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Full text of "Sulla cappellina degli Scrovegni nell'Arena di Padova e sui freschi di Giotto in essa dipinti; osservazioni di Pietro Estense Selvatico"

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3^ 




SULLA 

CAPPELLINA 

DEGLI SCROVEGNI 

nELL'AREHA DI PADOVA 

ÌVI FRESCHI DI GIOTTO 

IN ESSA DIPINTI 

PIETRO ESTENSE SELVATICO 







PADOVA 

COI TIPI DELLA MINERVA 



Fyj. 



£ opera che sorprende, e perché sopra ogni altro suo 
fresco conservatìssìina, e perchè piena di quella grazia na- 
tiva e di quel grande che Gioito egregiamente seppe con- 
giungere. 

Lanzi. Stor. piti. Voi. II. 



*•' 









AD 

ALESSANDRO CONTE PAPPAFAVA 

DEI CARRARESI 

CAVALIERE GEROSOLIMITANO 
CkìiO AI BUONI all'arti ALLA PATRIA 

questi cenni 

sulla più conservata opera 

di chi primo 

ebbe il grido nella italiana pittura 

offeriva 
in testimonio di reverente amicizia 

l' autore 



INTRODUZIONE 



S 



embra che la fortuna concedesse alla sola 
Italia il primato nelle arti della bellezza visibi- 
le, perchè esse quasi servissero di conforto alle 
sciagure chCvin ogni età dilacerarono, afflissero 
questa infelice regione, e mantenendola a gra- 
ve danno spartita e discorde , le frodarono sem- 
pre l'onore di nazione. È però forza confessare 
che questo lamentato squarciamento politico, se 
anneghittì la forza morale degl'Italiani, fu an- 
che la prima e più efficace cagione della eccel- 
lenza di quelle arti che sono tanta parte di no-* 
stra gloria, le quali sicuramente non sarebbero 
giunte ad apice si elevato, se la penisola fosse 
stata sempre un vasto regno signoreggiato da 
una ricca metropoli. Ove l'Italia nella forma 
del suo governo fosse andata del pari con quasi 
tutte le Potenze d'Europa, ogni fonte di nazio- 
nale ricchezza , siccome fiume in mare , avreb- 
be messa foce nella capitale, e quella unica- 
mente vedremmo ora arricchita d'ogni maniera 
di adornamenti, e decorata da illustri tele e da 
marmi, ed abbellita da giganteschi edifizii , co- 
me appunto avTcnne alle sfarzose città bagnate 



dalla Senna e dal Tamigi, le quali rinserrarono 
ed ancora rinserrano quasi tutte le pregevoli 
produzioni artistiche dell'operosa Francia e del- 
l'industre Inghilterra. Per lo contrario, al risor- 
gere delle lettere e delle arti ogni città di que- 
sta patria bellissima sollevatasi od a repubbli- 
ca od a principato, si fé centro ad un potere 
municipale, che tutti gli sforzi diresse a fare 
d'ogni guisa più ornata la ristretta cerchia fra 
cui doveva distendere il proprio dominio. Ecco 
perchè tutte quante sono le città, le terre, e 
poco men ch'io non dissi le ville, che sorgono 
numerosissime dall'Alpe al Faro, vanno super- 
be di splendidi monumenti, prov^ non men:|o- 
gnera di quanto fossero fiorenti ed onorate le 
arti nelle età dei maggiori. Ad ogni passo ti si 
offrono e tempii magnifici eretti dalla pietà dei 
cittadini, e pubblici palazzi alzati dall'oro dei 
municipii, e tavole e marmi e bronzi posti a 
fregio degli altari, dei santuarii, delle piazze, 
delle vie. 

Gli ultimi avvenimenti politici, che nel bre- 
ve mutarsi di vent'anni più secoli racchiusero , 
e tennero Europa in orrido tramestio , sperdet- 
tero, disertarono, distrussero gran parte di tan- 
to nazionale decoro; ma molto ancora ce ne ri- 
mane, uscito incolume dagli artigli dell'avara 
fortuna, al quale peraltro poco o ninno pensiero 



7 

porgiamo, e quasi appena degoiamo di sfugge- 
vole sguardo. ^ , 

Noi Italiani, a guisa del male proyido colo- 
no che nelle annate abbondeyoli d'ogni prodot- 
to non cura le messi del campo, e le abbando- 
na quasi a pasto degli animali , dimentichia- 
mo i prodigii dell'arti avite, che ad ogni pas- 
so qui sorgono, quasi a rimprovero del fiacco 
secolo, ed a testimonio delle perdute rappre- 
sentanze ; i quali se decorassero le ricche me- 
tropoli dello straniero, sarebbero stati a minuta 
illustrati, esaltati, e con ogni pompa di lodi fatti 
per modo famósi, che lascierebbero d'assai più 
ammkati quegli osservatori avvezzi a misurare 
il merito delle opere dalla fama che le circonda. 

Da tanta nostra negligenza non ne viene sol- 
tanto scapito al nome italiano, ma ben anche 
gravissimo danno alla storia delle arti, la quale 
ignara del numero e del pregio di molti capo- 
lavori che per tutto rabbelliscono questa terra 
di onorate ricordanze, erra incerta nel suo cam- 
mino , né può mostrare tutto il vario e succes- 
sivo progredimento delle menti italiane nelle 
discipline intese a produrre il bello visibile; ne 
vale a tiarre dalla oscurità nomi e lavori d'in- 
gegni da noi, in tanta dovizia di artefici, chia- 
mati minori , ma che tornerebbero a vanto prin- 
cipale delle nazioni oltramontane. 



8 

Saluteremmo quindi benemeriti della patria 
comune que' molti scrittori ed artisti, di che 
anche a' di nostri si gloriano le italiane città, se 
togliessero con ogni diligenza ad illustrare col- 
la penna e col bulino i famigerati monumenti 
che ornano i yarii territorii, ov' essi ora -vivono 
ai liberali studii. Allora si vedrebbe quanta an- 
cora abbiamo . dovizia di preziose opere; allora 
più non ci graverebbe la indecore sì ma pur 
vera accusa che ci viene d'oltremente, dimen- 
ticar noi quelle glorie dei progenitori, per cui 
fummo un giorno invidiato modello di civiltà , 
d'ingegno, di potenza a men fortunate popola- 
zioni; né più lo straniero, scorrendo rapidamen- 
te le ridenti contrade italiane , farebbe , sicco- 
me sciaguratamente ora fa, affrettati studii sui 
nostri capolavori delle trascorse età, i quali o 
stortamente considerati, o corredati da temera- 
rie sentenze, egli pubblica orgoglioso fra le sue 
nebbie britanne , o fra le mura romorose della 
sua Parigi. 

Io credo di non andare errato se affermo, fra 
gl'illustri monumenti, i quali non furono per 
anco sottoposti ad accurato esame, non doversi 
lasciare ultimo l'Oratorio degli Scrovegni nel- 
l'Arena di Padova, che alzato al cominciare 
del secolo decimoquarto , decorato da insigni 
produzioni contemporanee, ci presenta ancoi'a, 



9 

pressoché non tocca dal tempo, l'aurora delle 
arti italiane , foriera di non emulato meriggio. 
Su d'esso mi venne il pensiero di stendere al- 
cune osservazioni, le quali io sommetto al let- 
tore, non già come una compiuta illustrazione, 
ma solo come un caldo invito ed un incitamen- 
to ai dotti ed agli artisti perchè lo facciano ar- 
gomento dei profondi loro studii. 

Io non mi sarei condotto a scrivere nemme- 
no questi poveri cenni , conscio di quanto pic- 
colo peso io possa gravarmi; ma gli scrivo per- 
chè, temo che le celebri investigazioni dettate 
dal d'Hancarville su quest'Oratorio non sieno 
per uscire più mai dal portafoglio di un bizzar- 
ro Oltramontano; gli scrivo perchè pavento an- 
che su questo chiaro monumento piombi da qui 
a non molti anni la invano lagrimata sorte dì 
allri molti che sotto i nostri occhi vedemmo 
quasi con esultanza abbattuti, e si rimanga al 
paro di quelli senza uno storico che lo ricordi, 
senza una pagina che ne conforti a mirarlo (0. 
Il tempio di sant'Agostino, per cinque secoli 
venerato pegno della religione e delle arti dei 



(i) Le stesse nostre Guide e gli storici nostri non han- 
no che brevissimi cenni su questo prezioso Oratorio. 
Anche gli scrittori di cose d'arte, il Vasari, il Baldinuc- 
ci, il Lanzi, appena lo nominarono. 



IO 



maggiori, fu atterrato dalle fondamenta; i fre- 
schi della Scuola di s. Sebastiano, preziosi per 
mantegnesco tingere, ridotti muricele; i chio- 
stri di santa Giustina , insigni pel casto ombra- 
re del Pai'entino, turpemente od imbiancati, o 
fatti segno all'orgie della soldatesca; un dipinto 
del Pizzolo ricoperto d'intonaco; le porte anti- 
che della città atterrate; distrutte le mura, crol- 
late le torri dell'evo mezzano. Ed a chi regge- 
rebbe l'animo di udire lo sperpero, l'abbandono, 
e, dirò peggio, il depredamento di oggetti d'arte 
rari e bellissimi, che fu con sacrilega mano osa- 
to fra noi in questa parte di secolo, in cui vive 
una generazione orgogliosa di perfezionamenti 
e di civiltà, in questa parte di secolo appellato 
dei lumi? Che più! il monumento medesimo, 
che piglio a soggetto di queste mie osservazioni, 
corse, non ha guari, grave pericolo. Volgono 
appena dieci anni da che fummo assordati da 
ignominioso martello che atterrava le fabbriche 
a quello vicine , e vedemmo con raccapriccio 
scalpelli e leve scassinare e sgretolare l'ester- 
no delle muraglie stesse, su cui stanno coloriti 
gli stupendi freschi. Accorsero ora supplici ora 
minacciosi i Magistrati a porre barriera a lau- 
to danno, levarono un grido d'orrore i solleciti 
dell'onore nazionale, ed avventuratamente si 
ristette da quella turpe mina. 



II 



Confidiamo che il posseditore di tanta gem- 
ma non Yorr a meritarsi dai posteri la vergogno- 
sa immortalità di nn Erostrato; confidiamo che 
egli , nato e cresciuto fra gli agi di ricca e fio- 
rente metropoli, circondato dai capolayori dei 
veneti maestri, che ornano gli altari, le loggie, 
le sale de' suoi avi, si avrà in avvenire un'ope- 
rosa reverenza verso la più conservata fatica di 
colui che primo tenne il campo nella italiana 
pittura. Ma se (che il destino noi permetta 
mai) venisse giorno in cui questa Cappellina 
dovesse perire , ed i triboli e l'ortica crescesse- 
ro ov'essa ora sorge bella di tanti ornamenti; se 
nessuno movesse mai a degnamente illustrarla; 
rimarranno questi cenni, i quali, a guisa di quel- 
le cronache che sebbene scritte nel disadorno 
latino dei medii tempi, pure portano la facella 
della verità nelle pagine della storia, serviranno 
almeno a ricordare di quanti meriti andasse ric- 
ca un'opera, la quale non deve dirsi solamente 
municipale, ma di comune diritto della nazione. 



13 

di narrano i cronisti (0, che verso la fine del 
secolo decimoterzo Enrico Scrovegno, tiobile e 
potente padovano, comperasse in patria Tanti- 
co ricinto dell'Arena, avanzo di grandioso anfi- 
teatro romano, dalla magnatizia famiglia dei De- 
lesmanini, la quale n'era stata infeudala dall'im- 
peratore di Germania Enrico III. fino dal 1090. 
Lo Scrovegno fatto signore di quel sito, lo for- 
tificò a guisa di castello, vi costrusse un palaz- 
zo, e verso il i3o3 vi alzò la Cappellina conse- 
crata alla Vergine Annunziataci). Era egli figlio 
a quel Reginaldo sì famigerato per avarizia ed 
usure, che meritò di essere posto dall'Alighieri 
nella città dolente, ed è quel desso che 

• . . d'una scrofa azzurra e grossa 

Segnato avea lo suo sacchetto bianco. 

Dante. Inferno. Canto XYII. 



(i) Gennari Annali di Padova y Parte III. pag. 89; 
Salomonio Inscriptiones urbis patavinae, pag. 369; Scar- 
deone, fol. 99 e 33 a. 

(q) Quivi era prima una piccola Cappella dedicata 
alla Vergine Annunziata, e fino dal 1278, essendo po- 
destà Matteo Querini, venne ordinato con patrio decre- 
to, che ogni anno al 2 5 di Marzo, festa dell'Annunzia- 
zione, si dovesse colà eseguire alla presenza del Vesco- 
vo, del Clero tutto, del Podestà, degli Anziani, dei 
Gastaldi delle arti ec. , una sacra rappresentazione di 
quel mistero con dialoghi, suoni, canti, ed ogni manie- 
ra di feste. Riconfermata cotesta usanza con uno sta- 



i3 

Affermano alcuni scrittori, che Enrico volesse, 
coi molti dispendii profusi in questo pio layoro, 
riparare alla disonorata fama del genitore, ed 
imporre i veli delFobblio sulla memoria dell'ab- 
bominato suo vizio. Però il Federici nella eru- 
dita sua Opera sui Cavalieri Godenti non è di 
opinione che Enrico erigesse tale Cappellina 
soltanto per domestico uso e coi soli suoi de- 
nari (0. Egli con buone ragioni si fa a provare 
aver essa servito all'Ordine dei Godenti, e ne 
offre poi buoni argomenti per credere lo stes- 
so Scrovegno ascritto a quest'Ordine. Da tutto 



luto del i33i^ durò fino diranno 1600, in cui pei dis- 
ordini consociati sempre a simili feste popolari venne 
abolita. 

(i) Federici Storia dei Cavalieri Godenti. Venezia, vo- 
lumi due. Fino dal cominciare del secolo decimoterzo 
varie turbe d'eretici avevano osato porre in dubbio la 
esistenza della Vergine. I Pontefici, a fine di toglTere 
tanto danno dalla radice, istituirono alcune congregazio- 
ni religiose, promossero unioni di devole persone, per- 
chè fossero difensóri del culto dovuto alla Madre di Dio. 
Allora ebbero origine i Cavalieri Godenti, che in breve 
si diffusero per tutta Italia , e con ogni solerzia adem- 
pirono la missione ad essi affidata. In sulle prime fu- 
rono detti Cavalieri di Santa Maria; poi fatti ricchi e po- 
tenti, e francheggiati dalla protezione dei Papi, che li 
dispensarono da ogni pagamento di pubbliche imposte; 
si giac<piero in ozio sì dilettoso, e sì inchinevole ad 
ogni mondana gozzoviglia, da meritarsi l'appellati vo bef- 
fardo di Frati Godenti. 



«4 

ciò quindi congettura venisse murata almeno in 
parte colle ricchezze possedute allora da quei 
Godenti in gran copia (0. Noi occupati princi- 
palmente ad osservare i pregi d'arte ch'essa rac- 
chiude, non vorremo addentrarci in una qui- 
stione cotanto straniera al nostro scopo, e ci ri- 
volgeremo invece a considerarne la sua archi- 
tetturg.. 

Altra volta , quando toccai alcuni particolari 
sui sistemi di architettare che usavansi in Pa- 
dova nei secoli mezzani, brevemente descrissi 
questa chiesetta ; la dissi di quello stile allora 
sparso per tutta Europa, comunemente conosciu- 
to sotto il nome di gotico -tedesco o posteriore ^ e 
ne lodai le eleganti proporzioni. Ora, a farla me- 
glio conoscere, avviso darne disegnata la pianta, 
la quale mi semhra degna di molta considera- 
zione per la leggiadrissima novità con cui è im- 
maginata (Tav.I). Difficile tornava il dare ad un 
tempietto di una sola nave certo movimento di 
linee che ne togliesse l'aridità. A ciò maestre- 
volmente provvide l'ingegnoso architetto, col- 
locando a simiglianza delle primitive chiese cri- 
stiane i due amhoni jPF^ì quali opportunamente 

(i) Dà maggior vigore a questa opinione il vedere in 
yarii luoghi del Mostro Oratorio la croce, stemma dei 
Godenti, unita sempre ad una scrofa in piedi, arma gen- 
tilizia degli Scrovegni. 



i5 

spezzano la monotonia delle due pareti longi- . 
tudinaU. A tale uopo foggiò anche la tribuna 
più stretta della nave , e ^ancheggiò il grande 
arcone , che vi dà ingresso , con due spalle di 
muro , su cui lo sguardo gradevolmente riposa. 
Gentile poi mi sembra la forma della tripartita 
finestra sulla facciata, e più gentile ancora il 
profilo degli archetti marmorei che sovrastano 
ai sedili della or nominata tribuna. 

Il modo poi con cui è foggiato quest'abside 
merita una particolare attenzione. E noto che 
ì tempii cristiani, non tanto sino al looò, come 
affermarono i dotti Sacchi (0 , ma per tutto il 
volgere dei secoli mezzani, erano costruiti su 
principii cardinali e costanti, basati sulle disci- 
pline della simbolica, detta ermetica^ la qua- 
le valeva a rappresentare le leggi della divi- 
na economia col mezzo di cifre ed operazioni 
tratte dall'aritmetica formale, ed applicate alla 
edificazione dei sacri edifizii. Tuttoché noi mo- 
derni versiamo in profonde tenebre sull' algo- 
ritmo che racchiudeva le regole di questo anti- 
co ramo di matematiche , a cui venivano attri- 
buite mistiche significazioni; pure alcuni scrit- 
tori ed architetti, teneri di sottili ricerche, ten- 



(i) Antichità romantiche d'Italia. Epoca prima. Ca- 
po III. pag. iig. Milano 1828. 



i6 

tarono dissipare ia parte le fitte nebbie che co- 
prono sì fatte dottrine dei nostri maggiori . Fra 
gli altri r ingegnoso e dotto architetto tedesco 
Stieglitz (0 nella sua Storia delV architettura 
credette poter derivare la fondamentale dispo- 
sizione delle chiese cristiane surte fra Tunde- 
cìmo e il decimoquarto secolo dalla forma poli- 
gona degli absidi. Ne disse egli, che quando gli 
absidi, da semicircolari si mutarono, dopo lun- 
decimo secolo, in poligoni, furono così compo- 
sti descrivendo varii lati in un circolo racchiuso 
nel quadrato , nomato da luì fondamentale j per- 
chè serba la sua radice nella larghezza del coro 
stesso o della nave. Se, per esempio, il coro 
avesse una projezione trilatera, originata da un 
esagono descritto nel su enunciato circolo, il nu- 
mero 6 dovrà apparire in ogni parte della co- 
struzione ; da ogni lato della nave maggiore vi 
saranno sei o tre pilastri; tutta la chiesa risul- 
terà di sei unità, pigliandosi sempre per tale la 
larghezza del coro. Le stesse finestre non oltre- 
passeranno codesto numero. Questa ingegnosa 
teona, corroborata dai fatti e dalle acute osser- 
vazioni del dotto Alemanno , viene rincalzata 



(i) Geschichte der Baukunst e te. Istoria dell* architet- 
tura dalla prima antichità fino agli ultimi tempi, Norim- 
berga 1827, in 8.0 



^7 

diiché dall' esempio della nostra chiesetta . Si 
descriva nella sua tribuna il circolo Aj il quale 
tocchi gli angoli del coro esteriore BB; si deli- 
nei un esagono nel detto circolo, e si "vedrà ri- 
sullarne] la presente figura dell'abside composta 
dei tre lati dell'esagono stesso; indi colla lar- 
ghezza della tribuna (da tenersi come unità fon- 
damentale , perchè radice del quadrato chiuso 
nel cerchio A) si misuri tutta la lunghezza del- 
la chiesa dal punto C j ove ha cominciamento 
l'esagono, fino a quello Dj ov'è la porta, e si 
troveranno sei delle accennate unità. Si nume- 
rino le finestre della nave, e si vedranno an- 
ch'esse seguire la medesima regola (0. 

Lo Scrovegno cacciato dalla patria in esilio 
come sospetto di ribelli macchinazioni, prese a 
vivere in Venezia, ove nel iSao pagò alla na- 
tura il tributo. I figli di lui ne onorarono la «ae- 
morìa e le ceneri, alzando in questo stesso Ora- 
torio quell'ornato sarcofago che sta collocato 
nell'abside dietro l'altare (Tav. II). L'arca posa 
sopra due mensole; al di sopra di essa è steso 

(i) Un tempo doveva aggiungere nobiltà e decoro a 
quest'Oratorio un pronao ad archi aggettante daUa pre- 
sente facciata, e che da molt'anni o per vetustà o per 
incuria crollò. Havvi sotto questa chiesetta un sotterra- 
neo a volta, che al citato Federici, tomo I. pag. 269, 
parve servisse ad uso di refettoria pei Cavalieri Godenti. 



i8 

ricco letto fregiato da cortine , le quali aperte 
e sostenute da due angioletti graziosamente at- 
teggiati, lasciano scorgere la figura del defon- 
to signore, siccome era l'uso universale nelle 
tombe sfarzose di quella età. Sembrami che a 
questo slesso deposito sepolcrale appartengano 
pure le tre statue disposte sopra a distanza , e 
figuranti la Vergine col Bambino e due angeli. 
Sotto Funa di esse sta scritto il nome dell'auto- 
re cosiiJacobi magistri RicoU. lo non credo però 
che questi sia lo stesso scultore del sottoposto 
sarcofago, scolpito in ogni sua parte con ben 
maggiore correzione e morbidezza. Vivamente 
mi duole che il Cicognara nel suo gigantesco 
lavoro non abbia voluto far tema di esame que- 
sti pregevoli marmi: egli, che alle profonde co- 
gnizioni dell'arte univa diligente ed erudita cri- 
tica^ ne avrebbe sicuramente rintracciata qual- 
che notizia su questo maestro Ricolo, artista 
da non gittarsi fra i più volgari; e ne avrebbe 
anche, per ragioni che andrò notando, tratte 
forse conseguenze utili a quella sua opera , la 
quale, per quanto acerbamente venga morsa dal 
dente degli aristarchi, rimarrà sempre uno dei 
più importanti libri d'arte che possegga l'Italia. 
Senza diffondermi in vane conghietture sulla 
patria e sull'origine del surriferito scultore, mi 
contenterò di osservare che lo stile così delle 



'9 

figure in alto , come di quelle poste sul sarco- 
fago, e la forma stessa di tutto il monumento, 
ne ricorda le maniere di scolpire usate in To- 
scana nel secolo decimoquarto. I seni sì bene 
alternati nelle grandiose pieghe , le squadratu- 
re nelle estremità e la diligente politura del 
marmo rammentano la scuola di Giovanni e di 
Andrea pisano, cotanto allora fiorente nell'At- 
tica italiana ed anche; nel resto della penisola. 
Ciò ancora più si fa palese fermando la consi- 
derazione sulla Vergine posta in mezzo ai due 
angeli, la quale ha una movenza non «dissimile 
da quella che Kino pisano diede alla sua cele- 
bre Madonna nella chiesa della Spina in Pisa (0. 
Su d'un eguale concetto sono pure immaginate 
e la nostra Signora da Alberto Arnoldi scolpita 
pel Bigallo a Firenze, e le altre molte citate dal 
Cicognara, e da lui poste a confronto di quelle 
che veggonsi in Venezia atteggiate nella stessa 
guisa, le quali tutte egli ne provò derivate dal- 
la scuola pisana. Il pensiero poi del nostro sar- 
cofago è per siffatta maniera simile ad alcuni 
che in quel secolo furono alzati da maestri pi- 
sani e dai loro allievi, da doverlo quasi credere 
opera di uno di quegli artefici. Il monumento 



(i) Cicognara Storia della scultura^ tom. III. pagi- 
na 4i7'4i9* Servì l'edizione di Prato 1826. 



20 



scolpito nell'eterna città dal Cosmate pel cardi- 
nale Consalvo (0, va ornato da angeli disposti 
nella guisa medesima del nostro sepolcro. Né 
mancano punto in quello di Benedetto XL, ese- 
guito a Perugia da Giovanni pisano, e neiraltro 
di Assisi attribuito dal Vasari a Puccio fiorenti- 
no, e dal Cicognara tenuto opera *o di Lapo , o 
di altro discepolo di Nicola da Pisa. Né si op- 
ponga che anche i sepolcri del resto d'Italia fog- 
giavansi in quel secolo sul tipo medesimo. Se- 
guivasi allora^) è vero, costantemente il sistema 
di protendere su d'un letto la morta persona; 
ma, fuori che in Firenze, in Pisa, ed in alcune 
altre città dell'Italia meridionale (ove maestri 
toscani aveano operato) , non si ponevano mai 
gli angeli a sorreggere le cortine . Gli artisti di 
Toscana, più che tutti gli altri del bel paese av- 
vivati da ricca e florida immaginazione , piace- 
vansi di meschiare nelle composizioni quanto 
più potevano di poetici concetti; quindi gli ar- 
gomenti di religioso soggetto vie meglio crede- 
vano infiorare di poesia , quanto più gli arric- 
chivano di angeliche schiere , quasi a chiarirci 
che ove Iddìo appare , mai va scompagnato da 
quegli spiriti, immediata emanazione di sua po- 
tenza. Perciò il Ghiberti, quando nelle sue di- 



(i) Cicognara, id. ib., pag. 355-a58. 



21 



yine porte del battìsterio fiorentino immaginò il 
supremo Fattore nell'atto di trarre l'uomo dal 
nulla e di dar yita a quella cara metà del gene- 
re umano, soavissimo conforto alle travagliose 
cure dell'altra metà laboriosa e faticante, vi pose 
con anacreontico pensiero vaghissimi angioletti, 
ora ammirati della più leggiadra fra le creazio- 
ni, ora ajutantì amorosamente di forze celesti 
la bellissima Eva, inscia e malfidente delle ter- 
rene. Niuna sorpresa adunque, se dovendo quei 
maestri scolpire sarcofaghi destinati ad accoglie- 
re nei tempii del Signore le ossa dell'uomo che 
nell'ora suprema affisò in Dio la mente ed il 
cuore, vi collocarono angioletti di tutte grazie 
adomi, siccome ministri di quella inessiccabile 
fonte di beneficenza, che spande nettare sui 
mortali e fra i lamentosi vagiti della cuna, e 
fra i gelidi silenzii della tomba. 

Sotto questo grandioso sepolcro è posta altra 
arca mortuale, acchiudente le ceneri dei due 
figli di Enrico. Anche su questa leggevasi nelle 
età passate una iscrizione in versi latini (0, la 
quale al paro dell'altra ci fu tramandata dallo 
Scardeone e dal Salomonio. 

L'altare che sorge isolato nella tribuna, per 
le sue spirali colonnetta sugli angoli, e per quei 



(i) Salomonio Inscriptiones urbis patavinac , pag. 360. 



22 

minuti dentelli ed archetti della cornice ram- 
menta le gotiche maniere. Al di sopra però yì è 
posto un tabernacolo di marmo di Carrara, i cui 
cartoni , le cui ammanierate volute troppo ri- 
cordano i delirii posti in gran yoga negli ultimi 
anni del secolo decimosesto , nei quali fu alza- 
to. In esso sta gentile paletta, che disvela il suo 
autore colla iscrizione sottoposta: Petrus Pau- 
lus Sancta Crux (0. Le teste sono di un grazioso 

(i) Era il Santa Croce di origine bergamasco, e figlio 
o nipote a quel Girolamo che in patria ed in Venezia 
lasciò pregevoli opere; e sebbene nei primi anni segui- 
tasse le antiche secche maniere, pure negli ultimi, al 
dire dello Zanetti e del Lanzi, dilargò Io stile, e più 
degli altri tutti s'accostò alla maniera di Giorgione, ed 
a quella dell'immortale Gadorino. Il nostro Pietro Paolo 
fu anch'egli, come gli altri della sua casa, pittore, e par 
seguisse il fare del Gayagna; siccome poi degli altri più 
debole, sortì il destino dei freddi imitatori d'altri imi- 
tatori, non uscì mai di mediocrità; e tuttoché non me- 
riti rimprovero di vergognose scorrezioni, tuttoché sia 
ragionevole il suo chiaroscuro, non affatto spregevole 
il suo disegno, andò ravvolto nella immensa turba di 
quegli sciagurati, a cui i corvi di messer Lodovico la- 
sciano cadere il nome nell'acque di Lete. Due quadri 
abbiamo qui in Padova di Pier Paolo Santa Grece: l'uno 
nella basilica di sant'Antonio, il quale rappresenta l'ado- 
razione dei Magi; e questo che orna l'altare centrale 
della GappelHna su cui favello. Quello, a vero dire, 
mostra una pendenza verso lo stile dei tenebrosi, che 
mezzo secolo più tardi doveano con trasognate stranezze 



23 

tipo, e leggiadramente pennelleggiate; le estre- 
mità ben disegnate; le movenze, sebbene trop- 
po aggraziate, pure non isgrade voli. E però biz- 
zarria fuori d'ogni ragione, e povera di effetto, 
quella di por dorature su tutte le drapperie e 
su parte del campo , ne punto è lodevole il co- 
lore di soverchio opaco e stentato. 

Prima di consecrare tutte le nostre osserva- 
zioni agli immortali dipinti da Giotto lasciatici 
in questa Cappellina, entriamo la sacrestia, e 
celeremente disaminiamone l'immagine di En- 
rico Scrovegno, che vi si vede scolpita. Sotto 
una nicchia di gotico stile sta effigiata in piedi 
la figura di lui colle mani giunte, e colla faccia 
rivolta al cielo. Nel piccolo plinto, che la sostie- 
ne , leggesi in caratteri detti gotici o tedeschi : 
Propria figura domini HenriciScrovignimilitis de 
V Arena. E dalla parola militis che il Federici nel- 
la citata Opera (0 trasse argomento per credere 
essere stato lo Scrovegno ascritto all'Ordine dei 
Godenti, i quali avevano sempre l'appellativo di 
milites. Io non mi sento da tanto per discutere 
questa erudita si , ma pure poc;o rilevante que- 
stione; solo rifletterò, che sebbene l'accenna- 
ta figura non vada ornata di molti meriti , e 



insozzare l'italiana pittura; ma Taltro^che abbiamo sot- 
t* occhio, non è onninamente privo di pregi. 
(i) Federici, loc. cit. 



24 

mostri artefice assai meno esperto di quello che 
operava il sarcofago, nondimeno reputo non dis- 
utile il produrla incisa , perchè ne offre un sag- 
gio della maniera con cui i maggiori volevano 
talvolta essere rappresentati nei santi ricinti al- 
zati dalla loro pietà, e perchè ne conserva il 
costume civile dei nostri signorotti nelle età mu- 
nicipali (0. 

Alcuni altri oggetti potrebbero ancora richia- 
mare una sfuggevole attenzione, siccome appun- 
to è una tavola rappresentante santa Prisca, di 
giottesco stile, ed un armadio ad archetti acuti, 
forse contemporaneo alla chiesetta, se non fa- 
cessero maggiore invito ai nostri sguardi i di- 
pinti del sommo discepolo di Cimabue, scopo 
principale dei commenti che sono ardito som- 
me ttere al giudizio del lettore. 



(i) Il citato Federici nel tomo I. pag. 268 tenta pro- 
varci che r abito il quale ricopre la figura di Enrico, 
tanto nella sagrestia che sul sarcofago, era quello por- 
tato neUe pubbliche funzioni dai soli Godenti. Senza 
farmi oppositore alla sentenza di quell'erudito, osserve- 
rò per altro, che un sì fatto abito è perfettamente si- 
mile al costume di molti nobili e signorotti del secolo 
decimoquarto, i quali non erano ascritti a queir Ordine. 
Ad avere di ciò una sicura prova si veggano le imma- 
gini dei due principi da Carrara, stese sui sepolcri po- 
sti nella chiesa degli Eremitani in questa città, e quel- 
le degli Scaligeri nelle celebri tombe di Verona. 



25 

Non è già più una quistione, se nei secoli di 
notte e di barbarie, che avTolsero Tltalia di te- 
nebre dal cadere di Roma fino al nascere di Ci- 
mabue, l'arte della pittura mantenesse qualche 
battito di vita. Gli scrittori ed i monumenti ne 
provano di molte guise che in questa beata re- 
gione, sorrisa da tanta mitezza di aura e di cie- 
lo, confortata da sì pronto ingegno ne' suoi figli, 
non fu mai spento del tutto l'amore e la prati- 
ca di una si leggiadra emulatrice del vero. Ma 
a quale stremo rovinava l'arte in quei secoli! 
Non più venustà di forme, non più un digrada- 
re spontaneo dalla luce alle ombre, proporzioni 
esili, occhi sbarrati, piedi ritti indurati, pieghe 
ordinate a guisa di canalature; non più, in una 
parola, vestigio di un'arte liberale, ma imperfet- 
to e rozzissimo meccanismo. Né a trarla da tan- 
ta miseria per nulla valsero i greci maestri che 
nel nono e decimo secolo approdarono alle piag- 
ge italiane, e si sparsero per le varie parti della 
penisola a colorare goffamente ancone, trittici, 
manoscritti. Anche in Bisanzio, sebbene con più 
tarda caduta che in Occidente, le arti erano in- 
vilite; e quei pittori, fatti ignari d'ogni imita- 
zione del naturale, non altro sapeano che trac- 
ciare su d'un tipo medesimo immagini deformi 
di Madonne, in cui al paro dell'antico pittore di 
Elena gettavano a piene mani le dorature, onde 



26 

la ricchezza tenesse le yeci del bello. GF italia- 
ni dipintori, più incolti ancora dei greci, tolsero 
ad esempio quelle povere tavole, e pel correre 
di più secoli nulla di meglio valsero a produrre. 
Forse ove alcuni politici travolgimenti non 
avessero rotto Talto sonno d' Italia , e se coi di- 
largati lumi non fossero apparse più rette ordi- 
nanze , le arti del bèllo visibile non sarebbero 
uscite mai dalla sozza belletta in cui giacevano 
ravvolte. Ma allorché dopo la pace di Costanza 
acquistarono indipendenza e potere i municipi! 
italiani, allorché colle franchigie dei commercii 
prosperarono nelle città ricche ed animate l'in- 
dustrie, le leggi furono fatte più sante dal dirit- 
to sociale, e fu sbandito il tracotato feudalismo, 
la civile libertà pose radice, e tutte le arti che 
fanno bellissimo il vivere civile ebbero vigore 
ed incitamento, e colla frequenza dei viaggi s'ac- 
comunarono le dottrine fra nazione e nazione , 
anche le arti rinverdirono su questa terra , in 
cui per tanto correre di lagrimosi anni erano 
state avvilite dalla barbarie. I Conti rurali non 
più seminati per le campagne a gravare di ferri 
le terre ad essi soggette, ma raccolti a domici- 
lio nelle città, vi alzarono palazzi magnifici; le 
repubbliche fatte fiorenti , molto oro profusero 
ad erigere edifizii colossali , ove libravansi i di- 
ritti dei liberi cittadini. La religione, energica 



37 

I 

molla politica al buon governo delle famiglie e 
degli Stati, pose attenta cura al culto esteriore, 
sempre il più efficace mezzo per sollevare il 
cuore delle masse fino al trono della Divinità, ed 
alzò tempii in cui gran parte dispendiavasi del- 
la ricchezza municipale. Vergognava ella però , 
che sulle sublimi' pareti di quelle moli slancia- 
te, sull'altare ove dovea vedersi figurato l'eter- 
no Valore , immagini mostruose e sconcie rap- 
presentassero tanta e sì grave potenza; animò 
quindi i dipintori perchè, lasciate le informi 
maniere dei greci musaicistì, movessero a più si- 
cura norma, togliendo piuttosto dal vero la imi- 
tazione, che dalle povere iconi dei bisantini co- 
loritori. Fu il primo Cimabue a staccarsi dal 
fare peritoso e bistentato di quei Greci, a scor- 
gere a quale nobile segno dovea intendere la 
pittura , ed agli sforzi di quel magnanimo leti- 
ziò Italia, e ne cantò le lodi. 

La natura, che par racquistare nel sonno dei 
secoli bui le forze infiacchite dal forte ope- 
rare, e compiacersi di trarre da quella notte 
morale gl'ingegni destinati a raggentilire le na- 
zioni , a riporre in onore i civili ordinamenti , 
diede vita a Giotto, uomo di sì elevato sentire 
e di sì penetrante veduta da poter soltanto es- 
sere comparato a quel sommo, il quale co' suoi 
versi animosi cosparse di luce tutto quel secolo 



a8 

originale. E di \ero parve che la fortuna ran- 
nodasse quei due grandi col triplice yincolo di 
coevi, di concittadini e di amici, perchè Tun 
l'altro trasfondendosi i sublimi concetti, giun- 
gessero per diverso cammino lo scopo di diroz- 
zare gli uomini, a quei dì ancora molto lonta- 
ni da civiltà. Dante col grandioso concepimento 
del sacro poema prese a dimostrarci quale fos^ 
se il sapere e la società del suo tempo, quali le 
arti, le scienze, la politica, la religione, le frodi 
dei troni , i delitti dei signorotti , le spregiate 
virtù del savio, i vizii e le colpe del popolo: egli 
potrebbe dirsi il cronista delle cognizioni, della 
filosofia e della morale dominanti in quel seco- 
lo , tutto ravvolto nelle aristoteliche e platoni- 
che sottigliezze: Giotto intravvide nella pittura 
un mezzo vigoroso per parlare una prepotente 
parola alle moltitudini, un'arte fatta per rende- 
re popolari quelle verità religiose , inverso le 
quali si volgevano allora tutti gì' ingegni , tutte 
le menti; sentì quanta dignità convenisse alle 
composizioni che pigliavano a tema UAmor che 
move il Sole e Valtre stelle ; e sul vero di conti- 
nuo meditando, nella espressione toccò una me- 
ta, che meravigliosa per quell'età, è pur difficile 
arrivare anche ai giorni nostri, comechè irrag- 
giati da tanta luce di sapere. L'Alighieri cacciato 
in bando dall'ingrata patria, errante di città in 



^9 

città, di terra in terra, per tutto propagò Tainore 
Terso l'armoniosa favella del sìj tolta per lui dal 
lezzo dei trivii, e'fatta aulica e cortigiana; l'al- 
tro, levato in fama di grandissimo, corse reggie e 
municipii, ad ornare tempii e palazzi con quel- 
le dipinture che dovevano riuscire arra di fu- 
tura gloria per le arti di questa classica terra. 
Dante fu l'immagine del versatile ingegno degli 
Italiani, che possono sicuri drizzare ad ogni stu- 
dio le penne dell'intelletto: egli il filosofo, egli 
Io storico, egli il padre della lingua comune, egli 
il consigliero di quei soccorsi valevoli a far li- 
bera e grande la patria. Giotto profondamente 
comprese , che a fare universale un dipintore 
è mestieri a tutte le arti sorelle abbia posto ma- 
no, perchè tutte di un comune vincolo si col- 
legano: egli quindi tratta la scultura, e model- 
la in creta anaglifi e statue che ancora serba^ 
vansì conservate ai tempi del Ghiberti; tratta 
le seste, ed in Napoli, in Assisi ed in patria 
eleva opere stupende e lodate , fra cui torreg- 
gia prima il campanile della Cattedrale fioren- 
tina, mole meravigliosa e sì armonica in ogni 
lato, da bastar sola ad attestare quanto anche 
nell'architettura valesse quel gagliardo artista (0. 



(i) Perchè nulla mancasse a rendere culto e forbito 
r ingegno del fiorentino pittore, sappiamo con certezza 



3o 

Ricco di tanto e sì vario sapere , non è quindi 
meraviglia se in fatto d*arti fu proclamato l'uo- 
mo universale de' suoi di, siccome Dante lo era 
in fatto di lettere. 

Io forse sarò di troppo uscito dal mio sogget- 
to, raffrontando fra loro queste due menti vi- 
gorose; ma poiché è fama che ai nobili conce- 
pimenti del sommo pittore aggiungessero nerbo 
e grandezza quelli dell'immenso poeta; poiché 
pur vuoisi dalla viva voce di lui, ch'é signor 
dell'altissimo canto , venisse infiorata , avviva- 
ta la possente immaginazione del fiorentino co- 
loritore; poiché sappiamo che qui, nel cuore 
dell' amico , versava l'Alighieri le angoscie del- 
l' anima dolorata; mi si darà perdono se favel- 
lai lungamente sugli stretti vincoli d'ingegno 
e di cuore che insieme avvinsero quei due gi- 
ganti italiani. 

Giotto salito in grande nominanza, corse Ita- 
lia e parte di Francia, invitato per tutto con 
larghissimi stipendii ed onori; e per tutto lasciò 



ch'egli- talvolta scriveva versi. Nel codice num. 47 della 
Biblioteca Gaddiana in Firenze (ora Mediceo -Laurcn- 
zìana) troviamo una canzone di lui. Tuttoché essa sia 
ben lunge dal meritarsi un posto fra le gemme dell'ita- 
liano Parnaso, pure ne prova la ferace mente del no- 
stro pittore. Chi fosse vago di leggerla impressa, vegga 
r Opera del prussiano Rumohr, Italianische Forschun- 
gen etc, pag. 5i. 



3i 

testimonii della ferace sua fantasia, ed imitato- 
ri dello stile di lui. Molti scrittori, vinti da amo- 
re di municipio , potranno sforzarsi a provare 
non essere egli stato il solo che desse impulso 
ad una scuola, e trattasse l'arte da maestro; ma 
egli rimarrà però sempre il primo dipintore de* 
suoi dì, ed il più venerato, il più seguito fino a 
Masaccio. Scorri tutte le città ove Giotto pose 
mano a pennelli, e le vedrai fornite a dovizia 
di artisti che servilmente camminarono sulle 
orme di lui. Persino Siena medesima, forse per 
livore di odii municipali, gelosa di non affratel-* 
lare colla rivale Firenze neppure le arti del bel- 
lo , serba in alcune opere di quei giorni note- 
voli traccie delle maniere di colui che oscurò 
la fama di Cìmabue. 

Anche in Padova Giotto die opera a molti 
freschi, i quali furono esemplare e guida a tutti 
i nostri dipintori di quel secolo, e che ora la- 
mentiamo perduti (0, ad eccezione di quelli che 



(i)La Cappella del Capitolo nella basilica del Santo, 
citata dal Vasari come opera bellissima di Giotto, e sor- 
gente di tanti errori pei commentatori dell'aretino bio- 
grafo, venne da molto tempo imbiancata. Tentai ripetu- 
te prove per togliere dalle pareti il bianco sovrapposto; 
ma non mi fu possibile ritornare in luce se non gli avan- 
zi di uno spartimento figurante varii monaci intorno ad 
un leggio. 



32 

fregiano l'Oratorio dell'Annunziata, giojello pre- 
zioso non solamente per questa città , ma ben 
anche per tutto il tenere della penisola (0, la 



(i) Lessi non ha guari alla pag. 68 della ora ricor- 
data Opera del Rumohr le seguenti parole, ch'io qui 
riferisco tradotte. Fra gli altri lavori del nostro artista 
(Giotto) ricordati dal Ghiberti ^ sonovi ancora le pitture 
delV antico anfiteatro in Padova , albenchè ridotte nella 
più triste condizione f essendo state ridipinte a colla. Dal- 
la Falle assicura cV esse sono fra le migliori opere di 
Giotto'; forse le avrà vedute prima che venissero guaste . 
NelVattuale loro stato non può darsi giudizio alcuno sul 
merito di esse. V'edendo così di balzo tolto a Padova 
uno de' suoi più insigni ornamenti, corsi subito a rivede- 
re i celebri dipinti, onde raccertarmi se i molti artisti e 
dotti viaggiatori che tutto giorno li visitanfo, versavano in 
errore tenendoli fra le più conservate opere di Giotto. 
Dopo il più diligente esame mi riconfermai avere il 
chiaro Prussiano avventato un assai storto giudizio. A 
riserva dell'allegorica figura della Stoltezza, per vero 
dire tutta ridipinta, di alcune parti nella parete del Giu- 
dizio , e forse dello spartimento rappresentante la fuga 
in Egitto, nuU'altro sembrami esservi di ritocco fra que- 
st' opere del sommo Fiorentino. Parmi anzi che il sìg, 
Rumohr dovesse dagli ora citati ristauri meglio convin- 
cersi della preziosa conservazione serbata dagli altri fre- 
schi chiusi in quest'Oratorio. Solo che avesse osserva- 
to con occhio attento, e non prevenuto, vi avrebbe scor- 
te tali differenze fra le parti intatte e quelle insozzate 
per moderni ritocchi, da escludere ogni dubbiezza. Se 
per caso, che no'l vogliamo credere, egli inviato in que- 
sta nostra penisola dal Re di Prussia, onde fare incetta 



33 

quale perdette sciaguratamente la più gran par- 
te delle tante opere dal nostro insigne maestro 
condotte (0. 

Il eh. abate Morelli nelle sue erudite annota- 
zioni alle Notizie di opere di disegno j da lui pub- 
blicate (2) in Bassano, ne provò con evidenza 
che Giotto s'era posto in sì vasta intrapresa in- 
torno al i3o6, quando egli cioè toccava i più 
fervidi suoi anni. Questi freschi sono disposti 
in tre ordini di spartimenti, nel più alto dei 
quali veggonsi rappresentate le principali azioni 



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d'illustri tele per la Pinacoteca di Berlino, ha giudicato 
tutti i dipinti da lui raccolti col senno e con la ponde- 
razione con cui ha dato sentenza dei giotteschi, davve- 
ro che noi Italiani non possiamo lamentare i capolavori 
toltici da lui, né invidiar punto al prussiano Monarca le 
gemme di che gli tornò onusto il suo Ruroohr. 

(i) A riserva dei nostri freschi, e di quelli esistenti 
nella chiesa della Incoronata a Napoli, poco altro ci 
rimane In Italia di Giotto, che non sia guasto o dal 
tempo, o dalla mano degli uomini. Le pitture di san 
Francesco in Assisi, oltreché fra le sue prime, pei molti 
ritocchi poco più lasciano di originale. Gli spartimenti 
dipinto nel Camposanto di Fisa è quasi tutto scalcina- 
to; i freschi di S. Croce a Firenze per gran parte ruino- 
sì; gli altri di Roma quasi distrutti. Non vaste opere 
lavorò in altre città; ed anche quelle vanno a male, o 
di già perirono. 

(a) Notizie d* opere di disegno ec, pubblicate dal Cav. 
Morelli, bibliotecario della Marciana. Bassano i8oo. Ve- 
di pag. a 3, e la nota relativa alla pag. i46. 



34 

della Vergine, e nei due inferiori tutta la Ttta 
di Gesù Cristo. Sotto a questi sonovi dipinti a 
chiaroscuro le sette principali Virtù, e di pro- 
spetto i Vizii a quelle opposti. Sulla parete poi 
che sovrasta la porta è figurato il Giudizio fina- 
le. La volta tinta in azzurro, e seminata dì stel- 
le dorate , va interrotta a quando a quando da 
sfondi, ove campeggiano in mezza figura nostro 
Signore e varii santi e profeti. 

È universale dolore degli eruditi e degli ami- 
ci de' buoni studii, che il francese d'Hancar- 
ville (0, in cui Tingegno era pari alla estensio- 
ne delle dottrine, non abbia mai voluto far di 
pubblica ragione le dotte interpretazioni da lui 
scritte su questi celebri affreschi. Egli avrebbe, 
mi sia lecita la espressione, notomizzato il pen- 
siero di quel grandissimo, il quale di tanto avan- 
zò nelle sue composizioni i bui tempi fra cui 
visse. Non è sicuramente fatica dagli omeri miei 
il favellare di questi dipinti colla profonda eru- 
dizione di che andava ricco il d'Hancherville; e 



(i) Quest'uomo di vasta erudizione e di sottilissimo 
ingegno visse gli ultimi anni della longeva sua vita in 
Padova, ove morì nel i8o5 quasi nonagenario. Arric- 
chì le lettere dì due Opere, che gli fruttarono bella fa- 
ma. Antiquité$ etrusques tirées du Cabinet de Af.' Hamil- 
ton ; e Recherches sur l'origine, V esprit et le progrès des 
arts de la Grece» Quest'ultima è divenuta rarissima. 



3r> 

quindi, interpretate che io mi avrò del mio me- 
glio le ingegnose allegorie racchiuse in alcuni 
di essi, penso rivolgere le mie indagini princi- 
palmente sulle parti che spettano all'arte. 

Addiveniva di rado, cosi nel medio evo, come 
nelle età municipali, che alcun'opera s'impren- 
desse senza inframmettervi qualche tratto della 
scienza allegorica e simbolica, precipuo segno 
cui dirizzavansi a quei dì le discipline severe 
ed amene. La simbolica era allora l'espressione 
della società; per vie simboliche la filosofia per- 
suadeva il meditare profondo, la politica disve- 
lava le ragioni del governare, la religione invi- 
tava all'omaggio di Colui che addusse in terra 
il vero che ci sublima, la poesia accendeva gli 
animi al forte sentire, le arti medesime facean- 
si rappresentazione e specchio di morale. Nin- 
no stupore quindi se Giotto ne diede in questo 
Oratorio un saggio della profonda perizia che 
egli si aveva sulle allegorie, pingendovi coi più 
ingegnosi emblemi i vizii che disonorano l'uo- 
mo, e le virtù che lo rendono la più eletta del- 
le creature. Un tempo non doveva essere per 
certo difficile lo svolgere il pensiero che guidò 
il famigerato Fiorentino nella composizione di 
questi chiaroscuri, perchè sotto di essi legge- 
vansi alcune iscrizioni latine, le quali probabil- 
mente ne additavano le ragioni dei varii sìmboli, 



36 

dal pittore creduti i più acconci per dar loro 
eyideDza e chiarezza. Il tempo e la mano del- 
l'uomo quasi interamente cancellarono quelle 
epigrafi, e solo rimasero i nomi dei viziiedelle 
virtù, scritti al di sopra d' ogni figura. 

Prima fra quest'ultime si presenta la Speran- 
za (Tav. IV). Ne punto Tediamo in essa effigiata 
quella speranza yulgare, vòlta solo ai mondani 
godimenti; ma invece quel sentimento vivo, ar- 
dentissimo, che quasi fiamma ascendendo, si le- 
va sempre alla prima Cagione, e fa propria deli- 
zia gli eterni tesori. Ce la figurò il pittore in sem- 
bianze di leggiadra giovinetta, che vestita di mo- 
destissimo abito si stacca dalla terra, e librata 
sull'ali alza il suo volo verso il supremo dei be- 
ni, perchè la speranza che si rivolge al Creatore 
abbandona ogni ricordanza di quaggiuso, e tut- 
ta s'affisa in lui. Ed egli accoglie benigno quel- 
l'atto, che dalle cose terrene la diparte, ed a lei 
che gli stende le desiose mani invia un ange- 
lo, a porgerle corona di eterno premio. Qualità 
devota semplicità in quella movenza, quante 
ingenue grazie in quel sorriso! Sì, tu leggi nel- 
l'infiammato suo volto 

quello attender certo 

Della gloria futura, che produce 
Grazia divina e precedente merto. 

Dante. Paradiso. Canto XXY. 



37 

Alla Speranza tien dietro la Carità (Tay. V) , 
sulla quale mi fu dato vedere le dotte osserva- 
zioni del d'Hancarville (0, di cui avviso porge- 
re qui un breve sunto , rimandando poi il let- 
tore all'Appendice, ove ho riportata per intero 
la forse anche troppo ingegnosa e sottile inter- 
pretazione stesa dall'erudito straniero su que- 
sta figura. 

La Carità, die' egli, va cinta da un'aureola, 
simbolo della vita beata che l'aspetta nel cielo, 
e da una corona di fiori intrecciati a frutta, em- 
blema della felicità ch'essa gode sulla terra. Al- 
cuni di questi fiori sono di color bianco, a de- 
notare quanto questa liberale virtù possa coi 
soccorsi recati agl'indigenti accrescere le fami- 
glie ed ampliarne la floridezza. Giotto ci rappre- 
sentò la Carità sotto le sembianze di una donna 
che, varcata la giovinezza, arrivò quegli anni in 
cui l'intelletto è possente di tutto suo acume, e 



(i) II Gay. Alessandro Co. Fappafava, delle arti bel- 
le dotto cultore , e solerte a raccogliere tatto ciò che 
torna ad utile e a gloria delle medesime , possedè le 
illustrazioni deirerudito Francese su tre frale Virtù di- 
pinte nel nostro Oratorio, la Carità^ la Fortezza e la 
Prudenza. Egli ch'ebbe la gentile condiscendenza non 
solo di prestarmele , ma ben anche di permettermene 
la stampa , si abbia in queste pagine tributo di grato 
animo. Io spero che il colto lettore mi saprà grado di 
trovarle tutte e tre riunite in fine di questo libro. 



38 

forte il corpo di fermo vigore. Noi uomini', li- 
beri dall'imperioso giogo delle passioni, preferia- 
mo allora l'utile al gradevole , la verità alle ap- 
parenze, la felicità al piacere, il riposo all'agita-^ 
zione. Il volto di questa figura non offre i linea- 
menti della bellezza, ma si bene quelli della 
bontà. Rivestita di modesta negligenza, ella por- 
ta una sola tunica, secondo quel precetto evan- 
gelico che ci avverte : Il posseditore delle due 
tuniche dee porgerne una a quegli che ne difetta. 
Proseguendo poi l' erudito Francese a lodare in 
essa la toccante espressione di affetto e di rivol- 
gimento verso il Bene supremo, ci fa osserva- 
re, gli otri che le stanno al piede, e su cui son 
posti alcuni cartelletti, racchiudere il denaro 
consecrato al sovvenimento dei poverelli. A me- 
glio indicar poi i doni della Provvidenza, di cui 
la Carità è ministra , Iddio stesso , intanto che 
sta contemplandola con ineffabile tenerezza, e 
l'approva e la incoraggisce, le depone una bor- 
sa nella mano sinistra. Ella dirizza uno sguardo 
acceso, divampante inverso di lui, si muove ed 
agisce unicamente per lui; ma anche affisando- 
lo ella sembra da interno impulso sospinta al^ 
l'opposta parte, a quella parte ove tien cus;toditi 
i beni fidati al zelo di lei. A dir breve, tutto in 
questa cara figura manifesta la volontà d'operare 
di continuò; perfino la sua movenza palesa la 



39 

risoluzione di mutar prestamente i passi , onde 
presto giugnere il prefisso scopo. 

Compagna alle due ora nominate Virtù teo- 
logali campeggia la Fede (Tav.VI), matrona di 
maestoso aspetto, dignitosamente ricoperta da 
ampie Toluminose vesti, le quali però si mo- 
strano lacerate in varie parti; forse ingegnosa 
allusione alla povertà in mezzo a cui ebbe cul- 
la ed origine il Cristianesimo, o meglio eloquen- 
te simbolo di una religione che si fa madre e con- 
fortatrice al pusillo. 

Le copre il capo una mitra, a simboleggiare 
eh' ella esser deve precipuo fregio dei Pontefici 
e dei ministri dell'altare. Serra nella destra il 
sacro segno di redenzione, e nella sinistra tiene 
il rotolo de' santi papiri, ove stanno scritte le 
dottrine rivelate, per dimostrare ch'essa è la 
proteggitrice e la interprete dei misteri racchiu- 
si nelle sacre carte. Le pendono dalla cintola le 
chiavi del cielo, lasciate dal Signore in cura al 
Principe degli Apostoli, ed emblema, secondo 
i sacri interpreti (0, della scienza e dell'auto- 
rità sacerdotale , che discerne la gravezza del- 
ìe colpe, e loro appone il gastigo. Coi piedi cal- 
pesta infranti idoli della Gentilità, tavolette e 
carte rabescate da cabalistiche linee e da segni 



(i) In Cap. XVI. Matth. 



4o 

di astrologia giudiziaria, ai giorni di Giotto sor- 
gente troppo copiosa di errore e di traviamento 
anche per le menti più acute. Lo sprezzo con 
cui Taugusta donna conculca quelle fonti fatali 
di aberrazione, Tale a chiarirci che la vera fede 
si fa gabbo della idolatria , della superstizione , 
delle travolte credenze , e trova ogni puntello , 
ogni guida in Dio. 

Viene quarta la Giustizia (Tav. VII), e nelle 
spesse rughe del volto ravvisi essere virtù che 
meglio s'associa col freddo senno dell'età matu- 
ra, anziché coi mille impeti degli anni più verdi. 
È seduta su ricco seggio, e va coronata da diade- 
ma regale, per mettere in aperto che dovrebbe 
essere sempre partaggio dei regnanti, o dai re- 
gnanti sorretta. Una vasta bilancia le pende di- 
nanzi; ed ella coi palmi delle mani sottoposti ai 
due piatti tenta uguagliare il peso, acciocché 
non trabocchi da ninna parte. Su d'una di quel- 
le bilancie un angelo sta ponendo una corona 
sul capo ad un saggio che ha fatto sua delizia gli 
«tudii (0. Sulla seconda altro angelo, sguainata 
la spada della vendetta , vibra un fendente ad 



(i) Forse il pittore pose qui gli angeli a compiere 
gli uffìzii della Giustizia, per conformarsi alla senten- 
za di san Bernardo, che disse essere pura, ferma e ret- 
ta la giustizia degli angeli. S, Bernardus in Conversione 
S, Pauli Sermo /. Voi. I. pag. 969. 



4i 

un malfattore che attende ginocchioni il castigo 
meritato. Concetto veramente acutissimo, poi- 
ché giova a farci palese che la giustizia mini- 
strata su questa terra , a simiglianza di quella 
del Cielo , deve tutto Kbrare su esatta lance , e 
con uguale imparzialità guiderdonare le magna- 
nime, punire le azioni colpevoli . Al di sotto del- 
la matronale figura veggonsi effigiati con mol- 
ta diligenza ed in piccole dimensioni alcuni gen- 
tiluomini che coi falconi in pugno si recano a 
caccia ; altri si abbandonano a danze , fatte lie- 
te dal suono dì cimbali e crotali; altri anco- 
ra sfoggiano ricchi abbigliamenti, e si godono i 
diletti del cavalcare. Se male non mi appon- 
go, volle così il pittore darci a divedere che in 
quelle società, ove la giustizia è rettamente or- 
dinata, ivi Tuomo può godersi in pace i sollazzi 
ed i piaceri della vita. 

Chi è quella donna tutta ravvolta ne' panni , 
d'aspetto sì mite, e che pure tiene fra le mani 
una spada? (Tav. Vili) Io la ravviso: è la Tem- 
peranza, che nell'atto modesto ci dimostra la 
placida indole ch'ella sortì da natura, e l'unica 
norma che la guida nel suo cammino, quella 
cioè di persuadere agli uomini il giusto operare 
per le vie della dolcezza. La bocca di lei è chiu- 
sa da una sbarra, per renderci avvertiti che non 
meriteremo mai '1 nome di temperanti, se non 



4» 

porremo freno ali* inconsiderato favellare. Ma 
perchè poi quella spada, sempre emblema o di 
severità o di ferocia? Fatti da presso, e vedrai 
essere quel ferro ravvolto da più nodi , e sì fat- 
taììiente ravviluppato dal balteo, che impossibi- 
le sarebbe trarnelo dalla guaina. Quel pittore 
filosofo amò cosi d'istruirci che la Temperanza 
non si vale mai d*armi per amicarsi i cuori, né 
stringe mai al bene operare colla forza. 

Non è da credere che sia atteggiata ad ugua- 
le calma la Fortezza (Tav. IX), che vien dopo 
la ora descritta virtù. Mostra un cipiglio seve- 
ro, arrischievole , baldo, quanto le forme della 
persona. Tuttoché donna, non teme vestire la 
corazza. Una pelle di leone le ricopre il capo e 
le spalle, e le si avvinghia ai fianchi. Qui il pit- 
tore conformossi alle idee colle quali gli anti- , 
chi si piacquero rappresentarci questa invitta 
virtù. Essi ci figurarono Ercole o la Forza , che 
domato il leone nemeo, ne traeva la pelle e la 
faceva suo manto, quasi per chiarirci che la 
forza dell'uomo, quando giunga ad abbattere il 
più feroce fra gli animali, può prevalere ad 
ogni cosa terrena. Disse ingegnosamente d'Han- 
carville (vedi l'Appendice) favellando di que- 
sto dipinto , che alla fortezza è solo manto la 
gloria, e che il leone è qui emblema della for- 
za , e la spoglia di lui quello della gloria . Que- 



43 

sta bella allegoria del coraggio e dell'ardire uma- 
no, prosegue egli, male Mando della sempre 
bugiarda' fortuna , par di già precedere i roTe- 
scii di così infida divinità, e fa suo propugna- 
colo un muro, dietro al quale ella può con van- 
taggio difendersi , e ferire in sicuro Y inimico 
che volesse sorprenderla. Sembrami però non 
rettamente sentenziasse qui il sopraccitato eru- 
dito; perciocché, se non erro, non è questo altri- 
menti un muro, ma sì bene uno di quegli scudi 
dei legionarii romani , detti dagli antichi scuta 
sabina. In questa opinione mi rassoda e la poca 
grossezza di esso, convenevole sì ad uno scudo, 
non mai ad un muro che servir deve a difesa ; 
e la mano sinistra celata dietro quello, quasi 
lo tenga imbracciato; e quel leone delineatovi 
sopra , e scortante, a guisa d' immagine che se- 
gue il girare di corpo curvato; e, più che tutto, 
quei tronconi di lancia e di giavellotto colà con- 
fitti : prova evidente che il pittore avea voluto 
figurar qui un corpo ben più facile di un muro 
ad essere traforato dal ferro, siccome è appunto 
uno scudo, spesso formato di cuojo. Farmi an- 
cora, che il dotto Francese siasi ingannato quan- 
do vide nel leone, posto ritto in piedi sullo scu- 
do ora descritto, un simbolo dei potenti nemici, 
i quali muovono uniti contro la Fortezza. A me 
pare invece ch'esso dovrebbe pigliarsi quale em- 



44 

blema della generosità d'animo, compagna inse- 
parabile del forte, essendo il leone quello fra gli 
animali che più di tutti è yolto a nobili ardi- 
menti, e sdegna sempre misurarsi coi deboli. Il 
sopraccitato scrittore ne disse ancora tener la 
Fortezza in mano un'arma tagliente ma non ap- 
puntata, per dimostrare che, chiudendo nel pet- 
to generosi, non crudeli sensi, evita di apparire 
formidabile, e solo si sta contenta di rintuzzare 
gli assalti portati contro di essa, senza curarsi di 
rovine e di stragi. Qui parmi T acuto Francese 
non troppo badasse a queir arnese di guerra, 
cosi interpretandolo; poich'esso, piuttosto che 
ad un'azza o ad una spada, somiglia una mazza 
ferrata, ch'è appunto Tarma la quale nel medio 
evo tenevasi come la più dannosa, e quella che 
voleva essere maneggiata da braccia vigorose, 
perciò meglio di ogni altra si affaceva alla sim- 
bolica figura della Fortezza. 

Ultima fra le virtù è qui la Prudenza (Tavo- 
la X). Su d'essa pure serbiamo le dotte osser- 
vazioni del d'Hancarville, di cui il Cicognara 
riportò un tratto nel Tomo III. Librò III. del 
suo colossale lavoro. Io per amore di brevità 
le recherò ora epilogate. Sta la Prudenza sedu- 
ta su d'una di quelle seggiole di cui d'ordinario 
fan uso gli uomini consecrati alle lettere , onde 
abbandonarsi a tranquilla meditazione. Lo spec- 



45 

chio convesso da lei tenuto in una mano (il qua- 
le sebbene Taiga a sminuire ed a raggentilire le 
forme, pure le presenta diffìgurate), simboleggia 
le prevenzioni, l'opinione ed il pregiudizio, che 
ci tolgono sempre di scorgere sotto giusto pun- 
to di veduta le cose da cui siamo attorniati. 11 
compasso, che le sta nell'altra , è emblema del 
solido giudizio da lei usato di continuo per ap- 
prendere Teqiia misura delle umane azioni, com- 
battere gli errori, cribrare cauta le altrui opi- 
nioni, conoscere interamente sé stessa. Essendo 
essa utile ugualmente ai due sessi, e dovendo 
scovrire nelle memorie del passato saggi am- 
maestramenti pel presente e per l'avvenire, è 
bifronte, ed al volto muliebre ne porta accop- 
piato un altro virile. Veggonsl in quest'ultimo 
le sembianze di Socrate , il più virtuoso ed il 
più assennato fra i filosofi. Secondo la massima 
di lui, la Prudenza impara nel volume, in cui 
tiene fiso lo sguardo, a ricercare nel vero la re- 
gola de' proprii giudizii, nella virtù quella delle 
sue azioni. Un velo le copre il capo, pe'rch' es- 
sa possa nascondersi di guisa da non iscontrar- 
si mai negli sguardi avvelenati dell' Invidia e 
^ella Calunnia. Il libro posto dinanzi a lei su 
d'un leggio, è quello della Storia generale del 
mondo. E là che la filosofia, unita alla sperienza, 
le disvelò ciò che possano le passioni ed i prì- 



4G 

vati interessi, i tempi e le circostanze, i buoni 
ed i cattivi consigli. Il volto della Prudenza, 
prosegue il d'Hancarville, ben lungi dal pom- 
peggiare d'una cospicua bellezza, mostra anzi 
lineamenti vulgari; e ciò perch'essa è virtù che 
viene acconcia ad ogni età, ad ogni sesso, ad 
ogni ordine di persone, e pe'suoi pregii intrin- 
seci da preferirsi alla bellezza medesima. 

Considerando in generale le figure allegori- 
che di queste virtù , riflette il più volte lodato 
d'Hancarville, che tutte difettano di bellezza; 
ed in questo ognuno verrà con lui d' accor- 
do, soltantochè abbia occhi. Ma chi crederebbe 
che un siffatto mancamento egli proclamasse sic- 
come pregio sommo ed ingegnoso accorgimento 
del pittore , il quale avvisò , a detta sua , essere 
piuttosto le ora descritte virtù degne della bel- 
lezza morale, anziché della fisica? Questo, se io 
non erro, chiamasi farneticare per soverchio in- 
gegno. Imperocché , chi mai vi sarà di sì gros- 
sa veduta da credere che un artista dotato del- 
l'alta potenza di operare il bello, e col bello tras- 
fondere care, leggiadre, soavissime impressioni, 
volontario si studii di delineare su tipi sconci e 
disavvenevoli le più belle e le più candide fra 
le virtù, e ti figuri con un volto volgare la spe- 
ranza che gli animi avviva, la carità che li con- 
forta, la fede che li rassicura, la giustizia che 



47 
gli regge, la temperanza che li raffrena, la for- 
za che li protegge, la prudenza che li guida 
fra le prunaje di questa vita mortale ? Di qual 
maniera colui che tratta le arti potrà infonde- 
re neir osservatore il sentimento del hello mo- 
rale, se non porrà ogni sforzo a produrre la bel- 
lezza fisica e materiale, da quello scompagna- 
ta di rado? Chinando sempre la fronte alle opi- 
nioni del dotto Francese , mi sembra che a ciò 
fare Giotto fosse sospinto suo mal grado, perchè 
la mano non valeva a significare quello che il 
cuore gli dettava dentro, né poteva sulla in- 
fanzia delle arti arrivare il bello. Di fatto si 
confrontino le teste su cui ora favellai, con le 
altre moltissime che stanno colorite negli spar- 
timenti di questo Oratorio, e vi si vedrà, sì, 
un'aria nobile , un' espressione viva , toccante ; 
ma contorni che guidino a grazia, ma linee che 
dottamente alternate ci dieno bellezza , quella 
bellezza che Raffaello sentì e seppe produrre, 
no certamente. Io noi nego, che se l'altissimo 
Fiorentino avesse fiorito quando l'arte era già 
dirozzata da ogni barbarie, quando profonde me- 
ditazioni sul nudo, sull'anatomia e sull'antico 
avevano disvelato ai dipintori il gonfiarsi vario 
ed il protendersi dei muscoli, egli coll'alacre in- 
gegno avrebbe raggiunto anche nelle leste ve- 
nustissimi tipi. 



4a^ 

Siccome Giotto pose prima tra le virtù la Spe- 
ranza, così, per seguire la sentenza del santo 
Abate di Chiaravalle(0, collocò in cima aiyizii 
la Disperazione (Tav. XI). In quella tu ammi- 
ri un' estasi che la divide da ogni fralezza ; in 
questa t'inorridisce Tatto infame col quale ella 
disprezza ogni legge umana e divina. Essa è fat- 
ta a sé stessa carnefice, perchè niun affetto più 
rannoda alle dolcezze del tranquillo viv#ere, per- 
chè più non serra nel cuore l'amor de' suoi si- 
mili, perchè ogni gioja disparve dinanzi a lei, 
cui l'avvenire, quell'incessante pensiero dell'uo- 
mo, è fatto mestamente deserto, e non le offre 
più che il silenzio dell'orrido nulla. Per compie- 
re l'infame suicidio ella ha scelto il capestro, 
forse a denotare esser quello il mezzo che usa 
più di frequente l'uomo orbato di ogni speran- 
za, per attentare ai proprii giorni. Un demonio 
l'arronciglia pei capelli, e la trascina ove ogni 
lietezza è per sempre sbandita , per far dimo- 
stro che il disperato è preda degna di Satana. 

A questa viene sorella la Invidia (Tav. XII}. 
Macerata da rabbia e da livore, ella approfon- 
da i piedi nelle fiamme, per dar forse a divede- 
re che la empia sete dell'altrui danno la divora 



(r) S. Bernardus. Liber ad sororem de modo bene vi- 
vendi. Voi. IL pag. 866. 



49 

sempre siccome foco ardentissimo, o meglio per 
ricordarci ch'essa è maladetta emanazione d'in- 
ferno. Né, a dimostrar ciò, Giotto si stette con- 
tento a quest'ultimo segno, ma volle incurvate 
sulla fronte le corna, colle quali sogliono le arti 
distinguere il principe delle tenebre, di cui, se- 
condo il detto di sant'Agostino (0, l'invidia forma 
quasi il corpo e l'essenza. E grave d'anni, per- 
chè nei vecchi l'invidia è bene spesso fiera e te- 
nace, e di rado si appiglia in quei petti, i quali 
nel bollore dell'età e delle illusioni aborrono di 
abbandonarsi ad una colpevole gioja sulle sven- 
ture dei loro fratelli. Nella bocca dell'orrido mo- 
stro guizza un serpente, simbolo del veleno che 
è versato di continuo dalla lingua di esso. A di- 
mostrare poi che i mali recati dall'invidioso alla 
società bene spesso si ritorcono a danno di lui, 
la schifosa biscia ripiegasi a mordere la bocca 
medesima da cui esce. La mano destra di que- 
sta figura, unghiata al paro degli artigli del fal- 
co , si sta in atto di graffiare , siccome appunto 
adopera l'invidioso, il quale usa tutte le vie per 
dilacerare le azioni de' suoi simili. A significare 
poi che questo abbominevole vizio sociale, più 
che ad ogni altro godimento della vita, rivolge 



(i) Cantra ìitteraa Petiliani Liber IL; e Tom. II. Par- 
te III. pag. 860, Tom. IX. pag, 267. 

4 



5o 

le sue sozze brame a possedere Toro altrui, il 
pittore gli aggiunse due esosi emblemi di ava- 
rizia. Colla mano sinistra gli fé stringere una 
borsa, e le orecchie foggiò alla guisa di quelle 
del lupo , eh' è V animale di tutti il più ingordo 
ed insaziabile; quindi Dante quando ci pinse la 
immoderata cupidigia dell'arricchire, ce la por- 
se sotto forma di famelica lupa, 

di natura si malvagia e ria. 

Che mai non empie le bramose voglie, 
£ dopo il pasto ha più fame che pria. 

Inferno. Canto I. 

Di rincontro alla Fede scorgesi la Infedeltà 
(Tav. XllI). Forse alcuni maliziosi vorrebbero 
che questo, non so se vizio o peccadiglio della 
umana natura, ci venisse presentato sotto sem- 
bianze muliebri, anziché maschili. Senza farmi 
approvatore della maligna osservazione, rifletterò 
peraltro che Giotto (tuttoché vissuto in un tem- 
po in cui gli uomini meno assai che a' nostri gior- 
ni erano vòlti alle raffinatezze del vivere socia- 
le) troppo aveva ingegno per non sapere appor- 
re distinti emblemi alle colpe di quel sesso ama- 
bile , che talvolta è fermo soltanto nel cangiare 
di voglie. E quando pure avesse voluto nella 
figura che abbiamo sott' occhio non altro dimo- 
strarci se non i mutabili capricci di quella cara 
passione che amareggia ed infiora la vita di desi- 



5i 

derìi, di speranze, di disinganni, forse non avreb- 
be trascello forme yirili. Ma io invece avviso, 
piuttosto della infedeltà degli amori, volesse qui 
l'artista offerirci quella infedeltà verso la reli- 
gione, che spinge T idolatra a farsi ribelle al cul- 
to della Croce, e trascina lo scettico a negare 
resistenza del Vero eterno che ci governa. Un 
uomo che sembra reggersi a stento sulle gamba, 
e va coperto da un elmetto simile al petaso del 
messaggero di Giove, tiene nella mano destra un 
simulacro femminile, che forse cogli abiti sfarzo- 
si, da cui va ornato, vuol simboleggiare la Ido- 
latria, la quale si offre sempre sotto forme pom- 
pose e lusinghiere a chi non è forte nella fede del 
Santo dei Santi. In tale congettura mi riconfer- 
ma ancora più la cordicella che, tenuta per uno 
dei capi dalla statuetta accennata, s'avvinghia 
coU'altro al collo dell'Infedeltà; emblema atto a 
farci conoscere, se non erro, essere sì fatto vizio 
sempre vassallo della Idolatria e della Eresia. Le 
fiamme che ardono da un lato è probabile voglia- 
no indicar le pene della Città del foco, prepara- 
te a perenne castigo dell'Infedele; ma forse po- 
trebbero alludere a quelle vampe che l'Alighieri 
immaginò sparse fra le tombe degli eresiarchi; 

Per le quali eran si del tutto accesi. 
Che ferro più non chiede verun'arte. 

Inferno. Canto IX. 



52 

Più difficile per certo sarebbe il porsi in capo 
d'indovinare T allegorica significazione di quel 
vecchio che spicca fino a mezza persona dairalto 
della cornice, e sta svolgendo un papiro. Chi si 
appaga di aeree congetture, forse direbbe essere 
quegli Davidde, Il divino cantor del sommo Duce^ 
il quale invita l'idolatra a ricondursi su retto 
cammino , offerendo ad esempio sé medesimo , 
che pur dopo aver piegato sotto la foga delle 
passioni e spregiato il signor d'ogni bene, seppe 
tornare fra le paterne braccia di lui. A maggio- 
re e forse più forte prova di quanto ho detto sul- 
la Infedeltà è da aggiugnersi, che alla parola m- 
fidelitas i Padri della Chiesa apponevano sempre 
la significazione o di eresia o di idolatria. 

Ammirasti l'ingegno dell'artefice quando pin- 
geati Giustizia ( Tav. XIV. ) ; ammiralo ancora 
quando ti delinea la colpa opposta a sì bella vir- 
tù , r Ingiustizia . Un uomo il quale , chiusa la 
giovinezza, sembra però non piegarsi sotto il 
peso degli anni, sta seduto in lunga veste da 
magistrato dinanzi un tribunale. Le mani di lui 
vanno munite di unghioni, siccome gli artigli 
degli uccelli grifagni. La sinistra afferra con atto 
disdegnoso l' elsa di una lunga spada ; la destra 
stringe uno di quei biforcuti roncigli che soglio- 
no usare i mugnai per trarre a riva dalle stecca- 
je dei mulini le travi nascoste sott'acqua. Quali 



53 

simboli più acconci degli accennati per additare 
la sordida rapacità di colui che , pur dovendo 
tenere pubblica ragione, tutto osa attirare a pro- 
prio vantaggio, e tutto credesi permesso, purché 
sieno paghe le sue avare cupidigie ? Dietro allo 
scanno di lui s'alza una porta merlata, forse 
ad avvertirci, nelle rocche e nelle castella, più 
assai che fra la pace dei campi , essere violala 
ogni legge del giusto e deironesto. Non è sì age- 
vole il mettere in chiaro a quale emblematica 
significanza intendesse il pittore con quegli ar- 
boscelli e quei rovi assiepati tutto all'intorno del 
tribunale. Forse volle con oscuro sì, ma con ar- 
guto modo ammonirci che le azioni ingiuste e 
colpevoli dell'uomo errano per tramiti intral- 
ciali al paro di quelli de' boschi, ovvero si ope- 
rano fra i sentieri intricati ed insidiosi delle de- 
serte foreste. Sotto l'immagine della Giustizia 
vedemmo ritratti i godimenti della vita , caro 
frutto di quella magnanima virtù ; qui invece 
scorgonsi, nelle stesse brevi proporzioni, rapine, 
' omicidii, violenze, danni ingenerati sempre dal- 
la ingiustizia' delle leggi e degli uomini. 

Ira (Tav. XV.). Ad ognuno sarà avvenuto di 
osservare che giammai il collerico si lascia ire 
a tanto eccesso di furore, se non allora che gli 
è tolto disfogare la rabbia che dentro lo consu- 
ma. In quegli istanti impedito di saziare la sete 



54 

di vendetta, inferocisce ringhiando contro sé me- 
desimo. Quindi Giotto, quando si fatto -vizio si 
fece a pennelleggiare, presentollo sotto le sem- 
bianze di una donna che , digrignando per col- 
lera i denti, fa ingiuria al petto con ambe le 
mani, e dilacera a brani la veste. Anche Dante 
tenne ad un simile concetto quando ci descrisse 
gl'iracondi, che, attristati nella negra belletta, 

.... si percuotean non pur con mano. 
Ma con la testa e col petto e coi piedi. 
Troncandosi coi denti a brano a brano. 

Inferno. Canto VII. 

Questo chiaroscuro, se non è pregevole per ca- 
stigato contorno, fa però mostra di grande cal- 
dezza. Sembra quasi che il dotto artefice abbia 
voluto incarnare quelle tonanti ed animose pa- 
role di san Basilio (0, quando rovescia un tor- 
rente di contumelie contro gl'irosi; e scorgi tutta 
divampare la sconvolta persona, e parti udire Io 
stridio dei compressi denti, e miri il livido volto, 
e le turgide vene, ed il capo rigonfio pel tempe- 
stoso mareggiare dell'animo. • 

Eccoti dinanzi all'Incostanza (Tav. XVI.). È 
giovinetta in sul fiore degli anni, che a corpo 
abbandonato si getta sopra una ruota , e viene 
tx'ascinata dal rapido aggirarsi di quell'eloquente 



(i) Homclia adversus iratos, Tom. II. pag. i^S, 



55 

simbolo deirumaiia mobilità. Vedendo però qui 
r Incostanza opposta alla Fortezza, è da credere 
che l'artista ce la porgesse quasi immagine di 
debolezza e di fatuità negli argomenti che per- 
tengono alla religione; per la qual cosa io avviso 
che la ruota yoglia anche alludere a quella sen- 
tenza deir Ecclesiastico: Praecordia fatui quasi 

rota carri; et quasi axis s^ersatilis cogitatus illius. 

Cap. XXXIII. V. 5. 

Impetuoso -vento ne gonfia la gonna , e siffatta- 
mente ne agita le pieghe, che quasi dubiteresti 
vederla trasportata in aria ; leggiadra maniera 
per farci conoscere essere la leggerezza sempre 
inseparabile compagna alla incostanza. 

Viene da ultimo la Follia (Tav.XVIL), né hai 
d' uopo di leggerne in alto il nome per ricono- 
scerla. Un uomo quasi nudo, col capo bizzarra- 
mente ricoperto da piume a guisa degl'Indiani, 
affeiTa una grossa claTa,la quale sembra voglia 
egli far ruotare intorno alla impazzata, siccome 
di sovente sogliono quegli sciagurati che hanno 
smarrito il bene dello intelletto. None perciò da 
credere sia qui effigiata quell'alienazione della 
mente, la quale fa l'uomo meno che mortale, e 
gli toglie la potenza sublime concedutagli dal- 
l'Eterno; ma sì bene l'altra che lo avvolge e lo 
trascina nel peccato a cui gli Ebrei davano no- 
me da insensatezza. Forse il pittore vesti di quelle 



56 

foggie indiane quest' ultimo vizio per ricordarci 
gl'Infedeli ed i Gentili, ì quali da san Paolo so- 
no detti stoltij perchè non conoscevano le vie di 
Dio, e si vivevano in profonde tenebre sui dom- 
nii della vera fede. 

Se vorrassi perdonare ad alcune scorrezioni 
nel nudo, alle estremità, per vero dire, condotte 
con molta secchezza è stento, concederassi es- 
sere questi chiaroscuri di lunga mano superiori 
al bujo secolo in cui furono prodotti. Loderan- 
nosi volti, se non gentUi e leggiadri, certamente 
di un'energica vivezza, movenze sempre vere e 
concordi al concetto , pieghe con diligente faci- 
lità disposte e con industre artifizio dipinte, un 
segno castigato purissimo , invenzioni sempre 
varie, sempre nuove, sempre ingegnose. Queste 
allegorie, potente prova dell'acuta mente giotte- 
sca, è forza credere venissero altamente ammi- 
rate anche ai giorni del pittore, poiché veggiamo 
un illustre artista a lui contemporaneo imitarne 
quasi interamente alcune. Andrea Pisano, scul- 
tore sommo, in quel suo miracolo dell'arte, la 
porta meridionale del battisterio fiorentino, com- 
pose alcune virtù sull'archetipo stesso delle ora 
mentovate. Sono fra queste (siccome avverti an- 
che il Cicognara(O) la Fede e la Piudenza, nelle 

(i) Tom. III. pag. 399-400. 



5? 

quali non solo veggonsi quasi i simboli stessi , 
ma pressoché le movenze delle nostre. Ned è a 
credere che Giotto si pigliasse a modello Andrea; 
poiché le pitture dell'Annunziata furono da lui 
operate nel i3o6, e la porta di san Giovanni a 
Firenze si fuse , com' è notato nella iscrizione , 
ventiquattro anni dopo, vale a dire nel i33o. È 
più verosimile che Andrea , vedute avendo le 
dipinture deirArena fra gli anni i3o4 ^ i3io, 
nei quali dimorò a Venezia , quasi a tributo di 
ammirazione verso tanto lavoro , ne traesse al- 
cune invenzioni per acconciarle a quelle por- 
te bellissime, che bene disse il Cicognara essere 
r anello fra le rozze del Bonnano e le meravi- 
gliose del Ghiberti. Ben è vero potersi pensare 
non già Tuno degli artisti copiasse queste figure 
dalFaltro, ma piuttosto entrambi le attignessero 
dalle nozioni più ricevute e più comunali a quei 
giorni in fatto di Iconologia simbolica. Mi pare 
peraltro che una tale opinione male si regga , 
quando si vogliano osservare nelle opere d'altri 
artisti contemporanei le allegorie medesime im- 
maginate da' nostri due insigni, poiché si scorge 
ben di leggieri essére su differente tipo ordinate. 
In tanto dubbio un passo del Vasari vale forse 
a disvelare il vero meglio di ogni altra prova (0. 



(i) Fita di Andrea Pisano. Tom. II. pag. 157. 



58 

Racconta egli nella Vita del pisano scultore, 
« che essendo quest'ultimo a Ciotto amicissimo, 
» gli fu data a finire una delle porte del tempio 
» di san Giovanni , di cui avea fatto Giotto un 
» disegno bellissimo, ec.» Qual meraviglia quin- 
di che il discepolo di Cimabue, solito a ripete- 
re , come notò anche il Lanzi , le proprie com- 
posizioni , improntasse su d' un concetto stesso 
le allegoriche immagini da lui effigiate, e quelle 
che disegnava per Y amico suo ? Il Padre della 
Valle in una nota al sopraccitato passo del Va- 
sari non trova probabile che uomo sì sommo , 
com'era il pisano Andrea, si piegasse a spende- 
re ventidue anni per eseguire i pensamenti di 
un altro. Ma se l'ottimo Padre avesse posto men- 
te che Giotto veniva salutato il più eccellente 
dipintore de' suoi giorni e quasi il moderatore 
delle arti tutte, se avesse considerato che a nin- 
na opera metteasi mano in Firenze senza prima 
tenerne seco lui consiglio , avrebbe senza dub- 
bio sminuita la sorpresa. E l'avrebbe anzi tolta 
di mezzo, se si fosse piaciuto rammentare , si- 
mile esempio non essere rimasto unico nella sto- 
ria delle arti. Il Pinturicchio, pennello certamen- 
te non volgare, si diede per parecchi anni a colo- 
rire gli stupendi cartoni da Raffaello immaginati 
per rappresentare le azioni illustri del pontefi- 
ce Pio IL, Enea Piccolomini, e ne porse quelle 



59 

preziose pitture, bellissime fra le molte della sa- 
nese cattedrale. Fra Bastiano del Piombo, pittore 
dì forza e di gagliardia, incarnò parecchie ardite 
composizioni dell'immortale Bonarotti. Lo stesso 
Giulio Romano, sì grande, sì abbondoso, sì vario 
nelle invenzioni, assoggettò la impaziente sua 
mano a porre ad effetto vasti pensieri dell'Ur- 
binate. La potenza d' inventare dottamente è sì 
raro dono nelle arti del bello, è pregio sì parca- 
mente conceduto dal Cielo , che non è da sor- 
prendere se artisti per ogni maniera sommi in- 
chinaronsi in tutti i secoli a farsi mani servili 
ai concepimenti di quei pochi, cui natura largì 
una mente alacre, slanciata, creatrice. E tanto 
più ciò doveva accadere in un secolo, come quel- 
lo di Giotto, nel quale per povertà di lumi e di 
mezzi tornava certo difficilissimo il comporre 
lodevolmente un ricco numero di storie. 

Dopo i chiaroscuri lo sguardo corre volentieri 
alla parete sopra la porta, ove sta dipinto il Giu- 
dizio finale, composizione strana quanto le co- 
stumanze, temeraria quanto il fiero secolo ia 
cui venne operata. Signoreggia nel mezzo Que- 
gli cK è padre d'ogni mortai uita^ ravvolto dalle 
fascie di quell'Iride, che, al dire dell'Apocalisse, 
accerchiano il trono di Dio. Le zone di essa, an- 
ziché spartite nei sette primitivi colori, non ne 
offrono che tre soli , forse per ridurci a mente 



6o 

quelle inspirate parole, alludenti alla divina Tria- 
de, del ghibellino poeta, quando tutto affiso nella 
beata luce dell'eterno Amore prorompeva: 

Nella profonda e chiara sussistenza 
Dell'alto lume parvemi tre giri 
Di tre colori e d'una continenza ; 

E Tun dall'altro, come Iri da Iri, 
Parca riflesso; e '1 terzo parca foco 
Che quinci e quindi ugualmente si spiri. 

Paradiso, Canto XXXIIl. 

Il Signor delle sfere ha fatto le nul>i suo padi- 
glione, e dal suo trono escono le folgori e le sette 
lampade ardenti (0, simboleggiate dagli Angeli 
annunziatori di quel gran dì, in cui ogni speran- 
za, ogni grandezza, ogni tema s'agguaglia dinan- 
zi a lui. Egli maggioreggia su tutte le altre figu- 
re, perchè i primi maestri delle arti presso ogni 
nazione avvisarono valere la grandezza materia- 
le a far si che le moltitudini piglino una vasta 
e larga idea sulla morale dell'oggetto effigiato, e 
si avvezzino persino dalle esterne rappresenta- 
zioni a considerare la Divinità superiore ad ogni 
cosa creata. 

Librati sull'ali stanno in alto a miriadi i che- 
rubici spiriti, dispiegando festanti il vessillo di 



{i) Et de throno procedehant fulgura et. voces et to-^ 
nitrua, et septem lampades ardenies ante thronum , qui 
suìit septem spiritus Dei. Apoc. Gap. IV. v, 5. 



6i 

salvazione, ed inneggiando alla gloria di Colui 
che gF innamora e li fece cotanti. Affianchi di 
Luì siedono apostoli e patriarchi , più sotto nu- 
merosissimi santi e heati. Ma la sua parola tuo- 
nò tremenda sui mondi e sul tempo; e i mondi 
crollarono, e il tempo disparve. Escono dagli 
avelli i trapassati vestiti d'ossa e di polpe, aspet- 
tando paurosi la voce che atterra e suscita. E 
quella voce che solleva dalla polvere il pusillo, 
e lo pone daccanto ai potenti; ch'è bufera a tu- 
mide superbie, conforto al morente, dovizia al 
povero, terrore ad astiose vendette; quella voce 
che impera sui burroni e sul mare, sui cedri del 
Libano e sulle quercie di Basan; quella voce che 
rapida comanda 1* universo ed il nulla, chiamò 
a sé gli eletti, e dannò i reprobi nell'eterno do- 
lore. Quindi tu vedi affollarsi alla destra di Lui 
Vanirne beate d'una vita d'amore e di pace, collo 
sguardo fiammeggiante d'allegrezza porre in Lui 
tutto l'animo, ed ogni desiderio, ogni speranza, 
ogni consiglio attignere da Lui, e beverne ineb- 
briate le eterne armonie. Là miri coronati prin- 
cipi, fra cui quel primo ricoperto di romana lo- 
rica è forse Costantino , il quale tanto giovò a 
dilargare per tutto il vastissimo impero la reli- 
gione di carità e di concordia, che tutti ne lega 
ad un patto. Là donne regali, liete di stringere 
rami di palma, simbolo di quei terreni martini 



62 

che loro Talsero la celeste Sionne. Là scorgi pò- 
•verelli mondi da colpe, che offerirono a Dio una 
vita di miserie e di stenti, accomunarsi cogli 
umili opulenti, che non dimenticarono, il loro 
superfluo esser pane dell'indigente; Là finalmen- 
te i fondatori dei sacri Ordini , che dai silenzii 
del chiostro e fra il salmeggiare degl* inni san- 
tissimi diffusero la religione di Cristo, anima- 
rono gli sforzi del negletto agricoltore , raccol* 
sero d'ogni buona disciplina le ricordanze, con- 
servarono i preziosi scritti della dotta antichità. 
Orribile spettacolo a sinistra ! ! Gli spiriti ru- 
belli trascinano spietatamente coi roncigli e coi 
graffi per quell'aere greve senza stelle i mala- 
detti dall'ira suprema. L'ingegnoso pittore, per 
parlare all'animo una sublime parola di filoso- 
fia, ci pinse nell'alto, piuttostochè gli eterni tor- 
menti inflitti ai peccatori, le colpe sozze e ne- 
fande che traggono l'uomo sul cammino di per- 
dizione. E qua tu vedi femmine da conio, rotte 
ad ogni brutale lascivia, vendere per oro l'ono- 
re; là ministri dell'altare, conculcata la più alta 
missione che sia sulla terra, barattare a fissato 
prezzo il perdono di Dio. Strani, e consigliati 
da bizzarra immaginativa , si mostrano i varii 
strazii coi quali i demonii graffiano, squojano, 
dilacerano le membra dei dannati. Non v'ha 
età, non condizione da quei feroci rispettata* 



63 

Anzi, ad offerirne una preziosa lezione morale, 
adoperò di guisa quel sommo artista, che appa- 
rissero più fieramente straziati gli uomini i quali 
tennero sulla terra le dignità e gli onori, e po- 
tendo operare il bene , portarono ai lor fratelli 
roYina e sangue, anziché coloro che trascinaro- 
no miserrima vita fra il servaggio e la povertà. 
Perilchè ci figurò dilaniati orribilmente da Sa- 
tana principi che, spregiato ogni sociale diritto, 
gravarono di esecrate catene i soggetti; maestrati 
i quali, conculcata ogni legge, si fecero idolo del- 
l' arbitrio e tutto osarono, per avvilupparsi fra 
le nefande ambagi dell'ambizione; sacri pastori 
che, in luogo di mostrarsi alle suggette greggie 
modello di umili evangeliche virtù, in luogo di 
sacrare vigilie e digiuni a pregare dal Cielo per- 
dono , conforto , benedizione , in luogo di farsi 
puntello e sovvenimento a' poveri, trassero gior- 
ni inverecondi, e bruttati dal brago de' vizii. A 
dir breve , per tutto quel vasto concepimento 
v'ha tale un disperato agitarsi, uno scendere di 
colpa in colpa maggiore, uno accapigliarsi con- 
fuso fra dannati e demonii, per tutto nuovi tor- 
menti e nuovi tormentati, che malagevole e lun- 
ghissima impresa sarebbe il volerlo a minuto 
descrivere. 

Fra quegli alti malori, quasi signore dell'in- 
ferna regione, giganteggia Lucifero. Nel vederlo 



64 

arruffare gl'ispidi Telli e divorare con Ire boc- 
che i dannati, tornano a mente i robusti versi 
del fuggiasco Ghibellino , quando ci adombra 
Vangelo rubello, fatto tricìpite, piangere con sei 
occhij e per tre menti 

Gocciare il pianto e sanguinosa bava. 
Da ogni bocca dirompea coi denti 
Un peccatore a guisa di maciulla, 
Sicché tre ne facea così dolenti. 

Inferno, Canto XXXIV. 

È rimarchevole come in tutta questa vasta com- 
posizione Giotto si piacesse di mutar più volte 
la proporzione delle figure. Notammo ch'egli di- 
segnò Dio più grande di tutti gli esseri creati 
che lo circondano . Gli apostoli , i patriarchi , e 
quelli che , promovendo il santo culto di lui , 
meritarono le celesti felicità , sovrastano agli 
eletti posti a destra del Signore ; ed essi pure 
sono di gran lunga più alti dei reprobi collocati 
a sinistra, tuttoché anzi per ragione di prospet- 
tiva dovesse operarsi il contrario. Forse il pit- 
tore, fermo al principio di cui più sopra dicem- 
mo, essere cioè le dimensioni fisiche prepotente 
mezzo a far concepire all'animo l'astrazione del- 
le relative grandezze morali, avvisatamente in 
quella guisa immaginando il suo dipinto , volle 
darci un'idea sensibile delle gradazioni che si 
inframmettono fra il Creatore d'ogni bene e la 



65 

più avvilita delle sue creature, Tuoino ravvolto 
nel fango delle colpe. 

Non si accagioni d'inverecondia o d' irreligio- 
ne l'insigne maestro, se lasciò ire il pennello 
ad abbiette oscenitadi ed a mille turpezze cle- 
ricali. Potenti ragioni doveano a ciò forzarlo; e 
prima lo spirito di fazione , peste allora di ma- 
gnati e di plebe , funesta miseria di gagliardo 
secolo. In quei tempi ogni cittadino, obbliando 
spesso le sciagure e la libertà della patria, fatto 
del cadavere dei fratelli sgabello ad orgogliose 
ambizioni, andava matto per Guelfi o per Gbi- 
bellini, quelli a Cesare, questi alla Chiesa avver- 
si. Certo non abbisognano lunghi ragionamenti 
a persuadere che Giotto, l'amico di Dante, par- 
teggiasse per gli ultimi; certo chi si mostrava 
dimestico all'uomo il quale fieramente cantava : 

Le mura che solcano esser badia, 
Fatte sono spelonche, e le cocolle 
Sacca son, piene di farina ria, 

Paradiso. Canto XXII* 

dovea starsi pronto ad avvalorare coi colori quei 
delti animosi. È quindi chiaro che, ogni volta 
gliene venisse il destro , non facea sparmio di 
aguzzi trovati per disfogare l'intima bile verso 
dei sacerdoti, e farli segno di pubblico scherno. 
Per altro ti reca sorpresa com'egli si permettes- 
se ciò in un sacro ricinto, destinato agli uffiziì 



66 

di pia corporazione. A tanto forse lo guidayano 
e i tempi e i costumi, che ancora sapeano d'in- 
temperante e di agresto, né ayeano onninamen- 
te spogliata la ruvida scorza; e la società, che a 
qualunque fazione inchinasse, pure godeva ve- 
der dilania te le avare nequizie di che andavano 
bruttati molti fra i sacri pastori. Era questo as- 
sennato consiglio a correggere i ministri del 
santuario, o troppo celere mezzo a disseminare 
irriverenza verso la religione, spregio verso ogni 
pudore? Ai filosofi la difficile sentenza. Noi pas- 
siamo a questione che più si lega col nostro 
soggetto. 

È tradizione che ad ispirare a Giotto sì gran- 
dioso concepimento molto abbia giovato l'Ali- 
ghieri, il quale a quei giorni errante di terra in 
terra, recato erasi in Padova a visitarvi l'aniico. 
Vero è che il divino poeta (siccome ne racconta 
Benvenuto da Imola (0) venne fra noi quando 



(i) Ecco le parole deU' Imolese. Accidit autem semel 
quod dum Giottus pingeret Paduae adhuc satis juvenis 
unam Cappellani in loco ^ uhi fuit olim Theatrum sive 
Arena y Dantes pervenit ad locum. Quem Giottus honori- 
fice receptum duxit ad domum suam . Uhi Dantes vi- 
dens plures infantulos ejus summe defornies ^ et {ut cito 
dicam) patri simillimos , petivit : Egregie magister, nimis 
miror quod cum in arte pictoria dicamini non hahere 
pareniyUnde est quod alias fi guras facitis tamformosas, 
vestras vera tam turpes? Cui Giottus sulridens, praesto re- 



67 

Ciotto ne pingeva i suoi prodigii nell'Arena. Ve- 
ro è che il cantor di Beatrice amava il pittore 
di fida e ferma amicizia; quindi è ben verosi- 
mile di molti consigli lo soccorresse: ma non per 
questo ne viene che la composizione del Giudi- 
zio finale sia condotta intieramente sui dante- 
schi dettati. Anzi alcune osservazioni, che qui 
porrò innanzi, mi guidano a credere per gran 
parte il contrario. 

Il sacro poema , improntato ad ogni pagina 
d'un forte ed originale sentire, subito che uscì 
in luce, stampò nel secolo gagliarde impressio- 
ni . Tutti i dipintori sincroni ad esso , quando 
tolsero a rappresentare i Novissimi, ne seguiro- 
no palmo a palmo le traccio. Così Andrea Or- 
cagna ci pinse a Firenze in S. Maria Novella 
l'inferno colle stesse divisioni e bolge con cui 
Dante avea spartito il bujo regno. Per la qual 
cosa se tu ti fai minutamente a raffrontare la 
prima Cantica dell'immortale poema con quel 
grandioso affresco, ne vedrai, a sì dire, ritratti gli 
alti concetti. Così Bernardo Orcagna nel terzo 
Novissimo, che ammirasi in uno dei lati del Cam- 

spondit: Quia pingo de die, sed fingo de nocte. Haec re- 
sponsio summe placuit Danti , non quia sibi esset nova y 
quum inveniatur in Macrohii libro Satumalium, sed quia 
nata videhatur ab ingenio hominis. Muratori Antiquita- 
tes italicae medii aevi» Tom. J. pag. 1 1 86. 



68 

posante pisano, si fece seguace di siffatte norme. 
Cosi molli dipinti di consimile soggetto, eseguiti 
in quel secolo nella Toscana ed in altre parti 
d'Italia (0, pigliarono a modello l'universale poè- 
ma, e tentarono serbarne lo stesso disegno. Ma 
tutto ciò non vediamo nello Inferno di Giotto, 
che ci sta sott'occhio. Non v'hanno in esso qua' 
tanti gironi concentrici, ove sì numerose torme 
di peccatori provano quanto tremenda piom- 
bi la vendetta dell'offeso Signore; non v'hanno 
le bolge degl'ipocriti, rivestiti di dorate cappe 
di piombo; non quelle dei lussuriosi, cacciati a 
turbo dai furiosi venti. Né vedi gl'iracondi attri- 
starsi nella negra belletta, ne i prodighi volger 
gran peso per forza di poppaj né i violenti mu- 
tarsi in tronchi, ove fanno nido le arpie; non 
Cerbero che per tre bocche latra , non il lupo 
maledetto che tuona con la voce chioccia, non 
Caronte che cogli occhi di bragia batte col re- 



(i) Nella Tavola II. dell'Opera intitolata Alphàbetum 
Thihetanum del P. Giorgi , religioso agostiniano , stam- 
pata in Roma nel 1763, vedesi riportato un dipinto figu- 
rante r Inferno , il quale ha grande rapporto colle de- 
scrizioni dantesche. Cotanta poi era nel secolo del poe- 
ta la venerazione per le immortali Cantiche di lui, che 
a Firenze, correndo Tanno i3o4, in una festa popola- 
re diretta dal pittore Buffalmaco fu data una specie di 
rappresentazione teatrale , ordinata intieramente secon- 
do il tessuto della prima Cantica dantesca. 



69 

mo i mìseri che varcano la livida palude , non 
Ugolino che rode il teschio misero coi denti , 
non la bella Ariminese che lagrima l'amore fal- 
lito, e la leggiadra persona tolta per sì truce mo- 
do. Ciò solo che in tale affresco sembrami, sic- 
come accennai, tratto dal poeta, è la fascia tri- 
colore che raccerchia il trono dell'Altissimo , e 
Lucifero che gigantesco e feroce ingoja ad un 
tempo tre peccatori. Ma anche quello imperato- 
re del doloroso regno non è poi foggiato intiera- 
mente sulla dantesca descrizione. Il poeta ci por- 
se Lucifero, a mo' d'Ecate, con tre facce unite 
ad una sola testa; e qui invece ad un solo volto 
d'uomo vanno aggiunte due teste di serpenti. 
Dante lo disse tuffato nel ghiaccio sino a mezzo 
il petto; e qui è figurato intero e sedente (0. Che 
che ne sia di sì fatte rassomiglianze, è però certo 
nulla esservi in tutto il resto di quella vasta com- 
posizione, che ricordi e il generale tessuto ed^i 
peculiari episodii della divina Commedia. Ben è 
vero che la versatile fantasia dell'Alighieripoteva 
proporre a Giotto l'Inferno ed il Paradiso su vie 
ben diverse da quelle ch'egli stesso calcò; ma 



(i) Anche il P. della Yalle nelle sue note alla Yita 
di Giotto scritta dal Vasari è d'opinione che Dante 
suggerisse al pittore fiorentino soltanto quel Demogor- 
gone che ha tre f accie ^ e manuca Vanirne dannate, Va- 
sari Fita di Giotto^ pag. loi. 



72 

veramente fosse stato in questa composizione 
scorta a Giotto, quest* ultimo , nonché lasciarla 
bistrattare da men perite mani, con ogni soler- 
zia avrebbe tentato di finirla e limarla di guisa, 
che il fiero poeta andasse superbo nel vedere 
maestrevolmente vestite di colore e di forma le 
energiche idee che gli rampollavano nell'anima. 
Piuttosto parmi che il dotto pittore non altra- 
mente dal chiaro amico e concittadino pigliasse 
le mosse nel comporre il Giudizio , ma ne atti- 
gnesse il profondo concetto dalle sacre carte, e 
peculiarmente dall'inspirato libro di san Giovan- 
ni. E di vero, se ti fai a considerare gli eletti po- 
sti alla destra, i reprobi alla sinistra del supre- 
mo Giudice, e quel circolo, simbolo d'eternità, 
che serra il trono dell'Eterno, e quei gravi vec- 
chiardi seduti su dignitosi scanni, e quegli angeli 
che squillando le mistiche tube annunziano il 
giorno dell'ira e della misericordia, e quelle fol- 
gori e quei torrenti di fuoco , che lanciati dal 
seggio di Dio rovinano sui maledetti, torneran- 
noti alla memoria i motti sublimi di Matteo, di 
Daniello, e del rapito di Patmo. Né Giotto era 
il primo a pigliare a norma della composizione 
del Giudizio l' augusto e terribile profetare dei 
sacri libri. Per tacere d'altri esempii numerosis- 
simi, nei mosaici della basilica Marciana ed in 
quello vasto della cattedrale di Torcello (ove i 



73 

greci maestri nello scorrere del decimosecondo 
secolo ne porsero figurato il gran dì) yeggonsi 
le medesime ora notate allusioni s^i passi biblici 
che rammentano il giorno finale. 

Questo dunque parmi buono argomento a con- 
cludere che Giotto , anziché profittare dei con- 
sigli di Dante } seguisse le traccie di chi lo avea 
preceduto nel rappresentare un simile soggetto, 
e le infiorasse poi colla vigorosa sua immagina- 
zione . Ove parmi piuttosto si possa venir per- 
suasi che il sommo Ghibellino giovasse Tamico, 
è nelle figure allegoriche delle virtù e dei vi- 
zìi, su cui tenni discorso, nelle quali e tante 
v'hanno allusioni, come osservai, al poema sa- 
cro, e v'ha tale una critica e perspicace mora- 
lità, da attestare di leggieri il soccorso d'una 
mente superìore , e fatta per disdegnare persi- 
no i limiti della terra , siccome era quella del- 
l 'Alighieri. 

Nel centro della or descritta parete v'ha un 
episodio che in ninna guisa collegasi col resto 
della composizione, e che potrebbe dirsi con 
moderna frase un fuor coopera. A' piedi d'una 
croce sorretta da due angeli veggonsi tre donne 
in atto di presentare il modello dell' Oratorio , 
su cui discorro , ed un personaggio fregiato di 
signorile veste talare, che sta umil emente genu- 
flesso dinanzi ad esse. Il modello accennato posa 



74 

sulla spalla di un frate in bianca cocolla. Forse 
volle il pittore in quella dignitosa figura ginoc- 
chioni effigiarci Enrico Scrovegno ch'era signore 
deirArena e della chiesa, nelle tre donne tre 
sante protettrici a cui egli avea peculiare devo- 
zione, e nel frate posto a fulcire il modello del- 
l' Oratorio tutto l'Ordine dei Godenti, che te- 
neva debito di qui adempiere i sacri obblighi 
ad esso imposti. 

Proseguendo ad osservare i dipinti delle altre 
pareti, incomincierò dai più alti, ove stanno 
espressi i fatti della Vergine. Mi dilungherò al- 
quanto nello svolgere i soggetti di questa prima 
linea, perchè non essendo dei più comuni, po- 
trebbero a molti riuscire oscuri, senza un qual- 
che schiarimento. Per trovare il conveniente 
ordine, ed insieme concatenare le storie, è forza 
dar principio dallo spartimento a destra di chi 
entra, collocato in un angolo dappresso al muro 
della tribuna. 

Primo spartimento. Un talamo infecondo era 
marchio d'ignominia presso gli Ebrei. Gioachino 
dolente d'essere da vent'anni indarno congiunto 
ad Anna, lamentandone la sterilità, alzava a Dio 
calde ed incessanti preghiere ond' essere fatto 
ricco di prole. Solcano coloro che non manca- 
vano di figliuoli presentarsi al tempio nella fe- 
sta dei Tabernacoli ad offerire doni e ringrazia- 



75 

menti. Gioachino in quel di si meschiò ad essi; 
e presentando le obblazioni d^uso, porse voti 
air Altissimo perchè Io togliesse a tanta sciagura. 
Fatti accorti di ciò il sommo pontefice Isacaar 
e Ruben scriba di lui , poco curando le meste 
istanze del sant'uomo, ne rifiutarono i doni, 
e lo scacciarono irati dal tempio. Lo spregiato 
Gioachino palesa qui con mirabile yerità il sen- 
timento del cordoglio e della tristezza. 

Secondo. £ qui figurato il santo, che uscito 
tutto yergognoso dal santuario , ripara presso i 
pastori del suo gregge, oye non si stanca di chie- 
dere fervidamente la bramata grazia al Primo 
Fonte degli esseri. 

Terzo. Intanto che Gioachino poneva Tanimo 
a tanta inchiesta, Anna mestissima di sua ste- 
rilità volgevasi anch'essa al Dator d'ogni bene, 
perchè le concedesse un figliuolo, ch'ella con- 
sentiva consecrare in servigio di lui. Ed ecco al- 
lora apparir Gabriello fortezza di Dio, e rassi- 
curarla volere l'Altissimo far paghi sì giusti de- 
siderii, e dovere dal grembo di lei uscire una 
vergine operatrice d'ogni prodigio. Le sacre car- 
te ci narrano che al sopravvenire del raggiante 
cherubino si stava Anna nel giardino. Il pittore 
però preferì rappresentarla in una stanza, forse 
perchè, poco forte com'era nella .pittura di pae- 
se, allorché glielo consentiva il soggetto trasce- 



76 

glieva più yolentieri intemi di architettura, ove 
Talea molto più. 

Quarto. Ignaro intanto Gioachino di quanto 
Vangelo ayea promesso ad Anna, non intrala- 
sciava di supplicare il Signore. L artista quindi 
ce lo figurò prono dinanzi un altare, su cui arde 
vittima offerta al supremo Fattore. La devota 
posa del santo è tutta avvivata di amore e di 
fede verso il Vero eterno. Iddio ha già accet- 
tato il puro olocausto , e la mano di lui ravvol- 
ta (0 fra misteriose nubi comparisce nelFaito a 
benedirlo. Raccontano i sacri scritti, che stando 
ancora pregante Gioachino, gli apparve Gabriel- 
lo ad annunziargli, siccome Dio gli avrebbe con- 
ceduto prole eletta a compiere alto mistero di 
religione. Ecco infatti qui l'angelo con dignitosa 
movenza indirizzare la parola al santo. Giotto 
ce lo pinse come solcasi anche nei primi secoli 
della Chiesa, ricoperto cioè di bianca ed ampia 
tunica, che, al dire della Bibbia, è la veste degli 
spiriti angelici. Esso, al paro di tutti i cherubi- 
ni dipinti da Giotto in quest'Oratorio, tiene in 
mano uno scettro sormontato da una foglia di 



(i) Fino dal sesto e settimo secolo veniva rappresen- 
tato il dlyin Padre sotto il simbolo di una mano che 
sporge da una nube. Giampini Vetera monumenta ^ Ta- 
vola IL del Tom. II. 



77 

trifoglio, secondo molti scrittori simholo della 
Trinità (0. 

Quinto. Vedesi qui Gioachino immerso nel 
sonno. Vicino a lui, quasi in atto di contemplar- 
lo, stanno due pastori, e nell'alto un angelo vo- 
lante sembra volgere la parola al dormente. For- 
se qui l'artista volle con più di evidenza farci 
conoscere T apparizione ed il messaggio divino 
nell'altro spartimento a vero dire oscuramente 
rappresentato. 

Sesto. Avea Gahriello ingiunto a Gioachino e 
ad Anna di portarsi entrambi in un fissato gior- 
no alla Porta aurea di Gerusalemme, ove si sa- 
rebbero veduti (Tav. XVIII.). Essi tutti, speran- 
zosi in quelle parole, colà recaronsi; e scontra- 
tisi, proruppero in lagrime e voci di letizia, fatti 
certi che ogni loro voto non poteva che venir 
presto esaudito. Quanto e quale affetto trasfonde 
nell'animo questa leggiadra composizione! 

Settimo. La storia della Vergine, interrotta dal 
dipinto del Giudizio finale, viene proseguita nel- 
la parete dirimpetto. Nel primo spartimento di 
questo lato vedesi la pia Anna giunta al colmo 
de' suoi voti per aver dato in luce quella che 



(i) Questo bastoncello, detto dagli scrittori di cose 
ecclesiastiche haculum viatorium, e dal vescovo Sinesio 
segno dèlia potenza, talvolta era anche sormontato da 
una croce o da un pomo. 



78 

doyea tornare in allegrezza il pianto d* Eva. Ella 
si giace nel letto, intantochè alcune ancelle con 
ogni sollecitudine raccolgono la preziosa bam- 
bina. Non sembrava forse a Giotto di averci ba- 
stevolmente porto idea del soggetto; e quindi, 
poco curante di offendere la ragione e la con- 
venienza, raddoppiò Fazione figurando sull' in- 
nanzi del quadro alcune donne pronte ad ap- 
prestare i primi necessarii uffizi! alla piccioletta 
Maria. Non sembra vero come un artista osser- 
vatore e filosofo , qual era il fiorentino pittore , 
si lasciasse ire a sì fatta ripetizione di soggetto, 
nuocendo così all' unità e distraendo l'attenzio- 
ne. Questa però fu piuttosto generale colpa d«l 
secolo, che peculiare di lui solo. Allora quasi 
tutti gli artisti approvavano tale massima. A ciò 
fare erano trascinati dall'esempio dei bisantini 
maestri che ad essi apprendevano l'arte, i qua- 
li non vergognavano di porre doppia azione in 
tutte le loro composizioni E forse anch'essi non 
aveano tratta una tanta sconcezza dalle rozze 
loro menti, sì bene dagli antichi bassorilievi, 
di frequente bruttati da simile difetto. Dal dipin- 
to che abbiamo sott' occhio è manifesto quanto 
Giotto, ingegno sì originale, tenesse ancora in 
qualche parte alle maniere dei Bisantini, poi- 
ch'egli imitò nella generale distribuzione e nella 
forma della scena un fresco operato nei chiostri 



79 
di Santa Maria Novella di Firenze dai dipintori 
greci che insegnarono Tarte a Cimabue. Y eggasi 
questa composizione in d*Agincourt che ne la 
diede incisa, e scorgerassi quanto s'aYYÌcini''alla 
giottesca su cui ho favellato (0. 

Ottavo. Giunta al quinto anno Maria, i geài' 
tori la presentarono al tempio, ov'era costume 
informare Tanimo delle donzelle uscite da ono- 
rati parenti alle domestiche e religiose virtù, 
finché avessero tocca Tetà da marito. È degna 
di nota in questo succoso e vigoroso dipinto la 
pietà e Funzione sparsa su tutte le figure, e pe- 
culiarmente su quella dignitosa di Simeone, che 
vestito di pallio sacerdotale accoglie con affetto 
rispettoso la celeste fanciullina. 

Nono. Instava Anna perchè la pia figliuola an- 
dasse a marito , secondo la legge ; ma quella , 
presaga di più alti destini, rifiutava per serbarsi 
vergine. Il Pontefice su ciò dubbioso volle aver- 
si a consigliero il Cielo. A conseguire tanto fine 
congregò i suoi Leviti, e fra i digiuni si diede a 
pregare. Allora dal mezzo del propiziatorio udì 
voce divina, che gì* imponeva adunasse nel tem- 
pio tutti gli uomini da marito della stirpe di 
David, e comandasse loro di portar seco verghe 



(i) Ved. d'Agìncourt. Storia delVarte^ ec. Tom. VI. 
pag. 36a e 363, Tay. iog-ii3. 



8o 

secche, fra le quali doTeva rinverdire e mandar 
fiori queir una soltanto che stava fra le mani del- 
Tuomo designato dal Signore a sposo di Maria. 
Yèggonsi qui dunque tutti gli aspiranti avviarsi 
al tempio portando una bacchetta, che raccolta 
da Simeone viene deposta sulF altare. Il grave 
aspetto di lui, e per antica vecchiezza veneran- 
do, inspira rispetto ai ricorrenti, tutti umili nel 
compiere quel sacro comando del Cielo. 

Decimo. Poste sulP altare le verghe , tutti yì 
stanno genuflessi all'intorno, aspettando il di- 
vino miracolo che deve farne fiorire una sola. 
È bello in questa composizione il religioso si- 
lenzio che vi regna , e gli atti dei circostanti , 
tutti composti a reverenza profonda. È pure de- 
gno di osservazione il colore d*assai più vigoroso 
che d'ordinario non suole nei dipinti di Giotto, 
e magistralmente intonato coll'azzurra tinta del 
campo . Chi nelV arte è perito , ben sa quanto 
costi larmonizzare con siffatta tinta tutte le al- 
tre variatissime delle figure. 

Undecimo. La mistica verga ha fiorito, e fu 
eletto Giuseppe , vecchio di rimessi natali , ma 
di alte virtù. Egli venne tosto congiunto a Ma- 
ria coi riti usati nel matrimonio dal popolo ebreo. 

Duodecimo. Di già compiuto il rito, s'avviano 
gli sposi al domestico tetto. Qui il gajo Fioren- 
tino, onde far dimostro quanta lietezza ponesse 



8i 

quel maritaggio nell'animo dei parenti di Maria, 
ci colorò un'allegra turba, che cantando e cita- 
rizzando su musicali strumenti festeggia gli spo- 
si. Gran peccato che questo spartimento sentisse 
più degli altri il danno del tempo, e per le doc- 
cie filtrate lungo la muraglia patisse gravissimo 
nocumento ! 

Molti fra i soggetti finora da me nominati si 
ricercherebbero indarno nei quattro noti Evan- 
gelii. La più gran parte, siccome notò anche il 
d*Hancarville, Giotto la trasse dall'Evangelio, te- 
nuto apocrifo , o Proto-evangelio, che viene at- 
tribuito a san Giacomo minore (0, ove tutte si 
raccontano le geste della Vergine, e della santa 
madre di lei. Le storie però del secondo e terzo 
ordine sono tratte dai quattro Evangelii cono- 
sciuti, e rifeiisconsi tutte alla vita del Salvato- 
re. Essendo i soggetti in esse rappresentati dei 
più cogniti e comuni, torna inutile il descriverli 
a minuto : basterà quindi indicarli , e toccare su 
d'essi soltanto quei particolari che possono me- 
ritare una qualche attenzione. 



(i) Il Proto-evangelio è così chiamato, perchè dà 
contezza degli avvenimenti che precedettero immediata- 
mente la predicazione della nuova religione. Ycdi Co- 
dex apocrjphus Novi Testamenti etc, illustratus opera et 

studio Joannis Caroli Thilo. Lipsiae i833. 

6 



82 

Incominciando nel secondo ordine dallo spar- 
timento posto a sinistra dell* osservatore, dap- 
presso al mnro dèlia tribuna si presenta: 

i.<* La nascita di Cristo. E dipinto per gran 
parte annerito e scalcinato ; spicca però ancora, 
per molta gagliardia di tingere, il san Giuseppe 
dormente. 

2.<* L'adorazione dei Magi. Devotissime sono 
le movenze dei tre coronati; a leggiadrissima 
compostezza è atteggiata la santa ed immacola- 
ta Donna. 

3.^ La presentazione di Gesù al tempio. Non 
sapresti se più laudare il decoro e la dignità del 
sacerdote, od i bellissimi getti di pieghe che Te- 
stone le figure. 

4-** La fuga in Egitto. Non uguaglia in bel- 
lezza i precedenti. 11 colore e sì annebbiato e 
scuro , il disegno cotanto trascurato , i yolti si 
male scelti, che lascia giusta dubbiezza non sia 
opera del maestro. 

5.° La strage degV innocenti. A xìservsL di una 
figura a sinistra dell'osservatore, che rassembra 
spiccata dalla parete, non si vantaggia gran fat- 
to su quello testé nominato. 

6.® Cristo disputa fra i Dottori. Tanto cote- 
sto fresco è guasto per salsedine dei niuri, che 
temerario ed arrischiato tornerebbe qualunque 
giudizio. 



83 

7.** // battesimo di Gesù Cristo. Gli angeli so- 
no graziosamente atteggiati, ma molto stento e 
rozzezza scorgesì nei due protagonisti del quadro. 

8.^ Le nozze di Carta e Galilea. La fredda com- 
posizione non è rabbellita che dal veramente 
mirabile partito di pieghe della figura centrale. 
Quel corpacciuto in fiorentino costume, che tra- 
canna a josà, potrebbe forse essere un mordace 
ritratto. 

g.® La resurrezione di Lazzaro. Mi parve si 
bene composta, che la volli riprodotta coll'inci- 
sione,e quindi dovrò parlarne più sotto (Tavo- 
la XIX.). 

IO.*» L^ ingresso a Gerusalemme j e la festa deh 
Vulivo. Grave e nobile è la figura del Salvatore, 
ma non del paro le altre degli astanti. È capric- 
ciosa sconcezza colui che asconde il capo sotto 
il mantello d^uno prostrato dinanzi al Verbo 
umanato. 

ii.o Cristo scaccia dal tempio i profanatori. 
Sì fredda , si languida è questa composizione , 
che si dura fatica a crederla immaginata da 
Giotto. 

12.° La cena cogli ^j4postoli (ordine terzo). 
L'architettura con quegli esili sostegni che reg- 
gono il tetto, e quella minutaglia di ornamenti, 
rammenta il fare e le massime dei maestri greci. 
Il pittore vesti ognuno degli Apostoli con abiti 



\ 



«4 

di colori e foggie differenti, che serbò poi sem- 
pre a ciascheduno d*essi quand'ebbe a rappresen- 
tarli in altri spartimentì di questa Cappellina. 
1 3.^ Cristo lava i piedi agU jipostolL Gesù ti 
inspira reverenza e rispetto: tu ravvisi un nume 
in quello che s'inchina ad atto umile. 

14.** Il bacio di Giuda. Per verità e sceltezza 
poche teste possono pareggiare quella di Gesù. 
Il panneggiamento di una figura sul dinanzi del 
quadro onorerebbe ogni più grande artista. 

i5.<> Cristo dinanzi Caifa. Ne Masaccio, ne 
Benozzo Gozzoli, né il Ghirlaiidàjo, né alcuno 
dei maestri castigati e puri del secolo decimo- 
quarto vergognerebbe di aver disegnato (dalle 
estremità in fuori) il Salvatore. Né tanto è mi- 
rabile per correzione, quanto per certo senti- 
mento di dignità, da cui traspare soltanto ras- 
segnazione, non avvilimento. 

16.° La coronazione di spine. Alcune teste 
non difettano di vivezza e di calore; però tutto 
il dipinto é timido e freddo. 

l'j.^ Cristo porta la croce, lì Salvatore ma- 
nifesta la sicura mano del maestro , non però 
laltre figure assai scorrette. 

i8.<^ La crocefissione . Molta verità, molta 
evidenza di passioni in alcuni volti. Il nudo del 
divino Crocefisso é d'assai meno secco di tutti 
gli altri che veggonsi in questa chiesetta. 



85 

ig.® Cristo morto fra le Marie. Ne parlerò a 
diffuso più sotto , quando sopporrò a qualche 
analisi quella stupenda composizione (Tav. XX.). 

20.0 La resurrezione e V apparizione alla Mad- 
dalena, I soldati giacenti, con tanta puerile sec- 
chezza delineati, provano yero ciò che fu detto 
da uno scrittore, che Giotto cioè nei temi mar- 
ziali non yalea molto. Si legge una mirabile 
trasfusione d'anima nella devota sorpresa della 
Maddalena. 

21.0 1/ ascesa di Cristo al cielo. Il figlio del- 
TAltissimo e la Vergine meritano molta consi- 
derazione, sì per espressione, sì per disegno. 

2 2 .0 La discesa dello Spirito Santo sugli ripo- 
stoli . Per amore di verità sagrificò il buon ef- 
fetto della composizione con tutte quelle figure 
che volgono le schiene airosservatore. Se il let- 
tore non fosse ristucco di riscontri fra Dante e 
Giotto, direi che potrebbesì assomigliare questo 
dipinto a quella terzina degli scabbiosi : 

O tu che con le dita ti dismaglie, 
Cominciò il Duca mio a un di loro, 
E che fai d*esse talvolta tanaglie, ec. 

Inferno, Canto XXIX. 

Ammiri in essa la verità , ma non il modo con 
cui ti vien porta. 

Oltre a tutte queste ora nominate , possono 
annoverarsi come opere di Giotto altri due di- 



86 

pinti posti ^lateralmente al grande arcone della 
tribuna. Quello a destra rappresenta la visita 
della Vergine ad Elisabetta; T altro a sinistra » 
Giuda cbe, istigato da Satana, strìnge il sacri- 
lego patto, e stende la mano al prezzo del san- 
gue. Sopra le imposte dello stesso arcone yedesi 
ancbe il mistero dell' Annunziazione; ma il pen- 
nello parmi men largo e meno corretto del giot- 
tesco. Per la qual cosa io crederei fosse quella 
dipintura opera di Taddeo di Bartolo sanese» il 
quale, come vedremo, condusse le storie nella 
tribuna. Di Giotto sono però sicuramente tutti 
i profeti, i santi , e i yarii emblemi cbe ornano 
e girano gli spartimenti e la vòlta. 

I freschi in questa Cappellina immaginati dal 
sommo Toscano sono sì vani nel loro soggetto, 
sì diversi nella espressione, per tal modo il for- 
te vi è misto al dilicato, l'agitato al tranquillo, 
che non temerei d'affermare potersi meglio che 
da ogni altra opera superstite di quel dipintore 
conoscere e giudicare quanto egli valesse nella 
difficile arte di Apelle. Perciò mi si perdonino 
alcune generali riflessioni sui pregi e sui difetti 
di questi celebri dipinti. 
DissGKO. Io sono ben lunge dal considerarne il disegno 
castigato e corretto al paro di quello dei quat- 
trocentisti; ma è però indubitato che, se non 
nelle figure nude, certo in quelle ricoperte di 



87 

larghi panni scorgesi una simmetria ed una giu- 
stezza di proporzioni ignota ai predecessori ed 
ai contemporanei di Giotto. Nel contorno egli 
qui appalesa la più casta e pura semplicità , e 
pende piuttosto a far grand' uso di rette ; ma , 
per evitare durezza, le alternò a quando a quan- 
do con graziose curve, abborrendo però sempre 
da quel serpeggiante che di facile ingenera tri- 
vialità. Per citare alcuni esempii fra i molti, 
nelle storie del bacio di Giuda, della presenta- 
zione della Vergine al tempio, della Maddalena 
ai piedi del Salvatore, ammirasi o nel protago- 
nista o nei personaggi accessorìi un accordo di 
parti e certa corretta severità di linee, che li fa 
degni di miglior secolo. E chi non vorrebbe aver 
delineato , dalle estremità in fuori , la più gran 
parte delle figure allegoriche a chiaroscuro, di 
cui ho parlato più addietro, e sopra tutte la Spe- 
ranza e la Fede, decorose, nobili, naturali, che 
nulla più? Una si fatta perfezione non è da cre- 
dere Giotto traesse soltanto o dalla imitazione 
della gretta e secca maniera di Cimabue, ov- 
vero dal proprio versatile ingegno; ma devesi 
reputar frutto dello studio grandissimo da lui 
posto sulle meravigliose opere di Nicola Pisano, 
che forse gli furono guida e norma a vedere il 
vero grandiosamente, e meglio ancora sugli an- 
tichi bassorilievi. Notò anche il Lanzi la grande 



88 

imitazione dei marmi greci, che yedesi nelle pit- 
ture di Giotto, e tentò darne ragione (0. « Era- 
» no (dic'egli) marmi antichi a Firenze, che oggi. 
» veggonsi presso il duomo, per tacere di quelli 
D che poi yide a Roma ; ed il loro merito, se già 
» era accreditato per Tesempio di Nicola e di Ciò- 
» yanni Pisani, non poteya ignorarsi da Giotto , 
)i a cui natura tanto ayea dato sentimento pel 
)> buono e pel hello. Quando si yeggono certe sue 
» teste yirili, certe forme quadrate lontanissime 
» dalla esilità dei contemporanei, certo suo gu- 
»sto di pieghe rare, naturali, maestose, certe 
» sue attitudini che sulF esempio deg]i antichi 
» spirano decoro e posatezza, appena può duhi- 
» tarsi eh* egli profittasse non poco dei marmi 
» antichi . Lo scoprono i suoi stessi difetti Un 
» hrayo scrittore troya in lui una maniera che 
» ha dello statuino, a differenza degli esteri suoi 
» coetanei. » 

Né questo è il solo difetto originato in lui 
dalla frequente meditazione sui bassorilieyi. Le 
sue figure pajono colossi rispetto alle architet- 
ture che fregiano i fondi, appunto come yedesi 
negli anaglifi greci e romani, nei quali per Tan* 
gustia del campo erasi conyenuto fra gli artisti 
di foggiare le fabbriche picciolissime, onde non 
togliessero al marmo uno spazio sempremai pre* 

(i) Storia pittorica delV Italia. Tom. L pag. 17. 



89 

zioso. Seguitando poi un principio scrupolosa- 
mente mantenuto dagli antichi nei loro bassori- 
lievi, rade volte dispose le figure su varii piani, 
ma* le collocò su d* una sola linea , evitando il 
più che potè gli scorti sì nei volti che nelle al- 
tre parti della persona. 

Ove però nel disegno dee veramente tenersi 
principe, ove seppe contemperare dottamente 
lo studio dell'antico con quello del vero, è nelle 
pieghe, sempre si maestose, sì morbide, si gra- 
ziosamente affaldate , che poco lasciano a desi- 
derare, e meriterebbero di essere profondamente 
studiate anche ai nostri giorni. È mirabile come 
in età sì grossa ed inetta quell'uomo sommo po- 
nesse nel panneggiare una sceltezza ed un arti- 
fizio che di rado furono raggiunti anche nelle 
epoche auree dell' tirte. Bello è l'osservare co- 
m'egli, ove le pieghe si stringono insieme, tenga 
sempre minute falde, ed occhi ristretti e bene 
squadrati; poi a mano a mano che vanno dilar- 
gandosi le aggrandisca, e le foggi più rade, e le 
spezzi a tempo , perchè la continuità non pro- 
duca monotonia , o rompa le masse. Bello è os- 
servare come alterni le curve colle angolari, le 
cadenti colle sostenute, come vesta senza affet- 
tazione e senza sforzo il nudo , e in mezzo a 
tutti questi sottili artifizii mai offendala verità, 
e da grand' uomo nasconda l'arte con l'arte. 



90 

Andi^ea del Sarto ed il Frate, maestri sommi 
nel drappeggiare, forse non ayrebbero sdegnato 
d'esser detti gli autori de' bei getti di panni che 
rivestono le figure della Temperanza e della 
Fede. Vedete là quanto magistero, quanto dot- 
to contrasto di pieghe minute e grandiose, e in 
onta a ciò quanta bella semplicità ! 

Accennai che in questi freschi Giotto più -val- 
se nelle figure drappeggiate , che nelle nude ; e 
di fatto in tal parte si mostra quasi sempre cosi 
meschino, cosi scorretto, non tanto nei gene- 
rali rapporti , quanto nella collocazione e for- 
ma dei muscoli, da quasi npn sembrare lo stesso 
pittore che disegnò le altre figure panneggiate. 
Né ciò deve recar meraviglia. Il nudo è certa- 
mente il punto più levato e più difficile dell'ar- 
te, ed a raggiungere in ciò anche una perfezio- 
ne relativa bisognano profondissimi studii sul- 
la anatomia e sul vero, i quali non potevano co- 
noscersi in quel secolo oppressato ancora da tan- 
ta rozzezza. Chi è nell'arte versato, ben sa per 
molta esperienza che non costa lunghe vigilie 
il trattare lodevolmente un getto di panneggia- 
menti, il toccare con verità gli accessorii; ma 
d'altra parte lente e penose meditazioni doman- 
da il nudo, onde tutte conoscere le ragioni dei. 
muscoli e delle appiccature , onde sotto le car- 
tilagini ed i tendini intrawedere le ossa , onde 



9^ 
sceverare nelle umane figure il yero bello dai 
difetti commisti, e delle scelte membra di mol- 
te comporre un tipo perfetto. Aggiungi, che la 
superstizione di quei ciechi tempi tenendo per 
sacrilego (0 il notomizzare i cadaveri, toglieva ai 
pittori il più efficace mezzo a tutte poter cono- 
scere le ragioni ed i movimenti del corpo umano. 
Le stesse difficoltà che all' artista. o£&e il nu- 
do, gli si appresentano ugualmente formidabiK 
neirestremità. Per la qual cosa v'ebbero anche 
ne' più. bei secoli dell' arte , ed a' nostri giorni 
pur v'hanno, ingegni celebratissimi che in que- 
sta parte mai uscirono dai confini della medio- 
crità. Ciò quindi spiega abbastanza perchè nelle 
mani e nei piedi riesca sempre gretto e meschi- 
no il nostro pittore, e bene spesso, quando glielo 
consente il soggetto, si adoperi a nasconderli 
sotto lunghissime vesti. 

(i) I pittori non cominciarono a far ponderati studii 
sui cadaveri che verso la fine del secolo decimoquinto 
e sul cominciare del decimosesto. Tuttoché fosse allora 
d'assai mitigato il rigore della Chiesa verso i notomizza- 
tori, pur erano forzati ad operare di nascosto; e quan- 
do il celebre Yesalio nel i543 pubblicò la sua grande 
Opera De humani corporis fabrica non potè sfuggire i 
fulmini del Santo Uffizio, che accusatolo di aver taglia- 
to il cadavere di un gentiluomo spagnuolo , lo dannò , 
in onta della protezione di Carlo Y., ad intraprendere 
il pellegrinaggio di Terra Santa. 



92 

Non af&enato dalle accennate pastoje, s*ebbe 
a merito il vanto di sommo nelle teste. È sem- 
pre ne' suoi volli, e più nei maschili, un conte- 
gno sì nobile, una verità di affetti, una sì ac- 
corta varietà, che riconosciamo tosto in lui la 
continua abitudine ai ritratti. Questa cara ap- 
plicazione dell'arte può quasi dirsi figlia della 
sua mano. Ben è vero che anche prima di Giotto 
i pittori tentarono di effìgiare gli uomini sommi 
t:he colla spada e colla santità della vita aveano 
meritato delle nazioni; ma quelle immagini oom* 
parvero si deformi , sì goffe , sì lontane dal na- 
turale, da essere differenti di poco dagli spaven- 
tosi volti dipinti idealmente. Nei ritratti invece 
del nostro pittore ravvisi certa impronta di ve- 
rità, che ti appalesa quanto anche in questa 
parte valesse. Egli era così tenero di siffatto 
pregio , che in molte fra le sue opere ebbe va- 
ghezza d'introdurre le sembianze degli uomini 
insigni ai quali era legato di molta dimestichez- 
za. Per lui quindi vedemmo prodotti i volti di 
Dante , di Brunetto Latini , di Corso Donati , 
ec. ec. Forse ove la storia ci fosse stata meno 
avara di notizie intorno ai dipinti sui quali ora 
favello, potremmo ammirare in molte teste i ri- 
tratti di alcuni fra gl'illustri vissuti ai giorni del 
pittore. Peculiarmente nella composizione del 
Giudizio finale alcuni volti degli eletti al lato 



93 

destro (sola parte forse dipinta dalla mano dì 
Giotto in questo affresco) lasciano intravredere 
quegl'indizii, pei quali gli artisti sogliono diffe- 
renziare le fisonomie ideali da quelle ricopiate 
sul Tero. 

Né punto più del suo disegno nei nudi vale 
il suo colorito , quasi sempre sbiadato , debole , 
e di soverchio uniforme. Nei panni, ideile fab- 
briche, negli accessorii però conserva certi tuo- 
ni di forza, a dir vero, bellissimi e freschissimi, 
i quali, anziché da più secoli, pajòno da pochi 
giorni usciti dalla tavolozza del pittore. Il suo 
chiaroscuro, se non ha sempre una giusta e ben 
ponderata degradazione, osservato separatamen- 
te in ogni figura , è però lodevole e serba sem- 
pre grandioso partito, perchè non aspreggiato 
da troppo risentite od inopportune mezze-tinte. 
Considerato però nella massa della composizio- 
ne, difetta non poco, e lascia desiderare maggior 
sagrifizio di parti lontane, e quindi maggiore 
armonia. 

Annobilì spesso le composizioni con leggia- 
drissime architetture, nelle quali è mirabile la 
industria con cui seppe stupendamente imitare 
i marmi più belli e ricercati. Ben lungi peraltro 
dal decorarle di quello stUe antico, conveniente 
a storie accadute nel secolo di Augusto e di Ti- 
berio , le foggiò sulla maniera detta gotica j che 



CotORITC 

e 

Chiaroscdi 



Abchitettub 

e 
Prospettiva 



94 

era la sola conosciuta e praticata a^ suoi di . Né 
punto ammirerai in esse lo scortare di linee e 
le esattezze di prospettiva con cui quel bizzarro 
ingegno di Paolo Uccello seppe in poco campo 
fingere gran luogo. Non è però vero, come af- 
fermò il Lanzi (0 , che Giotto e i suoi seguaci 
in questo ramo d*arte pargoleggiassero; non è 
vero che le loro figure sdrucciolino dai piani j 
ed i casamenti non abbiano giusto punto di vedu» 
ta. Basta gettar qui T occhio su tutti gli sparti- 
menti in cui sono architetture, e principalmen- 
te su quello ove Anna s'incontra con Gioachino 
alla Porta aurea di Gerusalemme , per venire 
persuasi del contrario. Le linee concorrono sem- 
pre al punto della veduta, e giustamente resta- 
no intercise dalle altre che partono da quello 
della distanza ; le cornici , i listelli , le gole , e 
tutte le parti aggettate sfuggono e si voltano se- 
condo ragione; infine scorgesi che s'egli ignorava 
le appurate raffinatezze dell'arte, non era per 
altro digiuno affatto delle regole principali. 
Paese. Ma se nelle architetture di Giotto v'ha gra- 
zia e leggiadria , sì belle doti si desiderano in- 
darno ove il pittore è forzato a lasciar campeg- 
giare il paesaggio. I suoi sassi sono contornati 
con durezza e quasi muovono a riso, e l'arte di 



(i) Storia della pittura. Toni. I. pag. 49- 



95 

frappeggiare gli alberi mancagli onninamente. 
<i È un fatto (dice il sommo Giordani (0 quando 
» discorre con tanta eleganza i pregi e le men« 
» de di Benvenuto da Imola) che riesce non in- 
» degno da considerare e molto difficile ad in- 
» tendere , come la pittura di paese , tanto più 
» facile che la umana e la storica, sia nondime- 
»no assai più. tardi giunta al perfetto; il che 
»pare contro il consueto delle cose umane.» 
Eppure il perchè di ciò non mi sembra sì mal- 
agevole a discoprirsi. Troppo tempo l'arte do- 
vette faticare intorno al perfezionamento della 
difficile imitazione dell'uomo, perchè a' sommi 
artisti rimanesse agio di consecrare a quella del- 
la natura campestre osservazioni e cure. E d'al- 
tra parte, quegli illustri dipintori tutta la gloria 
loro ponendo nel colorare l'uomo e le magnani- 
me azioni di lui collo stile più grandioso e più 
nobile, per nulla curarono far peculiare sogget- 
to dei loro studii il paese , da essi considerato 
come accessorio. Era d'uopo che la fortuna ne- 
gasse un fervido immaginare e menti creatrici 
ad alcune regioni, come l'Olanda e la Fiandra, 
perchè i pittori di quelle contrade si dessero 
quasi intieramente alla meno levata pittura di 
paese, e la guidassero alla maggiore eccellenza. 

(i) Sulle pitture di Innocenzio Francucci da Imola. 
Discorso ec, pag. i8o. 



96 

Era d*uopo, siccome sciaguratamente ayyepiie 
a' dì nostri, che la moda, quella mutabile Dea, 
la quale volge a suo senno tutte cose umane ^ 
rifiutasse di vedere ornate le sale dei doviziosi 
colle geste degli avi , e domandasse ai pennelli 
acque cadenti per dirotte balze , ed orride gio- 
gaje, e gotici tempii irti di mille pinnacoli, ra- 
bescati da mille meandri, e le rive amenissime 
delle insubri e romane campagne. Era d'uopo che 
. la religione più non avesse mestieri di fregiare 
la santità degli altari colle pie ed edificanti im- 
prese dei martiri e santi, perchè molti artisti si 
inducessero a non trattare se non paesi e vedu- 
te, ramo in vero secondario dell'arte, ma il solo 
che valesse a fornirli di onesti premii. 
Composizione Ma se in queste parti accessorie Giotto (co- 
EspisssioNE. mechè d'assai superiore ai contemporanei) non 

usci mai di mediocrità, da pochi peraltro fu su- 
perato nella composizione e nella espressione, 
primi e più eccelsi fini dell'arte. Dispone egli 
sempre i suoi gruppi con grande naturalezza e 
conformi a convenienza , senza mai andar cer- 
cando a bella posta artifiziose e ben contrastate 
linee che si foggino a piramide. Mal pago poi 
delle uniformi movenze, dalla imperizia dei gre- 
ci artefici ripetute di continuo, accortamente 
variolle, contrastando con ingegno le posizioni 
di profilo con quelle di prospetto. 



97 
Niuno poi lo pareggiò nel dare tanto di evi- 
denza ai soggetti, che non arverrà inai tu abbia 
ad errare incerto sul quadro per cercarvi il per- 
sonaggio principale, ne vacillerai a determinare 
il genere di azione rappresentata. Per non re- 
care che un esempio, ove Simeone si prostra 
dinanzi l'altare, osserva come primeggi la sua 
ben panneggiata figura; e tuttoché al paro degli 
altri genuflesso , vedi quanto per riverenza di 
atti si faccia in lui più che negli altri palese il 
fervore della preghiera. 

Quest' alto ingegno toccò poi gli affetti colla 
profondità del filosofo e colla libera immagina- 
zione del poeta. Indagatore ingegnoso dell'uomo, 
e delle passioni che lo accompagnano nel cam- 
mino della vita , avea osservato che sì nei miti 
come nei gagliardi sentimenti, nelle impressioni 
di pietosa misericordia come negli impeti focosi 
dell'ira, fra il terrore come in mezzo alla mera- 
viglia, i movimenti della persona non sono mai 
d'ordinario contorti e violenti. Le fisiche altera- 
zioni prodotte dalle tempeste dell'animo non si 
trasfondono per tutte le membra, ma si concen- 
trano quasi sempre nel volto, il quale sì modi- 
fica subitamente a seconda del sentimento che 
agita il cuore. Perciò mai divaricò di troppo le 
gambe delle sue figure, mai ne alzò di soverchio 
le braccia , mai le atteggiò a quelle mosse di 



9» 

danzatori, per cui alcuni artisti si mostrano si 
teneri ; mai in somma diede ad esse quel teatra- 
le , che se aggiunge bellezza per la Tarietà dei 
movimenti, nuoce peraltro alla verità ed alla 
convenienza. 

A meglio conoscere quanto fossero radicati in 
lui questi principii, vedilo qui nella resurrezio- 
ne di Lazzaro (Tav. XIX.), ed ammira quella 
nobiltà di gesto nel Salvatore, quella tenera ri- 
conoscenza che guida le sorelle del risorto a 
prostrarsi dinanzi al Figliuol di Maria, l'indif- 
ferenza degli Apostoli usi a veder di continuo 
i prodigii del loro Maestro: mira quell'incredulo, 
a cui un santo dimostra esser tornata in Lazzaro 
là vita; e loda l'ingegno del grand' uomo, che a 
tanti affetti sì gagliardi e diversi, ai tanto varii 
pensamenti appalesati dai circostanti diede una 
semplicità , una chiarezza , un decoro da pochi 
arrivato (0. 



(i) Il pittore nel porgerci qui Lazzaro ravvolto da 
bende, secondo Tuso tenuto dagli Egizìi e da molti fra 
gli antichi Orientali nel seppellire i cadaveri, parve dar- 
ci una prova di quanto fosse addottrinato nella storia 
dei costumi. È però da avvertire, che in simile guisa 
solcano foggiare il risorto Lazzaro anche i pittori che 
di molti secoli precedettero Giotto; ed egli forse potreb- 
be aver eziandio in questa parte imitati quegli antichi. 
In molte pitture delle catacombe di Roma e di Napoli, 
forse dei quarto o quinto secolo. Lazzaro è sempre così 



99 

Degno di molta considerazione è pure Io spar* 
timento oye Anna s'incontra, secondo la predi* 
zione dellangelo, collo sposo Gioachino alla Por* 
ta aurea di Gerusalemme (Tav. XVIII.)* Quanta 
mansuetudine , quanta bontà , quanta religione 
traspare dagli atti e dai volti lietissimi dei due 
Tecchi conjugi, quanta posata compiacenza nei 
servi e nelle ancelle lontane! 

Ove però Giotto in questi dipinti sembrami 
superare se stesso , è in quello figurante Cristo 
morto fra le Marie (Tav. XX.), il quale colle 
molte bellezze che lo adornano parve persino 
imperare sulla mano inesorabile del Tempo, che 
meno Toffese di tutti gli altri spartimenti. Steso 
fra le braccia delle Marie sia lo spento corpo 
del* Salvatore , in cui non ravvisi le orride ap- 
parenze di morte, ma quasi il sonno del giusto, 
che colla pace nell'animo sembra posar come per- 
sona stanca. Fra le pie intese a quel mesto uffi- 
zio , alcune guardano tutte dolenti il sacro vol- 
to , altre inclinate sulla divina salma ne alzano 
le spenzolate braccia , quasi non credenti che 
morte abbia furato tanto bene agli umani; altre 
mestissime ne sorreggono i piedi. Ma chi può de- 
scrivere il dolore della Vergine? Ella, fatto delle 



disegnato. Vedi D'Agincourt Storia delVarte dimostrata 
coi monumenti, Tav. XI. e XII. 



lOO 



ginocchia sgabello al prezioso cadavere , gli av- 
vinghia al collo le braccia, e par coll'atto pietoso 
voler richiamare a vita quella fredda spoglia. In 
quegli occhi, di già muti ad ogni sorriso, tu leggi 
il crucio d'una madre che per volgere di tem- 
po ne si estingue, ne manco si attenua. Ove più 
fervono gli anni bollenti per ardite speranze, 
ivi sono più involontarii, più impetuosi l'ilarità 
ed il dolore: Gioito quindi, di questo vera pro- 
fondo osservatore, atteggiò nel mezzo del qua- 
dro Giovanni, che in movenza agitata ferma Io 
sguardo sul divino Maestro, e par quasi coi gridi 
e coi lamenti ridomandarlo alla morte. Per lo 
contrario poco lunge da lui ti si presentano Ni- 
codemo e Giuseppe d'Arimatea; e sebbene in 
ambidue tu indovini tristezza e cordoglio, pure 
scorgi di facile che il peso degli anni ha di già 
compresso lo slancio delle ardenti passioni, ed 
il freddo dell'età raggelò nel cuore anche il do- 
lore delle più gravi perdite. Scorati per trango- 
sciato affanno si mostrano pure quei cari angio- 
letti che volano confusamente nell'alto del qua- 
dro. Quale d'essi fa ingiuria al volto, chi si strappa 
i capelli, chi della veste fa velo alle dirotte la- 
grime. A dir breve, tutto è pianto in questa com- 
posizione, e v'ha poi tale un'evidenza, una gra- 
dazione di affetti, una espressione di ora cupo, 
ora disperato dolore , che non temerei di affer- 



lOI 



mare , essere stato da Ciotto composto un tale 
soggetto con acutezza e profondità forse mag- 
giore di quanti altri anche insigni artisti in me- 
glio illuminati secoli Io immaginarono (0. 

In quasi tutte le storie rappresentate in que- 
sto Oratorio Giotto si mostra Talente composi- 
tore; ma ove prevale è sempre nelle invenzioni 
che pigliano a tema la mite e devota pietà, ed 
il fervido zelo di religione. Egli, al paro di tutti 
i contemporanei, vedeasi attorniato da circo- 
stanze le quali doveano agevolargli i mezzi a 
convenientemente figurarne i concelti profondi. 
La religione allora si concatenava a tutte le vi- 
cende della vita , padroneggiava tutte le azioni 
del mortale , s' era trasfusa nella scienza , nelle 
arti, nella eloquenza, nei delitti, sui troni; essa 
era tutto. Le feste quindi a quei dì , i pubblici 
spettacoli, i trattenimenti di ogni maniera non 
altro si proponevano che i misteri di Gesù Cri- 
sto, i miracoli de' santi, e tutta sorta di religiosi 
argomenti. Non è quindi meraviglia se i pittori, 
vedendo in mille guise e di continuo espressi 
quegli stessi devoti movimenti che dovevano 



(i) Il sig. Rchberg nelle Tavole che accompagnano la 
sua Vita di Raffaello, Monaco 18245 ^^ diede disegnata 
in litografia questa composizione. Peccato che o per in- 
curia, o per soverchia fretta, egli ne ommettesse alcune 
fiffurc ! 



102 



collocare nei lóro dipinti , più facilmente , che 
a' giorni nostri non avviene , sapessero comuni- 
care ad essi il sacro entusiasmo, Funzione e la 
carità di quella benefica Fede che tutti ne chia- 
ma fratelli, tt Le processioni dei penitenti bian- 
tt chi (osserya il più volte lodato Cicognara (0), 
)) che da un estremo alValtro d'Italia movevano 
)} le popolazioni, e presentavano di continuo at<- 
)> teggiamenti di compunzione agli occhi degli 
)) imitatori della natura , dovettero necessaria^ 
D mente moltiplicare le occasioni di scolpire in 
» ognuna di tali produzioni quell'espressione che 
» caratterizzava un numero tanto esteso di per- 
D sone attaccate di buona fede alla religione con 
)> tutti i segni della vera divozione, quanto alle 
D esteriori forme del culto. » 

Ned è già da credere che in tutti gli altri sogt> 
getti, nei quali non era obbligo manifestare un 
nmile fervore verso il Cielo, il nostro pittore ed 
i suoi coevi non toccassero il linguaggio delle 
passioni coi principìi sopra enunciati, Qualun*^ 
que fosse l'argomento da quegli artisti preso a 
trattare , lo svolgevano colla stessa castigatezza 
di massime. Simili ai poeti ed agli scrittori ad 
essi contemporanei, noeditavano sempre sull'in- 



(i) Cicognara Storia della scultura^ Totp. IH. pagi- 
na 4^* 



ia3 

dole degli affetti , sulla natura esteriore , ed in- 
tendevano a portare tutte le loro considerazio- 
ni sulla filosofia dell'arte. Non conoscevano con- 
venzioni o maniere, perchè sebbene talvolta si 
piacessero profittare de' marmi antichi, pure di 
preferenza consultavano la nuda, la semplice 
natura; solo in essa si affisavano, solo in quel 
gran libro leggevano. Da ciò quindi i difetti ed 
i pregi comuni alle ai-ti ed alle lettere di quel 
secolo; da ciò quella rigidezza di contorni, quel- 
la timida e servile imitazione d'ogni minuta* 
glia, quelle forme e quei modi ignobili, senza 
arte frammisti a nobilissimi; e da ciò del pari 
quella forza e caldezza , quel nerbo di senti- 
menti, quelle grazie caste, ingenue, riservate, 
che tanto e di tante guise ingemmano le produ- 
zioni di quella età. 

E pur caro discernere questa fratellevole co- 
munanza fra l'arti e le lettere di quel secolo si 
grande e ad un tempo sì rozzo. È pur caro vede- 
re il più insigne poeta di quell'età quasi andar 
del paro per mende e per bellezze col più insigne 
pittore; che mentre il primo, accarezzate talvol- 
ta immagini o sconcie, o tenebrose, od aspre per 
favella pargoleggiante , esce poi d' improvviso 
gigante e sublime, quasi tori'ente che per gon- 
fiato corno sdegna margini e rive , e colora con 
robusto tingere il cielo, il mare, il canto dell'au- 



io4 

gello, il rombo della tempesta; Taltro dopo aver 
disegnale scorrette e rigide estremità, dopo aver 
consecrato il pennello ad inutile pazienza in- 
torno a minute vene, a velli, a ricami, si dilar- 
ga sicuro, e maestrevolmente t'incarna toccanti 
affetji, e nobili movenze, e soffio di vita. 

L'ora notato ravvicinamento fra lettere ed arti 
$erve quasi a porgerci il ritratto morale della 
civiltà dei tempi mezzani; e considerato sotto 
più vaste relazioni potrebbe farsi sorgente di pro- 
fondo meditare ai sapienti. £ noi lascieremo ai 
sapienti l'ingegnoso uffizio, e solo ci basterà 
( per non uscire di via ) d'osservare che Giotto 
e i discepoli suoi furono esempio e modello ai 
pittori del susseguente secolo , i quali del vero 
sommamente studiosi , e sciolti da molte infaur 
tili fasce dell'arte, improntarono i loro dipinti 
di tanta purezza , di tanto candore , che a con- 
siderarli è uu incanto. Ferma lo sguardo sulle 
placide ed attraenti sembianze delle veramente 
celesti Madonne del beato Angelico da Fiesole, 
di fra Filippo Lippi, del Gozzolì,del Masaccio; 
mira quanta religione spii'i dai tranquilli gesti, 
dai mansueti volti di quei loro santi; e di leg- 
gieri ti accorgerai quanto quegli artisti nel d^r 
vita e linguaggio alle fisoqomie ed alle figure 
seguissero i principii e le ornie dell'illustre di- 
scepolo di Cimabue e della sua scuola. 



io5 

Non fu che sul declinare del sestodecimo e 
sul sorgere del trasognato secolo susseguente , 
quando Tarte siyolse alle stravaganze, che i pit- 
tori diedero contorti movimenti alle loro figure, 
e rifuggirono da queir aurea semplicità, prima 
bellezza nel vero, e nelle arti che prendono ad 
imitarlo. Anche a' nostri giorni , in cui pittura 
e scoltura pretendono vanto di purismo e di ca- 
stigatezza, alcuni artisti, innamorati di tutto 
ciò che dalla Grecia e dal Lazio ebbe sorgente, 
siffattamente pongono i loro studii sulle antiche 
statue, che ne ritraggono persino le dignitose 
mosse. La qual cosa, forse conveniente alla scol- 
tura, destinata a figurar Fuomo fatto nume od 
eroe, male il più delle volte si addice alla pittu- 
ra , la quale toglie spesso a rappresentare scene 
della domestica vita, ed è meno propria della so- 
rella ad offerirci le apoteosi degli uomini som- 
mi. Coloro quindi, per consei'vare dignità, sa- 
grificano il vero, e mostrando nelF atteggiare i 
personaggi soverchio artifizio e troppo studiati 
contrasti di linee, nuocono alla espressione (0. 



(i) Volesse pure la sorte che nelle Accademie, ove 
8* iniziano i giovanetti nei misteri di Parrasio e di Apel- 
le, s'insegnasse loro a meditare sui dipinti dei treoen* 
tisti e dei quattrocentisti, e si dimostrasse quanto fine, 
diligenti, molteplici osservazioni facessero quegli artisti 
sulla verità , onde conseguire tanto avvivamento di af- 



io6 

Prima di dar fine alle osservazioni su queste 
insigni opere, resta che alcuna cosa io dica sul 
meccanismo con cui sono condotte. Disaminan- 
dole attentamente , parmi vi sieno adoperati i 



fettl, tanta ammirata castigatezza di colori e di forme! 
Se venisse il giorno in cui Tarte si apprendesse in tal 
guisa, oh quanto e quanto verrebbe sbandito da non po- 
chi fra i moderni dipinti quel manechinoso y che loro ag- 
giunge freddezza ! quanto meglio poserebbero sui piani 
le figure, spesso ora slanciate, per vaghezza di leggiadre 
movenze, in atto di danza! quante, In una parola, con- 
venzioni o false o sconvenienti sparirebbero da molte 
tele che ora ornano alcune doviziose pareti dei gabinet- 
ti! Quel giorno. Io lo spero, non è per Tltalia lontano ; 
Taurora di quel giorno (oh non fosse pur vero ciò che 
m'esce dal labbro) spunta forse ora per gli stranieri, i 
quali avidi d'apprendere calano dall'Alpi, e s'Innebriano 
nelle ingenue grazie effuse dalle tavole e dai freschi di 
Giotto, deirOrcagna, del beato Angelico, del Masaccio, 
dei Bellini, e ne fanno tesoro di cognizioni, che a larga 
mano profondono nei veri e studiati loro dipinti. Se noi 
Italiani , a cui le arti sono antico e famigerato patrimo- 
nio, slamo punti da nobile desiderio di raggiungere an- 
cora nella pittura il bello a cui arrivarono I sommi del 
sestodecimo secolo, rimontiamo alle fonti, e ne attigne- 
remo un'acqua di perenne limpidezza, e monda da ogni 
sozzura; né corriamo a dissetarci alla foce, ove se II fiu- 
me devolve più largo, Tonda vi è però sempre frammi- 
sta al greto ed alle melme. Non dimentichiamo che il 
divino Urbinate non isdegnava talvolta ricopiare dal FIc- 
solano e dal Masaccio alcune figure per farle fregio delle 
proprie composizioni. 



107 

soliti melodi coi quali i prìmi dipintori usavano 
disporre i colori a fresco. Sulla calce greggia è 
disteso un intonaco di colore rossiccio, in cui è 
forse mescolato un poco di calcestruzzo o di 
pozzolana. Indi yi è sovrapposta l'ultima mano 
di malta fina o marmorino, su cui sta il dipinto. 
Tuttoché si ravvisi in queste pitture molta forza 
di tingere, peculiarmente nelle architetture e 
nei panni, pure mi viene sospetto non sieno in- 
tieramente a buon fresco, vale a dire senza ri- 
tocchi a secco. Tre ossei*vazioni mi confermano 
in questa opinione. i.<* Per quanto si voglia con 
diligenza esaminarle, non vi si vedono mai quel- 
le commettiture d'intonaco eh' è forza rinvenire 
in tutti gli affreschi, e principalmente in quelli 
i quali per la molta finitezza con cui sono lavo- 
rati domandarono lungo tempo ad essere com- 
piuti. - 2,° Se si dilavano le pitture a buon fre- 
sco con acido idroclorico diluto con acqua, non 
soffrono quasi detrimento alcuno. Per lo con- 
trario se si fregheranno le nostre col detto aci- 
do, si vedranno anche colla più leggera bagna- 
tura scolorarsi. - 3.<> In molti luoghi, ove le no- 
stre pitture sono guaste o per salsedine o per 
doccio d'acqua, vedesi scrostarsi il sovrapposto 
colore, a guisa delle cose a tempera, e lasciar 
comparire la tinta di biadetto che scorgesi data 
prima a tutto lo spartimento. 11 colore a buon 



io8 

fresco invece o perisce insieme all'intonaco , o 
Tiene combusto ed assorbito dalla calce. Da tut- 
to ciò adunque parmi si possa a buona ragione 
argomentare, essere questi freschi in gran parte 
terminati a tempera, dopo forse che, rasciugata 
tutta Topera, avranno lasciato discernere al pit- 
tore ove più abbisognassero d'accordo. 

A conferma di questo mio sospetto viene ac- 
concio un passo di uno scrittore vissuto per gran 
parte nel secolo del nostro pittore , e de' suoi 
metodi peritissimo. Genuino Cennini in quel 
suo Trattato della pittura j ove ne apprende, co- 
m'egli afferma, le pratiche tenute nell'arte dal 
gran maestro Giotto j ne dice al Gap. LXXVII. 
pagii74 (*^» ^ nota che ogni cosa che lavori in 
fresco vuole essere tratto a fine e ritoccato in sec- 
co con tempera. Quale prova maggiore che quei 
buoni antichi neppur sognavano poter condm-re 
intieramente a fresco qualsiasi opera ? Né devesi 
credere, checché ne dica il Vasari, quest'arie 
del frescare salisse nel sestodecimo secolo a tan- 
ta perfezione da tenersi vilissima cosa il ritoccare 
in secco. Il Gorradi usò dare alcuni ritocchi ad 



(i) Vedi Gennino Cennini Trattato della pittura^ Ro- 
ma i8ai. Questa preziosa Opera, che ne disvela a mi- 
nuto i metodi usati nel dipingere dagli artisti del secolo 
decimoquarto , fu per la prima volta messa in luce ed 
eruditamente illustrata dal cav. Giuseppe Tambroni. 



109 

olio sugli intonachi da lui colorati. Raffaello stes- 
so, al dire di molti intelligenti, Telava ed armo- 
nizzava a secco que' suoi meravigliosi concepi- 
menti delle loggie vaticane. In tempi da noi non 
lontani Mengs finiva i suoi freschi valendosi di 
tempere miste a latte e spirito di vino. 

Ora, ch'io scrivo, molti artisti non isdegnano 
ripassare a tempera su alcune parti dei loro fre- 
schi onde meglio intuonarle. Dissi molti e non 
tutti, perchè l'Italia novera ancora pochi sommi 
(e ne taccio i nomi per non offendere o la mo- 
destia loro,o l'amor proprio dei minori) , i quali 
emulano il merito che fu quasi peculiare ai soli 
veneti maestri vissuti nel secolo aureo delle arti, 
di incarnare cioè sulle muraglie giganteschi e 
succosi dipinti , vergini da ogni ritocco. Sì , al- 
lora era dato soltanto ai Paoli, ai Zelottì, ai Por- 
denoni ec. l'improntare di primo getto, sulle pa- 
reti, armoniche, calde e sicure tinte, le quali, 
sprezzando gl'insulti dei secoli e delle procelle, 
attestassero ai tardi nepoti quanto quei sommi 
in ogni maniera di colorire fossero principi. 

Reca poi non poca sorpresa il considerare co- 
me opere sì vaste, e con tanta paziente diligenza 
compiute, sicché ogni piega, ogni testa è d'un 
finito da miniatura, potessero venir tutte lavo- 
rate da un artista solo, d'altra parte affollato da 
imprese ampie e laboriosissime. Come mai Giotto, 



no 



sicuramente il più universale pittore de* suoi dì ; 
Giotto, che con pari solerzia poneva mano alle 
seste ed ai pennelli; Giotto, che da Napoli, ove 
vegliava la gigantesca costruzione del Castello 
dell'Uovo, correva a Lucca ad alzare la fortezza 
dell'Agosta; che architettava quel maraviglioso 
campanile della sua patria, disegnava colà le 
porte di S. Giovanni , in Arezzo il sepolcro di 
Guido Tarlato; e tutte queste importanti e lun- 
ghe fatiche alternava coi numerosissimi dipinti 
colorati in Assisi, in Roma, in Rimini, in Urbi- 
no, in Ravenna, ec; Giotto, che non pago della 
gloria acquistata nelFammiratrice penisola, tras- 
cprreva parte di Francia, e vi lasciava testimo- 
nii del gagliardo suo ingegno; come mai, dico, 
uomo da tanti lavori gravato poteva senz'ajuto 
veruno dar fine alle dipinture della nostra chie- 
setta ed a tutte laltre sue colla squisitezza di un 
miniatore? Farmi che a spiegare questo fatto, 
il quale sa di miracolo , non vi sia che un sol 
modo, avvalorato, per quanto mi sembra, an- 
che da storici esempii. 

Allora ogni artista di qualche nome soleva 
tenere aperta una bottega , ove . molti giovani 
apprendevano Tarte, e lavoravano tutto dì a di- 
grossare le opere del maestro. Giotto medesi- 
mo si stava nella sua officina attorniato da pro- 
prii alunni, quando disegnò d'un sol trailo quel- 



Ili 



rO (0 meraviglioso, eternato col celebre adagio. 
Quando poi a qualcheduno di quegli artisti si 
allogavano vaste commissioni, ecco subito il pit- 
tore recarsi sul luogo , seco traendo la piccola 
legione degli scolari. Egli disegnava con ogni 
accuratezza i cartoni, poi distribuiva i lavori 
agli allievi, a seconda dell'ingegno di ciaschedu- 
no. A chi erasi fatto valente nel trattare i pan- 
neggiamenti dava a colorire le drapperie ; chi 
della prospettiva era perito dipingeva le archi- 
tetture; chi più provetto mostravasi nelle estre- 
mità, poneva il pennello unicamente in quelle; 
e chi o da poco si stava col maestro , o da na- 
tura matrigna avea avuto corto l'ingegno, sten- 
deva i campi in azzurro, ovvero attendeva allo 
smaltare, al lavorare in muro, al pulire. Tutti 
costoro poi, avvezzi fin da' primi anni a viversi 
in compagnia d' un valente , ed a vederlo ope- 
rare, cotanto ne prendevano le maniere e la 
pratica, da quasi farsi i meccanici stromenti 
della volontà dì lui ; e tutti poi fra loro si ras- 
somigliavano , da essere ben malagevole il po- 
terne notare essenziali differenze. Il maestro in 
seguito ripassava su tutta l'opera sbozzata dagli 
allievi, la finiva, l'armonizzava, e forse serbava 
per sé il travaglio di molte teste, siccome la 



(i) Vasari Vita di Giotto. Tom. II. pag. 86. 



112 



parie più difficile e più importante di qiialun- 
que dipinto. 

Né questa mia congettura è senza appoggio 
d'esempii. Il Vasari in parecchi luoghi d'elle sue 
Vite ricorda affreschi dei sommi artisti del se- 
colo decimoquarto condotti per gran parie dai 
loro allievi. Nei secoli posteriori non isdegnò di 
operare nella guisa or da me accennata anche 
il divino Urbinate. Ov'egli recavasi a dipingere 
sulle pareti, aveva ad ajuti il Pippi, Ferino del 
Vaga, Raffaellino del Colle, ec. Ed alcuni fra 
questi discepoli di quel grande , come Giulio e 
Ferino, levati poscia in fama di maestri, fecero 
lavorare nei loro freschi il Fagni, Rinaldo man- 
tovano, Luzio romano, Guglielmo milanese, ed 
altri parecchi. Sì fatta opinione viene poi me- 
glio rafforzata dall'esame di alcuni tratti dell'ora 
citato scritto del Genuini. Ne apprende egli nel 
Gap. IL, che l'artista, a fine di venire a perfezione 
nell'arte siuzj doveva allora starsi in servitù e vi- 
versi con amore ed obhedienza dappresso al mae- 
stro per molti e molt'anni. E dopo averci detto 
che Taddeo Gaddi se ne sletle con Giotto per ben 
ventiquattro, ed egli stesso ne visse con Agno- 
lo di Taddeo dodici, c'insegna com'era in quei 
giorni debito del pittore tutte conoscere quelle 
pratiche materiali inerenti alla pittura, che ora 
vanno eseguite dal muratore, dal falegname, dal 



ii3 

doratore, ec. « Sappi, die' egli (O^ che non tor- 
» rebbe essere men tempo a impalare : come ^ 
» prima studiare da piccino un anno a usare il 
» disegno della tavola ; poi stare con maestro a 
2> bottega 9 che sapesse lavorare di tutti i mem- 
»bri che appartiene di nostr^arte; e stare e in- 
» cominciare a trìare de' colori ; e imparare a 
» cuocere delle colle, e triare de' gessi; e piglia- 
V re la pratica dello ingessare le ancone, e rile- 
» varie e raderle ; mettere doro, granare bene, 
» per tempo di sei anni. E poi in praticare a co- 
fiorire, adornare di mordenti j far drappi d'oro, 
» usare di lavorare di muro per altri sei anni, 
» sempre disegnando , non abbandonando mai 
» né in di di festa, né in dì di lavorare. »» E poco 
dopo : « Che molti sono che dicono , che senza 
D-essere stati con maestri hanno imparato l'arte. 
dNo '1 credere, ch'io ti do l'esempio di questo 
» libro : studiandolo di dì e di notte , e tu non 
» ne veggia qualche pratica con qualche mae- 
)) stro, non verrai mai da niente » ec. ec. 

Ora chi non vede che ogni volta Giotto intra- 
prendeva una vasta opera , siccome era quella 
del nostro Oratorio ^ doveva aversi a compagni 
ed i meno abili fra' suoi allievi, atti solo a ma- 
cinarCj ad incollare j a mettere di bollo j a brunire ^ 



(i) YecL Gennino Gennini, Op. cit. pag. 91. 

8 



ii4 

a granare j a ritagliare j a latrare in muro ec. ec, 
ed i più addottrinali di già provetti nel disegna- 
re^ neW adornare j nel temperare^ nel colorire in 
murOj nel trarre a fine in secco ec. ec, nel con- 
durre insomma accuratamente tutti quei parti- 
colari di cui il dilìgente Genuino ci fa menzio- 
ne nel Gap. IV? 

Questa mia opinione si fa poi ancora più pro- 
babile rispetto ai dipinti che abbiamo sotto lo 
sguardo, quando si voglia con attenzione avvi- 
sarli. La composizione ed il concetto si vedran- 
no sempre guidati da una sola mente acuta e 
pensatrice ; ma nella esecuzione rimarcheran- 
nosi differenze manifeste evidentissime. Alcune 
teste si vedranno avvivate da caldi sentimenti, 
e dipinte con un amore che incanta; alcune al- 
tre, anche nello stesso spartimento,o trascurate, 
o foggiate su brutti tipi, e con un tocco di pen- 
nello stentato ed incerto. Alcune drapperie con- 
servano tutto il magistero che Giotto sapea dare 
a questo importante ramo dell'arte; altre all'op- 
posto mancano di grazia, ed anche di verità. 
Che più? spesso la figura principale è notevole 
per grandissima diligenza e freschezza ; le ac* 
cessorie al contrario per goffaggine e negligen- 
za. Anche quegli che meno si conosce dell'arte, 
esamini da vicino lo spartimento del Cristo mor- 
to fra le Marie, che sta nel mezzo della parete 



Ilf) 



a sinistra, ed i chiaroscuri figuranti i Yizii e le 
Virtù; e vi scorgerà una squisitezza di lavoro, un 
pennello paziente e sicuro ad un tempo, un mo- 
vimento di passioni degno solo di tanto maestro. 

Si rivolga poi alla strage degl'innocenti, che 
sta nell'ordine medio dell'altra parete, e si ac^ 
corgerà di leggieri con quanta incuria o rozzez* 
za venisse gettata sull'intonaco questa storia, a 
riserva di poche teste. Ned è da credere che i 
men helli fra i dipinti che osserviamo sieno ope- 
ra di un solo fra i seguaci di Giotto. Il più su- 
perficiale esame hasterà a convincere che uno 
stesso pennello non può aver lavorate le grette 
figure della strage degl'innocenti, e le meschine 
e fredde che veggonsi nelle nozze di Cana. Fi- 
nalmente, a concludere, non vi sarà alcuno si- 
curamente, che guardando la parete del Giudi- 
zio finale voglia tenere dalla stessa mano esegui- 
te le devote figure dei patriarchi e degli eletti^ 
le meno belle degli angeli superiori, e le meschi- 
ne e talvolta deformi dei dannati. 

I dipinti delle pareti laterali alla tribuna sono 
opera di Taddeo di Bartolo o Bartoli sanese, qui 
chiamato, al dire del Vasari, da Francesco i]L vec- 
chio da Carrara. Questi è lo stesso Bartolo che 
dipinse in Pisa uno spartimento del Camposan- 
to, coprì di freschi la Cappella ed una sala nel 
palazzo pubblico di Siena verso il i4i4> ^ morì 



ii6 

poco dopo cVanni Sg (0. Non so come, leggendo 
quest'epoche avverate dalla storia, alcuni scrit- 
tori possano averlo creduto scolare di Giotto (^), 
che nato nel 1276, morì nel i336, quando cioè 
il Bartoli non doveva avere che all'incirca quat- 
tro anni. Né solamente per l'epoca in cui visse 
non potè essergli discepolo, ma par non gli fosse 
neppure imitatore; perchè, come osserva il Vasa- 
ri, ehbe stile che tiene della maniera di Ugolino 
sanese, cotanto dalla giottesca diversa. Se le pit^ 
ture eh' egli qui ci lasciò non fossero state per 
gran parte ritocche da poco perite mani, stando 
esse dappresso a quelle di Giotto , ci giovereb- 
bero meglio che tutte le altre opere di Taddeo 
a giudicare in quali parti andasse lungi dai Fio- 
rentini, in quali loro si avvicinasse. Però da una 
immagine della Vergine, non difformata dal sa- 
crilego pennello dei ristoratori, scorgesi palese- 
mente il vago tingere di quella scuola lietissi- 
ma fra lieto popolo, com'è la sanese; ma in pari 
tempo un disegno meno sicuro, meno largo, me- 
no corretto del giottesco. 

I soggetti qui trattati riferisconsi ad azioni 
della Vergine. Il primo in alto a sinistra di chi 



m^^tt^*^% 



(i) Vasari Fita di Taddeo Bartoli. Tom. IL pag. 343. 

(2) Tanto affermarono il Morelli nelle note alle No- 
tizie d'opere di disegno co. pag. i55, il Brandolese nel- 
la Guida di Padova, ed altri ancora. 



li; 

entra la tribuna è troppo guasto dal tempo, per 
potersene in verun modo indovinare ciò ch'esso 
rappresentasse. In quello di mezzo è figurata no- 
stra Signora, la quale manifesta a san Giovanni 
la novella della propria morte, inviatale dal di- 
vin Figlio. Nell'altro di sotto la immacolata Don- 
na postasi a giacere su d'umile letticciuolo, e da- 
ta a tutti gli astanti benedizione, trapassa lieta di 
questa terra, e vola nel grembo della incarnata 
Sapienza. SulF inferiore dei tre spartimenti del- 
l'altra muraglia ci vengono offerti i funerali del- 
la Vergine ; in quello centrale la sua ascesa al 
Cielo; e nell'ultimo, in alto. Maria seduta ac- 
canto al Salvatore, e da lui coronata imperatri- 
ce e signora dell'universo. Denno tenersi dello 
stesso Taddeo anche i varii santi che ornano 
l'archivolto interno della tribuna e le nicchie. 



Ecco quanto ho potuto e saputo osservare su 
questo celebre monumento delle arti italiane, 
su questi insigni dipinti colorati dal Fiorentino 
immortale. Taluno forse mi farà rimprovero per- 
chè non ho compensato alla pochezza del mio 
lavoro neir unica maniera ch'io mi poteva, of- 
ferendo cioè incise tutte le composizioni qui di- 
pinte da quel primo rigeneratore della pittura; 
ma, lo ripeto, io non m'ebbi a mira di preseu- 



ii8 

tare in questi cenni una completa illustrazione 
(impresa da ingegno ben più valente ch'io non 
mi sono), e perciò mi stetti contento di porgere 
intagliate quelle cose soltanto, le quali fossero 
più delFaltre acconcie a dare una giusta idea di 
que' pregiati freschi, e valessero a sorreggere le 
osservazioni che intorno al merito loro io ere* 
detti dettare. Tale altro forse mi taccierà o di 
negligenza o di poca sollecitudine inverso le glo- 
rie patrie , perchè dissi , all' infuori di questa , 
tutte perite le opere condotte da Giotto in Pa- 
dova , mentre tiensi andare ornato e ricco de' 
suoi freschi il nostro Salone; ma a me parve, 
che dopo l'affermare di antica Crònaca (0 che 
li vorrebbe a Giotto anteriori; dopo la testimo- 
nianza dell'anonimo Morelliano (a) che li disse 
del Miretto, e d'un Ferrarese di cui tace il no- 
me; dopo i dotti dubbii dei chiarissimi Lanzi e 
Meschini , e di quanti artisti li visitarono , do- 
vesse quasi esser fuori d'ogni questione, ch'essi 
mai uscissero dal pennello di quelF insigne ca- 
poscuola. 

Se in onta però di quanto potesse venirmi 
apposto a colpa in questo lavoro, i miei con- 



(i)In antica Cronaca ms., ch'era posseduta dal beneme- 
rito dell'arti padovane fu Gay. de Lazara, si legge: 1271 
hoc anno depictum Juit palatium Com...is Paduae. 

(j) Morelli Notizia d^ opere di disegno ce, pag. 28. 



^^9 
cittadini e tutti quelli che si conoscono d'arte 
reputeranno non del tutto inutili e spregeyoli 
queste mie osservazioni , ed io mi terrò larga- 
mente guiderdonato della mia fatica, ed io mi 
porrò tutto per l'avvenire a recar qualche luce 
sulle arti di questa patria mia, a cui mi legano 
mille yincoli di affezionerò. 



(i) La stampa di queste mie osservazioni toccava 
quasi al suo termine, quando mi furono gentilmente 
comunicate dal dotto sig. abate Cornino, sacerdote di 
questa Cattedrale, alcune erudite ricerche ch'egli avea 
stese sul nostro Oratorio. È di non piccola importane 
za la seguente, che io qui riporto a prova di sue dili- 
genti investigazioni , e ad emenda di un mio errore. 
Egli ci avverte essersi ingannale tutte le nostre Guide 
leggendo sotto la statua della Tergine posta sopra il 
deposito dello Scrovcgno Jacohi Magistri Hicoliy e do- 
versi invece leggere Jonis (abbreviatura di Joliannis) 
Magistri Nicoli, lo, confidando nelFaccuratezza del Ros- 
setti e del Brandolese , ho riportato a pag. i8 quella 
inscrizione com' essi la stamparono , senza recarmi a 
riscontrarla dappresso*, ma avvertito dello sbaglio dal. 
l'erudito Comino, mi portai a raccertarmene co' mici 
proprli occhi, e la trovai conforme alla sua correzione. 
Questo maestro Giovanni sarebbe egli mai Giovanni da 
Fisa, figliuolo dell'immortale Nicola, e seguace delle 
maniere paterne ? Se ciò fosse, avrei la compiacenza di 
non essere uscito dal vero, quan<lo congetturai a p. 19 
appalesare quell'opera le massime della scuola pisana. 



APPEPn>IGE 



ILLUSTRATION 

DES TROIS FIGURES DES VERTUS 

stemteù pat Chiotto 

DAN8 L*£GLI8E 

DE l'ANNONCIADE A PADOUE 

PAR D'HANCARVILLE 



f 



LES VERTUS. 



L 



le mot vertu dans le sens physique exprime 
d'abord la force, la vigueur des corps; il exprime^ 
dans le sens moral, les qualités de T esprit ou du 
coeur. 

La sapesse est, selon Aristote, la plus sublime des 

qualités de l'ame; la prudence en est la plus utile. 

Architas de Tarente appellait celle -ci la sdence 

des choses consfcnahles à Vhomme. Elle nous ap- 

prend a prévoir les biens ou les maux ayenir. La 

force dont le sentiment produit le courage, assure 

la liberté de nos actions. La temperance ou la mo- 

dération prise pour règie de la conduite humaine, 

la dirige vers le bon ou Thonnéte. La justice enfin^ 

dont l'objet est le maintien de Tordre, dévient avec 

les vertus précédentes le principe de tonte morale. 

Du mot Cardo employé par les Latins pour signifier 

un pivot on a donne à ces vertus le nom de cardi- 

nales par ce que tout le sy stéme des moeurs roule 

sur elles, comme sur autant des pivots. Architas 

contemporain de Platon, sorti de Fècole de Pytha- 

gore, distingua le premier ces quatres vertus princi- 

pales. Prises dans la nature de Thomme, elles ne se 

fondent pas sur ses droits métapbysiques , mais sur 

%Qs devoirs réels. Il doit ètre prudent dans la poste- 



126 

rìté , courageux dans les revers de la fortune , mo- 
déré dans ses désirs , juste dans toutes ses aciions; 
en remplissant ces obligations il travaille a son bon- 
heur sur la terre. Il existe cependant encore un or- 
dre des vertus enseignées par la religion chrétienne; 
celles ci sont la perfection des autres préscrites par 
Dieu méme; elles assurent à Thomme le bonheur 
de la vie future. Ces vertus appellées théologales à 
cause de leur divine origine; sont la Foij la Charité^ 
XEspérance. Représentées ici avec les vertus mora- 
les, pour marquer leur prééminence Giotto les a fait 
converser avec des ètres superieurs par leur sainte- 
té a la nature humaine. Voyez dans ces figures celle 
de la Foi; elle recoit sa doctrine d'un Evangeliste. 
Dieu lui-méme remet dans les mains de. la Charité 
les moyens d*exercer sa bienfaisance. Un auge enfin 
couronne XEspérance. 

LA SAGESSE, cu LA PRUDENCE. 

Socrate donne ainsi que Platon le nom de Sa- 
gessa à la prudence morale. Elle consiste a discer- 
ner les véritables intéréts des hommes , prévoir les 
dangers dont ils peuvent ètre menacés , à ménager 
les moyens, ou les prevenir, et en arre ter les effets. 
La prudence est le fruit , et la raison éclairée par 
le savoir; pour ce motif on lui donne ici le nom de 
Sapiencej Sapientia. C'est aussi la marque la plus 



127 

assurée, la preuve la plus certaine de la force du di- 
sceruement jointe a la solidité du jugement. Voìr 
les clioses comme elles sont, parler comme il faut, 
sayoir se taire à propos, ménager le temps, agir pour 
le mieux selon les circoustances, sont les actes les 
plus propres a faire reconnaitre la prudente . Cette 
vertu est, comme toutes les autres, une science; le 
vice contraire est une erreur fondée sur Fignorance, 
regardée par Socrate comme le plus grand des maux. 
Àmie de Texpérience, la prudence, se fortifiant par 
l'exercice, s accroit par la réflexion. Elle cherche dans 
l'étude du passe la raison, de prévoir lavenir. Recueil- 
lant avec choix des connaissances en tout genre, la 
Prudence en forme le trésor de Tàme , elle en tire 
tous les remèdes aux maux de Tesprit, toutes les con- 
solations contre les adyersités de la vie. De tant des 
connaissances la plus difficile a se procurer, mais la 
plus utile de toutes est celle de soi-mème. Le sage 
Thalés renfermait en elle toutes les autres, car il la 
recommandait seule. On lacquiert en conversant 
beaucoup avec soi, on la perd vivant dans la fonie, 
on Taugmente en culti vant Tamitié des sages, on la 
perfectionne par Tétude des hommes réunis à la pra- 
tique des affaires. 

Assise non sur un de ces sièges ordinairement en 
usage, mais en une des ces chaires dont les gens 
de lettres se servaient autrefois pour se livrer com- 
modement a la méditation, pour s*occuper dans la 



128 

retraile , pour écarter la foule importune , la Pru- 
dence ici représentée loin da bruii jouissant de la 
tranquillile , a Tabri du tumulle , parali viyre seule. 
En ce moment elle Se regatde^ s'occupe d'elle-mème, 
s'applique a se bien reconnailre« Le miroir conyexe 
ou elle yoil ses iraits eiì diminue quelqiies défauts, 
en les représentant sóùs les formed plus petites^^ ce- 
pendanl il les defigute en les courbant, en changeanl 
leurs proportions5 il les mentre enfin sous des ap- 
parences contraires a la vérité. Tel est Teffet de 
lamour ptopre: il nous embellit à nos yeuit, il nous 
rend ridicules a ceux des autres. La Prùdence ne 
l'ignore pas pour éclairer la yérité doni elle s'odcu- 
pe : elle s'arrange de mànièi'e à dorriger les etreurs, 
ou pourrait la jeter le miroil* trompeur^ elle s'agite, 
èlle parali médontente, ne youlant se yoir ni en 
mieux , ni en plus mal ; mais désirant se connaitre 
comme elle est, elle s'applique a trouyer les raoyens 
de refnplir son objet, en corrigeant le portrait peint 
par la flatterie ou la satyre ^ résultantes de la nature 
de son miroir infidel. 

Ce miroir c'est l'opinion, Son effet ressemble à 
celui du préjugé; l'un ne peni a cause de sa conye- 
xité représenler les objets sans en altérer les formes; 
l'opinion ou le préjugé produil ordinairement par la 
préyention empèche de yoir les cboses comme il 
conyiendrait pour les bien apprécier. Un jugement 
sain peni rectifier leurs erreurs, à l'aide du sayoir. 



129 

fonde sor celte raison éclairée, doni la sagesse est le 
fmit; elle est la Prudence mème. Le jogement soli* 
de, doni elle fait an continuel osagei est representé 
par le compas dont elle se sert icL La raison, ses la- 
mières, ses expériences dirigeant ses doìgts, tous les 
Tojes agir, se moayoir poar arranger les pointes de 
cet instmment de comparaìson; il lui donnera la me- 
sore ezacte des cboses, lui fera regretter ceUe des 
préjngés, lai rendra sospectes les opinions, finirà par 
lai donner la jaste connaissance d*elle mème. 

L'oeil de cette figare, en considérant ses traìts ré- 
flechis dans le miroir, parait se rapportar dans son 
inlérienr comma il arrive qaand on médite ptofon- 
dement; ce regard intérieur c*est celai de la pensée, 
il est Feffet de la réaction du sentiment cause par 
l'action de la vae non sar la rétiae, mais sur Tàme 
mème. Cette ingéniease expression donne a la figare 
4e la Pradence un caractère serieux, un air de pro- 
fonde application propre a faire sentir son exacti- 
tude, son attentìon scrapuleuse à comparer, a calcu* 
ler, a determinar Tétat précis des choses avant d'en 
parler, avant de las jugar^ avant da prandre un parti 
ralativamant à elles. 

La Prudence étant également utile aux daux saxes, 

pour catta raison son yisage se yoit ici réuni a calui 

d'un homme ^ on reconnait dans ce damier la pliy*^ 

sionomia da Socrate, la plus vartuaux, la plus éclai- 

ré, la plus saga des philosophes ; par catte composi- 

9 



i3o 

tion emblématique ^ìomme celle des tétes de Ja- 
nus, le peintre a représenté la Prudence observaut le 
temps ou les choses par les yeux de la pUlosopliie , 
ou platòt de la sagesse. Selon la maxime de Socra- 
te, elle apprend dans le livre ouvert devant elle à 
cbercher dans la vérité la règie de ses jugemens, 
dans la vertu celle de &es actions. Trouvant dans la 
mémoire du passe l'exemple du present, dans la com- 
binaison des temps celle des idées capables de faire 
prévoir les événemens à venir, elle connaìt la me- 
sure des possibles, les termes de Futile, ceux de 
lagréable, les limites du bon, celles de rhonnéte. 
Elle doit faire un continuel usage de ces importantes 
connaissances; elle en a besoin pour rendre justice 
aux autres, pour reussir à se faire pardonner d'ètre 
juste; car s'il est souyent diffìcile de faire du bien 
aux hommeS) il est toujours périlleux de les gou- 
verner. , 

Le voile mis sur la tète de la Prudence Favertit 
de se cacher, elle doit se tenir dans Tobscurité, ne 
se pas montrer, crainte de sé remontrer sóus les yeux 
envenimés de l'envie , ou les regards meurtriers de 
la calomnie. Le livre place sur un pupitre devant la 
Prudence, est celuì de Fhistoire generale du monde: 
c'est là où la philosophie se réunit à Texpérience, 
pour lui découvrir ce que peuvent les passions et 
les intéréts, les tems et les conjectures, les bons et 
les mauvais conseils. 



t3^ 

Loin d'ètre d*une beauté distinguée, le yisage de 
la Prudence est au contraire d'une forme très-com- 
mune. Cette vertu convient à tous les états, comme 
à tous les àges, à tous les sexes; elle est par son ca- 
ractère, comme par son mérite, préférable à la beau- 
té mème; bien différens des avantages brillans mais 
passagers de la beauté, ceux du caractère, ceux du 
mérite acquis par Fexpérience se maintiennent dans 
toutes les saisons de la vie. Ils n òtent rien aux 
agrémens de la jeunesse, ils font la gioire de 1 age 
mùr, ils donnent du lustre a la vieillesse, ils en 
adoucissent les regrets en caimani les inquietudes, 
en lui laissant voir d'un oeil indifférent le moment 
prevu, où le temps ne sera .plus pour elle. La pru- 
dence, lui en ayant fait connaitre la nécessité , elle 
l'attend sans le désirer ni le craindre. 

LA FORTITUDE, cu LA FORCE, 
ou LA VALEUR. 

Le nom latin de cette vertu en indique le prin- 
cipe moral; le mot Fortitudoj dans le Pentateuque, 
marque ordinairement la puissance, on l'y distingue 
de la force du corps. Dans le livre de Josué, com- 
me dans celui des juges, on confond l'un avec l'au- 
tre. Ce terme sert encore pour exprimer la force de 
l'esprit, ou celle de l'intelligence; quelquefois il ex- 
prime la fermeté de Fame, la sante méme. Le senti- 
ment de ces qualités, étant celui du courage, ou de 



l32 

la valeur, cette dernière expression est encore dans 
récriture le synonime du mot Fortitudoj ou vertu 
guerrière. Pour ces raìsons nous nous serviront tou- 
jours d'elle en parlant de la figure représentée par 
cette pelature. Le caractère de cette figure exprime 
exactement toutes les manières d'étre de la Fortitude. 
On f reconnaìt la puissance , la force corporelle , 
celle de l'esprit, celle de T intelligence, de la fer- 
meté, du courage. Elle est peinte comme Dieu réu- 
nissant en lui le conseil avec Tintelligence, qui pos- 
sedè , dit Job , la sagesse réunie à la fortitude • Ces 
yertus sont liées l'une à Tautre dans l'ordre moral; 
c'est pourquoi la valeur, ou la fortitude, dont l'em- 
ploi est souvent nécessaire a la sagesse, estici repré- 
sentée près d*elle. Cette dernière tient à la force de 
l'intelligence, ou de l'esprit; la première a plus de 
rapport a la force du corps; l'une tient de l'autre les 
règles de la prudence. EUes lui apprennent a ne 
point trop compter sur les hazards, a se méfier des 
faveurs de la fortune, à ne point se deconcerter dans 
les reyers, à se défier enfin de sa propre force, à 
craindre quand la prudence ne la conduit pas. Utile 
quand la valeur sait user avec modération, celle-ci 
ne doit pas oublier de s'assurer contre les attaques 
de ses ennemis, avant d'entreprendre de les poursui- 
vre. Pour exprimer ces idées, pour ne rien donner 
au bazard, la Valeur se méfiant de la Fortune, prend 
des précautions en cas de reyers, sans trop se con- 



i33 

fier a elle méme; garantle par une cubasse contre 
les attaques du deliors, elle est encore abritée par 
un mur, où elle peut se defendre avec ayantage. De 
là elle Toit aisement Tennemi, dont elle se doit gar- 
den Il lui est facile d^empécher l'entrée de cet asile, 
dont elle est toujours maitresse de sortir quand elle 
le jugera convenable à ses interéts. Ces dispositions 
sont faites par la Prudence méme. 

La figure de la Yaleur est représentée sous les 
formes d'une femme de constitutiòn très-robuste, de 
taille très - quarrée , d'un yisage presque viril; ses 
yeux regardent le perii avec fermeté; jsa bouche en- 
trouverte, mais sans mouvement, paraitattendre Ten- 
nemi sans le craindre, sans le braver, sans méme lui 
parler. Son àme semble émue, sans étre ni troublée, 
ni fort agitée. Se trouvant près de Tennemi, elle me- 
nage son haleine, prete à se mésurer corps à corps en 
cas de besoin. Sa force, dont elle connait la grandeur, 
se manifeste dans cette figure, comme dans celle de 
FHercule des anciens par l'extréme grosseur de son col. 

Une peau de lion sert de manteau à la Yaleur. 
Le muffle de cet animai en couvre la té te, ses pattes 
du devant se rattacbent sur sa poitrine, celle de der- 
rière sur ses reins. C'est encore un des symboles de 
la force du corps. Les pattes rattachées sur la poi- 
trine expriment la fermeté de Téme, la magnanimi- 
té du coeur. Homère donnait à Hercule le titre de 
coeur de lion AiovrooSvfios. Le muffie de cet ani- 



i34 

mal place sur la lète de la Valeur, j est le siège de 
la force de Tesprit, ou de rintelligence. On peut re- 
conuaitre dans cette peiniure d'une vertu morale 
celle de la femme forte, doni il est parie dans les 
livres saìnts. Son prix, semblable à celni de la Va- 
leur, ne peut s'estimer. La fortitude avec la gioire 
forment son manteau; le lion est ici Tembléme de 
la fortitude; sa dépouille y est celui de la gioire; elle 
recouvre les épaules de la Valeur. 

Le bras puissant de cette belliquense figure se 
prépare à frapper, eependant il semble attendre le 
moment de porter des coups assurés; il dédaigne 
de ménacer, il avertit, il laìsse a la réflexion le temps 
de faire la paix, ou du moins Foccasion de la de- 
mander. Elle est presque toujours préférable a la 
guerre; le plus puissant doit la rechercher; il peut 
perdre les avantages en la continuant. Le sort, dit 
le sage Chiron, en emplojant la douceur, au lieu de 
se faire craindre se concilie le respect de ses yoisins. 

La Valeur tient une arme trancbante, mais sans 
pointe; un bouton en tient la place. Cette vertu doit 
e tre géneréuse ; elle évite de paraitre redoutable ; 
son bras ne s'éléye point pour frapper; elle se con- 
tente de se tenir sur ses gardes. Contente de repous- 
ser les attaques, il lui suffit de rendre inutiles les 
armes empio jées contre elle. Reduire à Timpuis* 
sance les efforts de Tennemi c*est le yaincre en effet 
sans irriter son ressèntiment; e' est prendre l'ascen- 



i35 

dant sur lui saus proyoquer sa vengeance; c*est faire 
le meilleur usage de la yaleur, Temploi le plus ayan- 
tageux de la force. Les Spartiates préferaient les 
avantages ménagés par la prudeuce aux succés prò- 
cnrés par le courage. Ljsandre doni la politìque pré- 
férait la violence à la douceur , la perfidie a la ju- 
stice, détruisit Sparte par ses victoires mèmes. £m- 
plojant ici la prudence dans le ménagement de ses 
avantages , la yaleur sachant bien combattre , mais 
sacbaat mieux faire la guerre, vieni de se servir de 
son-arme pour couper la pointe des piéges avaucés 
pour la blesser; ils ne peuvent plus agir conlre 
elle, les débris s'en vojent prés des murs; des glands 
de plomb inutilement lancés contre eux se sont amor- 
iis en les touchant ; tout montre dans cette action 
Teroploi de la précaution par préférence à celui de 
la force ouverte. Le choix de Tarme dont on se sert, 
la manière d*en faire usage , celle de se poster con- 
venablement, décident de la fortune du combat. 

Au lieu de représenter la troupe ou Tarmée dont 
la Yaleur est censée soutenir les efforts, un lion 
prenant ses ennemis en représente ici la grande 
puissance, la fermeté, la fureur. Cet animai, le plus 
fort de tous, ne craint la rencontre d aucun autre. Il 
se dresse avec rage, mais il n'ose agir pour ne pas 
la tuer comme la V^aleur pourrait le faire; elle s'est 
contentée de lui couper une partie des ongles dont 
il voulait la déchirer, Pour la perte de ses moyens 



i36 

d*agir il cesse d'étre en état de nuire , il essaje des 
peines très-vives, vivement exprìmées dans sa fi^re. 
Ses doigts enflés par ses blessures ont perda leurs 
formes naturelles; étourdi par la douleur, ses dents 
mémes lui deviennent inutiles; car il ne peni se le- 
nir sur ses jambes de devant, il ne peut s'approcher 
pour mordre, il ne peut s'élancer pour Trapper du 
poids de son choc Tobjet doni il est séparé. Ses yeux 
se ferment; yous le vojez, yous Tentendez jetter un 
cri d'eflroi; loin d*inspirer la terreur, il la ressente; 
il cède enfin à la Y aleur prudemment dirigée par la 
modération conseryée dans le moment méme de la 
yictoire . La Sagesse triomphe de la Force ; elle est 
préférable a la Yaleur méme. 

Gomme la figure de la Sapience, celle de la For« 
titude est entièrement dépouryue de beante; il en 
est à peu près de méme de toutes les autres Yertus 
peintes ici par Giotto. EUes lui ont ^emblé ne point 
tirer leur beante morale des qualités extérieurs; mais 
de celles du caractère propre à cbacune d'elles. La 
Yaleur considérée d*après ce principe, se présente à 
mon imagination comme une personne d'un courage 
male, d'une résolution inébranlable , d'une fermeté 
à tonte épreuye, d'une constance sans bomes, d'une 
infatigable actiyité , d'une incomparable magnanimi* 
té, enfin d'une prudence consommée. Sa figure de<- 
sagréable au premier abord, examinée plus soigneu* 
sement, reyue plusieurs fois , finii pour me sembler 



i37 

remplie d'esprit, d'àme, de vìe; elle communique le 
sentiment dont elle est affectée, ses yeux montrent 
son peu d*estlme de ses injustes ennemis, sa déter- 
mination de ne rien leur céder, son nez svenile par 
un effet de son indignation contro eux. Sans parler, 
son action parait défiér; mais le mouyement de son 
bras, cornine celai de sa main, annonce le risque de 
quiconque se hasarderait de re^evoir un tei défi. 

LA CHARITÉ. 

La Charité représentée par cotte figure se propose 
deux objets : lun regarde Dieu , 1 autre est relatif à 
tous les hommes réunis sous le nom du prochain. 
Dieu, principe de tous biens, est pour Thomme, dit 
S. Thomas, Tunique raison d*aimer. Chez ce Do- 
cteur de TEcole lamour présent est toujours réuni 
avec le bonbeur avénir. 

La Religion de Jesus- Christ ordonnant daimer 
Dieu par préférence à tout, préscrit en méme tems 
l*obligation de cbérir le prochain comme soi méme. 
Sur ces deux importans préceptes reposent toutes 
les lois de la Religion: ils sont la source du bonheur 
des sociétés, les fondemens de Tordre, les bases de 
la tranquillile publique. Aucun institut religieux^ 
aucune opinion philosophique ne donnent a la recon- 
naissance, ne proposent à la bienfaisance des mo- 
iifs plus sublimes ; mais aussi aucun sjstéme reli- 



i38 

gieux ne promet à la charité des récompenses aussi 
grandes. Il faut aimer les hommes comme vos frères, 
ils sont ainsi que vous les créatures de Dien, sans 
lui Tous ne seriez pas; il vous a donne la vie, il 
vous la conserve; volre amour pour lui, votre cha- 
rìté pour les hommes obtiendront pour récompense 
rélernelle béatitude. 

Pour distinguer de toutes les autres cette bienfai- 
sante ver tu, ici sa tè te est entouré d'une aureole, ou 
cercle de lumière, sjmbole glorieux de la vie bien- 
beureuse déstinée a la récompenser. Par cet attribut, 
dont on ne voit aucune trace, ni dans les figures 
de la Foi, ni dans celle de FEspérance, réunies dans 
ces peintures avec celle de la Charité, cette dernière 
est caractèrisée, suivant Tidée de S. Paul, comme la 
première, la plus signalée, la plus nécessaire des trois 
vertns théologales. L'aureole, dont sa téte est ceinte, 
renferme une croix de feu; c'est Fembléme du sau- 
veur des bommes. 

La Cbarité vient de Dieu; il est lui-mème la Cha- 
rité; par elle il a donne son Fils pour le salut du 
monde; celui-là a repandu son sang pour en opérer 
la rédemption. L'ardeur de la Charité est marquée 
par cette croix de feu. Cet ordre des choses donne 
à la vertu , dont nous parlons, un caractère difTérent 
de colui de la bienfaisance, prise dans tout autre sy- 
stéme religieux ou philosophique, car il a la Chari» 
té de Jésus-Christ pour model. Lui-méme se donne 



i39 

pour exemple qnand il dit: Chérissez vous Fun Tau- 
tre, cornine je vous ai chéris. L'amour du prochain , 
exprimé par la fi^re de la C barite, se fonde sur le 
desir de plaire a Dieu en imitant sa conduite envers 
les hommes* 

La Chatité se glorifie de la croix placée sur sa 
tete; l'aureole, où elle est renfermée, marque le ro- 
jaume des Cieux destine pour elle: e est la couronne 
de la vie, la couronne éternelle de gioire, dont parie 
S. Pierre. La Charité porte encore une autre cou- 
ronne formée des fleurs entremélées des fruits; c'est 
le signe de la récompense à ce monde, celui des ap- 
plaudìssemens dont elle est digne, eniìn celui du 
bonheur dont elle jouit dejà dans la terre, dans l'at- 
tente d'un plus grand dans le Ciel. Quel plaisir égale 
le sentiment des bienfaits dqnt on est le dispensa- 
teur, du contentement dont on est la cause, de la 
consolation des malheureux dont on est l'auteur ? 
Des fleurs de couleur bianche, du genre des renon- 
cules, marquent ici la fécondìté des alimens , Taug- 
mentation des familles procurées par les mains gè- 
néreuses de la Cbarité au mojen des secours por- 
tés dans le sein des indigens. Giotto a représ'enté la 
Cbarité sous les traits d'une femme dont la jeunesse 
vient de faire place à cet àge, ou l'esprit est arrivé 
a tonte la force, le corps à tonte sa vigueur; libre 
du joug impérieux de3 passions,on préfére alors l'utile 
a l'agréable, le solide au brillant, le bonheur au piai- 



i4o 

8Ìr, le repos a lagitation: le caractère du visage de 
celle figure n'est pas celui de la beaulé , mais celui 
de la bonlé. La Charilé se monlre dans un habille- 
ment modesle; elle porle une seule robe conforme- 
menl à son préceple évangelique: Qite le possesseur 
de deux tuniques en donne une à celui qui rien 
a poinL La méme chose esl encore recommandée en 
faveur des inforlunés privés du nécessaire à leur sub- 
sislance. La Charilé lienl pour eux un bassin rempli 
des différenles sorles de fruils, des grénades, des 
figues pour élancher leur soif , d*épis de blé pour 
appaiser leur faim. On y voit encore des fleurs du 
genre de celles doni esl orné sa couronne; loul cela 
esl pour les pauvres. Les bienfails des riches soni 
leur palrimoine: Tun possedè les biens de la famille, 
c*en esl Faine ; Faulre en esl le cadel: en sj ren- 
danl ulile, il a droil à leur dislribulion; len priyer, 
c*esl lui faire injuslice. Yous devez èlre miséricor« 
dieux, si yous voulez oblenir la miséricorde de Dieu; 
il faul chérir vos ennemis mémes à fin de yous mon- 
Irer enfans du Pere celesle, doni le bien s*élend sur 
lous. Dans ces préceples soni renfermés lous les sen- 
timens d'humanilé, les bienfails, les secours, les con- 
seils , la douceur , la commiséralion , T indulgence , 
Toubli des injures, la crainle de conlrisler nos sem- 
blables; ils conliennenl enfin la morale la plus sù^ 
blime. La Charilé se dépouille loujours ayec plaisir; 
elle croil s*enrichir en donnanl: elle a dans le coeur 



i4i 

son yéritable trésor; il est ouvert a tous; sa joìe s'ac- 
croit en rechauffant ce sentimeut prèt à s'éteindre 
dans lame des malheureux. Vous le voyez dans cette 
bienfaisante figure; son visage éclate, etincelle, ra- 
jonne de cette joie celeste, dont les seules àmes com- 
patissantes peuvent étre susceptibles. Le peintre était 
sans doute capable de la sentir, puisque il la pn 
rendre ayec tant d'energie, puisqull a su la distin- 
guer de tout autre. Il Ta imprimé dans toutes les 
parties, ou la voit dans les yeux, on la reconnait 
dans la bouche de la Charité; son sourire n annonce 
ni le plaisir de Tesprit, ni celui de la jouissance des 
sens; il exprime le contentement du coeur, le bon- 
beur de Tàme, la satisfaction de la conscience. Le 
bien judicieusement fait, la libéralité sans aucun mé- 
lange d*interét, sans aucun retour sur elle méme, 
sans aucun motif d'amour propre, dans le seni desir 
de remplir ses devoirs en obéissant à TAuteur de tous 
biens, peuvent seuls étre la source d'une telle affe- 
ction, d*un tei amour, d'une pareille joie. La Chari- 
té l'a transplanté sur la terre; mais elle a son origine 
dans le Ciel: il faut, pour la faire germer ici bas, la 
candeur, la pureté de Tàme; elle lui donne les idées 
les plus élévées, elle s'en rend elle méme le noble 
témoignage; si cette toucbante figure ponvait prendre 
la parole, elle ne manquerait pas de dire en parlant 
d'elle : Le Ciel n est plus pur, que le fond de mon 
coeur. 



i4a 

La Charìté foule aux pieds les diverses sortes de 
grains; les oùtres remarquables par des étiquettes 
contiennent de Targent. Elle a sous elle des mon- 
naies de coin, ou de valeur differente. Il lui en faut 
pour les moindres classes d'hommes pour tous les 
besoins. Poar exprimer ces différentes idées on voit 
sous cette figure des petits bàtons; ce sont des mar- 
qnes des billets de cbange^ou, cornine on les appel- 
lali anciennement, des Tessera: on gravali sur elles 
la qualilé avec les nombres des effels destinés a ceux 
doni il's étaienl le partage. Tout indique en celle 
parile les dons de la Providence, doni la Charilé esl 
le minislre , le fidèle econome. Dieu lui-méme, pére 
de loules les créalures, reroel une bourse abondanle 
dans la main gauche de la Cbarilé chrélienne; il la 
regarde avec une lendresse parliculière, il Tapprouve, 
il Tencourage, il la favorise, il la chéril; chacun de ses 
senlimens s*exprime à pari dans la figure. Dans son 
infinie bonlé il semble se déclarer lui-m éme pour le 
principe, le premier auleur de loule charilé; l'aclion 
de ses mains marque encore la confiance , la benne 
volonlé, son amour pour elle. Il abaudonne lous les 
biens pour lusage commun de loules les créalures; 
celle expression rend celle d'Euripide: 

Aux petits des oiseaux il donne leur pàture, 
Et sa bonté 8*étend sur leu te la nature. 

La Charilé lourne les yeux vers Dieu; ils s'em- 
brasenl) s*enflammenl en le voyanl; elle se meul, se 



143 

dirige, agii seulem^nt par luì, uniqaement pourlui; 
mais tout en le regardant, son bras droit, sa main, 
son mouvement paraissent rentrainer; elle est portée 
par eux du còte oppose à celui ou elle regarde les 
biens confiés à son zele; elle ne peut s'arrèter, elle 
n*a pas mème le temps de rendre gràce; il faudrait 
pour cela retarder sa course, les momens lui sont 
précieux , le bésoin lattend , la misere lui tend les 
bras, elle entend leur cris, elle accourt a leur aide, 
elle va joindre aux fruits , à distribuer de sa main 
droite Fargent regu dans ce moment par la main 
gauche; vous en voyez la destination , V empio! n'en 
est pas douteux, tout exprime Tintention de cette 
toucbante figure, de cette aimante vertu; sans cesse 
elle agit, jamais elle ne perd un instant; laction de 
son corps, celle de son épaule, comme celle de ses 
bras, indiquent sa résolution de marcher prompte- 
ment; elle a la vi tesse de la pensée, Timagination la 
précède; elle est déjà où elle n'est pas encore entrée. 
Comme le soleil, elle repand par-tout la lumière, la 
cbaleur, les bienfaits de la Providence. 



i44 



ERRATA - CORRIGE. 
Pag. Un. 

22. g. Sancia Crux (i). Sonda Crux iSgS (i). 

24* 8. nicipali (i). nicipall (0 (Tav. III.). 

33. 24* clIpÌDlo nel Campo dipinti nel Camposanto di 

8anto di Fisa è qua- Pisa sono quasi tutti scal- 

si tutto scalcinato; cinati; 

79* I. di Firenze in Firenze 




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