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Full text of "Studj romanzi"

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SOCIETÀ 
FILOLOGICA ROMANA 

STUDJ ROMANZI 



ST^J DJ ROMANZI 

^' ■' /ZB'iiJ 

. EDITI A CURA 



ERNESTO MONACI 



I. 



IN ROMA : PRESSO LA SOCIETÀ 

Piazza Sera, Palazzo Sora. 

•M-DCCCC-IIJ- 



Con i tipi dell' Unione Tipografica Cooperativa in Perugia. 



INDICE 



Avvertenza 

G. Strimi: La postille del Bembo sul Cod. Proveniate 

S. Pieri: Appunti etimologici 

A. Parimeli: La leggenda della nascita e della giove: 
Costantino Magno in una nuova redazione . . . . 
P. Tolde: Sulla fortuna dell' Ariosto in Francia. , . . 
V. Cuscini: Ancora della voce Corda 



******************* 



AVVERTENZA 



fxucvm mesi addietro la Società Filologica 
Romana cominciava la pubblicazione di una 
Miscellanea di letteratura del medio evo col- 
li intènto di accogliervi testi di piccola mole che 
non avrebbero potuta formare altrettanti volumi 
a parte nella serie di già iniziata dei Docu- 
menti di storia letteraria. Una prima di- 
spensa ne fu data con le Rime antiche senesi 
edite a cura del De Bartholomteis-, e qualche altra 
dispensa si stava preparando. Ma sopravven- 
nero comunicazioni che nella Miscellanea desti- 
nata soltanto a testi non potevano trovar luogo, 
né potevano trovarlo nel Bullettino riservato 
unicamente agli atti della Società e a brevi note 
di Soci. Intanto gli Studj di filologia romanza 
morivano a Torino, e così veniva a mancare 
f unica effemeride che in Italia fosse dedicata 
nel dominio romanzo a ricerche filologiche noti 
limitate alla glottologia. Per colmare quel 



vuoto e non lasciare interrotta una tradizione 
ornai più che trentenne, e insietne per integrare 
U disegno della nostra Società, la quale fin dal 
primo suo costituirsi si propose di pubblicare 
non documenti soli ma anche sludj, ultimamente 
fu deliberato di dar princìpio a questa nuova 
serie. Essa si svolgerà parallelamente a quella 
dei Documenti di stona letteraria; e poiché si 
volle affidarne a me la direzione, ben volontierì 
ne assumo t incarico, animato dalla speranza die 
i vecchi amici degli Studj dì filologia romanza 
saranno ancora con noi, e che così la nuova se- 
rie coopererà non meno del? antica a far cono- 
scere quanto e maestri ed allievi quotidianamente 
offrono alt avanzamento del sapere e al bene 
della generazione che sottentra nel lavoro. 




LE POSTILLE DEL BEMBO 

SUL COD. PROVENZALE K. 

(Bibl. Naz. di Parigi, f. fk. 13473). 



A, 



L X. cod. provenzale K non è certamente man- 
cata la ventura dì aver avuto degni studiosi che si 
sono industriati così a rischiararne la storia e le vicende, 
che posson dirsi davvero gloriose, come ad esami- 
narne meglio i rapporti con due sillogi provenzali, 
la cui stretta parentela non può esser messa in dub- 
bio: I e d. 

Tra coloro che han ricercato la storia esterna del 
manoscritto debbono essere ricordati il Pakscher (i) 
e il De Nolhac(z); tra coloro che han rivolta l'at- 
tenzione all'esame interno del codice, studiandolo 
nelle sue relazioni con altri canzonieri provenzali, 
felicissimo è stato il Suchier, che movendo dalle 
affinità e dalla comunemente ammessa dipendenza 
di I e K da uno stesso originale, confermò che 
d non può essere considerato che come una co- 



ti) A, Pakscher, Zeitschrift f. romen. Philol., X, 337. 
(a) P. De Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini, Paris, 
'887, paga;. 315-7. 



io G. BERTONI 

pia cattiva di K(i). Uno studio magistrale sui 
rapporti reciproci dei tre codd., valendosi di criteri 
diversi da quelli del Suchier e desunti dall' ordine dei 
componimenti e anche un poco dalle varianti di essi 
preparò pure il Grober(2), mentre un nostro studioso, 
il De Lollis, si limitò a fissar l'attenzione su molte po- 
stille marginali presentate dal celebre manoscritto (3). 
In un artìcolo destinato a dar conto complessiva- 
mente di parecchi codici provenzali posseduti o stu- 
diati da cinquecentisti italiani, non avrebbe certamente 
potuto il De Lollis diffondersi più di quel ch'egli fece 
sulle postille del cod. K, delle quali egli esaminò 
soltanto con profitto quelle che gli parvero di mag- 
gior momento per il soggetto suo. A questa mia 
nota invece spetta l'obbligo dì nulla trascurare che 
possa in certo qual modo giovare alla conoscenza 
migliore del metodo tenuto dal Bembo, postillatore 
del manoscritto, nello studiare i preziosi codici da 
lui posseduti e permetterci di spingere più addentro 
lo sguardo .e di sorprenderlo durante il suo lavoro 
far uso della sua dottrina e del suo acume. 

(i) H. Svchibr, Der papierne Theil der Modenaer Trou- 
badourkandschrift, in Ztitschrìft /. roman. Philol., IV, 72-73. 

(a) Romantiche Studien, II, (Die provensalische Trottò. 
handschri/tenj, pag. 463 sgg. Mi pare opportuno aggiungere 
qui aldine notiziole riguardanti questi tre manoscritti : I, E, d. 
Dopo le ricerche del Pakscher e del De Nolhac, la storia di 
K può dirsi ben nota. Posseduto dall'Orsini, il cod. K passò 
alla Vaticana, donde entrò alla Biblioteca Nazionale di Parigi 
per il trattato di Campoformio. Dallo stesso cod. K trasse 
copie a Roma il Sainte-Palaye (si vedano i suoi mss. nella Bi- 
blioteca dell'Arsenale a Parigi, n," 3096), che ne esemplò la 
tavola da una copia del presidente Mazangues. 11 Sainte- 
Palaye vide il manoscritto nel mese di novembre del 1739. 
Del ms. I (Parigi, f. frane. S54) ha fornito alcune notizie A, 
Thomas in Romania, XVII, 406, concludendo con ritenere pro- 
babile che il codice facesse parte, sotto Francesco I, della Bi- 
blioteca di Fontainebleau. 

(3) C. De Lollis in Romania, XVIII, 467. 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. n 

Per questo scopo tante minuzie, che a tutta prima 
paiono insignificanti, possono acquistare un valore 
impensato; sicché io confido di non incorrere nella 
taccia di pedante se terrò conto, spero, di tutto e 
anche delle minime cose. 

Che le postille del cod. provenzale K siano do- 
vute alla mano del Bembo non è più permesso ora 
di dubitare. Riconobbe la scrittura del nostro 
erudito cinquecentista il Meyer in una sua comuni- 
cazione al De Nolhac (i) e poscia, da varie parti, 
vennero conferme. Più tosto può domandarsi an- 
cora se veramente la mano del Petrarca non abbia 
nulla a che fare colle numerose postille di K e se 
esse non rappresentino anche in parte la risultanza 
di un confronto, che sul finire del sec. XVI fu fatto 
tra K ed A per valutare l' eccellenza dei due pre- 
ziosi manoscritti (2). 

Quanto al Petrarca, basterebbe notare che il De 
Nolhac giunse ad escluderlo dimostrando l'inesat- 
tezza di quella nota autografa di Fulvio Orsini, pos- 
sessore del manoscritto, che si legge sopra una delle 
guardie e che suona : Poesie di cento uenti poeti 
prouenzali tocco nelle margini di mano del Petrarca 
et del Bembo in perg. in fogl. — Fulv. Urs. — e 
osservando tra l'altro che vaghezza di accrescere 
pregio a un suo bellissimo codice potè indurre l'Or- 
sini ad aggiungere al nome del Bembo quello ancor 
più venerato del Petrarca (3). Confesso che que- 



(1) Db Nolhac, Op. cit., pag. 315. 

(a) Si veda la prefazione de! De Lollis alla edizione diplo- 
matica del cod. A, in Studj difitol. romanza, voi. Ili, pag. ij. 

(3) De Nolhac, Op. cit.. pag. 314, n. 4. Il De Nolhac 
esprime il suo pensiero con queste parole: « On croyait, 
en 1582, à la Valicane, qu'un recueil de troubadours, qui 
s'y trouvait alors, avait appartenu à Petrarque; Orsini dé- 
sirait en avoir un de méme origine; des qu' il a eu en 
main ce manuscrit, ìl a ctierché 4 Py rattacher... ». 



la G. BERTONI 

st' ultima ragione, la quale certamente non riesce ad 
onore dell' Orsini, è ben lontana dal persuadermi ed 
io trovo in altro ordine di fatti la spiegazione del- 
l' errore da lui commesso. Egli dovè essere stato 
stato tratto in inganno dal componimento di G. de 
S. Leidier: 

Dreitz e razos es qu' ìeu cbant e demorì 

che si legge anonimo, dì scrittura del sec. XXV, in 
fondo al codice. Questo componimento, tanto ri- 
cercato dal Bembo e fonte di una sua disputa col 
Castelvetro (i), non trovasi attribuito al De S. Leidier 
che in un solo codice, che non fu mai in Italia, il 
ma. C, e per giunta nel ms. C incomincia: Razos 
e dreitz es, ecc. 

Orbene, il Petrarca cita in una sua canzone, che 
può dirsi a buon diritto famosa, il primo verso di 
questo componimento nella lezione esatta del nostro 
cod. K (2). Di qui l'Orsini dovè sentirsi indotto a 



(1) V. Ciam, Un decennio della vita di M. Pietro Bembo, 
Torino, 1885, pag. 72 ; e G. Cavazzuti, Lodovico Castelvetro, 
Modena, 1903, pagg. 114 e 181. 

(a) Il verso è citato in fondo alla prima stanza della can- 
zone : Lasso me: 

Non gravi il mio Signor perch'Io 'I ripreght 

Oi dir Ubero un di tra l'erba e 1 fiori: 

« Dre» et raion e» qu' leu ebani cm demori ». 

La lezione di K di questo componimento è ancora sconosciuta. 
Non dispiaccia che io ne riproduca una parte, la quale, con- 
frontata con C nei Gedichte del Mahn, mostrerà quante siano 
le divergenze e le varianti di K : - (e. 186') 1. Drez erazos es 
cheu chant . em demori ecom. dieu per samor cui per iensser 
em pari ics bel cheo per leis chan e non uol men grepischa 
non farai leu qe sol ab ieri respondre ma si conquest . che 
iamais tan quan uiua . uais leis non farai pech. II. Dols 
es le ram ab quem hat bat don noi colli doglon . amnz trai 
plus dreg che cel del sagitari qairel . leis qi loi mes eu 
prech dea qem geriscila . che disi de) cor mei fa de for 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. 



13 



pensare che al Petrarca fosse appartenuto il codice, 
eh' egli aveva tra mano. Comunque sia, panni 
che tutte le postille marginali del cod. K, chi ben 
consideri, non possano essere attribuite che al Bembo, 
poiché a ben guardare sfumano quelle divergenze 
che han fatto supporre due diverse mani nelle po- 
stille e nei ritocchi di K. V ha bensì qua e là 
differenza d' inchiostro e abbiamo talune parole più 
scure, altre più pallide; ma il confronto tra que- 
ste e quelle ci pare basti a togliere ogni dubbio 
dall'animo dell'osservatore. Valga il seguente 
esempio a e. 31'. Quivi nel margine destro ab- 
biamo, scritte con inchiostro più chiaro, le parole: 
Permutata sunt ista in paruo codice, e sotto si leg- 
gono più cariche di tinta le parole : los deuiadors e 
Quaere 84, 1. Orbene, questo deuiadors presenta 
i suoi due d perfettamente identici a quelli che in- 
contriamo nella strofe aggiunta a e. 48*: A seigner 
(sic) dolz, la quale strofe è dello stesso carattere e 
della stessa mano di Permutata sunt, ecc. 

In altre particolarità grafiche ravvisiamo la mano 
del celebre cinquecentista. Chi esamini, ad esem- 
pio, nella « planche il » del De Nolhac la maniera 
tenuta dal Bembo nel riportare in margine qualche 
parola del testo, troverà ch'egli adoperava talvolta 
per richiamo due piccoli puntolini, 1' uno posto sul- 
l'altro; usanza questa propria di altri postillatori an- 
teriori. Infatti, troviamo, ad es., su per giù lo stesso 



esondre . lifer ìrest se cella qi lentìza . no len trai cheu Un 
prech >. Come si vede, sulle guardie del cod. K ha scritto 
una mano italiana. Riproduco ancora la strofe IV : e Plus 
al cor blanc clis che sgach dauolli . son noni non aus dir 
tan la tem quam lesgarì agnel senblieu del sen qan cuig 
che men iamischa . che sobronrat en fora el rei de londres 
ol marques dest . tan es sobragradiua ol segner cui son 
grech >. Naturalmente il « Marques d'Est » era soltanto 
nella mente dell' s 



i 4 G. BERTONI 

segno di richiamo, con due lievissime spranghette 
sottoposte, a e. 26 del cod. est. a Q. 8, 31 del sec. 
XIV contenente, tra l'altro, il De sui ipsius et mul- 
tanti» tgnoranim, che deve essere copia dell'originale 
del Petrarca. Orbene, i medesimi due puntolinì 
vediamo parecchie volte adoperati dal Bembo nel 
cod. K, a proposito del quale anche dobbiamo ag- 
giungere che noi non siamo giunti a trovare la ra- 
gione di un segno n x o «' che spesse volte si scorge 
nel manoscritto a lato di questo o di quel gruppetto 
di versi. Credere del resto che questo segno sol- 
tanto appartenga al Petrarca, sarebbe cosa molto 
arrischiata dopo quanto ha scritto il De Nolhac(i). 



Passiamo ora senz' altro ad esaminare le postille 
di K. E prima di tutto : ove trovavasi il Bembo 
quando postillava con tanto amore e studiava il ma- 
noscritto K ? Credo di poter rispondere eh' egli 
doveva trovarsi presso la Corte degli Estensi in 
Ferrara, tanto noto accentuato il proposito nel po- 
stillatore del manoscritto di mettere in evidenza sul 
margine del codice quei passi provenzali ne' quali 
ricorre il nome d' una o d' altra principessa estense. 
Così accanto* al componimento di Aimeric de Pegui- 
Ihan : En amor trop, trwvo riportato il nome di 
Biatritz desi (e. 40'), e così Biatritz leggo a e. 39% e 
a e. 47' trovo: Joana desi; e Na Biatritz desi in- 
sieme a Emilia di Ravenna trovo ancora a e. 139' 
di fianco a una nota tenzone di A. de Peguilhan e 
A. de Sestaron. Possiam dire di più. Poiché 
il componimento del de Peguilhan, Per solatz d'ait- 
imi manca in K di una tornata, in cui è celebrata 
Beatrice d' Este, ecco che il postillatore ha aggiunto 
da un altro manoscritto (e. 39', in alto): 



(1) Op. eit., pag. 314. 



0OD10B PRIMO DEL BIMBO 



Cod. K iBibliuthAqus NuloiMle, f, fr. 11473), e. 01 (= 00 v) 



OODIOB SECONDO DM, BBMBO 



Cod. D (Bibliolect EittD», d. legn. ■. R. 4, 4), e. SI <= Si 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. 



Bel paragon : com om plus souen uè 
La (sic) Rìatritz dest plus Ij uol de be. 

Io penso che nella Corte d' Este, accanto all'amico 
Ercole Strozzi, tanto caro ai Duchi di Ferrara, e a 
Lucrezia Borgia, il Bembo fu tratto ad attribuire una 
importanza singolare ai passi di quei trovatori che 
celebrarono la figlia dì Azzo VI e la sposa di Azzo 
VII, e forse per rinvenirli subito ad ogni occorrenza 
egli fece in margine quei richiami che noi abbiamo 
esaminati. Questo fatto ci porta ancora a con- 
cludere che intorno all' alba del cinquecento il Bembo 
addestrò il suo rarissimo intuito di filologo sul codice 
K, il quale oltre a contenere ricordo delle prime 
principesse d' Este, di cui parli la storia, presentava 
colla serie delle sue tenzoni molti di quei curiosi 
quesiti e problemi d'amore tanto in uso presso le 
corti del nostro Rinascimento. 

E il Bembo non trascurò di riportare in margine 
a ciascuna tenzone il quesito, su cui il dibattito sì 
impernia. Noi vediamo così in quanta e quale 
misura la lirica provenzale potè sotto certi rispetti 
influire, per il tramite dell'erudizione, sugli usi e le 
costumanze della società cortigiana della rinascita. 

A e. 142' a proposito della tenzone di Albertetz 
e G. Faiditz, Eu vos deman, troviamo scritto: Bona 
an mala in amore plura, che costituisce, per così 
dire, il punto d'attacco del componimento, e a lato alla 
tenzone di G. de la Tor e Sordello, Uns amics, leg- 
giamo: Vivere morire, morta la amata (e, 143*). 
E così per Ramon de Miraval e Bertran, Bertran, 
si fosses, il postillatore ha annotato : Lombardi 
Proenzali più da prezzare (e. 143*); e per G. Gasmar 
e N' Ebles, N' Eòle, chauses. ha scritto : Nu[»i}mos 
debere, an ex amore pati. Riproduco, giacché ho 
incominciato, le altre postille alla tenzoni: e. 145': 
Drutz o mairitz (Helias e son Cosin, Eram digatz) ; 



G. BERTONI 



e. 146" : Iniqua pascenti amicae morigerandum an 
non (Helias e son Cositi, N* Elias, a son amador) ; 
e. 1 46' : Ex duobus amantibus, moerens an au- 
dax amantior (Cadenet e Guionet, Cadenel, prò do- 
tnna); e. 146": Mori amaiam an amantem relin- 
qui (Helias e son Cosin, Elias, de vos •ooit) e accanto : 
/lem: nox an dtes amplexibus magis idonea; e. I47 r : 
Amari cum rivali (Uc de la Bacalarla e Gaucelm, 
U. de la Bacalarla); e. 147*: Abstinere an rapere 
(Rofin e Domna, Rofin, digatz); e. 147*: Ad no- 
vam an ad prtorem eundum (Savaric e Pervost, Sa- 
vane, teus deman); e. 148' : Ante gaudium, an post 
(Dalfin a Peirol, Dalfin sabriatz). 

Ora, rileggendo queste postille, chi può non pen- 
sare a quelle questioni d' amore di cui parla, ad es., 
Mario Equicola nel suo libro della Natura d'amore (t)? 
Ma ad altre osservazioni di vario interesse danno 
motivo le nostre postille. 



Dobbiam subito avvertire che il Bembo dovè 
avere una conoscenza molto ragguardevole del suo 
manoscritto. Ce ne accerta il fatto che in margine 
troviamo più d'un rimando ad altri luoghi dello stesso 
codice. A e. 48', col. 1, in fondo alla poesia di 
Folquet de Marseilla, Per dieu amors, e precisamente 
a lato ai vv. 

Anazìman eatoz temps tatura. Chansos car de lor 
es ede lor rasos. Caitressi ses cascuns pauc amoros. 
Mais senblan fan de so don non an cura.. 

leggiamo : Nazimans et Toz temps . 49. Ora, 
questo num, 49 non può riferirsi che alla e. 49' dello 



(1) Per il libro dell' Equicola rimando a: Reniek, Giorn. 
star. d. lettor. iUl., XIV, aia sgg. 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. 17 

stesso codice K, ove troviamo precisamente : Na- 
ziman: 

la naimanz nin tostemps no creiran. Queu 
contraoior aia uirat tnon ire. 

(P. de Mais., A 9*0* gtn) 

e più sotto: Greu fera: 

Nazimans al uostre sen. Eten tostemps eissamen. 
Me teìng damor que paruenza. En faiz mas 
pauc uos agensa. 

A c. 88 r e 8o r trovasi ripetuto lo stesso compo- 
nimento di G. Adesmar, Pos ia vei fiorir. E 
questo fatto non è sfuggito all' oculato postillatore, 
che a e. 8g r ha notato : Ji. SS. 4, ove U n. 4 indica 
la colonna. E così a e. 89', a lato alla poesia di 
G. Ademars, De ben grani tot, é scritto : It. 94, 2 
e precisamente a e. 94, col. 2 (secondo l' uso antico 
di numerazione corrispondente al moderno e. qtf) 
troviamo questo medesimo componimento attribuito 
a Salii de Scola. Notiamo ancora che al Bembo 
non passò inosservata la relazione, che lega le due 
notissime rassegne di trovatori della loro età lascia- 
teci dal Monge de Montaudon e da Peire d'Auver- 
gne: infatti a e. 121*, a iato a Puois P. daluergne 
a chantat, troviamo : Poetae . 181 . che è un rimando 
al componimento di Peire, Ckantarai a" aquest (e. 
181). Per ultimo osserveremo che il Bembo notò 
accortamente i rapporti che passano tra la sestina 
di Arnaldo Daniello e il componimento di Bertolome 
Zorzi, En tal dezir. A e. 83* col. 1 di fianco a 
questa poesia del trovatore veneziano egli scrisse: 
Tolta da Arnaldo Daniello, $1 . j Orbene, a e. 
51, col. 3, secondo la numerazione antica, troviamo 
per l' appunto la notissima sestina : Lo ferm voler. 



i8 G. BERTONI 

Qualche altra volta il Bembo notò a lato del 
componimento il soggetto di esso. Così a e. 13: 
Per la recuperatone del sepolchro (G. Borneill, 
Jais sia,); Pel sepolchro (G. Faidit, Ab conserier) ; 
e. 49* Pel sepolchro (F. de Marseilla, Oimais noi 
conosc); e. 151 Della |$( (croce) P. Cardenal, De 
anatre caps); oppure: e, 41 Loda amore, (Aim. de 
Peguilhan, Toh hom)\ o anche: e. 14' Di morte 
(G. de Borneill, Ses valer de pascor); e. 181 Di MOR- 
TE (G. Faidit, Fort chausa) e a ce. 183' e i84 r : Di 

MORTE. 

Qualche rara volta egli ha posto in rilievo sul 
margine del manoscritto qualche nome: e. 166': 
Raimon Berengier, e. 133*: Guglielmo Malaspina; 
o anche qualche parola: e, 2' gaire, sonet, e. 5' ma- 
zan due volte, e. ió r lori, obrir, ecc. o qualche « Be- 
nhai : » e. 6* Mon sabre totz due volte, e così a 
e. 14*, e 15* Mon bel vezer-Nucde San Cire-Mon 
bel vezer, ce. i6 r e 18*: Mas bels vezers e Mon ca- 
nori, ecc. 

Sono postille di poco conto, ma tali tuttavia da 
non dover essere trascurate, perché mostrano, se non 
altro, da quali fatti fosse specialmente richiamata 
l' attenzione del Bembo. Il quale sentivasi dunque 
tratto a dar maggior peso, tra le poesie dei proven- 
zali, a quelle riguardanti le crociate o contenenti 
alcun nome noto alla storia. 

Lo sorprendeva, e ben giustamente, la parola 
< mazan > di così oscura orìgine, e lo tenevan 
forse dubitoso e pieno di curiosità i molti esempi di 
senhal usati dai poeti occitanici. Qua e là qual- 
che parola di chiaro significato ma tale tuttavia da 
ricordargli qualche riscontro egli andava registrando 
nei margini del libro (e. 2' sonet, e. 39' Liges, e. 20* 
Romieu), e così facendo egli si uniformava a un uso 
comune agli eruditi del nostro cinquecento : comune, 
tra gli altri, al Corbinelli, del quale io ho avuto oc- 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. 19 

castone di esaminare le non poche e interessanti 
postille al cod. parigino di Barlaam e Josaphat(i). 

Di molto maggiore importanza sono le postille 
riguardanti altri codd. provenzali messi dal Bembo 
a riscontro con K e studiate con molta fortuna dal 
De Lollis. U quale è giunto alla conclusione che 
il libro chiamato secondo nelle postille marginali 
di K sia il cod. provenzale estense : D (2). 

Ora, io collocandomi da un altro punto di vista 
e movendo cioè dalle postille di mano del Bembo 
che trovansi nel codice D (3) spero di dimostrare, se 



(1) Le postille di mano del Corbinelli trovansi nel codice 
n.' 3383 della Biblioteca di Santa Genoviefla in Parigi. Sf 
cfr. H. Zotknbkrg - P. Mevfr, Barlaam und Jos. von Guide 
Cambrai in Bibl. des Ut. Vereins in Stuttgart, LXXV, 1864, 37 
e 356. Il Corbinelli ha fatto nei margini alcuni raffronti di 
qualche interesse per la storia degli atudj romanzi. Raccolgo 
qui sotto parecchie di codeste postille : e. \' la renomata di 
toro, in margine : renom, renommee ; e. id., poderoso, appode- 
rate; C. 1* assapere, cesi ascauoir; e. 1' doctare; óailierj, 
onde Bailo, Baìlly ; mescredenza = fellonia. A e. 3* il Cor- 
binelli ha notato 1' uso di un ne per un et nella nostra volga- 
rizzazione, e a e. 3* a proposito di paratila ha scritto giusta- 
mente: parabola, au in o, parola. A e. 5' leggiamo: di- 
sciouerato, diseparato : o in e et v in p seurer, seuro, A e. 
6' in del dilecto dice il testo, e il Corbinell. annota: indel, 
come sinde per sene. A e. 9 : migliore senza coìnto, senza 
comparaHone nelle Misi. pisi. Oltre a ciò, cita il Fior di 
di virtù a proposito del verbo ingenerare (e. 9'); richiama 
l'Ori. Innam, a proposito del voc. stallo (e. 31'); riconnette 
innauerato al frane, «aure (e. 11); magione a maison (e. id.); 
pensa al greco per il vocabolo coirà (e. j8') ; accosta a rim- 
procciare il francese reprocher; si richiama qualche volta a dia- 
letti italiani : come al dialetto senese e al dialetto veneziano. 

(a) Si cf. anche J. Camus, Notiees et extraìis des manuscrits 
francais de Modene, ut Revue d. long, romanes, 1891, pag. 58 
dell' estratto. 

(3) Sulle postille del cod. D si veda: Camus, I codd. frane, 
delia Bibl. estense (estratto dalla Rassegna Emiliana), 1889, 



ao G. BERTO SI 

mi sarà possìbile, ancor più chiaramente che il Bembo 
ebbe tra mano K e D e quest' ultimo con ogni pro- 
babilità in Ferrara, presso gli Estensi ove lo abbia- 
mo sorpreso sul principio del sec. XVI attendere 
agli stadi provenzali. Nel cod. D trovatisi infatti 
dei rimandi a un ras. provenzale, che è chiamato 
primo e che non può essere che K. Raccolgo 
accuratamente tutte queste chiamate e pongo a lato 
di ognuna la relativa conferma del cod. K. Ap- 
pena occorre osservare che il lieve divario di nume- 
razione di K devesi al fatto che il Bembo calcolava 
le carte all'antica. 

i.D, e. 3«\ In/r. iSj. «Fora I. K, e. 181. G. Faiditx, 

cliansa es que tot io maior Fort ckamia e a lato : Di 

dan ». morte. 

a. D, e. 66', In pr~. 185. Ai- 3. K, e. 184. Lo stesso com- 

meric de Peguilhan, E» a- ponimento e a lato : Di 

quel Umfis. morte. 

3. D, e. 68*, Inpr. 184. Aim. 3. K,c. 1S4. Lo stesso corapo- 
de Peguilhan, Era par ben, nifnenlodiA.dePeguilhan. 

4. D, e. 69', Inp". 136. Aim. 4. K, e. 135*. Dauroen sap 
de Peguilhan, D'avinen. enganar. 

5. D, c.-]o a , InP". 184. Aim. 5. K, Anchein questo casota 
de Peguilhan, fa non mi- indicazione di D corrispon- 



6. D, e. 75*, In f. i8j. O. 

Nouella, Ses alegraie. 



pag. Sa. Il Camus non pare disposto a riconoscerli la mano 
del Bembo, ma piuttosto quella dell' Equicola. Esaminate 
le lettere dell' Equicola conservate nell'Archivio estense di Stato, 
non crediamo si possano attribuire al celebre segretario della 
Marchesa di Mantova queste postille. Oltre a ciò, la mano 
di K e quella di D vanno, potrei dire, senza dubbio identifi- 
cate. Mi permetto di usare un linguaggio piuttosto reciso, 
poiché tale convinzione mi formai esaminando a breve distanza 
di tempo le note marginali di D e K. 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. ai 

7- D, e. 83*, Di Guìglietmo 7. K, e. 90*. A lato alla can- 

Campostag, In fi'. 91 : O^il zone di G. de Capestaing : 

Gadartz, Assaz es dreig. Assatz « dreilz si legge: 

Pare Canzona daltro. In 

tee** 83. 

Nel cod. estense D troviamo poi qua e là altre 
tracce lasciate dalla mano del Bembo: 1. GuiLIEMS 
Ademar (c. 14"); 2. Di morte D vg Bruneng 
{e. 58"); 3. Del sepolcro (c. 65"); 4. sordel (e. 71); 
a proposito delle quali ultime postille noteremo che 
la 2* trova una splendida conferma in K, e. 85*, ove 
leggiamo accanto al componimento di Uc Brunenc, 
Aram nafron, < Della morte di costui fa canzona 
deo de Pradas. In sec.''° 58 ». E il componi- 
mento che leggiamo in D, e. 58*, è precisamente: 
Quifinamen sap conssirar attribuito a « Deode Pra- 
das ». 

Non è a credersi che questi rimandi sìan stati 
fatti a caso; essi hanno sempre una ragion d'essere: 
servono a rettificare o ad avvertire una divergenza 
di attribuzione tra i due manoscritti, a porre in evi- 
denza qualche affinità, a registrare insomma quelle 
particolarità tutte per le quali rimaneva alquanto sor- 
presa la mente del Bembo. 

Qualche volta Ì confronti, a giudicare dalle po- 
stille pubblicate dal De Lollis, si limitano a pure 
varietà di grafìa, come a e. 3' di K, ove è detto ac- 
canto a Nucbrunecs: Ugo bruneng in secondo; tale 
altra si tratta di vere e proprie aggiunte, come a 
come a e. 48, ove tra la terza e quarta stanza di 
F. de Marseilla, si con cel leggesi un richiamo : 
Deesi ex 2" che rimanda a pie di pagina a una 
strofe aggiunta dal postillatore e tolta, secondo le 
conclusioni del De Lollis, dal cod. D. 

A seigner doli e prìuatz. Com pose dir 
uostra lauzor. £ a lei uiu de sordeior. 
Qaieis mais on plus es poiatz. Creis 



13 G. BERTONI 

uostras laus en pensanz. Ei trob ades mais 
qe tar. EI semblan del uostre donar. Don 
tuit cressiab lo talani. Ou mais uenion 
qeridor. Mas deus com a bon donador 
Uos donaua deis mìì alani. 

E tuttavia da osservarsi che alcune leggerissime dif- 
ferenze dì lezione si incontrano nel testo di D, e. 43" 
che suona: 

A seigner dolz epriuaz. Com pose dir uos 
tra lauzor. Calei uiu sortteior. Qui eis 
mais on plus es poiaz. Creis uostres laus 
enpensanz . ei trob ades mais qe far. Et sem 
blan del uostre donar. Dom tuit cressiallo 
talanz. On mais uenion qeridor. Mas deus 
com abon donador. Vos donaux adeis mil 



Ho detto : leggerissime differenze, e aggiungo che 
esse sono tali da palesarsi subito come tentativi di 
correzione da parte del Bembo. Così, ben a ra- 
gione il Bembo ha aggiunto nel secondo verso il de, 
che manca in D, e ha migliorato la lezione di cres- 
siallo e ha soppresso una delle due a in sinatefe di: 
donaua ades. 

Osserveremo ancora che il Bembo non ha trascu- 
rato di numerare ì due codd. K e D, cosa certa- 
mente necessaria per il confronto ch'egli si propo- 
neva di fare durante lo studio del codice da lui 
posseduto. Ma non solamente egli ricorse al ms. 
estense, ma ad altre sillogi provenzali, eh' egli dovè 
aver tra mano e che non sono giunte forse sino a 
noi. Egli cita infatti nelle postille marginali di K 
un codice, chiamato tertt'o, e ne ricorda un altro, 
chiamato paruo. Giudico inutile riprodurre questi 
riscontri, poiché essi sono stati pubblicati ed esami- 
nati dal De Lollis ; passo piuttosto a richiamare l'at- 
tenzione degli studiosi sopra un fatto, al quale non 
vedo attribuita 1* importanza che mi par meritare. 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. a 3 

Il postillatore non ha solo confrontato K con 
altri manoscritti provenzali ; ma obbedendo alla sua 
curiosità di studioso ha fatto un passo innanzi: egli 
ha tentato per buona parte del codice un vero e pro- 
prio saggio di emendazione giovandosi a quest'uopo 
di altri manoscritti. Si tratta di una collazione 
condotta in certo qual modo con quella cura che i 
migliori umanisti adoperavano nel correggere i testi 
degli autori classici ; si tratta insomma di un tenta- 
tivo di emendamento, la cui importanza non può 
sfuggire a chì pensi quali effetti talora se ne possano 
ricavare. Anzitutto lo studio dì coteste varianti 
ci può permettere di addentrarci a scrutare lo stato 
delle conoscenze del postillatore in fatto di proven- 
zale, e poi alcune di esse possono anche essere pre 
ziose, quando sia il caso, ad esempio, di lezioni deri- 
vate da codici smarriti se non a dirittura perduti. 

Riportiamo cotesti ritocchi : Ì quali veramente ad 
altro erudito, che il Bembo non fosse, noi non sa- 
premmo attribuire. 

Peire Rogier. 
i. B. G. 356,8. Tarn no» pio», str, IV: Ben flagra ses lei ui- 
ure (e. 3", col. 1). Il correttore ha mutalo 
In margine ses in ab. Questo componimento 
è attribuito a P. Rogier dai codd. CDIK 
M R. È evidente che il solo cod. che possa 
esser preso in considerazione è D. sia perché 
questo fu noto al Bembo, sia infine perché C 
e R non pare sieno stati mai in Italia, e M 
appartenne al Colocci e non al Bembo. Ora, 
il cod. estense D dà precisamente la lezione : 
ab (Be pograb leis uiure, str. VII, e. 3*). 
a. » » 356, 6. Per far esbaudir, str. V : Uos ìuuats domite 
(e. 3' col. 2). In I, ove la canzone figura, 
per errore del rubricatone sotto Beni, de 
Vcntadoi n, mentre in carattere piccolo leg 
gesì in margine: Peire Rogiers, troviamo la 
buona lezione: iitiatz. 11 correttore di K ha 
espunto una delle gambe di ìuuats.. Il com- 
ponimento è attribuito da quattro manoscritti 



24 G. BERTONI 

a P. Rogier : c D I K. Poiché i codd. che 
attribuiscono ad altro autore, che non sia P. 
Rogier, la nostra poesia, non possono essere 
presi in considerazione, che il postillatore non 
avrebbe in tal caso trascurato di fame men- 
zione, resta che si ricerchi la lezione di D. 
Questo ras. reca precisamente, e. 153"- iuialz. 
3. B. G. 556,6. Nello stesso componimento, I* tornata, pare 
che il correttore abbia voluto mutare il sai di 
Ma dotane* sai in sui. 11 ms. D porta chia- 



4. » » • Nello stesso componimento, II' tornata, il 
correttore ha aggiunto a Eu uoill morir ade- 
stors un piccolo mais, presentato da D. 

J. » » 356, 5. Non sai don chant, str. I, v. 3 sen be (e. 3', 
col. a). Il postillatore ha corretto : soue. 
Tra i codd. che contengono questo componi- 
mento, uno solo può essere consultato per la 
per la presente questione : D. Ora, questo 
manoscritto presenta la lesione: sei be. 
Notiamo un tentativo felice dì interpunzione 
della str. VI, ove scorgiamo un leggero punto 
di interrogazione dopo le parole: Tu o quen 
faras. 

6. » » » Nello stesso componimento, nell'ultimo verso 

della str. VII : Que sauia daulra tot man un- 
ler troviamo dopo antro un piccolo dons, che 
manca In ogni modo a D. 

7. » » 356, 3. Entr" tr" e joi, str. Ili : Ben sai fols efatz (e. 

4', col. 1). Accanto a fatz abbiamo jais di 
mano del correttore. Possono essere chia- 
mati in esame i codd. A D E M. I mss. 
A D danno la lezione : fatz. 

GUIRAUT DB BORNELH. 

fl. » > 143, 18. Ben deu en bona cori (e. 4', col a), str. I, 
v. 4 : Un leuet equi tapren. In luogo di 
le net il correttore di K ha posto liuier. Men- 
tre il cod. A dà leuet, D (e. 1 r) reca : leuier. 

9. • » > Nello stesso componimento, nel penultimo 

verso, la parola bocundia è migliorata in leu- 

cundia, lezione di D. A dà ; lencundia. 

io. • > 343, 54. Obs m' agra, str. II : Ben fora nauta de- 

mandar» (e. 4*). II correttore ha espunto 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. 35 

nauta e lo ha sostituito con enois &. Tro- 
viamo enois la precisamente ad cod. D 
(e. 7*). A reca: Mattia. 

ti. B. G. 342.54- Nello stesso componimento, str. HI, si leg- 
ge : Semblal fatila fiat enaisos. Il corret- 
tore ha aggiunto una r, cosi : en'aisos. A 
reca : emaisos ; D invece : emarsos. 

11. • » 341,31. De chantar, str. IV: Mas enaisom so» co- 
itortalz, e. s'- A lato di enaisom, il cor- 
rettore ha posto : duna rem. La mede- 
sima lezione con m finale e data da A. Il 
ms, D ha: duna re» (e. 11*). 

13. > » 343,46- Lo dota chan (e. 6', col 1), sulla fine: Tot 

te» (lezione identica ad A). D reca: Tot 
e» (e. 9*). Aggiungiamo che nella stessa 
tornata il correttore ha espunto il secondo 
e di etteastratz. Neil' originale era forse 
la lezione esatta, poiché I di : enastratz. 

14. » • 141, 73. Si per man 'e. 6", col. 1-3). Str. I : se»- 

stramero» de lai. Il correttore ha espunto 
!*■*■ di enstr e l'i- di «ai mutando rispetti- 
vamente le lettere in -e- e *-■ D, e. 4' 
reca: sestregntre desai; mentre A ha: te- 
sfraigneroM de lai. Cosi nello stesso com- 
ponimento, str. V : Reti per la» bel assai; 
assai è mutato in esai. D reca assai. 
Un'altra correzioDc noto nella str. VI, che 
pare attaccarsi pure a D per quanto comune 
ad altri codd. Poi aisi le» è mutato in 
P. a. te». 

15. » » 143, 45. Le» tÀamstmeta. str. I : Pogues noòlon tra- 

bar .'I : Pogues neblon trobar). Il postil- 
latore ha corretto cosi: noflon". Certa- 
mente la correzione non può esaere derivata 
da D 'e. 5*,, ove questo verso manca per 
intero; A porta la lezione di I. 

16. * » 341,53- Nmilla rei. str. VI : Dams cattezer. Data 

col è cambiato in aam »ae, che e la lezione 
di D. e. 9*. e di A. 

17. » * 141.43. La fiori e- 8", col. 3, str. V : lol t»ferUt. 

Lai fa corretto in marcine: LaiU. 

18. > > 342,51. Xo» p*ou mudar ic.X,aA. t), ito. l;ape*. 

talz fu mutato in apetali. 

19. » » 141.71. Si tintili unti e. 9% col. 1,, «tr. Il: Qom 

im p»aua trekar: ut è mutato in Isti. 



16 C. BERTONI 

Nella str. IH : se mira no men cai, tra mira 
e non è introdotta una piccola : a. 

io. B. G. 143,81. Un sonei (e. 9», col. 3), str. V: il v. Mot 
som daquists derriei semfile è sottolineato e 
accanto si legge : Aissi sai eu far de mal 
be. Il cod. D non contiene questo com- 
ponimento : e A non può aver fornito la le- 
zione. Cosi, nello stesso componimento, 
nella strofe seguente, il v. : Que tanforsatz 
sabers maue è corretto in Que tan sabers 
fondati maue. 

si. » » 343, 69. Constili «os guier (e. 13% col. 3), str. Ili : 
ja siate «os. fa è stato espunto e sosti- 
tuito con Tot. Nella str. VI dello stesso 
componimento manca in I K un verso così 
scritto in K dal postillatore : Que ben sabes 
con* mi/a conuenguda. Nella stessa strofe 
accanto a : Que ben nos dia troviamo pro- 
posta la lezione : Que ben sapzatz. Queste 
mutazioni concordano tutte con la lezione 
di H. Si cfr. Appel, Provena. Ckrest., 
pag. 138-9. Né ciò deve recar meraviglia, 
poiché pare ormai certo che H sia da iden- 
tificarsi con quel manoscritto provenzale che 
appartenuto prima al Bembo entrò nella 
Vaticana col fondo di Fulvio Orsini. Si 
cfr. Gauchat-Kbhrli, Il canz. provenz. H, 
in Studj difitol. rom„ V, 349. 

Dalle postille qui sopra raccolte risulta chiaro che 
le varianti segnate nei margini e tra linea e linea 
nulla hanno a che rare col cod. A e non possono 
per conseguenza rappresentare il risultato di quel 
confronto tra K e A compiuto sul finire del sec. XVI 
e ricordato sul principio di questa nostra nota. Ciò 
è dimostrato chiaramente dai numeri 8, o, io, 1 1 e 14; 
poiché non possono bastare i numeri 12 e 13 a far 
supporre un rapporto di collazione tra A e K dal 
momento che cotesto rapporto è negato da altri con- 
fronti e dal fatto che il Bembo possedè altri codici 
provenzali a noi sconosciuti. D'altronde, par certo 
che il Bembo si sìa giovato del codice estense per 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. 37 

la sua collazione (nn l . 1, 2, 14); ma pare altresì certo 
ch'egli dispose di altri canzonieri (nn. 1 5, 6, 20} come 
ad esempio di H, che si trovò tra le sue mani (n. 21); 
sicché non sarà superfluo venir raccogliendo accura- 
tamente le rimanenti varianti, che per più di un fatto 
possiam dunque ritenere del Bembo. 

Bbrnakt db Vhntàdorn. 

33. B. G. 70,4». Qan vei la fior (e. 15", col a), str. Ili: Ab 
seu amor. N- è corretto : m e un mlamen 
è mutato in uilanamen. 

23. > » 70,10. Bel m' es att' ien (e. 15', col. 3), str. II: tra- 
aorta è corretto In trotterai. 

i\. * » 70, 31. Non es meramitia (e. 16", col. 1), str. II : 
Pmois ia de noi serai mespres ; noi è mu- 
tato in nos. Str. IV: dousa sabor. Cen 
ttes : tra sabar e cen è inserto un Che. Str. 
V: teson {(esso*. I) ha V o espunto e cor- 

35. > » 70, A3- Qnan nei la lauseta (e. 16', col. 3), str. IV: 
preon è corretto in margine : per/a». 

a6. » > 70. 35- P*r descoorir (e. 17*), str. I, v. 1. desco 
brir e mutato in mieis coòrir. 

17. > > 70,41. Qam par la fior s (e 19"), str. IV: il verso 
Qan uo i non nei donata don plus me tot è 
cambiato in : Qan pms de uos donata, de 
cui mi cai. Poco dopo : Negus uezers : 
nezers è mutato in tresors. 

Puh Vidal. 

a8. » » 364, 39. Cani hom es (e. 30'), itr. 1 : Damar segrai 
los mais els. È aggiunto in margine : bes. 

Arnautz de Mekuoill. 

39. » » 30, 1. A grani konor (e. 30'), Lon genz conquis. 
Lon è corretto in Man. 

30. » » 30,22. Si com ti peis (e. 35*, col. i). In fondo 
al componimento sono espunte alcune pa- 
role che si leggono in K, ma non si leggono 
in I, e. 48'- Es ma frames uoii qes man 



G. BERTONI 

ma tant \ damor . Cab lei uas cui odor . Afa | 
razon ckauzimenz. 

AlMERICS DE PEGUILHAN. 

. G. 10,41. Per solati d' antrui (e. 39', col. 3). Dopo 
la prima tornata : Lo pros GniUems, è ag- 
giunto di mano del correttore : Bel paragon 
ecc., già cit. 



FOLOUET DE MARSEILLA. 

>SSi !■ Antitrs merce (e. 46*, col. 3), str. Ili : E car 
fan gen. In margine tan gen e mutato in 
piamgen (?). 

•55. 5- Ben an mari (e. 47'. col, r), str. II : So que 
men causa. La parola causa è stata espunta 
e cambiata con cockia e in cochiar è pure 
stato mutato un causar, che si legge sul fi' 
uire della stessa strofe. In questi due casi 
il cod. D da cliaucha e chauckar (o ckatt- 
chazf), e. 40*, 

135. 3- ■<* oan *»<■ {gen) uens (e. 49', col. a), str. IV : 
merce so /aria parer : so /aria e espunto e 
cambiato: e /arai lo. 

Arnaut Daniel. 

39, io. En est sonet (e. 50*, col. 3), str. V : Que ' 
midon don esert. Leggiamo in margine : 
asserì, in porno. 

39, 18. Sóli sai qe sai (e. 50*, col. 1), str. VI. Le 
ultime parole: lai la destre sono corrette: 

39,14. Lo /ernt uoler (e. 51', col. 3), str. II: que 
nuis non intra. Tra nuls e non: hom; e 
più avanti, nella stessa strofe, neis longa è 
mutato in ni ongla. 

39, 17. Sim /os amors (e. si*, col. 3}, str. II : deui- 
nador è mutato in margine : los deuiadors. 

>9, 9. En bren brisaral (e. 53', col. 3), str. II : 
Pvois trolalais lo agre è mutato in Mor tro 
leial lo sagre. 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. 39 



Pons dk Cafduoill. 

40. B. G. 375, 1. Aiti mes pres con sellui (e. 55, col. a), str. V: 

Otte rutili si uau. È stato aggiunto dopo 
fistiti: entri, 

G. ds Saint Lbidibk. 

41. » > 134,11. Estai attrai (e. £3', col. 2), str. IV: oise 

oplazer. In margine la correzione : o oise 
o User. 

Non mancano certamente nel manoscritto altri 
leggieri ritocchi, che ci è parso opportuno di non 
riferire. Osserveremo invece che le annotazioni si 
fanno men frequenti di mano in mano che si procede 
nella lettura del canzoniere. A e. 183', col. 2 tro- 
viamo l' aggiunta di un w al primo verso di Gaus. 
Faiditz: Fort chausa [es] ae tot lo maior don. 

Infine non va trascurato che qualche tentativo di 
correzione il Bembo fece anche sui margini dì D. 
A e. 8o\ ad esempio, egli ha giustamente migliorato 
il primo verso di una canzone di U. de Saint Circ : 
Arte no ut tetnps ni saisson in Anc mais no, ecc. 
Ad altro correttore invece andrà attribuita l'aggiunta 
di : e can me sui partii de lai . Membram dunamor 
de log, che si legge a e. 88'' di fianco alla prima 
strofe di Jaufre Rudel; Lan guani li iorn. Al 
Bembo apparterrà d' altro lato il mutamento di plus 
in pros (e. 148') nel verso: Cals razonatz ni tenez 
per plus « plus » della tenzone di Raimon e Ber- 
tram. Ber tram si fosses. 



Ho raccolto tutte queste lievi varianti non per 
eccesso di pedanteria. Io sono convinto ch'esse 
possano servire non solamente a darci un' idea del 
metodo tenuto dal Bembo ne' suoi studi di filologia, 



30 G. BERTONI 

ma anche forse a ristabilire esattamente la lezione 
crìtica di questo o di quel brano. Poiché il Bembo 
che tanto gelosamente custodiva il suo manoscritto, 
dovè procedere molto cauto nello studio di esso, né 
si permise, io credo, di proporre varianti, che non 
avessero per sé l'autorità di qualche altro prezioso 
canzoniere. Evidentemente il Bembo si industriò 
con la sua collazione di correggere il suo codice o 
di chiarire meglio qualche passo che in tutto non 
gli riusciva ben chiaro. Esaminiamo taluna delle 
varianti da lui riportate. E prova di esame crìtico 
— si cfr. tuttavolta l'ed. Appel di P. Regier — la 
sostituzione di ab a ses nel verso : 

Ben popra ses les vìure (n. i). 

Correzione certamente assai facile era la seconda, 
la quale — insieme a quella che reca nella nostra 
lista il numero 5 — serve a dimostrare che il Bembo 
colla sua collazione mirò non già soltanto a riportare 
nel suo codice la lezione d'altri manoscritti, ma a 
migliorare anche il testo del canzoniere che aveva 
tra mano. 

Talvolta egli si propose forse di renderselo più 
chiaro, avvantaggiandosi dì varianti che gli parvero 
di più facile intelligenza. Così (n. io), mutò un 
nauja, che forse non gli riusciva ben comprensibile, 
in enois ; e (n. 1 3) Tot ieu in Tosa ieu, e un preon 
egli corresse in margine, senza ragione : perfon (n. 25). 

Ma non di rado il postillatore sanò dei veri e 
propri passi guasti del manoscritto K. Io mi li- 
miterò qui a richiamare la sostituzione di Mar irò 
leial lo sagre al sibillino : Puois tro lalais lo agre. 
Il Canello (pag. 161) a questo punto osservò: « una 
mano seriore ha aggiunto in K la lezione di A > ; 
ma in verità egli doveva dire: « la lezione di D », 
che in ciò si accorda con A e che si trovò nelle 



LE POSTILLE DEL COD. PROV. K. 31 

mani del Bembo. Lo stesso intento di chiarire 
certi passi di K dovè guidare il postillatore a mutare 
(n. 40) un ohe oplazer in o aise o lezer (G. de S, 
Leidier; Estui aurai), la qual lezione potè essere 
fornita dal cod. D, e. 1 1 7*. 

H medesimo manoscritto estense potè ancora gio- 
vare al Bembo per correggere due passi di Arnaldo 
Daniello (nn. 1 36 e 37), nei quali il nostro cinquecen- 
tista dovè a buon diritto avvertire qualche menda 
leggendoli sul suo codice provenzale. Insomma 
possiam dire che non di rado le proposte del Bembo 
sono felici e servono alla più esatta intelligenza del 
testo ; qualche volta però sono del tutto inutili e pa- 
iono riposare sul difètto di una sicura conoscenza 
della significazione dì alcun vocabolo; ma sempre 
hanno una loro propria ragione d' essere e quasi 
sempre poi si riferiscono a passi, intorno ai quali la 
critica trova ancor oggi molto da discutere e da os- 



Non affermeremo dunque che il Bembo avesse 
del provenzale una conoscenza veramente egregia. 
Egli fu guidato ad occuparsene da quello spirito 
curioso d'ogni cosa, ch'egli ebbe, e dalla convin- 
zione di trarne lume per lo studio della lingua ita- 
liana; ma cèrtamente anche in questa novella prova il 
nostro sommo cinquecentista non mancò di pale- 
sare le sue rare doti di studióso e il suo prezioso 
criterio di erudito. 

Giulio 



APPUNTI ETIMOLOGICI* 



oriento, are, argento. Si suol dichiarare da 
argento, ammesso lo scadimento di g palat. a/ co- 
me in piagne strigne ecc. (v. ad esempio : Bianchi, in 
Àrch. gì. VII 133). Ma nessun esatto parallelo 
si potrebbe citare a confronto, giacché in nessuna 
delle basi che contengono rge rgi appar digradata 
la palatina sonora in /. Credo piuttosto che si 
debba pensare a un volgare lat. *ari- o *aregen tu, 
in cui fosse quella vocal parassitica o d' epentesi, che 
appare singolarmente propria dell'osco e de' dialetti 
suoi affini (e così: osco aragetud, lat. argento, 
ab!.); v. Pianta I 251 sg. Circa il dileguo della 
palatina sonora tra vocali, quasi superfluo il ricor- 
dare come di regola vi s' arrivi da Gì gè, o che 
siano sotto l'accento (cfr. reina niello ecc.), o che 
formino la penultima dello sdrucciolo (cfr. dito frale 
ecc.), condizione molto simile a quella del nostro e- 
timo, dove il dileguo sarebbe avvenuto nella penul- 
tima dello 'sdrucciolo rovesciato'. 

BRANDELLO. 

brandèllo, pezzetto staccato; are. Orandone, 

* Altri Appunti etimologici, a cui più volte da questi è 
fatto richiamo, v. in Miscellanea Ascoli 431-45. 



34 S. PIERI 

grosso brandello, strìscia (i). Non si possono colle- 
gare, ostando la ragion- fonetica, alle molte voci che 
hanno per base il gemi, brado pezzo di carne (aat. 
brato parte carnosa, polpaccio), cfr. Kort. 1 1538. 
L' epentesi della nasale risulterebbe un fenomeno 
forse senza riscontro nel toscano {2). Saranno essi 
rispettivamente il dimin. e 1' accr. di brano ; e offri- 
ranno quella medesima alterazione protonica, per la 
quale da in ìlio si venne al tose, ine Ilo inneità e 
poi indetto (3). Il termine oscuro, dunque, rimarrà 
brano, che tutti sentiamo non separabile da brandello 
•one, e che il Diez immaginava connesso a questo, 
in quanto non fosse che una sua forma ' contratta '; 
ipotesi a cui forse nessuno oggi vorrebbe assentire. 
Notevole brandello anche per i verbi e rispettivi de- 
verbali che ne derivarono ; giacché ali. a sbrandel- 
lare, che non ha esempj, a quanto pare, de' primi 
due secoli e potrà essere una ' costruzione ' tardiva, 
sorse sbrindellare e sost. sbrindello (4), sbrendolare 
e sost. sbrèndolo, pist. sbrindolare e sost. sbrendolo ; 
ai quali, per la ragione morfologica, fanno riscontro 
dindellare e dindolare (lucch.) ; cfr. Arch, glott. XV 
216. S'aggiungono: sbrendolare e sost. sbrèndolo, 
di cui almeno il e palatale si dovrà ripetere al certo 
da qualche contaminazione. 

(1) Il significato specifico di ' pezzo di carne o di panno ' non pai che 
sia documentato. (3) [1 Kfllling ripete Ih assale da un Ipotetico * bran- 

iarc, dove essa d'altra parte non riuscirebbe meno enlmmatlca. (j) È 

onesto per me un esempio certo, quantunque da altri impugnato (ma v. Nteri, 
Voc. lucch. 101); e cfr., in penult. di sdrucciolo, cioè in condizione molto sl- 
mile, 11 tote, cauteri, tènderà, ecc. (4) Difficile a dire se Arwbtt) fin 
cui a ogni modo resta sempre oscura l'alterazione della vocale protonica) 
proceda senz'altro da brand/Ito, o sia 11 deverbale a" un 'brimdeUare non at- 
tcstato, o non aia che sbrindello privato del suo t- per conformazione a bran- 
dello. Ma il paragone col seti e pist. brindalo, plst. bréndoìo, lucch. brin- 
dalo (ali. a bmdolare), per i quali non si prestano che la seconda e la terza 
Ipotesi (da brandello, te mal, avremmo 'bràndota), ci persuade anche per 
brindello a escluder la prima. Se non che, alla loro volta, brindato e brèn- 
dolo non potrebbero esser brindello con diverso suffisso? Non pare; perchè 
Is regola t che si sostituisca -elio ad -oto; e non si vede mal, forse, Il con- 
trarlo. In brincello poi avremo fusione di brindello e di bréwMe o sbr-, 
Cfr. Caia, St. 49. 



APPUNTI ETIMOLOGICI 



brillo, alquanto alterato dal vino. Si legge 
in Festo presso Paolo Diacono : ' rubens cibo ac po- 
tione ex prandio burrus appellatur ' (cfr. Lindsay, 
The lat. lang. ir 74). Ora io mi domando se 
l'it. brillo, che ben s'accorda con questa particolare 
accezione di burrus, non possa procedere da una 
forma derivata dell' agg. latino ; in modo da averne 
un etimo, che venga a competer con quello pur così 
felicemente immaginato dall'Ascoli: *ebriillus da 
ebrius (v. Arch. gì. Ili 452-3). A *burius da 
bfirrus ci riconduce l'it. bujo (cfr, Kort. a 1653); e 
*buriìllus, onde l'it. "burillo e poi brillo, sarebbe 
il suo giusto diminutivo. L'ettlìssi della vocal pro- 
tonica non presenterebbe nulla d' insolito ; cfr. brillo 
da beryllus (Arch. gì. XV 146), e meglio: bricco 
ali. a buricco asino (spgn. borricó), ecc. (1). 

(1) Non do peso il divariato birillo (v. Petrocchi), In «manto sarà forma 
secondaria e «Tiare, spiegabile por uà faceto e gergale ravvicinamento di 
brillo al 'birillo' del biliardo ; e pereh* Vi protonico (che pur al chiarirebbe 
anche, per qualche modo, da *bttrillo) risulterà ivi, ae mal, piuttosto da una 
epentesi, come in birichino, lucci], -tclamo, ali. a triteait (cfr. KBrt.t iss»'. 



brullo, nudo, spogliato; e dicesi principalmente 
del terreno. Nell'ordine ideale non avremmo dif- 
ficoltà ad ammetter che brutus o bruttus dal- 
l' accezione di ' turpis ' o ' deformis ', ciò eh' esso ap- 
punto era venuto a significar nel lat. volgare (it. brutto, 
spagli, bruto), passasse a ' squallido ' o ' privo di ve- 
getazione '. Del resto, brullo starebbe a *bru- 
t'iu (*brutùlu) come spalla a spat'la; e il dim. 
in -ùlo, che ci è ofFerto con particolare frequenza 
dal lat. seriore, ben si converrebbe coli' evoluzione 
seriore in II del nesso t *1 (cfr. M.-Lùbke, Gr. it. 69). 



S. PIERI 

L' ant. it. Ir olio (la poma volta, pare, usato in rima 
da Dante, Inf. 16, 30) è forse una forma emiliana 
(moden. sbroll ; Muratori) ; cfr. però Arch. gì. XV 
474-5. Lo stesso si dica dell' aret. sbrollare, sfron- 
dare (cfr. snudare) (1). 

(i) Secondo 11 Csii SI. 145 da brolo verilere. Ma In questo caso non 
avrebbe, pare, significato ' spogliare della vernini ', beoni ' mandare o andare 
via dal veriiere ' (cfr. scasavi, scompari, ecc.). 

BUCA, BUCO. 

buca, buco, apertura, cavità. Credo che 

non si debbano accomunare con questa voce italiana 
il prov. e afrnc. bue ventre, tronco (afrne. anche : 
arnia), cat. bue, spgn. buque, port. buco, scafo d'una 
nave. Per tutti questi rimarrà certa l' origine dal 
gertn. bflk ventre (cfr. Kort.» 1632). Rispetto al- 
l' it. buca, buco (il secondo è come il ' diminutivo ' 
del primo, v. Petrocchi ; e perciò vi potremo ben 
riconoscere una forma meno antica), s' avverta che 
ad essi non ispetta alcuno de' significati specifici 
proprj alle voci galliche ed iberiche. E buca non 
pare a noi altro che buca, cioè la fase anteriore di 
b lìce a (v. Forcell. e Georges), che da 'apertura' 
(cfr. ose oróua per ' orificium ') passasse ad indicar 
' cavità, a cui un' apertura dà adito '. Il traslato 
a questa accezione è come annunziato in una frase 
di Plinio, 11, 250 (' gemina quaedam buccarum ina- 
nitas ' a denotare ' la doppia cavità del ginocchio '). 

CENERENTOLA. 

cenerentola, donna che sta intomo al fuoco 
e attende ai servigi più umili della casa. Non 
può esser che * eenerolenta, da clneruléntu -a (v, 
Georges), che sarà formazione tardiva su pulveru- 
lentu (v. Stolz, Hist. gr. der lat. sprache, I 539- 



APPUNTI ETIMOLOGICI 37 

40); e da. il sinonimo lucch. eendortigia (da vén- 
derà cenere). È notevole assai la metatesi d'una 
sillaba protonica, che passa dopo la tonica, in modo 
che la parola di piana diventa sdrucciola (1). 

(1) L' esatto parallelo d è offerii! dal lucch. itu&ndoro -a(pis. -àmbio -a). 



CERTONE, CIORTONE, AGERTO. 

c ertone, e tortone (v. Tramater s. v.), agerto 
(Viareggio; come ho da Maurizio Pellegrini), pesce 
simile a un piccolo tonno, ma più sottile in coda, e 
di colore vergato a liste azzurrigne. In forma ac- 
crescitiva o no, dall' equival. lacértus -a (cfr. For- 
cellini s. v.), con discrezione di / articolo, e poi con 
afe resi dell' a nel primo termine. E rispetto al 
divariato dartene, cfr. il viar. e lucch. ciortèlta -èllora 
lucertola, Arch. gì. XII 114 e '25. 



cèsso, latrina. Dovendo altrove toccare di 

questa voce, proposi l' origine da re]cessus, anzi- 
ché da sejcessus col Diez (v. Arch. gì. XV 150). 
Ora il Nigra (v. ivi 499) insiste a favore del vec- 
chio etimo, movendo al nuovo più obiezioni, alle 
quali do qui una breve risposta. Quanto al senso 
a me parve sufficiente il rammentare il sinonimo frane. 
rétraite. L'illustre contraddittore non se n'appa- 
ga, e osserva che recessus è un ' tirarsi indietro '. 
Se non che la voce latina dice anche, sùbito dopo: 
' ritiro ' o ' luogo ritirato ' (e perciò, insomma : ' luogo 
appartato', come dice appunto secessus), che è 
proprio il caso nostro ; e gli esempj, nel lessico e 
negli autori, soprabbondano. Il confortare d'altri 
riscontri ideologici la mia proposta credo che sem- 
brerebbe superfluo, Ma il Nigra soggiunge: 'La 



3 8 S. PIERI 

ragione dell'inutilità del prefisso, invocata per fe- 
ce ss u, se fosse buona, varrebbe anche per secessu'. 
In verità, non mi pare, assolutamente. Il re- do- 
vette nel latino volgare esser sentito come prefisso, e 
tanto bene quanto è oggi sentito il ri- nell'italiano 
(passare e ripassare, ecc.); e molto naturalmente si 
veniva a sopprìmerlo dove non apparisse l' idea della 
ripetizione (i), Ma in secessu alla coscienza dei 
parlanti non poteva apparire nessun prefìsso ; tanto 
più che cedo e i suoi composti non dovettero es- 
ser nel latino volgare, perché figurano come voci 
dotte o semidotte nel neolatino. Ma se anche 

vi fossero stati, mancavano altre parole in cui se- 
potesse chiaramente essere inteso come prefìsso. 
Questa preposizione, che si conservò in pochi com- 
posti latini (cfr. Lindsay, ix 51), non sopravvisse 
forse che ne' continuatori di secùru e di sepa- 
rare, dove di certo, oscurata come ne era l'eti- 
mologia, non si poteva vedere altro che la sìllaba 
iniziale di un nome ' non composto '. Il Nl- 
gra poi ripete 1* aferesi da dissimilazione. Ma 

1' assonanza della prima e della terza sillaba, per es- 
sere così discontinue, è tanto poco sensibile, che ad 
essa mal si potrà attribuir 1* efficacia di produrre il 
fenomeno. Né valore avrà il riscontro dell'it. se- 
cesso latrina, che è un oa-af; >i7i)«i*m, e forse un errore, 
del Voc. italiano ; e a ogni modo si tradisce quasi 
per letterario a cagione dell' e protonica intatta. Ri- 
mane la glossa Amploniana: latrina = secessus, 
della quale per ora non saprei che cosa pensare ; ma 
non credo che sìa uno scoglio insuperabile. 

(1) Un altro beli' esempio ci era ami offerto poco prima dal N'igra stesso 
{Ardi. XV 4B+), che dichiara il tardo (mtr.) cotttài. riscuoterà, come ' recu- 
perare , taciuto II re- che pareva superfluo' (E v. Ivi 490 s. luirLJ. 

COCCOVEGGIA, CUCCUMEGGIA. 
coccovéggia, it., cuccuméggia, lucch, ci- 



APPUNTI ETIMOLOGICI 39 

vetta; coccoveggiare, it., cuccumeggiare, fior. 
(Mugello), fare atti da civetta (t). Le due coppie 
sono di certo inseparabili ; ma nessuno oserebbe ora 
ammettere senz' altro il passaggio di v mediano in 
m o viceversa. Sennonché ai divariati italiani fanno 
bel riscontro quelli del classico greco, il quale ci of- 
fre, per ' civetta ', dall' una parte x«x*j3)j (kmc*,S*S, 
voce imitante il verso di una civetta ; Aristof.) e 
m'xuJSoc, dall' altra róvftoc e M*ufu&. Con questi ul- 
timi va il lat. cicùma (v. Stolz 441}. Quanto 
alla sillaba iniziale delle voci romanze, potremo qui 
menzionare il basso greco *ouxou£ii« ecc. (v. Du Can- 
ge), già ricordato dal Salvini; e forse lavar, cucu- 
ma in Festo; v. Forcali. Più difficile il dar ra- 
gione della vocal tonica. Penserei che * coccovag- 
già, sorto regolarmente da MWJ.Sài» (ma cfir. scarafag- 
gio, Ascoli, Arch. X 8-9) ripeta Ve dalle forme rizo- 
toniche di coccoveggiare, succedaneo di *coccovaggiare, 
che facilmente veniva attratto nella serie dei verbi 
in -eggiare. Del resto, ammettendo che il nome 
sia qui ricavato dal verbo, di questo avremmo facil- 
mente ragione per via d'un * cucumid-iare (v. 
sopra; e rispettiv. *cucubTd-iare) (2). 



li) Per le iobìoii 


secondarie del Tei 


bo, efr. il Vocab. italiano e Sieri, 


Voeab. lucetele. Alti 






cmtffia (Folk. Ball, j>, tgfiart 


[Buon. Fini 3, 1, s) l « 






dialettali della civetta g 






tmetwM/é e eveaim (Terra d' O- 


mulo), cuccimi (Capri) 






m (Sardegna): ». Giglio», Avif. 


It. ws-7. 1*1 E 






a ogni asodo, ci ribalterà ano di 


quei verbi io -tfjrùtre, 6 


ve la palatina 


del 


uscita e chiaramente perspicua : 


v. Miac. ASC «11-3. L 




ivi 


' accenna .oli' origine di UH verbi, 


■orla spontanea melile e 




OfO 


Del pensiero dell'umile a a tote, «e 


anche aia o li voglia tener come erroi 







CUFFIARE, CUFFIO. 

cuffiarc, lucch., fischiare chiamando gli uc- 
celli ; canzonare, beffare (in quest' accezione, anche 
del Saccenti); cùffia, lucch., fischio o chioccolo. 



40 S. PIERI 

Se da confiate soffiare, come credo, è notevole 
così per 1' ettlìssi delta nasale (di fronte a gonfiare), 
come per 1' «, che sarà sorto prima nelle forme ri- 
zàtone. Il nome sarà ricavato dal verbo. 



falcino, lucch., balestruccio o rondone (Nieri). 
Avrà il suo nome dalla coda ' falcata ' o ad arco 
rientrante (falcino vale insieme ' tiro breve e curvo 
di ruzzola'). Nello stesso ordine ideale starà ap- 
punto il balestruccio (anche ' archetto per incannare 
la seta'), da 'balestro'. E pure l'equival. dardo 
dell'Alta Italia (dard, dar clan -en -er, ecc.; cfr. Gi- 
glioli. Avif. 185-6 e 192-3), dove esser così appel- 
lato, perché il dardo o freccia ha le sue penne di- 
sposte 'a coda di rondine'. li Nigra, Arch. gì. 
XIV 283, ripeteva quest'ultimo da un nome geo- 
grafico (1). 



FRINCARE. 

trincare, montai., frignare. Può esser *fre- 
mlcare, con ettlissi, da fremere, che quasi vale 
anche ' lamentarsi '. Ut, sorto nelle forme rizàtone, 
si sarebbe poi esteso alle rizotoniche. 

FRISCELLO. 

friscello, fior di farina che vola nel macinare. 
HCaixda *fur]furicellu (cfr. Kort.» 4075). Era 
meno discosto dal vero, credo, chi pensò a fiori- 
cello {cfr. Tramater s. friscello). Se non che mo- 
veremo più precisamente da fioriscello, che deve es- 
ser *floriscellu (un esatto parallelo morfologico è 



APPUNTI ETIMOLOGICI 41 

*arborisceIlu, donde s'ebbe il frane, arbrtsseau; 
cfr. Kórt.» 804 e 'Dict general' s. v.)- E friscello 
procederà con la sincope della prima vocale protonica 
da "firiscelio, a cui, per la semplificazione del dit- 
tongo, cfr. Firenzuola e (are.) Firentino (1). L'e- 
timo del Caix cade, anche in quanto non sìa ammis- 
sibile per nulla un tose, -sce- da CE (cfr. Suppl. Arch. 
gì. V 235 n). 

(1) Se vera e qneaU origine AìfritctUo, n'avrà conforto la preiunzkine che 
Fiorenza (are.) e Fiorettato, Firavc s (are.) Fruttata, si spieghino per via 
d'un incrocili. Normali sarebbero fmrjua e Firexlùto, e rispettivamente 
analogiche le altre due forme, che oggi sopravvivono. Ma v. però M.- 
Labke. Gr. ìt. 63. 

FUJO. 

fu/o, it. are. In quanto dal Voc. italiano sìa 
dato anche per ' oscuro', il Diez propose *furviu da 
furvu, etimo che di certo ammetterebbero oggi ben 
pochi, quantunque lo riferisca tuttavia il Kort. a 4079. 
Ma codesto sign. di fujo deve esser tolto dal Vo- 
cabolario, perché pur nel passo di Dante (Par. 9, 
73-5)f che solo ce l'offrirebbe, fujo dice 'ladro'. 
Cfr. il commento di Branone Bianchi, che fu il primo 
forse a dare la giusta interpretazione, e gli altri po- 
steriori. 



garba, it., sorta di vaglio o staccio grande con 
cribro di pelle. Deve essere il deverbale di * gar- 
bare, che starà per gherbare da cribrare. Cfr. 
il pis. ant, gherbeUare e gherbello, Arch. XII 156, 
lucch. ant. garbellare, v, Nieri, Vocab. lucch. (e cfr. 
Fanf. anche s. garbello). 

GATTELLO. 

gattèllo, lucch., ciascuno di que' cunei che, 



5. PIERI 



inchiodati sopra un' antenna o altro, servono da gra- 
dini; it., mensola (Tomm,). Deve esser da capi- 
tello. Per 1' ettlisi, cfr. l' are. cattano capitano. 



gattóni, male all'articolazione delle mascelle, 
che fa gonfiar le guance e gli orecchi (detto perciò 
anche orecchioni). Già in Nov. del Sacchetti e in 
Pataffio. Fu ben dato da antichi e moderni come 
equivalente a gelóni (da góta). Riesce un esem- 
plare importante per la ragion fonetica, se sia bene 
inteso e dichiarato, come non par che fosse finora; 
giacché questo gallóne sta a góta = *gauta (ga- 
vàta, v. Kort. 1 4103), come mattóne sta a mòta = 
"mauta (maltha), ecc. 

GAVAZZARE. 

gavazzare, rallegrarsi smodatamente, fare stre- 
pito. Lo Zambaldi, 566, come altri prima di lui, 
da un *gavisiare ('gavìsum' da 'gaudeo'), che 
non avrebbe potuto dare se non gaviciare o -igiare 
(cfr. Arch. gì. XVI 171-3); né so che altra dichia- 
razione fosse proposta. E un verbo ormai vivo a 
stento nella sola lingua poetica e del quale il preciso 
e primitivo significato ci sfugge. Credo che in ori- 
gine valesse ' andare errando qua e là ' o anche ' muo- 
versi in qua e in là' per allegrezza (cfr. exsultare), 
e che non sia se non * vagazzare (per la forma, cfr. 
scorrazzare ecc.). Codesta metatesi, a ogni modo, 
troviamo nel presunto corradicale fior, plebeo 
gaveggt'are (e anche gaveggino) ; cfr. Behrens 45. 

GIOGLIO. 

gihglio, it., loglio. Impossibile a trovare, se- 
condo me, una norma fonetica atta a conciliar giò- 



APPUNTI ETIMOLOGICI 43 

glio con lòglio, Idlium, quando non ci appaghiamo 
delle teoriche ingegnosità del Bianchi (v. Arch. gì. 
Xm 220). Naturale perciò che si cerchi la chiave 
dell' enìmma in qualche ' contaminazione '. Ora, 
quali termini da cui possiamo ripetere la palatina ini- 
ziale di gibglio, ci occorrono geli- o gittone, gett- o 
gittajone, gitterone, nomi tutti del loglio per eccel- 
lenza, che è il loglio nero ('agrostemma githago'). 

GOVORO. 

góvoro. lucch., parte superiore delle gambe da- 
vanti del cavallo e il punto loro di confine col petto 
(Nieri). Sarà *góvolo, cioè tutt'uno oolTant. pis. 

gàvito (cùbitu), mutato il suffisso. Di qui: sgo- 
vorare (3 prs. sgóvora\ guastare nelle spalle con 
urto o colpo. Un' alterazione morfologica dì sgo- 
varare o -ire è sgovonare o -ire. 



imbuto, it. Il Salvioni, Arch. XVI 203, vo- 
lendo escluder che imbuto rispecchi il nom. impari- 
sillabo imbuto[r (cfir. sarto da sartor), proposto 
invece d'imbGtu, osserva che il ' riempito ' può es- 
ser così l' imbottatojo come la botte. Oso insistere 
nella mia dichiarazione. È vero si che il liquido, 
prima dì cadere nel recipiente a cui l' imbuto si a- 
datta, passa, naturalmente, attraverso a questo. Ma 
l'apparecchio, il quale ha per sua funzione il 
riempire, non poteva a nessun patto designarsi 
come il ' riempito ' ; ciò che sarebbe stato, per dir 
così, un invertire i termini ! E più che mai spero 
che con imbuto rimanga assicurato alla storia dell'ita- 
liano un altro nomin. imparisillabo (1). 

(1) Aggiungo nn notevole esempio, ebe pare Bfuggito finqul, e proprio 
della stessa categoria morfologica, Cloe l' It. condotto. In quanto valene an- 
che 'guida' (v, la Scaimiiinl a Dante, Pnrg. «, 19), E ami potremo. 



ingollare, it., inghiottire. È tutt' uno, noto- 
riamente, col prov. engollar, frac, engouler, sogn. 
cngullir. Ma se questi verbi rivenissero ad i li- 
gulare ('gula'), come si crede, per lo meno il ter- 
mine italiano riuscirebbe anormale a causa del // ; 
giacché questa liquida non si raddoppia forse mai 
nel toscano, senza che noi ne vediamo chiaro il mo- 
tivo (come si vede per es. in cammèllo ecc.). Ora 
tutti codesti termini ben si concilerebbero in * in- 
gollare -ire, con metatesi della liquida, da inglu- 
tire, passato, fuorché nelle Spagne, alla prima co- 
njugazione (i). Quanto alla risoluzione di ti, cfr. 
l' it. spalla e il prov. e spgn. espalla (da spat'la; 
e v. qui s. brullo); e per il termine francese, cfr. 
crouler (da *crot'lare). 

(i) Naturalmente, l' li. ingoiare e 11 frane, engneuier (the, secondo il 
' Dlct- general ', è come la f. a. d' tnjtmter) procedono, a ogni modo, rtspet- 
e da gila e da jwn/s. 



INTIGHIZZIRE. 

in t ig h iz zire, lucch., intirizzire, assiderare. 
Sarà "integr- intirizzire (da integru; cfr. Mise. 
Asc. 432), con dileguo del primo r per dissimilazione. 
Il suo contrario è stighizzire sgranchire (Nieri), tolto 
1* in- come prefisso inutile e preposto s- negativo, 

LORA. 

Idra, ven., pevera (v. Patriarchi e Boerio, ecc.); 
che s'ode anche nel lomb. orientale. Da lura ori- 
fizio di sacco o d' otre (Festo), sacco od otre (Au- 
sonio), per la molta somiglianza di forma (se pur 
lura non disse senz'altro anche ' pevera '; cfr. Por- 
cellini s. v.). E confermata così l'origine da que- 



APPUNTI ETIMOLOGICI 45 

sta stessa base per il frane, loure, sorta di cornamusa 
con una borsa di pelle (v. il ' Dict. general '), secondo 
la giusta etimologia del Korting (il Diez senz'altro dal- 
l' ant. nordico lùdr, dan. luur, flauto de' pastori). 
E ne rimane certo l'ù di lùra (c'è anche la grafìa 
lora, cioè lòra), dì quantità ignota secondo il Marx 
e che i più danno come lungo (ma non così il Lìti- 
dsay, m 15). 

MANDRACCHIA. 

mandracchia, it. are., puttanella. A con- 
forto dell'origine da *meretracùla, che non per- 
suade al Salvioni (v. Mise. Asc. 433, dove per man- 
dracchia da * mardr- si richiamava, esattissimo paral- 
lelo, il tose, antro altro, da artro; e cfr. Arch. XVI 
203), osserverò che, per colmo di fortuna, il passag- 
gio a n di r per dissimilazione si può anche sup- 
porre nella stessa base latina, essendo attestato m e - 
netrix-is (v. Lindsay n 105, Stolz I 239). Del- 
l' a protonico sì può dar ragione in varj modi. Anzi 
parrebbe periìn verosimile il suo risalire ad età ro- 
mana, considerata la glossa di Nonio, 423, 11 M, 
che deriva ' menetrìces ' da ' manere '. 

MUSCEPPIA. 

muscéfpia, pìst., ragazzetta saccente. Si di- 
rebbe che rifletta normalmente mùscìp'la, trappola. 
In origine avremmo 'trappola' per ragazza 'lusin- 
ghiera' o 'bindola', poi per ragazza 'saccente'. 
Non raro un nome di cosa, che passi a indicare una 
persona, massime in senso dispregiativo. 



Se fosse da néb'la, rimarrebbe un 



46 S. PIERI 

problema a causa del timbro della tonica, che do- 
vrebbe essere aperta (cfr. M.-Lùbke, Gr. it. 38). Ora 
allato a nebùla il lat. ha nubllus, agg.;enubì- 
lum -la, che quanto al significato in parte s'acco- 
sta al primo termine e in parte anche vi combacia. 
Credo perciò che alla giusta dichiarazione di nébbia 
si possa arrivare seguendo il Nigra, Arch. gì. XV 
502, il quale spiega diversi esemplari congeneri da 
*nlbùlu -a (per niibìlu -a). Si tratta di una 
metatesi tra vocal tonica ed atona, di cut per ora 
v. Behrens, 102-3 ( e cfr- qui s - Veronica). Nel 

caso nostro sarebbe da postulare *nibula. 



òrco. Figura l'Orco nelle novelle come il 
gigante ■ divoratore d' uomini e soprattutto di fan- 
ciulli '. È voce usitatissìma per le molte frasi in 
cui occorre, e si pronunzia sempre Òrco. Così il 
significato come la forma persuadono dunque, pare, 
a separarla da Órcus, il dio dell'inferno, da cui 
procede l' aspgn. huergo uerco inferno, diavolo ; cfr. 
Kort. a 6721. Quanto all'etimo, ben si presta il 
lat, lùrco trangugiatore (corrad. a lùra; e per l'ù, 
v. qui s. lora). Sarà dunque òrco nient'altro che 
r órca con l' articolo discresciuto. E questo super- 
stite 'nominativo d'imparisillabo' starà benissimo, 
anche per la categorìa morfologica a cui spetta, in 
compagnia di ladro (1). Insieme con esso an- 
dranno forse il moderno prov. e frane, ogre, spagn. 
agro, che hanno lo stesso significato. 



inasinirla e 


terribile ' pai corrlapoi 


irtere al 


nostro òrco, e 




:onlca i 












reo ili. a turco 




li lori 


■II. limi 


Ma 1 


e fraal 


che lo Spino poi 




ce [dinar 


1 di ore* mai 


ore* 


nuraghi) lasciano web* 


supporre Dna 


confusione a" 



APPUNTI ETIMOLOGICI 



OSTOLAKE. 

ostolare, it. (3 prs. ostala), desiderare ardente- 
mente qualche cosa da mangiare ; v. Petrocchi (fucch. 
e pist. lembrugiare; v. Fanf. u. t.). È la perspi- 
cua continuazione d'ùstùlare, usato come neutro 
e in senso metaforico ; quindi : ardere dal desiderio. 
L' anche qui dalle forme rizàtone sarà passato alle 
rizotoniche. Cfr. Kort 2 0931). 

PEVERA. 

pévera. Per questa voce è ammessa, quasi 
senza contrasto, la dichiarazione dell' Ascoli, St. cr. 
II 96-7, il quale dopo avere ivi, con mirabile sa- 
gacia, ricostruito un *pl€-tra. cioè l'etimo di molte 
voci nostrali per ' pevera ' o ' imbuto ', poneva an- 
che la variante morfologica *ple-bra per l'ìt. pé- 
vera. Sennonché di codesta base, per questa voce 
così schiettamente toscana, non si potrebber davvero, 
io credo, ammettere altri esiti che "pura e * pieb- 
bra (cfr. lira e libbra, da libra) (1); e partendo 
pur da *pebra, coonestato in qualche maniera 
il dileguo della liquida (cfr. Y it. gabbro da glabru 
e il lucch. cairo, cancello, da clathru; ma il pa- 
ragone con cavicchia da e la vie' la non quadra, 
come avvertì il Mussafia, Beitrag s. pidria), ver- 
remmo sempre a *péra e *pébbra; giacché non so 
che si possa addurre a riscontro né che esista al- 
cun altro analogo esempio toscano di postonico -ver 
(-ber) da -br. A una tutt' altra etimologia, secondo 
me non inverosimile, sono condotto dalla presunzione 
che possa una vocal lunga originaria essere alterata dal 
contatto d' una cons. labiale (v. Arch. gì. XV 457 
sg.). Ora si consideri che la pévera, ossia il grosso 
imbottatojo di legno, ha in qualche modo la forma 



48 S. PIERI 

d' un otre o sacco, e che questo somiglia molto alla 
piva o cornamusa, onde il sonatore di cornamusa fu 
detto dai Latini e dai Greci utricularius e àax*v*ne. 
Una congruenza anche più cospicua è quella del lat. 
lura sacco, otre, dal quale si venne del pari a ' cor- 
namusa ' ed a ' pevera ' (cfr. qui s. lora). Non po- 
trà dunque far meraviglia che al grosso imbuto si 
desse il nome di ' piva '. Inclino perciò a vedere 
in pévera un derivato, ossia la ' forma diminutiva ', 
di piva (cfr. gdzzera ali. a gazza, ecc.) e cfr., per la 
voc. tonica, il march, béfera piffera -o. E anche 

qui la spinta ad abbreviar la vocale sarebbe stata 
doppia. 

(i)Traledue forme sari diffierenn' cronologie*', giucche libra si dovi 
dapprima ridurrà a Ara, in quanto conservasse Botto questa Torma II signifi- 
cato suo pili volgare di ' moneta ' ; e poi a Ultra per ' unita di peso ' (del 
resto più distetti hanno /ira in ambo le accezioni). Sai* dunque suppergiù 
lo stesso rapporto fra questi allòtropi, che fra sciami ed nomi (v. Arch. gì. 



putifèrio. Si dice in più casi dì un'azione 
o cosa molto sconcia o eccessiva (come d' un bac- 
cano indiavolato, d' un fortissimo rabbuffo, ecc.). È 
voce di conio non volgare né antica. Vi scorge- 
remo semplicemente vitupèrio, alterato per doppia 
metatesi, mutua di vocali e mutua e transitoria di con- 
sonanti (" vutiperio; "Putiferio), e forse raccostato a 
putire (cfr. ' cesso che è un putiferio ' cioè : puzzo- 
lentissimo). Di v tra vocali, che venga regressi- 
vamente a /, non occorrono forse altri esempj ; ma 
qui, a tacer d' altro, si potè avere assimilazione di 
grado alle due sorde anteriori. 



razzare, are., raspare (de* cavalli); onde raz- 
telare (con zz aspro), raspare (de' gallinacei). li 



APPUNTI ETIMOLOGICI 49 

ricordiamo, in quanto per il secondo vada escluso 
senza esitare l' etimo proposto dal Caix, St. 1 39 e 
accettato dallo Zambaldi, 1043 e dal Petrocchi; cioè 
razzare (con zz dolce), che avrebbe significato anche 
'frugare col radio' o sim. (t). Starà con essi a 
ogni modo : razzumaglia o -amaglia (da un primitivo 
* razzarne o -ante), marmaglia, quasi ' razzolatura ' ; 
cfr. ii lucch, buzzamagUa (da buzzame, collett. é\ buzzo). 

(l) Il Monsafia, Beltr. 93, ammette con» possibile per ratto/art l' Idea- 
titi a" origine col von. ver. tir. ranar, frinì, ratti, ' raschiare ', ch'egli urne 
dal tema participiale di radere, malgrado 11 -ti-. (A ogni modo, per -Mi- 
ti, da -II-, cfr. Suppl. Arili, gì. V 154 s. mana). 

SANFONIA. 

sanfònia, lucch., discorso, chiacchiericcio, pet- 
tegolezzo (al plur.). Naturalmente, da symphò- 
nla. Osservabile, perché deve essere dì tradizione 
volgare, malgrado la qualità della vocal tonica e il 
nj (mentre si vorrebbe -égnd) ; come persuadono e 
l'accento (quale è appunto in zampogna) e la forte 
alterazione del sign. originario. 



sòertire, lucch. e livorn., ammazzare, abbattere 
con forza, stecchire. Penso che il sign. originario 
sia il secondo, e che si risalga a vertere (per 'ever- 
tere"), abbattere, con s- intensivo, o ad *exvertere. 
Sarebbe un altro b- iniziale da V- (cfr. Parodi, Rom. 
XXVII 221). Circa il trapasso di conjugazione, 
cfr. avvertire ecc. 



SBI- e SBERCIARE, SBIRCIO e BIRCIO, 
GUERCIO, SBIESCIO. 



ritritare, guardar da parte, poi: guardar mi- 



So S. PIEKtf 

nulamente con occhio torto (v. il Gherardini s. v.). 
Si dice anche sberciare (3 prs. sbèrcia) ; v. Petroc- 
chi. Sarà semplicemente * exversiare, cioè 
' svolgere ' o ' storcere ' (gli occhi). Conterrà 
dunque la stessa materia etimologica che ber- o sber- 
ciare gridare (cfr. Parodi, Rom. XXVII 221), da 
cui solamente differirà per la parte ideale. Nella 
prima forma, 1' 1 dalle voci rizàtone passò facilmente 
alle rizotoniche. Il suo part. tronco è sbircio, 
ali. a bircio. (dove fu tralasciato s qual prefìsso inu- 
tile), propriamente ' storto ' ■ (degli occhi), per dire 
* che ha gli occhi storti ' ovvero ' che guarda di tra- 
verso '(1). Tutt'uno sarà il lucch, s ber e io, it. sbèr- 
cia (mutato il genere con intenzione peggiorativa), 
schiappino, cioè ' maldestro o inetto a qualche giuoco 
Non ho poi dubbio che la stessa voce si dovrà r 
conoscere nel sinon. guèrcio, che differisce solo in 
quanto il suo v- fu trattato come il w germanico (2). 
£ mi pare non improbabile, ebe qui debba andare 
come un altro allotropo : sbiescio o b ics e io, agget- 
tivo ancora vivissimo nel dialetto lucchese. Dal 
Voc. it. è dato come una variante di sbieco storto, tra- 
volto ; ma meglio si definisce per ' trasversale ' od 
' obliquo '. La somiglianza grande di suono e gran 
dissima di significato indusse a considerare come 
tutt'una due parole, che forse nessun fonologo vorrebbe 
oggi agguagliare. E sbiescio insolito all'idioma let- 
terario, a cui passò probabilmente da qualche dialetto. 
Circa il dittongo in posizione, potrà questo esempio 
esser da aggiungere a quelli che furono esaminati 
altrove; v. Arch. gì. XV 465 in nota s. fiocina; e 
nel rimanente il prodotto fonetico sarebbe lo stesso 
che in rivèscio ali. a rwercio, ecc. (3). Anche in 
biasciare, mangiucchiare colle gengive, finché al- 
tri non sappia trovar di meglio, sospetterei un * b(e- 
sciare da *versiare, con a esteso alle rizotoniche 
e forse dovuto a onomatopeja. U significato è 



APPUNTI ETIMOLOGICI 



appunto quello di ' versare cibum in ore ', come si 
disse o si potè ben dire latinamente. 



fi) Rammento qui òercùoccAio, bircio, che e ima arguta creazione del 
Llppi (Malm. I 41). (a) Fu il #-* che distolse 11 Die: dal cercare per 

del fenomeno additerò quanto prima. Anche 11 Isa. nitrici ' storto ' (ali. 
a intridi) par favorevole alla nostra tentenni. L' altro etimo (che 11 Mu- 
titi, 81, dì cautamente per non sicuro) sarebbe un ted. volg. * dwèrch traverso 
(aat. ttrèrk, mal. Imtrch) latineggiato In dwtrc (e vorrS dire In guercio: 
ma perchè non sarebbe piuttosto venuto a 'turco ?...). (3) Quanto al- 

l' etimo fai fax, se anche s'adatta ad altre voci che ai presumono non diverte 
dalla nostra (prov. e Irne, òiaù ecc. ; v. Diex s. biascia), per la nostra parrà 
ormai a tutti Impossibile; ne pili felice è l'etimo blaesui proposto dallo 
Zambaldi. 



SCALPITARE, 

scalpitare, it. Il Salvioni, Rom. XXXI 
280, derivando l'it. scatola dal blat, castùla, insiste, 
per la metatesi di s, su scalpitare in quanto non sia 
che calpestare. Questa etimologia pare a me, ora 
più che mai, inverosimile {cfr. Arch. gì. XV 218), e 
non per ragione della sola metatesi, che in teoria non 
offrirebbe nulla di strano ; ma e' è ben altro. In- 
fetti nelle voci rizotoniche avremmo qui ritrazione 
dell'accento, per modo che esse di piane diverrebbero 
sdrucciole (calpésta in scalpita ecc.), un fenomeno a 
cui il Salvioni, credo, non troverà così facilmente 
un parallelo, fuorché in qualche voce dotta {evita, pèr- 
muta, ecc.), o in qualche storpiatura {recluta per re- 
crùta, ecc.). Inoltre calpésta -are per la metatesi 
di s avrebbe dato probabilmente scalpétto -are, con 
la dentale raddoppiata, come persuade l' ant. senese 
costetto da cotesto (v. Boccaccio, Dee. 70 e 84), ci- 
tato anche dal Salvioni. Ma contro l' origine di 
scalpitare da calpestare insorge insieme un' obiezione 
morfologica, che mi pare anche più decisiva. Giac- 
ché ali. a scalpitare visse sempre e vive d'una vita 
più rigogliosa il sinon. scalpicciare. Ora nessuno, 
credo, si sentirebbe il coraggio di supporre la me- 



sa . PIERI 

tatesi così antica, che da codesto scalpitare «= calpe- 
stare sì potesse formar poi scalpicciare, evidente- 
mente da *scalpitiare, il quale per avventura ri- 
sale ad età latina ! E anche v. Kort, 1 8409. 

SCARPIATTOLA. 

scarpidttola, lucch., leggiero fallo (Lucche- 
sini). Potrà non essere altro che * scor piattola, da 
scorpia in senso di sgorbio (scorpius). Per la 
ragione ideale, cfr. marachella, che secondo me è 
un deriv. di macula (v. Arch, gì. XV 217). 

SCIABBIA -OSO. 

sciabbia -oso, pist. (Montale), sabbia -oso. È 
uno degli esemplari disputabili, ove un tose, scj par 
rispondere a S -t- vocale (i), (Non esiste uno 
* sciabbiare levare o raccoglier la sabbia, di cui sciab- 
bia possa venir considerato come il deverbale; e d'al- 
tra parte questo non sarebbe così facilmente passato 
a significar ' sabbia ' senz' altro. Un bel cimelio 
avremmo nella forma in questione, se risalisse in qual- 
che modo all'originario *psabùlum, da cui pro- 
cede sabùlum; v. Stolz, 1 207. 

(i) Altro limile t II fior, leiaia -ino Mia (una pianta; v. Tnrgioni Toi- 
xettl). Aggiungo 11 chlan. sciibhoio subilo (ex-subito ;)■ E perla for- 
mula si- : volg. tose. sriiiHfa (are. ici'r-) siringa, Scintone (v. 5uppl. Arch. gì., 
V 36), are tcigwro sicuro (Petrocchi). 

SCIUMINARE -INIO. 

sciuminare -info, ar., sciupare, sciupio (Re- 
di); sciamignare, lucch., confondere, scompigliare, 
guastare. Penso ad examinare, che venisse a 
indicar l' effetto d' un toccare o rovistare insistente 
e soverchio. L' u del termine aretino è chiarito 



APPUNTI ETIMOLOGICI 53 

dalla seguente labiale; e circa l'uscita in -ignare del 
termine lucchese, cfr. Arch. XII 174, Nieri passim. 
Tutt' altra cosa è il sinonimo e affine di suono scia- 
mannare, per la cui giusta spiegazione v. Zamb. 745. 

SFAVICARE. 

s/av icore, luccb. (3 prs. s/dvica), sventolare, 
detto del grano (Nieri). Ne risulterà quasi certo 
un *exflabrlcare (' flabruni '), venuto prima ad 
ex/abricare e poi ad exfabicare, sempre per 
dissimilazione. Neil' ordine ideale, cfr. il sinonimo 
sventolare da ventus; v. Kort. 1 3550. 

SGUAJATO. 

sguajato, senza garbo né grazia, maleducato, 
svenevole. È voce che non ha forse esempj prima 
del secento. Si possono proporre due origini: 1. Da 
squagliato ; e in questo caso la voce dovrebbe pro- 
venire da un territorio dialettale, in cui occorresse/ 
da Ih (cfr. per es. il luccb. montanino, Arch. gì. XII 
116); 2. Da *exvariatu, e allora avremmo qui in 
gua per va- un altro beh" esempio di^i* da v latino. 
Con ambedue gli etimi da ' disuguale ' o ' diverso ' si 
veniva facilmente a ' sgraziato ' o ' maleducato '. 

SMACIARE. 

smaciare, imitare con la tinta i nodi e le ve- 
nature del legno. Il Caìx St. 156 vi sospettava il 
tedesco sckmetszen imbrattare. Sarà invece un 
provincialismo importato dall'industria veneta, al pari 
del suo sinonimo marezzare (v. Misceli. Asc. 422). 
Il verbo manca al Patriarchi e al Boerìo, ma tutti e 
due registrano ' machia del legno ' (1. macia) per 



54 S. PIERI 

' marezzo '. Ne deriva il sost. concreto smdcio, mac- 
chia dipinta sul legno a imitazione del noce (i). 

(i) Con esso credo eh- ila tuli' uno ; imaci per ' leali ' (Magalotti), a cui 
ben si poteva passare da ' ornamento artificioso ', 'lustra'. In codesta ac- 
cattone anche smagi (Firenzuola), smimi (Biscioni ed altri), è perfino mitri 
(In rima; Pag-luoll). 

SOMELGA, SOMELEGA. 

sdmelgd, sdmelegd, berg, (Valle di Scalve), 
lampeggiare. Più vicina all' etimo sarà la seconda 
forma ; e risulterà per metatesi da * sdmegheld, che 
credo -rispondere a un *submìcùlare ('micare'). 
Ne potrebbe esser confortata la derivazione da que- 
sto stesso verbo, che già si propose, per il francese 
sémtller, mostrar grande vivacità di spirito e di ma- 
niere (cfr Kort*. 9183), che secondo il ■ Dict. general ' 
è tuttora d' origine ignota. 

TASTOLLO. 

tastóllo, ar., albero a sostegno di vite. Deve 
esser * transtùllum (cfr. transtillum) = *tran- 
stùlum { ' transtrum ' ; cfr. il ni. Trdstola, Suppl. 
Arch, gì. V 191-2); e come il lucch. trasto avrà forse 
designato dapprima la ' traversa d'una pergola ' (v. al 
luogo cit.) (il. Qui anche: stóllo antenna del pa- 
gliajo, per cui fecero altre proposte il Cai% St. 161 
e il Canello, Arch. Ili 321, in quanto non sia che 
* trentotto, lasciato il prensso tra- come inutile. 

(1) Avremmo cosi una nuova coppia, che si aggiungerebbe alla ormai 
ricca serie de' divariati In -ulu ed -u!lu. E ora ci domandiamo te 
trastulla, ami che esser 1' Ibride composto latino-germanico immaginato dal 
Dici, non sia per avventura Io stesso termine, il quale da ' asse trasversale ' 
poteva molto facilmente paaaara ad 'altalena', dee 11 trastullò del rajaiii 

nullità, s'avrebbe a ripetere dalle forme tifatone di tttsituilart. 



valanga, grossa frana di neve. Si suol de- 
rivare dal sinonimo frane, avalanche (i), ma ne di- 
scorda nell' organo e nel grado dell' esplosiva (cfr. 



APPUNTI ETIMOLOGICI 55 

invece frangia da frange, ecc.). Neil' italiano è, 
si può dire, un neologismo ; e i vocabolari non par 
che n* offrano esempj anteriori al Magalotti. Come 
la cosa, anche il nome deve essere dell' Alta Italia. 
Ora in quel modo che gli equivalenti it. lavina prov. 
lavino rivengono a lab in a, così il piem. lavenca, 
frnc. lavane he riverranno a*lablnica (passato forse 
in *lablnlca per quell'alterazione di cui è trattato 
in Arch, gì. XV 457 sgg. (2). L'italiano valanga 
sarà dunque, per metatesi, da un dialettale alto-it. 
lavanga (3). 

Weta. gì. XIV 184, che 
: voci addotte ivi quelle 

ranettón meglio a label e libine (efr, 
Del reato, It trallgtiamento della tonica era 

■ale; cfr. il berg fràngivi fringuello, che deve esser *fringuìlu = frln- 
gulllu. E potè aver luogo anche uno scambio di suffisso. (3) Non 

riesco a rintracciare questa preci** fonila. Ma c'è il plem. lavaua (noto 
alSalvioni anche da Val d'Ossola, e Ria nel -Crisostomo', v. Arch. fi. XII 
410), che stando al Nlgra dorrebbe figurare anche In qualche Voc. Italiano. 

Veronica. 

Verònica, vera immagine di Gesù Cristo, os- 
sia il ' sudario ' che si conserva in S. Pietro a Roma 
(v. Dante, Par. XXXI 104 e la nota ivi dello Scar- 
tazzìnì). Da *ver-(noca per ver-Icòna (com- 

posto ibrido: lat vSra-t- immisi, come fu anche da 
altri avvertito). Per la metatesi, cfr. qui s. nebbia (1). 

(1) SI potrà, quantunque mi paja meno probabile, partire anche da w». 
icòna (coli" accento greco); e allora questo vocabolo dovrebbe, stante la più 
■ingoiare sua melatesi, andare con anerhttola. che precede nel testo. La 
leggenda della pietosa Veronica, che offre a Cesa 11 sudario, deve esser po- 
steriore e sorta appunto dal nome di quel sudarlo, che si venerava In Roma. 
Per lo Schucuardt, Volt. Il 1*6-7, t Veronica, che occorre anche In una 
epigr. napoletana, una alterazione di Berenice. 



vizzo, floscio, appassito. Il Dtez e il Caix da 
*vietius (' viétus '). D'altra parte il Parodi 



(Rom. XXVII 228) e indirettamente il Migra (Arch. 
gì. XV 504} riconnettono questa, voce a vitium. 
Ma il fatto che il sign, è presso che identico in vizzo 
e in vietus (1), c'induce a guardare con maggior 
simpatia l' etimo proposto dal Dìez. Se non che 
*vietius, lasciando che non giova di largheggiare 
in ipotetiche derivazioni per -io, non sarebbe potuto 
diventare altro che * vìezzo. Verrà tolta ogni diffi- 
coltà, se riconosciamo in vizzo il part. tronco o ' ag- 
gettivo verbale' di vistare da *viet-iare, che si 
può dire attestato dall' are. avviziare, poi avvizzire. 
II dittongo facilmente si scempiò o assottigliò da 
prima nelle forme rizàtone, anche per il peso del se- 
guente ss. Già il GrOber aveva dato la giusta 
dichiarazione (2). 

(.) Per esempio, i] ' ficus nlmium vieta ' di ColnmdU ti potrà ben Ira- 



ZEHBO. 

zémbo (con z dolce), lucch. (Val di Lima), non 
lievitato bene. Dicesi specialmente del pane. Deve 
rispondere a *zlmu per ajzymu (iiJOji*-), comunque 
s'abbia a render ragione della vocale fatta poi breve 
(ma cfr. Arch. gì. XV 457 sg.). E zémbo, quanto 
al nesso postonico, sarà ben paragonabile al lucch. 
pómba (it. bómba), da póma (v. Arch. XV 144), e 
fors' anche all'ar. (chiari.) unsomba insomma, nonché 
all' ar. flamba fiamma (abbia questo o no seguito il 
medesimo processo del francese Jìambé) (1). 

(1) Cfr. Asc. Arch. I 308 n. E v. anche il ' Dici, finirai ' >. flamine 
(secondo cnl la iotm»/taMÌ* si ronderebbe wpn un'antica pronnnzlajfan-Kw). 



LA LEGGENDA DELLA NASCITA 



DELLA GIOVENTÙ DI COSTANTINO MAGNO 

IN UNA NUOVA REDAZIONE 



Gli studiosi sanno come il prof. Achille Coen, 
prendendo motivo da una pubblicatone di Eduard 
Heydenreich (i), conducesse un ampio e profondo 
studio sulla « Leggenda relativa alla nascita e alla 
gioventù dì Costantino Magno > (2). Il figlio di 

(1) Incerti attcioris de Constanti™ Magno eiusette Maire 
Hetma Libellus, Lipsiae, Teubner, MDCCCLXX1X in Bibl. 
scrip. grate, et rom, Teuòneriana. 

(a) Fu pubblicato in Arek. d. Soe. Rom. d. SI. Patria. 
IV, 1-55, 993-316, 535-5*1 e V, 33-66, 489-538 : ne parlarono, 
per quanto a noi è noto, il Giorn. Sfar. d. Lelt. Ttal., I, 153; 
La Cu/tura, anno II, voi. IV, n. 9 [recensione di L. Can- 
tarelli] ; la Deutsche Literatttrxeittmg, a. V, n. 39 [recens. 
di E. ScHRtiDERj, e la Romania, XII, 141, in un annuneio bi- 
bliografico e XIV, 137 sgg. in una importantissima recensione 
del Wesselofsky, la quale noi avremo occasione di ricordare 
più volte. Non sembrerà forse inutile avvertir qui — e lo 
avverte il Coen stesso nella Dichiarazione aggiunta in fine allo 
studio citata — che la pubblicazione dell' Heydenreich dette 
origine, specialmente in Germania, a molti scrìtti eruditi, al- 
cuni dei quali puoi trovare citati in Coen, op. cit., n. 2 a pa- 
gina 17 e n. 1 a pag. 195, ed altri saranno pure da noi ricor- 
dati, quando si presenterà l'occasione. Anche dovremo spesso 
richiamarci a due lavori dell' Heydenreich, 1' uno dei quali com- 



58 A. PARDUCCi 

sant' Elena era stato uno di quei grandi personaggi, 
che a traverso il medio evo aveva, come Alessandro 
il Grande (1), Giulio Cesare (2), il Saladino (3), Car- 
lomagno (4), perduto in parte la sua personalità sto- 
rica, per venire avvolto nei fantasiosi racconti, più 
attraenti e più vaghi se meno sinceri e conformi a 
verità, che erravano, pellegrini graditi e lietamente 
festeggiati in ogni dove, fra i popoli dell' oriente e 
dell'occidente (5). 

Con la sua ben nota erudizione il Coen ricerca 



parve quasi contemporaneamente a quello del Coen (e con 
esso, poiché tratta il medesimo argomento, in molti punti si 
incontrava e in altri, com'è naturale, divergeva) ed è intito- 
lato : Der Libellus de Conslanlino Magno eiusque Maire Helena 
und die ùbrigen Berìchte ùber Costantini des Crossen Geburt 
und lugend in Arckìv fiir Lifteraturgeschickte, herausg. von 
F. SCHNORR VON Carolsfeld, X Band, 3 Heft), l'altro: Co- 
slantin der Grosse in den Sagen des Mittelalters fu pubblicato 
nel 1893 nella Deutsche Zeitschrift fur Geschìchtswissensckaft 
(IX Band, 1 Heft, pgg. 1-37). Una traduzione letterale in 
francese del Libellus dell' Heydenreich, per opera di L. de 
Laigue, apparve anche nella Revue inlernationale (XV, fase. 
1-2) ; ma le poche osservazioni e le infelici ipotesi che ad essa 
tennero dietro, son prive di valore. 

(1) Vedi P. Meyer, Ilistoire de la legende d' Alexandre 
dans les pays romans, nel voi. II dell' opera Alexandre U Grand 
dans la liti, frane, du m. dge, Paris, Vieweg, 1886; e P. Car- 
raroli, La leggenda di Alessandro Magno, Torino, Loescher, 
1892. 

(2) Sulla fortuna di Cesare nel medio evo, oltre lo studio 
del Parodi, che ricorderemo più appresso, cf. anche A. Grar, 
Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, To- 
rino, Loescher, 1882. 

(3) Cf. G. Paris, La legende de Saladin, in Journal des 
Savants, Miggio- Agosto 1893. 

(4) Cf. G. Paris, Histnire poétique de Ckarlemagne, Paris, 
A. Franck, 1865. 

(SÌ Vedi a questo proposito quello che scrive anche il 
Gorra, Testi inediti di Storia Troiana preceduti da uno studio 
sulla Leggenda Troiana in Italia, Torino, Triverio, 1887, pa- 
gine 41-3. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 59 

della leggenda la prima origine, ne mostra lo svi- 
luppo e l'accompagna fino a quando, come sole mo- 
rente, manda gli ultimi sprazzi di luce, riuscendo con 
evidenza a dimostrare: 

1 ,° che lo scritto dell'Anonimo Heydenreichiano 
(così egli chiama il Libellus) non contiene cose affatto 
nuove, esistendo altre redazioni uguali, o almeno si- 
mili al medesimo racconto; 

2. che la somiglianza, osservata nella leggenda, 
di notizie relative a Costanzo, Elena e Costantino, 
aventi carattere storico, sebbene vaghe, incerte e con- 
fuse, con circostanze assai strane e di aspetto alquanto 
romanzesco, non è cosa che s'incontra per la prima 
volta in questa narrazione, poiché si hanno intorno 
ai medesimi personaggi tradizioni antiche di indole 
somigliante, le quali per esser meno ingombre di fa- 
vole possono reputarsi come anello fra la storia e la 
nostra leggenda; 

3.° che la parte più favolosa e addirittura ro- 
manzesca della novella, quella di cui vano sarebbe 
cercare traccia nelle antiche tradizioni suddette e che 
quindi apparisce nata in età relativamente recente, 
non deve dirsi invenzione dell'anonimo Heyd., poi- 
ché si trova in altre composizioni del medio evo, 
applicata anche a personaggi diversi dai nostri (1). 

Giunto proprio alla dimostrazione di questo terzo 
quesito, il Coen rileva l' influsso che questa parte 
del racconto ebbe sull' Urbano, novella che va comu- 
nemente sotto il nome del Boccaccio (2), e per con- 
seguenza sulla Storia di Selvaggio del Libro Impe- 
riale dì Giovanni de' Bonsignori, con tagli, aggiunte 



(1) Areh. cit., IV, 37-8- 

(3) Per la questione della paternità di questa novella e sul 
tempo in cui probabi lineate è stata scrìtta, cfr. Arck, cit., IV, 
543 SK- 



te A. PARDUCCI 

e modificazioni copiata dall' Urbano (i). Se non che 
così notevoli, specialmente riguardo al senso, gli si mo- 
straron le varianti, che egli fu indotto ad escluderne la 
derivazione da tutte le redazioni fin qui note e ad 
ammettere, in vece, che 1' Urbano è < non .... so- 
lamente una copia e una imitazione della leggenda, 
ma può reputarsi ancora documento della esistenza 
di una redazione oggi perduta di essa » (2). 

'Or bene, crediamo di potere affermare che la 
redazione, oggi qui pubblicata per la prima vol- 
ta (3), deve essere stata assai verismi il mente co- 
nosciuta dall' autore dell' Urbano: vedremo poi se da 
questa sola fonte o se insieme con essa abbia egli 



(1) Arch. cit, V, 63. I! Libro Imperiale, Bull' autore del 
quale si era stati molto tempo incerti e dubbiosi, fu con argo- 
menti inoppugnabili restituito al Bonsignori dal Coen, Arch. 
cit., V, 33 sgg. I quali argomenti anche confermò con nuovi 
dati il Parodi, Le Storie di Cesare nella Letteratura Italiana 
dei primi secoli in Studj di filol. romanza, fase, n, pg. 339 
sgg. Il Coen avverte poi un'altra derivazione deila leggenda 
(Arch. cit., V, 63 sgg.) in un racconto che Cola di Rienzo, 
prigione a Praga, inserì in quella famosa lettera da lui scritta 
a Carlo IV, nel 1350, per dimostrare di esser figlio di Enrico VII 
(Epistolario di C. di R. edito da A. Gabrielli nelle Fonti 
per la Storia a" Italia pub. dall' Istit. St. Itatiano, Roma, For- 
zarli, 1890). Ma la derivazione, se pur c'è, è molto incerta e 
dubbiosa, e in ogni caso essa si mostrerebbe solo come un' eco 
lontana della leggenda stessa presa nel suo insieme. Sa- 
rebbe quindi affetto escluso che potesse derivare solo da 
quella redazione, dalla quale deriva 1' Urbano e la Storia di 
Selvaggio ; e perciò essa non e' interessa più che tanto e la 
trascuriamo senz' altro. 

(a) Arch. cit., IV, 561. 

(3) È contenuta nel Ms. 1755 della Biblioteca pubblica di 
Lucca, del quale si veda la descrizione data da A. Mancini, 
Index Codd. latinor. Bibl. publicce Lucensis, Firenze, Seeber, 
1901. E rendiamo qui pubbliche grazie al prof. Augusto Man- 
cini, il quale non solo si compiacque di richiamare su l' ignoto 
testo la nostra attenzione, ma volle ancora prestarci aiuto 
nella lettura del ms., non scevra di difficoltà. La BibHotheca 



LEGGENDA DI COSTANTINO. 61 

attinto anche da qualche altra. In tanto qui 

giova ancora far rilevare che questa nostra me- 
moria tende, più che altro, a portar qualche nuovo 
argomento in favore di alcune ipotesi messe innanzi 
dal Coen, sì che esse acquistin maggior valore e più 
evidente probabilità. Qualche volta inoltre l' esame 
dei fatti ci trarrà a negarne alcun' altra e ci permet- 
terà d'assurgere a qualche considerazione un po' più 
generale, alla quale la materia esaminata non per 
anco aveva fatto rivolgere l' attenzione di chi ci pre- 
cedette. 

Ci sia lecito sperare pertanto che non paia del 
tutto inutile lo studio cui sottoponemmo di nuovo 
la leggenda, e che in qualche parte almeno sembri 
per esso avverato l' augurio di maggior luce che 
1' Heydenreich si riprometteva da ulteriori ricerche 
nelle biblioteche di Francia e d' Italia (ì). 

I. 

Secondo aveva dimostrato il Coen, fino ad ora 
solo tre redazioni, indipendenti l' una dall' altra, si 
conoscevano della nostra leggenda (2), delle quali 
)' una è quella appunto dell' Anonimo Heydenrei- 
chiana, 1' altra si trova nel Ckrnnieon Imaginis 
Mundi di Iacopo d' Acqui (3) e la terza è riportata 
dalla Historia Imperiala di Giovanni da Verona {4). 

^ 

Hagiographica Latina anliquae et mediac aeiatis, Bruxelles, 
1899, non conosce questa redazione (v. sotto Helena e Con- 
slantintis) ; e risultati negativi ci hanno dato le nostre ricerche 
particolari fatte per gli anni posteriori alla pubblicazione bol- 
landiana. 

(1) Der lÀbelius cit., pg. 320. 

(a) C£ Arch. cit., V, 534- 

(3) Arch. cit., IV, 39 sgg. Iacopo dice di toglierla da 
una Cronaca di Treviri, della quale però s' ignora l'esistenza. 

(4) Arch. cit., IV, 33 sgg. Asserisce G. da V«*ona (vis- 
suto nel principio del sec. XIV) di averla trovata <at\V Hisio- 



62 A. PARDUCCI 

Un breve confronto mostrerà facilmente che la nostra 
non può derivare da alcuna delle tre antecedenti. 
Così, se per comodità di studio, chiamiamo: 
A quella dell' Anon. Heyd., 
B quella dell' Historia Imperiala, 
C quella del Chronicon Imaginis Mundi, 
L la nostra, 
e scomponiamo la leggenda nelle varie sue parti, ci 
troviamo ad avere i seguenti resultati. 

i. L e B fanno Elena figlia d'un re di Bret- 
tagna ; L solo fa la esplìcita dichiarazione — ignota 
ad A, fi e C — che il padre voglia maritarla « ut 
moris est >. 

2. In L, come in A, Elena va a Roma con 
alcuni pellegrini; ma in L però è costretta (poiché 
ìl padre, al quale ha chiesto il permesso, glie lo ha 
per ben tre volte di seguito negato) a partir con 
loro incognita, dopo essersi confidata in segreto con 
una ancella e aver preso • sclavinam et viriles ve- 
stes ». In B parte pure « mutato habitu ». 

3. L solo ha che Elena, giunta nelle vici- 
nanze di Roma, desideri, stanca, lavarsi e, trovato 
un fonte, sì spogli e sia poi vista e giudicata bellissima 
e € nobillis genere » dall'Imperatore, che va per 
quei pressi a caso cacciando; in A, B e C diverso 
è il modo come Costanzo viene a conoscerla. In 
L, A, B e C concordemente Elena è dall' Imperatore 
posseduta e da lui riceve oggetti, che serviranno 
per il riconoscimento. 

4. Così pure in L, come in A, B e C, Elena, 
rimasta incìnta, non rimpatria ; e al figlio, che da lei 



; la riporta pure il Catalogni Sanclorum (Vicenza, 
1493) di Pietro db Natalibus, al cap. 73 del 1. 7. Nicola 
Manerbi nella trad. ital. della Legenda aurea di Iacopo da Vo- 
ragine ricorre, per la vita dì sant' Elena, al libro del de Na- 
talibus, e traduce il cap. 73. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 63 

è nato, vien posto il nome dì Costantino. Ma nei 
particolari con cu! tali fatti son narrati, si riscon- 
trano notevolissime divergenze, ad alcune delle quali 
avrem luogo di accennare nel seguito di questo studio. 

5. In L si dice che alcuni mercanti romani, 
osservata la somiglianza dì Costantino con l'Impera- 
tore di Roma, pensano — poiché v' è guerra fra i 
Greci e i Romani — di trarne profìtto. Vestitolo 
regalmente e mostrandogli ossequio, conducon seco- 
loro a Bisanzio Costantino, lo presentono in corte 
come figlio dell' Imperatore di Roma e da questo man- 
dato per trattare la pace e chieder la mano della figlia 
del Greco. L' Imperatore bizantino è ingannato 
e le nozze si compiono allegramente. In A la 
cosa è un po' diversa, perché si hanno due soli mer- 
canti di Roma, ai quali V Imperatore dei Greci con- 
cede di esercitare nel suo territorio il commercio ; e 
si ha poi il fatto — ignoto ad L — che la madre, 
a cui è stato rapito il figlio, piange e si dispera, 
mentre egli vive lieto e tranquillo, incurante di tutto. 
E più diversa poi è in C — non parlo di B, dove 
tutto questo è narrato brevissimamente, senza alcun 
accenno ai particolari, di A e di C — leggendosi 
quivi, in fatti, che i mercanti — e son mercanti di 
Tuscia — hanno motivo di veder Costantino, perché 
egli, andando alle scuole dei Giudei e dei Greci, 
passava sempre per quella strada, dove essi abitavano. 

6. Tutte e quattro le redazioni si accordano 
nel narrarci la partenza da Costantinopoli dei mer- 
canti con Costantino e la sposa; ma, al solito, con 
varietà di particolari. Segue poi un episodio, nel 
quale L si allontana del tutto da A, B e C, accor- 
dandovisi solo nella parte finale. Queste tre reda- 
zioni ci dicono che i mercanti, approdati ad un' Ìsola, 
fuggono nottetempo, rubando gioie e danari e ab- 
bandonando gli sposi. I quali poi, svegliatisi e 
conosciuta la triste realtà delle cose, si disperano 



64 -4. PARDUCCJ 

(in A e in B Costantino svela anche alla donna la 
sua umile origine) ; ma da una nave, che passa, son 
tratti a salvamento' sul lido romano. In L, invece, 
i mercanti, come sono in atto mare, pensano di af- 
fogare i giovani sposi per impadronirsi del danaro; 
ma, per consiglio d' uno di essi, sono calati in una 
nave coi più vili vestimenti e affidati alla fortuna 
del mare. Costantino e la donna si rassegnano 
alla volontà di Dio e il giorno di poi approdano al 
lido romano. 

7. In A, B, C ed L Costantino e la sposa si 
presentano alla madre, che riconosce tosto il figlio; 
ma solo in L si trova che Elena, veduto il figlio in 
compagnia d' una donna, da lei creduta di malo af- 
fare, non vuol sulle prime riceverlo. In tutte e 
quattro ie redazioni inoltre si fa seguito a questo 
col raccontare come, coi danari tratti dai gioielli 
della sposa sfuggiti alle mani rapaci, si comincia 
a far vita regale : in L la sposa viene a conoscere 
solo in questo punto la condizione di Costantino. 

„8. In A, B ed L Costantino si esercita in espe- 
rimenti militari e vi diviene eccellente; in B, anzi, 
un giorno abbatte lo stesso Imperatore. Il quale 
vuole conoscerlo : diverso però è nelle tre redazioni 
il modo, con cui egli manda ad effetto il suo divi- 
samento. In A, B, C ed L poi Costanzo, cono- 
sciuta la cosa, sposa Elena e riconosce il figlio. In 
fine, solamente in A, B e C — ma in B non si ca- 
pisce il perché — Costantino, alla morte dell' Impe- 
ratore di Roma e di quello di Costantinopoli, eredita 
i due troni (A, in quest' ultima parte, è ricchissima 
di particolari: i mercanti traditori, ad es., son ritro- 
vati e messi a morte) (1). 



(i) Per B non sì deve tener conto delle brevi parole di 
chiusa, te quali, secondo affermò il Coen (Arck. cit, p IV, 41)1 
non hall che far niente con la leggenda. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 4j 

Da questi raffronti crediamo che emerga chiara 
ed evidente la conferma di quanto avemmo ad as- 
serire più sopra, che la nostra redazione, cioè, non 
dipende affatto da alcuna delle altre fino ad ora co- 
nosciute. La quale indipendenza è superfluo qui 
voler dimostrare e chiarir più a lungo con minuti e 
particolari ragguagli, quando così notevoli sono lo 
differenze di maggiore importanza, su le quali giova 
in special modo richiamar la nostra attenzione. 

Ammessa dunque l'indipendenza della redazione 
che noi studiamo, da ciascuna delle altre tre, resta 
ora che si proceda ad un esame più particolare della 
medesima per veder poi a quali resultati ci sarà dato 
di pervenire. 

Che 1' Urbano (è superfluo, dopo quanto dicemmo, 
parlare della Storia di Selvaggio nel Libro Imperiale), 
sebbene < con stile prolisso e fiorito » e fra mezzo 
a < parecchi accessori » usati < per rendere più 
ricco, più variato e talora anche più verosimile l'in- 
treccio e più attraente e più dilettevole la lettura » (i), 
riproduca nel suo complesso la tela della leggenda 
costantiniana, fu già notato dal Coen ; né aggiunge- 
remo noi parola in proposito. Ci fermeremo invece 
a considerar bene « le non lievi differenze esistenti fra 

1' Urbano e le redazioni note della leggenda 

costantiniana », per poter poi concludere con prove 
di fatto come il Coen a ragione sospettava che vi- 
• ramente esse non fossero « tutte prodotto della 
libera invenzione deli' autore * <.z). In fatti, non 
poche di esse risalgono appunto a questa noetra re- 
dazione, da noi indicata come una delle tonti del 
racconto pseodo-boccaooesco, • 

Anzi tutto è opportuno osservare che la t*4a 

i; Arce. «L, IV, sso- 
ia; Arck. (A., IV, gjy. 



66 A. PARDUCCI 

dell' Urbano trova uno svolgimento parallelo unica- 
mente nella nostra redazione ; la qua! cosa non è un 
piccolo argomento in favore delle deduzioni, che noi 
verremo facendo. A confòrto delle quali, più che 
questa osservazione generale, varranno i singoli con- 
fronti. 

Neil' Urbano (i), Federigo Barbarossa s' incontra 
in Silvestra e la possiede, un giorno che cacciando 
€ nei folti boschi » « con suoi familiari baroni e 
compagni » (p. 3), viene a trovarsi da loro lontano, 
perdutosi dietro le tracce di un cinghiale. In L, 

Costanzo, mentre < a casu venebatur cum 

mìliti bus suis », vede Elena, che, stanca, stava ba- 
gnandosi in un fonte, e la possiede. 

Nel racconto pseudo-boccaccesco, Federigo, posse- 
duta Silvestra e datole in pegno della promessa fede 
l'anello, tosto, senza più a lungo trattenersi, « lieto 
da lei cavalcando partissi » (p. 8) in cerca dei com- 
pagni, che in poco d' ora ebbe ritrovati. Costanzo, 
in L, godute le grazie della bellissima giovane e 
consegnatole poi, per la medesima ragione, l'anello 
e la verga imperiale, « recessi! querere milites ». 

I tre mercanti dell' Urbano, durante il viaggio 
di mare, adornano < magnificamente il luogo, dove 
Urbano dimorare dovea, di drappi d' oro, di cor- 
tine e altri lavori » e gli tanno « l' onore 

di credere esso Urbano essere Speculo dello Im- 
perador figliuolo » (pp. 20-1). Cosi pure quelli 
di L « induerunt eurn {Costantino) regali ter et omnes 
obediebant eum usque prope Bizantium » (2). 

Giunti, nell' Urbano, i mercanti a Bisanzio con 

(1) Ci riferiamo sempre per l'Urbano di Messer Giovanni 
Boccaccio, all'edizione di Panna, Amoretti, 1801. 

(>) In A, dove ha pure luogo tale circostanza, i mercanti 
ricoprono Costantino ■ vestibus, orna mentis et apparatibus 
regiis • solamente dopo che son giunti e ad portum Graeco- 
mm » e devono presentarlo all'Imperatore. 



LEGGENDA VI COSTANTINO 67 

Manfredo, l' Imperatore, ricevuta per mezzo di am- 
basciatori da loro inviati la novella, « subito con la 
sua donna e altri suoi Baroni di brigata salì a 
cavallo e verso il posto domesticamente se ne ve- 
nienti » (p. 22). In L, l' Imperatore, ricevuta pure 
dagli ambasciatori la nuova dell' arrivo, ordina pure 
« baronìbus suis » di andare « ad navem ». 

Urbano; Allorché le nozze son fette e la figlia 
dell' Imperatore deve partire, la madre, poiché « di 
rado si possono immaginare i casi avversi, che la 
fortuna per occulte vie a' viventi apparecchia », 
consegna alla figlia < due graziose gemme d'orien- 
tai colore », raccomandandole di « governarle nel- 
l' orlo della .... candida e ultima vesta » (p. 05). 
L: alla figlia partente l'Imperatrice, « quod etiam 
magne principisse aliquando indigent pecuniam, vi- 
lìorem tunicam, quam dedit, .... ad cautellam totani 
intexuìt lapidìbus preciosis ». 

Urbano; Durante il ritorno, ì mercanti, affine di 
impadronirsi dei tesori, divisano di uccidere li sposi ; 
ma colui, che ne aveva avuto l' incarico, trattenuto 
dalla compassione e dalla pietà, si rifiuta e propone 
(e la sua proposta è accolta) di disfarsene in altro 
modo. Occulti fuggiamo, egli dice, e abbando- 
niamoli soli, sì che « non finiranno due giorni, che 
per soverchia fame, mancando loro lo spirito, mor- 
ranno: e forse più tosto da qualche alpestra fiera 
divorati » (p. 40). L : Si stabilisce pure, sempre per 
impadronirsi dei tesori, di uccidere li sposi ; ma poi, 
anche qui, per consiglio d' uno dei mercanti, il quale 
li crede < innocentes », si pongono < in scafa sine 
regimine cum viliorìbus vestìmentis quam habent. 
Maris innundatìo — dice egli pure — concutiet 
eos et morientur omnino. Et ita fecerunt ». 

Urbano; Quando il finto figlio dell'Imperatore 
si presenta con la sua Lucrezia al padre ostiere, è 
da lui ricevuto con male parole di rimprovero, 



68 A. PARDUCCI 

€ Quale presunzione, o quale sfrenato ardire t' ha 
mosso a venir con tal gente alle mie case? » 
(p. 49). L ; Elena, vedendo Costantino in compagnia 
d' una donna, « timens ne esset mala mulier clauxit 
hostium, clamans et uulans : Hunc, latro, non in- 
trabis cum meretrice », 

[/roano: Si lamenta Urbano, dopo che è giunto 
a Roma, della sorte sua infelice e triste ; e la donna 
dolce lo consola, ripetendogli : « io mi trovo conten- 
tissima d' esser tua moglie, più che di ciascun al- 
tro che sia; e il primo giorno ch'io ti vidi tutta 
mi ti donai con animo determinato d' esser tua » 
(p, 51). L: Così pure, presso a poco, parla la moglie 
di Costantino, la quale, per quanto si trovi ingan- 
nata, « quia iam diligebat eum, confortata est in 
Domino ». 

Urbano: La morte di Speculo, figlio dell'Impe- 
ratore, contribuisce a un più felice svolgimento dell' a- 
zìone (p. 53). In L la morte della moglie di Co- 
stanzo. 

Urbano: Lucrezia fa « un drappo d' oro e di seta 
con tanti ricchi e preziosi lavori, che era bellis- 
sima cosa a vederlo » (p. 53) e quello « reveren- 
temente » all' Imperatore presenta (p. 55). L : 
Elena « dcfltiente auro, quod de domo patris sui 
tulerat, incepit facere prò se unam vestem regalem 
mirabillis texture et apparatus et aliam prò nuru 
sua » (1). 



(1) Su questa circostanza giova, forse, fermarci alquanto. 
Per qual ragione, in L, Ktena faccia per sé e per la nuora la 
bellissima veste regale non è detto, se pure non si debba in-' 
* tendere, cosa che mi par poco probabile, che essa è proprio 
quella, della quale < inducta », si presenta all' Imperatore. 
Questa circostanza dunque, cosi come si trova, sembra non 
avere una ragione d'essere. E che, in verità, non l'avesse, 
se ne sarebbe accorto chiunque si fosse data la pena di riflet- 
terti un po' sopra, e dovè bene accorgersene 1' autore dell' Ur 



LEGGENDA DI COSTANTINO 69 

Urbano, alla morte di Federigo, eredita solo l'ira- 
pero d'occidente (1). Così in L, Costantino alla 
morte di Costanzo. 

E notiamo ancora un' ultima circostanza. Nel- 
1' Urbano Silvestra, rimasta incinta, si reca a Roma, 
si stabilisce nella casa dell' ostiere e diventa una 
ostessa (p. io). Il Coen, avendo giustamente ve- 
duto che non si < poteva avere nessun motivo 
per far esercitare a Silvestra un mestiere piuttosto 
che un altro », e parendogli poco credibile che 
si fosse scelto quello proprio e casualmente » ; con- 
cludeva sembrargli molto probabile, anzi quasi certo, 
che questo luogo et additasse 1' Urbano proveniente 
da una redazione della leggenda, « in cui per fare 
Elena una locandiera, per poter aggiungere la frase 
et sic stabularla facta est, oppure unde et stabu- 
lario dieta est o altra simile, si era immaginata 
una terza maniera, cioè diversa da quelle descritte 
nelle redazioni dell' Anon. Heyd. e di Giovanni Ve- 
ronese » (2). Orbene, la nostra redazione, col far 
che Elena, rimasta incìnta, non rimpatrii coi com- 
pagni, ma si trattenga < apud onestam hospitatri- 
cem et stabu lariam », ci mostra proprio questa 
terza maniera diversa da quella descritta nelì' Anon, 
Heyd. e in Giovanni Veronese {3). 



bano, che cerca di dare ad essa una spiegazione plausibile. 
Quivi, infatti, la veste contribuisce a far fare all' Imperatore, 
al quale viene regalata, « intero giudicio » (p. 59) di Lucre- 
zia, ed è Cosi essa pure una delle cause che lo distolgono a 
muover coatro il Saldano di Bisanzio, quando viene a cono- 
scere dì chi egli sia padre (p. 61). 

(1) Cfr. pg. 65. Per quanto non sia detto esplicitamente, 
si capisce benissimo che debba esser cosi. Anche il Coen, 
Arch. cit. IV, 558, n. 3, lo riconosce senz'altro, 

(a) Arch. Ctt., IV, 561. 

(3) NelI'rJwn. Heyd, ìn fatti Elena è « fucta stabularla », 
perché con le ricchezze della nuora fonda appunto una locanda ; 



70 A. PARDUCCl 

Queste le rassomiglianze; se non che, prima di 
concludere, giova prendere in esame alcune altre 
considerazioni del Coen. 

Poiché « la novella di Manfredo contiene sol- 
tanto una delle due parti del romanzo, ed oltre a 
ciò in qualche luogo è diversa da tutti gli altri rac- 
conti noti » ( i ) ; e poiché « ci sono certi 

punti, nei quali 1* Urbano e il Manfredo diversifi- 
cano dalle altre redazioni, ma si assomigliano fra 
loro »; bisogna assolutamente pensare col Coen che 
« questa rassomiglianza è di tale specie che non 
può giudicarsi effetto del caso > (z). Dopo il 

ritrovamento della nostra redazione non si potrebbe 
dire che tutti quei « punti » l' abbian comuni so- 
lamente ]' Urbano e il Manfredo (3) ; tuttavia alcuni 
restan di loro esclusiva proprietà, ed uno, in specie, 
della massima importanza. 

Trascuriamo, se vuoisi, di rilevare come tanto 
nell' Urbano quanto nel Manfredo il padre della 
sposa vorrebbe fare accompagnare a Roma gli spost 
da una scorta d' onore, cosa che è impedito di man- 
dare ad effetto (4) ; tralasciamo anche dì ricordare que- 
sto e qualche altro raffronto di minore importanza; 



in Giovanni da Verona < dieta est stabularla », perché, dopo 
esser rimasta incinta, si ritira in una villa, la quale era stata 
un tempo stalla di cavalli. 

(1) Resta esclusa da questi racconti, ben s' intende, la De- 
stra redazione. 

(2) Areh. cit-, V, 558. 

(3) Richiamandoci a quanto abbiam detto poco innanzi nel 
testo, dovremmo escludere quattro dei sei, che i) Coen già ri- 
cordo nella n. 3 a pag. 555 àtll' Arch. cit. (voi. IV); e cioè: 
I." l' ereditare il protagonista solo l' Impero à' occidente; a.* il 
porre le gemme, donate dalla madre alla sposa, nella camicia 
di questa ; 3.* il cattivo ricevimento avuto dai due giovani, 
quando giungono a Roma ; 4." il morire del figlio dell' Impe- 
ratore, poco prima del felice scioglimento dell'intreccio. 

{4) Storia o Leggenda di Manfredo, pg. 1 6, Urbano, pg. 30. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 71 

ma fermiamo bene la nostra attenzione sul punto più 
saliente, cioè sul prospero esito finale, che in ambe- 
due i racconti è dovuto all' accortezza e all' abilità 
della sposa. 

Chi nella Storia di Manfredo campeggia sovrana 
sì da oscurare quasi completamente l' azione di tutti 
gli altri personaggi che vi agiscono, è proprio la 
€ figlia dell' Imperatore di Gostantinopoli ». A 
lei si deve, quando i mercanti in alto mare vo- 
levano ucciderla insieme con lo sposo, se possono 
essere abbandonati nell'isola: ella < ammatiò » le 
tre galee che passavano, ed ebbe salva la vita a sé 
ed al consorte; ella fa chiamare « lo migliore orafo 
dì Roma », al quale vende la pietra preziosa, che 
costa cinquemila fiorini d' oro e con cui compra i 
drappi ; da lei è accortamente ingannato il « gentile 
uomo >, che si trova costretto a cederle il suo pa- 
lazzo ; per ordine suo sono invitati a pranzo cinque- 
cento uomini, « i migliori di Roma », i quali vanno 
poi € tutti » dall' Imperatore a riferire che la donna 
desidererebbe parlargli ; ella, presentatasi all' Impera- 
tore, narra le peripezie e i casi occorsi, e ottiene da 
lui di esser sempre tenuta < per sua nuora e '1 gar- 
zone per suo figliuolo ». Nelle identiche condi- 
zioni è « del Soldano la figliuola » nell' Urbano. 
Ella sola, e non altri, è la vera protagonista della se- 
conda parte del racconto : ciò che abbiam detto per 
la « figlia dell'Imperatore di Gostantinopoli > po- 
tremmo ripetere per lei. 

Va inoltre ricordato che la Storia o Leggenda 
di Man/redo Imperatore di Roma riproduce solo 
la seconda parte della leggenda costantiniana (t) ; 
è però da essa indipendente e < senza dubbio non 



(1) Cf. Coen, Arch. cit., IV, 535. La prima parte si 
ritrova poi anche negli Atti di S. Eusignw e nella Storia Ec- 
cUiiastica di Niceforo. 



7« A. PARDVCCI 

è stata inventata da quello che 1' ha scrìtta, ma è 
redazione d' un racconto già esistente, chi sa da 
quanti anni, nella letteratura popolare del medio 
evo > (i). 

Tutto ciò ben considerato, or dunque concludiamo. 
L'ipotesi, scartata dal Coen, che l'autore dell' Ur- 
bano abbia conosciuto e la leggenda costantiniana e 
la novella di Manfredo e si sia valso di entrambe, 
componendo un lavoro in cui sono rimaste tracce e 
dell'uno e dell'altra, sembra a noi più verisimile del- 
l'altra, da lui preferita, che cioè l'autore dell' Urbano, 
abbia lavorato su una redazione della leggenda a noi 
ignota, di cui la seconda parte conservava particolari 
passati poi nel suo racconto e che si ritrovano an- 
che nel Manfredo (2). 

Che possa esistere una redazione, la cut seconda 
parte contenga certi particolari passati poi nell' Ur- 
bano non è in verisimile ; ma non è neppur troppo 
facile. Si pensi, in fatto, che in una redazione della 
1egg en da costantiniana non sembra la cosa più logica 
e naturale di questo mondo il dar buona parte, molto 
più della metà, al racconto delle imprese e della 
virtù non già di Costantino, ma di altra persona che 
potrà essere o no sant' Elena, dalla quale, anzi, si 
faccia dipendere il felice scioglimento dell' intreccio. 
Se non che, per non trovarsi questa circostanza, oltre 
che in alcuna delle redazioni già note, neppure in 
quella che noi ora pubblichiamo, siamo maggiormente 
autorizzati a metterne in dubbio 1' esistenza. 



(1) Così il Coen (Arch. cit., IV, 535), il quale si richiama 
per questa sua afférmazione a un articolo di R. Kohler pub- 
blicato nella Zcitschrift fór romanische Philolagie del Gròbbr 
(voi. II, 1878, fase. I). Il Wesselofsky {Romania, XIV, 
143) la credè invece, pur non potendo, in ipotesi, discordare 
dal Coen, una parte staccata della leggenda stessa costantiniana 
« prise dans son ensemble ». 

{3} Arck. cit., IV, 559- 



LEGGENDA DI COSTANTINO 73 

Cosi invece, dopo ti ritrovamento di L, più veri- 
simile ci si presenta la seconda ipotesi. Le non 
lievi divergenze, per quanto non mancasser pure le 
somiglianze, fra 1' Urbano e il racconto dell' Anon. 
ffeyd^ che con quello « presenta maggiore analo- 
gia » (1), avran certo contribuito a rendere il Coen 
ad essa più avverso. Del resto, per il fatto in se 
stesso, nessuna difficoltà ad ammettere che l'autore 
del racconto psendo -boccaccesco abbia conosciuto 
e la leggenda e la novella di Manfredo (2) e si 
sia valso di entrambe e le abbia impastate insieme 
e ne abbia composto un lavoro, in cui sono rimaste 
traccie e dell' una e dell' altra. Se dunque così è, 
già il lettore indovina la conclusione alla quale ten- 
diamo: per noi colui che scriveva l'Urbano, con 
molta probabilità, aveva dinanzi a sé proprio la re- 
dazione nostra della leggenda costantiniana e la no- 
vella di Manfredo. 

Né il trovarsi nella novella € parecchi accessori », 
che non han luogo né nell' una fonte né nell'altra, è 
di ostacolo a quanto affermiamo; poiché già ci é 
noto a che fine questi « accessori > si adoperassero ; 
mentre poi i sostanziali e non pochi raffronti che 
noi rilevammo, sia fra 1' Urbano e la nostra redazione, 
sia ancora fra la novella di Manfredo e 1' Urbano, 
son prove, osiamo dire, chiare ed evidenti delle no- 
stre asserzioni. Forse, se dobbiamo essere ecces- 
sivamente cauti, non si potrà escludere che egli possa 
avere avuto notizia, oltre che della nostra, anche di 
qualcuna delle altre redazioni (3); ma escludiamo af- 
fi) Arch. cit., IV, 557. Era questa redazione, in fatti, 
che il Coen nella prima delle due ipotesi, più sopra ricordate 
nel testo, opinava potesse aver conosciuto l'autore fe\V Urbano, 
(a) Il Manfredo, come avverte il Coen, Arch. cit., IV, 557, 
n. 3, è anteriore, senza dubbio, all' Urbano. 

(3) Ci consiglia questa eccessiva cautela il trovare, p. es., 
qualche riscontro dell' Urbano in alcuna delle redazioni già 



74 A. PARDUCCI 

fatto che le abbia seguite nella composizione del 
racconto. 

E neppure molto peso ci darà 1' altro asserto del 
Coen, che l'autore dell' Urbano non avrebbe certo 
composto il suo racconto, se avesse saputo che già 
più d'uno l'aveva trattato, mentre si sarebbe ben 
volentieri sentito disposto a mettere insieme una no- 
vella sulle tracce d'un tema popolare da lui repu- 
tato sconosciuto (i). Certo la redazione del Man 
/redo esisteva ; che fosse poi < un soggetto ap- 
parentemente non ignoto né oscuro » è ciò di cui 
ci permettiamo dubitare. In fatti, se la memoria 
non e' inganna, nessuna testimonianza abbiamo nei 
primi secoli della sua notorietà e della sua più o 
meno buona fortuna: a quei tempi, la divulgazione 
dì un' opera e di un' opera, in ispecie, non molto 
importante, come la nostra novella, era tutt' altro 
che una cosa facile e frequente. Può esser, quindi, 
benissimo che l'autore dell' Urbano, riuscito a cono- 
scerla, l' abbia ritenuta proprio « ignota » ed « oscu- 
ra » ; e come tale abbia stimato lecito di servirsene 
impunemente. « Il proposito poi di presentare al 
pubblico la novella come opera del Boccaccio nuo- 
vamente ritrovala » lo rese « cauto e prudente > 
solo in parte. Non credette di dover esser tale 
< nella scelta del tema », perché era da lui reputato 
pressoché sconosciuto ; giudicò invece opportuno cam- 
biar nomi e aggiunger parecchi « accessori » (fra i 
quali efficacissimo quello di far dell'Imperatore di 
Costantinopoli il Soldano di Babilonia : si trasportava 
così da un luogo ad un altro buona parte degli av- 
venimenti) per ricoprire il plagio, se alcuno mai, cui 



note. Cosi Urbano parte volentieri coi mercanti (pgg. 19- 
ao), come in A. Ma ciò potrebbe anche essere efletto pu- 
ramente del caso ; e non intendiamo insisterci più che tanto, 
(1) Arek. cit., IV, 360- 



LEGGENDA DI COSTANTINO 75 

fosse nota la novella di Man/redo, lo avesse accu- 
sato, e dare in tal guisa al racconto un'impronta 
più soggettiva e originale. 

n. 

Riguardo al tempo, in cui fu composta questa 
redazione, nulla di preciso possiam dire. Ma poi- 
ché comprende ambedue le parti della leggenda, non 
ci si può, anche a voler conceder molto, spingere 
assolutamente al di là del IX secolo(i). Del re- 
sto, poiché il tempo della maggior diffusione della 
leggenda e della sua massima notorietà in Italia è 
la prima metà del sec. XIV (2), non sapremmo dav- 
vero come allontanarla molto dai primi anni di quel 
secolo. Se non che, per mostrarci sopratutto guar- 
dinghi e cauti, sarà conveniente assegnare ad essa 
un periodo di tempo un po' più largo ; e ci par quindi 
cosa ben fatta attenerci a quello che l' Heydenreich 
assegnò alla sua e che viene compreso fra il sec. XII 
e il XTV (3). 

Forse, al più al più, si potrebbe arrivare a sup- 
porla qualche poco anteriore alla redazione Heydenrei- 
chiana ; ma non avremmo certo a conferma della no- 
stra ipotesi argomenti molto saldi e persuasivi. Una 
delle ragioni, per le quali l' Heydenreich poneva la 
sua redazione nel periodo predetto, era il ricor- 
do che in essa si faceva come di cosa ben nota 
dei < tomeamenta >, dei quali si fa inventore Gau- 
fridus de Pruliaco, morto nel 1066; si trovava così 
costretto a non avvicinarsi troppo agli ultimi anni 
del sec. XI (4). La mancanza d' ogni ricordo di 

(1) Coen, Arch. cit., V, 524. 
(a) Coen, Arch. ctt., V, 530. 

(3) Cfr. Der Libellus cit., pg. 332 e anche Costanti» der 
Grosse cit-, pg. la. 

(4) Cfr. Der Libellus cit., pg. 331, Costantin der Grosse, 
PS- »- 



76 A, PARDUCCI 

< torneamenta » nella nostra redazione potrebbe 
farla supporre un po' anteriore? (i). 

Anche lo studio della lingua, del resto, ci è di 
non piccolo aiuto per giudicare del tempo, io cui 
verisimil mente deve esser stata composta. Poiché, 
a tacer di alcune parole e di alcune costruzioni che 
ci richiamano senz' altro al latino del più basso me- 
dioevo {?.), se ne notano non poche altre, nelle quali 



(i) Ricordi il lettore come nella nostra redazione 6 detto 
solo che Costantino, andando ad incontrate con gli altri cava- 
lieri l'Imperatore, i quali < honorifice .... susripient eum », 
è detto solo che e in equis suis sucessive militans, talia sigila 
festivìtatis, probìtatìs et industrie continuando monstravit ante 
fariem Inperatoris ». Però, nelle parole della madre {< Tu 
ergo stude quicquid facere poteris et sciverìs, si unquam 
scivisti talia fatare, ut senper ante fariem eius p. et. e. et 
ind. tuam ostendas ») potrebbe leggersi qualche cosa che 
appunto a questi giuochi militari, se non propriamente a tor- 
nei, accennasse. Se non che, nel modo incerto e un po' 
involuto con cui son ricordati — anche le espressioni non son 
ben chiare e definite — potrebbe vedersi una primitiva lontana 
idea di quei «torneamenta», di cui allora allora si era comin- 
ciato a parlare; e se ne potrebbe, quindi, trarre argomento in 
favore della nostra anteriorità. 

(2) A queste frasi e a queste espressioni, forse, non di- 
sconverrà l' accennare qui, in nota. Avvertiamo innanzi 
tutto che, per questo studio, senza trascurare quanto scrive 
1' Hevdenreich, Der Lìbellus cit. a pgg. 333-6, teniamo a no- 
stra guida l'ottimo saggio del Thielhann, Weber Sprache und 
Krìtìk dei Libelàu de C. M. eiusque maire Helena (in BlàtUr 
fùr das Bayerìscht Gymnasiai- and Reabchalwesen, voi. XVI 
[1880], pgg. 134-7). 

Nomi. Notiamo qui alcune parole di conio prettamente 
medievale o che nel latino del medio evo son venute acqui- 
stando nuovo significato: persone 101,14 : qui. e altrove, sem- 
pre nel significato di « persona » ; mWciam 101,17 ha va- 
lore di « seguito », < accompagnamento » ; ma in questo senso 
non è registrato né dal Porcellini né dal Du Cange ; mìliti- 
bus 103,8: qui, e altróve, sempre nell'accezione medievale di 
< cavalieri > ; gratiositatem 103,36 : è proprio della bassa 
latinità nell'accezione di < grazia » ; baronibus 103,33 m ba- 
rone, tìtolo di dignità: « sed haec significalo ad corruptae 



LEGGENDA DI COSTANTINO 



non si può in nessun modo disconoscere l' ii 
del volgare già bello e formato ; oltreché, alcune par- 
ticolarità di quel dialetto, che il nostro compilatore 
parlava, lasciansi non infrequentemente travedere. 



Intinse linguae aetatem referenda est » (Fornii.) ; prùtcipisse 
103, l(> '- * principessa »; curialitatem 104,27: Dell'accezione 
medievale di < comitas » o « suavitas » (dr. Du Cang* sotto 
■ curialis >) ; domicetiis 105, 5 : nel significato medievale di 
« fàmula honoratior > (cfr. Du Cangb). 

Pronomi (Thibl. 135). Neil' uso dei pronomi regna 
pure un po' di confusione. Le forme nominativali di is sono 
sempre supplite da ipse, ed ipse ricorre in funzione di articolo 
determinato 101, 18; 103, 3 e S. Come articolo indeter- 

minato si adopera unus 103, 33 ; 103, 5 ; 104, 20. Vos è ado- 
perato in luogo di te, 101, 8 etc. 

Gradi di comparazione (Thiel. ras). Si trova un 
comparativo: viHorem 103, 37 adoprato per il superlativo; e 
uo magis asfiere 101, 16 perifrastico sta in vece del regolare 



Verbo (Thiel. 125-6). Anche nel nostro scritto rece- 
dere sostituisce regolarmente adire: cfr. 101, 19; 101, 19; 
104, 3 ; al quale si oppone procedere 105, 6 e 7. Della bassa 
latinità è anche repatriare 103, 23 (cfr. Forcbll. e Du Canoe : 
per le composizioni dei verbi con re- vedi Der Libeltus cit., 
pg. 332), obviare (cfr. obviantes 104, 35) e inpregnari ioa, 17. 
Lavori 103, 6 appartiene meglio alla terza che alla prima co- 
niugazione ; in ogni modo, nel nostro scritto si usa senza nes- 
suna differenza di significato in passivo e riflessivamente. Obe- 
dire costruito con l' accus. ha nel Forcellini un esempio re- 
lativamente tardo (cfr. obediebant eum 103, 30} ; e di tardissimo 
uso sono : intendo 105, 1 1 = « ho 1 ' intenzione >, tónto costruito 
con non e l' infinito ( Hmens non posse fitgere 103, 16 ; ma ti- 
mens ne esset 104, 5), tradere nuptui rot, 11 per « nuptum, 
dare, mittere, collocare». EeHgavil 101 , so, nel senso traslato 
di « manifestare », < esprimere > dal proprio < sciogliere », 
non ha esempi né nel Forcellini né nel Du Gange. 

Avverbi (Thibl. 126). Inspieìaliter 103, 5 certo nel 
significato di « specialmente > (ma in questo caso l'avverbio 
sta come in funzione dell'aggettivo corrispondente, col quale 
meglio si tradurrebbe) è ignoto al Forcell. e al Du Gange. 

Preposizioni (Thiel. 126). Con predilezione si ado- 
pera cvm: 103, 24 etc. il lat. class, lo avrebbe taciuto; e 



78 A. PARDUCCI 

Nelle espressioni che citiamo qui appresso, si 
ravvisa certo molto meglio 1* influsso della corrispon- 
dente forma volgare italiana, che quello della fran- 
cese o di qualsiasi altra lingua romanza. Così: a 
casa, 102,7 corrisponde perfettamente all'espressione 
italiana « a caso > ; similmente nella frase : et cum 
solus declinasset a militihus suis et lunge videi hanc 
etc. io2, 8, la seconda et, che introduce la proposi- 
zione temporale « lunge videt » è propria special- 
mente della sintassi italiana e, per di più, antica 
(cfr, Meyer - Lilbke, Gramm. Ili, 699). Anche: 

ignotus quantum ad pattern 102, 27 « ignoto quanto 
al padre » ; coetanei 102, 32, nel significato di « uno 
della stessa età > è sconosciuto al Voc. lat., ma è 
invece ben conosciuto da quello italiano. Il tantis 
dell' espressione : ut si volueris dare Jìliam tuam 
eom tantis ofiiòus etc. 103, 9 non è altro che il 
« tanti » italiano, d' uso frequente, nel significato di 
e molti », e si noti anche com = cum, per quanto non 
compaia qui per la prima volta (cfr. Forcell.). Inol- 
tre è costruzione prettamente foggiata sulla volgare 
italiana: cognito que erat mulieno^, 15 = conosciuto 
che donna era. 

Ma in questo testo avemmo pure a rilevare in 
parte anche l' influsso di quel dialetto, che il compila- 
tore, non diciamo il suo copista, parlava. Il qual 
dialetto, come potrà chiaramente vedersi anche da 



della bassa latinità è l'uso di prò 103, 31 ; 104, ao e ai ; 
101, 34 (assumpto auro et argento et alliis prò sutnptibtts), dove 
è adoperato in una costruzione molto affine a quella, già no- 
tata dall' Hevdenrbick, Der Lilellus, 337. Con l' in è co- 
struito un nome di città, Roma: in Roma 101, 28 => Romae (ma: 
ducamus evm noòiscum Costantinopoli-ut vel Bisantium 103, 6 
e Veniente Inperatore Romani 104, aa), ed anche nel nostro te- 
sto ricorre l' untone di preposizioni con avverbi : ex lune 

104, 16 e 17, HSque tur/r 104, 18. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 79 

quei pochi raffronti che qui appresso istituiamo (i), 
dovette essere il veneto. Si noti prima di tutto 
la frequente riduzione delle doppie a scempie, come 
ài -II- ad 4- v&puela 101, 5, exelentia 102, 31 ; di -pt- a 
4- come in batizari 102, 25, nutias 105, 16; di -mm- 
ad -m- come in gemarum 1 04, 1 2 ; di- ce- a -e- come in 
sucessive 104, 30, e di -rr- ad -r- come in interogans 
">4. 33- 

Inoltre si noti se che innanzi ad * ed i dà j sordo 
o ss, onde nel nostro testo cognossens 104, t e li 
e nessiens 104, 4 (2); £/ non dà mai tt ma sem- 
pre /, onde affitta 102, 1 aspetti 102, 27 e 103, z 
tratabillis 103, 3 de/onta 104, 22, introdutus 104, 34 
conspetu 105, 17. Per ot che dinanzi a b e p, 
nell'interno della parola, si trova sempre mutato in 
n, vedasi quel che si rileva a pag. 97 nelle osserva- 
zioni sulla graffa. Ma qui si noti ancora: il pre- 
fisso dis- reso per des- in descriminata 102, 6; il pre- 
fisso ad- per a- in amirans 105, 8 ; così pure il -U- per 
il semplice -/-, che qui è assai frequente dissimuliate 
102, n, nobillis 102, 13, anullum 102, 18 e 105, 15 (3), 
tratabillis 103, 3, cautellam 103, 19 e 27 (4), navi- 
chulla 103, 36, mirabilia 104,20; e avremo una serie 
di fatti nel loro complesso abbastanza significativi per 
giustificare la conclusione a cui più sopra si accen- 
nava, o almeno per poter dire che, delle varie regioni 



(t) Rimando, per essi, ai rispettivi paragrafi della illustra- 
zione della Cronica deli Imperadorì, fatta dall' Ascoli (Areh. 
gioii. Ili, 244-384). Per altri spogli grammaticali di antichi 
testi pure veneziani, cfr. la n. 4, pag. 26 della Introduzione alla 
Navigatiti .'Sancii Brendatri, edita dal Novàti, Bergamo, 1&99. 

(a) 11 nostro ms. rende il s aspro con ss: cfr. appresso, 
nel testo, Osservazioni ortografiche, sotto dessideraverat. 

(3) Forse, in questa parola, come anche in navichutla, il 
-II- è dovuto a una confusione dei due suffissi diminutivi -wAu 
ed -eilusì 

(4) Ma la forma con -li- per -/- è già nota: cfr. Du Gange. 



A. PAR BUCCI 



d' Italia, nessun' altra quanto il Veneto ebbe comuni 
tutti quei fenomeni nelle sue vecchie scritture. 



Questo elemento dialettale veneto, che il nostro 
esame ha constatato, non è qui un ingombro inu- 
tile ; ma offre, se non e' inganniamo, una nuova e 
valida prova in favore di una accettabilissima ipo- 
tesi del Coen. Ci sian dunque permesse due pa- 
role in proposito. 

Dissipando egli magistralmente tutti quanti i 
dubbi che potessero sorgere in special modo dalla 
considerazione dell' origine e della patria di Elena, 
gli sembrava lecito affermare che la leggenda costan- 
tiniana « si è formata in Italia e non oltrepassò i 
confini del nostro paese » (i). Quanto all' es- 
sersi formata in Italia, credo che si possa avere una 
nuova conferma appunto nella redazione da noi ri- 
trovata; se poi non abbia mai oltrepassato i confini 
del nostro paese, non saprei e non potrei affermarlo 
con quella sicurezza con cui l' afferma il Coen, ma 
mi sembra che egli, qui pure, debba aver ragione. 

Il Wesselofsky primo aveva cercato di dimostrare 
che quello, che egli chiama gruppo italiano e che 
comprendeva per lui solo il racconto di Iacopo 
d' Acqui e quello del Dittamondo di Fazio degli 
Uberti (2), dipendeva da un altro gruppo da lui detto 
francese e rappresentato da un racconto che pub- 
blicarono i signori Moland e d'Héricault {3), e da un 
poemetto Li dis de V empereour Constant, che egli 
stesso dava per la prima volta alla luce {4). Questa 



(1) Arch. cit., V, 530. 

(a) Quando egli scriveva quest' articolo r 
altre redazioni a noi note ; ma, conosciutele, non ha punto cre- 
duto di dover mutare opinione (cfr. Romania, XIV, 137). 

(3) Nouvelles frattfoises en prose du XIII* siicle, pgg. 3-33, 

(4) Romania, VI, 161 sgg. 



LEGGENDA DJ COSTANTINO Si 

dipendenza fu recisamente negata dal Coen (i) e, a dir 
vero, con ragione, per quanto non riuscisse a convin- 
cere il Wesselofsky (2). Che la narrazione del gruppo 
francese possa lontanamente incontrarsi in qualche 
circostanza più o meno accessoria con la narrazione 
del gruppo italiano, certo non si può escludere. Ma 
tali e di tal sorta sono le divergenze, che, dopo aver 
letti i racconti francesi non si resta davvero con 
l'impressione che essi derivino dalla medesima fonte 
da cui gli italiani son derivati. Son due racconti 
di contenuto differente, i quali soltanto in qualche 
circostanza s' incontrano. E se così è, bisogna 
andar cauti prima di ammetter fra loro relazioni 
dì dipendenza {3). Né la formazione francese 

della nostra leggenda può, d' altra parte, trovare 
un fondamento nello studio della lingua dell' Anca. 
Heyd.: quello studio, per quanto si cercasse di trarne 



(1) Arch. eìt., IV, 43. Anche il Kòhler, cìt. dal Coen, 
do» l' ammette. 

(a) Or. Romania, XIV, 137 Sgg. 

(3) Anche al Wesselofsky atesso, del resto, non sfuggono 
differenze notevoli fra i due gruppi : ma egli ne trova la spie- 
gazione nel fatto che la leggenda, nel gruppo italiano « a du 
se préter à un rapprochement avec les faits historiques qui 
n'est pas de plus adroits • {Romania, VI, 173)- Che se 
alcuno poi, non ostante quello che abbiam detto nel testo, col- 
pito da qualche vaga somiglianza, persistesse nel vedere fra 
la nostra leggenda e il poemetto francese del Wesselofsky (e- 
scludo affatto il racconto in prosa) vere e proprie relazioni di 
dipendenza, non per questo crediamo che resti infirmata la 
formazione italiana. Le numerose divergenze non ci dicono 
esse nulla? Dato pure, ma non concesso, che il poemetto 
francese si ricolleghi con la leggenda costantiniana, quelle di- 
vergenze ci dicono che chi scriveva doveva bene averne un' idea 
vaga e confusa, se tanto poteva allontanarsene. Era dun- 
que uno che doveva averla udita in altri campi dov' essa fio- 
riva, dunque nell'Italia superiore probabilmente, e che affidava 
poi alla carta quelle scarse riminìscenze, avvivandole del soffio 
della sua fantasia. 



83 A. PARDUCCI 

conclusioni favorevoli a tale formazione, dette ri- 
sultati tutt' altro che certi e positivi (i). 

Ma veniamo all'altro argomento, che questa no- 
stra redazione fornisce, siccome dicemmo, in favore 
della formazione italiana. 

Una volta che la leggenda, indubbiamente di 
origine e di provenienza orientale — potremmo dir, 

(i) Lo disse già il Coen nella Dichiarazione cit., ed è bene 
ancora riaffermarlo qui. Del resto, la prova migliore che 
1' Heydenreich non sì esprìmesse con molta proprietà, quando 
affermava che il numero ragguardevole di romanismi, che nel 
suo testo ricorrevano, offriva specialmente numerosi paralleli 
con' l' antico francese e che, quindi, era assai probabile che 
l' ignoto autore della sua redazione o fosse egli stesso francese 
o lavorasse — ciò che non si esclude vicendevolmente — so- 
pra un originale composto in francese {Der Libellus cit., pgg. 
337-38) ; la prova migliore, dico, ci è data dall' Heydenreich 
stesso. Il quale, dopo dì aver ciò affermato, temperava ap- 
presso, in parte, la sua espressione (Costantin der Grosse cit., 
pg. 13), scrivendo che quei romanismi potevano far pensare o 
al vecchio francese o al vecchio italiano. Infatti, io credo 
che di tutti i raffronti da lui istituiti fra il latino e il francese 
antico, non uno si sottragga allo stesso raffronto con l'antico 
italiano. E facilmente potremmo darne la prova se non la 
credessimo inutile ingombro. Certo, anche altri, e prima 
dell' Heydenreich, aveva nel testo da lui pubblicato notato e-- 
sempi di parole che trovano un corrispondente romanzo : cosi 
nei BlàtUrn cit-, XV, 462-68 il Landgraf e XVI, 125 il Thiel- 
mann, per ricordar solo i principali. Ma costoro, per la mag- 
gior parte degli esempi, avevan dato il corrispondente italiano 
e francese. Anzi il Thielmann aveva rilevato dei raffronti 
unicamente con l' italiano : comparare 20, 7 = comprare, ad ple- 
num 27, 14 = appieno ; se non che, comparare ha pure il suo 
equivalente nel!' a. fr. « comperer » {cfr. GODEFROY, Diction- 
naireecc. e anche Korting, Latetnisch-Romanisches WOrterbuch, 
Paderbom, 1901, n. 3367), come < ad plenum * in « a piai» >, 
* applain », « a plein » (cfr. Godkfroy, Dici. cit.). An- 
che grecismi e germanismi si son voluti trovare in questo testo, 
tanto discusso in Germania e fuori (1' Hbvdbnreich, Costan- 
lin der Grosse cit., pg. 6, afferma che ha dato origine a circa 
trenta studj), a proposito de' quali, che dicon poco o nulla, 
cfr. sempre Costanti» der Grosse cit. pgg. 13-4. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 83 

senz'altro, bizantina (1) — si ritrova trasportata in 
Italia; quale è la regione, ci domandiamo noi, che 
per le sue condizioni speciali abbia avuto maggiori 
contatti con l'oriente e di qui, dov'essa era sorta 
e fioriva, possa, con verisimiglianza, averla fatta venire 
fra noi ? i. noto che « Venezia era una città in per- 
petuo contatto col Levante, che oramai si può dire 
le fosse più vicino dei paesi di terra ferma che le 
stavano alle spalle. Certo in Venezia eran d' assai 
più numerosi i cittadini che avesser visto Constan- 
tinopolt dì quelli che fossero stati a Milano » (2). 
Con ogni probabilità sarebbe dunque Venezia il tra- 
mite per il quale la nostra leggenda come parecchie 
altre orientali passaron poi nell'Occidente (3). 

Né si obbietti (poiché il ms. che contiene L 
è del secolo XV, tempo nel quale la leggenda 
era presso che tramontata e quindi copia mani- 
festa d'altro anteriore) che può darsi sìa veneto 
solo il nostro trascrittore, cui poteva esser davanti 
un esemplare appartenente ad altra regione. A 
togliere ogni dubbio, basterà osservare che il codice, 
del quale la nostra redazione fa parte, è tutto d'una 
mano e altrove non si trovano tali venetismi. E 

poi « quelli che taluni giudicano errori e 

capricci d' amanuense, rappresentano il più delle 
volte peculiarità di pronunzia. Della pronunzia 
dello scrittore, si dirà ; e sia : ma fino a prova con- 
traria il copista è per noi il legittimo rappresentante 
dell'autore, e dev'essere seguito e obbedito non al- 
trimenti che questi » (4). 



(1) Cfr. Cobn, Arca, cit., V, 513 sgg. ; Wesselofskv, Li 
dis cit., pg. 171; Heydbnrbich, Costantin der Grosse cit., 
pg. 16. 

(a) Pio Rajna, Una versione in ottava rima del Libro dei 
Sette Savi, in Romania, VII, 400. 

(3) Rajna, op. cit-, loc. cit. 

(4) Pio Rajna, / cantari di Cardmno in Se. d. cur. leti., 



84 A. PARDUCCI 

Certo, con ragioni forse più convincenti, avremmo 
assodata l' ipotesi del Coen, se fossimo riusciti a ri- 
trovare anche nei tre mss., contenenti la redazione 
pubblicata dall' Heydenreich, qualche elemento ve- 
neto. Tuttavia, se la cosa non ci è stata possibile, 
non dobbiamo per questo sgomentarci poi troppo. 

Si osservi, in tanto, prima d' ogni altra cosa, che 
i tre rass. sono con tutta probabilità, di provenienza 
tedesca (i). Si noti poi che per il chigiano Q. IL 
5 1 noi abbiamo istituito le nostre ricerche solamente 
sulle non molte varianti forniteci dal Coen (2) : non 
inverisimile sarebbe che l'esame del cod. avesse por- 
tato a resultati migliori. Dei quali, in verità, giova 
ancora ripetere, non e' era troppo bisogno, se quello 
che stiamo per dire può esser trovato giusto. Anche 
è necessario metter da parte, nella ricerca di que- 
sto elemento, il cod. di Friburgo CI. VII, Frib. 141, 
derivato, come par sicuro (3), dal Dresdense I. 46. 

Ciò posto, due ipotesi : o fonte di questi tre cdd. 
è un terzo (I) sconosciuto, o il Dresdense I. 46 è la 
fonte degli altri due (4). Ma tanto nell'ini caso 

Bologna, Romagnoli, 1873, disp. 135, Introduzione, pgg. lxvi 
vtt. Riportiamo qui, per quel che può valere, un argomento, 
che l' Heydenreich ci fornisce [già però si trova nella recens. 
anonima al suo testo, pubblicata in Phiiologischer Anzeiger, 
X, [1879], pg. 57) e che, sebbene indirettamente, conferma la 
nostra asserzione ; poiché tende a provare che la nostra leg- 
genda, nella sua fase occidentale, deve essere originaria d'una 
regione marittima. Per l' Heydenreich {Der Ltiellus, pg. 334) 
l' autore della sua redazione, il quale ai due giovani abbando- 
nati nell'isola deserta fa bere acqua di mare, è ' ein Binnen- 
lander '. In fatti, proprio ' ein Binnenlànder ' sarebbe, se egli 
fosse veneziano. 

(1) Per il chigiano Q, II, 51, cfr. Cobn, Areh. cit., IV, 16. 

(a) Arch. cit., IV, 17-13. 

(3) Cfr. Heydknrhich, Der Libello* cit. 331. 

(4) Tale cosa non parrà niente affatto improbabile, quando 
si pensi, prima di tutto, che esso è del sec. XIV e che le dif- 
ferenze che ha col Chig. Q, II, 51 (quelle col Friburgense CI. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 85 

quanto nell' altro, questa prima fonte tedesca deriva 
essa direttamente da una redazione veneta, ignota 
o perduta, oppure è stata scritta soltanto dietro it 
ricordo di letture fatte o dì racconti uditi ? In ve- 
rità, confessiamo di essere indecisi dinanzi alla rispo- 
sta; tuttavia, o l' una o l'altra soluzione che sì debba 
dare al problema, non saranno infirmate le nostre 
conclusioni. 

L'ammettere una diretta redazione veneta, ora 
ignota o perduta, sarebbe la cosa che, forse, sì 
presenta più piana e naturale. Ma, allora, è lecito 
domandarci: è egli possibile che nessun elemento 
veneto, il quale senza scrupolo alcuno si può in essa 
ammettere (tanti ne abbiam trovati nella nostra!), 
sia da questa passata in quella? Che tanto abile sia 
stato il trascrittore (chi non sa che a volte anche i 
più provetti restano ingannati?) da conoscerli tutti- 
quanti e tuttiquanti evitarli? Poiché si inganne- 
rebbe assai, secondo a noi pare, chi volesse trovar 
qualche traccia di quest'elemento in quell'unico caso 
di riduzione di -pp- a -p- nell' oportunitate di pg. 3, 
1. 11, ripetuto a pg. 25, I. 25, del Dresdense I. 46, 
ricopiato anche dal Friburgense CI. VII, Frib. 141 (1) 
e ritenesse il trascrittore della fonte tedesca così abile 
in tale lavoro di ricostruzione, da non tradirsi che 
una sola volta. 

Più probabile, invece, si mostra la seconda ipo- 
test; ed anche il Coen ad essa propenderebbe (2). 

VII, Frib. 141 son minime, grafiche il più delle volte), anche 
se a volte non troppo lievi, son sempre spiegabilissime (Coen, 
Areh. rit., IV, 34). 

(i) Una riduzione di -pp- a -p- è anche neìl' opressit 3, 
14 del Friburgense -, ma essa non fa al caso nostro, poiché il 
Dresdense, se qui è stato ben letto, porta il regolare oppressa. 
Cosi pure non dimostra niente il -mm- ridotto a -m- in alcune 
forme del verbo « consummare >, per quanto in ambedue i 
codici, perché scrittura normale nel M. E (cfr. Du Cangb). 

(3) Scrive, infatti, Areh. cit-, V, 536: « Quindi risulta, se 



86 A. PARDUCCl 

Che la fonte tedesca fosse piuttosto frutto di let- 
ture fatte o di racconti uditi jlo dedurremmo dalla 
considerazione che lo scrittore non narra seccamente 
e aridamente la leggenda, ma l'amplia con molta 
libertà, dà ad essa uno svolgimento ben più vasto 
di quello che non abbia, ad es., nella nostra reda- 
zione "■ non rifugge dall' introdurre osservazioni tutte 
proprie e personali (i). Doveva adunque essere 
colui che scriveva, un uomo veramente colto e dotto 
(e i molti raffronti, che faremo più appresso con 
passi della Vulgata, da lui molto ben conosciuta, 
sono una prova in nostro favore); e se tale, mag- 
gior forza acquista la nostra ipotesi, che tenderebbe 
ad escludere un originale veneto diretto. La man- 
canza, quindi, di ogni elemento dialettale net tre 
mss. contenenti la redazione Heydenreichiana, non 
si oppone per niente, come crediamo di aver dimo- 
strato, alla formazione italiana della nostra leg- 
genda. 



non certo, almeno probabile al massimo grado, che la nostra 
leggenda non abbia varcato le Alpi e che V Ama*. Heydenr., 
anche se la sua patria era un paese diverso dall'Italia (il 
che finora certamente non può dirsi provato) abbia conosciuto 
in Italia la leggenda, della quale compose una redazione 
molto più diffusa di quella di Giovanni di Verona e di Ia- 
copo d'Acqui », 

(i) Cosi, ad es., quando Elena rivela a Costanzo l'orìgine 
di Costantino, l'autore osserva: < Et ìncipiens coeptt sibi nar- 
rare totam seriem rei gestae, sicut in principio praesentis 
opuscu li continetur » (pgg. 33-4) ; così anche ci si rivela per 
uno scrittore, che vuol far mostra della propria scienza, quando, 
accennando alla pena dei mercanti traditori, scrive: « Merca- 
tores autem huiusmodi in quaestionibus poni et ab iis veri- 
tatem inqniri de praemissis mandavi! et fecit ut est moris 
et maxime Romanonim qui inventores huiusmodi quaestio 
num esistere referuntur > (pgg. 36-7). E, ma certo non 
se ne sente il bisogno, potremmo ancora riferire luoghi così 
fatti. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 



ni. 

Qualche cosa di più preciso, se non e' inganniamo, 
ci sarà dato dì conoscere intorno alla condizione 
dell'autore. 

Quale e quanta fosse la fama che Costantino, 
primo imperatore cristiano, godette nel medio evo, 
non ho io qui bisogno di ricordare: « con lui pa- 
reva finalmente assicurato, e per sempre, il trionfo 
della verità sull' errore, adempiute, o almeno av- 
viate al loro adempimento finale e glorioso, le pro- 
messe antiche di una rigenerazione della umana fa- 
miglia ». Fu posto anche nel novero dei santi 
della chiesa orientale, se ne conservarono le favolose 
reliquie, fu creduto, a torto o a ragione, il vero 
fondatore dell'Impero cristiano (i). Nessuna ma- 
raviglia adunque se questo imperatore, che tanto 
bene aveva fatto alla chiesa, trovò appunto un uomo 
di chiesa, il quale si compiacque di abbellirne la na- 
scita e i tempi della prima gioventù (2). E se lo 
sconosciuto autore deìY Anon. Heyd. « nach der Spra- 
che .... seines Werkens rrniss er dem geistlichen 
Stande angehort haben », poiché in essa lìngua 
si trova « eine grosse Anzahl von Worten und Wen- 
dungen, die im Kirchenlatein entweder ausschlies- 
slich oder doch sehr haufig vorkommen » (3), a 
a tale condizione pure, e in forza di questo mede- 
simo argomento (4), deve avere appartenuto il No- 



ti) Cfr. Grap, Roma nella memoria etc, I, 46 e 47. 
{3) Come è noto, del resto, anche di altri episodi della 
sua vita si è impossessata la leggenda (cfr. Romania, VI, 169). 

(3) Hhydknreich, Coslantin der Grosse cit., pg. 13. 

(4) Ci si permetta di ricordar qui alcuni esempi. Batìzari, 
103, 35 ed unigenUitm, 103, 8 appartengono, senza dubbio, al 
latino della Chiesa ; così metitoriam, 101, 9 nell'accezione che 
ha qui, dì « loculus reliquiarum, vel ecclesia aut sacellum mar- 



88 A. PAROUCCI 

stro. Ma, senza dubbio alcuno, meglio d'ogni 
altra, la nostra redazione ispira, alia lettura, un senso 
di serena e cristiana rassegnazione : lo scopo di esal- 
tare la religione di Cristo si rivela ad ogni passo 
e quasi direbbesi che uno spirito evangelico la in- 
formi e la pervada tuttaquanta. Lo scrittore, con 
evidente compiacenza, cerca ogni mezzo, sia aggiun- 
gendo di suo alla leggenda popolare, sia accettando 
ciò che essa già narrava e che più faceva al suo 
intento, per mettere in mostra quanto più è possi- 
bile le buone qualità di Elena e Costantino. 

Si pensi che Elena vuole visitare i corpi degli 
Apostoli (t), perché « christianissima », e chiede al 
padre il permesso di partire, purché torni a lui di 
« honore > ed ella ne abbia salvo il € pudore >. 
Colta da Costanzo nel bagno, « cum esset corpore 
pulcerrima », vuole « pre verecundia se occultare et 
dissimullare » ; e a malincuore e piangendo si dà 
all'Imperatore. 



tyti dicatum > (Forcbll.) ; mane {mane facto, 104, 9) usato 
come sostantivo (Thiel, 134) ; ante faciem col gentt., 104, 37 e 
31 — coram (Thiel, 125). Anche son proprie del latino 
della chiesa le frequenti introduzioni del discorso diretto dopo 
dicems, dicentes (Thiel, 135), come ioi, 7, e 17, 35, 37; 102, 
18, 38 etc. ; nonché la costruzione di facere con l'inf. come 
103, 35. Né le espressioni: ad invicem, 103, 39; confortata 
est in Domino, T04, 11; suscepil in filium. 105, 18 ci allon- 
tanano certo da quello. 

(1) Questa circostanza del viaggio di Etena a Roma < um 
die Statten zu sehen an denen die rechtglaubigen Apostel 
und Begrunder des katholischen Glaubens gelebt und die sie 
mit ihrem Biute geheiligt und zum Haupte der Christenheit 
gemacht haben » era già stata rilevata dall' Hbydenrkich 
(Costantin der Grosse cit., pg. 13) alto stesso scopo, per il 
quale noi pure la rilevammo; e come costume dell'occidente 
cristiano la ricorda anche il Coen (V, 300). È noto, in Tatti, 
come a cominciare dal sec. VII 1 pellegrini « ad limina Apo- 
stolonini > vanno sempre aumentando, per quanto grandi i 
travagli e i pericoli del viaggio {cfr. Graf, Roma nella memoria 
cit-, I, 56-7). 



LEGGENDA DI COSTANTINO 89 

Il figlio che nacque di lei e di Costanzo, « ba- 
tizari fecit » e « informa. vit optimis tnorìbus » ; e 
quando, dopo averlo pianto perduto, se lo rivide 
comparir dinanzi accompagnato da una donna che 
ella credette « mala mulier », grandi furono le sue 
grida e i suoi lamenti, né poco ci volle per farla 
ricredere del falso giudizio. 

Costantino cresce, oltre che « in aspetu pulcri- 
tudinis », « in omni morum probitate » sì da formar 
di tutti l'ammirazione, ed a lui è propria non solo 
1' « urbanitas » ma anche la « probitas >. A 
quindici anni « persona et prudentia superabat eta- 
tem > : anche Gesù, a dodici anni, sedendo in mezzo 
ai dottori ed ascoltandoli ed interrogandoli, fece 
tutti restar maravigliati per la sapienza delle sue 
risposte (1). Quando i mercanti hanno fatto il 
disegno *di condurlo a Costantinopoli e si presentano 
a lui per manifestarglielo, egli < quia nìchil aude- 
bat nec consueverat facere sine consensi! matris », 
vero figliuolo obbediente e sottomesso, rispose loro : 
< Volo dicere matri mee ». Al suo ritorno, scac- 
ciato da prima dalla madre, si adopera « usque ad 
auroram » a pregarla « blande » per convincerla; 
allorché va incontro a Costanzo spiccano mirabil- 
mente in lui « signa festivitatis, probitatis et indu- 
strie »; * la probttatem » è notata in ispecial modo 
e « propter probitatem », in fine, vorrà averlo seco 
l' Imperatore. Al quale, poiché lo ebbe invitato 
a pranzo, così umilmente, come già ai mercanti, 
rispose : « Domine, libenter cum gratiarum accione ; 
tamen placeat vobis quod dicam hoc matri mee, 
quia non auderem aliter nisi de licentia matris mee ». 
Se non che, oltre che nella dipintura di questi 
due caratteri, anebe nella risposta della donna di 
Costantino a Costantino stesso, allorquando si tro- 

(1) S. Luca, II, 41-47. 



9o A. PARDUCCI 

vano soli, abbandonati in mezzo al mare nella na- 
vicella, si può sentire questo spirito evangelico. Giu- 
dichi colui che legge : « Noli timefre] hominem : 
nos innocentes sumus. Deus adiuvabit nos; si eva- 
serimus satis habebimus. Et, — conclude poi l'au- 
tore, — Deo volente, sine victu et gubernatore, 
implicuerunt incolimes ad litus romanum ». 

Già l' Heydenreich ha mostrato come il suo ano- 
nimo autore abbia improntati alcuni episodi della 
sua narrazione alla Bibbia: due dei tre raffronti da 
lui fatti per la sua si addicono pure alla nostra (i). 

Ma questa diversificandosi da quella in non pochi 
luoghi, offre ancora altri più evidenti e notevoli raf- 
fronti, che confermano sempre più la condizione di 
uomo di chiesa nel nostro scrittore. Ma prima 
d'istituir questi raffronti, sarà bene che ci richiamiamo 



(i) Non si addice alla nostra il raffronto che egli fa {Co- 
ìtantin der Grosse cit., pg. ia), con un passo di Daniele nella 
fossa dei leoni. Così diciamo sicuri che egli, per questo raf- 
fronto, si richiami (1' Heydenreich non indica troppo chiara- 
mente quali sieno questi passi) a quello che sì legge in Da- 
niele, VI, 24 e XIV, 41, che, cioè, coloro che erano stati 
causa della perdizione del profeta furon fatti gettar nella fossa 
e in un momento vennero divorati : passo che trova un riscon- 
tro nella sorte dei mercanti puniti tiell' Anon. Heyd. Meglio 
invece si confa il racconto di Susanna (Daniele, XIII), poi- 
ché si nobilita in esso la donna onesta e virtuosa che, come 
l' Elena della nostra leggenda, raccoglie finalmente il frutto 
della sua virtù ; e it raffronto con un luogo della storia di Tobia 
(X, io). Ivi, in fatti, è detto che il figlio del santo vecchio, 
sposata, durante il suo viaggio, la figlia di Raguele, vuole ad 
ogni costo ritornare dal padre che l' aspetta, né ascolta le 
preghiere e le istanze di alcuno, nemmeno quelle dello stesso 
Raguele. Il quale rimette a lui Sara e ]a metà di tutto ciò 
che aveva, servi, serve, bestiame, cammelli, vacche e denaro. 
Questo può rammentare anche i nostri mercanti, che partono 
carichi di bottino da Costantinopoli con gli sposi ; ma la più 
gran parte dell'episodio non si addice alla nostra redazione, 
coinè quella nella quale non ha luogo affatto la resistenza fatta 
ai mercanti, allorché devon partire. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 91 

alla- storia di Susanna per notare come la casta 
donna, sorpresa, mentre si bagna nel giardino, da' due 
vecchi i quali vogliono ad ogni costo farne il loro 
piacere (1), trova un parallelo solo nell' Elena della 
nostra redazione. 

Ed ora veniamo a quei raffronti, che sola la no- 
stra redazione può offrire. 

L'episodio della salvazione di Costantino e della 
sua donna, affidati alla balìa delle onde, in una na- 
vicella, deriva, a nostro avviso, da quello di Giu- 
seppe ebreo. Giuseppe è odiato dai fratelli: un 
giorno, mentre essi sono alla pastura in Dothain, lo 
vedono giungere da lontano. « Su via, esclamano, 
ammazziamolo e gettiamolo in una cisterna: diremo 
poi che una fiera l'ha divorato ». Ma Ruben, 
udito questo, si affaticava a toglierlo loro di mano 
e diceva: « non gli date la morte, non spargete il 
suo sangue. Gettatelo piuttosto in questa ci- 

sterna e serbate pure le vostre mani ». E cosi 
fecero; è noto come la fortuna arridesse poi a Giu- 
seppe, estratto dalla cisterna e venduto ad alcuni 
mercanti ismaeliti, che andavano in Egitto (2). L'in- 
tonazione, quasi starei per dire le espressioni, a volte, 
non sono nei due testi le stesse ? 

Costanzo, incontrata a caso Elena, > si giace con 
lei ; e a lei, che lo prega di darle almeno qualche 
segno perché possa venir riconosciuta nel caso che 
rimanga incìnta, lascia < anullum digiti sui et vir- 
gam inperialem ». Senza bisogno che io spenda 
molte parole, il lettore ricorda certo come si viene 
a conoscere il padre dì Costantino. Introdotta 
Elena alla presenza di Costanzo e da lui richiesta 
del padre del figlio suo, risponde: « Pater huius . 
filii mei est ille cuius sunt hec; ostendens anullum 



(1) Daniele, XIII. 
(a) Genesi, XXXVII. 



9 i A. PARDVCCI 

et virgam inperialem ». L'Imperatore, a tal vi- 
sta, celebrò le nozze e « Costantìnum suscepit in 
filium >. Consideriamo adesso quanto si narra 
nel cap. XXXVHI del Genesi. Giuda dette 

due figli per marito a Thamar; morti i quali, Tha- 
mar tornò ad abitare nella casa del padre suo e 
Giuda sì allontanò da lei. Ma, trascorso alquanto 
tempo, Giuda ebbe a passar vicino al luogo dove 
abitava Thamar, la quale, travestita, si pose a sedere 
in un bivio per dove egli sarebbe passato. Ve- 
dutala ed appressatosi a lei, la richiese di mal fare ; 
ed ella, ottenuto < annulum et armillam et baculum », 
come pegno anticipato d ' un capretto, che poi Giuda 
avrebbe mandato a lei dal suo gregge, gli si con- 
cesse. Fu poi riferito a Giuda che la nuora sua 
aveva peccato ed era incinta. « Sia bruciata », 
ordina il figlio di Giacobbe. Ma ella « cum du- 
ceretur ad poenam, misit ad socerum suum dìcens: 
De viro, cuius hae sunt, concepì: cognosce cuius 
sit annulus et armilla et baculus ». E fu salva; 
Giuda però « ultra non cognovit eam ». 

Certo, in questi ragguagli, qualche particolare 
di secondaria importanza potrà non corrispondere 
pienamente ; ma l' intonazione generale è la stessa, 
precisa, identica sì nei racconti biblici che nella no- 
stra redazione e procedono essi poi di conserva 
nel loro parallelo svolgimento. 

Questo, diremo così, l'elemento biblico della no- 
stra redazione, il quale non è, a dir vero, ne poco 
né scarso. Non mancano però altri motivi, che 
già da tempo eran noti e conosciuti nelle leggende 
e altrove. I principali e i più importanti furono 
già rilevati da coloro, che in questo studio ci han 
preceduto: così la storia dei mercanti ingannatori 
ricorre pure nel romanzo greco, e non è altro se 
non una delle numerose narrazioni dei pirati, che 



LEGGENDA DI COSTANTINO 93 

in esso sono tanto comuni (r); così son divulgatis- 
sime, specie in alcune terre orientali, le leggende 
che s'ispirano al motivo del fanciullo destinato a 
grandi cose (2). Anche potrebbe osservarsi col 
Coen che il riconoscimento di Costantino può tro- 
vare dei confronti nella Commedia Nuova (3), e col 
Wesselofsky che, nelle leggende, non son rare le 
avventure di caccia (4). Noi potremmo soggiun- 
gere che di personaggi sperduti nel mare e poi sal- 
vati si trova pure notizia altrove (5); e il Rajna ci 
fa poi sapere di donne in vesti maschili (6) e che 
la leggenda € mostra molto spesso una vera predi- 
lezione per ì figliuoli nati da unioni non propria- 
mente regolari » (7). In fine, per notare ancora 
un raffronto, nella Chanson d'Aimeri de Narbonne, 
ad esempio, si hanno, come con qualche leggera di- 
versità nella nostra leggenda, messaggeri che vanno 
a domandar la mano d'una principessa (8). 



Or dunque tutto questo materiale biblico e leg- 
gendario ci fornirà esso motivo a qualche conclu- 
sione? Crediamo di si. 

In Francia, nel medio evo, per gli eroi che più 
riuscivan graditi al cuore e alla fantasia, si era soliti 
di creare delle imprese giovanili ossia delle Rnfan- 



(•) Heydenbeich, Costanti» der Grosse cit., pg. 16. 

(2) Ibidem, pg. 36. Anche il Wessklofsky, natural- 
mente, rileva che questa parte del racconto rientra nei ■ rac- 
conti fatalistici » (Li dis cit., pg. 181). 

(3) Arch. cit., IV, 35, n. 1. 

(4) Li dis cit., pg. 183. 

(5) Cfr. G. Paris, La legende de Satadm cit., pgg. 17-36. 

(6) Le origini dell' Epopea francese, Firenze, Sansoni, 
1884, pg. 46. 

(7) Ibidem, pg. 161. 

(8) G. Paris, Sur un Episodi d' A. de N. in Romania, 
IX, 518 sgg. 



94 A. PARDUCCI 

ces (i). In tanto, che le varie redazioni della no- 
stra leggenda presentino, appunto per la materia 
trattata, strettissima affinità con le Enfanees, nessuno 
vorrà metterlo in dubbio. Né fera a ciò ostacolo 
il non essere scritte in volgare e in versi. Diffi- 
cilmente si crederà che avrebbero potuto essere state 
scrìtte in versi, quando si pensi qua! professione 
molto probabilmente debba avere esercitato lo scrit- 
tore e si rifletta un poco anche a quello che di- 
remo qui appresso. Non che a noi sfugga che 
nel tempo in cui la leggenda sulla gioventù di 
Costantino fioriva, da gente di Chiesa e in versi 
e in volgare non si scrivesse ; poiché ben sap- 
piamo degli < i oculato res Domìni », i quali passa- 
vano di città in città, narrando i miracoli della Ver- 
gine e dei Santi e cantando le lodi di Dio; e ben 
ci è noto come « nei secoli XHI e XIV sulle piazze 
dell' alta e della media Italia si recitassero non 
soltanto le canzoni di gesta ma anche narrazioni 
in versi d'argomento religioso » (2). Ma que- 
ste composizioni, in versi e in volgare, dovute ad 
uomini di chiesa, furori fette unicamente per edìfi- 
cazion religiosa del popolo e della plebe; e al po- 
polo e alla plebe non fu certo rivolta la nostra re- 
dazione. 



(1) Cfr. Rajna, Le origini dell'Epopea francese, pg. 130, e 
vedine riportati i titoli di alcune in Ch. Aubbxtin, Hìstoirt 
de la /angue el de la litlérature francaise au moyea dge, Paris, 
Belin, 1883, I, 955, n. 1. Del resto, non poche altre si 
possono aggiungere a quelle qui ricordate. 

(2) L. Biadene, La Passione e Resurrezione, poemetto ve- 
ronese del sec. XIII, in Sludj di fil. romanza, fase. 2 (1884;, 
p. 315. A proposito di questi *. i oculato res Domini» vedi an- 
che Bartoli, Stor, Leti., voi. II, pgg. 55-6. Di questi poe- 
metti religiosi, oltre che nello studio del Biadene, puoi vederne 
ricordati buon numero nella Introduzione ai IV poemetti sacri 
dei sec. XIV e XV pubblicati da E. Percopo in Scelta di air, 
leti.. Romagnoli, Bologna, 1885. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 95 

Or bene, se tanto lo scrittore della nostra reda- 
zione quanto quello àeW'Anon. Heyd. (non parlo per 
ora — e la ragione si vedrà fra breve — della ver- 
sione dell' ffùtoria Imperiate e di quella del Ckro- 
nicon Imaginis Mundi) furono, ripeto ancora, molto 
probabilmente uomini di chiesa; quale sarà stata la 
causa, che li avrà spinti a scriver delle imprese 
giovanili del celebrato imperatore romano? 

I cantori delle « chansons de geste » venivano, 
in Francia, allora che regnava amore e cortesia, am- 
mirati ed applauditi dovunque, con giubilo grande. 
Superfluo ricordare che la vita, le abitudini e ì co- 
stumi di questi « jongleurs » dovevan certamente 
conoscere intus ci in cute gli Italiani del tempo di 
cui parliamo ; essi, in fatti, abbandonata la loro terra 
nativa, già in buon numero avevano emigrato nel- 
1 ' Italia settentrionale ( t ), dove, ormai possiamo dire 
con tutta certezza, la nostra redazione è stata com- 
posta. Che ad imitazione di questi « jongleurs », 
i quali, com' è noto, in certe solennità principali, si 
presentavano ai castelli dei ricchi e facevano riso- 
nare le ampie sale delle portentose imprese dì mille 
eroi (2)', abbiano scritto romanzescamente i nostri 



(1) Cfr. Rajna, Le Fonti dell' Orlando Furioso, Firenze, 
Sansoni, 1900, Introduzione, pg. io. Com'è noto, è questo il 
perìodo nel quale i cantori dei poemi franco-veneti trionfano ; 
vedi su di esso preziose notizie negli studi di P. Rajna : Ri- 
naldo da Montalbano in Propugnatore, a. Ili, e Rotta di Ron- 
cisvalU nella leti, cavati. Hai. in Propugnatore, a. Ili e IV. 
Puoi confrontare anche utilmente la dotta Prefazione a La di- 
scesa di Ugo tf Alvernia alto Inferno secondo U codice fraMco- 
itaiiano della Nazionale di Torino, pubblicata da R. Reniek 
in Se. di cur. leti., dispensa CXC1V, anno 1883. 

(2) Ampie notizie sulla vita e sui costumi dei jongleurs 
vedi in Galtier, Les Épopees franfaises, seconda ediz., voi. II, 
capp. XVII-XXI. Altri studi sul medesimo soggetto trovi 
anche ricordati a pg. 35 del voi. V, Paris, 1897 [Bibliographie 
des chansons de geste~\. 



96 A. PARDUCCI 

uomini di chiesa intorno al figlio dì Sant'Eleni, a 
rallegrar qualche convivio, celebrato forse nell' anni- 
versario del loro santo fondatore, forse a Pasqua 
stessa, a Natale, a Pentecoste? In verità, nulla 
di più acconcio d' una di queste pie leggende, le 
quali, come sprazzo di luce, interrompevano le con- 
tinue e diuturne austere meditazioni sui novissimi e 
sulla caducità delle cose umane, e con la romanzesca 
varietà de' fatti narrati, nei quali si era sempre di- 
sposti a vedere l'influsso della potenza divina, allie- 
tavano di santo giubilo qualche ora della vita clau- 
strale. Se non che, è egli possibile riportar parte 
di queste pie leggende ad una sì fatta causa (i)? 
Ammesso che sia, è naturale che esse fossero ripetute 
più volte nelle varie solennità e andassero soggette 
a mutilazioni e ad aggiunte di più o meno lieve en- 
tità; e in questa relativa varietà dal tipo primitivo 
non è difficile che alcune fra di esse sieno state ac- 
colte e tramandate dai vari scrittori. 

Se ciò — ripeto — fosse vero, si presenterebbe 
facile e piana la spiegazione delle redazioni nell' Hì- 
stort'a Imperiali* e nel Chronicon Imaginis Mundi 
della nostra leggenda. 

La quale adunque, se scritta, come dubbiosamente 
accennammo, per sollievo d' una devota congrega- 
zione di fedeli, non dovrà farcì più maravigliare 
perché si mostri a noi, anzi che in volgare, in veste 
latina e in prosa piuttosto che in versi. 



(i) Così anche quei Libelli, fatti per edificazione religiosa 
e d'uso tu tt' altro che ignoto al medio evo (vedi su di essi 
qualche notizia nello studio di G. Ravnaud, Le Miracle de 
Sardenaì in Romania, XI, 519 sgg.), potrebbero trarre da que- 
sto stesso fatto la loro ragion d'essere. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 



IV. 

Chiudiamo queste pagine con alcune avvertenze 
intorno alla grafìa del testo e alla edizione che ne 
diamo. Nella lezione ci siamo scrupolosamente at- 
tenuti alla lettera del codice; solo furono sciolte le 
abbreviature; si distinse la u dalla v; per le maiu- 
scole, nonché nell'interpunzione, seguimmo l'uso mo- 
derno. Per l'esame poi che facciamo della grafia, 
i nostri richiami saranno sempre al capitolo sulla Or- 
tografìa nella Introduzione al De Vulgari Eloqucn- 
tia, edito dal Rajna (Firenze, Le Mounier, 1896) e, 
quando ce ne sarà bisogno, ai libri ai quali ivi si 
rimanda. • 

Quanto ai dittonghi ae ed oe, il nostro cod. segue 
costantemente la grafia consueta dei secoli XIII e 
XIV, secondo la quale venivano rappresentati « col 
semplice e portato dalla pronunzia » (Rajna, pg. cxlvj). 

Le osservazioni generali fatte dal Rajna a propo- 
sito dei Raggruppamenti e Disgiunzioni (pg. clij) e 
delle Assimilazioni (pg. clvj), valgono anche per il 
nostro ms. 

n ed m. Mettiamo regolarmente l'unao l'altra 
lettera, quando crediamo che non vi sia luogo ad in- 
certezze. Giova però notare che, per quanto sia 
detto espressamente che € imperator per m scriben- 
dum > (cfr. Rajna, pg. clix, dove si richiama al 
Thurot in Notices et extraits de manuscrits, t. XXIP, 
Parigi, 1868), noi crediamo senz' altro necessario lo 
scrìverlo sempre con n. La maggior parte delle 
volte, in fatti, è scritto distesamente e con w, così 
che non v'ha luogo a dubbj (cfr. 101, ■; 102, 7, 14, 
17, 20; 103, 1 etc). È poi ben naturale che tutti 
questi esempi si tireran dietro Viper. dell' intitolazione, 
di 103, 21; 104, 22 e 24; 105, 8 e 13 e Y ìperatrieem 
di 105, 18, Vìperialem di 102, 18, e per quest'ultima 



gS A. PARDUCC1 

parola ne abbiamo una conferma nell' inperialem, 
105, 15, distesamente scritto. Solamente una volta 
si trova un imperatore 103, 7; e questa regola, che il 
nostro trascrittore segue, si può dire, costantemente, 
di scrìvere, cioè, n dinanzi a p e a b, trova appena qual- 
che eccezione, per es., in impleatur 101, 12. All'in- 
contro essa è confermata, oltre che dagli esempi già 
citati, dall' inpregna ta 102, tg, da inperii 103, 25, da 
anbos e anbo 103, 30 e 32, da inplicuerunt 103, 39, 
da senper 104, 26. Finalmente sciolgo Yìmiscuit 

101, 25 in inmiscuit e Yìmutationem 102, 22 in in- 
mutatùmem, oltre che per ottemperare alla tendenza 
del nostro anonimo, anche perché molto più comune 
alla grafia medievale, la quale difficilmente assimilava 
nei composti Yn seguito da m (Rajna, pg. clix) (1). 
Così pure, perché più conforme alla grafia medievale, 
risolvo in quondam il qjdam 102, 23 (cfr. Rajna pag- 
elle). Della nasale dinanzi al -que enclitico non 
abbiamo esempi nel nostro ms. 

ti e et dinanzi a vocale. La tendenza di ti e 
ci a confondersi dinanzi a vocale, già cominciata fin 
dall'antichità e cresciuta poi nel medioevo tanto da 
diventar confusione (Rajna, pg. clxij sgg.), si nota 
nel nostro ms. ; ma, in generale, sì può dire che 
essa si risolva per una assai sentita « spogliazio- 
ne dei diritti del ti*. Certo, se così è, siamo 

assai lontani dal territorio fiorentino, dove « si pro- 
pendeva risolutamente al ti » (Rajna, pg. clxìij) ; 
scrive, in fatti, regolarmente: reverenda 101, 7, gra- 
tiosus, gratiositatem 102, 27 e 36, converssatùmem 

102, 30, dominationem 102, 31, exelentia 102, 31, ìn- 
spicialiter 103, 5 (la grafia medievale di questa parola 
sarebbe stata più precisamente : inspetialiter : cfr. 



(1) Neil' ìnmutationem si scorge chiaramente l' in negativo, 
e quindi s'intende di leggeri come non debba assimilarsi; 
nel!' inmùcuit Vi» proviene dall'etimo. 



LEGGENDA DI COSTANTINO » 

Rajna, pg, clxvi), intmndatio 103, 34, negottum 104, 
15 e 16 ecc., (ma: circumspitìens 102, 5, definente 104, 
19, inditium 104, 33); e poi: milieiam e miltciis 101, 
17, e 102, 35 lett'cia 103, 25, preciosis 103, 28, divicias 
io 3i 3'> dispostetene 104, 2, noticie, noticiam 104, 
33 e 36 acetone 105, 1. 

Uso dell' A. (Rajna, pg. clxvj sgg.). Ricorre 
abusivamente in: Merchatorcs 102, 38, in navichulla 
103, 36, in hostium 104, 6 (frequente nel medioevo, 
come osserva anche il Rajna, pgg. clxvi -vij), in Aor- 
namenta 194, 14 (anche in iscrizioni, cfr. Forcellini) e 
in trihunfo 104, 34, dove, forse, ha subito uno scam- 
bio di posto dai regolare triumpho. E caduto in- 
vece in pulcritudinis 102, 27. Quanto Aputcerrima 
102, 12 ecc. vedi appresso. 

Uso dell'^. Una volta che questa vocale « ap- 
parisce nel latino medievale in modo quanto mai 

irregolare > e < si ha dove non dovrebb' essere, e 
in compenso, sebbene più di rado, manca dove sa- 
rebbe richiesto > (Rajna, pg. clxx), non farà certo 
maraviglia il trovare nel nostro un Bizantium 103, 7 
per un Byzantium. 

Uso del pk. (Rajna, pg. clxxij). Un ph 
perduto si ha in trihunfo 104, 34. 

Pongo qui in ultimo una serie di parole, intorno 
a ciascuna delle quali gioverà fermarci alquanto: 

Instoria (titolo). Regolare: /Tutoria; l'm sarà 
per analogia errata. 

dessideraverat 102, 5. Questo -ss- erroneo, che 
è pure ripetuto in remanssit 102, 23, dessiderium 
102 30, eonverssationem 102, 30, dtsscordiam 103, 1, 
cunssulerunt 103, 30, riflette sempre nel nostro cod. 
il -j- aspro. 

pulcerrima 102, 12. E la grafia regolare di tale 
aggettivo nel medioevo ; cfr. Rajna, pagg. clxxxvi -vìj. 
Vedi anche pulcerrimum 104, 14. 

set 102, 22. Salvò una volta sola, 103, 32, dove 



ioc A. PARDUCCI 

si ha un sz, si trova sempre scritto così ; del resto 
per il modo dì scriver questa parola nel medioevo 
cfr. Rajna, pg\ clxxxvìij. 

massime 102, 34. Il -ss- per -x- devesi al fatto, 
che * nel nostro ms. è puramente grafico e viene 
usato tanto per s sonoro quanto per ss: potevano 
quindi ss o s sonoro stare a loro volta per x. Cosi 
abbiamo pure: dusserat 104, 9. E troviamo sempre, 
e non altrimenti, usorem 103, o, usore 104, 2, usar 
104, 22 etc; e poi exelentia 102, 31, thexaurù 103, 
25, clauxit 104, 6. 

■unigenihim 103, 8. Il ed. scrive unita questa 
parola, ed è la grafia voluta nel medioevo ; cfr. Rajna, 
pagg. elv-vj. 

nichil 103, 16. Sul modo di scriver così que- 
sta parola, come pure michi ioi, 13 e passim, nessun 
dubbio: è tale sempre la grafia medievale; cfr. Thu- 
rot, op cit. pgg. 142 e sgg.. 

quùquid 104, 25. Tale è la grafia del medio- 
evo; cfr. Rajna, pg. clxij. 

Incongruenze: peregrine-rum 101, 15, peìegrinis 

101, 18; alliis 102, 24, aliis 104, 29; induta 102, 25, 
inditela 105, 4; admirantes 102, 28, amirans 105, 8; 
Merchatores 102, 38, Mercatore* 103, 30; massime 

102, 34, ma poi sempre maxime 103, 4, maximis 

103, 25 etc.; ornata 103, 11, ma hornamenta 104, 
14; dusserat 104, 9, duxerunt 104, 17; prohibitos 
102, 33, proibitatis 104, 30, probitatem 104, 32; /»»- 
peratoris 103, 7, ma poi sempre /nfierator 103, 1; 
Inperatore 103, 2, etc.; Constantino 101, 1, etc. ma 
Costantinum 105, 18, etc. e Costantinopoli™ 103, 6, 
Costantinopolitani 105, 14. 

Amos Parducci. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 



INSTORIA HELENE 
MATRIS COSTANTINI INPERATORIS 

QUS RKQB1SIVIT CRUGBM DOMINI NOSTRI JESIJ Christi (*) 



Anno Domini 305, Inperatore Constai tino, Rex Britanìe fi- 
liam habebat nomine Helenam, quam procurabat nuptui tradere 
ut morìs est. Accidit autem ut multi fideles chrìstianì in Civi- 
tate Regia sociarentur ut ìrent ad vìsitanda corpora Aposto- 4 
lorum. Quod audiens puela, cum esset Christian issi ma, ad 
eadem vota ita conversa est, ut, deposita puellaris verecundie 
reverentia, patri suum manifestaret omdum(i), dicena: « Pater, 
rogo vos propter Dcum ut cum honore vestro et meo pu- s 
dorè permittatis, ut vadam ad Apostolorum memoriara, de- 
votionis causa, cum istis usque Romani ». Pater autem ait : 
< Filia, cogitavi et disposili tradere nuptui honorifice sicut 
amplius poterò. Tunc gaudebo quod cum honore tuo im- 11 
pleatur devotio tua, quia in hoc statu tuo nec esset michi ho- 
nore (2) nec persone tue securitatis >. Siluit illa. Appro- 
pinquante autem anno recessus peregrino rum, iterum illa ad 
Regem similia replicat. Rex autem magis aspere respondit, i& 
dicens : « Cum virum habueris votum (3) tuum, milkiam, sum- 
ptus et consilium tibi procurato >. Iterum volentibus pe- 
legrinìs recedere, hec eadem tertio cum reverentia ad patrem 
religavit. Pater autem exasperatus mìnas graves et penas *> 
interminatus est. Tunc illa adiuravit unam ancitlam suam de 
secreto tenendo, et procuravi! ut haberet sciavi nam secreto et 
virìles vestes. Et die quo recessuri erant, assumpto auro et 
argento et alliis prò sumptibus que portare poterant, occulte 14 
exiens induta virili habitu, inmiscuit se eis, dicens : « Ego 
volo venire Romani vobiscum >. Ivit cum eb incognita 
quod esset femina usque prope Romani. Cum autem dice- 
rent sodi: * Hodie erimus in Roma»; ìpsa prosumptuose cum fi- »s 



(•) S:U mi. P. quanta è éttto a pr. oc, noia j. 
ma parie propria chi ji debba ttggtrt casi. (a) ■ 

era ilota tcrtita volunm ; poi il prime a fu «/mi 



ioa A. PARDUCCI 

dens (i) de se nulli cognita, cogitavit lassa, fati gala et affitta ; 
« In nemore, si fontem invenirem, libenter lavarem me *. Et, 
dimissis sociis, sola declinavit a strata. Et videns virorem 
4 herbarutn et arbusto rum, ini vi t fontem amenum et perspicuum; 
rircumspitìens vero et neminem videns, sicut dessideraverat, 
voluit lavari. Et, descrimìnata capillis suis, lavabat se et re- 
frigerebatur. Et ecce a casu Constans Inperator venebatur 
* cum militibus suis in ìlio nemore. Et cum solus deci i nasse t 
a militibus suis et lunge vìdet liane, resolutìs crinìbus, et mu- 
lierem esse cognovit. Quam cum vidìsset, illa pre verecun- 
dia se occultare et dissimullare volente, cum esset corpore 
" pulcerrima, appropinquans dixit : « Scio prò certo quod sis 
mulier et credo quod nobillis genere. Rogo quod cumsen- 
tias michi, quia, secundum verìtafem, ego sum Inperator et 
faciam tibi multa bona. Et possum facete >. Illa videns 
16 et timens non posse fugere, plorans dixit : < Si contingat me 
inpregnarì, quis credet michi? > Tunc Inperator dedit illi 
anullum digiti sui et virgam inperialem, quam habebat, dicens : 
In istis credetur tibi ». Inpregnata est ergo, et recessi t 
« Inperator querere milìtes. Ingressa est hec Civitatem et, in- 
ventis sociis, visitavi! devotionis loca. Sentiens vero ventris 
inmutationem noluit repatriare cum sociis set, declinans in 
unum hospitium, Rome remanssit apud quandam honestam 
H matronam hospitatricem et stabulari ani usque ad partum suum. 
Natum puerum batizari fecit et Constai) tinum vocavit ipsum 
quem informavit optimis moribus. Crevit igitur puer omnibus 
ignotus quantum ad patrem, omnibus gratiosus in aspetu pulcri- 
;8 tudiuis et in omni morum probi tate, ut omnes admirantes dice 
rent : * Vere hic (a) ex nobili progenie natus est ». Erat enìm 
cor eius et dessiderìum ad converssationem cum nobilibus, ad 
equos, ad arma, ad dominationem cum tanta exelentia, ut orn- 
ai nes coetanei semper in solaceis (3) vellent eunt habere prinripa- 
lem. Erat igitur nota eius urbanìtas et probitas {4) non solum 
puerilis (5) coetaneis, sed omui populo et massime nobilibus ila 
ut in omnibus conviviis et miliciis suis iuberent eum esse pre- 
36 sentem propter gratiositatem suam. Cum autem factus esset 
adolescens etate annorum quindecim vel circa, persona et pru- 
denza superabat etatem. Cogitaverunt quidam Merchatores 



loititmta dalla lutarne carretta. (1) Dopo hlc era italo 

st die vernile etpanlo. (3) Corr. solagli» (4) Il 

coi. prohlbltu, e fatila parala tette molla da fare al noitro teriltore, avendo 
utalo anche proibitali». Che foue tratto in et tare dal crederlo un derivato 
di prohlbeo t (j) Corr. puerlllbiu. 



LEGGENDA DI COSTANTINO 103 

Romani : < Inperator noster magnani disscordiam habet (l) cum 
Inperatore Grecorum. Iste puer in aspetu et gratiositate 
videtur probabiliter filius Inperatoris. Ipse videtur ita tra- 
tabillis, quod facili ter possimus eutn decipere maxime quia 4 
ignotus est. Preparemus igitur inspirisi iter imam navem et 
in habitu inperìali (a) ducamus eura nobiscum C ostati tinopo- 
lim vel Bizantium dicemusque : « Nos sumus legati Impera- 
toris Romani. Ipse misit filiutn suum unigenitum nobiscum, S 
ut si voluerìs dare filiam tuam com tantis opibus usorem, 
pacem firmabit (3) tecum in perpetuum ». Cogitaverunt'et fe- 
cerunt. Preparata (4) igitur navi et ornata purpura regali, vo- 
cato puero qui Constantinus vocabatur, traxerunt eum ad na 11 
vem et dixerunt ei: < Nos faci mas te dominimi nostrum 
et te induemus sicut regem et erìs dominus navis, tantum 
ut venias nobiscum. Et faciemus te magnum dominum ». 
Ille autem, quia nichil audebat nec consueveral lacere sine iS 
consensu matrìs, respondit: « Volo dicere matti mee ». Illi 
autem rum quia videbant eum non aliter inclinare ad domina- 
tionem tum ad cautellam suam levaverunt velam sue navis. 
Et navigantes induerunt eum regali ter et omnes obediebant «1 
eum usque prope Bizantium. Tuiic miserunt es ipsis legatos 
ad Inperatorem Grecorum secundum tenorem precedentem. 
Qui, missis baronibus suis ad navem, viso puero, crediderunt 
et senserunt. Data igitur puella et desponsata eum magna 24 
leticìa totius inperii et maximis thexaurìs, mater autem puelle 
cogitans quod etiam magne prìncipisse aliquando indigent 
pecuniam, viliorem tunicam, quam dedit filie, ad cautellam to- 
tani intexuit lapidibus preciosis. Reliqui autem barone? sin- '9 
gularìter maxima dona obtulerunt. Navigantes autem, eum 
essent inn alto mari, cunssulerunt Mercatores ad invicem anbos 
submergere et riatterò divicias illas prò se. Tunc inter eos 
unus ait: « Isti anbo innocentes sunt; non occidamus eos set ai 
ponamus eos in scafa sine regimine eum vilioribus vesti* 
mentis quam habent : mari:; innundatio concutiet eos et ino- 
rie otur omnino ». Et ita fecenint. Cum autem alio soli 
in navichulla essent et navis rederet (5), dixit puella cui relinque- 3* 
rant vestem illam viliorem: « Noli ttme ,6) hominem (7), nos inno- 
centes sumus: Deus adiuvabit nos. SÌ evaserimus satis ha 
bebimus ». Et Deo volente, sine victu et gubernatore, in- 

-ouo, xet imargme dei codice. (z) 77 cod. porta 

(3) H h di firmabi! non è 6m chiaro; potrebbe 

V. U) t-K eipunto mi I clic li era indebitamente at- 

a di Preparata. (5) Sarà da correggere redlret, « fare 

lettere la mtttattaii. (6) Coir, timen. (7) Corr. 



104 A. PARDUCCI 

plicuerunt (0 iiscoliines (a) ad litus romanum (3). Quod cognos- 
sens Constantimis ex disposinone regionis, pervenit cum usore 
a domum matris. Mater autem, quia poslquam recesserat in 
mortis angustia fiierat, nessiens aliquid de filio suo audiens 
necem eius qui revixit (4). Set videns secum mulierem timens 
ne esset mala mulier, clauxit hostium clamans et uulans (5): 
<Hunc(6), latro, non intrabiscum meretrice*. Constantimis au- 
tem, blande respondens, vix potuit cara placare usqueadauroram. 
Mane autem facto, espirata est mater, tristis quia (7) usorem dus- 
serat . Videns autem puella domum paperculam (8) et se dece- 
ptam cognossens, quia iam diligebat eum, confortata est in Do- 
3 mino. Et accipiens magnani quantitatem gemarum, quas ha 
bebat, dedit viro suo, dicens (9) : < Noli timere set vade et ente 
pulcerrimum palatium, equos, vestes et simìlia homamenta ». 
Quo facto et cognito que erat mulier et quod fuerat nego- 
16 tium, mater consolata est ; et ex tunc celantes negotium, om- 
nibus admirantibus, vitam regalem duxeriint. Et ex tnnc 
mater, quia optime sciebat manibus opcrari, quod et sibi usque 
tunc utile fuerat, defitiente auro, quod de domo patrìs sui tn- 
" lerat, incepit facere prò se unam vestem regalem rrfirabilHs 
testure et apparatus et aliam prò nuru sua. Cumpletis ve- 
sti mentis, defonta est usor Inperatoris. Veniente Imperatore 
Romani, qui diu abfuerat, dixit mater Costantino, filio suo: 
34 < Ecce, Inperator venturus est. Cives Romani honorìfice 
obviantes susclpient eum. Tu ergo stude quicquid facere 
poteris et sciveris, si unquam scivisti talia facere, ut senper 
ante faciem eius probitatem et curiali tatem et industriali: 
af tuam ostendas ». Procuravit igitur iste quatuor equos 
optimos et procedens cum aliis militibus obviam Inperatori, 
in equis suis sucessive militans, talia signa festivitatis, proibi- 
tatis et industrie continuando monstravit ante faciem Inpera- 
3» toris, ut Inperator delectaretur et miraretur probitatem eius. 
Et interogans de eo nullus dedit ei indilium noticie sue suffi- 
ciens. Introdutus autem Inperator cum magno trihunfo, voca- 
tum(io)illum et invi tavit secum ad prandium, ut posset habere 
s. Ille autem respondit: « Domine, libenter cum 



(1) Sarà da cerrtggtrt appli 


oerun 


: ' ti accattarono', • approdarono 


■ Wi'i 


per r II, te km 


e »n puro e- 


Tvrf dei copula, sarà dovuto 


air oscOla 


ione, che 


li naia fiunr » 


i tot. classico 


; cfr. 


Parodi in stmi/ Hai. di 


JU. class. 


. 3«S 'Kg- 


(3) Prima era 










(4i Q-i. probabilmente, il te 




motto: ilperiodo non è 






alnUiu. (S) 




(7) n 


cod. peri ha rhiaram 


mie qua. 


|8) Corr. 


pauperculam. 


(9) Da principio 


ra italo scritto dldlce 


■; poi il primo di/* 


eipunlo. (IO 


n tetto qui 


è corrotto.- corr. vocavit. 







LEGGENDA DI COSTANTINO 105 

gratiarum accionc ; tamen placeat vobis quod dicam hoc 
matrì mee, quìa non auderem aliter nisì de ficcntia matrìs 
mee >. Gavisus Inperator ait : « Placet quod mater tua 
ducas ad prandium tecum ». Mater ergo ìnducta (a) vestlbus * 
purpuratis euro nuni sua, cum domicellis et apparata tali cepit 
procedere. Quod omnes videntes, dìqebant : < Que est hec? » 
Processi t autem rumor in aulam ut omnes stuperent. Videns 
autem eam Inperator et amirans honorifice suscepit eam et 8 
dixìt : 4 Domina, rogo vos ante quarti comedamus ut dicatis 
michi que estìs et quis est pater huius filli vestii; quia prò- 
pter probi tatem suam intendo habere eum et vos >. Illa 
respondit : « Hic incognita sum ; tamen vere pater meus fuìt « 
Rex Britanie. Hec autem nurus mea est filia Inperatoris 
Costantinopolitani. Pater huius fili! mei est ille cuius sunt 
hec », ostendens anullam et virgam inperialem. Quam vi- 
dens Inperator, exclamavit : « Ante quam comedamus nutias 16 
celebremus ». Et desponsatam in conspetu omnium fecit 
eam Inperatricem, et celebrato convivio Costantinum suscepit 
in filium. Hec est Helena Costantini mater, que requisivit 
crucem Domini et invenit. Amen. *> 



SULLA FORTUNA DELL'ARIOSTO 
IN FRANCIA 



Da un ampio studio eh' io intenderei d' intrapren- 
dere sulla fortuna dell' Ariosto in Francia stacco, per 
ora, un modesto capitolo (i). Il resto verrà poi a suo 
tempo, quando avrò l'agio di rintracciare in biblio- 
teche nostre e straniere certe opere che in mancanza 
d' altro pregio hanno quello di essere divenute raris- 
sime. È dunque, come al solito, la carità del natio 
loco, che mi spinge a « riunire le fronde sparse » 
e valga anche per me la scusa di messer Lodovico 
al cardinal Ippolito, sul poco eh' io offro ai lettori 
di codesta rivista. 

Che al Voltaire le ottave dell'Ariosto dovessero 
garbare ben più di quelle del Tasso è facile a com- 
prendersi. Eravi in entrambi qualche somiglianza 
di temperamento nello stile scherzoso e pungente e 
nel modo di giudicare le cose divine ed umane. 
Però, mentre lo scrittore italiano si divertiva a pi- 
gliar a gabbo i fantasmi cavallereschi, che sbucavano 
dal suo cervello e dalle antiche storie, l' enciclopedista 

(0 Un altro. Le Furioso, aans la Htteralttre dramaNaue 
Jraitfaise, sarà fra poco pubblicato dal BulUtin itati**. 



io8 P. TOLDO 

non dimenticava che ogni sua opera doveva tendere 
ad uno scopo, il rinnovamento della società laica e 
la vittoria sulla superstizione. L'argenteo regno 
della luna in cui il cavalier Astolfo scopre tante 
cose stranissime, e che ricorda la zucca del Folengo 
e il tempio eretto dal Rabelais alla sacerdotessa Bac- 
buc, appariva al Voltaire — come vedremo fra poco 
— il luogo più adatto per rilegarvi le stramberie dei 
filosofi che l'avevano preceduto; e le donne del Fu- 
rioso dello stampo di Fiammetta, ben s'accordavano 
colle eroine dell'autore dì Candido Pottimista. Certo 
il Tasso non mancava di pregio e il Voltaire lo ri- 
conosce in vari luoghi, ma come mai il superbo de- 
molitore di ogni culto e di ogni fede avrebbe potuto 
ispirarsi al cantore del pio Buglione e del Mondo 
creato? 

Il culto del Tasso fu, sino al finire del XVII 
secolo, più vivo in Francia di quello dell' Ariosto ; 
ma sarebbe esagerazione il dire che il poeta ferra- 
rese fosse per questo dimenticato al di là dell'Alpi. 
Già nel XVI secolo egli ispira largamente i poeti 
della Pleiade dal Ronsard al Du Bellay(i) e le sue 
satire e le sue commedie sono sfruttate dai discepoli 
del Regnier e del Iodelle. Numerose e importanti 
sono pure le ispirazioni drammatiche che dal Furioso 
trassero il Gamier, il Bauter, il Billard, il Mairet, il 
La Fontaine, Tommaso Corneille e parecchi altri an- 
cora. Minor fortuna incontrò egli invece presso i 
poeti epici. Cantare la Franciade con lo stile bur- 
levole del Furioso doveva parere più che sconveniente 
al grave Ronsard, che alle bizzarre fantasie ariostee 



(i) Cf. a questo proposito quanto egregiamente scrive il 
signor Vianey intorno al Ronsard nella Revue des langues ro- 
mane* (XLVIII, 9-10) e nel BulleHn i/alien (Amiate de la Fa 
calte des Leitres de Bordeaux, luglio e dicembre 1901) la dove 
discorre delle Antiquitez de Rome del Du Bellay, e de l'Ario- 
ste et la Plèiade. 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA 109 

preferì i papaveri d'una musa pseudo-classica e che 
non capì doversi fra i generi letterari evitare sopra- 
tutto il noioso. Ed è purtroppo a codesto genere che 
si conformano Sebastiano Garnier nei suoi poemetti La 
Henrtade e La Loysséc ( 1 5 93) il Chapelain nella PuceUe, 
il Desmarest in Clovis ou la France Chrestienne e via 
dicendo. Neil' opera del Garnier v'è forse qualche 
traccia della Gerusalemme ma, del Furioso, non sa- 
prei trovarla, a meno di riputarne indìzio talune si- 
militudini di cani ringhianti e di tori infuriati e il 
frequente ricordo dei paladini e delle loro imprese. 
Il Chapelain segue senza alcun dubbio il Tasso e 
dell'Ariosto non si cura affatto; il Desmarest invece 
imita 1' uno e 1' altro ed al secondo attinge nel de- 
scrivere il palazzo incantato del mago Auberon. 
Questi, a simiglianza di Atlante, suscita fantasmi che 
hanno parvenza di persone vive, e Clodoveo, come già 
Orlando, crede di scorgere colei che ama, nelle braccia 
d' un rivale sicché li insegue minacciando ed erra 
allucinato dietro le vane immagini. Ricordo pure 
le descrizioni minuziose degli eserciti, comuni del re- 
sto anche al Tasso, le divinazioni genealogiche, i 
corpi impenetrabili, i colpi meravigliosi e la lancia in- 
cantata della bella Albione, che come quella di Bra- 
damante, fa a quanti tocca vuotare la sella. E il 
Clovis si chiude a un dipresso come il Furioso, col 
combattimento dei due più formidabili avversari. 
Roggero manda a bestemmiar nell'Averno e l'alma 
sdegnosa » di Rodomonte e 

Clovis sur Alaric jette un oeil de mépris. 

Va, dit-il, aux Enfers, une vaine et traistresse, 

Ennemy de man Maistre, amant de ma Princesse. 

Le Gotti est estendu, près du Roy glorieux, 

Mesme après le trepas il semble furieux, 

Et l' on remarque encor, sur son visage b lesine, 

Son invincible orgueil, qui survit à lui -mesme. 

Alarico è anche in questo simile all' eroe del- 



no P. TOLDO 

l' Ariosto, del quale « più orgoglioso, non ebbe mai 
tutto il mestier dell'arme ». 

Nello stesso periodo classico e dal rigido dittatore 
del movimento letterario francese del XVII sec. è 
latta menzione onorevole dello scrittore italiano. 
Boileau nella sua satira alla donna, satira incolore e 
ricalcata su quella di Giovenale, volendo citare un 
esempio più decisivo ancora di Messalina per dimo- 
strare la lussuria femminile, ricorda Gioconda, e il La 
Fontaine non si limita ad encomiare il sommo fer- 
rarese, ma a lui domanda l' argomento di tre sue no- 
velle, nonché di una commedia scritta in collabora- 
zione del Champmeslé, e dichiara d' andar pazzo per 
Ini (i). 

Tutto questo prova che non fu il Voltaire che 
scoprì 1' Ariosto ; ma il grande onore che questi rice- 
vette al di là dell' Alpi nel XVIII secolo è certo in 
buona parte dovuto all'autore della Pucelle. E 
dico all'autore della Pucelle perché in questo poema, 
più che negli altri suoi scritti, il filosofo francese pare 
ricordarsi del Furioso. 

Già fra le due opere v'è, in parte, quella rela- 
zione testé indicata fra i caratteri dei due scrittori, 
ma la Pucelle discende molto più in basso e diviene 
parodia a volte triviale, sempre invereconda di chi 
morì nobilmente per la sua patria e per la sua fede. 

Gli è così che dalle scherzose fantasie dell'Ario- 
sto trae il Voltaire armi pungenti contro la fanciulla 
d'Orléans, a cui sino dai primi canti, attribuisce le 
libere avventure dì Angelica. Giovanna d'Arco è 



(i) faconde (furioso, XXVUI), VAuneau de Hams Carnei 
(5 Satira) e la Coupé enchantee, novella e commedia {Furioso, 
XLII1). Reinhold KòHLBR ricordò già nell 1 Archili fùr Lit- 
teraturgeschiehte dello Schnork (Lipsia, 1876, 5* voi.) una ispi- 
razione Ariostea di Jacques de la Taille, Eine Stelle in Ario- 
sto! Orlando Furioso und Naekakmungen derselòen. 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA m 

insidiata dal cordelier Grisbourdon e da lui tentata 
nel sónno, a un dipresso come la galante principessa 
del Catai caduta fra le braccia del pio eremita 

Ch'avea lunga la barba a mezzo il petto, 
Devoto e venerabile d'aspetto. 

Tiro maligno dell'enciclopedista francese, che così 
mette in un fascio la pagana e la cattolica, la mon- 
dana e la pia martire ! 

Nell'imbastitura dei due poemi trovasi un altro 
punto di contatto notevolissimo, perché i canti della 
Pucelle, come quelli del Furioso, cominciano con 
un ragionamento, specie d'esordio più o meno in 
stretta relazione con quanto l'autore aveva esposto 
nel capitolo precedente. E prima ìl Voltaire esalta 
lo stato virginale (ma non è il caso di prenderlo 
troppo sul serio), poi il valore e la bontà de' cava- 
lieri antiqui, e nel principio del 4 canto considera 
quanto conviene a retto principe, nel 5 discorre 
delle vanità umane, nel 6° dei vizj che sconvolgono 
il mondo, e in cotal guisa giunge al decimo, in cui si 
dichiara arcistucco di tale sistema e deciso ad abo- 
lire per sempre colali introduzioni : 

-Et quoi ! toujours clouer une preface 

A tous mes chants? La morale me tasse. 

Ma non fidiamoci troppo di tale dichiarazione, 
per quanto quella riguardante la morale possa essere 
conforme al vero. Al principio del XJI canto il 
poeta si pente e ritorna agli esordi: 

J'avois juré de laisser la morale, 

De con ter net, de fair de longs disooun, 

Mais que ne peut ce grand dieu des amours? 

Ed eccolo di bel nuovo € à clouer des préfaces », 
non certo così graziose come quelle del suo prede- 
cessore italiano e raramente appropriate al soggetto. 



US P, TOLDO 

Chi avesse ancora qualche dubbio siili' ispirazione 
arìostea non ha che a volgere lo sguardo al cielo e 
vedrà apparirvi l' asino meraviglioso che Saint Denis 
concede a Giovanna D'Arco ed ai suoi difensori. 
Quel!' asino possiede ali e volo rapidissimo non meno 
dell' ippogrifo e l'autore non tace il luogo da cui 
l'ha tratto: 

Ce beau grison deux aiiea possédoit 

Sur sos échine, et souvent s' en servoit. 

Ainsi Fégase, au haut des deux collines, 

Portoit jadis neuf pucelles divines ; 

Et l'hìppogriffe à la lune volant, 

Portoit Astolphe au pays de saint Jean. (C. II). 

Né qui finisce la reminiscenza del viaggio di Astolfo 
nel paese « chiaro e giocondo >, in cui penetra sotto 
la guida del santo Evangelista, sul carro tratto da: 

Quattro destrier via più che fiamma rossi. 

San Dionigi farà intraprendere lo stesso pellegrinag- 
gio al frate Lourdis 

Devere la lune où fon tient que jadis 
Etoit place des fous le pantdìs . . . (C. Ili) 

Ad Astolfo l'apostolo avea mostrato grandi mera- 
viglie: tutte le vanità umane, il tempo perduto, le 
tumide vesciche rappresentanti corone e glorie pas- 
sate < comme l' ombre et corame le vent », secondo 
l'espressione di Vittor Hugo, erano là ai piedi del 
duca francese e con esse « in ghirlande ascosi lacci » 
e mantici da cui sgorga un inutile fumo e « serpi 
con faccia di donzella » e la donazione € Che Co- 
stantino al buon Silvestro fece >. Nella descrizione 
del Voltaire c'è di questo assai, con altri ricordi 
del Folengo e del Rabelais. La luna appare al 
frate illuminata da fuochi fatui, in cui errano spi- 



SVLL' ARIOSTO IN FRANCIA 113 

ritelli maligni. Ivi risiede qual regina la Sottise, 
circondata da astrologhi 

Sflrs de leur art, a tous momento décus, 
Dupes, fripons, et partant toujours crus. 
C est là qu' on voit les maìtres d' aìchymie 
Faìsant de l'or et n'ayant pas un sou. 

In quel paradiso degli sciocchi, crede il buon 
Lourdis di ritrovarsi ancora nel convento, e nella 
sua ingenua curiosità va contemplando i simboli di 
tutte le umane stoltezze : 

Traits d' étourdis, pas de clerc, balourdises, 
Projets mal faits, plus mal exécutés. 

Tutte le vanità là si danno convegno e in esse 
vivono i filosofi d'ogni tempo e d'ogni fede. Il 
quadro è pur sempre quello del poeta ferrarese, ma 
c'è qualcosa di più determinato, la satira alla reli- 
gione. Più avanti, nel XIII canto, ritorna il ricordo 
dell'Ariosto e del suo poema, con menzione partico- 
lare del viaggio nella luna e di san Giovanni Evan- 
gelista: 



Un autre Iean eut la botine fortune 

De voyager au pays de la lune, 

Avec Astolphe et rendit la raison 

Au paladìn amoureux d'Angélique. 

Rends - moi la mieone, o Iean second du nom 1 

Tu protegeas ce chantre aimable et rare, 

Qui réjouit les seigneurs de Ferrare 

Par le tìssu de ses contea plaisants ; 

Tu pardonnas aux vives apostrophes 

Qu' il t 1 adressa dans ses comiques strophes. 

Etends sur moi tes secours bienfaisans, 

J'en ai besoin; car tu sais que les gens 

Sont bien plus sots, et bien moina indulgens 

Qu' on ne 1' étoit au siede du genie, 

Quand l' Arioste illustroit l' Italie. 



114 P- TOLDO 

Omaggio giudizioso e sincero di uomo che non si mo- 
strò sempre tale nei suoi giudizi sugli scrittori fran- 
cesi e stranieri. 

Ma ritorniamo all'asino alato che passa dall'uno 
all'altro cavaliere come l' ippogrifo di Atlante, di Rug- 
gero e di Astolfo. Egli pure opera secondo il volere 
di una mente superiore e nella stessa guisa che la strana 
cavalcatura allontana, per suggestione del mago, il 
cavaliere dell' Ariosto dalla bella guerriera che per lui 
sospira, il baudet meraviglioso fa percorrere a Duoois 
miglia e miglia per impedirgli di cedere al suo af- 
fetto per Giovanna: 

Le boti Denis en secret conseilla 

Cette escapade à sa monture ailée. (C. V) 

Simile ad Atlante che precipita dall'alto sui guerrieri 
che osano accettarne la sfida, facendo volteggiare 
l'alato corridore: 

Come suol far la peregrina grue, 

Dunois prima percuote ed atterra il frate libertino, 
poi, nel suo lungo viaggio, scende d'improvviso, deus 
ex machina, a sostenere le ragioni degli oppressi in 
terra. Nel Furioso, Ruggiero giunge siili' ippo- 
grifo all' isola del pianto, là dove Angelica sta per 
esser divorata dall'Orca marina, e libera la vaga 
fanciulla, legata al nudo sasso, senza neppure un 
velo in cui rinchiuda « I bianchi gigli e le vermiglie 
rose ». Ivi, Astolfo, sulla stessa mirabile cavalca- 
tura, caccia le Arpìe che infestano la mensa del 
Senàpo, penetra nell'inferno e detta legge ai su- 
perbi. Alla sua volta Dunois « sur Tane volant », 
giunge, dopo aver corso varie avventure, a Milano 
e vede preparato un rogo su cui gli inquisitori e 
l'arcivescovo vogliono ardere la giovane Dorotea. 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA 115 

Costei è rea di avere ascoltato le promesse di amore 
del signore di La Tremouille, costretto poi ad abban- 
donarla, quando essa stava per divenire madre. 
L'arcivescovo tenta invano Dorotea, di cui è zio e 
che reputa, pel suo primo fallo, facile conquista. 
Dorotea lo respinge, inde irete e la denuncia all'in- 
quisizione. Dunois non frappone indugio, e, quale 
avvoltoio, precipita dall'alto sui carnefici e sui preti, 
sfidando a duello certo Sacrogorgon che ha osato 
sostenere l'accusa contro Dorotea. Sacrogorgon, 
in fin di vita, confessa la falsità sua e la nequizia 
dell'arcivescovo, e Dunois ha quindi la soddisfazione di 
poter consegnare viva e salva la bella Dorotea al fe- 
del cavaliere La Tremouille, accorso troppo tardi in 
difesa di lei. Questa storiella, pur conservando il 
carattere prettamente volteriano dell'anticlericalismo, 
ricorda altri episodi del Furioso, per esempio quello 
di Olimpia, che Orlando lìbera in simil modo, atter- 
randone i nemici e consegnandola all' amante Bireno. 
Anch'essa assicura il suo liberatore della fedeltà di 
colui che l'ha, per gravi ragioni, abbandonata: 

Io credea e credo, e creder credo il vero, 
Ch'amasse ed ami me con cor sincero. (C. IX) 

Ma ancor più stretta è la somiglianza con l'episodio 
di Ginevra, per cui combatte Rinaldo (IV, V), il 
quale uccide l' accusatore Polinesso < iniquo e fraudo- 
lento » e lo costrìnge a confessare prima di morire : 

La fraude sua che 1' ha condotto a morte. 

La legge di Scozia è in tutto uguale a quella degli 
inquisitori di Milano. Essa 

condanna a morte 
Ogni donna e donzella che si prova 
Di sé far copia altrui, eh' al suo consorte, 



n« P. TCTLDO 

a meno che non capiti alcuno che ne sostenga 1e 
ragioni con l'armi. Così Ginevra è liberata dal 

paladino, e da questo, come nel racconto francese, 
consegnata all'amante e sposo. 

Il canto IX della Puerile offre, a mio parere, al- 
tre tracce notevoli dell'influenza del Furioso. Il 
signor de la Tremouille con Dorotea e l'inglese Cri- 
stophe Aron del con la fida Iudith de Rosamore, 
ascendono, presso Marsiglia, la roccia di Sainte- 
Beaume. Ora questa roccia ha ricevuto da santa 
Maddalena la strana proprietà di cambiare l'amore 
in odio: 

Dont il advint que 1' Anglaise infidelle 
Au Poitevin tendit ses deux beaux bras, 
Et qu'Arondel jouit des doux appas 
De Dorothée, et fut enchanté d'elle. 

Ma la discesa dal monte fatato li fa tutti rinsavire, 
e vergognose del momentaneo oblio, le belle ritor- 
nano ai primi amplessi. Qui, se non m'inganno, 
s' ha negli effetti ed anche nella causa sopranaturale 
qualche cosa che rammenta le fontane dell'odio e del- 
l' amore, fontane il cui ricordo poteva giungere al Vol- 
taire per varie vie, ma che egli presumibilmente 
trasse dall'Ariosto. 

E questo hanno causate due fontane 
Che di diverso efletto hanno liquore, 
Ambe in Ardenna, e non sono lontane, 
D'amoroso disio 1' una empie il core; 
Chi bee dell' altra, senza amor rimane, 
E volge tutto in ghiaccio il primo' ardore. 
Rinaldo gustò d' una, e amor lo strugge ; 
Angelica dell' altra, e 1' odia e rogge. 

Né meno ariostea mi pare la descrizione di quel pa- 
lazzo d.v\Y Imagination, che nelle menti di quanti acco- 
glie suscita bizzarre fantasie ed allucinazioni, le stesse 
degli abitatori del castello di Atlante. Il mago del 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA 117 

Furioso si fa vedere a Ruggiero in sembianza di Bra- 
damante e ad Orlando con l'aspetto di Angelica e di 
Ferraù ; Brandìmarte, Gradasso, Sacripante scorgono 
similmente quel che non c'è e s' inseguono e s'acca- 
pigliano, « a questo inganno presi » : 

Una voce medesma, una persona 
Che parata era Angelica ad Orlando, 
Parve a Ruggier la donna di Dordona 
Che lo tenea di sé medesmo in bando. 
Se con Gradasso o con alcun ragiona 
Di quel eh' andavan nel palazzo errando, 
A tutti par che quella cosa sia, 
Che più ciascun per sé ama e desia. 

Lo stesso avviene nella Pucelle a Carlo VII, ad 
Agnese, a Giovanna, a Dimoia, a La Trimouille dei 
quali il Voltaire racconta < comment ... devinrent 
tous fous, et comment ils revinrent en leur bon sens 
par les exorcismes du R. P. Bonifoux ». Agnese 
insegue il padre Bonifoux, ch'essa scambia col suo 
amante e il reverendo dura non poca fatica a salvare 
il proprio pudore. Alla sua volta. La Trimouille 
ravvisa in Dorotea il nemico Tirconel e vuol fenderle 
il capo. Carlo VII si precipita nelle braccia del 
grasso Bonneau che scambia con Agnese ed Her- 
maphrodix se la gode mezzo mondo di tutto quel- 
l'intrigo indiavolato. Ma ogni bel gioco dura poco 
e l' acqua benedetta del pio monaco fa sparire il pa- 
lazzo e gli inganni infernali, come già, dopo la lotta 
con Bradamante, il castello d'Atlante s'era dileguato 
in nebbia. 

A questi punti più notevoli di simiglianza, altri 
se ne possono aggiungere, senza scendere a troppo 
minuti particolari. Mentre La Trimouille e Aron- 
dei si battono per le loro belle, queste sono rapite 
da altri. 

Ohi ohi dit le Breton; 

Dieu me pardowne, on nona a pris nos belles ; 



iiS P. TOLDO 

Nous nous donnona cent coups d'estramacon 
Très sottement; courons vite après elles. 

E ì due nemici partono assieme, riconciliati su- 
bito dal comune danno e pienamente fidenti nella 
reciproca cortesìa: 

Deux chevaliers qui se sont bien battus, 

Soit & cheval, soit à la noble escrime, 

Avec le sabre ou de longs fere pointus, 

De pied en cap tout couverts ou tout aus, 

Ont 1' un pour 1' autre une secrète estime... (C. IX) 

Si rammenti il discorso di Ferraù a Rinaldo, 
quando Angelica fugge, mentre essi per lei conten- 
dono < coi brandi ignudi », e l'apostrofe dell'Ariosto 
ai cavalieri antiqui, che, dopo i fieri colpi ed i feroci 
sdegni : 

per selve oscure e calli obbliqui 
Insieme van, senza sospetto aversi. 

Ricorderò inoltre il' terribile duello fra Chandos 
e Dunois, che viene nella Pucelle a metter termine 
alla guerra fra l'Inghilterra e la Francia, come già 
quello fra Rodomonte e Roggero nel' Furioso testé 
citato, per la probabile ispirazione trattane dal Desma- 
rest. 

Chandos s'esprime ancor più da eretico del fiero 
Rodomonte : 

Chandos mourant, se débattant en vain, 

Disoit encor tout bas : Fils de putaìn I 

Son coeur altier, inhumain, sanguinale, 

Iusques au bout garda son caractère. 

Ses yeux, son front, pleins d'une sombre horreur, 

Son geste encor menacoìent son vainqueur. 

Son ame impie, inflexible, implacable, 

Dans les enfere alla trouver le diable. (C. XIV) 

Infine, quasi per non lasciarci alcun dubbio sulla 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA 119 

sua ispirazione ariostea, il Voltaire ricorda ancora, 
nello stesso canto, il poeta italiano e finge di di- 
sperarsi, per non avere al pari di lui, documenti sto- 
rici, veridici e sicuri come la cronaca di Turpino: 

Oh ! qu* Arioste étala de prudence, 
Quand 11 cita 1' archevèque Turplnl 
Ce témoignage à son livre divìn 
De tout lecteur attira la croyaoce. 

Dalla PucelU alla Henriade il passaggio è brusco, 
ma noi lo faremo subito per rintracciare, anche in 
questa opera del Voltaire, nuovi influssi del Furioso. 

Nella Henriade il Voltaire tentò l' epica solenne, 
ma la sua natura era più di storico che dì poeta, 
più di ragionatore che d' artista, più di satirico che 
dì lirico. L' invenzione in lui appare quindi limita- 
tissima e quella parte immaginosa, che la cronaca 
del gran re non poteva suggerirgli, egli la trasse 
liberamente dalle epopee che avevano preceduto la 
sua e in modo particolare dalla Gerusalemme e dal 
Furioso. Senonché le parti ispiratrici non sono 
più quelle esaminate sin qui. Il suo poema era 
serio ed all' Ariosto egli chiedeva quel che dì serio 
poteva essergli offerto dall'opera sua. 

Prima imitazione parmi quella del viaggio di En- 
rico in Inghilterra. Questi, come Bradamante e 
meglio ancora come Ruggiero, riceve in guisa mira- 
bile la rivelazione del futuro. Tutti ricordano il 
naufragio dell' eroe ariosteo (cap. XLI), che, spinto 
e travolto dall' onde, giunge a una terra misteriosa, 
ove un eremita 1' attende: 

Il qual la notte innanzi avuto avea 
In vision da Dio, che con sua aita 
Allo scoglio Ruggier giunger dovea. 



E l' eremita accoglie il naufrago e squarcia per 



lui il velo del futuro, confortandolo alla nuova fede 






iso P. TOLDO 

ed al compimento del suo glorioso destino. En- 
rico IV è nella Henriade trascinato in simil modo 
dalla procella in luogo solitario, dove « le dieu de 
1' untvers » ha disposto perché venga accolto da un 
suo sacerdote « un vieillard veneratile », che gli ri- 
vela il futuro e l' induce ad abbracciare il catto- 
licismo : 

Ce Dieu vous a choisi. Sa mairi dans les combats 

Au tròne des Valois va conduire vos pas ... 

Mais si la vérité n' éclaire vos esprits, 

N' esperei point entrer dans les mure de Paris. (C. I) 

Né questo basta, perché nel settimo canto, come 
dice 1* argomento « Saint Louis transporte Henri IV 
en esprit au cìel et aux enfers et lui fait voir, dans 
le palais des destìiis, sa postérité, et les grands hom- 
mes, que la Franco doit produire », fra i quali il Vol- 
taire dimentica (non lo dimenticherà in altri casi) di 
mettere sé stesso. Il viaggio di San Luigi con 
Enrico sopra « un char de lumière » ricorda da vi- 
cino quello di san Giovanni Evangelista e di Astolfo, 
e gli amori del re per la vaga Gabriella e le guerre 
interrotte e indecise dalle avventure galanti degli 
eroi possono essere ispirate esse pure dal poema 
dell' Ariosto. Ma ai ricordi di questo accopptansi, 
in larga misura, quelli del Tasso, che in un'opera di 
codesto genere poteva parere miglior modello ed è 
dalla Gerusalemme che il Voltaire trae la parte ch'e- 
gli fa rappresentare alla dea della Discordia, (benché 
la Discordia tra i frati sia pur ricordata dai Furiose) 
come trae la descrizione delta Fama, nonché il modo 
con cui Mornay strappa alle dolcezze della nuova 
Armida, il suo nobil signore. 

Au fond de ces jardins, au bord d'une onde claire, 
Sous un myrte amoureux, asile de mystère, 
D'Estree à son amant prodiguait ses appas; 
Il Uuiguissait près d'elle, il brùlait dans aes bras. 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA lai 

Ma Momay appare, ed Enrico fugge la seducente 
bellezza, non senza però uno schianto di cuore : 

Plein de 1' aimable objet qu' il suit et qu' il adore, 
En condamnant ses pleura il en versait encore. 

La reminiscenza erra dai giardini d' Alcina a 
quelli d' Armida, ma in un certo femminile abban- 
dono, l'eroina del Voltaire par che s'accosti mag- 
giormente a quella del Tasso. 

Anche in Zadig, quel gioiello cui Gaston Paris 
dedicò alcune dotte ed eloquenti pagine col titolo 
l'Ange et Fermile (i), il ricordo del Furioso è vi- 
vissimo, e benché il sommo filologo francese non 
ne faccia cenno, ritengo eh' egli abbia dovuto accor- 
gersene. Infetti, parlando dell' accusa di plagio 
del poeta inglese Pamell mossa al Voltaire dal Fré- 
ron, il Paris soggiunge : < S' il avait été plus erudii, 
il aurait pu étendre ce reproche au roman tout en- 
tier. Chacune des historiettes dont il se compose 
avait été racontée en bien des langues, surtout orien- 
tales >. Ad ogni modo l'opera dell'Ariosto non è 
nominata,' mentre l' episodio che per questo romanzo 
ne trasse il Voltaire merita di venire esaminato da 
vicino. 

Narra il poeta ferrarese (e. XVI, XVII, XVIII) 
l' avventura seguente. Il valoroso Grifone erasi in- 
namorato di Orrigille, donna vaga di volto e perfida 
d'animo, la quale di lui beffandosi si dà in braccio 
al vile Martano, perché tinto come lei della stessa 
pece. Ora, i due degni amanti, mentre cavalcavano 
verso Damasco ove s'apprestava splendido torneo, 
incontrarono Grifone ; sicché Orrigille, per evitare a 
sé vergogna e danno a Martano che già cominciava 
a tremare in sella, corse incontro al primo amante 



(i) Vedi la sua Poesie au moyen àge. Parìa, 



im P. TOLDO 

abbracciandolo teneramente e presentandogli il com- 
pagno, quale fratello carissimo. Grifone ingannato 
dal dolce favellare della scaltrita femmina, fa acco- 
glienze oneste e liete a Martano e con loro giunge 
a Damasco, ove il re Norandino aveva preparato 
grandi feste per celebrare le sue avventurose nozze. 
Era prezzo della giostra un'armatura, trovata a caso, 
alla quale il re avea aggiunto splendida sopravveste 
e perle e gemme ed oro. Martano, dimenticando 
per un momento il suo animo di coniglio, entra nel- 
l'arringo, ma poi vedendo cadere un guerriero col- 
pito a morte, teme per sé la stessa sorte e malgrado 
le esortazioni di Grifone si mette a fuggire, fra le 
risate della folla : 

Il batter delle mani, il grido intorno 

Se gli levò del populazzo tutto. 

Come lupo cacciato, fé ritorno 

Martano in molta fretta al suo ridutto. 

Resta Grifone, e gli par dello scorno 

Del suo compagno esser macchiato e brutto. • 

Esser vorrebbe stato in mezzo il foco 

Piuttosto che trovarsi in questo loco. 

Che poteva fare Grifone fuorché spingersi contro 
i cavalieri avversari colla lancia in resta? Così fece 
e ben presto tali furono le prove del suo valore 
che un unanime grido lo proclamò vincitore della 
giostra. Ma non per questo il giovane si rallegra 
e reputandosi ancor vilipeso dalla viltà del compa- 
gno, esce coli' iniqua coppia, e nel più profondo si- 
lenzio abbandona Damasco. Ma così non la pen- 
sava Martano, desideroso delle ricche gemme e del- 
l'armi preziose offerte al vincitore; per cui profit- 
tando del sonno del compagno ne veste i panni e 
l'arme, ne inforca il destriero e presentasi al sovrano. 
Re Morandino fa le migliori accoglienze a 

Colui eh' indosso il non suo cuojo aveva 
Come l'asino già quel del leone 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA 133 

gli dà il premio stabilito e vuole per di più averlo al- 
lato con Orrigille superba di tanto onore. Intanto Gri- 
fone destasi, scopre il duplice inganno della simulata fra- 
tellanza e delle vesti involate, e pieno di rabbia trovasi 
costretto a prender l'armi e il cavallo di quel vilis- 
simo ingannatore. A lui, reputato il vinto del 
torneo, venivasi preparando in questo tempo e per 
consiglio dell' iniqua coppia, una crudele beffa. 
Giunto che fa a Damasco, eccolo trattenuto fra due 
ponti ed esposto ai dileggi della moltitudine. I 
nuovi insulti accrescono il furore divampante già 
nell'animo del guerriero, che vedesi trascinato per 
ludibrio in piazza su un carro tratto da giovenche, 
circondato da « Vecchie sfacciate e disoneste putte » 
e da fanciulli che lancianglì sassi. Tosto che 
ha le mani lìbere, Grifone afferra la spada e lo 
scudo e lanciasi contro i suoi persecutori con tale 
impeto che per poco l'esercito di Morandino ne sa- 
rebbe distrutto, ove alle forti imprese del prode non 
seguissero le necessarie spiegazioni. Naturalmente 
Martano viene punito, ma da altra mano e per quella 
stessa armatura che avea sottratto al valoroso com- 
pagno. 

Nel XIX cap. di Zadig parlasi di un torneo ban- 
dito da Astarte regina dì Babilonia, perché a lei 
fosse dato di ritrovare un degno sposo, antica leg- 
genda questa rimaneggiata in infinite guise. Ma la 
prova dell'armi non era riputata sufficiente per chi 
doveva essere prescelto a re di Babilonia: egli do- 
veva dare pure prove di saviezza sciogliendo, novello 
Edipo, intricati enigmi. L'agone è aperto, la re- 
gina, la corte e il popolo guardano e attendono. 
Ma lasciamo la parola a Voltaire, che ben diffìcilmente 
potrebbe trovarsi miglior narratore di lui : « Le pre- 
mier qui s'avanca était un seigneur très riche, nommé 
Itobad, fort vain, peu courageux, très mal adroit et 
sans esprit. Ses domestiques l'avaient persuade 



134 P. TOLDO 

qu' un homme comrae lui devait ètre roi ; il leur avait 
répondu: Un homme comme mot doit régner; ainsi 
on l' avait arme de pied en cap. Il portait une 
armure d' or émaillée de verd, un panache verd, une 
lance omée de rubans verds. On s'apercut d'a- 
bord, à la manière dont Itobad gouvernait son che- 
vai, que ce n' était pas à un homme comme lui que 
le ciel réservait le sceptre de Babylone. Le pre- 
mier chevalier qui courut contre lui le désarconna ; 
le second le renversa sur la croupe de son cheval, 
les deux jambes en l'air et les bras étendus. Ito- 
bad se remit, mais de si mauvaise gràce que tout 
l' amphithéàtre se mit à rire. Un troisième ne dai- 
gna pas se servir de sa lance; mais en lui faisant 
faire une passe, il le prit par la jambe droite, et lui 
faisant faire un demi -tour, il le fit tomber sur le sa- 
ble ; les écuyers des jeux accoururent à lui en riant, 
et le remirent en selle. Le quatrième combattant 
le prend par la jambe gauche, et le fait tomber de 
l' autre c6té. On le conduisit avec des huées à sa 
loge, où il devait passer la nuit selon la loi, et il 
disait en marchant à peine : Quelle aventure pour 
un homme comme moi! » 

Abbreviando, ecco Zadig eotrare a sua volta nel- 
l' arringo e dare siffatte prove di gagliardia, che tutti 
ne stupiscono e l'applaudono e la regina mostrasi 
lieta che la fortuna le dia un tale consorte. Zadig 
si ritira egli pure e vinto dal sonno « dormit, quoi- 
que amoureux, tant il était fatigué. Itobad qui 
était couché auprès de lui, ne dormìt point. Il se 
leva pendant la nuit, entra dans sa loge, prit les 
armes blanches de Zadig avec sa devise et mit son 
armure verte à sa place. Le point du jour étant 
venu, il alla fièrement au grand mage déclarer qu'un 
homme comme lui était vainqueur. On ne s' y at- 
tendai pas; mais il fut proclamò pendant que Zadig 
dormait encore. Astarté surprìse, et le désespoir 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA 135 

dans le coeur s'en retouma dans Babylone. Tout 
l' amphithéàtre était presque vide, lorsque Zadig s'é- 
veilla; il chercha ses armes, et ne trouva que cette 
armure verte. Il était oblìgé de s' en couvrir, 
n' ayant autre chose auprès de lui, Etonné et in- 
digné, il les endosse avec f ureur ; il avance dans cet 
équipage. Tout ce qui était encore sur l' amphi- 
théàtre et dans le cirque le recut avec des huées. 
On l'entourait ; on lui insultait en face. Jamais 
homme n'essuya des mortifications si h umiliali tes. 
La patience lui échappa ; il écarta à coups de sabre 
la populace qui osait l'outrager, mais il ne savait 
quel parti prendre ». 

Vinto dalla disperazione, abbandona il campo, ma 
ritrova l'angelo inviatogli da Dio e per suo consiglio 
(cap. XXI) fa ritorno a Babilonia, sostiene esser egli 
il vincitore del torneo e, incoraggiato dalla regina, 
vince il ridicolo e presuntuoso avversario, prima scio- 
gliendo gli enigmi e poi sfidandolo a singoiar ten- 
zone. € Illustres seigneurs, dit Zadig, j'ai eu l'hon- 
neur de vaincre dans la lice. C'est à moi qu' ap- 
partieni l' armure bianche. Le seigneur Itobad 
s' en empara pendant mon sommeil ; il jugea appa- 
remment qu' elle lui siérait mieux que la verte. Je 
suis prèt à lui prouver d'abord devant vous, avec 
ma robe et mon épée, contre toute cette belle ar- 
mure bianche qu'il m'a prise, que c'est moi qui ai 
eu l'honneur de vaincre le brave Otame. Itobad 
accepta le défì avec la plus grande confìance ... il 
s'avanca sur Zadig comme un homme qui n'avait 
rien à craindre »; ma Zadig non dura fatica alcuna 
ad atterrare l'imbelle avversario che, disarmato, spo- 
gliato e deriso, « alla se faire appeler monseigneur 
dans sa maison ». 

Il lettore avrà avvertito la somiglianza sostan- 
ziale fra i due racconti e le varianti dei particolari. 
Itobad differisce da Martano per la presunzione, e il 



i»6 P. TOLDO 

duello fra lui e Zadig è scioglimento alquanto diverso 
da quello della versione Arìostea. Si aggiunga 
la soppressione del personaggio di Orrigille, it diverso 
premio del torneo e la parte di consigliere sostenuta 
dall' angelo, tutte cose queste che indicano la forma 
nuova che il Voltaire seppe dare a quanto avea tratto 
dal Furioso. E in Zadig, come bene osservò il 
Paris, sonvi pure altre infiltrazioni, provenienti da 
antiche leggende e racconti tradizionali. La sto- 
riella del chien et du cheval (III cap.) riguarda la 
finezza nell' indovinare ed ha riscontri numerosi nel- 
l'Oriente, mentre il capitolo intitolato il Net (II) è 
una delle tante varianti della Matrona di Efeso (i). 
Anche in una specie di libretto per musica, Les 
deux tonneaux, esquisse d* un opera contigue, panni 
che il Voltaire s'ispiri al Furioso. Glycère ama 
riamata il giovane Daphnis e la coppia festosa, se- 
guita dai genitori, dai parenti e dagli amici, si reca 
al tempio di Bacco per celebrare le nozze e bere il 
vino che fortifica 1' amore. Questo vino ha la virtù 
d'una di quelle fontane descritte, fra gli altri, dal- 
l' Ariosto e di cui abbiamo testé parlato. E gran 
sacerdote di Bacco certo Grégoire, tipo grottesco, 
una delle tante satire agli ecclesiastici di ogni culto, 
contro cui si sbizzarrisce la musa del Voltaire. Que- 
sto Grégoire ama Glycère e per vendicarsi di lei of- 
fre da bere prima alla fanciulla poi al giovine il vino 
di un'altra botte (è l'altra fontana dell'Ariosto), che 
cambia l' amore in avversione profonda. Ne segue 
quello che può facilmente immaginarsi e le nozze 
andrebbero a monte, se Prestine, sorella di Glycère, 
non s'accorgesse del tiro dell'indegno sacerdote e 
non desse agli sposi per antidoto la dolce bevanda 
che genera amore. 

(i) L'avventura di Grifone ha numerosi antecedenti greci 
ed orientali, ma non pare probabile che ad essi piuttosto che 
all'Ariosto, il Voltaire attingesse cotale ispirazione. 



SULL' ARIOSTO IN FRANCIA 117 

Questo culto, che all' Ariosto tributava il Voltaire, 
fu diviso pure da altri enciclopedisti e pel momento 
mi limiterò a ricordare il Diderot, che in quel rac- 
conto indecente e bizzarro, cui mise per titolo Les 
bijoux indiscrete, s' ispira, in due passi, al Furioso. 
La proprietà principale dell' anello meraviglioso è 
quella narrata dal noto fableau Du chevalder qui 
faisait parler les e..., ma esso ha pure la virtù di 
quello di Angelica di rendere invisibile. Questo 
punto di contatto, in tante vecchie tradizioni d'invi- 
sibilità, avrebbe ben scarso valore, se, a dargli im- 
portanza, non s'aggiungesse quella specie di visione, 
di cui il Diderot discorre nel cap. XXIX del primo 
volume. Un cavaliere « voltige sur un hippogriffe », 
da cui è trasportato nella luna od in una regione 
simile librantesi « dans le vague de l' espace » ove 
s'erge « un édifìce suspendu corame par enchante- 
ment ». 

Il cavaliere penetra nel meraviglioso castello, in 
cui s' accolgono tutte le umane vanità e dove seggono 
i filosofi antichi, rifiniti, sformati e coi piedi mozzi. 
Platone fra gli altri « trempoit dans une coupé pleine 
d'un fluide subtil, un chaluraeau, qu'il portait à sa 
bouche, et soufflait des bulles à une foule des ape- 
ctateurs, qui l' environnaient et qui travaillaient à les 
porter josqu'aux nues ». 

Le tumide vesciche dell' Ariosto e queste bolle di 
sapone non differiscono sostanzialmente, e il resto 
della descrizione della € région des hypothèses » ha un 
carattere che ricorda insieme il Furioso ed il Panta- 
gruel. Già le relazioni fra queste due opere sono 
notevoli; in parte ne discorsi altrove (1) ed in parte 
faccio conto di parlarne in seguito. 

Pietro Toi-do. 



ti) Cfr. il mio articolo intorno all' Arte italiana nell' opera 
del Rabelais pubblicato neW Archtv f&r dot Studium der ne- 
utre* Spraehen und lUleraluren del 1898. 




ANCORA DELLA VOCE GARDA 



Parecchi, anche in provenzale, sono i significati 
di questa voce : e basti rimandare al Supplemento 
del Levy, IV, 47. Io ne ho illustrato particolar- 
mente uno : garda nel senso di altura, come posto 
militare acconcio alla esplorazione ed alla difesa (1). 
Ora, nel ripercorrere il Gìrart de Rossillon trovo un 
altro esempio, ove garda indica certo qualche cosa 
di simile: una postura, da cui sia dato spiare il ne- 
mico. Vedasi P, V. 7468 : 

E tolen lor la garda quar forca mais. 

Il valore della voce è qui fatto meglio esplicito 
dal più noto composto angarde, che adoperano nel 
passo medesimo L, v. 3075, e O, v. 8442: 
Et lolent lor V angarde et furent meis 
E tolent lor Vangante u furent meis. 

La quale ultima è la più esatta lezione : « tolgon 
loro il posto ove furon messi > ; ossia : « il posto 
d'osservazione, la vedetta, ov' erano stati messi ». 



(1) Rombavi de Vaqueiras et te marquis Boniface I de 
Moni/errai, Toulouse, 1901, pp. 14 sgg, (dalle Annales du 
Midi, XI) ; La lettera epica di Ramò, di Vaqueiras, Padova, 
1909, p. 33 (dagli Alti e Memorie della R. Accademia di 
Padova, XVIII, 3). 



i3o V. CRESCIMI 

St tratta di un'imboscata: fuori dal folto degli 
alberi tre cavalieri guatano ; i nemici sopravvenienti 
si avveggon d' essi, e ne inviano lor contro ben sette, 
che s'impadroniscono del posto e scorgono cosi nel 
l' interno del bosco il grosso avverso, che si sta ar- 
mando per precipitarsi all' assalto. Il Meyer tra- 
duce : « .... leur enlevèrent leur position * ; ciò 
eh' è forse troppo indeterminato. Or che di guar- 
dia e di antiguardia sì conosce codesto senso locale, 
gioverà, traducendo, conservare l' una e l' altra parola. 

Del Girar/ è stato già posto in rilievo un altro 
luogo, ove occorre la stessa voce ; ma secondo il 
solo ms. P, che legge, v. 5721: 

Puis issit en la garda tot/ sols de pes (1). 

La lezione di O corrisponde a questa (v. 6407): 

Pois eisi en la garde toz sous de pez. 

Girardo aveva collocati in imboscata gli uomini 
suoi per attaccare di sorpresa il re, che si dirigeva 
alla volta di Rossiglione : ma bisognava portarsi 
avanti, in luogo opportuno per osservare il nemico 
e scegliere il momento adatto all' assalto. Ed ecco 
Girardo solo, a piedi, affine di essere raen notato, 
appostarsi in così fatto luogo : questa specie di osser- 
vatorio, eminente di certo, piglia nome di garda. Il 
Meyer qui non traduce la parola. 

V. Crescisi. 



fi) Ravnouard, Ltx. Roman, III, 426, 16; Ckescini, 
Rambaut cit., p. 16, I). 3; Lkvv, Prov. Sappi.- WOrt., IV, 50. 



Col titolo di Société amicale Gaston Paris si è costituita 
a Parigi una società, la quale si propone di onorare e perpe- 
tuare la memoria dell'insigne romanologo col propagarne i 
lavori ed il metodo, col mantenere le buone relazioni che 
per opera sua principalmente si erano strette fra gli studiosi 
dì Francia e gli stranieri, e col provvedere alla conservazione 
della sua biblioteca. Quella biblioteca, arricchita di tutte 
le carte scientifiche del Paris che la pietà della vedova volle 
sottrarre a ogni pericolo di dispersione, è stata acquistata 
dalla marchesa Arconati -Visconti e da lei donata alla sezione 
di scienze storiche e filologiche dell'École pratique des Hau- 
tes Études, e la nuova società, assumendone la custodia, cu- 
rerà anche la elussazione di quelle carte ed eventualmente la 
pubblicazione di esse, affinché tutti possano godere del pre- 
zioso dono. 11 comitato ordinatore della società è composto 
dei proff. A. Morel-Fatio, A. Thomas, A. G. Van Hamel, e 
le iscrizioni degli aderenti il sa del passato luglio erano già 
319. La quota annuale dei soci fu fissata in io franchi. 
Il recapito per le adesioni è al segretario tesoriere M. Mario 
Roques, 4 Boulevard 5.' Germain, Paris. 

La Société des Études Rabelaisienncs è un' altra società 
sorta testé in Francia, e questa per gli studj intorno a Rabe- 
lais e al suo tempo, e per la pubblicazione di documenti e 
di lavori relativi allo stesso soggetto. Per ora sarà dedi- 
cato a tale scopo un bullettino, che uscirà quattro volte 
l'anno, e comprenderà articoli di fondo; commenti e spie- 
gazioni dell'opera di Rabelais; miscellanee di documenti; 
una cronaca della Società e di tutto quello che possa interes- 
sarla; domande e risposte, e corrispondenze fra i soci; ri- 
stampa di opuscoli e d'altre cose rare, concernenti Rabelais. 
Il comitato promotore ha nomi che vanno fra i migliori. 
Quota annua, franchi io. Recapito a M. Jacques Boulenger, 
36 me Cambacerés (Vili'). Paris. 



r 3 a NOTIZIE 

Una collezione dal titolo Indagini di storia letteraria t 
artistica è stata intrapresa dal solerte editore di Rocca San 
Cascia.no cav. L. Cappelli per raccogliervi tesi o dissertazioni 
scelte di licenza e di laurea presentate all' Istituto di studj su- 
periori di Firenze. La direzione ne fu affidata al profes- 
sor Guido Mazzoni, e basta questo nome per richiamare su 
la nuova raccolta l'attenzione degli studiosi. 

Dalla ditta Paravia e C. si è cominciata la pubblicazione 
di un Vocabolario italiano complesso compilato da A. Traina, 
col proposito di fondere in uno r diversi vocabolari della Cru- 
sca, del Tommaseo, de! Fanfani, del Giorgini, del Rigutini, del 
Petrocchi, del Guglielmotti, del Palma, del Gotti, del Frizzi, del' 
l'Arlia, della lingua parlata quindi e della scrìtta, del linguaggio 
scientìfico e di quello delle arti e dei mestieri, nonché delle voci 
corrotte e da evitarsi, indicando la pronunzia e aggiungen- 
dovi le etimologie, e poi riscontri e confronti dai varj dialetti 
italiani. Non è poco ; ma, se si considera che tanta materia 
dovrà condensarsi in un solo volume « da potersi metter in 
vendita per lire iS >, vien naturale il dubbio che in tanta 
condensazione troppo del necessario andrà perduto special- 
mente nella parte dialettale che, in un" opera simile, sarebbe 
ta più nuova e non la meno importante. Ci pensi il com- 
pilatore finché è in tempo. Nei lessici dialettali e' è vera- 
mente assai da tagliar fuori : le molte forme di elaborazione 
non popolare riprese modernamente dalla lingua scritta e i 
derivati con i soliti prefissi e suffissi si potrebbero senza 
danno tralasciare. Ma le voci proprie di ciascun dialetto, 
e quelle che hanno significata diverso, e quelle che presen- 
tano divergenze dal tipo comune nella configurazione o nella 
flessione o nelle funzioni sintattiche, dovrebbero essere tutte 
raccolte accuratamente e andrebbero a costituire uno dei mag- 
giori pregi de) nuovo libro. 

La grande impresa deW'Atlas linguìstiqnc de la France, 
promossa dal prof. J. Gilliéron e da lui attuata con la colla- 
borazione di E. Edmont, superate le prime difficoltà inerenti 
a qualunque opera di sì vaste proporzioni, ora procede ala- 
cremente, e sono di già uscite, editore Io Champion a Parigi, 
150 carte delle 1800 onde sarà composto tutto l'atlante. In 
Roma né le biblioteche governative né gli istituti universi- 
tari possiedono un esemplare di questa importantissima pub- 
blicazione. 

L' esempio dato dalla Francia col suo Alias linguisHgite 



NOTIZIE 133 

è stato bene accolto nella Svìzzera, ove, promotore il prof. L. 
Gauchat, sì è già messo mano all'attuazione di un disegno 
anche più vasto, cioè al Glossatre des patois de la Stàsse ro- 
mande e all' Alias phonétique de la Suisse romande. Il go- 
verno del Cantone di Neuchàtel ha assunto il patronato del- 
l'opera, ha stanziato i fondi necessari e ha affidato l' esecu- 
zione a due commissioni, una amministrativa l'altra filologica, 
della quale fanno parte J. Gilliéron, J. Bonnard, E. Muret, 
A. Piaget, P. Marchot, Ch. Gigaudet, H. Morf, J. Cornu, 
oltre il Gauchat, incaricato della direzione generale dei lavori 
e capo del Comitato di redazione. Abbiamo sotto gli oc- 
chi le relazioni delle due commissioni per gli anni 1899-1903 
e vi troviamo, oltre quanto s'attiene all'amministrazione, in- 
teressanti notizie sull'avviamento del lavoro scientifico, sul 
reclutamento dei corrispondenti; su le istruzioni e i questio- 
nari P*r tutti i collaboratori; su le ricerche bibliografiche e 
le prime raccolte dì materiali ; su gli spogli sistematici di mss. 
e di stampe, l'ordinamento delle corrispondenze e quant'altro 
infine riguarda la preparazione delle due opere. In servìgio 
poi del Glossario è stato anche fondato un Bullcttino trime- 
strale, ove si pubblicano testi dialettali inediti della Svizzera 
romanza, saggi vernacolari raccolti dalla tradizione orale, ri- 
cerche etimologiche, ecc. ecc. In complesso, abbiamo una 
organizzazione veramente ammirevole per la vastità del disc- 
segno, per la previggenza e la sagacia con cui si ebbe cura 
di ogni particolare il più minuto, e non si può da simile pre- 
parazione non aspettare i frutti migliori. 

La Ckastelaine de Vergi à una delle più gentili e pateti- 
che storie d'amore che produsse la letteratura francese dei 
sec. XIII, e, abbia o no avuto un fondamento reale, piacque 
tanto al suo tempo e tanto interesse destò anche nei secoli 
successivi, che più scrittori vollero rinarrarla mettendola in 
prosa, la voltarono in altre lingue, e le arti figurative si as- 
sociarono alle lettere per diffonderne e perpetuarne il ricordo, 
come si vede tuttora in più sculture in avorio conservate nei 
Musei di Parigi e di Londra. Della redazione originaria, 
che è la più bella, primo editore fu il Méon, Fabl. et Coxies, 
IV, 296-326. Venne poi G. Kaynaud, che ne diede il testo 
crìticamente restituito in base a otto dei mss. più antichi e 
illustrò la origine e le vicende della novella nella Romania, 
a. 82. Finalmente il dottor L. Brandin ne ha curata una 
nuova edizione coli' intento di mettere alla portata di tutti 
uno dei gioielli letterarj che maggiormente meritano di essere 
conosciuti oltre la sfera degli specialisti. La edizione, non 



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di lusso ma squisitamente elegante (Paris, P. Geuthner edi- 
tore), risponde bene alto scopo. Il testo è dato secondo 
la lezione del Raynaud e accompagnato da una elegante tra- 
duzione in prosa inglese di Alice Kemp-Welcb. Il dot- 
tor Brandin poi vi ha premessa una Introduzione intesa a far 
rilevare il valore artistico del graziosissimo romanzo. Egli 
anche discute la interpretazione storica propugnata dal Ray- 
naud, inclinando a dubitarne; riassume inoltre le vicende del 
racconto negli ultimi secoli e comunica il facsimile degli avori 
da lui trovati nel Brltish Museum e nel Museo del Louvre, 
ove è figurata tutta la pietosa storia della Castellana di Vergi. 
In complesso, poche pagine ma succose; che si leggeranno 
con profitto e senza fatica, e dove una sola omissione note- 
remo, quando si parla della versione fattane in Italia dal Ran- 
dello. Non fu solo il frate novelliere a far gustare quel 
racconto in Italia. Già meglio che un secolo prima di lui, 
l'aveva narrato l'autore anonimo di quell'elegante cantare 
che s' intitola, Storia delia Donna del Verziere e aH messer 
Guglielma, pubblicato nel 1861 in Lucca da 5. Bongi; e per 
le vicende dello stesso racconto in Italia meritava forse di 
essere ricordata anche la Gemma di Vergi, tragedia lirica di 
G. E. fitdera, posta in musica dal Donizetti. Benché d' in- 
treccio assai differente, quella tragedia nel titolo conserva an- 
cora una reminiscenza manifesta della storia narrata dall'an- 
tico menestrello francese. 

Del Pèlerinage de V ime, poema didattico morale, com- 
posto da Guillaume de Deguilleville nella prima metà del 
sec. XIV e su cui può vedersi G. Paris, La lìttér. fran$, au 
moyen age, \ 156, sapevasi che aveva avuto fortuna anche 
fuori di Francia e che più di una traduzione n' era stata fatta 
in altri paesi; ma in Italia non pareva che fosse stato cono- 
sciuto, quando uno studio del dottor Ludwig, nel fahrbuch 
der Kòn. Preuss. Kunstsammlungm, XXIIJ (iooa), 163 e ss-, 
è venuto a dimostrare che quel poema si ritrova tutto in un 
bel quadro di Gio. Bellini, conservato nella Galleria degli 
Uffizi a Firenze sotto i titoli di • Sacra convenzione » o « della 
Madonna del Lago », due titoli messi la cervelloticamente 
da chi non sapeva spiegarsi la figurazione complessa del mi- 
sterioso quadro. La chiave della scoperta fu data dalle mi- 
niature che illustrano molti codici del poema. Quelle in 
ispecie di un ms. della Nazionale di Parigi presentano con 
l'opera belliniana tante e tali congruenze da non lasciar dub- 
bio che il Bellini, nel fare questo quadro, non solamente si