  ses- 
sione aveva  diffinito  intorno  alla  proposizione  generale  che  potesse 
Mmnazzarsi;  anzi  essere  merito  nell'ammazzarsi  il  tiranno  dal 
Uddito  con  qualunque  mezzo  onesto  o  disonesto  che  (osse.  La 
iiffinizione  fu  la  condanna  della  medesima,  come  contraria  alla 


—  404  — 

fede  ed  ai  buoni  costami.  Ha  non  bastò  questo;  si  voleva  dai 
regii  anche  la  condanna  delle  nove  proposizioni  :  ma  qui  pun- 
tarono i  tre  commissarii  del  concilio,  clie  erano  i  cardinali  di 
Àquitania,  di  Firenze  e  TOrsini,  anzi  dichiararono  addì  15  gen- 
naio del  1416  che  il  giudizio  deir  assemblea  di  Parigi  presie- 
duta dal  vescovo  fosse  nulla  per  difetto  di  forme.  Crebbe  lo 
strepito  dei  regii.  Gerson  con  gli  ambasciatori  di  re  Carlo  si 
appellarono  dal  giudizio  dei  commissarii  a  quello  del  concilio  e 
della  sede  apostolica.  Ora  qui  domanderei  al  cancelliere:  che  cosa 
intende  per  questa  sede  apostolica  ?  Certo  la  romana ,  egli  la 
distingue  dal  concilio  :  e  se  è  la  sede  di  Roma ,  è  appunto  il 
papa  cui  appella.  Come?  appellare  al  papa?  E  non  gli  bastava 
quel  concilio,  che  immediatamente  ricevette  da  Cristo  il  dono 
deirinfallibilitàT  Quale  guarentigia  di  giustizia  potrà  dargli  quel 
papa  fallibile,  giudicabile,  amovibile  dal  concilio,  quale  si  trova 
nella  sua  dottrina?  Gerson,  disceso  dai  cieli  delle  sue  specola- 
zioni  geometriche  ad  equilibrare  il  potere  nella  compagnia  della 
Chiesa,  venuto  nel  basso  del  fatti,  si  abbatte  nel  papa  e  Io  trova 
infallibile,  perchè  capace  di  suprema  appellazione.  È  vero  che 
gli  ha  gittato  addosso  il  velo  delle  parole  sedem  apostoUcm: 
ma  di  sotto  a  quel  velo  il  papa  si  vede,  e  gli  dice  che  qualche 
volta  è  anche  un  po'  fallibile. 

La  dichiarazione  dei  tre  commissarii  mosse  anche  i  lontani 
Re  Carlo  scrisse  al  concilio  contro  i  commissarii  chiedendo  la 
condanna  delle  nove  proposizioni  e  la  conferma  della  sentenza 
del  vescovo  di  Parigi.  Altra  lettera  scrisse  la  Università  di  Pa- 
rigi a  rincalzo  della  regia,  che  è  un  continuo  esclamare  da  capo 
sino  alla  fine.  I  professori  si  ricordavano  delle  ammonizioni  che 
loro  dette  il  delfino  quando  imprigionò  alcuni  di  loro.  In  Co- 
stanza poi  il  vescovo  d' Arras  e  gli  ambasciatori  regii  s' impi- 
gliarono con  tanta  furia  che,  non  risparmiata  la  dignità  istessa 
dei  cardinali  commissarii,  dettero  un  pessimo  esempio  ai  fedeli. 
Molto  tempo  si  logorò  intorno  a  questo  negozio.  Chi  ne  volesse 
vedere  tutto  il  processo  vada  alle  opere  del  Gerson  :  dirne  di 
più  sarebbe  un  noiare  chi  mi  legge.  Dirò  solo  che  Carlo  VI, 
dopo  aver  purgato  TUniversità  di  Parigi  di  quaranta  dottori,  che 
mandò  ai  confinì,  Tebbe  tutta  per  sé;  che,  dopo  aver  fatto  regi- 
strare al  parlamento  la  condanna  che  egli  fece  degli  errori  di 
Petit,  ordinò  che  quanti  esemplari  si  potessero  avere  del  pesti- 
lente libro  venissero  lacerati  in  pubblica  sessione  ;  e  dirò  da 
ultimo  che  il  concilio  condannò  solo  la  proposizione  generale 
e  non  volle  passar  oltre. 


—  405  — 

Sebbene  giunta  da  Ferdinando  d'Aragona,  da  Sigismondo 
e  dal  condlio  la  caiMtolaùone  di  Nartiona,  tottarolta  lo  scisnia 
non  era  del  lotto  sTelto  ;  NaTarra  e  Castiglia  non  eransi  dar- 
Tero  distaccate  dalf  antipapa.  Per  la  qnal  cosa ,  poiché  i  padri 
aspettavano  Panione  delPantipapale  obbedienia,  perch6  di. nuovo 
si  dichiarasse  convocato  il  concilio,  non  tenevano  più  piibblicho 
sessioni,  ventilavano  e  decidevano  nelle  congregaiioni*  1/ulUma 
sessione,  e  fn  la  ventesima,  venne  celebrata  a  di  21  novembre 
deiranno  <4<5.  Fino  alia  ventunesima,  tenuta  a  di  30  mag* 
gio  1416,  Taffiare  di  Petit  tenne  particolarmente  occupati  i  psi* 
drì.  Ma  poiché  Girolamo  da  Praga  era  in  prigione,  dopo  avere 
ritrattati  i  suoi  errori  e  significata  anche  ai  Iberni  la  sua  ritrnt- 
tazione ,  pensarono  non  doversi  più  lungamente  indugiare  la 
conchiusione  delia  sua  causa ,  la  quale ,  essendo  negozio  tutto 
di  fede,  non  richiedeva  T  aggiunzione  delF obbedienza  del  Do 
Luna. 

Vedemmo  come  i  cardinali  di  Gambrai»  di  Aquileja,  di  Fi- 
renze e  rOrsini«  commissarii  della  causa  di  Girolamo,  avessero 
rassegnato  in  man  del  concilio  la  loi*o  deputazione»  poiché  va- 
namente rimostrarono  ingiuste  la  prigionia  deirerelico  dopo  la 
sua  ritrattazione  e  poiché  vennero  anche  insultati  per  diso- 
nesti sospetti  intorno  alla  integrità  loro.  Ai  vecchi  commissari! 
furono  sostituiti  nuovi,  e  tra  questi  il  patriarca  di  Costantino- 
poli. Nel  26  di  aprile  i  padri  si  assembrarono  nella  cattedrale 
in  congregazione  generale.  Numeroso  convegno.  Eranvi  tulli  i 
cardinali,  i  prelati  e  dottori  e  moltitudine  di  baroni.  Leggieri  ne- 
gozii,  dapprima,  indi  il  gravissimo  di  Girolamo.  I  nuovi  cominls- 
sarii  della  sua  causa,  sostituiti  ai  quattro  cardinali,  erano  Tanzi- 
detto  patriarca  ed  il  venerabile  uomo  maestro  Nftola  De  DuckcI 
Spachel,  dottore  in  sacra  Scrittura.  Costoro  erano  tornati  sul  gli 
fotto  :  di  nuovo  interrogati  i  testimoni  con  ia  giunta  di  quelli 
che  avevano  recato  di  fresco  da  Boemia  i  frati  carmelitani.  Il 
processo  era  compiuto:  le  dimando  con  le  risposte  delfaccusato 
vennero  profferte  alla  sinodale  assemblea  da  Giovanni  de  liochi, 
frate  minore  e  dottore  in  divinità.  Undici  erano  gli  articoli  prìn- 
dpali  dei  cento  e  due  che  ne  recava  scritti  il  frale.  A  ciascuno 
veniva  appresso  la  risposta  di  Girolamo.  Questi  articoli  somma- 
riamente presi  si  riducevano  alfavere  egli  abbracciati  gli  errori 
di  Wicleff  e  di  Hos  ;  di  averli  predicati  e  sostenuti  «  ed  avere 
anche  con  fatti  ingioriosi  verso  gii  ecclesiastici  e  I  riti  della 
romana  Chiesa  mostrato  di  essere  on  wideflUa  ed  una  UMÌta« 


—  406  — 

Confessava  Girolamo  che  egli  aveva  in  Inghilterra  trascrìtto  tutti 
i  librì  di  Wicleff  e  di  averli  recati  in  Boemia  ;  che  aveva  af- 
fermato contenere  questi  molte  verità:  non  aver  mai  parlato 
degli  errori  perchè  non  aveva  lette  tutte  le  scritture  deirere- 
siarca  inglese  ;  e  finalmente  lasciava  tutto  a  Wicheff  Y  onore 
del  bene  che  aveva  scrìtto  col  vitupero  del  male.  Confessava 
essere  stato  legato  ad  Hus  d'una  grande  amicizia,  perchè  V  a- 
veva  tenuto  per  uomo  assai  onesto,  ed  esserlo  ancora.  Alle 
reliquie  calpestate ,  alle  indulgenze  derise ,  ai  frati  percossi  e 
feriti  rispose  col  niego.  Alla  lettura  di  questi  artìcoli  fatti  dal 
De  Rocba  successe  Taltra  del  promotore  del  concilio,  recatore 
di  altre  accuse,  il  quale  chiese  che  venisse  su  di  quelle  in- 
terrogato Girolamo,  concedendogli  il  si  ed  il  no  ;  non  mai  di- 
scorso. Fu  assegnato  il  ventesimoterzo  di  di  maggio  a  questa 
udienza. 

Vi  fu  condotto  Girolamo,  io  non  so  se  questi  sinceramente 
ritrattasse  i  suoi  errori;  ma  guardando  a  tutto  l'operato  da  lui 
innanzi  venisse  in  Costanza,  è  certo  che  non  pareva  uomo  che 
potesse  umiUarsi  sotto  Tautorità  della  Chiesa  in  modo  da  rin- 
negare sé  stesso.  Il  dubitare  della  sua  sincerità  non  era  certo 
follia  nei  padri;  il  ricondurlo  in  causa  dopo  una  ritrattazione 
tanto  solenne  era  quello  che  ai  cardinali  commissarii  non  parve 
secondo  giustizia.  Vero  è  però  che  come  il  timore  del  fuoco 
ammorbidi  V  animo  del  Pragense ,  cosi  quel  vedersi  citato  in- 
nanzi ad  altri  commissari!,  quel  vedersi  a  fronte  schierata  mol- 
titudine di  altre  accuse ,  cosi  vivamente  eccitarono  in  lui  gli 
antichi  odii  contro  una  Chiesa  che  credeva  corrotta,  che,  risa- 
lita repentinamente  V  altezza  di  un  principio  da  lui  pessima- 
mente ragionato,  non  vide  più  le  fiamme  che  erano  per  di- 
vorargli le  carni,  ma  la  sola  idea  di  cui  si  teneva  propugnatore 
e  maestro  innanzi  a  tutta  la  gente  boema.  Richiesto  che  pro- 
mettesse con  giuramento  di  non  rispondere  alle  interrogazioni 
che  con  la  semplice  affermazione  o  negazione,  non  avendo  vo- 
luto i  padri  dargli  licenza  a  discorrere  le  sue  ragioni ,  non 
volle  giurare.  Degli  articoli  alcuni  negò,  altri  confermò  :  ma  che 
egli  avesse  neiranimo  tutto  Wichlefif,  nissuno  poteva  dubitare; 
ed  ove  fosse  stato  dubbio,  egli  stesso  lo  tolse  col  sermone  che 
tenne  ai  padri,  poiché  ne  fu  licenziato  dal  patriarca  di  Costan- 
tinopoli. 

Girolamo,  nelPorazione  che  tenne  al  concilio,  manifestan- 
dosi eretico,  onde  non  potè  sfuggire  la  giusta  condanna  del 


—  4*:  — 
ime  le  fSi  dftAe  à  CMUfnow^w)  cnMUto 

dv  prìiKipd  al  didCHirsKik.  or\^  e  «nfortn^  T  ^- 
anblea  ^  onre  per  loi,perdiè  UJìa  e  h  B^  \>f^iii^  ki  aws^ 
STO  aoocoffso  a  doo  ifir  cosa  ftegìndaieTOi^  all'  anima  $tta. 
ìsse  dapprima  :  <  Come  doq  fotssde  stfaonlUiario  U  tvdei^  in- 
ooeoli  oppressi  per  fallo  di  testimooi  :  molti  illustri  uomini 
elle  sacre  e  profioe  storie  trovarsi  in  tal  guisa  nunilali  in 
erdiiione,  e  perciò  dod  mararigliand  lui  cornei^  (rii  sUa^  dih 
ini  :  rìofrancarìo  la  speraoxa  di  potere  un  (nomo  citane  qutf^ 
il  testimoDii  al  trilMioale  di  Dio ,  giudice  dell  unÌT^r$\\  Mo^ 
Jruosa  ingiustizia  arer  commessa  i  padri  contro  di  ìnu  ^SfO$i\- 
leodo  DUOTi  commissarìi  ai  primi  che  lo  avevano  giudicato 
mocepte.  Non  riconoscere  questi  nuovi  giudici ,  tenerli  conu^ 
ssisi  in  cattedra  di  pestilenza.  La  mala  radice  onde  erano  giT- 
logliati  contro  gii  odii  e  le  inimicizie  di  molti  esserti  lo  ra- 
ioni  delia  patria  fortemente  propugnate  da  lui  e  da  Giovanni 
'Hus  a  fronte  degli  Alemanni,  invasori  della  pragenso  univor- 
tà,  da  queir  Hus  che  era  fiore  di  santità.  Se  in  questa  lutv 
agnazione  del  proprio  fosse  corso  umano  sangue,  non  (luvorai 
icolpare  Ini  o  Giovanni,  bensì  quei  cbierici  die  sconOwHcovano 

loro  patria.  Vergognare  in  faccia  a  Dio  ed  al  mondo  della 
trattazione  fatta  :  la  paura  del  fuoco  avergliela  strappata  cil 
rerlo  condotto  contro  coscienza  a  condannare  la  dottrina  di 
fideB  e  di  Giovanni  d' Hus.  Lui  condannare  piuttosto  In  sua 
trattazione  come  il  più  grave  peccalo  che  si  aveaso  connnoHi»o: 
>ler  vivere  e  morire  nella  dottrina  di  Wlclelf  e  di  IIum,  minta 
)me  la  vita  di  costoro  che  la  insegnarono.  •  Qui  poi  non  ora 
far  altro  :  la  sentenza  fu  data  dallo  slesso  Girolamo.  Vollo  11 
loco,  e  Tebbe. 

A  di  21  novembre,  avvegnaché  avessero  i  padri  HOHiNsae  In 
issioni  per  dar  tempo  a  venire  a  quelli  delP  obbedienza  del- 
intipapa  Benedetto,  pure  ne  vollero  tenere  una  appunto  |ior 
irolamo,  nella  quale  non  fu  trattato  deiruniono.  l/arclveiicovo 

Riga  vi  condusse  Girolamo  per  ascollare  la  mia  vAiiuUuutk  ; 

vescovo  di  Lodi  preparò  gli  animi  con  un  acrrnonf;.  (C  il  m^Mlis 
mo  che  sermonò  i  giudici  condannanti  llon,  Panni  avitr  disilo 
d'alb'a  volta  che  in  questo  concilio  ai  fiari/i  tropp^ii  <ed  or;i  lo 
peto.  Quanti  sermoni  inqueato  di  (UmIauzaì  e  |ierchAf  \mcMh 
Itti  volevano  parìare  ^  [lerché  vi  eran/i  trofipt  protanmifì»  lìti 
incelUere  di  università,  quale  era  (lermUf  imrcìib  ihiUi;  parto 


—  408  — 

6  parlò  assai,  e  talli  io  ascoltavano;  segno  cbe  in  mia  congre- 
gazione di  quella  natura,  in  cui  la  grave  e  matura  deliberazione, 
che  non  doveva  immediatamente  connettersi  alla  suprema  dif- 
finizione,  si  tenesse  un  conto  men  temperato  che  delia  scienza 
umana,  la  quale  non  sempre  illuminava  le  menti  dei  padri.  Un 
esempio  ne  dette  questo  vescovo  di  Lodi,  impronto  parlatore 
nella  condanna  di  Girolamo  da  Praga.  Il  suo/ sermone  è  recato. 
alFaperto  dalP  ugonotto  Lenfant,  come  trofeo  di  vittoria  contro 
la  Chiesa  cattolica.  Taccio  desmodi  poco  men  che  plebei  onde 
il  prelato  svillaneggiò  l'eretico  :  avvertirò  solo  che  ei  disse  cose 
non  vere.  Volendo  dimostrare  come  il  concilio  avesse  fatto  un 
troppo  mite  governo  deireretico»  afferma  non  essere  quello  il 
modo  di  procedere  contro  gli  eretici,  dovendosi  accogliere  ogni 
generazione  di  accuse  contro  di  loro  ed  ogni  maniera  di  testi- 
moni, anche  i  più  infami,  coa>e  usurai ,  ribaldi  e  femmine  da 
bordello.  Questo  diceva  il  Lodigiano,  ma  non  faceva  la  Chiesa; 
ed  avendone  quasi  mossa  lagnanza  ai  padri,  mostra  che  il  con- 
cilio non  accolse  questo  fecciume  di  gente  a  testimoni  della 
causa  di  Giovanni  d'Hus  e  Girolamo  da  Praga.  Troviamo  ter- 
ribile la  legislazione  di  que'  tempi  contro  gli  eretici  per  le  ra- 
gioni che  abbiamo  recate,  ma  non  possiamo  giammai  trovar 
ragioni  che  onestino  la  contaminazione  della  giustizia  con  la 
nefandezza  de'  testimoni.  Se  il  Lodigiano  o  altri  usò  di  questa 
razza  di  testimoni  contro  gli  eretici  della  sua  diocesi,  mal  per 
lui;  ma  non  mai  troveremo  che  nella  Chiesa  siasi  canonizzata 
la  immoralità  de'  testimoni  per  guarentir  la  fede  e  la  morale. 
Se  un  pontefice  avesse  diffinitO)  non  si  sarebbero  ascollali  questi 
sermoni. 

11  discorso  del  vescovo  di  Lodi  provocò  Girolamo  a  parlare 
contro  un  prelato  che  si  era  troppo  scoverto,  perciò  vulnera- 
bile. Egli  di  nuovo  dannò  la  sua  ritrattazione,  si  disse  inno- 
cente, appellò  al  tribunale  di  Dio.  La  veemenza  del  dire  fu  tale 
che  gli  animi,  commossi  più  ardentemente,  desiderarono  una 
sua  ritrattazione.  Ogni  mezzo  ad  ottenerla  fu  vano:  Girolamo  fu 
condannato.  A  petizione  del  promotore  del  concilio  il  patriarca 
ne  lesse  la  sentenza. 

La  ragione  sommaria  della  condanna  si  era  Taver  Girolamo 
abbracciate  e  pubblicamente  insegnate  le  eresie  di  Wicleffedi 
Giovanni  d'IIus;  e  dopo  averle  ritrattate  con  giuramento,  esservi 
tornato.  I  padri  confermano  col  Placet  la  sentenza;  fu  invocato 
il  braccio  secolare,  che  accorse  e  tolse  in  sua  balla  il  reo.  Rac- 


—  409  — 

comaodarimo  i  padri  al  maestrato  laicale  di  dod  iDsallarlo  e 
trattarlo  con  amanita.  Girolamo  osciva  dall'assemblea  recitando 
ad  alta  Toce  il  Credo.  Condotto  al  supplizio,  per  via  non  fece 
che  cantare  le  litanie  ed  un  inno  alla  B.  Vergine:  e  come  vide 
11  luogo  della  sua  morte,  lo  stesso  in  cui  faveva  incontrata 
Hos,  si  mise  lungamente  ad  orare.  Ma  i  carnefici  gli  ruppero  la 
preghiera,  spogliandolo  delle  vesti:  ed  egli,  affissando  il  palo  cui 
Io  dovevano  infunare  e  le  legna  del  micidiale  incendio,  con  lie- 
tissimo volto  cantò  di  nuovo  il  simbolo  delta  fede,  e  vólto  al 
popolo,  in  favella  tedesca  disse:  <  Questo  simbolo  è  stalo  sem- 
pre la  mia  credenza,  io  muojo  in  questa  fede,  e  non  per  altro 
io  soffro  questo  supplizio,  che  per  non  aver  voluto  soscrivere 
alla  condanna  di  Giovanni  d'Hus,  tenendo  per  fermo  essere  stalo 
costui  un  vero  predicatore  della  fede.  >  Fu  appiccato  il  fuoco, 
e  dentro  vi  gittarono  le  sue  vesti  e  tutte  le  masserìzie  di  cui 
aveva  usato  nel  carcere.  Senza  pure  un  segno  di  dolore,  dopo 
aver  lungamente  lottato  con  la  morte  tra  le  fiamme,  rese  fuori 
Io  spirito. 

Le  sue  ceneri  al  fiume;  ma  la  sua  morte  restò  profonda- 
mente scolpita  negli  animi  degli  spettatori.  Tutti  sapevano  che 
Girolamo  era  stato  abbruciato  come  eretico  ostinato;  ma  tutti 
erano  uomini,  perciò  più  facili  a  lasciarsi  trarre  dalla  pietà  di 
un  male  che  materialmente  affligge  i  nostri  simili,  che  dalla  con- 
àderazìone  della  colpa  onde  qubòti  soffrono.  Le  pene  che  subito 
rispondono  alle  grandi  colpe  sono  le  sole  che  rìspondono  all'  in- 
tento dei  legislatori,  vale  a  dire  d' ispirare  Tabbominio  del  male. 
Quando  corre  troppo  tempo  tra  V  una  e  Taltra,  il  pubblico  giu- 
dizio, stanco  dell  estimazione  morale  della  colpa,  va  a  posare 
sul  colpevole  e  incomincia  a  compatirlo  come  uomo ,  anziché 
detestarlo  come  delinquente.  E  qui  è  da  avvertire  che  sebbene 
abbiamo  detto  la  fede  informasse  ancora  la  ragione  pubblica  di 
quei  tempi,  tuttavolta  era  inegualmente  sentita  dagli  individui, 
e  poteva  avvenire  che  mentre  il  concilio  ed  il  popolo  di  Gostanza 
fossero  spettatori  del  supplicio  di  Girolamo  come  uomini  viventi 
nel  cominciare  del  secolo  XV,  poteva  trovarsi  qualcuno  che  vide 
la  terribile  arsione  come  uomo  di  altro  secolo  o  sia  di  poca  fede. 
E  questi  fu  quel  Poggio  fiorentino  stato  poi  segretario  della 
repubblica  di  Firenze,  dotto  di  molte  lettere  greche  e  latine,  il 
goal  tale  scrìsse  una  epistola  a  Leonardo  Aretino  sul  supplizio 
di  Girolamo  da  Praga,  che  ci  rivela  la  coscienza  del  secolo  sve- 
gliata dagli  avvenimenti  costanziensi.  Questa  scrìtlura  del  Pog- 

Tamb.  Inquis.  Voi   IL  51 


—  410  — 

giò,  indiritta  (amigliarmente  all'Aretino,  forse  non  era  destinata 
ad  avere  qaella  pabbliciti  che  ha  avuta  :  perciò  senza  freno  il 
pensiero,  sonora  la  forma,  il  sentimento  va  a  pari  coIFintelletto 
che  giadica;  e,  qael  che  è  più,  il  concetto  morale  nel  soo  ardi- 
mento accenna  a  fiducia  sa  qualche  cosa  che  è  fuori  l'indivi- 
duo e  air  individuo  sovrasta  :  io  dico  di  quella  che  chiamano 
opinione.  Poggio  non  era  un  eretico:  eppure  la  descrizióne  dei 
fatti  e  delie  parole  di  Girolamo  nella  sua  causa  ce  lo  rivelano 
più  fevorevole  al  reo  che  ai  giudici.  La  libertà  delia  parola 
negata  airaccnsato,  la  poca  moralità  dei  testimoni  è  quello  che 
viene  fuori  dalla  epistola  del  Poggio;  onde  sembra  un  avvocato 
del  Pragense  che,  giunto  tardi  a  mettere  in  via  di  giustizia  i 
padri  di  Gostanza,  appelli  su   le  ceneri  del  cliente  a  quella 
della  posterità.  L' ingegno  di  Girolamo ,  la  sua  eloquenza ,  il 
principio  della  riforma,  sebbene  malamente  professato  dall'ere- 
tico, e,  più  di  ogni  altra  cosa,  il  senso  morale  che  esalano  gli 
umani  patimenti,  qualunque  l'anima  che  si  chiude  in  queste 
membra,  trassero  la  mente  del  Fiorentino  dalle  mute  e  solin- 
ghe  regioni  della  fede  nel  basso  dell'umana  ragione,  e  ragionò, 
e  Gran  fallo,  diceva  Poggio,  che  una  mente  tanto  bella,  un'anima 
tanto  nobile  abbia  fuorviato,  se  pure  sia  vero  quello  di  cui  l'ac- 
cagionano: imperciocché  io  non  m'intrometto  a  giudicar  di  cosa 
tanto  grave  ed  amo  piuttosto  acquetarmi  al  giudizio  dei  più  sa* 
pienti  di  me.  >  Vedi  come  trasudano  queste  parole  non  il  dutdrio, 
ma  la  certezza  dell'ingiustizia  sinodale!  Il  Poggio  doveva  ricordare 
le  ultime  parole  di  Girolamo  con  cui  altamente  confessò  lui  tenere 
la  dottrina  di  WiclefTe  di  Hus,  ed  in  questa  voler  morire.  Questa 
confessione  toglie  ogni  necessità  di  ricerca  intorno  alla  onestà 
dei  testimoni  e  alle  ragioni  del  processo.  Dirò  sempre  lo  stesso: 
io  curo  del  concilio  deflniente,  non  degli  uomini  del  concilio,  cbe 
umanamente  operarono  e  forse  fallirono.  L'umana  peccabilità, 
a  fronte  di  un  reo  che  viene  giudicato  e  dannato  alle  fiamme 
acquista  sempre  dimensioni  assai  larghe  agli  occhi  dell'osser- 
vatore; e  peccati  vi  furono,  stando  al  giudizio  dei  quattro  prinoi 
commissarii  cardinali  ed  a  quello  del  senso  comune.  Per  la 
qual  cosa  il  Fiorentino,  uscito  dall'idea,  si  chiude  negl'individoi 
e  grida  tacitameute  ingiusti  i  giudici,  sonoramente  magnanimo 
il  Pragense.  C  tanto  egli  è  trasportato  dalla  ragione  che  vuol  di 
tutto  a  suo  modo  giudicare,  senza  pure  un  sentimento  dì  fede, 
che  la  fortezza  del  morente  eretico  somigli  a  quella  dei  filo- 
sofi pagani.  «  Avreste  creduto,  egli  dice,  vedere  la  morte  di 


-411  — 

qoalcQQO  dei  filosofi  deiraDtichità.  Muzio  Scevola  mette  la  sua 
mano  Bel  fuoco»  e  Socrate  beve  il  veleno  eoo  miuor  coraggio 
e  intrepidezza  di  quella  con  cui  Girolamo  da  Praga  durò  il 
goppliùo  del  fuoco,  e  Ai  tempi  di  Dante  un  Italiano  non  avreb- 
be parlato  in  tal  guisa  di  un  eretico:  allora  le  anime  $i  alzavano 
per  mal  intesa  forza  di  ragione;  e  volendo  uscire  dalla  Bibbia 
e  dalla  leggenda  cristiana,  Roma  e  la  Grecia  si  appresentavano 
a  costoro  come  tipo  di  virtù.  Questa  scappata  dalla  Chiesa  a 
Muzio  Scevola,  a  Socrate,  non  si  trova  nello  scrittore  della  vita 
di  Girolamo  da  Praga,  che  era  suo  discepolo  ed  nomo  setten- 
trionale ,  e  che  certo  è  in  sul  lodare  la  costanza  del  maestro. 
Nel  paragone  dei  due  lodatori  deir  eretico  da  Praga  io  trovo 
come  ritaliano  andasse  innanzi  a  lutti  ad  incontrare  il  secolo 
che  con  voce  straniera  è  detto  della  rinascenza.  Bisanzio  era 
ancora  in  piedi  al  cominciare  del  secolo  XV;  ma  da  gran  tem- 
po la  fiumana  deirìslamismo  rodeva  le  sue  fondamenta,  e  mollo 
della  Grecia  in  veste  bizantini)  veniva  a  cadere  in  seno  a  questa 
Italia,  che  alle  tradizioni  deir  antica  Roma  agognava  innestare 
un  presente  che  fosse  degno  di  lei.  Venne  allora  Platone  in 
Italia:  stanchi  gritaliani  deir  individualismo  cruento  di  guerre 
cittadine,  stanchi  di  analisi ,  avevano  bisogno  di  riposo  in  una 
sintesi.  Nella  mente  .di  Platone  trovarono,  la  posa,  in  quella 
mente  in  cui  tanto  s'incarnò  di  realtà  IMdea  complessiva  o  uni- 
versale. Era  però  questa  una  sintesi  razionale;  quindi  dalla  sintesi 
dogmatica  del  cristianesimo  passarono  a  quella  tutta  greca,  tutta 
pagana,  che  tanto  nelle  arti  dei  tempi  medicei  che  nelle  scritture 
d  si  rivela.  Perciò  caddero  dalle  mani  le  daghe  e  le  mazze  ferrate, 
»  prese  e  s'impugnò  lo  scalpello  ed  il  pennello:  i  petti  scabri  di 
dcatrìci  non  più  sofTrirono  le  maglie  di  ferro  e  si  vestirono  di  veN 
lato  e  di  seta:  e  mentre  in  Cosenza  sermonavano  di  riforma,  Ni- 
colò Machiavello  si  preparava  a  scrivere  la  Mandragora  da  rap- 
presentarsi in  corte  del  papa.  Il  bello,  quale  si  dipinse  nelle  calde 
fantasie  della  Grecia,  quasi  ripercosso  dalllstesso  sole  in  quella 
degritaliani,  ne  innamorava  le  menti,  le  immergeva  in  una 
estasi  di  plastica  voluttà.  U  arti  greche  crebbero  e  si  educarono 
sotto  il  pallio  filosofico  di  Platone:  Tidea  platonica  è  come  san- 
^e  che  circola  per  le  membra  delle  greche  statue.  Con  Platone 
Tennero  ad  un  tempo  in  Italia  Fidia  ed  Apelle.  Costoro  reca- 
vano appresso  tutta  una  civiltà  mortificata  dalla  barbarle  del 
Insso-impero,  bandita  da  Maometto.  Firenze  li  accolse  in  beni- 
gno ospizio,  e  gli  uomini  che  incontravano  tali  ospiti  a  far  loro 


—  4t2  — 

come  saol  dirsi  le  onoranze  della  casa,  quale  fu  il  Poggi,  erano 
certamente  importuni  spettatori  deir  arsione  di  un  eretico ,  ad 
estimarne  la  ragione. 

Qualunque  però  i  giudizi  che  potevano  recare  i  presenti 
ed  i  futuri  della  condanna  di  Girolamo,  il  concilio  teneva  la 
sua  via  con  molta  energia.  Nell'agosto  deiranno  1416  i  padri 
facevano  bandire  un  monitorio  contro  gli  Hussiti  del  reame  di 
Boemia  e  del  marchesato  di  Moravia ,  col  quale  dato  spazio  di 
tempo  soli  cinquanta  di,  venivano  citati  a  comparire  al  cospetto 
del  concilio,  e  rendere  ragione  della  loro  fede.  Vengono  in  que- 
sto monitorio  nominati  moltissimi  baroni  e  cavalieri  di  quei 
paesi  ;  e  reca  infine  V  approvazione  di  quattro  nazioni.  Trovo 
nel  Wan  der  Hardit  gli  atti  de'  notari  intomo  air  affissione  di 
questa  citazione  alle  porte  del  duomo  di  Gostanza,  di  Padova , 
di  Vienna,  di  Ratisbona.  Quel  reciso  giudizio  recisamente  fu 
eseguito:  ed  a  fronte  della  pubblica  opinione  non  si  ritrassera 
per  umana  prudenza  i  fortissimi  giudici. 


i  CAPITOLO  XVf. 


I  . 


\ 


OioTftnna  d*Areo  condannata  eomo  «fraga. 


Nel  1420  la  Francia  era  in  preda  ad  intestino  discordie,  n 
guerre  sanguinose  che  recavano  nei  sno  seno  gli  stranieri  ; 
epoca  appunto  in  cui  Giovanna  d'Arco,  inspirata  e  calda  di  sacro 
entusiasmo,  s'affacciava  alla  vita. 

Il  trattato  di  Troyes,  stipulato  il  21  maggio  1420  fra  En- 
rico y  re  d'Inghilterra  e  Cario  VI  di  Francia ,  stahiliva  che  la 
corona  di  Francia  passasse  in  Enrico  V  o  ne'  suoi  credi  in 
perpetuo  dominio.  Questo  trattato,  che  sebbene  ponesse  flne 
alle  sventure  e  miserie  della  Francia,  imponeva  alla  medesima 
Conta  delia  schiavitù  verso  lo  straniero,  era  esecrato  dalla  mag« 
gior  parte  dei  Francesi.  A  renderio  pib  odioso  contribuì  Tor- 
gelilo  e  la  tracotanza  inglese,  speciafmente  del  conte  di  Hai- 
tingdoD,  che  non  rispettava  né  leggi  né  trattati. 

Gir  Armagnacchi  che  pugnavano  contro  lo  straniero  non 
vollero  aderire  al  trattato,  ed  Enrico  spinse  a  tntt'aomo  la  giiem 
contro  di.  essi  ed  il  Delflno.  Non  appena  fatto  sposo  di  Caterini, 
quel  troculento  cuore  s'apparecchteva  alle  stragi,  e  8opo  aver 
espugnata  Sens  e  Honterean,  non  rimanendogli  che  la  rócca  df 
quest'altima  città ,  il  cui  presidio  era  comandato  dai  cafiitano 
Guitry,  mioaecioso  si  presentò  intimandogli  la  resa;  e  rtnn» 
tandosi  a  ci6,  giurava  di  far  impiccare  intorno  alle  innn  ddta 
rdcca  i  prigionieri  che  teneva.  Questa  minaccia ,  fitta  qfialctie 
secolo  prima  dal  baribari  imperatori  tedeschi  In  fUlia,  sembrava 
possibile  sobmenle  in  teotonidie  anime  ;  ma  r  inglei^  re  mu 


•414  — 

si  mostrò  meno  feroce,  ed  al  nobile  rifloto  di  Goitry ,  di  oc 
eedere  che  alla  forza  dell'  armi,  egli  fece  impiccare  tutti  i  pr 
gionieri.  Al  qual  atto,  feroce  più  di  qaello  che  si  possa  sigo 
ficare  con  parole,  if  capitano  non  cedette ,  attendendo  semp 
rinforzi  dagli  Armagnacchi  e  dal  Delfino,  che  fu  poi  Carlo  Y 
Privato  della  corona  per  l'assassinio  da  lui  perpetrato  del  Da 
di  Borgogna,  ceduta  ad  Enrico  Y,  dovette  dopo  otto  giorni  e 
dere.  La  fortuna  sorrideva  ad  Enrico  Y,  il  quale  andava  sec 
pre  più  consolidando  il  suo  impero  sulla  Francia  acquistani 
partigiani  e  città,  obbligando  il  Delfino  a  ritirarsi  al  cospet 
delle  sue  armi.  Colpito  da  forte  dissenteria  nel  1422 ,  spirò 
Yincennes,  lasciando  leldue  corone  a  suo  figlio,  che  allora  coi 
tava  otto  mesi,  costituendo  reggente  della  Francia  suo  frate! 
il  duca  di  Betford,  e  raccomandando  si  ad  esso  che  al  figlio 
serbare  amicizia  al  Duca  di  Borgogna  figlio  dell'assassinato 
Montereau. 

Carlo  YI  non  sopravisse  che  pochissimo  iempo  ad  Enrio 
e  la  sua  morte  dischiuse  la  via  a  nuove  micidiali  guerre. 
Delfino  s'intitolò  Carlo  YU  re  di  Francia ,  gl'Inglesi  ed  ì  B(V 
gognoni  proclamarono  Enrico  YI,  ma  la  vittoria  stava  per  l'aro 
inglesi,  le  quali  dominavano  il  nord  della  Francia»  ed  assedi) 
vano  Orleans;  e  donde  meno  sperava  ebbe  salute.  Nel  1410  ei 
nata  in  Domremy,  da  umili  parenti,  una  fanciulla,  che  crescia 
nella  semplicità  della  sua  vita,  guidando  a'campi  il  suo  gr^ 
dotata  d'animo  appassionato,  vedeva  con  affanno  le  m^erie  del 
Francia  sbllo  il  dispotismo  straniero.  Nella  sua  semplicità  cn 
dette  di  sentire  voci  d'angioli  che  la  chiamassero  a  salvare 
patria.  Divota  estremamente,  prestò  fede  a  quella  inspirazioo 
e  si  confidò  al  parroco ,  il  quale  non  la  derise ,  ma  nemmei 
la  incoraggiava.  La  giovinetta  si  rivolse  in  allora  a  Boudricoo 
governatore  della  Sciampagna ,  una  delle  poche  terre  rimas 
fedeli  al  giovine  re.  L'entusiasmo  col  quale  la  vergine  di  Doa 
remy  parlò  al  governatore,  in  luogo  di  farlo  persuaso,  d'acc( 
gliere  la  sua  offerta,  la  respinse  credendola  una  pazza  od  invasa 
dal  demonio.  Sebbene  respinta,  non  allentò  della  fatta  delib 
razione  e  si  presentò  a  Lougpont,  gentiluomo  che  godeva  grani 
estimazione,  il  quale,  biasimando  il  governatore  della  sua  ind 
ferenza,  la  persuase  finalmente  a  dare  alla  giovinetta  armi 
destriero  e  mandarla  a  Cinon,  ove  in  allora  avea  trasporta 
Carlo  Yli  la  sua  piccola  corte.  Il  re  avvisato  dell'arrivo  de 
giovinetta  in  spoglie  virili  si  confuse  fra  la  folla  dei  corligia 


—  415  — 

)  Gìofsnnt  appena  ammessa  an^odìenia ,  senia  aver  mai  ve- 
loto  il  Ddfino,  lo  riconobbe  e  lo  distinse  inginocchiandosele 
li  cospetto.  Carlo  ed  alcuni  altri ,  sorpresi  da  questo  htto  e 
Mi  *aria  inspirata  della  donzella  »  cre<tettero  che  fosM  un'  in^ 
fiata  da  Dio  a  salvare  il  trono»  poiché  le  cose  sue  erano  a  tale 
idotte  che  non  vi  roleva  che  on  miracolo  a  scamparlo  dal* 
'abisso  snil^orio  del  quale  si  trovava.  Non  mancarono  vecchie 
natrone  sobbillate  da  frati  e  da  preti  che  insinuarono  che  Gio- 
ranoa  potesse  essere  fattucchiera ,  ed  avesse  stretto  patto  col 
letnonio.  Onde  provare  la  sua  innocenxa  dovette  Giovanna  sog* 
[lacere  a  prove  umilianti,  nelle  quali  la  sua  verecondia  fta  gra- 
^ente  oEfesa.  Ma  ella  non  ricosò  nessuna  prova  »  e  da  tutte 
l'osd  vittoriosa  e  costrinse  al  silenzio  i  suoi  detrattori. 

Ricevette  dal  re  lo  stendardo  sul  quale  stava  effigiato  PUo- 
)o-Dio  che  usciva  dalle  nubi ,  ed  imbrandita  la  spada  nella 
estra,  si  pose  alla  testa  delle  poche  ed  avvilite  schiere  francesi 
s'incamminò  verso  la  Loira  per  liberare  Orleans  assediata 
igl'Inglesi,  che  minacciava  di  far  dedizione  per  evitare  gli  or- 
ni e  la  strage  di  un  assalto.  Il  di  lei  entusiasmo  si  comunica 
me  elettrica  scintilla  alle  sue  schiere ,  ogni  soldato  diventa 
I  leone,  ed  Orlean^s  è  liberata. 

Il  conte  di  Dunois  ch'era  comandante  dei  difensori  d'Or- 
ans,  usci  colle  sue  soldatesche  e  si  uni  a  Giovanna,  la  quale 
lOdossele  a  liberare  le  altre  terre  deirOrleanese,  che  si  trovava- 
>  in  mano  dello  straniero.  Questi  trionfi  furono  poi  coronati 
lUa  famosa  vittoria  da  lei  riportata  a  Patay,  nella  quale  caddero 
lenti  sul  campo  più  di  quattromila  inglesi  e  fece  prigioniero 
conte  di  Talbot  generale  dei  medesimi. 

Il  coraggio  tornava  a  ravvivare  i  Francesi,  la  corto  di  Car- 

YII  s'allietava,  e  fu  tutta  in  festa  quando  alla  medesima  ar- 

vò  Giovanna  a  deporre  gli  allori  mietuti  al  piedi  del  monarca, 

orlandolo  a  seguirla  a  Reims,  dove  sarebbe  stato  corcato  re 

db  Francia. 

Infatti  Giovanna  condusse  il  Delfino  a  Reims,  ove  si  celebrò 
saera  cerimonia  e  fu  proclamato  Carlo  VII  re  di  Francia.  Or- 
ai il  solo  nome  di  Giovanna  metteva  spavento  negl'IngloM,  che 
eti{ritosamente  si  ritiravano  sgombrando  le  città  che  occup»* 
no;  per  il  che  Auieres,  Troyes,  Chalons  che  prima  parteg- 
ivano  pei  Borgognoni  e  gli  Inglesi,  aprirono  volontariamente 
porte  a  Giovanna,  che  precedeva  l'arrivo  di  Carlo  VII;  \ft9r 
che  in  poco  tempo  tornò  a  conquistare  gr^n  parte  deiravilo 


-  416  — 

retaggio.  Carlo  VII  fece  coDiare  una  medaglia  per  celebrar 
sua  coDsacraziooe^  colla  leggenda  Consilio  firmata[Dei. 

Per  tutte  queste  yittorie  sembrava  a  Carlo  VH  che 
fosse  dischiusa  la  strada  alla  capitale  del  regno.  Quantun 
Giovanna  avesse  eseguite  le  due  promesse  da  lei  fatte , 
cioè  di  liberare  Orleans  dagli  Inglesi,  V  altra  di  far  conseci 
Carlo  VII  in  Reims,  e  potesse  andarsene  gloriosa,  si  lasciò  ( 
suadere  di  assediare  Parigi;  la  qual  cosa  non  essendole  riusc 
imperciocché  venne  ferita  mentre  tentava  di  scalare  le  mi 
dovette  desistere  dair  impresa,  divenendo  oggetto  dei  sarcai 
di  molti  che  alla  corte  erano  suoi  nemici.  Vedutasi  oggetto 
beffe  per  la  mancata  impresa ,  pregò  il  re  a  lasciarla  parti 
ma  egli  non  vi  acconsenti,  e  per  mezzo  del  conte  di  Due 
la  persuase  a  recarsi  con  Tesercito  a  Compìègne ,  nella  qu 
città  potè  mercè  il  suo  coraggio  penetrare,  sebbene  assedi 
dagli  Inglesi.  In  una  sortita  che  fece  respinse  gli  assedia 
entro  i  loro  ripari;  ma  costoro  ricevuti  rinforzi  rifecero  te 
a  Giovanna,  le  cui  schiere  spaventate  dal  numero  dei  nea 
fuggirono  in  città  lasciandola  sola;  per  il  che  quandTessa  f 
per  entrare  trovò  chiuse  le  porle ,  ed  allora  si  tenne  perdo 
ma  nullameno  tentò  d'involarsi  ai  nemici,  operando  prodigi 
valore  per  farsi  strada:  ma  il  cavallo,  che  gli  cadde  sotto  fer 
la  costrinse  a  darsi  prigioniera  a  Lionetto  bastardo  di  Vendoi 
che  la  consegnò  a  Giovanni  di  Lussemburgo.  Questo  duca 
onta  alla  sua  dignità  ne  fece  turpe  mercato ,  vendendola  | 
grossa  somma  agli  Inglesi.  Fu  chiusa  prima  nel  castello 
Beaumanoir ,  indi  condotta  a  Roano ,  dove  il  duca  di  Bell 
Taccusò  d'eresia  e  di  strega,  per  cui  venne  assoggettata  airi 
quislzione,  capo  della  quale  era  il  vescovo  di  Beauvois.  Pai 
molti  giorni  nello  squallore  del  carcere ,  dentro  del  quale 
duca  di  Betford  si  recò  per  attentare  alla  di  lei  pudicizia, 
finalmente  fu  pronunciata  la  sentenza  colla  quale  fu  condano; 
al  rogo  come  fattucchiera  e  fu  abbandonata  al  braccio  secoli 
il  i6  maggio  1431;  e  quasi  fosse  poca  cosa  il  supplizio  ( 
fuoco,  lo  si  volle  esacerbare  esponendola  in  una  gabbia  a 
insulti  della  plebe.  Mentre  cominciavano  a  crepitare  le  fiami 
ella  invocava  con  fervore  il  nome  deir  Uomo- Dio  e  della  V< 
gine,  ringraziandoli  del  supplizio  e  facessero  libera  la  Frani 
d'ogni  straniero  oppressore.  Cosi  periva  la  salvatrice  de 
Francia,  senza  che  il  suore  nulla  operasse  per  scamparla  de 
^immeritata  fine.  Tarda  giustizia  si  fece  dal  parlamento  coprem 


(fifiVMTtflt  aj^m  ie»Uffài  éif^MiauJ^  /Jiyrà  Mt/a/y. 


Siifvanna  /Àm  mjfnsiene. 


Ì7imm/^m/s'//^y^ 


ifc 


•:\ 


—  417  — 

Yitnpero  qael  processo,  e  nobilitando  la  famiglia  dell'eroina. 
la  qnale  il  drammaturgo  inglese  e  l'alemanno  Schiller  conse- 
arono  i  versi  che  renderanno  immortale  la  di  lei  gloria  e 
Dfamia  dei  snoi  carnefici. 


Tamb.  Inquis,  Voi.  11. 


55 


CAPITOLO  XVll- 


Eugenio  IV,  ooneilii  di  Basilea  a  Firanae, 
e  fli  Usaiti  in  Boemia. 


Erasi  appena  pubblicata  la  pace  che  Sigismondo,  crÌBdeD- 
dosi  pure  in  buono  accordo  con  Eugenio  IV»  si  pose  in  cam- 
mino alla  vòlta  di  Roma,  nella  quale  fece  il  suo  ingresso  il  21 
maggio  del  1433,  ed  il  giorno  30  dello  stesso  mese  ricevette  b 
corona  imperiale  nella  basilica  del  Vaticano.  Ma  la  pace  della 
Chiesa  era  assai  più  difficile  da  fermarsi  che  non  quella  de*pria- 
cipi  secolari.  Tutta  in  essa  era  discordie  e  disordine  ;  e  Sigis- 
mondo, nella  sua  lunga  dimora  in  Lucca  ed  in  Siena,  non  aveva 
potuto  conciliare  tante  opposte  pretensioni.  La  Chiesa  cattolica 
tutta  intera  trovavasi  in  guerra  cogli  Ussiti  boèmi,  la  sede  di 
Roma  col  concilio  di  Basilea,  il  nuovo  papa  Eugenio  (V  con 
tutti  i  congiunti  del  suo  predecessore  della  casa  Colonna,  ed  il 
governo  pontificio  era  in  guerra  altresì  con  tutti  i  sudditi  della 
Chiesa. 

Papa  Martino  V  era  morto  la  notte  del  19  al  20  febbraio 
del  1431.  Durante  il  suo  regno  erano  state  ridotte  sotto  Tanto- 
rità  della  santa  sede  tutte  le  città,  tranne  quella  di  Bologna,  e 
tutte  le  Provincie  che  prima  dello  scisma  erano  soggette  ai  suoi 
predecessori.  Irremovibile  ne'suoi  progetti,  ambizioso  e  non  pei^ 
tanto  pacifico,  egli  aveva  governati  i  suoi  Stati  da  buono  e  giu- 
sto principe.  Era  stato  nondimeno  tacciato  d'avarizia,  e  ciò  a 
santa  ragione,  perchè  i  tesori  da  lui  raccolti  non  erano  stati 
impiegati  a  vantaggio  dei  popoli  che  avevano  pagate  le  imposte, 


—  4i9  — 

Uè  del  gorenio  che  le  avea  riscosse.  Alla  di  lui  mmle  i  sum 
Ittori  rimasero  sotto  la  custodia  di  tre  suoi  nipoti  della  casa 
(Monna,  lo  che  fo  cagione  delle  prime  gaetre  che  turbarono 
por  tre  anni  sotto  il  nuo?o  regno  lo  Stato  ecclesiastico. 

Il  conclaTe  adunato  per  eleggere  il  successore  di  Martino  V 
scelse  il  3  marzo  del  1431,  Gabriele  Condulmierì,  cardinale  ve- 
scoYO  di  Siena.  Questo  prelato,  che  non  godeva  di  molta  repu- 
tatone, rioni  appunto  a  suo  fovore  tutti  i  suflfiragi  perchè  ninno 
lo  credeva  degno  di  co^  grande  dignità.  I  cardinali  pon  essendo 
ancora  d'accordo  con  coloro  che  avevano  maggior  autorità  nel 
conclave,  cercavano  di  mandare  a  vuoto  i  loro  suffragi  negli 
scratini  che  dovevano  tenere  ogni  giorno,  vale  a  dire  a  scom- 
partirli tra  i  più  dappoco.  Condulmieri,  il  più  dappoco  di  tutti, 
si  trovò  eletto  per  quella  stessa  ragione,  contro  Taltrui  aspet- 
tazione e  la  propria,  da  due  terzi  delle  voci.  Era  costui  vene- 
rano e  nipote  di  quel  Gregorio  Xll  che  dal  concilio  di  Costanza 
era  stato  obbligato  a  rinunciare  la  tiara.  Aveva  passata  gran 
parte  della  sua  vita  nella  povertà  in  abito  monastico  e  si  era 
mostrato  zelante  di  tutto  il  rigore  della  disciplina  claustrale. 
Pteno  di  fidanza  nel  proprio  ingegno,  Tinaspettato  suo  innalza* 
iDento  accrebbe  la  di  lui  presunzione.  Non  degnavasi  di  udire 
gli  altrui  consigli;  e  perchè  ninno  potesse  dargliene,  ogni  cosa 
fMseva  con  inconsiderata  prestezza.  Dopo  aver  presa  a  chiusi 
occhi  una  dannosa  risoluzione,  credeva  dar  prova  di  fermezza 
llndole  col  non  lasciarsene  smuovere,  e  per  tal  modo  offendeva 
l'amor  proprio  ed  i  diritti  dei  suoi  cortigiani  e  di  coloro  che 
trattavano  con  lui;  intanto  risguardava  ognuno  che  gli  si  oppo- 
nesse come  un  reo  da  punirsi  con  estremo  rigore.  Il  suo  innal- 
eamento  non  fu  cagione  di  gioia  ai  Romani,  ed  in  breve  il  suo 
{ovemamento  giustificò  gli  universali  sospetti.  Egli  si  fece  chia- 
nare  Eugenio  IV. 

In  sul  declinare  del  quindicesimo  secolo  furono  veduti  sc- 
lere sulla  cattedra  di  san  Pietro  alcuni  papi  la  di  coi  ripula- 
óone  è  talmente  screditata  che  gli  stessi  scrittori  ecclesiastici 
lon  hanno  por  tentato  di  difenderli.  Ma  Eugenio  IV  non  è  tra 
iostoro.  Per  quanto  sia  stato  pregiudizievole  il  suo  regno  per 
'autorità  della  Chiesa,  per  quanti  errori  egli  abbia  commessi 
Q  tempo  del  suo  pontificato,  gli  annali  della  corte  romana  hanno 
msso  a  giustificarlo,  scagliando  anatemi  contro  tutti  i  suoi  ne- 
Did  e  tenendo  per  giusto  in  ogni  contesa  il  partito  cui  egli  si 
itlome,  e  per  empio  quello  da  lui  riprovato.  Enea  Silvio,  che 


—  410  — 

darante  il  suo  vegùo  era  ambasciatore  di  Sigismondo  alla  santo 
sede,  e  che  più  tardi  sali  sai  trono  pontificio,  delineò  il  ritratto 
d'Eugenio  da  quel  profondo  politico  ch'egli  era  ;  eppure  non  Io 
incolpa  quasi  d'altro  difetto  che  di  leggerezza,  e  Egli  era  d'alto 
animo  » ,  dic'egli,  «  ma  il  suo  maggior  vizio  fu  di  non  serbare 
misura  in  alcuna  cosa  e  d'intraprendere  sempre  ciò  che  VGlen, 
non  ciò  che  poteva.  »  Il  Vespasiano,  contemporaneo  d'Eugenio 
e  scrittore  della  sua  vita,  lo  descrive  poco  meno  che  un  santo. 
Infatti  Eugenio,  osservatore  scrupoloso  di  tutte  le  discipline 
monastiche,  austerissimo  nelle  domestiche  consuetudini,  si  aste* 
neva  quasi  da  tutto  ciò  che  la  comune  degli  uomini  rìsguarda 
come  piaceri  ;  ma  egli  non  seppe  mai  porre  limite  alle  passioni 
oud'era  mosso  l'animo  suo,  a  tale  che  la  riverenza  del  gìura- 
niento  non  raffrenò  mai  la  sua  cupidigia. 

In  questi  tempi  io  cui  lo  stiamo  osservando ,  or  che  gli 
odii  di  parte  si  sono  spenti ,  che  i  pregiudizii  più  non  hanno 
impero,  e  che  i  papi,  del  pari  che  gli  altri  sovrani,  sono  parti- 
colarmente giudicati  a  seconda  delle  loro  pubbliche  azioni,  pare 
che  pochi  pontefici  siano  stati  meno  meritevoli  d'Eugenio  IV  di 
occupare  la  prima  sede  della  cristianità.  Nel  furore  delle  rivo- 
lozioni  in  cui  fu  ognora  involto,  nelle  guerre  col  suo  clero, 
co'  suoi  benefattori,  perfidi  quasi  sempre  o  malconsigliati  furono 
i  suoi  governi.  A  pochi  tiranni  si  possono  imputare  tanti  atti 
di  perfidia  e  di  crudeltà,  pochi  scimuniti  monarchi  hanno  date 
più  aperte  prove  di  dappocaggine  e  di  leggerezza.  Onde  nob 
si  può  comprendere  come,  avendo  egli  fin  dal  principio  del  suo 
regno  concitato  contro  di  sé  medesimo  e  contro  il  vacillante 
suo  trono  i  popoli,  i  prìncipi  e  gli  stessi  prelati,  abbia  cionon- 
dimeno potuto  reggere  per  tredici  anni  e  trionfare  quasi  sempre 
de'suoi  avversari,  dotati  di  maggior  virtù  e  di  più  singoiare  in- 
gegno. 

Le  credenze  religiose,  che  formavano  il  suo  sostegno,  con- 
servavano in  allora  sugli  spiriti  una  influenza  la  di  cui  natura 
ed  i  limiti  sembrano  inesplicabili.  Le  menti  erano  scevre,  al- 
meno rispetto  alla  maggior  parte  degli  uomini,  da  ogni  super- 
stizione, da  ogni  calore  di  opinione,  da  ogni  entusiasmo;  le  ere* 
denze  non  si  alteneano  ad  alcuna  idea  morale  né  reggeano 
contro  i  calcoli  d'interesse  privato,  ma  inspiravano  tuttavia  un 
abborrimento  invincibile  per  tutto  ciò  che  portava  il  nome  d'ere- 
tico 0  di  scismatico.  Gli  uomini  che  aveano  scosso  il  giogo 
^'ogni  legge  morale,  rotto  ogni  freno  alle  loro  passioni,  rinne- 


—  4&I  - 

mnie  BMiw  Ai  :<07i«^Kv  ^  it^ 

di  essi  a  aoelknte  poftdfe.  U  ^sf&tt  tùà^p»  M  \%^k^h\s 
pitriam  di  Alessudna.  cte  anìdhlwro  dorato  :$MiibniT^  )vi> 
odiose  a  molifo  deiTiIta  dignità  eoctesn^ticji  in  t»)i  ^i  ^a 
poslo.  taC  DOD  sontanviDo:  ohm  imi  fé  c^gtoM  di  ;fV4ii>^UK> 
il  tradimeoto  per  meoo  del  quale  il  pi|Mi  (^  ivhrv'  U  $ih^ 
vecchio  amico,  il  sao  accetto  nùDìslro.  Rì^Mi\biv»$i  f\w>o  uha 
legìttima  astuzia  ddia  politicai  ìotalsa  T  artificio  Ci>l  quAk>  il 
Piccliiuio  carpiva  al  papa  medesimo  quel  danai\>  con  cui  ta^Yva 
ribellare  gli  Stati  della  Clùesa:  e  riputatasi  dd  tviiri  oivsa  ^(hì\<^ 
naturale  che  papa  Eugenio  Tolesse  toglierti  la  Marta  dWnoona 
allo  Sforza,  benché  gliePaTesse  data  ^i  meiie.'^iuii^  i>  garonlUa 
con  mille  giuramenti;  che  più  non  pareva  obbliitalo  al  «uo  xM- 
fensore,  dacché  pia  non  aveva  bisogno  de'suol  st^rviiii.  .\vn^M>i> 
pure  agevolmente  trovalo  scusa  il  principe  o  U  prillalo  cho  sii 
fosse  alleato  coi  Turchi  e  cogli  eretici ,  purcbò  fatto  V  avoMo 
p^  suo  prò  e  non  senza  motivo.  Ma  coloro  ohe  ponovano  hI 
poco  freno  air  ambizione  ed  alle  passioni  politiche  fmnnvanit 
per  anco  al  solo  nome  degli  ussiti.  Essi  non  oanminnvnno  an 
la  loro  dottrina  fosse  contraria  ai  dogmi  primitivi  huI  quali  is 
fondata  Fumana  società  o  ai  doveri  verso  al  Crnaloro;  ImNlnvn 
loro  che  fosse  condannata  per  desiderarne  anlontoinnntn  Tniitlr- 
pazione  col  mezzo  del  ferro  e  del  fuoco.  Lo  scopo  dnlln  cro- 
ciate bandite  sotto  Eugenio  IV  nella  Sassonia  •  noi  Hmiiilnliur- 
ghese ,  neir  Austria  e  neir  Ungheria  non  tendnv» ,  corno  nnl 
dodicesimo  secolo,  a  soccorrere  i  fratelli  opproHHl,  rrin  mi  cmtnr* 
minare  i  dissidenti.  Non  volevasi  convertire  I  Dooinl,  imi  tra* 
sonarli  al  rogo.  Questa  brama  era  tuttora  un  dfjldorlo  \Hi\uh 
lare  appo  le  genti,  sopra  le  quali  poco  ornai  potiiva  la  ri)ll(;toriit. 
L'intera  cristianità  non  avea  allora  un  luilo  uomo«  mwwNin 
tra  i  più  vantati  filosofi ,  che  rìputaaii^j  le^^ila  caìm  al  cfUllaril 
il  convivere  coi  miscredenti  e  non  ^hhfftrinm  itnu\  t/ill^franxa. 
Air  imperio  dell' educazione ,  At'AV  i'.nm^Ah ,  tMìh  «MlfidMil 
radicate  da  imù  secoli,  ond'era  vietat/i  l^r^arM^  (iti/i  «ti/lo  (f/ir^l 
ragione  delle  strane  contraddizioni  uhUh  qnali  v^Uar/i//  /v^l#;r#f 
rintelletto  umano.  Non  conviene  %iU\\tii\n  il  n/iftlro  rn/i/i/i  /h 
ragionare  agii  uomini  dì  t\m'  »wAì ,  pfà^M  ^  vA^Mm  di  \mu 


—  4M  — 

altra  logica;  né  ricusar  di  credere  all'impero  delle  passioni  che 
regnavano  allora,  perchè  ci  sembra  impossibile  cbe  insieme  reg- 
gessero. La  storia  prova  par  troppo  evidentemente  che  il  tra^ 
mento  della  ragione  umana  non  ha  limile  quando  V  errore  si 
crede  fondato  dai  dettami  di  un'autorità  sopranaturale.  A 
quella  mescolanza  di  perfidia  e  di  fanatismo,  d'indifferenza  p^ 
le  leggi  deironestà,  e  di  zelo  per  la  fede,  i  crociati  d'Enrico  lY 
andarono  debitori  de'  loro  prosperi  avvenimenti  contro  gli  os- 
siti; per  distruggerli  e'  s'ingegnarono  di  dividerli,  d'ingannarne 
una  parte  con  false  promesse ,  di  arruolarli  sotto  le  loro  ban- 
diere, di  por  in  discordia  ed  in  guerra  gli  uni  contro  gli  altri. 
Ninno  degli  artifizi  più  condannati  dalla  più  corrotta  politica 
venne  omesso  dai  crociati  ;  e  quando  ebbero  ottenuto  l'intento 
loro,  credettero  di  rendere  gloria  a  Dio  distruggendo  gli  stm- 
menti  di  cui  si  erano  serviti.  «  In  fine  della  guerra ,  •  dice 
Coeleo  storico  de' crociati,  «  rimanevan  tuttavia  tra  le  mani  dei 
vincitori  molte  migliaia  di  prigionieri ,  che  Hainardo  di.  Gasa 
Nuova  voleva  distruggere  per  disperdere  quella  rea  schiatta. 
Ma  perchè  temeva  di  confondere  cogli  eretici  gl'innocenti  con- 
tadini, che  forse  erano  stati  forzatamente  arruolati,  fece  ban- 
dire tra  i  prigioni  che  la  guerra  non  era  ancora  terminata;  cbe 
Gzapchon  era  fuggito  ed  era  d'uopo  inseguirlo  ;  che  perciò  U 
capitano  abbisognava  di  que'  valorosi  soldati  che  avevano  mi- 
litalo sotto  i  due  Procopii,  nel  coraggio  e  nella  guerriera  espe- 
rienza de' quali  pienamente  fidava  ;  e  per  quest'  uopo  aveva 
fatto  assegnare  loro  un  soldo  dal  pubblico  fioche  il  regno 
fosse  perfettamente  tranquillo;  che  invitava  perciò  tutti  coloro 
che  volevano  acconciarsi  ai  novelli  servigi,  ad  entrare  nelle  aie 
vicine,  aperte  a  tale  motivo,  guardandosi  però  bene  dall' am- 
mettere in  loro  compagnia  contadini  non  usati  alle  armi;  i 
quali  era  l'obbligo  loro  di  rimandare  all'aratro.  Per  tale  bando 
molte  migliaia  di  taborili  e  di  orfanelli  entrarono  nelle  aie 
che,  secondo  l'uso  di  Boemia,  erano  tutte  coperte  di  stoppie. 
Or  appena  e'  vi  furono  entrati ,  si  chiusero  le  porte  e  vi  si 
appiccò  il  fuoco;  e  in  tal  modo  quella  feccia,  quel  rifiuto 
della  razza  umana ,  dopo  avere  commessi  tanti  delitti ,  pagò 
finalmente  tra  le  fiamme  la  pena  del  suo  disprezzo  per  la 
religione.  >  Tali  erano  nel  quindicesimo  secolo  gli  effetti  che 
destava  il  racconto  d'  una  perfidia  quando  n'  erano  vittima  gli 
eretici;  e  cosi  era  ancora  in  Italia  verso  la  metà  del  dicia- 
settesimo secolo.  Rainaldi ,  l' annalista  della  Chiesa ,  attenen- 


al  aasmto  del  Cocteo.  vi  ?^Qn(*f  ^ollumo  ch^  «  ifwi\r 
i  Aanune  bataantuip  {Hi  libiti  itali  fiMW^  lenwtnr  ^l- 


Fn  B  cupone  di  gnfsl'fnTore  por  opnì  Aiimr^i^nr  ml^im^ 
il  Me  cbe  Ja  lìfomiB  iiredimut  in  Rwmta  cMi  toni/^  for^rr 
spesso  Bcconqnpnata  da  mote  terAm.  non  i^Mv»  un  :v^l^f»n 
ire  iD  Udii  né  iene  mscere  il  mmoTno  dnhhfo  :fsni  smti  ^\ 
tli  d^  pipa  0  d^DB  Ghie»  di  coi  $i  Bpertn  vM^v^^  ]%  còr- 
moDe.  Per  1b  stessa  raffiane iro^altra  più  $tmta  riforma  ^prh 
Dùtita ,  die  il  cscvocUio  di  Basilea  intrapr^nilfva  vn^IIo  KtoKi^*^ 
mpo  ìd  seno  alla  orlodassia,  vmxìt  di^^approvata  :  Olio^  \ .  i^ho 
sr  ogni  ligmrào  era  mi^rlìor  nomo  di  Gn^iwito  I \\  (n  sì^ì^W 
Ito  come  antipapa,  e  il  portentoso  commoTim<^nt<>  «M)a  Ohii'^i^ 
I  tempo  di  questo  agìtatissimo  pontitlcato  non  n^ni1<^lto  h  W 
erta  agli  spiriti. 

Pare  die  nei  tempi  di  cui  descriviamo  la  storia  invalonso 
ella  Germania  una  madore  ìndiiìendonaa  \\\  opinione  oit  in 
ari  tempo  un  più  vero  telo  per  l  ^ntlmonli  rollDioM.  l^h^ 
ene  al  cmdiio  di  Basilea  fossimo  stali  chiamali  I  vo.soovt  o  l 
epatati  di  tutte  le  nazioni  cristiano,  lìon  pc^rl^inin  il  nno  rn 
ittere  ritraeva  da  quello  dei  prìndpl  o  doi  protali  ti^itonolil.  rlu* 
i  si  trovavano  in  numero  assai  maggioro,  o  vi  dominava  Iti  fk\\\ 
ito  popolare  della  nazione  frnmmeKfiO  iilln  (|imln  nra  nilnnnln 
otte  le  sue  deliberazioni,  tutti  I  suol  dncrnll,  innlgrnilii  li  rnr 
ore  del  bene,  della  libertà,  della  rollRlmin ,  nmtn  II  rrittrllln 
ra  animato,  indicano  pure  una  mancntiz»  di  pmniflinitn  ttnlln 
lee,  per  la  quale  era  impossibile  cho  quoirnAAninhlnn  KhiKtiniiflM 
lai  ad  una  utile  riforma.   Il  concilio  avea  npfirovato  rinl  l^^io 
Compactata  dei  Boemi  col  re  Slgismondr».  l'nr  II  hf^m  dolln 
ace,  e  perchè  Sigismondo  salir  \m\A%fUi  ani  trono  pntArri/t.  iirn^ì 
ì  qualche  modo  pattuito  d'ingannarci  a  vicenda,  di  rA^I|rror.?f 
dente  ammettere  una  nuova  professione  di  ìpA^,  )  t,uì  t^rroin) 
rano  cosi  vaghi  ed  oscuri  che  ognnno  jfKiteva  int^o'kifff  a  m/Kl/i 
QO  ;  cosicché  i  Br)em  1  pr>tessero  ornai  sernhr ar e  /^r ro'krssi .  t)  ) 
attolici  non  credersi  pi^  obbli^ti  in  ^/p^m^t^  a  f^r  Irrr^r  h 
uerra.  Sarebbe  stato  per  avventnra  sj»7ìo  /vonsijflKr  il  rWrr»o 
cere  per  cristiane  tntte  le  sAtle  le  rfoali,  /yvnsAniAf)do  iof^'^fn^i 
i  dogmi  foniiamentaii  del  cristianesimo ,    non  6ìtt<*f]A^fff  4i 
pinloni  che  in  cose  di  minore  importan^^  ;  ma  r  ^t^'nlnpfKir/^ 
m  amtMgne  par^Je  quelle  stesse  ^nistioni  rhe  for m?»v mo  l'^^- 
etto  della  d^uta,  l'indicare  ron  fermini  comoni  opinioni  'lìa 


metralmente  opposte ,  il  pretendere  di  andare  d' accordo  cod 
unia  professione  di  fede  intelligibile  intomo  a  qnello  da  che 
né  1*  una  né  l' altra  parte  voleva  dipartirsi,  egli  era  ana  stessa 
cosa  che  acconsentire  ad  ingannarsi  scambievolmente  e  man- 
care nello  stesso  tempo  di  buona  fede  cogli  uomini  e  col 
cielo. 

Questo  trattato,  sebbene  assai  difettoso,  fu  non  pertanto  il 
più  giudizioso  atto  del  concilio,  non  essendo  tutti  gli  altri  de- 
creti che  vane  declamazioni  contro  Tincontinenza,  contro  la  si- 
monia, contro  gli  errori  di  alcuni  oscuri  eretici.  Non  era  pos- 
sibile di  applicare  al  governo  della  Chiesa  massime  cosi  vagbe, 
né  di  sperare  un  risultamento  probabile  o  possibile  da  veruoo 
de'  suoi  decreti.  I  prelati  sinceramente  desideravano  la  riforma 
degli  abusi,  ma  non  volevano  dal  canto  loro  trovarsi  angustiati 
nella  propria  diocesi  rispetto  alla  libertà  e  airautorità,  e  perdo 
non  pensavano  a  stabilire  un  più  fermo  ordinamento,  col  quale 
soltanto  poteansi  reprimere  i  vizi  ch'ei  riprovavano. 

Il  concilio  più  accortamente  procedeva  nelPoppugnare  Tao- 
torità  pontificia  che  nel  porre  nuovi  ordini.  Per  menomare  la 
podestà  papale  e  sostituirvi  la  propria,  i  prelati  si  scagliarono 
successivamente  contro  le  annate,  le  collazioni  dei  benefizi,  le 
nuove  contribuzioni  e  tutte  le  altre  sorgenti  della  pontificia  ri^ 
chezza.  Denunciavano  le  une  dopo  le  altre  nelle  loro  grandi 
adunate  tutte  le  usurpazioni  della  corte  di  Roma,  per  le  quali 
ognuno  di  essi  aveva  riportato  alcun  danno.  Il  concilio  era  di- 
viso in  quattro  parlamenti  ossia  camere,  nelle  quali  i  suffragi 
dei  chierici  costituiti  in  grado  inferiore  sembrano  essere  stati 
tenuti  in  pari  conto  che  quelli  dei  prelati;  e  questa  mescolanza 
faceva-  in  esse  tutte  dominare  le  opinioni  democratiche.  Lo  spi- 
rito di  corpo  invalso  in  quelle  assemblee  fortiflcavasi  per  la 
persuasione  in  cui  erano  i  loro  membri  che  tutte  insieme  le 
loro  voci  erano  voce  dello  Spirito  Santo.  Perciò  niun  limite 
serbavano  nei  loro  ardimenti;  si  sforzavano  di  attribuire  al  cod- 
cilio  ogni  podestà  e  voleano  sottomettere  la  Chiesa  airautorilà 
popolare  della  loro  assemblea,  che  agli  occhi  loro  era  rautorità 
di  Dio.  Ogni  giorno  essi  toglievano  qualche  prerogativa  alla  santa 
sede  per  attribuirsela;  disputavano  in  pari  tempo  intorno  al 
merito  ed  alla  forma  di  tutte  le  questioni;  ogni  concessione  del 
papa  rendevali  più  arditi  a  tentare  una  qualche  nuova  usurpa- 
zione; insomma  la  tattica  loro  era  quella  stessa  delle  grandi  as- 
semblee legislative  che  furono  viste  cozzare  coi  re  nelle  ino* 


mrclue  £  coi  si  mob^  h  oostitoiioiie.  ATrebbero  iofailti  »n* 
ch'essi  mobb  b  oostitoiìoDe  delb  Chiesa ,  se  non  avessero 
spinta  tropp'oltre  b  propria  amhiiioDe.  Ma  i  padri  del  oondKo 
cedettero  afere  aotorib  dello  Spirito  Santo  per  gofernare  le 
podestà  temporali  egoalmeote  che  la  Chiesa  di  Dio;  Tollero  *brsi 
ailMtrì  de'  priDCi|M  delb  Germaoia  e  de'  re,  e  le  oi^gx)gliose  loro 
pretese  indìspettirooo  aib  fine  ranimo  <teirimperatore  Sìj^is- 
mondo  e  de'  loro  pia  zeboti  protettori. 

Sigismondo,  poich'ebbe  riaccesa  la  goerra  in  Boemia,  no» 
osservando  i  patti  ginrati  cogli  ussiti  prima  della  sua  incoro- 
nanone,  mori  rs  dicembre  del  1437.  Per  testamento  lasciò, 
quanto  era  in  lai,  erede  delle  sne  corone  Alberto  II  d'Anstria, 
soo  genero.  Era  questo  l'istante  in  cui  la  contesa  tra  il  con- 
cilio  ed  Eugenio  maggiormente  ardeva.  Eogenio,  che  temeva  lo 
spirito  indipendente  dei  Tedeschi  e  già  più  volte  aveva  cercato 
di  tradocare  il  concilio  per  istancare.i  padri  coi  viaggi  o  colle 
eccedenti  spese  e  costringerli  in  tal  maniera  a  tornarsene  vo- 
lontariamente a  casa,  aveva  acquistato  in  quel  tempo  un  inspe- 
rato ausiliario.  Era  questi  l'imperatore  dì  Costantinopoli ,  Gio- 
vanni VI  Paleologo ,  che ,  stretto  nella  sua  capitale  dalle  armi 
dei  Turehi  e  minacciato  dell'eccidio  imminente  della  greca  mo- 
narchia, veniva  a  chiedere  agli  occidentali  una  protezione  che 
b  Usantina  alterezza  aveva  lungamente  rifiatata.  Egli  si  sotto- 
metteva a  ridarsi  col  sao  clero  in  grembo  alla  romana  Chiesa, 
ad  abiurare  le  credenze  ed  i  riti  pei  quali  i  suoi  antenati  ave- 
vano sparso  tanto  sangue,  e  sperava  a  tale  prezzo  di  ottenere 
dai  Latini,  invocandoli  come  fratelli,  maggiori  soccorsi. 

Il  Paleologo,  pel  qaale  era  grande  sagrìflcio  il  piegarsi  alla 
credenza  degli  Occidentali,  sperava  assaìssimo  nella  gratiladine 
loro.  Nulla  poteva  essergli  più  amaro  quanto  runione  delle  due 
Chiese,  cosa  da  lai  sempre  giudicata  empia  e  sacrìlega,  e  latta- 
?ia  voleva  in  allora  indarvi  1  suoi  sudditi,  onde  ottenere  a  tale 
[Mezzo  una  poderosa  crociata  ;  ma  s'egli  avesse  preveduto  che 
si  poche  braccia  si  sarebbero  per  sua  difesa  armale  in  Occi- 
dente, non  sarebbesi  al  certo  condotto  a  tal  passo,  per  cui  ri- 
putava offeso  Tonor  suo  e  tradita  la  sua  coscienza.  Ha  a  quella 
dora  necessità  ed  alla  speranza  cedendo,  ei  volle  pure  serbare 
b  dignità  sua  ;  laonde  diflBcoltava  intorno  alle  condizioni.  Non 
voleva  recarsi  nelle  ignote  e  lontane  contrade  della  Germania  o 
delta  Francia,  dal  che  sarebbero  stati  anche  più  alleni  1  grcci^ 
prelati.  Sebbene  mosso  dalle  offerte  del  concilio  di  Oasllea  ed 

Tàmb.  Inquii.  Voi.  IL  ^4 


-  426  — 

incerto  tra  Faderìrsi  al  papa  od  al  codcìUo,  egli  protestò  che 
non  si  sarebbe  recato  a  Basilea;  e  rifiutò  pure  Avignone  e  lotte 
le  città  della  Savoia,  ove  i  prelati  del  concilio  avevano  offerto  di 
traslocarsi  per  incontrarlo.  Desiderava  particolarmente  di  pia- 
cere al  papa  e  di  careggiarlo,  perchè  sembravagli  che  il  papa 
fosse  tuttavia  il  dominatore  del  cristianesimo  ;  le  ricchezze  della 
corte  romana,  Testensione  degli  Stati  pontificii  e  la  loro  pros- 
simità alla  Grecia  più  accetta  e  preziosa  faceangli  T  alleanza 
d' Eugenio.  Questi ,  ben  conoscendo  dal  canto  suo  di  quanto 
vantaggio  sarebbe  stata  alia  propria  causa  Y  unione  de'  Greci, 
procurava  di  compiacere  air  imperatore  e  giunse  perfino  a 
proporre  di  adunare  in  Costantinopoli  il  progettato  concilio 
ecumenico  sotto  la  presidenza  di  un  suo  legato,  sperando  senza 
dubbio  di  sgomentare  in  tal  modo  i  vescovi  latini  e  di  scio- 
gliere il  concilio  di  Basilea.  1  padri  del  concilio  risguardavano 
pure  siccome  cosa  di  somma  importanza  V  unione  delle  due 
Chiese  e  trattavano  gli  ambasciatori  greci  con  maggiori  rigoardi 
che  Enrico  IV. 

Ma  il  timore  d' impedire  V  unione  della  Chiesa  greca  alla 
romana  non  valse  per  molto  tempo  a  frenare  T  indignazione 
sempre  crescente  del  concilio.  11  papa  era  stato  da  molto  tempo 
citato  a  Basilea,  e  non  avendo  ubbidito  alla  citazione,  il  con- 
cilio lo  dichiarò  contumace  nella  xxviii  sessione ,  il  1  ottobre 
del  1437.  Eugenio,  in  guest'  occasione,  dovette  la  sua  salvezza 
al  precipitato  e  indecoroso  procedere  dei  suoi  avversarli.  Gli 
ambasciatori  di  quasi  tutti  i  principi  alzarono  la  voce  contro 
una  risoluzione  che  non  avrebbe  mancato  di  strascinare  il  cri- 
stianesimo in  un  nuovo  scisma.  Il  papa,  prendendo  ardire  da 
questa  favorevole  disposizione  de'  sovrani ,  traslocò  di  propria 
autorità  il  concilio  a  Ferrara:  fuvvi  tra  i  padri  di  Basilea  un 
debole  partito  che  tenne  dalla  sua  ed  accondiscese  alla  trasla- 
zione per  un  decreto  fatto  in  nome  di  tutta  l'assemblea ,  laonde 
molti  de'  padri ,  abbandonato  il  concilio ,  vennero  a  Ferrara. 
L'apertura  del  nuovo  concilio  ebbe  luogo  PS  gennaio  del  1438. 
Non  vi  si  trovarono  da  bel  principio  che  cinque  arcivescovi, 
diciotto  vescovi  e  dieci  abati ,  quasi  tutti  sudditi  del  papa. 
Nonpertanto  l' imperatore  di  Costantinopoli  vi  si  recò  subito 
dopo  col  despota  della  Morea  suo  fratello,  col  patriarca  di 
Costantinopoli  e  con  venti  tra  arcivescovi  greci  ed  i  veri  o 
supposti  legati  degli  altri  patriarchi  dell'Oriente.  Venne  a 
presiederò  il  concilio  Eugenio  IV,  e  la  prima  sessione  dell'  as- 


-  «7  - 

semidei  delle  due  Cinese  fo  temibi  il  giorno  S  di  oUohro  ào\ 
1438. 

Io  questo  concilio  ìuliino  fnù  nnll»  rìm^isc  di  qn^\)o  ^* 
rito  dlodipendena  ond'en  sempre  uninuito  quello  di  liji.^iNi  ; 
chò  an»  i  prehti  di  Femn  non  si  niostnin>no  meno  x^bnll 
per  la  monarchia  deUa  Chiesa  di  quello  che  i  )vidri  di  liisik>a 
fossNX)  pel  governo  repubblicano  di  quella*  E$si  c^ìmlannarono 
il  concilio  de*  loro  avTersarii,  chiamandolo  un  conciliabolo,  pnv 
nunciarono  sentenza  di  scomunica  contro  gli  eccl^sìAslici  ad 
esso  aderenti,  contro  coloro  che  avrebbero  corrispondonxa  col 
medesimo,  contro  i  mercatanti  che  vi  portcrebb^^ro  vìHovarIIo, 
0  altra  cosa  necessaria  alla  vita ,  eccitando  insiomo  i  kMi  «i 
prendersi  gli  averi  di  questi  mercatanti,  valendosi  doirnuloril;\ 
evangelica, ;tis/t  tulerunt  spolia  impiomm.  D'altra  parlo  ogni  cuni 
di  riformare  la  Chiesa,  di  stabilire  giusti  confini  tra  raulorllA  (Inllu 
sede  romana  e  quella  de'  vescovi,  a  Ferrara  fu  abbandonala,  o  lu 
trattenuta  esclusivamente  la  grande  bisogna  doirnnlono  dollu  duo 
Chiese.  Le  quattro  quisUoni,  dell'uso  del  pano  sonxa  lievito,  ilnU 
Tautorità  del  papa,  del  purgatorio,  e  della  processione  dolio  Spi- 
rito Santo,  vennero  trattate  con  tutta  la  8otllgll(7«%n  vMn  può 
essere  adoperata  in  argomenti  cui  non  puA  agglugnoro  riirnanfi 
ragione.  11  concilio  fu  come  una  palestra  poi  teologi  AcoInHllcl  ; 
i  ^ù  riputati  uomini  della  Grecia  e  deir  Italia  vi  si  recnronn 
a  fare  sfoggio  di  erudizione  e  di  eloquenza.  I/nmorn  dolio  Int- 
iere si  era  riacceso  quasi  con  ardore  eguale  in  Oriento  od  in 
Occidente;  il  clero  greco  attendeva  allo  studio  disila  fllo»olh 
platonica,  non  ignorava  Tantichilà  e  cercava  d^irnitaro  yi',Uìi\mmn 
e  la  dialettica  deirantica  Accademia.  Bessarlono,  nmv(i<^'Aiyn  di 
Nicea,  che  fu  poi  cardinale,  recò  ai  lialini  mu  quella  s/fKìIo 
filosofia  un  gusto  più  puro,  un  metCKio  di  ragionare  \nii  wiffiWf 
coi  i  suoi  compatrioti  erano  giunti  i  primi  collo  Mndlo  d^llo 
lettere  istituito  sopra  pio  larghe  bn^l  II  f)efi.^arione,  onorilo  in 
Occidente  come  colui  che  si  era  re.v>  «tommament/;  iKsnem^rito 
delle  lettere,  ebbe  non  pertanto  la  taccia  di  ómtU^fp,  pr^.^so  ) 
suoi  fratelli  d'Oriente;  perché  si  lasciò  se/lnrre  (Mh  6ìì(u\U  e 
dalie  ricchezze  della  corte  4i  Koma,  ^^Up^fuUfttff  il  p^r tib?  ^l^/^rioff 
ed  alla  di  lui  liiserzione  tenne  dietro  la  s^mme^sion^.  ri^ii^ 
Chiesa  greca.  Perciocché;  e<i^eri/Jo  venula»  a  w^iflA  il  ih  (ririsrr»^ 
del  I43Ó  il  patriarca  A  CrjHtantinopoK ,  e  totti  i  v^.v/>vì  thfi 
ravefano  seguilo  essendo  slati  privati  della  tenne  provv'Ki^ine 
loro  promeaaa  onde  vincermi  r  animo  coda  captività  e  «wll^ 


—  418—. 

tniseria ,  eglino  s' indosserò  finalmente  a  dare  il  loro  asseoso 
alPunione.  In  questo  mezzo,  a  motivo  della  peste  oppiata  in 
Ferrara,  il  concilio  fa  traslocato  a  Firenze,  nella  coi  cattedrale 
fa  bandita,  il  6  luglio  del  1439,  nella  xxv  sessione,  V  anione 
dei  Greci  e  dei  Latini.  Sebbene  la  maggiore  parte  della  Chiesa 
greca  abbia  in  appresso  rinnegata  questa  riconciliazione ,  essa 
è  riconosciuta  ancora  nelfetà  presente  dalla  piccola  congrega- 
zione che  porta  il  nome  di  greci  uniti. 

In  conseguenza  di  tale  unione  il  papa  promise  ai  Greci  in 
nome  dei  Latini  una  flótta ,  un  esercito  e  aiuti  per  difendere 
Costantinopoli,  quando  i  Turchi  ne  imprendessero  l'assedio.  A 
conto  di  futuro  sussidio,  Eugenio  IV  fece  pagare  dai  Medici, 
banchieri  della  santa  sede,  dodicimila  fiorini  alla  guardia  del- 
rimperatore.  Le  spese  di  viaggio  del  Paleologo  e  de'  suoi  pre- 
lati erano  state  in  gran  parte  pagate  coi  donativi  delfe  citti  e 
d^i  principi  da  cui  erano  stati  ospitati.  Pure  la  condiscendenza 
dei  Greci  e  la  lunga  loro  lontananza  dalla  patria  non  dbbero 
per  essi,  generalmente  parlando ,  che  i  più  meschini  rìsolta- 
menti:  il  solo  Eugenio  n'ebbe  vantaggio.  Imperciocché  egli 
godette  dappoi  di  assai  migliore  estimazione,  e  i  suoi  aderenti 
ne  presero  argomento  di  farlo  credere  continuamente  intento 
alla  pacificazione  della  Chiesa,  intanto  che,  a  detta  di  loro ,  il 
concilio  di  Basilea  non  tendeva  che  a  dividerla.  Nulla  trascorò 
il  papa  di  quanto  potesse  contribuire  ad  accrescere  questa 
nuova  gloria.  Dopo  che  i  greci  non  meno  che  la  maggior  parte  dei 
prelati  latini,  ebbero  abbandonato  il  concilio  di  Firenze ,  Eu- 
genio ne  trasferì  a  Roma  le  poche  reliquie,  ed  in  quest'ombra 
di  concilio  ecumenico  ammise  le  supposte  deputazioni  degli 
Etìopi,  de'  Siri,  de'  Caldei,  de'  Maroniti  ;  conchiuse  con  questi 
disertori  di  quelle  sètte  nuovi  trattati  d'unione,  di  cui  le  Chiese 
loro  mai  non  ebbero  notizia,  ed  in  tal  modo  compi  apparente- 
mente la  pacificazione  dell'Oriente. 

D'altra  parte  il  concilio  di  Basilea ,  abbandonato  da  una 
parte  de'  suoi  partigiani,  ma  sempre  frequentato  dai  vescovi  di 
tutte  le  contrade  della  cristianità  e  sempre  riconosciuto  dalla 
Germania,  dalla  Francia,  dalla  Spagna  e  dall'alta  Italia ,  elesse 
finalmente  per  papa  il  5  novembre  del  1439,  sotto  nome  di 
Felice  V,  Amedeo  VIII  di  Savoia,  che  in  allora,  deposto  il  prin- 
cipato, era  decano  dei  cavalieri  di  san  Maurizio  di  Ripaglia. 
Questo  principe  che  infioo  allora  aveva  goduto  riputazione  di 
uomo  prudente ,  e  che ,  stanco  delle  cure  del  governo ,  aveva 


—  4»  — 

nel  1434  cedala  la  signorìa  de'  saoi  Stati  al  suo  figlioolo  mag- 
^ore»  Laigi  prìocipe  di  Piemonte,  accettò  la  dignità  conferitagli 
dal  concilio  che  lo  chiamava  negli  estremi  suoi  giorni  a  più 
cocenti  cure  che  non  erano  state  quelle  del  trono  che  aveva 
abdicato*  £i  tenne  la  sede  ora  a  Rasiiea,  ora  a  Losanna,  ora  a 
Ginevra  con  una  immagine  della  corte  di  Roma ,  da  lui  com- 
posta ,  in  quattro  promozioni ,  di  ventiquattro  cardinali.  I  due 
coucilii  e  i  due  papi  continuarono  per  alcuni  anni  a  fulminarsi 
a  vicenda  colle  scomuniche,  e  le  due  parti  della  Chiesa  a  dif- 
^marsi  reciprocamente  colle  più  oltraggiose  e  calunniose  im- 
putazioni. Questi  scandali  furono  trasmessi  ai  futuri  secoli  non 
per  mezzo  di  libelli,  ma  nelle  dichiarazioni  infallibili  de'concilii 
e  de'  papi. 

Eugenio  IV  non  doveva  pensare  soltanto  a  difendere  la  sua 
podestà  spirituale  degoziando  coi  Grecite  combattendo  contro 
il  concilio,  ma  ancora  i  suoi  temporali  domimi ,  i  quali  erano 
qualmente  pericolanti  per  le  guerre  delle  quali  non  concede- 
vagli  iUndole  sua  irrequieta  di  rimanersi.  Abbiamo  osservato 
come  nella  guerra  della  Lombardia  egli  fosse  operoso  alleato 
delle  Repubbliche  di  Venezia  e  di  Firenze  :  egli  prese  parte 
ancora  nella  guerra  di  Napoli,  ma  con  minore  fervore ,  e  sic- 
come aveva  abbracciato  la  parte  angoina ,  trovossi  in  pericolo 
a  caa3a  dei  rovesci  di  questo  partito,  ch'egli  aveva  male  asse- 
condato. 

Alfonso  d'Aragona,  che  combatteva  pel  regno  di  Napoli  con 
fianierì  d'Angiò,  non  aveva  avuto  per  lungo  tempo  altro  ne- 
mico a  fronte  che  la  moglie  del  suo  emulo,  Isabella  di  Lorena. 
Essa  era  venuta  Napoli  nel  1435  con  Luigi ,  suo  figliuolo  se- 
condogeoito  ;  dotata  siccome  ella  era  di  saviezza  e  di  virtù,  si 
rendette  cara  agli  antichi  partigiani  della  casa  d'Angiò ,  e  di 
conserva  con  loro  sostenne  per  ben  tre  anni  una  lotta  disu- 
guale, finché  lo  sposo  venne  a  raggiungeria.  Ranieri  approdò 
a  Napoli  il  19  maggio  del  1438.  Ma  siccome,  per  ricuperare  la 
libertà,  aveva  dovuto  pagare  una  grossissima  taglia,  i  suoi  te- 
sori erano  esausti  ;  egli  non  recava  né  sussidi!  né  truppe  in 
nn  regno  minato  le  di  cui  entrate  erano  divorate  dai  faziosi. 
I  suoi  aderenti ,  vinti  non  meno  dalla  dolcezza  e  dalla  bontà 
dell'indole  sua  che  dal  suo  coraggio,  avevano  da  principio  ado- 
perato per  lui  con  fervido  zelo;  ma  poiché  si  avvidero  che  ad 
esA  soli  toccava  di  fare  tutto  per  lui,  il  loro  zelo  venne  meno, 
«  le  sue  cose  andarono  sempre  più  declinando.  Nella  Calabria 


—  Mo- 
gli era  stata  tolta  GoseDsfa  per  tradimento,  e  tutta  la  provincia 
segai  r  esempio  della  capftale  e  si  sottomise  ad  Alfonso.  Neil» 
Puglia  Giovanni  Antonio  Orsini ,  principe  di  Taranto ,  trasse 
alla  ubbidienza  dell'Aragonese  quasi  tntte  le  città,  tranne  Man* 
fredonia  ed  alcuni  castelli  in  cui  teneva  guarnigione  Francesco 
Sforza  :  negli  Abruzzi  la  sola  città  d'Aquila  mantenevasi  fedele 
a  Ranieri,  coi  luoghi  di  confine  della  Marca  d'Ancona,  pos- 
seduti pure  dallo  Sforza. 

Giacomo  Caldera  o  Candela,  duca  di  Bari  e  il  più  ferma 
sostegno  pel  partito  d'Angiò,  era  morto  il  18  novembre  del  1439. 

Antonio,  figliuolo  di  lui  e  succedutogli  nel  comando  delle' 
armi  e  dei  ducato  di  Bari,  era  meno  del  padre  afifezionato  agli 
Angioini,  o  meno  disposto  ad  ubbidire  ad  un  re  che  non  po- 
teva pagarlo,  e  cadde  in  sospetto  a  Ranieri.  Questi  volle  toglier- 
gli il  comando  dell'esercito,  e  perdette  Fesercito  stesso  col  suo 
generale,  che  nell'estate  del  1440  passò  ai  servigi  dell'Arago- 
nese. Più  non  rimaneva  nella  Campania  al  principe  francese 
che  la  città  di  Napoli,  e  questa  pure  era  assediata  e  mancante 
di  vettovaglie.  Tanto  nei  regno  che  fuori  non  vi  era  esercito  a 
principe  che  potessero  arrecagli  soccorso. 

Alfonso  credette  essere  giunto  il  momento  favorevole  db 
chiudere  per  sempre  l'ingresso  del  regno  al  solo  alleato  che 
avesse  Ranieri,  e  cercò  d' impadronirsi  per  sorpresa  di  tutto- 
ciò  che  lo  Sforza  possedeva  nella  monarchia  siciliana.  Questi, 
intento  in  allora  alle  guerre  di  Lombardia,  aveva  lasciate  poche 
truppe  nei  varii  feudi  redati  dal  padre.  Egli  era  afifezionato  af 
re  Ranieri  e  nemico  d'Alfonso,  contro  il  quale  egli  e  il  vecchio 
Sforza  avevano  lungamente  combattuto  ;  ma  prima  di  partirsi- 
dal  regno  aveva  pattuita  con  Alfonso  una  tregua  di  dieci  anni, 
in  forza  della  quale  le  città  da  lui  occupate  erano  state  dichia- 
rate neutrali  ed  i  loro  mercati  egualmente  aperti  alle  due  fa- 
zioni. I  Napoletani,  chiusi  di  stretto  assedio  da  Alfonso,  appro- 
fittavano di  siffatta  neutralità  per  trarre  le  vettovaglie  da  Bene- 
vento; e  questo  fu  il  fatale  pretesto  di  cui  si  valse  il  re  d'Aragona 
per  rompere  il  trattato  ed  assalire  all'impensata  questa  città,  di 
cui  impadronissi  in  sul  finire  del  1440.  Approfittando  egli  po- 
scia dei  primi  vantaggi,  occupò  in  pochi  giorni,  per  accordo  o 
per  forza,  tutti  i  castelli  del  vicinato  e  tutto  quanto  possedeva 
nella  Campania  Francesco  Sforza.  In  principio  del  susseguente 
anno  fece  muovere  i  suoi  luogotenenti  contro  i  feudi  che  lo 
Sforza  aveva  negli  Abruzzi ,  e  andò  egli  stesso  ad  assedfàre 
Troia. 


—  451  — 

Francesco  Sfona,  che  slava  io  allora  ai  servìgi  dei  Vene- 
wni,  era  abbastanza  occupato  nel  far  testa  al  Piccinino.  Non- 
pertanto mandò  pel  mare  Adriatico  due  de'suoi  luogotenenti  t 
Cesare  Martinengo  e  Vittore  Rangone,  a  difendere  il  suo  rotag- 
gio.  La  cavalleria  che  questi  condocevano  approdò  a  Manfre- 
donia ove  le  si  rannodarono  i  partigiani  pugliesi  di  llanieri:  oi 
-s'avanzarono  poscia  verso  Troia  per  costringere  Alfonso  n  le- 
game Tassodio;  ma  questi  mosse  ad  incontrare. i  due  capitani, 
li  ruppe  e  disperse  intieramente  le  loro  poche  schiere.  Ales- 
sandro Sforza,  fratello  del  conte  Francesco  e  suo  luogotencnlo 
nella  Blarca  d'Ancona ,  più  fortunato  contro  Raimondo  di  Cai- 
dora  che  comandava  gli  Aragonesi  negli  Abruzzi:  ei  lo  sconllsso 
e  prese  con  circa  cinquecento  cavalli;  scacciò  dalla  provincia  il 
rimanente  della  truppa  di  lui,  ma  non  cercò  d'inseguirla  e  di 
approfittare,  della  sua  vittoria. 

Il  cardinale  di  Taranto,  mandato  da  Eugenio  IV,  entrò 
pure  con  un  esercito  di  diecimila  uomini  nel  contado  d'Albi 
nell'Abruzzo  ulteriore  per  sostenere  il  partito  di  Ranieri  ;  ma 
dopo  una  breve  stagione  campale,  che  non  venne  illustrala  da 
veran'impresa  importante,  fece  tregua  con  Alfonso  e  rientrò  nel 
territorio  della  Chiesa.  Vedendo  il  re  d'Aragona  che  gli  sforzi 
de'  suoi  nemici  erano  impotenti,  ricondusse  i  suoi  'soldati  sotto 
Napoli  e  la  strinse  in  modo  che  le  vittovaglie  salirono  ben  tosto 
a  carissimo  prezzo.  Il  re  Raineri  faceva  dispensare  sei  once  di 
pane  ai  soldati  ed  agli  abitanti  il  giorno  che  facevafio  la  guardia, 
e  tutti  gli  altri  erano  ridotti  a  pascersi  di  erbaggi  o  di  animali 
ioimoDdi  e  schifosi.  Nondimeno  così  accetto  erasi  reso  ai  NaiMi* 
letahi  e  di  si  buon  cuore  partecipava  degli  stenti  e  dei  fiericoH 
comuni,  che  il  popolo  non  moveva  alcuna  lagnanza  e  sopfior- 
tava  per  amore  suo  i  |Hh  grandi  patimenti.  Ma  tutta  la  speranza 
degli  assediati  fondavasi  sol  conte  Sforza  ;  sa(>evano  essi  che 
dopo  la  pace  di  Lombardia  questo  generale  capitanava  ttu  flo« 
fente  esercito,  che  si  era  arricchito  coi  tesori  d^;llo  SMr>/>;ro,  e 
che  niente  ornai  lo  riteneva  in  Lombardia.  Ranieri  lo  sc^>ri(fifi' 
rava  d' affrettarsi  a  salvare  un  amico  dall'  estrema  mina  itA  a 
vendicarsi  di  un  nemico  che  lo  aveva  assaliti)  senza  CHK^^e 
stato  {Mt>vocato.  Infatti  lo  Sforza^  mosso  da  giut^to  vlegno  fier 
la  ricevuta  ingioria,  si  pose  in  cammino  in  princìpio  dì  gennai/i 
del  4442  per  recarsi  a  confennare  oelfabbidieriza  il  prÌMifiato 
della  Marca  ed  a  difeodere  o  riC4mqQÌJilare  i  sooi  Usiiói  ererJi' 
tari!  del  regno  di  Napoli 


-  45J  — 

Un  avversario  cosi  formidabile  potea  qd'  altra*  volta  eam- 
biare la  sorte  della  guerra.  Alfonso,  avvisato  dal  suo  imminente* 
arrivo,  supplicò  di  soccorso  il  duca  di  Milano:  gli  fece  sapere 
eh'  era  in  procinto  di  perdere  una  conquista  che  ornai  credea 
sicura;  gli  mandava  dicendo  essere  a  lui  solo  debitore  dell» 
corona:  per  terminare  quest'  opera  altro  più  non  rimanere  a 
farsi  che  tenere  lo  Sforza  fuori  del  regno  finché  Napoli  ^  fosse 
arresa,  ed  in  allora  la  sua  riconoscenza  per  cosi  grande  benes- 
sere non  sarebbe  più  stata  impotente. 

È  verisimile  che,  iielP istante  in  cui  Filippo  Maria  si  en 
rappattumato  collo  Sforza  e  gli  avea  data  in  isposa  la  figlinola, 
avrebbe  potuto  sulPanimo  di  lui  tanto  da  indurlo  a  rimanersi 
inoperoso,  almen  qualora  gli  avesse  guarentiti  o  fatti  restituire 
i  feudi  toltigli  da  Alfonso.  Ma  il  duca  di  Milano  non  voleva  mai 
conseguire  i  suoi  fini  che  per  mezzo  di  raggiri;  egli  era  sma- 
nioso e  gratuitamente  smanioso  per  gP  inganni,  e  preferì  di 
mandare  in  rovina  il  genero  e  la  figliuola  piuttosto  che  cercare 
dMndurre  il  primo  ad  accondiscendere  a' suoi  desiderio  Forse 
la  morte  di  Nicolò  marchese  d'Este,  accaduta  il  26  dicembre 
del  1441,  contribuì  ad  intiepidire  il  Visconti  intorno  ad  on 
parentado  trattato  dal  marchese.  Nicolò,  uno  de' più  accorti 
prìncipi  che  abbia  annoverati  T  illustre  famiglia  d'Este,  di  tanto 
credito  godeva  appo  il  Visconti  che  questi  lo  aveva  indotto  a 
porre  la  sua  stanza  in  Milano,  ove  andò  di  fatto  a  starsi  il  5 
aprile  1441,  e  ve  lo  avea  trattenuto  come  suo  confidente,  amico 
e  consigliere  ;  onde  spargevasi  voce  che  sarebbe  stato  istituito 
erede  dei  duca.  La  morte  di  Nicolò,  per  la  quale  gli  Stati  di 
Ferrara  e  di  Modena  caddero  in  successione  al  suo  figliuolo 
naturale  Lionello,  uno  de'  grandi  protettori  delle  lettere  e  delle 
arti,  venne  attribuita  a  veleno  datogli,  siccome  si  vuole,  da'  suoi 
emuli  nella  corte  di  Milano.  Perduto  un  tanto  consigliere,  Filippo 
accostossi  di  nuovo  a  coloro  che  godevano  per  lo  innanzi  il  suo 
favore,  ed  in  particolare  a  Nicolò  Piccinino;  ordinò  a  questo 
generale  di  assoldare  la  maggior  parte  de'  corazzieri  che  i  Vene- 
ziani aveano  licenziati  dopo  la  pace  e  di  avviarsi  a  Bologna. 
Nello  stesso  tempo  scrisse  ad  Eugenio  IV  ch'era  giunto  final- 
mente per  lui  il  tempo  di  ricuperare  la  Marca  d'Ancona,  la  quale 
pentivasi  pur  tanto  di  aver  data  in  feudo  allo  Sforza,  e  gli  offriva 
per  riconquistaria  le  truppe  del  Piccinino,  pagate  per  tutto  il 
tempo  che  durerebbe  la  guerra;; 

Pochi  mesi  prima  lo  Sforza  comandava  le  truppe  della  l^a» 


—  45S  — 

^  coi  eia  pvle  anche  il  papa;  dappoi  lo  Sfona  era  stato  ricnv 
Doscioto  da  Eageoio  per  arbitro  oeir  ultimo  trattato  di  pace  : 
finalmente  in  qoeslo  stesso. ponto  egli  accorreva  in  ajnto  di  uu 
alleato  della  corte  di  Roma  ài  già  ridotto  alle  ultime  angustie: 
ma  nò  la  riconoscenza  né  i  gioramenti  potevano  tenere  a  freno 
Tàmbizione  d'Eugenio.  Egli  accettò  la  proposta  del  duca  di 
Milaho;  consenti  senza  scrupolo  alla  rovina  di  Ranieri  «  nella 
cni  salvezza  poco  prima  egli  credeva  riposta  la  guarenzia  della 
indipendenza  della  santa  sede;  nominò  il  Piccinino  gonfaloniero 
della  Chiesa  e,  senza  dichiarazione  di  guerra,  anzi  protestando 
di  volere  e  bramare  la  pace,  gli  dette  autorità  d*  impadronirsi 
all'improvviso  di  Todi  e  di  assediare  Assisi. 

Lo  Sforza,  trattenuto  nella  Marca  da  cosi  inaspettate  osti- 
lità, abbandonò  il  progetto  di  soccorrere  la  casa  d'Angiò.  per 
far  testa  al  Piccinino.  Intanto  il  caso  favoriva  Alfonso  a  Napoli. 
Un  moratore,  cacciato  per  la  fame  fuori  di  Napoli,  indicò  al  re 
d'Aragona  i  giri  e  T  uscita  di  un  acquedotto  abbandonato,  |)ej 
quale  Belisario  era  entrato  un  tempo  nella  città.  Credevano  ((li 
assediati  bastantemente  chiuso  quel  passo  con  uno  steccato  od 
avevano  trascurato  di  porre  una  guardia  in  quei  luoghi  umidi 
ed  oscuri.  Il  muratore  condusse  il  2  giugno  del  144S  dugonto 
soldati  aragonesi  per  quell'acquedotto  fino  ad  una  torre  cui 
faceva  capo.  Nello  stesso  tempo  Alfonso  fece  dare  Tassnllo  allo 
mura  per  distrarre  gli  assediali;  e  malgrado  la  valorosa  resistenza 
di  Ranieri,  gli  Aragonesi  entrarono  in  città  per  due  diverso 
parti.  È  tuttavia  probabile  ch'ei  sarebbero  stali  respinli  so  uno 
di  loro  non  fosse  stato  veduto  nelle  vie  di  Napoli  inonL-ilo  sul 
cavallo  di  un  corazziere  napoletano  da  lui  ucciso.  A  tale  visbi 
fu  nniversalmente  creduto  che  una  porta  della  città  fosse  stata 
occupata  dal  nemico,  poiché  v'era  entrata  la  stessa  cavalleria; 
ed  in  allora  più  non  fu  possibile  di  trattenere  i  Napoletani  (latin 
fuga.  Ranieri,  strascinato  dai  fuggitivi,  si  chiuse  in  Castelnuovo; 
la  città  venne  saccheggiata  per  alcuno  ore:  ma  Alfonso  essen- 
dovi entrato,  vi  pose  buon  ordine  ed  accolse  umanamente  lultit 
gli  abitanti.  Le  fortezze  di  Capuano  e  di  Capo  di  Monte  si  arre- 
sero dopo  poco  giorni,  quelle  di  Castelnuovo  e  di  Sant^Elmor 
tennero  ancora  qualche  tempo  per  Ranieri.  Ma  questi  non  vi  si* 
volle  rinchiudere;  egli  s' imbarcò  per  recarsi  da  prima  a  Firenziv 
poi  a  Marsiglia,  ed  in  sui  finire  dell'anno,  perduta  la  speniriz;! 
di  ricuperare  il  regno  di  Napoli,  fece  dare  ad  Alfonso  Ui  forto/x^f 
cbe  tenevano  ancora  per  lui,  onde  non  prolungare  irmUlm^'iilo 

Tamb.  Inquis.  Voi.  II.  y*i 


—  454  — 

i  mali  di  un  popolo  che  gU  aveva  mostrato  tanto  amore  e  tanta 
fedeltà. 

Frattanto  continnavasi  la  guerra  nella  Marca  d'Ancona,  seb- 
bene  i  Fiorentini,  che  risgdardavano  la  salvezza  degli  Stati  del 
conte  Sforza  come  la  gnarenzia  della  loro  propria  in^pendenza. 
cercassero»  di  conserva  coi  Veneziani,  ogni  modo  per  ristabilire 
la  pace. 

Bernardo  de'Medici  erasi  recato  in  loro  nome  ai  due  eser- 
citi per  essere  mecUatore  di  pace  e  due  volte  avea  indotto  il 
pontefice  ed  il  Piccinino  ad  acconsentirvi.  Ma  appena  lo  Sforza, 
fidando  nei  loro  giuramenti,  prendeva  la  strada  del  Tronto  per 
entrare  nel  regno  di  Napoli,  il  papa  o  i  suoi  legati  proscic^lie- 
vano  il  Piccinino  dair  osservanza  «dei  patti  giurati,  valradosi 
della  massima,  che  nessun  trattato  svantaggioso  atta  Chiesa  è 
valido;  e  il  Piccinino  ricominciava  la  jguerra.  La  prima  volta, 
abusando  la  fidanza  dello  Sforza,  prese  con  repentino  assalto 
fa  città  di  TolentiQo,  la  seconda  cinse  d'assedio  Assisi  II  si- 
gnore della  Marca,  impedito  in  tutti  i  suoi  progetti,  perdea  le 
sue  truppe  alla  s[HCCiolata  ;  tutte  le  bande  comandato  dai  suoi 
capitani  o  da'  suoi  fratelli,  Giovanni  ed  Alessandro,  erano  state 
runa  dopo  Taltra  sconfitte.  Assisi  fu  presa,  ed.il  nemico  vi  entrò 
per  un  acquedotto,  come  pochi  mesi  prima  era  entrato  in  Na- 
poli. Tre  luogotenenti  dello  Sforza,  Manno  Barile,  Cesare  Mar- 
tinengo  e  Vittore  Rangone,  tenendo  le  cose  sue  per  di^^rate, 
si  erano  condotti  al  soldo  del  re  Alfonso.  Questi  sottomise  in 
poco  tempo  tutto  ciò  che  negli  Abruzzi  ed  anche  nella  Puglia 
rimaneva  tuttavia  fedele  a  Ranieri  ed  allo  Sforza.  Aquila  gli 
aprì  le  porte,  Manfredonia  e  Troia  si  arresero  vedendolo  muo- 
vere alla  loro  volta,  e,  prima  che  Tanno  volgesse  al  termine,  Fran- 
cesco Sforza  più  non  conservava  un  solo  feudo  di  quanti  suo 
padre  ne  aveva  acquistati  nel  regno  di  Napoli  con  tante  fatiche 
e  tante  vittorie. 

Ben  poteva  restare  a  Ranieri  d'Angiò  qualche  speranza  di 
risalire  sul  trono  di  Napoli  finché  il  valoroso  condottiero  che 
teneva  per  lui  era  padrone  dei  paesi  degli  AbruKzile  della  Pu- 
glia ;  m9  la  ruina  di  Francesco  Sforza  consumava  quella  degli 
Angioini,  e  Ranieri  dovette  infatti  difierire,  fin  dopo  la  morte 
del  suo  avversario,  ogni  tentativo  per  rientrare  nel  regno  a  cui 
credeva  di  avere  incontrastabile  diritto.  Egli  si  era  tenuto  si- 
curo dell'alleanza  del  papa  ;  i  loro  trattati  erano  stati  confermati 
4la-  tutte  le  dimostrazioni  d'amicizia  che  mai  possono  darsi  i 


—  455  — 

prìncipi  e  dalla  goarenzia  ancora  più  grande  del  yicendeyole 
vantaggio:  e  non  per  tanto  Eugenio  lY  era  il  vero  artefice  della 
mina  dell'Angioino.  Assoldando  il  Piccinino  e  muovendo  guerra 
allo  Sforza  in  onta  alla  giurata  pace,  Eugenio  aveva  tronca  a 
Ranieri  la  sola  speranza  di  salute  che  gli  rimanesse  e  toltagli 
di  capo  la  corona.  Il  principe  fuggitivo,  prima  di  abbandonare 
ritalia,  desiderando  almeno  di  rimproverare  di. tale  perfidia  il 
suo  imprudente  alleato,  venne  per  bgnarsene  a  Firenze,  ove 
trovava^  in  allora  la  corte  pontificia;  né  gli  fu  difficile  il  di- 
mostrare ad  Eugenio  che  la  guerra  mossa  contro  il  suo  difen- 
sore avea  accresciuta  la  miseria  de'suoi  fedeli  partigiani,  che 
con  Ini  sostenevano  Tassodio  di  Napoli.  Ha  Ranieri,  privo  di 
r^[no  e  di  eserciti,  non  osò  alzare  troppo  la  voce  per  far  le  sue 
d(^lianze  ;  si  mostrò  pago  deiraflTetto  che  tuttavia  gli  mostrava 
la  corte  pontificia  e  accettò  dal  papa  con  riconoscenza  Tinve- 
sfitoia  éA  perduti  Stati  :  perdocchè  Eugenio  IV,  quasi  riparare 
volasse  U  commesso  errore^  pose  in  capo  a  Ranieri,  con  soLeone 
cerimonia  ed  in  nome  della  Chiesa,  la  corona  del  regno  nel 
punto  slesso  che  questo  prindpe  era  costretto  ad  abbandonarlo. 


CAPITOLO  XVIII. 


LÌTÌ«  Andreani. 


Circa  jairanno  in  cui  trovasi  la  nostra  storia ,  istitaitosi 
anche  in  Pisa  il  tribunale  del  Sant'Uffizio,  si  mietOTano  vittime 
dal  medesimo  e  s'innalzavano  roghi  al  pari  che  in  tutte  le  altre 
città  d'Italia  ove  l'eresia,  il  sortilegio,  la  bestemmia,  come  ab- 
biamo veduto,  erano  perseguitati.  Né  qui  possiamo  intralasciare 
di  rilevare  un  fatto,  non  ci  essendo  possibile  dire  dettagliata- 
mente di  tutti,  che  valga  a  mostrarci  la  ferocità  colla  quale 
avviluppossi  la  nefasta  istituzione,  vogliam  dire  la  storia  della 
celebre  Livia  Andreani  e  dello  sventurato  suo  marito.  Livia  da 
giovinetta  avea  impalmato  certo  Andreani,  che  non  essendo  né 
sciocco  né  imbecille,  mal  tollerava  gli  abusi  che  un  di  più  che 
l'altro  andavansi  dal  tribunale  dell'Inquisizione  commettendo; 
per  il  che  ne'  crocchi  cogli  amici  ne  andava  biasimando  giu- 
stamente il  rigore,  non  senza  pungere  con  qualche  arguto  epi- 
gramma od  un  frate  o  l'altro  che  a  queir  ufficio  intendevano. 

Non  tardarono  i  frati  a  risapere  i  discorsi  dell' Andreani, 
coi  quali  talvolta  svegliava  Y  ilarità  nelle  brigate,  e  lo  fecero  a 
sé  chiamare;  ammonitolo  a  desistere  dal  più  oltre  offendere  con 
indecorose  parole  la  maestà  del  Sant'Uffizio,  lo  licenziarono 
sotto  comminatoria  di  farlo  agguantare  dai  berrovieri  dell'Inqui- 
sizione. Ma  poco  0  nulla  fecero  breccia  sull'apimo  dell' An- 
dreani le  minacce  deir  Inquisizione,  e  continuò  nel  satirizzare  gli 
inquisitori  ed  i  preti  :  mollo  più  che  esisteva  in  allora  uno  sci- 
sma nella  Chiesa,  il  qual  porgeva  esca  ai  malevoli  di  censurare 
la  condotta  de'pretì,  de'cardinali  e  di  tutta  la  corte  pontificia. 

Alla  morte  di  Innocenzo  VII,  radunatisi  in  conclave  i  car- 


—  «r  — 

dmali,  elessero  a  pain  Annto  C<nm  wtMtHiiNv  tm^Kivili^  « 
petrìana  di  Gosluilimpoi.  Cntafai  qwislì  tlten  ^tMH'Miii«l 
areva  opìnioDe  di  essaen  n  sant  noiDd  e  dì  antica  ;!«wità:  IMM 
aiqieoa  insediata  linnovò  le  UVbt  prames»  di  ^MUhm^  a  tuli» 
per  mtftere  fine  alio  sosma  che  hoerafa  la  Ctik>isa.  K^li  aw^ 
assnoto  il  nome  di  Gfte^orio  Xn.  ed  il  $Q0  anla|^>nl$ta  t^A  N«^ 
nedetto  xni.  Si  ^scrìssero  a  tìceDda  calde  esiortationì  (W  aUti- 
care  alla  sede,  onde  poscia  i  dne  coll^  dei  eardiiKili  uuiiM 
fra  loro  avessero  a  scegliere  un  papa  che  Kovenia^so  luUa  U 
Chiesa,  e  fosse  posto  fine  allo  scisma.  I  deputali  cl)e  il  Vo,uo-^ 
ziano  aveva  mandati  a  Marsiglia»  ove  risiedeva  lieniHk>tli>  \Ul 
con  ini  d'accordo  scelsero  Savona  per  luogo  di  convegno  a(  due 
pontefici,  ove  alla  presenta  del  maggior  nmnero  dei  CAntinali 
che  postalmente  si  fossero  radunati  pronunciare  la  fonuale 
rinuncia.  Ma  né  Funo  né  Taltro  volevano  addivenire  a  «lueaio 
ermco  atto  a  vantaggio  della  Cbiesa;  preferivano  un  poterò  di* 
mozzato  anziché  vedersi  soggetti.  Benedetto  orasi  recato  llu^ 
a  Porto  Venere,  indi  alla  Spezia,  e  Gregorio  a  Lucca;  non  gramlo 
Stanza  quindi  li  separava,  ed  i  negoziatori  fecero  ogni  Mforiu 
per  indurii  ad  un  abboccamentOt  ma  indarno;  poicliò  HcrlMe 
Leonardo  e  che  Tuno  come  animale  acquatico  non  volua  mal 
abbandonare  il  lido,  Taltro  come  animale  lurrcatre  non  Hi  volon 
avvicinare.  • 

In  questa  altalena  chi. più  comandava  erano  I  canlliiiill  dnl- 
Tuno  e  dell'altro  partito,  i  quali  tenevano  le  redini  dello  coae 
della  Chiesa  ed  obbligavano  i  pontefici  a  subirò  la  pro/«/4loiio 
della  loro  volontà.  Gregorio,  per  afforzarsit  volle  nomlnaro  quat- 
tro cardinali;  gli  altri  avversavano  la  nomina»  corno  alto  che 
potesse  prolungare  lo  scisma;  nacque  repetio»  e  del  dodlcJ  c/lte 
erano  radunati  in  Lucca  a  far  spalla  a  Gregorio  nove  al  ritira* 
roDo  in  Pisa. 

Alla  loro  venuta  il  tribunale  deirinqui^izione  avea  »p)e((alo 
al  masómo  rigore  per  mostrare  lo  aseio  chti  nutriva  p«;f  la  niU- 
gìoiie,  e  moltiplicava  arresti  e  tortora.  Il  gkivlne  Awìr4ì»nK  ifià 
in  uggia  al  Sant'UflBzio,  era  da  quello  lentilo  a  tlata  ^1  avM 
Mmpre  qualcbeduno  a'paooì  ebe  io  vigilava;  eal^k;  d)  imtM  e 
di  cuore,  non  sapea  frenare  la  lìngua  e  ricad/Je  n^i  artivl)  /M« 
rioqoiaizioDe.  Quello  etie  importava  agli  in^i^iikiri  ^n  di  p^rf^ 
raeltere  iosieiBe  qoalclie  indizio  etia  \^ijfnmm  ^MtUfH  egli  d>r^ 
aia;  poiché  quasi  tutti  aAfMh  rhn  ì$Mùtj^nM  fMf  «aaa  ^ti^  in- 
rooo  chiaiDali  al  àattTU&ncr^  laqnfMti,  >rilerri>K;Mi.  #V/^i  u  \f4t\n 


—  458  — 

ddle  tortore  ohe  dovette  snbire  quel  mìsero  e  ies^i  strazi!  che 
dilaDiaroQO  la  soa  aoima,  poiché,  tolto  aireloqmo  d'una  sposa 
che  teoeraneote  amaYa,  d'una  fondoila  che  abbdli?a  la  sua 
vita,  fa  martoriato  in  ogni  peggior  guisa  che  i  cannibali  del« 
rinqui^ione  sapessero  nella  raffinata  loro  cnideUà  immaginare 
e  compiere. 

Per  rendere  più  angosciosa  la  sua  situazione,  gli  umanis- 
simi inquisitori  pensarono  a  gettare  la  taccia  d'eresia  su  Livia» 
e  detto  fatto,  mandarono  i  birri  per  lei  e  la  fecero  sostenere  in 
carcere.  Chi  può  descrivere  le  angoscie ,  i  patimenti  di  quella 
innocente  nel  vedersi  priva  del  loarito  e  della  figlia,  che  sola 
le  rimaneva  a  conforto  nelle  sciagure  che  V  opprimevano  ?  Là, 
sola,  gettata  in  un'orrida  {HlgioM,  strema  d'ogni  consolazione» 
d'ogni  soccorso,  condannala  a  temere  continuamente  nuovi  spa- 
ienti e  la  notizia  di  nuovi  guai ,  passava  le  molto  ore  nella 
preghiera*  Ignara  della  sorto  del  marito,  né  potendo  nulla  sapere 
della  figlia»  oscillava  si  può  dive  fra  la  morte  e  la  vita  in  ccm- 
tinua  agonia.  La  sua  angoscia  aiàhva  un  di  più  che  l' altro 
aumentando ,  finché ,  non  reggendole  più  le  fòrze  soffrire ,  la 
poveretta  infermò  e  mercé  calde  lagrime  e  ferventi  pveghi^fe 
ottenne  di  abbracciare  quasi  dal  letto  di  morte  la  figlia. 

lì  Sant'  Uffizio,  non  per  sentimento  di  accondiscendere  ad 
una  giusta  preghiera,  ma  per  le  sue  viste,  acconsenti  a  permet- 
tere che  fo^  nella  prigione  visitata  dalle  figlia.  Nel  medesimo 
tempo  incarìeé  un  padre  inquisitore  a  presenziare  quel  collo  « 
quio  e  trarre  profitto  dell'emozione  materna  per  indurla  a  de- 
porre qualche  cosa  contro  il  marito. 

Fu  introdotta  la  figlia,  la  quale,  inginocchiatasi  accanto  al 
letto,  tergeva  le  lagrime  materne  ehe  in  copia  cadevano  sulle 
nere  sue  trecce.  Quando  il  padre  inquisitore  vide  che  V  emo- 
zione di  Livia  era  al  colmo,  colla  destrezza  di  consumato  cac- 
ciatore lanciò  il  veltro. 

e  Livia,  sta  in  voi  far  cessare  tutto  questo  cordoglio  ;  dite 
la  verità:  vostro  marito  non  crede  nò  in  Dio,  né  nella  Vergine, 
né  nei  santi,  e  dispreeza  la  religione,  è  vero  T  i 

•  No  ho  risposto  fra  i  tormenti  della  tortura,  no  vi  rispondo 
ora  fra  i  tormenti  dell'animo,  che  sono  ancora  più  crudeK.  > 

e  Ma  se  gli  alitri  dicono  diversamente!  ftista,  io  adesso  vi 
parto  non  come  giudice,  ma  come  amico  che  vorrebbe  vedervi 
libera,  sana,  felice.  > 

•  Ve  ne  ringrazio;  ma  io  non  posso  dire  altrimenti  da 
quello  che  ho  detto.  > 


l'iBfais'i/iit  de  eefm 


'/frf /ina  .^A^eam  a  it^mv 


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1; 


€  Sa  dMe  h  Tenta»  tì  pnmMto  di  hscter  teaire  gol  totti 
{iorni  lostn  figfia  e,  qaùào  sarete  in  caso,  di  lastiarri  an^ 
re  lìbera  eoo  kL  > 

.  e  Ma  la  tenta  Mio  sempre  detta;  noo  sono  buona  »  io»  a 
*  bogie  ;  noo  so  cosa  sia  la  meniogoa^  le  {larìo  come  pa^ 
(Si  al  SgDore  od  al  coofessore.  » 

Il  frate  qQantaDqae  inquisitore  non  era  un  tigre  ;  meno 
ITO  di  cuore  degli  altri,  si  era  investito  (tei  dolore  e  dell'an^ 
•sda  (fi  liTia,  e  dair  ingenuità  del  volto  credette  a  quella  del 
lore,  e  raccomandolla  alla  moglie  del  carceriere,  cbe  si  trovava 
esente  a  quel  colloquio,  dicendo: 

e  NoD  manchi  nulla  a  questa  poveretta;  lasciala  in  corn* 
igDia  di  sua  figlia  quanto  più  si  può  per  i  nostri  regolamenti, 
quando  vuol  venire  fammelo  sapere,  che  le  otterrò  sempre  11 
annesso.  ■ 

La  povera  Livia  porgeva  col  capo  ringraziamenti  al  frate 
le  se  ne  andava  mostrandosi  un  cotal  poco  mesto  in  volto . 
irbotlando  fra  i  denti:  <  Ma  sicuro  che  sa  niente  quella  pe- 
ra donna ,  sicuro.  »  Presentatosi  al  capo  inquisitore ,  fece 
nuina  relazione,  conchiudendo  colle  parole  che  andava  dicendo 
I  sé  e  sé  nel  tcfrnare  dalla  prigione. 

Bla  la  conclusione  di  frate  Agostino  d* Arezzo,  che  per  una 
*ana  combinazione  da  dignitario  ch'era  nel  capitolo  del  duomo 
Irezzo  erasi  fatto  frate  francescano,  di  quelli  ohe  portavano 
barba,  ed  al  suo  turno  doveva  prestar  mano  ai  processi  del- 
[i(]uisizione,  ma  lo  faceva  contr'animo,  era  nato  per  Tozlo  dei 
iostrì ,  ma  non  per  tormentare  il  prossimo ,  a  dllTerenza  di 
Iti  altri  che  non  ponno  vivere  senza  far  male  ai  loro  slmili; 
di  lui  conclusione,  diciamo»  a  nulla  valse. 

L'ln(iuisizione  voleva  punire,  cioét  per  meglio  dire»  voleva 
Qdicarsi  delle  ingiurìe  deirAndreani,  e  facile  era  al  SanrUf- 
io  a  spacciare  per  Taltro  mondo  un  uomo  cbe  avea  avuta  la 
3Dtura  di  chiamarsi  addosso  il  suo  sdegno. 

In  pochi  giorni  il  povero  Andreani  fu  sentenzialo  e  eonse* 
ato  al  braccio  secolare,  e  la  moglie  sua,  dopo  di  aver  lan* 
ito  in  carcere,  fu  liberata,  ed  allora  solamente  seppe  di  etmr 
leva.  Cosi  i  cardinali  radunati  in  Fisa,  fra  i  noolli  divertimenti, 
bero  anche  quello  di  aaristere  al  supplizio  di  un  uofno  inan- 
io  aUa  morte  per  solo  sentimento  di  vendetta. 


CAPITOLO  XIX. 


Basilio  OrdeUffi  e  sua  figlia. 


Quasi  contemporaneamente,  altri  roghi  s'accendono  in  Roma. 
Ladislao  re  di  Napoli  aveva  intrapreso  di  sottomettere  coU*armi 
gii  Stati  della  Gtiiesa  :  si  era  mosso  contro  Roma  e  vi  si  mise 
a  campo  con  dodicimila  uomini  di  cavalleria  e  con  altrettanta 
fanteria  ;  nello  stesso  tempo  mandò  qaattro  galere  ad  occapare 
la  foce  del  Tevere  perchè  i  Romani  non  potessero  avere  le  vet- 
tovaglie dalla  parte  di  mare:  espugnò  Ostia  malgrado  la  ga- 
gliarda resistenza  oppostagli.  Pochi  giorni  dopo  la  presa  d'  0- 
stia  Paolo  Orsini ,  che  aveva  il  comando  in  Roma,  apri  a  tra- 
dimento una  porta  alFesercito  dei  re.  Allora,  ma  allora  soltanto, 
i  cittadini  si  disposero  alla  resa ,  ed  erano  pronti  ad  accettare 
quella  capitolazione  che  loro  offriva  il  nemico  già  entrato  nelle 
mura. 

Innocenzo  VII  era  fuggito  a  Viterbo,  ed  i  Romani,  esortati 
da  certo  Basilio ,  uomo  che  sul  popolo  aveva  grande  ascen- 
dente, accusarono  i  Solonna  ed  i  Savelli  d'aver  tradita  la  pa- 
tria, come  coloro  che  aveano  chiamato  Ladislao,  ed  altamente 
manifestarono  la  loro  avversione  al  giogo  de'Napoletani.  Avendo 
Basilio  ricusato  ostinatamente  di  ricevere  in  sua  casa  i  soldati 
che  vi  doveano  avere  ralloggiamento,  e  volendo  questi  entrarvi 
a  viva  forza,  prima  i  vicini,  poi  tutti  i  Romani  presero  le  sue 
difese.  Cominciò  allora  fra  'i  Romani  ed  i  Napoletani  un'acca- 
nita zuffa  che  sì  protrasse  Qno  a  notte  ;  ma  inline  Ladislao  do- 


^m^M^sMi/cfm/vrew^e/fCfhfff//aéreha/i^ff 


y 


—  Ul- 
te oscife  di  Roma,  ed  altro  noD  potendo  fare»  mandò  ad  ap- 
care  il  fuoco  in  quattro  diversi  quartieri  (I). 

L'attentato  di  Ladislao  per  impadronirsi  di  Roma  riusci  van- 
gioso  ad  Innocenzo  VII.  1  Romani  si  rappattumarono  con  lui 
;Ii  mandarono  ambasciatori  clie  lo  indussero  a  ritornare  in 
ma,  ove  mori  pochi  mesi  dopo. 

Là  morte  d'Innocenzo  accrebbe  Tira  dei  Colonna  e  dei  Sa- 
li,  e  con  quella  la  libidine  di  vendetta  contro  i  capi  della 
Bilione  mercè  la  quale  fu  obbligato  Ladislao  a  ritirarsi  da 
na.  Basilio  degli  Ordelaffi,  che  era  stato  il  primo  ad  opporsi, 
segnato  come  vittima  principale.  Non  volendo  ricorrere  a 
ui  secondari,  ebbero  scelto  quello  di  farlo  perire  per  mezzo 
r  Inquisizione. 

Potenti  famiglie  com'  erano,  trovarono  prontissimo  il  San- 
ffizio  ad  assecondarle  nei  loro  desiderii  di  sangue.  Basilio  fu 
)rigionato  qual  eret»co  e  bestemmiatore ,  e  Io  furono  pure 
1  due  suoi  compagni,  chiamati  uno  il  Merenda,  Taltro  Mat- 
,  popolani  entrambi. 

Non  appena  Basilio  degli  OrdelafQ  era  stato  rinchiuso  nelle 
;ioni  del  Sant'Uffizio,  corse  per  Roma  un  gran  rumore  e 
gno  nel  popolo ,  e  tutti  si  guardarono  in  volto  e  parevan 
i  :  Bisogna  liberarlo.  Ma  chi  più  vegliava  alla  sua  sorte  era 

figlia  Gemma,  unica  figlia  e  dotata  di  quel  coraggio  che 
I  tanto  in  cuore  d'animosa  donna  che  non  s'arresta  innanzi 
pericoli  né  alle  minacce.  Ella  con  Toro  e  con  l'aderenze 
rò  modo  di  sedurre  il  carceriere,  il  quale  essendo  anch'egli 
)  di  coloro  che  amavano  Basilio  perchè  soccorritore  del  po- 
),  si  lasciò  facilmente  persuadere  dalle  preghiere  e  dai  doni 
Somma  ad  introdurla  in  prigione  a  favellare  col  padre, 
indo  Basilio  udì  la  parola  fuggire  provò  un  senso  molesto, 
^hè  non  solea  mai  fuggire  innanzi  ai  pericoli.  Ma  Gemma 
si  gettò  ai  piedi  e  lo  supplicò  con  tanto  fervore  che,  sciolte 
^lene,  ed  avvolto  in  un  mantello  che  il  carceriere  tenea 
nto,  potè  ingannare  le  guardie  e  porsi  in  salvo. 

Ma  cosi  non  fu  di  Merenda  e  di  Matteo,  contro  i  quali  si 
;ò  Tira  degli  inquisitori,  anche  per  la  mancata  vendetta  con- 
Basilio. 

Non  vi  fu  tormento  al  quale  non  fossero  assoggettati ,  e 

(!)  Pietro  Minerbetti.  -r  Diario  della  città  di  Roma  dì  Stefano  Infes- 
a.  Gian  none,  Istoria  di  Napoli, 
Tamb.  Inquii.  Voi.  II.  ^6 


^ 


—  4M  — 

dopo  d'essere  stati  estenuati  dai  dolori  e  dagli  spasimi,  fu  loi 
lotta  la  sentenza  di  morte  cosi  concepita  : 

Al  nome  di  Dio.  Amen. 

Noi  frate  Accursio  di  Firenze,  dell'ordine  de'frati  predicatori«=- 
per  autorità  apostolica   inquisitore  della  eretica  pravità  nella^ 
provincia  di  Roma,  facciamo  noto  a  tutti,  mentre  facevamo  ìM 
Bostro  ufficio  commessoci  daiPInquisizione,  per  fama  pubblicarsi 
anzi  piuttosto  infamia,  e  per  fede  di  molti  uomini  degni»  ch^ 
ad  una  voce  hanno  riferito  con  giuramento  siccome  Merenda  c^ 
Matteo  di  Prosinone  e  Basilio  Ordelaffi  di  Roma,  in  mina  loro^ 
e  degli  altri  e  pericolo  non  piccolo  delle  anime,  spargevan(^ 
molte  e  diverse  eresie  in  questa  città  di  Roma  :  onde;  non  vo — 
lendo  noi  mancare  al  nostro  dovere,  ed  a  norma  deirobbligc^ 
nostro  di  rintracciare  la  verità,  li  abbiamo  ritrovati,  per  asser- 
zione di  testimoni  degni  di  fede,  pieni  di  contumelie,  scandalm 
e  mormorazioni,  e  non  conformi  ai  vero  ;  perciò  li  abbiamo  fatti 
condurre  alla  nostra  presenza,  e  costituiti  avanti  a  noi,  pigliammo 
da  loro  il  giuramento  corporale  di  dire  la  verità,  tanto  riguardo  ^ 
a  sé  stessi  come  agli  altri,  ed  avendo  confessate  tutte  le  colpe 
che  loro  vennero  apposte  ed  assegnate,  dette  e  fatte  in  disprezzo 
della  fede  ortodossa,  chiamato  monsignore  conte  d'Àgubbio  ret- 
tore della  chiesa  di  S.  Giovanni  Laterano,  monsignore  France- 
sco per  la  grazia  di  Dio  vicario  generale,  di  molte  altre  persone 
onorale  e  dottori  di  legge,  per  consultare  con  matura   delibe- 
razione e  considerazione,  invocata  la  grazia  di  Dìo  e  dello  Spi- 
rito Santo,  sedendo  prò  tribunali  di  consenso  dei  venerandi 
suddetti  signori,  pronunziamo  e  dichiariamo  i  predetti  Basilio 
degli  Ordelaffi,  Merenda  e  Matteo  di  Fresinone,  eretici  costituiti 
innanzi  a  noi,  il  primo  condannato  in  contumacia,  gli  altri  qui 
presenti,  e  per  questo  doversi  consegnare  al  braccio  secolare  ; 
e  perciò  li  rilasciamo  in  potere  del  signor  Jacopo  di  Cesena 
vicario  presente  e  recipiente  perchè  li  faccia  punire  nelle  debite 
forme  siccome  eretici  incorreggibili.  Le  loro  case  saranno  ade- 
guate al  suolo  per  lasciare  memoria  deirinfamia  loro. 

Matteo  e  Merenda  furono  abbruciati,  e  le  loro  case  atter- 
rate; sulFuna  fu  ^innalzata  la  casa  che  abitò  Salvator  Rosa ,  e 
suirallra  quella  che  a  sé  stesso  adattò  Michel  Angelo  quando 
dimorava  in  Roma. 


->^?ttììftMlÌiitiV>'itiÌli 


Casa  ili  Salvator  itosu. 


Casa  di  Michelangelo  a  Roma.     . 


•       ( 


CAPITOLO  XXX- 


old  V  ponUfieo  e  la  oottf  iora  di  Stefliao  Porcari. 


quiodicesimo  secolo  la  storia  politica  deiritalla  prtienl» 
iviglioso  cootraposto  colla  sua  storia  letteraria  ;  iropir* 
.  mentre  ogni  giorno  s'andava  sempre  più  accostando 
ina  della  libertà  qnella  pure  dei  costumit  deirenernla  o 
Tirib  pubblica  e  privata,  vedevasl*  per  lo  contrariOi  M« 
crescere  il  fervore  della  poesia  ed  una  tale  ammirazione 
iquenza  ed  in  particolare  per  rerudizione  che  sembrava 
alcun  che  di  pib  nobile  e  di  pib  elevato  nel  carattere 
Io.  Ad  ogni  modo,  se  affisiamo  un  po'  a  lungo  gli  sguardi 
celebri  letteratt  che  fiorirono  in  quest^epoeei  benché  ne 
I  stupire  della  loro  laboriosa  attivili,  ed  essere  loro  rl« 
iti  pei  capo^lavori  deirantiehili  ch'essi  ci  ecMir^ÈfOfU) 
lelli  de*  moderni  tempi  ofuTessl  prepararono  il  fiasci' 
rawisbmo  tuttavìa  nel  loro  carattere  e  nel  loro  spirilo 
i  del  disordinameolo  sodale,  e  rieooosetomo  la  ragkiM 
nulla  poievasi  sperare  da  essi  che  fosse  ékupo  di  qné 
be  erano  robbìeilo  deUa  loro  aaraiimiooe.  In  kUk  I 
i  de'lomi  od  qnodicesiaio  secolo  non  erMo  reflrtlo 
irefiflaenlo  ddb  o»iobe  italica  oelb  via  deHlMlvItt' 
le  opere  &n  Gmìti,  én%Và,  ékfTiéM,  éif9^  • 
li  DQB  eratto  il  ftodollo  Arila  Mtmàmitt  Mh  wmétà^ 
detta  \mn99mutkmt  degfi  IlaKaai,  m  é  éMemdiml» 

ÌMftJffcfftt  ffcf  iMa  twtm  wféukttÈé  aàk  Ue^tn  méèmUl 


—  444  — 

e  di  leggi  poetiche  ch'erano  state  concepite  per  altre  nazioni, 
per  altre  lingue,  per  altri  costumi;  deirassoluta  preferenza  che 
davasi  alla  memoria  sopra  tutte  le  altre  facoltà  della  mente 
umana ,  e  infine  del  servile  assoggettamento  del  gusto  indivi- 
duale ai  modelli  ed  airautorità  letteraria.  Forse  questo  assolato 
sbandimento  delle  naturali  e  vere  impressioni,  de'  pensieri  ori- 
ginali, del  gusto  particolare  d'ogni  individuo  in  una  nuova  na- 
zione fu  di  maggior  danno  alle  lettere  in  Italia  ed  in  tutta 
l'Europa  che  non  siano  stati  loro  di  vantaggio  i  modelli  greci 
6  romani  con  tutta  la  loro  sublime  bellezza.  Ma  sopratutto  nella 
politica  del  secolo  vedremo  come  sia  stato  servile  il  carattere 
che ,  colpa  quella  smaniosa  brama  d'  erudizione,  contrasse  il 
pensiero.  Il  nostro  ufficio  di  storici  ne  conduce  a  cercare  quali 
fossero  le  pubbliche  virtù  degli  scrittori  del  quindicesimo  se- 
colo, e  noi  li  troviamo  privi  d'ogni  altezza  d'animo,  di  nobiltà, 
d'amore  di  patria,  di  sentimenti  politici. 

Le  repubbliche  ed  i  piccioli  principati  ebbero  del  pari  ìq 
qnel  tempo  dei  filologi;  ma  la  sola  Firenze,  che  aveva  un  Leo- 
nardo Bruno,  un  Poggio,  un  Ambrogio  Camaldolese,  un  Manup- 
pini,  portava  certamente  la  palma  sopra  tutte  le  altre  contratte. 
Ora,  sebbene  tre  di  que'  dotti  siano  stati  un  dopo  l'altro  can- 
cellieri  della  Repubblica,  non  troviamo  ch'essi  godessero  nello 
Stato  tu  un  credito  proporzionato  agli  ampi  loro  studi,  nò  cbe 
abbiano  adoperato  utilmente  in  prò  della  patria  il  sommo  loro 
ingegno,  o  introdotto  ne'  consigli  e  nel  foro  una  forte  e  per- 
suasiva eloquenza,  o  rinnovellato  con  alcuna  virtù  o  tratto  de- 
gno degli  antichi  quell'antichità  ch'ei  volevano  in  ogni  modo 
imitare. 

La  venuta  a  Firenze  dell'imperatore  Federico  IH  pose  al 
cimento  l'ingegno  di  questi  pretesi  oratori  e  politici.  Cario  Mar- 
zuppini,  ch'era  succeduto  a  Leonardo  Bruno  d'Arezzo  nell'offl- 
ciò  di  segretario  della  Repubblica,  venne  incaricato  d'arringar 
l'imperatore.  La  sua  diceria  era  in  lingua  latina,  ed  ei  la  dettava 
in  due  giorni;  la  sacra  e  la  profana  erudizione  onde  l'aveva  ab- 
bellita, la  leggiadria  dello  stile,  mossero  a  grande  ammirazione 
gli  uditori.  Ma  né  i  consigli  né  lo  stesso  oratore  avevano  pare 
pensato  allo  scopo  politico  di  quella  cerimoniosa  arringa.  L'irn- 
peratore  fece  rispondere  al  Marzuppini  dal  suo  segretario,  Enea 
Silvio  Piccolomini ,  che  fu  poi  Pio  II.  Questi ,  ben  più  politico 
che  filologo  e  assuefattosi  nelle  discussioni  del  consiglio  di  Ba- 
silea a  parlare  con  una  qualche  mira  determinata ,  fece  nella 


ubobì  ohe  lic^iaK^iiD»  nu-  refibci:  mi  lì  Mm^^^d^  okf 
DOD  li  a  cn  iiitpwe^chiftUi.  ziun  se{^  Arf  pwv^Jt.  ^  i«^n«i«'«Mi 
Manetti  fa  lidbiesio  dì  hs;i»DteTi  per  tnuw  ^^irimpMV^^  il 
MarzoppioL 

Questi  eixiliti.  cbe  oca  saperftDO  nKVwmiv  aUiv  kW  cIi^ 
quelle  impinle  iii^fi  antichi  schiloh  ^  di^  \>»rijin*K^  |H)r  x^^^w^ 
pre  d'eioqiieDu.  lasciaroiKi  il  loro  seicok^  c^vù  elenio  i>^if^  i\V)i(^ 
di  qoeirarle  oratoria  cbe  pone  avivlU^  ^knato  ^$(TciUr^  (jinli^ 
imperio  nelle  repubbliche,  questi  eruditi  tfano  uhv^  W\\  |mù 
daUa  ?anità  che  dairamone  della  gloria.  dalU  cu(Md)^.i  cho  «laU 
rauibizione,  e  preferìiano  le  corti  de*  principi,  nollo  qu.ili  r<Hru* 
dizione  teorica  era  venuta  in  ma^or  coutil  che  ui  soi^^niA  ap- 
^cata.  Nelle  repubbliche  e*  si  vedevano  avviliti,  qualunque  v\>lla 
venivano  paragonati  a  magistrati  di  fermo  caMtton\  di  chiara  a 
giudiziosa  mente,  quali  erano  un  Neri  CiH^poni,  un  Mano  do|tU 
Albizzi  0  un  Cosimo  de' Medici;  i  quali,  sebbene  tKnoMMstOh^  lo 
tleganze  del  parlare  latino  e  Parte  di  prenderò  a  prenttlo  daitlt 
antichi  dei  falsi  ornamenti,  pure  sapevaiìo  muovore  iili  iintnU 
colla  forza  dei  loro  pensieri.  Ei  si  trovavano  In  mlKlIori  m\\\\\ 
presso  d'un  Alfonso,  d'uno  Sforza,  d'un  (ìonzag»,  ìVìììì  Um\\\om 
d'Este,  di  UD  Montefeltro;  la  loro  vita  ora  totalniiHilo  couNnoraiu 
ad  un  genere  d'erudizione  che  non  poteva  Adombrare  II  più  no» 
spettoso  principe  né  turbarne  lo  Stalo.  Quaiureni  loro  iirilitatA 
alcuna  pubblica  incumbenza,  non  ricliieduvasl  olio  li;  loro  dico- 
rie  di  cerimonia  fossero  dettale  dairinlerno  l(»ro  coiivlncliniinlo; 
perciò,  essi  giustiQcavano  senza  scrupolo  qiioKll  aIU  Uniniilnl 
cui  non  avevano  preso  parte.  Lo  Incuiiibenzc  loro  non  orano 
quelle  di  scrutare  o  di  giudicare  le  azioni  •  ma  di  volarlo  oon 
belle  frasi  ciceroniane  ;  essi  erano  adoperali  non  VAum  piihhllr/l 
magistrati,  ma  come  relori;  non  hi  pren<lovano  tirlff»  nò  doIlM 
verità  de'  loro  pensieri  né  della  reltiliidiiio  doi  loro  huu\ì%U  ìm 
soltanto  del  loro  stile;  e  quando  avevano  ropportiinilA  di  mmU) 
nere  il  prò  ed  il  contro  d'una  qualaiv^iglia  pro|iOKlM,  di  parlerò 
ad  un  tempo  in  due  oppristi  sensi ,  qnfmVhnt  iH}r  e»4i  do^piff 
gloria,  conciossiacbè  avevano  mu  ciò  fttjPM%\um  di  mrnU^m  in 
tutto  il  suo  lume  il  loro  meni//  d'oral/>re  e  di  ^f\\%U. 

Per  avere  in  tal  mo>Jo  separala  ia  aecMoz»  &4tì4Uow^  l>|/; 
quenza  dalla  politica,  lo  Uiie  dal  peosM^o,  nU  ^,fwUU  ^M  /|riin 
dicesìmo  secolo  non  procuraron/i  ai  leropi  in  tm  WtmvHVf  uh 
maggiori  virth  pobbtiche  iih  uwni  ìfUM  ihUfttiff  aK^^  ì^mr//\ 


—  446- 

relative  al  governo  della  civile  società.  Non  pertanto  alcuni  Ai 
loro  s'innalzarono  alle  più  sublimi  cariche  delia  repubblica  cri- 
stiana. Uno  dei  pib  illustri  ad  un  tempo  e  dei  più  fortunatr 
fra  codesti  letterati  fu  forse  quel  Tomaso  Sarzana  che  sotto  it 
nome  di  Nicolò  V  occupò  la  cattedra  pontificia  nel  periodo  di 
tempo  da  noi  discorso.  Protettore  zelante  degli  eruditi ,  a'  cui 
lavori  aveva  avuta  tanta  parte ,  splendido  rimuneratore  delle 
belle  arti,  delle  quali  moltiplicò  in  Roma  ì  capolavori,  non  si 
mostrò  egualmente  favorevole  alle  opinioni  liberali  come  alle 
arti  liberali.  Egli  aveva  contratta  nella  intrinsechezza  dei  clienti 
e  dei  creati  di  Cosimo  de'Medici  queirindifferenza  di  animo 
per  la  libertà  che  avviliva  i  loro  animi,  e  bruttò  li  regno 
mandando  al  patibolo  V  ultimo  de'  Romani  dei  tempi  di  mezzo 
e  reprimendo  Y  ultimo  sforzo  fatto  per  rialzare  la  libertà  di 
Roma. 

Nicolò,  chiamato  al  fonte  battesimale  col  nome  di  Tomaso, 
era  nato  nel  1308  di  un  Bartolomeo  Parentucelli,  medico  pisano 
ammogliatosi  a  Sarzana.  Aveva  ricevuto  i  minori  ordini  in  età 
di  dieci  anni,  poi  era  statò  mandato  a  Bologna  a  continuare 
gli  studi.  Essendo  egli  aflatto  povero,  era  stato  poscia  costretto 
ad  abbandonare  quella  università  dai  diciotto  fino  ai  ventidue 
anni,  onde  venire  a  Firenze  a  tenere  scuola  ai  figliuoli  di  Ri* 
naldo  degli  Albizzi  e  di  Palla  Strozzi.  Tornato  poscia  a  Bologna, 
si  acconciò  a' servigi  del  cardinale  Nicola  Albergati,  che  il  fece 
suo  maggiordomo.  Tomaso  accompagnò  il  cardinale  da  princi* 
pio  a  Roma,  poi  nelle  sue  legazioni  in  Francia,  in  Inghilterra, 
in  Germania,  facendola  per  lui,  per  lo  spazio  di  venf  anni,  da 
economo,  da  segretario  e  da  medico.  Avendolo  l'Alberga  ti  ricon- 
dotto a  Firenze  presso  Eugenio  IV,  ebbe  Tomaso  opportunità  di 
stringere  amicizia  coi  più  illustri  letterati  che  ivi  dimoravano, 
quali  erano  Leonardo  Bruno  di  Arezzo ,  Giannozzo  Manetti , 
Poggio  Bracciolini,  Carlo  Marzuppini,  Giovanni  Aurispa,  Gua- 
sparri  di  Bologna  ed  altri  molti.  Usavano  questi  di  adunarsi 
ogni  mattina  in  un  canto  del  palazzo  e  di  disputare,  sola  ma- 
niera in  allora  praticata  dai  dotti  per  far  mostra  del  loro  in- 
gegno. Poiché  Tomaso  aveva  accompagnato  a  palazzo  il  padrone, 
ei  raggiugneva  la  dotta  brigata,  vestito  d'una  semplice  tonaca 
turchina  ed  in  berretto  da  prete:  e  prendeva  caldamente  parte 
nella  disputa. 

II  nostro  Tomaso  di  Sarzana  aveva  di  già  dato  a  cono- 
scere di  essere  assai  versato  nella  lettura  e  nello  studio  degh 


aotori  dumo,  aTendooe  aniochiti  con  pndìtioM  noie  i  qmikv 
KrittL  eopbti  di  suo  pugno:  pertiò  qorado  Qosiiio  te'  Malici 
ebbe  collocala  nel  oonfento  di  San  Marco  la  colleiione  dai 
manoscritti  di  Nicolò  Nicoli,  chiese  a  Tomaso  istraiioni  intomo 
al  modo  di  distriboire  ona  biblioteca,  intomo  alle  ditisioiii  dri 
libri  ed  aUa  fòraiaaiooe  dei  catalogo.  La  scrittnra  dettata  per 
eoddisfare  a  tali  inchieste  non  serri  soltanto  di  noraia  per  la 
<fistribnzione  della  biblioteca  di  San  Marte,  ma  inoltre  per 
quelle  della  badia  a  Fiesole,  del  conte  di  Montefeltro  ad  Urbino 
e  di  Alessandro  Sforea  a  Pesaro*  Il  cardinale  Albergati  ateta 
generosamente  provreduto  al  sostentamento  di  Tomaso,  proou- 
randogli  due  beneficiì  semplici,  nno  dei  quali  gli  frutUiva  tre* 
cento  scodi,  e  morendo  gli  aTe?a  lasciato  molti  avori.  Ma  Ja 
liberalità  di  Tomaso  e  più  ancora  le  sue  spese  in  libri  od  in 
salari  d'amanuensi  superavano  di  mollo  le  sue  entrate.  Do|M) 
la  morte  del  cardinale  Albergati,  Eugenio  iv  lo  chiamava  a  corte 
col  titolo  di  vice-cameriere  apostolico  e  manihvalo  di  nuovo 
in  Germania  col  cardinale  di  Sant'Angelo  per  indurre  i  Tede- 
sctìi  a  rinunciare  alla  loro  neutralità  tra  il  concilio  di  llaslloa 
e  la  corte  di  Roma.  Al  ritorno  da  questa  ambasciata  lo  foce 
vescovo  di  Bologna  e  poi  cardinale  nell'  anno  medesimo ,  che 
non  dovea  volgere  a  termine  prima  che  il  nuovo  prelato  salisse 
sulla  cattedra  di  san  Pietro. 

Eugenio  IV  essendo  morto  il  23  febbraio  del  1447»  vonnoro 
consacrati  nove  giorni  alle  pompe  funebri  prima  che  I  cardinali 
entrassero  in  conclave.  Durante  quest'interregno,  Alfonso  acco- 
stossi  a  Roma  e  si  pose  di  stanza  a  Tivoli  per  avvalorare  il 
proprio  partito.  Tutti  i  baroni  romani  cercavano  di  far  valore  I 
loro  diritti  durante  il  conclave  :  infra  gli  altri  ilattlsta  Savolll 
pretendeva  di  avere  quello  di  custodirne  le  chiavi  ;  ma  i  cardi- 
nali non  vollero  riconoscerio.  D' altra  parte  il  concilio  della 
città  di  Roma,  adunato  nella  chiesa  d'Araceli  rivendicava  I  pri- 
vilegi del  popolo,  i  quali  erano  pure  stati  recentemente  da  mm 
esercitati.  Fu  propriamente  in  questo  consiglio  che  SUifano 
l^orcari,  gentiluomo  romano  d'incontaminata  ripiitazionOt  comln- 
tiò  ad  acquistarsi  nome.  Il  defunto  ponteflce  avea  indispettiti  i 
liomani  colla  sua  incostanza  e  col  disprezzo  di  tutte  le  Uìimi  : 
la  tirannide  del  patriarca  Vitelieschit  che  fu  lungo  tem|Ni  il  miio 
Dia  accetto  ministro ,  lo  aveva  fatto  abborrìre.  Il  Porcari ,  che 
spirava  alla  libertà  e  che  voleva  imitare  le  virtù  «leirantuvi 
toma  più  che  il  suo  idioma ,  esorlA  i  cittadini  adunati  ad  ap- 


—  448- 

proflUare  di  quest'unica  circostanza  per  dare  più  stabile  (orma 
allo  Slato.  «  Non  hawi  >,  diceva  egli,  e  in  tutti  gli  Stati  della 
Chiesa  cosi  piccola  e  mìsera  città  che  non  abbia  leggi  e  sta* 
tuli,  e  che,  pagando  un  tributo,  non  goda  della  sua  liberti: 
dovrà  la  sola  Roma  essere  priva  d'un  vantaggio  che  a  tutte  le 
città  è  comune?  Non  si  trova  cosi  piccola  e  misera  terra  la 
quale,  allorché  la  morte  scende  a  liberarla  dal  suo  tiranno, 
non  approfltti  deir  interregno  per  ricuperare  i  suoi  diritti  o 
almeno  per  porre  un  limite  alle  prerogative  de'saoi  oppressori; 
alla  sola  Roma  mancherà  V  energia  che  hanno  i  pia  miseri  ed 
ignoranti  popoli  ?  i  Ma  l'arcivescovo  di  Benevento,  che  presie- 
deva a  quesl'  assemblea ,  vietò  al  Porcari  di  continuare  la  sua 
arringa  e  lo  denunciò  in  appresso  ai  nuovo  papa  come  uà 
uomo  pericoloso. 

I  cardinali  che  entrarono  in  conclave  nella  chiesa  di  Santa 
Maria  sopra  Minerva  erano  diciolto.  Voleavi  pertanto  per  l'ele- 
zione del  papa  l' unione  di  dodici  voci.  Il  cardinale  Prospero 
Colonna  in  due  scrutinii ,  tenuti  in  diversi  giorni ,  ebbe  solo 
dieci  suffragi;  gli  nitri  erano  divisi,  ed  appena  si  accennava  a 
Tomaso  di  Sarzana.  Dopo  il  secondo  scrutinio  il  cardinale  di 
Moriana  alzossi  e  disse  : 

e  Miei  padri,  io' vi  scongiuro  a  non  perdere  il  tempo: 
nulla  può  riuscire  più  pericoloso  alla  Chiesa  che  i  nostri  indugi. 
Roma  è  agitata;  il  re  d'Aragona  è  qui  alle  porte;  Amedeo  di 
Savoia  ci  tende  insidie  ;  il  conte  Francesco  Sforza  è  in  goerra 
con  noi;  qoi  rinchiusi,  noi  soffriamo  mille  disagi:  affrettiamoci 
adunque  ad  eleggere  un  pontefice.  Eccovi  un  angelo  di  Dio, 
un  mite  agnello,  il  cardinale  Colonna,  che  di  già  ebbe  dieci 
suffragi:  non  gliene  mancano  che  due;  un  solo  di  voi  alzi  e 
gli  dia  il  suo ,  e  la  cosa  sarà  falla ,  che  non  gli  mancherà 
un'altra  voce.  » 

A  tali  parole  tutti  rimasero  immobili;  finalmente  akossi 
Tomaso  di  Sarzana  e  si  mosse  per  dare  la  sua  voce  al  Colonna: 
ma  il  cardinale  di  Taranto,  Iratlenendolo  per  la  veste,  scongin- 
rollo  ad  aspettare  ancora ,  a  pensare  all'  importanza  di  quella 
elezione ,  a  rammentarsi  che ,  nominando  un  papa  ,  creavnsi 
pressoché  un  Dio  sulla  terra,  un  uomo  che  avrebbe  la  poJesIà 
di  legare  e  di  sciogliere,  d'aprire  e  di  chiudere  il  cielo  ;  laonde 
la  scella  richiedeva  mature  considerazioni. 

«  Tutti  questi  indugi  (ripigliò  il  cardinale  d'Aquìlea)  non 
sono  chiesti  se  non  per  impedire  reiezione  di  Prospero  Colonna; 
ora  dimmi  tu  stesso,  quale  papa  vorresti  fare  ?  • 


-  419  — 

-.  11  canlioale  di  Bologna ,  Tomaso  di  Sarzana  b  rispose  il 
rdinale  di  Taranto. 

e  Piace  a  me  pure  i, rispose  quello  di  Morianìi,  egli  altri 
roDO  subito  dello  stesso  parere  :  onde  Tomaso  ebbe  in  un 
timo  dodici  suffragi  favorevoli.  Questa  elezione  fu  fatta  il  0 
arzo  del  1447;  e  Prospero  Golonna,  decano  del  sacro  coUe- 
0,  annunziò  subito  al  popola  adonato  che  il  papa  era  stato 
etto. 

Il  nuovo  pontefice,  spalleggiato  dair  imperatore,  dal  re  di 
*aocia  e  dal  proprio  nome,  potè  in  aprile  del  1449  f»r  ces- 
re  io  scisma  causato  dal  concilio  di  Basilea  e  indurre  Felice  V 
deporre  la  tiara.  Amedeo  di  Savoia  ripigliò  Tantico  suo  nome, 
a  venne  dalla  corte  di  Roma  riconosciuto  come  cardinale  e 
gato  delia  santa  sede  in  Germania,  e  tutti  i  cardinali  da  lui 
eati  furono  ammessi  nel  sacro  collegio. 

Agli  studi  deirantica  letteratura  fu  bentosto  di  gran  giova- 
ento  Fesaltazione  del  più  zelante  suo  ammiratore.  Egli  chiamò 
ta  sua  corte  gran  numero  di  amanuensi  e  di  traduttori  dal 
eco  e  dal  latino.  Mandò  dei  dotti  in  traccia  di  manoscritti» 
li  facea  comperare  per  conto  suo  in  ogni  parte  dell'  Italia , 
dia  Germania  ,  dell'  Inghilterra,  della  Grecia  e  del  Levante, 
ronque  insomma  ne  trovava.  Negli  otto  anni  del  suo  regno 
irono  tradotti  in  latino  più  autori  greci  che  non  eransene 
adotti  in  cinque  secoli  prima  di  lui  e  sotto  cento  altri  papi, 
rabone,  Tucidide,  Polibio,  Diodoro,  Appiano,  Filone  ebreo 
mnero  sotto  il  regno  di  Nicolò  V  letti  da  coloro  che  non 
pevano  di  greco.  Molte  opere  di  Platone,  d'Aristotile,  di  Teo- 
asto  si  aggiunsero  a  quelle  che  già  si  aveano.  1  padri  ed  i 
ologi  dei  primi  secoli  della  Chiesa  non  furono  dimonticati,  e 
volgarizzarono  le  opere  di  Eusebio  di  Cesarea,  di  Dionigi 
Areopagita,  di  Basilio,  di  Gregorio  Nazianzeno,  di  Giovanni 
rìsostomo,  di  Cirillo:  nello  stesso  tempo  si  studiarono  con 
"dorè  le  lingue  orientali,  e  Giannozzo  Manetli  venne  incari  « 
ito  egli  stesso  dal  pontefice  di  fare  una  traduzione  della 
icra  Scrittura  sul  testo  ebraico,  lavoro  rimasto  imperfetto  per 
morte  di  Nicolò  V.  Questi  non  era  meno  sollecito  dei  pro- 
'essi  dell'  erudizione  che  di  quelli  dell'  architettura.  In  tutte 
1  città  de'  suoi  Slati  riparò  o  edificò  chiese  ;  ingrandi,  adornò 
cinse  di  sontuosi  edifici  le  pubbliche  piazze  e  rialzò  le  mura 
strutte. 

Assisi,  Civitavecchia,  Civita -Castellana  vanno  a  Nicolò  V 

Tamb.  Inquix,  Voi.  II.  fi7 


—  430  — 

debitrici  di  monameDti  per  quelle  piccole  città  maravigliosi.  Fab- 
bricò magnifici  palazzi  in  Orvieto  ed  in  Spoleto,  eresse  in  Viterbo 
bagni  per  gli  infermi,  degni  di  ricevere  non  solo  private  per- 
sone, ma  prìncipi.  Intorno  alla  stessa  Roma  rialzò  le  mora  mezzo 
diroccate,  ristaarò  la  maggior  parte  delle  chiese,  che  di  quei 
tempi  erano  quaranta,  e  pose  cura  particolarmente  alle  sette 
principali  basiliche.  Quella  di  San  Pietro  in  Vaticano  cadeva  in 
ruina;  Nicolò  vi  fece  incominciaror  coi  disegni  di  Bernardo  Ro- 
sellini  e  di  Giovanni  Battista  Alberti,  una  nuova  tribuna  pib 
ampia  delPantica.  Egli  voleva  innalzare  nella  capitale  de'cristiani 
un  tempio  la  cui  magnificenza  non  avesse  esempio:  di  già  n'erano 
gettati  i  vasti  fondamenti;  ma  i  murì  non  giugnevano  ancora  a 
tre  cubiti  d'altezza  sopra  il  suolo  quando  la  morte  di  Nicolò  V 
fece  sospendere  il  maraviglioso  edificio,  al  quale  non  si  pose 
mano  di  nuovo  se  non  mezzo  secolo  dopo,  per  comando  di 
Giulio  U,  coiropera  di  Bramante.  Egli  fu  per  supplire  a  queste 
regie  spese  che  Nicolò  bandi  nel  1480  il  giubileo:  con  questo 
egli  riempi  gli  scrigni  della  Chiesa  e  depositò  in  pochi  giorni 
ue'forzierì  dei  Medici,  banchieri  della  santa  sede,  parecchie  cen- 
tinaia di  migliaia  di  fiorini. 

Nicolò  V  soddisfece  pure  al  suo  amore  delle  arti  belle  fon- 
dando la  biblioteca  del  Vaticano;  egli  adunò  cinquemila  volumi 
in  quel  palazzo  pontificio,  ed  allora  non  credevasi  che  dopo  i 
tempi  di  Tolomeo  vi  fosse  stata  altra  biblioteca  pib  copiosa  di 
libri.  I  dotti,  cui  avevala  destinata  e  coi  quali  viveva  alla  dime- 
stica, lo  amavano  teneramente  e  lo  apprezzavano  e  rispettavano. 
Pare  che  Nicolò  V  fosse  uomo  d'indole  faceta,  semplice,  inge- 
nua. Come  il  Vespasiano  andò  a  trovarlo  dopo  Tesaltazione  sua, 
ei  gli  disse  sorridendo:  t  Ebbene,  i  vostri  concittadini  di  Fi- 
renze avrebbero  essi  mai  creduto  che  un  povero  prete,  fatto 
per  suonare  le  campane,  fosse  eietto  pontefice?  »  11  Vespa- 
siano rispose  che  quel  popolo,  che  lo  conosceva,  erasene  ralle- 
grato, perchè  da  lui  sperava  la  pace;  ed  il  papa  replicò  subito 
che,  se  Dio  gli  dava  grazia  di  soddisfare  il  suo  desiderio,  al- 
tr'arme  mai  non  adoprerebbe  in  sua  difesa  che  la  croce  di 
Gesù  Cristo. 

In  fatti  né  Tambizione  di  accrescere  il  dominio  papale,  né 
meno  quella  di  rendere  potente  la  sua  famiglia  potevano  tanto 
siilfanimo  di  Nicolò  V  da  indurlo  a  trascurare  i  suoi  doveri  di 
comune  pastore  dei  fedeli.  Ma  nella  sua  amministrazione  tem- 
porale, che  era  per  lui  cosa  di  non  mollo  rilievo,  mal  soppor- 


—  451  — 

ta¥i  che  altri  gli  si  opponesse.  Le  richieste  de^snoi  sudditi  per 
riavere  i  loro  prifilegi  gli  facefano  perdere,  a  parer  sqo,  quel 
tempo  ch'egti  avrdiibe  dorato  coosacrare  alla  Chiesa,  alle  lettere 
ed  alle  arti;  ood'egli  se  ne  sbrigava  con  sollecite  decisioni: 
d'altra  parte,  avendo  egli  vissoto  tanti  anni  nelP  altrui  dipen* 
denia,.  non  conosceva  che  gli  offici  di  padrone  e  di  servitore,  e 
diiedeva  quellMIIimitata  ubbidienza  che  egli  aveva  tanto  tempo 
prestata  ad  altri.  I  magistrati  romani  rìsguardavansi  pnr  sempre 
come  rappresentanti  del  popolo  e  della  repubblica,  ed  egli  vo- 
leva ridurli  alla  condizione  di  suoi  commissari.  Il  Porcari,  che 
di  buon'ora  aveva  manifestato  il  suo  amose  di  libertà,  che  coi 
suoi  discorsi  cercava  sempre  di  tener  viva  nel  popolo  queiran- 
tica  fiamma,  era  in  particolar  modo  sospetto  al  papa.  Ciò  non 
impedì  che  egli  fosse  nominato  podestà  d'Anagni;  ma  questa 
carica  veniva  probabilmente  conferita  dalla  città  stessa,  e  non 
dal  papa,  a  seconda  di  quanto  costumavasi  universalmente  in 
Italia.  Venuto  a  termine  il  tempo  della  sua  carica,  il  Porcari 
tomossene  a  Roma  e  non  perdette  di  vista  il  suo  costante  pro- 
getto di  rendere  la  libertà  a'suoi  concittadini.  Un  tumulto  de- 
statosi in  occasione  dei  giuochi  di  Piazza  Navona  parvegli  una 
propizia  occasione  di  tentare  alcun  che;  ed  essendosi  scagliato 
tropp'oltre  in  questa  circostanza,  venne  esigliato  a  Bologna,  con 
ordine  di  presentarsi  ogni  giorno  al  cardinal  Bessarione,  allori 
governatore  di  quella  città. 

Fu  in  tempo  di  quesfesilio  che  Stefano  Porcari  maturò  11 
progetto  di  fare  scuotere  a'suoi  concittadini  un  giogo  ch'essi 
risguardavano  aome  ignominioso.  Il  governo  era  oramai  tutto 
tra  le  mani  degli  ecclesiastici;  uomini  per  la  maggior  parte  di 
oscuri  natali,  forestieri  ed  esaltatisi  colle  brighe  ad  una  potenza 
di  cui  non  gli  aveva  fatti  degni  la  loro  educazione.  I  Romani 
si  vergognavano  di  dovere  ubbidire  a  tal  fatta  di  gente  ;  essi 
riguardavano  come  una  usurpazione  il  potere  dei  papi,  il  quale 
tei  suoi  principii,  nato  dal  decadimento  della  podestà  imperiale, 
era  Stato  limitato  da  quello  dei  caporioni,  veri  rappresentanti 
delk)  stato,  ed  in  appresso  aveva  fatto  luogo  al  governo  repub- 
blicano, dorato  in  vigore  fin  tanto  che  la  corte  pontiflcia  era 
rimasta  in  Avignone  e  che  avea  durato  lo  scisma.  La  tempo- 
rale autorità  dei  pontefici,  ristabilita  da  Martino  V  nel  1420, 
appena  era  stata  riconosciuta  per  quindici  anni  di  seguilo.  Eu- 
genio IV  ne  fu  nuovamente  spogliato  nel  4434  e  costretto  nd 
irsene  in  bando  da  Roma,  in  cui  i  legittimi  magistrati  non  volo- 


—  la  — 

Tano  concedergli  la  diinora  a  cagioDe  ddle  soe  prepolniK.  Ikifo 
la  sua  tornata,  ì  sooi  cootinoi  abusi  di  [NMane,  le  sangomose 
esecQtioni  non  precedute  da  repotare  ginfizio ,  le  guerre  e  le 
rìbeliioQì  sempre  rinascenti  nelle  ficinanie  <fi  Roon  aveiaiu 
«lato  pQr  troppo  a  conoscere  che  il  goTemo  de^prelati  aceopfÉaia 
tutti  i  Tilt  deiranarchia  a  qoelH  della  podestà  arbitraria.  Salto 
il  goremo  di  Niccolò  medesimo  il  malcontento  erasi  accresdnto 
:i  disroisora  tanto  nella  nobiltà  che  nel  popolo.  Egli  é  fero  che 
Nicolò  proteggeTa  le  arti  e  le  lettere  :  ma  questa  protetioDe 
•leT'essere  pei  goTemo  nna  cara  secondaria,  e  qnello  slesao  papa 
ohe  ristaoraTa  i  manoscritti  e  gli  eififlci  deir  antichità  polm 
(;ire ,  siccome  facera ,  mal  goremo  de*  Romani.  1  prelati  erano 
violi  dairebhrezza  del  potere»  dal  losso,  dalle  rkcheme.  da  talti 
(  Tizi  de'  prìncipi:  vìzi  in  essi  tanto  pia  odiosi  in  qoanlo  che  it 
loro  ministero  imponeva  ad  essi  il  dovere  di  serbare  no  tà 
ijnale  contegno  ed  onestà  di  vita  di  cai  ninno  di  essi  dava 
l'esempio. 

A  qnesU  motivi ,  che  incoravano  il  Porcari  a 
il  suo  intraprendimento .  on  altro  degno  di 
aggiange  il  Machiavelli*  che  ci  fa  conoscere  le  opinioni  dei  se 
colo.  11  Porcari  leggeva  sempre  con  .trasporto  la  canzone  del 
Petrarca: 

Spirto  geatìl  che  quelle  membra  regfi; 

neila  quale  Taotica  capitale  del  mondo  viene  chiamata  dal  (tteCi 
:i  Duova  libertà.  Non  solamente  quella  sublime  poesia  ene^ 
irgomento  che  io  <^dì  tempo  gli  alti  animi  si  erano  profosto 
:l  suo  slesso  scopo,  ma  ella  parevagli  inoltre  una  vera  proCec^ 
Parevagli  che  il  Petrarca,  per  la  grandezza  ddringe^no  e  étih 
sua  dottrina,  fosse  stato  fatto  degno  di  leggere  neU'avre&ire.  e 
tredevasi  additato  egli  medesimo  dal  poeta,  anche  prima  de!  sa> 
^ìascere,  sotto  il  nome  di 

Un  eavalier  che  lUlia  tutta  ODon« 
Pensoso  più  d'alimi,  che  di  sé  stesso. 


Die*  che  Romi  o^ora. 

Cogli  oochi  di  dolor  bagnati  e  moli:. 

Ti  ch.er  loeivè  da  tatti  i  sette  c-^Iii 

Li  credenza  dei  doni  profetici  non  era  io  allora  risgiuriiti 


coese  Indegna  de'più  filosofici  iDg^oi;  io  stesso  Machiavelli  oeù 
ne  andava  scevro»  e  nelle  pericolóse  imprese  ella  dava  agli  eroi 
forze  80praoatQrali« 

Rapito  dal  pensiero  di  rendere  a  Roma  la  libertà,  il  Por- 
cari deliberò  di  arrischiare  per  questa  cagione  la  propria  vita  e 
pose  ordine  air  impresa  di  conserva  con  Battista  Sciarra ,  suo 
nipote»  al  quale  aveva  manifestato  i  suoi  progetti  e  da  cui  era 
assecondato  con  ardore.  A  questo  egli  ordinò  di  radunare  nella 
soa  casa  tutti  coloro  che  erano  a  lui  neti  come  amici  della 
libertà  di  Roma  e  di  raccogliere  segretamente  quanti  soldati  e 
banditi  poteva.  Trecento  di  quelli  e  quattrocento  di  questi  fu- 
rono perciò  segretamente  adunati  nelle  case  del  Porcari ,  dello 
Sciarra  e  di  Angelo  Mascio»  cognato  del  Porcari.  Il  convegno  di 
tatti  i  congiurati  fu  stabilito  pel  5  gennaio  del  1453,  vigilia  del- 
l'Epifania,  sotto  colore  di  un  solenne  convito.  Il  Porcari,  che 
aveva  finto  di  essere  ammalalo  per  potersi  fuggire  da  Bologna 
senza  dare  sospetto  al  cardinale  governatore,  comparve  tra  i  con- 
stati vestito  di  porpora  e  d' oro.  Questo  sfarzoso  vestimento , 
piuttosto  che  ad  abbagliare  i  congiurati,  era  destinato  ad  age? 
volargli  nella  mattina  vegnente  V  ingresso  della  basilica.  Egli 
sapeva  che  i  guardiani  delle  porte  giudicavano  della  condizione 
dei  pers(ìnaggì  dal  loro  abito  e  che  non  ricuserebbero  di  lasciar 
passare  chi  vestiva  la  porpora  e  Toro.  Alcuni  de'suoi  complici, 
in  abito  di  capitani  della  guardia  notturna,  dovevano  condurre 
un  sufiiciente  numero  di  congiurati  alle  prigioni  del  Campido- 
glio ed  introdurveli  come  sediziosi  presi  da  loro;  e  questi  do- 
vevano occupare  queirimitortanteposto nell'atto  che  ne  sareb- 
bero state  aperte  le  porte. 

Disposte  in  tal  modo  le  cose,  il  Porcari  espose  a  tutti  i 
congiurati  Tordine  fermato  airesecuzione  de'comuni  disegni.  Egli 
rammentò  loro  con  queir  eloquenza  per  cui  andava  famoso  i 
diritti  dei  Romani  e. la  presente  loro  oppressione;  rammentò  i 
privilegi  e  gli  statuti  violati  e  la  crescente  corruzione  declorò  pa- 
droni. Appalesò  il  suo  disegno  di  cogliere  alla  sprovvista  il  papa 
ed  1  cardinali  avanti  alla  porta  della  basilica  di  San  Pietro  in 
occasione  che  vi  si  recherebbero  il  di  appresso  per  celebrare  la 
Epifania,  di  farsi  dare  con  tali  ostaggi  Castel  Sant'Angelo  e  le 
porte  di  Roma,  di  suonar  poi  la  campana  del  Campidoglio  e  di 
ristabilirà  la  repubblica  coirautorità  di  quel  popolo  al  quale  nn 
secolo  prima  Cola  da  Rienzo  aveva  ridonati  i  snoi  diritti.  Tutti 
gli  uditori  del  Porcari  mostravansi  apparecchiati  a  seguirlo  ed 


-454- 

a  porre  a  rischio  le  vite  per  coti  nobile  cagione.  Ma  egli  sbva 
ancora  arringando  che  di  già  era  tradita  U  senatore,  a??isato 
dell'adunanza  raccoltasi  in  quella  casa,  TaveTa  fatta  circondare 
da'  saoi  soldati  ed  assaltarla  repentinamente;  i  satelliti  dei  con- 
giurati, separati  da  loro  e  non  avendo  chi  li  conducesse,  non 
poterono  aiutarli.  Il  Porcari  volle  fuggire,  ma  fu  trovato  nelle 
stanze  di  sua  sorella  nascosto  in  un  cofano;  i  principali  com* 
plici  furono  presi  anch'essi,  tranne  il  nipote  di  Stefano,  il  quale 
combattendo  valorosamente  aprissi  il  varco  alla  fuga.  1  disegni 
dei  congiurati  ed  il  grado  della  loro  colpa  non  sono  ben  noli» 
0  il  sono  sulla  fede  di  sospette  testimonianze;  perciocché,  senza 
procedere  ad  alcun  esame,  senza  istituire  il  confronto  degli  ac* 
cusati,  senza  intraprendere  in  somma  alcun  regolare  processo,. 
Stefano  Porcari,  con  nove  de'  suoi  complici ,  fu  appiccato  io 
stesso  giorno  ai  merli  di  Castel  Sant'Angelo.  Fu  anzi  ricusata 
a  quegli  infelici,  prima  di  morire,  la  confessione  e  la  comunione, 
benché  ne  facessero  caldissima  istanza;  perciocché,  nonostante 
il  loro  attentato  contro  la  temporale  autorità  dei  papi,  essi  erano 
pure  zelanti  cattolici. 

Nicolò  V,  persuaso  che  1  congiurati  volessero  la  sua  morte^ 
sebl)ene  questa  avrebbe  mandati  certamente  a  vuoto  i  disegni 
del  Porcari,  diventò  timido  e  feroce,  mentre  prima  era  fidente 
e  di  facile  accesso.  Altri  supplizii  tennero  dietro  quasi  subito  i 
primi;  il  12  gennaio  Nicolò  fece  appiccare  un  dottore  ed  un 
cittadino  romano  che  aveva  accompagnato  il  Porcari  nella  sua 
fuggita  da  Bologna  ;  lo  stesso  giorno  fece  bandire  la  taglia  di 
mille  ducati  di  premio  a  colui  che  darebbe  in  mano  della  giu- 
stizia due  congiunti  del  Porcari  che  si  erano  nascosti,  e  di  ciò* 
quecento  ducati  a  colui  che  li  uccidesse.  Mandò  facendo  cal- 
dissime istanze  a  tutti  i  governi  d'Italia  per  avere  coloro  che 
si  erano  salvati;  molti  vennero  infatti  presi  a  Venezia  ed  a  Pa- 
dova, tra  i  quali  Battista  Sciarra,  nipote  del  Porcari,  e  tutti  furono 
condannati  a  morte.  Anzi  dopo  di  avere  promessa,  per  le  calde 
preghiere  del  cardinale  di  Metz,  salva  la  vita  ad  uno  degli  ac- 
cusati, detto  Battista  di  Persona,  ch'era,  dicevasi,  affatto  inno- 
cente ,  il  giorno  dopo  lo  fece  prendere  di  nuovo  ed  appiccare 
senza  processo.  Né  i  soli  congiurati  furono  vittime  della  cru- 
deltà sua:  un  gentiluomo,  detto  Angelo  Ronconi,  che  aveva  aju- 
tato  il  conte  Averso  deirAnguillara  a  nascondersi  per  iscampare 
dai  birri  della  giustizia  che  lo  inseguivano,  fu  dal  papa  chiamato 
a  Roma,  ove  recossi  munito  di  un  salvocondotto  soscrìtto  di 


—  4S  — 

fragno  imffio  di  Sm  Saotilà;  ciò  non  estinte  agli  fa  pram  per 


di  Nieolò  il  gierno  sossegnente  al  soo  arrìfo,  a'  13  otto* 
lira  del  1154,  ed  immantiQeQte  decapitato.  Vero  è  che  il  giorno 
dopo  KkiM  fece  ctiiedere  di  Ini  al  capitano  di  giostiiia  e  mo- 
stroaù  manTigliato  assai  ed  afflitto  oltre  modo  quando  gli  ta 
dello  elisegli  medesimo  ne  aveta  ordinato  il  supplizio.  Aggiunge 
Slefino  infessora  che  fa  detto  che  il  papa  era  abbrìaco  quando 
eoodannò  il  Ronconi ,  perciocché  aveva  faima  di  bever  molto. 
Per  lo  contrario  il  Vespasiano  ci  assicura  che  Taocusa  d'in- 
tempwansa  mossa  contro  Nicolò  V  era  soltanto  fondata  sulle 
4Sompre  che  egli  faceva  di  squisiti  vini  per  farne  presente  agli 
amici. 

Nicolò  V  non  sopravìsse  lungamente  a  questi  suppliaii.  Egli 
era  acerbamente  travagliato  dalla  gotta;  e  si  accerta  che  il  do* 
lore  cagionatogli  dalla  presa  di  Costantinopoli  ed  i  mali  della 
eristiaDità  che  ne  conseguitarono  diedero  Tultimo  crollo  alla 
sua  mal  ferma  salute.  Neir ultimo  anno  di  vita,  prevedendo 
vidno  U  suo  'floe,  chiamò  a  so  due  religiosi  che  godevano  opi- 
nione  grandissima  di  dottrina  e  di  santità,  Nicolò  da  Tortona  e 
Lorenzo  da  Mantova ,  e  loro  diede  stanza  in  palazzo.  Narrasi 
che,  recatosi  un  giorno  nella  loro  camera  e  sedutosi  loro  a  canto, 
si  lagnasse  d'essere  il  più  sventurato  uomo  del  mondo.  %  Non 
veggo  mai,  »  egli  disse,  e  varcare  ia  soglia  della  mia  porta  un 
uomo  che  mi  dica  una  parola  di  vero.  Io  sono  cosi  aggirato 
dalle  finzioni  di  coloro  che  mi  circondano  che,  se  non  mi  trat- 
tenesse il  timore  dello  scandalo,  rinunzierei  al  pontificato  per 
ritornare  ad  essere  Tomaso  di  Sarzana.  Sotto  quel  nome  un 
giorno  solo  mi  arrecava  ass^i  più  dilètti  ch'io  non  possa  ora 
sperarne  in  un  aqno.  >  Allora  questo  pontefice,  il  cui  regno  era 
stato  cosi  felice,  s'intenerì  fino  a  versar  lagrime.  Chi  sa  se,  tra 
gli  errori  a  cui  lo  avevano  tratto  i  raggiri  de'  suoi  cortigiani, 
il  rimorso  non  gli  abbia  fatto  dare  il  primo  alla  credenza  che 
il  Porcari  avesse  tramato  contro  la  sua  vita,  ed  alla  precipita- 
zione ed  al  rigore  delle  sentenze  che  avevano  tenuto  dietro  alla 
scoperta  di  quella  congiura? 

Durante  la  sua  malattia,  sebbene  soffrisse  acerbissimi  do- 
lori, Nicolò  non  fu  mai  udito  lagnarsi;  solo  i  suoi  amici  piange- 
vano intorno  al  suo  letto.  Gli  venne  tra  questi  veduto  Giovinni, 
vescovo  d'Arazzo,  dotto  teologo,  che  lagrimava.  t  Offri  (iuest« 
lagrime,  mio  caro  Giovanni,  i  gli  disse  egli,  «  a  colui  al  quale  ser- 
viamo, e  domandagli  con  umili  e  devote  preghiere  di  perJonarmi 


—  4«6  — 

i  miei  peccati;  ma  ricordati  che  to  vedi  oggi  morire  in  papa 
Nicolò  no  vero  e  buono  amico.  »  Il  vescovo  d'Arazzo,  pia  non 
potendo  frenare  i  singhiozzi,  fa  costretto  ad  uscire  dalla  camera. 
Nicolò  V  mori  il  24  marzo  del  1455.  Il  giorno  8  aprile,  i 
cardinali  raccolti  in  conclave  gli  diedero  per  successore  Alfonso 
Borgia,  nato  in  Valenza  e  vescovo -della  stessa  città,  il  quale 
prese  il  nome  di  Callisto  III.  Questo  pontefice,  di  già  assai  vec- 
chio quando  fu  promosso  al  pontificato,  parve  da  principio  non 
volersi  assumere  altra  cura  che  quella  della  crociata  contro  » 
Turchi,  ai  quali  dichiarò  la  guerra;  ma  i  favori  che  andò  ac- 
cumulando sopra  i  suoi  nipoti  io  tempo  del  breve  suo  regno 
aprirono  la  strada  delie  grandezze  a  quella  casa  Borgia  che 
Alessandro  VI  e  Cesare  suo  figliuolo  dovevano  rendere  per  tante 
vergógne  famosa.  La  perdita  delle  ultime  speranze  di  libertà  per 
ftoma  e  la  morte  di  Stefano  Porcari  dovevano  essere  seguite 
assai  da  vicino  dal  regno  dei  più  odiosi  tiranni. 


CAPITOLO  XXL 


Zisimo  a  Roma,  e  i  falsari  delle  bolle  pontificie. 


Nello  stesso  anno  14S9  fecersi  di  grandi  parole  in  Italia 
intorno  ai  an  altro  avvenimento  relativo  alle  cose  politiche  del 
Levante  ed  alle  imprese  dei  Turchi.  Gem  o  Zizimo,  figfliuolo  di 
Maometto  II  e  fratello  e  competitore  del  saltano  Baiazette  II, 
fece  il  suo  ingresso  in  Roma,  ove  recavasi  per  implorare  la  pro- 
tezione del  papa.  Zizimo  aveva  posto  in  campo,  per  succedere 
al  padre  nel  trono,  una  pretensione  spesso  allegata  dai  principi 
Sreci  di  Bisanzio.  Egli  era  porfirogmta,  vale  a  dire,  nato  men- 
tre àuo  padre  era  sul  trono,  e  per  questo  rispetto  credeasi  da 
più  del  fratello  maggiore  Baiazette,  cui  diceva  essere  nato  da 
HD  semplice  privato. 

Questa  vana  sottigliezza  bastava  per  tentare  il  cimento 
delle  armi  in  uno  Stato  dispotico,  dove  non  si  riconoscevano 
altri  diritti  che  quelli  fondati  nella  forza.  Ma  questa  mancò  a 
Zizimo,  il  quale,  vinto  in  Asia  nel  1482  in  una  sanguinosa  bat- 
taglia, fu  costretto  a  fuggir  per  mare  di  Cilicia  ed  a  rifuggirsi 
1d  Rodi,  implorandovi  la  protezione  de'cavalieri  di  San  Giovanni. 
<2uesti  non  osarono  tenere  in  sui  confini  delPAsia  un  tal  ospite, 
a  cagione  del  quale  pqteano  rivolgersi  a  loro  danno  tutte  le 
forze  del  gran  signore;  perciò  lo  mandarono  in  Francia,  ove 
il  facevano  attentamente  custodire  in  una  commenda  del  loro 
ordine  posta  nelFAIvergna.  Baiazette  profferse  loro  immense 
semme  di  danaro,  reliquie  senza  numero  ed  amplissimi  privi- 
legi per  averlo  nelle  mani  ;  ma  i  principi  cristiani  non  furono 

Tamb.  Jnquis.  Voi.  IL  38 


cosi  prÌYi  d'onore  da  acconsentire  a  tanta  indegnità.  È  Uitta?ia 
difficile  assai  lo  spiegare  con  motivi  giusti  ùi  onoreToli  il 
perchè  essi  non  abbiano  mai  permesso  a  Zizimb  di  recarsi 
alla  corte  di  Gait-Bei  soldano  d'Egitto,  il  quale  troTandosi  in 
guerra  accanita  con  fiaiazette,  lo  chiedeva  per  procacciare 
favore  alle  sue  armi  ;  e  il  perchè  negato  Io  abbiano  del  pari 
a  Mattia  Corvino,  re  d' Ungheria,  che  col  di  lui  mezzo  sperava 
di  fare  una  diversione  negli  Stati  del  suo  nemico.  Imperciocché 
fu  Sisto  IV  che  scrisse  al  gran  maestro  di  Rodi  ed  a  Lodo- 
vico XI  per  esortarli  a  ritenere  Zizimo  in  Francia  ed  a  non 
lasciarlo  partire  alla  volta  delle  contrade  a  cui  altri  chiama- 
vaio  ;  ed  Innocenzo  Vili  ricusò  ancor  esso  di  affidarlo  a  Fer- 
dinando re  d' Aragona  e  di  Sicilia,  air  altro  Ferdinando  re  di 
Napoli,  a  Mattia  Corvino,  al  soldano  ed  al  prìncipe  di  Cara- 
mania,  e  chiese  anzi  che  fosse  a  lui  consegnato,  col  pretesto 
di  bramare  d' assicurarsi  che  Zizimo  non  entrerebbe  nei  paesi 
turcheschi  senza  essere  spalleggiato  da  una  lega  di  tutta  ìi 
cristianità. 

Intanto  che  Innocenzo  aspettava  Zizimo ,  Baiazette  dal 
canto  suo  aveva  spediti  altri  ambasciatori  a  Carlo  Vin  per 
ottenere  dal  re  la  promessa  di  ritenerlo  in  Francia.  A  tal 
patto  Baiazette  offriva  al  fratello  un'  assai  ragguardevole  pen- 
sione e  garantiva  alla  Francia  il  possedimento  di  Terra  Santa, 
tosto  che  la  fosse  tolta  al  soldano  d'Egitto  dalle  armi  congiunte 
de'  Francesi  e  de'  Turchi.  Ma  Cario  VHI,  d'  accordo  col  gran 
maestro  Francesco  d'Ambusson,  aveva  di  già  acconsentito  alle 
inchieste  del  papa,  e  Zizimo  era  di  già  in  cammino  alla  volta 
di  Roma. 

Il  prìncipe  turco  fece  il  suo  ingresso  nella  capitale  della 
cristianità  il  13  di  marzo  del  1489,  entrovvi  a  cavallo  col  tur- 
bante in  capo,  e  stavangli  a  fianchi  Francesco  Cibo,  figlio  del 
papa,  ed  il  prìore  d'Alvergna,  nipote  del  gran  maestro  d'Aa- 
busson  ed  ambasciatore  di  Francia.  Trovavasi  allora  in  Roma 
un  ambasciatore  del  soldano  d'Egitto,  mandatovi  per  indurre  i 
prìncipi  cristiani  ad  unirsi  col  suo  signore  contro  Baiazette. 
Questi  andò  ad  incontrare  Zizimo  e,  appena  vedutolo  scese  da 
cavallo  e  si  prostrò  a  terra  ;  tre  volte  baciò  il  suolo,  facendo- 
giisi  incontro,  poi  baciò  i  piedi  (jel  suo  cavallo  e  lo  segai 
appresso  fino  al  suo  palazzo. 

Il  di  dopo  il  papa  tenne  concistoro  per  ricevere  Zizimo  in 
pubblica   udienza.  Il  prìncipe  turco  fu  invano   istrutto  delle 


-459- 

rìspettOBe  cerìmooìe  che  i  monarchi  crìstiaDi  osservano  trat- 
tando col  sommo  loro  pontefice;  perch'  ei  non  volle  innanzi  a 
Ini  abbassare  Torgoglio  del  regio  sangue  ottomano.  Tenendo  in 
capò  il  turbante,  che  gli  Asiatici  non  sogliono  mai  deporre  e 
che  risgnardano  come  un  simbolo  della  loro  religione,  attra- 
Terso  la  sala  senza  fare  alcuno  inchino,  sali  sul  trono  ove  stava 
Innocenzo,  e  lo  abbracciò,  toccando  colle  labbra  la  spalla  destra 
del  papa  in  segno  di  amicìzia  piuttosto  che  di  rispetto  :  il  che 
fece  in  appresso  con  tutti  i  cardinali.  Disse  quindi  al  papa,  col 
mezzo  del  dragomanno ,  che  si  rallegrava  di  trovarsi  al  suo 
cospetto,  che  alla  fede  ed  amistà  sua  raccomandavasi  e  deside- 
rava dì  conferire  con  Ini  più  segretamente  intomo  ai  comuni 
loro  interessi.  Il  papa  rispose  confortandolo  a  darsi  animo , 
poicbè  soltanto  per  il  bene  di  sua  nobiltà  (titolo  che  la  corte 
di  Roma  giudicò  conveniente  di  dargli)  era  stato  condotto  in 
quella  capitale.  Ma  quel  maggior  bene  che  Zizimo  doveva  tro- 
vare in  Roma  altro  non  era  che  una  onorevole  prigionia.  Baia- 
zette  II  pagava  ogni  anno,  da  prima  al  re  di  Francia,  poi  ad 
Innocenzo  YIII,  quarantamila  ducati  per  la  pensione  di  suo 
fratello.  11  godimento  di  quest'  entrata  non  era  stato  il  meno 
urgente  de'motivi  che  avevano  persuaso  Innocenzo  a  domandare 
ZSzimo,  al  quale  uopo  aveva  comperato  in  certo  qual  modo 
l'assenso  del  gran  maestro  d'Ambusson  col  mandargli  il  cappello 
cardinalizio.  Pure  Baiazette,  non  credendosi  per  ciò  sicuro  che 
il  fratello  fosse  ben  custodito,  cercò  i  mezzi  di  farlo  perire.  Un 
gentiluomo  della  Marca  d'Ancona,  detto  Cristoforo  Macrino  del 
Castagno ,  promise  a  Baiazette  di  avvelenare  una  fonte  dalla 
quale  attingevasi  Tacqua  per  le  mense  d'Innocenzo  e  di  Zizimo: 
il  veleno  non  doveva  fare  effetto  se  non  in  capo  a  cinque 
giorni  ;  ma  il  reo  fu  scoperto  prima  che  dar  potesse  esecuzione 
al  suo  delitto,  in  maggio  del  1490,  e  condannato  ad  orribile 
supplicio.  Altri  attentali  simili  furono  egualmente  sventati,  e, 
se  non  altro,  la  làta  di  Zizimo  fu  posta  in  sicuro. 

Non  era  difficile  il  trovare  in  Roma  uomini  pronti  a  com* 
mettere  cosi  esecrande  azioni,  né  quella  città  aveva  mai  avuti 
tanti  scellerati  né  era  stata  giammai  bruttata  da  tanti  delitti. 
Gli  assassini  andavano  impuniti  a  viso  scoperto  senza  avere 
satisfatto  né  alla  famìglia  di  cui  avevano  versato  il  sangue  né 
alla  giustizia.  11  papa,  o  i  suoi  ministri,  vendevano' ad  essi 
bolle  d' associazione,  colle  quali  le  loro  offese  e  quelle  di  un 
determinato  numero  de'loro  complici  erano  annullate;  e  quando 


-  4M  — 

rimproTeravasi  al  Ticecamerliogo  questa  venalità  della  già- 
glizia,  ei  rispondeva  quasi  per  beffa  queste  parole:  U  Signore 
rum  vuole  la  morte  del  peccatore ,  ma  piuttosto  cK  et  pogkt  e 
viva. 

Tanto  scandalosi  e  malvagi  erano  i  governi  dei  clero  che 
Innocenzo  Vili  si  vide  costretto  a  rinnovare,  il  9  aprile  1496, 
una  costituzione  di  Pio  II,  colla  quale  si  vietava  ai  preti  di 
tenere  macelli,  taverne,  bische  e  postriboli,  o  di  fare  per  da- 
naro il  rufflano  e  l'agente  delle  meretrici.  Che  se  dopo  tre  am- 
monizioni ei  non  lasciavano  quella  si  vergognosa  vita,  il  papa 
li  privava  del  diritto  dell'immunità  del  fóro  secolare  e  vietava 
loro  d'invocare  il  beneficio  dei  clero  nelle  cause  criminali  nelle 
quali  potrebbero  trovarsi  inquisiti. 

Innocenzo  Vili  non  aveva  peranco  provveduta  di  principati 
e  signorie  la  sua  numerosa  famiglia,  ma  avea  diviso  tra  i  suoi 
figliuoli  lo  molteplici  entrate  della  Chiesa,  e  di  queste  avea  dato 
In  maggior  parlo  a  Franceschetto  Cibo,  suo  figliuolo  primoge- 
nilo.  Kra  quel  Franceschetto  che,  per  cupidigia  di  danaro,  avea 
fatta  la  giustizia  cosi  indegnamente  venale.  Nel  1490  egli  fece 
patto  coi  giudici  del  papa,  che  la  camera  apostolica  non  rice- 
vesse se  non  il  pagamento  delle  condanne  minori  di  centocio- 
quanta  ducati,  e  che  sarebbero  a  suo  proprio  profitto  tutte  le 
maggiori  di  questa  somma. 

Per  rendere  ancora  più  obbrobriosa  la  venalità  della  giu- 
stizia della  corte  di  Roma,  un  Domenico  da  Viterbo,  scrivaDO 
apostolico,  di  conserva  con  un  Francesco  Maldente,  mandò  fuori 
false  l)olle  colle  quali  Innocenzo  permetteva  per  danaro  le  più 
vergognose  turpitudini.  U  frode  venne  tuttavia  scoperta  ;  furono 
imprigionali  i  falsari,  e  i  loro  beni,  occupati  dal  Fisco,  produr 
soro  alia  camera  apostolica  dodicimila  ducati.  I  congiunti  dei 
coli>evoU  speravano  tuttavia  di  riscattarli  dalla  pena  capitale. 
.  M;u\<itro  Gentile  da  Viterbo,  medico,  che  era  padre  dello  scri- 
vano aixìstolico,  ofl^rì  col  mezzo  di  Franceschetto  Cibo  cinque- 
mila ducati,  cioè  tutto  quello  ch'ei  possedeva,  per  iscampare 
il  tìgliuolo  da  morte:  ma  il  papa  risposegli  che.  essendo  il 
proprio  onore  offeso,  non  poteva  fatali  grazia  per  meno  di  sei- 
nìila  duc4ilt  :  e  perchè  non  si  potè  trovare  questa  somma .  i 
duo  falsari  furono  giustiziati. 

Quando  gli  scrittori  contemporanei  con  sì  tristi  e  oiios 
colon  fanno  ritratto  della  corruzione  del  clero,  quando  i  meòr 
«arni  papi  partecipano  a  tanti  delitti,  quando  la  sregoiat<zza  dei 


—  461  — 

loro  oostomi  o  i  figli  natorali  ch'essi  arricchiscono  coi  tesori 
della  Chiesa  pici  dod  sodo  soggetto  di  scandalo,  perchè  e'  Ten- 
gono  accusati  di  delitti  ancora  più  graTi,  vorrehhesi  quasi  sop- 
porre  che  la  religione  aTesse  perduto  ogni  potere,  e  che  i  preti 
che  tuttavia  rin?ocaTano,  o  1  sovrani  ed  i  popoli  che  la  man- 
tenevano colle  loro  1^,  altro  non  fossero  che  svergognati  ipo- 
criti i  quali  facevano  traffico  dd  cristianesimo  pei  loro  privati 
interessi.  Ma  ove  s'imprenda  più  attento  Pesame  delle  passioni 
che  agitavano  Fltalia  o  dei  pregiudìzi  che  la  signoreggia>*ano, 
si  comprende  bentosto  che  la  religione  nulla  aveva  perduto  del 
suo  impero,  sebbene  fosse  stata  interamente  disciolta  e  sepa- 
rata dalla  morale.  La  credenza  che  il  papa  ed  i  suoi  prelati  a 
posta  loro  aprivano  e  chiudevano  Tinferno  e  il  paradiso  non 
sii  era  punto  affievolita  :  tuttavia  universale  era  l'orrore  contro 
ogni  opinione  indipendente  in  materia  di  fede,  opinione  dan- 
nata tosto  come  eretica  ;  e  la  giustizia  di  Dìo,  pervertita  tra  le 
nani  degli  uomini,  più  non  era  invocata  se  non  a  guarenzia 
Iella  credenza,  e  non  già  dell?  probità  e  dell'onore. 


CAPITOLO   XXII. 


L*  InqaÌMBÌone  nella  SfMigaa. 


Fu  in  questo  depravato  secolo,  fa  sotto  il  pontificato  di 
Sisto  IV,  l'instigator  di  tanti  delitti,  che  rinqaisizione  venne 
introdotta  nella  Spagna,  e  che  fu  istituito  quel  sanguinario  tri- 
bunale con  leggi  assai  più  formidabili  ed  atroci  che  non  fos- 
sero quelle  che  retto  Pavevano  tre  secoli  innanzi  nella  sua  prima 
istituzione  contro  gli  Albigesi.  Dal  1478  al  1482  i  tribunali  creati 
in  Gastiglia  per  esaminare  la  fede  dei  nuovi  convertiti  condan- 
narono al  fuoco  duemila  persone;  altri  accusati  di  miscredenza 
in  assai  più  copioso  numero  perirono  nelle  prigioni;  altri  (e  questi 
furono  trattati  con  maggior  indulgenza)  vennero  segnati  con  una 
croce  arroventala  sul  petto  e  sulle  spalle,  dichiarati  infami  e 
spogliati  d'ogni  loro  avere.  I  nuovi  tribunali  non  la  perdona- 
rono neppure  agli  estinti,  che  di  questi  fecero  trarre  le  ossa  dai 
sepolcri  per  arderle,  confiscarono  i  beni  e  notarono  d'infamia 
la  prole.  Coloro  nelle  cui  vene  scorreva  il  sangue  di  qualche 
moro  0  di  qualche  ebreo  fuggivano  da  quella  terra  di  proscri- 
zione; sicché  nella  sola  Andalusia  rimasero  deserte  cinquemila 
case.  Gensettantamila  famìglie  ebree,  che  sommavano  ad  otto- 
centomila persone,  furono  scacciate  dal  territorio  della  Spagna; 
e  non  pertanto  la  maggior  parte  de'  mori  e  degli  ebrei  dissi- 
mulò la  propria  religione  per  rimanere  in  patria,  ed  altri  mol- 
tissimi vennero  dichiarati  schiavi  e  venduti  al  pubblico  incanto. 

i  Questa  severità  nel  punire  gli  apostati  neofiti  della  razza 
ebrea  i,  dice  il  Rainaldo,  annalista  della  Chiesa,  <  ottenne  presso 


-«a  — 

aniiiie  pie  b  piìi  ilu  gloria  ad  Isabdb,  n^  di  Casti- 
;  altri  perù  la  calonniaroDO.  Si  sparse  Tooe  che  dod  per  ven- 
ne le  ingiurie  delT  offesa  difinità,  ma  per  copidigia  delPoro 
tr  accomiilaiB  riocheBe  procedevasi  ne'  giodiii  con  tanta 
riti.  La  stessa  regina  avendo  dato  a  conoscere  di  temere 
qnest'accosa  non  giungesse  alle  orecchie  del  papa«  Sisto  IV 
ciò  dal  soo  cuore  cosi  ingiusto  sospetto  e  fece  plauso  alla 
li  pielà  colla  sua  lettera  del  25  febbrajo  1483.  > 
Gli  scritorì  italiani  del  quindicesimo  secolo,  non  meno  che 
li  del  diciassettesimo ,  mai  non  parlavano  di  tali  persecu- 
i  senza  approvarne  altamente  la  massima.  I  più  moderati, 
1  umani  appagavansi  del  tuasimare  i  particolari  deiresecu- 
e.  Cosi  il  racconto  di  Bartolomeo  Senarega,  storico  di  Gè- 
I,  che  vide  trattenersi  in  quella  città  molte  migliaia  di  ebrei 
le  fu  commosso  dai  loro  patimenti  »  ci  porge  un  adequato 
Ito  delle  opinioni  degli  uomini  i  più  fllosofl  e  più  tolleranti 
secolo.  <  La  legge  dei  loro  esilio ,  >  egli  scrive,  <  parve  a 
la  vista  lodevole,  perchè  tendente  a  conservare  l'onore  della 
ra  religione  ;  ma  in  sé  forse  conteneva  tanto  quanto  di  cru- 
I,  qualora  per  lo  meno  vogliamo  considerare  gli  ebrei  come 
•ini  creati  dalla  divinità,  non  quali  feroci  belve.  Non  potè- 

senza  pietà  vedere  la  loro  miseria  :  molti  di  loro  perivano 
me,  in  particolare  i  fanciulli  ed  i  bambini  lattanti  ;  le  ma* 
che  potevano  appena  reggersi  in  piedi,  portavano  nelle  loro 
eia  i  bambini  allumati  e  perivano  con  essi;  molti  soggia- 
no  al  freddo ,  altri  alla  sete  :  il  mal  di  mare  e  la  navigar 
e,  cui  non  erano  assuefatti,  aggravavano  tutte  le  loro  lo- 
lita. Io  non  dirò  con  quanta  crudeltà  ed  avarizia  fossero 
ati  dai  loro  condottieri.  Molti  vennero  annegati  per  la  cu- 
^a  dei  marinai ,  molti  costretti  a  vendere  i  loro  flgliuoli 
he  non  avevano  con  che  pagare  il  nolo;  un  gran  numero 
ssi  arrivò  a  Genova ,  ma  non  fu  loro  permesso  di  tratte- 
ìsi  lungamente ,  perchè  in  forza  di  antiche  leggi  gli  ebrei 
viatori  non  potevano  rimanervi  più  di  tre  giorni.  Pure  si 
e  loro  licenza  di  rattoppare  le  navi  e  di  rifarsi  per  alcuni 
ni  dai  patimenti  della  navigazione.  Gli  avresti  creduti  spet- 
tante erano  magri,  pallidi,  colle  occhiaie  affossate;  ne  di- 
aevaosi  dagli  estinti  se  non  che  pei  moto,  sebbene  si  reg- 
ero  in  piedi  a  stento.  Molti  di  loro  spirarono  appresso 
lolo,  perchè  questo  quartiere,  circondato  dal  mare,  era  il 

in  cui  fosse  agli  ebrei  permesso  di  riposarsi.  Non  si  :iv- 


-464  — 

verti  a  bella  prima  che  tanti  infermi  e  moribondi  dovevano 
generare  il  contagio;  ma  in  primavera  si  manifestarono  piò 
ulceri  che  non  ^'erano  mostrate  neirinverno,  e  qnesta  malattia, 
lungamente  nascosta  in  città,  fece  nel  susseguente  anno  scop- 
piare la  peste.  » 

I  preti  non  avevano  ridestato  questo  zelo  persecutore  sol- 
tanto nella  Spagna  ;  anche  il  clero  d'Italia  si  sforzava  di  gareg- 
giare in  quelle  sanguinose  vendette  con  quello  d'oltre  i  Pirenei. 
Ogni  anno  facevasi  andar  attorno  qualche  nuova  storiella  di 
fanciulli  cristiani  rubati  dagli  ebrei  e  lentamente  uccisi  colle 
coltella  nel  giorno  di  Pasqua;  diceasi  che  mandavasi  in  giro  la 
coppa  in  cui  si  era  raccolto  il  loro  sangue  :  e  con  queste  ter- 
ribili novelle  si  andava  infondendo  negli  animi  dei  popolo  Io 
stesso  furore  contro  di  loro.  A  Firenze  un  frate  Bernardino  di 
Asti,  francescano»  predicò  contro  gli  ebrei  per  molti  giorni  della 
quaresima  del  1487.  Raccomandò  poscia  che  si  avesse  cura  di 
mandare  tutti  i  fanciulli  della  città  alla 'predica  che  proponeasi 
di  fare  il  12  di  marzo  :  e  come  n'ebbe  raccolti  da  due  in  tre- 
mila ,  disse  di  averli  prescelti  per  essere  i  suoi  soldati  ed  or- 
dinò loro  di  andare  ogni  mattina  a  recitare  in  ginocchioni  un 
Pater  Noster  e  tre  Ave  Maria  al  santo  Sacramento  nella  cap- 
pella della  chiesa,  afSnchè  ispirasse  agli  adulti  la  santa  risolu- 
zione di  scacciare  gli  ebrei.  Il  susseguente  mattino  tutti  que- 
sti fanciulli  si  aVollarono  infatti  nella  chiesa  e  ne  uscirono  per 
mettere  a  ruba  11  quartiere  degli  ebrei.  La  Signoria  ebbe  che 
fare  assai  a  ridurli  in  dovere  e  mandò  ammonendo  il  predica- 
tore, il  quale   rispose  che  i  comandamenti  di  Dio  erano   più 
alti  che  quelli  de'  magistrali  e  che  niente  potrebbe  rimuoverlo 
dal  dire  sul  pergamo  tutto  ciò  che  credeva  conveniente  alla  sal- 
vezza del  popolo.  Convenne  air  ultimo  farlo  uscire  dalla  città, 
con  grave  scandalo  dello  scrittore  che  lasciò  memoria  di  que- 
stua vveoimento.  Frate  Bernardino  andò  a  terminare  la  quaresima 
a  Siena,  ove  cercò  di  ammutinare  nella  stessa  maniera  il  popolo 
contro  gli  ebrei. 

In  aprile  del  1492  un  frate  Francesco,  spagnuolo,  tentò  di 
eccitare  in  Napoli  la  stessa  persuasione  contro  gli  ebrei.  Dopo 
di  avere  invano  posta  in  opera  a  quest'  uopo  tutta  la  sua  elo- 
quenza ed  innanzi  alla  corte  ed  innanzi  al  popolo,  frate  Fran- 
cesco tentò  altresidifar  parlare  i  morti:  fece  perciò  comparire 
l'ombra  di  san  Cataldo,  patrono  della  città  dì  Taranto,  vissuto 
nel  quinto  secolo;  e  dissotterrata  una  cassetta   entro  la  quale 


-  465- 

aYe?a  chiose  certe  sue  profezìe  scrìtte  sopra  lamioe  dì  i^ombo. 
per  coi  eraoo  preoonciate  le  roTìne  del  re^o  di  Napoli  e  b 
Ticioa  morte  del  re  se  ooo  si  affnellava  a  cacciare  gli  cèrei 
dal  soo  regoo,  oe  le  trasse  foori  :  e  perchè  Ferdinando  non  gli 
prestava  intera  fede,  le  ditTose  nella  corte  dì  Roma  e  per  tutta 
ritalia  ;  le  qoali  si  vollero  bentosto  aTTerale  colla  espulsione 
della  casa  d'Aragona  dal  trono  di  Napoli. 

I  trìbooali  ecclesiastici  risuonavano  nello  stesso  tenìpo  di 
accuse  di  fattocchieria  ;  e  Io  spettacolo  de^li  sventurati  che  pe- 
rìvàno  sol  rogo  dannati  per  magia  od  eresia  si  faceva  ogni  di 
più  frequente. 

Difficilmente  potrebbe  trovarsi  di  questo  furore  desiato  dai 
preti  un  più  spaventoso  esempio  che  quello  della  persecuzione 
di  Arazzo  noi  1495,  contro  gli  infelici  accusati  di  VaUcm.  Ecco 
come  viene  raccontato  il  fatto  dal  Monstrelet: 

e  In  quest'anno  nella  città  d'Arazzo  nel  paese  d'Artese,  aV<- 
venne  un  terribile  e  compassionevole  ciiso  che  chiamossi»  non 
saprei  per  quale  ragione,  Valdesia.  Se  non  che  dicevasi  essere 
alcune  persone  d'ambo  i  sessi  che  erano  portale  via  per  virtù 
del  demonio  dai  luoghi  in  cui  si  trovavano ,  o  subito  (giugno- 
vano  in  alcuni  luoghi  fuor  di  mano,  boschi  o  deserti,  ove  rac- 
coglievansi  in  grandissimo  numero  uomini  e  donne;  e  colà 
trovavano  un  diavolo  in  forma  d'uomo,  di  cui  non  vedovano 
mai  il  volto,  e  questo  diavolo  dava  o  leggeva  loro  i  suol  co- 
mandi ed  ordinanze ,  e  come  ed  in  qual  modo  dovevano  essi 
adorarlo  e  servirlo.  Poi  facevasi  da  ciascuno  di  loro  baciare  il 
deretano ,  indi  contava  a  ciascheduno  un  poco  di  danaro ,  ed  ^ 
airultimo  loro  amministrava  vino  e  cibi  in  gran  copia  ,  di  cui  ' 
satollavansi,  indi  tutt'ad  un  tratto  ognuno  s'avvicinava  ad  una 
donna,  e  di  botto  spegnevasi  la  luce  e  conoscevansi  Tun  Tal  Irò 
carnalmente,  e  ciò  fatto  si  trovavan  tutti  nello  stesso  luogo 
donde  si  erano  da  prima  partiti. 

e  A  cagione  di  questa  follia  furono  prese  ed  imprigionate 
molte  persone  ragguardevoli  della  città  di  Arazzo,  ed  altre  per- 
sone di  minor  conto,  e  vennero  talmente  angustiato  e  cosi  terri- 
bilmente tormentate,  che  gli  uni  confessarono  esser  loro  accaduto 
tal  caso,  come  abbiamo  detto,  e  molti  confessarono  di  più  d  avon? 
veduti  e  conosciuti  nelle  loro  congreghe  molti  ragguardevoli  per- 
sonaggi, prelati ,  signori  ed  altri  governatori  di  bagliaggi  e  di 
città,  vale  a  dire  coloro,  secondo  la  fama  comune»  che  gli  o^a- 
minatori  e  giudici  loro  nominavano  e  i)oncvano  in  boccHt  or^io 

TiLMB;.  Inquis.  Voi.  IL  'iì^ 


—  466  — 

per  forza  delle  pene  e  dei  tormeoti  essi  gli  accusayaQO  e  dice- 
vaDO  che  Teramente  gli  avevano  veduti»  e  questi  cosi  nominati 
venivano  subito  dopo  imprigionati  e  posti  alla  tortura  tanto  e 
cosi  lungamente  e  tante  volte»  che  erano  forzati  a  confessare. 
E  furono  quelli  fra  costoro  che  erano  gente  minuta  giustiziati 
e  bruciati  inumanamente  ;  altri  poi  che  erano  più  potenti  e 
ricche  persone  riscattavansi  a  forza  di  denaro  per  ischivare  le 
pene  e  le  vergogne  che  loro  si  facevano;  e  tali  altri  vi  furono 
dei  più  grandi,  che  furono  imbeccherati  e  sottratti  dagli  esami- 
natori che  loro  davano  ad  intendere,  e  lo  promettevano,  se 
confessavano  il  caso,  che  non  perderebbero  né  corpo  né  roba. 
V'ebbe  tuttavia  alcuni  che  soffrirono  con  maravigliosa  pazienza 
e  costanza  le  pene  ed  i  tormenti,  e  nulla  confessarono  a  pro- 
prio danno....  e  non  devesi  qui  tacere  ciò  che  molti  uomioi 
dabbene  L'inno  abbastanza  conosciuto,  che  questa  maniera  di 
accusa  fu  una  macchinazione  inventata  da  certi  scellerati  per 
incolpare,  distruggere  o  disonorare,  o  per  ardore  di  cupidia 
spogliare  alcune  ragguardevoli  persone,  contro  delle  quali  na- 
drivano  inveterato  odio  ». 

Soltanto  a  motivo  di  questo  sospetto  lo  storico  ardisce  que- 
sta volta  parlare  liberamente.  Quasi  ogni  anno  s'incontrano  in- 
dizi di  somiglianti  persecuzioni  in  uno  o  in  altro  luogo;  ma  i 
cronicisti,  risguardandole  come  giuste  e  sante,  non  le  ricordano 
ordinariamente  che  in  poche  parole. 

I  domenicani,  che  in  questi  tribunali  sedeano,  non  volevano 
acconsentire  che  la  civile  autorità  riconoscesse  le  loro  sentenze, 
sebbene  a  questa  sola  si  aspettasse  di  mandarle  ad  esecuzione. 
Innocenzo  Vili  scriveva  a  tale  proposito ,  il  30  di  settembre 
del  1486,  in  questi  termini  al  vescovo  di  Brescia:  <  Abbiamo 
saputo  con  grande  stupore  come,  avendo  il  nostro  diletto  figliuolo 
frate  Antonio  da  Brescia,  inquisitore  delPeretica  pravità  in  Lom- 
bardia ,  condannati  alcuni  eretici  dei  due  sessi  come  impeni- 
tenti, e  richiesti  gli  ufficiali  di  giustizia  di  Brescia  di  eseguire 
la  sua  sentenza,  quegli  ufficiali  abbiano  ricusato  di  fare  giustizia 
e  di  eseguire  i  giudizi  della  santa  Inquisizione,  se  loro  non 
facevasi  conoscere  il  processo.  Mandiamo  perciò  ed  ordiniamo 
n  te,  nostro  fratello,  colle  presenti,  di  comandare  ed  ingiungere 
agli  ufficiali  secolari  della  città  di  Brescia  di  dare  esecuzione 
ai  processi  che  tu  avrai  giudicati ,  senza  appellagione  e  senza 
ch'essi  ardiscano  altrimenti  rivederli,  nel  termine  di  sei  giorni 
dopo  essere  slati  legittimamente  richiesti,  sotto  pena  di  scomn- 


oici  e  fi  tulle  le  eensnre  eodesbslicbe,  nelli  qmle  incoiti- 
rumo  per  b  soh  disohbedfeDia  seoa  nuoft  promii^uìoii^  » 

Goà  ooo  la  Inrtnrie  de'seooB  dì  meno»  non  il  ferrido  M 
BDlosiaslieo  leio  de*  tempi  in  coi  h  religìoDe  infi^mimn  tutti 
^  aniaii  •  non  h  neoesati  dì  dìfendoe  b  fède  contro  i  pro« 
pressi  dà  nofaloii  sooesero  i  roghi  ddr  Inquìsitione.  Ijc  pid 
briose  p^secQxioni  ts  le  più  implacabili  tra  quelle  che  magKio^ 
mente  deturpano  b  slorb  del  clero  sono  anleriori  di  qu^ran- 
V  anni  alle  prime  prediche  della  riforma  ;  esse  accaddero  nei 
tempi  in  coi  le  lettere,  la  filosofia,  la  coltura  dell'umana  ragione 
giunte  erano  al  più  alto  grado  cui  giungessero  mai  prima  di 
quest'epoca  memorabile;  esse  cominciano  dal  punto  in  cui  la 
corte  di  Roma  fu  giunto  all'  estremo  della  corroiione ,  e  sono 
la  nuova  e  spaventosa  conseguenza  di  quella  massima  di  com- 
pensare  la  disonestà  dei  costami  e  della  vito  col  fervore  della 
fede,  cui  questo  stessa  corruzione  aveva  fatto  adottore  ai  cre- 
denti. Al  dire  di  un  Sisto  IV,  di  un  Innocenzo  Vili,  di  on  Ales- 
sandro IV  si  cancellava  la  macchia  del  peccato  pel  rigore  con 
cui  si  conservava  la  purità  della  fede.  Bastova  una  persecuzione 
per  tergere  la  macchia  di  mille  spergiuri,  di  mille  impurità,  di 
udlle  misfatti.  Coloro  che  io  gioventù  o  nell'età  virile  avevano 
ceduto  alla  foga  del  temperamento  o  ai  furori  deirambiziono  e 
della  vendette ,  poteaho  di  tutto  ottenere  il  perdono  se  negli 
estremi  istonti  della  loro  vito  accendevano  il  rogo  per  ardere 
gli  ebrei ,  i  mori,  gli  eretici.  Questa  spaventosa  morale,  domi- 
nante in  Ispagna,  predicata  in  Itolia,  bandita  in  tutta  la  cristia- 
nità dalle  bolle  dei  papi,  propagavasi  rapidamente  verso  i  paesi 
meno  colti.  Diffidi  cosa  è  il  prevedere  quale  sarebbe  stoto  l^ 
termine  di  questa  spaventosa  progressione,  se  la  rivoluzione  di 
una  parte  della  Germania  contro  la  romana  tirannia  non  avesse, 
dopo  una  lunga  contesa,  costretti  i  papi  a  dipartirsi  da  quella 
sanguinaria  intolleranza  ch'era  per  loro  diventato  lo  scopo  unico 
della  religione. 

11  collegio  dei  cardinali,  cosi  zelante  della  purità  della  fede, 
badava  appena  allo  spergiuro  del  capo  della  Chiesa,  d'Inno- 
cenzo VIU,  il  quale  nel  mese  di  marzo  del  1489|  facendosi  beffo 
de'protni  giuramenti,  sei  nuovi  cardinali  aggiunse  al  concistoro, 
seU>ene  il  sacro  collegio  non  fosse  ridotto  a  minor  numero  di 
ventiquattro:  anzi  il  Rainaldo,  annalbto  eccMastico ,  approva 
un  siflbtto  procedere,  per  lo  motivo  che  le  condbloni  Imposto 
dai  cardinali,  mentre  b  Chiesa  era  priva  del  suo  pastore,  sono 


—  468  — 

dichiarate  nnlle  da  una  costituzione  dlnnocenzo  VI.  Ha  Io  stesso 
annalista,  sempre  così  ligio  alla  santa  sede,  condanna  siccome 
un  brutto  esempio  di  disprezzo  della  disciplina  ecclesiastica 
l'elezione  che  fece  Innocenzo  Vili  del  figliuolo  adulterino  di 
suo  fratello  e  del  cognato  ancóra  fanciullo  del  suo  proprio 
bastardo  a  cardinali.  La  seconda  di  queste  elezioni,  che  muove 
la  bile  di  tanto  ortodosso  scrittore  della  Chiesa,  è  quella  di 
Giovanni,  flgliuol  di  Lorenzo  de'  Medici,  che  fu  poi  Leon  X.  In 
fatti  questo  Giovanni  non  aveva  che  tredici  anni,  e  lo  scandalo 
di  dare  alla  Chiesa  un  principe  cosi  giovane  era  uno  di  quelli 
dai  quali  Innocenzo  Ylil,  per  la  fede  del  prestato  giuramento, 
avrebbe  dovuto  guardarsi.  Innocenzo  provò  per  altro  qualche 
vergogna  di  aver  fatta  queir  elezione,  che  fu  disapprovata  da 
molti  membri  del  sacro  collegio ,  ed  impose  per  condizione  al 
giovanetto  Medici  di  non  vestire  le  insegne  cardinalizie  e  di  non 
venire  a  Roma  per  sedere  in  concistoro  prima  che  passassero 
altri  tre  anni,  ossia  prima  che  egli  avesse  compiuto  il  sedice- 
simo anno. 

La  stretta  alleanza  di  Lorenzo  de'  Medici  con  Innocenzo  Vili, 
alleanza  il  cui  nodo  era  la  debolezza  del  'papa ,  veniva  in  tal 
modo  a  porre  nuove  fondamenta  alla  grandezza  della  casa  de' 
Medici.  Frattanto  Lorenzo  andava  ogni  di  più  aggravando  il 
giogo  sopra  i  suoi  concittadini:  in  principio  del  1489  egli  osò 
castigare  con  isfacciata  tracotanza  il  gonfaloniere  Neri  Cambi, 
che  usciva  allora  di  carica,  per  avere  sostenuti  i  diritti  del- 
l' ufficio  suo,  ed  ammoniti,  senza  la  di  lui  venia,  alcuni  gonfa- 
lonieri delle  compagnie  che  non  si  erano  recati  al  posto  loro 
assegnato.  Or  bene,  si  trovò  che  il  procedere  del  gonfalioniere 
era  troppo  orgoglioso  inverso  Lorenzo,  principe  del  governo,  e 
il  nome  di  prìncipe,  fin  allora  ignorato  in  una  libera  città,  co- 
minciò a  venire  in  uso  a  Firenze. 

A  conseguenza  di  siffatto  cambiamento  le  cose  di  Firenze 
rimasero  prive  d'ogni  interesse  e  di  ogni  importanza.  Le  fac- 
cende pubbliche  trattaronsi  d'allora  in  poi  nel  gabinetto  di  Lo- 
renzo de'  Medici,  e  la  politica  della  Repubblica  fu  perciò  sepolta 
nel  silenzio  e  nell'arcano.  Gli  encomiatori  di  Lorenzo  scrissero 
ch'egli  solo  mantenne  l'equilibrio  politico  d' Italia  ;  ch'egli  dis- 
suase Innocenzo  Vili  dal  muovere  guerra  a  Ferdinando,  poiché 
la  santa  sede  ebbe  scomunicato  quel  re  nel  1489  e  dichiara- 
tolo decaduto  dal  trono,  ch'egli  impedi  al  duca  di  Calabria  di 
imprendere  colle  armi  la  difesa  di  Giovanni  Galeazzo  Sforza,  suo 


—  469  — 

genero,  contro  Lodo?ico  il  Moro;  ch'egli,  per  ultimo,  fa  costan* 
temente  il  mallevadore  e  mediatore  della  pace  d'Italia.  Que- 
st'azione continua  di  Lorenzo  de'  Medici  è  possibile  e  non  è 
per  nulla  improbabile,  ma  non  trovasene  indizio  negli  storici 
fiorentini.  La  Repubblica  di  Firenze,  centro  in  altri  tempi  di 
tutte  le  negoziazioni  d'Italia,  pareva  ritirarsi  ognor  più  da  ogni 
ingerenza  in  tutti  i  grandi  interessi  di  questa  contrada.  I  suoi 
annali  sono  vuoti.  Scipione  Ammirato  accenna  appena  i  nomi 
di  molti  gonfalonieri,  senza  dire  ch'essi  o  la  Repubblica  abbiano 
fatta  alcuna  cosa  importante  nel  tempo  della  carica  :  e  l'Ammi- 
rato è  storico  minuziosissimo.  Anche  gli  altri  storici  tacciono 
di  quei  tempi,  più  non  si  sentendo  aiutati  a  scrivere  la  storia 
quando  gì'  interessi  della  patria  più  non  erano  quelli  di  ogni 
cittadino. 


CAPITOLO   XXIIL 


ElemioBi  di  AleMaadro  VI ,  duafni  di  Jerottimo  8«TOMrob 
iatorno  «ila  rifomui  della  Chiesa  e  dello  Stato  d'Italia, 
Piero  de^  Medici,  eoe. 


La  credenza  religiosa  e  la  politica  d' Italia  concorrevano  a 
dare  al  papa  il  primato  nella  confederazione  de'Yarìi  Stati 
indipendenti  nei  quali  era  divisa  la  contrada.  Nel  corso  priQ- 
cipalmente  del  quindicesimo  secolo  i  papi  innalzarono  la  lo- 
ro monarchia  temporale;  perchè  in  questo  secolo  ridussero 
la  città  di  Roma  neir  assoluta  loro  dipendenza ,  lasdandone 
solo  i  suoi  magistrati  di  municipio,  sostituirono  la  pro- 
pria autorità  a  quella  del  Senato  e  della  Repubblica,  e  aboli- 
rono, dopo  la  congiura  dì  Stefano  Porcari,  gli  ultimi  avanzi 
della  romana  libertà.  Con  non  minor  ardore  s'adoperarono  al- 
tresì in  quel  secolo  i  papi  a  ridurre  la  nobiltà  feudataria  delle 
vicinct  Provincie  nelPubbìdìenza  della  santa  sede  ;  e  sopratutto 
colle  fiere  persecuzioni  mosse  da  Sisto  IV  contro  i  Colonna,  e 
da  Innocenzo  Vili  in  principio  del  suo  pontificato  contro  gli 
Orsini,  quelle  due  potenti  case  di  molto  abbassarono.  Quindi  è 
che  quasi  tutti  i  piccoli  principi  e  quasi  tutte  le  città  libere 
che  sono  poste  tra  Roma,  gli  Stati  di  Firenze  e  quelli  di  Vene- 
zìa  furono  costrette  a  riconoscere  la  suprema  autorità  della 
santa  sede.  Gli  è  vero  che  i  principi  di  Romagna  conservavano 
la  loro  signoria  sotto  Tautorità  della  Chiesa,  ma  perchè  il  papa 
temevano,  prontamente  ubbidivangli,  e  si  gli  somministravano 
in  tutte  le  sue  guerre  eccellenti  capitani  e  buoni  soldati.  Per- 


—  471  — 

dò  gli  idlim  pcmlefid  si  diedero  a  difedero  ben  più  guerrieri 
die  saoertoli,  e  feeero  taiere  assd  pHi  le  anni  dello  Stato  dM 
della  Chiesa. 

D^altra  parte  il  papa ,  avendo  Talta  signoria  dd  regno  A 
Napoli ,  e  capo  essendo  dd  partito  gndfo  in  Lombardia  tà  in 
Toscana ,  e  supremo  retore  ddla  Cbiesa ,  era  assai  più  pos« 
sente  ancora  ndranni,  che  noi  comportasse  rampiena  ddle 
proTinde  soggette  air  immediata  soa  podestà*  Ben  oltre  i  pro* 
prì  confini  egli  poteva  ancora  senza  danaro  far  levare  in  armi 
i  suoi  partigiani,  guerreggiare  senza  soldati»  minacciare  ed  at- 
terrire  senza  forze  reali.  Perdo  la  storia  dd  papi  ò  forse  la 
parte  più  essenziale  della  storia  d' Italia  :  con  ciò  sia  che  veg« 
gansi  le  rivolozioni  delle  repubbliche  e  quelle  ddle  monar- 
chie avere  costantemente  relazione  con  quelle  della  corte  pon* 
tiflcia,  e  quasi  tutte  le  grandi  catastrofi  che  dovevano  slra* 
ziare  Tltalia  essere  causate  dai  raggiri  o  dalle  passioni  del  chie- 
ricato. 

Il  principio  delPultimo  periodo  della  libertà  italiana,  che  ci 
facciamo  ora  a  discorrere,  ed  il  cominciamento  delia  lunga  guerra 
che  gli  oltramontani  dovevano  arrecare  in  quasi  tutta  la  Pe- 
nisola ,  fu  esso  pure  una  congiuntura  assai  crìtica  e  scabrosa 
per  la  podestà  pontificia.  Imperciocché  in  quel  tempo  venne  a 
sedere  sulla  cattedra  di  San  Pietro  il  più  odioso  »  il  più  impu- 
dente, il  più  reo  di  tutti  coloro  che  abbiano  abusalo  mai  d^una 
sacra  autorità  per  oltraggiare  e  ridurre  in  servitù  gli  uomini. 
Fu  questi  Alessandro  VI,  eletto  successore  dlnnocenzo  Vili.  Lo 
scandalo  della  corte  di  Roma ,  sempre  crescente  da  un  mezzo 
secolo,  non  poteva  essere  spinto  a  più  stomachevole  eccesso  ; 
ed  infatti  dopo  quel  punto  andò  gradatamente  scemando.  Nluno 
fra  gli  scrittori  ecclesiastici  ebbe  V  ardire  di  difendere  la  me- 
moria di  questo  papa,  indegno  del  nome  di  cristiano  ;  e  V  ob- 
brobrio di  che  in  tempo  del  suo  pontificato  fu  coperta  la  Chiesa 
romana  distrusse  quel  religioso  rispetto  che  proteggeva  tutta 
ritalia,  e  la  rese  più  facile  preda  agli  stranieri. 

Venuto  a  morte,  siccome  abbiamo  detto,  Innocenzo  Vili  il 
25  di  luglio  del  1492,  secondo  V  uso  furono  consacrati  alcuni 
giorni  alla  pompa  de'  suoi  funerali  ;  dopo  di  che ,  il  0  agosto 
susseguente ,  i  cardinali  si  chiusero  in  conclave  per  eleggerne 
il  successore.  E  si  trovavano  ridotti  al  numero  di  ventitré.  Quanto 
più  scemavasi  il  novero  di  coloro  che  avevano  diritto  di  sedere 
nel  Senato  ^Ila  Chiesa,  tanto  più  ognuno  di  loro  veniva  a  ri- 


potarsi  maggiormente;  le  ricchezze,  gli  onori,  le  signorie  onde 
davansi  V  inTestitura  dalla  Chiesa ,  in  gran  parte  spettavano  ai 
cardinali,  onde  ognuno  in  ragione  del  piccolo  numero  de'  suoi 
competitori  poteva  riserbare  per  sé  medesimo  o  pe'saoi  creati 
maggiore  porzione  di  quel  dovizioso  retaggio.  Quindi,  benché 
per  esperienza  conosciuto  si  fosse  quanto  inutili  tornassero 
tutte  le  condizioni  imposte  agli  aligendi  pontefici  ne'  prece- 
denti conclavi,  i  cardinali,  badando  prima  di  tutto  a  vantag- 
giare i  loro  propri  interessi,  promisersi  Tuno  alPaltro  con  giu- 
ramento, che  quegli  di  loro  che  avrebbe  ottenuto  la  tiara  non 
farebbe  nuove  promozioni  di  cardinali  senza  Tassenso  del  sacro 
collegio. 

Tutti  i  voti  trovaronsi   unanimi  per  questa  prima    risolu- 
zione, che  giovava  al  comune  interesse;  ma  quando  si  venne 
alPelezione  del  nuovo  capo  della  Chiesa,  ognuno  diede  nuova- 
mente retta  alle  voci  della  propria  ambizione  e  della  privata 
cupidigia.  Il  conclave  era  quasi  interamente  composto  di  creati 
d'Innocenzo  Vili  e  di  Sisto  IV,  e  non  potevasi  sperare  da  uomini 
eletti  in  tempi  di  tanta  corruzione  cb'e'fossero  gran  fatto  disin- 
teressati 0  nudrissero  alti  sentimenti.  Uno  solo  dei  cardinali, 
che  fu  Roderigo  Borgia,  era  di  più  antica  creazione,  e  più  degli 
altri  sendo  invecchiato  nelle  dignità  della  Chiesa,  aveva  ezianiiUo 
accumulato  maggiori  ricchezze  degli  altri.  Questo  Roderigo  era 
figliuolo  di  una  sorella  di  Calisto,  e  per  fare  cosa  grata  allo 
zio,  da  cui  era  stato  addottato,  aveva  lasciato  il  suo  cognome 
di  Lenzuoli  per  assumere  quello  di  Borgia.  Ancora  giovinetto 
egli  era  stato  ricolmo  dal  vecchio  Calisto  di  tutte  le  grazie  che 
possa   un   papa  conferire  ad  un  nipote:  in  suo   prò  aveva  il 
pontefice  rinunciato  al  proprio  arcivescovado   di  Valenza  nella 
Spagna,  e  lo  aveva,  il  21  settembre  del  1456,  creato  cardinale 
diacono,  conferendogli  in  pari  tempo  la  lucrosa  carica  di  vice- 
cancelliere  della  Chiesa.  Sisto  IV  si  valse  di  Roderigo  Borgia 
in  molte  4egazioni,  e  diedegli  i  vescovadi  di  Alba  e  di    Porto. 
Altre  più  recenti  ambascerie,  nelle  quali  il  Borgia  fece   belle 
prove  di  accortezza,  gli  fruttarono  di  nuove  ricompense;  cosicché 
nel  1492  ei  si  godeva  le  entrate  di  tre  arcivescovadi  in  Ispagoa 
e  di  molte  altre  prebemie  in  tutta  la  cristianità.  Le  ricchezze 
e  le  prebende  di  un  cardinale  influiscono  quasi  necessariamente 
9opra  i  suffragi  de'  suoi  colleghi,  perciocché  non  polendo  ^li, 
fatto  papa,  ritenere  per  sé  queste  prebende,  è  cosa  ovvia  ch'ei 
le  dispensi  a  tutti  coloro  che  più  hanno  contribuito  alla  sua 


—  475  - 

etenone;  onde  quanto  maggióre  è  la  parto  dei  favori  della 
Cbiesa  ond'egli  gode,  tanto  più  liberale  poò  essm^  in  verso 
a'  snoi  partigiani  senza  moovere  giuste  lagnanze.  Il  Borgia,  in 
qnasi  cinquant'  anni  di  prospere  vicende ,  aveva  accnmulati 
immensi  tesori,  e  la  natura  lo  aveva  dotato  di  tutte  le  qualità 
per  le  quali  poteva  fame  buon  uso  per  appagare  la  propria 
anflNzione:  di  facile  eloquio,  benché  fosse  soltanto  mediocre- 
mente versato  nelle  lettere,  di  mente  straordinariamente  pie- 
ghevole e  di  tutto  capace,  egli  era  in  particolare  modo  provveduto 
di  queir  ingegno  che  vuoisi  per  trattare  le  faccende ,  non  che 
d'inarrivabile  destrezza  nel  sapere  condurre  a'suoi  fini  lo  spirito 
de' suoi  emuli. 

Sendo,  a  motivo  delle  immense  sue  ricchezze  e  della  sua 
anzianità  nel  collegio  de'  cardinali,  uno  de'  principali  candidati 
al  triregno,  il  Borgia  sembrava  anche  ai  più  savi,  in  grazia  del- 
l' ingegno  singolare  con  cui  aveva  trattate  in  più  occasioni  le 
cose  della  Chiesa,  muovere  giuste  pretensioni;  se  non  che  i 
suoi  costumi  potevano  dare  luogo  a  fieri  e  giusti  rimproveri. 
Fin  dai  tempi  di  Pio  II  egli  era  stato  per  le  sue  dissolutezze, 
in  allora  più  condonabili  in  grazia  della  gioventù,  fatto  segno 
alla  pubblica  censura  ;  aveva  poi  preso  seco  un'  amica,  detta 
Vanozia,  colla  quale  viveva  come  se  stata  fosse  sua  moglie, 
benché  1'  avesse  in  pari  tempo  fatta  sposare  ad  un  cittadino 
romano;  dal  quale  adultero  commercio  nacquergli  quattro 
figliuoli  ed  una  figlia,  cui  tra  poco  vedremo  avere  parte  nelle 
cose  della  Chiesa.  Del  resto  in  niuna  guisa  egli  osservava  o 
nelle  cose  o  nelle  parole  o  nei  fatti  quel  riserbo  che  si  addice 
a  nomo  di  chiesa.  Ma  la  scoslumatezza  era  di  già  salita  sul 
trono  con  Sisto  IV  e  con  Innocenzo  Vili,  ed  il  sacro  collegio 
non  era  più  composto  di  uomini  abbastanza  irreprensibili  da 
far  che  i  vìzi  di  Roderico  Borgia  fossero  un  sufficiente  motivo 
per  escluderlo. 

Pareva  ciò  nondimeno  che  due  competitori  potessero  con* 
tendere  della  tiara  col  Borgia,  ed  erano  Ascanio  Sforza  e 
Giuliano  delle  Rovere.  Ascanio ,  eli'  era  figliuolo  del  grande 
Francesco  Sforza,*  duca  di  Milano,  zio  dì  Giovanni  Galeazzo, 
allora  regnante,  e  fratello  di  Lodovico  il  Moro,  che  governava 
in  nome  di  questo  la  Lombardia,  era  stato  creato  da  Sisto  IV 
cardinale  diacono  del  titolo  dei  santi  Vito  e  Modesto.  Ricchis- 
simo fra  tutti  i  cardinali,  tranne  però  il  Borgia,  di  prebende  e 
beneficii  ecclesiastici,  egli  era  inoltre  spalleggiato  dal   fratello 

Tamb.  InquU.  Voi.  If.  60 


-  474- 

Lodovico  e  dagli  alleati  del  duca  di  Milano.  Ma  dopo  avere 
fatte  alcune  infruttuose  prove  delle  forze  del  proprio  partito , 
volle  piuttosto  acconciarsi  col  rivale  che  venire  a  conflitto  e 
vedersi  vinto;  laonde  venne  a  patti  col  Borgia,  e  fattasi  pro- 
mettere la  carica  di  vice-cancelliere ,  obbligossi  a  propiziargli 
i  suffragi  di  tutti  i  cardinali  della  propria  parte. 

Il  terzo  competitore  al  papa  era  Giuliano  della  Rovd^ , 
figliuolo  di  un  fratello  di  Sisto  IV,  prete  cardinale  del  titolo  di 
san  Pietro  in  vincoli  ;  e  perchè  uomo  era  di  singolare  ingegno, 
e  valoroso  erasi  dato  a  divedere  durante  il  pontificato  dello 
zio,  aveva  molti  suffragi  in  suo  favore.  Ma  Roderìco  Boi^a, 
spandendo  a  piene  mani  il  denaro,  seppe  trarre  dalla  sua  tutti 
coloro  che  ancora  pendevano  dubbiosi.  Egli  aveva  mandato 
quattro  muli  carichi  di  danaro  alla  casa  del  cardinale  Ascanio 
Sforza ,  col  pretesto  di  porre  in  sicuro  quella  pecunia  durante 
il  conclave,  ma  difatti  per  comperare  le  coscienze  incerte;  e  di 
vero  essa  fu  adoperata  in  tale  mercimonio.  La  voce  del  car- 
dinale patriarca  di  Venezia  fu  comperata  per  cinquemila  ducati, 
tutte  le  altre  furono  mercanteggiate  nella  stessa  maniera:  e  alla 
mattina  del  sabbato  11  di  agosto,  Roderico  Borgia  fu  eletto 
papa  col  favore  dei  due  terzi  pei  suffragi,  e  per  tale  incoronato 
sotto  il  nome  di  Alessandro  VI. 

I  vergognosi  patteggiamenti  ai  quali  andava  il  pontefice 
debitore  della  sua  elezione  vennero  subito  a  cognizione  di  tutti; 
perciocché  egli  fu  veduto  nei  primi  giorni  dopo  relezione  pa- 
gare le  pattuite  mercedi,  rinu'nciare  al  cardinale  Ascanio  Sforza 
la  lucrosa  sua  dignità  di  vice-cancelliere  ;  cedere  al  cardinale 
Orsini  il  suo  palazzo  di  Roma  coi  due  castelli  di  Monticeilo 
e  di  Soriano  ;  al  cardinale  Colonna  V  abbazia  di  Subbiaco  eoo 
tutti  i  suoi  castelli;  al  cardinale  di  Sant'Angelo  il  vescovado 
di  Porlo  con  tutti  gli  arredi  e  le  suppellettili  di  casa  ,  som- 
mamente magnifiche,  la  anlina  piena  dei  più  squisiti  vini  ; 
al  cardinale  di  Parma  la  città  di  Nepi;  a  quello  di  Genova 
la  chiesa  di  Santa  Maria  in  via  lata;  al  cardinale  Sa  velli  la 
chiesa  di  Santa  Maria  Maggiore  e  la  città  di  Givia  Castellana. 
Gli  altri  cardinali  furono  guiderdonati  con  grossi  premii  di  da- 
naro. Cinque  soli,  a  capo  de'  quali  furono  posti  Giuliano  della 
Rovere  e  il  di  lui  cugino  Raffaello  Riario,  non  vollero  vendere 
i  loro  voti. 

I  Romani  festeggiarono  l'elezione  di  Alessandro  VI  in  modo 
che  sarebbe  stato  più  conveniente  alla  incoronazione  di  un  gran- 


—  475  — 

de  Gonqaistatore ,  che  non  a  quello  di  un  vecchip  pontefice. 
Safeld>esi  detto  che  il  popolo  re  chiedeva  al  sqo  dqoyo  so- 
YraDO  di  ricondurre  sotto  il  suo  impero  la  nazioni  altre  volte 
soggiogate  dalle  armi  romane.  La  maggior  parte  delle  iscrizioni 
di  cai  furono  adornate  le  case  di  Roma  alludevano  al  nome  di 
Alessandro  assunto  dal  Borgia,  e  se  in  qualche  modo  ricorda- 
vano la  religione  ond'  egli  era  pontefice ,  lo  facevano  promet- 
tendo al  nuovo  Alessandro  vittorie  tanto  più  splendide,  quanto 
|»b  egli  avanzava  gli  eroi,  essendo  un  Dio.  Questa  eccessiva 
adulazione  non  venne  punto  immediatamente  smentita  dal  fatto. 
La  più  terribile  anarchia  era  nata  sotto  il  venale  ed  effeminato 
regno  di  Innocenzo  Vili;  ed  erasi  anche  accresciuta  durante 
il  lungo  deliquio  di  quel  pontefice,  in  modo  che  dugentoventi 
dttadini  romani ,  erano  stati  trucidati  nel  breve  spazio  di  tempo 
trascorso  nell'ultima  crisi  della  sua  malattia  fino  alla  morte. 
Alessandro  VI,  che  voleva  regnare  e  che  sapeva  farsi  temere, 
pose  immantinente  rimedio  a  tanto  disordine,  e  le  vie  di  Roma 
rese  sicure,  «  il  solo  cardinale  della  Rovere  non  lasciossi  .se- 
durre da  questa  apparente  tranquillità  ;  che  non  poteva  porre 
fidanza  alcuna  neir apostolo  spagnuolo  o  nel  Marrano,  sicco- 
m'egli  chiamava  il  Borgia.  Si  chiuse  perciò  nel  castello  d'Ostia, 
e  vi  stette  fino  a  tanto  gli  parve  più  prudente  partito  il  recarsi 
in  più  lontani  paesi;  laonde  non  vide  le  scandalose  feste  colle 
quali  il  papa  celebrò  nel  proprio  palazzo  il  matrimonio  di  sua 
figlia  Lucrezia'  con  Giovanni,  figliuolo  di  Costanzo  Sforza,  signore 
di  Pesaro. 

I  tempi  in  cui  la  Chiesa  romana ,  disonorata  dai  vizi  di 
alcuni  capi  del  sacerdozio,  esaltava  sul  trono  un  pontefice  del 
quale  doveva  vergognarsi ,  non  potevano  non  essere  segnalali 
di  alcun  tentativo  di  riforma  dal  lato  di  quegli  uomini  di  più 
sincera  fede,  i Squali  cercavano  nella  religione  un  sostegno 
alla  morale  e  prevedevano  le  funeste  conseguenze  dell'esempio 
dato  a  tutta  la  cristianità  da  un  papa  adultero  e  fors' anche 
incestuoso.  In  sul  declinare  del  quindicesimo  secolo  e  nei 
primi  anni  del  susseguente  era  ancora  troppo  fervido  e  troppo 
sincero  lo  zelo  della  religione  perchè  i  grandi  scandali  non 
fossero  cagione  di  grandi  rivoluzioni.  Coloro  che  per  virtuoso 
disdegno  scosta vansi  da  un  Sisto  IV ,  da  un  Innocenzo  Vili , 
da  un  Alessandro  VI,  non  lasciavano  perciò  di  essere  cristiani 
0  dediti  alla  Chiesa,  disonorata  da  alcuni  suoi  capi;  essi  attri- 
buivano tutti  i  vizi  agli  uomini ,  e  non  agli  istituti  ;  e  quanto 


-  476  - 

più  vedevano  accrescersi  i  disordini. e  gli  scandali,  tanto  più 
riputavano  loro  stretto  dovere  di  scacciare  l' abbominaxione 
dal  santuario,  e  tanto  più  mostravansi  disposti  a  porre  anche 
le  vite  per  una  riforma  cui  risguardavano  come  1*  opera  del 
Signore. 

Lo  scandalo  della  corte  di  Roma  non  era  tuttavia  cono- 
sciuto ancora  oltre  le  Alpi  se  non  imperfettamente.  Prima  delle 
guerre  degli  oltramontani  in  Italia,  quell'alta  riverenza  che  si 
nudriva  inverso  alla  santa  sede  copriva ,  per  cosi  dire,  di  im- 
penetrabil  velo  il  palazrx)  di  San  Pietro  a  Roma;  ed  ai  riforma- 
tori che  più  tardi  alzarono  il  vessillo  della  ribellione  contro  la 
Chiesa  romana  sarebbe  stato  impossibile  il  dare  compimento 
all'opera  loro  io  Germania  ed  in  Francia  avanti  quel  rimesco- 
lamento delle  nazioni.  La  stessa  intrapresa  doveva,  prima  che 
in  ogni  altro  luogo,  tentarsi  in  Italia;  ove,  più  che  altrove»  erano 
presenti  gli  abusi:  essa  doveva  informarsi  dairindole  del  popcdo 
stesso  che  cominciava  la  riforma,  e  scoppiare  perciò  tra  grita- 
liani  con  maggiore  entusiasmo ,  commovere  maggiormente  la 
fantasia  e  gli  affetti ,  essere  meno  spalleggiata  dalia  fliosofla  e 
forse  meno  indipendente  dalle  opinioni  religiose,  ma  in  quella 
vece  avere  più  stretta  relazione  colla  politica.  In  Italia  gli  or- 
dini civili  e  gli  ordini  religiosi  erano  egualmente  corrotti,  men- 
tre i  principii  costitutivi  deirordinamento  civile  e  religioso  erano 
stati  profondamente  investigati  eoa  lunghi  stodii:  onde  i  rìfor* 
malori  dovevano  tentare  di  dar  mano  alla  riforma  della  città  e 
della  Chiesa  ad  un  tempo.  Tali,  infatti,  furono  i  divisamenti  di 
Girolamo  Savonarola;  e  questo  precursore  di  Lutero  non  fu  da 
questo  diverso,  se  non  in  quanto  un  italiano  debbo  differire  da 
un  tedesco. 

Nato  era  Girolamo  Francesco  Savonarola  dMliustre  famiglia, 
originaria  di  Padova,  ma  traspiantata  a  Ferrara  dal  marchese 
Nicolò  d'Este.  Egli  venne  alla  luce  in  quest'ultima  città  il  21 
settembre  del  1452  da  Nicolò  Savonarola  e  da  Annalena  Bonac- 
corsi  di  Mantova.  Diede  fino  da  bel  principio  saggio  di  pronto 
e  fervido  ingegno  ne'  suoi  studii ,  ed  in  particolare  in  quelli 
della  teologia.  Partitosi  poscia  da'  suoi  in  età  di  venti  tre  anni, 
e  rifogitosi  nel  chiostro  de'  domenicani  di  Bologna,  ivi  professò, 
il  23  aprile  del  1475,  quella  religione  con  un  fervore,  un'umiltà 
ed  un  desiderio  di  penitenza,  che  non  si  smentirono  giammai. 
I  suoi  superiori,  riconosciuto  bentosto  il  singolare  ingegno  del 
giovane  professo,  lo  destinarono  a  leggere  pubblicamente  filo- 


-47T  — 

sofia.  Gostrrtto  a  parlare  in  pkibbtioo^  il  SafomroU  non  bene 
traefasi  dlmpaocio  a  motivo  della  ranca  e  tterolt  sua  vooe  « 
della  sua  mal  aggraziata  maniera  di  porgere  e  di  gestire»  e  della 
debolezsa  del  corpo,  macerato  ed  afflitto  da  rigorosa  astineota. 

Fn  quindi  ammirata  remdizione  del  nnovo  professore,  ma 
essendo  egli  salito  sni  pulpito,  non  piacque  per  nulla  come 
predicatore;  laonde  non  si  previde  allora  certamente  quella 
possa  ch^egti  in  breve  acquistar  dovea  per  la  sua  eloquenza  so- 
pra assai  più  numerosi  uditori.  Ma  la  forza  deiringegno  e  quella 
del  Yolere  vinsero  alla  fine  in  lui  ogni  ostacolo*  li  Savonarola 
acquistò  nel  ritiro  quelle  doti  che  pareano  essergli  state  dalla 
natura  negate.  Coloro  che  nel  1482  erano  stati  disgustati  dal 
suo  mal  garbo  nel  sermoneggiare»  appena  potevano  riconoscerlo 
quando  nel  1489  l'udirono  a  modulare  a  suo  piacimento  quella 
voce  armoniosa  e  robusta  ch'egli  aveva  acquistata,  ed  accop* 
piarvi  il  più  nobile  ed  aggraziato  gestire.  Egli  stesso,  temendo 
dlnsuperbirsi  per  gli  sforzi  che  aveva  con  felice  esito  fatti  a 
perfezionarsi,  riferiva  al  cielo  i  suoi  progressi  con  cristiana  umil* 
tà,  e  risguardava  il  cambiamento  in  lui  operatosi  come  un  primo 
miracolo  e  un  argomento  della  sua  divina  missione. 

Fu  nel  1483  che  il  Savonarola  credette  sentire  in  sé  me- 
desimo  un  segreto  profetico  impulso  che  lo  sospingeva  a  tentare 
la  riforma  della  Chiesa  ed  a  predicare  ai  cristiani  la  penitenu, 
loro  annunciando  anticipatamente  le  calamità  che  allo  .Stato  ed 
alla  Chiesa  del  pari  sovrastavano.  Egli  incominciò  a  Brescia 
Del  1484  le  sue  prediche  intorno  airApocalisse,  e  predisse  ai 
suoi  uditori  che  le  loro  mura  sarebbero  un  giorno  bagnate  da 
torrenti  di  sangue.  Il  quale  presagio  avveravasi  due  anni  dopo 
la  morte  del  Savonarola,  cioè  nel  (590,  in  cui  i  Francesi,  sotto 
gli  ordini  del  duca  di  Nemours,  presero  Brescia  d'assalto  e  fe- 
cero orrenda  strage  degli  abitanti.  Il  1489  il  Savonarola  recossi 
a  piedi  a  Firenze  e  pose  sua  stanza  nel  monastero  di  San  Marco, 
del  suo  ordine,  dove  pel  corso  di  otto  anni  doveva  continuare 
a  predicare  la  riforma  inflna  a  tanto  che  venisse  mandato  al 
supplizio,  come,  a  seconda  di  quanto  attestano  i  suoi  discepoli, 
aveva  egli  stesso  prenunziato. 

Per  la  riforma  che  il  Savonarola  raccomandava  siccome 
un*  opera  di  penitenza  ad  allontanare  le  calamità  ch'egli  diceva 
sovrastare  airitalia,  dovevansi  cambiare  i  costumi  dell'universo 
cristiano  e  non  la  sua  fede.  Il  Savonarola  credeva  corrotta  la 
disciplina  della  Chiesa,  credeva  infedeli  i  pastori  delle  anime. 


—  478  — 

ma  Don  osò  mai  muovere  pure  uq  sol  dubbio  intorno  ai  dommi 
professati  dalla  Gliiesa  o  scrutarli.  Imperciocché  a  tale  ardi- 
mento sì  opponeva  r indole  stessa  dello  zelo,  anzi  deiren* 
tusiasmo  da  cui  era  mosso  a  bandire  la  riforma,  avvegnaché 
non  in  nome  della  ragione  egli  impugnava  l'ordine  stabilito» 
ma  bensi  per  una  inspirazione  ch'egli  credeva  sopranaturale^ 
non  per  mezzo  deirinvestigazione,  ma  colle  profezie  e  coi  mi- 
racoli. 

Se  non  che  Tardità  sua  mente,  costretta  alla  reverenza  dal- 
Tautorità  della  Chiesa,  con  minore  rispetto  e  maggiore  libertà 
scaglia  vasi  contro  le  podestà  temporali.  In  tutto  ciò  ch'era  opera 
deiruomo  egli  voleva  che  si  ponesse  per  iscopo  futilità  degli 
uomini  e  per  regola  il  rispetto  dei  loro  diritti.  La  libertà  sem- 
bravagli  non  meno  sacra  della  religione;  e  risguardava siccome 
un  bene  mal  acquistato  e  tale  che  non  si  potesse  conservare 
senza  perdere  Teterna  salute  la  podestà  usurpata  da  un  prin- 
cipe in  una  Repubblica.  Laonde  ei  teneva  Lorenzo  dei  Medici 
per  illegittimo  detentore  di  quella  autorità  che  si  aspettava  ai 
Fiorentini,  e,  malgrado  i  replicati  inviti  fattigli  da  questo  capo 
dello  Slato,  mai  non  volle  visitarlo  e  prestargli  alcuno  ossequio^ 
acciò  Qon  si  supponesse  ch'egli  ne  avesse  riconosciuta  l'auto- 
rità.  E  quando  Lorenzo,  sul  ietto  di  morte,  chiamollo  per  con- 
fessare a  lui  i  suoi  peccati  e  per  ottenere  dalle  sue  mani  l'as- 
soluzione, il  Savonarola,  prima  di  udire  la  coniessione,  diman- 
davalo  se  aveva  intera  fede  nella  misericordia  di  Dio,  al  che 
rispose  il  moribondo  di  sentirla  all'intimo  del  cuore;  se  era 
apparecchiato  a  restituire  tutto  quello  che  aveva  illegittimamente 
acquistato,  il  che  Lorenzo  dopo  avere  dubitato  alquanto,  disse 
di  voler  fare;  finalmente  se  ristabilirebbe  la  libertà  fiorentina 
ed  il  governo  popolare  della  Repubblica,  la  quale  terza  condi- 
zione Lorenzo  rigettò  e  rimandò  il  Savonarola  senza  averne 
ricevuta  l'assoluzione. 

Quegli  che  aveva  creduto  di  dover  esortare  Lorenzo  dei 
Medici  a  deporre  la  sovrana  autorità  in  Firenze  perch'olla  era 
un  bene  mal  aquistato,  ben  più  gagliarde  ragioni  aveva  di  esortare 
a  tanto  Piero  dei  Medici,  il  quale  né  la  forza  aveva  né  l'accor- 
tezza necessaria  per  conservare  il  supremo  potere.  Piero,  che 
era  il  maggiore  de'tre  figli  di  Lorenzo,  giungeva  appena  ai  ven- 
tun  anni  quando  vennegli  a  morte  il  padre,  e  di  prudenza  era 
ancora  meno  avvantaggiato  che  d'età,  lo  Firenze,  l'età  richiesta 
per  poter  conseguire  gli  uffizi  pubblici  era  determinata  per  le 


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leggi,  ed  io  generale  rìchìedetsi  adulta  assai:  mai  i  consigli 
dispensarono  Piero  dalla  oondiiione  delPelà  e  lo  dichiararono 
atto  agli  onori  ed  ai  magistrati  che  ateva  già  ottenuto  Lorenio. 
Onesta  fiobiione  della  Cosfitoaione  era  consegnenu  del  serrag- 
gio della  Signoria;  ma  offese  asssi  i  Fiorentini,  tlando  loro  a 
divedere  Tasprena  del  giogo  sotto  cui  erano  caduti^ 

Piero  ch'era  appassionatissimo  pei  piaceri  della  giorentii* 
per  le  donne  e  per  gli  eserciù  della  persona,  coi  quali  poteva 
far  bella  mostra  di  sé  dinansì  a  queste,  d'altro  ornai  non  in- 
tratteneta  la  Repubblica  che  di  feste  e  di  sollazai»  in  cui  pò- 
Deva  ogni  suo  studo  e  tempo.  Egli  era  di  statura  pid  che 
mezzana,  largo  di  petto  e  di  spalle,  e  di  straonlinaria  forza  o 
destrezza  di  corpo.  Ghiamaya  attorno  a  sé  i  più  insigni  giocatori 
di  palla  di  tutta  litalia,  ma  in  questo  esercizio  ei  tutti  gli  avan- 
■zava,  non  meno  che  in  quelli  della  lotta  e  del  cavalcare.  Dotato 
di  focile  eloquio,  sciolta  ed  aggradevole  parlatura  aveva  ed  anno* 
niosa  voce  ;  in  ciò  più  felice  del  padre,  la  cui  voce,  per  mala 
struttura  degli  organi  vocali,  era  nasale.  Piero  era  altresì  di 
assai  pronto  ingegno  ed  aveva  fatto  singolari  progressi  nelle 
lettere  greche  e  latine  sotto  la  disciplina  di  Angelo  Poliziano  : 
onde  verseggiava  airimprowiso  con  somma  facilità,  e  svariata  e 
gradevole  n'era  la  conversazione.  Ma  egli  era  intollerabilmente 
oi^oglioso  e  prorompeva  in  oltraggi  qualunque  volta  vedovasi 
contradetto.  Questo  era  di  tutti  i  suoi  difetti  il  più  dominante: 
bruttissimo  vizio,  che  era  stato  in  lui  accarezzato  da  sua  madre 
Clarice  e  da  sua  moglie  Alfonsina,  Tuna  e  Taltra  della  famiglia 
Orsini,  le  quali  avevano  portata  in  dote  alla  casa  dei  Medici 
l'arroganza  della  loro  famiglia.  Egli  pretendeva  che  la  Repub- 
blica dovesse  obbedire  ciecamente  ai  suoi  ordini,  ed  intanto 
risguardava  come  cosa  indegna  del  suo  gr^do  la  fatica  di  Irnpra* 
tichirsi  delle  pubbliche  faccende;  perciò  ne  lasciava  la  cura 
a'suoi  fidati,  ed  in  particolare  a  un  Piero  Divizio  da  Bibbiena, 
fratello  maggiore  di  quel  Bernardo  che  fu  [)0scia  da  Ucmo  X 
creato  cardinale,  ed  acquistossi  illustre  nome  nelle  lettere  voi- 
gari.  Piero  da  Bibbiena  era  stato  segretario  di  l/orenzo»  a  vi;  va 
pratica  assai  delle  cose  pubbliche;  ma  il  male  stava  in  ciò^  che 
il  Medici,  in  lui  principalmente  fidando,  antefioneva  im  avven- 
tizio, nato  in  una  provincia  suddita,  a'vccchi  maestrali  della 
Repubblica. 

Or  quando  mcn  Piero  de'Medici  era  alto  a  goverfiare  lo 
Stato  tanto,  più  sospettava  di  coloro  che  potevano  nella  Hepub- 


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blica  aspirare  al  grado  suo.  Un  altro  ramo  della  casa  de*  Me- 
dici cominciava  in  allora  a  farsi  cospicuo  in  Firenze,  ed  era  la 
famiglia  di  Lorenzo  fratello  del  vecchio  Cosimo  ;  dei  quale  Lo- 
renzo eranvi  allora  due  abbiatici.  Il  più  giovine  di  essi  aveva 
quattro  anni  più  di  Piero.  Molte  erano  le  ricchezze  accumulate 
colla  mercatura  dal  loro  avolo;  ma  o  sia  che  niun  uomo  di 
singolare  ingegno  sorto  fosse  in  quel  ramo  de'  Medici,  e  eh'  ei 
si  riputassero  abbastanza  onorati  dal  parentado  loro  coi  capi 
dello  Stato,  fatto  è  che  né  Pier  Francesco  padre  di  questi  gio- 
vani, né  Lorenzo  loro  avolo,  avevano  presa  veruna  parte  nelle 
politiche  contese  di  Firenze.  Piero  fu  il  primo  cui  paresse  voler 
temere  dei  propri  cugini  ;  onde  li  fece  sostenere  in  aprile  del 
4493,  e  pose  in  consulta  se  dovesse  farli  morire;  ma  i  loro  amici 
ottennero  a  fatica  che  fosse  contento  di  mandarli  fuori  di  città, 
assegnando  ad  essi  per  prigione  le  loro  due  ville.  Se  non  che 
il  popolo,  risguardando  la  loro  incarcerazione  come  una  viola- 
zione de'suoi  diritti,  e  la  libertà  loro  come  un  trionfo,  gli  ac- 
compagnò nelPuscire  di  città  con  molto  plauso  e  con  fervidi 
augurii,  e  fece  viemeglio  sentire  a  Piero  ch'egli  andava  perdendo 
ogni  favor  popolare. 

Forse  Piero  avrebbe  più  facilmente  soffocati  questi  primi 
germi  di  mal  umore  se  avesse  prontamente  sbandito  da  Firenze 
colui  che  regolava  gli  animi  del  popolo  ed  invogliavalo  della 
libertà,  predicando  la  riforma  della  Chiesa  e  de'costumi.  Ma  Gi- 
rolamo Savonarola  era  caro  al  popolo;  ogni  giorno  egli  comroo- 
veva  altamente  gli  animi  di  una  grandissima  corona  di  uditori 
interpretando  le  profezie  nelle  quali  pareagli  presagita  la  ruina 
di  Firenze;  parlava  al  popolo  in  nome  del  cielo  delle  calamità 
che  gli  sovrastavano  e  lo  supplicava  di  convertirsi;  de^criveagli 
il  mal  costume  privato  e  i  progressi  del  lusso  e  della  disonestà 
in  tutti  gli  ordini  dei  cittadini,  i  disordini  della  Chiesa  e  la  cor- 
ruzione de'suoi  prelati,  e  i  disordini  dello  Stato  e  la  tirannide 
de'snoi  capi;  invocava  la  riforma  di  lutti  questi  abusi,  e  quanto 
era  fervida  e  piena  di  entusiasmo  la  sua  fantasia  allorquando 
parlava  delle  cose  del  cielo,  altrettanto  robusta  era  la  sua  lo- 
gica ed  affascinatrice  la  sua  eloquenza  quando  facevasi  a  di- 
scorrere le  faccende  terrene.  Di  già  i  cittadini  di  Firenze  atte- 
stavano, colla  modestia  degli  abiti,  delle  parole  e  del  contegno, 
ch'essi  andavano  abbracciando  la  riforma  del  Savonarola;  di  già 
le  donne  avevano  dismessa  ogni  attillatura;  maraviglioso  in  tutta 
la  città  era  il  cambiamento  de'costumi,  e  facìl  cosa  quindi  il 


preTedere  che  nstrazione  politica  del  predicatore  doq  farebbe 
minore  effetto  sugli  animi  degli  udilori  di  quel  che  Tacesse 
rislraxioDe  morale. 

11  Savonarola  avvalorava  i  suoi  sennoni  colla  minaccia  delle 
nuove  calamità  che  gli  stranieri  eserciti  dovevano  n^care  oN 
ritalia;  e  in  fatti  ogni  di  queste  calamita  si  Taceano  più  immi- 
nenti, sicché  tutti  le  prevedevano.  Le  pretensioni  della  casa 
d'Angiò  sol  regno  di  Napoli  avevano  turbata  Tltalia  per  un  in- 
tero  secolo»  e  ritalia  era  avvezza  a  volger  lo  sguardo  verso  la 
Francia,  .onde  discoprirvi  gr indizi  della  bufera  che  vi  si  iid- 
densava  per  distruggere  la  sua  pace.  Correvano  già  i  venrauni 
che  i  diritti  della  casa  d'Angiò  erano  passati  nel  re  di  Francia 
e  ben  poteva  prevedersi  che  come  il  giovane  principe  fosse  in 
età  da  credersi  in  istato  di  condurre  gli  eserciti,  egli  potreb- 
b'essere  sollecitato  dalla  gloria  dei  conquistatori.  Si  andavo  per- 
ciò da  molto  tempo  dicendo  essere  al  tutto  necessaria  Tunione 
delle  potenze  d'Italia  per  chiudere  la  porta  di  questo  paese  agli 
oltramontani.  Quest'unione  esisteva  nelle  pubbliche  conveuzìoni 
ed  era  stata  inoltre  atfermata  dal  trattato  di  Bagnolo  del  7  agosto 
del  1484  e  da  quello  di  Roma  deiril  agosto  del  I486,  trattali 
che  erano  Tuno  e  T  altro  in  pieno  vigore:  ma  intanto  quest'u- 
nione non  avea  spente  le  segrete  gare  del  sovrani,  né  le  gelo- 
sie e  gli  odii  che  partivano  ritalia  in  due  avverse  fazioni  e  che 
aspettavano  Topportunità  per  iscoppiare. 

Lodovico  Sforza  detto  il  Moro  che  governava  il  ducalo  di 
Milano  in  nome  del  nipote  Giovanni  Galeazzo,  pareva  avvisarsi 
pib  che  gli  altri,  siccome  più  degli  altri  vicino  agli  oltramon- 
tani, della  necessità  deiruniooe  degli  Slati  d'Italia;  e  voleva  non 
solo  che  questa  lega  esistesse  realmente,  ma  ancora  che  fosse 
solennemente  bandita  in  tutta  l'Europa.  L'assunzione  di  Ales- 
sandro VI  al  pontiQcato  parvegli  congiuntura  propizia  per  farlo, 
perchè  all'elezione  di  un  nuovo  papa  tulli  gli  Siali  cristiani 
mandavano  a  Roma  una  solenne  ambasciata  per  presentarKii 
ubbidienza.  Il  duca  di  Milano  era  collegalo  In  ispeciale  confe- 
derazione, rinnovellata  per  venticinque  anni  nel  1480,  col  re- 
gno di  Napoli,  col  duca  di  Ferrara  e  colla  Repubblica  fiorentina. 
Lodovico  il  Moro  propose  ai  suoi  alleati  di  far  partire  a  un 
tempo  stesso  gli  ambasciatori  dei  quattro  Stati  confederali,  e  di 
porre  tal  ordine  alle  cose  che  nel  giorno  stesso  entrassero  in 
Roma  e  presentassersi  insieme  al  papa,  a  cui  l'oratore  del  re 
di  Napoli  avrebbe  parlato  egli  solo  a  nome  di  tulli.  Voleva  Lo- 

Tamd.  Inquii.  Voi.  II.  01 


do  vico  in  tale  guisa  dimostrare  al  papa,  ai  Veneziani  ed  alle 
altre  potenze  d'Europa  che  intima  e  salda  era  runione  dei  qnat* 
tro  Slati,  indurre  il  papa  e  la  Repubblica  veneta  a  collegarsi  con 
loro  per  difesa  dell'Italia,  e  far  conoscere  agli  altri  potentati  che 
questa  contrada  non  aveva  di  che  temere  dagli  stranieri.  La 
puerile  vanità  di  Pietro  de'Medici  mandò  a  monte  questo  divi- 
samento  e,  movendo  a  sospetti  Lodovico,  fece  si  che  egli  appi- 
gUassesi  ad  una  politica  affatto  contraria. 

Piero  de'Medici  doveva  essere  uno  degli  ambasciatori  eletti 
dalla  sua  Repubblica  per  recarsi  a  Roma,  e  bramava  far  pom- 
posa mostra  di  sé  in  quella  solenne  ambasceria,  sfc^gìando  ài 
cospetto  de'Romani  e  de'forestieri  i  tesori  di  gemme  redati  dal 
padre,  gli  splendidi  suoi  cobchi  e  le  leggiadre  assise  de'  suoi 
valletti.  La  sua  casa  era  stata  per  due  mesi  ingombra  di  sartori, 
di  rìcamatori  e  tappezzieri:  tutti  i  suoi  gioielli  erano  state  dis- 
seminati  sulle  assise  de'sdoi  paggi,  e  fra  le  altre  cose  una  col- 
lana che  doveva  andare  al  collo  di  uno  di  costoro  diceasi  del 
valsente  di  ducentomila  fiorini.  Tanto  lusso  sarebbe  stati  meno 
ammirato  se  le  quattro  solenni  ambasciate  avessero  dovuto  fare 
nello  stesso  tempo  il  loro  ingresso  in  Roma.  S'arroge  che  coU^ 
di  Piero  nell'ambasciata  era  Gentile,  vescovo  d'Arezzo,  uno  dei 
precettori  di  Lorenzo  de'Medici,  e  che  Gentile,  il  quale  doveva 
arringare ,  non  era  meno  voglioso  di  recitare  l' elucubrata  sua 
arringa  che  fosse  Piero  di  fare  sfoggio  delle  sue  assise.  Ora,  se- 
condo il  divisamente  di  Lodovico  il  Moro,  avrebbe  dovuto  arrin- 
gare il  solo  ambasciatore  del  re  di  Napoli.  Non  sapendo  il  Me- 
dici rinnegare  questa  sua  vanitosa  boria,  indusse  Ferdinando  re 
di  Napoli  a  ritirarsi  dalia  promessa  già  data  a  Lodovico,  il  quale, 
punto  dal  vedere  con  tanta  leggierezza  abbandonato  un  divisa- 
mento  da  lui  proposto  e  sostenuto  da  plausibili  motivi,  si  fece 
a  indagare  le  cagioni  per  cui  Piero  poteva  tanto  sull'animo  di 
Ferdinando,  e  sospettò  e  scopri  l'esistenza  di  una  segreta  lega 
tra  questo  e  il  capo  della  Repubblica  fiorentina.  La  quale  al- 
leanza ,  indipendente  da  quella  onde  egli  stesso  faceva  parte , 
parvegli  conchiusa  a  suo  danno;  e  di  vero,  quando  la  casa 
de'  Medici  costantemente  alleata  degli  Sforza ,  era  disposta  ad 
abbandonarli  per  la  casa  rivale  di  Aragona,  doveasi  temere  un 
intero  cambiamento  in  tutto  il  sistema  politico  dellltalia. 

Indi  a  poco  ebbe  Lodovico  novelle  prove  di  questi  accordi 
tra  Piero  de'  Medici  e  Ferdinando ,  le  quali  accrebbero  i  suoi 
timori.  Ferdinando  e  Piero  consigliarono  Virginio  Orsini,  parente 


—  483  — 

d^amUdoe  loro,  a  comperare  i  fendi  deirAngùillara  e  di  Cenrelri, 
che  Innocenzo  Vili  aveva  dato  in  signorìa  a  sqo  figlio  France- 
schetto  Cibo.  Virginio  ne  fece  di  vero  l'acquisto  per  quaranta- 
qnattromila  ducati»  de^quali  il  Medici  gliene  sovveniva  quaran- 
tamila. Per  tale  modo  i  feudi  degli  Orsini,  posti  in  gran  parte 
tra  Roma,  Viterbo  e  Civitavecchia,  venivano  ad  assicurare  il 
passo  tra  il  regno  di  Napoli  e  Io  Stato  di  Firenze,  in  tal  qual 
modo  ad  inceppare  il  papa,  i  cui  più  possenti  feudatari,  che 
erano  gli  Orsini,  venivano  per  sifialta  guisa  protetti  fino  alle 
porte  della  sua  capitale  dai  due  più  potenti  fra'suoi  vicini.  Lo- 
dovico il  Moro  fece  accorto  di  questo  pericolo  Alessandro  VI, 
confortandolo  a  non  approvare  o  collaudare  la  vendita  delPAn- 
gnillara,  poiché  i  feudi  della  Chiesa  non  potevano  essere  ven- 
dati dai  feudatari  senza  il  consentimento  del  papa. 

Lodovico  il  Moro  approfittò  della  inquietudine  in  che  que- 
sto negoziato  e  le  minacce  di  Ferdinando  e  di  Piero  de'Medici 
tenevano  Alessandro  VI  per  conchiudere  con  lui  e  colla  Repub- 
blica dì  Venezia  un'alleanza,  mercé  della  quale  si  potesse  resi- 
stere alle  forze  ed  alFambizione  omai  troppo  soverchie  della 
casa  d'Aragona.  Tale  alleanza  fu  sottoscritta  il  22  aprile  del 
1493,  malgrado  ^opposizione  del  doge  di  Venezia,  il  quale,  co- 
noscendo Findole  di  Alessandro  VI,  mon  sapeva  indursi  a  porre 
in  lui  fede.  Poco  dopo  accostossi  a  questa  lega  anco  Ercole  111 
duca  di  Ferrara;  ma  la  Repubblica  di  Siena  non  volle  pren- 
dervi parte. 

Obblìgavansi  il  papa  e  gli  altri  due  confederati  a  tenere  in 
arme  pel  mantenimento  delia  pace  d'Italia  un  esercito  di  venti- 
mila cavalli  e  di  diecimila  fanti,  al  cui  soldo  ed  allestimento  il 
papa  doveva  contribuire  per  un  quinto,  e  il  duca  di  Milano  ed 
il  governo  veneto  ciascuno  per  due  quinti.  Quest'alleanza  non 
aveva  alcuno  scopo  di  guerra,  e  tutti  gli  Stati  d'Italia  poteano, 
quando  loro  piacesse,  accostarvisi. 

Lodovico  il  Moro  temeva  assai  meno  di  Ferdinando  che 
de!  costui  figliuolo  Alfonso,  perchè  questi  era  il  protettore  natu- 
rale del  suo  nipote,  Giovanni  Galeazzo,  di  cui  Lodovico  avea  usur- 
pata tutta  l'autorità.  Lodovico,  impadronitosi  nel  1479  a  mano 
armata  della  reggenza  di  Milano,  cacciandone  la  duchessa  Bona  ed 
il  vecchio  Simonetta,  aveva  allora  un  plausibile  motivo  per  arro- 
garsi tutti  i  poteri  del  nipote  Giovanni  Galeazzo,  il  quale  era 
ad  ogni  modo  troppo  giovane  per  governare,  benché  fosse  stato 
dichiarato   maggiore  di  quattordici  anni  ;  posciacbé  bene  sa- 


-  481  — 

peasi  a  Milano,  del  pari  che  in  tutte  le  altre  noonarchie,  che  Tan- 
ticipata  dichiarazione  di  maggior  età  non  aveva  altro  effetto  che 
quello  di  levare  rautorità  di  noano  ai  tutori  indicati  dalla  legge 
per  recarla  in  mano  ai  favoriti  del  giovanetto  principe  o  a  co- 
loro che  avevano  in  suo  nome  occupato  il  supremo  potere. 

Ma  erano  ornai  quattordici  anni  che  il  Moro  teneva  le  re- 
dini del  governo,  e  Giovanni  Galeazzo  era  giunto  a  tale  età  che 
il  suo  senno  non  poteva  più  nulla  sperare  dal  tempo.  El  si  era 
ammogliato  con  Isabella  flgliuola  d'Alfonso  ed  abbiatica  del  re 
Ferdinando;  •  la  quale  fanciulla,  dice  il  Comines,  era  corag- 
giosa assai  ed  avrebbe  volentieri  ,  se  l'avesse  potuto,  recato  il 
potere  in  mano  al  marito,  ma  egli  non  aveva  troppa  prudenza 
e  palesava  ciò  che  la  consorte  gli  diceva,  >  E  in  vero,  fosse 
effetto  del  caso  o  deireducazione  data  al  principe,  fatto  è  che 
lo  scarso  intendimento  suo  era  favorevole  assai  ai  disegni  di 
Lodovico.  Fuvvi  chi  accagionò  questi  di  avere  a  bella  posta  al- 
lontanato il  nipote  dallo  studio  delle  lettere,  da  ogni  esercizio 
guerriero  e  da  qualunque  istruzione  potesse  renderlo  atto  a 
governare,  e  di  averlo  dato  per  lo  contrario  da  educare  a  gente 
dappoco,  inetti  adulatori,  onde  avvezzarlo  al  lusso  ed  alla  mol- 
tezz  )  ;  ma  sarebbe  forse  ingiustizia  V  attribuire  a  Lodovico  il 
Moro  così  reo  disegno ,  perciocché  tale  era  Fordinaria  educa- 
zione che  soleva  darsi  ai  prìncipi.  Giovanni  Galeazzo,  benché 
latto  adulto,  non  potea  dirsi  uscito  dairinfanzia>  la  sua  debo- 
lezza, pusillanimità  e  dappocaggine  erano  aperte  a  tutti  coloro 
che  se  gli  accostavano:  onde  a  Lodovico  il  Moro  bastava  il  la- 
sciarle conoscere  per  giustiQcarsi  del  tenerlo  affatto  lontano  dal 


governo. 


Isabella  d'Aragona  conosceva  pur  essa  l'incapacità  di  suo 
marito,  ma  parevale  che  il  diritto  di  governare  in  sua  vece 
spettasse  a  lei,  non  ad  altri.  Cresciuta  presso  al  trono  e  avendo 
sempre  nudrita  la  speranza  di  regnare,  ella  credeva  che  il  pro- 
prio orgoglio  fosse  fermezza  d'animo,  e  la  sua  risolutezza  abi- 
lità; onde  avrebbe  voluto  governare  lo  Stato  in  quella  guisa  che 
governava  il  marito.  D'altra  parte,  Beatrice  d'Este,  moglie  di 
Lodovico ,  non  trasandava  occasione  di  mortificarla ,  volendola 
in  tutto  sovverchiare.  Splendida  era  la  corte  di  Beatrice  per  af- 
fluenza di  cortigiani  e  di  servili  adulatori  e  per  la  pompa  degli 
abiti  e  dei  cocchi;  intanto  che  Isabella  vivea  solitaria  nel  pa- 
lazzo di  Pavia,  ove  in  qualche  modo  colla  povertà  combatteva, 
0  benché  dal  suo  fianco  dovesse  nascere  l'erede  della  signoria. 


i  sooi  parU  eranO'  appena  resi  noti  ai  sudditi.  Isabella  si  era 
lagnata  acerbamente  di  LodoYico  al  padre,  il  quale,  per  meno 
de^saoi  ambasciatori  »  fece  solenni  istanze  perchè  al  giovane 
duca  venisse  data  alla  perfine  Tautorità  che  per  diritto  gli  si 
aspettava. 

Ma  Lodovico  il  Moro,  invece  di  deporre  il  governo  del  du- 
cato, cominciò  da  quel  punto  ad  accattare  pretesti  per  sedere 
egli  stesso  sul  trono.  L'imperatore  Federico  era  morto  in  età 
di  ottantanni,  nella  notte  del  19  al  20  agosto  del  1493,  e  Mas- 
similiano, suo  figliuolo,  che  gli  era  succeduto  col  titolo  di  re 
de'  Romani,  ne'  principii  del  suo  regno  già  scarseggiava  di  da- 
narq,  come  per  i  suoi  mali  governi  e  per  le  sue  disordinate 
larghezze  e  profusioni  ne  scarseggiò  poi  fino  agli  ultimi  suoi 
giorni.  Lodovico  gli  fece  offrire  in  matrimonio  Bianca  Maria , 
sua  nipote,  colla  dote  di  quattromila  ducati ,  chiedendogli  in 
contraccambio  l'investitura  per  sé  del  ducato  di  Milano.  I  can- 
cellieri imperiali  trovarono  facilmente  i  pretesti  occorrenti  per 
palliare  qoest'  ingiustizia.  Francesco  Sforza ,  e  dopo  di  hii  suo 
figlio  Galeazzo,  mai  non  avevano  ottenuto  l'investitura  impe- 
riale; ora  il  diploma  conceduto  a  Lodovico  dichiara  che  gl'im- 
peratori romani  avevano  posto  per  legge  di  negare  il  legittimo 
possedimento  di  un  feudo  a  chiunque  lo  avesse  violentemente 
usurpato,  e  che  per  questo  motivo  Massimiliano  aveva  rigettate 
tutte  le  istanze  fatte  da  Lodovico  Sforza  a  favore  di  suo  nipote 
e  preferito  di  scegliere  invece  lo  stesso  Lodovico.  Pure  questi 
non  ebbe  troppa  premura  di  pubblicare  questo  diploma,  e  con- 
tinuando ad  intitolarsi  duqa  di  Bnri  e  lasciando  al  nipote  i  titoli 
di  duca  di  Milano  e  di  signore  delle  città  lombarde,  tutta  in- 
somma teneasi  la  potenza  e  la  pompa  della  sovranità. 

La  propria  ambizione  di  Lodovico  appagavasi  dell'esercizio 
della  reggenza:  bensì  desiderava  di  procurare  a' suoi,  figlinoli, 
piuttosto  che  a  quelli  del  nipote,  l'eredità  del  ducato  di  Milano; 
ma  non  s'arrischiava  senza  timore  in  cosi  spinosa  intrapresa , 
neila^  quale  avrebbe  avuto  acerrimo  nemico  il  re  di  Napoli.  Ab- 
bastanza conosceva  il  nuovo  re  de'llomani  per  non  isperarne 
verun  soccorso;  cominciava  a  travedere  la  versatilità  del  papa, 
cui  da  bel  principio  erasi  lusingato  di  poter  governare  a  propria 
posta  col  mezzo  de'consigli  del  cardinale  Ascanio,  suo  fratello; 
poca  fiducia  riponeva  ne'Veneziani,  in  ogni  tempo  nemici  della 
sua  famiglia  ;  i  Fiorentini  gli  erano  contrarli ,  e  temeva  che  i 
medesimi  suoi  sudditi  di  Lombardia  apertamente  non  si  oppo- 


—  486- 

nessero  ai  saoì  disegni ,  che  tendevano  a  balzare  dal  trono  ì 
legittimi  loro  principi.  In  tale  imbarazzo  parve  opportuno  a  Lo- 
dovico di  cercarsi  oltremontì  un  alleato,  e  si  volse  a  Carlo  Vili, 
re  di  Francia,  del  qnale  non  aveva  potuto  ancora  apprezzar  la 
possanza. 

Carlo  Vni  era  succeduto  fin  dal  30  agosto  del  1483  a  suo 
padre  Lodovico  XI,  alleato  del  padre  di  Lodovico  il  Moro;  ma 
non  avendo  Carlo  in  allora  se  non  tredici  anni  e  pochi  mesi, 
Lodovico  XI  aveva,  prima  di  morire,  affidato  il  governo  del  re- 
gno a  madama  di  Beaujeu ,  sua  figliuola  primogenita ,  moglie 
di  Pietro  di  Borbone.  Pe^  dieci  anni  gloriosamente  amministrò 
quella  principessa  lo  Stato,  e  represse  le  pretensioni  de'  principi 
dei  sangue,  pose  fine  a  pericolose  guerre  civili  e.  assoggettò  o 
ritini  alla  corona  vasti  feudi  fino  allora  indipendenti.  Carlo  Vni 
propriamente  non  cominciò  a  governare  egli  stesso  se  non  dopo 
il  1492.  In  grazia  dello  splendore  d'una  rilevante  impresa  e  della 
conquista  d'un  regno,  questo  monarca  ottenne  una  gloria  troppo 
maggiore  di  quella  a  cui  l'avevano  destinato  e  la  natura  e  l'edu- 
cazione. Imperciocché ,  sebbene  la  maggior  parte  degli  storici 
francesi  l'abbiano  rappresentato,  per  valermi  della  frase  di  Luigi 
de  la  Trémonille,  come  <  piccolo  di  corpo  e  grande  di  cuore,  » 
i  due  migliori  osservatori  del  secolo ,  che  sono  Filippo  di  Co- 
mines  e  Francesco  Guicciardini ,  ne  fanno  il  più  svantaggioso 
ritratto.  Il  primo  lo  dice  <  molto  giovane  e  appena  uscito  da) 
nido,  mal  provveduto  d'intelletto  e  di  danaro,  di  debole  persona^ 
ostinato  nei  propri  consigli  e  non  accompagnato  da  uomini  pru- 
denti. >  Dice  dell'  altro  <  questo  giovane ,.  in  età  di  ventidue 
anni  e  per  natura  poco  intelligente  delle  azioni  umane,  era 
trasportato  da  ardente  cupidìgia  di  signoreggiare  e  da  appetito 
di  gloria,  e  ciò  piuttosto  per  leggierezza  d'animo  ed  impeto,  che 
per  maturità  di  consiglio;  e  prestando,  o  per  propria  inclina- 
zione, 0  per  l'esempio  e  ammonizioni  paterne,  poca  fede  a'  si- 
gnori ed  ai  nobili  del  regno,  dacché  era  uscito  della  tutela  di 
Anna  duchessa  di  Borbone,  sua  sorella,  non  udiva  più  i  con- 
sigli dell'ammiraglio  e  degli  altri,  i  quali  erano  stati  grandi  in 
quel  governo,  ma  si  reggeva  col  parere  di  alcuni  uomini  di  pic- 
cola condizione,  allevati  al  servigio  della  persona  sua,  che  fa- 
cilmente erano  stati  corrotti.  > 

L'aspetto  di  Carlo  Vili  corrispondeva  a  molta  debolezza  di 
spirito  e  di  carattere;  era  di  bassa  statara;  aveva  grossa  la  testa 
e  corto  il  collo,  petto  e  spalle  larghe  e  sollevate,  cosce  e  gambe 
lunghe  e  gracili. 


—  487  — 

<  Cario  fino  dalla  paerìzia  fa  di  complesàone  molto  debole 
3  di  corpo  noD  sano*  di  statura  piccola  e  d'aspetto  (se  tu  gli 
levi  il  figore  e  la  dignità  degli  occhi)  brottissimo;  Taltre  mem- 
tira  erano  sproporzionate,  in  modo  che  pareva  qoasi  più  simile 
I  mostro  che  ad  nomo.  Non  solo  non  ebbe  alcona  notizia  delle 
tMione  arti,  ma  appena  gli  furono  cognite  le  flgure  deirabbicì: 
aveva  animo  cupido  di  imperare ,  ma  abile  più  ad  ogni  altra 
cosa,  perchè,  aerato  sempre  da'  suoi,  non  riteneva  con  loro 
né  maestà,  né  autorità:  alieno  da  tutte  le  fatiche  e  faccende,  e 
in  quelle  alle  quali  pure  attendeva  povero  di  prudenza  e  di 
giodido:  se  pure  alcuna  cosa  in  lui  pareva  degna  di  laude,  ri- 
sguardata  intrinsecamente,  era  più  lontana  dalla  virtù  che  dal 
vizio:  era  inclinato  alla  gloria,  ma  più  per  impeto  che  per  con- 
siglio; era  liberale,  ma  inconsideratamente  e  senza  modo  o  re- 
^la;  era  immutabile  talvolta  nelle  deliberazioni ,  ma  ciò  era 
spesso  ostinazióne  mal  fondata,  anziché  costanza:  e  quello  che 
BQOlti  chiamavano  bontà  meritava  più  convenientemente  il  nome 
li  freddezza  e  di  remissione  d'animo.  » 

Tale  era  Tuomo  il  quale  per  virtù  delle  circostanze  fecesi 
M)nquistatore  e  dalla  fortuna  fu  onusto  di  maggior  gloria  che  non 
[)Otesse  portarne. 

Lodovico  Sforza,  onde  procacciarsi  l'alleanza  di  Carlo  Vili, 
aiaodò  in  Francia  Carlo  di  Barbiano,  conte  di  Belgioioso,  ed  il 
x>Dte  di  Caiazzo,  figliuolo  primogenito  di  Roberto  di  Sanseve- 
ino,  morto  da  pochi  anni,  per  invitare  quel  re  a  venire  a  con- 
quistare la  corona  di  Napoli,  che  gli  si  aspettava,  e  per.  indurlo 
I  cogliere  il  buon  punto  che  i  signori  del  regno  erano  piucché 
mai  stracchi  del  giogo  della  casa  d'Aragona,  e  che  il  papa  era 
sdegnato  contro  di  Ferdinando.  Lodovico  gli  si  profferiva  per 
fedele  e  fervido  alleato»  e  prometteva  d'aprirgli  il  passo  all'Italia 
per  la  Lombardia  e  di  assicurargli  la  signoria  del  mare  coi  porti 
dello  Stato  di  Genova,  e  solleticava  inoltre  l'ambizioso  e  vani* 
toso  animo  di  lui  colla  speranza  di  conquiste  ancora  più  splen- 
dide, facendogli,  per  cosi  dire,  travedere  da  lungi  la  conquista 
della  Turchia  e  la  liberazione  di  Costantinopoli  e  di  Gerusa- 
lemme, siccome  imprese  riservate  al  valore  francese. 

Il  conte  di  Caiazzo,  ch'era  figliuolo  di  quel  Roberto  da  San- 
severino  capo  del  ramo  bastardo  della  casa  di  Sanseverino,  che 
aveva  ottenuta  in  Lombardia  tanta  gloria  colle  esimie  sue 
virtù  guerriere  e  politiche,  trovò  alla  corte  di  Francia  i  capi 
del   ramo  primogenito  e  legittimo  della  sua  casa ,  eh'  erano 


-  488  — 

Antoniello  di  Saoseverino  priocipe  di  Salermo  »  e  Bernardina 
principe  di  Bisignano«  i  quali,  scampali  essendo  dalle  perseca- 
zioni  della  casa  d'Aragona,  cercavano»  di  conserva  con  lutti  gli 
esuli  del  partito  d'Angiò,  modo  di  trarre  lo  armi  francesi  nel 
regno  di  Napoli.  Ingannali  dalle  illusioni  proprie  degli  esuli  in 
ogni  tempo»  ei  facevano  ragione  delle  disposizioni  decloro  nazio- 
nali secondo  il  proprio  risentimento,  e  nella  guerra  straniera 
tutte  riponeano  quelle  speranze  che  più  non  poteano  dare  loro 
le  abbattute  forze  del  proprio  partito;  laonde  assecondarono  a 
tutto  potere  ii  conte  di  Caiazzo. 

Dal  canto  sud  il  conte  di  Belgioioso  adoperavasi  per  la 
buona  riuscita  dei  suoi  consigli  con  tutte  le  segrete  pratiche 
di  un  esperto  cortigiano.  Andò  da  tutti  coloro  che  godevano 
del  favore  del  re,  e  gli  uni  corruppe  coi  doni,  gli  altri  colle 
promesse,  dando  loro  speranza  di  feudi  e  di  cariche  ragguar^ 
devoli  nel  regno  di  Napoli,  di  titoli  nella  corte  di  Roma  e  di 
prebende  ecclesiastiche  in  tutta  la  cristianità.  Di  tal  modo  ei 
venne  a  capo  di  trarre  dalla  sua  molti  grandi  e  possenti,  ed  in 
particolare  uno  Stefano  di  Vese,  di  Linguadoca,  eh'  era  stato 
lungo  tempo  cameriere  del  re  ed  in  appresso  era  diventato 
siniscalco  di  Belcario,  e  un  Guglielmo  Briscioonet,  che  di  mer- 
catante era  diventato  appaltatore  delle  pubbliche  entrate  nella 
generalità  di  Linguadoca,  onde  era  chiamato  generale,  ed  airul- 
timo  vescovo  di  San  Malo  e  sovrintendente  della  finanza.  Questi 
due  personaggi  con  tutti  i  loro  creati  facevano  plauso  a  quella 
impresa,  per  la  quale  aprivansi  loro  novelle  vie  onde  acquistarsi 
ricchezze  senza  eccitare  di  troppo  la  gelosia  de'magnati.  Coloro, 
per  lo  contrario,  che  per  la  condizione  e  pel  credito  loro  ere- 
ditario erano  più  dediti  alla  Francia  che  non  al  re,  sconsiglia- 
vano r  impresa  ;  imperciocché  non  pareva  loro  che  vi  fossero 
probabili  speranze  di  durevole  successo ,  e  non  avevano  a 
grado  che  la  Francia ,  per  assicurarsi  da  ogni  straniera  inva- 
sione, onde  tentare  quella  conquista,  comperasse  la  pace  dai 
suoi  vicini,  rinunciando  a  sicuri  vantaggi  per  abbracciare  lon- 
tane speranze. 

Finalmente,  dopo  molli  dibattili  tra  il  re  e  gli  ambascia- 
lori  di  Lodovico  il  Moro,  per  opera  del  Briscionnet  e  del  sini- 
scalco di  Belcario  fu  fermato  il  seguente  trattato.  Primo  patto 
era  che,  quando  Carlo  Vili  venisse  in  Italia  o  vi  facesse  scen- 
ilere  il  suo  esercito,  il  duca  di  Milano  fosse  obbligalo  a  dargli 
il  passo  per  mezzo   a'  suoi  Stali ,  a  farlo  accompagnare  a  sue 


—  489  — 

spese  da  anqueceoto  oomioi  d^arme,  a  permeUergli  d'armare  a 
(ìeoofai  quanti  Tascelli  Carlo  volesse  e  a  dargli  in  prestito 
dncentomila  ducati  all'atto  della  partenza  dalla  Francia.  In 
corrìspettiTo  il  re  prometteva  di  difender  da  cliichefosse  il  ducato 
di  Milano  e  la  propria  autorità  di  Lodovico  il  Moro,  di  lasciare 
in  Asti,  città  appartenente  al  duca  d'Orleans,  duecento  lance 
francesi,  sempre  apparecchiate  a  difendere  la  casa  Sforsa;  e 
.per  ultimo  di  dare  a  Lodovico  il  principato  di  Taranto,  fatta 
elle  avesse  la  conquista  del  regno.  Queste  convenzioni  si  ten- 
nero per  molti  mesi  segrete;  e  quando  cominciò  a  spargersi  in 
Italia  la  voce  della  prossima  venuta  de'  Francesi ,  Lodovico  il 
Moro,  anzi  che  lasciarsi  intendere  ch'egli  era  loro  alleato,  pro- 
curò di  far  credere  agi'  Italiani  eh'  egli  non  meno  di  loro  era 
•atterrito  dalla  veneta  dei  barbari. 

Dacché  Carlo  Vili  ebbe  determinato  di  fare  l' impresa  del 
regno  di  Napoli,  ad  altro  più  non  pensò  che  a  sciogliersi  dalle 
brighe  coi  vicini,  facendo  trattati  di  pace  con  tutti  loro,  per 
ottenere  i  quali  rinunziò  a  molti  vantaggi  che  madama  di 
Beaujeu  aveva,  mercè  della  sua  prndenza,  ottenuti  nel  glorioso 
corso  della  sua  amministrazione.  Carlo  Vili,  quando  prese  le 
redini  del  governo,  trovavasi  in  guerra  con  due  de'più  potenti 
vicini  della  Francia,  cioè  a  dire  Enrico  VII ,  re  d' Inghilterra , 
e  Massimiliano  re  de'  Romani  ;  egli  era  nello  stesso  tempo 
poco  sicuro  dal  lato  di  Ferdinando  e  d' Isabella  re  d'Aragona 
e  di  Gastiglia.  Ma  tutti  questi  sovrani-,  benché  fossero  ad  un 
tempo  nemici  della  Francia,  non  erano  tuttavia  d'accordo  tra 
di  loro.  Il  re  Carlo  fece  a  ciascheduno  separatamente  tali  lusin- 
ghiere offerte,  che  non  gli  riusci  difficile  di  ottenere  la  pace. 
Trattò  da  prima  con  Enrico  VII,  che  era  sbarcato  a  Calais  con 
un  formidabile  esercito,  e  il  3  di  novembre  del  1492,  in  Eta- 
ples,  conchiuse  con  lui  un  trattato  in  virtù  del  quale  il  re 
inglese  si  scostò  dall'  alleanza  del  re  de'  Romani,  e  per  mezzo 
delia  diserzione  doveva  avere  da  Carlo  quarantacinquemila 
scudi  d'oro  a  titolo  di  rifacimento  delle  spese  della  guerra  della 
Bretagna. 

La  guerra  della  Francia  col  re  de'Romani  sembrava  dovere 
riuscire  più  accanita  a  cagione  del  doppio  affronto  fatto  da 
Carlo  Vili  a  Massimiliano,  rimandandogli  Margherita  di  Bor- 
gogna, sua  figiia,  cui  era  fidanzato,  per  ammogliarsi  con  Anna 
di  Bretagna,  che  era  promessa  sposa  allo  stesso  Massimiliano. 
Pure  la  corte  di  Francia  venne  a  capo,  col  trattato  di  Senlis 

Tamb.  Jnquis.  Voi.  IL  ^i> 


—  490  — 

del  23  maggio  1493 ,  di  rappaciare  il  principe  austriaco ,  re- 
stitueDdogli  le  contee  di  Borgogna  »  di  Artese  e  del  Garolese , 
e  la  signoria  di  Noyers ,  che  Carlo  Vili  occupava  di  pk  come 
dote  di  Margherita.  Promise  pure  Carlo  di  restituire  a  Fi- 
lippo d'Austria  »  giunto  che  fosse  in  età  maggiore  »  le  città  di 
Hesdin»  Aire  e  Bethune»  sulle  quali  Filippo  vantava  particolari 
diritti. 

Il  terzo  trattato  di  Carlo  Vili  fu  ancora  più  svantaggioso 
alla  Francia.  Lodovico  XI  aveva  ricevuto  in  pegno  per  trecen- 
tomila ducati  dal  re  Giovanni  d'Aragona  la  città  di  Perpignano, 
la  contea  di  Rossiglione  e  la  Gerdagna.  Le  fortezze  di  quelle 
anguste  Provincie  erano  come  le  chiavi  della  Francia  dal  lato 
de'  Pirenei,  e  Lodovico  XI  le  credeva  di  tanta  importanza,  che 
non  volle  più  restituirlo  all'Aragonese,  il  quale  per  riaverle  of- 
feriva il  danaro  in  prestanza.  Per  lo  contrario  Carlo  Vili  le 
restituì  gratuitamente  a  Ferdinando  il  Cattolico,  a  condizione 
che  questi  non  soccorrerebbe  suo  cugino  Ferdinando  di  Napoli 
e  non  si  opporrebbe  ai  progressi  del  re  di  Francia  in  Italia.  Fa 
questo  il  risultamento  del  trattato  di  Barcellona  del  19  di  gen- 
naio del  1493. 

Mentre  che  Carlo  VIII  con  questi  trattati  assicurava  la  pace 
alla  Francia ,  altri  ne  andava  intavolando  per  apparecchiare  la 
guerra  in  Italia.  Egli  aveva  colà  inviati  quattro  ambasciatori 
con  ordine  di  visitare  tutti  gli  Stati  della  provincia  e  di  chie- 
dere a  tutti  ajuto  per  ricuperare  i  diritti  della  casa  di  Francia. 
Perrone  de'  Baschi,  la  cui  famiglia,  originaria  d'Orvieto,  ottenne 
poscia  in  Francia  il  marchesato  d'Aubais,  era  capo  di  quest'am- 
basceria. Perrone  aveva  già  accompagnato  in  Italia  GiovaoDi 
d'Apgiò  e  appieno  conosceva  gl'interessi  di  tutti  i  principi  della 
contrada.  Egli  si  volse  prima  di  tutto  ai  Veneziani  e  chiese 
loro,  secondo  ch'erano  i  comandamenti  del  re ,  aiuto  e  consi- 
glio pel  re  suo  signore.  Risposero  i  Veneziani  che  troppo  sa- 
rebbero stati  presuntuosi  se  avessero  creduto  poter  dare  con- 
sigli ad  un  principe  circondato  da  uomini  tanto  prudenti ,  e 
che  imprudente  cosa  sarebbe  il  promettergli  soccorso,  mentre 
dovevano  star  sempre  apparecchiati  a  respingere  le  armi  tar- 
chesche;  ma  che  Carlo  Vili  non  doveva  dubitare  delPaffetto  e 
della  devozione  delia  Repubblica  verso  la  corona  di  Francia. 
Con  queste  ambigue  parole  credeva  il  Senato  di  schivare  ogni 
rimprovero  per  parte  dei  sovrani  d'Italia.  Per  altro  i  Veneziani 
in  cuor  loro  desideravano  l'abbassamento  della  casa  d'Aragona, 


—  Iti  - 

e  si  smUbao  alleati  cofla  Firaoda  se  non  aieswro  Imiito  di 
essere  poi  abbandonati  dai  Francesi  e  ridotti  a  »$lenefe  soli 
tutto  il  peso  ddla  goerra. 

Pennone  de'Ba^hì  passò  iodi  a  Firenae.  Compagni  dd« 
Tambasdata  erangti  d*AolMgny,  il  soTraintendente  Brìscìonnet 
ed  il  "presidente  del  parlamento  <(fi  ProTenaa«  Vennero  questi 
signori  introdotU  nel  consìglio  de^  settanta ,  al  quale  furono 
chiamati  come  arroti  tutti  coloro  che  negli  ultimi  treutaquat* 
tr'anni  erano  stati  confolouierì.  E  per  tal  modo  que$ra.^$emhlea 
•  Tonìta  ad  essere  composta  di  persone  afliitto  ligie  alla  casa 
de^  Medio.  Chiesero  agii  ambasciatori  che  la  Repubblica  pro« 
mettesse  air  esercito  francese  il  passo  pel  suo  territorio  e  lo 
Tittovaglie  contro  pagamento.  Ma  il  consìglio ,  eh'  era  deiiito  a 
a  Piero  de' Medici,  fu  di  unanime  sentimento  di  serbar  fedo 
alla  casa  d'Aragona.  Siccome  tuttavia  i  Fiorentini  avevano  in 
Francia  molti  de'  loro  più  ricchi  banchi  di  commercio  »  cosi  e' 
diedero  al  re  una  risposta  evasiva  ;  e  gli  mandarono  inoltre 
per  oratori  Pietro  Capponi  e  Guid'Antonio  Vespucci  a  suppli- 
carlo di  voler  essere  loro  amico. 

Gli  ambasciatori  francesi  mossero  quindi  a  Siena  e  vi  giun- 
sero il  9  maggio  del  1494.  Ma  i  Sanesi ,  rappresentando  loro 
che,  deboli  come  erano,  non  potevano  senza  estremo  peri- 
colo dichiararsi  anticipatamente  per  Tuno  o  per  Taltro  do'  due 
rivali ,  dissero  di  volere  starsene  scrupolosamente  di  utesso. 
Alessandro  VI,  che  fu  Tultimo  ad  essere  visitato  dagli  amba- 
sciatori, loro  dichiarò  che,  avendo  i  suoi  predecessori  accordata 
rinvestitura  del  regno  di  Napoli  ai  principi  della  casa  d'Ara- 
gona, egli  non  poteva  ritorgliela  senza  un  precedente  giudizio» 
per  cui  evidentemente  si  conoscesse  che  i  diritti  della  casa 
d'Angiò  vincevano  quelli  della  casa  di  Aragona,  E  incaricati  gli 
ambasciatori  a  rappresentare  al  loro  sovrano  che  il  regno  di 
Napoli'  era  un  feudo  della  santa  sede  e  che  al  papa  solo  spet- 
taya  di  pieno  diritto  il  dar  sentenza  fra  i  competitori.  sogglnnfM) 
che  l'occupare  il  regno  colla  forza  sarebbe  lo  stesso  che  assalire 
la  Chiesa. 

'  Ferdinando  dal  canto  suo  non  trascurava  le  vie  delle  ne- 
goziazioni. Prima  di  tutto  mandò  allo  stesso  Carlo  di  Francia 
Camillo  Pandone,  in  cui  moltissimo  confidava,  per  chiedfTO  ni 
Francesi  il  rinnovamento  dei  trattati  precedentemente  conchltiid 
con  Lodovico  XI,  dicendosi  pronto  a  compromettere  negirarbi- 
tramonti  del  pontefice  per  ogni  contesa  colla  ca^a  di  Francia  e 


—  491  — 

fors'anco  a  riconoscere,  senza  venire  airesperimenlo  delle  armi, 
la  corona  di  Napoli  per  tributaria  della  Francia.  Ma  tnlte  questa 
proposizioni  furono  rigettate  dal  prosojitaoso  Carlo  Vili,  il  quale 
intimò  agli  ambasciatori  napoletani  lo  sfratto  immediato  da'  suoi 
Stati. 

In  pari  tempo  Ferdinando  negoziava  ancora  col  papa,  e  con 
migliore  successo  che  in  Francia.  Alessandro  VI  ardentemente 
desiderava  di  consolidare  la  grandezza  della  propria  famiglia  col 
mezzo  d' illustri  parentadi  e,  per  rappattumarsi  colla  casa  d'Ara- 
gona, aveva  chiesto  che  la  pace  fosse  suggellata  con  un  matri- 
monio; e  sebbene  si  accontentasse  che  uno  de'  propri  figli  spo- 
sassesi  ad  una  figlinola  naturale  d'Alfonso,  figlio  di  Ferdinando» 
quest'ultimo  gli  aveva  data  la  ripulsa.  Ma  il  timore  dei  Fran- 
cesi  aveva  reso  più  mansueto  l'orgoglioso  Alfonso:  dal  che  ne 
venne  che  don  Giuffrè  o  Goffredo  Borgia,  il  più  giovane  dei 
figliuoli  di  Alessandro  VI,  sposò  donna  Sancia,  figlia  d'Alfonso. 
I  due  sposi  Aon  erano  ancora  atti  al  matrimonio;  pure  don 
Goffredo  passò  tosto  a'  servigi  della  casa  d'Aragona  con  una 
compagnia  di  cento  uomini  d'armi  e  andò  a  stare  in  Napoli 
per  godere  della  readita  dei  diecimila  ducati  e  del  ducato  di 
Squillace,  dati  in  dote  alla  sposa.  Il  papa  approvò  allora  la  ven* 
dita  delle  due  contee  d'Anguillara  e  di  Cervetri,  che  era  stata 
la  prima  cagione  del  suo  mal  umore  con  Ferdinando,  obbli- 
{^ndo  tuttavia  l' Orsini  a  pagarne  di  nuovo  il  prezzo  alla 
camera  apostolica;  al  quale  uopo  Ferdinando  somministrò  al- 
l'Orsini il  danaro. 

Né  trascurò  Ferdinando  di  far  pratiche  ancora  presso  Lo- 
dovico Sforza,  a  cui  fece  dire  che  le  loro  famiglie  erano  unite 
da  tanti  vincoli  di  parentela  che,  come  suol  farsi  tra  congiunti, 
alla  amichevole  dovevano  trattarsi  le  loro  differenze.  Che  se  la 
figlia  di  suo  figlio  Alfonso  aveva  sposato  Giovanni  Galeazzo,  la 
figlia  di  sua  figlia,  ch'era  la  duchessa  di  Ferrara,  aveva  sposalo 
Lodovico  il  Moro  ;  di  modo  che,  qualunque  di  loro  due  conser- 
vasse il  ducato  di  Milano,  sarebbe  sempre  erede  del  trono  un 
suo  nipote.  Le  nozze  di  Bianca  Maria  Sforza  col  re  de'  Romani 
parevano  indizio  che  Lodovico  il  Moro  fosse  per  abbandonare 
l'alleanza  della  Francia,  perciocché  sapevasi  che,  a  dispetto  del 
trattato  di  Senlis,  Massimiliano  odiava  tuttora  acerbamente 
Carlo  Vili.  Ma  Lodovico  Sforza  era  ornai  ridotto  a  quel  punto 
che  doveva  darsi  in  balia  alla  sorte  ch'egli  stesso  aveva  provo- 
cata e  correre  tutte  le  vicissitudini  della  pericolosa  alleanza  che 


% 


ii 


—  495  — 

li  atera  coptratb.  Poi  ch'ebbe  sollecitata  rarobitìone  e  la 
initi  del  giovane  francese^  pia  non  era  io  suo  arbitrio  Tattu* 
rie.  Nò  avrebbe  pradeDteinente  operato  scostandosi  da  Carlo 
privandosi  della  saa  assistenza  dopo  avere  cosi  gravemente 
"ovocato  i  suoi  nemici  :  onde  studiavasi  soltanto  di  guadagnar 
mpo  per  non  essere  assalito  prima  della  discesa  dei  Francesi 
Italia;  ed  invece  di  farsi  a  discutere  di  buona  fede  le  pro- 
»ste  di  accomodamento  che  gli  faceva  il  re  di  Napoli,  sforza- 
isi  di  fargli  credere  ch'egli* non  aveva  pattuito  cosa  alcuna  coi 
*ancesi  e  che  più  d'ogni  altro  paventava  i  pericoli  che  gli 
vrastavano  se  gli  eserciti  francesi  scendevano  in  Italia. 

Ferdinando  non  trascurava  intanto  di  apparecchiarsi  a  re- 
liogere  i  nemici  colle  armi.  Non  sapendo  per  quale  via  essi 
nterebbero  d' invadere  i  suoi  Stati»  allestì  una  flotta  di  cin- 
lanta  galere  e  dodici  grossi  vascelli  per  chiuder  loro  la  via  del 
are,  e  ne  diede  il  comando  al  suo  secondogenito,  don  Fede- 
ro; e  fece  da  Alfonso  duca  di  Calabria,  il  quale  per  la  presa 
Otranto  era  salito  in  fama  di  esperto  capitano,  raccogliere  ai 
iDfini  del  regno  un  esercito,  che  questi  con  ogni  mozzo  cor- 
iva  d'ingrossare.  Ma  per  la  difesa  di  Napoli  egli  pareva  prin- 
palmente  confidare  nell'alleanza  della  Chiesa,  sebbene  Alcs- 
iDdro  VI  cercasse  fino  all'ultimo  di  trarre  profitto  dalle  inquie- 
ladini  e  dalle  angustie  del  suo  alleato  per  giungere  a'  suoi 
rivati  fini.  Giuliano  della  Rovere,  cardinale  di  San  Pietro  in 
ncoli,  non  aveva  voluto  ad  alcun  patto  riconciliarsi  con  Alcs- 
indro  VI  ;  riparatosi  nel  suo  vescovado  d'Ostia,  egli  si  era  for- 
Qcato  nel  castello  che  egli  stesso  aveva  innalzato,  e  le  cui 
fri  sono  ancora  al  presente  adorne  de'suoi  stemmi.  Il  papa 
infinse  di  credere  che  Giuliano  colà  si  tenesse  d'accordo  con 
ordinando,  e  fece  dire  a  questi  che  ei  sarebbe  tornato  all'ai- 
anza  della  Francia  se  il  re  non  gli  faceva  consegnare  Ostia, 
ivano  protestava  Ferdinando  che  il  cardinale  della  Rovere  non 
pendeva  altrimenti  da  lui,  ed  eccitava  il  papa  a  pensare  piut- 
sto  ai  guasti  dei  Turchi  in  Croazia  che  alla  guarnigione  d'Ostia; 
iè  un  nuovo  lievito  di  discordia  già  fra  di  loro  fermentava,  e 
re  di  Napoli  chiaramente  s'addava  che  non  doveva  fare  fon- 
mento  sopra  un  alleato  comperato  a  cosi  caro  prezzo. 

Le  cose  del  vecchio  Ferdinando  andavano  ogni  di  peggio- 
Qdo;  i  suoi  alleati  ad  altro  non  pensavano  che  a  vendergli 
1  care  le  loro  promesse  di  soccorsi  senza  allestire  l'occor- 
Ite  per  dargli  ajuto.  Vero  è  che  i  suoi  nemici  non  ancora 


-494- 

si  erano  mostrati  operosi  se  non  nelle  pratiche ,  ma  intanb^ 
essi  aTevano  .sciolta  quella  confederazione  deiritalia  che  poteta 
incutere  timore  agli  oltramontani.  Da  parecchi  anni  Fltalia  go- 
deva piuttosto  pace  che  felicità  ;  più  prospero  era  il  suo  Stato, 
ma  i  suoi  desiderìi  non  erano  appagati  ;  ella  confidava  nelle 
proprie  forze  ancora  intere  e  segretamente  desiderava  di  fare 
nuovi  sperimenti  del  suo  valore.  Prima  che  i  popoli  provine 
il  peso  delle  calamità  della  guerra»  r  inquietudine,  la  curiosità, 
il  bisogno  di  vive  commozioni,  la  vaghezza  di  perigliarsi  al  piir 
grande  de'  giuochi  di  sorte ,  ed  altre  passioni  frivole  traggooli* 
spesse  volte  a  provocare  le  rivoluzioni.  Lodovico  il  ìforo  aven 
egli  solo  negoziato  colla  Francia  ;  ma  dall'  una  all'altra  estre- 
mità della  penisola  la  metà  degV  Italiani  aspettava  con  impa- 
zienza un'  invasione  di  cui  essi  medesimi  non  pertanto  teme- 
vano. Lo  stesso  duca  Giovanni  Galeazzo  Sforza  andavasi  lu^o- 
gando  chela  venuta  ne'suoi  Stati  di  un  re  ch'era  suo  congiunte 
potrebbe  mutare  la  sua  sorte.  Il  duca  Ercole  III  di  Ferrara , 
che  si  era  accostato  alle  pratiche  dei  genero  Lodovico  il  MorOr 
sperava  nelle  future  turbolenze  di  riavere  il  Polesine  di  Rovi- 
go, toltogli  neir  ultimo  trattato  di  pace.  I  Veneziani  desidera- 
vano dì  vedere  umiliata  la  casa  d'Aragona ,  i  Fiorentini  di 
scuotere  il  giogo  della  casa  dei  Medici,  il  papa  di  farsi  arbitre^ 
tra  i  due  potentati,  i  numerosi  nemici  della  casa  d'Aragona  nel 
regno  di  Napoli  di  vendicarsi  della  lunga  oppressione.  Assi- 
curasi che  Ferdinando ,  veggendo  questo  universale  fermento , 
pensò,  a  malgrado  della  sua  avanzata  età,  di  recarsi  a  Genova 
per  abboccarsi  col  Moro,  onde  fargli  toccare  con  mano  i  perì- 
coli cui  esso  esponeva  ritalia  a  sé  medesimo,  aprendo  impru- 
dentemente le  sue  porte  ad  un  nemico  di  tutti  loro  più  forte. 
Sperava  il  re  di  potere  tuttavia  ricondurre  alla  ragione  ed  alla 
sana  politica  il  reggente  di  Milano  ;  perciocché  ben  conosceva 
il  pieghevole  ingegno  e  la  singolare  accortezza  di  lui.  Ma  in- 
tanto che  nella  mente  volgeva  questi  pensieri,  tornando  uo 
giorno  dalla  caccia,  fu  in  un  modo  affatto  impensato  preso  da 
un'  affezione  catarrale  che  lo  trasse  in  due  giorni  al  sepolcro. 
Morì  il  25  gennaio  del  1491  ,  in  età  di  settant'  anni  dopo  un 
regno  di  trentasei,  lasciando  due  figliuoli,  Alfonso  e  Federico,  di 
già  riputati  valorosi  nell'  armata ,  il  primo  dei  quali  fu  tosto 
riconosciuto  per  suo  successore.  La  fortuna,  che  aveva  largheg- 
giato inverso  a  Ferdinando  di  tanti  doni  di  cui  egli  non  sem- 
brava meritevole,  in  tutto  il  tempo  della  vita,  gli  fu  ancora  fa- 


voiefole  in  quQsto ,  che  Io  tolse  dal  mondo  in  quel  solo  ponto 
in  coi  la  morte  di  lai  potesse  essere  increscevole.  I  suoi  ni- 
tali  non  solo  erano  illegittimi ,  ma  Unto  vergognosi  che  suo 
padre  mai  non  aveva  voluto  palesare  quel  segreto»  lo  che  diede 
luogo  ad  opposte  conghietture  ;  ma  questa  macchia  non  grim< 
peffi  ponto  di  occupare  un  trono  invidiabile  da  più  potenti 
monarchi.  Egli  non  diede  prove  né  di  singolare  valore  né  di 
somme  doti  guerriere,  sia  nelle  imprese  affldategli  dal  padre, 
sia  nelle  fiere  tenzoni  che  ebbe  a  sostenere  contro  i  suoi  sud- 
diti ribelli;  e  non  pertanto  trionfò  di  tutti  i  suoi  nemid.  Non 
aveva  dal  padre  Alfonso  il  Magnanimo  ereditato  né  la  inge- 
nita né  la  generosità  né  verun'altra  delle  sue  belle  doti,  e  con 
tattodò  fu  amato  al  sommo  da  quel  grand'uomo.  Ebbe  a  com- 
petitori due  principi  che  lo  avanzavano  di  lunga  mano  per 
virtù  guerriere ,  politiche  e  morali.  Uno  di  loro ,.  il  conte  di 
Viana,  che  gli  era  nipote,  aveva  a  suo  favore  tutte  le  fazioni 
aragonesi  ;  Taltro,  che  fa  il  duca  di  Calabria,  quella  degli  An- 
gioini. Quei  baroni  napoletani  che  non  avevano  apertamente 
abbracciato  verun  partito  sembravano  Ipropensi  a  tenere  con 
quello  che  poteva  liberarli  da  Ferdinando  ;  ma  V  uno  e  V  altro 
farono.  perdenti ,  e  Ferdinando  regnò  trentasei  anni.  Egli  fece 
perire  in  prigione  coloro  che  avevano  tentato  di  scuotere  il 
suo  giogo  e  consolidò  colla  crudeltà  e  colla  perfidia  un'  auto- 
rità sempre  più  detestata.  I  primi  prosperi  avvenimenti  sono 
il  più  delle  volte  T  opera  di  una  cieca  fortuna,  ma  la  loro  co- 
stanza vuoisi  ascrìvere  a  queiraccortezza  la  quale  soventi  volte 
si  ocUosa  riesce  che  ricusiamo  di  riconoscerla  ;  tale  fu  Faccor- 
tezza  di  Ferdinando.  Egli  non  fu  dotato  di  alcuna  delle  qua- 
lità che  sono  proprie  dei  grandi  uomini,  non  di  generosità,  ma 
di  nobiltà  d'animo,  ma  era  uomo  di  consumata  prudenza,  e  la 
sua  politica  fu  poche  volte  fallace.  Consegui  quanto  volle  (5  in 
quel  modo  che  gli  scellerati  giungono  ai  loro  fini,  in  onta  d(3lle 
regole  della  giustizia  e  dell'  onestà.  Regnò  lungamente  e  morì 
sul  trono.  Se  questo  era  il  suo  scopo,  ei  l'ottenne;  ma  regnò 
esecrato  e  mori  lasciando  la  sua  famiglia  in  gravissimo  perì- 
colo, e  quando  quella  prudenza  che  era  in  lui  conosciuta  ed 
abborrita  poteva  sola  salvare  il  suo  figliuolo  da  imminente 
mina. 

Ferdinando  era  di  mezzana  grandezza  :  aveva  bel  volto  e 
grande,  lunga  e  di  colore  castano  la  chioma,  fisionomia  pia- 
cevole, fronte  aperta,  faccia  pienotta  e  proporzionata  statura. 


—  496  — 

Straordinaria   era  la  sua   forza,  cosicché  essendosi  nn  giorno 
abbattuto  in   un  toro  fuggito  che  attraversava  la  piazza  del 
mercato  di  Napoli,  Io  alOTerrò  per   le  corna  e  fennollo.  Culla 
aveva  la  mente,  ed  era  perito  di  varie  scienze  ed  in  partico- 
lare della  giurisprudenza ,  di  cui  risguardava  Io  studio  come 
necessario  ai  re.  Aggraziata  aveva  la  favella  e,  dando   udienza 
ai  sudditi,  sapeva  dissimulare  tutti  i  sentimenti  che  potevano 
renderlo  odioso,  ed  in  generale  aveva  F  arte  di  accommiatarli 
paghi  e  contenti.  Non  debbono  tutte  attribuirsi  a  politica  le 
innumerabili  sue  crudeltà;  che  a  molte  ancora  lo  trasse  la  soa 
passione  per  la  caccia ,  avendo  provveduto  alla  conservazione 
della  selvaggina  riservata  a'  suoi  diletti  con  atrod  ordinamenti» 
cui  faceva  senza  remissione  eseguire  contro  gli  sventurati  eoo* 
tadini  del  suo  regno. 


CAPITOLO  XXIV, 


Fiorenza  tro?avasi  più  che  in  altri  tempi  sifmoreggiata  da 
quei  Tirtaosi  cittadini,  ma  austeri  ed  entusiasti»  ai  quali  Giro* 
lamo  Savonarola  aveva  predicata  la  rìforma.  Il  primo  gonfalo- 
niere  dell'  anno  1497  era  stato  Francesco  Valori,  che  poteva 
venire  risgnardato  siccome  il  capo  di  quel  partito.  La  sua  alta 
e  maestosa  statura  ed  il  suo  nobile  aspetto  accresce\*ano  appo 
il  volgo  la  grande  riputazione  di  cui  godeva  per  la  prudenza  e 
accortezza  della  mente  e  per  le  sue  pubbliche  e  private  virtù. 
Sempre  attento  ad  afforzare  il  più  che  potesse  il  partito  popo- 
lare, fece  ammettere  nel  maggiore  consiglio  tutti  i  giovani  dal 
ventiquattro  ai  trent'  anni  e  vinse  in  pari'  tempo  una  nuova 
legge  per  cui  a  fine  di  stanziare  una  proposta  dovevano  essere 
presenti  in  consiglio  almeno  mille  cittadini. 

Il  divieto  fatto  f  consigli  di  risolvere  alcuna  cosa  quando 
non  sono  a  numero  è  senza  dubbio  svantaggioso  in  quo^to» 
che  il  minore  numero  può  impedire  colla  sua  assenza  le  doli- 
berazioni  del  maggiore;  ed  egualmente  pericoloso  riesce  l^obbligo 
ingiunto  ai  consiglieri  d'intervenire  e  di  dare  il  suffragio  intorno 
al  partito,  perchè  frequentemente  gli  sforza  a  dare  il  suffragio 
anche  allorquando  non  hanno  alcuna  determinata  opinione  e 
trasforma  questo  suffragio  in  legge.  Ma  non  sono  minori  glMn* 
convenienti  dell'opposta  regola.  Quando  una  parte  do'niemhrl  d'un 
consiglio  contrae  V  usanza  di  non  intervenire   allo  r»KUtianie» 

Tamb.  Jnquii.  Voi.  II.  «J< 


—  498  — 

la  sovrana  volontà  si  trova  cambiata  secondo  che  essi  concorrono 
0  no  alle  assenoblee;  la  quale  fluttuazione  dopo  d'  avere  fatto 
prendere  allo  Stato  contradittorie  deliberazioni,  può  essere  ca- 
gione di  fieri  rivolgimenti.  Fiorenza  di  quei  tempi  soggiaceva 
a  tale  inconveniente,  che  riusciva  tanto  più  sensibile  in  quanto 
che  la  suprema  magistratura  sedeva  per  più  breve  tempo.  To- 
sto che  un  partito  aveva  ottenuto  qualche  vantaggio  o  fatta 
un'elezione  a  suo  grado,  diventava  meno  vigilante,  astenevasi 
dalle  prossime  successive  deliberazioni,  ed  intanto  la  parte  av- 
versaria, dopo  di  avere  meglio  ordite  le  segrete  sue  pratiche, 
otteneva  un'elezione  in  senso  affatto  opposto.  A  Francesco  Va- 
lori succedette  Bernardo  del  Nero,  uomo  che  aveva  avuta  intima 
dimestichezza  con  Lorenzo  de'Medici,  che  favoriva  tutti  i  parti- 
giani di  quella  casa,  cui  infine  lo  stesso  Pietro  soleva  chiamare 
suo  padre. 

Durante  il  magistrato  di  Bernardo  del  Nero  fu  bandita  iji 
Firenze  la  tregua  fermata  tra  la  Francia  e  la  Spagna,  e  si  co- 
minciarono le  negoziazioni  per  la  pace  generale.  Lodovico  Sforza, 
adombrato  dei  Veneziani,  proponeva,  per  impedir  loro  di  sta- 
bilirsi in  Pisa,  di  restituire  quella  città  ai  Fiorentini,  purché 
questi  a  tal  patto  entrassero  di  buona  fede  nella  lega  d'Italia. 
Alessandro  VI  venne  in  questa  opinione  ed  inviò  a  Firenze  il 
vescovo  Pazzi  per  offrire  la  restituzione  di  Pisa,  se  i  Fiorentini 
ponevano  in  mano  dei  confederati  o  Livorno  o  Volterra  come 
pegno  della  loro  devozione  agl'interessi  dell'indipendenza  ita- 
liana. Ma  né  i  Veneziani  volevano  acconsentire  al  disgombra- 
mento  di  Pisa,  né  i  Fiorentini  a  dare  una  fortezza  in  sua  vece; 
di  modo  che  per  gli  opposti  loro  sforzi  la  negoziazione  si  ruppe. 
Per  altro,  in  tempo  delle  negoziazioni,  i  Fiorentini,  che  ave- 
vano mostrata  da  principio  tanta  avversione  e  tanto  disprezzo 
per  il  papa,  si  credettero  nuovamente  obbligati  ad  accarezzarla 

La  negoziazioni  con  Roma  diedero  altresì  opportunità  a 
Piero  de'Medici  di  ricominciarne  di  più  segrete  co' suoi  parti- 
giani di  Firenze.  Gli  alleati  cominciavano  a  desiderare  il  suo 
ritorno  in  una  città  in  cui  il  partito  repubblicano  sembrava  troppo 
dedito  alla  Francia.  Incuorato  da  loro,  Piero  credette  di  dover 
tentare  un'altra  volta  la  sua  fortuna,  prima  che  Tamico  suo 
Bernardo  del  Nero  uscisse  di  carica,  li  23  di  aprile  recossi  a 
Siena,  dove  Pandolfo  Petrucci  e  un  fratello  di  questo,  che  ave- 
vauo  acquistato  sopra  quella  Repubblica  una  quasi  assoluta 
-autorità,  gli  erano  del  tutto  ligi.  Colà  venne  a  raggiugnere  Bar- 


dò  Fiero  tam  «dne  csohmml  foto  Jl  kcH^  Imf^  t^  fifr  rt^ 
mole  lie;  pn»  fi»  alb?  p9ffte  di  llraE'w  h  wMlìiM  «M  JM 
apiìle.  Ifa  b  forti  di  Rookl  €k*<icS  3v?n  5||enfe>  4ii  $i>fni)p«iNih 
doe»  si  trovò  c«5tK>Sb  e  dUesi  di  PjìA>  ViMti  $iuiiK^  i(  pr^ 
cedente  gioroD  àà  Muiknx  RaQorw  di  MMVÌimK  cb<^  9Y^Y;ai 
il  comaiMfci  deUTesertìto  iismfiiio  ai  cvuifinì  del  IVauKv  (te  ib 
chttmalo  inoaolaoenle  in  Firaote:  iXKfe  Pmo  di^'Me^kì.  ^V>|K> 
essasi  tnllenato  qoattro  or?  pres»  ilh  |wl)  $ina»  ch<^  ^1 
bastasse  ramino  «i  assaltarla.  rìtinDis$i  qu;]inda  tùV  clhi^  nn^lh 
città  noo  si  tentava  novità  alcuna.  Soo  fnlello  («ìuIì;!iihv  ch^ 
nello  stesso  tempo  era  entrato  nella  Romatena  fiiMTv^ntìn».  vidi^ 
in  pochi  giorni  disperdersi  la  sna  poca  gente. 

Ma  questo  improdente  tentatito  diventò  bentosto  non  iimH^ 
fatale  ai  partigiani  de'MedicU  che  lo  avevano  pro\>M['alo  ^ìxt'  m 
loro  nemici,  i  qoali  ne  li  punirono.  Lnmberlo  deirAnti^lKi.  t^<i« 
liato  da  Firenze,  venne  preso  sul  territorio  fiorentino  i\  sobl^euo 
adducesse  ch'egli  tornava  io  patria  per  manifestare  h  ca<|^)r;»« 
zinne  di  cui  aveva  avuta  contezza,  fu  posto  alla  tortura  :  )H^r« 
ciocché  in  allora  non  credevansi  vere  quelle  deposizioni  cho  non 
Tenivano  riconfermate  col  mezzo  di  terribili  supplizi*  («oslul 
incolpò  i  più  riputati  cittadini  ed  in  particolare  Bernartio  dol 
Nero,  che  usciva  in  allora  dalla  carica  di  gonfalonion>«  (ìli  otto 
giudici  del  tribunal  criminale  non  osarono  assuiihoro  il  ginilizio 
d'una  causa  di  tanta  importanza,  e  furono  eloltl  centosossanta 
de'più  ragguardevoli  cittadini  ad  esaminare  le  risultanze  del 
processo. 

Nicolò  Ridolfi,  il  di  cui  figlio  aveva  sposata  una  m)rolln  del 
Medici,  Lorenzo  Tornabuoni,  ancor  esso  parente  di  (|U08li.  (Un- 
vanni  Cambi  e  Giannozzo  Pucci,  tutti  o  duo  (In  Piero  ndopnriill 
nelle  faccende  di  Stalo,  furono  accusati  d'aver  chinmnlo  Piero 
de'Medici  colia  promessa  di  dargli  una  porla  dolln  cillA.  Ilor- 
nardo  del  Nero  fu  accusato  d'avere  avuto  sentore  (lolla  loro 
trama  e  di  non  averla  manifeslata  In  tempo  che  le  Mue  inC'Om- 
benze  di  gonfaloniere  di  giustizia  T  obbligavano  più  chn  lutti 
gli  altri  cittadini  a  procurare  la  salvezza  della  HepnbbJicii  e  di" 
fenderla. 

Il  delitto  di  tutti  costoro  non  sembrò  dubbioso  ad  iilciino 
di  coloro  cui  era  affidata  la  disamina  del  procissMo;  ma  ciò  cIid 
parea  delitto  aVepubblicani  sembrava  eroica  prova  a>rlÌKÌttnl 
dei  Medici.  Non  era  dunque  né  sul  fatto  né  nuì  diritto  che  I 


-  500  — 

giudici  dovevaDo  senlenziariB»  ma  sulla  stessa  (onùa  del  governo. 
Se  condannavano  gli  accnsati,  venivano  a  risguardare  come  reo 
qualsivoglia  tentativo  contro  lo  stato  popolare;  se  per  lo  c(m- 
trario  gli  assolvevano,  condannavano  con  ciò  la  rivolazione  del 
1494,  e  mostravano  di  riconoscere  Tautorità  de'Medid.  Dovendo 
quindi  i  giudici  decidere  una  quistióne  di  politica,  parve  con- 
venìenle  alla  Signoria  soccorrere  al  giudizio.  Adunò  essa  adun- 
que tutti  i  primi  magistrati  dello  Stato,  i  capitani  di  parte  guelfo, 
i  conservatori  delle  leggi,  gli  ufQciali  del  Monte  di  Pietà,  ed  il 
consiglio  de'richiesti,  ossia  dei  centosessanta  eletti  che  avevano 
esaminata  la  processura.  Quest'assemblea,  interrogata  nelle  forme 
legali,  ordinò  al  tribunale  degli  otto  di  giustizia  di  condannare 
alla  pena  di  morte  gli  accusati  e  di  confiscare  i  loro  beni  ;  la 
quale  sentenza  fu  pronunziata  il  17  d'agosto. 

Ma,  per  la  legge  che  Girolamo  Savonarola  aveva  fatta  sta- 
tuire quando  fu  stabilito  il  governo  popolare,  Cfgni  condannato 
a  pena  capitale  poteva  appellare  al  gran  consiglio.  I  condannati 
chiesero  pertanto  di  essere  ammessi  a  godere  del  benefizio  della 
legge;  essi  avevano  non  lievi  sperauze  d'essere  assolti  dall'as- 
semblea generale  dei  loro  concittadini.  L' età  provetta  di  due 
di  loro,  le  onorate  cariche  ond'erano  stati  insigniti,  il  numero 
decloro  congiunti,  quello  de'clienti ,  le  fèrvide  raccomandazimii 
delle  corti  di  Roma,  di  Milano  e  di  Francia  avrebbero  dato  mag- 
gior efficacia  ai  sensi  .di  commiserazione  co^  naturali  in  una 
grande  assemblea.  Certa  cosa  è  intanto  che  V  amministrazione 
delia  giustizia  non  era  mai  stata  nella  Repubblica  di  Firenze 
imparziale,  e  che  il  governo  si  era  sempre  mostrato  capo  di 
parte.  Se  questo  governo  restava  perdente  in  un  tentativo  fatto 
per  far  perire  i  suoi  avversari,  sembrava  condannato  dal  popolo; 
e  questa  sola  sconfitta  poteva  trarsi  dietro  la  sua  caduta.  I  falli 
deTiorentini  e  le  costumanze  sovversive  dell'ordine  sociale  che 
essi  avevano  lasciate  introdurre  nella  Repubblica  rendevano  pe- 
ricoloso Tesercizio  dei  più  sacri  diritti  de'cittadini.  Il  21  d'ago- 
sto si  adunò  un  nuovo  consiglio  de'richiesti  per  deliberare  io- 
torno  all'appello  al  popolo.  Il  partito  della  libertà  fu  appunto 
quello  che  fu  veduto  scagliarsi  più  gagliardamente  contro  l'ese- 
cuzione d'una  legge  di  libertà  vinta  da  lui  medesimo.  Francesco 
Valori  e  tutti  gli  amici  del  Savonarola  protestarono  contro  l'ap- 
pello al  popolo,  dicendo  che,  non  appena  i  cospiratori  fossero 
assolti,  i  Medici  verrebbero  restituiti  in  Firenze. 

Per  altro  la  Signoria  non  era  d'unanime  parere  di  ricusare 


l'aM^biioiie  al  popoèo.  On,  acoondo  b  tonni  delie  sue  Mi« 
beraioBi,  en  d'uopo  che  odo  de^prìori  per  Ionio  flesse  hi  pio* 
posta  ioloraoaUa  qpnle  doveiasi  woire  ai  soffragt  QueitU  ch'em 
per  qoel  dato  giorao  incaricato  di  questo  officio  del  propon>e» 
chiMnafasi  il  proposto.  la  quel  gionio  en  proposto  Loca  Mai^ 
tini,  il  qoale.  giodicaodo  fosde  giusta  cosa  rammetloi^.  Tappel* 
baione  al  popolo,  proteslossi  che  non  porrebbe  alle  toct  una 
proposiùooe  contraria  alle  ¥^nti  leggi.  Due  de*  suoi  colle^bì 
irmnero  nella  stessa  opinione.  Lx  quale  opposìaione  era  deci* 
àn;  ma  tolti  i  gonfalonieri  delle  compagnie  ed  i  dodici  buoni 
uomini,  che  sedevano  presso  la  Signoria  >  sorsero  con  niinac* 
ciose  grida,  sdamando  che  per  salvare  la  patria  non  si  bsco* 
rebbero  trattenere  dair opinione  dei  nemici  della  Republ>lica«  Il 
{{onfaloniere  Domenico  Bartoli,  non  temendo  di  violare  le  regole, 
fece  egli  stesso  la  proposta  in  questi  termini:  die,  per  evitare 
i  pericoli  delPappello  al  popolo  »  si  eseguirebbe  la  senieuaa  in 
quella  notte.  Allora  il  proposto  disse  che>  per  mantenere  il  re- 
golamento, egli  acconsentirebbe  a  fare  la  proposta  delta  dal  gon- 
faloniere, se  ad  essa  erano  favorevoli  sei  de'nove  suflNgi  della 
Signoria.  Ma  i  forsennati  gridori  del  partito  inchinevoli  alla  vio- 
lenza lo.  fecero  tacere  e  lo  costrìnsero  a  dare  il  suo  assenso 
aenz'altra  condizione.  Per  le  regole  delle  deliberazioni  della  Ue- 
pnbblioa  fiorentina  riusdva  assai  difficile  il  vincere  un  parlilo. 
Era  necessario  Tassenso  del  proposto,  di  due  terzi  della  Sifiao- 
ria,  di  due  terzi  del  collegio  de'  buoni  uomini .  e  del  collegio 
de'gonfalonierì  di  compagnia.  I  suffragi  raccoglievansl  separala - 
mente,  poscia  cumulativamente  ed  in  secreto,  con  fave  bianche 
e  nere  deposte  nelle  urna.  Tutte  queste  formalità ,  secondo  il 
vero  spìrito  dei  regolamenti,  erano  state  trovate  per  prolegKore 
Topinione  del  minor  numero ,  o  veramente  per  Impedire  che 
questo  non  venisse  soprafatto;  esse  furono  sempre  scrupolosa- 
mente mantenute,  ma  soltanto  in  apparenza  e  non  nel  loro  spi- 
rito. Il  partito  vittorioso  non  passava  già  oltre  a  dlspoUo  ilei- 
Topposizione  del  partito  più  debole,  ma  costringevalo  a  togliere 
di  mezzo  r  opposizione.  Come  si  venne  allo  scrutinio  segreto  • 
quattro  suffragi,  ossia  quattro  fave  bianche  neirurna  della  Si- 
gnoria, furono  contraril  al  proposto  decreto.  Un  nuovo  pili  fiero 
tumulto  che  non  era  stato  il  primo  levossl  allora  neirassemblea. 
Sorsero  in  pie  tutti  i  gonfalonieri  di  compagnia  minacciando  di 
uccidere  i  quattro  priori  sospetti  d'avere  dato  il  contrario  su(« 
fragio,  ed  essendosi  i  buoni  uomini  frapposti  per  salvarli,  1  gon- 


—  50Ì  — 

falooierì  dichiararono  che  uscirebbero  colle  loro  insegne  e  fa- 
rebbero dalle  loro  compagnie  saccheggiare  le  case  dì  coloro  che 
vole?ano  in  tal  modo  addurre  in  rovina  la  Repubblica.  A  stento 
il  gonfaloniere  di  giustizia  ottenne  che  l'assemblea  sedesse  di 
nuovo  per  procedere  al  secondo  scrutinio.  Il  terrore  si  era  im- 
padronito de' più  coraggiosi,  e  T appellagione  fu  rigettata  con 
unanimi  suffragi.  La  sentenza  di  morte  fu  eseguita  in  quella 
stessa  notte  del  21  d'agosto;  ed  i  più  furibondi  non  vollero  ab- 
bandonare la  sala  del  consiglio  finché  non  ebbero  avviso  che 
i  loro  nemici  più  non  vivevano. 

Da  prima  questa  vendetta  parve  un  trionfo  del  partito  de- 
mocratico,  ma  questo  trionfo  era  foriero  di  una  sconfitta.  Il 
popolo  non  perdonava  a  coloro  che  si  dicevano  amici  della 
libertà  d'avere  pei  primi  violata  senza  necessità  la  legge  protet- 
trice della  libertà,  vinta  da  loro  medesimi.  I  cittadini  facevano 
il  paragone  dalle  prediche  dette  un  tempo  dal  Savonarola  intorno 
all'amnistia  col  contegno  de' suoi  partigiani  e  col  silenzio  di  lai 
nel  punto  in  cui>  per  la  difesa  dei  suoi  nemici  posti  in  giudizio 
contro  le  leggi,  avrebbe  dovuto  tuonare  dal  suo  pulpito,  da  lai 
trasmutato  in  bigoncia  per  arringare.  Accusavano  pertanto  il  Sa- 
vonarola di  darsi  a  conoscere  non  meno  malvagio  cristiano  che 
tristo  profeta;  domandavangli  dov'erano  que' miracolosi  soccorsi 
da  lui  j^romessi  a  Firenze  quand'ei  l'aveva  impegnata  sola  nella 
guerra  contro  tutta  l'Italia  ;  ed  ogni  argomento  della  instabiliti 
e  della  dappocaggine  di  Carlo  Vili,  rappresentalo  dal  Savonarola 
quale  inviato  del  Signore,  era  a  lui  aspramente  rinfacciato  da 
coloro  che  volevano  vendicare  le  ultime  vittime,  e  da  colora 
che  la  corte  di  Roma  aveva  tratti  dalla  sua. 

Il  Savonarola  non  temeva  di  sfidare  talta  l'ira  d'Alessan- 
dro VI,  perciocché  non  poteva  riconoscere  in  un  uomo  tanto 
scellerato  il  successore  degli  apostoli,  e  la  riforma  ch'egli  pre- 
dicava doveva  incominciare  dal  capo  delia  Chiesa.  Egli  era  scan- 
dalizzato in  vedendo  Giulia  Farnese,  chiamata  Giulia  la  bellOf 
che  era  una  delle  drude  o  amiche  del  papa,  a  cui  aveva  io 
aprile  di  quell'anno  partorito  un  altro  figliuolo,  intervenire  cod 
ostentazione  a  tutte  le  feste  della  Chiesa. 

E  così  grave  scandalo  era  poca  cosa  a  petto  a  quello  che 
diede  due  mesi  di  poi  la  famiglia  istessa  del  pontefice.  Francesco 
Borgia,  duca  di  Candia,  figlio  primogenito  di  Alessandro  VI  fu 
ucciso  a  tradimento  il  giorno  14  di  giugno  nelle  strade  di  Roma» 
all'uscire  da  un  convitto.  Si  seppe  bentosto  che  V  uccisore  era 


-  505  — 

tato  il  suo  proprio  fratello,  Cesare  Borgia,  cardinale  di  Valenza  : 
,  ad  accrescere  Terrore  di  tanto  delitto,  si  sparse  una  sorda 
oce,  che  la  gelosia  concepita  da  Cesare  contro  il  fratello  per 
ssere  egli  sno  rivale  negr  incestuosi  nefandi  amori  con  Lucre- 
ia,  loro  sorella»  ne  fosse  fa  cagione.  Il  papa,  acerbamente 
ifQitto  per  questa  perdita,  aveva  colle  lagrime  e  coi  singhiozzi 
leplorato  in  pieno  concistoro  i  trascorsi  della  sua  passata  vita 
)  la  corruzione  della  sua  corte,  che  avevano  provocato  sopra  di 
ai  questo  giusto  gastigo  del  cielo.  Egli  si  era  solennemente 
A>bligato  a  riformare  prontamente  i  suoi  costumi  e  quelli  della 
lua  corte;  ma  un  nuovo  torrente  di  vizi  e  di  delitti  succedeva 
)entosto  a  questi  passeggieri  progetti  d'emendazione. 

Tornando  al  suo  reo  tenore  di  vita,  il  papa  era  di  nuovo  ^ 
ieramente  adirato  contro  Teloquente  predicatore  che  accusa  vaio 
i  tutta  la  cristianità.  L'opinione  di  cui  il  Savonarola  godeva  in 
Firenze  poneva  in  gran  pericolo  il  trono  d'Alessandro:  questi 
apeva  inoltre  che  il  Savonarola  aveva  mutati  i  costumi  della 
Repubblica  e  sbanditine  i  vizi;  e  di  più  temeva  che  un  tale 
isempio  non  si  ritorcesse  contro  la  corte  di  Roma.  Egli  aveva 
iccnsato  il  Savonarola  come  eretico;  gli  aveva  fatta  vietare  la 
Predicazione;  ma  lo  sforzato  silenzio  di  questo  religioso,  che 
aceva  in  allora  far  le  sue  veci  da  fra  Domenico  Bonvicini  da 
^escia,  suo  discepolo  e  suo  amico,  non  soddisfaceva  uè  alla 
colitica  né  all'odio  immenso  d'Alessandro  VI.  Il  papa  collegossi 
OD  tutti  coloro  che  avevano  qualche  motivo  d'inimicizia  contro 
1  Savonarola  o  per  divozione  ai  Medici  o  al  partito  dell'aristo- 
;razia,  o  perchè  non  volevano  assoggettarsi  alle  austerità  mo- 
lastiche,  le  quali  il  riformatore  voleva  sostituire  all'antica  sco- 
itumatezza.  I  nemici  del  monaco,  vedendosi  spalleggiati  da  Roma, 
irdirono  oltraggiarlo  pubblicamente  nella  sua  propria  Chiesa  in 
nodo  villano;  e  dovendo  egli  andare  a  predicare  il  giorno  del- 
'Ascensione,  posergli  sul  pulpito  una  pelle  d'asino  ripiena  di 
)agiia.  I  libertini  o  compagnacci,  approfittando  del  tumulto  in- 
sorto nella  Chiesa  per  questa  pasquinata,  oltraggiarono  il  Savo- 
larola  e  lo  minacciarono,  proponendo  altresì  agli  uditori  o  di 
M^acciarlo  o  d' ucciderlo.  Nello  stesso  tempo  i  monaci  di  sant'Ago- 
stino, mossi  da  gelosia  di  ordine  contro  i  frati  di  san  Domenico» 
issecondavano  le  brame  di  vendetta  del  dapa  ed  accusavano 
)e'loro  sermoni  il  riformatore  domenicano,  tacciandolo  di  ere- 
ico  e  scomunicato.  Non  scorsero  poi  vent'anni  da  quel  punto, 
;be  i  domenicani  insorsero  a  vicenda  contro  Lutero  riformatore 
igostiniano. 


-«a*  — 

La  Signoria  florentina ,  poiché  si  vedeva  abbandoData  dal 
re  di  Francia,  trattava  con  maggiori  rìgoardi  colla  corte  di  Re* 
ma;  i  Fiorentini  abbisognavano  del  papa  per  le  loro  Degolia- 
zioni  colla  lega  italiana  e  non  Volevano  inasprire  il  riseDlimento 
di  lui.  I  priori  scrissero  gli  8  di  luglio  ad  Alessandro  per  gio- 
stiflcare  il  Savonarola,  ma  nello  stesso  tempo  persuasero  il  mo- 
naco a  sospendere  le  sue  prediche.  Questi  era  stato  scomani- 
cato  nel  mese  di  maggio  come  banditore  di  dottrine  eretiche,  e 
la  sentenza  condannava  tutti  coloro  che  converserebbero  con 
lui.  Da  principio  il  Savonarola  riconobbe  Tautorità  della  corie 
di  Roma  e  procurò  di  giustificarsi  al  papa.  Ma  non  molto  dopo^ 
fatto  proposito  di  resistere  alla  persecuzione  con  quella  fer- 
mezza che  poi  dimostrava  Lutero  quando  il  10  di  dicembre 
del  1520  fece  ardere  a  Vittemberga  la  bolla  di  scomunica  di 
Leone  X,  dichiarò  coirautorità  di  papa  Pelagio  che  un'  ingiost» 
scomunica  era  senza  efficacia  e  che  lo  scomunicato  per  ingiusto 
sentenza  non  doveva  neppure  cercare  di  farsi  assolvere.  E,  di- 
cendosi indotto  per  divina  inspirazione  a  ricusar  d'ubbidire  ad 
un  tribunale  corrotto,  il  giorno  di  Natale  celebrò  pubblicamente 
la  messa  nella  chiesa  di  San  Marco;  comunicò  co'  suoi  monaci» 
e  con  moltissimi  laici;  condusse  nna  solenne  processione  io- 
torno  alla  Chiesa  ;  pubblicò  la  sua  apologia  ed  il  libro  del 
Trionfo  della  croce,  e  tornò  a  predicare  nella  Chiesa  cattedrale 
dinanzi  a  un  uditorio  si  numeroso  che  tale  mai  non  era  stalo 
per  Faddielro. 

Leonardo  de' Medici,  vicario  dell'arcivescovo  di  Firenze, 
pubblicò  un'  enciclica  per  proibire  ai  fedeli  di  ascoltare  le  pre- 
diche del  Savonarola,  e  ordinò  che  coloro  i  quali  ascoltavanlo 
non  fossero  ammessi  alla  confessione  ed  alla  comunione ,  né  ì 
loro  corpi  alla  sepollnra;  ma  la  Signoria  ,  che  aveva  preso  il 
magistrato  in  principio  del  1498,  era  tutta  favorevole  al  Savo- 
narola, e  ordinò  al  «vicario  arcivescovile  d'uscire  nel  termine  di 
due  ore  dalla  città. 

L'ultimo  giorno  di  carnevale,  volendo  il  Savonarola  trasmu- 
tare quella  festa  mondana  in  un  giorno  di  religiosa  contrizione, 
indusse  moltissimi  fanciulli  a  dividersi  in  ischiere  ed  a  scorrere 
la  città,  gridando  di  casa  in  casa  che  loro  si  consegnassero  tutti 
i  libri  disonesti,  tutte  le  pitture  immodeste,  tutte  le  carte  e  dadi 
da  giuocare,  tutte  le  viole,  arpe  ed  altri  strumenti  musicali, 
tutte  le  parrucche,  i]  muschio,  le  acque  nanfe,  i  belletti  ed  al- 
tretali  suppellettili  del  mondo  femminile:  ì  ragazzi  chiedevano 


ulte  qpesle  co»  «•»  ina  41  scnMMca:  fiit  1^  |MtMv>«K^ 
idb  pifehiti  fuax.  ée^  w  feMm  m^^lbi  ca«Sfe$lsi  i^  li^  «r- 

I  coodocia  del  SaTOOMvAi  es^ì  ii«nM  bllo  k^  $Iik^^  m)  pv^ 
edeote  anno,  ed  aieiMo  ritolti  in  omm^  te  iM^ysHMr  |vir%^ 
le^  escnpbri  M  Boccmcìo  e  del  Moiisinli^  im^v>^. 

Sb  quanto  il  SaTOnanib  andiTa  acii|nì$tMKli>  ciaIìKv  bnh^ 
■o  creseefa  lo  sdep»  e  lansleli  del  papa,  il  iimÌi!'  iwiv;»  in 
iHre  ainato  da  on  fra  Mariano  di  Ghinanano  «  $Hma)«»  ikytì 
ignstinbni,  nomo  addetto  ai  Medici  e  che  in  Fitmte  era  ;!^l;iiU^ 
Dal  accollo.  E*  fennarooo  perciò  di  mandJire  a  Pireni^  un  \Mr^- 
licatofe  chbmalo  frate  Francesco  della  Pnfriia  «  mim>r^  ^>jwr« 
ante,  per  gareggiare  col  Saionarola.  Predicò  qnosU  nelb  ohit^s:^ 
li  Santa  Croce  di  Firenie  e  fleramente  inrci  conine  IVr^^^^nM 
;he  seduceva  b  Repubblica.  Nello  stesso  tempo  il  |^|vi  tH)n  un 
movo  breve  ordinava  alla  Signoria  di  br  bci>n>  il  S.ivon«in^l». 
e  non  voleva  cbe  tutte  le  sosbnie  clve  i  mercabntl  HiHt>nllni 
enevano  in  esteri  paesi  fossero  confiscale  e  che  lo  stfxt.^)  tor 
itorio  delia  Repobbiica  venisse  interdetto  o  forse  assnlUo  d«illt^ 
ruppe  della  Chiesa.  I  Fiorentini ,  abbandonati  dalla  Francia  . 
)on  avevano  veran  altro  alleato,  e  perchè  Inclini  abbisogna* 
rano  delFamistà  del  papa,  nbbidirono  comandando  il  17  marxti 
il  Savonarola  d'astenersi  dal  predicare.  Infalll  costui  hI  nongv^diS 
W  suoi  uditori  con  on  eloquente  ed  ardito  raglonainonto. 

In  mezzo  a  questi  ribollimenti  il  monaco  KranciHOo  dolla 
^Qglia,  che  predicava  a  Santa  Croce,  disso  in  pulpito  cln^  avova 
idito  dire  che  il  Savonarola  vanlavasi  di  provare  lo  mio  faUn 
lottrine  con  un  miracolo  e  che  offriva  di  scendnri!  rnil  iiqiolcro 
^n  un  monaco  francescano,  se  tutto  Toppo^to  imrtito  n\  oblili 
|[ava  a  riconoscere  per  vera  la  dottrina  di  (fungll  fra  loro  duo 
^he  risusciterebbe  un  morto.  Frate  FrancoMCO  (IImmo  di  oMmtrn 
)eccator6  e  cbe  non  aveva  la  presunzione  di  nponirn  un  mira 
x)lo,ma  che  per  lo  contrario  proponeva  al  mio  avvnrwirin  iVm 
rare  con  lui  in  mezzo  a  un  rogo  ardente.  <  fo  nono  iwln  di 
)erirvi,  >  diceva  il  francescano,  <  ma  la  carltA  crUUana  urirt- 
;egna  a  dare  la  mia  vita,  se  a  tale   prezzo  imnm  II^Hinirn  la 
Chiesa  da  un  eresiarca  che  dì  gii  ha  iilra^/lriat^>  e  ^IfHmìiwrh 
ante  anime  neiretema  dannazioni^.  • 

Così  strana  proposta  fu  aoMIo  riferita  al  Hfivonarol»  :  ^'a^h 
lon  gli  andava  a  sangue,  non  fiercbA  Mttfìn%m  tM  mih  t^ft^ti^ 
li  operare  miracoK ,  ma  fierch/;  temeva  cti^  ^ntro  v)  m^H%^^ 

Jamb.  Héiuu.  Voi,  n.  H 


—  506  — 

UD  qualche  inganno  de'sooi  nemici  ;  mail  pia  fidato  discepolo, 
frate  Domenico  Bonvicini  da  Pescia,  più  fervido  e  più  entusiasta 
del  maestro ,  disse  immantinente  di  essere  pronto  egli  ad  as- 
soggettarsi alla  prova  del  fuoco  in  conferma  delle  verità  ban- 
dite nei  sermoni  del  suo  maestro  ;  perciocché  punto  non  du- 
bitava che  per  la  intercessione  di  lui  non  lo  dovesse  salvare 
Iddio  con  un  miracolo.  Tutto  il  minuto  popolo  accolse  tosto 
con  insolito  ardore  quella  tremenda  sfida,  voglioso  di  provare 
in  un  pubblico  esperimento  i  ministri  della  nuova  riforma.  I 
divoti  si  rallegrarono  di  ottenere  un  luminoso  trionfo  contro 
di  Roma  pel  miracolo  che  di  già  credevano  di  tenersi  in  pu- 
gno ;  i  loro  nemici  non  erano  meno  contenti  di  vedere  un  ere- 
siarca condannarsi  da  sé  medesimo  alle  fiamme,  di  cui  lo  cre- 
devano meritevole;  tutti  desideravano  uno  spettacolo  cosi  straor- 
dinario; ed  i  magistrati  abbracciavano  con  piacere  un'  occasione 
di  liberarsi  dalla  critica  dubbiezza  in  cui  si  trovavano  tra  la 
Chiesa  ed  il  riformatore.  Dal  canto  suo  il  papa  scrisse  Tii  di 
aprile  ai  francescani  di  Firenze,  rendendo  loro  grazie  dello  zelo 
con  cui  si  apparecchiavano  a  dare  la  vita  per  difendere  Tau- 
torità  della  santa  sede,  e  accertandoli  che  la  memoria  di  cosi 
glorioso  fatto  non  perirebbe  in  eterno. 

Ma  frate  Francesco  della  Puglia  protestò  che  non  entre- 
rebbe nelle  fiamme  se  non  insieme  con  frate  Savonarola  me- 
desimo, non  volendosi  esporre  ad  indubitata  morte,  se  non 
aveva  compagno  del  suo  eccidio  il  grande  eresiarca.  Frattanto 
si  offrirono  subito  due  altri  monaci  francescani  per  fare- la 
prova  con  frate  Domenico  da  Pescia  ;  uno  di  costoro ,  il  quale 
chiamavasi  frate  Nicolò  di  Pilli,  si  senti  venir  meno  il  corag- 
gio e  si  disdisse;  ma  Taltro,  detto  frate  Andrea  Rondinelli,  con- 
verso dello  stesso  convento,  stette  fermo  nella  domanda  della 
prova.  Dair  altro  canto  i  partigiani  di  Savonarola  si  offrirono 
con  maràvigliosa  gara  ad  entrare  per  lui  nel  fuoco.  Frate  Ro- 
berto Salviati  fu  quegli  che  addomandò  quest'  onore  colle  più 
vive  istanze;  e  bentosto  non  solo  tulfi  ì  domenicani  della  To- 
scana, ma  anche  molti  preti  e  laici  e  perfino  donne  e  fanciulli 
imploravano  dalla  Signoria  l'onore  di  essere  anteposti  agli  altri, 
0  almeno  la  facoltà  dì  entrare  nello  stesso  tempo  tra  le  fiam- 
me, onde  partecipare  al  favore  di  Dio,  di  cui  tenevansi  sicuri. 
Pure  la  Signoria  non  volle  ciò  concedere  ad  altri  che  a  frate 
Domeiiico  Bonvicini  da  Pescia  ed  a  frate  Andrea  Rondinelli.  E 
deputali  dieci  cittadini,  cinque  per  cadaun  partito,  per  regolare 


quanto  abbisognava.  determÌDÒ  che  la  prova  si  farebbe  il  i^ior- 
DO  7  di  aprile  del  1498  nella  piazza  del  palazzo. 

Era  stato  innalzato  in  mezzo  alla  piazza  un  palco  allo  cin- 
que piedi,  largo  dieci  e  lungo  ottanta,  coperto  di  terra  e  di  mat- 
toni crudi  per  preservarlo  dair  ardore  del  fuoco.  Furono  poste 
su  questo  palco  due  cataste  di  grosse  legne  frammiste  con  fascine 
e  stoppie  facili  ad  infiammarsi.  Correa  fra  le  due  cataste  «  che 
erano  ambedue  larghe  quattro  piedi»  un  viale  largo  due  piedi 
che  andava  dairun  capo  all'altro  delle  pire;  apparato  in  vero 
spaventoso.  Vi  si  entrava  per  la  loggia  dei  Lanzi»  eh'  era  slata 
divisa  in  due  parti  con  un  assito  per  darne  la  metà  ai  france- 
seani  e  Tallra  ai  domenicani.  I  due  monaci  dovevano  entrare 
insieme  da  questa  l(^gia  e  traversare  tutto»  quant'era  lungo» 
il  rogo  ardente  o  perirvi;  del  che  Tuno  dei  due  diceva  di  essere 
dcuro»  poiché  quand'anche  si  dovesse  operare  un  miracolo»  non 
poteva  essere  che  a  suo  danno.  I  francescani  arrivarono  senza 
strepito  nella  parte  dalla  lo^i^ia  loro  assegnala  »  mentre  che 
Girolamo  Savonarola  recavasi  alla  sua  colle  vesti  siicerdotali  » 
colle  quali  aveva  allora  celebrata  la  messa  »  e  portando  entro 
un  tabernacolo  di  cristallo  il  sacramento.  Frate  Domenico  da 
Pescia  portava  un  crocifisso,  e  tutti  i  loro  monaci  li  seguivano 
cantando  salmi,  con  croci  rosse  nello  mani;  indi  venivano  molti 
cittadini  colle  fiaccole  accese.  Rimanevano  ancora  sei  ore  di 
giorno,  e  la  piazza,  le  finestre  e  i  tetti  erano  pieni  di  spetta- 
tori. Non  solo  tutta  la  città,  ma  tutti  gli  abitanti  del  territorio 
fino  a  grandissima  distanza  erano  accorsi  per  essere  testimoni 
dì  quello  strano  spettacolo.  La  maggior  parte  degrìngressi  della 
piazza  erano  stati  asserragliati,  e  le  sole  due  vie  lasciate  aperte 
venivano  custodite  da  gran  numero  di  guardie.  La  parte  della 
loggia  occupata  da'  domenicani  era  adorna  come  una  cappella» 
e  per  lo  spazio  di  quattro  ore  non  cessarono  di  cantare  an- 
tifone. 

Intanto  il  terribile  sperimento  veniva  ritardato  da  sempre 
nuove  difficoltà  promosse  dai  Francescani.  Forse»  dicevano  essi» 
il  padre  domenicano  è  un  incantatore  e  tiene  sopra  di  so  qual- 
che stregoneria*;  perciò  chiesero  che  venisse  spoglialo  delle 
Testi  e  ne  vestisse  altre  scelte  da  loro.  Dopo  lurjghi  contrasti 
frate  Domenico  si  assoggettò  a  questa  mortificazione  ed  al 
richiesto  cambiamento  di  teriaca.  Allora  il  Savonarola  gli  con- 
segnò il  tabernacolo  che  conteneva  il  Sacramento»  da  lui  ri- 
sguardato  come  la  sua  salvaguardia;  ma  i  francescani  grida- 


—  «08  — 

rouo  essere  empietà  Tespbrre  l'ostia  consacrata  ad  essere  arsa, 
e  che  questo  probabilissimo  caso  farebbe  vacillare  la  fede  dei 
meDO  fermi  fedeli.  Ma  sa  questo  punto  il  Savonarola  si  mostrò 
inflessibile  ;  rispose  che  da  quell'unico  Dio  che  portava  il  suo 
compagno  ed  amico  poteva  sperare  salvezza.  La  contesa  dorò 
più  ore  :  frattanto  il  popolo^  che,  per  meglio  vedere  questo  spet- 
tacolo, era  venuto  alio  spuntare  del  giorno  ad  occupare  i  tetti 
delle  case,  e  che  pativa  di  fame  e  di  sete,  più  non  sapeva  raf- 
frenare rimpazienza  ;  e  sebbene  i  francescani  fossero  veramente 
quelli  che  si  opponevano  all'esperimento,  gli  stessi  segnaci  del 
Savonarola  in  ciò  consentivano .  che ,  sicuro  come  egli  era  di 
un  miracolo,  avrebbe  dovuto  pia  facilmente  piegarsi  a  tutte  le 
inchieste  del  suo^  avversario.  La  maggior  parte  del  popolo  igno- 
rava i  motivi  allegati  dall'una  e  dall'altra  parte;  vedeva  soltanto 
quello  spaventoso  rogo ,  cui  avrebbe  voluto  che  subito  si  ap- 
plicasse il  fuoco,  e  hen  s'avvedeva  che  i  due  campioni  ricusa- 
vano di  entrarvi  ;  il  loro  terrore,  clxe  pur  troppo  era  ben  fon- 
dato, sembra  vagli  ridicolo;  la  plebe  si  credeva  delusa,  e  questo 
intero  giorno  di  aspettazione  volse  in  disprezzo  o  in  isdegno  tutto 
il  suo  entusiasmo.  Finalmente,  avvicinandosi  la  notte,  e  le  due 
fraterie  non  essendo  ancora  d'accordo,  una  dirotta  inaspettata 
pioggia  bagnò  la  pira  e  gli  spettatori;  onde  la  Signoria  s'indusse 
ad  accommiatare  l'assemblea.  ^     , 

Girolamo  Savonarola,  ritornato  nel  suo  monastero  di  San 
Marco,  sali  incontanente  sul  pulpito  e  raccontò  alla  folla  che 
lo  avea  seguito  tutto  ciò  ch'era  accaduto.  Ma  di  già  il  minuto 
popolo  gli  aveva  fatto  oltraggio  nell'andare  ai  monistero.  All'in- 
domani, domenica  delle  Palme,  il  Savonarola  predicò  ancora 
con  molta  unzione,  accommiatandosi  in  certo  qual  modo  da'suoi 
uditori  ed  annunciando  che  si  offeriva  in  sacrificio  a  Dio.  iQ- 
iMì  i  suoi  nemici  approfittavano  della  delusa  aspettazione  del 
popolo  per  ammutinarlo  contro  di  lui.  La  società  dei  liberUoi, 
0  compagnacciy  che  l'aveva  sempre  trattato  da  ipocrita,  andava 
gridando  al  popolo  di  non  lasciarsi  più  oltre  guidare  da  uq 
falso  profeta  che  nell'ora  del  pericolo  si  era  sottratto  alla  prova 
della  sua  missione,  offerta  da  lui  medesimo.  Questa  brigata  dei 
compagnacci  assembrassi  nella  cattedrale  ed  in  tempo  del  ser- 
mone dei  vesperi  fece  risuonare  la  chiesa  del  grido  :  e  Alle 
armil  a  San  Marcel  >  E  di  subito  una  plebe  sfrenata  la  segui 
al  monastero  di  San  Marco ,  a  cui  diede  l'assalto  colle  armi , 
colle  scuri,  colle  fiaccole  accese.  Trovavasi  colà  adunata  molta 


—  M9  — 

Dte  per  as^stere  al  divio  sermio,  la  quale  si  difese  per 
alche  tempo,  sebbene  fosse  inerme;  ma  quando  furono  arse 
porte  e  che  mancò  ogni  mezzo  di  raffrenare  i  sediziosi  fa- 
Mmdi,  Tenne  ai  patti,  e  Girolamo  Savonarola,  Domenico  Bon- 
dni  e  Silvestro  Haroffi ,  lotti  e  tre  presi  nel  convento,  fo- 
no tratti  in  prigione  fra  gli  orli  dalla  plebaglia. 

Erano  di  già  le  sette  ore  della  sera,  quando  cominciò  Tas- 
dio  del  convento  di  San  Marco,  e  doveva  supporsi  che  la 
itte  acqueterebbe  i  faziosi.  Ma  una  fazione  da  gran  tempo 
imica  eA  ora  fieramente  inasprita  dal  supplicio  de'  suoi  capo* 
li  non  voleva  perdere  V  occasione  di  vendicarsi.  Nella  susse- 
tento  mattina  la  folla  recossi  alla  casa  di  Francesco  Valori  : 
li  fu  preso ,  e  mentr'era  condotto  in  carcere ,  Vincenzo  Ri* 
ilfl,  parente  di  quegli  che  pochi  mesi  prima  era  stato  man- 
to sul  patibolo ,  gli  si  avventò  contro  e  lo  uccise:  anche  la 
ogiie  del  Valori  venne  uccisa  neir  atto  che  affacciavasi  alla 
lestra  per  implorare  grazia;  e  la  loro  casa  fu  saccheggiata  ed 
sa.  Lo  stesso  accadde  alla  casa  di  Andrea  Cambini,  amico  del 
ilorì.  Tutti  coloro  che  si  erano  dichiarali  amici  al  Savonarola 
reno  oltraggiati  dal  popolaccio,  il  quale,  chiamandoli  ipocriti 
penitenti,  non  lasciavali  uscire  nelle  vie.  La  Signoria,  ch'era 
itrata  in  carica  in  principio  di  marzo ,  avrebbe  forse  potuto 
fflrenare  i  sediziosi,  ma  elFera  s^retamente  del  loro  partito  ; 
nciossiachè  di  nove  priori  ve  n'  erano  sei  nemici  nel  Savo- 
irola.  Nel  supremo  consiglio  tutti  coloro  che  gli  erano  amici 
in  osarono  recarsi  al  'loro  posto ,  di  modo  che  il  contrario 
rtito  sì .  tenne  sicuro  del  maggior  numero  a  buona  pezza, 
lesto  partito  giovossene  subito  per  eleggere  altri  decemviri 
Ila  guerra,  altri  giudici  criminali  o  i  per  dire  coi  Fiorentini , 
tri  otto  di  giustizia ,  deponendo  coloro  che  già  occupavano 
ielle  cariche  e  ch'erano  favorevoli  ai  Savonarola.  Per  tal  modo 
utorità  della  Repubblica  passò  in  altre  mani  ;  tutti  coloro  che 
ivevano  avuta  fin  allora  furono  -deposti  o  proscritti  ;  ed  i 
lovì  capi  del  governo,  volendo  far  conoscere  quanto  odias* 
ro  rausterità  del  riformatore  e  Tipocrisia  onde  lo  accusavano, 
diedero  a  promuovere  i  giuochi,  i  passatempi  ed  anche  i 
sii,  che  egli  aveva  cosi  severamente  dannati. 

Lo  stesso  giorno  del  tumulto  era  stato  inviato  un  corriere 
papa  per  recargli  V  avviso  della  prigionia  del  Savonarola, 
reva  che  Alessandro  Vi  si  avvedesse  che  d' altro  più  non 
bisognava  il  partito  della  riforma  che  di  un  capo  coraggioso 


—  510  — 

per  atterrare  un  edificio  che  mioacciava  rovina  da  tanto  tempo  : 
la  sua  sicurezza  richiedeva  la  morte  del  Savonarola  ;  ond'  egli 
domandò  fervidamente  che  gli  si  consegnasse  queireresiarca,  e 
nello  stesso  tempo,  accordando  varie  indulgenze  ai  Fiorentini, 
ordinò  che  fossero  riconciliati  alla  Chiesa  tutti  coloro  che  per 
avere  assistito  ai  sermoni  dei  monaco  erano  scomunicati.  Ma 
la  Signoria  volle  che  il  processo  del  Savonarola  si  facesse  in 
Firenze  e  richiese  il  papa  di  mandare  dei  giudici  ecclesiastici 
per  assistervi.  Alessandro  VI  mandò  loro  infatti  un  frate  Gioa- 
chino Turriano  di  Venezia,  generale  delFordine  dei  domenicani, 
e  un  Francesco  Remolini,  dottore  di  legge  spagnuolo  ;  e,  nel- 
l'atto che  li  accommiatava,  pronunciò  per  anticipazione  la  con- 
danna di  frate  Girolamo  Savonarola  e  lo  dichiarò  eretico,  scis- 
matico, persecutore  della  santa  sede  e  seduttore  def  popoli. 

Il  processo,  formato  nello  stesso  tempo  avanti  al  nuovo 
tribunale  degli  Otto ,  in  cui  sedevano  altrettanti  nemici  del 
Savonarola,  ed  avanti  ai  delegati  del  papa,  cominciò  colla  tor- 
tura, che  si  diede  più  volte  al  monaco.  Il  Savonarola,  uomo  di 
frale  complessione  e  di  fibra  irritabilissima,  non  potè  sostenere 
ì  dolori  che  gli  si  facevano  soffrire.  Confessò,  perchè  cessassero 
di  tormentarlo ,  che  le  sue  profezie  non  erano  che  semplici 
conghietture.  Ma  quando  si  vollero  ottenere  le  sue  deposizioni 
senza  tormenti,  sostenne  nuovamente  la  verità  delle  sue  rive- 
lazioni e  di  tutta  la  sua  predicazione.  E  perchè  gli  si  opposero 
le  confessioni  strappategli  di  bocca  colla  tortura ,  rispose  che 
riconosceva  o  la  sua  poca  costanza  o  la  debolezza  de'  suoi 
membri  per  sostenere  i  tormenti,  e  che  qualunque  volta  ver- 
rebbe posto  alla  corda,  bene  sapeva  che  smentirebbe  sé  stesso; 
ma  soggiungeva  che  la  verità  era  solo  in  quel  eh'  ei  diceva 
quando  il  dolore  o  il  terrore  non  turbavano  il  suo  3pirito.  Gli 
si  fecero  realmente  soffrire  nuovi  tormenti,  che  lo  sforzarona 
a  nuove  confessioni,  sempre  in  appresso  smentite  ;  ed  i  giudici, 
non  volendo  esporsi  al  rischio  di  fargliele  smentire  un'altra 
volta,  non  gli  fecero  leggere  la  sua  confessione,  secondo  la 
pratica,  perchè  la  riconoscesse  pubblicamente.     • 

In  tempo  della  sua  prigionia,  che  durò  un  mese,  il  Savo- 
narola dettò  un  commentario  del  salmo  li,  ossia  del  Misererey 
che  aveva  ommesso  quando  scriveva  la  sposizione  degli  altri 
salmi ,  avendo  fino  d'  allora  detto  che  riservava  questo  lavora 
pel  tempo  delle  sue  proprie  calamità.  Questa  sposizione  è 
stampata  colle  altre  sue  opere.  Intanto  il  23  di  maggio   una 


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-  5ii  — 

I  pira  venne  innalzata  sa  quella  medesima  piana  in  cui 
;o  del  Savonarola  avrebbe  dovuto  volontariamente  entrare 
loco.  1  tre  monaci,  Girolamo  Savonarola»  Domenico  Bon- 
e  Silvestro  MaruflB,  dopo  essere  stati  degradati  dai  giù- 
ecclesiastici ,  furono  avvinti  ad  un  palo  in  mezzo  alla 
a.  Quando  il  vescovo  Paganotti  disse  loro  cbe  li  separava 
Chiesa,  il  Savonarola  rispose  soltanto  queste  parole,  dalla 
nle ,  volendo  far  intendere  che  stava  per  entrare  nella 
1  trionfante.  Altro  non  disse;  e  fu  appiccato  il  fuoco  alla 
a  da  uno  de'  suoi  nemici»  che  prevenne  TofiBcio  del  car- 
.  Cosi  mori  fra  i  due  suoi  discepoli  il  padre  Girolamo 
arola  in  età  di  quarantacinque  anni  ed  otto  mesi.  Erano 
lati  dalla  Signorìa  severissimi  ordini  per  raccogliere  le 
i  dei  tre  religiosi  e  gettarle  neirAmo.  Pure  ne  vennero 
Ite  alcune  relìquie  da  quei  medesimi  soldati  che  custo- 
)  la  piazza,  e  queste  conservaronsi  fino  al  presente  esposte 
enze  airadorazione  dei  devòti. 


CAPITOLO  XXV. 


I  franeasi  in  Italia 
e  LodoTieo  il   Moro  tir^dito  e  fbtto  prigioniero» 


Allora  appunto  che  il  Savonarola,  perduto  il  favor  popo- 
lare, vedeva  cambiarsi  io  accuse  contro  di  lui  quelle  rivelaziooi 
con  cui  aveva  in  Firenze  pasciuti  i  suoi  seguaci,  parve  che  la 
più  importante  sua  profezìa  avesse  compimento.  Egli  aveva  detto 
a  Carlo  Vili  che  Dio  lo  aveva  scelto  per  liberare  Tltalia  da'sQoi 
tiranni  e  per  riformare  la  Chiesa;  e  da  quel  punto  in  poi  mai 
non  aveva  cessato  di  rinfacciargli  in  nome. del  cielo  sdegnato 
la  lentezza  sua  neiresecuzione  di  questa  grand-opera  e  di  mi- 
nacciargli un  esemplare  castigo.  Voleva  il  Savonarola  che  si 
risguardasse  come  principio  di  tale  castigo  la  successiva  morte 
di  due  delfini  che  Carlo  Vili  perdette  in  tenera  età  ;  ma  oo 
nuovo  castigo,  diceva  egli,  minacciava  tuttavia  il  monarca,  per- 
duto in  grembo  alle  voluttà,  e  nello  stesso  giorno  in  cui  do- 
veva fra  Girolamo  fare  sulla  piazza  di  Firenze  la  tremenda  prova 
della  sua  dottrina,  mandando  il  suo  discepolo  Domenico  Bonvi- 
cini  in  mezzo  alle  fiamme,  il  7  aprile  del  1498,  vigilia  della 
domenica  delle  Palme,  Carlo  Vili  fu  tocco  d'apoplessia  nel  suo 
palazzo  d'Amboise,  e  non  si  potendo  trasportarlo  fuori  della 
loggia  in  cui  allora  si  trovava,  passaggio  lordo  d'immondezze 
ed  il  più  indecente  luogo  di  quel  palazzo,  come  dice  il  Comi- 
nes,  fu  steso  sopra  un  letto  di  paglia,  ove  mori  in  capo  a 
nove  ore. 

Carlo  Vili  non  lasciava  figli,  e  la  sua  corona   toccava  al 


—  513  — 

ca  d*Orìeans,  ch'era  ii  più  vidDo  prìncipe  del  regio  sanarne, 
a  questi  nato  a  Blois  il  27  di  gìQgno  del  I4<t2.  di  Carlo 
Srleans,  nipote  di  LodoTìco,  il  manto  di  Valentina  Visconti  e 
oQipote  di  Carlo  V.  Questo  prìncipe,  quantunque  genero  di 
idovico  XI  ed  il  più  prossimo  erede  del  trono,  avca  vìssali  i 
01  giorni  fra  le  avversila,  si  era  più  volle  fatto  capo  doi  par- 
i  malcontenti  della  Francia,  aveva  a  vicenda  sofferti  i  mali 
Ila  prigionia  e  delPesilio;  onde  la  sinistra  fortuna  avevn^li 
ocacciata  quella  edncazioTie  che  sola  può  far  conoscerti  ai  ro 

condizione  degli  altri  nomini.  Era  il  duca  d'Orleans  gìnnro 
Tela  di  tréntasei  anni  quando  salì  sul  trono  sotto  il  nome  di 
idovìco  Xll;  sebbene  non  fosse  dotato  di  vasta  mente  nò 
pace  di  lunga  applicazione,  sebbene  avesse  manifestala  la  de* 
ilezza  dell'animo,  dimostrando  di  aver  sempre  bisogno  di  \u\ 
borito,  non  pertanto  egli  incuteva  agli  Stali  limitrolì  maggior 
verenza  e  timore  d'assai  che  non  Cario  Vili,  dì  cui  avevani> 
si  conosciuta  rinstabilità  e  la  trascurataggine. 

Ma,  più  che  a  tutt'allri,  Lodovico  Xll,  salendo  sul  troiìo, 
iteva  incuter  timore  agl'Italiani.  Egli  aveva  sempre  tentalo  di 
r  valere  i  diritti  dell'avola  sua,  Valentina  Visconti,  sul  ducato 

Milano.  A  volere  che  questi  pretesi  diritti  avessero  un  quat- 
te fondamento,  sarebbe  ^tato  necessario  che  la  sovranità  «li 
ilano  fosse  un  principato  trasmissìbile  di  diritto  di  padre  in 
;Iio,  e  non  già  una  signoria  italiana  nella  quale  la  podes.'à 
il  principe  non  era  fondata  se  non  sopra  il  presunto  assenso 
1  popolo;  sarebbe  stalo  inoltre  necessario  che  questa  creili  là 
itesse  cadere  in  conocchia,  ossia  trasmettersi  alte  femmine,  la 
tal  cosa  non  era  meno  contraria  al  diritto  pubblico  francese 
16  airitallano.  Carlo  duca  d'Orleans,  padre  dì  Lodovico  Xll, 
a  prigioniero  degringlesi.  ora  capo  di  parte  nelle  guerre  civili 
Illa  Francia,  non  aveva  potuto  fare  colle  armi  esperimento 
Tsuoi  diritti  ed  era  morto  lasciando  il  figliuolo  in  età  di  irn 
ini.  Intanto  Lodovico  XI  si  era  collegato  cogli  Sforza,  Carlo  Vili 
^eva  perseverato  nella  medesima  alleanza  e,  lungi  dallo  spal- 
ggiare  le  pretensioni  del  cugino  sul  ducato  di  Milano allonUò 
ce  rimpresa  d'Italia,  aveva  più  che  in  tutt'allro  riposto  le  sue 
leranze  nell'ajuto  di  Lodovico  il  Moro,  figliuolo  di  Francosro 
'orza.  E,  ancora  dopo  avere  sperimentata  la  mala  fede  dello 
forza,  aveva  lasciato  speranza  a  questi  di  riconciliazione,  dan- 
3si  a  divedere  per  lo  contrarlo  diffidente  e  geloso  del  (hica 
Orlaens  allorché  questi,  dimorando  In  Asti,  aveva  minacciato 

i    Tamb.  Jnquii.  Voi.  II.  *'ìf 


-  514  — 

di  fare  irruzione  del  Milanese.  Ma  Lodovico  XH,  salito  sol  tronOi 
non  istette  molto  a  manifestare  l'intenzione  di  far  valere  le  pre- 
tensioni ch'ei  non  aveva  potato  per  tanto  tempo  mandare  ad 
effetto.  ÀI  titolo  di  re  di  Francia  egli  aggiunse  quelli  cU  doca 
di  Milano  e  di  re  delle  Due  Sicilie  e  di  Gerusalemme,  e  non  tacque 
che  si  proponeva  di  sostenere  questi  titoli  con  tutte  le  forze 
della  sua  potente  monarchia. 

Era  di  que'tempi  ritalia  da  tante  passioni  agitata  che  que- 
sta seconda  invasione  de'  Francesi ,  la  quale,  dopo  i  mali  cau- 
sati dalla  prima,  doveva  essere  da  tutti  temuta,  era  per  lo  con- 
trario argomento  delle  speranze  di  molti  potenti  Stati,  di  modo 
che  prima  d'intraprencjerla  Lodovico  XII  trovò  modo  di  con- 
trarre nuove  alleanze,  diverse  da  quelle  del  suo  predecessore, 
e  di  guadagnarsi  utili  cooperatori  per  le  oooditate  conquiste. 

Lai  guerra  di  Pisa,  ch'era  rimasta  accesa  come  una  foce 
destinata  ad  allumare  un  nuovo  incendio,  aveva  più  che  ogni 
altra  cosa  contrihuito  a  cambiare  le  inclinazioni  dei  diversi  par- 
titi. Aveva  questa  guerra  impoverito  Firenze  e  fatta  provare  ai 
Fiorentini  tutta  la  mala  fede  di  Carlo  Vili  e  de'luogotenenti  di 
lui,  lasciando  nel  cuor  loro  vivissimo  rincrescimento  di  aver 
dato  retta  alle  promesse  della  Francia.  E  Lodovico  Sforza,  il 
quale  aveva  sperato  per  questa  guerra  insignorirsi  di  Pisa,  ve* 
deva  i  suoi  rivali  sul  punto  di  conseguire  il  guiderdone  da  Ini 
desiderato.  Perciò  egli  si  trovava  per  la  seconda  volta  doloso 
dai  proprii  artifizii,  seguendo  quell'astuta  politica  di  cui  menava 
sì  gran  vanto;  ed  ornai  cominciava  a  desiderare  di  accostarsi 
di  nuovo  ai  Fiorentini  per  discacciare  di  Pisa  i  Veneziani,  dopo 
avere  in  qualche  modo  posta  egli  medesimo  questa  città  nelle 
inani  dì  questi.  Dall'altro  canto  i  Veneziani,  che  vantavansi  di 
avere  due  volte  salvato  dall'  eccidio  lo  Sforza,  erano  cosi  sde- 
gnati di  questa  sua,  cosi  da  loro  chiamata ,  ingratitudine ,  che 
per  vendicarsi  di  lui  erano  disposti  a  commetter  lo  stesso  follo 
ch'era  stato  cosi  aspramente  rimproverato  a  Lodovico  ed  a  sn- 
scìtargli  un  nemico  di  loro  e  di  lui  più  potente. 

Infatti  non  ebbero  appena  avviso  della  morte  di  Carlo  VDI 
che  comandarono  al  segretario  della  Signoria  residente  in  To- 
rino di  recarsi  alla  corte  del  suo  successore.  E  quindi  a  poco 
rpandarongli  dietro  tre  ambasciatori,  incaricati  di  fare  le  scuse 
delle  precedenti  ostilità  e  di  rappresentarle  siccome  la  conse- 
guenza di  una  contesa  terminata  colla  morte  dell'ultioM)  re.  U 
papa«  che  in  quel  torno  di  tempo  aveva  determinato  di  scio- 


—  MS  — 

tìlen  il  800  bisbrdo  Cesare  dagli  ordtiii  sacri  e  di  farlo  di 
artinale'  priDdpe  secolare,  colse  dal  canto  suo  con  premura 
inesP  oocaaoiie  di  suscitare  iìooto  guerre  e  di  vendere  ad  un 
[lossente  alleato  tatto  rajuto  della  sna  temporale  sovranità  e 
tutte  le  grazie  siHrìtQali  ch'erano  in  suo  arbitrio.  Sapeva  che  il 
re  di  Francia  abUsognava  di  nna  dispensa  pontificia  per  sod- 
lisfore  alle  sue  passioni  ed  alla  sna  politica;  imperciocché,  tro- 
vandosi Lodovico  XII  da  venti  anni  ammogliato  con  una  Qgiiuo- 
b  di  Lodovico  XI,  che  mai  non  aveva  amata  »  desiderava  di 
fare  da  lei  divorzio;  ed  essendo  pure  da  gran  tempo  fortemente 
Innamorato  delia  vedova  del  suo  predecessore,  desiderava  di 
sposarla  e  di  tenere  unito  con  tal  meuo  lo  scettro  della  Bre- 
tagna alla  corona  di  Francia.  Alessandro  VI  era  il  solo  che 
potesse  far  liciti  questo  divorzio  e  queste  nuove  nozze  :  onde 
incaricò  i  suoi  ambasciatori  a  fame  T  offèrta  al  re  di  Praticia, 
sptt^ndo  di  vendere  a  caro  prezzo  lo  scandalo  che  con  tale 
dispensazione  darebbe  alla  cristianità.  Dal  canto  loro  i  Fioren- 
tini mandarono  ambasciatori  a  Lodovico  XII  per  rinnovar  l'an- 
tica alleanza  e  per  rammentargli  tutto  quello  che  avevano  di 
fresco  sofferto  per  essersi  conservati  fedeli  alla  causa  della  Frau- 
da. A  tutti  questi  ambasciatori  furono  fatte  indistintamente  dal 
nnovo  re  buone  e  gentili  accoglienze ,  e  con  tutti  ei  prese  a 
negoziare,  ma  con  fermo  proposito  di  non  fare  l'impresa  d'Ita- 
lia senza  aver  dapprima  assicurati  da  ogni  offésa  1  confini  della 
Francia,  mercè  di  nuovi  trattati  con  tutti  i  suoi  vicini. 

Infatti  il  primo  anno  del  regno  Lodovico  dedicavalo  allo 
core,  deiramministrazione  de'suoi  Stati  ed  a  negoziazioni  esterne 
die  rimasero  sepolte  nel  silenzio  del  gabinetto.  Ned  altro  venne 
a  sapersi  di  queste  negoziazioni  se  non  che  per  quelle  intavo- 
late col  papa  erasi  felicemente  ristabilita  e  fatta  assai  stretta 
l'amicizia  fra  le  due  corti;  della  qual  cosa  Cu  chiaro  argomento  il 
cappello  cardinalìzio  ricevuto  il  17  di  settembre  da  Giorgio 
A'Amboise,  favorito  del  nuovo  re  ed  arcivescovo  di  Roano.  Nel 
snssegnente  mese  Cesare  Borgia  spogliossi  in  pieno  concistoro 
della  romana  porpora,  adducendo  per  ìscusa  di  questa  sua  rinuu- 
da  al  cardinalato  la  violenza  fattagli  dal  padre  per  costrìngerlo 
81  prendere  gli  ordini  ecclesiastici;  e  parti  poscia  alla  volta  della 
Francia  per  trattarvi  in  nome  di  Alessandro  del  divorzio  del  re. 
Poco  mancò  per  altro  che,  per  avere  adoperato  con  soverchia 
scaltrezza ,  il  Borgia  non  perdesse  il  prezzo  cui  sperava  di 
ritrarre  da  questa  grazia.  Conciossiaché,  avendo  egli  detto  dì^ 


—  «16  — 

avere  seco  [{orlato  la  bolla  del  papa  che  annullava  it  precedeote 
matrirnoDio  'di  Lodovico,  questi  avvertito  dal  vescovo  di  Gettes 
che  la  bolla  era  stata  spedita,  invece  di  fare  istanza  al  Borgia 
per  averla. nelle  mani,  il  12  dicembre  del  1498  fece  pronoo- 
ciare  dai  giudici  ecclesiastici  da  lui  indipendenti  la  sentenza  dì 
divorzio,  e  VS  marzo  del  1499  passò  a  seconde  nozze  con  Anoa 
di  Bretagna.  Allora  Cesare  Borgia,  premuroso  di  rappattumarsi 
col  re,  fermò  subito  il  trattato  che  discussavasi  e  consegnò  la 
bolla,  in  guiderdone  di  essa  ottenendo  da  Lodovico  il  ducato  di 
Valenza  nel  Delfinato,  onde  prese  il  titolo  di  Duca  Valentino, 
invece  di  quello  di  Cardinale  Vescovo  di  Valenza  in  Ispagna,  che 
aveva  fin  allora  portato.  Ma  assai  male  tornò  al  vescovo  di 
Cettes  d'aver  rivelato  al  re  il  segreto  del  Borgia  e  persuaso 
Lodovico  che,  quand'era  spedita  la  bolla,  sebbene  a  lui  consegnala 
non  fosse,  la  sua  coscienza  doveva  essere  pienamente  tranquilla; 
imperciocché  il  povero  vescovo  mori  quindi  a  poco  avvelenato 
dal  Borgia. 

Mentre  che  Lodovico  XII  contraeva  nuove  alleanze  in  Ita- 
lia e  si  apparecchiava  a  portarvi  le  sue  armi ,  in  Toscana  si 
continuava  la  guerra.  Le  ostilità  erano  state  riprese  ne'conlorni 
di  Pisa  in  ottobre  del  1497,  allo  spirare  della  tregua  stipulata  dai 
re  di  Francia  e  di  Spagna,  senza  che  per  altro  fino  al  maggio 
del  1498  ne  derivassero  avvenimenti  di  qualche  rilievo.  In  quel 
mese  i  Pisani  inviarono  Giacomo  Savorgnano,  capitano  veneziano 
al  loro  soldo,  nel  territorio  di  Volterra  per  saccheggiarlo.  Ri- 
torno va  costui  da  quella  scorreria  alla  volta  di  Pisa  carico  di 
hoUino,  con  settecento  cavalli  e  mille  fanti,  quando  presso  San 
Regolo  fu  assaltato  dal  conte  Rinuccio  da  Marciano  e  da  Gu- 
glielmo deTazzi,  generali  dei  Fiorentini.  Il  Savorgnano  fu  scon- 
fino ;  ma  nel  mentre  che  i  vincitori  slavano  saccheggiando  i 
snoi  bagagli,  sopragiùnse  Tomaso  Zeno,  che  giungeva  allora  da 
t^ìsa  con  soli  centocinquanta  cavalli,  e  trovando  i  nemici  disor- 
dinali, li  assaltò,  liberò  i  prigionieri,  ricuperò  il  bollino  e  fece 
loro  grande  uccisione.  In  questo-  fatto  i  Fiorentini  perdettero  di 
molla  genie,  e  perchè  i  loro  generali  accagionavansi  l'un  raltro 
di  questa  disgrazia,  il  6  di  giugno  la  Repubblica  diede  il  co- 
mando delle  sue  truppe  ad  un  capitano  più  rinomalo,  ma  si  am- 
bizioso che  avrebbero  dovuto  temerne  assai  più  che  d'ogni  altra 
cosa  ;  era  questi  Paolo  Vitelli  di  Città  di  Cislello,  il  quale  aveva 
opinione  d'avere  imparato  neiresercilo  francese  tulio  che  gli 
oltremonlani  sapevano  di  meglio  neirarte  della  guerra.  Questa 


«oniita  iuàotae  LodDrioo  il  Mero  t  ^MCMrene  f»ffi» 
die  aTiorentiDi  per  impedire  otie  fM^es^^cre  In  pnoe  ^ 
WDSBBtàssBTb  ù  V«DeziBDi  ài  suibUìisi  m  Pis».  Verh  <(nh\<'<!^ 
muÈiù  loro  Ireceoto  alabu-diol  assoldò  ìt)  connina'  c^^n  essi 
CiaD  Paulo  Bif  lioDe.  signore  di  P(nfria«  cA  il  ^^non»  ili  PiAm- 
ÌMiio,  e  dèe  iord  xn  presiama  in  pjirecc^ie  voi  io  iroo^iomib 
dacalL 

1  Veoeùam  teoevaDO  in  aUora  in  Pisa,  soilo  f\i  «Mulini  di 
Marco  MartìDengo,  quattrocento  uomini  darme.  olUv^nh^  x^^ra-- 
dkMti  e  daemila  fanii.  A  Venetia  era  stata  infine  alion  ^|W(a 
la  Tia  per  far  giungere  rinforii  a  qiie$i^e.^rcilo  ;  ma  il  dncA  di 
Milano,  soopertamente  abbracciando  Tallivinta  dei  KioronMni. 
chiose  il  passo  alle  truppe  destinale  contro  di  loro:  (s\  a\ì>ndo 
oltraciò  indotto  Giovanni  Bentivoglio.  signore  di  Roloi;n.i.  n  far^ 
lo  stesso,  il  costui  esempio  fu  seguilo  da  C^lorina  Siortx  nì:«- 
dre  di  OttaTiano  Rìario,  signore  dimola  e  di  Porli,  o  dnll^  Ho- 
pubblica  di  Lucca;  nel  quale  modo  fu  chiusa  alle  Impilo  vouo* 
siane  la  più  diritta  via  di  Pisa  pel  Ferrarese.  |H'I  Motlanoso  o 
pel  Lucchese.  Il  duca  di  Milano  si  era  inoltre  obblinalo  a  Tir 
si  che  i  Genovesi  negassero  il  passo  ai  nemici  do'snoi  Alleali,  e 
la  via  di  Romagna  sembrava  egualmente  chiusa  dal  Uonlivoftlio 
e  dal  Riario  ;  ma  siccome  questi  piccoli  principi  |H>tovano  tomoro 
di  provocare  Io  sdegno  della  potente  Repubblica  di  Vonoain.  i 
Fiorentini,  per  impedire  che  si  prendessero  n  riln^sjio  i  loro  con- 
finj.  vollero  pure  assicurarsi  della  nOutrnllti\  di  SIoum,  ondo  non 
avere  verun  nemico  vicino.  Fermarono  perciò  ima  In^vnn  di  cin- 
que anni  con  Pandolfo  Petrucci,  il  quale  col  solo  f.ivon!  di>lln 
guarnigione  di  Siena,  di  cui  era  capilnno,  si  usurpavii  In  tlrtin- 
nia  di  quella  Repubblica. 

Chiusa  in  tale  modo  ogni  via  por  cui  t  PiHnnl  polnnno  ricn- 
vere  soccorsi  dai  loro  alleali,  i  Fiorentini  mandarnno  contro  di 
loro  Paolo  Vitelli  con  forze  che  nam  ftoverchi.iviino  i\m\Uì  lui- 
mandale  dal  Marlinengo,  il  quale  fu  mnlmenalo  n.^nni  In  nn*lrii- 
boscata  presso  Cascina  e  costretto  ad  abbandonare  I»  cnmpii- 
gna.  Laonde  il  Vitelli,  avanzando;^!  lungo  la  dentni  riva  diJ- 
TArno,  prese  i  castelli  di  liuti,  di  Calcinata,  di  Vico  Pipano  o 
la  valle  di  Calici,  che  di  tutto  il  territorio  pì^;ino  ó  la  plfi  ricca 
contrada  e  la  più  facile  a  difender»!,  p'^rché  fortificala  d^iKli 
scoscendimenti  dei  monti  di  Sin  Giuliano  e  dello  arxpie  d^l 
lago  di  Bientina. 

1  Veo.'ziaoi,  che  avevano  pre.w  a  prolejfgere  I  Pierini,  erano 


—  818- 

ad  ogoi  modo  impegnati  a  dod  lasciarli  privi  di  soccorso.  Ven> 
è  che  non  era  loro  aperta  alcona  via  fino  al  territorio  insano» 
ma  quella  dod  era  chiosa  che  metteva  ai  codAoì  di  Firenze.  Il' 
sigDore  di  FaeDsa,  ch'era  protetto  da  Veoezia,  dod  poteva  loit^ 
ricasare  il  passaggio  per  Valle  di  LamoDe,  da  Ini  dipendeota 
Carlo  Orsioi  e  Bartolomeo  d'Alviano,  capitani  al  soldo  della 
Repubblica  veneta,  partitisi  dalla  Romagna  veneziana,  gionsero- 
per  tale  strada  fino  a  Harradi,  rócca  assai  forte,  che  loro  cliìn- 
deva«r  ingresso  della  Romagna  toscana.  Piero  e  Giuliano  dei 
Medici,  presti  sempre  ad  unirsi  a  tqtti  i  nemici  della  loro  pa« 
trìa ,  perchè  speravano  di  essere  riposti  in  seggio  col  favore^ 
delle  armi  straniere,  eransi  recati  nel  campo' dei  Veneziani  ed 
avevano  promesso  ai  loro  capitani  che  troverebbero  traditore 
fra  i  comandanti  fiorentini  dei  castelli  dell' Apennino ,  non 
potendo  essere  che  non  si  abbattessero  in  qualche  antico  pa^ 
tigiano  della  loro  famìglia.  Infatti  la  terra  dì  Marradi,  sotto  le 
cui  mura  giunsero  in  settembre ,  fu  subito  data  a  loro;  ma  la 
rócca,  chiamata  Castiglione,  che  signoreggia  Marradi. e  chiude 
la  via  della  Toscana,,  fu  ostinatamente  difesa  da  Dionigi  Naido, 
con  che  ebbero  tempo  i  Fiorentini  di  adunare  colà  un  numero^ 
sufficiente  di  soldatesche  per  proteggeria. 

Mentre  che  P  esercito  veneziano  era  trattenuto  negli  Ap- 
pennini, quello  dei  Francesi,  comandato  da  Paolo  Vitelli,  prò* 
seguiva  prosperamente  le  sue  operazioni  contro  Pisa ,  ed  in 
sul  cominciare  d'ottobre  conquistò  Librafatta.  I  generali  vene- 
ziani ,  che  bramavano  entrare  sollecitamente  in  Toscana  per 
soccorrere  i  Pisani,  tentavano  tutte  le  vie,  ma  tutte  le  trova- 
vano chiuse  da  gagliarde  rócche.  Air  ultimo  un  Ramberto  di 
Sogliano,  piccolo  signore  feudatario  di  un  ramo- cadetto  della 
casa  Malatesta,  aprì  loro  il  castello  da  lui  posseduto  ai  confini 
tra  lo  Stato  d'Urbino  ed  il  Casentino;  Rarlolomeo  d'Alviano 
approfittò  colia  celerità  sua  propria  del  passo  ottenuto,  e  in  una 
sola  notte,  per  la  via  di  Sogliano,  si  recò  da  Cesena  all'abbazia 
di  Camaldoli ,  dove  giunse  mentre  i  monaci ,  di  nulla  sospet- 
tando ,  captavano  il  mattutino.  Assicurano  i  monaci  che  san 
Romualdo  fondatore  del  loro  convento  li  difese  e  che  fu  ve- 
duto, finché  durò  l'assalto  contro  il  monastero,  scagliare  con  vi- 
gorosa mano  mattoni  contro  gli  assalitori.  Per  io  contrario  i 
Veneziani  sostengono  di  essersi  impadroniti  del  monastero;  certo 
è  almeno  che  la  residenza  di  Camaldoli  non  trattenne  TAN 
Viano.  Questi  mandò  immediatamente ,  come  venisse  dai  Die- 


"^ 


ci  della  gaenh ,  hl  Uìso  avviso  a  BiblMna  ^  afi^reo^hi^i^ 
raUogpìD  per  cmqoanUi  Cagliari  deireMkrcito  del  Vìlellu  6»  l^- 
naodo  distro  innnacliatameDle  al  mesisck entrft  in  llibhionii  il  4N 
di  fiUalR  G0&  cento  nomiiii  d*  anae  {Krìim  die  si  $?i|h«s«^  nel 
paeae  eh'  agii  awia  vamtì  i  confini .  t  fa  ricevuto  in  <|iielUi 
lena  Durata  come  capitano  fioreDtino.  Il  (n^^^o  deire^^rcko 
teoevag^  dietro  da  Ticino ,  e  acpragiiinio  «obìtffmenre  O^rlo 
Orsìai  ocm  ottooNito  cavalli,  fa  assiciirata  qnella  con^ni^t^  i^ì^ 
rAtvitfio  doveva  non  meno  aU^inganno  clie  atta  propria  ìnti^- 


L'Ahiano  aerava  di  riportare  ase^mante  nlterìon  v«n- 
lagp  e  di  occupare  con  fatica  il  castellò  di  IV^ppi,  cho  in  ma 
mano  sarebbe  diventato  la  chiave  di  Val  d'Arno  e  deirArrtint> 
e  gii  avrddie  dato  bmmIo  dì  incendere  fitialmente  nelle  pianure 
delb  Toscana;  ou  Antonio  Giacomini,  ch'era  «no  iVpiA  mi- 
torosi  e  rìsolnti  cittadini  di  Firenie ,  trova^raisi  in  allora  t<m^ 
missarìo  a  Poppi  e  fece  andane  a  vnoto  Tardità  impresa  del- 
TAIviano. 

L'antnnno  era  di  già  inoltratOi  e  la  guerra  feriea  nelU  più 
aspra  e  più  montuosa  provinàa  della  Toscana;  paese  aleHie» 
chioso  da  strette  gole»  e  le  cui  montagne  erano  di  glA  coperte 
di  alte  nevi.  Paolo  Vitelli,  premurosamente  chiamatovi  dai  VU)- 
rentini,  vi  accorse  con  tutte  le  sue  truppe,  non  altro  ISBOlando 
nella  campagna  di  Pisa  che  le  guarnlRionl  delle  con(|iiUlAle  for- 
tezze. Egli  era  altrettanto  cauto  o  clrcospollo,  qunnln  TAIvImuo 
impetuoso.  Slavano  sotto  il  coioando  del  Vllolll  FrAO.rmAii  Hii  it* 
severìoo,  mandato  dal  duca  di  Milano,  e  lUnnccio  di  Mar- 
ciano. Il  suo  esercito,  cui  i  Fiorenlini  npodlyann  conlihiti  rin- 
forzi, si  trovò  bentosto  più  numeroso  di  quello  del  V^nealnril, 
che  pare  aveva  ri^utatissimi  capitani,  cloò  Carlo  Orsini,  llurtolo- 
meo  d'Alviano  e  il  duca  di  Urbino,  eil  era  numeroso  di  sette- 
cento uomini  d'arme  e  seimila  bntl ,  tra  t  (pisll  si  trova rAno 
alcune  compagnie  di  Tedeschi.  Ma  il  Vitelli  av^vs  fermati»  In 
mente  di  non  venire  a  battaglia,  potendo  più  facilmente  trion- 
fare dei  nemici  col  chiuderli  nello  sterile  p^iese  In  eul  si  f^rnwi 
impegnati.  Per  tale  uopo  occapA  i  pas^i  della  Vernia,  di  Ghlrisi 
e  di  Montatone,  pei  quali  resercito  femzìèm  poteva  avere  err- 
mnnicazìone  colla  Romagna,  ed  ^ttorz/p  Armici  e  tritte  le  «ola 
del  Casentino,  bilia  banda  della  Toscana  e^flfr  )  c^mtadin»  itfl 
amnarsi  e  a  porsi  ovunqne  in  m  le  difese  contro  i  nemm  :  09 
rn  tale  modo,  sempre  piA  ri.9tfing«Mto  lineali  entro  angostl  Aon- 


—  520  — 

fini,  li  tradusse  in  breve  a  somma  penarla  di  vitlovaglie  e  dì 
foraggi. 

Con  ciò  l^esercito  che  i  Veneziani  avevano  spedito  in  To- 
scana per  far  levare  l'assedio  di  Pisa  trova  vasi  assediato  ;  e  il 
duca  d'Urbino,  lungi  dal  poter  liberare  Marco  Martinengo,  ec- 
come portavano  le  sue  commissioni,  aveva  in  qaella  vece  bi- 
sogno di  essere  liberato  egli*  medesimo.  La  Repubblica,  subito  vi 
provvide  e  mandò  a  Ravenna,  in  principio  del  i409,  il  conte 
Nicola  di  Pitigliano  per  mettere  insieme  un  altro  esercito.  To- 
sto che  questi  ebbe  radunate  quattro  migliaia  di  fanti,  si  avanzò 
ad  Elei,  ròcca  posta  ai  confini  del  ducato  d'Urbino,  con  inten- 
zione di  penetrare  da  quella  banda  nel  Casentino  e  liberare 
r  oste  assediata.  Se  non  che  il  Vitelli  venne  ad  accamparglisi 
in  faccia,  a  Pieve  di  Santo  Stefano,  per  chiudergli  il  passo.  Le 
due  Repubbliche,  egualmente  stracche  dalle  immense  spese  di 
quella  ruinosa  guerra ,  incalzavano  i  loro  generali  a  venire  ad 
una  decisiva  battaglia;  ma  questi,  che  erano  stati  allevati  nella 
scuola  militare  italiana  e  nudrili  dalle  sue  regole  di  circospe- 
zione, chiusero  le  orecchie  a  tutte  le  istanze  che  loro  si  face- 
vano e  non  volterò  affidare  la  propria  riputazione  all'  incerto 
esperimento  di  una  battaglia. 

E  a  dir  vero  le  due  Repubbliche  avevano  le  più  gagliarde 
ragioni  di  allontanarsi  in  quella  circostanza  dalla  consueta  loro 
prudenza  e  di  perigliare  in*  una  dubbiosa  battaglia  la  sorte  loro. 
Ognuna  sperava ,  ottenendo  la  vittoria ,  di  fare  la  pace  a  più 
vantaggiose  condizioni ,  ed  ognuna  si  avvisava  che  la  propria 
sconfitta,  in  tanta  lontananza  d.illa  capitale  ed  in  paese  cosi 
facile  a  difendersi,  non  la  porrebbe  in  molto  pericolo.  Forse 
anco  ambedue  avrebbero  piuttosto  desiderato  di  essere  costrette 
da  una  sconfitta  a  rinunciare  alle  loro  pretensioni  anzi  che  di 
trovarsi  in  dovere  di  continuare  con  poca  speranza  una  ruì- 
nosa  interminabile  contesa.  I  Veneziani  erano  impazienti  di 
liberare  i  loro  tre  eserciti  stretti  d'assedio  in  Pisa,  a  Bibbiena  e 
ad  Elei  ;  i  Fiorentini  non  desideravano  meno  di  accommiatare  il 
loro  generale  Paolo  Vitelli,  contro  del  quale  avevano  concepiti 
gagliardi  Isospetti.  Avevano  conceduto  di  recente  un  salvocon- 
dotto  al  duca  d'Urbino,  che  era  ammalato,  e  Giuliano  de' Me- 
dici aveva  approfittato  di  tale  salvocondotto  per  uscire  da  Bib- 
biena col  duca;  della  quale  cosa  i  Fiorentini  si  erano  amara- 
mente lagnati,  troppo  grave  trascorso  loro  parendo  che  un  ribelle 
della   loro  Repubblica,  assediato  dal  loro  esercito ,  fosse  stato 


V 


—  ttt- 

lottntlo  dal  proprio  loro  generile  il  cistigo  commiintoeli  dille 

Le  doe  R^nbbUcbeeniio  perciò  iDcori  più  bniMse  delti 
me  che  della  bittagUi,  e  due  potenti  mediitorì  ^'ioterposero 
^pportQDimeDte  ad  od  tempo  per  igetolire  fri  di  loro  gli  le- 
;ordi.  A  LodoTìeo  xn,  eh'  era  r  ano  di  essi,  premevi  issii  di 
[jete  r  iHeuia  si  dell'  eoi  che  deir  iltra  RepQt>bliei  ;  e  per 
iconciliarle  chiedeva  che  Pisa  si*  depositasse  nelle  sue  mini» 
promettendo  segretimeote  ai  Fiorontini  di  rendere  loro  quelli 
ittà,  ed  ai  Yeneiiani  di  procoraro  loro  larghi  compensi  nello 
>tato  di  Milano.  Lodovico  il  Moro,  ch'era  altro  mediatore,  esor* 
andò  i  Fmrontini  a  rappattumarsi  coi  Yeneiiani,  sperava  con 
al  meno  (U  rappaciflcarsi  egli  medesimo  con  Venesii.  Vedevi 
0  Sforza  il  ro  di  Francia  ansioso  di  colorire  i  disegni  mani-* 
estati  ne'  primi  giorni  del  suo  regno  d'invadere  la  Lombardia; 
'agguagliato  era  delle  negoziazioni  di  quel  monarca  col  papa. 
Iella  sua  nuova  alleanza  col  re  d' Inghilterra  e  della  tregua 
nttuita  per  più  mesi  con  Massimiliano ,  senza  che  questi ,  in 
informità  della  sua  promessa,  vi  avesse  fatto  inchiudere  il  du* 
iato  di  Milano  >  laonde,  se  in  caso  di  guerra  tutto  dovevi  temere 
lall'astio  de' suoi  vicini,  giungendo  a  ristabilire  la  pace  in  Italia, 
K)teva  sperare  che  la  Repubblica  di  Venezia ,  tornando  a  pib 
irndentì  consigli,  deporrebbe  quei  progetti  di  vendetta,  troppo 
ler  lei  medesima  pericolosi. 

Avendo  poscia  Lodovico  XII  lasciato  l'ufflcio  di  mediatore 
ler  unirai  più  strettamente  alla  Repubblica  di  Venezia,  i  Fioren- 
ini ,  che  fervidamente  bramavano  la  pace ,  diedero  pereiò  pib 
acile  orecchio  ai  coosigli  di  Lodovico  il  Moro.  Dal  canto  loro  1 
Veneziani,  che  segretamente  si  apparecchiavano  alla  guerra  con- 
ro  il  duca  di  Milano,  sapevano  ad  un  tempo  che  i  Turchi  face* 
^no  apprestamenti  per  assalire  i  loro  possedimenti  nella  Grecia, 
!d  erano ,  oltraciò ,  inquietati  dalle  strane  pretensioni  e  dalle 
ninacce  di  Massimiliano.  E  benché  usi  a  veder  queste  minacce 
indalwne  in  fumo,  non  vollero  essere  distratti  dalla  guerra  di 
^  in  circostanze  che  potevano  diventare  più  difficili.  Le 
mnsulte  intomo  alle  cose  di  Pisa  dal  consiglio  de'Pregadl 
orano  perciò  trasferite  a  quello  dei  Dieci ,  rlsguardato  sic- 
come assai  meno  accessibile  alle  generose  passioni  ed  assai; più 
lominato  dalia  sola  politica.  Questo  consiglio,  accettando  la  prò- 
losta  fatta  da  Lodovico  il  Moro ,  sottoscrisse  un  compromesso 
D  forza  del  quale  riponeva  tutti  i  diritti  della  Repubblica  in 

TàMB.  inquU,  Td.  IL  M 


mano  d' Ercole  d' Este ,  dac^  di  Ferrara,  suocero  del  duca  di 
Milano.  Questi  indusse  pure  i  Fiorentini  ad  accettare  lo  stesso 
arbitro,  e  fa  statuito  che  nel  termine  di  otto  giorni  il  duca 
Ercole  dovesse  dare  sentenza  tra  le  due  Repubbliche ,  che  a 
obbligarono  ad  acquìetarvisi. 

Il  i6  aprile  del  1499  il  duca  di  Ferrara  pronunciò  di  fatti 
il  suo  lodo.  Obbligò  i  Veneziani  a  ritirare  prima  della  prossima 
festa .  di  san  Marco  tutte  le  truppe  dal  territorio  pisano  »  di 
Bibbiena  e  dal  Casentino;  ed  ingiunse  ai  Fiorentini  di  pagare 
per  dodici  anni  ai  Veneziani ,  per  rifacimento  delle  spese  di 
guerra,  quindicimila  ducati  alFanno.  Volle  ancora  che  i  Fioren- 
tini concedessero,  generale  perdono  agli  abitanti  di  Bibbiena  e 
di  Pisa,  e  che  a  questi  dessero  facoltà  d'esercitare,  al  pari  dei 
Fiorentini,  ogni  specie  di  mercatura  tanto  per  mare  quanto  per 
terra;  che  lasciassero  ai  Pisani  le  loro  fortezze,  a  patto  di  otte- 
nere rassenso  della  Signoria  fiorentina  per  tutti  i  capitani  che 
prenderebbero  al  loro  servigio,  e  dì  ridurre  le  guarnigioni  il 
numero  di  soldati  che  vi  tenevano  i  Fiorentini  prima  '  dalli 
ribellione.  Il  duca  dì  Ferrara  ordinò  pure  che  i  giudizii  civili 
dovessero  pronunciarsi  in  Pisa  da  un  podestà  forestiere,  scelto 
^  dagli  stessi  Pisani  in  un  paese  alleato  di  Firenze ,  e  che  le 
sentenze  criminali  dovessero  proferirsi  dal  capitano  di  giustiui 
fiorentino,  ma  coirassistenza  d'un  assessore  eletto  dal  duca  di 
Ferrara. 

Potrebbe  risguardarsi  come  argomento  della  imparzialità 
del  laudo  del  duca  di  Ferrara  il  generale  malcontento  destato 
da  quella  sentenza,  il  quale  sì  grande  fu  che  niun  lodo  venne 
mai  accolto  così  sfavorevolmente  da  tulle  le  parli.  I  Veneziani, 
vergognandosi  di  mancare  apertamente  a  tutti  gli  obblighi  con- 
tralti inverso  a' Pisani,  non  vollero  che  per  alto  pubblico  si 
potesse  far  fede  della  loro  perQdia ,  e  sebbene  dal  canto  loro 
eseguissero  la  sentenza  e  richiamassero  dalla  Toscana  nel  pre- 
fisso termine  le  loro  truppe ,  non  acconsentirono  giammai  ad 
assoggettarvisi  formalmente.  Dolevansi  i  Fiorentini  che  loro 
non  venisse  restituita  Pisa ,  perciocché  lasciavansi  le  fortezze 
in  mano  ai  loro  sudditi  ribelli,  e  che  il  duca  li  avesse  ingiu- 
stamente condannati  a  pagare  le  spese  di  una  guerra  nella 
quale  erano  stati  assaliti  senza  avere  provocati  gli  assalitori 
Pure  Firenze  accettò  espressamente  la  sentenza  arbi tramentale; 
la  quale  accettazione  rimase  luttavia  senza  effetto ,  perchè  i 
Pisani ,  risguardando  tutte  le  garanzie  loro  francate  dal  duca 


—  555- 

di  Ferrara  siccome  troppo  focili  ad  eludersi  e  preferendo 
la  morte  alla  servitù^  rìcosarono  di  sottomettersi ,  e  quantno* 
qoe  da  tatti  abbandonati  giurarono  di  volere  difendersi  e 
fecero  premurosamente  uscire  dalla  loro  città  e  fortezze  le 
troppe  veneziane,  per  timore  che  non  le  èonsegnassero  ai  loro 
nemici. 

Quando  i  Fiorentini  ebbero  avviso  della  risoluzione  fatta 
dai  Pisani  di  continuare  a  difendersi,  richiamarono  dal  Casen- 
tiDO  Paolo  Vitelli  con  V  esercito  e  lo  mandarono  contro  Pisa, 
che  a  loro  credere  non  poteva  lungamente  resistere.  Lodovico 
il  Moro ,  sempre  più  crucciato  dagli  apprestamenti  di  guerra 
che  facevano  i  Francesi,  in  quel  modo  che  aveva  esortati  ì 
Fiorentini  ad  accettare  V  arbìtramento  del  duca  di  Ferrara , 
esortava  non  meno  fervidamente  i  Pisani  ad  accomodarvisi  e 
faceva  ogni  sforzo  per  ristabilire  la  pace  in  Toscana  ed  assi* 
curarsi  i  soccorsi  di  quella  provincia;  ma  non  trovava  chi  gli 
credesse.  Rammentavansi  i  Pisani  che,  sotto  colore  di  proteg* 
gere  la  loro  libertà,  egli  aveva  tentato  d'insignorirsi  della  loro 
città;  ed  i  Fiorentini  sospettavano  ch'egli  covasse  tuttavia  questi 
progetti  e  segretamente  inanimisse  i  loro  nemici  a  resistere. 
Perciò  gli  uni  e  gli  altri,  chiudendo  le  orecchie  a' suoi  consigli 
ed  abbandonando  la  Lombardia  alle  rivoluzioni  che  doveva 
cagionarvi  una  nuova  invasione,  ricominciarono  le  ostilità  fra 
di  loro  con  maggiore  accanimento  di  prima. 

Il  S5  di  giugno  Paolo  Vitelli  si  uni  al  conte  Rinuccio  di 
Marciano  sotto  Cascina;  la  quale  grossa  terra  fu  subito  battuta 
con  tanto  ardore  che  in  capo  a  ventisei  óre  dovette  capitolare.  Le 
deboli  guarnigioni  pisane  che  tuttavia  occupavano  la  Torre  di 
Foce  d'Arno  ed  il  ridotto  dello  Slagno  si  ritirarono  alla  prima 
intima  che  venne  loro  fatta;  onde  più  non  rimaneva  altro  ai  Pisani 
in  tutto  il  loro  territorio  che  la  fortezza  della  Verrucola  e  la 
piccola  torre  d' Ascagno.  Ma,  invece  di  assalire,  Paolo  Vitelli  cre- 
dette opportuna  r  occasione  di  cominciare  Tassodio  della  città 
medesima.  Il  primo  di  agosto  ei  venne  a  porre  il  suo  campo 
sotto  le  mura  di  Pisa,  conducendo  seco  tanta  cavalleria  che 
bastava  anche  sola  a  tenere  la  campagna,  una  formidabile  arti- 
glieria ediecimila  pedoni;  e  fece  assaporo  alla  Signoria  di  Firenze 
che,  secondo  ch'ei  si  apponeva.  Tassodio  non  poteva  durare  più 
di  quindici  giorni.  Le  mura  di  Pisa  non  erano  cerchiate  da  fòsse 
né  sostenute  da  terrapieni,  ma  tanta  era  la  grossezza  loro  e  la 
tenacità  del  cemento  che  ben  potevano  più  d'ogni  altra  mura- 


—  «24  — 

glia  resistere  ai  colpi  delle  artiglierìe.  I  Pisani  non  avevano  al 
loro  soldo  alcQQ  capitano  forastiere,  tranne  on  Garlino  Tom- 
basi,  valoroso  ufficiale  ravennate,  che  aveva  abbandonato,  per 
militare  in  loro  prò,  il  servizio  de'  Veneziani.  Ma  tatti  gli  éA- 
tanti  delia  citta ,  lutti  i  concittadini  che  vi  sì  erano  rìparati, 
agguerriti  ip  cinque  anni  di  continue  battaglie ,  potevano  pa- 
reggiarsi alle  migliori  troppe  assoldate. 

Il  Vitelli  aveva  collocato  i  suoi  accampamenti  alla  sinistra 
deirArho,  ed  appuntate  le  batterie  contro  il  muro  attiguo  alla 
torre  o  rócca  di  Stampace.  Accampandosi  sull'altra  riva,  egli 
avrebbe  più  efficacemente  prevenuto  Tarrìvo  di  ogni  rinforzo, 
ma,  nello  stato  in  cui  trovavasi  allora  Tltalia,  non  credeva  che 
veruna  potenza  pensasse  a  soccorrere  i  Pisani  e  sapeva  inoltre 
che  questi  dal  lato  di  Lucca  avevano  internamente  afforzate  le 
loro  mura,  lo  che  non  avevano  creduto  necessario  di  fare  dal 
lato  che  guarda  Livorno. 

Battuta  era  la  città  in  due  luoghi  ad  un  tempo ,  cioè  fra 
Sant'Antonio  e  Stampace,  e  fra  Stampace  e  la  porta  a  Mare, 
con  venti  pezzi  d'artiglieria.  Il  Vitelli ,  da  quel  fedele  osserva- 
tore che  era  dell'antica  tattica  italiana,  non  volendo  combattere 
senza  essere  sicuro  di  vincere ,  aveva  determinato  di  non  ve- 
nire all'assalto  finché  le  brecce  aperte  dalle  sue  artiglierìe  non 
offrissero  un  libero  passaggio  alle  sue  squadre.  Di  già  erano 
caduti  larghi  tratti  di  muro,  ma  egli  credeva  che  la  breccia  dod 
fosse  ancora  praticabile  ;  ed  intanto  i  suoi  indugi  davano  agio 
ai  Pisani  d'innalzare  dietro  la  muraglia  ch'egli  batteva  in  brec- 
cia un  gagliardo  parapetto ,  difeso  da  una  fossa.  L'ardore  dei 
Pisani  non  veniva  meno  per  alcun  perìcolo;  Farliglìeria  spazzava 
!  loro  lavori  senza  che  le  donne  o  i  fanciulli  deponessero  la 
zappa.  Narrasi  in  particolare  di  due  sorellef  che  lavoravano  io- 
sieme,  ed  una  delle  quali  fu  uccisa  da  una  palla  da  cannone  ; 
che  la  superstite,  raccolte  le  sparse  membra  della  sorella,  sep- 
pellivale  nello  stesso  gabbione  che  stava  riempiendo,  e,  nel- 
l'atto che  le  dava  colle  lagrime  e  coi  singhiozzi  l'estremo  addio, 
proseguiva  il  suo  lavoro,  esposta  al  fuoco  della  stessa  ba^tteria 
che  le  aveva  tolta  la  sua  compagna. 

Finalmente  le  mura  che  univano  la  torre  di  Stampace  alle 
fortificazioni  della  città  furono  atterrate  dall'una  banda  e  dal- 
l'altra di  quel  grande  torrione.  Il  conte  Rinuccio  era  stato  fe- 
rito in  una  scaramuccia;  e  Paolo  Vitelli,  rimasto  solo  al  comando 
dell'  esercito  assediante ,  deliberossi  il  decimo  giorno  dell'asse- 


4So  di  dire  rasallo  ilb  forre.  Questa  era  già  stata  ia  pia  ÌQo- 
.^^  mirata,  e  sebbene  i  Pisani  opponessero  ana  ostinata  resi* 
sterna,  i  Fiorentini  inalberarono  la  Knpo  bandiera  sulla  souimiti 
di  Stampace.  Nel  primo  terrore  cagionato  da  questo  a?veni« 
mento  credettero  i  Pisani  che  anche  la  citta  non  .'avesse  pid 
scampo.  Pietro  Gambacorti  fuggi  per  Popposta  parte  verso  Locca 
xon  quaranta  arcieri  a  cavallo  che  militavano  sotto  di  lui;  e  la 
-foardia  del  parapetto,  che  oramai  formava  la  sola  difesa  della 
città,  era  aUerrita  e  in  sul  punto  di  fuggire:  ma  il  Vitelli  aveva 
ordinato  soltanto  di  dare  l'assalto  alla  ròcca  e  non  alla  città. 
Era  cosa  troppo  contraria  airindole  sua  ed  alla  sua  pratica  mi* 
litare  il  porre  a  repentaglio  un  vantaggio  di  già  ottenuto,  vo* 
lendolo  spingere  più  oltre  e  coglierne  frutti  ch'ei  non  si  fosse 
da  prima  proposto- di  conseguire.  Temeva  oltraciò  di  venire 
accerchiato  in  una  città  difesa  da  una  valorosa  popolaiione,  e 
^ece  ritirare  tutti  i  suoi  soldati,  i  quali  domandavano  di  essere 
condotti  a  un  altro  assalto.  Per  la  quale  cosa  ei  perdette  ben- 
tosto per  sempre  la  propizia  occasione  cui  non  aveva  voluto 
•afferrare.  I  cittadini,  de' quali  un  grandissimo  numero  era  an- 
dato a  nascondersi  nelle  proprie  case,  furono  dalle  loro  mogli 
•confortati  a  tornare  contro  al  nemico,  e  accorsero  di  nuovo  a 
difendere  la  breccia  coraggiosamente.  Le  loro  artiglierie  furono 
Tòlte  dalle  vicine  mura  contro  gli  assalitori,  e  si  vide  che,  mal- 
.grado  la  presa  di  Stampace,  la  città  poteva  ancora  di  fondersi. 
Il  Vitelli  aveva  pensato  di  collocare  una  batteria  sopra  la 
stessa  torre  di  Stampace,  onde  signoreggiare  le  opere  degli  asse- 
diati; ma  la  torre,  di  già  roinata  dalle  brecce  fattevi  da  lui 
medesimo  ed  in  appresso  dai  Pisani,  non  fu  creduta  abbastanza 
iurte  per  sostenere  i  cannoni  che  di  già  vi  aveva  fatti  portare, 
intanto  egli  continuava  a  far  battere  in  breccia  le  mura  della 
•città,  e  già  la  breccia  aperta  era  larga  cinquanta  braccia  ch*egll 
'non  era  ancora  soddisfatto.  Non  voleva  il  Vitelli  che  l  suoi  sol- 
-dati  fossero  esposti  a  verun  pericolo,  o  piuttosto,  come  aperta- 
Kmente  e  concordemente  lo  dicevano  i  Fiorentini,  egli  non  voleva 
^prendere  la  città,  ma  desiderava  di  conservare  il  più  che  i)oteva 
^li  onori  e  i  vantaggi  del  comando,  di  rimanere  alla  condotl;i 
^  un  poderoso  esercito  per  offrire  il  suo  ajoto  al  miglior  offe* 
rente  tosto  che  le  rivoluzioni  di  Lombardia  inducessero  alcuna 
-delle  potenze  in  guerra  a  chiamare  un  nuovo  condottiere,  e  forse 
anco  di  ottenere  da'Pisani  un  grasso  guiderdone  per  la  sua  mo- 
4eraEione  o  la  sua  lentezza.  Ma  tali  ambiziosi  progetti  andarono 


—  626  — 

d  vQoto  per  colpa  tli  natarali  cagioni.  Nell'umido  saolo  del  piano 
di  Pisa  le  fòsse  sono  per  Tordinarìo  piene  di  acqaa  nella  mag-* 
gior  parie  delli  state;  ma  verso  la  metà  d'agosto  sono  asciugate 
dal  sole,  i  cui  raggi»  scaldando  la  putrida  melma,  ne  sollevano 
pestilenziali  esalazioni.  In  due  soli  giorni  la  metà  dell' esercito 
si  trovò  soprapresa  dalla  febbre  maremmana.  Paolo  Vitelli  aveva 
dato  avviso  che  il  giorno  23  d'agosto  darebbe  l'assalto:  la  brecci» 
era  praticabile,  ed  il  saccesso  sarebbe  stato  sicaro  s'egli  avesse 
potuto  far  muovere  un  sufficiente  numero  di  soldati  per  dare 
esecuzione  a'  suoi  progetti;  ma  i  suoi  ufficiali,  i  commissari  fio* 
rentini  all'esercito  ed  egli  medesimo  erano  tutti  presi  dalla  stessa 
malattia.  Frattanto  i  Fiorentini  diedero  ordine  di  far  giugnere 
al  campo  nuovi  rinforzi  per  porre  il  generale  in  istato  di  dare 
nello  stabilito  giorno  il  decisivo  assalto.  Ma  ogni  loro  diligenza 
tornò  vana;  il  numero  degli  ammalati  avanzava  sempre  quello 
dei  nuovi  venuti,  onde  il  Vitelli  trovavasi  sempre  più  inabile  a 
fare  uno  sforzo  vigoroso.  Dietro  alla  siccità  vennero  le  pioggie 
calde,  cbe,^  invece  di  purgare  l'aria,  accrebbero  la  mortalità.  Al- 
l'ultimo, perduta  ógni  speranza  di  buon  successo,  il  Vitelli  ab- 
bandonò l'assedio  e  condusse  l'esercito  a  Cascina.  Fece  imbar- 
care sull'Arno  la  sua  grossa  artiglieria  per  mandarla  a  Livorno, 
e  parte  di  essa  cadde  in  potere  dei  Pisani;  e  a  dispetto  delle 
fervide  istanze  de'commissari  fiorentini  abbandonò  la  torre  di 
Stampace,  dicendo  che,  trovandosi  così  maltrattata  dalle  proprie 
batterie,  ella  non  si  poteva  difendere  e  che  la  guarnigione  sa- 
rebbe tosto  falla  prigioniera  di  guerra. 

Quanto  era  stata  grande  la  fidanza  de' Fiorentini  in  Paolo 
Vitelli  e  nella  guerriera  sua  perizia,  tanto  maggiore  fu  il  loro 
sdegno  nel  vedere  il  mal  esilo  di  quella  impresa.  Credettero  essi 
che  gl'indugi  e  le  soverchie  precauzioni  del  generale  non  po- 
tessero essere  effetto  di  altro  che  di  perfidia.  Di  già  gli  rinfac- 
ciavano il  salvocondolto  conceduto  al  duca  d'Urbino  ed  a  Giu- 
liano de'Medici  per  uscire  di  Bibbiena  ;  avevano  pure  palesata 
molta  diffidenza  rispetto  agli  abboccamenti  avuti  dal  Vitelli  collo 
stesso  Giuliano  e  con  Piero  de'Medici,  sebbene  fossero  stati  te- 
nuti pubblicamente  al  cospetto  di  due  eserciti,  e  che  gli  uni 
stessero  sopra  la  destra,  gli  altri  sulla  sinistra  riva  delP Arno- 
Ma  dopo  quel  colloquio  il  Vitelli  aveva  fatti  dei  presenti  a'Me- 
dici;  aveva  tenuta  una  corrispondenza  quasi  egualmente  sospetta 
con  Pandolfo  Petrucci,  tiranno  di  Siena;  era  entrato  in  trattative 
con  Lodovico  Xll  per  condursi  a'di  lui  servigi;  e  tutto  il  coro- 


aOe  pk  fnii  mck».  A.^c«»if  »  li  \ìieìk  t^  Tiltn^  <d^toM 
ai  SOM»  ééTtamiat  il  cimiW  Kmkv^  di  ttwvinMk  #tNit%  ifisH^ 
■  TìÉBfe  à  art  sìr>?ttwwi}i»  mìIi>  te  W^  Ai^  iM^mi^ 

fmto  il  fiTore  dà  pì»»w  e  dei  ili$i>^i  del  SsjiwmmM^i  ^  i 
quali ,  zreoéù  perdalo  il  loro  mae$lr\^ .  ctHKiiniMtv^  ^  cnKli>K^ 
sofiplkìo,  colsero  fohmterafu  rocoskuie  iK  twdìiMir^  \^^U^^  M 
creaton  e  lo  straiDenlo  del  contrario  paHìUv 

Poi  ch'ette  condotto  reif^enrìto  a  t>$cìna«  rìchì^^  il  \  iu  Ili 
la  Signorìa  di  mandargli  sufficienti  rioK^ni  ^>nil«)  rhnmùìhixiv^ 
l'assedio  tosto  che  cessassero  le  i^H^ne.  1  Fum^ntini  k<i  iu«)uì>iim« 
no  di  fatti  soldatesche  notelle»  di  cui  potoY;ino  Adar^«  sotto  |tU  or« 
dini  di  due  nuovi  cominissari,  Antonio  CaiùiiiAui  o  Uncoto  M^r* 
telH,  ai  quali  i  decemviri  della  puorn^  ave^^no  itati  ^c^kivU  oinIihI* 
I  commissari  recaronsi  nella  rócca  di  Gascinsi.  |Hkil»  k\\(^\  \\\{^ 
glia  al  levante  di  Pisa  sulla  sinistra  deirArno»  dalla  qunlo  h^rca 
il  campo  del  Vitelli  era  lontano  un  mi|ilio«  1)1  ih  iu»hdnn>h(i 
invitando  il  generale  a  recarsi  da  loro:  od  eiilli  nulla  miMimllMudui 
T'andò  e  pranzò  con  loro.  Vitellozzo  Vitelli,  frnlollo  di  Vmìw.  ohtt 
pure  era  stato  invitato  allo  stesso  abboccamento,  non  vontio,  por 
«ssere  ammalato»  nel  campo.  Perciò  i  cominlisarl  apiMlIrotio  iil* 
coni  uomini  fidali  per  arrestarlo.  1)1  Klà  Vllelloxao  «<rfi  nImIo 
quetameote  posto  a  cavallo  e  veniva  condotto  iillii  vòllii  ili  Pi- 
scina, quando,  scontratosi  con  alcuni  du'sunl  nomini  d'iirinn, 
nno  di  loro  gli  porse  la  propria  lancia,  (^orlandolo  n  non  h\ 
lasciar  condurre  come  una  pecora  al  macello.  Vilnllnx)(o  In  \ìrm\ 
•e  Tadoperò  gagliardamente  per  liberarni.  (ili  arcieri  din  lo  ron- 
ducevano,  vedendo  i  soldati  dispoiiti  a  difonderir».  rion  (mnronn 
«provocarli  a  più  aperta  resistenza  e  lam'/larono  fiiKKlni  Vllnl* 
tozzo,  che  salvossi  in  Pisa,  dove  fu  accolto  c<»n  mimmo  Kinbilo, 
ixommissari  fiorentini,  cui  era  mal^;  rinHcKo  il  vàìÌihì  U^jiliUi 
xontro  di  lui,  fecero  arrestare  Paolo  Vitelli  e  lo  mandarofio  ^tr 
bito  a  Firenze,  ove  fu  immediatam^^nte  fKf<it/i  alla  t^irlor/i  \H^r 
cavargli  di  bocca  la  confesaione  fki  tradim^mU  cli^  ({It  nwr.inif 
imputati.  Non  eravi  contro  di  Ini  verrjria  prova  MiUuìUtt ,  nh 
«  prodoceva  veruna  carta  /la  lui  acritta,  tuì  ì  UpnmuU  /vh  /t((h 
.sostenne  con  maschia  costanza  wm  nìi  Atr;»pparon/>  M»  ttitt^'M 
alcnn  nuovo  argomento  di  rtità,  aleona  tAmi^^upM,  SffU  \n'.t' 
taùtù  egli  fu  r^ofiiarjrtato  a  r/i/^t/;,  ^^ /|ri/^  tfi$fUM  «/^ri/'r»//»  Iti 


—  518  — 

esegoita  la  mattina  del  sassegoente  gfiorDO,  primo  ottobre,  iO' 
ona  delle  sale  del  palazzo. 

In  forza  di  qoella  medesima  barbara  ginrisprudenn  che 
ammetteva  l'uso  della  tortura.  Paolo  Vitelli  avrd)be  dovoto  a?er 
salva  la  vita,  perchè  quest'odiosa  procedura  era  stata  appunto 
inventala  per  lo  motivo  che  credeasi  necessaria  la  confessione 
del  reo  aldi  lui  convincimento.  Le  opere  del  Vitelli  erano  invero 
sospette,  le  sue  segrete  relazioni  cogli  Orsini ,  amici  e  parenti 
dei  Medici,  dovevano  far  pensare  ch'ei  mirasse  come  loro  a  rista* 
bilire  i  Medici  in  Firenze.  Lettere  de*  suoi  segretari,  trovate  tra 
le  sue  carte,  non  lasciavano  vernn  dubbio  ch'ei  non  avesse  parte 
in  una  segreta  trama,  di  cui  non  si  giunse  tuttavia  a  conoscere 
Tobbietto.  La  prudenza  voleva  pertanto  che  gli  si  togliesse  il 
comando  incautamente  affidatogli,  ma  la  giustizia  comandava 
che  gli  si  lasciasse  la  vita,  poiché  non  era  convinto  di  verun 
delitto.  Il  supplizio  di  lui,  che  fu  altrettanto  impolitico  quanto 
crudele,  destò  ne'  signori  di  Città  di  Castello  un  fiero  desiderio 
di  vendetta  contro  Firenze,  di  cui  la  città  ebbe  a  sofifrire  finché 
si  resse  a  repubblica,  ed  inaspri  del  pari  tutti  i  generali  fran- 
cesi  che  avevano  militato  coi  fratelli  Vitelli  nella  guerra  di  Napoli 
e  che  li  stimavano  assai.  Ora,  mentre  che  tali  cose  accadevano 
in  Toscana,  in  Lombardia  erano  sopragiunti  tali  avvenimenti  che 
dovevano  indurre  a  forza  i  j^iccoli  Stati  d'Italia  ad  accarezzare 
il  re  e  Tesercito  francese. 

Nel  tempo  appunto  che  la  Repubblica  di  Venezia  si  com- 
prometteva neirarbitrio  del  duca  di  Ferrara  per  le  sue  contese 
con  Firenze  e  richiamava  le  sue  schiere  dalla  Toscana,  il  Senato 
conchiudeva  con  Lodovico  XII  un  assai  più  importante  trattato 
e  s'impegnava  in  un'alleanza  che  sembrava  smentire  l'antica 
sua  riputazione  di  prudenza  e  di  moderazione.  Il  trattato  tra 
la  Repubblica  di  Venezia  e  Lodovico  XII  fu  sottoscritto  il  9  di 
febbrajo  1499,  ma  per  tre  mesi  fu  tenuto  nascosto  in  modo  che 
delusi  tornarono  i  sospetti  di  Lodovico  il  Moro  e  di  tutta  Italia» 
e  quando  fu  pubblicato  portava  la  data  di  Blois  del  15  di  aprile. 
Con  questo  trattato  i  Veneziani  riconoscevano  i  dv*itti  di  Lodo- 
vico XII  sul  ducato  di  Milano  e  si  obbligavano  a  concorrere 
colle  loro  forze  a  spalleggiare  la  conquista  di  quello  Stato.  Si 
obbligavano  perciò  a  somministrare  al  re  millecinquecento  ca- 
valli e  quattromila  pedoni,  che  dovevano  essere  spesati  dal  re, 
e  promettevano  d'assalire  il  ducato  di  Milano  ai;  confini  verso 
levante  nello  stesso  tempo  in  cui  l'esercito  francese  l'attaccbe- 


\ 


—  av- 
rebbe dal  bto  d'oGddente.  In  rìcompen$:ì  di  qoesl'ajulo  Lodo 
▼ico  XII  loro  cedeva  Cremona  e  la  Chiara  d'Adda  fino  alla 
Stanai  di  ottanta  piedi  dal  Bume  di  tal  nome:  e  i  due  Stati 
si  promelteTano  la  ficendevole  goarenaia  di  tali  possedimenti, 
difisi  prima  di  conquistarli. 

Senza  avere  amta  diretta  notizia  di  questo  trattato.  Lodo* 
tìco  il  Moro  non  ignorava  quanto  i  Veneziani  Tediassero  e  con 
quanta  operosità  Lodovico  Xll  si  apparecchiasse  a  muovergli 
guerra;  onde  dal  canto  suo  cercava  di  afforursi  con  nuove 
alleanze.  Lo  Sforza  aveva  particolarmente  riposta  ogni  sua  fldu« 
da  neiralleanza  di  Massimiliano,  che  aveva  sposata  Bianca,  ni« 
potè  di  lui,  e  che  in  ricompensa  delle  sue  proteste  di  affetto  e 
promesse  di  protezione  si  faceva  continuamente  dare  in  prostilo 
danaro.  Massimiliano  nudriva  contro  i  Francesi  Aero  astio,  e 
sempre  pronto  a  scoppiare;  egli  voleva  far  rivivere  sulle  prò- 
yincie  venete  e  su  tutta  F  Italia  1  diritti  deir  impero,  da  più 
secoli  dimenticati.  Pareva  pertanto  che  i  suoi  interessi  o  le  sue 
passioni  dovessero  indurlo  a  difendere  Lodovico  il  Moro:  ma 
non  sì  poteva  fare  maggior  capitale  delle  suo  promesse;  con* 
ciossiachè ,  non  prendendo  consiglio  che  dalle  presenti  cÌrco« 
stanze,  egli  si  riduceva  quasi  sempre  a  fare  quello  che  non 
aveva  voluto.  Erasi  Massimiliano  obbligato  verso  Lodovico  il 
Moro  a  non  venire  a  trattati  colla  Francia  senza  comprender- 
velo,  e  tuttavia  si  era  indotto  a  prolungare  Quo  alla  (Ine  d*agosto 
la  tregua  che  aveva  fatta  con  Lodovico  Xll,  senza  far  parola  al 
duca  di  Milano.  Intanto  egli  faceva  la  guerra  nella  Gholdrla;  in» 
essendo  insorta  in  sul  finire  di  febbraio  qualclio  ostiliUi  tra  i 
suoi  sudditi  e'gli  Svizzeri  ne'  paesi  posti  alle  sorgenti  del  Reno, 
la  lega  di  Svevia  prese  a  difendere  i  possedimenti  austriaci,  e 
Massimiliano  vi  si  recò  immantinenti  per  capitanare  le  sue  genti. 
E  fatta  dichiarar  guerra  dall'Impero  contro  gli  Svizzeri,  entrò 
nel  paese  di  questi  di  lunga  mano  maggiori,  e  non  portante) 
venne  respinto;  cosicché  senza  poter  venire  a  campale  gior- 
nata vide  le  sue  truppe  struggersi  in  sanguinose  8caramuc(U3. 
Assicurasi  che  perirono  ventimila  uomini  in  quella  breve  guerro» 
e  che  un  numero  ancor  maggiore  peri  di  fame  e  di  stento.  Mas- 
similiano, che  si  era  impegnato  in  questa  lite  plult(iKto  per  ira 
0  per  orgoglio,  che  per  politica,  faceva  ardere  le  case,  le  capanne, 
i  granai,  i  villaggi,  lusingandosi  di  far  perire  di  fame,  in  mezz/» 
ai  loro  ghiacci  ed  alle  loro  rupi,  i  conta<llni  ette  non  aveva  \fOUìUf 
raggiungere.  Ma  cotali  atti  di  ferocia  producevano  orribili  rafn 

Tamb.  InquU.  Voi.  FI.  67 


—  850  — 

presaglie,  e  Lodovico  Sforza,  vedendolo  struggere  tatto  le  sue 
forze  contro  gli  Svizzeri,  nulla  da  lui  poteva  sperare. 

Lodovico  il  Moro  aveva  pure  chiesto  ajuto  a  BaiaAtte  II, 
imperatore  de'  Turchi,  9I  quale  oggetto  aveva  mandato  a  Costan- 
tinopoli due  suoi  segretari  per  rappresentare  al  sultano  che 
Lodovico  XII  rinnovellava  4  progetti  di  conquiste  del  suo  pre- 
decessore e  minacciava  l'Impero  d'Oriente,  che,  essendosi  colle- 
gato coi  Veneziani,  aveva  maggiori  mezzi  di  nuocere  alla  Porta 
Ottomana  che  non  avesse  avuto  Carlo  VHI;  che  perciò  era  d*uopo 
prevenire  le  sue  offese  coirassalire  i  Veneziani,  e  che  i  Turchi 
salverebbero  la  Grecia  assaltando  Tltaiia.  Federico  di  Napoli 
spalleggiò  a  tutto  suo  potere  le  richieste  degFinviati  di  Lodo- 
vico Sforza  ;  onde  Baiazette,  cedendo  alle  loro  istanze,  comandò 
ai  suoi  bassa  di  assaltare  i  Veneziani  nel  Peloponneso,  nella 
Macedonia  e  neiristria. 

Di  fatti  in  ottobre  del  1 499  Scander  bassa,  governatore  della 
Bosnia,  entrò  nel  Friuli  colla  sua  cavalleria  e  tutto  1q  saccheg- 
giò fino  alla  Livenza,  distruggendo  e  bruciando  tutte  le  ricchezze 
del  paese  che  scorreva.  Nel  ritorno  da  questa  scorreria  ei  si 
menava  dietro  gran  numero  di  schiavi;  ma,  giunto  in  sulle  rive 
del  Tagliamento,  gli  parve  mal  fatto  d'impacciare  la  sua  armata 
con  tanta  gente,  e  fatta  la  scelta  di  coloro  che  potevano  essere 
più  utili,  fece  uccidere  tutti  gli  altri. 

Sebbene  i  re  di  Spagna  non  avessero  quasi  per  nulla  preso 
parte  nella  guerra  contro  Carlo  Vili,  contutlociò  essi  erano 
entrati  nella  precedente  lega  d'Italia  ;  ma  il  duca  di  Milano  più 
non  poteva  porre  in  loro  veruna  fidanza,  avendo  essi  rinunciato 
ai  precedenti  loro  obblighi,  ed  avendo,  col  trattato  conchiuso  da 
Ferdinando  e  da  Isabella  con  Lodovico  XII  a  Marcussi  il  8  ago- 
sto del  1498,  nominato  tra  gli  alleati  cui  si  riservavano  la  fa- 
coltà di  difendere  contro  la  Francia  soltanto  Timperatore,  l'arci- 
duca suo  figlio,  il  duca  di  Lorena  e  il  re  d'Inghilterra,  senza 
aver  fatto  questa  riserva  a  favore  di  alcuno  de'principi  d'Italia. 

11  papa  aveva  dato  gualche  speranza  a  Lodovico  il  Moro: 
perciocché  ambiva  sopraiutto  di  ottenere  in  isposa  al  proprio 
figliuolo,  Cesare  Borgia,  una  principessa  di  sangue  reale,  ed 
aveva  posto  gli  occhi  sopra  Carlotta,  figliuola  di  Federico,  re  di 
Napoli.  Lodovico  il  Moro  era  stato  incaricato  da  lui  a  negoziare 
questo  matrimonio,  che  doveva  essere  caparra  di  una  stretta 
alleanza  tra  il  papa,  il  re  di  Napoli  e  il  duca  di  Milano.  Ma  e 
Federico  e  Carlotta,  di  lui  figliuola,  sentivano  pel  prete  apostata, 


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Quii  TÀj*  7r:ii3Hi;ifrr^  :.  ji-jl  ,vrx^*  a  .4/  j\\  ^^  ^svv  ^l    /  ^^«^ 
tira  iii^  rilavili:  ri:Ci;rA  .u  *.:  >i*^"v,*  a%  u"  ,fe  r.^^s** 

si  perie.ìe  J^ciniv^:  :\xfntì<v  .ìiìij^hìUnwov.k^  .;  oaxUvU,\^<^  \,ku  .^ 
.\DDOQe«  (oeo  L»D;jao  lU  Astk  \\muo  )Mux^  \uv>vM\^)in  0  \^^\  \\^\ 
e*  per  far  testa  ai  Fnnctv^i  oho  \\\ltv<.viM  \U\  VwiWs^wU^  w  \\\\ 
Monferrato  penetrare  in  UmiìIvii\ìi;i»  «ì)Hhvì|\N  nu  «)uo«SMU(tU  ma 
leaszo  da  Sanseverino«  cui  itiiHio  siMconlo  uoiuhu  «I.uhus  \\\\\\\\ 
cinquecento  cavallo^i^ìeri.  «UtviuiìLi  bull  Ihll.uii  0  iiutiut^tMilo 
tedeschi,  perciocché,  a  cagiono  ilolla  kH'^i'i**^  Ii«^  I'^  l<*ii<^  t\\^\*\  t^ 
gli  Svizzeri,  non  aveva  [HUuto  iissitMiuo  ihv-imo  ili  i|uo ili  \\\*\\\ 
giore  quantità  di  gente.  I^ivisuvu  li»  Moi«<i  ili  ii|i|iimio  ni  \\\\u\ 
ziani  il  marchese  di  Mantova  rou  un  ullin  imom  Un.  im«i  ilnntllh 
scontentare  il  marclieso  pnr  far  r.oi.i  kiiiIìi  11  UiiIimi^am  rtuihiiHo 
rino»  la  cui  boria  non  polita  HolTrlriMliM  hmnovi  mi  ulln»  iii<imi 
rale  di  maggior  grado  d<*l  muo;  ondo,  11  motivo  ih  I  illiolo  «IkI 
Gonzaga,   diede  quciros<imlo  al  muUs  di  ^iriin/Ao    Illudi    |m*i 
cosa  certa  che  un  servitoro  f(;d«tlo  avvU/'f  li^idovlLo  II  Mom  ilo* 
quel  Galeazzo  di  Sans<;vcriiio  citi  Avitv.MiJlMiii'MoI  mfO'Of'lo  d) 
tutte  le  sue  forze  h  quanti  ais»iolola  aol^iiHiii  lo  ìin»Ui'i    l<odo 
vico  dopo  avere  alcun  Utuiint  it*iwU'iAt  ^XìwUm  »Ui  ^M  ^t  '«d 
dita  vano  di  tiiie  perfidia,  rup'/^'.  ^/.^pif'iod'/  '  li«^   hhh    ifhihi*à 
credere  a  UnU  tuyrhUUyhUK  <;  '/h",  qo^od 'io>Jiì:  )  w^'o^'^  ^/^>^^' 
Tera,  ei  ijvfj  -^'/iti/i^:  *//.ikh  nuè^'/h'**  n  ,  r/ij/^'iMv'-^  J;4  10  '|o  J^. 

ctie  h^  •!>»<  v^Ittóii  ';.  /^5f>i;?;*y#  t  i-,  ìja»  »//!<#-/»*  «y-^  i^  vjaa/.v-. 
rajTxy..lL;^'^   .*.  *:x»^?^  t/4./*v^  W     v'^*v.  q'/*'.W  ìì  v/um*   #. 


-532  — 

Lodovico  Sforza  aveva  raccomandato  a'saoi  generali  di 
schivare  ogni  baltaglìa  campale,  di  chiodersi  nelle  fortezze  e  di 
condurre  la  guerra  in  lungo  per  dar  tempo  a  Galeazzo  Visconti» 
suo  inviato  agli  Svizzeri,  di  negoziare  un  trattalo  di  pace  tra 
Massimiliano  ed  i  Cantoni,  e  di  condurre  a'suoi  servigi  quelle 
schiere  che  si  andavano  consumando  in  una  guerra  impolitica. 
Infatti  il  Sanseverìno  non  si  mosse  contro  i  Francesi,  che  fa- 
ceano  la  massa  di  loro  forze  in  Piemonte,  ed  aspettò  d'essere 
assalito.  Le  truppe  di  Lodovico  Xil  valicavano  le  Alpi  sotto  gli 
ordini  di  Gian  Giacomo  Trivulzio,  di  Lodovico  di  Lussemburgo, 
conte  di  Ugni,  e  di  Everardo  Stuardo,  signore  d'Aubigni,  i  quali 
conducevano  in  tutto  mille  e  seicento  lance,  ossia  novemila  e 
seicento  cavalli,  cinquemila  svizzeri,  quattromila  Guaschi  e  quat- 
tromila venturieri  levati  nelle  altre  Provincie  della  Francia.  Lo- 
dovico XII  era  rimasto  a  Lione,  di  dove  regolava  le  mosse  dei 
suoi  generali  e  provvedeva  a' rinforzi  che  loro  abbisognavano. 

L'esercito  francese,  essendosi  finalmente  tutto  rannate,  as- 
saltò il  13  agosto  del  1499  la  ròcca  d'Arazzo,  posta  in  riva  al 
Tanaro  dirimpetto  ad  Annone.  Sebbene  difesa  da  cinquecento 
pedoni ,  questa  fortezza  fu  vilmente  ceduta  ai  primi  colpi  di 
cannone,  e  subito  dopo  i  Francesi  mossero  ad  espugnare  An- 
none. Questa  grossa  terra  era  stata  diligentemente  fortificata 
da  Lodovico  Sforza,  ma  i  settecento  uomini  postivi  di  guarni- 
gione erano  fresche  reclute,  e  quando  ai  Sanseverìno  vedne 
in  pensiero  di  mandarvi  qualche  rinforzo  più  non  era  in  tempo. 
La  breccia  fu  aperta  il  secondo  giorno  ;  Annone  fu  preso  d'as- 
salto, e  passata  a  fil  di  spada  tutta  la  guarnigione.  Allora  i 
Francesi  si  allargarono  per  tutto  il  paese  d'oltre  Pò.  Il  Trivulzio 
dava  ai  popoli  in  loro  nome  le  più  larghe  speranze;  i  soldati 
italiani  non  ardivano  di  venire  alle  mani  con  quelle  barbare 
soldatesche,  ed  i  borghesi  temevano  la  sorte  degli  abitanti  di 
Annone;  perciò  Valenza,  Bassignana,  Voghera,  Castel  Nuovo, 
Ponte  Corone  ed  all'ultimo  Tortona  colla  sua  ròcca  premuro- 
samente aprirono  ai  Francesi  le  loro  porte. 

Il  popolo  di  Milano  soffriva  di  mal  animo  la  signorìa  di 
Lodovico  Sforza  ;  lagnavasi  delie  eccessive  imposte  ond'era  ag- 
gravato; derìdeva  l'orgoglio  del  duca  ed  abborriva  la  politica 
imprudente  e  perfida  di  lui,  tacciava  Lodovico  di  usurpatore  e 
sospettavalo  d'aver  avvelenato  il  proprio  nipote;  Io  esecrava 
imperciocché  proteggeva  il  Sant'Uffizio  e  sotto  di  lui  erano  stali 
arsi  molti  innocenti,  vittime  del  fanatismo  e  dell'intolleranza. 


Qoindi  appena  il  Moro  vide  a  vacillare  la  propria  potenza  per 
le  rapide  conqaisle  deTrancesi,  tentò  di  riacquistare  Taora 
popolare,  onde  avere  i  sadditi  in  sua  difesa.  Adunò  on  consi- 
glio, al  quale  chiamò  tolti  i  personaggi  [nù  ragguardevoli  di 
Milano  per  nobiltà,  per  ricchezze  o  per  riputazione.  Espose  loro 
il  suo  operato  e  la  necessità  in  cui  erasi  trovato  di  mantenere 
molte  truppe»  di  pagare  sussidi!  a  straniere  potenze,  e  perciò 
4i  levare  grosse  imposte  per  allontanare  la  guerra  dai  confluì 
dello  Stato.  Ricordò  che  in  tutto  il  tempo  del  suo  governo  i 
Milanesi  mai  non  avevano  veduti  soldati  forastieri  ;  che  se  Tim- 
perio  suo  era  stato  grave  al  popolo  a  motivo  delle  imposte,  non 
gii  si  potea  con  tutto  ciò  rimproverare  ingiustizia  o  iniquità  ; 
eh'egli  aveva  sempre  lasciato  libero  accesso  appo  di  sé  a'suoi 
sudditi  ;  che  mai  non  aveva  trascurate  le  cure  e  le  fatiche  dei 
governo  per  darsi  in  preda  ai  piiceri;  che  non  gli  si  poteva 
rìnfocciare  crudeltà,  e  che  non  oravi  signore  in  Italia  che  si 
fosse  al  pari  di  lui  trattenuto  dai  supplizi  q  dal  sangue.  Eccitò, 
per  ultimo,  i  Milanesi  a  paragonare  la  mitezza  ed  indulgenza 
sua  ai  governi  che  dovevano  aspettarsi  dai  Francesi,  popolo 
estraneo  di  costumanze  e  di  lingua,  orgoglioso  e  sempre  dispo- 
sto  a  sprezzare  e  ad  opprimere  la  nazione  italiana;  e  disse  ioro 
che  non  abbisognava  altro  che  opporre  un  poco  di  fermezza  e 
di  costanza  al  primo  ìmpeto  del  nemico,  perchè  i  soccorsi  del 
re  di  Napoli,  dell'imperatore  e  degli  Svizzeri  non  tarderebbero. 
Ma  questi  ragionamenti  sollevavano  assai  poco  gii  animi  di 
un  popolo  sbalordito  ed  intimidito,  il  quale  andava  cercando  uu 
pretesto  per  cedere  al  terrore,  dimostrandosi  oppresso  e  mal- 
contento. Lo  Sforza  aveva  fatto  fare  in  Milano  il  censo  di  tutti 
gli  uomini  atti  alle  armi;  aveva  in  pari  tempo  al)olite  alcune, 
delle  più  odiose  imposte,  ma  non  altro  si  ravvisava  m  queste 
por  troppo  tarde  provvidenze  che  il  suo  terrore  e  la  sua  de- 
bolezza.  Quantunque  i  Veneziani,  i  quali  avevanlo  assalito  in 
pari  tempo  che  i  Francesi,  si  fossero  di  già  impadroniti  di  Ca- 
ravaggio, egli  richiamò  il  conte  di  Gaiazzo,  destinato  a  far  loro 
testai  ed  inviollo  a  Paviaj  perchè  si  unisse  poi  a  Galeazzo,  fra- 
tello di  lui,  presso  Alessandria.  Ma  questo  fratello  del  conte» 
questo  favorito  e  genero  di  Lodovico  il  Moro,  guesto  Galeazzo 
di  Sanseverino,  che  aveva  opinione  d'essere  gran  guerriero  per- 
che palleggiava  con  garbo  la  lancia  ne'tomei  e  vinceva  in  si- 
molate  battaglie,  era  di  già  stato  segretamente  corrotto  dai 
Francesi  Tre  giorni  dopo  t'arrivo  di  questi  presso  Alessandria, 


—  «54  — 

egli  abbaDdoQò  vilmente  nella  notte  del  25  di  agosto  il  propria 
esercito,  ch'era  tuttavia  numeroso  di  milledugento  uomini  d'arme» 
di  altrettanti  cavalleggeri  e  di  tremila  fanti.  Lucio  Malvezzi  gli 
fu  compagno  nella  fuga;  ed  in  breve»  essendosi  in  Alessandria 
sparsa  la  voce  della  loro  codardia»  più  ad  altro  i  soldati  non 
pensarono  che  a  fuggire  o  a  nascondersi»  e  tutto  Tesercito  si 
disperse. 

I  Francesi  entrarono  in  Alessandria  nella  susseguente  mat- 
tina» svaligiarono  i  soldati  italiani  che  non  erano  fuggiti  e  die- 
dero il  sacco  alla  città.  Frattanto  il  Sanseverino»  per  purgarsi 
del  fallo»  spargeva  voce  d'avere  avuti  incalzantissimi  ordini  da 
Lodovico  il  Moro  di  tornare  a  Milano.  Credettero  alcuni  le  let- 
tere da  lui  citate  fossero  state  falsificate  da  suo  fratello»  il  conte 
Caiazzo»  e  neiruniversale  disordine  non  fu  possibile  di  ricono- 
scere se  Galeazzo  fosse  perfido  o  ingannato:  onde  Lodovico  il 
Moro  non  Io  privò  delle  cariche.  Intanto  i  Francesi»  avendo 
passato  il  Po,  assaltarono  Mortara  ed  ottennero  a  patti  Pavia 
prima  di  giugnere  alle  sue  porte.  In  pari  tempo  i  Veneziani 
s'erano  impadroniti  della  fortezza  di  Caravaggio»  ed  i  loro  avam- 
posti stendevansi  fino  a  Lodi.  Tutte  le  città  della  Lombardia 
erano  in  grandissimo  fermento»  e  nella  stessa  Milano  il  popolo 
già  sollevato  uccise  di  bel  meriggio  un  Antonio  Landriano»  te- 
soriere del  duca,  nell'atto  che  usciva  dal  castello.  Conoscendo 
lo  Sforza  Timpossibilità  di  sostenersi  più  oltre»  fece  partire  i 
figlinoli  alla  vòlta  della  Germania  sotto  la  custodia  di  suo  fra- 
tello, il  cardinale  Ascanio»  colle  reliquie  del  suo  erario,  ridoile 
in  allora  a  duemila  e  quattrocento  ducati;  pose  in  libertà  Fran- 
cesco Sforza»  figliuolo  di  Giovan  Galeazzo,  suo  nipote  e  suo  pre- 
decessore, e  lo  consegnò  alla  madre.  Isabella  d'Aragona»  esor- 
tandola tuttavia  a  porlo  in  salvo  dalla  gelosa  diffidenza  di  Lo- 
dovico XII.  Isabella  non  credette  a  questa  pur  troppo  tarda 
prova  di  afTetto,  perciocché  temeva  il  Moro  assai  più  che  i  ne- 
mici di  lui,  e  in  vece  di  ritirarsi  in  Germania  volle  aspettare 
i  Francesi  per  porre  nelle  loro  mani  il  suo  figliuolo;  ma  questi 
vindici  da  lei  invocati  mostraronsi  inverso  di  lei  ancora  più 
crudeli  di  quel  che  fosse  stato  l'usurpatore  dal  quale  godeva  di 
essere  liberata. 

Provvide  quindi  Lodovico  Sforza  il  castello  di  Milano»  che 
in  allóra  veniva  risguardato  come  inespugnabile»  di  viveri  e  di 
munizioni  da  guerra  bastanti  per  sostenere  un  lungo  assedio,  e 
vi  pose  di  guarnigione  tremila  fanti»  sotto  il  comando  d'ufficiali 


di  Mi  «di  con  eirami  dìlignsu  ai  quii  |M|wi^  m  Air* 
nrtBo  Gorle,  nalm  ai  hrii  ^  di  M  è(hiai«v  «n  0m  tMiDi 
fede  awi  posto  die  lo  anUfiasie  il  prapm  fnitoi)()  A^v^im^  li 
qnle  wtontirimeBte  si  cAìtì  pmio  a  clmd^t^  ne)  cJMdle^ 
E  dito  a  fowDodi  Gaovi  id  A|k>2<md  <d  i  Gìothhyiì  A^Wikk 
e  ooDoetole  molle  gruìe  «i  priiid|nli  ^HilUiKmìm  iti  Mitom^ 
il  8  di  settembre  wd  dai  suo  ecidio  cdU  $»!ff«i  di  hm  pic«^ 
ccria  schiera  A  soldati,  oomandm  di  Gateiuo  di  SinsovmM 
e  da  Lodo  MilTeazi,  e  si  ariìò  per  I)  Tìa  detti  ViitHiini  in 
Germania.  Ms  doo  en  appoa  nsdlo  di  MìUno  che  ^li  si  ic> 
«ostò  II  coole  di  Guano  per  dirfii  che,  abbini)o»iiHt(>  fgli  i 
suoi  Stali,  TeoìTa  eoo  dò  a  sdofrtiete  i  suoi  solditi  dil  (tiufi- 
mento  di  fedeltà  e  li  lasdaTi  liberi  di  provvedere  come  meglio 
toro  tornasse  alla  propria  sìcorena  ;  dopo  di  che,  aitilo  le  in^ 
s^ne  di  Francia,  colla  troppa  formata  a  spese  del  duci  di  Mi* 
lano,  tenne  dietro  il  pnndpe  come  nemico  AncM  questi  si 
trovò  foori  dei  snoi  Stati.  Lo  Sfona,  giunto  a  Como»  s'uubaroù 
sol  lago  alia  volta  di  Bellagio,  donde  recossi  a  Bormio  ed  in 
appresso  ad  Insprack. 

I  Francesi  celeremente  innoltravansi  per  approfUlare  detti 
sollevazione  della  Lombardia  e  del  terrore  della  famiglia  Sforai. 
Sei  miglia  distante  da  Milano  incontrarono  i  deputali  di  quelli 
dttà  che  venivano  ad  offrirne  loro  lo  chiavi,  colla  riserva  per 
altro  di  capitolare  coi  re  medesimo  quando  verreblH)  a  prendere 
il  possesso  dei  suoi  Slad.  Cremona,  di  già  assediabi  da'Vene- 
zianì,  chiese  di  arrendersi  a]  Francesi;  ma  questi  rlnvlanino  i 
deputati  della  città  ai  generali  della  Repubblica.  Uenovii  si  arreso 
colla  medesima  facilità,  e  gli  Adorni  e  Giovan  Luigi  dui  Flesco 
fecevano  a  gara  nel  mostrarsi  più  afllBzionatl  alla  Fruncl».  AIKul- 
timo  il  comandante  del  castello  di  Milano,  eletto  dallo  Hlora» 
fra  tutti  i  suoi  più  affezionati  per  afildirgli  una  (orteiza  di 
tanto  rilievo,  non  aspettò  pure  il  primo  coI|k>  di  cannone,  e 
la  cedette  ai  nemici  per  una  grossa  somma  di  danaro  diNllci 
giorni  dopo  il  loro  arrivo:  ma  in  appresso  qoo'modesiml  cIim  lo 
ivevàno  corrotto  l'ebbero  in  tanto  disprezzo  che,  s^iatonoro 
non  potendo  tanta  infamia,  mori  disperato  In  capo  a  pfirJii 
a^rni. 

La  conquista  del  ducato  da  Milano  erasi  operala  dal  Fran- 
cesi in  venti  giorni,  il  popolo,  stracco  del  gwerno  cui  ^ra 
stato  fin  allora  sottomesso,  erasi  volontariamente  mMù\ffìnUì  al 
pogo  degli  stranieri.  Lodovico  XII  appena  ebbe  avviso  deirae- 


—  556  — 

eoglimento  fatto  a'  saoi  capitani,  che  si  afifrettò  di  scendere  io 
Italia  per  prendere  possesso  dei  saoi  nuovi  acquisti.  Sparsisi 
la  nuova  del  suo  imminente  arrivo,  tutti  gli  ordini  de'  cittadini 
si  portarono  per  riceverlo  tre  miglia  fuori  di  Milano.  Egli  entrò 
nella  capitale  preceduto  da  quaranta  fanciulli  vestiti  di  drappi 
di  seta  e  d'oro,  i  quali  cantavano  inni  in  onor  suo  e  chia* 
mavanlo  il  gran  re»  il  liberatore  della  patria.  I  senatori,  i  gio- 
dici ,  i  chierici ,  i  nobili ,  i  mercadanti ,  tutti  gareggiavano  in 
far(?li  corona,  come  se  recasse  alia  loro  patria  la  pace  e  la  li- 
bertà. 

Il  primo  pensiero  di  Lodovico  fu  quello  di  assicurarsi  la 
signoria  de' suoi  nuovi  possedimenti,  facendo  trattati  cogli  Stali 
d'Italia  suoi  vicini.  Gli  ambasciadori  dì  tutti  i  prìncipi  d'Italia 
trovavansi  già  in  Milano,  a  riserva  di  quello  del  re  di  Napoli, 
don  Federico.  Lodovico  XII  accolse  con  dimostrazioni  di  singo- 
iar favore  il  marchese  di  Mantova,  cui  tenevasi  obbligato  per- 
chè egli  non  aveva  preso  servigio  sotto  Lodovico  Sforza;  ma  non 
volle  promettere  protezione  né  al  duca  di  Ferrara  né  a  Gio- 
vanni Bentivoglio,  signore  di  Bologna ,  se  non  mercè  un  pre- 
sente di  ragguardevoli  somme,  come  compenso  del  favore  che 
essi  mostrato  avevano  verso  il  Moro.  Accolse  ancora,  piii  aspra- 
mente gli  ambasciatori  di  Firenze.  Tutti  i  cnpitani  del  suo  eser- 
cito accusavano  quella  Repubblica  d'aver  fatto  ingiustamente 
perire  Paolo  Vitelli ,  che  aveva  con  loro  militato  nel  regno  di 
Napoli  ed  era  stato  da  loro  stimato  ed  amato.  Altronde  i  Fran- 
cesi non  avevano  dimenticata  l'antica  parzialità  per  i  Pisani , 
che  loro  parvero  meritevoli  di  maggiore  slima  dopo  la  generosa 
fatta  resistenza  ed  obliato  avevano  invece  i  lunghi  servigi  e 
l'antica  alleanza  de'  Fiorentini  per  non  ricordarsi  di  altro  che 
della  fresca  loro  alleanza  con  Lodovico  Sforza.  Alfultimo,  il  re 
acconsenti  a  stento  a  rinnovare  l'alleanza  fra  i  due  Stati.  Pro- 
metteva che,  venendo  assaliti  i  Fiorentini ,  ei  li  difenderebbe 
con  seicento  lance  e  con  quattromila  fanti  ;  ed  i  Fiorentini  si 
obbligavano  a  guarentire  gli  Siali  del  re  in  Italia  con  quattro- 
cento lance  e  tremila  fanti.  Firenze  prometteva  inoltre  di  dare  al 
re  nltre  cinquecento  lance  e  cinquantamila  ducati  per  l'impresa 
di  Napoli  ;  ma  ciò  soltanto  dopo  che  avrebbe  ricuperata  Pisa. 
A  tali  condizioni  il  re  obbligavasi  d'ajutare  la  Repubblica  a  riac- 
quistare Pisa  e  Montepulciano. 

Lodovico  XII  si  trattenne  in  Milano  per  poche  setlimaDe, 
ma  in  quel  breve  spazio  di  tempo  lutto  perdette  quel  favore 


—  «37  — 

popolare  mercè  del  quale  aveva  otteDuto  il  dominio  della  Lom- 
bardia. I  partigiani  della  Francia,  per  amicarsi  il  popolo  >  ave- 
vano sparsa  voce  che  il  re  era  bastantemente  ricco  per  abolire 
totle  le  imposte,  o  almeno  per  ridurle  a  qael  tanto  che  si  pa- 
gava ai  tempi  de'  Visconti.  Infatti  Lodovico  XII  concedette  a 
tale  proposito  alcune  grazie  ai  nuovi  sudditi,  ma  queste  furono 
minori  di  tanto  delle  imprudenti  speranze  loro  date,  che  il  mal- 
contento fu  così  generale  quanto  fallace  era  stata  la  speranza. 
Altronde  Gian  Giacomo  Trivulzio,  che  il  re,  partendo,  aveva 
nominato  suo  luogotenente  nel  ducato  di  Milano,  era  piuttosto 
fatto  per  conquistare  un  nuovo  Stato  che  per  conservarlo.  11 
Trìvulzio  era  capo  del  partito  guelfo  e  non  seppe  dimenticare 
questa  parzialità  nel  punto  in  cui  avrebbe  dovuto  pensare  sol- 
tanto a  governare  con  eguale  giustizia  le  due  fazioni  ed  a  rap- 
pattumarle runa  coirallra.  I  nobili  ghibellini  il  risguardavano 
come  un  capo  di  faziosi ,  ed  i  cittadini  come  un  soldato  che 
diportavasi  in  una  grande  città  colla  rozzezza  e  colla  ferocia 
degli  accampamenti  Imperciocché  avevanlo  veduto  uccidere  colle 
proprie  mani  alcuni  beccai ,  sulla  piazza  del  Mercato ,  perchè 
ricusavano  di  pagar  la  gabella  ;  erano  tanto  arbitrari  ed  arro- 
ganti i  suoi  modi,  che  in  breve  fece  odiare  da  tutti  e  sé  mede- 
simo e  il  principe  cui  serviva. 

Intanto  Lodovico  il  Moro  ed  il  cardinale  Àscanio,  giunti  alla 
corte  di  Massimiliano,  l'avevano  trovato  rappacificato  cogli  Sviz- 
zeri. I  due  profughi  furono  da  lui  accolli  con  quella  onestà  che 
meritava  il  loro  infortunio  ed  ottennero  quelle  larghe  promesse 
di  soccorsi  delle  quali  Massimiliano  era  cosi  prodigo.  Ma  questo 
principe  mai  non  aveva  saputo  condurre  a  compimento  una  sola 
delle  grandi  cose  da  lui  promesse,  e  di  lui  diceva  uno  de'  suoi 
consiglieri  eh'  e'  non  volle  giammai  udire  gli  altrui  consigli,  e 
con  tutto  ciò  non  mai  fece  quello  che  voleva  ;  perchè»  tenendo 
segreti  i  suoi  disegni,  non  ammetteva  veruno  a  disaminarli  con 
lai  maturamente ,  e  quando  venivano  in  chiaro ,  perché  inco- 
minciava ad  eseguirli,  lasciavasi  cadere  d'  animo  per  le  prime 
difficoltà  che  gli  si  opponeano.  Massimiliano ,  dopo  avere  pro- 
messi i  più  efficaci  ajuti  al  duca  di  Milano,  di  cui  aveva  sposata 
la  nipote,  non  si  vergognò  di  chiedergli,  per  levare  un  esercito, 
quel  danaro  che  lo  Sforza  aveva  e  che  era  il  solo  avanzo  della 
passata  grandezza  di  lui.  Non  ignorava  il  Moro  che  tutto  il 
danaro  dato  in  presenza  al  re  de'Romani  sarebbe  immantinente 
aciapato  (fa'  favoriti  di  lui  ;  onde  volle  piuttosto  valersi  delle 

Tamb.  InquU.  Voi.  II.  68 


—  558  — 

reliquie  de'snol  tesori  per  assoldare  egli  medesimo  ao  esertito 
proprio.  La  guerra  della  Svizzera»  poc'  anzi  terminata ,  aveva 
lasciato  nella  contrada  medesima  in  cui  egli  si  trovava  molli 
soldati  senza  soldo.  Gli  fu  dunque  facile  di  adunare  ed  assol- 
dare cinquecento  uomini  d' arme  borgognoni  ed  ottomila  fonti 
svizzeri  ;  e  senza  aspettare  che  tutta  questa  gente  fosse  intera- 
mente ragunata  sotto  le  insegne,  s' incamminò  verso  i  confini 
della  Lombardia. 

Come  prima  Gian  Giacomo  Trivulzio  ebbe  avviso  dell'avvi- 
cinarsi  di  Lodovico  Sforza,  richiese  il  Senato  di  Venezia  di  far 
avanzare  le  sue  truppe  suirAdda,  e  richiamò  Ivone  d'Allegre, 
che  si  era  recato  in  Romagna  per  ispalleggiare  i  progetti  di 
Cesate  Borgia.  Ma  la  celerità  dello  Sforza  non  lasciò  tempo  ai 
Francesi  ed  ai  loro  alleati  di  ajutarli.  In  sul  comindare  di  feb- 
braio del  1800,  il  Moro  valicò  le  Alpi  e  traghettò  il  lago  di 
Como  colle  barche  trovate  alle  sponde.  Gli  abitanti  di  Como, 
quand'ebbero  avviso  della  sua  venula,  manifestarono  cosi  viva- 
mente la  loro  parzialità  per  lo  Sforza  che  ì  Francesi  si  videro 
costretti  a  ritirarsi,  abbandonandogli  quella  città.  I  cittadini  di 
Milano,  ed  in  particolare  coloro  che  appartenevano  alla  fazione 
ghibellina ,  avuta  la  nuova  che  trovavasi  in  Como  Lodovico  il 
Moro,  ne  festeggiarono  il  ritorno  con  tanto  giubilo  che  i  novelli 
ospiti  loro  ne  furono  atterrili.  Il  Trivulzio ,  credendo  vicino  a 
scoppiare  una  sollevazione, si  chiuse  precipitosamente  nel  castello, 
e  dopo  avervi  posta  una  sufficiente  guarnigione  ne  usci  il  sus- 
seguente giorno  e  si  ritirò  verso  Novara,  inseguito  dal  popolo 
sollevato  fino  alle  rive  del  Ticino.  Lasciate  poi  quattrocento  lance 
in  Novara,  condusse  il  rimanente  dell'  esercito  a  Mortara,  per 
ricevere  colà  gli  ajuti  cui  aveva  scongiurato  il  re  di  mandargli 
di  Francia. 

Appena  i  Francesi  furono  parliti  da  Milano  che  entrowi 
il  cardinale  Ascanio,  e  poco  dopo  Lodovico  Sforza.  Era  questi 
uscito  dalla  sua  capitale  il  2  di  settembre  del  1499  fra  le  impre- 
cazioni del  popolo,  che  incalzava  la  fuga;  vi  rientrava  cinque 
mesi  dopo,  cioè  il  8  di  febbraio  del  1500,  ed  i  Milanesi  sembra- 
vano ebbri  di  gioia  nel  rivedere  il  vecchio  loro  signore.  Queste 
rapide  mutazioni  non  debbono  già  risgoardarsi  come  indizii 
dell'incostanza  del  popolo:  il  popolo  di  Milano  abborriva  sempre 
del  pari  i  soprasi,  gli  arbitrii,  le  estorsioni  de'gabellieri,  le  per- 
fidie della  corte  ed  il  dispotismo;  soltanto  porgeva  troppo  facile 
orecchio  alle  promesse  dei  principi;  con  troppo  favorevole  pre- 


^ 


~  559  — 

veozioDe  accagioDaTa  scoosigliatamente  di  tutti  i  viiii  dei  prin- 
ciiM  i  loro  ministà  attribuendo  a  quelli  tutti  i  nobili  e  gene- 
rosi senlimenti,  e  a  questi  ogni  danno;  troppo  facilmente  da  vasi 
a  credere  che  la  s?entara  a¥rd>be  ammendati  coloro  coi  vedeva 
fatti  seguo  a'  di  lei  strali;  e  siccome  il  principe  regnante  non 
ometteva  mai  di  sciogliere  il  popolo  dalla  data  Tede  colla  vio* 
Iasione  delle  sue  promesse»  cosi  il  popolo  non  aveva  altro  torto 
che  qoello  di  serbare  troppo  tenera  memoria  del  precedente 
sovrano»  indotto  ^d  avere  caro  il  cambiamento  de' suoi  signori 
assai  più  dalla  costanza  delle  sue  affezioni  che  dalla  legge- 
rezza. 

Tutta  la  Lombardia  nodriva  i  medesimi  sensi  inverso  allo 
Sforza.  Parma  e  Pavia  acclamarono  subito  ai  vecchio  loro  duca. 
Lodi  e  Piacenza  erano  sul  punto  di  Tare  lo  stesso;  ma  l'esercito 
veneto,  accorso  incontanente  alla  loro  vòlta»  riusci  a  tenerle  io 
dovere.  Alessandria  e  tutto  il  paese  d' oltre  Po,  trovandosi  più 
esposti  agli  assalti  d^Trancesi»  aspettavano  gli  avvenimenti  per 
dichiararsi;  Genova  non  volle  prendere  parte  nella  rivoluzione. 
Frattanto  lo  Sforza  non  perdeva  tempo  e  nulla  trascurava  di 
tutto  quanto  poteva  assicurargli  il  ricuperato  dominio;  mandò 
il  cardinale  di  Sanseverino  a  Massimiliano  per  ragguagliarlo  dei 
primi  fatti  e  chiedergli  soccorso ,  ed  il  vescovo  di  Cremona  a 
Venezia  per  ofifrire  a  quella  Repubblica  d'accettare  qualunque 
condizione  piacesse  al  Senato  d' imporgli  ;  e  fece  chiedere  ai 
Fiorentini  un  qualche  sussidio  di  danaro  in  conto  di  alcune 
somme  loro  date  in  prestanza;  sussidio  che  fu  da  essi  negalo  con 
maggiore  lode  di  prudenza  che  di  buona  fede.  I  piccoli  principi 
colsero  prontamente  quest'occasione  per  rimettersi  in  campo  colle 
luto  soldatesche;  il  fratello  dei  marchese  di  Mantova,  t  signori 
della  Mirandola,  di  Carpi  e  di  Correggio,  Filippo  de'Rossi  ed  i 
conti  del  Verme  ricuperarono  i  feudi  ch'erano  slati  confiscati  a 
loro  danno  da'Francesi  o  dallo  stesso  Sforza ,  ed  in  appresso 
raggiunsero  il  duca  di  Milano  colle  compagnie  d'uomini  d'arme 
cli^  ognuno  di  loro  aveva  rannate.  CoU'ajuto  di  costoro  lo  Sforza 
raccolse  millecinquecento  uomini  d'arme  e  molti  fanti  italiani; 
e  lasciato  il  fratello  Àscanio  all'assedio  del  castello  di  Milano , 
passò  il  Ticino,  prese  Vigevano  ed  assediò  Novara.  Frattanto 
Ivone  d' Allegre ,  tornando  di  Romagna  coU'esercito  francese  e 
eoa  tutti  gli  Svizzeri  rimasti  in  Italia  al  soldo  della  Francia  » 
attraversò  il  territorio  di  Parma  e  di  Piacenza,  dopo  aver  con 
questi  due  popoli  patteggiata  una  sospensione  delle  ostiiilà  du« 


—  540  — 

raDte  il  passaggio  de'suoi.  GiuDto  presso  Tortona,  gli  veoDero 
incoutro  i  deputati  dei  guelQ  di  quella  città  a  chiedergli  ven- 
detta contro  i  ghibellini,  r  quali»  secondo  essi  dicevano,  avevano 
segrete  intelligenze  con  quelli  di  Milano  e  si  rallegravano  per 
la  ritirata  deTrancesi.  Ivone  d'Allegre  prese  volentieri  rincarico 
di  fare  questa  vendetta  ;  e  fattesi  aprire  le  porte  della  città,  le 
diede  il  sacco  senza  fare  distinzione  tra  guelQ  e  ghibellini.  Dopo 
.  di  ciò  continuò  il  suo  cammino  alla  volta  d'Alessandria. 

Gli  Svizzeri,  che  in  addiedro  stavansi  chiusi  nelle  loro  mon- 
tagne e  non  guerreggiavano  se  non  per  difesa  della  propria 
libertà,  erano  da  sei  anni  in  poi  diventati  quasi  i  soli  soldati 
dell'Europa.  Non  oravi  altra  fanteria  che  potesse  far  testa  ai  loro 
fanti;  laonde  tutte  le  potenze  facevano  a  gara  nelFassodarli,  si 
permetteva  loro  ogni  licenza;  erano  saziati  d'oro  e  condotti  nei 
più  ricchi  e  più  voluttuosi  paesi  dell'Europa;  venivano  avvezzati 
a  tutte  le  delizie  dell'opuleoza.  La  più  spaventevole  corruzione 
era  stato  il  frutto  di  quella  subita  mutazione  in  tutte  le  abitudini 
della  vita  di  un  popolo  in  addietro  tanto  riputato  per  la  purità 
de*suoi  costumi  e  ]^r  la  sua  buona  fede.  Tutta  la  nazione  era 
diventata  avventuriera  e  mercenaria;  la  Svizzera  aveva  sommi- 
nistrato ai  vari  eserciti  delle  potenze  belligeranti  assai  maggior 
numero  di  uomini  di  quello  che  un  saggio  governo  avrebbe 
posto  in  arme  per  difendere  la  patria  nel  più  grave  pericolo.  11 
costume  di  risguardare  la  guerra  sotto  il  solo  aspetto  del  lucro 
e  delle  voluttà  della  licenziosa  vita  ch'essa  procura  erasi  sparso 
in  tutta  la  popolazione;  l'antica  delicatezza  in  fatto  d'onore  era 
cessata,  e  vi  sottentrava  la  cupidigia  e  la  brama  de'  piaceri  ;  e 
finché  durò  quella  prima  ebbrezza  di  nuovi  godimenti,  la  nazione 
non  fu  più  riconoscibile;  che  anzi  appunto  allora  essa  era  in 
procinto  di  bruttare  la  sua  fama  con  odiosi  tradimenti. 

I  Francesi  furono  i  primi  a  provare  i  danni  della  perfidia 
degli  Svizzeri.  Quattrocento  di  loro,  che  con  Ivone  d'Allegre  si 
erano  chiusi  in  Novara  per  afforzare  la  guarnigione ,  fattisi  a 
conversare  coi  loro  connazionali  che  gli  assediavano,  e  udendo 
da  questi  che  nel  campo  nemico  si  stava  meglio  e  si  toccava 
più  grosso  soldo,  e  che  per  quanto  potevano  essi  giudicarne  si 
avevano  più  fondate  speranze  di  buon  successo,  passarono  tutti 
sotto  le  bandiere  dello  Sforza.  La  loro  diserzione  agevolò  la 
presa  di  Novara,  che  si  arrese  per  capitolazione.  Lo  Sforza  fece 
condurre  a  Vercelli,  secondo  i  patti,  la  guarnigione  francese  ri- 
masta in  Novara  ed  intraprese  l'assedio  delia  ròcca,  che  forse 


€n  mif^  flome  di  Mmoàman  |«*  iaid«re  ^  msiìk  r«6r^ 
cito  iruiDe»  i  Martm,  pmà  càie  nwwsde  «nò^  vMèrvi. 

InperciMdé  Lodofàco  XU  nAafMiiwii  <soii  4ilì0Mm  |Mì  è 
^leBa  «di»  Sbim:  i|ipeM  aTUti  MtiiU  Min  it(«ta«toM  A 
MhBo,  egii  avevi  btf  putire  a  fratta  tolti  ì  $Mi  iNMMini  4^MiÉè 
e  mudato  il  bafivo  dì  DìgioM  ad  a$wkiai>e  tmm  sriiMrf,  «  A 
cardinale  d'Aaboì»,  sm  pràDo  aìiiìstrQ,  in  A;stt  per  affir^tare 
r  imfcoe  deffl'eserato.  Ob^  in  poco  imifKs  s'ingrossò  a  4iimk- 
sora:  il  TremcHiille  vi  oondosde  mìUedmineoanto  lanM t  ^«Ah 
Canti  francesi,  ed  il  balìTo  di  Dìgione  dieciniila  sviuiMlv  Laonde 
i  Francesi  fin  da'bà  pHmi  gìorai  d'aprite  trovandosi  più  nu- 
merosi che  reserdto  dello  Sforia,  amhrono  ad  accampare  tra 
Nofara  e  Milano.  In  ambedue  gli  eserciti  gii  Svitieri  formavano 
essi  soli  quasi  tutta  rin£ainteria«  Ora,  trovandosi  essi  In  pro<^ 
cìnto  di  venire  alle  mani  gli  uni  contro  gii  altri,  scontrait>nst 
agli  avamposti  e  cominciarono  ad  abboccarsi  fra  di  loro  od  « 
rammentare  i  vincoli  d'amiciiia  o  di  parentela  che  stringevano 
gli  uni  agli  altri.  Coloro  che  militavano  nelP esercito  francese 
N^no  stati  levati  con  espressa  licenia  della  GonfederaalonOi 
e  si  erano  mossi  colle  bandiere  de'  rispettivi  Cantoni  :  per  lo  eon-^ 
trarìo  quelli  del  duca  erano  privatamente  entrati  al  suo  soldo 
senza  l'assenso  de'  loro  magistrati.  Si  gli  uni  che  gli  altri  rice» 
vettero  nello  stesso  tempo  un  ordine  della  Dieta  ohe  II  richia- 
mava in  patria  e  loro  vietava  di  spargere  scambievolmente  il 
sangue  dei  propri  fratelli.  Gli  Svizzeri  del  duca ,  sndotti  datto 
pratiche  de'  loro  compatrioti,  o  per  meglio  dire  dall'  oro  fran- 
cese, si  tennero  come  più  particolarmente  obbligati  ad  ubbidire. 
Dicevano  che,  combattendo  contro  le  bandiere  de'  loro  Gantonli 
si  farebbero  rei  di  ribellione,  sicché  n'andava  la  testa  ;  e  cer^ 
Dando  pure  un  qualche  pretesto  per  abbandonare  11  principe 
cui  servivano,  chiesero  allo  Sforza  con  minacciose  e  tumul* 
toarie  grida  le  paghe  mature.  Il  duca  accorse  subito  nelle  loro 
Sle  e,  raccomandandosi  alla  loro  generosltftì  distribuì  tutta  far- 
genteria  e  tutte  le  cose  preziose  che  aveva  con  uè  9  atiesisndo 
c<m  gnirameoto  dì  aver  latto  chiedere  danaro  a  Milano  e  sup- 
plicandoU  ad  avere  fnietm  tanto  soiameole  che  ^ognesse 
qnesto  danaro*  Ei  venne  a  capo  in  tale  modo  di  «c(|0«tarii 
per  poco;  nidi  acriise  al  fratello  per  afl^etfarto  a  eoodtirtfti 
goattroceoto  cavalli  ad  oUoiarila  fanti  italtooi  adtUMtt  in  Mi- 
lano, onde  aervifgli  di  ditoa  in  nieczo  a  quelle  tieilwrir  aol^ 


—  54f  - 

intanto  i  Francesi  aodaTano  afansaodosi  fra  il  Ticioo  e  No- 
vara ;  siccbé,  Tolendo  Lodofico  Sforza  tenersi  aperto  il  passo 
verso  a  Milano,  era  costretto  di  venire  a  tiattaglia,  e  cosi  deli- 
berossi  di  fare;  il  10  di  aprile  fece  uscire  dalie  mora  le  sne 
schiere  e  cominciò  la  battaglia  colla  sua  cavalleria  lederà  e 
co' suoi  uomini  d'arme  borgognoni.  Ma  gli  Svizzeri ,  di  già 
disposti  in  ordinanza  di  battaglia ,  protestarono  di  non  volere 
combattere  contro  i  loro  compatrioti  e  di  volere  anzi  immabti- 
nenti  ritornarsene  alle  loro  case,  e  rientrarono  disordinatamente 
In  città  ;  laonde  tutti  gli  altri  soldati,  vedendosi  da  loro  abban- 
donati, furono  costretti  a  seguirli.  Lo  Sforza,  disperando  di  po- 
terli ricondurre  alla  battaglia  e  di  riportare  la  vittoria  con 
quelle  perfide  truppe,  pregò  e  scongiurò  a  fine  che  le  truppe  le 
quali  volevano  ritirarsi  provvedessero  almeno  da  prima  alla  di 
lui  salvezza  o  lo  conducessero  con  loro.  Questo  sarebbe  stato 
Il  più  stretto  dovere  degli  Svizzeri;  dovere  cui  importava  sif- 
fattamente per  Tenore  della  Svizzera  che  venisse  adempiuto,  che 
non  v'ha  dubbio  che  1  loro  connazionali  medesimi  i  quali  mi< 
litavano  neiresercito  nemico  V  avrebbero  riconosciuto ,  e  non 
sarebbe  stata  diffidi  cosa  che  la  libera  ritirata  dello  Sforza 
fosse  per  espressa  condizione  pattuita  nella  loro  capitolazione. 
M«n  gli  Svizzeri  vi  si  opposero  aspramente,  e  solo  proposero  al 
duca  ed  a  quelli  dei  suoi  generali  che  potevano  temere  per 
qualche  particolare  motivo  d' essere  maltrattati  di  nascondersi 
travestiti  tra  i  loro  squadroni.  Lo  Sforza,  ch'era  già  vecchio^ 
di  bruna  carnagione  e  di  scarna  corporatura,  non  poteva  essere 
preso  per  uno  di  quei  robusti  montanari.  Ónde,  vestitosi  da 
frale  frartcosc^ino  e  cavalcando  un  ronzone,  tentò  di  farsi  cre- 
dere loro  cap{)ellano.  1  tre  fratelli  Sanseverini,  Galeazzo,  Fra- 
cassa ett  Anton  Maria»  vestiti  da  soldati  svizzeri,  difilarooo  an- 
che essi  in  mezzo  airesercito  francese;  ma  furono  tulli  e  tre 
riconosciuti  col  duca  e  falli  prigionieri  senza  che  i  pretesi  loro 
fralolli  d'arme  si  movessero  in  loro  difesa.  La  quale  infamia 
degli  Svizzeri  fu  ancora  accresciuta  da  alcuni  traditori  che  ad- 
ditarono queste  quattro  vittime  ai  loro  nemici. 

Gii  Svizzeri  «  dopo  essersi  bruttati  d' infamia  con  questo 
tradimento^  ripigliarono  la  via  delle  loro  montagne.  Pure,  pas- 
sando per  Relliniona,  quelh  di  loro  ch'erano  usciti  dai  quattro 
Cantoni  posti  in  sulle  rive  del  lago  di  Lucerna ,  occupaion;> 
quella  |)iccoU  città  con  cui  volevano  aver  in  ogni  tempo  aperto 
il  t^sso  della  Lombardia ,  ed  approfittarono  della  circostaosà 


Le  frappe  iCribML  liteiiiJMJ»  in  ^i^ wm  <AifR  $tfnMk , 

in  Hiluo  colte  pMlie  frappi»  rànsli^  l^yì  <vi  |^riMij>^f«^ 
capi  deh  Bobihft  gUMiM  od  svtteEHÌ  41  hMMM  |NNr  f^^MWl 
nel  rcfDo  di  Napoli:  ma  sinald  wsimd^  a  Rìx<^  |Mh^!jW  «n 
Corrado  Laudo»  ^filoonio  soo  ei¥ifiiiiiK>  t  wc^hìw  ^ì»k^^ 
rìdiieseiodeirospìiio  per  riposar»  una  ih^Ii^  Ir^tamKv^)  .tlaiWKv 
alPesIrraio.  Corrado  gfi  promi»  piena  $icurviia  tM  inl^j^nh^  (w» 
aTTisati  della  Temta  di  Ini  alcnni  capitani  wn^iiani  cIh»  s'ìÌ  lra« 
Tarano  in  Piacenn;  ì  qnali  durante  la  noUi^  w^r«liMr\mi»  la 
sua  casa  e  fecero  prigioniero  Asoanio  ron  tutti  \  nt^ntlhUHuIni 
che  lo  accompagnavano.  Lodovico  XII  mp«tiHto  (Hik'^^U  ^\w  \\W^' 
sti  prigionieri  erano  stati  tradotti  a  Vaneiia  »  li  ikMUMinhN  ì^\ 
Senato.  Egli  non  voleva  lasciare  in  mano  di  un  ih^h^Io  violm^ 
alcuno  dei  pretendenti  alia  signoria  dolio  Siato  uuovanwutt) 
cooqoistato»  e  con  tanta  alteriglo  e  tantt)  minmuMi  fkoiMi  U  ilo^ 
manda  che  non  solo  H  cardinale  Aaoanlo  0  tulli  I  gahllhiumlnl 
presi  con  ini  furono  consegnati  alla  Krancid .  ma  ||IÌ  fimuio 
inoltre  dati  altri  gentiluomini  mllanosi,  ni  quAll  II  HvuAtu  av^vn 
promessa  in  solenne  modo  la  salvaguardli. 

Francesco  Sforza  aveva  fondata  la  aun  Miglioria  oolln  Min 
-guerriere  virtù,  ed  aveva  dovuto  credere  la  propria  Mchiniia  ftir^ 
marnante  stabilita  in  trono  ;  per  lo  contrarlo  huiinvitio  XII.  oliti 
risguardavasi  siccome  legittimo  erede  del  ducato  di  Milano,  itm 
mosso  da  non  minore  invidia  che  odio  isontro  vaìU\\  nh*  ittfll 
chiamava  l'usurpatore.  E  questi  miioI  MenlimentI  iHinn  II  dMn 
a  divedere  dopo  la  vittoria,  trattando  tutti  I  Nfi|NiratitÌ  dulia  fa^ 
miglia  di  Francesco  Sforza  caduti  in  nmtHìU^m  fAiu  umììn  Un- 
placabile  durezza  con  cui  gli  uomini  mmUir^ri  nifftUnm  ¥m(ì\- 
earsi  quando  la  fortuna  fa  loro  tiuon  viao.  Tra  t  priiflonUirt  dui 
re  trovavansi  due  figliuoli  del  grandi^  ¥nwMm^  %UinM,  U^i 
yico  il  Moro  ed  S^tj^tm,  un  nip^d^  0  abMalk/»  \i^j\0ii\mì  d)  lui, 
chiamato  Ermes,  e  due  ha<dardi,  \m  wmm  Mém4ni\fh  h  I'àpu- 
tino,  tutti  e  Uh  tiì^imìi  di  (i%ÌHstW9,  n  t^mUtlmM  $11$  i^/^d- 
potè  dello  ft^'Vi  Vuurjf^Wf  ^ffv$,  ^Mis$imUt  ptir  $»^$  I^m^m^^* 
8C0,  il  qmk  ^^  tiT/fìfUfh  di  ìAw  ^i^U'.nr/f  ^.  d'I^^MM^  d'Ara- 
gona, ct0tv:,pe^ukfiUMi^^M  pffU^^V^t  ^^  i$m^\^^$m  i^Ui$éi$uì 
di  L/jd9vk>'>  XIL  fi  ft  'ynti'jrtv;  %  P/tta  *\fmx  niUu^^i  »  ^^^fn 


-  Sii- 
lo Francia  Tabito  monastico;  fece  chiadere  il  cardinale  Asca- 
Dio  in  qaella  medesima  torre  di  Borges  In  cqL  era  stato  egli 
stesso  da  due  anni  prigioniero,  e  gettare  i  tre  figliuoli  di  Ga- 
leazzo in  un  oscuro  carcere*  Lodovico  il  Moro,  ch'era  di  tutti 
loro  il  più  pericoloso  pel  suo  particolare  ingegno,  per  la  sua 
eloquenza,  pe'suoi  modi  insinuanti,  per  la  memoria  di  suo  pa- 
dre e  per  la  compassione  che  ispiravano  la  sua  mala  fortuna  e 
le  sue  disgrazie ,  fu  condotto  a  Lione ,  ove  in  allora  trovavasì 
il  re.  Egli  venne  tratto  in  quella  città  di  pien  meriggio,  in 
mezzo  air  affollato  popolo ,  che  rallegravasi  della  sua  miseria  ; 
fece  calde  istanze  per  vedere  il  re,  ma  ebbe  la  ripulsa,  e  dopo 
essere  stato  traslocato  dalla  rócca  di  Pietra-Incisa  a  quella  del 
Giglio-San-Giorgio ,  venne  chiuso  nella  rócca  di  Luches ,  dove 
terminò  i  suoi  giorni,  dopo  dieci  anni  di  prigionia,  di  assoluta 
solitudine,  di  aspri  trattamenti  e  di  dolori. 

Chiuderemo  questo  capitolo,  nel  quale,  quasi  a  sollevare 
r  animo  dagli  orrori  delP  inquisizione ,  più  degli  avvenimenti 
politici  ci  siamo  occupati,  coir  accennare  che  a  Bergamo  fa 
abbruciato  un  certo  Zanchi  sacerdote ,  antenato  di  Girolamo 
Zanchi,  che  entrò' nella  setta  dei  sacramentari  insieme  a  Ver- 
migli e  Verzerio.  Era  a  quei  di  inquisitore  a  Bergamo  certo 
padre  Faustino  di  Chiari ,  appartenente  ad  illustre  casato ,  e 
cominciando  a  pullulare  in  Bergamo  le  massime  anticattoliche, 
*ed  il  prete  Zanchi  essendone  propugnatore,  lo  fece  agguantare, 
e  dopo  fatto  il  processo  come  eresiarca  fu  consegnato  al  brac- 
cio secolare  per  la  pena.  / 


CAPITOLO  XXVI. 


lesMindro  VI  morto  di  veleno;  eao  carattere  e  eae  infamie: 
critica  aitaasione  di  Cesare  Borgia. 


Ma  io  mezzo  a'  suoi  disegni  ed  alle  molte  speranze,  papa 
lessandro  Yl  fa  il  18  di  agosto  sopra  preso  da  quasi  improv- 
sa  morte;  e  il  duca  Cesare  Borgia ,  suo  figlio,  e  il  cardinale 
)rneto  furono  nello  stesso  tempo  portati  a  Roma  quasi  mo- 
t>ondi  da  una. vigna  in  cui  dovevano  cenare  col  papa.  11  corpo 

Alessandro  VI,  copertosi  subitamente  di  nera  spaventosa  gan- 
ena,  diede  motivo  alFuniversale  di  sospettare  che  il  papa,  il 
{liuolo  di  lui  e  il  loro  commensale  fossero  vittime  di  un  ve- 
ne apparecchiato  dal  papa  tnedesimo  per  altri. 

Tutta  la  vita  d'Alessandro  Borgia  era  stata  bruttata  di  tanti 
slitti,  ed  egli  aveva  per  tanti  titoli  meritato  Podio  di  Roma , 
^iritalia  e  di  tutta  la  cristianità,  che  non  è  maraviglia  che  la 
orto  di  lui  venisse  attribuita  a  quegli  stessi  delitti  cui  egli 
reva  assuefatta  la  sua  corte,  e  che  il  rapidissimo  abbassamento 
3lia  sua  famiglia  e  il  giusto  gastigo  della  sua  malvagità  pa- 
isserò  a  tutti  non  dover  essere  altro  che  la  conseguenza  degli 
;ellerati  mezzi  da  lui  praticati  per  ampliare  il  suo  Stato.  I  so- 
)etti  furono  anche  da  altre  circostanze  avvalorati.  Tutti  sape- 
rne quanto  danaro  avessero  fruttato  ad  Alessandro  VI  in  tutto 

corso  del  suo  pontificato  le  promozioni  al  sacro  collegio,  che, 
[  forza  delle  costituzioni  .ecclesiastiche,  aveva  il  diritto  di  fare 
;li  medesimo.  In  undici  promozioni  egli  aveva  creati  quaran- 
itrè  cardinali,  e  quasi  ninna  di  tali  elezioni  era  stata  gratuita. 

Ta».  ìnquii.  Voi.  II.  C9 


—  546  — 

Da  ognuna  aveva  ricavato  almeno  diecimila  fiorini  ;  quella  di 
Francesco  Sederini,  fratello  del  gonfaloniere  di  Firenze,  gliene 
aveva  fruttati  ventimila;  trentamila  quella  di  Domenico  Grimani, 
figliuolo  del  procuratore  di  San  Marco;  ed  altre  probabilmente 
un  prezzo  ancora  maggiore.  Ma  pel  papa  era  gran  cosa  la  ven- 
dita di  questa  principalissiima  dignità  ecclesiastica.  I  cardinali 
da  lui  adoperati  nel  maneggio  delle  faccende  pubbliche  si  arric- 
chivano prontamente;  e  il  papa,  se  vere  sono  le  accuse  fattegli, 
il  facea  perire  per  usurpare  le  loro  eredità  e  disporre  nuova- 
mente de'  loro  benefica,  che  ricadevano  alla  santa  sede.  Que- 
ste erano,  si  diceva,  le  ree  pratiche  con  cui  il  papa  suppliva 
alle  enormi  spese  che  si  richiedevano  pel  mantenimento  delle 
truppe  del  duca  Valentino,  pel  lusso  della  corte  pontificia,  per 
le  profusioni  dì  Lucrezia  Borgia  e  per  dar  condizioni  agli  al^i 
suoi  figli  e  nipoti.  Colle  voci  che  correvano  prima  di  quell'ul- 
timo  fatto,  fu  pertanto  facilmente  creduto  in  tutta  ritalia  che 
il  papa  avesse  invitato  il  cardinale  Adriano  di  Corneto  ad  un 
convito  nella  sua  vigna  di  Belvedere,  presso  al  Vaticano,  con 
intenzione  di  avvelenarlo,  come  aveva  altra  volta  avvelenati  i 
cardinali  di  Sant'Angelo,  di  Capua  e  di  Modena,  prima  suoi  ze- 
lantissimi  ministri,  poi  vittime  della  sua  cupidigia;  che  il  duca 
Valentino  avesse  mandato  un  fiasco  di  vino  avvelenato  al  cop- 
piere del  papa  senza  palesargli  Tarcano,  facendogli  dire  soltanto 
di  non  mandarlo  in  tavola  senza  suo  espresso  ordine  ;  e  che 
infine,  nella  momentanea  assenza  di  questo  coppiere,  il  vicario 
di  lui  avesse  dato  per  errore  di  questo  vino  al  papa,  a  Cesare 
Itorgia  ed  al  cardinale  di  Corneto.  Quest'ultimo  disse  egli  me- 
desimo molto  tempo  dopo  a  Paolo  Giovio  che,  appena  inghiot- 
tita tale  bevanda,  avea  sentito  nelle  sue  viscere  un  ardore  co- 
centisslmo,  che  subito  avea  perduta  la  vista  ed  in  appresso  l'uso 
di'  tutti  i  sensi,  e  che,  dopo  una  lunga  malattia  durante  la  quale 
gii  si  era  escoriata  tutta  la  pelle,  era  riuscito  a  camparne. 

Gli  scrittori  contemporanei  meglio  informati  e  quelli  che 
più  minutamente  parlarono  di  tale  avvenimento  consentono  tutti 
intorno  alle  circostanze.  Pure  un  diario  della  corte  di  Roma  e  le 
lettere  dell'ambasciatore  della  casa  d'Estè  sembrano  dimostrare 
che  la  malattia  del  papa  durasse  otto  giorni  e  ch'ella  fosse  giu- 
dicata febbre  perniciosa  e  come  tale  medicata.  Inoltre  non  sap- 
piamo per  l'appunto  la  data  del  banchetto  nella  vigna  di  Bel- 
vedere. Quanto  è  a  noi,  diremo  che  ne  pare  probabile  che  il 
convito  avesse  luogo  il  10  di  agosto;  che  la  malattia  causata  dal 


donto  etto  fkni  e  die  in  ul  lmi|^  imi  $h  $i  dét;!^  il  ;ì^i^^ 
nxo  Dooie  per  doq  icmaw  il  poip»  ^  $iii>  t^x  ;iiiKvr^  vùt 
ed  oonipoleiitL 

Akssuidro  W  il  Ciri  5(4o  nome  rìcoràà  taiiU  d^MUtì  <f^  hiite 
infume ,  in  tempo  dd  sno  poniì&nito  piv>M  in  nomo  ^toU^ 
Chiesa  romana  molte  decisioni  clie  luinno  ancom  pn\^ntomonMi 
fona  di  legge.  Perciò  gli  scrtttorì  occl«$ia^C4  ivn'^no  \\\  \yt\\^ 
Tare  che,  malgrado  i  nefandi  snoi  mi»  0(rti  m>n  $i  s^\v^tA  ni.ii 
De  per  nn  pnnlo  dalla  pnrìli^  della  fe^K  Alt\s.^ndi\\  VI  U\  uno 
iegV  isUtntorì  delP  ordine  de'  frati  minimi  di  san  Kranooso^^  d<i 
Paola ,  eh'  egli  ratiflcò  colla  sua  l)olla  dol  primo  di  \\\^m\(^ 
del  1501,  e  di  quello  delle  suore  di  Maria  Vernino*  fondalo  \h 
Giovanna  di  Valois»  moglie  ripudiata  di  Loilovico  XII.  U  \'Ws\\ 
romana  gli  deve  inoltre  un'  istituxiono  che  foroo  piti  d*  oki\ì 
altra  contriboì  a  conservare  la  sua  autori l{\  coiUni  Uy  ^^{h}^\^ 
della  filosofia  ed  i  progressi  dello  spirito  umimo  ;  quosl'  \\  U\ 
censura  ecclesiastica  dei  libri.  Alessandro  VI  collmu(t(^  in'I 
primo»  con  suo  breve  del  0  di  giugno  del  IKOI,  a*  tlpoitrMll, 
sotto  pena  di  scomunica»  di  non  islampnro  vorun  lliiro  mm\ 
r  assenso  degli  arcivescovi  o  del  loro  vlciirl  od  niidltorl.  nd 
ordinò  a  questi  di  far  prendere  e  brucinro  ogni  libro  rnrilO' 
nente  dottrine  eretiche  contrarie  alla  fedo  cattollcii ,  ornpht  n 
malsonanti. 

Il  duca  Valentino  diceva  al  Macclil»V(3lll  ctin  cTniInvii  di 
avere  pensato  a  tutto  ciò  che  potesse  accadf^re  ridila  r.()ntlri((<<riKti 
della  morte  di  suo  padre»  e  chea  tutto  av(5va  trovato  rlriimllo; 
ma  che  mai  non  aveva  pensato  che»  nel  puntai  In  cui  nmi" 
desse  la  morte  di  Alessandro»  egli  medriHirno  avn'bbn  potili/» 
trovarsi  mortalmente  informo*  Il  ibif'gia  »!  tori^;»  Misuro  elio 
reiezione  del  nuovo  ponteHce  san;btK;  in  hthu  \iHrUi  lì^ì  yiiìn 
suo,  'dovendo,  a  suo  cre^lere,  rimaner;  In  Min  djvo/joni?  I  tm- 
dinali  eletti  da  Ali^sandro»  ed  in  (i^rtic/ilarc  i  lìirMUp  ^ruffjiWfH 
ch'egli  aveva  fatti  entrare  nel  n'4r,ro  c/;ll^((io.  ijimi  UtU4  U 
secondaria  nobiltà  degli  Stai»  romani  era  in  vnt  iMhuU&a  tìfioUti, 
e  la  prìmarìa  era  in  wjd^i  oppre^Mia  e  afflitta  cliV?ii  ^,M/'V^  di 
non  avere  che  temere  per  parte  di  e^<wi.  Tritio  le  Uftin/A,  Jan'/; 
in  Roma  che  nel  lefrit6fW>»  ^^m  nmr^Ui  &4'%fyÀ  ^A^UU,  o 
r  esercito  c/^n  coi  e^rfi  atea  tfffMfiè  h  ifti^n  '40$  htm\  u^ta 
Tasi  ac^joartìeriV.  fiei  ^/mìV/tuì  di  K//rw,  M*  ^'4\U'4  pjffl/j  ^v,U 


—  548  - 

quel  punto  in  cui,  incerto  ancora  s'egli  dovesse  accostarsi  alia 
corte  di  Francia  o  a  quella  di  Spagna,  non  poteva  far  capitale 
del  favore  dell'una  o  dell'altra  ;  anzi  ei  si  vedeva  ad  un  tempo 
stretto  da  due  eserciti  nemici:  pure,  per  quanto  travagliato 
fosse  dalla  malattia,  non  si  lasciò  cadere  d'animò.  Mentre  che 
il  popolo  affoUavasi  a  San  Pietro  con  indicibile  gioia  per  saziare 
gli  occhi  sul  cadavere  di  Alessandro  VI  e  manifestare  l'abbor- 
rimento  ond'  era  inverso  di  questo  compreso.  Cesare  Borgia  si 
tenne  nel  palazzo  del  Vaticano;  entrò  in  trattato  coi  Colonna, 
che  suo  padre  avea  spogliati  de'loro  feudi,  e,  restituiti  loro  Ghì- 
nazzano.  Capo  d'Anzo,  Frascati,  Rocca  di  Papa  e  Nettuno,  che 
Alessandro  VI  aveva  notabilmente  fortificati,  a. tal  prezzo  fece 
loro  promettere  di  starsi  neutrali. 

Il  duca  Valentino  non  aveva  soldati  in  numero  sufficiente 
per  poter  vietare  a'  suoi  nemici  l'ingresso  in  Roma  e  raffrenare 
nello  stesso  tempo  il  popolo,  da  cui  era  esecrato.  Prospero 
Colonna  era  perciò  tornato  in  patria  con  tutto  il  suo  partito. 
Dal  canto  suo  Fabio  Orsini  era  rientrato  in  possesso  dei  palazzi 
della  sua  famìglia  a  Monte  Giordano  ;  aveva  fatte  saccheggiare 
le  case  e  le  botteghe  de'  cortigiani  e  de'  mercatanti  spagnuoli, 
cosi  careggiati  sotto  il  regno  dell'  ultimo  papa ,  ed  altamente 
domandava  il  capo  di  Cesare  Borgia  in  espiazione  del  sangue 
di  suo  padre  e  de'suoi  congiunti  versato  dal  tiranno.  Le  truppe 
del  Valentino  erano  tutte  acquartierate  in  Borgo  e  nei  contomi 
del  Vaticano;  di  modo  che  i  cardinali,  per  non  cadere  nelle 
loro  mani ,  si  adunarono  nella  chiesa  di  Santa  Maria  sopra 
Minerva ,  ma  non  si  affrettarono  di  cominciare  le  esequie  del 
papa,  che  dovevano  durare  nove  giorni  e  terminarsi  prima  del 
conclave. 


C\WWLO  XXYIL 


StabOniMBto  dUlU  loé^nMi  lnyiirtriwi»  te  tlMmUd^ 


Morto  Eorico  IV  re  di  G^isUglla.  ini  unlluM  UnlmlU  Ih  m\ 
rimoDio  coD  FerdìDando  ro  d'Araiiona.  quoalo  ro||no  vonno  Un 
ito  al  primo  ed  assoggettato  al  più  novoro  trlliuiialf)  dt^ll'lii 
iiisizioDe  castigliana.  Questa  ò  appunto  iinHiriiiiinlulRlnnM  nlin 
igDoreggiò  Della  Spagna  dal  14H1  Ano  iill*titA  lumini  ;  iiumIIii 
he  abbiamo  veduto  distrutta  con  nniviirMiiln  ulucnrM.  i|UmIIii 
he  venne  di  fresco  ristabillbi  con  imtroino  doliint  di  tulli  ull 
pagnuoli  istruiti ,  e  quella  '  per  ultimo  di  cui  lo  primi  m  Norl 
ere  la  storia ,  appoggiandola  ai  documenti  ctiit  mi  nomiiilhl 
trarono  i  suoi  archivi,  che  il  governo  avuva  poMtl  u  min  diNpn 
izione. 

È  noto  che  la  guerra  (iegll  AMti^iA  mni  di  mlnfkUi  Mi 
api  per  fondare  b  prima  lwin\$h\om  ;  In  utmti  m  np^^i9Uf^\fl 
Uà  sapposta  neeestifi  di  punire  VnpitttUiiiiH  ikuH  nìh^  i»(/» 
Duoli  (b  poco  converliti, 

li  coiDQKTeio  areva  UWf  y^s^m^fH  Mi  XIV  t^44é$  ìu  muMi 
egli  ebrei  qua»  tolte  k  rkiib^  ^Mn  y^$\¥An,  h  t\miiU^  i$if0^ 
ano  data  bjfr>  onsa  fff^ti^lMm»  USfmm  m  iiMl40m  ¥Mn  \ 
egni  di  SlUMtVf  Xl,  ^  t^kUo  ì  t  ék  VA$f¥49  ti,  o^m  r^ìrt^fM^/ 
vola  wffAnff/M  m  Umi/i  *  Vié^h  fV  ^  6i  hi^iH^  I. 

riti  fer>  400^0^,  K  t^^  «M^n  MM^;»  4«  1^//  ^/9^^i 


—  550  — 

Nel  1391  caddero  vittime  del  foror  popolare  quasi  cioqiie- 
mila  ebrei,  alcani  de'quali  si  erano  sottratti  alla  morte  bcen- 
dosi  cristiani.  In  appresso  il  loro  esempio  fa  seguito  da  molti 
altri,  ed  in  breve  la  Chiesa  si  trovò  affollata  di  ebrei  (Fogni  età 
e  condizione  che  ctiiedevano  il  battesimo,  contandosi  qoasi  un 
milione  di  persone  che  rinunciarono  alla  legge  mosaica  per 
abbracciare  la  fede  di  G.  G. 

Oneste  conversioni  crebbero  poi  a  dismisura  ne'primi  dieci 
anni  del  XV  secolo  per  lo  zelo  di  s.  Vincenzo  Ferrerì  e  di 
altri  missionari,  che  air  epoca  dei  sediziosi  movimenti  sovrac- 
cennati cominciarono  a  predicare  contro  il  giudaismo.  E  que- 
ste pratiche  vennero  favoreggiate  dalle  adunanze  tenutesi  nel 
1413  fra  alcuni  rabbini  e  Tebreo  convertito  Girolamo  di  Santa- 
fé,  medico  delPantipapa  Pietro  de  Luna,  in  allora  dimorante  a 
Tortosa. 

Ma  gli  ebrei  convertiti  venivano  dai  cristiani  indicati  col 
nome  di  nuovi  cristiani,  o  anche  di  cohvertiti  confessati,  per- 
chè ,  facendosi  cristiani*,  avevano  confessato  essere  abolita  la 
legge  di  Mosè.  E  perchè  gli  ebrei  adoperavano  il  vocabolo 
ebraico  marranos  come  segno  di  maledizione,  i  vecchi  crìstìaDi 
chiamarono  per  disprezzo  i  nuovi  la  generazione  dei  marram, 
ossia  razza  makdetta. 

Non  per  questo  si  lasciò  di  chiamarli  anche  ebrei ,  con- 
fondendoli con  coloro  che  non  si  erano  convertiti;  tanto  più 
che  assai  di  essi  battezzati  tornavano  iri  seno  al  giudaismo, 
perciocché  essendosi  molti  convertiti  soltanto  per  Umore  della 
morte  o  per  essere  ammessi  agli  impieghi,  conservando  le  ap- 
parenze di  cristiano,  non  lasciavano  di  professare  colatamente 
Tantica  loro  credenza. 

Ma  non  andò  molto  che  la  loro  simulazione  fu  scoperta,  e 
ciò  offrì  un  apparente  motivo  religioso  a  Ferdinando  V  di  eri- 
gere un  tribunale  che  gli  dava  il  modo  di  confiscare  ricche 
sostanze,  e  che  Sisto  IV  non  poteva  non  approvare ,  siccome 
quello  che  veniva  a  diffondere  nella  Spagna  le  pretensioni  pon- 
tificie. 

Frate  Filippo  de  Barberis,  inquisitore  del  regno  di  Sicilia, 
recossi  a  Siviglia  nel  1477  per  ottenere  da  Ferdinando  e  Ja 
Isabella  la  conferma  di  certi  privilegi  accordati  all'Inquisizione 
di  Sicilia  dall'imperatore  Federico  li  nel  1233,  in  forza  de'  quali 
la  terza  parte  de'  beni  degli  eretici  condannati  era  devoluta  al- 
l'Inquisizione. I  due  re  accordarono  al  De  Barberis  la  sua  do- 


muMto  e  si  nostnitMio  pitipeoà  alle  dì  lui  ìnsiQimiìoQi  di  $t^ 
tilire  anche  in  Sfogm  il  SrarCIBcM»  coi  fecero  Ma  Alfoii;s»> 
de  Hofeda,  priore  de' domenicaiii  di  Sifìgtta,  ed  il  nnniio  del 
papa  Nicdò  Franco»  vesoofo  di  Trefiso. 

Si  fece  allora  sparigere  toce  che  i  nuoti  crisUani,  insieme 
eof^  ébiei  non  hattexuti,  insoltatano  le  iniat(ini  di  6«  C  e 
crodfiggetano  anche  alcanì  uncinili  cristiani  per  rappresentare 
gli  oltra^  e  la  morte  fatti  soffrire  al  ditin  Redentore^  Al* 
fonso  de  Hojeda  raccontò  a  questo  proposito  a  Ferdinando  e  ad 
Isabella  che  nn  cavaliere  della  famiglia  di  Goiman.  troTandosi 
nascosto  in  casa  di  nn  ebreo,  della  coi  flglinola  era  pmlnta* 
mente  innamorato»  aveva  veduto  commettersi  questo  delitto  nel 
giovedì  santo. 

Ferdinando,  allettato  dalla  sperania  d'impinguare  il  suo  te- 
soro colla  confisca  dei  beni  degli  ebrei,  e  sicuro  deirassistenia 
del  papa,  intraprese  a  vincere  la  ripugnanza  che  aveva  la  regina 
Isabella  contro  tanta  crudeltà,  e  le  fu  fatto  credere  che  nelle 
attuali  circostanze  la  sua  coscienza  non  poteva  a  ciò  rifiutarsi. 
Non  seppe  resistere  alle  sollecitazioni  del  suo  consiglio,  guada- 
gnato da  Ferdinando,  ed  ordinò  al  suo  ambasciatore  in  Roma 
di  chiedere  al  papa  una  bolla  per  lo  stabilimento  del  tribunale 
deirinquisizione  nel  regno  di  Gastiglia. 

La  bolla  fu  spedita  il  1  novembre  del  1478,  colla  quale  si  ' 
autorizzavano  Ferdinando  ed  Isabella  a  nominare  i  soggetti  in- 
caricati di  scoprire  e  punire  gli  eretici  neMoro  domini!.  Ma  le 
rigorose  misure  del  nuovo  tribunale  non  piacendo  ad  Isabella, 
perchè  troppo  violenti,  il  consiglio  di  lei  fece  sospendere  Tese* 
cnzione  della  bolla,  e  si  cercò  di  far  cessare  il  male  con  più 
miti  rimedi. 

Si  pubblicarono  adunque  catechismi  ed  altre  scritture  Istrut- 
tive, e  la  regina  incaricò  don  Diego  Alfonso  de  Solis  vescovo  di 
Siviglia,  Diego  Merio  prefetto  di  Siviglia  e  F.  Alfonso  d*Urìe(la, 
di  riferire  intorno  agli  effetti  che  produrrebbero  questi  mezzi 
^i  dolcezza.  Ma  i  frati  domenicani,  il  nunzio  del  papa  e  lo  stenso 
re  desideravano  che  Isabella  riconoscesse  insufficienti  le  prati- 
che da  lei  preferite. 

Ad  ogni  modo,  per  allora  non  si  passò  alle  vie  del  rigore 
come  lo  dimostra  la  procedura  di  Pietro  d'  0.4ma,  dottore  di 
Salamanca,  che  aveva  pubblicate  alcune  proposizioni  contrarie 
4I  domma.  Felice  la  Spagna  se  un  tal  metodo  di  procedura  si 
fosse  continuato. 


-  55SI  — 

ìfa  perchè  il  re  ed  il  papa  volevano  pare  che  si  erigesse 
il  Duovo  tribanale,  qod  si  tardò  ad  ottenere  l'assenso  della  re- 
gina, la  quale  trovandosi  col  re  a  Medina  de  Campo,  il  giorno  17 
settembre  del  1480,  si  nominarono  i  primi  inquisitori  frate  Mi- 
chele Morìllo  e  frate  Giovanni  di  S.  Martino,  Tuno  e  Faltro  do- 
menicani, dando  loro  per  assessore  il  dottore  Giovanni  Ruez  di 
Medina,  consigliere  d'Isabella,  e  per  procuratore  fiscale  Giovanni 
Lopez  del  Barco,  cappellano  della  medesima. 

11  9  di  ottobre  jfu  spedito  ordine  a  tutti  i  governatori  delle 
Provincie  di  somministrare  quanto  abbisognava  pel  viaggio  de- 
grinquisitori  e  del  loro  corteggio  che  reca  vasi,  a  Siviglia;  di- 
stinzione che  allora  non  accordavasi  che  rarissime  volte.  I  pri* 
vilegi  del  nuovo  tribunale  erano  precisamente  quelli  che  Fede- 
rico Il  aveva  accordato  come  re  di  Sicilia. 

Ma  i  Sivigliani  erano  cosi  contrari  al  nuovo  tribunale,  che 
gFinquisitori  non  riuscirono  a  procurarsi  né  le  persone  né  gli 
altri  oggetti  occorrenti  al  disbrigo,  delle  loro  incombenze;  onde 
si  rendettero  necessari  nuovi  ordini  dei  sovrani,  che  pure  non 
furono  strettamente  eseguiti:  ed  intanto  quasi  tutti  i  nuovi  cri- 
stiani si  rifuggirono  nelle  terre  appartenenti  al  duca  di  Medina 
Sidonia,  al  marchese  di  Cadice,  al  conte  d'Arcas  e  ad  alcuni 
altri  privati  signori.  Grinquisitori  risguardarono  questo  volon- 
tario esilia  come  una  quasi  certa  prova  di  eresia  e  provocarono 
dal  re  una  nuova  disposizione  contro  gli  emigrati. 

Grinquisitori  eressero  il  loro  tribunale  nel  convento  di 
S.  Paolo  dei  domenicani  di  Siviglia,  ed  il  giorno  2  gennaio 
del  1481  pubblicarono,  in  forma  di  editto,  il  primo  atto  di  giu- 
risdizione, col  quale  ordinavano  ai  signori  presso  ai  quali  si 
erano  rifuggiti  i  nuovi  cristiani  di  farli  imprigionare  entro  quin- 
dici giorni ,  di  farli  scortare  a  Siviglia  e  d'impossessarsi  dei  loro 
beni,  e  ciò  sotto  comminatoria  della  scomunica  e  di  essere  ri- 
sguardati  e  trattati  come  fautori  degli  eretici. 

In  breve  tanti  furono  gFimprigionati  che,  non  bastando 
agl'inquisitori  il  convento,  stabilirono  il  tribunale  nella  rócca, 
di  Triana,  posta  in  un  sobborgo  di  Siviglia,  sull'ingresso  della 
quale  poco  dopo  fecero  porre  la  seguente  iscrizione: 

Sanctum  Inquisitionis  Ofjicium  contra  hcereticorum  praiita- 
tein  in  Hispanice  regnis  initìatum  est  llispali  anno  MCCCCLXXXI 
sedente  in  trono  apostolico  Sixto  /F,  a  quo  fuit  concessum,  et  re- 
(jnantibtis  in  Hispania  Ferdinando  V  et  Isabella,  a  quibus  fuit 
imprecalum.  Generalis  inquisitor  primus  fuit  fr.  Thomas  de  Tot- 


-  553- 

(pcemoda ,  prior  concentus  SanctcB  Crucis  segùciensis  »  ùrtUnis 
prosdicaiùTum.  Faxìt  Deus  ut,  in  fidei  UUdam  et  augmmlum , 
m  finem  usque  scpculi  permaneat,  etc.  Exurge,  Domine,  indica 
causam  tuam.  Capite  nobis  tulpes. 

Gli  errori  ed  i  pr^adizi  acciecarono  in  modo  gli  Spagnooli 
che  varie  città  si  fecero  on  merito  dì  disputarsi  l'onore  d'a?ere 
le  prime  accolto  nel  loro  seno  il  trìbaoale  deiriogoisizioDe;  e 
molti  scrittori,  igooraodo  il  malcontento  ed  i  sediziosi  movimenti 
del  popolo,  presero  parte  in  questa  disputa. 

L' editto  di  grazia  pubblicato  in  appresso  persuase  molti 
apostati  a  porsi  incautamente  nelle  mani  degli  inquisitori,  i  quali 
non  li  assolsero  che  dopo  avere  manifestato,  sotto  una  severa 
legge  di  conservare  il  segreto,  tutti  coloro  che  sapevano  caduti 
in  apostasia ,  e  con  questo  mezzo  fecero  cadere  nella  loro  rete 
un  prodigioso  numero  di  persone. 

Quando  fu  consumato  il  termine  di  grazia  pubblicarono  un 
altro  editto  col  quale  sotto  comminatoria  di  grave  peccato  e  di 
scomunica  maggiore  s'invitavano  tutti  i  cristiani  a  denunciare 
entro  tre  giorni  le  persone  infette  d'eresia  giudaica.  Era  troppo 
facile  il  vedere  quanto  questa  disposizione  fosse  contraria  alla 
legge  di  Gesù  Cristo,  che  ordina  di  avvisare  tre  volte  il  pecca- 
tore e  due  volte  l'eretico  prima  di  punirlo.  E  tali  furono  le  tristi 
conseguente  di  cosi  fatta  risoluzione  che  un  eretico  non  sapeva 
di  essere  tratto  in  giudizio  che  quando  era  arrestato  e  chiuso 
nelle  carceri  dell'Inquisizione. 

La  stessa  sorte  toccava  all'ebreo  convertito,  che,  sebbene 
non  ricaduto  nel  giudaismo ,  aveva  conservate  certe  abitudini 
della  sua  infanzia  che  pure  non  erano  contrarie  al  cristianesimo,  ' 
ma  che  la  malevolenza  faceva  risguardare  quali  evidenti  indizi 
d'apostasia;  come,  per  modo  d'esempio,  se  mangiava  carni  di 
animali  uccisi  dagli  ebrei,  se  recitava  un  salmo  senza  aggio* 
gnervi  il  Gloria  Patri,  ecc.  Che  poteva  aspettarsi  di  utile  da  uno 
stabilimento  che  cominciava  in  tal  maniera?  Era  troppo  facile 
il  prevederne  le  conseguenze,  che  saranno  esposte  colle  impor* 
tanti  verità,  la  cui  conoscenza  è  tanto  agli  uomini  necessaria. 

Con  mezzi  cosi  propri  a  moltiplicare  le  vittime,  non  poteva 
mancare  l'effetto  che  se  n'era  sperato;  e  ben  tosto  il  tribunale 
diede  cominciamento  ai  suoi  crudeli  giudizi,  facendo  il  6  gen- 
naio del  1481  bruciare  sei  condannati ,  diciassette  il  26  marzo 
susseguente  ed  altri  in  maggior  numero  nel  mese  dappoi:  di 
modo  che  il  4  di  novembre  dello  stesso  anno  avevano  di  già, 

Tamb.  JfUfuis.  Voi.  II.  70 


—  o5i  — 

nella  sola  città  di  Siviglia,  subita  la  pena  del  faoco  208  dqotì 
cristiaDi ,  mentre  altri  79  gemevano  negli  orrori  di  durissimo 
carcere.  Ma  sebbene  questa  illustre  città  fosse  la  prima  a  pro- 
vare i  colpi  del  nuovo  tribunale  di  sangue,  non  vennero  pia 
risparmiate  le  altre  città  della  Gastiglia;  perciocché,  secondo  Ma- 
riana, in  Cadice  ed  in  altri  luoghi  del  regno  d'Isabella  furono 
nel  1481  divorati  dalle  fiamme  duemila  di  quo' sciagurati ,  uo 
numero  assai  maggiore  fu  giustiziato  in  effigie,  e  diciassettemila 
subirono  diverse  pene  canoniche.  Tra  coloro  che  perirono  di 
fuoco  conta vansi  vari  ragguardevoli  personaggi  e  non  pochi  ricchi, 
le  cui  sostanze  diventarono  preda  del  Fisco. 

I  frequenti  auto-da-fè  obbligarono  il  prefetto  di  Siviglia  a 
far  erigere  fuori  della  città  in  una  campagna  detta  Tablada  no 
patibolo  permanente  di  sasso,  il  quale  si  conservò  fino  alla  pre- 
sente età  sotto  il  nome  di  Quemad&ro,  e  sul  quale  eransi  innal- 
zate quattro  grandi  statue  in  plastica,  rappresentanti  quattro 
profeti,  entro  le  quali  si  chiudevano  vivi  i  cristiani  ricaduti  ed 
ostinati,  onde  morissero  lentamente  in  mezzo  a  quelle  orrende 
oombustioni.  Qual  uomo,  per  crudele  che  sia,  oserebbe  sostenere 
che  una  tal  pena  inflitta  per  un  semplice  errore  deir  intelletto 
fosse  conforme  allo  spirito  del  Vangelo? 

I  nuovi  cristiani,  atterriti  da  cosi  spaventosi  supplizi,  emi- 
gravano in  gran  numero  in  Francia,  in  Portogallo  e  perfino 
neirAfrica.  Ed  intanto  molti  di  coloro  ch'erano  stati  condan- 
lìali  come  contumaci  si  trovavano  in  Roma  ed  avevano  chiesto 
jziustizia  al  papa,  il  quale,  sotto  il  19  di  febbrajo,  scriveva  a 
Ferdinando  e  ad  Isabella  per  lagnarsi  che  i  due  inquisitori 
Michele  Morillo  e  Giovanni  di  S.  Martino,  senza  attenersi  alle 
regole  di  diritto,  giudicavano  eretici  coloro  che  non  lo  erano. 
Soggiugneva  che  li  avrebbe  privati  della  loro  carica  se  non 
avessero  avuto  riguardo  al  decreto  reale  che  li  aveva  istituiti; che 
per  altro  annullava  rautorilà  accordata  di  crearne  degli  altri,  a 
motivo  che  se  ne  troverebbero  di  capaci  tra  coloro  ch'erano 
stati  nominati  dal  generale  e  dal  provinciale  de'  domenicani, 
che  soli  avevano  il  privilegio  di  fare  tali  nomine,  dovendosi 
risguardare  come  emesso  per  errore  di  spedizione  quello  accor- 
dalo al  re  ed  alia  regina. 

A  questo  ingiurioso  oltraggio  fatto  a  Ferdinando  e  ad 
Isabella  un  altro  il  papa  ne  aggiunse  l'U  febbrajo  seguente, 
col  quale,  dietro  istanza  fattagliene  dal  generale  dei  domenicani 
Alfonso  di  S.  Cebriant,  chiamava  alle  funzioni  d'inquisitori  lo 


\ 


-  155  — 

staBto  Alfonso  ed  altri  religiosi  del  suo  ordine,  tn  i  quali  frale 
Tomaso  Torgoemada,  cbe  fu  in  appresso  il  primo  grmde  ni- 
qmsitore  getierate. 

Una  cosi  rìolenta  procedura  e  tanto  contraria  alle  leggi 
eedtò  wA  fatte  dogliamo  clie  il  re  credette  di  doverne  infor* 
mare  il  papa  :  il  qnale  rispose  che  il  breve  era  stato  spedito 
dietro  il  parere  di  molti  cardinali ,  che  per  timore  della  peste 
ora  si  tenevano  lontani  .da  Roma;  che  al  loro  ritomo  farebbe 
di  noovo  esaminare  raflbre ,  e  che  intanto  permetteva  la  so* 
spensione  del  breve  del  17  aprile,  parche  glMnqaisitori  si  con- 
formassero  neiresercisio  delle  loro  incombenze  al  diritto  co- 
mone  ed  alle  bolle  apostoliche  di  conserto  coirordDìarìo  dio- 
cesano. 

Intanto  la  regina  Isabella  aveva  snpplicato  il  papa  di  dare 
una  forma  stabile  al  nuovo  tribunale;  instando  ohe  non  si  ac- 
cordasse Tappellazione  a  Roma  dalle  sentenze  emanate  In  Spa- 
gna, e  lagnandosi  che  molti  andassero  spargendo  voci  che  in 
dò  ch'ella  aveva  fotte  pel  tribunale  delFInquisizione  altro  non 
aveva  avuto  in  vista  che  Tacquisto  delle  sostanze  de'  condannati. 

Quando  ricevette  la  lettera  d'Isabella,  il  papa  aveva  avuto 
avviso  che  le  bolle  da  lui  mandate  in  Sicilia  per  le  cose  del- 
rinquisizione  avevano  incontrato  resistenza  per  parte  del  virerò 
e  dei  principali  magistrati  del  regno,  onde  seppe  accortamoiitu 
approfittare  della  domanda  della  regina.  Il  23  febbraio  dol  i483 
rispondeva  ad  Isabella,  encomiandone  lo  zelo  por  rinqnlsizione 
e  calmando  gli  scrupoli  della  sua  coscienza  rispetto  alle  confi- 
sche! Dopo  averta  assicurata  che  non  tarderebbe  ad  assecondare 
i  desiderii  di  lei  tostoché  fossero  dissipate  le  insupenibili  (llfii- 
colta  che  al  presente  vi  si  opponevano,  caldamente  T esortava 
a  sostenere  Tlnquìsizjone  ne'  suoi  Stati  ed  in  particolare  a  pren- 
dere le  convenienti  misure  per  faria  ricevere  ed  eseguire  in 
Scilla. 

Secondo  la  promessa  fatta  ad  Isabella,  il  papa  assoggettava 
la  inchiesta  di  lei  all'esame  de'  più  ragguardevoli  spagnuoll  che 
in  allora  si  trovavano  in  Uoma  ;  tra  i  quali  contavansi  il  car- 
dinale Roderigo  Borgia ,  che  fu  poi  papa  Alessandro  Vi,  ed  il 
cardinale  di  S.  Prassede  don  Giovanni  de  Nella,  fratello  di  qael- 
TAIfonso  de  Molla  che  fu  bruciato  in  effigie  per  essergl  posto 
io  sicoro  fra  i  Mori  a  Granata. 

Questa  straordinaria  assemblea  approvò  la  erezione  di  un 
giudice  apostolico  d'appello  per  la  Spagna ,  che  darebbe  son- 


—  W6- 

tenza  su  tutti  i  giudizi  deirioquisizioue  di  cui  si  fosse  fetta 
appellazione  a  lui.  In  seguito  il  papa  ne  dava  notizia  a  Ferdi- 
nando e  ad  Isabella ,  partecipando  loro  d'avere  nominato  solo 
giudice  di  appello  Tarcivescovo  di  Siviglia,  don  Inigo  Manrique, 
e  date  tali  disposizioni  da  fargli  credere  che  grinquisitorì  non 
porgerebbero  ulteriori  motivi  di  lagnanze.  In  appresso  esortava 
i  due  principi  a  proseguire  con  zelo  la  cominciata  impresa,  as* 
sicurandoli  che  la  vittoria  riportata  sopra  i  Mori  era  il  premio 
del  loro  amore  per  la  purità  della  fede.  Per  ultimo  diceva  che 
la  cattiva  condotta  di  Cristobal  Galvez,  inquisitore  di  Valenza» 
era  a  tutti  nota,  e  che  per  la  sua  impudenza  ed  empietà  avrebbe 
dovuto  assoggettarlo  ad  un  esemplare  castigo,  ma  che  pure 
erasi  limitato  a  privarlo  dell'impiego  ;  e  che  perciò  incaricava 
Ferdinando  ed  Isabella  di  nominare  il  suo  successore ,  cai  fin 
d'allora  accordava  la  giurisdizione  e  le  necessarie  facoltà. 

La  nomina  di  don  Inigo  Manrique  arcivescovo  di  Siviglia 
alla  carica  di  giudice  d'appello  sembrava  vantaggiosa  perchè 
dispensava  gli  Spagnuoli  dal  recarsi  a  Roma  e  dalla  esporta- 
zione del  danaro  dal  regno;  e  perciò  la  corte  di  Roma  pensò 
bentosto  di  farne  cessare  gli  effetti.  Per  tale  cagione  continuò 
a  ricevere  le  appellazioni  degli  Spagnuoli  come  se  la  bolla  che 
istituiva  Manrique  fosse  già  dichiarata  di  niun  valore. 

Né  la  cosa  si  rimase  in  questi  termini,  che  sotto  il  2  di 
agosto  il  papa  pubblicò  un  motuproprio  ad  perpetuam  rei  me- 
moriam  in  cui  si  diceva  che  Sua  Santità  aveva  accolti  molti 
Sivigliani  perchè  le  avevano  fatto  sentire  che,  presentandosi  al 
giudice  d'appello,  erano  sicuri  d'essere  piii  duramente  trattati 
che  non  portava  la  legge:  che  perciò  molti  erano  di  già  stati 
assolti  dalla  Penitenzieria  apostolica,  e  che  gli  altri  lo  sarebbero 
in  breve.  Era  noto  a  S.  S.  che  le  grazie  recentemente  accor- 
date dalla  santa  sede  venivano  disprezzate  come  non  valutabili 
a  Siviglia ,  dove  si  continuavano  le  procedure  di  alcuni  spa- 
gnuoli assolti  a  Roma,  mentre  erano  di  già  bruciate  l'effigie  di 
alcuni  altri  i  quali  lo  sarebbero  stati  in  persero  se  fossero  tor- 
nati in  Spagna  ;  che  per  queste  considerazioni  aveva  ordinato 
agli  auditori  del  palazzo  apostolico  di  giudicare  dietro  le  loro 
appellazioni,  non  optante  il  diritto  accordato  all'arcivescovo  di 
Siviglia,  e  di  far  valere  le  assoluzioni  accordate  dalla  Peniten- 
zieria e  le  commissioni  dalla  medesima  spedite  dovendosi  ri- 
sguardare  le  procedure  intraprese  contro  queste  persone  come 
terminate.  Per  ultimo  il  papa  faceva  osservare  a  Ferdinando  e 


che  BBC  9  T^nre  «àie  ns^^v»!  ii:)  >^vipM^  ji^  <N«ft$i(i(m>M*  ti  ^l>(!^ 
cDDlKSffiEL  f«nMti»à^  Inr^  4ì  nM»i>^  ite  ^\V^  ^  ^^  ^^ 

teodole  di  rìtnm  iiidlii>  ttln»^>  ^Ui  nu^ni  v^mlMni  hIn^ia  S^v^  - 

in  rigore  i  sooì  nMlesìnù  AlSwIì.  t^  ^v^^'^^  s^^l*  M^^i  KnIU 
afbuo  oootnrà  non  iDolb>  li^pix  M^  U\  (^r<  KhA|^\  \\m  \^'s\^^\\i\ 
DOD  sentire  la  sinistri  impni^oiH^  c)m^  h  )v\))À  (HXHh^m^Utv  0 
le  hgmuK  di  Ferdinamlo,  scri.^'^  ;!i  qn^v^to  oho  ^v^^ni\o  {i|<^h 
spedita  con  sorerchìa  fretti.  a\-ov»  mHhU\^  OHH>rlwi\o  s\\  rt 
Tocarla. 

Intanto  Giovanni  di  Siviglia,  cho  avovj^  \w  t(ò  0  \m  (\\M 
ottenuta  una  tal  bolla,  tornalo  In  S|V)|inti  noi  itonnt^o  iWI  \\H\, 
fu  forzato  a  presentarsi  co\suoÌ  coin|mitnl  ni  Kl\utio.o  (Vt^ip^^H*^ 
don  Inigo  Manrique  ed  Incoiìtrò  la  funo^tl.i  mMlo  oho  oull  0  Inlll 
-gli  altri  ayrebt)ero  dovnto  pretednnn  II  ro  Fordlnnndn  iiiulMvrt 
nel  vedere  consolidarsi  il  aUtninn  dnllo  rmiliMrhn;  t^d  II  piiim. 
che  solo  avrebbe  potuto  provvedere  a  tanti»  niiiln  tionri^nnitniln 
r ultima  bolla,  temeva  di  splacern  in  coni  dllloitln  nlTiirn  u  i|iimI- 
Tavaro  monarca;  onde  non  ponnò  che  11  darò  nnllu  i^U^mì  tntnpn 
airinquisìzione  di  Spagna  una  forma  atablln.  cotn»  vigili miimi 
ben  tosto. 


CAPITOLO  xxvni. 


Creasione  di  un  grande  inquisitore  generale,  di  on  ooneiglie 
reale  d' Inqvisisione,  dei  tribunali  subalterni  e  delle  leggi 
organicbe.  Stabilimentojdel  Sant*U£Bcio  nel  regno  di  Ara- 
gona. 


Tra  le  misure  cui  diede  luogo  il  dqoto  esame  della  boli» 
del  2  di  agosto  1483  deve  annoverarsi  il  decreto  che  fece  pren- 
dere all'Inquisizione  la  forma  di  tribunale  permanente,  con  m 
capo  dal  quale  dipendevano  tutti  gl'inquisitori  in  generale  e 
cadauno  di  loro  in  particolare.  Di  quest'epoca  soltanto  fu  accor- 
data  la  carica  d'inquisitore  generale  del  regno  di  Castiglia  al 
padre  Tomaso  di  Torquemada,  non  per  altro  motivo  fin' allora 
conosciuto  che  per  essere  stalo  nominalo  con  molli  altri  nella 
bolla  di  febbraio  del  1482, 

Un  altro  breve  del  17  ottobre  del  1483  lo  dichiara  inqui- 
sitore generale  del  regno  d'Aragona,  e  le  sterminale  facoltà 
annesse  al  suo  ufficio  vennero  riconfermale  TU  febbrajo  del  1486 
da  Innocenzo  VII,  indi  dai  due  successori  di  questo  pontefice. 
Era  quasi  impossibile  il  trovare  on  uomo  più  di  questo  capace 
di^  eseguire  le  intenzioni  di  Ferdinando  mercè  la  moltiplicazione 
delle  confische,  quelle  della  corte  di  Roma  col  diffondere  le 
massime  dominatrici  e  fiscali,  e  finalmente  quelle  della  mede- 
sima Inquisizione  rispetto  al  suo  progetto  di  stabilire  coi  sup- 
plici il  sistema  del  terrore  di  cui  abbisognava. 

Torquemada  nominò  subito  quattro  tribunali  subalterni  per 
Siviglia,  Cordova,  Jean  e  Villa  real  oggi  detta  Ciudad-real,  il 
quale  ultimo  venne  poi  trasferito  a  Toledo:  ed  in  allora  Tor- 


qoemada  permise  ai  pedri  domeQìcaiii  d'intnpit'iMlare  Feser- 
cizio  delle  loro  foozioni  oeUe  nrie  diocesi  detta  oorona  di 
Castiglia. 

Questi  moDad»  che  vi  erano  diretlainente  aulorinati  dalla 
santa  sede»  non  si  assc^gettarooo  senta  qualche  resislema  a|tlt 
ordini  di  Torquemada,  protestando  di  non  essere  suoi  deleiiaU. 
Torquemada,  per  non  recar  danno  all'impresa  cui  dava  cimìin^ 
ciamento,  si  astenne  dal  destituirsi;  ma»  (ìersuaso  che  l'unità 
d'azione  fòsse  necessaria  alle  sue  viste,  si  apparecchiò  a  sta- 
bilire quelle  costituzioni  di  cui  non  poteva  fare  a  meno;  ed  in 
allora  scelse  per  suoi  assessori  e  consifilieri  i  Kluresperiti  Glo« 
vanni  Guttierez  de  Ghabes  e  Tristano  de  Medina. 

Intanto  Ferdinando ,  che  non  dimenticava  quanto  imimr- 
tasse  al  Fìsco  di  organizzare  convenientemente  il  tribunale»  cro(\ 
un  consiglio  deìV Inquisizione,  del  quale  nominò  presldonto  a 
vita  il  grande  inquisitore»  e  consiglieri  don  Alfonso  Cari  Ilo,  ve- 
scovo nominato  di  Mazara  in  Sicilia»  che  trovavasi  In  S|mgna. 
Sancho  Velasqnez  de  Guellar  e  Ponce  di  Valenza»  ambiiluo  dot- 
tori iu  legge. 

Qaesr  organizzazione  dava  ai  consiglieri  voce  dollberntlvn 
in  tulli  gli  aCfari  dipendenti  dal  diritto  civile»  e  soltanto  voco 
consultiva  in  quelle  che  appartenevano  airaulorilà  ecclealflMticn, 
della  quale  il  solo  Torquemada  era  investito  dalle  bolle  aposto- 
liche. 

Questa  circostanza  fu  cagione  di  calde  disputo  tra  grinqul- 
sitori  generali  ed  i  consiglieri  della  suprema,  e  la  quistiono  ri  fun- 
se sempre  indecisa.  Ma  perchè  d'ordinario  i  consiglieri  appar- 
tenevano air  ordine  ecclesiastico  »  inclinavano  natiiralmont45  a 
lasciare  alla  giurisdizione  canonica  varie  quistloni  dlpond'^ntt 
dalla  autorità  civile. 

Una  tale  condotta  diminni  notabilmente  gli  afTarl  d^;volnti 
airautorità  temporale  del  re,  il  quale  non  tardò  ad  MVAìtufm 
che  la  sua  rivale  portava  danno  al  Fisco. 

Il  Torquemada  incaricò  i  soni  due  nnMmorì  di  nU^AnUim  le 
costituzioni  pel  governo  del  nuovo  trìbanale.  Adunò  una  giunta 
generale  composta  degP  inquisitori  de'qnallro  tribunali  iis§  lui 
stabiliti,  de'suoì  due  assessori  e  dei  coa^iglleri  reali.  Onesfadii- 
nanza  si  tenne  in  Siviglia^  dove  si  imìMìc^rono  il  W  di  otto* 
biB  del  1484  le  prime  leggi  ddlo  irtabilimml^i  iipagririolo,  f^ìlUt 
lì  tìtolo  élstruzi^mi.  io  mi  limiterò  a  presentare  al  mm  l#H(ffi' 
tori  an*ìdea  generale  dì  queste  emdeiì  leggi,  onde  ter  c/^no^ 
scere  lo  spirito  dominante  deirinqnisiziririe. 


Il  primo  articolo  determina  il  modo  con  coi  verrebbe  pnb* 
blicato  Io  stabiiimento  del  tnbunale. 

Il  secondo  di  pubblicare  nella  chiesa  del  luogo  le  censore 
contro  coloro  che,  avendo  commesso  un  delitto  d'eresia^  non  si 
denunciavano  volontariamente»  e  contro  coloro  che  si  opporrdK 
bero  alle  misure  del  Sant'Ufficio. 

Il  terzo  assegnava  agli  eretici  il  termine  di  trenta  giorni  a 
denunziarsi. 

Il  quarto  voleva  che  le  confessioni  fossero  scritte. 

Il  quinto  proibiva  di  assolvere  segretamente  coloro  che  ave- 
vano volontariamente  confessato.  E  ciò  per  assoggettarli  alFumi- 
nazione  di  un  pubblico  auto-da-fè. 

Il  sesto  li  assoggettava  a  penitenze  infamanti. 

Il  settimo  a  penitenze  pecuniarie. 

Vottavo  non  eccettuava  dalla  confisca  de'beni  gii  pronun- 
ciata il  confessante  volontario  dopo  spirato  il  termine  dì  grazia. 

Il  nono  minorava  le  pene  a  favore  dei  volontari  denun- 
cianti il  proprio  delitto  e  che  non  avessero  compiuti  i  venti  anoL 

Il  decimo  obbligava  a  dichiarare  Tepoca  in  cui  era  caduto* 
nell'eriBsia,  'ad  oggetto  di  sapere  quali  beni  possedeva  in  quel 
tempo. 

Vundecimo  permetteva  che  ad  un  eretico,  chiuso  nella  pri- 
gione del  Sant'  Ufficio ,  il  quale  pentito  chiedeva  la  penitenza» 
si  potesse  accordare  la  pena  della  prigione  perpetua. 

Nel  dodicesimo  si  diceva  che  quando  grinquisitori  credes- 
sero la  confessione  del  penitente  simulala,  lo  condannassero 
ad  essere  rilasciato  alla  giustizia  ordinaria  per  subire  la  pena 
del  fuoco.  ' 

Gol  tredicesimo  si  ordinava  di  giudicare  come  falso  penitente 
colui  che  si  vantasse  d'avere  celati  alcuni  delitti  o  si  sapesse 
averne  commessi  di  più  dèi  denunziati. 

Diceva  ['articolo  quattordicesimo,  che  se  l'accusato  convinto 
persisteva  nella  negativa  anche  dopo  la  pubblicazione  delle  testi- 
monianze, si  dovesse  condannare  come  impenitente.  E  questa 
disposizione  mandò  al  rogo  migliaia  di  vittime. 

Col  quindicesimo  si  ordina  che  quando  contro  T  accusa 
esìste  una  semiprova,  debba  assoggettarsi  alla  tortura.  Se  si  con- 
fessa colpevole  fra  i  tormenti  ed  in  appresso  conferma  la  sua 
confessione,  viene  punito  come  colpevole  :  se  la  ritratta,  viene 
di  nuovo  sottoposto  alla  tortura  o  condannato  a  pena  straor- 
dinaria. In  appresso  si  proibì  la  seconda  tortura  dal  consiglio 


delfioqoisztfkDe.  mi  ilcum  ìiM|aì$ìl(«rì  fniyvM  ^hhusMiiM  viiì> 
deli  per  nfieierii  il  pomo  dopo.  »Uo  prMc$«o  eh^  iKvn  en  oh<^ 
sospesa  la  sedota  dd  prendente  ponriiV 

Si  lieta  col  js^iìr^sire.'  di  dare  acli  ^iViìs^tì  AfH^,t  tWl^ 
deposàziooi  dm  tesHmotìl  potendo^  elianto  comnriìo^^r  k>n^  ci^ 
che  aTevaDo  deposto ,  sopprìmendo  le  oìrr<\<tanre  ch^''  jvMn^h- 
bero  farli  coooscere. 

Il  dictdssertcsim?  ordina  ajrti  in<|iìi$ilorì  d'inton\>f^iv  es??* 
inedesiffii  i  testiinoDÌ,  quando  possano  forKv 

In  forza  del  dkif4teàmo  doTOvano  assistere  alla  torturai  «M 
preTennto  dae  inquisitori. 

Col  dicioMnotesimo  era  prescritto  elio  non  eompawuK^  l\io- 
CQsato  dopo  essere  stato  citato  ne'  modi  wluU,  dov!>vA  oss^ctv 
condannato  come  eretico  convinto. 

Il  tentesimo  artìcolo  dispone  che  quando  *  pnn\ilo  col 
mezzo  dei  libri  e  della  condotta  tenuta  da  un  morto  cho  fos,to 
eretico,  deve  giudicarsi  e  condannarsi  corno  tale .  dissollorrato 
il  suo  cadavere  e  confiscati  tutti  i  suoi  boni  a  prolUlo  dolio 
Slato,  a  danni  dei  suoi  naturali  eredi. 

Col  ventunesimo  s'ingiugneva  agli  inquisitori  di  oslondoro 
la  loro  giurisdizione  sopra  i  vassalli  do*  feudatari  ;  od  In  cn^o 
che  questi  ricusassero  di  riconoscerla,  di  applicar  loro  lo  vm*^ 
suro  e  le  altre  pene. 

Si  diceva  neir  articolo  rentidue  che  ni  figli  minori  di  uh 
condannato  ad  esser  rilasciato  al  tribunnio  ordinario  Mnrrl)lM> 
dal  governo  accordata  a  titolo  di  elemosina  una  pirrol.i  por- 
zione dei  beni  confiscati  al  padre.  Benchc^  lo  abbia  IntU  inflnlll 
processi  antichissipii ,  non  mi  ò  mal  accaduto  di  Irovaro  elio 
gFinquisitori  siansi  presa  cura  degli  sgraziati  figli  d*nn  condurla 
nato.  La  povertà  ed  il  disonore  erano  11  solo  patrtriiortio  dm 
veniva  loro  lasciato. 

Coirar//coto  ventitré  era  ordinato  che  ae  un  eretir./i  rìvnmU 

liato  nel  termine  della  grazia  senza  essere  Incorso  nella  c/inll^ra 

de'  beni,  possedeva  qualche  sr>staoza  derivanti»  da  \mfMim  rJio 

sarebbe  stata  condannata,  non  doveva  rfaesta  comprefid^;rsi  Mììn 

•  legge  del  perrk)no. 

Il  tem  quattro  voleva  che  si  desse  la  liberi*  agli  %t\ì)Av\ 
cristiani  ;kl  nt::onciitato  quando  rion  aveva  Itiogo  la  tAìU\\M',n,  n 
motivo  che  il  re  non  aveva  aeeord»la  la  pnrJ»  che  a  qriestft 
coDdiiìoDe. 

Vietala  W  v(mticmqm$imfp  a0'fry|oisltofi  ed  alle  altre  p^r-, 

làXB.  Jnfimu.  Voi.  lU  lì 


—  562  — 

soDe  addette  al  tribunale  di  ricevere  r^ali  sotto  pena  di  soo* 
manica  maggiore  e  d'essere  privati  dei  loro  impieghi,  condan- 
nati alla  restituzione  e  ad  un'ammenda  del  doppio  valore  della 
cosa  ricevuta.. 

Varticolo  verUisd  raccomanda  agli  u£Eiciali  deirinquisizione 
di  vivere  in  pace  gli  uni  cogli  altri  e  di  non  affettare  superiorità, 
restando  incaricato  V  inquisitore  di  terminare  senza  strepito  le 
contestazioni  che  potessero  nascere. 

CùlVarticolo  ventisettesimo  veniva  espressamente  raccoman- 
dato agi'  inquisitori  di  tenere  d' occhio  i  loro  subalterni ,  onde 
esattamente  soddisfacessero  ai  loro  doveri. 

Finalmente  il  ventottesimo  affida  alla  prudenza  degl'inqui- 
sitori  Pesame  e  la  discussione  di  tutti  i  punti  non  prevedati 
dalla  costituzione  di  cui  si  è  data  l'analisi. 

Questa  costituzione  venne  più  volte  modiflcata  ed  accre- 
sciuta fino  all'anno  1S61;  ma  troviamo  che  a  fronte  di  tutte  le 
modificazioni,  le  forme  della  processura  non  variarono  giammai 
e^  sempre  fu  mantenuto  in  pieno  vigore  quell'arbitrario  proce- 
dere che  può  risguardarsi  cottie  il  fondamento  di  questa  odiosa 
giurisprudenza. 

Un  codice  non  meno  ingiusto  che  sanguinario ,  affidato  a 
gente  che  credeva  di  acquistar  merito  presso  Dio  col  far  bru- 
ciare migliaia  de'  loro  simili,  non  poteva  che  rendere  l' inqui- 
sizione odiosa  in  tutto  il  regno  ;  e  perciò  troviamo  avervi  ecci- 
tato un  vivissimo  malcontento,  come  lo  attestano  il  Mariana  eà 
altri  scrittori,  non  esclusi  neppure  molti  zelanti  partigiani  del 
tribunale  medesimo. 

Ma  ciò  viene  ancora  più  evidentemente  provato  dalla  viva 
opposizione  che  incontrò  nel  regno  d'Aragona ,  dai  delitti  che 
vennero  commessi  perchè  la  nuova  Inquisizione  non  si  stabilisse 
in  questo  regno  e  nelle  Provincie  di  Catalogna,  di  Valenza,  di 
M^iorica,  del  Rossiglione,  di  Sardegna  e  di  Sicilia. 

È  bensì  vero  che  fino  nel  secolo  XIII  l' Inquisizione  vi  si 
era  radicala ,  ma  procedeva  con  assai  maggiore  dolcezza.  La 
confisca  de'  beni  non  vi  si  praticava;  non  era  generale  la  co- 
stumanza di  tener  segreti  i  testimoni. 

Avendo  Ferdinando  adunati  in  Tarragona  le  cortes  del  suo 
regno  d'Aragona  in  aprile  del  1484,  ordinò  in  un  .consiglio 
privato  la  riforma  dell'  Inquisizione,  ed  in  conseguenza  di  tale 
risoluzione  il  padre  Tomaso  di  Torquemada  nominò  inquisitore 
per  l'arcivescovado  di  Saragozza  f.  Gaspare  luglar,  domenicano, 


—    565  — 

il  dottore  Pieiro  Aiiwiés  d*Epib»  canoDìco  di  quelb  melro^ 
liUDa. 

SeUwDe  UD  decreto  del  re  ordioasse  alle  autorità  della 
ofioda  di  spalleggiare  i  nuovi  inquisitori,  Topposiiione 
e  Toleva  farsi  al  tribunale  non  cessò  ;  che  ami  contribuì 
darle  maggiore  estensione  ed  a  renderla,  per  cosi  dire,  na* 
male. 

Forse,  più  che  tutt'altro,  le  diede  questo  carattere  la  cir- 
stanza  che  i  principali  impiegati  della  corte  aragonese  erano 
;li  de'  nuovi  cristiani ,  o  avevano  spose ,  sorelle ,  nipoti ,  cu- 
li, ecc^  di  tale  pertinenza  ;  onde  approfittarono  della  propria 
Quenza  per  muovere  la  rappresentanza  nazionale  a  reclamare 
a  corte  pontificia  ed  al  re  contro  V  introduzione  del  nuovo 
dice  inquisitoriale.  In  fatti  si  fecero  partire  deputati  alla  volta 
Roma ,  ed  altri  furono  mandati  alla  corte  del  re  ;  ma  frat- 
Qto  i  nuovi  inquisitori  condannarono  alcuni  nuovi  cristiani 
me  eretici  giudaizzanti  e  celebrarono  qualche  auto-da-fè.  Tali 
pplicU  esacerbarono  oltremodo  i  nuovi  cristiani  del  regno  di 
agona ,  che  temevano  di  vedere  in  breve  rinnovarsi  nelhi 
ro  patria  le  orrende  scene  che  già  da  tre  anni  pralicavansl  in 
istiglia. 

I  deputati  spediti  al  re  fecero  sapere  ai  loro  committenti 
non  essere  soddisfatti  dello  stato  della  loro  missione.  Coloro 
e  avevano  preso  parte  in  quest'affare  erano  il  tesoriere  Ga- 
iele  Sanchez,  suo  fratello  Francesco  dispensiere  del  ro,  Luìkì 
»nzales  segretario  del  re,  Alfonso  della  Gaballeria  vice-can- 
iliere,  ecc.,  i  quali  mantenevano  una  segreta  corrispondenza 
d  Pietro  Cerdan,  Guillen  Ruiz  de  Moros,  Martino  Gotor,  Ga- 
liano^ Gerdan,  Luisi  di  Santangel  e  Michele  Goscon,  tutti  021- 
lieri^  ma  discendenti  da  ebrei,  e  protetti  da  don  Giovanni 
mes  de  Vrrea,  signore  d'Aranda ,  da  d.  Liopez  suo  figlio,  da 
Blasco  d'Alagon  signore  di  Sistago,  ecc.,  che  in  seguilo  pre- 
ro  parte  nella  trama  formata  per  uccidere  Tinquisitoro  d*Ar- 
lès  e  furono  giudicati  dairinquisizione. 

Vedendo  gli  Aragonesi  riuscir  vani  tutti  i  loro  sforai  [)or 
pedire  lo  stabilimento  deir  Inquisizione,  risolsero  di  assassi- 
re  uno  0  due  inquisitori,  onde  spaventare  gli  altri  in  modo 
e  alcuno  più  non  osasse  esercitare  quella  carica  0  rimuovere 
re,  per  timore  di  più  gravi  sedizioni,  dal  suo  progetto. 

Ma  i  congiurati  troppo  male  conoscevano  il  re  ed  II  popolo 
stigliano.  Questo  é  naturalmente  paziente  e  subordinato  ;  ed 


—  5d4  — 

il  re,  sebbene  privo  d'ogni  altra  virtù,  possedeva  nna  eerta 
energia  politica  che,  sostenuta  dalla  sua  tiberiana  prudenza,  lo 
faceva  rispettare  e  temere  dai  suoi  amici,  dai  nemici  e  dai  sud- 
diti. Essendosi  dai  congiurati  adottato  un  progetto ,  cercarono 
assassini  per  far  perire  il  dottor  Pietro  d'Arbuès  d'Epila,  prin- 
cipale inquisitore  di  Saragozza,  Tassessore  Martino  della  Raga, 
Pietro  Frances  deputato  del  regno  e  diversi  altri. 

Onde  avere  compagni  tutti  i  nuovi  cristiani ,  pensarono  di 
emettere,  mentre  si  trovavano  a  Saragozza ,  una  contribuzione 
volontaria  sopra  tutti  gli  Aragonesi  di  razza  israelitica  ;  e  ri* 
sulta  dalla  procedura  che  d.  Blasco  d'Alagon  aveva  ricevuto 
diecimila  reali  provenienti  da  questa  contribuzione,  destinati  a 
pagare  gli  assassini  di  maestro  Epila,  col  quale  nome  era  in- 
dicato Tinquisitore  Arbuès. 

Risulta  pure  dalla  procedura  del  famoso  Antonio  Perez, 
segretario  di  Stato  di  Filippo  II  (giudicato  nel  1592),  che,  vo- 
lendo il  fiscale  farlo  passare  per  un  discendente  da  ebrei,  pro- 
dusse una ^reZorcarton  pronunciata  contro  Giovanni  Perez, 
nel  1489,  nella  quale  si  diceva  che  quest'indivìduo  aveva  coo- 
perato coi  nuovi  cristiani  di  Calatayud  alle  spese  di  quelPas* 
sassinio;  e  nell'affare  di  Giovanni  Pietro  Sanchez,  bruciato  io 
effigie  il  30  giugno  del  1486,  non  solo  è  provato  eh- era  autore 
della  congiura ,  ma  che  inoltre  teneva  cinquecento  ^fiorini  per 
pagare  gli  assassini. 

Quello  che  s'incaricò  di  dirigerne  l'esecuzione  fu  Giovanni 
de  l'Abbadia',  nobile  d'Aragona,  ma  per  parte  di  donne  discen- 
dente da  ebrei.  Scelse  per  esecutori  Giovanni  d' Esperai ndeo, 
Vidal  d'Ursano,  suo  servitore,  nato  in  Guascogna,  Matteo  Ram, 
Tristano  de  Leonis ,  Antonio  Gran  e  Bernardo  Leofante.  I  loro 
tentativi  riuscirono  più  volte  senza  effetto;  e  Pietro  d' Arbuès, 
avendo  avuto  sentore  dei  loro  disegni,  prese  varie  precauzioni 
ond'essere  meno  esposto,  fra  le  altre  quella  di  portare  sotto  le 
vesti  una  cotta  di  maglia  ed  una  specie  di  caschetto  coperto  da 
una  berretta  rotonda.  Quando  fu  ucciso  nella  chiesa  metropo- 
litana ,  stava  inginocchialo  presso  ad  un  pilastro ,  dove  vedesi 
presentemente  il  pulpito  dell'epistola  ;  aveva  a  canto  la  sua  lan- 
terna ,  ed  il  suo  grosso  bastone  era  appoggiato  alla  colonna. 
Dopo  le  undici  ore  della  sera  del  15  settembre  del  1485,  men- 
tre i  canonici  recitavano  mattutino  in  coro ,  Giovanni  d'  Espe- 
raindeo,  essendosegli  accostato,  gli  scaricò  un  gagliardo  colpo 
di  spada  a  taglio  sul  braccio  sinistro:  Vidal  d'  Ursano  avvisato 


—  565-- 

i  Giofanni  d* Abbadia  di  ferirlo  nel  collo  perthd  sapeTa  atere 
testa  difesa,  dall'elmetto»  gli  diede  per  ^  dietro  on  colpo 
le  ruppe  il  laccio  deirarmatura  della  testa  e  gli  fece  una  rasi 
ofonda  ferita  che  rioquisitore  nou  sopravisse  che  due  giorni, 
sendo  morto  il  17  di  settembre. 

Il  giorno  innanzi  la  Tociferaiione  dì  quest'assassinio  erasi 
ì  sparsa  per  tutta  la  città  ;  ma  Timpressione  che  fece  sugli 
litanti  fu  contraria  afiblto  a  quanto  speravano  i  complici»  per- 
)ccbò  i  vecchi  cristiani,  cioè  non  d'origine  giudaica»  persuasi 
le  si  fosse  estolto  da  nuovi  cristiani,  si  attrupparono  e  si 
cero  ad  inseguire  da  più  bande  gii  assassini  per  vendicare  la 
orte  dell'inquisitore.  La  sommossa  prese  un  carattere  violento 
i  avrebbe  avuto  terribili  conseguenxe,  se  il  giovane  arcivescovo 
ifonso  d'Aragona  non  montava  a  cavallo  e  non  conteneva  la 
ollitudine,  promettendo  che  i  colpevoli  sarebbero  scoperti  e 
ndannali  alia  morte. 

Il  terrore  si  era  diffuso  in  tutti  gli  abitanti»  e  gl'inquisitori 
i  i  loro  partigiani  ne  approfittarono  per  fare  una  reazione  e 
dedere  lo  stabilimento  del  Sant'Ufficio  come  utile  e  necessario 
•nlro  i  nuovi  cristiani.  Ferdinando  seppe  pure  approfittarne 
T  l'esecuzione  de'suoi  disegni  ;  e  la  politica  suggerì  a  lui  ed 
la  regina  Isabella  di  onorare  la  memoria  dell'estinto  d'Arbuòs 
m  una  sorta  di  solennità  che  sommamente  contribuì  a  farlo 
issare  per  santo.  Quest'onore  non  l'ebbe  peraltro  che  sotto 
iessandro  VII  nel  1664.  Gli  venne  eretto  un  magnifico  sepolcro 
Saragozza,  ed  il  suo  corpo  vi  fu  deposto  il  giorno  8  di  di- 
tmbre  del  14S7  con  un'iscrizione  latina  allusiva  alle  sue  virtù 
1  al  suo  martirio. 

Gli  fu  pure  d'ordine  dei  rQ  eretta  una  statua  in  Arbuòs, 
m  iscrizione  e  con  basso  rilievo  rappresentante  una  parte  del- 
ivvenimento. 

Allorché  Pietro  fu  beatificato»  e  le  sue  ceneri  vennero  tras- 
cale  nella  sua  cappella,  fu  posta  sopra  l'antico  sepolcro  una 
ista  pietra  con  lunghissima  iscrizione  contenente  la  storia  del 
artirio»  il  suo  zelo  contro  gli  ebrei  e  ciò  che  fecero  per  ono- 
re la  sua  memoria  Ferdinando  ed  Isabella  ed  Alessandro  VII. 

La  beatificazione  dì  Pietro  d'Arbuès  fu  promossa  dagl'lnqui- 
tori  dopo  ch'era  ornai  spenta  affatto  la  memoria  do'glusti  mo- 
ri che  avevano  mossa  la  nazione  a  rifiutare  rinriuislzlone. 
-edettero  adunque  giunta  la  circostanza  opportuna  di  canoniz* 
rio,  sentendo  quanto  crescerebbe  la  potenza  deirinqulslzione 


—  566  — 

dairessere  sollevato  aironore  degli  altari  ano  de*pnmi  inquisi- 
tori spagnooli.  Né  questo  tentativo  era  nuovo.  Gl'inquisitori 
francesi  avevano  avuta  la  medesima  intenzione  rispetto  a  Pietro 
di  Castelnuovo,  abbate  di  Citeaux,  ucciso  nel  4204  dagli  Albi- 
gesi  in  Narbona;  e  troviamo  pure  che,  pochi  anni  dopo,  gl'in- 
quisitori domenicani  d'Italia  ottennero  quest'onore  pel  loro  con- 
fratello Pietro  di  Verona. 

Troppo  lontano  ci  condurrebbe  il  racconto  delle  pratiche 
adoperate  per  ottenere  Tintento,  non  essendosi  trascurati  nò  te- 
stimonianze di  miracoli,  né  apparizioni  del  santo  candidato,  né 
tutto  ciò  che  poteva  meglio  convenire  alla  superstizione  dei  volgo. 
Quando  gl'inquisitori  spagnuoli  ebbero  ottenuta  la  beatificazione 
d'Arbuès  credettero  venuto  il  tempo  di  fare  altresì  santificare 
il  loro  istituto,  cercando  di  ottenere  che  ogni  anno  si  celebrasse 
in  tutte  le  chiese  di  Spagna,  con  messa  da  proprio,  una  solenne 
festa  della  fondazione  del  Sant'Ufficio  dell'Inquisizione,  come  si 
celebra  quella  della  cattedra  di  S.  Pietro  in  Antiochia  ed  m 
Roma  ecc.  ^ 

L'affare  era  stato  tanto  inoltrato  che  si  trovò  negli  archivi 
di  Alcala  de  Henares  un  esemplare  della  messa  e  dell'ufficio 
composto  per  questa  solennità,  ond'essere  posti  in  opera  tosto 
che  la  congregazione  dei  riti  avrebbe  approvato  il  progetto  de- 
gl'inquisitori :  ma  l'esito  non  rispose  alle  loro  speranze,  e  la 
corte  di  Roma  non  acconsenti  che  la  Spagna  accordasse  gii 
onori  del  culto  ad  uno  stabilimento  crudele  e  tanto  opposto 
allo  spirito  ed  alla  dolcezza  del  Vangelo. 

Mentre  Ferdinando  ed  Isabella  pensavano,  senza  forse  spe- 
rarlo, ad  ottenere  la  beatificazione  di  Pietro  Arbuès,  gl'inquisi- 
tori di  Saragozza  procedettero  alla  scoperta  degli  autori  e  dei 
complici  delFassassinio,  onde  condannarli  come  eretici  giudaiz* 
zanti  0  sospetti  di  esserlo  e  come  nemici  del  Sant'Ufficio.  Im- 
possibile cosa  sarebbe  l'enumerare  tutte  le  famiglie  che  la  loro 
vendetta  immerse  nella  disgrazia,  avendo  in  breve  sacrificate 
più  di  dugenlo  vittime.  Vidal  d'Ursano,  uno  degli  assassìni,  sco- 
pri tutto  quanto  sapeva,  e  le  sue  deposizioni  furono  il  fonda- 
mento delle  ricerche  dell'Inquisizione. 

La  violenta  morte  di  tanta  gente  costernò  l'Aragona,  che 
fu  pure  spettatrice  del  triste  spettacolo  di  un  numero  ancora 
maggiore  di  sciagurati  morti  lentamente  in  carcere.  Appena 
poteva  contarsi  qualche  famiglia,  ne'  tre  ordini  della  nobiltà, 
che  non   avesse  avuto  la  vergogna  di  vedere  alcuno   de'  suoi 


—  «67  — 

esposto  in  un  auto-da-fé,  coperto  delle  vesti  della  penitenza. 
Il  più  leggiero  indizio  risgaardavasi  come  ana  prova  di  com- 
plicità, e  non  era  rnltimo  dei  delitti  quello  di  avere  dato  ospi* 
talità  ad  un  fuggitivo. 

Di  questo  numero  fu  don  Giacomo  Diez  d*  Aux  Armen- 
darix,  signore  della  città  di  Gadreita,  ecc.,  antenato  per  linea 
femminile  dei  duchi  d' Albuquerque ,  il  quale  aveva  tenuti 
nascosti  una  notte  in  sua  casa  Garcia  de  Moros ,  Martino  di 
Sant'Angelo  ed  altri  signori,  costretti  dagli  avvenimenti  a  fug- 
gire  da  Saragozza.  Alla  stessa  pena  della  pubblica  penitenza 
furono  egualmente  condannati  parecchi  cavalieri  di  Tudela  e 
di  Navarra  per  avere  accolti  Giovanni  Pietro  Sanchez,  Bernardo 
46  Montesa ,  Ferdinando  Gomez ,  Giovanni  Vasquez  ed  altri 
illustri  fuggitivi. 

Tanta  crudeltà  esercitata  contro  cosi  distinti  personaggi 
non  sorprenderà  coloro  che  non  ignorano  che  V  Inquisizione 
trattò  con  eguale  rigore  un  nipote  di  Ferdinando  V.  Era  questi 
Giacomo  di  Navarra,  figlio  dello  sventurato  principe  di  Viana, 
don  Carlo,  chiamato  talvolta  V Infante  di  Navarra  o  Infante  di 
Tudela.  Chiuso  nelle  carceri  deirinquisizione  di  Saragozza,  ne 
usci  dopo  alcun  tempo  per  soggiacere  ad  una  pubblica  penitenza 
per  avere  cooperato  alla  fuga  di  un  congiurato. 

E  Ferdinando  potè  permetterlo  ?  Ma  forse  era  malcontento 
di  suo  nipote,  perchè  cugino  di  Caterina  regina  di  Navarra  e 
perchè,  sebbene  illegittimo,*  inspirava  qualche  timore  al  sospet- 
toso monarca.  E  conviene  dire  che  gP  inquisitori  conoscessero 
le  disposizioni  di  Ferdinando  quando  osarono  di  arrestarlo. 

Dopo  ciò  più  non  reca  sorpresa  il  vedere  condannati  al 
medesimo  gastigo  i  principali  signori ,  quantunque  molti  di 
loro  fregiati  delle  principali  cariche  di  corte. 

Giovan  Pietro  Sanchez  fu  bruciato  in  effigie  per  essersi 
salvato  in  Francia.  Antonio  Augustin,  quello  che  poi  diventò 
vice-cancelliere  d'Aragona,  trovandosi  allora  a  Tolosa,  fu  causa 
che  suo  fratello  Pietro  fosse  dair  Inquisizione  condannato  ad 
una  penitenza  con  cinque  suoi  compagni  per  avere  desistito 
dal  perseguitare  Giovan  Pietro  Sanchez,  eh'  era  stato  arrestato 
dietro  sua  inchiesta. 

Ma  ciò  che  più  riesce  vergognoso  air  Inquisizione  è  V  ac- 
caduto a  Gaspare  di  Santa^Cruz.  Erasi  costui  ritirato  a  Tolosa, 
dove  mori  dopo  essere  stato  bruciato  in  effigia  a  Saragozza. 
Uno  de'suoi  figliuoli  venne  arrestato  d' ordine  degP  inquisitori. 


—  568  — 

sotto  pretesto  che  avesse  favoreggiata  la  fuga  di  sno  padre,  e* 
subi  la  pena  di  un  pubblico  auto-da-fe.  Inoltre  fu  GODdannato 
a  levare  copia  della  sentenza  emanata  contro  sno  padre ,  a 
passare  a  Tolosa  per  consegnare  un  tale  atto  ai  domenicani  e 
donnandare  loro  che  fossero  disseppellite  e  bruciate  le  reliquie 
di  suo  padre,  indi  a  tornare  a  Saragozza  per  consegnare  agt'io* 
quisitori  i  processi  verbali  di  questa  esecuzione.  Il  condannato 
si  assoggettò  senza  lagnarsi  all'ordine  de*  suoi  giudici,  ed  ogni 
anima  sensìbile  freme  d'orrore  leggendo  questo  fatto,  non  mena 
inorridita  per  la  crudeltà  degP  inquisitori  che  sdegnata  per  la 
viltà  di  questo  snaturato  figlio. 

Giovanni  d' Esperaindeo  e  gli  altri  principali  autori  del- 
l' assassinio  d' Arbuès  vennero  strascinati  per  le  strade  di 
Saragozza,  indi,  dopo  avere  loro  troncate  le  roani,  furono  appiè* 
cati,  ed  i  loro  cadaveri  fatti  in  pezzi  si  esposero  sulle  pubbliche 
strade.  Giovanni  de  l'Abbadia  si  uccise  in  prigione  nel  giorno 
che  precedette  quello  del  supplicio,  ma  fu  dopo  morte  trattata 
come  gli  altri.  Si  lasciò  che  Yidal  d'Ursano  spirasse  prima  & 
tagliargli  le  mani,  perchè  gli  si  era  promesso  di  fargli  grazia 
se  svelava  i  suoi  complici;  promessa  che  non  ebbe  verun  altro 
effetto,  perchè  in  simili  circostanze  l' Inquisizione  non  si  pro- 
pone altro  oggetto  che  quello  di  avere  dall'imputato  la  confes- 
sione del  suo  delitto  e  la  manifestazione  de'  complici. 

Le  armi  di  cui  si  erano  serviti  gli  assassini  vennero  appese 
nella  cattedrale  dì  Saragozza ,  dove  rimasero  lungamente  col 
nome  delle  persone  bruciate  e  di  quelle  che  subirono  una 
pubblica  penitenza  per  quest'affare.  Molte  furono  levate  alcun 
tempo  dopo  in  forza  di  bolle  apostoliche,  delle  quali  Ferdinando 
permise,  quasi  per  grazia,  l'esecuzione;  altre  scomparvero  dietro 
le  calde  istanze  delle  famìglie  condannate  di  alta  condizione. 
Ma  ciò  essendo  spiaciuto  agi'  inquisitori,  seppero  colle  loro 
ipocrite  lagnanze  irritare  la  più  ignorante  classe  de'  vecchi 
cristiani  collo  spargere  che  con  ciò  era  stata  oltraggiata  la  purità 
della  religione  cattolica.  E  le  loro  invettive  occasionarono  un 
tumulto  popolare  che  poco  mancò  non  si  rendesse  generale: 
tanto  è  potente  l' influenza  del  fanatismo  tra  persone  rivestite 
di  un  sacro  carattere  e  che  hanno  interesse  di  nascondere  la 
verità  o  di  travisare  le  idee. 

Non  poteva  addursi  verun  motivo  che  bastasse  a  giustifi- 
care il  disonoFe  di  un'intera  famiglia  perchè  un  suo  membro  era 
slato  condannato  dall'Inquisizione,  e  talvolta  ancora  quantun- 


—  569  — 

qne  ìnDocèote.  Io  coD8erVo  più  di  trenta  processi  relativi  a  que- 
st*afllire»  Do'cpiait  non  trovasi  noa^  sola  frase  che  dod  cootribui* 
sca  ad  accrescere  l'orrore  clie  inspira  l'Inquisizione  a  tntte  le 
nazioni  incivilite,  taon  esclusa  nemmeno  la  Spagna,  dove  que- 
st'idra mostruósa  tornò  a  rinascere. 

Né  meno  ingiusta  disposizione  né  meno  crudele  sembrerà 
quella  di  togliere  la  stima  e  la  riputatone  ad  una  femlglla 
perchè  deriva  da  antenati  ebrei,  quando  è  noto  che  tutti  gli 
Spagnuoli  discendono  o  da  pagani  idolatri  o  da  mori  màomet^- 
tani,  0  da  israeliti.  Era  necessaria  un'istituzione  come  quella 
del  Sant'UfiScio  per  oscurare  i  lumi  della  ragione  naturale,  il 
cui  impero  e  l'azione  sono  cosi  utili  pel  governo  delle  umane 
società. 

Quasi  in  tutte  le  altre  Provincie  dell'Aragona  si  oppose  una 
resistenza  egualmente  viva  che  quella  degli  abitanti  di  Sara- 
gozza. Non  vi  volle  meno  della  fermezza  e  della  potenza  del  re 
per  contenere  il  popolo  di  Tudéla,  ove  non  fu  ristabilita  la  calma 
che  in  marzo  del  1485.  Gli  stessi  mezzi  di  rigore  si  dovettero 
pure  praticare  in  Valenza  ed  in  altre  parti  di  quella  diocesi, 
dove  si  videro  alla  testa  degli  ammutinati  i  feudatari  ctko  ave- 
vano vassalli,  perchè  la  crudeltà  degl'Inquisizione  faceva  loro 
temere  che  fossero  per  abbandonare  le  terre  che  coltivavano. 
Per  lo  stesso  motivo  si  opposero  all'espulsione  dei  Mori  sotto 
il  regno  di  Filippo  III. 

La  città  ed  il  vescovado  di  Lerida,  ed  altre  città  della  Ca- 
talogna si  opposero  gagliardamente  allo  stabilimento  della  ri- 
forma e  non  vi  furono  assoggettate  che  nel  1487. 

Ma  Barcellona  fu  la  più  ostinata.  Questa  rimostrò  che  non 
poteva  essere  forzata  a  riconoscere  il  Torquemada  uè  i  suoi 
delegati  per  le  bolle  di  Sisto  IV  e  d'Innocenzo  Vili,  in  forza 
de'privilegi  che  aveva  di  non  ammettere  altro  inquisitore  che 
quello  che  avrebbe  un  titolo  speciale  per  la  sola  città  di  Bar- 
cellona. Il  re,  per  annullare  quest'opposizione,  ricorse  a  Roma 
ed  ottenne  due  bólle  del  1486  e  1487  che  davano  a  Torque- 
mada il  titolo  di  speciale  inquisitore  di  Barcellona,  con  facoltà 
di  suddelegare. 

Gli  stessi  mezzi  furono  dal  re  adoperati  rispetto  agli  abi- 
tanti di  Majorìca,  dove  l'Inquisizione  non  penetrò  che  nel  1490; 
rispetto  a  quelli  della  Sardegna,  che  la  dovettero  ricevere  nel 
1492,  e  per  ultimo  verso  i  Siciliani,  nel  cui  paese  si  stabili  as- 
sai più  tardi  e  dopo  avervi  cagionali  vivissimi  movimenti. 

TàMB.  Ji^ftitf.  Voi.  II.  72 


—  «70  — 

il  fatto  pib  incontrastabile  dell'istoria  deirinqnisiuone  in 
Spagna  è  quello  di  esservi  stata  introdotta  contro  il  voto  di 
tutte  le  Provincie  e  colla  sola  approvaxione  dei  padri  domeni- 
cani e  di  alcnni  altri  preti  interessati  o  fanatìd. 

Il  numero  degli  ultimi  si  accrebbe  a  dismisura  In  questi 
ultimi  temjM,  ed  è  ciò  che  generalmente  rende  credibile  Topi- 
nione  contraria  a  quella  chHo  stabilisco  nella  mìa  storia:  ma  la 
verità  non  teme  il  loro  suffragio  né  cerca  la  loro  approvasione. 
Mi  accingo  a  somministrare  pib  recenti  prove  di  questa  mia 
asserzione. 


CAPITOLO  XXIX. 


Atti  addisionali  allo  primo  eootitiisioni  dol  Sont'UfHoio,  oon- 
•ogiioaso  oho  no  doriTano,  od  appoUosioai  a  Koma  oontra 
i  loro  abooi. 


L*  inquisitore  Torqnemada  avendo  gindicato  necessario  dì 
accrescere  le  costituzioni  che  Ano  a  qoell'  epoca  avevano  ser* 
ilto  di  direzione  al  Sant'  Ufficio,  vi  a^nnse  nocfici  nuovi  ar- 
ticoli, che  in  sostanza  contenevano  : 

Dovervi  essere  in  ogni  tribunale  subalterno  due  inquisitori 
legali,  un  fiscale,  ed  altri  impiegati  con  soldo  stabile. 

Che  rinqoisizione  manterrebbe  un  valente  giurisperito  io 
Roma  col  tìtolo  di  agente  per  tutti  gli  tìhxì  di  sua  sqpettanza^ 
il  quale  sarebbe  pagato  col  prodotto  de'beni  confiscati  ai  con- 
dannati. 

Che  perderebbe  l'impiego  all'istante  colui  che  ricevesse 
regali  dagli  accusati. 

Che  i  contratti  stipulati  dai  condannati  prima  del  1479  sa- 
rebbero validi.    ' 

Che  i  signori  che  prestassero  asilo  nelle  loro  terre  ai  fug- 
gitivi dovrebbero  consegnare  al  Fisco  tutti  gli  eflètti  dai  me- 
desimi ricevuti. 

Che  i  notar!  deirioquisizione  avrebbero  un  registro  dei  beni 
dei  condannati. 

Che  i  ricevitori  del  Sant'Ufficio  potrebbero  vendere  que'beni 
la  cui  amministrazione  riuscisse  loro  onerosa. 

Che  ogni  ricevitore  avrebbe  la  cura  dei  beni  della  propria 


-  572  — 

Inquisizione  ed  avviserebbe  il  ricevitore  di  qael  tribnnale  che 
fosse  proprietario  dei  beni  nel  sao  circondario. 

E  cosi  altre  cautele  e  forme  d'amministrazioni  prescrivono 
il  9  e  10  articolo. 

E  finalmente,  che  rispetto  alle  circostanze  non  prevedute 
da  nuove  costituzioni,  supplirebbe  la  prudenza  degli  inquisitori, 
ricorrendo  al  governo  negU  affari  piii  importanti. 

Tutti  i  quali  articoli  chiaramente  dimostrano  quanto  fio 
d'allora  fosse  grande  il  numero  delle  confische,  essendo  dive- 
nuto un  oggetto  abbastanza  importante  da  meritarsi  regolamenti 
speciali  per  la  loro  amministrazione  e  la  speciale  cura  d^li 
inquisitori.  / 

Bla  ia  appresso  l'^perienza  dimostrò^  che  l'entrate  non 
bastavano  per  sopperire  ai  bisogni ,  a  motivo  del  grandissimo 
numero  di  prigionieri  miserabili  che  Tlnquisizione  doveva  ali- 
mentare e  delle  enormi  spese  che  il  suo  agente  faceva  in  Roma; 
per  lo  che  Torquemada  permise  agP  inquisitori  di  condannare 
ad  ammende  pecuniarie  i  riconciliati  e  sottomessi  a  pubblica 
penitenza. 

In  tali  circostanze  Ferdinando  ed  Isabella  chiesero  al  papa 
di  assegnare  al  SanV  Ufficio  una  prebenda  canonicale  io  ogni 
chiesa  cattedrale  del  regno;  ed  il  papa  vi  acconsenti  malgrado 
le  rimostranze  de'  capitoli. 

Non  farà  sorpresa  il  sentire  che  i  ricevitori  dell'Inquisizione 
adoperassero  mezzi  vessatori!  per  arricchire  quel  Fisco  che  l'In- 
quisizione medesima,  per  capriccio  e  senza  licenza  de'sovrani, 
impoveriva,  e  che  spingessero  le  loro  pratiche  con  tanta  im- 
pudenza da  obbligare  il  consiglio  deirinquisizione  a  provocare 
repllcalamente  Tautorità  reale  perchè  facesse  cessare  le  proces- 
sure  dei  ricevitori. 

Farà  bensi  maraviglia  il  vedere  che ,  volendo  Ferdinando 
ed  Isabella  impedire  che  l' Inquisizione  disponesse  senza  l' as- 
senso loro  delle  entrate  del  Fìsco,  fossero  tanto  vili  da  ricor- 
rere ai  papa ,  il  quale  con  decreto  dell'  8  febbrajo  del  1495 
vietò  sotto  pena  della  scomunica  agl'inquisitori  di  usarne  senza 
l'assenso  reale.  Questa  disposizione  della  corte  di  Roma  fu  ca- 
gione che  Ferdinando  facesse  formare  un  prospetto  delle  somme 
erogate  dagl'inquisitori  ;  le  quali  si  trovarono  tanto  ragguarde- 
voli che  il  re  ne  diede  avviso  al  papa,  il  quale  incaricò  Fran- 
cesco Ximenesdi  Cisnero,  arcivescovo  di  Toledo,  di  rettificarne 
la  contabilità  e  di  ripeterne  la  restituzione. 


—  575  — 

Tali  emergeDze  costrinsero  Torqnemada  à  pabblicare,  dopo 
dvere  coosoltato  il  consigUo  della  mprema,  una  Dcrova  ordinanza 
f)el  regolamento  deirinquìsizione;  ma,  come  le  precedenti,  non 
riuscì  bastante  a  reprimere  tutti  gli  abusi.  Perciò  il  grande  in- 
•quisilore  adunò  a  Toledo  una  nuova  giunta  generale  degl'in* 
quisitorì,  i  cui  decreti  si  pubblicarono  il  25  maggio  del  4598, 
divisi  in  sedici  articoli,  che  non  fanno  che  dare  qualche  esten- 
sione 0  spiegare  con  maggior  precisione  le  precedenti  coàtitu- 
Eioni.  Mi  limiterò  a  riferire  il  dodicesimo,  che  prescrive  aglMn- 
^uisilorì  di  stabilire  V  Inquisizione  generale  nelle  città  che 
ancora  non  T hanno;  il  quattordicesimo,  che  ordina  di  tenere 
separate  in  pri^one  le  donne  dagli  uomini,  precauzione  che  fa 
supporre  accaduto  qualche  abuso  in  questo  particolare;  e  se- 
nesi infatti  vedute  di  quando  in  quando  certe  cose  che  fanno 
poco  onore  al  tribunale. 

Oltre  queste  ordinanze,  Torquemada  diede  alcune  partico- 
lari disposizioni  affinchè  ogni  funzionario  del  Sant'Ufficio  ri- 
spondesse esattamente  alle  intenzioni  del  governo.  Come,  per 
modo  d'esempio,  cbe  ogni  impiegato  giurerebbe  nulla  palesare 
di  tutto  ciò  che  vedrebbe  o  udirebbe;  che  l'inquisitore  non  si 
tratterrebbe*  mai  da  solo  a  solo  col  prigioniero;  che- il  guardiano 
Don  permetterebbe  a  chicchessia  di  parlargli  e  che  osserverebbe 
diligentemente  se  avesse  scritture  o  carte  nascoste  tra  i  cibi 
<,he  gli  si  portassero. 

Queste  furono  le  ultime  disposizioni  pubblicate  da  Torque- 
fnada,  ma  un'  altra  ne  die  fuori  irsuccessore  don  Diego  Denza 
ilei  1600  divisa  in  sette  articoli. 

Tali  sono  in  succinto  le  leggi  che  fondarono  il  Sant'Uffl- 
'Cio  nel  regno  di  Scagna,  le  quali  applicate  ed  interpretate  da 
f)ersone  inclinate  a  vedere  senza  ribrezzo  perire  i  loro  simili 
in  mezzo  alle  fiamme ,  provocò  in  quel  regno  le  più  terribili 
disgrazie,  facendo  emigrare  più  di  centomila  famiglie  e  perdere 
alla  Spagna  molti  milioni  di  franchi,  che  passavano  alla  corte 
di  Roma.  Questo  eccessivo  rigore  incuteva  terrore  agli  stessi 
antichi  cristiani;  e  sebbene  il  tintore  della  persecuzione  sfor- 
zasse al  silenzio,  alcuni  fatti  conservatici  dalla  storia  provano 
manifestamente  che  la  nazione  '  riprovava  questa  maniera  di 
trattare  cosi  importanti  afiari  quali  sono  quelli  che  risguardano 
la  vita  e  l'onore,  in  una  parola  la  prosperità  o  l'infelicità  di 
4utta  la  monarchia. 

Ferdinando  de  Pulgar,  autore  contemporaneo,  osserva  che 


—  «74  — 

coDgiooti  di  molti  prìgioDìeri  e  di  vari  coDdannati  rìclamarono 
contro  la  condotta  dei  tribunali  del  Sant'Ufficio,  facendo  sentire 
clì'erano  più  rigorosi  che  non  conveniva;  ed  in  una  lettera 
scrìtta  al  cardinale  Hendoza  sostiene  che  il  peccato  d'eresia 
non  doveva  punirsi  con  pena  capitale,  ma  soltanto  con  pene 
pecuniarie,  appoggiando  la  sua  opinione  a  sant'Agostino  ed  alle 
leggi  pubblicate  contro  i  Donatisti  dagrimperatorì  Teodosio  I 
ed  Onorio  I  suo  figlio. 

Giovanni  Mariana  confessa,  nella  sua  Storia  generale  detta 
SpagnOy  che  la  maniera  tenuta  nel  gastigare  i  colpevoli  sem<> 
brava  agli  aiutanti  troppo  severa ,  e  che  faceva  maraviglia  in 
particolare  che  i  figliuoli  fossero  puniti  pei  delitti  dei  padrei 
che  si  tenessero  nascosti  i  delatori  ed  i  testimoni  invece  di 
confrontarii  con  V  accusato  ;  che  la  procedura  non  fosse  pub* 
blica  né  fatta  secondo  le  norme  degli  altri  tribunali ,  e  che  9 
fosse  stabilita  la  pena  di  morte  contro  ogni  sorta  di  delitti 
Soggiugne  che  si  facevano  lagnanze  di  non  poter  parlare  libe* 
ramente  a  cagione  di  tante  spie  sparse  in  tutte  le  città  dal* 
rinquisizione;  la  qual  cosa  faceva  tutti  tremare  e  rìduceva  gli 
abitanti  alla  triste  condizione  di  schiavi. 

Non  è  dunque  cosa  sorprendente  che  il  numero  delle  vit* 
timo  si  moltiplicasse  a  segno  di  non  lasciare  ai  tribunali  il 
tempo  di  procedere  nelle  vie  regolari.  Il  tribunale  di  Villareal 
oggi  Giudad-Real,  essendosi  trasferito  a  Toledo ,  e  pubblicata 
l'editto  di  grazia  che  accordava  il  termine  di  quaranta  giorni , 
si  vide  una  gran  folla  di  nuovi  cristiani  accorrere  e  fare  la  loro 
spontanea  confessione ,  accusandosi  colpevoli  di  delitti  di  giu- 
daismo. Spirato  il  termine,  gl'inquisitori  ne  intimarono  un  altro 
di  sessanta  giorni,  poi  un  terzo  di  trenta,  col  quale  minaccia* 
vano  d'infliggere  le  più  severe  pene  ai  renitenti.  Nel  periodo 
delFuItimo  termine  chiamarono  tutti  i  rabbini  della  sinagoga  dì 
Tolosa,  obbligandoli  sotto  la  santità  del  giuramento  di  Mosè  a 
nominare  tutti  i  battezzati  che  ancora  professavano  il  gilidaismo: 
al  giuramento  aggiunsero  la  minaccia  delle  più  severe  pene, 
ordinando  loro  in  pari  tempo  di  scomunicare,  secondo  il  rito 
dell'antica  legge,  tutti  gli  ebrei  che  ricusassero  di  denunciare 
i  colpevoli. 

Con  tale  misura  avendo  ottenute  numerosissime  dichiara- 
zioni, gl'inquisitori  cominciarono,  subito  dopo  spirato  il  ter- 
mine, le  più  rigorose  procedure ,  e  nella  domenica  12  febbraio 
del  1486  celebrarono  un  auto -da- fé  di  riconciliazione  con  set- 


—  «75  — 

tecentocinqoanta  condannati  d' ambo  i  sessi,  che  subirono  una 
pubblica  penitenza  .a  piedi  nudi,  in, camicia  e  con  un  cero  in 
•nano. 

Lo  storico  contemporaneo  e  testimonio  oculare  soggiugne 
che,  mentre  i  condannati  s'avviavano  alla  cattedrale  per  udire 
'la  lettura  della  sentenza,  l'aere  rìsuonava  delle  loro  grida  e  dei 
loro  gemiti  vedendosi  esposti  ad  una  straordinaria  folla  di  po- 
polo; tanto  più  che  molti  erano  rivestiti  di  onorifici  impieghi. 
Un  secondo  auto-da-fè  di  nove  vittime  si  esegui  la  domenica 
del  2  aprile ,  ed  un  altro  il  7  maggio  seguente  di  settecenlo- 
•cinquanta.  Il  mercoledì  16  agosto  gfinquisitori  fecero  bruciare 
irenticinque  secolari ,  e  nel  susseguente  giorno  due  preti  ;  per 
ultimo  il  10  dicembre  dello  stesso  anno  subirono  una  pub- 
fica  penitenza  novecentocinquanta  persone:  di  modo  che  nel 
periodo  di  un  anno  rinquisizione  di  Toledo  fece  bruciare  venti- 
sette persone  e  subire  la  pubblica  penitenza  a  tremilatrecento. 
€ome  può  credersi  che  si  osservasse  la  regolarità  della  proce- 
dura e  che  tutti  gli  accusati  abbiano  avuto  la  licenza  di  di- 
fendersi, quando  è  noto  che  non  vi  erano  che  due  inquisitori 
e  due  scrivani? 

Il  Mariana  dice  che  Tlnquisizione  di  Siviglia  fece  nel  1482 
l)ruciare  duemila  condannati  in  persona,  altri  duemila  in  efiSgit, 
-eA  a  diciasettemila  fece  subire  la  pubblica  penitenza;  lo  che  piti 
non  permette  di  porre  in  dubbio  la  precipitazione  e  la  crudeltà 
<x)n  cui  veniva  disposto  della  vita,  deir  onore ,  delle  sostanze , 
delle  persone  e  delle  loro  famiglie. 

Era  ben  naturale  che  in  cosi  gran  numero  di  condannati 
molti  appellassero  alla  corte  di  Roma,  la  quale  non  poteva  do- 
lersi di  questa  infrazione  delle  sue  leggi ,  perchè  la  spedizione 
dei  brevi  le  riportava  grosse  somme  di  danaro.  Rispetto  al  de- 
litto di  apostasia,  tutte  le  persone  che  si  presentarono  alla  Pe- 
Tiitenzieria  apostolica  ottennero  T  assoluzione ,  con  proibizione 
d'inquietare  più  oltre  chi  l'aveva  ottenuta.  Ma  perché  gl'inqui- 
sitori spagnuoli,  spalleggiati  da  Ferdinando  e  da  Isabella,  fecero 
al  papa  calde  lagnanze,  questi  mandò  fuori  altri  brevi  che  an- 
lìuUavano  i  precedenti,  o  ne  limitavano  gli  effetti  al  foro  interno. 
.  Di  modo  che  gli  sciagurati  che  avevano  fatti  grandi  sacrifici  di 
danaro  trovaronsi  delusi,  e  la  corte  di  Roma  continuò  a  tenere 
la  stessa  pratica  di  mancare  ugualmente  di  parola  a  quelli  cui 
faceva  sperar  grazia  sotto  nuove  condizionii  purché  continuassero 
ad  appellare,  ed  a  Ferdinando,  col  quale  aveva  patoito  di  rifiu- 


—  576  — 

tare  ogni  appello  a  Roma,  aiternando  bolle  d'assolozione  e  bolle 
di  restrizione  per  TesecuzioDe  delle  medesiipe.  Ad  ogni  modo^ 
la  politica  della  corte  pontificia  riusci  in  parte  vantaggiosa  ai- 
romanità,  avendo  conservato  a  molti  appellanti  ed  alle  loro  fami- 
glie r  onore  e  le  sostanze.  E  piacesse  al  cielo  che  i  papi  non 
avessero  che  in  questo  abusato  della  loro  autorità. 

Molti  spagnuoli,  spaventati  dairimminente  pericolo  dì  es- 
sere tratti  in  giudìzio  innanzi  all'Inqaisizione,  per  evitarìo  pas- 
sarono a  Roma,  dove  furono  graziosamente  accolti  perchè  H 
portavano  le  loro  ricchezze,  ed  ottennero  senza  gravi  difficoltà 
di  assere  assolti. 

Offesi  da  tanta  versatilità  della  corte  pontificia,  Ferdìnando- 
ed  Isabella  scrissero  ad  Alessandro  VI  che  sarebbe  utile  di  la- 
sciare agli  inquisitori  Finterò  e  libero  esercizio  della  loro  giu- 
risdizione. Alessandro  rispose  a  Ferdinando  e  ad  Isabella  coo^ 
un  breve  del  23  agostodet  1497,  col  quale  accordava  la  domanda^ 
dichiarando  nulle  tutte  le  assoluzioni  che  non  avevano  le  forme 
ordinarie,  ad  eccezione  di  quelle  del  tribunale  segreto  della  co- 
scienza. 

Ma  questa  stessa  eccezione  era  pure  una  delle  consuete  pra-^ 
tiche  per  tirare  in  Roma  Toro  degli  Spagntioli.  Siccome  restrema 
severità  degrinquisitori  inspirava  sempre  i  più  vivi  timori ,  e* 
perchè  la  corte  di  Roma,  per  perpetuare  il  sistema  d'esazione, 
continuava  a  mostrarsi  indulgente,  non  è  da  maravigliarsi  che 
non  lasciassero  di  ricorrere  a  lei  tutti  coloro  che  potevano  ad- 
durre mezzi  non  preveduti  dalla  legge  generale.  Uno  di  questi 
fu  quello  delle  recusazioni.  Molti  rappresentarono  al  papa  che, 
in  onta  delle  bolle  apostoliche,  avevano  il  dolore  di  vedersi 
perseguitati  dairinquisizione;  che  questo  tribunale  era  tanto* 
meno  disposto  a  riconoscere  la  loro  innocenza,  in  quanto  che 
il  suo  livore  e  Tedio  suo  e  le  sua  cattiva  volontà  erano  cose^ 
di  cui  ognuno  somministrava  testimonianze  a  lui  personali. 

Don  Alfonso  di  Gabalieria,  vice-cancelliere  d'Aragona,  ap- 
partenente ad  una  delle  più  illustri  famiglie  di  Saragozza  e 
molto  avanti  nel  favore  del  re,  discendeva  da  una  famiglia  ebrea. 
Fu  dairinquisizione  chiamato  in  giudizio  come  sospetto  di  giu- 
daismo, non  che  di  complicità  nell'assassinio  di  Pietro  d'Arbués» 
Questo  signore  si  addirizzò  al  papa,  ricusando  la  giurisdizione 
degl'inquisitori  di  Saragozza,  dell'inquisitore  generale  e  dell'ar- 
civescovo, giudice  d'appello.  11  28  agosto  del  1488  il  papa  rila- 
sciò un  breve  per  interdire  il  giudizio  di  questo  spagnuolo» 
chiamando  l'affare  a  Roma. 


—  577  — 

GrinquisUori  attaccarono  i  molivi  di  recusazione  addotti  da 
don  Alfonso,  ma  non  pertanto  il  papa  ricconfermò  la  sua  pre- 
cedente disposizione.  Questo  signore  riconobbe  dal  favore  del 
re  e  dalle  sue  ricchezze  la  protezione  del  papa  ;  eppure  risulta 
dal  suo  processo,  ch'io  lessi»  che  aveva  avuto  non  piccola  parte 
nell'assassinio  d^Àrbuès,  ma  che  potenti  motivi  impbsero  silenzio 
agr  inquisitori. 

Anche  don  Pietro  d'Aranda  vescovo  di  Galahorra  adoperò 
lo  stesso  mezzo  del  ricorso  a  Roma  per  salvare  la  memoria, 
Tonore,  la  riputazione,  la  sepoltura  ecclesiastica  ed  i  beni  di 
suo  padre  Gonzalo  d'Alfonso  nato  a  Burgos,  che  l'Inquisizione 
dì  Yalladolid  aveva  tratto  in  giudizio. 

GÌ'  inquisitori  non  potevano  che  a  malincuore  vedere  questi 
colpi  d'autorità,  quindi  s'addrizzarono  al  segreto  consiglio  del 
principe;  onde  Alessandro  VI  con  sua  bolla  del  15  di  maggio 
del  1502  ordinava  che  l'inquisitore  generale  attuale  ed  i  suoi 
successori  giudicassero  tutte  le  cause  di  recusazione  contro  il 
ministero  degl'inquisitori.  Ma  sebbene  Alessandro  avesse  cercato 
con  ciò  di  far  cosa  grata  ai  sovrani  spagnuoli,  era  ben  persuaso 
che  non  per  questo  cesserebbero  gli  srppelli  all'autorità  aposto- 
lica. In  fatti  quest'affare  prese  un  cosiffatto  andamento,  che  non 
ostante  le  bolle  pontificie  si  continuò  ad  appellare  a  Roma  per 
evocazione  e  per  recusazione. 

Lo  stesso  facevasi  ancora  per  titolo  di  reabilitazione.  Sic- 
come l'infamia  era  una  delle  pene  inflitte  contro  il  delitto  di 
eresia,  che  inabilitava  i  condannati  agli  impieghi,  si  appellò  a 
Roma  per  essere  esentati  da  tal  pena,  dove  le  domande,  spal- 
leggiate dal  danaro,  erano  sempre  coronate  da  felice  successo, 
senza  prendersi  pensiero  del  torto  che  facevasi  agl'inquisitori. 
Ma  questi  non  tardarono  ad  avvisare  di  quanto  accadeva 
Ferdinando  ed  Isa^bella,  i  quali  supplicarono  il  papa  di  annul- 
lare le  nuove  reabilitazioni  e  le  dispense  recentemente  accor- 
date. Alessandro,  significando  l'onore  della  santa  sede  e  la  sorte 
di  tante  infelici  vittime  al  desiderio  di  far  cosa  grata  ai  due 
monarchi,  con  una  bolla  del  17  di  settembre  del  1498  rivocò 
tutte  quelle  ch'erano  state  precedentemente  spedite  dai  suoi 
predecessori  o  da  lui  medesimo,  coli'  espressa  condizione  cbe, 
ottenendone  taluno  in  avvenire  di  somiglianti,  gl'inquisitori  fos- 
sero autorizzati  a  risguardarle  come  surrette  ed  a  rigettarle  come 
nulle  e  senza  effetto. 

Nonpertanto  la  corte  di  Roma  accolse  nello  stesso  anno 

Tamd.  ìnquis.  Voi.  II.  75 


—  578  — 

vari'  faggitivi  spagnooli  che  imploravaDO  la  loro  riconciliazione 
apostolica.  La  lettura  delle  bolle  non  lascia  verun  dnbbio  intomo 
allo  scopo  che  si  era  proposta  la  corte  pontificia  nello  stabili- 
mento deirinqnisizione  e  nella  protezione  che  le  aveva  accor- 
data: in  cambio  di  uno  zelo  illuminato  per  la  purità  della  fede 
cattolica,  il  suo  più  importante  oggetto  fu  di  scoprire  e  di  tenere 
aperta  una  miniera  che  depauperando  la  Spagna,  arricchiva  i 
<Ì^gìani  pontificii. 


CAPITOLO   XXX. 


Espulsione  degli  ebrei.  Processi  intentati  ad  alcuni  TescoTÌ. 
Conflitto  di  giurisdisione.  Morte  di  Torquemada»  Numero 
delle  sue  Tittime.  Sue  qualità  e  loro  influensa  sulla  con-- 
dotta  e  sugli  afiari  dell'Inquisisione. 


Nel  1942  FerdinaDdo  ed  Isabella  conquistarono  il  regno  di 
Granata  :  avvenimento  che  offrì  nuove  vittime  air  Inquisizione 
in  tanta  moltitudine  di  Mori,  la  cui  conversione  era  poco  sta- 
bile ,  0  non  aveva  altro  fondamento  cbe  quello  di  acquistare 
maggior  considerazione  col  battesimo,  facendo  poi  in  appresso 
nuovamente  professione  del  maomettismo. 

Giovanni  Navagero»  ambasciatore  della  Repubblica  di  Ve- 
nezia presso  Carlo  Y ,  dice  nel  suo  viaggio  della  Spagna  che 
Ferdinando  ed  Isabella  avevano  promesso  che  per  quarantanni 
r Inquisizione  non  sarebbesi  immischiata  negli  sdGTari  de' More- 
schi, ossia  dei  nuovi  cristiani  che  abbandonerebbero  il  mao* 
mettismo  ;  ma  che  nonpertanto  ottenne  di  stabilirsi  subito  in 
Granata,  sotto  pretesto  che  molti  antichi  ebrei  sospetti  d'apo- 
stasia vi  si  erano  rifuggiti.  Ma  quest'autore  alterò  alquanto  il 
fatto  ;  perciocché  i  due  sovrani  promisero  soltanto  che  non  si 
procederebbe  contro  i  nuovi  cristiani  moreschi  che  per  gravis- 
simi motivi:  lo  che  ebbe  effetto,  ma  non  in  modo  che  quei  popoli 
non  fossero  frequentemente  sforzati  a  reclamare  in  loro  favore 
la  reale  promessa.  Per  altro  ìa  giurisdizione  degrinquisitori  di 
Cordova  non  si  estese  sul  regno  di  Granata  che  nel  1526  pei 
motivi  che  verrò  ben  tostoi^  annoverando. 


-580  — 

Siccome  airespulsione  dalla  Spagna  degli  ebrei  dod  battez- 
zati, eseguitasi  nel  1492',  presero  parte  Torqaemada  e  gli  altri 
inquisitori ,  mi  conviene  parlarne  con  qualche  estensione.  Si 
accusavano  gli  ebrei  di  eccitare  all'apostasia  quelli  della  loro 
stirpe  che  si  erano  fatti  cristiani ,  e  loro  si  addossavano  molti 
delitti  commessi  non  solo  contro  gli  antichi  cristiani,  ma  ancora 
contro  la  religione  e  la  tranquillità  dello  Stato.  Rammentavasi  la 
legge  del  codice ,  detto  de  las  [Partidas,  promulgata  nel  4255 
da  Alfonso  X,  nella  quale  si  tratta  della  pratica  degli   ebrei 
.  di  rapire  i  fanciulli  de'  cristiani   per  crocifiggerli   nel  venerdì 
santo,  ad  oggetto  di  fare  ingiuria  alla  memoria  del  salvatore 
del  mondo.  Raccontavasi  la  storia  di  s.  Domenico  di  YaU  fan- 
ciullo di  Saragozza,  ohe  fu  posto  in  croce  nel  1250;  il  furto 
fatto  di  un'  ostia  consacrata  a  Segovia  nel  1406  e  gli   oltraggi 
fattile  dagli  ebrei;  la  cospirazione  da  costoro  tramata  in  Toledo 
nel  1445,  nella  quale  l'esplosione  della  polvere  disposta  sotto 
le  strade  della  città  doveva  avere  luogo  nell'istante  in  cui  pas- 
serebbe la  processione  del  ss.  Sagramento;  quella  di  Tabarra, 
borgata  posta  fra  Zamorra  e  Renavenle,  per  abbruciare  le  case 
senza  che  gli  abitanti  potessero  impedirlo;  il  supplicio  d' altri 
fanciulli  eh*  erano  stati  rapiti  ed  uccisi,  come  il  figliuolo  di 
Dio,  nel  1452  a  Valladolid;  nel  1454  nelle  terre  del  marchese 
d'Almarza,  presso  Zamorra  ;  nel  1468  a  Sepulveda,  nella  diocesi 
di  Segovia;  gl'insulti  fatti  ad  una  croce  nel  1488  nel  campo  di 
Puerto  del  Gamo;  il  furto  del  fanciullo  nella  città  di  Guardia 
nel  1489,  ecc.  Inoltre   si   accusavano  i  medici  ed  i  farmacisti 
ebrei  di  avere  abusato  del  loro  ministero  per  far  morire  molti 
cristiani,  fra  i  quali  Enrico  IH  per  opera  del  suo   medico  don 
Mair. 

Ammettendo  ancora  per  semplice  ipotesi  che  questi  fatti 
fossero  credibili,  non  perciò  era  necessario  il  bando  di  tutti 
Igli  ebrei.  La  religione  e  la  politica  volevano  che  si  trattassero 
con  dolcezza  gl'innocenti,  castigando  nello  stesso  tempo  seve- 
ramente i  colpevoli ,  come  praticavasi  rispetto  agli  altri  Spa- 
gnuoli  cristiani;  ed  in  tal  modo  si  avrebbero  avuti  de'cittadini 
utili;  buoni  e  fedeli  al  governo,  come  in  tutti  gli  altri  Stati 
d'Europa. 

Gli  ebrei  spagnuoli  avendo  avuto  sentore  del  fulmine 
sospeso  sul  loro  capo,  pensarono  di  dissiparlo  coli'  offrire  a 
Ferdinando  e  ad  Isabella  trentamila  ducati  per  le  spese  della 
guerra  di  Granata.  Quando  i  due  principi  si  disponevano  ad 


-581  — 

accettare  questa  offerta,  loro  si  presentò  bruscamente  Torque- 
m^da  con  un  crocifisso  in  mano»  e  parlò  in  tal  modo:  Giuda 
/m  il  primo  a  vendere  il  suo  maestro  per  trenta  denari  :  le 
Vostre  Altezze  pensano  di  venderlo  un'altra  volta  per  trentamila 
monete;  eccole,  prendetele  ed  affrettatevi  a  venderlo.  li  fanatismo 
del  domenicano  produsse  un  subitaneo  cambiamento  nello  spirito 
'di  Ferdinando  e  d'Isabella,  che  il  31  marzo  del  1492  pubblica- 
rono un  decreto  in  forza  del  quale  tutti  gli  ebrei  d' ambo  i 
sessi  erano  obbligati  ad  uscire  dalla  Spagna  prima  del  31  di 
luglio  dello  stesso  anno,  sotto  pena  di  morte  e  della  perdita 
d' ogni  loro  avere  ;  e  lo  stesso  decreto  vietava  ai  cristiani  di 
ricoverarli  dopo  il  prescritto  termine  nelle  proprie  case  sotto 
comminatoria  delle  stesse  pene.  Si  permetteva  agli  ebrei  di 
rendere  i  beni  immobili,  di  esportare  gli  effetti  mobili,  tranne 
Toro  e  l'argento,  pel  quale  dovevano  accettare  cambiali  o  mer- 
canzie non  proibite. 

Il  Torqnemada  incaricò  i  predicatori  di  esortarli  a  ricevere 
il  battesimo  ed  a  non  abbandonare  il  regno,  e  pubblicò  ancora 
tin  editto  per  persuaderli.  Ma  pochi  furono  coloro  cha  muta- 
rono religione;  gli  altri  vendettero  i  loro  beni  a  così  vii  prezzo 
che  Andrea  Bernaldez,  curato  de  los  Palacios,  villaggio  posto  a 
poco  distanza  da  Siviglia,  e  storico  contemporatieo,  racconta 
nella  sua  Istoria  dei  re  cattolici  «  d'avere  veduto  alcuni  ebrei 
vendere  una  casa  per  un  asino,  ed  una  vigna  per  una  pezza 
di  drappo  o  di  tela  ;  >  lo  che  sarà  facilmente  creduto  in  vista 
del  brevissimo  tempo  accordato  ad  uscire  dal  regno. 

Questa  misura  dettata  dalla  crudeltà  e  non  dallo  zelo  della 
religione  privò  la  Spagna,  secondo  il  calcolo  di  Mariana,  di  ot- 
tocentomila ebrei;  ed  aggiugnendo  a  questa  emigrazione  quella 
dei  Mori  di  Granata  che  passarono  in  Africa  e  lo  stabilimento 
di  tanti  cristiani  spagnuoli  nel  Nuovo  Mondo,  si  troverà  che 
Ferdinando  ed  Isabella  pèrdettero  due  milioni  di  sudditi,  e  ne 
risultò  per  l'attuale  popolazione  della  Spagna  una  perdita  non 
minore  di  otto  milioni. 

Ci  assicura  Bernaldez  ohe,  malgrado  la  fatta  proibizione, 
gli  ebrei  esportarono  moltissimo  danaro  che  avevano  nascosto 
nei  basti  e  nelle  selle  delle  loro  bestie  ed  in  altri  luoghi  e  per- 
fino nel  proprio  ventre.' 

Alcune  navi  che  trasportavano  degli  ebrei  in  Africa,  sor- 
prese dalla  burrasca,  furono  forzate  a  dar  fondo  a  Gartagena^ 
dove  centocinquanta  di  quei  proscritti  sbarcarono  e  vollero  farsi 


-  «82- 

f risUaDi.  Le  altre  navi  essendo  ia  seguito  passate  a  Malaga,  altri 
quattrocento  ebrei  si  fecero  cristiani;  altri  molti,  ch'erano  sbar- 
cati ad  Arcilla  in  Africa,  dipendente  dalla  corona  di  PortogaHo, 
chiesero  pure  e  ricevettero  il  battesimo.  Alcuni  altri  tornarono 
nell'Andalusia,  e  mostrarono  lo  stesso  desiderio  di  farsi  cristia- 
ni. Lo  storico  Bernaldez  dice  d'averne  egli  stesso  battezzati 
cento.  Se  ne  videro  tornare  dal  regno  di  Fez,  dopo  essere  stati 
spogliati  dai  Mori  dei  loro  effetti  e  danaro,  e  privati  delle  spose, 
uccise  da  que'barbarì  per  prendere  il  danaro  che  credevano 
trovare  ne'loro  intestini. 

Cosi  orrendi  attentati  contro  la  divina  legge,  e  le. disgrazie 
che  ne  risultarono,  non  possono  imputarsi  che  al  fanatismo  di 
Torquemada ,  air  avarizia  ed  alla  superstizione  di  Ferdinando, 
alle  false  idee  ed  allo  zelo  inconsiderato  ch'era  stato  ispirato  ad 
Isabella,  cui  la  storia  non  può  ricusare  senza  ingiustizia  dol- 
cezza di  cuore  e  spirito  illuminato. 

Le  altre  corti  d'Europa  seppero  resistere  alle  istigazioni 
del  fanatismo,  e  non  ebbero  verun  riguardo  alla  bolla  del  li 
aprile  del  1487  che  Ferdinando  ed  Isabella  avevano  ottenuta  da 
Innocenzo  YIII,  colla  quale  si  ordinava  a  tutti  i  governi  di  for 
arrestare,  dietro  semplice  inchiesta  di  Torquemada,  tutti  i  fug- 
gitivi da  lui  indicati  e  di  mandarli  agrinquisitori,  sotto  pena 
di  scomunica  maggiore  per  tutti  coloro  che  non  ubbidirebbero, 
escluso  dall'anatema  il  solo  monarca.  E  chi  oserà  dare  il  nooie 
di  zelo  per  la  fede  ad  una  persecuzione  che  cercava  in  lontane 
contrade  vittime  fra  persone  che  coH'esilio  si  erano  imposta  la 
crudele  pena  di  rinunciare  ad  ogni  speranza  di  rientrare  nella 
loro  patria  ?  Diciamo  piuttosto  che  la  sola  crudeltà  poteva  det- 
tare somiglianti  misure. 

Di  ciò  ne  fa  prova  la  maniera  con  cui  Ferdinando  fece 
trattare  dodici  ebrei  trovati  in  Malaga  allorché  questa  città  fu 
presa  ai  Mori  il  18  agosto  dello  stesso  anno  :  il  cattolico  prin- 
cipe ordinò  che  fossero  uccisi  con  canne  appuntate,  maniera  di 
supplicìo  cui  i  Mori  assoggettavano  soltanto  coloro  che  rende- 
vansi  colpevoli  di  delitti  di  lesa  maestà,  siccome  di  tutti  il  pio 
crudele  per  la  lentezza  colla  quale  le  vittime  perivano.  Altre 
molle  di  queste  vittime  furono  bruciate. 

L'insolente  e  fanatico  Torquemada,  mentre  affettava  di  ri- 
cusare per  modestia  gli  onori  deirepiscopato,  dava  il  primo  il 
funesto  esempio  di  assoggettare  ad  un  giudizio  i  vescovi.  Non 
bastandogli  di  avere  ottenuto  da  Sisto  lY  il  breve  del  23  mag- 


gio  del  1483,  che  vietava  ai  vescovi  discesi  da  antenati  ebrei 
d'immischiarsi  degli  affari  dell'Inquisizione,  voleva  ancora  farne 
processar  due,  don  Giovanni  Arias  Davila  vescovo  di  Segovia  e 
don  Pietro  d'Àranda  vescovo  di  Calahorra.  Ne  scrisse  al  papa, 
il  quale  con  rescritto  del  25  settembre  del  1487  gli  partecipava 
che  il  suo  predecessore  Bonifacio  Vili  aveva  vietato  agli  antichi 
inquisitori  di  procedere,  senza  una  speciale  commissione  apo- 
stolica, contro  ì  vescovi,  arcivescovi  e  cardinali,  e  gli  ordinava 
di  uniformarsi  a  questa  legge;  che  se  qualche  procedura  di 
questa  specie  faceva  scoprire  il- delitto  di  un  prelato  e  dava 
luogo  0  a  diffamazione  od  a  sospetto  d'eresia  contro  un  vescovo, 
un  arcivescovo  o  un  cardinale,  lo  incaricava  di  trasmetteteli 
copia  di  tutto  quanto  si  fosse  fatto,  onde  risolvere  intorno  al 
partito  da  prendersi  in  simil  caso. 

Quest'ultimo  articolo  della  lettera  del  papa  fu  cagione  che 
il  Torquemada  cominciasse  ad  occuparsi  segretamente  dei  vescovi 
e  ad  ordinare  delle  istruzioni  preparatorie;  ed  il  papa  dal  canto 
suo,  vedendo  con  piacere  aprirsegli  l'adito  di  prender  parte  negli 
aGEairì  della  Spagna,  permetteva  simili  processure,  che  facevano 
passare  a  Roma  ragguardevoli  somme  di  danaro.  Mandò  id  quel 
regno,  col  titolo  di  nunzio  apostolico  straordinario,  Antonio  Pala- 
vicini  vescovo  di  Tournai,  poi  di  Orense  e  di  Preneste,  ed  al- 
Tultimo  cardinale.  Giunto  in  Spagna,  ricevette  alcune  informa- 
zioni e  riunì  tutte  quelle  ch'erano  in  mano  di  Torquemada  ; 
indi  tornò  a  Roma,  dove  si  presero  in  disamina  i  processi  dei 
due  vescovi,  che  furono  citati  dal  papa  a  sentire  le  loro  accuse 
ed  a  difendersi. 

Don  Giovanni  Davila  era  figlio  di  Diego  Arias  Davila,  di  ori- 
gine ebraica  e  che  aveva  occupate  le  più  luminose  cariche  sotto 
Giovanni  II  ed  Enrico  IV,  e  conseguita  la  dignità  di  grande  di 
Spagna;  ed  era  fratello '^di  Pietro  Arias  Davila,  capo  della  con- 
tabilità sotto  Eurico  e  Ferdinando,  e  marito  di  donna  Marianna 
de  Mendoza,  sorella  del  duca  dell'  lafantado.  Tutte  queste  circo- 
stanze non  imposero  al  Torquemada,  il  quale  fece  assumere  tali 
informazioni,  da  cui  emerse,  o  volle  far  credere  che  emergesse» 
che  Diego  Arias  Davila  era  morto  neireresia  del  giudaismo. 
L'oggetto  cui  mirava  l'inquisitore  generale  era  quello  di  far 
coniJUmnare  la  sua  memoria,  di  confiscarne  i  beni,  di  far  dis- 
seppellire le  sue  reliquie  e  farle  bruciare  colla  effigie  di  lui. 

Siccome  negli  ailari  di  tale  natura  i  figli  del  defunto  ven- 
gono citati»  don  Giovanni  Arias  Davila  fu  costretto  a  presentarsi 


—  584  — 

per  difendere  suo  padre  e  sé  medesimo:  passò  a  Roma  nel  1490i 
malgrado  la  sua  avanzata  età»  e  dopo  trent'anni  d'episcopato. 
Fu  favorevolmente  accolto  da  papa  Alessandro  VI,  che,  nel  1494, 
lo  prescelse  per  accompagnare  suo  nipote  il  cardinale  di  Hont- 
reale  9  Napoli,  dove  recavasi  a  coronare  il  re  Ferdinando  II* 
Davila,  di  ritorno  a  Roma,  cessò  colà  di  vivere  in  sul  declinare 
del  1498,  dopo  di  aver  purgata  la  memoria  di  suo  padre  e  senza 
che  Torquemada  avesse  potuto  attentare  alla  sua  libertà. 

Meno  fortunato  fu  don  Pietro  Aranda  vescovo  di  Calahorra^ 
e  figliuolo  di  Gonzalo  Alfonso,  uno  degli  ebrei  battezzati  da 
san  Vincenzo  Ferreri.  Torquemada  e  gli  altri  inquisitori  di  Yal- 
ladolid  presero  a  fare  il  processo  alla  memoria  di  Gonzalo,  che 
volevasi  morto  eretico  giudaizzante.  A  dir  vero  era  morto  ricco 
e  felice,  e  ciò  bastava  per  gettare  sospetti  sulla  di  lui  credenza. 
Suo  figlio  il  vescovo  di  Calahorra  recossi  a  Roma  nel  1493  ed 
ottenne  da  Alessandro  VI  un  breve  in  forza  del  quale  la  pro- 
cedura di  suo  padre  veniva  afiSdata  a  don  Inigo  Manriqne 
vescovo  di  Cordova  e  di  Juan  de  S.  Juan,  e  priore  de' bene- 
dettini di  Yalladolid.  La  sentenza  di  questo  vescovo  imparziale 
fu  favorevole  alla  memoria  di  Gonzale. 

E  sebbene  la  bolla  pontificia  vietasse  agi' inquisitori  di  pren- 
dere parte  in  quest'affare,  sebbene  il  vescovo  di  Calahorra  go- 
desse il  favore  di  Alessandro,  l'Inquisizione  si  fece  a  procedere 
contro  il  vescovo  come  sospetto  egli  medesimo  di  eresia,  e  ne 
fece  rapporto  al  papa  medesimo.  Nel  concistoro  segreto  del  14 
settembre  del  1498.  Alessandro  VI  di  consenso  coi  cardinali 
condannò  il  vescovo  ad  essere  spogliato  de'  suoi  impieghi  e  dei 
suoi  beneficii,  ad  essere  degradato  e  ridotto  alla  condizione  di 
semplice  laico  e  chiuso  in  Castel  Sant'Angelo,  dove  mori  aleno 
tempo  dopo;  quantunque,  malgrado  cosi  formale  giudizio,  tatto 
portasse  a  credere  che  mai  non  avesse  cessato  di  essere  buon 
cattolico. 

Questo  ed  altri  trionfi  del  Sant'Ufficio  sopra  personaggi  della 
più  alta  considerazione  resero  in  tal  modo  arditi  gl'inquisitori 
spagnuoli  che  non  temevano  omai  più  d' intraprendere  in  ma- 
teria di  giurisdizione  tutto  ciò  che  conveniva  al  loro  dispotismo, 
sempre  all'ombra  della  protezione  del  principe  e  sotto  lo  spe- 
cioso pretesto  di  non  potere  altrimenti  purgare  il  regno  dagli, 
eretici.  Dal  che  emersero  influite  contese  di  giurisdizione  tra 
gì'  inquisitori  ed  i  vice-re,  i  governatori  generali  delle  Provin- 
cie, le  corti  reali  di  giustizia,  gli  arcivescovi,  i  vescovi,  vicari 


-585  — 

generali  ed  altri  giudici  ecclesiastici;  e  quasi  sempre  con  felice 
successo. 

Nel  1488  il  governatore  generale  di  Valenza  fece  porre  in 
libertà  Domenico  di  Santa  Cruz,  ch'era  stato  per  ordine  degli 
inquisitori  arrestato  come  nemico  del  Sant'Ufficio,  ma  che  non 
poteva  essere  giudicato  che  dal  tribunale  militare.  GF  inquisi- 
tori ne  portarono  lagnanza  al  consiglio  della  Suprema,  il  quale 
chiamò  il  governatore  a  Madrid  per  rendere  conto  della  su» 
condotta.  11  re  lo  prevenne  della  risoluzione  presa  contro  di 
lui,  e  quest'ufficiale,  malgrado  l'elevala  sua  condizione,  si  vide 
forzato  a  ricevere  T  assoluzione  delle  censure ,  nelle  quali  si 
pretendeva  che  fosse  incorso. 

Un  altro  fatto  della  stessa  natura  ebbe  luogo  a  Cagliari  in 
Sardegna  nel  1498.  Quell'arcivescovo  coH'ajuto  del  luogotenente 
del  re  aveva  fatto  uscire  un  uomo  dalle  prigioni  del  Sant'  Uf- 
ficio. 

Vi  fu  una  procedura  relativa  alla  giurisdizione  del  pre- 
lato, e  le  cose  terminarono,  com'  era  facile  il  prevederlo,  con 
vantaggio  dell'  Inquisizione. 

Tomaso  di  Torquemada ,  primo  inquisitoAH  generale  di 
Spagna ,  mori  il  16  settembre  del  1498.  L' abuso  da  lui  fatta 
della  illimitata  autorità  che  gli  si  era  accordata  avrebbe  do- 
vuto far  deporre  il  pensiero  di  dargli  un  successore,  ed  invece 
fer  pensare  all'abolizione  di  on  tribunale  di  sangue  cosi  con- 
trario alla  dolcezza  del  Vangelo  ;  e  la  quantità  delle  vittime  sa- 
grìficate  in  dìciotto  anni  avrebbe  abbondantemente  giustificata 
tale  misura.  Eccone  il  calcolo. 

Lasciando  da  banda  il  calcolo  dedotto  dai  quattro  autchda-fè 
che  dovevano  celebrarsi  ogni  anno  da  tutte  le  Inquisizioni,  pren- 
deremo un  altro  metodo  di  approssimazione. 

n  Mariana  pretende,  sulla  testimonianza  di  antichi  mano- 
scritti, che  nel  i»imo  anno  dell'Inquisizione  si  bruciassero  in 
Siviglia  duemila  persone  ed  altrettante  in  effigie,  e  che  dicias^ 
settemila  subissero  la  pubblica  penitenza.  Potrei  sostenere,  senza 
tema  di  esagerazione,  che  gli  altri  tribunali  condannarono  al- 
trettante persone  nel  pritno  anno  del  loro  stabilimento;  pure 
ridurrò  questo  numero  alla  decima  parte,  perché  le  denuncia 
furono  a  Siviglia  assai  più  vive  che  altrove. 

Andrea  Bernaldez,  già  da  noi  citato,  dice  che  dal  1482 
fino  al  1489  inclùsivamente  si  diedero  in  Siviglia  alle  fiamma 
più  di  settecento  persone  e  se  ne  condannarono  alla  pùbblica 

Tàmb.  Inquii,  Voi.  II.  74 


penitenza  più  di  cinquemila  »  senza  contare  le  giustiziale  in 
effigie:  supporrò  che  il  numero  degli  ultimi  fosse  la  metà  sol- 
tanto deiraltro,  sebbene  talvolta  non  fosse  minore  ed  anche  più. 

Stando  a  quesf  ipotesi»  y'  ebbero  un  anno  per  Taltro  del- 
l' indicato  periodo  novantotto  condannati  alle  fiamme,  quaran- 
taquattro bruciati  in  effigie  e  seicentoventicinqne  puniti  cod 
una  pubblica  penitenza  nella  sola  città  di  Siviglia:  lo  che  porta 
a  settecentocinquantasette  il  totale  delle  vittime  di  questa  In- 
quisizione. 

Credo  che  ve  n'  abbiano  avute  altrettante  il  secondo  anno 
e  nei  susseguenti  in  tutte  le  altre  Inquisizioni ,  fondando  la 
mia  opinione  sulla  considerazione,  che  nulla  mi  può  essere  ad- 
dotto in  contrario  :  tuttavolta  voglia  ridurne  il  numero  alla 
metà. 

Nel  1K24  fu  posta  air  Inquisizione  di  Siviglia  un'iscrizione 
portante  che  dall'epoca  delFespulsione  degli  ebrei  seguitasi  nel 
i492  fino  al  1K24 ,  erano  state  bruciate  circa  mille  persone  e 
più  di  ventimila  penitenziale. 

Mi  limiterò  a  supporre  che  siansi  brucate  soltanto  mille 
persone  e  cinlpiecento  solamente  giustiziate  in  effigie  ;  e  que- 
sto calcolo  porta  trentadue  persone  bruciate  ogni  anno  perso- 
nalmente, sedici  in  effigie,  e  seicentoventicinque  punite  con 
una  pubblica  penitenza,  cioè  in  tutto  seicentosessantatrè  indi- 
Tidui  colpiti  dairinquifflzione.  Riduco  questo  numero  alla  metà 
per  ciaschedun'  altra  Inquisizione,  onde  non  mi  vengano  con- 
testati i  miei  risultati ,  malgrado  le  ragioni  che  avrei  di  cre- 
derne il  numero  quasi  eguale  alle  vittime  di  Siviglia. 

Potrebbe  supporsi  per  i  tre  anni  1490,  91  e  92  che  pas- 
sarono tra  il  racconto  di  Bernaldez  e  Tiscrizione  di  Siviglia  io 
stesso  sistema  che  per  gli  otto  anni  di  questo  storico;  pure,  per 
allontanare  ogni  sospetto  di  esagerazione,  mi  atterrò  al  numero 
portato  dairiscrizione,  perchè  più  moderato.  Su  tale  fondamento 
mi  accingo  a  dare  il  conto  delle  vittime  immolate  da  Torqae- 
mada,  primo  inquisitore  generale,  ne'diciplto  anni  della  sua  cru- 
dele amministrazione. 

Nel  1481  si  bruciarono  sotto  gli  occhi  dell'  Inquisizione 
di  Siviglia  duemila  persone ,  duemila  in  effigie ,  e  diciassette- 
mila furono  condannate  a  varie  pene ,  lo  che  dà  un  risultato 
di  ventunmila  condannati.  Per  quest'anno  non  conto  verun  in- 
dividuo nelle  altre  Provincie  dove  non  esisteva  la  nuova  In- 
quisizione. 


—  »87  - 

L' anno  1482  ofiRre  nella  stessa  città  novan tetto  indiTidoi 
efiTettivameute  brocìati ,  gaarantacioattro  in  effigie ,  e  seicento- 
venticinqne  penitenziali  ;  totale  settecentocinqnantasette.  Io  non 
parlo  ancora  delle  altre  Inquisizioni. 

Nel  1483  v'ebbe  in  Siviglia  nn  egnal  numero  di  vittime:  ed 
in  quest'anno  entrarono  in  esercizio  i  tribunali  deirinquisizione 
di  Cordova,  di  Jaen  e  quello  di  Toledo,  ch'era  in  allora  stabi- 
lito a  Ciudad-Real.  Partendo  dair  ipotesi  stabilita ,  daremo  ad 
ognuno  de' nuovi  tribunali  duemila  e  cento  condannati,  cioè 
seimilatrecento  fra  tutti  tre,  che  uniti  a  quelli  di  Siviglia  sono 
settemilacinquantasette. 

Nel  1484  le  cose  si  passarono  in  'Siviglia  come  nel  pre- 
cedente anno.  A  Cordova  ,  Jaen  e  Toledo  contiamo  ottanta- 
quattro vittime  bruciate  in  persona,  ventidue  in  eflSgie  e  tre- 
centododici peniteuziate;  in  tutto  punite  millequattrocentono- 
tantuna. 

Nel  1485  le  Inquisizioni  di  Siviglia,  Cordova,  Jaen  e  Toledo 
non  si  scostarono  dal  praticato  nel  precedente  anno.  I  tribunali 
che  in  quest'anno  medesimo  furono  eretti  nell'Eslremadura,  a 
Yalladolid,  Galahorra,  Murcia,  Cuen^a,  Saragozza  e  Valenza,  ci 
danno  per  cadauno  dngenlo  condannati  di  prima  specie,  dugento 
della  seconda  e  millesettecento  della  terza;  totale  sedicimila- 
cinqnecentó  e  più  condannati. 

Siviglia,  Cordova,  Jaen  e  Toledo  danno  ancora  il  medesimo 
risultato  nel  1486,  ed  i  sei  altri  tribunali  qnattromilacinque- 
centosette  condannati  d'ogni  specie. 

E  così  proseguendo  d'anno  in  anno,  apparisce  che  Tor-     .  ^ 
quemada  nei  diciotto  anni  del  suo  ministero  inquisitoriale  fece    1  0 
perire  tra  le  fiamme  diecimiladugentoventi  vittime,  bruciare  in    '     ^ 
eflSgie  seimilaottocentosessanta ,  e  novantasettemilatrecentoven- 
tnna  óondannò  alla  pena  dell'infamia ,  della  confisca  dei  beni , 
della  prigione  perpetua ,  della  esclusione  dagli  impieghi  pub- 
blici ed  onorifici.  Il  prospetto  generale  di  queste  barbare  ese- 
cuzioni ammonta  a  centoquattordicimilaquattrocentoona  il  numero 
delle  famiglie  per  sempre  perdute  ;  non  comprendo  in  questo 
numero  le  persone  che  per  le  loro  relazioni  di  parentela  coi 
condannati  venivano  ad  essere  più  o  meno  partecipi  della  |oro 
sventura. 

Se  il  calcolo  da  me  fatto  sembrasse  esagerato  in  alcuni 
auto-da-fè  dell'  Inquisizione  di  Toledo  per  gli  anni  1485 ,  86 , 
87,  88,  90,  02  e  94,  si  troverà  che  furono  in  quella  città  con- 


—  588  — 

dannate  ne'  sette  indicati  anni  seimilatrecentoqaarantnno  ìndi- 
Yidui  ;  lo  che  ci  presenta  per  adequato  novecentosei  individoi 
diranno.  Si  moltiplichi  questo  numero  per  tredici,  che  é  quello 
dei  tribunali  d'Inquisizione,  e  si  avrà  per  ogni  anno  undid- 
milasettecentosettantotto  individui,  ossia  dugentododicimtla  e 
quattro  individui  in  questi  diciotto  anni. 

Se  avessi  per  gli  altri  tribunali  delPInquisizione  portato  il 
calcolo  cosi  alto  come  quello  di  Siviglia,  avrei  avuto  quattro- 
cento e  più  mila  persone  punite  dal  Sant'Ufficio  in  cosi^  breve 
periodo. 

Si  aggiunga  ch'io  non  feci  entrare  in  questa  somma  i  con- 
dannati in  Sardegna ,  sebbene  sia  cosa  certa  che  Torquemada 
v'immolò  delle  vittime. 

Non  feci  neppure  parola  dell'Inquisizione  di  Galizia  né  di 
quella  dell'isole  Canarie  e  del  Nuovo  Mondo,  né  di  quella  della 
Sicilia,  perchè,  malgrado  gli  sforzi  fatti  per  istabilirvi  il  nuovo 
sistema  inquisitoriale,  vi  durava  tuttavia  l'antico;  lo  che  di- 
mostrava evidentemente  che  il  rigore  del  nuovo  sistema  inqui- 
sitoriale era  più  temuto  perché  lasciava  minori  mezzi  di  difesa. 
Se  noi  risguardiamo  come  vittime  di  Torquemada  tutti  gì'  in- 
dividui che  furono  giudicati  dopo  la  di  lui  morte  nelle  Inqui- 
sizioni fondate  dai  suoi  successòri ,  chi  potrebbe  calcolarne  il 
numero? 

L'ardente  zelo  di  Torquemada  non  limitavasi  alla  persecu- 
zione delle  persone,  stendevasi  anche  ai  libri.  Nel  1490  fece 
bruciare  molte  Bibbie  ebraiche  ed  in  appresso  più  di  seimila 
volumi  in  un  auto-da-fe  ch'ebbe  luogo  a  Salamanca  sulla  piazza 
di  Santo  Stefano,  sotto  pretesto  che  fossero  infetti  degli  errori 
del  giudaismo,  o  pieni  di  sortilegi,  di  magia ,  di  stregonerie  e 
di  altre  superstiziose  pratiche.  Quante  riputate  opere  non  peri- 
rono in  questa  circostanza  come  pericolose,  sebbene  non  aves- 
sero che  il  solo  difetto  di  non  essere  intese  I 

Circa  quaranl'  anni  prima  un  altro  domenicano ,  chiamato 
f.  Lope  de  Barrientos,  confessore  del  re  di  Castiglia  Giovanni  II, 
aveva  condannata  alle  fiamme  la  biblioteca  di  Aon  Enrico  d'Ara- 
gona, marchese  di  Villena,  principe  del  real  ^gue  d'Aragona, 
senza  avere  verun  riguardo  alla  sua  parentela  col  re.  Questo 
impetuoso  ecclesiastico,  per  prezzo  dell'  insulto  fatto  al  cugino 
del  suo  principe  e  dello  zelo  fanatico  che  aveva  dimoslrato , 
venne  nominato  vescovo  di  Cuenfa. 

Di  già  gli  antichi  inquisitori  di  Aragona  avevano  condan- 


late  al  fuoco  tarie  opere  ;«  ina  non  avevano  ardito  di  farlo  che 
n  virtà  d' una  commissione  apostolica ,  che  non  poteva  avere 
tffetto  in  Gastiglia.  Nel  1490  Torqnemada  diede  l'esempio  di  una 
omigliante  esecuzione  in  forza  di  nn  ordine  ricevuto  dal  re 
•''ordinando. 

Pare  è  cosa  tanto  avverata  che  raotorità  dell'  Inquisizione 
lon  si  estendeva  fln  là,  che  un'ordinanza  di  Ferdinando  e  d'Isa- 
^lla  del  1502  incaricava  i  presidenti  delle  cancellerie  di  Val- 
adolid  e  gli  arcivescovi  di  Toledo,  Salamanca,  Siviglia,  ecc.,  di 
atto  ciò  che  risguardava  l'esame,  la  censura,  la  stampa,  Tin- 
roduzione  e  la  vendita  dei  libri.  Ma  in  appresso,  e  specialmente 
otto  Carlo  V,  osò  all'ultimo  di  pretendere  che  la  censura  dei 
ibrì  fosse  un  diritto  primitivo  e  naturale  del  tribunale ,  che 
;rinquisitori  chiamavano  il  tribunale  della  fede. 

Perciò  nell'età  nostra  si  è  veduta  riclamare  quando  sótto 
"mìo  Vili  si  volle  far  cessare  quest'abuso,  ordinando  l' esecu- 
ione  della  costituzione  di  Benedetto  XIV  e  vietando  la  pub- 
ilicazione  di  veruna  proibizione  di  libri  prima  di  averne  otte- 
iute  la  sanzione  dal  re  pel  canale  del  ministero  di  stato.  Ma 
3  potei  da  me  stessa  convincermi  fino  a  qual  segno  il  governo 
ia  stato  su  questo  particolare  ingannato. 

GÌ'  inquisitori  abusano  del  segreto  che  nasconde  le  loro 
.eliberazioni  e  trovano  sempre  il  modo  di  censurare  que'  libri 
I  cui  dottrina  venne  loro  denunciata  come  in  tutto  o  in  parte 
ospetta.  La  notizia  che  davasi  al  sovrano  di  tali  giudizi  dege- 
ero  ben  tosto  in  semplice  formalità,  giacché  stampavasi  l'editto 
i  proibizione  prima  di  avere  soddisfatto  a  tale  atto  e  senza 
)r  sapere  al  sovrano  se  gli  autori  de'  libri  condannati  erano 
tati  sentiti  o  no,  nò  per  quali  motivi  avevano  i  censori  quali- 
cata  la  loro  dottrina. 

Tante  sventure  ed  altre  non  poche  che  io  non  accenno 
areno  la  conseguenza  del  sistema  adottato  da  Torqnemada  e 
a  lui  raccomandato,  morendo,  ai  suoi  successori.  Giustificano 
ueste  r  odio  generale  che  lo  accompagnò  fino  al  sepolcro  e 
h'egli  aveva  cosi  vivamente  eccitato  nel  corso  di  diciott'anni, 
nde  aveva  dovuto  adottare  alcune  precauzioni  per  porre  in 
icuro  la  propria  vita.  Ferdinando  ed  Isabella  gli  permisero  di 
irsi  scortare  ne'suoi  viaggi  da  cinquanta  familiari  dell'Inquisi- 
ione  a  cavallo  e  da  dugento  a  piedi.  Ciò  poteva  salvarlo  dal- 
aperta  violenza  de'  suoi  nemici  ;  ma  altre  misure  adottò  per 
revenire  i  segreti  insidiatori.  Torqnemada  teneva  sempre  sul 


SUO  tavolo  ao  corno  di  liocorno ,  cai  snpponevasi  la  virtù  di- 
fare  scoprire  e  di  neutralizzare  i  veleni.  Non  fera  maraviglia 
che  molti  cospirassero  contro  la  sua  vita,  se  si  rammenti  Testrema 
crudeltà  della  sua  amministrazione.  Lo  stesso  papa  fa  atterrita 
da  tanta  crudeltà  dietro  le  lagnanze  che  gli  venivano  ogni  di 
preisentate  ;  di  modo  che  Torquemada  fu  costretto  di  spedire 
tre  volte  a  Roma  il  suo  collega  f.  Alfonso  Badaja  colla  com- 
missione di  difenderlo  innanzi  al  papa  contro  le  accuse  de'suoi 
nemici. 

Finalmente  Alessandro  VI,  vedendo  spinte  le  cose  air  ul- 
timo estremo,  fu  in  sul  punto  di  spogliarlo  deirautorità  di  ed 
Io  aveva  rivestito,  e  non  desistette  che  per  considerazioni  poli* 
tiche  e  per  non  offendere  la  corte  di  Spagna.  Si  limitò  adanqoe 
a  spedire  il  23  di  giugno  dei  1494  un  breve  nel  quale  diceva 
che,  essendo  Torquemada  giunto  alla  decrepitezza,  aveva  nomi- 
nati inquisitori  generali  per  l'andamento  degli  affari  dell'Inqui-^ 
sizione  e  come  suoi  coadiutori  rivestiti  di  poteri  eguali  ai  suoi 
don  Martino  Ponce  de  Leon,  arcivescovo  di  Messina  in  Sicilia, 
che  dimorava  in  Spagna  ;  don  Ignazio  Manrique,  vescovo  di 
Cordova  ;  don  Francesco  Sanchez  de  la  Tuente,  vescovo  d'Avila, 
e  don  Alfonso  Suarez  ed  Tuentelsaz,  vescovo  di  Mondognedo. 
Ognuno  di  loro  era  dal  papa  autorizzato  a  fare  da  sé  solo  tutto 
quanto  troverebbe  conveniente  di  fere  ed  a  terminare  gli  affari 
cominciati  da  un  altro. 

I  familiari  del  SanrUflBcio,  che  supplivano  le  incombenze 
di  guardie  del  corpo  del  primo  inquisitore  generale  Torque- 
mada, erano  successori  de'  familiari  deir  antica  Inquisizione. 
Dovevano  tenere  di  vista  gli  eretici  ed  i  sospetti  d'eresia,  som- 
ministrare soccorso  per  imprigionarli  ai  sergenti  ed  agli  sgherri 
del  tribunale,  e  fare  lutto  quanto  sarebbe  loro  ordinato  dall'In- 
quisizione per  la  punizione  degli  accusali. 

Per  guarentirsi  dalla  calunnia  e  dai  sospetti,  alcuni  gen- 
tiluomini del  regno  furono  ricevuti  nella  congregazione  di 
S.  Pietro  perchè  si  erano  volontariamente  offerti  per  familiari 
del  Sant'Ufficio.  Il  loro  esempio  strascinò  le  persane  delle 
classi  inferiori ,  e  questo  movimento  fu  inoltre  favoreggiato 
dalla  politica  del  re,  che  accordava  ai  familiari  varie  preroga- 
tive ed  immunità. 

Tali  prerogative  ne  fecero  crescere  il  numero  in  una 
maniera  cosi  mostruosa  ed  impolitica,  che  v'ebbero  tante  città 
in  cui  i  privilegiati  superando  di  numero  gli  abitanti   subor- 


-MI  - 

nati  ai  pesi  muoicipali  si  rendette  necessario  di  ridarne  il 
imero  in  ana  generale  adunanza  delle  cortes  del  regno. 

Basterà  il  fare  adesso  osservare  che  siccome  ¥  inquisitore 
nerale  aveva  una  guardia  di  dugento  uomini  a  piedi  e  di 
iquanta  cavalieri ,  è  cosa  verosimile  che  ne'  primi  tempi  i 
irticolarì  inquisitori  avessero  altresì  al  loro  servizio  e  per  le 
edesime  ragioni  almeno  quaranta  fanti  e  (Ueci  cavalieri  quando 
sitavano  il  territorio  della  loro  giurisdizione.  Un'armata  dipen- 
tute  dal  Sant'  UfBcio  spiega  bastantemente  per  quale  ragione 
enormi  confische  e  gli  altri  introiti  che  sapeva  procacciarsi 
)n  bastassero  a  coprirne  le  spese.  Se  a  questa  famiglia  d'ar- 
m  si  aggiungano  i  moltissimi  prigionieri  che  si  dovevano 
imentare  dairinquisizione»  si  concepirà  facilmente  e  la  gran- 
tzza  della  spesa  e  la  difficoltà  di  sostenerla. 


FINE  DEL  VOLUME  SECONDO. 


:2>  o&sa^Q^a  CSO& 


ELENCO  DI  ALCUNI  MARTIRI  DELLA  RELIGIONE  CRISTIANA. 


SECOLO   PRIMO.   ^ 

Stefano  primo  martire  —  Giacopo  il  minore^  apostolo  *-  Pietro  41  prin- 
cipe degli  apostoli  —  Paolo  di  Tarso,  detto  co-apostolo  ài  Pietro^  —  éomas 
apostolo  —  Bartolomeo  apostolo  —  Lino  vescovo  di  Boma  —  Tito  vescovo 
di  Creta  —  Timoteo  vescovo  di  Efeso  —  Anacleto  vescovo  di  Boma  —  Gio- 
vanni apostolo  ed  evangelista. 

SECOLO   SECONDO. 


Ignazio  vescovo  di  Antiochia  —  Policarpo  vescovo  di  Smirne  —  'Evét- 
risto  vescovo  di  Boma  —  Quadrato  vesc§vo  di  Atene  —  Aristide  laico,  j^crti" 
tore  —  Alessandro  vescovo  di  Boma.  —  Egesippo  laico ,  scrilU^^  —  Sisto 
vescovo  di  Boma  —  iDtont^t  vescovo  di  Corinto  —  Giustino  filosofo  —  ì^pia 
vescovo  di  Gerapoli  —  Igino  vescovo  di  Boma,  —  Pio  vescovo  di  Boma  — 
Aniuto  vescovo  di  Boma  —  Solerò  vescovo  di  Boma  —  Ireneo  vescovo  di 
Lione  —  Eleuterio  vescovo  di  Boma  —  Leonida  martire  —  Vittore  vescovo 
di  Boma  —  Clemente  Alessandrino  retore. 

SECOLO  TERZO. 


Vibia-Perpetua  dama  cartaginese,  m.  —  Felicita  schiava  della  stessa 
città,  m.  ^fabiano  vescovo  di  Boma  —  Alessandro  vescovo  di  Gerusalemme 
^  Babila  vescovo  di  Antiochia  -«-  Gregorio  taumaturgo  —  Cipriano  vescovo 
di  Cartagine  —  Dionigi  vescovo  di  Alessandria  «—  Saturnino  vescovo  4i 
Tolosa  —  Dionigi  vescovo  di  Patigi  —  Paolo  primo  eremita  —  ìintonio 
abbate  ^  Cornelio  vescovo  di  Boma  -^  Stefano  vescovo  di  Romu  —  ^to  II 
vescovo*  di  Boma  —  Lorenzo  éiacotH^.  i^.  —  Feliee  véscovo  di  Boma. 

Tamb.  Inquis.  Voi.  IL  75 


-  594  — 

SECOLO    QUARTO. 

Cajo  vescovo  di  Roma  —  Doroteo  cortigiano,  m.  —  Gorgonio  corti- 
giano, m.  —  Natalia  moglie  di  Adriano,  m.  —  Bonifacio,  m.  —  Agnese 
fanciulla,  m,  —  Agata  donzella,  m.  —  Marcellino  vescovo  di  Boma  —  Pietro 
vescovo  d* Alessandria  —  Melchiade  vescovo  di  Boma  —  Teona  vescovo 
d'Alessandria  —  Achilia  vescovo  d'Alessandria  —  Elena  madre  di  Costan- 
tino —  Alessandro  vescovo  d'Alessandria  —  Silvestro  vescovo  di  Boma  — 
Alessandro  vescovo  di  Costantinopoli  —  Atanagio  vescovo  d'Alessandria  — 
/  due  Macarii  romiti  —  Pacomio  romito  —  Barione  romito  —  Marco  ve- 
scovo di  Boma  —  Gregorio  nazianzeno  il  padre  —  Giulio  vescovo  di  Boma 

—  Paolo  vescovo  di  Costantinopoli. 

SECOLO   QUINTO. 

Paolino  vescovo  di  Nola  —  Agostino  vescovo  d*  Ippona  -*  Anastagio 
vescovo  di  Boma—  G io- Crisostomo  patriarca  di  Costantinopoli  —  Prospero 
d'Aquitania  —  Innocenzo  vescovo  di  Boma  —  Marcellino  tribuno,  m.  — 
Pulckeria  imperatrice  —  Sozimo  vescovo  di  Boma  —  Cirillo  vescovo  d^Ales- 

•  sandria  —  Celestino  vescovo  di  Boma  —  Isidoro  di  Pelusio  monaco  — 

•  Ifisto  III  vescovo  di  Boma  —  Flaviano  v.  di  Costantinopoli,  m.  —  Pier 
Grisologo  vescovo  di  Bavenna  —  Leone  il  Magno  vescovo  di  Boma  —  Pro- 
terio  vescovo  d' Alessandria  —  J  due  Simeoni  stiliti  —  Daniele  stilita  — 
Ilario  vescovo  di  Boma. 

SECOLO  SESTO. 

Simmaco  vescovo  di  Roma  —  Ormisda  vescovo  di  Boma  —  Giovanni, 
m,,  vescovo  di  Boma  —  Penedetto  abbate  —  Mauro  abbate  —  Agapito 
vescovo  di  Roma  —  Silverio  m.,  vescovo  di  Boma  —  Menna  patriarca 
di  C.  P.  —  Dazio  arcivescovo  di  Milano  —  Pretestato,  m.,  vescovo  di 
Boano  —  Desiderio,  m.,  vescovo  di  Vienna  —  Gregorio  vescovo  di  Tours 

—  Ermenegildo  principe  di  Spagna  —  Leandro  vescovo  di  Siviglia  —  Gre- 
gorio I  papa  —  Eterio  vescovo  di  Lione  —  Eulogio  patriarca  di  Alessandria 

—  Anastagio  patriarca  di  Antiochia  —  Agostino  arcivescovo  di  Cantorbenj 

—  Mellito  vescovo  di  Londra  —  Paolino  arcivescovo  di  Yorch  —  Lupo 
vescovo  di  Sens  —  Arnoldo  vescovo  di  Metz  —  Idelfonso  arcivescovo  di 
Toledo  —  Teodoro  vescovo  d'Anastasiopoli  —  Gregorio  patriarca  d'Antio- 
chia —  Anastagio,  m.,  monaco  —  Giovanni  limosiìiiere  patriarca  d'Ales- 

'  ^sandria, 

SECOLO  SETTIMO. 

'Lorenzo  arcivescovo  di  Cantorbery  —  Giovanni  Mosch  monaco  —  Leg- 
gero vescovo  d^Autun  —  Bonifacio  IV  papa  —  Sofronio  patriarca  di  Gè- 


—  59ii;  — 

rusalemme  —  Massimo,  m.,  abate  —  Martino,  m.,  papa  —  Eugenio  papa  — 
Vilfrido  arcivescovo  di  Yorch  —  Vitaliano  papa  —  Teodoro  arcivescovo  di 
Cantorbery  —  EUadio  arcivescovo  di  Toledo  —  Eligio  vescovo  di  Noyon 

—  Batilde  regina  di  Francia  —  Agatone  li  papa  —  Giovanni  vescovo  di 
Bergamo  —  Leone  II  papa  —  Giuliano  arcivescovo  di  Toledo  —  Sergio  I 
papa, 

SECOLO  OTTAVO. 

Villebrodo  vescovo  di  Utrecht  —  Bonifacio  vescovo  di  Magonza  -  Seda 
monaco  —  Gregorio  II  papa  —  Gregorio  HI  papa  —  Germano  patriarca 
di  C.  P.  —  Giovanni  damasceno  —  Zaccaria  papa  —  Pietro  vescovo  di  Pavia 

—  Stefano  d'Aussenza,  m.  —  Paolo  Ipapa  —  Tarasio  patriarca  di  C.  P.  — 
Eterio  vescovo  d'Osma  —  Beati)  monaco  —  Leone  III  papa  —  Platone  mo- 
naco —  Teodoro  Studila  moncu:o, 

SECOLO   NONO. 

Leone  III  papa  —  Martire  frate  Bulgari  —  Niceforo  patriarca  di  C.  P. 

—  Pasquale  I  papa  —  Anscario  vescovo  d'Amburgo  —  Martiri  di  Amorio 

—  Metodio  patriarca  di  C.  P.  --Leone  IV  papa  —  Eulogio,  m.,  prete^  — 
Ignazio  patriarca  di  C.  P.  —  Niedò  I  papa  —  Edmondo,  m,,  re  d'Inghil- 
terra —  Ebba  abbadessa  ^  Ottone  I  abbate  di  Qugny  —  Stefano  patriarca 
di  C.  P. 

SECOLO  DECIMO. 

Antonio  patriarca  di  C.  P.  —  Ulderico  vescovo  d'An^urgo  —  Matilde 
regina  d'Alemagna  —  Brunone  vescovo  di  Colonia  —  Dunstano  arcivescovo 
di  Cantorbery  —  Eduardo,  m,,  re  d^ Inghilterra.-^  Edita  V  sua  sorella  — 
Libenzio  vescovo  di  Brema  —  Venceslao  duca  di  Boemia  —  Eroldo^  -m.,  re 
di  Danimarca —  Volfango  vescovo  di  Ratisbona —  Nilo  abbate  — Adalberto 
vescovo  di  Praga  —  Romualdo  fondatore  di  Camaldoli. 

SECOLO  DEOIHOPRIHO. 

Enrico  Uimperadore  —  Eriherto  arcivescovo  di  Colonia  —  Pietro  Or' 
scolo  doge  di  Venezia  —  Stefano  re  d'Ungheria  ^  Emerico  suo  figlio  -;-  Cu- 
negonda V  imperadrice  — '  Olao,  m.,  re  di  Norvegia  —  Elfego  arcivescovo 
di  Cantorbery  »  Ulstano  arcivescovo  di  Yorch  —  Meimberco  vescovo  di 
Paderbona  —  Bartolomeo  ab.  di  Grotta-Ferrata  —  Leone  IX  papa  —  Pie-  , 
tro  di  Damian  vescovo  d* Ostia  —  Anselmo  v.  di  Lucca  — >  Domenico  Lori- 
cato — *  Giovanni-Gualberto  fondatore  di  ValVOmbrosa  —  Ildebrando,  poi 
papa  Gregorio  VII  —  Roberto  fondatore  di  Ostello  —  Brunone  fondatore 
della  Certosa  —  Annone  arcivescovo  di  Colonia  —  Stanislao  vescovo  di  Cra- 
covia —  Canuto  rV  re  di  Danimarca  —  Roberto  d'Arbrisselles. 


SECOLO  DE0IHO8E0ONDO. 

Anselmo  arcivescovo  di  Cantiìrbery  —  Bernardo  ab.  di  Chiaravalle  — 
Norberto  arcivescovo  di  Maddeburgo  —  Udegarde  abbadessa  —  Malachia  ar- 
civescovo d^Armaca  —  Gilberto  di  Sempringam  —  Guglielmo  arcivescovo 
di  Yorch  —  Elisabetta  di  Schonauge  —  Tomaso  arcivescovo  di  Cantorbery 

—  Galdino,  arcivescovo  di  Milano  —  Lorenzo  arcivescovo  di  Dublono. 

SECOLO    DEOIMOTERZO. 

Domenico  di  Gusmano  ^  Francesco  d*  Assisi  —  Felice  di  Valois  ^Gio- 
vanni di  Mata  -^  Pietro  Nolasco  — >  Alberto  p<Uriarca  di  Gerusalemme  — 
Ludgarde  monaca  —  Antonio  di  Padova  —  Raimondo  di  Pegnafort  —  Lui- 
gi IX  re  di  Francia  —  Ferdinando  III  re  di  Castiglia  —  Tomaso  d^ Aquino 

—  Bonaventura  cardinale  vescovo  d* Albano  —  Gregorio  X  papa  —  Filippo 
Benizzi  —  Pier- Celestino  V  papa. 

• 

SECOLO   DECIMOQUARTO. 

Benedetto  XI  papa  —  Pier-Tomaso  patriarca  di  C.  ?•  —  Giovanni  Co- 
lombino —  Brigida  dama  svedese  —  Andrea  Corsini  vescovo  di  Fiesole  — 
Caterina  da  Siena. 

SEGOLO  DECIMOQUINTO. 

Vincenzo  Ferreri  —  Bernardino  da  Siena  —  Giovanni  della  Marea 

—  BernardlsiO  da  Feltre  —  Antonino  arcivescovo  di  Firenze  —  Lorenzo 
Giustiniani  patriarca  di  Venezia  —  Nicolò  Albergali  vescovo  di  Bologna  — 
Francesco  di  Paola. 

SEGOLO  DECIHOSESTO. 

Giovanna  di  Valois  moglie  ripudiata  di  Luigi  XII —  Giovanni  di  Dio 

—  Gaetano  Tiene  —  Girolamo  Miani  —  Ignazio  Lojola  —  Francesco  Sa- 
verio —  Carlo  Borromeo  arcivescovo  di  Milano  —  Pio  V  papa  —  Filippo 
Neri  —  Giuseppe  Calasanzio  —  Camillo  de  Lellis  —  Felice  <ia  Cantalice  — 
Teresa  d^Avila  —  Giovanni  della  Croce  —  Pietro  d'Alcantara  —  Francesco 
Borgia  —  Stanislao  Kotska  —  Luigi  Gonzaga, 


^ 


UBRO  SECONDO. 


Capitolo  L  Guglielmina  la  Boema         ....  Pag.     5 

—  n.  II  ponteflce  Clemente  Y  e  Filippo  il  Bello  re  di 

Francia >    78 

—  ni.  Processo  alla  memoria  di  Bonifacio  Vili  e  Con- 

cilio di  Vienna »    97 

~  IV.  Esecuzione  del  gran  maestro  de'  templari  •       •  107 

—  V.  L'Ordine  de'  templari    .       .       .      .       .       »  iÌ4 

—  VL  Accuse  e  difese  de'  templari.       •       .       •      >  i2i 

—  VII.  Il  concilio  di  Vienna  e  Giovanni  XXII       .       •  i3i 

—  VIII.  Dante  sospetto  d'eresia.       .       •       .       .       >  145 

—  IX.  Roma  e  Cola  da  Rienzo       .       .       .       .       •  168 

—  X.  Sollevazione  del  popolo  di  Roma  contro  Cola  da 

Rienzo,  e  sua  morte     .       ...»  184 
.  —  XI.  Glorie  dei  pontiflcato  di  Innocenzo  VI.  Urbano  V. 

Caterina  da  Siena  e  Bernabò  Visconti .      »  201 

—  XII.  Pontefici  d'Avignone.  Pietro  d'Abano  e  Cecco 

d'Ascoli »  210 

—  XIII.  Regole  del  Tribunale  del  Sant'Ufficio  che  si  devono 

praticare,  e  che  si  danno  per  istruzione.    >  220 

—  XIV.  Giovanni  Hus  e  Girolamo  da  Praga    .       .       >  294 

—  XV.  La  morte  di  Girolamo  da  Praga.       .       .       »  398 

—  XVI.  Giovanna  d'Arco  condannata  come  strega .       »  413 

—  XVII.  Eugenio  IV.  Concilio  di  Basilea  e  Firenze ,  e  gli 

Ussiti  in  Boemia    .       .       .       •       .       «418 

—  ^      XVUL  Livia  Andreani «436 

—  XIX.  Basilio  Ordelaffl  e  sua  figlia.       ...»  440 


Capitolo        XX.  Nicolò  V  poDteflcé  e  la  coDgiura  di  Stefano  Por- 
cari   Pag.  44S 

—  XXI.  Zizino  a  Roma,  e  i  falsari  delle  bolle  pontiflcie    »  &57 

—  XXII.  L'Inquisizione  nella  Spagna.       .       .       .       »  462 

—  XXIII.  Elezioni  di  Alessandro  VI,  disegni  di  Jeronimo 

Savonarola  intorno  alla  riforma  della  Chiesa 
e  dello  Stato  d'Italia,  Piero  de'  Medici  ecc.    »  470 

—  XXIY.  Sentenza  di  morte  contro  i  fautori  de' Medici  pro- 

curata da  Savonarola;  esperimento  del  fuoco 
e  morte  di  Savonarola  .       ...»  497 

—  XXV.  I  Francesi  in  Italia  e  Lodovico  il  Moro  tradito  e 

fatto  prigioniero >  5i2 

—  XXYI.  Alessandro  VI  morto  di  veleno;  suo  carattere  e  sue 

infamie:  critica  situazione  di  Cesare  Borgia    >  545 

—  XXYII.  Stabilimento  della  moderna  Inquisizione  in  Spa- 

gna   *  549 

—  XXYIU.  Creazione  di  un  grande  inquisitore  generale,  di  un 

consiglio  reale  d'Inquisizione,  dei  tribunali 
subalterni  e  delle  leggi  organiche.  Stabili- 
mento del  Sant'Ufficio  nel  regno  di  Aragona  »  559 

—  XXIX.  Atti  addizionali  alle  prime  costituzioni  del  San- 

t'Ufficio, conseguenze  che  ne  derivano  ed 
appellazione  a  Roma  contro  i  loro  abusi.  >  571 
~  XXX.  Espulsione  degli  ebrei.  Progressi  intentati  ad  al- 
cuni vescovi.  Conflitto  di  giurisdizione.  Morte 
di  Torquemada.  Numero  delle  sue  vittime. 
Sue  qualità  e  loro  influenze  sulla  condotta  e 
sugli  affari  dell'Inquisizione.       .  >  579^ 

Appbivdicb «595 


GUXX)A  P£L  LSGAXORB 

ONDE  COLLOCARE  AL  LORO  POSTO  LE  TAVOLE  NEL  VOLUME  SECONDO 


Condanna  de'  templari         ........  Pag.    94 

Esecuzione  de'  templari  accaduta  in  Parigi  al  15  marzo  Ì3i4  .  >  ii2 

Houlay  gran  maestro  de'  templari »  ii8 

Cola  di  Rienzo  che  arringa  il  popolo •  i7l 

Frate  Giovanni  che  reca  a  Clemente  VI,  ecc .176 

Bernabò  Visconti  che  sul  ponte  di  Melegnano  ,  ecc.              .  >  207 

Frate  Giorgio  di  Foligno •  2i6 

Palazzo  ducale  in  Ferrara >  219 

Prigione  di  Torquato  Tasso  in  Ferrara »  235 

Soiima  scampata  dalle  carceri •  264 

Piazza  del  Duomo  di  Spoleto •  269 

Catacombe  di  Roma »  278 

Scala  Santa •    ivi 

Giovanni  Hus  minacciato  di  morte »  350 

Giovanna  d'Arco  tentando  di  scalare  le  mura  di  Parigi  .  »  416 

Giovanna  d'Arco  in  prigione »    ivi 

Giovanna  d'Arco  sul  rogo '     .       .  »    ivi 

L'inquisitore  che  cerca  persuadere  Livia  Landreani.  »  438 

Duomo  d'Arezzo •  439 

Piazza  del  Duomo  di  Pisa  .........    ivi 

Campo  Santo  di  Pisa •    ivi 

Gemma  Ordelaffl  scioglie  le  catene  al  padre     ....  >  441 

Casa  di  Salvator  Rosa •  442 

Casa  di  Michel  Angelo.       .       ; «ivi 

Supplizio  di  frate  Girolamo  Savonarola •  5li 

Bergamo 54i 


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